Loci vitarum epicarum di Xay (/viewuser.php?uid=77161)
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Procreatix Mortis ***
Capitolo 2: *** Deliratio Ex Vanitate ***
Capitolo 3: *** Illa puella ***
Capitolo 1 *** Procreatix Mortis ***
Procreatix Mortis
[Dallo squarcio del diario di
Sibilla, Guerre del Mondo Emerso, Un nuovo regno, prima parte]
Perle di sudore e lacrime
di rugiada investivano il viso candido di una regina.
Era stata fin da bambina una regnante eccelsa,
aveva amministrato la Terra
del Sole con la diligenza di una donna già matura quando
invece le sue coetanee
ancora giocavano con le bambole di pezza, e i loro occhi rilucevano di
un’innocenza, che lei aveva negato a se stessa, per impugnare
uno scettro e
indossare una corona, lasciando che il loro peso gravasse sui suoi
pochi anni.
Non poteva tornare indietro, adesso. Ma se solo
avesse saputo…
L’odore del sangue le pizzicava il naso, strizzava
gli occhi e urlava; il dolore era passato in secondo piano, era la
rabbia a
farla urlare forte, mentre scuoteva vigorosamente la testa, nel
tentativo di
mandare via la
Sua
immagine.
Un uomo spregevole, che maneggiava la spada
come vivesse in funzione soltanto di quella.
Quando – ancora innocua ed illusa – l’aveva guardato
di nascosto allenarsi, pochi
giorni prima del loro matrimonio combinato, si era accorta fin da
subito che
c’era qualcosa di strano in quei movimenti. Come se non fosse
lui a maneggiare
e possedere l’arma, ma fosse la spada stessa a usare lui come
un oggetto.
Stingeva le coltri merlate tra le mani e
puntellava i piedi, poi scalciava.
«Fatelo uscire, non lo voglio, basta!» gridava,
tra lacrime, dove ancora una volta il dolore non esisteva. Per quanta
sofferenza
fisica potesse provare in quel momento, niente, neanche la peggiore tra
le
torture, poteva essere comparata al male che si provava per la perdita
della
sola cosa che avesse mai amato e desiderato.
«Maledetta febbre rossa…» mugolava a
voce
bassa, tra continui gemiti, ma nessuno sembrava capire le sue parole,
nessuno
sembrava ascoltare o soltanto provare a capire i suoi vaneggi, quelli
di una
madre distrutta, non di una regina, di una semplice madre.
Le levatrici cercavano di incoraggiarla, di
aiutarla, ma lei le spintonava malamente e guardava tutte con sguardi
iniettati
di rabbia. «Fatelo uscire!» ruggiva, la voce sempre
distorta dal rancore.
«Vostra Altezza, stia serena.» provava a
sussurrare Sibilla, una mano stretta in un pugno, che teneva poggiata
con
sofferenza sulle labbra screpolate.
Lei era l’unica che mai avesse capito quello che
la regina provava nel portare in grembo quella Creatura, frutto
soltanto dalla
violenza.
E quel nome.
Quando il re le aveva detto come si sarebbe
chiamato, la sua ira si è tramutata in un pianto disperato.
Learco. Voleva
chiamarlo Learco.
Il nome dell’Angelo che aveva deliziato e
riempito la sua vita vacua per non più di pochi anni ed ora
era andato via.
Voleva rimpiazzarlo. Un altro urlo. Ormai urlava soltanto per coprire i
vagiti
della Creatura.
«Mia Regina, è tutto finito.» mormorava
adesso Sibilla,
tamponandole via il sudore con un fazzolettino di cotone finemente
ricamato. Su
quel fazzolettino traspariva il suo nome, il nome di una regina
distrutta dalla
sua carica. Solo adesso capiva quando le sarebbe piaciuto essere
semplicemente
un’abitate qualunque del Mondo Emerso. Solo allora si sentiva
piccola, fragile,
schiacciata dal peso della corona e dello scettro, che dopo la morte
del Vero
Learco avrebbe voluto abbandonare.
Ogni volta che pensava di farlo si ritrovava
davanti l’evidenza che lo scettro fosse ormai un
tutt’uno con la mano che lo
impugnava, e la corona, quella se la ritrovava cucita sulla testa
contro
volontà.
La regina stava sempre peggio, la Creatura
era uscita dal suo grembo, ma non
smetteva di piangere, e lei piangeva insieme a questa, per odio. Odiava
quella
Creatura, la odiava con tutto il suo animo. Quel vagito alle sue
orecchie
somigliava ad una blasfemia, così per non sentirlo si
copriva la testa con un
cuscino, e continuava a urlare, a scalciare, a piangere.
