OnTheMouthOfHell

di Imaginary82
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** ...for as long as we both shall...dead. ***
Capitolo 2: *** Rain And Memories ***
Capitolo 3: *** Weeping In The Silence ***
Capitolo 4: *** A Moment To Suffer ***
Capitolo 5: *** Candle's Flame ***
Capitolo 6: *** Hope Has A Name: Alice ***
Capitolo 7: *** Fly Me Away/Fly Me To Her ***
Capitolo 8: *** Unforgivable Sinner ***
Capitolo 9: *** Dear Edward ***
Capitolo 10: *** Cold Like The Death, Red Like The Hell ***
Capitolo 11: *** The deception of love ***



Capitolo 1
*** ...for as long as we both shall...dead. ***


Capitolo uno Abbastanza in trepidazione posto questo primo capitolo...l'ansia c'è ed è tanta. L'idea è nata da un sogno...si lo so, non è nuova, ma è la verità. Un intreccio tra due romanzi che amo: Twilight e Jane Eyre. Non so cosa ne uscirà, ma ringrazio fin da ora chi dedicherà un po' del suo tempo a leggere.


Alla prima persona che mi ha incoraggiata a scrivere, Silvia,
 una fantastica amica, una dolce sorellina...
...una futura speciale mamma.
A Tony, l'altra metà del mio cuore, il completamento della mia anima.
A Micht, che è sempre pronto a leggere e a notare ogni mia svista
sulla saga...la mia enciclopedia vivente su Twilight.
A Juls, Marcy, Momo e Ale...ragazze, siete fantastiche.







CAPITOLO UNO

Nel  momento in cui il buio si è abbattuto su di me e le tenebre hanno preso dimora nella mia anima…ammesso che io ne avessi ancora una…la mente, costretta nella morsa della sete, riusciva a formulare un unico pensiero, si aggrappava ad un’unica speranza.

Avevo visto un angelo tramutarsi in demone, il suo volto, contemplato solo da lontano come un’opera d’arte, un quadro dalle tinte più tenui e delicate, una melodia dalle note gentili, si era deformato in una smorfia mostruosa, gli occhi, lambiti dalle fiamme del desiderio, si posarono su di me come quelli di una bestia affamata davanti la sua preda.

Non avevo via di scampo…

Il verdetto era stato pronunciato: la mia vita per un titolo…questa era la mia sorte.

Perché, in quel momento, stretto nella morsa d’acciaio di quelle che credevo le calde e morbide mani di mia moglie, avevo compreso il sopraggiungere della fine e, con rassegnazione, mi abbandonai ad essa…

…e fu l’inferno…

L’oscurità che mi aveva avvolto, le tenebre, che dalle sue labbra, un tempo così invitanti, così ambite, si erano insinuate in ogni fibra del mio essere, tramutate nella più folle delle torture.

All’inizio fu solo caldo…che aumentava…divampava…un fuoco che cresceva a dismisura, più forte di qualsiasi sensazione che avessi mai provato in vita mia.
Muoversi era impensabile, nessuno degli arti che un tempo mi appartenevano, sembrava riconoscere la mia autorità, la mia stessa mente non riusciva a formulare un ordine…c’era solo fuoco, tormento, bruciore.

Avrei voluto urlare, chiamare qualcuno che ponesse fine a quell’interminabile rogo che mi avvolgeva da dentro.

…nessun suono usciva dalla mia bocca…

*…se non potevo urlare, come potevo implorare di uccidermi?...

Potevo solo stare lì…attendere…sopportare…patire…l’unico pensiero era la fine…prima o poi…speravo quanto prima…tutto sarebbe finito…

Passarono ore o giorni o forse di più, ma improvvisamente mi accorsi di un cambiamento…l’incendio non si era spento, ma il mio corpo provava a domarlo…finché cominciò lentamente a scemare, le fiamme si ritraevano…potevo pensare nitidamente e percepire ogni minima parte di me.

Sentivo…suoni…rumori…alcuni sconosciuti, altri familiari eppure così nuovi nella loro chiarezza.

…un fruscio…

…passi…leggeri…rapidi…

…un peso sul giaciglio della mia agonia…

…una voce…

“Edward…tesoro…”

…mia moglie…la sua voce…

E in quel momento la percepii…confortevole…leggera…dolce…

…l’assenza di dolore…

Aprii piano gli occhi, intimorito dalla realtà che mi avrebbe accolto…

…inferno o paradiso?

Ciò che vidi mi sorprese, era come se una spessa coltre di nubi si fosse diradata davanti ai miei occhi consentendomi di cogliere ogni cosa nella sua pienezza.
Tutto era così chiaro…limpido…

Quelli che prima erano solo colori, ora colmavano i miei occhi, suscitando sensazioni inaspettate, la luce che colpiva ogni cosa, la rivestiva di un aspetto nuovo e l’aria…non era solo aria…era un tripudio di odori, di profumi e potevo distinguere ogni singola particella di polvere che la popolava. Guardai il soffitto e riconobbi la camera matrimoniale che avevo fatto preparare per lei…il nostro nido d’amore…palcoscenico della più ignobile unione…
Il soffitto alto era di un azzurro chiaro, quasi bianco, simile alla nebbia marina che si alza all’alba, le cornici di gesso, che terminavano agli angoli con vezzosi motivi floreali, richiamavano il manto scuro della notte che s’infrangeva contro l’avorio delle pareti. Riconobbi le tende pesanti alle finestre, che si posavano sul pavimento in armoniose pieghe e alzando gli occhi, la spalliera del letto, della più pregiata seta color crema, all’interno di preziosi intarsi color oro…ogni cosa, nonostante la familiarità, si arricchiva di particolari che sarei rimasto a guardare, osservare e annusare per ore…

…il paradiso…

“Edward mi vedete?...Non potete sapere quanto ho aspettato questo momento…adesso nessuno potrà dividerci…sarete sempre mio”

Con un movimento inaspettatamente rapido, meravigliato dalla efficace risposta del mio corpo alle mie intenzioni, mi misi a sedere sul letto e mi voltai nella sua direzione…
Se ciò che avevo visto fino a quel momento mi era apparso magnifico, nella sua semplicità, la visione che mi si presentava davanti era impossibile da definire…
La sua presenza nella stanza  annullava tutto il resto…la fine sottoveste di seta, grezzo lino, se paragonata alla trama della sua pelle, celava solo in minima parte la sua esile figura. Le gambe, lunghe e sottili erano di un pallore irreale e rilucevano come una miriade di piccole stelle, laddove il sole le baciava grato con i suoi raggi, così come le braccia, su cui poggiava lieve il peso inconsistente del suo corpo, nell’atto di sporgersi verso di me…

…il paradiso…

Le spalle delicate erano accarezzate da lunghe onde biondo rame, che scendevano fino a posarsi morbide sulle lenzuola…allungai la mano e ne presi una ciocca tra le dita…da esse si diffuse una sensazione inaspettata in tutto il corpo…era come toccare l’inconsistenza di una nuvola…

Alzai gli occhi fino a godere della vista del suo ovale…labbra rosse e sottili, aperte in un sorriso, contornavano una fila di denti bianchi e regolari…perfetti…il naso era un delizioso accento che impreziosiva i lineamenti conferendo al volto ulteriore bellezza…per un attimo ebbi l’irrefrenabile impulso di allungare la mano per poterla toccare…
…poi mi soffermai su quel sorriso…e non percepii nessuna dolcezza…e non c’era eleganza in quel corpo, proteso così impudicamente verso di me, ma era intriso di lascivia...ogni movimento, seppur impercettibile era carico di dissolutezza…la mia mente era stata talmente distratta dalla moltitudine di particolari, che non ero riuscito a cogliere prima quell’atteggiamento e, soprattutto, non avevo ancora prestato attenzione ai suoi pensieri…la sua mente, in quel momento, partoriva immagini di un’oscenità impensabile anche per un uomo…le sue fantasie sessuali non avevano limiti e attendeva solo che io mi ridestassi dal torpore del corpo e dal tripudio dei sensi per poter soddisfare ogni sua voglia più perversa.
Fu allora che realizzai di poter ascoltare la sua mente, che quel brivido di repulsione che avrei dovuto provare era tale solo nelle intenzioni…ma rimaneva lì, non avrebbe mai raggiunto lo strato più superficiale della mia corazza. E la mia agitazione, il mio sconcerto non erano affatto accompagnati dal ritmo incessante che avrebbe dovuto avere il mio cuore…

…il cuore…

…prestai attenzione…

…ascoltai…

…nulla…

Quella rivelazione mi bloccò il respiro, aprendo le porte ad una nuova consapevolezza…

…respirare…

…potevo non respirare…non era assolutamente necessario…il mio corpo non necessitava di aria…

Che razza di creatura ero diventata?

Alzai nuovamente lo sguardo e finalmente incontrai il suo…i suoi occhi, perfetti nella forma, circondati da ciglia lunghe e folte, avevano un colore di per sé infernale…due profonde pozze infuocate…non avevo mai visto iridi di quel colore, inquietante, un rosso vivo, per quanto l’aggettivo stridesse nell’accostamento con quell’essere…occhi smaniosi, sinistri, malvagi…e allora mi resi conto che lei…mia moglie…era il mostro…

Dopo un attimo di esitazione, di innaturale immobilità, il mio corpo ebbe una reazione, che stupì me per primo. In un attimo mi ritrovai rannicchiato contro il muro, che avevo raggiunto fulmineamente, ancor prima di partorirne l’intenzione, con uno scatto subitaneo avevo raddrizzato la schiena e fendendo l’aria attorno a me mi ero ritratto da lei assumendo inconsapevolmente una posizione d’attacco…un ringhio mostruoso, più simile ad un sibilo, uscì dalle mie labbra e sentii la bocca riempirsi di fiele.

…l’inferno…

“Edward tesoro…mi rendo conto che la situazione potrà sembrarvi strana, ma vi assicuro che è tutto normale, voi state bene e, se vi lascerete condurre da me, potremo stare insieme per l’eternità”.

“State lontana da me, non vi avvicinate” urlai.

Come se non mi avesse affatto ascoltato, con un balzo felino mi raggiunse, si avvicinò lentamente, con movenze sinuose, e fece aderire il suo corpo al mio…era un essere disgustoso, ma sapevo di non poterla avversare, la forza di cui mi aveva dato prova era qualcosa di incontrastabile.
Il suo viso a pochi millimetri dal mio, gli occhi nei miei, le labbra che emanavano un respiro dolorosamente dolce e invitante.
Ondate di veleno…impulsi ignobili e devastanti…mi aveva reso come lei…e non potevo che provare repulsione anche per me stesso.

“Non è stato facile” disse carezzandomi un fianco
 “per un attimo avrei voluto continuare” la mano risaliva sul mio petto, lenta,
“il vostro sangue aveva un sapore delizioso, mai sentito prima, avrei voluto berne ancora e ancora”

Pronunciava quelle parole con la voce rotta dal desiderio, stuzzicando con le mani punti che non credevo nemmeno di avere, il suo fiato, corto e ansante, mi riempiva le narici e scendeva giù nel mio corpo tramutandosi in calore, un calore che mi bruciava in gola come un attizzatoio rovente.

“Ma se non mi fossi fermata, non sareste qui…con me”

Se avessi dato voce al mio istinto, avrei lasciato che la sua bramosia mi avvolgesse, mi sarei abbandonato a quegli atti di truce impudicizia che tanto vividamente la sua mente mi mostrava.

“Prendetemi Edward…qui…ora”

Ma diedi voce alla ragione, non potevo affidarmi a lei…non dopo quello che aveva fatto…
Sfiduciato, con tutta la forza che credevo non avere, poggiai le mani sul suo petto per allontanarla da me. Ciò che accadde mi lasciò sbalordito…la forza che riuscii ad imprimere in quel gesto fece compiere al mostro un volo che gli fece attraversare a mezz’aria tutta la stanza, ma prima di raggiungere la parete opposta, con la leggerezza di una libellula, compì una sorta di capriola e si rimise perfettamente ritta sulle gambe. Non mi guardava più con desiderio…dai suoi occhi furia…una furia violenta…ero riuscito non solo a rifiutarla, ma anche a respingerla.

“Credete di essere migliore di me eh? Prima o poi mi supplicherete di spiegarvi. Quando la sete brucerà in ogni fibra del vostro essere…quando vi ritroverete sporco del sangue di un’ignara vittima, allora desidererete il mio aiuto”

“Io non sono come voi. Smettetela!”.  In quel momento il bruciore era insopportabile…un dolore secco che come una morsa mi attanagliava la gola.

…la sete…

Se soddisfarla avrebbe voluto dire macchiarmi del sangue di un innocente, allora avrei preferito sopportare quell’arsura atroce per…
…per quanto? Cosa sarebbe successo? E se non fossi riuscito a dominarmi? Se alla fine avessi ceduto? A lei…a me stesso…



Mi voltai, dandole le spalle e mi scontrai con quella che solo successivamente capii essere la mia immagine riflessa nello specchio…un’immagine estranea…l’immagine di un mostro…lo stesso insano pallore…occhiaie marchiate che rendevano ancora più spaventoso il colore rosso vermiglio dei miei occhi…un rosso cupo…rosso sangue…

…sangue…

Un pensiero insostenibile, un desiderio irrinunciabile…

Non potevo cedere…non volevo cedere…

Non avrei ceduto

Non avrei ceduto

Non avrei ceduto

Mi rannicchiai in un angolo, cercando di ignorare tutto: lei, che furiosa lasciava la stanza, la luce oramai flebile che entrava dalle finestre, la mia nudità, la mia frustrazione, i rumori, gli odori, i pensieri che mi arrivavano molteplici e confusi, chissà di chi, chissà da dove e la sete…quel rogo indomito che imperversava dentro di me…

Svuotata la mente dal troppo che mi circondava, riuscii a formulare un unico pensiero, una speranza a cui aggrapparmi:

Non avrei ceduto, non sarei stato un mostro.








*frase tratta da Breaking Dawn, cap. 19



Ringrazio ancora chiunque abbia avuto il fegato di arrivare fin qui. Vorrei consigliare qualcosa da leggere, storie meravigliose, di persone meravigliose:

la FF e le OS di Silvietta
la FF e la OS di  Juls/Gnuoba
le FF e la OS di Mirya
la FF di Alessia/Eclipse85

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Capitolo 2
*** Rain And Memories ***


Ringrazio tutti coloro che hanno letto lo scorso capitolo, chi lo ha commentato, chi è solo passato per dare un'occhiata.



 CAPITOLO DUE

Con la mamma adoravamo stare lì, sedute sui morbidi cuscini dalle tinte tenui, che aveva scelto e collocato personalmente sul vano della finestra più grande nel salone.
Avvolte in grandi scialli, ce ne stavamo scompostamente abbandonate a guardare la pioggia…

…la pioggia…

…era una costante a Wickham, il piccolo paese in cui vivevamo, così come in tutta la contea e quel grigiore, in quel momento, non faceva che aumentare il mio dolore, la mia angoscia, il senso di incompletezza che permeava la casa nelle ultime settimane.
Eveva il dono di privare di tristezza ogni cosa su cui posasse il suo sguardo, anche le lacrime del cielo: guardava fuori, con quella sua espressione curiosa, e mi faceva notare come tutto cambiasse aspetto colpito dalle innumerevoli gocce, come i colori diventassero più scuri e soffusi e l’aria si facesse più densa e odorosa. Mi aveva insegnato ad osservare il cielo e a coglierne i mutamenti…da quella finestra tutto sembrava più interessante, tra le sue braccia tutto diventava magico.
Il vuoto che aveva lasciato in quelle stanze e nei nostri cuori era incolmabile e si faceva ogni giorno più difficile da tollerare.

La mamma si occupava quotidianamente della mia istruzione, rendendo piacevole ogni argomento, dalla grammatica all’aritmetica, mi aveva fatta appassionare alla storia e alla letteratura, che amava, e riusciva ad attirare la mia attenzione anche con la geografia, materia che io, invece, detestavo. Mi era impossibile memorizzare tutti quei nomi: contee, città, fiumi, laghi…erano cose paradossalmente così astratte, che si affollavano nella mia mente, creando una gran confusione. Non che non mi piacesse sapere di posti nuovi, anzi…la mia curiosità andava al di là dei libri, avrei voluto vedere con i miei occhi quei luoghi, conoscerli davvero, apprendere nuove lingue, conoscere nuove culture, nuove tradizioni…

…viaggiare…

…era stato il sogno della mamma, sin da bambina, la sua intenzione, contrariamente a quanto avrebbe voluto per lei la nonna, era quella di accompagnare nonno Henry nei suoi viaggi d’affari non appena avesse raggiunto l’età giusta; lui era un  commerciante di vini e questa sua attività lo costringeva a viaggiare di frequente.
Mamma mi raccontava spesso di come rimanesse ore ad ascoltare i racconti di suo padre, fremente all’idea che presto anche lei avrebbe potuto vedere con i suoi occhi tutte quelle meraviglie.

Nell’Aprile del 1826, a 17 anni, aveva conosciuto papà e diceva sempre che era stata la cosa più bella della sua vita, nonostante ciò, ai miei occhi, avesse posto fine ai suoi sogni di bambina e, quando le chiedevo se fosse triste per non aver più visitato quei luoghi, lei mi rispondeva:

“Sposare tuo padre è stato l’inizio del viaggio più bello che avessi mai potuto intraprendere, ogni giorno mi conduce in posti inesplorati della mia anima e mi ha permesso di raggiungere la meta più ambita: avere te!”

I suoi occhi si spalancavano luminosi quando mi raccontava di quei giorni, della corte timida e impacciata di papà, di come fosse attraente con la divisa e l’elmetto, i baffi e i favoriti sempre curati. Nonno Henry voleva un gran bene a sua figlia e avrebbe fatto di tutto per vederla felice, anche acconsentire ad un’unione che di conveniente aveva ben poco. Quando Charlie Swan, capo del dipartimento di polizia di Wickham, si presentò davanti a lui, fintamente sicuro e risoluto, per chiedere la mano di Renée, il nonno non poté fare a meno di acconsentire, gli sguardi che il giovane rivolgeva a sua figlia erano pieni d’amore e di adorazioni e non poteva desiderare di meglio per lei, essendo stato costretto, anni addietro, ad un matrimonio di mero interesse, che gli aveva donato come unica gioia i suoi figli: il timido e introverso John e la dolce ed esuberante Renée.
Il nonno sapeva bene che un uomo come l’ispettore Swan, così calmo e pacato, sarebbe riuscito a calmare senza opprimere il carattere fin troppo estroverso di sua figlia, l’avrebbe amata e rispettata, come pochi uomini avrebbero saputo fare.
La decisione destò non poco disappunto in sua moglie, che avrebbe voluto vedere Renée sposata ad un ricco possidente, ad un ufficiale dell’esercito o ad un Lord. La mamma mi aveva raccontato più volte, sotto mia esortazione, il monologo di nonna Blanche, dopo che nonno Henry l’aveva messa al corrente della notizia.

“ Non dimenticate che lei è una Dwyer e che nelle sue vene scorre anche il sangue dei Clarke. Come avete potuto benedire una tale unione?
Come può una tragedia del genere rendervi così compiaciuto?
Se vostro padre fosse vivo…oh  misericordia…
Sicuramente si è rivoltato nella tomba solo sentendo il nome Swan!
Una Dwyer…mia figlia…con una squattrinata guardia di paese…
Che diranno i Mallory? E gli Stanley?
Sapete chi ha chiesto la mano della signorina Jessica dopo che vostra figlia ci ha umiliati mostrandosi al braccio della plebe di Wickham?
Ebbene sì…Sir Michael Newton! E Lauren non ha invitato Renée al suo ballo di debutto, per non essere costretta ad invitare anche quell’individuo!
…oh cielo…hai rovinato nostra figlia…l’unica amica che le è rimasta è la figlia del reverendo Stanley, la signorina Angela, ma sono sicura che le stia vicino più per compassione che per amicizia.
…che sciagura…oh…i miei poveri nervi…Bessie!...i sali…presto…”

La mamma aveva ascoltato gli sproloqui non troppo celati della nonna quella sera e, se possibile, amò ancora di più suo padre, che, nonostante le parole velenose della moglie, si beava al pensiero della vita che avrebbe condotto sua figlia. La partenza per Madeira era imminente e inevitabile, i suoi affari vacillavano ultimamente e la sua presenza sul posto era necessaria. Aveva predisposto tutto: la casa sarebbe andata a Charlie e Renée e avrebbe lasciato le terre e le scuderie a John, era riuscito a ricavare anche una rendita mensile per i suoi figli, in modo che non avrebbero avuto problemi e che le loro vite non sarebbero state condizionate, in alcun modo, dall’andamento dei suoi affari.
Era abituato ad ignorare nonna Blanche, i suoi discorsi erano sempre mirati ad ottenere qualcosa, si lamentava costantemente, affermava di essere circondata da incapaci e che lo stile di vita che era costretta a condurre non fosse assolutamente all’altezza della sua posizione.
Ricordo interi pomeriggi passati a ridere, mentre mamma leggeva stralci di un diario, che aveva rinvenuto dopo la partenza dei suoi genitori, in un vecchio baule; leggeva quelle pagine in parte divertita, in parte dispiaciuta per la nonna…
…nella sua limitatezza di vedute, la sua condizione doveva apparirle davvero misera, nonostante possedesse più della maggior parte delle famiglie di Wickham messe insieme.

“…Lady Mallory è stata così gentile da invitarmi per un the. Ho ricevuto il suo biglietto ieri, nel pomeriggio, sicuramente suo marito è tornato dalla Cina, perché una carta del genere non si è mai vista nella contea del Tyne and Wear e probabilmente in tutta l’Inghilterra: la busta è di uno splendido rosa corallo, che fa da sfondo ad un’intricata fantasia floreale dorata e in rilievo…è un piacere far scorrere quelle trame sotto le dita…all’interno, il biglietto sottile, quasi trasparente, è di un elegante color fiori di melo, l’unica nota stonata è l’indelicata e sgraziata grafia di Evelyn. E’ oltraggioso che lei possa godere di una simile rarità, mentre io sia costretta a risponderle con della volgare carta bambagina che Henry ha portato dal suo ultimo viaggio…da una strana città chiamata Amalfi. Che rabbia…lui e il suo vino…che lo porta sempre in posti insignificanti!
Ho chiesto a Bessie di preparare l’abito di organza color rubino scuro e mi sono fatta acconciare i capelli all’ultima moda di Londra. Lei è molto brava con quell’arnese che Henry ha portato da Parigi e ha creato dei riccioli favolosi che incorniciavano perfettamente il mio viso.
Ero fiera del mio aspetto, ma, entrata a Mallory House, quando ho visto Evelyn, mi si è raggelato il sangue nelle vene”

…le smorfie che mamma faceva durante la lettura erano superbe…doveva aver passato tanto tempo ad osservare la nonna e le sue “crisi di nervi”…la supplicavo di continuare a leggere, nonostante conoscessi quelle pagine ormai a memoria…

…”…l’insulsa figura di Lady Mallory era adornata del più bel vestito che avessi mai visto, sicuramente lo aveva commissionato ad una sarta di Gateshead, perché il taglio era molto simile agli abiti che sfoggia mia cugina Bertha.
A prima vista il tessuto sembrava seta, ma, come ha prontamente precisato quell’arpia, si trattava di China Jacquard, di un superbo blu reale, su cui erano state intessute a fili d’oro meravigliose libellule, talmente belle che non sembravano ricamate, sembrava che si fossero posate per diletto su di lei. Una fantasia del genere addosso a lei è uno spreco e se ha indossato un abito del genere per un semplice the, cosa avrà in serbo per il prossimo ballo?
E’ stato un lungo pomeriggio…le nostre porcellane Worcester sembrano dozzinali ceramiche in confronto al servizio Wedgwood che non ha esitato a mostrarmi, dicendo che un servizio di quel genere è da considerarsi una sorta di investimento, qualora si aspirasse ad avere determinate frequentazioni e si volesse aprire le porte a nuovi ospiti.
Rientrata in casa, per concludere la giornata, ho discusso con Henry, anzi, sono stata bellamente ignorata, come al solito. Egli non riesce proprio a comprendere determinate necessità e crede che i miei siano solo capricci. Se fosse stato per lui, i nostri figli sarebbero cresciuti frequentando quella sudicia scuola di paese e non ci sarebbe il bisogno di partecipare agli eventi mondani. Per fortuna che riesco a mantenere i rapporti con alcune delle migliori famiglie della contea, nonostante la sua continua assenza e il suo disinteresse.
La mia Renée sta crescendo e devo fare in modo che le passi quell’assurdo interesse che nutre nei confronti dei racconti del padre. Devo riuscire ad assicurarmi per lei una vita migliore di quella che il destino ha riservato a me”.

Povera nonna…chissà quanto avesse sofferto nel veder crescere una figlia così diversa da ciò che avrebbe voluto. Era riuscita a far sposare zio John con la figlia di sua cugina Bertha, Diana, una donna fredda e calcolatrice, che mostrava tutto fuorché amore, nei confronti del povero marito.
Il fratello della mamma era una persona mite, pacata, avrebbe fatto qualsiasi cosa pur di compiacere sua madre, anche sposare una donna verso la quale sapeva di non poter provare alcun trasporto e, nonostante ciò, renderla felice in tutti i modi possibili.
Quando, con mamma e papà, ci recavamo a Gateshead, ci accoglieva un ambiente freddo e deprimente, zia Diana era sempre impeccabile nell’aspetto, era un’ospite perfetta, ma nei suoi modi non v’era traccia d’affetto, anzi…si poneva con superiorità nei confronti miei e della mamma, rendendo legittimo lo stesso tipo di comportamento da parte delle figlie Georgiana ed Eliza, e i suoi occhi urlavano disprezzo quando si posavano su papà, soprattutto quando lui e la mamma si scambiavano quegli sguardi colmi d’adorazione.
Gli zii non si erano mai concessi in pubblico effusioni di alcun tipo e dubito che ne avessero in privato e questo, nonostante la mia tenera età, mi appariva assai strano…ero abituata a vedere mia madre correre incontro a papà ogni giorno, al ritorno dal lavoro, li vedevo abbracciarsi e baciarsi ad ogni occasione, era normale vederla sfilargli i pesanti stivali o massaggiargli le spalle per sciogliere i muscoli dalla tensione che il suo lavoro gli creava.
Avevamo un’unica domestica, che faceva a tutti gli effetti parte della famiglia. La mamma si occupava delle faccende più “leggere” e si dilettava in cucina nella preparazione di squisiti dolci, mentre Kitty si occupava instancabilmente del resto.
Capitava spesso, entrando in cucina, di vederla con le braccia immerse nell’impasto fino ai gomiti, i ciuffi di capelli, sfuggiti alle forcine, sulla fronte e sbuffi di farina sulle guance.
Nel vederla, bellissima, colpita dai deboli raggi di sole che raramente allietavano il cielo della contea, papà restava a guardarla estasiato e quando lei se ne accorgeva, si raddrizzava, scostandosi i capelli dalla fronte con il dorso della mano ancora imbrattata, imbiancandosi ancora di più il viso, allora si guardava le mani e si metteva a ridere, di quella risata limpida e cristallina che riempiva la casa e scaldava il cuore mio e di papà.
Si amavano…di un amore evidente ma discreto, profondo e disinteressato…li univa una complicità assoluta e la completa condivisione della vita…papà sembrava nutrirsi di lei, della sua gioia, della sua vitalità…
Quando scoprirono di aspettare un figlio, l’idillio fu completo.

