Every rose has its thorn.

di AbdullallaH
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** -Capitolo 1- ***
Capitolo 2: *** -Capitolo 2- ***
Capitolo 3: *** -Capitolo 3- ***
Capitolo 4: *** -Capitolo 4- ***



Capitolo 1
*** -Capitolo 1- ***


Every rose has its thorn
1.

 
Lo aveva rifatto. Per l’ennesima volta. Si era ripromessa che non avrebbe più permesso a se stessa di perdere ancora una volta il controllo. E non c’era riuscita. Di nuovo, non c’era riuscita.
Senza nemmeno rendersene conto, aveva preso di nuovo quella dannatissima lametta e aveva lasciato che scorresse sul suo braccio, in profondità, ma non abbastanza da farla morire dissanguata. Perché non aveva intenzione di morire. Voleva vivere e stava provando con tutte le sue forze a farcela, ad andare oltre. Tentava di sopravvivere, giorno per giorno. Anche se sopravvivere non bastava e lei lo sapeva. Kate aveva bisogno di vivere.
E mentre aspettava un buon motivo per farlo, il sangue colava sul braccio sinistro e qualche goccia cadeva sul pavimento del bagno, silenziosa. Un fiume di lacrime inondò i suoi occhi e inziò a scorrere lento, inesorabile.
Il mondo si fermò per qualche istante, fino a che Kate non decise di prendere la pezza che usava sempre e tamponare il sangue dai due tagli che si era appena inflitta. Fece parecchia pressione, fino a che il liquido rosso non smise di uscire e inondare quel pezzo di stoffa che tanto, troppo tempo fa, era bianco. Poi lo passò sulle piastrelle del pavimento che aveva macchiato, si alzò e appurò di non essersi sporcata i vestiti. Fissò il suo riflesso nello specchio e vide due splendidi occhi blu, che le stavano chiedendo pietà e le promettevano, ancora una volta, che quella sarebbe stata l’ultima, che i tagli che in quel momento erano freschi sul suo braccio sarebbero stati gli ultimi di una lunga serie, ma pur sempre gli ultimi. Vide due occhi blu gonfi di pianto, ma pur sempre bellissimi.
Controllò ancora una volta che le ferite avessero smesso di sanguinare e abbassò la manica blu della maglia, quella che aveva comprato una settimana prima dopo essersi resa conto che i colori chiari non nascondevano affatto le sue cicatrici. Prese il suo inseparabile fazzoletto inzuppato di sangue vecchio e nuovo, lo piegò in quattro, nascose in mezzo la lametta, l’arma di quello che le sembrava un omicidio, un delitto per cui avrebbe dovuto pagare caro. Dopodiché, ripose il tutto in una bustina di plastica verde smeraldo e uscì da bagno, per dirigersi in camera sua. Aprì meccanicamente l’armadio e senza nemmeno pensare nascose a dovere la busta verde nelle tasche di un vecchio cappotto che era ancora lì appeso da tempo. Era suo, di quando era più piccola. Un bel cappotto rosa confetto, di quelli invernali e super-imbottiti, che ti fanno sentire ingombrante solo a vederlo. Aveva due stelline ricamate sulla destra, d’oro, e un bottone era stato colorato di nero, anni prima. Aveva sempre odiato quel cappotto da bambina.
Da bambina, appunto.
 
Tornò in bagno sospirando e sentendosi uno schifo. La casa era deserta, non aveva nemmeno il bisogno di chiudersi a chiave. Era sola.
“Ormai quel ch’è fatto, è fatto” pensò, pentita. Si spogliò, togliendosi delicatamente la maglia e infilandosi il pigiama. Prese l’acqua ossigenata e si disinfettò la ferita.
Decise di bendarla. Giusto perché il giorno dopo avrebbe avuto educazione fisica e per una volta voleva sentirsi normale e potersi permettere anche lei di indossare una t-shirt, che le lasciasse scoperte le braccia. Cercò le garze come una disperata e quando finalmente le trovò, fece fatica a fasciarsi il braccio con l’aiuto di una sola mano.
Dopo qualche tentativo, l’impresa era compiuta.
Tornò in salotto e poggiò lo zaino sul divano. Un semplice e anonimo Eastpack viola. Inziò a svuotarlo dei libri che non le sarebbero serviti e a infilare quelli delle materie del giorno successivo. La Divina Commedia, il libro di inglese e quello di biologia, i fogli e le matite da disegno.
Il cellulare improvvisamente prese a vibrare.
« Tesoro, sei ancora sveglia? », domandò sua madre immediatamente.
« Stavo finendo di preparare la cartella, poi sarei andata a letto ».
« D’accordo. Tutto a posto? »
« Certo mamma, che dovrebbe succedere? Non preoccuparti. Serata tranquilla in ospedale? »
« Un paio d’interventi d’urgenza, ma niente che mi possa tenere lontana dal letto ancora a lungo. Spero, almeno. In un paio d’ore può succedere di tutto! Scusa piccola, devo scappare. Ti mando un messaggio se non dovessi riuscire a tornare a casa, ok? »
« Okay mamma. Buon lavoro! »
« Buonanotte Kate. Ti voglio bene »
« Anche io », la salutò sorridendo.
Spense il cellulare e lo appoggiò al comodino, pronto per essere usato a mo’ di sveglia. Si mise nel letto e si coprì con il piumone fino al collo, lasciando il braccio sano fuori da quella sorta di nido in cui si sentiva al sicuro e protetta.
Prima di spegnere la luce, alzò la manica destra e fissò per qualche istante tutte le cicatrici che ormai erano bianche, quelle ancora rosse tutt’intorno e i due nuovi tagli.
Sospirò ancora una volta. Poi spense la luce, chiuse gli occhi e si abbandonò al mondo dei sogni.

