Sweet Intoxication - A whisper in the night

di Nakara86
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Passato e presente ***
Capitolo 2: *** Nella tana del lupo ***
Capitolo 3: *** Il mio Regno... ***
Capitolo 4: *** Trovatela! ***
Capitolo 5: *** Chi sei tu? ***
Capitolo 6: *** Tutti hanno un cuore... ***
Capitolo 7: *** Il diavolo e l'angelo ***
Capitolo 8: *** Orgoglio e pregiudizio ***
Capitolo 9: *** Palchi e Altarini ***
Capitolo 10: *** ... e ritorno a te ***
Capitolo 11: *** Il figlio del Diavolo ***
Capitolo 12: *** Due labbra della stessa ferita ***
Capitolo 13: *** Solitudine ***
Capitolo 14: *** Mont Martre ***
Capitolo 15: *** Resa dei conti ***
Capitolo 16: *** Epilogo ***



Capitolo 1
*** Passato e presente ***


Dopo l'incendio all'Opera nessuno lo cercava più. La leggenda del misterioso Fantasma dell'Opera, sembrava essere stata spazzata via dall'immaginario comune come erano stati portati via dal vento i resti del raffinato tendaggio degli spalti del teatro.

Si ricordava ancora quegli istanti, ogni volta che chiudeva gli occhi i ricordi delle fiamme ed il risultato della sua rabbia gli si riproponevano come in un incubo troppo reale, un brutto sogno da cui non poteva svegliarsi perché lui ne era l’artefice.

A pensarci adesso, mentre il suo viso triste e rigato di lacrime si rifletteva nei mille pezzi dello specchio rotto davanti a lui, si stava chiedendo se ne fosse valsa la pena. Ma la risposta era troppo scontata e dura per potere accettarla. No, non ne era valsa la pena. Aveva distrutto il suo bellissimo mondo, il suo Regno, per una donna che, sapeva, non lo avrebbe mai preferito. Non a quelle condizioni. Non quando, come controparte, c’era quello che poteva essere considerato “un uomo perfetto”, anzi, un ragazzino perfetto.

Ma ormai era inutile continuare a guardare al passato ed ai suoi insuccessi. Poteva tornare a vivere nella sua adorata grotta, almeno finché non avesse trovato un posto migliore, diverso dal sotterraneo, lontano dai ricordi e dal Fantasma.

 

Quella notte il freddo era più pungete del normale e lei non riusciva a scaldarsi nemmeno con quel fuoco allegro che lanciava zampilli di cenere intorno a sé, disperdendosi nell’aria e portando i piccoli lapilli chissà dove nel leggero vento di quella notte parigina. Li osservava prendere forme e direzioni diverse, alcuni prendevano il vento e salivano su, verso l’alto. Altri invece, cadevano inesorabilmente per terra, troppo pesanti o troppo sfortunati per riuscire a prendere il volo. Un grosso lapillo cadde sull’orlo della sua veste, lasciando un piccolo buco lì dove era atterrato.

“Maledizione!” disse la giovane mentre cercava di cacciarlo via dal tessuto consunto della gonna. Era troppo tardi, il buco faceva bella mostra di se' insieme a tutte le altre bruciature di cui era cosparso l’orlo dell’abito. Se non avesse fatto attenzione presto si sarebbe trovata obbligata a diventare una ladra. I pochi soldi che aveva faticosamente messo da parte non bastavano per un abito. Riusciva a mala pena ad acquistare un po’ di frutta e pane con quei pochi guadagni e comunque non erano mai abbastanza. Doveva vivere con quei pochi averi, almeno finché fosse stata in grado di farlo.

Quella sera era ancora obbligata a dormire fuori. Le locande costavano troppo e nessuno era disposto a dare un lavoro ad una giovane mendicante come lei.

Si tirò ancora più avanti sul volto il cappuccio della grossa mantella di lana che indossava, cercando di stringersela addosso il più possibile, ma non sentiva caldo. Il freddo era dentro di lei e non se ne sarebbe liberata tanto facilmente.

Sospirò e tentò di prendere sonno sul duro selciato della pavimentazione. Il vociare degli ubriachi e delle prostitute nelle case poco lontane da lei erano diventati una ninna nanna. Si addormentò così, accanto al fuoco, mentre un gatto le si avvicinava e le si accoccolava accanto.

 

Fu un bidone contro cui qualcuno aveva urtato a svegliarla di soprassalto, facendola sedere velocemente ad osservare la causa di quel rumore. Due giovani biondi, un ragazzo ed una ragazza, che si tenevano per mano, la osservarono preoccupati e spaventati dallo sguardo duro che la donna riservò loro.

“Scusatemi buona donna…” disse lo sconosciuto. Alla luce del fuoco la mendicante osservò il ragazzo e notò che era sicuramente molto giovane, biondo, con due sognanti occhi azzurri, coperto da un caldo mantello di lana spessa con la chiusura in oro. Lo osservò da dietro la cortina di capelli biondi schiacciati disordinatamente dal grosso cappuccio, carica di invidia sfregando nervosamente le mani intirizzite.

“Spero di non avervi spaventata…” disse ancora lui, ma la giovane fece un rapido cenno negativo con la testa.

Poi il giovane sparì nell’oscurità insieme alla ragazza e lei tentò di addormentarsi senza successo. Poco dopo, sentì qualcuno adagiarle qualcosa addosso. Aprì di nuovo gli occhi ma non fece in tempo a vedere chi fosse stato. Sentì che quello che le avevano appena lasciato era un altro mantello, caldo, di lana spessa e quando lo osservò notò che aveva la chiusura in oro. La giovane lo guardò incredula. Si alzò per cercare chi ne fosse il proprietario, non poteva tenere quell’oggetto prezioso. Quando si mosse verso l’angolo in cui sentiva delle voci notò che il giovane di poco prima, con la ragazza, era dietro l’angolo in cui mendicava lei e non indossava il suo mantello. Pensò di intervenire per ricordagli che il suo cappotto l’aveva lei, ma desistette appena udì le parole d’amore che uscivano dalle bocche dei due giovani.

“Vedrai Meg, riusciremo a trovare una soluzione!” disse l’uomo.

“Si, lo so… ma… è così difficile!”

“Ma io ti amo!”

“Si, si, lo so… ma… dicevi di amare anche Christine!”

“Non parlarmi di Chistine adesso ti prego amore!”

“Perché no? E’ tua moglie, capisci che è un problema?”

“Lo sai perché ho sposato Christine!”

“Si, lo so… e non avresti dovuto.”

“… non fare l’umana adesso Meg!” disse l’uomo offeso.

“Raoul tu mi ami?”

“Più di qualsiasi cosa al mondo!”

“E vuoi vivere con me?”

“Non potrei farne a meno… e lo sai!”

“Allora baciami, so che troverai un modo per sistemare tutto!” ed i due si baciarono.

 

La giovane strinse il mantello caldo nelle mani e tornò al suo angolino, non era il caso di disturbare e poi… quella mantella era così calda…

Si sdraiò per terra e la usò come coperta, un coperta calda e morbida che la cullò in un sonno tranquillo, in cui sognava anche lei di trovare l’amore della sua vita.

 

Il mattino seguente venne svegliata dal leggero picchiettare della pioggia sul viso ed infreddolita, si alzò per cercare un posto in cui ripararsi. Non era mai stata a mendicare in quella zona di Parigi e quelle strade erano per lei del tutto sconosciute. La pioggia aumentava e la giovane usò il mantello nero che il ragazzo le aveva regalato per coprirsi meglio dalla pioggia. Gli sporadici balconi qua e la, le regalavano un piccolo riparo dalla pioggia ormai battente. Stava correndo senza una destinazione quando si trovò davanti all’augusta entrata di un teatro. Era l’Opera, l’Opera Populaire. Anche se la facciata era annerita ed il tetto era in parte crollato, quell’entrata dava comunque l’impressione di qualcosa di grandioso e la ragazza notò che quel posto non aveva proprio niente di popolare. Era sempre stato un posto per ricchi.

Mentre mendicava per le strade aveva sentito la gente parlottare di quel teatro e dell’infausta presenza di un famigerato Fantasma che ne abitava i sotterranei. Lei aveva sempre sorriso a quei racconti esagerati: i fantasmi non esistevano. Aveva sempre pensato che anche il famigerato Fantasma fosse solo frutto della fervida immaginazione di qualche macchinista.

Sotto la pioggia la ragazza tentò di aprire le porte del teatro sbarrate da diverse travi di legno spesso, ma non ci riuscì. Non avrebbe trovato rifugio lì quel giorno. Scese gli scalini di marmo che si erano fatti scivolosi sotto lo pioggia e si mosse verso una stradina poco illuminata verso il retro dell’Opera. Aderendo al muro umido la giovane cercò di muoversi verso un punto in cui sembrava ci fosse un’apertura nelle mura distrutte dell’edificio. Quando si affacciò all’interno della crepa, vide che c’era quella che sembrava un’ala dell’Opera. La parte crollata che portava all’interno della struttura era in parte allagata così, la giovane si mosse più verso il suo interno. La visione che le si presentò era a dir poco spettrale.

In alcuni punti l’intonaco si era staccato dal soffitto ed era crollato sul pavimento di fini piastrelle crepandole e scheggiandole. Laddove la copertura era crollata, era possibile vedere la struttura bruciata delle volte. Era impressionante, una fitta struttura d’intrecci e travi annerite che davano l'impressione di trovarsi dentro la pancia di una balena.

Gli affreschi che fino a poco tempo prima abbellivano il soffitto erano sporchi. Il raffinato colore intarsiato d'oro si staccava dall'intonaco come una sottile pellicola che ora pendeva tristemente dalle alte volte.

Le lunghe tende leggere ricadevano strappate e bruciate intorno alle finestre. Alcune erano esplose ed altre pendevano all’interno del corridoio come vecchi scheletri abbandonati sulla forca. La luce livida e fredda del temporale illuminava impietosamente il corridoio dentro il quale la giovane si stava addentrando. L’aria pungente, profumata di pioggia, entrava dalle finestre con forza. Le sembrava di sentirla ballare macabre danze intorno a se'. Danze tristi, desolanti e terrificanti, in cui tutto l’orrore della condizione umana si faceva sentire. L’odore dolce della pioggia mitigava quello più acre di legno bruciato. Le porte dei camerini erano state divelte ed al loro interno non v’era altro che fuliggine. Solo una camera sembrava essere sopravvissuta a quello sfacelo. Vi entrò sperando in qualche furto facile. Si guardò intorno. Era una stanza con i muri ricoperti di arazzi rosa e dorati, anneriti e bruciacchiati nei punti più esposti verso il corridoio. Era molto piccola e sul lato c’erano i resti rovesciati di un comodino. Fiori secchi e marci giacevano per terra ed il pavimento era coperto di schegge di vetro. Una chaise longue rosa si trovava sul lato sinistro della piccola stanza e su di essa giaceva ancora una coperta che sembrava perfetta. Ma non fu la coperta ad attirare la sua attenzione. Al fondo della stanza c’era una porta spalancata dalla quale proveniva la luce fioca di alcune candele. La giovane si mosse verso quell’apertura e vide che c’era un corridoio lunghissimo. Fece un passo verso di esso e sentì che in quel punto faceva più caldo. Sulle pareti scarne e macchiate di umido, c’era qualche candelabro acceso le cui candele erano quasi consumate. Che ci fosse qualcuno che avrebbe potuto offrirle accoglienza al fondo di quel corridoio? Proseguì cauta, senza parlare. Non aveva paura, tanto la morte non avrebbe potuto essere peggiore della vita che era obbligata a vivere. Poco per volta sentì le mani scaldarsi sotto la fasciatura che si era fatta per proteggerle dal freddo.

Mentre andava avanti nella sua esplorazione, trovò delle scale. Erano a chiocciola e di dura pietra. Le scese sorridendo beffarda:

“Oh, e così era qui che si nascondeva il Fantasma…” disse fra se' e se'.

Poi mise il piede su un pianerottolo e lo sentì cedere leggermente sotto il suo peso. Balzò via e guardò cosa stesse succedendo. Una botola! Cosa ci faceva una botola in una rampa di scale? Fu solo allora che sentì un brivido di insicurezza percorrerle la schiena. Avrebbe scoperto cosa c’era di così prezioso in fondo a quelle scale da richiedere un trabocchetto.

Continuò cautamente il suo cammino finché, dopo un tempo inestimabile, raggiunse quello che sembrava un antro abitato. Si trovava in una grotta semibuia, davanti ad un lago sotterraneo.

A prima vista avrebbe giurato che fosse la tana di un animale, poi nella penombra notò dei mobili di bel arredo sistemati con un certo gusto sulla sponda opposta. Non era una tana, era il rifugio di qualcuno! Il piccolo lembo di terra su cui erano distribuiti i mobili era ingombro di tende, candelabri, leggii e molti specchi. Uno era rotto, anche da dove si trovava lei si poteva notare la lunga piaga che percorreva la superficie di vetro e le varie botte che quel povero specchio si era preso da qualcuno chissà per quale ragione.

Apparentemente il posto era irraggiungibile se non immergendosi in acqua, ma non l’allettava l’idea di mettere anche solo un piede dentro quel lago nero come la notte. Un po’ di sole filtrava chissà da dove illuminando un piccolo cerchio d’acqua. Qualche candelabro acceso lanciava una fioca ma uniforme luce nel posto che sembrava decisamente inquietante. Notò poi dei piccoli massi fuoriuscire dall’acqua, ad una distanza tale gli uni dagli altri, da permetterle di attraversare il lago.

Saltò su quelle pietre finché non fu salva sull’altra sponda a pochi passi da quello che sembrava un organo. Era inusuale trovare un organo in mezzo ad un lago, ma non riuscì a stupirsi. Vivendo come viveva lei, in mezzo a gente che di normale non aveva niente, quello le sembrava solo un’altra stranezza come tutte le altre.

Si mosse furtivamente per quel mondo che sembrava essere stato strappato da qualche storia oscura, di quelle che serpeggiavano di bocca in bocca per i cunicoli dei bassifondi parigini.

Poco oltre quella specie di altare su cui poggiava l’organo, c’era un tavolino pieno di scritti e disegni eseguiti con maestria da quella che era certamente la mano di un’artista.

“Chiunque tu sia, sconosciuto, devi essere una persona molto sensibile…” disse la ragazza mentre osservava i ritratti a matita di una giovinetta coi capelli ricci ed un sorriso da bambina.

Posò le opere e si mosse verso un leggìo da cui pendevano alcuni fogli mentre altri erano stati calpestati e sparsi per la grotta.

Provò a leggerli ma non ci riuscì perché i caratteri erano sbavati e le note erano state cancellate brutalmente con altro inchiostro. Tornò verso l’organo ed in un angolo trovò la custodia di quello che sembrava un violino. Tentò di aprirlo ma si fermò perché sentì dei passi provenire da un punto indefinito della grotta. Nascose il violino sotto la tunica, consapevole che le sarebbe potuto tornare utile. Rimase in attesa con l’orecchio teso per carpire eventualmente qualche informazione, ma sentiva solo passi cadenzati avvicinarsi sempre di più all’antro. Poi, da dietro una tenda, vide apparire una figura che emerse dal buio come un fantasma. Era un uomo alto, avvolto in un lungo mantello nero. La giovane rimase per un secondo ad osservarlo senza fiato. Aveva qualcosa di regale negli atteggiamenti ma quando si voltò e la vide, sembrò trasformarsi nell’incarnazione del demonio.

“Chi sei?” urlò l’uomo lasciando cadere il cesto di roba che portava in grembo e sguainando la spada.

La ragazza non riuscì a muovere un muscolo tanto era spaventata da tale furia.

“Cosa ci fai qui!? Chi ti ha mandato?!” sibilò l’uomo mentre si muoveva cauto verso di lei che si stava spostando lentamente, ipnotizzata dal movimento della spada, verso l’organo.

“Io… io..” balbettò la ragazza sbattendo contro la sua struttura.

“Sparisci da qui!” e l’uomo corse verso lo strumento facendo sparire i fogli che vi erano appoggiati sopra e coprendo la tastiera.

Il rumore sordo ed inquietante delle corde che sotto la forza dell’uomo vibrarono, la fecero tornare in se'. Balzò lontano dall’organo ed osservò terrorizzata l’uomo. Una furia cieca brillava in fondo ai suoi occhi. “Vattene, vattene ho detto!” urlò ancora lo sconosciuto.

Non c’era tempo per parlare, doveva scappare, lontano da lì… il più lontano possibile.

 

Il vento umido dei sotterranei le sferzava il viso mentre correva a perdifiato lungo delle scale che salivano ripide. Più saliva, più il freddo pungente dell’aria esterna le pizzicava il viso e le entrava nelle ossa. Poi vide delle tende, le scostò e sentì il vento pungente dell’aria della città ridarle respiro. Corse fuori e si appoggiò al muro per riprendere fiato. Qualcuno stava salendo dalle scale, non poteva farsi trovare ancora lì. Percorse il lato dell'edificio finché non si ritrovò di nuovo in mezzo alla strada.


Erik fece solo in tempo a vederla scomparire dietro l’angolo quando scostò le tende da cui lei era appena uscita. Come aveva fatto ad entrare? Perché i suoi trabocchetti non avevano funzionato? Pensò allora di andare a controllare che nessuno li avesse manomessi prima di tornare a comporre.

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Capitolo 2
*** Nella tana del lupo ***



Buonasera a tutte. Io sono Nakara e frequento questo sito di fanfiction da poco tempo. Ecco qui il proseguimento della storia che ho iniziato a postare una settimana fa.

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Aveva finito di piovere e lei non si era fermata un attimo per paura che lui la trovasse. Aveva vagato senza meta tutto il pomeriggio finché la sera, esausta, in un posto che non conosceva, si adagiò all’angolo di una casa signorile. Scossa ancora dalla paura e dal freddo, cercò il mantello nero… ma l’aveva perso.

Maledizione - imprecò la giovane - tutto per colpa di un pazzo!” poi osservò il violino.

Pensò che avrebbe potuto venderlo se fosse stato abbastanza bello. Lo aprì e lo osservò. Era un violino stupendo che le sarebbe fruttato abbastanza soldi se avesse trovato un acquirente facoltoso.

Lo prese delicatamente tra le mani e lo osservò rapita. Si sentì quasi percorrere da uno strano calore quando lo adagiò tra il mento e la spalla. Le sembrava di essere tornata indietro di qualche anno, quando era anche lei una giovane nobile istruita ed amante della musica. Ripercorrendo quel periodo riuscì quasi a risentire il calore di casa sua ed i profumi dell’infanzia.

Viveva anche lei in una casa borghese, anche se meno signorile di quella a cui era appoggiata in quel momento. Suo padre era una figura importante, temuta e rispettata dai più, ma era uno spendaccione. Amava la bella vita e le belle donne e quei vizi avevano finito per seppellirlo di debiti. La sua incontinenza aveva finito per obbligare sua madre alla prostituzione sia sociale che personale finché un giorno dei sicari fecero loro visita e lo uccisero. A loro due non era rimasto niente. Presero quei pochi averi che avevano e si rifugiarono a casa di una Maîtresse che dava loro vitto e alloggio in cambio delle prestazioni di sua madre. A lei non era mai stato richiesto finché rimase sotto la sua protezione, ma quando questa si ammalò e morì, la difesa cadde. La seppellì e prima che la Maîtresse potesse anche solo far parola con lei del suo futuro, scappò prendendo con se' i pochi averi di sua madre ed i soldi destinati alla loro carceriera. Così era finita sulla strada, obbligata a mendicare per un tozzo di pane, a soffrire il freddo e le intemperie per fuggire ad un mondo che aveva sempre odiato.

Quei ricordi le fecero sanguinare il cuore come una freccia avvelenata intossica il sangue e uccide chi la riceve. Non seppe per quanto tempo venne strappata dal mondo reale per rivivere quei tremendi ricordi, ma quando vi tornò, notò che al fondo della custodia dello strumento c’erano alcuni spartiti.

Li tirò fuori ed iniziò a suonare. Aveva imparato a suonare quando era ancora una nobile e quando quelle note uscirono come cantate dalla delicata voce del violino, suonavano dolci e malinconiche. Si sentiva però che erano state scritte con passione e nel suonarle, lei stessa si commosse.

 

Christine osservava malinconica fuori dalla finestra. Nelle sue mani, una rosa rossa appassita stretta da un laccio di velluto nero.

Aveva appena finito di leggere una delle ultime lettere d’amore che Erik le aveva scritto prima della sua fuga. Erano parole dolorose ma spinte da una speranza sincera, quella luminosa che ha un bambino dopo un incubo, quando si ritrova tra le braccia della madre.

Appoggiò il viso al vetro freddo e sentì alcune lacrime calde rigarle il volto. Raoul non era ancora tornato e per lei non c’era la possibilità di essere calmata e coccolata dal caldo abbraccio di suo marito, un abbraccio che però le sembrava essersi raffreddato dopo pochi mesi. Probabilmente però non era il suo abbraccio ad essersi raffreddato, ma lei ad aver preso atto di una catastrofe: Erik le mancava. Le mancava il suo amore e la premura che le aveva sempre riservato, quella sensazione di sicurezza che solo lui le trasmetteva. Il suo leggero tremore quando lo sfiorava ed il calore di quel bacio. Un bacio che mai nessuno, come lui, le aveva dato.

Suo marito quella sera sarebbe tornato ancora tardi. Sposandolo aveva pensato che fosse proprio quella la vita che voleva, ma non aveva fatto i conti col fatto che lui era pur sempre un Visconte. Era un uomo importante, pieno di impegni e di progetti da seguire. Uno di questi era quello di un nuovo teatro per permettere a lei di tornare al mondo a cui era sfuggita ma di cui sentiva la mancanza. Christine però non voleva un palco su cui mettersi in mostra, rivoleva indietro Erik. Qualcuno da stupire coi suoi progressi e non qualcuno che la celebrasse in continuazione entrando nel suo camerino a dirle quanto fosse brava.

In quel momento il crepuscolo stava già allungando lunghe ombre sul selciato davanti a casa sua. Ombre che ingoiavano il pavimento come mostruose bocche di buio. Distolse lo sguardo dalla strada per spostarlo dentro la sua stanza, in modo da sfuggire a quella sensazione opprimente. Rimise tutto a posto e richiuse i ricordi dentro quella scatola di metallo annerita che era sopravvissuta all’incendio. Durante un lungo viaggio di Raoul, era andata a cercarla nella sua stanza all’Opera e la ritrovò lì, sotto il suo letto, miracolosamente sopravvissuta al disastro. Era un segno: l’amore non poteva morire… mai.

Quando la nascose nuovamente sentì un suono lontano, dolce e musicale che sembrava provenire direttamente dal suo cuore e dai suoi ricordi. Era una musica che conosceva solo lei, che solo una persona aveva scritto per lei, suonata da un violino che avrebbe riconosciuto tra mille. “Erik!” sussultò parlando sottovoce e correndo nuovamente alla finestra per guardare in strada. Non vide nessuno, allora, cercando di non correre, scese le scale e disse alla sua domestica che usciva per una passeggiata dopo cena. Non sentì il rimprovero della signora presa com’era da quella dolce speranza. Prese il suo cappotto ed uscì.

L’aria pungente della sera le pizzicò il viso mentre apriva il pesante portone di legno. Scese gli scalini ed attese che il vento le riportasse le dolci note della sua canzone. Poi improvvisamente, le note esplosero nella notte come fuochi d’artificio che le illuminarono il cuore di mille colori. Seguì quella voce fino a che non si trovò davanti, sul lato posteriore di casa sua, una figura incappucciata che suonava il violino.

Erik!” sussurrò correndo verso la figura, le si accovacciò di fronte e le tolse il cappuccio.

 

Erik!” disse la ragazza che le aveva scoperto il volto, e la giovane mendicante si ritrovò davanti il suo sguardo attonito. Si ritrasse, e spaventata si liberò le spalle dalla stretta della giovinetta.

 

Christine ritrasse le mani e si maledisse per essere stata tanto ingenua. “Tu non sei Erik…” disse delusa.

 

No, sono una donna se permettete!” disse stizzita la mendicante mentre riponeva il violino nella sua custodia anche se non pensava che quella ragazza dai capelli ricci seduta davanti a lei fosse veramente un pericolo. Era più piccola di lei ed era nobile e ingenua. Nessuna ragazza con un minimo di amor proprio si sarebbe comportata così con un mendicante od uno sconosciuto qualunque.

No aspettate” disse la nobile, trattenendole la mano.

La donna alzò il suo vivo sguardo color miele sul suo volto e Christine si sentì stranamente attraversata da quegli occhi freddi ma profondi. Poi la sconosciuta le osservò significativamente la mano che le impediva di chiudere la custodia. Christine ritirò la sua e chiese “Dove… dove avete trovato questo violino?”.

La mendicante fece chiudere rumorosamente il contenitore dello strumento cosicché Christine non poté più avvicinarvisi. “L’ho trovato.” Si limitò a dire la donna.

E’… molto bello…” disse Christine sorridendo triste. L’altra la osservò pensosa. Sembrava che quella giovane avesse qualcosa di familiare, ma non si soffermò molto su quel particolare, doveva andarsene da lì. Si alzò e prese le sue poche cose.

No, aspettate ve ne prego!” la ragazza alzò gli occhi al cielo e si voltò verso la nobile.

Quella musica, dove l’avete trovata?” le chiese questa volta fredda Christine. Doveva sapere!

L’ho trovata nella spazzatura.” Rispose con altrettanta durezza la sconosciuta.

Non poteva permettersi di essere messa in carcere per furto e non aveva intenzione di cedere quello strumento prezioso a quella giovane sprovveduta.

Christine rimase pietrificata a quelle parole. Santo cielo, cosa aveva fatto! Lui era adirato con lei ed aveva buttato via la loro musica. Si sentì morire a quel pensiero. Sentì le ombre della notte inghiottirla in un limbo senza pensieri né sentimenti, l’oblio. Lentamente si sentì scivolare nel buio poi… fu il nulla.

 

Quando rinvenne era sdraiata sul divano. Parte della servitù la stava osservando preoccupata e fra quei volti ce n’era uno non familiare. Quello della giovane bionda con gli occhi di miele che suonava il violino.

Cosa è successo?” biascicò la padrona di casa.

Siete svenuta Madame - disse tenue la governante - questa giovane vi ha riportato in casa. Vi avevo detto di non uscire!” la rimproverò.

Non farmi la paternale Elenoire!” la supplicò Christine.

Poi ci fu un gran trambusto ed un giovane biondo e ben vestito raggiunse veloce la ragazza sul divano.

Christine, amore! Cosa è successo?” le chiese una volta che ebbe tra le sue mani quelle della giovane chiamata Christine. La mendicante fece un impercettibile passo indietro, aveva già visto quel ragazzo.

Niente di grave, sto bene Raoul. E’ stato solo un mancamento.” Rispose Christine.

La mendicante tremò a sentire quel nome, era proprio quel ragazzo… quello che aveva visto la sera prima con la ragazza bionda!

Quella giovane è stata così gentile da riportarmi in casa…” continuò Christine indicando proprio lei. Aveva il viso scoperto ed i lunghi capelli biondi le ricadevano sul volto affilato, proprio come la sera in cui incontrò il ragazzo chiamato Raoul. Sentiva di essere stata riconosciuta e vide uno sguardo sinistro passare negli occhi azzurri del giovane mentre la osservava. Poi parlò a lei: “Siete stata gentilissima… Mademoiselle…? ” chiese lui una volta davanti a lei.

Non ho un nome Signore…” mentì la giovane inchinandosi ossequiosamente.

Raoul l’aveva già riconosciuta. Quei lineamenti e quegli occhi particolari l’avevano tradita. Non poteva permettere alla ragazza di restare oltre con loro, vicino a Christine.

Mademoiselle, vi ringrazio sentitamente per il vostro aiuto alla mia amatissima moglie…”

Non se ne fa niente dei tuoi ringraziamenti Raoul…” lo interruppe Christine distruggendo il suo tentativo di mandarla via.

Elenoire, dalle qualcosa da mangiare. È il modo migliore che conosco per ringraziarvi Mademoiselle.” Disse Christine al suo indirizzo impedendole di declinare l’invito. La giovane rimase stupita da tanta gentilezza e mangiò con gusto il piatto caldo che le era stato offerto.

Mademoiselle, vi ho fatto preparare una camera, così potrete rinfrancarvi dalla stanchezza ed un bagno vi sarà certo gradito.” Poi Christine sparì oltre la porta battendo le mani per richiamare all’ordine la servitù. La sua ospite non fece nemmeno in tempo a replicare che due signore la stavano già scortando al piano superiore.

Quando la giovane ospite rimase sola con Elenoire osò parlare: “La vostra Signora è veramente premurosa con me… non lo merito…”

Oh, sciocchezze. Quella giovane ha portato una boccata d’umanità in questa casa, fa del bene a tutti ed è molto sensibile verso le persone che sono umane con lei.” Sentenziò la corpulenta governante.

Poi, dopo essersi assicurata che fosse tutto di suo gradimento, uscì dalla stanza lasciandola sola.

 

Passò pochissimo tempo dal momento in cui si addormentò sul morbido materasso sotto le coperte calde, al momento in cui sentì qualcosa tormentarle il viso ed una mano batterle la spalla. Quando si svegliò per poco non urlò. Raoul stava seduto accanto al suo letto, ad osservarla nella penombra esibendo un sorriso da satiro.

"Salve Mademoiselle..." esclamò lui ormai vicinissimo trattenendo una mano sulla bocca di lei. I suoi occhi color miele erano dilatati dalla paura. Non c'era più traccia dello sguardo rancoroso che gli aveva riservato solo la sera prima.

La giovane respirò sopra la mano del visconte facendo sollevare con l'aria i ciuffi di capelli biondi che le ricadevano sul viso.

"Se mi promettete che non urlerete, io lascerò le vostre belle labbra libere di mostrarsi in tutto il loro splendore. Devono essere stupende mentre respirate..." concluse il ragazzo.

Lei lo osservava terrorizzata.

"Me lo promettete?"

La giovane annuì, ed avrebbe obbedito. Quel uomo era un mostro!

"Bene, voglio fidarmi di voi..." asserì il ragazzo.

Le lasciò la possibilità di respirare e lei si ritrasse contro il muro coprendosi con le coperte per tentare di nascondere il corpo coperto solo dalla sottoveste agli occhi dell’uomo.

"Io so chi siete, giovane senza nome..." continuò questa volta calmo Raoul. Lei sgranò gli occhi.

"Siete quella giovane mendicante che ho svegliato con la mia irruenza l'altra sera. Mi dispiace sul serio. - fece una pausa poi riprese - Vi ho lasciato il mio cappotto, l'avete trovato?" domandò.

La giovane annuì.

"Bene, non mi piace vedere soffrire le belle ragazze." continuò lui tranquillo. Avrebbe giurato che lui non avesse nessuna intenzione di corteggiarla e che quelle parole, per quanto suonassero brutalmente moleste, fossero state pronunciate come un semplice dato di fatto.

"Dal momento che avete salvato la mia amatissima moglie dal congelamento notturno vi sono, in un certo senso, debitore."

La giovane avrebbe voluto ricordargli che lei non aveva fatto proprio niente, ma dal momento che sembrava essersi calmato preferì reggergli il gioco e lasciarlo fare.

"Finché sarete nostra graditissima ospite, non dovrete fare parola con mia moglie né di quello che i vostri vispi occhietti hanno visto, né tanto meno ciò che le vostre acute orecchie hanno sentito o sarò obbligato a privarvi di tali organi..." disse Raoul sorridendo come una rana malevola.

La ragazza annuì ancora, spaventata.

"Anzi, sarebbe meglio che non le parlaste proprio.... - disse pensoso l'uomo. Poi riprese - Se lo farete, non se le parlerete sia chiaro, ma se vi farete sfuggire qualcosa, mi troverò costretto ad uccidervi."

La donna sgranò gli occhi.

"E non lo farei in modo indolore, credetemi. Quello lo sanno fare solo i sicari. Io non ho mai imparato ad uccidere Mademoiselle, ma c'è sempre tempo per farlo, non credete?" concluse lui osservandola dritto negli occhi. Non pensava che avere in pugno un altro essere umano trasmettesse tanta forza.

 

Com'era possibile che un giovane bello ed apparentemente tranquillo fosse capace di ciò? Poi pensò che su alcune persone la paura ha l'effetto contrario rispetto a quello normalmente conosciuto. L'aveva imparato in strada. La mente umana era soggetta a cambiamenti davanti alla paura. Chi aveva le spalle coperte era sempre il più crudele e spavaldo, ma forse si mostrava tale solo perché aveva più cose da perdere. Probabilmente il giovane davanti a lei era potente, ma restava un vile ragazzino, troppo legato ai suoi privilegi e al suo buon nome per rischiare che le parole di una giovane mendicante potessero macchiare la sua fama di nobiluomo irreprensibile. Tanta crudeltà su una poveraccia come lei era un comportamento da abietto. Era una preda troppo facile.

"Bene, mia giovane amica. Adesso potreste parlare e dirmi se accettate le condizioni..." disse l'uomo.

"Non ho scelta." sibilò la ragazza che ora aveva trovato di nuovo la grinta che lui le aveva strappato via in un secondo.

"No, non è vero! - esclamò colpito lui - Potete scegliere la vita o la morte. - disse lui come se ciò che le stava proponendo fosse una valida alternativa. - Vivrete se starete zitta, morirete se parlerete." concluse.

La giovane si sentì invadere da un'ondata di odio, velenoso ed amaro come la bile.

"Adesso ho sonno, vado a dormire. Buona notte Mademoiselle, perdonatemi per il disturbo." e con un inchino uscì dalla stanza.

 

Osservò a lungo la porta dopo il congedo di Raoul, impietrita. Non aveva intenzione di restare in casa con quel pazzo un minuto di più. Non era una scelta plausibile quella che le era stata offerta, anzi, non lo era affatto… era un ricatto!

Senza pensarci oltre scese dal letto e si rivestì coi suoi abiti, lasciando sulla sedia quelli che Christine le aveva offerto. Prese le sue cose e le lasciò un biglietto di ringraziamento.

Pensò se firmarsi o meno poi desistette, limitandosi a disegnare una nota ed un violino stilizzato. Guardò fuori dalla finestra ma era al primo piano di una villa… non era una buona idea saltare da lì. Pregando di farla franca, la ragazza uscì dalla sua stanza, scese le scale davanti a lei e con passo felpato uscì dal pesante portone di legno. Avvicinò al nottolino un sottile pezzo di metallo che portava sempre con se', fece scivolare la porta su di esso e la chiuse senza rumore.

Fu strana la sensazione che provò quando uscì da quella casa. L’aria della notte ed il buio sembrarono accoglierla come le braccia di una madre. Lì era una come tanti, figlia della sfortuna come i suoi fratelli, le persone che, come lei, non avevano un posto dove andare. La strada era diventata la loro madre, incapace di distinzioni tra i suoi figli, dolce ed accogliente.

Sapeva che era paradossale sentirsi più sicura in strada che in una casa in cui l’avevano accolta a braccia aperte. Già, l’avevano accolta… ma lei era scappata terrorizzata da quel uomo crudele che faticava a pensare come marito della giovane ed ingenua Christine. Si richiamò all’ordine. Non le serviva a niente stare lì a pensare a loro, ora era di nuovo in strada e doveva tornare a prendersi cura di se' stessa. Non si voltò mai indietro ma camminò senza fermarsi finché non riconobbe la strada in cui mendicava di solito. Il suo angolo era ancora lì, inviolato. Persino la strada aveva regole non scritte che venivano rispettate. Sorridendo malinconica prese di nuovo possesso del suo posto dove, sedendosi, attese l’alba.

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Capitolo 3
*** Il mio Regno... ***


Buonasera a tutte ragazze, con questo capitoletto vi auguro buon Natale! Un bacio.
Nakara
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Passò quasi tutta la notte a controllare che le sue trappole non fossero state sabotate da nessuno ed infatti erano tutte perfettamente funzionanti. Non riusciva a spiegarsi come fosse possibile che quella ragazza fosse arrivata fin lì senza un graffio e senza paura. Evidentemente il Fantasma dell’Opera stava perdendo colpi, così decise di tornare al suo organo a comporre. Suonò l’ennesimo lugubre requiem che la sua mente era riuscita a partorire ma a metà esecuzione, fece cadere la copertura sulla tastiera e si portò le mani alle tempie. Da quando la sua dolce musa era fuggita sembrava che l’ispirazione l’avesse abbandonato. Probabilmente sarebbe stato più salutare per lui smettere di cercare conforto nella sua musica perché quando ci provava, la sua pena si alzava dalle bocche dello strumento amplificata, straziandolo e distruggendolo ad ogni nota.
La timida luce dell’alba invase la sua grotta dandogli il buongiorno. Un buongiorno amaro, come tutti quelli che da qualche mese a quella parte si erano susseguiti. I bracieri erano ancora accessi e così pensò di tentare di riposare almeno un po’.  Si era appena mosso verso il letto quando inciampò  mettendo il piede su qualcosa che sembrava di tessuto. Abbassò lo sguardo incuriosito ma sembrava che non ci fosse niente. Mosse la mano alla cieca vicino a dove aveva appena appoggiato lo stivale e sentì sotto le dita qualcosa di morbido e caldo. Lo sollevò alla luce rigirandoselo tra le dita per cercare di dare un senso a quel enorme pezzo di lana che giaceva per terra. Sembrava un mantello, un bel mantello anche. Era di lana nera, pregiata e morbida. Doveva essere anche molto caldo a giudicare dal flebile calore che amava anche dopo una notte per terra. Quella ragazza doveva averlo perso e forse l’aveva rubato chissà a chi. Se era così, aveva portato a segno un bel colpo! Gli dispiacque quasi pensare che aveva perso quel cappotto fantastico per causa sua. Ma tutti i suoi sensi di colpa svanirono nel nulla quando si rese conto che la fibbia della mantella era d’oro massiccio e riportava…
“Il Blasone degli Chagny!” esclamò furibondo.
Quel animale doveva averla mandata o per controllarlo, o per farlo trovare e farlo uccidere. In preda ad un raptus distruttivo, strappò il blasone d’oro dal tessuto pregiato e lo lanciò nel braciere davanti a lui, con tanta foga che rischiò di farlo rovesciare. Poi buttò il cappotto per terra lanciandogli sopra il contenuto di brace rovente.
“Maledetto!” urlò il musicista dando un calcio al contenitore di metallo e facendone saltare la copertura. Il legno annerito ancora avvolto dalle fiamme bruciò in poco tempo quel cappotto non lasciando altro che cenere.

“E’ successo qualcosa piccola mia?” le chiese sua madre osservandola critica.
Non le piaceva essere osservata così e nemmeno amava avere segreti con sua madre, non tanto per il rapporto che aveva sempre avuto con lei, ma perché era in grado di scoprire qualunque cosa. Si era sempre domandata come facesse, poi si rispose che forse, negli anni passati con un uomo taciturno come lo era stato Erik, aveva imparato a scoprire tutto da sola. Era sempre stata una donna intelligente ed in quel momento, niente era più scomodo di una madre intelligente!
“No, niente madre, sono solo un po’… stanca.” Rispose Meg.
“Ma se ti sei appena alzata!” rispose cercando di mantenere un tono leggero.
“Si, ma intendevo che devo ancora svegliarmi bene…” rispose la giovane tormentando il tovagliolo davanti a lei. Poi sua madre la osservò ancora.
“Sei sicura che vada tutto bene? Sai che se vuoi parlare, con me puoi farlo…”
“No, madre non voglio parlare. Non ho niente di cui parlare! Se lo volessi fare lo farei ma non ho niente!”
“Suvvia Meg, lo sai che a me non puoi nascondere niente…”
Si lo sapeva. “Non ho niente da nascondere!” ringhiò la giovane.
“Ah, bene… ti vedevo così seria ed ho pensato…”
“E’ questo che sbagliate, non dovete pensare!” la interruppe la giovane, ed abbandonando parte della colazione tornò in camera sua lasciando sua madre attonita.
Questa guardò la domestica e le disse “Ma cosa ho detto questa volta?”
“Madame, vostra figlia ultimamente è un po’ suscettibile. Magari è scontenta per il futuro che si vede davanti…”
“Oh, Cècile! Non riesco a pensare ad un futuro migliore da offrirle…” disse rassegnata la donna.
“Madame, vostra figlia è giovane ma non è più una bambina, magari ha solo i suoi piccoli segreti… come tutte le donne…”
“E’ questo che mi preoccupa… io e lei non abbiamo mai avuto segreti…”

Meg era sul letto, tremante e preoccupata. Sapeva che sua madre non le avrebbe perdonato tanta sfacciataggine e per un attimo accarezzò l’idea di dirle tutto. Non ce la faceva a tenersi dentro quel segreto e la gioia che quel amore le stava donando. Ma non poteva! Non quando quel uomo era il marito di Christine, la ragazza con cui era cresciuta e che era per lei come una sorella. Si buttò sul letto e tutto ad un tratto le sembrò di riuscire a capire cosa avesse spinto Erik, Il Fantasma dell’Opera, tanto oltre. L’amore! Un amore cieco ed incondizionato, tanto forte da spingerlo a fare pazzie, proprio come lei. Per amore stava tradendo la persona che aveva più cara al mondo. Sprofondò il viso nel cuscino ma non pianse. La sua mente era troppo occupata da mille pensieri per potersi ricordare anche di piangere. Sentì lo stomaco contorcersi poi qualcuno bussò alla sua porta.
“Meg?” chiese la voce di sua madre.
“Entrate madre…” disse, sedendosi sul letto pronta a prendersi le sue responsabilità.
“Madre io…”
“No! Non voglio sentire una sola parola di più uscire dalle tue labbra.”
“Mi dispiace…” sussurrò la giovane.
“Si, lo so, ma sei troppo grande per prenderti due ceffoni quindi non lo farò…”
Meg divenne sempre più piccola. Le punizioni - non punizioni, di sua madre erano il castigo peggiore a cui era stata abituata crescendo. Voleva dire che aveva rovinato il rapporto e che ci sarebbe voluto tanto tempo per far rientrare tutto.
“So che c’è qualcosa che ti turba, ma non ti chiedo di mettermene a parte se non vuoi. - Disse fredda la madre - Ti chiedo solo un minimo di rispetto. Se tu stai male, sto male anch’io e non c’è niente di peggiore che vedere soffrire le persone a noi care senza poter fare niente per aiutarle. Sai che io sarò sempre qui, pronta ad ascoltarti finché sarò viva. La tua colazione è ancora sotto se vuoi mangiare… Io devo uscire.”
E detto questo, Eloise Giry uscì.

“Madame! Madame! Venite a vedere!” sentì Elenoire urlare.
Christine, preoccupata, corse da lei.
“Cos’è successo?” chiese.
“La giovane bionda…”
“Le è successo qualcosa?”
“E’ scappata…”
Christine allora corse verso la stanza che l’aveva ospitata ed entrò. Il letto era ancora da fare ed i suoi abiti puliti erano ancora lì, sulla sedia dove glieli aveva lasciati. Si mosse all’interno della stanza e notò un foglietto piegato abbandonato sullo scrittoio. Sopra c’era scritto “ Per Christine.”  La ragazza allora lo aprì e lo lesse.

“ Vi ringrazio Madame per la vostra disponibilità, ma non posso proprio stare qui con voi. Mi dispiace.
Grazie per le premure che mi avete  riservato, non saranno mai dimenticate.
Con gratitudine .”


La lettera non era firmata, c’erano solo una nota ed un violino stilizzati a conclusione di esso.
“Se ne è andata sul serio…” disse.
“Così pare, Madame…”
“Ma perché?”
“Non saprei Madame, probabilmente non è abituata a tante attenzioni ed ha preferito tornare alla sua vita…”
“Non dire sciocchezze Elenoire, quale essere umano preferirebbe la vita di strada ad un letto caldo ed un tetto sopra la testa?!”
“Non so rispondere Madame, probabilmente non aveva intenzione di stare qui a lungo.”
“Non avevo intenzione di farla stare qui tanto… non se non avesse voluto almeno! Ma comunque, non preoccuparti Elenoire, torna pure di sotto io… io controllo che tutto sia a posto.”
La domestica allora abbandonò la sua padrona e scese di sotto a preparare la colazione al Visconte.
Christine ora era sola in quella stanza ad osservare pensosa quella lettera.
“Chi sei giovane musicista? Perché avevi il violino di Erik? - si chiese osservando il foglietto - e soprattutto, perché sei scappata?”

Erik si stava muovendo per la prima volta tranquillo per i corridoi dell’Opera chiedendosi perché avesse voluto dare fuoco al suo Regno. Fino a poco tempo prima non poteva muoversi liberamente per quei sfarzosi corridoi, ed ora che invece poteva farlo, l’aveva ridotto ad un cumulo di cenere. Uno scheletro annerito e lugubre, dentro il quale l’odore della morte e della paura aleggiavano ancora per i suoi corridoi. Non era ancora riuscito a calmare la furia che la vista di quel blasone aveva risvegliato in lui, una furia cieca, di quelle che solo il Fantasma conosceva, non Erik.
Quella volta invece era stato Erik a provarla, riversandola anche sulla giovane che era riuscita a sfuggire ai suoi trabocchetti ed a scovare il suo nascondiglio.
“Dannazione! Non avrò mai pace!” urlò lui osservando una scheggia di vetro lunga ed affilata che giaceva sul pavimento. Per un momento pensò al gesto più estremo. Nessuno avrebbe sentito la sua mancanza, nessuno avrebbe mai scoperto il suo cadavere. Sarebbe stato divorato dai corvi, come una carcassa qualunque, a prescindere dal suo volto sfigurato dalla nascita. Avrebbe suonato un altro requiem quel giorno e l’idea di farlo non lo allettava affatto. Sentiva la mancanza di quell’ ispirazione buona, dolce e delicata come la sua Musa. Avrebbe voluto risentire la sua voce, solo una volta… una volta ancora. Ma le sue preghiere non erano mai state esaudite da quel giorno. Anzi, a dire il vero, non gli risultava che le sue preghiere fossero mai state esaudite in vita sua. Fu con l’umore nero che tornò verso il suo antro, là dove il suo organo ed il suo violino lo attendevano. Poteva quasi immaginarseli smaniosi di sentire ancora le sue mani addosso. Rise di quel pensiero poi entrò n
el camerino della prima donna per raggiungere i suoi sotterranei.

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Capitolo 4
*** Trovatela! ***


Va bene, ammetto di aver sbagliato le tempistiche, ero consapevole che sarebbe passato in sordina perchè il 24 la gente ha di meglio da fare. Nonostante ciò posto oggi il capitolo perchè domani non ci sarò, quindi, mi auguro che questo capitolo vi piaccia e colgo l'occasione per augurare a tutti Buon Anno!