Purtroppo l’attesa non fu facile, mamma passò gli ultimi tre mesi a letto e impiegava il tempo, nel suo scorrere lento, nell’occupazione che più la gratificava: leggere…
…leggeva per me, ad alta voce, mentre accarezzava la pancia che avvolgeva la mia vita.
Mi ha letto molte cose in quei giorni ed era convinta che io apprezzassi particolarmente Shakespeare, perché quando pronunciava i suoi versi sembrava che io facessi delle vere e proprie capriole.
Leggeva “Sogno di una notte di mezza estate”, un pomeriggio e, mentre declamava le parole di Ermia, per la prima volta, sentì quel piccolo colpo.
“Se mai dunque i fedeli innamorati soffrono, è per decreto del destino: impariamo perciò a portar pazienza in quest'avversità che ci è toccata, ed è croce usuale, pertinente all'amor come i sogni, ed i sospiri, ed i pensieri e i desideri, e i pianti: corteo dell'infelice tenerezza”.
Era un passaggio che la emozionava molto, mi disse, e sentirmi proprio in quel punto fu troppo per lei…il libro le cadde dalle mani, che andarono a finire automaticamente sulla pancia e dai suoi occhi cominciarono a scorrere copiose ma dolci lacrime…papà la trovò in quello stato al suo ritorno e la mamma spesso lo punzecchiava per la reazione eccessiva che ebbe:
“Renée, tesoro, cos’hai?”
“Charlie…io…”
“Amore, parla…è successo qualcosa…il bambino…”
“No amore…io…ho sentito…”
“Hai sentito…cosa hai sentito? Per l’amor del cielo…”
“Caro…calmati…va tutto bene…io…lui…”
Si asciugò le lacrime e prese le mani di papà poggiandosele in grembo, lui assecondò i suoi movimenti, posandole con gran delicatezza sul pancione, quasi timoroso e impaurito da quello che sarebbe potuto succedere.
Santo cielo, l’ho sentito!” gridò.
“Di’ qualcos’altro…parla” disse la mamma.
“Cosa devo dire?…mio Dio…Renée…di nuovo…”
“Al bambino piace il suono della tua voce”
“Dici sul serio? Hey?” sussurrò picchiettando con l’indice, sul punto in cui il bambino, io, aveva scalciato “piccola? Sono papà”…le lacrime riempirono i suoi occhi…fu quello, mi disse, il momento in cui capì davvero che sarebbe diventato mio padre,
“Piccola? Tesoro…non è detto che sia femmina”
“Oh sì…ne sono convinto vita mia, sarà una piccola stella, avrà i tuoi occhi verdi e i tuoi capelli d’oro ed io mi incanterò ogni istante guardandovi e vi amerò per il resto della mia vita”.
La prima volta che mi raccontarono questa storia, mi rabbuiai e mi rannicchiai sul tappeto, col viso rivolto al camino,dando le spalle ad entrambi.
“Bella? Che hai?”
“Niente”
Papà si sedette affianco a me e mi prese il viso tra le mani
“Ma come niente…”
“Allora” dissi tirando su col naso “tu non mi vuoi bene!”.
“Bells ma che dici? Lo sai che ti adoro…tu e la mamma siete la luce di questa casa”
“Ma io non ho gli occhi verdi e non ho i capelli come quelli della mamma…sono brutta” dissi imbronciata.
Papà scoppiò a ridere e la mamma lo seguì a ruota, li guardavo incredula…aspettai paziente che mi dessero una spiegazione, perché davvero non capivo…
“Piccola…”
“Non sono piccola, ho 9 anni!”
“Signorina Isabella…va bene così?”
“mh…no…Bella basta…”
 “Bella…tu non solo non sei brutta, ma sei la creatura più bella che io abbia mai visto, quando ti guardo non riesco nemmeno a credere che tu sia mia figlia.
Non hai gli occhi verdi della mamma, ma i tuoi hanno lo stesso taglio dei suoi, brillano allo stesso modo quando sei felice, e sono di un profondo color nocciola.” Mi prese tra le braccia e mi fece sedere sul divano, accanto a lei, poi s’inginocchiò davanti a noi, come per ammirarci meglio, insieme.
“La vostra pelle è una distesa di candida seta ed emana un profumo che ammalierebbe qualsiasi creatura, umana e sovrumana, se mai esistesse. I tuoi capelli non sono biondi, come quelli della mamma, ma sono ugualmente soffici e lucenti e al sole emanano striature del mogano più acceso. Spero che tu non cresca in fretta Bells…perché sono un padre e non credo che mi piacerà vedere gli sguardi che attirerai su di te”.
Non avevo mai sentito papà pronunciare tante parole, solitamente era una persona taciturna,silenziosa,  ma si lasciò scivolare quelle parole direttamente dal cuore ed io non le avrei mai scordate, non avrei mai scordato la sua espressione soddisfatta, evidentemente meravigliato lui stesso da quello slancio.
 Si sedette affianco a me e ci stringemmo tutti e tre in un abbraccio.    



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Silvietta: tesoro mio...hai visto? Ce l'ho fatta! Non ci posso ancora credere e non smetterò mai di ringraziarti. La distanza scompare di fronte al bene che ti voglio.

Juls: che bello che hai lasciato un segno anche qui...ti ringrazio, per tutte le parole belle che dispensi e per quelle ancora più meravigliose che scrivi.

Fiorella: grazie mille per il complimento. Mh...scrivere benissimo...diciamo che io scrivo, poi chissà che ne esce...spero che anche questo capitolo noioso ti sia piaciuto.

Micht: grazie grazie grazie....spero per te che abbia solo commentato, senza rileggere il capitolo per l'ennesima volta...se così non fosse...mi dispiace...però grazie!!!

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Capitolo 3
*** Weeping In The Silence ***


Eccomi qui con un'altra litania...Vorrei spiegare un po' il perchè di questi capitoli, soprattutto a coloro che conoscono il romanzo che mi ha ispirata e che si staranno chiedendo cosa c'entri tutta sta roba con Jane Eyre. Apparentemente nulla! Molte cose torneranno in effetti e altre sono nate scrivendo.
Un po' come un regalo. A Bella un'infanzia, a Reneé un ruolo di mamma, che a mio avviso, manca un po' in Twilight, a Charlie un amore intenso e corrisposto.

Ovviamente le cose dovranno quadrare, quindi...
Per chi invece si stesse chiedendo dov'è LUI...beh...un altro capitolo di pazienza.
Infine, ringrazio tutti...lo farò sempre, perchè mi sembra un miracolo che qualcuno mi legga, quindi grazie a chi ha recensito, a chi ha solo letto, a chi ha inserito questa storia tra le seguite (13), tra le preferite (3), alle ricordate (2). A tutti grazie.

Capitolo Tre

Il parto fu molto difficile, ci furono complicazioni che misero a rischio la vita mia e della mamma, ma, per fortuna, andò tutto bene ed io nacqui paffuta e forte, come diceva sempre lei, con un “viso a cuore che era un capolavoro” e tanti capelli arruffati. Il medico le consigliò di concedersi un periodo prolungato di riposo, di assumere una balia, che provvedesse all’allattamento e di escludere categoricamente l’ipotesi di una seconda gravidanza.
Ovviamente non sarebbe stata lei, se avesse ascoltato i consigli del “caro vecchio dottor Walsh”. Appena si risvegliò, chiese subito di me e appena mi strinse tra le sue braccia, fu come essere riportata alla vita, si sentì piena di energia. Mi nutrì del suo latte per più di un anno e non permise a nessuno di svolgere quelli che erano i suoi compiti di mamma.
Continuò a provvedere al benessere e alla felicità di suo marito e si dedicò a tempo pieno alla mia crescita ed educazione.
Ero ancora in fasce e già mi parlava di letteratura, musica, arte…fu naturale per me sviluppare i suoi stessi interessi e condividere con lei quelle passioni. Purtroppo Dio non mi aveva infuso il suo stesso talento…quando poggiava le sue dita lunghe e sottile sui tasti del meraviglioso pianoforte a coda, che dominava il salone, riusciva a dar vita a melodie perfette e a riprodurre composizioni superbe. Diceva che ero io ad ispirarla, che le note nascevano dai miei sorrisi, dai miei gemiti e che lei non faceva altro che tramutarli in musica.
Una delle tante notti che passò ad ascoltare il suono del mio respiro, compose mentalmente una melodia che accompagnava il mio sonno e al mattino riportò quelle note sul pentagramma e diede un titolo a quella che fu la colonna sonora della mia fanciullezza: Bella’s Lullaby, la ninna nanna di Bella…la mia ninna nanna…non c’erano parole che potessero esprimere l’amore che lei mise in quella musica e non passava giorno senza che lei ci deliziasse nell’eseguirla.
La notizia della morte di nonno Henry, seguita a breve da quella della nonna, fu un duro colpo per lei. Nonostante si sforzasse di apparire serena, il suo sorriso aveva perso parte di quella lucentezza che lo caratterizzava, era come se la sua immagine si fosse sbiadita, come se fosse stata offuscata…non suonava più e passava gran parte del suo tempo in quella che era stata la stanza del nonno, circondandosi delle sue cose, abbandonandosi ai ricordi…lui era l’unica persona oltre papà ad averla amata davvero, senza riserve, senza aspettative.
Poco tempo dopo, un pomeriggio, di ritorno da una breve passeggiata con Kitty, vidi un uomo distinto uscire da Dwyer House, affrettai il passo e, quando entrai nello studio, mi si parò dinanzi una scena strana, il cui ricordo, ancora oggi, permane vivido e chiaro nella mia mente. Papà era seduto sulla sua poltrona, abbandonato, rigido e pallido, le labbra esangui, lo sguardo perso nel vuoto, e la mamma….

….la mamma era inginocchiata ai suoi piedi, il capo posato sulle sue gambe e sul volto, finalmente, di nuovo, un sorriso, se possibile ancora più luminoso, e negli occhi il miraggio di una rinnovata gioia.

Quando mi vide, probabilmente notando la mia perplessità, si alzò con una lentezza innaturale, a mio avviso, esagerata, si sedette sul sofà, vicino al camino, e con la mano fece segno di sedermi accanto a lei.

“Bella, tesoro…un miracolo” disse quasi singhiozzando “piccola mia, una nuova vita sta crescendo dentro di me, una creatura da amare che renderà ancora più felice la nostra esistenza…un fratello o una sorella a cui voler bene. Oramai sei grande Bells e ho bisogno che tu mi stia accanto in questo nuovo viaggio, che, ne sono consapevole, sarà tutt’altro che facile”.

Era una sensazione strana: la voce della mamma era un’esplosione di trepidazione, di gioia, ansia mista a pura estasi emotiva…ma, alle sue parole, il volto di papà si rabbuiò più di prima.

Come poteva l’uno soffrire così tanto per una cosa che rendeva immensamente euforica l’altra…

Sentii il fruscio della seta e mi voltai verso mia madre:

“Vado a stendermi un po’, tesoro, di qualsiasi cosa tu abbia bisogno, non esitare a venire nella mia stanza”. Si allontanò lentamente e appena udii la porta della sua camera mi alzai e mi andai a rannicchiare tra le braccia di papà, che immediatamente si chiusero attorno alla mia esile figura, in un abbraccio che mi comunicò uno straziante bisogno di conforto. Immerse il viso tra i miei capelli e col naso alla base della mia nuca inspirò profondamente, un gesto che faceva sempre con la mamma:

“Hai il suo stesso odore…fresie…vento…e sole…” disse a bassa voce, più a se stesso che a me.

“Che succede papà?” mi scostai per guardare meglio il suo viso.

Sospirò e con un sorriso tirato, prese il mio tra le sue grandi mani “Nulla angelo mio, dobbiamo stare vicino alla mamma senza affaticarla, dovrà riposare molto fino all’arrivo del fratellino”.

“O della sorellina!” lo stuzzicai io…

Mi abbracciò ancora più forte e delicatamente mi posò a terra “devo andare, a domani piccola, ti affido la mamma”.

“Non preoccuparti papà, ci penso io” dissi mettendomi sull’attenti come lui mi aveva insegnato. Si mise l’elmetto in testa e, baciandomi sulla fronte, si recò a lavoro.

Quella giornata passò lentamente e così tante altre. L’umore di papà migliorò leggermente, in compenso la mamma era raggiante. Passava la maggior parte del tempo a letto, o sul vano della finestra, a leggere, ascoltarmi suonare o semplicemente immergendosi in beate fantasie.
Continuava ad occuparsi della mia istruzione e incoraggiò il mio già forte interesse per il disegno e l’arte. Mi sembrava incredibile che anche io fossi cresciuta nella sua pancia e pensavo spesso a come il fratellino (la mamma era convinta che sarebbe stato un maschietto) sarebbe uscito da lì.

L’ultimo mese fu il più difficile, il suo aspetto risentì della sua sofferenza e appariva così esile nonostante il suo stato. La pelle tirata del viso, su cui non spiccavano più le labbra o gli occhi, ma gli zigomi, le tempie, il naso, il mento…sembrava che le ossa volessero sbucare fuori. Le braccia e i polsi sembravano fragilissimi e le dita ancora più sottili e allungate. Si alzava raramente e quando succedeva perdeva immediatamente le forze. Tutto ciò non le impedì di essere presente nella vita di suo marito e di sua figlia. Chiese a Kitty di spostare il cavalletto, gli album e tutta la mia attrezzatura da disegno, vicino alla finestra della sua stanza, in modo che potessimo stare comunque insieme e, quando non disegnavo, leggevo “Sogno di una notte di mezza estate” al fratellino, come lei aveva fatto con me.

“Bells tesoro, vieni qui”

Mi sedetti sul bordo del letto e le strinsi la mano che mi porgeva, sembrava agitata…

“Sono certa che il piccolo Henry verrà al mondo tra qualche giorno, sei contenta amore mio?”

Annuii insicura e continuai a stringerle la mano…era gelida…un brivido percorse la mia schiena e lei se ne accorse.

“Devi stare tranquilla, quando arriverà il momento, qui ci sarà una gran confusione, ma tu non ti dovrai agitare…la nascita di un bambino è un miracolo…ma è la cosa più naturale del mondo”. Poggiai l’orecchio alla sua pancia…mi veniva da piangere e non ce n’era motivo, o almeno questo era quello che pensavo.

“Non dovrai spaventarti se mi sentirai urlare, pensa che finirà presto e che quando sentirai il suo pianto sarai una sorella maggiore”.

Quelle “rassicurazioni” ebbero tutt’altro che il potere di tranquillizzarmi, anzi, mi fecero vivere i giorni successivi piena di ansia e di terrore.

Dovevo dormire profondamente quando cominciò, perché non mi accorsi di nulla, finché un urlo agghiacciante squarciò il mio sonno. Mi misi a sedere sul letto, mi rannicchiai circondandomi le ginocchia con le braccia, non avevo il coraggio di uscire dalla mia stanza, dovevo solo aspettare…

…aspettare il pianto…

…aspettare il pianto…

…aspettare il pianto…

Mi dondolavo avanti e indietro, con le orecchie tese ad ascoltare ogni rumore. Sentii le ruote della carrozza sul viale e qualcuno salire di corsa le scale

“Dottor Walsh…la prego…” la voce di mio padre era strozzata e quasi del tutto sovrastata dalle urla di mia madre.

“Capo Swan, stia indietro…farò il possibile per suo moglie e per il bambino”

Sentii la porta chiudersi, lasciando papà al di fuori da quello che sicuramente doveva essere stato uno scenario straziante. Lo sentivo singhiozzare…un pianto disperato, che si interrompeva ad ogni grido, per poi riprendere più intenso.

Non so quante volte sentii quella porta aprirsi per poi richiudersi, non so nemmeno quanto tempo durò la sua sofferenza, so solo che per un attimo pensai che l’avrei sentito a breve il mio fratellino e che la mamma mi avrebbe fatta chiamare perché andassi ad accogliere Henry. Ma non sentii nulla di tutto ciò.

Cercai di alzarmi e, incespicando nelle lenzuola, caddi per terra. La mamma diceva che ero costantemente attratta dal pavimento e non potevo darle torto. Alla fine riuscii a mettermi in piedi davanti alla porta della mia stanza, sapevo che prima o poi qualcuno, papà o Kitty, si sarebbe ricordato di me…ma era ancora troppo presto…

“Mi dispiace capo Swan” la voce del dottor Walsh era bassa, sofferente “ha perso troppo sangue…non ce l’hanno fatta…”

…la mamma…

“NO…NO DOTTORE…MI DICA DI NO! NON PUO’ ESSERE…NON LEI, NON RENEE!” papà adesso urlava…rabbia nella sua voce…rabbia e disperazione…

…la mamma…

“Renée..amore mio no…non puoi abbandonarmi…vita mia…torna da me…torna da me…torna da Bells…”

…la mamma…

I suoi singhiozzi, le sue parole, le parole del dottore…in quel momento capii…

…la mamma…

…la mamma non c’era più…

…la sua voce…non avrei più sentito la sua voce, non mi avrebbe più raccontato la pioggia, non avrebbe più suonato la mia ninna nanna, non avrebbe più ammirato i miei disegni…

In futuro avrei capito che il giorno in cui mi disse del germoglio di vita che stava mettendo le radici dentro di lei, fu lo stesso in cui papà capì che l’avrebbe persa…avrebbe perso l’amore della sua vita.

Rimasi lì, in piedi, in attesa, torturandomi le mani, pensando che se mi avesse vista, mi avrebbe sgridata e avrei voluto essere sgridata tutta la vita pur di riaverla accanto a me, ma sarebbe successo solo nei miei sogni oramai.

Mi sentivo la testa pesante e gli occhi gonfi di lacrime che aspettavano solo di essere versate. Improvvisamente e lentamente la porta si aprì, mostrandomi lo spettro di mio padre, che, quando mi vide lì, in attesa, scossa da un tremore violento, si lasciò cadere sulle ginocchia, davanti a me e mi strinse tra le braccia. Versammo le nostre lacrime in silenzio, sembravano non finire mai, credo di aver pianto tutte quelle che non avevo mai versato in undici anni di vita…finché, sfinita, mi feci rapire dal sonno, cullata dalle braccia calde di papà.



Vi chiedo IMMENSAMENTE perdono per questo strazio, mi è venuto così, non ci posso fare nulla!

E ora veniamo a noi...

@Biaa: che gioia la recensione di una lettrice "sconosciuta"...ti ringrazio tanto. Spero che anche questo capitolo ti sia piaciuto un po' e non sia stato troppo pesante. Addirittura hai citato una mia frase...sono lusingata.
@sil_p87: non posso non leggere le tue parole e gongolare...e commuovermi anche un po'. Ma oramai lo sai, c'ho la lacrima facile. Vedi di sistemarti un po' co sti nani che io voglio sapere! Ti voglio bene.
@Fiorels: grazie mille del complimento. Sì, il periodo è più o meno quello. Non sono sicura di saperlo rendere al meglio, soprattutto con i dialoghi che per me sono una croce, ma lo spero. E poi alla fine...io non c'ero, mica posso sapere... ;-P
@Micht82: che te lo dico a fare oramai...tanto tu ci DEVI essere...*_*
@Mirya: i tuoi commenti li rileggo almeno due o tre volte...mi piacciono più del capitolo...ovviamente! Grazie, per questo e per avermi fatto pubblicità immeritata.
Un ringraziamento speciale anche a gnuoba, che ha consigliato la mia ff.
A presto (è una minaccia). Miki.


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Capitolo 4
*** A Moment To Suffer ***


Capitolo Quattro Salve a tutti...con questo capitolo oserei dire che termina la parte introduttiva della storia.
Scrivendolo ho potuto dare voce ad un po' dei miei interessi.
Spero tanto che non lo troviate noioso come gli altri.
Al solito, ringrazio tutti, chi legge, chi commenta, chi passa avanti...tutti.





CAPITOLO QUATTRO

 Il mattino seguente fu Kitty a svegliarmi, mi fece alzare con una dolcezza e una delicatezza di cui non la credevo capace: era una paffuta ed energica ragazza di campagna, sprizzava energia e vitalità, era impossibile non volerle bene e lei ne voleva a me, alla mamma…svolgeva ogni mansione col sorriso sulle labbra, non aspettava mai che qualcuno le dicesse cosa fare, aveva uno spiccato senso dell’iniziativa e si aggirava rumorosamente per la casa trascinandosi il suo seguito di secchi, stracci, ramazza e piumini. Durante le nostre passeggiate parlava ininterrottamente, mi aveva insegnato a riconoscere vari tipi di erbe e fiori e l’utilizzo che se ne poteva fare, riuscivo, grazie a lei, a riconoscere più d’una varietà di uccelli e i venti, i loro nomi e la loro provenienza. Mi aveva insegnato cose che non avrei mai trovato sui libri e che, una volta tornata a casa, correvo a raccontare alla mamma. Mi parlava instancabilmente di Robert, il ragazzo assunto da suo padre per un aiuto nei campi, di come le facesse trovare ogni mattina, sul davanzale, un fiore diverso e degli sguardi fugaci che si scambiavano…quando parlava di lui, il suo viso si accendeva della stessa luce che avevano mamma e papà quando si guardavano.

Quella mattina Kitty era così diversa. Mi accorsi per la prima volta dei suoi capelli, liberi dalla cuffietta bianca e inamidata che portava normalmente, alla luce del mattino, apparivano di un nero profondo, lucidi e puliti, ordinati in una morbida crocchia alla base della nuca. Aveva un’espressione afflitta e una smorfia dolorosa, che le incurvava sgraziatamente le labbra, aveva preso il posto del suo solito sorriso. Non indossava la consueta divisa da lavoro, ma un abito austero di un triste color grigio atlantico che non le donava affatto. Quando mi alzai dal letto mi baciò la fronte e per mano mi accompagnò a sedere davanti lo specchio della mia toeletta. Eseguivo meccanicamente tutto quello che mi diceva di fare: mi lavai bene il viso, le mani, mi pulii le unghie. Mi sfilò la pesante camicia da notte e mi prese in braccio per poi immergermi nella tinozza, che non mi ero nemmeno accorta fosse stata portata nella mia stanza; con una spugna insaponata mi strofinò le braccia , la schiena , il collo, le gambe, perfino tra le dita dei piedi. Non comprendevo tanta accuratezza, ma lasciai fare…non eravamo mai state tanto tempo in silenzio, senza dire nemmeno una parola. Ancora avvolta nel telo, mi fece sedere e cominciò lentamente a pettinarmi i capelli…fu allora che le lacrime ricominciarono a scendere…

…la mamma…

..era lei l’unica che mi avesse mai pettinata o lavata o vestita. Sentii tirare su col naso e mi accorsi che anche il viso di Kitty era solcato dalle lacrime. Piangeva e si asciugava gli occhi con la manica del vestito, le guance rosse, le labbra strette. Mi fece alzare e, voltandomi verso il letto, vidi un vestito che non avevo mai visto prima: era un vestito molto elegante, dal taglio particolare, sarebbe stato molto bello se solo fosse stato di un altro colore. Sapevo che avrei dovuto metterlo, ma quel nero era come un macigno sul petto…mi toglieva il respiro. Quando vidi la ragazzina riflessa nello specchio, stretta in quell’abito, con i capelli fin troppo tirati dietro le orecchie e ordinati in una lunga treccia, stentai a riconoscermi. Il pallore della mia pelle era reso, se possibile, ancora più accentuato dal contrasto…era come se mi fossi vestita dell’oscurità profonda che avvolgeva inesorabile la mia anima.

Papà non lasciò la mia mano per tutta la funzione, le parole del reverendo Weber furono quanto di più commovente io avessi mai sentito, ma, nonostante ciò, tutto quello che si stava svolgendo davanti a noi, davanti ai nostri occhi vuoti, ricolmi solo di dolorose lacrime, era assolutamente estraneo alla vera essenza della mamma…tristezza…rigore…dolore…non erano un degno addio…

Tornammo a casa insieme a zio John e zia Diana, che si trattennero fino a tarda serata, per poi far ritorno a Gateshead. Mio padre rimase chiuso tutto il tempo nello studio, mentre io fui costretta a mandar giù il porridge che la zia aveva preparato, evidentemente controvoglia, prima di andar via.

…la mamma…

…la mamma ci metteva l’uvetta nel porridge. Non riuscivo a capire se il cattivo sapore era dovuto alla pietanza che stavo mangiando o al condimento di amare lacrime che oramai scendevano inesorabili, silenziose e ininterrotte. Quando finalmente Kitty decise che poteva bastare, mi diressi verso la stanza che mi celava il dolore di mio padre, volevo vederlo, sapere se stesse bene, ma lei bloccò la mia mano prima che potessi entrare.

“Non ora tesoro…”

Così, privata dell’affetto di mia madre e allontanata dall’abbraccio di mio padre, salii nella mia camera.
Rimasi immobile nel letto, a guardare il soffitto…il fruscio delle fronde e l’ululato del vento erano gli unici rumori che accompagnavano la mia veglia, che attenuavano il silenzio assordante, che aveva invaso la casa come una pesante nebbia.
Avrei voluto piangere, avrei voluto urlare e invece me ne stavo lì caparbia, risoluta, i pugni stretti e l’espressione dura riflessa nello specchio….non potevo…ogni mia lacrima, ogni mia angoscia, ogni attimo di tristezza, sarebbero stati per papà motivo di ulteriore dolore e lui non avrebbe dovuto soffrire più di quanto non stesse già facendo.

Gli unici momenti di sconforto erano concessi al mio animo in sua assenza. Quando lui era fuori per lavoro, abbandonavo per un attimo i libri e mi concedevo lo sfogo di minima parte del mio dolore. Scostavo le tende lentamente, quasi nella speranza di vederla lì e di prendere posto tra le sue braccia, e, dopo aver avuto l’ennesima conferma della sua assenza, mi sedevo sul vano della finestra a guardare la pioggia.
Nessuno era più colui che era stato…io e mio padre incatenati nella finzione, per non mostrare l’uno all’altra, la rispettiva solitudine, la schiacciante angoscia, Kitty si trascinava per la casa, muta, quasi timorosa di rompere un equilibrio fittizio, un immobile divenire. Non vi era ombra di tranquillità in quella opprimente quiete e, se in mio padre era visibile una dolorosa rassegnazione, io mi sentivo costantemente in preda all’ansia, come se ciò che era successo non fosse che l’inizio.

Sovente, in quel periodo, ricevevamo visite e la cosa, seppur irritante, pensavo fosse normale e dovuta alla recente e ancora vivida perdita.
Un pomeriggio, passando davanti lo studio, diretta nel salone, con l’intenzione di esercitarmi un po’ al piano, sentii una conversazione assai singolare e, nonostante sapessi di commettere una mancanza, rimasi in silenzio ad ascoltare:

“Ispettore Swan, in paese la gente parla, cominciano a girare strane voci, gli anziani diffondono antiche e terrificanti storie, la paura e la tensione sono palpabili”.

“Ne sono consapevole Clearwater. Le tracce che abbiamo rinvenuto portano a nord, verso la riva del Tyne e poi scompaiono nel nulla. È sconcertante, dall’aspetto sembrerebbero tracce umane, ma mi rifiuto di pensare che un uomo possa compiere gesti di tale efferatezza.
Lo scorso pomeriggio sono andato all’obitorio. Speravo che il dottor Parker potesse darmi qualche informazione in più, dopo aver esaminato i cadaveri”

A quella parola, la voce di mio padre si fece bassa e roca. Non sapevo di cosa stesse parlando, quando tornava a casa e gli chiedevo come fosse andata la giornata mi rispondeva sempre:

“Tutto bene Bells, cosa vuoi che succeda in una cittadina piccola come Whickham!”.

Sentire in quel momento una tale preoccupazione nella voce di mio padre, mi fece comprendere fino a che punto fosse arrivata la sua finzione, il suo proposito di mantenermi all’interno di una campana di vetro, protetta da qualsiasi cosa potesse arrecarmi danno o preoccupazione.
Ma ora che da quella campana di vetro ero stata tirata fuori, volevo sapere quale pericolo incombeva su Whickam…con quale mostro aveva a che fare mio padre.