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Capitolo 2
*** -Capitolo 2- ***


Every rose has its thorn
2.



Sei e mezza. Il cellulare iniziò a cantare:
♪♫ We both lie silently still
in the dead of the night…♫♪
Kate prese in mano l’aggeggio e staccò la sveglia. Poi lo accese.
« Scusa tesoro, c’è stato un incidente e un sacco di feriti e penso di dover passare qui la notte… Mi dispiace Kate, avrei voluto passare un po’ di tempo con te questa mattina. Ci vediamo quando torni da scuola e se non hai troppo da studiare magari facciamo qualcosa insieme, se ti va, ok? Ti voglio bene. Buona giornata piccola mia! », ecco ciò che lesse sullo schermo.
La ragazza sbuffò. “Sempre la stessa storia con mamma. Avevo bisogno di passare la mattinata con lei, ma come al solito non ci riesco. Mmh… Questo pomeriggio dovrà farsi perdonare con lo shopping!”.
Si alzò dal letto e tirò su le veneziane. La giornata era appena iniziata: il cielo era ancora rosato e un pallido e timido sole non era sicuro di voler farsi ammirare in tutto il suo splendore, quel giorno.
Prese i vestiti che aveva scelto il giorno prima e andò in bagno, per cambiarsi. Evitò accuratamente di guardare la fasciatura sul braccio: non lo avrebbe sopportato. Si specchiò e si sistemò i ricci capelli castani. Le piacevano un sacco i suoi capelli. Erano il suo esatto contrario: ribelli e anticonformisti. Un po’ come quelli dei membri delle band americane glam rock anni ottanta.
Il problema era che Kate non si sentiva affatto una rockstar. Nemmeno nell’animo. Era una ragazza tranquilla, fin troppo forse. Non timida comunque. Solo che in quel periodo della sua vita, non aveva molto da dire. Tendeva a chiudersi a riccio, sia per proteggersi dagli urti della vita, sia perché non aveva voglia di condividere i suoi pensieri, i suoi dubbi e le sue paure. Aveva il terrore di restare ferita dalle persone. E quindi, preferiva evitare i rapporti umani, in linea di massima.
Aveva solo un grande amico: Sebastian. Era un ragazzo splendido: biondo come un campo di grano maturo colpito dai raggi di sole, con un paio di occhi così verdi che spesso non sembravano nemmeno lontanamente veri. La cosa che Sebastian amava di più era la velocità: suo padre l’aveva messo su un kart da quando sapeva a malapena parlare e la sua passione era cresciuta insieme a lui. Spesso si allenava, amava correre, giocare a tennis o a calcio, ma niente pesi. Il suo sogno era quello di diventare un grande pilota e Kate era sicura che ce l’avrebbe fatta, senza ombra di dubbio.

La ragazza si era incantata davanti allo specchio e non aveva ancora preparato lo zainetto con il cambio per educazione fisica. Finì di mettersi le scarpe, la sciarpa e il giubbotto di corsa e mentre stava infilando una maglietta a maniche corte, che era finita in fondo all’armadio perché da troppo tempo non poteva indossarne una, il citofono suonò.

