Potere e umiltà

di LoveChocolate
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Ultimi attimi ***
Capitolo 2: *** PRIGIONIERI ***
Capitolo 3: *** gabbia ***
Capitolo 4: *** Derenna Ru ***
Capitolo 5: *** A lavoro ***
Capitolo 6: *** PER SEMPRE ***
Capitolo 7: *** LA SPADA D'ORO ***
Capitolo 8: *** SCHIAVA ***
Capitolo 9: *** CRIMINALI ***
Capitolo 10: *** DOPPIO GIOCO ***
Capitolo 11: *** PAURA ***
Capitolo 12: *** INGANNO ***
Capitolo 13: *** VIAGGIO ***
Capitolo 14: *** CENA ***
Capitolo 15: *** INTERROGATORIO ***



Capitolo 1
*** Ultimi attimi ***


La risata fragorosa del mercante di vasi risuonò ancora una volta nel deserto gelido della notte.
Le sue mani possenti strattonarono la robusta corda che legava insieme i polsi della schiava.
Stanca e infreddolita, lei cadde ancora una volta, e la sua caduta divenne ragione di altre risate.
Odiava la sua risata.
-Ehi, schiava, ti sei divertita ieri notte?-, urlò lui con voce sguaiata.
Era ubriaco, totalmente ubriaco. Come sempre.
Lei non rispose, si limitò a guardarlo con occhi assassini. Se quello sguardo avesse potuto uccidere, quegli sarebbero stati gli ultimi attimi della vita del mercante.
Non ricordava il suo nome, non le importava. Sapeva solo che aveva delle mani troppo pesanti, che si ubriacava troppo spesso e che era uno stupido.
Solo uno stupido avrebbe legato i polsi di una schiava che portava una Ganà, la cavigliera degli schiavi che li teneva strettamente legati al proprio padrone e che rendeva loro impossibile allontanarsi più di qualche decina di metri.
Stupido, ubriacone e crudele.
Il mercante l’attirò a sé. La ragazza si voltò disgustata.
-Che c’è? Non ti sono piaciuti i nostri giochetti?-
“No che non mi sono piaciuti”, avrebbe voluto dire. Ma si trattenne, sia perché non voleva dargli la soddisfazione di rispondere, sia perché aveva provato la pesantezza delle sue mani quando percuotevano, e non voleva ripetere l’esperienza.
-Beh, chi tace acconsente, no? Vorrà dire che stanotte ci divertiremo ancora di più.-, la sua risata risuonò ancora una volta nel deserto.
La schiava non sapeva dove stessero andando, lui non le diceva mai nulla dei suoi spostamenti.
Arrivavano in una città, lui vendeva quanti più vasi possibili, poi faceva rifornimento, attraversavano il deserto o il mare per qualche giorno e di nuovo si ritrovavano in una nuova città. Era la sua vita da parecchi anni, da quando il mercante l’aveva comprata al mercato dopo che i suoi padroni l’avevano venduta a poco prezzo credendola pazza.
-Ogni tanto si blocca, anche nel bel mezzo dei suoi lavori. Sembra addormentata, e né schiaffi né frustate possono smuoverla fino a quando non lo decide lei.-, avevano detto al mercante di schiavi che, per questo, l’aveva venduta facilmente ad un prezzo più basso rispetto a quello delle altre schiave.
Oltre ad essere un ubriacone, uno stupido e un uomo crudele, quel mercante di vasi era anche uno spilorcio.
Non aveva mai provato tanto odio in vita sua.
Dopo pochi secondi lui dimenticò la sua stessa minaccia e riprese a camminare per le dune strattonandola.
Lei cadde un altro paio di volte e altrettante volte si rialzò e continuò il percorso.
Il mercante continuava a ridere senza motivo.
Improvvisamente dall’orizzonte apparvero delle figure scure in controluce – nonostante l’unica luce presente fosse quella della luna e delle stelle – e iniziarono ad avvicinarsi.
Il mercante smise di ridere e la schiava smise di pensare a quanto lo odiava.
Era raro incontrare qualcun altro nel deserto di notte.
Erano tre… no, quattro uomini.
Tutti adulti e tutti possenti, con spalle larghe e braccia robuste.
Si dirigevano verso di loro, ma non avevano un’aria minacciosa.
Avevano alcuni cammelli carichi, esattamente come loro. Sembravano mercanti.
Il mercante di vasi continuò il suo percorso dopo essersi arrestato per qualche momento per la sorpresa. Gli altri non accennarono a fermarsi o a cambiare direzione.
Inevitabilmente, i due gruppi si incontrarono. La ragazza si impose di mantenersi guardinga: il mercante era tanto stupido che se quelli fossero stati ladri o assassini lo avrebbe capito solo dopo essere stato derubato. O ucciso.
-Salute, compagno, anche tu in viaggio con le tue merci?-, uno del gruppo dei quattro salutò il mercante chiamandolo “compagno”. La ragazza ne dedusse che anche loro dovevano essere mercanti.
Il suo padrone rise di nuovo, rendendo palese il suo stato di ubriachezza.
Con sguardo vigile lei notò che due uomini dietro quello che aveva parlato si scambiarono un’occhiata sfuggente, ma, a causa del buio, non poté interpretarla al meglio.
-Anche voi mercanti, eh?-, disse lo stupido.
-Vedo che hai una schiava, con te.-, fece uno dei quattro, notandola.
Il suo stato d’allerta si fece ancora più acuto quando si sentì chiamata in causa. Istintivamente fece un passo indietro, ma il suo aguzzino strattonò la corda con più violenza del solito, la tirò a sé e la fece cadere fra lui e gli altri mercanti.
Lei non emise un gemito.
Quello che aveva parlato per primo, si chinò su di lei, la prese per i capelli e le sollevò il viso.
 
La luce della luna rischiarò allora i lunghi capelli neri e gli occhi dello stesso color carbone, che risaltavano sulla pelle chiara.
Il mercante non aveva mai visto delle ciglia tanto lunghe o delle pupille così scintillanti.
Di certo era bella. E avrebbe fruttato parecchio al mercato degli schiavi.
Sorrise fra sé e sé e le lasciò andare i capelli.
-Allora, compagno, da quanto sei in viaggio?-, domandò.
-Alcune ore.
-Sarai stanco. Stavamo appunto mettendo su le tende per  mangiare. Abbiamo del vino squisito.
Si era accorto del fatto che quell’omone rozzo e ubriaco aveva un debole per il vino, e si aspettava da lui un’immediata approvazione a quella proposta.
-Assolutamente sì.-, rispose infatti.
I quattro si ritrovarono a sorridere.
A giudicare dal numero di cammelli, quel mercante aveva davvero tanta merce da portare in città, e quella schiava era un’allettante fonte di guadagno.
Montarono, quindi, le tende mentre uno di loro si occupò di preparare il fuoco per arrostire la carne e di versare il vino nei boccali.
E, nel caso del mercante di vasi, anche qualcos’altro.
 
Ovviamente non le era stato offerto né cibo né vino. E, ovviamente, lei non ne domandò, nonostante fosse affamatissima.
Non sapeva da quanto tempo quel balordo la teneva senza mangiare – almeno due giorni – ma sapeva che il suo orgoglio le avrebbe impedito di chiedergli del cibo.
Piuttosto sarebbe morta di fame, il che non sarebbe stato negativo: il mercante si sarebbe ritrovato senza una schiava e avrebbe realizzato di aver sprecato i suoi soldi.
E per uno spilorcio come lui, non poteva esserci niente di peggio.
Sorrise a quel pensiero, quando sentì che di nuovo i cinque uomini avevano ripreso a parlare di lei.
-La tua schiava è… interessante.-, disse uno dei quattro.
-Interessante?-, domandò il suo padrone di rimando. –Lei sarebbe interessante? Certo, è bella. Ma è una povera pazza. Ogni tanto si blocca, anche nel bel mezzo dei suoi lavori. Sembra addormentata, e né schiaffi né frustate possono smuoverla fino a quando non lo decide lei.-, disse citando le parole del mercante che gliel’aveva venduta. –L’ho comprata a poco prezzo. Ma cucina bene. E la notte è un buon divertimento.
Tutti risero a quella “battuta”. Lei, invece, s’incupì.
Seduta accanto a quell’uomo che odiava, teneva gli occhi bassi per non dare a vedere il suo disagio e il suo odio.
La Ganà non era visibile da sotto la veste lunga, ma lei la sentiva. La sentiva che stringeva e la odiava, perché le avrebbe impedito la fuga in qualsiasi momento e in qualsiasi situazione.
Improvvisamente avvertì qualcosa.
Chiuse gli occhi e si concentrò su quella sensazione che, lo sapeva, presto sarebbe sfociata in una visione.
E infatti vide. Vide ciò che sarebbe accaduto di lì a pochi minuti.
Uno degli omoni che porgeva il vino al mercante di vasi.
Lui che, ovviamente, l’accettava.
Il vino cadeva nella sua gola, lui si sentiva soddisfatto e ne chiedeva ancora.
Dopo qualche secondo, iniziava a tossire. Una tosse convulsa, violenta, e lui non riusciva a fermarsi.
E poi, cadeva supino per terra con gli occhi spalancati, a guardare le stelle. Per sempre.
 
Tornò in sé.
Quella visione l’aveva scossa. Da una parte l’aveva riempita di gioia: finalmente sarebbe stata libera da quel bruto.
Ma poi si ricordò ciò che gli spiriti le avevano insegnato: di non desiderare il male delle persone.
Fece un respiro profondo, e invocò il loro aiuto. Quegli spiriti che l’avevano accompagnata fin da quando era piccola e che le avevano dato quel dono. Il dono di vedere le cose, di percepire il futuro.
E il dono di guardare nel passato delle persone solo toccandone le mani, e di capire la loro essenza guardandole negli occhi.
Un dono che, però, non le sarebbe servito a niente in quella situazione. Un dono che poteva anche essere una maledizione: conoscere il futuro ma non poterlo cambiare.
In quell’occasione, però, l’unica cosa che riuscì a pensare fu: che ne sarà di me?
Dopo che quello che era stato il suo torturatore per tanto tempo sarebbe morto, cosa che sarebbe successa di lì a pochi attimi, lei avrebbe incontrato un padrone migliore di lui?
Chiese anche questo agli spiriti, ma non arrivò risposta.
Ciò che arrivò, invece, fu un calcio nelle costole che la lasciò senza fiato.
Cadde per terra e le mancò il respiro per qualche secondo.
Osservò il mercante di vasi che l’aveva colpita: ancora non aveva preso il vino.
-Ve l’ho detto, ogni tanto si blocca. E bisogna colpirla duramente per farla tornare in sé.
Gli altri la fissarono curiosi, ma senza rispondere.
Un dolore lancinante la prese anche alla schiena e sul braccio. Probabilmente, durante la visione, lui l’aveva colpita anche lì, ma non aveva funzionato.
Nulla poteva fermare una visione, né le percosse né delle parole accorate.
Tornò a sedersi e l’attirò a sé con la corda: -Chiedi scusa ai nostri compagni per la tua insolenza.-, la esortò con voce rauca.
Per la prima volta, la schiava alzò lo sguardo. Li fissò uno per uno, e loro ricambiarono lo sguardo con una curiosità sempre maggiore.
Il mercante, con la sua mano pesante, la colpì ancora una volta, stavolta sul viso.
-Chiedi scusa.-, urlò.
Era ubriaco perso, come mai l’aveva visto prima.
-Chiedo perdono.-, disse lei, parlando per la prima volta in quella giornata.
Non aveva niente da perdere: l’uomo che ora la stava torturando sarebbe morto fra qualche attimo.
 
Uno dei quattro gli offrì del vino in una coppa. Lui lo accettò di buon grado.
Lei era seduta ancora accanto a lui, abbastanza vicina da potergli parlare senza che gli altri la sentissero.
-Posso dirti una cosa, padrone?-, domandò fissando i propri piedi.
Lui non rispose ma la guardò di sbieco, prendendo a bere.
-Questi sono i tuoi ultimi attimi di vita.-, lo avvertì.
Lui alzò le sopracciglia, senza staccarsi dal bicchiere.
Dopo che ebbe finito, prima ancora di poter rispondere, iniziò a tossire.
Lei gli si avvicinò e gli sussurrò all’orecchio: -E vuoi sapere come lo so?
Abbassò ancora la voce, ma si assicurò che lui sentisse: -Perché io sono una sensitiva.
 
Per un secondo, solo per un secondo, si sentì libera.
Il suo padrone era morto, e nessuno l’aveva comprata.
Sorrise trionfante, ma, appena un attimo dopo, la corda che le teneva legati i polsi venne strattonata di nuovo.
Si voltò verso i quattro con occhi di fuoco.
-Bene, dolcezza. Adesso tu e tutte le altre merci del tuo padrone sono nostre. Ti piace la novità?
Senza aspettare una risposta, scoppiarono tutti a ridere.
Lei si sentì bruciare dentro.
Libera. Come aveva potuto sperare di essere libera?
I polsi le bruciavano, e non avrebbe sopportato di essere strattonata ancora una volta.
Per la prima volta, parlò di sua iniziativa: -Potete slegarmi: ho una Ganà.-, fece sommessamente.
Se doveva continuare a viaggiare e ad essere schiava, almeno preferiva farlo comodamente.
Uno dei quattro uomini si avvicinò al cadavere e lo spogliò del mantello, scoprendo al suo polso l’altro pezzo della Ganà, quello che spettava al padrone.
-Che stupido.-, imprecò l’uomo. Gli rubò il bracciale dal polso e lo indossò.
Dopodiché, finalmente, liberò i polsi insanguinati per le corde.
-Forza, in piedi.-, le ordinarono.
Lei, solo per un attimo, prese in considerazione l’ipotesi di non ubbidire. Di rimanere seduta, di farsi picchiare a sangue per la sua impudenza e, magari, di essere uccisa.
Forse era meglio la morte che un’intera vita di schiavitù.
Ma gli spiriti che le avevano parlato per tanto tempo, anche se poco prima avevano taciuto, le dissero ancora una volta di non mollare.
Lei sospirò e si alzò, con rinnovato vigore.
Si avvicinò ai suoi nuovi aguzzini. Uno di loro domandò: -Qual è il tuo nome?
Senza entusiasmo, guardando la luna, la ragazza disse in un sussurro: -Clio.
 

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Capitolo 2
*** PRIGIONIERI ***


