La villeggiatura di Macchia argentata (/viewuser.php?uid=112601)
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Indovina chi viene in campagna? ***
Capitolo 2: *** Le donne, i cavallier, il vino, gli amori ***
Capitolo 3: *** Nulla è così terribile da non poter peggiorare ***
Capitolo 4: *** Si dice che ogni battaglia nasca da un malinteso ***
Capitolo 5: *** Come l'acqua per le rose ***
Capitolo 6: *** Doccia svedese ***
Capitolo 7: *** Chi cerca trova ***
Capitolo 8: *** Epilogo ***
Capitolo 1 *** Indovina chi viene in campagna? ***
la villeggiatura
Non
pensavo che avrei pubblicato una nuova fan fiction a capitoli
così presto, ma questo weekend sono stata a teatro a vedere
‘La trilogia della villeggiatura’, e l’ispirazione
è venuta da sé! Lo spettacolo era davvero bellissimo, i
costumi settecenteschi una favola, ma ciò che mi ha colpito
più di tutto, è stato il tono dolceamaro, assolutamente
ironico in alcuni punti, di cui è intrisa l’intera
commedia^^ L’idea di scrivere qualcosa inerente a Lady
Oscar è arrivata quasi subito, e ho voluto provare abuttare
giù qualcosa di un po’ più leggero e divertente
rispetto alle mie solite fan fiction malinconicheXD Qualcosa che si
discosta abbastanza dalla linea seguita dall’anime, inventandomi
scenari completamente nuovi rispetto alla trama originale. E’ la
prima volta che provo a fare qualcosa del genere e non so se sono
propriamente riuscita nell’intento…per questo mi affido al
vostro giudizio!XD I capitoli che ho in programma di scrivere non sono
molti, forse cinque o sei, ma potrebbero anche essere di
più…o di menoXD I capitoli si alterneranno con i diversi
punti di vista di Oscar e Andrè^^ Spero che anche questa volta
vorrete farmi sapere cosa ne pensate, in bene e in male…critiche
e suggerimenti sono sempre assolutamente bene accetti!
La trama, naturalmente, prende lontanamente spunto dalla Trilogia della villeggiatura, di Carlo Goldoni^^
Buona lettura!
1 - Indovina chi viene in campagna?
Il blu denso della notte appena trascorsa andava sfumando in un tenue
color crema, al quale si mescolavano delicate sfumature sui toni del
rosa. Il mondo, osservato da quella finestra striata di brina, sembrava
quasi immobile, cristallizzato in un silenzio che pareva fatto
d’eternità.
Mi portai una mano alla bocca, e repressi un sonoro sbadiglio per quella levataccia.
“Andrè! Andrè!...Andrèèè!”
Le urla della mia cara vecchietta non tardarono a rompere quella quiete
assoluta, irradiandosi nell’aria gelata del primo mattino come
uno stridore di unghie sulla superficie di un vetro.
Roba da far drizzare i capelli sulla testa.
“Sono qua, nonna…non ci vedo da un occhio ma ci sento
perfettamente da entrambe le orecchie” mormorai fiaccamente,
comparendole alle spalle. Tra le braccia reggevo una pila consistente
di lenzuola e tovaglioli, che mi premurai di impilare in uno dei bauli
disseminati sul pavimento dell’ingresso.
Cinque bauli, per l’esattezza. Ogni volta restavo vagamente
perplesso dalla quantità eccessiva di inutili orpelli che un
nobile ritenesse giusto portare con sé in villeggiatura.
Voglio dire…passino lenzuola, abiti, generi alimentari e, beh,
trattandosi della famiglia Jarjayes, armi di qualunque tipo.
Ma che dire dell’intero corredo di posate d’argento e
calici in cristallo? E della strumentazione cartografica? E delle
dieci tovaglie in pizzo macramè?
Mi inginocchiai tra i bauli, sistemando gli ultimi oggetti che la nonna
aveva accumulato lì a fianco, spuntandoli dalla lista che aveva
compilato in fretta e furia una settimana prima, quando il generale
aveva improvvisamente deciso di partire per una villeggiatura invernale
che ‘avrebbe disteso i nervi a tutti quanti’, lista che
brandiva come un’arma ogni qual volta provavo a farle notare
l’assurda quantità di cose inutili che i Jarjayes
avrebbero, a suo dire, ‘gradito’ avere a portata di mano
durante la villeggiatura.
“Ah, ci siete anche voi, maestà?” Esclamai,
trovandomi tra le mani un piccolo mezzo busto di marmo di Luigi XVI. Lo
riposi ordinatamente tra un tappeto orientale e un vaso di Boemia:
“Vedrete che la villeggiatura farà bene anche a
voi…certo, il viaggio in baule lo sconsiglierei, ma se non altro
sarete in buona compagnia…” mormorai, notando, non senza
una certa perplessità, le marmoree sculture di Luigi XV ,
Bien-Aimé, e Luigi XIV, Roi Soleil, che aspettavano di essere
infilate in qualche bagaglio.
La dedizione del generale alla corona era quasi commovente, talvolta.
Scossi la testa e riposi i busti di reale memoria nel baule; certo,
sarebbe pesato una mezza tonnellata, ma come si poteva partire senza
avere i propri reali a portata di mano?
“Ecco qua, vossignorie sono pronte per il viaggio!”
Esclamai, chiudendo il coperchio con un sospiro di sollievo “E
state buoni, lì dentro…niente estenuanti discussioni su
chi abbia gestito meglio il regno, tanto questi discorsi non portano
mai da nessuna parte…” conclusi, battendo un paio di volte
la mano sul baule.
“Andrè, posso chiederti con chi stai parlando?”
La voce di Oscar, alle mie spalle, mi colse totalmente di sorpresa.
Ma cosa aveva sotto alle suole degli stivali, delle pattine? Perché non la sentivo mai arrivare?
“Oscar!” Esclamai, sollevandomi di scatto. Il precario
equilibrio datomi dal fatto di avere un occhio solo venne meno e mi
trovai ad inciampare nei miei stessi piedi.
Oscar mi afferrò al volo.
“Diavolo!” Esclamai, afferrando il suo braccio teso, e ritrovandomi praticamente abbracciato a lei.
Ci fu un momento di lieve imbarazzo, poi Oscar, con un leggero colpo di
tosse, si staccò da me indietreggiando di un passo e mi
osservò con il sopracciglio leggermente rialzato:
“Andrè, tutto bene?”
“Si…si. Scusami, sono…inciampato.” Mi sistemai il collo della giacca, evitando il suo sguardo.
Oscar mi scrutò sospettosa: “Si tratta dell’occhio?”
“L’occhio? Oscar, ma…no.” Non sembrava
convinta. Emisi un sospiro e mi sistemai i capelli sulla fronte,
sorridendole: “L’occhio va bene, non ti preoccupare.
E’ questo trambusto…Io, stavo finendo di preparare i
bauli…credo che mia nonna abbia per un attimo perso il controllo
di se stessa. Forse è convinta che ci stiamo trasferendo in
America, hahaha…”
La sfumatura truce che assunse lo sguardo di Oscar mi costrinse a tacere di colpo.
Già, l’America. Mai menzionare l’America.
Era passato quasi un mese da quando Oscar aveva giocato la sua ultima
carta con Fersen, presentandosi ad un ballo in abito da sera. Il suo
umore dei giorni seguenti mi aveva reso partecipe del fatto che le cose
non fossero andate esattamente come lei aveva sperato, ma poi gli
eventi avevano preso una piega inaspettata, e con la vicenda del
cavaliere nero, impresa in cui Oscar aveva concentrato tutte le sue
energie proprio, supponevo, per evitare di pensare, mi ero ritrovato ad
avere ben altri pensieri per la testa.
Pensavo sarebbe stata la mia grande occasione per dimostrarle
finalmente quanto potevo essere in gamba, e ci avevo anche creduto per
qualche giorno, davvero…Io e lei nuovamente uniti e affiatati in
una missione segreta, di cui molto dipendeva da me. Ma poi gli eventi
erano precipitati, e a farne le spese era stato il mio occhio sinistro,
e non solo. Quando Oscar infine aveva messo le mani sul cavaliere, mi
ero ritrovato a chiederle io stesso di liberarlo, in nome di quegli
ideali di giustizia ed uguaglianza che il popolo, da tempo, andava
reclamando, e di cui il cavaliere si faceva portavoce.
Il generale era andato su tutte le furie, e sapevo che per Oscar era
stato difficile sopportare di avergli dato un delusione, quando avrebbe
dovuto ricevere onori e complimenti per il suo ottimo operato.
Insomma, la missione si era rivelata un disastro su tutti i fronti.
Oscar era sempre più taciturna e chiusa in se stessa, io vagavo
per la casa inciampando continuamente e chiedendomi se lei mi avrebbe
liquidato dal ruolo di attendente, ora che ci vedevo solo da un occhio,
la nonna non faceva che piangere e pregare e al generale stavano per
saltare i nervi da un momento a quell’altro.
Poi, all’improvviso, la decisione di partire per la villeggiatura, anche se eravamo nella stagione invernale.
La nonna era entrata nel panico: organizzare una villeggiatura in appena una settimana?
Oscar si era limitata ad un silenzioso consenso, del resto, non avrebbe
potuto muovere obiezioni al volere paterno. E io, beh…io ero
contento. Avevo sempre amato la villeggiatura, e amavo Arras. I ricordi
più felici della mia infanzia erano legati a quel posto, e anche
se l’avevo sempre vissuta nei mesi estivi, non dubitavo che una
villeggiatura invernale potesse essere da meno.
Certo, c’erano i bagagli da preparare, i conti da saldare prima
della partenza, e un turbolento viaggio di diverse ore in carrozza,
stipato tra bauli e bagagli. Ma una volta arrivati, si veniva
compensati di tutto dalla vista della magnifica tenuta immersa nel
verde…Ricordavo con dolcezza le lunghe cavalcate per i boschi,
il sapore fragrante delle mele maturate al sole, il profumo delle
enormi lenzuola stese ad asciugare, che sventolavano leggere nel vento.
“Senti, Andrè…” la voce di Oscar irruppe in quei ricordi felici, riportandomi alla realtà.
“Se tu avessi dei problemi con l’occhio, me ne parleresti,
vero?” Notai che si stava mordendo il labbro, e che evitava il
mio sguardo. Non ero ancora riuscito a dissuaderla dal sentirsi in
colpa, da quando avevo avuto l’incidente. Un impulso improvviso
mi spinse a sollevare una mano; avrei voluto carezzarle dolcemente una
guancia, e guardandola negli occhi rassicurarla sul fatto che la sua
preoccupazione era del tutto immotivata, seppur quasi commovente. Ma le
circostanze, naturalmente, non me lo permettevano. Così
riabbassai la mano e le sorrisi: “Oscar, va tutto bene. Sto bene,
starò bene…davvero. Sono lusingato dal fatto che tu ti
preoccupi per me, ma non ce né motivo, sul serio…Tu
piuttosto, sei sicura di stare bene? Mi sembri piuttosto pallida
e…come mai sei già sveglia a quest’ora? Questa
è l’ora in cui la servitù prepara i bagagli e i
padroni dormono fino all’ora della partenza!” provai a
scherzare, ma in cambio ottenni solo un’espressione vagamente
infastidita.
“Andrè, non ho molta voglia di scherzare. Questa notte ho
dormito poco…e male. E se tu sei sveglio, non vedo perché
non dovrei esserlo anche io, a maggior ragione visto che ho delle
questioni da sbrigare personalmente, prima della partenza.”
“Bene.” Fu tutto quello che riuscii a dire. Il piccolo
momento di intimità che avevamo condiviso era sfumato ormai del
tutto, liquidato dal suo tono scorbutico. “A questo punto,
dunque, perdonami…ma devo finire di preparare i bauli per il
viaggio.”
“Bene.”
“Bene.”
Ci fu un altro momento di lieve imbarazzo, in cui i nostri sguardi
rimasero avvinti per un secondo più del dovuto. Poi Oscar,
leggermente rigida, girò i tacchi e si allontanò da me.
Ma avrei giurato che avesse ancora qualcosa da dire.
Qualche ora più tardi, avevo finalmente finito di caricare
l’ultimo baule nel calesse che viaggiava insieme alla carrozza.
Mi appoggiai con la schiena al fianco del calesse e sospirai,
asciugandomi il sudore dalla fronte con il dorso della mano. Il placido
baio a cui era attaccato il barroccio mi lanciò
un’occhiata, scuotendo la testa e la coda, ed emettendo un sonoro
sbuffo.
“Hei amico, non guardarmi così. Non sono certo io che ho
deciso di trasferire metà della villa ad Arras…Ti
toccherà sgobbare su quelle stradine!” Mi avvicinai e gli
diedi un leggero buffetto sulla fronte. Gli occhi intelligenti
dell’animale mi scrutarono curiosi, mentre con il muso mi dava
dei leggeri colpetti al petto, probabilmente alla ricerca di qualche
zuccherino.
“Caschi male, questa mattina ho le tasche vuote…ma quando
arriveremo cercherò di procurarti qualche mela, anche
se…accidenti, questa non è stagione!” mormorai
sconsolato. Le mele di Arras, insieme alla sua birra, erano una di
quelle cose di cui non riuscivo mai a saziarmi quando mi ci recavo.
Beh, se non potevo contare sulla presenza delle mele in quel periodo,
niente mi avrebbe impedito di dedicarmi esclusivamente all’ottima
birra che producevano in quella zona.
Ero talmente assorto in quei pensieri da non notare gli zoccoli di un cavallo che mi si affiancavano nel cortile.
Quando sollevai lo sguardo per poco non mi venne un colpo.
“Andrè, è un piacere vedere che vi siete rimesso
quasi completamente, ho saputo del vostro incidente e me ne
rincresce.” La voce era garbata ed educata, come sempre. Il
portamento, fiero e dignitoso, lo sguardo amichevole.
Ci sarebbe mai stata una volta in cui avrei trovato dei difetti in quell’uomo?
“Conte di Fersen! Che…sorpresa, non mi ero accorto della
vostra presenza, scusate…” balbettai, preso in contropiede.
Non è mai una buona cosa farsi trovare a conversare con un cavallo. Decisamente no.
Mi diedi una spolverata alla giacca, su cui erano rimaste impigliate le
ragnatele e la polvere dei bauli, ma levando nuovamente lo sguardo su
di lui, lasciai perdere: la partita era comunque persa in partenza.
In sella al suo cavallo bianco, Fersen sembrava appena uscito da un
quadro rinascimentale: alto, bello, lineamenti delicati e perfetti,
capelli biondo cenere e quello sguardo assassino che gli avevo
più volte visto usare come un arma nei confronti delle dame che
passeggiavano a Versailles.
Non si compete con un uomo del genere, soprattutto se lui ha un titolo nobiliare alle spalle e voi un bel niente di niente.
La vita a volte sapeva essere così dannatamente ingiusta.
“Stavo cercando madamigella Oscar…ma voi, siete in
partenza?” mi domandò, lanciando un’occhiata
dubbiosa alla catasta di bagagli stipati sul calessino.
‘No, andiamo a fare un pic-nic’ avrei voluto ribattergli.
“In villeggiatura, nella tenuta di Arras per l’esattezza…” commentai fiaccamente.
“In villeggiatura…in questa stagione?” Il conte sembrava sorpreso.
“E’ una precisa volontà del generale.”
Spiegai, mentre in quel preciso istante, quasi lo avessi evocato, il
generale Jarjayes faceva la sua apparizione nel patio.
“Conte di Fersen!” Esclamò, sorridendo e stendendo
le mani verso il conte, che a sua volta scese da cavallo e, dopo avermi
mollato in una mano le redini dell’animale, si diresse al
cospetto del generale.
“Generale Jarjayes”
“Cosa vi porta a farmi visita?”
“Veramente, generale, stavo cercando vostra
figlia…figlio…” il conte aveva aggrottato le
sopracciglia, imbarazzato. Il generale venne in suo soccorso.
“Oscar non è in casa. Si è recata a Versailles
questa mattina per sistemare alcune faccende prima della
partenza…Voi sapete che siamo in partenza per la
villeggiatura?”
“Si, il vostro servitore me ne stava per l’appunto mettendo
al corrente…” Mormorò il conte, stringendo tra le
mani il suo cappello, mentre il sole invernale faceva splendere di
riflessi argentati i suoi occhi grigi.
Quando il generale guardò nella mia direzione, mi inchinai
leggermente, sempre stringendo tra le mani le briglie del cavallo del
conte. Se si decidevano ad entrare in casa, invece di discutere
lì sul patio, avrei potuto condurre l’animale nelle
scuderie, anche se preferivo naturalmente che il conte ci risalisse in
groppa il prima possibile e se ne tornasse da dove era venuto.
Possibilmente prima che Oscar rientrasse. Il suo umore non era dei
migliori, ma dalla sera del ballo mi sembrava si fosse leggermente
ripresa dal suo ultimo incontro con il conte e non volevo che quella
visita le rovinasse l’intera villeggiatura.
E la stessa cosa valeva per me, naturalmente.
“E’ davvero una fortuna poter contare su una tranquilla
residenza in campagna in cui rifugiarsi per avere un po’ di
riposo…Una città come Parigi alle volte può
rendere estenuante la vita, e corrodere persino la tempra più
resistente…” Stava considerando il conte, lisciandosi la
punta di un guanto.
Osservandolo meglio mi parve di scorgere un barlume di tristezza nel suo sguardo, unito ad una certa stanchezza.
Il generale si portò una mano al mento: “Avete ragione,
conte…Avete proprio ragione! Ma dunque…perché non
vi unite a noi?”
Il conte levò entrambe le sopracciglia, sorpreso, e io, a
qualche metro da loro, per poco non mi strozzai con la mia stessa
saliva.
Avevano sentito bene le mie orecchie? Pregavo Dio di no.
“Ecco, generale…la vostra offerta mi lusinga, ma…”
“Suvvia, conte, non fate il prezioso! So che mia figlia nutre
grande stima per voi, le farà sicuramente piacere avervi come
ospite, e la stessa cosa vale per me, naturalmente…”
“Ma, veramente io…”
Fersen sembrava veramente combattuto. Probabilmente l’idea di
passare qualche tempo lontano da Parigi lo allettava, ma sapeva bene
quanto la situazione con Oscar si fosse complicata…O almeno,
speravo che fosse su questo che stava meditando, mentre cercava una
risposta da dare al generale.
Mi resi conto che stavo stringendo con forza le briglie del suo cavallo.
'Dì di no, dì di no, avanti Fersen…dì di no…'
“Ma, si…si!” Concluse infine il conte, mentre un
peso di una tonnellata calava inesorabilmente su di me, schiacciandomi.
“Non vedo perché dovrei rifiutare questa
offerta…l’idea di allontanarmi per qualche tempo mi
allettava da tempo, in effetti…La ringrazio, generale! Ma siete
sicuro che la mia presenza non sia di… troppo incomodo?”
“ Ma non vedo in cosa potrebbe infastidirmi la vostra presenza,
conte! Anzi, la vostra compagnia sarà sicuramente graditissima,
anche dagli altri miei ospiti!”
Hei, aspettate un momento! Quali altri ospiti? Quali altri ospiti?!
Fersen si stava probabilmente ponendo la stessa domanda.
“Avrete altri ospiti durante il soggiorno?”
“Si…Oh, ma eccoli che arrivano! Abbiamo deciso di compiere
il viaggio insieme, ne rimarrete contento conte, date retta a me!
Conoscete già il conte di Girodelle?”
In quel momento, le ruote di una carrozza entrarono cigolando nel
cortile di palazzo Jarjayes, e quando si furono fermate a qualche metro
da me, un lacchè saltò giù dal posto di guida, per
affrettarsi ad aprirne la porta, da cui scese uno sfavillante e
compiaciuto Girodelle.
“Spero di essere puntale, generale!” Salutò cerimoniosamente, levandosi il cappello.
Quando il suo sguardo cadde sul conte di Fersen, tuttavia, i suoi occhi divennero di marmo.
“Ah. Conte di Fersen.”
“Conte di Girodelle”
“Il conte di Fersen si unisce a noi durante la
villeggiatura!” esclamò gaio il generale. Non
l’avevo mai visto così scoppiettante di energia, dava
quasi il voltastomaco.
In quel momento, alle spalle di Girodelle, che era ancora fermo sulla
porta della carrozza, si udì un chiaro protestare, e una mano
inguantata sbucò dietro di lui, costringendolo a saltare
giù dagli scalini della carrozza.
“Ma insomma, fratello, che modi sono questi? Non mi presentate?”
Girodelle, ancora sotto choc dalla notizia, si affrettò a
porgere la mano ad una graziosa dama avvolta in un suntuoso abito di
alta moda color crema, bordato di pelliccia.
“Signori, posso presentarvi mia sorella, la contessa Colette Clémentine di Girodelle?”
La contessa scese gli scalini della carrozza sorridendo con finta
timidezza, e appena fu a terra estrasse un ventaglio e cominciò
a farsi aria, nonostante ci fossero all’incirca cinque o sei
gradi.
Aveva gli stessi capelli castani del fratello, composti in
un’incredibile acconciatura che sfidava le forze di
gravità, sulla cui cima faceva mostra di sé un minuscolo
cappellino di piume e pizzi. Gli occhi azzurri erano leggermente a
mandorla, esattamente come quelli del conte, mentre il nasino delicato
e all’insù conferiva al suo volto uno stato di grazia
assoluta, che si accompagnava a delle labbra perfettamente disegnate.
Fece qualche passo nel patio, trascinandosi appresso quel monumentale abito, e porse la mano al generale:
“Generale Jarjayes, che piacere! Sono giorni, ma che dico, mesi che non ci degnate di una visita!”
“Madame, è proprio per questo che ho avuto il piacere di
invitare voi e vostro fratello nella nostra casa di
campagna…passiamo troppo poco tempo assieme, ognuno assorbito
nei propri impegni.”
La contessa sorrise facendosi aria con il ventaglio, dopodiché il suo sguardo si posò su Fersen.
“Conte di Fersen! Dunque sarete dei nostri? Con che piacere
accolgo questa notizia, noi non ci conosciamo ma io so tutto di voi! Le
vostre imprese Americane sono quasi una leggenda…”
esclamò, porgendogli la mano che Fersen si chinò a
baciare senza troppo scomporsi.
“Madame, voi mi lusingate, anche se temo vi abbiano informata
male…Non sono poi questo eroe che voi dipingete.”
Sempre modesto, il nostro Fersen.
Lo sguardo della contessa non lasciava dubbi: “Fate dello
spirito, conte? Ma suvvia, avrete modo di raccontarmi tutto durante la
villeggiatura, non voglio perdermi una sola parola dei vostri
racconti!”
Circa mezz’ora dopo, stavo servendo il tè nel salone
principale. Il conte di Fersen era tornato ai propri alloggi a
preparare un piccolo bagaglio per la partenza e a scrivere qualche
lettera che spiegasse il suo momentaneo allontanamento, mentre
Girodelle e la sorella si erano accomodati nel salone principale.
Stavo constatando quando fosse dannatamente difficile versare il
tè vedendoci da un occhio solo, quando fece il suo ingresso
Oscar, che da quella mattina non si era ancora vista.
“Padre.” Salutò il generale, per poi spostare il suo
sguardo su Girodelle e la sorella: “Girodelle, siete qua dunque.
Torno ora da Versailles, dove mi hanno informato del fatto che vi
eravate preso un periodo di riposo…”
“Si, madamigella. Spero non vi dispiaccia sapere che mi unisco a
voi e vostro padre nella vostra breve vacanza, vostro padre teneva
particolarmente al fatto che fossi dei vostri…”
Lo sguardo di Girodelle brillava.
Oscar non si scompose.
“Niente affatto. Mi fa piacere sapere che siete nostro ospite, voi e…”
Lo sguardo di Oscar si posò sulla contessa, che da quando era
entrata non le aveva staccato gli occhi di dosso, guardandola con occhi
sbarrati.
Le dame convenzionali trovavano sempre molto ‘particolare’ il suo modo di vivere e vestire.
“Si, posso permettermi di presentarvi mia sorella, la contessa Colette Clémentine di Girodelle?”
La contessa posò la tazza da tè, e senza pensarci,
allungò la mano verso Oscar, per poi rendersi conto di quanto
stava facendo, e restare immobile con uno sguardo impacciato. Ci fu un
attimo di imbarazzo, poi Oscar sorrise e con assoluta nonchalance si
chinò a baciare la mano della contessa, la quale arrossì
fino alla radice dei capelli.
Mi resi conto con sgomento che sia io che Girodelle avevamo seguito la
traiettoria delle labbra di Oscar con lo sguardo fisso, trattenendo per
un breve attimo il respiro.
Le contraddizioni di una donna del genere stavano proprio nel suo
risultare infinitamente femminile anche quando adottava dei tipici
atteggiamenti maschili. Era qualcosa davanti a cui era difficile
restare insensibili.
Quando l’incanto di quel momento si fu spezzato, Oscar sedette
tra i suoi ospiti e io le misi davanti una tazza. Tuttavia, mentre mi
apprestavo a versarle il tè, lei mi bloccò posandomi una
mano sul polso e lasciandomi intuire il calore delle sue mani
attraverso la stoffa della camicia.
“Grazie Andrè, faccio da sola” Mi sussurrò, prendendo la teiera che tenevo tra le mani.
Io rimasi un attimo perplesso, e sollevando lo sguardo vidi che il
generale osservava la figlia con il sopracciglio lievemente alzato,
mentre Girodelle e la contessa guardavano ognuno verso la propria
tazza, leggermente imbarazzati.
Oscar si versò il tè da sola, appoggiò la teiera sul tavolo e si portò la tazza alle labbra.
“Fuori si gela. Una tazza di tè era proprio quello che ci voleva” Considerò per spezzare il silenzio.
Io nel frattempo mi ero ritirato di qualche passo, rimanendo in piedi al fianco della porta.
In tutta sincerità, il comportamento di Oscar mi sembrava leggermente cambiato negli ultimi tempi.
I primi giorni dopo la vicenda del cavaliere avevo pensato che fosse
per l’occhio, ma adesso non ne ero più tanto sicuro.
C’era qualcosa, nel modo in cui sempre più spesso mi
esonerava dai miei compiti, che mi lasciava vagamente perplesso.
Aveva sempre lasciato che le servissi io il tè, e non aveva mai
trovato niente da ridire. Ma adesso voleva fare da sola, e per di
più, aveva espresso questo concetto davanti a suo padre a ai
suoi ospiti.
C’era qualcosa che non andava.
“Bene, dunque è tutto pronto, possiamo partire?” Esclamò il generale.
Eravamo tutti nel cortile principale, con i colletti delle giacche
rialzati per il vento freddo che aveva iniziato a spazzare il cortile.
La nonna aveva indossato il suo mantello con il bordo di pelliccia, e
la sentivo borbottare tre sé e sé che quello non era
assolutamente un buon periodo per la villeggiatura, e che il padrone
era senza dubbio impazzito, ma lui del resto era un uomo, cosa ne
sapeva un uomo di come si gestiva una casa, chiusa per la maggior parte
dell’anno, in un periodo come quello?
Sistemai l’ultimo baule e mi apprestai ad aprire la porta della
carrozza al generale, il quale però si fermò sugli
scalini e osservando il fondo del cortile, sorrise: “Ecco il
conte! Giusto in tempo, conte, stavamo per partire senza di lei!”
Se fino all’ultimo avevo sperato che il conte fosse preda di
un’improvvisa amnesia che gli impedisse di tornare, dovevo
rassegnarmi.
Oscar, che era dietro al generale, si voltò di scatto, e io mi
sentii morire quando i suoi occhi incontrarono quelli di Fersen, che,
leggermente imbarazzato si avvicinava sorridendole:
“Oscar, sono felice di vedervi…e di vedere che state bene.
Ero passato per farvi una visita questa mattina, ma non
c’eravate…In compenso vostro padre mi ha praticamente
‘costretto’ ad unirmi a voi nella villeggiatura, spero che
non vi dispiaccia…”
Il vento impietoso aveva acceso il colore delle guance di Oscar di un
delicato color ciliegia, perciò non riuscii a capire se
arrossiva per il freddo o per l’imbarazzo. Il suo sguardo rimase
impassibile, mentre il vento le faceva volare davanti agli occhi i
riccioli biondi, portati come sempre sciolti e selvaggi.
Passarono alcuni secondi, in cui lo sguardo di Oscar e quello del conte
rimasero incatenati tra di loro, a meno di mezzo metro da me.
Parole non dette, pensai. Una quantità enorme di parole non dette.
Poi Oscar si schiarì la voce: “Non mi dispiace, conte.
Anzi, mi unisco a mio padre nel dirvi che siete il
benvenuto…”
Fersen sorrise: “E’ una gioia per me sentire le vostre
parole, non mi sarei perdonato di essere per voi un peso, durante la
villeggiatura…Sapete quanto tengo alla vostra amicizia.”
Ecco, aveva detto la parola magica.
Oscar si irrigidì di colpo, ma la voce del generale impedì a Fersen di rendersene conto.
“Dunque, voi conte viaggerete con noi!” Esclamò,
invitando il conte che aveva tra le mani un piccolo valigino damascato.
“Viaggiate leggero conte! Ah, beato voi…”
Esclamò il generale, prima di esortare Fersen a prendere posto
in carrozza, su cui si era già accomodata la nonna che aveva
iniziato a recitare Ave Maria e Ora Pronobis con il rosario
tra le dita. I lunghi viaggi la angosciavano sempre.
Quando anche il generale si fu accomodato, giù dalla carrozza restavamo solo io e Oscar.
Lei teneva lo sguardo basso, io mi tormentavo un bottone sulla manica della giacca.
A quel punto, salito Fersen, per me non c’era più posto in carrozza.
Avrebbero viaggiato assieme per tutte quelle ore.
Deglutii.
“Oscar, cosa fai, non sali?” La apostrofò il padre.
Lo sguardo di Oscar si levò verso di me, il vento ci sferzava le guance.
“Padre, e Andrè come viaggerà?”
Il generale parve rendersi conto di me solo in quel momento.
“Oh, Andrè…Andrè…”
Vidi che stava considerando di farmi viaggiare sul calessino scoperto, insieme ai bagagli, e rabbrividii al solo pensiero.
“Padre, io e Andrè potremmo seguirvi a cavallo…”
Buttò lì Oscar, osservandomi. Cercai di leggere nei suoi
occhi, ma non capii se era un modo come un altro per sfuggire al lungo
viaggio chiusa in carrozza con Fersen o se davvero si stava
preoccupando per me.
In quel momento, la carrozza di Girodelle si affiancò alla
nostra, e abbassato il finestrino, la voce della contessa si sovrappose
al forte fischiare del vento:
“Se vi preoccupate per il vostro servitore, madamigella, sappiate
che noi abbiamo un'altra carrozza coperta per i bagagli, in cui viaggia
Camille, la nostra servitrice. E sono sicura che non le dispiacerebbe
condividere il viaggio con qualcuno!” Trillò soddisfatta.
Ci voltammo tutti verso l’altra carrozza dei Girodelle, e notai
solo in quel momento che da dietro al vetro del finestrino ci osservava
un volto femminile. Tutto ciò che riuscivo a scorgere da quella
distanza era la cuffietta nera che le copriva il capo.
Mi voltai verso Oscar e vidi che stava a sua volta osservando quella donna, con uno sguardo che non avrei saputo definire.
“Mi sembra la soluzione migliore!” Esclamò il
generale “Avanti Oscar, sbrigati a salire e lascia che
Andrè viaggi nell’altra carrozza…Ci aspetta un
lungo viaggio!”
Già, ci aspetta proprio un lungo viaggio, considerai dopo che
Oscar si fu chiusa la porta della carrozza alle spalle, e il cocchio su
cui viaggiavano lei e Fersen si mise in movimento tra una nuvola di
polvere.
Non mi rimase che dirigermi mestamente verso la carrozza dei Girodelle,
mentre consideravo tra me e me che forse questa volta Arras mi sarebbe
apparsa meno bella del solito, visto che probabilmente Oscar avrebbe
avuto altro a cui pensare che fare lunghe cavalcate al mio fianco e
restare la notte ad osservare le stelle.
O meglio, forse l’avrebbe anche fatto, ma di sicuro non con me.
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Capitolo 2 *** Le donne, i cavallier, il vino, gli amori ***
Villeggiatura 2
2 - Le donne, i cavallier, il vino, gli amori
Quando, dopo interminabili ore, la carrozza entrò cigolando nel
cortile della villa di Arras, il cielo plumbeo e nuvoloso che ci aveva
accompagnato per l’intero viaggio era stato sostituito dal blu
denso della notte, in cui non si riuscivano a scorgere che poche e
velate stelle.
Non attesi nemmeno che il lacchè venisse ad aprirci la porta e
saltai giù dal predellino, evitando di travolgerlo per un
soffio.
Mai più, mai più, mai più avrei voluto ripetere un
viaggio come quello, considerai, mentre mi calcavo il cappello a tesa
larga sulla testa e a grandi falcate mi allontanavo dalla carrozza.
Se mai nella vita avevo pensato di aver vissuto attimi di imbarazzo,
era perché non avevo ancora passato circa sette ore nella stessa
carrozza con mio padre e il conte di Fersen.
Feci qualche passo nel cortile spoglio. Il terreno era brullo e gelato
sotto ai miei stivali, e osservandomi intorno
nell’oscurità constatai quanto strana fosse quella villa
senza le maestose e folte chiome degli alberi che la circondavano. Non
ricordavo di averci mai messo piede nella stagione invernale, e
osservai con una certa inquietudine i rami spogli che si allungavano
intorno a noi come lunghe dita ossute.
