The Moon Shadow

di Floriana
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Capitolo 1 - Midori ***
Capitolo 2: *** Capitolo 2 - I signori Takebata ***
Capitolo 3: *** CAPITOLO 3 - Un'artista ***
Capitolo 4: *** CAPITOLO 4 - La voce di Ruriko ***
Capitolo 5: *** CAPITOLO 5 - Ichiren Ozaki ***
Capitolo 6: *** CAPITOLO 6 - Prendi la mia mano ***
Capitolo 7: *** CAPITOLO 7 - Il furgone rosso ***



Capitolo 1
*** Capitolo 1 - Midori ***


Capitolo 1 - Midori
Non era che un’ombra scura nella notte. I capelli corvini acconciati nella crudele e sublime maniera che si conveniva alle donne del suo stato. Il raffinato kimono di seta verde scuro mandava bagliori d’argento che si perdevano nei ricami neri del tessuto. Un telo di seta nera copriva il canestro che portava appeso al braccio, e perfino il ticchettio dei suoi okobo neri sulla strada si perdeva nel silenzio notturno come il passaggio di uno spirito che teme la luce del giorno. Veniva avanti sulla via, il volto dipinto di bianco che spiccava come una luna piena nel buio, le labbra rosse come il peccato che aveva commesso, le sopracciglia, tracciate nette dal nerofumo, a fare ombra ai suoi splendidi occhi, insolitamente grandi e verdi, che l’avevano resa celebre tra le geishe della città.

Gli occhi verdi della geisha conosciuta come Midori Satsuki non versavano lacrime, e il suo volto bianco non mostrava emozione, mentre ella camminava  a testa alta, ticchettando a passi piccoli e svelti sul selciato, come anni e anni di professione le avevano insegnato a fare. “Qualunque cosa accada, ricorda chi sei e quel che vali. Mai chinare il capo, mai lasciarti turbare”, le avevano insegnato, quando era solo una giovane maiko vergine. “Mai mostrare le tue vere emozioni. Chi ti incontra deve avere l’impressione di avere una visione divina: questo è il tuo valore. Gli uomini vengono con noi per avere l’illusione di portarsi a letto un angelo. Quindi, non devi mai dare l’impressione di essere una donna qualsiasi. Il trucco del tuo viso è la tua maschera, la tua difesa e la tua forza. Ma se la tua maschera si infrange, il tuo valore scompare”.

Dieci mesi prima, la maschera si era infranta. Midori Satsuki aveva commesso l’unico peccato che alle artiste dell’amore non si perdona mai: aveva amato veramente un uomo, come amano le “donne qualsiasi”. Egli era al seguito di un grosso capomafia locale, che l’aveva voluta ad una festa privata. Era giovane e aveva il viso di un angelo, anche se le sue mani erano già sporche di sangue. Midori aveva danzato tutta la sera per il capomafia, gli aveva versato il tè, aveva tenuto conversazione con lui solo. Ma il ragazzo dal viso d’angelo, discreto e senza mai muoversi dal suo posto, non le aveva tolto gli occhi di dosso nemmeno un momento, ed ella, da qualche parte nella sua anima, aveva subito compreso di chi fossero gli occhi che, tra tanti presenti nella sala, le bruciavano il cuore.

Quando Midori rientrò a casa quella notte, trovò il ragazzo dal viso d’angelo ad attenderla nel cortile. Da quel momento, e per un mese intero, si amarono ogni notte, di nascosto, guidati solo dalla disperata sete che avevano l’uno dell’altra a dispetto di ogni ragione, del loro passato, della loro età, della loro condizione. Ma quel che era inevitabile accadde. Il capomafia scoprì che il giovane amava la sua geisha, e senza pietà lo uccise. Midori restò confinata nella sua okiya per i nove mesi successivi, perché l’amore non è mai senza conseguenze, e una nuova vita stava fiorendo dentro di lei a causa dell’incontro con quell’angelo.
Poiché non aveva voluto abortire, Midori si era piegata al ricatto della padrona dell’okiya: in cambio della vita del neonato, dopo la sua nascita avrebbe lavorato per tutta la vita come schiava nell’okiya. Quando la bambina nacque – una splendida bambina, che aveva ereditato i tratti angelici del padre e i penetranti occhi verdi della madre – la padrona indicò a Midori un posto dove abbandonarla: la casa di due coniugi che raccoglievano bambini di strada, e che, a tempo debito, forse avrebbero restituito la bambina all’okiya perché ripagasse il debito di sua madre.

Verso questa casa si incamminava quella notte Midori Satsuki, seguita da una serva dell'okiya perchè non fuggisse, col suo viso inespressivo bianco come la luna tra le nubi nere e il canestro con la bimba infilato al braccio. Aveva ottenuto di vestire, quella notte per l’ultima volta, gli abiti meravigliosi della sua professione, perché l’anima della bambina portasse nel suo inconscio l’immagine della madre, e del proprio stesso destino. Anche la piccola, un giorno, avrebbe portato abiti meravigliosi e una maschera sul volto. Anche lei sarebbe stata amata da uomini che le facevano ribrezzo, e avrebbe amato colui che era proibito amare.
Midori Satsuki depose la cesta davanti alla porta della casa. Sollevò il telo nero che la copriva, per vedere la piccola dormire ignara e serena. Non la baciò, perché ogni emozione era morta nel suo cuore. Ma, prima di  scomparire come un’ombra nella notte, volle darle un nome che l’aiutasse a trovare la sua strada nel mondo, e nella cesta che era la sua prima culla depose un piccolo pezzo di stoffa che recava la scritta: Chizu.

