Opium di whatashame (/viewuser.php?uid=92521)
Disclaimer: Questo testo proprietà del suo autore e degli aventi diritto. La stampa o il salvataggio del testo dà diritto ad un usufrutto personale a scopo di lettura ed esclude ogni forma di sfruttamento commerciale o altri usi improri.
Lista capitoli:
Capitolo 1: *** intro- The chosen ones ***
Capitolo 2: *** cap 2 parte 1 Meet me on the equinox ***
Capitolo 3: *** cap. 2 pt 2 Meet me on the equinox ***
Capitolo 4: *** cap 2 parte 3 Meet me on the equinox ***
Capitolo 5: *** cap.3 pt1 On the road again ***
Capitolo 1 *** intro- The chosen ones ***
opium 1
Intro
cap 1. The
chosen ones
...or
maybe not
“La morfina è
un alcaloide di natura fenantrenica. Costituisce circa il 10%
dell'oppio. Altri alcaloidi fenantrenici sono la tebaina, non
disponibile in commercio, e la codeina, che voi trovate
disponibile come farmaco sia da solo che in associazione con
paracetamolo. L'altro tipo di alcaloidi estraibili dal papaver
somniferum sono i derivati benzilisochinolinici,
ovvero la papaverina e la noscapina. La papaverina ha
scarsa utilità farmacologica: è un vasodilatatore ed un inibitore
delle fosfodiesterasi...”
La ragazza leggeva il
foglio assorta, con una penna in mano e portando il segno con il
polpastrello blù. Il rumore continuo e regolare della metropolitana
e le lievi scosse del vagone non sembravano darle alcun fastidio. Una
lieve ruga a deformarle il sopracciglio denotava quanto fosse
concentrata. Ad intervalli regolari la mano scattava nervosa a
riportare dietro l'orecchio qualche lunga ciocca scura che,
dispettosa, le scivolava davanti agli occhi.
Alzò lo sguardo dal
libro che teneva appoggiato sulle ginocchia per contare quante
fermate mancassero alla sua destinazione.
Una, due , tre,
quattro...
Chissà per quale assurdo
motivo aveva sempre il vizio di contare. Lo aveva da qunado aveva
scoperto i numeri probabilmente. Contava quante persone ci fossero
sull'autobus al mattino, quante lettere nel nome Henry Charles
Bukowski e quanti centimentri sulla cartina tra Savannah e Vancouver.
Poi faceva sempre molto caso al fatto che i numeri fossero pari o
dispari, e se il numero era pari...beh le piaceva di più, le
sembrava sposarsi meglio coll'astratto concetto di armonia che aveva
in testa.
In metropolitana contava
moltissimo: cominciava con le fermate, poi continuava con quanti
posti a sedere fossero liberi, quanti bambini in braccio alle mamme …
In metropolitana faceva
anche un'altra cosa: osservava le scarpe delle persone che aveva
davanti. Si capivano tante cose dalle scarpe: se il vecchio
impomatato dritto sul sedile fosse schifosamente ricco di famiglia o
un parvenue, se Susie dovesse andare a scuola e Dave a
giocare a calcio, se la signora col
cappello fosse una turista o se il tizio imbronciato si
recasse al lavoro. E poi non poteva certo guardare la gente in faccia
senza che qualcuno si infastidisse: lei quindi guardava i piedi.
A quell'ora serale di un
piovoso e grigio Mercoledì il vagone era quasi vuoto, esclusa lei ed
un ragazzo seduto di fronte. Solo in quel momento si accorse che lui
la stava fissando. Distolse immediatamente lo sguardo e ringraziò
mentalmente la natura per averle dato il dono di non arrossire mai
quando era imbarazzata. Avrebbe preferito senz'altro avere un dono
più utile, ma bisognava accontentarsi.
In quel momento ricordò
che non era certo il tipo di ragazza che gli esponenti dell'altro
sesso fissavano spesso per strada: anonima, altezza media, piuttosto
magra e indiscutibilmente sciatta. A conferma dei suoi dubbi, sul
viso del ragazzo si allargò un sorrisetto. E non era un sorriso di
ammirazione, piuttosto quello di chi sia sul punto di scoppiare in
una fragorosa risata ma non possa assolutamente farlo.
Ok, appurato che non era
il tipo a cui gli uomini non toglievano gli occhi di dosso, non
era nemmeno il tipo da suscitare l'altrui ilarità semplicemente
trasformando l'ossigeno in anidride carbonica.... Fissò per un
istante il ragazzo chiedendosi se fosse impazzito e poi l'assalì
l'atroce sospetto di essersi messa a parlare ad alta voce. Da sola. In effetti
quando preparava un esame le era capitato spesso di ripetere a se stessa,
persino per strada.
In definitiva quindi
probabilmente la pazza era lei.
Abbassò di nuovo gli
occhi e ripose nello zaino tutto ciò che aveva disseminato sul
sedile di fianco cercando di non schiacciare e distruggere nulla.
Prese mentalmente nota di leggere solo il giornale sulla metro da
quel momento in avanti: era più sicuro, e poi lo distribuivano gratis.
Si alzò in piedi e all'apertura delle porte scese finalmente alla
sua fermata: era mostruosamente in ritardo e le sue coinquiline
l'avrebbero a breve data per dispersa facendo mille raccapriccianti
supposizioni su maniaci, stupratori e killer seriali che l'avevano
certamente rapita. Si avviò rapidamente alle scale per l'uscita insieme allo sparuto gruppo di persone che aveva preso,
come lei, l'ultima corsa della giornata. Era quasi giunta alla meta
quando uno specchio di quelli sporchi e vecchi che si trovano ogni
tanto nelle stazioni, le restituì il suo riflesso.
Oh cazzo!!!
La sua faccia era blù!!!
Beh, non proprio Tutta
blù ma blù quanto bastava per far ridere il ragazzo di prima.
Si precipitò
immediatamente in bagno.
***
Una lunga linea di colore
le scendeva dall'occhio destro al mento e varie macchie rendevano la
guancia a pois, un segno più scuro faceva bella mostra di sé sulla
fronte, e a completare l'opera c'era anche una macchia un po' sbiadita
sul naso.
Fantastico.
Se per
fantastico si intendeva assomigliare vagamente ad un'opera di Mirò.
Osservò i polpastrelli
della mano destra. La penna li aveva macchiati e lei non avava fatto
altro che toccarsi la faccia, esattamente come alle elementari.
Ok, come all'asilo.
Aprì il rubinetto e
prese a sfregare con forza il viso, ma senza sapone le chances di
liberarsi del blù in breve tempo erano ridotte al minimo. In
compensò però tutto quello sfregare le stava lasciando delle
graziose macchie rosse.
In effetti lei
preferiva Kandinskij...
Dopo un quarto d'ora di
estenuanti fatiche, i polpastrelli ghiacciati (quei
bagni non avevano mai conosciuto gli erogatori di sapone figurarsi la mitica
acqua calda) e aver irrimediabilmente perso, nell'ordine, la sensibilità
tattile, dolorifica e termica del viso, senza peraltro raggiungere un
risultato quantomeno soddisfacente, si arrese all'evidenza dei fatti:
disfatta totale.
Con qualche alone di
colore dubbio ad effimero monito dell' impresa aprì la porta del
bagno e s'incamminò finalmente verso i gradini che la separavano dall'esterno.
***
La stazione era ormai
vuota e poteva sentire il rumore cadenzato dei piedi contro le
piastrelle. Le metteva tristezza.
Ritardo per ritardo decise di prendersela comoda, tanto
ormai dovevano aver già cenato da un pezzo a casa, e decise di
riesumare il lettore mp3 dalla tasca anteriore dello zaino. Era lì,
sotto strati di ciarpame di dubbia provenienza accumulato dalla notte
dei tempi in quello zaino.
Wow.Tutto in perfetto accordo con il secondo
principio della termodinamica: l' entropia tende a salire nel
tempo.
Infilò le cuffie a
stanca trascinò i piedi verso quei gradini, sempre, maledettamente,
più lontani.
La musica nelle orecchie
ad allontanare il mondo, il ritmo a scacciare ogni pensiero e il suono a coprire ogni posibile rumore .
Di colpo, da dietro una colonna, ad un passo dal suo viso, un'ombra
scura. Una figura incappucciata, e poi un ragazzo che si lanciava
contro questa e lo scintillante riflesso di una lama.
Un attimo.
E al di là di ogni
logica ,
di ogni pensiero
razionale,
dell'istinto di
autoconservazione
la ragazza protese una
mano e sfiorò il braccio del ragazzo.
Ebbe solo il tempo di
registrare che quello che toccava non era della consistenza che si
sarebbe aspettata. Poi una sensazione dolorosa le fece sentire tutti
i muscoli contrarsi e bruscamente venire tesi come se qualcuno stesse
allungando con forza il suo corpo.
In quel passaggio
grigio e freddo, quasi davanti ai gradini dell'uscita, non c'era più
nessuno.
MC
per la cronaca :
-gli oppioidi sono una
classe di farmaci analgesici-stupefacenti. Di questa classe di
farmaci fanno parte ad esempio il metadone e la morfina.