Un pensiero inquietante. Ero in trappola.
Alle mie spalle, anche Fersen era sceso dalla carrozza, e si guardava attorno con una punta di curiosità.
Distolsi immediatamente lo sguardo da lui, sentendo che il mio cuore accelerava di un battito.
Il viaggio era stato un vero strazio, visto e considerando che la
conversazione si era mantenuta decente per i primi quindici minuti, per
poi scivolare lentamente nella classiche frasi di circostanza, ed
arenarsi, infine definitivamente, dopo circa una mezz’ora di
viaggio.
Per il resto del tempo avevo guardato fuori dal finestrino, mentre
Nanny salmodiava preghiere in sottofondo e mio padre riempiva il resto
del silenzio con il suo leggero russare. Io e Fersen sedevamo dai lati
opposti della carrozza, ognuno concentrato sul finestrino antistante, e
le poche volte che i nostri sguardi si erano incrociati, ci eravamo
limitati ad abbassare lo sguardo imbarazzati.
Probabilmente, anzi, indubbiamente avevamo qualcosa da chiarire. Ma non ero del tutto certa di volere che accadesse.
In quel momento il rumore delle ruote di una carrozza interruppe il
filo dei miei pensieri, e mi voltai ad osservare il cocchio in cui
viaggiavano Girodelle e la sorella percorrere l’ultimo tratto del
viale alberato, per fare il suo ingresso nel patio.
Della carrozza in cui viaggiava Andrè, ancora nessuna notizia.
“E così, questa è la sua casetta
di campagna, generale? E’ deliziooosa!” Trillò la
voce della contessa Colette, mentre scendeva dalla carrozza aiutata da
un lacchè.
Alle sue spalle, un frastornato Girodelle si sistemava il cappello
sulla chioma leonina, osservandosi attorno vagamente smarrito. Sulla
sua guancia sinistra faceva bella mostra di sé il segno
dell’imbottitura del sedile di pelle, e sospettai avesse passato
l’ultima parte del viaggio appisolato.
Quando i nostri sguardi si incrociarono mi fece un leggero cenno con la
testa: “Madamigella, avete trascorso un piacevole viaggio?”
Fersen era a meno di due metri da me.
“Eccellente, Girodelle. E voi?”
Girodelle lanciò un’occhiata in tralice alla sorella, che
stava già impartendo ordini ai lacchè su come trattare i
suoi bagagli.
“Si, eccellente.” Mormorò, con poca convinzione.
“Avete notizia del…vostro bagaglio?”
“Intendete la carrozza su cui viaggiano i nostri servitori?
Arriverà…” Girodelle si voltò a scrutare
nella notte “Temo non sia dotata di un cavallo particolarmente
veloce. Siete in pena per il vostro servitore?”
“Il mio attendente.” Precisai, con il tono che usavo
solitamente per dargli degli ordini. Girodelle mi parve leggermente
sconcertato, forse per un attimo aveva dimenticato che, nonostante
fosse mio ospite, io ero e rimanevo pur sempre il suo comandante.
“Si, perdonatemi, il vostro attendente.”
“Comunque, no. Perché dovrei preoccuparmi? Era una semplice curiosità…”
Già, perché avrei dovuto preoccuparmi?
Per un istante ripensai al volto femminile che avevo intravisto dal finestrino, incorniciato dalla cuffietta di pizzo.
Poi mi resi conto che ero ancora in piedi davanti a Girodelle, e che il
suo sguardo era ancora posato interrogativamente su di me.
“Seguitemi, Girodelle, vi mostro la casa.” Conclusi indispettita.
“Con piacere, madamigella!” Esclamò il conte,
porgendomi il braccio con un entusiasmo che non gli avevo mai visto
adottare, lui che era sempre così imperturbabile .
Ci fu un attimo di imbarazzo, in cui io guardai con una certa
curiosità il suo braccio teso e le sue guance si colorarono di
rosso.
“Girodelle…siete forse impazzito?” Mormorai, non potendo mascherare un sorriso.
“Hem…si, suppongo che sia così.
Perdonatemi…comandante, credo che il freddo mi abbia
momentaneamente intorpidito l’intelletto.” Si
giustificò, ritirando il braccio.
Gli sorrisi: “Non scusatevi, Girodelle, è vero, sono
il vostro comandante, ma dato che siete mio ospite, dimentichiamo
queste formalità, almeno per il momento. Tuttavia, vi prego di
non avere per me i riguardi che adottereste per una signora,
perché non ne vedo il motivo alcuno, siete
d’accordo?”
“Assolutamente…” Farfugliò Girodelle, che aveva preso a sudare.
“Bene, ora che ci siamo chiariti, volete seguirmi?”
“Con piacere”
Mentre stavamo per incamminarci, tuttavia, l’ultima carrozza
mancante del gruppo che era partito da palazzo Jarjayes fece il suo
ingresso nel cortile.
Il palafreno nero alla quale era attaccata sbuffò aria gelata e
si fermò a qualche metro da noi, mentre i lacchè si
avvicinavano per staccarlo dal cocchio.
“Ecco la risposta alla vostra domanda, madamigella” Considerò Girodelle, che si era a sua volta girato.
“I nostri bagagli sono quiii!” Cinguettò la
contessa, che si era attaccata al braccio di Fersen “E anche i
miei tesori!”
Mi voltai verso di lei con il sopracciglio levato, ma lo sportello
della carrozza che si apriva mi diede la risposta che cercavo.
Sul predellino comparve infatti Andrè. Aveva un’aria
leggermente divertita, e il foulard bianco che portava legato al collo
era tutto sgualcito.
Ma la cosa che era impossibile non notare, soprattutto, era il peloso cocker color cognac che teneva tra le braccia.
Andrè scese dalla carrozza, dopodiché si voltò per porgere la mano alla dama che smontò dopo di lui.
Anche lei teneva tra le braccia un piccolo e peloso cocker, diverso
dall’altro per il fatto di avere il manto nero anziché
fulvo, e anche lei sorrideva radiosa mentre la sua mano si posava in
quella di Andrè.
Quando entrambi furono a terra liberarono le due bestiole, che si
precipitarono nella direzione delle contessa, con i codini mozzi
impazziti dalla gioia.
“Nanà, Zénon!” Esclamò la contessa,
inginocchiandosi in uno sbuffo di vesti per abbracciare i suoi
beniamini, mentre Fersen osservava la scena con uno sguardo vagamente
malinconico.
“Cani?” Sentii che borbottava mio padre alle mie spalle.
“Oh, cielo! Sporcheranno dappertutto, e lasceranno peli
ovunque!” Gli fece eco Nanny, che aveva sempre bandito qualsiasi
tipo di quadrupede dalle stanze di palazzo Jarjayes.
Il mio sguardo, tuttavia, non si staccò da Andrè, che non
aveva ancora guardato una volta nella mia direzione, impegnato
com’era a ridere e scherzare con quella che sembrava diventata,
in poche ore di viaggio, la sua nuova migliore amica.
Qualcosa mi punse, in un punto imprecisato dell’anima, e
incrociai le braccia al petto, indispettita, mentre osservavo con gli
occhi ridotti ad una fessura Andrè che, tra battute e risate,
aiutava la serva dei Girodelle a levarsi i peli di cane dalla gonna,
mentre insieme si davano da fare per scaricare i bagagli.
Insomma, cosa centrava Andrè con i bagagli dei Girodelle?
Quando, dopo un manciata di minuti che si dava da fare attorno alla
carrozza del conte, mi passò a fianco tenendo tra le mani, non
senza un certo sforzo, un grosso baule, ero ancora ferma con le braccia
conserte.
“Oscar” Mi salutò “Viaggiato bene?”
Mi schiarii la voce.
“Meravigliosamente, grazie.” Mi espressi, mio malgrado, in
tono piuttosto risentito “E…deduco che la stessa cosa sia
stata per te…Affascinante la tua accompagnatrice. Mi pare di
aver capito che avete legato molto, durante il viaggio.”
Conclusi, lanciando un’occhiata a questa Camille, che a dirla
tutta mi sembrava una tizia decisamente procace, nonostante
l’ampio mantello scuro a nasconderle le curve.
Lo sguardo di Andrè si fece perplesso, mentre io distoglievo il mio.
“Oscar, c’è qualche problema?”
“No, perché me lo chiedi?”
Andrè, sempre sotto sforzo per via del baule, fece spallucce.
“No, niente…mi sembri irritata.”
“E solo un po’ di stanchezza…” Mi costrinsi ad
ammettere infine. Si, decisamente il viaggio mi aveva provato, e non
solo per la sua lunghezza. Prendermela con Andrè per il
fatto di non essere riuscita a spiccicare mezza parola con Fersen non
avrebbe migliorato le cose.
“Scusami Andrè, adesso penso che mi ritirerò. A
domani.” Aggiunsi poi, scostandomi e lasciandolo passare con il
suo carico.
Andrè, barcollando leggermente, mi superò, voltando a sinistra, mentre io imboccavo la direzione opposta.
Tutto quello che volevo, in quel momento, era chiudermi la porta della
mia stanza alle spalle e trovare nella solitudine un po’ di pace.
Lasciai cadere la giacca di velluto su una poltrona e mi allentai il
nodo del foulard. Le finestre della mia stanza erano coperte di brina,
e nonostante il camino fosse acceso da un’ora buona, quando
respiravo davanti al mio viso andava formandosi una tenue nuvoletta di
condensa.
Villeggiatura invernale, un’altra delle brillanti idee di mio padre.
E come sempre, ero stata costretta ad accettarla senza potermi opporre,
nonostante a Versailles, ultimamente, fosse sempre più spesso
richiesta la mia presenza.
“Distendere i nervi, respirare l’aria buona…Andiamo, padre!” Borbottai tra me e me.
Forse se mi avesse risparmiato la presenza di Fersen, durante quella
villeggiatura, sarei stata più bendisposta nei confronti dei mio
padre, che a dirla tutta, aveva adottato un bizzarro atteggiamento
amichevole che destava in me più di un sospetto.
Mio padre non era mai amichevole.
A meno che non avesse in mente qualche oscuro proposito
E solitamente, ero io la vittima designata dei suoi oscuri propositi.
Mi lasciai cadere su una delle due poltrone damascate del mio piccolo
salottino personale, e lasciai vagare la mano verso la bottiglia di
vino che qualche perspicace servitore aveva avuto l’idea di
lasciar decantare sul tavolino, versandomi un calice abbondante e
portandomelo alle narici per assaporarne il profumo.
Avrei sempre potuto considerare l’idea di passare l’intera
villeggiatura chiusa in camera con una discreta scorta di bottiglie. In
questo modo, se non altro, avrei evitato di imbattermi in Fersen nei
corridoi della casa. E forse sarei anche riuscita a scampare alle
idiozie della sorella di Girodelle e di quella sua insulsa…della
sua cameriera, ecco.
Chissà poi perché doveva irritarmi in quella maniera
quella poveretta che non mi aveva fatto nulla di male. Non avevo
nemmeno fatto in tempo a vederla bene in volto…
La colpa di tutto era di Fersen, basta, ormai era deciso!
“Si, è colpa vostra, Fersen, che non sapete distinguere il
mosto dall’acquarello, perdiana!” Esclamai, scolandomi
l’intero contenuto del bicchiere che avevo con tanta cura fatto
scaldare tra le mani.
Posai il calice.
Va bene, forse non era proprio esattamente tutta colpa di Fersen…
Ma diavolo, quell’uomo aveva la rara capacità di capire
sempre tutto e il contrario di tutto. Non aveva riconosciuto in me una
donna, quando ci eravamo conosciuti, e non aveva riconosciuto me nella
misteriosa donna con la quale aveva ballato tutta la notte*, la dannata
sera in cui avevo deciso di scavarmi la fossa con le mie stesse mani.
Dovevo riconoscere che non era molto perspicace, sebbene i suoi modi
gentili e il suo incredibile fascino spesso compensassero questa
mancanza…
Sprofondai nella poltrona, con uno sguardo corrucciato.
‘Il mio migliore amico’, ecco come mi aveva definito,
parlando con la misteriosa dama che altri non ero che io, calata in
quella orribile farsa.
“L’amore è per gli stolti…” mi versai
un altro calice di vino, e in quel momento un lieve bussare interruppe
i miei pensieri.
“Avanti”
“Madame”
La voce sconosciuta mi indusse a voltarmi, e mi ritrovai a fronteggiare
un volto rotondo e gentile, in cui spiccavano due grandi occhi color
ambra.
Camille.
“La signora Maron Glacè mi ha pregato di salire a
chiedervi se gradireste fare un bagno, per rimettervi dalle fatiche del
viaggio, l’acqua è già pronta e dovrei solo
portarvela su…” Mormorò, con un leggero accento
popolano. Dalla cuffietta nera le scappavano alcuni ciuffi di capelli
color rame, che davano un po’ di vivacità al suo incarnato
bianco latte, spruzzato di efelidi. Sembrava estremamente giovane.
Mi grattai una guancia con la punta dell’indice, considerando la questione, dopodiché acconsentii.
Forse un bagno caldo era proprio quello che ci voleva per distende i miei nervi.
Quando Camille tornò con due enormi secchi ricolmi di acqua bollente mi stavo sfilando gli stivali seduta sul letto.
La vasca di rame troneggiava davanti al camino, dove Camille aveva
avuto l’accortezza di spostarla, per fare in modo che non mi
venisse una polmonite mentre facevo il bagno. Dovevo ammettere che era
svelta ed esperta, nonché particolarmente forzuta, considerai
vedendola sollevare senza sforzo un secchio ricolmo per svuotarlo nella
vasca. Effettivamente era abbastanza robusta, con braccia ben tornite,
un volto rotondo e…un seno prominente?
Con un leggero sconforto mi apprestai a slacciarmi i polsini della
camicia, evitando di soffermarmi su ciò che la natura era stata
tanto generosa nel donare a Camille, mentre con me si era rivelata
estremamente parca.
Cominciavo a sospettare cosa Andrè avesse trovato di così piacevole nel viaggio trascorso con lei.
“La signora gradisce che l’aiuti a svestirsi?”
Il suo tono di voce era timido, e notai che mi osservava con una certa soggezione.
Certo, alla maggior parte delle persone dovevo sembrare un curioso caso
di fenomeno da baraccone…Venite, signori e signore, ad ammirare
il generale Jarjayes e la strana creatura che ha allevato come un
figlio!
Va bene, forse stavo un tantino esagerando.
“Vi ringrazio, ma…no. Dopotutto non ci sono lacci da
sciogliere e corsetti da allentare, perciò, grazie, ma posso
fare benissimo anche da sola. Potete andare.”
Camille parve riprendersi dal suo stupore, chinando leggermente il capo in un inchino.
“Madame” Esclamò, prima di chiudersi la porta alle spalle.
Rimasta sola mi sfilai i pantaloni e le calze, dopodiché, con
solo la camicia addosso mi diressi al tavolino, dove mi versai un altro
calice di vino, prima di accomodarmi nella vasca con il bicchiere in
mano.
L’acqua calda gonfiò la mia camicia, prima di penetrare
nel tessuto e incollarmela addosso, mentre un caldo torpore si
impadroniva di me.
Appoggiai la testa alla vasca, lasciando ricadere i capelli fuori da
essa, e mi portai il bicchiere alle labbra, lasciando che il sapore del
vino si fermasse qualche secondo su di esse, prima di schiuderle e
lasciare che mi scivolasse nella gola.
In quale stanza dormiva Fersen? Non mi ero nemmeno preoccupata di saperlo…
A dire il vero, appena scesa dalla carrozza ne non avevo voluto
più sapere niente di lui, e non si può dire che durante
il viaggio lo avessi degnato di qualche attenzione.
Mi stavo comportando come una sciocca ragazzina, constatai, mentre la
cosa sensata da fare, l’unica cosa sensata da fare, era
affrontarlo a viso aperto. Se c’erano dei problemi da risolvere
si sarebbero risolti e se ci fossero stati degli adii da
compiere…che fosse.
Oscar François de Jarjayes non scappava davanti ai problemi.
Appoggiai il bicchiere ormai vuoto al pavimento e mi immersi completamente.
Per quanto tempo si poteva resistere sott’acqua?
Una vita intera, lo sapevo bene io che dall’infanzia non avevo ancora respirato una sola volta.
Anzi, correggendomi, una volta ci avevo provato e mi era andata tanto
di traverso quella boccata d’aria che mi bruciavano ancora i
polmoni.
Quando dalle mie labbra cominciarono ad uscire delle piccole bolle
d’aria riemersi, tirandomi indietro i capelli fradici, e
riappoggiando la testa al bordo della vasca.
Il lieve scoppiettare della legna nel camino, il leggero fumo caldo che
usciva dall’acqua, i tenui riflessi ambrati del fuoco che si
riflettevano sul rame della vasca, nell’oscurità di quella
stanza illuminata solo dalla luce di un candelabro, oltre a quella
quasi magnetica del focolare impigrirono i miei sensi, e mi ritrovai a
chiudere gli occhi, lasciandomi trasportare dal suono melodioso della
legna che scoppiettava e dal leggero sciabordio dell’acqua
attorno al mio corpo.
Probabilmente mi appisolai, perché avrei giurato di non aver
sentito nessuno bussare alla porta, che ora, mentre le lanciavo uno
sguardo vagamente intimorito, era innegabilmente socchiusa.
Mi aggrappai al bordo della vasca con una mano. Poteva essere stato un
colpo d’aria? Forse Camille che veniva a portare altra acqua
calda?
Mentre compivo quei ragionamenti, un rumore di passi alle mie spalle mi
fece trasalire, ma prima ancora che potessi voltarmi, due mani
risalirono lungo la mia schiena bagnata, per posarsi sulle mie spalle.
Mi irrigidii di colpo, e non urlai solo perché se lo avessi
fatto mio padre sarebbe probabilmente arrivato nel giro di qualche
minuto, e non volevo che gli venisse un infarto assistendo alla scena
che, temevo, si sarebbe ritrovato davanti agli occhi se non avessi
fatto qualcosa immediatamente: il suo valoroso figlio, capitano delle
guardie reali, nudo, ops, pardon, nuda come un verme tra le braccia di
qualche losco individuo.
“Chi siete? Come…osate?” Sibilai, rimanendo immobile.
Le mani dello sconosciuto ebbero un fremito, e si strinsero alle mie spalle.
“Oscar…” Sussurrò con voce rotta al mio orecchio.
“Fersen…?” Per un attimo, le parole mi morirono sulle labbra.
Lo sconosciuto strofinò il volto lungo il mio collo, e sentii i
suoi capelli inumidirsi a contatto con la mia pelle bagnata. Non
riuscivo a muovere un muscolo.
Era la voce di Fersen? Erano le sue mani, quelle? Erano le sue labbra quelle che mi sfioravano il lobo?
Sentii una delle sue dita insinuarsi sotto alla stoffa della camicia
fradicia che mi copriva le spalle, spostandola leggermente, mentre le
sue labbra posavano un dolce bacio sulla mia spalla nuda.
Inspirai ed espirai. A pochi metri da me, c’era la mia
spada…Ma, ero davvero sicura di voler dare la morte a chi mi
stava facendo…questo?
Lo sconosciuto posò la fronte sulla mia spalla nuda, e in quel momento trovai la forza di voltarmi lentamente.
I capelli gli arrivavano alle spalle, ed era tutto ciò che
riuscivo a scorgere, data la sua posizione. Dall’oscurità
della stanza, non riuscivo nemmeno a distinguerne il colore…
Ma poteva essere benissimo…
“Fersen? Siete voi?...Siete forse impazzito?”
Se era Fersen, si, lo preferivo impazzito.
L’uomo si sollevò, e senza darmi modo di scorgere il suo
volto tornò alle mie spalle. Lo sentii inginocchiarsi piano,
prima una gamba e poi quell’altra, mentre con le mani sulle mie
spalle esercitava una leggera pressione, intimandomi di scivolare
nell’acqua, sino a che non mi ritrovai nuovamente con la nuca
appoggiata alla vasca; a quel punto si sporse su di me, e mi
posò un leggero bacio sulla fronte.
“Perdonami Oscar…” mormorò “Perdonami se non sono lui”
Il suo mento coincideva ora con la mia fronte, e mi posò un altro delicato bacio sulla punta del naso.
I capelli corvini caddero attorno al mio volto come uno stormo di rondini, e in quel momento, sgomenta, capii.
“Andrè…”
Ero talmente sbalordita che, inspiegabilmente, non mi sovvenne di fermarlo.
Le labbra di Andrè scesero sulle mie, ma non vi si posarono.
Indugiavano.
Sentivo il suo respiro caldo sulla mia bocca. La pressione delle sue dita sulle mie spalle nude.
E improvvisamente, qualcosa di completamente sconosciuto mi spinse ad
allungare un braccio, posandogli una mano sulla testa e spingendolo
dove fino ad ora aveva esitato.
Le nostre labbra si incontrarono con una prepotenza sconosciuta, e
mentre mi afferrava il labbro inferiore, succhiandolo leggermente,
sentii le sue mani scendere oltre le mie spalle, sulla camicia bagnata
e aderente, verso il mio seno…
Mi tirai su con forza dalla vasca da bagno, in cui ero scivolata sin
quasi al mento, e mi aggrappai al bordo, respirando convulsamente.
Sola, ero sola.
Nessun maniaco travestito da Andrè si aggirava per la mia stanza. Era stato solo un sogno.
Un brutto sogno.
Un sogno orribile.
“Oddio…” Mormorai, ancora ansimante. Mi levai
immediatamente dalla vasca da bagno e, lasciata cadere a terra la
camicia fradicia, mi avvolsi nella vestaglia da camera.
Involontariamente con il piede colpii il bicchiere vuoto che avevo
posato a terra prima di addormentarmi, il quale cadde con un tintinnio,
incrinandosi senza frantumarsi.
Mi fermai ad osservarlo, mordendomi le labbra.
Eccolo lì, il vero motivo di quel sogno assurdo.
“Sono ubriaca…” Mormorai tra me e me, cercando giustificazioni che tuttavia stentavo a trovare.
Insomma, era già abbastanza imbarazzante ammettere di aver avuto un sogno…erotico, su Fersen. Ma se Fersen si trasformava improvvisamente in Andrè, cosa poteva significare?
“Significa che sei ubriaca, appunto.” Mormorai tra me e me.
Andrè! Era…ridicolo.
Era ridicolo?
Si era ridicolo.
Per un breve istante mi tornò alla mente quella lieve fitta che
avevo avvertito nel vederlo ridere e scherzare con Camille.
La sua mano che si posava sulla gonna di lei, intenta a levarle pelucchi di cane…
Quella stessa mano che avevo sentito così vividamente sul mio corpo…
Era stato un sogno dannatamente realistico, maledizione!
In quel momento mi voltai verso la porta, e con sgomento dovetti constatare che effettivamente…era socchiusa.
Deglutii. Poi sentii un chiaro rumore provenire dal salottino, nella stanza attigua.
“Va bene…” Mormorai, avvicinandomi alla spada ed
estraendola lentamente. “Chiunque tu sia, puoi scamparla nei
sogni, ma nella realtà sarai meno fortunato…”
mormorai, avvicinandomi di soppiatto al salotto, mentre con la mano
sinistra mi tenevo ben chiusi i lembi della veste da camera e con la
destra tenevo la spada levata davanti a me.
Quando feci irruzione nella stanza, tuttavia, per poco non mi caddero
le braccia. La bottiglia di vino che era appoggiata sul tavolo si era
rovesciata, e il suo contenuto aveva formato una chiazza sul pavimento,
in cui si stava ‘servendo’ il mio ‘ospite’, che
quando mi vide comparire, stralunata e con la spada tesa, si
limitò a scodinzolare ed emettere un piccolo latrato di
benvenuto.
Non mi ero mai sentita tanto ridicola, escludendo la sera del ballo con Fersen, naturalmente.
“Sto minacciando…un cane.” Constatai “Sono decisamente ubriaca.”
Lentamente mi trascinai ad una delle due poltrone, e mi ci lasciai ricadere sopra, esausta.
Il cocker dal pelo fulvo, non avevo idea se fosse Nanà o
Zénon, mi imitò, saltando sull’altra poltrona e
guardandomi con occhi fiduciosi emise un altro piccolo latrato.
Raddrizzai la bottiglia di vino dal tavolo.
“Mi dispiace darti una delusione, ma temo che in due ci siamo
scolati una bottiglia, e io non ne ho altre sottomano, per il
momento.” Esclamai, irritata.
Il cocker scodinzolò.
Io appoggiai una mano al tavolo e vi posai la fronte sopra.
“Sarà una lunga villeggiatura, temo…”
*A quanto pare questo era un comportamento tipico anche del vero
Fersen, che quando conobbe Maria Antonietta, parlò e
ballò con lei senza avere il minimo sospetto che si trattasse
della Delfina^^ C’è da dire, a sua favore, che Maria
Antonietta era mascherataXD
Ecco il secondo capitolo^^ Anche
questo è abbastanza introduttivo, ma dal prossimo ci sarà
più interazione tra i personaggi e si entrerà più
nel vivo della vicenda.
Spero di non aver snaturato
eccessivamente i personaggi nel mio tentativo di renderli più
adatti ad un storia dai toni leggeri come questa, ma se avete opinioni
positive/negative da propormi, sono sempre bene accette!
Grazie di cuore a tutti quelli che
hanno voluto lasciarmi la loro opinione, è una cosa che apprezzo
sempre moltissimo^^ Come avrete notato mi sto servendo della nuova
funzione di EFP per rispondere alle vostre recensioni, ma grazie
ancora! Baci^^
|
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Capitolo 3 *** Nulla è così terribile da non poter peggiorare ***
Villeggiatura 3
3: Nulla è così terribile da non poter peggiorare
Tenevo Oscar tra le braccia e lei mi stava baciando. Avvertivo la
morbidezza dei suoi riccioli tra le dita, e il tepore del suo respiro
sul volto.
Stava ansimando.
“Oscar…” sussurrai, afferrando la presa che avevo ai
lati dei sul viso, tuffando le dita tra quei soffici capelli, come
tante volte avevo sognato di fare. “Non fermarti…”
In risposta, lei riprese ad ansare. Sentivo il suo respiro farsi sempre
più denso. Un leggero filo di saliva le colò da un angolo
delle labbra e lo sentii scendere sulla mia guancia.
“…Oscar?”
Dovevo ammettere che, pur non potendomi lamentare della situazione, il suo alito non era dei migliori…
‘Non fare lo schizzinoso Andrè, si vede che ha mangiato
pesante ieri sera. Succede, non ne vorrai fare un dramma proprio adesso?!’
considerai tra me e me, mentre mi allungavo verso di lei per baciarne
le labbra. Finalmente lei era qua, nel mio letto, stesa sopra al mio
corpo pervaso di desiderio…era un sogno che si avverava. La
afferrai dietro la nuca e la trassi a me, e proprio in quel momento,
qualcosa di umido e scivoloso percorse quasi per intero la mia guancia
sinistra, per poi spostarsi verso la destra.
Rimasi senza parole.
Oscar mi stava…leccando?
Non avrei mai immaginato che il suo livello di voluttà potesse arrivare a tanto, ma…
La sua lingua raggiunse il mio orecchio, intrufolandosi in esso, e mi costrinsi a tacere.
Era pur sempre un momento magico, perché rovinarlo con le mie
inutili perplessità? Cercai di abbandonarmi alla sensazione dei
suoi riccioli tra le dita, senza pensare alla sua lingua umida che ora
percorreva indisturbata il mio mento, la mia fronte, le mie
sopracciglia…
Le mie sopracciglia?!
Aprii gli occhi di colpo, e non furono dei grandi occhi color del mare
quelli che mi trovai davanti, ma uno sguardo fiducioso, bordato di
pelliccia.
Il cocker scodinzolante era accucciato sopra al mio stomaco, e mi
osservava curioso, dopo avermi ricoperto il volto intero di saliva,
mentre io tenevo le dita affondate nelle sue lunghe orecchie
ricciolute, che nel delirio delle mie visioni oniriche avevo scambiato
per le onde dei capelli di Oscar.
Mi sentivo un perfetto idiota.
Ed ero completamente impiastricciato di bava di cane.
“Ah, perfetto…decisamente il modo migliore di cominciare
la giornata…” constatai tra me e me, tirandomi su a
fatica, mentre il fautore di quell’umido risveglio saltava a sua
volta giù dal letto, gironzolando per la stanza in cerca di
qualche briciola dimenticata.
Mi avvolsi la coperta sulle spalle e battendo i denti per il freddo mi
diressi alla finestra, dove presi tra le mani la brocca di porcellana
per versare l’acqua nel catino. Non sentendo nemmeno una goccia
sgorgare dalla caraffa, tuttavia, me la portai davanti all’occhio
sano, sbirciandovi dentro, e con amarezza constatai che il gelo della
notte, in cui anche il lieve tepore del caminetto mi aveva abbandonato,
avevano reso l’acqua un blocco di ghiaccio.
Leggermente irritato provai a rompere la crosta esterna, arrivando a
scuotere la brocca, nella speranza che lo strato di ghiaccio fosse solo
superficiale. Tutto ciò che ottenni fu che il manico di
porcellana rimase nella mia mano destra, mentre il resto della brocca
si abbatteva sopra al mio piede sinistro.
Un dolore sordo si irradiò per tutto il mio corpo mentre una
miriade di puntini argentati esplodevano davanti al mio sguardo. Non
urlai solo perché mi mancò il fiato per farlo.
Zoppicando tornai verso il letto, dove mi lasciai cadere.
Erano le otto della mattina e già mi sentivo esausto. Se pensavo
che varcata la soglia mi aspettavano Fersen e Oscar con le loro
questioni ancora da chiarire mi veniva voglia di tornare a Parigi a
piedi.
Zoppicando, naturalmente.
Afferrai calze e pantaloni dal bordo del letto, e me li infilai svogliatamente.
Mentre stavo per sfilarmi la camicia da notte dalla testa, tuttavia, un lieve bussare mi distolse dai miei vaneggiamenti.
“Si?”
“Perdonate, monsieur…” il dolce profilo paffuto di
Camille fece capolino dalla porta, e la vidi entrare con qualche
difficoltà, reggendo tra le mani un vassoio coperto da un
tovagliolo e tenendo precariamente sotto al braccio una brocca, da cui
uscivano calde nuvolette di vapore.
Per quanto me lo consentisse il piede dolorante, mi precipitai in suo
soccorso, sfilandole la brocca appena in tempo, affinché non si
ripetesse nuovamente l’increscioso incidente di qualche minuto
prima.
“Oh, grazie monsieur, temevo mi sarebbe scivolata da un momento a
quell’altro, e sarebbe stato un bel disastro…”
commentò la graziosa cameriera abbassando lo sguardo, mentre mi
superava per posare il vassoio sulla piccola scrivania di cui era
dotata la mia modesta stanza.
Leggermente smarrito, vestendo ancora l’indumento da notte sopra ai pantaloni, la seguii.
“Camille, volete spiegarmi…cosa ci fate qui?”
La ragazza si voltò verso di me, sempre tenendo lo sguardo abbassato.
“Vi ho portato dell’acqua!” rispose, sottraendomi la
brocca dalle mani e avvicinandosi al catino. “La notte è
stata rigida, così questa mattina vostra nonna ha dato
disposizioni affinché si facesse riscaldare un paiolo
d’acqua da portare nelle stanze…E ho pensato che anche voi
ne aveste bisogno…” concluse infine, lanciando
un’occhiata vagamente sconcertata al manico di porcellana che
giaceva dove avrebbe dovuto esserci la mia caraffa, rotolata invece
chissà dove.
Camille non si lasciò scoraggiare, e versò l’acqua bollente nel lavamano.
Ero senza parole.
“E’…è stato davvero un pensiero gentile, da
parte vostra…” farfugliai, confuso “E il
vassoio?” azzardai.
“La vostra colazione!”
“La mia…colazione?”
Da quando in qua anche io facevo colazione a letto? Mia nonna stava
forse risentendo di qualche trauma postumo del viaggio? Ero leggermente
preoccupato.
“Pensavo che vi avrebbe fatto piacere…” la ragazza
aveva adesso un’aria vagamente imbarazzata, e le sue guance
bianco latte, ricoperte di efelidi, si andavano tingendo di rosso.
“Ma…ma si, si certo! Solo che ecco…io non credo sia
vostro dovere…servire…me. E’ una vostra iniziativa,
o qualcuno vi ha chiesto di farlo?”
Il viso della graziosa Camille era ora tendente al vinaccia.
“E’ una mia iniziativa…” farfugliò
“Per…per ringraziarvi della vostra gentilezza. Il viaggio
di ieri…la vostra compagnia…è stata
piacevole.”
Un sorriso comparve sulle mie labbra per quella sincera forma di
gratitudine, assai rara nella mia vita, e non potei fare a meno di
allungare una mano per sfiorare la sua.
“E’ un pensiero davvero gentile, vi ringrazio di cuore,
anche se non dovevate prendervi questo disturbo. Il viaggio in vostra
compagnia è stato piacevole anche per me, cosa ne dite se
abbandonassimo i formalismi per darci del tu? Mi farebbe piacere se
potessimo diventare buoni amici.”
“Oh, con gioia, monsieur!” il suo volto ora brillava di
entusiasmo. Era incredibilmente giovane e tra le sue parole potevo
distinguere un leggero accento popolare.
“Andrè, chiamami pure Andrè.”
“Andrè…” Camille mi sorrise
“Ora…devi fare colazione, Andrè.”
