Storie di tre vittime innocenti

di vannagio
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Janet Cooper e Rupert Goodman ***
Capitolo 2: *** Charlaine Melanie Gibson ***



Capitolo 1
*** Janet Cooper e Rupert Goodman ***


Per la serie...
"Quando vannagio vaneggia!"



Storie di tre vittime innocenti





Nemmeno al mio peggio avevo mai commesso una simile atrocità.
Non avevo mai ucciso un innocente, in più di otto decenni.

(Edward Cullen, Midnight Sun, capitolo uno “A prima vista”)



Sarà vero?



Capitolo 1
Janet Cooper e Rupert Goodman




Ancor prima di spalancare la porta d’ingresso della piccola abitazione, Carlisle Cullen seppe che qualcosa non andava. Non era stato lo spesso muro di densa oscurità a suggerirglielo - anche perché il vampiro non aveva difficoltà a vedere attraverso di esso - e neanche l’assordante cappa di silenzio che avvolgeva l’intera casa come un’immensa campana di vetro trasparente. No, niente di tutto ciò. Era stato l’odore - quell’odore - a metterlo in allerta. Sangue. Caldo, vivo… invitante. Versato non più di qualche ora prima. Impregnava mobili, pareti, aria. Ogni cosa.
“Edward?”, chiamò con il pensiero. Non ottenne alcuna risposta.
Un’ondata di panico misto a senso di colpa lo travolse con inaspettata violenza, tanto da metterlo fuori gioco per alcuni interminabili secondi. Deglutì a vuoto e strinse i pugni. Si sarebbe arreso all’evidenza dei fatti solo quando li avesse accertati con i suoi occhi. La vana speranza di trovare una spiegazione diversa da quella che i sensi stavano sussurrando alla sua coscienza era l’unico appiglio che gli permetteva di rimanere a galla e gli impediva di annegare nella disperazione. Con riluttanza si avviò lentamente verso le scale. Un passo alla volta, un gradino alla volta.
Carlisle era stato via per tre ore. Tre dannatissime ore! Non aveva avuto altra scelta, benché l’idea di allontanarsi da casa lo turbasse parecchio. Il vampiro stata organizzando l’ennesimo trasferimento della sua non-vita ed era stato costretto a recarsi in città per sbrigare le solite faccende burocratiche.
Arrivato in cima alle scale, si fermò un istante per guardarsi intorno. Apparentemente sembrava tutto in ordine. Nessun segno di lotta. Ma il sangue - ahimè! - lo sentiva ancora. Anzi, l’odore si era fatto così intenso che per un attimo Carlisle ebbe l’impressione di trovarsi in una sala operatoria. Non era un buon segno, decisamente.
Una sottile striscia di luce giallognola si espandeva dalla porta socchiusa della camera di Edward e come la lama di una lunghissima spada, tagliava in diagonale lo stretto corridoio, altrimenti completamente buio. Serrò la mascella e chiuse gli occhi per trovare la forza di avanzare. Non era l’odore del sangue a destabilizzarlo - ormai ne era immune - bensì la consapevolezza di aver commesso un orribile errore di valutazione. Quando riaprì gli occhi, per un attimo, la sorpresa di trovarsi dentro la camera di Edward - si era mosso alla cieca quasi senza rendersene conto - lo distrasse dal macabro spettacolo che gli si parava di fronte.
Due cadaveri - un uomo e una donna - erano riversi scompostamente sul parquet di legno chiaro, l’uno accanto all’altro. L’uomo recava una ferita sul polso destro ed emanava un intenso odore di alcool stantio. A parte la rigidità tipica della morte, nulla lasciava supporre che non si sarebbe rialzato mai più. Giaceva prono e così Carlisle non ebbe modo di vedere l’espressione di terrore che sicuramente gli era rimasta congelata sul viso. Il sollievo per aver ricevuto quella piccola grazia durò solo una frazione di secondo, ossia il tempo necessario affinché il suo sguardo si posasse sulla giovane donna. Due occhi castani - sbarrati e assenti - lo fissavano in una muta richiesta di aiuto. La bocca deformata da un’orrida smorfia di dolore sembrava suggerire che neanche la morte era riuscita ad alleviare la sofferenza della povera sciagurata. E poi c’erano le guancie esangui, lo squarcio sul collo, l’ampia macchia di sangue che imbrattava il merletto del colletto strappato e che si allargava sul corpetto, il braccio piegato in modo innaturale… nessun dubbio in merito: lei era stata la prima a morire, la prima ad andare incontro alla furia devastante di un vampiro assetato.
Carlisle aveva visto tante di quelle atrocità nei suoi lunghi viaggi, da poter riempire di incubi le notti di un’intera esistenza, eppure, tutte le volte che guardava in faccia alla morte, non riusciva a rimanere indifferente. Ogni vita era preziosa per Carlisle, insostituibile. Ogni vita spezzata era una profonda ferita che neanche un medico esperto come lui era in grado di ricucire. Non si sarebbe mai abituato a vedere morire le persone, di questo era assolutamente certo.
Si inginocchiò accanto alla donna e mentre gli occhi aridi pizzicavano dalla voglia di piangere, sussurrò: «Riposa in pace, bambina». Poi, con una leggera carezza, abbassò le palpebre su quei due grandi buchi castani che avevano continuato a fissarlo incessantemente, come a chiedergli il perché di quell’inutile crudeltà. Se lo domandò anche lui, ma purtroppo non seppe trovare una risposta.
«Avrei dovuto pensarci io», sussurrò qualcuno alla sua sinistra.
Carlisle aveva percepito la sua presenza fin dall’inizio, ma nell’udire quella voce - al momento molto simile a un lamentoso fruscio - si accorse di non essere affatto pronto ad affrontare chi, nonostante tutto, considerava come un figlio.