“Ho visto con i miei occhi i…corpi. Lo stesso dottor Parker si è rifiutato di osservarli ulteriormente e nessuno dei suoi assistenti ha avuto l’ardire di assistere. Mi ha riferito che le ferite inferte sono molteplici, così come le zone tumefatte. In più punti sono presenti fratture anomale, come se le ossa fossero state compresse in una morsa e stritolate. La ferita letale è quasi sempre all’altezza del collo, o della zona inguinale, in cui sono presenti lesioni lacero-contuse, riconducibili probabilmente ad uno o svariati morsi.”

“Capo…quale creatura potrebbe agire in questo modo?”.

“Lo ignoro purtroppo. Le comparazioni che Parker ha fatto con le dentature degli animali che abitano la nostra zona, non hanno dato nessun riscontro. Inoltre, se fosse stato un animale, ci sarebbero state anche lesioni da masticazione e strappamento, che invece sono assolutamente assenti.”

“Ma…ma è inconcepibile…se non è stato un animale…allora cosa…”.

“E’ quello che dobbiamo scoprire al più presto….ah…dimenticavo…c’è una cosa…un particolare…a mio parere fondamentale”.

“Quale?”

“L’esame dei corpi ha messo in evidenza la totale assenza di sangue”

“E non potrebbe essere dovuta all’emorragia? Al sanguinamento delle molteplici ferite?”.

“No, sui luoghi dei ritrovamenti, oltre ai segni di lotta e qualche brandello di tessuto, non è stata ritrovata alcuna traccia di sangue ed è escluso anche uno spostamento del cadavere successivo al delitto”.

“Mio Dio…cosa dobbiamo aspettarci?”.

“Qualsiasi cosa sia è certamente terrificante, i volti delle vittime, laddove riconoscibili, sono deformati in un’espressione sconvolgente di terrore….mh…”.

“Cosa pensa capo?”

“Si tratta di un massacro Clearwater, un massacro irrazionale eseguito con estrema meticolosità…è chiaro che non è un comune assassino, ma un assassino di razza particolare. Dobbiamo organizzare una squadra e pattugliare i boschi…stasera stessa”.

A quelle parole, corsi come una furia nella mia camera, mi richiusi silenziosamente la porta alle spalle e cominciai a pensare a tutto quello che non avrei mai dovuto e voluto ascoltare. C’era qualcuno o qualcosa , a piede libero tra i boschi, che aggrediva e uccideva la gente…

…non ci potevo credere…

…non avevo capito la maggior parte delle cose che avevo sentito, ma era chiaro quanto la situazione fosse complicata e fuori controllo e il pensiero che mio padre sarebbe andato incontro a quella creatura mi toglieva il fiato.

Cominciai a respirare affannosamente, il petto si abbassava e si sollevava furiosamente, le ginocchia si piegarono e, in un attimo, fui sul pavimento.

Nella mia testa il caos…

…un vortice confuso di pensieri e di paure…

…non avevo fiato eppure dalle mie labbra prese forma una preghiera…una supplica:

“Ti prego…
…non papà…
…non papà per favore…
…non voglio rimanere sola…non voglio perdere anche papà…
…mamma…se mi senti…ti scongiuro…
…veglia su papà…fa’ che non gli accada nulla…fallo tornare a casa domattina…
…ti prego…”

Il mio corpo era scosso da violenti singhiozzi, non riuscivo più a trattenere le lacrime…quelle lacrime che così abilmente avevo imparato a non versare…ma arriva sempre il momento…quel momento in cui si varca una linea…si supera un limite, oltre il quale il proprio corpo non può andare…oltre il quale la stabilità vacilla e la finzione s’infrange.

 Questo era per me quel momento…



Beh? Che ne dite? Sono tanto curiosa...

@Biaa: che bello che ci sei ancora...sono contenta anche che tu conosca Jane Eyre. Io lo amo...da anni. E in effetti, non potevo essere troppo gentile con Bella. Le cugine ci saranno, purtroppo, anche io non le posso vedere, ma non dedicherò uno spazio troppo lungo al soggiorno in casa Reed. Ne verrebbe fuori un lavoro infinito e non credo di essere in grado di farlo decentemente.
@Micht82: la mia Bella vorrei che fosse più determinata e forte di quella di Twilight e tali caratteristiche derivano proprio da un'infanzia difficile...grazie per esserci sempre.
@Mirya: la tua analisi è perfetta. Hai detto con parole che non avrei mai saputo dire, tutto ciò che mi ha spinta a scrivere questi primi capitoli.  Davvero sei così così curiosa di sapere cosa accadrà??? ...me felice e saltellante...nella mia testa la storia è tutta scritta e gran parte lo è anche realmente. Ma è bello creare un po' di attesa no? In realtà avrei voluto aspettare anche un altro po' prima di postare questo capitolo, ma c'era una certa lama che pendeva sulla mia testa...non so se mi spiego...Non dovrai aspettare molto per Edward...il prossimo capitolo è suo! Grazie grazie grazie...

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Capitolo 5
*** Candle's Flame ***


CAPITOLO CINQUE Buongiorno a tutti. Finalmente un capitolo meno noioso degli altri...o almeno spero.
Il protagonista cambia, lo scenario cambia, così come l'atmosfera.
Ringrazio sempre tutti:
chi ha messo la storia tra i preferiti:

1 - artline 
2 - DIOMEDE
3 - Fiorels 
4 - ilaria2008 
5 - micht82
chi tra le seguite:
1 - Biaa 
2 - Fantasy_Mary88 
3 - gnuoba 
4 - hermy90 
5 - jecca92
6 - Joey88 
7 - lady lilithcullen 
8 - marty_chic 
9 - micht82 
10 - Nicosia 
11 - piolet 
12 - poseidonia 
13 - sabribot 
14 - saratokio 
15 - tartis 
16 - thea19 
chi tra le ricordate:
1 - artline 
2 - crazyfred 
3 - damaristich 
4 - _PersaNellaFantasia_

Grazie a chi semplicemente legge...



Chi lotta contro i mostri deve fare attenzione a non diventare lui stesso un mostro.
E se tu riguarderai a lungo in un abisso, anche l'abisso vorrà guardare dentro di te.
(Friedrich Nietzsche)

CAPITOLO CINQUE

Gli umani dicono che “non ci sia peccato nell’uccidere un mostro, soltanto nell’uccidere un uomo”, eppure il mio essere si tormentava ormai da anni con lo stesso interrogativo: “ma dove finisce l’uno e inizia l’altro?”.
In quel momento però nessun dubbio, nessuna titubanza, nessuna traccia di esitazione nel nostro agire letale. Grazie ad Alice eravamo riusciti ad impedire un ulteriore abominio.
Non sapevamo molto di loro…nomadi, provenienti probabilmente dalle sconfinate e misteriose terre scandinave, due uomini e una donna, e i loro nomi: James, Victoria, la sua compagna, e Laurent.
Carlisle, negli ultimi tempi, aveva ricevuto tutt’altro che rassicuranti notizie, da suoi amici, i componenti del clan di Halden, nell’Østfold . In quelle terre gelate, erano avvenute allarmanti e misteriose sparizioni e talvolta, le vittime erano state ritrovate prive di vita, dissanguate, brutalmente sfigurate o con il corpo ridotto a brandelli. Quando era possibile esaminare i loro volti, si riconosceva un’espressione di puro terrore, impressa e fermata nel tempo dalla triste mietitrice.

Per gli abitanti della zona, tali decessi erano da considerare come il risultato dell’azione incontrollata di una bestia, un orso probabilmente, ma agli occhi di coloro in cui il veleno aveva preso il posto del sangue nelle vene, il cui cuore giaceva immoto e tacito nel petto, il cui respiro era un mero artifizio che consentisse un’insospettabile convivenza, quelli erano chiari e certi segni della follia sì di una bestia, ma non del genere che le loro limitate menti potessero immaginare.

…vampiri…della peggior specie…vampiri votati unicamente al soddisfacimento della propria folle sete e dei più infimi bisogni.

Le vicende che cominciavano a turbare i territori anglosassoni, soprattutto la zona del Tyne and Wear, mostravano inconfutabili somiglianze con i delitti riferitici da Lars nelle sue missive. Tutto ciò aveva messo me e quella che si definiva “la mia famiglia”, in una condizione di estrema allerta, più del consueto.
La mente di Alice era sgombra e recettiva, volta a ricevere ogni indizio, ogni fugace visione che ci potesse indirizzare verso la causa di tali scempi. Jasper, l’altra metà dell’anima di Alice, le stava sempre accanto, cercando di tranquillizzarla e di infonderle quella fiducia in se stessa che lentamente stava perdendo, perché, per quanto si sforzasse, l’unica immagine chiara, sembrava non avere nulla a che fare con i nomadi. I suoi pensieri erano privi di protezione, mi lasciò libero di vedere ciò che frequentemente le appariva: una bambina, una bambina di una bellezza surreale, una bellezza che mai avevo avuto modo di contemplare, una bellezza pura, incontaminata…eppure c’era tristezza nel suo viso e silenzio attorno a lei.
 La visione era sempre la stessa: quella strana creatura, quasi ultraterrena, se ne stava rannicchiata su se stessa, raggomitolata, avvolta nel suo stesso silenzio, in compagnia di lacrime mute, che accarezzavano il suo viso, tirato, in un’espressione di profondo dolore. Erano visioni confuse…senza una collocazione logica e non facevano altro che provocare in Alice grande tormento.
Infine, un giorno, lo vide…James, un mostro, anche lui come noi, ma un segugio, un essere dedito unicamente alla caccia, caratterizzato da sensi assolutamente letali. Lo vide avventarsi sull’uomo come un rapace e affondare i denti, l’arma più temuta e più potente di cui noi mostri siamo dotati, lì dove l’anelato fluido scorre più vorticoso.
Un agguato talmente inaspettato e spietato, che l’uomo non si è reso nemmeno conto di chi o cosa stesse mettendo fine alla sua vita. In un barlume di lucidità, nell’ultimo guizzo di energia, riuscì a pronunciare un nome…un nome che sentii chiaramente, un armonico suono, un’unica sillaba, che fu come un marchio a fuoco…
“Bells”…

Un lento dissanguamento…l’espressione del mostro, che vidi nei pensieri fin troppo realistici di Alice, era talmente estasiata e soddisfatta da scatenare la mia sete: sentii le gengive ritrarsi e la bocca riempirsi di veleno al punto da essere costretto a distogliere l’attenzione.
Ma, in quell’istante, un’altra visione irruppe nella mente di colei che stavo cominciando davvero a considerare mia sorella: la bambina…la stessa bambina era in quella che probabilmente doveva essere la sua stanza, nel suo letto, dormiva profondamente, le guance arrossate, le palpebre gonfie per il troppo pianto e tra le mani un foglio…il suo sonno era interrotto da lievi sussurri, sembrava chiamasse qualcuno…i lunghi capelli, come onde, si stagliavano sul cuscino e la pelle, quel poco che riuscivo a vedere, illuminata dalla luce della luna che filtrava dalle finestre, appariva talmente pallida da farmi dubitare, per un attimo, della sua natura.

…ma non poteva essere, lei dormiva…respirava…era viva…

Un ringhio mi uscii incontrollato…la visione aveva mostrato le intenzioni del segugio: osservava l’indifesa creatura dalla finestra, ne ascoltava il respiro e lasciava che il suo profumo aumentasse a dismisura la sua eccitazione…era pronto ad attaccare, ma si godeva ogni istante, ogni attimo di attesa che lo separava dalla sua preda…se ne sarebbe impossessato…si sarebbe nutrito della sua purezza, della sua innocenza, del suo sangue.

“Edward….EDWARD…” la voce di mia sorella allontanò quei pensieri, la guardai disperato, in attesa che il mio corpo si riscuotesse da quella naturale innaturale immobilità.

“Edward hai visto? Non possiamo permettergli una cosa del genere, dobbiamo fermarlo”. “Ti prego Edward…è solo una bambina…”

“Era suo padre l’uomo?” dissi, cominciando a pensare ad un piano

“Sì” fu la sua risposta carica di tormento.

“Alice?”

“Non possiamo fare più niente per lui…la visione si è compiuta pochi istanti fa”

“E la bambina?”

“Ancora non ne sono sicura…è tutto molto confuso…”. “E' SOLA”

“…Alice…lei non morirà…te lo assicuro…”

Non me lo sarei mai perdonato…se quella bambina fosse morta, se avesse subito quella furia, se fosse stata strappata alla sua vita mi sarei sentito responsabile…

Lasciai la stanza e mi diressi verso la biblioteca.

“Carlisle, posso disturbarti?”

“Entra Edward”   “figliolo, tu non mi disturbi mai…cos’è che ti tormenta?”

“Stanotte si è compiuto un altro delitto, l’assassino è lo stesso e…”
Non riuscivo ad andare avanti, il pensiero del dolore, del terrore che quella creatura avrebbe subito, non mi consentiva di parlare.

“Ho ricevuto maggiori dettagli da Lars” disse tristemente Carlisle “ Non è facile Edward, sono rapidi e agiscono repentinamente, questo è il motivo per cui Alice non ha delle visioni chiare o sufficientemente preventive.”

“Allora dividiamoci e cerchiamoli, loro sono tre, noi siamo in sette, riusciremo a trovarli e fermarli”

“Rifletti bene…sì, noi siamo in sette, ma dividendoci ci ritroveremmo soli contro di loro e dubito che riusciremmo a fare qualcosa. Noi non siamo così forti, si nutrono di sangue umano…non lo dimenticare”.

“Ma non possiamo star qui senza fare nulla!” Per la prima volta mi rivolsi a lui con un tono decisamente aspro, ma non potevo farne a meno. Ero consapevole che inoltrarsi ignari nei boschi non sarebbe stata la strategia migliore, ma non riuscivo a pensare ad altro…volevo fermarlo, quanto prima…

“Innanzitutto manderò un messaggio a Emmett e Rosalie, ci raggiungeranno entro domattina, ci terremo pronti Edward, appena Alice saprà qualcosa in più agiremo. Sono anch’io impaziente di riportare la tranquillità e di porre fine a questa ondata di terrore”.

“Spero solo di fare in tempo Carlisle”

Uscii dalla stanza amareggiato, mi sentii sconfitto, ma aveva decisamente ragione, dovevo avere pazienza e aspettare Alice.

E se la visione fosse arrivata troppo tardi, come per quell’uomo?

Sapevamo che agivano nei dintorni della contea del Tyne and Wear e che dal Derbyshire, alla nostra velocità, avremmo impiegato almeno mezza giornata per raggiungerla, non potevamo aspettare.

…Bells…

…perché mi sentivo così prepotentemente legato a quel nome…altre vittime non eravamo stati in grado di salvare eppure il pensiero di non essere in grado per lei mi tormentava.

L’attesa…una naturale predisposizione per le creature immortali, esseri senza tempo, trascinati passivamente in un estraneo divenire, in quello scorrere della vita che per me, oramai, aveva perso ogni significato.
Eppure era ansia quella che sentivo invadere il mio corpo…un’ angoscia devastante. Se non avessi avuto la certezza dell’immobilità di quel muscolo, sepolto nella gabbia d’acciaio del mio petto, avrei potuto pensare che il suo moto fosse impedito dall’inquietudine che mi attanagliava come una morsa.
Dov’era?
Quale luogo ospitava così incautamente la sua vita?
Perché invece di ardere luminosa, era flebile, stanca e tremolante come un moccolo che si consuma nel tempo?
Se solo avessi potuto offrirle qualcosa, l’avrei strappata a quel dolore, ma non avrei mai potuto salvarla da un mostro per condannarla ad essere preda di un altrettanto pericoloso predatore.
Abbandonato su una poltrona, le tende tirate per impedire alla luce di rammentarmi costantemente la mia natura, me ne stavo immobile, pensando…cercando di capire come…
Talmente preso, la mente eccezionalmente rivolta solo ai miei pensieri, che non mi accorsi del richiamo di Alice…fu un attimo.
Mi ritrovai davanti a loro e mi volsi anch’io verso Carlisle.

“Abbiamo tempo, il segugio ha deciso, Alice l’ha visto”

“Dove? Quando?” ringhiai verso mia sorella, non riuscendo a scorgere i suoi pensieri.

“Al crepuscolo Edward, se partiamo adesso saremo lì nel tardo pomeriggio, il posto si chiama Wickham e la casa è poco distante dal bosco in cui ha assassinato il padre della bambina”.

“Gli altri due? Li hai visti?” Non me ne sarei occupato ovviamente, l’obiettivo della mia follia omicida era lui…James.

“La femmina si manterrà nelle vicinanze, ma solo perché è legata a lui, è la sua compagna, non prova interesse per questa caccia, fin troppo facile…”.

“E il terzo?”

“Non vedo tracce di Laurent, probabilmente si è allontanato”. Fece una pausa, il tempo di capire cosa stesse pensando.

 “Edward…”

“NO” tuonai “lui è mio…della femmina ve ne potete occupare voi, ma James…desidero personalmente porre fine alla sua sudicia esistenza”.

“Edward, lui è stato attratto dal suo odore, è forte e irresistibilmente dolce…l’ha sentito addosso a suo padre, si è nutrito dei suoi ricordi assieme al suo sangue e l’ha vista. Si è fatto guidare dalla scia, attraverso la foresta. Non puoi correre un simile rischio. Avvicinarti troppo a lei potrebbe avere conseguenze irreparabili.”

“Come puoi anche solo pensare una cosa del genere…Alice! È una bambina, non le farei mai del male, come non ne ho fatto ad alcun essere umano finora. Hai visto qualcosa? È evidente che tu mi stia celando i tuoi pensieri…”

“No, Edward…lo sai che finché non prenderai la decisione non posso vedere nulla, ma ciò non esclude l’eventualità. Non è il caso di mettersi alla prova adesso…”
“Credo di aver superato le mie prove, non ho alcun dubbio sulla capacità di resistere e di controllarmi, voglio salvarla, non porre fine alla sua vita”.
 Come potevo biasimare così apertamente mia sorella, quando io per primo avevo il timore di spegnere quella flebile fiamma, di toglierle l’ossigeno di cui aveva bisogno per ardere?
Fu Carlisle ad interrompere quel dialogo, un botta e risposta tra ringhi soffocati e pensieri urlati.
“Figliolo, mi fido di te, so che non cederai…ma siamo una famiglia e dobbiamo rimanere uniti. Io, Esme, Rosalie ed Emmett ci occuperemo della femmina e controlleremo la situazione, non conosciamo le intenzioni di Laurent, potrebbe sempre decidere di tornare. Tu, Alice e Jasper agirete insieme, non mi piace uccidere nostri simili, non posso biasimare chi non ha la capacità di privarsi del sangue umano, ma in questo caso dobbiamo porre definitivamente fine ad un massacro che non ha senso”.
Alice si voltò verso di me, posando i suoi occhi a sostenere quella che sapeva essere una volontà malferma, come anni prima, il suo sguardo comunicò direttamente con la coscienza che avevo scelto di avere, il suo volto si aprì in un sorriso.
“Andiamo”
Un flebile sussurro che mi smosse come una potente raffica, il mio corpo scattò in avanti, si proiettò in una corsa rapida e disperata. Solo in quel momento mi resi conto di quanto fosse devastante in me la volontà di agire.
Voltandomi indietro constatai che Haddon Hall non era più visibile, il mio corpo cercava di raggiungere ad una velocità disumana una vendetta già compiuta.
Li sentivo poco distanti da me: Alice, leggiadra e aggraziata, sembrava condurre una danza, in cui ogni fronda sporgente, ogni radice nodosa si apriva al suo passaggio, la foresta, rigogliosa, ostile, selvaggia e incontaminata fungeva da sbiadita scenografia ad accompagnare silenziosa l’avanzare inarrestabile e armonioso di un’étoile e poi Jasper, la sua andatura era più simile al volo di un falco, sfrecciava tra gli alberi scansando violentemente ogni possibile ostacolo, accompagnato da un tripudio di fruscii di foglie secche e crepitanti e da schianti di tronchi spezzati.
In un baleno furono accanto a me, sincronizzando i movimenti, affrontammo insieme le miglia che ci separavano da un delitto sospeso.
Alice continuava a celarmi i suoi pensieri, rimandava a mente prose e poesie orientali e la sua espressione era indecifrabile. Jasper, da efficiente soldato qual era stato “in vita”, si arrovellava  cercando di approntare una letale strategia: pensava a come scovarlo, come attaccarlo, bloccarlo e infine distruggerlo, ardere le sue infime membra, purificando con le fiamme l’onta sudicia del suo passaggio.
Lo scopo del maggiore Whitlock era impedire che uccidesse altri umani innocenti.
Il mio scopo era salvare lei.
Il sole ormai alto era coperto da una fitta coltre di nubi, motivo principale per cui ci eravamo stabiliti nel cuore dell’Inghilterra. Sarebbe stato più facile mimetizzarci. Nonostante ciò cercammo di seguire un percorso impervio, che si snodava tra una fitta vegetazione e brughiere desolate. Benché ci fossimo divisi, ero convinto che anche Carlisle e gli altri avessero fatto una scelta simile.
Come un muro eretto all’improvviso, mi schiantai contro la visione di Alice:
l’avrebbe svegliata dolcemente, avrebbe guardato il sonno scivolare via dal suo corpo, per poi terrorizzarla e strapparla alla vita accompagnato dal martellare furioso del suo piccolo cuore.
Così minuta, così fragile, gli occhi arrossati e spalancati davanti allo spettro della morte che pregustava il suo sapore.
Coraggiosa si dimena, ignara dell’inespugnabile gabbia che l’ha intrappolata.
Il battito impazzito…un minuscolo colibrì, sbiancato dei suoi colori, stretto tra mani avide e cattive.
Un ringhio risuonò spaventoso in quell’arida landa, sentivo la follia offuscarmi i sensi, il veleno inondare le mie fauci, i canini spuntare prepotenti.
Guardai mia sorella, incrementando disperatamente la velocità della corsa. Non avevo bisogno di vederli, ero consapevole che in quel momento i miei occhi fossero del nero più cupo, ma Alice posò oro colato su di me e un sorriso rassicurante mi abbracciò donandomi una sensazione già provata, molti anni prima…

Beh?
Curiosi?
Che sarà successo "molti anni prima?"

sil_p87: tesoro mio, non preoccuparti per lo scorso capitolo, tanto io lo so che ci sei...e poi la mia nipotina ha la priorità assoluta su tutto. NON AZZARDARTI A DIRE CHE SONO PIU' BRAVA DI TE, perchè LO SAI che non è vero! Tu mi hai fatto conoscere EFP, mi hai incoraggiata a scrivere(chissà se troverò il coraggio di postare quell'altra cosa!!!), mi hai fatto innamorare della coppia Draco/Hermione, e la tua storia è bellissima...quindi bando alle ciance e spicciati col nuovo capitolo!!!

Biaa: perchè non ami essere ripetitiva??? Ma se mi devi dire certe cose, ripetiti pure...non ci sono problemi!!! E' vero che con Bellina sono stata cattivella, ma non potevo permettere che fosse Edward a strapparle l'amore di Charlie. Sono così contenta che in un mare di insulse parole trovi una frase che ti colpisca al punto da citarla...grazie.

micht82:grazie per il fatto che lasci sempre un segno del tuo passaggio...

Mirya:...sob...lo so che sono stata davvero crudele con la piccola Bella, ma la storia richiedeva che fosse orfana e c'erano solo due soluzioni: cominciare direttamente da qui, oppure raccontare brevemente la sua storia. Per tutti i motivi che sai, ho preferito la seconda. Per quanto riguarda i ricordi, sono d'accordo con te, a volte sono le cose apparentemente più banali che mantengono vivido l'affetto per una persona che non c'è più, o, almeno, questo è quello che succede a me. Grazie davvero per le tue parole.

crazyfred: grazie per essere passata a dare una sbirciata...non è niente di che...spero solo non sia davvero troppo pessima questa cosa!


GRAZIE ANCORA A TUTTI,
MIKI.







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Capitolo 6
*** Hope Has A Name: Alice ***


CAPITOLO CINQUE Buonasera...dopo quattro giorni da sogno, in una città magica come Torino, in compagnia della mia meravigliosa dolce metà,  vi posto il sesto capitolo. Si torna indietro, è Edward che ricorda e io spero vivamente che vi piaccia almeno un pochino. Come al solito credo di essermi soffermata su particolari insignificanti, scusatemi.
Ringrazio chi legge,
chi ha messo la storia tra le preferite:
1 - artline 
2 - DIOMEDE
3 - Fiorels 
4 - ilaria2008 
5 - micht82

chi tra le seguite:

1 - Austen95 
2 - Biaa]
3 - Fantasy_Mary88 
4 - Glance 
5 - gnuoba 
6 - hermy90 
7 - jecca92 
8 - Joey88 
9 - lady lilithcullen
10 - marty_chic 
11 - micht82 
12 - Nicosia 
13 - piolet 
14 - poseidonia 
15 - sabribot 
16 - saratokio 
17 - tartis 
18 - thea19 
19 - Twilly 

chi tra le ricordate:

1 - artline 
2 - crazyfred 
3 - damaristich 
4 - PersaNellaFantasia_
5 - Honey Evans 


Amare è sperare: sperare è vivere oltre tomba.
Che è la vita senza speranza? Una gittata di dadi fra le tenebre, fra i deliri.
(Ambrogio Bazzero)



CAPITOLO SEI

 

Non era la sete la sensazione più devastante, ma la consapevolezza di una fine miserrima.

Il succedersi del giorno e della notte faceva da sfondo alla mia immobilità. Cercavo di racchiudermi in una bolla di disperazione muta, escludendo al di fuori di essa le pulsioni del mio corpo oramai esanime.

 

Quando la volontà vacillava, quando l’odore delle vite versate, scivolava fino alle mie incaute narici, voltavo il capo verso lo specchio e bastava quella raccapricciante immagine a spegnere qualsiasi istinto di sopravvivenza, se così si potesse definire la morte che sopravvive alla vita cibandosi di essa.

 

Non vi era tormento nella mia decisione, ma solo la triste coscienza dell’inutilità di essa. Potevo lasciare che il mio corpo venisse sopraffatto dall’assenza di sangue, potevo essere spettatore cosciente, cadavere redivivo, che assiste alla decomposizione della carne, ma non potevo impedire l’abominio della sua esistenza.

 

La forza che permeava le mie membra dopo la trasformazione mi stava velocemente abbandonando, sapevo che se avessi voluto contrastarla,  prima sarei dovuto soccombere a lei, alle sue provocazioni, che alimentavano gli istinti deplorevoli contro cui lottavo costantemente.

 

Quando si avvicinava potevo sentirlo, dolce e pungente, l’aroma delizioso del nettare delle sue vittime.

Nuda, la distesa di candida pelle interrotta da invitanti rivoli scarlatti, scie di vite spezzate, percorsi paradisiaci, che sarebbe stato facile percorrere per raggiungere la dannazione.

 

Quante volte mi sono ritrovato sulla bocca dell’inferno?

Ho sentito il calore delle fiamme scaldare il mio gelido corpo, ho guardato in basso, attratto dall’enorme distesa di lava incandescente che mi reclamava fumante e odorosa come un’enorme pozza di sangue.

Sarebbe stato così semplice e appagante immergersi e soccombere…sprofondare…

 

Ma nella testa risuonava la sua voce:

 

“Siete uno sciocco Edward, prima o poi cederete. Avete  bisogno di nutrirvi. Che spreco logorare il vostro bell’aspetto…”

 

Sprezzante sputava una sentenza che scavava nelle mie viscere come un tarlo.

 

La sentivo rincasare accompagnata da pensieri estranei e lussuriosi, prede soggiogate dall’illusione di essere vittoriosi cacciatori che si pregustavano un lauto bottino. Avrebbero pagato le loro pulsioni con sgorghi di vita, nella consapevolezza ultima di aver goduto assieme al proprio carnefice.

…quei pensieri…la soddisfazione del suo corpo nel lambire la preda, soggiogarla, possederla per poi prosciugarla…

 

Il rituale era sempre lo stesso: sospiri…gemiti…urla strozzate…infine silenzio.

