Anno Zero di nainai (/viewuser.php?uid=11830)
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Anno Zero.1 ***
Capitolo 2: *** Anno Zero.2 ***
Capitolo 3: *** Anno Zero.3 ***
Capitolo 1 *** Anno Zero.1 ***
Attenzione: Il seguente scritto ha come protagonisti
persone vere e personaggi inventati. Le vicende narrate sono puro
frutto della
fantasia dell'autrice. Non c'è alcuna pretesa di
veridicità o verosimiglianza.
Nessun intento offensivo, nessun diritto legalmente tutelato s'intende
leso e
tutti i diritti riservati spettano ai rispettivi titolari.
Scritta per il «Dodici Mesi
di Fedeltà»
contest
Anno
Zero
“Tutto si apre con un temporale. Ma
non un
temporale qualsiasi! Deve essere come se il mondo intero si stesse
sciogliendo
dentro il cielo...”
Non è
che facesse ancora fatica a
crederci.
Non dopo tutto quel tempo, quando il dolore era ormai una costante
sorda in
sottofondo e sulla pelle non restavano cicatrici se non minuscole
strisce
bianche troppo sottili anche per poter essere distinte. Seguirne ancora
il
corso sarebbe stata una follia, per cui sapeva bene di non potersi
concedere
quelle divagazioni.
Un
routine nuova e snervata aveva sostituito lo slancio di un tempo, e lo
aveva
fatto così rapidamente da indurlo a credere non ci fosse mai
stato un prima, ma solo l'attuale e
desolante dopo che viveva con
l'ostinazione di
un'amara consapevolezza e di una vendetta gelida. Il punto di svolta,
poi, non
era neppure coinciso con il suo “anno zero”,
perché dopo quello c'era stato
tutto un lungo momento in cui aveva creduto che il sangue gli avrebbe
scaldato
le vene e l'anima abbastanza da trasformare tutto il mondo in un unico
rogo.
Una pira funebre alta quanto le sue convinzioni, alimentata dalle
illusioni
sfiancate di un giocatore perdente - in partenza - contro la vita e
destinata
ad inghiottire nel proprio fuoco le disillusioni nuove che nascevano
dalla
perdita e dall'abbandono.
A lungo temuti ed ora, alla fine,
sperimentati.
Poi
anche quel primo rigoglio di forze e rabbia si era stemperato nella
compulsiva
ricerca della distruzione fine a se stessa. Aveva lasciato che fossero
altri a
riempire di sé le idee che ancora vomitava sotto forma di
parole o, più spesso,
di semplici inseguimenti di note lungo traiettorie irrequiete quanto i
pensieri
che le generavano. O i tempi che le
accoglievano in vesti “profetiche”. Lui
da profeta aveva continuato a
rifiutare di vestirsi, consapevole di come tutto si stesse riducendo
alla sola
celebrazione dei suoi lutti personali, ma non aveva avuto il coraggio -
ed
all'inizio, egoisticamente, neppure l'intenzione - di privare della
propria
voce le masse informi che ribollivano sottoterra. E se al principio
loro avevano
servito al suo scopo, dando al suo rancore un mezzo concreto per
trasformarsi
in azioni, adesso tutto si riduceva al gelo che provava - come una
sensazione
di stolido ottundimento - quando ripensava ai motivi primi per cui
aveva
accettato di piegarsi a tutto quello e poi abbassava lo sguardo a
contemplarne
gli effetti.
Londra
pioveva in gocce di pioggia acida, che bruciavano tutto ciò
che era vivente ma
senza la grazia misericordiosa di una rapida fine. La guerra dei benpensanti - usare quel termine lo
faceva sorridere - imponeva ufficiali scuse di correttezza, cui
seguivano
subdolamente strumenti di morte perversa. Gli effetti di ciò
che il Governo
usava per ridurre all'impotenza il grosso di un popolino
riottoso tardavano a manifestarsi, ma quando lo facevano -
carestia, malattie, intossicazioni e morti innaturali - avevano la
definitività
di un colpo ben orchestrato, magistralmente diretto, eccezionalmente
efficace.
E,
quindi, Londra pioveva. E sotto le sue gocce i fili d'erba tra i
palazzi si
piegavano e morivano, e nuove strisce sottili - cicatrici invisibili -
scivolavano sulla pelle nuda delle braccia di Matthew.
Era
iniziato tutto in sordina. All'epoca non ci aveva nemmeno fatto troppo
caso,
non quello giusto quanto meno. Tanto che aveva dovuto essere Brian a
richiamare
la sua attenzione su una circostanza che lui aveva liquidato con meno
di una
scrollata di spalle ed un sorriso quasi soddisfatto.
Le
Leggi di Protezione Nazionale erano state approvate solo da qualche
mese, i
loro effetti immediati e diretti erano stati così ineffabili
che la gran parte
della gente aveva fatto fatica ad accorgersi della loro entrata in
vigore. Dopo
che per mesi le piazze di buona parte dell'Inghilterra avevano
brulicato di
folle di manifestanti, la prima delle conseguenze era stata il
ristabilirsi di
una perfetta pace sociale. A fronte degli attentati degli ultimi due
anni, del
resto, la buona parte dei cittadini dell'Unione Europea si era detta
disponibile a cedere ai governi nazionali poteri maggiori per
affrontare la
crisi mediorientale. Lo zoccolo duro di una borghesia estremista e
spaventata
aveva dotato di legalità la scelta di un sempre maggior
numero di Stati di
dotarsi di un nucleo forte di leggi che derogassero parzialmente ai
principi
liberali e costituzionali a favore di una maggiore sicurezza e di un
più
accurato controllo ad ogni livello della società.
Non
era stato troppo difficile nemmeno accattivarsi il favore degli strati
più
bassi della popolazione. Le Leggi di Protezione avevano sottoposto a
“tutela” -
come veniva definito il controllo e l'ingerenza del Governo nei vari
settori
delle attività economiche e sociali - anzitutto i capitali
privati, con lo
scopo dichiarato di tagliare alla fonte i finanziamenti che arrivavano
da tali
canali alle organizzazioni terroristiche internazionali e, in generale,
di
verificare l'effettivo impiego degli stessi. I gruppi operai e le
organizzazioni sindacali erano arrivati fino ad assumere la decisione -
miope - di applaudire la posizione
governativa e di appoggiarla apertamente, guadagnando ulteriore
consenso al
Governo.
Già
allora Matt aveva cominciato a storcere il naso, inorridendo alla sola
idea che
la gente potesse essere
così cieca ed
ottusa da non accorgersi di come si trovassero sull'orlo di decisioni
irreversibili
dalle conseguenze assolutamente catastrofiche. Giustamente indignato,
era stato
solo felice di vedere accostate le proprie canzoni alla voce di chi,
sempre più
spesso e soprattutto nel loro ambiente, criticava apertamente le
decisioni
assunte a livello politico.
Di
mezzo, comunque, c'era stata la riforma delle istituzioni scolastiche
ed
universitarie e solo dopo, quando ormai la buona parte dell'opinione
pubblica
era distratta dai comunicati ufficiali di una stampa coalizzatasi nel
fornire
uno scudo compatto di informazione “coordinata”, i
mass media e tutto il
settore di arte e spettacolo erano stati sottoposti ad una
regolamentazione
così drastica e capillare da rendere impossibile qualsiasi
forma lecita di
dissenso.
Allora
erano cominciate a fiorire anche le radio
“dissidenti” – “radio
pirata”, in
onore di più libertini anni ’70 in cui la rivolta
era stata un gioco colorato e
non un massacro sofisticato del libero pensiero – emittenti
fuori legge che
passavano musica considerata, inizialmente, sconveniente e poi, con
molta più
onestà, messa all’indice da un Comitato di
Censura. L’invito ai distributori
del prodotto musicale era stato nel senso di evitare determinati lavori
considerati poco in linea con la politica di uniformità e
coesione portata avanti
dal Governo; nei confronti degli artisti, invece, i
“suggerimenti” arrivarono
fin dall’inizio sotto forma di esplicite richieste di
modifica e di veti alla
pubblicazione dei lavori ritenuti pericolosi. Quanti avevano rifiutato
di
aderire alle indicazioni fornite erano stati zittiti in modo via via
più
repressivo e violento ed a coloro che ancora cercavano nella musica una
bandiera a cui associare idee fuori dagli schemi non era rimasto che
rivolgersi
a ciò che sopravviveva della musica
“indipendente”.
Era
stato allora che Brian, ridendo, gli aveva fatto notare quanto spesso
le radio
pirata passassero “Assassin”. Matthew ne era stato
orgoglioso. Aveva scrollato
le spalle più che altro per allontanare
quell’intimo moto di soddisfazione,
mascherandolo dietro il mezzo sorriso sghembo con cui aveva accolto le
parole
dell’altro. I Muse continuavano ad ostinarsi lungo una strada
palesemente
collidente con la posizione governativa ed i toni della loro polemica
diventavano sempre più aspri con il passare del tempo.
Nessuno stupore che i
movimenti più giovani – quelli che
nell’arte e nella musica avevano sempre
trovato lo strumento più semplice per esprimere
ciò che pensavano – potessero
aver deciso di eleggere una loro canzone ad “inno”
di un’ideale rivoluzione di
pensiero.
Brian,
però, ne era spaventato. I suoi consigli arrivavano sotto
forma di battutine
sottolineate da risate nervose, concesse in situazioni in cui lui
avrebbe
preferito dedicarsi ad altro – tra
le
lenzuola sfatte che odoravano ancora di sesso e di loro, avrebbe voluto
solo
abbracciarlo e dormire, riposare con la sua testa contro la spalla e
scacciare
così il freddo di quella realtà che si
allontanava da loro – non riusciva a
nascondere del tutto il tremito sottilissimo della voce nel chiedergli
con
sempre maggiore insistenza una “prudenza” che non
riempiva mai di significati
concreti. Solo quel susseguirsi di richieste, che lui scacciava con
prepotenza
beffarda, avvolgendolo stretto tra le braccia e pretendendo un bacio
ancora per
cancellare la sua ansia e farla sciogliere nella propria arroganza
intransigente. Matthew non riusciva ad avere paura, aveva rabbia da
vendere e
convinzioni di cui nutrirsi, la paura era fatta per chi sperimenta
sulla pelle
e lui sperimentava solo il calore della preoccupazione di un altro. Se
poi non
avesse conosciuto Brian così bene come era arrivato a fare,
avrebbe anche
creduto che fosse solo un gioco e trascurarlo – come poi
aveva fatto davvero,
colpevolmente – sarebbe stato ancora più semplice,
fingere che non stesse
succedendo niente e che tutto si riducesse allo sghignazzare infantile
di un
artista anticonformista quando, passando davanti ad una finestra
aperta,
afferrava al volo i versi della propria opera messa al bando.
Ma
non era così. Ed il tempo aveva dato ragione alle paure di
Brian e torto al suo
desiderio di autoaffermazione.
-Immagino
che suggerirti l’uso di un ombrello sarebbe completamente
inutile.
Matthew
rise e scosse la testa, liberando i capelli da un sottilissimo strato
di gocce
traslucide. La pelle appariva rossa ed irritata nei punti in cui la
pioggia
aveva battuto con insistenza e la ragazza gli rivolse
un’occhiata critica,
storcendo il naso a quella vista ed ingollando a fatica tutte le
ulteriori
recriminazioni che – si vedeva – avrebbe voluto
rivolgere al suo comportamento.
La
gran parte di quei consigli erano sprecati, lo sapeva, aveva
già provato in
passato a fargli entrare in testa quanto poco opportuno fosse per lui
girare a
zonzo da solo per la città e quanto poco saggio, in
generale, fosse farlo
quando, come quel pomeriggio, era stato programmato un coprifuoco con
tanto di “irrorazione”
di pioggia acida a ribadire il concetto. Matt non la ascoltava. Ogni
volta che
qualcuno di loro diceva qualcosa per inculcargli in testa un
po’ di buon senso,
Matt smetteva di ascoltare. Le ragioni di quella scelta erano
conosciute solo a
pochi intimi, in gran parte quegli stessi che erano presenti quando
– quasi un
anno e mezzo prima – aveva deciso di unirsi alla Resistenza e
di diventarne, in
qualche modo e controvoglia, il leader ed il portavoce.
Eliza,
che della Resistenza era stata una fondatrice, apparteneva a quella
ristrettissima cerchia di persone, anche se per un caso fortuito.
