Opium

di whatashame
(/viewuser.php?uid=92521)

Disclaimer: Questo testo proprietà del suo autore e degli aventi diritto. La stampa o il salvataggio del testo dà diritto ad un usufrutto personale a scopo di lettura ed esclude ogni forma di sfruttamento commerciale o altri usi improri.


Lista capitoli:
Capitolo 1: *** intro- The chosen ones ***
Capitolo 2: *** cap 2 parte 1 Meet me on the equinox ***
Capitolo 3: *** cap. 2 pt 2 Meet me on the equinox ***
Capitolo 4: *** cap 2 parte 3 Meet me on the equinox ***
Capitolo 5: *** cap.3 pt1 On the road again ***



Capitolo 1
*** intro- The chosen ones ***


opium 1

Intro


cap 1. The chosen ones


...or maybe not 

La morfina è un alcaloide di natura fenantrenica. Costituisce circa il 10% dell'oppio. Altri alcaloidi fenantrenici sono la tebaina, non disponibile in commercio, e la codeina, che voi trovate disponibile come farmaco sia da solo che in associazione con paracetamolo. L'altro tipo di alcaloidi estraibili dal papaver somniferum sono i derivati benzilisochinolinici, ovvero la papaverina e la noscapina. La papaverina ha scarsa utilità farmacologica: è un vasodilatatore ed un inibitore delle fosfodiesterasi...”


La ragazza leggeva il foglio assorta, con una penna in mano e portando il segno con il polpastrello blù. Il rumore continuo e regolare della metropolitana e le lievi scosse del vagone non sembravano darle alcun fastidio. Una lieve ruga a deformarle il sopracciglio denotava quanto fosse concentrata. Ad intervalli regolari la mano scattava nervosa a riportare dietro l'orecchio qualche lunga ciocca scura che, dispettosa, le scivolava davanti agli occhi.


Alzò lo sguardo dal libro che teneva appoggiato sulle ginocchia per contare quante fermate mancassero alla sua destinazione.


Una, due , tre, quattro...


Chissà per quale assurdo motivo aveva sempre il vizio di contare. Lo aveva da qunado aveva scoperto i numeri probabilmente. Contava quante persone ci fossero sull'autobus al mattino, quante lettere nel nome Henry Charles Bukowski e quanti centimentri sulla cartina tra Savannah e Vancouver. Poi faceva sempre molto caso al fatto che i numeri fossero pari o dispari, e se il numero era pari...beh le piaceva di più, le sembrava sposarsi meglio coll'astratto concetto di armonia che aveva in testa.


In metropolitana contava moltissimo: cominciava con le fermate, poi continuava con quanti posti a sedere fossero liberi, quanti bambini in braccio alle mamme …


In metropolitana faceva anche un'altra cosa: osservava le scarpe delle persone che aveva davanti. Si capivano tante cose dalle scarpe: se il vecchio impomatato dritto sul sedile fosse schifosamente ricco di famiglia o un parvenue, se Susie dovesse andare a scuola e Dave a giocare a calcio, se la signora col cappello fosse una turista o se il tizio imbronciato si recasse al lavoro. E poi non poteva certo guardare la gente in faccia senza che qualcuno si infastidisse: lei quindi guardava i piedi.


A quell'ora serale di un piovoso e grigio Mercoledì il vagone era quasi vuoto, esclusa lei ed un ragazzo seduto di fronte. Solo in quel momento si accorse che lui la stava fissando. Distolse immediatamente lo sguardo e ringraziò mentalmente la natura per averle dato il dono di non arrossire mai quando era imbarazzata. Avrebbe preferito senz'altro avere un dono più utile, ma bisognava accontentarsi.


In quel momento ricordò che non era certo il tipo di ragazza che gli esponenti dell'altro sesso fissavano spesso per strada: anonima, altezza media, piuttosto magra e indiscutibilmente sciatta. A conferma dei suoi dubbi, sul viso del ragazzo si allargò un sorrisetto. E non era un sorriso di ammirazione, piuttosto quello di chi sia sul punto di scoppiare in una fragorosa risata ma non possa assolutamente farlo.

Ok, appurato che non era il tipo a cui gli uomini non toglievano gli occhi di dosso, non era nemmeno il tipo da suscitare l'altrui ilarità semplicemente trasformando l'ossigeno in anidride carbonica.... Fissò per un istante il ragazzo chiedendosi se fosse impazzito e poi l'assalì l'atroce sospetto di essersi messa a parlare ad alta voce. Da sola. In effetti quando preparava un esame le era capitato spesso di ripetere a se stessa, persino per strada.


In definitiva quindi probabilmente la pazza era lei.


Abbassò di nuovo gli occhi e ripose nello zaino tutto ciò che aveva disseminato sul sedile di fianco cercando di non schiacciare e distruggere nulla. Prese mentalmente nota di leggere solo il giornale sulla metro da quel momento in avanti: era più sicuro, e poi lo distribuivano gratis. Si alzò in piedi e all'apertura delle porte scese finalmente alla sua fermata: era mostruosamente in ritardo e le sue coinquiline l'avrebbero a breve data per dispersa facendo mille raccapriccianti supposizioni su maniaci, stupratori e killer seriali che l'avevano certamente rapita. Si avviò rapidamente alle scale per l'uscita insieme allo sparuto gruppo di persone che aveva preso, come lei, l'ultima corsa della giornata. Era quasi giunta alla meta quando uno specchio di quelli sporchi e vecchi che si trovano ogni tanto nelle stazioni, le restituì il suo riflesso.


Oh cazzo!!!

La sua faccia era blù!!!


Beh, non proprio Tutta blù ma blù quanto bastava per far ridere il ragazzo di prima.

Si precipitò immediatamente in bagno.


***


Una lunga linea di colore le scendeva dall'occhio destro al mento e varie macchie rendevano la guancia a pois, un segno più scuro faceva bella mostra di sé sulla fronte, e a completare l'opera c'era anche una macchia un po' sbiadita sul naso.


Fantastico. 
Se per fantastico si intendeva assomigliare vagamente ad un'opera di M
irò.


Osservò i polpastrelli della mano destra. La penna li aveva macchiati e lei non avava fatto altro che toccarsi la faccia, esattamente come alle elementari.

Ok, come all'asilo.


Aprì il rubinetto e prese a sfregare con forza il viso, ma senza sapone le chances di liberarsi del blù in breve tempo erano ridotte al minimo. In compensò però tutto quello sfregare le stava lasciando delle graziose macchie rosse.


In effetti lei preferiva Kandinskij...


Dopo un quarto d'ora di estenuanti fatiche, i polpastrelli ghiacciati (quei bagni non avevano mai conosciuto gli erogatori di sapone figurarsi la mitica acqua calda) e aver irrimediabilmente perso, nell'ordine, la sensibilità tattile, dolorifica e termica del viso, senza peraltro raggiungere un risultato quantomeno soddisfacente, si arrese all'evidenza dei fatti: disfatta totale.

Con qualche alone di colore dubbio ad effimero monito dell' impresa aprì la porta del bagno e s'incamminò finalmente verso i gradini che la separavano dall'esterno.


***


La stazione era ormai vuota e poteva sentire il rumore cadenzato dei piedi contro le piastrelle. Le metteva tristezza. 
Ritardo per ritardo decise di prendersela comoda, tanto ormai dovevano aver già cenato da un pezzo a casa, e decise di riesumare il lettore mp3 dalla tasca anteriore dello zaino. Era lì, sotto strati di ciarpame di dubbia provenienza accumulato dalla notte dei tempi in quello zaino.

Wow.Tutto in perfetto accordo con il secondo principio della termodinamica: l' entropia tende a salire nel tempo.


Infilò le cuffie a stanca trascinò i piedi verso quei gradini, sempre, maledettamente, più lontani.


La musica nelle orecchie ad allontanare il mondo, il ritmo a scacciare ogni pensiero e il suono a coprire ogni posibile rumore .

Di colpo, da dietro una colonna, ad un passo dal suo viso, un'ombra scura. Una figura incappucciata, e poi un ragazzo che si lanciava contro questa e lo scintillante riflesso di una lama.


Un attimo.


E al di là di ogni logica ,


di ogni pensiero razionale,


dell'istinto di autoconservazione


la ragazza protese una mano e sfiorò il braccio del ragazzo.


Ebbe solo il tempo di registrare che quello che toccava non era della consistenza che si sarebbe aspettata. Poi una sensazione dolorosa le fece sentire tutti i muscoli contrarsi e bruscamente venire tesi come se qualcuno stesse allungando con forza il suo corpo.


In quel passaggio grigio e freddo, quasi davanti ai gradini dell'uscita, non c'era più nessuno.






MC


per la cronaca :

-gli oppioidi sono una classe di farmaci analgesici-stupefacenti. Di questa classe di farmaci fanno parte ad esempio il metadone e la morfina.