Chiuso in una vecchia capanna nella foresta di Leonsa, piccola città nel regno di Arcuanta, il “Figlio del Vento” meditava steso sulla sua branda che gli faceva da letto.
Guardava il soffitto giocando con una moneta d’oro, e si chiedeva come avrebbero fatto a passarla liscia.
Veda, sua sorella, era intenta a giocare insieme a Chilè.
Scacchi, dama o qualcosa del genere.
Lui non riusciva a capire perché la sorella si ostinasse a battersi con lui nei giochi da tavola dal momento che aveva perso praticamente ognuna delle partite già giocate – ed erano state più di un centinaio.
-Maledizione.-, imprecò quando Chilè vinse per l’ennesima volta.
Si alzò di scatto e buttò giù la sedia.
Veda aveva sempre avuto problemi nel gestire la sua rabbia.
Non era un aspetto positivo nelle missioni ad alto rischio, quando la concentrazione e la freddezza erano necessari.
In quello, lui era il migliore.
Ma quando si trattava di combattere, neanche Massur riusciva a starle dietro se era arrabbiata.
Chilè sorrise euforico, si alzò e cominciò a ballare per la stanza: -Ho vinto! Ho vinto, ho vinto!
Neanche avesse sei anni.
Chilè era la persona più intelligente che il “Figlio del Vento” avesse mai conosciuto, ma aveva la maturità di un cucciolo e la serietà di un bimbo.
Nella squadra, poi, c’era Massur, un bestione alto più di due metri che si rivelava molto utile quando si trattava di minacciare qualcuno per ottenere informazioni o di combattere.
Infine, c’era lui, Ramis.
Nessuno conosceva il suo vero nome, tranne i suoi compagni, e tutti lo chiamavano il Figlio del Vento.
Era veloce, era potente e nessuno l’aveva mai visto in faccia, né lui né nessun altro componente della sua banda di ladri.
Almeno, fino a due settimane prima. Quando a causa di una missione finita male per un eccesso di rabbia di Veda erano riusciti a vedere sia lui che la sorella abbastanza bene per poter tracciare un ritratto approssimativo dei loro volti.
Quel ritratto, poi, era finito nelle mani delle autorità che avevano posto una taglia sulla loro cattura.
Una taglia piuttosto cospicua, quasi eccessiva, ma in un certo senso ragionevole: chiunque fosse riuscito a prenderli sarebbe stato davvero un uomo dalle grandi capacità.
-Sei sovrappensiero?-, domandò Massur, intento ad affilare il suo coltello, avvicinandosi a Ramis e sedendosi sulla branda, mentre Chilè chiedeva un’altra partita a Veda.
Ramis non rispose e continuò a giocare con la moneta d’oro.
In città aveva sentito delle voci, voci che non gli erano piaciute.
-Si dice che siano sulle nostre tracce.-, rivelò a Massur.
Il gigante non batté ciglio e asserì: -Non è vero.
-E se dovesse essere vero?-, in uno scatto, Ramis si mise a sedere e lanciò la moneta contro il muro di legno della capanna.
Questo si scheggiò e la moneta cadde per terra.
Chilè e Veda interruppero il loro gioco, voltandosi a guardarlo.
Era raro, se non impossibile, che Ramis perdesse il controllo.
La sorella si alzò e si andò a sedere ai piedi della branda: -Ramis, qui non possono trovarci.-, lo rassicurò.
Lui non rispose.
Chilè aveva un sorriso ebete stampato in faccia: -Dovete stare tranquilli.-, fece allegramente. –Ho posizionato parecchie trappole intorno al rifugio, e anche se dovessero riuscire a trovarci saranno prigionieri prima ancora di poterci raggiungere.
Finalmente sul volto di Ramis si dipinse un accenno di sorriso.
Chilè riusciva sempre a sorprenderlo. Apparentemente, negli ultimi giorni era stato impegnato solo a giocare, a mangiare e a leggere. Quello sempre.
E invece aveva anche montato delle trappole intorno al rifugio. Trappole probabilmente inventate da lui e, sicuramente, efficaci.
Sospirò. Era preoccupato, come non lo era mai stato prima.
Aveva una brutta sensazione: quella taglia era l’ultima cosa di cui la sua banda aveva bisogno e nonostante il rifugio della foresta di Leonsa fosse il più sicuro di cui potevano disporre, aveva la sensazione che qualcosa sarebbe andato storto.
Massur prese la parola e con una voce tonante ma dal tono ragionevole cercò di rassicurare Ramis: -Capo, abbiamo provviste a sufficienza per tirare avanti anche dei mesi e abbastanza ricchezze per pagarci un viaggio in giro per il mondo. Prendiamoci una pausa, non accettiamo più incarichi per un po’, aspettiamo che si calmino le acque e che la gente capisca che prenderci è pressoché impossibile e poi torniamo sulla piazza.
Ramis aveva pensato esattamente la stessa cosa.
Guardò Massur con occhi pieni di riconoscenza: quasi sempre il gigante la pensava nel suo stesso modo, ed era una grande sicurezza, oltre che sollievo, averlo sempre vicino.
Veda, con la sua solita irruenza, intervenne: -Mio fratello si tormenta sempre troppo. Siamo la banda di ladri più ricca e ricercata del regno. Persino il re potrebbe avere bisogno dei nostri servigi: di cosa ti preoccupi?-, rise.
Ramis sospirò di nuovo. Aveva bisogno di svagarsi.
Si alzò senza dire niente e uscì. Tutti lo guardarono muoversi con quella lentezza e quell’autorità tipica di un capo, e Veda immediatamente si alzò per seguirlo.
Massur, però, indovinando la necessità di Ramis di stare da solo, la bloccò.
Lui tornò ad affilare il suo coltello e Veda e Chilè ai loro giochi da tavolo.
 
Ramis uscì dalla capanna: aveva bisogno di prendere un po’ d’aria.
Forse Veda aveva ragione: lui si preoccupava troppo.
Era freddo e calcolatore, e all’esterno nessuno avrebbe pensato che potesse provare sofferenza o affanno.
La paura non rientrava nella sua gamma di emozioni. Ma sentiva di dover stare in guardia.
In un sacchetto che teneva legato alla cintura, oltre a qualche moneta e ad una fiala di veleno, teneva con sé anche un foglio che aveva staccato da un muro in città.
Lo dispiegò e guardò il suo ritratto.
Gli somigliava poco, molto poco. Ma chiunque avesse descritto il suo volto al disegnatore aveva ricordato bene la sua cicatrice sul sopracciglio destro che lo rendeva troppo facilmente riconoscibile.
Si sarebbe fatto crescere i capelli in modo da coprirla, pensò.
E poi c’era il ritratto di Veda.
Il suo, invece, era fin troppo somigliante.
La bocca piccola, gli occhi grandi e attenti e i capelli corti erano identici ai suoi.
Nel disegno non era riportata la sua corporatura esile, senza forme, fin troppo per una ragazza, e sicuramente il suo temperamento irruente e la sua innata velocità non potevano trasparire.
Ramis accartocciò il foglio e lo rimise nel sacchetto.
Vicino al loro rifugio, c’era un laghetto dalle acque tiepide che in quel momento si era fatto molto allettante.
Decise che una nuotata era ciò che ci voleva.
Raggiunse il lago, lasciò i vestiti fra i rami di un albero vicino e si immerse nell’acqua fino alla testa.
Una cicatrice sul braccio, che si era procurato in un combattimento poco tempo prima, prese a bruciagli, ma gli passò poco dopo.
Il lavoro del ladro non era esattamente tranquillo.
Non rubava mai per sé, certo, ma gli incarichi che venivano dati a lui e alla sua banda spesso erano più pericolosi e rischiosi delle missioni che si prefiggevano gli altri ladri per una ricchezza personale.
Fino ad allora, aveva rubato di tutto: sfere di cristallo dai mistici poteri, ricette di pozioni magiche improbabili, pugnali che si erano rivelati semplici pezzi di ferro, ma per il quale stolti avevano pagato cifre inimmaginabili.
Così adesso Ramis e gli altri navigavano nell’oro, anche se vivevano con il costante rischio di essere imprigionati e condannati a morte.
 
Era steso nell’acqua, quando improvvisamente sentì dei rumori di voci, passi e fruscii di foglie.
Spalancò gli occhi: li avevano trovati.
In fretta uscì dall’acqua e si rimise pantaloni e camicia, che non fece in tempo ad abbottonare.
Era ancora fradicio.
Le trappole dovevano essere situate più lontano dal rifugio di quanto non fosse lui: aveva il tempo di correre dentro, armarsi e ordinare di farlo anche agli altri.
Non che non si fidasse delle trappole di Chilè, ma se qualcuno fosse riuscito ad evitarle o a fuggire, uscire allo scoperto per correre verso la capanna sarebbe stata la sua condanna a morte volontaria.
Calcolò in pochi secondi i rischi e i vantaggi.
Le voci continuavano ad echeggiare, le trappole a scattare e i passi a risuonare.
Perché le trappole non funzionavano?
Prese l’unica decisione possibile: con uno scatto fulmineo, prese a correre verso la capanna.
Con la coda dell’occhio vide due figure umane ad una ventina di metri da lui che già correvano aumentare la velocità.
Li avevano trovati, maledizione.
In un attimo, un pensiero gli attraversò la mente: se li avesse condotti alla capanna, avrebbero preso tutti.
Se si fosse fermato e consegnato, magari si sarebbero accontentati di lui e avrebbero creduto che fosse l’unico.
Non poteva rischiare di condannare anche gli altri: lui se la sarebbe cavata.
Prese un profondo respiro e si fermò.
Nonostante si fosse aspettato il dolore che avrebbe provocato l’impatto dei due omoni sul suo corpo, lo sorprese.
I due lo gettarono per terra e gli legarono le mani dietro la schiena violentemente.
Lui non si oppose.
I suoi occhi azzurri guardavano dritto di fronte a sé, e la sua mente pregava perché nessuno degli altri tre uscisse dalla capanna in quel momento.
-Il figlio del vento.-, lo schernì uno dei due.
Ben presto arrivarono gli altri.
Tutti gli uomini indossavano la stessa armatura e portavano fieramente sul petto lo stesso simbolo.
Ramis lo osservò: non era – né assomigliava affatto – al simbolo che portavano i soldati del re Arsenna Ru, crudele tiranno che ormai da anni aveva preso il controllo del regno di Arcuanta.
Lui osservò il marchio chiedendosi da dove provenissero quegli uomini.
Gli uomini sembravano essere infiniti. Pian piano ne arrivarono a decine, e circondarono il prigioniero guardandolo con occhi curiosi.
-Sei tu il Figlio del Vento?-, domandò uno di loro.
Poi tirò fuori da un sacchetto il foglio col suo ritratto, confrontandolo.
-Sì, sono io.-, rispose orgoglioso.
Fra i soldati si fece largo un uomo anziano, con una barba troppo lunga e gli occhi troppo piccoli.
Portava fra le mani una sfera di cristallo.
Le sue mani rugose e affusolate la tastarono, la girarono e la rigirarono.
Infine l’uomo si chinò sul prigioniero, che manteneva uno sguardo fiero e altero, e lo guardò fisso negli occhi.
Poi guardò nella sfera.
-Slegatelo.-, ordinò.
Come ipnotizzati, i soldati lo slegarono e, probabilmente già preparati, gli afferrarono le mani con le loro e le porsero all’uomo.
Ramis cercò di liberarsi, ma da dietro gli arrivò un calcio nella schiena che gli tolse il respiro.
Il vecchio riuscì a prendere le sue mani.
Chiuse gli occhi e le lasciò poco dopo.
-Sì, è lui.-, asserì.
Ramis roteò gli occhi: non ci voleva un genio.
-E gli altri sono là dentro.-, indicò con un dito sottile la capanna che si trovava a poca distanza da lì.
Ramis fu colto da un terrore che non provava ormai da anni.
Se si fosse opposto con troppa veemenza, sarebbe risultato chiaro che il vecchio stava dicendo la verità.
Così aspettò che il gruppo si muovesse, aspettò di venire sollevato da terra e trascinato verso la capanna, e solo dopo qualche secondo disse con voce controllata: -Lì dentro non troverete proprio nessuno. Credete davvero che siamo così stupidi da restare uniti?
Il gruppo si bloccò di colpo.
Gli avevano creduto.
Ramis manteneva gli occhi bassi, i capelli castani gli ricadevano sulla fronte e gli impedivano di guardarsi intorno.
“Fa’ che non escano proprio adesso”, pregò.
Tutti i soldati guardarono il vecchio: egli riprese la sua sfera di cristallo e la studiò ancora una volta.
Poi volle riprendere le mani del Figlio del Vento, le strinse più di prima e dichiarò con voce ferma e sicura: -Sono là dentro.
Gli altri si fidarono, e ben presto i quattro ladri conosciuti come “la Banda del Vento” divennero prigionieri.
 
 

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Capitolo 3
*** gabbia ***


-Avevi ragione. Pienamente, assolutamente ragione.-, cercando di trattenere le lacrime, Veda si rivolse a Ramis con tutta la disperazione di cui era capace.
-Avremmo dovuto ascoltarti.-, continuò. –Perché siamo sempre così…-
-…idioti?-, continuò Chilè per lei. –Sì, esatto. Siamo stati idioti. Avremmo dovuto saperlo. Io avrei dovuto saperlo. Sono il più intelligente del gruppo, avrei dovuto saperlo. E invece ero troppo impegnato a giocare a scacchi.-, si mise la testa fra le mani. –E le mie trappole facevano schifo.
Massur si sentì in dovere di replicare: -Le tue trappole non facevano schifo, Chilè. Hanno funzionato a meraviglia, peccato che al posto di uomini abbiano catturato fantocci.
Ramis ci stava pensando da ore.
Le trappole si erano rivelate efficaci, ma i soldati sembravano essere già a conoscenza della loro presenza.
Le avevano eluse facendole scattare con dei fantocci, in modo da poterle evitare indisturbati.
Sicuramente era stata opera di quell’uomo, quello che aveva denunciato la presenza di tutti gli altri componenti della banda, quello che aveva confermato l’identità del Figlio del Vento.
Era un sensitivo. Erano riusciti a prenderli solo grazie all’azione di un sensitivo.
Era stato uno stupido. Non aveva tenuto in conto questa possibilità.
D’altronde, si disse, anche se ci avesse pensato, come avrebbe fatto ad evitare che un sensitivo avesse visioni su di lui? E poi, i sensitivi erano così rari che fino a poco tempo prima aveva creduto che sarebbe morto senza mai incontrarne uno.
Decise di smettere di commiserarsi e di iniziare a pensare a un modo per poter fuggire.
Ma come poteva riuscirci con gli altri che discutevano così?
-Non importa. Ramis, tu l’avevi detto. E noi non ti abbiamo dato ascolto. Perdonaci.-, scoppiò Chilè, come se stesse recitando una scena teatrale, strappando una risata a Veda.
Ad uno sguardo di Massur, però, ritornò seria.
-Ramis, rispondici.-, lo pregò lei.
Ramis guardava dritto di fronte a sé. La sua espressione non tradiva né paura né ansia.
Stava solo pensando.
Massur se ne accorse se ne accorse e si preoccupò di zittire gli altri due, come succedeva spesso.
 
Non avevano armi. Non avevano strumenti di nessun tipo.
Gli avevano portato via persino il veleno.
Erano chiusi in una gabbia fortificata, le barre di ferro si intersecavano in modo così stretto da non riuscire neanche a vedere fuori, figuriamoci poter scappare.
Era già successo una volta che fossero catturati, ma le sbarre della prigione erano abbastanza larghe da permettere all’esile Veda di passarci attraverso, tramortire qualcuno, rubare le chiavi e scappare.
Stavolta si erano preparati bene.
Se solo avesse potuto attirare dentro uno dei soldati, costringendolo ad aprire la porta di quella gabbia infernale.
Allora, grazie all’agilità di Veda, alla forza di Massur e all’abilità in battaglia di Ramis, sarebbero riusciti a scappare
Chilè si sarebbe limitato a scappare, ma sarebbe stato molto utile in seguito, quando ci sarebbe stato bisogno di cancellare le loro tracce.
Il vecchio trucchetto del malore improvviso non avrebbe funzionato, lo sapeva.
E neanche quello della rissa.
Fu Massur a spezzare quel silenzio snervante persino per lui e a domandare: -Allora che si fa?
Finalmente Ramis mosse lo sguardo verso l’amico.
-Non lo so.-, fu costretto ad ammettere. –Ma, credetemi, noi non saliremo sul patibolo per farci giustiziare. Ve lo prometto.-, li rassicurò con voce determinata.
Veda sorrise: il fratello non aveva mai mancato una promessa.
Improvvisamente il carro si fermò e i quattro finirono ammassati su un lato della gabbia.
Dopo un po’ sentirono lo sferragliare di un mazzo di chiavi e finalmente la gabbia si aprì rivelando ai prigionieri la luce del sole.
 
Il primo ad uscire fu Massur, che sferrò un pugno – delicato, per i suoi canoni – a un soldato, facendogli perdere i sensi e anche qualche dente.
Nessuno si azzardò ad intervenire.
Massur fu seguito da Chilè e da Veda.
Infine, con lo sguardo alto e fiero e un sorriso di sfida sul viso, scese anche Ramis.
Nessuno di loro era legato: i soldati erano così tanti che qualunque tentativo di fuga sarebbe stato facilmente fermato.
Il Figlio del Vento se ne accorse e non si sentì affatto rasserenato.
Stranamente, non erano in prossimità di un palazzo reale né di una prigione né di una piazza, se è per questo, nel caso avessero voluto giustiziarli subito.
Al contrario, si trovavano in mezzo ad una vastissima radura con erbacce e alberi alti, probabilmente situata su un’altura, al centro della quale svettava un palazzo dall’aspetto sinistro e diroccato.
Sembrava un luogo isolato, come se da anni nessuno ci mettesse piede. Come se arrivarci fosse impossibile per chi non conoscesse già la strada.
E fu lì, all’entrata di quell’immenso palazzo, che li accolse il Signore dell’Ovest.

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Capitolo 4
*** Derenna Ru ***


Veda, Chilè, Massur e lo stesso Ramis spalancarono gli occhi alla vista di Derenna Ru, conosciuto come il Signore dell’Ovest e ormai spacciato per morto.
Tutti loro erano soltanto dei bambini quando Arsenna Ru, signore dell’Est e fratello gemello di Derenna, aveva dato il via ad una caccia all’uomo dalla portata spaventosa.
Il padre di Arsenna e Derenna Ru si era impossessato del regno di Arcuanta molti anni prima, scacciando dal trono il generoso e clemente sovrano, suo fratello, e imponendo il proprio crudele dominio.
Da allora il regno di Arcuanta viveva in uno stato di terrore e decadenza.
Come suo padre prima di lui, Arsenna Ru dedicava tutte le ricchezze del regno alle guerre, che portavano migliaia di morti. I poveri erano spremuti di tasse per finanziare le guerre e aumentare lo splendore della corte. Chi non poteva pagare i propri debiti diventava schiavo.
I ricchi si arricchivano ed erano obbligati alla fedeltà al re e i poveri si impoverivano.
Questa era ormai da situazione da molti, troppi anni.
Ma Ramis non se n’era mai curato: lui svolgeva i suoi compiti per chiunque, nobile o cavaliere, mago o sacerdote.
Chiunque lo pagasse abbastanza.
Viveva nascosto da anni e non aveva più sentito parlare delle faide nella famiglia Ru da tanto tempo.
Ma si ricordava di quando Arsenna Ru e Derenna Ru si erano scontrati per il potere.
Inizialmente loro padre aveva stabilito che si dividessero il regno, uno prendesse l’Est e uno l’Ovest da qui i loro epiteti. Ma poi la situazione era degenerata.
Arsenna aveva vinto e aveva ereditato il regno del padre, governandolo con una crudeltà, se possibile, anche maggiore.
Derenna Ru era morto, secondo le voci. E adesso Arsenna metteva incinta una donna dopo l’altra, generando figli su figli, fra cui scegliere il suo erede.
Colui che avrebbe ucciso tutti gli altri e si sarebbe dimostrato il più forte, esattamente come aveva fatto lui anni prima.
Sul portone del palazzo reale, aveva fatto mettere una leggendaria targa, le cui miniature oramai si trovavano dappertutto nel regno.
“Potere e onore derivano da fermezza e morte”.
Il problema era che ne era davvero convinto.
Ma tutto ciò che era stato insegnato ai giovani ladri quando ancora erano bambini, evidentemente era falso.
Derenna Ru era lì, davanti a loro, imponente e biondo come il fratello.
Più vecchio di come i ritratti posti sull’annuncio della taglia lo riportavano, certo. Ma recava nello sguardo la fierezza del sovrano.
Veda, Chilè e Massur non sapevano come reagire.
Spalancarono la bocca e sbarrarono gli occhi.
Ramis, invece, mantenne un perfetto autocontrollo.
 
