L'Agghiacciante Storia di Luna Williams

di C_Moody
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Prologo - Detenuto 26467, Sean Williams. Tennessee. ***
Capitolo 2: *** Pericolosa Curiosità ***
Capitolo 3: *** L'Arrivo di Stella ***
Capitolo 4: *** Dodici Anni Dopo ***
Capitolo 5: *** Detenuta 16788 ***
Capitolo 6: *** Piccola Isola D'Amore ***
Capitolo 7: *** Epilogo ***



Capitolo 1
*** Prologo - Detenuto 26467, Sean Williams. Tennessee. ***


Papà:
 
            Questa è l'ultima volta che ti scrivo e che hai mie notizie. Vedi, ho già trent'anni e 
            voglio davvero lasciarmi alle spalle tutti gli orrendi incubi che ho vissuto. Ho 
            bisogno di ripartire da zero, di riprendere in mano la vita che mi è sfuggita per 
            sforzarmi e viverla a modo. Porterò con me, da oggi, solo due ricordi: la famiglia 
            felice che eravamo e, ovviamente, il ricordo della mia carissima Stella.
 
           Mi sono sposata con un ex detenuto, che mi aiuterà nel mio recupero, e sono finita 
           in Europa, dove proverò con tutte le mie forze a dimenticare l'indimenticabile.
 
           Una volta fuori dal carcere, non cercarmi. Non farlo, mai. L'ultima cosa che voglio è 
           RICORDARE. Ti auguro comunque ogni bene, papà. Buone feste.
 
                                Addio.
                                                                                          Luna Williams.
 
 
 
Dopo aver finito di leggere la piccola lettera scritta a penna rossa con la nervosa grafia di Luna, il vecchio Sean l'ha stretta nel pugno e i suoi occhi si erano bagnati. Sapeva che era una cosa che doveva fare anche lui: doveva dimenticare, per continuare a vivere, ma forse non ci teneva più a vivere. Padre e figlia avevano già avuto i loro "sfoghi omicidi" e dimenticare era difficile, ma era necessario. Andare avanti, impedendo che il passato rovinasse il presente già messo male e distruggesse completamente un futuro incerto. Lui non ci teneva comunque a vedere la figlia; la bella famiglia che erano stati ora non esisteva più e rivedere uno dei due membri di quella famiglia rimasti in vita era doloroso, insopportabile.
 
Gli restavano da scontare ancora due anni di detenzione, anche se lui avrebbe voluto restarci per sempre in prigione. Non aveva ragioni per tornare fuori, di essere libero. Nessuno lo aspettava.
Ora nemmeno più la figlia.

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Capitolo 2
*** Pericolosa Curiosità ***


Il mio primo ricordo risale a quando avevo circa tre anni, ero a casa di mio nonno. A quell'età, un bambino non sa neppure di esistere, ma io quella volta capii chi ero e cosa potevo fare, fino dove potevo spingermi. Mio nonno in passato era stato davvero un bell'uomo, con tante donne, tanti soldi, ma poi gli era rimasto solo un enorme campo da badare, l'unica cosa che gli teneva compagnia. Lui si prendeva cura del suo lotto con tanto coraggio e tanta pazienza, come se fosse Christine, la sua defunta moglie. Ho saputo molto più tardi che eravamo lì per la prima volta, che era la prima volta (e purtroppo l'ultima) che il nonno mi vedeva. Mi sono chiesta molte volte se quel primo ricordo è stato un sogno o è accaduto veramente. I miei genitori però mi assicuravano che era tutto vero. Comunque la scena si svolge nel grano alto, molto più di me. I miei non volevano che mi allontanassi dal cortile pavimentato, ma era stato più forte di me. Un attimo di distrazione da parte di nonno, mamma e papà, ed io correvo inoltrandomi nel grano. Riesco ancora a sentire molto intensamente il brivido dell'avventura di allora, in quella foresta incantata. Sapevo che i miei non mi avrebbero trovata e pensavo che, siccome mi tenevano bene alla larga da quel posto, era lì che nonno nascondeva le caramelle. Continuavo a muovermi molto lentamente, era una giornata molto afosa ed io mi facevo strada con le braccia per evitare che il grano mi graffiasse la faccia. Rimasi ferma qualche secondo e capii di non essere sola. Qualcosa si muoveva lentamente, alla mia destra. Sempre cercando di far poco rumore, lo inseguii. Con un minimo di orientamento, capii che mi stavo allontanando sempre di più dalla fattoria. Ma il rumore m'incuriosiva, e mamma anni dopo mi raccontava che ero sempre stata molto curiosa. Non appena avevo imparato l'andatura carponi non c'era stato più niente che mi potesse fermare. Le cose poi non migliorarono quando imparai anche a camminare. Più mi muovevo, più il rumore aumentava la propria velocità. Aprii il grano e vidi una coda strisciare via. Luccicava come i diamanti e i suoi colori rosso, argento e giallo mi avevano ipnotizzata. La presi in mano senza pensarci. Era una foresta incantata, c'erano solo fate e folletti quindi non c'era da temere, pensai, con la pericolosa ingenuità della bambina sveglia che ero. Subito, però, la proprietaria di quella coda si arrabbiò. Una testa dalle curve ben marcate, con due dentoni minacciosi si voltò verso di me producendo un lieve sibilo. Mi spaventai, ma non abbastanza perché presi quella testa fra le mani. Il resto del corpo mi si attorcigliò attorno al braccio. Mi diressi alla fattoria, ero sicura di aver acchiappato il ladro di pannocchie di nonno.
"Luna! Lunaaaaa!"
Riconobbi la voce di mio padre e la seguii. Quando mi trovai fuori dal campo, vidi mio nonno che armeggiava col cacciavite su un tavolo. Era girato e non si accorse del mio arrivo.
"Nonno, ho catturato di ladro di pannocchie!"
Al suono della mia voce, mia madre e mio padre uscirono da casa e mi videro. Non capivo perché mia madre urlava afferrandosi i capelli in cima alla testa, né perché mio padre sgranava gli occhi e restava immobile. Nonno si avvicinò a me e molto lentamente cercò di afferrare la testa del rettile fra le mie mani. Un attimo di libertà e quella testa avrebbe morso uno dei due.
"Sean, dammi una mano! Non startene lì impalato!"
Mio padre si avvicinò e mi guardò preoccupato e incredulo.
"Srotola lentamente il serpente dal braccio della bambina, coraggio."
La vipera si tenne saldamente al mio braccio, quasi non volesse lasciarmi andare, perciò mio padre dovette usare la forza. Da piccoli non si ha alcun senso della misurazione ma adesso, a occhio, direi che era lunga circa un metro. La testa dura e triangolare era grande poco meno di un'arancia e, a detta dei miei genitori all'epoca dell'accaduto e molti anni dopo, era un serpente velenosissimo. Quando mi ebbero liberato il braccio, mio padre lasciò il serpente per afferrarmi e sculacciarmi un paio di volte. Io non piansi, non era assolutamente necessario e poi non riuscivo a capire. "Mi sculaccia per un atto buono? Perché catturo il tanto ricercato ladro di pannocchie e non ricevo premi e medaglie? Acchiappo finalmente colui che rubava le pannocchie al nonno e mi becco due sculacciate e un forte rimprovero dalla mamma."
 
Il ricordo comunque termina con la visione un po' offuscata del nonno che reggeva il serpente saldamente con la sua enorme mano mentre con la mano libera afferrava il machete conficcato in un tronco. Poi basta. Mi arrivava lontana la voce di mia madre che mi scuoteva per un braccio dicendomi: "Luna, tu osi troppo!"
 
Oggigiorno, porto quel serpente tatuato sul braccio sinistro. Luna osa troppo.

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Capitolo 3
*** L'Arrivo di Stella ***


Solitamente, i bambini non incassano bene l'arrivo del fratellino. Non fu il mio caso. I miei genitori fecero passare molti anni dopo la mia nascita. Il vero motivo per me è e resterà un mistero. Loro mi avevano detto, ed io ci voglio credere, che era per motivi di lavoro. Entrambi erano professori universitari, mio padre e mia madre lavoravano in ateneo ma la mamma spesso dava anche lezioni private per le classi universitarie. L'arrivo di un altro figlio avrebbe costretto mia madre ad abbandonare la professione per un po', rimanendo soltanto con le lezioni private. 
Io avevo già dieci anni e il discorso delle cicogne, delle api e dei fiori non funzionava, non con me.
Io ero contentissima di avere un fratellino, ero davvero fuori di me dalla gioia! Preparavo i giocattoli con i quali avremmo giocato e disponevo vicino al mio letto i libri di favole che gli avrei letto. Passavo parecchio tempo con l'orecchio premuto contro il pancione di mia madre, anche se a volte in cambio di quel tenero gesto di affetto, ricevevo una pedata sull'orecchio. La prima volta che questo accadde, mi spaventai abbastanza da immaginare il feto come una specie di alieno. Ero scocciata però dal fatto che non nasceva mai. Ogni giorno tornavo da scuola ansiosa e correvo verso mia madre. "Allora, è nato?". Lei, secondo l'umore, rideva e rispondeva di no o sbuffava e mi diceva di non rompere. Dopo un po' smisi di chiederglielo, limitandomi a guardarla: se il pancione c'era, allora c'era anche il bambino dentro. Mio padre mi faceva lunghissimi discorsi sul bebè che stava arrivando, su cosa si doveva fare e cosa no e io mi accorgevo sempre di più che non era così facile come sembrava. Ma non per questo mi sono lasciata scoraggiare, neanche per un secondo.
 
