Anno Zero

di nainai
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Anno Zero.1 ***
Capitolo 2: *** Anno Zero.2 ***
Capitolo 3: *** Anno Zero.3 ***



Capitolo 1
*** Anno Zero.1 ***


Attenzione: Il seguente scritto ha come protagonisti persone vere e personaggi inventati. Le vicende narrate sono puro frutto della fantasia dell'autrice. Non c'è alcuna pretesa di veridicità o verosimiglianza. Nessun intento offensivo, nessun diritto legalmente tutelato s'intende leso e tutti i diritti riservati spettano ai rispettivi titolari.
 
Scritta per il «Dodici Mesi di Fedeltà» contest

Anno Zero
 
“Tutto si apre con un temporale. Ma non un temporale qualsiasi! Deve essere come se il mondo intero si stesse sciogliendo dentro il cielo...”
 
Non è che facesse ancora fatica a crederci. Non dopo tutto quel tempo, quando il dolore era ormai una costante sorda in sottofondo e sulla pelle non restavano cicatrici se non minuscole strisce bianche troppo sottili anche per poter essere distinte. Seguirne ancora il corso sarebbe stata una follia, per cui sapeva bene di non potersi concedere quelle divagazioni.
Un routine nuova e snervata aveva sostituito lo slancio di un tempo, e lo aveva fatto così rapidamente da indurlo a credere non ci fosse mai stato un prima, ma solo l'attuale e desolante dopo che viveva con l'ostinazione di un'amara consapevolezza e di una vendetta gelida. Il punto di svolta, poi, non era neppure coinciso con il suo “anno zero”, perché dopo quello c'era stato tutto un lungo momento in cui aveva creduto che il sangue gli avrebbe scaldato le vene e l'anima abbastanza da trasformare tutto il mondo in un unico rogo. Una pira funebre alta quanto le sue convinzioni, alimentata dalle illusioni sfiancate di un giocatore perdente - in partenza - contro la vita e destinata ad inghiottire nel proprio fuoco le disillusioni nuove che nascevano dalla perdita e dall'abbandono.
A lungo temuti ed ora, alla fine, sperimentati.
Poi anche quel primo rigoglio di forze e rabbia si era stemperato nella compulsiva ricerca della distruzione fine a se stessa. Aveva lasciato che fossero altri a riempire di sé le idee che ancora vomitava sotto forma di parole o, più spesso, di semplici inseguimenti di note lungo traiettorie irrequiete quanto i pensieri che le generavano. O i tempi che le accoglievano in vesti “profetiche”. Lui da profeta aveva continuato a rifiutare di vestirsi, consapevole di come tutto si stesse riducendo alla sola celebrazione dei suoi lutti personali, ma non aveva avuto il coraggio - ed all'inizio, egoisticamente, neppure l'intenzione - di privare della propria voce le masse informi che ribollivano sottoterra. E se al principio loro avevano servito al suo scopo, dando al suo rancore un mezzo concreto per trasformarsi in azioni, adesso tutto si riduceva al gelo che provava - come una sensazione di stolido ottundimento - quando ripensava ai motivi primi per cui aveva accettato di piegarsi a tutto quello e poi abbassava lo sguardo a contemplarne gli effetti.
Londra pioveva in gocce di pioggia acida, che bruciavano tutto ciò che era vivente ma senza la grazia misericordiosa di una rapida fine. La guerra dei benpensanti - usare quel termine lo faceva sorridere - imponeva ufficiali scuse di correttezza, cui seguivano subdolamente strumenti di morte perversa. Gli effetti di ciò che il Governo usava per ridurre all'impotenza il grosso di un popolino riottoso tardavano a manifestarsi, ma quando lo facevano - carestia, malattie, intossicazioni e morti innaturali - avevano la definitività di un colpo ben orchestrato, magistralmente diretto, eccezionalmente efficace.
E, quindi, Londra pioveva. E sotto le sue gocce i fili d'erba tra i palazzi si piegavano e morivano, e nuove strisce sottili - cicatrici invisibili - scivolavano sulla pelle nuda delle braccia di Matthew.
 
Era iniziato tutto in sordina. All'epoca non ci aveva nemmeno fatto troppo caso, non quello giusto quanto meno. Tanto che aveva dovuto essere Brian a richiamare la sua attenzione su una circostanza che lui aveva liquidato con meno di una scrollata di spalle ed un sorriso quasi soddisfatto.
Le Leggi di Protezione Nazionale erano state approvate solo da qualche mese, i loro effetti immediati e diretti erano stati così ineffabili che la gran parte della gente aveva fatto fatica ad accorgersi della loro entrata in vigore. Dopo che per mesi le piazze di buona parte dell'Inghilterra avevano brulicato di folle di manifestanti, la prima delle conseguenze era stata il ristabilirsi di una perfetta pace sociale. A fronte degli attentati degli ultimi due anni, del resto, la buona parte dei cittadini dell'Unione Europea si era detta disponibile a cedere ai governi nazionali poteri maggiori per affrontare la crisi mediorientale. Lo zoccolo duro di una borghesia estremista e spaventata aveva dotato di legalità la scelta di un sempre maggior numero di Stati di dotarsi di un nucleo forte di leggi che derogassero parzialmente ai principi liberali e costituzionali a favore di una maggiore sicurezza e di un più accurato controllo ad ogni livello della società.
Non era stato troppo difficile nemmeno accattivarsi il favore degli strati più bassi della popolazione. Le Leggi di Protezione avevano sottoposto a “tutela” - come veniva definito il controllo e l'ingerenza del Governo nei vari settori delle attività economiche e sociali - anzitutto i capitali privati, con lo scopo dichiarato di tagliare alla fonte i finanziamenti che arrivavano da tali canali alle organizzazioni terroristiche internazionali e, in generale, di verificare l'effettivo impiego degli stessi. I gruppi operai e le organizzazioni sindacali erano arrivati fino ad assumere la decisione - miope - di applaudire la posizione governativa e di appoggiarla apertamente, guadagnando ulteriore consenso al Governo.
Già allora Matt aveva cominciato a storcere il naso, inorridendo alla sola idea che la gente potesse essere così cieca ed ottusa da non accorgersi di come si trovassero sull'orlo di decisioni irreversibili dalle conseguenze assolutamente catastrofiche. Giustamente indignato, era stato solo felice di vedere accostate le proprie canzoni alla voce di chi, sempre più spesso e soprattutto nel loro ambiente, criticava apertamente le decisioni assunte a livello politico.
Di mezzo, comunque, c'era stata la riforma delle istituzioni scolastiche ed universitarie e solo dopo, quando ormai la buona parte dell'opinione pubblica era distratta dai comunicati ufficiali di una stampa coalizzatasi nel fornire uno scudo compatto di informazione “coordinata”, i mass media e tutto il settore di arte e spettacolo erano stati sottoposti ad una regolamentazione così drastica e capillare da rendere impossibile qualsiasi forma lecita di dissenso.
Allora erano cominciate a fiorire anche le radio “dissidenti” – “radio pirata”, in onore di più libertini anni ’70 in cui la rivolta era stata un gioco colorato e non un massacro sofisticato del libero pensiero – emittenti fuori legge che passavano musica considerata, inizialmente, sconveniente e poi, con molta più onestà, messa all’indice da un Comitato di Censura. L’invito ai distributori del prodotto musicale era stato nel senso di evitare determinati lavori considerati poco in linea con la politica di uniformità e coesione portata avanti dal Governo; nei confronti degli artisti, invece, i “suggerimenti” arrivarono fin dall’inizio sotto forma di esplicite richieste di modifica e di veti alla pubblicazione dei lavori ritenuti pericolosi. Quanti avevano rifiutato di aderire alle indicazioni fornite erano stati zittiti in modo via via più repressivo e violento ed a coloro che ancora cercavano nella musica una bandiera a cui associare idee fuori dagli schemi non era rimasto che rivolgersi a ciò che sopravviveva della musica “indipendente”.
Era stato allora che Brian, ridendo, gli aveva fatto notare quanto spesso le radio pirata passassero “Assassin”. Matthew ne era stato orgoglioso. Aveva scrollato le spalle più che altro per allontanare quell’intimo moto di soddisfazione, mascherandolo dietro il mezzo sorriso sghembo con cui aveva accolto le parole dell’altro. I Muse continuavano ad ostinarsi lungo una strada palesemente collidente con la posizione governativa ed i toni della loro polemica diventavano sempre più aspri con il passare del tempo. Nessuno stupore che i movimenti più giovani – quelli che nell’arte e nella musica avevano sempre trovato lo strumento più semplice per esprimere ciò che pensavano – potessero aver deciso di eleggere una loro canzone ad “inno” di un’ideale rivoluzione di pensiero.  
Brian, però, ne era spaventato. I suoi consigli arrivavano sotto forma di battutine sottolineate da risate nervose, concesse in situazioni in cui lui avrebbe preferito dedicarsi ad altro – tra le lenzuola sfatte che odoravano ancora di sesso e di loro, avrebbe voluto solo abbracciarlo e dormire, riposare con la sua testa contro la spalla e scacciare così il freddo di quella realtà che si allontanava da loro – non riusciva a nascondere del tutto il tremito sottilissimo della voce nel chiedergli con sempre maggiore insistenza una “prudenza” che non riempiva mai di significati concreti. Solo quel susseguirsi di richieste, che lui scacciava con prepotenza beffarda, avvolgendolo stretto tra le braccia e pretendendo un bacio ancora per cancellare la sua ansia e farla sciogliere nella propria arroganza intransigente. Matthew non riusciva ad avere paura, aveva rabbia da vendere e convinzioni di cui nutrirsi, la paura era fatta per chi sperimenta sulla pelle e lui sperimentava solo il calore della preoccupazione di un altro. Se poi non avesse conosciuto Brian così bene come era arrivato a fare, avrebbe anche creduto che fosse solo un gioco e trascurarlo – come poi aveva fatto davvero, colpevolmente – sarebbe stato ancora più semplice, fingere che non stesse succedendo niente e che tutto si riducesse allo sghignazzare infantile di un artista anticonformista quando, passando davanti ad una finestra aperta, afferrava al volo i versi della propria opera messa al bando.
Ma non era così. Ed il tempo aveva dato ragione alle paure di Brian e torto al suo desiderio di autoaffermazione.
 