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Capitolo 2
*** Capitolo 2 - I signori Takebata ***


CAPITOLO 2 – I signori Takebata

-Ecco un altro regalino da parte di qualche donnaccia!
Così fu accolta la sua venuta nel mondo. Quando la signora Takebata aprì la porta la mattina dopo, e si ritrovò davanti il canestro con dentro la bimba, non mostrò nessuna sorpresa, ma si limitò a prendere su il cesto e a portarlo dentro casa per mostrarlo al marito.
I signori Takebata cominciarono ad esaminare minuziosamente la bambina, nella speranza che avesse addosso del denaro, ma la piccina aveva solo con sé quel pezzetto di stoffa.
-E questo cos’è?
-C’è scritto “Chizu”. Sarà il suo nome.
-Che lo sia o non lo sia, chiamiamola così. In qualche modo si dovrà pur chiamare, questa mocciosa.

La casa dove Chizu era capitata non era certo un ricovero di filantropi. I signori Takebata erano una coppia di tagliaborse, che allevava orfanelli per farne dei ladri alle proprie dipendenze. E anche dire che li allevassero era far loro un complimento. In realtà non facevano che dare ai bimbi un tetto sopra la testa, ammassandoli a decine nella stalla adiacente la casa. Quanto al vitto, ciascuno dei bambini doveva arrangiarsi con quello che riusciva a rubare durante il giorno. Chi non rubava, non mangiava: questa era la regola.
-E’ piuttosto carina – considerò il signor Takebata, guardando la pelle di porcellana, i capelli nerissimi e gli occhi color smeraldo della piccola Chizu, che in quel momento lo fissavano tondi e attoniti. –Magari è la figlia illegittima di qualche dama. Forse un giorno ne ricaveremo qualcosa.
-Certo – convenne la moglie. – Ma, dama o non dama, non la foraggeremo certo a latte e miele, aspettando che cresca e diventi merce di valore. Non aveva nemmeno un centesimo addosso, quindi ha già un debito con noi. Domani stesso cominceremo a farla lavorare.
E, chiamata una delle bambine più grandicelle, glie la mise in braccio.

-Ruriko – fece la signora Takebata rivolta alla bambina. – Questa è Chizu. Da domani lavorerà con te. Dovrai occuparti anche del suo cibo, oltre che del tuo, e la curerai finchè non sarà in grado di camminare da sola.
Ruriko fece un inchino furtivo, e presa la bimba dalle mani della donna, scappò portandosela nella stalla. Ruriko era una bambina di circa dieci anni, cenciosa ed emaciata quanto lo si può essere. La sua unica bellezza erano gli occhi, insolitamente grandi e dolci, di uno splendido color nocciola screziato di venature dorate. Con la sua aria svagata, riusciva a distrarre i passanti raccontando storie vere o inventate, in modo così vivo che chiunque si fermava ad ascoltarla. E mentre gli ingenui prestavano attenzione alla piccola cantastorie, gli altri bambini dei Takebata si davano da fare sfilando borse, portafogli e foulard di seta, sganciando bracciali, collane e catene di orologi. Ruriko in questo modo era diventata la principale ricchezza della casa. Con quella bella bimba in braccio, pensavano i Takebata, certo le storie di Ruriko sarebbero diventate ancora più interessanti. E più redditizie.

Al suo secondo giorno di vita, quindi, la piccola Chizu cominciò a lavorare. Ruriko se la portava in giro nelle fiere, nei mercati, alle feste di piazza, fuori dai teatri: ovunque la gente brulicasse volentieri con l’intento di divertirsi e perdere tempo. In questi posti la bambina abbindolava i passanti, con in braccio quella piccina dagli occhi verdi, che spacciava per la sua sorellina e che con la sua bellezza attirava ancora di più la simpatia delle persone. Grazie a Ruriko e Chizu, la banda di ladruncoli dei Takebata potè racimolare considerevoli bottini ogni giorno. Quanto alle due bambine, esse mangiavano con quelle poche monetine che i passanti regalavano loro in cambio delle storie che ascoltavano.
Ruriko, che non aveva mai posseduto giocattoli, era entusiasta di Chizu, che trattava come la sua bambola viva. La cambiava, la cullava per farla addormentare e per farla smettere di piangere, e trovava naturale cercare il cibo anche per lei. Del resto, mendicare con la bimba in braccio era più semplice, perché le venditrici di pane o caramelle si facevano incantare facilmente dagli occhioni di Chizu.

Passavano tutta la giornata a vagare per i rutilanti quartieri della città, dove la più nera miseria si mescolava alle più varie forme d’arte, dove il mendicante e la geisha camminavano a pochi passi l’uno dall’altra, dove teatri e locali equivoci condividevano la stessa strada. La neonata assorbiva quel clima inconsciamente, ancora avvolta com’era nelle nebbie dell’incoscienza, e senza rendersene conto cresceva giorno dopo giorno alla musica della voce di Ruriko e delle sue storie.
Tutt’altra atmosfera attendeva le due bambine al ritorno nella stalla dei Takebata. Botte e frustate continue erano le sole carezze da parte dei due coniugi, risse per accaparrarsi il pagliericcio più asciutto o un avanzo di pane erano i soli contatti che avevano con gli altri bambini. In quella casa non si diceva nessuna parola che non fosse un insulto gridato o una maligna imprecazione. Per questo motivo Ruriko, che fuori casa non faceva che raccontare storie meravigliose, a casa Takebata non pronunciava parola. E, crescendo, Chizu fece come lei.

