Grace di beesp (/viewuser.php?uid=60707)
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Introduzione. ***
Capitolo 2: *** Introduzione – Parte Seconda ***
Capitolo 3: *** Capitolo I ***
Capitolo 1 *** Introduzione. ***
La
seguente storia è stata ispirata dal video dei My Chemical
Romance “SING” seguito di “Na Na Na”. È
da premettere che il nuovo album dei My Chemical Romance - “Danger
Days: The True Lives Of Fabulous Killjoys” - è un
concept album. L’idea di fondo è quella che forma anche
il fumetto che Gerard Way, il cantante dei My Chemical Romance, sta
preparando e che sarà pubblicato con la Dark Horse. Ancora non
è ben chiaro di cosa parli il fumetto o l’album. Parte
della storia “Grace” è tratto dalle congetture che
è possibile fare dai vari video che sono stati postati in
merito, altro è frutto della mia fantasia. Aggiungo,
infine, che i personaggi citati nei video dei My Chem non mi
appartengono, né i My Chemical Romance; i fatti per lo più
sono di mia invenzione, e lo slash che viene inserito non è
necessariamente reale. Non scrivo a scopo di lucro – e bla bla.
Parte dei personaggi sono di mia invenzione. Ecco tutto. Spero
soltanto che qualcuno legga.
Grace
Introduzione.
È
soltanto una questione di principio. C’è sempre qualcosa
per cui valga la pena comportarsi in modo stupido e incosciente, che
non si può abbandonare. I Killjoys non desideravano affidarsi
nelle mani della Better Living. Ma era un prezzo che erano disposti a
pagare per … … era
di Girl che si parlava. Non un bambino qualsasi – che comunque
avrebbero fatto in modo di salvare – Girl. Il
primo a risollevare gli umori fu Fun Ghoul. Aveva appena chiuso una
comunicazione via radio trasmittente – non era chiaro con chi
avesse parlato – e aveva tutta l’aria del “mi
sembra abbastanza chiaro, non ho voglia di spiegare adesso”. Ma
ovviamente i Killjoys non avevano neanche idea di quale fosse
l’argomento in questione; Party Poison era impegnato a
digrignare i denti con le mani alle tempie e i gomiti sul tavolo, una
bottiglia di vetro rotta di fronte a lui, Jet Star lucidava la
pistola laser, corrucciato e preoccupato, Kobra Kid aspettava –
e
basta
– guardando l’orologio di tanto in tanto e sgranchendo le
dita delle mani. “L’abbiamo abbandonata!” Sbuffò,
per l’ennesima volta. Lo sapevano tutti che la Better Living
li voleva nella sede di Battery City tutti, al completo. E soltanto
quella domanda tormentava le loro teste: “quando
ci muoviamo?”. “Allora,
vi sbrigate?”. Ordinò Fun Ghoul; alzarono lo sguardo
verso di lui. Girl non c’entrava niente, era un’esca.
Ma non potevano sacrificarla. Un bicchiere tremò al pugno
sulla superficie lignea: Party Poison si sentiva un verme. Più
del solito. “Andiamo
a riprenderci Girl, Poison; alza il culo da quella sedia e smettila
di tormentarti”. I tre seguirono Fun Ghoul: sarebbero
entrati nella Better Living, l’effetto sorpresa, per quanto
potessero usufruirne, li avrebbe aiutati in qualche modo. O quella
dose di fortuna che non poteva proprio abbandonarli in quel momento,
non dopo che avevano combattuto infinite volte nel deserto perdendo
soltanto un paio di compagni del fronte di ribellione, non quando
c’era di mezzo la vita di Girl, o di qualsiasi altro bambino
educato tra i ribelli. Girl sembrava che sarebbe stata scelta per
guidare quei bambini. Per qualche strano fenomeno che l’organizzatore
delle azioni di Battery City – quando sarebbero tornati al
quartiere li avrebbe quantomeno linciati e urlato contro di loro
pubblicamente, umiliandoli: non ci si poteva muovere senza la sua
autorizzazione, perché lui aveva combattuto, prima, quando le
guerre erano all’ordine del giorno e le persone non avevano
perso le speranze, che ora si limitavano a plastica e metallo –
teneva segreto riguardo la sua nascita misteriosa. Sapevano
soltanto che era comparsa una bambina di pochi giorni al quartiere,
che era stata affidata ai Killjoys e che soltanto l’Organizzatore
conosceva le sue origini. Almeno li avrebbe ringraziati, quando la
pressione sarebbe scesa e si fosse calmato un po’. “Un
furgone partirà dieci minuti dopo di noi dalla base …”.
Non c’era bisogno di domandare “Perché?”. Lo
sapevano che avrebbero rischiato la vita là dentro; c’era
un numero sproporzionato di nemici, era la loro “base”,
il luogo che conoscevano meglio, sarebbero stati in vantaggio –
anche se i Killjoys potevano essere orgogliosi di non aver quasi mai
perso durante le battaglie contro la Better Living – le loro
risorse d’armi e braccia sembravano infinite. I Killjoys erano
quattro e insostituibili. Dalla base alla Better Living erano
circa cinque miglia, in auto sarebbero arrivati in dieci minuti;
avevano deciso di allertare una base di cui conoscevano qualche
componente che si trovava nelle vicinanze dell’Azienda. Alla
Better Living si producevano vite perfette. Era nata nel 2010, poco
prima della “fine” del mondo. Non era ben chiaro cosa
fosse accaduto nel Dicembre 2012, si supponeva un incidente
premeditato che aveva a che fare con i governi, affari internazionali
iper-segreti e fascicoli bruciati da qualsiasi cosa avesse distrutto
l’Italia e la Spagna, la Grecia, il Bangladesh, New Orleans,
Afghanistan, Nepal, e molti altri paesi e città considerate
sottosviluppate. Nel febbraio del 2013 si scoprì che l’unica
azienda rimasta era la Better Living che, da quel momento, con i fili
della sua ragnatela estesi in ogni continente, senza che nessuno se
ne fosse accorto, avrebbe curato gli interessi dell’intero
pianeta con le sue diverse basi. Ogni essere umano dall’Ottobre
di quell’anno fu incuriosito dalla pubblicità della
Better Living: prometteva una vita migliore, senza dolore, soltanto
sorrisi, una promessa di lavoro nella compagnia, e la sicurezza di
uno stipendio, di vitto e di alloggio. I trattamenti erano gratuiti.
In moltissimi vi si recarono. Quando i parenti si accorsero delle
ripercussioni – perdita d’ogni ricordo ed emozione,
nessuna necessità di viveri e insensibilità al dolore o
ai cambiamenti atmosferici – un gruppo di uomini e donne in
Germania si recarono all’Azienda di Berlino per domandare
spiegazioni. Furono massacrati, così testimoniarono quelli che
li attesero all’esterno, fuggendo. Da quel giorno, diffusasi la
notizia del motivo a cui servivano nuovi adepti della setta della
Better Living, i Tedeschi si spostarono negli Stati Uniti dove la
presenza della BL – come in Italia, che nonostante fosse stata
rasa al suolo, era ancora popolata da gruppi di uomini che si
ostinavano a non abbandonarsi alle cure dell’Azienda –
era minormente diffusa. Tra questi giunse l’Organizzatore, un
omaccione che aveva partecipato a guerre in Iraq e in Afghanistan e
aveva visto qualsiasi scempio potesse l’uomo concepire; eppure,
nel fondo dei suoi occhi, si scorgeva il dolore della perdita, il
dolore di aver vissuto quel male che soltanto l’essere umano,
da sempre, è in grado di procurare ai suoi simili. Avrebbe
desiderato la pace, diceva sempre, una volta nella sua esistenza.
Quando finalmente era stato congedato dall’esercito, all’età
di quarant’anni, aveva sperato che sarebbe riuscito a vivere,
finalmente. E invece esattamente tre mesi dopo il mondo aveva deciso
di finire, semplicemente, così come era iniziato. Tutto era
stato stravolto. Poi uno dei suoi amici era stato coinvolto nella
strage in Germania, e lui era scappato nel vecchio New Jersey, a
Battery City, dove aveva fondato uno dei fronti più attivi
degli Stati Uniti poiché l’oppressione della BL era
maggiormente presente, come invece non accadeva a New York –
luogo di contrabbando e informazioni top-secret, completamente sotto
il controllo dei ribelli – facendosi chiamare Erko. Per i primi
tempi fu lui a istruire i “cadetti” di Battery City, fin
quando non brillarono i Killjoys. Si trovarono, come previsto, di
fronte il tunnel che li avrebbe condotti ai posti di blocco; Party
Poison, alla guida, accelerò: “Tenetevi forte”. Jet
Star mormorò qualcosa come “Manie di protagonismo anche
nei momenti più critici”, scuotendo la testa, mentre Fun
Ghoul ghignava spudoratamente. Era di gran lunga preferibile vederlo
in azione Party Poison, che mezzo morto su una sedia. Lui e Girl
avevano sempre avuto un rapporto molto particolare: continuava a
ripetere che quando sarebbe diventata abbastanza grande, l’avrebbe
sposato perché era la persona più speciale, anche se
“Poison
voleva bene solo a Fun Ghoul”.
Poison non aveva occhi che per lei, da quando gli avevano raccontato
che c’era un nuovo arrivo tra i bambini – lui era un
ventenne con poca autostima, impaurito e rabbioso per la scomparsa
dei suoi genitori – ed era una neonata. Quando l’aveva
vista nella culla aveva capito che non l’avrebbe più
abbandonata. Si fiondò subito nell’ufficio di Erko, e lo
supplicò per circa tre quarti d’ora di affidargli la
bimba. “Non
se ne parla nemmeno! Sei uno dei Killjoys, devi migliorare, non puoi
prenderti cura di lei”. “Io
devo!”. “No,
Party Poison, è un ordine, non ti devi avvicinare a
lei”. “Allora
me ne andrò da qui!”. Erko aveva già
abbastanza problemi senza doversi occupare delle lagne di un
marmocchio depresso – di certo lui non doveva assicurarsi che
la cena fosse in abbondanza per le centinaia di uomini, donne e
bambini che abitavano la base. “La concentrazione deve essere
dedicata tutta all’adde-”. “LO
SO QUESTO! Per me è importante combattere contro di loro!