*


Il sole era tramontato già da diverse ore quando Janet Cooper salutò la madre, avviandosi velocemente verso la via maestra. Quel pomeriggio era andata a farle visita com’era sua abitudine ogni venerdì da quando si era sposata. Il cielo era coperto di nuvole che promettevano pioggia e mentre camminava svelta, Janet permise alla sua mente di vagare per fantasie segrete e mai confessate.
Fin dai tempi della sua infanzia, Janet Cooper aveva avuto una passione smodata per la lettura. I suoi libri preferiti erano, senza dubbio alcuno, i romanzi di Jane Austen. Li aveva letti un numero così spropositato di volte da conoscerli ormai a memoria. Si era fatta un’idea piuttosto romantica e ingenua dell’amore. Sicura di sé e paziente come pochi su questa terra, sognava a occhi aperti di incontrare l’uomo della sua vita, colui il quale sarebbe stato in grado di rubarle il cuore. Così il tempo trascorreva, gli anni si susseguivano veloci, lasciando i segni del loro passaggio sul viso ovale di Janet, ma di ‘colui il quale’ non ne aveva avuto alcuna notizia.
Al suo posto, invece, giunse la Spagnola. Il padre di Janet contrasse la malattia e morì, lasciando moglie e figlia sul lastrico. Janet non ebbe altra scelta: accettò un matrimonio combinato e frettoloso con un vecchio e burbero commerciante vedovo, che fu talmente generoso da farsi carico del mantenimento della povera Signora Cooper, ma che purtroppo di romanticismo non ne aveva mai sentito parlare.
Janet era rassegnata alla sua vita piatta e monotona. Ormai aveva capito che nessun ‘colui il quale’ sarebbe mai arrivato per lei e che tutti i suoi sogni di ragazza ingenua - covati e conservati come qualcosa di estremamente prezioso - sarebbero rimasti, per l’appunto, soltanto sogni. Ogni tanto, però, quando era sola e ne aveva occasione, si concedeva il lusso di fantasticare. E allora inventava storie bizzarre ma al contempo romantiche. Tali storie si concludevano quasi sempre con un bellissimo principe dagli occhi blu che rapiva Janet, strappandola alla sua vita vuota e insignificante.
Quella sera Janet era così immersa nelle sue fantasie da vecchia bambina, che non ebbe neanche l’occasione di vederlo arrivare. Janet Cooper venne rapita da un bellissimo principe dagli occhi arancioni.
Non le rubò il cuore, ma la vita, quella sì.


*


Bere non era mai stata un’abitudine per Rupert Goodman. A voler essere onesti, lui, l’alcool, non lo aveva mai retto. Al punto tale che un solo dito di vino rosso lo trasformava in un ridicolo ometto traballante con le guance rosse, rigate dalle lacrime. Perché a lui, l’alcool non metteva allegria, no signore! Solo tristezza e malinconia.
Quella sera Rupert, quando si era recato al pub, era già triste di suo. E poiché era già triste di suo - si era detto - perché non rincarare la dose e scolarsi un goccetto?
Qualche ora più tardi, uscito dal locale, ubriaco come mai lo era stato in vita sua, Rupert capì che la sua non era stata una mossa molto furba. Proprio no! Ma ormai il danno era fatto e in fondo casa sua non era così lontana dal pub. Inciampando ripetutamente sui suoi stessi piedi, reggendosi ora a un palo ora all’inferriata di qualche edificio adiacente alla strada, si incamminò per raggiungere la sua abitazione.
Le lacrime scorrevano copiose e lo rendevano quasi cieco. Più volte rischiò di cadere come una pera cotta e di spaccarsi i denti sbattendo la faccia per terra. Forse se avesse smesso di piangere come una stupida donnicciola, camminare sarebbe stato dieci volte più semplice! Per quanto ci provasse, però, Rupert non riusciva a fermare le lacrime.
La verità era che Rupert soffriva maledettamente. Si sentiva abbandonato, solo al mondo. E innamorato. Odiava ammetterlo a se stesso e di sicuro lo avrebbe negato fino alla morte, se solo qualcuno avesse avuto un sospetto a riguardo. Ma lui era innamorato. Sì, signore. Non c’era cosa peggiore che potesse capitargli. Anzi, no! La cosa peggiore che potesse capitargli era innamorarsi di un uomo.
E indovinate un po’?
Rupert era innamorato di un uomo. Già! Di un uomo che era stato disposto a ricambiare il suo sentimento e sollazzarsi nei piaceri della carne per più di due anni. Le cose, però, erano cambiate assai. La famiglia del suddetto uomo gli aveva combinato un matrimonio molto conveniente con una ricca grassona bionda. E quale pazzo avrebbe rinunciato alla possibilità di vivere di rendita senza muovere un dito? Per cosa, poi? Per qualche notte di passione clandestina?
E così l’uomo si era mostrato per il viscido verme meschino quale era. E aveva scritto una lettera a Rupert. Una lettera piena di parole gentili, infide e false. E adesso Rupert era rimasto solo. Ubriaco fradicio. E senza la minima idea di dove si trovasse.
Si guardò intorno, spaesato e confuso, cercando di individuare qualche dettaglio a lui familiare ma il cervello era ottenebrato dall’alcool, la vista offuscata dal pianto. Esausto e impossibilitato a compiere un altro passo senza inciampare, si lasciò cadere per terra. La sua testa - e tutto il resto del mondo con essa - ondeggiava paurosamente da destra verso sinistra. La afferrò con entrambi le mani come per tenerla ferma e portò le ginocchia al petto. Aveva la nausea e cominciava a sentire freddo - freddo? - e sollievo… qualcosa di freddo sulla sua spalla gli dava sollievo. Ma come diavolo ci era finito in piedi con la schiena contro il muro?
E poi lo vide.
Il giovane più bello che Rupert avesse mai incontrato in vita sua. Perfino più bello di quel viscido verme che adesso odiava più di quanto avesse mai odiato se stesso. Nonostante l’alcool, Rupert notò che il giovane lo stava sostenendo per la spalla sinistra con una mano sola. Era stato lui a farlo alzare da terra?
Il giovane annuì, sogghignando. E per un folle istante Rupert si chiese se il ragazzo fosse capace di leggergli nella mente. Rise, o meglio, provò a ridere di quel pensiero sciocco, ma la sua lingua era così secca e al contempo pastosa che a mala pena riuscì a emettere un rantolo rauco.
Gli occhi neri - o forse rosso scuro? - del giovane erano fissi in quelli di Rupert, il quale non poté fare a meno di avvampare sotto quello sguardo così ardente e... affamato? La voglia di toccarlo, di sfiorare e accarezzare quella pelle candida e perfetta arrivò improvvisa e travolgente. L’alcool lo rendeva avventato e sconsiderato, oltre che triste e malinconico. Così, senza perdere altro tempo, allungò la mano destra e…
La sua guancia era liscia, assurdamente liscia. E ghiacciata. Tanto ghiacciata da far desiderare a Rupert di poggiarci contro la fronte dolorante. Le dite vagarono impunite per quel volto divino fino ad arrivare alle labbra. Dure, fredde, invitanti. Prima ancora che la sua mente potesse formulare su di esse un qualsiasi pensiero peccaminoso, Rupert avvertì un dolore straziante al polso destro. Urlò, ma dalla sua gola fuoriuscì soltanto un debole gracchiare di cornacchia. Si sentì strattonare in avanti… pochi attimi dopo si ritrovò circondato dall’oscurità - un vicolo buio? - e dalle braccia forti del giovane, il quale stava succhiando avidamente dal suo polso.
Rupert non ebbe il tempo di avere paura o di lottare. Le forze lo abbandonarono rapidamente. La vista, già annebbiata dall’alcool, si affievoliva sempre di più, fino a quando non lo lasciò completamente cieco. La pioggia cominciò a cadere inesorabile, bagnandogli i vestiti e la pelle poco più che tiepida. Poi anche l’udito si spense. Negli ultimi istanti di vita, a Rupert non rimase altro da fare che contemplare i ricordi sfocati e inconsistenti di giornate soleggiate, passate in compagnia del suo amato viscido verme meschino.
Rupert Goodman morì così. Tra le braccia di un giovane bellissimo e un sorriso amaro sulle labbra.