Esclamò, esibendosi in un leggera riverenza, prima di avviarsi
alla porta. Lesto, mi avvicinai a mia volta all’uscio per
aprirglielo, e, quando lo feci, mi trovai davanti al naso Oscar, con la
mano levata a pugno, pronta a bussare.
“Andrè…”
“Oscar?”
“Camille?”
“Madame…”
Ci fu un attimo di silenzio, poi Camille, dopo un’altra leggera
riverenza, questa volta giustificata dalla presenza della padrona di
casa, sgusciò via furtiva, allontanandosi velocemente per il
corridoio, mentre il ticchettio delle sue scarpe si faceva sempre
più ovattato.
Ci furono alcuni istanti di silenzio tra me e Oscar.
“Dunque, Oscar…hai bisogno di qualcosa? O forse dovevi dirmi qualcosa?”
“Io…” Oscar, per una volta, sembrava essere rimasta a corto di argomenti.
“Vuoi entrare?” le domandai, sconcertato quanto lei dal suo momentaneo smarrimento.
I limpidi occhi azzurri di Oscar mi scrutarono sospettosi per alcuni secondi.
“Andrè…questo…è molto sconveniente.”
Perplesso, levai un sopracciglio.
“Sconveniente? Ritieni sconveniente il fatto che ti stia invitando ad entrare?”
“Sai a cosa mi sto riferendo.”
“In tutta grazia, Oscar, no…Non ho la più pallida idea a cosa tu ti stia riferendo…”
Oscar abbassò lo sguardo.
“La cameriera dei Girodelle…” mormorò tra i
denti “Non dovresti…insomma, i pettegolezzi... sono nostri
ospiti…sarebbe imbarazzante.”
La fissai perplesso, non avendo capito che una vaga sfumatura di quanto mi stava dando ad intendere.
“Quali pettegolezzi? Quella ragazza è solo venuta a portarmi dell’acqua calda!” esclamai.
Gli occhi di Oscar tornarono nei miei.
“Ah…dunque…beh, lasciamo perdere.”
Improvvisamente sembrava aver recuperato tutta la sua fermezza. Mi feci
da parte per lasciarla passare, ma quando fu sulla soglia Oscar si
voltò verso di me.
“Comunque, Andrè, ti consiglio prudenza in futuro. I
Girodelle potrebbero aversene a male se venissero a sapere che
tu…che voi…che hai una relazione con la loro
cameriera.”
“Bene, lo terrò presente se mi venisse qualche grillo per
la testa, e cercherò di essere discreto.” Le risposi per
accontentarla, vagamente esasperato da quelle insinuazioni. Era una
novità per Oscar essere tanto invadente.
Indugiò ancora qualche secondo sulla soglia.
“Ti ringrazio Andrè…e ricordati che è molto
irrispettoso chiuderti la porta alle spalle quando c’è una
signora nella tua stanza, a meno che tu non abbia deplorevoli
intenzioni.” Mi oltrepassò, seria “E adesso, chiudi
la porta.” Mi fece eco, da dentro la camera.
Roteai gli occhi al cielo per l’ironia della situazione, e adempii ai suoi ordini.
A prescindere dal fatto che se mai avessi dovuto avere intenzioni
deplorevoli, come le definiva Oscar, con una donna, quella donna
sarebbe stata lei, ero dubbioso soprattutto in quanto ritenevo che
Girodelle si sarebbe sentito più indignato dal fatto che mi
chiudevo in camera con Oscar, piuttosto che con la sua cameriera. Ma
ognuno aveva i suoi punti di vista.
Quando raggiunsi Oscar vidi che, con il suo occhio di falco, aveva
già notato il vassoio con la colazione, e stava sollevando il
tovagliolo.
“Colazione a letto?” domandò levando il sopracciglio.
“Il pensiero gentile di una ragazza premurosa.”
“Ah-ah…”
Cambiai velocemente discorso: “Dunque sei venuta per dirmi…”
Oscar stava ancora fissando il vassoio. Mi avvicinai a lei e ricoprii
la tazza di latte e le fette di pane imburrato con il tovagliolo.
“Sei venuta per dirmi?” ripetei gentilmente, così da costringerla a guardarmi in volto.
Il suo sguardo era vagamente accigliato, e da quella distanza potei
notare due profonde occhiaie scure sotto ai suoi occhi, segno
inequivocabile di una nottata in bianco.
Il pensiero di Fersen nella camera accanto, supponevo.
Restammo a fissarci per alcuni secondi, in cui provai ancora
quell’inspiegabile sensazione che Oscar mi stesse nascondendo
qualcosa…
“Beh…mentre riordini i pensieri, Oscar, ti dispiace se
finisco di vestirmi? A quest’ora mia nonna mi avrà
già dato per disperso…”
Oscar non ribatté, così mi scostai da lei avvicinandomi
al catino, e mi sfilai la camicia da notte dalla testa, rimanendo a
torso nudo.
Mi sciacquai il viso con l’acqua calda, e benedissi una volta di
più l’anima candida di Camille. Mi passai l’acqua
sul collo e sotto alle ascelle, dopodiché cercai tentoni il
piccolo asciugamano.
Non c’era.
Mi voltai, cercando di mettere a fuoco la stanza e ogni luogo in cui
avrebbe potuto trovarsi, e mi imbattei nello sguardo di Oscar, fisso su
di me. Quando i miei occhi si posarono su di lei, distolse
immediatamente lo sguardo.
“Oscar, vedi in giro la pezzuola?”
Lei, senza scomporsi, si spostò fino al bordo del letto dove
raccolse il pezzo di stoffa, tendendomelo sempre senza guardarmi.
“Oscar?”
Mentre afferravo la pezzuola le sfiorai una mano, e lei la ritrasse come se l’avessi ustionata.
“Ma che ti prende oggi, si può sapere?”
“Niente, perché?” il suo tono di voce era leggermente stridulo.
“No…così, sei strana.”
“E tu sei…mezzo nudo. Rivestiti, per piacere.”
“Cosa? E da quando è un problema per te?”
“E’…è…molto sconveniente.”
“Com’è che oggi sei improvvisamente diventata una
fervida sostenitrice dell’etichetta?” le domandai con un
sorriso. Per farle un dispetto, visto che la situazione mi stava
divertendo, mi avvicinai deliberatamente a lei.
“Ah-ah, ho capito…tu temi il confronto!” la presi
affettuosamente in giro “Guarda qua che muscoli!” Esclamai,
mettendole un braccio sotto al naso.
“Sei pessimo Andrè.” Fu tutto quello che ricevetti
in risposta “Ero venuta per chiederti un favore, ma vedo che ho
scelto la giornata sbagliata…forse stai ancora pensando a quella
tua cameriera, e non riesci ad essere ragionevole.”
Le sue parole smontarono tutta la mia voglia di scherzare.
“E va bene” sospirai “Servo vostro devotissimo, chiedete e verrete esaudita” commentai con tono piatto.
“Prima devi rivestirti”
“Ai suoi ordini, madame.” Borbottai, infilandomi dalla
testa la camicia che avevo indosso il giorno precedente. Mentre mi
abbottonavo il gilet le lanciai un’occhiata, notando che mi stava
nuovamente fissando.
“Dite che adesso il mio abbigliamento è abbastanza consono
alla vostra presenza?” le domandai, mettendomi in mostra.
“Non volevo offenderti, Andrè.”
“Va bene, fine degli scherzi. Allora, di che favore si tratta?”
Lo sguardo di Oscar si fece vagamente imbarazzato.
“Dunque…oggi i nostri ospiti hanno intenzione di recarsi
con la slitta fino al piccolo laghetto, e io dovrei andare con
loro.”
“E?”
“E…dato che hanno portato con loro l’attrezzatura
per il pattinaggio su ghiaccio, temo che vorranno farne
sfoggio…”
“E?”
“E, Andrè, tu devi trovare una scusa per non lasciarmi andare!”
“Cosa?!”
“Inventati qualcosa…a me non è venuto in mente
nulla di plausibile, ma tu sei sempre stato più bravo a
raccontare bugie, anche quando eravamo bambini riuscivi sempre a
cavartela quando non volevi fare qualcosa…”
“Oscar, non siamo più dei bambini! Perché non vuoi andare al laghetto con i tuoi ospiti?”
Oscar non rispose.
“Non sai…pattinare?” azzardai.
Le sue guance divennero di porpora.
Ecco spiegato l’arcano. Oscar doveva primeggiare in tutto, se non
sapeva fare qualcosa preferiva gettare la spugna piuttosto che essere
mediocre.
Ripensai a quando, anni prima, aveva voluto a tutti i costi aspettare
Girodelle sulla strada per Versailles, per dimostrargli che poteva
batterlo come e quando voleva in qualunque circostanza.
Se fosse caduta sui pattini davanti ai suoi occhi sarebbe stata
un’onta irreparabile per il fiero comandante Oscar
François de Jarjayes. Avrebbe preferito uccidere il suo secondo
Girodelle piuttosto che doverlo rivedere tutti i giorni a Versailles.
Per non parlare di Fersen…
Per un attimo, un demone maligno si affacciò sulla mia spalla,
suggerendomi che sarebbe stata una segreta soddisfazione abbandonarla
al tormento di fare una figura assai poco dignitosa davanti al suo caro
conte.
Dopotutto lui era svedese, era probabile che pattinasse sul ghiaccio meglio di come andasse a cavallo…
Probabilmente andava anche a pesca di salmoni sui suoi pattini da
ghiaccio, doveva essere così che aveva imparato a zigzagare per
i corridoi di Versailles con tutta quella grazia e ad accalappiare dame
con tutta quella facilità .
Poi i miei occhi si rispecchiarono nei suoi, e sentii la mia voce
esclamare, nemmeno avessi avuto un suggeritore nella buca pronto a
imbeccarmi la battuta:
“Suvvia, Oscar, se è solo questo il problema, ti insegno io a pattinare!”
Lo sguardo di Oscar si fece leggermente più speranzoso.
Bravo, Andrè.
E adesso come glie lo spieghi che nemmeno tu ti sei mai infilato un paio di pattini?
La contessa Colette era fuori di sé dalla gioia, e io cominciavo
a temere che avrei perso anche l’uso dell’orecchio sinistro
oltre a quello dell’occhio.
“Guardate! Guardate quelle mucche!!” trillò alla
vista di un contadino che rientrava al suo podere con tre giovenche
leggermente sfiancate al seguito, mentre la slitta scivolava silenziosa
per le campagne, escludendo l’ininterrotto tintinnio dei
campanelli appesi ai finimenti dei cavalli.
La contessa si aggrappò al braccio del fratello:
“Victor, ho sentito che Maria Antonietta ne ha due o tre nella
sua fattoria al piccolo Trianon, e che beve latte fresco ogni mattina!
Oh, Victor, voglio anche io una mucca che faccia latte fresco ogni
mattino!”
Girodelle sospirò, vagamente imbarazzato.
Nei duecento metri che avevamo percorso per quel tratto la contessa
aveva desiderato, in ordine: una fila di salici per il loro
‘piccolo giardino all’inglese’, una mucca, un cane da
pastore per la mucca, un laghetto artificiale in cui tenere pesci
orientali l’estate e potervi pattinare l’inverno.
“Ma cara sorella, noi beviamo in ogni caso latte fresco ogni mattina, ce lo porta la lattaia del podere Leroux.”
Colette lanciò un’occhiataccia al fratello, mollando il suo braccio.
“Siete sempre così indisponente nei miei confronti! Non mi
sembra di chiedervi molto, dopotutto!” Esclamò offesa,
tornando ad infilare le mani nel manicotto di ermellino, mentre il
cappellino di piume che si reggeva a malapena sulla sua incipriata
acconciatura veniva sballottato di tanto in tanto dai movimenti della
slitta. Oscar e Fersen non commentarono. Anche se io avrei giurato
di vedere l’impassibile sguardo del conte alterarsi la
frazione di un secondo nel sentir pronunciare il nome della regina.
Quando il laghetto fu in vista, vidi Oscar lanciarmi un’occhiata
nervosa, al quale cercai di rispondere con un leggero cenno del capo.
Non preoccuparti, Oscar, se tu rischierai di romperti una gamba, questo
pomeriggio, stai pur certa che io me le romperò tutte e due nel
tentativo di farti stare in piedi.
Tutto sommato, avevo sottovalutato le mie capacità.
Era più semplice di quel che sembrasse.
Guardai soddisfatto verso la sponda del laghetto ghiacciato, da cui mi ero allontanato all’incirca di…
Mezzo metro? Strano, mi sembrava di aver percorso molta più strada.
Oscar, ancora incerta, mi fissava esattamente da quel punto, e avrei
potuto giurare che il suo sguardo non trasmetteva esattamente cieca
fiducia nei miei confronti.
“Avanti Oscar, vieni, non è difficile!” esclamai tendendole la mano.
In quel momento Girodelle mi passò davanti talmente veloce che
se non avessi ritratto il braccio in tempo mi sarei sicuramente trovato
travolto.
“Madamigella, posso avere l’onore di accompagnarvi?”
Esclamò galantemente, dopo aver frenato sferzando cristalli di
ghiaccio tutto intorno.
Aggrottai le sopracciglia.
Quel damerino pattinatore!
Più camminando che scivolando sul ghiaccio ripercorsi il mio mezzo metro, fino a trovarmi tra Oscar e Girodelle.
“Scusate, Girodelle, mi pare di aver sentito vostra sorella
chiedere di voi…laggiù!” esclamai, indicando il
punto in cui Colette, che ad onor del vero pattinava quasi meglio del
fratello, stava aggrappata al braccio di Fersen con sguardo ammirato.
“Oh…ma vedo che con lei c’è il conte di
Fersen. Di certo l’aiuterà lui se dovesse perdere
l’equilibrio…”
“Non preoccupatevi, Girodelle, andate pure da vostra sorella, con me c’è il mio attendente…”
Forse avevo un’espressione eccessivamente soddisfatta,
perché Girodelle mi lanciò uno sguardo leggermente
risentito. Poi si voltò verso Oscar, abbassando il tono della
voce.
“Madamigella, permettetemi di dirvi che, in tutta
sincerità…non mi sembra che il vostro attendente abbia un
buon controllo sulla sua andatura…”
“Parlate di Andrè?” Oscar sembrava stupita
“Andrè è un ottimo pattinatore, se è questo
che vi preoccupa.”
“In questo caso…” Girodelle, sconfitto, mi
lanciò un’ultima occhiata irritata, prima di allontanarsi
con grazia sui suoi pattini.
“Ti ringrazio per la fiducia, Oscar.” Esclamai orgoglioso, porgendole la mano.
Oscar però mi fissava, seria.
“Andrè, dimmi la verità, non ti sei mai messo un paio di pattini, non è così?”
“Beh…”
“Sei sempre il solito sbruffone. Perché non me lo hai detto subito?”
Perché volevo fare colpo su di te, Oscar. E non volevo che
venissi qua, sola, con Fersen. Quel pensiero attraversò la mia
mente veloce, e pregai che non si potesse leggere
nell’espressione del mio sguardo.
Oscar sospirò, e mi tese la mano.
“Non fa niente, Andrè. Ci sosterremo a vicenda.”
‘Come abbiamo sempre fatto’ aggiunsi io, mentalmente.
Tremolanti, ci avviammo sulla superficie del ghiaccio. Le mani di Oscar
stringevano convulsamente le mie, e percepivo tutta la sua insicurezza
a lasciarsi andare su quel terreno scivoloso.
Aveva uno sguardo vagamente terrorizzato.
“Avanti Oscar, non ti lascio cadere…” le sussurrai,
cercando di portarla al centro della pista, mentre le mie mani si
stringevano più saldamente intorno alle sue.
Cominciai a prendere sicurezza e a provai ad aumentare l’andatura.
La situazione mi stava inebriando, e mi azzardai addirittura a lanciare uno sguardo vittorioso nei confronti di Fersen…
Ma Fersen non era dove avrebbe dovuto essere.
Nel giro di mezzo secondo la situazione precipitò.
Lo scontro con Fersen e la contessa Colette, che arrivavano dalla
nostra sinistra, invece che dalla nostra destra, come avevo
inizialmente creduto, fu talmente violento ed immediato che non ebbi
nemmeno il tempo di realizzare che la mia mano non stringeva più
quella di Oscar.
Il cappellino della contessa mi finì nell’occhio buono, le
sue braccia attorno al mio collo, e piombammo stesi a terra, in un
vortice di vesti, strilla e borotalco, che dalla sua acconciatura si
trasferì sul mio volto, facendomi emettere uno starnuto talmente
violento che il contraccolpo mi fece sbattere violentemente la testa al
suolo.
Dopo alcuni secondi di intorpidimento, sentii le mani della contessa che mi afferravano il bavero della giacca.
“Victor, credo di aver ucciso l’attendente di madamigella Oscar! Non respira più!”
“Bontà divina!” Gridò Girodelle,
precipitandosi in nostro soccorso. Aprii un occhio, aspettandomi di
vedere Girodelle che veniva a risollevare la sorella, la quale era
completamente stesa su di me, ma quello che vidi fu il vicecomandante
delle guardie reali che sfrecciava rapido al nostro fianco, superandoci.
“Viiiiictorrrrrrrrrrr!” Strillò stridula la
contessa, che, davanti alla totale indifferenza di suo fratello, si
chinò su di me, spremendomi le guance tra le mani inguantate:
“Monsieur, mi sentite?! Non morite, vi prego, ne va della mia
salvezza ultraterrena!!”
“No movivò contescia se no mi sciofochevete priva
voi….” Provai a farfugliare, stretto nella sua morsa.
Roteando l’unica pupilla che mi rimaneva, tra le piume del
cappellino e il borotalco, vidi Girodelle che si fermava giusto davanti
a due figure stese a terra, l’una sopra quell’altra,
aggrovigliate tra di loro.
“Boncià discina!” esclamai a mia volta, distinguendo
la matassa dorata dei capelli di Oscar fare tutt’uno con quelli
di Fersen. I loro volti non erano visibili, ma perfino un cieco, come
quasi ero diventato io in quel momento, non avrebbe potuto capire che
erano praticamente guancia a guancia.
“Oh, Dio del cielo, madamigella, mi sentite?”
domandò Girodelle ad Oscar, che delle due figure era quella che
stava sopra.
Fortunatamente, vidi la testa di Oscar sollevarsi mestamente,
puntellando i gomiti sulle clavicole di Fersen. Si guardò
attorno confusa, con i riccioli dorati che le ricoprivano metà
volto, e supposi che non si era accorta di essere stesa sul conte, il
quale, tra tutti, sembrava aver avuto l’impatto peggiore visto
che era ancora riverso a terra quasi privo di sensi. Oscar si
passò disordinatamente una mano sul viso, scostando
disordinatamente i capelli che le si erano appiccicati alla faccia, e
si tastò un punto che, a giudicare dal suo sguardo, doveva
essere dolente.
Immaginavo che lei e Fersen avessero fatto un testa-testa, e non
invidiavo affatto il conte in quel momento: sbattere contro alla testa
dura di Oscar doveva essere quanto di più doloroso potesse
esistere.
Vidi che Girodelle tendeva la mano ad Oscar e lei lo osservava intontita:
“Girodelle, è la guerra?” domandò farfugliando.
“No, madamigella. Siete caduta dai pattini e…temo abbiate travolto il conte di Fersen.”
“Il conte…Fersen? E dov’è adesso?”
“Hem…sotto di voi, madamigella…”
Oscar abbassò lo sguardo, confusa.
“Oh buon Dio!” esclamò, quasi cadendo di lato.
Girodelle si piegò verso il conte, prendendogli il mento tra
indice e pollice, compostamente come era sempre lui, e girandolo da una
parte e da quell’altra.
“Conte di Fersen, mi sentite?”
“Ghhhh…” fu l’insensato commento del conte.
“Conte, siete ancora dei nostri?” Chiese, mentre Oscar
osservava quasi inorridita, dopo essersi allontanata leggermente dal
corpo di Fersen.
“Donne e bambini…” bofonchiò a quel punto
Fersen, sempre tenendo gli occhi chiusi “Portate in salvo donne e
bambini…”
“Qui ci deve essere un bel trauma cranico…” fu l’unica interpretazione di Girodelle.
Io, dopo essermi assicurato che Oscar non sembrava aver riportato altre
ferite, lasciai ricadere la testa di lato, mentre la contessa Colette,
sopra di me, farfugliava qualcosa a proposito di confessori e
indulgenze per la sua anima gravemente compromessa.
Il viaggio di ritorno in slitta fu il più mesto e imbarazzato avessi mai avuto.
Oscar non aveva più detto una parola dopo che io e Girodelle
avevamo dovuto portare a braccia il conte Fersen in carrozza, che era
adesso convinto di trovarsi ancora in America e continuava a domandare
quando saremmo arrivati all’accampamento. Si era limitata a
lanciarmi un’occhiataccia tra la rabbia e il disprezzo, visto
che, a quanto pareva, tutta la dinamica dell’incidente era stata
a causa di una mia svista. Come se Fersen non avesse gli occhi per
vedere dove stava andando. Io, se non altro, ero giustificato dal fatto
di possederne solo uno, di occhio. Probabilmente mi ero sbagliato sul
conto del conte che andava a pesca di salmoni saettando sul ghiaccio
così come saettava dentro e fuori dai letti delle dame. Anche se
quel pensiero non mi era di particolare conforto in quel momento,
davanti all’ostentata indifferenza di Oscar nei miei confronti, e
alla sua preoccupazione per Fersen.
Guardai i volti dei presenti, uno ad uno, ed un unico pensiero si
affacciò alla mia mente: ‘se sopravvivo a questa
villeggiatura, sarà un miracolo’.
Nota dell'autore
Con un po' di ritardo sono finalmente
riuscita ad aggiornare la Villeggiatura^^ Vorrei ringraziare, come
sempre, tutte le persone che leggono e commentano, e quelle che mi
hanno spronato a proseguire questa storia, che spero continui ad essere
di vostro gradimento, nonostante non sia propriamente convinta di
questo capitolo...(il cui titolo è 'rubato' alle leggi di
Murphy, mio personale vademecum!)
Cercherò di rifarmi nei successivi^^ Baci
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Capitolo 4 *** Si dice che ogni battaglia nasca da un malinteso ***
Villeggiatura 4
4- Si dice che ogni battaglia nasca da un malinteso*
“Ma porc…Ah!
Maledizione!” Imprecai, assai poco elegantemente, tastandomi la
fronte. Il mio riflesso, attraverso lo specchio, mi restituì
un’espressione tra l’imbronciato e l’indispettito, e
l’immagine di un vistoso bernoccolo rosso proprio sopra il
sopracciglio sinistro.
Provai a toccare
l’orrendo bozzo con più delicatezza, picchiettandolo
delicatamente con il polpastrello là dove Nanny, tra un sospiro
di sollievo per il mancato pericolo e una lunga serie di minacce su
cosa avrebbe fatto ad Andrè , aveva spalmato un disgustoso
impiastro di alloro.
La fiamma della candela
al mio fianco tremolò impercettibilmente e decisi di lasciar
perdere l’increscioso incidente e dormirci sopra.
Tanto non avrei potuto
fare ad Andrè niente di peggio di quanto gli avrebbe fatto sua
nonna, perciò potevo considerarmi soddisfatta.
Non l’avrebbe passata liscia. Oh, no di certo…lui e le sue spacconate.
Posai il candelabro sul
comodino e mi infilai tra le coperte, adagiando la schiena sui cuscini
e incrociando le braccia al petto.
Dio, era stato così…così…imbarazzante.
Chiusi gli occhi e per
una frazione di secondo, con mio grande disappunto, percepii
distintamente la sensazione delle mani di Andrè strette attorno
alle mie, il suo sguardo nel mio…
Poi il mondo si era
capovolto all’improvviso, e il risultato era ancora distinguibile
tendendo l’orecchio: Fersen che faceva la ronda in camera sua,
sproloquiando in inglese.
Sospirai, afferrando un cuscino e mettendomelo in grembo, così da avere qualcosa da torturare tra le mani.
Secondo il medico, che
era stato convocato in tutta fretta quel pomeriggio, si trattava di una
situazione temporanea, dovuta al brutto colpo ricevuto dal conte, e non
c’era di che preoccuparsi.
Con un po’ di riposo si sarebbe rimesso nel giro di qualche giorno.
Ma io non mi sentivo
serena, o meglio, provavo una strana sensazione di imbarazzo nei
confronti di Fersen, mescolata alla rabbia che sentivo nei confronti di
Andrè.
Andrè. Era stata tutta colpa sua.
Senza pensarci agguantai il guanciale e lo scagliai lontano da me, vedendolo cadere sul pavimento con un tonfo.
Incredibilmente, la cosa mi fece sentire meglio.
Afferrai un altro cuscino, di quelli ricamati di pizzo che tanto piacevano a Nanny, e me lo portai davanti al viso.
“Allora, Andrè, cosa hai da dire a tua discolpa?”
Il cuscino, come era prevedibile, non emise un fiato.
“Ah, è
così, dunque?” Lo scossi violentemente “Avanti,
parla! Pretendo delle scuse per il tuo comportamento
oltraggioso!”
Andrè, o meglio, la sua versione di pizzi, si ostinava a rimanere in silenzio.
“Bene. L’hai
voluto tu, non avrò pietà!” Presi il cuscino e lo
abbattei con violenza sul materasso al mio fianco. Una, due, tre volte.
Ma ancora non bastava.
Lo attorcigliai su
sé stesso, lo sbattei contro alla testata del letto, ci affondai
i denti dentro, lo tirai da entrambi i lati.
Ma Andrè non demordeva.
“Stupido…cocciuto…che se la fa…con…le…camerier…”
Oh.
Non era…questo il punto!
Mi bloccai con il pugno levato, e la visione dei pettorali di Andrè mi balenò per un istante davanti agli occhi.
Piccole goccioline di acqua risplendevano sul suo petto glabro.
Immaginai di leccarne via una con la punta della lingua.
In un istante il mio pugno si abbatté con violenza nel mezzo del cuscino.
Seguito da un altro, e da un altro, e da un altro…
Lo sollevai per un lembo,
animata dalla più cieca rabbia, e lo scagliai verso il soffitto
del baldacchino. Il chiaro rumore della stoffa che si lacerava mi
arrivò indistintamente alle orecchie, mentre una soffice coltre
di piume bianche già mi ricopriva.
Avevo appena assassinato Andrè.
Rimasi ansimante, inginocchiata nel mezzo del letto disfatto, ormai sommerso di piume.
Nella mano sinistra reggevo tutto ciò che restava di Andrè.
“Oddio…”
Lentamente mi accasciai
tra le piume, portandomi le ginocchia al petto, e continuando a
stringere il lembo del cuscino ormai vuoto tra le mani, chiusi gli
occhi, tremando.
“Che cosa mi sta
succedendo?” sussurrai al silenzio della notte, prima che il
lieve torpore del sonno si impadronisse di me.
Sognai. Sognai di essere
svegliata da un soffio sulla guancia, proveniente da una sagoma china
su di me. Tra le dita teneva una piuma che faceva lentamente scorrere
sul mio viso.
Sprofondata tra i
cuscini, sentivo il mio respiro farsi sempre più pesante, mentre
riconoscevo il familiare profilo di Andrè, parzialmente
illuminato dalla tenue luce lunare. La sua mano scese lentamente lungo
il mio collo, lasciando scorrere quella lieve carezza fino alla mia
spalla lasciata nuda dall’ampio scollo della camicia da notte.
Ogni sensazione di rabbia sembrava essere svanita dentro di me.
C’era solo desiderio.
Allungai una mano verso
di lui, e in un attimo la sua bocca trovò la mia, in un bacio
profondo. Il peso del suo corpo che aderiva completamente al mio quasi
mi lasciò senza fiato. Le sue mani sul mio seno mi davano una
sensazione nuova, sconosciuta. Con la punta delle dita mi sfiorò
i capezzoli, attraverso la stoffa sottile della camicia da notte, e per
un attimo mi sembrò di aver smesso di respirare.
“As…aspetta…”
Il suo fiato era caldo sulle mie labbra. I capelli gli cadevano davanti agli occhi.
Sentivo vibrare ogni attimo intorno a noi, ogni istante.
La mia flebile protesta
si spense nel momento esatto in cui la formulai. Le mie mani
scivolarono sul suo petto, lungo le braccia muscolose.
Lo desideravo oltre ogni ragionevole limite.
La sua bocca calda fu
nuovamente sulla mia, mentre le sue mani scesero, scostandomi
l’orlo della camicia da notte, a sfiorare una parte di me a lungo
incompresa e rinnegata.
Sentii tutto il suo palmo
avvolgermi, nel momento esatto in cui dalle mie labbra fuoriuscì
un rantolo che assomigliava ad un singhiozzo.
Mi sentivo soffocare…soffocare…
Iniziai a tossire.
“Oscar? Oscar, bambina?”
Qualcosa pizzicava la mia
gola e non valeva saperne di andarsene. Tossivo ed ansimavo,
finché un duro colpo sulla schiena, al pari di una legnata, mi
costrinse ad aprire gli occhi di colpo e a sputare le due o tre piume
che avevo involontariamente ingoiato.
“Oscar, bambina
mia, mi hai fatto prendere uno spavento…Si può sapere
cosa è successo qua dentro? Sembra che sia scoppiata la
guerra!”
Misi a fuoco il volto di Nanny, il quale, a qualche centimetro dal mio, mi fissava preoccupato e sospettoso.
Sbattei più volte
le palpebre, realizzando solo in quel momento di essere seduta nel
mezzo del mio letto ricoperto di piume, alcune delle quali si erano
attaccate alle mie guance sudate e infilate nei miei capelli. Un
pallido sole invernale faceva capolino dalle ampie vetrate.
“Ecco…io…Credo di aver fatto un brutto sogno.”
La mia governante mi
occhieggiò con apprensione. Probabilmente si stava chiedendo se
la botta in testa non si fosse rivelata più grave di quanto il
dottore avesse annunciato.
“Povera cara. Ti
faccio portare subito un tè caldo.” Annunciò,
posandomi una mano fresca sulla fronte, che io sentivo bollente, ancora
accaldata com’ero dalle sensazioni che quel dannato sogno aveva
risvegliato in me.
Un sogno, non era stato che un altro, stupido, sogno.
“Non hai la febbre.
Ma è bene che oggi tu riposi!” Mi ammonì
“Niente strane idee come quella del pattinaggio! Ah, quello
scellerato di mio nipote, che idee, lasciare che una signorina si
avventuri con quegli arnesi sopra al ghiaccio!”
Nel sentir nominare
Andrè qualcosa si smosse violentemente dentro di me, facendomi
desiderare di avere veramente la febbre, per poter passare tutta la
giornata chiusa in camera.
“Ad ogni modo,
Oscar, adesso è bene che tu ti vesta. Tu padre mi ha chiesto di
riferirti che ha delle questioni urgenti di cui discutere con te! E poi
sarà il caso che io faccia venire qualcuno a sistemare questo
disastro…” Nanny raccolse da terra la federa del cuscino
che la sera prima avevo torturato e malmenato fino al drammatico
epilogo. “Che peccato, mi piaceva tanto questo cuscino!
Vedrò se è possibile rammendarlo…”
mormorò tra sé e sé, lasciandomi sola nella stanza
a ripetermi che si era trattato solo di un sogno, uno stupidissimo
sogno senza ne capo ne coda.
Anche se la camicia da
notte completamente incollata addosso il doloroso pulsare che ancora
sentivo tra le gambe sembravano voler smentire qualunque razionale
teoria.
Quando uscii dalla mia
stanza, lavata e vestita, avevo tutta l’intenzione e la
volontà di dimenticare al più presto le emozioni della
notte appena trascorsa.
Mi avviai per il
corridoio a passo marziale e superai la stanza del conte Fersen,
lanciando involontariamente un’occhiata al suo interno quando mi
resi conto con un certo stupore che la porta era accostata.
Tornai sui miei passi, e sbattei le palpebre.
Attraverso lo spiraglio
della porta riuscivo a scorgere il letto, da cui erano state tolte
coperte e lenzuola, le quali facevano mostra di sé tese tra due
sedie che erano state leggermente accostate.
Una tenda da campo?
Guardai con più
attenzione, e quando vidi gli stivali del conte spuntare sa sotto le
sedie dovetti arrendermi all’evidenza.
Era proprio una tenda da campo.
Rimasi sulla soglia, indecisa sul da farsi, poi il senso di colpa prevalse e mi arrischiai a bussare alla sua porta.
Bastò un lieve colpetto per farlo drizzare in tutta fretta.
Evidentemente Fersen era uno di quei soldati che dormono sempre con un occhio chiuso e uno aperto.
Purtroppo per lui,
però, la sua riproduzione di una tenda da campo non gli
consentiva lo spazio necessario per un’azione tanto repentina.
Rimase impigliato nelle lenzuola e lo vidi dimenarsi per qualche secondo sotto di esse.
“Damn!”
farfugliò, cercando di districarsi. Quando infine riuscì
a ricomporsi, lo vidi scrutarmi con occhio sospettoso, prima di
distendere la fronte e le labbra in un sorriso.
“Oh, you're not an enemy! My good, good friend! But… where I am? where are the other soldiers?”
Bene. Fersen credeva
ancora di essere sotto al fuoco nemico in America, ma non si era certo
scordato che io ero la sua ‘good, good friend’. Anche se
stranamente la cosa non mi turbava più di tanto.
“Conte di Fersen…Hem…Potete parlare francese, per favore?”
“Oh, se preferite…ma ditemi, dove mi trovo? Che posto è questo?”
“Siete…Siete ad Arras, in Francia. Siete mio ospite, non ricordate?”
“Arras? No, vi sbagliate…Non posso essere in Francia! Voi Oscar, piuttosto, cosa ci fate in America?”