-Immagino che suggerirti l’uso di un ombrello sarebbe completamente inutile.
Matthew rise e scosse la testa, liberando i capelli da un sottilissimo strato di gocce traslucide. La pelle appariva rossa ed irritata nei punti in cui la pioggia aveva battuto con insistenza e la ragazza gli rivolse un’occhiata critica, storcendo il naso a quella vista ed ingollando a fatica tutte le ulteriori recriminazioni che – si vedeva – avrebbe voluto rivolgere al suo comportamento.
La gran parte di quei consigli erano sprecati, lo sapeva, aveva già provato in passato a fargli entrare in testa quanto poco opportuno fosse per lui girare a zonzo da solo per la città e quanto poco saggio, in generale, fosse farlo quando, come quel pomeriggio, era stato programmato un coprifuoco con tanto di “irrorazione” di pioggia acida a ribadire il concetto. Matt non la ascoltava. Ogni volta che qualcuno di loro diceva qualcosa per inculcargli in testa un po’ di buon senso, Matt smetteva di ascoltare. Le ragioni di quella scelta erano conosciute solo a pochi intimi, in gran parte quegli stessi che erano presenti quando – quasi un anno e mezzo prima – aveva deciso di unirsi alla Resistenza e di diventarne, in qualche modo e controvoglia, il leader ed il portavoce.
Eliza, che della Resistenza era stata una fondatrice, apparteneva a quella ristrettissima cerchia di persone, anche se per un caso fortuito. Semplicemente era successo che Matt non avesse nessuno con cui parlare dei motivi per cui a volte si svegliava nel cuore della notte piangendo e gridando e lei era stata lì una di quelle notti. Confessarsi alla luce di una candela, come bambini spaventati dal buio, era stato facile e liberatorio per tutti e due: in fondo le loro storie non erano così dissimili ed il loro modo di reagire alla solitudine era stato, almeno in principio, lo stesso. Poi in Eliza il desiderio di vendetta aveva lasciato spazio alla necessità di fare qualcosa di concreto, lì dove in Matthew si era semplicemente trasformato in un bisogno irrazionale di rincorrere una facile autodistruzione. I loro interessi continuavano a coincidere solo nella misura in cui lui si prestava ai loro scopi, dando volto e voce alla loro rivoluzione.
-A lungo andare non serve a nulla comunque.- ci tenne a precisare Matthew, lasciandosi cadere a sedere sulla prima sedia disponibile e continuando a gocciolare sul pavimento una scia disomogenea di acqua contaminata.- Le esalazioni ti uccidono lo stesso.
Eliza si voltò verso la postazione di regia.
-E’ per questo che, di solito, si evita proprio di uscire.- osservò secca prima di allungare le dita verso la consolle.
Il brano in sottofondo scivolò in un oblio lento quando la ragazza abbassò progressivamente il volume, infilando le cuffie. Matthew si zittì, lasciandole modo di aprire il microfono e sostituire la propria voce a quella di Pete Doherty.
-E questi erano i Babyshambles di “You Talk”.- annunciò rapida – Qui è sempre “KillJoys Radio” ed io sono sempre la vostra Urban Symphony che vi tiene compagnia in questa piovosa serata di coprifuoco. Notizie dal “mondo di sopra”? Per gli amanti degli aggiornamenti, sappiate che i nostri eroi hanno varato l’ennesima legge contro l’associazionismo religioso. Fate a tempo ad iscrivervi ad una delle Chiese Ufficiali o a decidere di scendere in piazza, con noi della Resistenza, per un pacifico sit-in davanti all’Abbazia di Westminster. I dettagli della protesta nei prossimi giorni tramite i soliti canali.- Pausa ad effetto, Matt ridacchiò ed Eliza gli scoccò uno sguardo divertito da sopra la spalla prima di avvicinare le labbra al microfono e sussurrare sensuale – Capito, voi del Governo in ascolto?- Lui le fece cenno che era pazza e lei sogghignò riportando lo sguardo sul monitor di regia.- Bene! con mio sommo dispiacere siamo giunti al termine di questa serata. Concedetemi di salutarvi a modo mio, ovvero... facendo quanto più casino possibile! Questa è “Na na na” e loro sono i My-Chemical-Romance!- scandì alzando il volume mentre il file audio, sparato direttamente nell’etere via web, partiva con la forza di una scarica di adrenalina giù per le braccia e le gambe.
Eliza si liberò delle cuffie e buttò indietro le spalle, prendendo a dondolare sulla sedia come una bambina gioiosa, a tempo con la musica. Matt sorrise. Sentirla trascinare quel nome con tutta la meraviglia di una “sacralità” diversa, fatta di convinzione ed ideali, lo lasciava piacevolmente sorpreso. Eliza poteva sembrare, a chi non la conosceva, una creatura fredda e razionale, ma la forza della sua ribellione passava anche attraverso le note della musica che amava, quella stessa musica di cui era capace di parlare per ore ai propri ascoltatori, avidi di note tanto quanto di notizie.
Mentre il “mondo di sopra” – come chiamavano crudelmente quello strato di ipocrisia che era diventato la realtà ufficiale dell’Inghilterra odierna – riprendeva a dormire un sonno tranquillo, spegnendo il segnale dell’ennesima radio dissidente, la Resistenza cominciava la propria nottata, preparandosi alla lotta silenziosa e violenta della rivolta armata.
Eliza si alzò dalla sedia girevole, muovendosi in un profluvio ondoso di capelli color caramella – un rosa shocking che faceva impallidire il rosso fuoco dei tempi migliori di Matthew! – lui la seguì distrattamente con lo sguardo ma rinunciò quando lei gli sfilò di fianco per perdersi da qualche parte alle sue spalle. Si sentiva stanco. Probabilmente la ragazza aveva avuto ragione a rimproverargli di essere uscito a quel modo. O magari, le sue sensazioni non erano così legate ad un fattore fisico, quanto ad una sua condizione mentale.
-Ci sono novità.- gli fece sapere intanto la voce di Eliza, richiamandolo con forza all’attualità dei propri compiti “istituzionali”.
Matt annuì, ripetendo il gesto con maggiore vigore quando si accorse di avere bisogno di un ulteriore sollecito per alzarsi davvero dalla sedia e seguirla nella stanzetta adiacente. Eliza lo aspettava ad un tavolo quadrato su cui era stata spiegata la mappa dettagliata del Palazzo di Westminster. Ad eccezione del tavolo e della quattro sedie che lo circondavano, la stanza era completamente spoglia e buia, l’unica luce scendeva offuscata da un lucernaio all’altezza della strada e la pioggia continuava a battere ritmicamente sul vetro scheggiato che lo chiudeva. Era il più brutto, umido e disagevole seminterrato di cui Matthew avesse memoria. Quando Eliza accese una vecchia lampadina appesa al soffitto, lo sprazzo di chiaro li abbagliò, riflettendosi sulla superficie lucida della carta su cui era realizzata la mappa.
-Ho parlato con Steve,- proseguì la ragazza, senza alzare lo sguardo a sincerarsi della sua presenza, ma strattonando il foglio per spostarlo da sotto la fonte diretta di illuminazione e renderlo più leggibile. Matt si appoggiò con entrambe le mani al piano del tavolo, in una posizione speculare a quella della sua interlocutrice e fingendo un interesse che sapeva di non provare.- sembra che dovremo anticipare la cosa. Qualcuno ha fatto la spia e si aspettano una nostra mossa.
-…quindi ci andiamo prima, così da essere sicuri di non deluderli?- interrogò perplesso Matt.
Eliza gli scoccò uno sguardo gelido e Matthew capì che non aveva apprezzato la sottile ironia.
-Quindi ci andiamo prima perché dopo che avranno rinforzato la sorveglianza sarà impossibile anche avvicinarsi.- ritorse freddamente lei. – Useremo il sit-in davanti all’Abbazia come diversivo per la Polizia. I dettagli ce li farà avere quanto prima.
L’altro si limitò ad un cenno di assenso e non parlò.
-Lo sai, vero, che finirà male…- sussurrò invece, fissando la cartina come dovesse trovarci dentro le risposte a tutti i dubbi che ancora provava.
Fu la volta di Eliza di non rispondere. Dopo quasi due anni di silenzio e di piccole azioni, la Resistenza era pronta a fare un passo decisivo, quel salto di qualità che tutti – da una parte e dall’altra – si aspettavano. Il Governo per ufficializzare la loro etichettatura come “forza terroristica e pubblico nemico”, così da giustificare la feroce repressione che già, di fatto, attuava da tempo; i loro affiliati per trovare, finalmente, nella lotta armata uno strumento concreto di ribellione e non un semplice palliativo alla frustrazione di quei giorni. Come fosse andata non potevano davvero prevederlo, sapevano che i mezzi a loro disposizione erano scarsi – “tanta buona volontà non ti porta da nessuna parte”, ripeteva Chris da quando Steve aveva esposto loro quell’idea – e sapevano allo stesso modo che restare in un limbo fatto di proclami e buoni propositi non era più accettabile.
Eliza, concreta come sempre, diceva che le rivoluzioni passano prima dai martiri e poi dagli eroi.
-Finirà come deve finire.- affermò stavolta, scrollando leggera le spalle.
Nel chiarore ugualmente innaturale della pioggia e della luce artificiale i suoi capelli impossibili, i vestiti pacchiani ed eccessivi e quel trucco pesante da bambola plastificata la facevano sembrare incredibilmente finta. Eppure la sua voce vibrava degli accenti più veri che Matt riuscisse a ricordare da tempo, Eliza – Urban Symphony, come la personificazione di quella voce che Londra aveva deciso di soffocare e relegare nelle fogne – era dolorosamente viva, quanto lui non pensava di poter essere. Mai più.
Ma qualcosa da offrire, lo aveva.
Infilò la mano nella tasca del soprabito che teneva ancora addosso contro il freddo umido dello scantinato, porgendole sul palmo della mano una chiavetta USB.
-Questa è l’ultima che abbiamo inciso. Ci ho messo un po’ a mixarla, ma ora è a posto. - le disse davanti al suo sguardo interrogativo.- Mandala in radio domani, e rendila disponibile in rete.
Eliza si illuminò come se le stesse consegnando un autentico tesoro e Matt rise, schernendosi.
-Come ci riuscite?!- sbottò la ragazza, afferrando la chiavetta con una bramosia evidente.
Matt liquidò la cosa con un gesto noncurante.
-Ho ancora degli amici che mi devono dei favori.- confessò.
 