-avevo messo un'immagine con un famoso quadro di Kandinskij...ma non sono riuscita ad inserirla ...sono assolutamente tecnolesa!!!

-il titolo è una canzone dei dream evil...io in verità non li conosco ad eccezione di questa canzone...sono bravi???

Lo stile che uso in questo cap. rispecchia il carattere del personaggio che qui introduco. La protagonista ( i protagonisti sono due ) ha un carattere particolare e tende a perdersi molto nei propri pensieri...



è la mia prima fic...chiedo clemenza...

Ritorna all'indice


Capitolo 2
*** cap 2 parte 1 Meet me on the equinox ***


cap 2 def

 

 

 

 

Parte prima

Il viaggio

 

Cap. 2 parte 1

Meet me on the equinox

 

Uno strano essere giaceva ai piedi di un giovane frassino frondoso.

Un indistinto ed informe groviglio di gambe e braccia. Tanti, troppi capelli. E oggetti disparati, tutti ammonticchiati uno sopra l'altro. Uno zaino, un mantello e probabilmente un cloche ma talmente schiacciato che sarebbe stato difficile chiamarlo cappello da quel momento in poi. Poco più in là un lettore  mp3 rosso fiammante.

La ragazza era caduta accartocciandosi su se stessa come fosse stata una foglia secca in fiamme. La fitta che aveva avvertito sulla nuca le aveva fatto pensare di precipitare nel vuoto ed il brivido che aveva sentito nelle gambe ne era stato la conferma. Ciò che si  prova quando la terra manca sotto i piedi.

Eppure non aveva sollevato le suole delle scarpe neppure per un secondo.

Il collo e la schiena le facevano male come se avesse fatto un salto da qualche metro di altezza. Un piccolo gemito le sfuggì dalle labbra e provò a muoversi.

Sotto le dita sentì le terra umida e fresca. E sotto la pancia e parte delle gambe sentì qualcosa che non avrebbe dovuto esserci. O meglio qualcuno.

Erano talmente vicini che l’odore dello sconosciuto le riempiva le narici.

Forte, intenso penetrante. Sudore e qualcosa di indistinto, di erba ma non solo...qualcosa che non riconobbe...ma sapeva di buono.

Il ragazzo si mosse leggermente e sbatté le palpebre un paio di volte. Poi aprì gli occhi.

Occhi marroni, leali e coraggiosi. Occhi caldi, si specchiarono in occhi verdi, grandi e belli. Occhi freddi, incorniciati da un lievissimo accenno di mascara.

La ragazza rimase immobile e smise persino di respirare. Il ragazzo sotto di lei mosse leggermente una gamba, e poi la mano intrappolata fra il mantello e lo zaino. La liberò da ogni costrizione e la lascò libera di cadere. Sfortuna volle proprio sopra una natica fasciata di jeans.

A quel contatto la bruna si alzò in piedi di scatto, così velocemente che la testa le girò e le tempie pulsarono mentra  un gridolino acuto ed impaurito le scappò dalle labbra. Quello che sarebbe sicuramente diventato un autentico grido di terrore puro se un ruggito non avesse immediatamente fatto eco al suo, a paragone, squittio: nell'alzarsi aveva premuto col ginocchio esattamente sull’inguine del ragazzo sotto di lei.

Quello era un grido di dolore.

Lei in piedi, dritta come un fuso. Lui a terra scomposto, con una mano ancora sull’addome dolorante. A pochi passi una spada, fra i ciuffi radi di erba secca. I due si scrutarono con sospetto. Immobili.

Due animali diffidenti, che sanno perfettamente che il primo che distoglierà la sguardo lo farà per debolezza. E lo farà per attaccare.

Una sola arma per due contendenti.

Due soldati soli sul campo di battaglia, entrambi con la consapevolezza di non aver motivo alcuno per ferirsi o combattersi, ma con i sensi all’erta. Con la consapevolezza che chi non attacca per primo rischia di soccombere. Con l'assoluta certezza che in guerra non c’è spazio per la cavalleria.

 

Il gracchiare lontano di un uccello selvatico.

Scattarono insieme verso  la spada, verso la voglia che tiene attaccati alla vita.

 ***

Forse la lama era più vicina a lei, forse era stata più pronta, o forse solo più spaventata. La ragazza la afferrò con entrambe le mani.

Mani non pronte a ferire. Mani che non avevano mai offeso. Dita sottili e  piccoli polpastrelli blu abbarbicati all’elsa di una spada troppo pesante per due braccia esili. 

La proprietaria tremava, e la lama oscillava sospesa nel vuoto. Ma la presa era ferma. A pochi centimetri dalla gola di lui, piegato in ginocchio nello sforzo di lanciarsi ad afferrarla per primo.

Furono di nuovo occhi negli occhi, terra bruciata nell' erba fresca, e paura nella paura.

Ma due paure diverse, paura di uccidere e di essere uccisi. 

Lei sentiva che un senso non c'era, ma sapeva che esitare avrebbe potuto essere fatale. Non aveva memoria di guerre o di violenze, ma era l’istinto a guidarla. Era il suo essere nata umana.

E poi qualcosa in lei le ricordò che l'uomo non è solo carne e che non era pronta a vedere gli occhi di un qualcuno che muore.

Di un uomo che muore. 

Indietreggiò di qualche passo, ma la lama rimase alta e la presa serrata.

Lui trattenne il fiato, e poi riuscì a controllare la sua paura. Rimase fermo, ginocchia a terra e lentamente sollevò le mani verso l' alto, i palmi aperti.

-Non voglio farti nulla.- disse con voce chiara, che suonò ferma alle sue orecchie.

Lei lo scrutò da sotto le lunghe ciglia.

-Hai una spada, quali che siano le tue intenzioni, parla questa per te. È fatta per uccidere. -. Osservò dura.


-È fatta per difendere!!!- la interruppe lui brusco -E nessuno va in giro senza nel bosco di Khwott!!!-


Lei sembrò soppesare quell’ affermazione attentamente
-...da chi ti difendevi prima?-


-Io….io non lo so. È stato lui ad attaccarmi!!!-


-Ed io come faccio a crederci? E poi dov’è finito… qui ci siamo solo noi due…-


-Non so dove sia, ma se fosse qui lo sapremmo . A quest’ora non credo sarei vivo a giudicare dalle sue intenzioni. E comunque non ho nulla per dimostrare quel che dico, ma è la verità!!!-

Il ragazzo aveva cercato di parlare atteggiandosi a coraggioso, ma la voce gli tremava appena. Non era abituato a contemplare l’ipotesi della propria morte, e nemmeno a pensare che qualcuno potesse desiderarla.

-In ogni caso che ci fai tu qui in mezzo ad un bosco da solo e con una spada?-


Lui finalmente smise di fissarla negli occhi come aveva continuato a fare per tutto il tempo e con un’occhiata ironica  la scrutò da sotto in su.

-Che diavolo ci fai TU qui - rispose lui.

 In effetti questa domanda era decisamente più sensata, ma lei non rispose. Del resto non avrebbe saputo proprio cosa dire.

-Alzati avanti. - gli disse - Ma non pensare che mi fidi di te .-.

-Come ti pare. -

Il ragazzo si tirò su e a grandi passi marciò verso una roccia poco distante. A terra, in mezzo alle felci c’erano alcuno oggetti ed una sacca colorata.


-Fermati! Che fai?-

-Beh prendo la mia roba, mi sembra ovvio...-.

-Che c’è lì dentro?-

-Nessun' arma, non preoccuparti. L’unica che ho fatto in tempo a prendere ce l’hai tu. E non sai nemmeno usarla. Accidenti a te, se qualcosa ci attaccasse saremmo spacciati!-.


Se. Qualcosa. Ci. Attaccasse. Saremmo. Spacciati.

Qualcosa.

Qualcosa... tipo cosa???


Meglio non saperlo...


Peccato che lei abbracciava la filosofia del Sempre Meglio Sapere TUTTO...

- Cosa potrebbe attaccarci?- 

Consolante accorgersi di non essere padrona della nobile arte di fingere ostentato distacco…


-Ma che ne so!!! …Un animale, briganti, o peggio. Oh e dimenticavo: qualcuno tipo quello di poco fa!-.

 -Va bene va bene, ho capito. Mi hai terrorizzata abbastanza, grazie.-.

- Quindi mi restituirai la spada?- Il ragazzo sembrava galvanizzato da quella prospettiva, o dalla propria presunta abilità oratoria.

-Non  ci penso nemmeno.-. Lei era fredda ed  aveva in faccia  un ghigno malefico.

-Bene, ricordatelo quando ci attaccano!!!- 

- Magari se ci attaccano se la prenderanno prima con te,  sai io ho una spada…- gli sorrise malefica.