Semplicemente
era successo che Matt non avesse nessuno con cui parlare dei motivi per
cui a
volte si svegliava nel cuore della notte piangendo e gridando e lei era
stata
lì una di quelle notti. Confessarsi alla luce di una
candela, come bambini
spaventati dal buio, era stato facile e liberatorio per tutti e due: in
fondo le
loro storie non erano così dissimili ed il loro modo di
reagire alla solitudine
era stato, almeno in principio, lo stesso. Poi in Eliza il desiderio di
vendetta aveva lasciato spazio alla necessità di fare qualcosa di concreto, lì
dove in Matthew si era semplicemente
trasformato in un bisogno irrazionale di rincorrere una facile
autodistruzione.
I loro interessi continuavano a coincidere solo nella misura in cui lui
si
prestava ai loro scopi, dando volto e voce alla loro rivoluzione.
-A
lungo andare non serve a nulla comunque.- ci tenne a precisare Matthew,
lasciandosi cadere a sedere sulla prima sedia disponibile e continuando
a
gocciolare sul pavimento una scia disomogenea di acqua contaminata.- Le
esalazioni ti uccidono lo stesso.
Eliza
si voltò verso la postazione di regia.
-E’
per questo che, di solito, si evita proprio di uscire.-
osservò secca prima di
allungare le dita verso la consolle.
Il
brano in sottofondo scivolò in un oblio lento quando la
ragazza abbassò
progressivamente il volume, infilando le cuffie. Matthew si
zittì, lasciandole
modo di aprire il microfono e sostituire la propria voce a quella di
Pete
Doherty.
-E
questi erano i Babyshambles di “You Talk”.-
annunciò rapida – Qui è sempre
“KillJoys
Radio” ed io sono sempre la vostra Urban Symphony che vi
tiene compagnia in
questa piovosa serata di coprifuoco. Notizie dal “mondo di
sopra”? Per gli
amanti degli aggiornamenti, sappiate che i nostri eroi
hanno varato l’ennesima legge contro
l’associazionismo
religioso. Fate a tempo ad iscrivervi ad una delle Chiese Ufficiali o a
decidere di scendere in piazza, con noi della Resistenza, per un
pacifico
sit-in davanti all’Abbazia di Westminster. I dettagli della
protesta nei
prossimi giorni tramite i soliti
canali.- Pausa ad effetto, Matt ridacchiò ed Eliza gli
scoccò uno sguardo
divertito da sopra la spalla prima di avvicinare le labbra al microfono
e
sussurrare sensuale – Capito, voi del Governo in ascolto?-
Lui le fece cenno
che era pazza e lei sogghignò riportando lo sguardo sul
monitor di regia.-
Bene! con mio sommo dispiacere siamo giunti al termine di questa
serata.
Concedetemi di salutarvi a modo mio, ovvero... facendo quanto
più casino
possibile! Questa è “Na na na” e loro
sono i My-Chemical-Romance!-
scandì alzando il volume mentre il file
audio, sparato direttamente nell’etere via web, partiva con
la forza di una
scarica di adrenalina giù per le braccia e le gambe.
Eliza
si liberò delle cuffie e buttò indietro le
spalle, prendendo a dondolare sulla
sedia come una bambina gioiosa, a tempo con la musica. Matt sorrise.
Sentirla
trascinare quel nome con tutta la meraviglia di una
“sacralità” diversa, fatta
di convinzione ed ideali, lo lasciava piacevolmente sorpreso. Eliza
poteva
sembrare, a chi non la conosceva, una creatura fredda e razionale, ma
la forza
della sua ribellione passava anche attraverso le note della musica che
amava,
quella stessa musica di cui era capace di parlare per ore ai propri
ascoltatori, avidi di note tanto quanto di notizie.
Mentre
il “mondo di sopra” – come chiamavano
crudelmente quello strato di ipocrisia
che era diventato la realtà ufficiale
dell’Inghilterra odierna – riprendeva a
dormire un sonno tranquillo, spegnendo il segnale
dell’ennesima radio
dissidente, la Resistenza cominciava la propria nottata, preparandosi
alla
lotta silenziosa e violenta della rivolta armata.
Eliza
si alzò dalla sedia girevole, muovendosi in un profluvio
ondoso di capelli
color caramella – un rosa shocking
che
faceva impallidire il rosso fuoco dei tempi migliori di Matthew!
– lui la
seguì distrattamente con lo sguardo ma rinunciò
quando lei gli sfilò di fianco
per perdersi da qualche parte alle sue spalle. Si sentiva stanco.
Probabilmente
la ragazza aveva avuto ragione a rimproverargli di essere uscito a quel
modo. O
magari, le sue sensazioni non erano così
legate ad un fattore fisico, quanto ad una sua condizione mentale.
-Ci
sono novità.- gli fece sapere intanto la voce di Eliza,
richiamandolo con forza
all’attualità dei propri compiti
“istituzionali”.
Matt
annuì, ripetendo il gesto con maggiore vigore quando si
accorse di avere
bisogno di un ulteriore sollecito per alzarsi davvero dalla sedia e
seguirla
nella stanzetta adiacente. Eliza lo aspettava ad un tavolo quadrato su
cui era
stata spiegata la mappa dettagliata del Palazzo di Westminster. Ad
eccezione
del tavolo e della quattro sedie che lo circondavano, la stanza era
completamente spoglia e buia, l’unica luce scendeva offuscata
da un lucernaio
all’altezza della strada e la pioggia continuava a battere
ritmicamente sul
vetro scheggiato che lo chiudeva. Era il più brutto, umido e
disagevole
seminterrato di cui Matthew avesse memoria. Quando Eliza accese una
vecchia
lampadina appesa al soffitto, lo sprazzo di chiaro li
abbagliò, riflettendosi
sulla superficie lucida della carta su cui era realizzata la mappa.
-Ho
parlato con Steve,- proseguì la ragazza, senza alzare lo
sguardo a sincerarsi
della sua presenza, ma strattonando il foglio per spostarlo da sotto la
fonte
diretta di illuminazione e renderlo più leggibile. Matt si
appoggiò con
entrambe le mani al piano del tavolo, in una posizione speculare a
quella della
sua interlocutrice e fingendo un interesse che sapeva di non provare.-
sembra
che dovremo anticipare la cosa. Qualcuno ha fatto la spia e si
aspettano una nostra
mossa.
-…quindi
ci andiamo prima, così da essere sicuri di non deluderli?-
interrogò perplesso
Matt.
Eliza
gli scoccò uno sguardo gelido e Matthew capì che
non aveva apprezzato la
sottile ironia.
-Quindi
ci andiamo prima perché dopo che avranno rinforzato la
sorveglianza sarà
impossibile anche avvicinarsi.- ritorse freddamente lei. –
Useremo il sit-in
davanti all’Abbazia come diversivo per la Polizia. I dettagli
ce li farà avere
quanto prima.
L’altro
si limitò ad un cenno di assenso e non parlò.
-Lo
sai, vero, che finirà male…- sussurrò
invece, fissando la cartina come dovesse
trovarci dentro le risposte a tutti i dubbi che ancora provava.
Fu la
volta di Eliza di non rispondere. Dopo quasi due anni di silenzio e di
piccole
azioni, la Resistenza era pronta a fare un passo decisivo, quel salto
di
qualità che tutti
– da una parte e
dall’altra – si aspettavano. Il Governo per
ufficializzare la loro
etichettatura come “forza terroristica e pubblico
nemico”, così da giustificare
la feroce repressione che già, di fatto, attuava da tempo; i
loro affiliati per
trovare, finalmente, nella lotta armata uno strumento concreto di
ribellione e
non un semplice palliativo alla frustrazione di quei giorni. Come fosse
andata
non potevano davvero prevederlo, sapevano che i mezzi a loro
disposizione erano
scarsi – “tanta buona
volontà non ti
porta da nessuna parte”, ripeteva Chris da quando
Steve aveva esposto loro
quell’idea – e sapevano allo stesso modo che
restare in un limbo fatto di
proclami e buoni propositi non era più accettabile.
Eliza,
concreta come sempre, diceva che le rivoluzioni passano prima dai
martiri e poi
dagli eroi.
-Finirà
come deve finire.- affermò stavolta, scrollando leggera le
spalle.
Nel
chiarore ugualmente innaturale
della
pioggia e della luce artificiale i suoi capelli impossibili, i vestiti
pacchiani ed eccessivi e quel trucco pesante da bambola plastificata la
facevano sembrare incredibilmente finta. Eppure la sua voce vibrava
degli
accenti più veri che Matt riuscisse a ricordare da tempo,
Eliza – Urban Symphony, come la
personificazione di
quella voce che Londra aveva deciso di soffocare e relegare nelle fogne
–
era dolorosamente viva, quanto lui non pensava di poter essere. Mai
più.
Ma
qualcosa da offrire, lo aveva.
Infilò
la mano nella tasca del soprabito che teneva ancora addosso contro il
freddo
umido dello scantinato, porgendole sul palmo della mano una chiavetta
USB.
-Questa
è l’ultima che abbiamo inciso. Ci ho messo un
po’ a mixarla, ma ora è a posto.
- le disse davanti al suo sguardo interrogativo.- Mandala in radio
domani, e
rendila disponibile in rete.
Eliza
si illuminò come se le stesse consegnando un autentico
tesoro e Matt rise,
schernendosi.
-Come
ci riuscite?!- sbottò la ragazza, afferrando la chiavetta
con una bramosia
evidente.
Matt
liquidò la cosa con un gesto noncurante.
-Ho
ancora degli amici che mi devono dei favori.- confessò.
Il
sapore di Brian si impastava ai suoi respiri nel cuore della notte.
Diventava
qualcosa di tangibile, morbido e cremoso nella bocca che affondava tra
i cuscini.
La sua pelle era velluto sotto le dita, era sempre stata
incredibilmente liscia
per essere quella di un uomo e Matt adorava trovare sotto i
polpastrelli le
imperfezioni infinitesimali che lasciava al mattino la barba rada. Per
questo
si ostinava a svegliarlo con una carezza quando, all’alba, si
infilava nel
letto al suo fianco dopo una notte passata al pianoforte o si svegliava
per
primo quando dormivano assieme dopo aver fatto l’amore. Brian
ci aveva fatto un’abitudine
talmente radicata che non si arrabbiava nemmeno, socchiudeva gli occhi
nella
penombra della stanza, recepiva la sua presenza ed il tocco di quelle
dita
bellissime e poi tornava a chiudere lo sguardo in un sospiro paziente,
riaddormentandosi sotto la sua carezza ed il profumo del suo fiato sul
viso.
Lui era così, incredibilmente domestico
con coloro che amava. In qualsiasi altra situazione non avrebbe
tollerato
nemmeno l’idea che un’altra persona potesse
invadere i suoi spazi, ma quando
permetteva a qualcuno di entrare in quegli stessi spazi, diventava
malleabile,
accorto e generoso in un modo che, all’inizio, aveva lasciato
Matthew basito.
Ai
tempi in cui loro due si tolleravano appena, si ignoravano alle feste e
si
odiavano nelle occasioni ufficiali, Matthew non avrebbe mai sospettato
in Brian
una simile capacità di adattamento o un tale spirito di
sacrificio. Lo aveva
sempre pensato come la creatura arrogante e dispotica a cui si
atteggiava, per
scoprire poi che tra i due quello più intransigente,
più difficile e macchinoso
era lui. Brian era di una semplicità che incontrava il
proprio limite
esclusivamente nella complessità ed enormità dei
suoi sentimenti. E per
difendere quella stessa complessità ed enormità
si rivestiva di una corazza
così sopraffina da diventare indistruttibile.
La
sua era sempre stata la voce di un’individualità
raffinata, attenta al prossimo
ma decisa a non lasciarsi calpestare dal mondo, Brian dava agli altri
tutto il
rispetto che esigeva per se stesso, e le sue canzoni - i suoi versi e
la sua
musica – parlavano di questo: il bisogno di ciascuno di
essere amato, protetto
e guarito, prima da se stesso e poi dagli altri. Man mano che la loro
relazione
andava avanti, Matthew arrivava a scoprire dietro le nenie dei Placebo
–
liquidate in fretta in altri momenti in cui la Musica esigeva tutta la
sua
attenzione – un variegato mondo fatto di due colori, nero e
bianco, soffusi in
una luce aranciata che li ricopriva di tutto il calore delle sensazioni
e dei
pensieri che evocavano. Era stato allora che aveva iniziato ad amare di
Brian
molto più che non il suo aspetto o la sua voce, ugualmente
accattivanti, era
stato scoprire nella creatura desiderata un motivo concreto per
trasformare il
desiderio in passione e la passione in amore.