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Capitolo 3
*** CAPITOLO 3 - Un'artista ***


CAPITOLO 3 – Un’artista
A quattro anni, Chizu non sapeva dire che poche parole stentate. Appena fu in grado di stare in piedi da sola, le furono assegnate le prime incombenze: pulire i pavimenti, prendere l’acqua dal pozzo, ripiegare i foulard di seta rubati, che poi i Takebata rivendevano sul mercato nero. Non conosceva la differenza tra bene e male, e non aveva mai tentato di scappare, come nessuno dei bambini dei Takebata: per loro, semplicemente, quella era la vita, e non pensavano nemmeno lontanamente che potesse esisterne un’altra.
Finite le faccende di casa, Ruriko prendeva Chizu per mano e insieme trotterellavano fuori, in cerca di persone da ingannare con le loro storie, ma, soprattutto, in cerca dei bei colori vivi della città. Con Ruriko, Chizu non stava male: da lei aveva imparato le sole parole che conoscesse, ed era lei l’unica persona con cui comunicasse senza ricevere botte. Stava accanto a lei mentre raccontava le sue storie ai passanti e, pur senza capirci molto, era affascinata dalla sua voce e dal suo modo di gesticolare parlando.
Ruriko conosceva tutti i locali più strani e tutti i teatri. Spesso si introducevano di nascosto in una sala cinematografica per veder proiettare quelle immagini in bianco e nero che sembravano uscite da un mondo inesistente, e quegli uomini e donne che si muovevano in maniera strana muovendo la bocca senza emettere suoni. Chizu fissava lo schermo senza capire, e guardava il pubblico ridere, divertirsi e battere le mani ad occhi spalancati, come davanti a un mistero di cui non afferrava il senso.
Un giorno di mercato, un uomo cominciò a seguirle e, quando furono giunte nei pressi di un vicolo cieco, mise una mano sulla spalla di Ruriko, per farla fermare. La ragazzina scambiò qualche parola con l’uomo, poi disse a Chizu: - Aspetta qui.
-Dove vai? – chiese la bimba, che aveva paura di restare da sola tra quella folla.
-Non muoverti di qui, torno tra poco – disse Ruriko con la sua voce musicale, e sparì nel vicolo insieme a quell’uomo.
Rimasta sola, Chizu cominciò girovagare, finchè giunse accanto al recinto di un tempio, dove vide una bellissima signora. Indossava un finissimo kimono di seta ricamata, aveva i capelli ben acconciati e il volto, dipinto di bianco, atteggiato ad un’espressione dolce e statica, come una maschera. Reggeva un grazioso ombrellino e aveva il capo reclinato da una parte, con un dolce sorriso rivolto proprio a lei.
-E tu chi sei, bella bimba? Ti sei persa? – le disse la signora.
-Sono Chizu. Tu chi sei?
La signora rise, come ridono i campanelli d’argento.
-Sono una geisha – rispose.
Chizu sgranò gli occhi. – E che vuol dire? – volle sapere. Quella parola le ricordava qualcosa, come una strana malinconia.
-Sono un’artista – spiegò la signora, con il suo dolce sorriso.
-Anche io voglio essere un’artista – replicò la bimba, convinta. La signora rise ancora del suo riso d’argento, e di lì a poco si allontanò con un uomo, che le si era accostato vicino al recinto del tempio.
Chizu guardava ancora la bella signora allontanarsi, quando Ruriko la raggiunse di corsa.
-Sei qui! Ti avevo detto di non allontanarti – fece la ragazzina, ansando.
-Ruriko, anche tu sei una geisha? – domandò seria seria la bambina, ricordando di averla vista allontanarsi con un uomo.
-Certo che no, o non starei dai Takebata – fece Ruriko, arrossendo in modo strano. – Comunque, guarda  adesso cos’ho! – trionfante, le porse una mela candita, addentandone a sua volta un’altra che aveva in mano.
-Anche io voglio essere una geisha – affermò Chizu, masticando.
Ruriko smise subito di mangiare e la guardò tristemente.
-Non è bello andare con gli uomini quando non vuoi – mormorò. – Ma bisogna pur mangiare.
Chizu la guardò senza capire. Quella sera tornarono dai Takebata senza più dire una parola.