-- ALLARME ROSSO --
Vi avverto che questo capitolo ha dei contenuti forti, e non quel tipo di forte che a noi piace tanto, ma parla di violenza su una donna. Spero caldamente di non urtare la sensibilità di nessuno. Un bacio a tutte. Erica


Capitolo 4 - Trovatela!

Seduto alla sua scrivania fissava i due uomini che stavano in piedi di fronte a lui con finto fare ossequioso, ostentando un rispetto che sapeva essere più per i suoi soldi che non per la sua persona. I nobili si servivano spesso di gente come loro quando avevano bisogno di sbrigare faccende spinose senza sporcarsi le mani e sopratutto, i nobili pagavano bene chi riusciva a risolvere le loro grane. Non avevano delle facce raccomandabili, ma dopotutto, se le avessero avute non avrebbero potuto essere sicari.
Raoul sapeva che erano affidabili, con anni d’esperienza e che avevano ucciso già molte persone, persone potenti. Una povera mendicante non sarebbe stata un problema per loro.
“Prego signori, sedetevi…posso offrirvi qualcosa?” domandò il ragazzo indicando le due poltrone davanti a lui. I due uomini si sedettero declinando l’offerta ed attendendo che parlasse.
“Mi ritrovo in una situazione spinosa ed avrei bisogno dei vostri servigi… - disse Raoul andando subito al punto. - C’è una donna, una mendicante, che ha scoperto troppe cose sul mio conto, cose che sarebbe meglio non passassero di bocca in bocca.”
Parlarono a lungo, ma Raoul non si scoprì mai, si limitò solo a dare indicazioni della possibile locazione della giovane e dell’eventuale compenso a lavoro finito. Poi fornì loro una descrizione dettagliata del suo aspetto e fece loro alcune raccomandazioni:
“Niente pistole. La ragazza vive in strada, porta con se un violino, molto prezioso a quanto pare. Un rapinatore di strada non si servirebbe di armi da fuoco ma di armi da taglio come pugnali, molto meno costosi delle pistole ed in alcuni casi, più efficaci. Mi raccomando signori, se mi porterete le prove che vi ho richiesto, il compenso sarà certamente uno dei migliori che la vostra carriera abbia mai visto.” Detto questo, congedò i due uomini e si concesse un whisky. Quella mattina non avevano più trovato la ragazza, sembrava che si fosse volatilizzata, senza lasciare tracce. L’aveva avvertita, poteva scegliere se vivere o morire… ebbene, aveva fatto la sua scelta. Lui le avrebbe solo dato ciò che voleva.

L’unica speranza che aveva per riavvicinarsi ad Erik era scappata senza una spiegazione e suo marito era chissà dove a parlare di cose che lei non capiva e che non le interessavano. Era rimasta in camera sua con quella lettera in mano a farsi solo domande alle quali non riceveva risposta. Avrebbe voluto qualcuno con cui parlare, con cui sfogarsi ed in quel momento le era venuta in mente solo una persona: Madame Giry, la donna che l’aveva adottata dopo la morte di suo padre e che l’aveva cresciuta insieme a Meg come un figlia. Si sedette allo scrittoio, prese carta e calamaio e le scrisse.
Dopo aver riletto la lettera varie volte, la sigillò con il marchio degli Chagny e gliela mandò.

Stava scendendo le tantissime scale che lo dividevano da casa sua e quando vi arrivò si mosse immediatamente verso il suo organo. Ripulì il pavimento dalla cenere del mantello di Raoul buttandola nel lago e risistemò il pasticcio di carbone ormai freddo che era sparso per terra. Era pomeriggio e quando il sole era così alto preferiva non uscire di casa. Una passeggiata gli avrebbe fatto bene per far sbollire un po’ la rabbia ma si disse che avrebbe comunque atteso il crepuscolo. Detestava stare con le mani in mano, senza idee, senza la compagnia della sua musica, senza la sua ispirazione, con la consapevolezza che quel posto non era più sicuro. Si guardò intorno torvo alla disperata ricerca di qualcosa da fare, ma niente in quel posto richiedeva la sua attenzione...dannazione! E non c’erano nemmeno topi da torturare! L'unica speranza che aveva di ritrovare un po' di serenità, era quella di riprendere in mano il suo violino ed abbandonarsi a quelle dolci note, così diverse da quelle dure ed altisonanti dell'organo. Da quando Christine se ne era andata non lo aveva più utilizzato abbandonandolo in un angolo della sua caverna.
“Eppure era qui… - si disse Erik incredulo. - O almeno… dovrebbe essere qui.”
Cercò in tutta la caverna, anche nei posti più strani e nascosti in cui sapeva che non l’avrebbe messo comunque.
“E dire che qui non l’avrei mai messo… anche se... in quei giorni ero talmente fuori di me che posso averlo messo ovunque. - poi osservò un disegno di Christine - te lo ricordi?” disse lui sorridendo. Sollevò le cataste di fogli su cui era appoggiato quel disegno pensando che lo strumento fosse rimasto sepolto nel disordine che da troppo tempo regnava nella sua dimora. Immaginò Madame Giry rimproverarlo per la sue scarse attitudini domestiche per poi ridere da solo di quel pensiero.
"Non può essere sparito da solo - borbottò - diamine! Sono io l'unico fantasma in questo posto!" Andò anche vicino al letto disfatto sopra il quale c’era una montagna di biancheria… sporca ovviamente.
Scostò una camicia che era finita dietro la testata del letto e sobbalzò quando sentì un dolore lancinante alla punta del dito. Ritrasse la mano e vide una delle sue trappole per topi penzolare dalla punta del suo guanto nero. La fissò con aria di sopportazione e staccò via il marchingegno a molla lasciandolo cadere a terra sbuffando stizzito.
"Saranno stati loro a portarlo via... per vendetta... quei piccoli roditori non si accontentano di mangiucchiare il mio cibo e di lasciare i loro escrementi sui miei spartiti! Maledetti... si vede che ne devo seviziare qualcuno in più!"
Poi si soffermò un attimo sugli ultimi accaduti della sua triste vita. Cercò di ricostruire i giorni prima della fuga di Christine e dove avesse messo il violino dopo il loro incontro al cimitero. Sempre là, al suo posto, dove aveva già guardato ma dove non l’aveva trovato. Un pensiero terribile gli si affacciò alla mente: se li non c’era, dovevano averlo rubato!
Urlò selvaggiamente per la rabbia. “Maledetti! Maledetti!”
Rovesciò i mobili e tavolini per cercarlo ormai lontano dalla calma di poco prima, gettò per terra la biancheria sporca sul suo letto, tirando via anche la calda coperta rossa ed abbandonandola sul pavimento. Col fiato grosso, scosso dalla collera urlò ancora liberando l’ultimo strascico di violenza che quella scoperta aveva risvegliato in lui.
“Ti troverò! Chiunque tu sia e dovunque tu sia, ti troverò e ti ammazzerò con le mie mani!” ringhiò all’aria mentre indossava un cappello nero a tesa larga e prendeva il suo mantello. Non avrebbe aspettato il crepuscolo, ma sarebbe uscito subito a cercare ciò che gli era stato sottratto.
Andò verso il passaggio segreto che conduceva all’esterno ed inciampò in un bellissimo candeliere d’oro. Alzò gli occhi al cielo infastidito poi lo prese e lo lanciò con foga nel lago.
“Togliti dalla mia strada!”. Spinse via il leggìo che cadendo riversò i fogli nel lago. “Maledizione!” urlò, dandogli un calcio che lo immerse per metà in acqua. Dopo aver velocemente passato in rassegna i danni del suo sfogo sopirò con impazienza ed uscì.

Cominciava ad imbrunire e le strade di Parigi si stavano svuotando per riempire le case chiuse. La giovane guardava disgustata gli uomini che entravano ed uscivano da quei locali in cerca di avventure facili e senza responsabilità. Addentò il frutto che quella sera avrebbe costituito la sua cena ed iniziò a suonare il violino.
Le strade erano stranamente vuote, sembrava che Parigi si fosse rinchiusa nelle proprie case, al sicuro, mentre lei era lì fuori priva di ogni genere di protezione. Il suono celestiale del violino riuscì per un po’ a farle dimenticare il marcio del mondo e del luogo in cui era obbligata a vivere.

Erik camminava per le strade di Parigi senza meta, spinto dalla ricerca del suo adorato violino. L’imbrunire colorava di rosso le strade, un rosso cupo che sembrava infuocare tutto quello che illuminava. Le ombre si stavano allungando ed i parigini si muovevano con le carrozze per raggiungere le loro case, là dove qualcuno li attendeva. Lui non aveva nessuno da cui tornare, solo cose da ritrovare. Si muoveva tranquillo per le vie cercando di passare inosservato, ma sembrava che nessuno si accorgesse di lui. Non sapeva dove cercare, ma pensò che il primo luogo in cui avrebbe potuto trovare un oggetto rubato, sarebbe stato nei bassifondi parigini. Dovunque fosse il suo violino e dovunque avesse suonato, lo avrebbe riconosciuto.
Era già notte quando raggiunse il primo quartiere malfamato della città sicuro che in quel ricettacolo di gente di ogni genere e grado, nessuno avrebbe notato un uomo ammantato di nero aggirarsi per quelle vie.
Girò per le strade stranamente vuote e costeggiò molte case dalle quali provenivano rumori inequivocabili, aveva capito esattamente che genere di locali fossero.
Sentì lo stomaco accartocciarsi per il disgusto. Aveva sempre detestato quel genere di persone. Lui l’amore non l’aveva mai conosciuto veramente, ma conosceva la passione. Era stata sua fedele compagnia per diverso tempo e gli aveva fatto scoprire sfaccettature che non avrebbe nemmeno mai immaginato. Nonostante ciò però, non si sarebbe mai abbassato a tanto, ad obbligare una donna, pagandola, a prestarsi per placare i suoi istinti. Aveva preferito imparare a domarli anziché riversarli su una donna che non ne poteva niente, nemmeno ribellarsi.
Poi sentì una voce lontana, una voce che avrebbe riconosciuto all’istante, che cantava una canzone che solo lui conosceva… il suo violino. Sembrava lontanissimo, disperso chissà in quale quartiere, ma l’avrebbe trovato. Si tolse il guanto e si umettò il dito per capire se ci fosse vento e da dove arrivasse. Non ce n’era! Il suo violino doveva essere lì vicino.

Doveva essere tarda sera ormai. La città era silenziosa, se non fosse stato per i rumori dei bordelli si sarebbe potuto dire che la città, insieme ai suoi abitanti, si fosse addormentata. Il violino l'aiutava a sentirsi meno sola. Dopo la notte precedente, la ragazza aveva perso la sua tranquillità e non sentiva più la notte come una madre, non quella notte almeno. Era sola quella volta, i suoi fratelli non erano lì con lei. Sentì dei passi cadenzati battere sul selciato della strada. Poi due ombre si bloccarono davanti a lei lanciandole parecchie monete nel sacco.

Era vicinissimo, il suo violino non doveva essere molto lontano, probabilmente era proprio oltre quell'angolo. Poi, ad un certo punto, la musica cessò. Pensò che il ladro avesse deciso di spostarsi da lì e corse fino alla strada. Vide due uomini davanti ad una figura incappucciata che impugnava il suo violino. Una voce di donna disse “Grazie Signori...” e si liberò il viso dal cappuccio per guardare i due uomini. Rimase nascosto poco dietro l'angolo, al buio, tanto addossato alla parete da sembrare parte di essa. Non aveva pensato alla possibilità che chi lo aveva derubato potesse essere una donna. Era una bella complicazione dal momento che con le donne non era mai ricorso alla violenza. Le donne non dovevano essere toccate da una mano violenta ma solo da quella dolce e delicata di un amante o di un gentiluomo e lui era sempre stato un gentiluomo.

“Grazie Signori...” disse la mendicante dopo essersi tolta il cappuccio per vedere in faccia i due uomini che le avevano lasciato tutti quei soldi. Aveva smesso di suonare ed aveva sorriso riconoscente ai due.
Poi uno di loro si abbassò ad osservarla e le prese il mento tra indice e pollice. La giovane tentò di liberarsi da quella salda stretta, senza riuscirci. L'uomo teneva lo sguardo fisso su di lei che appoggiò il violino per terra. Non aveva armi e non poteva nemmeno difendersi.
“Sei veramente carina... - disse l'uomo continuando ad osservarla sorridendo maliziosamente - Sei qui tutta sola, non vuoi un po' di compagnia?”
A quelle parole la ragazza affondò le unghie nella carne che occhieggiava tra la manica della giacca ed il guanto.
“Ahia!” urlò questo e la lasciò ma lei sentì un dolore lancinante al braccio sinistro. Appena fu libera tentò di alzarsi e fuggire ma l'altro uomo la bloccò contro di se'. “Quanta fretta piccola” e sentì la gelata lama di ferro avvicinarsi pericolosamente alla sua gola. L'uomo la spostò con forza facendola indietreggiare fino a farle sbattere la testa contro il muro. La botta le pulsava in testa come una mandria di cavalli impazziti. Era bloccata contro di esso ed il primo uomo le si stava avvicinando... troppo.

Erik si allungò piano, senza farsi vedere per raccogliere il suo violino. Poi alzò lo sguardo e riconobbe la ragazza che stavano maltrattando. Era la giovane che era entrata in casa sua! Quella che indossava il maledetto mantello degli Chagny. Beh, se lei era una di loro ed in più, una ladra, si meritava quello che le stava succedendo. Detto ciò, fece per tornare all'Opera.
Dopo aver mosso il primo passo però, sentì qualcosa nel profondo dello stomaco che gli impediva di abbandonare lì quella giovane, indipendentemente da quello che aveva fatto, era indifesa, ed era una donna che non avrebbe mai dovuto essere trattata così. Nemmeno lui che si sentiva il più spregevole assassino di tutta Parigi aveva mai osato tanto.

“Lasciatemi!” urlò la giovane cercando di divincolarsi, poi il primo uomo le si avvicinò ancora:
“È un peccato che debba ucciderti altrimenti... - poi questi osservò l'altro, lanciandogli uno sguardo che non faceva presagire niente di buono. - E pensare che saresti anche carina senza questi stracci...” e col pugnale le strappò un lembo della gonna. Il lungo spacco lasciava intravedere la pelle bianca sotto la luce della luna. Quello che la teneva contro il muro allungò la mano accarezzandole l'interno coscia.
“Scommetto che non hai nemmeno mai provato...” disse il primo ormai davanti a lei.
“No! No, vi prego!” disse la ragazza che tentava di resistere al dolore alla testa ed allo svenimento. Cercò di liberarsi ma era troppo debole. Sentì il petto riempirsi di angoscia e di paura, una paura cieca e terribile.
“Aiuto!” urlò ma il secondo uomo le tappò la bocca facendola sbattere ancora contro il muro. Sentì gli occhi riempirsi di lacrime e le parve di vedere un'ombra muoversi dietro i suoi aggressori. Sapeva che quello doveva essere solo un riflesso dei suoi desideri, era in trappola e non poteva fare niente! Sentì il respiro del suo aggressore contro il collo, chiuse e gli occhi e sperò che tutto finisse presto.

Erik si mosse silenziosamente dietro i due ed assestò un pugno col calcio della spada in testa al primo. Questo si accasciò cadendo addosso alla giovane che lo allontanò da se' prendendolo a calci. Il secondo uomo si era spaventato e per quanto la tenesse ancora contro il muro il suo sguardo era volto al buio attorno a lui. La ragazza tentò di sferrargli un pugno in un posto qualunque ma lui fu più veloce e posatosele addosso tentò di allargarle le gambe. Erik sentì la bile salirgli in gola per il disgusto e con una cattiveria maggiore sferrò un altro pugno all'uomo che però resistette e si voltò verso di lui. La ragazza tentò di raggiungere i suoi pochi averi ma si accasciò per terra spaventata e prostrata dalla botta che aveva preso. Fece solo in tempo a vedere il suo secondo aggressore cadere privo di sensi per terra e sentire il fruscio del mantello del suo salvatore muoversi accanto a lei.
Aveva un braccio ferito e la manica dell'abito era zuppa di sangue. Si sentiva tremare e scoppiò a piangere, spaventata e dolorante com'era. Quando lo sconosciuto le si avvicinò tentò di respingerlo ma lui non si diede per vinto, prese il sacco coi soldi, la custodia del violino e lei, portandola in braccio. La giovane cercò di resistere, ma fece solo in tempo a sentire la voce dell'uomo che la stava appoggiando al suo petto dire “Animali...”. Poi, fu il buio.

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Capitolo 5
*** Chi sei tu? ***


Ecco qui il nuovo capitolo grazie ai pochi che hanno recensito! Spero che questo capitoletto vi piaccia.

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Solo allora Erik capì perché quella giovane non era caduta nelle sue trappole. Era troppo leggera per fare scattare i meccanismi.

Gli faceva uno strano effetto tenere quel corpicino tra le braccia. Gli sembrava di aver trovato qualcun' altro di cui prendersi cura e non avrebbe potuto farla tornare sulla strada finché non avesse capito cosa ci stesse dietro a quella storia. Era lampante, quei due erano dei sicari, ma chi mai avrebbe potuto volere morta una povera ragazza sfortunata come lei?

 

Si svegliò sdraiata per terra, circondata da odore di brace e di acqua lacustre. Vide un'ombra davanti a se' e sentì uno sciacquio. Dopo aver riaperto gli occhi si guardò intorno... quello non era il suo angolo. Velocemente si mise seduta per terra ad osservare lo strano posto, lo aveva già visto... sembrava quella strana grotta dove aveva incontrato l'uomo che l'aveva cacciata, quella del pazzo. Si voltò verso l'ombra che aveva visto accanto a lei e lo vide, era lui. La giovane indietreggiò ed Erik si rese conto di quel movimento. Allora si alzò e cercò di fermarle il braccio ferito per poterla curare. Lo afferrò con troppa velocità e troppa violenza e la ragazza gemette per il dolore e la paura. No, non era possibile! Quell'incubo non era finito.

“Lasciatemi! - urlò la ragazza - Mi fate male!”

Ma l'uomo non si fece impressionare.

“Se steste ferma non ve ne farei! Siete ferita, ve ne siete resa conto?” chiese duro l'uomo.

“Chi siete?” chiese la ragazza ringhiandogli contro.

“Colui che vi ha salvato.” disse lui, strappando la manica dell'abito e tamponando la ferita.

Eppure quell'uomo adesso sembrava innocuo.

“Siete, siete stato voi?” chiese la ragazza.

“A farvi questo? No di certo.” disse indicando col viso la lunga ferita che le percorreva il braccio.

“Siete stato voi a salvarmi?” ripeté la giovane bionda.

“Probabilmente le botte che avete preso in testa vi hanno rallentato Mademoiselle...” disse ancora l'uomo. Aveva in mano una bottiglia di qualche alcolico con il quale bagnò la ferita. La ragazza urlò per il dolore anche se sapeva benissimo a cosa servisse.

“Siete veramente gentile...” disse tra i denti mentre la ferita bruciava.

“Se volete potete anche tornare in strada e lasciarvi morire... per quanto mi riguarda.” e detto questo prese della stoffa pulita e fasciò la ferita bloccandola con delle spille da balia. Il dolore in effetti stava passando.

“Volete dell'acqua?” le chiese premuroso l'uomo.

“Volete avvelenarmi per caso?” chiese la donna.

“No, se avessi voluto farlo l'avrei già fatto, non temete... anche se dopo il vostro furto ve lo meritereste...” continuò lui alzandosi per sistemare il violino nella sua custodia.

La ragazza vide il gesto ed abbassò lo sguardo.

“Si può sapere, di grazia, perché mi avete derubato?” chiese l'uomo incrociando le braccia sul petto.

“Mi avete spaventato... Signore...”

“Mi chiamo Erik.” disse l'uomo davanti a lei.

“Avete un bel nome.” disse la giovane.

“Non cambiate discorso Mademoiselle!”

“L'ho rubato perché mi avete sorpreso mentre lo osservavo, poi avete urlato e l'ho portato con me.”

“Beh, di sicuro i due animali che vi hanno aggredito vi hanno lasciato un bel po' di soldi...” disse secco lui.

“Non se li sono ripresi?” chiese.

“Non hanno fatto in tempo...” disse l'uomo sorridendo sardonico. E si tolse la giacca nera che indossava.

“L'avete un nome?” riprese sedendosi davanti a lei. Per la prima volta la ragazza notò lo sguardo del suo interlocutore, aveva gli occhi chiari ed aveva un bello sguardo... anche se ne era un po' spaventata. Si sentiva scavare nel profondo ogni volta che incrociava quelle pozze di verde.

Si portò le gambe al petto facendo risplendere la pelle chiara alla luce delle candele.

“Mi chiamo Ophèlie.” concluse.

“Avete un nome curioso...” disse Erik osservandola di sbieco ed aggrottando le sopracciglia nere.

“Lo so, per questo mi piace tanto...” disse lei sorridendo.

Per la prima volta la vide sorridere. Era un sorriso bello, ma sembrava incrinato, quasi appassito, come una rosa senz'acqua.

“Il vostro padrone dovrebbe ringraziarmi...” disse lui alzandosi ancora e muovendosi verso il braciere.

La giovane lo seguì con lo sguardo ed incredula gli chiese “Quale padrone?”.

“Quello che vi ha mandato qui per scovarmi e farmi uccidere.”

“Chi vuole farvi uccidere?” disse la ragazza senza capire a cosa si riferisse.

“Non fate la finta tonta con me! Il mantello che portavate! Dove l'avete preso, chi ve l'ha dato?”

“Suo marito...” disse la giovane indicando i disegni di Christine attaccati alla parete. Lui la osservò sperso.

“Ho conosciuto la ragazza del disegno...” disse lei.

 

Erik la osservò attonito. Ripensò al profumo della sua piccola Chistine, al suo sorriso e ai suoi occhi quando aveva scoperto quell'uomo misterioso nascosto dietro il suo specchio. Possibile che quella mendicante avesse conosciuto il suo piccolo Angelo? No, non lo era! Nemmeno lui sapeva dove trovarla, figuriamoci se quella giovane era stata in grado di trovarla così, alla cieca chissà dove.

“Impossibile...” disse l'uomo riservandole uno sguardo di sufficienza. A quel punto la ragazza si irritò.

“Vi ho detto che è vero!” disse.

“Perdonatemi Mademoiselle, ma mi pare alquanto... difficile che siate riuscita a trovare così quella ragazza” disse lui sorridendo sardonico.

“Si chiama Christine.” puntualizzò la giovane osservandolo.

“Come fate a sapere il suo nome?” chiese lui con uno scatto felino verso di lei.

“Ve l'ho detto... l'ho conosciuta! Dopo essere scappata da qui ho vagato per la città finché al crepuscolo mi sono trovata abbastanza lontana da voi per potere pensare di fermarmi e l'ho fatto proprio sotto la casa della ragazza. Quando ho iniziato a suonare lei è scesa urlando Erik. Penso che sperasse di vedere proprio voi.”

Erik si sentì pervadere dall'euforia. “Voleva vedere me?” disse lui, ed Ophèlie intravide quelle che sembravano lacrime di commozione rigare il volto dell'uomo. “E come sta?” riprese lui.

“A parte lo svenimento sembrava bene...”

“Come lo svenimento? Quale svenimento?” chiese l'uomo prendendola per le spalle con tanta foga che la fece quasi cadere all'indietro.

“Era in strada ed è svenuta non vi so dire come mai!” mentì la giovane, anche se si era resa conto che era successo dopo che l'aveva informata di dove avesse trovato quegli spartiti. Quei due si conoscevano e sentiva che c'era ancora qualcosa che le sfuggiva.

“E poi?” chiese ancora l'uomo.

“E poi suo marito mi ha minacciato di morte ed io sono scappata.”

“Cosa? Il ragazzino? Voi mentite Mademoiselle.”

“No, non ho mentito affatto! L'ho visto in compagnia di un'altra donna e lui ha minacciato di uccidermi se avessi osato parlare!”.

L'uomo esplose in una risata sguaiata. Ophèlie allora lo guardò truce e chiese.

“Si può sapere cosa ci trovate di divertente?”.

L'uomo ridacchiò ancora poi disse “Perdonate Mademoiselle, ma mi riesce difficile immaginare quel damerino con un'altra donna, ed ancora più difficile immaginarlo a minacciare di morte una ragazza come voi...”.

“Siete libero di pensare quel che volete Erik, se mi posso permettere di chiamarvi per nome.” Disse lei. E lui le fece un segno di sufficienza che lei interpretò come un permesso. “Ma quell'uomo, Raoul, è sposato con la ragazza del vostro disegno, Christine! E che voi ci crediate o no, mi ha minacciata di morte!” disse guardando combattiva l'uomo che si stava prendendo gioco di lei.

A sentire quel nome l'uomo si irrigidì all'istante. “Era con una donna?” chiese allora, ma non c'era più traccia dello sguardo ironico che le aveva riservato poco prima.

“Si... ma..”

“E com'era questa famigerata donna?”

“È bionda, coi capelli lunghi e si chiama Meg.”

“Meg?” chiese lui sentendo l'ira salirgli in gola.

Ophèlie si spaventò a vedere quell'espressione e si limitò ad annuire. “La... la conoscete?” chiese lei con un filo di voce.

Cercò di controllarsi, non voleva spaventare oltre quella povera giovane. Lei era la vittima, non la mandante e se qualcuno là fuori la voleva morta, non avrebbe potuto lasciarla scappare ancora da lì. Soffocò l'urlo di sdegno che spontaneo gli saliva alle labbra e andò al suo organo ad annotare qualcosa su un foglio.

Ophèlie si mosse alle spalle di Erik e lo osservò scribacchiare note sul foglio.

“Siete un musicista vero?”

Questi sobbalzò nel sentire la voce della donna, gli bastava stare cinque minuti con la sua musica che si dimenticava di tutto e tutti.

“Siete astuta Mademoiselle.” disse lui girandosi verso di lei con un sorriso caustico sulle labbra.

Quello era troppo. Ophèlie decise che non era più il caso di stare lì con lui e disse:

“È giorno, vi ringrazio per il vostro aiuto ma ora è il caso che non approfitti oltre della vostra pazienza. Arrivederci" disse la giovane muovendosi verso l'uscita.

D'improvviso Erik provò disagio a pensarsi di nuovo solo nel suo sotterraneo si voltò di scatto, preoccupato, ma la ragazza non lo vide. Si dedicò di nuovo al suo spartito e fissandolo urlò:

“Fate come volete. Ma cosa vi fa pensare di essere più al sicuro fuori, con due uomini che vi danno la caccia, che qui con me dove nessuno sa dove trovarvi?” chiese disinteressato. Sentì i passi della giovane fermarsi e sorrise compiaciuto del risultato che aveva sortito.

Ophèlie rimase ferma sull'uscio e si voltò di nuovo verso Erik. Si morse il labbro, sapeva che aveva ragione. Era una pazzia uscire di lì, andarsene, proprio ora che aveva trovato ospitalità. Magari la compagnia di quell'uomo non era una delle più piacevoli, ma per quanto fosse sinistro, l'aveva comunque aiutata. Erik avrebbe potuto vendicarsi del furto, oppure semplicemente lasciarla nelle mani dei suoi aguzzini, ma non l'aveva fatto. Allora tornò sui suoi passi.

“Effettivamente...” disse.

“Quanto mi secca avere ragione.” rispose Erik disegnando un sorriso sbieco sul viso.

“Ma solo per poco!” concluse lei.

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Capitolo 6
*** Tutti hanno un cuore... ***




Quella mattina qualcuno bussò alla sua porta ed Eloise Giry mandò la sua domestica ad aprire. Questa tornò con in mano due lettere. Una era indirizzata a lei, l'altra non aveva intestazione. Riconobbe subito la scrittura dolce di Christine e sorridendo al suo ricordo l' aprì.

“Cara Maman,
L’Opera mi manca sempre più e come lei mi mancate tantissimo anche voi e Meg. A proposito, come sta?
Ultimamente stanno succedendo cose strane. L'altra sera una giovane musicista si è fermata sotto casa mia, suonava il violino e lo faceva benissimo! C’è solo una cosa che mi sembra molto strana. Stava suonando una musica che Erik aveva scritto per me. Io non so chi sia questa giovane, è bionda, ha due bellissimi occhi color miele e mendica per le strade di Parigi. In strada, durante una passeggiata, ho avuto un mancamento e lei mi ha soccorso portandomi in casa. Le ho offerto una cena, un bagno e una stanza tutta per se', ma la mattina dopo non era più qui… è scappata. Non so come mai e per quale ragione possa essere successo! Credo che in qualche modo conosca Erik e magari abbia anche un rapporto con lui. Mi sarebbe piaciuto saperlo ma non ho fatto in tempo. Se voi aveste notizie su di lui, vi prego, mettetemene a parte. Non sono ancora riuscita a perdonarmi di averlo abbandonato, non se lo meritava, ma io ero così cieca. Vorrei solo che sapesse che non l'ho dimenticato, per questo gli ho scritto una lettera che vi prego di fargli recapitare.
Dopo pochi mesi l’uomo che ho sposato sembra più distaccato, ma non vi so dire se sia solo una mia impressione e magari lo è, però mi sento sola, tanto sola. Lui non è mai qui con me perché è sempre in giro per Parigi ed io sono tanto triste. Ho abbandonato tutto per lui ma mi sembra di averlo fatto invano! Oh maman mi sento così infelice. Ma adesso basta parlare di cose tristi, vi saluto e spero di vedervi al più presto.
Con affetto.
Christine”


Madame Giry lesse quelle ultime parole e rimase ad osservare la scrittura sottile della figlia adottiva. Cosa voleva dire “non l'ho dimenticato?”. Fu allora che decise di capire cosa fosse scritto in quella lettera. Voleva capire se Christine non avesse dimenticato il suo Maestro oppure l'uomo, quello che l'aveva stregata. Prese la seconda busta ma dovette desistere quando sentì arrivare sua figlia Meg. Nascose le lettere tra la biancheria che stava portando nella propria stanza ed attese che sua figlia apparisse sulla soglia.
“Chi era Maman?” chiese la ragazza.
“Oh... era una povera donna che è venuta a bussare qui in cerca di qualcosa da mangiare... fai in fretta figlia mia! Dobbiamo essere a lezione tra poco!”. Meg allora correndo andò in camera sua a prepararsi. Madame Giry entrò nella propria stanza e nascose le due lettere nello scrittoio. La seconda lettera l'avrebbe letta quella sera, una volta che Meg fosse stata a letto.

“Adesso io vado a prendere qualcosa da mangiare, voi è meglio se cercate di dormire un po', non avete chiuso occhio tutta la notte...” disse Erik accompagnandola verso il suo letto.
L'accompagnò dietro una tenda di pizzo nero ma quando abbassò lo sguardo notò una massa di biancheria adagiata per terra.
“Cosa... cosa è successo?” chiese la giovane osservando il pasticcio di lenzuola e coperte per terra.
Erik allora la spinse lontano dal letto e le disse “Vogliate scusarmi Mademoiselle...” e cercò di renderlo se non presentabile almeno utilizzabile.
Da dove si trovava lei notò che quel letto aveva qualcosa di strano. Non l'aveva notato durante la sua prima visita ma la sua struttura era tutta intagliata in una forma morbida e sinuosa, sembrava...
“Un Cigno...” disse Erik quando notò lo sguardo curioso della giovane percorrere la strana scultura.
“È... bellissimo...” balbettò la giovane.
“Lo so, mi è costato fatica sottrarlo alle scenografie, non è particolarmente comodo però...” disse l'uomo.
“Andrà benissimo!” disse la giovane che non celava il desiderio di provare a sdraiarsi su quel bellissimo giacilio.
“Buon riposo, Mademoiselle...” disse allora lui tirandosi la tenda di pizzo alle spalle ed indossando il suo mantello.
“Ma... Erik! Voi dove dormite?” urlò la giovane mentre la figura dell'uomo si allontanava.
“Vi sembro uno che dorme la notte Mademoiselle?” disse lui voltandosi verso la sua interlocutrice poco prima di sparire oltre l'apertura dietro le specchio.
“Ma dove andate?” urlò ancora la giovane.
Sentì distintamente la voce dell'uomo risponderle, come se fosse lì vicino, come se le pareti della grotta parlassero. “A comprarvi qualcosa da mangiare Mademoiselle.”
Ophèlie si guardò intorno terrorizzata. Che storia era mai quella? Perché lui era sparito e la sua voce invece sembrava proprio lì, accanto a lei?

Erik ghignò, consapevole dell'effetto che il suo piccolo scherzetto aveva sortito sulla giovane. Non aveva mai perso la sua vanesia tendenza a stupire le persone. Si divertiva ad usare le sue doti di mago e ventriloquo per terrorizzare la gente. Quella volta però non lo fece con quell'intento, le aveva solo voluto rispondere, anche se sapeva che così aveva corso il rischio di farla fuggire ancora. Prima di uscire rimase un po' nelle vicinanze in modo da poter intervenire nel caso Ophèlie avesse deciso di scappare. Quando gli parve di aver aspettato abbastanza, schioccò le dita consapevole che presto il suo carillon avrebbe iniziato a suonare. Era appena fuori dal passaggio che usava normalmente per uscire all'esterno quando sentì il suo carillon suonare sommessamente ed i passi leggeri di Ophèlie muoversi cadenzati nella grotta. Sperava che quella musica l'avrebbe calmata e così, sereno, uscì per andare al mercato.

Poco dopo Ophèlie sentì delle note provenire da un angolo remoto della caverna, delle note dolci e delicate. Si ridestò da quel senso di inquietudine muovendosi inconsciamente verso quella musica. Vide un carillon, sul quale era attaccata la figura di una scimmietta che suonava i piatti. Lo prese in mano e lo osservò. Non le sembrava molto rassicurante come oggetto, però quella musica era così dolce! Lo portò con se' vicino al letto per vederlo meglio alla luce delle candele. Era decisamente inquietante. La scimmietta era bruttina, aveva dei piccoli occhi cisposi ed un ghigno malefico che lasciava scoperti i denti aguzzi. Sentì un brivido percorrerla ma la posò comunque sul tavolo vicino al letto e la girò in modo da non doverne vedere il muso. La musica continuava a tintinnare e lei, ormai tranquilla, si spogliò dell'abito e si mise sotto le coperte. Appena il suo corpo entrò in contatto con quelle lenzuola morbide, sentì un calore strano pervaderla, un calore troppo intenso per trovarsi sottoterra in un luogo freddo ed umido. A dire il vero, tutto il sotterraneo era caldo e non sapeva spiegarsi perché. L'aveva già notato la prima volta che era finita in quel luogo. Ripensò a tutto quello che le era successo da quel giorno e si sentì di nuovo inquieta quando pensò alla voce accanto a lei che poco prima aveva risposto alla sua domanda. Era la voce di Erik, senza dubbio, era calda e graffiante come quella dell'uomo, ma come aveva fatto? Poi poco dopo sentì un profumo dolcissimo alzarsi dalle lenzuola, non era il profumo di qualche essenza era un odore umano, ma buonissimo. La giovane accortasene affondò il viso nel cuscino e quel profumo la pervase entrandole nel sangue come un'intossicazione. Si addormentò così, col viso affondato nel cuscino, respirando quel profumo dolce e rassicurante.

Sentiva la mano dell'uomo spingerla contro il muro. Si sentì pervadere dalla paura, il muro pareva rovente, l'aggressore le teneva una mano coperta di tessuto sulla bocca. Non riusciva a respirare.
L'ombra le si avvicinava e la chiamava:
“Ophèlie!”
La giovane si agitò, costretta com'era contro il muro rovente. Quell'ombra, come conosceva il suo nome?
“Ophèlie, calmati!”
“No, andatevene! Chi siete?” urlò.
La mano del suo aggressore le aveva liberato il volto. Respirava di nuovo, ma a fatica.
“Ophèlie!”
E l'aggressore senza volto le strinse le mani attorno alle spalle. La stava scuotendo, aveva paura, cosa voleva da lei? La giovane si dimenò ancora ma la presa misteriosa era salda.
“Lasciami ti prego!” urlò.

“Ophèlie, svegliati!”
Sentì un colpo secco scuoterla, aprì gli occhi e si guardò intorno spaventata. Poi vide qualcuno davanti a lei, era Erik, era lui che le stringeva le mani intorno alle braccia per ridestarla da quel terribile incubo.
L'uomo aveva lo sguardo spaventato e preoccupato.
“Cosa è successo?” chiese ma non ricevette risposta. La ragazza respirava affannosamente ed il petto, sotto la sottoveste, si alzava ed abbassava velocemente. Lo guardò spersa, con gli occhi già colmi di lacrime.
“L'ombra.. l'aggressione, volevano uccidermi!” disse la ragazza.
“Chi voleva ucciderti?”
“L'ombra... non lo so, non lo so!” gemette la giovane prima di abbandonarsi ad un pianto liberatore contro il petto di Erik.
Per un attimo, l'uomo rimase interdetto ma quando sentì il corpo della giovane tra le sue braccia e sentì il suo viso premuto contro il petto, la strinse a se'. Le cinse con un braccio le spalle scosse dagli spasmi ed immerse l'altra mano nei capelli biondi per tenere il volto della giovane contro il suo petto.
“Stai tranquilla, era solo un brutto sogno... è tutto finito. Ci sono qui io adesso.” le disse lui stupendosi per primo delle proprie parole. Non ebbe cuore di allontanarla da sé, anche se era rimasto turbato da quel moto di tenerezza. La strinse forte a se' finché non si calmò. Aveva il viso bollente e le mani erano gelate come quelle di un morto. Quando la giovane si sciolse da lui tremava.
“Ho freddo...” disse.
Erik allora la fece sdraiare di nuovo sotto le coperte e le mise una mano sulla fronte: “Sei bollente!” esclamò.
“Ho freddo...” ripeté Ophèlie.
Lui allora le adagiò sul letto un mantello, era rosso, molto caldo ed alcune giacche per far si che sentisse meno freddo poi la guardò. Si era rannicchiata e guardava vacua davanti a se'.
Aveva capito, la ragazza aveva la febbre. Prese dell'acqua e degli stracci e glieli mise sulla fronte. Passò molto tempo ad accudirla, cercando di fare abbassare la febbre. Lei delirava e così le preparò un infuso calmante e sperò che non si svegliasse fino al suo ritorno. C'era solo una persona che poteva aiutarlo... Madame Giry.
“Ophèlie, vado a cercare una mia amica così potrà aiutarti. Tu non alzarti da quel letto!”
La ragazza annuì, non aveva nessuna intenzione di farlo, intanto quel letto e quel profumo erano troppo accoglienti e poi, era troppo debole per fare alcunché. Lo sentì solo allontanarsi prima che quell'infuso si espandesse nei meandri nel pensiero e del corpo facendola entrare nell'oblio.

Sua figlia ormai era a dormire e finalmente Madame Giry poté prendere quella lettera e scendere in sala per leggerla. La luce tremula del candeliere illuminava fioca il piccolo angolo in cui si era messa per leggere. La aprì con un rumore secco di cera, le tremavano le mani. Era la prima volta che leggeva una lettera non indirizzata a lei ed era la prima che disubbidiva ad una richiesta di Erik. Lui non voleva che nessuno aprisse le missive per lui, ma quella volta la donna sapeva che avrebbe dovuto fare un'eccezione. Una volta che l'ebbe dispiegata la lesse:

“Caro Erik,
immagino che questa lettera ti stupirà ma perdonami. Non sono capace di starti lontana, non lo sono mai stata, e solo ora lo capisco. In questi mesi non ho fatto altro che pensare a te, al tuo genio, alla tua musica... al mio angelo.
Qualche sera fa, una giovane mendicante ha suonato la nostra musica, quella stessa musica che so hai buttato nella spazzatura.
È stato il sapere che te ne eri liberato che mi ha spinto a riflettere. Ho temuto che quel gesto significasse che tu volessi liberarti di me, del mio ricordo e forse è vero. Se così fosse posso comprenderti, ma voglio che tu sappia che non c'è stato un solo momento in cui io abbia voluto liberarmi del tuo di ricordo.
Forse queste parole ti sembreranno strane, contraddittorie, ma è la verità. Non sono fuggita da te per odio o per ingratitudine, ma solo per ingenuità, credevo che la mia vita con Raoul sarebbe stata più facile ma ora comprendo che ciò che è semplice non sempre rappresenta la strada per la felicità. Sono infelice Erik, e lo sono perché tu non sei qui con me. Ho sempre provato un certo timore nei tuoi confronti ma non era paura, era il turbamento di chi sa di avere accanto qualcuno con una grande anima, un'anima che a poco a poco ha avvolto la mia fino a consumarla e ora che tu non ci sei è come se mi fosse stata strappata via. Ho fatto una scelta tra te e un altro uomo, ma ora mi accorgo di quanto quell'uomo sia distante, di quanto il mio mondo abbia bisogno di altro... abbia bisogno di te.
Mi manchi, Erik. Mi manca il mio Angelo della Musica, la possibilità che mi davi di credere alle favole, soprattutto adesso che la realtà della mia vita si è rivelata tanto infima. E mi manca la tua musica, il tuo affetto... tutto ciò che ho imparato ad amare di te.
È come se le lacrime che ora mi rigano il volto mi tagliassero le guance. Vorrei chiederti perdono, ma non mi basterebbe solo quello per sentirmi in pace, vorrei che tu fossi qui.
Con affetto, tua per sempre.
Christine.”


Madame Giry trattenne il fiato per la sorpresa. Scrivere quella lettera era l'idea peggiore che la sua figlia adottiva avesse mai avuto. La rilesse ancora, senza capire esattamente cosa volesse dire, ma tra le righe lei aveva letto una dichiarazione d'amore.
“Sciocca ragazzina!” disse stizzita la donna tra se' e se'. Il fuoco nel camino stava ancora bruciando allegro. Passò uno sguardo veloce tra il foglio e le lingue di fuoco che brillavano al suo interno.
“Mi spiace figlia mia, non recapiterò questo messaggio... non questa volta!” e così dicendo gettò la lettera per Erik nel fuoco. La guardò guastarsi poco per volta fino a diventare un mucchietto di carbone del tutto indistinguibile dal legno.
Con un sospiro di sollievo fece per tornare di sopra nella sua stanza, ma qualcuno bussò alla porta. La donna si voltò di scatto e si mosse lenta verso la finestra per vedere chi potesse essere a quell'ora tarda.
Erik vide il volto di Madame Giry attraverso le tende. Sorrise compiaciuto di aver trovato lei sveglia. Si mosse verso la finestra in modo che la donna potesse riconoscerlo. La vide sobbalzare per la sorpresa e muoversi spedita verso la porta.
“Erik! - disse la donna - cosa ci fai qui! È pericoloso lo sai!”
“Eloise non fare la mamma con me! Sono qui per chiederti aiuto.”
“Aiuto? - chiese incredula la donna - Erik, cosa è successo?”
“È una cosa complicata. Te la racconterò se verrai con me portando delle medicazioni. A casa mia c'è una ragazza con la febbre.”
“Quale, quale ragazza?”
“Maledizione Eloise, prendi tutto quello che usi per curarti, l'oppio non la terrà tranquilla tutta la notte!”
“Oppio? Hai drogato una ragazza?”
“Ho sempre odiato la tua mania di fare troppe domande. Ti ho detto che ti racconterò tutto, ma devi seguirmi!”
A quelle parole Madame Giry prese tutto il necessario mentre Erik camminava nervoso per il piccolo salotto.
“Meg, si è svegliata?” chiese l'uomo appena Madame Giry lo raggiunse con un sacco.
“No, ho fatto attenzione a non fare rumore.” disse seccata la donna, poi uscirono e montarono su un destriero nero come la notte.

Eloise non entrava in quella grotta da moltissimo tempo e non poté fare a meno di notare quanto la sua casa si fosse degradata dopo l'incendio.
“Ecco, vieni.” disse Erik conducendola al letto su cui Ophèlie giaceva. Madame Giry le si avvicinò e le toccò la fronte. Scottava.
“Come hai detto che si chiama?” chiese ancora la sua amica.
“Ophèlie.”
“Ha un bel nome...”
“Si, è vero...” asserì Erik.
“Sei stato veramente un gentiluomo Erik, sono fiera di te.” Lui sorrise compiaciuto a quelle parole.
Poi la ragazza si svegliò. Si guardava spersa intorno e continuava a passare lo sguardo dall'uno all'altra. Madame Giry notò il colore dei suoi occhi, erano di un insolito color miele. Collegò le parole che Erik le aveva detto sul suo conto e si ricordò la lettera che le aveva scritto Christine. Era lei la ragazza dagli occhi color miele che era scappata da casa sua!
“Ha una ferita sul braccio, io ho cercato di medicarla alla meglio però...”
“Fammi vedere il braccio ragazza.” disse Madame Giry.
Ophèlie la osservò stranita, Erik la guardò e le disse: “È la mia amica, stai tranquilla.”
E con una fatica immane, stordita dalla droga che le girava nel corpo, tirò fuori il braccio. La signora le slegò gentilmente la fascia ed osservò la ferita.
“Caspita Erik! Sei anche capace di curare!” disse piacevolmente sorpresa la donna.
“Dopotutto... sono un genio...” disse lui. La donna gli lanciò uno sguardo severo ed Erik ammutolì all'istante.
La ferita non era infetta, ma non si era ancora rimarginata del tutto. Madame Giry estrasse una boccetta dalla sua valigia e con l'aiuto di un pezzo di tessuto le bagnò la ferita. La ragazza non diede nemmeno l'impressione di accorgersene.
“Non posso fare molto Erik, bisognerebbe chiamare un medico.”
“Non posso!” disse lui a denti stretti.
“Posso portarla da me... ma.”
“No! - la interruppe Erik. - Non deve uscire da questo posto per nessuna ragione al mondo. La stanno cercando.”
“Lo so Erik, ma l'unica cosa che posso dirti, a questo punto, è di lasciarla riposare, magari è solo traumatizzata dall'accaduto.”
“Non viene la febbre per un trauma!”
“A me è successo! - disse combattiva - ascoltami solo per questa volta Erik, prova a vedere se migliora. Ti lascio questa, è una tintura. Mettigliela sulla ferita tutti i giorni, la farà rimarginare presto ed eviterà che si infetti di nuovo. - disse la donna porgendogli la boccetta - Domani sera verrò io qui per vederla, non venirmi a cercare, è pericoloso.”
“Erik..” la voce flebile di Ophèlie provenne da sotto le coperte.
Madame Giry la guardò da lontano e sorrise all'uomo. Gli mise una mano sulla spalla e gli disse:
“Fai attenzione, non fare cose avventate!”
Lui la guardò e rispose: “Non ho più voglia di farlo Eloise, stai tranquilla. Chi può scegliere, sceglie la vita che vuole.” disse lui pensando malinconicamente a cosa avesse scelto Christine. La donna lo osservò con espressione materna. Non le aveva detto niente di Raoul e Meg. Pensò che fosse stato meglio così, le aveva solo detto che sapeva che Raoul vedeva una donna che non era Christine, ma non era sceso nei dettagli. Eloise gli strinse la mano e gli diede un bacio di incoraggiamento sulla guancia.
“A domani Erik, prenditi cura della ragazza.” Lui annuì ed osservò la sua amica di sempre avvicinarsi all'uscita.
“E metti a posto questo pasticcio.” disse severa lei poco prima di sparire nell'oscurità.
Erik sorrise, eccola, era tornata la sua cara vecchia amica Eloise Giry.