“Ecco…”
In quel momento, un distinto rumore di passi nel corridoio arrivò alle orecchie di entrambi.
Il gesto del conte fu
repentino, mi afferrò per un braccio, stringendomi a sé,
e si lanciò a terra, rotolando verso il letto.
“Non fiatate Oscar,
per l’amor di Dio, potrebbe essere un inglese!” mi
sussurrò, premendomi una mano sulle labbra.
I passi si avvicinavano, e io non avevo il coraggio di divincolarmi da quella stretta tanto era l’imbarazzo.
A lungo avevo sognato un
contatto del genere con Fersen, ma mai mi sarei immaginata di trovarmi
tra le braccia di un uomo che aveva perduto la memoria e, in casa mia,
era convinto di dovermi trarre in salvo dagli inglesi.
Non era una sensazione
che avrei in alcun modo potuto definire piacevole, senza contare che
nell’azione di salvataggio avevo picchiato un ginocchio al suolo
e la sua mano calcata sulla mia bocca stava cominciando ad innervosirmi.
“My gun, damn it, I
can not find my gun! English! They stole my gun, I know!”
farfugliò il conte, guardandosi attorno in cerca di un arma.
In quel momento i passi,
sempre più vicini, si fermarono sulla soglia della porta, e
guardando in su potei scorgere Camille con il vassoio del tè tra
le mani e un’espressione più che allibita stampata sul
volto.
La mano di Fersen sulla mia bocca si rilassò e io potei tirare un sospiro.
Ma come si poteva giustificare agli occhi di una cameriera una scena del genere?
La ragazza distolse
immediatamente lo sguardo, arrossendo fino alla radice dei capelli, e
vidi il vassoio tremare vistosamente tra le sue mani, mentre cercava un
modo per dileguarsi in modo discreto.
“Madame…Monsieur…”
farfugliò, indietreggiando “Ho portato…il
tè…”
Ancora stesa a terra con
Fersen addosso decisi che il modo migliore per evitare ulteriori figure
era quello di ostentare un’assoluta indifferenza.
“Oh, si, grazie
Camille, portalo in camera mia, lo berrò
lì…” mormorai, sentendomi le guance in fiamme.
Camille non se lo fece ripetere, sparendo dal vano della porta alla
velocità della luce.
“Conte, vi dispiacerebbe?” Aggiunsi quindi, rivolgendomi a Fersen in modo tutt’altro che amichevole.
“Oh…Oh, certo Oscar, scusatemi…Ero proprio convinto si trattasse di un inglese…”
Una volta in piedi mi diedi una spolverata, fulminando Fersen con lo sguardo.
“Si, l’ho
notato. Ma permettetemi di dirvi, conte, che qui non ci sono inglesi di
cui avere timore. Siamo in Francia, e voi siete tornato da un pezzo
dall’America. Avete preso un brutto colpo, siete un
po’ confuso e in cuor mio mi auguro che guariate il prima
possibile…Ma per il momento cercate di controllarvi, siete tra
persone rispettabili di cui avete la totale amicizia, non avete nulla
da temere.”
“Dunque…non mi trovo in America?” gli occhi azzurri di Fersen mi fissavano smarriti.
“Per l’ennesima volta, no.”
“Oh…In
questo caso, perdonatemi Oscar, non volevo offendervi in alcun
modo…Siete la mia più cara amica, spero che questo voi lo
sappiate…”
“Conte di Fersen,
non vi preoccupate, questo non posso proprio scordarlo. Addio.” E
così dicendo uscì dalla sua stanza, lasciandolo solo e
demoralizzato ad osservare i resti della sua improvvisata tenda da
campo.
Quando, dopo aver
bussato, varcai la soglia dello studio di mio padre, un acre odore di
fumo raggiunse le mie narici, mentre scorgevo due figure in controluce
sulle poltrone dinnanzi alle grandi finestre.
Girodelle si levò immediatamente in piedi al mio ingresso.
“Madamigella, sono lieto di vedere che vi siete rimessa da…hem…il brutto incidente di ieri.”
“Vi ringrazio
Girodelle.” Brontolai, leggermente indispettita dal fatto che il
mio secondo mi avesse visto in quella situazione. Da quando gli avevo
soffiato il posto di comandante delle guardie reali mi sentivo sempre
in dovere di dimostrargli quanto valessi in ogni occasione. E la mia
performance del giorno prima non era qualcosa di cui andare
particolarmente fieri.
“Oscar, io e il
conte Girodelle stavamo discutendo di alcune importanti questioni, che
ti riguardano. Prendi posto con noi.”
In quel preciso istante,
mi sembrò di scorgere un sottile filo di paura negli occhi di
Girodelle, ancora in piedi al mio cospetto.
“Generale, con
permesso, preferirei siate voi a discutere la questione con vostra
figlia…Io…ecco, io devo ritirarmi ai piani superiori per
far visita a mia sorella e ad assicurarmi si sia rimessa
dall’infortunio di ieri…”
“Come preferite, conte.” Mio padre inalò una lunga boccata di fumo dalla sua pipa, espirandola con lentezza.
“Madamigella”
Girodelle mi salutò con un inchino, al quale replicai con un
vago cenno del capo, troppo distratta dalle questioni che mio padre
aveva da sbrigare con me.
“Siedi,
Oscar.” Esclamò a quel punto mio padre, mentre prendevo
posto nella nuvola di fumo che occupava la poltrona dinnanzi alla sua.
Restammo in silenzio alcuni secondi, in cui percepii chiaramente il suo sguardo soffermarsi su di me con insistenza.
“Dimmi, Oscar, sei soddisfatta della vita che conduci?”
“Naturalmente, padre.”
“Mmmmmh…”
mio padre levò il braccio sinistro dal bracciolo della poltrona,
poggiando il suo peso su quello destro, e prese ad osservarmi da
un’altra angolazione.
“E non senti mai l’esigenza di…condurre un diverso tipo di vita?”
“Perché
dovrei sentirne l’esigenza? Sono pienamente soddisfatta di
ciò che possiedo, delle cariche che ricopro…”
Improvvisamente, mi venne un dubbio.
E se Girodelle, dopo
tutti quegli anni, avesse deciso di reclamare per sé il ruolo di
capitano della guardia reale? Dopotutto tra noi non c’era stato
nessun ‘leale duello’, almeno all’apparenza.
Non vedevo altro motivo per cui avrebbe dovuto discutere con mio padre riguardo me…
E il suo strano e
deferente comportamento nei miei confronti, ultimamente, poteva
benissimo celare un improvviso colpo basso. Si, Girodelle,
recentemente, era stato più strano del solito…
“Oscar…”
“Padre, scusatemi se mi permetto di interrompervi. Ma credo di aver capito cosa volete comunicarmi.”
“Ah…si?” Le spesse sopracciglia di mio padre si corrugarono sotto al suo parrucchino incipriato.
“Si, avevo
avvertito qualcosa di diverso nel comportamento del conte Girodelle, e
questo nostro dialogo me ne da un’ulteriore conferma.”
“Bene, dunque avevi già avvertito aria di cambiamento da parte del conte di Girodelle. E cosa ne pensi?”
Rimasi silenziosa alcuni
minuti. Come avrei dovuto ribattere? Lasciar intendere a mio padre che
mi sarei volentieri fatta da parte per lasciare a Girodelle un posto
che in fondo avevo sempre voluto fosse suo, o accusarlo di cospirare
nei miei confronti?
“In tutta
onestà, padre, sono sorpresa per questa novità. Ma penso
di…doverglielo, in qualche modo.”
Gli occhi scuri di mio
padre rimasero qualche istante puntati nei miei, mentre lo vedevo
annuire pensieroso. Un alito di fumo volteggiò verso di me,
lasciando che ne inalassi il miasma.
“Dunque, accetteresti la proposta che il conte mi ha formalmente richiesto poc’anzi?”
“Io…Si, naturalmente, se la cosa vi aggrada.”
In fin dei conti era
già da qualche tempo che pensavo di lasciare la guardia reale,
anche se mi domandavo perché Girodelle se ne saltasse fuori solo
adesso con quella richiesta di prendere il mio posto.
“Io, oh,
Oscar…” per un attimo, mi parve di scorgere un tremolio
nella mano con cui mio padre reggeva la sua pipa, e un breve luccichio
nei suoi occhi.
In quel momento, un lieve bussare alla porta ci fece trasalire entrambi. Mio padre si ricompose in fretta.
“Avanti!”
Mentre me ne stavo a
braccia incrociate a respirare tebacco, vidi la familiare sagoma di
Andrè fare capolino dalla porta, reggendo un vassoio con del
tè tra le mani.
Quella mattina i vassoi di tè mi perseguitavano.
“Generale, conte
di…” salutò, prima di rendersi conto che non era il
conte Girodelle a star seduto dinnanzi a mio padre.
“Oh, Oscar…”
“N’drè…”
farfugliai, presa alla sprovvista dalla leggera capriola che il mio
stomaco fece in quell’istante, e ancora indispettita con lui dal
giorno precedente.
Andrè ci raggiunse e posò il vassoio sul tavolino alle mie spalle, iniziando ad armeggiare con tazze e cucchiaini.
Mio padre riprese il discorso.
“Dunque, Oscar,
sono lieto di sapere che accetterai la proposta del conte. Si, ti
sembrerà strano ma…Per me è come togliermi un peso
dallo stomaco, davvero. Non sai quante volte, nel corso degli anni, mi
sono chiesto se stavo facendo la cosa giusta con te, se era quella la
vita che meritavi…”
“Padre, non
angustiatevi. Io l’ho fatto per voi, ma l’ho fatto con
piacere. E sono stata molto bene nella guardia reale, ma se è un
cambiamento che mi si richiede, sarò ben lieta di ottemperare
alla vostra richiesta, e a quella del conte Girodelle.”
“Vedrai che il
cambiamento ti farà bene Oscar, avrei dovuto capirlo anni fa che
era una follia farti seguire questa strada…”
Perplessa, mi domandai se
si ricordasse ancora, vividamente come lo ricordavo io, lo schiaffo che
mi aveva tirato quando gli avevo detto di non voler subentrare come
capitano della guardia reale. Ai tempi era stata quasi una questione
d’onore, per lui, che ricevessi quell’incarico. Adesso non
voleva l’ora che lo lasciassi. E io, come sempre, mi sentivo un
burattino nelle sue mani.
Mio padre si levò lentamente in piedi.
“Molto bene, Oscar,
adesso che abbiamo risolto la questione, e non credevo davvero che
sarebbe stato tanto semplice, mi permetti di consegnarti un regalo da
parte del conte Girodelle? Lui vorrebbe che lo indossassi quando
sarà lui stesso a parlarti del nostro
‘accordo…’”
Sempre più perplessa, allungai le mani verso la lunga scatola di stoffa verdina che mio padre mi porgeva.
Ma Girodelle era forse
impazzito? Eppure mi era sembrato che nello scontro del giorno
precedente fosse stato l’unico a non capitolare a terra…
Quando spalancai il
coperchio, davanti allo sguardo commosso di mio padre, un lieve sbuffo
di carta velina fuoriuscì dalla scatola, insieme ad uno strano
aroma dolciastro, qualcosa che in una vita precedente doveva aver avuto
a che fare con dei fiori veri.
Era un vestito.
Lo riconobbi con orrore.
Un altro, stupido, enorme, ridicolo vestito da donna.
In quel preciso istante
alle mie orecchie arrivò il sordo rumore di qualcosa che andava
in frantumi e un biscotto di pasta frolla rotolò a fianco della
mia scarpa, fermandosi a pochi centimetri da essa.
Evidentemente nemmeno Andrè aveva retto allo shock.
Mio padre trasalì.
“Andrè! Ma che modi sono questi?”
“Hem…Scusatemi, generale, mi è scappato di mano il piattino con i dolci…”
La voce di Andrè mi arrivava ovattata alle orecchie, così come quella di mio padre.
Una sorda rabbia si stava impossessando lentamente di me.
E così, Girodelle
non solo voleva spodestarmi dal ruolo di capitano, ma voleva anche
prendersi gioco di me con quell’orribile vestito, per ricordarmi
che donna ero e donna rimanevo?
Questo non potevo proprio sopportarlo.
Richiusi il coperchio, e mi sollevai infilandomi la scatola sotto al braccio.
“Vi ringrazio per
questo colloquio illuminante, padre. Non mancherò di rispettare
il vostro volere, e…quello del conte Girodelle,
naturalmente.” Replicai con freddezza, dopodiché mi avviai
alla porta, senza degnare di uno sguardo Andrè che si
affaccendava a recuperare biscotti in giro per lo studio di mio padre.
Com’era possibile
che, pur spacciandomi da anni per un membro del cosiddetto ‘sesso
forte’, detestassi a tal punto il genere maschile?
Quando arrivai in cima alla rampa di scale che portava alla mia stanza mi imbattei nuovamente in Fersen.
“Oscar…”
mormorò, guardandomi con i suoi sinceri occhi azzurri
“Sapete dove posso imbucare una lettera per la Francia?”
Lo osservai alcuni
istanti, e guardai la lettera che stringeva tra le dita sporche
d’inchiostro. Era indirizzata a Versailles.
Dopodiché lo superai senza degnarlo d’attenzione, richiudendomi la porta della mia stanza alle spalle.
“E così,
conte, mi volete spodestata e umiliata? Avete covato rancore per tutti
questi anni, e aspettavate solo il momento giusto per farvi gioco di
me?” Esclamai, facendomi rigirare il calice di vino tra le dita.
Davanti a me, composto
sul manichino che Nanny aveva tirato fuori per l’occasione, colma
di gioia (due abiti femminili in poco più di un mese!) stava il
vestito che Girodelle aveva scelto per la mia pubblica mortificazione.
Era pieno di sbuffi, incredibilmente ingombrante, ricoperto di fiocchi e fiocchetti, pizzi e merletti.
Un obbrobrio.
Posai il calice sul tavolo, e mi feci scrocchiare le dita.
“Eppure, Girodelle,
credevo di avervi lasciato intendere qualcosa di me, in questi
anni…potevate avere più buon gusto.” Mormorai.
Mi sollevai, e girai intorno al manichino, sfiorando qua e là pezzi di tessuto e passamaneria.
Lasciai scorrere le dita su uno dei fiocchi in raso che adornavano il corpetto. Era morbido, color glicine.
Lo staccai con un colpo netto.
“Oh, ma guarda, che scriteriata…” Esclamai, gettando il fiocco a terra.
Ripercorsi i miei passi
fino al tavolino, dove mi versai in gola un'altra abbondante sorsata di
vino. Poi afferrai il fodero della spada che tenevo appeso alla sedia,
e tornai verso il malcapitato.
“Lasciate che vi
dica, Girodelle…” sfoderai la spada “Che in tutta
sincerità pensavo ci fosse più amicizia tra di noi. Ma
una persona può anche sbagliarsi sul conto di
un'altra…”
Con un colpo netto, tranciai via una manica dal vestito, poi un’altra.
Tagliuzzai la gonna, fino
a farne tante striscioline sottili che calpestavo mentre giravo attorno
a quell’offensivo mucchio di stoffa.
“Credete tutti che
una donna non possa avere forza ed indipendenza, che debba starsene a
soffocare dentro questi stupidi aggeggi, sventolarsi come
un’idiota con quei ridicoli ventagli per non soffocare dentro
questi abiti, portarsi i sali appresso, stingere tutti quei
nodi…per cosa, poi? Per essere bella e desiderabile? ”
Un altro colpo di spada, e aprii in due il corsetto.
Rimasi ansimante, davanti a quello scempio.
Poi, lentamente, mi spostai davanti alla specchiera, e sollevai tra le dita una grossa e pesante ciocca dei miei capelli dorati.
“Non mi travestirò da donna una seconda volta per esaudire i desideri di qualcuno.”
Mormorai, sollevando la spada verso la ciocca che tenevo tesa.
Non avevo sentito
bussare, ma in quel preciso istante, qualcuno aprì la porta e,
dopo un attimo di esitazione, si lanciò con forza verso di me,
bloccandomi il polso.
Fece in tempo a cadere solo un piccolo ricciolo dorato, che si afflosciò ai miei piedi.
“Oscar! Che diavolo ti prende, si può sapere cosa stavi facendo?”
La voce di Andrè quasi mi perforò i timpani tanto era squillante.
“Lasciami immediatamente Andrè, la cosa non ti riguarda.” Esclamai, indignata dalla sua intromissione.
“No, no che non ti
lascio! Ma sei impazzita?!” Andrè si guardò attorno
“E poi, che diavolo…hai appena assassinato l’abito
del conte Girodelle!” Esclamò.
Esatto, ecco chi ero.
Oscar François de Jarjayes, feroce omicida di cuscini e vestiti. Tenete ben chiusi i vostri armadi, o incauti…
“Andrè, ti
ordino di lasciarmi! Da adesso vivrò come un uomo, quindi tu e
le tue assillanti apprensioni potete prendere la porta e
sparire!” Esclamai, cercando di divincolarmi dalla sua stretta.
La sua mano sul mio polso, tuttavia, si strinse al punto che mi trovai costretta a lasciar cadere la spada.
“Vivrai come un uomo? E cosa hai fatto fino ad adesso, dunque? Illuminami.”
“Io…Ho…Ho
solo subito le decisioni altrui, ma le cose cambieranno. E adesso
lasciami, mi stai facendo male!”
“Quindi mi stai
dicendo che fino ad adesso hai solo finto di essere un uomo per
compiacere tuo padre, ma da adesso vuoi diventarlo a tutti gli effetti?
Per questo ti stavi tagliando i capelli?”
Il suo viso si avvicinò pericolosamente al mio, e vidi la sua unica iride fremere di rabbia.
“Non capisco
perché tu stia facendo tutte queste storie, Andrè! Non
sono affari che ti riguardano, dopotutto!”
“Non son…Non sono affari che mi riguardano! Esatto!”
“Si, esatto!”
“No, non è esatto per niente!”
“Ma tu hai appena det…”
“Non rigirare la frittata, Oscar!”
Restammo a fissarci in un
silenzio carico di tensione. Poi Andrè, lentamente, mi
lasciò il polso, che presi subito a massaggiare, proprio
là dove si era formata una striatura rossa.
Lo guardai carica di risentimento.
“Vattene. I tuoi
servigi non sono più richiesti, tanto più che
effettivamente…tu non mi servi a niente, non sei stato nemmeno
capace di tenermi in piedi sul ghiaccio, dopo che ti eri spacciato per
un esperto pattinatore.”
“Ma certo! Tanto
adesso avrai chi ti insegna, non è così, Oscar? O forse
dovrei chiamarti…Madame Girodelle…”
“Di che accidenti stai parlando?”
Andrè pestò con forza un piede al suolo.
“Sto parlando di
questo, maledizione, non fare finta di niente Oscar!”
Esclamò, indicando i pezzi di stoffa lacera sparsi sul pavimento.
Giuro che non capivo. Forse la botta del giorno prima…
“Andrè, stai farneticando. Vattene.”
“Non sto
farneticando, Oscar! E tu sei talmente ingenua da non capire che
l’unico motivo per cui Girodelle ti ha regalato
quell’abito…” Il suo volto tendeva al paonazzo;
prese fiato “Era quello di levartelo di dosso il prima possibile,
per infilarsi tra le tue gamb…”
Lo schiaffo che gli tirai gli fece voltare violentemente il viso verso destra.
Resa cieca dalla rabbia, non mi ero nemmeno resa conto di averlo colpito sull’occhio ferito.
Andrè fece qualche passo indietro, portandosi una mano alla guancia.
Io ansimavo.
“Tu-sei-solo-un…” Gli gridai, i pugni stretti davanti a me, senza tuttavia trovare un termine adatto.
La notte precedente mi
ero sfogata su di un cuscino. Ma la mia rabbia nei confronti di
Andrè, adesso alimentata da quella nei confronti di Fersen, mio
padre e Girodelle mi stava letteralmente facendo esplodere. E il vero
Andrè era adesso a mia disposizione.
Ma prima che potessi
sputargli addosso tutta la mia frustrazione, Andrè mi
riafferrò i polsi, stringendoli con violenza, e mi spinse verso
il letto.
“Avanti Oscar,
finisci la frase! Cosa sarei, io? Un idiota? Uno stupido? Te ne do
atto, è quello che sono! Ma tu, tu vuoi sapere cosa sei?”
Mi strattonò con
violenza, facendomi cadere sopra al letto. In un attimo fu sopra di me,
le sue mani strette attorno alle mie braccia, senza darmi
possibilità di fuga.
“Tu sei una
vigliacca.” Mormorò, le labbra talmente vicine alle mie
che potevo sentire il calore del suo respiro.
Immediatamente le sensazioni provate quella notte riaffiorarono in me, imperlandomi il viso di sudore.
Alcuni secondi di silenzio passarono tra di noi, come ore.
La pressione delle dita di Andrè si fece più lenta su di me. Il suo sguardo perse ogni traccia di collera.
“Non sforzarti, Oscar. Non sarai mai un uomo. Non con questo corpo. Non con questo volto.”
Levò una mano dal
mio braccio, per prendermi una ciocca di capelli tra le dita.
C’era una sfumatura di tristezza nella sua voce, ora.
“E tagliare i tuoi
meraviglioso capelli, non servirà a niente. Ricresceranno, e
saranno più belli di prima…”
Li lasciò ricadere
tra le lenzuola, poi si sollevò, sistemandosi il colletto della
giacca, e, dopo essersi chinato a raccogliere qualcosa da terra,
lasciò la mia stanza senza degnarmi di uno sguardo.
Deglutii. Ero confusa e totalmente sopraffatta da sentimenti contrastanti. Dopo alcuni secondi mi levai a mia volta.
Madame Girodelle?
Afferrai la spada e mi diressi alla porta.
Andrè non l'avrebbe passata liscia. Non questa volta.
* frase di Thomas Carlyle, che trovavo particolarmente adatta alla situazione^^
Nota dell'autore
Grazie,
grazie, grazie di cuore per tutte le splendide recensioni del capitolo
scorso! Spero che la storia continui a piacervi, sebbene questo
capitolo sia meno comico del precedente, in parte perchè Oscar
si presta meno di Andrè all'autoironia, in parte perchè
volevo che la storia prendesse una piega più 'tesa'...Spero di
essere riuscita in questo intento. Grazie di cuore nuovamente a
chi legge e commenta, pareri negativi/positivi sono sempre ben accetti!
Un bacio
|
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Capitolo 5 *** Come l'acqua per le rose ***
villeggiatura 5
5 - Come l'acqua per le rose
Uscii fuori, ansimando.
Una leggera pioggerellina
ghiacciata aveva preso a cadere, segno inequivocabile che quella notte,
se non avesse smesso, avrebbe buttato giù un bel po’ di
neve.
Mi portai le mani al volto, lasciandole risalire sulla fronte e tirandomi indietro i capelli ormai umidi.
Inspirai ed espirai, chiudendo gli occhi.
Che cosa mi diceva l’intelletto? Che diavolo mi era preso?
Sentivo le gocce umide farsi strada nel collo della giacca, erano ghiacciate, ma questo ancora non bastava.
Non mi ero mai sentito tanto eccitato in vita mia.
Lasciai ricadere le
braccia lungo il corpo e levai il volto al cielo plumbeo del tardo
pomeriggio, mentre l’acqua mi rigava le guance e la fronte
lasciata libera dai capelli.
Dio, quanto era bella.
E quanto era stato dannatamente facile avere ragione di lei, pochi attimi prima.
Un attimo di follia.
Ma… se non mi fossi riavuto in tempo?
Pensai ai suoi riccioli
d’oro sparsi tra le lenzuola, alle sue labbra dischiuse pronte a
sputarmi addosso il loro veleno, alla curva di un seno che si
intravedeva appena dallo scollo della camicia.
“Sei pazzo, Grandier…”
Tornai in me e mi diressi alle scuderie.
I cavalli levarono le
teste al mio ingresso, scuotendo leggermente la criniera. Mi appoggiai
con i gomiti ad un box, e mi coprii il volto con le mani, invidiando
con tutto il cuore il conte di Fersen.
Se avessi preso io quella
botta al posto suo, forse in quel momento avrei potuto convincermi di
essere in America a combattere gli inglesi, che era certamente
più auspicabile che andarsene in giro per la proprietà
dei Jarjayes con la bava alla bocca proprio mentre il generale si
faceva portare la bottiglia migliore per brindare al prossimo
matrimonio della figlia.
Levai il volto e mi
infilai una mano in tasca, estraendo il piccolo bottino che ero
riuscito a sottrarre alla mia testarda nemica: il ricciolo di Oscar. Me
lo rigirai tra le dita, lo portai al naso e ne ispirai a fondo
l’odore.
Era come darsi una serie di pugnalate in pieno petto.
Me lo portai al cuore e desiderai farci un medaglione. O forse avrei potuto cucirlo dentro al cuscino.
O magari…usarlo per una piccola bambola woodo.
Stavo impazzendo.
Me lo ricaccia in tasca di forza, e proprio mentre stavo per girarmi, sentii un rumore di passi alle mie spalle.
Erano lenti, ma accompagnati da un chiaro ansimare.
Sentivo che l’apocalisse si stava avvicinando.
Mi voltai senza fretta, e vidi la sagoma di Oscar stagliarsi contro la porta delle scuderie.
Dai capelli le
sgocciolavano minuscole lacrime d’acqua, che andavano ingrandendo
la pozzanghera bagnata che aveva ai piedi. Il suo sguardo, pur
nell’oscurità, non prometteva nulla di buono, e la spada
che teneva stretta tra le dita sembrava confermare la brutta sensazione
che avvertivo: per me era giunta la fine.
“Come hai osato…” Oscar fece un passo avanti, la sua voce fremeva di rabbia.
Decisi di arrendermi ancora prima di provare a difendermi, e rimasi in silenzio ad osservarla avanzare.
“Come ti sei permesso!…Io-non-accetto…”
Oscar levò la spada e tranciò di netto delle briglie che pendevano da un gancio alla sua destra.
E pensare che l’avevo affilata io quella spada.
Che idiota.
“Un com-por-ta-ment-o-del-genere…”
Ormai era a pochi passi
da me, e mi resi conto, deglutendo, che la camicia che indossava le si
era completamente incollata addosso, zuppa d’acqua.
C’era una parte di
me che in quel momento se ne infischiava altamente del serio pericolo
di morte cui stavo andando incontro, e pregai Dio che Oscar, occupata
com’era a cercare vendetta, non se ne rendesse conto.
Quando giunse a pochi
centimetri da me mi imposi mentalmente di non badare alla forma del suo
seno che traspariva chiaramente dalla camicia, guardandola dritto negli
occhi.
Ribollivano di rabbia.
Oscar levò la
spada, lentamente, e me la puntò alla gola. Sentivo il freddo
metallo premermi la giugulare e mi chiesi se la sua rabbia sarebbe
veramente arrivata a quel punto. Per me, forse, sarebbe stata una
benedizione.
“Vuoi uccidermi
perché ti ho messo di fronte alla realtà?”
Mormorai, incastrato tra la parete del box e la sua spada.
“Non ti
ucciderò, Andrè, voglio solo darti una lezione.” La
lama premette sulla mia carne “Sono io che comando. E se io
decido di vivere e comportarmi come un uomo, nessuno può mettere
in discussione la mia autorità!” Esclamò perentoria.
“Va bene, ma forse
dovresti avvisare tuo padre, perché sai, credo che a lui sfugga
questa tua nuova decisione, visto che ha deciso di organizzarti un
matrimonio!”
“Non ci sarà nessun matrimonio!” Sbottò Oscar.
I suoi occhi erano fuoco
liquido, e la lama della spada penetrò leggermente nella mia
pelle, non tanto da farmi sanguinare, ma abbastanza da farmi capire che
stava facendo sul serio.
Stava facendo maledettamente sul serio.
“E tu,
Andrè, non oserai più…un simile oltraggioso
comportamento nei miei confronti.” Esclamò a denti stretti.
I suoi occhi si staccarono dai miei per posarsi alla nostra destra, dove, in un angolo, erano ammucchiate alcune spade.
“Prendi quella spada.” Mi esortò, staccando la lama dalla mia gola.
“Oscar, io…”
“Prendi quella spada!”
Restammo a fissarci in un silenzio carico di tensione.
Aveva proprio deciso di farmela pagare.
Rassegnato levai la spada che giaceva su un mucchio di lame con la punta del piede e misi mano all’impugnatura.
“Non si tratta solo di quello che ho detto, vero?”
Le nostre lame si incrociarono, spaventando leggermente i cavalli nei loro box, che nitrirono e si scossero.
“Taci.”
Oscar tentò un
affondo, che parai con una certa difficoltà, data la mia scarsa
visuale accentuata dalla penombra della scuderia.
Arretrai fino al muro opposto, mentre Oscar mi incalzava animata dalla propria rabbia.
Il clangore delle lame mi penetrava le orecchie.
“Tu sai come la
penso, Oscar. Puoi cavarmi anche l’altro occhio, ma non ti
darò ragione su questa follia…”
Attesi il momento
propizio, e quando Oscar si spinse in avanti furiosa, scartai sulla
sinistra e la intrappolai contro alla parete. Incrociai la lama contro
alla sua, davanti al suo viso, e sbattei l’altra mano contro alla
parete, bloccandola.
“Una rosa, non sarà mai un lillà.” Esclamai, quasi urlando. “Una rosa è una rosa!”
E’? Da quando mi cimentavo in versi sulla botanica?
Anche Oscar mi osservò leggermente perplessa.
“Quello che voglio
dire…E’ che per quanto tu possa impegnarti, non sarai mai
altro che quello che sei…”
Ansimavo.
“Ma credimi se ti dico che così tu sei…sei perfetta…tu sei…”
Gli occhi di Oscar erano fissi nei miei, e vi leggevo indignazione, ma anche una leggera punta di stupore.
Lentamente abbassò la spada e io feci lo stesso.
“Tu…Quello che io voglio dire, veramente…” mi morsi le labbra “Oh, al diavolo!”
Avvicinai il viso al suo e premetti le labbra contro a quelle morbide e ancora dischiuse per la sorpresa di Oscar.
Sentivo che stavo
rischiando la vita, perché la mano di Oscar che ancora teneva la
spada era libera e avrebbe potuto infilzarmela ovunque, ma se non altro
sarei morto contento.
Eppure, quando staccai le labbra dalle sue, ero ancora miracolosamente illeso.
Lasciai passare un paio di secondi, giusto per accertarmi che fosse accaduto veramente.
“Ti amo”
sussurrai quindi sulle sue labbra, senza sollevare lo sguardo “Ti
ho sempre amato. Ecco, l’ho detto. Adesso puoi farmi ciò
che credi opportuno, comportati di conseguenza, non mi importa.”
levai il volto, scrutandola negli occhi.
Erano sgranati, e le sue labbra, ancora socchiuse, luccicavano di saliva.
Il suono di una spada che
cadeva a terra mi arrivò alle orecchie ovattato, e non seppi
dire se si trattava della mia o di quella di Oscar, perché la
sua bocca era nuovamente sulla mia, ma questa volta non ero stato io a
fare la prima mossa.
Sentii le dita di Oscar
aggrapparsi con forza alla mia camicia e mi resi conto vagamente che
avevo staccato la mano dal muro e che ora la tenevo sulla sua schiena,
attirandola verso di me più di quanto già non fosse.
Poi, con
un’incredibile forza, Oscar si ritrasse all’improvviso da
me, indietreggiando fino a poggiare la schiena alla parete alle sue
spalle.
“Andrè, no!…Noi…Non possiamo!”
Mi avvicinai a lei, incurante delle sue parole, e lasciai che il mio corpo aderisse completamente al suo, baciandola sul collo.
“No…Andrè…”
Oscar tentò di scostarmi, ma capivo da solo che la sua era una
debole protesta, tanto più che aveva alzato il mento lasciando
che le mie labbra le risalissero lungo la mascella. Un sospiro
fuoriuscì dalle sue labbra aperte.
“E’ tutto sbagliato…” Mormorò.
“Cosa, Oscar? Cosa
c’è di sbagliato? Io ti amo, ti desidero…Ti
voglio.” Mi scostai da lei per scrutarla negli occhi “Tu mi
vuoi?”
Il suo sguardo era smarrito e vagamente spaventato.
“Io non so più cosa voglio…” Sussurrò.
“Se è
così, non voglio costringerti a nulla contro la tua
volontà.” Mi ritrassi leggermente da lei, ma proprio in
quel momento la mano di Oscar si levò ad afferrarmi la camicia.
“No…” esclamò soltanto, e per me fu sufficiente.
Le nostre labbra si
incontrarono ancora, e la strinsi a me, percependo il calore della sua
pelle attraverso la stoffa bagnata della camicia.
Ci dibattemmo alcuni istanti, lasciando che le nostre mani vagassero, quasi con prepotenza, sul corpo altrui.
Ci conoscevamo da una vita, avevamo condiviso tutto. Ma non ci eravamo mai toccati in quel modo. Con quel bisogno.
Dopo esserci trascinati
lungo la scuderia in quella danza sensuale, ci lasciammo cadere tra la
paglia secca che io stesso avevo ammucchiato in un angolo della stalla
quella mattina.
Lasciai correre le mie
mani sui fianchi di Oscar, sfilandole la camicia dai pantaloni, mentre
lei, incredibilmente, faceva lo stesso con me.
Fili di paglia dorata si
erano impigliati nei suoi riccioli, e mentre la guardavo, le gote
arrossate e il fiato corto, mi sembrò più bella che mai.
