The Only Exception

di The DogAndWolf
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Princeton Never Sleeps ***
Capitolo 2: *** Work, Work, Work ***
Capitolo 3: *** Prophecy ***
Capitolo 4: *** New Adventures ***
Capitolo 5: *** Closet ***
Capitolo 6: *** Gentle Hug ***
Capitolo 7: *** AZ ***
Capitolo 8: *** Worried ***
Capitolo 9: *** Prejudice ***
Capitolo 10: *** Mimosa ***
Capitolo 11: *** Jealousy and Rage ***
Capitolo 12: *** Fight ***
Capitolo 13: *** Raccoon! ***



Capitolo 1
*** Princeton Never Sleeps ***


Il locale non era molto grande, sebbene fosse uno dei più cari e alla moda di Princeton.
Le luci sembravano studiate apposta per far rimbambire i clienti e la musica era così forte che a stento il barista riusciva a capire le ordinazioni.
Se avesse continuato così, sarebbe sicuramente diventato sordo. Erano questi i pensieri dell’uomo pelato dietro al bancone, che sembrava più un buttafuori che un barista dalla corporatura.
Il gigante stava placidamente asciugando un boccale da birra con lo straccio mentre osservava una ragazza seduta davanti a lui. Era abbastanza nervoso: la ragazza, sui trent’anni, era già al suo ottavo drink e avrebbe sicuramente dovuto toglierle le chiavi della macchina e chiamarle un taxi.
Lei era molto bella e affascinante: aveva i lisci capelli biondi lunghi fino a metà schiena, due occhi scuri abilmente sottolineati da un trucco leggero e fresco ma con una strana sfumatura che non riusciva a decifrare e un fisico davvero invidiabile. Non l’aveva mai vista in giro prima di quella notte, ne era sicuro: aveva un’ottima memoria.
La ragazza si sporse un po’ verso di lui e gli parlò, o meglio, urlò per contrastare il volume della musica nella discoteca.
«Qui c’è sempre questa schifezza di musica?» gli chiese, abbastanza infastidita. Accennò un sorriso ironico guardandolo negli occhi e il barista capì di che colore fossero. Erano di un viola intenso che tendeva al nero. Rimase per un attimo imbambolato da quel colore quasi miracoloso: aveva sentito parlare di occhi viola, ma quella era la prima volta che li vedeva.
«Perché rimani qui se non ti piace?» le rispose il bestione, abbastanza brusco. Tra risse sedate e poliziotti che rompevano per il chiasso che proveniva dal locale non aveva assolutamente intenzione di farsi trattare male da quella primadonna ubriaca.
La ragazza strinse gli occhi lucidi, irritata e pensosa. Sembrava completamente in sé nonostante tutto l’alcool che aveva in corpo. Abbassò per un secondo lo sguardo nel suo bicchiere e lo svuotò in un solo sorso. Poi tornò a guardare il barista e ammise acida: «Me lo sto chiedendo anch’io…».
Si girò per saltare giù dalla sedia e andarsene, ma fu bloccata dalla voce dell’uomo: «Ehi! Dove credi di andare? Non puoi guidare in quello stato!».
La ragazza lo fulminò con lo sguardo e ringhiò: «Pensi che sia idiota? Non sono venuta in macchina! Tieni, controlla pure mentre vado ad animare un po’ la festa!».
Gli tirò la borsetta bianca, che ebbe la prontezza di prendere prima che gli si schiantasse in faccia.
Ottima mira per un’ubriaca! ebbe il tempo di pensare, colpito.
Lei, intanto, era già in piedi a qualche metro dal bancone. Sembrò ripensarci, fermandosi. Si voltò di nuovo verso il barista, avvicinandosi a lui e disse, con voce minacciosa: «E non pensare nemmeno per un secondo di intascarti qualcosa di mia proprietà… il mio ragazzo è un avvocato!».
Il barista si sentì riempire di rabbia a quelle parole, ma non poté ribattere perché la ragazza che aveva ferito il suo orgoglio da cittadino modello era ormai indistinguibile nella folla.
 
Qualche passo più in là, la ragazza bionda stava sghignazzando e scuotendo la testa, molto divertita.
Il mio ragazzo… davvero esilarante, dottoressa Simmons! si disse per poi scoppiare a ridere nuovamente, senza un minimo di senso di colpa per aver mentito a quel povero barista. Probabilmente era annegato nell’alcool con buona parte di tutto il resto…
Osservò per un attimo la massa informe di corpi che si agitavano a tempo (chi più, chi meno) di quella che, secondo lei, non si poteva definire propriamente musica, in cerca di qualcuno che attirasse la sua attenzione.
Nulla. Vide solamente tutti che si strusciavano contro tutti. Ovviamente.
Certo, c’erano delle ragazze carine, ma il suo standard era un tantino elevato. E questo da sempre.
Alzò le spalle, per niente rassegnata, e si gettò nella mischia. Dovette spingere un po’ di gente per farsi strada mentre ballava a tempo e pestò un totale di cinque piedi a cinque persone diverse.
Non si lamentarono. Troppo impegnate.
Riuscì ad uscire in quello che sembrava uno spiazzo un po’ meno affollato del resto del locale e riprese un po’ aria. Trovava strano il fatto che al centro della pista da ballo ci fosse più ossigeno che ai lati. Anche se non era proprio sicura che quello fosse il centro…
Perdita dell’orientamento dovuta all’alcool, senza dubbio.
Si guardò nuovamente attorno e, questa volta, una ragazza catturò il suo interesse. Era poco più bassa e giovane di lei, capelli castano chiaro con riflessi ramati e un corpo semplicemente divino. Stava ballando vicino ad un’altra ragazza bruna e carina, ma niente di strepitoso.
La ragazza bionda concluse che si fossero conosciute lì e che quella che aveva attirato il suo sguardo fosse a caccia, come lei. Niente di serio. Quindi perfetto. Se non fosse stato così… se la sarebbe cavata più che egregiamente in una rissa contro quella tappa bruna dall’aspetto sconsolatamente ordinario. Ghignò e si fece più vicina alle due, puntando con sicurezza la ragazza che le interessava.
Ora era dietro di lei, che non l’aveva ancora vista e che continuava a ballare con l’altra.
La bruna, invece, l’aveva notata e il suo sorriso si fece incerto quando si accorse che la nuova arrivata aveva messo gli occhi sulla sua partner.
La dottoressa Simmons si sporse leggermente, quasi furtiva, per poi esclamare nell’orecchio della ragazza davanti a lei, in un tono molto provocante e abbastanza alto da sovrastare la musica ma non così alto da far sentire le sue parole all’altra: «Andiamo, non credo assolutamente che quella lì sia il tuo massimo!». La ragazza girò la testa e subito dopo il corpo verso la profonda voce femminile.
La bionda fu abbagliata da due occhi azzurro ghiaccio incredibili e da un ghigno furbo e malizioso mentre il sorriso della bruna si estingueva in meno di un secondo. Quest’ultima sembrò sul punto di dire qualcosa, ma poi, quando vide che la ragazza con cui aveva ballato la ignorava senza farsi troppi scrupoli, se ne andò, molto infastidita.
Sorridenti, le due ragazze si studiarono per poco prima di iniziare a danzare molto più vicine l’una all’altra. Finalmente la bionda si lasciò completamente andare ai fumi dell’alcool, scatenandosi persino con quella musica che aveva snobbato non più di qualche minuto prima. L’altra ragazza la seguì adattandosi al suo ritmo, anche lei completamente ubriaca.
Nonostante fossero entrambe piene di alcolici, i loro movimenti non sfiorarono nemmeno per un attimo il grottesco; anzi, da quel lato sembravano lucide e terribilmente coscienti di quello che stava succedendo loro.
Dopo tre canzoni iniziarono a rubarsi rapidi baci sul collo, assaporando con le labbra l’una la pelle dell’altra. Ogni volta che succedeva, sentivano entrambe una specie di scossa a basso voltaggio ed era come se la pelle toccata ardesse piacevolmente.
Finché, alla fine della quarta canzone, la bionda non incatenò la bocca dell’altra ragazza in un lungo bacio profondo e caldo che ricambiò all’istante, con passione e decisione, quasi aggressiva.
Dopo un po’ staccò le labbra da quelle della ragazza bionda, si avvicinò al suo orecchio e le disse, in tono sensuale: «Non qui, conosco un posto migliore!».
Afferrò la sua mano e la trascinò lontana dalla folla indistinta e anonima. Passarono vicino a molte coppie indaffarate, ignorandole, fino ad arrivare nel bagno delle donne, fortunatamente vuoto.
Appena la porta del bagno si richiuse, ovattando la musica della discoteca e isolandole dal mondo circostante, ricominciarono a baciarsi con passione, bramose l’una della bocca dell’altra.
La bionda sghignazzò sulle labbra della sconosciuta e, staccandosi di poco da lei, sussurrò: «Non mi hai nemmeno detto il tuo nome…». Successivamente passò a baciare ogni centimetro di pelle visibile del collo dell’altra ragazza. Trovava quella situazione terribilmente sexy e divertente. Cioè esattamente quello che cercava.
Con gli occhi socchiusi per il piacere e la voce roca per l’eccitazione, l’altra ragazza soffiò, ansimando leggermente: «Remy… il tuo?».
La domanda era dovuta più ad un riflesso incondizionato che a vero interesse, ma la bionda non se ne preoccupò e replicò, mentre Remy le mordicchiava il lobo dell’orecchio destro: «Jackleen…».
La ragazza bionda immerse una mano nei capelli dell’altra e l’avvicinò ancora di più a sé mentre si scambiavano lentamente l’ennesimo bacio profondo e sensuale.
Jackleen fece scorrere la mano libera fino alla coscia nuda appena sotto all’orlo della minigonna di Remy, mentre quest’ultima iniziò a esplorare il corpo della bionda con il suo tocco delicato.
Le accarezzò la schiena fino ad arrivare al fondoschiena e lì si fermò. Cominciò a baciarla con più forza e la spinse contro la parete piastrellata del bagno, vicino al lavandino.
Jackleen ridacchiò per il comportamento della ragazza. Doveva ammettere che baciava davvero bene e che era molto determinata. Di solito era lei che conduceva il gioco, ma quella variante non le dispiaceva per nulla: Remy era estremamente sexy.
All’improvviso un rumore inaspettato mandò in frantumi quell’atmosfera sensuale che si era creata tra loro. Qualcosa che vibrava, senza dubbio un telefonino.
Remy s’irrigidì all’istante e si allontanò bruscamente da Jackleen, tastandosi febbrilmente la tasca.
La bionda le rivolse uno sguardo interrogativo finché la ragazza non alzò gli occhi nei suoi. Aveva un’espressione terrorizzata e sconcertata mista a quello che sembrava senso di colpa, come se si fosse svegliata all’improvviso e si fosse trovata davanti ad una sconosciuta che la stava baciando.
Senza un singolo monosillabo, Remy sfrecciò fuori dal bagno, lasciando Jackleen completamente sola a fissare interdetta e confusa il nulla davanti a sé.
Si riprese da quello stato di trance solo quando un’altra ragazza entrò nel bagno. Per un secondo sperò che fosse Remy, ma fu delusa quando vide la bruna che prima ballava con lei.
Si osservarono per un attimo, stupite.
Poi la bruna ghignò nella sua direzione e sembrò voler dire qualcosa, ma fu preceduta da Jackleen che ringhiò minacciosa: «Se ci tieni ai tuoi arti superiori con le loro dovute falangi, non dire nulla!».
L’espressione della bruna passò in un attimo da vittoriosa a spaventata, ma la bionda era troppo irritata per farci caso. Uscì dal bagno sbattendo bruscamente la porta.
Non era dell’umore giusto per provarci con un’altra ragazza, quindi ritornò al bancone per riprendersi la borsa e andare via da quel locale schifoso.
Fu salutata dalle parole del barista: «Ehi, Begli Occhi… come mai quella faccia?».
Begli Occhi gli lanciò uno sguardo assassino e gli rispose: «Sta’ zitto e dammi la borsa, Steve!».
Il barista le porse subito la borsa bianca, felice che la ragazza scontrosa se ne andasse, ma gli sembrò doveroso puntualizzare: «Non mi chiamo Steve…».
Jackleen gli strappò la propria borsa di mano e ribatté, andandosene: «Ed io non ti ho chiesto la storia della tua vita, Bei Capelli!».
L’uomo pelato non poté fare altro che guardarla andare via con suo immenso sollievo, anche se quella donna era riuscita, per la seconda volta nella serata, a farlo infuriare.
 
Jackleen Simmons salì sul primo taxi che riuscì a trovare per ritornarsene in albergo. Era così ubriaca e assonnata che per poco non diede al tassista l’indirizzo del suo appartamento a New York.
Per tutto il tragitto si domandò cosa avesse sbagliato con Remy e perché se ne fosse andata in quella maniera, senza una sola parola di scusa o rimprovero.
Concluse che il problema non poteva certamente essere lei, ma la ragazza stessa. Magari soffriva di personalità multipla o forse quella chiamata aveva scatenato quella reazione.
Sì, con ogni probabilità era stata la chiamata. Decise questo mentre pagava il tassista e scendeva dall’auto, lasciandogli una mancia modesta.
Chiese la chiave della sua stanza nella hall, salì in camera e quasi svenne sul letto, senza aver nemmeno il tempo di togliersi i vestiti.


 
*****
Questo è il mio primo crossover in assoluto! *-*
L'idea per questa fanfiction mi è venuta perché adoro il personaggio di Remy "Tredici" Hadley e, come vi accorgerete in seguito (xD) odio profondamente Eric Foreman. Ovviamente potete immaginare il mio disgusto quando la povera Remy è finita con Capretta (lo chiamo così, non fateci caso! xD)! Quindi ho pensato: "Mah... e se invece...", e da questo grande "e se" è nato il complesso e travagliato personaggio di Jackleen Simmons. Poi... perché crossover? -chiederete voi (oddio, adesso sento anche le voci O.O xD). Beh, perché non ho potuto pensare a un medical senza Grey's Anatomy! ù.ù xD C'è anche un'altra motivazione un po' più pratica che scoprirete verso la fine di questa ff... ù.ù Quindi chi vivrà vedrà! ù.ù xD
E vi lascio con il solito ed obbligatorio:

Hope you liked it! ^^
Dog

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Capitolo 2
*** Work, Work, Work ***


Beep beep beep. Beep beep beep.
Jackleen cercò a tentoni la sveglia e la spense con una manata non troppo gentile.
Fece un verso di protesta quando aprì gli occhi e vide la frizzante luce del sole mattutino.
Si alzò lentamente, per non avere capogiri strani e si sfregò con forza la faccia nell’inutile tentativo di svegliarsi. Si trascinò debolmente in bagno, maledicendosi per essersi ridotta in quello stato la vigilia del suo primo giorno di collaborazione con il Princeton - Plainsboro.
Era stato davvero un colpo di genio ubriacarsi proprio quella sera!
Finalmente riuscì a svegliarsi schiaffandosi due o tre volte l’acqua gelida del lavandino del bagno in faccia. Si guardò allo specchio e concluse che, in fondo, non aveva poi tanto mal di testa. Sarebbe bastata un’aspirina a farlo passare. Trovò e si somministrò immediatamente il medicinale per poi farsi una doccia veloce, lavarsi i denti, vestirsi con abiti professionalmente impeccabili, truccarsi leggermente, preparare la borsa e scendere per fare colazione. Naturalmente non nell’albergo: non sopportava l’odore di hotel mentre mangiava. Sarebbe andata in uno Starbucks lì accanto a prendere un caffè ed una brioche al cioccolato.
 
Spaccando il secondo, arrivò all’ospedale alle nove in punto.
«Buongiorno! Sono Jackleen Simmons, ho un appuntamento con la dottoressa Cuddy…» si presentò con un sorriso affabile e cordiale alla reception.
L’infermiera le rispose subito, gentile: «Certo! Può aspettare in sala d’attesa solo per un secondo, per favore? Intanto io avviso la dottoressa del suo arrivo, grazie!». Le indicò delle sedie libere vicino all’ufficio della Cuddy. La ragazza si sedette su una di quelle scomode sedie di plastica.
Una donna con i capelli corvini mossi, gli occhi azzurro chiaro e un sorriso amichevolmente professionale arrivò dopo poco tempo. Le porse la mano destra e disse: «Sono Lisa Cuddy… è un piacere conoscerla, dottoressa Simmons!».
Jackleen si alzò subito in piedi e le strinse la mano con un sorriso, rispondendole: «Il piacere è mio, dottoressa Cuddy!».
Sciolsero la stretta e Cuddy la invitò nel suo ufficio, dicendole gentilmente: «Venga, qui potremmo parlare in tutta tranquillità!».
 