“Erik...” la voce della sua ospite lo richiamò all'ordine e lui si mosse verso il letto.
“Come ti senti?” le chiese.
“Stordita...” rispose lei con un mezzo sorriso sghembo.
“Cerca di riposare.” le disse.
“Non ci riesco, ogni volta che chiudo gli occhi vedo quei due che.. che..” ma Erik le toccò la mano fuori dalle nuove coperte che Madame Giry gli aveva portato.
“Non ti succederà nulla qui...” disse lui per tranquillizzarla.
Ophèlie sentiva che poco per volta stava tornando lucida ma la testa le doleva. Strinse inconsciamente la mano di Erik senza volerlo fare apposta e subito la sentì scivolare via velocemente.
“Me lo prometti?” chiese la ragazza come una bimba che chiede la protezione della madre. Erik sorrise intenerito: “Te lo prometto”.
Prese la sedia del suo organo e si sedette vicino al letto. La giovane venne sopraffatta di nuovo da quel profumo dolce e si addormentò e questa volta dormì sul serio.
Erik cercò di stare sveglio ma malgrado la sua buona volontà e l'abitudine a dormire poco, sentiva che se fosse stato ancora così si sarebbe addormentato. Non sapeva che avere qualcun' altro in casa potesse essere così tranquillizzante, sembrava che in quel momento tutto andasse bene. Si addormentò anche lui, sulla sedia, coperto solo dal suo mantello.

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Allora? Che dite questo Erik è troppo sdolcinato e premuroso? Spero di essere riuscita a far passare la tenerezza istintiva che lui prova per lei e spero di non aver accelerato i tempi. Nonm è da lui essere così attento, me ne rendo conto però volevo che si capisse che con calma sta cambiando. Spero di esserci riuscita.

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Capitolo 7
*** Il diavolo e l'angelo ***


Il mattino seguente fu Ophèlie a svegliarsi prima di Erik e quando aprì gli occhi notò che l'uomo accanto a lei si era addormentato. Si alzò a sedere mantenendosi sotto le coperte e lo osservò alla luce del candeliere. La parte destra del suo volto era illuminata e notò che sembrava coperta da una grossa ustione. Quel viso però lo trovava affascinante, rilassato com'era nel sonno, aveva quasi un che di angelico, di innocente, quell'innocenza che hanno i bambini. Le labbra erano dischiuse in una specie di sorriso rilassato e mentre lei lo guardava, le vide sollevarsi leggermente sul lato, per pochissimo tempo.
“Chissà cosa state sognando...” sussurrò.
Poi di colpo l'uomo aprì gli occhi posandoli velocemente sul volto di Ophèlie. Lei si spaventò e sobbalzò leggermente.
“Si può sapere cosa c'è?” chiese incuriosito l'uomo.
La vide osservarlo attenta e muovere la mano verso la parte di volto sfigurato. Erik portò la sua laddove avrebbe dovuto esserci la maschera. Non c'era! Se ne accorse ed allontanò il volto dalla mano di Ophèlie, guardò per terra. La maschera nel sonno gli era caduta, così la prese e la rimise al suo posto.
La ragazza ritirò la mano e lo guardò dispiaciuta per quella reazione.
“Cosa ha rovinato un così bel volto?” chiese la donna incapace di controllare le parole. Erik la osservò stupito, poi allungò la mano sulla sua fronte. La febbre si era abbassata.
“Avete ancora la febbre alta Mademoiselle.” mentì, obbligando la donna a sdraiarsi di nuovo.
“Ma no! Ho visto...” tentò di opporsi.
“Dimenticate cosa avete visto!” concluse l'uomo voltandosi aggressivo verso di lei.
La verità era che le sue parole lo avevano turbato. Con la febbre non si ha il controllo dei pensieri e sapere che Ophèlie aveva definito il suo viso sfigurato come un bel volto, lo turbò.
Si alzò e si mosse verso il suo organo, appuntandosi sulla carta alcune cose.
“State meglio, Mademoiselle?” chiese distaccato l'uomo.
“Non ne sono così sicura... ” disse seria.
“Vedrete che appena vi porterò qualcosa da mangiare starete meglio.”
“Ma, che ore sono?” Chiese la giovane.
“L'alba...”
“E andate al mercato all'alba?”
“Mademoiselle il mercato non è vicino a questo luogo e se si va presto si trovano affari e cibi migliori.” In realtà lo faceva soprattutto perché al mattino c'erano meno possibilità che qualcuno lo riconoscesse.
Ophèlie lo guardò stranita ma non disse niente. Prese il carillon con la scimmietta e lo tenne tra le mani osservandolo critica. Adesso l'animaletto non sembrava più inquietante.
“Erik, perché mi date di nuovo del voi?”
“Mademoiselle, non ho mai smesso di farlo.” disse lui sorridendo.
“Non è vero, quando deliravo per la febbre lo avete fatto...”
“L'avete appena detto, avevate la febbre, anzi, a dire il vero l'avete ancora, quindi state tranquilla.” disse lui continuando ad appuntare note sul foglio.
Poi sentì la musica del suo carillon arrivargli alle orecchie. Si voltò compiaciuto verso la ragazza e vedendola in ascolto della melodia chiese: “Vi piace?”
Lei annuì spostando lo sguardo sul suo interlocutore.
“Quando ero piccolo lo usavo per addormentarmi.” disse lui sorridendo intenerito dal ricordo, quando una giovane Eloise Giry passava le serate con lui cercando si non farlo sentire solo.
“Anche con me ha funzionato...” disse lei.
“Bene, allora lasciatelo suonare, io torno presto.” e detto questo prese il suo mantello sulla sedia accanto ad Ophèlie e si mosse verso l'uscita. Ma una mano piccola e fredda prese la sua. Ophèlie l'aveva fermato: “Erik!” disse lei.
Lui si voltò.
“Grazie.”
L'uomo non rispose e si limitò a fare un mezzo inchino prima di sparire dietro la tenda di pizzo nero.

La luce fredda del mattino dipingeva di rosa la città ancora intrappolata nel torpore del risveglio. Anche lui si sentiva preda di uno strano calore, di qualcosa che lo stava facendo sciogliere. Capì che quella ragazza era in grado di risvegliare in lui sentimenti strani, cose che non aveva mai provato. Quella fiducia che sembrava aver riposto così serenamente in lui e così velocemente lo spiazzava. Camminò piano, pensando a lei. Si scoprì a ripensare al suo corpicino tra le braccia, scosso dalla paura ed ancora alle parole che le aveva sentito pronunciare. Per un secondo si sentì pervadere da quella stessa speranza che lo aveva spinto prima della fuga della sua amata Christine. Si diede dello sciocco sognatore. Lui non aveva il diritto di sperare in qualcuno con cui condividere l'esistenza, l'unica persona con la quale avrebbe potuto farlo ora non era con lui, aveva scelto un altro e lo aveva abbandonato.
Ma ancora le parole della giovane mendicante tornarono a bussargli alla porta della mente. Ophèlie aveva la febbre, non poteva pensare seriamente che le parole che aveva pronunciato fossero vere. Fece un respiro profondo, respirando il freddo umido di quella mattina d'inverno e scacciò dalla mente i pensieri che si era concesso poco prima.

La scimmietta stava battendo i piatti ed Ophèlie rimase ipnotizzata ad osservarla, ma non stava dando particolare attenzione a quel curioso carillon. Stava ancora pensando ad Erik, al suo volto. Quell'uomo era stato sfigurato da qualcosa e le sarebbe piaciuto sapere cosa fosse stato. Sospirò sdraiandosi ancora sul letto. Mise la scimmietta accanto a se' e persa nei pensieri rimase ad osservarla. Non si addormentò quella volta. Voleva sapere cosa gli fosse successo. Strinse le coperte contro il petto, lasciando che quel profumo le facesse stringere lo stomaco.
Rivide il suo sguardo verde trapassarle l'anima e sospirando accarezzò il legno intagliato che faceva da cassa di risonanza allo strano oggetto. Non seppe quanto tempo passò ad accarezzare il fine legno chiaro ma quando sentì qualcuno scendere le scale che portavano lì si alzò di scatto, contenta di vedere la figura dell'uomo apparire di nuovo sulla soglia.

“Siete tornato!” disse la giovane.
Erik si voltò ad osservarla incredulo di sentire quelle parole. “Pensavate che sarei stato fuori tutto il giorno per caso Mademoiselle?” chiese secco lui.
Poi si voltò e vide che la giovane era davanti a lui, in piedi con solo la sottoveste addosso. Lo notò e spalancò gli occhi stupito.
“Tornate a letto, Mademoiselle.” disse lui in difficoltà dandole le spalle.
“Erik, non ho intenzione di tornare a letto!” disse decisa la donna.
“Siete in sottoveste...” balbettò lui.
La ragazza allora si osservò ed imbarazzata corse di nuovo verso il letto.
“Mi dispiace io...” disse lei.
“Non importa, non importa...”.
Ma non era vero. Erik sentì lo stomaco stringersi per l'imbarazzo e per la sorpresa. Aveva notato le curve sinuose della giovane in trasparenza e si maledisse per averla ospitata.
Le portò qualcosa da mangiare, un po' di pane e di frutta e la giovane mangiò con gusto quel poco che le era stato offerto.
“Erik, suonate vero?” chiese curiosa Ophèlie.
“Suonavo.” rispose lui addentando la sua mela.
Lei lo guardò dispiaciuta: “Avete smesso?” chiese.
“Si, molto tempo fa.” disse inespressivo.
“Ma è un peccato!”
“Come fate a saperlo? Non mi avete mai sentito.”
“Un uomo che disegna così - disse lei indicando il blocco di fogli su cui aveva trovato il ritratto di Christine - non può che essere bravo.”
“Non sono bravo.” disse lui.
“Allora dimostratemi che ho torto.” disse lei sorridendo maliziosa.
Per un attimo Erik pensò di farlo, giusto per orgoglio, ma poi desistette.
“Non è una buona idea...”
“Per favore!”
“Ho detto no.” concluse secco.
“Siete sempre così burbero?” chiese la giovane guardandolo torva.
“Fossi in voi non vorrei scoprirlo.” rispose. Fece per alzarsi ma la ragazza continuò.
“Suvvia, avete visto quale effetto ha su di me la musica. - disse lei rivolgendogli un sorriso mellifluo - vi siete preso cura di me fino ad ora, non vorrete tirarvi indietro adesso!” lo istigò.
Erik si sentì sciogliere da quelle parole e sorrise compiaciuto di quella richiesta e da quel sorriso da bambina birichina. Era sempre stato molto orgoglioso e forse vanesio nel pensare alla sua musica e per quanto cercasse si non farsi sedurre da quella narcisistica tentazione decise di cedere, solo per vedere come avrebbe reagito quella piccola insolente a quel trionfo che era sempre stata la sua musica.
“Se lo faccio, mi promettete di non tormentarmi oltre con altre richieste?” chiese lui incrociando austero le braccia sul petto.
“Affare fatto” disse lei dondolandosi sul letto ed offrendogli la mano per stringere il patto.
“Siete molto sfacciata Mademoiselle...” disse lui rivolgendole uno sguardo critico.
“Non parlo con qualcuno da molto tempo...” disse la giovane osservandosi avvilita le mani che adesso aveva stretto attorno alle ginocchia.
Erik si voltò lentamente verso di lei e disse: “In effetti, nemmeno io.” concluse.
Ophèlie corrugò la fronte a quelle parole mentre Erik si muoveva verso l'organo per recuperare il suo violino. In tutto quel trambusto non si era mai chiesta chi fosse quell'uomo veramente, perché vivesse lì, obbligato a rubare mobili di scena per vivere in un luogo che assomigliasse vagamente ad una casa. Cosa era successo al suo volto, chi l'aveva ferito tanto da renderlo burbero e diffidente? Poteva mai essere stato esiliato dal mondo per il suo volto? Mentre ripensò a quel viso, a quel luogo, il sotterraneo dell'Opera, le tornarono alla mente le voci sul famigerato “Fantasma dell'Opera” che infestava i sotterranei del teatro. Le voci parlavano di un uomo sfigurato, dal grande genio, un pazzo ed un assassino. Scosse la testa. No, quell'uomo premuroso non poteva essere il mostro di cui tutti parlavano.
Il sospiro stizzito di Erik la strappò ai suoi pensieri facendola sobbalzare. L'uomo apparve davanti a lei come per magia e le mostrò il violino. Lo strumento aveva una corda spezzata.
“Visto? Grazie alla vostra bravata adesso non potrei suonare nemmeno se volessi!” disse lui.
“Mi spiace!” disse la giovane portandosi le mani alla bocca.
Erik sospirò. Non poteva accusarla per qualcosa che non aveva voluto, la corda non l'aveva rotta apposta. In una situazione come quella era già tanto che non avesse usato il suo prezioso violino per difendersi.
La ragazza tentò di convincere l'uomo a suonare qualcos'altro, ma senza successo. Poi la febbre si alzò di nuovo e lei giacque addormentata sul letto per tutto il pomeriggio.

La sera, dei passi che avrebbe riconosciuto tra mille riempirono l'aria ferma della grotta. Era Madame Giry. Con se' portava un altro sacco da cui proveniva un profumo molto invitante.
“Tieni. - disse la donna dandogli in mano il sacco caldo e profumato - è carne con delle verdure stufate. Vi farà bene mangiare qualcosa di più sostanzioso della frutta e del pane.” sorrise materna la donna passando lo sguardo da lui alla giovane.
“Come sta?” chiese ad Erik indicando col volto il corpo della giovane che si muoveva lentamente sotto le coperte.
“Le si è alzata la febbre.” disse lui.
“Povera ragazza... ho parlato col medico.” disse.
“Sa che è qui?” chiese preoccupato.
“No! Non sono una sprovveduta Erik! Dovresti saperlo!” disse stizzita l'amica.
Erik sorrise.
“Mi ha detto che un trauma, effettivamente, può far venire la febbre. In ogni caso mi ha dato questo. - Disse lei tirando fuori una boccetta dallo stesso sacco della sera prima.- Dice che se non le passa la febbre entro due giorni è meglio darglielo.”
“Cos'è?” chiese Erik.
“Non lo so, però è un medicinale che dovrebbe sistemare tutto in 5 giorni. Dagliene 10 gocce sciolte in acqua una volta al giorno per 5 giorni.”
“E se guarisse?”
“Santo cielo Erik! E meno male che sei un genio. - disse caustica la donna - se non le si alza più la febbre non serve!”
Poi si mosse verso la giovane e le toccò la fronte. La febbre era molto più bassa rispetto alla sera prima ed Ophèlie parve guardarla veramente quella volta.
“Come stai Ophèlie?” le chiese.
“Ho mal di schiena e mi gira la testa.” rispose.
Madame Giry le accarezzò i capelli. Ophèlie si sentiva molto al sicuro con quella donna.
“Ma quindi - chiese - se voi siete una sua amica, Erik non fa l'eremita di mestiere...” disse sorridendo la giovane.
“No, almeno... non che io sappia. - rise - L'ultima volta che l'ho visto era ancora un compositore...” concluse Eloise osservando furba l'uomo. Erik alzò gli occhi al cielo.
“Come sta il braccio?”
La ragazza lo tirò fuori dalle coperte e la signora slegò il tessuto. Lo osservò e tamponò ancora la ferita con quella tintura. Lo fasciò di nuovo e tornò ad osservare la giovane dagli occhi di miele.
“Apri la bocca, questo ti abbasserà la febbre.” disse la donna.
Ophèlie obbedì, ma appena il medicinale toccò la lingua, il suo gusto amaro le fece venire il voltastomaco.
“Acqua...” farfugliò.
Erik le offrì un bicchiere e la giovane bevve avidamente.
“Forse è meglio se mangiate qualcosa Mademoiselle...”disse poi muovendosi verso il tavolino su cui aveva appoggiato la cena che aveva preparato loro Madame Giry.
La donna lo osservò stupita e compiaciuta. Non pensava che Erik potesse essere tanto premuroso con una giovane sconosciuta. C'era qualcosa tra loro, qualcosa che le sfuggiva e di cui probabilmente nemmeno loro si stavano rendendo conto. Osservò l'uomo offrire ad Ophèlie la ciotola con la cena e si soffermò sul suo sguardo mentre la guardava. Lei lo conosceva, forse meglio di chiunque altro ed aveva imparato presto a leggere i suoi sguardi e quello che c'era nei suoi occhi. Quello che vedeva in quel momento era dubbio... ed un conflitto, come se troppe domande senza risposte si stessero affollando nella sua mente. Le parve quasi di vederle prendere vita negli occhi di Erik.
“Bene, vedo che ve la cavate bene anche senza di me” esordì Madame Giry. I due la osservarono interrogativi.
“Ma no Eloise...” disse Erik.
“No, sul serio Erik. Devo andare prima che mia figlia inizi a fare troppe domande.”
“Capisco - disse l'uomo - grazie per la cena.”
“Ah, non preoccuparti - continuò la donna - domattina sarò di nuovo qui per controllare che tratti bene la ragazza.” concluse Madame Giry.
“Mi chiamo Ophèlie, Madame. Ophèlie Depuy.” disse la ragazza.
“Che bel nome! - esclamò Madame Giry - io mi chiamo Eloise, Eloise Giry.”
“È un piacere.” rispose.
“Piacere mio. Spero che questo burbero brontolone non vi faccia mancare nulla.” disse la donna, guardando divertita ma preoccupata Erik.
“Eloise, ti prego...” gemette esasperato lui.
“No Madame non preoccupatevi, è stato molto gentile con me, davvero.” disse Ophèlie.
“Davvero? Sai anche essere gentile? Sei una continua scoperta Erik.” disse osservando furba l'uomo davanti a lei.
“E tu come al solito, sei sempre la voce stonata della mia coscienza."
"Quando mai tu hai avuto una coscienza?"
Ophèlie rise allo scambio di battute ed Erik si rallegrò nel sentire la sua risata cristallina in quel lugubre luogo. Guardò significativamente Eloise che sorrise a sua volta poi disse:
“Tolgo il disturbo. Buona notte.” esclamò Madame Giry.
“Buonanotte Eloise.” dissero i due in coro. “Grazie...” concluse Ophèlie.
“Fate i bravi. Buona notte.” e detto questo Madame Giry sparì dietro la tenda.

“È una donna tanto buona” disse Ophèlie.
“Si, finché non si arrabbia. Eloise arrabbiata fa veramente paura.”
Ophèlie rise.
“Perché ridete?”
“Perché detto da uno come voi fa uno strano effetto...”
“Perché?” chiese Erik.
“Insomma, siete un uomo, avete parecchi centimetri in più di Eloise ed avete... come dire... debilitato due criminali!” disse la giovane sorridendo.
“Ah, per quello! - rise anche lui, poi divenne serio - Sapete Ophèlie, a volte le cose non sono esattamente quello che sembrano.” concluse grave.
“Ho imparato questa regola molto tempo fa Monsieur.” disse la ragazza seria osservando la ciotola vuota nelle sue mani.
Solo dopo Erik si rese conto che lei non era una ragazzina cresciuta nella propria casa coi propri genitori, ma aveva vissuto per strada, sopravvivendo. Non era proprio il caso che la trattasse come una sprovveduta.
“Scusate, mi dispiace... io... non ci ho pensato. Perdonatemi.” disse lui osservando preoccupato la ragazza che lo guardava amareggiata.
“No, non preoccupatevi, a volte dimentico di non essere l'unica obbligata ad una vita che non ha scelto.” disse lei aspettando una sua risposta ad una tale ardita esclamazione.
Lo vide osservarla e scorse un'ombra scura attraversagli lo sguardo. Aveva centrato la questione.
“Cosa vi fa pensare che io non abbia scelto questa vita?” chiese curioso e vagamente minaccioso l'uomo.
“Immagino... insomma, si vede! Si capisce.” farfugliò la ragazza spaventata da quell'improvviso cambio di tono.
“Da cosa si capisce?” ringhiò lui.
“Ve lo dirò se mi promettete di non aggredirmi in nessun modo Monsieur.” disse la giovane spingendosi impaurita contro la testata del letto.
“E se invece, malauguratamente... capitasse?” chiese lui allargando le labbra in un sorriso inquietante.
“Sarò costretta a rimangiarmi tutte le idee positive che ho di voi.” disse seria la ragazza.
“Sapete trattare Mademoiselle.” disse Erik quasi sorpreso.
“Ho dovuto imparare anche questo.” disse lei minacciosa.
“Bene, io non vi aggredirò ma voi mi direte tutto quello che avete pensato.”
“Come faccio ad esserne sicura?” chiese la ragazza questa volta sorridendo maliziosamente.
“State tirando troppo la corda Mademoiselle, fossi in voi non insisterei oltre.” rispose lui stringendosi le braccia al petto.
“Mettetevi nei miei panni...” iniziò la giovane.
“Mi riesce difficile, non indosso sottane.” disse lui sorridendo divertito.
Ophèlie sentì il cuore saltare un battito, aveva un sorriso terribilmente affascinante. Uno di quelli che si sollevano di più da una parte dando alla persona che lo sfoggia un che di irresistibile. Aveva già notato che era un bell'uomo ma vederlo sorridere così le diede una nuova consapevolezza.
Sorrise anche lei stupita da quelle parole e dai suoi stessi pensieri. “Bene, mi arrendo.” disse lei.
Erik sorrise vittorioso. “Dunque?”
“Voi vivete nei sotterranei di un teatro diroccato, come se voleste nascondervi da qualcosa, mentre le persone normali vivono nelle proprie case.”
“Capirete presto che io non ho nulla di ordinario Mademoiselle.”
“Si questo lo so. - disse lei - Siete un artista indubbiamente dotato, che indossa una maschera e vive sotto terra. Mi pare ovvio che non siate ordinario.” disse Ophèlie osservandolo con un sopracciglio alzato.
“È un peccato che non abbiate più la febbre, stavo così bene quando dormivate.”
“Mi avete chiesto voi delle spiegazioni. - disse infastidita la ragazza - ma se la mia voce infastidisce le vostre orecchie io...”
“No, non è la vostra voce, quella ha un suono gradevole e lo dico da un mero punto di vista professionale. Sono le vostre argomentazioni argute ad infastidirmi.” continuò lui.
La ragazza non fece molto caso a quello che le era stato detto sulla sua voce e rispose ancora.
“Devo ricordarvi ancora che siete stato voi a chiedermelo?”
Erik sbuffò.
“Dicevo - continuò - un uomo che vive come vivete voi, in questo luogo per quanto bellissimo, va al mercato all'alba quando le bancarelle devono ancora essere allestite, ha un'amica la cui figlia non deve sapere di queste visite ed indossa una maschera per coprirsi una parte di volto che è tutto tranne che da coprire, non può aver scelto una vita simile.” concluse la ragazza seria, col tono di chi sta semplicemente traendo una conclusione logica.
Erik la guardò truce.
“E poi, quella ragazza coi quali disegni tappezzate casa vostra... Chi è veramente Christine, per voi intendo.” chiese la giovane che aveva capito che quei disegni non potevano essere stati fatti a caso.
“Non credo sia affar vostro Mademoiselle.”
“No, avete ragione, perdonatemi. Vi ho solo riportato i miei pensieri come vostra richiesta.” disse lei osservando la ciotola che teneva ancora tra le mani.
“Siete molto arguta Mademoiselle, effettivamente, non ho avuto scelta... io.” disse lui pensando che invece Christine l'aveva avuta e si era rivelata la cosa peggiore che potesse fare. Lui non l'avrebbe mai tradita.
“Nemmeno io l'ho avuta, quando hanno ucciso mio padre lasciando me e mia madre nella miseria, l'unica possibilità che abbiamo avuto è stata scegliere la strada.”
“È terribile” disse Erik veramente colpito.
La ragazza non rispose, si limitò a posare per terra la ciotola e a sdraiarsi per cercare di riposare.
“Ho soddisfatto la vostra curiosità Monsieur?” chiese Ophèlie da sotto le coperte.
“Anche troppo - rispose - Posso fare qualcos'altro per voi?”
Ophèlie sentì quelle parole e le tornò in mente quello che lui aveva detto sulla sua voce.
“Erik, perché avete detto che ho una voce gradevole?” chiese lei.
“Perché è vero, sul serio...”disse.
“Ma, avete detto che è un parere professionale. Voi cantate?”
“Cantavo, quando scrivevo.”
“Davvero?” chiese lei.
Lui annuì.
“Vi serve altro?” chiese.
“Una cosa ci sarebbe che potreste fare...” disse lei.
“Se posso.” disse lui avvicinandosi a lei, prendendo la ciotola e voltandosi per metterla sul tavolo.
“Cantate per me!”
La ragazza sentì il tonfo della scodella di metallo che cadeva sulla pietra. Si alzò e lo guardò. Sembrava impietrito da quelle parole.
“No.” la voce di Erik suonava asciutta in quel momento. Non aveva più niente della sua voce calda, delicata, profonda e graffiante.
“Vi prego! - chiese lei - per favore!”
“Non è il caso e poi perché questa richiesta?” disse lui serio, voltandosi verso la ragazza.
“È solo una curiosità. Avete una voce così singolare... e poi, dopo quello che avete detto non dovrebbe essere una cosa complicata per voi.” chiese lei con la delicatezza di una bambina.
Erik cercò di resistere a quell'innocente richiesta che suonava come la più atroce tentazione. Poi cedette, amava troppo stupire ed era particolarmente narcisista riguardo la sua arte.
“Se io canto, mi promettete di addormentarvi?”chiese lui appropriandosi ancora della sedia accanto al letto.
“Dipende da quanto sarete bravo.” disse Ophèlie innocente, ma dietro quegli occhi Erik scorgeva solo un grandissimo pericolo.
“Donne!”esclamò lui infastidito.
Pensò per un po' a cosa avrebbe potuto cantare visto che le sue canzoni più belle erano tutte per Christine e non gli sembrava corretto nei confronti di Ophèlie cantarle una canzone che era nata per un'altra.
In effetti una canzone c'era, una che mai nessuno aveva sentito, canzone che, in quel momento, dopo quello che la ragazza aveva detto, gli sembrava particolarmente adatta.
“Bene, visto che se non lo farò dovrò rinunciare alla tranquillità...” disse caustico Erik.
Ophèlie sorrise trionfante anche se sapeva che l'unico nobile intento che lo stava muovendo era quello di farla addormentare.

“No one would listen,
no one but her
heard as the outcast hear...”


Effettivamente la voce di Erik era ancora più bella di quanto avesse immaginato.
Malgrado fosse una voce calda e mascolina, suonava soave, vibrando tra le pareti dell'enorme caverna per poi riflettersi nel suo cuore. La canzone era triste ma quelle parole erano spinte da un amore e da una speranza che trasparivano sullo sfondo e dalla voce dell'uomo.
Ophèlie si sentiva come imprigionata in quelle note, in quelle emozioni, le stesse di una persona disperata come lei. Mentre lui cantava, piccole lacrime le rigarono le guance lisce scivolando indisturbate lungo la linea dritta del naso per poi morire sulle sue labbra... era stupenda.
Quando terminò quella tacita richiesta d'amore, Erik osservò la ragazza e vide le piccole lacrime che le cadevano silenziose dalle ciglia.
“È così brutta?” chiese deluso come un bimbo che ha fatto un regalo non apprezzato.
“No... no, è … stupenda! E tu, hai una voce bellissima Erik!” disse lei scossa dall'emozione. Si accorse troppo tardi del tu che le era sfuggito incontrollato dalle labbra, ma quella musica l'aveva sconvolta tanto da impedirle di controllare le parole.
Erik rimase attonito, disturbato da quanto stava succedendo. Ophèlie aveva pianto per l'emozione su quelle note, gli aveva dato del tu e soprattutto gli aveva detto che aveva una bellissima voce. Cosa gli stava facendo quella giovane? Quale altra atroce tortura madre natura aveva deciso di infliggergli?
“Perdonatemi! Io... non mi sono accorta...” farfugliò la ragazza in difficoltà.
Erik sorrise leggermente a quella reazione. “No, non preoccupatevi, non sono il genere di uomo che tiene a certe formalità.” disse poi stupito.
“Ora però cercate di riposare, la febbre non vi è ancora passata del tutto.” disse lui premuroso ed Ophèlie obbedì mansueta, ma prima di chiudere gli occhi gli strinse la mano e la tenne tra le sue appoggiandole sul cuscino. Si addormentò istantaneamente ed Erik fu incapace di far scivolare via dalle piccole e fredde mani di lei la sua, calda per l'emozione e per la reazione che aveva avuto la sua piccola ospite. Nemmeno Christine gli aveva mai tenuto le mani, nemmeno quando pensava che lui fosse il suo angelo della musica, invece lei, dopo aver visto il suo orrendo volto sfigurato seguitava a volerlo tenere vicino a se'.
La osservò stupito da quel miracolo di semplicità e fiducia che era quella ragazza per lui, poi tolse la mano e le fece una timida carezza tra i capelli biondi.
“Buona notte” le sussurrò lui per poi scappare da lì, da quel letto, da lei, che in poco tempo era riuscita a fargli mettere in dubbio tutta la sua esistenza, scoprendo molte più cose di lui di quanto avrebbe dovuto. Passò la notte sui fogli rigurgitando litri di inchiostro agrodolce su quegli spartiti. La sua arte aveva ripreso vita, era tornata a concedersi a lui non come requiem ma come quel trionfo di bellezza ed emozioni che viene chiamato Opera. Il mattino seguente nascose il suo lavoro sotto la stesura de “Il Don Giovanni Trionfante” ed uscì. Ophèlie non si era ancora svegliata.

“Non è possibile!” tuonò il Visconte quando i due sicari si presentarono a lui a mani vuote.
“Signore, ci dispiace, siamo stati aggrediti e...” rispose il più vecchio dei due.
“Non è concepibile che due uomini come voi possano farsi disarmare così!”
“Ma Signore, non ce ne siamo accorti - continuò l'altro - sapete, è molto bella...” concluse e Raoul scorgendo in quello sguardo famelico quello di un essere spregevole sentì montare l'ira.
“Non voglio sapere cosa vi abbia distratto di lei perché temo che saperlo mi disgusterebbe soltanto!” tentò di dire calmo poi il suo tono cambiò ancora diventando autoritario. “Se la prossima volta che ci incontreremo, non avrete quello che vi ho richiesto, non disturbatevi a tornare!” disse secco il Visconte.
I due si inchinarono ossequiosi e fecero per uscire ma Raoul li bloccò.
“So' che è una bella ragazza, ma il vostro lavoro è quello di ucciderla! Non di usarla per i vostri biechi desideri!” e detto questo i due vennero congedati.
Raoul fece appena in tempo a versarsi un bicchiere di Whisky che qualcuno bussò alla porta del suo ufficio.
“Avanti.” disse dopo aver bevuto un generoso sorso di liquore. Era il suo cameriere.
“La posta Signore.” disse l'uomo posando le lettere sulla scrivania.
“Grazie Edgar.” disse il Visconte.
Passò in rassegna le lettere che gli erano arrivate e solo una attirò la sua attenzione. Non aveva sigillo ed una scrittura sottile campeggiava sulla superficie bianca: “Visconte Raoul de Chagny”.
La riconobbe. “Meg!” esclamò e l'aprì.

Ciao amore,
vediamoci tra due giorni al solito posto. Non vedo l'ora di rivederti.
Ti amo.
Meg.


Osservò la data. Era di un giorno prima. Si sarebbero visti l'indomani.

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Capitolo 8
*** Orgoglio e pregiudizio ***


Ciao a tutti, ecco qui un nuovo capitolo. Mi farebbe veramente piacere leggere qualche recensione anche per correggermi perchè le correzioni sono sempre ben accette. Vi ringrazio in anticipo.
Ciao.


Capitolo 8 - Orgoglio e pregiudizio.


Quella mattina Ophèlie si svegliò riposata dopo aver dormito veramente per la prima volta dopo anni.
Fu Madame Giry a darle il buongiorno. Doveva essere presto perché Erik non era in casa.
“Buongiorno Ophèlie.” le disse la donna.
“Buongiorno Eloise. - esclamò stupita la giovane - Ma dov'è Erik?”
Eloise sentì il cuore sorriderle. “Credo sia ancora al mercato, l'ho incontrato poco prima di venire qui.”
La donna le toccò la fronte. “Sembrate guarita Mademoiselle.” disse.
“Si, mi sento molto meglio.” asserì la ragazza grattandosi la nuca e facendo una smorfia quando si strappò una ciocca particolarmente intricata.
“Vi andrebbe un bel bagno? Vi ho portato anche un abito pulito.” disse Eloise estraendo da una scatola un abito rosa antico pulito e profumato. Ophèlie si alzò per osservarlo.
“Voi non avete l'abitudine di indossare abiti Mademoiselle?” disse la voce piccata di Erik. Sapeva che se l'avesse vista ancora a lungo con la sottoveste sarebbe impazzito. Eppure Christine non l'aveva turbato tanto.
Quando Ophèlie sentì la voce di Erik sobbalzò e Madame Giry le si parò davanti per evitare che Erik la vedesse.
“Ciao Eloise. Bell'abito, ma temo che tu abbia sbagliato, io non indosso gonne.” disse Erik voltandosi per svuotare il cestino.
“Ho sempre trovato dubbio il tuo umorismo Erik...” disse infastidita la donna.
Ophèlie invece rise nascosta dietro ad Eloise poi affacciandosi per guardarlo disse:
“Potreste sempre provare Monsieur.”
Erik la guardò e sorrise mordendo la mela che aveva tra le mani.
“Oh, povera me! - sospirò Madame Giry - pare che siate fatti l'uno per l'altra.” esclamò esasperata.
Ad Erik andò di traverso il pezzo di mela che aveva in bocca ed Ophèlie osservò attonita la nuca della donna davanti a se'.
“Erik, per cortesia, avresti una tinozza in cui far fare un bagno ad Ophèlie?” chiese Madame Giry.
“C'è un lago intero Eloise! Non serve un catino.” disse lui indicando il lago nero davanti a loro.
“Chissà quanti topi ci sguazzano in quell'acqua!” disse schifata la donna.
“Ti assicuro che li ho uccisi tutti.” rispose lui sorridendo forzatamente. Vide la donna chiudere le braccia al petto e comprese che la sua scarsa collaborazione non era stata gradita.
“E va bene, è là dietro!” disse Erik indicando un antro buio e nascosto.
La donna lo osservò poi sentì un movimento dietro di sé e quando si voltò notò che la giovane si era messa addosso una coperta per nascondere le nudità.
Erik ringraziò il cielo che la giovane avesse avuto la delicatezza di coprirsi, poi invitò Madame Giry dietro un ampio separé. Era in ferro battuto, molto elegante e dei lunghi pannelli di tessuto color ambra non lasciavano intravedere nulla di quanto celassero. Quando Erik spostò il separé Ophèlie aprì la bocca stupita. Contro la parete rocciosa era appoggiata una bella vasca da bagno sotto la quale giaceva un vassoio di metallo. Sulla sinistra c'era un tavolo da toeletta e sulla destra una lastra di metallo che sembrava chiudere qualcosa.
“Erik, hai anche un bagno!”esclamò stupita Eloise.
“Ti sembra che in questi anni la mia igiene personale lasciasse a desiderare?” chiese secco l'uomo.
“Bene, l'acqua da dove la prendo?” chiese poi la donna.
“Dal lago.”esclamò lui. Dopotutto lui per anni si era lavato in quel lago in cui mai nessun genere di animale si era infiltrato.
“Ma.”
“Ognuno fa quel che può. Adesso: io accendo il fuoco, poi vi vengo ad aiutare a prendere l'acqua.”
“Come sarebbe a dire il fucoo?” chiese la donna.
“Eloise, smettila di fare domande sciocche. Non vorrai far lavare la ragazza nell'acqua ghiacciata vero?” lui stesso si stupì di quella premura e probabilmente lo fece anche Eloise perché lo osservò attonita e confusa. Quando vide lo sguardo del suo amico abbassarsi imbarazzato si voltò e si mosse verso il lago.
In poco tempo la vasca venne riempita e l'acqua scaldata abbastanza per fare un bagno.
“Io vi lascio Signore.” disse Erik facendo un inchino ed abbandonando le due donne nel suo bagno.
Ophèlie allora si spogliò della sottoveste e si immerse nell'acqua calda.
Madame Giry le fece gustare il calore per un po' poi la osservò. Era molto magra ma non sembrava particolarmente deperita, cosa molto strana per una donna che era cresciuta per strada, ma le sue riflessioni rimasero chiuse nella sua mente e decise di farle delle domande per conoscerla meglio.
"Come mai una cara ragazza come voi si è ritrovata ad aver a che fare con quel musone di Erik?" chiese madame Giry alleggerendo con l'ironia una domanda che avrebbe potuto sembrare fin troppo indiscreta.
La ragazza le raccontò la sua triste avventura senza fare riferimento a Raoul e Christine.
“E come mai eravate in strada da sola Mademoiselle?”
“Mio padre è stato ucciso da dei sicari alcuni anni fa. Mentre io e mia madre tentavamo di scappare da quel luogo ho trovato la lettera del mandatario. È stato allora che ho capito cosa stesse succedendo. Non era firmata così per un periodo ho anche conservato il sigillo della missiva ma poi... l'ho perso. Io e mia madre non abbiamo avuto scelta, siamo state ospitate in un bordello e... potete immaginare come ci guadagnassimo da vivere.”
Eloise si sentì stringere il cuore al solo pensiero che Ophèlie fosse stata obbligata a quella vita. Ma il suo volto era ancora troppo pulito per essere quello di una donna smaliziata. “Ma anche voi...?” chiese.
“No, io no. Sono scappata dopo la morte di mia madre. Non volevo passare la mia vita in quel posto orrendo, per questo mi sono ritrovata per strada.” disse rassegnata la giovane.

Erik non se n'era andato, era rimasto dietro il separé ed aveva sentito il racconto della giovane. Sentì che in qualche modo lui e quella ragazza erano affini e forse era proprio per quello che lui si sentiva così protettivo nei suoi confronti. Non era una buona idea farsi trovare ancora lì, così uscì, indisturbato e silenzioso come era abituato a fare.
Quando sentì l'aria fredda del mattino colpirgli il viso la respirò avidamente cercando di portare più ossigeno possibile alla sua mente confusa. Come mai quella ragazza così insolita era stata affidata a lui? “Dio, cosa hai in mente? Perché mi stai facendo soffrire così? Perché quella giovane è capitata proprio a me?” chiese Erik parlando al cielo, cercando una risposta alle sue domande. Ma il cielo non rispondeva, non alle sue preghiere. Gli avevano detto che Dio parla attraverso i cuori e che avrebbe dovuto trovare le risposte proprio lì, nel suo cuore spezzato. “Lo capirai Erik, lo capirai.” gli rispose. Rimase fuori ancora un po', nel buio di Rue Scribe, là dove nessuno l'aveva ancora trovato.

Madame Giry l'aiutò ad asciugarsi e rivestirsi. Mentre la signora stringeva il corpetto del suo nuovo abito, Ophèlie vide per terra, alla luce di un braciere, il violino di Erik appoggiato nella propria custodia. Mentre lo osservava notò che la corda spezzata faceva bella mostra di sé, quasi ad accusare la giovane della sua menomazione.
Eloise prese il suo vecchio e sgualcito abito tra le mani per vederlo.
“È un bell'abito Mademoiselle.” disse Madame Giry osservando le delicate fantasie floreali sul corpino di velluto verde.
“Si, lo è stato...” disse la ragazza osservando triste il suo abito preferito rovinato e mangiucchiato dal fuoco e dalla consunzione.
“Ma cosa dite! Se permettete lo prenderei per lavarlo e sistemarlo un po'.”
“Temo che sia inutile Madame, sarebbe da buttare. - rispose la giovane - comunque, se ci tenete, prendetelo pure.”
La signora allora lo piegò accuratamente nella scatola che era stata dell'abito che ora indossava e salutando la giovane uscì.

Uscendo inciampò in un cumulo di qualcosa che si mosse nell'oscurità di Rue Scribe. La donna sentì un mugugno risentito e si spaventò.
“Perdonatemi.” disse lei.
“Magnifico... e meno male che dicono che sono io quello pazzo.” era Erik.
“Erik! Cosa ci fai qui?” chiese Eloise spaventata ed incredula.
“Ci abito Eloise.” disse sarcastico l'uomo.
“Non sei cambiato affatto! - si risentì Madame Giry - Nemmeno quella ragazza è riuscita ad estorcerti un minimo di dolcezza?” concluse piccata.
“E perché avrebbe dovuto? Io non sono mai stato dolce!”
“Erik! Smettila di mentire a te stesso! Non è da tutti comportarsi così con una giovane sconosciuta! Nemmeno con Christine sei mai stato così amorevole!”
“Non parlarmi di Christine Eloise!” disse lui alzandosi austero per fronteggiarla. Lei non si mosse di un centimetro, né un brivido di paura o di sgomento percorse il suo sguardo. Era lei quella forte in quel momento... non lui.
“Sei un vigliacco Erik! Hai paura dei tuoi sentimenti! L'hai sempre avuta! Ti sei sempre rifiutato di comportarti come il dolce essere umano quale sei!” disse lei gonfiando il petto.
“Non osare darmi del vigliacco Eloise!”
“Ma lo sei! Un uomo che si comporta così con una sconosciuta non può essere un mostro! Non lo capisci?”
“Non ho fatto niente.” disse lui secco.
“Erik ma sei incredibile! - disse stizzita la donna - L'hai salvata!” sibilò lei muovendoglisi sotto il mento.
“Questo non vuol dire niente! Aveva il mio violino!”
L'amica sospirò. “Fai come credi, ma tu sei molto più di quello che dai a chi ti è vicino.” e detto questo, Eloise sparì dietro l'angolo, lasciandolo ancora solo, ancora al buio, imprigionato nella notte della sua anima.

Nel frattempo Christine stava seduta sulla sua poltrona a leggere un libro, ma non riusciva a concentrarsi. Raoul era chiuso nel suo ufficio ed ora, in camera sua, aveva visto due uomini uscire da casa loro. Chissà chi erano. Decise di andare a farsi un the' per cercare di distendere un po' i nervi. Era da un po' di tempo che si sentiva la mente occupata dal pensiero fisso che aveva avuto in quei mesi. Stava escogitando un modo per far tacere quel desiderio bruciante che le urlava nella testa e nel cuore... voleva rivedere Erik, anche solo per un momento, anche solo per il tempo di un lampo verde sul suo viso.
Il profumo del the' nero le stuzzicò le narici e le liberò la mente. Aveva preso una decisione: il giorno dopo sarebbe tornata all'Opera. Sapeva che Raoul sarebbe stato fuori casa per affari tutto il giorno, sarebbe stato il momento migliore.
Non aveva più ricevuto risposta, ma sperava veramente che lui vivesse ancora laggiù, in quel sotterraneo incantato.

Erik non era ancora rientrato cosicché Ophèlie, osservando il violino menomato, pensò che sarebbe stato carino risistemarglielo, per ringraziarlo in qualche modo di tutto quello che stava facendo per lei.
In quel pasticcio sapeva che sarebbe stato pressoché inutile anche solo tentare di cercare qualcosa. Intanto pensò che sarebbe stata un'idea risistemare il letto che lei gli aveva sottratto per due giorni.
Una volta che lo ebbe sistemato, si mosse verso l'organo sperando di poter trovare da qualche parte una corda da sostituire al violino.

Mentre armeggiava tra i vari disegni e le varie carte, persa nei pensieri su come lui avrebbe reagito, si accorse di avere in mano un pacchettino di carta e quando lo aprì trovò al suo interno dei sottilissimi fili di budello. Le avrebbe riconosciute tra mille, pregiatissime corde di violino. Quasi esultò per la felicità ma non fece in tempo a prendere il violino che sentì i passi cadenzati dell'uomo scendere le scale. Richiuse il pacchettino, lo ripose là dove l'aveva trovato e corse verso il letto a piegare le coperte che erano rimaste.
Erik non si era accorto di nulla infatti prima di entrare disse usando le sue doti da ventriloquo:
“Siete vestita?”.
La ragazza si spaventò ed un urlo di stupore uscì dalle sue labbra. Quando lo vide apparire sulla soglia lo guardò spaventata e con il fiato corto disse: “Non fatelo mai più!”
“Che cosa? - chiese lui osservandola beffardo - Questo?” ed ancora la voce di Erik parve uscire dalla testiera del letto. Ophèlie si spaventò e si allontanò istintivamente da lì.
“Ma... come fate?” chiese lei quasi rotolando giù dagli scalini che portavano al letto.
“Sono un ventriloquo.” disse lui, ma si rese subito conto che forse era stato un azzardo dirglielo.
“Un ventriloquo? Ma, i ventriloqui devono essere vicini alla cosa che vogliono far parlare no?”
“Siete astuta Mademoiselle. Beh, forse sono anche un po' mago allora...”
“Caspita! - disse la donna stupita. - Si potrebbe quasi dire che possiate lavorare in un circo!” disse lei.
Erik si sentì pugnalare. Si, lui aveva lavorato in un circo, ma non certo come mago. Sorrise amaro ma non disse nulla, fece semplicemente cadere il discorso facendoli piombare in un silenzio imbarazzante.
“Erik, state bene?” chiese Ophèlie notando le ombre che si inseguivano nei suoi occhi.
“No...”disse lui.
“Posso fare qualcosa?” chiese preoccupata lei.
“No, non esiste cura per il male che mi affligge...”
“Ma Erik parlate, magari posso aiutarvi.” insistette la ragazza.
“No, non potete.” Disse voltandosi per allontanarsi.
Erik sapeva che la cura per lui esisteva, si chiamava Amore, ma nessuno era mai stato disposto a dargliene. Poi la mano della giovane gli bloccò il braccio obbligandolo a voltarsi.
“Erik, so che è difficile fidarsi di una perfetta sconosciuta però... io sono in debito con voi e se avrete voglia anche solo di parlare, sappiate che io sarò sempre a vostra disposizione. Io mi sono fidata di voi... provate a farlo anche voi.”
“Io non mi fido di nessuno.”disse lapidario.
“È un peccato. Dovreste, è molto rassicurante farlo sapete?” sorrise la giovane.
“Si certo. - Sospirò - Fidarsi non serve a niente se non a farsi spezzare il cuore.”.
“Chi è stato tanto crudele da farvi questo?” chiese la giovane tristemente.
“Qualcuno... qualcuno di cui mi fidavo... che amavo!” disse lui distogliendo lo sguardo da quello della giovane e facendolo scivolare inavvertitamente verso il tavolino coi disegni. La ragazza capì ma non volle tornare sul discorso così si limitò a stringergli ancora un po' il braccio e gli disse:
“Erik, qualcuno lo fa... qualcun' altro no. Perché non ci provate?”
L'uomo si sentì scavare nel profondo a quelle parole. Lui voleva fidarsi di qualcuno, ma tutte le volte che l'aveva fatto si era pentito, ed anche se adesso qualcosa gli diceva che quella ragazza fosse diversa dal resto del mondo, non riusciva ad essere trasparente con lei. Se solo lei avesse saputo chi lui fosse veramente, tutte quelle promesse sarebbero state infrante e lui non voleva farsi spezzare il cuore... non di nuovo.
Fu solo allora che si rese conto di quanto fosse vicino ad Ophèlie. Riusciva a vederle i pensieri negli occhi. Solo da quella distanza si rese conto di quanto fosse bella adesso. Gli occhi da gatta brillavano colpiti dalla luce delle candele, ed il viso dalla pelle chiarissima era delicato ed incorniciato da lunghi capelli biondi. Le labbra erano crucciate nell'osservarlo e lo sguardo era fiero e determinato. Si sentì particolarmente fragile sotto la sua salda presa ed i pensieri gli si annebbiarono. No! Non poteva averlo fatto di nuovo! Non poteva provare quelle sensazioni per un'altra donna che gli avrebbe spezzato il cuore. Con delicatezza toccò la mano di Ophèlie allontanandola dal suo braccio. “Vi ringrazio Mademoiselle...” si limitò a dire, poi si mosse verso il suo organo e non si spostò più da lì.