Il sapore di Brian si impastava ai suoi respiri nel cuore della notte. Diventava qualcosa di tangibile, morbido e cremoso nella bocca che affondava tra i cuscini. La sua pelle era velluto sotto le dita, era sempre stata incredibilmente liscia per essere quella di un uomo e Matt adorava trovare sotto i polpastrelli le imperfezioni infinitesimali che lasciava al mattino la barba rada. Per questo si ostinava a svegliarlo con una carezza quando, all’alba, si infilava nel letto al suo fianco dopo una notte passata al pianoforte o si svegliava per primo quando dormivano assieme dopo aver fatto l’amore. Brian ci aveva fatto un’abitudine talmente radicata che non si arrabbiava nemmeno, socchiudeva gli occhi nella penombra della stanza, recepiva la sua presenza ed il tocco di quelle dita bellissime e poi tornava a chiudere lo sguardo in un sospiro paziente, riaddormentandosi sotto la sua carezza ed il profumo del suo fiato sul viso. Lui era così, incredibilmente domestico con coloro che amava. In qualsiasi altra situazione non avrebbe tollerato nemmeno l’idea che un’altra persona potesse invadere i suoi spazi, ma quando permetteva a qualcuno di entrare in quegli stessi spazi, diventava malleabile, accorto e generoso in un modo che, all’inizio, aveva lasciato Matthew basito.
Ai tempi in cui loro due si tolleravano appena, si ignoravano alle feste e si odiavano nelle occasioni ufficiali, Matthew non avrebbe mai sospettato in Brian una simile capacità di adattamento o un tale spirito di sacrificio. Lo aveva sempre pensato come la creatura arrogante e dispotica a cui si atteggiava, per scoprire poi che tra i due quello più intransigente, più difficile e macchinoso era lui. Brian era di una semplicità che incontrava il proprio limite esclusivamente nella complessità ed enormità dei suoi sentimenti. E per difendere quella stessa complessità ed enormità si rivestiva di una corazza così sopraffina da diventare indistruttibile.
La sua era sempre stata la voce di un’individualità raffinata, attenta al prossimo ma decisa a non lasciarsi calpestare dal mondo, Brian dava agli altri tutto il rispetto che esigeva per se stesso, e le sue canzoni - i suoi versi e la sua musica – parlavano di questo: il bisogno di ciascuno di essere amato, protetto e guarito, prima da se stesso e poi dagli altri. Man mano che la loro relazione andava avanti, Matthew arrivava a scoprire dietro le nenie dei Placebo – liquidate in fretta in altri momenti in cui la Musica esigeva tutta la sua attenzione – un variegato mondo fatto di due colori, nero e bianco, soffusi in una luce aranciata che li ricopriva di tutto il calore delle sensazioni e dei pensieri che evocavano. Era stato allora che aveva iniziato ad amare di Brian molto più che non il suo aspetto o la sua voce, ugualmente accattivanti, era stato scoprire nella creatura desiderata un motivo concreto per trasformare il desiderio in passione e la passione in amore. 
Ma il mondo dei Placebo non poteva andare bene ad una realtà che viaggiava nel senso opposto. La massificazione del pensiero, la totalitarizzazione dei sentimenti non potevano accettare l’esistenza di una musica che avesse il suono di una ribellione intellettuale e spirituale, elevata a livelli che la rendevano praticamente inattaccabile. Brian parlava ad un popolo di individui disposti ad esistere con una tale forza che nessun credo politico o religioso avrebbe potuto più metterli in discussione.
Di fronte a questo, inevitabilmente, il nuovo mondo non poteva che perseguirne la distruzione.
…si svegliò in un bagno di sudore. Il sapore che aveva sognato ancora nella bocca e la sensazione tattile di quella pelle sotto le dita. Faceva male al petto ed alle ossa, un dolore fisico che partiva dai nervi, tesi e rigidi sulle spalle e le braccia, e si diffondeva attraverso il cervello a tutto il corpo. Voleva morire. Non avrebbe saputo dirlo in altro modo, non avrebbe saputo usare altre parole o altri pensieri per definirsi in quell’istante. E come quello, centinaia di altri istanti prima e dopo.
Il sospiro che si lasciò sfuggire dalle labbra aveva la consistenza dello sfiatare di una bestia agonizzante. Rotolò su un fianco, cercando inutilmente una posizione confortevole in un groviglio contorto di braccia, gambe e lenzuola.
Mai come ora aveva desiderato non essere solo in un luogo. Dom e Chris erano tornati a casa. Si preannunciava il più grosso disastro cui la Resistenza potesse offrire le teste dei propri “capi” – o la più grande vittoria, a voler credere all’esistenza di un Qualcosa che dall’alto dei propri Cieli stabilisse in Terra una Giustizia in-umana – ed ovviamente, coloro che ancora avevano qualcuno da perdere, non potevano che aver deciso di trascorrere altrove il tempo rimasto a disposizione. Gli aveva chiesto di pazientare fino a che non avessero inciso un’ultima canzone. Non la migliore, non la più significativa, semplicemente l’ultima. Poi aveva dovuto lasciarli liberi, scacciando con un sorriso spento i loro tentativi di riportarlo indietro con sé. Aveva abbandonato Londra una volta e, tornandoci, l’aveva trovata vuota ed inospitale, adesso che programmava di riprendersela – con il sangue e con l’anima – non avrebbe permesso che quella sgualdrina mutasse ancora mentre era distratto.
Si sollevò sulle braccia, mettendosi seduto sul materasso scomodo e scalciando via le coperte quando divennero un ingombro eccessivo. Il respiro faticava a tornare regolare e lui si impose, semplicemente, di trattenere il fiato finché il silenzio prese a fischiargli nelle orecchie. A quel punto tutto assunse una dimensione accettabile. Posò i piedi nudi a terra, muovendosi con accortezza per non svegliare coloro che dormivano nelle altre stanze dello scantinato, si mosse al buio con la sicurezza di chi, in un anno e mezzo di oscurità, ha imparato a distinguere ogni anfratto del luogo che si è scelto come prigione. Nella stanzetta di fianco alla sala di regia la mappa era ancora distesa sul tavolo; in quella successiva un vecchio portatile accesso mandava un ronzio costante e mostrava il logo dei Muse su una pagina nera, con un invito agli utenti a cliccare di lato per scaricare la nuova traccia audio, sulla parete di fondo campeggiava uno striscione blu e rosso, che aveva realizzato solo qualche giorno prima, aspettando anche lui che arrivasse il giorno di un riscatto paziente. Matthew lo degnò di uno sguardo appena, la sua stessa calligrafia rotonda, da adolescente mai cresciuto, recitava blanda “war is overdue”, accennando idealmente all’incipit di un inno che voleva diventare “di battaglia”. L’indicazione, nemmeno troppo velata, era ad armarsi per combattere quella stessa guerra ed insieme a gridare ad una voce sola il piano – lineare – della loro rivoluzione. A ripensarci freddamente si disse che in lui c’era sempre stata la medesima carica distruttiva che avvertiva adesso.
Qualcuno aveva raccolto in giro la posta indirizzata alla Resistenza ed ai suoi membri. Avevano sistemi alquanto elaborati per comunicare tra loro e con quanti restavano nel “mondo di sopra”, la gran parte di questi metodi falliva piuttosto spesso e gli altri venivano intercettati con una tale facilità da far dubitare della loro efficienza. Ogni tanto, comunque, qualcosa arrivava. Spulciò pigramente le buste ed i pacchetti, cominciando ad avvertire un freddo pungente alle mani ed ai piedi; arrotolandosi su un divano, cercò un po’ di calore nel sottrarsi al pavimento umido. C’erano due lettere indirizzate a lui, una era di Steve e, presumibilmente, gli forniva i particolari dell’attacco a Westminster; Matthew la mise da parte appoggiandola in bilico su una gamba. Aprì la seconda perché riconobbe la calligrafia di Dominic, da dentro la carta scivolarono mollemente tre foto ed un biglietto stringato di poche righe che dettava il giorno dell’arrivo del batterista e di Chris nel codice che avevano stabilito tempo prima. Le fotografie erano tutte di Kelly e dei bambini di Chris ma in una c’erano anche il loro papà insieme con Dominic. Dovevano averle fatte in quei giorni…
Matthew si accorse del pacchetto solo perché rotolò giù dal divano quando si spostò per mettersi più comodo e leggere la lettera di Steve. Era rotondo, non troppo spesso e rigido, c’erano su talmente tanti bolli postali e timbri da far credere che avesse girato tutto il mondo prima di approdare fino a lui, la grafia elegante che aveva vergato il suo nome gli era completamente sconosciuta, ma non sembrava particolarmente ostile. Forzò i sigilli che chiudevano il pacchetto, strappando la carta spessa che lo copriva, e scoprì un dvd nuovo di zecca, lucente e privo di qualsiasi iscrizione diversa da un laconico “per Matthew Bellamy”.
 
Note dell'autrice:
Alzino la mano tutti coloro che mi vogliono linciare per i - fin troppo - espliciti richiami all'opera ispiratrice. Ebbene sì, «1984» è stata la fonte prima di questa storia.
Per il resto è delirio.
Un delirio a cui ho voluto un mondo di bene mentre lo realizzavo e, come sempre, molto meno dopo averla terminato, e che spero che, in qualche modo, possa suscitare la vostra curiosità o il vostro interesse.
Molteplici le «influenze musicali» utilizzate. Oltre a quelle citate ne troverete dei Placebo, almeno un'altra dei Muse e perfino dei Linkin Park...chissà se siete in grado di scovare di quali canzoni si tratta! XD
Infine, un ringraziamento anticipato: ad Erisachan, per l'aiuto che mi ha dato e, soprattutto, per Eliza.

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Capitolo 2
*** Anno Zero.2 ***


Brian credeva che il tempo avesse il sapore degli istanti goduti lentamente, senza la fretta che, inevitabilmente, il mondo ci attacca addosso. Per lui quegli instanti, di solito, prendevano forma di una tazza di the bevuta al tavolo della cucina, senza altro suono in sottofondo che non fosse il fischio del bollitore o i rumori quotidiani che un appartamento vissuto produceva in qualunque momento. Non amava la televisione, non sopportava la radio quando gli ricordava troppo spesso il suo lavoro ed i libri erano, innegabilmente, un piacere ed una tortura se la mente era stanca e l’unica voglia che aveva era di fuggire il più lontano possibile dalla propria pelle.
Nessun suono poteva davvero riempire quello stato d’animo. Era compito esclusivo della vita e dei suoi rumori inevitabili dargli una colonna sonora che non fosse troppo ingombrante. La pioggia,le macchine in strada, i gatti nel cortile di fronte e perfino il rumore della lavatrice o della lavastoviglie…tutte cose che parlavano di una quotidianità che restituiva senso alle scelte fatte.
Nella sua esistenza non c’era stato quasi nulla di quotidiano. Riuscire a ritagliarsi quei momenti era prezioso come oro, lo era ancora di più quando in camera sentiva il respiro lento di Matthew, ancora addormentato dopo che era venuto a letto solo da pochissime ore, riempire i suoi pensieri di note indolenti di sentimentalismo inutile.
Anche se quel giorno non era così, anche se quel giorno era solo in casa – ed aveva fatto lui in modo da rimanerci – il senso di quella presenza aleggiava su tutto. Cominciando dal profumo intenso del the nero, quello con cui Matthew pretendeva di fare colazione ad orari impossibili, per finire con il colore chiaro di un block notes che aveva lasciato su una mensola e lui non era ancora riuscito a decidere di mettere a posto. Il suo disordine naturale gli faceva credere che potesse vederlo da un momento all’altro attraversare la soglia di casa e tornare da lui e voleva che fosse quella l’ultima sensazione a fargli dolere i muscoli delle braccia ed il petto di un dolore a cui si rifiutava di dare un nome.
Il suono del battere ritmico di colpi contro la porta. Qualcuno chiamò a gran voce i loro nomi attraverso il battente sprangato. Brian non fece segno di volersi alzare, il palmo della mano che giocava distratto con la tazza, misurandone la circonferenza in punta di dita. La sollevò per portarla alle labbra ed il rumore sordo e netto del legno che cedeva fece da eco a quello liquido del the. Il fumo del calore che si alzava dalla tazza, per un secondo, fu l’unica realtà nella stanza, velando lo spazio di bruma e dandogli l’esatta collocazione: al di là della verità concreta, gli sembrava ancora impossibile che il mondo fosse davvero arrivato a quello.
-Mr. Brian Molko?- s’informò educatamente una voce.
Passi marziali seguirono quella richiesta, l’uomo, alto e magro, si muoveva con maggiore eleganza e più discrezione, ma coloro che lo seguivano si disposero attorno a lui in un incedere di scarponi pesanti che lo fece sorridere. Cosa credevano che fosse? un pericoloso criminale?
Alzò lo sguardo in faccia all’uomo e catturò il riflesso rosso della telecamera a circuito chiuso. Si disse che avrebbe dovuto spegnerla, ma non ci aveva pensato.
-Chi vuole saperlo?- ritorse in un accenno della solita ironia cattiva, solo infinitamente più stanca del solito.
-Non ha importanza.
-No.- convenne Brian, bevendo ancora dalla tazza.
L’uomo era metodico, oltre che discreto, sfilò la pistola da sotto il cappotto di pelle nera – Brian pensò che sembrava scappato da qualche filmaccio di quelli che Matthew adorava. Una volta, quando pensava fossero solo immaginazione, avevano divertito anche lui – caricò il colpo in canna e sollevò l’arma.
La tazza produsse un'unica nota secca e precisa nel posarsi sul ripiano di legno. A Brian piaceva anche per questo, perché il legno aveva solo suoni caldi. Il sorriso a mezzo aleggiava ancora sulle sue labbra nel ricambiare lo sguardo dritto davanti a sé.
-Boum.- mimò in un sussurro.
 