« Eccomi! », gridò, scendendo le scale come un fulmine. « Siamo in ritardo? », domandò a Sebastian.
« Non preoccuparti », rispose il ragazzo, tranquillamente seduto sulle scale di fronte alla porta della casa dell’amica. « Possiamo camminare con comodo ». Le sorrise.
Kate sospirò sollevata, sistemando a dovere lo zaino sulle spalle. « Come stai Seb? »
« Bene, grazie. Tu, piuttosto? L’hai fatto ancora? ».
Sebastian era a conoscenza del vizio di Kate. Inizialmente, quando lo aveva scoperto, si era dimostrato furibondo, con se stesso per non aver capito i problemi dell’amica, ma soprattutto con lei, perché non riusciva a capire come una persona così splendida potesse farsi del male. Le aveva ripetuto centinaia di migliaia di volte che doveva vivere, non tentare semplicemente di sopravvivere. Era arrivato addirittura al punto di non parlarle più per settimane intere, fino a che non capì che l’unica cosa che avrebbe dovuto fare era starle vicino, consolarla, e non cercare di farla sentire sola e per giunta in colpa. Aveva capito che lei si sentiva già in colpa per ciò che aveva fatto e che Kate era la prima persona che odiava il suo stesso comportamento, ma che a volte le era indispensabile.
« Lasciamo stare, Seb. Ti prego », commentò Kate a quel punto, tenendo gli occhi bassi, rivolti verso i suoi piedi. Sapeva che l’amico non l’avrebbe mai giudicata a parole, ma non aveva il coraggio di incrociare il suo sguardo, per paura di vedere quegli splendidi occhi verdi perdere vitalità e urlarle “Come puoi farti questo?!”.
« Kate… », le sussurrò, fermandosi improvvisamente, « se hai bisogno, io ci sono. Lo sai, giusto? Anche alle due di notte. Non esitare a chiamare. Magari ti può aiutare sentire la mia voce ». Le tese la mano, che la ragazza afferrò volentieri, e avvicinò Kate a sé, stringendola in un sincero abbraccio.
« Grazie mille, Sebi ». Lo guardò negli occhi per un istante: erano del solito verde smeraldo. Non arrabbiati, né tristi o disperati. « Sai », cambiò argomento, « mi sono fasciata il braccio da sola ieri. Mi è venuta voglia di mettere una maglia a maniche corte nell’ora di ginnastica oggi. Sono stufa di dover morire di caldo ogni santa volta! »
« Kate, perché l’hai fatto questa volta? Posso saperlo? ». Sebastian non ci cascava. Insisteva, perché sapeva che lei aveva bisogno di sfogarsi, di tirare fuori tutto ciò che non aveva il coraggio di dire e urlare al mondo. E sapeva che l’unico modo per farle aprire bocca, era di metterla con le spalle al muro.
Kate sospirò e tentennò un attimo. Alzò gli occhi verso il viale alberato che era sulla via di scuola: era inverno, gli alberi erano spogli e tristi. Ma quel giorno sembravano sorriderle. Il sole si era deciso a spuntare alla fine e le nuvole gli ruotavano intorno, in una danza senza fine.
« Papà. Ieri ha chiamato al telefono e… ho risposto io. Non sapevo cosa dirgli e ho messo giù. Ora, possiamo parlare di qualcos’altro? Mh? Per esempio… Come va con Angie? »
« Penso di averle spezzato il cuore ».
« Come?! Anche a lei? Pensavo foste perfetti l’uno per l’altra! »
« Secondo te, come? Con il solito metodo-Seb: dopo aver scopato per la terza volta in una notte, le ho detto a malincuore che meritava qualcuno migliore di me! Sai che se non sono innamorato, è inutile che ci provi. Sono stato con Angie per un mese e niente, la scintilla non è scoccata. Era ora di finirla. Però è stato… Splendido. Ci sa fare ».
« Sei un idiota, Sebi! Mi sa che questa volta è vero, che si merita qualcuno migliore di te, stronzo! », scherzò lei. Risero insieme, percorrendo gli ultimi metri di quel viale alberato.
Girarono l’angolo e la videro: quella terribile prigione che li avrebbe tenuti in ostaggio per cinque lunghissime ore. E poi, ringraziando il cielo, sarebbero di nuovo stati liberi.
« Pff, c’era qualcosa di inglese? », le domandò il ragazzo salendo le scale dell’Istituto.
« Sì, un paio di esercizi. Te li faccio copiare appena saliamo, tanto c’è bio la prima ora ».
« Cosa farei senza di te? »
« Mmh », rispose Kate, scompigliandogli i capelli « forse è meglio non saperlo! ».

Il più grande problema di Seb forse era il suo migliore amico, Bonk. In realtà si chiamava Andrew, ma tutti lo conoscevano per cognome. Era un impecille di prima categoria, sempre a fare dispetti a qualsiasi cosa si muovesse, per il semplice gusto di rompere le palle al prossimo. Era un ragazzo piuttosto pigro e svogliato, che non amava molto studiare. Kate si era fatta l’idea che fossero stati i suoi genitori a iscriverlo in un liceo, magari perché lui non aveva alcuna idea di che studi intraprendere.
In prima superiore, Kate e Andrew non si erano mai neanche degnati di uno sguardo, perché non avevano niente da dirsi né nulla in comune. In seconda però le cose erano cambiate: Seb e Kate avevano stretto amicizia nel giro di pochissimi mesi e stringere amicizia col biondo significava per forza doversi accollare anche Andrew. O il pacchetto completo o nulla.
In realtà, non parlavano comunque granché. Lui non era il tipo da tante smancerie, anzi. Capelli scuri, che non pettinava praticamente mai, e occhi chiari, Andrew al mattino non salutava quasi mai e se qualcuno gli chiedeva « Come stai? », scocciato rispondeva « E come dovrei stare? Bene », con un tono di voce così burbero che avrebbe potuto fare concorrenza a Brontolo dei sette nani.
Quell’anno, Kate si era dovuta sorbire la vicinanza del moro. Erano capitati vicini per caso, durante un’assemblea di classe e i professori erano così contenti della loro vicinanza che avevano deciso di lasciarli così ancora per qualche tempo. Alla ragazza non dispiaceva. Solo che a volte non sapeva come comportarsi con lui: sembrava che ci tenesse a lei, ma se Kate cercava di avvicinarsi un po’, lui la allontanava senza farsi tanti problemi.