- Ma se non sai nemmeno come si impugna…e poi non riesci nemmeno a reggerla!!!- sbottò lui, infastidito. Mentre parlava si era chinato a sollevare la sacca e se l'era caricata in spalla. Si portò una mano su una tempia e parve fermarsi a riflettere sulla situazione . Trasse alla fine un lungo sospiro:

-Senti tregua, ok? Non voglio restare fermo qui, potrebbe essere pericoloso. Non è molto intelligente visto che poco fa è qui che mi hanno attaccato. Non mi sembri tanto stupida da non arrivarci pure tu. Andiamocene. -.

Le annuì. La prospettiva di schiodarsi da in mezzo ad un bosco era allettante, ma sarebbe stata più felice di sapere con certezza dove diavolo andare...

-Allora io sto andando a Ovest. Tu dove vai?  Non è per farmi i fatti tuoi ma se non andiamo dalla stessa parte gradirei la mia spada indietro, sai ci tengo.-.

- Ancora con questa storia??? Senti non te la ridò, mi sembra chiaro e poi…-


-Oh smettila di rompere, se avessi voluto me la sarei già ripresa. Sei alta come il cespuglio di more che hai affianco e probabilmente pesi la metà. Avrai pure una spada, ma guardati, hai poggiato la punta a terra perché non riesci a tenerla sollevata, non fai tanta paura sai?-.

Lei abbassò gli occhi.

Lui pensò che se voleva essere convincente insultarla non era una strategia vincente. 

- Lo so che hai paura, che non ti fidi di me, ma ti giuro che non voglio assolutamente farti del male: non ti ho mai vista prima e non ho nessun motivo di attaccarti. Non ho mai ucciso nessuno e non comincerò adesso.- la sua voce si era fatta più dolce -Anche se in effetti sei piuttosto seccante...sarebbe una liberazione!- aggiunse con un sorriso - Allora, tregua?-.

Lei annuì di nuovo.


Si avvicinò a lui di due, tre, quattro passi. Percorse esattamente metà della distanza che li separava., ma non gli porse la spada. La lasciò cadere a terra e poi si fece di nuovo indietro. Lui la raccolse e la ripose nel fodero che aveva legato alla cintura. Mentre faceva tutto questo lei si prese tempo per osservarlo meglio.

Quel ragazzo doveva avere un paio d'anni meno di lei, forse anche di più. Non era bello. Nemmeno brutto però. Normale. Combaciava perfettamente con l'idea che si era costruita a sette anni di Mowgli del libro della Giungla.

Selvatico.

Pelle olivastra e capelli fino alle spalle liberi e scompigliati. Occhi attenti e vivaci. Occhi buoni. Un piccolo nastro rosso intorno alla fronte.

Silvestre. 

 

Gli tese la destra e semplicemente disse :- Lizzie.-.

Lui la guardò perplesso. Evidentemente il gesto gli risultava estraneo, ma non si scompose. Tese la mano anche lui e mentre si apriva in un luminoso sorriso disse:

-Matheus Choonr van Sabriinskji di Imblee.-.

Erano vagamente ridicoli entrambi con le braccia alzate e le mani sospese a mezz'aria ed in un'altra situazione lei avrebbe riso, ma non in quel momento, con quel nome impronunciabile e ridicolmente lungo sospeso fra loro. Eliza non poteva che apprezzare la semplicità ed il gesto del ragazzo che aveva frainteso il modo in cui lei soleva presentarsi ma si era sforzato di cancellare ogni possibile distanza fra loro. Sorrise impercettibilmente e disse seria:

- Piacere.-.

 Il sorriso sul volto di lui si allargò :- Piacere-.


***

Ciao a tutti!!! Allora iniziamo con qlc che non c'entra  nulla con la storia, se non vi interessa passate oltre…

 

In origine volevo pubblicare il capitolo per intero, anche perché l’ho scritto tutto, però è veramente un PARTO  scrivere 20 pagine! Essendo la mia prima fic non ho realizzato quanto fosse macchinoso correggere il tutto per cui non ho potuto rispettare i tempi che avevo fissato. Ho deciso quindi di aggiornare più spesso ma di dividere i capitoli  in due pezzi nel caso siano lunghi.

le note e le precisazioni sul questo chap sono in fondo al prossimo capitolo!!! cioè sono in fondo alla seconda parte di questo!!!

Qlc allegra caz--*--ta in libertà...

Dunque la mia storia si chiama opium per tanti motivi e qlc ve lo dico.

Innanzitutto l'oppio è una droga, come immagino sappiate, e permette di avere delle visioni, di fare dei “viaggi”. Adesso è meno diffuso fumare e masticare oppio rispetto al passato ma ci sono state due guerre nell'ottocento, note appunto come guerre dell'oppio, tra Impero Cinese e Gran Bretagna per i profitti legati al suo commercio. Dall'oppio inoltre si ricavano degli analgesici importanti come la morfina, ed altri farmaci come il metadone impiegato contro le crisi di astinenza da eroina. Anche l'eroina si ricava dall'oppio: chimicamente parlando l'eroina è diacetilmorfina. Opium è anche il nome di un famoso profumo...che in realtà a me non piace affatto (è fortissimo e troppo dolce) ma mia madre lo adora : è indiscutibilmente il suo preferito. Questo però non c'entra nulla con il mio titolo.

Suppongo che dopo questo sproloquio ne sappiate quanto prima sul titolo, ma per ora accontentatevi, prima o poi vi spiegherò tutto. Nel frattempo si accettano scommesse.

Ah, si accettano scommesse anche su cosa faccia la protagonista nella vita...cosa che scoprirete tra qlc cap poichè importante ai fini della storia!!! 

 

Ritorna all'indice


Capitolo 3
*** cap. 2 pt 2 Meet me on the equinox ***


cap 2 parte 2 di tre





Cap. 2 parte 2

Meet me on the equinox







Hobbit





Okokok…cerchiamo di stare calmi...

villaggio degli hobbit.

Villaggio. Degli. Hobbit.

Hobbit.

HOBBIT !!!

...panico...

Cervello pensa, pensa cervello…che diavolo sono…hobbit!

Aveva capito male. Sicuramente.

Doveva aver capito male…

No. QuelloLì aveva proprio detto, con l’aria più angelica del mondo “ Senti, si vede che non sai dove andare…” e dopo essersi grattato la testa, che a questo punto (era pronta a scommetterci) doveva essere vuota, aveva aggiunto“vieni con me.”.

Vieni con me…

La vera sorpresa in ogni caso non era stata ricevere una proposta del genere dal primo sconosciuto che passa…

Oh no…

Era stata sentire la SUA voce, emancipatasi ormai dal controllo corticale, rispondere “sì”.

Era stato poco più di un soffio, ma LEI lo aveva detto. Proprio lei…

E lui serafico, sacco in spalla, aveva girato i tacchi e chiuso la conversazione con un

Bene, si va al villaggio degli hobbit”.

E da qui a seguire la Paranoia Pura…

Hobbit.

Mentre cercava di ricordarsi cosa fossero di preciso, e sopratutto di ripescare nei meandri della memoria esattamente quante zampe avessero, e se fossero eventualmente pelose, si costrinse a rivolgere un debole sorriso a  QuelloLì che nel frattempo si era girato a controllare che lei lo stesse seguendo. Molto probabilmente era riuscita solo ad ottenere dai suoi già provati muscoli mimici una smorfia di agonia.

M. C. van S. di Imblee, da qual momento in poi Più che Pericoloso van Amante dei Pericolosi -vai a sapere cosa sono- hobbit,   la fissò vagamente perplesso e con l’educazione che, iniziava a crederlo sinceramente, fosse una sua qualità spiccata, aggiunse :

 

- Non preoccuparti, è a un paio d’ore di cammino da qui. Coraggio andiamo, fra poco dovremmo avere un  tetto sulla testa.- .

 

E detto fatto il suo ex paio di floreali ballerine bianche e viola era passato a miglior vita, a far compagnia al suo, ormai ex, compianto cappello. Un piede dietro l’altro si erano messi in viaggio, Eliza e Nome Impronunciabile van Qualcosa, da allora e per sempre: Van e basta!

Quella era l’unica parte del nome che sarebbe mai riuscita a ricordare e non poteva pretendere di più dai suoi nervi a pezzi. Probabilmente era come chiamare Ludwig van Beethoven solo Van, Ronald Mc Donald solo Mc o Mario Di Renzo solo Di…



Se lui era così tranquillo non dovevano essere poi tanto pericolosi…no?

 

 

***

 

Avevano fatto la strada in silenzio, ognuno perso nei propri pensieri, ed era stato piacevole. Non era stato un silenzio carico di imbarazzo il loro, ma quello di due vecchie conoscenze a proprio agio anche nel più completo mutismo. La presenza di Van era stata un conforto, e lui non l’aveva messa a disagio nemmeno quando lei gli si era buttata addosso incespicando su un sasso. Si era limitato a stringerla con un braccio per rimetterla in piedi.

Di tanto in tanto le aveva chiesto se fosse stanca o volesse fermarsi. Lei aveva detto di no ed aveva stoicamente sopportato il male ai piedi dovuto alle calzature poco appropriate.