-avevo messo un'immagine
con un famoso quadro di Kandinskij...ma
non sono riuscita ad inserirla
...sono assolutamente tecnolesa!!!
-il
titolo è una canzone dei dream evil...io in verità non li conosco
ad eccezione di questa canzone...sono bravi???
Lo stile che uso
in questo cap. rispecchia il carattere del personaggio che qui
introduco. La protagonista ( i protagonisti sono due ) ha un
carattere particolare e tende a perdersi molto nei propri pensieri...
è la mia prima
fic...chiedo clemenza...
|
Ritorna all'indice
Capitolo 2 *** cap 2 parte 1 Meet me on the equinox ***
cap 2 def
Parte prima
Il viaggio
Cap. 2 parte 1
Meet me on the equinox
Uno strano essere giaceva ai
piedi di un giovane frassino frondoso.
Un indistinto ed informe
groviglio di gambe e braccia. Tanti, troppi capelli. E oggetti disparati, tutti
ammonticchiati uno sopra l'altro. Uno zaino, un mantello e probabilmente un
cloche ma talmente schiacciato che sarebbe stato difficile chiamarlo cappello da
quel momento in poi. Poco più in là un lettore mp3 rosso fiammante.
La ragazza era caduta
accartocciandosi su se stessa come fosse stata una foglia secca in fiamme. La
fitta che aveva avvertito sulla nuca le aveva fatto pensare di precipitare nel
vuoto ed il brivido che aveva sentito nelle gambe ne era stato la conferma. Ciò
che si prova quando la terra manca sotto i piedi.
Eppure non aveva sollevato le
suole delle scarpe neppure per un secondo.
Il collo e la schiena le facevano
male come se avesse fatto un salto da qualche metro di altezza. Un piccolo
gemito le sfuggì dalle labbra e provò a muoversi.
Sotto le dita sentì le terra
umida e fresca. E sotto la pancia e parte delle gambe sentì qualcosa che non
avrebbe dovuto esserci. O meglio qualcuno.
Erano talmente vicini che l’odore
dello sconosciuto le riempiva le narici.
Forte, intenso penetrante.
Sudore e qualcosa di indistinto, di erba ma non solo...qualcosa che non
riconobbe...ma sapeva di buono.
Il ragazzo si mosse leggermente e
sbatté le palpebre un paio di volte. Poi aprì gli occhi.
Occhi marroni, leali e
coraggiosi. Occhi caldi, si specchiarono in occhi verdi, grandi e belli. Occhi
freddi, incorniciati da un lievissimo accenno di mascara.
La ragazza rimase immobile e
smise persino di respirare. Il ragazzo sotto di lei mosse leggermente una gamba,
e poi la mano intrappolata fra il mantello e lo zaino. La liberò da ogni
costrizione e la lascò libera di cadere. Sfortuna volle proprio sopra una natica
fasciata di jeans.
A quel contatto la bruna si alzò
in piedi di scatto, così velocemente che la testa le girò e le tempie pulsarono
mentra un gridolino acuto ed impaurito le scappò dalle labbra. Quello che
sarebbe sicuramente diventato un autentico grido di terrore puro se un ruggito
non avesse immediatamente fatto eco al suo, a paragone, squittio: nell'alzarsi
aveva premuto col ginocchio esattamente sull’inguine del ragazzo sotto di
lei.
Quello era un grido di
dolore.
Lei in piedi, dritta come un
fuso. Lui a terra scomposto, con una mano ancora sull’addome dolorante. A pochi
passi una spada, fra i ciuffi radi di erba secca. I due si scrutarono con
sospetto. Immobili.
Due animali diffidenti, che
sanno perfettamente che il primo che distoglierà la sguardo lo farà per
debolezza. E lo farà per attaccare.
Una sola arma per due
contendenti.
Due soldati soli sul campo di
battaglia, entrambi con la consapevolezza di non aver motivo alcuno per ferirsi
o combattersi, ma con i sensi all’erta. Con la consapevolezza che chi non
attacca per primo rischia di soccombere. Con l'assoluta certezza che in guerra
non c’è spazio per la cavalleria.
Il gracchiare lontano di un
uccello selvatico.
Scattarono insieme verso la
spada, verso la voglia che tiene attaccati alla vita.
***
Forse la lama era più vicina a
lei, forse era stata più pronta, o forse solo più spaventata. La ragazza la
afferrò con entrambe le mani.
Mani non pronte a ferire. Mani
che non avevano mai offeso. Dita sottili e piccoli polpastrelli blu abbarbicati
all’elsa di una spada troppo pesante per due braccia esili.
La proprietaria tremava, e la
lama oscillava sospesa nel vuoto. Ma la presa era ferma. A pochi centimetri
dalla gola di lui, piegato in ginocchio nello sforzo di lanciarsi ad afferrarla
per primo.
Furono di nuovo occhi negli
occhi, terra bruciata nell' erba fresca, e paura nella paura.
Ma due paure diverse, paura di
uccidere e di essere uccisi.
Lei sentiva che un senso non
c'era, ma sapeva che esitare avrebbe potuto essere fatale. Non aveva memoria di
guerre o di violenze, ma era l’istinto a guidarla. Era il suo essere nata
umana.
E poi qualcosa in lei le ricordò
che l'uomo non è solo carne e che non era pronta a vedere gli occhi di un
qualcuno che muore.
Di un uomo che
muore.
Indietreggiò di qualche passo, ma
la lama rimase alta e la presa serrata.
Lui trattenne il fiato, e poi
riuscì a controllare la sua paura. Rimase fermo, ginocchia a terra e lentamente
sollevò le mani verso l' alto, i palmi aperti.
-Non voglio farti nulla.- disse
con voce chiara, che suonò ferma alle sue orecchie.
Lei lo scrutò da sotto le lunghe
ciglia.
-Hai una spada, quali che siano
le tue intenzioni, parla questa per te. È fatta per uccidere. -. Osservò
dura.
-È fatta per difendere!!!- la
interruppe lui brusco -E nessuno va in giro senza nel bosco di Khwott!!!-
Lei sembrò soppesare quell’
affermazione attentamente
-...da chi ti difendevi prima?-
-Io….io non lo so. È stato
lui ad attaccarmi!!!-
-Ed io come faccio a
crederci? E poi dov’è finito… qui ci siamo solo noi due…-
-Non so dove sia, ma se fosse
qui lo sapremmo . A quest’ora non credo sarei vivo a giudicare dalle sue
intenzioni. E comunque non ho nulla per dimostrare quel che dico, ma è la
verità!!!-
Il ragazzo aveva cercato di
parlare atteggiandosi a coraggioso, ma la voce gli tremava appena. Non era
abituato a contemplare l’ipotesi della propria morte, e nemmeno a pensare che
qualcuno potesse desiderarla.
-In ogni caso che ci fai tu qui
in mezzo ad un bosco da solo e con una spada?-
Lui finalmente smise di
fissarla negli occhi come aveva continuato a fare per tutto il tempo e con
un’occhiata ironica la scrutò da sotto in su.
-Che diavolo ci fai TU qui -
rispose lui.
In effetti questa domanda
era decisamente più sensata, ma lei non rispose. Del resto non avrebbe saputo
proprio cosa dire.
-Alzati avanti. - gli disse - Ma
non pensare che mi fidi di te .-.
-Come ti pare. -
Il ragazzo si tirò su e a grandi
passi marciò verso una roccia poco distante. A terra, in mezzo alle felci
c’erano alcuno oggetti ed una sacca colorata.
-Fermati! Che fai?-
-Beh prendo la mia roba, mi
sembra ovvio...-.
-Che c’è lì dentro?-
-Nessun' arma, non preoccuparti.
L’unica che ho fatto in tempo a prendere ce l’hai tu. E non sai nemmeno usarla.
Accidenti a te, se qualcosa ci attaccasse saremmo spacciati!-.
Se. Qualcosa. Ci. Attaccasse.
Saremmo. Spacciati.
Qualcosa.
Qualcosa... tipo cosa???
Meglio non saperlo...
Peccato che lei abbracciava
la filosofia del Sempre Meglio Sapere TUTTO...
- Cosa potrebbe attaccarci?-
Consolante
accorgersi di non essere padrona della nobile arte di fingere ostentato
distacco…
-Ma che ne so!!! …Un animale,
briganti, o peggio. Oh e dimenticavo: qualcuno tipo quello di poco fa!-.
-Va bene va bene, ho capito. Mi
hai terrorizzata abbastanza, grazie.-.
- Quindi mi restituirai la
spada?- Il ragazzo sembrava galvanizzato da quella prospettiva, o dalla propria
presunta abilità oratoria.
-Non ci penso nemmeno.-. Lei era
fredda ed aveva in faccia un ghigno malefico.
-Bene, ricordatelo quando ci
attaccano!!!-
- Magari se ci attaccano se la
prenderanno prima con te, sai io ho una spada…- gli sorrise malefica.
- Ma se non sai nemmeno come si
impugna…e poi non riesci nemmeno a reggerla!!!- sbottò lui, infastidito. Mentre
parlava si era chinato a sollevare la sacca e se l'era caricata in spalla. Si
portò una mano su una tempia e parve fermarsi a riflettere sulla situazione .