*


La pioggia aveva reso il terreno più morbido - costatò Carlisle mentre affondava la pala nel terriccio fangoso, saturo di acqua -, il suo compito sarebbe stato più semplice. Per la seconda volta, in quella notte colma di orrore e sensi di colpa, provò un vago sollievo. Ma di nuovo durò poco. Perché gli occhi cremisi di Edward - di suo figlio - e quel viso pallido imbrattato di sangue altrui lo perseguitavano di continuo senza mai dargli pace. Anche in quel momento, mentre scavava una fossa nel bel mezzo del bosco e la candida pelle delle braccia si tingeva di marrone - macabra imitazione del sangue coagulato e secco -, non poteva non pensare all’accusa intravista sul viso di Edward. «È colpa tua…», gli aveva detto, sibilando come un animale ferito, «…e dello stile di vita che cerchi di impormi a tutti i costi».
Carlisle non riusciva a biasimare Edward per quello che aveva fatto. Nemmeno quando lo sguardo cadeva sui cadaveri di quell’uomo e di quella donna sconosciuti - ciascuno avvolto in un lenzuolo -, i quali erano stati poggiati contro una grande quercia e attendevano di essere sepolti, silenziosi come solo dopo la morte si poteva essere.
La colpa era sua, di Carlisle. Erano trascorsi quattro mesi dalla trasformazione di Edward. Carlisle aveva creduto che il ragazzo fosse capace di mantenere un autocontrollo sufficiente da rimanere solo per qualche ora. Evidentemente, si era sbagliato. Evidentemente, Carlisle aveva ancora molto da imparare come creatore… come padre.
Si fermò un secondo per voltarsi nella direzione in cui sapeva trovarsi la loro casa. Sospirò pesantemente mentre scrutava la barriera di foglie, rami e chiome che gli impediva di scorgere la finestra illuminata della camera di Edward. Che cosa stava facendo adesso? Si sentiva in colpa anche lui? Provava disgusto verso se stesso, proprio come Carlisle nel primo periodo della sua non-esistenza? Forse Edward lo biasimava - lo odiava? - per averlo reso un mostro? Per un lunghissimo istante Carlisle si chiese se suo figlio avesse ragione. Forse doveva lasciarlo libero di decidere della sua vita. Forse doveva smettere di imporgli le sue scelte. Ma era davvero così? Lo stava costringendo? La verità era che Carlisle non era pronto a rinunciare alla compagnia di Edward. Lo amava così profondamente e incondizionatamente, che forse avrebbe potuto accettare qualsiasi cosa pur di tenerlo con sé. Forse…
Forse, forse, forse. Solo dubbi. Nessuna certezza.
Aumentò la stretta sul manico della pala, tanto da sentirlo scricchiolare sotto le sue dita.
Infine decise. Sarebbero andati via - si disse mentre si rimetteva a scavare più velocemente -, il più lontano possibile da qualsiasi essere umano. Avrebbero ricominciato daccapo. E con l’aiuto di Carlisle, Edward ce l’avrebbe fatta.
Sì, ce l’avrebbero fatta entrambi.
Insieme.





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Nota autore:
Questa ‘cosa’ nasce in un giorno di noia. Dovevo studiare ma non ne avevo voglia, così sono andata a rileggere il primo capitolo di Midnight Sun. Arrivata alla fatidica ora di biologia, in cui Edward progetta di uccidere un’intera classe per ciucciarsi Bella Swan, il sedicente vampiro fa una clamorosa rivelazione: “Nemmeno al mio peggio avevo mai commesso una simile atrocità. Non avevo mai ucciso un innocente in più di otto innocenti”. Inutile dire che ne sono rimasta veramente sconvolta. Ma come? Il vampiro vegetariano per antonomasia, che si nutre soltanto di sangue animale e che quando si è nutrito di sangue umano si trattava soltanto di manigoldi incalliti, alla fine confessa di essere scivolato non una, ma ben otto volte? Improvvisamente Edward Cullen mi è apparso sotto una nuove luce. E ha cominciato a esercitare un fascino inaspettato su di me. “Caspita, che potenziale!” mi sono detta.
E allora la mia mente ha cominciato a rimuginare, rimuginare, rimuginare su queste otto vittime innocenti che hanno avuto la sfortuna di trovarsi nel posto sbagliato al momento sbagliato. Ne è venuta fuori un’idea per una piccola long. Ogni capitolo avrebbe dovuto trattare la storia di una o più di queste otto vittime e le reazioni degli altri Cullen.
E fin qui il ragionamento sembra filare che è una meraviglia, non è vero?
Se non che, mi sono resa conto di avere una versione di Midnight Sun piena di errori. E la frase che aveva scatenato in me questa smaniosa voglia di scrivere era sbagliata! In realtà Edward dice: “Nemmeno al mio peggio avevo mai commesso una simile atrocità. Non avevo mai ucciso un innocente, in più di otto decenni”. Capite? Otto decenni non innocenti! Naturalmente tutto il mio bellissimo progetto è crollato come un castello di carte ed Edward Cullen è tornato a essere un noiosissimo vampiro vegetariano. Che delusione!
Siccome non mi andava si cancellare Janet Cooper e Rupert Godman dal computer - insomma, mica è colpa loro se ho frainteso Eddy, giusto? - ho deciso di pubblicare la loro storia come una sorta di ‘What if?’ in cui Edward, neonato e accecato dalla sete, non riesce a controllarsi e uccide i due poveri disgraziati in questione.
Ci sarà solo un altro capitolo che avevo già cominciato a scrivere e che - anche in questo caso - non riesco a cancellare.
Grazie in anticipo a chi leggerà e commenterà questa ff. Risponderò a chiunque avesse il fegato di recensire questa immane cavolata attraverso la funzione ‘rispondi’.
A presto, vannagio.