«Ripeto: non può essere lupus!» esclamò per la quinta volta un uomo abbastanza basso e con un naso più grosso della norma, tenendo, non senza sbuffare, il passo zoppicante di un uomo alto, brizzolato, con una spruzzata di barba disordinata sul volto e degli occhi blu magnetici che si appoggiava a un bastone di legno.
«Quanto ci vuoi scommettere, nano malefico e fedifrago?» gli rispose con un tono quasi cordiale e un ghigno divertito il suo capo, entrando in ascensore e girandosi verso la porta.
Tre persone lo seguivano: il nano malefico, un uomo di colore con pizzetto e barba curati e una ragazza con gli occhi azzurri e i capelli castano chiaro tendenti al ramato. Chris Taub, Eric Foreman e Remy Hadley si schiacciarono nell’ascensore stracolmo di gente per stare dietro a Gregory House e confutare la sua teoria.
Taub rivolse uno sguardo sconfitto ai suoi colleghi. Stranamente fu Foreman a sostenerlo.
«Avanti, House! Non possiamo aver sbagliato il test per il lupus, lo sai anche tu!» disse con voce decisa e un cenno d’irritazione. Il loro capo credeva che avessero sbagliato un test così semplice?
«Non ti è mai passato per quella tua testa dura e ovale che potrebbe esserci qualcosa che sballa tutti i risultati dei nostri test?» gli rispose a tono House.
I tre medici si scambiarono un’occhiata perplessa. O meglio, Foreman e Taub; Remy sembrava parecchio distante e si teneva lontana dai suoi colleghi, persa nei suoi pensieri.
«Qualcosa come cosa, scusa?» si arrese infine Taub, non trovando la soluzione.
«Qualcosa come la grande concentrazione e l’infinita dedizione che Tredici impiega nel lavoro il lunedì mattina, ad esempio…» esclamò sarcastico House, scoccando un’occhiataccia a Remy.
La ragazza sobbalzò appena ed abbassò lo sguardo, scusandosi: «Mi dispiace… è che non ho dormito molto stanotte…».
House la squadrò e, fingendosi scandalizzato, fece: «Non ho dormito molto stanotte è un codice segreto per dire ieri ho passato la serata a bere e a farmi di chissà quali schifezze o cosa? No, perché se invece vuol dire che avevi un appuntamento bollente con due gemelle coreane ti dovrò licenziare perché non mi hai invitato!».
Remy alzò lo sguardo in quello del suo capo e disse, fermamente, con un velo di acidità: «Significa esattamente quello che ho detto.».
House alzò le spalle con noncuranza mormorando un: «Peccato…», mentre coglieva con la coda dell’occhio un movimento impercettibilmente irritato di Foreman. Notò anche una strana ombra scura sul viso di Tredici, ma non sembrò farci troppo caso.
Remy decise di prendere parte alla discussione per non farsi licenziare davvero, quindi, vedendo che erano diretti al pianterreno, sbottò: «E comunque… si può sapere dove stiamo andando?». Le porte dell’ascensore si aprirono, Taub appoggiò la domanda della sua collega scoccando uno sguardo interrogativo a House mentre Foreman cercava gli occhi di Remy, che sembrava disposta a tutto pur di non incontrare i suoi.
Il loro capo scrollò appena le spalle, uscì dall’ascensore di gran carriera con gli altri alle costole e rispose, come se fosse ovvio: «Ma a lamentarci con la Cuddy perché i macchinari per il test del lupus non funzionano, naturalmente!».
 
«Sono davvero contenta che lei abbia accettato di collaborare con il nostro ospedale per questo caso difficile!» annunciò Cuddy, sincera.
Jackleen, seduta sulla comoda poltrona davanti alla preziosa scrivania di legno elegante nell’ufficio della donna, sorrise, perfettamente a suo agio nei complimenti. Era un chirurgo eccezionale e lo sapeva benissimo. Guardò negli occhi Cuddy e ammise, sinceramente stupita: «Devo confessarle che mi ha un po’ sorpresa la sua chiamata al Metropolitan Hospital Center, in effetti…».
Il sorriso della donna traballò per un secondo, ma la sua espressione era sempre disponibile e professionalmente lieta quando chiese: «Perché? Lei è una dei pochi chirurghi in grado di operare una schisi allo sterno nella decima settimana di-».
Fu bruscamente interrotta da una porta che sbatteva.
Gli sguardi delle due donne si puntarono sull’uomo che era appena entrato zoppicando, con un bastone puntato verso la Cuddy e che stava esclamando, in tono falsamente arrabbiato: «I macchinari di questo ospedale fanno assolutamente schifo, donna!».
Il sorriso di Cuddy divenne una smorfia di sopportazione in meno di un istante, come se si tenesse costantemente allenata a questi imprevisti cambi d’umore, e abbaiò brusca: «House! Esci immediatamente dal mio ufficio! Non vedi che ho cose più importanti da fare che stare a sentire le tue farneticazioni senza senso?».
House rimise giù il bastone avanzando ancora e ribatté, scimmiottando un tono offeso: «Farneticazioni senza senso? Così mi ferisci!».
Prima che finisse la frase entrarono Taub, Tredici e Foreman, tenendo lo sguardo basso in segno di scuse. Allora Cuddy si alzò in piedi e Jackleen la seguì, serafica.
La prima, a disagio, cercò di riparare con un: «Mi dispiace molto, dottoressa Simmons…».
Jackleen le sorrise, dicendo: «Non si preoccupi!».
Si girò verso House, osservandolo attentamente. Anche lui puntò i propri occhi blu in quelli viola scuro della ragazza. Si squadrarono attentamente, come leoni indecisi se attaccare per primi o meno. Infine la donna gli sorrise, astuta, ed esclamò: «Morivo dalla voglia di rivederla, dottor House!».
Lo sguardo dell’uomo si riempì di comprensione per un secondo, subito mascherata da un ghigno furbo, mentre la salutò, affabile: «Piccolo Genio, quanto tempo! Per poco non ti riconoscevo… ora hai le tette! Il piacere, come sempre, è tutto tuo!». La risata di Jackleen risuonò limpida nell’ufficio e, con un rapido sguardo, passò in rassegna i volti stupiti delle tre persone entrate con House.
Incrociò gli occhi di Remy nel momento esatto in cui la ragazza li alzò verso di lei.
Per un attimo eterno si fissarono, incredule, poi Jackleen puntò nuovamente lo sguardo su Cuddy appena in tempo per sentirla esclamare, sorpresa: «Ah! Voi… vi conoscete?». La ragazza annuì, mentre Remy sobbalzò impercettibilmente, per un secondo convinta di essere il soggetto della frase. House era l’unico che aveva notato lo scambio di sguardi fra Tredici e la nuova dottoressa e, previdente, archiviò questa preziosa informazione per tempi magri.
Jackleen le rispose, con un ghigno pacifico: «Sì, gli è sempre bruciata che una diciottenne sia arrivata prima di lui in un concorso e gli abbia fregato il posto per un solo punto!».
House la fulminò con lo sguardo e mormorò, tetro e sospettoso: «Diciottenne che deve ancora spiegarmi come ha fatto a copiare così bene…».
Jackleen rise ancora e ribatté: «Talvolta la spiegazione più semplice è quella giusta, no?».
D’un tratto la voce stupita di Remy interruppe la rissa verbale di House e della nuova dottoressa: «Hai battuto House in un concorso quando avevi diciotto anni?!». Tutti i presenti si girarono verso Tredici per poi aspettare la risposta, fissando sconvolti Jackleen.
La ragazza strinse i suoi occhi incredibili in quelli di ghiaccio di Remy per avvertirla del suo tono troppo confidenziale e replicò, serafica: «Tecnicamente ne avevo ancora diciassette e mezzo, dottoressa…». Impiegò abbastanza sarcasmo nell’ultima parola, ma così sottile che se ne accorsero solo la stessa Tredici e House.
Il dottore brizzolato tagliò corto, per ritornare su quello per cui si trovava lì e che davvero gli interessava: «Ti presento il mio team! L’Uomo Nero che vedi lì in fondo è Foreman, il tappo con il nasone è Taub e lo schianto di donna che ha parlato è Tredici… ora potremmo ritornare ai macchinari che dovrebbero diagnosticare il lupus?». Ruotò il suo sguardo insistente nuovamente su Cuddy, ignorando il mondo circostante.
La donna alzò gli occhi al cielo e stava per scusarsi ancora con la dottoressa Simmons, ma quest’ultima la precedette dicendo, con un sorriso gentile: «Non si preoccupi dottoressa Cuddy, vado subito a cambiarmi e mi preparo per l’intervento!».
Rivolse un cenno di saluto a House e agli altri dottori. Solo Taub le rispose con il suo solito sorrisetto nervoso. Remy evitò il suo sguardo, Foreman stava osservando Tredici e House la ignorò completamente senza nessun motivo apparente, ma Jackleen non ci fece assolutamente caso. Era troppo scioccata dal fatto di essersi ritrovata ancora davanti alla ragazza della sera precedente. Pensò, con un ghigno totalmente irrazionale, che aveva creduto di non rivederla mai più.


 
*****
Ed ecco a voi il secondo capitolo! ^^
Devo confessare che non sono abituata a muovere House, anche perché questa è la prima volta che scrivo una ff su questo telefilm! xD Comunque... ù.ù Finalmente Jackleen è arrivata al Princeton - Plainsboro e ha scoperto che Remy lavora con il famoso genio controverso denominato Gregory House.
Per chi aspettasse il crossover con ansia: sta per arrivare qualcosa! xD Ma ci vorranno ancora diversi capitoli e vi dico già che consiste solamente nell'"apparizione" di uno dei miei personaggi preferiti di Grey's Anatomy, che, guarda a caso xD, ho scelto come migliore amica di Jackleen. Sarà davvero un crossover blando, vi avverto, ma è comunque un crossover! ù.ù xD

Hope you liked it! ^^
Dog

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Capitolo 3
*** Prophecy ***


Jackleen entrò nella camera della paziente, Irene Johnson, con un sorriso rassicurante in volto e si presentò, accompagnata da Robert Chase, il chirurgo di turno.
La ragazza lo aveva conosciuto una decina di minuti prima e sapeva che era stato uno dei tirapiedi di House. Ebbe subito l’impressione che il dottor Chase potesse essere più interessato ai propri capelli che ai pazienti, infatti non ne aveva uno fuori posto. Si chiese come fosse possibile: arrivava da un intervento abbastanza lungo e impegnativo e si era tolto la cuffietta senza spettinarsi. Jackleen, i cui lisci capelli biondi sembravano avere vita propria, avrebbe ucciso per avere quella capacità. Sghignazzò tra sé mentre Chase la guidava verso la camera della paziente.
Non era una ragazza superficiale: le serviva solo qualche minuto per estraniarsi dal mondo, per pensare a cose idiote e per dimenticarsi che stava per svolgere un intervento che, con ogni probabilità, avrebbe avuto una complicazione e sarebbe finito male. Ma non sarebbe accaduto: lei era la migliore. Quella non era presunzione, ma un dato di fatto.
L’australiano si fermò sulla porta e le chiese, perplesso e contraddetto: «Tutto ok?». Quando Jackleen sollevò lo sguardo su di lui, la scintilla d’ilarità nei suoi occhi viola scuro era stata completamente cancellata da una maschera professionale. Non disse nulla e, in tutta risposta, aprì la porta, precedendo Chase.
«Buongiorno, signora Johnson! Io sono Jackleen Simmons e mi occuperò della ricostruzione del torace di suo figlio!» disse con un tono a metà tra il sicuro e il confortante, sempre con il suo imperturbabile sorriso, per poi afferrare la cartella della paziente. Mentre lei scorreva velocemente i sintomi che sapeva a memoria, anche il dottor Chase si presentò alla signora Johnson e a suo marito, che le tenne diligentemente la mano per tutto il tempo.
Successivamente elencarono la procedura che avrebbero usato per riparare il torace del feto di dieci settimane e ogni possibile complicazione e rischio che il bambino e la madre avrebbero corso. La coppia era giovane quanto spaventata, ma fu immediatamente rassicurata dalla professionalità dei due medici e dalla sicurezza della dottoressa Simmons.
I due chirurghi ordinarono alle infermiere di preparare la paziente e si congedarono dalla coppia.
A quel punto il signor Johnson si staccò per un momento dalla moglie e raggiunse velocemente i dottori. Li guardò con un’espressione grave e triste, quasi stanca e disse loro, con un tono che lo rendeva di circa vent’anni più vecchio: «Lei deve farcela… io… io la amo! Promettetemi che non morirà da sola su un freddo tavolo di metallo. Promettetemi che potrò conoscere mio figlio, giocare a baseball con lui, crescerlo, ridere con lui. Giuratemelo…».
Chase rimase completamente senza parole.
Jackleen lo guardò, lo guardò semplicemente, con un’espressione neutra. Poi disse, lentamente: «Sua moglie non è sola, ha lei… lei è qui, signor Johnson.». Quelle parole risuonarono dolcemente brutali, quasi come un rimprovero fatto in buona fede.
L’uomo boccheggiò come se Jackleen l’avesse schiaffeggiato, poi sembrò capire le sue parole solo in quell’istante e abbassò gli occhi, vergognandosi per non averci pensato.
La dottoressa aspettò finché lui non rialzò gli occhi e, puntando i propri direttamente nei suoi, gli promise, certa: «Faremo del nostro meglio.», e seguì Chase in sala operatoria.
 
«È stata… fantastica con il marito, dottoressa Simmons!» esclamò l’australiano mentre si stavano preparando per l’intervento.
Jackleen gli scoccò uno sguardo di fuoco e gli domandò, acida: «È un tuo originale modo per rimorchiare?». Si raccolse i lunghi capelli biondi in uno chignon. Chase rimase colpito per un secondo da tanto sarcasmo, mentre la dottoressa Simmons si allacciò con abili mosse la sua cuffietta. Era nera con sfumature blu scuro ai lati. La rassettò con la punta delle dita, anche se non ce n’era bisogno.
Il dottore si riprese e si giustificò: «No… mi stavo solo complimentando con te!». Jackleen non lo guardò nemmeno, si mise la mascherina e si lavò senza una sola parola.
Chase si mise la mascherina, prese coraggio e continuò: «House mi aveva detto che eri una stronza del tutto simile a lui, invece sei riuscita a calmare quell’uomo con tatto e intelligenza!».
A quel punto la ragazza lo guardò. Si scostò dal lavandino con la punta delle dita rivolta verso il soffitto e replicò, in un tono tagliente: «Cosa ti fa pensare che non abbia ragione?». Strappò un pezzo di carta blu, si asciugò bene le mani e le braccia, buttò il pezzo di carta assorbente ed entrò con decisione nella sala operatoria, estremamente concentrata.
Il dottor Chase la raggiunse dopo un po’, mentre lei era già pronta a iniziare, con il bisturi in mano. Jackleen rivolse all’australiano uno sguardo fulminante, ma non commentò.
L’intervento stava andando alla perfezione, Jackleen era silenziosa e completamente concentrata su quello che stava facendo. Per lei, come tutti i chirurghi che si rispettino, entrare nella sala operatoria significava dimenticarsi di tutto il mondo al di fuori e dedicarsi unicamente al paziente e allo svolgimento dell’operazione.
All’improvviso una voce sarcastica e ruvida risuonò nella stanza attraverso gli altoparlanti: «Stai attenta a non uccidere nessuno, Piccolo Genio!».
La dottoressa Simmons, anche senza sollevare lo sguardo, riconobbe immediatamente la voce di Gregory House. Chase cercò lo sguardo del suo ex-capo, senza dire nulla.
«Oh, dottor House! È venuto per imparare? Ne sono onorata…» replicò Jackleen all’uomo in galleria, seraficamente concentrata sulla paziente, con tono leggero. Chase fece un verso divertito, stroncato all’istante dal ricordo dello sguardo assassino che Jackleen gli aveva rivolto.
House disse, tranquillo: «Più che altro sono qui per vedere come uccidi la paziente, Simmons!».
Allora il dottore australiano si decise a parlare, sollevando il proprio sguardo in quello dell’uomo che se ne stava comodamente appoggiato al vetro della galleria con una sorta di ghigno superiore sul volto ed esclamando: «House! Sta operando!».
Nonostante continuasse a mantenere gli occhi sulla paziente, Jackleen poté immaginare senza sforzi l’espressione di stupore studiato di House, quando lo sentì esclamare: «Davvero, Chase? Pensavo stesse preparando il panino con tanta maionese che avevo richiesto!».
Chase sembrò voler ribattere, ma Jackleen fu più rapida: «House, perché non ci dici quello che vuoi senza tanti giri di parole?». Ora tutta la sala operatoria stava fissando l’uomo in galleria, a parte la dottoressa Simmons, sempre intenta a operare la paziente.
House allargò il suo sorriso furbo e fece: «Oh, non credo che ti piacerebbe sapere quello che voglio, caro il mio Piccolo Genio!».
La dottoressa Simmons finì di operare il feto, ordinò agli altri medici di richiudere e posò gli strumenti in mano ad un’infermiera, tenendo lo sguardo basso, verso il tavolo operatorio. Proprio in quell’istante la porta della galleria si aprì di nuovo e un’altra voce, di donna questa volta, si propagò per la sala operatoria sempre attraverso gli altoparlanti: «Mi hai chiamata?».
Jackleen riconobbe anche lei e, per la prima volta, alzò lo sguardo dalla paziente per posarlo su Remy, come se volesse essere sicura che si trattasse proprio di lei. Riabbassò così velocemente i suoi occhi viola scuro che solamente House se ne accorse. Il suo sorriso divenne vittorioso mentre rispondeva, con indifferenza, alla dottoressa Hadley: «Tredici… mi sapresti dire perché la nostra paziente sta andando in arresto cardiaco?». Remy lo guardò per un attimo, confusa. Allora House indicò con un cenno della testa la sala operatoria sotto di loro e Tredici seguì il suo sguardo.
Senza una spiegazione logica, la prima persona che riconobbe fu Jackleen, anche se aveva solo la parte superiore del volto scoperta. Un brivido impercettibile quanto inaspettato le percorse la schiena, poi si costrinse a concentrare l’attenzione sulla donna distesa sul tavolo operatorio.
Quando gli occhi azzurro ghiaccio di Remy si posarono sulla paziente, i monitor improvvisamente impazzirono e un acuto suono prolungato segnalò che il cuore della paziente era in fibrillazione. Jackleen ebbe i riflessi più pronti di tutti gli altri e si precipitò subito a rianimare la paziente, ringhiando ordini a tutti i presenti che erano rimasti congelati per un momento dalla sorpresa per la stupefacente profezia di House.