Trasse alla fine un lungo sospiro:
-Senti tregua, ok? Non voglio
restare fermo qui, potrebbe essere pericoloso. Non è molto intelligente visto
che poco fa è qui che mi hanno attaccato. Non mi sembri tanto stupida da non
arrivarci pure tu. Andiamocene. -.
Le annuì. La prospettiva di
schiodarsi da in mezzo ad un bosco era allettante, ma sarebbe stata più felice
di sapere con certezza dove diavolo andare...
-Allora io sto andando a Ovest.
Tu dove vai? Non è per farmi i fatti tuoi ma se non andiamo dalla stessa parte
gradirei la mia spada indietro, sai ci tengo.-.
- Ancora con questa storia???
Senti non te la ridò, mi sembra chiaro e poi…-
-Oh smettila di rompere, se
avessi voluto me la sarei già ripresa. Sei alta come il cespuglio di more che
hai affianco e probabilmente pesi la metà. Avrai pure una spada, ma guardati,
hai poggiato la punta a terra perché non riesci a tenerla sollevata, non fai
tanta paura sai?-.
Lei abbassò gli occhi.
Lui pensò che se voleva essere
convincente insultarla non era una strategia vincente.
- Lo so che hai paura, che non
ti fidi di me, ma ti giuro che non voglio assolutamente farti del male: non ti
ho mai vista prima e non ho nessun motivo di attaccarti. Non ho mai ucciso
nessuno e non comincerò adesso.- la sua voce si era fatta più dolce -Anche se in
effetti sei piuttosto seccante...sarebbe una liberazione!- aggiunse con un
sorriso - Allora, tregua?-.
Lei annuì di nuovo.
Si avvicinò a lui di due,
tre, quattro passi. Percorse esattamente metà della distanza che li separava.,
ma non gli porse la spada. La lasciò cadere a terra e poi si fece di nuovo
indietro. Lui la raccolse e la ripose nel fodero che aveva legato alla cintura.
Mentre faceva tutto questo lei si prese tempo per osservarlo meglio.
Quel ragazzo doveva avere un paio
d'anni meno di lei, forse anche di più. Non era bello. Nemmeno brutto però.
Normale. Combaciava perfettamente con l'idea che si era costruita a sette anni
di Mowgli del libro della Giungla.
Selvatico.
Pelle olivastra e capelli fino
alle spalle liberi e scompigliati. Occhi attenti e vivaci. Occhi buoni. Un
piccolo nastro rosso intorno alla fronte.
Silvestre.
Gli tese la destra e
semplicemente disse :- Lizzie.-.
Lui la guardò perplesso.
Evidentemente il gesto gli risultava estraneo, ma non si scompose. Tese la mano
anche lui e mentre si apriva in un luminoso sorriso disse:
-Matheus Choonr van Sabriinskji
di Imblee.-.
Erano vagamente ridicoli entrambi
con le braccia alzate e le mani sospese a mezz'aria ed in un'altra situazione
lei avrebbe riso, ma non in quel momento, con quel nome impronunciabile e
ridicolmente lungo sospeso fra loro. Eliza non poteva che apprezzare la
semplicità ed il gesto del ragazzo che aveva frainteso il modo in cui lei soleva
presentarsi ma si era sforzato di cancellare ogni possibile distanza fra loro.
Sorrise impercettibilmente e disse seria:
- Piacere.-.
Il sorriso sul
volto di lui si allargò :- Piacere-.
***
Ciao a tutti!!! Allora iniziamo con qlc che non
c'entra nulla con la storia, se non vi interessa passate
oltre…
In origine volevo pubblicare il capitolo per
intero, anche perché l’ho scritto tutto, però è veramente un PARTO
scrivere 20 pagine! Essendo la mia prima fic non ho
realizzato quanto fosse macchinoso correggere il tutto per cui non
ho potuto rispettare i tempi che avevo fissato. Ho deciso quindi di
aggiornare più spesso ma di dividere i capitoli in due
pezzi nel caso siano lunghi.
le note e le precisazioni sul
questo chap sono in fondo al prossimo capitolo!!! cioè sono in fondo alla
seconda parte di questo!!!
Qlc allegra caz--*--ta in
libertà...
Dunque la mia storia si chiama opium per
tanti motivi e qlc ve lo dico.
Innanzitutto l'oppio è una droga, come immagino
sappiate, e permette di avere delle visioni, di fare dei “viaggi”. Adesso è meno
diffuso fumare e masticare oppio rispetto al passato ma ci sono state due guerre
nell'ottocento, note appunto come guerre dell'oppio, tra Impero Cinese e Gran
Bretagna per i profitti legati al suo commercio. Dall'oppio inoltre si ricavano
degli analgesici importanti come la morfina, ed altri farmaci come il metadone
impiegato contro le crisi di astinenza da eroina. Anche l'eroina si ricava
dall'oppio: chimicamente parlando l'eroina è diacetilmorfina. Opium è anche il
nome di un famoso profumo...che in realtà a me non piace affatto (è fortissimo e
troppo dolce) ma mia madre lo adora : è indiscutibilmente il suo preferito.
Questo però non c'entra nulla con il mio titolo.
Suppongo che dopo questo sproloquio ne sappiate
quanto prima sul titolo, ma per ora accontentatevi, prima o poi vi spiegherò
tutto. Nel frattempo si accettano scommesse.
Ah, si accettano scommesse anche su cosa faccia la
protagonista nella vita...cosa che scoprirete tra qlc cap poichè importante ai
fini della storia!!!
|
Ritorna all'indice
Capitolo 3 *** cap. 2 pt 2 Meet me on the equinox ***
cap 2 parte 2 di tre
Cap.
2 parte 2
Meet
me on the equinox
Hobbit
Okokok…cerchiamo
di stare calmi...
villaggio
degli hobbit.
Villaggio.
Degli. Hobbit.
Hobbit.
HOBBIT
!!!
...panico...
Cervello
pensa, pensa cervello…che diavolo sono…hobbit!
Aveva
capito male. Sicuramente.
Doveva
aver capito male…
No.
QuelloLì aveva proprio detto, con l’aria più angelica del mondo “
Senti, si vede che non sai dove andare…” e dopo essersi
grattato la testa, che a questo punto (era pronta a scommetterci)
doveva essere vuota, aveva aggiunto“vieni con me.”.
Vieni
con me…
La
vera sorpresa in ogni caso non era stata ricevere una proposta del
genere dal primo sconosciuto che passa…
Oh
no…
Era
stata sentire la SUA voce, emancipatasi ormai dal controllo
corticale, rispondere “sì”.
Era
stato poco più di un soffio, ma LEI lo aveva detto. Proprio lei…
E
lui serafico, sacco in spalla, aveva girato i tacchi e chiuso la
conversazione con un
“Bene,
si va al villaggio degli hobbit”.
E
da qui a seguire la Paranoia Pura…
Hobbit.
Mentre
cercava di ricordarsi cosa fossero di preciso, e sopratutto di
ripescare nei meandri della memoria esattamente quante zampe
avessero, e se fossero eventualmente pelose, si costrinse a rivolgere
un debole sorriso a QuelloLì che nel frattempo si era girato a
controllare che lei lo stesse seguendo. Molto probabilmente era
riuscita solo ad ottenere dai suoi già provati muscoli mimici una
smorfia di agonia.
M.
C. van S. di Imblee, da qual momento in poi Più che Pericoloso
van Amante dei Pericolosi -vai a sapere cosa sono- hobbit, la
fissò vagamente perplesso e con l’educazione che, iniziava a
crederlo sinceramente, fosse una sua qualità spiccata, aggiunse :
-
Non preoccuparti, è a un paio d’ore di cammino da qui. Coraggio
andiamo, fra poco dovremmo avere un tetto sulla testa.- .
E
detto fatto il suo ex paio di floreali ballerine bianche e viola era
passato a miglior vita, a far compagnia al suo, ormai ex, compianto
cappello. Un piede dietro l’altro si erano messi in viaggio, Eliza
e Nome Impronunciabile van Qualcosa, da allora e per sempre: Van e
basta!
Quella
era l’unica parte del nome che sarebbe mai riuscita a ricordare e
non poteva pretendere di più dai suoi nervi a pezzi. Probabilmente
era come chiamare Ludwig van Beethoven solo Van, Ronald Mc Donald
solo Mc o Mario Di Renzo solo Di…
Se
lui era così tranquillo non dovevano essere poi tanto
pericolosi…no?
***
Avevano
fatto la strada in silenzio, ognuno perso nei propri pensieri, ed era
stato piacevole. Non era stato un silenzio carico di imbarazzo il
loro, ma quello di due vecchie conoscenze a proprio agio anche nel
più completo mutismo. La presenza di Van era stata un conforto, e
lui non l’aveva messa a disagio nemmeno quando lei gli si era
buttata addosso incespicando su un sasso. Si era limitato a
stringerla con un braccio per rimetterla in piedi.
Di
tanto in tanto le aveva chiesto se fosse stanca o volesse fermarsi.
Lei aveva detto di no ed aveva stoicamente sopportato il male ai
piedi dovuto alle calzature poco appropriate.