Se non li avevano portati dal signore dell’Est, sovrano in carica, voleva dire che quei soldati non combattevano per lui.
Se non combattevano per lui, che aveva posto la taglia sulla loro cattura, combattevano per qualcuno che era contro di lui.
Derenna Ru era contro di lui.
Ergo, Derenna Ru era un loro alleato.
Erano salvi.
Quel pensiero lo fece sorridere fra sé e sé.
 
-Cos’hai da sorridere, Figlio del Vento?-, domandò Derenna Ru con voce tonante a quello che sembrava il capo della banda.
Si era aspettato di trovare rudi combattenti senza scrupoli e troppo orgogliosi che avrebbero cercato di fuggire e di lottare.
Si era aspettato di dover usare le maniere forti, di dover ordinare qualche frustata e di dover usare le catene.
E si era aspettato domande, molte domande.
Invece, di fronte si ritrovava una ragazzina troppo esile, un uomo dalla corporatura più massiccia di quella dei suoi soldati migliori, un uomo basso e buffo che non faceva altro che guardarsi intorno confuso e un ragazzo dagli occhi azzurri che, inspiegabilmente, sorrideva.
Tutti consapevoli che una fuga non sarebbe servita a niente.
Derenna Ru sorrise: gli piaceva quella banda.
-Non ci ucciderete.-, fece il ragazzo guardandolo dritto negli occhi.
Il gesto stupì Derenna Ru: di solito quando la gente gli parlava teneva gli occhi bassi e si sforzava di mostrare deferenza. Anche se, doveva ammetterlo, lui non era un re. E non era neanche un principe.
Al momento, in realtà, era un morto.
-Come lo sai?-, lo sfidò.
Il ragazzo con la cicatrice sul sopracciglio sorrise in modo ancora più ampio: -È vostro fratello quello che ci vuole morti.-, disse.
Come se questo bastasse a garantire loro la sopravvivenza.
Ed effettivamente, Derenna Ru fu costretto ad ammettere, era così.
Sorrise anche lui, anzi, esplose in una fragorosa risata: -Hai indovinato, ragazzo mio. Da adesso voi, tutti voi, siete miei ospiti.
Con un ampio gesto della mano indicò il palazzo dietro di lui. Poi si voltò e si incamminò all’interno.
I soldati cambiarono improvvisamente atteggiamento, si fecero reverenti e mostrarono la strada ai ladri.
 
-Derenna Ru… vivo?-, sussurrò Veda fra sé e sé.
Chilè la sentì, e rispose: -Non essere troppo sorpresa. Il suo cadavere non era mai stato ritrovato, ricordi?-, le rammentò.
No, lei non ricordava.
Era troppo piccola durante quella caccia all’uomo: aveva sentito parlare delle faide nella famiglia Ru ma non conosceva i particolari.
Chilè, più vecchio di lei, evidentemente sì.
-Che cosa vorrà?-, domandò poi.
Massur, continuando a guardare davanti a sé, rispose: -Riprendersi il regno.
Chilè annuì con vigore: -Era quello che stavo pensando.
Tutti fissarono Ramis, in attesa di un suo commento. Ma questo non arrivò.
Veda sospirò, ormai rassegnata a quel modo di comportarsi del fratello, e chiuse la bocca anche lei.
Era affamata.
 
Gli ospiti di Derenna Ru furono condotti ognuno in un proprio bagno. Venne offerto loro l’aiuto di schiavi e ancelle, ma tutti rifiutarono.
Erano ladri, non nobili.
Si rivestirono delle stesse umili vesti con cui erano venuti, e si recarono nella grande sala da pranzo dove avevano appuntamento per la cena con il re resuscitato dai morti.
Nessuno di loro smise di chiedersi che cosa potesse volere da una banda di ladri ricercata, e tutti erano curiosissimi.
Si ritrovarono nella grande stanza da pranzo, dove la tavola già imbandita fece mormorare lo stomaco di ognuno.
Si sedettero, Derenna Ru a capotavola, e furono lasciati in totale solitudine.
Le guardie e gli schiavi se ne andarono, e persino le ancelle invisibili che avevano messo a posto le stoviglie fino a pochi minuti prima, furono mandate via.
La porta venne chiusa.
-Parliamo di affari.-, iniziò Derenna Ru rivolgendosi a Ramis.
Lui non rispose, e scoccò un’occhiataccia a Veda e Chilè che si erano buttati sul cibo.
Questi smisero subito di mangiare comprendendo il messaggio di Ramis.
Massur non aveva neanche iniziato.
Derenna Ru proruppe in una risata: -Ah! Pensate che questi cibi siano avvelenati?-, domandò.
Ramis, con tono neutro, che non tradiva nessuna emozione, dichiarò: -Non vogliamo approfittare dell’ospitalità.
Poi, prima ancora di dargli il tempo di replicare, aggiunse: -Parliamo d’affari.
Incupito ma affascinato, Derenna Ru si alzò e porse la schiena ai commensali.
-Conoscete la storia della mia famiglia?-, domandò.
Massur prese la parola: -Vostro padre prese il potere parecchio tempo fa, togliendolo a suo fratello. Voi e il Signore dell’Est eravate gli unici eredi, gemelli. Ci fu una lotta per il potere in cui, secondo una voce non vera, vostro fratello vi aveva ucciso e aveva preso il trono. E da allora il regno di Arcuanta è governato con…
Massur avrebbe voluto aggiungere “crudeltà e scelleratezza”.
Ma Ramis fu più cauto, e lo precedette: -…con stabilità. Non ci sono ribellioni da parecchio
tempo.-, disse, senza lasciar trapelare se credeva che ciò fosse una cosa positiva o negativa.
A differenza di lui, a Massur era sempre importato del regno.
Conosceva le novità riguardanti Arsenna Ru e ne rimaneva sempre più indignato.
Ogni tanto rientrava nel rifugio sbattendo la porta e urlando: -Avete sentito cos’ha fatto quel balordo?
Odiava Arsenna Ru e non riusciva a capire come facesse Ramis a rimanere talmente indifferente.
Lui una volta aveva risposto che, personalmente, Arsenna Ru non gli aveva mai fatto nulla. Erano le persone colpite dalla sua crudeltà che avrebbero dovuto svegliarsi e organizzare una rivolta.
Ma adesso le cose erano diverse: le autorità comandate da Arsenna Ru avevano posto una taglia sulla cattura del Figlio del Vento: Arsenna Ru era automaticamente diventato un nemico di Ramis e, di conseguenza, di tutta la banda.
 
Derenna Ru rise ancora una volta alla manifestazione di impassibilità da parte del ragazzo, come se la trovasse divertente. Poi, però, tornò serio.
-Sì, in breve la storia è questa. Ora voglio farvi una domanda… personale.-, si voltò guardandoli uno ad uno negli occhi. –Apprezzate il governo di mio fratello?
A quella domanda, Veda non seppe trattenersi: anche lei condivideva con Massur quell’odio nei confronti di Arsenna Ru, e dopo la storia della taglia era arrivata persino a proporre di organizzare una missione per ucciderlo. Senza che nessuno la commissionasse.
Ovviamente Ramis si era opposto con fermezza, senza ammettere alcuna replica, e aveva fatto valere, come succedeva raramente, la sua autorità di capobanda per chiudere lì la questione.
Si alzò sbattendo i pugni sul tavolo e iniziò sprezzante: -Arsenna Ru è un mostro. È crudele. La gente muore di fame, i ricchi si arricchiscono e i poveri diventano schiavi. E si è impadronito del potere senza alcun diritto.
Divenne paonazza di rabbia, ma quando i suoi occhi incontrarono quelli irritati e alterati di Ramis, si risedette e sospirò per calmarsi.
La sua irruenza, come sempre, l’aveva tradita.
-No, non lo apprezzo.-, riassunse velocemente.
Dopo quell’occhiata di Ramis, nessun altro osò parlare.
-Tutti gli altri, invece, lo apprezzano?-, domandò con falsa curiosità Derenna Ru.
Stavolta fu Ramis ad alzarsi: -Ciò non ha alcuna importanza.-, disse con voce ferma.
Nonostante la sua corporatura non fosse possente come quella di Derenna Ru, Ramis aveva le spalle larghe e un’altezza considerevole.
La sua autorità non era sminuita affatto in confronto a quella dell’ex principe.
-Se volete affidarci un incarico, e se pagate bene, siamo a vostra disposizione. Ma se siamo venuti a fare una chiacchierata, allora ce ne possiamo anche andare.
I suoi occhi scintillavano: nonostante si trattenesse si vedeva che era irritato.
Il comportamento del principe non gli piaceva: faceva leva sui sentimenti personali, e ciò non era positivo per dei mercenari come loro.
 
Derenna Ru sbatté le palpebre. Rimase stupido di tanta audacia, da parte di un così giovane ragazzo, poi.
Ma, in fondo, il Figlio del Vento aveva ragione: erano lì per affari.
Non era tenuto a spiegare loro nulla: avrebbero agito anche senza spiegazioni.
Sospirò: -Prima di dirvi di che si tratta, voglio che voi mi diciate se accetterete l’incarico.
-Ciò non è possibile.-, ribatté Ramis.
Derenna Ru lo fissò per qualche secondo.
-Pago bene. Molto bene. Anzi, pago molto più di quanto gli altri possano pagarvi.
-Cosa avete da offrirci?
Derenna Ru sorrise: -Quella taglia vi è molto scomoda, non è vero?

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Capitolo 5
*** A lavoro ***


Derenna Ru continuò a spiegare: -In questo momento siete miei ospiti, sì. Ma mi basta una parola per rendervi miei prigionieri. E anche meno per spedirvi da mio fratello come tali.
Ramis non rispose: si limitò a fissare Derenna Ru.
Veda aveva le pupille che tremavano: avrebbe voluto alzarsi e urlare a Ramis di accettare immediatamente.
Chilè si fece improvvisamente intimorito. Il pensiero della prigionia lo aveva scosso.
Massur osservava Ramis, che non batté ciglio.
 
Era calato uno strano silenzio.
Veda guardò Massur, sperando che sarebbe intervenuto: di tutti, era di sicuro quello che aveva maggiore influenza su suo fratello.
Ma Massur non intervenne, e Chilè era spaventato come un bambino.
Non poteva lasciare che l’orgoglio ostentato di Ramis costasse a tutti la morte.
Si alzò per la seconda volta: tutti gli sguardi scivolarono su di lei.
-Accettiamo.-, dichiarò.
Derenna Ru sorrise. Ramis, invece, contrasse la mascella in un’espressione di dura rabbia.
La sorella lo ignorò, fece il giro del tavolo e si avvicinò a Derenna Ru.
-Accettiamo, signore.
E gli porse una mano.
 
Ramis rimase irrigidito, immobile.
Era rimasto turbato dal gesto di Veda.
Era proprio vero che le donne non capivano niente.
Ancora qualche secondo, e avrebbe accettato. Ma per nessuna ragione al mondo avrebbe fatto capire a Derenna Ru che erano così disperati.
Se Veda l’avesse lasciato fare, sarebbe riuscito anche a spillare una ricompensa maggiore.
Perché le donne dovevano essere così complicate?
Perché sua sorella doveva essere così irruente?
 
Derenna Ru fece per stringere la mano di Veda, sorpreso ma al contempo felice che la cosa si fosse chiusa con tanta facilità.
Con sua grande sorpresa, però, il gigante intervenne prendendo la ragazza di peso e scostandola.
-Ehi!-, protestò lei.
Il ragazzo con la cicatrice sembrò rilassato.
Derenna Ru osservò il gigante portare da parte la ragazza e il Figlio del Vento riprendere colore.
-Vorrei che trattassimo.-, disse come se nulla fosse successo.
-Vi sto offrendo la liberazione da un tremendo fardello.-, ribatté Derenna Ru.
-Non basta. Se riusciremo nell’incarico?-, domandò pretenzioso.
Derenna Ru sorrise: -Lasciate che vi mostri cosa potrete avere se riuscirete a portarmi ciò che vi chiedo.-, li invitò.
 
Derenna Ru li condusse in una stanza isolata e senza mobili, con pareti e pavimento in pietra.
Se il portone non fosse stato tanto lavorato, sarebbe sembrata una cella.
Al centro di essa c’era una botola abbastanza grande da permettere l’entrata di almeno due persone contemporaneamente.
Derenna Ru tirò fuori un mazzo di chiavi da una tasca interna del mantello e aprì la botola, che svelò una grande scala a chiocciola.
Senza dire niente, prese a scendere e gli altri lo seguirono in silenzio.
Primo fra tutti, Ramis.
Un lungo corridoio li condusse ad un altro portone, altrettanto lavorato del primo.
Anche in questo caso il materiale roccioso e grezzo di cui erano fatte le pareti e il pavimento erano in contrasto con lo splendore del portone.
Derenna Ru pescò un’altra chiave dal suo mazzo e lo aprì.
 
Ramis rimase senza fiato.
Aveva visto e saccheggiato parecchi tesori, nella sua vita. Ma mai si era imbattuto in un accumulo tanto grande di ricchezze.
La stanza che gli apparve davanti era più grande di un salone, il pavimento, probabilmente in pietra, era invisibile tante le monete auree che vi si ammassavano. Esse, poi, formavano dune e montagne come quelle di un deserto in miniatura, puntellato di rossi fiori di rubino e verdi steli di smeraldo.
-Se voi riuscirete a portare a termine l’incarico, queste ricchezze saranno zanzare per me. E allora tutto ciò sarà vostro.-, disse Derenna Ru.
-Davvero?-, esplose Veda.
Derenna Ru sorrise, felice di aver implicitamente raggiunto un accordo.  
-Allora, che ne dite?-, domandò con finta indifferenza rivolgendosi principalmente a Ramis.
I suoi occhi scintillavano: -Ragazzi, a lavoro.
 
 
 
 
 
 
 
 
 

 
 
 
 
 
 
 
 
 

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Capitolo 6
*** PER SEMPRE ***


Le avevano dato da mangiare, l’avevano pettinata e lavata.
Avevano detto che sciupata in quel modo, oltre che palesemente pazza, non poteva fruttare più di tanto e che loro non avevano ucciso un uomo per due monete.
Clio si sentiva rassegnata.
Aveva sperato nella libertà per una frazione di secondo, per poi rendersi conto di essere, invece, di nuovo in trappola.
Quei quattro assassini avevano rubato tutte le merci del mercante di vasi, compresa lei, con l’intenzione di rivenderle al miglior offerente.
Per lo meno le sue guance avevano ripreso colorito e il suo ventre non mostrava più le ossa.
Però era ancora prigioniera. Era ancora una schiava.
Le parole che i suoi precedenti padroni avevano detto al mercante di schiavi, e che il mercante di schiavi aveva detto al mercante di vasi, e che il mercante di vasi aveva detto ai quattro assassini, furono di nuovo ripetute ad un nuovo mercante di schiavi al quale i quattro la vendettero.
-Ogni tanto si blocca, anche nel bel mezzo dei suoi lavori. Sembra addormentata, e né schiaffi né frustate possono smuoverla fino a quando non lo decide lei.
Era successo spesso anche con loro.
L’avevano picchiata anche violentemente, mentre era in quello stato di trance che caratterizzava i sensitivi nei momenti di veggenza.
E si erano convinti del fatto che fosse pazza.
Ma, almeno, era bella. Questo avevano detto.
Clio non aveva rivelato mai a nessuno le sue capacità: troppo preziose per poterle sbandierare.
Di certo, se la gente avesse saputo che era una sensitiva, la sua schiavitù sarebbe stata eterna e peggiore.
Se la sarebbero contesa, avrebbero cercato di rapirla e di rubarla, di costringerla a leggere il futuro con i modi più brutali.
Sarebbe stata considerata come un monile, un gioiello, un ornamento.
Forse, era meglio essere l’ultima degli schiavi che la prima.
Così, fin da quando era piccola, era stata costretta ad accettare l’idea di essere considerata pazza, essere percossa in ogni suo momento di smarrimento e continuare a tenere segreto il suo dono.
Se fosse nata libera, magari anche nobile, a quest’ora si sarebbe probabilmente arricchita.
Avrebbe fatto pagare per i suoi servigi, esattamente come facevano tanti altri sensitivi e taluni che si spacciavano per tali.
Come i maghi con le loro sfere di cristallo: le aveva sempre considerate blasfemie.
O almeno, gli spiriti le avevano insegnato che erano blasfemie.
Che ognuno si tenesse il dono che gli spiriti hanno dato. Le visioni avute con l’aiuto di una sfera di cristallo non erano invocate per un fine puro, mai.
I veri sensitivi, quelli che avevano ricevuto il dono direttamente dagli spiriti, non avevano bisogno di monili e oggetti magici.
Clio pensava a questo quando, finalmente, arrivarono in una piccola città del regno di Arcuanta chiamata Leonsa e i quattro assassini raggiunsero un mercante di schiavi.
 