 
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Sono troppo innamorata di questa storia e del pg di Jackleen per non continuarla, quindi dovrete sopportarmi anche se non commenterete! ù.ù xDDDDDDDDDDD
Hope you liked it! ^^
Dog

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Capitolo 4
*** New Adventures ***


«House! La dottoressa Simmons dovrebbe denunciarti!» stava abbaiando fuori di sé Lisa Cuddy dietro la scrivania del suo ufficio. Stava camminando avanti e indietro, massaggiandosi le tempie con il pollice e l’indice della mano destra. Ancora non poteva credere all’ennesima idiozia che aveva fatto House.
Jackleen se ne stava in piedi, tranquillamente appoggiata a una parete. Indossava ancora il camice blu da chirurgo con le maniche corte, stringeva la propria cuffietta nella mano sinistra, aveva le braccia incrociate al petto e si era sciolta gli indomabili capelli lunghi, biondi e lisci. Aveva gli occhi chiusi, come se stesse dormendo in quella posizione molto scomoda. «Non lo farò…» disse con voce ferma e incolore, senza muoversi di un centimetro.
Cuddy si bloccò e osservò la donna, come per accertarsi che avesse davvero detto quello che aveva sentito. Poi fulminò con lo sguardo House, che era mollemente abbandonato e rilassato sulla sedia davanti alla sua scrivania, e gli ringhiò: «Spera che la famiglia della paziente non ti denunci!». Riprese a camminare nervosamente avanti e indietro, mordendosi il labbro inferiore, preoccupata, cercando una soluzione a quello che doveva essere il millesimo problema procuratole da quell’arrogante sconsiderato pieno di sé.
House sostenne il suo sguardo, facendo lentamente ruotare il suo bastone, mentre Jackleen rimase ancora immobile. Entrambi risposero contemporaneamente, pensosi e secchi: «Non lo farà…». Finalmente la dottoressa aprì gli occhi e lei e l’uomo si guardarono in cagnesco per un po’.
Lisa Cuddy si fermò di nuovo ed esclamò, con un tono incontrollato: «Oh, ma insomma! Siate realisti! È logico che il marito di quella donna lo denunci, quando scoprirà che House l’ha distratta facendole recidere un’arteria, dottoressa Simmons, e…».
La ragazza puntò i propri intensi occhi viola scuro in quelli azzurri della Cuddy e la interruppe con un semplice: «Jackleen, Lisa…». Ancora una volta, la donna si ritrovò spiazzata dalla sua calma.
A quel punto intervenne House, che, con un’espressione maliziosa, esclamò, in un sussurro ben udibile: «Sì, proprio così! Ci sta provando con te, Cuddy!».
Prima che Cuddy potesse infuriarsi con lui, Jackleen parlò di nuovo. «Io non ho reciso alcuna arteria… questa è l’unica cosa di cui possiamo essere assolutamente certi!» annunciò con voce ferma e sicura, ignorando completamente le parole dell’uomo.
House e Cuddy sembrarono voler dire qualcosa, ma furono preceduti da Remy, che se ne stava in un angolo, come se non volesse averci nulla a che fare: «Allora dobbiamo scoprire perché è andata in arresto cardiaco mentre la stavi operando e cosa ha provocato quell’emorragia…». Tutti i presenti guardarono la dottoressa Hadley, come se si fossero dimenticati che anche lei si trovasse lì con loro.
Remy osservò gli occhi viola dell’altra ragazza. Per un attimo sembrò perplessa e confusa, ma una maschera professionale nascose subito i suoi sentimenti e i suoi pensieri. Non si era nemmeno accorta… in tutto quel tempo non se n’era nemmeno accorta…
La dottoressa Simmons ribatté, con voce dura: «Dobbiamo un bel niente… è una mia paziente, Re… dottoressa!». Si morse la lingua. La stava davvero per chiamare…
Tutti se ne accorsero e reagirono di conseguenza.
Cuddy era quella meno interessata a quel particolare, infatti lo ignorò, dimenticandoselo all’istante: aveva altre cose ben più importanti in quel momento di cui preoccuparsi.
Remy sembrò per un attimo come presa in contropiede e concentrò lo sguardo inaspettatamente vittorioso sulla parete dietro a Jackleen, non potendo più sostenere quegli occhi viola.
House osservò con molta attenzione entrambe per poi ghignare, saccente.
L’uomo si alzò dalla poltrona davanti alla scrivania di Cuddy ed esclamò: «Già, ma sono io che ho notato che stava per andare in arresto, quindi ora è un caso del mio team, Piccolo Genio!». E fece per uscire, seguito a ruota da Remy, ancora confusa e turbata dalla propria reazione.
Finalmente Jackleen si mosse, parandosi davanti ad House, impedendogli così l’uscita.
«Non ci pensare nemmeno per un istante, Gregory!» esclamò. Il suo tono era furia glaciale altamente pericolosa. Sapeva quanto House odiasse il suo nome completo e come, per lui, risultasse spiacevole più di qualsiasi altro appellativo.
I suoi occhi viola, pervasi da una sfumatura cupa che tradiva la sua rabbia, erano incatenati a quelli blu di House, dominati da una vena sarcastica persino in quella situazione. Le nocche dei pugni chiusi sulle sue braccia ancora incrociate stavano perdendo colore per la forza e l’ira con cui la donna li serrava.
House le rivolse un sorriso ironico e le domandò, provocante: «Se no cosa fai? Picchi lo storpio?».
Un ghigno del tutto simile a quello dell’uomo comparve sul volto di Jackleen, che rispose, con voce gentile: «No, Gregory… sai anche tu che non ne varrebbe la pena!».
Rimasero per qualche momento a guardarsi in cagnesco, studiandosi. Remy e Lisa li osservarono, abbastanza preoccupate per come si sarebbe evoluta la faccenda.
Infine, House spezzò il silenzio teso, ordinando a Cuddy, con un tono volutamente imperioso e pomposo: «Avanti, donna! Dille che il caso è mio, così da porre fine a questa patetica scenata!».
Remy continuava a cercare gli occhi viola della donna specializzata in chirurgia toracica e generale, che, imperterrita, li teneva costantemente puntati in quelli blu elettrico dell’uomo. Si mordicchiò il labbro, quella situazione non le piaceva per niente. Anche se, doveva ammetterlo, l’espressione cupa e pericolosa della donna era spaventosa quanto eccitante.
Scosse la testa, spiazzata dai suoi stessi pensieri. Che diavolo le stava succedendo?
Cuddy rivolse gli occhi al soffitto per qualche attimo per poi puntarli su House e dire, in tono fermo: «No, House… ha ragione lei! La paziente è sua… quindi lavorerete insieme per scoprire cosa la stava per uccidere in quella sala operatoria!».
Fu il turno dell’uomo di roteare gli occhi al cielo. Poi li puntò, incredulo, su Cuddy e disse, in tono lamentoso: «Oh, andiamo! Non intendo spartire un caso del genere con Piccolo Genio!».
Jackleen gli sorrise soddisfatta e serafica, mentre Cuddy ritornava a sedersi comodamente alla propria scrivania e rispondeva ad House, con un tono che chiudeva definitivamente la conversazione: «Beh… allora sarai costretto a lasciarle il caso!». House si girò di scatto, con un’espressione come se Cuddy gli avesse appena detto che progettava di cambiare sesso.
La fissò per un po’, sconvolto e orripilato, ma lei non diede alcun segno di notarlo. Quindi si voltò nuovamente verso Jackleen ed esclamò, con un tono sarcasticamente allegro: «Bene, Piccolo Genio, Tredici, seguitemi verso nuove avventure!».

 
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E rieccomi con un nuovo capitolo! =D Questa fan fiction sta procedendo a gonfie vele e, al momento, sono davvero ispirata! xD Sarà che vedo due volte alla settimana Grey's Anatomy e una House? xDDDDD
Hope you liked it! ^^
Dog

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Capitolo 5
*** Closet ***


Jackleen e Remy seguirono House fino al suo ufficio, dove c’erano gli altri ad aspettarli.
Taub era mezzo stravaccato sulle cartelle del loro paziente precedente e dormiva profondamente. Non era potuto tornare a casa quella notte per colpa di tutti gli esami inutili che House gli aveva fatto fare e, come se non bastasse, sua moglie era sicuramente infuriata con lui.
Foreman stava bevendo un caffè amaro, appoggiato al tavolo, immerso nei suoi pensieri. Appena vide arrivare House si sedette sulla sedia alla sinistra di Taub e tirò un calcio alla gamba del chirurgo plastico di fianco a lui, che si svegliò di soprassalto con uno strano grugnito, proprio mentre i tre dottori entravano nell’ufficio.
Jackleen assunse un’espressione al metà tra il divertito e il finto scandalizzato ed esclamò, sorpresa: «Ah! Mi ero sempre chiesta dove si nascondessero i medici per oziare!».
Taub arrossì all’istante, non sapendo cosa dire, mentre House, sentendosi personalmente insultato dalla parola “medici”, ribatté acido: «Beh, qui i chirurghi si sbattano le infermiere negli sgabuzzini, quindi hai poco da chiamarci medici con quel tono superiore, Piccolo Genio!».
Il sopracciglio destro di Jackleen si alzò mentre esclamava: «Sgabuzzini? Davvero squallido!». Dopodiché scosse la testa, fingendosi platealmente delusa e si sedette a capotavola, sulla sedia più lontana dalla porta. House sembrò sghignazzare sotto i baffi al suo comportamento e si sedette dall’altro lato, di fronte a Jackleen.
Alla sua sinistra, Taub, mormorò, indignato: «Io sono un chirurgo plastico!». Subito dopo si zittì: sapeva per esperienza che vantarsi della sua professione con altri chirurghi non era affatto una saggia mossa. Guardò, innervosito, il nuovo, affascinante e sexy chirurgo mentre si voltava, lentamente per puntare gli occhi viola nei suoi.
Jackleen si prese un momento per osservarlo, lasciandolo senza fiato con il suo sguardo magnetico, per poi dire, seriamente grata: «Allora ti devo ringraziare! Rendi davvero il mondo un posto migliore con tutte quelle tette di due o tre taglie superiori alla media!».
Taub distolse lo sguardo, rassegnato.
La battuta sul seno era sempre la solita, rigirata in tutti i modi possibili, ma sempre la solita.
House l’apprezzò molto, infatti ghignò divertito e commentò: «Oh, finalmente ci ritroviamo d’accordo su qualcosa, Piccolo Genio! Se vuoi potremmo festeggiare questo evento straordinario nello sgabuzzino al secondo piano…», controllò l’orologio che aveva al polso per poi concludere, «… dovrebbe essere libero in questo momento!». Remy, che era rimasta in piedi fino a quel momento, fece uno strano movimento che aveva un qualcosa di profondamente infastidito e si andò a sedere sulla sedia alla destra di Jackleen. House notò tutto e fece, sarcasticamente: «Però, forse, l’avevi già prenotato con Tredici…».
Il dottore brizzolato si godette ogni singola e minima reazione alle sue parole in primissima fila, senza perdersene nessuna… l’unica stonatura in quel quadretto quasi perfetto era la mancanza di un pacchetto di popcorn e una coca-cola alla spina.
Remy guardò House con il panico negli occhi, per poi abbassare rapidamente lo sguardo, nella disperata ricerca di qualcosa di ironico da dire o di intelligente da fare. Ma le sue labbra erano completamente paralizzate dalla paura che il suo capo avesse scoperto qualcosa e la sua mente, colpita a tradimento, si era improvvisamente riempita di immagini davvero poco caste che riguardavano la dottoressa Simmons, lei e un certo sgabuzzino al secondo piano.
Foreman si agitò sulla sua sedia, spiazzato dalle parole di House e dal comportamento di Remy.
Taub osservò colpito le due donne e si sentì intimamente vendicato per la frecciatina di prima.
Jackleen, calma, sorrise ad House, serafica, mentre un uragano di sentimenti inattesi le sconvolgeva il cervello. Perché provava tutto quello per una sconosciuta? La scoperta che ci fosse più di semplice attrazione per Remy Hadley, da qualche parte in lei, in qualche periferia della sua mente, probabilmente, era semplicemente impensabile… eppure sembrava reale.
Quando era entrata in quel locale, quando aveva posato lo sguardo su quegli occhi di ghiaccio, quel volto divino e quel corpo perfetto, quando aveva sfiorato quella pelle calda, quando aveva baciato quelle labbra ardenti non aveva mai nemmeno lontanamente pensato…
Non avrebbe mai pensato che la mattina successiva si sarebbe ritrovata a voler, con tutta se stessa, toccare nuovamente quei capelli morbidi e profumati, posare ancora le sue labbra su quella pelle liscia e ambrata, prendere quel volto tra le mani e stare lì a guardarlo fino alla fine dei tempi.
Semplicemente guardarlo, senza dire una sola, singola e inutile parola.
E, sì, House aveva fatto centro ancora una volta… in quel preciso momento avrebbe voluto essere nello sgabuzzino del secondo piano con Remy Hadley. No, non in uno sgabuzzino… sarebbe stato pessimo, davvero pessimo. Lei meritava molto di più. Molto di più di uno sgabuzzino, molto di più di un bagno del miglior locale di Princeton. Si rallegrò per non aver fatto sesso con lei in quel luogo squallido. Sarebbe stato molto più romantico in qualsiasi altro posto.
In un secondo, la sua mente ritornò alla realtà e rimase scandalizzata da quei pensieri che di norma non le appartenevano. Lei, Jackleen Simmons, che immaginava il luogo più romantico in cui fare sesso con una ragazza incontrata al bar la sera precedente?
Dovevano esserci degli allucinogeni molto potenti nel caffè che aveva preso a colazione.
Ghignò, un ghigno che la rendeva del tutto simile ad House, ed esclamò: «Non posso negarlo, Greg… ci ho fatto più di un pensierino appena l’ho vista!». Esorcizzò tutte le precedenti riflessioni con un sorriso crudelmente sexy rivolto a Remy, chiedendole: «Allora? Che ne dici? Tra… cinque minuti, pensi di essere libera?».
La ragazza al suo fianco sobbalzò impercettibilmente a quel tono, totalmente diverso da quello che le aveva rivolto fino a quel momento. Era il tono ironicamente ferino che rivolgeva a tutti gli altri. L’aveva usato anche con lei… quindi, si disse Remy, era meglio dimenticarsi la sera precedente e non sperare nemmeno per un secondo che potesse nascere qualcosa tra loro due.
Rivolse uno sguardo fulminante alla dottoressa bionda e le sibilò, irata e ferita: «Fottiti…». Taub e Foreman osservavano la scena allibiti. Tredici non si era mai comportata in quel modo. Certo, era ironica e sarcastica e qualche battuta cattiva le usciva ogni tanto, ma mandare a quel paese un superiore… poi con quel tono e con quello sguardo intriso d’odio…
Era fuori di sé!
House stava osservando attentamente la scena e cercava di indovinare come sarebbe andata a finire. Non lo preoccupava per nulla, era divertimento allo stato puro per lui.
Da qualche parte, nelle profondità del petto, Jackleen percepì un dolore sordo sentendo il tono con cui le si era rivolta Remy. A quella sensazione inaspettata e sgradevole, che la faceva sentire vulnerabile ed insicura, la dottoressa Simmons fece una delle poche cose che sapeva fare davvero bene: contrattaccare diventando ancora più sgradevole. Le rivolse un altro ghigno crudele e commentò: «Non la facevi così difficile ieri sera, Remy!».
Jackleen notò una serie di cose strane.
Prima di tutto, appena disse quelle parole il dolore non si quietò affatto, anzi, diventò ancora più insistente e potente.
In secondo luogo, la reazione di Remy fu tra quelle più strane che lei avesse mai visto. Infatti rivolse un breve sguardo di puro terrore verso Foreman, per poi abbassarlo di nuovo. Era davvero spaventata e preoccupata, Jackleen riusciva a leggerlelo in volto.
Remy si alzò in piedi, seguita a ruota da Foreman, che sembrava pervaso da una rabbia che Jackleen non comprendeva. La ragazza agguantò la cartella del paziente precedente e, con un flebile: «Vado a ricontrollare gli ultimi esami!», uscì dall’ufficio sparendo dalla vista dei dottori.