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Capitolo 2
*** Charlaine Melanie Gibson ***






Capitolo 2
Charlaine Melanie Gibson
-Ritrovarsi nella solitudine-




«Non volevo farle del male…». Il ragazzo singhiozzava disperato, rannicchiandosi il più possibile contro il suo petto. Seduta per terra, sul pavimento del piccolo salottino, lo stringeva forte a sé e lo abbracciava con braccia e gambe, nel tentativo di far aderire ogni parte del suo corpo a quello del giovane. Non c’era nessun desiderio sessuale in quel contatto così intimo. Soltanto amore materno.
«Volevo…». La voce del giovane si incrinò e non riuscì a completare la frase. Esme avvertì un dolore lancinante al centro del petto, proprio sotto lo sterno. Là, dove una volta batteva il suo cuore. Vederlo soffrire a quel modo, sentirlo così straziato… era pura agonia per la vampira. Quel dolore superava di gran lunga il bruciore della gola e il desiderio di nutrirsi. E poco importava che lei fosse una neonata, perciò più giovane e - a rigor di logica - più bisognosa di attenzioni del vampiro che le singhiozzava addosso. Tutto passava in secondo piano al cospetto della disperazione del ragazzo.
«Mi sentivo così solo…», continuò a gemere il giovane. Artigliò la spalla della vampira, come per salvarsi dal baratro nel quale rischiava di precipitare e il rumore della stoffa che veniva lacerata le riempì le orecchie per una frazione di secondo. Esme si sentiva impotente, inutile. In colpa. Amava quel vampiro come se fosse figlio suo eppure non aveva saputo proteggerlo dal mondo. Da se stesso.
Mentre gli baciava teneramente il capo, non poté far altro che bisbigliare: «Raccontami, Edward. Raccontami tutto».



* * * * * * * * * * * * * * * *



La vista di Miss Charlaine Melanie Gibson era sempre stata ottima. E lo era anche adesso, nonostante l’età avanzata. Perciò, in sessantasette anni, non le era mai capitato di dover mettere in dubbio ciò che aveva visto con i suoi stessi occhi. Quella volta, però, qualche perplessità Charlaine la nutriva. Perché il ragazzo che lei pensava di aver intraveduto tra la folla del mercato, il pomeriggio precedente, stando a quanto le era stato detto da alcuni suoi conoscenti, doveva essere passato a miglior vita - pace all’anima sua - da circa tre anni. Che si fosse sbagliata? Che la vecchiaia le avesse giocato un brutto scherzo? Ci aveva riflettuto per tutto il giorno. Non riuscendo a venire a capo di quel mistero, troppo orgogliosa per ammettere di aver preso un abbaglio, il giorno seguente era tornata al mercato.
Da circa mezz’ora, Charlaine si aggirava con aria circospetta tra le bancarelle di frutta e verdura, nella speranza di avvistarlo di nuovo. Il cielo era coperto, come sempre in quel particolare periodo dell’anno, e l’aria era così gelida da farle venire i brividi. Temporeggiare all’aria aperta alla sua età era da considerarsi un atto davvero scellerato, ma la curiosità e la voglia di fare luce su quella faccenda le impedivano di dare ascolto al buon senso.
Charlaine aveva trascorso gran parte della sua vita a Chicago, svolgendo il mestiere di insegnante. In una grande città, si trovavano sempre famiglie borghesi bisognose di un precettore per i loro figlioli viziati e indisciplinati. Così, intorno al 1908, Charlaine conobbe Elisabeth Masen. La donna era alla ricerca di un insegnante per il figlio Edward e un’amica le aveva consigliato Miss Gibson. Lavorò presso i Masen per circa cinque anni, ma continuò a frequentare Elisabeth - con la quale aveva stretto un sincero rapporto di amicizia - anche per molto tempo dopo.
Col sopraggiungere della Spagnola, però, al fine di evitare il contagio, la donna fuggì a nord, nel piccolo paesino in cui era nata. Con i pochi risparmi accumulati negli anni, aveva comprato una piccola casa in periferia e adesso si guadagnava di che vivere lavorando come maestra nella scuola del paese. Nel 1918, con suo grande dispiacere, era venuta a sapere della morte di Elisabeth Masen, del marito e del figlio diciassettenne.
E allora com’era possibile che Charlaine avesse visto Edward Anthony Masen camminare per le vie del mercato, vivo e vegeto? Che si trattasse soltanto di una sorprendente somiglianza?
Proprio quando stava per decidere di dare ascolto alle sue povere ossa doloranti e tornarsene a casa… eccolo!