Nel video l’uomo si voltò e si accorse della telecamera. A Matthew parve che esitasse, sorpreso. Aveva un viso scavato, la pelle si tendeva sulle guance e sugli zigomi e rughe profonde segnavano la fronte. Gli occhi erano l’unico accenno di vita in un’espressione incolore, due punti neri, due buchi che si fissavano contro l’obiettivo della telecamera con forza. L’esitazione durò un solo momento, poi a Matt sembrò quasi di poter leggere una risoluzione nuova farsi strada attraverso processi laboriosi nella mente dell’uomo.
Dalle sue spalle giungevano i rumori prodotti dagli altri che erano con lui, gli stessi individui che invadevano senza ritegno gli spazi della vita di Brian. Matthew avrebbe voluto strapparli a forza via dallo schermo, si trattenne a stento dall’impulso di allungare inutilmente le dita a cercare di afferrarli attraverso la superficie del laptop. Osservò impotente uno di loro avvicinarsi al corpo di Brian, riverso sul piano del tavolo, e controllare con due dita – con delicatezza – che fosse davvero morto. Una pozza rossa allagava lenta lo spazio tra le gambe della sedia.
L’uomo si voltò.
-Cercate i video delle registrazioni.- disse indicando la telecamera, Matt sentì il suo dito infilarsi da qualche parte nel costato e si accorse per la prima volta del dolore pungente all’altezza del cuore.- Qui non c’è nessuno.- affermò come se fosse sufficiente a fermare lo scempio che si stava perpetrando ai danni della casa.
Matt vide la stanza svuotarsi. L’uomo fu il primo ad uscire, senza voltarsi più nemmeno una volta, il corpo di Brian rimase solo per pochi minuti che gli parvero lunghi come secoli e, comunque, tutto il tempo a sua disposizione non bastò a formulare nemmeno un pensiero coerente. Quando il video si spense bruscamente, rituffandosi in un nero uniforme che lo lasciò stordito, l’unica cosa che aveva in mente erano le ultime parole che si erano scambiati al telefono. “E si apre con un temporale. Un temporale nel quale il mondo intero si sciolga”. La prospettiva gioiosa di un lavoro nuovo, di un nuovo inizio in musica…
In fondo alla pagina Matthew vide qualcosa lampeggiare, come una pulsazione continua che acquistasse consistenza con il passare del tempo. Una luce sottile scivolò dietro la patina nera e ne incrinò la superficie, poi le parole presero a scorrere come sequenze di numeri e senza alcun senso. Matt sollevò il braccio e si asciugò le lacrime con la manica. Il messaggio ristagnava indifferente davanti ai suoi occhi, allungò la mano a tentoni sul tavolo, cercando senza vedere una superficie su cui appuntarsi l’essenziale ed una penna con cui farlo. La bocca socchiusa, l’espressione concentrata, non credeva davvero possibile che il Cielo gli stesse regalando una vera vendetta.
…o il modo più efficace per far comunque finire tutto.
 
All’epoca in cui il Governo aveva imposto agli stranieri una scelta precisa sul fatto di rimanere o meno all’interno del territorio inglese, Brian aveva abbandonato senza nessun ripensamento ogni possibilità di raggiungere la propria famiglia, scappata negli Stati Uniti già da diversi mesi. Diceva che lì le cose non andavano meglio che in Europa e che tanto valeva restare in Inghilterra, che sentiva come la sua vera patria, che invadere casa di Barry e trasformarsi in un noioso zio impiccione per i figli di suo fratello. Nonostante questo, Matthew non aveva esitato nemmeno un momento a lasciare Londra per tornare nel Devonshire. Quando il fastidio che provava per scelte sempre più palesemente in contrasto con il suo modo di pensare si era fatto eccessivo, aveva raccolto le sue cose, provato a dirgli di seguirlo ed infine scelto di ritirarsi “in campagna”, come un signore sdegnoso di altri tempi in aperta polemica con il potere costituito. Ed in fondo era stata anche la scelta più coerente.
Si sentivano continuamente. Quella separazione forzata non riusciva ad intaccare la loro quotidianità se non dello stretto indispensabile e Matthew tornava a Londra ogni volta che la lontananza diventava, semplicemente, troppa ed impossibile da tollerare ancora. In quelle occasioni c’erano giornate passate chiusi in casa ed altre in giro, vagabondando per una città sempre più grigia e triste ma che per loro prendeva ogni singola sfumatura degli occhi e del sorriso dell’altro. Londra assieme a Brian poteva mantenere intatta la sua magia, qualsiasi cosa le fosse passata addosso.
-…att.
Sbatté gli occhi, stordito, il profumo di fiori, muschio ed agrumi gli invase le narici come una sferzata calda. Poi fu il colore caramellato di quella chioma sciolta e ribelle a riempire il suo sguardo e lui respirò a fondo, riconoscendo quei capelli prima ancora della mano che lei gli posava gentile sulla spalla per scuoterlo con delicatezza.
Eliza aveva indossato un vestito a balze con la gonna troppo corta, stivaletti e calze colorate che avrebbe nascosto sotto un piumino nero prima di uscire. Era decisamente bella.
Matt si massaggiò la radice del naso, allargando poi le dita sugli occhi e sul profilo delle tempie, ma il mal di testa non accennava a diminuire. Sospirò e mise a fuoco la ragazza; lei lo studiava con la meticolosa attenzione di una madre insoddisfatta e questo gli strappò un sorriso: Eliza era più giovane di lui di almeno dieci anni.
-Stai uscendo?- s’informò educatamente.
-Mh…Hai dormito? Non hai una bella cera, Matt.
La domanda bastò a risvegliare echi di brividi gelati lungo le braccia e la schiena. Matthew li soppresse a forza, badando solo che lei non intercettasse l’istante esatto in cui aveva esitato e perso un battito. Ruotò sul divano, mettendosi seduto ed accorgendosi del mucchio disordinato di fogli che aveva ancora in grembo. Eliza seguiva il suo sguardo e Matt la vide interrogarlo silenziosamente con gli occhi.
-Ho letto la corrispondenza. Non riuscivo a prendere sonno.- mentì con leggerezza.- Steve ha mandato i dettagli del piano…- spiegò poi radunando i fogli alla men peggio per passarglieli, stando attento a non mischiarli alle foto di Chris ed al biglietto di Dom.
-Era ora!- lo interruppe la voce squillante di lei.
Mentre Eliza gli si sedeva di fianco prendendo in consegna la lettera di Steve e scorrendola avidamente, Matt rimise a posto anche i fogli rimasti.
-Dom e Chris arrivano domani.- proseguì.- Vado a prenderli io.
La ragazza recepì la notizia con un mugugno distratto, mordicchiandosi assorta la punta dell’indice, impegnata nella lettura.
-O.k.- concluse risoluta abbassando la lettera e guardandosi attorno per raccogliere le idee.- Adesso mi occupo di questo- organizzò riferendosi al compito di diramare le istruzioni di Steve ai nuclei che avrebbero operato nell’attacco – e poi esco. Tu cosa farai?
Matt si strinse nelle spalle. Eliza gli si addossò repentinamente, schiacciandogli il naso contro lo scollo della maglietta e tirando su rumorosamente.
-Puzzi.- notificò raddrizzandosi.- Direi, una doccia e poi colazione.- suggerì con un sorriso. Si sollevò dal divano sventolando i fogli- Mi dai una mano?
-Dopo la doccia e la colazione.- sorrise Matt.- Ah…Sym…- la richiamò che già stava lasciando la stanza in uno svolazzare di capelli e balze fiorate. Lei lo scrutò in attesa ed il sorriso di Matthew divenne improvvisamente malizioso.- Smettila di andare in giro mezza nuda.- le ordinò.
-Oooh! frena il tuo istinto, maschio alfa!- sentenziò lei affatto preoccupata.
 
-Come lo aveva scoperto?
-…ha trovato dei file a casa mia.
-…
Silenzio. Pesante silenzio, pesante.
-Sei un coglione.
E poi implacabile, sparare a zero sugli altri perché tanto – adesso – non hai davvero più nulla da perdere.
La prima cosa che gli dissero fu “è stata Alex”.
Non ci aveva creduto. Conosceva Alex da quando conosceva Brian – …da tutta una vita? – e sapeva che si sarebbe fatta tagliare a pezzi ancora viva piuttosto che permettere che qualcuno torcesse un solo capello “ai suoi ragazzi”. Steve glielo aveva dovuto ripetere almeno tre volte, poi era stato Dominic a stringerlo per le spalle, guardarlo negli occhi e spiegargli quel concetto finché non era entrato in circolo.
Gran figlio di puttana. Sapeva tutto da un pezzo ma si era guardato bene dall’aprire bocca, lo stronzo.
…e come lui, Chris…
Si sentiva tradito. E svuotato.
Ed ancora nemmeno sapeva quanto.
Quando aveva visto Alex avevano dovuto tenerlo fermo in due – Steve e Dom! di nuovo – per impedirgli di saltarle al collo e massacrarla seduta stante. Lei non aveva battuto ciglio, solo molto dopo Matt si era accorto che non avrebbe fatto differenza se l’avesse ammazzata o meno, tanto lei era già morta dentro, come diceva il suo sguardo.
Seduto ad una scrivania che conservava intatti i lustri di un epoca più felice, Matt aveva pensato che lei quella scrivania l’aveva guadagnata sul sangue di chi diceva di voler difendere. E adesso gli toccava ascoltare il racconto di come fosse successo.
Alex era invecchiata di trecento anni. E lo aveva fatto tutto assieme. Il tempo non era stato clemente con lei, o magari lui aveva ricordi imprecisi di chiome pettinate lucide e viso dal trucco impeccabile. Su di lei il lustro della scrivania non faceva presa.
-Brian lo ha scoperto per caso. Steve non ne ha alcuna colpa e, soprattutto, ha cercato di tenerlo fuori da questa storia il più possibile. Se Brian c’è finito dentro non è stato per la Resistenza, ma solo per via della sua musica.
Il lento scorrere di quelle parole, scandite a voce monocorde, priva di inflessione e sentimento, aveva fatto da palliativo alla parte meno sopportabile del suo dolore. Matt era stordito ed Alex sapeva di doverne approfittare in modo implacabile, anni di addestramento dietro ad una persona che sapeva essere anche più combattiva di lui dovevano averle insegnato come ci si approfitta delle debolezze altrui.
-In fin dei conti, se le cose fossero state diverse, Steve non avrebbe avuto certi “agganci” e non avrebbe potuto sapere delle Liste prima che fosse troppo tardi.
Le Liste. Fino a quel momento erano state un mito anche per loro. Ne avevano sentito parlare in quell’humus urbano che, a volte, come artisti a cui piaceva ancora definirsi “underground”, visitavano per un’esperienza esotica e, alla luce delle nuove disposizioni governative, pericolosa. Un’idea di Matt, Brian aveva superato da un pezzo il periodo dell’adolescenza in cui si vuole a tutti i costi fare qualcosa di sbagliato solo per sentirsi grandi.
Le Liste erano lo strumento con cui il Governo stabiliva chi doveva vivere e chi no. Non essendoci prescrizioni scritte circa l’illiceità di determinate forme di pensiero o di determinati comportamenti, le Liste servivano ad individuare i soggetti potenzialmente pericolosi per il nuovo ordine di cose. Cosa succedesse loro, fino a quel momento, Matt non lo aveva mai saputo.
-C’eravate voi. Proprio in cima alla Lista.- affermò Alex, fissandolo dritto negli occhi a studiarne ogni reazione. Ma Matt, semplicemente, non reagiva.- Il fatto che siate partiti per il Devon vi ha salvato le palle, ma non sarà per sempre. Poi c’eravamo noi. Tutti. 
Matthew capì che stava parlando dell’intero pool dei Placebo e non solo della band. Rabbrividì. Il suo primo pensiero prese forma in modo istintivo:
-Cody…
-Forrest ha portato via lui ed Helena. Brian aveva previsto anche questo.- fu la risposta pacata. E lui ebbe la sensazione che fosse stato preparato tutto con troppa cura, non solo la sparizione dei Placebo ma anche quel dialogo educato e le spiegazioni della donna.- Abbiamo fatto in modo che fuggisse giusto all’ultimo momento. Steve ed i suoi lo hanno nascosto,- Un cenno dell’ex batterista a conferma, Matt si voltò nuovamente verso Alex – poi li hanno fatti uscire dal Paese sotto copertura. Stanno bene, sono al sicuro negli Stati Uniti.
-Quindi si tratta solo di Stefan e…- morì tutto in un gemito di gola. Matthew si rese conto con terrore di non essere in grado di pronunciare il suo nome.
-Non si poteva fare di più.- Questa sapeva eccessivamente di giustificazione. Forse fu anche il fatto che non lo stesse guardando in viso nel fornirgliela.- Si trattava di scegliere ed è stato Brian a scegliere per tutti. Sapeva che dovevamo sacrificare qualcuno ed ha voluto che fossero loro.
-Brian ha pensato che, in qualche modo, il fatto che fosse Alex a consegnarli le avrebbe restituito “credibilità”.- si intromise la voce di Steve.- Era l’unico modo che avevamo per infiltrare uno dei nostri in un settore così delicato e sperare di salvarvi.
-…salvarci…
Un sospiro di Alex aveva pesato come un macigno sulle teste di tutti. Lei e Steve si erano scambiati un’occhiata silenziosa da sopra la sua testa, ma la cosa che faceva più male era il silenzio perfettamente immobile di Dominic. Perché lui sapeva tutto e non gli aveva detto un cazzo di niente!
-Visto che vi eravate allontanati da soli, bisognava solo occuparsi di distrarre gli uomini del Governo finché non fosse stato pronto un piano per nascondervi o farvi scappare dall’Inghilterra.- spiegò Alex.- Sapevamo che saresti tornato e per allora dovevamo avere un buon piano.
-Sapevate che sarei tornato?!- era stata la prima volta, dall'inizio di quella discussione, in cui Matt era riuscito ad imprimere alla propria voce la sfumatura giusta, perché risuonasse piena di tutto quello che provava: rabbia, dolore, incredulità cieca. 
-Matt...
Esplose.
- “Matt” il cazzo, Alex! Cosa cazzo aspettavate a dirmi dei grandi piani che avevate?! Avrò avuto il Cristo di diritto di scegliere anche io?! Tu li hai fatti ammazzare!
-Sì, grandissimo idiota! per salvare te!
Erano entrambi in piedi, adesso, solo la scrivania a dividerli mentre si affrontavano faccia a faccia e Matthew poteva vedere, finalmente, le ombre scure sotto gli occhi di Alex, il suo pallore innaturale al di là del trucco e quella traccia salata di lacrime che cadono troppo spesso e troppo in fretta per poter essere cancellate del tutto.
-Ora, a meno che tu non voglia rendere vana la morte di Brian e Stefan, siediti ed ascolta.- scandì lei nuovamente monocorde, approfittando di quell'attimo di esitazione pietosa.
Sì. Decisamente sapeva come servirsi delle debolezze altrui.
 