A scuola non avevo molte amiche. Ero una bambina molto matura per la mia età e per questo a volte mi lasciavano da sola. Non mi dispiaceva. Praticamente era come se non esistessi, tenevamo le distanze e solo rare volte le mie compagne erano gentili con me. Non erano odiose o dispregiative. Semplicemente sentivano che c'era molta distanza spirituale tra loro e me, e quindi automaticamente venivo messa da parte. Solo i maestri mi consideravano, per loro ero l'allieva modello benché io, nella mia modestia, odiassi essere la loro preferita. Tuttavia, la storia del bebè mi rendeva pensierosa ed era ovvio che lo notassero i maestri. Mi chiesero cosa avessi che mi teneva tanto preoccupata. Io risposi che doveva nascere il mio fratellino. Più che altro pregavo perché nascesse quando c'ero io, anche se ciò non sarebbe comunque accaduto. Ancora oggi mi chiedo come esattamente all'epoca pensavo avvenisse il parto. Non trovo risposte. Comunque il fratellino mi diede la prima gioia ancor prima di nascere perché, quando raccontai ai maestri del suo arrivo, loro lo dissero a tutta la classe. Da allora tutti erano diventati miei amici, sforzandosi di lasciar perdere il mio strano carattere.
 
Non ebbi particolari sensazioni il giorno del parto. Per me era un giorno scolastico come tutti gli altri. Feci i miei esercizi, giocai a corda con le mie nuove amiche e al suono della campanella indossai la mia giacca, presi il mio zaino e mi avviai fuori. Non vidi mio padre, ma riconobbi mia zia. Mi chiesi molto stupita che cosa ci facesse lì. Lei mi disse che avrei mangiato a casa sua perché i miei genitori non erano in casa. Avevo uno strano nodo in gola ed ero intimorita. Non ero mai stata a casa di mia zia. Si chiamava Clarissa, era la sorella minore di mia madre, non ricordo che razza di lavoro facesse ma ricordo che non era "normale". Era piena di tatuaggi, qualche piercing, nel suo look c'erano catene e jeans strappati, però aveva dei bellissimi capelli biondi cotonati. I miei genitori non la volevano in casa conciata così. Quel giorno mi aveva preparato patatine fritte e bistecca, ero molto affamata.
"Zia, ora mi dici dove sono i miei genitori?" Chiesi con la bocca piena di patatine.
"Sono in ospedale, Jade ha avuto il bambino."
Non credevo alle mie orecchie! Il bambino era nato! 
Quello stesso pomeriggio, dopo aver fatto i compiti, zia Clarissa mi portò in ospedale. Mio padre mi prese subito in braccio e mi condusse dalla mamma. Nonostante non avessi più l'età per esser presa in braccio, per la mia età ero davvero minuta e mio padre, forte com'era, spesso mi prendeva in braccio per coccolarmi e viziarmi, quasi non volendo lasciarmi crescere. Mentre ci avvicinavamo alla mamma, sotto le coperte si vedeva ancora un po' di pancione. Pensavo che mi avessero fatto uno scherzo e stavo per arrabbiarmi quando però ho visto una culla di fianco al letto. Mi dimenai perché mio padre mi mettesse giù e mi avvicinai lentamente alla culla. Si vedeva soltanto un piccolo cranio pelato e un pugno che uscivano dalla coperta bianca. Dormiva. Gli presi la minuscola manina, era un po' rossa e si strinse intorno al mio dito. "Ciao", sussurrai. Poi lessi il cartellino sopra alla culla.
 
Stella Natalie Williams
19-03-87    09.26 AM
3.128 Kg
 
 
Mi commossi profondamente. Avevo una sorella. Benvenuta Stella!

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Capitolo 4
*** Dodici Anni Dopo ***


La mia vita nel giro di qualche anno aveva subìto uno scossone tale da cambiare completamente le mie sorti. Non avevo neanche il tempo di abituarmi a uno "stato" che già passavo ad un altro. Passare dal lieto evento della nascita di Stella al finire in carcere dodici anni dopo, urta alquanto. Condannata a diciannove anni di reclusione con l'accusa di duplice omicidio. Non l'ho mai negato. Certo, non ne vado fiera ma era logico che sarebbe accaduto. La storia è lunga e mi sono ritrovata a raccontarla per la prima volta alla mia compagna di cella, narcotrafficante e truffatrice, Gina McNeil. 
I primi giorni di carcere avevano un non so che di molto strano e continuavo a chiedermi com'ero stata capace di compiere un simile gesto. Comunque, dovevo pagare per l'errore che avevo commesso ed ero lì. Quelle che credevano di comandare l'ala femminile della struttura se la prendevano sempre con le nuove arrivate. Il primo giorno mi hanno pestata duramente, e ingiustamente gli sbirri avevano chiuso me nella cella d'isolamento. Tanto meglio per me. La cella d'isolamento non era abbastanza alta per stare in piedi, era buia e molto silenziosa. Io passavo tutto il mio tempo pensando alla mia cara Stella. Le volte successive che mi hanno chiusa lì, non mi hanno dato neppure da mangiare. Brutto a dirsi, ma mi stavo abituando alle ingiustizie. Non sarei andata in pianto dal direttore per spiegare i fatti veri, come si fa a scuola quando si va dal preside. Era un problema che dovevo risolvere io. Eravamo nove contro una ma potevo farcela. Tutte le ingiustizie subite nella mia vita mi avevano dato la forza necessaria per picchiarle una dopo l'altra. Ero uscita malconcia dall'incontro, mi sono pure beccata due giorni nella cella d'isolamento (dei quali uno senza mangiare) ma almeno da quella volta mi hanno rispettata. Nella nuova cella, ho stretto amicizia con Gina, dopo che gli episodi di violenza avevano costretto gli sbirri a separarci in celle per due. Non ricevevo mai visite, per cui tutto il tempo lo passavo seduta davanti al letto disegnando o scrivendo. Tenevo tutti i disegni dentro ad una cartelletta che avevo costruito io stessa, insieme ad una foto di Stella. Spesso sono arrivata alla conclusione che per ripagare il male che ho fatto e trovare finalmente la felicità, dovevo morire. Quando ci si trova nella merda fino al collo, non si pensa mai che ci sia una via d'uscita.
 