Ma il
mondo dei Placebo non poteva andare bene ad una realtà che
viaggiava nel senso
opposto. La massificazione del pensiero, la totalitarizzazione dei
sentimenti
non potevano accettare l’esistenza di una musica che avesse
il suono di una
ribellione intellettuale e spirituale, elevata a livelli che la
rendevano
praticamente inattaccabile. Brian parlava ad un popolo di individui
disposti ad
esistere con una tale forza che
nessun credo politico o religioso avrebbe potuto più
metterli in discussione.
Di
fronte a questo, inevitabilmente, il nuovo mondo non poteva che
perseguirne la
distruzione.
…si
svegliò in un bagno di sudore. Il sapore che aveva sognato
ancora nella bocca e
la sensazione tattile di quella pelle sotto le dita. Faceva male al
petto ed
alle ossa, un dolore fisico che partiva dai nervi, tesi e rigidi sulle
spalle e
le braccia, e si diffondeva attraverso il cervello a tutto il corpo. Voleva morire. Non avrebbe saputo dirlo
in altro modo, non avrebbe saputo usare altre parole o altri pensieri
per
definirsi in quell’istante. E come quello, centinaia di altri
istanti prima e
dopo.
Il
sospiro che si lasciò sfuggire dalle labbra aveva la
consistenza dello sfiatare
di una bestia agonizzante. Rotolò su un fianco, cercando
inutilmente una
posizione confortevole in un groviglio contorto di braccia, gambe e
lenzuola.
Mai
come ora aveva desiderato non essere solo in un luogo. Dom e Chris
erano
tornati a casa. Si preannunciava il più grosso disastro cui
la Resistenza
potesse offrire le teste dei propri “capi”
– o la più grande
vittoria, a voler credere all’esistenza di un Qualcosa
che dall’alto dei propri Cieli stabilisse in Terra una
Giustizia in-umana –
ed ovviamente, coloro che ancora avevano qualcuno
da perdere, non potevano che aver deciso di trascorrere altrove il
tempo
rimasto a disposizione. Gli aveva chiesto di pazientare fino a che non
avessero
inciso un’ultima canzone. Non la migliore, non la
più significativa,
semplicemente l’ultima. Poi aveva dovuto lasciarli liberi,
scacciando con un
sorriso spento i loro tentativi di riportarlo indietro con
sé. Aveva
abbandonato Londra una volta e, tornandoci, l’aveva trovata
vuota ed
inospitale, adesso che programmava di riprendersela – con il
sangue e con l’anima
– non avrebbe permesso che quella sgualdrina mutasse ancora
mentre era
distratto.
Si
sollevò sulle braccia, mettendosi seduto sul materasso
scomodo e scalciando via
le coperte quando divennero un ingombro eccessivo. Il respiro faticava
a
tornare regolare e lui si impose, semplicemente, di trattenere il fiato
finché
il silenzio prese a fischiargli nelle orecchie. A quel punto tutto
assunse una
dimensione accettabile. Posò i piedi nudi a terra,
muovendosi con accortezza
per non svegliare coloro che dormivano nelle altre stanze dello
scantinato, si
mosse al buio con la sicurezza di chi, in un anno e mezzo di
oscurità, ha
imparato a distinguere ogni anfratto del luogo che si è
scelto come prigione.
Nella stanzetta di fianco alla sala di regia la mappa era ancora
distesa sul
tavolo; in quella successiva un vecchio portatile accesso mandava un
ronzio
costante e mostrava il logo dei Muse su una pagina nera, con un invito
agli
utenti a cliccare di lato per scaricare la nuova traccia audio, sulla
parete di
fondo campeggiava uno striscione blu e rosso, che aveva realizzato solo
qualche
giorno prima, aspettando anche lui che arrivasse il giorno di un
riscatto
paziente. Matthew lo degnò di uno sguardo appena, la sua
stessa calligrafia
rotonda, da adolescente mai cresciuto, recitava blanda “war
is overdue”, accennando idealmente
all’incipit di un inno che
voleva diventare “di battaglia”.
L’indicazione, nemmeno troppo velata, era ad
armarsi per combattere quella stessa guerra ed insieme a gridare ad una
voce
sola il piano – lineare – della loro rivoluzione. A
ripensarci freddamente si
disse che in lui c’era sempre stata la medesima carica
distruttiva che
avvertiva adesso.
Qualcuno
aveva raccolto in giro la posta indirizzata alla Resistenza ed ai suoi
membri.
Avevano sistemi alquanto elaborati per comunicare tra loro e con quanti
restavano
nel “mondo di sopra”, la gran parte di questi
metodi falliva piuttosto spesso e
gli altri venivano intercettati con una tale facilità da far
dubitare della
loro efficienza. Ogni tanto, comunque, qualcosa arrivava.
Spulciò pigramente le
buste ed i pacchetti, cominciando ad avvertire un freddo pungente alle
mani ed
ai piedi; arrotolandosi su un divano, cercò un po’
di calore nel sottrarsi al
pavimento umido. C’erano due lettere indirizzate a lui, una
era di Steve e,
presumibilmente, gli forniva i particolari dell’attacco a
Westminster; Matthew
la mise da parte appoggiandola in bilico su una gamba. Aprì
la seconda perché
riconobbe la calligrafia di Dominic, da dentro la carta scivolarono
mollemente
tre foto ed un biglietto stringato di poche righe che dettava il giorno
dell’arrivo
del batterista e di Chris nel codice che avevano stabilito tempo prima.
Le
fotografie erano tutte di Kelly e dei bambini di Chris ma in una
c’erano anche
il loro papà insieme con Dominic. Dovevano averle fatte in
quei giorni…
Matthew
si accorse del pacchetto solo perché rotolò
giù dal divano quando si spostò per
mettersi più comodo e leggere la lettera di Steve. Era
rotondo, non troppo
spesso e rigido, c’erano su talmente tanti bolli postali e
timbri da far
credere che avesse girato tutto il mondo prima di approdare fino a lui,
la
grafia elegante che aveva vergato il suo nome gli era completamente
sconosciuta, ma non sembrava particolarmente ostile. Forzò i
sigilli che
chiudevano il pacchetto, strappando la carta spessa che lo copriva, e
scoprì un
dvd nuovo di zecca, lucente e privo di qualsiasi iscrizione diversa da
un
laconico “per Matthew Bellamy”.
Note dell'autrice:
Alzino la mano tutti coloro che mi vogliono
linciare per i - fin troppo - espliciti richiami all'opera ispiratrice.
Ebbene
sì, «1984» è stata la fonte
prima di questa storia.
Per il resto è delirio.
Un delirio a cui ho voluto un mondo di bene
mentre lo realizzavo e, come sempre, molto meno dopo averla terminato,
e che
spero che, in qualche modo, possa suscitare la vostra
curiosità o il vostro
interesse.
Molteplici le «influenze
musicali»
utilizzate. Oltre a quelle citate ne troverete dei Placebo, almeno
un'altra dei
Muse e perfino dei Linkin Park...chissà se siete in grado di
scovare di quali
canzoni si tratta! XD
Infine, un ringraziamento anticipato: ad
Erisachan, per l'aiuto che mi ha dato e, soprattutto, per Eliza.
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Capitolo 2 *** Anno Zero.2 ***
Brian credeva che il tempo avesse il sapore
degli istanti goduti lentamente, senza la fretta che, inevitabilmente,
il mondo
ci attacca addosso. Per lui quegli instanti, di solito, prendevano
forma di una
tazza di the bevuta al tavolo della cucina, senza altro suono in
sottofondo che
non fosse il fischio del bollitore o i rumori quotidiani che un
appartamento vissuto produceva in
qualunque momento. Non amava
la televisione, non sopportava la radio quando gli ricordava troppo
spesso il
suo lavoro ed i libri erano, innegabilmente, un piacere ed una tortura
se la
mente era stanca e l’unica voglia che aveva era di fuggire il
più lontano
possibile dalla propria pelle.
Nessun suono poteva davvero
riempire quello
stato d’animo. Era compito esclusivo della vita e dei suoi rumori inevitabili dargli una colonna sonora che
non fosse troppo ingombrante. La pioggia,le macchine in strada, i gatti
nel
cortile di fronte e perfino il rumore della lavatrice o della
lavastoviglie…tutte cose che parlavano di una
quotidianità che restituiva senso
alle scelte fatte.
Nella sua esistenza non
c’era stato quasi
nulla di quotidiano. Riuscire a ritagliarsi quei momenti era prezioso
come oro,
lo era ancora di più quando in camera sentiva il respiro
lento di Matthew,
ancora addormentato dopo che era venuto a letto solo da pochissime ore,
riempire i suoi pensieri di note indolenti di sentimentalismo inutile.
Anche se quel giorno non era
così, anche se
quel giorno era solo in casa – ed aveva fatto lui
in modo da rimanerci – il senso di
quella presenza aleggiava su
tutto. Cominciando dal profumo intenso del the nero, quello con cui
Matthew
pretendeva di fare colazione ad orari impossibili, per finire con il
colore
chiaro di un block notes che aveva lasciato su una mensola e lui non
era ancora
riuscito a decidere di mettere a posto. Il suo disordine naturale gli
faceva
credere che potesse vederlo da un momento all’altro
attraversare la soglia di
casa e tornare da lui e voleva che fosse quella l’ultima
sensazione a fargli
dolere i muscoli delle braccia ed il petto di un dolore a cui si
rifiutava di
dare un nome.
Il suono del battere ritmico di
colpi contro
la porta. Qualcuno chiamò a gran voce i loro nomi attraverso
il battente
sprangato. Brian non fece segno di volersi alzare, il palmo della mano
che
giocava distratto con la tazza, misurandone la circonferenza in punta
di dita.
La sollevò per portarla alle labbra ed il rumore sordo e
netto del legno che
cedeva fece da eco a quello liquido del the. Il fumo del calore che si
alzava
dalla tazza, per un secondo, fu l’unica realtà
nella stanza, velando lo spazio
di bruma e dandogli l’esatta collocazione: al di
là della verità concreta, gli
sembrava ancora impossibile che il mondo fosse davvero arrivato a
quello.
-Mr. Brian Molko?-
s’informò educatamente
una voce.
Passi marziali seguirono quella
richiesta,
l’uomo, alto e magro, si muoveva con maggiore eleganza e
più discrezione, ma
coloro che lo seguivano si disposero attorno a lui in un incedere di
scarponi
pesanti che lo fece sorridere. Cosa credevano che fosse? un pericoloso
criminale?
Alzò lo sguardo in
faccia all’uomo e catturò
il riflesso rosso della telecamera a circuito chiuso. Si disse che
avrebbe
dovuto spegnerla, ma non ci aveva pensato.
-Chi vuole saperlo?- ritorse in un
accenno
della solita ironia cattiva, solo infinitamente più stanca
del solito.
-Non ha importanza.
-No.- convenne Brian, bevendo
ancora dalla
tazza.
L’uomo era metodico,
oltre che discreto,
sfilò la pistola da sotto il cappotto di pelle nera
– Brian pensò che
sembrava scappato da qualche filmaccio di quelli che Matthew adorava. Una volta, quando pensava
fossero solo immaginazione, avevano divertito anche lui
– caricò il colpo in canna e sollevò
l’arma.
La tazza produsse un'unica nota
secca e
precisa nel posarsi sul ripiano di legno. A Brian piaceva anche per
questo,
perché il legno aveva solo suoni caldi. Il sorriso a mezzo
aleggiava ancora
sulle sue labbra nel ricambiare lo sguardo dritto davanti a
sé.
-Boum.- mimò in un
sussurro.
Nel
video l’uomo si voltò e si accorse della
telecamera. A Matthew parve che
esitasse, sorpreso. Aveva un viso scavato, la pelle si tendeva sulle
guance e
sugli zigomi e rughe profonde segnavano la fronte. Gli occhi erano
l’unico
accenno di vita in un’espressione incolore, due punti neri,
due buchi che si
fissavano contro l’obiettivo della telecamera con forza.