Contro la BL! Hanno ucciso i miei genitori, e quelli di tutti i miei
amici e le persone che sono diventate la mia nuova famiglia: mentre
noi parliamo rischiano il culo fuori da questo ufficio per
sopravvivere e per creare un mondo nuovo! Lo so quali sono le
priorità! Ma io voglio che lei abbia una famiglia, sin da
subito, e che non ci si debba mai separare. Se davvero sono il
migliore assieme ai KJs, allora non morirò e non ci dovremo
mai dire ‘addio’ …”. Tanto stupido e
immaturo non era Party Poison, che aveva affrontato le difficoltà
di qualsiasi ragazzo dell’epoca ed era uno dei numerosi orfani
che avevano dovuto vivere settimane – o nei casi più
sfortunati mesi – in solitudine, da animali in cattività,
prima di trovare una base che li accogliesse. In molti tra i ribelli
non osavano accudire nuovi bambini, poiché non ce n’era
il tempo né bastavano le risorse per sfamarli. Party Poison
era stato trovato in stato confusionale, affamato e disidratato, nel
deserto di Battery City assieme a suo fratello (accovacciato accanto
a lui, stordito e in lacrime) dall’uomo che poi si sarebbe
preso cura di loro: Erko. “E
sia”. Come aveva assicurato, Party Poison riusciva a badare
a Girl nella casetta dei Killjoys e di Erko, dove la governante che
aveva cresciuto anche i quattro si assicurava che la piccola avesse
tutto ciò di cui necessitava; anche se per lo più era
Party Poison a obbligare chiunque a designarlo come tutore di Girl.
All’inizio Fun Ghoul era stato geloso delle attenzioni che gli
erano state negate, ma poi si rese conto che Party Poison desiderava
semplicemente che avesse quello che a loro era stato negato, e si
adoperò insieme a lui e gli altri per donarle una vera e
propria famiglia. Un po’ numerosa, rumorosa e spesso assente
per via delle missioni, ma una famiglia su cui poteva contare e in
cui credere e affidare ogni desiderio celato, ogni segreto. Era
comprensibile che si abbattesse, ma non era il modo giusto Killjoys
di affrontare la situazione: dovevano prendere quell’auto e
guidarla come degli incoscienti fino alla Better Living, spaccare i
culi di quelle merde, e ritornare trionfanti alla base, con una Girl
felice. C’era inquietudine e tensione nei corpi di tutti e
quattro; certo, una volta avevano assalito la BL, ma un gruppo aveva
creato un diversivo a trenta chilometri da lì, metà del
personale era assente, poterono salvare un centinaio di persone –
quelle che trovarono vive – e uccidere uomini sul loro
cammino. Al posto di blocco i guardiani alzarono lo sguardo giusto
un attimo prima che raggi laser li colpissero; la Killjoys-mobile, un
ragno nero disegnato sul cofano, infranse in mille pezzi la barra di
legno e si avviarono verso il portone. Uno dei due, allo stremo
delle forze, premette un pulsante. Ma i Killjoys non avevano il tempo
di fermarlo o di chiedersi cosa avesse azionato.
Dall’alto
del suo studio il Dirigente della Better Living di Battery City, Aiko
Sabouro osservava attraverso gli schermi collegati alle videocamere
dell’intero quartiere generale l’avanzare dei Killjoys.
Erano conosciuti nella regione – e nell’intero
ex-continente Americano – come dei valorosi ribelli. Eppure,
dall’alto di donna di mondo qual era Aiko, si accorgeva di come
si stessero avvicinando alla morte e ancora non avessero compreso,
come tutti gli esseri umani, quale fosse il vero lavoro della Better
Living, cosa producesse realmente. Il Capo, colui che aveva
fondato la prima azienda a Tokyo, aveva scoperto le proprietà
della pietra che aveva denominato “Grace” in onore della
defunta moglie, aveva deciso che fosse arrivato il momento per un
Pianeta migliore, per una vita felice e priva di sofferenze o
emozioni e sensazioni violente, che distraessero dai reali intenti
umani. Eppure aveva scelto alla direzione delle varie basi donne e
uomini non tramutati in robot, più capaci di ragionare al di
fuori degli schemi che imponeva la Better Living – a volte era
necessario ignorare delle regole, quando proprio si doveva agire in
fretta. L’America e l’Italia erano sempre state le più
difficili da combattere. Quegli stolti dei Killjoys erano cascati
nella trappola: avevano guidato fino all’Azienda, ma non
sarebbero riusciti a salvare la bambina, e né sarebbero
ritornati alla loro tanto amata base-casa. Proprio non
comprendevano quei ribelli che avrebbero perso la guerra. Aiko era
una donna di successo, una delle migliori, una dei pochi prescelti a
governare la difficile situazione negli Stati Uniti, ma non riusciva
a capire per quale motivo il capo si ostinasse a non ignorare quegli
insulsi e arretrati uomini. Lo ricordava perfettamente cos’era
successo: anche lei aveva perso i suoi genitori. Il Capo l’aveva
trovata tra le strade di Tokyo prima che iniziasse a piovere quel
liquido acido – il Metallo, il ricchissimo metallo Grace –
salvandola da morte certa, inserendola tra gli allievi dei corsi
dell’Accademia per esseri umani della Better Living e
scoprendo, con piacere, di aver trovato un ottimo elemento. Aveva
cominciato a usufruire dei benefici delle pillole di Grace impoverito
che aiutavano a isolare cervello e cuore, e permettevano di evitare
le emozioni. Quella melodrammaticità che si ostinavano ad
adottare, il loro farsi trascinare dalle passioni …
anticipavano la loro morte. Insetti schiacciati. E la piccola Girl,
così diceva di chiamarsi, non appariva del tutto inutile.
Avrebbe potuto studiare all’Accademia. Mentre giocherellava con
un pallone blu, Aiko le strappò un capello dalla testa e lo
infilò in una bustina da laboratorio: lo avrebbero esaminato e
si sarebbero assicurati che fosse stata sana, prima di deportarla a
Tokyo, dove sarebbe stata sottoposta a ulteriori analisi. Se le
avesse superate, sarebbe stata ammessa. “Stanno
per entrare, signorina Sabouro”. “Fate
che non trovino troppi ostacoli, Korse sarà la ciliegina sulla
torta”.
Le
porte erano spalancate. Quattro uomini armati comparvero, due
nascosti dietro bassi muretti bianchi – tutto era bianco lì
dentro – i Killjoys spararono senza timore: immaginavano che vi
fosse qualche trucco, si sarebbero aspettati di trovare come primo
avversario Korse. Ma di lui non c’era traccia. Il loro rivale
era chissà in quale ala del palazzo. Oltrepassarono i corpi
degli uomini e si avviarono lungo i corridoi: conoscevano la
planimetria a memoria, era stata una delle prime lezioni che avevano
imparato. “I palazzi della Better Living sono tutti uguali e il
come sono strutturati non è un segreto. Soltanto una stanza è
impossibile da trovare, ed è quella della
Direzione”. Oltrepassarono ancora altre guardie, lasciandole
stese al suolo. Non era divertente o piacevole uccidere, ma si erano
abituati all’idea, ormai, che per sopravvivere in quel luogo
distrutto e perverso si doveva obbligatoriamente impugnare la pistola
laser e proteggersi con ogni forza. Passo svelto; Girl doveva
essere salvata. Parlavano poco, agivano.
Funzionava in quel modo assurdo. “Girl
sarà salva”,
si costringeva a credere Party Poison. “non
può andare diversamente: fosse l’ultima mia impresa”. E
Fun Ghoul, suo fratello e Jet Star dovevano tornare. Alla base
avevano bisogno di loro: erano talentuosi e avrebbero potuto
ricostruirsi una vita. In particolare Fun Ghoul. Insomma, dopotutto
la loro era solo un rapporto frivolo, per trascorrere il tempo, erano
come fratelli, avevano bisogno di scrollarsi di dosso la tensione in
qualche modo. “No?”. Kobra
Kid aveva smesso di indossare quell’aria lugubre e sorrideva.
Correvano – o meglio, si muovevano velocemente – verso
una direzione senza ritorno: la morte. Andava bene, non aveva
intenzione di abbandonare nessuno, al limite dovevano essere gli
altri a lasciarlo in quel luogo; non ci si salvava dalle pistole
laser, non ci si poteva attardare, altrimenti si avrebbe perso
soltanto tempo. Aiko impugnò la katana prima che i Killjoys
varcassero la soglia della sala di videosorveglianza e sparì
tra il buio dei macchinari di controllo, un varco pressoché
invisibile, quando apparvero e uccisero – solo momentaneamente
– gli uomini che si accertavano della posizione dei quattro
diligentemente. “Il
piano sta procedendo come previsto, preparate la procedura per
avviare Korse” disse con un fil di voce, appoggiando il dito
indice all’auricolare nel suo orecchio destro. “Raggiungete
l’atrio”. Party Poison si gettò al pavimento
stringendo Girl con tutte le sue forze. “Finalmente sei salva”.
La bambina rimase imbambolata: eccolo lì, suo fratello, l’uomo
che amava, il salvatore, tutto.
Ed era tra le sue braccia, di nuovo, dopo quelle ore trascorse ai
piedi della donna frigida e odiosamente elegante e composta. Aveva,
ora, un’idea di come fossero i pazienti della Better Living.
“Non voglio diventare come loro”.