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Capitolo 4
*** CAPITOLO 4 - La voce di Ruriko ***


CAPITOLO 4 – La voce di Ruriko
Il signor Takebata smise per un attimo di contare i soldi, e si mise a fissare Chizu. La piccola stava estraendo le monete dai borsellini trafugati, mettendo i borsellini da una parte e il denaro dall’altra. Il denaro, poi, lo portava al signor Takebata, che lo contava  e lo riponeva al sicuro, mentre i borsellini venivano selezionati, e i migliori venivano rivenduti al mercato nero.
Il signor Takebata guardava le mani paffute della piccola Chizu, le sue guance rosee, la sua energia nel trotterellare avanti e indietro. Quella sera parlò a sua moglie.
-Mi sembra che quella bambina sia ben nutrita. Un po’ troppo ben nutrita – le disse.
-Che vuoi dire? – rispose la signora Takebata.
-Voglio dire che qualcosa non quadra. Non può essere così paffuta. Da noi non mangia nulla, e si nutre solo con quello che Ruriko riesce a rimediare per sé e per lei. – Il signor Takebata si lisciò il mento. – Non vorrei che quella ragazza avesse trovato una fonte di guadagno di cui non ci ha informato. Da domani la farò seguire.
Così, dal giorno dopo, quando Ruriko e Chizu uscivano per andare in città, Shiro, un ragazzo dei più grandi e dei più agili di casa Takebata, le seguiva a distanza. Appiattendosi contro i muri, confondendosi con la gente, nascondendosi dietro le tende dei chioschi, Shiro vedeva Ruriko raccontare storie negli angoli delle strade, giocare con Chizu nelle pause, prendersi qualche distrazione spiando nei teatri e nei cinema, sempre con la bimba al seguito. Il ragazzo non ci mise molto, in tal modo, a scoprire che, almeno due volte al giorno, Ruriko lasciava Chizu ad aspettarla accanto al tempio o su un ponte, e spariva per delle mezzore in compagnia di uomini sempre diversi. E, puntualmente, tornava dalla bimba con qualche leccornia per sé e per lei.
-Ho capito – disse Takebata reprimendo a stento la rabbia, quando Shiro gli ebbe raccontato ogni cosa. – Stasera, quando Ruriko torna, portala da me.
***
-Sai Chizu-chan, di questo passo presto saremo presto in grado di andarcene – canterellava Ruriko tenendo per mano la bimba che le saltellava al fianco.
-Dove vuoi andare? – chiese Chizu, che non sapeva nemmeno immaginare il significato della parola andarsene.
-Dove vogliamo andarcene, vorrai dire, perché tu verrai con me – sorrise Ruriko, e i suoi occhi nocciola splendettero di riflessi d’oro. – Andremo a Tokio, dove ci sono tante opportunità. Voglio diventare attrice. Voglio girare il mondo. E presto avrò abbastanza soldi per poterlo fare. Vedrai come ci divertiremo, Chizu-chan.
Chizu continuò a saltellare accanto a Ruriko, un po’ confusa, ma non vedeva perchè dubitare che quel che la ragazza diceva avesse un senso. Non erano forse magiche, le sue parole?
Quando le due entrarono in casa, però, il sorriso di Ruriko si spense.
-Il signor Takebata ti vuole vedere – le disse Shiro senza tanti preamboli, appena la vide.
Ruriko subito sent un’angoscia attanagliarle lo stomaco, ma non disse nulla. Chinato il capo, lasciò la mano di Chizu e, dopo averla guardata profondamente per qualche attimo, le voltò le spalle e seguì il ragazzo nella stanza del signor Takebata.
La bimba restò nel corridoio, stordita. Aveva un vago timore che ci fossero guai in vista per Ruriko, anche se non sapeva indovinare il motivo. Vide Shiro uscire dalla stanza, lanciarle uno sguardo obliquo e sparire dalla parte opposta. Corse alla porta del signor Takebata e la dischiuse leggermente.
-Parla!-stava urlando Takebata sul viso della ragazza, che, a capo chino, non reagiva. Egli era paonazzo e terribile, con le vene sul collo e sulle tempie che sembravano voler scoppiare. – Così pensavi davvero di potermi fregare, eh? Parla, puttana!
Le assestò un ceffone che la fece crollare al suolo. Ma, ancora, non un suono uscì dalle labbra di Ruriko.
-Dopo tutto quello che ho fatto per te tu mi truffi in questo modo?-Takebata la prese per un braccio e la scrollò violentemente. Chizu aveva paura e voleva scappare, ma sentiva i piedi incollati al pavimento. Guardava i capelli di Ruriko saltellare impazziti sul suo viso, la testa muoversi come senza vita agli scrolloni, gli occhi, fino a poco prima così vivaci, bassi e come assenti. Non sapeva, Chizu, se quella fosse davvero la sua Ruriko, o solo un manichino senz’anima.
-Vuoi parlare, piccola schifosa?-Takebata le diede un calcio nelle reni, e il corpo della ragazza cadde lungo disteso sul pavimento. Allora Chizu cacciò un gridolino e fuggì, rifugiandosi nel sottoscala. Si tappò le orecchie con le mani, singhiozzando, ma poteva comunque udire i tonfi furiosi della rabbia di Takebata che si sfogava sul corpo di Ruriko, e grida che l’uomo emetteva nello sforzo di assestare colpi, ancora e ancora. D’un tratto, un grido prolungato fendette l’aria; poi, più nulla. Chizu smise di piangere, meravigliata. Quella fu l’ultima volta che la bimba udiva la voce di Ruriko.
***
Shiro rientrò in casa e si asciugò il sudore dalla fronte. Si ritrovò davanti agli occhi la piccola Chizu, che l’osservava con sguardo opaco, e, sentendosi vagamente a disagio, distolse gli occhi.
-Hai finito? – gli chiese Takebata.
-Si, signore – rispose il ragazzo.
-Bene. Non farne parola con nessuno.
Shiro sparì su per la scala, e Chizu restò in piedi, a guardare abbacinata oltre la porta aperta, da cui si vedeva la terra smossa di fresco ai piedi del nespolo in giardino. D’un tratto, la porta si richiuse sbattendo davanti a lei, ed ella sobbalzò, guardando in su. Il signor Takebata la stava osservando con lo sguardo più crudele che la bimba avesse mai visto.
-Quanto a te, piccola mangiapane a tradimento – le disse l’uomo – sappi che la festa è finita. Da domani lavorerai coi ragazzi come tagliaborse, e dovrai provvedere da sola al tuo cibo. Sei una traditrice, e nessuno ti rivolgerà mai la parola. Causaci dei guai, e andrai subito a raggiungere quella puttana della tua amica.
Senza aspettare risposta, Takebata sparì, lasciandola sola. Chizu restò dove si trovava, incapace di muoversi, né di pensare. Una lacrima, che scivolava sul suo visetto sporco, era l’unico segnale che c’era ancora vita in quel corpicino.