*


Edward stava uscendo. Di nuovo.
“Non lasciarmi sola, te ne prego!”, lo supplicò con il pensiero, mentre lo osservava inforcare gli stranissimi occhialini scuri che si era fatto spedire da chissà dove, qualche anno prima. Le aveva raccontato di averli usati per nascondere le iridi rosse da neonato, nelle poche volte che si era trovato in presenza di esseri umani. Anche se adesso i suoi occhi erano divenuti dorati, l’abitudine era rimasta, perché gli davano la possibilità di mescolarsi tra la gente senza attirare sguardi indiscreti.
«Carlisle sarà qui a momenti», replicò il vampiro con fredda indifferenza, senza degnarsi di guardarla in viso.
“Ma ho paura di…”. Non ebbe neanche il tempo di terminare il pensiero, che la gola cominciò a bruciare dolorosamente. Si portò una mano al collo e prese a massaggiarlo, cercando inutilmente di alleviare la sofferenza e placare la sete. Perfino ‘il pensare a certe cose’ costituiva una tentazione per lei. Così provò con un’altra argomentazione.
“Carlisle ti ha chiesto di farmi compagnia!”, insistette, rivolgendosi al giovane vampiro. Ma questi non diede segno di averla sentita. Indossò la giacca e volò giù per le scale.
«Edward, aspetta!». Lo rincorse fino alla porta d’ingresso… troppo tardi. Era già sfrecciato via ed Esme non poteva uscire. Aveva fatto una promessa a Carlisle - sarebbe rimasta in casa fino al suo ritorno - e intendeva mantenerla, perché riponeva la massima fiducia nel suo salvatore e a sua volta non voleva deluderlo.
Esme era una vampira da poco più di cinque mesi. La sete era incontenibile e il suo autocontrollo era ancora molto scarso. Carlisle aveva stabilito che non fosse mai lasciata da sola, in nessun caso. Edward aveva tre anni come immortale, perciò perfettamente in grado di badare a lei nelle rare occasioni in cui Carlisle era costretto ad allontanarsi. Ma Edward se n’era andato. Ancora una volta. Capitava spesso nelle ultime settimane. Ed Esme - sola, soprafatta dalla sete - non sapeva che cosa fare.
Si accasciò sul pavimento, poggiando la schiena contro la parete e provando il forte desiderio di mettersi a piangere. Desiderio vano, naturalmente. Non biasimava Edward per il suo comportamento, ma ciò non le impediva di soffrire. Voleva molto bene al ragazzo, lo considerava come un fratello minore… forse addirittura un figlio. Ma lui non si lasciava avvicinare. La respingeva, la teneva a distanza. Esme era stata un’insegnante nella sua precedente vita, perciò credeva di capire che cosa stesse capitando al giovane vampiro. Tuttavia, non sapeva come aiutarlo o come farsi voler bene.
Semplicemente, Edward era geloso. Di lei e del profondo legame che si era instaurato tra Esme e Carlisle. Aveva vissuto con suo padre per tre anni ed essendo abituato ad avere Carlisle tutto per sé, l’arrivo di Esme lo aveva destabilizzato parecchio. Nei successivi cinque mesi, infatti, il dottore si era dedicato a Esme anima e corpo. Probabilmente Edward si sentiva trascurato e abbandonato, come un bambino che si vedeva improvvisamente ‘rimpiazzato’ dal fratellino appena nato oppure come un figlio che non sopportava l’idea che il padre si risposasse. Al pensiero di sposare Carlisle, Esme provò la strana sensazione di andare a fuoco. Se avesse potuto, sarebbe arrossita. Ne era certa.
«Che cosa ci fai lì per terra? Stai bene?».
Esme sollevò lo sguardo e di nuovo ringraziò il cielo che nelle sue vene non scorresse del sangue e che quindi non potesse arrossire. Carlisle la guardava dall’alto, con un sopraciglio inarcato e un sorriso tra il divertito e l’accondiscendente. Era così presa dai suoi ragionamenti che soltanto una regione periferica della sua mente aveva registrato il ritorno di Carlisle. Mentre afferrava la mano del vampiro e si rimetteva in piedi, Esme si rese conto di amare Edward e Carlisle proprio come una donna umana avrebbe amato un figlio e un marito. Invece di rallegrarla, quel pensiero le fece provare una sconfinata tristezza. Perché loro, Edward e Carlisle, non erano niente di tutto ciò per lei.
Né il figlio che aveva perso, né il marito che non aveva mai avuto.
Se avesse potuto farlo, Esme avrebbe pianto.