Lui era alto e possente, come tutti gli altri mercanti che lei aveva conosciuto.
Sembrava che li selezionassero: rudi, in modo da essere spietati, robusti, in modo da poter percuotere più forte.
La portarono nella tenda dove di solito alloggiava il mercante, la posero al centro come un oggetto da mostrare e si allontanarono da lei, in modo che l’uomo potesse analizzarla per poter deciderne il prezzo.
Lui le si avvicinò: lei guardava dritta di fronte a sé.
 
Il mercante le afferrò il mento con due dita, talmente grandi da poterlo raccogliere tutto, e glielo sollevò in modo da poterla guardare negli occhi.
Lei non evitò il suo sguardo: non era una codarda, e questo era da apprezzare, in un certo senso.
Ma ad alcuni acquirenti poteva dar fastidio questo suo comportamento: non poteva di certo venderla come docile.
Poi le prese le mani, alzò le maniche della tunica bianca che i quattro le avevano fatto indossare e studiò i suoi polsi feriti.
Era stata legata troppo stretta, probabilmente, perché l’irritazione era recente e profonda.
Poi le lasciò andare.
Continuò a girarle intorno, ammirando i lunghi capelli neri, lavati da poco, e il suo corpo perfetto e ben proporzionato, dalle forme gentili e le curve piacevoli.
Avrebbe fruttato qualche moneta in più per questo, e qualche altra ancora per la bellezza del suo viso, assolutamente perfetto.
L’unica imperfezione era costituita da un labbro irritato, probabilmente per un colpo subito.
-Mai colpirle in faccia.-, rimproverò i quattro.
Le osservò i denti: erano puliti e sani.
Dopo averle fatto un altro giro intorno, le si pose davanti e le ordinò: -Spogliati.
 
Clio chiuse gli occhi.
Ricordava l’ultimo mercante, come le aveva ordinato di spogliarsi per saggiare la sua salute fisica, e come poi aveva abusato di lei.
Non era stato piacevole.
La sua dignità di donna le impedì di obbedire a quell’ordine: era troppo.
-Non hai sentito? Spogliati.-, intervenne uno dei quattro assassini.
La volta precedente, si era rifiutata di farlo. Aveva rimediato un paio di colpi, e poi ci aveva pensato il mercante in persona a spogliarla.
Una ragazza saggia, si disse, avrebbe obbedito. Ma lei non si considerava una ragazza saggia, si considerava una ragazza orgogliosa.
Mantenne gli occhi chiusi e invocò gli spiriti, che le parlavano fin da quando lei era piccola.
Non con parole, ma con sensazioni. Piccoli brividi, il fresco sulla pelle, mani che bruciavano… erano quelli i segnali che le permettevano di interpretare la loro volontà.
E stavolta, la volontà degli spiriti era che mantenesse la sua dignità a costo di subire angherie.
Aprì gli occhi: non si mosse.
 
Il mercante capì che quella schiava non sarebbe stata facile da trattare.
Sì, era pazza. Totalmente pazza a non obbedire ad un ordine.
Si trattenne dal colpirla solo dicendosi che un livido in più gli sarebbe costato una moneta in meno, le si avvicinò e fece scendere la manica della tunica sulla spalla.
Lei non si oppose, ma nemmeno gli rese il compito più facile.
Fece lo stesso con l’altra, e poi lasciò cadere giù la tunica, ai suoi piedi.
Adesso era vestita solo dei suoi capelli e di un vecchio e inutile medaglione che portava al collo.
 
La schiavitù sarebbe stata la sua condanna, se ne rese conto solo in quel momento.
Per sempre.

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Capitolo 7
*** LA SPADA D'ORO ***


L’incarico, apparentemente, era molto semplice.
Derenna Ru voleva che il Figlio del Vento, il quale non gli aveva voluto rivelare il suo vero nome, insieme al resto della banda, recuperasse un antico forziere.
-Semplice.-, aveva commentato lui in un primo momento.
Il forziere si trovava su un’isola non lontana dalla città di Leonsa, la quale si affacciava sul mare, e che non era riportata in nessuna cartina ufficiale.
Perché quell’isola, ufficialmente, non esisteva.
Era stata creata anni e anni prima da un mago per conto dello zio paterno di Derenna Ru, l’ultimo sovrano prima che la dinastia Ru imponesse il suo dominio.
Il “Re Misericordioso”, come era chiamato.
Ma questo non lo disse ai ladri.
E non disse nemmeno che quel forziere gli sarebbe servito per tornare al potere.
 
Molto tempo fa, esisteva una legge, la quale sanciva che chiunque fosse stato in possesso della Spada D’oro sarebbe diventato, di diritto, il sovrano di Arcuanta.
I suoi avi avevano trovato la spada e l’avevano lasciata in eredità di padre in figlio, in modo da rispettare la legge e garantire al tempo stesso il dominio della propria dinastia.
La legge, col tempo, era stata dimenticata da tutti e la gente aveva accettato di buon grado il dominio dei re che si erano susseguiti.
Almeno fino alla cacciata del Re Misericordioso.
Il padre di Arsenna e Derenna Ru aveva preso il potere, dimenticandosi della spada.
Ma il Re Misericordioso aveva provveduto a nasconderla in un posto sicuro, un posto che non tutti avrebbero potuto raggiungere.
Chiunque fosse riuscito a trovarla e a portarla ad Arcuanta, sarebbe diventato il nuovo re, indipendentemente che facesse parte della famiglia reale o meno.
Un mago al servizio del Re Misericordioso gli aveva annunciato la sua morte, e in previsione del caos che ne sarebbe seguito, aveva creato un’isola chiamata l’Isola D’Oro.
Alcuni pensavano che fosse solo una leggenda. Altri non ne conoscevano nemmeno il nome (il caso del Figlio del Vento), altri pensavano che, comunque, nessuno sarebbe riuscito a scacciare Arsenna Ru dal suo trono.
Tutto ciò era rimasto segreto, almeno fino a quando Derenna Ru non era riuscito a trovare quel vecchio sensitivo che gli era stato tanto utile.
Majo, era il suo nome.
Lo aveva pagato abbondantemente, ed era riuscito a far luce sulle vicende del passato e su un possibile futuro, con Derenna Ru come re di Arcuanta.
Bastava solo trovare la Spada D’oro.
Così, da anni ormai, Derenna Ru aveva dedicato tutte le sue forze a mettere su un esercito.
Aveva vissuto nascosto dal resto del mondo aspettando il momento opportuno, ossia il momento in cui si sarebbe impossessato di quella spada e avrebbe preso il potere.
Con il tempo, molte persone per suo conto avevano provato a trovare il forziere.
Ovviamente, Derenna Ru non ne aveva rivelato a nessuno il contenuto.
Ma nessuno si era dimostrato in grado di superare tutte le prove che il mago aveva posto sull’Isola d’Oro, nessuno si era dimostrato all’altezza.
Ma, del resto, per nessuno le autorità erano mai state disposte a pagare una taglia tanto ingente: il Figlio del Vento doveva essere davvero in gamba.
La sua intuizione aveva avuto conferma con la sua visita, al seguito della quale Derenna Ru era rimasto molto affascinato dal giovane e dalla sua banda.
Sì, pensò. Forse questa era la volta buona.
 
-Ricapitolando: dobbiamo trovare un’isola che non è raffigurata in nessuna mappa, affrontare prove alle quali molti non sono sopravvissuti e recuperare un antico forziere di cui non conosciamo il contenuto per poi portarlo a Derenna Ru?-, fece Veda durante il viaggio di ritorno.
Derenna Ru aveva insistito perché partissero immediatamente.
Aveva dato loro cibo in abbondanza, bussole, cavalli, un carro munito di armi e coperte, e tutto il necessario.
Aveva anche offerto loro una schiava da portare con sé per prendersi cura dei cavalli e cucinare.
-Non abbiamo bisogno di qualcuno che faccia le faccende al posto nostro.-, aveva risposto Ramis.
-Quando sarete sull’isola, sarete tutti troppo presi per sbrigare le faccende.-, aveva ribattuto Derenna Ru con un tono che lasciava trasparire molti, troppi sottintesi.
Così avevano acconsentito a portare con loro una schiava, ma Ramis non voleva assolutamente accettare quella di Derenna Ru.
-Non voglio estranei, nel mio gruppo.-, aveva detto, poi, a Massur quando gli aveva chiesto spiegazioni.
La schiava l’avrebbero presa, ma l’avrebbero scelta loro.
Derenna Ru aveva compreso e capito, e aveva anche dato loro il denaro necessario per comprarla.
Così, adesso, si stavano dirigendo, ognuno con un cappuccio che copriva gli occhi e metà del volto, al mercato degli schiavi.
 
-Esattamente.-, rispose Chilè, muovendo l’ultima mossa e vincendo nel gioco da tavola.
Veda imprecò.
Chilè scoppiò a ridere.
Da fuori il carro, Massur protestò: -Volete smetterla di fare tanto baccano? Non dobbiamo dare nell’occhio.
Era vero: i quattro erano ricercati e i volti di due di loro – uno dei quali molto somigliante – troneggiavano fra i muri della città.
Ramis, oltre al cappuccio, indossava una bandana che gli copriva il sopracciglio destro con tutto l’occhio: nessuno avrebbe sospettato nulla.
Quanto a Veda, aveva deciso che sarebbe rimasta chiusa nel carro: il suo ritratto era troppo somigliante ed esporla al pubblico, seppur incappucciata, troppo rischioso.
Il carro si fermò bruscamente quando Massur avvistò la fila di schiavi e schiave in catene che faceva da sfondo ad un abile mercante, il quale stava decantando la sua merce.
Massur e Ramis si scambiarono un’occhiata e scesero.
 
 
 
 
 
 

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Capitolo 8
*** SCHIAVA ***


-I miei schiavi sono tutti sani, belli e in buona salute.-, stava dicendo il mercante.
Clio, gli occhi coperti da un cappuccio, pensò di aver lasciato uno stupido per ritrovarne un altro.
“Sani e in buona salute sono sinonimi, sciocco”, avrebbe voluto dire.
Ma, ovviamente, si trattenne.
Poco tempo prima era stata spogliata di fronte a cinque uomini ma, fortunatamente, stavolta nessuno aveva abusato di lei.
Il mercante aveva visto i lividi che si era procurata recentemente, e non ne era rimasto particolarmente felice.
-Questi mi costeranno un po’.-, aveva commentato fra sé e sé.
Sul corpo della ragazza, aveva inoltre trovato cicatrici precedenti provocate da robuste frustate.
No, la cosa non lo aveva reso affatto felice.
Però, nel complesso, era una ragazza in buona salute. Aveva deciso di comprarla dai quattro uomini ad un prezzo bassissimo e di rivenderla al quadruplo.
Il che rimaneva comunque un prezzo abbastanza basso.
Poi le aveva permesso di rivestirsi.
E adesso decantava le qualità dei suoi schiavi.
La gente passava là davanti e li osservava, uno per uno, come si possono osservare delle stoffe o dei tappeti.
Ancora una volta, come succedeva spesso, Clio si sentì umiliata.
Nonostante vivesse da schiava da tantissimo tempo, almeno fin da quando riusciva a ricordare, ancora non si era abituata a quella vita.
E, pensava, non si sarebbe abituata mai.
 
La gente passava, transitava per un po’ e poi tirava dritto. Nessuno sembrava intenzionato a comprare quel giorno.
Almeno, questo era quello che credeva il mercante fino a quando due uomini, uno più alto e robusto e l’altro, seppur ben piazzato, più delicato, si avvicinarono.
Gli uomini indossavano un cappuccio: il che dava loro l’aria di tipi loschi e sospetti, ma se erano disposti a sborsare denaro, erano bene accetti.
Il mercante si azzittì e si avvicinò con fare deferente.
-Salve, miei signori. Volete comprare?-, domandò con un ampio gesto della mano ad indicare i suoi schiavi.
Il più giovane dei due, quello più magro, prese la parola: -Abbiamo bisogno di una schiava.-, asserì.
Il mercante chinò la testa in segno di assenso, batté le mani tre volte e tutte le schiave fecero un passo avanti.
I loro prezzi erano tutti piuttosto alti, eccetto, ovviamente, quello dell’ultima ragazza: la matta.
Il mercante, in un primo momento, era rimasto quasi affascinato dal suo modo di fare orgoglioso, tanto raro in una schiava.
Ma poi si era convinto che quella ragazza era del tutto matta: spesso si bloccava, esattamente come avevano detto i quattro che gliel’avevano venduta, guardava fisso di fronte a sé e sembrava addormentata.
I due uomini, inizialmente, sembrarono ignorarla.
Passarono in rassegna tutte le schiave senza soffermarsi su nessuna in particolare.
Sembrava che fossero quasi confusi.
 
Ramis si sentiva quasi confuso.
Un’azione per molti tanto semplice come scegliere una schiava, per lui comportava quasi uno sforzo mentale.
Sprazzi di memoria che aveva voluto cancellare gli tornavano alla mente, e la cosa non gli piaceva.
Non era mai stato bravo con le emozioni.
Decise, quindi, di eluderle ancora una volta e di prendere la faccenda con freddezza e razionalità:
-Abbiamo bisogno di una ragazza resistente: dobbiamo affrontare un lungo viaggio e non vogliamo un peso.-, spiegò.
Il mercante rifletté un attimo, poi fece segno a tre delle ragazze di indietreggiare.
-Deve saper cucinare e badare ai cavalli.-, aggiunse, poi, Massur.
Altre tre ragazze furono rimandate indietro.
-Voglio una che non si faccia prendere dal panico come una bimbetta nelle situazioni di pericolo. Una che mantenga la calma.-, dichiarò Ramis.
 
Il mercante a quelle richieste insolite aggrottò le sopracciglia: di solito le schiave venivano comprate in base alla loro bellezza, al massimo alla loro abilità culinaria.
Nessuno aveva mai richiesto una schiava resistente, che sapesse badare ai cavalli, per giunta coraggiosa e con i nervi saldi.
Si trovò in confusione, un caso raro in un lavoro semplice come il suo.
Si rivolse direttamente alle schiave: -Chiunque creda di non avere i requisiti necessari, faccia un passo indietro.
 
Clio detestava il mercato degli schiavi.
Si trattava di stare in piedi tutto il giorno, in esposizione.
Probabilmente, molti altri schiavi preferivano quella situazione invece di vivere sotto l’autorità di un padrone preciso, ma lei si sentiva molto di più un oggetto così che altrimenti.
Ecco perché non indietreggiò alle strane richieste di quel ragazzo.
Tutto sommato, era meglio essere comprata il primo giorno, da chiunque, che aspettare in balia di un mercante che trattava i suoi schiavi peggio che se fosse stato il loro padrone.
Comunque, lei era realmente resistente.
Col suo precedente padrone, aveva viaggiato tanto e senza mai lamentarsi.
Sapeva cucinare e aveva badato per tanto tempo ai cammelli del mercante di vasi: con i cavalli non poteva essere tanto diverso.
E, soprattutto, lei non si faceva mai prendere dal panico.
Gli spiriti che da sempre l’avevano accompagnata durante il percorso della sua vita – nonostante lei ancora non sapesse perché avessero scelto lei, una semplice schiava, e non una devota sacerdotessa o una nobildonna per manifestarsi – le davano la forza per andare avanti in qualunque situazione.
Col cappuccio ancora calato sugli occhi, quindi, rimase ferma, immobile.
Gli sguardi del mercante, dei due uomini e degli altri schiavi si posarono su di lei.
 