La sera in cui cominciai il mio racconto Gina ed io eravamo distese sul pavimento fresco. Faceva un caldo infernale, dalla piccola finestrina aperta ci entrava solo l'odore della tempesta estiva in corso, e nulla più. Nonostante la scomodità, il pavimento era ancora fresco e distese vicine al buio, illuminate qualche volta dai lampi, Gina disse:
"Dai, Luna, ho parlato per due ore intere della mia storia, ma io ho sentito dire che la tua è più tosta. Parlamene."
Odiavo che in giro si sapesse la mia storia. Ero diventata così introversa e riservata che mi auguravo proprio che non si sapesse nulla. Ma le mura hanno orecchie. Si sarebbe saputa comunque.
"Vedi Gina, nonostante quel che si può pensare, io un tempo ero felice. E lo ero perché non chiedevo mai grandi cose alla vita. Non ero ricchissima, ma arrivavamo bene a fine mese e i miei non mi facevano mancare nulla. Io amavo la vita, proprio così. Smisi di amarla il 19 marzo del 1991. Molto drasticamente." 
Fuori, un tuono risuonava talmente forte che per un attimo ho avuto la sensazione che qualcun altro, lassù in cielo, mi stesse ascoltando. Era la prima volta che raccontavo la mia storia e questo era il pezzo più difficile. Il nodaccio in gola non mi aiutava.
"Era il quarto compleanno della mia sorellina Stella. Era così felice, così emozionata. Non dimenticherò mai il suo sorriso quel giorno. Sai, io e mia sorella avevamo un rapporto speciale. Molto speciale. Quando si ammalava, non voleva prendere le medicine se non gliele davo io. Dopo che aveva compiuto un anno, non sono più potuta andare al campeggio estivo perché lei scoppiava in un pianto disperato finché io non la prendevo in braccio. Lei mi adorava, nel vero senso della parola, io ero tutto per lei. E lei era tutto per me. Comunque, quel giorno l'intera casa era addobbata per il suo compleanno. Palloncini, regali, ghirlande colorate che attraversavano la sala. Gli invitati dovevano arrivare un'ora dopo. Mancava solo la torta. Era costata parecchio perché era una torta-gelato unica al mondo, e sarebbe stata pronta solo per quel giorno alle quattro."
Mi fermai volontariamente. Dovevo usare le parole giuste ma al momento non riuscivo a trovarle. Era difficile, ma era una cosa che dovevo fare per superare il trauma avuto. Gina attese pazientemente. Si era logicamente accorta che per me non era affatto semplice. Per proseguire, chiusi gli occhi, rievocando le immagini dell'orrore vissuto.
"I miei genitori mi avevano chiesto se potevo badare a Stella cinque minuti mentre loro andavano a ritirare la torta. Dissi loro di sì, avevo quattordici anni e guardavo mia sorella da sempre. Loro erano appena usciti e Stella era seduta sul divano a guardare la tv. Aveva il suo abitino bianco nuovo e non voleva toccare nulla, per non sporcarlo. Mi ero girata a guardarla un secondo quando la porta si aprì di colpo, sfiorandomi il braccio. Erano due uomini a volto coperto che impugnavano dei coltelli. Quando ho chiesto: "Chi diavolo siete?" uno di loro mi ha mollato un ceffone tale da farmi girare completamente su me stessa e cadere. A quel punto ho alzato lo sguardo, stavano menando anche Stella. Io urlavo, non ricordo neanche più cosa perché la paura mi aveva accecata. Quando entrambe ne avevamo prese a sufficienza, uno ci ha tenuto per i capelli mentre l'altro scassinava la cassaforte di mio padre. Io guardai Stella: aveva la faccia a pezzi, tremava tutta e mi guardava con occhi imploranti. Ma non potevo proprio fare nulla, perché più cercavo di liberarmi e più quel maledetto mi strattonava. Una volta svuotata la cassaforte, quei figli di puttana non erano soddisfatti. Ci buttarono a terra e ci violentarono. Strapparono brutalmente i nostri vestiti e fecero quello che volevano dall'inizio alla fine. Stella non aveva più voce in gola, mentre io non mi accorgevo nemmeno del dolore della violenza, ero troppo preoccupata per mia sorella. Quello che ce l'aveva con me iniziò a riempirmi di botte per non so quanto tempo, ma io andai nel panico assoluto quando vidi l'altro tirar fuori un coltello. Dalla finestra, il sole entrava e si rifletteva sulla lama che mi ha accecata con un improvviso flash. Fu un attimo, poi non so che cosa mi successe. Udii l'urlo di mia sorella e i passi di quei due che si allontanavano in fretta. L'attimo dopo, caddi in trance. Il dolore s'impossessò delle mie facoltà motorie e non riuscii più a muovermi, e neppure a ragionare. Ero in preda a un vuoto mentale. Solo qualche attimo dopo, quando realizzai più o meno cos'era successo, riuscii a muovermi e mi voltai in cerca di Stella. Giaceva distesa a un metro da me. Il bel vestitino bianco era sporco di sangue, la gola vantava un taglio profondo che la circondava quasi completamente e dal taglio continuava a uscire sangue a fiotti. Mi trascinai pesantemente verso di lei e le abbassai il vestitino per coprirle le parti intime. Le mutandine strappate erano attorcigliate a una delle sue caviglie. Posai la testa sul suo petto, non respirava. Il suo cuore non batteva più. Le presi la manina sanguinante come la prima volta che la conobbi. La sua manina non strinse la mia. In quel momento mi misi a piangere. All'inizio moderatamente, ma poi fu un pianto disperato ed io svenni."
Dovevo fermarmi. Pronunciavo parole sconnesse tutto il tempo perché il nodo in gola mi rendeva difficile persino il respiro. Finalmente scendevo a patti con la realtà: tutto quel tempo la storia era rimasta aggrappata al mio cuore come se fosse stato un sogno, ora lo raccontavo, potevo lasciarlo libero di scorrere e diventare così reale, assumendo l'aria di un terribile fatto accaduto e non solo un incubo. Gina piangeva, ripetendo per tutto il tempo: "Che bastardi! Che stronzi!". Ho sempre pensato che quei due potevano prendere i soldi e andarsene, senza toccarci. E invece... Ho pensato perfino che potevano uccidere me, non la piccola Stella. Ho preso fiato e continuato.
"Al mio risveglio, mi trovai in una stanza d'ospedale. Il dolore fra le mie gambe aveva pazientemente aspettato che io mi svegliassi per tormentarmi con molta intensità. Mi agitai e un'infermiera venne da me. Mi controllò, aumentò il dosaggio dell'antidolorifico, mi chiese se stavo bene e fece per andarsene, ma io subito le chiesi se erano riusciti a salvare la mia sorellina. Lei si avvicinò, mi prese la mano e con voce dolce e soave mi disse che disgraziatamente per lei non c'era più nulla da fare. Io mi misi a piangere, entrarono anche i miei genitori e piangemmo insieme. Poi venne un dottore a visitarmi. Avevo lividi dappertutto, i genitali a pezzi, ma niente di più. Incominciarono a farsi vedere i poliziotti per sentire la mia testimonianza, e all'uscita dell'ospedale m'imbattei in un mare di giornalisti e fotografi."
Gina m'interruppe proprio in quel momento.
"Ah, ora ho capito! Sì sì, ora ricordo! Mi ricordo di questa storia, l'avevo letta sul giornale di mio padre e poi l'ho vista di sera al telegiornale, ricordo che mia madre era davvero schifata per l'orrendo atto di quei due animali. Sì, ora ci sono! Solo che non credevo fossi proprio tu!"
"Comunque i miei aggressori e gli assassini della mia sorellina non furono mai trovati. Non so, spariti nel nulla. Se Stella davvero non ci fosse penserei che siano stati immaginari. Ma è stato tutto vero e da qualche parte staranno. Che non li trovi mai, perché li ammazzerei."
Involontariamente, restammo in silenzio entrambe. In memoria di Stella. Faceva sempre più caldo, ma ora sudavo anche per la tensione, la paura rispolverata.
"Da quell'episodio, quell'orribile episodio, tutto nella mia vita andò a farsi fottere. Non volli più andare a scuola, mio padre cadde nella spirale dell'alcolismo e mia madre impazzì. Non ebbi mai il tempo di riprendermi dall'assassinio di Stella perché tutto si susseguì in rapida sequenza. Nessuno si curava più di noi, neppure noi stessi. Le volte che l'assistente sociale veniva a suonare, nessuno le apriva. La casa cadde in rovina. Mio padre passava i giorni sprofondato sul divano a tracannare alcolici, mia madre sedeva davanti alla finestra aspettando il ritorno di Stella e difendeva gelosamente la torta-gelato nel frigo che ormai puzzava e ammuffiva. Ed io vagavo per le stanze, alla ricerca di qualcuno che non sarebbe più tornato, annusavo il profumo di Stella direttamente dalle sue lenzuola, stringevo i suoi orsacchiotti, toccavo i suoi vestiti e la casa sembrava vuota senza di lei; ero diventata come sorda senza il suono della sua tenera vocina. Ogni sera guardavo il telegiornale in attesa che dicessero di aver finalmente preso quei due bastardi, ma nulla. Nessuno in casa si parlava, a parte i miei genitori che litigavano. Lo stress era tantissimo, la notte ero preda di infiniti incubi che spesso riguardavano quel giorno".
I ricordi incominciavano a tornare numerosi, vecchi ma ancora carichi delle sensazioni di allora. Quello che ieri era paura, oggi era di nuovo paura, ma forse si presentava con più intensità di allora. Gina era girata su un fianco con la testa appoggiata sulla mano e gli occhi rossi. Lei aveva venduto droga, aveva truffato, aveva persino rubato un'auto ma non aveva mai ucciso o visto uccidere qualcuno.
"Poi i miei iniziarono a litigare sempre più spesso, si lanciavano oggetti e io correvo a nascondermi sotto il letto di mia sorella. Una volta... quella volta mi nascosi, ma la lite continuò e io ne ebbi abbastanza delle loro grida, uscii da sotto il letto ed entrai in soggiorno proprio nel momento in cui mio padre premette il grilletto contro mia madre. Lei cadde al suolo pesantemente. Mi avvicinai solo un po', le era partito un occhio e la pallottola le aveva trapassato il cranio finendo per conficcarsi nel muro, vicino al quadro di famiglia. Mio padre cadde sulle sue ginocchia e si mise a piangere fissando la pistola. Il sangue che usciva dalla testa di mia madre stava raggiungendo le mie scarpe. Così presi la mia giacca, la borsa di mia madre e uscii di casa. Di cadaveri ne avevo visto uno neanche cinque mesi prima. Ero proprio al limite delle mie capacità di sopportazione. Così, pensai che dovevo scappare, allontanarmi il più possibile prima che le squadre di ricerca si attivassero. Presi un treno e due autobus, fermandomi anche a comprare qualche pacco di biscotti e acqua. Rimasi in una spiaggia deserta per due giorni e una notte, poi decisi di tornare indietro. Se mi stavano cercando, nessuno mi avrebbe riconosciuta, ero molto cambiata: il viso pallido, grosse borse sotto gli occhi per la mancanza di riposo e pace, i capelli sporchi e i vestiti anche. Mi si poteva scambiare per una vagabonda, non per una ricercata. Arrivata nella città di partenza, mi diressi al cimitero, cercai la tomba di Stella e mi ci sdraiai sopra, addormentandomi. Aprii gli occhi perché una poliziotta mi dava dei colpetti sul braccio. Mia madre era ovviamente morta e mio padre era finito in galera in attesa del processo. Ero l'unica testimone, e dovevo andare a dire qualcosa. Purtroppo, contro di lui. Ho testimoniato contro mio padre. Quindici anni di reclusione. Andai al funerale di mia madre e poi mi chiusero in un orfanotrofio. Rimasi lì dentro tre anni, fra botte, professori severi e l'angoscia più totale, che faceva male più delle botte e dei professori severi messi insieme. Non riuscii mai a legare con nessuno e a diciotto anni finalmente mi lasciarono libera. Con i soldi dei miei genitori raggiunsi New York e per prima cosa scrissi a mio padre. Poi mi cercai un lavoro. Non ricevetti risposte da papà ma io continuai a scrivergli diverse volte. Era come parlare alla propria coscienza e quindi lo facevo comunque. Avevo trovato un lavoro come commessa in un negozio di abiti per bambini. Il mio compito era rifornire le grucce vuote. Quel lavoro mi faceva inevitabilmente tornare in mente Stella, ogni volta che vedevo un bell'abitino dicevo che le sarebbe stato una favola addosso. Lavorando lì conobbi Jesse, il figlio del proprietario del negozio. A lui piaceva il mio essere tenebrosa e riservata. All'inizio eravamo solo amici, ma dopo otto mesi mi sono perdutamente innamorata di lui e siamo andati a vivere insieme. È stato come rinascere, come ritrovare la felicità perduta. Ma ho commesso lo sbaglio di aggrapparmi al suo amore come se fosse l'ultima cosa che mi rimaneva al mondo."
Gina mi aveva fatto segno di capire. Sarà finita anche lei in galera per amore? Mi parlava l'altra volta di un certo Brad che aveva il suo cuore, ma non sapevo altro. Per fortuna, aveva smesso di piovere e dalla finestrina entrava un venticello fresco che portava con sé l'odore della terra umida. Non c'è odore più buono al mondo. Sa di natura, di vita.
"Comunque, dopo tre anni di straordinario amore, io cominciai ad essere ossessionata da Stella. Impazzivo pensando che il suo fantasma fosse con me in ogni momento, parlavo da sola o meglio, parlavo al fantasma di Stella. Era il mio modo per guarire la ferita, ma Jesse incominciò a darmi della pazza. All'inizio bonariamente, poi sempre più seriamente. Io intanto avevo iniziato a farmi tatuare su tutta la grandezza della schiena l'immagine di Stella dall'unica foto che avevo di lei. Nel tatuaggio, però, ho chiesto che le fossero aggiunte le ali d'angelo. Jesse non volle e si arrabbiò moltissimo. Neanche una settimana dopo la fine e completa guarigione del tatuaggio, lui mi lasciò. Fu allora che cominciai a fumare, ero nervosa dalla mattina alla sera, passavo dal piangere al ridere senza motivo e da sola in casa giravo a torso nudo soffermandomi spesso allo specchio per ammirare il mio bel tatuaggio. Quando scoprii che quel cretino stava già con un'altra, non mi diedi pace finché non li uccisi. Tutti e due."
Il fiato di Gina si mozzò e quasi di riflesso si allontanò da me. Io feci un piccolo sorriso psicopatico. Anche se psicopatica non ero e non lo sono. All'epoca ero solo sopraffatta dalle numerose sfortune che avevano stravolto la mia vita. Prima di continuare con il mio racconto, mi alzai a bere l'acqua quasi tiepida che colava dal rubinetto. Avrei venduto l'anima al diavolo in persona per una bottiglia di acqua pulita e fresca. Al ritorno, mi sedetti sul letto. Stare sdraiata per terra mi aveva distrutto la schiena.
"Già, li ho inseguiti, sono entrata nel loro appartamento di sera e li ho colpiti entrambi alla testa. Ma non li ho uccisi, il colpo doveva bastare a far perdere loro conoscenza. Dovevo essere dotata di una forza fisica incredibile perché li ho legati alle sedie, uno di fianco all'altra. Li ho fissati finché non hanno ripreso conoscenza. Erano spaventati quando mi hanno vista con la loro pistola fra le mani. Li ho insultati, ho schiaffeggiato lei e ho chiesto perché a lui. Ma li vedevo, era chiaro che si amavano e che Jesse aveva già dimenticato me. Ho pianto con la testa appoggiata sulle sue gambe e quando mi prese la follia omicida, ho premuto il grilletto contro di lei. Poi ho guardato lui, piangeva. Gli ho chiesto scusa e ho sparato anche contro di lui. Sono rimasta a guardare i loro corpi morti per molto tempo, poi li trascinai in camera da letto, sdraiandoli uno accanto all'altra, unendo le loro mani. Incominciai a piangere, piansi un mare di lacrime. Il danno ormai era fatto, ero solo un po' pentita ma sapevo che non potevo più tornare indietro. Alle prime luci dell'alba la porta si aprì con un forte calcio dall'esterno ed entrò la polizia. "Sono stata io", dissi. Mi portarono via ammanettata. Al processo, i loro genitori mi urlavano di tutto ma io non mi sono scomposta. Era la mia vendetta personale contro il mondo intero, contro le forze dell'ordine che non erano riuscite a trovare gli assassini di Stella e contro Jesse che mi aveva lasciata quando più avevo bisogno di lui. Avrei accettato le conseguenze dei miei atti senza fiatare, ma almeno mi ero "sfogata". Gina, tu cosa ne pensi? Non credi che sia logico impazzire dopo tutto quello che ho passato?"
"Beh, sì. Nessuno ti stava accanto quando il dolore era «fresco», hai visto uccidere la tua sorellina e poi
tua madre. Ad un certo punto della tua vita saresti impazzita ed esplosa per forza, c'era da aspettarselo."
 