L’esitazione durò un
solo momento, poi a Matt sembrò quasi di poter leggere una
risoluzione nuova
farsi strada attraverso processi laboriosi nella mente
dell’uomo.
Dalle
sue spalle giungevano i rumori prodotti dagli altri che erano con lui,
gli
stessi individui che invadevano senza ritegno gli spazi della vita di
Brian.
Matthew avrebbe voluto strapparli a forza via dallo schermo, si
trattenne a
stento dall’impulso di allungare inutilmente le dita a
cercare di afferrarli
attraverso la superficie del laptop. Osservò impotente uno
di loro avvicinarsi
al corpo di Brian, riverso sul piano del tavolo, e controllare con due
dita – con delicatezza
– che fosse davvero
morto. Una pozza rossa allagava lenta lo spazio tra le gambe della
sedia.
L’uomo
si voltò.
-Cercate
i video delle registrazioni.- disse indicando la telecamera, Matt sentì il suo dito infilarsi da
qualche
parte nel costato e si accorse per la prima volta del dolore pungente
all’altezza del cuore.- Qui non
c’è nessuno.- affermò come se fosse
sufficiente a fermare lo scempio che si stava perpetrando ai danni
della casa.
Matt
vide la stanza svuotarsi. L’uomo fu il primo ad uscire, senza
voltarsi più
nemmeno una volta, il corpo di Brian rimase solo per pochi minuti che
gli
parvero lunghi come secoli e, comunque, tutto il tempo a sua
disposizione non
bastò a formulare nemmeno un pensiero coerente. Quando il
video si spense
bruscamente, rituffandosi in un nero uniforme che lo lasciò
stordito, l’unica
cosa che aveva in mente erano le ultime parole che si erano scambiati
al
telefono. “E si apre con un
temporale. Un
temporale nel quale il mondo intero si sciolga”. La
prospettiva gioiosa di
un lavoro nuovo, di un nuovo inizio
in musica…
In
fondo alla pagina Matthew vide qualcosa lampeggiare, come una
pulsazione
continua che acquistasse consistenza con il passare del tempo. Una luce
sottile
scivolò dietro la patina nera e ne incrinò la
superficie, poi le parole presero
a scorrere come sequenze di numeri e senza alcun senso. Matt
sollevò il braccio
e si asciugò le lacrime con la manica. Il messaggio
ristagnava indifferente
davanti ai suoi occhi, allungò la mano a tentoni sul tavolo,
cercando senza
vedere una superficie su cui appuntarsi l’essenziale ed una
penna con cui
farlo. La bocca socchiusa, l’espressione concentrata, non
credeva davvero
possibile che il Cielo gli stesse
regalando una vera vendetta.
…o il modo
più efficace per far comunque
finire tutto.
All’epoca
in cui il Governo aveva imposto agli stranieri una scelta precisa sul
fatto di
rimanere o meno all’interno del territorio inglese, Brian
aveva abbandonato
senza nessun ripensamento ogni possibilità di raggiungere la
propria famiglia,
scappata negli Stati Uniti già da diversi mesi. Diceva che
lì le cose non
andavano meglio che in Europa e che tanto valeva restare in
Inghilterra, che
sentiva come la sua vera patria, che invadere casa di Barry e
trasformarsi in
un noioso zio impiccione per i figli di suo fratello. Nonostante
questo,
Matthew non aveva esitato nemmeno un momento a lasciare Londra per
tornare nel
Devonshire. Quando il fastidio che provava per scelte sempre
più palesemente in
contrasto con il suo modo di pensare si era fatto eccessivo, aveva
raccolto le
sue cose, provato a dirgli di seguirlo ed infine scelto di ritirarsi
“in
campagna”, come un signore sdegnoso di altri tempi in aperta
polemica con il
potere costituito. Ed in fondo era stata anche la scelta più
coerente.
Si
sentivano continuamente. Quella separazione forzata non riusciva ad
intaccare
la loro quotidianità se non dello stretto indispensabile e
Matthew tornava a
Londra ogni volta che la lontananza diventava, semplicemente, troppa ed impossibile da tollerare
ancora. In quelle occasioni c’erano giornate passate chiusi
in casa ed altre in
giro, vagabondando per una città sempre più
grigia e triste ma che per loro
prendeva ogni singola sfumatura degli occhi e del sorriso
dell’altro. Londra
assieme a Brian poteva mantenere intatta la sua magia, qualsiasi cosa
le fosse
passata addosso.
-…att.
Sbatté
gli occhi, stordito, il profumo di fiori, muschio ed agrumi gli invase
le
narici come una sferzata calda. Poi fu il colore caramellato di quella
chioma
sciolta e ribelle a riempire il suo sguardo e lui respirò a
fondo, riconoscendo
quei capelli prima ancora della mano che lei gli posava gentile sulla
spalla
per scuoterlo con delicatezza.
Eliza
aveva indossato un vestito a balze con la gonna troppo corta,
stivaletti e
calze colorate che avrebbe nascosto sotto un piumino nero prima di
uscire. Era
decisamente bella.
Matt
si massaggiò la radice del naso, allargando poi le dita
sugli occhi e sul
profilo delle tempie, ma il mal di testa non accennava a diminuire.
Sospirò e
mise a fuoco la ragazza; lei lo studiava con la meticolosa attenzione
di una
madre insoddisfatta e questo gli strappò un sorriso: Eliza
era più giovane di
lui di almeno dieci anni.
-Stai
uscendo?- s’informò educatamente.
-Mh…Hai
dormito? Non hai una bella cera, Matt.
La
domanda bastò a risvegliare echi di brividi gelati lungo le
braccia e la
schiena. Matthew li soppresse a forza, badando solo che lei non
intercettasse
l’istante esatto in cui aveva esitato e perso un battito.
Ruotò sul divano,
mettendosi seduto ed accorgendosi del mucchio disordinato di fogli che
aveva
ancora in grembo. Eliza seguiva il suo sguardo e Matt la vide
interrogarlo
silenziosamente con gli occhi.
-Ho
letto la corrispondenza. Non riuscivo a prendere sonno.-
mentì con leggerezza.-
Steve ha mandato i dettagli del piano…- spiegò
poi radunando i fogli alla men peggio
per passarglieli, stando attento a non mischiarli alle foto di Chris ed
al
biglietto di Dom.
-Era
ora!- lo interruppe la voce squillante di lei.
Mentre
Eliza gli si sedeva di fianco prendendo in consegna la lettera di Steve
e
scorrendola avidamente, Matt rimise a posto anche i fogli rimasti.
-Dom
e Chris arrivano domani.- proseguì.- Vado a prenderli io.
La
ragazza recepì la notizia con un mugugno distratto,
mordicchiandosi assorta la
punta dell’indice, impegnata nella lettura.
-O.k.-
concluse risoluta abbassando la lettera e guardandosi attorno per
raccogliere
le idee.- Adesso mi occupo di questo- organizzò riferendosi
al compito di
diramare le istruzioni di Steve ai nuclei che avrebbero operato
nell’attacco –
e poi esco. Tu cosa farai?
Matt
si strinse nelle spalle. Eliza gli si addossò
repentinamente, schiacciandogli
il naso contro lo scollo della maglietta e tirando su rumorosamente.
-Puzzi.-
notificò raddrizzandosi.- Direi, una doccia e poi
colazione.- suggerì con un
sorriso. Si sollevò dal divano sventolando i fogli- Mi dai
una mano?
-Dopo
la doccia e la colazione.- sorrise Matt.-
Ah…Sym…- la richiamò che
già stava
lasciando la stanza in uno svolazzare di capelli e balze fiorate. Lei
lo scrutò
in attesa ed il sorriso di Matthew divenne improvvisamente malizioso.-
Smettila
di andare in giro mezza nuda.- le ordinò.
-Oooh!
frena il tuo istinto, maschio alfa!- sentenziò lei affatto
preoccupata.
-Come
lo aveva scoperto?
-…ha
trovato dei file a casa mia.
-…
Silenzio.
Pesante silenzio, pesante.
-Sei
un coglione.
E poi
implacabile, sparare a zero sugli altri perché tanto
– adesso – non
hai davvero più nulla da perdere.
La
prima cosa che gli dissero fu “è
stata
Alex”.
Non
ci aveva creduto. Conosceva Alex da quando conosceva Brian –
…da tutta una vita?
– e sapeva che si
sarebbe fatta tagliare a pezzi ancora viva piuttosto che permettere che
qualcuno torcesse un solo capello “ai suoi
ragazzi”. Steve glielo aveva dovuto
ripetere almeno tre volte, poi era stato Dominic a stringerlo per le
spalle,
guardarlo negli occhi e spiegargli quel concetto finché non
era entrato in
circolo.
Gran figlio di puttana. Sapeva
tutto da un
pezzo ma si era guardato bene dall’aprire bocca, lo stronzo.
…e come lui,
Chris…
Si
sentiva tradito. E svuotato.
Ed
ancora nemmeno sapeva quanto.
Quando
aveva visto Alex avevano dovuto tenerlo fermo in due – Steve e Dom! di nuovo – per
impedirgli di saltarle al collo e
massacrarla seduta stante. Lei non aveva battuto ciglio, solo molto
dopo Matt
si era accorto che non avrebbe fatto differenza se l’avesse
ammazzata o meno,
tanto lei era già morta dentro, come diceva il suo sguardo.
Seduto
ad una scrivania che conservava intatti i lustri di un epoca
più felice, Matt
aveva pensato che lei quella scrivania l’aveva guadagnata sul
sangue di chi
diceva di voler difendere. E adesso gli toccava ascoltare il racconto
di come
fosse successo.
Alex
era invecchiata di trecento anni. E
lo aveva fatto tutto assieme. Il tempo non era stato clemente con lei,
o magari
lui aveva ricordi imprecisi di chiome pettinate lucide e viso dal
trucco
impeccabile. Su di lei il lustro della scrivania non faceva presa.
-Brian
lo ha scoperto per caso. Steve non ne ha alcuna colpa e, soprattutto,
ha
cercato di tenerlo fuori da questa storia il più possibile.
Se Brian c’è finito
dentro non è stato per la Resistenza,
ma solo per via della sua musica.
Il
lento scorrere di quelle parole, scandite a voce monocorde, priva di
inflessione e sentimento, aveva fatto da palliativo alla parte meno
sopportabile del suo dolore. Matt era stordito ed Alex sapeva di
doverne
approfittare in modo implacabile, anni di addestramento dietro ad una
persona
che sapeva essere anche più combattiva di lui dovevano
averle insegnato come ci
si approfitta delle debolezze altrui.
-In
fin dei conti, se le cose fossero state diverse, Steve non avrebbe
avuto certi
“agganci” e non avrebbe potuto sapere delle Liste
prima che fosse troppo tardi.
Le
Liste. Fino a quel momento erano state un mito anche per loro. Ne
avevano
sentito parlare in quell’humus urbano che, a volte, come
artisti a cui piaceva
ancora definirsi “underground”, visitavano per
un’esperienza esotica e, alla
luce delle nuove disposizioni governative, pericolosa.
Un’idea di Matt, Brian aveva superato da un pezzo il periodo
dell’adolescenza
in cui si vuole a tutti i costi fare qualcosa di sbagliato solo per
sentirsi
grandi.
Le
Liste erano lo strumento con cui il Governo stabiliva chi doveva vivere
e chi no. Non essendoci prescrizioni
scritte circa l’illiceità di determinate forme di
pensiero o di determinati comportamenti,
le Liste servivano ad individuare i soggetti potenzialmente pericolosi
per il
nuovo ordine di cose. Cosa succedesse loro, fino a quel momento, Matt
non lo
aveva mai saputo.
-C’eravate
voi. Proprio in cima alla Lista.- affermò Alex, fissandolo
dritto negli occhi a
studiarne ogni reazione. Ma Matt, semplicemente, non reagiva.- Il fatto
che
siate partiti per il Devon vi ha salvato le palle, ma non
sarà per sempre. Poi
c’eravamo noi. Tutti.
Matthew
capì che stava parlando dell’intero pool dei
Placebo e non solo della band.
Rabbrividì. Il suo primo pensiero prese forma in modo
istintivo:
-Cody…
-Forrest
ha portato via lui ed Helena. Brian aveva previsto anche questo.- fu la
risposta pacata. E lui ebbe la sensazione che fosse stato preparato
tutto con
troppa cura, non solo la sparizione dei Placebo ma anche quel dialogo
educato e
le spiegazioni della donna.- Abbiamo fatto in modo che fuggisse giusto
all’ultimo momento. Steve ed i suoi lo hanno nascosto,- Un
cenno dell’ex
batterista a conferma, Matt si voltò nuovamente verso Alex
– poi li hanno fatti
uscire dal Paese sotto copertura. Stanno bene, sono al sicuro negli
Stati
Uniti.