Van
non aveva cercato di fare conversazione e lei gliene era grata. Una
vocina, nella sua testa, continuava insistente a protestare per farle
imbastire almeno due frasi in croce con quel ragazzo per scoprire
qualcosa di più su quello strano posto nuovo ma era stata bellamente
ignorata. Aveva vinto il bisogno di allontanare il cervello pur di
non soffrire e non aver paura, così lei era rimasta ostinatamente
zitta. Scelta saggia: l’unica cosa a cui non poteva cedere in quel
momento era proprio la paura. Non poteva permetterselo o le gambe non
si sarebbero più mosse e lei sarebbe rimasta inchiodata lì, in
mezzo ad un bosco in preda ad un attacco di panico.
Eliza non sapendo che fare aveva brillantemente deciso di staccare il
cervello.
Grande
Aveva svuotato la mente per
evitare di chiedersi dove diavolo fosse finita e per quale assurdo
motivo si fosse messa a seguire un perfetto estraneo. Aveva anche
messo a tacere quel piccolo senso di colpa che sentiva verso quel
ragazzo, in fondo gentile, e verso quel suo sorriso sincero per non
avergli detto assolutamente nulla di sé.
Fedele
al proposito di non pensare troppo, o meglio di non pensare affatto,
la ragazza aveva provato a guardarsi intorno per distrarsi con il
paesaggio. Aveva funzionato: quel bosco non aveva nulla di troppo
strano o sinistro. Niente animali in vista, niente fiori dai colori
squillanti…solo felci, tantissime felci, e alberi a foglie caduche
di mille colori, come fosse stato autunno inoltrato, sebbene dal
clima non lo avrebbe mai detto. Riflettendoci bene era questo l'
unico particolare inquietante attorno a sé... rispetto a quel che
avrebbe potuto vedere o avrebbe potuto accaderle, non era poi molto
in quietante.
Somigliava
in tutto e per tutto ai boschi che aveva visto mille volte da bambina
durante i campeggi coi boy scout.
***
Dopo
esattamente quattro ore e mezza, Van la riscosse dallo stato di
torpore catatonico in cui era sprofondata con due parole:
-Siamo
arrivati. -.
Dopo
qualche attimo aggiunse
-
E' un posto tranquillo, non preoccuparti.-.
Lei
non vide nulla, ma attese paziente, fidandosi del suo compagno di
viaggio che, chissà come,
stava iniziando ad apprezzare.
Dopo
qualche metro infatti i due ragazzi iniziarono a scorgere il profilo
di bassi tetti aguzzi, fitti di comignoli e poi piccole case modeste
ma graziose aggettanti su strette strade tortuose. L’architettura
era semplice e non si poteva certo definire elegante, ma comunque
piacevole quanto basta, sebbene disordinata. Sembrava che il paese
fosse cresciuto troppo in fretta sulle fondamenta di un villaggio
destinato ad accogliere un numero di persone decisamente esiguo.
Si
vedeva la fretta nel costruire, nell’assicurarsi un tetto, che
dovevano aver avuto gli abitanti, dalla totale mancanza di un
qualsiasi criterio urbanistico, dalle case che sembravano essere
spuntate come funghi da un giorno all’altro, e non erano nemmeno
troppo dritte e simmetriche, non rispettavano alcun canone estetico
di forma e colore e molte non erano nemmeno mai state dipinte.
In
molti però non dovevano aver rinunciato al gusto del bello
arricchendo ognuno la propria modesta abitazione di qualche elemento
che conferisse delicatezza e desse un tocco di gusto e calore a
quelle case altrimenti troppo simili fra loro ed impersonali. C’era
chi aveva appeso tende colorate alla finestre, chi aveva decorato i
tetti con buffe e piccole sagome, e la maggioranza delle costruzioni
erano colorate da innumerevoli fiori e piante rampicanti che
colmavano i vasi alle finestre testimoniando l’amore per la
natura che sicuramente doveva avere un popolo che sceglieva di vivere
in mezzo alla montagna come questo.
Lizzie
si chiese perché mai si stesse perdendo in elucubrazioni tanto
inutili dimenticando il dettaglio più eclatante
degli hobbit, di sicuro secondario rispetto all' urbanistica.
Il
loro aspetto.
Nessuno
degli hobbit la degnava di particolare attenzione, al massimo di
qualche occhiata in tralice furtiva e veloce, magari infastidita dal
suo insistente fissarli, magari molto infastidita dal suo
considerarli tanto interessanti, ma sembravano tutti presi da una
grande fretta e correvano avanti e indietro in quel confuso villaggio
come presi da un’indicibile urgenza,
carichi di sporte gonfie, carrelli e piccole carriole,
muovendosi veloci sulle loro corte gambette. Se quegli ometti fossero
stati delle dimensioni standard cui era abituata, probabilmente una
tale folla l’avrebbe messa a disagio, come in uno di quegli enormi
centri commerciali in tempo di saldi, tutto quel movimento le avrebbe
dato mal di testa probabilmente, ma gli hobbit erano incredibilmente
bassi, ed incredibilmente presi dai loro affari e rumorosi al punto
da far venire più che altro il mal di mare. E anche un danno
permanente all'udito viste le urla che si lanciavano l'un l'altro in
una lingua aspra e gutturale a lei sconosciuta.
Gli
hobbit erano sicuramente degli Hobbit, se è il nome delle cose a
renderle tali, ma senza inutili eufemismi gli hobbit erano definibili
con un’unica e semplice parola, più vera ma meno ipocrita.
Nani.
Nessuno
di loro raggiungeva la sua spalla e alcuni nemmeno la vita di Van.
Il
suo compagno, che esibiva un'aria di ostentata indifferenza, ma
quell'aria rilassata posticcia e fasulla non avrebbe convinto nemmeno
un bambino, si muoveva rapido svettando tra la folla. Lei faticava a
stargli dietro senza farsi travolgere e senza urtare qualcuno e
mandarlo gambe all'aria con effetto birillo. Muoveva la testa a
periscopio a destra e sinistra per non finire sottiletta sotto
qualche carrello imbizzarrito (e dotato di vita propria visto che
gli hobbit dietro la montagna di pacchetti non si vedevano) e quando
Van si arrestò all'improvviso sbattè il naso contro la sua schiena.
Lui puntò deciso verso una casa un po' decentrata rispetto al paese
ed in poche spedite falcate raggiunse una pesante porta marrone.
Suonò il battente, di cui Lizzie non riconobbe la forma, e attese
qualche secondo. In un cigolio di cardini e legno vecchio la porta si
aprì e ne emerse un piccolo hobbit rubicondo dall'aria serafica che,
dopo aver sbattuto un paio di volte le palpebre si lanciò addosso a
Van praticamente appendendosi al suo collo e tirandolo giù in un
abbraccio stritolatore. Quando il ragazzo riuscì di nuovo a
respirare si rivolse a Eliza e glielo presentò:
-
Questo è Uthar. -.
***
Uthar
era piccolo e tarchiatello, con il naso a patata e la pelle bruciata
dal sole. Era quasi pelato in cima alla testa, con l'eccezione di un
ciuffetto spettinato in mezzo alla fronte che gli ricadeva fra gli
occhietti vispi. Riccioli bianchi e ribelli gli incorniciavano la
base del collo e il viso in una barba soffice che contro la forza di
gravità restava dritta intorno al mento.
L'hobbit le aveva rivolto uno sguardo veloce e amichevole aprendosi
in un sorriso che mostrava le fossette sulle guance paffute e poi li
aveva condotti al secondo piano della casa farfugliando qualcosa a
Van per poi mollarli in una cameretta spoglia e catapultarsi al piano
inferiore.
Quando
furono di nuovo soli Lizzie riesumò un po' di educazione e un
po' di voce.
-Hey,
come mai lo conosci?- chiese.
-Beh…
lui non è come gli altri. -
Lei
inarcò le sopracciglia con fare interrogativo.
-Beh
sì,.. non certo per l’aspetto. A lui piace viaggiare, è stato
anche fuori di qui.- aggiunse come se questo dovesse illuminarla.
-
Agli hobbit non piace viaggiare? Intendi a tutti gli altri?-
-
Beh non lo so, però non credo. E poi anche se gli piacesse…-sembrava
vagamente sulle spine.
-
Non riesco a seguirti.- ammise lei candidamente.
-Beh….-
era a disagio, ora lo si capiva perfettamente - Comunque lui si
esibiva a casa mia. Per questo lo conosco. È un bravo hobbit
te lo assicuro. Non preoccuparti.- La voce era più ferma, non
ammetteva repliche su questo punto.
-
Ok ci credo, ma continuo a non capire. -.
-
Oh, lasciamo perdere.- sbuffò lui - Per oggi possiamo stare da lui.
Devo discutere con Uthar di alcune cose. Ok?-
-Va
bene. -.
-
Allora io lo raggiungo, tu puoi sistemarti. Non so…lavati,
cambiati. Prima mi ha detto che ci dovrebbero essere dei vestiti per
te…puoi prenderli. A me non entrano, ma forse a te con qualche
ritocco…poi boh, fatti un giro. E’ un posto tranquillo, fidati,
ci sono già stato una volta.-.