 

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Ed ecco un nuovo capitolooooo! xDDDD Stranamente sto aggiornando quasi regolarmente... O.O QUASI... xDDDDD Comunque... ù.ù
Hope you liked it! ^^
Dog

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Capitolo 6
*** Gentle Hug ***


House esclamò, entusiasta per quello che avevano appena scatenato le sue parole: «Ooooh… mi sa che l’hai fatta davvero incazzare, Piccolo Genio!». Jackleen lo ignorò. Quella non era rabbia era qualcos’altro… e c’entrava sicuramente Foreman. Puntò gli occhi sull’uomo ancora in piedi, con la mandibola contratta e un’espressione corrucciata. Il dottore la guardò per un secondo e lei fu certa di aver visto una buona dose d’ira nei suoi occhi scuri. Improvvisamente capì.
House interruppe nuovamente i suoi pensieri con una battutaccia delle sue solite: «Ma… che ne dici di approfondire quello che è successo ieri sera, Piccolo Genio? Sono certo che anche Foreman e Taub sono curiosi almeno quanto me di sapere qualcosa in più sull’argomento…».
Jackleen scoccò uno sguardo furioso ad House, per poi dire, semplicemente: «Vado in bagno, non fare altre stronzate mentre sono via, House! Per oggi ne hai fatte abbastanza, mi pare…».
Il dottore le ghignò, furbo, e, mentre lei si alzò dalla sedia e si diresse verso la porta, ribatté: «Parla la regina delle stronzate…». Ma, a quel punto, Jackleen era già fuori dall’ufficio, alla ricerca di un bagno o di un qualsiasi luogo tranquillo in cui poter sentire i propri pensieri e comprenderli.
Vagò per un po’ nell’ospedale, senza trovare una stanza vuota: anche il bagno delle donne era pieno di infermiere e dottoresse. Si spazientì ed entrò in una sala dell’ambulatorio dell’ospedale.
Questa, finalmente, era silenziosa. Totalmente silenziosa.
Chiuse gli occhi e sbatté la porta dietro di sé, appoggiandosi ad essa e cercando di far entrare quanta più aria possibile nei polmoni. Le girava la testa per tutte quelle emozioni che le erano piovute addosso in quel breve lasso di tempo. L’unica cosa che riusciva a capire era di aver ferito Remy e di essersi inspiegabilmente autodistrutta con questo suo gesto. Poi c’era il fatto che, per quanto avesse capito, Remy stava con Foreman: era il solo modo di spiegare la reazione dell’uomo alle parole di Jackleen. Un sentimento potente, sottile e bruciante le si installò nel petto, pugnalandola sempre più insistentemente. Impiegò qualche secondo per riconoscerla, da quanto forte fosse.
Gelosia, gelosia allo stato puro. Non l’aveva mai provata, non a questo livello.
Quel sentimento le bloccava quasi il respiro e le sfocava la vista. Probabilmente fu per questo che si accorse solo in quel momento di non essere sola in quella sala.
Una donna, seduta sul lettino, la fissava, immobile.
I suoi occhi di ghiaccio arrossati, come se avesse appena pianto, erano pervasi da terrore, sofferenza e colpa. Le sue sopracciglia sottili debolmente inarcate in un’espressione di sincera sorpresa. Il braccio sinistro disteso davanti a sé, la parte interna rivolta verso l’alto. Una lunga e minacciosa siringa a mezz’aria nell’esitante stretta della sua mano destra.
Remy, davanti a lei, intenta a iniettarsi chissà quale schifezza in vena.
Jackleen agì d’istinto. Avanzò rapidamente, con decisione, le bloccò il polso sinistro nella sua presa ferrea, allontanandolo dal corpo della ragazza, afferrò la siringa e la gettò sul pavimento, lontana. La ragazza si riprese solo in quel momento e le urlò contro, senza poterla guardare negli occhi: «Ma che vuoi? Cosa diavolo stai facendo?».
Jackleen avvicinò il proprio volto al suo e l’aggredì: «No, cosa diavolo credi di fare TU!».
Remy tentò di ribellarsi, ma la stretta della bionda era troppo salda, allora la spinse indietro, alzandosi in piedi e gridando: «Ma che te ne importa!».
Jackleen fece qualche passo indietro, ma non perse l’equilibrio né mollò la presa. Con voce ferma, cercando i suoi occhi azzurri, continuò a chiederle: «Che volevi fare, Remy? Dimmelo!».
Remy tentò ancora di liberarsi dalla morsa della donna, con più forza, continuando ad urlarle contro: «Lasciami! Ti ho detto di lasciarmi!».
Jackleen era immobile. I magnetici occhi viola che tentavano di incatenare quelli di ghiaccio della ragazza. Non diceva più nulla, non era più necessario: l’insistente e irremovibile domanda che voleva rivolgere a Remy era scolpita nel suo sguardo deluso e preoccupato. Uno sguardo che racchiudeva un’iperbole e più di parole che non avevano il bisogno di essere dette.
Lottarono in quel modo ancora per qualche minuto. Gli occhi della ragazza che continuavano a scappare a quelli della donna, cercando una via di scampo inesistente.
Le proteste verbali e fisiche di Remy perdevano vigore a vista d’occhio. Le sue parole divennero sussurri frammentati da deboli singhiozzi. I suoi tentativi di ribellione sfumarono fino a concludersi quando si lasciò completamente andare, accasciandosi tra le braccia di Jackleen, come se avesse all’improvviso esaurito tutte le forze. Ora erano i singhiozzi ad essere interrotti dai sussurri.
«Ti prego, lasciami…» soffiò, ormai in lacrime, Remy all’orecchio di Jackleen, in un tono di stanca e disperata supplica.
Solo allora la dottoressa Simmons obbedì alla richiesta della ragazza, liberandole delicatamente i polsi e stringendola dolcemente in un abbraccio. Una mano sulla sua schiena, l’altra tra i suoi capelli ramati, la guancia sinistra appoggiata alla sua fronte.
Remy era ancora un peso morto senza forze, il corpo scosso da ininterrotti singhiozzi.
Jackleen reggeva la ragazza senza alcun problema, immobile e silenziosa. Stava cercando con tutta se stessa delle parole per far star meglio Remy, per non ferirla ancora.
Era la sua priorità, in quel momento. Sentì una sensazione strana: come se quella fosse sempre stata la sua priorità, come se quello fosse il finora celato scopo della sua intera esistenza.
Spostò con gentilezza la propria mano dai capelli della ragazza fino alla sua guancia, asciugandole le lacrime, accarezzandola. Remy rabbrividì a quel dolce contatto e si strinse di più a lei, rifugiandosi nell’incavo del suo collo. Fu una mossa istintiva che provocò un rapito sorriso involontario sulle labbra di Jackleen.
Allora la donna la guidò su un divanetto morbido lì accanto e si sedette con lei sopra. Remy si rannicchiò ancora di più contro al suo corpo, come se cercasse tutto il suo calore.
«Non ti preoccupare… sono qui…» mormorò la donna bionda mentre accarezzava lentamente la schiena di Remy con lo scopo di calmarla. Jackleen continuava a sentire il respiro irregolare della ragazza sulla morbida pelle del proprio collo e faceva fatica a trattenere i brividi ogni volta che la sfiorava involontariamente con le sue labbra.
Sussurrava incoraggiamenti a raffica, dolci, delicati e gentili. Era la prima volta che parlava in quel modo ad una sconosciuta. Così calma, rassicurante e serena. Come se fosse desiderosa di aiutare qualcuno che le stava a cuore. In effetti erano davvero poche le persone che le stessero a cuore, si potevano contare sulla punta delle dita di una mano.
I singhiozzi si affievolirono fino a sparire del tutto.
Finalmente Remy trovò il coraggio di alzare i propri occhi azzurri, ora rossi per il pianto, in quelli incredibilmente viola e dolci di Jackleen.
Un sorriso gentile si delineò sulle labbra della donna bionda.
«Ehi!» mormorò a voce bassissima Jackleen a Remy, guardandola come se non l’avesse mai vista prima. Si accorse che quello che stava per pensare sembrava davvero uno schifoso stereotipo da film, ma… Dio, quant’era bella quando piangeva.
Altre due lacrime caddero dagli occhi di Remy e ricominciò a piangere in silenzio.
Jackleen reagì in meno di un secondo, sussurrandole dolcemente: «No, no! Non farlo, ti prego! Meglio dirmi cosa c’è che non va, non credi?». Le sorrise nuovamente. Un sorriso sghembo un po’ incrinato dalla preoccupazione, ma sincero.
Remy non rispose al sorriso, ma vinse la tentazione di abbassare gli occhi e le rispose, con un groppo in gola: «La… la prima volta… al bar… non ho… nemmeno notato il colore dei tuoi occhi!».
L’espressione di Jackleen divenne confusa e poi mortificata. Ma la ragazza non la vide, perché distolse subito lo sguardo, non potendo più reggere il peso di quegli occhi di un colore così unico.
«Stai piangendo per me? Per favore… smettila…» disse a bassa voce Jackleen, tristemente. Alzò delicatamente il volto di Remy con la mano, affinché la guardasse nuovamente negli occhi e continuò la frase, con un altro dolce sorriso sghembo: «Il colore del mio iride non è abbastanza importante per portarti a questo… e poi… puoi imprimertelo nella mente quando vuoi, se vuoi… io non vado proprio da nessuna parte, Remy!». Poi, lentamente, avvicinò le proprie labbra a quelle della ragazza.
Chiusero tutte e due gli occhi, prima di baciarsi. Si sfiorarono appena, piano, dolcemente, come se fosse la prima volta.
Senza esitare, Remy rispose al bacio, istintivamente, ma senza approfondirlo.
Dopo un po’ la ragazza si scostò e, serena, guardò Jackleen.
Si guardarono, semplicemente perdendosi l’una negli occhi dell’altra, finché Remy non sorrise e si accoccolò su di lei, appoggiando la propria testa nell’incavo del collo di Jackleen.
La dottoressa Simmons sorrise e, per la prima volta, qualcosa di puro e gioioso apparve sul suo volto e accese i suoi incredibili occhi viola mentre appoggiava la propria guancia sui capelli di Remy e la stringeva gentilmente a sé.
La ragazza stava ancora sorridendo sul petto di Jackleen, quando le sussurrò: «Grazie…».
La donna non rispose, ma iniziò semplicemente ad accarezzarle lentamente la spalla, poi il braccio, fino ad arrivare a giocare dolcemente con le sue dita.
Jackleen realizzò, improvvisamente, che tenere Remy tra le braccia era così incredibilmente facile e naturale che era sicura che si sarebbe sentita strana dopo averla lasciata andare.

 
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Chissà perché con questa coppia i capitoli mielosi mi vengono naturali... xDDDDDDDDDD
Comunque... ù.ù