Ramis osservò il prezzo della schiava dipinto in vernice rossa su un pezzo di legno appeso al collo: costava meno delle altre, notò.
Aveva un bel corpo, malcelato dalla corta mantella il cui cappuccio le copriva metà del volto.
Si intravedeva il nero dei suoi capelli e il bianco della sua carnagione, tanto in contrasto da sembrare quasi irreali.
La osservò a lungo prima di avvicinarsi a lei.
La ragazza non teneva gli occhi bassi, ma guardava fisso di fronte a sé, senza incontrare lo sguardo di nessuno ma senza neanche abbassare il suo al cospetto degli altri.
In un gesto fulmineo, che in un’altra avrebbe provocato un gridolino soffocato, le tolse il cappuccio per vederla in faccia.
Ramis rimase colpito non solo dalla sua bellezza, ma anche dall’insolita fierezza del suo sguardo.
Era raro in una schiava.
La ragazza aveva gli occhi dello stesso colore nero dei capelli, le ciglia lunghissime e folte, la pelle chiara e perfetta e lineamenti regolari e delicati che la facevano somigliare ad una statua.
Sulle labbra carnose, portava la cicatrice di un colpo ricevuto in precedenza; almeno così immaginò il Figlio del Vento.
Ramis sbatté le palpebre un paio di volte, poi si riprese: -Perché costa meno delle altre se ha tante qualità?-, domandò con voce neutra.
-Mio signore-, si affrettò a spiegare il mercante. –La poverina è un po’ matta.
-Matta?-, ripeté lui.
Il mercante annuì: -Ogni tanto si blocca, anche nel bel mezzo dei suoi lavori. Sembra addormentata, e né schiaffi né frustate possono smuoverla fino a quando non lo decide lei.-, recitò, come meccanicamente.
Lo sguardo di Ramis si spostò ancora una volta dal mercante alla ragazza.
Con sua grande sorpresa, si ritrovò il suo sguardo addosso.
Stavolta non era perso nel vuoto, ma si posava proprio sui suoi occhi.
 
Era come se quella ragazza lo volesse giudicare. Come se, con lo sguardo, gli stesse chiedendo:
-Secondo te ha ragione?
Come se lei sapesse di non essere matta, come diceva il mercante, ma non potesse dirlo apertamente.
O come se volesse lasciare a Massur e Ramis la decisione se credere o meno a quelle parole.
Una cosa era sicura: la schiava che stavano per comprare era diversa da tutte le altre.
Ed era affascinante, in tutti i sensi.
-La prendiamo.-, dissero Massur e Ramis contemporaneamente.
Forse, pensò il primo, il suo compagno aveva avuto i suoi stessi pensieri.
 
Il mercante tolse la mantella alla schiava, che rimase vestita solo di una tunica bianca.
Le tolse anche le catene e passò il bracciale della Ganà dal polso della ragazza a quello di Ramis.
Si assicurò che la cavigliera fosse ben fissata e spiegò ai due il funzionamento di quell’oggetto:
-Con questo avete la garanzia che la vostra schiava non cercherà di fuggire o di farvi del male.
Ramis e Massur annuirono distratti, pagarono quelle poche monete al mercante e si diressero verso il carro assieme alla ragazza.
 
 
 

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Capitolo 9
*** CRIMINALI ***


Massur salì sul carro e prese il posto del conducente, Ramis, invece, tenendo la ragazza per un braccio, aprì la portiera in legno e vi fece entrare la schiava.
In un movimento fulmineo, entrò anche lui e, richiudendo la portiera, le tappò la bocca con la mano.
Lei gli afferrò il braccio e tentò di dimenarsi per qualche secondo, poi però si calmò.
All’interno del carro, intenti a giocare una partita a scacchi, c’erano Veda e Chilè.
Chilè, ovviamente, stava vincendo.
Veda non indossava cappucci né protezioni, e il suo ritratto era più che somigliante.
La ragazza non avrebbe faticato tanto a riconoscerla, e magari, presa dalla paura per essere davanti ad una pericolosa criminale, avrebbe iniziato a gridare attirando l’attenzione.
Ramis non poteva permettere che tutti i piani andassero a monte per colpa di una semplice schiava.
Veda e Chilè interruppero la partita sconcertati per lo strano comportamento di Ramis, il quale disse ad alta voce: -Massur, parti.
Il carro iniziò a muoversi, e Ramis afferrò un tovagliolo che era gettato lì vicino, facendolo passare fra i denti della ragazza e legandoglielo dietro la nuca.
-Ramis, cosa diavolo stai combinando?-, domandò Veda alzandosi.
Ricadde l’attimo dopo sulla sedia, a causa del movimento del carro.
Chilè sogghignò fra sé e sé.
Ramis si tolse il cappuccio e si pose davanti alla ragazza imbavagliata, che era caduta contemporaneamente a Veda.
La guardò dritta negli occhi, quegli occhi neri e profondi che, più della paura, esprimevano curiosità.
 
Clio si era ritrovata nel giro di mezzo minuto con dei nuovi padroni che l’avevano fatta salire su un carro e imbavagliata.
Come inizio non era esattamente positivo.
Il ragazzo che l’aveva afferrata per un braccio e che l’aveva fatta entrare di forza nel carro, lo stesso che l’aveva imbavagliata pochi secondi prima, ora le si era parato davanti senza cappuccio, e si accingeva a togliersi anche la bandana.
Questa scoprì un occhio azzurro e intenso ma, soprattutto, un sopracciglio tagliato da una cicatrice obliqua lunga almeno quattro centimetri.
La ragazza sapeva di averlo già visto da qualche parte, ma non ricordava dove.
Socchiuse gli occhi cercando di sforzarsi, quando il suo sguardo si posò di nuovo, stavolta in modo meno distratto, sulla ragazza dai capelli corti seduta al tavolo intenta a giocare a scacchi.
Lei, sicuramente l’aveva già vista.
Improvvisamente ricordò anche dove: in un ritratto.
In un ritratto appeso in città, il ritratto di una taglia.
Quei due erano dei criminali. I suoi nuovi padroni erano dei criminali.
Ed ecco che alla curiosità, soggiunse la paura.
Però non gridò, né si dimenò.
Il ragazzo che le si era parato davanti, la teneva ancora per un braccio rendendole impossibile togliere quel fazzoletto che le impediva di parlare.
Si limitò a fissare gli occhi azzurri del ragazzo cercando di nascondere la paura: d’altronde, pensò, ne aveva passate di peggiori.
Il mercante di vasi era sicuramente il peggiore dei peggiori criminali, se era sopravvissuta a lui poteva sopravvivere a tutto.
Inoltre, pensò, fra di loro c’era anche una ragazza. Una ragazza che sembrava abbastanza tranquilla, che parlava anche senza permesso e che, quindi, non era una schiava.
Una ragazza che veniva rispettata e completamente vestita.
Era un buon segno.
 
Quando Ramis capì che la ragazza non avrebbe dato problemi, le si avvicinò e, lentamente, sciolse il nodo sulla sua nuca.
Lei si limitò a continuare a fissarlo.
-Ci hai riconosciuti?-, domandò lasciando, con altrettanta lentezza, il braccio della schiava.
Lei annuì, passando il suo sguardo da lui a Veda, e poi di nuovo a lui.
-Hai paura?-, domandò poi.
Lei sembrò pensarci un attimo, poi abbassò gli occhi e mormorò: -Un padrone è sempre un padrone.-, come se fosse una frase che le avevano insegnato quando era piccola, e che era abituata a ripetere.
Il ragazzo sospirò e annuì.
Fece per uscire per mettersi al posto del conducente insieme a Massur, ma poi si bloccò e si voltò di nuovo verso la ragazza: -Dimenticavo: hai fame?
 
Clio spalancò gli occhi sorpresa.
Era il suo padrone, era un criminale e le chiedeva se avesse fame?
Colta dalla sorpresa, non rispose. Non riuscì a rispondere.
Poi l’ometto dietro di lei, quello che stava giocando a scacchi, intervenne: -Oh, ma certo che ha fame. Vieni, ti prendo qualcosa da mangiare.-, si avvicinò a lei e la tirò su.
Clio era sempre più meravigliata.
Il ragazzo, senza dire niente, chiuse la portiera lasciando i tre da soli.
L’uomo con gli occhialetti aveva l’aria divertita, mentre la ragazza la guardava curiosa, quasi sospettosa.
Lei abbassò lo sguardo, come si concerne ad una schiava in presenza dei suoi padroni, e aspettò paziente che l’uomo le porgesse un piatto con tre pagnotte di pane e un bicchiere d’acqua.
E poi osavano chiamare quelli criminali?
 
 
 

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Capitolo 10
*** DOPPIO GIOCO ***


A Majo era bastato mostrare la sfera di cristallo per ottenere immediatamente l’incontro che aveva richiesto.
L’incontro con l’assoluto sovrano di Arcuanta.
Arsenna Ru.
Aveva sentito parlare tanto di lui, e attraverso Derenna Ru, leggendo grazie ai poteri della sfera di cristallo il suo passato, era come se l’avesse in un certo qual modo anche conosciuto.
Grazie alla sfera di cristallo, gli bastava toccare le mani di una persona per venire a conoscenza dei suoi pensieri e delle sue esperienze passate.
Era un gran bel vantaggio: poteva decidere se fidarsi o no di una persona senza ripensamenti, poteva sapere se qualcuno lo stava ingannando e poteva, soprattutto, ottenere dei guadagni inimmaginabili.
Majo era un sensitivo, e i sensitivi erano rari.
Così rari da potersi permettere di chiedere somme esorbitanti anche solo per un incontro.
Il suo lavoro a tempo pieno con Derenna Ru, poi, lo aveva fatto praticamente diventare ricco.
Adesso, si accingeva a truffarlo vendendo sia lui che la Spada D’oro a suo fratello.
E, come se non bastasse, c’era anche la cattura di quella banda di criminali.
Con questo colpo, avrebbe potuto vivere come un re.
Majo si trovava in una piccola stanza buia munita solo di due semplici sedie e di un grande tavolo.
Il tutto era decorato con sfarzosi ornamenti, intarsi in oro e argento e tavolo e sedie erano tempestati di pietre preziose. Ma rimanevano due sedie e un tavolo.
Dietro di lui, due guardie gli tenevano ognuno una mano su una spalla, pronti a fermarlo se avesse cercato di fuggire o a punirlo se avesse osato troppo.
Majo conosceva le abitudini e le paranoie di Arsenna Ru.
Aspettò per una buona mezz’ora: il sovrano si faceva attendere.
Dopodiché, improvvisamente, il grande portone si aprì con un cigolo e Arsenna Ru, il leggendario e in persona, apparve sulla soglia.
 
Majo trattenne un sorrisetto serafico: sapeva che ad Arsenna Ru piacevano i leccapiedi, così si era preparato al meglio.
Non appena il re entrò, si alzò di scatto senza che le due guardie potessero impedirglielo e si profuse in un inchino esagerato.
-Oh, mio signore.-, mormorò come fra sé e sé in una falsa deferenza.
Addirittura, si inginocchiò.
Con la coda dell’occhio vide un sorriso soddisfatto formarsi sul rude volto di Arsenna Ru e, sempre inginocchiato, gli si avvicinò.
-Non sono degno di voi, mio sovrano, lo so. Vi scongiuro di perdonarmi.-, disse.
Il sorriso di Arsenna Ru si fece ancora più ampio.
Majo abbassò gli occhi e prese le mani del suo re, in un comune gesto di sottomissione. Come qualcuno che chiede una grazia.
Gli baciò entrambe le mani, mentre in realtà la sua mente stava pensando a tutt’altro.
Al contatto della sua pelle con quella del sovrano, riuscì a vedere e a sapere.
A vedere il suo passato, a sapere come trattare con lui.
A riconoscere i suoi punti deboli e quelli forti.
E seppe che, con quell’iniziale atteggiamento, aveva già guadagnato punti.
 
-Il nostro ospite mi piace.-, dichiarò Arsenna Ru più rivolto a sé stesso che alle due guardie che, con più gentilezza, si avvicinarono a Majo e lo alzarono da terra.
-Adesso basta con i convenevoli.-, si impose il re. –È ora di parlare di affari.
“Un uomo che punta subito al sodo”, pensò Majo.
Adatto per la sua situazione.
-Avete ragione, sire.
Majo riprese posto sulla sedia che gli spettava, mentre Arsenna Ru si sedette sulla sedia dietro il tavolo.
Due schiave spuntate dal nulla portarono due calici e del vino, che versarono all’istante.
Arsenna Ru prese a bere e Majo lo imitò.
Poi, con un semplice gesto della mano, il re scacciò via tutti quanti.
Rimasero da soli nella stanza.
-Allora, qual è il tuo nome?-, domandò con aria altezzosa il sovrano.
-Majo, mio signore.-, rispose il sensitivo con la solita finta deferenza.
-E chi sei, esattamente?
-Io sono un sensitivo.
 
Alla parola “sensitivo” Arsenna Ru ebbe quasi un sussulto.
Certo, sapeva che il vecchio aveva una sfera di cristallo, gliel’avevano detto ed unicamente per questo il sovrano aveva accettato di riceverlo.
Ma sentirlo dire faceva tutto un altro effetto.
Non aveva mai incontrato un sensitivo – almeno che lui sapesse – e sapeva che erano molto rare le persone che potevano vantarsi di avere il dono degli spiriti.
Il dono della conoscenza.
Sapeva anche che ne esistevano di diversi tipi, quelli che usavano una sfera di cristallo e quelli che possedevano questa innata capacità.
Lui aveva sempre preferito i primi: per quanto ne sapeva, per ciò che aveva sentito dire e per quello che gli avevano raccontato quando era bambino, quelli che usavano una sfera di cristallo si erano conquistati il potere da soli, esattamente come aveva fatto lui.
Non era stato né un dono né una concessione: era stato il risultato di determinate azioni.
Lui e Majo avevano una cosa in comune, dunque.
-Che cosa vuoi, esattamente?-, domandò sporgendosi in avanti curioso.
Lui sorrise: -Innanzitutto, mio signore, raccontarvi una storia.

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Capitolo 11
*** PAURA ***


Clio prese a mangiare pacatamente: era affamatissima ma non lo diede a vedere.
Quando l’uomo dagli occhialetti le aveva offerto il cibo, non era neanche riuscita a ringraziare per la sorpresa.
Si era limitata a prendere in mano il bicchiere e il piatto e a guardarlo con occhi straniti e pieni di gratitudine.
-Puoi mangiare, sai?-, aveva cantilenato l’uomo rimettendo a posto gli scacchi e chiedendo all’altra ragazza una partita ancora.
Lei l’aveva ignorato: continuava a guardare Clio come se fosse una preda.
Quest’ultima notò che aveva degli occhi grandissimi e un viso appuntito, oltre che una corporatura quasi eccessivamente esile.
-Qual è il tuo nome?-, domandò improvvisamente alzando il mento.
Clio ingoiò il boccone e rispose.
L’uomo con gli occhialetti alzò un dito ed intervenne: -Clio! Come la musa greca, hai presente? È per questo che ti chiami così?-, domandò.
Lei si strinse nelle spalle: -Non lo so.-, mormorò.
C’era qualcosa che non andava. I suoi padroni non si erano mai soffermati a conversare con lei. Come se fosse una persona… normale.
-Io, comunque, sono Chilè.-, si presentò l’uomo.
-Io Veda.-, disse, invece, la ragazza.
Clio rispose con un semplice gesto del capo che poteva ricordare un inchino.
Passarono parecchi secondi, ed entrambi la fissarono in attesa che dicesse qualcosa. Appellandosi alla routine, posò il piatto – nonostante fosse ancora affamata – e domandò: -Posso… posso fare qualcosa per voi?
 
-Non l’ho sentita urlare.-, commentò Massur dopo qualche minuto di viaggio.
Ramis, seduto accanto a lui, continuò a guardare dritto di fronte a sé, come se non avesse sentito.
In realtà aveva sentito, ma non aveva ascoltato. La sua mente era altrove.
La sua mente era all’Isola D’oro, dove avrebbero rischiato la vita per prendere un forziere di cui non conoscevano neanche il contenuto.
Il colpo più grosso della loro carriera.
Si era rimesso la bandana e il cappuccio: sentiva caldo.
Cercò di concentrarsi su quello, e non sul pericolo imminente.
Era meglio pensare alle cose concrete in momenti in cui i pensieri cercano di mangiarti l’anima.
-Mi stai ascoltando?-, domandò Massur.
Ramis scosse la testa: -Come?
-Ramis, che diamine hai?
Il ragazzo sospirò: -Caldo.-, rispose serafico.
Massur scoppiò in una risata e ripeté: -Non l’ho sentita urlare.
-Non l’ha fatto.-, rispose Ramis, senza voltare lo sguardo.
Massur alzò le sopracciglia, sorpreso: -Non ha cercato di scappare?
-Si è dimenata un po’ quando le ho tappato la bocca, ma poi si è subito calmata. È stata educata bene.-, commentò con tono aspro.
Dopo qualche secondo l’omone continuò: -Credi che ci darà problemi?
L’altro sospirò: -Non lo so. Onestamente, non mi sono neanche soffermato a pensarci.
Finalmente, si girò verso Massur con sguardo pensoso.
Ripeté la domanda dell’amico: -Credi che ci darà problemi?
-Te l’ho appena chiesto io.-, replicò.
Massur rise di nuovo.
-Chiedilo direttamente a lei.-, gli consigliò, poi.
Ramis non disse niente e tornò a guardare di fronte a sé.
Dopo qualche minuto, d’improvviso, con il carro in corsa si alzò e, ponendosi sulla parte laterale del mezzo di trasporto, aprì la portiera ed entrò.
 