Madame Giry era appena tornata a casa e mentre era in camera sua ad osservare l'abito di Ophèlie sentì qualcuno bussare alla sua porta. Lo lasciò lì e scese le scale. La governante aveva già aperto la porta e sentì una voce conosciuta riempire la stanza.
“Christine! - esultò la donna correndo giù dalle scale. - Piccola mia! Sono contenta di vederti! Come stai?” le chiese poi stringendola a se'. Christine si gustò quella stretta materna che tanto le era mancata.
“Maman!” esclamò poi stringendola tanto forte da farle male.
“Come stai tesoro mio? Stai meglio?” chiese Eloise alla figlia adottiva.
“Sto meglio grazie, mi spiace avervi amareggiato con le parole dell'ultima lettera.”
Eloise sperò tanto che la giovane non le chiedesse nulla in proposito della lettera per Erik.
“E per...?” continuò poi la giovane.
“Chistine!” la voce di Meg in quel momento significò salvezza per la donna che non avrebbe saputo cosa inventarsi quella volta.
“Meg!”
“Guarda un po' chi si è degnato di venire a farci visita...” disse Meg tentando di usare un tono allegro, ma evidentemente non suonò come tale perché sua madre la guardò preoccupata e Christine la osservò dubbiosa. Non era affatto contenta di vederla, non lì... non dopo quello che era successo con suo marito.
“Sono dovuta venire io qui, perché se avessi aspettato una tua vista sarei morta di solitudine.” disse secca Christine. Anche lei aveva cercato di mascherare il tono amaro ma non ne era capace. Non lo era mai stata...anche Erik glie lo aveva detto:
“Hai una bella voce ma devi imparare a recitare...”
Così aveva parlato poco prima che lei lo abbandonasse, quando aveva tentato di convincerlo che volesse lui e non Raoul. Se fosse stata meno cieca non avrebbe sofferto così tanto.
Madame Giry non capiva. Tutto stava cambiando e lo faceva troppo in fretta, troppo inaspettatamente impedendole di stare dietro agli avvenimenti che la circondavano. Erik ed Ophèlie, Meg e Christine, tutti gli equilibri che conosceva si stavano sgretolando e lei si sentiva terribilmente impotente. Non aveva mai amato farsi sfuggire le cose di mano ed era proprio per quello che lei non era impazzita con la storia del Fantasma dell'Opera. Era vero che lo conosceva però in quel marasma in cui paure e credenze si mescolavano pericolosamente, lei non si era mai fatta prendere dal panico. Adesso, davanti a quelle due battute tra le sue figlie, davanti ai loro modi, non sapeva come comportarsi.
Non parlò molto né con Christine né con Meg, perché dopo lo scambio le due sparirono su per le scale.
Il tempo passava e non seppe quanto tempo stettero su in camera di Meg. Fu quando decise di tornare in camera sua a continuare il lavoro che stava facendo sull'abito di Ophèlie che sentì toni tutt'altro che fraterni uscire dalla porta chiusa della camera di Meg... le due stavano litigando.
“Meg! Non ti permetto di parlarmi con quel tono!”
“No! Sono io che non te lo permetto! Non sono una delle tue serve alle quali puoi dire come devono parlarti! Io sono tua sorella e ti parlo come mi pare!”
“Sei cambiata Meg! Mi fai paura!”
“E tu non sei cambiata affatto! Sempre con quell'atteggiamento da Signora di alto Borgo che si è sistemata con un matrimonio di convenienza!”
“Come ti permetti? Io amo Raoul!”
“No! Tu amavi Erik, tutti lo sappiamo, tutti lo abbiamo capito, ma hai voluto fare la damigella in pericolo e ti sei fatta salvare dal tuo fidanzatino dell'infanzia!”
“Cosa c'è di male nell'amore dell' infanzia?”chiese dura Christine.
“Niente! Ma non rimane altro che una perenne infatuazione!”
“Ma senti come parli! Non sai nemmeno cosa sia l'amore!”
“Si che lo so, lo so meglio di te Viscontessa de Chagny!”
“Sono sempre Christine!”
“No, ormai sei una Viscontessa! Fattene una ragione e ti comporti come tale anche con tua sorella! Non sei cambiata per niente, sei sempre la solita ragazza che sogna l'amore vero ma ha paura di prenderlo per se', la solita Christine che non pensa ad altro se non a se' e alla sua celebrazione!”
“Questo non è vero! A me non piace essere celebrata, a me piace stupire!”
“Bene, allora fallo! Stupiscimi dimostrando che sei una donna! Vai là a riprenderti il tuo Fantasma, sempre che ti rivoglia indietro!” disse furente Meg.
A quelle parole Christine uscì dalla porta sbattendosela alle spalle e senza salutare la madre adottiva scese le scale e corse fuori, a respirare un po' di aria fresca.
Meg era arrabbiatissima con Christine. Come osava andare da lei a lamentarsi perché rivoleva indietro Erik? Per la sua cocciutaggine si erano rovinati due amori veri e tutto per la malattia dell'apparenza che affliggeva sua sorella da sempre.

Oh, si, l'avrebbe fatto eccome se l'avrebbe fatto. Christine marciava per le strade di Parigi ancora infuriata e scossa per quello che era successo con Meg. Qualcosa si era spezzato e nel modo peggiore. Si era fidata di sua sorella ma si era sbagliata, lei non l'aveva capita, non quella volta. Quanto le mancavano le loro chiacchierate, quando aveva appena rivisto Raoul muoversi per i corridoi dell'Opera e poi i racconti gotici che loro due si scambiavano sulle apparizioni del famigerato Fantasma. Non erano più delle bambine, ormai erano delle donne anche se lei non si sentiva una donna. Raoul la trattava sempre come la sua piccola Lotte ma mai aveva sentito brividi da donna al tocco di Raoul, non forti come quelli che aveva provato per Erik. Si era illusa confondendoli con qualcosa di cattivo, come l'ossessione che anche lei, suo malgrado, provava per il suo Angelo. Il tocco di Raoul era un tocco pulito, rassicurante, sicuramente quello che le ragazzine sognano di ricevere dal principe azzurro, ma forse lei non voleva il Principe Azzurro ma quello mascherato. Sentiva il bisogno di quella scossa e non avrebbe aspettato oltre, il mattino dopo sarebbe andata da lui, sarebbe tornata da Erik.

Eloise e Meg rimasero sul piano delle camere a fissarsi per un secondo. Poi Meg corse in camera sua sbattendole la porta in faccia.
Davanti a quel gesto repentino e irrispettoso Madame Giry sentì montare il sangue alla testa. Dopo tanti anni passati a tenere testa al famigerato Fantasma dell'Opera ormai aveva una certa cultura sulla rabbia e i suoi effetti e quella volta non avrebbe subito in silenzio. Corse dietro a sua figlia ed urlò contro la porta battendo furiosa sul legno.
“Vieni fuori immediatamente! Mi devi spiegare un po' di cose!”
La ragazza rimase sul suo letto, decisa a non aprire, sapeva di aver combinato un pasticcio e che sua madre non gliela avrebbe fatta passare liscia.
“Non obbligarmi a scrivere a Raoul per dirgli che sua moglie ha una sorella crudele!” urlò ancora.
A quelle parole Meg ebbe un brivido al pensiero che Raoul potesse leggere che lei aveva fatto saltare la loro copertura, lo sapeva, sua madre avrebbe capito, era solo questione di tempo.
“Mamma, ti prego...” singhiozzò sua figlia.
“Non pensare di incantarmi con le lacrime razza di furbacchiona che non sei altro! Apri questa porta subito!” Urlò ancora la donna dando un pugno allo stipite.
Meg non aveva mai sentito quel tono così autoritario dalla bocca della madre e come una bambina andò ad aprire la porta, il collo incassato nelle spalle come se dovesse prendersi una bastonata da un momento all'altro. Sapeva che prima o poi l'infinita pazienza di sua madre si sarebbe esaurita e non poteva accadere in un momento peggiore.
Eloise osservò sua figlia con uno sguardo freddo e gli occhi di quel profondo verde sembravano un oceano in tempesta.
“Maman... io... vi devo spiegare.”
“Direi!” disse di nuovo fredda. Ma dietro quell'apparente tranquillità, si sentiva la voce della donna vibrare per la rabbia e lo sdegno.
“Ecco... Christine è venuta qui perché...”
“Lo so perché è venuta qui! Per la stessa ragione di cui aveva scritto a me, ama Erik, ma io l'ho bruciata quella lettera! Invece tu... tu... - tremò Eloise. - Santo Cielo Meg! Come ti è saltato in mente di istigare tua sorella a tornare da lui! Come? Per quale ragione?” le chiese Eloise stringendole le spalle.
Meg rimase impotente davanti a quelle parole e a quello sfogo a cui si stava lasciando andare sua madre.
“Io, io l'ho fatto per lei...” disse tremando Meg.
“Ma, per l'amore del cielo figlia mia! È sposata! Non può farlo!”
“No, non è vero!” disse Meg.
“Non è vero?” chiese la donna che stava per perdere nuovamente il controllo.
“Ma cosa ti ho insegnato?” chiese Eloise più come denuncia a se' stessa che non a sua figlia.
“Che le persone sposate non devono nemmeno essere prese in considerazione, ma tu sei stata fortunata! Ti sei sposata per amore! Io non potrò più farlo, e nemmeno Christine ha potuto!”
“Lascia stare tua sorella! Lei ha fatto le sue scelte e per tutta la vita ci rendiamo conto di aver fatto delle scelte sbagliate.”
“Io non la penso come te! Io voglio essere felice con la persona che sposerò!”
“E chi vorresti sposare?” chiese sua madre incuriosita.
“Non ha importanza, non posso più farlo adesso...”
“Ma tu ti sposerai e presto! Hai anche ricevuto la sua proposta.”
“Ma io non lo amo!”
“Non sempre si può decidere cosa vogliamo...”
“Certo, tu la fai facile, dopo papà non hai più voluto conoscere uomo. Non puoi capire come mi sento io!”
“Sei innamorata di Raoul de Chagny vero?” chiese sua madre lapidaria, aveva capito.

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Capitolo 9
*** Palchi e Altarini ***


Capitolo 9 - Palchi e altarini

Ophèlie osservò per un po' la schiena di Erik ricurvo sul suo organo poi, convinta che stare lì ad osservarlo non sarebbe servito a niente, decise di imboccare le scale che portavano all'esterno ed entrare di nuovo nell'Opera, tanto per dare un'occhiata. Appena mise piede fuori dal buco praticato nella parete, le bastò poco per trovarsi a poca distanza da quello che aveva usato in precedenza per entrare nel teatro. Mentre si accingeva a farlo, vide delle persone correre sulla strada principale, erano francesi a giudicare dal linguaggio, ma erano armati di forconi e correvano minacciosi verso un punto indefinito che da dove si trovava non poteva vedere. Non si stupiva più delle piccole insurrezioni che l' indisciplinato popolo francese ogni tanto organizzava contro il governo di turno. Era appena passata la Rivoluzione e le cose si stavano ancora lentamente riassestando. Non stette molto ad osservare gli uomini ed entrò ancora una volta nell'entrata che un tempo doveva essere del maestoso teatro. C'era un scalinata enorme che lei salì sentendosi come una principessa. Altre due scale si dividevano e lei prese quella di destra ritrovandosi in quelli che dovevano essere i palchi dei nobili. Solo uno si era parzialmente salvato, ed era quello in cui era entrata lei. Un piccolo numero era inciso sul davanzale dorato, il numero 5. La ragazza seguì le linee del numero col dito e si sentì stranamente osservata, come se qualcuno fosse alle sue spalle. Si voltò, ma non vide nessuno. “Sciocca! Non sei un po' troppo grande per credere ancora ai Fantasmi?” si disse sedendosi su una delle poltrone imbottite. Si vedeva benissimo da lì e guardando verso la platea cercò di immaginare la strada per arrivare al palcoscenico. Quando si alzò trovò una vecchia scatola di cioccolatini appoggiata su un sedile. La guardò e la aprì stupita che quei cioccolatini fossero ancora lì, miracolosamente sopravvissuti. Li annusò, sembravano buoni e dal momento che aveva fame ne prese uno e lo mangiò.
“Buoni!” disse lei ridendo.
“Chissà se è un regalo del Fantasma dell'Opera per me...” disse ancora ridendo divertita di quella stupida idea.

Ci mancò poco che anche Erik non si mettesse a ridere nascosto dietro la tenda. La leggerezza con cui quella ragazza parlava di lui come se fosse solo frutto di dicerie gli faceva quasi tenerezza. Si era dimenticato di aver lasciato quei cioccolatini ad Eloise, allora la Maschera di quel palco, per ringraziarla.
No, non era una sciocchezza, lui lo sapeva. I Fantasmi in quel posto esistevano, lui stesso era il Fantasma dell'Opera. Osservò la giovane che sembrava riempirsi gli occhi anche di quel mondo ormai devastato. Se l'avesse visto ai tempi d'oro probabilmente ne sarebbe rimasta rapita. Sorrise pensando che quella giovane gli stava entrando nel cuore così facilmente che in un altro momento ne sarebbe stato preoccupato, ma non quella volta. Avrebbe dovuto dirle chi lui fosse sul serio, avrebbe dovuto farla fuggire prima che fosse troppo tardi, ma forse lo era già. Solo il fatto che non riuscisse a stare a comporre se lei non era lì con lui era una cosa già abbastanza grave di per se'. Si appoggiò al muro diventando un tutt'uno col nero delle pareti bruciate e lei non si accorse di nulla quando uscì dal suo palco, il palco numero 5.

Ophèlie scese le scale cercando di seguire la strada che pensava portasse al palcoscenico e con sua grande sorpresa ci arrivò passando per i corridoi posteriori al palco. Anche quello era un po' bruciato ma non pensava che un palcoscenico riuscisse a farla sentire tanto euforica anche davanti ad una platea vuota e desolante come quella che le si presentava davanti. Al centro della platea, un enorme lampadario era conficcato tra le poltrone ed intorno ad esso, migliaia di pezzi di vetro brillavano illuminati dalla luce esterna. Si mosse sul quel enorme pavimento di legno camminando lentamente e facendo risuonare i tacchi ad ogni passo. Poi, divertita, si mise al centro del palco e sicura di essere sola iniziò a canticchiare, alzando sempre di più la voce. Era da tanto tempo che non aveva più voglia di cantare. Sapeva di non avere una voce particolare, ma sapeva che quello era il linguaggio del cuore ed in quei pochi giorni, il suo cuore si sentiva rinato. Cantando si mise anche a ballare togliendo fiato al canto, ma senza avere voglia di fermarsi. Cantava e ballava sempre di più, sempre più scatenata finché non sentì un battito di mani provenire dalla platea. Si bloccò immediatamente nel bel mezzo di una piroetta bloccandosi esattamente verso di essa.
Erik stava seduto sorridendo beffardo in direzione della giovane che stava ballando e cantando, dando l'impressione di divertirsi molto.
“Siete una continua sorpresa Mademoiselle...” disse lui ancora battendo le mani ma trattenendo a stento una risata.
“Voi... voi mi avete visto?” chiese la giovane arrossendo per la vergogna.
“Da quando siete salita al mio palco...” disse.
“Il vostro palco?”chiese Ophèlie osservando con sufficienza il suo interlocutore.
“Si, quello da cui osservavo le performance degli attori che lavoravano qui.”
“Oh, e come mai un riccone come voi si è ritrovato a rifugiarsi in un sotterraneo?” chiese caustica la giovane.
“È una lunga storia...” disse questa volta impacciato Erik.
“Io non ho fretta...” disse la ragazza scendendo le scalette e sedendosi sul palco per ascoltare la storia di Erik.
“Booom” un boato riempì la sala dell'Opera facendoli spaventare. Ophèlie balzò giù dal palco con un salto ed Erik si alzò di scatto correndo istintivamente verso la ragazza. Un altro boato, più vicino li fece correre via da lì ed Ophèlie seguì Erik per dei cunicoli finché non ritornarono alla casa sul lago.
“Ma cosa sta succedendo?” chiese Ophèlie spaventata.
“Devono essere i tedeschi!” disse lui.
“I tedeschi?” chiese la ragazza spersa.
“Si, i tedeschi, ci stanno assediando da alcuni mesi ormai, non ve ne siete mai accorta?” chiese lui.
“Sapevo che ci stavano assediando ma non avevo idea di chi fossero e cosa volessero.”
“Parigi, ecco cosa vogliono, dal momento che gli spetterebbe dopo aver vinto. Ed il nostro governo è tanto spaventato da noi parigini insurrezionali che ha preferito affamarci e cercare un armistizio coi tedeschi piuttosto che lasciare a noi il governo della città come gli era stato richiesto.”
“Anche questo lo sapevo.”
“Allora di grazia mi spiegate perché avete chiesto cosa stesse succedendo?”
“Non so cosa sia stato quel boato.”
“Un bombardamento suppongo.” disse l'uomo come se stesse parlando ad una bambina.
“Era molto vicino...”disse la ragazza osservando il soffitto della caverna.
“L'Opera! - esclamò Erik. - restate qui!”
“No che non resterò qui! Se bombardassero?”
“Santo Cielo quanto siete testarda Mademoiselle. Va bene, venite... ma statemi vicino!”
Ophèlie sorrise maliziosamente pensando che stare vicino a quell'uomo affascinante era l'unica cosa che avrebbe voluto fare per tutta la vita. Lo strinse forte ad altezza del petto impedendogli di respirare.
“Non così vicino Mademoiselle!” disse Erik col fiato corto per la sorpresa, la forza della stretta e l'emozione di essere abbracciato con tanta foga.
“Oh, perdonatemi...” disse la ragazza sorridendo divertita.
“Vi state prendendo troppa confidenza...” disse Erik preoccupato.
“Chiedo venia, ma non vorrei che il Fantasma dell'Opera arrivasse fin quaggiù...” disse ridendo la ragazza.
“È già quaggiù...” disse Erik sottovoce.
“Come dite?” chiese la giovane.
“No niente, ho detto... non verrà quaggiù, ci sono io a proteggervi.” disse ridendo.
Quanto si odiava a doverle mentire in quel mondo, avrebbe dovuto sapere, glielo avrebbe detto il prima possibile... ma non quella sera.
Quando uscirono dalla grotta per vedere cosa stesse succedendo, il sole aveva già il colorito aranciato del tramonto. Gli sembrava incredibile quanto velocemente passassero le sue giornate quando era con lei. Erano le 16.30 del pomeriggio, ma nelle giornate invernali di Gennaio il tramonto arrivava sempre presto. Appena misero il naso fuori dal ventre accogliente di pietra, davanti a loro si presentò il caos più completo. Gente che scappava terrorizzata dai bombardamenti, uomini che giacevano a terra feriti, donne che fuggivano inseguite da uomini dai tratti troppo duri per essere francesi. Persone del popolo che marciavano armate, fumo, tanto fumo nero. I due si mossero ancora un po' verso la piazza principale dove cercarono di capire se l'Opera avesse sùbito danni. Pareva di no, ed una volta tranquillizzato, Erik, tenendola sempre per mano, tornò verso casa.
Grida di donna arrivarono alle orecchie di Opheliè che si voltò appena in tempo per vedere degli uomini maltrattare una giovane seduta per terra. La prendevano a calci e le alzavano la gonna ridendo della povera che, terrorizzata, non sapeva più cosa fare.
“Erik!” disse Ophèlie che in quel momento rivisse tutto il terrore di quella terribile sera. Strinse forte la mano dell'uomo che si voltò e la vide guardare la scena cruenta alle sue spalle. Allora la strinse a se', premendole forte il viso sul petto come quella notte e di nuovo si sentì sciogliere al pensiero di essere lì a proteggere quel giglio.
“Non guardare, sono qui.” le disse.
La ragazza piangeva, ma la donna non subì altre violenze, perché appena i due si distrassero trovò la forza di scappare via come una lepre ed Erik sentì i due dire qualcosa in tedesco.
“Non le hanno fatto niente, è scappata... state tranquilla, sono qui.”
“Vi prego Erik, promettetemi che non mi abbandonerete” singhiozzò la ragazza.
“No mai, ve lo prometto.” ed i loro occhi si incrociarono e per un brevissimo istante le loro labbra si trovarono pericolosamente vicine.
“Boooom.” Un altro bombardamento ed i due si risvegliarono bruscamente da quel sogno.
“Andiamo... è pericoloso stare qua fuori.” disse brusco Erik, ma qualcosa nel suo cuore stava andando nel verso sbagliato. Tenne ancora la piccola mano della donna e si sentì bene... troppo bene.
Era tardi, le si stava affezionando.

La notte aveva il profumo acre del bruciato e Christine, mentre camminava intorno al quartiere si sentiva come se fosse lei a bruciare per l'emozione di quello che avrebbe fatto il giorno dopo. Canticchiava la sua canzone:

“Close your eyes and surrender to your darkest dreams...
Purge your thoughts of the life you knew before!
Close your eyes, let your spirit start to soar!
And you'll live as you've never lived before . . .

The darkness of the music of the night...

Floating, falling, sweet intoxication,
Touch me, trust me, savor each sensation...”


Non vedeva l'ora di riassaporare quelle stesse sensazioni che l'avevano spaventata tempo prima ma che le mancavano tanto.

Mentre cercava di recuperare il corpino dell'abito di Ophèlie, Eloise pensava. Ringraziò il cielo di avere qualcosa da fare, perché quello che aveva appena scoperto era stato traumatico. Sua figlia non aveva risposto alla sua domanda, ma il suo sguardo aveva parlato più di mille parole. Al che se ne era andata, consapevole di essere impotente anche quella volta.
Strappò con decisione l'attacco della gonna al corpino e sentì il tonfo di qualcosa di pesante cadere per terra. Alzò l'orlo dell'abito che aveva tra le mani e per terra vide un sacchettino dello stesso colore della gonna, che lasciava intravedere quella che sembrava una piccola scatola di legno. Posò l'abito da cui ormai cadevano molti strati di sottogonna sul suo letto e si chinò per prendere il sacchetto. Non era un sacchetto, era un pezzo di stoffa che era stato cucito direttamente all'interno dell'abito a giudicare dal filo che pendeva dalla chiusura. Prese tra le mani la scatola e la osservò. Riusciva ad immaginarla nella casa di un Signore importante, non nascosta tra le gonne di una giovane mendicante. Pensò che Ophèlie l'avesse rubata, ma mentre la rigirava tra le mani, l'apertura della scatola scattò, aprendosi come un'ostrica. Eloise rimase attonita ad osservarla. Quando se la avvicinò agli occhi, rimase sconvolta da quello che vide. La scatola proteggeva un sigillo di cera ancora perfettamente intatto, un sigillo che avrebbe riconosciuto subito: “Il Sigillo degli Chagny”.
“O mio Dio!” disse la donna avvertendo un colpo al cuore, che fosse quello il sigillo di cui Ophèlie le aveva parlato poco tempo prima? “No, non può essere...” boccheggiò la donna ricordando il triste racconto della giovane. Invece si, non poteva essere diversamente, ricordava il cognome della ragazza: “Depuy” non “De Chagny”. Si sedette sulla sedia vicino al suo tavolo da toeletta col fiato corto e vide il suo volto provato e sconvolto riflesso nello specchio. Prese tra le mani il sigillo per accertarsi che i suoi occhi non l'avessero ingannata, ma il sole, la luna e le due figure al centro dello scudo con le stelle erano inconfondibili... era lui.

Anche quella mattina Erik la passò a comporre seduto al suo organo. Non passò molto tempo prima che la giovane decidesse che sarebbe stato più divertente vagare per l'Opera anziché stare a fissare la schiena di un uomo che pareva non accorgersi nemmeno della sua presenza. Stava iniziando seriamente a considerare l'idea di andarsene, ma le parole che Erik le aveva detto tempo prima la facevano sempre tornare a ragionare. Una cosa però poteva farla... poteva cercare qualcosa per potersi fare un letto in modo da evitare ad Erik scomodi pisolini su una poltrona, oppure crearsi uno spazio tutto suo che non interferisse con quello del suo salvatore. Poteva cercare tra le camere intatte, sempre che ve ne fossero, una da poter utilizzare in modo tale da essere meno d'impaccio per lui. Quanto le dava fastidio averlo sempre in mente, avere sempre voglia di farlo sentire a suo agio e ricordarsi il suo sguardo smeraldino ogni volta che chiudeva gli occhi. Sospirò ed Erik si voltò preoccupato.
“State bene?” chiese.
“Oh, si. Si sto bene, non preoccupatevi... vado a fare un giro per il teatro.” disse lei sorridendo.
“Non uscite da questo posto... avete visto cosa sta succedendo...” disse ancora Erik.
“Agli ordini...” disse la donna sorridendo maliziosamente e facendo un leggiadro inchino al suo interlocutore.
Erik alzò gli occhi al cielo, ma gli piaceva molto avere una donna che gli girava per casa, anche se aveva quel corpo e quelle curve che ogni tanto lo turbavano. Lei non aveva paura di lui, era strano, non c'era abituato ed il suo umorismo era certamente fuori dal comune. Sorrise tra se' e se' prima di ricominciare a scrivere dolci note sulla carta. Il suo protagonista stava parlando alla luna della giovane che aveva conosciuto, una ragazza straordinaria, che era entrata nella sua vita nel modo più inaspettato. Sorrise ancora, quel protagonista era lui.

La ragazza strinse gli occhi colpita dalla forte e fredda luce del mattino. Respirò l'aria di neve che profumava la città, spazzando via l'odore acre dei bombardamenti. La terra sollevata dalla strada brillava alla luce e quello stesso strano baluginio l'accompagnò all'interno del salone dell'Opera.
“Bene, da dove comincio?” si chiese la ragazza osservandosi pensierosa intorno. Quel posto non andava bene per le sue esigenze, era troppo accessibile e senza protezioni. Passeggiando per le camere sul corridoio che l'aveva accolta al suo primo ingresso in quel teatro, incappò in una scaletta che portava a quello che sembrava un piano superiore. Non le piaceva girare per quel posto senza la guida di Erik ma non poteva disturbarlo, non voleva. Sembrava così a suo agio davanti a quell' organo. Salì con cautela la scala di pietra, reggendosi saldamente al corrimano finché non si trovò in un'ala dell'Opera che sembrava miracolosamente scampata alle fiamme. Il fuoco lassù aveva solo annerito le tende e gli arazzi . I muri non erano dipinti ma coperti da una carta da parati di ottima qualità, di quello che doveva essere stato un bellissimo color smeraldo. La giovane accarezzò la carta, dove i disegni floreali erano leggermente in rilievo e si perse ad immaginare cosa avesse voluto dire lavorare e vivere in quel posto. Il piano superiore non era molto grande, ma era tempestato di piccole stanze le cui porte aperte mostravano mobili di stile povero e letti, illuminati dalle piccole finestre ad arco. Bene, aveva solo l'imbarazzo della scelta! Guardò tutte le stanze ma fu una sola ad attirare la sua attenzione. Era una stanza nascosta alla vista dalla scala poiché il muro portante ne celava la vista chiudendola in un abbraccio rassicurante. Il pavimento era di legno ed il letto aveva ancora le coperte su di esso, sembrava quasi che qualcuno la tenesse pulita e in ordine. Il letto era in mezzo alla stanza, aveva una struttura massiccia e davanti ad esso c'era un armadio lucido, di legno scuro. Accanto al letto c'erano un comodino da una parte e uno scrittoio dall'altra, mentre il tavolo per la toeletta era sistemato vicino alla finestra. Vi entrò e si sentì come se in quel posto fosse accaduto qualcosa di speciale, che non sapeva spiegare, come se fosse una tessera del mosaico della vita di Erik che stava tentando di ricostruire.
Mentre si guardava intorno mise un piede su qualcosa di scivoloso. Guardò in baso e vide una lettera.
Era listata di nero e non aveva intestazione, curiosa la aprì. Una scrittura che le parve di aver già visto riempiva la lettera di parole d'amore, di passione, di qualcosa di tanto forte da sembrare impossibile da provare. Poi vide la firma.

Tuo per sempre,
Erik.


La ragazza sussultò. Allora ecco chi era Christine per Erik! Era la sua amata, la sua Musa, il suo piccolo Angelo. Era vero allora... lei gli aveva spezzato il cuore, lo aveva abbandonato... era lei la persona che lui aveva amato e che lo aveva tradito. Tutto d'un tratto sentì un'ondata di bile salirle in gola. Non capiva come mai si sentisse così stranamente aggressiva dopo quella scoperta, e piccole lacrime le scesero dalle ciglia al solo pensiero di veder soffrire Erik. Si mosse verso lo scrittoio con l'impressione che avrebbe trovato qualcosa di interessante e tentò di aprirlo. Era chiuso a chiave. Osservò la serratura ed estrasse il pugnale dallo stivaletto. Con un colpo secco riuscì a far saltare la serratura e ad aprire lo scrittoio. Era arrabbiata, con se' stessa e con Erik, perché non aveva voluto dirle subito come stessero le cose, chi fosse quella ragazza che implorava il suo nome in una via di Parigi. Quando aprì lo scrittoio al suo interno vi trovò una cartellina di pelle, chiusa e completamente contornata con un pezzo di tulle bianco.
“Nauseante...” si lasciò sfuggire la ragazza. La aprì. Al suo interno c'erano lettere, lettere scritte da una mano molto giovane, da una bambina probabilmente.

“Caro papà,
chissà se da lassù potrai leggere questa lettera ma dovevo dirtelo, dovevo ringraziarti.
L'Angelo della musica è arrivato sul serio, lo sento la notte cantare dolci ninne nanne per me. Mi fa sentire meno sola , soprattutto perché so che è buono, perché l'hai mandato tu.
Mi manchi papà, ma so che sei qui con me, sei lui, tu sei l'Angelo della Musica.”


Ophèlie lesse quelle parole rabbrividendo. Un Angelo della Musica, che era il padre di Christine che cantava ninne nanne nella notte?
“Povera bambina...” disse la ragazza pensando che quella lettera fosse solo il frutto della fervida immaginazione di una bambina, distrutta dalla perdita del padre. Lei non capiva un sentimento simile, lei era arrivata a detestare suo padre per quello che aveva obbligato sua madre a fare. Ciò nonostante, richiuse la cartellina rimettendoci dentro la lettera. Quella che aveva trovato per terra però la nascose nel corpino e decisa, scese di nuovo le scale per tornare da Erik.

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Capitolo 10
*** ... e ritorno a te ***


Ciao a tutti. Ecco qui un nuovo capitolo. Mi piacerebbe veramente tanto leggere qualche vostra impressione e qualche recensione, tanto per raddrizzare un pò il tiro, cosa di cui, quando si scrive, si ha sempre bisogno.

Capitolo 10 - ... E ritorno a te.


“Luna, la conosci la mia Jacqueline? Ha i capelli color dell'oro e gli occhi sono il nettare della mia anima vuota e triste. La pelle è d'avorio e il profumo è quello dei fiori appena sbocciati e di frutta appena raccolta. È bella sai? Ma parlo a te, che voli sopra i tetti di Parigi, così lontana e sola senza il Sole. Così mi sento lontano da lei, come te che vivi il tuo amore impossibile col Sole, col quale ti insegui perennemente senza mai poter giacere con esso. Lei non sa ch’io sia e non giacerà mai con me Luna, come tu non lo farai mai col Sole, perché lei è luce ed io sono tenebre.”

Rilesse ad alta voce quel pezzo, beandosi della sua perfezione.

“Luce e tenebre sono due parti dello stesso cielo, non te lo ricordi?”
Erik sollevò il volto dal suo foglio, pensando che quella dolce voce fosse quella della donna che lo stava ispirando, ma non era lei.
Lunghi e ricci capelli color marrone, uno sguardo da bambina ed un sorriso dolce come il miele.
“Christine!” boccheggiò l'uomo alzandosi.
La ragazza sorrise, finalmente felice come non si era mai sentita. Si avvicinò ad Erik pensando che il suo Angelo della Musica l'avrebbe stretta a se', ma non accadde. Rimase fermo ad osservarla con le braccia incrociate sul petto ed il viso indurito.
“Cosa vuoi ancora da me? Non ti sei stancata di tormentarmi?”
La ragazza sentì il cuore spezzarsi e gli occhi bruciare di pianto. Tentò di resistere. Lo aveva sognato quel momento, da mesi, ed ora era lì e tutto stava andando nel verso sbagliato. Sapeva che la prima reazione di Erik non sarebbe stata delle migliori, ma nel suo cuore sapeva che non poteva averla dimenticata perché lui l'amava e l'avrebbe capita, o almeno così pensava. Nonostante ciò non riuscì a frenare una grossa lacrima che le scivolò silenziosa sulla guancia come ad alleviare il dolore di quella frase che le aveva colpito il volto come uno schiaffo.
No, le lacrime no! Aveva sopportato tutto: il suo rifiuto, il suo sguardo d'odio, di pena e commiserazione, aveva sopportato di essere abbandonato, ma le sue lacrime no; quelle non aveva mai imparato a sopportarle.
“Erik, mi dispiace.” disse la giovane col tono incrinato dal pianto.
“E di cosa ti spiacerebbe di grazia?” chiese lui cercando di non farsi toccare dalla lacrima che le era rotolata via dagli occhi.
“Di averti abbandonato. Erik, io... io... non so nemmeno cosa sono venuta a fare qui, non so cosa mi abbia spinto a tornare e.. e pensare che non fosse cambiato niente. - disse la giovane frustrata, sapeva che lui aveva ragione. - Volevo solo rivederti e magari sentire ancora uno dei tuoi abbracci protettivi, volevo solo rivedere il tuo volto e risentire la tua voce... mi manchi.” disse lei guardandolo negli occhi.
Ma Erik non fece caso alle parole egoiste che la ragazza aveva appena pronunciato, senza farselo ripetere due volte le prese le spalle e la strinse a se'.
“Mio piccolo angelo, sei tornata da me!” disse lui piangendo di gioia tra i capelli della ragazza e i loro pianti si unirono in uno solo che si alternava ai sorrisi e alle parole sconnesse pronunciate tra una lacrima e una risata.
“Erik, mi ami ancora?” chiese lei contro il suo petto.
“Oh mio piccolo angelo, certo che ti amo!” ma quelle parole gli sembravano pronunciate da qualcun' altro che non era lui, come se provenissero da un angolo remoto della sua anima ma non appartenessero appieno a quel nuovo Erik. Non importava, ci avrebbe pensato dopo, ora voleva gustarsi quell'abbraccio e non staccarsi mai più da quel tenero corpicino. Avrebbe voluto dire qualcosa ma non fece in tempo perché le labbra di Christine soffocarono ogni parola, ogni ribellione, ogni pensiero.
Si persero uno nell'anima dell'altra, in un bacio che aveva un sapore diverso da quello datogli per pena. Era un bacio vero e Christine si sentì fluttuare in aria dalla forza, dall'urgenza e dal calore di quello scambio. Poi, inaspettatamente, la giovane insinuò le mani sotto la camicia di Erik e lui si staccò da lei, spaventato.
“Cosa fai?” chiese lui col fiato corto per la sorpresa e la passione.
La ragazza allora si rese conto e lasciò la presa sul corpo dell'uomo.
“Scusami io.. io...” disse lei arrossendo violentemente.
“No, scusa, solo che... ” e tossicchiò cercando di recuperare le capacità intellettive che gli erano state strappate via così violentemente, trasformandolo in un uomo che non voleva essere, non con lei.
“Erik, perdonami.” disse la ragazza. Ma quella volta furono le labbra dell'uomo a non permetterle più parole e quella volta, nessuno dei due si spaventò.

Quella rampa di scale sembrava non finire mai, più aveva fretta di arrivare da qualche parte più la strada le sembrava interminabile. Quando finalmente mise piede sul pianerottolo che portava al corridoio sospirò di sollievo, ci avrebbe messo molto meno quella volta, sapeva a cosa fare attenzione ormai. Si era tolta le scarpe per evitare di scivolare lungo la scalinata di pietra con le suole consumate. Si addentrò nel corridoio ma si bloccò non appena sentì voci provenire da qualche angolo nascosto del corridoio. Erano dei rumori strani, quando si mosse più avanti notò che in corrispondenza della stanza in cui sarebbe dovuta andare per tornare da Erik c'era quello che sembrava un ammasso di tessuti. Poi sentì dei gemiti e vide dei movimenti inconfondibili giungere da quel cumulo di tessuti. Aveva visto quella stessa smania, sapeva cosa stava succedendo e le teste bionde dei due protagonisti la fecero subito pensare ai giovani che aveva visto nel cunicolo, Meg e Raoul.
“Raoul, quanto ti amo.!” riconobbe quella voce e vide anche che Raoul in quel momento stava sollevando la testa, non doveva farsi vedere. Corse via, cercando di fare meno rumore possibile anche se dubitava che si potessero accorgere di qualunque cosa. Si ritrovò nel Salone dell'Opera e corse verso l'apertura che l'avrebbe riportata alla luce, fuori da lì. Ma ad un tratto, il pavimento cedette sotto i suoi piedi e poco dopo, sentì il tonfo della chiusura di una botola sopra la sua testa.

Cadde con forza su un pavimento freddo e batté le ginocchia. Per un attimo rimase bloccata carponi per resistere al dolore e non farsi sopraffare dal pianto e dalla sorpresa. Era completamente al buio. Cercò di abituare gli occhi, ma l'oscurità era troppo profonda, troppo in contrasto con la luce esterna per potersi abituare velocemente... si sentiva cieca. In preda al panico si mosse dritta davanti a se' e batté la testa tanto forte che un tonfo sordo risuonò lungo la parete, un suono simile a un urto contro una superficie di vetro. Alzò lo sguardo tentando di percorrere quella strana parete. La toccò, era liscia. Tastò intorno a se' per trovare un'apertura che le permettesse di uscire da quel luogo, ma non c'era niente. Innervosita da quella gabbia batté i pugni contro quello strano muro, tanto forte che ebbe paura di romperlo. Poi d'un tratto quel luogo si riempì di luce. La ragazza si guardò intorno spersa, questa volta abbagliata. Quando riuscì a vedere di nuovo, le sembrò di trovarsi in una foresta. Piante molto folte ricoprivano la parete che restava però liscia come l'olio. Abbassò lo sguardo e notò che il pavimento era di pietra e capì che quella era una stanza, ed era esagonale. Si accoccolò in un angolo, spaventata e pensierosa. Doveva esserci un'uscita maledizione! Osservò ancora in alto, ma la botola in cui era finita dava l'impressione di scendere di parecchi livelli sotto il pavimento dell'Opera. Più tempo passava lì dentro più le sembrava di impazzire. Cosa stava succedendo? Dove si trovava? Tutto d'un tratto avvertì molto caldo e la gola le si seccò istantaneamente, sia per la paura che per la sete. Non capiva cosa le stesse succedendo, il muro rovente le stava bruciando la schiena. Si staccò da lì e si spostò al centro della stanza, guardandosi intorno come un animale in gabbia. Poi trovò la forza di alzarsi: dov'era finita? Doveva trovare un modo per uscire da lì. Mise una scarpa con la punta nella direzione in cui aveva battuto la testa e si avvicinò risoluta, all'altro lato della parete. Prese una boccata d'aria calda che le bruciò la gola, ma non curante allungò le mani verso un pannello. Appena le dita toccarono la superficie rovente la ragazza urlò. Non sapeva più cosa fare, il panico la stava pervadendo, di lì a poco non sarebbe stata più in grado di ragionare, lo sapeva. Poi vide quello che sembrava il riflesso di una pozza d'acqua, il rumore di una fonte fresca. Girò su se stessa cercando di capire da dove provenisse quel rumore, ma non c'era nulla, solo lei, i rami ed il caldo. Rimase bloccata al centro della stanza, impotente, ormai la sua mente stava cedendo. Vedeva il volto di Erik, sentiva il suo profumo, il suo sorriso e tutto si mescolò in una macchia che si materializzò nella sua mente. Chissà se avrebbe sentito la sua mancanza... poi d'un tratto pensò che magari l'avrebbe sentita se avesse urlato:
“Aiuto!”.
Ma l'eco delle sue grida rimbombò nella stanza facendola impazzire. Sentiva l'eco della sua voce ovunque, “Erik, Erik... Erik...” Doveva averla sentita! Doveva sentirla! Non poteva farla morire così!
“Erik!”

“Erik!” Gridò una voce spaventata.
I due si voltarono in direzione del suono. Christine si allontanò da lui come se fosse stata punta da un'ape. Chi era quella donna? L'uomo si rimise la camicia che lei gli aveva tolto e rimase ancora in ascolto. “Erik, aiuto!” era Ophèlie. Senza sapere come mai, la parte di se' che aveva messo a tacere poco prima prese il sopravvento e la sua mente corse alla ragazza che stava implorando il suo aiuto.
“Forse... forse è meglio che tu ora vada...” disse lui confuso ed imbarazzato a Christine. Per il momento non c'era tempo per lei. Senza pensare, corse verso la voce di Ophèlie, abbandonò lì la sua musa e sparì nel nulla.

Una donna! Era meglio evitare di farsi trovare lì, così la Viscontessa prese il suo mantello ed uscì dalla scala di Rue Scribe da cui era entrata. Era confusa, non sapeva cosa le fosse successo, le sembrava di essere impazzita tutto d'un tratto. Cercò di allontanare dalla sua mente ogni domanda, non le interessava, rivoleva Erik e se lo sarebbe ripreso! Sarebbe tornata presto da lui, non voleva perderlo di nuovo.
Uscì alla luce del sole e quando fece per svoltare nella Piazza dell'Opera, vide che qualcuno stava uscendo dal teatro diroccato. Curiosa rimase dietro l'angolo per capire chi fosse ad azzardarsi là dentro dopo tutto quello che era successo. Fu un colpo quando riconobbe la persona: “Raoul!” esclamò, ed aderì al muro per evitare di farsi vedere da suo marito. Cosa ci faceva all'Opera? Glielo avrebbe chiesto, poi la voce dell'inconscio le disse: “E tu cosa ci facevi all'Opera?”. Era vero, non poteva dirgli nulla, doveva aspettare, doveva capire cosa lui le nascondesse.

“Vi prego aiutatemi!” urlò ancora Ophèlie in preda al panico, in un ultimo tentativo di farsi sentire prima si svenire. Poi, un lazzo le penzolò davanti agli occhi, spaventandola e facendola sbattere contro la parete rovente. Con uno scatto si staccò da essa, ed osservò atterrita la corda davanti a se'.
“Ophèlie!” sentì la voce di Erik provenire da fuori.
“Erik!” urlò esultando la ragazza, poi d'un tratto la luce si spense e la ragazza si ritrovò ad osservare il buio, cieca. Poi un rumore da fuori e la luce che filtrò all'interno.
“Ophèlie!” sentì ancora l'uomo dire il suo nome con apprensione.
“Erik!” la ragazza corse fuori da quella stanza, si buttò contro il petto dell'uomo e lo strinse forte a se'.
“Grazie!” sussurrò la giovane posando la testa nell'incavo della sua spalla.
Così Erik si ritrovò ancora la giovane tra le braccia, e sentire la pelle bollente del petto di Ophèlie aderire alla sua, gli diede un brivido. La strinse forte finché lei non si rese conto del petto statuario dell'uomo privo di camicia. Sentì gli occhi caderle su quello spettacolo, ma Erik la chiuse, e dandole le spalle iniziò ad armeggiare coi bottoni.
“Perdonatemi...” disse lui.
La giovane era senza parole... si stava cacciando in un bel guaio.