Kate e Sebastian entrarono in classe seguiti da George, April e Jennifer, altri loro compagni. Bonk aveva già buttato lo zaino ai piedi del banco ed era quasi sulla porta, pronto a farsi un giro per i corridoi della scuola. « Seb, pronto a fare strage? », domandò all’amico.
« Arrivo! », urlò all’altro capo della classe. « Io e te finiamo di parlare dopo », disse a Kate, lasciandola con in mano il suo cappotto e mettendosi a correre così velocemente che la ragazza non ebbe il tempo di finire di dire « okay »…
Grazie mille @LaDamaDelLago per essere stata la prima a recensire questa storia, venuta su così, dal nulla (:

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Capitolo 3
*** -Capitolo 3- ***


Every rose has its thorn
3.



« Shall I compare thee to a summer's day?
   Thou art more lovely and more temperate:
   Rough winds do shake the darling buds of May,
   And summer's lease hath all too short a date
».
Kate adorava quel sonetto in particolare. Perciò lo aveva scritto sul banco, con la sua meravigliosa e ordinata calligrafia, senza nemmeno rendersene conto, persa com’era tra i suoi pensieri.
Non faceva che ripensare a quella maledetta telefonata. Possibile che il padre ogni volta dovesse farla sentire così? Possibile che si ostinasse ancora a chiamare, dopo sec…?
« Ehi, che è questa roba? ». La voce del Bonk la risvegliò dai suoi pensieri.
« Questa roba era da studiare per oggi, sai? È Shakespeare, Andrew »
« E a te piace? », domandò ancora, incredulo.
Katherine sospirò. « Sì, mi piacciono queste quattro righe, perché? »
Il moro alzò le spalle « Così ». La fissò per qualche secondo con i suoi occhi azzurri e penetranti, poi chiese « Hai fatto inglese? ». La ragazza fece a malapena in tempo a tirare fuori il libro che Andrew  era già lì intento a copiare freneticamente quei due miseri esercizi che il professore aveva assegnato qualche giorno prima.
Kate tornò a seguire la lezione di biologia, prendendo appunti sul libro del moro. Lei se la sarebbe cavata con la sua memoria di ferro, ma il ragazzo aveva bisogno degli appunti e, siccome non si preoccupava né di trasriverli né di domandarli a qualcuno, aveva deciso di pensarci personalmente.
« Grazie », sussurrò lui, rimettendo il libro d’inglese nell’Eastpack viola della sua compagna di banco. « A proposito, che è successo al tuo braccio? ».
Le sue vene, le arterie, ogni capillare del suo corpo si gelarono improvvamente. Bonk era un tipo curioso e testardo, fin troppo curioso e testardo, e sicuramente avrebbe voluto andare fino in fondo, scoprire cosa nascondeva dietro alla fasciatura, a quella dannatissima fasciatura. “Cazzo”, si ritrovò ovviamente a pensare la ragazza.
« A-al mio b-braccio? », balbettò Kate, pregando mentalmente ogni santo del Paradiso, affinché il ragazzo non si fosse accorto di tutto.
« Sì, fa’ vedere dài ». Strinse la sua mano intorno al braccio destro della povera ragazza, che disperatamente cercava una via d’uscita da quella situazione terribile. Delicatamente le alzò la manica della maglia verde bottiglia, quel tanto che bastava a scorgere la garza che lei la sera prima aveva cercato di attorcigliare intorno al suo avambraccio con tanta cura. Non contento, Andrew piano piano gliela sfilò, fino alla comparsa di una serie di tagli orizzontali, alcuni più recenti, altri già bianchi e cicatrizzati. Incredulo, li sfiorò, uno per uno, per un tempo che a Kate parve infinito. Alcuni erano più profondi, altri meno. Ma allo stesso modo, tutti lo terrorizzavano.
Le lasciò andare il braccio e ricoprì le ferita.
« Katherine… », le sussurrò, in un misto di delusione e disperazione. « Katherine, non è possibile », tornò a dire, alzando leggermente la voce. « Katherine, che cazzo…?! », iniziò ad urlare saltando in piedi come una molla, prima di rendersi conto di essere a scuola e nel bel mezzo di una lezione.
Una quarantina d’occhi si voltarono a guardarlo. La maggior parte dei compagni di classe iniziarono a ridere, mentre l’insegnante pregava Bonk di usare un linguaggio più conosono all’ambiente scolastico.
« Scusi professoressa ». Si sedette, fissando Kate, ancora incredulo.
Terrorizzata, la ragazza continuò a prendere appunti, facendo finta che non fosse successo nulla. Dieci minuti dopo, le arrivò un bigliettino dritto sul banco. Dalla calligrafia quasi incomprensibile, capì che era da parte di Sebastian.
« Che cazzo è preso a Bonk? Ah, mi passeresti inglese? Grazie :) »
Kate sospirò. Tirò fuori nuovamente il libro e lo fece passare dai compagni fino all’amico. Poi pensò che tanto se non gliel’avesse detto lei, lo avrebbe fatto Andrew. E sarebbe stato peggio.
« Andrew ha scoperto i tagli sul braccio… »
Gli lanciò il biglietto, che cadde esattamente sui suoi jeans. Sebastian lo prese, le sillabò un « Grazie » silenzioso, indicando il libro e anche lui prese freneticamente a copiare gli esercizi.
Poi lesse il contenuto del foglietto ed esclamò un « Oh merda! », che tutti sentirono chiaramente, prof compresa…
 