Veda vide Ramis apparire quasi dal nulla. Ebbe un sussulto quando la sua concentrazione fu interrotta dal rumore della portiera che si apriva e poi, con la stessa velocità, si chiudeva.
Ramis non disse niente, ma il suo sguardo parlava per lui.
C’era qualcosa di strano.
Già, perché, straordinariamente, stavolta non era Veda che stava giocando a scacchi contro Chilè.
Era Clio.
E la cosa più straordinaria era che stava anche vincendo.
 
Chilè trovava il modo di comportarsi della nuova entrata divertente.
Non aveva mai avuto degli schiavi, e non sapeva come funzionasse la cosa.
Sapeva solo che adesso nel gruppo c’era un nuovo membro pronto ad eseguire qualunque ordine.
Un rapporto simile a quello che avevano loro con Ramis?
No, era decisamente diverso.
La cosa lo incuriosiva e, allo stesso tempo, lo divertiva.
Alla domanda: -Posso fare qualcosa per voi?- aveva risposto con una risata.
Poi si era sentito in imbarazzo all’occhiataccia di Veda e aveva cercato di rimediare chiedendo a Clio se volesse giocare a scacchi.
Veda era sembrata divertita all’idea: magari per una volta avrebbe visto qualcuno che non era lei perdere contro il suo avversario storico.
Invece era rimasta delusa. E Chilè era rimasto basito: quella ragazzina stava riuscendo a batterlo.
A differenza di Veda, lei pensava alle mosse prima di farle.
Non imprecava quando Chilè le mangiava una pedina e non esultava quando lo faceva lei.
Rimaneva in silenzio, concentrata e serena.
Giocare con lei non era propriamente divertente: ma era stimolante.
All’improvviso era entrato Ramis, ed era rimasto sorpreso come tutti loro.
Più che comprensibile, pensò.
 
Ramis rimase interdetto.
La situazione parlava molto chiaramente: Chilè era in netto svantaggio.
Erano anni che si conoscevano, e Ramis non aveva mai visto l’amico perdere in un gioco di logica.
Poi decise di non perdere di vista l’obiettivo principale: informare la ragazza di tutto ciò che sarebbe accaduto di lì a poco.
E farle capire che non c’era tempo né spazio per la paura, le gridate, le crisi isteriche e tutto ciò che le situazioni di pericolo comportano in una persona normale.
Loro erano dei ladri, lei era stata comprata da loro.
Si sarebbe dovuta tramutare in un ladro anche lei, altrimenti l’avrebbero rivenduta al miglior offerente prima di partire.
Ramis interruppe il silenzio ordinando: -Veda, Chilè, lasciateci soli.
Chilè non esitò un istante, uscì dal carro e andò a posizionarsi vicino a Massur, col carro ancora in corsa.
Veda, invece, rimase immobile con uno sguardo accigliato.
 
La rabbia nei confronti del fratello che la ragazza aveva dimenticato, adesso era rimontata.
Si era ripromessa di parlargli, dopo la scenata nel castello di Derenna Ru. Poi non ce n’era stata l’occasione, ma non riusciva a far finta che niente fosse.
-Mi hai sentito, Veda?-, fece lui.
La ragazza gli si avvicinò e gli sussurrò aspramente: -Ai tuoi ordini.
Poi gli diede uno spintone e uscì.
 
Clio aveva visto il comportamento della sua nuova padrona cambiare da un secondo all’altro.
Prima, spensierata. Poi, sorpresa. Dopo ancora, irritata.
Si chiese il perché di quello strano comportamento, e si chiese anche perché quel ragazzo dagli occhi azzurri aveva voluto rimanere da sola con lei.
Ma, ovviamente, non disse niente.
Lei era una schiava, rammentò a sé stessa.
Ora erano rimasti da soli. Lei si alzò immediatamente: era così che bisognava fare.
Se il padrone era seduto, rimanere in piedi con gli occhi bassi.
Se il padrone era in piedi, alzarsi immediatamente.
In ogni caso, il padrone non doveva mai vedere il suo schiavo rilassato.
Era così che le era stato insegnato, così che andava fatto.
Ancora una volta, sentì un senso di ira ribollirle dentro, ma cercò di reprimerlo.
-Padrone.-, lo salutò.
Lui non rispose: si limitò a scrutarla.
 
Sì, la ragazza era stata senza dubbio educata bene, si ritrovò a pensare Ramis.
Faceva uno strano effetto sentirsi chiamare “padrone”.
Di solito lo chiamavano “capo” o, semplicemente, Ramis.
Talvolta “Figlio del Vento”, ma i suoi compagni usavano questo appellativo più che altro per schernirlo.
“Padrone”; così non lo aveva mai chiamato nessuno.
-È mia sorella.-, spiegò alla schiava.
Lei non rispose.
Lui rimase in silenzio per qualche secondo, dopodiché si avvicinò alla scacchiera e osservò le pedine: -Stavi vincendo a scacchi contro Chilè.-, constatò.
 
Clio provava una strana sensazione quando era in compagnia di quel ragazzo.
Di solito, riusciva sempre – o quasi – a capire cosa stavano provando le persone. Era una sensitiva: le veniva naturale.
Ma quel suo nuovo padrone, per lei rimaneva un mistero.
La sua voce manteneva sempre lo stesso colore neutro, dimostrava un autocontrollo eccessivo. Non riusciva a capire se fosse felice, preoccupato, irritato o triste.
E, di conseguenza, non sapeva come comportarsi.
-È stato il padrone a chiedermi di giocare con lui.-, rispose come per giustificarsi.
-Chilè non perde mai a scacchi.-, la informò, sempre con lo stesso tono di voce neutro.
Non sembrava un rimprovero, ma nemmeno un complimento.
Ancora una volta, non rispose.
 
Ramis sospirò. Quella ragazza gli rendeva le cose estremamente difficili.
Per l’ennesima volta, si era creato un silenzio imbarazzante spezzato solo dal respiro di lei.
Lui, invece, aveva imparato a respirare silenziosamente, e lo aveva insegnato anche agli altri.
-Dovrai imparare a respirare nel modo giusto.-, le disse allora.
Lei alzò gli occhi per una frazione di secondo, guardandolo con aria interrogativa. Poi, però, li riabbassò subito e rispose: -Imparerò, signore.
-A camminare senza fare rumore.-, aggiunse lui.
-Imparerò.-, ribatté lei.
-A muoverti senza attirare l’attenzione.-, incalzò.
-Imparerò.
-A tenere in mano una spada, ad usarla. A difenderti, se necessario, a mantenere il controllo in qualsiasi situazione. Ad obbedire agli ordini…-, si fermò. Poi si corresse: -Ma questo lo sai già fare.
 
Clio alzò gli occhi.
Perché avrebbe dovuto imparare tutte quelle cose?
Volevano trasformare in criminale anche lei?
Non era stata comprata semplicemente per cucinare e badare ai cavalli?
Però non si lasciò spaventare: il padrone la stava semplicemente sfidando, lei se ne rese conto.
A differenza di quello che avrebbe fatto qualunque schiava con un minimo di buon senso, disse in tono brusco: -Non mi spaventano le sfide.-
 
Ramis rimase sorpreso.
Non tanto per quello che la ragazza aveva detto, quanto per il fatto che l’aveva detto. E con quel tono, poi.
Gli venne da sorridere, ma si trattenne.
-Come, prego?
-Ho detto che non mi spaventano le sfide.-, disse lei, fredda, con una punta di asprezza nella voce.
Ramis alzò impercettibilmente il mento, leggermente infastidito.
Gli occhi neri di lei lo fissavano impertinenti, in attesa di una reazione.
La timida schiava di prima era sparita, ma riapparve subito dopo, quando la ragazza si rese conto di aver parlato con troppo ardire.
Abbassò immediatamente lo sguardo e mormorò delle scuse.
 
“Stupida”, si disse Clio.
Che cosa le era passato per la mente?
Parlare in quel modo il suo padrone?
-Chiedo scusa, padrone. Perdonami.-, mormorò.
Abbassò immediatamente gli occhi aspettando la sua reazione e sperando che non sarebbe stata troppo violenta.
Lui, invece, sembrò ignorare completamente sia le scuse che le affermazioni precedenti.
Invece, le ordinò: -Adesso ascoltami attentamente. Molto attentamente. Sono stato chiaro?
-Sì, padrone.-, rispose lei.
 
In un gesto fulmineo, Ramis si ritrovò dietro la ragazza, si gettò per terra e gettò lei con sé. Poi sfilò un coltello dalla cinghia alla quale lo aveva legato, legata a sua volta alla caviglia, e glielo puntò alla gola.
Lei non fece una piega.
Ramis lo aveva sempre sostenuto: quando si è con una lama puntata alla gola si ascolta sempre molto più attentamente.
Spesso doveva ricorrere a questo metodo con Veda, talvolta con Chilè, ma con lui era tutto molto più complicato: ci voleva un’ora solo per calmarlo.
Con la schiava, invece, fu piuttosto semplice.
-Sono stato chiaro?-, ripeté, poi.
Il carro sobbalzò e Ramis sentì il corpo della ragazza irrigidirsi quando la lama fredda incontrò, per sbaglio, la pelle della sua gola.
Però non emise un gemito: -Cristallino.-, rispose.
-Bene.-, commentò. –Tu non sei in un gruppo di mercanti. Noi siamo ladri professionisti. Mercenari. Riceviamo un incarico e lo portiamo a termine, dopodiché ci prendiamo il bottino. Tu sei la nostra schiava, ma ciò non vuol dire che non faccia parte della squadra.
Fece una pausa.
-Ora, siamo ricercati. Se ci trovano, finiamo tutti sulla forca: compresa te. Se non ci trovano, ed è questo l’obiettivo comune, siamo salvi. Fin’ora è tutto molto semplice. Adesso arriva la parte bella: puoi decidere di credere o no alle mie parole, ma ti garantisco che è tutto vero. Conosci Arsenna Ru?
-È il nostro re.
 
Clio sentì un brivido di irritazione che attraversava il corpo di Ramis.
Sì, conosceva Arsenna Ru. Era il re di Arcuanta. Si diceva che fosse crudele, che fosse un barbaro.
Per lei non faceva differenza: era una schiava e tale sarebbe rimasta, con o senza Arsenna Ru.
-Ha un fratello.-, disse il ragazzo.
-Aveva un fratello.-, precisò lei.
Conosceva la storia di Derenna Ru e di Arsenna Ru. Sapeva che il primo era morto, ed era così che il secondo aveva preso il potere.
Il suo padrone sogghignò: -È quello che credono tutti. In realtà è vivo.
Clio ci mise un po’ a digerire quell’informazione.
Il ragazzo continuò: -Vuole un forziere. Anche se non so che cosa voglia farci. E in cambio ci darà il bottino più grande che potremo mai sognare di guadagnare.
-Perché lo vuole?-, domandò la ragazza.
Lui avvicinò ancora di più la lama del coltello alla gola della schiava, stringendola ulteriormente.
Un altro strattone del carro le sarebbe stato fatale.
-Dimenticavo: niente domande.
Lei non rispose.
-Dobbiamo prendere un forziere e portarglielo. Il forziere si trova…
-…sull’Isola d’Oro.-, concluse Clio.
 
Ramis ritirò il coltello e fece voltare la ragazza con un movimento repentino, guardandola negli occhi: -La conosci?-, domandò sorpreso.
Lei sorrise senza rispondere.
“Maledizione”, pensò. Aveva perso il controllo.
Mai perdere il controllo, era la prima regola.
Quella ragazza si rivelava sempre più strana: prima batteva a scacchi Chilè, poi lo sfidava verbalmente. Dopodiché chiedeva perdono, parlava tranquillamente con una lama alla gola e ne sapeva più di tutti loro sui più grandi misteri del regno.
-Rispondi.-, incalzò Ramis.
 
Clio sapeva tutto su quell’isola, sul forziere e su quello che c’era dentro.
Quando il suo padrone aveva fatto riferimento ad un forziere, inizialmente non aveva capito.
Poi, però, aveva collegato tutto: Derenna Ru che resuscitava dai morti e che, sicuramente, voleva la sua vendetta. E quale vendetta migliore se non riprendere il potere appellandosi all’antica legge della spada?
D’altronde, l’isola e la spada stessa erano stata creata da un mago, un mago al servizio degli Spiriti, esattamente come lei.
Ma, evidentemente il padrone non ne sapeva niente. E non sarebbe stata di certo lei a raccontagli tutto: la sua priorità era di mantenere il segreto.
Poi, ecco che un brivido le attraversò la schiena.
Nella sua mente si insinuò una sensazione che poi prese il totale controllo di lei.
Vide il suo padrone e la sua padrona. I due fratelli.
Li vide a bordo di una nave, che discutevano: non poteva sentire quello che dicevano.
Andavano avanti a discutere per un po’, dopodiché lei gli gettava le braccia al collo e affondava il suo viso sul suo petto.
Forse piangeva.
Poi la sensazione se ne andò. La visione cessò.
E Clio si ritrovò di fronte al suo nuovo padrone all’interno del carro: lui la fissava con un viso privo di emozioni.
Non l’aveva colpita.
 
Ramis stava pensando.
La ragazza si era appena bloccata, esattamente come gli avevano detto quando l’aveva comprata.
Non andava bene, non andava per niente bene.
Se fosse successo durante la missione? In situazioni di pericolo avrebbe significato un gran problema.
Aspettò pazientemente che gli occhi della ragazza rimettessero a fuoco qualcosa: rimasero fissi nel vuoto per quasi un minuto.
Poi, con un profondo respiro, finalmente la schiava tornò in sé.
 
Nessuno parlò per un minuto buono.
Ognuno aspettava che l’altro prendesse la parola per primo.
Alla fine fu Clio ad interrompere il silenzio: -Ne ho sentito parlare.
-Di che cosa?-, domandò Ramis, improvvisamente dimentico.
-Dell’Isola d’Oro.-, gli rammentò Clio.
 
Ramis rimase interdetto per qualche secondo.
Poi comprese: la schiava stava rispondendo alla sua domanda precedente.
Come se quel minuto di assenza non fosse del tutto esistito.
Scosse la testa confuso, e decise che per ora era meglio chiuderla lì.
Sulla nave che li avrebbe portati sull’isola, avrebbero continuato il discorso.
E stavolta, senza interruzioni.

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Capitolo 12
*** INGANNO ***


Arsenna Ru non poteva crederci.
Suo fratello, vivo.
Non era possibile.
Cercò di masticare la notizia, di farla sua, ma non ci riuscì.
Prese in considerazione l’ipotesi che quel sensitivo lo stesse ingannando, ma perché avrebbe dovuto farlo?
Conoscendo, poi, il rischio che correva.
-Che cosa vuoi in cambio di queste informazioni?-, gli aveva chiesto Arsenna Ru.
Majo, così aveva detto di chiamarsi il sensitivo, aveva risposto che voleva semplicemente vivere da benestante per il resto della sua vita.
Voleva essere mantenuto dalla corte.
Se le sue informazioni erano vere, se Derenna Ru davvero era vivo e se era sulle tracce dell’antica Spada d’Oro, allora il prezzo era addirittura basso.
Ma se tutto ciò si fosse rivelato falso, Majo avrebbe provato più dolore di quanto chiunque si fosse mai riuscito ad immaginare.
Lo avvertì della cosa, ma lui non fece una piega.
Fu allora che decise: quel vecchio stava dicendo la verità.
 
-In che modo hai detto che intende arrivare alla Spada d’Oro?-, domandò il sovrano.
-Mio signore, io stesso l’ho aiutato a trovare coloro ai quali è stata affidata questa missione. Si tratta di ladri molto famosi, la Banda del Vento.
Pronunciò queste ultime parole con un misto di rispetto e asprezza nella voce.
Arsenna Ru ebbe un sussulto.
-La Banda del Vento, hai detto? Tu sei riuscito a trovarli?
Majo annuì: -Tutti e quattro.
Arsenna Ru alzò il mento: -Perché non li hai consegnati? Avresti incassato la taglia.
-Perché in questo modo avrei guadagnato molto, molto di più.-, spiegò.
Il re si rese conto ancora una volta di quanto lui e Majo fossero simili.
Poi sospirò, pensando alla sua offerta.
-Hai ingannato mio fratello. Come posso sapere che non ingannerai me?
 
Una domanda che Majo si era aspettato.
Una risposta che si era preparato: -Perché, mio signore, solo chi non sa ingannare può essere ingannato.
Il re sembrò rimuginarci sopra per qualche secondo, poi gli occhi gli si illuminarono.
-Mi stai dando dell’ingannatore?-, chiese con un sorriso.
-Il più grande con cui io abbia mai avuto il piacere di parlare.-, rispose con deferenza.
Nel loro mondo, nel mondo di Majo e di Arsenna Ru, l’arte di ingannare era una virtù-
 
Arsenna Ru scoppiò in una fragorosa risata.
Poi tornò serio, si alzò e si pose di spalle.
Cercò di penare in modo razionale: suo fratello era vivo ed era sulle tracce della Spada d’Oro, oggetto che gli avrebbe dato automaticamente il potere togliendolo a lui. Ovviamente, suo fratello si sarebbe premurato di ucciderlo una volta diventato re.
Possibilità che i suoi uomini riuscissero ad arrivare alla Spada d’Oro prima di lui?
Pochissime, fu costretto ad ammettere: Derenna Ru aveva dalla sua parte la Banda del Vento, ed erano anni che i suoi uomini davano la caccia al Figlio del Vento e ai suoi senza risultati.
Avrebbe potuto corrompere la Banda del Vento, ma se non avessero accettato?
Majo, nel spiegargli la situazione, lo aveva avvertito del disprezzo provato dai quattro nei suoi confronti.
Ma aveva dalla sua parte un sensitivo. E un ingannatore.
Finalmente si voltò e guardò Majo con occhi luccicanti.
 