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Capitolo 5
*** CAPITOLO 5 - Ichiren Ozaki ***


CAPITOLO 5 – Ichiren Ozaki
Ripensando, da adulta, ai due anni successivi, Chizu dovette accorgersi che non li ricordava affatto, se non come un periodo buio e indefinito, dominato da un’unica sensazione: la fame. La bambina aveva perennemente lo stomaco vuoto, perché nessuno provvedeva a lei.
Usciva ogni giorno con i ragazzi più grandi, che organizzavano le loro scorribande in piccoli gruppetti: di solito un bambino creava diversivi (si metteva a gridare, o a compiere acrobazie da saltimbanco) per distrarre le persone, e tutti gli altri ripulivano i malcapitati che si lasciavano imbambolare. Dopodichè, compiuto il furto, i ragazzi se la davano a gambe, nascondendosi dove potevano. Si ritrovavano poi in un altro punto della città, ricongiungendosi come seguendo un istinto innato, visto che raramente comunicavano tra loro attraverso parole. Quanto al procurarsi il cibo, ognuno provvedeva per sé. Spesso, se due bambini della banda si trovavano a rivaleggiare per lo stesso tozzo di formaggio o lisca di pesce, ne nasceva una rissa senza pietà, da cui entrambi uscivano malconci, e uno solo fuggiva con la preda.
Chizu non era brava in nessuna di queste cose. Non riusciva a distrarre le persone, perché il suo bellissimo visetto, che incantava i passanti quando era solo una neonata in braccio a Ruriko, era nascosto sotto una ripugnante maschera di sporco, e tutti la scansavano. Non era abbastanza scaltra da indovinare dove le persone tenevano i borsellini, e non sapeva sottrarli con destrezza: veniva quasi sempre scoperta e scacciata via. Non era svelta a scappare se inseguita, perché aveva le gambette troppo corte, e spesso perdeva di vista il gruppo dei ragazzi, che la lasciavano sempre indietro. Allora era costretta a tornare a casa da sola, certa di essere battuta dai Takebata che si spazientivano nel vederla a mani vuote.
Quanto al cibo, mangiava un giorno su tre quando le andava bene, e solo grazie alla pietà di qualche donna che lavorava in un ristorante, o quando vinceva nel contendersi la spazzatura con i gatti randagi. A sette anni, Chizu era pallida ed emaciata, con un’espressione indicibilmente vuota sul viso. Morta Ruriko, non aveva più avuto contatti umani, e a stento ricordava come si faceva a parlare. Nessuna delle sue emozioni era umana: la sua anima era come narcotizzata dall’unica, lancinante e perenne sensazione di fame che veniva dal suo stomaco. Solo ogni tanto, di notte, mentre fissava il soffitto con i suoi occhioni verdi resi opachi dall’assenza di coscienza, sentiva una lacrima scivolarle per le guance pensando a quanto le mancavano le storie di Ruriko.
-Ti sei fatta scoprire di nuovo – le urlò un giorno il signor Takebata, furioso. – Ora ne ho veramente abbastanza. Ti concedo un’ultima possibilità: andrai da sola in città, e ti intrufolerai nell’edificio che preferisci. Se non riesci a tornare con qualcosa di valore, giuro che ti vendo alla prima casa di prostitute che trovo. Non ho certo intenzione di continuare ad ospitare una fannullona come te! E se non riuscirò a venderti, saprò come usarti come concime per il nespolo! Ora fila via!
La sbattè in strada con una pedata, e chiuse violentemente la porta. Chizu restò qualche istante in ginocchio sull’acciottolato, poi faticosamente si alzò e, a testa bassa, si incamminò lentamente verso la città.
***
-Bene, prossima scena! – gridò il regista con un ampio e deciso gesto del braccio, amplificato dal copione che teneva arrotolato in mano. Sembrava un generale che arringasse le truppe. Ubbidienti, gli attori si avvicendarono sul palco per la prova della scena successiva.
-Domani è la prima, eh, Ozaki-san? – bisbigliò sorridendo e fregandosi le mani il direttore della compagnia teatrale, un omino grasso e calvo dalla faccia gioviale che si era avvicinato al regista. – E’ soddisfatto?I miei attori sono all’altezza della sua regia?