 

Puntualmente, dopo pochi istanti, la vedevo avanzare trionfante e soddisfatta ad alimentare la mia sete…e poi quella volta…

 

…quell’unica volta…

 

Non aveva ancora posto fine all’esecuzione, che mi si era presentata inaspettatamente dinanzi, con le voluttuose labbra intinte di sangue. Nella stanza accanto un flebile battito raggiungeva ardente la mia gola, sentivo i fiotti di ambrosia scarlatta sgorgare fuori da quel corpo sofferente, scosso dalle ultime ondate di vitalità.

Porre fine a tale supplizio sarebbe stata un’opportunità fin troppo generosa, un’occasione che avrebbe camuffato facilmente la mia mostruosità in indulgenza.

 

Non c’era tempo per pensare…dovevo decidere.

 

Lasciare che la sua vita si riversasse sulle candide lenzuola, accompagnata da urla strazianti?

O porre fine al tormento e nutrirmi di essa?

 

La gola bruciava…

 

Edward….avanti…non lascerete che quel calore si spenga! Che inutile spreco”.

 

E poi la scelta.

 

Gli arti risposero più in fretta di quanto pensassi e scoprii di avere più forza di quella che credevo permeasse il mio corpo. Nuovamente fui investito da quella moltitudine di particolari che avevo cercato di chiudere al di fuori di me stesso.

La polvere leggera, che il tempo aveva deposto sulla mia immobilità, scomposta in piccoli frammenti, si sollevava fluttuando nell’aria, ricadendo e depositandosi sulle cose.

Quello, che sicuramente era stato uno scatto repentino, lo percepivo come un movimento a rallentatore, elegante, fluido probabilmente, ma disperato e rabbioso.

 

Un giovane uomo, seminudo e ansante, mi offriva, vermigli, peccato e redenzione.

 

Se avessi voluto, avrei potuto cogliere ogni dettaglio del suo corpo, scorgere ogni venatura che percorreva la sua pelle e, se avessi ascoltato, avrei potuto sentire i suoi ultimi e intimi pensieri.

 

Suppliche urlate? O fievoli e vaneggianti richieste di assoluzione?

 

Ma i miei occhi erano attratti unicamente dal riversarsi oramai debole del suo sangue, la mente volta ad ascoltare ogni nota eseguita da quel flusso invitante.

Cominciai a respirare dapprima freneticamente, per poi compiere lente e profonde immersioni in quell’aroma penetrante e così dannatamente eccitante.

Carezzai con le dita quella minuscola fonte, portandole incauto alle narici, per accertarmi di quanto veritiera fosse quella dolce e raccapricciante visione.

 

Spalancai le fauci e sfoderai le armi…

 

NO!”

 

Di scatto mi voltai all’indietro rimettendomi in piedi e abbandonando per un attimo il banchetto. Non era la sua voce quella che avevo sentito, ma nessun altro era in casa in quel momento.

 

Chi altri oltre me…e lei

 

Fermatevi. Stiamo arrivando!”

 

Chiusi gli occhi e indietreggiai fino a ritrovarmi con le spalle al muro, sconfitto dalla consapevolezza dell’atto infimo che di lì a breve avrei compiuto.

Un odio verso me stesso mi assalì piegandomi le ginocchia. L’arsura si ridestò prepotente, togliendomi quelle poche forze, che l’illusione dell’imminente nutrimento aveva conferito al mio corpo.

Come avevo potuto anche solo pensare di commettere un delitto così atroce?

E poi quella voce…un tintinnio cristallino, come l’infrangersi di acque pure e fresche sulle rocce. Come il rumore dei prismi che appendevo alla finestra da bambino, per creare tremolanti arcobaleni.

Nonostante le parole potessero risuonare solenni, come un monito, vi era in loro una calma e una tranquillità surreali.

Fermare il mio agire dannato non aveva di certo reso minore la mia colpa.

Non avevo ucciso, ma avevo lasciato morire…

Come la sottile differenza tra mentire e tacere la verità.

Guardai quel volto segnato dalla fine, il corpo piegato all’indietro in maniera innaturale, la bocca dischiusa in una smorfia di dolore e gli occhi sbarrati.

In quegli occhi potevo immaginarvi impresso l’orrore del mio volto deformato dalla sete quale immagine ultima di una vita spezzata.

 

Come potevo mettere definitivamente fine a ciò che ero?

 

Mi ricacciai nell’angolo di immobilità che mi ero conquistato col tempo, i pugni stretti,il viso affondato tra le braccia. Evitai di guardarla, evitai di scandagliare la sua mente, conoscevo ogni sua espressione indignata, ogni parola di scherno che avrebbe pensato e poi pronunciato.

 

Quale colpa dovevo espiare?

 

Condannato ad essere un morto, rinato per morire per sempre.

 

Se solo avessi saputo il modo, se avessi conosciuto la soluzione…

 

“Una soluzione esiste, abbiate fede, manca poco”.

 

 Non alzai nemmeno il viso, convinto che quel trillo fosse uno straziante delirio della mia mente degenerata. L’ulteriore supplizio da subire in silenzio.

 

“Edward, guardatemi”

 

Sorrisi…la voce era così chiara e vicina da farmi percepire anche una presenza davanti a me. Probabilmente la fine era vicina…

 

“Destatevi”

 

Sì…parla ancora…

 

“Jasper…aiutami!”

 

Un profondo senso di tranquillità mi invase. Sentii un tocco morbido e tiepido sul viso, come quello della piccola e morbida mano di un bambino.

 

“Aprite gli occhi. Guardatemi, ve ne prego”.

 

Abbandonai il capo a quel tocco e inspirai il soffio dolce e pulito che accompagnava le sue parole. Cullato da sensazioni che non provavo da tempo, decisi di volgere lo sguardo verso colei che mi chiamava.

Aprii finalmente gli occhi, tenendo cautamente basso il viso e fui investito da una profusione di rosa, di una tonalità simile al quarzo.

Ampie volute di seta impalpabile avvolgevano come un bozzolo una creatura che sembrava uscita magicamente da un libro di fiabe.

Esile e minuta, se ne stava accovacciata dinanzi a me…in attesa.

Le braccia sottili spuntavano candide dalle strette maniche del vestito e il pallore era deliziosamente accentuato da nastri color vinaccia, che avvolgevano i gomiti terminando in vaporose cocche e e lunghi lembi.

Con una mano mi sfiorava la guancia e l’altra, immobile in grembo, si mosse per avvolgere la mia ancora furiosamente stretta in un pugno.

Mi lasciai avvolgere da quelle dita affusolate, dalle quali si diramò un’immensa sensazione di sollievo. Quel gesto gentile e delicato fu di un’intensità tale da riuscire ad infondere una flebile speranza di salvezza all’essere senz’anima qual’ero.

Dalla sua mente provenivano solo pensieri leggiadri e puliti. Sentimenti nobili e azioni lodevoli.

 

Chi era quest’angelo?

 

L’opportunità che mi mostrava, l’alternativa che mi offriva, fu come lo scorcio di un paradiso anelato. Un’oasi di pace nel bel mezzo dell’inferno.

Un compenso immeritato per una colpa commessa se non con il corpo, certamente nelle intenzioni.

Agghiacciante si presentò l’immagine di mia moglie. Mi rammentò quanto potesse essere fuorviante un’immagine così bella. Mi ricordai come, contemplando la perfezione, finii con lo scorgere un mostro.

 

Rassegnato alzai il capo…

 

Due occhi grandi, dolci e rassicuranti, mi guardavano calmi.

Fu come lasciarsi avvolgere dai raggi di un sole estivo.

 

In passato, da umano, avevo letto su qualche volume dell’immensa biblioteca di casa Masen, che il topazio è un potente amuleto in grado di preservare dal pericolo. Questa proprietà era conferita alla gemma dal fatto che venisse colorata dai raggi dorati del potente dio del sole Ra.

 

Non poteva esservi descrizione più appropriata per i suoi occhi.

 

Ciglia fitte e nerissime li incorniciavano esaltando ancora di più l’oro colato che li riempiva, il tutto racchiuso in un ovale che emanava una bellezza perfetta. Non vi era traccia di belletto su quel viso, così etereo e incontaminato. I capelli corvini, lucidi e sottili, non erano affatto acconciati all’uso dell’epoca, ma erano corti e tagliati in una maniera alquanto bizzarra, ma ciò non faceva che accentuare la surreale avvenenza di quel folletto.

 

Le strinsi le dita, in un gesto che suggellava un accordo silenzioso.

Mi aveva mostrato una speranza, alla quale decisi di aggrapparmi con ogni forza.

 

Piacevolmente stremato, non riuscii a pronunciare neppure una parola gentile, che potesse esprimere la profonda gratitudine che provavo verso colei che mi aveva teso la mano della salvezza.

 

Ma senza capire né come, né perché, dalla mia bocca prese forma una doverosa supplica:

 

“Lei…non possiamo lasciarla qui”

 

“Non preoccupatevi Edward. Vostra moglie non nuocerà più a nessuno se è questo il vostro desiderio. La decisione che avete preso non è facile, ma vi fa onore”.

 

Quell’affermazione fece spazio ad innumerevoli domande, che per il momento rimasero silenziose dentro di me.

Solo una decisi di rivolgerle, ma prima ancora che potessi esprimerla, lei mi sorrise e disse:

 

“Io sono Alice…Alice Cullen”.

 

Grazie per avermi dedicato un po' di tempo. Se poi voleste lasciare anche un commentino, mi fareste felice, anche critiche, parolacce, imprecazioni...ogni cosa aiuta a capire i propri errori.
Ho scritto una pseudo OS, non che me ne vanti, per carità, so che è pessima, ma verrà ripresa nel prossimo capitolo...ebbene sì, mi cito da sola! la follia non ha limite! Per il lancio dei pomodori, passate da qui.

Austen95: ancora curiosa? Spero di sì, grazie per aver letto lo scorso capitolo e fammi sapere se ti sia piaciuto anche questo.
Mirya: ti ringrazio per i tuoi commenti sempre troppo lusinghieri....paradossalmente mi piace scrivere di più di Edward, anche se non sono assolutamente brava nel farlo, nel rendere le sfumature della sua mente rigida e contorta, ma vabbè.
micht82: grazie, è vero, Edward ha scelto di non essere un mostro, ma ancora non si è trovato di fronte alla sua più grande tentazione!

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Capitolo 7
*** Fly Me Away/Fly Me To Her ***


capitolo sette

 Salve a tutti, il capitolo è pronto da tanto tempo, ma è stato un periodo un po' così...spero sia rimasto qualcuno che si ricordi di questa storiella.

Come sempre ringrazio tutti coloro che hanno letto, di cuore.

 

 

CAPITOLO SETTE

Fly Me Away/Flay Me To Her

 

Sentivo il pavimento freddo sotto la mia guancia.

Spalancai piano gli occhi. Bruciavano e se sbattevo le palpebre era come se ci fossero un’infinità di pietruzze dentro.

Le dita delle mani erano intorpidite, senza rendermene conto avevo tenuto i pugni stretti per tutto quel tempo. Mi rialzai a fatica e, guardandomi allo specchio, cercai di darmi una sistemata. Mi lisciai la gonna spiegazzata con le mani, riavviai i capelli all’indietro e mi pizzicai le guance per dare un po’ di colore al mio viso smorto. Lo feci meccanicamente, solo dopo pensai al fatto che fosse un gesto che faceva frequentemente la mamma, incurante delle mie proteste.

Improvvisamente sentii alcuni rumori provenire dal piano di sotto. E di nuovo ci fu ansia, preoccupazione.

Uscii dalla mia stanza e mi lanciai a perdifiato lungo le scale. Vidi mio padre e il suo collega che si preparavano per uscire. Quella scena mi tolse il respiro. Mancavano pochi gradini ma mi bloccai.

“Bells che succede?”

Scossi violentemente il capo “Niente…ma…dove vai?”

“A lavorare piccola, dove vuoi che vada?”.

Avrei voluto gettarmi ai suoi piedi, piangere e supplicarlo di non andare via, di non lasciarmi. Ma non feci nulla di tutto ciò. Mi avvicinai timorosa e lui, capendo le mie intenzioni, si abbassò per ricevere il mio abbraccio.

“Sii prudente” dissi con la voce tremante.

“Lo sono sempre”.

Mi separai da lui a malincuore e lo seguii con lo sguardo finché non si chiuse la porta dietro le spalle.

Fu l’ultima volta che lo vidi.

Quella sera andai a letto molto tardi, Kitty mi permise di aspettarlo, ma, alla fine, dovetti rinunciare.

Era buio e di papà nemmeno l’ombra.

Mi misi a letto senza provare neanche a prendere sonno. Sarebbe rientrato prima o poi e volevo stare sveglia ad aspettarlo.

Non avevo mai avuto paura della notte o dell’oscurità. La mamma mi aveva insegnato a distinguere i rumori e a giocare con le ombre che dalla finestra si proiettavano sul pavimento di legno.

Eppure quella notte, ogni suono sembrava tetro e cupo o cigolante e stridulo.

Immagini orribili si muovevano terrifiche per la stanza.

Nonostante il fuoco che ardeva nel camino, mi sentivo gelare. Il corpo era scosso da violenti tremiti e sentivo le mani e i piedi ghiacciati.

Le fiamme danzavano alte e scoppiettanti, ma non vi era nulla di attraente in quella danza, anzi…quel rosso aveva un non so che di inquietante.

Mi rannicchiai sul letto. Le gambe al petto e le braccia intorno alle ginocchia, nell’illusione di un abbraccio che non potevo chiedere a nessuno.

Cominciai a raccontarmi favole silenziose, ma nulla riusciva a colmare l’agitazione che si era impadronita di me. Nemmeno canticchiare la mia ninna nanna ebbe il potere di tranquillizzarmi.

 

Cercavo di cogliere ogni minimo rumore, in modo da poter sentire i tacchi degli stivali sul vialetto.

 

Il fruscio delle foglie.

 

Il fischio del vento.

 

Il cigolio delle imposte.

 

I rintocchi dell’orologio a pendolo.

 

Il russare sommesso di Kitty.

 

Albeggiava ormai…

 

In passato non ci avrei pensato due volte a rimanere avvolta nelle pesanti coperte, aspettando fino all’ultimo istante prima di alzarmi. Quella mattina non vedevo l’ora di vestirmi e scendere…per non pensare troppo, per ingannare il tempo. Avrei potuto disegnare un po’, magari, o suonare, o leggere qualcosa.

Mi avvicinai alla toeletta e mi guardai per un attimo allo specchio. Distolsi immediatamente l’attenzione, sentendo finalmente il rumore di qualcuno che si avvicinava alla casa. Affrettai i miei gesti. Mi sfilai la camicia da notte, rabbrividendo al contatto della pelle con l’aria fredda del mattino. Scelsi un vestito a caso, in cui mi immersi sgarbatamente per poi riaffiorare trafelata. Mi sistemai i capelli e sentii tre decisi colpi alla porta di casa.

Sorrisi istintivamente e tirai un respiro di sollievo.

…i passi veloci di Kitty…

Afferrai la brocca per riempire il catino e rinfrescare il viso.

…il rumore della porta che si apriva…

“Buongiorno Miss Avery”

Non era la voce di papà.

“Buongiorno ma…dov’è l’ispettore Swan?”

Il silenzio che seguì quella domanda fu come uno schiaffo in pieno viso.

La brocca mi cadde dalle mani e s’infranse rumorosamente sul pavimento.

Le due voci provenienti dal piano di sotto s’intrecciarono rapide e fitte.

Non avevo bisogno di sentire…non era necessario capire.

Uscii dalla mia stanza, i piedi ancora scalzi, lentamente cominciai a scendere le scale. Mi tenevo saldamente aggrappata al corrimano e ogni passo compiuto era come un affondo di lama nel cuore.

Vidi le spalle di Kitty e l’uniforme senza volto di fronte a lei.

Smisero di parlare quando sentirono lo scricchiolio delle assi di legno sotto i miei piedi ed entrambi si voltarono a guardarmi. Sui loro volti una strana espressione. Come di chi vuole chiedere scusa…ma per qualcosa di cui non ha colpa.

“La prego Miss Avery, lo dica lei alla figlia dell’ispettore”.

Clearwater, così lo aveva chiamato papà la sera prima, quando aveva deciso di uscire e andare incontro alla sua fine. Senza aggiungere altro, fece un cenno di saluto e andò via.

Mi sentii avvolgere da braccia accoglienti e disperate. Mi sentii bagnare il viso da lacrime non mie. Le parole farfugliate al mio orecchio rimanevano lontane e indistinte. Non le capivo…non volevo capirle.

“Sto bene” bisbigliai quando mi guardò con gli occhi colmi di lacrime. “Sto bene Kitty, non preoccuparti” ripetei più a me stessa che a lei.

In quel momento non volevo sentire nessuno, non volevo parlare, non volevo piangere…volevo essere semplicemente lasciata in pace.

Per fortuna lei lo capì. Si rimise in piedi e si diresse verso la cucina.

Quando una lacrima ribelle mi rigò una guancia realizzai: “sono sola”.

 

 

***

 

 

Guardai Alice sfrecciare nel vento. Le ero grato per la fiducia che aveva riposto su di me sin dall’inizio. Affrontare questa “battaglia” insieme a lei cancellava ogni possibile dubbio che la mia mente insicura potesse formulare.

Man mano che divoravamo le miglia, sentivo l’impazienza diventare insostenibile.

Il fatto che mia sorella stesse tentando in ogni modo di celarmi i suoi pensieri non faceva altro che aumentare l’ansia. Eppure il suo viso era disteso e, ogni volta che posava il suo sguardo su di me, potevo vedere un’espressione di assoluta serenità. Probabilmente era solo un modo per conquistarsi un po’ di quella privacy così difficile da preservare da quando mi ero unito alla famiglia Cullen.

 

 

***

Fly Me Away

 

Rimasi immobile per molto tempo. Il cuore martellava così forte nel petto che, nel silenzio della casa, potevo quasi sentire il suo ritmo furioso e incespicante.

Quando mi riscossi da quel torpore, mi incamminai verso il mio rifugio preferito. Scostai le pesanti tende, presi il grande e caldo scialle della mamma, che tenevo sepolto sotto uno dei cuscini, me lo avvolsi intorno alle spalle e mi sedetti sul vano della finestra. Inspirando potevo sentire ancora forte il suo profumo e, chiudendo gli occhi, mi illudevo che ci fosse lei dietro di me, ad abbracciarmi. Poggiai la guancia contro il vetro freddo e mi misi a fissare le sottili gocce che, silenziose e tristi, cominciavano a scendere da un cielo grigio, cupo e pesante come in quel momento era il mio cuore.

 

*…un paio d’ali…per volare in alto, oltre le nubi, dove cantano gli angeli.

 Mi ritrovo qui, sola, in questo posto, arrivata alla fine.

 È tutto così veloce. Davanti a me il futuro, dietro il passato…ma ora solo la fine.

 Un presente come non l’avevo mai visto prima. Non è il posto giusto dove stare.

Se potessi…se solo avessi un paio d’ali…le supplicherei di portarmi via…

 

 

***

 

In linea d’aria, poco più di 100 miglia separavano Bakewell da Whickham. Attraversammo rapidamente il Derbyshire e le contee dello Yorkshire, avvantaggiati dalla profonda conoscenza di quei luoghi, acquisita nel tempo grazie alla caccia.

Nel primo pomeriggio giungemmo nel Durham. Cercavamo di rimanere in prossimità delle pendici dei Pennini, lontani dai centri abitati.

Alice non lo dava a vedere, ma ero assolutamente certo che fosse preoccupata per me. Ero talmente accecato dalla rabbia ed eccitato dalla sete, che io stesso non avrei potuto immaginare la mia reazione nel caso in cui avessimo incontrato un ignaro ed innocente umano lungo il tragitto.

Quando sentii i miei fratelli rallentare per poi fermarsi, mi voltai di scatto con aria interrogativa e irritata. Ero consapevole che mancasse poco, ma non avevo la minima intenzione di prolungare ulteriormente quell’agonia che mi stava divorando.

Fu Alice a parlare: “ Edward, fermati. Siamo vicini ormai, c’è tempo a sufficienza. Approfittiamone per spegnere la sete. Hai bisogno di nutrirti”.

“NO” Come poteva pensare alla caccia in un momento del genere? “Non c’è tempo. Prima arriveremo, prima potremo mettere in salvo la bambina e impedire che James mieta altre vittime”. Pronunciai quelle ultime parole con un tono decisamente troppo alto, sperando che risuonassero a loro più convincenti di quanto fossero parse a me. Volevo spezzare quell’essere, solo per averla resa oggetto dei suoi sudici pensieri! Ma, se fosse stato necessario, l’avrei lasciato andare pur di allontanarmi e di portare al sicuro quella piccola creatura.

“Edward rifletti. Dobbiamo cercare di rafforzarci il più possibile. Non possiamo rischiare di essere deboli. Pensa se non riuscissimo a contrastarlo. Che succederebbe?”

Non aveva torto…come al solito! Sapeva quanto disperatamente tenevo a fermare quel mostro e non potevo permettermi di non essere in grado. Bisognava valutare ogni rischio. E l’inferiorità dovuta alla nostra “dieta” era un  rischio considerevole.

“Facciamo in fretta” ringhiai. Rapido volsi loro le spalle e mi inoltrai nella fitta vegetazione.

 

 

***

 

La lieve pioggerella si era trasformata in pesanti e continui scrosci d’acqua, che si riversavano sui vetri rendendo indistinguibile ogni cosa.

Kitty mi chiamava da un po’, per il pranzo pensai. Svogliatamente mi allontanai dalla finestra e mi diressi in cucina. Era un’abitudine che avevo preso dopo la morte della mamma. Quando papà non c’era evitavo la sala da pranzo, che, vuota e silenziosa, mi rattristava più del solito.

Ma ora era morto anche lui…

Non avrei voluto mangiare, non ne avevo voglia, ma Kitty era sempre così gentile e amorevole con me, si prodigava preparando i miei piatti preferiti e il suo caldo sorriso si apriva luminoso quando le apparivo serena.

Apprezzai il suo silenzio. Continuò ad armeggiare davanti al fuoco, buttando di tanto in tanto un’occhiata verso di me.

Ingollai un paio di bocconi di roast-beef, meccanicamente, senza pensare e senza sentire il sapore. Li annaffiai con un rumoroso sorso di latte e allontanai il piatto. Lei mi guardò amareggiata.

“Non ti piace? Non è tenero?Vuoi che ti prepari qualcos’altro?”

Mi vergognai in quel momento per il mio gesto. Mi rimisi composta sulla sedia e continuai a mangiare silenziosa, senza sentire odori, senza gustare sapori. Finii la carne e assaggiai un po’ di pudding. Gli occhi di Kitty erano fissi su di me.

“Grazie, era tutto buonissimo” mentii, senza nemmeno cercare di farlo decentemente.

Mi alzai da tavola e mi diressi nel salone. La pioggia continuava a scendere furiosa e notai che quel suono sarebbe stato un accompagnamento perfetto.

Presi lo spartito, fermandomi per un attimo a guardare la sua grafia, e con dita incerte cominciai a suonare la mia ninna nanna.

 

***

 

Mancava davvero poco. La nostra corsa, dopo la caccia, era ancora più folle e veloce. Avevo trangugiato il sangue di quelle stupite vittime avidamente, senza nemmeno sentirne l’odore, spinto solo da un senso del dovere che Alice aveva destato in me.

Bere abbondantemente mi aveva lasciato una sorta di euforia. Mi ritrovavo in uno stato di vigile ebbrezza e, mai come in quel momento, mi sentivo sicuro di me stesso.

Quando finalmente varcammo il confine con il Tyne and Wear, Jasper cominciò silenziosamente ad illustrarmi il suo piano.

“Dobbiamo cercare in ogni modo di tenerlo lontano dalla casa. È necessario agire repentinamente”

“Sta risalendo lungo la riva del Tyne. Aspetterà che le ultime luci del giorno si affievoliscano per avanzare tra gli alberi e avvicinarsi a Bella”

La facilità con cui Alice pronunciò il suo nome mi turbò. Era come se conoscesse quella bambina da tempo. I suoi pensieri, così fugaci, non facevano altro che confermare ogni mio dubbio: mi stava nascondendo qualcosa.

“Dalle informazioni di Lars sono pressoché certo che non agiscono seguendo una precisa strategia. Si tratta di vampiri giovani. Il loro unico scopo è soddisfare la sete. Sono vittime loro stessi di istinti incontrollabili, privi di remore morali”.

La mente di Jasper era un turbinio di pensieri e di immagini. Pensava a James, a come aiutarmi a cancellarlo dalla faccia della terra, ma non poteva fare a meno di ricordare la sua battaglia, quella che aveva perso…su tutti i fronti.

Pensavo che la sorte che mi era capitata in passato fosse quanto di più atroce potesse accadere ad un essere umano. Eppure sulla nave che mi portava al vecchio continente, quella nave che mi avrebbe condotto ad una nuova vita, sentii racconti altrettanto raccapriccianti. Storie di vite spezzate ingiustamente da una morte con la quale avremmo convissuto per l’eternità.

I raggi del sole che arrivavano in cabina mi rivelarono un volto segnato da una fitta e intricata trama di scie lucide e luminose. Quando chiesi a Jasper la causa di quei segni, cominciò a raccontarmi la sua storia.

Rimasi ad ascoltarlo, soggiogato dalle sue parole. Sembrava calmo, ma i suoi pensieri erano tormentati. Narrò della guerra, della carriera promettente di soldato. Faceva parte della “minute company”, una sorta di unità speciale, i cui membri erano sottoposti ad un addestramento aggiuntivo e tenuti ad essere pronti rapidamente, “con un minuto di preavviso”. Minutemen erano detti. Avevano solitamente 25 anni o meno, ed erano scelti per il loro entusiasmo, affidabilità e forza. Erano le prime milizie armate ad arrivare o ad attendere la battaglia.

Jasper aveva solo 23 anni quando entrò a far parte di questo gruppo di temerari. Possedeva un notevole carisma, che dopo si era tramutato nella capacità di influenzare l’umore delle persone che gli stavano vicino. Divenne il maggiore più giovane del Massachusetts.

Il 19 aprile 1775, durante la prima battaglia della guerra d’indipendenza, a Lexington, incontrò la morte. Morte che non avvenne per mano del nemico, ma fluì dalle morbide, sensuali e fredde labbra di una donna. La sua bellezza fu come un miraggio nell’orrore della battaglia, al quale il maggiore Whitlock si concesse come un assetato nel deserto. Non mi raccontò i giorni dell’incendio e gliene fui grato. Era un dolore ancora vivo nel mio corpo morto.

La vampira dal viso d’angelo si chiamava Maria. Una donna folle, la cui follia si era accresciuta enormemente dopo la trasformazione. Assetata di vendetta oltre che di sangue, aveva un unico scopo: formare un esercito di vampiri, uomini con un potenziale preciso, che sarebbero stati al suo servizio per affermare la supremazia della nostra razza sugli inutili umani. In poco tempo arruolò circa venti persone, a cui mise a capo Jasper. Velocemente le cose le sfuggirono di mano. Non aveva tenuto conto dell’indole e degli istinti bestiali dei neonati, che, rapidamente, finirono per sterminarsi a vicenda. Da quella terribile esperienza derivava l’abilità di mio fratello nel comprendere quella tipologia di mostri e la mappa dei segni dei morsi, che gli percorreva il corpo. La linea di sangue ci univa tutti, ma la volontà e la coscienza, differenziava noi da loro.

Volontà che Jasper dimostrò di avere allontanandosi da Maria. La situazione non migliorò. Nonostante fosse stanco di uccidere, era condannato a farlo, credeva di non avere scelta. Provava a trattenersi, ma non faceva che aumentare la sua sete cedendo ad istinti peggiori. Anche lui come me provò ad isolarsi dal mondo e, nel momento di maggior sofferenza, incontrò Alice. E con lei la salvezza e l’amore.