Mi chinai su di lei,
baciandole la gola e scendendo fino allo scollo della camicia, che,
tesa e bagnata, non lasciava più spazio all’immaginazione.
Le mie labbra si strinsero attorno ad un capezzolo attraverso la stoffa e la sentii trattenere il respiro.
Impazzivo di desiderio, chino su quel corpo che avevo desiderato fin quasi a consumarmi, per lunghi anni.
Le afferrai i lembi del
colletto, e tirai con violenza, fino a strapparle letteralmente di
dosso la camicia, che si aprì fino all’ombelico, rivelando
un corpo bianchissimo e sensuale.
Oscar sussultò, sollevandosi di scatto, e io posai la fronte sulla sua spalla.
“Non volevo spaventarti. Sei bellissima, Oscar…”
Voltai il viso per
baciarla, e proprio in quel momento, il mio occhio scorse un leggero
bagliore, poco lontano dall’ingresso.
Sentii Oscar irrigidirsi,
e capì che non era per il mio gesto violento che aveva
sobbalzato, pochi secondi prima. Qualcuno era entrato nelle scuderie, e
aveva con sé una lampada.
“C’è qualcuno? Heilà…” disse una voce, purtroppo nota ad entrambi.
Girodelle fece qualche passo nelle scuderie, mentre entrambi trattenevamo il respiro.
Sentivo chiaramente le suole dei suoi stivali che scricchiolavano tra la paglia.
Cercai con lo sguardo
Oscar, ma lei, immobile, guardava verso Girodelle che si avvicinava,
fino a che la luce della lampada non ci avvolse, costringendoci
entrambi ad assottigliare gli occhi.
Quando provai a riaprire la palpebra sulla mia unica iride buona, vidi Girodelle fermo a pochi passi da noi, sgomento.
Oscar si strinse addosso
i lembi della camicia e si drizzò a sedere, ma evidentemente la
saliva le si era seccata in gola, perché non emise un fiato.
“Ma
chi…” Girodelle non riuscì a dire di più. Il
suo sguardo rimase sbarrato alcuni secondi, prima di posarsi furente su
di me.
Era la prima volta che vedevo quell’espressione sul viso di quell’uomo solitamente pacifico e imperturbabile.
“In nome di Dio!
Cosa state facendo? Cosa le avete fatto?!” Lo sguardo di
Girodelle tornò su Oscar, che cercava di ricomporre la camicia
come meglio poteva. “Madamigella, vi sentite bene? Costui vi ha
usato violenza?” Fece qualche passò verso di noi, levando
la lampada verso il mio viso, ma Oscar lo bloccò con la mano.
“Va tutto bene, Girodelle. Andrè non mi ha fatto niente…Cioè, niente di male…”
Oscar guardò verso
la propria camicia in brandelli, tenendosi una mano stretta attorno al
seno coperto come meglio poteva.
“Ci stavamo allenando con la spada e la mia disattenzione…”
“Io…Sono
scivolata. Si. E un filo della camicia si è accidentalmente
impigliato…” Esclamammo io e Oscar all’unisono, per
poi guardarci poco convinti.
“Bene. Non
aggiungete altro, madamigella.” Lo sguardo di Girodelle era
disperato e sgomento insieme, e, nonostante tutto, mi sentii in pena
per lui. “Avevo sentito rumore di spade, ed ero venuto a vedere
se eravate in difficoltà…Ma a quanto pare mi sono
sbagliato. Tolgo il disturbo.” Aggiunse con la sua solita
impassibilità, prima di voltarci le spalle e sparire veloce.
Per essere uno che aveva
sorpreso la sua promessa sposa tra le braccia del proprio servitore,
dovevo ammettere che aveva mantenuto un aplomb perfetto.
Oscar aspettò che Girodelle fosse uscito dalle scuderie, prima di levarsi a sua volta.
“Devo chiarire questa situazione.” Esclamò, sempre tenendosi la camicia stretta addosso.
“Oscar…”
mormorai, mettendomi seduto. Allungai una mano e provai a prendere una
delle sue, ma lei si allontanò di qualche passo da me.
“No, Andrè,
lasciami andare. Io…” Mi guardò appena, prima di
distogliere subito lo sguardo. “Voglio che dimentichi quello che
è successo. E’ stato…un momento di debolezza. Si,
è stato un momento di debolezza, che non si
ripeterà.”
“Ma di cosa stai parlando?”
Mi levai a mia volta e mi avvicinai a lei, che indietreggiò.
“Io ti amo, Oscar…ci senti quando parlo?”
“Questo non cambia niente!”
“Ma prima…”
“Non insistere Andrè! Prima era prima, e adesso è adesso…e tu, devi lasciarmi in pace!”
Io allungai un braccio, prendendole una mano. Lei si strattonò, si ricoprì come meglio poteva e corse via.
Rimasi da solo, davanti
al portone delle scuderie, mentre la pioggia, fuori, batteva sul
selciato, chiedendomi perché non mi avesse ucciso quando ne
aveva avuta l’opportunità.
Avrebbe fatto meno male.
“Nevica.”
Esclamò mia nonna, gettando una rapida occhiata fuori dalla
finestra, mentre ricopriva l’arrosto di maiale con la salsa alle
mele.
Le famose mele di Arras.
Ne avevo le tasche piene di Arras.
Avrei preferito essere in Normandia, almeno avrei potuto buttarmi da una scogliera.
Immaginai i pescatori che
recuperavano il mio corpo deturpato, il giorno dopo, e Oscar, al
braccio di Girodelle, che veniva a confermare che si, ero proprio io,
quell’idiota del suo servo che una volta le aveva confessato il
suo amore.
Si sarebbe sentita in colpa dopo avermi spinto ad una morte tanto orribile e precoce?
“Andrè, mi
senti?!” la nonna, mi pizzicò un orecchio, costringendomi
a sollevarmi dalla sedia su cui ero sprofondato mentre lei cucinava.
“Nonna! Non ti sembro un po’ cresciuto per usare ancora queste maniere?!”
Camille, poco lontana, rise mentre finiva di impastare un dolce.
“Cresciuto? A me
sembri addormentato, ragazzo mio! Tieni questo e datti da fare!”
Mi apostrofò, mettendomi in mano una forma di pane che avrei
dovuto affettare per la cena. Sbuffai, ma non potei sottrarmi. Quella
sera avrei fatto di tutto, ma proprio di tutto, pur di non dover
mettere piede nel salone in cui cenava la nobiltà. Servire al
tavolo dove sedavano Oscar e Girodelle, dopo quello che era successo,
sarebbe stato un incubo.
Mi bloccai.
No, il vero incubo sarebbe stato se Girodelle avesse deciso di fare quattro chiacchiere col generale.
Lanciai un’occhiata furtiva alla nonna e rabbrividii.
Sarebbe stata certamente la mia fine.
In quel preciso istante, quasi l’avessi evocato, la sagoma del generale fece la sua apparizione nel vano della porta.
Oddio, l’avevo chiamato col pensiero, e la sua espressione accigliata non prometteva nulla di buono.
“Nanny!”
La nonna si
precipitò fuori dalla cucina e io mi sentii le ginocchia deboli.
Ciondolando mi avvicinai a Camille che stava rimettendo il tappo al
brandy che aveva usato per insaporire le pere del dolce e glie lo
sottrassi di mano.
“Andrè?!”
Esclamò Camille ridacchiando. Il suo seno abbondante
sobbalzò nel corpetto, e non potei fare a meno di ripensare a
quello piccolo e delicato di Oscar, che avevo baciato e accarezzato
solo quel pomeriggio.
Stappai la bottiglia e mi ci attaccai.
Se il generale aveva
intenzione di mettermi alla gogna, o peggio, per aver attentato alla
purezza di sua figlia, perché avrei dovuto preoccuparmi delle
mestolate della nonna?
“Ma…Andrè!”
Esclamò di nuovo Camille, mentre un grazioso ricciolo ramato
faceva capolino dalla cuffietta.
Fuori dalla porta della cucina si sentiva il borbottio della voce del generale.
“Il tuo padrone mi sembra di pessimo umore…” Mormorò Camille.
“Già…”
“Io credo anche di
sapere perché…” Un sorriso furbo comparve negli
occhi della graziosa servetta e un brivido gelato mi percorse la
schiena.
“Ah…si?”
“Eh già…sapevi che il tuo padrone stava pensando di dare in sposa madamigella Oscar al mio padrone?”
“Ah…hum…interessante…” sentivo la gola secca e bevvi un altro sorso abbondante di brandy.
“Si! Ma a quanto
pare la tua padrona predilige un altro tipo di compagnia!”
Camille ridacchiò e a me andò di traverso la sorsata di
liquore.
“Ach…Coff..C-COSA?!”
La ragazza assunse un tono da cospiratrice.
“Parola mia, ho
visto tutto con questi occhi!” Esclamò, puntandosi
l’indice e il medio verso gli occhi color ambra.
“Tu…hai visto…?”
“Esatto, proprio oggi!”
“Ah.”
Davanti alle mie risposte monosillabiche, Camille assunse un’aria vagamente imbronciata.
“Non ti interessa sapere cosa ho visto?”
“Beh…”
“Madamigella Oscar e…”
Sbiancai.
“Il conte di
Fersen! Incredibile, vero? Uh, Andrè, ti senti male? Devi
andarci piano con questo!” Esclamò Camille, sottraendomi
il brandy dalle mani.
Non ho idea di quale fosse la mia espressione, ma non doveva essere nulla di confortante.
“Il cont…Fers…Oscar e Fersen, tu li hai…visti?!” Esclamai con voce stridula.
“Shhhhh!”
Camille mi ricordò di non urlare, indicandomi la porta
attraverso cui si intravedeva la schiena del generale. Poi si
avvicinò a me e sussurrò sottovoce: “Si, te
lo giuro, li ho visti questa mattina, erano abbracciati sul pavimento
della camera del conte! Quasi da non crederci, vero? Pensavo che la tua
padrona non avesse in mente certe cose, ma del resto, come darle torto?
Il conte Fersen ha gli occhi più belli che io abbia mai
visto!”
Io vacillai, fino a trovare uno sgabello, su cui sedetti pesantemente.
Doveva esserci un errore. Sembrava un incubo…
Nella mia visione sulle scogliere della Normandia adesso Oscar veniva ad identificarmi attaccata al braccio di Fersen.
In quel preciso istante sentii il generale che congedava la nonna, la quale rientrò con un aria abbastanza frastornata.
“Signora Maron Glacè, va tutto bene?” Esclamò Camille, rendendosene conto.
La nonna ci guardò alcuni secondi, dopodiché si avvicinò a Camille.
“Cara, lasciate
perdere il dolce e andate dalla vostra padrona, che è abbastanza
fuori di sé…a quanto pare, suo fratello, il conte
Girodelle, è scomparso! Deve essersene andato a piedi, e con
questo tempo per giunta, che Dio lo aiuti!”
Nota dell’autore
Prima di tutto, scusate per l’immenso ritardo con cui aggiorno, e per l’assenza prolungata da questo sito.
Gli impegni mi sta portando via parecchio tempo >___<
Ad
ogni modo, grazie di cuore, ma davvero di cuore, per tutte le belle
recensioni che mi avete lasciato al capitolo scorso, le ho apprezzate
tanto, anche se non ho ancora fatto in tempo a rispondervi^^
Sono
molto indietro anche con le mie recensioni a molte fic che
seguo…Ma conto di rimediare appena ne avrò il tempo.
Intanto
spero che la storia continui a piacervi^^ Questo, secondo i miei
calcoli, dovrebbe essere il penultimo capitolo, anche se non ho ancora
deciso se aggiungere o meno un epilogo. Ad ogni modo, siamo ormai agli
sgoccioli della villeggiatura…Pareri positivi e negativi sono
sempre ben accetti!
Un abbraccio!
|
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Capitolo 6 *** Doccia svedese ***
villeggiatura 6
Premessa:
la volta scorsa vi avevo detto che
pensavo di concludere la storia con questo capitolo, ma visti i miei
tempi di aggiornamento abbastanza lunghi, e la prolissità di
questo capitolo ho pensato di spezzarlo a metà, e pubblicare
subito la prima parte^^ Questo, quindi, sarà il penultimo
capitolo, anche se il successivo ne sarà in realtà il
prolungamento, perciò sempre dal punto di vista di Oscar^^
Inoltre ho deciso di aggiungere un epilogo, di conseguenza vi
tedierò ancora per un po’, anche se il prossimo
aggiornamento conto di caricarlo in settimana^^ Buona lettura, e
grazie, come sempre, a chi legge e commenta!
6 - Doccia svedese
Ti amo.
Mi passai un dito sul polso, lasciandolo scorrere tra i pizzi della nuova camicia che avevo indossato.
La luce di un candelabro illuminava la mia stanza in quell’ora
fioca del tardo pomeriggio, mentre fuori fioccava ormai da qualche
minuto.
Ti ho sempre amato.
Quelle parole continuavano a rimbombarmi nelle orecchie, nonostante i
molti tentativi che avevo compiuto per levarmi dalla mente le
sensazioni che ancora mi portavo attaccate addosso.
Un attimo di debolezza, così lo avevo definito. Per giunta, con
qualcuno con cui non avrei mai dovuto varcare certi limiti.
Santi numi, lui era il mio migliore amico…era come un fratello!
Eravamo cresciuti insieme, dividendo tutto…per oltre
vent’anni.
Eppure…
Ti amo. Ti ho sempre amato.
In vent’anni, non me ne ero resa mai conto.
Provai a concentrarmi su Fersen, sui sentimenti di ardente disperazione
che mi avevano fatto piangere tutte le lacrime che avevo in corpo,
davanti alla sua indifferenza…Ma non ne trovai che una minima
parte.
Il ricordo delle labbra di Andrè infuocava a tal punto ogni mio
pensiero che improvvisamente i sentimenti che provavo, o avevo creduto
di provare per Fersen mi apparvero lontani e sbiaditi.
Mi lasciai sprofondare sul materasso, coprendomi gli occhi con i palmi.
Le mani di Andrè erano ovunque, su di me, e per la prima volta
da quando l’avevo lasciato, nelle scuderie, ebbi il coraggio di
confessare a me stessa qualcosa che mi nauseava e attirava
contemporaneamente.
Se Girodelle non ci avesse interrotti, avrei fatto l’amore con lui.
L’amore…non sapevo nemmeno che volesse dire, fare
l’amore con qualcuno, e mi vergognavo anche un po’ solo
pensandole, certe cose.
Ma ne ero certa, lo sapevo.
Avevo lasciato che mi baciasse, che mi toccasse, che mi strappasse i vestiti di dosso.
Non l’avrei fermato, lo desideravo.
Avrei fatto l’amore con Andrè, lo stesso Andrè che
da bambino mi aveva messo una rana nello stivale, quello a cui rubavo i
biscotti della merenda dal piatto pensando che non mi vedesse e che mi
faceva le boccacce dalla finestra mentre studiavo danza con il maestro,
per farmi ridere e perdere il conto dei passi.
Lui…aveva perso un occhio per assecondare un mio capriccio.
Lui mi amava.
Scossi la testa furiosamente, mentre i ricci si sollevavano, ricadendo attorno al mio capo scomposti.
“Non può essere vero…”
Mi drizzai a sedere.
Io, Oscar François de Jarjayes, capitano della guardia reale…
Non mi riconoscevo più
Questa era la verità.
“Al diavolo…” Esclamai, calando il pugno nel materasso, nell’esatto istante in cui qualcuno bussava.
Saltai giù dal letto e mi precipitai verso la camicia strappata
che avevo abbandonato sul pavimento. Se era Nanny, niente sarebbe
sfuggito al suo naso da segugio. Mi guardai attorno frenetica, e infine
la appallottolai infilandola sotto alle coperte.
Quando raggiunsi la porta, trafelata, aprii senza nemmeno chiedere chi
fosse e fu con un certo disappunto, nonché con un sussulto che
mi trovai davanti, nella debole luce del corridoio, il volto di
Andrè.
Il suo sguardo verde era scuro e tormentato come un lago di cui non si riesca a vedere il fondo.
Il mio cuore perse un battito.
“Vattene.” Esclamai immediatamente, spingendo la porta per
richiuderla. Ma Andrè fu più veloce e infilò la
punta dello stivale tra l’uscio e lo stipite.
“Aspetta. Non sono qua per te. E’ la nonna che mi ha chiesto di venire.”
Il suo tono, brusco e distaccato, mi colpì.
Tornai a guardare verso di lui, ma il suo sguardo mi evitò volutamente.
“E di cosa si tratta, di grazia?”
Sentivo che l’alchimia tra di noi non si era assopita, ma
avvertivo anche una nota stonata rispetto all’intesa che avevamo
avuto nelle scuderie.
Probabilmente le mie parole dure avevano colpito il bersaglio, e
Andrè si era reso conto a sua volta di quanto fosse sbagliato
ciò che era accaduto tra di noi.
“Quindi?” Lo incalzai, in realtà leggermente piccata
da quel comportamento, nonostante fosse esattamente ciò che
volessi.
Andrè incrociò le braccia al petto.
“E’sciaritocnteGir…lle.”
“…E’?”
Andrè sbuffò.
“Sei sorda?”
“No di certo, sei tu che parli come se avessi una patata bollente in bocca!”
“Ho detto che è-sparito-il-conte-Girodelle.” Ripeté, questa volta in modo chiaro e pulito.
Sembrava veramente seccato.
“Oh…e che fine ha fatto?” domandai, piuttosto
stupidamente, mentre in realtà pensavo a tutt’altro.
Lo sguardo di Andrè si posò nel mio. Era talmente serio e cupo che per un istante mi sentii le ginocchia molli.
“Essendo che è sparito, non sappiamo che fine abbia
fatto.” Esclamò con un tono vagamente beffardo. “Ma
forse vorresti unirti alla spedizione, capitanata da Madame Girodelle,
per recuperare il conte. Dopotutto si tratta del tuo secondo,
nonché del tuo futuro marito…”
“Andrè…”
“Oh, si giusto, che sbadato, dimenticavo di dirti che anche il conte Fersen partecipa all’impresa.”
“Andrè…”
“Naturalmente gli abbiamo fatto credere che Girodelle è
stato rapito dagli inglesi, era l’unico sistema per fargli
abbandonare la sua tenda da campo.”
“Adesso basta Andrè! Io non ti permetto…”
“Cosa Oscar?” Adesso il tono di Andrè era veramente
alterato “Cos’è che non mi permetti, esattamente?
Non mi permetti di prendermela con te, per come mi hai trattato? Non mi
permetti di sentirmi preso in giro? O semplicemente, non mi permetti di
amarti, perché in fondo…sono soltanto un servo?
Spiegami.”
“Ma di che diavolo stai parlando?!”
Il suo sguardo rimase impassibile, nell’oscurità.
“Ti conviene sbrigarti.” Aggiunse soltanto, prima di darmi
le spalle “Stanno attaccando i cavalli alla slitta.”
Andrè fece qualche passo nel buio del corridoio. Poi si fermò.
“Quando torneremo da questa villeggiatura, io me ne andrò.
Cercherò servizio altrove. Mi sembrava giusto
avvisarti…”
Rimasi sulla soglia della mia stanza, sola.
La neve fioccava fitta all’esterno. Ma inspiegabilmente era nel mio cuore che la sentivo posarsi.
La slitta correva veloce nella campagna, mentre le lanterne
illuminavano di bagliori arancioni la neve fresca che ancora non
accennava a smettere di cadere. La luce era fievole, ma non avevo dubbi
sul fatto che Girodelle, ovunque lui fosse, ci avrebbe notato.
“Victoooooooooooooor! Viiiiiiiictooooooooooor!!”
La contessa Colette si stava sgolando, una mano alla bocca un braccio
stretto attorno a quello di Fersen, che a sua volta scrutava
attentamente il panorama, piuttosto piatto in tutta onestà, che
ci correva attorno. Ai loro piedi i due cocker saltellavano e
uggiolavano, eccitati dall’uscita inaspettata.
“Dove sarà? Cosa potrà mai essergli
capitato?!” Esclamò la contessa, rivolgendosi a Fersen con
aria implorante.
“Non temete, contessa. Conosco bene questi inglesi, e penso di
non sbagliare se dico che hanno preso vostro fratello con lo scopo di
estorcervi dei soldi.”
La contessa parve rifletterci.
Forse, dopotutto, Girodelle non valeva quanto il suo pellicciotto di ermellino e lo smeraldo che portava al dito.
Povero Girodelle.
Lanciai una rapida occhiata alla schiena di Andrè, seduto a cassetta, e distolsi lo sguardo.
In tutta onestà, non ero così ansiosa di ritrovare il mio secondo.
Speravo, naturalmente, che non gli accadesse nulla di male, ma
preferivo non sapere che opinione si era fatto in merito a quanto aveva
visto.
E non volevo nemmeno sapere quali fossero i suoi sentimenti e le sue reali intenzioni nei miei confronti.
Uno dei due cocker saltò su un sedile e cominciò ad
annusare tutto ciò che gli capitava a tiro, compresa la
sottoscritta, per poi sollevare il muso ed emettere un lungo latrato.
“Fermi tutti!” Strillò la contessa “Credo che Zenon abbia fiutato qualcosa!”
“Voi dite, contessa?” le chiesi con un certo garbo,
nonostante desiderassi con tutta me stessa afferrare il suo manicotto e
legarglielo attorno alla bocca.
“Ma naturalmente madamigella! Perché credete che li abbia
portati, altrimenti?” la contessa si picchiettò un dito
inguantato sulla narice destra del suo grazioso nasino “Hanno un
fiuto eccezionale, le mie bestiole!” Poi, rivolgendosi ai cani,
assunse un tono di voce se possibile ancora più odioso
“Vero, tesorini? Coraggio, trovate lo zio Victor!”
I cani mossero avanti e indietro i codini mozzi, e lasciarono cadere un filo di saliva sugli stivali del conte Fersen.
“Sono impressionata.” Constatai.
“Forse dovremmo farli scendere dalla slitta…e seguire le
loro tracce…” Mormorò Fersen, sollevando lo stivale
e cercando di scuoterlo.
“Ma conte, che dite? Far scendere dalla slitta i miei due tesorini?”
“Si tratta pur sempre di vostro fratello…”
La contessa si morse il labbro, mentre sullo sfondo iniziavo ad
intravedere il laghetto incriminato sul quale erano iniziate le
disgrazie.
“Va bene. Avete ragione, tentar non nuoce…”
Commentò infine, mentre Fersen si voltava verso Andrè
chiedendogli di fermare la slitta.
“Andrè, facciamo una sosta, proviamo a vedere se i cani della contessa fiutano qualcosa.”
“Come volete.” Commentò Andrè in tono piatto, tirando le redini del cavallo.
Appena il conte Fersen ebbe aperto la portiera della slitta, tuttavia,
le due bestiole si precipitarono fuori, correndo veloci nella neve fino
a sparire in pochi secondi dalla nostra vista.
Ci fu un attimo di silenzio, in cui evitammo di guardarci, scrutando fuori dalla slitta piuttosto sgomenti.
“Forse avevano un bisogno impellente…” provò a commentare Fersen, tossicchiando imbarazzato.
“Sono spariti…” Mormorò la contessa
“Sono spariti, i miei cani sono spariti!! Fate qualcosa!!”
“Contessa, non temete, vedrete che…”
“Vi dico che sono spariti! Ah, sono disperata, prima il mio
adorato fratello, e adesso i miei tesorini, che sciagure, che
sciagure!!” esclamò Colette, stritolando la giacca con
dentro il braccio di Fersen, il quale, sempre galante, non si perse
d’animo, sollevandosi e scendendo dalla slitta.
“Qui…qui, belli…” Fersen fischiettava,
saltellando intorno alla slitta per scaldarsi. “Adesso
torneranno, ne sono sicuro…” mormorò, muovendo
qualche passo nella neve.
Il silenzio della notte inghiottì le sue parole, senza fornire risposte.
Dopo alcuni minuti, vidi Andrè che scendeva da cassetta per
provare a richiamare i cani nell’altra direzione, e decisi di
smontare anch’io. Andrè, nel frattempo, aveva staccato una
lanterna dalla slitta e si stava avvicinando ad un gruppetto di alberi
poco distanti dal laghetto, forse ipotizzando che i cani, e magari lo
stesso Girodelle, potessero essere andati in quella direzione.
Feci qualche passo, sentendo le suole dei miei stivali che affondavano
nella soffice coltre di neve. Attorno, tutto era silenzio.
Solo l’ovattato scricchiolio dei miei passi mi giungeva alle
orecchie, unito al lontano lamento della contessa, che dalla slitta
continuava a richiamare le due bestiole.
Supponevo si fosse già dimenticata del fratello scomparso.
Improvvisamente, un movimento repentino catturò la mia attenzione.
“Andrè!” Chiamai “Illumina in questa direzione!”
Andrè, affondando nella neve, si diresse verso di me, sollevando
la lanterna, e rischiarando una piccola e fiera figura, immobile nel
mezzo del laghetto ghiacciato: una lepre enorme, talmente bianca da
spiccare maestosa contro al buio della sera. Le orecchie erano
lunghissime e tese, atte a captare il minimo movimento da parte di
chiunque, così come i rotondi occhi neri erano sgranati dalla
paura.
Nel preciso istante in cui io e Andrè ci incantavamo davanti a
tanta maestosità, il cocker color cognac della contessa
sbucò dal boschetto di abeti con altrettanta velocità,
all’inseguimento del coniglio.
Le sue zampette corsero svelte sulla lastra ghiacciata, ma la lepre fu
più lesta, e in due balzi svanì
nell’oscurità, fulminea com’era arrivata.
Il cocker rimase interdetto.
“Eccolo, eccolo, eccolo!!” Strillò la contessa dalla
slitta, sbracciandosi nella direzione del cane, che solo in quel
momento parve rendersi conto della brutta situazione in cui si era
cacciato, iniziando ad uggiolare di paura con la coda tra le gambe.
“Perché non si muove…” Mormorai.
“I cani hanno paura di trovarsi sospesi.” Commentò
Andrè, guardando serio nella direzione dell’animale. Mi
voltai a guardarlo e nello stesso istante Andrè mi passò
la lanterna : “Tieni, vado a riprenderlo.” Esclamò,
avviandosi incerto sulla scivolosa superficie del ghiaccio.
Fersen si avvicinò a me:
“Potrebbe essere pericoloso…Qui in America i laghi sono assai profondi.” Mormorò.
Io rimasi immobile, seguendo la figura di Andrè che si muoveva incerta verso l’animale.
Sollevai la lampada, illuminando il piccolo cane terrorizzato. Nonostante l’oscurità, era ben visibile.
Ma allora…perché Andrè procedeva a tentoni come se…non lo vedesse affatto?
Passai la lampada a Fersen.
“Reggetemela per favore, vado ad aiutarlo.”
“Oscar…Non vi lasc…”
In quel preciso istante, un tonfo nell’acqua raggiunse le orecchie mie e di Fersen.
La lampada mi cadde a terra e si spense, ma non mi serviva alcuna luce
per vedere ciò vidi, o meglio, non vidi, non appena mi
voltai di scatto.
Andrè era scomparso.
“Andrè! ANDRE’!!!” Gridai, cercando di correre verso il laghetto. “Andreeeeè!”
Tutto il sangue pareva essermi defluito di colpo dal cuore.
Fersen mi trattenne, afferrandomi per un braccio.
“Oscar!”
Mi divincolai dalla sua stretta, strattonandomi con una forza che non avrei immaginato di poter avere.
“Lasciatemi, LASCIATEMI, devo andare da lui, il mio Andrè, il mio Andrè è in pericolo!”
Fersen mi riafferrò entrambe le braccia e mi spinse lontana.
“Restate qua, ci penso io al vost…ad Andrè!” esclamò, prima di lanciarsi di corsa sul ghiaccio.
Io ricaddi mollemente tra la neve, con gli occhi sgranati.
“Il mio Andrè…” Mormorai, mentre le mani mi
affondavano nella coltre gelata. “Il mio
Andrè…”
Eravamo in aperta campagna, di notte, e Andrè era appena caduto in un laghetto ghiacciato.
Se fosse morto, sarei morta con lui.
“Bevi, coraggio, tutto d’un fiato.” Nanny
versò nella gola di Andrè la terza abbondante sorsata di
Whiskey, prima di rimettere il tappo alla bottiglia.
Il fuoco scoppiettava allegramente nel camino e il fumo che usciva
dalla bacinella in cui erano immersi i piedi di Andrè si solleva
in calde nuvolette di vapore.
Appoggiata alla porta con una tazza di cioccolata bollente tra le mani
tremanti lo osservavo lamentarsi debolmente mentre Nanny lo redarguiva,
mettendogli sulle spalle l’ennesima coperta.
“Sempre il solito spaccone…per poco non faceva ammazzare il conte di Fersen, disgraziato di un incosciente!”
“Nonna, ti prego…abbi pietà per un moribondo…”
“Pietà! Chiede pure pietà,
l’irresponsabile!” Nanny scosse la testa “Debosciato
di un nipote, non lo sa, lui, che solo Nostro Signore cammina sulle
acque?! Ma lui, niente, testardo come un mulo, nossignore non lo
capisce che non c’ha più l’età di fare
bambinate!”
“Quasi quasi era meglio se andavo a fondo…”
Borbottò Andrè, mentre Nanny versava altra acqua bollente
nella tinozza.
Sollevò lo sguardo, a testa bassa, e i nostri occhi si incrociarono.
“Spero che Fersen stia meglio…” Mormorò lentamente.
“Starà bene.” Commentai, asciutta, soffiando sulla cioccolata.
Chi non stava ancora del tutto bene, dopo quella notte, ero io.
Uscii dalla sua stanza, lasciandolo solo con Nanny.
Non avevamo ritrovato Girodelle, ma i cani della contessa, se non
altro, erano in salvo. In cuor mio, speravo che Girodelle stesse bene,
anche se non sapevo esattamente cosa aspettarmi da questa sparizione.
Sapevo però che i miei pensieri, in quel momento, erano
unicamente indirizzati ad Andrè e a ciò che avevo
finalmente compreso.
Senza di lui, sarei stata persa.
Salii lentamente i gradini che conducevano al piano superiore e in quel momento la porta della camera di Fersen si aprì.
“Oscar, vi ho sentita salire le scale.”
Mi fermai davanti a lui. Era asciutto e vestito di tutto punto, oltre che vergognosamente bello.
Eppure, i suoi magnetici occhi azzurri non mi turbavano più come una volta.
“Fersen, spero che vi sentiate meglio. Naturalmente avete la mia
gratitudine…e quella di Andrè, per il vostro gesto.”
Fersen mi liquidò con la mano.
“Sciocchezze, Oscar. Non ringraziatemi affatto. Quel gesto era
dovuto…senza contare che i laghi francesi sono assai meno freddi
dei laghi svedesi. Ho la pelle dura, come vedete!”
Esclamò, battendosi una mano al petto.
Abbozzai un mezzo sorriso.
“I laghi…francesi, dite?”
“Si…certo…perché lo chiedete?”
“Voi…Sapete di essere in Francia, dunque?”
Il conte cambiò impercettibilmente atteggiamento nei miei confronti, guardandomi vagamente sospettoso.
“Oscar, vi sentite bene? Mi pare ovvio che siamo in Francia, dove altro dovremmo essere?”
“Già, infatti.” Gli sorrisi debolmente.
Evidentemente l’impatto con l’acqua gelata l’aveva
fatto riavere dal suo momentaneo smarrimento.
“Mia cara…permettetemi di dirvi che vi trovo alquanto
affaticata.” Fersen mi si avvicinò “Andate a
riposare, Oscar, è stata una giornata lunga…”
“Voi non immaginate nemmeno quanto, Fersen.” Sospirai “Ma voi, andate da qualche parte?”
Lo sguardo di Fersen si intristì leggermente. “Si, ecco
io…temo di dover partire. Vedete, c’è una persona
che si starà chiedendo che fine io abbia fatto…questa
villeggiatura…non prendetevela a male, Oscar, ma ho usato il
vostro gentile invito più come una fuga…”
“Fuggivate da qualcuno?”
“Si. Ma ho capito che è del tutto inutile…scappare
non serve a niente.” Il suo sguardo era franco e diretto nel mio.
Mi posò una mano sulla spalla, in un gesto amichevole.
“Non commettete il mio stesso errore, Oscar…la
felicità non si presenta sempre nella forma più semplice
e immediata. Spesso bisogna combattere per goderla…ma un titolo,
un rango…sono un inezia davanti all’amore.”
Si sporse verso di me, baciandomi delicatamente la guancia. Poi le sue labbra si spostarono al mio orecchio:
“Lui vi ama davvero. Io l’ho visto, in questi anni,
seguirvi con lo sguardo…e non abbandonarvi mai. Siate felice,
Oscar, ve lo meritate…Addio, amica mia.”
Ripercorsi i miei passi, fino alla stanza di Andrè. L’alba
fragile illuminava di rosa le candide pareti mentre attraversavo il
corridoio. La neve aveva smesso di cadere e il suo riverbero rendeva
ancora più luminoso il paesaggio all’esterno. La scia di
impronte che aveva lasciato il cavallo di Fersen che si allontanava era
appena visibile lungo il viale d’ingresso.
Mi avvicinai alla sua porta, socchiusa, e presi un respiro, sporgendomi
per controllare che Nanny non fosse ancora nei paraggi, ma quello che
vidi, protendendomi leggermente, bloccò all'istante qualunque
buon proposito avessi maturato negli ultimi dieci minuti.
Andrè, avvolto nelle coperte, era seduto sul letto con la
schiena poggiata alla spalliera, mentre Camille, seduta davanti a lui
in camicia da notte, teneva la mano di Andrè tra le sue,
massaggiandola leggermente per scaldargliela .