-I suoi attori sono molto validi, Takeshi-san, e hanno lavorato duro – rispose Ozaki, senza staccare gli occhi dal palco dove era cominciata l’azione. Era la prova generale in costume, e l’attenzione doveva essere massima. – Ne ho individuati un paio che vorrei con me a Tokio per il prossimo spettacolo del teatro Gekko.
-Certamente – rispose il direttore. – Kasuke Ozaki è un mio grande amico, e per me essere d’aiuto a suo figlio è un piacere e un onore.
-La ringrazio Takeshi-san. Ora per cortesia, faccia silenzio.
-Certo, certo, Ozaki – san.
Ozaki tornò a fissare il palco con grande attenzione, con le braccia conserte e il volto teso, come se avesse paura che una singola parola o gesto degli attori potesse sfuggire al suo vaglio. Ichiren Ozaki aveva solo 21 anni, ma il suo nome, nell’ambiente del teatro di Tokio, era già sinonimo di perfezione scenica e rigore. Si occupava di regia e sceneggiatura nei teatri in cui suo padre, uomo facoltoso e mecenate, investiva; il suo quartier generale era il teatro Gekko di Tokio.
Il padre di Ichiren Ozaki, Kasuke, era un uomo ricco di famiglia, che possedeva diverse proprietà e molte terre in varie regioni del Giappone, e aveva saputo come investire le proprie sostanze in modo saggio, facendole fruttare considerevolmente. In gioventù aveva molto viaggiato, soprattutto in Europa, visitando in particolare l’Italia, la Francia e la Gran Bretagna. Dall’Europa era tornato con una moglie inglese, e con una grande passione per il teatro occidentale, cosa che fece la sua fortuna nell’era Meiji. Tornato in Giappone, infatti, investì in diversi teatri, attraverso i quali le opere dei maggiori drammaturghi occidentali divennero conosciute in un Paese che andava liberandosi da un millenario isolamento, per aprirsi al resto del mondo. Allevò suo figlio Ichiren, che aveva ereditato i capelli chiari e gli occhi color nocciola della madre, nella passione per il teatro, tanto che il precoce talento del ragazzo non tardò a svelarsi. A soli quattordici anni Ichiren scrisse la sua prima sceneggiatura. A sedici, diresse la prima opera teatrale. Rispettoso della tradizione, ma capace di interpretazioni moderne, Ichren alternava sul proprio palcoscenico spettacoli di teatro no a opere europee di contenuto passionale e rivoluzionario. In breve tempo era diventato un’autorità nella drammaturgia di Tokio.
Il sipario calò sull’ultima scena della commedia.
-Bene, potete andare. E domani, siate puntuali.
-Si, sensei!
Dai suoi occhi brillanti gli attori potevano capire quanto Ozaki fosse soddisfatto. Raramente esprimeva il suo parere a parole, se era un parere favorevole. Gli attori si inchinarono, e si recarono ai camerini per cambiarsi. E da uno dei camerini, all’improvviso, partì lo strillo di una donna spaventata.
-Ah!Al ladro! Al ladro!
A quell’urlo una figuretta minuta schizzò via correndo, con uno scrigno di gioielli tra le braccia. Accorsero tutti gli attori, con gran trambusto, e la circondarono. La bambina – perché si trattava di Chizu – cercò di farsi largo tra tutte quelle gambe, ma qualcuno l’agguantò da dietro, immobilizzandola a terra e facendole cadere lo scrigno, che sparse tutto il suo contenuto sul pavimento.
-Brutta ragazzaccia! Ora ti faccio vedere io! – esclamò rabbioso l’uomo che l’aveva presa. Ma fu fermato da una voce autoritaria.
-Lasciatela stare! – gridò la voce, e tutti gli attori, immediatamente, ammutolirono e si fecero indietro, lasciando la bambina sola sul pavimento, talmente abbattuta che non cercò nemmeno di scappare.
Ichiren Ozaki gettò uno sguardo su quell’esserino sporco e scarmigliato, che singhiozzava rannicchiato sul pavimento. E nel preciso istante in cui i suoi occhi si posarono sulla bambina, la sua anima seppe che nulla, nella sua vita, sarebbe stato più come prima.