Finalmente anche l’ultima delle cinque ore di scuola, quel giorno dominata da un silenzio di tomba da parte del moro, era finita. Kate non vedeva l’ora di tornare a casa, mangiare e rivedere per l’ennesima volta Dirty Dancing. Non amava molto i film romantici, ma stranamente, per un motivo o per un altro, quello la faceva sentire meglio. Non sapeva esattamente cosa fosse: se bastasse semplicemente l’idea di sentirsi meglio guardandolo oppure la colonna sonora o ancora le coreografie… Restava un mistero.
Fece in fretta e furia lo zaino, cercando di evitare il più possibile lo sguardo del vicino di banco.
« Ciao Kate, ci vediamo domani », stranamente la salutò, con un tono di voce parecchio distaccato. La ragazza non se lo aspettava lontanamente, tanto che non riuscì a dire nulla: lo guardò dritto negli occhi, così azzurri e intensi, dove letteralmente affogò, fino a che non scomparve dalla sua vista.
Sebastian le mise una mano sulla spalla « Ma che, ti piace Bonk? », domandò malizioso.
« Ma che, sei scemo? », lo apostrofò, quasi gridando, dandogli uno schiaffo simbolico sulla testa, mentre raccoglieva da terra lo zainetto di educazione fisica. « Lo sopporto soltanto perché è il tuo migliore amico! E comunque, ancora non capisco come siate così legati. È proprio… Silenzioso, distaccato, dispettoso, non fa mai nulla per dimostrarti che a te ci tiene e… ». Si fermò. Non le veniva in mente altro.
« L’importante è che io sappia che ci tiene a me, giusto? Ed io lo so. Ci conosciamo da quando eravamo alti un metro, Kate, abbiamo vissuto una vita intera insieme. Come potrei non fidarmi di lui? ». Le fece l’occhiolino e le porse il giubbotto. « Dài, andiamo ».
« D’accordo », continuò testardamente la ragazza, mentre scendevano le scale dell’edificio ormai vuoto e silenzioso « ma continuo a non capire perché si comporti così. Insomma, è un ragazzo intelligente e maturo, però perché continua a fare dispetti come se fosse un bambino di sei anni? Non ha senso… »
Sebastian sbuffò, saltando gli ultimi cinque gradini della scalinata. « Allora, com’è andata? Come lo ha scoperto? », domandò, tanto per cambiare argomento.
« Mmh, oggi sei in vena di sapere i cazzi miei eh? », scherzò lei, tanto per alleviare un po’ la tensione. Il cuore aveva preso a batterle a mille, mentre uscivano dalla porta principale dell’edificio « Non saprei. Penso che semplicemente si sia sollevata un po’ la maglia e abbia visto a fasciatura. E, insomma, lo conosci: ha voluto sapere cosa ci fosse sotto e l’ha tolta personalmente ».
« E ti ha detto qualcosa? ». Ora Sebastian era davvero curioso. Non riusciva proprio a immaginarsi la reazione dell’amico.
« Umh, “Katherine, non è possibile” e poi quello che hanno sentito tutti quanti », rispose prontamente la ragazza, svoltando l’angolo e ritrovandosi nuovamente nei pressi del viale alberato.
« Ti ha chiamata per intero?! ». Sebastian era ancora più incredulo, ora. « E basta? »
« Tutto qui, sì. Qual è il problema Seb? ».
« Nulla. Nemmeno tua madre ti chiama con il nome intero, tranne quando… »
« Quando mi sgrida, già ». Entrambi continuarono a camminare, restando in silenzio per qualche minuto. « Per te Andrew ci tiene a me? »
« Direi proprio di sì! » e le sorrise. Era uno di quei sorrisi che il biondo regalava raramente al mondo. Sorrideva spesso, ma erano quasi forzati. Chi lo conosceva bene, sapeva quando stava sorridendo perché era veramente entusiasta di qualcosa e quando invece lo faceva tanto per farsi vedere allegro agli occhi di tutti. Non gli andava di aver scritto in faccia “ho un mucchio di problemi”, perché non sopportava che persone di cui non si fidava gli facessero delle domande: lo imbarazzavano parecchio.
« Kate, senti… Stasera ti andrebbe di venire con me e Bonk a bere qualcosa? ».
« Cos’è, mi stai oganizzando un appuntamento con l’idiota? », scherzò la mora, mettendosi a ridere. Non si era sentita così viva da un po’. « D’accordo, ci sto. Ma oggi tu non hai quella gara importantissima che devi vincere a tutti i costi e per cui mi stai rompendo le palle da mesi? »
« Sì! E devi assolutamente esserci, ok? ».
Nel frattempo, erano arrivati a casa del biondino. Abitava davvero a due passi dalla scuola, ma ogni mattina, tranne quando si svegliava un po’ troppo in ritardo, tornava indietro fino a casa di Kate, per poi ripercorrere con lei la strada per la scuola. Ci teneva davvero a quella ragazza e, da quando gli aveva confidato dei suoi problemi con l’autolesionismo, avevano legato ancora di più. Sebastian le era stato vicino sempre, ogni volta che Kate ne aveva bisogno, e si sentiva sollevato quando lei sorrideva nonostante tutto. Tentava ogni volta, però, di farla ragionare al fine di farla smettere di farsi del male, perché non portava a nulla, perché lei non meritava che nessuno le facesse del male, tanto meno che se ne procurasse da sola (« Non ti bastano tutte le persone che ti feriscono normalmente? », soleva ripetere). E la povera ragazza, ogni volta, gli ripeteva « Lo so, Sebi, lo so », come se fosse una cantilena destinata a non avere fine.
Ma era la pura verità: Kate sapeva di dover smettere di tagliarsi, di farsi uscire del sangue dal braccio di proposito, di lasciare che le endorfine liberate la facessero sentire più felice, finché durava. E ci riusciva, anche per buoni periodi di tempo, fino a che qualcosa in lei le scatenava la voglia di ricaderci.
Come l’ennesima telefonata a vuoto con il padre, per esempio.
Più volte si era ripromessa che la volta successiva ci avrebbe parlato, anche solo per capire se riusciva a distinguere la sua voce. Ma non aveva mai mantenuto quella promessa. Pensava che in questo almeno gli assomigliava, perché se lei non aveva mai il coraggio di spiaccicare parola non appena riconosceva il numero sul display, dall’altro capo del telefono nemmeno suo padre le diceva mai nulla. “Senza palle”, pensava sempre Kate, rendendosi conto pochi secondi dopo, che lei non era affatto diversa.
« Ok, ci vediamo questo pomeriggio. Ti passo a prendere verso le tre, d’accordo? », domandò il ragazzo, ormai sulla porta di casa, mentre cercava freneticamente le chiavi nella tasca dei jeans.
« Certo Seb, grazie. Ricordati di studiare almeno un po’ per l’interrogazione di italiano! Fallo per me almeno… », lo pregò Kate, poggiandogli una mano sul braccio per obbligarlo a guardarla negli occhi.
Il biondo sbuffò. L’amica era sempre così apprensiva e si preoccupava sempre così tanto per lui! « Va bene, studierò quel tanto che basta per prendere un sei se mai dovessi beccarmi… »
« Ora sono più tranquilla. Allora, a dopo! ». I due giovani si abbracciarono, poi Sebastian entrò, guardando Kate allontanarsi verso casa sua fino a che non sparì dalla sua vista.
 