Si lagnò. Fun Ghoul le sorrise e le scompigliò i folti
capelli ricci. “È
impossibile che un esserino fastidioso come te diventi così
antipatico”. “Ragazzi
…”. I tre si voltarono verso Jet Star e Kobra Kid;
era ora di andare.
Il
tasto di avviamento. Korse si era svegliato e, mentre si avviava giù
con un ascensore, fu seguito da un piccolo corteo di uomini. A sua
volta Aiko ne raccolse degli altri, e delle guardie lasciarono le
loro postazioni per il piano terra. Non servivano tutte le forze per
battere quelle formiche. Ed era inutile sprecarle, dunque. I
Killjoys lo speravano troppo: che non avessero dovuto combattere di
fronte a Girl. Si immusonì la bimba, credendo che si
trattasse di una delle esercitazioni, mentre i primi raggi di luce
colorata – letale – partivano da qualsiasi lato della
stanza. I Killjoys erano in svantaggio, ma riuscivano a colpire con
maggiore precisione; ne caddero di corpi, mentre si voltavano di
continuo accertandosi che tutti stessero bene, che non vi fosse
nessuno alle spalle. “Ce
la stiamo facendo!”
esultò interiormente Kobra Kid, nonostante la convinzione
precedente. Non bisognava distrarsi. Erano la speranza i Killjoys.
Assieme a Girl. Jet Star ripensò alla prima volta in cui fu
portato nella base. Aveva quindici anni, uno sguardo perso nel vuoto,
e parlava raramente. Gli si presentò di fronte un bambino dai
capelli neri e degli occhi intensamente curiosi e vispi. “Ciao,
io mi chiamo Fun Ghoul e tu?”. “Mi
hanno detto che il mio nome è … è …”. “Lui
è Jet Star, Fun Ghoul” comparve Erko alle sue spalle “è
nuovo, e sarà il tuo compagno di squadra, ma dovrai aiutarmi a
spiegargli come funziona la base”. Gli fece l’occhiolino,
scortandoli verso il suo ufficio nella piccola casa in cui viveva
assieme a una governante, la dolce Megg. Fun Ghoul parlò
ininterrottamente per quasi un’ora: nella base nessuno non
lavorava, ognuno eseguiva il compito che sceglieva, tranne gli
anziani, che potevano riposare e raccontare storie alle soglie delle
loro dimore. “C’è un signore che sa tutto sulla
storia e sulla musica! Mi ha insegnato a suonare la chitarra, è
fantastico, dovresti provare!”. Fun Ghoul, come lui, era
nato nel 2000. La fine del mondo e tutto quello che era successo
l’avevano vissuto con la speranza che fossero bugie raccontate
dagli adulti per spaventarli. Nel 2012 i genitori di entrambi
morirono. Fino a quando Jet Star compì quindici anni portò
avanti una vita marginale a New York, un luogo poco adatto a un
ragazzino: gli temprò il carattere. Era più forte di
quanto molti credessero. C’erano sempre stati dei passaggi
che mancavano, che erano stati celati loro. “Un giorno vi
racconterò tutto, ragazzi”, prometteva Erko. Ma di
tracce delle spiegazioni ancora nessuna. Un altro corpo colpito
per Party Poison. E un altro, e un altro- sfilò una maschera
per sbaglio. Quel volto … lo conosceva, l’aveva scorto
ogni mattino dal Duemila al Duemilaquindici. Era suo padre. Suo padre
sotto una maschera. Suo padre che sarebbe dovuto essere morto “
… ma
che cazzo … ?!”. Dopotutto,
era chiaro: alla Better Living riportavano alla vita i morti. Ecco
cosa accadeva, cosa non andava. E lui aveva appena colpito l’uomo
che l’aveva messo al mondo e chissà che sotto i visi
mostruosi non vi fossero altri parenti, e sua madre … sua
madre e il suo odore inconfondibile di pane, e la marmellata che
finiva sempre tra i suoi capelli color miele ondulati … Korse
era di fronte a lui, si avvicinava, trionfante. “E
qual è il mio motivo di vivere?”. Un’immagine
di Fun Ghoul, di Kobra Kid, di Jet Star … Girl.
Dio, Girl.
Ma ormai era troppo tardi per salvare qualcuno, Korse sparò
l’ultimo colpo e Poison si augurò soltanto che lui,
invece, non fosse costretto a resuscitare.
Fun
Ghoul lo capì subito: Girl non aveva mai urlato in quel modo.
Disperato. Troppo per una bambina di otto anni. A otto anni bisognava
ridere e saltare e gioire. Lei urlava. Party Poison era morto. Era un
piccolo fagotto di vestiti colorati – così in contrasto
con l’ignobile bianco accecante tutto intorno –
afflosciato ai piedi di Korse. Anche Kobra Kid cadde, pochi
istanti dopo. Quasi a voler sottolineare che erano fratelli e che,
divisi, non riuscivano a sopravvivere. Sentì Jet Star, non
lontano da lui, lanciare un’imprecazione. Si slanciarono
insieme verso Girl, al centro della sala, spaesata; Fun Ghoul non
sarebbe uscito di lì, ma Jet Star doveva prendersi cura di
Girl. Chiuse a chiave la vetrata dietro di loro. “Adesso
a noi, brutti stronzi”.
Avrebbe voluto uccidere Korse, perché l’aveva ferito nel
profondo, dove nessuno sarebbe dovuto arrivare – oltre Party
Poison. Quando comparve aveva quindici anni e il suo unico amico
era Jet Star. Party Poison lo salutò dal lettino, bofonchiando
e soffocando il dolore in smorfie. “Non dovresti alzarti”. “E
tu chi sei?”. Gli domandò. “Fun
Ghoul”. Annuì, semplicemente, e la testa gli crollò
nel cuscino, di piombo: Fun Ghoul fu in grado di rivedere, come in un
film, tutto quello che era capitato al ragazzino. Si mosse d’istinto,
di scatto, gli strinse la mano nella sua: “andrà tutto
bene, ora”. Sorrise, leggermente, un pezzo di speranza, un
passo in avanti. Anche quando gli colpirono la gamba, lui proseguì
verso Korse. Ma non bastò.
“Sei
un idiota, Fun Ghoul”.
Ma non sapeva biasimarlo. Voleva solo accartocciarsi sull’asfalto.
Ma Girl correva dinnanzi a lui, aveva diritto a un futuro. Non
sapeva che la bimba stesse urlando, ancora, nella sua testa; che si
rifiutasse di credere che erano morti i suoi fratelli, la sua
famiglia. “Non
mi lasciare anche tu, Jet Star”. “Non
ce la farò, Girl”. Lo
seppe, anche prima di voltarsi, dei rumori di laser, e un tonfo. Come
quello di Party Poison e Kobra Kid, come un pezzo di lei che cadeva,
quando l’assenza di ricordi di sua madre la soffocava e si
accasciava contro la porta della sua stanza, dilaniata. Allora
arrivava Party Poison – sempre – e se non lui uno degli
altri a salvarla, a proteggerla. Era solo una bambina. Aveva visto
morire così tante persone … poteva fermarsi, fermarsi e
attendere che portassero via anche lei e non avrebbe assistito alla
morte di nessun altro. Un furgone le si fermò esattamente
accanto e la incitarono a salire. “Addio,
addio …”:
ormai gli occhi affogavano nelle lacrime.
La
bambina nel video di “SING” si chiama Grace nella realtà;
ho preso il suo nome e l’ho usato per denominare la moglie del
Capo della Better Living e il “Metallo”. Molte cose non
sono spiegate in questo capitolo introduttivo, ma le scoprirete –
per quei pochi che leggeranno, se
ce ne saranno – nei prossimi capitoli. Sempre se
ce ne saranno. XD
Volevo
ringraziare particolarmente L
i a r perché ha letto l’intera trama della storia e
ha commentato positivamente in merito, perché mi sostiene
sempre e perché mi ha promesso di essere già pronta a
fangirlare su questo mio lavoro. Ti voglio bene <3
|
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Capitolo 2 *** Introduzione – Parte Seconda ***
Ringraziamo
L i a r,
come sempre, per il sostegno morale, per aver messo la storia tra le
preferite, per aver commentato e per avermi spronata come sempre
(minacciandomi: ma a ognuno i propri sistemi XD).
Un
grazie a Ginny_Potter,
GioPattz e
My_Desperate_Romance
per averla inserita nelle seguite.
Per
My_Desperate_Romance:
Grazie per avermi “esortata”. Sentitevi pure libere, da
questa volta in poi, di minacciarmi. Con me funziona meglio delle
muse, fidatevi XD Grazie mille per quello che hai detto sullo scorso
capitolo, spero che anche questo piacerà a te e alle altre
(sempre che siano rimaste con me XD).
Oh,
e grazie alle 175 visite, anche se non mi avete fatto sapere
di esserci, avete comunque dato uno sguardo al mio lavoro.
Grazie
a tutti, buona lettura <3
(Se
avete dubbi o domande di qualsiasi genere, chiedete pure).
Introduzione
– Parte Seconda.
Non
è mai stato certo cosa ci sarebbe stato dopo la morte, nel
Mondo. Neanche quando la Terra era un posto libero e ognuno poteva
credere ciò che preferiva. Il “Paradiso”, il
“vuoto cosmico”, l’“annullamento”. Uno
spazio o un non-spazio indefinito.
Per
la natura dell’uomo, probabilmente, è impossibile
immaginare qualcosa che non ci sia. La presenza dell’assenza.
In
particolare, Party Poison era incapace di credere che, una volta
chiusi gli occhi del suo corpo terreno, non avrebbe più visto
nulla. Non sapeva neanche lui se si trattava di speranza o di tutti
quei dogmi che avevano fatto parte della sua infanzia, distante anni
luce dalla vita che poi aveva affrontato dal 2012 in poi. Da quando
il mondo era cambiato.