Al ricordo del viso di mia sorella, le sue labbra si aprirono in un sorriso e si scambiarono uno sguardo silenzioso ma che valeva mille parole. Uno sguardo talmente intenso da costringermi a voltarmi.

Non conoscevo quel sentimento, ma viverlo nei loro gesti, nei loro pensieri, era tra le emozioni più belle e intense che avessi mai provato.

Da efficiente soldato, Jasper tornò immediatamente serio.

“Fanno affidamento esclusivamente sulla loro forza fisica. Edward non lasciare che ti stringa tra le braccia e non attaccare in maniera prevedibile”.

“Ho solo voglia di staccargli la testa” sibilai.

“Calma…devi agire d’astuzia. Muoviti di lato e cerca di confonderlo”. Poi si voltò verso Alice e disse: “sono sicuro che non ci sarà bisogno che tu ti unisca allo scontro. Ma sarai ugualmente indispensabile. Cerca di prevedere le sue mosse e mantieniti in contatto con Edward”.

Sorrisi alla risposta contrariata che le rimase muta nella testa. Ma sapeva che il suo posto era lì, vicino a…Bella.

Attraversammo Chopwell cercando di evitare il centro del villaggio. Ritornare all’andatura “umana” era snervante ma necessario. La pioggia che ci aveva accolti appena varcato il confine, da lieve e fitta, si era fatta pesante e insistente. Jasper era fiducioso. Avremmo potuto sfruttarla a nostro vantaggio. L’afrore della terra bagnata, dei tronchi umidi e delle foglie, avrebbe distratto la nostra preda, consentendoci di agire ancora più inaspettatamente.

 

***

 

Quelle note non ebbero come al solito la forza di rasserenarmi, anzi, ogni errore, ogni incertezza nell’esecuzione mi irritava. Sentii una rabbia mai provata prima. Le mani tremavano e sentivo le guance accese d’ira. Mi fermai per un attimo e il silenzio calò bruscamente nella stanza e su di me.

Mi alzai di scatto rovesciando per terra lo sgabello e premendo violentemente le dita sui tasti. Un suono tetro fuoriuscì da quel gesto. Dopo pochi secondi Kitty apparve trafelata sulla porta.

“Bells, che succede? Tesoro, tutto bene?”

“No che non va tutto bene! Come puoi anche solo chiedermi una cosa del genere?”

“Bambina mia, non fare così. È la vita…pensa che i tuoi genitori adesso sono in cielo, insieme e da lassù veglier…”

“Smettila!” la interruppi urlando “loro mi hanno lasciata qui…sola!”.

Non stavo provando nemmeno a fermare le lacrime e sentire quella rabbia, ammettere quella verità mi piegò.

Prima di raggiungere il pavimento Kitty mi accolse tra le braccia.

“Ssh…non piangere piccola” mi ripeteva queste parole come una cantilena, cullandomi dolcemente, mentre disperata mi aggrappavo al suo vestito.

Per la prima volta da tempo, quel contatto mi scaldò il cuore. Sentii un accenno di sollievo quando realizzai che c’era ancora una persona che mi voleva bene.

“Kitty?”

“Mh?”

“Tu non mi lascerai vero? Starai qui con me…per sempre”.

Quel ritmico dondolio si arrestò improvvisamente. La sentii irrigidirsi e alzai la testa per guardarla.

“C-che…che c’è che non va?”

La voce mi usciva a stento. Lei mi guardava con gli occhi sbarrati. La scossi bruscamente. Volevo capire cosa mi stesse nascondendo, ma lei distolse lo sguardo e si allontanò da me.

“Bella io…tu…insomma, non è così semplice”.

Mi alzai in piedi e mi misi dritta davanti a lei. In quel momento sentii che il mio cuore, attraversato da crepe sottili, si era definitivamente frantumato. Tremavo.

“Vedi, io e te non abbiamo legami di sangue. Ti voglio bene, questo devi ricordarlo sempre, ma tu non puoi stare con me”.

“SI CHE POSSO! Non m’importa del sangue…tu devi stare con me!”.

“Tesoro, non fare così…”

Tutta la rabbia e la disperazione che per giorni avevo tenuto sopite dentro di me, in quel momento esplosero. Mi avventai su di lei colpendole ripetutamente il petto con i pugni chiusi.

“Tu non mi vuoi bene. Se me ne volessi rimarresti con me. Invece anche tu mi lascerai…ti odio…TI ODIO…”.

Non cercò di evitarmi, né di scansarmi. Come una spugna assorbì tutta la collera che le stavo riversando addosso, finché, sfiancata, mi fermai rimanendo aggrappata a lei.

“Domani tuo zio John e tua zia Diana verranno a prenderti. Ti porteranno a Gateshead. Starai con loro. È la cosa più giusta da fare”.

“…no…” sussurrai priva di forze “non voglio andare lì, voglio restare a casa mia”.

“Ma non è possibile. E poi cerca di pensare agli aspetti positivi. Crescerai in un ambiente lussuoso e ci saranno le tue cugine a tenerti compagnia. Sono sicura che starai bene”.

Il pensiero di quella casa fredda, di quell’ambiente formale, la consapevolezza di essere un ospite sgradito mi irrigidì. Mi allontanai da Kitty e le voltai le spalle.

“Non starò bene” dissi duramente.

“Non lo puoi sapere” rispose posando una mano sulla mia spalla. Rifuggii da quel contatto.

“Bells…”

“Non chiamarmi così”

“Ma…Bella…”

“Isabella” la ammonii.

Mi avvicinai al pianoforte e richiusi il coperchio dei tasti con tutta la forza che avevo. Strappai lo spartito dal leggio e, senza degnarla di uno sguardo, corsi nella mia stanza.

In futuro avrei capito e mi sarei pentita del mio comportamento, ma, in quel momento, potevo solo assecondare la tempesta di emozioni che mi devastava l’anima. Mi buttai sul letto abbandonandomi ad un pianto tutt’altro che liberatorio.

Era il tramonto ormai. La stanza cominciava a calare nel buio e la pioggia scendeva furiosa. Sembrava quasi assecondare la mia disperazione.

Piansi…

…per la mamma che mi aveva lasciata, per un fratellino che non avevo conosciuto, per papà che non era tornato e per Kitty che mi avrebbe abbandonata.

Il sonno mi colse così…disperata, sola, un foglio tra le mani, un presente in cui non avrei mai voluto essere e il desiderio di un paio di ali che mi portassero lontano…

Spero non sia stato eccessivamente dispersivo e confusionario. L'idea era quella di rendere una sorta di parallelismo tra i due, spero di esserci riuscita.

Veniamo a voi...

Austen95: mi fa davvero piacere che la descrizione di Alice ti sia piaciuta, è un personaggio che adoro e volevo darle un ruolo importante.

Biaa: mi piace il fatto che tu ti chieda come adatterò il tutto al romanzo. In effetti le risposte alle tue domande ci sono già...se ci pensi. "L'incontro" è vicino. E' già scritto e non vedo l'ora di farvelo leggere.

Myria: la contentezza che mi pervade quando leggo le tue parole è inspiegabile. La moglie....beh...lei è FONDAMENTALE!

lady lilithcullen: il tuo commento mi ha lasciato per un attimo (un attimo assolutamente lungo) senza fiato. Hai descritto talmente bene ciò che hai provato che ho rivisto il mio capitolo attraverso i tuoi occhi e mi è piaciuto di più. Grazie.

Micht82: mentre scrivevo questo capitolo pensavo a te, sperando che la mia Alice ti piacesse, se ci sono riuscita è un gran traguardo. Grazie per esserci in tutto e per tutto.

A presto.

Baci.

Miki.

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Capitolo 8
*** Unforgivable Sinner ***


CAPITOLO SETTE

Buongiorno...eheh...pensavate che avessi desistito! E invece NO!!! -_-"

Questo capitolo non ne voleva sapere di uscire a suo tempo. L'intenzione era di apportare un po' di azione, cosa che non sono proprio in grado di fare (non che per il resto...ma vabbé...). Un aiuto provvidenziale mi è arrivato da un grande amico, Micht82 , grazie a lui (o per colpa sua) il capitolo e uscito fuori così...GRAZIE DAVVERO.

Volevo fare una dedica...a Silvietta...che sta per diventare mamma.  Ti voglio bene.....

Come al solito, grazie a tutti...

CAPITOLO OTTO

Unforgivable Sinner

 

Quando scorgemmo casa Swan, il sole aveva quasi del tutto abbandonato il cielo e, lentamente, andava fondendosi con la terra, lasciando che la sera avvolgesse la realtà con il suo manto umido e triste.

Ogni cosa era circondata da un alone di malinconia, avvolta da un silenzio reso ancora più tetro dallo scrosciare incessante della pioggia.

Sentivo le gocce scontrarsi con il mio viso marmoreo, scomporsi in innumerevoli frammenti e dissolversi nell’aria. Avvicinarmi a lei mi rendeva sempre più impaziente. Se non avessi avuto la certezza di compiere una sciocchezza, mi sarei fiondato nella sua camera e l’avrei portata via, lontano da lì, lontana da tutto ciò che avesse potuto nuocerle..

Lo sguardo truce di Alice mi riportò prepotentemente alla realtà.

“Dobbiamo rispettare il piano”.

Annuii seccato. Avevo fiducia in Jasper, la sua esperienza era di gran lunga superiore alla mia. Non avevo mai mostrato esitazione in passato, ma stavolta…era diverso. Era come se da ciò che sarebbe accaduto fosse dipeso il resto della mia esistenza.

Improvvisamente io ed Alice ci arrestammo, avevamo raggiunto il fitto bosco, il buio avvolgeva completamente. La visione che irruppe nella sua mente mi inondò di una rabbia cieca.

Il segugio se ne stava acquattato sul tetto, indisturbato, la notte, complice, nascondeva la sua ignobile figura. Osava posare lo sguardo bramoso su di lei, riempire il suo sudicio corpo del suo profumo. Un attimo…e fui travolto dai suoi pensieri. Nemmeno nella testa di mia moglie avevo mai letto simili oscenità.

Pregustava la tenerezza delle sue carni, lasciava che il veleno gli riempisse la bocca al pensiero della dolcezza del suo sangue.

Non potevo indugiare oltre, mi piegai sulle ginocchia, pronto a spiccare un balzo.

“Fermati Edward! Non riusciresti a prenderlo!”

Mi bloccai, voltandomi implorante. Ancora una volta la sua espressione fiduciosa mi investì rassicurandomi. Guardai Jasper, ben consapevole che tali sensazioni non fossero del tutto…spontanee.

“Va bene. Procediamo.”

Lo vidi guardarsi intorno, esaminava il campo di battaglia, valutandone ogni minimo particolare.

La vegetazione era fitta e tra le fronde non trapelava un alito di vento. Questo era un punto a nostro favore: il segugio non avrebbe percepito la nostra presenza. La pioggia si riversava implacabile e spietata, rendendo il terreno fangoso.

In quel momento sentii, rassicuranti, i pensieri di Carlisle. Anche loro erano giunti a destinazione, braccavano la vampira dalla chioma infuocata per impedirle di avvicinarsi a noi. Di certo avremmo potuto agire indisturbati.

L’ora era giunta.

Jasper si volse sicuro verso di me, annuì, per poi rivolgere ad Alice uno sguardo carico di preoccupazione.

“Siete pronti?”

Assentimmo entrambi con un cenno del capo e, finalmente, ci dividemmo per attuare il piano.

Jasper si diresse verso nord, inoltrandosi tra gli alberi e sfruttando i grossi tronchi per nascondersi. Io mi diressi verso sud, seguendo il muro che delimitava la proprietà. Alice, inizialmente , si sarebbe mantenuta al limitare del bosco, per scongiurare un’eventuale fuga di James, finché non avessimo sferrato l’attacco, a quel punto si sarebbe avvicinata a Bella, vegliando sul suo ignaro sonno.

“Tieniti pronto…attiro la sua attenzione” pensò Jasper concentrato.

Attraversò in un lampo il terreno, balzò come un grosso felino alle spalle del mostro, acquattandosi in posizione di difesa a pochi passi da lui.

Quando il nomade voltò il corpo verso mio fratello, prima ancora che avesse il tempo di decidere di attaccarlo, scavalcai il muro e mi lanciai contro di lui. Fece appena in tempo ad accorgersi della mia presenza, che gli afferrai la gola in una morsa decisa, precipitando sul terreno fangoso.

Complice lo sbigottimento, io e Jasper riuscimmo ad afferrarlo per le braccia e condurlo lontano dalla casa.

Solo in quel momento Alice danzò fino alla finestra, appostandosi vigile, per evitare che il segugio potesse nuovamente insudiciare l’aria che aleggiava intorno al piccolo angelo.

Quando si riprese dal colpo inferto, James riuscì a divincolarsi dalla nostra presa. Aveva ragione Carlisle, il sangue umano li rendeva estremamente forti.

“Chi diavolo siete?” sputò. Gli occhi cremisi puntati su di noi, nuove prede, nuova sfida. Bastò questo pensiero ad eccitarlo di più. Non vi era maggior gusto ad appropriarsi di una vita lottando un po’ per essa?

Bella era il suo obiettivo, la sua vittoria, noi eravamo solo un insulso ostacolo da abbattere.

La sua bocca si distese in un ghigno.

“Anche voi qui…per lei? Spiacente, ma non sono solito condividere le mie prede, non se hanno un aspetto così…dissetante!”.

Jasper ed io ci muovevamo lentamente intorno a lui.

“Non la toccherai. Disprezzo profondamente gli esseri come te” dissi rabbioso.

Lo vidi scuotere la testa: “Vampiri…che proteggono un’umana!”.

“Credete davvero di riuscire ad ostacolarmi? Siete dei poveri illusi!”.

In preda ad una follia omicida mi scaraventai su di lui, afferrandolo per il bavero e andando a sbattere contro un albero.

“Dopo che ti avrò fatto a pezzi, non potrai più nuocere né a lei né a nessun altro” sibilai a pochi centimetri dalla sua faccia.

La mia presa era salda, la voglia di distruggerlo cancellava la disparità tra la sua forza e la mia. Improvvisamente, nella sua testa esplose il ricordo dell’odore di Bella, una tra le fragranze più dolci che avesse mai assaporato durante la sua esistenza. Un ricordo  che alimentò potente la mia sete. Fu una sensazione così vivida da provocarmi un dolore bruciante, tanto da farmi barcollare ed allentare la presa su di lui. Quei pensieri furono più potenti di qualsiasi colpo avesse potuto sferrarmi.

Cominciai ad attaccare alla cieca, spinto solo da una rabbia incontrollabile, senza pensare, rendendo vani tutti gli avvertimenti di mio fratello. Agire d’istinto avrebbe solo peggiorato le cose, ma probabilmente era troppo tardi. La mia mente era priva di lucidità. Vedevo solo lui, la faccia che lei avrebbe visto prima di morire…la faccia di un mostro!

Le zanne che sarebbero affondate nel suo collo candido.

Le mani, che, indegne, l’avrebbero sfiorata e spezzata.

“Edward. Attento!”

L’urlo silenzioso di Alice mi sottrasse all’ultimo momento da un attacco devastante. Era davvero troppo rapido e se avessi voluto contrastarlo avrei dovuto agire d’astuzia ed affidarmi ad un’esperienza maggiore. Cercavo di effettuare svariate finte per confonderlo e disorientarlo. Il mio corpo fendeva l’aria intorno a noi, producendo un acuto stridio e sollevando fango e foglie in schizzi e vortici.

Approfittai di un’apertura nella sua guardia per assestare un colpo alla mascella. Fu così potente da piegarlo in ginocchio.

Prontamente Jasper lo raggiunse da dietro, circondandogli il collo con un braccio. Ancora una volta James stava riuscendo a divincolarsi, Jasper non avrebbe retto ancora per molto. Mentalmente mi supplicava di aiutarlo, capii le sue intenzioni e annuii.

“Edward, staccagli la testa” mi urlò.

Il nomade si voltò verso di me. Bastò questa indecisione a consentire a mio fratello la mossa successiva. Inaspettatamente mollò la presa, mise una mano sul petto del vampiro e con una gamba dietro le sue spinse riuscendo ad atterrarlo.

“Edward, l’altro braccio!”.

Mi fiondai su quel corpo imitando la posizione di Jasper, perpendicolare all’arto, mentre tirava facendo perno con le gambe sul corpo del nomade.

I suoi lamenti erano coperti da tuoni che esplodevano fragorosi. Un fulmine si abbattè spietato contro un albero a pochi passi da noi, squarciando il tronco che cominciò lentamente a prendere fuoco.

Oramai lo avevamo in pugno.

“V-victoria…” sibilò implorante.

“E’ inutile. Nessuno verrà a salvarti”.

Nonostante la forza che opponeva alla nostra presa, io e Jasper riuscimmo a strappargli le braccia nello stesso momento. Quello che scaturì dalla sua bocca fu un urlo agghiacciante, che riecheggiò nel bosco accompagnato dal rumore sordo della tempesta.

Contemporaneamente Alice e Carlisle mi avvertirono che la femmina aveva cambiato direzione, invertendo la sua corsa. Doveva aver sentito…

Mentre il corpo straziato del segugio si dibatteva in preda a spasmi di dolore, mi rialzai velocemente, afferrando la testa per strappargliela dal collo.

Approfittando dell’inaspettato aiuto di madre natura, finimmo di smembrare il resto di quell’oltraggioso corpo, gettandone i brandelli tra le fiamme che ardevano poco lontano da noi. Il fuoco ingoiava avido, cancellando ogni traccia di quell’essere, purificando l’aria dal suo tanfo e facendo finalmente giustizia di tutte le vittime innocenti, le cui esistenze erano state strappate alla vita. Un fumo denso si levò alto nel cielo, ma non ebbi il tempo di rallegrarmene che fui richiamato da mio padre.

“Edward raggiungeteci, sta tornando indietro”.

“Jasper, andiamo! La femmina ha visto il fumo, sta tornando”.

Non lasciò nemmeno che finissi la frase che si lanciò in una folle corsa. Lo seguii senza esitazione. Non avrei permesso che anche lei si avvicinasse a Bella.

Quando raggiungemmo il resto della famiglia, continuammo la corsa verso nord, avanzando a raggiera per costringerla ad indietreggiare.

Sei…contro una. Non aveva scampo!

Diresse la sua fuga verso nord-est, balzava da un albero all’altro ad una velocità disperata. Di tanto in tanto si voltava indietro per vedere se ci fosse la possibilità di raggiungere il suo James, o meglio, ciò che rimaneva di lui.

Riuscimmo a spingerla fino al confine con la Scozia. Raggiunta la riva si voltò nella nostra direzione, gli occhi sbarrati, i capelli folti scompigliati dal vento.

“Pagherete per la morte di James! La mia vendetta giungerà spietata e inattesa”.

Fulminea si girò verso la costa, lanciandosi giù verso l’acqua, prima di scomparire tra le onde del Mare del Nord.

Vani sarebbero stati i tentativi di Emmet e Jasper di raggiungerla.

Per ora Victoria non sarebbe stata una priorità. Era sufficientemente lontana da non costituire pericolo né per noi, tantomeno per la bambina.

L’unico pensiero era quello di raggiungere Alice e di vegliare sul suo sonno negli ultimi istanti di oscurità. Avrei atteso l’alba, ascoltato il suo respiro affrettarsi prima del risveglio, per poi sparire e lasciarla alla sua vita.

Carlisle, Esme e Rosalie si diressero verso Bakewell ed io divorai le miglia che mi separavano da Whickham.

Era la seconda volta che mi trovavo nei pressi di quell’abitazione, eppure venni sopraffatto da una forte sensazione di familiarità e calore. Come se quello fosse il posto dove avrei voluto stare in eterno.

Non mi meravigliò trovare la finestra spalancata e notare che Alice fosse entrata nella sua stanza. Era evidente come si sentisse estremamente protettiva nei suoi confronti. Se ne stava rannicchiata sul tavolino al lato del letto, il viso appoggiato lateralmente nell’incavo del braccio che circondava le ginocchia. Un dolce sorriso risplendeva nel buio. Si dondolava piano, cullata da una silenziosa melodia, che era intenta a cantare mentalmente.

Mi guardai intorno. La stanza era semplice e arredata con gusto. Non vi erano ninnoli o null’altro che potesse far pensare alla camera di una bambina: in un angolo, una cassapanca aperta, dalla quale fuoriuscivano scompostamente un paio di minuscoli vestiti, tanto piccoli quanto austeri. Alice sarebbe inorridita se li avesse scorti. Lì vicino, una toeletta ordinata, ma priva della brocca. Sul tavolino, disposti in ordine, una spazzola, uno specchio e un pettine d’argento, su tutti e tre vi erano incise le iniziali R. D.

Affianco alla finestra un cavalletto giaceva impolverato. Sul foglio bianco, un viso femminile, era appena accennato, i colori, cupi e freddi, rendevano l’immagine ancora più scarna. Non sembrava un disegno. Era come se il dolore avesse impressionato la carta. Mi faceva pensare ai lavori di un tale, un francese…Daguerre mi pare si chiamasse.

Un lieve singulto, un sospiro seguito da un flebile sussurro:

“Mamma”.

Mi voltai lentamente verso il letto. Era talmente piccola che sembrava perdersi in quello spazio. Vestita dei colori della notte, giaceva abbandonata nell’abbraccio dell’ultimo sonno, accarezzata dalle prime luci dell’alba. Dormiva ancora profondamente, le sue guance erano arrossate e le palpebre gonfie per il troppo pianto, i lunghi capelli scuri, come onde, si stagliavano sul cuscino. Era come nella visione di Alice…tra le mani stringeva un foglio,sembrava consumato, vissuto. Era musica, vedevo le note scritte con una grafia leggera ed aggraziata.

Così intento ad osservarla, nella sua eterea ed innocente bellezza, mi accorsi solo successivamente di un fatto assai singolare: per la prima volta da quando ero un vampiro, mi trovavo di fronte ad una mente muta. Provai a concentrarmi, cercai di cogliere un pensiero, ma nulla. Quella creatura, a cui mi sentivo così prepotentemente legato, aveva anche l’inaspettata capacità di donarmi il silenzio.

Poi successe tutto troppo velocemente.

Si voltò nel lato del letto dove ero io…io che ero troppo vicino, troppo debole, troppo indifeso.

E poi…sospirò profondamente!

L’odore di umanità a cui mi ero abituato negli anni non era nulla in confronto al suo profumo.

Mi investì impietoso come il fulmine sull’albero, ugualmente mi sentii squarciare dentro. La violenza di questa immagine non si avvicinava neanche lontanamente alla forza devastante che si abbatté su di me.

Quel solo attimo bastò a cancellare tutti i propositi della mia seconda esistenza.

Non ero io. Non ero Edward Masen. Non ero assolutamente Edward Cullen.

Ero un vampiro. Ero un mostro. Un predatore.

Tutte le mie paure si stavano realizzando.

L’avevo salvata da James. Avevo disprezzato ogni pensiero che quel ramingo aveva concepito su di lei.

Per cosa?

Per renderla preda di me stesso.

Mai verità fu più sconcertante.

La colpa era solo sua.

Come poteva esistere un simile odore? Possibile che fosse l’unica creatura esistente al mondo ad emanare una fragranza così spietatamente sublime?

Chissà quale sapore…

Il solo pensiero alimentava una sete che mi stava portando alla follia. La gola era carbonizzata dal desiderio. La bocca era secca, al punto che nemmeno le ondate di veleno riuscivano ad ammorbidire la sensazione.

Sentivo il mostro esultare dentro di me, farsi largo prepotentemente, dopo anni di silenzio. Libero dalle catene del rigore e della disciplina.

Qual idiota ero stato a compiacermi di essere riuscito a cacciarlo in un angolo con così poco sforzo?

Ignorato, inascoltato, aveva tessuto le sue trame consapevole che prima o poi il momento sarebbe arrivato.

Questo era quel momento.

Nel voltarsi, ignara, mi offriva candido e pulsante il collo sottile.

Ero pronto a scattare, le fauci spalancate…

In quel secondo di folle delirio avevo dimenticato Alice…

Non mi accorsi nemmeno del movimento, sentii solamente due piccole mani, due inutili polsi, che mi afferravano per allontanarmi da lei.

Era così minuscola, ma poteva contare su una forza maggiore della mia: era una vampira da molto più tempo di me e non aveva dovuto combattere contro un nomade assetato.

Con poco sforzo mi trascinò a ridosso della parete opposta, parandosi davanti a me e sovrastandomi, paradossalmente, col suo esile corpo. Mi guardava con aria colpevole, gli occhi fissi nei miei.

“Edward guardami, ti prego. Non respirare!” la voce ferma, le labbra vicine al mio orecchio.

La bestia si dimenava dentro e fuori di me.

“Non puoi…TU non puoi farlo” i pugni stretti premevano irremovibili contro il mio petto.

“Non te lo permetterò, hai capito? Non sei un mostro…non sei come lei.”

Voltò inaspettatamente il mio viso verso Bella “guardala Edward. È una bambina. Merita forse questo? Lo merita Edward? RISPONDIMI!”.

Il soffio gelido del suo fiato sul mio viso allontanò per un attimo il caldo ed invitante odore della mia piccola vittima. Quel breve istante mi donò un attimo di lucidità.

In quel prezioso istante, visualizzai due volti, uno accanto all’altro.

Uno era il mio, o meglio, lo era stato: il mostro dagli occhi rossi creato per essere un assassino. Quel mostro che vedevo riflesso nello specchio e che avevo rinnegato con ogni forza.

L’altro volto era quello di Alice.

I due visi non si somigliavano. Alice non era mia sorella nel senso comune del termine. Il pallore che ci accomunava era il risultato di ciò che eravamo: tutti i vampiri avevano quello stesso colorito diafano e freddo.

Il colore degli occhi aveva un’altra origine, rifletteva una scelta comune.

Eppure, malgrado la somiglianza non fosse lampante, immaginavo che il mio volto avesse iniziato a riflettere il suo, in un certo senso, nei quarant’anni trascorsi da quando avevo imitato la sua scelta e seguito il suo cammino e quello della sua famiglia. Il tempo era scivolato su di me senza lasciare traccia del suo passaggio. I tratti che caratterizzavano la mia faccia non erano cambiati, ma sentivo che un po’ della sua saggezza aveva segnato la mia espressione, nella quale credevo di scorgere anche un po’ della sua compassione e pazienza.

Ognuno di quei piccoli miglioramenti svaniva di fronte al mostro.

Pochi istanti e non sarebbe rimasto nulla a testimoniare gli anni che avevo trascorso con la mia salvatrice, la mia confidente, quella che, in più d’un frangente, era stata davvero mia sorella.

I miei occhi avrebbero brillato, vermigli, come quelli di un demone, tutte le somiglianze sarebbero sparite per sempre. Non mi avrebbe più guardato fiduciosa, non sarebbe stata più il mio sostegno. Mi avrebbe perdonato? Mi avrebbe voluto bene?

Mi aveva sempre giudicato migliore di quello che in realtà ero, perfino migliore di se stessa.

 Ero nauseato, disgustato dal mostro, che moriva dalla voglia di prenderla.

...Bella…

Per quale ragione era nata? Perché esisteva? Perché il destino mi aveva portato proprio da lei?

Era al mondo per rovinare quel poco di pace che avevo conquistato nella mia non-esistenza. Capace di ricacciarmi in quell’inferno dal quale ero riemerso a fatica.

Mi avrebbe condotto alla rovina.

Distolsi il capo. Sottrassi la mia vergogna allo sguardo implorante di Alice.

Le sue parole, sussurrate con forza, furono violente come urla fragorose.

Ebbero il potere di dilaniarmi.

Se avessi potuto, avrei voluto fare la stessa fine di James. Avrei anzi meritato un supplizio peggiore.