Era molto tardi, ero stanca e la mia storia l'avevo già finita. Non mi aveva fatto molto bene ricordare. Quegli orrori vivevano in me da anni, si nutrivano di me mentre li tenevo al sicuro nel mio cuore, ma dovevo reagire, andare avanti, impedire che il passato mi risucchiasse la vita dalle vene. Dovevo guarire dalla mia follia. Volevo tornare ad essere la quattordicenne di un tempo, con i miei genitori insegnanti, la nostra famiglia felice e, naturalmente, la mia carissima Stella. Ma avevo perso tutto. Non era nel mio temperamento il suicidio, anche se molte volte ero arrivata a pensare che la morte mi avrebbe resa più felice. Lassù, vicino a mia madre, a Stella e, perché no, anche al ladro di pannocchie.
"Ok Gina, ecco la mia storia. Il resto lo sai già. Diciannove anni di reclusione."
Lei era rimasta in silenzio. Mi accomodai sul letto, nella speranza di dimenticare di aver vuotato il sacco.
"Ehi, me lo fai vedere?" Mi chiese Gina, con curiosità.
"Cosa?"
"Il tatuaggio." Sollevai la maglietta fino alla nuca, riuscendo a sentire il fiato di Gina mozzarsi.
 
In carcere avevo molto tempo libero per pensare alla mia vita, per leccarmi le ferite affinché si rimarginassero, e per chiedermi come mio padre avesse incassato la notizia della mia detenzione. Non molto tempo dopo gli scrissi un'altra lettera, ma come sempre nessuna risposta. Si vergognava, l'ho visto uccidere mia madre, una cosa che probabilmente non riusciva a perdonarsi. Quella è stata l'ultima volta che l'ho visto, inginocchiato di fianco al cadavere di mia madre, piangendo con la pistola fumante fra le mani che tremavano.
 
Anche lui, come me, ha accettato la conseguenza dei suoi atti senza fiatare. Lui però, lasciava una quindicenne in balia di sé stessa.

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Capitolo 5
*** Detenuta 16788 ***