-Quindi
si tratta solo di Stefan e…- morì tutto in un
gemito di gola. Matthew si rese
conto con terrore di non essere in grado di pronunciare il suo nome.
-Non
si poteva fare di più.- Questa sapeva eccessivamente di giustificazione. Forse fu anche il fatto
che non lo stesse
guardando in viso nel fornirgliela.- Si trattava di scegliere ed
è stato Brian
a scegliere per tutti. Sapeva che dovevamo sacrificare qualcuno ed ha
voluto
che fossero loro.
-Brian
ha pensato che, in qualche modo, il fatto che fosse Alex a consegnarli
le
avrebbe restituito “credibilità”.- si
intromise la voce di Steve.- Era l’unico
modo che avevamo per infiltrare uno dei nostri in un settore
così delicato e
sperare di salvarvi.
-…salvarci…
Un
sospiro di Alex aveva pesato come un macigno sulle teste di tutti. Lei
e Steve
si erano scambiati un’occhiata silenziosa da sopra la sua
testa, ma la cosa che
faceva più male era il silenzio perfettamente immobile di
Dominic. Perché lui
sapeva tutto e non gli aveva detto un cazzo di niente!
-Visto
che vi eravate allontanati da soli, bisognava solo occuparsi di
distrarre gli
uomini del Governo finché non fosse stato pronto un piano
per nascondervi o
farvi scappare dall’Inghilterra.- spiegò Alex.-
Sapevamo che saresti tornato e
per allora dovevamo avere un buon piano.
-Sapevate che sarei tornato?!-
era stata
la prima volta, dall'inizio di quella discussione, in cui Matt era
riuscito ad
imprimere alla propria voce la sfumatura giusta, perché
risuonasse piena di
tutto quello che provava: rabbia, dolore, incredulità cieca.
-Matt...
Esplose.
-
“Matt” il cazzo, Alex! Cosa cazzo aspettavate a
dirmi dei grandi piani che
avevate?! Avrò avuto il Cristo
di
diritto di scegliere anche io?! Tu li hai
fatti ammazzare!
-Sì,
grandissimo idiota! per salvare te!
Erano
entrambi in piedi, adesso, solo la scrivania a dividerli mentre si
affrontavano
faccia a faccia e Matthew poteva vedere, finalmente, le ombre scure
sotto gli
occhi di Alex, il suo pallore innaturale al di là del trucco
e quella traccia
salata di lacrime che cadono troppo spesso e troppo in fretta per poter
essere
cancellate del tutto.
-Ora,
a meno che tu non voglia rendere vana la morte di Brian e Stefan,
siediti ed
ascolta.- scandì lei nuovamente monocorde, approfittando di
quell'attimo di
esitazione pietosa.
Sì.
Decisamente sapeva come servirsi delle debolezze altrui.
Giorno
e notte erano trascorsi immersi nei preparativi. Eliza lo aveva
monopolizzato e
Matthew l'aveva lasciata fare. Le sue ore erano scivolate via in un
intorpidimento silenzioso che lei non aveva colto, così come
non aveva
percepito il vuoto dietro i suoi sorrisi o la distrazione nei suoi
gesti. Matt
faceva le cose con l'efficienza impersonale di un automa, rispondeva
alle
domande, organizzava, parlava e gestiva tutto senza essere presente a
sé stesso
nemmeno per sbaglio.
E
mentre nella sua testa il messaggio alla fine del video della morte di
Brian si
ripeteva all'infinito, un'altra parte del suo cervello - troppo
nascosta perché
qualcuno a parte lui potesse averne cognizione - stava già
elaborando un
proprio piano, alternativo e parallelo a quello della Resistenza.
Non
aveva dubbi sul perché qualcuno avrebbe dovuto prendersi la
briga di fargli
avere il dvd. Il Governo era attento a non lasciare in giro morti da
piangere,
Brian e Stefan erano spariti. Non
era
rimasto di loro che il ricordo di chi li aveva conosciuti. Alex e Steve
avevano
comunque fatto in modo da mettere in salvo la maggior parte di coloro
che erano
stati troppo vicini ai Placebo per
continuare a vivere, ma nemmeno loro erano stati in grado di dare a
Matthew
almeno la consolazione di una tomba da ricoprire di insulti e di
lacrime.
Quindi,
il fatto che il video sbucasse così - una prova schiacciante
di quello che il
Governo faceva ai dissidenti, o presunti tali - poteva voler dire solo
due
cose. O un insospettabile favoreggiamento dell'opera della Resistenza
da parte
di qualcuno molto in alto nella
scala
gerarchica di quella nuova oligarchia tirannica.
O una
trappola.
-Ehilà!
-Ehi,
campione!
-Come
va, Bells?
Matthew
strinse la mano che Dom gli tendeva in un amichevole
“cinque” e poi si voltò a
sorridere a Chris. Loro tre assieme, così allo scoperto nel
cuore di Victoria
Station, erano come un bersaglio con su una scritta al led; bisognava
muoversi
in fretta e Matt non perse tempo, dirigendosi velocemente
all'imboccatura della
metro.
-Dì
la verità, ti siamo mancati, eh?!- indagò intanto
Dominic, sistemandosi il
borsone sulla spalla e seguendolo altrettanto rapido.
-Assolutamente
no!- protestò Matthew vivacemente.- Tu sei una piaga
insopportabile e Chris mi
consumerà a furia di fissarmi come se si aspettasse che vada
in frantumi da un
momento all'altro. Dovreste rilassarvi, ragazzi.
Dominic
rise, assentendo implicitamente all'appunto dell'amico, ma Chris rimase
abbastanza impassibile da dare a Matt la certezza che avrebbe
continuato a
studiarlo in attesa di vedere una crepa evidente nella sua apparente
tranquillità.
E di crepe ce n'erano in abbondanza. Bastava aspettare che ne
affiorasse una
alla superficie ed il gioco sarebbe stato fatto: Matthew sarebbe andato
in
pezzi sotto i loro sguardi impotenti, senza che ci fosse proprio
più nulla che
loro potessero rincollare.
-Symphony?-
s'informò Dom, fingendo un disinteresse assolutamente
fasullo.
Matthew
ridacchiò:
-Dispiaciuto
che non sia venuta lei a prenderti, Dommy?- interrogò
malizioso.
-Un
po’.- Il batterista lo guardò inarcando un
sopracciglio.- Senza offesa, eh
Bells!
-Nessuna
offesa,- cinguettò Matt- lo so di non essere il tuo tipo!-
scherzò.- Comunque,
è tutta presa.
-Oh.-
intervenne per la prima volta la voce di Chris. Aspettò che
le porte del treno
si chiudessero alle spalle di tutti e tre e proseguì in tono
basso.- Abbiamo i
particolari?
-Abbiamo
tutto.- confermò brevemente Matthew. - E' fra due giorni. La
manifestazione
davanti all'Abbazia servirà da diversivo e noi dovremo
essere lì. I gruppi
armati irromperanno in piazza quando la polizia sarà
impegnata contro i
manifestanti.
-Dovremo
essere lì?- ripeté Dominic con un accento che
Matt faticò a decifrare
completamente, così si limitò a fare un cenno con
la testa. Dom abbassò lo
sguardo con un sospiro stanco, lasciando cadere a terra il borsone come
se non
avesse più forza per reggerlo.- Allora ci siamo...
-Hai
paura?- chiese Matt, meravigliato, realizzando quella cosa
all'improvviso.
Un
sorriso amaro tirò il viso dell'altro, che lo
fissò di sbieco senza rispondere.
Matthew
sentì un nodo serrargli la gola. Da quando quella storia era
iniziata non aveva
pensato a Dominic e Christopher nemmeno una volta. Non aveva mai
riflettuto sul
fatto che li stesse esponendo ai medesimi rischi a cui aveva scelto
volontariamente di sottoporsi.
Quando
aveva deciso di unirsi alla Resistenza aveva creduto di farlo da solo.
Tutto
quello che voleva era creare quanto più danno possibile a
coloro che avevano
ucciso Brian. Non poteva vendicarsi di un intero sistema - ed ai suoi
occhi era
proprio un Sistema ad essersi
macchiato
le mani del sangue di Brian - ma poteva urlare più forte di
quanto mai avesse
fatto e, per ogni singola voce che si sarebbe unita a quel grido, lui
avrebbe
ottenuto un pezzetto della propria vendetta.
Anche
se avrebbe dovuto immaginare che né Dom né Chris
lo avrebbero davvero lasciato
solo ad affrontare tutto quello, aveva accolto le loro adesioni alla
sua scelta
senza battere ciglio ma con un vago stupore. Le ragioni per cui lo
facevano gli
erano assolutamente sconosciute e, nel proprio egoismo, non aveva
voluto
indagarle: se Matthew Bellamy poteva essere un capo per una
rivoluzione, i Muse
potevano essere un ariete di sfondamento nelle difese del sistema.
Adesso,
per la prima volta, si rendeva davvero conto di cosa aveva chiesto
loro.
Impulsivamente
allungò una mano a stringere il braccio di Dominic,
sentendolo tremare
leggermente sotto le sue dita e cercando di trasmettergli un
po’ del coraggio
avventato ed inutile che provava dentro di sé.
-...ehi,
Matt.- sentì sussurrare all'altro mentre gli alzava addosso
uno sguardo appena
più spavaldo, divincolandosi scherzosamente dalla sua
stretta.- Piantala, o
tutti ricominceranno a pensare a noi come ad una coppietta di
fidanzatini!- lo
rimproverò.
-Coglione.-
commentò in uno sbuffo divertito Matt.
-Io
l'ho pensato.- affermò Chris, incassando di rimando le
occhiatacce di entrambi
gli amici.
-Beh,
adesso che sei ufficialmente gay anche tu…
-…io
non sono gay.
-Questa
è la cosa più stupida che abbia mai sentito in
vita mia, Bellamy.
-Non
è che perché vengo a letto con te, allora sono
inevitabilmente gay!
-…ti
prego…non dirmi che sei gay e pure omofobo.
La
discussione era nata per caso, si erano fermati davanti alla vetrina di
un’agenzia di viaggi. A nessuno dei due, in
realtà, interessava davvero
lasciare Londra - facevano un lavoro che li portava a stare lontani da
casa e
dentro un albergo per fin troppo tempo delle loro esistenze - quello
che
mancava sul serio ad entrambi era la possibilità di
condividere con l’altro i momenti
ed i luoghi. Per questo, davanti ai
nomi delle località più o meno
esotiche appesi dietro al vetro, avevano cominciato ad elencarsi
l’un l’altro
tutte le valide ragioni per scegliere uno specifico posto come meta
turistica.
Matt
avrebbe voluto portare Brian in Italia, a vedere i monumenti di Firenze
o
semplicemente a passeggiare sulle rive del Lago di Como. Brian aveva
riso del
suo entusiasmo e tirato fuori, in tono canzonatorio, quella storia
sulle “città
gay” e le “città etero”.
Quando Matthew aveva protestato che discutere di
sessualità di un luogo era ridicolo, Brian aveva cominciato
a parlare di Madrid
con uno sguardo deliziato, portandola ad esempio di come una
città potesse avere una
sessualità ben
definita. A Matt la Spagna
era sempre stata piuttosto indifferente e Brian sembrava non poter
accettare la
cosa, mentre riprendevano a camminare lungo le vie del centro se
n’era uscito
con quella cosa che la prossima loro vacanza sarebbe dovuta essere per
forza in
Spagna.
-Perché
adesso che sei ufficialmente gay…
Da lì
era stata una discesa di inevitabili battibecchi senza futuro: ad
entrambi
piaceva, semplicemente, punzecchiare l’altro sugli stessi
punti che erano una
forza ed una debolezza.
Era successo un secolo prima che il
Mondo
crollasse nel caos.