A
quindici anni aveva aperto gli occhi in una sorta di Pronto Soccorso
in una base di ribelli e si era ritrovato di fronte un bambino che,
per qualcosa nello sguardo (o forse nel non-sguardo) gli somigliava.
Da
quel momento non si era mai seperato da lui. Né da suo
fratello, o Jet Star o Erko.
Erko
aveva dato loro conforto nel momento in cui erano poco più che
quattro bambini sperduti e non desideravano altro che sedersi di
nuovo alla tavola delle loro madri, dove affondare la testa in un
piatto caldo per affogare le difficoltà, e dondolare sulle
gambe muscolose dei loro padri, su cui saltellare, ridere e
raccontare le proprie giornate.
Finiti
quei tempi. Nell’era della Better Living non c’era spazio
per nient’altro che la lotta. Anche i più privilegiati
combattevano sin da quando si formavano nell’utero. O
arrendersi e soccombere all’assenza di sentimenti.
Korse
gli puntò la pistola contro il collo. Lui lo sapeva che anche
gli altri lo avrebbero seguito, perché non erano proprio in
grado di muoversi da soli.
Gli
sembrò di scorgere come Kobra Kid cadesse al suolo,
seguendolo, come Girl urlasse piena di dolore. Colma di astio …
Era
diventato il momento di Girl. Da quel giorno sarebbe stata lei a
prendersi cura di se stessa, della base, la migliore tra i bambini,
avrebbe guidato, un giorno, l’organizzazione di Battery City.
I
Killjoys erano soltanto pedine per un piano molto più grande
che non contemplava l’ipotesi di fermarsi e interrompersi alla
loro morte.
Se
Party Poison non fosse cresciuto con Erko, avrebbe detto che la morte
dei Killjoys era programmata da quando aveva incontrato Fun Ghoul;
sarebbe stato esattamente nello stile di Erko scegliere una data
nella quale abbandonare per sempre i migliori della base per
sostituirli.
Girl
era senza parole. La frase adatta. Perché il più
sarebbe stato superfluo. Per quello che sentiva – non poteva
ignorare il suo corpo di bambina, la pelle che le tirava, gli occhi
che le bruciavano, le gambe che le dolevano per la corsa, il cuore
che le batteva contro il petto per le troppe emozioni, le pupille
ancora lampeggiavano delle pistole laser nell’ingresso della
Better Living – non c’erano dubbi. Qualcosa, dentro di
lei, si era spezzato.
Qualcosa
a cui Party Poison si era aggrappato con le unghie – proprio
esattamente il contrario di come si era comportato con tutte le
speranze e i piani – e che aveva trascinato con sé
(chissà dove e chissà quanto profondo) nel peggiore dei
bui.
Fun
Ghoul. Un po’ di spazio per lui.
Non
aveva mai immaginato una morte diversa da quella che gli era
spettata, alla fine. Accanto ai suoi compagni – era certo che
nemmeno Jet Star si sarebbe salvato – a provare con ogni forza
di vendicare la loro perdita, il modo brutale in cui erano nati i
dolori che li tormentavano, il modo brutale in cui dovevano nutrirsi
di cibi in scatola perché ogni ortaggio e animale era
avvelenato. La Terra malata, arida, cosparsa di un Veleno ancora
non-identificato.
Dopotutto,
i macchinari tecnologici si trovavano alla Better Living. Non tra i
selvaggi quali si erano trasformati gli abitanti del pianeta.
Quanto
ardore aveva sentito sotto la pelle fino all’ultimo, le urla di
Girl e di tutti gli altri che rimbombavano nelle orecchie, gli occhi
riempiti delle lacrime delle parole inespresse, la testa dolorante di
ogni colpo al cuore e morto crollato (sotto il peso di tutto quel
male).
Anche
lui era morto, dunque. I Killjoys non erano immortali. E nemmeno
l’amore.
Suo
padre l’aspettava nel piccolo appartamento. Era steso al buio,
nella cucina, su un divano sgangherato che, quando aveva appena sei
anni, era già in quello stato pietoso. E vitale.
L’uomo
era immobile, se non per lo sterno che gli si abbassava e alzava
ritmicamente, e lo sfarfallio delle palpebre. Era sveglio; quel buio
era per cercare di dare un senso.
Era
vestito di tutto punto, con quegli indumenti a cui Girl non conosceva
alternativa, se non nella Biblioteca della base dove erano conservati
vecchi volumi di una civiltà dalle quali ceneri era nata lei.
Girl.
La speranza della base di Battery City. Una bimbetta di otto anni con
i capelli ricci e gli occhi pieni di domande.
A
piccoli passi, lenti, si avvicinò al suo padre adottivo,
inginocchiandosi sul pavimento accanto a lui. Erko si voltò
verso di lei, aspettando che fosse lei a esprimere la nube di
turbamenti e orrore.
Su
quel divano i Killjoys ci erano cresciuti discutendo del loro futuro:
l’unico argomento che si potesse affrontare in quell’epoca.
Il presente stava morendo, il passato era stato distrutto.
“Mi
sento stanca”.
“Sì,
piccolina”.
“I
Killjoys sono morti”. Singhiozzò, nascondendo la faccia
tra i cuscini. Se si concentrava, poteva sentire l’odore della
carne preferita di Fun Ghoul che aveva impregnato la stoffa dopo
tutte le volte che era caduta lì sopra, macchiando e lasciando
aloni d’unto.
“ … sono
stati coraggiosi, erano lì soltanto per te”.
Non
importava quanto avesse tentato di non provar nulla per i quattro,
quanto si fosse ripromesso d’essere obbiettivo e oggettivo. E a
lui, personalmente, non importava di cosa avrebbero pensato gli
altri. Li aveva visti crescere, aveva osservato come diventavano
pieni di voglia di lottare per ritornare nel luogo dov’erano
nati, con quanta passione erano esistiti. Esistenti. Poteva allungare
una mano all’indietro per tastare uno di quei tipici contrasti
tra lui e Kobra Kid. Era ben diverso dall’essere semplicemente
il loro capo.
Lui
era un padre.
I
suoi figli erano morti. Gli era rimasta soltanto quel batuffolino di
Girl, che diventava giorno dopo giorno sprezzante del pericolo quanto
loro, vicina a perire proprio come i Killjoys, a un passo
dall’incoscienza dell’orgoglio e della voglia di
conoscere.
“Dove
sono andati, papà?”.
“In
un posto meraviglioso”.
Ma
Girl non era certa che esistesse qualcosa di bello, se portava tanto
dolore.
Girl
si chiuse la porta alle spalle, con poca grazia. Credeva di aver
trascorso delle ore intere sul pavimento accanto a Erko. O forse si
trattava di minuti. Erano rimasti in silenzio; qualche volta il
dolore era stato troppo forte, non era riuscita ad arginarlo, e si
era lasciata andare con qualche singhiozzo. Erko aveva sentito tutto,
ogni spasmo, respiro rotto, parola – o nome – sussurrata.
Ma aveva lasciato la piccola a se stessa, ai suoi spazi, al caldo
della solitudine. Dalla morte dei Killjoys – perdita la quale
venuta si attendeva, ormai – Erko aveva deciso sin da quando
Girl era comparsa nella vita della base di Battery City che la
ragazzina avrebbe preso il posto dei Killjoys. Dal giorno seguente
Erko avrebbe organizzato le sue giornate di modo d’allenarla
sei ore ogni diciotto, dalla sua alimentazione sarebbero scomparsi i
grassi in eccesso e, nel tempo libero, avrebbe studiato.
… si
stese sul letto, si sentiva mortalmente esausta. Dietro le palpebre
pesanti vedeva lampi di luce colorata, odore di bruciato le pizzicava
le narici. Ed era sbagliata, totalmente, la musica proveniente da
chissà quale punto della base. Qualcuno urlò
“finalmente è morto”. Girl lo trovò
incredibilmente scortese.
“Di
cosa avete bisogno?”.
“Abbiamo
un messaggio per Girl”. Show Pony per la maggior parte del
tempo sopportava a stento Erko. Era un uomo dispotico, arrogante e
convinto d’essere l’unico in grado di saper distinguere
il bene dal male. I Killjoys avevano una totale venerazione per lui,
e questo lo rendeva ancor più intollerabile ai suoi occhi. Lo
osservava, sapeva che considerava i ragazzini soltanto come delle
armi ottime: facili da plasmare e controllabili. Non avrebbe mai
scordato come lo aveva escluso assieme ad altri quattro o cinque
ragazzini dall’addestramento.
Dr.
Death, se avesse potuto senza dare nell’occhio, avrebbe stretto
il braccio a Show Pony. Stava cercando d’essere paziente e di
mostrare la dovuta – la necessaria – dose di venerazione.
Immaginava, anche prima di varcare la soglia dello studio di Erko
seguito da Megg – occhi arrossati e gonfi, fazzoletto alla mano
– che stesse controllando Girl, non potevano sembrare sospetti,
pronti a farle il lavaggio del cervello. Erko era ossessionato dal
lavaggio del cervello, e da un certo punto di vista Dr. Death
comprendeva i suoi atteggiamenti protettivi fino all’inverosimile
e insopportabili. Ed erano ben chiari a quelli come lui, gli
scienziati della base, le ragioni per cui fosse così morboso
nei confronti della ragazzina, almeno in parte, quel tanto ricavato
dalle loro analisi all’apparenza inutili. Non era più un
ragazzo e anche quando lo era stato l’impulsività
propria di Show Pony non gli era appartenuta. Era quello il motivo
per cui aveva scelto di laurearsi in una specializzazione chimica di
Medicina. Aveva ricevuto una cattedra da pochi anni nel 2012. Una
reazione anomala – stava lavorando in una compagnia avversaria
della Better Living – fece esplodere il suo laboratorio. Perse
l’uso delle gambe, molti colleghi morirono, altri mutilati
irreversibilmente, qualcuno se la cavò con delle semplici
escoriazioni. Ma dopo alcuni mesi lui fu l’ultimo sopravvissuto
e fu costretto a fuggire a Battery City. Erko lo accolse a braccia
aperte, reduce da scempi dopo i quali nessuno era sopravvissuto per
raccontarli, tranne lui. Era giusto fosse Erko a guidare la base, era
giusto fosse lui a organizzare l’armata. Nessuno aveva il
diritto di contrastare i suoi metodi di comando. Ma, al diavolo!, si
trattava di Girl; tutti amavano Girl lì dentro, nessuno
l’avrebbe tradita, e Dr. Death lavorava con Erko sin dagli
inizi, era stato da sempre il suo braccio destro. E lo era ancora.