Van non aveva cercato di fare conversazione e lei gliene era grata. Una vocina, nella sua testa, continuava insistente a protestare per farle imbastire almeno due frasi in croce con quel ragazzo per scoprire qualcosa di più su quello strano posto nuovo ma era stata bellamente ignorata. Aveva vinto il bisogno di allontanare il cervello pur di non soffrire e non aver paura, così lei era rimasta ostinatamente zitta. Scelta saggia: l’unica cosa a cui non poteva cedere in quel momento era proprio la paura. Non poteva permetterselo o le gambe non si sarebbero più mosse e lei sarebbe rimasta inchiodata lì, in mezzo ad un bosco in preda ad un attacco di panico.

Eliza non sapendo che fare aveva brillantemente deciso di staccare il cervello.

Grande

Aveva svuotato la mente per evitare di chiedersi dove diavolo fosse finita e per quale assurdo motivo si fosse messa a seguire un perfetto estraneo. Aveva anche messo a tacere quel piccolo senso di colpa che sentiva verso quel ragazzo, in fondo gentile, e verso quel suo sorriso sincero per non avergli detto assolutamente nulla di sé.

Fedele al proposito di non pensare troppo, o meglio di non pensare affatto, la ragazza aveva provato a guardarsi intorno per distrarsi con il paesaggio. Aveva funzionato: quel bosco non aveva nulla di troppo strano o sinistro. Niente animali in vista, niente fiori dai colori squillanti…solo felci, tantissime felci, e alberi a foglie caduche di mille colori, come fosse stato autunno inoltrato, sebbene dal clima non lo avrebbe mai detto. Riflettendoci bene era questo l' unico particolare inquietante attorno a sé... rispetto a quel che avrebbe potuto vedere o avrebbe potuto accaderle, non era poi molto in quietante.

Somigliava in tutto e per tutto ai boschi che aveva visto mille volte da bambina durante i campeggi coi boy scout.

***

 

Dopo esattamente quattro ore e mezza, Van la riscosse dallo stato di torpore catatonico in cui era sprofondata con due parole:

-Siamo arrivati. -.

Dopo qualche attimo aggiunse

- E' un posto tranquillo, non preoccuparti.-.

Lei non vide nulla, ma attese paziente, fidandosi del suo compagno di viaggio che, chissà come, stava iniziando ad apprezzare.



Dopo qualche metro infatti i due ragazzi iniziarono a scorgere il profilo di bassi tetti aguzzi, fitti di comignoli e poi piccole case modeste ma graziose aggettanti su strette strade tortuose. L’architettura era semplice e non si poteva certo definire elegante, ma comunque piacevole quanto basta, sebbene disordinata. Sembrava che il paese fosse cresciuto troppo in fretta sulle fondamenta di un villaggio destinato ad accogliere un numero di persone decisamente esiguo.

 

Si vedeva la fretta nel costruire, nell’assicurarsi un tetto, che dovevano aver avuto gli abitanti, dalla totale mancanza di un qualsiasi criterio urbanistico, dalle case che sembravano essere spuntate come funghi da un giorno all’altro, e non erano nemmeno troppo dritte e simmetriche, non rispettavano alcun canone estetico di forma e colore e molte non erano nemmeno mai state dipinte.

In molti però non dovevano aver rinunciato al gusto del bello arricchendo ognuno la propria modesta abitazione di qualche elemento che conferisse delicatezza e desse un tocco di gusto e calore a quelle case altrimenti troppo simili fra loro ed impersonali. C’era chi aveva appeso tende colorate alla finestre, chi aveva decorato i tetti con buffe e piccole sagome, e la maggioranza delle costruzioni erano colorate da innumerevoli fiori e piante rampicanti che colmavano i vasi alle finestre testimoniando l’amore per la natura che sicuramente doveva avere un popolo che sceglieva di vivere in mezzo alla montagna come questo.

Lizzie si chiese perché mai si stesse perdendo in elucubrazioni tanto inutili dimenticando il dettaglio più eclatante degli hobbit, di sicuro secondario rispetto all' urbanistica.

Il loro aspetto.

Nessuno degli hobbit la degnava di particolare attenzione, al massimo di qualche occhiata in tralice furtiva e veloce, magari infastidita dal suo insistente fissarli, magari molto infastidita dal suo considerarli tanto interessanti, ma sembravano tutti presi da una grande fretta e correvano avanti e indietro in quel confuso villaggio come presi da un’indicibile urgenza, carichi di sporte gonfie, carrelli e piccole carriole, muovendosi veloci sulle loro corte gambette. Se quegli ometti fossero stati delle dimensioni standard cui era abituata, probabilmente una tale folla l’avrebbe messa a disagio, come in uno di quegli enormi centri commerciali in tempo di saldi, tutto quel movimento le avrebbe dato mal di testa probabilmente, ma gli hobbit erano incredibilmente bassi, ed incredibilmente presi dai loro affari e rumorosi al punto da far venire più che altro il mal di mare. E anche un danno permanente all'udito viste le urla che si lanciavano l'un l'altro in una lingua aspra e gutturale a lei sconosciuta.

 

Gli hobbit erano sicuramente degli Hobbit, se è il nome delle cose a renderle tali, ma senza inutili eufemismi gli hobbit erano definibili con un’unica e semplice parola, più vera ma meno ipocrita.

Nani.

Nessuno di loro raggiungeva la sua spalla e alcuni nemmeno la vita di Van.

 Il suo compagno, che esibiva un'aria di ostentata indifferenza, ma quell'aria rilassata posticcia e fasulla non avrebbe convinto nemmeno un bambino, si muoveva rapido svettando tra la folla. Lei faticava a stargli dietro senza farsi travolgere e senza urtare qualcuno e mandarlo gambe all'aria con effetto birillo. Muoveva la testa a periscopio a destra e sinistra per non finire sottiletta sotto qualche carrello imbizzarrito (e dotato di vita propria visto che gli hobbit dietro la montagna di pacchetti non si vedevano) e quando Van si arrestò all'improvviso sbattè il naso contro la sua schiena. Lui puntò deciso verso una casa un po' decentrata rispetto al paese ed in poche spedite falcate raggiunse una pesante porta marrone. Suonò il battente, di cui Lizzie non riconobbe la forma, e attese qualche secondo. In un cigolio di cardini e legno vecchio la porta si aprì e ne emerse un piccolo hobbit rubicondo dall'aria serafica che, dopo aver sbattuto un paio di volte le palpebre si lanciò addosso a Van praticamente appendendosi al suo collo e tirandolo giù in un abbraccio stritolatore. Quando il ragazzo riuscì di nuovo a respirare si rivolse a Eliza e glielo presentò:

- Questo è Uthar. -.

***

 Uthar era piccolo e tarchiatello, con il naso a patata e la pelle bruciata dal sole. Era quasi pelato in cima alla testa, con l'eccezione di un ciuffetto spettinato in mezzo alla fronte che gli ricadeva fra gli occhietti vispi. Riccioli bianchi e ribelli gli incorniciavano la base del collo e il viso in una barba soffice che contro la forza di gravità restava dritta intorno al mento.

L'hobbit le aveva rivolto uno sguardo veloce e amichevole aprendosi in un sorriso che mostrava le fossette sulle guance paffute e poi li aveva condotti al secondo piano della casa farfugliando qualcosa a Van per poi mollarli in una cameretta spoglia e catapultarsi al piano inferiore.

Quando furono di nuovo soli  Lizzie riesumò un po' di educazione e un po' di voce.

-Hey, come mai lo conosci?- chiese.

 -Beh… lui non è come gli altri. -

 Lei inarcò le sopracciglia con fare interrogativo.

 -Beh sì,.. non certo per l’aspetto. A lui piace viaggiare, è stato anche fuori di qui.- aggiunse come se questo dovesse illuminarla.

 - Agli hobbit non piace viaggiare? Intendi a tutti gli altri?-

 - Beh non lo so, però non credo. E poi anche se gli piacesse…-sembrava vagamente sulle spine.

 - Non riesco a seguirti.- ammise lei candidamente.

 -Beh….- era a disagio, ora lo si capiva perfettamente - Comunque lui si esibiva a casa  mia. Per questo lo conosco. È un bravo hobbit te lo assicuro. Non preoccuparti.- La voce era più ferma, non ammetteva repliche su questo punto.

 - Ok ci credo, ma continuo a non capire. -.

 

- Oh, lasciamo perdere.- sbuffò lui - Per oggi possiamo stare da lui. Devo discutere con Uthar di alcune cose. Ok?-

-Va bene. -.

 - Allora io lo raggiungo, tu puoi sistemarti. Non so…lavati, cambiati. Prima mi ha detto che ci dovrebbero essere dei vestiti per te…puoi prenderli. A me non entrano, ma forse a te con qualche ritocco…poi boh, fatti un giro. E’ un posto tranquillo, fidati, ci sono già stato una volta.-.