Un’ora dopo, Kate aveva finito di pranzare con la madre già da qualche minuto e si era stesa sul divano del salotto, come faceva quasi sempre.
“Andrew lo sa. E non ho nemmeno tentato di ribellarmi, perché alla fine ne sono sollevata. Sono sollevata di non dovermi più nascondere, almeno non da lui. E comunque, il resto della classe non vedrebbe mai il mio braccio, nemmeno se glielo sventolassi davanti. Però è un ragazzo davvero strano… Pensavo che almeno mi dicesse qualcosa, che si mettesse ad urlarmi contro, che almeno tentasse di farmi ragionare, invece semplicemente non mi ha parlato. Ed è stato più utile di tutti i discorsi di Seb su quanto sia bella la vita e di quanto dovrei godermela ora che posso, senza farmi troppi problemi”.
Kate pensava, pensava, pensava, si riguardava le ferite sul braccio e continuava a pensare. Infine, si addormentò, senza nemmeno rendersene conto.

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Capitolo 4
*** -Capitolo 4- ***


Every rose has its thorn
4.



«Tesoro… Devi svegliarti, su».
Sua madre la chiamava da ormai cinque minuti abbondanti, ma Kate continuava a rifiutarsi di ascoltare. Era ancora profondamente addormentata, con un’espressione serena sul volto.
«Kate, c’è Sebastian di là e il furgone di suo padre parcheggiato fuori!», esclamò sua madre, mentre le toglieva di dosso la coperta. La ragazza sussultò e si alzò su all’improvviso.
«Merda! Mi sono dimenticata!», gridò, infilandosi in fretta le scarpe e pettinandosi i capelli in meno di dieci secondi «Eccomi Sebi!», annunciò, arrivata in cucina. C’era anche Andrew. «Oh», si stupì lei «ciao Andrew». Lui le sorrise senza dire una parola.
«Mamma, vado con i ragazzi alla gara di Seb, ricordi che te lo avevo accennato?»
«E poi cena da me», aggiunse il biondo, prendendo anche Kate alla sprovvista. «Stasera facciamo un po’ di festa a casa mia», continuò, strizzando l’occhio alla ragazza.
«Ok, tesoro, allora ci vediamo domani mattina. Ho un’altro turno di notte». La donna baciò Kate, l’abbracciò a lungo e la salutò ancora una volta, prima di lasciarla andare. «Mi raccomando eh, non fare troppo tardi e chiudi tutto».
«Non preoccuparti mamma. Buonanotte!». Kate le lanciò un grande sorriso, poi si chiuse la porta alle spalle e corse verso il furgone dove i due ragazzi erano appena saliti.
 