Era il più geniale scienziato di cui disponevano – se
non il migliore degli interi Stati Uniti.
Show
Pony tremò ancora. Era scosso dalla morte dei Killjoys. Anche
se era stato bollato come “diverso” perché escluso
dal reclutamento, Fun Ghoul, Party Poison, Jet Star e Kobra Kid erano
sempre stati insieme a lui. Dopo qualche tempo anche gli altri si
convinsero ad avvicinarglisi e tutti insieme obbligarono Erko a
includerlo negli allenamenti e, in seguito, nelle missioni.
C’era
troppo rancore tra i due perché Erko non si divertisse a
vederlo fremere e perché la voglia di Show Pony di prenderlo a
pugni scemasse.
“Dovrei
visionarlo prima”.
Digrignò
i denti. “È personale”. Se Dr. Death conosceva
Show Pony – ed era abbastanza sicuro di poterlo decantare quasi
fosse una poesia imparata a memoria, o esporne le regole come i nomi
dei metalli – entro pochi attimi sarebbe scoppiato. Si sentiva
solo e spaesato, ciò lo rendeva instabile, intrattabile e
nervoso. Indi per cui facilmente cedibile alle forti emozioni e
impulsi.
“Erko,
per favore. È dei ragazzi …”.
“Se
Girl ne rimarrà traumatizzata o scossa verrete considerati
come diretti interessati, vi do un quarto d’ora, non un minuto
oltre. È molto indaffarata in questo periodo e deve riposare”.
“Lo
sappiamo”. Allora fu Dr. Death a rispondere, ringhiando: non
aveva mai approvato i fantomatici ’allenamenti’ di Erko.
Non applicati a dei ragazzini.
Dr.
Death e Show Pony bussarono alla porta della camera di Girl.
Ricordavano l’interno colorato e brioso: lo stile di una
bambina e quello dei Killjoys miscelati; al letto aveva legato la
collana porta fortuna di Party Poison e il braccialetto di Fun Ghoul,
quello regalatogli alla nascita dai suoi nonni. Alle pareti aveva
incollato delle foto scattate assieme ai Killjoys e sul davanzale
della finestra spiccava una collezione di pezzi di vetro che
raccoglievano la luce del sole. Quando Girl diede loro il permesso di
varcare la soglia la trovarono seduta dietro la scrivania, visionando
delle carte scritte fittamente, un’espressione corrucciata mai
vista sul suo volto di bambina. Era tutto, all’interno, grigio
e asettico. Al posto dei soliti indumenti, una canotta nera e un paio
di pantaloni aderenti dello stesso colore. Al polso aveva legato la
collana e il braccialetto; i capelli li aveva tirati all’indietro
ordinatamente, in una piccola crocchia perfettamente tonda.
“Salve”.
Salutò, senza alzare la testa.
“ … ciao,
Girl”. Show Pony era più sconvolto di lui, rimaneva
sulla soglia, braccia penzoloni, la faccia a metà tra il
dubbio e il dispiaciuto. Erano trascorse soltanto due settimane.
“Come va?”.
“Tutto
alla grande”.
“Bene”.
Show
Pony mosse due passi in avanti. “Pony ed io siamo qui perché
dobbiamo darti qualcosa”.
“Prego”.
Girl indicò il materasso a Show Pony e si allontanò
sulla sedia dal tavolo, posizionandosi di fronte i due uomini.
“Cos’è?”.
“È
un video. Un ologramma dei Killjoys”.
“Non
credere sia un messaggio da addio; è un regalo che avevano
preparato per il tuo prossimo compleanno. È un montaggio di
tutti i video delle feste … e altri momenti che sono riusciti
a raccogliere”.
“Erko
cosa ne pensa?”. L’unico segno d’emozione in Girl
era stato il contrarsi delle dita delle mani poggiate sulle gambe;
Pony era sempre più convinto che Erko stesse avviando anche
Girl verso la rovina, come se già tutte le persone morte non
bastassero. Ma cercare di farla ragionare allora sarebbe stato
inutile e dispersivo: avrebbe cominciato a strepitare e convincersi
che stessero tentando di “farle il lavaggio del cervello”.
“Ha
acconsentito”.
Girl
annuì, tese una mano, a aspettò che le poggiassero sul
palmo l’oggetto. I Killjoys, alla fine, avevano ultimato il
regalo. Proprio il giorno dell’incidente nel deserto, quando
c’era stato un piccolo scontro con la truppa di Korse e Girl
era stata rapita. Mancava ancora un mese all’ottavo
anniversario dalla sua nascita, il diciotto Ottobre, anche se ormai
due settimane erano trascorse da allora. I cambiamenti erano evidenti
anche nel modo di comportarsi di Girl. Erano bastati quindici giorni
assieme a Erko, senza l’influenza dei Killjoys a rasserenarla,
e si era trasformata, velocemente, in una lugubre copia degli uomini
della Better Living. “Come se questo non fosse lavaggio del
cervello”, pensò Show Pony, inghiottendo un boccone
di saliva particolarmente amaro. Party Poison, Jet Star, Kobra Kid e
in particolare Fun Ghoul, ma tutte le persone che erano nate poco
prima della strage del 2012 in generale, sapevano cosa significasse
vivere. All’aria aperta. Non doversi nascondere, indossare
colori luminosi per essere riconosciuti, smettere di usare il bianco.
Certo,
le tonalità erano l’ultimo dei loro problemi, c’erano
pochi viveri, e non era una sicurezza che sarebbero riusciti a
sopravvivere ancora a lungo come ribelli: soltanto la Better Living
sapeva come eliminare il veleno dagli alimenti. Ma quella piccola
speranza, quella forza di aprire gli occhi per salvare qualcuno,
appropriarsi di ciò di cui si aveva bisogno, lottare per se
stessi, avere dei compagni … aiutava molto ad andare avanti, a
non soccombere.
“Adesso
potete andare”. Sillabò Girl. Dr. Death e Pony si
incamminarono verso l’uscita; Megg, alla loro vista, riprese a
piagnucolare in un grande fazzoletto lindo. Quante volte Pony si era
intrufolato nella camera dei ragazzi e aveva giocato con loro, alla
lotta, ad avere ancora dei genitori; Megg entrava sempre, li
contemplava, e subito tornava con dei biscotti o delle prelibatezze
cucinate dalle sue stesse mani. Non le era mai importato che Pony
fosse “diverso” - soltanto perché a volte gli
piaceva travestirsi da donna e preferiva giocare con le femminucce
piuttosto che con i maschi – era come un figlio per lei, e i
figli si accettano anche quando non sono come tutti si aspettano
siano.
“Arrivederci,
Pony”.
“Ciao,
Megg”.
Dr.
Death, dal basso della sua carrozzina, una volta usciti da quella
casa piena di ricordi, avvolse un braccio intorno alla vita di Pony.
In circostanze ’naturali’ la vergogna lo avrebbe
bloccato: ma si trattava di una difficoltà troppo
insormontabile per il compagno, e cercava come poteva di salvarlo da
un baratro che si presentava gigantesco per affrontarlo da solo.
“Grazie,
Death”.
Girl
voleva davvero ignorare quell’ologramma poggiato
disordinatamente sul tavolo. Ma sembrava chiamarla. Con una voce
sconosciuta e dolorante. Voce supplicante, la pregava. Quasi in
ginocchio. Forse era proprio se stessa, nascosta lì dentro, a
chiamarsi e cercarsi.
Dove
era finita Girl?
Sull’asfalto
fuori la Better Living, quando aveva perso anche Jet Star: Jet Star
c’era sempre, più di tutti gli altri, silenzioso,
gentile. Quando litigava con Fun Ghoul e Kobra Kid lui le rimaneva
alle spalle, le allungava un cioccolatino, sorrideva sotto i baffi e
non le si staccava dal fianco. Aveva un sorriso raro, di quelli
capaci di illuminare un’intera stanza. Ed era scomparso. Per
sempre.
Chi
le avrebbe confidato i segreti del mondo e delle stelle?
… Party
Poison. Il sentimento che la legava a lui era forte quanto soltanto
l’amore passionale dei bambini sa essere. Girl era innamorata
di Party Poison. Le sembrava blasfemo e male allontanarsi da quel
sentire. Eppure le faceva male il tempo, non riusciva a
entrare nella camera dei Killjoys. Non un pezzo, ma ben quattro le
erano stati strappati dal petto. Come avrebbe fatto?
Si
impossessò dei filmati a malincuore. Avrebbe soltanto
peggiorato la situazione quella debolezza.
Le
immagini le riempirono gli occhi, i rumori dei Killjoys le orecchie.
La mente di ricordi. Aveva chiuso le porte del pianto sin dal giorno
seguente la morte dei quattro, non credeva di essere ancora in grado
di … piangere. Accucciata sulla sua stupida sedia da lavoro,
con le gambe e le braccia al petto. Innocente bambina di otto anni …
eppure aveva visto già tutto.
Rivoleva
indietro la sua famiglia.
Aiko
Sabouro nella sua presunzione di donna e datrice di lavoro perfetta
non avrebbe mai immaginato di poter sbagliare. E, certo, quello non
poteva essere definito un errore, se si considerava il fatto che non
era mai stata avvisata di una tale possibilità.