 - Ci credo che è un posto tranquillo, puoi smettere di ripeterlo. Non ho paura, ma se continui a dirmelo inizierò a preoccuparmi.- Osservò lei, ma non sembrava per nulla spaventata.

 

- Sei strana tu- disse lui dopo qualche attimo di silenzio. E scese la scale.

 

La ragazza si lavò velocemente nel minuscolo bagno, e indossò i vestiti che le aveva indicato Van poco prima.

 Le andava tutto un po’ largo  e corto, ma nel complesso l’immagine che le rifletteva lo specchio era accettabile, e poi non aveva mai fatto troppo caso all’abbigliamento. La sua filosofia di vita era più o meno simile a quella delle sue coinquiline circa le pulizie: una vita passata a preoccuparsene  troppo non era degna di essere vissuta. Il diretto corollario era la regola non scritta di lavare a terra e nascondere TUTTO il casino nell’armadio in caso di visita di esponenti di sesso maschile FIGHI , perché l’uomo della tua vita potrebbe sempre essere dietro l’angolo: estote parati!!!

Di principe azzurro al momento nemmeno l’ombra, per cui…se non altro era pulita e se non profumata, almeno non aveva più l’odore del bosco e della sfacchinata addosso e il maledetto inchiostro sulle dita.

Scese le scale con l'intento di andare in strada, decisa a guardarsi intorno mentre era ancora giorno. L’amico di Van e il ragazzo erano immersi un una fitta conversazione in cucina, ma lei riuscì a coglierne solo le ultime parole:

-Non puoi farlo da solo, accidenti a te…ti dico che sono fidati…-

Poi l’ hobbit si interruppe e le rivolse un piccolo sorriso timido e sdentato

-Salve miss. Sono felice che i vestiti le stiano bene Miss.-

Aveva un buffo accento e sibilava tutte le S.

- Grazie…sono comodi. È stato molto gentile a prestarmeli. -

- Dammi pure del tu Miss. -

- Perfetto. Ma chiamami  Lizzie, per favore. -

- Perfetto Miss.-

 

Va beh, non si può avere tutto della vita.

- Gradisci qualcosa da mangiare Miss??? Ho anche fatto un po’ di tè. -.

 - Grazie. - Con la coda dell’occhio vide Van abbozzare un sorriso e allungarle un vassoio con del pane imburrato e della marmellata. Si sedette anche lei sulla lunga panca  accanto al tavolo. Dopo aver trangugiato velocemente tutto quello che Uthar le ficcava solerte in mano (sospettava che se fosse dipeso da lui le avrebbe ficcato direttamente tutto in bocca in un eccesso di gentilezza), ringraziò senza troppi salamelecchi e rendendosi conto di aver interrotto una conversazione importante e privata si affrettò ad uscire.

***



Il capitolo non è ancora finito, manca la terza parte...e pensare che l'ho già scritto TUTTO da un bel po'.!!! non credevo che correggerlo fosse così arduo...la mia sincera e totale ammirazione a chi pubblica rispettando le scadenze!!!

Le note come accennato sono alla fine...però non posso tralasciare una piccola precisazione...

  • Il termine hobbit non è assolutamente mio ma appartiene a Tolkien. Confesso di non aver mai letto i suoi libri  e di non aver mai visto i film che ne sono stati tratti con l’eccezione di un piccolo pezzo del signore degli anelli-la compagnia dell’anello, primo film. Non l’ho fatto non perché non mi piaccia questo autore, semplicemente perché non se ne è mai presentata l’occasione. Ho preso in prestito la parola hobbit perché mi sembra che sia ormai entrata a far parte dell’universo fantasy insieme alle parole “folletto” o “elfo”, questo senza ovviamente voler togliere nulla al merito di chi l’ha ideata. (stando a wikipedia la parola l’ha inventata proprio questo autore).



Ritorna all'indice


Capitolo 4
*** cap 2 parte 3 Meet me on the equinox ***


2 def fine



Cap. 2 parte 3

Meet me on the equinox



Fuori era piuttosto caldo ed umido.

La casa di Uthar era un po’ scostata da quella grossa creatura brulicante di vita che era il villaggio degli hobbit. O come apprese da un cartello “¡¡¡¡qweerrttcndj “.

Bel nome, indubbiamente

Si incamminò lungo il sentiero e si mise a curiosare in giro. Gli hobbit non sembravano fare troppo caso a lei, prendevano atto della sua presenza con un' occhiata veloce e continuavano solerti le proprie occupazioni.  Provò ad avvicinarsi ad un piccolo venditore ambulante di pentolame, che stava in piedi su una cesta dietro il proprio banco, ma questi la fissò con talmente tanto astio che decise di proseguire oltre. Non ebbe maggior fortuna: la donnina a cui aveva fatto in tempo a malapena a mormorare un “mi scusi” aveva cacciato un piccolo strillo spaventato (o indignato...difficile a dirsi) e aveva girato i tacchi.

La voglia di conversare con qualcuno le era completamente passata, per cui si mise a ciondolare per il villaggio e ad osservare gli hobbit. All’inizio non aveva prestato troppa attenzione alle creature, limitandosi a catalogarli tutti come “hobbit” e a registrarne la principale caratteristica: la piccola taglia. Osservandoli meglio però ci si accorgeva che avevano davvero poco in comune, escluso il non trascurabile dettaglio dell’altezza.

Alcuni erano molto minuti, altri erano solo una trentina di centimetri più bassi di lei. Alcuni erano piuttosto graziosi, ma altri decisamente repellenti, con l’attaccatura dei capelli a un centimetro dalle sopracciglia e le orecchie basse. Qualcuno fra loro aveva dei tratti infantili, che lo facevano assomigliare ad un bambino, ma dall’occupazione che stava svolgendo dubitava fortemente che l’aspetto potesse corrispondere all’età. Invece in un cortile due piccole hobbit con le trecce giocavano con le bambole benché avessero il viso incartapecorito come vecchiette.

Erano di tutte le razze e i colori, alcuni scuri di pelle, altri con i capelli rossi ed uno spruzzo di lentiggini sulla faccia. Ce n’erano di biondi e di bruni, vestiti nelle fogge più disparate, un’accozzaglia senza criterio di stili, particolare molto strano in un villaggio fatto di case tutte uguali.

Molte donne avevano il collo corto e la mascella piccola, le mani gonfie e il petto largo e piatto, alcune poi urlavano a squarciagola per dire qualcosa al vicino nonostante fosse a meno di una spanna di distanza, esattamente uguali a sua nonna quando, a ottant' anni, era diventata sorda come un campana.

In alcuni sembrava che le braccia e le gambe avessero iniziato a prendere il sopravvento sul corpo, a succhiargli il nutrimento e a crescere a dismisura a discapito del tronco. Altri invece erano perfettamente proporzionati, solo molto bassi e camminavano con armonia. Altri ancora avevano il corpo di un adulto con braccia e gambe piccole e corte, cristallizzate nell’età infantile, ma forti e nerborute. Questi camminavano un po’ oscillando, veloci sulle gambette, tranne alcuni che erano piegati in avanti come avessero un gran mal di schiena. La testa tonda e la fronte prominente. Le dita delle mani tutte lunghe uguali.

Alcuni non venivano mai lasciati soli ed erano costantemente vigilati. Un ragazzo le passò affianco, scortato sottobraccio da una donna piuttosto alta: aveva la lingua di fuori e le labbra spesse, gli occhi semichiusi e un po’ gonfi. Non sembrava del tutto consapevole di cosa gli accadesse intorno

 ***



Aveva camminato davvero tanto, perdendosi nella folla, facendosi trascinare dai suoi piedi stanchi.

Non si era fermata.

Non aveva potuto fermarsi.

Con i piedi riposati non avrebbe più avvertito quel fastidioso dolore alle gambe e non avrebbe più sentito la fatica. Allora sarebbe crollata, si sarebbe messa a pensare troppo e non voleva farlo.

Era arrivata alla fine del villaggio, alla periferia. La strada era deserta e uno staccato si affacciava su un piccolo orto .

 Il sudore le imperlava la fronte e le incollava gli abiti al corpo.

C’era il sole e faceva molto caldo. Il vapore salva a spirali della terra marrone e portava in alto l’odore della marcescenza dei cavoli gettati malamente in pasto ai porcellini rosa li vicino.

Gli hobbit vivevano di agricoltura e allevamento, le era sembrato, e anche l’olfatto le confermava questa ipotesi.

Curioso come mai di un posto uno si portasse sempre appresso i ricordi in forma di immagini, però una cosa a cui nessuno sembrava fare mai caso fossero gli odori. Eppure gli odori restavano comunque in memoria, anche se in una memoria mano facilmente accessibile.

Nella sua il villaggio degli hobbit sarebbe sempre stato accostato all'olezzo degli animali e al profumo della campagna.