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Dog

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Capitolo 7
*** AZ ***


La giornata trascorse tra esami inutili, diagnosi errate e peggioramenti della paziente.
Jackleen si massaggiò una tempia con la mano destra, leggendo per l’ennesima volta i sintomi di Irene Johnson alla lavagna che usava House per studiare i casi. Era sola nella stanza, quindi tirò fuori il suo portatile dalla professionale cartella nera che si era portata appresso dal reparto di chirurgia. Aveva bisogno di scrivere e ordinare lei stessa i sintomi della paziente, cercando un qualsiasi nesso tra loro.
Accese il computer e uno sbadiglio la prese alla sprovvista. Allora affogò la stanchezza in una sorsata di caffè caldo. Poi diede un’occhiata all’ora: era appena scattata la pausa pranzo.
Sorrise e si chiese se avrebbe trovato la sua metà (come la chiamava lei) in chat. Si disse che valeva la pena controllare, visto che aveva mezz’ora libera e nemmeno la più pallida idea di mettere qualcosa sotto i denti.
Prese il cellulare e scrisse:
AZ, se ci sei fatti sentire!
Poi appoggiò il cellulare al tavolo, concentrandosi sul lavoro. Iniziò a fare una lista dei sintomi della paziente. Non arrivò nemmeno all’emorragia che il suo cellulare prese a vibrare: AZ che si faceva sentire. Un altro sorriso si delineò sulle sue labbra.
Afferrò il telefonino e guardò la risposta:
Jaaaaaaaaack! Ma dove eri finita?! Mi sono preoccupata!!! Ieri ho aspettato un tuo sms fino alle 2 A.M.!!! Turno alle 6, la pagherai cara! Com’è Princeton? Qui, naturalmente, piove… niente di nuovo, io amo Seattle!!!
Il suo sorriso gioioso si allargò e, mentre leggeva quelle parole, tutto il nero di quella giornata sfumò nel nulla. La sua AZ era sempre la stessa: in due righe di messaggio cinquecento domande e ventidue punti esclamativi. Ridacchiò e rispose:
Schisi allo sterno di feto di 10 settimane compiuta, ma complicazioni inaspettate per la madre… ci lavoro da ore e nessuna soluzione. Idee? Ora pausa pranzo con caffè nell’ufficio del famoso House. Scusa per ore piccole. Non ho visto molto di Princeton, solo un locale, ecco perché non c’ero ieri sera. Montagna di cose da dirti… ma prima… come va con Calliope? Il ristorante costosissimo ha dato i suoi frutti?
Sghignazzò mentre mandava il suo messaggio, prevedendo la risposta. Calliope era la nuova ragazza di AZ, di cui lei, Jackleen lo sapeva dal tono con cui ne parlava al telefono, era completamente, assolutamente ed inevitabilmente cotta.
Continuò il suo lavoro e finì di mettere giù i sintomi della paziente. Li fissò per un bel po’, senza che nulla le balenasse nella mente geniale. Si concesse un’altra dose di caffeina.
Il suo telefonino vibrò di nuovo, accanto al portatile. Ci aveva messo tanto questa volta, chissà che poema era venuto fuori…
Guardò il cellulare e lesse:
YAAAAAAAAAY!!! Alla decima settimana?! Fantastico!!! Complicazioni? Non dovute a te, sono certa… patologia pre-esistente? Wooooooooooow! Ufficio di HOUSE?! Quel HOUSE?! Maledetto il tuo culo! Però ho sentito che è intrattabile, non ci vorrei lavorare! Piuttosto… vedi di mangiare qualcosa, almeno un pound-cake! Se no mi svieni durante un intervento!!! Divertente il locale? Nessuna conclusione alla serata dopo ristorante… ha preso una misera insalata, ho pagato ed è scappata dicendo che non stava bene! E oggi l’ho ritrovata al pronto soccorso, doppio turno… MI EVITA… idee sul perché? Io nessuna, cavolo! Abbiamo pure litigato! Io le ho detto che forse era meglio che non continuassimo la relazione e lei ha risposto: “Forse”… ti rendi conto?! “Forse”!!! Comunque… parliamo della montagna di cose che hai da dirmi, che se no inizio ad urlare dalla frustrazione spaventando i miei pazienti!!!
Sì, un poema. Si apprestò a scriverne uno anche lei, sbuffando leggermente, divertita dal lato protettivo di AZ e dicendosi che il suo “yay” le mancava terribilmente.
Digitò velocemente:
Anch’io pensavo patologia pre-esistente. House continua a dire che ho reciso arteria. Idiota pompato. Ora non ho fame, mangerò un panino dopo, mamma. Oh, sì. Il locale era divertente… MOLTO divertente! Uhmmmmmm… comportamento strano… c’è qualcosa sotto. Sicuramente ha le sue cose… per non voler far sesso con te e comportarsi in quel modo. Non esistono altre ragioni al mondo per cui non voglia portarti a letto, AZ: sei troppo hot! Non urlare o i maledetti mocciosi scapperanno tutti e i genitori ti denunceranno per molestie. Ok, parliamo del locale… discoteca con musica orribile, ma quella più alla moda. Incontro hot, ma senza conclusione. Remy, sui 25 anni, nuova definizione di sexy. Stamattina me la sono ritrovata in ospedale. È nel team di House. Prima litigata davanti a tutti, poi
«Molto professionale! Mandi sms durante il turno!» esclamò Remy, arrivando dietro a Jackleen.
La donna sobbalzò, trattenendo il fiato per lo spavento: non l’aveva sentita arrivare!
«È… è la pausa pranzo!» ribatté debolmente la dottoressa alla ragazza, che aveva iniziato a guardarla stranita e divertita. Lanciò uno sguardo furtivo al telefono e notò che aveva inviato il messaggio incompleto involontariamente, probabilmente nel momento in cui il suo cuore aveva saltato uno o due battiti.
Posò il cellulare sul tavolo mentre Remy le chiedeva, con un ghigno leggero: «Ti ho spaventata?».
Jackleen le rispose con un sorriso nervoso: «Solo un po’… a morte!».
Ridacchiarono tutte e due, allegre. All’improvviso il cellulare della donna iniziò a vibrare. Jackleen tese la mano… troppo tardi. Remy le stava porgendo il telefonino.
La donna le sorrise, di nuovo ansiosamente, per poi pregare che la ragazza non vedesse lo schermo. Invece, quasi avesse sentito i suoi pensieri, gli occhi di Remy si posarono proprio, involontariamente o meno, sul cellulare che aveva in mano.
«Chi è AZ?» chiese Remy, curiosa, cercando di suonare indifferente per non far trasparire la gelosia irrazionale che le era istantaneamente sorta nel petto.
Jackleen, con una mossa rapida, le prese il telefono delle mani e, con un sorriso affettato, mentì: «Solo un vecchio amico!». In realtà non era una bugia completa, aveva solo invertito il sesso: AZ era la sua migliore amica dall’asilo o giù di lì.
Remy si insospettì leggermente per il tono, ma Jackleen era un’ottima bugiarda: aprì il messaggio davanti a lei, con un’aria tranquilla, per far vedere che non nascondeva nulla.
Non c’era assolutamente nulla tra lei e AZ e mai ci sarebbe stato. Ma la loro relazione era davvero profonda e complessa e ad un primo sguardo poteva sembrava qualcosa di molto più che amichevole. In effetti lo era: era come se fossero sorelle, si conoscevano come se avessero passato ogni singolo attimo della loro vita insieme e si amavano profondamente.
Ma assolutamente nulla a che vedere con il sesso.
Lesse il messaggio della sua migliore amica:
Lo sapevo, uno stronzo! Troppo hot? Maledetti mocciosi?! POIIIIIII…?!?!?!?!?!?!?!?!?!?
Remy, cadendo in pieno nel trucchetto di Jackleen, le sorrise, maliziosa, mentre lei stava per rispondere ad AZ.
Ormai, la ragazza pensava che non ci fosse nulla sotto, quindi, tranquillizzata, si avvicinò alla donna, scostandole i capelli lunghi, e si chinò, iniziando a baciarle ogni centimetro di collo.
Jackleen si pietrificò sul posto, sospirando per il piacere. Una parte della sua mente le diceva di gettare il telefono lontano, ma quella più ragionevole le ricordava la testardaggine della sua migliore amica, che l’avrebbe chiamata e tempestata di sms per l’eternità se non si fosse fatta viva all’istante.
Remy le sussurrò sensualmente all’orecchio, mordicchiandole il lobo: «Che ne dici di ricominciare da dove abbiamo interrotto ieri sera?».
Jackleen si trattenne dallo saltarle addosso e disse, con voce un po’ roca e affannata: «Sarebbe meglio chiudere la porta e le tendine, non credi?».
La ragazza ridacchiò e andò a fare come la donna le aveva detto. Jackleen sfruttò quel momento per scrivere ad AZ, alla velocità della luce:
È qui, scena hot parte 2… stasera ti racconto!
Inviò il messaggio e poi spense il cellulare. Proprio in quel momento Remy portò a termine il suo compito e ritornò da lei, baciandola con passione. Nulla a che vedere con il bacio casto di poco prima. Entrambe rabbrividirono sentendo la lingua dell’altra sulla propria.
Senza staccarsi da lei, Remy le si mise a cavalcioni, appoggiandosi al tavolino dietro di lei e tirandola a sé. Jackleen la seguì e sospirò ancora una volta di piacere, quando i loro corpi aderirono. Poi la bionda la strinse a sé per sentirla ancora più vicina, mentre esplorava il suo corpo con le dita. Le sfiorò la pelle nuda della schiena sotto al camice da medico e alla maglia grigia che indossava. Remy inarcò la schiena al tocco leggero di Jackleen, mentre scendeva dalla bocca al collo della bionda, tracciando percorsi immaginari con la lingua sulla sua pelle candida.
La dottoressa Simmons dovette mordersi il labbro inferiore per non farsi sfuggire un gemito di piacere quando Remy toccò un punto più sensibile del resto del collo. La ragazza si accorse della reazione che aveva scatenato in Jackleen, quindi iniziò a concentrare i baci in quel punto finché non riuscì a strapparle un «Oddio…» affannato tra un sospiro e l’altro.
La bionda sfilò con un gesto fluido e buttò per terra il camice bianco di Remy, che non si staccò dal suo collo, semplicemente sorridendo sulla sua pelle. La voleva torturare ancora dolcemente sfruttando quel punto appena scoperto.
Il respiro di Jackleen si fece sempre più irregolare e fu scossa da ripetuti brividi di piacere mentre le labbra e la lingua di Remy giocavano sul suo collo. La bionda si mise a ridacchiare in tono sommesso mentre sentiva l’altra ragazza sorridere ancora sulla sua pelle, poi prese il volto di Remy fra le mani e incatenò le sue labbra alle proprie in un bacio passionale, profondo e lento. Si staccò un po’ da lei, per farle prendere fiato, mordicchiandole gentilmente il labbro inferiore poi riprese a baciarla come mai aveva baciato nessun’altra.
I mugolii di piacere della ragazza furono soffocati dalle labbra di Jackleen e fu il turno del suo fiato di affannarsi. Un ghigno malizioso comparve sulle labbra di Remy quando, improvvisamente, fece scendere la propria mano dalla schiena della donna fino alla sua coscia, ancora coperta dai pantaloni blu da chirurgo, iniziando a sfiorarla con lievi carezze mentre, con l’altra mano, prese il bordo inferiore della maglietta blu a maniche corte del chirurgo, alzandola lentamente. Entrambe ne approfittarono per riprendere fiato quando si staccarono di nuovo perché Remy potesse sfilare completamente la maglia alla bionda.
Si concesse un momento per studiare la bellezza del fisico perfetto della donna. Lo sguardo le cadde sul reggiseno nero che indossava, tutt’altro che professionale. Ridacchiò ed esclamò, in un tono malizioso e divertito: «Ah, e tu vieni al lavoro vestita così?».
Jackleen rise con lei e le rispose: «Tutti gli altri erano in lavanderia, mi dispiace!».
Remy le lanciò uno sguardo di sottecchi e commentò: «Direi che questa volta ti potrei anche perdonare…», per poi continuare a sghignazzare sotto i baffi.
Ripresero a baciarsi con passione e dolcezza, entrambe felicemente sorridenti.
Appena Jackleen fece scivolare la propria mano sul fondoschiena di Remy, un rumore sordo provenne dall’esterno della sala. Le due ragazze sobbalzarono per lo spavento, guardandosi intorno, individuando finalmente la fonte del rumore: qualcuno stava bussando alla porta dell’ufficio di House.

 
*****
Salve a tutti! =D Scusate per il ritardo EPICO... .__. La scuola mi sta sommergendo! xDDD Grazie diecimila per seguire questa storia e commentare! =D
Comunque, questo capitolo mi piace molto perché introduce il rapporto tra Arizona e Jackleen, come avrete capito! xD Quindi, finalmente, è arrivato il crossover! *-*
Che altro dire?

Hope you liked it! ^^
Dog

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Capitolo 8
*** Worried ***


Remy e Jackleen si fissarono negli occhi per un momento, stupite, temendo che qualcuno le potesse scoprire. Si alzarono dalla sedia di scatto, il più velocemente possibile, cercando di non fare rumore.
La ragazza prese subito il proprio camice bianco da terra e se lo infilò, mentre la bionda vagava in cerca della sua maglietta blu da chirurgo. Dove diavolo l’aveva lanciata Remy?
Sconfitta, sussurrò, nel panico, alla ragazza: «La mia maglia… dov’è la mia maglia?».
Posò lo sguardo su Remy, che aveva l’oggetto della sua disperata ricerca appeso all’indice della mano destra e un sorriso furbo e malizioso in volto, mentre si imprimeva ogni singolo particolare dell’immagine di Jackleen in reggiseno nella mente.
La bionda ridacchiò silenziosamente nel vedere l’espressione della castana.
«Tredici, apri! So che sei qui!» urlò una voce maschile infuriata fuori dalla porta e si sentirono altri colpi impazienti alla porta.
Il sorriso di Remy si perse nel panico mentre lanciava un’occhiata di puro terrore all’entrata dell’ufficio. Jackleen intercettò quello sguardo, riconoscendo la voce dell’uomo, e subito una maschera di ghiaccio occultò tutte le sue emozioni. Strappò dalle mani della ragazza la propria maglia con un gesto secco e brusco. Remy sobbalzò un po’, sentendo l’indumento sfuggirle tra le dita, ma non si mosse. La bionda si rivestì e si diresse, convinta ed innervosita, alla porta.
La ragazza la guardò allibita e preoccupata, paralizzata dal terrore.
Jackleen aprì la porta, con uno scatto brusco e sbottò a Foreman, davanti a lei: «Che diavolo vuoi, brutto idiota?». Il veleno bruciante nelle sue parole spinse il dottore a fare un passo indietro.
Si riprese quasi subito e urlò, furioso: «Levati, devo parlare con Tredici!». Lo spettacolo di Foreman irato avrebbe fatto fuggire il più robusto tra gli uomini, ma Jackleen rimase completamente immobile e lo squadrò glaciale. Grazie alla sua altezza poteva fronteggiarlo senza nemmeno dover alzare lo sguardo.
«Mi fa davvero molto piacere… ma io stavo dormendo, deficiente!» gli rispose, quasi ringhiando. Ora tutti quelli nel corridoio stavano assistendo, molto incuriositi, alla litigata tra i due dottori.
Foreman si guardò attorno, abbastanza imbarazzato, ma riuscì ancora a replicare seccamente con la poca dignità che gli era rimasta: «Sto cercando Tredici e sono sicuro che sia qui dentro!».
Remy, nascosta nella stanza dietro a Jackleen, tremò appena, involontariamente scossa da un brivido di paura. La bionda non la vide e rispose a Foreman, con un tono talmente gelido che, se avesse potuto, avrebbe scottato il medico: «Non hai pensato alla mensa? Sai, di solito è lì che vanno le persone nella pausa pranzo!». Il dottore non ebbe nemmeno il tempo di pensare ad un modo intelligente per ribattere che Jackleen gli aveva già chiuso la porta in faccia.
La bionda si voltò verso Remy, lanciandole uno sguardo di fuoco. La ragazza si riprese, tornando a respirare normalmente, mentre Jackleen recuperava il proprio cellulare e chiudeva il portatile con un gesto deciso.
La castana le sorrise, maliziosa, si avvicinò a lei e mormorò, sensuale: «Allora, se non sbaglio eravamo rimaste… da queste parti, mi pare di ricordare…». Le accarezzò il braccio scoperto e fece per baciarla sulle labbra, ma Jackleen la scostò, lanciandole un’occhiataccia.
Remy la guardò spiazzata, allora la bionda le chiese, con voce dura che nascondeva il suo sentirsi ferita e la gelosia che si era impossessata del suo petto: «Pensi che io sia completamente idiota?».
La ragazza sembrò non capire o, più probabilmente, non voler capire. «C… cosa, scusa?» le domandò, preoccupata, cercando la sua mano.
Jackleen la bloccò con uno sguardo glaciale, una sfumatura cupa pervadeva i suoi occhi viola scuro quando le ringhiò contro, irata: «Pensi di potermi usare per far ingelosire il tuo ragazzo? Pensi di aver trovato la prima sprovveduta che penda dalle tue labbra, perfetta per cornificarlo?».
Remy non poté più sostenere le sue occhiate accusatrici, quindi mormorò, abbassando gli occhi che si stavano rapidamente riempiendo di lacrime: «Non… non stiamo più insieme…».
La risata sarcastica della bionda la colpì in pieno, come un pugno diretto allo stomaco.
«Non state più insieme… certo! E allora perché stavi morendo di paura? Me lo spieghi? Perché avevi il terrore che ci scoprisse?» le urlò Jackleen, indicando la porta chiusa dell’ufficio.
Ogni singola parola era un affondo sempre più profondo e doloroso per Remy, che cercava in ogni modo di trattenere il pianto, anche se una parte di lei voleva solo confessarle tutto, liberarsi di quel peso enorme. Ma l’orgoglio o la paura o chissà cos’altro vinsero su quella voglia e lei riuscì solamente a sussurrare appena: «Io…».
Il silenzio crebbe tra di loro. Un silenzio teso, pieno di disagio e irritazione.
Finché non fu infranto dalla voce tagliente e disgustata di Jackleen: «Aspetta… non dirmelo… ho capito! Pensi che io sia una puttana, giusto?».
Remy sobbalzò violentemente a quella parola e al tono con cui la bionda la pronunciò. Era intriso d’ira, tristezza, delusione e qualcos’altro che non riuscì a decifrare.
Finalmente riuscì a reagire, ma era troppo tardi. Jackleen stava già prendendo le sue cose e uscendo dalla stanza quando la ragazza disse, ferita, con la voce piena di disperazione, cercando di prenderle la mano ma arrivando troppo tardi: «No… non… Jackleen… ti prego, torna qui… Jackleen…».
Quando la bionda udì il suo nome sulle labbra della ragazza, chiamato con quel tono assolutamente perso, si sentì morire, agonizzare lentamente, distruggere dall’interno. Ma mascherò tutto con un’espressione delusa e fredda e uscì dall’ufficio, lasciando la porta completamente spalancata.
A metà corridoio incontrò Foreman: aveva un’espressione incredula e irata sul volto. Jackleen gli rivolse uno sguardo di puro odio e se ne andò, domando due istinti opposti che la stavano dilaniando: scappare via urlando o ritornare in lacrime da Remy, scusandosi per le cose orribili che le aveva detto?
Mantenne l’impassibile maschera di ghiaccio fino in ascensore, dove si appoggiò alla parete del lato lungo e, quando le porte si chiusero completamente davanti a lei, si abbandonò in un silenzioso pianto ferito di rabbia, delusione, tristezza, insicurezza e gelosia.
Pensava di essere nascosta, pensava di essere al sicuro, pensava che nessuno l’avrebbe mai vista in quel grave momento di imperdonabile debolezza. Lo pensava, ne era convinta. Ma si sbagliava.
La presenza di una persona, che non aveva notato per via delle lacrime che le velavano lo sguardo o perché era assolutamente sconvolta, fu sottolineata da un timido: «Ehm ehm…».
Jackleen sobbalzò, presa completamente alla sprovvista fece cadere la borsa con dentro il portatile che si schiantò a terra con un tonfo sordo, e le sue mani andarono subito ad asciugarsi velocemente gli occhi viola magnetici, ora scossi da un maremoto di emozioni.
Lo sconosciuto aveva un aspetto a dir poco ordinario. Era vestito in camicia e cravatta, portava il camice bianco da medico e stringeva una borsa molto simile alla sua. Si fissarono per un momento, poi, l’uomo raccolse il portatile di Jackleen e la bionda poté guardarlo dritto negli occhi mentre glielo porgeva. Occhi castani, la cosa che l’aveva colpita di più in quell’uomo dall’aspetto ordinario erano quegli occhi castani impregnati di gentilezza e preoccupazione per una sconosciuta. Le sorrise quando lei prese la propria borsa dalle sue mani senza dire nulla. Anche quel piccolo sorriso era illuminato da una luce altruista.
«Salve! Sono James Wilson… tu devi essere nuova, tutto bene?» le disse in tono seriamente preoccupato. Seriamente preoccupato per una completa sconosciuta.