Quando
finalmente era riuscita ad assassinare i Killjoys, si aspettava che
il Capo fosse soddisfatto di lei, le assegnasse una promozione, o le
dimostrasse in qualsiasi modo avrebbe preferito la soddisfazione per
il suo ottimo lavoro svolto. Subito i corpi dei quattro erano stati
privati del cuore e del cervello, dove l’anima risiedeva,
all’interno delle loro casse toraciche erano state inserite le
batterie Better Living, ricolme di Grace che alimentava i “robot”,
se così si poteva definirli. Dopotutto, si trattava di esseri
umani a quasi tutti gli effetti. La pelle era stata ricoperta della
resina isolante che avrebbe permesso al fisico di non andare in
decomposizione. Degli elementi allenati e abituati alla lotta come i
Killjoys sarebbero sempre stati utili alla Better Living. In più
causavano problemi all’Azienda da quando avevano cominciato ad
andare in missione, all’età di vent’anni. Mese
più, mese meno.
Erano
sempre stati la spina nel fianco di Aiko, annientarli aveva avuto un
sapore incredibilmente dolce. Sensazioni smorzate dal Grace
impoverito, naturalmente, ma dopotutto un aspetto dell’essere
umano di cui non si rammaricava era proprio quel piacere nel
possedere ciò che si desiderava. E cos’altro avrebbe
potuto chiedere, ormai?
Con
l’annullamento dei Killjoys poteva aspettarsi soltanto una
brillante carriera, accanto al Capo, come suo braccio destro. Le lodi
che le giunsero da Tokyo non furono indifferenti, l’uomo le
promise un riconoscimento alla fine di Ottobre, avrebbe dovuto
aspettare soltanto fino alla fine di quel mese, per poi raggiungere
vette incommensurabili.
Purtroppo
per Aiko, non aveva previsto ciò che successe nei laboratori
della Better Living di Battery City. I “pidocchi”, i
“parassiti insignificanti” stavano trionfando di
nuovo. Stavano testando il capello della giovane ribelle. Ma
c’era un’anomalia nel suo sangue. Non era un qualsiasi
tessuto umano quello che avevano tra le mani. Gli scienziati erano
tenuti a comunicare qualsiasi distorsione alla base centrale, a
Tokyo. Dove erano celati i segreti della società, gli
esperimenti a cui pochissimi migliori studiosi avevano accesso. I
documenti che, se caduti nelle mani dei ribelli, avrebbero distrutto
la società in modo irreparabile e per sempre. Come
l’ubicazione – il minore dei mali – della
Direzione. Inviarono i risultati delle analisi prima possibile al
laboratorio di Tokyo. Fu evidente di cosa si trattasse. Del sangue
dell’elemento Omega.
Il
Capo fu informato in tutta fretta, gli mostrarono i risultati dei
test, a prova di ciò che gli stavano comunicando: qualcosa di
cui aveva bisogno sin dal lontano 2021, otto anni prima.
“Inviate
subito una comunicazione scritta alla signorina Sabouro: che venga
qui prima possibile”.
Aiko
si trovava sull’aereo per gli spostamenti interni all’azienda
verso Tokyo. Ancora dieci minuti e sarebbe atterrata. Una leggera
sensazione di panico le attanagliava la gola: aveva paura che i
ribelli si vendicassero proprio mentre era via. E un po’ di
titubanza la riempiva per quella convocazione anticipata a Tokyo.
L’aereo
si posò esattamente sul tetto dell’edificio dei palazzi
della Better Living, su quello principale: rigorosamente costruiti in
Grace solidificato. Ad attenderla un uomo e una donna con indosso dei
camici bianchi e delle cartellette tra le braccia. Le rivolsero un
asettico saluto prima di procederla verso l’ufficio del Capo,
nel quale non entrava da circa un anno, se ricordava bene. Percorsero
i corridoi pallidi e splendenti, tra uomini mascherati e completi che
si mimetizzavano perfettamente con i muri e i pavimenti di marmo;
qualcuno le accennò con il capo, mentre il ticchettio delle
sue scarpe rumoreggiava ed echeggiava lungo i corridoi.
Dall’interno
le spalancarono le porte della stanza gigantesca. In un acquario alle
spalle del Capo, seduto dietro la sua scrivania di metallo bianco,
nuotavano degli squali di dimensioni ridotte. Un paio di
collaboratori, in posizione eretta, parlottavano tra loro, al fianco
dell’uomo.
“Buongiorno,
signorina Sabouro”.
“Buongiorno
a lei”.
“E
così ha raggiunto un livello che non mi sarei mai aspettato da
lei”.
“La
ringrazio, Signore. Catturare i Killjoys è sempre stata la mia
prerogativa da quando sono comparsi. L’operazione è
stata portata a termine, finalmente”.
“Oh,
uccidere i Killjoys è stata la torta, indubbiamente, ma la
ciliegina … la ciliegina! Quale prelibato bocconcino,
signorina Sabouro, di dimensioni e sapori che neanche riesce a
comprendere, ora. Ma con un tale ingegno, una tale bravura, arriverà
ben oltre il sapere il perché di questa ciliegina, non si
preoccupi”. Aiko sorrise, rilassata, attendendo che il Capo
proseguisse a elogiarla spiegandole, inoltre, cosa fosse tale
ciliegina. “Mi riferisco alla bambina, naturalmente. Che spero
sia in un alloggio adeguato alla sua levatura”.
Lo
sguardo di Sabouro parve spaesato per alcuni attimi: poi comprese. La
bambina. La riccioluta piaga che aveva giocato con quel pallone di
plastica blu nella sala registrazioni. “Intende dire …
Girl?”. Ci volle uno sforzo di memoria per ricordare il nome
della marmocchia.
“Naturalmente.
Avrei preferito che la portasse con lei, ma sarebbe potuto non essere
prudente. Gli attacchi dei ribelli si stanno evolvendo”. La
battuta scaturì delle risate alle sue spalle, dai
collaboratori.
“Non
è più con me. Nel … nel verbale ho scritto che i
Killjoys sono riusciti a …”. Ma aggiungere altro sarebbe
stato superfluo: il Capo aveva compreso. Dalle espressioni dei
segretari – o qualunque fosse il ruolo di cui erano insigniti –
Aiko capì di aver messo nei guai anche loro. Probabilmente
dovevano essere loro a leggere i verbali delle missioni, e non erano
stati abbastanza attenti.
Ma
Aiko. Aiko era in pericolo, e lo vedeva. Il Capo non era sembrato mai
prima d’allora così furibondo.
“Io
l’ho raccolta dalla strada, signorina Sabouro. Le ho dato una
chance di elevarsi dal basso compito di combattere una battaglia
senza speranza contro la Better Living. Le ho affidato carichi
importanti, le ho lasciato la piena gestione di Battery City, quel
covo di bifolchi … e lei mi viene a raccontare che si è
lasciata sfuggire Girl?”.
“Io
…io …io”. Ogni sicurezza persa in un battito di
ciglio; quasi che tutta la sua vita fosse stata gettata via, al
vento, e ogni insegnamento avesse seguito i pezzi della sua anima,
tagliati via ed espulsi volta dopo volta.
“Non
c’è bisogno che aggiunga altro”. Sorrise,
conciliante, prima di farla portare via, in chissà quale luogo
a farle estrarre cervello e cuore per trasformarla in un robot come
qualsiasi altro.
Megg
in tanti anni aveva atteso quel momento così a lungo …
aveva sempre sperato che Erko si ricredesse e cominciasse ad
apprezzare i talenti nascosti di Pony. L’aveva spedita a
chiamarlo quella mattina, pressoché all’alba, aveva
attraversato l’intera base, fino a trovarsi di fronte l’uscio
della casetta di Dr. Death, nella quale sapeva avrebbe trovato anche
Pony. Difatti fu proprio lui ad aprirle la porta, con i capelli
scompigliati e un’enorme maglietta che gli arrivava fino alle
cosce.
“Erko
ti vuole vedere”. Gli annunciò, un sorriso a trentadue
denti.
Forse,
nonostante l’avversione, ciò che Pony desiderava
ardentemente era essere apprezzato dall’uomo in cui sperava e
voleva vedere un padre. Ci era riuscito, a quanto sembrava. Era
riuscito a far puntare il suo occhio critico su di sé.
Ripercorsero
insieme la strada, Megg non smetteva di raccontare quanto fosse
promettente quel desiderarlo nel suo ufficio. Sul tavolo aveva
sistemato gli strumenti da lavoro: poteva significare soltanto che
avrebbero svolto un qualche compito di genere.
Megg
lo accompagnò fino all’uscio, per poi lasciarlo con una
pacca sulle spalle, e osservare mentre tornava in cucina quanto ci
avrebbe impiegato a bussare.
Si
decise dopo, calcolando approssimativamente, due minuti. Rispetto ai
Killjoys – loro commettevano imprudenze all’incirca ogni
dieci minuti – era stato velocissimo, un fulmine.
“Ah,
Show Pony … pensavo avresti impiegato di più”.
“Megg
mi ha fatto intendere fosse urgente”.
“Non
esageratamente urgente”. Lanciò uno sguardo in tralice
all’orologio, per poi fargli cenno di accomodarsi. “Voglio
che tu sia il mio braccio destro”.
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Capitolo 3 *** Capitolo I ***
Boh, ragazzi/ragazze, vi
amo tutti. Sappiatelo. Mi scuso tantissimo per averci messo mesi
– secoli, altroché!
E pensare che questo capitolo ce l’avevo pronto da un sacco
di tempo. Ma boh, forse la scuola mi aveva
“bloccata”, diciamo così.
Spero di essere tornata, finalmente.