 

Inspirò forte e si appoggiò allo steccato. Chiuse gli occhi lasciando che il sole le bruciasse il viso.

 

 Dove sono finita? Cosa ci faccio in questo posto?

 

Una piccola umbra le diede momentaneo refrigerio. A giudicare dall’altezza non poteva essere un hobbit.

-Van? - azzardò esitante, ancora con gli occhi chiusi.

L’eco di una risatina le rispose e lei sbirciò da sotto le ciglia.

- Non tornavi, sono uscito a cercati. -.

- Grazie, è tutto apposto. -.

- Dalla tua faccia non si direbbe. -  le soffiò vicino ad un orecchio.

Già

 

Guardò Van balzare agile sullo staccato e sedere in bilico sul legno. Il ragazzo infilò le gambe fra le assi e si fece serio:

- Mi hai seguito oggi, senza dire niente. -. Non lo stava dicendo a lei, sembrava più che altro dirlo a se stesso.

 

Lizzie rimase in silenzio. Poi chiuse di nuovo gli occhi contro il sole. Li chiuse anche lui. Ad occhi chiusi era più…facile.

 

- Non mi hai chiesto nulla. Sei una strana ragazza Eliza-chiamami-Lizzie .-.

- Lo hai già detto, ma io non riesco ancora a capire perché. -.

Lui apri gli occhi e li puntò sul suo viso.

-Nessuno mi avrebbe seguito così di buon grado al villaggio degli hobbit. A molti non piacciono, alcuni addirittura li temono.- prese un respiro profondo - Tu no. Eri incerta però, questo l’ho visto. Ma ti sei fidata. Di me.-.

 

- Non darmi meriti che non ho. Ti ho seguito perché non avevo nulla da perdere e tu lo hai capito benissimo.-

 

- Vero, ma mi hai seguito lo stesso, qualcosa vorrà pur dire.-.

 

Questo ragazzo la spiazzava con una semplicità disarmante. Era decisamente una bella persona. Lo aveva visto con una spada in mano, ma non sembrava affatto pericoloso. Era spontaneo e ...buono. Non c’erano ombre nei suoi occhi. 

Ma non si può mai credere solo ad un paio di occhi.

- Sai, ad ascoltarti sembra quasi che abbia senso. Comunque continua a spiegarmi questa storia degli hobbit.-.

 - Beh, gli hobbit non hanno una bella fama e tutti li evitano. Lo avrei fatto anche io se non avessi conosciuto Uthar. Lui non è come gli altri. È coraggioso. O molto stupido, a seconda dei punti di vista. -. Alla faccia interrogativa della ragazza aggiunse :- Per me è coraggioso, ma per quelli del suo villaggio è un folle. Lo evitano, lo hanno ostracizzato da quando ha scelto di andarsene. E forse avevano ragione a dirgli di non partire. Il mondo non lo ha accolto bene, sai?-.

 - Perché?-.

 
- Beh a casa mia si esibiva insieme ad un gruppo di acrobati e ballerini circensi.-.

- Odio doverlo ripetere ma come al solito continuo a non capire.-.

 

La guance di Van si erano imporporate, gli occhi si erano velati di tristezza, ed era un sollievo che lei non potesse vederlo.

- Lui si esibiva con loro, ma non faceva capriole. Il suo spettacolo era mostrarsi esattamente com’è.-

La ragazza aprì gli occhi di scatto, la faccia vuota priva di espressione. Aspettò di leggere negli occhi di Van il senso di quelle parole prima di assumere un’espressione indignata.

 - Cosa??? -.

 Lui non rispose.

- Non è facile essere diversi, credo. Diventa più facile se smetti di essere diverso, e se non puoi smettere fai come loro, come gli hobbit. Almeno è quello che diceva il mio maestro. -.

L’alba della comprensione si fece strada sul volto della ragazza.

- Intendi... lo stare tutti insieme in questo villaggio-

Non era una domanda.

Lei seguì il corso dei propri pensieri mentre Van cercava di carpire dalla sua espressione i pensieri che l'agitavano.

- Loro rifiutano Uthar perché se n'è andato? -.

- Perché ha accettato di farsi deridere per via del suo aspetto. Uthar non ha trovato posto nel mondo se non in un circo. Lui è nato e cresciuto qui, poi ha voluto scoprire il mondo ed è andato via. Si è messo contro tutti e tutto pur di andarsene. E poi si è unito ad una compagnia di girovaghi. È così che l’ho conosciuto. Comunque dopo due anni è tornato.-

- Lo hanno accolto di nuovo ma non è stato più come prima vero? E' per questo che vive un po’ fuori dal villaggio?-.

- Già. Non pensare che io giustifichi chi adesso lo tiene a distanza, però Uthar mi ha spiegato le loro ragioni. La maggioranza degli hobbit non è nata qui come lui, ma ha fatto un viaggio esattamente opposto al suo prima di arrivare. Gli hobbit nascono in un mondo che non li accetta, che li rifiuta e che li ferisce, per questo lasciano tutto e vengono qui. -.

La ragazza annuì impercettibilmente.

- A volte sono i loro stesso genitori a portarceli -.

 

Ci volle qualche secondo perché lei assimilasse il significato di quelle parole, poi si voltò di scatto.

Gli occhi spalancati e la fronte corrucciata. Respirò più volte fissandolo negli occhi scuri. Occhi colore di foglie dentro occhi di terra. Poi in un sussurro pose La domanda:

- Gli hobbit non nascono da altri hobbit? -

 

- No. O almeno non nella maggioranza dei casi. -.

Poi Van distolse lo sguardo, improvvisamente attento ai colori del tramonto.

 Anche lei alzò gli occhi verso il sole.

 

- Gli hobbit nascono da persone come me e come te? - chiese in un sussurro.

 

Lui non disse nulla, e del resto lei aveva già capito

 

- Quindi sono uomini, come tutti gli altri…-

 

Lui disse piano

- Sono hobbit. -.

 

Lei lo senti come se avesse urlato. Fuori rimase impassibile ma dentro si senti prima andare a fuoco e poi gelare.

 

Gli hobbit. Dei malati. Persone affette da nanismo e per questo non più umane.

Gli avevano anche cambiato il nome, come fossero un'altra razza. Niente più homo sapiens sapiens? Eppure lo erano a tutti gli effetti. Cambiandogli il nome era più facile fingere che non lo fossero? Allontanandoli era più facile pensare che non esistessero? La società di Van non era pronta ad accogliere il diverso, preferiva nasconderlo ai propri stessi occhi.E chi era diverso non era poi diverso la loro. Nessuno fra gli hobbit aveva saputo o voluto accogliere la piccola diversità di Uthar, la sua piccola curiosità.

Gli uomini a volte eranio davvero delle strane creature. Allontanavano, peggio, cancellavano quel che poteva farli...soffrire? Farli scontrare con ciò che a loro...faceva paura?

Vedere gli hobbit tutti i giorni, vederli uomini e provare prima...repulsione per il loro aspetto, poi...pena per la loro condizione, poi...altruismo e voglia di dar loro una mano, e alla fine ...fastidio. Stare con loro ad un certo punto vuol dire farsi carico dei loro problemi, magari rallentare la propria vita per aspettarli...

Ammettere di essere razzisti e superficiali non piace a nessuno. Per questo il mondo di Van aveva scelto questa strada:

allontanare il sofferente illudensosi di cancellare così la sofferenza.

 Preferivano non vederla invece di affrontarla.

 

 

Questo posto non è poi tanto diverso da quello da cui vengo io…

 Tutte queste parole non uscirono mai dalle sue labbra, ma lei capi che Van condivideva i suoi pensieri, che Van non era come gli altri.

Van era speciale.

Era diverso anche lui, e si chiese perché Van fosse in viaggio, forse anche lui cercava qualcuno per cui non essere più il diverso...

Lei sentiva che non era così: la differenza di Van non allontanava le persone, le attraeva come miele. Van era consolazione pura. Era come un sole che scalda.  Nessuno sarebbe mai stato tanto stupido da allontanare da sè una persona del genere.

 

Adesso era davvero curiosa di conoscerlo, ma non aprì la bocca. Si limitò ad annuire al gesto che Van aveva fatto con la mano, ed insieme si avviarono verso il villaggio e verso Uthar che li aspettava.



per la cronaca:

-Agli equinozi il sole sorge precisamente ad est e tramonta precisamente ad ovest, ovunque.
La lunghezza del giorno eguaglia la lunghezza della notte.

-Il titolo del cap. è una canzone dei Death Cab for Cutie. Anche di questo gruppo conosco solo questa canzone.

-ed ecco a voi il nostro secondo protagonista M.C. van S. di Imblee.

- se qlc se lo stesse chiedendo...no, non ho nulla a che spartire con nessuno dei miei protagonisti...o almeno credo.