Mi scostai bruscamente dallo spiraglio della porta, come se qualcosa mi
avesse punto all’improvviso in un posto molto vicino al cuore,
indecisa se andarmene o meno.
Poi il desiderio di sapere ebbe il sopravvento, e mi affacciai nuovamente.
“Povero Andrè…” Stava dicendo Camille,
“E così tua nonna te ne ha dette di tutti i colori?”
Andrè ciondolò leggermente la testa. Il suo sguardo era
piuttosto vacuo e immaginai che i rimedi alcolici di Nanny stessero
avendo il loro effetto.
“Aveva ragione” bofonchiò Andrè “Avrei dovuto farmi i fatti miei.”
“Ma tu hai un buon cuore, non avresti lasciato che quella povera bestiola soffrisse!”
“Già…In compenso, però, ho quasi fatto ammazzare Fersen.”
Camille guardò verso Andrè con affetto. Non portava la
cuffietta e una lunga matassa di splendidi ricci ramati le scendevano
sulla schiena, resi ancora più fulgidi dai bagliori del
caminetto.
Osservai il suo incarnato di porcellana, spruzzato di efelidi, e il
seno prosperoso che si alzava e abbassava ad ogni respiro, privo di
sostegni nella camicia da notte.
Dovevo ammettere, con una certa invidia, che la trovavo estremamente
femminile. Molto più femminile delle donne agghindate e truccate
che ero abituata a vedere a Versailles.
“Non corrucciarti Andrè! Guarda cosa ti ho portato!”
Camille si sporse verso il vassoio poggiato sul comodino, sulla quale
era posata una tazza fumante “Cioccolata!” esclamò,
trionfante. “E’ la stessa che bevono i padroni!”
Annunciò poi, con una punta di orgoglio, porgendola ad
Andrè.
“Camille! Piccola furfante, se la nonna dovesse scoprirti…”
“Sarebbero guai anche per me…” Esclamò la
ragazza strizzandogli l’occhio, con una complicità che mi
urtò i nervi.
“Ma tu non le dirai niente, vero Andrè?”
Andrè le sorrise: “E come potrei tradire la fiducia del
mio angelo custode? Soprattutto visto come mi sta
viziando…colazione a letto, cioccolata bollente…mi chiedo
se merito davvero tutte queste attenzioni…” lo sguardo di
Andrè si fece più serio “Sul serio,
Camille…Nessuno aveva mai avuto per me queste cortesie. Sai, a
parte la nonna intendo…ma lei è più il tipo da
‘carota e bastone’, non so se mi spiego!”
Camille sorrise, ma notai che il suo sorriso era più tirato e un lieve rossore le si stava diffondendo sulle guance.
“Forse avresti bisogno di una moglie, Andrè…”
Andrè levò un sopracciglio.
“Una moglie? E chi se lo prende uno come me, senza un soldo,
senza una posizione…senza un occhio!” Provò a
sorriderle, ma lei lo osservò, seria.
“Tu scherzi sempre, Andrè, ma io sto parlando sul
serio…” Camille distolse lo sguardo “Ogni uomo ha
bisogno di una donna che si prenda cura di lui.”
“Beh, su questo hai ragione…” Mormorò
Andrè, sorridendole tristemente “Ma chi
vorrebbe…”
Camille non gli lasciò finire la frase.
“Io.” Esclamò d’impeto, prima di arrossire
violentemente “Io mi prenderei cura di te,
Andrè…” Aggiunse poi, timidamente.
“Camille…”
“No, lascia che finisca. Il mio padrone presto sposerà la
tua padrona, e lei verrà a vivere nella tenuta dei
Girodelle…Tu sei il suo attendente, giusto? La dovrai
seguire…Potremmo avere diritto ad una piccola, modesta
dependance, la mia padrona me lo ha già promesso. Lavoreremmo
entrambi per i Girodelle e io…Io mi prenderò cura di te,
Andrè…E ti darò dei figli…” Camille
prese fiato: “Io…vorrei essere tua moglie,
Andrè.”
Mi staccai dallo stipite, con mani tremanti, senza aspettare la risposta di Andrè.
La sera prima mi aveva detto chiaramente che voleva andarsene, che voleva cercare servizio altrove.
Non avevo bisogno di sentirlo dalla sua bocca per sapere cosa avrebbe risposto.
Lo stavo perdendo, anzi, lo avevo già perso, proprio adesso che
mi ero resa conto che senza di lui non sarei più riuscita a
vivere.
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Capitolo 7 *** Chi cerca trova ***
Villeggiatura 7
7 - Chi cerca trova
Aprii un occhio, mestamente, e provai a deglutire.
Un tenue sole pomeridiano
filtrava debolmente dalla finestra, disegnando riquadri di luce ambrata
sul pavimento della mia stanza in penombra.
Mi sollevai su un gomito,
staccando la guancia dal materasso, mentre i miei occhi mettevano
lentamente a fuoco l’ambiente circostante e identificavano lo
strano mucchio bianco afflosciato a terra come il cuscino su cui avrei
dovuto dormire.
Ricordavo indistintamente
di avercelo lanciato la sera prima, o meglio, quella mattina stessa,
così come rammentavo vagamente di essermi raggomitolata a letto
vestita, versando lacrime amare.
Andrè.
Andrè che mi baciava, che mi strappava la camicia di dosso, che mi confessava il suo amore.
Andrè che cadeva nel laghetto, Andrè che passava la notte con Camille…
Che le chiedeva di sposarlo.
Andrè che mi diceva addio…
Mi portai le dita alle tempie. Avevo un’emicrania pazzesca.
Lasciai vagare nuovamente
lo sguardo verso la finestra, osservando il sole arancione del
pomeriggio che faceva stancamente capolino dalla campagna innevata.
Evidentemente, Nanny
doveva aver pensato che fossi provata dall’infruttuosa ricerca
notturna di Girodelle, perché in circostanze normali non avrebbe
mai lasciato che dormissi tanto.
Mi sollevai stancamente
dal letto, sentendomi indolenzita e infreddolita, e, rendendomi conto
di avere già le scarpe ai piedi, mi diressi alla porta.
Decisi che di Andrè non mi importava.
Ma ero curiosa di sapere se Girodelle era stato rintracciato.
La casa era vuota e
stranamente silenziosa mentre percorrevo il corridoio del piano
superiore e lo scalone principale che portava al salone, a sua volta
deserto.
Pensai che mio padre
doveva essere chiuso nel suo studio e la contessa nelle proprie stanze,
così mi rimaneva un solo posto dove speravo di poter chiedere
informazioni: le cucine.
Quando mi affacciai dalla
porta d’ingresso, un forte aroma di cipolla colpì le mie
narici, unito a quello più vellutato dell’arrosto.
Nanny, tra le pentole e i
ramaioli, teneva in mano un grosso mestolo, controllando di tanto in
tanto il sapore del brodo, mentre al suo fianco Camille guardava con
sguardo vacuo fuori dalla finestra.
Provai un repentino moto
di repulsione alla vista della graziosa servetta, anche se in quel
momento, con la cuffietta inamidata e il severo vestito nero
assomigliava poco all’avvenente ragazza che avevo visto nella
stanza di Andrè quella notte.
Improvvisamente, la vidi
sollevare una manica e asciugarsi una lacrima che le era rotolata sulla
guancia. Solo in quel momento notai che nella mano destra teneva un
grosso coltello e che stava affettando una cipolla.
Doveva essere per quello che aveva gli occhi rossi e gonfi di pianto.
“Entri o esci?” esclamò in quel momento una voce alle mie spalle, che mi fece trasalire.
Mi voltai di scatto e mi
trovai davanti Andrè, con un’espressione tutt’altro
che felice dipinta sul volto. Non mi ero resa conto di essere rimasta
appostata sullo stipite a sbirciare nelle cucine…ma adesso che
ci pensavo, stavo diventando un’esperta nello spionaggio
domestico…in casa mia.
Assunsi immediatamente un tono altezzoso, incrociando le braccia al petto.
“Io…ero venuta per avere informazioni su Girodelle.”
“Resterai delusa: non si sa ancora niente di lui.”
“Bene. Cioè…male. Però…bene, ecco, volevo sapere solo questo.”
“Bene.”
“Bene.”
Andrè lanciò una breve occhiata al colletto della mia camicia completamente sgualcito.
“Suppongo tu abbia
avuto una nottata...Intensa. Ho saputo che Fersen è ripartito
stamane all’alba.” Esclamò, con tono vagamente
insinuatore.
Sostenni il suo sguardo, senza scompormi.
“Immagino che anche
tu abbia avuto una nottata intensa. Ieri non ti reggevi in piedi, ma
adesso…mi sembri ‘miracolosamente’ migliorato.”
“Non avevo niente che una notte di buon sonno non potesse curare.”
“Già. Sonno…”
“Prego?”
Andrè levò un sopracciglio, ma fortunatamente la voce di Nanny ci tolse da quell’imbarazzo.
“Andrè? Sei tu? Vieni che ho delle faccende da farti sbrigare.”
“Con
permesso…” Mormorò Andrè passandomi a
fianco, mentre un brivido mi percorreva per intero nell’esatto
istante in cui avvertivo il suo profumo nell’aria mossa dal suo
passaggio.
Percorsi alcuni passi nel corridoio, avanti e indietro, infine mi appoggiai alla parete, sospirando.
Non ero preparata a questo.
Se ero riuscita ad
accettare i sentimenti di Fersen e la sua indifferenza nei miei
confronti con rassegnazione, non ero in grado di farlo con Andrè.
Il mio Andrè.
Lui era mio, maledizione! Chi diavolo era questa Camille che sbucava dal nulla pretendendo e reclamando?
Che ne sapeva lei, di Andrè?
Conosceva
l’espressione che aveva avuto davanti al suo primo pony? Sapeva
che la piccola cicatrice che aveva sopra al labbro risaliva alla prima
volta che aveva provato a farsi la barba a undici anni? E sapeva forse
che andava matto per la torta di mele e cannella, e che io avevo sempre
rinunciato alla mia fetta per portargliela, poi, ben nascosta dentro ad
un tovagliolo?
Sentii lacrime di amarezza bruciarmi dentro agli occhi e cercai di evitarle guardando furiosamente verso il soffitto.
Bella stupida, ero stata.
Me la prendevo con
Camille che non sapeva nulla di Andrè, ma io, io che sapevo
tutte queste cose di lui, cosa me ne ero fatta in tutti quegli anni?
A cosa mi serviva conoscere e condividere ogni ricordo della nostra vita insieme, se poi fingevo che non me ne importasse?
Mi portai le braccia attorno alle spalle, come a volermi riparare da un freddo improvviso.
Adesso era tutto chiaro.
Tutto ciò che l’abitudine, negli anni, mi aveva insegnato ad ignorare.
La mia infanzia, la nostra amicizia. Una vita intera.
Solo adesso riuscivo veramente a capire quanto lui fosse, da sempre, incredibilmente prezioso e insostituibile, per me.
Io…
Il rumore di una porta
che si chiudeva mi fece sobbalzare, e voltando lo sguardo vidi
Andrè che usciva dalla porta delle cucine, reggendo due
bottiglie tra le mani e una sotto al mento.
Rimasi immobile, a
qualche metro da lui, e lo osservai avanzare, avvertendo la stessa
medesima sensazione che avevo avuto la sera prima, quando lo avevo
visto incespicare sul ghiaccio: non vedeva bene dove stava andando, o
meglio, non lo vedeva affatto.
Urtò contro ad una
sedia appoggiata alla parete, e imprecò a bassa voce, mentre la
bottiglia vuota che reggeva sotto al mento scivolava a terra e, senza
rompersi, rotolava fino ai miei piedi emettendo un tetro rollio.
Mi chinai lentamente e la
sollevai tra le mani, mentre Andrè, qualche metro indietro, si
affannava a cercarla con lo sguardo.
Compì alcuni
passi, con lo sguardo rivolto al pavimento, e lo vidi strizzare
l’occhio libero dai capelli più che poteva.
Un peso mi calò sul cuore.
Quando fu abbastanza
vicino da scorgere la sagoma delle mie gambe, Andrè si
bloccò, sorpreso, e si rizzò immediatamente.
“Oscar…Non ti avevo…visto.”
“Lo vedo.” Mormorai, seria. Gli porsi la bottiglia “Credo che tu stessi cercando questa.”
Andrè
sbatté un paio di volte la palpebra, dopodiché mi rivolse
uno sguardo a metà tra l’imbarazzato e l’irritato.
“Ecco
dov’era. Ti ringrazio.” Esclamò, prima di
incamminarsi nel corridoio, questa volta con passo sicuro.
Mi staccai dalla parete e lo seguii.
“Andrè…”
“Lasciami perdere, Oscar.”
“Andrè, tu non ci vedi più…bene.”
“Non so di cosa tu stia parlando. Adesso se vuoi scusarmi, devo lavorare.”
Andrè si
fermò davanti alla porta che conduceva alle cantine, dove erano
conservate le personali riserve di vino di mio padre. Evidentemente
Nanny gli aveva dato il compito di rabboccare le bottiglie.
Mi fermai al suo fianco, posando una mano sulla porta che lui stava aprendo.
“Andrè, fermati…possiamo parlare?”
“Non in questo momento, Oscar. Come vedi, ho del lavoro da fare.”
“Perfetto. Dammi quelle bottiglie.” Tesi entrambe le mani davanti a lui.
“Scusa?”
“Vengo con te e ti do una mano.”
Andrè levò
un sopracciglio, e io approfittai del suoi momento di stupore per
sfilargli la bottiglia che si era infilato sotto il braccio.
“Così potremo parlare, e tu non sprecherai il tuo tempo prezioso.”
Aprii la porta delle
cantine e iniziai a scendere la stretta e buia scala in pietra, mentre
l’umidità mi avvolgeva, penetrandomi nelle ossa insieme
all’acre odore di legno vecchio e vino.
“Oscar…fermati.”
Andrè scese qualche passo “Non serve che ti scomodi. In
quanto a parlare…non credo di avere niente da dirti.”
“Ah. Quindi, il fatto che tu stia lentamente perdendo la vista…non è nulla di rilevante, secondo te?”
Continuai a scendere.
“Non sto…perdendo la vista. Sono solo affaticato…e comunque, si, non credo sia rilevante, per te.”
Andrè scese l’ultimo gradino e mi si avvicinò.
Il buio in cui ci eravamo
immersi era rischiarato debolmente dalla luce proveniente dalle scale.
Intorno a noi lunghe scaffalature in legno contenevano alcune tra le
più pregiate bottiglie di vino della regione, più due
enormi botti dell’ottimo vino dei vigneti di Arras.
I nostri respiri erano pesanti e stranamente rumorosi in quel silenzio impregnato d’oscurità.
“Andrè…”
mi costrinsi a guardarlo, lasciando che i miei occhi si immergessero in
quell’iride verde e cupa che mi osservava con severità.
“Perché non sei stato…sincero con me?”
“Sono sempre stato
sincero con te, Oscar. Le cose che non sai, di me, dipendono
semplicemente dal fatto che non hai voluto vederle, tutto qua. Ma
io…” fece un passo avanti “Sono quello che vedi.
Niente di più, niente di meno.”
Mi morsi il labbro, colta in fallo.
“Ad ogni modo…” mormorai “Avresti dovuto parlarmi dei tuoi problemi all’occhio.”
“Perché? Per farmi compatire?”
“Per farti aiutare.”
“Non ho bisogno del tuo aiuto, Oscar.” C’era un certo risentimento, adesso, nelle sue parole.
“Non hai bisogno
del mio aiuto. Certo…” Annuii “Del resto
c’è già chi si prende cura di te, dico bene
Andrè? Oh, ottima scelta, a proposito…e congratulazioni,
quasi mi scordavo…”
“Di cosa stai parlando?” la voce di Andrè non tradiva emozioni.
“Della tua graziosa e apprensiva futura moglie, naturalmente.” Ribattei, secca.
Andrè mi osservò, perplesso.
“Quale moglie?”
“Quella che avrai non appena lascerai il mio servizio, non sono state parole tue?”
“Si, ma non ci sarà nessuna moglie…”
“Non fare il finto
tonto! Ho sentito tutto…ieri…questa mattina…oh, al
diavolo! Ho sentito e basta!”
Andrè mi
osservò alcuni secondi, e mi sembrò di vedergli sollevare
impercettibilmente l’angolo della bocca.
“Da quando origli le conversazioni altrui?”
“Da quando mi pare, va bene?! E’ un mio diritto sapere cosa succede in questa casa!”
“Non sto dicendo il
contrario. Ma se tu avessi ascoltato più attentamente, avresti
di sicuro saputo qual è stata la mia risposta alla profferta
della dolce Camille.”
“Non avevo bisogno di ascoltare tutte le vostre smancerie. So benissimo quanto fa due più due, grazie tante!”
“A me non pare proprio.”
“Cosa?”
“Che tu sappia quanto faccia due più due…”
Lo guardai in cagnesco.
“Non ti facevo così basso, Andrè…”
“Potrei dire la stessa cosa di te.”
Ci osservammo per alcuni secondi, scrutandoci cupi, poi entrambi distogliemmo lo sguardo.
“Oh quante belle figlie Madama Dorè, oh quante belle figlie…”
Mi voltai verso Andrè.
“Prego?”
Lui mi fissava stupito.
Dopo alcuni secondi, tornammo a distogliere lo sguardo, lasciandolo vagare per le cantine.
“Son belle e me le tengo, Scudiero del re, son belle e me le tengo…”
I nostri sguardi tornarono a incrociarsi seduta stante.
“Hai…sentito?”
“E tu?”
Andrè mi si avvicinò e mi posò una mano sulle labbra.
“Shhhh. C’è qualcuno…”
“Il re ne doman…da, hic! una, Madama Dorè, il re ne domanda una…”
La pressione delle dita
di Andrè sulle mie lebbra e la sua improvvisa vicinanza mi
avevano lasciato senza fiato, al punto che faticai a sentire il resto
di quella litania biascicata in lontananza.
Quando staccò la mano dal mio viso, lentamente, mi trovai a inspirare nel suo respiro tanto era vicino.
“Che cosa ne vuol fa…hic!..re, scudiero del re…che cosa ne vuol …fare…?”
“Conosco questa voce…”
“Anch’io.”
Mi scostai da lui, e
percorremmo, un po’ a tentoni, i corridoi tra le scaffalature,
seguendo l’eco di quella stentata filastrocca.
Improvvisamente, con il
piede urtai una bottiglia vuota, che cadde e rotolò poco
distante, dove colpì un’altra bottiglia vuota, che a sua
volta ne colpì un’altra.
Alla fine di quella fila
serpeggiante di fiaschi, disposti come un domino, una figura stesa a
terra, con le braccia spalancate, ridacchiava in maniera incontrollata,
scossa dai singhiozzi.
“Girodelle!!”
“Diavolo, ecco dove si era cacciato!” esclamammo io e Andrè all’unisono.
Mi avvicinai a lui, destreggiandomi tra le bottiglie vuote, e lo guardai da sopra in giù.
Potevo sentire il suo
alito alcolico da quella distanza, e lo spettacolo che mi si
presentò non era certo dei migliori: il mio secondo era
completamente ricoperto di polvere, completamente sbrodolato di vino,
completamente…ubriaco fradicio.
Erano almeno ventiquattro ore che si trovava in quella cantina.
“Girodelle? Mi sentite?”
“Hihihihi…”
“In nome del cielo, che vi è saltato in mente?!”
Andrè si piegò, sollevando una bottiglia tra le dita e annusandone il contenuto.
“Annata del
quarantasei…ottima scelta, anche se temo che questo non
farà molto piacere al generale…” Fu il suo unico
commento.
Mi piegai sulle ginocchia, avvicinandomi a Girodelle.
“Girodelle?...Victor? Victor, mi riconoscete?”
Il conte si era sfilato
la giacca, e vi si era sdraiato sopra. Il suo bel gilet ricamato a
motivi floreali intrecciati di fili d’oro era completamente
insozzato, per non parlare della camicia di batista, dei pantaloni di
velluto e delle calze di seta.
“Guardate come vi
siete ridotto…” Scossi la testa e provai a sottrargli la
bottiglia sul quale era avvinghiata la sua mano destra.
“Chi è? Chi
va là?” Esclamò a quel punto Girodelle, sollevando
leggermente il capo. “Oh, sciete voi, capitano? Masciore
Girodelle a rapporto, signore.” Farfugliò, senza staccare
le dita dal collo della bottiglia.
“Si-si…va bene. Riposo, Girodelle…e lasciate questa bottiglia, per l’amor del cielo!”
“Non poscio. Ho
ricevuto ordini sciegretiscimi di custodirla con attenscione.”
Ribattè lui, continuando a ridacchiare.
“Ah si? E da chi avete ricevuto questi ordini segretissimi?”
“Da me stescio…credo. Aviscinatevi capitano…devo confesciarvi una coscia…”
Sospirando mi avvicinai a lui, il quale sollevò il capo per sporgersi vicino al mio orecchio.
“Prendere ordini da me stescio…non è piascevole come riceverli da voi. Voi mi avete spezzato il cuore, mademoiselle. Salute!” E con una grossa risata sollevò la bottiglia e ne ingollò un’altra sorsata.
Lo guardai amareggiata. Poi levai lo sguardo verso Andrè, che assisteva alla scena a braccia conserte, nella penombra.
Il suo sguardo era imperturbabile, ma vi leggevo anche una certa compassione per il conte.
Tornai a guardare verso Girodelle, incupita, e con risoluzione gli strappai di mano la bottiglia:
“Adesso basta,
Victor. Avete bevuto anche troppo nelle ultime
ventiquattrore.” Mi sporsi verso di lui e provai a
sollevarlo infilandogli le braccia sotto le ascelle.
“Oscar…voi sciapete perché Madama Dorè non vuole far sposare sua figlia con il re?”
“No, illuminatemi, Victor.” Borbottai, mentre lo trascinavo per fargli appoggiare la schiena contro la parete.
Andrè, vedendo i miei sforzi mi si avvicinò e mi aiutò a trasportare il conte.
“Perché
lei…sposerà lo scudiere, ovvio!” esclamò
trionfante Girodelle, puntando l’indice davanti ad Andrè,
per sottolineare l’ovvietà dell’affermazione.
Io e Andrè restammo senza parole.
Girodelle, ora che era
finalmente seduto, ciondolò un paio di volte la testa, mentre i
suoi lunghi capelli castano dorato gli cadevano davanti agli occhi in
ciuffi arruffati.
“Victor…siete ubriaco…Straparlate.” Mormorai, presa alla sprovvista.
“Poscibile. Ma scio quello che dico…e io dico che…”
Girodelle mosse
l’indice davanti a sé, quasi stesse dirigendo
un’orchestra immaginaria che suonava solo nella sua testa.
“Hum…coscia stavo dicendo?” esclamò quindi, guardando sospettoso verso il suo dito.
Andrè si chinò al suo fianco:
“Conte, non dovete
preoccuparvi, nessuno qua sposerà lo scudiere. Adesso vi
accompagno nelle vostre stanze, e domani, dopo un buon sonno, tutto vi
sembrerà meno…tetro.”
Girodelle sembrò mettere a fuoco chi gli stava parlando solo in quel momento:
“Ah, eccolo qua! Il
prode Andrè, il fidato Andrè, il brascio destro…e
quello scinistro. L’immancabile Andrè,
l’insostituibile Andrè, l’affezionato
Andrè…L’irreprensibile attendente, il sempre
presente Andrè…” Girodelle prese fiato
“Andate al diavolo, Andrè!”
“Victor!” Esclamai, ma Andrè scosse la testa:
“Ve lo concedo,
conte. Siamo innamorati della stessa donna, non potrebbe essere
altrimenti, tra di noi.” Lo sguardo di Andrè, dalla destra
del conte, vagò nell’oscurità verso il mio, alla
sua sinistra.
“Ma…”
proseguì Andrè, senza staccare gli occhi dai miei
“Da parte mia, non avete nulla da temere. Se mai c’è
stato qualcosa, è già finito. Forse voi sarete più
fortunato.”
“Io? Io non sciono
mai fortunato.” Commentò Girodelle scuotendo stancamente
la testa. “Non sciono altro che uno stupido damerino sempre
pronto a prendere ordini…”
“Victor, voi siete
un brav’uomo, e un bravo soldato…” Mi morsi le
labbra “E io vi ammiro. Vi stimo…” Il mio sguardo
cercò quello di Andrè. “Ma la mia stima sarà
sempre e solo ciò che voi avrete da me. E non credete che non mi
dolga vedervi soffrire così. Ma questa è la
realtà…Mi dispiace…”
“E’ per il
vestito, vero?” Girodelle voltò il capo e mi
osservò con sguardo smarrito. “Io lo sciapevo!
L’avevo detto a mia sciorella, ma lei ha così
inscistito…Era coscì scicura che l’avreste
apprezzato…Quel vestito era…orrendo, perbacco!”
Su questo, non potevo dargli torto.
“Non si tratta solo
dell’abito, Victor…Vedete, io mi trovo costretta a
rifiutare la vostra proposta perché…” Il mio
sguardo cercò Andrè “Il mio cuore appartiene
già a qualcuno.”
La testa di Girodelle, seguendo il mio sguardo, ciondolò verso Andrè.
“Lo sciapevo, lo
sciapevo! Maledetto quel giorno che ho deciso di diventare capitano
della guardia reale! Io l’avevo capito sciubito che tra voi e il
vostro attendente…”
“Conte, avete preso
un abbaglio.” Sentenziò in quel momento Andrè,
scrutandomi con sguardo grave “La contessa non si stava di certo riferendo a me, un semplice servitore.”
Non potei fare a meno di
notare il modo in cui aveva sottolineato quelle due parole,
evidenziando la nostra disparità sociale.
“Ah! Allora
è quel belloccio dello svedese! Lo sciapevo, dannato svedese,
gli muoiono tutte dietro, le belle donne…”
Sbuffai, leggermente spazientita.
“Il conte
Fersen” specificai, riabilitando il suo nome “Non è
nel mio cuore, se non come un caro, carissimo amico.”
Restituì l’occhiataccia ad Andrè “Ma il mio
attendente dice bene: le vostre supposizioni potrebbero ferire
l’amor proprio della sua futura moglie.”
“Andrè si sposa?” Domandò Girodelle, levando il capo che aveva ripreso a ciondolargli sul petto.
“Proprio così.” Ribadii.
“Niente affatto!” Disse nello stesso istante Andrè.
Ci occhieggiammo, mentre Girodelle, tra di noi, ruotava il capo osservandoci sospettoso.
“Ti ho visto Andrè. Ti ho visto con…lei.”
“Anche lei ti ha visto. Con Fersen.”
Aprii la bocca, ma non ne uscì alcun suono, inizialmente.
“Anche io vi ho visti.” Farfugliò Girodelle, ignorato da entrambi.
“Non era…Io
non…” Guardai il soffitto e sorrisi, esasperata da tutti
quegli equivoci “Si tratta di una sciocchezza.”
“Eri stesa sul
pavimento della camera di Fersen, tra le sue braccia. Una sciocchezza,
dici? Ma se non aspettavi altro da una vita! E io che mi ero illuso che
con me ti fossi lasciata andare perché mi volevi…”
“Fersen credeva
stesse arrivando un manipolo di inglesi. Per questo mi ha trascinato
sul pavimento della sua stanza, dove mi ha tappato la bocca per fare in
modo che non mi tradissi davanti al nemico.”
Vidi Andrè sgranare leggermente l’occhio, pur restando impassibile.
“Ma parliamo di te,
Andrè. Sentiamo, cosa hai risposto ad una bella ragazza mezza
svestita che ti faceva le moine accovacciata nel tuo letto?” Il
mio tono era tagliente.
“Io…ho risposto che non ero interessato.”
“Non ci credo.”
“Sei libera di non
crederci, Oscar. Del resto, non hai creduto nemmeno a quello che ti ho
detto ieri, nelle scuderie, altrimenti non penseresti che possa
cambiare idea in questo modo, dall’oggi al domani.”
Andrè inspirò “Io ti amo Oscar. Ti amo. Ma non
credere che questo sia sufficiente per poterti prendere gioco di me.
Sono stufo di correrti dietro come un cane, e prendermi i tuoi calci
quando ti vengo a noia.”
“Io non ho mai…”
“Si, invece.
L’hai fatto. ‘prima era prima e adesso è
adesso’, ti suona familiare?” esclamò Andrè,
ripetendo le parole con cui l’avevo respinto il giorno prima. Mi
rivolse una lunga occhiata diffidente “Hai parlato di
sbagli. Mi hai chiesto di lasciarti in pace. E’ quello che sto
facendo. Io ti amo, ma…ieri era ieri e oggi è oggi.”
Sentii un groppo amaro che mi formava nella gola, mentre distoglievo lo sguardo.
Girodelle, che fino a
quel momento era rimasto tra di noi cercando, inutilmente, di infilarsi
un bottone nell’asola del gilet, sollevò lo sguardo,
spostandolo da me, che guardavo verso sinistra tentando di trattenere
l’amarezza, ad Andrè, che guardava verso destra,
incollerito.
“Perdinci,
Grandier...” Mormorò Girodelle “Sono
sufficientemente sbronzo per potervi parlare con franchezza.
Voi… siete proprio un idiota, lasciatevelo dire.”
Girodelle tirò indietro la testa ed emise una lunga risata
“Lei vi ama, per l’amor di Dio, lo capirebbe un
bambino!”
Sollevai lo sguardo, di
scatto, e vidi che Andrè faceva lo stesso. Mi sentivo gli occhi
umidi di lacrime rabbiose. Girodelle, tra di noi, si sbellicava di
risate, finché iniziò a tossire.
“Dio, io lo sapevo,
lo sapevo…L’ho sempre saputo. Per questo, cordialmente, vi
detesto, Andrè. Per anni ho sperato, Oscar, di vedere rivolto a
me lo stesso tenero e fiducioso sguardo che avete sempre avuto per lui.
Un servo…Ma a che serve un titolo, mi domando? Guardatemi: sono
nobile e mi spacco la schiena per servire sua maestà…e
non c’è nessuno che, a fine giornata, mi rivolga quello
sguardo, e torni a casa con me.”
Andrè mi osservava stupito, quasi a voler chiedere conferma di quelle parole.
Io gli restituii
un’occhiata imbronciata, che, nelle mie intenzioni, voleva essere
affermativa, anche se ero troppo adirata per ammetterlo apertamente, in
quel momento.
“Oscar…”
Le sue parole, qualunque
cosa avesse voluto dire, vennero interrotte da Girodelle che si
piegò in avanti e , assai poco dignitosamente, rimise anche
l’anima.
“Ancora uno
scalino…bene…ancora uno, eccoci qua…”
Ansimando, riuscimmo a far mettere il piede di Girodelle
sull’ultimo scalino.
“Siamo amisci,
vero?” Il suo braccio, destro era ancorato al collo di
Andrè, mentre quello sinistro stringeva convulsamente le mie
spalle.
“Naturalmente…” Borbottai, affaticata.
Iniziammo a trascinarlo lungo il corridoio fino alla sua stanza.
“E voi, Andrè? Scienza rancore?”
“Nessun rancore,
conte…” Commentò Andrè, storcendo
leggermente il naso per l’alito alcolico di Girodelle.
“Vi voglio bene. Si, vi voglio bene. Siamo una bella squadra, proprio una bella squadra…hihihihihi…”
Quando arrivammo davanti alla porta della sua stanza , Girodelle ci strinse a sé.
“Sciapete coscia vi dico?”
Andrè si sobbarcò il suo peso, mentre io aprivo la porta.
“Vi cedo il mio
titolo, Andrè!” Girodelle si attaccò con entrambe
le braccia al collo di Andrè, scivolò sul tappeto e per
poco non finirono entrambi lunghi e distesi.
Il conte si tirò
su a fatica, aiutato da Andrè che lo sorreggeva, e lo
guardò negli occhi: “Da adesso voi siete il conte
Grandier…e possedete…Hum…” si guardò
attorno smarrito “Si, ecco, possedete quella cassettiera!”
Esclamò indicando la pesante cassettiera di mogano appoggiata
alla parete nel corridoio “Conte Grandier del cassetto, sciete
contento?”
“Lusingato…Girodelle” Bofonchiò Andrè, mentre cercava di staccarselo dal collo.
“Bene.
Bene…ancora una volta, ai vostri ordini, Madamigella!”
Esclamò il mio secondo, guardando nella mia direzione
“Sciolo…promettetemi una coscia…”
“Dite, Girodelle.” Mormorai, avvicinandomi per sostenerlo mentre lo aiutavo ad entrare in camera sua.
Girodelle mi
afferrò il polso, stringendo la sua mano sulla mia. Nel suo
sguardo obnubilato dall’alcol riuscii a scorgere una scintilla di
lucidità.
“Dimenticate…tutto
quanto. Tutto quello che ho detto, o fatto….tutto. Me ne
vergogno oltre ogni limite…Fingete che non sia mai successo, ve
ne prego, Oscar…”
Lo guardai dritto negli occhi.
“Non temete,
Victor. So quanto valete, e non basterà una sbronza per farmi
cambiare opinione sul vostro conto. Siete davvero un
brav’uomo…”
“G-grazie, Madamigella…”
In quel momento, una voce dalle scale ci fece sobbalzare tutti e tre.
“Signore! Oh, signore…che gioia rivedervi, e vedere che siete salvo! State bene?”
Camille si avvicinò, le gote arrossate e un’espressione a metà tra il sollievo e la preoccupazione.