-
Ci credo che è un posto tranquillo, puoi smettere di ripeterlo. Non
ho paura, ma se continui a dirmelo inizierò a preoccuparmi.- Osservò
lei, ma non sembrava per nulla spaventata.
-
Sei strana tu- disse lui dopo qualche attimo di silenzio. E scese la
scale.
La
ragazza si lavò velocemente nel minuscolo bagno, e indossò i
vestiti che le aveva indicato Van poco prima.
Le
andava tutto un po’ largo e corto, ma nel complesso
l’immagine che le rifletteva lo specchio era accettabile, e poi non
aveva mai fatto troppo caso all’abbigliamento. La sua filosofia di
vita era più o meno simile a quella delle sue coinquiline circa le
pulizie: una vita passata a preoccuparsene troppo non era degna
di essere vissuta. Il diretto corollario era la regola non scritta di
lavare a terra e nascondere TUTTO il casino nell’armadio in caso di
visita di esponenti di sesso maschile FIGHI , perché l’uomo della
tua vita potrebbe sempre essere dietro l’angolo: estote parati!!!
Di
principe azzurro al momento nemmeno l’ombra, per cui…se non altro
era pulita e se non profumata, almeno non aveva più l’odore del
bosco e della sfacchinata addosso e il maledetto inchiostro sulle
dita.
Scese
le scale con l'intento di andare in strada, decisa a guardarsi
intorno mentre era ancora giorno. L’amico di Van e il ragazzo
erano immersi un una fitta conversazione in cucina, ma lei riuscì a
coglierne solo le ultime parole:
-Non
puoi farlo da solo, accidenti a te…ti dico che sono fidati…-
Poi
l’ hobbit si interruppe e le rivolse un piccolo sorriso timido e
sdentato
-Salve
miss. Sono felice che i vestiti le stiano bene Miss.-
Aveva
un buffo accento e sibilava tutte le S.
-
Grazie…sono comodi. È stato molto gentile a prestarmeli. -
-
Dammi pure del tu Miss. -
-
Perfetto. Ma chiamami Lizzie, per favore. -
-
Perfetto Miss.-
Va
beh, non si può avere tutto della vita.
-
Gradisci qualcosa da mangiare Miss??? Ho anche fatto un po’ di tè.
-.
-
Grazie. - Con la coda dell’occhio vide Van abbozzare un sorriso e
allungarle un vassoio con del pane imburrato e della marmellata. Si
sedette anche lei sulla lunga panca accanto al tavolo. Dopo
aver trangugiato velocemente tutto quello che Uthar le ficcava
solerte in mano (sospettava che se fosse dipeso da lui le avrebbe
ficcato direttamente tutto in bocca in un eccesso di
gentilezza), ringraziò senza troppi salamelecchi e rendendosi conto
di aver interrotto una conversazione importante e privata si affrettò
ad uscire.
***
Il
capitolo non è ancora finito, manca la terza parte...e pensare che
l'ho già scritto TUTTO da un bel po'.!!! non credevo che correggerlo
fosse così arduo...la mia sincera e totale ammirazione a chi
pubblica rispettando le scadenze!!!
Le
note come accennato sono alla fine...però non posso tralasciare una
piccola precisazione...
-
Il
termine hobbit non è assolutamente mio ma appartiene a Tolkien.
Confesso di non aver mai letto i suoi libri e di non aver mai
visto i film che ne sono stati tratti con l’eccezione di un
piccolo pezzo del signore degli anelli-la compagnia dell’anello,
primo film. Non l’ho fatto non perché non mi piaccia questo
autore, semplicemente perché non se ne è mai presentata
l’occasione. Ho preso in prestito la parola hobbit perché mi
sembra che sia ormai entrata a far parte dell’universo fantasy
insieme alle parole “folletto” o “elfo”, questo senza
ovviamente voler togliere nulla al merito di chi l’ha ideata.
(stando a wikipedia la parola l’ha inventata proprio questo
autore).
|
Ritorna all'indice
Capitolo 4 *** cap 2 parte 3 Meet me on the equinox ***
2 def fine
Cap. 2 parte 3
Meet me on the equinox
Fuori
era piuttosto caldo ed umido.
La
casa di Uthar era un po’ scostata da quella grossa creatura
brulicante di vita che era il villaggio degli hobbit. O come apprese
da un cartello “¡¡¡¡qweerrttcndj “.
Bel
nome, indubbiamente.
Si
incamminò lungo il sentiero e si mise a curiosare in giro. Gli
hobbit non sembravano fare troppo caso a lei, prendevano atto della
sua presenza con un' occhiata veloce e
continuavano solerti le proprie occupazioni. Provò ad
avvicinarsi ad un piccolo venditore ambulante di pentolame, che stava
in piedi su una cesta dietro il proprio banco, ma questi la fissò
con talmente tanto astio che decise di proseguire oltre. Non ebbe
maggior fortuna: la donnina a cui aveva fatto in tempo a malapena a
mormorare un “mi scusi” aveva cacciato un piccolo strillo
spaventato (o indignato...difficile a dirsi) e aveva girato i tacchi.
La
voglia di conversare con qualcuno le era completamente passata, per
cui si mise a ciondolare per il villaggio e ad osservare gli hobbit.
All’inizio non aveva prestato troppa attenzione alle creature,
limitandosi a catalogarli tutti come “hobbit” e a registrarne la
principale caratteristica: la piccola taglia. Osservandoli meglio
però ci si accorgeva che avevano davvero poco in comune, escluso il
non trascurabile dettaglio dell’altezza.
Alcuni
erano molto minuti, altri erano solo una trentina di centimetri più
bassi di lei. Alcuni erano piuttosto graziosi, ma altri decisamente
repellenti, con l’attaccatura dei capelli a un centimetro
dalle sopracciglia e le orecchie basse. Qualcuno fra loro aveva dei
tratti infantili, che lo facevano assomigliare ad un bambino, ma
dall’occupazione che stava svolgendo dubitava fortemente che
l’aspetto potesse corrispondere all’età. Invece in un cortile
due piccole hobbit con le trecce giocavano con le bambole benché
avessero il viso incartapecorito come vecchiette.
Erano
di tutte le razze e i colori, alcuni scuri di pelle, altri con i
capelli rossi ed uno spruzzo di lentiggini sulla faccia. Ce n’erano
di biondi e di bruni, vestiti nelle fogge più disparate,
un’accozzaglia senza criterio di stili, particolare molto strano in
un villaggio fatto di case tutte uguali.
Molte
donne avevano il collo corto e la mascella piccola, le mani gonfie e
il petto largo e piatto, alcune poi urlavano a squarciagola per dire
qualcosa al vicino nonostante fosse a meno di una spanna di distanza,
esattamente uguali a sua nonna quando, a ottant' anni, era diventata
sorda come un campana.
In
alcuni sembrava che le braccia e le gambe avessero iniziato a
prendere il sopravvento sul corpo, a succhiargli il nutrimento e a
crescere a dismisura a discapito del tronco. Altri invece erano
perfettamente proporzionati, solo molto bassi e camminavano con
armonia. Altri ancora avevano il corpo di un adulto con braccia e
gambe piccole e corte, cristallizzate nell’età infantile, ma forti
e nerborute. Questi camminavano un po’ oscillando, veloci sulle
gambette, tranne alcuni che erano piegati in avanti come avessero un
gran mal di schiena. La testa tonda e la fronte prominente. Le dita
delle mani tutte lunghe uguali.
Alcuni
non venivano mai lasciati soli ed erano costantemente vigilati. Un
ragazzo le passò affianco, scortato sottobraccio da una donna
piuttosto alta: aveva la lingua di fuori e le labbra spesse, gli
occhi semichiusi e un po’ gonfi. Non sembrava del tutto consapevole
di cosa gli accadesse intorno
***
Aveva
camminato davvero tanto, perdendosi nella folla, facendosi trascinare
dai suoi piedi stanchi.
Non
si era fermata.
Non
aveva potuto fermarsi.
Con
i piedi riposati non avrebbe più avvertito quel fastidioso dolore
alle gambe e non avrebbe più sentito la fatica. Allora sarebbe
crollata, si sarebbe messa a pensare troppo e non voleva farlo.
Era
arrivata alla fine del villaggio, alla periferia. La strada era
deserta e uno staccato si affacciava su un piccolo orto .
Il
sudore le imperlava la fronte e le incollava gli abiti al corpo.
C’era
il sole e faceva molto caldo. Il vapore salva a spirali della terra
marrone e portava in alto l’odore della marcescenza dei cavoli
gettati malamente in pasto ai porcellini rosa li vicino.
Gli
hobbit vivevano di agricoltura e allevamento, le era sembrato, e
anche l’olfatto le confermava questa ipotesi.
Curioso
come mai di un posto uno si portasse sempre appresso i ricordi in
forma di immagini, però una cosa a cui nessuno sembrava fare mai
caso fossero gli odori. Eppure gli odori restavano comunque in
memoria, anche se in una memoria mano facilmente accessibile.
Nella
sua il villaggio degli hobbit sarebbe sempre stato accostato
all'olezzo degli animali e al profumo della campagna.
Inspirò
forte e si appoggiò allo steccato. Chiuse gli occhi
lasciando che il sole le bruciasse il viso.