 
*****
Ok, mi sono fatta la promessa di aggiornare ogni giovedì. Perché è un bel giorno (in America c'è Grey's Anatomy xD), perché vi meritate davvero almeno un capitolo a settimana per tutte le belle recensioni che mi avete lasciato dall'inizio di questa ff e perché amo questa storia! ù.ù
Sinceramente non so per quanto resisterà la mia promessa, ma farò tutto il possibile per mantenerla! ^^
Passando ad altro...
Questo capitolo non mi piace... çç Odio far litigare le coppie che formo! .-. xD Però ci vuole un po' di tensione, altrimenti sarebbe una pacchia! ù.ù Un'altra cosa... ho paura (anzi, ormai vivo nel terrore xD) che Foreman sia OOC. Parzialmente questa modifica nel suo comportamento è spiegata dal fatto che sia ancora innamorato di Remy (che, tra l'altro, per spezzare una lancia in sua difesa, devo dire l'ha davvero mollato, per quante seghe mentali si possa fare Jack! ù.ù xD) e per un altro fattore che poi si scoprirà. Comunque, se vi sembra troppo OOC, ditemelo, vi prego! >.<
Fatemi anche sapere che cosa ne pensate dell'entrata in scena del caro Wilson! xD Io, personalmente, amo il suo personaggio! ù.ù E' troppo tenero! *-* xD
Detto questo, vi lascio, come sempre, con un:

Hope you liked it! =D
Dog

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Capitolo 9
*** Prejudice ***


Jackleen fissò l’uomo, spiazzata, e rispose automaticamente: «Sì… sto bene!».
Wilson inclinò leggermente la testa, perplesso, e sorrise gentilmente.
La bionda sospirò e confessò, guardandosi le scarpe: «No, non è vero… non sto per niente bene, era una balla! La balla più colossale che esista e anche la più frequente, se ci fai caso…». Alzò lo sguardo viola scuro in quello castano dell’uomo e sorrise amaramente.
Wilson si accorse dei bellissimi occhi della sconosciuta e spiegò, sempre con il suo sorriso altruista: «Perché è la bugia più semplice…».
Jackleen fu stupita da quella risposta. Era vero, era la più usata perché era la più semplice, era la prima cosa che ti veniva alle labbra in una situazione come quella. Allontanare tutti, una sorta di: ce la faccio da sola, non ho bisogno di voi.
La peggiore balla che si potesse rifilare a qualcuno. Era falso, schifosamente falso. Nessuno poteva superare certe cose completamente da solo. Tutti avevano bisogno di qualcuno.
Proprio in quel momento le porte dell’ascensore si aprirono al pianoterra. Wilson le sorrise di nuovo, disponibile come sempre, e le disse: «Se hai bisogno di qualcosa…».
Jackleen scosse bruscamente la testa, come se si fosse improvvisamente svegliata da un incubo, e gli rispose: «No, grazie. Non è colpa tua, non sei la persona giusta, non sei la mia persona!».
Uscì dall’ascensore senza dare all’uomo il tempo di pensare ad una risposta appropriata.
Camminò velocemente per tutta la hall, non sapeva dove stesse andando e non aveva la minima importanza. Doveva camminare. Doveva parlare. Aveva bisogno della sua persona.
Il suo qualcuno, la sua persona era Arizona Robbins.
I suoi capelli biondi riflessero la luce del sole che splendeva su Princeton, ma non riuscì ancora a respirare bene, nonostante fosse all’aria aperta. Aveva ancora quell’enorme groppo in gola, che le bruciava dalla voglia di piangere. Le sue gambe la portarono dove la mente non era in grado di decidersi e presto si ritrovò lontana dall’ospedale, davanti ad un parco verde di alberi, erba e foglie.
Senza pensare, pensare in quel momento faceva troppo male, entrò nel parco, all’ombra degli alti alberi intorno a lei. Si ritrovò seduta su una panchina verde (immancabilmente verde) a fissare dei bambini che si passavano un pallone (l’immancabile gruppo di bambini che gioca a calcio), una coppia che faceva un picnic (l’immancabile coppia che fa un picnic sull’immancabile tovaglia a quadrati rossi e bianchi) e una famigliola felice che giocava con il cucciolo appena preso (l’immancabile famigliola felice con l’immancabile passeggino pieghevole).
Li guardò finché non le venne la nausea per tutta quell’ipocrisia tradizionalista che spacciavano per felicità, tutti quegli stereotipi che ti mostravano come vivere una vita lunga e perfetta.
Una vita lunga e felice. Sicuramente era una vita lunga e felice.
Il problema era che Jackleen non si sarebbe mai accontentava di una vita felice come tutta quella gente che stava osservando. Lei voleva la sua vita felice.
Tutte quelle bugie che spacciavano come vita perfetta, in realtà non erano altro che utopie e luoghi comuni che ormai sapevano di marcio. Come si poteva ricercare la propria felicità se eri costretto a conformarti e a volere la felicità in scatola che propinavano a tutti gli esseri umani nel mondo?
La magra consolazione di Jackleen era che tutte quelle persone, in realtà, erano troppo codarde per pretendere dalla vita quello che volevano, troppo intimorite dall’opinione altrui e quindi fingevano di volere, di desiderare con tutte loro stesse, quella felicità stereotipata che impregnava le loro vite. Con il tempo i più bravi di loro riuscivano persino a convincersi di voler davvero quella vita. Di voler davvero vivere incarcerati in quella bugia.
Se si guardava bene, quei bambini erano stufi marci di passarsi quel dannatissimo pallone.
Se si osservava con attenzione, si poteva vedere lo sguardo disgustato di quella ragazza mentre il suo ragazzo si sbrodolava con la salsa del panino che aveva appena addentato.
Se si faceva caso ad ogni occhiata ed espressione che si lanciavano, quella famigliola felice non era per niente una famigliola felice. Quel maritino amorevole si sbatteva la sua segretaria ventenne ogni sabato sera invece di andare al bowling con gli amici. L’immancabile segretaria ventenne.
Jackleen si prese la testa tra le mani, sopraffatta da tutti quei pensieri schifosi.
Lei non era mai stata una codarda.
Lei non si era mai conformata alla massa di pecore imbecilli e bugiarde.
Lei non si era mai accontentata.
L’unica cosa che le era rimasta da fare era reagire. Aveva reagito ed era stata etichettata come diversa a vita. Etichettata da chi, poi? Dalla massa di pecore imbecilli e bugiarde? No, non da loro, da quelli che continuavano a vomitare sopra al mondo intero ricette e stereotipi per raggiungere la felicità assoluta, dalla prima pecora imbecille e bugiarda che si era auto convinta che la sua vita fosse perfetta. Che non si poteva essere felici se non desiderando un ragazzo premuroso, una larga famiglia e un fottutissimo pallone da calcio in cuoio.
«Cazzo!» esclamò a voce alta, smorzata dal tono bagnato di lacrime che aveva. Nessuno si preoccupò per quella donna bionda maleducata e chiunque, non senza averle lanciato un’occhiata di rimprovero, continuò la propria vita immersa nelle bugie.
Jackleen decise che quello era troppo. Troppo per lei.
Nella sua mente c’era un sovraffollamento di pensieri, emozioni, sentimenti e parole. Quindi prese di colpo il cellulare e compose automaticamente un numero che conosceva a memoria. Quello che digitava più spesso. Aspettò che le rispondesse, continuando a sussurrare tra sé e sé: «Cazzo… cazzo, cazzo… cazzo!». Aveva frenato le lacrime, ma sapeva che Arizona avrebbe subito capito tutto dal suo tono.
La voce gioiosa della sua migliore amica proruppe dal telefonino di Jackleen: «JACK! Stiamo andando ad un matrimonio fantastico, ci saranno fiori ovunque, vestiti fantastici e romanticismo smielato!» esclamò una voce femminile estasiata, parlando alla velocità della luce.
La donna non faticò ad immaginarsi il sorriso entusiasta e solare tipico di Arizona. Stranamente questo flash non le sollevò il morale, anzi, la portò ad uno stato ancora più profondo di confusione e tristezza. Le si chiuse totalmente lo stomaco, il groppo in gola sempre più pesante.
Riuscì unicamente a sussurrare un debole: «‘Zona…».
L’aveva detto a voce così bassa che la sua migliore amica non la sentì e continuò a parlare, abbassando il tono, come se le dovesse rivelare un segreto: «E quando dico noi intendo me e Calliope! E mi sa proprio che…».
Jackleen non riuscì più a trattenersi e, sentendo delle risate femminili dall’altro capo del telefono in sottofondo, chiamò nuovamente, con la voce rotta dal pianto, più forte di prima: «Arizona!».
La voce della sua migliore amica si interruppe subito e cambiò radicalmente tono quando le chiese, estremamente preoccupata: «Jack! Cosa è successo?». Anche le risate cessarono. Jackleen si disse distrattamente che quella doveva essere Calliope Torres.
«R-Remy… ho fatto un casino. Io non… non so che fare!» mormorò confusamente la bionda senza poter più frenare le lacrime.
Arizona la incoraggiò, sempre con tono preoccupato, ma ora molto comprensivo: «Che cosa è successo con Remy, Jack?». C’era anche una punta d’inaspettata sorpresa nella domanda.
«Lei… lei sta con un dottore del team di House. ‘Zona, sta con un suo collega, cazzo!» finalmente riuscì a liberarsi e il groppo in gola si allentò un po’. Puntò lo sguardo al cielo, appoggiando la nuca alla panchina, lasciandosi scivolare un po’ più in basso con il fondoschiena.
Questa volta molta più gente la guardò male. Ma lei non la notò nemmeno e continuò a piangere in silenzio, ascoltando la voce di Arizona che le domandava: «Jack… hai prove certe di questa cosa?». Sapeva già la risposta: Jackleen non era una che accusava prima di avere la certezza assoluta.
Si prese un momento per ragionare e poi le rispose: «Ha reazioni stranissime quando siamo nella stessa stanza con lui, sembra come terrorizzata dal fatto che possa scoprirci. E… non ha detto nulla quando l’ho accusata… nemmeno una parola!».
Arizona si stupì: quelle prove non sarebbero mai bastate a Jackleen Simmons. C’era un’unica e sorprendente conclusione possibile. Jackleen poté immaginarsi il sorriso intenerito e allibito della sua migliore amica quando la sentì esclamare: «Questa è gelosia, gelosia allo stato puro, Jack… e sai questo che cosa significa? Significa che questa Remy ti piace parecchio! A dir la verità non pensavo che una donna ti potesse far impazzire così tanto di gelosia in così poco tempo! Stai perdendo colpi, Casanova!». Detto questo scoppiò a ridere. La sua risata pura, innocente e sincera fece ritornare Jackleen in sé, cancellando completamente l’ormai insostenibile groppo in gola.
La donna capì pienamente cosa volesse dire Arizona e, dopo poco, anche lei rise sinceramente con il chirurgo pediatrico. Una risata cristallina, molto vicina a quella della sua migliore amica. Non le capitava di ridere in quel modo da tanto, troppo tempo.
Quando le risate si affievolirono, Jackleen chiese: «Allora cosa mi suggerisci di fare, mio coscienzioso Grillo Parlante?».
Arizona ridacchiò all’epiteto che le aveva rivolto, ma non commentò e le rispose: «Metti bene in chiaro le cose con lei e non aver paura come tuo solito di essere felice. Vai e conquista, Jack!». Di nuovo la frase finì in una risata delle sue solite, seguita da quella di Jackleen.
Quando terminò, dopo aver passato un po’ di tempo ad ascoltare il respiro dell’amica al telefono, la chiamò di nuovo: «Arizona?».
Il chirurgo pediatrico rispose subito con un: «Sì, sono ancora qui…».
«Grazie. Ti voglio bene, lo sai…» sussurrò, con un ghigno e una luce particolare che le accendeva lo sguardo viola ogni volta che parlava con la sua migliore amica.
Arizona sorrise e le rispose subito: «Lo so, Jack… anch’io!».
E, con la voce della sua ‘Zona ancora nelle orecchie, Jackleen terminò la chiamata, il volto illuminato da un sorriso determinato.
Ripose il suo cellulare nella tasca interna della giacca e si alzò dalla panchina verde, nella mano destra la borsa del computer portatile.
Mentre attraversava il parco per ritornare all’ospedale, i bambini che stavano giocando a calcio lì vicino fecero un passaggio troppo lungo e la palla finì ai piedi di Jackleen. La dottoressa rimase stupita per un secondo, poi, senza esitare, la raccolse, porgendola con un sorriso ad un ragazzino che era andato a recuperarla. Puntò gli occhi in quelli del ragazzino per poi guardare la palla.
Quindi lo vide allontanarsi e pensò che il fottutissimo pallone in cuoio gli era proprio necessario.
Sorrise tra sé e sé. Sì, Arizona Robbins la rendeva davvero una persona migliore.

 
*****
Perdonatemi per non aver tenuto fede alla promessa fatta, ma è stata una settimana davvero impegnativa tra verifiche, gite e interrogazioni e non ho proprio trovato il tempo di pubblicare prima il capitolo... >__<
Passando al suo contenuto... è più che altro un'analisi della psicologia di Jackleen e forse è proprio per questo che, personalmente, mi piace molto! Con questo chiarisco anche sempre di più il rapporto di amicizia tra Arizona e Jack, anche se c'è ancora altro che deve venir fuori da queste due! Ma non dovrete aspettare ancora molto per scoprire tutto.
Ah, una curiosità: il matrimonio di cui parla Arizona è quello di Alex e Izzie! ^^
E con ciò vi saluto! A giovedì (perché questa volta ce la dovrei fare... ù.ù xD)! =D

Hope you'll liked it! ^^
Dog

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Capitolo 10
*** Mimosa ***


«Forse è una malattia ereditaria che non le permette di coagulare il sangue…» propose incerto Taub.
«Mi stai prendendo in giro, vero?» fece House con uno dei toni più taglienti che gli appartenessero mentre faceva ruotare pigramente il proprio bastone davanti a sé.
Foreman difese la teoria del collega: «Perché no? Potrebbe essere…».
«Sta forse sanguinando dagli occhi?» chiese bruscamente il dottore brizzolato, interrompendo il medico di colore e il moto del bastone.
Il chirurgo plastico lo guardò e fece: «Beh, no… però…».
House sbuffò, impaziente, ed esclamò: «Però un cavolo! Piantatela di sparare stronzate e concentratevi, dannazione!». Ricominciò a far ruotare il bastone, posando gli occhi sull’unico medico che non aveva ancora parlato e che stava fissando il vuoto.
Sbatté improvvisamente il bastone sul tavolo e Remy sobbalzò di colpo, sentendosi sorpresa con le mani nel sacco. House si alzò in piedi e, andandosene sorretto dal suo fedele bastone, annunciò: «Vado a cercare Piccolo Genio, visto che, anche se mi dispiace ammetterlo, non ha aria compressa al posto del cervello come voi, inutili esseri…».
Non si preoccupò minimamente per le dure parole che aveva rivolto ai suoi assistenti: era troppo irritato dal comportamento della dottoressa Simmons per farlo. L’aveva illuso facendogli credere che la loro sarebbe stata una lotta all’ultimo sangue per arrivare prima alla diagnosi e poi se n’era semplicemente andata. Era irraggiungibile sul cercapersone e sul telefonino.
Puff, scomparsa.
Peggio di un trucco di magia.
House non era certo uno che si faceva problemi per gli orari, anzi. Ma solo lui poteva decidere che un caso non gli interessava più e svanire nel nulla, verso una destinazione top secret.
Nessun altro poteva permetterselo. Non dopo averlo sfidato a trovare la diagnosi per primo.
House era davanti all’ascensore da circa due minuti, ovviamente già impaziente per l’attesa, quando le porte si aprirono e i suoi occhi blu magnetici incontrarono quelli irrealmente viola di Jackleen.
Questa apparizione spiazzò per un attimo il dottore, che rimase a fissare la giovane donna per una volta senza parole. Il chirurgo gli sorrise, uscendo dall’ascensore e lo punzecchiò, con un ghigno furbo: «Cosa c’è? Hai finalmente visto le mutande di Cuddy?».
House si riprese subito e ribatté, seguendo Jackleen: «Quelle posso vederle quando voglio e comunque no… mi hai preso di sorpresa perché pensavo che fossi in un ripostiglio a rivestirti dopo una montagna di sesso sfrenato con l’unico membro femminile del mio team…».
La bionda, questa volta, non vacillò e rispose subito: «Fammi indovinare… hai rubato la sua biancheria in lavanderia, vero? E non pensare troppo a me e Remy nude in un ripostiglio che diventi cieco, Greg…».
House ghignò, divertito dalle parole della donna e dal fatto che stesse al suo gioco, quindi decise di alzare il tiro: «Il mercoledì fa il bucato e ha così tante mutandine che non si accorge della sparizione di alcune di esse! Non hai negato, vuol dire che avete fatto sesso…».
Jackleen si bloccò davanti alla porta dell’ufficio dell’uomo, con la mano sulla maniglia, guardandolo negli occhi e chiuse il discorso con un: «Vuol dire che non sono affari tuoi…».
Certa di aver avuto l’ultima parola, spalancò la porta ed entrò nell’ufficio di House, appoggiò la borsa con il computer portatile sul tavolo e si sedette accanto all’unica donna nella stanza, con un sorriso sicuro e tranquillo in volto, senza guardarla negli occhi.
House entrò subito dopo di lei, sbattendo il bastone sul tavolo per richiamare l’attenzione dei suoi colleghi ed esclamò, solennemente: «È ufficiale!».
Fece una pausa teatrale piena di suspense mentre gli occhi di tutti i presenti gli si posarono addosso e si sedette, concludendo con un: «Piccolo Genio va a letto con Tredici!».
Remy spalancò la bocca e puntò gli occhi su Jackleen, mentre una fitta pioggia di emozioni le picchiettava ed infradiciava il cervello. Le lanciò uno sguardo stupefatto ed impaurito.
Taub alzò le sopracciglia, come se si volesse complimentare con il chirurgo, mentre Foreman digrignava i denti con rabbia.
Jackleen assicurò, ridacchiando tranquillamente: «Non è mai successo, House se lo sta inventando di sana pianta e mi sorprende che voi caschiate ancora nei suoi trucchetti da quattro soldi…».
Remy fu piacevolmente sorpresa dalla risposta, soprattutto perché non sentì nessun risentimento né sarcasmo: la donna sembrava completamente a suo agio sotto le accuse mute dei suoi colleghi.
La accarezzò prudentemente con uno sguardo ammonitore che riuscì a raggiungere gli occhi viola.
House cambiò improvvisamente tattica, continuando ad incalzare con un: «Non so se l’abbiate fatto o meno… ma ammettete di morire dalla voglia di farlo, almeno!».
Jackleen sorrise pacata ad House e disse con un tono secco e superiore: «Basta con i tuoi giochetti infantili, Greg! Ormai sono noiosi e ripetitivi… direi di concentrarci sulla paziente, piuttosto!».
Detto questo, puntò lo sguardo in quello di Taub, aspettando degli aggiornamenti sul caso.
Il chirurgo plastico trasalì appena si rese conto che stava guardando proprio lui, per poi incominciare a ripetere i soliti sintomi che sapevano già.
House lo interruppe bruscamente: «Questo branco d’incapaci ha aggiunto solo una tonnellata di ipotesi campate per aria dalla tua scomparsa, Piccolo Genio! E state evitando la domanda…».
Jackleen fissò gli occhi blu, astuti e determinati del dottore, iniziando ad irritarsi. Riuscì a ridacchiare di nuovo solo pensando alla chiacchierata che aveva fatto con la sua Arizona.
Chiese, con un sorriso un po’ spazientito agli altri medici: «Fa sempre così?».
Remy annuì, anche lei esasperata, tentando un sorriso timido, e le rispose: «Ogni singolo giorno…».
«Ah - ha! Lo sapevo! Avete fatto sesso!» esclamò vittorioso House.
Taub osservò le due donne con la coda dell’occhio, imbarazzato per trovarsi in mezzo a quella discussione. Foreman lanciò uno sguardo di fuoco alla dottoressa Hadley, che evitava accuratamente i suoi occhi.
Prima che qualcuno potesse dire o fare qualcosa, nell’ufficio entrò un altro dottore.
«House, dove sono finiti i miei boxer neri?» domandò Wilson, abbastanza scocciato.
Tutti gli sguardi si puntarono sull’oncologo.
Remy lo salutò con un divertito: «Buongiorno anche a te, Jim!».
Wilson rispose gentilmente: «Ciao, Remy. Non sto scherzando…che fine hanno fatto i boxer neri che avevo lasciato in lavatrice?».
Jackleen scoppiò a ridere e disse ad House: «Ma allora nascondi un feticismo per le mutande!».
Wilson, spiazzato dalla nuova voce, guardò sorpreso la dottoressa bionda per poi salutarla con un sorriso gentile: «Oh, ciao, ci rincontriamo!».
House interruppe ogni tentativo di risposta di Jackleen con un: «Non ci pensare nemmeno, è lesbica! E se c’è qualcosa che più spegne la piacevole atmosfera creata da una discussione sul sesso tra donne di un idiota che spunta per chiedere dei suoi boxer neri magicamente scomparsi, da domani mi vesto come Lisa Cuddy!».
Jackleen ghignò e si alzò dalla sedia, dicendo: «Ah, quindi non ti limiti a collezionare la biancheria femminile ma ti travesti anche! È un piacere rivederti, James!».
Wilson si guardò intorno confuso quando House iniziò a parlare di sesso tra donne e concluse con un abbattuto: «Ok, ho scelto un brutto momento…».
Il suo migliore amico annuì, platealmente seccato, ed esclamò a denti stretti: «Decisamente!». Poi si rivolse a Jackleen con un indifferente: «Sì, se vuoi prendere un appuntamento ci sono ogni giovedì alle 23 in punto dietro al bar all’angolo. Chiedi di Mimosa!».
A quel punto Wilson ritornò verso il suo ufficio, non senza brontolare fra sé.
La dottoressa bionda non diede segno di aver sentito e prese la sua borsa con il computer portatile e fece per uscire. House la bloccò con un irritato: «E si può sapere dove diavolo stai andando ora?».
Jackleen allargò il suo dolce sorriso e rispose: «No…».
Il dottore la fermò mettendo il proprio bastone tra lei e la porta e la fulminò con lo sguardo, aspettando una risposta.
«Oh, tu non vuoi giocare con me, Piccolo Genio…» disse House con voce tagliente e un ghigno pericoloso sulle labbra.
Jackleen gli ricambiò il sorriso, ma decise che fosse meglio rispondergli: «Mi è venuta un’idea, vado a fare un test di paternità sul feto della paziente.».
Insoddisfatto della risposta, il dottore non la lasciò ancora passare e sbottò: «Non vedo come provare che il marito è un cornuto ti aiuterà nella diagnosi…».
La bionda gli lanciò un ghigno seducente e gli rispose: «Devi ammettere, però, che è estremamente divertente! Ora togli il bastone!».
House, inaspettatamente, eseguì gli ordini e la lasciò uscire.
Il dottore brizzolato si passò una mano sulla barba disordinata e chiese, pensieroso: «Perché dovrebbe fare un test della paternità sul feto?».
Remy si strinse nelle spalle e rispose: «Forse perché pensa che sia il feto la causa dei sintomi della madre e sta cercando una malattia genetica non collegata al marito della paziente…».
House, con lo sguardo perso nel vuoto, fece, assente: «Forse…».
Poi smise di accarezzarsi la barba ed ordinò: «Tredici, seguila e scopri che cosa ha in mente!».
Remy lo guardò, sorpresa, e domandò: «Perché io?».
Foreman fece rimbalzare lo sguardo nel silenzio tra House e Remy per una decina di secondi e poi chiese al dottore, irritato e allibito: «Già, perché lei?».
Entrambi i dottori lo ignorarono e House rispose alla ragazza, sogghignando astutamente: «Semplice, Tredici… perché a te dirà tutto!».