Non rispondo singolarmente alle recensioni, ma sappiate che io vado in
brodo di giuggiole quando le leggo XD perché sono una
persona insicura ma egocentrica, e quindi … spero che i
nuovi personaggi vi piacciano, che il capitolo sia di vostro
gradimento, e che mi perdonerete. Consideratelo come un regalo, va.
Buona lettura.
Capitolo I
« Ribelli »
Certi atteggiamenti – nella vita umana – non
cambiano mai. Possono distruggersi città, e
civiltà, ma qualcosa rimane sempre nello stesso posto, allo
stesso modo. Alcuni tentano di scappare, perché
può apparire soffocante, quando non si sa come farne parte,
e non essere soltanto uno spettatore troppo vicino, altri, invece, si
aggregano, imparano, amano fino al fanatismo.
Il fanatismo è pericoloso.
I ribelli immaginano come sarà, dopo. Qualsiasi cosa
accadrà.
Sorridono i ribelli. Mentre si scottano la pelle sotto il sole del
deserto più caldo che mai, sorridono i ribelli di fronte le
pistole laser. Muoiono per l’arma, per continuare a salvare
l’indipendenza degli esseri umani. Coraggiosi, credono,
sfrontati – sono.
Qualcuno scuote il fianco di Gravity. Mugola un paio di parolacce,
prima di strizzare le palpebre e osservare il buio illuminato da una
luce rossa – un fuoco acceso. È a Battery City,
nel deserto.
« Gravity, tocca a te il turno di guardia, forza ».
Le sussurra Girl, con i suoi assurdi ricci sparati in tutte le
direzioni. Gravity le strappa di mano le due pistole laser, si alza, si
massaggia il fondo schiena e si avvia verso un cespuglio adibito come
protezione per la sentinella dell’accampamento provvisorio.
Teoricamente, Girl non dovrebbe essere lì con loro.
Teoricamente, dormire nella sabbia non dovrebbe essere così
scomodo.
Si butta con malagrazia dietro le foglie secche di una pianta-rovo. Lei
odia i ribelli, odia farne parte, odia combattere, odia le armi.
E odia doversi svegliare durante le notte per controllare che nessuno
cerchi di assalirli mentre i suoi compagni riposano. In
realtà, la maggior parte di loro tiene gli occhi socchiusi;
il panico è troppo forte da vincere, nel deserto, territorio
più della Better Living che dei ribelli – terrore,
ansia, tensione. Livelli misurati, naturalmente: sono addestrati a non
pensare con troppo trasporto emotivo: è bastato
l’esempio dei Killjoys, i migliori in assoluto, non si erano
mai visti dei combattenti così prima di allora –
tutte quelle balle lì, insomma – e
l’intero corpo dei ribelli statunitense si è
rimesso in riga. I protocolli hanno ricominciato a contare.
Per Gravity è di poco conto il regolamento. Se deve
scegliere se colpire o perdere una vita innocente –
be’, proprio innocente no, magari, ma nessuno merita di
morire – preferisce la prima opzione. Non ha idea del
perché per gli altri sia così semplice accettare
tutto, il dover essere sempre all’erta, il fatto che,
dopotutto, hanno una vita reale più quella sorta di robot
che vivono nelle case nei centri della città che loro, anche
se hanno un cuore e un cervello. È quello il controsenso. Il
male, il distorto … divenuto realtà, il lato
giusto e normale.
Un incubo ormai dimenticato l’ha spossata. Sbadiglia un paio
di volte, si sistema i capelli neri raccolti in una coda di cavallo, e
incrocia le gambe.
Un tempo Gravity ha avuto un padre e una madre come ogni altro bambino,
anche quelli che non li hanno conosciuti. Lei avrebbe preferito non
conoscerli, in realtà. A otto anni se n’era andata
e basta, senza dire nulla, imboccando la strada per la periferia,
pregando una sorta di
realtà-Dio-fortuna-casualità di non farle
incontrare qualcuno della Better Living. Era certa che la sua famiglia
avrebbe considerato quella fuga come un peso in meno. I suoi genitori
avevano deciso che la famiglia si sarebbe rivolta all’azienda
per rendere la loro vita migliore. Gravity aveva visto, assieme a loro,
cosa significasse una vita migliore per la Better Living. Se
già ancor prima di divenire robot i suoi genitori erano
orribili, non osava pensare a cosa sarebbe accaduto dopo. Se non se ne
fosse mai andata, probabilmente dopo non avrebbe patito tanto. Come i
cinque giorni che trascorse a undici anni, a New York, sanguinando: era
diventata donna fino a quel momento. Senza aiuto, con dei dolori
lancinanti al ventre. Oppure le settantadue ore in cui era stata
costretta a non bere, perché non aveva abbastanza soldi per
l’acqua. A dodici anni era sbarcata a Battery City e la sua
vita era davvero migliorata. Ma aveva anche capito cosa significasse la
guerra: le persone lì dentro ci erano abituate, ma lei no, e
vedeva. La frenesia nelle carezze e negli abbracci, la preoccupazione
nello sguardo dei genitori, l’accanimento feroce alla guerra
dei bambini della sua età. La competività. Erko.
Un mostro, lo ha odiato sin dal primo secondo. È una
leggenda alla base, tutti quanti lo venerano, compreso Show Pony
– il suo migliore amico, l’uomo che l’ha
presa in casa con sé – sarà anche un
intelligentissimo comandante, o generale, o capo, ma è un
vecchio distrutto dalla guerra che non sa vedere altro che distruzione
e affligge le nuove generazioni con la guerra penetrata fino in fondo
nell’animo perché lui non ha potuto avere una vita.
Girl è una di questi. Fino a quando Girl ha avuto dalla sua
l’innocenza e il Dr. Death, è stata una grande
amica di Gravity. Si allenavano insieme, progettavano di scappare da
Battery City e trasferirsi a New York. Poi Girl ha compiuto quindici
anni, Dr. Death è morto, ed Erko l’ha cambiata per
sempre.
È la stessa, in fondo, nella sua coscienza. Con i suoi occhi
curiosi, con il suo modo di combattere con i problemi senza paura, con
i suoi sentimenti nascosti, nessuna paura di morire e il bisogno di
salvare il mondo. Ma ha sempre una pistola nella mano destra, ha sempre
l’ostinazione di un guerriero. Non ha una vita, per come la
pensa Gravity. Ancor meno di tutti gli altri, che tornano a casa da una
famiglia almeno. Lei torna a casa da Jenny, da Erko e dalla governante
Shelly. Si parla di conflitto, si scappa via dalla tavola e ci si
prepara a risolvere problemi, a calcoli, a studiare i vecchi libri.
Un tempo Gravity non aveva esitato a seguire Show Pony a casa di Erko;
discutevano di questioni che non riguardavano loro bambine. Jenny, lei
e Girl si rifugiavano nella cameretta della piccola e suonavano la
chitarra di Jet Star e quella di Fun Ghoul, cantavano e mangiavano
biscotti preparati da Megg prima e da Shelly poi con i disegni dei
volti dei Killjoys a portata di mano.
Girl si sistema le braccia dietro la testa e guarda le stelle. Sono
puntini bianchi nel manto nero. Sono minuscole lucciole
dell’atmosfera. Sono guide, per chi sa leggerla.
Ha sempre immaginato, da quando i Killjoys se ne sono andati, che
sarebbe bastato imparare a comunicare con le stelle, imparare a
comprendere i loro messaggi, per ritrovarli da qualche parte, una sorta
di posto-pausa, un luogo dove fermare il tempo, dove il tempo non
esiste, ogni istante è già trascorso e ancora
deve giungere, e si può rivedere tutto come in un film. Lei
si vede sedersi accanto a Party Poison, il dolore particolare e unico
fragile di bambina per la sua morte scompare del tutto,
perché lui è lì, Girl può
raggiungerlo tutte le volte che vuole. Può portare con
sé anche Jenny e Johnny e presentare i Killjoys ai due
gemelli. È tutto fantastico, può sognarlo anche,
certe volte, sembra in tutto e per tutto reale.
C’è un profumo di caffè
nell’aria, quello che una volta le fece assaggiare Kobra Kid
dicendole “questo è vero caffè, non
quella sbobba della mensa” in quel suo tono burbero perenne;
sulle loro giacche c’è ancora la sabbia del
deserto la polvere del combattimento, Girl ha tagli e graffi ovunque,
Johnny e Jenny hanno la pelle pallidissima, ma non ha importanza.
(Prima di varcare la soglia ha domandato loro come si sentono e non
hanno mentito quando hanno risposto “bene”,
è questo ciò che conta: che stiano bene, anche
con tutte quelle cicatrici). I Killjoys urlano in una direzione
imprecisata “Ehi, Joe, vai con la musica” e si
sentono delle canzoni, le hanno scritte proprio i Killjoys: parlano di
guerra di sangue d’amore di morte di vita, appartengono a
loro, si sente nelle note. Party Poison prende per mano lei e Jenny,
Johnny prende per mano Jenny e Fun Ghoul, Fun Ghoul prende per mano Jet
Star e Jet Star prende per mano Kobra Kid che prende per mano Girl.
Ballano insieme, per ore intere, ridono, cantano suonano e bevono
caffè di quello buono, non la sbobba della mensa.
Poi, di solito, arriva Shelly son il suo tocco delicato, le sfiora le
spalle e la informa che la colazione è pronta.
Tornare alla realtà è sempre facile, dopo,
perché Girl ormai ha imparato che i Killjoys non sono
spariti per sempre, che ogni volta che ne ha bisogno può
richiamarli indietro; Girl non è sola, loro sono assieme a
lei da sempre e per sempre.
Jenny è in tensione. Non che sia una novità.
Shelly riesce a sorridere, anche in quei momenti di panico e
d’attesa, quando guarda Jenny e vede in lei riflessa la
gioventù, e tutta la voglia di vivere. Forse la guerra non
insegna molto, e sbaglia nell’impartire la legge della
sopravvivenza – valida soltanto in conflitto – ma
rende quei giovani, quei combattenti, il fiore all’occhiello.