Quando per le altre detenute non ero più una "nuova", mi lasciarono stare. Cominciava così un periodo strano. Avevo un sacco di tempo per riflettere, per chiacchierare su vita, morte e quello che c'è in mezzo con Gina; si guardava la tv, si mangiava alla mensa e qualche volta il clima era sereno e gradevole. Certo, non dimenticavo che ero lì per pagare per quello che avevo fatto e non per socializzare, ma mi ci vedevo quasi costretta. D'altronde, se non socializzavi, non entravi a far parte del traffico di sigarette all'interno del carcere.
Non era necessario, ma qualche volta mescolavano l'ala femminile e l'ala maschile. Io guardavo bene le loro facce, soprattutto stavo attenta alle loro voci, le frasi che ho sentito dai due: "Zitta, stronza!" e "Là, la cassaforte è dietro al quadro!" mi erano rimaste in testa ronzando come mosche sui cadaveri. Non perdevo la speranza, e non l'ho mai persa, di trovare quei due stronzi che mi avevano rovinato la vita, distruggendo quella di Stella. Comunque non socializzavo mai con loro, non avevo né voglia né stretto bisogno. Me ne stavo in un angolo con Gina affianco, a me bastava. D'altra parte però, non passavo inosservata, poiché ero l'unica detenuta ad aver conservato modi femminili. I capelli neri e lunghi, gli occhi verdi, il fisico snello e femminile e quei cani sbavavano ai miei piedi. Quando ci hanno mescolati per la prima volta, mi sono tenuta vicinissima ad una guardia, così non rischiavo. Ma poi ho pensato che era come correre in pianto dal preside e ho deciso di difendermi da sola. Non mi hanno mai dato motivo per difendermi, anche perché i più pericolosi venivano lasciati nelle loro celle e lasciavano fuori solo quelli più "buoni". Nonostante le ragioni per le quali erano lì, erano sempre corretti con noi detenute.
Un giorno, una delle detenute aveva ricevuto una chitarra per il suo compleanno. Tutte le chiedevano di usarla ed io in particolare ho stupito molto quando l'ho impugnata e suonata. Avevo imparato a suonare la chitarra durante i campeggi estivi prima della nascita di Stella. Ero brava, anche a cantare. Ho fatto "knocking on heaven's door", alzando una marea di applausi sia tra le detenute, sia tra le guardie.
"Sarebbe d'accordo se Le organizzassi una serata? Una specie di concerto, per noi e i detenuti?" Mi aveva chiesto il direttore. Non ci trovavo nulla di sbagliato, tranne che mi allontanava dal mio obiettivo principale, che era soffrire e pagare per il male che avevo fatto. Alla fine ho accettato, avevo otto giorni di tempo per decidere le canzoni. Dato che non volevo fare tutte cover, mi ero messa d'impegno per scrivere alcuni testi. Argomento? Stella, naturalmente.
Ho scritto alcuni testi carini e mi sono fermata. Non dovevo dimenticare che la mia storia doveva rimanere, almeno per la maggioranza, un mistero. Le guardie ci avevano procurato altri strumenti, come percussioni, flauto, e Gina avrebbe suonato insieme a me, cosa che mi rendeva più sicura, non so perché. Anche se mi ricordavo che non ero lì per divertirmi, nella scaletta delle canzoni avrei suonato e cantato per Jesse, mia madre e Stella. Per me si trattava di rendere loro omaggio. Se poi facevo show per quel branco di cani rognosi dei detenuti, era un extra.
 
Il giorno del "concerto" ha coinciso con il giorno della posta. Durante il mattino scrissi a mio padre, raccontandogli che nella mia mente la vita in galera doveva essere orribile, e invece stava diventando piacevole. Le lettere che scrivevo a mio padre erano sempre molto asciutte, corte, senza dettagli o argomenti che facessero riferimento a quello che era successo. Gli parlavo del presente e basta. Il passato lo conoscevamo tutti e due, mentre il futuro... chi lo sa?
Ho piegato la lettera come capitava e messa nella busta fornita dal carcere. 
"Le poste funzionano comunque, vero?" Ho chiesto al postino.
"Ma certo."
Una breve controllatina all'interno della busta e al destinatario, e l'ha messa insieme ad altre poche lettere. 
Anche sapendo di non ricevere risposta, io scrivevo.
 
Durante il nostro passaggio dalle celle alla mensa e viceversa, abbiamo potuto vedere un piccolo palco posto in fondo alla sala dove si guardava tv. Non ero nervosa, ma temevo di sentirmi a disagio. Io, animale solitario, che davo spettacolo a degli sconosciuti. Se poi, fra quei pezzenti, c'erano i due bastardi che mi avevano rovinato la vita, mi sarei molto arrabbiata. Loro non meritavano uno show. Meritavano di essere stretti in una bara buia e fredda a due metri dalla superficie terrestre. Prima però, avrei desiderato che tutti gli altri detenuti si divertissero con loro. Solo così poteva essere la giusta vendetta.
 
È stato durante il concerto che ho vissuto forti emozioni. Cantare per mia sorella, sentirmi vicino al paradiso, vicino a lei. Cantare con tutta la voce che avevo in gola per farle arrivare il messaggio delle tenere parole nelle mie canzoni per lei. Il pubblico gradiva, applaudiva e mi seguiva con attenzione. Finché il mio sguardo si posò su di un detenuto. Era appoggiato ad una colonna e non seguiva lo show, ma si guardava attorno impaurito come se qualcuno lì vicino fosse pronto a malmenarlo. Aveva un'espressione tutt'altro che da delinquente. Ho dovuto smettere di fissarlo per non perdere la concentrazione ma lo sguardo mi ricadeva su di lui quasi involontariamente. Dopo due canzoni, lui finalmente mi ha guardata. Lo sguardo fra di noi era intenso; con un solo sguardo ci dicevamo già molte cose. Lui alla fine si è accorto di quell'attimo di magia fra di noi, perché si era avvicinato al palco e mi guardava più da vicino, mandandomi in delirio. Era come riuscire a leggergli dentro. Quale male aveva turbato la sua quiete? Con quale accusa era finito in questo posto, a metà fra l'inferno e il paradiso? 
Quando ci siamo scambiati un sorriso, ho capito che dovevo parlargli.
Solo che, finito il concertino, il direttore prese in mano il microfono per dire che eravamo state molto brave. Poi ci hanno ricondotte subito nelle nostre celle. Il premio per uno show così bello è stata una cena, esclusiva per noi. Pollo, patatine, ketchup, birra e gelato. Avrei volentieri rifatto lo show dieci volte di fila per una cena così appetitosa!
 
Durante tutta la notte, tutto il giorno dopo e le due settimane che sono seguite, nella mia mente c'era solo quel detenuto. Non c'era spazio per mia madre, mio padre o Jesse, e ce n'era giusto poco per Stella. Lui aveva acceso qualcosa in me che non ero in grado di decifrare. Una cosa che con Jesse non mi era mai successa. Non potevo ancora chiamarlo "amore a prima vista" perché non sapevo niente di lui. Sapevo soltanto che nel momento in cui i nostri sguardi si erano incrociati, io non avevo pensato ad altro. Aspettavo con impazienza l'ora in cui agli sbirri sarebbe di nuovo venuta la splendida idea di mescolarci. Anche se, una volta mescolati, non avrei saputo che fare. Quando m'innamoravo, diventavo ancora più chiusa in me stessa.
 
Un giorno, dopo la mensa, ci hanno condotto nella sala tv. I detenuti c'erano già. Senza rendermene conto ero appoggiata alla stessa colonna contro la quale avevo visto lui durante il concertino. Lo cercavo con lo sguardo, ma senza risultati. Non si vedeva da nessuna parte. Gina aveva stretto amicizia da tempo con un omone grosso di nome Paul. Si erano messi a parlare ed io mi ero lasciata coinvolgere nella chiacchierata. Paul raccontava di un incontro di pugilato che si era disputato alcune sere prima. Fantasticavo di prendere a pugni qualcuno anch'io.
"E come si fa a partecipare?" Gli ho chiesto senza mezzi termini.
"Partecipare come pubblico o come pugile?"
"Come pugile."
"Non vi fanno lottare, assolutamente. Potete però chiedere di partecipare come pubblico, ne abbiamo proprio bisogno."
Ci avevo pensato molto bene prima di chiederlo ad una guardia. Avevo proprio bisogno di vedere due che si prendevano a pugni? No, ma avevo bisogno di vedere quel detenuto. Appena mi era stato possibile, l'ho chiesto.
"Cosa ti prende, Williams? Voglia di sangue?"
Era la poliziotta più strana, ma era quella a cui bastava una sola, valida ragione per dare.
"Ho dato spettacolo, ora voglio vederne."
Ce l'avevo fatta. L'appuntamento era per le otto del giorno dopo. Mi ero assicurata di essere bella pulita e profumata e d'indossare abiti buoni. Gina mi accompagnava, era diventata la mia ombra. Se io fossi stata cattiva, lei sarebbe stata la mia scagnozza. Ma non lo ero. Non ero né carne né pesce. 
Semplicemente me ne stavo per le mie.
Alle otto del giorno seguente, non erano ancora venuti a prenderci. Con un ritardo di venti minuti la stessa poliziotta alla quale l'avevo chiesto era venuta a prendere me, Gina e un altro gruppetto di detenute. Il posto non era molto affollato, tanto che abbiamo potuto sederci in prima fila insieme a Paul. Gli sfidanti erano già sul ring. L'incontro era fra un certo Johnny e un certo B.K. Erano abili, anche se uno dei due ne aveva già prese parecchio. Io cercavo il mio interessato fra la folla, non immaginavo neppure che in realtà ce l'avevo davanti agli occhi. Johnny. Lui non mi aveva ancora vista, io invece non potevo riconoscerlo con quella maschera indosso. Ci siamo guardati solo quando lui è caduto ad un angolo del ring, senza fiato. Sulle prime, non credo che mi abbia riconosciuta. Poi però aveva capito che ero io e si era alzato con rinnovata forza, mettendo K.O. l'avversario. Quando l'arbitro gli ha sollevato il braccio dichiarandolo vincitore, lui mi ha guardata e ha strizzato l'occhio. Probabilmente ero arrossita, ma almeno ho avuto coraggio abbastanza da ricambiare il sorriso. Dovevo assolutamente parlarci ed ero sempre più convinta di lasciar da parte la mia riservatezza.
 