Erik marciava per i corridoi scuri dell'Opera con una spaventatissima Ophèlie al seguito che gli teneva un braccio per non perdersi in quel posto.
“Che cos'era quel luogo?” chiese la giovane mentre correva dietro il passo spedito di Erik, ma lui non rispose. Era troppo impegnato a darsi dello stupido per tutto quello che in poche ore era successo. Dio, stava componendo per Ophèlie e si era fatto ingannare da uno sguardo dolce e un'introspezione che ora gli sembrava quasi sciocca. Non sapeva se amava ancora Christine, ma a giudicare dalla sua reazione sembrava di sì. Si sentiva così fragile, diviso tra quelle due donne, così sciocco ed infantile a perdersi dietro una ragazza che gli aveva mostrato un po' di affetto e comprensione, quella stessa ragazza che era appena finita nella camera dei supplizi. Avrebbe dovuto cementare quella botola, ma dopo quasi un anno passato solo in quel teatro, gli era sembrato inutile. Anzi, il Fantasma dell'Opera pensava che dovesse essere sempre tenuta efficiente, ma ad Erik non interessava più proteggersi.
Ophèlie non parlò più, lo fece solo quando arrivarono alla casa sul lago, sedendosi su uno sgabello davanti all'organo dietro il quale l'uomo era di nuovo seduto.
“Erik, che posto era quello?”
“Un posto orribile, che avrebbe dovuto essere distrutto molto tempo fa.” disse Erik grave.
“E cosa ci fa una... una... cosa come quella dentro un Teatro?” chiese ancora la ragazza, incapace di definire a parole quello che poteva essere quello strano posto.
“Una precauzione contro i ladri... l'ho progettata io” disse Erik titubante, sperando che in qualche modo la ragazza capisse cosa stesse cercando di dirle.
“Scusatemi Erik, ma sembrava un bosco! Le piante non possono sopravvivere al buio...”
“Siete sagace Mademoiselle, virtù che non sempre si apprezza nelle donne...” disse Erik cercando di deviare il discorso.
“Monsieur, vi ringrazio per avermi riconosciuto tale virtù, ma non trovo molto onorevole da parte vostra trattarmi così! - disse la ragazza grintosa. - Sono appena stata in un luogo orribile di cui non volete parlare ed osate anche trattarmi come un'inetta... mi stupisce che siate stato capace di innamorarvi...” disse la ragazza tirando fuori dal corpino la lettera che aveva trovato.
Erik alzò lo sguardo dallo spartito. Vedendo il gesto della ragazza si ricordò quelle sensazioni strane ed il fatto di aver immaginato quel corpo tra le braccia mentre baciava Christine. Sentì una fitta al cuore quando riconobbe la lettera listata di nero che la ragazza stava leggendo.
“Tuo per sempre Erik...” concluse.
Ophèlie osservò sottecchi la reazione dell'uomo e notò che, anche al buio, aveva assunto una tonalità troppo accesa per essere normale. Sapeva di non avere il diritto di inquisirlo in tale modo, ma quelle parole erano state come uno schiaffo per lei, lei che più tempo passava con quell'uomo, più ne restava affascinata. Erik non rispose, si limitò ad osservarla, pronto a dirle come stessero le cose, ma le parole gli si bloccarono in gola... fu lei a riprendere:
“Dovevate proprio esserne innamorato...” disse la ragazza osservando teneramente quelle parole, ma non ebbe il coraggio di leggere la verità nelle pozze verdi di quello sguardo.
Erik le avrebbe voluto dire che no, non era così, che lei occupava i suoi pensieri molto più di quanto facesse Christine, ma non ci riuscì... dopotutto, se lei non fosse stata in pericolo, non si sarebbe limitato ad un bacio passionale con il suo Angelo.
La ragazza ascoltò il rumore di quel silenzioso assenso percependo una fitta al cuore, come un lama. Tanto valeva andarsene, quell'uomo non si sarebbe mai fidato di lei e tanto meno si sarebbe mai potuto innamorare di una perfetta sconosciuta che gli occupava la casa. Si alzò e lasciò la lettera sul tavolino degli scritti, poi si voltò verso Erik e gli disse:
“Sappiate che Raoul de Chagny era qui con Meg...” e detto questo fece per andarsene. Erik si alzò di scatto facendo suonare malamente le corde dell'organo.
“Christine!” esclamò.
“No, sono Ophèlie!” rispose secca la ragazza.
Poi Erik iniziò a muoversi per la stanza, come fosse febbricitante. Balbettava e passava da una parte all'altra dell'organo, girandogli intorno, muovendosi per la sua casa. Ophèlie lo osservò quasi spaventata.
“Ma no, ma no... ma cosa... oh, la mia povera Christine tradita dall'uomo a cui l'avevo affidata! Però è anche vero che lei ha voluto fuggire con quel ragazzino insolente quindi le sta bene. Ma no! Ma io la amo, anzi, non lo so se la amo... anzi... forse... oh il mio piccolo angelo! L'ho lasciata nelle mani di quell'approfittatore che voleva condividere il mio trionfo! Oh ma come ho potuto, come ho potuto, povera Christine, povero angioletto.” Poi si sedette ed iniziò a piangere.
La giovane lo osservò attonita, incapace di decidere se dargli conforto o lasciarlo lì, a disperarsi pensando a quella donna. Non poté evitare di sentire la bile salirle in gola. Detestava quella ragazza! Le aveva salvato la vita, ma aveva fatto male. Avrebbe dovuto lasciarla lì, per strada, al freddo e al gelo. Se non l'avesse aiutata non avrebbe avuto nessun problema... ma forse non avrebbe nemmeno incontrato Erik. A quel pensiero sentì il cuore stringersi e l'impulso di avvicinarsi a lui per offrirgli un po' di conforto fu forte. Poi, l'immagine dell'uomo che lui diventava quando parlava di Christine la colpì con forza, indignandola. Si limitò ad avvicinarsi e ad accarezzargli una spalla, poi, sparì oltre la tenda che portava alle scale.

Christine camminava circospetta per le strade di Parigi, la neve stava scendendo leggera poggiandosi sul selciato. Faceva molto freddo e non vedeva l'ora di trovarsi di nuovo a casa sua, al caldo, davanti ad una tazza di the'.
Quando voltò l'angolo, vide che in mezzo alla strada davanti a casa sua c'era tantissima gente. Si chiese cosa fosse accaduto ma non capì subito che quella gente era la sua servitù. Quando se ne rese conto, corse verso il capannello di persone che osservavano attoniti quello che sembrava un orribile spettacolo. Si avvicinò ancora fino a raggiungerli e là vi trovò Elenoire, la sua domestica, accasciata per terra, col viso tra le mani, persa in singhiozzi che le scuotevano il corpo dalla testa ai piedi.
“Elenoire! - sussurrò Christine - cosa è accaduto?”.
La donna alzò un braccio dritto davanti a se' e quando Christine alzò lo sguardo verso casa sua si sentì morire... era stata bombardata! Cadde sulle ginocchia accanto ad Elenoire e rimase ferma immobile, a vedere quella che era stata casa sua bruciare. In quel momento i ricordi peggiori che avesse mai avuto, tornarono ad affollarle la mente, soffocandola. Ricordò la furia di Erik, ricordò il teatro andare a fuoco, ricordò tutto così bene che si chiese cosa l'avesse spinta a tornare da quel pazzo! Ma non poteva farci niente, l'amava e non aveva intenzione di separarsi ancora da lui.
Di lì a poco Christine sentì i passi che aveva imparato a riconoscere raggiungerla alle spalle. La mano di Raoul le si posò su una spalla e lei si alzò.
“Raoul, la nostra casa!” gemette la donna.
“Non preoccuparti mia piccola Lotte - rispose stringendola a se' - mio padre ci ha lasciato alcune case ed una è proprio poco lontano da qui...” proseguì. Christine si sentì morire al solo pensiero di dover lasciare quella casa e doverne fare sua un'altra. Si abbandonò in lacrime sulla spalla di Raoul, che tenendola, la riportò dentro per iniziare a recuperare le loro cose.

I passi della donna si allontanarono e poco per volta Erik riprese il controllo di se'. Sollevò lo sguardo dall'organo e lo fece cadere sulla lettera che Ophèlie aveva lasciato sul tavolino. Si, l'aveva amata molto Christine, ma non avrebbe mai pensato di potere mettere in discussione il suo amore per lei per via di un'altra donna. Sospirò e si guardò intorno preoccupato. Dov'era finita?
“Ophèlie?” chiese al vuoto, ma non ricevette nessuna risposta.
“Ophèlie!” richiamò ancora e questa volta la sua voce rimbombò nella caverna.
Sentì dei passi correre giù per le scale e vide la tenda aprirsi. “Cos'è successo?” chiese spaventata la ragazza.
“Non è successo niente, perdonatemi, speravo solo di non avervi spaventato e fatto fuggire con la mia reazione...” disse Erik in difficoltà, stupito lui stesso di quella premura e dello smarrimento provato nel non vederla lì con lui.
Il viso della ragazza si distese e lo sguardo si addolcì nell'osservarlo.
“No, non mi avete spaventato... - disse lei sorridendo dolcemente. - Venite a vedere, nevica!” disse poi allungando una mano verso l'uomo. Erik si mosse verso di lei e presole la mano, lasciò che facesse strada su per la stretta scala. Ciò che si presentò davanti a lui fu una cosa strana. La luce rossa del tramonto e dei bombardamenti faceva sembrare il cielo insanguinato, ma la candida neve pareva passare su quell'enorme ferita a lenirne il dolore, così come Ophèlie stava lenendo il suo dolore e curando le cicatrici profonde che portava nel cuore. Rimasero molto ad osservare il tramonto, senza parlare, solo riempendosi gli occhi di quello spettacolo.

Avevano passato tutta la giornata a spostarsi nella casa di cui Raoul le aveva parlato, meno signorile rispetto a quella in cui era abituata a vivere, ma comunque un tetto sopra la testa. Sentì il cuore stringersi al ricordo di quello che aveva visto ed una grossa lacrima le rigò il viso al pensiero di cosa era successo. Era stanchissima, quella notte avrebbe dormito separata da suo marito, lui sarebbe rimasto con alcuni servitori nella sua vecchia casa ed il mattino seguente avrebbero continuato il trasloco.
La luce della luna illuminava uno spicchio di stanza mentre lei, sotto le coperte, ricordava quella mattina, quel bacio ed il suo Angelo. Si addormentò stringendo il cuscino di un letto non suo, immaginando che fosse Erik.


“Buona notte...” disse Ophèlie.
“Buona notte” disse distratto Erik, ma non si rese conto che la ragazza stava uscendo. Quando lo fece si alzò di scatto e disse “Dove state andando?”
La ragazza si bloccò e si voltò verso l'uomo. “A dormire...” disse alzando le spalle.
“Fuori? Ma... ma c'è il mio letto qui... non potete?”
“Erik, non sto andando via - disse la ragazza quasi divertita da quella reazione - sto raggiungendo la mia stanza...” disse orgogliosa come se stesse parlando dell'ultimo gioiello che aveva acquistato.
“Voi non avete una stanza..” disse lapidario Erik.
“È qui che vi sbagliate amico mio. Io ho una stanza... al primo piano dell'Opera.” disse.
“Come ci siete arrivata al primo piano dell'Opera?”
“Quante domande! Mentre voi stavate componendo stamane al vostro organo, io ho fatto un giro per il teatro ed ho trovato una stanza che... sembra faccia al caso mio.” disse la donna.
“E dov'è questa stanza?”
“Volete venire a dormire con me per caso?” chiese Ophèlie sulla difensiva, ma un sorriso beffardo le curvò le labbra.
“Permettete almeno che vi accompagni oppure è sconveniente?” chiese Erik stringendo le braccia sul petto, offeso.
“Erik, tutto quello che stiamo facendo è sconveniente... - disse la ragazza ridendo - se vi fa piacere accompagnatemi pure.” disse sorridendo tanto dolcemente da bloccargli il respiro.

Quando mise piede nella stanza di cui Ophèlie gli aveva parlato, si sentì mancare la terra sotto i piedi. Era la stanza di Christine, quella che lui aveva tenuto perfetta e pulita dal giorno in cui se n'era andata.
“Era la sua stanza vero?” chiese di punto in bianco la ragazza. Aveva notato il suo sguardo quando era entrato in quel posto.
“Sua di chi?” chiese lui.
“Di Christine...” disse Ophèlie sentendo quelle parole bloccarsi in gola.
“Oh... si, ehm.. era la sua...” disse Erik.
“Spero che non vi dispiaccia se passo la notte qui...” disse Ophèlie, ma si pentì subito di quella frase perché non voleva sentire la risposta di Erik.
“L'unica cosa che mi dispiace è che mi abbandoniate nella mia solitudine Mademoiselle...” disse lui.
La giovane lo guardò stupita, non era sicura di aver capito cosa intendesse con quella frase ma non rispose, si limitò a sorridere.
“L'avete curata anche dopo la sua fuga... - disse poi osservando la stanza. - Non dev'essere stato facile...”
“È un argomento che non credo vi interessi... buona notte Mademoiselle.” disse Erik inchinandosi frettolosamente e voltandole le spalle.
“Buona notte...” disse la giovane all'aria che profumava ancora di suo, ma lui era già sparito giù dalle scale.
Rimasta sola Ophèlie si sedette sul letto rassegnata, consapevole del fatto che Erik non le avrebbe mai permesso di conoscerlo come lei avrebbe voluto. Ogni qual volta tentava di scoprire qualcosa di più sul suo conto, lui si chiudeva come un riccio e diventava scorbutico e caustico. Doveva aver sofferto veramente tanto per comportarsi così. Sentì un moto di tenerezza per quell'uomo e nella mente le si materializzò l'immagine di lui, disperato e piangente sul proprio organo. Si portò le mani al viso tentando di scacciare l'immagine di quell'uomo privo di dignità che Erik diventata quando parlava di Christine. Si alzò dal letto riprendendo il controllo di sé.
“Sei sola... sappilo!” si disse. Uscì da lì e cercò un oggetto da tenere vicino al letto per difendersi in caso di necessità. Tornata nella sua stanza con un pezzo di ferro, si chiuse la porta alle spalle e si spogliò dell'abito. Lo poggiò sulla poltroncina vicino alla finestra e passò un po' di tempo con addosso le coperte ad osservare Parigi innevata annegare nella luce lunare.
“Luna, se io potessi illuminare la sua mente ed il suo cuore come tu illumini Parigi...” disse accorata. Non seppe quando rimase alla finestra persa nei suoi pensieri, ma quando sentì la stanchezza impadronirsi di lei, si mise a letto.

Erik si passò la piuma sul mento in cerca di qualcosa che ricordasse una carezza morbida e delicata, uno di quei gesti che gli erano mancati nell'infanzia. Per la prima volta dopo mesi, era sdraiato sul suo letto concentrato sul foglio davanti a se'. Mentre metteva giù l'ultima frase del primo atto dell'opera che era ancora senza nome, la sua mente corse ad Ophèlie, ed il suo sguardo si posò sul cuscino su cui la sua schiena era appoggiata. Con un sospiro pensò che da quando quell'angelo biondo vi aveva dormito dentro, quel letto non lo sentiva più suo. Le lenzuola erano impregnate del profumo dolce e caldo della ragazza e sapeva che nessun sonno gli sarebbe stato possibile.
Batté la testa contro la testiera per cercare di riprendere il controllo dei pensieri. Doveva fare qualcosa, doveva farle capire che era confuso, che il suo cuore era diviso tra due donne. Avrebbe voluto dirle tante cose, ma era troppo vigliacco per dirle esattamente come stessero le cose.
Doveva essere notte fonda, anche se laggiù gli era impossibile capire quanto buio fosse fuori. Abbandonò il suo scritto sulla poltrona accanto al letto e si alzò. Già altre volte aveva cantato dietro le mura di quella stanza e la sua piccola musa lo aveva confuso per il suo angelo della musica. Chissà se anche la giovane donna che giaceva ora in quel letto avrebbe fatto lo stesso?

Era piena notte quando Ophèlie spalancò gli occhi. Aveva sentito un rumore e la cosa non le piaceva, soprattutto perché era sola. Rimase ferma immobile con gli occhi spalancati nel buio appena rischiarato dalla luce della luna. Non sentì più niente e così si alzò di scatto e si sedette sul letto. Allungò una mano verso il pezzo di ferro e presolo rimase in ascolto. La voce riprese a cantare una melodia dolce e delicata, come una ninna nanna. Poi un'ombra dietro la tenda a baldacchino la spaventò. Con movimenti lenti alzò la barra lasciandola sempre nascosta dietro il letto poi, veloce e decisa assestò un colpo a casaccio verso l'ombra dietro la tenda. Di lì a poco, la figura si accasciò rimanendo immobile per terra.
Ophèlie scese dal letto inciampando nel baldacchino e si mosse verso la figura per terra, avvolta in un mantello nero e con la testa tra le mani. L'immobilità della figura le fece pensare che fosse riuscita nel suo intento di stordirla. Piena di soddisfazione spostò il corpo per vedere in faccia lo sfortunato che aveva osato spaventarla. Si sentì morire quando riconobbe Erik.
“ERIK! - Urlò la giovane. - Oh no! Erik, Erik, sei vivo? Erik!” e presa dal panico cercò di muoverlo, di scuoterlo, lo schiaffeggiò ma i suoi tentativi sembravano vani. Sentì gli occhi bruciarle di pianto, gli diede un pugno sul petto e piagnucolò: “Perché? Perché l'hai fatto perché?” e disperata si accasciò sul corpo inerte del musicista.

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Capitolo 11
*** Il figlio del Diavolo ***


Capitolo 11 - Il figlio del Diavolo.

“Provate ancora una volta a darmi un pugno Mademoiselle e maledirete il giorno in cui mi avete incontrato.” disse minaccioso.
“Erik! - urlò la ragazza e lo strinse a se'. - Mi avete fatto preoccupare!”
“E voi mi avete quasi ucciso.”
“Perdonatemi! Perdonatemi!”
Erik tentò di alzarsi ma cadde sul letto tenendosi la testa.
“Che male...” esclamò.
“Scusatemi, pensavo fosse un ladro, un... un malintenzionato...”
“Se fosse stato un estraneo non sarebbe arrivato fino a voi, ve lo posso assicurare.” disse cupo Erik.
“Adesso mettetevi qui e riposatevi.” disse preoccupata facendolo sdraiare sul letto.
Andò alla toeletta che aveva accuratamente riempito d'acqua e bagnò i panni sul comodino. Li poggiò sulla testa dell'uomo lì dove l'aveva colpito.
“E non vi vedevo nemmeno bene... pensate se avessi avuto una visibilità migliore...” disse ridendo la ragazza.
“Non so voi Ophèlie, ma io non lo trovo divertente.”
“No, effettivamente non lo è. Aspettate un attimo! Mi avete chiamato per nome!” esclamò la giovane.
“L'ho fatto? Perdonatemi Mademoiselle, dev'essere stata la botta in testa...”
“No Erik, vi prego di farlo!”
“Certamente... Mademoiselle.” ghignò lui gustandosi le cure che la giovane gli stava offrendo.
“Siete sempre così burbero?”
“Solo quando sono di buon umore...” sorrise ancora.
“Oh, quindi vuol dire che ultimamente lo siete stato abbastanza...” disse seria la ragazza.
Ad Erik saltò un battito sentendo quelle parole. Si, ultimamente lo era molto.
“Mademoiselle, se continuate a parlare potrebbe non passarmi mai il mal di testa.” continuò secco.
“E questa cos'era? Un'esplosione di gioia?” chiese secca la ragazza.
Ma Erik non rispose più, così Ophèlie cercò il suo volto... sembrava stesse dormendo. Provò ad accarezzarlo cercando di lenire il dolore ma soprattutto per essere certa che non stesse facendo finta di dormire. Se fosse stato sveglio non le avrebbe mai permesso una tale libertà. Bastarono pochi minuti perché il respiro dell'uomo si facesse pesante ed i muscoli si rilassassero. Dormiva sul serio. Allora si sdraiò accanto a lui, si perse un po' in quei lineamenti finché il sonno e la sicurezza di averlo accanto non la sopraffecero facendola addormentare al suo fianco.

Ophèlie aprì gli occhi, svegliata dall'insolito raggio di sole che faceva capolino dalla finestra. Non era più abituata a svegliarsi col sole. In quegli ultimi tempi, gli unici ritmi che aveva seguito erano i propri e quelli di Erik. Sorrise sommessamente pensando a quanto avesse dormito, e alla piacevolezza di non doversi sempre affannare perché qualcun altro pensava a lei. Si voltò sul lato opposto, non aveva voglia di alzarsi, non ancora. Quando si ritrovò faccia a faccia col volto addormentato di Erik, si spaventò quasi. Si era dimenticata di aver attentato alla sua vita quella notte.
Le pezze erano ormai asciutte, così le tolse per controllare di non avergli lasciato segni. Era perfetto.
“Avete la testa dura Erik...” disse sottovoce.
“Mai come la vostra Mademoiselle.” rispose l'uomo ed aprì gli occhi annegando la giovane di nuovo in quelle pozze di verde.
Ophèlie rise e rispose “Indubbiamente. Una donna normale sarebbe scappata dopo la vostra simpatica sorpresa di ieri sera.”
“Intanto mi avete quasi ucciso!”
“Non esagerate!”
“Mi avete fatto svenire! Mai nessuno c'era riuscito prima. Quelle braccia gracili sono ingannevoli!”
Ophèlie sorrise, poi lo osservò attentamente, poggiando delicatamente un dito sulla parte scoperta di fronte e disse: “Non vi ho nemmeno lasciato un segno.”
Erik la osservò a sua volta. - Il segno che mi avete lasciato non lo vedrà mai nessuno - pensò ricordando ancora il brutto scherzo che i sensi gli avevano giocato mentre baciava Christine, quando aveva immaginato tra le sue braccia e nelle sue narici, curve e profumi che non appartenevano al suo piccolo angelo.
“Anche se ci fosse stato, avrei comunque potuto coprirlo con un'altra maschera...” rise lui.
La ragazza allora, sentendo che lui per primo era andato sull'argomento, pensò di tentare di chiedergli qualcosa di più al riguardo. Si puntellò sul gomito e guardandolo dritto negli occhi disse:
“Erik, perché indossate quella maschera?”
L'uomo si sentì in trappola. Sapeva che non avrebbe potuto fuggire quel momento in eterno, ed ormai si era scoperto troppo vulnerabile sotto quello sguardo determinato, profondo e caldo.
“Voi, per cosa la usereste una maschera?”
“Per nascondermi....”
“O per nascondere qualcosa.”
“Cos'ha il vostro volto da nascondere?”
“Lo sapete! L'avete già visto.” disse spazientito l'uomo.
“Cosa avrei dovuto vedere dal momento che l'avete coperto subito?”
“Se l'ho fatto ci sarà un motivo Mademoiselle... non chiedetemelo per favore.” concluse Erik, tentando di chiudere lì il discorso.
“Vi assicuro che il volto che ho visto quella notte non aveva proprio niente da nascondere.” rispose la donna seria, non celando una nota di dolcezza in quelle parole.
“Mademoiselle non mentite...” disse l'uomo con la voce leggermente incrinata da quelle parole che non voleva sentire come vere, ma continuamente gli tornavano in mente. Erano diventate la sua tortura, il suo supplizio da quando quella ragazza era entrata nella sua vita. Fece per alzarsi voltandosi verso la porta, ma la ragazza fu più veloce. Si rizzò sul letto e gli bloccò un braccio. Erik rimase bloccato, stupito da tanta foga e dalla forza della stretta. Lasciò allora che la giovane lo facesse risedere accanto a lei.
“Non mi sfuggirete in eterno!” disse la ragazza dura.
“È una vita che lo faccio.” rispose beffardo lui, disegnando un sorriso da satiro sulle labbra tremanti. Aveva paura, non voleva dirle niente della sua deformità ma sapeva che sarebbe riuscita da sola a farsi dire ciò che voleva. I due rimasero a sfidarsi, fissandosi per quello che sembrò un tempo interminabile.
“Cos'è successo al vostro viso?” chiese la giovane, facendo così abbassare lo sguardo di Erik, vinto.
“Da quel che ricordo, sono così dalla nascita.” ma subito si pentì. Parlare di sé non gli piaceva, tanto meno del suo passato, perché quelle ferite gli bruciavano ancora nel profondo del cuore, e sapeva che nessuno le avrebbe mai curate.
“Ho soddisfatto la vostra curiosità Mademoiselle?” chiese di nuovo burbero.
“No.” rispose secca la giovane.
“Oh, povero me!” gemette Erik, adagiando la testa alla struttura di legno del letto a baldacchino.
“Avete anche un cognome?” chiese ancora la ragazza.
“De Bourges... Erik De Bourges.”
“De Bourges... sembra un nome importante.” esclamò la ragazza.
“No. - sorrise Erik - purtroppo non lo è.” continuò lui senza cancellarsi dal viso il sorriso amaro che gli si disegnò sulle labbra al ricordo del perché di quel nome.
Bourges, ricordava ancora la cittadina in cui aveva vissuto prima che sua madre, in fin di vita, l'affidasse agli zingari che l'avevano trasformato nel Figlio del Diavolo. Gli avevano dato quel nome per riconoscerlo, ma soprattutto perché anche un bambino sfortunato come lui aveva bisogno di documenti di viaggio. In quel posto era entrato a far parte dell'orribile famiglia che l'aveva adottato, obbligandolo ad andare in giro con un sacco di yuta in testa, maltrattandolo ed umiliandolo ad ogni spettacolo. Gli si rivoltava lo stomaco a pensare che una creatura chiusa in una gabbia fosse definita uno spettacolo, che la gente si divertisse a vedere il suo volto scoperto e che fosse disposta a pagare solo per godere della sofferenza altrui.
Ricordava ancora le urla di suo padre adottivo:
“Venite a vedere il Figlio del Diavolo!” e puntuale iniziava l'incubo.
Risa, urla, denigrazioni, insulti e botte, tante ed immeritate botte, finché non lo sopportò più e compì il suo primo omicidio: uccise suo padre... il suo carceriere.
Poi un giorno, a Parigi, incontrò Eloise. Lei lo aveva visto compiere il terribile gesto, ma aveva capito e senza giudicarlo, l'aveva fatto fuggire da quel luogo, nascosto nei sotterranei del Teatro ed era diventata per lui una madre ed un'amica.
“Tutto bene Erik?” chiese la giovane osservando l'uomo che nel frattempo si era alzato dal letto.
“Si, tutto bene...” si era quasi dimenticato che lei fosse lì.
“Perché vi vergognate di quello che siete?”
Erik sorrise. Possibile che nessuno capisse?
“Perché sono un Mostro! ... ma non mi aspetto che una giovane a cui Madre Natura non ha sottratto nulla possa capire.” disse Erik lasciando scorrere lo sguardo sulla sua insolente e delicata bellezza.
“Mi ha tolto una famiglia.” sibilò la ragazza.
“No! Quella vi è stata tolta dalla mano dell'uomo! È diverso! Voi non vi dovete vergognare di un volto su cui sono segnati come piaghe i peggiori peccati del mondo!” disse lui voltandosi per andarsene.
Ophèlie strinse le braccia al petto, offesa non tanto per le ciniche parole del suo interlocutore quanto per la loro amarezza.
“Pensate quel che volete! So bene che è troppo comodo crogiolarsi nell'autocommiserazione per voler reagire e rendersi conto che al mondo ci sono cose peggiori!” disse acida la giovane.
Quello era troppo! Cose peggiori? Cosa c'era di peggiore di un volto sfigurato!? Cosa?
Erik si irrigidì voltandosi aggressivamente verso di lei e con un movimento repentino si tolse la maschera.
“E adesso vedremo se avrete ancora voglia di serbare inutili perle di saggezza davanti a questo!” sibilò indicando la parte di volto sfigurata.
Ophèlie si spaventò più per la reazione esagerata dell'uomo che non per la sua deformità che adesso era impietosamente illuminata dalla luce mattutina.
Sostenne il suo sguardo e lo guardò attentamente:
“Ebbene?” chiese incrociando ancora le braccia sul petto.
“Ebbene? - chiese incredulo, quasi ridendo per quella reazione. Quella giovane non doveva avere tutte le rotelle a posto - State osservando un mostro e voi dite solo “Ebbene”?”
“Vi assicuro che i volti e i corpi colpiti dalla sifilide fanno molto più effetto di quello... - disse la ragazza indicando con un cenno del viso la parte sfigurata - per non parlare di cosa significhi avere la sifilide...”concluse schifata.
Erik era disarmato.
“Adesso spero avrete la compiacenza di sedervi qui. No! Niente maschera!” ordinò perentoria ed allungò la mano nella sua direzione. L'uomo stupito gliela diede senza pensare.
Si sedette accanto a lei coprendosi con la mano il volto sfigurato.
“Perché mi fate questo?” piagnucolò lui, dondolandosi avanti e indietro.
Ophèlie allora gli toccò la spalla e spostò delicatamente la mano di Erik dal volto... piangeva.

Stava piangendo più per la sorpresa e la scoperta che le parole che aveva udito qualche sera prima erano vere e non un'allucinazione frutto del delirio in cui vessava la ragazza. Soffriva ancora per le umiliazioni e faticava ad immaginare che qualcuno potesse vedere oltre la sua deformità. Sentì la mano di Ophèlie toccargli la spalla e spostargli la sua. La guardò sottecchi e l'evidenza che il suo sguardo non palesava né pena né paura gli trapassò il cuore ferendolo e facendogli espellere il sangue amaro che per anni vi aveva serbato. Senza capire come, si ritrovò Ophèlie davanti e sentì le sue gracili braccia cingerlo in un caldo abbraccio consolatore.
“Perdonatemi...” sussurrò la giovane.
“No, no, perdonatemi voi. Un uomo non dovrebbe mai piangere.” disse allontanandosi riluttante dal caldo abbraccio della ragazza.
“Sono convinta che il pianto aiuti tutti, non solo noi donne che abbiamo le lacrime in tasca. Se è quello che vi preoccupa, in qualche modo, sappiate che secondo me non è da inetti, anzi. Un uomo che piange vuol dire che non ha riserve nell'ammettere le proprie debolezze, e questo non può che fargli onore.”
Erik alzò lo sguardo sul volto della donna e la osservò a bocca aperta.
“Chiudete la bocca, sembrate un pesce lesso.” disse poi la ragazza toccandogli il mento e richiudendogliela. Lui la osservò stupito e poco dopo le labbra di Erik si stesero in un sorriso che lasciò sfuggire una risata sonora e leggera che contagiò anche la ragazza.
“Siete una donna insolita Ophèlie.”
“Forse non sono io ad essere insolita, ma le altre donne che avete conosciuto, ad esserlo. Non ci avete mai pensato?”
“A cosa? Alla sfortuna che ho avuto con le donne?”
“No! - sorrise - al fatto che forse non avete ragione a pensare che il mondo abbia un problema con voi, ma che siate voi ad averne uno con lui.”
“Io non ho mai fatto torti al mondo, lui invece a me ne ha fatti tanti.”
Ophèlie sorrise, per l'ennesima volta sconfitta.
“Se tanto pensate di avere ragione, dubito di potervi convincere del contrario.”
“Provateci!” la sfidò lui.
“Non posso! Non so abbastanza cose sul vostro conto per toccare le corde giuste.”
Sorrise mestamente la ragazza.
“Sapete, a volte le corde giuste si toccano per istinto, non tanto per bravura.”
A quelle parole Ophèlie rimase interdetta.
“Bene, forse è il caso che vada a fare un giro al mercato, non credete?”
“Per me potete restare qui tutto il giorno.” ammise la giovane.
“Non posso... - disse lui - a dopo... Ophèlie.” Sorrise galante e la giovane si stupì di come anche la parte sfigurata, su quel volto, avesse un fascino proprio. Sorrise inebetita all'indirizzo del suo interlocutore, poi lui le voltò le spalle ed uscì dalla stanza... aveva lasciato la maschera sul letto.
Ophèlie la prese tra le mani. Era di ceramica ed era ancora tiepida del calore di Erik. Sentì che quell'uomo ormai era parte di lei, stringendo quel pezzo di ceramica tra le mani, le sembrò di poter stringere Erik e la sua storia.
Si alzò dal letto e guardò verso la porta. “Erik!” esclamò vedendolo appoggiato allo stipite della porta. Era tornato indietro o era rimasto ad osservarla fino a quel momento?
“Mademoiselle...” si inchinò.
“Non pensavo tornaste così presto...” biascicò la ragazza.
“Lo farò, non temete.” disse avvicinandosi a lei ed allungando la mano verso la giovane. La ragazza lo osservò sorridendo, troppo distratta da quella presenza per poter capire cosa volesse.
“Vi spiace ridarmi la maschera?”
Le parole di Erik la riportarono brutalmente alla realtà.
“Nessuno se ne sarebbe accorto.” disse poi Ophèlie allungandogli a sua volta l'oggetto.
“Preferisco non correre rischi.” disse lui prendendola e riposizionandola sul viso.
“Fareste meglio a rivestirvi - continuò l'uomo sorridendo sardonico - non vorrei che entrasse qualcuno e vi vedesse così.”
“Sto così male?” chiese ingenuamente la ragazza.
Erik la guardò stupito.
“Mademoiselle! Veramente state chiedendo ad un uomo se state bene in sottoveste?” chiese lui con gli occhi fuori dalle orbite per la sorpresa.
La ragazza allora si rese conto di quello che aveva detto e divenne rossa come un peperone.
Erik non disse niente, si limitò ad un enigmatico sorriso ed uscì da quella stanza, lasciando la ragazza sola.
Uscì nel freddo gelido di quella mattina con ancora in mente l'immagine di Ophèlie in mezzo alla stanza, la cui sottoveste candida, attraversata dalla luce del sole, lasciava ben poco all'immaginazione. Ringraziò di essere ormai lontano, a camminare sul manto candido che copriva la città ancora immersa nel sonno. La neve fredda trasmetteva il suo gelo attraverso le suole di cuoio, penetrandogli nelle ossa. Ora gli mancava il calore delle attenzioni di quell' angelo biondo, ed il calore del letto che quella notte aveva condiviso con lei. Doveva decidere cosa fare ma era troppo difficile rinunciare al suo piccolo angelo di ritorno da lui per una donna che non sembrava accorgersi dell'effetto che sortiva in lui. Se doveva rimettere a repentaglio la propria vita, se doveva correre qualche rischio, l'avrebbe fatto solo per qualcosa di certo. Quando quella certezza fosse arrivata, se ne sarebbe accorto.

Ophèlie notò che quella finestra dava direttamente sul Vicolo di Rue Scribe, la via nella quale c'era l'entrata segreta alla casa di Erik.
Vide un'ombra muoversi e lo riconobbe. Ormai era diventata troppo sensibile alla sua persona per non riconoscerlo da lontano e seguirlo con lo sguardo tra le vie di Parigi. Quando la sua figura sparì dietro le case, la ragazza sospirò e si vestì in modo da poter raggiungere la casa sul lago.

Quella mattina per lei il risveglio fu particolarmente difficile. Stare sola in un letto non suo non era esattamente la cosa migliore che potesse immaginare, ma la sua vita era cambiata radicalmente in pochissimo tempo, non si sarebbe abituata velocemente. Lasciò volare la mente ad Erik e a quello che sarebbe potuto essere quella notte se lui fosse stato lì con lei. Sospirò, scacciandosi dalla fronte i ricci ribelli con le loro fantasie su quella dolce intossicazione che era Erik. Indossò la sua vestaglia e scese al piano inferiore. Era molto presto, la luce rosata dell'alba illuminava la scalinata da cui stava scendendo e quando arrivò in cucina notò che la servitù stava facendo colazione.
“Madame! - esclamò la governante quando la vide scendere così presto - Cosa è successo?”
“Non riuscivo a stare ancora in quel letto.” disse la giovane sedendosi al tavolo con la servitù.
“Madame, è difficile per tutti” disse Elenoire toccandole una mano e facendo segno al resto della servitù di preparare qualcosa da mangiare alla loro padrona.
“Lo so...” sospirò Christine.
Quando terminò, la giovane Viscontessa si mosse davanti al camino, in cerca di un po' di calore. Sopra di esso, c'erano schierate molte foto. Christine le osservò sperando di riconoscere il volto di un giovane Raoul, ma quei visi non avevano niente di familiare, solo uno attirò la sua attenzione. Era un viso molto giovane, troppo perché lei potesse riconoscerlo. Era di una ragazzina che vista così, avrebbe dovuto avere qualche anno in meno di lei all'epoca della foto. Aveva il viso affilato e due sognanti occhi chiari, così come i capelli... era indubbiamente molto bella.
Christine rimase ad osservarla a lungo, convinta di averla già vista da qualche parte, ma incapace di capire come, dove e quando.
“Madame...” la voce di Elenoire la riportò alla realtà.
“Si?” chiese colta di sorpresa la ragazza.
“Devo prepararvi il bagno?”
“Oh si grazie, ne ho proprio bisogno, poi... andrò da Maman.”
“Non vi preoccupate Madame.” disse Elenoire facendo un leggero inchino e andando al piano superiore.
Christine la seguì, abbandonando su quel ripiano tutte le domande che quella foto aveva risvegliato in lei.

Doveva fare qualcosa per lui, trovare un modo per farsi perdonare e per redimersi anche dal senso di colpa che l'attanagliava ripensando al fatto che aveva quasi ucciso una persona, il suo salvatore per di più!
Poi d'un tratto, l'idea che le era venuta tempo prima tornò a bussare alla porta dei suoi pensieri... il violino! Si mosse verso il tavolino e spostò i mille fogli sotto cui erano nascoste le corde di budello.
Lo strumento era lì, impolverato ed abbandonato a sé stesso. Lo prese in mano con cura e cambiò la corda che lei gli aveva rotto. Si fece male più volte, ma non importava, per lui era disposta a questo ed altro.

La neve scricchiolava sotto i tacchi e Christine camminava con attenzione per evitare di rompersi l'osso del collo. Fu un sollievo trovarsi davanti a quella casa e pensò ai momenti passati al suo interno, insieme a sua sorella. Quei sentimenti però furono tanto forti quanto effimeri perché con la stessa velocità con cui erano arrivati, ora stavano lasciando spazio alla desolazione della consapevolezza che quei tempi erano finiti... e solo poco prima.
Il sorriso caldo e stupito di Madame Giry le colpì il volto come un insperato raggio di sole. Aveva tanto bisogno di un po' di calore: “Mamam!” esclamò buttandosi tra le braccia della madre adottiva.
“Bambina mia, come stai?”
“Male! La mia casa è stata bombardata!” disse triste la ragazza.
“Entra piccola mia, raccontami tutto.” disse Eloise dando la mano alla ragazza.
“Christine!” esclamò Meg vedendo sua sorella entrare in casa.
“Ciao Meg.” disse Christine ma il suo saluto era freddo e distaccato.
Meg lesse in quello sguardo fiero la sicurezza di una donna che Christine non era. Era andata a riprendersi Erik sul serio! Si sentì quasi in colpa. Sapeva quanto Erik avesse sofferto per lei ed adesso lei, con molta probabilità aveva riaperto quelle ferite.
“Come stai?” chiese a sua sorella.
“Stavo giusto dicendo a Maman che mi hanno bombardato la casa...” disse.
Eloise fece accomodare le figlie nella cucina, il cui tavolo era ingombro di tessuti e fili.
“Spero non ti dispiaccia, io e Meg stavamo sistemando alcuni abiti...” disse.
“Posso aiutarvi?” chiese Christine osservando raggiante il tavolo.
“Sei una Viscontessa ormai, non dovresti fare questo genere di lavori.” esclamò Eloise.
“Maman! Per voi resterò sempre Christine!” disse offesa la ragazza.
Eloise allora le porse un abito e disse “Bene allora, datti da fare!”
Christine sorrise e si diede da fare, impegnandosi in quello che stava facendo per non pensare alla sorte che le era stata riservata. Sarebbe stata infelice... per sempre.
Le tre donne lavorarono a lungo ma le due sorelle non avevano più niente da dirsi e solo una cosa in comune... lo stesso uomo, ed Eloise ne era consapevole.

Quei passi li avrebbe riconosciuti tra mille, o lui aveva fatto molto in fretta, oppure lei ci aveva messo tanto a sistemare lo strumento. Lo nascose dietro la schiena ed attese che Erik arrivasse.
Quando arrivò e la trovò al centro della grotta, disse solo: “Cosa avete fatto questa volta?” chiese portandosi le mani alle tempie.
“Non è molto carino da parte vostra avere un'opinione tanto bassa di me.”
Erik allora si appoggiò ad un tavolino e la osservò.
“Non è una questione di opinioni... è un dato di fatto.”
Ophèlie non si scompose ma rispose: “Spero bene che cambierete idea... - disse poi tirando fuori da dietro la schiena il prezioso strumento - Spero non vi dispiaccia... ho cercato fra le vostre cose...”
Erik si irrigidì ed osservò torvo la donna. Poi, il suo sguardo si posò sull'oggetto tra le mani della ragazza e mutò. Non riuscì nemmeno a dire niente perché il suo cuore saltò un battito quando riconobbe il suo violino, aggiustato e perfettamente lucidato.
“Si, è proprio lui...” disse la ragazza leggendo la domanda negli occhi spalancati e stupiti dell'uomo, felici come non li aveva mai visti.
Era commosso. La guardò sognante ed incredulo, poi posò di nuovo lo sguardo sul violino. Ophèlie glielo allungò ancora e lui riconoscente lo prese quasi in braccio.
“Grazie!” sussurrò lui, incapace di dire altro, ma il suo sguardo fu per Ophèlie il migliore ringraziamento che potesse mai farle.
“Io ho cercato di accordarlo al meglio solo che...”
“Avete una mano esperta Mademoiselle.” disse galante lui.
La giovane arrossì. “Mi è sempre piaciuto prendermi cura da sola del mio violino, quando ne avevo uno, prima di venderlo per racimolare qualche soldo in più per le cure di mia madre. Ma evidentemente... non è bastato.” disse triste.
Erik la capiva e l'ascoltava triste, sentendo il cuore sciogliersi davanti a quella candida ragazza che si era affidata completamente a lui.
“Dovete avere un cuore d'oro Mademoiselle.”
“Era mia madre, Erik - disse la ragazza sorridendo amaramente - avrei fatto qualunque cosa pur di averla ancora qui con me.”
Erik in un certo senso comprendeva, solo che sua madre era morta troppo presto perché lui potesse provare quelle sensazioni, perché potesse sentirsi amato.
“Avete ancora una madre voi?” chiese Ophèlie.
“No, la mia è morta prima che potessi rendermi conto di averne una.” disse Erik.
“Siete cresciuto anche voi per strada?”
“In un certo senso.. sono stato adottato da un circo di zingari.”
“Ecco perché sapete fare quel trucco con la voce!” disse allegra la ragazza.
“No, - sorrise - quello è sempre stato un talento naturale.”
“Cosa facevate nel circo allora?” chiese curiosa la donna.
“Mi facevo umiliare...”
“Facevate il pagliaccio?”
“No... Magari! Non è un argomento di cui mi piace parlare Ophèlie... non vi dirò il perché, non chiedetemelo per favore, ma mi chiamavano il Figlio del Diavolo.”
La ragazza si sentì morire. “Come, come potevano chiamarvi così!” chiese sconvolta.
Erik non rispose. Spostò lo sguardo ed Ophèlie si sentì morire.
“Perdonatemi io, non volevo... vi chiedo perdono.”
“No, no, voi non c'entrate Mademoiselle.” ma non disse altro.
“Rispetto la vostra richiesta.” disse incapace di coprire l'espressione delusa che le si dipinse sul viso. - ma vi sarei grata se provaste l'accordo. Sapete, non vorrei aver commesso qualche errore.”
Erik la guardò riconoscente per la delicatezza.
“Mi avete fatto un regalo stupendo Ophèlie... ora lasciate che sia io a farne uno a voi.” disse Erik indicando alla giovane una poltrona. La ragazza allora si sedette. L'uomo controllò le corde e provò a suonare con l'archetto... erano accordate meglio di quanto fosse capace lui stesso.
“L'avete accordato magnificamente Mademoiselle... non era mai stato così angelico”. Disse lui sorridendo alla sua nuova amica.
Poi la giovane non ebbe più tempo per pensare perché quelle melodie la portarono in mondi e sentieri che mai aveva visitato.
Quei mondi erano quelli agrodolci della personalità multi-sfaccettata di quell'uomo e lei si rendeva conto che lui, in quel momento, le si stava donando interamente, regalandole quella musica, la sua musica... il suo mondo... tutto se' stesso.

Un'altra giornata era volata via veloce, senza darle il tempo di pensare a cosa l'aspettasse fuori dal porto sicuro che era la casa di Madame Giry.
Quella notte Raoul sarebbe stato con lei ed il pensiero di passare un'altra notte in un letto non suo, le sembrava molto meno terribile.
Camminando per le strade di Parigi, ebbe un assaggio di cosa volesse dire vivere alla bene e meglio, quel tanto che bastò per sentirsi molto fortunata.
I poveracci rimasti senza casa dopo i bombardamenti erano tanti e si riversavano tutti in quelle strade e nei bordelli come anime in pena, rinchiuse in un inferno dal quale sapevano di non poter fuggire. Fu felice di trovare a casa Raoul, preoccupato, che l'attendeva guardando fuori dalla finestra del salotto.
“Mia piccola Lotte, mi hai fatto preoccupare!”
“No Raoul, ero da Maman, avevo bisogno di stare un po' con lei.”
“Vieni amore, la cena si sta raffreddando.”
La servitù era di nuovo al completo. “Avete finito?” chiese la Viscontessa.
“Si, ora tutte le nostre cose sono qui con noi.”
Christine sorrise mestamente pensando che era iniziata una nuova Era, non si tornava più indietro, si poteva solo andare avanti.
Quando finirono le cena, Christine incappò ancora in quelle foto e sul quel volto che la tormentava.
“Raoul!” chiamò Christine.
“Dimmi amore.” disse lui.
“Queste foto? Di chi sono?” domandò la ragazza.
“Non ne ho idea. Mio padre ha rilevato la proprietà di questa casa molti anni fa... nessuno ci ha mai più messo piede. È rimasta chiusa fino a qualche tempo fa. Non l'ha mai usata nemmeno prima della sua morte, ma, stranamente... non l'ha mai voluta vendere. E meno male che non l'ha fatto - continuò - perché così ci ha fatto un gran bel regalo.” disse lui abbracciando sua moglie.
Christine sorrise. “Mi manca casa mia...”
“Non preoccuparti piccola mia, vedrai che sapremo farla diventare nostra”.
Christine volle fidarsi delle parole di suo marito, così, lanciando un'ultima occhiata a quella foto, lo seguì al piano superiore.