- ribadisco che il termine hobbit non è assolutamente mio ma è di Tolkien. Confesso di non aver mai letto i suoi libri e di non aver mai visto i film che ne sono stati tratti con l’eccezione di un piccolo pezzo del signore degli anelli-la compagnia dell’anello, primo film. Non l’ho fatto non perché non mi piaccia questo autore, semplicemente perché non se ne è mai presentata l’occasione. Ho preso in prestito la parola hobbit perché mi sembra che sia ormai entrata a far parte dell’universo fantasy insieme alle parole “folletto” o “elfo”, questo senza ovviamente voler togliere nulla al merito di chi l’ha ideata. (stando a wikipedia la parola l’ha inventata proprio questo autore)


-Altra precisazione. Non sempre il punto di vista dei personaggi corrisponde con quello di chi scrive. Nemmeno quello dei protagonisti.


- non ho inventato nulla circa l'aspetto dei nani, sono descrizioni basate sulla realtà

 -Importante. Con la parola “repellentenon intendo affatto offendere le persone affette da alcune forme di nanismo, ma non ho voluto usare una parola più edulcorata e più ipocrita perché, anche se è orribile da dire, a volte l’aspetto di alcuni malati non è esattamente piacevole, purtroppo, e può generare ad un primo sguardo questa impressione. Sbagliata, deprecabile, ma ,tristemente,  a volte succede. In ogni caso la protagonista quando la usa non sa ancora che quelli che ha davanti siano affetti da una patologia. Se pensate che qualcuno possa offendersi o che sia il caso di cambiarla fatemelo sapere.






Ritorna all'indice


Capitolo 5
*** cap.3 pt1 On the road again ***


cap 3 pium





Cap. 3



On the road again





Un piccolo carro a due ruote viaggiava a balzelloni lungo una strada di montagna. L'asino che lo trainava procedeva pigro, sotto la sferza di un vecchio contadino. L'incedere lento del carro, il rumore ritmico delle ruote che pestavano la terra e i violenti scossoni non rendevano il mezzo di trasporto confortevole. Affatto.

Eliza aveva già sperimentato il mal di mare, il mal d'auto e la chinetosi in varie forme; ora, per la prima volta, provava sulla pelle, o meglio, sullo stomaco, il mal da somaro. Che fortuna...


Il carrettiere non aveva pronunciato nemmeno una parola da quando erano partiti, limitandosi a qualche “aaah”, “eeeeh” e “oooh” rivolti all'animale. Scrutava il percorso da sotto le rughe che gli incorniciavano le palpebre e di tanto in tanto agitava lo scudiscio. Quella mattina aveva intascato i soldi di Van senza aprir bocca, ficcandoseli in una saccoccia che teneva appesa al collo. Aveva fissato sospettoso Uthar che salutava da lontano agitando la mano, e aveva continuato strenuamente ad ignorare i due giovani passeggeri, dopo che questi si erano accomodati alle sue spalle, sulle sconnesse assi di legno. Era evidente che non si fidasse di loro per averli visti in compagnia di un hobbit, ma i soldi, si sa, fan sempre comodo.

Lizzie era accoccolata sul bordo del carretto, coi piedi a penzoloni, e Van, al suo fianco, stava semisdraiato su pungenti sacchi di iuta. Si era chiuso in se stesso e aveva preso a fissarsi le scarpe intento, senza vederle realmente, perso in chissà quali elucubrazioni.



-Hey Van, dov'è che vai?- domandò la ragazza per interrompere l'assordante silenzio sceso fra loro.


-...Van?- chiese questi aggrottando le sopracciglia.


- Beh, è l’unica parte pronunciabile del tuo nome…- si giustificò Lizzie un po' imbarazzata.


Lui non si offese e scoppiò a ridere.


-Lo avranno pensato in molti, però tu sei la prima che me lo dice in faccia-.


-Beh... i tuoi devono essere parecchio spiritosi, comunque non mi hai risposto: dov’è che stai andando?-

Lui girò gli occhi e guardò l'orizzonte per qualche istante. Quando Eliza iniziò a temere che non le avrebbe detto nulla, il ragazzo si fece serio:


-Sai, faresti meglio a preoccuparti di dove stai andando tu...-


Quella era esattamente l’unica cosa che turbava realmente la ragazza, ed era anche l’unica a cui si rifiutava di pensare. Non sapeva fino a quando avrebbe potuto continuare a ignorare l'angoscia che sentiva dentro, ma avrebbe provato a pensare a tutt'altro fin quando fosse stato possibile. Meditarci troppo sopra non avrebbe portato a nulla e non aveva ancora bisogno di una crisi isterica: parlare del più e del meno, chiacchierare di qualcosa di futile, distrarsi, le avrebbe fatto bene.


Lei e Van dovevano assolutamente mettersi a fare un discorso banale, uno qualunque, anche uno stupido pur di smettere di ascoltare i respiri l'uno dell'altra, pur di riempirsi le orecchie e svuotare la mente.

Ma una conversazione bisogna iniziarla, ed è qui che stà il difficile.

Eliza ci aveva provato, goffamente, ma con coraggio: per questo gli aveva fatto quella domanda, la più innocente di tutte, la più logica e la prima che le fosse venuta sulla punta della lingua. Non le importava nemmeno la risposta, ma tutto quel silenzio interrotto solo dall' ipnotico scalpiccio degli zoccoli dell'asino, con la cornice del bosco tutt’attorno, si stava rivelando decisamente troppo adatto alle riflessioni, perfetto per sprofondare nel baratro dell'ansia.

Lei lo aveva fatto per entrambi! Anche Van si stava perdendo fra gli irraggiungibili meandri della propria testa, e non erano riflessioni allegre: lo avrebbe capito anche un cieco... o una persona distratta quanto lei.

Ok, lo aveva fatto sopratutto per se stessa, era un’egoista, ma in questo caso, benchè per una mera coincidenza, ne avrebbe tratto qualche vantaggio anche M.C. van S. di Imblee.


Il ragazzo però non aveva apprezzato i suoi sforzi: non le aveva nemmeno risposto.

Alla sua domanda aveva fatto quell'inopportuna considerazione, e questa volta a non parlare era stata lei.



Lizzie tacque, un po' ferita da quel tono astioso. Non avrebbe insistito, non avrebbe costretto Van a parlare: non poteva, non voleva, farsi odiare dall'unica persona che conoscesse.

Il ragazzo lasciò cadere la sua affermazione nel vuoto e non insistè per avere una risposta: lei lo avrebbe detestato, e lui non voleva niente di simile.


La fanciulla prese a fissarsi i piedi. Ciondolavano dal carretto, avvolti in rudimentali calzature da hobbit. Mentre li osservava, vedeva la terra del sentiero e i ciottoli che il carro si lasciava indietro. Era scomodo stare accovacciati sul legno duro e irregolare del carro, con la schiena su un sacco bitorzoluto e che pungeva persino attraverso gli abiti, ma era sempre meglio che andare a piedi.

Si mise a pensare a suo nonno. Era quello della sua famiglia a cui pensare era più sicuro: le mancava sempre, da quando era morto, ma la nostalgia per un morto è ben diversa da quella per i vivi. Per questo, in quel momento era quasi confortevole, un'amica vecchia e conosciuta.

Suo nonno lo ricordava come un vecchietto severo e arzillo, con un velo di barba sulle guance. Si portava sempre appresso uno di quegli orologi di moda nel secolo precedente, quelli che si attaccavano sotto agli abiti e pendevano sulla camicia, a cui bisognava dare la carica ogni tanto o si fermavano. Il nonno li aveva lasciati quando lei era poco più di una bambina e ne conservava memorie piuttosto confuse. Le era tornato in mente pensando al sacco di iuta, e ne aveva ricordato l'odore di minestra e naftalina.

Nella lista delle qualità che credeva di possedere aggiunse la memoria olfattiva. Un’altra dote inutile, ma questa almeno le piaceva.

Poi suo nonno la prendeva sempre sulle spalle e la portava in campagna a giocare...



- Se non hai un posto dove andare puoi venire con me.-.


Eliza sbarrò gli occhi incredula.



Ma non ebbe il coraggio di guardare Van in faccia.



Ti prego Van, diventa la mia nuova casa...



Sentì gli occhi pizzicare e li strinse forte.



Grazie



Il ragazzo non la stava guardando, ma colse l'annuire della testa di Lizzie ai limiti del suo campo visivo. Piegò impercettibilmente gli angoli della bocca nell’ombra di un sorriso.



Lei alzò di scatto la testa, gli occhi a trapassare gli alberi che si lasciavano alle spalle.


Non aveva mai guardato il paesaggio che avano davanti da quando erano saliti su quel carro, non aveva mai cercato di scoprire quello che li aspettava, accontentandosi di riempirsi gli occhi con ciò che restava indietro.



- Qual è il tuo colore preferito?- trillò allegra.