Giorno e notte erano trascorsi immersi nei preparativi. Eliza lo aveva monopolizzato e Matthew l'aveva lasciata fare. Le sue ore erano scivolate via in un intorpidimento silenzioso che lei non aveva colto, così come non aveva percepito il vuoto dietro i suoi sorrisi o la distrazione nei suoi gesti. Matt faceva le cose con l'efficienza impersonale di un automa, rispondeva alle domande, organizzava, parlava e gestiva tutto senza essere presente a sé stesso nemmeno per sbaglio.
E mentre nella sua testa il messaggio alla fine del video della morte di Brian si ripeteva all'infinito, un'altra parte del suo cervello - troppo nascosta perché qualcuno a parte lui potesse averne cognizione - stava già elaborando un proprio piano, alternativo e parallelo a quello della Resistenza.
Non aveva dubbi sul perché qualcuno avrebbe dovuto prendersi la briga di fargli avere il dvd. Il Governo era attento a non lasciare in giro morti da piangere, Brian e Stefan erano spariti. Non era rimasto di loro che il ricordo di chi li aveva conosciuti. Alex e Steve avevano comunque fatto in modo da mettere in salvo la maggior parte di coloro che erano stati troppo vicini ai Placebo per continuare a vivere, ma nemmeno loro erano stati in grado di dare a Matthew almeno la consolazione di una tomba da ricoprire di insulti e di lacrime.
Quindi, il fatto che il video sbucasse così - una prova schiacciante di quello che il Governo faceva ai dissidenti, o presunti tali - poteva voler dire solo due cose. O un insospettabile favoreggiamento dell'opera della Resistenza da parte di qualcuno molto in alto nella scala gerarchica di quella nuova oligarchia tirannica.
O una trappola.
-Ehilà!
-Ehi, campione!
-Come va, Bells?
Matthew strinse la mano che Dom gli tendeva in un amichevole “cinque” e poi si voltò a sorridere a Chris. Loro tre assieme, così allo scoperto nel cuore di Victoria Station, erano come un bersaglio con su una scritta al led; bisognava muoversi in fretta e Matt non perse tempo, dirigendosi velocemente all'imboccatura della metro.
-Dì la verità, ti siamo mancati, eh?!- indagò intanto Dominic, sistemandosi il borsone sulla spalla e seguendolo altrettanto rapido.
-Assolutamente no!- protestò Matthew vivacemente.- Tu sei una piaga insopportabile e Chris mi consumerà a furia di fissarmi come se si aspettasse che vada in frantumi da un momento all'altro. Dovreste rilassarvi, ragazzi.
Dominic rise, assentendo implicitamente all'appunto dell'amico, ma Chris rimase abbastanza impassibile da dare a Matt la certezza che avrebbe continuato a studiarlo in attesa di vedere una crepa evidente nella sua apparente tranquillità. E di crepe ce n'erano in abbondanza. Bastava aspettare che ne affiorasse una alla superficie ed il gioco sarebbe stato fatto: Matthew sarebbe andato in pezzi sotto i loro sguardi impotenti, senza che ci fosse proprio più nulla che loro potessero rincollare.
-Symphony?- s'informò Dom, fingendo un disinteresse assolutamente fasullo.
Matthew ridacchiò:
-Dispiaciuto che non sia venuta lei a prenderti, Dommy?- interrogò malizioso.
-Un po’.- Il batterista lo guardò inarcando un sopracciglio.- Senza offesa, eh Bells!
-Nessuna offesa,- cinguettò Matt- lo so di non essere il tuo tipo!- scherzò.- Comunque, è tutta presa.
-Oh.- intervenne per la prima volta la voce di Chris. Aspettò che le porte del treno si chiudessero alle spalle di tutti e tre e proseguì in tono basso.- Abbiamo i particolari?
-Abbiamo tutto.- confermò brevemente Matthew. - E' fra due giorni. La manifestazione davanti all'Abbazia servirà da diversivo e noi dovremo essere lì. I gruppi armati irromperanno in piazza quando la polizia sarà impegnata contro i manifestanti.
-Dovremo essere lì?- ripeté Dominic con un accento che Matt faticò a decifrare completamente, così si limitò a fare un cenno con la testa. Dom abbassò lo sguardo con un sospiro stanco, lasciando cadere a terra il borsone come se non avesse più forza per reggerlo.- Allora ci siamo...
-Hai paura?- chiese Matt, meravigliato, realizzando quella cosa all'improvviso.
Un sorriso amaro tirò il viso dell'altro, che lo fissò di sbieco senza rispondere.
Matthew sentì un nodo serrargli la gola. Da quando quella storia era iniziata non aveva pensato a Dominic e Christopher nemmeno una volta. Non aveva mai riflettuto sul fatto che li stesse esponendo ai medesimi rischi a cui aveva scelto volontariamente di sottoporsi.
Quando aveva deciso di unirsi alla Resistenza aveva creduto di farlo da solo. Tutto quello che voleva era creare quanto più danno possibile a coloro che avevano ucciso Brian. Non poteva vendicarsi di un intero sistema - ed ai suoi occhi era proprio un Sistema ad essersi macchiato le mani del sangue di Brian - ma poteva urlare più forte di quanto mai avesse fatto e, per ogni singola voce che si sarebbe unita a quel grido, lui avrebbe ottenuto un pezzetto della propria vendetta.
Anche se avrebbe dovuto immaginare che né Dom né Chris lo avrebbero davvero lasciato solo ad affrontare tutto quello, aveva accolto le loro adesioni alla sua scelta senza battere ciglio ma con un vago stupore. Le ragioni per cui lo facevano gli erano assolutamente sconosciute e, nel proprio egoismo, non aveva voluto indagarle: se Matthew Bellamy poteva essere un capo per una rivoluzione, i Muse potevano essere un ariete di sfondamento nelle difese del sistema.
Adesso, per la prima volta, si rendeva davvero conto di cosa aveva chiesto loro.
Impulsivamente allungò una mano a stringere il braccio di Dominic, sentendolo tremare leggermente sotto le sue dita e cercando di trasmettergli un po’ del coraggio avventato ed inutile che provava dentro di sé.
-...ehi, Matt.- sentì sussurrare all'altro mentre gli alzava addosso uno sguardo appena più spavaldo, divincolandosi scherzosamente dalla sua stretta.- Piantala, o tutti ricominceranno a pensare a noi come ad una coppietta di fidanzatini!- lo rimproverò.
-Coglione.- commentò in uno sbuffo divertito Matt.
-Io l'ho pensato.- affermò Chris, incassando di rimando le occhiatacce di entrambi gli amici.
 