“Credo che il tuo
padrone si sia preso una bella ciuca, Camille. Vuoi aiutarci a portarlo
in camera?” le disse Andrè con un mezzo sorriso, che
Camille ricambiò timidamente.
“Certo. Lasciate
pure fare a me, madamigella Oscar.” Esclamò la robusta
ragazza, sfilandomi il braccio del conte dalle spalle e provvedendo lei
a pilotarlo fin dentro la sua camera da letto, con l’aiuto di
Andrè.
Una volta in camera, lo
fece sedere sul letto, chinandosi per sfilargli le scarpe e
sollevandosi per aiutarlo a togliersi il gilet.
“Signore, come vi
siete ridotto…siete proprio ubriaco! Volete che vi prepari
qualcosa di caldo? Una bella limonata, che vi rimetterà in sesto
lo stomaco? O un caffè bello forte, per farvi tornare lucido? O
preferite che vi porti dell’acqua calda per fare un bagno?
Sentite le vostre mani, sono gelate!” Esclamò Camille,
stringendogli le dita tra le sue, nello stesso gesto che gli avevo
visto compiere con Andrè.
In quel momento capii che
Girodelle sarebbe stato in buone mani, così io e Andrè,
silenziosamente, arretrammo fino alla porta.
“Sciete davvero gentile…hum, perdonatemi, non ricordo il vostro nome.”
“Camille, signore. Sono la cameriera personale di vostra sorella…”
“Ah…si, giusto. Siete un angelo, Camille.”
Vidi le guance di Camille farsi di porpora.
“Allora, signore, cosa desiderate che vi porti? Volete che vi ravvivi il camino?”
“No.
No…restate qua, per favore. Fatemi compagnia…raccontatemi
di voi, da quant’è che siete a servizio in casa mia?”
Guardai Andrè, con un mezzo sorriso:
“Il mio futuro marito e la tua futura moglie?”
Andrè assunse a sua volta un’espressione divertita:
“Perché no? Dopotutto, Girodelle ha detto che del titolo non se ne fa niente!”
Guardai un ultima volta
verso Camille. Era bella, tenera e dolce, e aveva una naturale
propensione a prendersi cura di un uomo. In quanto a Victor, da troppo
tempo aveva bisogno che qualcuno si prendesse cura di lui.
“Già…perché no? Pamela*
ci insegna che tutto è possibile, alla fin fine…”
Mormorai, prima di chiudermi la porta alle spalle, mentre Camille
sprimacciava i cuscini del letto e aiutava Girodelle a stendersi,
raccontandogli di sé con tono dolce e sommesso.
Una volta chiusa la porta
della stanza di Girodelle, io e Andrè ci ritrovammo soli, mentre
la fievole luce del tardo pomeriggio scemava lasciando in penombra il
corridoio.
Lentamente levai lo
sguardo, e vidi che a sua volta mi stava osservando. Il silenzio ci
avvolgeva, rendendoci entrambi imbarazzanti e assai meno audaci di
quanto lo eravamo stati nelle cantine, quando ci eravamo accusati e
confessati senza esitazione.
“Mi
dispiace.” Esclamai infine, con voce tesa.
“Per…ieri. Ero…così furiosa.
Ero…talmente confusa. Io non…”
Andrè mi interruppe levando una mano.
Nel silenzio si
avvicinò a me, e quella stessa mano tesa si posò sulla
mia guancia, mentre il pollice appena mi sfiorava le labbra.
Improvvisamente tutto mi apparve diverso: nitido e luminoso.
Era lui che volevo. L’avevo sempre saputo…come avevo potuto essere tanto cieca?
Sentii le sue dita farsi
più salde e scivolare lentamente fra i miei capelli, fino alla
base della nuca, mentre il suo braccio si piegava, annullando la
distanza tra di noi.
Ci fissammo alcuni
secondi, incerti, incapaci di parlare, mentre tutto il nostro passato
comune si srotolava lentamente dinnanzi a noi.
“Cosa…cosa
hai risposto a Camille?” Domandai in un soffio. Se prima non
avevo voluto sentire oltre, adesso ero ansiosa di sapere, al punto da
avvertire distintamente ogni singolo battito del mio cuore, in quel
silenzio.
Andrè si chinò verso di me. Talmente vicino che potevo sentire la dolcezza del suo respiro sulle mie labbra.
“Le ho detto che
amavo già un’altra donna, ed è a lei che desidero
appartenere.” Si fece, se possibile, ancora più
vicino. “E se non posso essere suo…Non voglio stare con
nessuno.”**
“Andrè, io…”
Era giunto il momento. Ero disposta a giocarmi tutto.
Deglutii, pronta a
dichiararmi, ma non feci in tempo ad aggiungere altro, perché,
proprio in quel momento, una voce improvvisa ci fece sobbalzare
entrambi.
“Oscar? Sei tu?”
Ci scostammo rapidamente
uno dall’altra, facendo entrambi qualche passo indietro, e io
potei mettere a fuoco la sagoma di mio padre che si stagliava nel
corridoio.
“Padre!” Esclamai “Non vi ho…sentito arrivare!”
“Torno adesso da
un’infruttuosa ricerca del conte Girodelle…”
mormorò mio padre, togliendosi i guanti. Lo vidi aguzzare la
vista, e ringraziai l’oscurità che ci avvolgeva,
perché avevo buone probabilità di credere che non avesse
notato la nostra vicinanza di qualche istante prima. “Oh,
Andrè, sei tu? Cosa ci fate qui appostati
nell’oscurità?”
“Generale…” Mormorò Andrè, facendo una rapida riverenza, incerto su cosa rispondere.
Fortunatamente per lui, alle spalle di mio padre comparve la contessa Colette, avvolta nel suo ermellino.
“Che il diavolo se lo porti, quell’idiota di mio fratello …” Stava borbottando.
“Padre, contessa,
ho il piacere di informarvi che il conte Girodelle è stato
ritrovato, e in buona salute…più o meno.” Esclamai
senza prendere fiato, per distogliere l’attenzione di mio padre e
prevenire altre domande che avrebbe potuto porre.
“Ah! Ottimo, e dove?”
“Hem…nelle vostre cantine, padre.”
“Perbacco! E cosa faceva chiuso nelle cantine?”
“Ecco…io temo, padre, che il conte abbia messo mano alla vostra…hem, riserva personale.”
Mio padre mi scrutò alcuni istanti, senza battere ciglio, mentre la contessa Colette si portava una mano alla fronte:
“Quello scellerato!
Io, in giro, nella tempesta, a cercarlo…e lui si ubriacava qua
in casa?! E ha fatto anche scappare il conte di Fersen…Ah, che
giorni infernali!”
“Andrè…”
Esclamò a quel punti mio padre, ignorando le proteste di Colette
“Vorresti essere così gentile da scortare la contessa
nelle sue stanze? E tu, Oscar, sei pregata di venire con me nel mio
studio. Ho bisogno di parlarti.”
E senza una parola
girò i tacchi e si diresse a passo spedito lungo il corridoio,
mentre io lo seguivo, senza avere nemmeno il coraggio di voltarmi per
guardare Andrè.
Seduta sul mio letto, tenevo la schiena appoggiata alla testata, e un cuscino stretto al petto.
Davanti a me il camino scoppiettava allegramente.
Allungai le gambe tra le lenzuola, fredde contro i miei piedi nudi.
“Dunque, non hai intenzione di sposare il conte Girodelle?”
“No,
padre. Vedete, c’è stato un equivoco…Io temo di
aver frainteso le vostre parole, il giorno del nostro
colloquio…”
Il fumo che usciva dalla sua pipa appena accesa aleggiava tra di noi come un banco di nebbia nella brughiera.
“E questo tuo rifiuto, dipende da qualcosa in particolare? Forse preferiresti un altro tipo di uomo…?”
Riflettei attentamente, cercando di dare la risposta giusta.
“Il
mio rifiuto dipende unicamente dal fatto che i sentimenti del conte
Girodelle nei miei confronti non sono ricambiati con egual slancio. So
bene, padre, che in queste questioni, i sentimenti raramente vengono
presi in considerazione, e ho assistito ai matrimoni delle mie sorelle
pensando che voi stesse facendo la cosa giusta per loro, ma
io…” Lo guardai dritto negli occhi “Io non mi
sottometterò alla vostra volontà, in questo caso. Mi
avete cresciuto come unica erede, mi avete abituata a prendere
decisioni, lasciate che scelga da me.”
Mio padre sbuffò una nuvola di fumo.
“Mi
sembri piuttosto convinta, Oscar. Va bene, se non è il conte
Girodelle, allora, sarà qualcun altro. Il conte di Fersen,
forse? Mi siete sempre sembrati piuttosto intimi, voi due…”
“Il
conte di Fersen è un caro amico, padre. Ma…no, non
sposerò nemmeno lui, se è questo che state lasciando
intendere.”
“Or dunque, Oscar, quali alternative mi stai dando?”
Il mio sguardo si puntò nel suo, deciso:
“Padre,
in questi giorni, sono successe molte cose. Fatti che mi hanno portato
a maturare una decisione che accarezzavo da qualche tempo. Io ho
deciso…”
Sospirai, appoggiando la testa alla spalliera. I pizzi della camicia da notte mi solleticavano una spalla.
Ripensai alla lunga discussione avuta con mio padre.
Avevo fatto la scelta giusta, ne ero sicura, anche se lui non la vedeva nella stessa maniera.
Avevo ventotto anni, una
vera e propria vecchia zitella. Era una fortuna che il conte Girodelle
avesse chiesto la mia mano, chi altro se la sarebbe mai presa una
simile babbiona vestita da uomo?
Sorrisi tra me e me. Per una volta, avevo avuto la meglio su mio padre.
Poi pensai a lui.
Andrè.
Lo avevo lasciato solo, in quel corridoio, senza nemmeno voltarmi.
Sapevo che stava per accadere qualcosa di importante.
Aveva detto nuovamente che mi amava.
E io?
Mi portai un mignolo alle
labbra, avvertendo la pressione dell’unghia nella carne. Poi, di
slancio, lanciai il cuscino da parte.
Basta.
Il tempo dell’indecisione era finito.
Sentivo il freddo del
pavimento sotto alle piante dei piedi mentre procedevo, scalza, lungo
il corridoio fiocamente illuminato dal candeliere che tenevo in mano.
Da bambina, quante volte
ero sgattaiolata fuori dalla mia stanza, nel cuore della notte, per
raggiungere la stanza di Andrè? Anche allora avevo bisogno di
lui.
Passai davanti alle
grande vetrate, da cui filtrava la tenue luce bluastra creata dal
riflesso della neve, restando alcuni secondi a contemplare la notte.
Non c’erano stelle. Solo un profondo blu scuro che, come una coltre di velluto, copriva ogni cosa.
Vedevo il mio riflesso, nel vetro, illuminato dall’alone del lume che avevo con me.
Brillavo. Io brillavo.
Quando tornai a guardare
verso il corridoio, fu con un certo stupore che vidi un altro lume
farsi strada nell’oscurità. Veniva nella mia direzione.
Avanzai di qualche passo, fino a trovarmi a qualche metro da Andrè.
Notai che aveva la camicia fuori dai pantaloni, come se la avesse infilata con tutta fretta, preda di una decisione improvvisa.
Forse la stessa decisione che aveva spinto anche me fuori dalla mia stanza.
Ci avvicinammo, lentamente.
“Ciao…” Mormorai.
“Ciao…” Sussurrò Andrè.
I miei occhi si persero nel suo sguardo.
“Ti stavo cercando.”
“Mi hai trovato.”
Andrè posò
il lume che stringeva nella mano destra su un mobile del corridoio, e
io, quasi imitandolo, feci la stessa cosa.
Ci fissammo, imbarazzati e a corto di parole come eravamo stati poche ore prima, quando mio padre ci aveva interrotti.
Tutti i nostri approcci,
fino a quel momento, erano stati arrestati da qualcuno. Ma in quel
momento, nel cuore della notte, in una casa profondamente addormentata,
era ragionevole pensare, o come minimo sperare, che nessuno sarebbe
sopraggiunto a rovinare ogni cosa.
Andrè si
avvicinò e io indietreggiai leggermente, fino a trovarmi con la
schiena contro alla parete, fino ad avvertire il calore del suo corpo
contro al mio.
Il gioco di luci ed ombre
creato dalle fiammelle delle candele si rincorreva sul suo viso ad ogni
movimento. Lasciò scorrere una mano lungo il mio braccio,
lentamente, fino a sfiorarmi la spalla, lasciata nuda dalla camicia da
notte dallo scollo largo, e poi, ancora più su, sui tendini tesi
del mio collo, lungo la curva della mascella, dietro alla nuca. La sua
guancia sfiorò la mia, e sentii i suoi capelli solleticarmi la
spalla.
“Ho bisogno di
sapere se lo vuoi anche tu. Se lo vuoi quanto lo voglio io.” Mi
sussurrò all’orecchio, mentre un brivido mi percorreva per
intero la spina dorsale.
In risposta alle sue
parole levai a mia volta le braccia, che avevo, sino a quel momento,
tenuto lungo i fianchi, per posargliele sulla schiena. Aprii i palmi e
lo strinsi a me.
Ritenni quel gesto più valido di molte, inutili parole. E Andrè dovette pensarla come me.
Voltò il viso e
trovò le mie labbra. La sua stretta, sulla mia nuca, si fece
più forte e io lo strinsi con maggior vigore, annullando
qualunque spazio ancora esistesse tra noi.
Catturò il mio
labbro inferiore, succhiandolo leggermente, per poi tornare ad
esplorare la mia bocca con la lingua. Con l’altra mano
sollevò un lembo della mia camicia da notte, lasciando scorrere
le dita lungo la mia coscia nuda, sino alla curva della natica. A quel
punto la sua mano si staccò da me, per poi riposarvisi
all’altezza della mia guancia sinistra. Mi prese il volto tra le
mani, mentre io lasciavo correre le mie lungo la sua schiena,
sollevandogli la camicia e lasciandole vagare sulla sua pelle liscia e
calda. I nostri baci divennero più violenti, sintomo di un
bisogno più urgente. Le mani di Andrè si staccarono dal
mio viso per spostarsi sul mio seno. Potevo sentirle accarezzarmi senza
più reticenza attraverso la stoffa leggera della camicia da
notte. Staccai le labbra dalle sue ed emisi un gemito. Ansimavamo
entrambi. Appoggiai la testa alla parete, inarcando la schiena, mentre
lui si chinava disponendo una lunga fila di baci sul mio collo. Gli
portai le mani alle guance e le lasciai scivolare sulla sua nuca,
affondando le dita nei suoi morbidi capelli, prima di attirarlo
nuovamente verso le mie labbra.
In quel momento, il lieve
rumore di una porta che si apriva, in qualche punto della casa, ci
costrinse a staccare, seppur di poco, le labbra l’uno
dall’altra.
Restammo col fiato
sospeso, troppo vicini per poterci separare, troppo coinvolti per
riuscire a fermarci. I nostri respiri si condensavano l’uno
nell’altro mentre, col fiato sospeso, tendevamo l’orecchio
per capire chi stesse uscendo dalla propria stanza per dirigersi
chissà dove.
Lasciai correre la mia mano fino a quella di Andrè, posata sul mio fianco destro, e la strinsi tra la mia.
“Vieni.”
Non badando ai candelabri
che avevamo lasciato nel corridoio iniziammo a correre nel buio.
Sentivo la camicia da notte frusciarmi leggera attorno alle gambe e i
lievi colpi dei miei piedi nudi che facevano scricchiolare le assi del
parquet. Stupidamente, iniziammo a ridere entrambi, mentre
incespicavamo e schivavamo i mobili che ci intralciavano il percorso.
Dopo alcuni metri sentii la mano di Andrè che mi tirava.
Frenò la mia corsa e mi riportò con la schiena al muro,
riprendendo a baciarmi con un ardore che ricambiai.
Al piano di sotto, qualcuno stava camminando verso le cucine.
Staccai le labbra dalle
sue e ansimando gli sgusciai da sotto le braccia, riafferrandogli la
mano e trascinandomelo dietro, sempre sorridendo, fino a che non
raggiungemmo la porta della mia stanza, che aprii e richiusi dietro di
me, spingendovi contro Andrè e riprendendo a baciarlo.
Le sue mani scesero sui
miei fianchi, sollevandomi la camicia da notte fino alle natiche, dove
si posarono possessive. Sentii le sue dita che mi entravano nella carne
e sussultai per quel tocco deciso. Mi staccai da lui e feci qualche
passo indietro, senza staccare gli occhi dai suoi, nella penombra
dorata creata dalla luce soffusa del caminetto.
Andrè si
staccò dalla porta, avvicinandosi lentamente a me. Quando fu
sufficientemente vicino allungai le braccia verso i lembi della sua
camicia e, senza indugi, glie la sfilai dalla testa, mentre lui
allungava le braccia sopra di sé per facilitarmi il compito.
Quando la camicia cadde a
terra, osservai la liscia precisione del suo torace nudo, desiderando
con tutta me stessa possedere quel corpo, fondermi con esso.
Erano sensazioni
sconosciute, che non avevo mai provato con nessuno e per nessuno. Ma in
quel momento nulla mi suggeriva che fosse sbagliato quanto stavo
facendo…era una percezione quasi primordiale.
Mi avvicinai a lui,
poggiandogli la guancia sul petto, proprio là dove il suo cuore
batteva e lui mi strinse a sé, affondando le mani nei miei
capelli.
Non c’era
più la cieca e violenta passione che ci aveva portato a
dibatterci furiosamente nelle scuderie, il giorno prima, quando ancora
non sapevamo chi eravamo e cosa volevamo.
Adesso, c’era consapevolezza, e la dolce lentezza che ne conseguiva.
Levai il viso verso il suo, e lo guardai da sotto in su:
“Credo di essere innamorata…di te.”
Lo sguardo di Andrè era incredibilmente serio.
“Lo credi, o lo sai?”
“Lo so.”
Una scintilla di gioia e stupore colorò immediatamente i suoi occhi.
Voltai il viso e baciai
piano il punto su cui pochi istanti prima riposava la mia guancia.
Sotto la pelle liscia e calda sentivo il battito furioso del suo cuore.
Presi coraggio e spinsi le mie labbra oltre, tracciando una lunga fila
di baci sul suo petto; quando gli sfiorai un capezzolo con la punta
della lingua lo sentii trattenere il respiro, mentre la sua presa tra i
miei capelli si faceva più salda. Mi fece piegare la testa
all’indietro, lentamente, allontanando le mie labbra dalla sua
pelle, e mi baciò la fronte e gli occhi, prima di posare la sua
bocca sulla mia.
Piano piano, senza
smettere di baciarmi, mi fece arretrare fino al bordo del letto, mentre
le sue mani si spostavano al nastrino che chiudeva la mia camicia da
notte, sciogliendolo con una lentezza quasi esasperante.
Mi staccai da lui e, con
la camicia ormai molle sulle spalle, sedetti sul letto, indietreggiando
mentre lui mi seguiva piegandosi su di me.
‘E’ te che voglio’
Sentii tutto il suo corpo
aderire al mio, e gli affondai le dita nei capelli, baciandolo con
passione, mentre rotolavamo sulla schiena ora dell’uno, ora
dell’altra. Gli avvinghiai le gambe ai fianchi e sentii le sue
dita sollevarmi la camicia dalle gambe, scoprendomele fino alla vita.
Inarcai leggermente la
schiena, dandogli modo di salire oltre, e mi sollevai verso di lui,
mentre a sua volta si piegava sulle ginocchia.
Lo guardai con fiducia, e
sollevai le braccia sopra di me, mentre Andrè mi sfilava la
camicia da notte dalla testa, lasciandomi nuda e senza difese davanti
al suo sguardo.
‘E’ te che voglio’, diceva nel suo mutismo.
Le sue mani, quasi
timorose, si chiusero a coppa sui miei seni, avvolgendoli
perfettamente. Tornai a stendermi sulla schiena e lui fu sopra di me.
Mi baciò le labbra e il collo, poi la sua bocca scese dove le
sue mani avevano appena elargito dolci carezze, e dovetti inarcare il
collo nel cuscino per respirare a pieni polmoni. Gli affondai una mano
nei capelli, assaporandone la morbidezza, mentre le sue labbra bagnate
si soffermavano sui miei capezzoli, e poi più giù, lungo
il mio ventre, fino all’ombelico.
Sentii le sue mani
divaricarmi gentilmente le gambe, e spalancai gli occhi verso il
baldacchino del letto quando le sue labbra posero due delicati baci
nell’interno delle mie cosce, prima di spostarsi al centro di
esse.
“And…Andrè…” Esclamai, in un singulto, senza tuttavia ottenere risposta.
Mi portai i palmi agli occhi.
Mi stava baciando. Mi stava baciando proprio come avrebbe fatto con le mie labbra.
Dio del cielo. Portai le
mani ai lati del mio corpo e afferrai le lenzuola, aprendo e
chiudendovi intorno le dita, convulsamente.
Iniziai a pensare che i
fuochi d’artificio che avevo visto alle nozze della Regina non
fossero niente a confronto. Almeno finché fui in grado di
pensare.
Improvvisamente tutto
stava diventando confuso e piacevole. Estremamente piacevole.
Più di qualunque cosa io avessi mai provato in vita mia.
Mi resi conto solo
vagamente che i lievi gemiti che avvertivo in sottofondo ero io stessa
a produrli, ma non me ne vergognai. Volevo che sapesse cosa mi stava
facendo.
Quando mi sembrò
di arrivare ad un punto da cui non avrei fatto ritorno, Andrè si
fermò, lasciandomi smarrita e ansimante. Lo vidi sollevarsi e
sfilarsi i pantaloni e le calze, prima di tornare a stendermi sopra di
me. Baciò nuovamente il mio ombelico e il mio seno, in una sorta
di danza a ritroso, e quando arrivò alle mie labbra le
trovò socchiuse e ancora incredule.
Sulle sue avvertii il mio sapore.
“Cercherò di fare piano…” Sussurrò al mio orecchio.
Lo strinsi a me.
Non avevo paura del dolore, ci ero abituata. Era un piccolo prezzo da pagare, tutto sommato.
Sentii i suoi fianchi aderire ai miei e quando arrivò il momento cruciale trattenni il respiro, ma non emisi un fiato.
Solo due lacrime rotolarono lungo le mie guance.
Andrè si sollevò sui gomiti, e chinò il viso, baciando quelle lacrime che sapevano di sale e amore.
Non erano lacrime di dolore. Non mi ero mai sentita così vicina a qualcuno in tutta la mia vita.
“Andrè…”
“Oscar…”
“Ti amo.”
“Ti amo.”
I primi movimenti che
compì, dentro di me, furono lenti e dolorosi. Poi gli spasimi
sfumarono, lasciando il posto ad una nuova, dolce, consapevolezza,
quella del suo corpo dentro al mio.
Gli strinsi le braccia
sulla schiena, mentre la sua bocca cercava la mia, e le lasciai
scivolare lungo il suo corpo, sino a percepire sotto alle dita la
rotondità delle sue natiche e il movimento dei suoi fianchi,
sempre più decisi.
Andrè cercò
una delle mie mani, spostando il suo peso sul gomito destro, e
intrecciò le dita con le mie, sprofondandole nel cuscino, tra i
miei riccioli.
Attorcigliai le caviglie
con le sue, e lo sentii pronunciare il mio nome ancora, e
ancora…ed era quasi una preghiera. Sentivo il piacere gonfiarsi
in me come una bolla, e non sapevo per quanto ancora sarei riuscita a
resistere, poi Andrè staccò le labbra dalle mie
affondando il viso nell’incavo della mia spalla, gemendo, e
allora mi lasciai andare, lasciando che le emozioni scaturissero da me
in una mescolanza di esaltazione e abbandono.
Carezzavo i suoi capelli,
lasciando che scivolassero in ciocche sottili dalle mie dita. Il suo
respiro, sul mio collo, si stava regolarizzando, così come i
battiti del mio cuore.
Andrè, ancora
dentro di me, si mosse leggermente. Le nostre dita erano ancora
intrecciate sul cuscino, e, da contratte che erano, si stavano
distendendo.
Non riuscivo ancora a
capacitarmi della moltitudine di sensazioni appena provate. Era come se
ogni cosa, dentro me, si fosse ingigantita e ampliata…Non
c’era più spazio per le vie di mezzo.
Andrè si
sollevò lentamente; aveva i capelli completamente arruffati e
glie li spostai dalla fronte con la mano. Le sue dita si sciolsero
dalle mie e, dopo avermi posato un bacio leggero sulle labbra,
rotolò al mio fianco, posando la testa sul cuscino.
Mi voltai su un fianco e
osservai il suo volto. Era lo stesso che conoscevo da una vita, eppure,
adesso, era completamente diverso.
Noi eravamo diversi. Eravamo rinati, insieme.
“Non avevo mai provato nulla di simile…” Mormorai, allungando una mano, che lui prese tra la sua.
“Nemmeno io.”
“Andrè…Ti amo.”
Andrè si portò la mia mano alle labbra, posando un bacio delicato sulle nocche.
“Ti amo anch’io. Dio se ti amo…”
“Andrè…”
Andrè mi prese l’indice tra le labbra e lo succhiò leggermente
“Mmmmh…”
Non c’era un modo giusto o sbagliato di dirlo, perciò decisi di dirlo e basta.
“Io…ho deciso di lasciare la guardia reale.”
Le labbra di Andrè si bloccarono e il suo sguardo si fece serio, nel mio.
“Cosa?”
“Si. Dopo quello
che è successo, con Girodelle…Non me la sento più
di continuare. Voglio che quel posto sia suo, come doveva esserlo
già dieci anni fa.”
Andrè lasciò perdere le mie dita, abbassando dal suo volto le nostre mani intrecciate.
“E tu? Cosa pensi di fare?”
Aspettai qualche secondo.
“Ecco…Io pensavo di andarmene. Per un po’…”
Lo vidi sgranare gli occhi e sollevarsi su un gomito.
“Cos…Come? Andare dove?”
C’era una punta di apprensione nella sua voce.
“In giro.”
La mia risposta dovette sembrargli piuttosto assurda, perché mi guardò come se stessi improvvisamente delirando.
Mi levai a mia volta su un gomito, sentendo i capelli che mi ricadevano sulla schiena nuda, e lo guardai seria.
“Vedi,
Andrè…E’ da quando avevo quattordici anni che
lavoro. Praticamente non ho fatto altro, nella mia vita…adesso
credo sia giusto che mi prenda una pausa. Voglio vedere posti nuovi,
magari fare un Grand Tour. So di non avere più
l’età per certe cose, ma quando avrei potuto farlo ero al
servizio di sua maestà, e adesso…credo di meritarmi un
periodo di riposo. Magari un anno…o due.”
Andrè mi fissava sconcertato.
“Sai, pensavo all’Italia. Roma, Firenze, Venezia…E magari anche la Grecia, perché no?”
“Oscar…tu, stai dicendo… che vuoi andartene? Parli sul serio?”
La voce di Andrè tremava leggermente e il suo sguardo aveva assunto una lieve sfumatura di panico.
“Si, Andrè.” Lo guardai dritto negli occhi “Se tu verrai con me.”
Il suo sguardo mutò di colpo e un sorriso incredulo si dipinse sul suo volto.
“Vuoi che venga con te?”
“Si.”
“In Italia?”
“Ovunque.”
Gli sorrisi, e strinsi le
sue dita tra le mie: “Ma se dirai di no, resterò. Non
voglio essere in nessun posto dove tu non ci sia…Ti ho appena
trovato…Non voglio perderti.”
Andrè avvicinò il volto al mio, sorridendo dolcemente.
“Sai…Credo
che, tutto sommato farò lo sforzo di seguirti in Italia…O
in Grecia, o…ovunque tu vada. Ovunque tu andrai. Per
sempre.”
* Pamela,
Richardson, 1740; ovvero, le avventure di una candida servetta che, tra
uno svenimento e l’altro, riesce a portare all’altare il
proprio padrone. Naturalmente non è il caso di Camille, per
quanto riguarda gli svenimenti…Per il resto, chissà!
** In molti
l’avranno riconosciuta: ebbene si, questa frase, bellissima e
romantica a mio parere, Andrè l’ha fregata al conte
Fersen, quello vero. Andrè che ruba le battute a Fersen
può dar da pensare…ma tant’è, il vero Fersen
era un tipo davvero bravo con le parole. (E mi sa anche con
qualcos’altro…hehe)
Nota dell’autore
Ebbene, eccoci dunque quasi alla fine. Manca solo l’epilogo, che spero di riuscire a caricare a breve^^
Questo
capitolo era piuttosto lungo…spero che siate riusciate ad
arrivare fin qui senza sbuffare! E spero, soprattutto, che sia stato di
vostro gradimento…Come sapete, pareri positivi e negativi sono
sempre assolutamente bene accetti! Devo ammettere che ci ho lavorato
soprattutto in tarda serata, leggendolo e rileggendolo, ma, si
sa…qualcosa sfugge sempre. Che sia un errore di battitura o uno
strafalcione nella caratterizzazione dei personaggi…Mi affido al
vostro giudizio!
Voglio
inoltre approfittarne per ringraziare tutte le persone che hanno sempre
la gentilezza e la disponibilità di lasciarmi un commento:
grazie, grazie, grazie. Le vostre parole sono sempre preziose, per me.
Prometto che cercherò di rispondere alle vostre recensioni e
commentare le vostre storie il prima possibile, nonostante il mio
capo (schiavista) mi stia facendo fare orari impossibili @___@ (forse
una villeggiatura serve anche a me, magari meno traumatica di questa
peròXD)
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Capitolo 8 *** Epilogo ***
villeggiatura 8
Epilogo
Mio caro Andrè,
sono stata molto lieta di ricevere la tua ultima lettera. L’Italia deve essere un posto magico.
Non
riesco ad immaginare una città con le strade fatte
d’acqua, come mi racconti. Considerati molto fortunato per
l’opportunità donatati da madamigella Oscar, e non
comportarti da insolente, come tuo solito! Ricordati che il Generale de
Jarjayes conta su di te, affinché tu non distolga mai lo sguardo
da Madamigella. Se dovesse succederle qualcosa, non affrettarti a
tornare in questa casa, o assaggerai il retro del mio mestolo.
E
adesso che ti ho fatto la mia solita ramanzina, caro nipote, veniamo a
te: mangi a sufficienza? Hai il buon senso di riguardarti, per quanto
concerne i tuoi problemi di vista? Sono molto felice di sapere che
Madamigella Oscar è riuscita, grazie alle sue conoscenze, a
procurarti un buon medico. Questi italiani devono saperne una
più del diavolo perché non c’è un’arte
o una professione in cui non eccellano. Mi dici che il medico che ti ha
visitato è uno dei migliori di Venezia, e io voglio crederci.
Ringrazia una volta di più la nostra Oscar, che pensa a te
nonostante tu sia uno sfaccendato. Ricordati inoltre che sono
terribilmente in apprensione nel sapervi, tu e Oscar, così
lontani. Ma al contempo devo ringraziarvi, miei cari, per lo splendido
dono fattomi pervenire con l’ultima lettera. Non penso, alla mia
età, di meritare un ventaglio tanto bello, talmente raffinato
che starebbe meglio tra le graziose mani della nostra Regina, piuttosto
in quelle di una vecchia come me. Allo stesso modo il generale è
stato molto soddisfatto della cassa di vino del Chianti fattogli
giungere da Madamigella. Detto tra noi, caro Andrè, temo che il
generale non abbia ancora del tutto digerito la questione del conte
Girodelle, che ultimamente sta dando scandalo nei salotti della buona
società. O almeno, così vociferava la lattaia qualche
mattina fa, quando insieme al latte ha fatto arrivare strane dicerie
sul nuovo capitano della Guardia reale. Ricordi la piccola Camille, che
venne qualche mese orsono in villeggiatura con noi? Bene, che iddio non
voglia, ma circolano strane voci che la ragazza sia…in stato
interessante. Se il bambino dovesse essere del conte, non potrei
immaginare in che modo salteranno i nervi alla sua povera sorella.
Ora
ti lascio, caro nipote, ma non scordarti i miei ammonimenti. Veglia
sempre su Madamigella Oscar, come un diligente chaperon, e non essere
screanzato!
Con affetto.
Nonna.
La voce chiara e limpida
di Oscar smise di riempire la stanza quando si voltò scrutandomi
con un sorriso e il sopracciglio leggermente rialzato.
“E così, saresti uno screanzato?”
“Naturale, e della peggior specie, mi sento di aggiungere.”
Mi allungai sulle coperte e sollevai la leggera camiciola dai fianchi di Oscar, posandole un bacio delicato sul fondoschiena.
“Decisamente
insolente” Commentò Oscar, piegando la lettera e
lasciandola cadere su un cuscino “Se Nanny sapesse in che modo ti
stai prendendo cura di me…temo non potrà esimersi
dall’usare il suo famigerato mestolo su di te.”
Le baciai le due piccole fossette alla base della schiena.
“La nonna dovrebbe
sapere che prendo i miei compiti…molto sul serio. Non potrei
sorvegliarti da più vicino…”
“Povera Nanny, ha creato un mostro!”
“Sono un ragazzo diligente…”
Oscar rotolò su un
fianco, allungando una mano verso il mio viso, e con un gesto
affettuoso mi scostò i capelli dal viso.
“Lo vedo…” Mormorò sorridendo maliziosa.
Mi sollevai, allungandomi su di lei che, a sua volta, si sdraiò sulla schiena.
Le nostre labbra si
incontrarono, assaporandosi lentamente, mentre le gambe lunghe di Oscar
si stendevano pigramente contro i miei fianchi.