Devono capire quale sia il bene e quale il male, e allora hanno una
vera motivazione. Capiscono perché sia importante vivere,
perché sia bello vivere.
Era stupendo circondarsi della presenza di Jenny, Johnny, Girl e
Gravity. Shelly era certa avrebbero combattuto fianco a fianco fino
all’atto finale. Ma la situazione si è modificata.
Capisce il motivo. Gravity è arrivata alla base quando ormai
era già stanca della guerra, non ne voleva sapere
più di tutto quel dolore. Aveva trovato Girl, una compagna,
un’amica, qualcuno con cui condividere la fuga. Poi Girl era
stata convinta da Erko a scegliere la strada giusta: le è
stato ricordato come erano morti i Killjoys. Ha pianto tanto, Shelly
ricorda i singhiozzi, appostata dietro la porta dello studio di Erko,
ricorda come uscivano fuori dalla gola di Girl, strozzati, le mozzavano
il fiato. Ma da quel giorno pezzi di lutto, di sofferenza, si sono
staccati da lei. È stata un po’ più
libera.
Gravity, nel frattempo, è sparita dalla casa. Shelly sapeva
sarebbe successo. Gravity e Girl erano come sorelle … vide
come reagì Girl – e sprazzi di Gravity, tra le
strade della base – e ne fu certa. Stava male, fisicamente.
Un mese dopo Jenny si confidò con Shelly: voleva dichiarare
il suo ’interesse’ per Girl. Shelly le
consigliò di farlo, fin quando era in tempo, fin quando Girl
non si fosse stancata del male e avesse preso a rendersi insensibile.
Ne uscirono vincitrici Girl e Jenny. Ma Gravity … a volte
Shelly si sente in colpa: forse se avesse lasciato che Girl soffrisse,
allora avrebbe sentito estremamente la mancanza dell’altra e
sarebbero ritornate l’una all’altra.
Jenny addenta un paio di biscotti secchi, di quelli che nel barattolo
sui mobili della cucina non mancano mai, Shelly non permetterebbe che i
suoi ’bambini’ rimangano senza cibo, o senza i
necessari dolciumi richiesti dalle varie crisi. Guerra, conflitto e
quant’altro non rendono gli adolescenti diversi nel profondo,
nel disagio del cambiamento, nel bisogno di certezze. E di biscotti. Ha
le labbra imbrattate di briciole, e non ha occhi che per le sue mani,
la superficie del tavolo, i tovagliolini posati di fronte a lei.
Un tempo, a quello stesso tavolo erano stati seduti i Killjoys.
L’avevano raccontato a Shelly; lei riusciva a vederli, nel
suo modo particolare, nella sua capacità di immedesimarsi,
di interessarsi tanto a fondo da percepire quello che la gente
raccontava. Non camminava e basta. Ed era quella la ragione che aveva
spinto Erko a prenderla con sé e Girl, quando Megg era
troppo stanca e Girl appena tredicenne, l’aveva notato.
L’armonia del suo essere, del suo muoversi senza entrare
nell’atmosfera altrui, senza disturbare
l’equilibrio. Shelly. La donna di casa perfetta, la madre di
cui Girl aveva sempre avuto bisogno. Ma era diventata la mamma un
po’ dell’intera base, nonostante i suoi –
ormai – trentacinque anni. C’è sempre
qualcuno, all’entrata della casa di Erko e di Girl
– e ormai anche di Jenny e di Johnny – fermo a
chiedere consiglio a Shelly.
Si sente completamente parte della base, la sua nuova casa; si sente in
simbiosi con Girl, con Erko, con quegli oggetti, ne percepisce
l’anima – senza esagerare, senza usare termini
eccessivi: hanno un’anima, una serie di ricordi impilati
l’uno nell’altro.
Poggia il palmo sul pugno chiuso di Jenny.
« Sta’ tranquilla, tesoro ».
Fino a oggi, non è mai accaduto nulla a Girl. Shelly non
riesce a motivare l’apprensione di Erko –
così diffidente nel manifestare le proprie emozioni, di
norma – quando Girl è fuori dalla base, anche per
raccattare scorte d’acqua nei dintorni.
« È che odio non poter andare in missione, odio
starle lontana, odio non sapere quello che succede. È
lecito, giusto? ».
Shelly annuisce; a lei non dispiace – come ad Erko
– che Jenny, per la sua malformazione cardiaca, non possa
sforzarsi. In particolare perché se stesse insieme a Girl
anche durante il ’lavoro’, si distrarrebbero
entrambe e rischierebbero troppo. « Certo che sì
… però questo intensifica la passione, dico io
».
Jenny la scruta in volto per un attimo, prima di scoppiare a
ridacchiare. Rossa in volto, per altro. “Colto nel
segno”, ghigna tra sé Shelly. È
piacevole conversare come un qualunque paio di amiche in un pomeriggio
d’angoscia insensata, come ci sono sempre stati prima della
Better Living e sempre ci saranno. “Sempre”,
ribadisce Shelly.
La rivoluzione è nelle anime delle persone, si dice.
Quando sono là fuori, nel deserto, tra la sabbia che vola in
mulinelli, bocche e nasi coperti dalle bandane, le torce – di
notte – a illuminare pochi metri davanti il loro naso
– e sono lì per l’acqua, per il cibo,
per delle pattuglie della Better Living da eliminare – quando
sono là fuori, soli, nel silenzio, nel fruscio del vento,
nel caldo soffocante, è tutto diverso.
Gravity, per quanto sia contraria a tutto quello, è in
allerta, è un animale a caccia.
Corpi tesi, occhi che hanno imparato a saper riconoscere le forme nelle
tenebre, braccia-mani-pistole pronte a scattare.
In fondo, alla Better Living sarebbe bastato di governare il mondo, di
rendere gli esseri umani dei gusci vuoti, degli insensibili amebi
sottostanti ai loro ordini.
Li sentono i muscoli, sotto i vestiti, sotto la plastica e il cotone,
la pelle – riescono quasi a percepire gli strati di pelle.
Sono appostati dietro un cespuglio di roghi, hanno spento il fuoco dopo
essersi accorti del silenzio interrotto da lievi rumori, trasportati
nell’aria, rumori metallici. Nel deserto dovrebbe esserci
soltanto strisciante fauna in cerca di cibo. Come loro. Uomini divenuti
fauna del deserto, in una lotta senza regole, all’ultimo
sangue.
E la Better Living. Sempre pronta a contro attaccare, mai esausta,
costantemente un passo avanti.
Ma la situazione sta cambiando, Erko l’ha promesso. Presto
– non si sa esattamente quando, ma Erko con
’presto’ potrebbe anche significare mesi, certo
– ma quel che conta è che c’è
una data, Erko la conosce, e ora dopo ora si avvicina, inesorabilmente
– ci sarà una svolta definitiva, e le sorti del
mondo dipenderanno dalle scelte dei singoli.
La rivoluzione è nelle anime delle persone che combattono
per la rivoluzione, si precisa.
Non importa se si vinca, o si perda. C’è sempre
qualcuno, dopo, a combattere per il passato, a ricordarlo; certo, la
Better Living ha un esercito infinito, a quanto sembra, ma loro sono
instancabili. Non bastano le ferite a fermarli.
D’altronde, allenati in modo impeccabile, è
rarissimo che vangano sconfitti. I ribelli.
Girl guida la missione, senza preoccuparsi della reazione di Erko
all’essere uscita senza il suo permesso e
all’affidarsi indebitamente, con un documento falso, il ruolo
di ’comandante supervisore’ della spedizione.
Alla base pensano tutti che sia valorosa, la ammirano, le donne la
venerano. La osservano, ormai da diversi anni, con occhi da possibili
amanti. È sbocciata, dopotutto. Anche sotto la divisa di
plastica e cotone dei colori dei Killjoys, si notano le sue gambe. Il
volto di Girl è magnetico: ha dei tratti morbidi, i suoi
occhi inafferrabili e distanti lo rendono freddo, la bocca rossa rende
impossibile il rimanere impassibili al suo passaggio o alle sue parole.
La sua vita ritirata, se non per sporadiche visite a Megg o Show Pony,
la fanno sembrare misteriosa, quindi desiderata.
« Muoviamoci ». L’incanto si spezza, Girl
assomiglia a Erko mentre con gesti svelti ricorda la formazione. Girl e
Johnny saranno i primi a muoversi. Alle loro spalle, assicurandosi
della loro incolumità, un paio di uomini esperti, a cui
quasi sta stretto il comando di una ragazzina, dopotutto, ma non ha mai
sbagliato un colpo, non è mai morto nessuno con lei.
Gravity e altri tre formano un circolo intorno alla zona; un bagliore
è visibile dietro un piccolo raggruppamento di piante
grasse. Girl la indica ai tre compagni, si spostano, passi di silenzio
e tenebre. Un pluf fragoroso nell’immobilità del
deserto.
“Stanno diventando più ottusi che mai”.
Girl non ha mai pietà di quelle guardie – gli
ordini le impongono di non smascherarli, assolutamente vietato, a
tutti, ma spera sempre di aver colpito uno degli assassini dei
Killjoys. Arde perché sia così.
Sono esattamente alle spalle dell’origine della luminescenza;
ombre apparentemente umane. “Ombra singola. Ha, al fianco,
oggetti irriconoscibili. Presumibilmente armi” appunta
mentalmente. Indica a Johnny la sagoma proiettata sulla sabbia,
annuisce.
Sbucano alle spalle dell’individuo, pronti ad azionare le
armi. Niente bianco, niente divisa.
« Ehi! ». È un ragazzo, si alza in
piedi, in volto un’espressione infastidita. Lancia un paio di
occhiate a Girl e Johnny, poi sbuffa: « hmpf, ribelli
… ».
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