Era tardi, Ophèlie era seduta accanto ad Erik e lo osservava comporre. Quando creava, era tanto in sintonia con la musica che per lei era una gioia anche solo vederlo finalmente libero dagli oscuri pensieri che vedeva aleggiare sempre nei suoi occhi. Quando componeva, il suo sguardo era sereno e le pozze di verde nei suoi occhi si illuminavano, colorandoli del colore della speranza e della serenità. Quando si alzò per andare nella sua stanza, Erik abbandonò quello che stava facendo voltandosi velocemente verso di lei.
“Ve ne andate già?” chiese lui, sentendosi improvvisamente in colpa per le poche attenzioni che le riservava.
“Non credo di esservi d'aiuto. Piuttosto potrei essere d'intralcio.” concluse la ragazza.
“Ma, Mademoiselle! Non siete affatto d'intralcio. Ho composto da solo con me stesso per troppi anni.”
“Ma è tardi...” disse la ragazza colpita dal calore con cui Erik aveva pronunciato quelle parole.
“Bene, se è questo che desiderate... - continuò lui. - Tenete - disse porgendole il suo mantello rosso ed indossando quello nero. - Questo è più caldo del vostro... fa molto freddo fuori.”
La giovane non comprese tanta premura, ma indossò il caldo ed enorme mantello rosso che lui le aveva dato. Le era larghissimo, ma lo sistemò in modo tale da poter essere comoda.
Detto ciò, l'uomo le fece strada verso l'esterno. Lei lo seguì, troppo impegnata a cercare di capire cosa avesse in mente l'uomo, troppo preoccupata per ragionare in modo lineare.
Era in sua balìa, sapeva che non era normale che lui si preoccupasse tanto per chicchessia. Aveva paura, ma non poteva fare a meno di continuare a seguirlo.
“Posso mostrarvi una cosa?” chiese forse troppo gentilmente l'uomo.
“Dipende...” rispose in un sussurro la ragazza, il battito accelerato per la paura di quel che sarebbe potuto accadere. Sapeva di non avere ragioni di preoccuparsi, ma non capiva quella strana inquietudine che le attanagliava lo stomaco.
La guidò nell'oscurità dei corridoi dell'Opera, girando in angoli angusti ed umidi. Sentiva il battito del proprio cuore tanto forte da avere paura che l'uomo che la guidava potesse sentirlo.
Poi lui si fermò e si voltò incrociando lo sguardo della donna.
“Qualcosa vi turba?” chiese l'uomo. Ma quando si rese conto che il tono inquietante con cui l'aveva chiesto non avrebbe contribuito a tranquillizzare la ragazza, si diede dello stupido.
“Dove mi state portando?” chiese Ophèlie togliendo bruscamente la sua mano da quella di Erik.
Si era accorto della resistenza della giovane, anche per quello si era fermato, perché aveva percepito i brividi di terrore che ritmicamente percorrevano la ragazza.
Erik la lasciò allontanare, facendo attenzione a non spaventarla oltre.
“Provate a fidarvi ancora di me... l'avete fatto fino ad ora.” quelle parole suonarono alle orecchie di Ophèlie come una supplica. Una supplica a cui lei non riusciva a resistere. Si stupì lei stessa delle parole taglienti che le uscirono dalle labbra.
“Fino ad ora non siete mai stato così misterioso.” lo rimproverò la donna.
Erik sorrise sarcastico “E dire che pensavo che il mistero vi affascinasse...”. Un lampo di divertimento misto a stupore gli attraversò lo sguardo.
La ragazza percepì un brivido e lo guardò senza rispondere. Quell'uomo aveva capito esattamente che genere di persona fosse lei, ma stranamente, questa improvvisa consapevolezza non servì a tranquillizzarla, bensì la rese ancor più inquieta. Erik allungò una mano verso di lei:
“Non voglio farvi nulla di male ma... se preferite, vi riporto nella vostra stanza.”
A quella parole la ragazza allungò la mano verso Erik posandola nella sua, aperta ed accogliente. Non le importava dove volesse portarla e per farne cosa. Se avesse dovuto decidere della sua sorte avrebbe voluto che il suo destino fosse lui, qualunque cosa le avesse riservato, anche se ci fossero stati dei sacrifici da fare, dei dolori e dei fantasmi da affrontare.
Lui le prese le mani e con delicatezza riprese il suo cammino.
Stavano salendo quella che sembrava una scala a chiocciola su per la quale Erik quasi correva.
Ophèlie lo seguiva, cieca, solo guidata da lui e dall'aria profumata di suo che le accarezzava il volto.
Poi ad un tratto si fermarono. Erik si voltò verso di lei e le disse:
“Chiudete gli occhi.”
“Così potrete buttarmi di sotto senza che me ne accorga?” chiese Ophèlie preoccupata e dubbiosa.
“Perché pensate che voglia buttarvi di sotto?”
“Non lo so... forse, perché vi ho obbligato a farmi vedere sotto la vostra maschera... e magari...”
“Ophèlie, ascoltatemi. - la interruppe Erik - Voi non mi avete obbligato.”
Ophèlie lo guardò stupita.
“Non ci sareste riuscita, fidatevi della mia parola. Comunque, come mi sembra di avervi già detto, se avessi voluto uccidervi l'avrei già fatto. Fareste meglio a ricordarvelo la prossima volta che vi verrà in mente una sciocchezza simile.”
Poi Erik alzò una mano davanti agli occhi della giovane: “Ora, chiudete gli occhi.” disse lui muovendola verso il basso mentre proferiva quelle parole.
La ragazza sorrise titubante e fece ciò che le era stato chiesto, muovendo entrambe le mani verso quelle di Erik. Lui le prese e le fece fare alcuni passi.
“Non cercate di imbrogliare Mademoiselle!” disse l'uomo notando che per un secondo la giovane aveva socchiuso gli occhi. La vide sorridere, arresa.
Tutto d'un tratto Ophèlie venne colpita dall'aria gelida e trattenne il respiro, disorientata da quell'improvvisa brezza. Sentì Erik sollevarla da terra, tenendole il viso contro il collo per evitare che aprisse gli occhi. Erano all'aperto, sentiva l'aria fredda percorrerle le mani e le gambe che rimanevo leggermente scoperte dall'abito. Quando i piedi toccarono di nuovo terra, la giovane fu quasi dispiaciuta di non poter stare in eterno col naso nel collo dell'uomo.
“Adesso potete aprirli...” disse Erik togliendole le mani dagli occhi.
Quando Ophèlie lo fece rimase attonita davanti a quello spettacolo. Quello che vide le fece assaporare cosa fosse stato l'Opera prima di quel terribile incendio. Erano sul tetto del Teatro! Due statue troneggiavano al centro di esso, mentre statue equine ne contornavano il perimetro a conchiglia.
La luna era piena ed illuminava come sole il posto in cui si trovavano. Da lassù dominavano Parigi.
Le case che avevano ancora le luci accese, davano un che di magico alla città, ma forse la vera magia era essere lassù, a guardare la città silenziosa, mentre le luci dei lampioni brillavano come mille candele per le piccole strade parigine.

“È bellissimo vero?” disse Erik toccando le spalle della donna. Ophèlie sobbalzò.
“Scusate” disse l'uomo togliendo le mani da corpo della ragazza e dandosi del pazzo per avere osato tanto.
“No, scusatemi voi.” disse la donna prendendogli le mani tra le sue.
Erik rimase stupito “Per cosa?”
“Per aver dubitato di voi.” disse lei addolcendo lo sguardo.
“Non vi preoccupate, l'ho già dimenticato.” disse lui perdendosi nello sguardo della donna.
“Erik, è bellissimo!” disse poi lei voltandosi verso la città ed assaporando quella sensazione di forza che provava ad essere lì con lui.
Lo prese per mano e si mosse verso il limite del pavimento, verso il vuoto. Davanti a loro il nulla; solo il cielo, la luna, le stelle e la città... prostrata ai loro piedi.
Erik le strinse la vita attirandola più indietro rispetto al limite. La ragazza lo strinse a sua volta, impaurita ma allo stesso tempo attratta dal vuoto.
"Quando ero giù di morale, passavo le mie serate quassù, ad osservare la città... vivendo nell'illusione di essere il padrone del mondo” disse Erik sorridendo mestamente al ricordo di ciò che era stato.
“È facile immaginarlo quando davanti si ha tutto questo. - Disse la ragazza indicando con un ampio gesto del braccio tutto quello che avevano davanti - La luna, le stelle, il cielo... Parigi...” sospirò.
“... e voi...” disse Erik.
La ragazza si voltò stupita per le parole che aveva appena udito.
“Come dite?” chiese.
“Lasciate che ve lo spieghi meglio...” disse lui. Le toccò il volto e la guardò negli occhi. La ragazza si sentiva ipnotizzata dal suo sguardo. Il verde degli occhi di lui, ed il miele di quelli di lei, si intrecciarono senza via di scampo. Lui le si avvicinò e per la prima volta le loro labbra si incontrarono in un abbraccio caldo e sconvolgente.
Si strinsero per non cadere nell'oblio in cui quel bacio non tardò ad accompagnarli.
Non seppero per quanto le loro labbra rimasero incollate le une alle altre, ma quando quel contatto finì, entrambi sapevano di aver appena suggellato con quel bacio la perdita della propria anima. Ophèlie lo guardò e lo baciò ancora, consapevole che con quel bacio aveva appena venduto l'anima al Figlio del Diavolo.

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Note: l'idea che avevo dell'inevitabile bacio tra i due non era a questa atezza della storia ma molto più avanti, praticamente alla fine. Solo che poi, come sempre più spesso mi accade, i personaggi hanno iniziato a fare di testa loro ed io non sono stata in grado di gestirli e poi vogliamo mettere un bacio romantico con la luna piena e sul tetto dell'Opera con uno tra i vicoli bui della città in una notte oscura? Nooo! Non si può mica, così è sucesso. Che ne dite, è troppo azzardato, troppo presto, troppo tardi, inutile? Ditemi le vostre impressioni perchè quando lui le parla della sua vita ho paura di averlo fatto scoprire un pò troppo rispetto a quello che Erik avrebbe fatto. Aspetto di leggere le vostre impressioni. Grazie.

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Capitolo 12
*** Due labbra della stessa ferita ***


Capitolo 12 - Due labbra della stessa ferita.

L'aria fredda della notte le intorpidiva il viso mentre correva a perdifiato verso quella musica angelica.
“Erik!” sussurrò correndo verso la figura, le si accovacciò accanto e le tolse il cappuccio.
“Erik!” ripeté mentre i suoi occhi incontravano un altro paio di occhi che non appartenevano a lui.
Christine ritrasse le mani e si maledisse per essere stata tanto ingenua. “Tu non sei Erik…” disse delusa.


La Viscontessa sgranò gli occhi col fiato corto, come se quella corsa l'avesse fatta sul serio. Rimase immobile a fissare l'oscurità che le premeva sugli occhi.
“Christine, tutto bene?” le chiese Raoul accortosi del salto che la ragazza aveva fatto.
“Si, tutto bene... era solo un brutto sogno.”
Raoul non disse niente, le diede un bacio e disse:
“Sono qui io con te, non temere.”
Christine si strinse a suo marito e si chiese che legame potesse avere la musicista dagli occhi di miele con la famiglia DeChagny.

Raoul era già nel suo ufficio quando sentì i passi di Christine passare davanti alla porta.
Quel giorno attendeva la visita dei due sicari che avrebbero dovuto portargli la testa della ragazza bionda.

Dopo aver fatto colazione, Christine si vestì e bussò allo studio di suo marito decisa a chiedergli che legame quella ragazza avesse con la famiglia di visconti.
“Avanti.” fu la risposta che ricevette dopo aver bussato.
“Ti disturbo?” chiese la ragazza affacciandosi all'interno dell'ufficio.
“No amore, entra pure.”
“Raoul, sai le foto che sono sul camino?” chiese lei andando dritta al punto.
“Si, certo.”
“La ragazza che vi è raffigurata... ricorda la giovane musicista che mi ha salvato.”
“Dici?” chiese Raoul.
“Non lo so, è un'impressione. Magari mi sbaglio.”
“Di sicuro ti starai sbagliando amore, come può una giovane mendicante avere delle foto in una casa come questa?” chiese l'uomo osservando paziente sua moglie.
“Eppure...” sospirò la ragazza.
“Mia Piccola Lotte, sei stanca e provata dal cambiamento. Magari è solo suggestione e nostalgia della nostra casa.” concluse Raoul.
“Si, forse hai ragione tu.” Ma sapeva di essere lei ad avere ragione. Sarebbe venuta a capo di quella faccenda, ma per farlo aveva bisogno dell'aiuto di qualcuno.
“Anche oggi andrò da Maman, così mi distraggo un po'.”
“Come preferisci amore.” e detto questo la congedò con un bacio.

“Past the Point of no return...”

Ophèlie stava leggendo avidamente quella che sembrava la stesura di un'opera. Sulla copertina c'era scritto “Don Giovanni Trionfante”.
Era arrivata al momento in cui Aminta, la protagonista, raggiungeva il suo Don Giovanni all'inferno per potervi stare in eterno con lui, non consapevole della sua condanna.
Non sentì i passi di Erik avvicinarsi ma si accorse della sua presenza quando le strappò di mano l'opera.
Alcuni fogli le tagliarono le dita e lei gemette per il dolore ma molto più per la sorpresa.
“Cosa stavate facendo?” tuonò Erik; gli occhi normalmente limpidi e bellissimi sembravano un cielo in tempesta.
“Leggevo...” disse la giovane col fiato corto per lo spavento.
“Chi vi ha dato il permesso di farlo?” urlò ancora.
“Nessuno! Era appoggiato al tavolino ed io mi sono incuriosita leggendo il titolo? È un reato?” disse lei combattiva. Non aveva paura di lui... non più.
“Non avreste dovuto farlo!”
“... e c'è una ragione per cui non avrei dovuto?” chiese ancora ringhiando contro l'uomo.
“Questo genere di cose non vanno bene per una giovane donna!” disse Erik quasi sbattendole in faccia la stesura.
La giovane rimase interdetta ed Erik rimise di nuovo i fogli sul tavolino, tentando di nascondere il soggetto il meglio possibile. Non gli piacevano le ragioni che l'avevano spinto a scrivere quell'opera, ma non aveva avuto il coraggio di liberarsene... dopotutto era la sua prima creazione.
“Ma è bellissima!” esclamò la giovane.
A quelle parole Erik si voltò e la guardò, stupito.
“Lo pensate sul serio?”chiese guardingo.
“Certo! È così... così... oh è stupenda!” disse la ragazza incapace di trovare aggettivi migliori per definire le mille emozioni che quella lettura aveva risvegliato in lei.
L'uomo si sentì quasi morire. Quella ragazza sembrava la donna ideale, perfetta per lui, e lo amava. Ma lui non sapeva se anche il sentimento che provava per lei si potesse definire amore. Sapeva di esserne attratto istintivamente, ma il suo piccolo angelo viveva ancora nel suo cuore ed era tornato da lui... baciandolo come non mai.
Ophèlie vide che l'uomo si era di nuovo perso nei suoi pensieri, così prese un frutto dalla cesta ed uscì al freddo, sedendosi sul gradino d'entrata al mondo nascosto di Erik. Quando morse la mela che aveva in mano, la sua mente corse alla sera prima, a quel bacio, a quelle emozioni, a quello che lui le aveva detto. Cos'era significato tutto quello? Come mai la trattava ancora come una perfetta sconosciuta?
“Perché tu sei una sconosciuta per lui.” si rispose da sola ascoltando la sua razionalità.
Era vero, lei per lui non era nessuno... eppure quel bacio...
Poi delle voci la distrassero dai suoi pensieri. Erano concitate e provenivano proprio dal vicolo di Rue Scribe. Si affacciò verso la strada e curiosa, cercò di capire chi facesse tutto quel baccano.
“Come facciamo? Non sappiamo dove sia! Se torniamo a mani vuote quello ci uccide!” disse una voce maschile.
“Quella cagna dal pelo biondo non può essere scomparsa! Era anche ferita!” disse un uomo dalla voce ruvida e roca.
“Sono passati diversi giorni da quando l'abbiamo trovata a suonare a quell'angolo! Può essere ovunque!”
“Se trovo quel bastardo che l'ha portata via giuro che lo uccido!”
Ophèlie sgranò gli occhi e spaventata si nascose dietro la tenda che proteggeva il mondo di Erik e rimase in ascolto.
“Quel pazzo? Non ci riusciresti! Hai visto come ci ha conciato!”
La giovane sentì le gambe venirle meno e si adagiò al muro, pregando che non la trovassero. Avrebbe riconosciuto le voci che popolavano i suoi peggiori incubi tra mille. Gli uomini che volevano ucciderla erano lì! Non riusciva a muoversi, rimase puntellata al muro mentre le voci dei due si mescolavano in un discorso che le era impossibile seguire.
“Ophèlie!” La voce di Erik la fece sobbalzare e lei lo guardò col panico negli occhi sperando che non alzasse la voce come era solito fare.
“Cos'è successo?” le chiese sottovoce lui scollandole le spalle. Aveva capito che qualcosa non andava.
“Loro... gli uomini...”
“Loro chi?” chiese Erik sempre più preoccupato.
“Loro Erik!” disse la giovane incapace di spiegarsi meglio.
“Loro chi?” chiese ancora cercando di mantenere la calma, ma non gli era mai riuscito così difficile.
“I sicari! - sussurrò la donna - i sicari sono qui fuori... mi stanno cercando... mi uccideranno!” disse la donna aggrappandosi alla camicia dell'uomo.
Il panico nei sussurri spezzettati della giovane era chiaro ed Erik la strinse a sé per tentare di calmarla ed evitare che la sua voce, ridotta ad un acuto, potesse palesare la sua presenza.

“Facciamo così, adesso andiamo dal damerino e gli diciamo che non l'abbiamo trovata. Vediamo come reagisce... poi, tu lascia fare a me.” disse la voce del secondo uomo, quello che aveva osato toccare Ophèlie come nessuna donna meriterebbe di essere toccata.
Sentì la bile salirgli in gola così come la tentazione di uscire da lì ed ucciderlo con le sue mani, ma la forza con cui Ophèlie lo stringeva disperatamente a se', gli fece capire che il suo posto era lì... per il momento.

“Ciao Meg!” esclamò Christine vedendo la sorella uscire di corsa da casa sua.
“Oh! Ciao Christine! - esclamò la ragazza. - Come mai sei qui?”
“Passavo a trovare Maman, ho bisogno del suo aiuto.”
Meg sorrise. “Sarà felice di aiutarti. Io devo andare....” disse lei e sparì dietro l'angolo della casa.
“Maman?” chiese lei.
“Christine! Bambina mia! Come mai sei qui?”
“Ho bisogno del tuo aiuto.” e le mostrò la foto di una ragazza bionda, che aveva un'aria familiare anche per Eloise.
“Chi è?” chiese la donna notando che la giovane ritratta assomigliava molto, forse troppo, ad Ophèlie.
“Non lo so. Mi ricorda molto una ragazza che tempo fa mi ha salvato dal congelamento. Una giovane bellissima.” disse Christine.
“E cosa ci fai con questa foto?” chiese Eloise, ormai sicura che quello sguardo e quegli occhi non potessero essere altri se non quelli della giovane ospite di Erik.
“Dopo che la nostra casa è stata bombardata, io e Raoul ci siamo trasferiti in quella casa di proprietà di suo padre...”
“Si, me l'hai detto...”
“Bene, è stato lì che ho trovato questa foto, ma secondo Raoul è tutto frutto della mia fantasia.”
“Scusa se te lo dico bambina mia, ma Raoul non è famoso per il suo intelletto...” disse la donna cercando di alleggerire un po' la conversazione che si stava spostando su territori pericolosi.
“È vero! - ammise sorridendo Christine - ma tu Maman, che dici?”
“Non ho mai conosciuto la ragazza che ti ha salvato la vita, e questo volto penso di non averlo mai visto in vita mia.” Ed ancora una volta doveva mentire per Erik. Christine non doveva sapere che era stato suo marito a cacciarla.
“Io sono sicura che questa ragazza e quella che mi ha salvato siano la stessa persona, ma non capisco quale rapporto ci possa essere con la famiglia di Raoul.”
“Hai provato a chiederglielo?”
“Ha detto che non l'ha mai vista e che non gli sembra nemmeno la stessa ragazza...”
“Magari è vero... anche se...”
“Anche se?”
“È una strana coincidenza. Se tu sei sicura di averla già vista fidati, l'istinto non sbaglia mai.”
“Posso assicurati Maman che il mio ha sbagliato tutto... pensavo di aver fatto le scelte giuste, invece...”
“Quando facciamo delle scelte, purtroppo ci prendiamo anche tutte le responsabilità del caso.”
“Lo so...”
“Facciamo così, ti accompagno a casa così magari insieme riusciamo a venire a capo di questa faccenda va bene?”
“Grazie Maman...” la giovane sorrise all'indirizzo della donna e poco dopo, uscirono.
Madame Giry sperò che Christine non sentisse il lavoro febbrile delle sue meningi. Lei aveva capito tutto, ed aveva anche capito cosa ci facessero le foto di Ophèlie in casa DeChagny. Quella doveva essere la casa di Ophèlie, prima che il padre di Raoul uccidesse quello della giovane obbligandola alla vita in strada. Probabilmente Christine sperava che la rendesse partecipe di quel semplice ragionamento, ma la donna preferì non dirle niente. Christine non sapeva nulla della storia, mentre lei aveva molti elementi in più per avere un quadro completo della situazione... e dopotutto, era meglio che sua figlia non si sentisse troppo incuriosita da Ophèlie. Sapeva che se si fosse addentrata troppo in quella storia, sarebbe risalita ad Erik ed avrebbe cercato di riunirsi a lui, ma lui non aveva bisogno di quello... non adesso che Ophèlie era entrata nella sua vita, sconvolgendola... ne era certa.

“Meg!” esclamò Raoul quando vide il volto della giovane davanti a lui.
“Raoul, ti disturbo?” chiese la donna ma dal modo in cui lo guardava sembrava che la cosa non le interessasse. Entrò nell'ufficio del Visconte e lo attese vicino alla scrivania.
“Prego, entra pure...” disse lui sorridendo, ma la ragazza non stava sorridendo.
“Cos'è successo?” chiese lui chiudendosi la porta alle spalle e muovendosi verso la donna.
“Sono incinta...” disse lapidaria la donna.
Raoul fece finta di non aver capito anche se sapeva che Meg non avrebbe avuto ragione di dirgli che era incinta se la cosa non avesse toccato anche lui.
“Oh ma Meg! È stupendo!” disse lui tentando di abbracciarla, ma la donna resistette.
“È figlio tuo Raoul.”
A quelle parole Raoul non seppe rispondere ma Meg esplose in un urlo allegro e lo abbracciò.
“È fantastico non è vero?” chiese lei guardandolo negli occhi.
“Si... fantastico.” ma il suo tono non era affatto allegro.
“Cos'hai Raoul?” chiese ancora lei.
“Niente, niente... è … stupendo.”
Meg lo strinse ancora poi lo fissò diventando seria.
“Come facciamo?”
“A fare cosa?”
“Con Christine! Non puoi lasciarmi da sola! Ci rimetto la reputazione!” attaccò risoluta.
“Ed io pure! Sono un Visconte te ne sei dimenticata?”
“Cosa stai cercando di dirmi?” disse la donna diventando rossa in volto, aveva capito cosa lui stesse cercando di fare.
“Che la situazione è un po' complicata... e che...”
“E cosa? Vuoi lasciarmi sola con tuo figlio?” disse la ragazza alzando la voce.
“Vedi una strada migliore?” chiese questa volta serio Raoul.
“Si! Abbandona Christine, dì a tutti che in realtà non volevi sposarla! Ammetti una volta per tutte che l'hai sposata solo per pietà e per salvarla! Il matrimonio non sarà più valido se dirai che non l'hai fatto con convinzione!”
“E poi cosa faccio? Dovrò mantenerla per tutta la vita!”
“Parla con Erik, magari lui ha voglia di riprendersela!” disse la donna.
“Non usare quel tono con me e non parlarmi di Erik! È anche per colpa sua se siamo in questa situazione.”
“No, questa situazione - disse Meg indicandosi la pancia - è solo causa tua! Non c'entra Erik!”
“Non ero da solo quando è successo è chiaro?”
“Raoul, non sei nella posizione giusta per trattare!”
“Nemmeno tu se è per questo!”
A quelle parole Meg indietreggiò verso la porta dell'ufficio e disse “Allora lo dirò io per te!”
Uscì dalla porta dell'ufficio sbattendosela alle spalle.
“No! No Meg! Ti prego!”
Quando Raoul uscì la trovò immobile davanti alla porta che lo stava osservando con gli occhio iniettati di sangue.
“Sei un vigliacco! Lo sei sempre stato!” urlò Meg.
“Non urlare!”
“Vergognati! Abbietto e miserabile! Ti disprezzo! Ti disprezzo! Avevi detto di amarmi, avevi detto che avresti fatto di tutto pur di stare con me!” urlò la donna mentre usciva dalla porta d'ingresso.
Quando fu fuori Raoul le prese la braccia.
“Meg aspetta!”
“No! - disse lei liberandosi dalla stretta dell'uomo - ho aspettato fin troppo! Se tu non sei in grado di farlo, lo farò io per te!”
“Non osare!” urlò Raoul.
“Ti rovinerò! Fosse l'ultima cosa che faccio ma ti rovinerò!” urlò la ragazza, più forte dei bombardamenti che colpivano la città.
Non si rese conto che un cavallo stava correndo proprio verso la sua direzione.
“Meg! Attenta!” urlò Raoul, troppo tardi.
Meg si voltò ma non fece in tempo a muoversi che il cavallo la travolse, la schiacciò sotto gli zoccoli e la uccise.

Christine e Madame Giry osservarono attonite la scena che si era presentata loro subito dopo aver voltato l'angolo della casa. Meg era stata schiacciata dal peso del cavallo e Raoul era immobile ad osservarla.
“Meg! Meg!” Madame Giry urlò di dolore quando capì che non c'era più niente da fare per sua figlia e si abbandonò ad un pianto liberatore, versando le lacrime che in tutti quegli anni non le era stato concesso versare. Christine e Raoul osservavano la scena, distrutti.
Quando arrivò il carro per portare via Meg, Madame Giry e Christine lo seguirono, mentre Raoul rientrò in casa per stare da solo con se' stesso e poter sfogare l'enorme dolore che aveva provato vedendo l'unica donna che avesse mai amato uccisa davanti ai suoi occhi. Era colpa sua, era tutta colpa sua! Meg era rimasta incinta per colpa sua, non avevano potuto coronare il loro sogno d'amore per colpa sua ed adesso lei era morta. Si sentì svuotato e spogliato di tutto scoprendo che questa volta, non c'era il Fantasma dell'Opera a fargli da parafulmine per le sue mancanze. Annegò i dispiaceri in troppi bicchieri di Whisky e quando Edgar bussò alla porta per informarlo dell'arrivo di due persone per lui, fu tentato di dire che non aveva tempo per loro. Ma sapeva chi fossero quelle persone. Adesso la morte della ragazza sembrava così inutile, un capriccio che non gli avrebbe riportato indietro la sua Meg.
“Signore...” disse il primo uomo chinandosi ossequiosamente quando Raoul diede loro il permesso di entrare.
“Signori... - rispose Raoul - prego accomodatevi. Posso offrirvi qualcosa?” chiese lui indicando la bottiglia di Whisky mezza vuota.
“No grazie Signore” rispose il più massiccio dei due, la cui voce ruvida e roca suonava come il lamento di un vecchio rospo.
“Avete quello che vi ho richiesto?” chiese Raoul tentando di allontanare il groppo in gola al pensiero di quello che era appena successo. Vide il più magro osservare preoccupato l'altro.
“Signore, siamo spiacenti ma non siamo ancora riusciti a trovarla.” rispose il primo, quello che aveva sempre parlato con Raoul dal momento in cui aveva richiesto loro il lavoro.
“Immaginavo.” fu l'unica risposta che il Visconte diede.
“A quando la prossima convocazione?” chiese sempre il primo.
“A mai più. Grazie ad una serie di episodi la situazione si è sistemata da sola, non avrò più bisogno dei vostri servigi.”
L'uomo lo guardò in cagnesco. Non voleva farli andare via senza risarcirli vero? Per sicurezza strinse la pistola in mano ed attraverso la tasca la puntò vero il Visconte, pronto a fare fuoco nel caso in cui avesse anche solo pensato di non pagare.
“Effettivamente non avete concluso il lavoro...” disse Raoul più a se' stesso che non a loro.
L'uomo allora caricò la pistola.
“Nonostante ciò, ecco qui la ricompensa promessa.” disse Raoul mettendo sul tavolo un pacchetto che aveva tutta l'aria di essere una lauta ricompensa.
“20.000 franchi. Vi ringrazio per il vostro servizio.” concluse il Visconte.
I due uomini rimasero senza parole. 20.000 franchi? Erano molto di più rispetto ai 2.000 previsti e così i due, senza dire altro, si alzarono ed inchinandosi di nuovo uscirono da quella casa.

Doveva andare da lui, aveva bisogno di lui perché solo lui era in grado di consolarla dopo quello che era successo. Vedere il corpo di sua sorella calpestato da un cavallo era stata la cosa peggiore che le fosse mai capitata. Scese di corsa le scale che portavano al nascondiglio di Erik.

Erik era uscito, andando chissà dove e lasciandola ancora sola. La cosa non le dispiacque perché così avrebbe potuto approfittarne per continuare a leggere l'opera che le aveva brutalmente strappato di mano. Si avvicinò al tavolino e cercò la rilegatura del Don Giovanni. Quando la trovò, alcuni fogli
caddero sul pavimento e raccogliendoli sentì qualcosa di pesante finirle tra le mani. Posò i fogli scritti ed osservò ciò che aveva in mano. Sembrava un timbro. Aveva il manico di un legno pregiatissimo, perfettamente levigato, e al fondo, un cerchio di metallo annerito. Lo girò ed osservò per curiosità, quale misterioso sigillo potesse mai trovarsi in casa di Erik. Quasi urlò quando vide cosa quell'oggetto celava: un teschio! Sentì un brivido percorrerle la schiena. Tra le altre storie riguardanti il Fantasma dell'Opera c'erano anche quelle che raccontavano di alcune missive chiuse con della cera modellata a forma di teschio, il suo sigillo. Quel sigillo!
Sentì una morsa allo stomaco e il respiro uscirle dai polmoni ferendoli come lame taglienti.
Incapace di allontanare lo sguardo da quel volto scavato, seguì con la punta del dito la sagoma dello stampo mentre il cuore le si stringeva in un gelido dolore.
Erik... il Fantasma... lacrime dense di amaro le rigarono le guance... no, lui non era un fantasma, lei lo aveva toccato, gli aveva parlato e lui l'aveva accudita. L'aveva aiutata quando avrebbe dovuto lasciarla alla sua sorte e punirla per il furto di quel prezioso violino. Gemendo lasciò cadere il timbro dal lugubre marchio sul pavimento di pietra e si pulì le mani sull'abito come per ripulirsi i palmi dal contatto con l'arma di un delitto:
“Non è possibile" si disse imprimendo a quel pensiero tutta la forza di volontà e tutto il coraggio che stava abbandonando il suo cuore. Cercò di ripetersi che era assurdo, ma l'oggetto che aveva ritrovato era solo la prova dei sospetti che il suo intuito le aveva già sussurrato, quei sospetti che la sua mente aveva formulato ma che il suo cuore aveva nascosto dietro l'amore che aveva scoperto di provare per quello strano uomo.
“Erik!” una voce femminile urlava disperata quel nome. Ophèlie si spaventò e senza pensare agguantò un candelabro pronta a fronteggiare chiunque fosse apparso da quella tenda. Rimase attonita quando riconobbe lo sconvolto sguardo di Christine incrociare di nuovo per errore il suo... di nuovo in cerca di quello di Erik.
“Christine...” sussurrò Ophèlie.
“Chi sei tu?” chiese la ragazza facendo sparire ogni innocenza dal viso.
Le due donne rimasero un po' a fronteggiarsi poi una voce più familiare interruppe il fiume di pensieri di entrambe.
“Christine!” era Erik.
“Erik!” urlò la donna quando lo vide apparire sulla soglia. Abbracciandolo iniziò a piangere.
“Erik! Amore mio! Non sai cos'è successo!”
“Calmati piccolo angelo, calmati, ci sono qui io.” disse lui cercando di consolare la ragazza ma i suoi movimenti erano meccanici, non erano più trasportati da quel atroce quanto stupendo sentimento che lo aveva riempito fino a pochi mesi prima.
Ophèlie appoggiò il candelabro sul tavolino e sentì la bile salirle in gola. Sentire il suo Erik chiamato Amore da un'altra donna la fece imbestialire, ma non disse niente. Dopotutto, chi era lei per avere certe pretese? Lui non aveva più fatto riferimento a quello che era successo solo la sera prima e dopo l'ultima scoperta, si sentiva ancor più confusa ed abbandonata.
Erik sentì il tonfo del candelabro appoggiato con malagrazia sul tavolino di legno delicato e lanciò uno sguardo risentito ad Ophèlie, ma non riuscì più a toglierle gli occhi di dosso finché Christine non parlò.
“Meg! Meg è morta! E Raoul...”
“Non mi dire che finalmente le mie preghiere sono state esaudite!” disse sarcastico Erik. Ophèlie sorrise amaramente a quelle parole.
“Volevi che mia sorella morisse?” chiese Christine spaventata.
“No... no... non importa. È morta? Com'è morta?”
“È stata travolta da un cavallo mentre usciva da casa nostra!! Raoul era lì, ha visto tutto e non ha fatto niente! Non ha mai guardato nemmeno me con quello sguardo! Nemmeno quando mi hai lasciato libera di seguirlo perché pensavo di amarlo! Mai! Mai!!!” disse risentita Christine battendo i pugni sul petto di Erik.
Ophèlie sgranò gli occhi e lui allora, abbracciandola la accompagnò fuori a prendere un po' d'aria e per tentare di calmarla.

Quando i due sparirono, la consapevolezza che Erik era Il Fantasma dell'Opera la schiacciò inesorabilmente, facendola crollare per terra in preda alle convulsioni di un pianto isterico e disperato.
Quando si riprese rubò l'alcolico che Erik aveva usato per curarle la ferita e ne bevve un sorso. Aveva un gusto orribile, ma si sentì subito calmata dal calore che la bevanda aveva diffuso in lei. Rimase per terra, rannicchiata, sperando che quell'incubo finisse. Chiuse gli occhi sicura che una volta riaperti si sarebbe trovata di nuovo al suo angolo, misera e disperata, lontana da quel posto, lontana da Erik... in fuga da un altro incubo.

“Mio piccolo angelo cosa è successo?” disse Erik una volta che i due furono fuori.
“Ti ho detto cosa è successo!” esclamò la giovane.
“Piccola mia stai tranquilla, raccontami di nuovo tutto...”
La ragazza raccontò di come si fosse svegliata quella mattina decisa a chiedere aiuto a Madame Giry per riconoscere la donna che era ritratta in quella foto. Di come sua madre l'avesse convinta a fidarsi del suo istinto, di come fosse morta Meg e di quale delusione fosse stata vedere quello sguardo negli occhi di suo marito.
“Eloise come sta?” le chiese Erik.
“Male, molto male. Ha voluto restare sola, mi ha fatto andare via ed io non sono riuscita a pensare a nessun' altro se non a te.”
“È consolante sapere che ogni tanto ti vengo ancora in mente...” disse Erik, ma lo freddezza di quella espressione non passò inosservata alle orecchie di Christine.
“Cosa vuoi dire?” chiese la ragazza.
“Niente, non voglio dire niente mio piccolo angelo. Non pensavo che un giorno avrei mai potuto stringerti ancora tra le braccia.”
“Avete scoperto chi fosse la donna?” chiese Erik per curiosità.
“No, Maman ha detto di non conoscerla.” disse Christine tirando di nuovo fuori dal mantello la fotografia e porgendola ad Erik. La osservò ancora un momento poi si voltò verso di lui e fece correre un veloce sguardo tra la foto e le scale.
Erik si sentì quasi morire quando riconobbe un' Ophèlie più giovane in quella foto e sperò che Christine non notasse la somiglianza, ma si sbagliava.
“Chi è la ragazza che è in casa tua?” chiese seria Christine.
“Speravo non me lo chiedessi.”
“Invece voglio saperlo.”
“Christine amore mio, non ti farebbe piacere saperlo.”
“Perché?”
“È... è meglio di no.”
“Ecco perché aveva il tuo violino! Tu la conosci!”
“Conoscerla mi sembra un termine un po' esagerato.”
“E perché l'aveva? È la stessa ragazza vero?”
“Si, è la stessa ragazza.”
“Come faceva ad avere il tuo violino con la nostra musica! Come?”
“Me l'ha rubato.”
La ragazza lo guardò con fare interrogativo. Come faceva ad essere sopravvissuta ad un furto a lui?
“Rubato?... ed è ancora viva?” chiese candidamente lei.
Erik sorrise. “So che è strano ma si, è ancora viva. È una storia lunga. L'ho salvata da...” poi si morse la lingua. Christine non doveva sapere.
“Salvata da cosa?”
“Da due sicari.” disse rassegnato Erik.
“Due sicari? Chi mai può volerla morta? Chi li ha mandati? Erik tu sai cose che io non so. Bene, voglio sapere tutto! Tutto!”
“Non ti farebbe piacere saperlo...”
“L'hai già detto.”
“Ti sei chiesta perché?”
“Ti prego! Ti prego Erik, dimmi tutto.”
“Non posso!”
“Erik!” urlò la ragazza e gli tolse la maschera facendolo imbestialire.
“Vuoi sapere la verità? Vuoi la verità? Ebbene eccoti la verità!” urlò lui togliendosi la mano dal volto sfigurato.
“I sicari sono stati mandati dal tuo adorato maritino! - disse caustico - E vuoi sapere perché? Perché Ophèlie, si è questo il suo nome, l'ha visto una sera in un quartiere malfamato di Parigi. Pieno di bordelli, si! Dopo che è stata a casa tua Raoul l'ha minacciata di morte se avesse anche solo osato parlarti! Lei ha avuto paura ed è scappata anche perché il tuo principe azzurro ha usato modi che non si addicono nemmeno al peggiore degli assassini! Quando il ragazzino ha capito che era fuggita le ha messo alle calcagna due animali assetati di sangue e di lussuria che hanno tentato di farle violenza nel modo peggiore che una donna possa immaginare! Io ho visto, l'ho salvata e l'ho tenuta nascosta qui, con me, al sicuro... con Il Fantasma dell'Opera e nessuno si è mai avvicinato. E non uscirà di qui fin quando quei bastardi non saranno innocui, è chiaro?” concluse lui in risposta allo sguardo offeso di Christine. Poi questi mutò e si trasformò in ferito e da ferito a sconvolto perdendosi nel suo.
“Raoul, Raoul ha fatto tutto questo?”
“Mi dispiace Christine io...”
Ma la ragazza non rispose. Gli si buttò tra le braccia e pianse ancora.
“Erik! Fuggiamo insieme, solo io e te. È l'unico modo che abbiamo per essere felici!”

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A me fa piacere che qualcuno legga, ma mi farebbe altrettanto piacere leggere quello che pensate. Grazie.

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Capitolo 13
*** Solitudine ***


Buonasera , sto già gongoando per quello che verrà raccontato in questo capitolo, e spero veramente di leggere qualche commento soprattutto su Eloise che ho paura di aver reso un pò troppo "arzilla".


Capitolo 13 - Solitudine

“Ophèlie! Ophèlie!”
La giovane si alzò a fatica dal torpore in cui l'alcool e la disperazione l'avevano gettata.
“Erik.” biascicò lei.
“Come state?” le chiese preoccupato l'uomo.
“Sono stata meglio.” ed ancora sentì una fitta al cuore. Basta, basta, non ne poteva più di quella sofferenza.
“Posso fare qualcosa?”
“Si, lasciarmi in pace.” disse secca.
Erik allontanò le mani dalle spalle della giovane e si sedette davanti a lei.
“Voi... avete bevuto?” la accusò lui indicando la bottiglia di assenzio accanto alla donna.
“Ho solo assaggiato...” disse saputa la ragazza.
“Siete ubriaca!”
“No, non lo sono. Cosa è successo a Christine?” disse, sicura che parlare di lei lo avrebbe distratto dalla situazione disastrosa in cui si trovava.
“Meg, la ricordate Meg?”
“Vagamente. L'ho vista solo una sera... ed era buio.”
“Meg è la sorellastra di Christine.”
“Si questo l'avevo intuito.”
“È morta, uccisa da un cavallo.”
“Cosa?” chiese Ophèlie che poco per volta stava riprendendo il controllo di se'.
“Si, davanti agli occhi di Raoul e di Christine, che ovviamente si è accorta di tutto.”
“Quindi?”
“Quindi poco fa mi ha chiesto di fuggire con lei!” esclamò lui con gli occhi che brillavano per l'emozione e la felicità.
“Cosa?” esclamò risentita la giovane ormai lontana dal torpore di poco prima. Sentiva il fuoco bruciarle dentro. Christine? Che chiedeva a lui di fuggire dopo le sofferenze che gli aveva causato? Come osava?
“Vi ha chiesto di fuggire?”
“Si!”
“Dopo tutte le sofferenze che vi ha causato?”
“Non è fantastico?”
“E voi cosa le avete risposto?” continuò la giovane ignorando la domanda retorica che Erik le aveva rivolto poco prima.
“Fuggiremo domani nella notte!”
“Fantastico...” disse nauseata la ragazza.
“Non siete contenta?”
“Se lo siete voi non posso che esserlo anche io.” disse lei cercando di fargli capire cosa volesse dire quella frase.
“Rispondetemi sinceramente Ophèlie. Avete detto di essermi amica...” disse lui prendendole le mani tra le proprie.
“L'ho detto?” chiese lei.
“Non proprio, ma mi avete chiesto di fidarmi di voi, bene lo sto facendo, cosa ne pensate?”
“Volete la verità?”
“Pura e semplice, senza giri di parole...”
“Potrebbe non piacervi...”
“Vi prego!” chiese lui tanto vicino alla giovane che per un attimo pensò di poterle leggere nell'anima.
“Secondo me non dovreste farlo.”
“E perché mai?” si irrigidì l'uomo.
“Vi ripeto che non vi piacerà quello che sto per dirvi, quindi forse...”
“Quindi forse dovete dirmelo! Non sono un uomo molto paziente.”
“Si questo lo so.” disse dura la giovane.
“Ebbene?”
La ragazza sospirò, pronta a prendersi la responsabilità di ciò che stava per dire, consapevole che Erik non l'avrebbe presa bene.
“Vi ha già abbandonato una volta, cosa vi fa pensare che...”
“Non lo farà più questa volta!” la interruppe l'uomo.
“Ve l'ha detto lei?”
“Me l'ha promesso! Questa volta non lo farà.”
“E voi siete così ingenuo da crederle?” disse la donna innervosita dal suo atteggiamento. Detestava Christine proprio perché inibiva le capacità intellettive di Erik e questo lei non lo sopportava.
“Io la amo!”
“Magari lei non ama voi!” incalzò la giovane.
“Invece si! Ne sono certo!”
“Ve l'ha mai detto?” rispose lei portando a segno l'affondo definitivo.
Erik non rispose... avvilito.
“Perdonatemi.” disse la giovane abbassando lo sguardo.
“No, non preoccupatevi. Voi mi avete detto che bisogna fidarsi ed io adesso voglio farlo.”
“So cosa ho detto, ma io non mi fiderei di un uomo che mi ha abbandonato... comunque sia. La scelta è vostra... sono contenta che le cose si siano sistemate... buona notte.” disse lei uscendo per andare in camera sua.
“Io mi fido di Christine!” urlò lui al vuoto abbastanza forte perché Ophèlie potesse sentirlo.
“... ma non di me...” si disse la ragazza mentre usciva fuori nella fredda notte parigina.

Quella mattina Ophèlie non era ancora scesa alla dimora sul lago ed Erik iniziava a preoccuparsi. Possibile che l'avesse ferita con le sue parole, possibile che fosse arrabbiata? Possibile che avesse fatto qualche pazzia? Tutte quelle domande non gli davano tregua così decise di andare nella sua stanza per assicurarsi che stesse bene.
“Ophèlie...” disse bussando alla porta della camera. Quando non ricevette risposta decise di aprirla leggermente per capire cosa stesse succedendo.
“Oph...” le parole gli si troncarono in gola quando vide che il letto era vuoto e la stanza esattamente come la lasciava tutti i giorni. Se non fosse stato per quel bigliettino sulla coperta, sarebbe sembrato che in quella stanza non ci fosse mai stato nessuno. Spalancò la porta e corse verso il baldacchino.
“Ophèlie!” sussurrò lui quando lesse il biglietto che lei gli aveva lasciato.

“È giunto per me il momento di camminare con le mie gambe.
Buona fortuna Erik, grazie di tutto.
Con affetto.
Ophèlie”


Quelle erano le uniche parole scritte su quel foglietto. Quando lo voltò in cerca di qualcosa che dicesse di più lesse:

“L'amore è lasciare liberi. Sono sicura che capirete”.

Doveva andarsene da lì, lontano, il più lontano possibile. Aveva giurato di essere pronta a fare anche dei sacrifici per lui, quello era il momento, quella era la cosa giusta da fare. Oppure no? Rallentò osservandosi alle spalle, ormai lontana da Erik. Sperò di vederlo apparire da qualche vicolo, correre verso di lei, sperò di sentire la sua voce chiamare il suo nome, come era successo quella volta in quello strano luogo. Anche adesso che sapeva chi lui fosse, non riusciva a lasciarsi tutto alle spalle. Lei aveva imparato ad amare quell'uomo, ad amare la sua dubbia ma esilarante ironia, ad amare lui, Erik... non quello che era stato. Sentiva che colui che aveva conosciuto non era più chi aveva terrorizzato Parigi, era semplicemente un uomo, con le sue debolezze, con le sue passioni... col suo genio; un genio perfetto, completo, con una mente sensibile e raffinata... affascinante. La giovane sospirò e chiuse gli occhi tentando di allontanare da lei quegli stupidi pensieri. Lui non l'avrebbe seguita, non l'avrebbe supplicata di stargli accanto e lo sapeva, strinse al petto il suo violino.
“Magari non tornerà per me, ma per te sicuramente...” disse stizzita allo strumento nascosto sotto il mantello. L'aveva rubato di nuovo, come unico ricordo di Erik, come merce di scambio per rivedere di nuovo, anche solo per un secondo, il suo sguardo. Sapeva che non avrebbe mai lasciato il suo adorato violino, aveva funzionato una volta, chissà che non potesse farlo di nuovo.
La luce giallastra dell'alba illuminava il pavimento umido delle strade ed alcune carrozze iniziavano a popolare le strade. Comprò un giornale e scorse le notizie. Parigi era ancora sotto assedio e a giudicare dai capannelli di persone armate che giravano per la città, la situazione non era delle migliori. Si sedette sui gradini del Municipio e sfogliò il giornale.
Nella pagina degli annunci dei defunti, campeggiava il nome di Meg Giry i cui funerali si sarebbero svolti quella mattina stessa.
La ragazza pensò alla luce che brillava negli occhi dei due innamorati ed al volto materno e alla gentilezza di Madame Giry. Povera donna, lei non sapeva come fosse perdere il sangue del proprio sangue, ma sapeva cosa volesse dire perdere un familiare. Chiuse il giornale e si mosse verso la chiesetta lì vicino dove si sarebbero svolti i funerali della giovane.

Erik rimase attonito, ad osservare quelle parole, consapevole di non stare comprendendole appieno. Ed ecco che un'altra donna gli aveva rubato il cuore e l'aveva abbandonato. Avrebbe dovuto saperlo che sarebbe successo, avrebbe dovuto capire che per lui non ci sarebbe mai stata pace, non avrebbe mai trovato la sua metà smarrita. Piegò il biglietto e lo mise in tasca.
“Che ti serva da monito, Erik... che ti serva da monito.” e calmo scese di nuovo in casa dove prese il suo mantello ed uscì. Passò davanti a tante cose senza accorgersene, senza capire di cosa si trattasse, di quali costruzioni stava oltrepassando, poi un soffio di vento gli lanciò in faccia una pagina di giornale. La prese stizzito, pronto a buttarla, ma una cosa attirò la sua attenzione. Un nome campeggiava tra i defunti “Meg Giry”. Erik osservò il foglio e poi si guardò intorno, aveva camminato molto e non si era accorto di essere arrivato davanti al Municipio. Il funerale si sarebbe svoltò non molto lontano da lì, e pensò che, visto cosa aveva fatto Eloise per lui, il minimo che potesse fare era presentarsi al funerale di sua figlia. Abbandonò la pagina al vento che la portò via con se', con la stessa velocità con la quale glie era stata portata... doveva farlo.
Si incamminò immerso nei suoi pensieri e nelle mille domande che la scomparsa di Ophèlie gli avevano risvegliato in testa. Avrebbe voluto vederla, solo per chiederle il perché di quello che aveva fatto.