Dove
sono finita? Cosa ci faccio in questo posto?
Una
piccola umbra le diede momentaneo refrigerio. A giudicare
dall’altezza non poteva essere un hobbit.
-Van?
- azzardò esitante, ancora con gli occhi chiusi.
L’eco
di una risatina le rispose e lei sbirciò da sotto le ciglia.
-
Non tornavi, sono uscito a cercati. -.
-
Grazie, è tutto apposto. -.
-
Dalla tua faccia non si direbbe. - le soffiò vicino ad un
orecchio.
Già
Guardò
Van balzare agile sullo staccato e sedere in bilico sul legno.
Il ragazzo infilò le gambe fra le assi e si fece serio:
-
Mi hai seguito oggi, senza dire niente. -. Non lo stava dicendo a
lei, sembrava più che altro dirlo a se stesso.
Lizzie
rimase in silenzio. Poi chiuse di nuovo gli occhi contro il sole. Li
chiuse anche lui. Ad occhi chiusi era più…facile.
-
Non mi hai chiesto nulla. Sei una strana ragazza
Eliza-chiamami-Lizzie .-.
-
Lo hai già detto, ma io non riesco ancora a capire perché. -.
Lui
apri gli occhi e li puntò sul suo viso.
-Nessuno
mi avrebbe seguito così di buon grado al villaggio degli hobbit. A
molti non piacciono, alcuni addirittura li temono.- prese un respiro
profondo - Tu no. Eri incerta però, questo l’ho visto. Ma ti sei
fidata. Di me.-.
-
Non darmi meriti che non ho. Ti ho seguito perché non avevo nulla da
perdere e tu lo hai capito benissimo.-
-
Vero, ma mi hai seguito lo stesso, qualcosa vorrà pur dire.-.
Questo
ragazzo la spiazzava con una semplicità disarmante. Era decisamente
una bella persona. Lo aveva visto con una spada in mano, ma non
sembrava affatto pericoloso. Era spontaneo e ...buono. Non
c’erano ombre nei suoi occhi.
Ma
non si può mai credere solo ad un paio di occhi.
-
Sai, ad ascoltarti sembra quasi che abbia senso. Comunque continua a
spiegarmi questa storia degli hobbit.-.
-
Beh, gli hobbit non hanno una bella fama e tutti li evitano. Lo avrei
fatto anche io se non avessi conosciuto Uthar. Lui non è come gli
altri. È coraggioso. O molto stupido, a seconda dei punti di vista.
-. Alla faccia interrogativa della ragazza aggiunse :- Per me è
coraggioso, ma per quelli del suo villaggio è un folle. Lo evitano,
lo hanno ostracizzato da quando ha scelto di andarsene. E forse
avevano ragione a dirgli di non partire. Il mondo non lo ha accolto
bene, sai?-.
-
Perché?-.
-
Beh a casa mia si esibiva insieme ad un gruppo di acrobati e
ballerini circensi.-.
-
Odio doverlo ripetere ma come al solito continuo a non capire.-.
La
guance di Van si erano imporporate, gli occhi si erano velati di
tristezza, ed era un sollievo che lei non potesse vederlo.
-
Lui si esibiva con loro, ma non faceva capriole. Il suo spettacolo
era mostrarsi esattamente com’è.-
La
ragazza aprì gli occhi di scatto, la faccia vuota priva di
espressione. Aspettò di leggere negli occhi di Van il senso di
quelle parole prima di assumere un’espressione indignata.
-
Cosa??? -.
Lui
non rispose.
-
Non è facile essere diversi, credo. Diventa più facile se smetti di
essere diverso, e se non puoi smettere fai
come loro, come gli hobbit. Almeno è quello che diceva il mio
maestro. -.
L’alba
della comprensione si fece strada sul volto della ragazza.
-
Intendi... lo stare tutti insieme in questo villaggio-
Non
era una domanda.
Lei
seguì il corso dei propri pensieri mentre Van cercava di carpire
dalla sua espressione i pensieri che l'agitavano.
-
Loro rifiutano Uthar perché se n'è andato? -.
-
Perché ha accettato di farsi deridere per via del suo aspetto. Uthar
non ha trovato posto nel mondo se non in un circo. Lui è nato
e cresciuto qui, poi ha voluto scoprire il mondo ed è andato via. Si
è messo contro tutti e tutto pur di andarsene. E poi si è unito ad
una compagnia di girovaghi. È così che l’ho conosciuto. Comunque
dopo due anni è tornato.-
-
Lo hanno accolto di nuovo ma non è stato più come prima vero? E'
per questo che vive un po’ fuori dal villaggio?-.
-
Già. Non pensare che io giustifichi chi adesso lo tiene a distanza,
però Uthar mi ha spiegato le loro ragioni. La maggioranza degli
hobbit non è nata qui come lui, ma ha fatto un viaggio esattamente
opposto al suo prima di arrivare. Gli hobbit nascono in un mondo che
non li accetta, che li rifiuta e che li ferisce, per questo lasciano
tutto e vengono qui. -.
La
ragazza annuì impercettibilmente.
-
A volte sono i loro stesso genitori a portarceli -.
Ci
volle qualche secondo perché lei assimilasse il significato di
quelle parole, poi si voltò di scatto.
Gli
occhi spalancati e la fronte corrucciata. Respirò più volte
fissandolo negli occhi scuri. Occhi colore di foglie dentro occhi di
terra. Poi in un sussurro pose La domanda:
-
Gli hobbit non nascono da altri hobbit? -
-
No. O almeno non nella maggioranza dei casi. -.
Poi
Van distolse lo sguardo, improvvisamente attento ai colori del
tramonto.
Anche
lei alzò gli occhi verso il sole.
-
Gli hobbit nascono da persone come me e come te? - chiese in un
sussurro.
Lui
non disse nulla, e del resto lei aveva già capito
-
Quindi sono uomini, come tutti gli altri…-
Lui
disse piano
-
Sono hobbit. -.
Lei
lo senti come se avesse urlato. Fuori rimase impassibile ma dentro si
senti prima andare a fuoco e poi gelare.
Gli
hobbit. Dei malati.
Persone affette da nanismo e per questo non più umane.
Gli
avevano anche cambiato il nome, come
fossero un'altra razza. Niente più homo sapiens sapiens? Eppure lo
erano a tutti gli effetti. Cambiandogli il nome era più facile
fingere che non lo fossero? Allontanandoli era più facile pensare
che non esistessero? La società di Van non era pronta ad accogliere
il diverso, preferiva nasconderlo ai propri stessi occhi.E
chi era diverso non era poi diverso la loro. Nessuno fra gli hobbit
aveva saputo o voluto accogliere la piccola diversità di Uthar, la
sua piccola curiosità.
Gli uomini a volte eranio davvero delle strane creature.
Allontanavano, peggio, cancellavano quel che poteva farli...soffrire?
Farli scontrare con ciò che a loro...faceva paura?
Vedere
gli hobbit tutti i giorni, vederli uomini e provare
prima...repulsione per
il loro aspetto, poi...pena per la loro condizione,
poi...altruismo e voglia di dar loro una mano, e alla fine
...fastidio. Stare con loro ad un certo punto vuol dire farsi
carico dei loro problemi, magari rallentare la propria vita per
aspettarli...
Ammettere
di essere razzisti e superficiali non piace a nessuno. Per questo il
mondo di Van aveva scelto questa strada:
allontanare
il sofferente illudensosi di cancellare così la sofferenza.
Preferivano
non vederla invece di affrontarla.
Questo
posto non è poi tanto diverso da quello da cui vengo io…
Tutte
queste parole non uscirono mai dalle sue labbra, ma lei capi che Van
condivideva i suoi pensieri, che Van non era come gli altri.
Van
era speciale.
Era
diverso anche lui, e si chiese perché Van fosse in viaggio, forse
anche lui cercava qualcuno per
cui non essere più il diverso...
Lei
sentiva che non era così: la differenza
di Van non allontanava le persone, le attraeva come miele. Van era
consolazione pura. Era come un sole che scalda. Nessuno sarebbe
mai stato tanto stupido da allontanare da sè una persona del genere.
Adesso
era davvero
curiosa di conoscerlo, ma non aprì la bocca. Si limitò ad
annuire al gesto che Van aveva fatto con la mano, ed insieme si
avviarono verso il villaggio e verso Uthar che li aspettava.
per
la cronaca:
-Agli
equinozi il sole sorge precisamente ad est e tramonta precisamente ad
ovest, ovunque.
La lunghezza del giorno eguaglia la lunghezza
della notte.
-Il
titolo del cap. è una canzone dei Death Cab for Cutie. Anche di
questo gruppo conosco solo questa canzone.
-ed
ecco a voi il nostro secondo protagonista M.C. van S. di Imblee.
-
se qlc se lo stesse chiedendo...no, non ho nulla a che spartire con
nessuno dei miei protagonisti...o almeno credo.