Alice dovette sentire e vedere che non avrei più opposto resistenza, che la bestia stava arretrando, che non il coraggio, la volontà, ma i sensi di colpa e la vergogna la stavano fronteggiando. Talmente lontana era la sensazione di vittoria…riuscivo a provare solo dolore, un dolore così intenso da rendere insignificante anche il vivido ricordo della trasformazione.

Sapevo che era ancora lì. Pronto, appena avessi abbassato la guardia.

Perché lei c’era ancora…

Chi era questa creatura? Perché proprio io? Perché proprio ora?

Non voglio essere il mostro…non posso esserlo!

Non posso uccidere una bambina indifesa, che dorme nel suo letto immacolato.

…il profumo…

Il problema era il profumo. Il profumo del suo sangue…così disgustosamente appetitoso e invitante.

Se solo avessi trovato un modo per resistere. Se solo avessi potuto respirare un po’ di aria fresca, per ripulire la mente.

Ma nessun gentile sbuffo d’aria arrivò a cacciare via il profumo. Non c’erano spifferi ad aiutarmi. Al di fuori della finestra, circondato da una strana luce azzurra, il mondo sembrava congelato in un’ora segreta, spettatrice immobile della mia lotta.

Non ero costretto a respirare. Arrestai il flusso d’aria nei polmoni…il sollievo fu istantaneo ma parziale.

Conservavo ancora il ricordo del profumo, il pensiero di quel dolce sapore sul palato.

Privarmi di quell’atto superfluo, ma naturale e spontaneo, era fastidioso.

Fastidioso ma sopportabile. Più di quanto non fosse sentire il suo odore senza affondare i denti in quella carne delicata, trasparente, fino al pulsare caldo, umido…

Non devo abbassare la guardia…

Non avrei resistito ancora per molto.

“Andiamo via” sussurrai con tono supplichevole.

Non mi voltai a guardarla. Scortato da Alice, raggiunsi la finestra.

Con un balzo fui fuori.

E la bestia fu di nuovo dentro.

Un nuovo giorno si affacciava, l’aria era fresca e umida.

Inspirai profondamente e mi sentii libero dalle catene della sete e della colpa.

Non avrei permesso mai più al mostro di prendere il sopravvento sulla mia coscienza.

Ma la fiducia che avevo verso me stesso si era infranta nel momento in cui avevo indossato la maschera dell’assassino.

Saperla così vicina, così raggiungibile, era una tentazione troppo forte.

Nella mente di mia sorella, scorsi la decisione che non sapevo nemmeno di aver preso.

“Mi mancherai” disse, guardandomi apprensiva e amorevole.

Mi sfiorò una spalla, un gesto che, come al solito, ebbe la potenza di sollevarmi dal baratro di inumanità in cui ero sprofondato.

“Farai la scelta giusta. Ma non essere troppo severo con te stesso”.

Nello stesso momento ci voltammo verso oriente, poco prima che la sagoma di Jasper apparisse.

Alice gli andò incontro. Si fermarono a pochi passi l’uno dall’altra e si contemplarono senza dire nulla. I raggi del sole nascente si riflettevano sui loro volti facendoli risplendere e scintillare.

Non riuscivo a distogliere lo sguardo da quella visione di unione perfetta.

Poteva l’amore più puro e devoto trovare la sua massima espressione in due creature il cui cuore giaceva immoto nel petto?

Potevano due blocchi di freddo marmo sprigionare tanto calore?

Sarei mai stato degno di essere l’oggetto di tanto trasporto?

Sarei mai stato in grado di provarlo io stesso?

Da vivo ero stato innamorato dell’amore, attratto dalle sue soavi parvenze e desideroso dei suoi gentili gesti.

E da quell’amore ero stato distrutto.

Non avrei distrutto a mia volta.

Alice si voltò verso di me.

“Grazie” mimai con le labbra.

Il suo viso esplose in un sorriso talmente radioso da far impallidire il sole.

Jasper ci guardò interrogativo, lei lo avrebbe messo al corrente della mia decisione, e con lui il resto della nostra famiglia.

Per la seconda volta da quando ero un vampiro mi ritrovai solo.

Avrei affrontato il mondo e con esso qualsiasi tentazione mi si fosse presentata.

Questo era l’unico modo di espiare la mia colpa.

La colpa di essermi avvicinato troppo a lei, di aver pregustato il suo sapore,di averla quasi spenta.

L’immagine del suo piccolo viso non mi avrebbe mai abbandonato, così come il ricordo del suo profumo.

Voltai le spalle e recisi ogni legame con tutto quello che ero stato.

 

***

Unforgivable Sinner

 

Perdi la cognizione del tempo, perché i giorni non hanno più senso.

Tutti i sentimenti che reprimi ti stravolgeranno dentro.

Speri quasi che lei sappia che ci hai provato.

Il volto che speri di vedere, il volto che temi di vedere, ti accompagna tutto il giorno.

Sospeso tra il mondo e l’eternità.

Sai dove l’hai lasciata e sei sicuro di sapere dove sei.

Andrai lontano da lei.

Ti sforzi costantemente contro una lotta sfiancante.

Le immagini che vedi non scompariranno.

Forse una volta ti sei perso, ma ora ti sei trovato.

Ti sei raddrizzato prima di cadere al suolo.

Ma lei è li.

E tu un imperdonabile peccatore.

Ancora grazie...a tutti coloro che hanno la pazienza di leggere.
Un grazie doppio a chi impiega qualche minuto (sempre troppi per questa cosa) a commentare. Ogni singola parola mi regala un briciolo di autostima.

Mirya : spero davvero di esserlo stata...credibile...l'idea di stravolgere le loro storie mi terrorizzava, ma quando la testa parte per una direzione mi è impossibile fargliene prendere un' altra. Grazie per esserci sempre.

Biaa: le tue parole mi hanno fatta gongolare parecchio. Addirittura volere che il capitolo fosse lungo il doppio...*_______* Grazie, troppo buona. L'aggiornamento è arrivato mooolto in ritardo, nonostante il cap fosse pronto da tempo, ma ho cambiato pc e dovuto reistallare il programma dell'HTML che non ne voleva sapere di "compatibilizzarsi" con Windows 7.

Austen95: Penso che sia difficile non adorarla, poi, ora che le hanno dato il volto di Ashley Greene, la adora pure il mio fidanzato -_-""" Grazie per il "bellissimo".

Non so se è una buona notizia, ma il prossimo è già pronto, quindi arriverà a giorni...
Baci.
Miki.

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Capitolo 9
*** Dear Edward ***


CAPITOLO NOVE Come "promesso", dopo solo pochi giorni posto il capitolo.
Ringrazio tantissimo chi ha aggiunto la storia tra le seguite, davvero è una gioia per me. Una ragazza gentilissima ha fatto una copertina per questa storia, la adoro letteralmente...




CAPITOLO NOVE

 

Dear Edward...



Caro Edward, fratello adorato,

sono passati oramai due anni, da quando ho scorto in te quella decisione, talmente chiara e risoluta da apparirmi nitida e irreversibile.

Non è stato difficile comprendere il tuo reale bisogno di fuggire, di allontanarti dal luogo in cui ti sei riscoperto predatore. Jasper è turbato ancora dal ricordo delle sensazioni che straziavano il tuo animo: terrore, impotenza, desiderio…

Ma è giusto punirsi per una colpa che non si è commessa?

Da quando scorgere una tentazione è grave quanto cedervi?

La tua condotta fino a quel momento è stata irreprensibile, nulla di paragonabile alla nostra.

Conosci perfettamente le nostre storie, nessuna di esse ha un lieto fine. Se ci fosse stato, adesso saremmo polvere. Nostro malgrado siamo stati trascinati in un vortice di sete e sangue, di pulsioni e tormenti. Per lungo tempo tu sei riuscito ad eludere il mostro, l’alter ego demoniaco che si impossessa del nostro corpo di fronte ad ogni invito, anche il più celato, anche se ci arriva inaspettato, nella forma di una creatura angelica ed indifesa. Il mostro si nutre di debolezze e sensi di colpa, urla e scalpita prepotente ed esulta per ogni passo falso che ci spinge a compiere.

“Quel” momento giunge per tutti, prima o poi. Tutti abbiamo avuto il nostro momento, anche più d’uno, e non posso negare che il ricordo di quegli attimi può essere bruciante più dell’arsura. Conosci ogni nostra debolezza, ogni passo falso. Il “tuo” è arrivato quando hai incontrato lei, quando ti sei scontrato con la sua vita. Bella ti ha posto di fronte alla scelta più difficile della tua esistenza, come se tu, caro, non ne avessi già affrontate abbastanza.

Hai vacillato, hai barcollato, ma alla fine ti sei eretto con ancora più fierezza e consapevolezza della tua forza. Ma allora perché tanto risentimento verso te stesso?

Tu quel passo falso non l’hai compiuto.

Fino a che punto arriverà la tua voglia di punirti?

Per quanto tempo ti priverai della tua famiglia, di quella che era stata la vita fino ad allora, per espiare una colpa che non hai commesso?

A chi credi di fare del male?

Haddon Hall non è più la stessa.

Questa casa è così vuota senza di te, il silenzio è diventato insopportabile senza la tua voce, senza le note della tua musica, senza le tue melodie sublimi che accompagnavano le nostre giornate.

Solo io e Jasper abbiamo deciso di rimanere qui. So che tornerai, non lo vedo ma lo so. E voglio essere qui quando succederà, ad abbracciare mio fratello, a fargli capire che l’affetto che provo nei suoi confronti non è mutato, anzi, è, se possibile, più profondo e intenso.

Esme e Carlisle si sono allontanati quasi subito. So che te lo starai chiedendo e la risposta è NO. Non potresti mai Edward, non potresti mai deluderci, in nessun modo. Semplicemente era troppo per loro, vivere costantemente la tua assenza. Esme passava vicino al tuo pianoforte, sfiorando i tasti muti con le dita, quasi timorosa, con la paura che potesse dissolversi , così come hai fatto tu.

Hanno scelto un piccolo e grazioso cottage, più vicino al paese, impegnati a tempo pieno nelle loro opere di carità, cercando costantemente di alleviare  la sofferenza di quella povera gente. Certamente si domandano quanta sofferenza ti stia dilaniando, per costringerti lontano da loro.

Quanto soffri Edward?

Allevia davvero il tuo dolore il modo in cui hai deciso di vivere?

Cosa stai cercando?

Ubriacarti di umanità non servirà, se è questo ciò che speri. Vincere piccole tentazioni non ti fortificherà. Un giorno, quando meno te l’aspetti, potresti incontrarla di nuovo quella scia. Dentro di te la sete esploderà nuovamente…la furia si farà spazio, invadendo ogni fibra del tuo essere.

Sarà solo la tua coscienza, quella coscienza che hai scelto di avere, che ti impedirà di spegnerla. Perché non lo farai, lo so…l’ho visto.

Rosalie ed Emmett sono in viaggio, di nuovo. Hanno incrociato il tuo odore nelle terre del nord, ma non l’hanno seguito, per rispettare la tua volontà, per non invadere la vita che hai scelto di condurre lontano da loro. Sono creature alquanto bizzarre lo ammetto, sembra che la loro dote sovrannaturale sia quella di nutrirsi della passione che anima i loro cuori, non esiste null’altro. Due frammenti della stessa stella che si sono incontrati e fusi, ricominciando a splendere più intensi e abbaglianti che mai.

Anche Jasper avrebbe voluto allontanarsi, condurmi lontano, probabilmente per alleviare il mio animo, ma non ho voluto. Qualsiasi distanza non potrebbe mai sciogliere il legame che abbiamo, non potrebbe impedire l’irruzione delle visioni che esplodono nella mia testa e che mi mostrano ogni tuo passo consapevole verso un’esistenza votata unicamente all’esaltazione del corpo e del piacere.

Tanto vale rimanere qui e attendere. Aspettare il momento in cui capirai davvero il tuo valore.

Potrei fare leva sulla tua naturale tendenza a colpevolizzarti per ogni cosa, torneresti immediatamente, ma non lo farò, anzi, questa lettera ha il sincero scopo di tranquillizzarti su ogni preoccupazione che assilla la tua testa.

Potrei farti credere che è un’incombenza troppo grande, per me, occuparmi di lei, ma non lo è.

La sua presenza qui non richiede uno sforzo così insopportabile. D’altronde, non posso negare che quando è più irrequieta, Jasper fa una grande fatica a placarla, ma, per il resto, è Grace ad occuparsi di tutto, come al solito. Nonostante disprezzi profondamente quella donna, è innegabile che la sua presenza sia indispensabile e provvidenziale.

La venalità, che caratterizza lei e suo figlio, è ributtante, ma ci consente di comprarne il silenzio e la fedeltà.

Finché quella donna sarà in vita e finché la verbena crescerà rigogliosa non avrai motivo di preoccuparti.

Anche Victoria, per il momento, non è un problema. È lontana, e per il ora non ha nessuna intenzione di tornare. Se dovesse prendere una decisione lo vedrò e tu, ovviamente, sarai il primo a saperlo e riusciremo ad affrontarla, insieme, come sempre.

Come puoi ben capire, Bella è al sicuro…da questo punto di vista.

Probabilmente non vorrai sentire parlare di lei, o si?

Non puoi immaginare quanto sia caparbia e forte quella ragazzina. La strada che percorre è nettamente in salita, piena di ostacoli che si impone di superare. È orgogliosa, coraggiosa e sicura di sé, nonostante la sua autostima venga messa costantemente a dura prova.

Non vive più a Wickham. Alcuni parenti, zii da parte di madre, l’hanno presa con loro, in una grande residenza, alla periferia di Gateshead. Vedessi quella casa: ostenta ricchezza in ogni dettaglio. Esterni ed interni sono riccamente adornati con motivi ripresi dal tardo gotico e dai disegni fiamminghi, rilievi, montanti, camini decorati e fregi fanno bella mostra mettendo a disagio chiunque oltrepassi quella soglia. Ciò che caratterizza lo stile elisabettiano è qui reso all’estremo, privo del benché minimo gusto.

Nonostante ciò, credevo che lì, finalmente, avesse trovato un po’ di serenità e di calore umano, si trattava pur sempre della sua famiglia.

Mi rammarica ammettere che non è così.

L’unica persona che nutriva un affetto sincero verso quella creatura era suo zio John, sfortunatamente deceduto mesi fa, per una letale caduta da cavallo.

Sua moglie è tra le persone più fredde e avide che io conosca. Dopo la morte del marito, la sua unica attività è stata quella di dissipare il patrimonio in abiti e gioielli per se stessa e per la sua malefica progenie. Certo, devo riconoscerle un certo gusto, una notevole capacità di scegliere ciò che possa valorizzare la sua figura, ma ciò non rende meno disprezzabile l’atteggiamento di disinteresse e insofferenza nei confronti della nipote.

La piccola viene continuamente derisa e umiliata dalle cugine, che non perdono occasione per sottolineare la disparità fisica e sociale che corre tra loro. Le viene rinfacciata qualsiasi cosa e il suo carattere schietto e sincero viene scambiato per un’indole irriverente e ingrata.

Mi sento così impotente. Vorrei poter fare qualcosa per rendere sopportabile la sua condizione. Non è giusto che una bambina debba patire tutto ciò che sta sopportando lei.

È così sveglia e intelligente. Quando le viene concesso, se ne sta sempre immersa nei libri. Sceglie grossi tomi illustrati, divorando le parole e incantandosi di fronte alle immagini che cerca di riprodurre diligentemente.

Ieri era la volta della “Bewick’s HistoryOf British Birds”, il volume dedicato agli uccelli marini. È stata una visione breve, ma nitida e dirompente. Poi tutto si è fatto sfuocato e incerto, come se il suo futuro stesse improvvisamente cambiando, ma senza una direzione certa.

So che non approvi la mia decisione di vegliare su di lei, seppur da lontano, ma, credimi, è una cosa di cui non posso fare a meno. Sento verso di lei un legame paragonabile, per intensità, solo a quello che sento verso di te e non credo che la cosa possa definirsi accidentale.

Ora ti lascio, Jasper mi aspetta per la caccia.

Spero con tutto il cuore che questa lettera ti trovi sereno.

Ti abbraccio, fratello mio, ricordandoti che la vita non riserva solo brutte sorprese e che la gioia, talvolta, ci coglie inaspettata.

Sentitamente tua.

Alice.


 

 

Se avessi stretto troppo la presa su quel foglio, l’avrei ridotto in polvere. Le mie mani potevano solo distruggere. E questo era un rischio che correva ogni cosa fragile e delicata con la quale fossi venuto in contatto.

In quelle parole, tracciate con sicurezza ma con una grafia leggera ed aggraziata vi era tutto. Tutto di noi. Tutto di me stesso.

Carlisle lo ripeteva sempre: noi non eravamo mostri come gli altri.

Alla luce di ciò che era successo, non potevo che sorridere amaramente a quell’idea.

Amavamo definirci vegetariani. Avevamo scelto di nutrirci esclusivamente di sangue animale e di vivere il più possibile una parvenza di normalità, risiedendo in pianta stabile in un posto finché non fosse stato necessario spostarsi. La nostra condizione ci piegava a compromessi indispensabili, uno di questi era quello di attirare il meno possibile gli sguardi su di noi e cercare di non suscitare troppe domande.

Carlisle e sua moglie Esmeralda dirigevano un ricovero per disagiati e senzatetto, ai quali potevano dedicare, rispettivamente, cure mediche e le attenzioni di una madre mancata.

All’inizio mi era assolutamente incomprensibile come facessero a tollerare la vicinanza di tanti umani e, soprattutto, la vista e l’odore del sangue, eppure svolgevano il loro lavoro, la loro vocazione, con dedizione e costanza.

Era stato mio padre a voler tornare nel vecchio continente.

Londra era la sua città natale, era lì che nel 1643 aveva visto la luce. Suo padre, un pastore anglicano, sosteneva fervidamente il bisogno di liberare il mondo dalla malvagità, guidando, assieme ad altri fedeli, una lunga ed estenuante caccia a streghe, lupi mannari, vampiri, con il risultato di uccidere per lo più persone innocenti.

Crescendo, Carlisle prese il posto di suo padre. Non era entusiasta all’idea di uccidere, nonostante ciò, riuscì a scovare un vero covo di vampiri, tra le fogne della città. Fu in quell’occasione che venne morso e lasciato a terra sanguinante. Il dolore era insopportabile, ma non gli impedì di rifugiarsi in un deposito abbandonato, dal quale, tre giorni dopo, riemerse come vampiro. Il disgusto e il terrore  verso ciò che era diventato lo spinse a cercare di togliersi la vita. Provò in diversi modi, fallendo miseramente e scoprendo, di volta in volta, di quali cose straordinarie fosse capace il suo corpo. Capì che in nessun modo avrebbe potuto distruggersi. Nel frattempo la sete si faceva spietata e, rintanandosi tra gli alberi di una foresta, decise di lasciarsi consumare dalla “fame”.

Quando oramai l’arsura si era impadronita delle sue membra, vide un branco di cervi passare vicino a lui e intravide una speranza…

Trascorse molti anni ad “allenarsi” a sopportare la tentazione di bere sangue umano. Nel corso di questo tempo, lasciò l’Inghilterra, attraversando a nuoto l’ oceano e raggiunse l’America, dove si dedicò con passione allo studio.

Divenne un medico brillante e capace, del tutto insensibile alla vista e all’odore del sangue, trovando la sua redenzione nel salvare vite umane.

Il suo momento fu Esme. La sua professione lo condusse di fronte ad una vivace ragazzina di sedici anni, che si era rotta una gamba, nel tentativo di salire su un albero. Il suo viso a cuore, i capelli color caramello, che ricadevano in morbide onde sulle esili spalle, le labbra piene color del sangue furono una visione inaspettata per Carlisle, che, per la prima volta, sentì la presenza del mostro dentro di sé.

Riuscì ad allontanarsi da lei, non senza difficoltà, ignaro del fatto che di lì a breve avrebbe incontrato il suo angelo, di nuovo.

La testolina della ragazza era piena di sogni, ma ciò non le evitò una sorte miserrima. Piegata al matrimonio dalla volontà dei suoi genitori, si ritrovò unita ad un uomo spietato e violento.

Dopo l’ennesimo abuso riuscì a scappare e a rifugiarsi in un piccolo paesino, dove fu accolta e curata da un’anziana e gentile donna, che l’aveva ritrovata sulla soglia della propria casa, priva di forze, stanca e dolorante.

Quando scoprì di aspettare un bambino, pensò che tutte le sue sofferenze non erano state inutili, se Dio l’aveva ricompensata con la gioia grande di essere madre. Avrebbe vissuto solo ed unicamente per il suo bambino, la sua unica ragione di vita.

Perderlo fu un dolore insopportabile.

Accecata dal dolore, ebbe solo la forza per un ultimo e disperato gesto: porre fine alla propria esistenza gettandosi da un dirupo.

Si pensò subito che fosse morta e venne trasportata all’obitorio dell’ospedale in cui mio padre esercitava la professione oramai da qualche anno.

Il battito impercettibile del suo cuore, arrivò forte e implorante alle sue orecchie e la decisione di salvarla fu immediata e indispensabile.

Quando la nuova vita la accolse, non ci fu bisogno di domande, di spiegazioni, gli occhi devoti e appassionati di Carlisle le diedero tutte le risposte di cui aveva bisogno.

Ma per lui non fu così semplice.

Fermarsi mentre sentiva il suo sapore tra le labbra, sul palato, accarezzargli la lingua, fu quasi impossibile. Ricordo bene le sue parole: il sangue animale ci tiene in vita, preserva le nostre forze, ma non ci sazia mai completamente. Assaggiarlo è un’esperienza talmente sconvolgente che è quasi impossibile fermarsi. Veniamo colti da una sorta di frenesia e l’unico pensiero è bere, dissetarsi fino alla fine.

La forma dei suoi occhi, mi disse, lo spinse ad allontanarsi da lei. Non avrebbe potuto sopportare di vederli chiusi per sempre. Voleva che si posassero su di lui, senza paura, senza timore. Voleva essere la prima cosa che avrebbe visto dopo la morte e non l’ultima prima di morire.

Rosalie arrivò qualche anno dopo. La sua vita fu spezzata da mani troppo rudi, schiacciata e calpestata come una rosa. Apparteneva ad una famiglia agiata di Rochester, gli Hale. Sin da piccola fu adulata e vezzeggiata per la sua disarmante bellezza, che la portò in poco tempo, ad essere la ragazza più ambita della città. I suoi genitori avevano grandi progetti per lei e tutto sembrò realizzarsi quando finalmente la sua mano fu chiesta da Royce King, giovane rampollo della famiglia più ricca e nobile della città.

Rose si trovava perfettamente a suo agio, tra l’organizzazione del matrimonio, che si prospettava essere un evento che tutti avrebbero ricordato come unico, e le uscite in società, al braccio del suo futuro marito.

Credeva, si illudeva di avere tutto, mancava solo la cerimonia, un marito che la baciasse tornando a casa la sera e una famiglia tutta sua.

Sognava una vita felice e spensierata, ammirata e invidiata da tutti.

Ma non l’avrebbe avuta.

Lo stesso uomo che le prometteva la felicità, l’aveva stretta e sciupata per sempre.

In quel vicolo, nel puzzo di alcol e di violenza, Carlisle trovò il corpo profanato di Rosalie, che accolse tra le sue braccia per allontanarlo dall’orrore e per farlo rinascere con la promessa di una vita migliore.

Emmett fu il momento  di Rose.

Era così immersa nella caccia che non si era accorta di ciò che stava accadendo poco distante da lei.

Il richiamo del sangue la condusse di fronte a lui. Il petto squarciato dagli artigli di un grizzly, il battito che si spegneva lentamente. Sapeva che se avesse poggiato le labbra su quel liquido vaporoso e invitante non si sarebbe più fermata. Il corpo imponente e muscoloso del ragazzo contrastava nettamente con un viso angelico, dai tratti quasi infantili. I riccioli corvini che ricadevano arruffati sulla fronte, le ricordavano quelli di Andrew, il figlio della sua migliore amica, Vera, quel bambino che lei tanto amava e che le faceva desiderare di essere al più presto mamma.

La tenerezza prese il posto della sete e ciò le diede la forza di caricarsi il corpo sulle spalle e di portarlo a Carlisle, implorandolo di fare con il ragazzo ciò che aveva fatto con lei.

Emmett fu da subito sorpreso e soddisfatto della sua nuova natura, scoprire la sua forza, la sua resistenza lo rendevano euforico e immensamente grato a quella creatura inarrivabile che lo guardava da lontano, timorosa e diffidente. Al primo passo compiuto verso di lei, Rose capì che avrebbe potuto amare ancora e soprattutto essere riamata sinceramente, con rispetto e devozione.

Sono stati la salvezza l’uno dell’altra.

La storia di Alice affonda le radici in un’epoca lontana, un periodo in cui essere speciali era una condanna a morte.

Nacque a Salem, nel 1673 e fin da subito si dimostrò essere una bambina estremamente vivace e recettiva. Crescendo, i familiari cominciarono a notare alcuni strani eventi che accadevano intorno a lei e l’attenzione che la bambina destava, li convinse ben presto a tenerla lontana da sguardi indiscreti. Ciò non impedì ad Alice di sviluppare le sue strane capacità. Non aveva vere e proprie visioni, come sarebbe accaduto dopo la trasformazione, le sue erano piuttosto sensazioni, che puntualmente si rivelavano fondate.

Fu così che in breve tempo, anche la sua famiglia, cominciò a guardarla con timore, a pensare che fosse lei a causare gli eventi, spesso spiacevoli, che preannunciava.

La sua sfortuna fu quella di crescere in uno dei periodi più bui della storia. In seguito a misteriosi eventi, sparizioni improvvise, morti inspiegabili, ai quali nessuno seppe dare una spiegazione logica, esplose un’ ondata di isteria e fanatismo religioso, che si risolse in una vera e propria persecuzione, quella che anni dopo fu definita caccia alle streghe.

L’evento non ebbe le proporzioni che assunse nel XV° secolo, ma, in quella cittadina, mieté numerose vittime. Bastava coltivare erbe,  avere i capelli rossi, possedere un gatto nero, mostrare atteggiamenti che agli occhi dei più potessero sembrare strani, per essere accusate di stregoneria. Nel 1692, la caccia scoppiò in tutto il suo orrore. Le presunte streghe erano donne, appartenenti alle classi sociali inferiori, di solito vedove, meretrici, levatrici ed herbarie, colpevoli di omicidi o reati gravi. Ma, la maggior parte delle volte, si trattava di persone innocenti, di ogni età e condizione, spesso levatrici o guaritrici, in un tempo in cui la povera gente ricorreva spesso e volentieri all’utilizzo di decotti e infusi a base di piante, che risultavano ugualmente efficaci e di certo più economici rispetto ai rimedi medici. Molte streghe vennero torturate e bruciate vive, con le motivazioni ufficiali più varie e spesso mosse da futili motivi. Talvolta l’obiettivo era solo quello di ottenere un nome, che appartenesse a qualche ricco personaggio, il cui processo sarebbe stato fortemente remunerativo.

Sottoposta all’ennesima tortura, Zahlia, la serva di casa Brandon, accusata di stregoneria per il colore della pelle e per la stravagante abitudine di parlare al vento, all’acqua, alla terra, si lasciò sfuggire il nome di Alice, che, oramai diciannovenne, aveva pienamente preso consapevolezza delle sue abilità, confidandosi con l’unica amica che le fosse permesso di avere.

Capì immediatamente il pericolo che correva e decise di allontanarsi da quella che era stata la sua prigione dorata, improvvisamente, durante la notte, all’insaputa di tutti.

E nei boschi, ancora prima di scontrarsi con lei, percepì un’oscura presenza, due lampi rosso fuoco, scintillanti nella notte, le tolsero il fiato, inchiodandola al suolo, consapevole della propria fine.