La
risatina di Eliza distolse Matt dalle proprie riflessioni. Era bassa ed
attutita, appena arrochita dalla troppa birra; Eliza doveva
già essere
abbastanza alticcia a giudicare dalle guance rosse e dallo sguardo
brillante
che rivolgeva a Dominic, appoggiato contro lo stesso tavolo che la
ragazza
aveva eletto a proprio trono. Il vestito troppo corto le scopriva le
gambe
incrociate quasi fino alle cosce e, se non fosse stato per la felpa
enorme -
…di Chris? – che portava addosso, Matt era quasi
sicuro che lo scollo
dell’abitino avrebbe sortito effetti insperati
sull’umore del suo migliore
amico.
Forse
il rossore non era dovuto all’alcool, comunque.
Dom
aveva passato gli ultimi due giorni in una corte serrata alla ragazza.
Probabilmente dipendeva anche dalla voglia di esorcizzare quel momento
- che
inevitabilmente era arrivato – ed accettare che
l’indomani sarebbero andati
incontro ad una sorte imprevedibile, i cui toni avevano tinte buie
quasi quanto
la musica di Matthew.
In
fondo era così che si sentivano tutti e tre: intrappolati
nelle scale contorte
di una canzone con troppe variazioni, una sinfonia di accordi foschi
che
trascinava troppo in basso e troppo in alto e mai lungo la direttrice
sicura
dello stesso giro ripetuto all’infinito.
Le canzoni di Brian erano costruite
attorno
ad un unico giro di basso. Sicuro, monotono, accompagnato dalla voce
roca e
nasale che scandiva il suono di un’anima in pace con quel
coacervo mutevole che
sono le emozioni ed i sentimenti di un uomo. Disturbato solo
dall’ossessione
distorta di una chitarra dal suono
elettrico,
un impulso che richiamava ad una realtà di frustrazione e
silenzio caotico.
-Pensavo…considerato
che domani potremmo non essere più qui…stasera
dovremmo concederci tutto quello
che avremmo sempre voluto.
Il
tono di Dom, con tutta la propria malizia di sempre, suonava vergato
appena
dalla stonatura di una paura riflessa, inchiodata in un angolo scuro
della
mente e lasciata lì per trovare il fiato e la forza di
continuare a vivere.
Ogni secondo.
Gli
occhi di Eliza ebbero un guizzo di luminosità più
intenso, un barbaglio di
azzurro che faceva tenerezza.
-…non
posso credere che tu ti stia giocando la carta “ultima notte
sulla Terra”.
Mancanza di voce. Mancanza di
parole.
Incapacità di esprimersi, di farsi capire dagli altri.
Restare in silenzio
poteva pesare sulla coscienza come un macigno e schiacciarti nel fango
senza
nessun diritto di “essere ancora”.
Dom
si nascose nella bottiglia che reggeva tra le mani, una delle poche
volte in
cui, esposto e scoperto, poteva sentirsi ancora in imbarazzo.
-Nah.-
sbuffò, fingendo un disinvolto disinteresse, che
fruttò l’allargarsi del
sorriso scettico di Eliza. Dominic la fissò di sottecchi,
incrociando lo
sguardo di lei, fisso a cogliere le variazioni della sua espressione.-
…ma se
lo stessi facendo…funzionerebbe?- interrogò a
mezza voce.
Eliza
scoppiò a ridere senza rispondere, ma nel modo distratto in
cui si lasciò
ricadere sulla sua spalla, aggrappata alle braccia di un Dominic che
rispose
alla sua risata con la propria, s’intuiva già il
senso di quella risposta.
Per questo dovevano farlo. Uccidere
ed
uccidere sé stessi, per il diritto di qualcun altro di
essere sé stesso al
posto loro.
“Avrei
dovuto capirlo, Brian”.
L’ingresso
di Chris nella stanza segnò il punto estremo dei pensieri di
Matthew. L’amico
gettò uno sguardo circolare alla stanza e, visti i due
“piccioncini”, scelse di
sederglisi di fianco costringendolo a voltare la testa per prendere
atto della
sua presenza e rivolgergli la propria attenzione.
-Hai
parlato con Kelly?
-Lei
ed i bambini sono pronti a lasciare il Paese con tua madre domani
stesso.-
rispose Chris.
Matt
si limitò ad annuire, non era sicuro di poter aggiungere
qualcosa che suonasse
confortante e, al di là di tutto, Christopher era
l’unico di loro a stare
ancora rischiando qualcosa. Matt e Dominic, semplicemente, avevano da
perdere
solo le proprie illusioni.
-Forse
è il caso di andare a dormire.- fu il consiglio saggio che
venne subito dopo
quel silenzio, strappando un sorriso a Matt che rifletté su
quanto fosse
assurdo che proprio l’altro dovesse mostrarsi ancora il
più serio e posato di
tutti loro.- Domani sarà una giornata faticosa.
-Sì.
Ci stavo pensando.- affermò Matt distrattamente, senza
specificare “a cosa”.- E
poi sono un po’ stufo di questo film.- aggiunse indicando
Dominic ed Eliza.
Chris
rise.
Nel
corridoio sentiva ridere Eliza e Dominic parlarle a voce bassa,
sensuale,
sussurrandole qualcosa che il muro si portava via inevitabilmente.
Matt
controllò la pistola per l’ennesima volta, si
assicurò che fosse carica e che
la sicura fosse inserita. Poi la rimise sul tavolo.
Recuperò
il quaderno dalla tasca posteriore dei jeans. A starsene lì
dentro – al sicuro
e nascosto – per quasi quattro giorni si era tutto
spiegazzato e rovinato ma la
pagina su cui aveva appuntato le coordinate del proprio appuntamento
al buio era intatta. Rilesse l’indirizzo.
Con
un sospiro chiuse il quaderno e lo posò di fianco alla
pistola.
I
passi di Dom ed Eliza si allontanavano, rumore di una porta che viene
chiusa e
poi niente.
Matthew
si stese sul letto, sollevando le braccia sulla testa e fissando il
soffitto.
Ora doveva solo aspettare che
tutti dormissero.
Nota di fine capitolo:
Prima di ogni altra considerazione,
voglio consigliare a tutti di
andare a leggere la “sorella” di questa storia:
“Killjoys
make some noise!” di
Erisachan.
Perché lì
c’è Eliza. E tanto, penso, basta!
Bentornati a questa seconda e
penultima puntata della nostra storia.
…uhm…molto
professional…
Dicevamo! Sono così
contenta dell’accoglienza che avete avuto per “Anno
Zero”! Ringrazio anche qui tutte quelle adorabili donne che
mi hanno lasciato
il loro commento e ringrazio, chiaramente, anche tutti coloro che hanno
solo
letto questa storia!
Ammetto che, dopo averla scritta,
io per prima avevo smesso di
crederci. Matthew Bellamy è un personaggio che gestisco con
immense difficoltà –
anche se mi piace un sacco – e questa storia è
parecchio diversa da tutto ciò
che ho scritto finora.
Però è stato
divertente.
Grazie ancora e buon divertimento!
MEM
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Capitolo 3 *** Anno Zero.3 ***
-Promettimi
che lo porteremo con noi!
-Certo. E poi ci avvolgeremo dentro
il corpo
di qualche ferito per usarlo come barella improvvisata. Matt, andiamo a
fare la
guerra, non ad un festival rock!
-Ma potremmo appenderlo alla porta
dell’Abbazia
e…
-Matt, non porteremo con noi il tuo
dannato
striscione.
-…sei una stronza, Sym.
“E poi la pioggia
scioglierà ogni cosa…”
-Se
questa dovesse essere la fine del mondo?
Aveva
riso. I capelli di Brian gli facevano il solletico contro il braccio,
Matt
aveva abbassato d’istinto una mano a carezzarli
distrattamente e non gli
sarebbe sembrato eccessivamente strano sentire l’altro fare le fusa.
-Sono
cose più adatte a me, da dire, che a te!
L’osservazione
non era piaciuta a Brian. Aveva storto il naso e Matthew gli aveva
letto negli
occhi, ora sollevati ad incontrare il suo sguardo, che quella domanda
era molto
più seria di quanto avesse voluto credere.
-Io
ci penso a come morirò, Matthew, come tutti.
Chiedersi
se fosse stato profetico o se, più facilmente,
già allora avesse previsto l’evolversi
di una situazione che stava cambiando troppo in fretta era inutile allo
stato
dei fatti. Che Brian avesse immaginato o meno il modo in cui se ne
sarebbe
andato, c’era di certo che era stato lui a programmarlo.
Avere qualcosa – qualcuno
– da incolpare che non fosse
lui o Alex, sebbene mero strumento, era consolante e Matthew preferiva
aggrapparsi a quel pensiero con tutte le proprie energie mentre
camminava lento
per le strade bagnate dalla pioggia del coprifuoco.
Notte
inoltrata, quasi l’alba, passeggiare per Londra a
quell’ora significava
aspettare solo di essere arrestati dalla polizia, uccisi da qualche
balordo o
etichettati come membri della Resistenza ed ammazzati a vista dai cani
sciolti
del Governo. L’unica cosa che lo impensieriva era la
prospettiva che, in quel
caso, non sarebbe riuscito ad arrivare al luogo
dell’appuntamento.
Aveva
tradito tutto per riuscirci. Aveva abbandonato una causa che non gli
era mai
veramente appartenuta; aveva lasciato gli amici di sempre, quelli
coinvolti per
forza in una battaglia non loro, a morire da soli; aveva rinnegato
sé stesso,
la propria musica, i propri ideali. Tutto quello che voleva, nel
fuggire come
un ladro dallo stesso rifugio che lo aveva ospitato per un anno e
mezzo, era
cancellare in un’alba personale, l’alba di rivolta
e martirio che tutti i suoi
compagni avrebbero combattuto.
L’immagine
scolorita dell’edificio, scuro contro un cielo plumbeo, e
scheletrico con le
sue finestre rotte ed i pilastri scarnificati di cemento, fu accolta
come una
benedizione. Matthew premette con noncuranza la mano contro il fianco
del
cappotto, avvertendo nella tasca la consistenza rassicurante della
pistola, poi
allungò il passo e sparì sotto il primo porticato.
“Ogni singolo abitante di
questa città, che
come noi voglia far sentire la propria voce a chi ci governa senza
essere stato
eletto e ci soffoca senza averne il diritto, dovrà accendere
questa Radio!”
Nelle
strade di Londra si rincorrevano il battere ritmico delle suole di
gomma contro
l’asfalto e il ticchettio basso della pioggia acida.
“Ogni singolo individuo
di questa città, che
voglia unire la propria voce alla nostra, dovrà alzare il
volume!”
La
voce di Urban Symphony si infrangeva e rifrangeva contro i muri e le
finestre.
Non importava contare quante di quelle fossero state aperte, per ogni varco tra Londra ed i suoi abitanti una
radio accesa trasmetteva lo stesso messaggio.
“Ogni singola persona di
questa città, che
voglia ricominciare a definirsi tale, dovrà scendere in
piazza adesso e tornare
ad essere libera! Qualunque sia il
prezzo da pagare!”
Le
note si riversarono fuori dalle finestre.
Ed i
passi divennero corsa.
L’uomo
aveva il viso scavato, la pelle si tendeva sulle guance e sugli zigomi
e rughe
profonde segnavano la fronte. Gli occhi erano l’unico accenno
di vita in un’espressione
incolore, due punti neri, due buchi. Che si fissavano contro i suoi con
forza.
-E
così sei venuto.- Esordio
banale…-
Matthew James Bellamy.
Ma si
poteva anche fare di peggio.
Avanzò
fino a trovarsi sotto una delle finestre. Un chiarore pallido scendeva
dai
profili dei palazzi intorno e scivolava attraverso le crepe nei muri.
Matt si
fermò alla luce, così che l’altro
potesse osservarlo come lui stava già
facendo.
-Io
però non ho un nome da darti.- osservò stringato.
Fu il
primo a stupirsi, piacevolmente, di come la propria voce fosse suonata
controllata e calma.
-Né
ti interessa darmene uno.- concluse per lui l'uomo.
Il
modo sicuro con cui si muoveva, senza badare a lui, certo di non
doversi
aspettare nessun pericolo, bastava da solo a fargli sentire un gelo
freddo
lungo la spina dorsale. Non era certo di come sarebbe andata a finire
ed anche
nella sua testa - dove tutto avrebbe
dovuto essere chiaro, almeno nelle aspettative - le cose si
accavallavano
in una confusione eccessiva, lasciandolo preda di così tante
sensazioni tutte
assieme che era inutile anche provare a districarcisi.
Il
punto, si disse pigramente, era “salvare perlomeno le
apparenze”.