*


E così Miss Gibson non si era sbagliata. Non che lei avesse mai nutrito dei dubbi in merito, figurarsi! Il ragazzo del mercato era proprio Edward Anthony Masen, salvatosi miracolosamente dalla Spagnola e accolto sotto le ali protettive di un ricco dottore in pensione, o almeno così le aveva raccontato Edward. Forse era un po’ troppo pallido, - la malattia aveva lasciato tracce indelebili su di lui -, e un tantino più riservato e taciturno di come lo ricordava - non era mai stato un soggetto loquace, l’essere di poche parole era una prerogativa degli uomini Masen -, ma tutto sommato era sempre lui. Un gentiluomo educato, galante e anche affascinante. Per quanto ormai si trovasse al di là del bene e del male, Miss Gibson sapeva ancora apprezzare la compagnia di un giovane di bell’aspetto.
Passò davanti allo specchio per rassettarsi la gonna e poi si avviò velocemente - quel tanto che le sue gambe stanche permettevano - in cucina per controllare che il the fosse pronto per essere offerto al suo ospite, insieme ai biscotti al burro. Dopo diverse settimane di visite, cordiali rifiuti e sinceri ringraziamenti, Charlaine non sperava più di convincere Edward ad accettare qualche biscotto, però lei era una vecchia coriacea e caparbia. «E in fondo… tentar non nuoce», disse soprapensiero, mentre entrava nel salotto con il vassoio. «Ma perseverare è diabolico, Miss Gibson», la riprese una voce morbida e vellutata.
Edward Anthony Masen, seduto sul divano, la scrutava con aria divertita. O almeno così lei credeva, poiché gli occhiali scuri che il ragazzo portava le impedivano di guardarlo negli occhi. A Charlaine quegli occhiali non piacevano, per niente. Nascondere gli occhi al proprio interlocutore era un gesto insolitamente sgarbato per un gentiluomo come Edward. Aveva l’impressione che il giovane se ne servisse per mentirle con più facilità. Per nasconderle qualcosa. Ma non aveva voluto indagare. Che si tenesse pure i suoi segreti - si era detta -, lei aveva già gli acciacchi della vecchiaia di cui preoccuparsi e più grattacapi di quanti desiderasse.
«Almeno uno. Per favore!». Sforzandosi, la donna sorrise nella direzione del giovane. «Non vorresti farmi contenta, almeno per una volta?», lo pregò ancora, protendendo il vassoio verso di lui ma stando bene attenta a non avvicinarsi troppo.
Per qualche strana ragione, Edward evitava i contatti ravvicinati, in ogni modo possibile. Una volta sola, la donna si era permessa di sedersi sul divano accanto a Edward - come aveva sempre fatto quando lui era bambino e Miss Gibson la sua insegnante -, ed era scattato in piedi come una molla, neanche avesse avuto il diavolo in corpo. Si era scusato, aveva blaterato qualche motivazione sicuramente inventata e si era accomodato su una poltrona presso la finestra aperta. Charlaine non aveva più tentato.
«Da bravo, Edward. Sono una vecchia signora… le mie braccia non reggeranno ancora per molto. Prendi un biscotto!», insistette. Edward scosse la testa, improvvisamente più serio.
Cattivo segno, quando non rispondeva con una delle sue battute sagaci. Accadeva continuamente che il suo umore cambiasse all’improvviso. Neanche si fosse trattato di una ragazza in quel particolare periodo del mese.
Sospirando pesantemente, la donna depose il vassoio sul tavolino e prese posto sulla sua poltrona preferita. Sorseggiò il the, lentamente, osservando di sottecchi il giovane che le sedeva di fronte. Charlaine sapeva esattamente come fargli tornare il sorriso. E a lei piaceva quando Edward sorrideva. Perché il suo sorriso la riscaldava e la faceva sentire meno sola. Non era per questo motivo che era tornata al mercato nella speranza di ritrovarlo? Per non sentirsi più sola?
«Che cosa desideri ti racconti oggi, Edward?», domandò, mentre poggiava la tazza vuota sul vassoio. Ed eccolo, finalmente, il sorriso che Charlaine aveva imparato ad amare. Faceva capolino sulle sue labbra, come il sole del mattino da dietro le cime delle montagne.
Edward pareva ponderare con attenzione la sua risposta, come un bambino che possiede un’ampia scelta di caramelle tra cui scegliere e non riesce a decidersi. «Di quando abbiamo fatto quella gita in campagna», rispose infine, perplesso, come se non si fidasse della sua stessa memoria.
«Oh, sì! Ricordo bene quel giorno. Tua madre aveva insistito parecchio affinché mi unissi a voi. E, che Dio la benedica, quando tua madre si metteva in testa qualcosa, non c’era modo di farle cambiare idea». Un sorriso triste si dipinse sul viso di Miss Gibson, mentre i ricordi si affollavano nella sua mente. Poi, riscuotendosi dalla malinconia, ammiccò in modo decisamente poco elegante verso il ragazzo e aggiunse: «In questo sei molto simile a lei, Edward. Due muli terribilmente cocciuti, altroché!».
Risero per diverse ore, scacciando a suon di ricordi la solitudine.


*


La sorpresa l’aveva paralizzata sul posto per alcuni interminabili istanti. Gli occhi sgranati per lo stupore fissavano increduli il viso gentile e leggermente preoccupato di Carlisle. Preoccupato? Credeva forse che Esme avrebbe rifiutato la sua proposta?
“Sciocco!”. Quel pensiero la fece sorridere di felicità. Sciocco e innamorato. Di lei, innamorato di lei. Esme stentava a crederlo. Sorrise ancora. Forse non aveva mai smesso, di sorridere. Porse una mano al vampiro che le si era inginocchiato di fronte. Quando Carlisle intrecciò le sue dita a quelle di Esme, la vampira lo invitò a rialzarsi. «Sì», farfugliò infine, impacciata ma al tempo stesso raggiante.
Allora le sembrò che il volto del vampiro si fosse improvvisamente acceso. Come se avesse cominciato a brillare di luce propria. E nel momento in cui Carlisle la catturò tra le sue braccia, avvolgendola in una stretta soffocante e possessiva, precludendole la vista del suo viso e della luce che esso emanava, Esme capì che quel bagliore sfavillante altro non era se non il sorriso di Carlisle. Il meraviglioso sorriso di Carlisle. Lo aveva ammirato in una piccola stanza di ospedale, quasi dieci anni or sono. Ed era stato il primo vero ricordo della sua non-vita, dopo esser rinata dalle fiamme della metamorfosi. Adesso avrebbe potuto contemplarlo per l’eternità, quel sorriso.
Ma un rumore proveniente dal piano superiore fece implodere la bolla di felicità che li aveva avvolti per un tempo apparentemente infinito.
«Edward», sussurrarono all’unisono. La paura sul viso di lui rifletteva il terrore nello sguardo di lei. Un battito d’ali più tardi, si trovavano nella stanza del giovane vampiro, mano nella mano.
Le ante della finestra aperte, quasi scardinate. In balia del vento, le tende danzavano furiose.


*


Dio possedeva uno strano senso dell’umorismo, stava pensando Miss Gibson. Perché solo adesso che si trovava in punto di morte, solo adesso che stava per perdere la vita, Charlaine riusciva a dare un significato alla vita stessa e a tutto quello che le era capitato nei suoi sessantasette anni.
Ogni scelta avventata, ogni errore, ogni strada sbagliata. Come quando metti controluce un bicchiere apparentemente pulito e ti accorgi delle impronte che qualcuno vi ha lasciato sopra. Rifiutare la proposta di matrimonio di David. Vendere la casa della sua infanzia. Allontanare tutti i suoi parenti e circondarsi di famiglie di cui non faceva parte. Andarsene da Chicago. Far rientrare Edward - o chiunque lui fosse - nella sua vita. Com’era possibile che non si fosse resa conto subito di quegli errori madornali? Apparivano così chiari ed evidenti, adesso, contro la cupa luce della morte.
Beh… per l’ultimo sbaglio una spiegazione l’aveva. La solitudine. Charlaine l’aveva scelta come unica compagna e poi se n’era stancata. Troppo tardi, sfortunatamente. Così Edward le era caduto in grembo come la manna dal cielo. Sciocca vecchia, sciocchi rimpianti!
Perfino l’ultima discussione avuta con Edward, pochi minuti prima, acquisiva, ora, tutto un altro significato.