 
*****
Ed ecco a voi, finalmente in tempo (YAAAAAAAY! xD), il decimo capitolo! *-*
House è seriamente impiccione e perspicace, devo dire... ù.ù Lo adoro... ù.ù xDDDDDD
Detto questo...

Hope you liked it! ^^
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Capitolo 11
*** Jealousy and Rage ***


Remy attraversò il corridoio, persa nei suoi pensieri, felice per la persona che stava per incontrare. Raggiunse la porta del laboratorio DNA, accorgendosi solo in quell’istante della velocità incredibile del proprio battito cardiaco. Forse era paura per come avrebbe reagito Jackleen o forse pura e semplice emozione nel vederla. Concluse, prima di entrare nella stanza, che si trattava di entrambi.
La bionda non sollevò lo sguardo quando Remy aprì la porta, ma notò che sul suo volto si formò un sorriso furbo appena accennato e i suoi occhi viola, concentrati sul microscopio, s’illuminarono di qualcosa di indecifrabile.
Remy cercò di costringersi a dire qualcosa, ma aveva la bocca così asciutta e impastata che non una parola uscì dalle sue labbra secche, né riuscì ad articolare un solo pensiero sensato.
«Sei qui per spiarmi?» chiese d’un tratto Jackleen, in un tono così sereno da cancellare ogni possibile intento accusatorio, con il sorriso divertito in parte nascosto dal microscopio.
Remy rimase per un attimo spiazzata dal suo comportamento per poi rispondere al suo sorriso, solare, e, sedendosi accanto a lei, dire: «Mi ha mandata House con l’ordine di tenerti d’occhio… ma, certamente, non sono qui per questo…».
La bionda non alzò ancora lo sguardo su di lei, anche se stava morendo dalla voglia di farlo. Quindi domandò semplicemente, in tono incuriosito ma studiatamente neutro: «E allora perché sei qui?».
Il sorriso di Remy si allargò, diventando malizioso e allegro. Senza rispondere, si alzò e incrociò delicatamente le braccia sul ventre della donna, abbracciandola mentre affondava il volto nei biondi capelli lisci, e inspirò a fondo, lentamente. Un brivido potente corse per tutta la spina dorsale di Jackleen e la costrinse a chiudere gli occhi e sospirare di piacere, inarcando la schiena contro il corpo della ragazza.
Remy arrivò all’orecchio della dottoressa bionda e ci soffiò dentro, roca e sensuale: «Indovina…». Il sorriso della donna si allargò ulteriormente e sul suo volto comparve un’espressione estasiata.
Finalmente Jackleen si scostò dal microscopio, girandosi di scatto verso la giovane dottoressa, liberandosi dalla sua stretta dolce. Remy voleva intrappolare le labbra della bionda sulle sue, ma venne fermata da un suo sussurro soffice e deciso: «Dobbiamo parlare…».
La ragazza si fermò a fissarla negli occhi viola per un secondo, con il panico nello sguardo, per poi sorridere nel modo più spensierato possibile, domandandole innocentemente: «Di cosa?».
Jackleen sollevò un sopracciglio, lanciandole un’occhiata davvero eloquente. Remy non volle interpretare il chiaro “lo sai” nello sguardo della dottoressa Simmons e rimase a guardarla, aspettando una risposta. Alla fine, la bionda sbuffò, quasi esasperata: «Foreman.».
La giovane dottoressa iniziò ad osservare stranita e sorpresa Jackleen e chiese: «E lui che c’entra?». A questo punto la bionda esplose in una breve risata isterica e sarcastica mista ad un verso di stizza e stupore per poi risponderle, cupa: «Se continui così, allora non abbiamo più molto da dirci…».
Jackleen, molto irritata, fece per uscire dalla stanza, ma questa volta Remy la bloccò in tempo, afferrandola per il polso ed esclamando un soffocato ed impaurito: «No!». Gli occhi viola della donna si concentrarono nei suoi azzurro ghiaccio, ancora con quello sguardo indagatore. Prima che il chirurgo potesse urlarle addosso in preda all’ira, Remy mormorò, spaventata: «Ti prego, non lo fare… per favore non andartene.».
Jackleen si liberò in fretta dalla presa della giovane ed incrociò le braccia, prestando la massima attenzione alla dottoressa di fronte a lei, aspettandosi una spiegazione. Remy, alle strette, sospirò a fondo e abbassò lo sguardo, per poi dirle: «Io e Foreman stavamo insieme fino ad un paio di settimane fa…», lanciò uno sguardo di sottecchi a Jackleen e lesse sul suo volto un’esortazione palese a continuare, «L’ho lasciato perché era diventato… possessivo… ma non l’ha presa troppo bene…» terminò con voce tremante, senza riuscire a guardarla negli occhi di quel colore miracoloso.
Il silenzio che seguì fu spezzato dalla voce di Jackleen che domandò, scettica: «Tutto qui?».
Il suo tono attirò lo sguardo di Remy sulla sua faccia, che, nel frattempo, era diventata una maschera gelida indecifrabile. La ragazza mormorò, presa alla sprovvista: «Che… che vuoi dire?».
Lo sguardo della bionda era ancora freddo quando chiese in un sibilo brutale: «Eri davvero così spaventata a morte perché un tuo ex non si è rassegnato alla vostra rottura? Soffri per caso di qualche forma di ipersensibilità cronica nei confronti dei sentimenti altrui? Oppure hai un disturbo della personalità per cui credi di averlo scaricato mentre, in realtà, l’hai fatto solo nei tuoi sogni?».
La ragazza fu ammutolita dal tono acido di Jackleen e non poté far altro che continuare a guardarla, completamente spiazzata. Perché si comportava così? In fondo le aveva detto la verità. Non tutta la verità, ma quella sconosciuta pretendeva davvero di poter conoscere i suoi segreti più intimi dopo poco meno di un giorno?
Il silenzio divenne pesante mentre la dottoressa Simmons si accorgeva di aver esagerato, ma era troppo orgogliosa e accecata dall’ira per ammetterlo. Quella era la prima volta in assoluto che una donna le faceva quell’effetto. Non aveva mai provato una gelosia così profonda e bruciante per una sconosciuta. Sì, perché, in fondo, non sapeva assolutamente nulla di lei. Non sapeva il suo colore preferito, non conosceva il suo passato, non sapeva in che rapporti era con la sua famiglia, non sapeva nemmeno se ne avesse ancora una, a dirla tutta.
La osservò nel silenzio gelido, raccogliendo tutta la sua buona volontà per parlare di nuovo, ma fu preceduta da Remy, che iniziò a mormorare, questa volta lei in preda alla furia: «Come osi? Come pensi anche solo di poterti permettere di trattarmi così?». Jackleen esitò un attimo, colpita in pieno petto dall’ira nella voce della ragazza. «Come puoi giudicarmi in questo modo? Come se tu fossi la persona migliore al mondo? Ti ricordo che anche tu eri in quel locale! Ti ricordo che, se il mio cellulare non fosse suonato, mi avresti scopata senza nemmeno preoccuparti di passare per il primo appuntamento! Mi avresti scopata in quel fottutissimo bagno pubblico!» continuò Remy, con voce sempre più alta. Le stava quasi urlando contro mentre avanzava verso di lei, puntandole un dito accusatorio contro. La bionda arretrò di un passo, presa alla sprovvista da quella sfuriata.
Una luce pericolosa brillò negli occhi viola di Jackleen quando avanzò, trovandosi quasi a contatto con la ragazza. Sogghignò quasi malvagiamente esclamando: «Veramente non ti ricordo molto dispiaciuta all’idea di essere scopata da me in quel fottutissimo bagno pubblico…».
La dottoressa Simmons lo vide arrivare. Con i suoi riflessi avrebbe potuto benissimo schivarlo o pararlo. Invece rimase immobile a fissare Remy con ira mentre lo schiaffo della ragazza si abbatté inevitabilmente sulla sua guancia sinistra, lasciandole un segno amaramente bruciante, mozzandole il fiato in gola per la sorpresa e l’umiliazione. Non credeva che l’avrebbe fatto davvero.
Tredici le ringhiò, ancora fuori di sé: «Tu non mi conosci. Tu non sai un cazzo di me!». E, con quest’affermazione dolorosa, uscì dalla stanza, sbattendo violentemente la porta.
Jackleen rimase immobile per qualche secondo, cercando di capire come la situazione fosse potuta degenerare fino a quel punto in così poco tempo. Poi, completamente scioccata, si sfiorò il punto che si stava già arrossando sul suo volto. Sicuramente non era la prima volta che una donna la schiaffeggiava. Ormai aveva perso il conto di quanti schiaffi aveva ricevuto nella sua vita. Ma nella sua memoria non ne trovò uno solo che le avesse fatto così male. Se ne stava lì, dimenticandosi quasi di respirare, a toccarsi la guancia ferita, senza poter far altro.
Aveva incassato colpi di gran lunga più forti. L’avevano ridotta a sputare sangue, spaccato il labbro più di una volta e incrinato le costole. Ringraziando qualche entità superiore non le avevano mai cambiato i connotati in maniera irreparabile e non si era mai rotta o ferita drasticamente un singolo dito delle sue preziosissime mani da chirurgo. Forse perché suo padre e i suoi fratelli sapevano quanti soldi avrebbero potuto ricavarci dal suo bel visino e da quella sua professione prediletta.
Aveva sopportato dolori peggiori. Eppure quel singolo schiaffo le bruciava come nessun altro ricevuto nel suo passato travagliato. Un misero schiaffo, all’apparenza del tutto simile agli altri, l’aveva destabilizzata e sconvolta più della somma di tutte le botte che aveva ricevuto nella sua vita.
Non riusciva a capire perché. O, più probabilmente, non voleva capirlo.
Lei era sempre stata la cattiva ragazza, quella che non si sarebbe mai innamorata di qualcuno. L’incorreggibile rubacuori che non voleva o poteva fronteggiare una relazione sana e stabile. Il Piccolo Genio problematico che si ribellava ad ogni singola regola o uso imposti dalla società.
Quella additata da tutti come caso disperato, ormai persa in direzione della strada sbagliata.
Quella che avrebbe sicuramente fatto una brutta fine grazie alla sua famiglia poco raccomandabile.
Quella che era sfuggita al suicidio solo grazie alla sua persona.