Fuori dalla chiesa c'era molta gente e la ragazza passò inosservata nella moltitudine di persone che affollavano l'entrata del luogo sacro.

Eloise sentì una mano toccarle il braccio e si voltò di scatto. Fece solo in tempo a vedere lo svolazzare di un lungo mantello nero sparire dietro una casa e subito dopo vide il volto della persona a cui apparteneva quel mantello.
“Erik!” sussurrò la donna quando lo riconobbe.
Lo vide farle cenno di non parlare e che avrebbero potuto farlo dopo. Vide le labbra dell'uomo formulare la parola “Coraggio” e la donna sorrise mesta. Mai si sarebbe aspettata di trovarlo lì, per il funerale di sua figlia.
Stava seguendo il corteo all'interno della chiesa quando sentì qualcuno chiamarla per nome. “Eloise.”
La donna si voltò e rimase stupefatta di trovarsi davanti Ophèlie.
“Io, mi dispiace, sono un disastro in queste situazioni...sono... sono venuta solo per farti le condoglianze.”
“Oh, Ophèlie!” disse Eloise e strinse la ragazza.
“Grazie.”
La giovane ricambiò con calore.
“Tu ed Erik, siete come due figli per me. Grazie.” la ragazza sorrise riconoscente del ruolo che la donna le aveva affidato. Le due si separarono e la giovane tenne le mani della donna.
“Ti sono vicina Eloise...”
“Grazie.” disse la donna con le lacrime agli occhi. Tentò di portarla con sé davanti ma la ragazza resistette.
“Preferisco restare qui. Grazie.” disse.
Eloise allora le lasciò le mani, l'abbracciò di nuovo e le diede un bacio sulla guancia.
Ophèlie iniziò a piangere, mai avrebbe pensato di poter ricevere un bacio tanto materno dopo anni. Decise di restare comunque al fondo della chiesa, malgrado la supplica negli occhi di Eloise le stesse facendo ancora sanguinare il cuore.
Erik era nascosto dietro una colonna. Non ricordava quando fosse stata l'ultima vota che aveva messo piede in una chiesa. Di sicuro abbastanza da avere iniziato a credere che l'esistenza di Dio fosse solo una bella invenzione. Non poteva esistere qualcuno che lasciasse le sue creature vessare nella disperazione come gran parte del genere umano. Pensando alla propria situazione, la sua mente andò al raggio di sole che era entrato nella sua vita. Pensò ad Ophèlie e sentì un'inaspettata fitta al cuore al solo pensiero che lei se ne fosse andata. Si guardò intorno a disagio con sé stesso ed i proprio pensieri e vide un'altra figura nell'oscurità al fondo della Chiesa, dalla parte opposta di dove si trovava lui. La riconobbe subito.
“Ophèlie!” sussurrò e fece per muoversi verso di lei, ma sapeva che non era una buona idea uscire dal suo nascondiglio quindi rimase dietro la colonna ad osservarla, sperando di poterle parlare alla fine della Messa.
Quando la funzione terminò, Erik corse fuori quasi sollevato di essere uscito da quel luogo che non aveva mai amato. Lo considerava pieno di gente che non aveva intenzione di muovere un dito verso le persone che avevano veramente bisogno e quando si guardò intorno per cercare Ophèlie, fece appena in tempo a vederla sparire tra i vicoli parigini. Non avrebbe potuto seguirla nemmeno volendo, non alla luce del sole e così attese nell'oscurità che tutti uscissero. Tanto l'avrebbe trovata a casa sua, nel sotterraneo... lei non poteva fare a meno di lui, e lui lo sapeva.

La giovane si allontanò pensando che avrebbe dovuto salutare Eloise prima di sparire per sempre da Parigi, ma non c'era tempo. Con la sua sacca sulle spalle si mosse verso le porte della città, decisa a sparire per sempre e a non tornare mai più. Se la morte l'aspettava fuori dal sotterraneo di Erik, l'avrebbe trovata.

Vide il corteo funebre allontanarsi sulla via e pensò di tornare a casa. Aveva intenzione di andare a trovare Eloise la sera, per farle compagnia, dopotutto, era il minimo che potesse fare.
Mentre camminava verso casa lasciò la mente ripercorrere i ricordi della piccola Meg. Sorrise al ricordo di quanto fosse terrorizzata dalle storie sul Fantasma dell'Opera e di quanto lui si divertisse sadicamente ad alimentare tali dicerie. Sapeva che Eloise aveva fatto gran parte del lavoro in tale senso, con tutte le storie terribili che sicuramente si era inventata per farla stare lontana da lui. Si ricordò il giorno in cui Christine aveva debuttato, si ricordò la piccola Meg ballare leggiadra sul palco, sinuosa e leggera come una piuma. Una ballerina bravissima come sua madre ed altrettanto decisa e caparbia. Non ricordava di aver mai visto Meg civettare come le altre ballerine, era una ragazza concreta, senza grilli per la testa, cresciuta senza padre e ben lungi da vizi e capricci. Eloise l'aveva forgiata benissimo, ma purtroppo, tutto il suo impegno ora era andato in fumo, distrutto dagli zoccoli di un cavallo. Sentì un groppo in gola. Non poteva restare indifferente alla morte di Meg, la figlia dell'unica donna che si fosse mai occupata di lui... prima di Ophèlie.
Scese le scale che portavano alla sua dimora, sicuro che l'avrebbe trovata davanti all'organo ad osservarlo afflitta, pronta a supplicarlo di riprenderla sotto la sua protezione. Avrebbe deciso poi il da farsi, dopotutto, era giusto che pagasse per essersi allontanata da lui senza spiegazioni.
Scostò la tenda assumendo lo sguardo più fiero di cui fosse capace, ma quell'espressione si sgretolò quando capì che non c'era nessuno né davanti all'organo, né da nessun'altra parte. Rimase interdetto, bloccato sulla soglia ad osservarsi intorno preoccupato. Quando si riprese, si tolse il mantello e disse:
“Ho capito, è da qualche altra parte. Effettivamente sarebbe stato troppo scontato farsi trovare qui. Oh, ma ti troverò, vedrai.” e detto questo buttò il mantello sull'organo e si mosse verso l'Opera.
Raggiunse il corridoio ed entrò nel primo sottopalco per vedere se per caso era finita di nuovo nella stanza dei supplizi, ma gli specchi che coprivano le pareti della stanza esagonale rifletterono solo la sua figura. Andò allora nel camerino della Prima Donna, ma nemmeno lì c'era nessuno. Decise di lasciare la stanza di Christine per ultima tanto per farle credere di averla fatta franca, e così si mosse verso il Palco. Nei box, in platea, dietro le quinte... nessuno. Era entrato nei meandri più nascosti, era tornato nella cappella, aveva messo sottosopra tutto il teatro ed ora stava salendo le scale per raggiungere la stanza di Christine. Spalancò la porta sapendo che avrebbe spaventato la giovane ma fu lui a spaventarsi quando vide che nemmeno lì, c'era nessuno.
Aprì il passaggio segreto che portava al lago e tornò verso casa.
“Ma tanto adesso tornerà. Vedrai se non lo farà. È tornata persino Christine, lo farà anche lei e allora quando lo farà vedrai cosa l'aspetterà!” ma il panico stava già prendendo il sopravvento. Non sapeva come potesse essere possibile che non fosse già impazzito.
“Forse perché pazzo lo sei già!” si rispose.
“Io sono pazzo? Io sono pazzo? Adesso vado giù e ti faccio vedere io chi è il pazzo!”
Scese le scale quasi di corsa urlando: “Vedrai! Vedrai!”
“Mi ha fatto uno scherzo! Si diverte la ragazza, le piace farmi preoccupare!” continuava a dirsi, per cercare di coprire il silenzio assordante del luogo, dove nemmeno le gocce di umidità osavano cadere e dove il suo cuore veniva sopraffatto e privato della sua musica. Scese giù, sempre più giù e man mano che scendeva, la consapevolezza che lei non c'era più si faceva sempre più palpabile e soffocante.
“No! È già successo una volta! Non può... Non deve succedere ancora no! Non ancora!”. Disse mentre le parole gli inciampavano in gola.
Chissà se l'avrebbe trovata sul serio ad attenderlo nella sua dimora, chissà se le sue convinzioni non si sarebbero rivelate ancora una volta una sciocca fantasia.
“Ti prego, ti prego... dimmi che ci sei! Ti prego!” piagnucolò.
Arrivò a casa senza fiato e con il cuore che palpitava affaticato dall'ansia e dalla corsa.
Lei non c'era. Urlò disperato ed impazzito. Era stato tradito di nuovo. Abbandonato ancora una volta! Non poteva essere possibile! Osservò il letto e gli parve di vederla ancora lì, febbricitante e tremante, bisognosa di lui, di amore, delle sue cure.
“NOOO!” urlò lui e l'eco si riflesse contro le mura della caverna riempiendo l'aria di un suono lugubre e rabbioso come quello di un terremoto.
Prese un candelabro e colpì il letto, forte, sempre più forte. Le laccature si staccarono dalla struttura. Il legnò si bombò e si crepò sotto i suoi colpi decisi. Quel letto! Quel letto!!! Tutte le donne che vi avevano dormito l'avevano abbandonato. Lì aveva dormito Christine, lì aveva curato Ophèlie, e lì lui stesso aveva composto intossicato dalla dolce presenza di quello che aveva creduto il suo angelo redentore... Ophèlie.
Quando la foga della rabbia si fu esaurita, Erik si accasciò per terra in preda ad un pianto isterico e rabbioso. Piangeva per la frustrazione e rideva al pensiero di quanto fosse stato sciocco a pensare che una donna potesse amarlo per quello che era. Assestò un pugno alla massiccia struttura di legno ed urlò per il dolore.
“Maledetto! Maledetto tu! Maledetto io per la stupidità con cui mi sono lasciato andare!”
Prese l'assenzio, una parte lo rovesciò sulla ferita che si era procurato ed una parte la bevve. Gli venne un conato appena sentì il gusto terribile del liquore bevuto senza averlo riscaldato con lo zucchero. Lo sputò: “Come ha fatto a berlo così?” si chiese lui ricordando ancora Ophèlie ubriaca sdraiata per terra. Iniziò a ridere, sguaiatamente, senza una ragione apparente. Il ricordo di quella scena gli sarebbe rimasto sempre impresso nella mente, come lei gli sarebbe rimasta impressa nel cuore. Una consapevolezza terribile si fece strada tra i pensieri sconnessi ed annebbiati dalla rabbia e dalla disperazione: lui l'amava.
Si, l'amava, e lei era scappata, fuggita, lasciandogli un enigmatico messaggio in cui diceva che lui poteva capire... ma invece no, non capiva.

“L'amore è lasciare liberi. Sono sicura che capirete”.

Cosa voleva dire? Poi le parole di Ophèlie gli tornarono alla mente:
“Per vedere felice la persona che si ama si fanno un sacco di pazzie...” l'aveva detto quando aveva scoperto che lui l'aveva lasciata libera di vivere il suo amore con Raoul.
“Sono sicura che capirete... l'amore è lasciare liberi” quelle frasi si accavallarono nella sua mente. Tirò fuori il foglietto e lo rilesse:

“È giunto per me il momento di camminare con le mie gambe.
Buona fortuna Erik, grazie di tutto.
Con affetto.
Ophèlie”
“L'amore è lasciare liberi. Sono sicura che capirete”.


Spalancò gli occhi, illuminati da una repentina comprensione e fu allora che capì: lei lo amava!
Ma allora perché era andata via?
Non ebbe bisogno di rispondersi. Lui stesso l'aveva fatto ed ora capiva molte cose. Capiva perché lei non si lasciasse andare mai a giudicare, perché non parlasse mai di Christine e non gli chiedesse niente, perché l'aveva trovata ubriaca e sdraiata per terra. Si sentì uno sciocco ragazzino a non averlo capito.
Ora era sicuro di volere indietro Ophèlie. Non si sarebbe spiegato altrimenti il brivido di gioia che l'aveva percorso quando l'aveva vista in chiesa, il panico che l'aveva pervaso quando aveva capito che lei non c'era più, il bisogno incontrollabile di averla accanto, il desiderio di stringerla forte fino a diventare un tutt'uno con lei. Si sentì mancare per quelle rivelazioni che tutte insieme erano arrivate a bombardargli la mente. Aveva bisogno d'aiuto, ma era consapevole che in quel momento Eloise, non era in grado di offrirglielo. Nonostante ciò, prese il mantello ed uscì nella luce del tramonto per andare a trovare la sua vecchia amica, deciso a non parlare di sé, ma a starle solo vicino... come fanno gli amici.

I fucili dei due le si incrociarono davanti agli occhi impedendole il passaggio. Tentò di nuovo ma uno dei due le si parò davanti.
“Non si passa!” disse l'uomo in un francese sgrammaticato ed insicuro.
“Perché non si può? Devo uscire dalla città.” disse la ragazza decisa.
“Non potete! La città è nostra e nessuno esce fino a nuovo ordine.”
Sapeva che sarebbe successo, ma non aveva niente da perdere tanto valeva provarci ancora.
“Io non posso stare qui! Mia madre è di un paesino fuori città ed ha bisogno di me! Devo passare!” disse muovendo un altro passo ma questa volta l'uomo la spinse via dalle porte della città.
“È l'ultimo avvertimento! Se non rinunciate, vi porteremo in prigione.” Ophèlie lo osservò. Non aveva molta scelta, così, rassegnata, proseguì la sua strada, decisa a trovare una falda nelle mura sorvegliate. Mentre camminava per le vie di Parigi, vide un gruppo di poveracci scaldarsi intorno ad un fuoco improvvisato.
“Posso?” chiese, indicando il bidone.
Un uomo le fece segno di sì ma nessuno parlava. Se non fosse stato per le urla concitate che provenivano da dietro un muro la donna avrebbe pensato di trovarsi in una città fantasma.
Si mosse verso il rumore e vide un gruppetto di persone che ascoltavano un giovane uomo, in piedi su una cassa rovesciata che stava evidentemente facendo un comizio.
“Domani all'alba marceremo su Mont Martre! Allontaneremo dagli invasori i cannoni che sono di nostra proprietà! Aiuteremo la Guardia Nazionale e limiteremo la presenza prussiana a piccoli confini e se sarà necessario, li uccideremo tutti!”
“SI!” un urlo si alzò dalle persone che ascoltavano e in pochi secondi, appuntiti strumenti di lavoro si alzarono al cielo.

“Buonasera, sono un amico di Madame Giry, sono venuto qui a portarle le mie condoglianze.”
“Prego - disse Cècile osservando curiosa l'uomo vestito di nero che indossava un enorme cappello a tesa larga fermo sulla soglia - si accomodi”.
L'uomo non alzò nemmeno lo sguardo ed attese all'entrata la padrona di casa.
“Madame, un suo amico l'attende all'entrata le vuole porgere le sue condoglianze.”
Eloise si alzò a fatica dal divano e si mosse verso l'entrata ma la sua domestica le bloccò un braccio.
“Faccia attenzione Madame, non mi sembra un tipo raccomandabile.”
“Non preoccuparti Cècile, tu vai pure in camera tua, lo faccio accomodare io.”
“Ma, Madame...”
“Ho detto che lo faccio accomodare io.” disse secca Eloise impedendo alla domestica di controbattere ed indicandole con un cenno della testa le scale. La domestica non osò rispondere, prese le sue cose e disse:
“Come vuole lei Madame”. Sparì su per i piani più alti lanciando un ultimo sguardo dubbioso al losco figuro in piedi nell'entrata.
“Erik!” esclamò Eloise abbracciando il suo amico.
“Ciao Eloise. Mi spiace non aver potuto starti più vicino però...” disse lui osservando gli occhi gonfi ed arrossati della donna.
“Non preoccuparti Erik, non preoccuparti. Mi hai fatto il più bel regalo che potessi farmi venendo in chiesa.” disse la donna asciugando le lacrime che le cadevano dagli occhi.
“Non ho intenzione di diventare un bigotto come voi altri.”
Eloise lo squadrò e disse: “Vedo che almeno tu stai bene... - commentò caustica - Non sono commossa per la chiesa, ma perché era il funerale di mia figlia...” disse la donna con la voce incrinata dal pianto.
“Eloise, io, non so cosa dirti... io...” ma Eloise non gli disse niente, lo abbracciò e lui ricambiò.
“Tu ed Ophèlie siete stati così... così...”
“Ophèlie?” chiese Erik, quasi ruggendo il nome di quella donna.
“Si, lei... era... era lì, in chiesa.” disse la donna osservando spersa Erik.
“Si, si... lo so...” disse Erik deglutendo e spostando lo sguardo fuori dalla finestra.
“A proposito? Dov'è? L'hai... lasciata a casa?” chiese la donna ma aveva capito che c'era qualcosa che non andava.
“Si... l'ho lasciata a...”
“L'hai lasciata sola?” lo interruppe la donna spalancando gli occhi ed alzando il tono di voce di un'ottava.
“No, cioè, si... in realtà... - sospirò - se fosse a casa mia sarebbe al sicuro...”
“Cosa? - Eloise sussultò alitando quella parola - Cosa vuoi dire?”
“Niente, non voglio dire niente, non voglio parlare di altro, sono venuto qui per stare con te e...”
“Erik! Cos'è successo ad Ophèlie?” disse autoritaria la donna.
L'uomo rimase stupito della forza con cui quella donna stava parlando anche dopo un avvenimento del genere. Ma poi si rispose che Eloise era sempre stata una donna forte, sopratutto quando si trattava di proteggere le persone a cui teneva. Non poté fare a meno di sentirsi fortunato, ma allo stesso tempo un egoista e presuntuoso. Lei doveva pensare a sua figlia, non a lui.
“Spero niente... - si arrese l'uomo - ...comunque non voglio...” tentò di cambiare discorso ma invano.
“Speri?” chiese stupita la sua amica.
Erik la guardò ed Eloise capì esattamente cosa significasse quello sguardo.
“Cosa è successo Erik?” chiese lei prendendolo per un braccio e conducendolo sul divano.
“Prima di venire al funerale, ho scoperto che lei non c'era più...”
“È scappata?” chiese.
“Non so se è scappata, so solo che non era più nella stanza di Christine.”
“Nella stanza di Christine?” chiese Eloise.
“Si, ha deciso di dormire lì appena si è ripresa dalla febbre.”
“E tu glie l'hai permesso?” chiese sempre più stupita Madame Giry.
“Si...” disse l'uomo abbassando lo sguardo.
“C'è dell'altro vero? Sai perché è scappata, te lo leggo negli occhi.”
“Non posso dirtelo.”
“Puoi dirmi tutto quello che vuoi Erik, è sempre stato così.”
“La situazione è un po' complicata.”
“Posso aiutarti?”
“Non lo so...”
“Non farmi fare tutta questa fatica Erik, ti prego...” lamentò la donna portandosi le mani sugli occhi.
“Dopo l'incidente di Meg, Christine è venuta da me e...”
“E?...”
“E mi ha chiesto di fuggire con lei.”
“... e lei ha sentito?” chiese Eloise, per niente stupita da quella notizia. Sapeva che prima o poi sarebbe successo.
“No, non ha sentito, glie l'ho detto io...”
“Oh... - disse la donna alzando gli occhi al cielo - uomini.” sussurrò rassegnata la donna.
“È colpa mia!”
“Ma no Erik! Perché dici così?” chiese sarcastica la donna.
“Non è il caso di usare dell'ironia in questo momento Eloise!”
“Oh, ed io che è una vita che convivo con la tua di ironia.” disse piatta.
Erik la guardò truce.
In un'altra situazione probabilmente avrebbe riso a vederlo parlare in quel modo. Quella volta no, ma anche se era distrutta, capiva che anche lui aveva bisogno di aiuto ed anzi, la sua presenza lì, le fece quasi dimenticare la disgrazia capitata in casa sua.
“Perché ti stai struggendo così tanto? Fuggirai con Christine, quando?”
“Stasera...” ringhiò.
“Dovresti essere felicissimo, non è quello che sogni da una vita? Non è lei che vuoi?” chiese la donna, ma aveva già capito tutto.
“Non lo so più cosa voglio... - disse l'uomo - Non so cosa provo, non so cosa fare...”
“Erik, tu sai cosa vuoi, ma non vuoi ammetterlo...”.
L'uomo la guardò e lei lesse la tacita risposta nascosta in quelle pozze di verde.
“L'hai cercata almeno?” continuò la donna.
“Nell'Opera non c'è, non so dove andare, da dove cominciare... cosa dire a Christine.”
“Ah, quindi hai visto che hai sempre saputo cosa volevi fare?”
“Si, forse l'ho sempre saputo.”
“Certo che l'hai sempre saputo, sei un genio no?” gli chiese la donna osservandolo con un sorriso spento.
Erik alzò lo sguardo per posarlo sul viso della donna, incapace di nascondere il sorriso divertito che si stava facendo strada sul suo volto.
“Grazie Eloise...”
“Possibile che una donna distrutta abbia sempre più senno di te?” disse esasperata.
“Tu hai sempre avuto più senno di me...”
“Ci vuole poco Erik.” disse lei, consapevole che normalmente avrebbe riso di quella battuta.
“Tornerò presto, grazie Eloise.” disse Erik lasciandole un bacio sulla fronte.
“Fai attenzione, non voglio perdere anche voi due...” disse la donna osservandolo con ansia.
Erik si voltò e si piegò su di lei. “Non ci succederà niente, non preoccuparti.” le disse nell'orecchio.
“Speriamo.” disse lei.
Erik le diede un bacio sulla guancia e la donna rimase interdetta.
“Erik! Cosa ti è successo?”
“Non lo so... e non lamentarti sempre, non ti ricapiterà di nuovo di prenderti un bacio da me...” disse lui strizzandole l'occhio.
“Cercala in mezzo ad altra gente... ricorda che è una donna sola...” disse Eloise prima di vedere Erik lanciarle un ultimo sguardo riconoscente e sparire nell'oscurità.

Le armi luccicavano al latteo candore della luna e quando queste si furono abbassate, centinaia di occhi si puntarono sulla sua figura. Ophèlie rimase per un secondo interdetta. Anche l'uomo che fino a poco prima stava parlando la osservò con aria interrogativa.
“Buonasera, possiamo esserle utili?” chiese.
“Buonasera, non lo so, forse... cerco un riparo per la notte...” disse la donna sulla difensiva.
“Si accomodi Mademoiselle, ha il piacere di conoscere tutti gli sfortunati cittadini parigini che sono rimasti senza casa.”
I forconi si abbassarono e le armi trovarono posto contro un muro per lasciare spazio a gruppetti di persone intente ad intrattenersi prima della notte nei modi più disparati.
C'era chi giocava a dadi e scommetteva somme che tanto sapeva di non avere, chi affilava coltelli, chi intagliava, chi improvvisava giochi. Ophèlie si sentì a proprio agio in quel covo di sfortunati e si mise in un angolo, sdraiata a cercare di addormentarsi... ma con scarso successo. Le mancava Erik, fosse dipeso da lei sarebbe tornata da lui immediatamente, ma sapeva che con molta probabilità non l'avrebbe trovato e l'Opera non era un posto sicuro senza di lui. Mentre si perdeva in quei pensieri sentì dei passi avvicinarsi a lei e vide che quel qualcuno le stava porgendo qualcosa di caldo. Si mise seduta e vide l'uomo che poco prima stava inveendo contro il nemico, osservarla con un caldo ed accogliente sorriso. Era un giovane, coi capelli neri e due profondi occhi scuri. I suoi lineamenti erano lineari, il naso dritto e le mascelle importanti sembravano intagliate nel legno. Sulla pelle scura il suo sorriso ammaliante risplendeva come sole, risplendeva per lei.
“Scusa, non mi sono nemmeno presentato, mi chiamo Sylvain.”
“Io mi chiamo Ophèlie.”
“Hai un bel nome.” disse lui.
“Grazie, anche il tuo lo è, è molto particolare.” disse la donna.
“Tieni, questo lo offre la casa, se così la possiamo definire.” disse lui guardando quelle mura che si reggevano in piedi per miracolo.
“Grazie. - disse la donna e bevve avidamente la bevanda calda - cos'è?” chiese.
“Un infuso di erbe di campo e fiori, non abbiamo ancora capito come possa essere possibile che sia così buono.” disse lui sorridendo.
“È vero, lo è.” disse lei.
“Rimasta anche tu senza casa?” le chiese l'uomo.
“In un certo senso, si...”
“Qui siamo tutti degli sfortunati e non ci rimane altro che combattere per mantenere nostra la città.” disse lui riprendendo il tono autoritario con cui aveva parlato prima.
“Tu per cosa senti di combattere?” le chiese.
“Io? Niente di particolare, non ho nulla da perdere... l'unica cosa che mi interessa è uscire dalla città.”
“Problemi con la legge?”
Ophèlie sorrise “No!”
“Guarda che qui nessuno è proprio pulito.”
“No Sylvain, sul serio, non ho problemi con la legge. Ho un problema con questa città, tutto qui, me ne voglio andare. Ci fosse un modo per farlo...”
“Un modo ci sarebbe, ma è pericoloso.” disse lui ed i suoi occhi scuri assunsero un'espressione grave.
“Sarebbe?”
“Se vuoi stare qui solo questa notte o vuoi solo rifugiarti puoi farlo, altrimenti domani potresti marciare con noi su Mont Martre per tentare di rompere l'assedio.”
“Davvero si può fare?” chiese la donna.
“Certo.”
“Se rompiamo l'assedio, potrò uscire da questa città?”
“Se vorrai ancora farlo si.”
“Va bene! Va benissimo! Vi seguirò!”
“Ti ripeto è pericoloso...”
“Non mi importa. Non ho più niente che mi leghi ancora a questa vita...” disse, pensando a quell' unica ragione che probabilmente adesso era in viaggio chissà per dove con la Viscontessa DeChagny.

I suoi passi veloci e decisi rimbombavano nel viottolo che conduceva al luogo dell'appuntamento con Christine. Non aveva nemmeno fatto un fagotto, non aveva niente con sé, non gli serviva nulla perché non sarebbe andato da nessuna parte. Raggiunse il luogo prescelto ed attese il suo arrivo.
La vide in lontananza, trascinare un sacco che probabilmente conteneva tutto ciò che aveva deciso di portare con se'.
“Erik!” disse lei quando lo vide fermo all'angolo ed un largo sorriso si fece strada sui suoi lineamenti da bambina, così diversi da quelli più maturi di Ophèlie.
“Erik, ti spiacerebbe aiutarmi? Pesa...” disse la ragazza.
Erik prese il sacco e gli si staccò quasi il braccio per il peso di quel fagotto.
“Grazie.” disse lei mentre si sistemava il mantello.
Erik rimase ad osservarla, indeciso ancora una volta su cosa fare, visto cosa stava facendo lei per lui. Poi il viso di Ophèlie gli apparve nella mente, nitido come se fosse davanti a lui.
“Dove andiamo?” chiese la ragazza.
Erik non parlò e lei capì che qualcosa non andava.
“Cosa c'è amore?”
“Non chiamarmi amore.” disse secco l'uomo.
“Erik, cosa è successo?”
E ad un tratto tutto quello che lei gli aveva fatto, tutte le sofferenza che gli aveva causato e le ingiustizie subìte per causa sua gli si presentarono davanti, una dopo l'altra senza dargli tregua.
Lei che gli strappava la maschera, lei che prometteva amore eterno a un altro, lei che con freddezza diceva a Raoul di non ucciderlo così, lei che pregava Raoul di non farla stare un minuto di più accanto a lui, lei che gli strappava la maschera davanti a tutta Parigi, lei che lo insultava con lo sguardo e con le parole, lei che piangeva per lasciare libero Raoul, lei che tornava da lui con l'abito da sposa solo per abbandonarlo per sempre. No! Non l'avrebbe fatto.
“Non andiamo proprio da nessuna parte.” disse secco.
“Cosa?” chiese lei stupita.
“Ho detto che non andremo da nessuna parte, non posso fuggire con te.” disse lui lapidario.
“Ma perché, perché non vuoi! - Disse lei con la voce rotta dal pianto - è per via di quella... quella Ophèlie è vero?”
“No, lei non c'entra.” ringhiò.
“Allora dimmi perché! Ti prego!”
Erik si sentì morire, sapeva di stare facendole più male di quanto volesse:
“Christine, io sarei stato disposto a cambiare per te se tu avessi avuto il coraggio di vedere oltre questa maschera…” disse lui indicandosi triste la fascia di cuoio bianco che gli copriva il volto sfigurato. Non poteva dimenticarlo, non dopo aver avuto la prova che al mondo c'era qualcuno per cui quella fascia non voleva dire niente.
Christine sentì un groppo alla gola di paura e disperazione:
“Erik, ti prego, ho sbagliato! Ora lo so... adesso l'ho capito! IO TI AMO!” gli disse aggrappandosi al suo mantello, ma lui la osservò senza far trasparire alcuna emozione.
“E’ troppo tardi.” concluse strappandole il mantello dalle mani e voltandole le spalle.
La ragazza lo guardò allontanarsi senza poter fare altro che osservare il lembo del mantello nero come la notte che ora le riempiva l'anima come veleno.


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Note:  Non ho altro da dire se non che finalmente sono riuscita a mettere per iscritto quello che ho sempre voluto accadesse!

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Capitolo 14
*** Mont Martre ***


In realtà tutta la storia è stata creatata per arrivare a questo momento. Per una volta ho preferito scrivere un unico lunghissimo capitolone per non fare la sadica, ed anche perchè è stato piuttosto difficile inventarmi la ricerca, io scrivo libri romantici non gialli e tantomeno thriller.
So che forse è successo tutto troppo in fretta ma è il mio primo esperimento in cui inserisco una ricerca seria di qualcuno e forse è un pò affrettato. Nonostante ciò spero che vi piaccia comunque.
Aspetto commenti ed impressioni.


Capitolo 14 - Mont Martre.

“Cercala in mezzo ad altra gente... ricorda che è una donna sola...” le ultime parole di Madame Giry gli rimbombavano in testa.
Aveva appena abbandonato Christine da sola per strada per tornare nel suo sotterraneo e pensare ad un piano per ritrovare Ophèlie. Non gli erano venute grandi idee, quando lei non c'era sembrava che lui perdesse la capacità di ragionare razionalmente. Era seduto al tavolino, con lo sguardo fisso nel vuoto.
Fuori c'era un assedio, con milioni di uomini che giravano per la città, molto arrabbiati, disperati e probabilmente senza niente da perdere. I due pazzi che avevano attentato alla virtù di Ophèlie probabilmente erano ancora là fuori, pronti ad approfittare di lei e del fatto che era sola ed indifesa.
“Sei sicuro che lei sia indifesa? - si fermò un attimo a pensare - Probabilmente no, ma non importa... devo trovarla! Devo uscire e cercarla! Ma no! Non so da dove cominciare!” Erik fece un lungo respiro e cercò di calmarsi. Aveva la tendenza a fare discorsi da solo senza capo né coda, quando era nervoso e preoccupato. Non aveva un piano, poteva solo cercarla alla cieca, tra milioni di altre persone.
Prima di tutto avrebbe dovuto cercarla là dove l'aveva trovata la prima volta, all'angolo poco oltre il teatro dell'Opera... nel quartiere malfamato della zona. Sarebbe stata sicuramente lì, lei voleva essere ritrovata, lo sapeva, lo sentiva. Prese il suo mantello ed il cappello a tesa larga ed uscì nella notte.
Camminò a lungo finché non raggiunse quel quartiere, solo pochi rumori provenivano dalle case chiuse, tutto il resto era il silenzio assoluto, accompagnato qua e là dai respiri pesanti dei mendicanti della città. Raggiunse piano l'angolo dove aveva trovato Ophèlie ed eccola lì. Una figura rannicchiata e tremante, coperta da un consunto mantello grigio. L'uomo si abbassò e toccò la spalla della figura. Questa non si mosse, ma si irrigidì come lui fosse il pericolo peggiore in cui fosse mai incappata. Mosse la mano per spostare il cappuccio dal volto della persona rannicchiata e quando lo spostò scoprì due grandi occhi marroni, cerchiati di nero e contornati da stopposi capelli neri. La donna urlò ed Erik stesso si spaventò rimanendo interdetto davanti a lei.
“Scusate io...”
“Mi ha toccato! Mi ha toccato!” urlò la donna additando Erik.
Un rumore da dietro le spalle lo fece tornare in se', era circondato da tre uomini che non avevano la faccia affidabile ma avevano tutta l'aria di volerlo uccidere. La donna continuava a starnazzare con la sua fastidiosa voce roca.
“Sta zitta! Sta zitta!” supplicò lui che faticava a sopportarla.
I tre uomini continuavano a stringerglisi addosso, non erano armati. Senza che lui potesse rendersene conto, se li trovò addosso in un batter d'occhio e per un po' venne sopraffatto dalla furia dei tre.
Non capì cosa successe dopo, si rese solo conto che qualcuno gli aveva tolto la maschera. Lui urlò indignato e stritolò il braccio che aveva osato usurpare così la sua immagine. Il proprietario si ritrovò subito a terra, e poco dopo scivolò via dalla rissa piagnucolando come un bambino indifeso. Gli altri due uomini rimasero bloccati ad osservare l'uomo sfigurato, gelati da un repentino terrore. Erik tenne la maschera in mano, non aveva più paura di farsi vedere al mondo. Era il mondo che era terrorizzato da lui, era un'arma quella che Madre Natura gli aveva donato, non una croce. Guardò truce i due uomini e poi posò lo sguardo sulla donna. Questa si zittì all'istante, guardò l'uomo a terra e quando il suo sguardo e quello di Erik si incrociarono tremò, terrorizzata. Guardando la maestosa figura che si stagliava contro le luci fioche della città osservarla con gli occhi infuocati, incapace di reagire davanti a quello che a lei sembrava un demone, disse: “Mostro.”.
“Sarete bella voi...” disse lui guardandola. E voltandole le spalle si rimise la maschera con un ghigno beffardo disegnato sulle labbra.
E così lì lei non c'era, non più. Chissà dov'era finita. “Erik! Coraggio pensa! - Si disse. - Qual'è stato il primo posto a cui hai pensato quando Christine ti ha abbandonato?”
Ma certo! Aveva sicuramente cercato di uscire dalla città, ma Parigi era sotto assedio.
“Conoscendola avrà preferito finire in prigione piuttosto che tornare sui suoi passi e non portare a termine cosa si era prefissata.” si disse. “Erik, sei sicuro di conoscerla sul serio?”. Effettivamente non lo era, ma sapeva cosa si provava a dover lasciare andare la persona amata, come ci si sentiva in quei casi: arrabbiati, frustrati, distrutti, ma determinati a lasciarsi dietro ciò che che stava facendo soffrire. Lui non l'aveva fatto, ma aveva vagato senza meta tra i quartieri peggiori di Parigi, in cerca di una casa, di un conforto, di qualcosa che non gli ricordasse lei. Non l'aveva trovato, lei era sempre lì, presente nella sua mente e nel suo cuore. A quel punto aveva preferito continuare a vivere nella casa di sempre... il sotterraneo. “Ophèlie... - sospirò - dove ti sei cacciata...” disse a se' stesso mangiandosi le parole.
“Segui il tuo istinto... lui non sbaglia mai...” quante volte l'aveva detto a Christine quando da piccola chiedeva consiglio al suo Angelo della Musica... quante volte Eloise l'aveva detto a lui?
“Si sarà sicuramente cacciata in qualche guaio ed io l'ho lasciata sola ed abbandonata a se' stessa!” si disse detestandosi.

Il mattino seguente Ophèlie aprì gli occhi chiedendosi da dove arrivasse tutta quella luce. Non si era accorta di stare stringendo il violino di Erik, quasi con disperazione, come se quell'oggetto fosse la sua unica ancora di salvezza in quel mare in tempesta che era il suo animo. Era lontana da Erik, finalmente felice con Christine... e lei era sola. Avrebbe dovuto combattere, lei voleva Erik! Avrebbe dovuto vincere contro quella ragazzina, ma era uscita di scena troppo in fretta, sopraffatta dalla convinzione di non avere alcuna possibilità. Sospirò, sapeva che era così e con lo sguardo cercò il bel volto di Sylvain. Eccolo lì, illuminato dalla fredda luce dell'alba, mentre rideva con altre persone, carico e convinto di quello che stava facendo e soprattutto convinto di vincere. Lui notò subito che la bella ragazza bionda si era svegliata e stava guardando nella sua direzione. Spavaldo si mosse verso di lei, con un sorriso smagliante ed uno sguardo dolcissimo.
“Buongiorno fuggiasca, hai dormito bene?” le chiese lui con dolcezza.
La ragazza sorrise amaramente, era vero, era una fuggiasca, ma fuggiva dai suoi stessi sentimenti... non da Erik.
“Si grazie, e tu?” chiese.
“Qui raramente riusciamo a dormire, dobbiamo vegliare gli uni sugli altri, non dobbiamo farci cogliere impreparati nel caso in cui qualcuno cercasse di farci le scarpe.”
Un altro uomo che non dormiva... ma possibile che li incontrasse tutti lei? Si chiese quasi divertita.
“Tieni, non è molto ma è sempre meglio del digiuno.” le disse Sylvain porgendole una mela.
“Grazie.” disse lei e con il pugnale che aveva negli stivali la divise, dandone una metà a lui.
“Il capo deve essere nel pieno delle forze...” disse sorridendo porgendogli l'altra metà del frutto.
I due si guardarono per un tempo indefinibile ma nello sguardo di Sylvain non c'era traccia degli indefinibili sentieri che si intrecciavano negli occhi di Erik quando i loro sguardi si incontravano. Negli occhi del bel giovane c'erano molte cose, ma poche che riguardavano lei. Abbassò lo sguardo e si perse nei propri pensieri.
“Grazie.” disse Sylvain sfoggiando un sorriso che avrebbe fatto capitolare qualunque donna, ma non lei. Sorrise al suo indirizzo e si alzò per andare verso l'esterno... aveva bisogno d'aria.

Era l'alba e lui aveva camminato invano per tutta la notte, senza una meta, senza un posto da raggiungere, senza nessuno. Quando vide le porte della città era sfinito. Due uomini, due invasori erano in piedi davanti ad esse. Si mosse a fatica verso i due, ma prima che potesse proferir parola i due alzarono le armi e le puntarono dritte al suo cuore.
“Non si passa!” dissero in coro. Erik fece un passo indietro, guardingo.
“Devo uscire.” disse.
“No! Non si può uscire! Dannati Francesi! Non potete uscire da questa città finché è in mano nostra!”
“C'è la donna che amo che...”
“Non ci interessa chi hai fuori di qui! Non ti faremmo passare nemmeno se fossi una bella ragazza!”
“Però la bionda di stanotte...” disse uno dei due.
“Si, per lei avremmo anche potuto fare un eccezione... ma non l'abbiamo fatto nemmeno per una bella puledra dai capelli dorati e gli occhi di miele! Figuriamoci per questo dannato straccione vestito come un damerino.”
“È passata una ragazza di qui?” chiese Erik.
“Passano milioni di ragazze da qui, che si inventano stupide scuse per poter uscire...”
“E quella ragazza...”
“Una gran bella ragazza... per un attimo abbiamo anche rischiato di doverla far marcire in galera... voleva passare a tutti i costi.”
È lei! Gli disse il suo istinto e senza rivolgere la parola ai due invasori, Erik girò sui tacchi e proseguì, di nuovo alla cieca, verso il nulla, ma almeno sapeva che non era in prigione.

“Andiamo! La strada è lunga! E la resistenza non può attendere!” esclamò Sylvain urlando a gran voce verso il gruppo di rivoltosi pronto all'interno della casa diroccata.
Ophèlie nascose il violino di Erik sotto il mantello e prese in mano il forcone che il giovane le porse.
“Puoi sempre restare qui, o rifiutarti di prendere parte a questa pazzia.”
“Non è una pazzia! È l'unica strada!” disse lei convinta di ciò che stava dicendo.
“Fai attenzione.” le disse lui accarezzandole il viso. Senza stare a vedere la sua reazione le voltò le spalle e si portò alla guida del gruppo.
Ophèlie tremò. Stava correndo il più grosso pericolo della sua vita... stava rischiando la vita stessa per scappare da quella città, per scappare da se' stessa e da quello che Erik era diventato per lei. Fece un respiro profondo e marciò con gli altri verso Mont Martre.

La cattedrale brillava del riflesso di milioni di cannoni ammassati sull'altura. La città era in fermento, molte persone si muovevano per le sue strade come se fossero in pericolo costante, con l'aria spaurita e tremante di chi si aspetta di essere ucciso da un momento all'altro. Stava iniziando a chiedersi perché mai avesse deciso di avventurarsi in una ricerca che sapeva essere inutile. Parigi era troppo grande ed Ophèlie troppo imprevedibile per tracciare un filo conduttore dei suoi movimenti. Gli sembrava di correre dietro al nulla, ad una visione... ad un fantasma.
“Se cercare me è stato così, non invidio le persone che ho frustrato con la mia sparizione...” si disse beffardo ripensando al tempo passato a nascondersi dal mondo, mentre adesso, quello stesso mondo, sembrava quasi non accorgersi nemmeno della sua presenza.
Un rumore di gente in marcia provenì da dietro le sue spalle, si voltò e si spostò velocemente dalla strada del gruppo di persone che si stava muovendo, armato di forconi, verso l'altura di Mont Martre. C'era un giovane alla guida del gruppo che urlava con decisione ed incitava il gruppo alle sue spalle. Erik non vide molto, se non una figura esile, con un forcone appoggiato sulle spalle a differenza degli altri che lo brandivano con decisione puntando gli affilati denti verso il cielo. Aveva lisci capelli biondi che ondeggiavano al passo sostenuto. Erik ebbe un tuffo al cuore. Poteva essere lei? Rimase fermo ad osservarla, chiuse gli occhi per convincersi che non fosse un sogno, ma quando li riaprì, era sparita. “Dannazione! Stupido e sciocco Erik!” si disse dandosi una botta sulla fronte nel tentativo di scacciare quell'illusione dalla sua mente.
Poco dopo, vide lo stesso gruppo correre giù dall'altura mentre alcuni cannoni rotolavano a valle. Ci fu molto movimento e poi, ancora la stessa immagine, la stessa ragazza bionda che si allontanava dalla collina correndo. Erik la vide. Era lei! Ne era sicuro. Si lanciò all'inseguimento della donna, ma alcune persone lo urtarono con forza facendogli perdere l'equilibrio. Erik si voltò per capire chi fosse stato e quando fece per guardare in quale direzione fosse andata Ophèlie la sua figura era stata inghiottita dalla folla. L'uomo prese un forcone caduto a qualcuno e lo piantò nel terreno umido. Rimase appoggiato ad esso, come un vecchio Imperatore in posa per un ritratto e pensò a cos'altro fare.
“Sei sulla buona strada, era lei Erik! Sai che era lei, lo senti! Non arrenderti! Continua a cercare.” si disse.
“Ho bisogno di dormire...” si rispose, consapevole che con la stanchezza che aveva addosso, sarebbe stato impossibile riuscire a ragionare e a trovare un modo per ritrovarla.
Sapeva che nella zona di Mont Martre affittavano stanze per ogni necessità, e lui aveva bisogno di dormire e riposarsi. Aveva usato troppe energie in poche ore, si sentiva come un guscio vuoto, fragile ed inutile. Entrò nella prima casa chiusa disponibile e si mosse verso il bancone dove una signora robusta stava evidentemente contando gli incassi della serata. Il locale era pieno di uomini. Uno di questi, vicino a lui, evidentemente già ubriaco, inforcava il boccale di birra con una mano, mentre con l'altra armeggiava indecentemente sotto la gonna di una prostituta abbandonata sulle spalle di quel tale in preda all'estasi.
Erik guardò nauseato la scena ricordando quello che Ophèlie gli aveva raccontato. Lei era vissuta in quel posto. Una giovinetta dai capelli rossi, gli occhi verdi ed il viso ricoperto di lentiggini serviva ai tavoli. Immaginò che quella ragazza potesse essere stata Ophèlie e sentì la bile salirgli in gola quando vide come quegli animali la trattavano. Malgrado avesse abiti poco appariscenti e molto castigati, quegli uomini non le riservavano altro che umiliazione con il loro fare becero. La donna al bancone sembrava non essersi nemmeno accorta della sua presenza e lui stava perdendo la pazienza. Aveva sonno e non voleva più vedere scene di quel genere. Quando mosse la mano per risvegliare l'attenzione della donna, qualcuno gliela bloccò, ed una più piccola iniziò a toccargli maliziosamente il braccio, poi la mascella, poi la schiena e poi il petto. Erik si mosse bruscamente liberando la mano da quella della ragazza bionda con gli occhi marroni che lo stava osservando senza togliergli le mani di dosso. Sentì un brivido di ribrezzo percorrergli il corpo. Il volto della ragazza era butterato e sul decolltè aveva tanti bubboni di pelle che le rovinavano paurosamente le forme. Era quella la sifilide?
“Vuoi divertirti un po'?” chiese la ragazza appoggiandosi contro di lui con tutto il corpo.
“No grazie...” disse.
“Guarda che per te lo faccio anche gratis...” disse lei osservandolo languidamente.
“Ma io no...” disse lui allontanando da sé la ragazza e facendo molta attenzione a non toccarle la pelle.
“Voglio una camera!” disse lui battendo il pungo davanti al naso della donna al bancone.
“Servizio completo?” chiese.
“Scusate?”
La donna lo guardò paziente ed indicò il listino prezzi vicino a lei. Erik lo lesse ed ancora più infuriato la guardò e disse: “Voglio una camera per me! Per dormire! Non voglio nessun altro!”.
“Nessuno dorme di mattina...” disse la Maìtresse beffarda e posò lo sguardo sulla prostituta bionda che rise sguaiatamente. Erik la fulminò.
“Potete darmi questa dannata camera oppure no?” chiese ancora sbattendo il pugno sul tavolino e facendo cadere alcune gocce di inchiostro sui suoi ordinatissimi calcoli.
“Tieni! - disse dandogli delle chiavi - Camera 4! Al piano superiore, prima porta a destra... e se cerchi qualcuno per sfogarti, qui hai solo l'imbarazzo della scelta!” disse la donna infastidita dalla reazione secondo lei esagerata dell'uomo. Erik non rispose, si limitò a strapparle di mano la chiave e a salire nella stanza.
Sembrava pulita ed ordinata. Guardò la porta alle sue spalle e prima che qualcuno potesse cercare di entrare si chiuse dentro. Chiuse le persiane e si buttò sul letto. Era scomodo, troppo morbido e qua e là le molle gli puntavano dritto nella schiena ma era troppo stanco per preoccuparsi anche di quello. Chiuse gli occhi ed in pochissimo tempo si addormentò profondamente.