Ho potuto incontrarlo solo sei giorni dopo. Ci siamo avvicinati come se dovessimo farlo e il secondo dopo ci siamo baciati. Non sapevo perché, non sapevo come. Non mi chiedevo nulla perché era come se sapessi già tutto. Nessuno intorno a noi si era accorto, per fortuna, di quello che stavamo facendo. Quando ci siamo guardati negli occhi ancora, riuscivamo quasi a sentire il rumore delle nostre vite che si legavano insieme con pesanti catene. Aveva degli occhi azzurri molto belli. Era biondo, con le braccia robuste e con una strana particolarità: era quasi sempre insieme a suo fratello e quasi sempre veniva preso in giro. Non capivo perché, forse per i suoi lunghi capelli biondi? O per la sua ingenuità?
"Io mi chiamo Johnny comunque."
"Luna. Il mio nome è Luna."

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Capitolo 6
*** Piccola Isola D'Amore ***


Johnny ed io ci siamo sposati il 6 novembre 2003, dopo alcuni anni di raro amore. E dico raro perché ci vedevamo al massimo una volta a settimana ma vivevamo quei venti minuti a pieno, come se fossero gli ultimi. Lui mi coccolava con tenerezza tale che mi faceva tornare in mente Stella. Johnny aveva proprio l'innocenza di un bambino. Quel giorno nevicava, era molto bello. Le nozze ci sono state concesse all'interno della struttura, con la benedizione del prete del carcere. Tutto è stato molto semplice: il mio abito rosso pallido, le piccole fedi da bancarella, l'abito di Johnny. Ce li aveva procurati una ex detenuta di mia conoscenza; ci stavamo simpatiche e con la nostra semplice amicizia avevamo arricchito le nozze. I nostri testimoni sono stati Gina e Adam, fratello di Johnny. Tutto è andato alla perfezione. Il direttore ci ha scattato alcune foto e poi ci è stato offerto un buffet, anche questo molto discreto. Prima di sposarci, ne avevamo parlato per molto tempo. Era molto ben informato della mia situazione, dei miei errori, ma non si era lasciato scoraggiare dalle ombre del mio passato e mi aveva sempre amata. Io gli ero molto grata di questo. Lui era una persona molto trasparente, genuina, semplice e tanto tenera, non c'era mai stata una lite fra di noi. Jesse era spiritualmente molto lontano da me, nonostante i miei sforzi per eliminare l'universo fra di noi. Con Johnny invece era diverso, eravamo in sintonia e adoravamo chiacchierare, senza dire molto ci capivamo perfettamente. Mi aveva detto il motivo della sua detenzione di sua spontanea volontà: rapina. Non sapevo se ridere o piangere. Certo, la rapina è una cosa grave, sbagliata. Ma io che ero finita dentro per ragioni ancora più gravi, la vedevo diversamente. Lui sarebbe uscito di prigione prima di me. Questo mi riempiva di paure e dubbi.
 
Dato che il direttore e gli agenti erano ben al corrente del nostro amore e vedevano la nostra buona condotta, ci è stata regalata, lusso supremo, la nostra prima notte di nozze. In qualche modo avevano legato due letti singoli in una cella vuota e ci avevano chiusi lì. Toglieva il romanticismo il fatto che avessimo il tempo contato: solo due ore. A tempo scaduto, ci venivano a prendere per ricondurci nuovamente nelle nostre rispettive celle. Ma è stato straordinariamente tenero. Lui era nervoso, maldestro, dava l'impressione di non saperci fare e questo lo rendeva ancor più tenero. Sempre meglio di Jesse, che con la sua aria da latinlover mi faceva sentire stupida. Penso che per Johnny sia stata la prima volta da innamorato. Al termine delle due ore, ero parecchio seccata, avrei voluto restare con lui per sempre. Volevo dormire con lui, ne avevo abbastanza di dormire da sola. Volevo solo stare con mio marito. In ogni modo, senza fiatare mi sono diretta alla mia cella. Erano stati molto carini ad organizzare quella piccola isola d'amore in mezzo all'oceano infestato da squali. Era incredibile pensare che nel posto sbagliato e più impensabile di tutti, io abbia trovato l'amore, quello vero. Sarebbe meschino dire che grazie ai miei brutti atti commessi io sono finita in prigione, ho trovato l'amore e sono stata felice e contenta. Non potevo dirlo, era sbagliato. Se avessi potuto tornare indietro nel tempo non avrei rifatto l'errore.
Se Johnny ed io eravamo destinati ad amarci, allora ci saremmo trovati da un'altra parte comunque.
 
La mattina seguente non ero più Luna Nicole Williams. Ero Luna Nicole Irvine. La signora Irvine. Anche se ci vedevamo saltuariamente, era sempre un immenso piacere incontrarlo, stringerlo fra le mie braccia e distruggere così i pensieri negativi. Per la prima volta dopo tutti quegli anni passati a stringere i denti e soffrire, io mi sentivo sicura fra le braccia di qualcuno. Era un rischio, quelle braccia potevano scomparire. Niente è per sempre. Ma finché durava, me la godevo. Avevo cercato lo stesso conforto fra le braccia di Jesse, ma lui era uno che si reggeva tranquillamente sulle proprie gambe e pretendeva che io facessi ugualmente. L'avrei fatto, certamente, ma non allora, le ferite erano troppo fresche, avevo bisogno di conforto, di qualcuno che mi sostenesse mentre riprendevo a camminare. Jesse era dotato di un orribile mancanza di tatto, di comprensione. Alla fine ce l'avevo fatta a rialzarmi, ma da sola e ciò mi aveva molto indurita. Ero stata privata di quel conforto che ora, un po' troppo tardi, poteva darmi solo Johnny, mio marito. Potevamo appoggiarci l'uno all'altra e riprendere a camminare insieme. È così che deve essere il matrimonio. Non credo che sarei arrivata alle nozze con Jesse, anche se lo amavo tanto. Nel mio cuore non era rimasto più nulla per lui, dovevo dedicarmi solo ed esclusivamente a Johnny.
 
Durante l'orario di visite esterne io dedicavo il mio tempo al disegno, alla poesia o alla chiacchiera con Gina, convinta al cento per cento che nessuno sarebbe venuto a visitarmi. Ero tutta immersa nella scrittura di una poesia per Stella quando una poliziotta ha battuto il manganello contro le sbarre della cella.
"Williams, visite."
"Io? Visite?"
C'era sicuramente un malinteso. La poliziotta era molto sicura di aver sentito bene ed esser venuta a chiamare me. Ma io non capivo. Ero uscita dalla cella ancora perplessa, quando fuori dalla stanza visitatori ho visto Johnny che mi stava aspettando.
"Vieni amore, voglio presentarti mia madre."
Ero scioccata al punto di cadere in ansia, non avevo avuto neanche il tempo di darmi una sistemata ai capelli, niente.
"Ma Johnny, sono un disastro! Dovevi darmi tempo per sistemarmi..."
I suoi occhi azzurri si erano posati sui miei occhi verdi, con un mix di magia. Con la sua dolcezza caratteristica mi aveva sussurrato: "Sei magnifica."
La signora Irvine, mia suocera, era una persona davvero in gamba. Era molto gentile con me anche se mi trattava in modo strano. Cercavo di non innervosirmi, ma la signora mi trattava come se fossi di cristallo, quasi premurandosi che tutto intorno a me fosse perfetto. Mi faceva sentire un vasetto di nitroglicerina. Capivo che lo faceva per non mettermi a disagio, ma dava l'impressione che in realtà cercasse di non far esplodere la mia vena assassina. Mi sarei abituata, pensavo, o lei si sarebbe convinta che non ero pericolosa. D'altra parte era la madre di Johnny, sentivo che mi doveva star simpatica per forza.
 
 
Quando Gina se n'è andata, i primi giorni mi sentivo smarrita. Mi mancava. Per un po' non si era fatta vedere, ma poi mi veniva a visitare praticamente tutte le settimane, portandomi dolci, fogli per i miei disegni e tante altre cose. Era diventata una buona amica per me, un tesoro introvabile. L'amica un po' pazzerella che nella mia infanzia e adolescenza era mancata.
Tutto stava cambiando in prigione. Gli agenti cambiavano, le detenute finivano di scontare le loro pene e se ne andavano, quindi ne arrivavano delle nuove. L'ambiente era sempre più ostile e io incominciavo ad averne abbastanza di quel posto. Mi restavano ancora parecchi anni da scontare e mi parevano lunghissimi. Dopo alcuni mesi dalla partenza di Gina, mi ero unita ad un gruppetto di detenute che erano lì da tanto tempo quanto me e insieme guardavamo dall'alto in basso le nuove arrivate. Se fossi stata un po' più cattiva, probabilmente avrei picchiato a sangue quelle donne finite dentro per aver ucciso i propri figli. Ma non ero quel tipo di persona, non sarei arrivata a tanto, volevo lasciare da parte il mio essere troppo impulsiva. Era come lottare contro il demone dentro di me. Comunque, con quelle donne mi limitavo a non parlarci, non le guardavo neanche. Per me non esistevano. I figli sono sacri. I bambini sono intoccabili.
 