-
ribadisco che il termine hobbit non è assolutamente mio ma è di
Tolkien. Confesso di non aver mai letto i suoi libri e di non
aver mai visto i film che ne sono stati tratti con l’eccezione di
un piccolo pezzo del signore degli anelli-la compagnia dell’anello,
primo film. Non l’ho fatto non perché non mi piaccia questo
autore, semplicemente perché non se ne è mai presentata
l’occasione. Ho preso in prestito la parola hobbit perché mi
sembra che sia ormai entrata a far parte dell’universo fantasy
insieme alle parole “folletto” o “elfo”, questo senza
ovviamente voler togliere nulla al merito di chi l’ha ideata.
(stando a wikipedia la parola l’ha inventata proprio questo autore)
-Altra
precisazione. Non sempre il punto di vista dei personaggi corrisponde
con quello di chi scrive. Nemmeno quello dei protagonisti.
-
non ho inventato nulla circa l'aspetto dei nani, sono descrizioni
basate sulla realtà
-Importante.
Con la parola “repellente”
non intendo affatto offendere le
persone affette da alcune forme di nanismo, ma non ho voluto usare
una parola più edulcorata e più ipocrita perché, anche se è
orribile da dire, a volte l’aspetto di alcuni malati non è
esattamente piacevole, purtroppo, e può generare ad un primo sguardo
questa impressione. Sbagliata, deprecabile, ma ,tristemente, a
volte succede. In ogni caso la protagonista quando la usa non sa
ancora che quelli che ha davanti siano affetti da una patologia. Se
pensate che qualcuno possa offendersi o che sia il caso di cambiarla
fatemelo sapere.
|
Ritorna all'indice
Capitolo 5 *** cap.3 pt1 On the road again ***
cap 3 pium
Cap.
3
On
the road again
Un piccolo carro a due
ruote viaggiava a balzelloni lungo una strada di montagna. L'asino
che lo trainava procedeva pigro, sotto la sferza di un vecchio
contadino. L'incedere lento del carro, il rumore ritmico delle ruote
che pestavano la terra e i violenti scossoni non rendevano il mezzo
di trasporto confortevole. Affatto.
Eliza aveva già
sperimentato il mal di mare, il mal d'auto e la chinetosi in varie
forme; ora, per la prima volta, provava sulla pelle, o meglio, sullo
stomaco, il mal da somaro. Che fortuna...
Il carrettiere non aveva
pronunciato nemmeno una parola da quando erano partiti, limitandosi a
qualche “aaah”, “eeeeh” e “oooh” rivolti all'animale.
Scrutava il percorso da sotto le rughe che gli incorniciavano le
palpebre e di tanto in tanto agitava lo scudiscio. Quella mattina
aveva intascato i soldi di Van senza aprir bocca, ficcandoseli in una
saccoccia che teneva appesa al collo. Aveva fissato sospettoso Uthar
che salutava da lontano agitando la mano, e aveva continuato
strenuamente ad ignorare i due giovani passeggeri, dopo che questi si
erano accomodati alle sue spalle, sulle sconnesse assi di legno. Era
evidente che non si fidasse di loro per averli visti in compagnia di
un hobbit, ma i soldi, si sa, fan sempre comodo.
Lizzie era accoccolata
sul bordo del carretto, coi piedi a penzoloni, e Van, al suo fianco,
stava semisdraiato su pungenti sacchi di iuta. Si era chiuso in se
stesso e aveva preso a fissarsi le scarpe intento, senza vederle
realmente, perso in chissà quali elucubrazioni.
-Hey Van, dov'è che
vai?- domandò la ragazza per interrompere l'assordante silenzio
sceso fra loro.
-...Van?- chiese questi
aggrottando le sopracciglia.
- Beh, è l’unica parte
pronunciabile del tuo nome…- si giustificò Lizzie un po'
imbarazzata.
Lui non si offese e
scoppiò a ridere.
-Lo avranno pensato in
molti, però tu sei la prima che me lo dice in faccia-.
-Beh... i tuoi devono
essere parecchio spiritosi, comunque non mi hai risposto: dov’è
che stai andando?-
Lui girò gli occhi e
guardò l'orizzonte per qualche istante. Quando Eliza iniziò a
temere che non le avrebbe detto nulla, il ragazzo si fece serio:
-Sai, faresti meglio a
preoccuparti di dove stai andando tu...-
Quella era esattamente
l’unica cosa che turbava realmente la ragazza, ed era anche l’unica
a cui si rifiutava di pensare. Non sapeva fino a quando avrebbe
potuto continuare a ignorare l'angoscia che sentiva dentro, ma
avrebbe provato a pensare a tutt'altro fin quando fosse stato
possibile. Meditarci troppo sopra non avrebbe portato a nulla e non
aveva ancora bisogno di una crisi isterica: parlare del più e del
meno, chiacchierare di qualcosa di futile, distrarsi, le avrebbe
fatto bene.
Lei e Van dovevano
assolutamente mettersi a fare un discorso banale, uno qualunque,
anche uno stupido pur di smettere di ascoltare i respiri l'uno
dell'altra, pur di riempirsi le orecchie e svuotare la mente.
Ma una conversazione
bisogna iniziarla, ed è qui che stà il difficile.
Eliza ci aveva provato,
goffamente, ma con coraggio: per questo gli aveva fatto quella
domanda, la più innocente di tutte, la più logica e la prima che le
fosse venuta sulla punta della lingua. Non le importava nemmeno la
risposta, ma tutto quel silenzio interrotto solo dall' ipnotico
scalpiccio degli zoccoli dell'asino, con la cornice del bosco
tutt’attorno, si stava rivelando decisamente troppo adatto alle
riflessioni, perfetto per sprofondare nel baratro dell'ansia.
Lei lo aveva fatto per
entrambi! Anche Van si stava perdendo fra gli irraggiungibili meandri
della propria testa, e non erano riflessioni allegre: lo avrebbe
capito anche un cieco... o una persona distratta quanto lei.
Ok, lo aveva fatto
sopratutto per se stessa, era un’egoista, ma in questo caso, benchè
per una mera coincidenza, ne avrebbe tratto qualche vantaggio anche
M.C. van S. di Imblee.
Il ragazzo però non
aveva apprezzato i suoi sforzi: non le aveva nemmeno risposto.
Alla sua domanda aveva
fatto quell'inopportuna considerazione, e questa volta a non parlare
era stata lei.
Lizzie tacque, un po'
ferita da quel tono astioso. Non avrebbe insistito, non avrebbe
costretto Van a parlare: non poteva, non voleva, farsi odiare
dall'unica persona che conoscesse.
Il ragazzo lasciò cadere
la sua affermazione nel vuoto e non insistè per avere una risposta:
lei lo avrebbe detestato, e lui non voleva niente di simile.
La fanciulla prese a
fissarsi i piedi. Ciondolavano dal carretto, avvolti in rudimentali
calzature da hobbit. Mentre li osservava, vedeva la terra del
sentiero e i ciottoli che il carro si lasciava indietro. Era scomodo
stare accovacciati sul legno duro e irregolare del carro, con la
schiena su un sacco bitorzoluto e che pungeva persino attraverso gli
abiti, ma era sempre meglio che andare a piedi.
Si mise a pensare a suo
nonno. Era quello della sua famiglia a cui pensare era più
sicuro: le mancava
sempre, da quando era morto, ma la nostalgia per un morto è ben
diversa da quella per i vivi. Per questo, in quel momento era quasi
confortevole, un'amica vecchia e conosciuta.
Suo nonno lo ricordava
come un vecchietto severo e arzillo, con un velo di barba sulle
guance. Si portava sempre appresso uno di quegli orologi di moda nel
secolo precedente, quelli che si attaccavano sotto agli abiti e
pendevano sulla camicia, a cui bisognava dare la carica ogni tanto o
si fermavano. Il nonno li aveva lasciati quando lei era poco più di
una bambina e ne conservava memorie piuttosto confuse. Le era
tornato in mente pensando al sacco di iuta, e ne aveva ricordato
l'odore di minestra e naftalina.
Nella lista delle qualità
che credeva di possedere aggiunse la memoria olfattiva. Un’altra
dote inutile, ma questa almeno le piaceva.
Poi suo nonno la prendeva
sempre sulle spalle e la portava in campagna a giocare...
- Se non hai un posto
dove andare puoi venire con me.-.
Eliza sbarrò gli occhi
incredula.
Sì
Ma non ebbe il coraggio
di guardare Van in faccia.
Ti prego Van, diventa
la mia nuova casa...
Sentì gli occhi
pizzicare e li strinse forte.
Grazie
Il ragazzo non la stava
guardando, ma colse l'annuire della testa di Lizzie ai limiti del
suo campo visivo. Piegò impercettibilmente gli angoli della bocca
nell’ombra di un sorriso.
Lei alzò di scatto la
testa, gli occhi a trapassare gli alberi che si lasciavano alle
spalle.
Non aveva mai guardato il
paesaggio che avano davanti da quando erano saliti su quel carro, non
aveva mai cercato di scoprire quello che li aspettava,
accontentandosi di riempirsi gli occhi con ciò che restava
indietro.
- Qual è il tuo colore
preferito?- trillò allegra.
A Van servì qualche
minuto buono per processare quella domanda senza senso e un pò
surreale in quel momento. Quando i neuroni si riattivarono quasi le
urlò addosso:
- Che razza di domanda
è??? E poi che c'entra adesso???-
- A me piace il blu.