 
*****
Ok, mi odio per questo capitolo... .__. Dire che nei piani doveva andare tutto così bene qui... o___O' Ecco che cosa succede quando ascolto i Metallica mentre scrivo... .__. xD
Comunque, sorvolando il litigio, si è scoperto qualcosa del passato di Jackleen e di come questo possa averla fatta diventare chi è. Compresi gli innumerabili schiaffi che si è presa da un'iperbole di rappresentanti del genere femminile... ù.ù xDDDD Ok, cercavo di sdrammatizzare! xD
Nel prossimo capitolo vi prometto che non si picchieranno più... almeno non loro... ù.ù xDDDD Visto che ho già detto troppo, vi saluto! xD

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Capitolo 12
*** Fight ***


Jackleen chiuse la porta del laboratorio dietro di sé con violenza.
Si stava insultando mentalmente per aver fatto avvicinare troppo quella sconosciuta, si stava odiando per averle permesso di ferirla così tanto.
Decise improvvisamente di non provarci mai più con lei. Si sarebbe concentrata sul lavoro, avrebbe salvato la vita alla paziente e sarebbe ritornata in men che non si dica a New York, a operare in quel noioso ospedale che la stava soffocando già da un po’ di tempo. E, sicuramente, sarebbe andata nuovamente per locali mentre era lì. Era matematico: non sopravviveva senza sesso.
Avrebbe velocemente dimenticato quella dottoressa. L’avrebbe trattata freddamente e l’avrebbe ignorata per il resto del suo soggiorno a Princeton. Sarebbe stata professionale, non doveva darle la soddisfazione di farle capire di averla sconvolta completamente in meno di un paio di giorni. Era inammissibile. Gliela avrebbe fatta pagare, magari portando una delle sue conquiste al lavoro. Oh, sì, sarebbe stato divertente. Si sarebbe pienamente vendicata.
Il chirurgo biondo svoltò l’angolo con un ghigno malvagio in volto, diretta al laboratorio analisi per archiviare i suoi risultati. Come aveva pensato, il bambino non era figlio del marito della paziente. Quindi poteva includere qualche malattia genetica alle sue ipotesi. E anche…
Girò nell’ennesimo corridoio e si trovò davanti una scena che, nei suoi piani brillanti di vendetta, non aveva minimamente considerato.
Un imbestialito Eric Foreman stava davanti a una Remy Hadley tanto arrabbiata quanto terrorizzata.
«Allora? Te la sei scopata?» le ringhiò contro l’uomo, cercando il suo sguardo.
«Piantala…» sibilò la ragazza, abbassando gli occhi, con tono più colpevole che innervosito.
Jackleen rimase immobile, temendo di essere notata se solo avesse mosso un muscolo. C’era qualcosa di sbagliato in quella scena: perché Remy era così spaventata da quel dottore? Anche se non l’avrebbe ammesso nemmeno sotto tortura, stava morendo dalla voglia di origliare quella discussione per vedere a cosa avrebbe portato.
Foreman afferrò il polso della ragazza prima che Remy riuscisse a scappargli.
«Guardami! Ti ho chiesto se te la sei scopata!» continuò, furioso, l’uomo.
La dottoressa Hadley, con un gesto dettato più dal suo orgoglio smisurato che da coraggio, alzò gli occhi chiari in quelli neri del chirurgo, rispondendogli sprezzante: «Che cosa te ne frega? Ti ho lasciato da settimane, ormai dovresti averla superata, no?». Alle sue parole, Foreman serrò la mandibola con ira, intensificando la presa sul suo polso, tanto che Remy si lamentò: «Lasciami, mi… mi fai male!».
«Ti sei scopata quella puttana, vero?» ringhiò ancora l’uomo, sordo alle sue proteste.
Un lampo di pura ira passò negli occhi azzurri della ragazza a sentir quell’epiteto rivolto a Jackleen e mormorò a denti stretti, dimentica persino del dolore, con tono gelido: «Vaffanculo!».
Tredici notò subito una contrazione dei muscoli di Foreman. Una contrazione che conosceva fin troppo bene. Sapeva cosa preannunciasse quel segnale e chiuse gli occhi, cercando di proteggersi istintivamente con il braccio libero, anche se sapeva che sarebbe stato troppo lento.
Ma Remy non sapeva che anche la dottoressa bionda, spettatrice di quella scenata, aveva riconosciuto quel chiaro segnale. Non sapeva che anche lei l’avesse visto così tante volte. Non sapeva che anche lei avesse reagito d’istinto.
«Lasciala immediatamente.».
Le parole uscirono dalla bocca di Jackleen quasi a fatica per colpa dell’immensa rabbia che in quel momento la soffocava, premendole con forza sul petto.
Remy aprì gli occhi, udendo inaspettatamente la sua voce e subito seppe perché il colpo non era arrivato: davanti a lei c’era una Jackleen Simmons così infuriata da farle quasi paura, che tratteneva con morsa ferrea la mano di Foreman che altrimenti si sarebbe schiantata sulla guancia della giovane dottoressa.
L’uomo, spiazzato da quell’interferenza, mollò la presa al polso della ragazza, che si era già arrossato in modo impressionante.
Remy, spaventata dalla piega che aveva preso quella discussione, si andò subito a rifugiare accanto a Jackleen mentre Foreman si riprese da quell’attimo di sorpresa, scrollandosi dalla bionda, e sbottò alla donna con cui stava litigando fino a poco prima: «Ecco, scappa tra le braccia di quella puttana lesbica, brava… tanto lo sapevo che eri una tr-…».
«Non osare!» gli abbaiò Jackleen a mo’ di avvertimento. Remy la osservò per un momento: era completamente livida dalla rabbia e sembrava pronta a scatenare la sua furia sul chirurgo davanti a loro, probabilmente trattenuta solo dagli sguardi curiosi che ormai avevano attirato.
L’uomo la sbeffeggiò con una risata fredda, seguita da un: «Altrimenti cosa fai?».
Prima di avere il tempo di fare o dire altro, Foreman fu brutalmente sbattuto di faccia sulla candida parete dell’ospedale da Jackleen, che gli aveva immobilizzato entrambe le braccia: il primo arto era girato in una posizione molto scomoda dietro la schiena dell’uomo, il secondo premuto tra il corpo del dottore e il muro.
Tredici sobbalzò per la velocità della donna mentre tutti gli altri spettatori, più che altro infermiere, si lasciarono andare ad esclamazioni sorprese.
La dottoressa bionda sibilò furiosa a Foreman, a denti stretti: «Sfiorala un’altra volta e ti spezzo ogni singolo dito di entrambe le mani in fratture così scomposte che non riuscirai mai più a centrare il cesso quando pisci, stronzo…».
Remy trattenne il fiato per la violenza delle sue parole mentre l’uomo s’irrigidì contro il muro.
Jackleen ridacchiò gelida e beffarda: «Anche se devo dire che se continui così non ci sarà alcun bisogno del mio intervento, coglione alcolizzato.».
Foreman tentò di liberarsi, ma la forza che poteva esercitare in quella posizione di svantaggio era a dir poco irrisoria al confronto della presa della donna.
Per alcuni istanti di panico Remy temette che Jackleen tenesse davvero fede alla sua promessa, mandando all’aria non solo il suo lavoro a Princeton ma forse persino tutta la sua carriera. Allora la ragazza si avvicinò alla bionda, sfiorandole la spalla, rivolgendole un sorriso grato e rassicurante. La donna lasciò immediatamente andare il medico, si allontanò rapidamente da lui, prendendo la mano di Tredici e trascinandosela dietro.
Quando Foreman si girò per urlare dietro alle due tutta la sua ira e vendicare la sua umiliazione, erano già sparite dietro l’angolo e non sentirono le sue parole.
In silenzio raggiunsero l’ascensore e Jackleen lo chiamò, senza lasciare per un attimo la mano di Remy, che la osservava incuriosita ma intimorita dal fatto che potesse esplodere di nuovo da un momento all’altro. In fondo non sapeva se fosse ancora arrabbiata con lei per la discussione che avevano avuto e la sua espressione indecifrabile non l’aiutava affatto a capirlo.
Appena la porte si aprirono la bionda la guidò dentro e solo quando l’ascensore ripartì smise di tenerle la mano, forse perché era certa che non potesse più scappare.

 
*****
Ok, vi confesso che ho pubblicato in tempo per miracolo! xD Seconda confessione: lo so, Foreman è terribilmente OOC... .__. Odio questo fatto, ma mi serve davvero così per la mia storia... quindi, visto che odio più il pg di Foreman che l'OOC, lo posso accettare... ù.ù xD
Che ne pensate di questa versione kickboxing di Jackleen? xD Ve l'eravate aspettata o pensavate che fosse solo tutta scena quando minacciava le persone? xD
Come ultima cosa vorrei tutte le vostre speculazioni su cosa potrà succedere dopo questo capitolo (interrotto bruscamente, lo so e mi scuso, ma era per il pathos xD)... eheh, sono curiosa di sapere cosa vi aspettate, sì! ù.ù xD
Detto questo...

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Capitolo 13
*** Raccoon! ***


«Scusami…».
Fu più lieve di un soffio, ma Remy riuscì a sentirlo comunque, cercando istantaneamente gli occhi viola della bionda accanto a lei. Li trovò, tristi e sinceramente dispiaciuti, insicuri e vulnerabili come non mai.
Jackleen prese fiato e continuò a parlare, non riuscendo più a reggere il suo sguardo: «Io… mi dispiace di essermi comportata in quel modo con te, non avevo il diritto di dirti quelle cose. In verità sono spaventata da tutto ‒ agitò nervosamente la mano, lasciandosi scappare un amaro sorriso per niente convincente ‒ questo… non so cosa sia, non ho mai provato queste cose per una donna incontrata in un locale da meno di un giorno. Hai ragione, io non ti conosco. E, in tutto questo casino che ho dentro alla mia testa e non capisco, so solo che è la cosa che mi fa star peggio, sai? Non conoscerti. Prima ho pensato di scusarmi portandoti dei fiori… poi mi sono accorta che non so quale siano i tuoi preferiti, non so se ti piacciano di più le rose rosse, quelle bianche o quelle rosa, non so nemmeno se tu sia allergica ai fiori, a dirla tutta.». La dottoressa bionda si arrischiò ad alzare i mesti occhi viola, velati da una leggera minaccia di lacrime, in quelli di Tredici per un solo istante.
Il suo orgoglio le stava rinfacciando brutalmente tutta la stupidità e la debolezza che stava mostrando, ma tutto quello che le importava davvero era la verità che stava finalmente uscendo dalle sue labbra. Verità che, fortunatamente, vinse sul suo orgoglio: «Ed è terribile non saperlo perché sei la prima ragazza a cui mi sia mai venuto in mente di regalare dei fiori e quando ti vedo mi vengono in mente romanticherie che sinceramente non sono da me. Tutto quello che vorrei, per una volta, è fare le cose per bene e con calma… invece riesco solo a pensare a quanto sia difficile non conoscendoti e, terrorizzata, apro la bocca e dico stronzate che non ti meriti. Quindi vorrei che tu mi conosca veramente e, se tu me lo permetti, vorrei davvero conoscerti.».
Il silenzio riempì immediatamente quel piccolo spazio, permettendo a Jackleen di sentire il vago ronzio dell’ascensore e il proprio cuore tuonarle tutta la paura che provava nelle orecchie.
Non accadeva spesso che Jackleen Simmons si aprisse così tanto a una persona, anzi non le accadeva mai. Di solito preferiva tenere fuori dalla propria vita le persone, a dirla tutta, e rimorchiare belle donne per storie da una notte senza alcun significato. Teneva chiunque sufficientemente lontano in modo che non la potesse ferire, perché aveva deciso all’età di quindici anni che non ne poteva più di soffrire per colpa delle persone. L’unico essere umano che faceva avvicinare era la sua Arizona. E come avrebbe potuto essere altrimenti? Dopo una vita passata insieme era l’unica a sapere chi fosse realmente e cosa avesse passato.
Certo, c’erano altre persone, oltre ad Arizona, che aveva fatto avvicinare abbastanza per farsi conoscere, ma aveva perso i contatti con la maggior parte di loro e la lontananza aveva fatto il resto.
Jackleen Simmons aveva smesso di sperare e credere in una sana relazione stabile che comprendesse la sua persona da molto, troppo tempo, o almeno di questo ne era convinta lei.
«Rosse…» mormorò seria Remy, interrompendo bruscamente i suoi pensieri.
La bionda, speranzosa, alzò immediatamente lo sguardo nel suo per accorgersi che la donna accanto a lei le si era fatta molto più vicina. Tredici posò gentilmente una mano sulla sua guancia, accarezzandola brevemente e spiegando, all’espressione sorpresa di Jackleen: «Le rose… le preferisco rosse!».
Quando la dottoressa Simmons comprese le sue parole, una risata raggiante le sorse spontanea mentre anche l’altra donna iniziò a ridere felice ed entrambe abbassarono momentaneamente lo sguardo, arrossendo lievemente.
La verità era che anche Remy aveva una paura folle di quello che stava succedendo tra loro due. Era terrorizzata che qualcun altro potesse lasciarla e che lei ritornasse nuovamente sola. La sua lotta interiore era sempre tra scegliere di morire da sola o odiata da chi amava. Era per questo che si era detta di non riprovarci più dopo Foreman. Se molte persone erano geneticamente infelici, lei si portava anche una condanna a morte nel suo codice genetico.
All’improvviso Remy schiacciò il pulsante d’emergenza, bloccando l’ascensore, si appoggiò alla parete ed esclamò: «Mi è venuta un’idea… tu mi dici qualcosa di te e io ti dico qualcosa di me, tanto per non iniziare brancolando nel buio, ok? Prima di tutto… perché sai picchiare così bene?».
Jackleen rispose al suo sorriso furbo, al settimo cielo, per poi cominciare: «Tutto quello che so me l’ha insegnato un Marines. Colore preferito?».
Continuarono a parlare così a lungo, senza curarsi del tempo che passava. Ridendo e ricordando. Conoscendosi finalmente.
 
House si affrettò nel corridoio, irritato dal mondo, borbottando con se stesso.
«Si può sapere dove diavolo sono finiti quel branco di idioti, dannazione?» ringhiò mentre passava la sala riunioni senza vedervi nessuno.
In effetti era una domanda più che legittima visto che gli erano scomparsi tutti i collaboratori e i sottoposti da sotto il naso in meno di un’ora. Foreman non si trovava. Taub era irreperibile, probabilmente la moglie l’aveva trovato e gli stava facendo il quarto grado sull’infermiera del terzo piano. Tredici e il Piccolo Genio? Ah, manco a parlarne… dissolte nell’aria.
«Spero proprio che, almeno voi, vi stiate divertendo nel vostro cavolo di sgabuzzino del secondo piano. Sì, lo spero proprio. E spero pure che vi venga l’herpes a forza di scopare come conigli in calore!» disse rabbioso al nulla, proprio mentre gli si avvicinava il suo migliore amico.
«Conigli in calore?» gli chiese dubbioso, avendo colto solo l’ultima parte dell’invettiva di House.
Il dottore che si puntellava sul bastone mentre camminava si fermò davanti all’ascensore e, tra i denti digrignati, gli sibilò: «Non è un buon momento Wilson, ti avviso…». Premette il pulsante vicino alle porte grigie e anonime, ma tutto quello che ottenne fu un rumore elettronico che lo avvisava del bloccaggio dell’ascensore. Allora, fuori di sé, gli urlò: «VAFFANCULO!», mollandogli un colpo tale da farsi male alla mano.
James rimase un attimo a fissarlo, perplesso, per poi riprendersi e seguirlo mentre si dirigeva verso le scale e parlargli: «A proposito di cose strane… hai per caso idea di che fine abbiano fatto i miei boxer neri? Sai quelli che erano in lav…».
House inchiodò di colpo, fissò l’oncologo negli occhi, incenerendolo con uno sguardo terribile, e gli abbaiò: «PROCIONE!».
Wilson lo osservò, allibito, temendo seriamente per la sanità mentale del suo migliore amico. Greg riprese a camminare, sempre borbottando maledizioni e minacce a quegli sciagurati che l’avevano abbandonato in pieno orario di lavoro, lasciando indietro un Jim davvero interdetto.
L’oncologo lo raggiunse allungando di poco il passo e si arrischiò a chiedergli: «Che cosa c’entrano i procioni con i miei boxer?».
Spazientito, House lo canzonò, iniziando a scendere le scale: «Hai presente i procioni, vero? Quei piccoli e deliziosi distruttori di giardini e famigliole, quelle tenerissime palle di pelo che possono attaccare la rabbia ai bambini e sgozzare i vecchietti con un semplice morso alla giugulare?».
«Non penso che un procione abbia mai…» cercò invano di obiettare Wilson.
Il suo migliore amico lo interruppe, continuando il suo sproloquio apparentemente senza alcun senso: «Quei schifosi parassiti che si riproducono alla velocità della luce e ti invadono le case e le strade… ehi, forse abbiamo trovato qualcuno che scopa più di Tredici e Piccolo Genio!».
«Come scusa?!» esclamò Jim, avendo ormai perso ogni filo logico della discussione (se mai ce ne fosse stato uno, certo).
House si bloccò di nuovo, spazientito per l’inettitudine dell’oncologo e sbottò: «L’apocalisse! Sto parlando dell’apocalisse per mano di quei fottuti parassiti! I tuoi boxer sono stati sacrificati per il bene superiore, Wilson, gioisci! Se ne sono andati da veri guerrieri impedendo la fine del mondo!».
Il suo migliore amico gli rivolse uno sguardo sconfitto, chiedendogli stancamente: «Che è successo ai miei boxer, House?».
Greg riprese a camminare tranquillo per le scale, rivelandogli, finalmente: «Ieri notte ho sentito dei rumori fuori casa. Così sono uscito e ho scoperto un procione nel nostro bidone della spazzatura che si stava facendo i cavoli propri. Quindi sono rientrato e ho salvato il mondo da un’infestazione di procioni zombie respingendoli con i tuoi boxer come unica arma contro l’apocalisse…».
Wilson si bloccò davanti alle porte del pianoterra, gridando, sconvolto: «Tu… cosa?!».
House alzò le spalle, dicendo: «Non c’è bisogno che tu mi ringrazi, è solo il mio dovere da supereroe sterminatore di procioni zombie!», per poi aprire le porte dell’ospedale. In lontananza vide Jackleen e Remy che uscivano dall’ascensore, ridendo felici. L’urlo irato del capo della squadra di diagnosti squarciò la quiete del Princeton-Plainsboro mentre alzava un dito minaccioso verso le due donne: «VOI!».

 
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Vi chiedo umilmente perdono per il ritardo immane e vi do l'ok per iniziare il linciaggio pubblico se volete! >.<
Sono tanto tanto contenta di continuare questa ff, mi era veramente mancata! *-* Spero che sia mancata anche a voi! =D

Hope you liked it! ^^
Dog

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