«Edward! Perché sei in giro a quest’ora? Che cosa ti è successo? Sembri sconvolto».
«Carlisle… lui…».
«Lui, cosa? Oh, per l’amore di Dio, entra! Si gela qui fuori».
«Posso rimanere con voi, Miss Gibson?».
«Per questa notte?».
«Per sempre».
«Come?».
«Voi avete bisogno di me, Miss Gibson. Ed io di voi. Potremmo essere una famiglia».
«Edward, qualunque cosa il dottor Cullen abbia fatto, sono sicura che…».
«Non voglio più sentir parlare di lui!».
«Sii ragionevole! Non posso accoglierti in casa mia. Lo vorrei, giuro che lo vorrei».
«I soldi non saranno un problema».
«Edward. Dovresti parlarne con…».
«Vi fidate di me, Miss Gibson?».
«No, per niente».
«Ma mi volete bene, no? Provate affetto per me, non è così?».
«Ti voglio un gran bene, Edward. Quasi come un figlio».
«Basterà. La fiducia verrà con il tempo. E quello di certo non mancherà».


E invece Edward si era sbagliato. Di tempo, lei, non ne aveva più.



* * * * * * * * * * * * * * * *



«Raccontami, Edward. Raccontami tutto».
E come se non avesse aspettato altro in tutta la sua non-vita, Edward cominciò a raccontare. Sembrava un ubriaco in procinto di smaltire una brutta sbornia. Vomitava parole, una dopo l’altra.
Le parlò di Miss Gibson e di quando l’aveva incontrata per caso durante una delle sue fughe pomeridiane, riconoscendo in lei la vecchia insegnante, l’amica di sua madre Elisabeth. Delle visite a casa dell’anziana signora - quasi ogni giorno nelle ultime settimane - e di come fosse riuscito a vincere e sopportare la sete.
Esme ne rimase profondamente sconcertata. Ne sarebbe mai stata capace, lei? Stare a stretto contatto con un essere umano senza aggredirlo e ucciderlo? Per un breve istante tale pensiero le fece ardere la gola, poi la voce disperata di Edward le ricordò che c’erano cose più importanti del sangue in quel frangente. Si vergognò profondamente della sua scarsa capacità di concentrazione.
Ritrovare Miss Gibson - stava spiegandole Edward - era stato come ritrovare il suo passato, la sua famiglia. Se stesso. Sentire Carlisle chiedere a Esme di sposarlo aveva talmente spaventato Edward, da indurlo a credere che loro avessero intenzione di abbandonarlo. Esme sussultò e istintivamente aumentò la stretta del suo abbraccio. Lei ci sarebbe sempre stata per Edward. Non avrebbe permesso a nessuno di portarglielo via. Nemmeno alla morte.
«E invece Miss Gibson era lì. Pronta ad accogliermi come…». Pareva che Edward avesse qualche difficoltà nel trovare le parole adatte, come se avesse dimenticato l’esistenza di alcuni termini. «Pronta ad accogliermi come una… una madre. Mia madre», e nel pronunciare quel sostantivo il vampiro apparve stupito quasi quanto Esme.
Ma ciò che si agitava nel petto di Esme non era stupore. Sempre là, dove una volta batteva il suo cuore, qualcosa di diverso e ignoto aveva cominciato a vibrare improvvisamente, pronto a esplodere. Eppure, forse, quel qualcosa non era così sconosciuto. Non aveva provato una cosa simile quando Carlisle, settimane prima, le aveva parlato di un’infermiera con la quale aveva lavorato a Chicago?
«Volevo tenerla con me, per sempre. Ma… non sono riuscito a fermarmi».
E quel diapason interiore prese a vibrare ancora più forte. Edward aveva tentato di farla sua, a trasformare Miss Gibson in una madre adatta. Sicuramente più valida di Esme, una neonata scostante e priva di autocontrollo, che invece di far fronte alla disperazione del proprio cucciolo, si trovava costretta a lottare contro la sete, la rabbia e… la gelosia. Ah, ecco cos’era! Egoistica gelosia! Adesso Esme poteva comprendere a pieno Edward e l’insofferenza che nutriva verso di lei.
Il senso di colpa tornò prepotente a tormentare la vampira, mentre il ragazzo veniva scosso da altri singhiozzi privi di lacrime.
«Mi spiace di aver dubitato di Carlisle e di esser stato irrispettoso nei tuoi confronti», aggiunse lui in un bisbiglio appena udibile, anche per un vampiro, «Mi sono comportato come… come un bambino e adesso Miss Gibson…», altri singhiozzi e colpi di tosse secca, «…lei è…».
La frase rimase monca ed Esme non lo forzò a proseguire, perché conosceva la conclusione della storia. Non appena si erano accorti della fuga di Edward, infatti, Carlisle si era messo sulle tracce del ragazzo. Quando era riuscito a trovarlo, a casa di Miss Gibson, era già troppo tardi. Lo aveva riportato indietro, affidandolo alle cure di Esme, mentre lui, Carlisle, era tornato indietro per occuparsi del… la vampira deglutì a vuoto, non essendo in grado di formulare quel pensiero senza rimuginare sul sangue andato sprecato, che probabilmente stava ancora imbrattando il pavimento di Miss Gibson. E un improvviso moto di euforia la colse nel costatare che la sua rivale fosse… si bloccò appena in tempo, ben consapevole che Edward potesse essere in ascolto.
Lo cullò, canticchiando sommessamente, come ricordava di aver fatto in passato. Prima di morire. Prima che lui morisse. Pochi giorni, fatti di manine e piedini rosa.
«Edward?», lo chiamò chissà quanto tempo dopo.
Il vampiro sollevò lo sguardo verso di lei. I suoi occhi erano ancora nascosti dagli occhiali scuri. Esme glieli tolse lentamente. Due iridi rosse di sangue umano fecero capolino da dietro le lenti incrinate: la fissavano con intensità e colpevole curiosità. La vampira sorrise dolcemente, intenerita da quello sguardo smarrito e fanciullesco, così stonato sul volto di un letale predatore. Accarezzò la guancia pallida del ragazzo e scacciò quell’ennesimo pensiero inopportuno.
«Ti ho mai parlato di mio figlio?», domandò. Il vampiro scosse la testa, perplesso. Esme esitò un istante perché non era sicura che fosse la cosa giusta da dire. In fondo non aveva alcuna esperienza in quel campo. La possibilità di acquisirla le era stata negata con feroce crudeltà. «Mi manca. Tanto». Edward era molto simile a Esme: entrambi avevano perso prematuramente qualcuno di importante, entrambi cercavano un sostituto. Edward avrebbe capito. «Ogni volta che ti guardo, penso a lui. A come sarebbe potuto diventare, crescendo. A volte me lo immagino adulto. E sei tu. Nelle mie fantasie lui ha il tuo volto e la tua voce. Vorrei tanto che tu fossi lui, Edward. Che lui fosse te. Potrei conoscerlo meglio», neanche questo le era stato concesso, «Ti abbraccerei, ti cullerei, sarei…».
«Saresti mia madre». Edward la stava fissando in silenzio - da quanto tempo? - con sguardo intenso e penetrante. Senza lasciar trapelare nessuna emozione. «Tu sei mia madre», concluse, come a volersi correggere.
E senza aggiungere altro, si abbandonò di nuovo tra le braccia della vampira, che lo accolsero prontamente.
Esme amava Edward e Carlisle, proprio come una donna umana avrebbe amato un figlio e un marito. E loro erano esattamente questo per lei.
Il figlio che aveva perso e il marito che non aveva mai avuto.
Se avesse potuto farlo, Esme avrebbe pianto.
Lacrime di gioia.