Anche il verde, però il mio preferito è il blu.- sembrava che Eliza
non lo avesse nemmeno sentito.
-…Non ce l’ho un
colore preferito- sospirò rassegnato. Non capiva dove lei volesse
andare a parare, cosa cercava di ottenere con quell’assurdità?
- Io leggo un sacco.
Qualsiasi cosa. Anche la lista della spesa, o le pubblicità. Da
piccola una volta ho messo fuoco alle lenzuola con la lampada, sai...
per leggere di notte. E poi leggo in bagno…mi piace leggere in
bagno, e mi piace anche disegnare. E dipingere. Non in bagno però…-.
Ok...Quella pazza stava
facendo un monologo e non si curava nemmeno della sua faccia
perplessa o del fatto che lui non stava partecipando alla
conversazione. Non gli era parsa molto loquace prima, e adesso
parlava a mitraglietta, per giunta da sola! Sembrava quasi non
prendere fiato tra una parola e l’altra, troppo intenta a ciarlare.
All'improvviso capì. E
quando lei si interruppe un attimo per respirar,e fu lui finalmente a
riempire il vuoto e la quiete:
-Io odio disegnare!!! Mia
mamma da piccolo mi costringeva sempre. E poi non ne sono capace. Mi
obbligava anche a leggere per ore, e a suonare… Io però scappavo
appena si distraeva e andavo ad allenarmi.-
La ragazza sghignazzò
all'immagine del piccolo monello che van era stato
-Con la spada - aggiunse
a beneficio della sua interlocutrice. - Oppure andavo a dare fastidio
a mio padre o a Wolfang. E Wolfang si batteva sempre con me…-
Questi ultimi pensieri lo
stavano intristendo, e lei riprese a confessare:
- A me non piace la carne
alla brace. Beh la carne in generale non mi piace tantissimo…e
nemmeno il pesce. Però la carne di coniglio la mangio, e anche il
pollo. Dolci poco. Ah, non mi piace la cioccolata, preferisco il
miele.-.
- Come non ti
piace!?!?-saltò sù lui scandalizzato.
-No, non mi piace per
niente, e quando lo dico tutti mi guardano come se fossi scema,
esattamente come stai facendo tu- lo accusò ridendo.
- Per forza: sei scema se
non ti piace!-
-Maleducato!!!-
Continuarono così a
lungo.
***
Lentamente le ore erano
passate, alcune chiacchierando, altre ancora tenendosi compagnia in
silenzio. Uthar non aveva potuto offrire loro un letto e la notte
trascorsa sulle panche dell'hobbit li aveva lasciati con la schiena a
pezzi e le membra indolenzite. Ancora piuttosto stanchi si erano
appisolati più volte, senza però riuscire mai a rilassarsi
completamente.
Lo stagionato cocchiere
aveva continuato a confinare le parole alle vocali e ad ostinarsi in
un silenzio di superiorità e sospetto. Pian piano il sentiero era
divenuto una mulattiera, mentre il paesaggio mutava ed i boschi
lasciavano posto ai prati e a siepi basse. Non più alberi alti e
fitti, ma radi arbusti e frutice. Niente più marrone, giallo, ocra,
senape e rosso, ma rosa, azzurro, violetto a verde. Tanto verde. Gli
uccelli che si rincorrevano nel sole erano scomparsi, in compenso
tante pecore e qualche capra brucavano fra i cespugli bassi e
rugiadosi belando forte. Era cambiato anche il clima: prima sembrava
di essere agli inizi di un caldo autunno, adesso, a distanza di
qualche chilometro, tutto gridava forte “primavera”. Lo dicevano
gli agnellini, le farfalle ed anche i fiori. Non avevano visto né
Titiro nè Melibeo: non c’era nessuno a badare alle greggi e non
avevano incrociato esseri umani da quando avevano lasciato il
villaggio degli hobbit, alle prime luci dell'alba.
Alla fine era calata la
sera con il suo mantello di astri e di oscurità a celare lo
spettacolo della natura intorno a loro.
.
Eliza contemplava il
cielo stellato, uguale e diverso da quello cui era abituata, mentre
si beava del profumo dei fiori e dell’erba fresca.
Sentiva che quel ciuco e
quel villico maleducato la trascinavano lontano, verso l’ignoto.
In un’altra situazione
non avrebbe mai permesso a qualcuno di portarla via, senza sapere
dove esattamente la stesse conducendo. Ora non solo si era affidata
interamente a Van, ma non si sentiva nemmeno agitata e non si
preoccupava troppo di sapere dove stesse andando; del resto chiedere
la meta di quel viaggio sarebbe comunque stato inutile: un nome
altrettanto sconosciuto non l’avrebbe fatta certo sentire meglio.
Si era quindi affidata
completamente a Van, ed era davvero strano mettere in mano a qualcun
altro il proprio destino con così cieca fiducia, sopratutto se
l'altro era uno sconosciuto. Non le era mai successo prima, lei non
sopportava nemmeno le sorprese e non aveva mai autorizzato nessuno a
fargliene: preferiva tenere tutto sempre sotto controllo. Aveva
sempre esagerato nel voler gestire tutto e adesso eccedeva in senso
opposto, ma si sentiva bene, non aveva paura, non abbastanza almeno
da farsi sopraffare.
Van a due centimetri dal
suo braccio era meno tranquillo: non si era mai spinto così distante
e rimuginava sulle parole di Uthar,
borbottando qualcosa di inintelligibile.
Con il buio, sebbene si
vedesse pochissimo, si erano accorti che l'ambiente era cambiato
ancora una volta. L’erba si era fatta pian piano meno fitta ed il
paesaggio più brullo. Gli alberi ed i cespugli erano divenuti
un’eccezione e non erano più rigogliosi, ma secchi, nodosi e
scuri.
Era diventato molto più
difficile guardare le stelle e la volta celeste si era fatta
inspiegabilmente chiara.
Solo allora, finalmente,
Lizzie e Van avevano smesso di guardare indietro per girarsi verso
ciò che li aspettava.
Dietro il profilo di una
collina che si stagliava netto contro il cielo notturno, mentre alle
narici arrivava una sgradevole zaffata di fuliggine e benzina, si
era aperta una vallata enorme, illuminata quasi a giorno. Palazzi
scuri, alti e squadrati la riempivano tutta, ciminiere in lontananza
gettavano vampate di fumo scuro e denso verso la notte. Luci, tante,
tantissime luci, luci nelle strade e nelle case, luci a terra e luci
sospese nell’aria, la incendiavano di fuoco vivo. Talmente tante
luci da rischiarare la notte e da impedire alle stelle di fare
capolino nel cielo.
Non erano più nel luogo
ameno del villaggio degli hobbit, non era affatto bella la città che
stava loro di fronte, ma in qualche modo, agli occhi di Lizzie, era
comunque uno spettacolo.
Anche lei viveva in una
grande metropoli e nemmeno da lì riusciva a vedere le stelle nel
firmamento, in compenso al suolo sembravano esserne cadute a milioni.
Quelle nel cielo erano sempre state bellissime, e qualcuno diceva che
le accendevano i grandi eroi del passato per guidare i piccoli uomini
del presente, per questo erano così belle.
Ma le stelle sulla
terra le accendono i vivi, col sudore della fronte, e lo fanno sempre
per qualcuno, pensò la ragazza.
Da quella città non
proveniva nemmeno un suono. Era una perfetta città industriale, come
ne aveva viste a tante: questa però era immersa in un silenzio di
tomba.
Nemmeno un rumore
giungeva alle sue orecchie…nemmeno più quello del carro che dopo
l’ultimo “oooh” del vecchio si era arrestato.
I due ragazzi avevano
capito che quello era il momento di scendere e, preso ciascuno il
proprio bagaglio, avevano salutato il burbero conducente. Quello
aveva risposto con un’occhiata neutra, si era girato ed aveva
frustato l'asino, sparendo col suo corredo si vocali al seguito,
sempre più flebili con la distanza, ma chiare nella calma sepolcrale
ed inquietante che circondava la vallata.
Van ed Eliza non si erano
detti una parola e, rispettosi dell'urlo silenzioso di quel faro
abbagliante, si erano messi a camminare verso il centro della conca
quieti e veloci.
La strada era morbida e
liscia sotto i loro piedi: sembrava assorbire i passi, e le scarpe vi
affondavano leggermente, come fosse fatta di gomma sciolta. Eppure
l’attrito era minimo e scendere non risultava faticoso.
Alla base della collina
Van guardò negli occhi quella minuta ragazza che lo seguiva dal
giorno precedente e mormorò :-Hindàstria…-.
***
note
-
Il
nome Hindàstria l’ho preso dal cartone Conan, anche se non era
scritto così…
-
Il
pezzo sulle stelle è liberamente ispirato ad un aiku giapponese di
cui non ho potuto trovare una traduzione.
-
Il
titolo del cap. è una canzone di Willie Nelson, ma anche una
canzone di Bob Dylan, una canzone di Canned Heat,... scegliete pure
quella che preferite.
|
Ritorna all'indice
Questa storia è archiviata su: EFP /viewstory.php?sid=620073
|