Sebastian si accomodò all’interno del suo kart. Aveva controllato tutto almeno dieci volte nei minimi dettagli, aveva lucidato il veicolo per l’ultima volta, si era infilato il casco in testa e ora era pronto, gli occhi chiusi nel tentativo di accumulare tutta la concentrazione necessaria.
«Questa è una gara importante, Seb», si sussurrava da solo «Ce la devi fare, ok? Devi lottare con tutte le tue forze, devi spingere su quell’acceleratore e non commettere neanche un errore. Sei pronto, sei sempre stato pronto per questa gara. Ora dipende tutto da te!».
Sebastian era un ragazzo terribilmente sicuro di sé. Sapeva di essersi preparato perfettamente per quella gara. Si era allenato duramente, girando spesso in bici per tutta la pista, così da cercare anche una strategia da adottare e trovare i punti migliori per qualche possibile sorpasso. Lì aveva passeggiato con Kate almeno quattro o cinque volte. La pista lo faceva sentire al sicuro: le aveva confidato un sacco di cose che non gli sarebbe mai saltato in testa di raccontare a nessuno. E ogni volta che usciva dal circuito, si sentiva meglio, più sollevato.
 
E mentre Sebastian era intento a parlare alla sua macchina, Giulietta, incitandola a dare il meglio di sé in quella gara così importante (in realtà cercava di farsi coraggio parlando ad alta voce), Kate e Andrew presero posto sulle tribune, aspettando che le macchine entrassero in pista per il solito giro di riscaldamento gomme.
«Hai studiato per italiano?», chiese Kate, imbarazzata di trovarsi di fianco al moro senza sapere cosa dirgli e come comportarsi dopo ciò che era successo in classe.
«No», rispose lui secco, senza nemmeno degnarla di uno sguardo, tenendo gli occhi fissi sull’asfalto della pista.
La ragazza non sapeva cos’altro fare. La gara sarebbe durata parecchio e non poteva certo starsene zitta per tutto il tempo, muta come un pesce e immobile come una statua, solo per paura di dire la cosa sbagliata al momento sbagliato. No. Andrew avrebbe almeno dovuto dirle qualcosa, Kate voleva che le dicesse qualcosa.
«Dai, dimmi. Chiedi. Urla, grida. Prendimi a schiaffi se vuoi», gli urlò lei, obbligandolo a guardarla.
«Non picchio una donna. E comunque, non ho nulla da dirti». Bonk restò in silenzio per un paio di interminabili minuti, prima di gettarle tutto addosso: «Ti credevo più matura, Kate. Insomma, sei una ragazza intelligente, no? Non pensavo che potessi farti una cosa del genere. Perché, mi chiedo. Perché farsi una cosa del genere? Perché farsi del male? Se stai male perché qualcosa nella tua vita non va, perché aggiungere altro dolore anziché alzare il culo e fare qualcosa per risolvere quei problemi? Non lo capisco, non capisco perché tu ti comporti da stupida».
Kate, presa alla sprovvista dalle dure parole del ragazzo, lo guardò con gli occhi spalancati, impaurita dal suo atteggiamento. Sussurrò «Ci sono dei problemi che non si possono risolvere», convinta che non l’avrebbe sentita.
«Ah no? Il tuo problema è irrisolvibile? Scommetto che ti tagli per qualche stronzata».
«Non sono stronzate! Non mi taglio per stronzate, ok? E poi… Sto smettendo».
«Non ti credo, ho visto quei due tagli freschi, sembrano fatti ieri. Dimostrami che non ti stai tagliando per qualche cazzata, allora».
«Non sono cazzi tuoi, Bonk. Ti sopporto solo perché tengo a Sebi che per qualche cazzo di motivo tiene a te, ma non verrò a raccontarti ogni aspetto della mia vita solo perché ti incuriosisce. È un problema mio, lasciami in pace». Prese dalla tasca il suo lettore mp3 e infilò le cuffiette nelle orecchie, decisa a non ascoltare altre parole che sarebbero uscite dalla bocca del ragazzo.
 