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Nota di Autore:

Scusate il ritardo. Questo capitolo era ponto già diverse settimane, ma partecipa a un contest. Volevo attendere la pubblicazione dei risultati, ma dato che ci vorrà ancora un po' di tempo, alla fine non ho resistito.

Il sottotitolo di questa one-shot ha un doppio significato. Il ‘ritrovarsi nella solitudine’ indica sia la condizione di essere solo (in cui si trovano Edward, Charlaine ed Esme inizialmente) sia il ‘rincontrarsi a causa della solitudine’ cioè a causa del bisogno di sentirsi meno soli (come accade a Edward e Charlaine, che si ritrovano dopo tanti anni, e come succede anche a Edward ed Esme, che pur convivendo sotto lo stesso tetto per diverso tempo, non erano mai riusciti a ‘incontrarsi’ o conoscersi davvero). Va beh… ho fatto un po’ di contorsione mentale per trovare il titolo, lo ammetto.

Tutte gli accenni alla vita umana di Esme sono ricavati da Wikipedia. Nel 1911, se non ricordo male, conosce Carlisle in ospedale, in seguito a una frattura alla gamba. Voi lo sapevate? Io no! Prima di diventare vampira era sposata con un uomo violento (infatti definisce Carlisle ‘il marito che non aveva mai avuto’, perché non considera il suo ex come un marito degno di questo termine) e per qualche anno aveva praticato il mestiere di insegnante. Stando sempre a quanto è riportato su Wikipedia, Esme viene trasformata nel 1921, perciò tale OS è ambientata in questo anno.

Gli occhiali scuri (occhiali da sole) esistevano già nel 1921 (mi sono documentata), anche se non erano molto diffusi. Ma tanto i Cullen sono sempre stati straricchi, no?

Infine, piccolo appunto su Edward. L’ho reso molto bambino in questa OS e l’ho fatto consapevolmente. Jasper - non ricordo dove, probabilmente in Eclipse - descrive i vampiri neonati come bambini e sulla base di questa affermazione mi sono sbizzarrita. A voi l’ardua sentenza!

Il tutto è riuscito un po’ troppo melenso per i miei gusti. Bah… Esme mi è scappata dal guinzaglio. Cattiva, Esme! Cattiva!

Detto questo, ho finito con il papiro.

Bacioni, vannagio.

Ringrazio immensamente Sevvie per aver indetto un così bel contest.

E naturalmente un grazie infinito a chi leggerà ed eventualmente recensirà questa storiella.





Questa one-shot ha partecipato al contest Spazio ai personaggi [Multifandom e originali], indetto da Sevvie sul forum di EFP, classificandosi al primo posto e vincendo il "Premio Lacrima".


Ecco il giudizio della giudice:

Grammatica: 10/10
Stile e lessico: 15/15
Approfondimento del carattere del personaggio scelto: 20/20
Importanza del prompt all'interno della storia*: 5/5
Originalità: 5/5
Gradimento personale: 5/5
TOTALE: 60/60

Dire che questa storia mi è piaciuta sarebbe troppo poco. L'ho adorata, amata, venerata... non so che altri termini usare per dire quanto mi sia piaciuta.
Di un'intensità assurda, unica, tanto che alla fine mi è scappata una lacrima di commozione.
Ora però devo contenermi e passare al commento.
Oddio, in realtà non è che ci sia molto da dire. Tutto perfetto quindi cosa dovrei dirti?
Esme perfetta. Esattamente come me la immagino. Un personaggio che mi è sempre piaciuto a pelle, ma che la Meyer non ha approfondito più di tanto. E, d'ora in poi, quando rileggerò i vari libri della Saga, saprò come pensare a Esme.
La grammatica impeccabile, lo stile e il lessico perfetti, hai un modo di scrivere fantastico, stile fluido, scorrevole, coinvolgente; lessico adatto alla situazione...
Davvero, io non ho davvero altre parole per commentare la tua storia. Quando ho indetto il bando ero indecisa se inserire il fandom “Twilight”, perchè, sebbene mi piacesse la Saga (ultimamente la sto rivalutando un po'...tutta colpa di The Vampire Diaries!!), non ero mai riuscita a leggere niente. Non so perchè, ma mi veniva il rifiuto solo a pensarci. Ma meno male che alla fine mi sono buttata e l'ho inserito!!!
Ok, adesso ho davvero finito!!!

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