Per
questo rimase immobile. L'uomo gli si avvicinò lentamente,
dandogli tutto il
tempo di reagire e senza neppure guardarlo in viso mentre lo faceva e
parlava.
-Sapevo
che lo avresti fatto. Non poteva essere diversamente del resto, tu vuoi
vendicarti.
-E tu
vuoi uccidermi.
-Oh!
niente di tanto banale.- confessò l'altro, con un sorriso a
mezzo ed uno
sguardo sbilenco. Si fermò, tra loro, adesso, c'erano meno
di due metri,
potevano parlarsi senza alzare la voce ma il vuoto attorno riempiva
comunque di
echi il cielo di Londra, grigio attraverso le fessure del palazzo.- A
te piace
Orwell, non è vero?- Non aspettò una risposta che
sapevano entrambi non sarebbe
arrivata. L'uomo continuò, mani basse e visibili, lontane
dalle tasche del
giaccone lungo, di pelle, che portava sul completo scuro. Era
anacronistico,
assurdo...orwelliano, appunto - Allora non ti sarà
difficile capire
quello che sto per dirti. Perché vedi, non sono gli uomini -
esordì sollevando
un dito e scandendo con quello l'enfasi del proprio monologo. Si
concesse
perfino una pausa ad effetto! - a fare la storia.- concluse - Sono le
idee a
cambiare il mondo.- sentenziò - Gli uomini nascono, crescono
e muoiono; ma le
idee nascono, infettano tutto e si propagano. E poi piegano la
realtà al
proprio dictat e diventano legge prima ancora che tu abbia potuto
assimilarle
completamente.
Davanti
al mutismo che ricadde immobile in mezzo a loro, l'uomo si
accordò il lusso di
squadrarlo. Uno sguardo breve ma la cui intensità
bastò a bruciargli la pelle
di una sensazione sgradevole di marciume. Dovette frenare l'istinto di
pulirsi
il risvolto del cappotto e rimase invece fermo, schiacciando la mano
contro il
calcio della pistola in fondo alla tasca.
-E'
per questo che io non voglio ucciderti.- riprese l'uomo, paziente come
se
stesse discutendo con un bambino.- Creerei solo un altro martire da
aggiungere
ad una lista fin troppo lunga e destinata a diventarlo ancora di
più, e
lascerei alle tue idee il tempo di cementarsi nelle coscienze
collettive con la
forza di una lapide a sigillarne l'eternità. Matthew James
Bellamy, la voce
della Resistenza!- proclamò accompagnando quel titolo con un
gesto teatrale di
presentazione.- No, da morto vali troppo.- sfiatò.
-Allora
cosa vuoi?
Lui
lo guardò, lo soppesò con gli occhi, valutando
l'ammasso di ossa e pelle che
era sempre stato.
-Cambiare
il mondo.- rispose come se fosse ovvio, inarcando le sopracciglia in un
accenno
di stupore educato.
Riprese
a passeggiare in modo lento ed ostentato, sembrava farlo apposta ad
offrirgli
la schiena nuda e forse era proprio quella consapevolezza ad impedire a
Matthew
di fare ciò per cui era lì. Lo seguì
con lo sguardo mentre gli girava attorno
in un cerchio simile a quello di una fiera, eppure era lui ad essere
“armato”
al momento...
-E
tu, Bellamy? Non sei qui per distruggerci o non saresti venuto. No, tu
sei qui
per la tua personalissima vendetta – ribadì
asciutto - e vedi, è proprio questo
che intendevo: non sono le persone, sono le idee.
-Le
mie idee le conoscete.
-Le
tue idee sono bugie.- Poche sillabe a formare la sua condanna. Matthew
pensò a
come dovevano essersi sentiti Dominic e Chris, quella mattina, nello
scoprire
che era scomparso e che aveva lasciato loro solo due frasi stringate di
scuse
con cui mandarli al macello.- Niente
di quello che la Resistenza proclama ti appartiene.
-Secondo
me abbiamo parlato anche troppo.- sibilò Matt estraendo
l'arma dalla tasca del
cappotto.
Fu un
secondo e nient'altro, una mano che si abbatteva contro il suo polso,
l'arma
volò via dalle dita ed uno sparo riecheggiò
nell'aria sfondandogli lo stomaco
con la forza di quel suono.
Nel
grigio sfumato di mille toni con cui Londra copriva le proprie strade,
Eliza
aveva il colore di una morte caritatevole.
In
piazza una folla chiassosa di manifestanti reggeva striscioni contro le
cariche
della polizia, alle loro spalle, da tutte le strade di accesso, un
fiume in
piena di individui sciamava con le intenzioni più disparate
seguendo il flusso
di una musica ossessiva e cattiva.
Eliza
si fermò all'imboccatura della strada e guardò
avanti. Un sorriso le illuminò
il viso di una gioia primordiale e violenta, sollevò la
canna della pistola
sopra la testa e la puntò.
-The
war is overdue.- recitò.
Matt
si ritrovò a boccheggiare, piegato sulle ginocchia,
prendendo fiato contro il
pavimento sudicio. Il calcio non lo aveva neppure visto arrivare,
l'uomo si era
mosso con l'efficienza di un militare ben addestrato, centrandolo in
pieno
stomaco come un proiettile.
-Pensavi
davvero che sarebbe stato così facile? - chiese con
gentilezza adesso.-
Andiamo! cosa sei tu, Bellamy? Un
ex
teppistello, un mollaccione troppo ricco cresciuto nella bambagia, una
patetica
imitazione di rivoluzionario a buon mercato?!- elencò
asciutto. Matthew sollevò
lo sguardo ad incontrare il suo.- La verità è che
non sei proprio niente.-
scandì breve l'uomo- Hai cessato di esistere il giorno
stesso in cui Brian
Molko ha cessato di respirare.
-L'ho
pensato anche io.- sussurrò di rimando, sollevandosi
lentamente per
raddrizzarsi sulla schiena e poi sulle gambe instabili. Si sentiva
senza forze,
arrivare fin lì era stato già dare tutto quello
che possedeva e non sapeva
quanto di lui rimanesse per completare ciò che si era
ripromesso - Quando ho
saputo, sentito davvero che Brian
aveva smesso di esistere, di respirare, come hai detto tu. L'ho pensato
anche
io. Mi sono chiesto perché io, invece, stessi ancora
respirando, perché mi
stessi muovendo quando non avevo un obiettivo da far raggiungere alle
mie
gambe. Senza Brian non avevo un cazzo di niente, eppure continuavo a
muovermi,
una parola dopo l'altra, seguendo le note di una canzone che non mi
andava
neppure di ascoltare. Ma ora sono qui, probabilmente Brian mi darebbe
del
coglione, non si è fatto ammazzare perché io
potessi sanare le mie ferite nel
sangue di una vendetta che forse non riuscirò neppure ad
ottenere. Eppure,
esattamente come Brian che è morto per quello che credeva
giusto, allo stesso
modo io sono qui ora, davanti all'uomo che l'ha ucciso, come qualcuno
che non
ha più niente da perdere, come il più pericoloso
dei coglioni.
-…pericoloso?
Un
rumore sordo, il suono di dieci…cento…mille…passi
tutti uguali e tutti fatti nello stesso istante. Matthew non ebbe
bisogno di
voltarsi per sapere di essere circondato. Le sicure delle armi
scattarono tutte
assieme con una precisione che aveva dell’incredibile.
-Tu
non ha neppure idea di cosa voglia dire
“pericoloso”.- lo derise l’uomo.
-Forse
no,- concesse Matt con un sorriso stanco – ma ora sei tu ad
illuderti se credi
che sarà così facile.
Nella
confusione Eliza volteggiava come una farfalla, i suoi colori
dissipavano la
folla in una marea uniforme di grigio e sangue e lei diventava
l’unica cosa
concreta su cui fermare lo sguardo.
Fu
per questo che Dominic guardò verso di lei. E poi si
voltò attorno, prendendosi
il tempo di una pausa che sapeva di irrealtà nel furore che
imperversava
attorno a loro.
Matthew li aveva abbandonati.
Chris era scomparso.
Eliza era lontana.
Vide
uomini in divisa nera fare irruzione nella piazza, percorsero le
medesime
strade che loro avevano percorso, bloccandogli qualsiasi via di fuga da
quel
campo di battaglia. Westminster sembrava così distante da
essere
irraggiungibile e la realtà stava reclamando il proprio
pagamento.
Matthew
gli si scagliò contro. Stavolta fu l’uomo a non
prevedere quella mossa,
semplicemente credendo che si sarebbe limitato a farsi ammazzare, si
tirò
indietro troppo lentamente ed il pugno dell’altro lo
colpì alla mascella,
stordendolo a sufficienza perché Matt potesse superarlo di
un balzo, recuperare
la pistola e dileguarsi verso le scale che portavano ai piani superiori.
-Non
sparate!- sentì urlare mentre attaccava la prima rampa,
sentendo già il fiato
pesante per la paura e l’adrenalina in corpo.- Mi serve vivo,
quel bastardo!
Prendetelo!
Irruppe
in un salone enorme, finestre a tutta parete, ingabbiate da
intelaiature di
ferro arrugginito e corroso dall’acido, inondavano lo spazio
di luce mentre l’alba
esplodeva all’orizzonte e la pioggia cessava di scolare dai
tetti. Per un
istante, in cui riuscì a cancellare perfino l’eco
dei passi in corsa dei suoi
inseguitori, Matthew pensò che quello doveva essere il
paradiso. Uno spazio
senza confini si apriva attorno a lui, vuoto e riecheggiante di luce e
di
calore, al centro del pavimento spoglio ricoperto di calcinacci,
proprio
davanti alla finestra, un pianoforte a coda sembrava essere stato
lasciato lì
apposta ad aspettarlo. Aveva una linea impossibile, come
un’astronave atterrata
sulla Terra in tempi immemori e dimenticata da alieni che avevano preso
sembianze umane e scelto una mortalità terrena. La laccatura
nera, incredibilmente
intatta nonostante il tempo e l’incuria, era talmente lucida
da sembrare
plastica su cui si aprisse un cuore rosso, pompante e vivo, le corde
che si
tendevano sembravano altrettante vene o nervi pronti al balzo ed il
piede di
metallo era massiccio e saldo.
Non
si accorse nemmeno di essersi mosso verso quell’oggetto,
spinto da qualcosa di
talmente irrazionale da trascendere del tutto il terrore, la rabbia e
la
violenza di quel momento. Quando sentì i passi alle proprie
spalle arrestarsi
in uno scalpiccio disomogeneo, tornò alla realtà
con uno scossone doloroso che
lo indusse a voltarsi di scatto e serrare le dita attorno
all’arma, di nuovo
consapevole di sé e degli altri. Puntò la pistola
al viso dell’uomo nello
stesso momento in cui lui faceva altrettanto.
La
presenza silenziosa del pianoforte era così reale che Matt
si voltò a
sincerarsi che fosse immobile come lo aveva lasciato perché
in quel momento, lì
dentro, aveva la convinzione che potesse prendere vita e decidere
liberamente.
Il suo passo verso il Paradiso.
L’uomo
se ne accorse.
-Sei
sciocco, Bellamy!- sfiatò, rancoroso. Per Matt fu una
vittoria già apprendere
di essere riuscito ad incrinare quella patina di perfetto controllo che
l’altro
aveva sfoggiato fino a quel momento.- Dovresti quantomeno ascoltare
quello che
ti sto offrendo!
-Tu mi staresti offrendo
qualcosa?!-
sbuffò Matthew con un mezzo sorriso, divertito e disperato
assieme.
-Certo!
In fin dei conti, potresti tornare a suonare.- affermò
l’uomo, riacquistando
forza e vigore man mano che parlava.- Non è sempre stata
quella l’unica cosa
importante? Niente più mezzucci ed inganni, ma musica vera.
Potresti fare tutto
quello che hai sempre voluto e farlo alla luce del giorno.
Ricominceresti a
vivere…Tutto quello che ti chiediamo in cambio è
un compromesso.
Quella
parola gli rimbalzò addosso come un insulto, già
a pelle avvertiva quanto fosse
sbagliata.
-…che
diavolo stai dicendo…?-
sussurrò
strozzato, rinserrando ancora di più la stretta attorno alla
pistola.