-Loro non sanno che tu fai il doppio gioco.-, constatò.
-Certo che no, signore.
Arsenna Ru rifletté ancora un istante.
Lo scheletro di un piano si stava lentamente formando nella sua testa.
Se fosse riuscito, avrebbe avuto suo fratello giustiziato nella pubblica piazza, la Banda del Vento a seguirlo e la Spada d’Oro, quindi il potere assoluto.
Sì, valeva la pena di rischiare.
-Allora andrai con loro. Dirai loro che sei stato mandato da Derenna Ru. Non avranno modo di informarsi se ciò è vero o falso: sull’isola non potranno mettersi in contatto con mio fratello. E poi potrai dar loro una mano, sei un sensitivo, d’altronde.
Majo ascoltava senza rispondere.
-Una volta trovata la spada, portala da me. Uccidili, se necessario. O addormentali e mettiti in contatto con i miei uomini.
-Mio signore, dimenticate un fattore importante. Io sono un sensitivo, sì, ma anche un mago.
-Quindi?-, domandò.
-Quindi, con tutto il rispetto, non avrò bisogno dei vostri uomini.
Nella mente di Arsenna Ru si formò un dubbio.
-Majo, se tu sei un mago e consoci la leggenda della Spada d’Oro, perché non hai provato a recuperarla da solo in questi anni? Avresti potuto prendere il potere.
Majo sorrise amaramente: -Mio signore, non è semplice come sembra. L’isola è disseminata di trappole, tranelli e prove da superare prima di arrivare alla Spada. Molti rimangono uccisi nel cammino.
Arsenna Ru sorrise, e Majo con lui.
Poi, entrambi scoppiarono in una fragorosa risata e bevvero vino.
Sul far della sera, Majo si mise in viaggio per l’isola.

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Capitolo 13
*** VIAGGIO ***


Il carro si fermò davanti al porto.
Nessuno fece caso alle quattro figure incappucciate seguite da una schiava in tunica bianca che si avvicinarono ad una piccola nave mercantile e vi salivano a bordo.
La nave non portava né vasi né spezie: portava provviste e viveri per la missione.
Il capitano era stato pagato profumatamente, e così il suo equipaggio, per trasportare quei cinque strani individui all’isola conosciuta come Isola d’Oro.
Le mappe che giravano per la nave erano mappe non ufficiali, nelle quali vi era segnata un’isola non riconosciuta ufficialmente.
Anche quel viaggio non era ufficiale: una nave salpò dal porto senza che nessuno all’infuori di coloro che vi erano sopra sapesse dove era diretta.
E sarebbe tornata avvolta nello stesso mistero.
Ma nessuno ci fece caso: meglio così, pensò Ramis.
 
Dopo quella chiacchierata con la schiava, il carro si era fermato bruscamente, le pedine erano cadute per terra e tutti erano scesi.
Senza dire una parola, Massur, Chilè, Veda e Clio avevano seguito il Figlio del Vento, il quale aveva ricevuto istruzioni direttamente da Derenna Ru.
Avrebbero trovato una nave dalle vele bianche e rosse al porto, il capitano un uomo baffuto dai capelli rossi.
Ramis individuò la nave e vi condusse i suoi compagni.
Appena salirono, il capitano andò loro incontro: -Ci aspettano tre giorni di viaggio. Spero che nessuno di voi soffra di mal di mare.
Non un saluto, non un convenevole. Evidentemente quell’uomo era abituato a fare affari con i pezzi grossi, e probabilmente le volte in cui aveva trasportato effettivamente merci erano decisamente minori rispetto a tutte le altre.
 
Clio era stata spesso su delle navi mercantili. Di solito viaggiava insieme ad altre centinaia di schiavi nella stiva.
Aveva sempre odiato quella parte.
Il capitano li salutò informandoli del fatto che il viaggio sarebbe durato tre giorni.
I marinai andavano avanti e indietro, senza degnarli di uno sguardo, sbrigando tutte quelle faccende che una nave richiede.
Clio si accorse che erano parecchie.
Quella era la nave sede della sua visione.
Osservò Ramis e Veda: a vederli adesso, con Chilè e Massur fra di loro, non si sarebbero detti neanche fratelli.
-Lasciate che vi mostri i vostri alloggi.-, disse il capitano.
Con un gesto della mano indicò una direzione: Ramis e gli altri presero a camminare.
Clio fece per seguirli, ma il capitano la fermò bruscamente.
Aveva una pipa in bocca, sotto i baffi: aspirò del fumo e le disse: -Tu, bellezza, devi essere la schiava. Avrai dei compiti in cucina.-, la informò.
Con un altro gesto della mano, chiamò a sé un marinaio.
Sarà stato alto due metri, barba di qualche giorno e completamente pelato.
-Portala in cucina.-, gli ordinò.
Lui l’afferrò per un braccio con una salda presa e prese a camminare.
A Clio non restò che seguirlo.
 
Il capitano, dopo essersi fermato qualche secondo con la schiava, riprese a camminare nella direzione che aveva loro indicato.
-Purtroppo di solito non viaggiamo con degli ospiti, quindi il massimo che posso offrirvi sono degli alloggi destinati ai marinai.-, disse.
-Andranno benissimo.-, commentò distrattamente Ramis, pensando a che cosa il capitano avesse detto alla schiava e a dove quel marinaio l’avesse condotta.
Per quanto lo riguardava, la cosa non gli importava più di tanto.
O meglio, non gli sarebbe importato se adesso la ragazza non avesse fatto parte effettivamente della squadra.
Aveva delle informazioni su di loro, conosceva i loro nomi, sapeva chi aveva commissionato il lavoro.
Certo, magari il capitano aveva già queste informazioni. Magari non le aveva e non gli importava nulla. O forse non le aveva e gli importava.
O forse lui era solo paranoico.
-A che cosa stai pensando?-, gli domandò sottovoce Massur portandosi accanto a lui.
-Perché la ragazza non viene con noi?-, domandò al capitano Chilè precedendo la risposta che Ramis avrebbe dato a Massur.
Il capitano si voltò impercettibilmente: -Voi siete miei ospiti, lei è una schiava. Darà una mano in cucina e divertirà i miei uomini.-, spiegò.
 
Veda sentì un brivido attraversarle la schiena.
“Divertirà i miei uomini”. E se qualcuno un giorno avesse detto lo stesso di lei?
Non poteva tollerarlo. Decise di intervenire: -Non dovremmo decidere noi cosa fare di lei?-, domandò, guadagnandosi un’occhiataccia del fratello.
Comprese che questo suo intromettersi gli dava fastidio, così incalzò: -Voglio dire, è la nostra schiava.
Il capitano si fermò: -Oh, colui che ha commissionato il lavoro mi aveva detto di avervi messo a disposizione una sua schiava, e l’aveva messa a disposizione anche a me.-, spiegò.
-In realtà…-, iniziò Ramis.
Veda lo precedette: -Evidentemente non conoscete le ultime novità. Noi abbiamo rifiutato quella schiava e ne abbiamo comprato una noi.-, fece con la sua solita irruenza.
Il capitano sembrò infastidito: -Signorina, non ero a conoscenza delle ultime novità, è vero. Ma a me era stato offerto un pagamento nel quale era compresa anche una ragazza, e non intendo rinunciare a ciò che mi spetta.-, disse cercando di mantenere un tono di voce pacato.
 
Ramis capì che in realtà il capitano era semplicemente infastidito dal tono di sua sorella.
Neanche a lui andava giù il fatto che quell’uomo si appropriasse così deliberatamente di un nuovo membro della squadra. Come se non bastasse, la ragazza era stata veramente comprata da loro.
Se lei l’avesse lasciato parlare, lui sarebbe sicuramente sceso a patti col capitano.
Era bravo a contrattare.
Ma, ancora una volta, l’impulsività della ragazza lo aveva preso in contropiede.
-Veda, ora parlo io.-, si impose.
Lei sembrò ignorarlo: -Ciò che vi spetta? Quella ragazza spetta a noi e lo sapete benissimo.-, disse alzando il tono di voce.
-Veda, basta.-, disse Ramis con tono più duro.
Veda gli scoccò un’occhiata e lo ignorò ancora una volta.
-Signorina, non capisco come mai tutta questa insistenza, ma la ragazza rimarrà nelle cucine.-, si impose il capitano.
Poi si voltò e riprese a camminare.
Veda ribatté: -Voi siete un… un…
Ma non riuscì a finire la frase a causa del colpo ricevuto da Ramis.
 
Il colpo era stato forte e le aveva fatto perdere l’equilibrio.
Massur si affrettò a prenderla impedendole di cadere e cercò di ignorare i suoi occhi colmi di lacrime.
Veda aveva esagerato, senza dubbio.
Pur di mettersi contro il fratello, si era messa contro il capitano.
Certe volte si comportava davvero come una bambina capricciosa. Si ripromise di dirglielo, non appena fossero rimasti da soli.
Ma sapeva che in quel momento qualunque parola di rimprovero avrebbe scatenato una reazione che sarebbe stata dannosa per tutti quanti.
Il capitano aveva già perso parte del rispetto che nutriva nei loro confronti.
Certo, lui era dalla sua parte, per quanto riguardava la schiava.
Ma Veda non aveva capito che anche suo fratello lo era, solo che avrebbe agito e parlato in seguito e con maggior buon senso e avrebbe conseguito il suo scopo.
A causa dei suoi modi impulsivi ora avevano l’antipatia del capitano, un Ramis infuriato, una Veda in lacrime e Clio ancora nelle cucine.
Però non lo disse.
Invece, si limitò a guardare Ramis che guardava Veda deluso come un padre guarda una figlia, Chilè sbigottito e Veda sull’orlo di una crisi di pianto.
I quattro continuarono a camminare dietro il capitano: Massur teneva Veda per le spalle come a volerla consolare.

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Capitolo 14
*** CENA ***


Quella sera il capitano invitò i suoi ospiti a cenare insieme a lui dopo che si furono rinfrescati nella propria cabina.
Ramis, Massur e Chilè si ritrovarono intorno al tavolo rettangolare con il capitano a capotavola e una sedia vuota.
Ramis cercò di giustificare l’assenza di Veda: -Mia sorella non si sentiva molto bene.
-Vostra sorella dovrebbe imparare a parlare con un po’ più di senno.-, ribatté il capitano.
Ramis si infastidì per quella risposta, ma non lo diede a vedere.
La porta si spalancò ed entrarono alcuni marinai che, per la serata, si erano tramutati in inservienti.
Accesero delle candele sul tavolo, posero piatti e posate e riempirono i bicchieri di vino rosso.
Ramis aspettò che fosse il capitano a bere per primo, dopodiché si lasciò andare.
 
Clio stava cucinando: una delle cose che le riusciva meglio.
Il cuoco della nave le aveva detto: -Vediamo cosa sai fare.-, e l’aveva messa ai fornelli sedendosi e osservandola.
Le aveva detto che avrebbe dovuto cucinare una cena per cinque persone e che lui voleva vedere come lavorava: in realtà voleva solo godersi una serata di riposo alle spalle di una schiava.
E lei se l’era cavata piuttosto bene.
Certo, fino a quando non si era bloccata.
Successe mentre aveva portato una pentola sul fuoco per scaldare la carne che vi era dentro.
Ma proprio nel momento in cui avrebbe dovuto toglierla, era arrivata la visione, e quel momento si era protratto per ben più di un momento.
 
Il cuoco della nave era felice di avere una serata libera, e in più una bella ragazza che cucinava al suo posto di fronte a sé da poter guardare.
Lei se l’era cavata bene, fino ad allora. Ma improvvisamente, proprio nel bel mezzo di una manovra facile (avrebbe dovuto semplicemente togliere la pentola dal fuoco), si era bloccata.
Era come addormentata, o svenuta: completamente priva di sensi.
Però aveva gli occhi aperti, e si manteneva in piedi.
Lui si alzò di scatto, urlandole contro di spostarsi.
Lei sembrò non sentirlo, e mantenne la carne sul fuoco.
Indeciso sul da farsi, il cuoco aspettò ancora per qualche istante. Dopodiché decise di intervenire quando iniziò a sentire puzza di bruciato: il capitano non era uno che perdonava facilmente gli errori.
Afferrò, così, la pentola dalle mani della ragazza scostandola bruscamente, ma nello stesso attimo in cui si accorse che la pentola era rovente, e quindi la lasciò andare, la ragazza cadde come morta su un piano d’appoggio da cui sporgeva il manico di una pentola piena d’acqua.
L’acqua schizzò in aria, andò a depositarsi sul fuoco e lo spense. Bagnò la carne, bagnò il pane e anche tutto il resto della cena.
Era diventata inservibile.
Il capitano non sarebbe stato contento.
 
Proprio mentre il capitano stava decantando le doti del suo equipaggio, scelto con cura e trattato con una severità quasi crudele (ogni inflazione era punita duramente, anche con punizioni corporali, ma era proprio per questo che non esisteva ciurma più disciplinata della sua), dalle cucine arrivarono degli strani rumori.
Delle urla, prima, e poi rumori di pentole che cadevano l’una sull’altra e di mestoli che sbattevano.
Il capitano si alzò di scatto, seguito da Ramis, subito in stato d’allerta.
Il primo aspettò qualche secondo, dopodiché prese a camminare verso la porta, che in quel momento si spalancò: ne entrarono due marinai-camerieri che informarono il capitano sull’accaduto.
 
-I rumori provenivano dalle cucine, capitano.-, disse uno di loro.
-Che cos’è successo?-, domandò lui con aria sprezzante.
-Lo chiederemo al cuoco, signore.
Il capitano sembrò più rilassato e tornò a sedersi. Ramis lo seguì.
-La cena?-, chiese ingenuamente Chilè. La sua affermazione fu seguita da un’occhiata di disapprovazione di Ramis.
-Sarebbe dovuta già esser pronta, in realtà. Imprevisti in cucina.-, spiegò.
I quattro aspettarono ancora qualche minuto in silenzio, scrutando i piatti vuoti.
Poi, la porta si spalancò e i due marinai di prima entrarono portando per le braccia un uomo che Ramis non aveva ancora visto su quella nave.
Dietro di lui, più bianca del solito, camminava la ragazza.
 
Il capitano si alzò di scatto, irritato.
Che cosa stava succedendo? Non poteva tollerare un tale baccano e una figura del genere davanti a degli ospiti.
-Cosa diamine è successo?-, chiese a denti stretti.
Il cuoco cercò di rispondere e con voce fioca balbettò, impaurito: -Capitano… non è… giuro, non è colpa mia.
-Non ti ho chiesto di chi è la colpa.-, ribatté lui con voce dura.
Il poveretto cercò di spiegare: -Io… la ragazza si è… addormentata.-, provò a spiegare.
Il capitano aggrottò impercettibilmente le sopracciglia, poi domandò: -La cena?
-Immangiabile.-, rispose uno dei marinai.
Il cuoco sudava freddo.
Il capitano non si mosse: -Molto bene.-, disse con voce dura. –Sarà vostra premura assicurarvi che quest’uomo sia punito come merita.-, fece con voce impassibile rivolto ai due marinai, che presero ad incamminarsi verso l’uscita con un cenno di saluto.
Il cuoco urlò e implorò il capitano, farfugliando parole confuse sulla ragazza.
Lo sguardo di quest’ultimo, sereno e distaccato, si spostò su di lei.
 
Clio guardò il cuoco che stava per essere portato via.
Il capitano l’aveva quasi completamente ignorata, almeno fino a quel momento.
-Passiamo a te.-, disse.
-È colpa mia.-, si affrettò a dire.
I due marina, automaticamente, si bloccarono e il cuoco si voltò con aria implorante.
Clio continuò: -Lui non c’entra niente. È per colpa mia che stasera non potrete cenare come previsto.-, disse.
 
Nella sua voce non c’era paura né tensione, semplicemente un orgoglio e una rassegnazione tipici di coloro che sanno ammettere i propri errori, e accettarne le conseguenze. 
Ramis ne rimase profondamente colpito.
Il cuoco si liberò in uno scatto della stretta dei due, e andò incontro al capitano: -Avete visto, signore? Lo ammette anche lei: io non c’entro niente.
Il capitano arricciò le labbra come a voler soppesare la situazione.
Il cuoco lo guardava con aria supplichevole, mentre la ragazza lo guardava con occhi inespressivi.
-Torna in cucina e vedi di rimediare.-, fece alla fine l’uomo dai capelli rossi rivolto al cuoco.
Lui sgattaiolò in cucina farfugliando dei ringraziamenti, mentre la schiava si preparava ad affrontare il capitano.
 