-Beh, adesso che sei ufficialmente gay anche tu…
-…io non sono gay.
-Questa è la cosa più stupida che abbia mai sentito in vita mia, Bellamy.
-Non è che perché vengo a letto con te, allora sono inevitabilmente gay!
-…ti prego…non dirmi che sei gay e pure omofobo.
La discussione era nata per caso, si erano fermati davanti alla vetrina di un’agenzia di viaggi. A nessuno dei due, in realtà, interessava davvero lasciare Londra - facevano un lavoro che li portava a stare lontani da casa e dentro un albergo per fin troppo tempo delle loro esistenze - quello che mancava sul serio ad entrambi era la possibilità di condividere con l’altro i momenti ed i luoghi. Per questo, davanti ai nomi delle località più o meno esotiche appesi dietro al vetro, avevano cominciato ad elencarsi l’un l’altro tutte le valide ragioni per scegliere uno specifico posto come meta turistica.
Matt avrebbe voluto portare Brian in Italia, a vedere i monumenti di Firenze o semplicemente a passeggiare sulle rive del Lago di Como. Brian aveva riso del suo entusiasmo e tirato fuori, in tono canzonatorio, quella storia sulle “città gay” e le “città etero”. Quando Matthew aveva protestato che discutere di sessualità di un luogo era ridicolo, Brian aveva cominciato a parlare di Madrid con uno sguardo deliziato, portandola ad esempio di come una città potesse avere una sessualità ben definita. A Matt la Spagna era sempre stata piuttosto indifferente e Brian sembrava non poter accettare la cosa, mentre riprendevano a camminare lungo le vie del centro se n’era uscito con quella cosa che la prossima loro vacanza sarebbe dovuta essere per forza in Spagna.
-Perché adesso che sei ufficialmente gay…
Da lì era stata una discesa di inevitabili battibecchi senza futuro: ad entrambi piaceva, semplicemente, punzecchiare l’altro sugli stessi punti che erano una forza ed una debolezza.
Era successo un secolo prima che il Mondo crollasse nel caos.
La risatina di Eliza distolse Matt dalle proprie riflessioni. Era bassa ed attutita, appena arrochita dalla troppa birra; Eliza doveva già essere abbastanza alticcia a giudicare dalle guance rosse e dallo sguardo brillante che rivolgeva a Dominic, appoggiato contro lo stesso tavolo che la ragazza aveva eletto a proprio trono. Il vestito troppo corto le scopriva le gambe incrociate quasi fino alle cosce e, se non fosse stato per la felpa enorme - …di Chris? – che portava addosso, Matt era quasi sicuro che lo scollo dell’abitino avrebbe sortito effetti insperati sull’umore del suo migliore amico.
Forse il rossore non era dovuto all’alcool, comunque.
Dom aveva passato gli ultimi due giorni in una corte serrata alla ragazza. Probabilmente dipendeva anche dalla voglia di esorcizzare quel momento - che inevitabilmente era arrivato – ed accettare che l’indomani sarebbero andati incontro ad una sorte imprevedibile, i cui toni avevano tinte buie quasi quanto la musica di Matthew.
In fondo era così che si sentivano tutti e tre: intrappolati nelle scale contorte di una canzone con troppe variazioni, una sinfonia di accordi foschi che trascinava troppo in basso e troppo in alto e mai lungo la direttrice sicura dello stesso giro ripetuto all’infinito.
Le canzoni di Brian erano costruite attorno ad un unico giro di basso. Sicuro, monotono, accompagnato dalla voce roca e nasale che scandiva il suono di un’anima in pace con quel coacervo mutevole che sono le emozioni ed i sentimenti di un uomo. Disturbato solo dall’ossessione distorta di una chitarra dal suono elettrico, un impulso che richiamava ad una realtà di frustrazione e silenzio caotico.
-Pensavo…considerato che domani potremmo non essere più qui…stasera dovremmo concederci tutto quello che avremmo sempre voluto.
Il tono di Dom, con tutta la propria malizia di sempre, suonava vergato appena dalla stonatura di una paura riflessa, inchiodata in un angolo scuro della mente e lasciata lì per trovare il fiato e la forza di continuare a vivere. Ogni secondo.
Gli occhi di Eliza ebbero un guizzo di luminosità più intenso, un barbaglio di azzurro che faceva tenerezza.
-…non posso credere che tu ti stia giocando la carta “ultima notte sulla Terra”.
Mancanza di voce. Mancanza di parole. Incapacità di esprimersi, di farsi capire dagli altri. Restare in silenzio poteva pesare sulla coscienza come un macigno e schiacciarti nel fango senza nessun diritto di “essere ancora”.
Dom si nascose nella bottiglia che reggeva tra le mani, una delle poche volte in cui, esposto e scoperto, poteva sentirsi ancora in imbarazzo.
-Nah.- sbuffò, fingendo un disinvolto disinteresse, che fruttò l’allargarsi del sorriso scettico di Eliza. Dominic la fissò di sottecchi, incrociando lo sguardo di lei, fisso a cogliere le variazioni della sua espressione.- …ma se lo stessi facendo…funzionerebbe?- interrogò a mezza voce.
Eliza scoppiò a ridere senza rispondere, ma nel modo distratto in cui si lasciò ricadere sulla sua spalla, aggrappata alle braccia di un Dominic che rispose alla sua risata con la propria, s’intuiva già il senso di quella risposta.
Per questo dovevano farlo. Uccidere ed uccidere sé stessi, per il diritto di qualcun altro di essere sé stesso al posto loro.
“Avrei dovuto capirlo, Brian”.
L’ingresso di Chris nella stanza segnò il punto estremo dei pensieri di Matthew. L’amico gettò uno sguardo circolare alla stanza e, visti i due “piccioncini”, scelse di sederglisi di fianco costringendolo a voltare la testa per prendere atto della sua presenza e rivolgergli la propria attenzione.
-Hai parlato con Kelly?
-Lei ed i bambini sono pronti a lasciare il Paese con tua madre domani stesso.- rispose Chris.
Matt si limitò ad annuire, non era sicuro di poter aggiungere qualcosa che suonasse confortante e, al di là di tutto, Christopher era l’unico di loro a stare ancora rischiando qualcosa. Matt e Dominic, semplicemente, avevano da perdere solo le proprie illusioni.
-Forse è il caso di andare a dormire.- fu il consiglio saggio che venne subito dopo quel silenzio, strappando un sorriso a Matt che rifletté su quanto fosse assurdo che proprio l’altro dovesse mostrarsi ancora il più serio e posato di tutti loro.- Domani sarà una giornata faticosa.
-Sì. Ci stavo pensando.- affermò Matt distrattamente, senza specificare “a cosa”.- E poi sono un po’ stufo di questo film.- aggiunse indicando Dominic ed Eliza.
Chris rise.
 
Nel corridoio sentiva ridere Eliza e Dominic parlarle a voce bassa, sensuale, sussurrandole qualcosa che il muro si portava via inevitabilmente.
Matt controllò la pistola per l’ennesima volta, si assicurò che fosse carica e che la sicura fosse inserita. Poi la rimise sul tavolo.
Recuperò il quaderno dalla tasca posteriore dei jeans. A starsene lì dentro – al sicuro e nascosto – per quasi quattro giorni si era tutto spiegazzato e rovinato ma la pagina su cui aveva appuntato le coordinate del proprio appuntamento al buio era intatta. Rilesse l’indirizzo.
Con un sospiro chiuse il quaderno e lo posò di fianco alla pistola.
I passi di Dom ed Eliza si allontanavano, rumore di una porta che viene chiusa e poi niente.
Matthew si stese sul letto, sollevando le braccia sulla testa e fissando il soffitto.
Ora doveva solo aspettare che tutti dormissero.
 
Nota di fine capitolo:
 
Prima di ogni altra considerazione, voglio consigliare a tutti di andare a leggere la “sorella” di questa storia: “Killjoys make some noise!” di Erisachan.
Perché lì c’è Eliza. E tanto, penso, basta!
 
Bentornati a questa seconda e penultima puntata della nostra storia.
…uhm…molto professional…
Dicevamo! Sono così contenta dell’accoglienza che avete avuto per “Anno Zero”! Ringrazio anche qui tutte quelle adorabili donne che mi hanno lasciato il loro commento e ringrazio, chiaramente, anche tutti coloro che hanno solo letto questa storia!
Ammetto che, dopo averla scritta, io per prima avevo smesso di crederci. Matthew Bellamy è un personaggio che gestisco con immense difficoltà – anche se mi piace un sacco – e questa storia è parecchio diversa da tutto ciò che ho scritto finora.
Però è stato divertente.
Grazie ancora e buon divertimento!
MEM

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Capitolo 3
*** Anno Zero.3 ***


-Promettimi che lo porteremo con noi!
-Certo. E poi ci avvolgeremo dentro il corpo di qualche ferito per usarlo come barella improvvisata. Matt, andiamo a fare la guerra, non ad un festival rock!
-Ma potremmo appenderlo alla porta dell’Abbazia e…
-Matt, non porteremo con noi il tuo dannato striscione.
-…sei una stronza, Sym.
 
“E poi la pioggia scioglierà ogni cosa…”
 
-Se questa dovesse essere la fine del mondo?
Aveva riso. I capelli di Brian gli facevano il solletico contro il braccio, Matt aveva abbassato d’istinto una mano a carezzarli distrattamente e non gli sarebbe sembrato eccessivamente strano sentire l’altro fare le fusa.
-Sono cose più adatte a me, da dire, che a te!
L’osservazione non era piaciuta a Brian. Aveva storto il naso e Matthew gli aveva letto negli occhi, ora sollevati ad incontrare il suo sguardo, che quella domanda era molto più seria di quanto avesse voluto credere.
-Io ci penso a come morirò, Matthew, come tutti.
Chiedersi se fosse stato profetico o se, più facilmente, già allora avesse previsto l’evolversi di una situazione che stava cambiando troppo in fretta era inutile allo stato dei fatti. Che Brian avesse immaginato o meno il modo in cui se ne sarebbe andato, c’era di certo che era stato lui a programmarlo. Avere qualcosa – qualcuno – da incolpare che non fosse lui o Alex, sebbene mero strumento, era consolante e Matthew preferiva aggrapparsi a quel pensiero con tutte le proprie energie mentre camminava lento per le strade bagnate dalla pioggia del coprifuoco.
Notte inoltrata, quasi l’alba, passeggiare per Londra a quell’ora significava aspettare solo di essere arrestati dalla polizia, uccisi da qualche balordo o etichettati come membri della Resistenza ed ammazzati a vista dai cani sciolti del Governo. L’unica cosa che lo impensieriva era la prospettiva che, in quel caso, non sarebbe riuscito ad arrivare al luogo dell’appuntamento.
Aveva tradito tutto per riuscirci. Aveva abbandonato una causa che non gli era mai veramente appartenuta; aveva lasciato gli amici di sempre, quelli coinvolti per forza in una battaglia non loro, a morire da soli; aveva rinnegato sé stesso, la propria musica, i propri ideali. Tutto quello che voleva, nel fuggire come un ladro dallo stesso rifugio che lo aveva ospitato per un anno e mezzo, era cancellare in un’alba personale, l’alba di rivolta e martirio che tutti i suoi compagni avrebbero combattuto.
L’immagine scolorita dell’edificio, scuro contro un cielo plumbeo, e scheletrico con le sue finestre rotte ed i pilastri scarnificati di cemento, fu accolta come una benedizione. Matthew premette con noncuranza la mano contro il fianco del cappotto, avvertendo nella tasca la consistenza rassicurante della pistola, poi allungò il passo e sparì sotto il primo porticato.
 
Ogni singolo abitante di questa città, che come noi voglia far sentire la propria voce a chi ci governa senza essere stato eletto e ci soffoca senza averne il diritto, dovrà accendere questa Radio!
Nelle strade di Londra si rincorrevano il battere ritmico delle suole di gomma contro l’asfalto e il ticchettio basso della pioggia acida.
Ogni singolo individuo di questa città, che voglia unire la propria voce alla nostra, dovrà alzare il volume!
La voce di Urban Symphony si infrangeva e rifrangeva contro i muri e le finestre. Non importava contare quante di quelle fossero state aperte, per ogni varco tra Londra ed i suoi abitanti una radio accesa trasmetteva lo stesso messaggio.
Ogni singola persona di questa città, che voglia ricominciare a definirsi tale, dovrà scendere in piazza adesso e tornare ad essere libera! Qualunque sia il prezzo da pagare!
Le note si riversarono fuori dalle finestre.
Ed i passi divennero corsa.
 