-Non
vogliamo nemmeno che tu rinneghi del tutto la tua decisione di
contestare il
sistema, ma solo che tu lo faccia ponderando meglio le tue scelte.-
spiegò l’altro,
variando ancora la voce in una ragionevolezza insinuante.- Una
contestazione
mirata, calibrata ed efficace, una valvola di sfogo per ragazzini che
non sono
ancora in grado di valutare da sé e necessitano di un
indirizzo di pensiero. Mi
sembra un buon compromesso… Ed in cambio, potresti
permettere che questa
giornata di massacro si concluda con un bilancio migliore.
L’arma nella mano di
Matthew tremò.
-Credevi
davvero che non lo sapessimo?- indagò l’uomo,
fingendosi sorpreso - Sono mesi
che conosciamo con esattezza ciò che si è
preparata a fare la Resistenza,
aspettiamo pazientemente che veniate allo scoperto…abbiamo
pianificato tutto.-
affermò stringato- Però tu potresti evitare un
mucchio di morti inutili. I tuoi
amici non ci interessano, Matthew, vivi o morti non fanno differenza
per noi.-
Lasciò il tempo che quelle parole scivolassero a colmare la
distanza che li
separava, poi affondò con precisione chirurgica.- Davvero
non vuoi che Dom e
Chris si salvino? Lasceremo liberi voi e tutte le vostre famiglie,
Kelly, i
suoi figli…pensaci. Sarebbe stato questo che Brian avrebbe
voluto ottenere con
la propria morte.
Sapeva anche questo! Matt
sentì le
braccia cedere, sollevò l’arma prima che ricadesse
inerte contro il fianco,
lasciando che lo stupore attonito che lo pervadeva trasparisse nel suo
sguardo
smarrito. All’improvviso non era così importante
restare saldi.
L’uomo
sorrise davanti a lui. Appariva quasi paterno nel farlo, mosse due
passi in
avanti e non sembrava così minaccioso come era stato
all’inizio. Matt voltò lo
sguardo al pianoforte. Era ancora lì, silenzioso, e lui
pensò che avrebbe tanto
voluto avere il tempo per sfiorarne i tasti, prendersi la briga di
scoprire se
anche la sua voce era aliena,
straniera, e parlava di galassie lontane altri mondi. Ed altre vite.
Quando
tornò a voltarsi verso l’uomo, puntò
nuovamente la pistola davanti a sé.
-Non
so cosa Brian volesse. Non ha avuto la decenza di dirmelo.- ritorse
incolore.
-…non
essere stupido!- sibilò l’uomo bloccandosi di
colpo.- Se anche mi uccidi, non
uscirai di qui se non trascinato in catene!- osservò
accennando agli uomini
disposti dietro di loro.
Matthew
si strinse nelle spalle.
-Però
tu sarai morto.- ribatté.
La
risata educata dell’uomo era il suono più sinistro
che potesse riempire una
mattina così bella…
-Te l’ho
già spiegato, Bellamy, non sono gli uomini. Sono
le idee.
“…è
vero, Matthew. Tutto quello che possono
farti, è ucciderti”.
Si
voltò ancora verso il pianoforte.
Un
sorriso sbilenco ma sincero gli tirò il volto e tutta quella
pesantezza
opprimente che sentiva al petto si dissipò con la luce di
un’alba incredibile.
Pensò che perfino la pioggia acida poteva avere un suo
profumo e che questo
potesse essere bellissimo,
ché l’odore
di umido e di terra che saliva tutto intorno era il sottofondo
più piacevole di
una musica che suonava solo nella sua testa. Il
pianoforte non era affatto silenzioso. Il suo cuore di corde
e
nervi pompava aria e la trasformava in note e non c’era alcun
bisogno di
sfiorare i tasti per sentire la voce di altri mondi provenire dal fondo
dell’anima.
-Hai
ragione. Winston c’è arrivato troppo tardi.-
ridacchiò.
Quando
sollevò lo sguardo ritrovò
l’espressione dell’uomo, perplessa, che lo studiava
con un’attenzione nuova. Lasciò cadere a terra
l’arma e lo vide rilassarsi,
abbassando la propria e sorridendo apertamente in risposta al suo
sorriso.
Peccato
che non avesse capito affatto.
Il
pianoforte era più leggero di quello che pensava,
rotolò sulle proprie ruote
acquistando velocità in una confusione crescente di grida,
rumore metallico e
scricchiolii di legno e corde. Nell’impatto contro la
finestra un fiume
straripante di accordi aritmici pervase l’aria coprendo ogni
cosa in un
frastuono che gli sembrò la musica più bella mai
ascoltata. Quello strumento aveva la voce
limpida di un
angelo di metallo.
-Non
sparate, idioti!
Matthew
non si voltò. Corse dietro la scia del pianoforte, nella
stessa corsa che
avrebbe fatto su una scala
immaginaria di note. La finestra si spalancò davanti a lui
mentre il pianoforte
si schiantava al suolo, quattro piani più in basso,
trasformandosi in una
pioggia di schegge di legno.
Il
rimbombo fuori tempo della voce dell’uomo gli fece storcere
il naso…
-Sei
un pazzo, Bellamy, hai condannato tutti loro!
…odiava
le disarmonie.
“E’ strano,
Matthew, sai che io le amo,
invece.”
“Tu ed io non facciamo la
stessa musica,
Brian. Fortunatamente.”
Il
suolo si portò via anche quel pensiero.
Si
svegliò di soprassalto.
Un
sudore gelato gli ghiacciava la schiena, il fiato corto ed affannato.
Tirò un
respiro profondo, portandosi la mano all’altezza del petto
per sentire il cuore
battere impazzito sotto le dita, artigliò la maglia fino a
sformarla e
staccarla a forza dalla pelle sudata. Era
vivo.
Lentamente
la sua coscienza prese atto dello spazio che lo circondava. La stanza
era in
penombra ma i mobili di legno chiaro gli erano familiari ed era steso
su un
letto che conosceva, avvolto in un profumo che non avrebbe potuto
scordare
nemmeno in un milione di anni. Dalla porta aperta proveniva la luce di
una
giornata chiara ed il rumore di sottofondo, attutito e quasi
impalpabile, di un
televisore acceso.
Un
tonfo leggero alla sua sinistra lo fece trasalire. Matthew si
voltò di scatto,
intuendo la figura scura che si avvicinava attraverso il materasso. Per
poco
non si mise ad urlare.
-…Aristotele.-
sfiatò.
Il
grosso gatto tigrato miagolò basso in risposta, zampettando
verso di lui in un
ronfare morbido e rilassante. Matt chiuse gli occhi e lasciò
che l’animale lo
raggiungesse e gli si strusciasse contro il braccio in cerca di una
carezza.
-Non
sono mai stato così felice di vederti, bestiaccia.-
mormorò acconsentendo a
carezzargli il testone e grattargli dietro le orecchie.
Il
gatto miagolò ancora. Matt scostò di lato le
coperte e mise i piedi a terra,
osservando distrattamente Aristotele sedersi al suo posto e prendere a
pulirsi
il muso scrupolosamente. Quando Matthew si diresse alla porta, il gatto
gli
andò dietro con un altro balzo sordo ed elegante.
Come
aveva intuito, un mattino soleggiato lo accolse con entusiasmo mentre
attraversava il corridoio; le finestre gigantesche, a pannelli,
lasciavano piovere
dentro il mondo intero e mai come quel giorno Matt si sentì
grato di una simile
scelta architettonica. La cucina era in fondo al corridoio,
attraversò la
soglia ed il profumo del the lo investì. Era
a casa.
Si
fermò all’ingresso. Certo che l’altro,
che gli dava le spalle e guardava
assorto lo schermo della TV appesa sulla parete opposta, non lo avesse
nemmeno
sentito arrivare. Voleva prendersi il tempo necessario a realizzare che
era
stato solo un sogno e che non sarebbe
successo davvero. Voleva prendersi tutto il tempo necessario
per
ricominciare a vivere.
Aristotele
miagolò insoddisfatto, trotterellando fin sotto la sedia di
Brian e puntandogli
addosso uno sguardo pretenzioso non appena lo ebbe raggiunto. Il bruno
si chinò
a fissarlo con espressione perplessa, realizzando la sua presenza con
uno
sbuffo.
-E tu
che ci fai qui? – lo interrogò- La tua padrona ha
di nuovo lasciato aperta la
porta dell’abbaino, eh?
Per
tutta risposta, il gatto miagolò e si sedette in attesa.
-…immagino
che tu voglia mangiare.- realizzò Brian, inarcando un
sopracciglio in un’espressione
così buffa che Matt non poté evitarsi di ridere.
Così
lui si voltò.
-Buongiorno
anche a te!- commentò quando si rese conto che Matthew
doveva starlo spiando
già da un po’.
Prima
che Brian capisse anche cosa stava succedendo se lo ritrovò
addosso, che lo
stringeva freneticamente e sembrava volerlo divorare in un solo bacio.
Ricambiò
impacciato, spingendolo via quando quasi soffocò.
-Che
diavolo ti prende?!- indagò, prendendo fiato in modo
esagerato.
Matt
non lo lasciava, entrambi si strattonavano per la maglietta,
l’uno nel
tentativo di trascinarsi addosso l’altro, che si difendeva
strenuamente in una
lotta scherzosa che fece ridere Matthew.
-Sono
felice di vederti!- esclamò allegramente.
-Oh,
sì, questo è chiaro. Ma siccome è solo
da sei ore che non ci vediamo…
-Ho
fatto un brutto sogno.- confessò Matt, liberandolo.
Brian
fece altrettanto, fissandolo poi con aria interrogativa mentre Matt
girava
attorno al tavolo in direzione della cucina.
-Il
the è nel bollitore.- lo direzionò –
Che sogno?
Matt
recuperò una tazza da sopra il lavello ed il bollitore dalla
cucina,
appoggiandosi al mobile mentre si versava da bere.
-Tu
morivi.- affermò stringato.
Brian
sbuffò per nulla impensierito.
-Non
è nei programmi, al momento.- ritorse sarcastico.
-Invece,
eri proprio tu a programmarlo.
-Cielo! e
perché accidenti avrei dovuto
fare una cosa così stupida?!
-Per
salvare me.
Gli
si sedette davanti, dall’altro lato del tavolo, e Brian lo
osservò prendere una
sorsata dalla tazza.
-Ma
morire per salvarti non avrebbe senso,- sdrammatizzò
– tu non puoi vivere senza
di me!
Matthew
ridacchiò.
-Infatti.-
ammise semplicemente.- Vedi di ricordartelo la prossima volta.
Brian
liquidò la cosa come una sciocchezza, agitando la mano a
scrollarla lontana da
entrambi, e sollevò di nuovo il viso verso lo schermo.
Matt
lanciò all’apparecchio un’occhiata
distratta e tornò a sorseggiare il the.
-Dicono
qualcosa di interessante?
-Mh.
Pare che ci siano stati un altro paio di attentati stanotte.-
raccontò Brian
giocherellando con la propria tazza sul ripiano di legno –
Stanno discutendo l’ipotesi
di varare delle leggi di protezione
nazionale. Una cosa tipo “pugno di ferro per fare
fronte all’emergenza”.
Non penso che ne verrà fuori niente di buono.
Quando
Matthew posò la tazza sul tavolo, questo produsse
un’unica nota, un suono
caldo. Rassicurante.
“Anno
Zero”
MEM 2010
Nota di fine capitolo della Nai:
Terzo ed ultimo capitolo.
Ed io vorrei riempirvi di parole -
sul serio
- per dirvi quanto vi ringrazio per il calore stupendo con cui avete
accolto
questa storia. Perchè onestamente non me lo aspettavo e mi
sembrava, tanto per
cambiare, una delle mie solite elucubrazioni prive di senso.
Ed invece, vedere l'affetto che le
avete
rivolto e la profondità con cui avete commentato i suoi
passaggi...beh, sì, mi
ha fatto un piacere tale che meriterebbe davvero un milione di parole
per dirvi
«grazie».
Ma dovrete perdonarmi, stasera,
perchè non
ce le ho proprio un milione di parole.
Non ce le ho per nessuno. Ma ho
solo uno
stupido cuoricino che batte, tutto rotto. E le ragioni sono stupide,
tranquilli, niente che non si riaggiusti da sè ma solo un
pò di fatica, graffi
ed ammaccature in più.
Quindi scusatemi, ma fingiamo che
vi abbia
detto un milione di volte grazie. Perchè è solo
merito vostro ed è tutta
vostra.
MEM
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