Dopo la trasformazione, vedere ciò che ogni suo gesto avrebbe provocato, la tenne lontana dalla colpa.

In breve tempo capì di essere capace di percepire altri…esseri come lei, vampiri che non si rassegnavano alla condizione di assassini, di mostri, anime tormentate che avrebbero fatto di tutto pur di scorgere una speranza.

Quando raggiunse Jasper, tutto le fu chiaro…il suo scopo, la sua esistenza. Ogni sua azione, pensiero, parola trovava la ragione d’essere in lui. E quando le prese la mano e posò lievemente le labbra su quel dorso candido, lei capì di essere finalmente completa.

Anime elette, come quelle dei miei genitori e dei miei fratelli, erano fatte per stare insieme, uniti da un affetto e una devozione che andava al di là dei legami di sangue.

Ognuno aveva trovato un suo posto, una propria identità.

Ma chi ero io?

Chi era Edward Masen?

Chi era Edward Cullen?

Un parassita, secondo mio padre, dedito a passioni e interessi inutili, a suo parere, quali l’arte, la musica, la poesia. Una persona che non avrebbe potuto arrecare nessun beneficio alla propria famiglia. Eppure Edward Masen senior il beneficio riuscì a trovarlo.

Erano sempre stati considerati degli arricchiti, gente priva di prestigio che aveva avuto la fortuna di gestire abilmente gli affari.

Un matrimonio, l’unione con una fanciulla nobile, avrebbe concesso ai Masen il prestigio, la considerazione e il rispetto che non avevano mai avuto.

Dalle labbra di quella fanciulla, Tanya, mia moglie, avevo ricevuto la morte.

E cosa ero diventato?

Un parassita, di gran lunga peggiore…

È questo che sono…un mostro.

Rileggendo le parole di Alice, non potevo fare a meno di pensare che il suo attaccamento, il suo interesse, fossero immeritati. Eppure non potevo non provare nostalgia, di quella che per anni era stata la mia casa e la mia famiglia e rabbia nei confronti di me stesso e di ciò che ero.

Lei mi conosceva…fin troppo bene. Sapeva che in cima ai miei pensieri c’era sempre lei. La preoccupazione che potesse fuggire e fare del male a qualcuno mi assillava.

E poi c’era Bella…era sopravvissuta a me, poteva sopportare qualsiasi cosa…ma perché la vita era così impietosa con lei? E perché mi sentivo costretto in una morsa se ci pensavo?

Oramai avevo deciso.

Non avrei mai più avuto nulla a che fare con lei.

Ripiegai la lettera e la posai sullo scrittoio.

Infilai la giacca e diedi un ultimo rapido sguardo allo specchio.

Lo spettacolo era quasi finito, dovevo andare.

Céline mi attendeva…

 

 

 

 

Beh, che dite? Spero non sia stato troppo noioso...
Vi rubo un po' di tempo per riportarvi una cosa che ho letto ieri sul numero di Ciak dedicato alla saga, una cosa che, personalmente, mi ha lasciata a bocca aperta:

La Meyer ha detto: "Ho letto Jane Eyre la prima volta quando avevo nove anni e l'ho riletto un centinaio di volte.
                                     Penso che ci siano dei tratti di Edward Rochester in Edward Cullen e di Jane in Bella Swan"
Non so perché ma la cosa mi ha fatto sorridere molto....

Ringrazio le gentilissime che hanno recensito:


@lady lilithcullen: non sai che piacere mi fa leggere il tuo commento, sempre così dettagliato e sentito, ti ringrazio molto, spero che anche questo capitolo ti abbia trasemsso qualcosa.


@Biaa: sei già partita? Spero proprio di no, perché ci tengo tantissimo alla tua opinione.


Un bacione.

Miki.  PS: la lettera avrei voluto metterla con un font più carino, sarebbe stato più appropriato, considerando che l' ha scritta Alice, ma  proprio non ci sono riuscita! Voi magari immaginatela così...

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Capitolo 10
*** Cold Like The Death, Red Like The Hell ***


capitolo dieci Finite le vacanze, eccovi l'aggiornamento...capitolo noiosetto come al solito, ma che riprende, finalmente, il primo capitolo del romanzo che mi ha ispirato questa storia.
In queste parole c'è tanto di Jane Eyre e poco di Twilight...spero riusciate ad arrivare alla fine.
Grazie a chi continua a mettere la storia tra le seguite e a chi semplicemente legge...


Dedicato alla mia sorellina e alla sua piccola e splendida Sirya.

CAPITOLO DIECI

Cold Like The Death, Red Like The Hell

 

Mancava poco ormai. Non sapevo quanto tempo fosse passato. Mi ero appisolata un paio di volte, ma ogni minimo movimento della carrozza mi faceva sobbalzare.

La sera prima della partenza, stremata, mi ero addormentata quasi subito. Non era stato un sonno tranquillo, avevo sognato la mamma, chiamavo il suo nome, ma lei non si voltava e si allontanava sempre di più da me. La cosa che mi era rimasta impressa era la sensazione di essere portata via lontano, sorretta da braccia forti e cullata da un dolce movimento, nel sogno alzavo la testa ed incrociavo due occhi che mi guardavano fissi. Due iridi di un colore che non avevo mai visto, eppure non sentivo alcun disagio, nessuna paura.

Mi alzai dal mio letto, consapevole che quella sarebbe stata l’ultima volta. Dal giorno dopo mi sarei ritrovata in un’altra stanza, in una nuova casa, con una nuova famiglia. Non andavamo spesso a trovare zio John e zia Diana e non avevo avuto molte occasioni per conoscere le mie due cugine. In cuor mio speravo solo di riuscire a trovare un po’ di pace.

Kitty mi aveva offerto il suo aiuto per i bagagli, ma lo rifiutai fermamente, ero ancora in collera con lei e poi non avevo molte cose da portare con me: giusto una borsa da viaggio leggera, qualche libro e l’ album da disegno. Il resto si trovava già nel mio baule e sarebbe stato caricato dal cocchiere sulla carrozza.

La strada che portava a Gateshead si snodava attraverso una vegetazione fitta e selvaggia, lungo un sentiero sterrato, che rendeva il viaggio insopportabile. Bessie, la governante di casa Dwyer, sedeva scompostamente affianco a me. Dormiva, russando rumorosamente, con il capo piegato da un lato e la bocca semi aperta.  La sua considerevole stazza mi costringeva in un angolo del sedile, praticamente schiacciata contro la parete. Se da una parte era una posizione un po’ scomoda, dall’altra mi impediva di cadere ad ogni scossone.

Tenevo l’ingombrante cartellina con i disegni sulle ginocchia, cercando, a fatica, di reggerla con le mani. Il cappellino mi ricadeva continuamente sugli occhi e non potevo fare altro che ricacciarlo indietro ogni volta.

La pioggia cadeva. Le grosse gocce, che furiose si erano riversate la sera prima, avevano lasciato il posto a stille sottili e costanti, che sfioravano appena il vetro del finestrino.

Quando finalmente arrivammo a destinazione, la prima cosa che mi colpì fu la maestosità della casa. Se Dwyer House dava un’ impressione di accoglienza e calore, di fronte a quell’ imponente edificio, sentivo una spropositata voglia di scappare via.

Appena si aprì la porta, rimasi per un attimo come pietrificata. Il grande ingresso incuteva, se possibile, ancora più timore dell’ esterno. Il rumore dei tacchi sul marmo freddo e splendente risuonava tetro allungandosi in un’ eco che mi dava i brividi.

Bessie posò una mano sulle mie spalle, spingendomi delicatamente e incoraggiandomi ad entrare. Come al solito, il movimento inaspettato mi fece perdere l’equilibrio e, inciampando nei miei stessi piedi, mi ritrovai a faccia in giù sul pavimento.

Bells, tesoro…devi cercare di guardare dove metti i piedi. Dammi la mano…

Ma non fu la dolce voce di papà quella che sentii, ma una risata acuta, quasi uno stridio, un ghigno di divertimento misto a derisione.

“Eliza vieni a vedere. È arrivata. Vedessi quanto è sciatta”

Un’ altra risata poco gentile si aggiunse alla prima e, quando mi rimisi in piedi, vidi le mie cugine osservarmi divertite in cima alle scale.

“Buongiorno Eliza, buongiorno Georgiana, vi ringrazio per l’ospitalità” dissi, accennando una riverenza, come mi era stato insegnato dalla mamma. Per tutta risposta ricevetti solo altre parole di scherno.

Gli occhi cominciarono a pizzicarmi e ricacciai a fatica le lacrime. Non avrei resistito molto se non fosse intervenuto zio John.

“Bambine! Che fate lassù? Scendete a salutare vostra cugina come si conviene”.

Non potevo credere ai miei occhi: i loro volti cambiarono all’istante. Mi raggiunsero lentamente e posando due baci sulle mie guance arrossate mi diedero il benvenuto:

“Siamo sicure che ti troverai molto bene qui, vero Eliza?”

“Ma certo, diventeremo buone amiche”.

“Bella benvenuta. Per qualsiasi cosa chiedi pure, noi siamo la tua famiglia adesso e questa è la tua casa”.

Le parole di mio zio risuonarono davvero sincere, a differenza di quelle delle figlie e mi dissi mentalmente, che finché ci fosse stato lui, nessuno mi avrebbe potuto fare del male.

“Bessie, accompagna Bella nella sua stanza. Aiutala a sistemare le sue cose, a ripulirsi per il viaggio. Tra un’ora è pronto il pranzo e lo sai quanto la signora tenga alla puntualità.”

“Certo signore. Signorina Bella, andiamo”.

Salii le scale, stando ben attenta a non dare nuovamente spettacolo della mia goffaggine. Attraversammo lunghi corridoi e di nuovo scale, alla fine arrivammo davanti ad una porta. Sperai vivamente di non dover condividere la stanza con le mie cugine. Il loro comportamento mi diceva che non sarebbe stata affatto facile la convivenza con loro.

“Signorina, che fate ancora lì? Su, entrate”

Mi guardai intorno e ciò che vidi andava oltre le mie più rosee aspettative. Agli occhi di un altro, quella stanza poteva apparire misera e scarna. Ma era perfetta per me e…c’era un solo letto. Feci un respiro di sollievo e poggiai l’album sullo scrittoio.

“Signorina?”

“Oh cara, chiamatemi Bessie”.

“D’accordo Bessie. Volevo chiederti dove fosse la zia, non è in casa?”

“La signora Dwyer avrà avuto sicuramente una delle sue emicranie.” Cominciò mentre mi faceva levare il soprabito. “ Ascoltatemi Signorina Bella, cercate di comportarvi bene e di non fare arrabbiare vostra zia. I padroni sono stati molto generosi a prendervi con loro, ma, dovete capire, che non erano obbligati a farlo e che potrebbero sempre mandarvi via”.

Erano passati pochi istanti da quando avevo messo piede in quella casa, eppure la “prospettiva” di essere allontanata non mi dispiaceva affatto. Purtroppo non avevo altri parenti, ad eccezione di uno zio, fratello di mio padre, che era andato a cercare fortuna a Madeira, ma di cui non avevamo più avuto notizie. Ero perfettamente consapevole, inoltre, che la famiglia di mia madre non aveva mai visto di buon occhio gli Swan e qualsiasi argomento che potesse riguardarli era bandito da ogni conversazione.

“Bessie? C’è una biblioteca in casa?”

“Oh signorina Bella, in vita mia non ho mai visto tanti libri tutti insieme. Domattina vi porterò a visitare la casa, dovete conoscere le stanze che vi sono accessibili e quelle che invece dovete evitare, e vi farò vedere la biblioteca. A mio modesto parere, è una delle sale più belle di questa casa, con ampie finestre, che lasciano passare la luce del giorno”

Quella notizia era la più bella che avessi avuto da molti giorni a quella parte, non vedevo l’ora di trovare un angolino tutto mio, dove nascondermi e leggere.

“Ora sbrigatevi. Il pranzo è pronto”.

Quando entrai nella grande sala da pranzo, immediatamente ebbi la sensazione che mi stesse sfuggendo qualcosa…eppure, se fosse stato Natale o qualche altra ricorrenza, me ne sarei ricordata.

Il mio sguardo si posò curioso sulla tavola: era ricoperta da una sfarzosa tovaglia di lino, dai cui intagli si notava quella più pesante in broccato francese, che cadeva in morbide onde fino al pavimento. Le stoviglie erano d’argento e sembrava fossero state appena lucidate. Una tavolata del genere poteva benissimo accogliere una dozzina di persone, ma, come notai successivamente, vi erano solo cinque coperti.

Mi stupii del fatto che a capotavola ci fosse la zia, mentre il marito sedeva placidamente alla sua destra. Le mie cugine occupavano i due posti a sinistra della madre e mi guardavano stranamente silenziose.

Ebbi un sussulto quando sentii la voce di zia Diana:

“Isabella, misericordia! Vuoi prendere posto a tavola? Stiamo aspettando te!”

“S-sì zia”.

Con il mento sollevato e ostentando una finta sicurezza mi diressi verso la sedia e presi posto. Nonostante fossi così vicina a loro, mi sentivo distante…come se quel tavolo, improvvisamente, si fosse allungato, confinandomi all’estremità opposta della sala. Mangiai silenziosamente tutto quello che misero nel piatto, senza nemmeno vedere cosa fosse, tanto gli occhi erano velati dalle lacrime. Ogni tanto scorgevo Lizzy e Georgy (come le chiamava la madre) scambiarsi occhiate e sussurrarsi vicendevolmente qualcosa all’orecchio. La zia non alzò mai lo sguardo su di me, tantomeno mi rivolse la parola.

Talmente presa dai pensieri, non mi accorsi di aver urtato il cucchiaio col gomito, che cadde rumorosamente sul pavimento. Terrorizzata guardai prima mia zia, il suo volto era contratto in un’espressione furibonda, le labbra serrate in una smorfia, stava per dire qualcosa quando due dita calde e gentili mi afferrarono il mento e mi fecero voltare.

“Bella, non preoccuparti, non importa…”

Mi sentivo preparata ad affrontare le parole sprezzanti di zia Diana, le risa canzonatorie delle sue figlie, ma non ero assolutamente pronta a scorgere gli occhi di zio John, che mi guardavano amorevolmente e mi trasmettevano un sincero affetto…no…non lo potevo sopportare.

Non quello sguardo…non quei tratti così simili a quelli della mamma…non quel gesto delicato…

La corazza che indossavo oramai da troppo tempo s’infranse e, trovando rifugio nelle sue accoglienti braccia, scoppiai in un pianto sconsolato, mentre lo zio mi accarezzava gentile la testa.

“sssh bambina…non piangere, ti prometto che mi prenderò io cura di te…”

“John! Per quanto tempo ancora dovremmo assistere a questo spettacolo indecente? Buon Dio, falla smettere!”.

“Diana, ti prego, cerca di essere comprensiva…”

“Lo sono fin troppo, ricorda che questa è casa mia. Bessie? Porta la bambina nella sua camera, uscirà solo quando avrà capito come ci si comporta a tavola!”

Il rumore brusco della sedia sul pavimento, la stretta che si faceva più forte intorno a me e lo spostamento d’aria, mi costrinsero ad aprire gli occhi.

“Lascia stare. Porterò io mia nipote nella sua stanza”.

Pronunciò quelle parole in un tono che non avevo mai sentito allo zio, un tono autoritario che ebbe la forza di azzittire sua moglie.

Mi strinsi a lui e mi feci condurre al piano di sopra.

“Sarai stanca bambina…la vita non è stata clemente con te. Abbi fede, sarai di nuovo felice, ed io sarò qui ad aspettare che il sorriso ricompaia sul tuo volto”.

Mi adagiò sul letto e mi levò le scarpe. Rivedevo i movimenti di papà in quelli che stava compiendo lui, mi rimboccò le coperte e baciò la mia fronte.

“Dormi piccola Bella e fai tanti bei sogni”.

E mi addormentai…

Le cose di certo non migliorarono nei giorni seguenti. Mi ero ripromessa di essere una brava bambina e cercavo di compiacere tutti, a partire da Bessie, l’unica figura femminile che mi rivolgesse una parola gentile in quella casa.

Quando zio John era nelle scuderie, cercavo di rintanarmi in biblioteca: mi rifugiavo dietro le pesanti tende di damasco e davanti alla finestra leggevo i miei libri preferiti, oppure sfogliavo qualche pesante tomo che trovavo tra gli scaffali per ricopiarne le figure. Non sempre venivo lasciata in pace. C’era sempre qualcosa che non andava bene quando si trattava di me: ero troppo silenziosa, troppo disordinata, troppo irriverente, mi si accusava di essere bugiarda se cercavo di essere accomodante e di essere maleducata, quando rispondevo sinceramente. Solo quando lo zio rientrava in casa avevo un po’ di tregua, nonostante non approfittassi per niente del suo affetto nei miei confronti. Avrei potuto lamentarmi, fargli vedere i segni dei pizzicotti che Eliza e Georgiana mi davano ad ogni occasione…ma non lo facevo, mi limitavo a sorridergli e a dire che andava tutto bene. Ai suoi occhi era davvero così. In sua presenza, sia le figlie che la moglie mantenevano un comportamento ineccepibile.

Ma quell’equilibrio si ruppe.

Un anno e qualche mese dopo il mio arrivo, zio John, mentre cercava di domare un purosangue appena acquistato, fu disarcionato e scagliato contro la staccionata.

Solo io e Bessie versammo lacrime per lui. Sua moglie non si scompose, la freddezza rimase impressa sul suo volto e le sue figlie erano evidentemente insofferenti verso il lutto che furono costrette a portare per un paio di settimane.

Da allora fu l’inferno.

Zio John, sul letto di morte, aveva fatto promettere a sua moglie, che mi avrebbe allevata e protetta, come una delle sue figlie, perché fu questa intenzione a spingere lui stesso ad accogliermi a Gateshead Hall. Ma in quella casa, né mia zia, né le mie cugine mi amavano, ed io non amavo loro.

I maltrattamenti che avevo subito, non erano nulla in confronto alle umiliazioni che dovetti sopportare in seguito.

Fui trasferita in una stanza molto più piccola, sullo stesso piano di quelle occupate dalla servitù, perché Bessie potesse starmi vicina, così aveva detto la zia.

Mi veniva rinfacciata ogni cosa e venivo costantemente derisa dalle mie cugine.

Nonostante ciò, ero obbligata a pranzare insieme a loro ed a partecipare alle lunghe passeggiate che tanto adoravano.

Per fortuna, arrivò l’inverno, il freddo vento aveva ammassato nuvole così cupe, e cadeva una pioggia così intensa, che di uscire non era neppure il caso di parlare.

A me, ovviamente, faceva piacere. Non avevo mai amato le passeggiate lunghe, specialmente nei pomeriggi rigidi, eccezion fatta per quelle in compagnia di Kitty e le sue storie. Era terribile per me tornare a casa, nel crepuscolo grigio, con le dita delle mani e dei piedi gelate, il cuore rattristato dai rimproveri di Bessie, avvilito dalla consapevolezza della mia inferiorità fisica di fronte ad Eliza e Georgiana Dwyer.

Non potendo uscire all’aperto, mamma e figlie passavano i pomeriggi in salotto, attorno al fuoco. Circondata dalle sue bambine, che per il momento non litigavano né piangevano, la zia aveva un’aria perfettamente felice. Quanto a me, ero dispensata dall’unirmi al gruppo. Le dispiaceva dovermi tenere a distanza –così aveva dichiarato – ma finché non avesse sentito da Bessie, o non avesse potuto constatare lei stessa, che facevo seri sforzi per acquistare un carattere più socievole e infantile, modi più amabili e vivaci, un atteggiamento più aperto e franco, più normale in un certo senso, doveva proprio escludermi dai privilegi destinati a bambini soddisfatti e felici.

La bambinaia era l’unica persona con cui potevo essere me stessa. Mi voleva bene, ne ero consapevole, ma anche lei talvolta si dimostrava ingiusta nei miei confronti. Probabilmente perché se fossi stata diversa, avrei reso la vita più semplice anche a lei.

“Che cosa dice che ho fatto?” le chiesi un giorno, all’ennesimo rimprovero.

“Bella, non mi piacciono le critiche e le domande impertinenti; è davvero sgradevole una bambina che si rivolge agli adulti con quel tono. Va’ a stare buona da qualche parte e, soprattutto, in silenzio, finché non avrai imparato a parlare in modo gradevole”.

Non me lo feci ripetere due volte. Sgattaiolai fuori dalla cucina e mi rifugiai nella biblioteca. Scelsi un volume illustrato. Salii sul sedile della finestra e, tirati su i piedi, sedetti con le gambe incrociate alla turca; chiusi la tenda di damasco rosso e mi sentii doppiamente protetta. I panneggi scarlatti mi celavano da un lato, mentre i vetri chiari della finestra mi riparavano, senza separarmene, dalla triste giornata di novembre. Sfogliavo le pagine, soffermandomi sui disegni, ripercorrendo i contorni con le dita, di tanto in tanto osservavo il paesaggio reso sfuocato e indefinito dalla pioggia. Ritornai al mio libro, La storia degli uccelli d’ Inghilterra, di Bewick, il volume dedicato agli uccelli marini. Ero inspiegabilmente attratta dalla visione suggestiva delle coste desolate delle terre del nord, dove immensità di ghiaccio, ammassato in centinaia di inverni, accumulato vetta su vetta, circondano il polo e raccolgono i rigori del freddo estremo. Nella mia mente di bambina, estremamente impressionabile, il freddo era sinonimo di morte e, leggendo quei passaggi, mi facevo un’idea tutta mia della morte bianca, un’idea vaga, come tutte le nozioni capite solo per metà.

Nonostante l’inquietudine ed i brividi che la lettura mi provocava, con il Bewick sulle ginocchia mi sentivo felice. Temevo solo di venire interrotta e, puntualmente, venni interrotta.

La porta della sala si aprì.

“Ehi, madama Tumistufi!” gridò la voce di Eliza. Sentii i passi fermarsi, probabilmente perché si accorse che non c’era nessuno.

“Ma dove diamine è?”

Ho fatto bene a tirare la tenda

Speravo ardentemente che non riuscissero a trovare il mio nascondiglio. Trattenni il fiato e rimasi immobile in attesa che lasciassero la stanza.

“Di certo è nel vano della finestra Lizzy”

A sentire quelle parole, uscii subito, perché tremavo all’idea di essere trascinata fuori.

“Cosa vuoi?”

“Devi dire che cosa vuoi signorina Eliza” rispose. “Voglio che vieni qui” disse sedendosi su d’una poltrona, lasciandomi intendere di avvicinarmi.

Stette a fissarmi per non so quanto tempo. Sapevo che sarebbe arrivato il colpo e, forse mi lesse nel pensiero, perché afferrò i miei lunghi capelli e tirò con forza verso il basso.

“Questo” disse “ è per la sfacciataggine con cui hai risposto alla mamma poco fa e per il modo furtivo di nasconderti dietro la tenda e per lo sguardo che avevi negli occhi due minuti fa, vipera!”

Dovevo solo aspettare…che finissero gli insulti, che il loro interesse fosse catturato da qualcosa di più divertente.

“Che facevi dietro la tenda?”

“Leggevo”

“Facci vedere il libro”

Tornai alla finestra a prenderlo

“Tu.Non.Hai.Il.Diritto.Di.Prendere.I.Nostri.Libri.” urlò Georgiana, che fino a quel momento si era tenuta alle spalle della sorella maggiore.

“Tu sei una dipendente, dice la mamma. Non hai denaro, tuo padre era un poveraccio. Dovresti chiedere l’elemosina e non vivere in una casa signorile come la nostra, mangiare quello che mangiamo noi, vestire a spese della nostra mamma. Ti insegno io a frugare tra i miei libri. Va’ vicino alla porta”.

Obbedii, senza capire subito le intenzioni di Eliza. Ma quando la vidi afferrare il libro e soppesarlo, istintivamente mi tirai da parte con un grido, ma non abbastanza in fretta. Il grosso volume mi colpii facendomi cadere e battere la testa contro la porta. Sentivo il dolore pulsare e l’odore ferroso del sangue che mi riempiva le narici. Ma in quel momento il sentimento che prevalse fu l’odio.

“Voi siete cattive! Siete delle streghe…io vi detesto!”.

“Come come?” Disse Georgiana “Hai sentito Liz come ci ha chiamate?”.

Eliza mi si avvicinò afferrandomi per un braccio, aveva una corporatura più robusta ed era più alta di me.

“Credi che non lo dica alla mamma?” grugnì storcendomi un braccio.

“Ma prima…”

Si scagliò contro di me. Sentii che mi afferrava per i capelli. Ma aveva attaccato una creatura disperata. Non vidi nemmeno dove misi le mani, udii solo che mi chiamò “Vipera! Vipera!”.

Quando misi a fuoco, vidi una stria rossastra sulla sua guancia e il formarsi lento di una piccola goccia di sangue.

Sapevo che sarebbe cambiato tutto, quel sangue avrebbe cambiato la mia vita.

Venni afferrata con violenza da due grosse braccia. Invano cercai di divincolarmi.

“Non posso tollerare un simile spettacolo di violenza” urlò zia Diana. “Portatela nella stanza rossa e chiudetecela!”.

Non due, ma quattro mani mi trascinarono su per le scale. Non era nella mia natura dibattermi a quel modo, ma il pensiero di essere rinchiusa in quella stanza mi terrorizzava. Cominciai a singhiozzare e ad urlare disperatamente.

“Vi prego. Vi scongiuro. Non in quella stanza!”

“Rimarrai chiusa lì dentro finché non avrai imparato a stare al tuo posto” sghignazzò Eliza che seguiva compiaciuta Bessie e la signorina Abbot, la cuoca.

“Ma lì dentro è morto tuo padre” urlai mentre una paura folle si impadroniva di me.

“Infatti c’è il suo fantasma che ti guarda”.

Un urlo soffocato uscì dalla mia gola. Non potevano…non volevo stare lì, da sola…

Sentivo Bessie borbottare: “che vergogna, che vergogna. Che condotta scandalosa signorina Bella, colpire la padroncina, la figlia della vostra benefattrice”.

“Non sono una serva io! Non ho padroni!”

“No. Sei meno di una serva, perché non fai niente per mantenerti” disse la zia, che era sopraggiunta  “non fosse per la memoria del tuo povero zio, ti avrei già sbattuta di fuori di casa! Ricorda Bella che tu non hai nessuno. Nessuno, hai capito!?”.

Così dicendo, mi lasciarono lì. Andarono via sbattendo la porta. Il rumore della chiave nella toppa fu peggio di qualsiasi colpo mi potesse essere inferto.

Non era tanto il pensiero che lì vi fosse morto lo zio ad inquietarmi, nonostante la possibilità della presenza di un fantasma mi terrorizzasse, ma era il colore…quel tripudio di rosso cupo, in netto contrasto con il mogano scuro dei mobili. Le cortine del letto, le pesanti tende alle finestre, il panno che ricopriva il tavolino e il tappeto…tutto era di quel colore…infernale.

E c’era il gelo.

La stanza era fredda perché non vi si accendeva il fuoco; silenziosa, perché lontana dal resto delle stanze e solenne, perché era la camera padronale.

Lì lo zio aveva esalato l’ultimo respiro; in quella camera era stata solennemente composta la sua salma; da quella camera era partita la sua bara.  La sensazione che si aveva entrando era una sensazione di morte.

Con la testa piena di queste paure, persi i sensi.

Quando mi risvegliai, riconobbi subito l’ambiente familiare della mia stanza. Ero nel mio letto e sentivo una piacevole sensazione di freddo sulla testa. Vidi Bessie da un lato, intenta a versare dell’acqua in una bacinella ed un signore dall’altro che scoprii, in seguito, essere il farmacista, Mr Lloyd, che la zia chiamava quando stavano male i domestici. Per lei e le figlie chiamava, ovviamente, il medico.