A Van servì qualche minuto buono per processare quella domanda senza senso e un pò surreale in quel momento. Quando i neuroni si riattivarono quasi le urlò addosso:


- Che razza di domanda è??? E poi che c'entra adesso???-


- A me piace il blu. Anche il verde, però il mio preferito è il blu.- sembrava che Eliza non lo avesse nemmeno sentito.



-…Non ce l’ho un colore preferito- sospirò rassegnato. Non capiva dove lei volesse andare a parare, cosa cercava di ottenere con quell’assurdità?


- Io leggo un sacco. Qualsiasi cosa. Anche la lista della spesa, o le pubblicità. Da piccola una volta ho messo fuoco alle lenzuola con la lampada, sai... per leggere di notte. E poi leggo in bagno…mi piace leggere in bagno, e mi piace anche disegnare. E dipingere. Non in bagno però…-.


Ok...Quella pazza stava facendo un monologo e non si curava nemmeno della sua faccia perplessa o del fatto che lui non stava partecipando alla conversazione. Non gli era parsa molto loquace prima, e adesso parlava a mitraglietta, per giunta da sola! Sembrava quasi non prendere fiato tra una parola e l’altra, troppo intenta a ciarlare.


All'improvviso capì. E quando lei si interruppe un attimo per respirar,e fu lui finalmente a riempire il vuoto e la quiete:


-Io odio disegnare!!! Mia mamma da piccolo mi costringeva sempre. E poi non ne sono capace. Mi obbligava anche a leggere per ore, e a suonare… Io però scappavo appena si distraeva e andavo ad allenarmi.-


La ragazza sghignazzò all'immagine del piccolo monello che van era stato


-Con la spada - aggiunse a beneficio della sua interlocutrice. - Oppure andavo a dare fastidio a mio padre o a Wolfang. E Wolfang si batteva sempre con me…-

Questi ultimi pensieri lo stavano intristendo, e lei riprese a confessare:


- A me non piace la carne alla brace. Beh la carne in generale non mi piace tantissimo…e nemmeno il pesce. Però la carne di coniglio la mangio, e anche il pollo. Dolci poco. Ah, non mi piace la cioccolata, preferisco il miele.-.


- Come non ti piace!?!?-saltò sù lui scandalizzato.


-No, non mi piace per niente, e quando lo dico tutti mi guardano come se fossi scema, esattamente come stai facendo tu- lo accusò ridendo.


- Per forza: sei scema se non ti piace!-


-Maleducato!!!-


Continuarono così a lungo.








***









Lentamente le ore erano passate, alcune chiacchierando, altre ancora tenendosi compagnia in silenzio. Uthar non aveva potuto offrire loro un letto e la notte trascorsa sulle panche dell'hobbit li aveva lasciati con la schiena a pezzi e le membra indolenzite. Ancora piuttosto stanchi si erano appisolati più volte, senza però riuscire mai a rilassarsi completamente.

Lo stagionato cocchiere aveva continuato a confinare le parole alle vocali e ad ostinarsi in un silenzio di superiorità e sospetto. Pian piano il sentiero era divenuto una mulattiera, mentre il paesaggio mutava ed i boschi lasciavano posto ai prati e a siepi basse. Non più alberi alti e fitti, ma radi arbusti e frutice. Niente più marrone, giallo, ocra, senape e rosso, ma rosa, azzurro, violetto a verde. Tanto verde. Gli uccelli che si rincorrevano nel sole erano scomparsi, in compenso tante pecore e qualche capra brucavano fra i cespugli bassi e rugiadosi belando forte. Era cambiato anche il clima: prima sembrava di essere agli inizi di un caldo autunno, adesso, a distanza di qualche chilometro, tutto gridava forte “primavera”. Lo dicevano gli agnellini, le farfalle ed anche i fiori. Non avevano visto né Titiro nè Melibeo: non c’era nessuno a badare alle greggi e non avevano incrociato esseri umani da quando avevano lasciato il villaggio degli hobbit, alle prime luci dell'alba.

Alla fine era calata la sera con il suo mantello di astri e di oscurità a celare lo spettacolo della natura intorno a loro.

.


Eliza contemplava il cielo stellato, uguale e diverso da quello cui era abituata, mentre si beava del profumo dei fiori e dell’erba fresca.

Sentiva che quel ciuco e quel villico maleducato la trascinavano lontano, verso l’ignoto.

In un’altra situazione non avrebbe mai permesso a qualcuno di portarla via, senza sapere dove esattamente la stesse conducendo. Ora non solo si era affidata interamente a Van, ma non si sentiva nemmeno agitata e non si preoccupava troppo di sapere dove stesse andando; del resto chiedere la meta di quel viaggio sarebbe comunque stato inutile: un nome altrettanto sconosciuto non l’avrebbe fatta certo sentire meglio.

Si era quindi affidata completamente a Van, ed era davvero strano mettere in mano a qualcun altro il proprio destino con così cieca fiducia, sopratutto se l'altro era uno sconosciuto. Non le era mai successo prima, lei non sopportava nemmeno le sorprese e non aveva mai autorizzato nessuno a fargliene: preferiva tenere tutto sempre sotto controllo. Aveva sempre esagerato nel voler gestire tutto e adesso eccedeva in senso opposto, ma si sentiva bene, non aveva paura, non abbastanza almeno da farsi sopraffare.



Van a due centimetri dal suo braccio era meno tranquillo: non si era mai spinto così distante e rimuginava sulle parole di Uthar, borbottando qualcosa di inintelligibile.



Con il buio, sebbene si vedesse pochissimo, si erano accorti che l'ambiente era cambiato ancora una volta. L’erba si era fatta pian piano meno fitta ed il paesaggio più brullo. Gli alberi ed i cespugli erano divenuti un’eccezione e non erano più rigogliosi, ma secchi, nodosi e scuri.

Era diventato molto più difficile guardare le stelle e la volta celeste si era fatta inspiegabilmente chiara.


Solo allora, finalmente, Lizzie e Van avevano smesso di guardare indietro per girarsi verso ciò che li aspettava.

Dietro il profilo di una collina che si stagliava netto contro il cielo notturno, mentre alle narici arrivava una sgradevole zaffata di fuliggine e benzina, si era aperta una vallata enorme, illuminata quasi a giorno. Palazzi scuri, alti e squadrati la riempivano tutta, ciminiere in lontananza gettavano vampate di fumo scuro e denso verso la notte. Luci, tante, tantissime luci, luci nelle strade e nelle case, luci a terra e luci sospese nell’aria, la incendiavano di fuoco vivo. Talmente tante luci da rischiarare la notte e da impedire alle stelle di fare capolino nel cielo.

Non erano più nel luogo ameno del villaggio degli hobbit, non era affatto bella la città che stava loro di fronte, ma in qualche modo, agli occhi di Lizzie, era comunque uno spettacolo.

Anche lei viveva in una grande metropoli e nemmeno da lì riusciva a vedere le stelle nel firmamento, in compenso al suolo sembravano esserne cadute a milioni. Quelle nel cielo erano sempre state bellissime, e qualcuno diceva che le accendevano i grandi eroi del passato per guidare i piccoli uomini del presente, per questo erano così belle.

Ma le stelle sulla terra le accendono i vivi, col sudore della fronte, e lo fanno sempre per qualcuno, pensò la ragazza.


Da quella città non proveniva nemmeno un suono. Era una perfetta città industriale, come ne aveva viste a tante: questa però era immersa in un silenzio di tomba.

Nemmeno un rumore giungeva alle sue orecchie…nemmeno più quello del carro che dopo l’ultimo “oooh” del vecchio si era arrestato.


I due ragazzi avevano capito che quello era il momento di scendere e, preso ciascuno il proprio bagaglio, avevano salutato il burbero conducente. Quello aveva risposto con un’occhiata neutra, si era girato ed aveva frustato l'asino, sparendo col suo corredo si vocali al seguito, sempre più flebili con la distanza, ma chiare nella calma sepolcrale ed inquietante che circondava la vallata.


Van ed Eliza non si erano detti una parola e, rispettosi dell'urlo silenzioso di quel faro abbagliante, si erano messi a camminare verso il centro della conca quieti e veloci.

La strada era morbida e liscia sotto i loro piedi: sembrava assorbire i passi, e le scarpe vi affondavano leggermente, come fosse fatta di gomma sciolta. Eppure l’attrito era minimo e scendere non risultava faticoso.

Alla base della collina Van guardò negli occhi quella minuta ragazza che lo seguiva dal giorno precedente e mormorò :-Hindàstria…-.





***






note

  • Il nome Hindàstria l’ho preso dal cartone Conan, anche se non era scritto così…

  • Il pezzo sulle stelle è liberamente ispirato ad un aiku giapponese di cui non ho potuto trovare una traduzione.

  • Il titolo del cap. è una canzone di Willie Nelson, ma anche una canzone di Bob Dylan, una canzone di Canned Heat,... scegliete pure quella che preferite.




Ritorna all'indice


Questa storia è archiviata su: EFP

/viewstory.php?sid=620073