L’uomo aveva il viso scavato, la pelle si tendeva sulle guance e sugli zigomi e rughe profonde segnavano la fronte. Gli occhi erano l’unico accenno di vita in un’espressione incolore, due punti neri, due buchi. Che si fissavano contro i suoi con forza.
-E così sei venuto.- Esordio banale…- Matthew James Bellamy.
Ma si poteva anche fare di peggio.
Avanzò fino a trovarsi sotto una delle finestre. Un chiarore pallido scendeva dai profili dei palazzi intorno e scivolava attraverso le crepe nei muri. Matt si fermò alla luce, così che l’altro potesse osservarlo come lui stava già facendo.
-Io però non ho un nome da darti.- osservò stringato.
Fu il primo a stupirsi, piacevolmente, di come la propria voce fosse suonata controllata e calma.
-Né ti interessa darmene uno.- concluse per lui l'uomo.
Il modo sicuro con cui si muoveva, senza badare a lui, certo di non doversi aspettare nessun pericolo, bastava da solo a fargli sentire un gelo freddo lungo la spina dorsale. Non era certo di come sarebbe andata a finire ed anche nella sua testa - dove tutto avrebbe dovuto essere chiaro, almeno nelle aspettative - le cose si accavallavano in una confusione eccessiva, lasciandolo preda di così tante sensazioni tutte assieme che era inutile anche provare a districarcisi.
Il punto, si disse pigramente, era “salvare perlomeno le apparenze”.
Per questo rimase immobile. L'uomo gli si avvicinò lentamente, dandogli tutto il tempo di reagire e senza neppure guardarlo in viso mentre lo faceva e parlava.
-Sapevo che lo avresti fatto. Non poteva essere diversamente del resto, tu vuoi vendicarti.
-E tu vuoi uccidermi.
-Oh! niente di tanto banale.- confessò l'altro, con un sorriso a mezzo ed uno sguardo sbilenco. Si fermò, tra loro, adesso, c'erano meno di due metri, potevano parlarsi senza alzare la voce ma il vuoto attorno riempiva comunque di echi il cielo di Londra, grigio attraverso le fessure del palazzo.- A te piace Orwell, non è vero?- Non aspettò una risposta che sapevano entrambi non sarebbe arrivata. L'uomo continuò, mani basse e visibili, lontane dalle tasche del giaccone lungo, di pelle, che portava sul completo scuro. Era anacronistico, assurdo...orwelliano, appunto - Allora non ti sarà difficile capire quello che sto per dirti. Perché vedi, non sono gli uomini - esordì sollevando un dito e scandendo con quello l'enfasi del proprio monologo. Si concesse perfino una pausa ad effetto! - a fare la storia.- concluse - Sono le idee a cambiare il mondo.- sentenziò - Gli uomini nascono, crescono e muoiono; ma le idee nascono, infettano tutto e si propagano. E poi piegano la realtà al proprio dictat e diventano legge prima ancora che tu abbia potuto assimilarle completamente.
Davanti al mutismo che ricadde immobile in mezzo a loro, l'uomo si accordò il lusso di squadrarlo. Uno sguardo breve ma la cui intensità bastò a bruciargli la pelle di una sensazione sgradevole di marciume. Dovette frenare l'istinto di pulirsi il risvolto del cappotto e rimase invece fermo, schiacciando la mano contro il calcio della pistola in fondo alla tasca.
-E' per questo che io non voglio ucciderti.- riprese l'uomo, paziente come se stesse discutendo con un bambino.- Creerei solo un altro martire da aggiungere ad una lista fin troppo lunga e destinata a diventarlo ancora di più, e lascerei alle tue idee il tempo di cementarsi nelle coscienze collettive con la forza di una lapide a sigillarne l'eternità. Matthew James Bellamy, la voce della Resistenza!- proclamò accompagnando quel titolo con un gesto teatrale di presentazione.- No, da morto vali troppo.- sfiatò.
-Allora cosa vuoi?
Lui lo guardò, lo soppesò con gli occhi, valutando l'ammasso di ossa e pelle che era sempre stato.
-Cambiare il mondo.- rispose come se fosse ovvio, inarcando le sopracciglia in un accenno di stupore educato.
Riprese a passeggiare in modo lento ed ostentato, sembrava farlo apposta ad offrirgli la schiena nuda e forse era proprio quella consapevolezza ad impedire a Matthew di fare ciò per cui era lì. Lo seguì con lo sguardo mentre gli girava attorno in un cerchio simile a quello di una fiera, eppure era lui ad essere “armato” al momento...
-E tu, Bellamy? Non sei qui per distruggerci o non saresti venuto. No, tu sei qui per la tua personalissima vendetta – ribadì asciutto - e vedi, è proprio questo che intendevo: non sono le persone, sono le idee.
-Le mie idee le conoscete.
-Le tue idee sono bugie.- Poche sillabe a formare la sua condanna. Matthew pensò a come dovevano essersi sentiti Dominic e Chris, quella mattina, nello scoprire che era scomparso e che aveva lasciato loro solo due frasi stringate di scuse con cui mandarli al macello.- Niente di quello che la Resistenza proclama ti appartiene.
-Secondo me abbiamo parlato anche troppo.- sibilò Matt estraendo l'arma dalla tasca del cappotto.
Fu un secondo e nient'altro, una mano che si abbatteva contro il suo polso, l'arma volò via dalle dita ed uno sparo riecheggiò nell'aria sfondandogli lo stomaco con la forza di quel suono.
 
Nel grigio sfumato di mille toni con cui Londra copriva le proprie strade, Eliza aveva il colore di una morte caritatevole.
In piazza una folla chiassosa di manifestanti reggeva striscioni contro le cariche della polizia, alle loro spalle, da tutte le strade di accesso, un fiume in piena di individui sciamava con le intenzioni più disparate seguendo il flusso di una musica ossessiva e cattiva.
Eliza si fermò all'imboccatura della strada e guardò avanti. Un sorriso le illuminò il viso di una gioia primordiale e violenta, sollevò la canna della pistola sopra la testa e la puntò.
-The war is overdue.- recitò.
 
Matt si ritrovò a boccheggiare, piegato sulle ginocchia, prendendo fiato contro il pavimento sudicio. Il calcio non lo aveva neppure visto arrivare, l'uomo si era mosso con l'efficienza di un militare ben addestrato, centrandolo in pieno stomaco come un proiettile.
-Pensavi davvero che sarebbe stato così facile? - chiese con gentilezza adesso.- Andiamo! cosa sei tu, Bellamy? Un ex teppistello, un mollaccione troppo ricco cresciuto nella bambagia, una patetica imitazione di rivoluzionario a buon mercato?!- elencò asciutto. Matthew sollevò lo sguardo ad incontrare il suo.- La verità è che non sei proprio niente.- scandì breve l'uomo- Hai cessato di esistere il giorno stesso in cui Brian Molko ha cessato di respirare.
-L'ho pensato anche io.- sussurrò di rimando, sollevandosi lentamente per raddrizzarsi sulla schiena e poi sulle gambe instabili. Si sentiva senza forze, arrivare fin lì era stato già dare tutto quello che possedeva e non sapeva quanto di lui rimanesse per completare ciò che si era ripromesso - Quando ho saputo, sentito davvero che Brian aveva smesso di esistere, di respirare, come hai detto tu. L'ho pensato anche io. Mi sono chiesto perché io, invece, stessi ancora respirando, perché mi stessi muovendo quando non avevo un obiettivo da far raggiungere alle mie gambe. Senza Brian non avevo un cazzo di niente, eppure continuavo a muovermi, una parola dopo l'altra, seguendo le note di una canzone che non mi andava neppure di ascoltare. Ma ora sono qui, probabilmente Brian mi darebbe del coglione, non si è fatto ammazzare perché io potessi sanare le mie ferite nel sangue di una vendetta che forse non riuscirò neppure ad ottenere. Eppure, esattamente come Brian che è morto per quello che credeva giusto, allo stesso modo io sono qui ora, davanti all'uomo che l'ha ucciso, come qualcuno che non ha più niente da perdere, come il più pericoloso dei coglioni.
-…pericoloso?
Un rumore sordo, il suono di dieci…cento…mille…passi tutti uguali e tutti fatti nello stesso istante. Matthew non ebbe bisogno di voltarsi per sapere di essere circondato. Le sicure delle armi scattarono tutte assieme con una precisione che aveva dell’incredibile.
-Tu non ha neppure idea di cosa voglia dire “pericoloso”.- lo derise l’uomo.
-Forse no,- concesse Matt con un sorriso stanco – ma ora sei tu ad illuderti se credi che sarà così facile.
 
Nella confusione Eliza volteggiava come una farfalla, i suoi colori dissipavano la folla in una marea uniforme di grigio e sangue e lei diventava l’unica cosa concreta su cui fermare lo sguardo.
Fu per questo che Dominic guardò verso di lei. E poi si voltò attorno, prendendosi il tempo di una pausa che sapeva di irrealtà nel furore che imperversava attorno a loro.
Matthew li aveva abbandonati.
Chris era scomparso.
Eliza era lontana.
Vide uomini in divisa nera fare irruzione nella piazza, percorsero le medesime strade che loro avevano percorso, bloccandogli qualsiasi via di fuga da quel campo di battaglia. Westminster sembrava così distante da essere irraggiungibile e la realtà stava reclamando il proprio pagamento.
 