Il modo in cui si stavano prendendo cura di me, mi fecero sentire protetta. Una sensazione che non provavo oramai da tempo. Dolorose lacrime rigarono le mie guance. Un pianto silenzioso, pieno di gratitudine.

Il signor Lloyd mi rivolse alcune domande alle quali risposi sinceramente e senza timore. Capì subito quanta e quale sofferenza doveva essere per me stare in quel posto. Quando mandò di sotto Bessie a prepararmi qualcosa di caldo, capii che voleva chiedermi qualcosa.

“Ti piacerebbe allontanarti da qui Bella? Cambiare aria?”

Quelle parole furono la più dolce delle melodie. Spalancai gli occhi e gli strinsi le mani.

“Oh sì signore. Non desidero altro. Ma io sono sola. Dove potrei stare?”

“Non preoccuparti di questo bambina, parlerò con tua zia e non credo sarà tanto difficile convincerla”

“Oh grazie signore, grazie”.

“Non ringraziarmi. Dio solo sa cosa ti abbia permesso di resistere così a lungo”.

Le ultime parole furono solo sussurrate, ma io le sentii distintamente e non potei che gioirne. Finalmente qualcuno che mi capiva, finalmente una speranza.

Non sapevo dove sarei andata, cosa avrei fatto.

Ma mi fidavo di quel signore dal viso buono e gentile e dovevo solo aspettare, cercare di stare buona e di tenermi lontana dai guai.

Poi, tutto sarebbe cambiato…

Un grazie immenso a Mirya, Biaa, Austen95 e lady lilithcullen per aver speso un po' del loro tempo, lasciando una recensione a questa storia. Ogni parola è per me motivo di grande gioia. GRAZIE.

 

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Capitolo 11
*** The deception of love ***


capitolo undici

The deception of love


Non riuscivo a capacitarmi di quante persone esistessero, disposte ad accettare senza chiedere, a capire, senza comprendere realmente.

Per cosa?

Affascinate dall’ignoto, dal torbido, eccitate dal pericolo, si mostravano docili e sottomesse, pronte a levarti quel sangue che speravano levassi a loro.


Dopo aver lasciato l’Inghilterra mi misi sulle tracce di Victoria. Non sapevo molto: solo che proveniva dalle terre del nord e che probabilmente dopo l’uccisione di James era lì che era tornata.

Ma il mare mi impediva di seguire la sua scia. La neve cadeva così fitta e veloce, da ricoprire ogni possibile traccia.


Raggiungendo quelle coste, girovagando per quelle comunità, mi accorsi di quanto fosse radicata la figura del vampiro nell’immaginario popolare.

Di noi si parlava in leggende, filastrocche, canti. La nostra storia veniva utilizzata per spaventare i bambini, ammonire le fanciulle.

Ma, diversamente da ciò che mi era capitato di sentire in altri luoghi, in cui si pensava che il vampiro fosse un uomo in grado di tramutarsi in pipistrello e di sciogliersi alla luce del sole, lì quasi ogni cosa aveva un fondamento.

Bastava che risiedessi in un posto per un paio di giorni, che la gente si voltava al mio passaggio, i bambini venivano fatti rientrare in casa, alcune donne mi guardavano con sospetto, altre con malizia..


Poche volte, in passato, mi ero reso conto dell’effetto che potessi esercitare su una donna. Avevo sempre avuto un bell’aspetto e la trasformazione aveva reso il mio viso più attraente ed il mio corpo più vigoroso. I miei occhi, con gli anni, avevano perso quella tonalità infernale, riempiendosi di oro fuso. Le sfumature ramate, che percorrevano i miei capelli, si accendevano in netto contrasto col pallore della pelle. Vivere insieme ai Cullen, con Alice in particolare, mi aveva fatto acquisire un certo gusto per l’abbigliamento e, in generale, per le cose raffinate. All’inizio non accettavo di buon grado che venissero sperperate le loro ricchezze in beni che non erano assolutamente necessari, in cose destinate a me. Il mio guardaroba si limitava a pochi capi resistenti, che mi consentissero di cacciare comodamente e senza troppi danni. Ma, dopo la morte di mio padre e del mio adorato fratello, essendo l’erede universale della fortuna dei Masen, potei, senza indugi e rimorsi, dare sfogo al mio lato più narcisista, scoprendo una vera predilezione per stoffe pregiate e accessori di lusso.

Tutto ciò rendeva il mio aspetto assolutamente irresistibile.


I fiori velenosi sono quelli dall’aspetto più attraente, dai colori più vivaci e dall’odore più ammaliante.


Questo era un vampiro…un predatore capace di soggiogare la preda con lo sguardo, con la sua faccia, con l’odore perfino!


Non mi ero mai servito di questo potere.

Che senso avrebbe avuto ottenere una donna con l’inganno? O ancora peggio con la forza?

Sapevo che nessun essere umano avrebbe potuto amarmi per ciò che ero realmente e non mi sarei mai potuto legare ad un’altra vampira dopo Tanya.

Vani furono i tentativi di Rose di presentarmi le sue “amiche”: la giunonica Zafrina, dalla mente incantatrice, la piccola e delicata Jane, capace di distruggere con lo sguardo, la sensuale Irina, la cui bellezza era fin troppo simile a quella di mia moglie…in nessuna di loro avrei mai potuto trovare la purezza e la fragilità dell’amore. Lo stesso amore che avevo scorto e riconosciuto in molti scritti, dipinto e immortalato in quadri famosi o cantato dalle note dei grandi maestri


Sapevo di essere destinato a rimanere solo.


Un essere come me non sarebbe mai potuto essere oggetto di un sentimento così puro, così elevato.


Ma la solitudine scavava dentro di me come un tarlo.

La strada spianata dal gelo di quella terra. Non lo sentivo nel corpo, ma lo sentivo devastarmi nel profondo.

Eppure avrei vissuto per sempre in quelle terre. Era proprio il freddo che rendeva tutto più facile. Guidato dal battito lento dei loro cuori, riuscivo a scovare le tane di grossi animali in letargo e berne avidamente il sangue.

Anche gli odori delle persone sembravano essere congelati. Non arrivavano intensi alle narici e raramente ho dovuto appellarmi alla mia forza di volontà per non attaccarle.

O forse perché nessuno aveva un odore lontanamente comparabile al suo.


Quando arrivai a Goteborg, era passato circa un anno dalla mia partenza. Della vampira nessuna traccia e, pian piano, stavo perdendo le speranze. Nel periodo trascorso, girovagando tra piccoli villaggi e distese incontaminate di neve, avevo avuto contatti diretti con pochissime persone. Riuscivo a concludere affari e ad effettuare acquisti, agevolato non poco dalle piccole fortune che sventolavo sotto gli occhi degli ignari interlocutori.

Dopo l'ennesima scia perseguita senza risultato, decisi di abbandonare la ricerca. Era una missione impossibile. Avevo inoltre bisogno di fermarmi un attimo e, magari, ristabilire qualche contatto con la realtà.

Sapevo che a casa mi stavano aspettando, così come ero convinto che, se solo avessi chiesto loro di raggiungermi, sarebbero arrivati nel giro di poco tempo.

Ma non era di questo che avevo bisogno e, soprattutto, non volevo sradicarli nuovamente dalla loro casa.


Appena raggiunta la città, fui avvolto da una realtà profondamente diversa da quella che avevo visto in questi mesi. Alcuni villaggi erano al limite della civiltà, mentre Goteborg non aveva nulla da invidiare ai grossi centri abitati britannici. Non c'era traccia dell'eleganza di Londra, per quel poco che avevo visto, ma ciò che mi si presentava davanti non mi dispiaceva.


Non fu difficile distinguere le strade raccomandabili dai vicoli fumosi che portavano direttamente al porto. Mi tenni lontano da questi, il mio abbigliamento gridava “soldi” e l'ultima cosa che avrei voluto era essere aggredito. E non per ciò che sarebbe potuto succedere a me, ma per quello che avrei potuto fare io all'aggressore.


Era notte fonda ormai. Sul mio cammino incontravo solo donne che si sarebbero vendute per quattro soldi, che avrebbero fatto di tutto pur di rintanarsi in qualche locale, al caldo, a bere whiskey scadente. Le loro bocche, impiastricciate di rossetto, erano marce e putride, non riuscivo ad immaginare che tipo d'uomo avrebbe pagato per stare con loro. A queste si alternavano lestofanti e straccioni.


Quando incrociai un luogo conveniente in cui passare la notte decisi di entrare e porre fine a quel museo degli orrori.

L'interno della locanda era grazioso, vi erano pochi mobili, ma disposti con accettabile gusto. Il camino era acceso ed il bagliore delle fiamme si proiettava sulle pareti della stanza.

La prima cosa che notai fu una grande libreria colma di romanzi, intravidi anche un paio di titoli interessanti e non mi stupii che molti di essi trattavano argomenti a me...familiari.


“ È mia figlia che si occupa della libreria” disse probabilmente il proprietario.


Oramai capivo perfettamente quella lingua e la parlavo molto bene.


“ Di certo si tratta di titoli un po' fuori dal comune ” esclamai “vostra figlia deve avere dei gusti un po' particolari. Voi assecondate questo suo interesse?”


“Oh Signore, io ho dimestichezza con i numeri. Per quanto riguarda le lettere ne so quel tanto che basta per compilare il registro dei clienti” il suo tono era amareggiato.


Avrei potuto facilmente leggere i suoi pensieri, ma quando tra essi intravidi il dolore per la recente perdita, mi astenni dal farlo.


“Mia moglie ha tanto insistito per farla studiare, perché un domani sarebbe stata lei a gestire tutto questo” disse guardandosi intorno “ ma, da quando Tekla è morta io non so cosa fare con Lisbet. Mi aiuta, certo, ma se ne sta sempre con la testa tra i libri. Una volta ne ho sfogliato uno e le immagini erano raccapriccianti”.


Era una buon uomo. Il terrore che attraversava i suoi occhi non era nulla...se avesse saputo chi, o meglio cosa, si trovava dinanzi a lui.


“Mi scusi, la sto annoiando con le mie chiacchiere. Non capisco nemmeno perché le ho parlato di tutto questo. Lei è il signor?”


Masen. Edward Masen. Non si preoccupi, talvolta è più facile aprirsi con uno sconosciuto. E poi, sono molto bravo a capire le persone” dissi sorridendo.


“Si ferma molto signor Masen?”


“Non saprei. Vorrei passare un po' di tempo a Goteborg” estrassi dal soprabito un voluminoso mazzo di soldi e lo posai sul bancone “questi sono per i primi giorni” dissi divertito dalla sua espressione “spero bastino”.


“Ma, ma...s-si, certo, bastano. Questa è la chiave della sua stanza, al primo piano, tra qualche minuto Lisbet verrà a portarle la biancheria pulita e dell'acqua calda. Venite da lontano, si sente dall'accento, vorrete di certo darvi una ripulita”


“La ringrazio, buonanotte”.


“Buonanotte signor Masen, a domani”.


La camera era molto semplice e pulita. Al centro c'era il letto, privo di baldacchino, ma ricoperto da una coperta verde smeraldo intessuta con fili d'argento, che formavano elaborati disegni di draghi.

Era l'unico vezzo presente, il resto: le tende, il tappeto, la poltrona, erano alquanto anonimi.

Completavano l'arredamento un piccolo armadio, uno scrittoio, un tavolino su cui c'erano alcune bottiglie di liquore ed un paio di bicchieri, ed un paravento dietro il quale giaceva una tinozza di rame.


Mi tolsi il cappello, il soprabito e li posai sulla sedia.


Chissà cosa avrà pensato quell'uomo. Un distinto signore, che prenota una stanza per un lungo periodo di tempo, senza l'ombra di un bagaglio.


Accostai le tende e mi sedetti sulla poltrona. A momenti sarebbe arrivata la ragazza e, a quanto avevo capito, era già fin troppo propensa a fantasticare, senza che io gliene dessi ulteriore motivo.


Sentivo dei passi nel corridoio e rumori indefiniti, come di chi trasporta recipienti colmi d'acqua. Si ripeterono più volte, terminando davanti alla mia porta. Doveva essere Lisbet, lo dedussi non solo dai passi leggeri, ma anche dal battere impazzito del suo cuore e dai pensieri che rivelavano una curiosità immotivata, forse, verso il sottoscritto. Probabilmente non era frequente avere clienti stranieri.


Quando bussò alla porta attesi qualche secondo prima di rispondere e, di certo, non mi aspettavo di vedere davanti a me una fanciulla di tale bellezza.


“Buonasera signor Masen” esclamò con non poco stupore nella voce. Gli apprezzamenti che passarono per la sua testa mi lasciarono alquanto perplesso.

Mi aspettavo una ragazzina, che colmava la perdita di sua madre con letture poco adatte alla sua età, ma che la aiutavano ad evadere da una vita monotona. Invece mi ritrovavo davanti una giovane donna, la cui mente partoriva immagini fin troppo vivide e realistiche, di come avrebbe voluto che la sua vita cambiasse.


Lo sguardo malizioso vagava per la stanza, come a voler cogliere ogni dettaglio, ogni particolare che le potesse suggerire chi fossi e da dove venissi.


“Buonasera Lisbet” risposi alquanto lusingato.


Negli occhi delle donne che avevo incrociato, e nei loro pensieri, coglievo sovente, oltre all'attrazione, anche timore, spesso terrore o disgusto.

Ma nei suoi occhi potevo leggere soprattutto curiosità. Era un'acuta osservatrice: in pochi attimi si pose le domande giuste.


O quelle sbagliate.


Dipendeva dai punti di vista.


A cosa è dovuto il suo pallore?


E il colore degli occhi? Non ho mai visto nulla del genere.


Che tipo di colonia usa? Ha un odore così delicato...ma intenso, inebriante.


E il suo viso?


“Entra pure” dissi facendola sobbalzare “non startene lì, sulla porta”


“Oh, sì, subito. Vi ho scaldato dell'acqua. Riempio immediatamente la tinozza”


“Fai pure con calma” le risposi alzandomi in piedi.


Tale movimento fu inaspettato per lei. Per un attimo pensò, e sperò soprattutto, che mi stessi avvicinando e, nonostante l'apparente sfrontatezza, il sangue le imporporò le guance, costringendomi a deglutire veleno.


Portò i secchi ad uno ad uno all'interno della stanza. Quando si chinava, i suoi lunghi capelli biondi, sottili e lucenti, come fili d'oro, le coprivano il viso e quando si rialzava, li riavviava all'indietro con la mano. Le sue labbra, rosse e carnose erano un punto di colore sul quel viso dalla pelle rosea, che non potevo fare a meno di ammirare. Erano schiuse per l'affanno e le inumidiva di tanto in tanto passandoci sopra la lingua.


Gli occhi grigi continuavano a lanciarmi sguardi furtivi che mi trovavano intento ad osservarla, causandole ogni volta la perdita di un battito.

Cominciò a versare l'acqua nella tinozza, lentamente, si era portata i capelli dietro le piccole orecchie e potevo ammirare come la scollatura del vestito mettesse in risalto le sue forme generose. Quando ebbe finito si portò le mani dietro la schiena, stiracchiandosi dopo lo sforzo eseguito.


“Mi dispiace che tu abbia dovuto sopportare tale fatica”


“Oh signore, non vi preoccupate, sarei pronta ad affrontare fatiche maggiori pur di compiacere un ospite di riguardo come voi”.


Detto questo, mi si avvicinò prima che riuscissi a leggerle l'intenzione nei suoi pensieri.


“Lasciate che vi aiuti” disse, portandosi alle mie spalle e afferrando il collo della giacca.


Lasciai che mi aiutasse a sfilare l'indumento, facendo finta di non notare come le sue dita sottili indugiassero sulle mie spalle, sulle braccia.

Era un tocco che non avevo mai ricevuto e, sorprendentemente, non sentivo la necessità di scostarmi. Anzi, sentivo crescere dentro di me una brama del tutto diversa dalla sete.

Il suo odore mi attraeva, certo, ma c'era qualcosa nei suoi sguardi, nei suoi movimenti e nelle sue forme, che mi attraeva molto di più.


“Lisbet, non ce n'è bisogno, puoi andare”


“Signor Masen, questo rientra nelle mie mansioni. Concedetevi un bagno caldo, nel frattempo mi occuperò di sistemarvi il letto per la notte. Poggiate pure il resto della vostra biancheria sul paravento, penserò io a tutto”.


Nonostante non avessi per nulla bisogno di un bagno, assecondai il suo invito. Mi stuzzicava il pensiero di denudarmi sapendo che lei era dall'altra parte a fantasticare su di me, sul mio corpo.


Abbassai le bretelle e sbottonai la camicia, tirandola fuori dai pantaloni. Sfilai anche quelli, assieme alle scarpe e alle calze. Ogni indumento che poggiavo sul paravento scompariva in pochi attimi. Sentivo il suo respiro farsi più affrettato e la sentii annusare la camicia, ripetutamente.

Mi immersi nell'acqua e venni avvolto da un vapore che odorava di lavanda.


Non era da me essere così. Giacere nudo, incurante del fatto che ci fosse una fanciulla nella stessa stanza, che avrebbe potuto vedermi. O ancora peggio, sarebbe potuto entrare suo padre e trovarci in questa situazione bizzarra e assolutamente inaccettabile.

Prestai attenzione agli altri rumori dell'edificio. Oltre me ci dovevano essere solo un altro paio di ospiti, sentivo il respiro pesante di uno e il russare regolare dell'altro. Il fuoco dell'ingresso cominciava a spegnersi e, poco più distante, sentivo un mormorio supplichevole.


Pregava?


Quell'uomo pregava Dio e sua moglie, che vegliassero su sua figlia e che gli consentissero di vivere in salute finché non si fosse sistemata.


Mi sentii quasi in colpa. Il quasi era dovuto al fatto che la sua innocente figliola era tutto tranne che innocente. Era un invito a cogliere la sua bellezza ad ogni movimento, ogni parola, ogni sospiro.


E la sentivo sospirare chiaramente mentre stendeva le lenzuola fresche di bucato e le lisciava con le mani, mentre sprimacciava i guanciali.


Suo padre andò a dormire e il sonno lo cullò all'istante.


L'acqua si fece più fredda e pensai che per una persona, per un umano, fosse il momento di uscire.


Mi alzai in piedi guardandomi intorno, senza però scorgere nulla.


Quella piccola strega...


“Aspetti signor Masen, le porgo un telo”.


Feci appena in tempo a voltarmi di spalle, che, senza nessun indugio, lei aveva aggirato il paravento.

Alzandosi sulle punte posò la stoffa sulle mie spalle, cominciando a sfregare con i palmi aperti.


Come può essere così freddo dopo un bagno caldo?


“Lisbet?”


“Oh! Sì?”


“Puoi andare adesso”


“Ma...”


“Vai Lisbet, buonanotte.”


“Buonanotte signor Masen, a domani” disse senza celare una nota di delusione nella voce.


“Buonanotte Lisbet” sussurrai guardandola da sopra una spalla.


Il rossore fu ancora più evidente. Si girò e fece per uscire dalla stanza.


“Desiderate qualcosa in particolare per colazione?”


Aveva in mente una serie di domande, che le avrebbero permesso di indugiare lì ancora per un po'.

Non potevo permetterlo. La sua presenza stava diventando insostenibile. Sentivo il mio corpo attraversato da scosse e tremiti che non avevo mai provato prima.

Non era certo la sua testolina piena di frivolezze ad attrarmi. Era il suo corpo che aveva risvegliato in me pulsioni sconosciute, pulsioni che avevo solo incominciato a provare prima della trasformazione, prima del matrimonio...prima di Tanya.


“Ho detto che puoi andare. A domani”.


Non le concessi possibilità di replica. Doveva andare via, dovevo fare in modo che si allontanasse. Non poteva stare vicino a me, non in quel momento, non con il corpo in quelle condizioni.


Corse via. Si rintanò nella sua stanza. E, di nuovo, i suoi pensieri mi sorpresero.


Non si sarebbe arresa.


Ed io cedetti.


Non quella sera e nemmeno la successiva.


Passarono i giorni e fu un susseguirsi di sguardi e ammiccamenti. Non perdeva occasione per sfiorarmi o mostrare lembi sempre più generosi di pelle.


Quella notte sentii i suoi passi nel corridoio. Mi infilai rapidamente sotto le coperte aspettando di sentirla andare via.

Quando entrò nella stanza, automaticamente smisi di respirare.


Forse per quello, o probabilmente per l'innaturale immobilità, o forse perché col passare dei giorni aveva ricomposto i tasselli del mosaico, sta di fatto che il pensiero che formulò la sua mente mi lasciò esterrefatto:


Lo sapevo.


Lei sapeva, aveva capito e, nonostante ciò, il suo cuore batteva impazzito...per l'eccitazione.


Sfiorare la sua pelle calda e morbida, sentire il sapore delle sue labbra carnose sulle mie, gelide, ogni cosa mi dava un'emozione inaspettata. Non riuscivo a credere di essere così padrone di me stesso.

Lisbet era appassionata e dolce e nei suoi occhi potevo leggere quasi venerazione. Quando sentimmo il piacere sopraggiungere per entrambi, lei allacciò le mani al mio collo e mi supplicò:


“Mordimi”


Accecato dalla lussuria, obnubilato dal desiderio, lo feci...ed il sangue assieme al piacere fluì nel mio corpo.


Non so dove trovai la forza di volontà per scostarmi da lei. Non so come feci a non stringere troppo il suo esile corpo o a schiacciarlo sotto il mio.

Forse sentire il suo battito farsi più debole, sentire la pelle perdere calore mi fece desistere, o, probabilmente, perché io per primo ero rimasto paralizzato dall'intensità delle scosse che mi pervasero.

Mi scostai da lei assicurandomi che stesse bene.

Cercai di non pensare al sapore sublime che dalla lingua scendeva piano piano, diffondendosi in tutto il corpo.

La coprii con le coperte allontanandomi da lei, leccai la ferita sul collo, portando via le ultime gocce di sangue e permettendo che il veleno la guarisse.


Si abbandonò velocemente ad un sonno tranquillo, rannicchiandosi su se stessa e smettendo di tremare.


Cosa avevo fatto?


Come avevo fatto?


Non riuscivo a smettere di pensare, non riuscivo a capire quando il mio corpo e la mia mente avessero deciso di averla. Mi chiedevo se fossi stato io ad usare lei o se, con maggiore probabilità, fosse stata lei a farlo.


Come al solito.


Ma ciò che più mi sconvolgeva era come la cosa non mi importasse, non mi ferisse. Avevamo entrambi ottenuto qualcosa e, sorprendentemente, andava bene così.


Mi alzai e mi rivestii in fretta. Lasciai quella stanza senza ripensamenti, senza nemmeno voltarmi a guardarla per un'ultima volta.


Ricominciai a girovagare senza meta. Il mio scopo, stavolta, non era quello di trovare Victoria, nonostante la speranza di incrociare la sua scia fosse sempre presente, ma era quello di vedere finalmente il mondo. Mi sentivo rinvigorito da una nuova forza, spinto e sorretto dalla speranza di poter avere un ruolo attivo nel gioco della vita e di non essere una pedina come ero sempre stato.


Scoprii che la trasformazione non aveva acuito solo vista, udito ed olfatto, ma anche gli altri sensi erano notevolmente amplificati.

Non avevo certo bisogno di cibo, il sangue animale e qualche sorso di sangue umano occasionale mi tenevano in forza, eppure notai con piacere che non avevo perso il senso del gusto, anzi...quando introducevo del cibo, riuscivo a sentire nella mia bocca, sulla lingua, ogni sfaccettatura del suo sapore. Probabilmente il veleno non consentiva nemmeno che le pietanze raggiungessero il mio stomaco e, di certo non mi avrebbero mantenuto in vita. Diciamo che mangiavo solo per il piacere di farlo, per la voglia di sentirmi più normale o, forse, per la voglia che gli altri mi considerassero normale.


Il tatto era la cosa che più mi sconvolgeva.


Quando facevo scorrere le dita sulla pelle di una donna, ne potevo sentire la trama e scovare ogni minima irregolarità. Sentire pulsare sotto le dita la giugulare, percepire il battito impazzito del suo cuore per poi affondare i denti nel suo collo teso erano sensazioni che si facevano ogni volta più nette e definite e lasciavo che mi travolgessero con maggiore consapevolezza.


Avevo abbandonato ogni discrezione. Ostentavo la mia presenza e la mia ricchezza, ottenendo in breve tempo il privilegio di frequentare i migliori salotti del luogo e di essere invitato ai balli e alle feste più mondane.

Essere circondato da belle dame e carpire l'interesse di illustri professionisti alimentava a dismisura il mio ego, dandomi una sensazione di onnipotenza che legittimava ogni mia azione.

E fu con questa baldanza che raggiunsi Parigi e conobbi Céline.


Mi fu presentata da un conte durante il ballo in onore della baronessa di Marteuil, la quale aveva dovuto sfoggiare tre giri di perle per coprire i segni sul suo collo.

Céline era una giovane ballerina che rivestiva una certa importanza in quell'ambiente, non certo per le sue doti artistiche ebbi modo di sapere solo più tardi.

Il modo che aveva di guardarmi con finto imbarazzo, coprendosi il viso con la mano per mascherare un rossore che tanto sapeva di belletto e così poco di pudore, mi accendeva come nessuna aveva fatto prima.

Si aggirava attorno a me con movenze sensuali, come un rettile che avvolge la preda con le sue spire, ignara del fatto che sarebbe stata lei ad essere morsa.


Mi sbagliavo...


“Ho avuto modo di osservarla a lungo stasera Madame...?”


“Varen, mademoiselle Céline Varen”


Il modo in cui sottolineò l'assenza di legami la resero ai miei occhi ancor più desiderabile.


“Enchanté” sussurrai posando le labbra sul dorso della sua mano e indugiando quell'attimo in più per sentire rabbrividire la pelle per il gelido tocco.

La ritrasse quasi bruscamente e non potei fare a meno di sorridere compiaciuto. Le domande che le si formularono nelle mente erano sempre le stesse: chi fossi, da dove venissi, se fossi una persona raccomandabile...probabilmente avrebbe dovuto chiedersi se fossi o meno una persona.


Céline era molto più scaltra e acuta di tante altre donne che avevo conosciuto, riusciva ad intrattenere una conversazione brillante e mantenere vivo il mio interesse.

La prima volta che la vidi ballare pensai a quale fascino avrebbe avuto se l'avessi trasformata. Eseguiva i passi volteggiando leggera e costringendo lo spettatore a non staccare per un attimo gli occhi da lei, come una sorta di ipnosi e lei, dal canto suo, non li staccava mai da me, come se nella sala ci fossi solo io, come se stesse danzando solo per me.


Cominciai a presenziare ad ogni spettacolo, occupando sistematicamente il palco più costoso, dal quale si godeva della vista migliore. Le facevo avere alla fine di ogni esibizione un mazzo di rose rosse, i suoi fiori preferiti, e spesso aggiungevo anche un monile col quale esaltare la sua bellezza.


Per la seconda volta in vita mia fui attratto dalle movenze dell'amore. M'innamorai dell'idea di essere amato e di amare a mia volta.

Per la seconda volta il mio cuore smise di battere.

E avrei messo fine anche al battito del suo cuore se, in quel momento, non ne avessi sentito uno più leggero, più veloce e di certo più puro, provenire da suo ventre.

Capitolo difficilissimo da scrivere. Infatti si commenta da sé. La cosa più difficile è stata tenere presente il crossing-over tra le due storie e tra i personaggi. Edward non è solo Edward Cullen, ma anche Edward Rochester...insomma un gran casino, per dirla proprio in maniera fine.

Come al solito, grazie a Mirya, Biaa e Austen95 per la recensione.

Ho scritto una piccola OS, credo meno noiosa di questa ff. Per chi fosse un tantino curioso, la trova qui.

Grazie a tutti.

Miki.







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