Mi sentivo pronto a
ricominciare, nonostante non fosse passata che una mezz’ora da
quando avevamo fatto l’amore, quella mattina.
A volte era così
incredibilmente difficile resisterle…da quando era mia, la
volevo, se possibile, ancora di più.
Lasciai vagare una mano
fino al bordo della sua camicia, e stavo per sollevargliela quando uno
stridore di ruote, dalla strada, venne accompagnato da un sonoro boato.
Attraverso le imposte
spalancate della nostra camera, insieme al caldo sole primaverile che
inondava il pavimento, sopraggiunsero due voci bellicose.
“A stolto! Nun lo vedi n’do camini? Guarda c’hai fatto! Mo te gonfio come ‘na zampogna!”
“A’mbecille! Nun lo vedi che sei te che ce vedi male? Si’ le cose nu’lle sai…salle!”
“Ah, senti er gallina, er duro vallo a fa’ ar cesso!”
Io e Oscar ci guardammo alcuni secondi negli occhi, prima di soffocare una silenziosa risata.
“Sei popo er peggio…”
“Me sto ambruttì, t’avverto…”
Mi sollevai lentamente, e un po’ controvoglia, dal morbido corpo di Oscar, e diedi una sbirciata fuori dalla finestra.
Un carretto con alcune
gabbie di galline era stato travolto da un altro carretto, più
consistente, contenente delle mele, e adesso mele e galline ricoprivano
quasi interamente il selciato del vicolo in cui i due uomini stavano
per venire alle mani.
“Cosa dicono?” Chiese Oscar con un sorriso, mettendosi seduta tra le lenzuola.
I due uomini, furibondi, nel frattempo si erano afferrati per il colletto della giacca.
“Sto figlio d’androcchia! Mo te sporvero!”
“Ce devi provà! Te sfragno il grugno!”
“Dunque…”
Mormorai “Il primo sta affermando che ha leggermente perso la
pazienza, e l’altro concorda…anche lui è lievemente
irritato dal contrattempo.”
“Sai Andrè,
non credo che dopotutto tu sappia l’italiano meglio di
me…Ma Nanny sarebbe indubbiamente ammirata per come mi proteggi
da certe trivialità!”
Il carrozzino scoperto correva lungo la strada, lasciandoci ammirare le meraviglie di Roma.
Seduta davanti a me, Oscar teneva il viso sprofondato nella guida che era riuscita a procurarsi.
Con una mano mascherai l’occhio buono dal riverbero del sole e le lanciai una lunga occhiata.
Aveva legato i ricci
capelli chiari con un fiocco di velluto, e il tricorno che portava
calato in testa le oscurava parte del volto. La cravatta di seta bianca
era annodata alla perfezione, così come perfetti erano la giacca
color salvia e i pantaloni avorio. Non aveva la spada, ma nella mano
sinistra faceva dondolare distrattamente un bastone da passeggio dal
pomo lucido.
Si sarebbe detto un
perfetto gentiluomo, ad una prima fugace occhiata. Ma per me, adesso
che conoscevo ogni più nascosta piega del suo corpo, non
c’era inganno.
“Allora, qual
è il programma di oggi?” Le chiesi con un sorriso,
portandomi le braccia dietro alla testa mentre mi godevo il calore del
sole sul volto.
Oscar sollevò
lentamente lo sguardo dalla guida, e vidi i suoi occhi color del cielo
farsi seri sotto all’ombreggiatura del cappello.
“Hai mai detto bugie, Andrè?”
Il mascherone dalla bocca spalancata mi fissava talmente intensamente che per alcuni istanti mi sentii estremamente a disagio.
Oscar, al mio fianco nella frescura della penombra, sollevò la guida davanti a sé:
“La Bocca della
Verità, in marmo pavonazzetto, è presumibilmente databile
attorno al I secolo. Si suppone raffiguri il Dio Giove…”
Esclamò, scandendo bene le parole. “Gode di una fama
leggendaria, secondo cui sia in grado di pronunciare oracoli. Nel
medioevo nacque il mito secondo cui fu Virgilio mago a costruire la
Bocca della Verità, ad uso dei mariti e delle mogli dubbiosi
circa la fedeltà del coniuge.” I suoi occhi si levarono
dal testo, cercando i miei “La leggenda vuole che i bugiardi che
vi inseriscano la mano, proclamando il falso, restino
monchi…”
Deglutii.
“E’ una cosa davvero macabra, Oscar…”
Lo sguardo di Oscar non
mi piaceva per niente, e, conoscendola, avrei dovuto immaginare che
questo era il genere di storie che le mettevano addosso una strana
euforia. Qualunque tipo di sfida, in effetti, le metteva addosso una
strana euforia.
“Preoccupato?” Mi sussurrò, chiudendo la guida di scatto e guardandomi con un sorrisetto.
“Niente affatto!” Esclamai, piccato.
“Bene, dunque,
procedi.” Oscar levò il suo bastone da passeggio e
indicò l’orrendo mascherone che ci stava dinnanzi.
“Questa cosa ti diverte molto, devo concludere.” Considerai, sconfitto.
“Oh, si!” Esclamò lei, con un sorriso perfido.
“E…Non ti importerà accompagnarti con un uomo, oltre che con un solo occhio, anche con una sola mano?”
Oscar parve considerare la questione.
“Mi fido di te.” Sentenziò infine, seria. “E mal che vada, almeno farai pendant.”
“Ti ringrazio per la fiducia, anche se la questione del pendant non mi è di molto conforto…”
Sollevai il braccio destro, mentre i pizzi della camicia mi ricadevano sul polso, e la guardai con aria solenne.
“Io ti amo, Oscar François de Jarjayes, e non amerò mai nessun altra donna…”
Poi, lentamente, infilai
la mano nella bocca spalancata, mentre l’eco di un temporale
faceva da sfondo al repentino imbrunire che aveva preso il posto del
caldo sole pomeridiano.
Un’espressione di
dolore attraversò seduta stante il mio viso e mi piegai in due,
mentre un tuono sconquassava l’ambiente circostante.
“Ah! La M-mano…Oscar!”
Oscar sgranò gli occhi, lasciando cadere il bastone da passeggio.
“Andrè!”
Io, lentamente, estrassi il braccio. Oltre i pizzi della camicia non restava più nulla del mio arto destro.
Oscar trattenne il respiro, portandosi una mano alle labbra, mentre un lieve sorriso si dipingeva sul mio volto.
“Non potrò
più suonare il violino!” Esclamai, sventolandole la manica
vuota della mia camicia davanti al naso. “Che tragedia!”
Lo sguardo di Oscar assunse immediatamente una sfumatura indignata.
“Non è stato divertente, Andrè!”
“Oh, si invece!
Avresti dovuto vedere la tua espressione!” Esclamai divertito,
mentre lasciavo sbucare la mia mano, perfettamente integra, dalla
giacca.
“Tua nonna aveva
ragione, sei proprio uno screanzato!” Esclamò lei,
imbronciata per aver fatto la figura della sciocca.
“Devo ammettere,
Oscar, che questa me l’hai proprio servita su un piatto
d’argento. Andiamo! Ti sei fatta suggestionare da questa stupida
storia!”
“E’ una
leggenda, Andrè. E come ogni leggenda che si rispetti, deve
avere un fondo di verità…”
“Beh, ad ogni modo,
ho superato la prova, non credi?” Mi rimirai la mano, palmo e
dorso, poi la allungai verso il braccio di Oscar, attirandola a me.
Fuori la pioggia aveva preso a cadere, nel più classico dei temporali primaverili.
Strinsi Oscar al mio petto e le accarezzai una guancia.
“Ragazzina, ti
hanno mai detto che sei una credulona?” Poi, prima di darle modo
di rispondere, la baciai con trasporto. Quando staccai le labbra dalle
sue le sorrisi dolcemente “Senza contare che non avresti dovuto
dubitare del mio amore.” La guardai, con serietà.
“Non devi dubitarne mai, promesso?”
“Promesso.”
In quel momento un lieve
colpetto di tosse ci fece voltare entrambi, e ci trovammo davanti due
gentiluomini che si erano a loro volta rifugiati dalla pioggia.
“Scusate, signori…” mormorarono, imbarazzati e piuttosto scandalizzati.
Ai loro occhi, potevamo benissimo essere due uomini che si scambiavano effusioni davanti alla Bocca della Verità.
Afferrai la mano di Oscar.
“Ti va una passeggiata sotto alla pioggia, Cherie?”
Lei soffocò una
risata e ci allontanammo correndo sotto al temporale, non prima di aver
udito i due scioccati gentiluomini italiani mormorare con sdegno:
”Ah, questi francesi…tutti pervertiti, come quel de Laclos*!”
Quando arrivammo alla
nostra pensione eravamo bagnati fradici. Entrammo nell’ingresso,
ridacchiando, e fummo accolti dallo sguardo accigliato della nostra
padrona di casa.
“Buonasera, signori.” Esclamò, in tono gelido.
La vecchia signora non
vedeva certo di buon occhio due tipi strambi come noi, probabilmente
non riuscendo a classificarci in nessuna categoria. La sua
disapprovazione, tuttavia, si limitava ad occhiatacce e toni piuttosto
taglienti, perché non aveva ulteriori motivi di lamentele dato
che avevamo già versato un acconto per le successive tre
settimane.
“Buonasera signora Concetta.” Esclamai, sempre stringendo la mano di Oscar nella mia.
“C’è della posta per voi, signori.”
Esordì l’austera vedova, lanciando un’occhiata di
sprezzante disapprovazione alle nostre dita intrecciate e consegnando
nelle mani di Oscar una busta bagnata su cui l’inchiostro si
stava rapidamente sciogliendo.
Oscar lesse il mittente e
rapidamente si infilò la busta sotto al braccio mentre io ero
riuscito appena a scorgere le iniziali, restandone, in verità,
piuttosto perplesso.
Oscar sorrise amabilmente
alla padrona di casa, chiedendo se era possibile farsi portare
dell’acqua calda per un bagno e poi mi trascinò su per le
scale, mentre io mantenevo stampato sul viso un sorriso di circostanza,
pensando al perché aveva avuto tutta quella fretta di nascondere
al più presto una lettera di Fersen.
“Allora…chi ti scrive?”
Il lieve sciabordio
dell’acqua intorno ai nostri corpi riempiva il silenzio della
stanza. Oscar, la testa completamente abbandonata al mio petto,
giocherellava con alcune gocce sul bordo della vasca.
“Oh…nessuno…” Mormorò, piuttosto vaga.
Sentii una lieve fitta mordermi lo stomaco, ma preferii mantenere un tono conciliante.
“Nessuno? Dovrà pur essere qualcuno, ti pare?”
“Si,
certo…ma non è nessuno di importante.” Oscar
sospirò e lasciò affiorare le ginocchia dall’acqua
bollente.
“Capisco.” Mi limitai a replicare, in tono piuttosto asciutto.
Passarono alcuni secondi
di silenzio. Sentivo il corpo di Oscar muoversi contro al mio,
carezzato dalla piacevole sensazione dall’acqua, ma il peso che
avvertivo nel cuore mi impediva di goderne come avrei voluto.
Lei posò una mano
su una delle mie cosce, che le cingevano i fianchi, e lasciò
scorrere la mano sulla mia pelle umida.
“Sai…è
piuttosto imbarazzante, in effetti, ma…Una volta ti ho sognato.
Entravi in camera mia mentre facevo il bagno.”
“Ah si? E cosa facevo, ti rubavo la saponetta?”
“Mi baciavi.”
Oscar levò il capo dal mio petto, quel tanto che bastava
perché le mie labbra si trovassero a un soffio dal suo collo.
Sentivo i suoi capelli bagnati solleticarmi le spalle.
“E mi
toccavi…” La sua mano si immerse nell’acqua cercando
la mia, e quando la trovò la portò con sé, fino a
posarla su uno dei suoi seni.
Lasciai scorrere la mano
sulla sua pelle umida, sfiorandole il capezzolo con la punta delle
dita, e sentendolo indurirsi sotto al mio tocco. Il sospiro che
fuoriuscì dalle labbra di Oscar non mi permise di impedirmi di
levare anche l’altra mano, stringendole i seni, che spuntavano
appena dalla superficie dell’acqua, e carezzandoli a lungo. Oscar
inarcò la schiena, portando un braccio dietro alla mia testa e
sfregando il collo contro le mie labbra, che, tuttavia, si rifiutarono
di baciarla.
Staccai le mani da lei.
“C’è…qualche
problema?” Mi chiese a quel punto, voltandosi leggermente verso
me. I suoi capelli bagnati avevano assunto il colore delle nocciole, e
i suoi occhi azzurri risaltavano limpidi nel suo incarnato di
porcellana.
Se non fossi stato tanto
adirato per la lettera di Fersen che mi stava nascondendo,
l’avrei già sollevata tra le braccia per buttarla sul
letto.
“Non lo so, dimmelo tu.”
Restammo a fissarci alcuni secondi.
“Non capisco.” Ammise infine Oscar.
“No? Vediamo se
riesco a rinfrescarti la memoria. Non hai forse ricevuto una lettera,
poc’anzi, dal conte Fersen?”
Oscar sgranò leggermente gli occhi. Aprì la bocca, poi la richiuse.
“Da quando metti il naso nelle mie faccende?” Mormorò infine, accigliandosi.
“Io non metto il
naso nelle tue faccende. Era tra le tue mani, e ho letto il mittente,
tutto qua. Perciò adesso mi chiedo…Mi stai nascondendo
qualcosa?” Mi resi conto che il tono che stavo usando era
piuttosto pedante, quando in realtà avrei voluto parlarne
tranquillamente. Non volevo darle l’impressione di starle con il
fiato sul collo, ma un tarlo maligno si era impossessato dei miei
pensieri e non ero più in grado di ragionare lucidamente.
Oscar mi fissò
ancora alcuni secondi, mentre il suo sguardo andava rabbuiandosi, poi
si sollevò dalla vasca. Vidi l’acqua rigarle la schiena
nuda e le natiche rotonde, e osservai incupito le impronte bagnate che
aveva lasciato sul pavimento, mentre si avvolgeva con rabbia nella
veste da camera.
“E’ ironico
che proprio oggi pomeriggio abbiamo parlato di menzogne, e adesso
scopro che sei tu quella che poteva finire senza una mano se avesse
provato a infilarla in quel dannato mascherone.”
“Non sai di cosa stai parlando.”
“No, infatti. Per
questo vorrei che tu mi spiegassi.” Mi levai a mia volta dalla
vasca, e, nudo e bagnato attraversai la stanza, mettendomi di fronte a
lei, che stava a pochi passi dalla cassettiera in cui sapevo conservava
le sue cose.
“Io non devo spiegarti proprio niente.”
Vidi che si stava mettendo sulla difensiva, chiudendosi come faceva quando si sentiva attaccata.
“Va bene. Sai una
cosa? Tieniti pure le lettere di Fersen strette al cuore, per quel che
mi importa. E anche quel suo stupido
medaglione…Cos’è, credevi non me ne fossi accorto?
So che te lo stai portando dietro da mesi, e che me lo tieni
nascosto.”
Vidi il suo sguardo rabbioso posarsi nel mio, e per un istante mi sentii un bruto. Poi la gelosia ebbe il sopravvento.
“Non sei mai stata
brava ad avere segreti. Nemmeno da bambina, quando nascondevi i
biscotti nel terzo cassetto della cassettiera, tra le tovaglie.”
Oscar sgranò leggermente gli occhi e io annuii.
“Si, lo sapevo. E
sapevo anche che occultavi il polpettone del giovedì nel
tovagliolo per darlo ai cani. Io ti osservo, Oscar, l’ho sempre
fatto.”
“Suona più come una minaccia.” Esclamò lei, vagamente sarcastica.
Mi bloccai.
Forse aveva ragione. Forse…ero un maniaco. E lei era la mia ossessione.
Provai ad immaginarmi come dovevo apparirle, nudo e alterato, e mi sentii uno schifo.
Nonostante tutto, la ferita mai del tutto rimarginata per i sentimenti che aveva provato per Fersen continuava a tormentarmi.
Le lanciai un’occhiata delusa.
“Perfetto, tieniti
i tuoi segreti. Io levo il disturbo, così potrai leggere la
lettera di Fersen in tutta calma.”
Oscar inspirò. Potevo leggere la rabbia che covava dentro nel suo sguardo glaciale.
“Non serve,
Andrè.” Con un’unica mossa estrasse il cassetto
incriminato dalla cassettiera e ne rovesciò il contenuto sul
letto, lasciandolo poi cadere a terra in malo modo.
Le numerose lettere del
generale si confusero tra le lenzuola ad alcune recanti
l’irregolare calligrafia di Maria Antonietta, riconoscibile dalle
numerose macchie d’inchiostro presenti qua e là.
“Prego, serviti
pure!” Mi gridò Oscar a quel punto, lasciandomi solo e con
la mascella contratta dalla rabbia davanti alle sue cose sparse sul
letto, mentre lei si toglieva la veste da camera come una furia,
infilandosi camicia e pantaloni con dei collerici movimenti a scatto.
“Dove stai
andando?” Chiesi, senza distogliere lo sguardo dal mucchio di
lettere. Ma in risposta ebbi solo il violento colpo della porta che
sbatteva.
Rimasi immobile alcuni
istanti, e deglutii. Poi distolsi lo sguardo e mi rivestii con una
calma esasperata dai sentimenti contrastanti che covavo dentro. Infine,
sedetti sul bordo del letto, lanciando di tanto in tanto occhiate
sprezzanti nei confronti delle lettere.
Dopo circa dieci minuti in cui mi tormentai sul fatto di violare l’intimità di Oscar mi decisi.
“Al diavolo…” Borbottai, allungandomi a frugare tra le sue carte per vedere quante fossero di Fersen.
Tra le sue cose trovai
una piccola catenina con un crocifisso, regalo della nonna, due cornici
gemelle con i ritratti dei genitori e una boccetta di profumo, sul cui
collo era legato un nastrino verde. Improvvisamente, mi intenerii.
L’aveva acquistato in previsione del nostro viaggio, quel profumo, ne ero certo. Lo metteva per me.
Lo riappoggiai sul letto,
e, proprio in quel momento, l’occhio mi cadde sul medaglione che,
più di una volta, le avevo visto stringere tra le dita, quasi
fosse un portafortuna.
Lo sfiorai con la punta
delle dita, e lo sollevai nel palmo. Non vi erano incisioni, ma quando
lo aprii, facendo scattare la chiusura, una ciocca di capelli mi cadde
tra le mani.
Lì per lì rimasi basito.
Conservava i capelli di Fersen?
Poi mi portai la ciocca
davanti allo sguardo. Era piuttosto lunga, arrotolata su se stessa e
tenuta ferma da un piccolo nastro blu.
Ed era color ebano.
Era una ciocca dei miei
capelli, quei capelli che avevo reciso con un colpo netto quando avevo
aderito senza esitazione all’impresa per la cattura del Cavaliere
Nero.
Improvvisamente, mi sentii un perfetto idiota.
Poi lanciai un’occhiata fuori dalla finestra, alla pioggia battente che picchiettava sui vetri.
La giacca di Oscar era rimasta posata sulla piccola poltrona damascata all’ingresso.
Lasciai cadere il medaglione e mi precipitai alla porta.
Scesi i gradini due a
due, e mi diressi di corsa all’entrata, superando Donna Concetta
senza degnarla di uno sguardo, mentre la sentivo esclamare: “Ma
dico, che modi sono questi?! Lei e il suo amico non dovreste correre per i corridoi! E poi cos’era quel tonfo che ho sentito al piano di sopra?”
Uscii fuori nella
pioggia, e provai a guardarmi intorno, immaginando in quale direzione
poteva essersi incamminata Oscar. D’istinto voltai a sinistra,
tenendo la sua giacca stretta nella mano destra mentre mi sgolavo per
chiamarla.
“Oscar! Oscaaaaar!”
Le suole dei miei stivali
calpestarono il fango e il pantano del vicolo, mentre la pioggia mi
sferzava le guance costringendomi a tenere la palpebra semichiusa
sull’occhio buono. Percorsi tutta la strada di corsa, sentendomi
sempre più angosciato, finché, finalmente, scorsi la sua
esile figura.
Era appoggiata nella rientranza di un portone, le braccia conserte sulla camicia zuppa, e tremava di freddo.
“Oscar!”
Esclamai, sollevato. Lei sollevò lo sguardo, e quando mi vide mi
rivolse un’occhiata tutt’altro che amichevole, prima di
staccarsi dal muro cui era appoggiata per dirigersi a passo veloce per
la strada, sempre tenendosi le braccia strette attorno al corpo.
Mi accodai a lei.
“Oscar, ti prego, fermati!” Avevo il fiatone “Sono un…idiota! Un perfetto idiota!”
“Si.” Mi gridò lei, sempre camminando con passo deciso.
Non era facile stare dietro a qualcuno che era stato abituato a marciare per tutta la vita.
Con gli ultimi residui di
fiato che conservavo feci uno scatto, fino a riuscire ad allungare un
braccio verso lei. La afferrai per un fianco, costringendola a voltarsi.
“Lasciami!” Esclamò lei, adirata.
Io le posai anche l’altra mano sul fianco, attirandola a me.
“Perdonami! Perdonami, ti prego…”
Aveva i capelli fradici
appiccicati sulla fronte, e se dallo sguardo avesse potuto lanciare
fiamme mi avrebbe sicuramente incenerito. Con tutta la forza che aveva
allungò le mani sul mio petto spingendomi via, e cercando in
tutti i modi di divincolarsi, ma io fui ben fermo nel tenerla stretta a
me.
“Non so cosa mi
è preso, sul serio…Io…Io ho visto la grafia di
Fersen e non ho capito più niente!”
Oscar, forse
perché ormai priva di forze, parve acquietarsi, nonostante
continuasse a guardarmi come se avesse voluto scorticarmi vivo. Staccai
le mani dai suoi fianchi e le posai sulle sue guance, scostandole i
capelli dalla fronte.
“Perdonami,
Oscar…Avrei…avrei dovuto fidarmi di te, senza
importunarti con le mie stupide paranoie…”
“Dici bene,
Andrè. Stupide paranoie!” Oscar prese fiato
“Io…io non ti ho fatto vedere quella lettera proprio per
evitare…questo.” Mi guardò in cagnesco
“Allora, l’hai letta?”
“No. E non mi importa nemmeno farlo, sul serio.”
“Beh, invece
dovresti. Il conte Fersen voleva semplicemente informarsi sul nostro
viaggio, consigliandomi di non mancare per nessuna ragione di visitare
il golfo di Napoli. E ti saluta, naturalmente, dopo essersi informato
del tuo stato di salute.”
La fissai negli occhi.
“Io…sono
mortificato.” Mi scostai leggermente da lei e le posai la giacca
che le avevo portato sulle spalle, prima di stringerla nuovamente a me.
“Fai bene ad esserlo. Io non ti mentirei…mai.” Il suo sguardo mi arrivò dritto nell’anima.
“Lo so. Ti giuro
che lo so…solo che, quando c’è di mezzo
Fersen…tendo a dimenticarlo, talvolta.”
“Non dimenticartene più. Io ti amo, Andrè. Amo te.”
La guardai. Aveva le
ciglia imperlate di pioggia, e mi guardava come se non esistessero
altre verità possibili, oltre a quella che aveva appena
affermato.
Allungò una mano verso il mio viso, scostandomi i capelli gocciolanti dall’occhio ferito, e mi sorrise lievemente.
“Ragazzino, ti hanno mai detto che sei un gelosone?”
“Oh, si…” Mormorai, prima di baciarla, stringendola a me più che potevo.
Rientrammo di corsa alla
pensione e ci precipitammo su per le scale, ignorando Donna Concetta,
che non mancò di gridarci dietro:
“Non dovreste correre per i corridoi, signori, è la terza volta che ve lo faccio presente!”
Aprii la porta della
stanza con le labbra di Oscar attaccate ad un lobo dell’orecchio,
e la richiusi mentre lei mi sfilava la camicia dai pantaloni.
In pochi secondi ci
eravamo tolti i vestiti bagnati, lasciandoci cadere sul letto senza
smettere di baciarci. Quando entrai in lei la sentii frenare
l’impeto con cui ci eravamo mossi fino a quel momento. Mi
posò una mano sulla guancia e mi guardò intensamente.
“Non ho amato nessun altro, prima di te. Tu…ci sei sempre stato.”
Mi sentivo gli occhi
lucidi e iniziai a muovermi con lentezza dentro al suo corpo, che mi
avvolgeva con calore e morbidezza, e infinito amore, senza mai staccare
lo sguardo dal suo.
Lei mi amava. Amava me.
Il ticchettio della pioggia, prossima a smettere, cullava i nostri pensieri nell’ombra della notte.
Tenevo la guancia posata
sul seno di Oscar, e la sentivo accarezzare dolcemente i miei capelli,
senza fretta, trasmettendomi un infinito senso di pace.
“Andrè…” sussurrò ad un certo punto “Il medaglione che tengo nel cassetto…”
“Lo so. L’ho aperto…” Mormorai, senza staccare il volto dal suo cuore.
“Non volevo fartelo sapere perché…Io…Mi sentivo una stupida sentimentale, ecco.”
“Se è così, allora siamo due stupidi sentimentali. Anche io conservo una ciocca dei tuoi capelli.”
“Davvero? E quando…?”
“Ad Arras, la sera
che avevi deciso di vivere come un vero uomo, e volevi tagliare i tuoi
meravigliosi capelli…”
“Oh…E dove la tieni?”
“L’ho cucita nel risvolto della giacca. E’…un portafortuna.”
Oscar rimase silenziosa alcuni secondi.
“Sai cucire?” Mormorò infine.
“Me l’ha
insegnato la nonna, e non ridere affatto, so che stai per farlo!”
Sollevai lo sguardo e la vidi scrutarmi con sguardo ilare.
Levai il sopracciglio.
“Non sto ridendo! Anzi, è una scoperta interessante, adesso che siamo soli, senza Nanny…”
“Oscar…Non
mi metterò a rammendare i tuoi calzini se è questo che
stai pensando! Al massimo ti posso insegnare…”
“Dovrei…imparare a cucire? Come una donnetta qualunque?!”
“Credevo tu avessi
rivalutato il fatto di essere nata donna…” Mi voltai e le
succhiai leggermente un capezzolo.
“Forse si…”
“Forse?” Lasciai scivolare la mano oltre il suo ombelico.
“Si, si, decisamente si…Andrè! Andr…”
Mi svegliai avvolto dalla
luce dorata del sole che invadeva la stanza. Solo che al posto del
corpo di Oscar, su cui ricordavo di essermi addormentato, mi ritrovai
abbracciato al cuscino. Mi sollevai su un gomito, guardandomi attorno
confuso, e la vidi.
La sua sagoma si stagliava nel vano della finestra, dandomi le spalle, rivolta verso Roma.
Indossava solo la
camicia, che le copriva appena il fondoschiena, e teneva le caviglie
incrociate, mentre si pettinava i lunghi capelli biondi.
Il sole la investiva in
pieno, in un gioco di trasparenze dorate, che lasciavano intendere la
longilinea figura del suo corpo sotto alla larga camicia.
Mi sollevai e, lentamente, mi diressi fino a lei, posandole delicatamente le mani sui fianchi.
“Buongiorno…” La salutai, posandole un bacio leggero sul collo. I suoi capelli profumavano di olio di rose.
“Sai Andrè,
stavo pensando che quella di ieri è stata la nostra
prima…” Lasciò la frase in sospeso, abbassando la
spazzola.
“La nostra prima
litigata? Eppure, io ricordo di aver litigato con te per
vent’anni, prima di ieri. Anzi, sono seriamente convinto che tu
mi abbia fatto un occhio nero più di una volta…”
“Sai cosa intendo…”
Posai il mento sulla sua spalla.
“E questa cosa ti preoccupa?”
“No…solo che sai, è strano litigare con te, adesso…”
“Perché non
puoi più farmi un occhio nero? O perché poi possiamo fare
pace facendo l’amore?”
“L’occhio
nero posso fartelo come e quando voglio.” Si voltò appena
e mi guardò con un sorriso, nell’oro del mattino.
E in quel momento capii.
La mia vita era cambiata
per sempre il giorno in cui avevo messo piede a palazzo Jarjayes, tanti
anni prima. E non solo perché il mio futuro, altrimenti, sarebbe
stato quello di un orfano disgraziato.
Lei era ciò per cui ero venuto al mondo. Doveva finire così, era inevitabile.
Io l’ho sempre saputo.
La guardai negli occhi, aprii la bocca, ma non ne uscì alcun suono.
“Andrè, tutto bene?”
“Sposami.”
“Cos…?”
I limpidi occhi chiari di Oscar si sgranarono nei miei.
“Sposami, Oscar.
Qui, adesso…Roma è piena di chiese.” Le presi una
mano nella mia “Io non ho titolo, non ho possedimenti…Non
ho molto. Ma posso renderti felice, so che posso. E’
l’unica cosa di cui sono certo.”
“Andrè…Io…”
“So che tuo padre
mi metterà alla gogna…e la nonna mi
ucciderà…e forse il Re mi farà
bandire…” Strinsi le sue dita tra le mie “Ma io ti
amo, e voglio che tu sia mia moglie.”
Oscar sbatté un paio di volte le palpebre, prima di chinare il volto.
“Io…”
Iniziò, mentre l’ansia mi faceva scoppiare il cuore.
“Si.” Sollevò lo sguardo nel mio.
“Si, voglio essere tua moglie.”
Spalancai la bocca per la
gioia, e Oscar sorrise, mentre la stringevo a me, nel riverbero del
sole, sullo sfondo della cupola di S. Pietro.
“Forse potrei
chiedere a Donna Concetta di farmi da damigella, almeno si metterebbe
il cuore in pace sulla nostra confusa situazione
sentimentale…”
Le nostre labbra si sfiorarono, sorridendo, mentre l’ormai consueto stridore di ruote mattutino riempiva l’aria.
“Ahò, ma allora è un vizio?! Te devi levà!”
“Anvedi questo! Ma nun ce sta n’altra strada n’do puoi passà con sti gallinacci?”
“Ma guarda un po’ se me devo levà io! Vedi d’annattene te co ste mele fraciche!”
“Sto bifolco…Mo te do n'a pizza in faccia che non te restaura manco Michelangelo!”
“Ma sentilo! Ma vatte a da all’ippica cor cavallo a dondolo!”
Guardai Oscar, senza riuscire a distogliere lo sguardo dal suo.
“Direi che sta
diventando un’abitudine questo gentile scambio di battute
mattutino…” Mi sussurrò sulle labbra.
“Forse a questi
signori servirebbe una bella villeggiatura, per distendere un po’
i nervi, godersi l’aria buona…O trovare una moglie che
renda meravigliosa la loro vita.”
“Ruffiano…”
Sussurrò Oscar, prima di baciarmi “Non credere che la tua
vita sarà tutta rosa e fiori, da adesso in poi…”
“Non chiedo di
meglio che poter litigare con te tutti i giorni della nostra
vita” La presi tra le braccia e la sollevai. I suoi capelli erano
una nuvola dorata attorno al suo viso perfetto.
“E fare pace come piace a noi, naturalmente!”
*Il Generale Choderlos de
Laclos, autore de 'Le relazioni pericolose', la cui carriera venne
rovinata dalla fama 'peccaminosa' del suo (splendido) libro. A dispetto
delle dicerie che lo dipingevano come un lascivo seduttore, de Laclos
era invece un uomo dolce, timido e discreto, devotissimo alla moglie di
cui era sinceramente innamorato.
Nota dell’autore
E
così, si conclude questa fan fiction. Devo dire che è
stato bellissimo venire in Villeggiatura con voi, siete stati
meravigliosi a sostenermi con i vostri commenti e i vostri consigli, e
io non vi ringrazierò mai abbastanza per aver trovato il tempo
di leggere e commentare questa storia! (o anche solo di
leggerla^^) Grazie, di cuore, davvero!
Spero che questo epilogo non sia stato troppo sdolcinato…O
deludente. Volevo l’happy end per questa storia, nonostante la
commedia da cui ho tratto spunto, a dispetto dei toni ironici, si
riduce ad un senso di fallimento generale, soprattutto per quanto
riguarda la protagonista, Giacinta, un personaggio che amo molto, ma
che alla fine non ha il coraggio di prendere in mano la propria vita,
lasciandosi condizionare dalla società in cui vive, in cui
‘il dovere’ non ammette repliche. Giacinta infatti sposa
l’uomo scelto per lei dal padre, spingendo a sua volta
l’uomo da lei amato tra le braccia di un altra, un vero e proprio
disastro sentimentale…
Naturalmente,
non volevo questo per Oscar e Andrè fin dall’inizio^^ Sono
una di quelle persone che ama i finali tragici (compreso quello
dell’anime) ma quando può infila happy end
ovunque…^_^ Forse ne avevo bisogno io per prima!
Naturalmente la scena in cui Andrè infila la mano nella Bocca
della Verità, che suppongo tutti avrete riconosciuto, vuole
essere un omaggio al bellissimo 'Vacanze romane', film che adoro, e da
cui mi sembrava carino prendere spunto^^
Più di una persona mi ha consigliato di prendere in
considerazione l’idea di proseguire questa storia, raccontando le
avventure del Grand Tour di Oscar e Andrè…Vi dirò,
l’idea non mi dispiace affatto, e ho già qualche pensiero
che mi frulla in testa! Ma prima vorrei dedicarmi a un progetto che
medito da qualche tempo, vedremo se avrò tempo di fare tutto!
Vi ringrazio ancora tantissimo per il sostegno e per le vostre parole sempre preziose!!
Un abbraccio!
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