Non era stata colpa sua, lei lo sapeva.
Era stata colpa di una visione, ma ovviamente non avrebbe potuto dirlo.
Quindi si era assunta la colpa, e avrebbe accettato ciò che ne sarebbe derivato.
Aveva guardato negli occhi il capitano, non vi aveva letto né clemenza né misericordia.
Solo una grande superbia, presunzione e, sì, anche un pizzico di crudeltà.
Le ore che sarebbero seguite non sarebbero state piacevoli.
-Dunque sarai tu ad essere punita come meriti.-, le disse.
E fece un segno ai due uomini che, con un ghigno divertito, si avventarono sulla ragazza.
Lei, ovviamente, non si oppose.
 

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Capitolo 15
*** INTERROGATORIO ***


Ramis si alzò di scatto, sorprendendo tutti.
-D’accordo, adesso basta.-, disse con aria risoluta. L’impressione era che fosse lui il capo, non il capitano.
Tutti lo guardarono basiti, tutti tranne Massur.
Lui l’aveva visto fremere mentre il capitano si comportava con tale arroganza, aveva visto il suo sguardo trasformarsi da freddo a sorpreso alle parole della ragazza, e le sue narici allargarsi in segno di stizza quando il capitano le aveva parlato.
Per quanto lo riguardava, la sua reazione era arrivata addirittura con qualche frazione di secondo di ritardo.
Il capitano, evidentemente infastidito da quello scavalcamento di potere, domandò: -Qualche problema?
Ramis cercò di respirare con regolarità per calmarsi, dopodiché parlò: -Conducete la ragazza nella mia cabina.-, ordinò rivolto ai due marinai.
I due guardarono il loro capitano, il quale alzò una mano segnalando loro che dovevano attendere.
-Sono io che do gli ordini.-, gli ricordò.
-Allora date ordine che la ragazza venga portata nella mia cabina.-, ribatté lui tranquillo, anche con una certa impertinenza nella voce.
Il capitano sorrise difficoltosamente, probabilmente non abituato a simili comportamenti.
-La ragazza è mia, non lo dimenticate. Decido io cosa farne.-, gli rammentò. -E ho il diritto di darle personalmente ciò che si merita.-, continuò.
 
Il capitano era sbigottito.
Fece un cenno di assenso ai marinai, ed essi eseguirono l’ordine del ragazzo dagli occhi azzurri.
Non aveva ceduto con tanta facilità perché era un debole, no. Lo aveva fatto semplicemente perché non aveva idea di cosa fare.
Continuare a discutere si sarebbe potuta rivelare un’umiliazione contro quel ragazzo dalla lingua tagliente.
E non era abituato a dover trattare con gente che scavalcava la sua autorità.
Pensò a qualcosa da dire, possibilmente qualcosa di brillante. Ma non gli venne in mente nulla.
Fortunatamente, il ragazzo lo precedette: -Mi è passata la fame: torno in cabina.-, annunciò.
Il capitano lo seguì con lo sguardo fino a quando non fu uscito dalla sala da pranzo; poi, come se niente fosse, riprese posto a capotavola e iniziò una nuova conversazione su quanto fosse difficile procurarsi una nave in quei tempi.
 
Clio era stata portata in una cabina minuscola munita di una branda e di un semplice comodino, sul quale era posata una lampada ad olio.
C’era un baule che fungeva da armadio e poi nient’altro.
Era la cabina del suo padrone, quel ragazzo dagli occhi azzurri che poco prima l’aveva in un certo senso salvata dalle grinfie di quei rozzi mariani.
Ma, d’altra parte, adesso era nelle sue, di grinfie.
Si chiese cosa le sarebbe successo di lì a poco.
Quel ragazzo l’avrebbe davvero punita, come aveva detto al capitano?
Oppure l’avrebbe trattata come la più squallida delle prostitute, come faceva il mercante di vasi?
O, magari, nessuna delle due. O tutt’e due.
L’aprirsi della porta la strappò dai suoi stessi pensieri, il che fu una cosa positiva.
Il suo padrone chiuse la porta alle sue spalle e, ignorandola completamente, si diresse verso il baule.
 
Ramis aprì il baule e ne estrasse una borraccia d’acqua e un pezzo di stoffa che conteneva qualche pagnotta.
Non avrebbe di certo viaggiato sprovveduto.
Ancora non aveva degnato la ragazza dietro di lui in tunica bianca neanche di uno sguardo.
Sapeva che, invece, il suo sguardo era su di lui.
Ramis si sedette sulla branda, prese una pagnotta e la addentò.
Finalmente guardò la ragazza, che subito distolse lo sguardo quando i suoi occhi neri incontrarono quelli azzurri di lui.
 
Clio arrossì impercettibilmente.
Distolse lo sguardo da quel ragazzo dai modi freddi e distaccati e guardò un punto indistinto sul pavimento.
-Hai fame?-, le chiese lui.
Lei alzò lo sguardo di scatto guardandolo stranita.
Era la seconda volta in un giorno che qualcuno le faceva quest’insolita domanda.
Sì, di fame ne aveva e come. Ma accettare del cibo due volte in un giorno dai suoi padroni non era esattamente un comportamento consono al suo stato di schiavitù.
Scosse la testa cercando di non guardare gli occhi indagatori del ragazzo e ringraziò sommessamente.
Il ragazzo aspettò qualche minuto: lei rimase in piedi.
Dopodiché domandò: -Che cosa è successo in cucina?
 
La ragazza esitò. Sembrò cercare una scusa plausibile o provare ad inventare una storia credibile.
Poi cominciò: -Sono mortificata. Io… ho bruciato la carne e ho bagnato il resto della cena.-, spiegò.
-Avevi detto di saper cucinare.-, ribatté Ramis fulmineamente.
Lui la guardava fisso negli occhi, mentre quelli neri di lei cercavano di evitare i suoi.
Lei esitò ancora: -Lo so fare. È stato il cuoco che mi ha spinta sulla pentola piena d’acqua.-, spiegò con un tono di stizza nella voce.
-E la carne?
 
Il ragazzo sembrava divertirsi a quell’insensato interrogatorio.
Che cosa gli importava di cos’era successo in cucina?
Che cosa voleva?
Clio cercò di spiegarsi: -Io… mi sono bloccata.-, disse. Era l’unica cosa che potesse rivelare, ed era la verità.
Il ragazzo distolse finalmente lo sguardo posandolo sulla lampada ad olio, pensoso.
-Non va bene.-, disse dopo qualche secondo di riflessione.
Poi il suo sguardo tornò a posarsi su di lei: -Non va affatto bene. Cos’è una malattia?
-Che cosa?-, domandò, per la prima volta interessata, Clio.
Una malattia? La sua?
-Una malattia? È curabile, almeno?
-Non capisco.-, finse lei.
-Questi momenti di assenza.-, spiegò lui.
Clio, per qualche secondo, rimase interdetta.
La sua preveggenza, una malattia? Le veniva quasi da ridere al pensiero.
Ma non poteva di sicuro dirgli la verità. E non poteva dire di non sapere che cosa fosse, altrimenti lui l’avrebbe fatta visitare da un dottore – magari da un mago – e forse avrebbe potuto scoprire qualcosa.
Optò per l’unica opzione possibile: mentire.
-Ne soffro fin da quando ero piccola. Non è qualcosa che si può curare.
-Lo ha detto un dottore?
 
-Sì.-, rispose lei con troppa foga.
Ramis decise di chiudere l’argomento: sapeva che quella ragazza non gliela raccontava giusta.
Ma sapeva che insistere non sarebbe servito a nulla.
Del resto, pensò, era a conoscenza di questo disagio quando l’aveva comprata, ma aveva deciso di farlo lo stesso.
Stupido. Era stato stupido e avventato.
 
-Ti chiami Clio, vero?
-Sì, padrone.
Altri secondi di silenzio.
-Sei armata?-, domandò improvvisante Ramis.
Finalmente, la ragazza lo guardò negli occhi con uno sguardo indecifrabile.
Dopo un po’ rispose: -No.
Ramis decise che quella pausa era troppo lunga.
La ragazza non era brava a mentire: rispondeva troppo in fretta o con troppa calma.
Senza dire una parola, si alzò e le si avvicinò.
Lei, probabilmente abituata a farsi mettere le mani addosso, non si oppose.
 
Il padrone le prese un polso e cominciò a tastare il suo braccio con entrambe le mani.
Poi fece lo stesso con l’altro.
La fece poggiare al muro con le mani di fronte a sé e tastò anche le gambe, l’addome, i glutei e i seni.
Non c’era malizia, però, nei suoi gesti. Solo una fredda sistematicità, tipica dei criminali, pensò Clio.
Nel controllarla, esaminò anche la Ganà, assicurandosi che fosse fissata bene e che non nascondesse nessun’arma.
Clio sorrise impercettibilmente: forse quel tipo non era così in gamba come aveva pensato.
 
Probabilmente la ragazza non si accorse del fatto che Ramis aveva notato quel suo sorrisetto.
Poteva voler significare solo una cosa: lui ci aveva visto giusto e lei era armata.
Clio, aveva detto di chiamarsi.
Magari non era neanche quello il suo vero nome.
Gli aveva mentito già due volte in poco tempo, e la cosa non gli piaceva.
Si diede ancora una volta dello stupido per averla comprata, scegliendola fra tante altre. Poi, però, ripensò ai suoi occhi, a quel qualcosa che vi aveva visto, e si ricordò del perché aveva fatto quella scelta.
E poi, loro erano ladri. Criminali. Mentire faceva parte del loro mestiere, e se lei era così abituata e a suo agio a farlo, beh, sarebbe giovato a tutti.
Ma, di certo, non avrebbe dovuto mentire a loro.
“Ai mali estremi, estremi rimedi”, pensò.
-Spogliati.-, ordinò.
 
A Clio occorse uno sforzo immane per non scoppiare in lacrime.
Ancora una volta quel comando. Ancora una volta quell’umiliazione.
Rimase immobile, con i pugni chiusi, per dei secondi che le sembrarono anni.
Ed, evidentemente, anche il suo padrone pensò che quel tempo fosse troppo, perché le si scaraventò addosso come un felino sulla sua preda, facendola cadere per terra.
Le piantò un ginocchio contro la schiena, togliendole il respiro, e le puntò la lama del coltello della volta precedente alla gola.
Stavolta, però, non era attenzione che voleva. Era qualcosa di ben più concreto.
 
Ramis sapeva che la ragazza non si sarebbe opposta.
Era una schiava, ed era stata educata a comportarsi come tale.
Prima di poter formulare qualsiasi pensiero, la sua attenzione fu attirata da un cordone che attraversava il collo di lei, il cordone di una collana.
O meglio, di un medaglione.
Il medaglione in questione ricadeva proprio accanto alla testa della ragazza, in legno, vecchio e apparentemente malandato.
Senza muovere la lama, lo afferrò e lo esaminò: sul davanti recava una frase, intagliata nel legno: “il più grande potere deriva dalla più grande umiltà”.
Ramis non ebbe il tempo – né la voglia – di soffermarsi su quella frase: fu, invece, attirato da una piccola levetta, quasi invisibile, che si trovava fra il retro e il davanti del medaglione in legno.
La fece scattare e, improvvisamente, la lama di un coltello di circa sette o otto centimetri apparve come per magia.
Il coltello era in oro puro e aveva la punta in diamante.
-Non eri armata, vero?-, la provocò.
 
Clio si sentì bruciare dentro.
Fino ad allora nessuno aveva mai scoperto il doppio uso di quel medaglione. Tutti si erano soffermati a guardarlo, avevano letto la frase, ci avevano sputato sopra, a volte, e poi non si erano neanche curati di appropriarsene perché il suo valore era talmente minimo che non poteva neanche essere quantificato.
La schiava fu costretta a rimangiarsi ciò che aveva pensato: quel ragazzo era davvero in gamba.
E aveva scoperto uno di quelli che fino ad allora erano stati i suoi pochi ma importanti segreti.
Normalmente, non avrebbe reagito.
Era una schiava, non poteva reagire.
Ma quello fu troppo: si sentiva violata.
Si sentiva spoglia, non tanto fuori – quello era abituata – ma dentro.
Così posò i palmi delle mani per terra e si fece forza, improvvisamente, cogliendo il ragazzo alla sprovvista.
Il suo ginocchio posato sulla sua schiena scivolò per terra, lui imprecò impercettibilmente.
La lama gli cadde quasi di mano e, prima che lei stessa potesse rendersene conto, era in ginocchio di fronte a lui, coricato per terra.
Ma non aveva il suo medaglione.
 
Ramis era stato colto di sorpresa. Non aveva preso in considerazione la possibilità che quella ragazza potesse in qualche modo ribellarsi, ma fu costretto a ricredersi.
Clio non aveva ancora smesso di sorprenderlo.
Lui, però, aveva in mano il suo coltello d’oro sottoforma di medaglione – un’invenzione ingegnosa, non c’era che dire.
In un’improvvisa situazione di svantaggio, fu costretto a reagire: diede un potente calcio nelle costole della ragazza che si accasciò per terra.
 
Clio rispose istintivamente a quella mossa, infilò la gamba fra quelle del padrone, dall’equilibrio ancora instabile, e la mosse talmente velocemente da farlo cadere, ancora una volta.
Aveva imparato a combattere nei primi tempi della sua schiavitù.
I suoi ricordi partivano da quel periodo, quando era stata comprata per allietare le notti dei soldati in un campo di allenamento militare. Durante il giorno, lavorava in cucina e, quando non aveva nulla da fare, osservava i soldati in allenamento.
Col tempo i più sensibili di loro si erano perfino affezionati a quella presenza silenziosa, e le avevano insegnato come difendersi, quando e se fosse stato necessario.
Lo avevano considerato un passatempo, un modo alternativo di passare le giornate, era l’unico periodo lieto della sua esistenza.
Poi gli allenatori si erano resi conto che la presenza di Clio distraeva i soldati, così l’avevano mandata via.
Aveva circa sedici anni, allora. Il fatto di saper combattere era uno dei suoi più oscuri segreti che aveva mantenuto fino ad allora.
Era il secondo di cui il nuovo padrone veniva a conoscenza in poco tempo.
Sentì le lacrime salirle fino agli occhi e bloccarsi appena prima di scendere, sentì un nodo alla gola e una disperazione che non riusciva a calmare.
Ora si trovava per terra, in una minuscola cabina di una nave, col suo padrone di fronte, anche lui per terra, che la guardava con occhi che avrebbero potuto trafiggerla.
Lei respirava affannosamente, aspettandosi una prossima mossa del ragazzo, che arrivò lenta e preannunciata.
Come se lui non si aspettasse una reazione da parte di Clio, si alzò lentamente sulle mani e le si avvicinò minaccioso, mantenendosi rasente al suolo.
Altrettanto lentamente, lei cercò di raddrizzarsi e poggiò la schiena sulla parete.
 
Ramis la raggiunse.
Era al contempo furioso, incuriosito, stranito e confuso.
Chi c’era in quella stanza con lui? Di certo non era la schiava ingenua e malata che aveva creduto di comprare.
Lei si era poggiata alla parete, lui la raggiunse e con un movimento fulmineo le bloccò le mani dietro la schiena, premendo il suo corpo contro il suo, che automaticamente premeva contro le braccia, e mettendole un braccio sotto il mento, in modo da tenerglielo alzato verso i suoi occhi.
L’altra mano era poggiata sul muro.
I loro visi erano vicinissimi, lui poteva sentire il suo fiato affannato sul collo, il suo odore di pulito e la sua paura.
Non era perché lui era il padrone e lei una schiava. Di questo non gli era mai importato nulla.
Del resto, uno nella sua situazione non poteva sentirsi in condizione di essere padrone di niente di nessuno.
Avrebbe reagito così anche se si fosse trattato di una sconosciuta, per il semplice fatto che lei lo aveva umiliato e ingannato.
Se c’era una cosa che Ramis odiava quasi più di perdere il controllo, era di essere ingannato.
-Allora,-, disse in un sussurro con fare provocatorio.
 
La voce di lui le ricordava un caminetto acceso in una stanza buia.
Era calda, tenue, ma allo stesso tempo prorompente.
Continuò: -te lo chiederò un’altra volta. Sei armata?-
-Sì.-, disse lei cerando di trovare un po’ d’aria nei suoi polmoni compressi.
La sua voce, di un tono normale, contrastava con il tono basso usato dal padrone. Sembrava quasi che avesse urlato.
L’unico rumore che si poteva sentire era quello del suo respiro. Quello del suo padrone era silenzioso, rilassato.
Lui non la lasciò subito. Si trattenne in quella posizione scomoda e dolorosa ancora per un po’, lei serrò gli occhi per ricacciare le lacrime ancora una volta.
Quando il suo padrone la lasciò andare, lei si accasciò a terra tirando un lunghissimo respiro e portandosi automaticamente una mano al petto.
Il padrone uscì dalla stanza lasciandola sola. Clio tossì.
 

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