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Capitolo 6
*** CAPITOLO 6 - Prendi la mia mano ***


CAPITOLO 6 – Prendi la mia mano

Lo senti’ avvicinarsi e inginocchiarsi accanto a lei, e si ranicchio’ ancor piu’ sul pavimento, tremando.
-Guardami, bambina – disse la voce accanto a Chizu. Era una voce profonda e ferma, ma non assomigliava a quella, cattiva, del signor Takebata, e nemmeno alle voci urlanti dei ragazzi che le avevano gridato contro fino a quel momento. Era una voce severa, ma in fondo, gentile. Solo per questo, pur continuando a tremare, Chizu le obbedi’, e alzo’ lo sguardo verso il suo proprietario.

Quando gli occhi verdi della bimba ebbero incrociato quelli di Ichiren Ozaki, la piccola smise immediatamente di piangere, e resto’ a bocca aperta, meravigliata. Quell’uomo aveva occhi color nocciola, profondi, con splendenti striature dorate. Occhi che risvegliavano in lei una memoria lontana: somigliavano infatti agli occhi di Ruriko. Chizu si fido’ subito di quello sguardo, come se lo conoscesse da sempre, come se fosse posato su di lei da una vita intera, vegliandola e proteggendola.

“Questa bimba ha degli occhi meravigliosi”, pensava nello stesso tempo Ichiren, stupito. L’uomo indovino’ il colore rosa delle guance sotto lo strato di sporco che le ricopriva, il corpicino fragile ma forte imprigionato dal fagotto di stracci che portava, gli stupendi capelli corvini camuffati in un pazzo arruffio. Indovino’ anche, Ichiren, il desiderio di vita celato in quella piccola esistenza da bestia. “Questa bimba è bellissima”, penso’. E in un lampo, senza chiedersi se fosse razionale o no, prese la sua decisione.

-Come ti chiami? – chiese.
-Chizu. – La piccola si asciugo’ gli occhi col palmo delle mani.
-E perché lo fai? Dimmelo – le disse dolcemente, circondandole le gracili spalle con le sue forti braccia.
-Il signor Takebata voleva qualcosa di valore – rispose Chizu, semplicemente. Non tremava piu’.
-Ozaki-sensei, le conviene lasciar stare quella piccola pezzente – ammoni’ uno degli attori, ma l’uomo non se ne diede per inteso.
-Povera piccola, ma non lo sai che questo è un teatro? Qui non c’è nulla che sia veramente di valore. – Ichiren, piano, l’aiuto’ a rimettersi in piedi, e le sorrise. - I nostri gioielli sono finti. E’ il palcoscenico che rende preziosi delle semplici cianfrusaglie senza valore. Il palcoscenico è un posto magico, sai?
Chizu guardo’ l’uomo di sotto in su. Due lucciconi le scivolarono giu’ per le guance.
-Allora mi venderà – mormoro’, col viso scuro.
-Chi ti venderà? – Ichiren non capiva.
-Il signor Takebata voleva qualcosa di valore. Se non glie la porto, mi venderà. - Aveva solo una vaga idea di cosa volesse dire essere venduta, ma Chizu parlo’ come se capisse perfettamente quale baratro avrebbe avuto davanti una volta abbandonata a se stessa. Lacrime salate e silenziose le scorrevano per il viso.

L’espressione di Ichiren muto’ dalla compassione allo sdegno. Serro’ la mascella e, deciso, porse una mano alla bambina.
-Portami da questo signor Takebata, piccola Chizu.
La bambina guardo’ Ichiren con occhi spalancati, senza capire.
-Prendi la mia mano, bambina – insistette allora il regista, sorridendole e mostrandole il forte palmo della sua mano. – E non preoccuparti di nulla. Sistemeremo tutto.
Chizu sorrise di rimando a quegli occhi d’oro, e, messa la manina nella mano di Ichiren, lo condusse fuori dal teatro, sulla strada per casa Takebata. Una scia di attori e inservienti li seguirono con lo sguardo, mentre scomparivano in fondo alla via, e scossero la testa stupiti. Ozaki – sensei non aveva mai fatto una cosa cosi’ avventata. Chissa’ cosa ne avrebbe pensato la signora Ozaki.
 
***

La signora Takebata stava scuotendo una stuoia fuori dalla porta di casa, quando vide avvicinarsi sulla strada due sagome indistinte. La prima, piu’ piccola, sembrava proprio quella dell’arruffata Chizu. Ma la seconda, che confronto a quella minuscola della bambina sembrava enorme, non aveva proprio idea di chi potesse essere. Aguzzo’ la vista finche’ il proprietario di quella sagoma non fu davanti al suo naso. Allora pote’ vederlo bene, e si lascio’ sfuggire un grido di stupore.

-Chizu! – esclamo’ furiosa la signora Takebata. – Si puo’ sapere cosa ti salta in mente? Come ti permetti di portare gente estranea a casa nostra?
-Lei e’ la signora Takebata, suppongo – rispose Ichiren in vece della bimba, che, a capo basso e senza osare alzar lo sguardo, si succhiava il pollice.
-In persona. E lei chi sarebbe? – fece la donna, inquisitoria.
-Io sono un acquirente. Spero mi vorra’ accogliere come si conviene.
La signora Takebata sgrano’ gli occhi, e soppeso’ lo sconosciuto con lo sguardo. Quindi – Un momento – disse, e corse dentro a chiamare il marito.
Di li’ a pochi momenti, il signore e la signora Takebata discutevano con lo straniero la vendita di Chizu. Senza nemmeno prendersi il disturbo di invitarlo in casa, gli chiesero una cifra spropositata in oro. Ichiren pago’ senza fiatare ne’ contrattare.
-Ah, si vede che lei e’ un signore – fece Takebata, intascando la borsa piena di denaro. – E per di piu’ ha l’occhio buono. Chizu un giorno sara’ una bellezza, ma anche ora, se non si trascurasse cosi’ tanto, sarebbe degna di un bell’uomo come lei. A noi questi soldi fanno comodo…e anche lei sara’ contenta di stare a Tokio con un uomo benestante.
Ichiren si limito’ ad uno sguardo sprezzante all’indirizzo dei due malfattori. Poi, senza una parola ne’ un cenno di saluto, si allontano’ con la bambina.