 
È stato un brutto giorno quando anche Johnny e suo fratello hanno finito di scontare la loro pena. Ero molto triste, mi sarebbe mancato da morire. A quel punto non avrei avuto più nulla di "familiare" lì dentro. Non c'era più Gina, non c'era più Paul con il quale avevo un bel rapporto d'amicizia, e adesso se ne andavano anche mio marito e mio cognato. Anche lui era molto triste ma mi aveva promesso che sarebbe rimasto nei paraggi, venendomi a trovare tutti i giorni. Forse l'avrei visto più di quanto lo vedevo in carcere. Quando ci siamo salutati, non volevamo più sciogliere il nostro abbraccio. Avevo insistito affinché fosse felice di ritrovare la libertà e non rifare errori. L'ho visto voltarsi e guardare indietro mentre attraversava la porta a vetri che separava la prigionia dalla libertà. Aveva passato gli ultimi sei anni della sua vita lì dentro. Tornare fuori per lui significava ricominciare tutto da zero. Avrebbe voluto tornare in patria, in Irlanda, ma aveva una moglie in questo paese ed era deciso a non lasciarla sola neppure un secondo. Non so chi dei due avesse più paura dell'abbandono. 
Anche Johnny, una volta fuori, ci aveva messo un po' prima di tornare a visitarmi, proprio come Gina. Pare che dopo così tanti anni di carcere, ce ne siano di cose da fare fuori. Erano passati solo quattro giorni dalla sua partenza, ma a me erano sembrati secoli.
"Williams, visite."
Non me lo facevo ripetere due volte. Mi sistemavo un po' e correvo verso la sala visitatori come un fulmine, con la poliziotta che non riusciva a starmi dietro.
"Johnny, ci hai messo tanto! Mi sei mancato!"
Gettarmi fra le sue braccia era una cosa dalla quale ero diventata dipendente. Lui mi spiegava che voleva darmi una buona notizia quando sarebbe tornato a trovarmi ma prima doveva ricevere conferme. Gli avevo chiesto di cosa si trattasse.
"Ho un lavoro!" Mi aveva risposto.
Ero così orgogliosa di lui che l'avrei omaggiato con premi d'amore. Anche lui era fiero di sé e mi diceva che con quei soldi avrebbe pagato una pensioncina vicino al carcere, si sarebbe pagato da mangiare e avrebbe coperto qualche piccola spesa risparmiando un po' per potermi pagare il biglietto per l'Irlanda. Ma io gli ho garantito che con i soldi dell'assicurazione dei miei genitori ce la saremo cavata più che bene. Così, ogni volta che tornava a trovarmi mi raccontava sempre dei progressi che faceva nel lavoro, delle telefonate di sua madre nelle quali lo pregava di salutarmi e io lo ascoltavo, l'avrei ascoltato per ore e ore. Mi portava sempre dei regali anche se il miglior regalo era la sua compagnia. Senza le persone conosciute, uscivo raramente dalla mia cella che, tra l'altro, non condividevo con nessuno. Ero sola lì dentro, potevo riflettere per delle ore intere senza interruzioni e guardare le foto che tenevo insieme ai miei disegni. La foto di Stella, che avevo staccato dal muro per paura di sciuparla. Era l'unica foto che avevo di lei, scattata poco prima della sua morte, la mattina prima dell'aggressione. La conservavo gelosamente, avevo paura di dimenticarmi il suo visetto d'angelo. Tenevo anche una foto di famiglia, Stella aveva appena otto mesi. Avevo le copie delle foto del mio matrimonio. Benché non fosse come l'avevo sempre sognato, con l'abito bianco da favola, l'altare, la festa, la luna di miele e tutto il resto, era sempre il mio matrimonio e amavo tantissimo la persona con il quale l'avevo celebrato. 
Una foto che non ho mai confessato di avere è la foto della mia follia omicida. Ci sono Jesse e la sua Allison, sdraiati sul letto sporco di sangue, mano nella mano, con due buchi sulla fronte ognuno. È una foto orribile, macabra, l'avevo scattata con la macchina istantanea, la polaroid che gli avevo regalato per il suo compleanno. L'ho conservata come prova di quanto in là si è potuta spingere la mia follia. L'ho sempre tenuta ben nascosta, in attesa di vergognarmi e bruciarla un giorno. Mi ero vergognata molto del mio atto, ma per non dimenticare di cosa esattamente mi ero vergognata, ho conservato la prova.
 
Dopo tre anni passati con le visite di Johnny, ero arrivata al punto in cui nulla riusciva a farmi stare bene. La parola libertà mi tormentava giorno e notte, mi sembrava d'impazzire fra quelle mura. Soffrivo un'altra volta di solitudine e spesso giocherellavo con la forchetta sul vassoio senza riuscire a mandar giù boccone. Dopo tre mesi ero pelle e ossa. Un agente si era pure preoccupato e mi aveva prenotato una visita con il medico del carcere. Una serie di noiosissime analisi che non erano servite a nulla, poiché ero sana ma ero anche molto depressa. Allora hanno avuto la "splendida" idea di mandare il prete a parlare con me. Io non avevo peccati recenti da confessare. Padre Oscar era una persona gradevole ma abbastanza fissata con la fede. Mi riempiva la testa a suon di "abbi fede in Dio", "Dio non ti ha abbandonata", "Dio ti vuole bene" e bla bla bla... Facevo finta di essere d'accordo giusto per non farlo incapponire nel suo compito di salvare la pecora smarrita. Qualche volta riusciva persino a risollevarmi il morale, ma di poco. Non appena se ne andava, pluff, la serenità svaniva e soffrivo di tachicardia e improvvisi tremori. Dopo tutto quello che avevo sofferto, l'esistenza di un Dio mi pareva impossibile, logicamente.
 
Di quella mattina ricordo solo che c'era molto vento. Una giornata partita malissimo perché anche tenendo chiusa la piccola finestra, questa sbatteva per via della forza del vento facendo un rumore insopportabile che mi aveva svegliata di buon ora, per questo ero di cattivo umore. L'agente Smith mi stava già cercando. Non era orario di visite per cui avevo motivi validi per temere. Solo durante il tragitto, mi ero accorta che mi stava portando all'ufficio del direttore. Male non fare, paura non avere. Ma non avrebbe funzionato con me, nell'ultimo periodo ero molto stressata e qualunque cosa mi avrebbe fatto piangere. Temevo quel posto, e temevo lui. Non era cattivo, anzi. Ma per me, il fatto che lui avesse il potere significava rispetto e addirittura sottomissione assoluta.
"Bene signora Irvine, come va?"
"Si va avanti, signor direttore."
"Benissimo. Questa che Le sto per dire è una cosa che ho deciso io personalmente, poi mi sono consultato con il suo avvocato ed era d'accordo anche lui."
"Di che si tratta, signor direttore?"
Cercavo di nascondere le mie ginocchia tremanti sotto alla scrivania. Mi veniva da urlare che non avevo fatto nulla, che ero stata buonissima e non capivo perché; come un brutto scherzo della mia mente, la parola sentenza aveva preso a tormentarmi. Sarò giustiziata? Mi costringevo a restare calma, ad apparirlo almeno, e ad ascoltare.
"Se Lei è d'accordo, vorrei iniziare con le trattative per il suo rilascio con sconto di pena per buona condotta."
Cosaaa? L'aria aveva incominciato a mancarmi. Dunque potevo uscire? Non riuscivo a mettere a fuoco l'immagine della libertà, nonostante negli ultimi anni fosse diventata la mia ossessione. Ma poi ho pensato che quelle trattative non si sarebbero mai concluse, non nel mio caso. Ero troppo depressa per crederci e poi i genitori delle mie vittime non l'avrebbero mai permesso. D'un tratto, non avevo più stupide illusioni in testa. 
"Vede, Lei è stata la più corretta di tutte le detenute. Esiste quindi la possibilità che io la faccia uscire per buona condotta. È d'accordo?"
"Sì, signor direttore."
Si sarebbe messo subito d'impegno. Io stavo tornando in cella con le lacrime negli occhi. Decisa a non dirlo a nessuno, nemmeno a Johnny, e di costringermi a restare con i piedi per terra. Ma era impossibile e una volta arrivata in cella avevo ammucchiato tutte le mie poche cose su una coperta che mi aveva regalato Gina. Così, se dicevano che era ora di andare, mi sarebbe bastato annodare la coperta creando una specie di fagotto e sarei stata pronta. Quello stesso giorno, durante le visite, faticavo enormemente a non dare la notizia a Johnny e, più tardi, a Gina. Prima volevo essere sicura al cento per cento. Johnny sarebbe stato molto felice di saperlo ma per il momento lasciai che mi raccontasse che nel suo paese sua madre e suo fratello si erano messi a ristrutturare una specie di granaio posto in fondo all'enorme giardino della casa, in modo da farlo diventare il nido d'amore di Johnny e Luna. Lui aveva molti sogni e speranze per il futuro. Io invece avevo imparato a non farne. Vivevo la giornata così come mi veniva offerta dalla vita perché non appena facevo un solo misero sogno per il futuro, il fato mi scombussolava l'esistenza impedendo ai miei sogni di avverarsi. Per esempio, quel lontano 19 marzo 1991 volevo solo festeggiare in santa pace il compleanno di Stella, e invece...
 