Sebastian era seduto nell’abitacolo del suo kart, al secondo posto sulla griglia di partenza. Altri tredici motori rombavano intorno a lui. Quel rumore lo faceva sentire bene e gli permetteva di concentrarsi sulla gara al cento per cento. Sulla pista dimenticava ogni cosa: l’interrogazione di italiano del giorno dopo, il compito di matematica fatto qualche giorno prima e andato malissimo, Angie e le altre ragazze a cui aveva ingiustamente spezzato il cuore, i nuovi tagli di Kate… In quel momento c’erano lui, la sua Giulietta e l’adrenalina che gli scorreva nelle vene, come se avesse quasi totalmente preso il posto del sangue.
Sistemò a dovere i guanti, abbassò la visiera e si preparò a partire, immediatamente dopo il giro di riscaldamento gomme. Non poteva sbagliare, non poteva assolutamente sbagliare la partenza. Avrebbe dovuto cercare a tutti i costi di superare il primo e tenere tutti e gli altri tredici veicoli dietro di sé.
I semafori si accesero, tutti di colore rosso fuoco. Uno a uno diventarono verdi. Sebastian strinse le mani attorno al volante e continuò a fissare quelle luci. Mancavano due semafori e sarebbe partita la gara. Due soli semafori lo separavano dalla vittoria o dal fallimento.
L’ultimo semaforo divenne verde e Sebastian immediatamente spinse sull’acceleratore. Il primo in griglia di partenza tardò di mezzo secondo, quel poco che bastò al biondo per superarlo senza fatica alla prima curva. Ringraziò mentalmente qualcuno non ben definito per la piccola indecisione del suo avversario e continuò a concentrarsi sugli altri venticinque giri che mancavano alla fine.
 
Sugli spalti, intanto, Kate e Andrew continuavano ad urlare e a incitare l’amico, felici per il sorpasso liscio come l’olio, compiaciuti per la bravura del biondino.
«Mi dispiace», disse il moro dopo qualche giro in cui Sebastian continuò a guadagnare terreno rispetto agli altri. «Mi dispiace che tu non abbia voglia di ascoltarmi, potrei aiutarti. Anzi, sto già cercando di aiutarti. Se mi dicessi perché lo fai, cosa ti spinge a farlo… Non volevo essere così duro in realtà».
Katherine non sapeva cosa rispondere. Probabilmente perché non riusciva a comprendere del tutto il suo strano comportamento. L’aveva attaccata, l’aveva ferita duramente con le parole che aveva pronunciato poco prima e ora stava cercando di salvarla, di medicarla e guarirla? Non doveva funzionare così in realtà. In realtà, avrebbe dovuto semplicemente decidere da che parte stare. Doveva decidere se continuare a pugnalarla o aiutarla a salvarsi.
«Andrew…», tentò di dire lei «io…emh… non so».
«Non sai cosa?»
«Posso fidarmi di te?»
Il ragazzo ridacchiò. «Sta a te».
La mora continuò a guardare la gara, decisa a non incrociare, per il momento, lo sguardo con quello di lui. Ogni volta che la Giulietta blu di Sebastian passava per il traguardo, il cuore cominciava a batterle a mille e iniziava ad urlare, sapendo benissimo che comunque il biondo non poteva sentirla.
 
“Posso o non posso fidarmi di lui? Mi sembra un ragazzo così intelligente, ma… Non voglio rimanere delusa un’altra volta. Non sono sicura di potergli dire tutto quanto, a malapena riesco a raccontarlo a Sebastian che è fantastico, figuriamoci ad Andrew con cui non ho confidenza…”
Tutta questa poca  fiducia nel prossimo, era frutto della sua relazione inesistente con suo padre. Un padre dovrebbe essere sempre presente, dovrebbe accompagnare la figlia alla corsa di kart del suo migliore amico e urlare insieme a lei, dovrebbe chiederle com’era stata la sua giornata scolastica e ridere ogni volta vedendo la sua espressione distrutta. Un padre dovrebbe svegliare sua figlia dolcemente al mattino e renderle meno amara la pillola della sveglia alle sei e mezza del mattino.
Ma suo padre non faceva nulla di tutto ciò e lei non riusciva a farne a meno. Avrebbe voluto una figura paterna più di ogni altra cosa al mondo.
Da piccola, quando ancora ci credeva, scriveva sempre una lettera a Babbo Natale in cui chiedeva se era stata abbastanza buona per meritare di ricevere un padre. “Altrimenti, caro Babbo, puoi semplicemente portarmi quella bella bambola che avevo visto con la mamma al supermercato”. Quando sua madre la leggeva, puntualmente scoppiava in lacrime e la teneva stretta stretta, lasciandole appoggiare la testa sul suo cuore, così che il battito la rilassasse, fino a fare addormentare la piccola. Ogni anno Kate sperava di essersi comportata abbastanza bene da ricevere ciò che aveva chiesto e quando la mattina di Natale non c’era nessuna figura paterna a svegliarla, rimaneva delusa. Rimaneva delusa, fino a che sua madre non le portava un piatto di biscotti al cioccolato, ancora caldi, e il suo nuovo giocattolo non iniziasse a tenerla occupata.
 
«Andrew, mi dispiace. Non sono ancora sicura di potermi fidare. Io non vorrei pentirmene, mi capisci? Conosciamoci meglio. Abbiamo tutto il tempo del mondo, vero?». Gli sorrise, sperando che non se la prendesse troppo.
«Certo, ti capisco. Anzi, sarebbe suonato strano il contrario, credimi. Allora, Sebi è veramente un mago in pista, eh?»
Kate sorrise ancora, ma il suo sorriso era mille volte più grande. «Diventerà un grande campione».
In quel momento i due giovani avevano fatto il primo passo verso l’Amicizia.
 
 
Lo so, non è un capitolo molto avvincente, ma è "di passaggio" >< Mi scuso!!

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