Christine si ritrovò di nuovo sola, in camera sua, ad osservare le ombre del mattino. Non aveva chiuso occhio tutta la notte. Raoul era rimasto da Madame Giry per farle compagnia e lei gli fu immensamente grata, non aveva voglia di spiegargli il motivo della sua tristezza e non aveva avuto la forza di stare nella casa che l'aveva ospitata quando era piccola, in quelle stanze che aveva condiviso con Meg. Anche il suo Angelo della Musica l'aveva abbandonata, nella disperazione più nera e terribile, tanto che passando sulla Senna aveva osservato la distanza tra il fiume ed il ponte, desiderando ardentemente la morte. Quando aveva tentato il gesto più estremo però, non aveva avuto il coraggio di portare a termine quello che aveva pensato. Era tornata a casa tra le braccia di Raoul, disperata e sola. Ora, il tagliacarte era appoggiato sulla sua scrivania e la fredda luce dell'alba lo illuminava sinistramente, stregandola con un dolce richiamo... quello di porre fine a tutte le sue sofferenze. Prese in mano il pugnale e lo osservò. Video il suo riflesso nella lama e quando pensò di affondarlo nella carne, la sua mano si fermò.
Era troppo vigliacca per finire così. Posò il pugnale... sarebbe andata da Madame Giry.

Furono le risate degli ubriachi e gli inequivocabili rumori che provenivano dalle stanze attigue a svegliarlo. Doveva essere sera, la luce non illuminava la stanza in cui si trovava e dal rumore dei boccali e delle urla, doveva già essere l'ora in cui i peggiori vizi dei parigini trovavano sfogo sotto il velluto degli abiti delle prostitute. Erik si alzò dal letto sentendosi rivoltare da quel luogo e da quei rumori che lo rendevano inquieto, riempendogli le orecchie di uno strano ronzio indecente.
Si guardò intorno e vide un paravento che prima non aveva notato. Si mosse dietro ad esso scoprendo una piccola toilette. Si tolse la maschera e si sciacquò il viso, indugiando con le mani sulla metà sfigurata e ricordando la prostituta con la sifilide che aveva visto solo il mattino. Pensò che anche lui si era comportato come tutti quelli che avevano incrociato il suo sguardo, guardando quella ragazza con l'orrore e lo schifo negli occhi.
“Sei stato un insensibile... uguale a tutti gli altri...” si disse risentito. Certo era che non poteva scendere e chiedere le prestazioni di quella donna... non gli piaceva e sarebbe stato un insulto per lei passarci una notte insieme solo per pietà. Anche quelle parole gli risuonarono in mente come un dejavù. Anche Christine non l'amava e sarebbe stata con lui per pietà. Lui aveva puntato sui buoni sentimenti della ragazza, era convinto che non l'avrebbe abbandonato... ma non era giusto. Solo ora aveva capito, solo ora che si trovava nella stessa posizione di Christine.
“Quanto sono stato stupido...” si disse asciugandosi il volto e rimettendosi la maschera.
Uscì dal paravento cercando si stirarsi la schiena indolenzita, ma quando ne emerse, trovò qualcuno nella sua stanza. Una giovinetta dai capelli rossi, gli occhi verdi ed il viso ricoperto di lentiggini che lo osservava da in mezzo alla stanza, con un abito succinto che le lasciava scoperto gran parte del corpo. Teneva lo sguardo basso, uno sguardo innocente e timido, così diverso dallo sguardo smaliziato e sicuro delle donne che normalmente lavoravano in quei luoghi.
“Chi siete? E come siete entrata?” le chiese lui osservandola con disappunto.
“Mi chiamo Delphine... e... ” disse, diventando rossa quasi quanto la chioma infuocata che le contornava il viso. Al collo portava una chiave. - Dannata vecchia megera - si disse pensando alla donna che gli aveva dato la chiave della stanza.
“... E cosa volete da me?” chiese duro, sicuro di conoscere la risposta... i suoi soldi.
“Mi ha mandato qui Madame Nora... un omaggio della casa.” disse lei abbassando ancora di più lo sguardo e slacciandosi la gonna.
Erik rimase interdetto... quella giovane non poteva avere più di 14 anni! Aveva il corpo acerbo di chi si deve ancora sviluppare e la timidezza della verginità. Le bloccò le mani e la ragazza lo guardò spaventata.
“Io... io... devo..” balbettò la ragazza.
“Si, lo so cosa dovete fare... ma non siete obbligata a farlo...” le disse lui deglutendo nervosamente.
La ragazza si sciolse in lacrime, tremando per la paura e la frustrazione.
“Io non... io non voglio niente da voi!” disse Erik cercando di calmare la crisi della giovane.
“Non vi piaccio? Non sono abbastanza bella vero?” gli chiese la ragazza con gli occhi verdi divenuti grandi ed indifesi.
“No! Non è per questo, voi siete molto bella ma io... io ho una donna che mi aspetta là fuori, non posso farlo!” disse lui, stupendosi per primo di quelle parole.
“Perché siete venuto qui allora?” chiese la ragazza, dimostrando di essere veramente molto giovane.
Erik sorrise. “Per dormire...” disse semplicemente.
“Anche io vorrei uscire... anche io ho qualcuno che mi aspetta...” disse lei. E ad un tratto il suo viso cambiò espressione, era distesa, speranzosa... era il volto di un'innamorata.
“Come mai siete qui?” le chiese Erik sedendosi accanto a lei sul letto.
“I miei genitori sono morti, ed io sono rimasta senza casa. Madame Nora mi ha accolto, ma non pensavo che volesse riservarmi questo...” disse la ragazza. Stringendo le braccia e le gambe.
“Quanti anni avete?”
“14... 15 a Marzo...” disse lei.
“È il vostro fidanzato che vi aspetta fuori?”
“Si...” disse.
“E questo ragazzo vi può dare una casa? Vi può dare un futuro?” le chiese.
“Fa il falegname e vive in una casa modesta...” disse.
“Ma è sempre una casa...” le disse lui sentendosi improvvisamente protettivo verso quella giovane.
“Si ma... non posso uscire. Ha anche provato a dare i suoi risparmi a Madame Nora per portarmi con se', ma non bastavano a portarmi via... bastavano solo a tenermi lontana da altri uomini...”
“Ma ti ha fatto entrare nella mia stanza!” disse infastidito.
“Ha detto...” e si zittì.
“Cosa ha detto?”
“Ha detto che... che voi eravate la persona giusta per... iniziarmi... che eravate molto più bello di certi altri clienti e che forse mi sarebbe anche potuto piacere … - disse lei con voce tremante e diventando rossa - ed io ho bisogno di soldi, voglio andarmene da qui!”
Erik si spostò senza rendersene conto più lontano da lei. Lui non voleva prendersi la responsabilità della rovina di una giovane come lei... ma aveva tanti risparmi.
“Forse posso aiutarvi senza arrecarvi disonore...” disse lui.

Madame Nora osservava attonita quello che l'uomo le stava offrendo per portarsi via Delphine. Non era nemmeno lontanamente paragonabile a quello che pensava di guadagnare prendendo sotto la sua protezione quella giovane. Aveva provato in tutti i modi di farle fare quello che voleva lei, ma la sorte arrideva a quel visino pulito che faceva gola a più di un buon offerente. C'era sempre qualcuno pronto ad aiutarla e la ragazza non era abbastanza disonesta per usare quel potere misterioso a suo favore.
Non le restava che cedergliela e sperare di potersi rifare con qualche altra giovane disperata a cui insegnare l'arte dell'amore.
“Bastano?” le chiese l'uomo.
“Non ho molta scelta... - disse Madame Nora - cercare di farla lavorare è un'impresa ardua...” disse stizzita.
Delphine sentì gli occhi riempirsi di lacrime e lo sguardo dell'uomo su di se'.
Erik la osservò triste. Non era abituata a quella vita, non era abbastanza forte per resistere fuori dalle mura di una casa, ecco perché aveva accettato la protezione di quella vecchia strega.
“Bene, se questo è tutto...” disse Erik rivolto alla donna facendole un mezzo inchino.
I due uscirono, in mezzo ai commenti dei clienti e delle prostitute che non risparmiarono nulla alla povera ragazza. Lui la trascinò fuori da lì... l'unica cosa che voleva, era allontanarsi da quel luogo.

La fredda brezza della sera le si infilava nei capelli, scompigliandoli leggermente e dandole l'aria di una Diana vestita di stracci. Sembrava una Dea, sicura, fiera, decisa e bellissima. La bellezza insolente ma un po' sciupata di chi ha visto le cose peggiori, come se gli avvenimenti stessi della sua vita fossero stati gli scultori di quel profilo dritto, di quelle chiare sopracciglia crucciate e di quelle labbra spesso imbronciate, ma capaci di regalare sorrisi dolcissimi quando si schiudevano. Sylvain osservava da lontano Ophèlie, sognando di poterla stringere a se', avvolti in calde lenzuola, in un letto... in una casa. La ragazza notò che la stava guardando ed incrociò il suo sguardo, sorridendo al suo indirizzo. Lui si alzò e lei distolse lo sguardo per posarlo sul violino che stava stringendo in grembo.
“Tu sai suonare?” le chiese.
“Si...” disse lei senza fare riferimento al suo passato. Non riusciva a fidarsi appieno di quel ragazzo troppo bello per poter risvegliare qualunque tipo di fiducia in meno di un giorno.
“Hai voglia di farmi sentire qualcosa?” le chiese.
“Veramente... non ho niente di pronto...” disse lei imbarazzata.
“Non inventarti niente... suona semplicemente quello che ti viene meglio...” le disse lui.
La ragazza sorrise, moriva dalla voglia di alleggerire un po' l'atmosfera pesante che si respirava in quella baracca.
Posò il violino tra la spalla ed il mento ed iniziò a suonare.

Mentre camminavano per le vie di Parigi verso la casa del ragazzo di Delphine, Erik sentì un vecchio richiamo, qualcosa che lo faceva tornare alle sue radici... la voce di una musica stupenda cantata dalla voce di un violino particolare... sembrava... “Il mio violino!” esclamò.
Delphine si spaventò. Dopotutto era sola con un uomo per le vie buie di Parigi e davanti a quella frase detta al vento, si chiese cosa le fosse passato per la mente a fidarsi di un uomo di cui non conosceva nemmeno il nome.
“Cosa...?” chiese la ragazza, ma Erik la zittì sollevando una mano.
Era molto lontano, rimase fermo nella Piazza per cercare di sentire ogni minimo rumore, ogni minima nota, per accertarsi che quel suono fosse quello che amava con tutto se' stesso e non quello di qualcun altro. Riconobbe la musica... quella musica, la stessa che l'aveva guidato a lei la prima volta. Possibile che il suo violino l'avesse di nuovo lei?
“Buonasera bellezza! Sei tutta sola?” delle voci di uomini arrivarono alle sue orecchie... Delphine. Non poteva pensare ad Ophèlie, adesso doveva portare in salvo lei. La ragazza rimase immobile ad osservare gli uomini ipnotizzata. Erik emerse dall'oscurità ed arrivò al fianco della ragazza.
“Tutto bene?” le chiese.
La ragazza non rispose, ma quelli, quando videro che era con un uomo, rimasero di sasso ed indietreggiando, cambiarono strada.
“Prima troviamo questo posto, meglio sarà per tutti...” disse stizzito Erik.
Doveva liberarsi della giovane e tornare a cercare il suo angelo biondo. Si lasciò alle spalle quel dolce richiamo e proseguì con Delphine.

Era notte fonda quando gli indicò la casa di quello che lei aveva indicato come il suo ragazzo.
La ragazza si mise sotto la finestra del giovane e lanciando alcune pietruzze contro la finestra tentò di svegliarlo.
“Siete sicura che sentirà?”
“Si! Capirà che sono io...”
Infatti, poco dopo, sentirono un rumore sinistro provenire dalla stanza, come quello di qualcuno che cade dal letto e che si mette a correre su un pavimento di legno. Pochi istanti dopo, la finestra si spalancò e qualcuno si affacciò. L'oscurità non permise ad Erik di capire chi fosse ma quando la voce del ragazzo disse “Delphine! Sei tu?” il suo scetticismo prima si sgretolò, per poi sciogliersi completamente quando sentì il tono di voce del ragazzo: “Sei riuscita a venire a trovarmi! Oh! Aspetta, aspetta che vengo ad aprirti...”
Delphine guardò raggiante Erik, ed anche nell'oscurità la felicità negli occhi della ragazza era ben visibile. Restava solo un problema... lui.
“Delphine!” urlò il ragazzo stringendo a se' la giovane.
“François! Oh! Quanto mi sei mancato!” disse.
“Come hai fatto a...” iniziò prima di vedere la sagoma di Erik davanti a lui.
François istintivamente si mise davanti a Delphine fronteggiando Erik, che tuttavia, lo osservava con aria di sufficienza. - C'è un amante appassionato nella vita di tutte le donne... - pensò quasi annoiato notando il comportamento del giovane e facendo un inevitabile paragone con Raoul.
Il ragazzo era biondo, con due grandi occhi marroni e non aveva più di 20 anni a giudicare dai lineamenti illuminati fiocamente dalla luce delle candele che proveniva da dentro la casa.
“Chi sei tu?” chiese il ragazzo, assumendo un tono che, secondo lui, avrebbe dovuto far paura. Erik non rispose, ma guardò Delphine che ripresasi dall'inaspettato gesto del suo fidanzato, lo guardò e disse:
“Lui è quello che mi ha fatto fuggire dalla casa!”
“Lui?” chiese il ragazzo indicando diffidente l'uomo davanti a lui.
“Cosa le avete fatto?” urlò il giovane.
“Se pensi che io abbia tentato di disonorare Delphine, ti sbagli di grosso...” disse tranquillo Erik.
“No François, Madame Nora mi aveva mandato nella stanza in cui lui stava dormendo, ma lui mi ha impedito di fare ciò che lei voleva che facessi, e con la scusa che mi voleva per se', ha pagato Madame e mi ha portato qui da te.”
“Devo fidarmi?” chiese François.
“Come preferite, io non ho altro da aggiungere Delphine vi ha detto come stanno le cose.”
Il ragazzo passò lo sguardo da uno all'altra e decise che sembravano troppo tranquilli per nascondere qualcosa.
“E sia. - disse il ragazzo - entrate, come vi chiamate?” chiese il giovane.
“Erik.” rispose.
“François” disse il ragazzo porgendogli la mano.
“Avevo intuito...” disse.
“Dal momento che avete aiutato Delphine a venire da me permettete che vi conceda un letto in cui potervi coricare.”
“Vi ringrazio, ma prima mi dovete promettere una cosa.” disse.
“Ditemi...”
“Sposatela, altrimenti gli sforzi fatti stanotte saranno vani...”
Il ragazzo lo osservò, poi guardò Delphine.
“Vuoi sposarmi?” le chiese.
“Non mi sembrano richieste da fare in pubblico...” disse Erik.
Il ragazzo lo guardò.
“Vi prego, riposate qui finché non vi sarete ripreso, è l'unico ringraziamento che posso offrirvi.” disse il ragazzo.
In effetti era ancora molto stanco.
“Vi ringrazio, ma solo per un po'... ho un lavoro da finire.”
François osservò Delphine “Deve cercare la sua donna...” gli sussurrò lei.
“Vi prego! Andate di sopra, il letto è più comodo...”
“Il divano andrà benissimo, non ho intenzione di stare qui tutta la notte...”
“È quasi l'alba...”
“Quindi è meglio che anche voi andiate a dormire... non credete?” disse lapidario Erik.
François attese Delphine alle scale, per salire di sopra con lei.
“Grazie Erik...” gli sussurrò nell'orecchio la giovane.
“Grazie a voi...” disse piano l'uomo. Dopotutto, era anche grazie a lei se aveva capito dove cercare Ophèlie.

Un nuovo mattino salutava i due giovani addormentati per terra, riscaldati solo da una vecchia coperta consunta. Sylvain osservava il volto addormentato della giovane accanto alla quale si era addormentato senza che lei se ne accorgesse. Sapeva che non gli avrebbe mai permesso tanto se fosse stata sveglia e così aveva dovuto aspettare che si addormentasse per poterle stare accanto. Le diede un bacio sulla fronte, assaggiando la pelle chiara della giovane. Era un gusto dolce e delicato, come era sicuramente lei. Ophèlie spalancò gli occhi e li inchiodò sul volto di chi aveva osato baciarla. Fece uno scatto indietro quando riconobbe Sylvain. Con decisione lo allontanò da se' spingendolo contro il muro con malagrazia. Il giovane rimase interdetto, tanto che per la prima volta in vita sua si ritrovò senza parole. Si limitò ad osservare interrogativo la giovane, con la bocca aperta ed uno sguardo da pesce lesso.
“Buongiorno...” disse Ophèlie e senza aspettare che lui le rispondesse, si alzò di colpo e corse fuori.
Cosa le stava succedendo? Dov'era finita l'Ophèlie che era scappata dal bordello, sopravvissuta per strada e che viveva insieme al Fantasma dell'Opera? Respirò affannosamente, senza sapersi spiegare perché si sentisse così cambiata e così fragile adesso. La sua mente corse ad Erik, era per quello che era fragile, perché lui non c'era. Era spaventata dall'invadenza di Sylvain e dalla faccenda nella quale si stava immischiando. Non gli aveva mai detto di lasciarla in pace, ma forse non l'aveva fatto perché nemmeno lei sapeva cosa fare. Erik non c'era più, era chissà dove insieme alla sua piccola e stupida Christine e sicuramente era felicissimo di stare con una donna che l'aveva maltrattato ed umiliato... mentre lei era lì, sola... senza un posto dove andare, senza nessuno con cui stare... completamente ed irrimediabilmente sola. Sentì gli occhi bruciarle di quel pianto che aveva represso dal giorno in cui era andata via da Erik per lasciarlo libero di amare Christine, sentì la mente ronzarle di mille pensieri e paure, sentì le gambe venirle meno, sentì il terreno e poi solo lacrime, calde ed inarrestabili come l'amore che ormai sapeva di provare per Erik... quell'uomo che l'aveva stregata e si era tenuto il suo cuore, lasciandola sola e disperata come un guscio vuoto.
Una donna del gruppo di rivoltosi uscì dalla baracca e si mosse da sola verso un punto isolato, lontano dal punto in cui erano tutti ammassati.
Ophèlie sentì un grido e poi vide la donna correre verso la casa inseguita da quelli che sembravano due uomini della Guardia Nazionale. Si alzò in piedi giusto in tempo per vedere i due uomini trascinare la donna in un angolo buio.
La ragazza urlò, e con lei urlò ancora colei che i due uomini stavano aggredendo. Alcuni uomini del suo gruppo uscirono dalla casa.
“Là dietro! Là dietro!” urlò Ophèlie ed uno di loro corse nella direzione che lei aveva indicato. Poco dopo, l'uomo venne trascinato via dall'angolo buio in cui avevano portato la donna da uno dei due poliziotti che lo scacciò minacciandolo con il fucile a baionetta. Urla sempre più strazianti provenivano dall'angolo buio e l'uomo assestò un pugno al poliziotto che, colto di sorpresa lo lasciò andare. L'uomo corse verso la donna ma anche il secondo poliziotto, visibilmente infastidito uscì allo scoperto. Aveva i pantaloni mezzi slacciati ed inforcava la baionetta puntandola verso l'uomo.
La donna uscì dall'angolo e corse verso Ophèlie.
“È scappata!” urlò uno dei poliziotti. Il primo dei due si mosse verso le due donne, Ophèlie sfilò il pugnale dalla cintura dell'abito senza che lui se ne accorgesse e si preparò a reagire. Ma il poliziotto non si mosse verso di lei, allungò la mano direttamente verso la donna alle sue spalle. La ragazza reagì ed affondò il pugnale nel braccio teso dell'uomo, ma questi si girò e le assestò una gomitata sullo zigomo. Sentì il caldo del sangue scivolarle fino alla bocca e ne sentì il gusto ferroso. Il poliziotto allungò una mano verso il suo collo e lei, per sfuggirgli, perse l'equilibrio cadendo per terra... stava per svenire:
“Sylvain!!” fece in tempo a gridare prima di trovarsi per terra incapace di fare alcunché.
Il giovane sentì la voce di Ophèlie chiamare il suo nome. Quando uscì, vide due poliziotti: uno che stava cercando di alzare la gonna di Marie, e l'altro che stava combattendo all'ultimo sangue con Victor il compagno della donna, che non faceva altro che cercare di liberarsi dalla stretta del poliziotto per aiutarla. Tutta la casa ormai era accorsa, ma erano tutti immobili, incapaci di fare niente, terrorizzati da quello che stavano vedendo. Sylvain andò verso il poliziotto che stava cercando di fare violenza a Marie, poco lontano dal corpo privo di sensi di Ophèlie. A lei avrebbe pensato dopo, prima aveva qualcosa di più importante da fare. Afferrò un forcone e corse verso il primo poliziotto che aveva visto. Questi se ne accorse, si voltò, e prese la mira dritto al petto del giovane che gli stava davanti. Sylvain arrivò prima, ma quando il forcone affondò nel petto del poliziotto, partì il colpo dal suo fucile e Sylvain cadde a terra... morto.
Ophèlie sentì lo sparo, ma non osò alzarsi. Aveva finto di aver perso i sensi sperando che Sylvain accorresse. Così era stato, ma non voleva vedere cosa era significato quello sparo, quel rumore umido di un colpo andato perfettamente a segno... lo sapeva già.
“Sylvain...” sussurrò.
Marie la sentì e si abbassò verso di lei prendendole le mani tra le sue. La ragazza la osservò e tentò di sedersi, con lo sguardo fisso sul corpo dell'uomo.
“No...” disse. Si mosse carponi verso di lui incespicando nel fango scivoloso. Non poteva... non poteva averlo fatto! Era colpa sua, era tutta colpa sua! Se non l'avesse chiamato probabilmente il giovane sarebbe stato ancora vivo. Si sentiva un peso terribile sulla coscienza, si sentiva responsabile della morte di un uomo. Nessuno del gruppo pareva pensarla nello stesso modo, nessuno delle persone si stava preoccupando di lei, probabilmente erano abituati a vedere gente morire. Il giovane dallo sguardo fiero e i capelli scuri era morto nell'indifferenza generale, ed ora la casa stava dando addosso all'uomo della Guardia Nazionale. Quando finalmente riuscirono a cacciarlo, nessuno andò verso Sylvain, tranne due uomini che iniziarono a scavare una fossa dove mettere il corpo del loro deceduto capo.
Lasciarono che la giovane restasse ad osservare il loro lavoro, con gli occhi gonfi di pianto e lo sguardo sperso di chi non sa cosa fare.
Sylvain le aveva offerto aiuto e protezione e le aveva dato l'opportunità di scappare dalla città. Il giorno seguente avrebbero provato l'attacco alle porte di Parigi, ma adesso che lui non c'era più, sapeva bene che quegli uomini e quelle donne non avrebbero mai osato un attacco simile senza un capo come lui come guida.
“Prendeteli!” urlarono delle voci. La polizia era andata a scovarli. Ophèlie guardò il fitto gruppo di uomini correre verso di loro. Corse in casa e prese le sue cose, approfittando della confusione per sparire nei viottoli poco raccomandabili del quartiere in cui si nascondevano. Nessuno di loro oppose resistenza, da quando Sylvain era morto il gruppo di rivoltosi pareva aver perso la decisione e la capacità di farsi valere. Pochi riuscirono a scappare e la maggior parte andò via con i poliziotti... verso le prigioni.
La ragazza corse senza mai guardarsi indietro, stringendo in mano il suo pugnale. Se qualcuno avesse provato a farle del male non si sarebbe fatta problemi ad uccidere. Era una questione di sopravvivenza, se l'altro moriva, lei viveva...

Il sole era già alto nel cielo quando Erik si svegliò. Non pensava di aver dormito così tanto e così bene sul divano di legno di François.
Delphine era seduta al tavolo intenta in una lettura e dal retrobottega veniva il rumore di un falegname in fervida attività.
“Buongiorno.” disse lei.
“Buongiorno... - bofonchiò lui. - Che ore sono?”
“Le due del pomeriggio... - disse la ragazza sorridendo sardonica allo sguardo contrariato dell'uomo - vi abbiamo lasciato qualcosa per pranzo.” disse lei porgendogli una ciotola di legumi.
“Non è molto, ma sono dell'orto di François e sono molto buoni”. Continuò lei.
“Quest'uomo è pieno di sorprese...” disse lui mangiando con gusto il pranzo che gli era stato offerto.
Delphine si limitò a sorridere.
“Devo andare. È tardi...” disse poi quando ebbe finito.
“Fate attenzione, oggi in un quartiere poco lontano da qui hanno ucciso un uomo... quelli della Guardia Nazionale. - disse - siamo in un momento in cui ci divoriamo a vicenda per un osso per strada... fate attenzione.” disse accompagnandolo alla porta.
“Farò il possibile.”
“Non vi ringrazierò mai abbastanza per...” disse.
“Il ringraziamento migliore che voi possiate farmi è di non lasciare che tutto questo sia stato fatto invano.” disse lui lasciandole galantemente un bacio su una mano.
“Arrivederci.” disse toccandosi il cappello a tesa larga e voltandole le spalle.

Era quasi sera quando trovò un altro gruppo di persone che sedeva tranquillo intorno ad un fuoco improvvisato. Non c'erano urla, non c'erano schiamazzi, non c'erano armi che luccicavano alla luce lunare.
“Posso?” chiese ad una donna vicina a lei.
“Certo!” rispose questa.
Ophèlie si fermò con loro, un gruppo di disperati, senza casa, soli ed abbandonati... come lei.
Suonò più per loro che per lei, e suonò la musica di Erik, quello spartito che aveva trovato nella custodia dello strumento e che aveva imparato a memoria, stregata da quella dolce, nostalgica e struggente melodia. Tra le righe c'era anche il testo:

“Wondering child, so lost, so helpless...”

Sembravano parole giuste per lei e per i poveracci che sedevano attorno al suo stesso fuoco. La suonò tutta, ripetendola anche svariate volte su richiesta dei suoi compagni di sventura... fino a notte fonda.

Erik lo sentiva, lontano e flebile, come un sussurro nella notte, ma era lì. La luce del tramonto allungava ombre sulle pavimentazioni della città. Quella melodia e quelle parole, erano la strada che stava cercando, il richiamo, lo stesso richiamo che era rimasto inascoltato alle orecchie di Christine, ma non a quelle di Ophèlie... ed adesso lei stessa lo stava usando per richiamarlo a se'. Era sempre stato lui ad avere bisogno di lei, ma adesso era lei che lo stava conducendo a se'... non il contrario. E lui rispose. Corse, senza mai fermarsi finché il suono dello strumento gli lambiva le orecchie. Poi ad un certo punto la melodia terminò, lasciandolo cieco nelle vie buie della città... in un quartiere che non conosceva.
“Angelo mio...” sussurrò Erik quando il suono del violino rimase muto per troppo tempo. Si sentiva cadere come divorato dall'oscurità delle strade e del suo animo triste, che era stato ancora una volta, incapace di comprendere cosa fosse veramente importante per se'. L'aveva lasciata scappare!
Si poggiò ad un muro e si accasciò per terra, sentendo una voragine di tristezza distruggergli lo stomaco. Si strinse su se' stesso e si prese la testa tra le mani. Era arrabbiato, triste e frustrato.
“Stupido stupido stupido Erik!” sputò quelle parole come veleno. Era stato stupito, come al solito, ed adesso l'illusione di poterla di nuovo stringere era sfumata nel silenzio assoluto.
“L'hai immaginato! L'hai immaginato!”
“No, non l'ho immaginato... non l'ho immaginato... no no ! - disse. - Lei è qui! Lei deve essere qui! Non può abbandonarmi! Non può... non può... io... io...” poi il suono angelico del suo violino tornò ad illuminargli l'animo, come se Dio avesse voluto metterlo alla prova per capire se meritasse di ritrovare ciò che aveva perso. Alzò lo sguardo e si mosse ancora verso il punto da cui veniva la musica. Era più vicina...
“Certo! È da tutta la notte che cammini! Ci mancherebbe anche che non fosse più vicino...” si disse più per esorcizzare la sua paura che non per la sicurezza che fosse così. Non aveva più sicurezze, solo una speranza... una speranza che lo stava aspettando là fuori, da qualche parte.
Poi la musica si interruppe di nuovo ma lui non si fermò, corse verso il punto da cui proveniva poco prima finché, come per miracolo, la musica esplose proprio dietro le sue spalle. Si voltò e si mosse all'angolo della casa diroccata e alla fine la vide! Seduta per terra con i capelli dorati che risplendevano alla luna, il viso reclinato su quel violino. Sentì il cuore esplodergli nel petto per la felicità: “Ophèlie!” esclamò. La ragazza alzò lo sguardo di scatto.

Una figura si stagliava all'angolo della casa diroccata dove aveva trovato rifugio. Una figura alta ed inquietante, immobile, con solo il mantello che si spostava leggermente alla carezza del vento che soffiava gentile sulla città. Non poteva essere... poi quella scomparve dietro il muro e la ragazza si alzò e si mosse di corsa verso il punto in cui era sparita. Quando voltò l'angolo venne bloccata da qualcuno e stretta quasi fino a farle mancare il respiro. La ragazza si divincolò, e quando vide negli occhi chi la stava stringendo non le sembrò possibile. “Erik?” sussurrò incredula.
“Si... sono io...” le disse lui guardandola negli occhi.
La giovane gli tolse il cappello e quelle pozze di verde l'affogarono ancora, anche se era buio. Era lui!
“Erik!” esclamò buttandoglisi tra le braccia e cominciando a piangere.
“Mi spiace... - le disse - mi spiace. Perdonami! Perdonami Ophèlie, ti prego! - sussurrò lui tra le lacrime - Sono io il Fantasma dell'Opera, sono...”
“Lo so! - disse lei, prendendogli il viso tra le mani - lo so.”
“Lo... lo sai?”
“Si, e non mi interessa!” disse lei guardandolo negli occhi.
Erik sentì la gioia esplodergli nel petto, una gioia tanto forte e vera che era sicuro di non averla mai provata. Si sentì sollevato... non le aveva nascosto nulla... lei sapeva e lo stava stringendo a se'.
“Ti amo Ophèlie!” le disse lui e senza lasciarle il tempo di rispondere cercò urgentemente le labbra di lei.
La ragazza rimase stupita dalla foga dell'uomo, ma dopo pochi istanti, il mondo attorno a loro scomparve, lasciando solo loro due sospesi al centro dell'universo.
La ragazza si allontanò dalle labbra dell'uomo e lo guardò. Vide le lacrime che avevano rigato la parte libera dalla maschera del volto dell'uomo ed il suo sguardo, dispiaciuto per essere stato interrotto mentre si perdeva in quella magia.
“Scusa...” ansimò lei, oppressa dalla stessa necessità di vita che quel bacio le aveva dato.
“Ma... Christine?” chiese.
“L'ho lasciata... quando ho capito che non era di lei che avevo bisogno... ma di te. - le disse lui con lo sguardo appassionato - Ti amo, te lo giuro. Perdonami se ci ho messo tanto a capirlo.” disse stringendo il morbido corpo della donna contro il suo.
“Ti amo anch'io... fin dall'inizio...” rispose lei e questa volta furono le sue labbra a cercare quelle dell'uomo.

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Note: non è l'ultimo, è il terzultimo se contiamo anche l'epilogo.
Che ne dite?

p.s: il bel Sylvain chi vi fa venire in mente?

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Capitolo 15
*** Resa dei conti ***


Eccoci qui, vi presento l'ultimo e cortissimo capitolo con il quale si conclude la vicenda narrata, la prossima settimana posterò l'epilogo. Spero di essere stata in grado di trasportarvi con me tra le vicende di questi due adorabili pazzi, di avervi emozionato e accompagnato per mano lungo i corridoi dei sotterranei del'Opera e tra le oscure vie di Parigi.
Ringrazio intanto Elby, che mi ha dato davvero una grossa mano a scrivere questo racconto perchè senza di lei non sarei riuscita ad andare avanti.
Grazie anche a quelle che hanno seguito la storia.
Grazie a tutte.
Un bacio

Capitolo 15 - Resa dei conti.

“No! - disse seria Madame Giry - non ti permetterò di abbandonarla rovinando così anche la sua vita. Me ne hai già fatta perdere una Raoul! Non credere che ti permetta di lasciare Christine perché sei innamorato del fantasma di una donna che non potrai più avere!”
“Ma! Io non posso offrirle ciò di cui ha bisogno.”
“Non è una ragione valida, l'hai sposata, te la sei presa a carico e...”
“Ma io non l'ho mai amata!”
“Allora è un problema tuo se l'hai sposata comunque non amandola!” disse Eloise ancora più infuriata.
“L'ho salvata da quel mostro!”
“Non t'azzardare a definire mai più Erik un mostro! Non se lo merita!!” urlò ancora la donna.
“Si che se lo merita! Con tutto quello che ha fatto per...”
“Per difendersi dal mondo?”
“Perché l'hai sempre difeso eh? Perché?”
“Non cercare di cambiare discorso giovanotto, sai benissimo che quando io difendo qualcuno lo faccio a ragion veduta... dovresti sapere ormai che io non rendo conto di ciò che faccio a nessuno, figuriamoci ad un giovane come te!”
“Si ma... io non la amo! Non mi voglio più prendere la responsabilità di quello che fa Christine!”
“Sfortunatamente per te devi!”
Raoul si arrese e si lasciò cadere sul divano.
Madame Giry si accasciò su una sedia. Debole e distrutta com'era, l'ultima cosa di cui aveva bisogno era uno scontro aperto con suo genero.
Qualcuno bussò alla porta. Cècile andò ad aprire facendo entrare in casa Christine.
“Christine, bambina mia!” disse Eloise alzandosi ed andando incontro alla giovane.
“Maman, come state?”
“Adesso meglio.” disse stringendo la giovane a se'.

Quando Christine e Raoul se ne furono andati, Eloise sentì di nuovo la tristezza e la solitudine assalirla come due vecchi cani rognosi. Sentiva il silenzio della casa che le premeva addosso ed addirittura il profumo del cibo che Cécile stava cucinando, la infastidiva come l'odore acre delle stalle.
Era sola, era di nuovo sola ed Erik ed Ophèlie erano chissà dove... chissà se vivi. Pregò per un'ora ininterrottamente chiedendo a Dio di regalare un miracolo al suo figlio dimenticato e di preservare entrambi dai guai in cui sicuramente si erano cacciati. Quando Cècile la chiamò per la cena, la donna scese al piano inferiore ma non fece in tempo a raggiungere la sala da pranzo che qualcuno bussò alla porta. Eloise non pensò in quel momento. Sapeva che dietro quella porta poteva celarsi un qualunque delinquente, ma il suo istinto le diceva che invece chi aveva bussato era proprio l'uomo che aveva cresciuto come un figlio. Non esitò un istante e prima che Cècile la fermasse, lei aveva già aperto la porta.
“Erik!” esclamò quando riconobbe nell'ombra i lineamenti dell'uomo. Le sue labbra si stirarono in un sorriso e si spostò di fianco, scoprendo un' Ophèlie provata ma raggiante.
“Ophélie!” urlò la donna e senza curarsi di Erik corse verso la giovane donna e la strinse forte a se'.
“Dio ha ascoltato le mie preghiere! - disse poi staccandosi dalla ragazza ed osservando i due - Siete vivi!”
“Perché? Dubitavi forse?” disse serio Erik ma i suoi occhi brillavano di divertimento.
“Entrate, sarete stanchi. Stavamo giusto per cenare.”
“Stavamo?” chiese sulla difensiva l'uomo.
“Io e Cècile...” disse e quando loro furono entrati, chiuse la porta alle loro spalle e li accompagnò in cucina.
Cècile non era contenta di rivedere quell'uomo inquietante in casa sua ed Eloise era sicura di aver letto una tacita protesta nei suoi occhi, ma in quel momento non le importava. L'unica cosa importante era che loro due fossero lì, sani e salvi ma soprattutto, insieme.
Quando terminarono la cena, la governante si congedò gentilmente da loro... non le piaceva stare nella stessa stanza con quell'uomo e li lasciò soli e tranquilli, liberi di potersi abbandonare all'affetto reciproco che provavano gli uni per gli altri.
“Cosa farete adesso?” chiese Eloise.
“Pensavamo di andare via da Parigi, lontano da qui, in un qualunque altro posto per rifarci una vita.”
“Avete già un'idea?”
“Non lo so... Orlèans, Marsiglia... in un posto in cui degli umili appartamenti non costino troppo...” disse Ophèlie.
Orlèans, già. Meg non c'era più e lei non aveva altri eredi. Christine era sistemata con un Visconte e di sicuro non avrebbe sentito la mancanza di un appartamento tanto lontano. Era la casa di suo marito, lasciata in eredità a lei e che per discendenza sarebbe dovuta andare a Meg. Si, doveva farlo.
“Io ho un appartamento ad Orlèans.”
Madame Giry tornò al piano inferiore con le chiavi ed una consunta cartina di Orlèans. In un angolino c'era scritto un indirizzo: Rue Jeanne D'Arc 59.
“È già arredata, è vecchia, ma è pur sempre una casa.”
Ophèlie osservò attonita il foglio di carta che Eloise le aveva messo in mano insieme alle chiavi.
“Grazie.” sussurrò.
“Eloise, io... - balbettò Erik - come potrò mai ringraziarti?”
“Accettando la mia proposta! Bada che non voglio più sentire tutti i tuoi soliti mugugni su quanto ti creda indegno e sfortunato... non è così, e tu lo sai, te l'ho sempre detto.”
“Mi hai detto tante cose che ho voluto lasciare inascoltate...”
“Ecco, non farlo più. Prendete questa casa, prendetelo come il mio regalo di nozze.”
“Ma è troppo per noi... noi non possiamo...” iniziò la ragazza.
“Vi prego. Io voglio solo vedervi felici e voglio darvi la possibilità di rifarvi una vita insieme.”
“Grazie Eloise.” disse Erik abbracciando l'amica.

Raoul sigillò la lettera e scrisse l'indirizzo di Madame Giry. In quella missiva aveva deciso di dirle che non aveva nessuna intenzione di continuare a stare con Christine e che lei non avrebbe potuto impedirglielo, lui era Raoul DeChagny, un Visconte. Lui poteva tutto e lei non era nessuno.
Chiamò il maggiordomo e gli ordinò di far arrivare al più presto quella lettera al suo destinatario, così il maggiordomo mandò il garzone a portare la lettera a Madame Giry.
Quella mattina Eloise ricevette due lettere, una di Erik, in cui lui le spiegava come erano arrivati e quanto la casa fosse bellissima. Le palesò l'intenzione di ristrutturare, con i propri guadagni, un vecchio teatro decadente e rivenderlo. Aveva anche confessato che l'idea di avere un teatro tutto suo non gli dispiaceva affatto e che magari contando anche i guadagni di Ophèlie che là faceva la musicista, sarebbero riusciti, tra molti anni, ad avere un piccolo teatro in cui lui avrebbe potuto finalmente esprimere la sua essenza. Eloise sorrise intenerita dalle sue parole, alle parole del piccolo sognatore che sotto sotto Erik era sempre stato.
Posò la bella lettera e prese in mano quella che le aveva scritto Raoul DeChagny, ma quando Eloise lesse quelle parole non si prese nemmeno la briga di rispondergli. Inforcò il suo bastone decisa ad andare a casa DeChagny per far ragionare quel genero sciagurato, disposta a farlo anche con la forza.
Bussò con decisione alla porta e fu proprio Raoul ad aprire.
“Brutto farabutto! Come osi parlare con quel tono a me?” sibilò.
Raoul rimase interdetto davanti a quella donna che, malgrado il grave lutto, resisteva ed aveva ancora la forza di fronteggiare gli altri con fierezza, come aveva sempre fatto.
Il Visconte sapeva perché lei era lì ed il salotto della casa non era il posto migliore per una litigata con Eloise Giry. La portò nel suo studio e la invitò a sedersi ma lei rimase in piedi a fronteggiarlo con gli occhi che dardeggiavano.
“Non ti permetterò di rovinare un'altra delle mie bambine.”
“Christine non è tua figlia.”
“Infatti, è più di una figlia! E non crederai certo che io resterò qui a guardare mentre tu la disonori in memoria del fantasma di Meg vero?”
“Mi è sembrato di essere già stato abbastanza chiaro in proposito.”
“Oh si lo sei stato... ma sei stupido!” disse la donna battendo una manata contro la scrivania del giovane che sobbalzò per la sorpresa.
“Se proprio lo vuoi sapere caro il mio ragazzo, Meg era promessa ad un uomo, un uomo molto più potente di te.”
Raoul la guardò con sufficienza.
“Non mi credi?”
“Non ci sono più famiglie potenti come la nostra.”
“Ah no? E se ti parlassi dei DeValjean?”
Raoul sbiancò. Solo allora si rese conto di essere in trappola.
“Non puoi farlo.” ringhiò lui.
“Oh si che posso. Pensa se dicessi a Gerard DeValjean che il Visconte DeChagny ha deflorato la promessa sposa di suo figlio e l'ha poi uccisa. Come pensi che la prenderebbe?”
“Non ho visto nessuna prova della sua promessa! E non l'ho uccisa io! È stato un incidente! E poi cosa vi fa pensare che io abbia...” Raoul era senza parole, biascicò qualcosa per difendersi, ma poi tacque.
“Ci vuole una donna per accorgersi di certe cose.” disse Eloise tirando fuori un porta anello dal suo abito ed offrendolo al ragazzo.
Raoul lo aprì e vide che al suo interno c'era un anello con un grosso diamante, “pacchiano” pensò.
“Leggi dentro...” disse la donna.
“A Meg, la mia promessa sposa. Con affetto, Gerome DeValjean”
Raoul spalancò gli occhi, consapevole di essere in trappola.
“Cosa vuoi da me? Dei soldi?”
“Io non me ne faccio niente dei tuoi soldi, ma si da il caso che tu abbia un risarcimento da pagare.”
“A te?”
“No, non a me, mi hai già tolto le mie uniche ragioni di vita, non voglio essere umiliata dal tuo denaro! Hai un debito con una ragazza! Una ragazza che tu hai conosciuto, una mendicante... bionda, con due splendidi occhi color miele.” disse la donna scrutando con attenzione il giovane davanti a lei.
Raoul la osservava interdetto. Come faceva quella maledetta donna a sapere sempre tutto?
Eloise tirò fuori dal decoltè la scatoletta con dentro il sigillo dei DeChagny, quello di cui Ophèlie le aveva parlato e che lei aveva ritrovato nelle pieghe dell'abito consumato della ragazza.
“Questo sigillo era sulla lettera di minacce che tuo padre ha mandato alla famiglia Depuy, tu non puoi saperlo, ma la figlia di quell'uomo è quella stessa mendicante che tu hai ospitato in casa tua ed è poi sparita, chissà per quale ragione.”
“La violinista?”
“La violinista...” disse la donna come ad un bambino che ha risposto correttamente ad una domanda. Poi continuò:
“Lei non sa che è stata la tua famiglia a mandarla e a rovinarle la vita... o meglio, non sa che tu porti lo stesso cognome se non altro...”
Il ragazzo era senza parole.
“Ti chiedo solo questo: non rovinare un'altra vita, dammi 300.000.000 franchi che provvederò a recapitare all'interessata ed io non dirò nulla a Gerome. Non cercare di prenderti gioco di me, nessuno ci è mai riuscito e sono sicura che non vorrai che il tuo buon nome venga infangato da certi fatti. Tu cerca di uccidermi o di fare qualsiasi cosa per non pagare il tuo debito e la famiglia DeValjean saprà tutto.”
“Sei una strega!”
“No, sono solo una donna disperata.” disse secca.
“Tieni, ecco i soldi, disse lui firmandole un assegno. Ma non fare più riferimento a quanto accaduto!” disse secco lui.
“È stato un piacere fare affari con voi.” disse la donna intascando la somma e muovendosi verso la porta.
“Stare con quel Mostro vi ha trasformato in un essere spregevole quanto lui.”
“Dipende dai punti di vista... e dalle ragioni che ci spingono a farlo.” e detto ciò, la donna sparì e tornò a casa sua.


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E alla fine i buoni vincono! Che ne pensate?

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Capitolo 16
*** Epilogo ***


Bene, con questo epilogo vi saluto e rinnovo i ringraziamenti per coloro le quali mi hanno seguito.
Il capitolo è molto corto ma non mi sembrava ci fosse più niente da dire. Se secondo voi non è così vi prego di dirmelo.
Ciao

Epilogo.

“Caro Erik,
ti mando questa lettera per dirti quanto sono contenta di ciò che mi hai raccontato. Avete fatto bene a scappare da qui. La guerra sta devastando la città e molte persone sono morte.
Non ti nascondo che non condivido il modo in cui hai minacciato quell'invasore per uscire dalle mura della città ma d'altro canto, non mi aspettavo che tu glielo chiedessi gentilmente.”


Erik sorrise sardonico. Glielo aveva chiesto gentilmente, ma lui non aveva accettato. Non aveva avuto altra scelta se non puntargli la spada tra le scapole mentre Ophèlie era comodamente seduta nella carrozza inconsapevole di cosa il suo amato stesse facendo. Avevano viaggiato per due giorni, fermandosi solo di tanto in tanto, per comprare qualcosa da mangiare, dormire e far riposare i cavalli.

“Questa lettera è particolare amico mio, al suo interno troverai un regalo. È la parte di eredità di Meg ed in più c'è anche la donazione del suo promesso sposo. Si Meg era promessa, e visto che io non me ne faccio niente di tutti questi soldi, ho pensato che sicuramente a voi avrebbero fatto comodo. Sono sicura che il tuo teatro sarà stupendo.”

Osservò con gli occhi sgranati il nutrito assegno e lo porse alla sua sposa, che lo guardò con le lacrime agli occhi.

“Mi raccomando, quando sarà pronto, vorrò essere in prima fila per vedere con i miei occhi il tuo sogno avverarsi. Vivete felici e scrivetemi. Mi mancate moltissimo.
Con affetto.
Vostra Eloise.”


“Eloise... - sospirò Erik - ti prometto che sarà il più bel teatro del mondo... e la più bella Opera del mondo.” disse osservando Ophèlie ed accarezzando con dolcezza il suo manoscritto finito:
“A whisper in the night”.

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