Dopo tre interminabili mesi, ho ottenuto il mio rilascio con sconto di pena per buona condotta. Ho pensato che quella volta essere buona mi aveva ripagata. Quando avevo informato Gina e Johnny della novità, erano entrambi felicissimi. Johnny aveva addirittura gli occhietti lucidi. Chiedendo mentalmente scusa a Jesse, avevo deciso che da quel giorno mi sarei presa più cura di me stessa, senza lasciare che il passato governasse la mia vita. Non mi sarei più lasciata andare al punto di lasciare che la mia follia e il mio dolore facessero del danno alla mia vita e a quella degli altri. Tuttavia, era strano per me lasciare quella cella con una punta di rammarico. Ci avevo vissuto gli ultimi dieci anni della mia vita e fuori le cose sarebbero cambiate tanto. I media non ce l'avevano più con me e speravo che i genitori delle mie vittime non sapessero che io uscivo di prigione con uno sconto di ben nove anni. Nove anni, non erano mica pochi! Ma dover marcire per altri nove anni in quella tomba malsana avrebbe finito per rovinare completamente la mia salute mentale, nonostante il dolcissimo amore che Johnny ad ogni visita mi donava. Se la pena era di diciannove anni, io avrei dovuto imputridire in quella prigione per diciannove maledetti anni. Ma incominciavo a farmi pena, che è la cosa peggiore. Ero un'assassina, una serial killer improvvisata. E anche una peccatrice pentita. Sinceramente pentita. La cosa migliore era che con i miei quasi trentuno anni avevo tutte le intenzioni di non commettere ancora gli stessi errori e ricominciare daccapo con la mia vita.
 
L'attimo nel quale firmavo le carte del rilascio è stato uno dei momenti più emozionanti della mia vita. Archiviato nella mia mente nella sezione "momenti felici". Dopo ho preso il mio fagotto e sono uscita anch'io dalla porta di vetro che separa la prigionia dalla libertà. Non credevo di farlo, ma istintivamente l'ho fatto: mi sono voltata a guardare quel posto, per l'ultima volta. 
Lasciando dentro, per sempre prigioniera, la mia giovinezza.
Una volta fuori, credevo mi venisse un infarto! Tutti quegli anni senza respirare l'aria pura se non da una piccola finestra in alto nella cella dove si poteva arrivare solo arrampicandosi sul letto. Il vento mi arrivava da tutte le parti, era una giornata soleggiata ma tremendamente ventosa. Sembrava quasi che il vento fosse felice di rivedermi. Fuori dal cancello mi aspettavano Johnny e Adam. Ero di nuovo libera! Non riuscivo ancora a pronunciare la parola libertà, ma ero finalmente libera. Pensai di aver pagato per i miei peccati ancora prima di averli commessi, nel momento in cui gli occhi imploranti di Stella si erano fissati nei miei.
 
La prima cosa che ho fatto fuori dalla prigione è stata andare al cimitero. Ho comprato rose rosse per mia madre e rose bianche per Stella. Sono rimasta a lungo sulla tomba di mia sorella, ma senza piangere, chiedendomi se Stella sarebbe stata felice di vedermi partire per non fare più ritorno, per lasciarmi dietro il passato. Da una parte forse si sarebbe rattristata, nessuno le avrebbe più portato fiori, lei che voleva stessi sempre vicino a lei, anche sotto la doccia. Non voleva nemmeno che andassi a scuola e io dovevo scappare senza che lei mi vedesse. Ma poi ho pensato che se nel luogo dove ora si trovava era già diventata grande, avrebbe capito che la sua sorellona aveva un forte bisogno di vivere la sua vita giorno per giorno e non attraverso amari ricordi. Avrebbe accettato il fatto che io avevo ancora una vita da vivere e finire, e avrebbe desiderato vedermi felice.
 
Il suo spirito mi avrebbe protetta per l'eternità. Anzi, fino al giorno in cui ci saremmo ritrovate.

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Capitolo 7
*** Epilogo ***


Durante il mio racconto di vita, tutti sono rimasti in silenzio. Johnny sa già la mia storia ma per lui è sempre difficile ascoltare la mia vita dolorosa. In questa sera della vigilia di Natale, attorno a tutte queste persone diventate miei parenti, a questa tavola dove abbiamo gustato deliziose pietanze preparate da me e mia suocera, mi è stato nuovamente chiesto di tirar fuori la mia storia. Questa volta però è stato meno difficile, con tempo e amore tutte le ferite rimarginano. Molti durante il mio racconto hanno pianto, sicuramente non s'immaginavano che dietro al mio sorriso e alla mia gentilezza si nascondessero terribili incubi vissuti in giovane età. Ma ora sono cambiata, sono una trentunenne quasi come tutte le altre, con un passato quasi dimenticato, un bel maritino, un bel lavoro e una casa immersa nel verde che adoro; così sto in pace con i miei pensieri, con gli spettri dei miei ricordi e con le mie cicatrici. Gli scheletri nell'armadio urlano, ma io ho imparato ad avere orecchio sordo per loro. Nel mio nuovo presente non c'è spazio per il dolore di ieri, in compenso però nella nostra casa c'è spazio per uno in più... Johnny non vede l'ora ma per me è troppo presto. Forse, fra un paio d'anni...
 
L'intera tavolata si alza per sparecchiare. Domattina, i miei nuovi nipoti riceveranno i regali che ho fatto loro. L'oggetto della mia adorazione è diventata Alyssa, figlia della sorella di Johnny. Ha l'età che aveva Stella quando è stata assassinata. Alyssa mi fa sempre tornare in mente la mia defunta sorellina, per questo la vizio come non ho mai potuto fare con Stella.
Penso che da oggi i miei nuovi parenti, sapendo le verità nascoste dietro alla mia nuova immagine, capiscano come mai quando fisso Alyssa mi si bagnano gli occhi, o come mai quando guardo il telegiornale divento invisibile e sorda a tutto il resto. Questa attività poi, è diventata quasi allarmante, ma non riesco a farne a meno. A Johnny, che sa, gli si stringe il cuore quando mi vede ogni volta con gli occhi fissi sullo schermo, le orecchie ben aperte e la speranza sempre accesa di trovare quei due bastardi che hanno ucciso la mia Stella. Non perderò mai le speranze e quelle sono le uniche persone alle quali auguro le cose peggiori, perché non hanno avuto pietà di una bambina di quattro anni e di una quattordicenne. Ma devo confessare che anche loro stanno perdendo posto nei miei pensieri. Quelle feci umane non meritano neppure il mio dolore. Prima li dimenticherò, prima riuscirò a riprendere una vita normale. Ora i miei desideri sono destinati solo a me e Johnny. Lui ha bisogno di una moglie più presente, meno attaccata al passato. Meno cupa, più allegra. Ed è quello che mi sono messa in testa di fare. Per lui lo sforzo lo faccio, se lo merita. In qualche modo, se faccio felice lui, faccio felice me stessa e quindi anche Stella.
 
Johnny mi raggiunge in camera da letto. La mia camicia da notte di seta bordeaux mi rende la sposa irresistibile. Guardo fuori dalla finestra, la luna illumina l'intera vallata ricoperta di neve. Tutte le notti, complice il buio della stanza, davanti alla finestra guardo il cielo e parlo a mia sorella. Silenziosamente, con il cuore, le racconto com'è andata la mia giornata, quali sono le cose che mi hanno fatto migliorare e quali cose non mi fanno più male. Le parlo come se fosse un'amica virtuale, che c'è ma non si vede. 
Un giorno potrò finalmente dirle: "Addio, ci vediamo là."
 
Le braccia di Johnny mi stringono in vita dolcemente, mentre lui si gode il profumo della mia pelle con un grande respiro, rilasciando l'aria molto lentamente. Quando mi dondola fra le sue braccia, capisco quanto grande è il nostro amore.
"Sai cosa penso?" Mi sussurra molto piano.
"Cosa tesoro?"
"Penso che dovresti scrivere a tuo padre."
Apro gli occhi, ripiombando nella realtà. Chiudere gli occhi e giacere fra le sue braccia in qualche modo mi estranea dalla realtà che ci circonda, sapendo che ci siamo solo io, lui e il nostro amore. Mi chiedo come mai gli è venuta quest'idea. Ma lui ha sempre le sue ragioni, per cui non glielo chiedo. Non c'è niente che abbia fatto mio padre che il suo non abbia fatto due volte. Da piccolo, suo padre lo malmenava come solo fra adulti ci si malmena. Quindi non posso pensarla come lui, perché io non odio mio padre. Semplicemente non provo nulla per lui. 
Capisco che Johnny mi vuole dare una mano a disfarmi del passato.
"Sì, credo tu abbia ragione. Magari domani gli scrivo..." -M'interrompo di colpo, una stella cadente fuori dalla finestra mi ha lasciata senza fiato. È come se Stella fosse d'accordo con Johnny e m'incitasse anche lei. Forse avevo ragione, Stella vuole che mi stacchi dal passato.- "...Gli scriverò per dirgli addio."

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