Chizu continuava a succhiarsi il pollice. Non afferrava bene cosa fosse accaduto: sapeva solo che quell’uomo gentile la stava portando a Tokio, un posto che aveva gia’ sentito nominare da Ruriko tanto tempo prima. Camminando, si voltava indietro di tanto in tanto, inquieta, come se si sentisse seguita. Ma la marcia dell’uomo dagli occhi d’oro che la conduceva via non si fermava, né la stretta della sua mano si allentava, e la piccola, ad ogni passo, si sentiva sempre piu’ sicura.

Giunti alla stazione, Ichiren si fermo’ e la guardo’. Chizu sollevo’ il visino ancora impastato di lacrime e sporcizia, e lo fisso’ di rimando, timorosa.
-Non devi piu’ aver paura, piccola Chizu – sorrise Ichiren, e le porse la mano. – Stai tranquilla. Adesso ci sono qua io.
Un sorriso radioso illumino’ il volto della piccina. Con la sua manina strinse la mano che l’uomo le porgeva, e da quel momento in poi decise, nel suo piccolo cuore, che quella mano l’avrebbe guidata sempre, da quel momento in poi, per tutti i giorni della sua vita.

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Capitolo 7
*** CAPITOLO 7 - Il furgone rosso ***


CAPITOLO 7 – Il furgone rosso
La vettura fermò davanti al portone con uno stridio. Dal furgone dipinto di rosso, con la scritta “Tsubasa trasporti”, discese un ragazzo di circa quattordici anni, col berretto ben calcato sulla testa, le braccia forti, la figura robusta. Con l’aria accigliata e i gesti secchi e frettolosi di chi è abituato a fare decine di consegne al giorno, scaricò un grosso pacco e, reggendolo in mano, battè forte al portone.
-Si?- rispose dall’interno una voce femminile.
-Tsubasa trasporti, signora, devo consegnare un pacco! – rispose il ragazzo.
Il portone si aprì, e comparve una donna dall’aria cordiale, vestita con abiti da domestica.
-Grazie, ragazzo – disse costei, dando una mancia al fattorino. – SI tratta di una consegna molto importante. Sono alcuni attrezzi di scena del teatro Gekko. Il signor Ozaki sarà lieto di sapere che sono arrivati.
-Bene – replicò il ragazzo, e, inchinandosi bruscamente, le voltò le spalle.
Non era una persona di buone maniere, il ragazzo, e nemmeno gli importava esserlo. Gli importava solo di lavorare, per guadagnare più soldi possibili il prima possibile. Per uno come lui, figlio illegittimo in una famiglia dove i fratelli lo avevano detestato fin da quando gli avevano messo gli occhi addosso la prima volta, la gentilezza era un lusso sconosciuto che nessuno si era mai permesso con lui, e che lui non si era mai permesso con nessuno. Era andato via di casa deciso a fare da solo la propria fortuna, e a Tokio aveva trovato un posto da fattorino nella ditta di trasporti Tsubasa. Poteva andar bene, come inizio: se avesse lavorato duro, avrebbe potuto diventare anche direttore e, chissà, un giorno avrebbe potuto addirittura avere una ditta di trasporti tutta sua.
Per ora, comunque, richiuse lo sportello del furgone, e si apprestava a risalire al posto di guida quando qualcosa, suo malgrado, lo costrinse a fermarsi e a guardare.
La donna a cui aveva consegnato il pacco stava per richiudere la porta, ma con un “Oh!” di sorpresa subito la riaprì sorridendo.
-Bentornato, signor Ozaki! – disse la donna.
-Grazie, signora Mishima – rispose la voce virile dell’uomo dell’uomo chiamato Ozaki. Il ragazzo, dal furgone, lo fissò per qualche momento, e involontariamente aggrottò le sopracciglia. L’uomo era alto e bello, e aveva un’aria distinta e sicura di sé. Ebbe invidia di lui.
-E chi è questa bimba? – fece la donna, chinandosi verso il fagottino sporco e arruffato che Ozaki teneva per mano, e che alla vista della signora Mishima si era nascosta paurosamente dietro le gambe dell’uomo.
-Si chiama Chizu. D’ora in poi starà con me.
-Oh…signor Ozaki – il ragazzo sentì mormorare la donna con aria preoccupata. – Ma dove l’ha trovata? Cosa dirà la signora?
-La signora sarà d’accordo – replicò sicuro il regista. – La convincerò. Intanto, si occupi lei della bambina, per favore.
-Certo signore – si inchinò la signora Mishima, e tutti e tre entrarono nel portone.
Il ragazzo rimase ancora un attimo assorto, con la fronte sempre aggrottata. Aveva tenuto tutto il tempo gli occhi fissi su quell’esserino spettinato che, pollice in bocca, si nascondeva dietro l’uomo che la teneva per mano, come se avesse paura di ogni nuova persona che incontrava. Non sapeva spiegarsi perché, ma la vista di quella bambina lo aveva colpito. Il suo solo pollice in bocca esprimeva una tensione immensa, che quel corpo così piccolo non riusciva a trattenere. Era quella tensione che aveva attirato l’attenzione del ragazzo: come un magnetismo inspiegabile che irradiava da un essere così microscopico, di cui a stento era riuscito a distinguere i lineamenti del viso.
Il giovane si calcò meglio il berretto sulla testa e, serrata la mascella, cacciò l’inquietudine che lo aveva invaso. Risalito in vettura, mise in moto con gesto secco, e sparì verso il luogo della sua successiva consegna. Quel ragazzo si chiamava Eisuke Hayami.

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