Matthew gli si scagliò contro. Stavolta fu l’uomo a non prevedere quella mossa, semplicemente credendo che si sarebbe limitato a farsi ammazzare, si tirò indietro troppo lentamente ed il pugno dell’altro lo colpì alla mascella, stordendolo a sufficienza perché Matt potesse superarlo di un balzo, recuperare la pistola e dileguarsi verso le scale che portavano ai piani superiori.
-Non sparate!- sentì urlare mentre attaccava la prima rampa, sentendo già il fiato pesante per la paura e l’adrenalina in corpo.- Mi serve vivo, quel bastardo! Prendetelo!
Irruppe in un salone enorme, finestre a tutta parete, ingabbiate da intelaiature di ferro arrugginito e corroso dall’acido, inondavano lo spazio di luce mentre l’alba esplodeva all’orizzonte e la pioggia cessava di scolare dai tetti. Per un istante, in cui riuscì a cancellare perfino l’eco dei passi in corsa dei suoi inseguitori, Matthew pensò che quello doveva essere il paradiso. Uno spazio senza confini si apriva attorno a lui, vuoto e riecheggiante di luce e di calore, al centro del pavimento spoglio ricoperto di calcinacci, proprio davanti alla finestra, un pianoforte a coda sembrava essere stato lasciato lì apposta ad aspettarlo. Aveva una linea impossibile, come un’astronave atterrata sulla Terra in tempi immemori e dimenticata da alieni che avevano preso sembianze umane e scelto una mortalità terrena. La laccatura nera, incredibilmente intatta nonostante il tempo e l’incuria, era talmente lucida da sembrare plastica su cui si aprisse un cuore rosso, pompante e vivo, le corde che si tendevano sembravano altrettante vene o nervi pronti al balzo ed il piede di metallo era massiccio e saldo.
Non si accorse nemmeno di essersi mosso verso quell’oggetto, spinto da qualcosa di talmente irrazionale da trascendere del tutto il terrore, la rabbia e la violenza di quel momento. Quando sentì i passi alle proprie spalle arrestarsi in uno scalpiccio disomogeneo, tornò alla realtà con uno scossone doloroso che lo indusse a voltarsi di scatto e serrare le dita attorno all’arma, di nuovo consapevole di sé e degli altri. Puntò la pistola al viso dell’uomo nello stesso momento in cui lui faceva altrettanto.
La presenza silenziosa del pianoforte era così reale che Matt si voltò a sincerarsi che fosse immobile come lo aveva lasciato perché in quel momento, lì dentro, aveva la convinzione che potesse prendere vita e decidere liberamente.
Il suo passo verso il Paradiso.
L’uomo se ne accorse.
-Sei sciocco, Bellamy!- sfiatò, rancoroso. Per Matt fu una vittoria già apprendere di essere riuscito ad incrinare quella patina di perfetto controllo che l’altro aveva sfoggiato fino a quel momento.- Dovresti quantomeno ascoltare quello che ti sto offrendo!
-Tu mi staresti offrendo qualcosa?!- sbuffò Matthew con un mezzo sorriso, divertito e disperato assieme.
-Certo! In fin dei conti, potresti tornare a suonare.- affermò l’uomo, riacquistando forza e vigore man mano che parlava.- Non è sempre stata quella l’unica cosa importante? Niente più mezzucci ed inganni, ma musica vera. Potresti fare tutto quello che hai sempre voluto e farlo alla luce del giorno. Ricominceresti a vivere…Tutto quello che ti chiediamo in cambio è un compromesso.
Quella parola gli rimbalzò addosso come un insulto, già a pelle avvertiva quanto fosse sbagliata.
-…che diavolo stai dicendo…?- sussurrò strozzato, rinserrando ancora di più la stretta attorno alla pistola.
-Non vogliamo nemmeno che tu rinneghi del tutto la tua decisione di contestare il sistema, ma solo che tu lo faccia ponderando meglio le tue scelte.- spiegò l’altro, variando ancora la voce in una ragionevolezza insinuante.- Una contestazione mirata, calibrata ed efficace, una valvola di sfogo per ragazzini che non sono ancora in grado di valutare da sé e necessitano di un indirizzo di pensiero. Mi sembra un buon compromesso… Ed in cambio, potresti permettere che questa giornata di massacro si concluda con un bilancio migliore.
L’arma nella mano di Matthew tremò.
-Credevi davvero che non lo sapessimo?- indagò l’uomo, fingendosi sorpreso - Sono mesi che conosciamo con esattezza ciò che si è preparata a fare la Resistenza, aspettiamo pazientemente che veniate allo scoperto…abbiamo pianificato tutto.- affermò stringato- Però tu potresti evitare un mucchio di morti inutili. I tuoi amici non ci interessano, Matthew, vivi o morti non fanno differenza per noi.- Lasciò il tempo che quelle parole scivolassero a colmare la distanza che li separava, poi affondò con precisione chirurgica.- Davvero non vuoi che Dom e Chris si salvino? Lasceremo liberi voi e tutte le vostre famiglie, Kelly, i suoi figli…pensaci. Sarebbe stato questo che Brian avrebbe voluto ottenere con la propria morte.
Sapeva anche questo! Matt sentì le braccia cedere, sollevò l’arma prima che ricadesse inerte contro il fianco, lasciando che lo stupore attonito che lo pervadeva trasparisse nel suo sguardo smarrito. All’improvviso non era così importante restare saldi.
L’uomo sorrise davanti a lui. Appariva quasi paterno nel farlo, mosse due passi in avanti e non sembrava così minaccioso come era stato all’inizio. Matt voltò lo sguardo al pianoforte. Era ancora lì, silenzioso, e lui pensò che avrebbe tanto voluto avere il tempo per sfiorarne i tasti, prendersi la briga di scoprire se anche la sua voce era aliena, straniera, e parlava di galassie lontane altri mondi. Ed altre vite.
Quando tornò a voltarsi verso l’uomo, puntò nuovamente la pistola davanti a sé.
-Non so cosa Brian volesse. Non ha avuto la decenza di dirmelo.- ritorse incolore.
-…non essere stupido!- sibilò l’uomo bloccandosi di colpo.- Se anche mi uccidi, non uscirai di qui se non trascinato in catene!- osservò accennando agli uomini disposti dietro di loro.
Matthew si strinse nelle spalle.
-Però tu sarai morto.- ribatté.
La risata educata dell’uomo era il suono più sinistro che potesse riempire una mattina così bella…
-Te l’ho già spiegato, Bellamy, non sono gli uomini. Sono le idee.
“…è vero, Matthew. Tutto quello che possono farti, è ucciderti”.
Si voltò ancora verso il pianoforte.
Un sorriso sbilenco ma sincero gli tirò il volto e tutta quella pesantezza opprimente che sentiva al petto si dissipò con la luce di un’alba incredibile. Pensò che perfino la pioggia acida poteva avere un suo profumo e che questo potesse essere bellissimo, ché l’odore di umido e di terra che saliva tutto intorno era il sottofondo più piacevole di una musica che suonava solo nella sua testa. Il pianoforte non era affatto silenzioso. Il suo cuore di corde e nervi pompava aria e la trasformava in note e non c’era alcun bisogno di sfiorare i tasti per sentire la voce di altri mondi provenire dal fondo dell’anima.
-Hai ragione. Winston c’è arrivato troppo tardi.- ridacchiò.
Quando sollevò lo sguardo ritrovò l’espressione dell’uomo, perplessa, che lo studiava con un’attenzione nuova. Lasciò cadere a terra l’arma e lo vide rilassarsi, abbassando la propria e sorridendo apertamente in risposta al suo sorriso.
Peccato che non avesse capito affatto.
Il pianoforte era più leggero di quello che pensava, rotolò sulle proprie ruote acquistando velocità in una confusione crescente di grida, rumore metallico e scricchiolii di legno e corde. Nell’impatto contro la finestra un fiume straripante di accordi aritmici pervase l’aria coprendo ogni cosa in un frastuono che gli sembrò la musica più bella mai ascoltata. Quello strumento aveva la voce limpida di un angelo di metallo.
-Non sparate, idioti!
Matthew non si voltò. Corse dietro la scia del pianoforte, nella stessa corsa che avrebbe fatto su una scala immaginaria di note. La finestra si spalancò davanti a lui mentre il pianoforte si schiantava al suolo, quattro piani più in basso, trasformandosi in una pioggia di schegge di legno.
Il rimbombo fuori tempo della voce dell’uomo gli fece storcere il naso…
-Sei un pazzo, Bellamy, hai condannato tutti loro!
…odiava le disarmonie.
“E’ strano, Matthew, sai che io le amo, invece.”
“Tu ed io non facciamo la stessa musica, Brian. Fortunatamente.”
Il suolo si portò via anche quel pensiero.
 
Si svegliò di soprassalto.
Un sudore gelato gli ghiacciava la schiena, il fiato corto ed affannato. Tirò un respiro profondo, portandosi la mano all’altezza del petto per sentire il cuore battere impazzito sotto le dita, artigliò la maglia fino a sformarla e staccarla a forza dalla pelle sudata. Era vivo.
Lentamente la sua coscienza prese atto dello spazio che lo circondava. La stanza era in penombra ma i mobili di legno chiaro gli erano familiari ed era steso su un letto che conosceva, avvolto in un profumo che non avrebbe potuto scordare nemmeno in un milione di anni. Dalla porta aperta proveniva la luce di una giornata chiara ed il rumore di sottofondo, attutito e quasi impalpabile, di un televisore acceso.
Un tonfo leggero alla sua sinistra lo fece trasalire. Matthew si voltò di scatto, intuendo la figura scura che si avvicinava attraverso il materasso. Per poco non si mise ad urlare.
-…Aristotele.- sfiatò.
Il grosso gatto tigrato miagolò basso in risposta, zampettando verso di lui in un ronfare morbido e rilassante. Matt chiuse gli occhi e lasciò che l’animale lo raggiungesse e gli si strusciasse contro il braccio in cerca di una carezza.
-Non sono mai stato così felice di vederti, bestiaccia.- mormorò acconsentendo a carezzargli il testone e grattargli dietro le orecchie.
Il gatto miagolò ancora. Matt scostò di lato le coperte e mise i piedi a terra, osservando distrattamente Aristotele sedersi al suo posto e prendere a pulirsi il muso scrupolosamente. Quando Matthew si diresse alla porta, il gatto gli andò dietro con un altro balzo sordo ed elegante.
Come aveva intuito, un mattino soleggiato lo accolse con entusiasmo mentre attraversava il corridoio; le finestre gigantesche, a pannelli, lasciavano piovere dentro il mondo intero e mai come quel giorno Matt si sentì grato di una simile scelta architettonica. La cucina era in fondo al corridoio, attraversò la soglia ed il profumo del the lo investì. Era a casa.
Si fermò all’ingresso. Certo che l’altro, che gli dava le spalle e guardava assorto lo schermo della TV appesa sulla parete opposta, non lo avesse nemmeno sentito arrivare. Voleva prendersi il tempo necessario a realizzare che era stato solo un sogno e che non sarebbe successo davvero. Voleva prendersi tutto il tempo necessario per ricominciare a vivere.
Aristotele miagolò insoddisfatto, trotterellando fin sotto la sedia di Brian e puntandogli addosso uno sguardo pretenzioso non appena lo ebbe raggiunto. Il bruno si chinò a fissarlo con espressione perplessa, realizzando la sua presenza con uno sbuffo.
-E tu che ci fai qui? – lo interrogò- La tua padrona ha di nuovo lasciato aperta la porta dell’abbaino, eh?
Per tutta risposta, il gatto miagolò e si sedette in attesa.
-…immagino che tu voglia mangiare.- realizzò Brian, inarcando un sopracciglio in un’espressione così buffa che Matt non poté evitarsi di ridere.
Così lui si voltò.
-Buongiorno anche a te!- commentò quando si rese conto che Matthew doveva starlo spiando già da un po’.
Prima che Brian capisse anche cosa stava succedendo se lo ritrovò addosso, che lo stringeva freneticamente e sembrava volerlo divorare in un solo bacio. Ricambiò impacciato, spingendolo via quando quasi soffocò.
-Che diavolo ti prende?!- indagò, prendendo fiato in modo esagerato.
Matt non lo lasciava, entrambi si strattonavano per la maglietta, l’uno nel tentativo di trascinarsi addosso l’altro, che si difendeva strenuamente in una lotta scherzosa che fece ridere Matthew.
-Sono felice di vederti!- esclamò allegramente.
-Oh, sì, questo è chiaro. Ma siccome è solo da sei ore che non ci vediamo…
-Ho fatto un brutto sogno.- confessò Matt, liberandolo.
Brian fece altrettanto, fissandolo poi con aria interrogativa mentre Matt girava attorno al tavolo in direzione della cucina.
-Il the è nel bollitore.- lo direzionò – Che sogno?
Matt recuperò una tazza da sopra il lavello ed il bollitore dalla cucina, appoggiandosi al mobile mentre si versava da bere.
-Tu morivi.- affermò stringato.
Brian sbuffò per nulla impensierito.
-Non è nei programmi, al momento.- ritorse sarcastico.
-Invece, eri proprio tu a programmarlo.
-Cielo! e perché accidenti avrei dovuto fare una cosa così stupida?!
-Per salvare me.
Gli si sedette davanti, dall’altro lato del tavolo, e Brian lo osservò prendere una sorsata dalla tazza.
-Ma morire per salvarti non avrebbe senso,- sdrammatizzò – tu non puoi vivere senza di me!
Matthew ridacchiò.
-Infatti.- ammise semplicemente.- Vedi di ricordartelo la prossima volta.
Brian liquidò la cosa come una sciocchezza, agitando la mano a scrollarla lontana da entrambi, e sollevò di nuovo il viso verso lo schermo.
Matt lanciò all’apparecchio un’occhiata distratta e tornò a sorseggiare il the.
-Dicono qualcosa di interessante?
-Mh. Pare che ci siano stati un altro paio di attentati stanotte.- raccontò Brian giocherellando con la propria tazza sul ripiano di legno – Stanno discutendo l’ipotesi di varare delle leggi di protezione nazionale. Una cosa tipo “pugno di ferro per fare fronte all’emergenza”. Non penso che ne verrà fuori niente di buono.
Quando Matthew posò la tazza sul tavolo, questo produsse un’unica nota, un suono caldo. Rassicurante.
 
“Anno Zero”
MEM 2010
 
Nota di fine capitolo della Nai:
 
Terzo ed ultimo capitolo.
Ed io vorrei riempirvi di parole - sul serio - per dirvi quanto vi ringrazio per il calore stupendo con cui avete accolto questa storia. Perchè onestamente non me lo aspettavo e mi sembrava, tanto per cambiare, una delle mie solite elucubrazioni prive di senso.
Ed invece, vedere l'affetto che le avete rivolto e la profondità con cui avete commentato i suoi passaggi...beh, sì, mi ha fatto un piacere tale che meriterebbe davvero un milione di parole per dirvi «grazie».
 
Ma dovrete perdonarmi, stasera, perchè non ce le ho proprio un milione di parole.
Non ce le ho per nessuno. Ma ho solo uno stupido cuoricino che batte, tutto rotto. E le ragioni sono stupide, tranquilli, niente che non si riaggiusti da sè ma solo un pò di fatica, graffi ed ammaccature in più.
Quindi scusatemi, ma fingiamo che vi abbia detto un milione di volte grazie. Perchè è solo merito vostro ed è tutta vostra.
MEM

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