«Portatelo via!», urlava, «Portatelo
lontano da
me!» e intanto le lacrime continuavano ad inzuppare le coltri
merlate di quel
baldacchino reale.
Poi la folla, urlava di gioia, acclamando la Creatura
con un nome non
suo.
No,
no, no.
La regina stringeva il cuscino più forte, come volesse
soffocarsi. Non chiamatelo Learco, no.
«Vostra Maestà, vostro
figlio…» per fermare
quell’ennesima parola blasfema soffocava un urlo feroce da
sotto il cuscino.
«Non è mio figlio. È figlio suo.
Può farne
quello che vuole, non voglio vederlo.» ormai parlava con voce
tirata, roca,
tante erano state le urla che adesso anche un sussurro le moriva in
bocca,
cercando di uscire dalle labbra secche e tese. Fuori, la folla
continuava con
giubilo i festeggiamenti in onore della Creatura. Alle sue orecchie
tutta
quella gioia era un’offesa sempre più grande.
La regina piangeva e urlava, fino a farsi male ai
polmoni per lo sforzo, fino a quando, anche l’ultimo grido di
gaiezza, si
spegneva, lasciandola finalmente sola nel suo dolore.
Ora c’era solo un’ultima cosa che aspettava. E
non era il sole dell’indomani, non era neanche
l’estate o una nevicata.
Aspettava di morire, lo voleva, lo bramava più di qualunque
altra cosa, per
potersi ricongiungere al suo adorato Learco e abbandonare al proprio
sanguinario destino tutto il Mondo Emerso.
Tutti lo meritavano, per lei nessuno era più
degno di vivere da quando Learco era morto, tantomeno quella Creatura.
Vi
narrerò, o miei amati, – cantava con
l’abilità e l’affabilità di
un cantastorie la sua
testa, a gran voce – la storia di
una
regale, la Regina Sulana
della Terra del Sole, salita al trono ancor prima di essere in
età da marito,
ma in seguito consumata e divorata dall’odio e da una vita
che l’ha spolpata
fino all’osso.
La regina lo sapeva, era così.
E in quella notte aveva avuto la tentazione di
colpire con due colpi fiacchi il campanellino in ottone che brillava
sul
comodino, alla luce sbiadita della candela, pressoché
consumata, per chiedere
ad una cameriera di portarle la Creatura.
Per
poterla vedere, e
magari cercare il lei qualcosa di Learco. Del Vero Learco.
Ma subito dopo scuoteva la testa per allontanare
quel pensiero, perdonando a bassa voce l’Anima del suo Unico
figlio per la
bestemmia cui aveva, fortunatamente, solo pensato.
Affondava il viso nelle coltri e, con un soffio
stentato, che faceva filtrare dalle labbra, lo stoppino si spegneva,
facendo
cadere la stanza nel buio.
Non avrebbe mai amato quella Creatura, né
l’avrebbe mai chiamata con un nome che di per sé
non le apparteneva.
Learco era morto, e con lui anche lei.
Dohor
poteva farne quel che voleva di quella Creatura, a lei non sarebbe
importato.
Un singhiozzo faceva
tremare il corpo della
regina, mentre lo pensava.
A
lei
non importava più niente.
-.Lo spazio diValentina.-
Volevo
solo vedere cosa ne avreste pensato di tutto questo ^^
E' la prima storia che pubblico su una delle trilogie di Licia Troisi.
Non sono abituata a scrivere su di loro, ma mi piace, fatemi sapere
cosa ne pensate, mi farebbe immensamente piacere, anche
perché davvero non so cosa pensarne.
Un grazie in anticipo, credo che posterò qualche altra
One-Shot, chi lo sa! xD Un bacio, Vale.
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Capitolo 2 *** Deliratio Ex Vanitate ***
Deliratio Ex Vanitate
[Missing
Moment, Cronache del Mondo Emerso, Nihal
della Terra del Vento, capitolo 8]
Soana si
spazzolava i lunghi
capelli neri, osservava la sua immagine alla specchio, sorrideva.
Non era
difficile capire cosa stesse pensando; pensava a Fen.
Alla
prima volta in cui l’aveva incontrato, al suo viso perfetto,
al suo sguardo,
alla sensazione che l’aveva pervasa nel momento in cui lui le
aveva sfiorato
appena la mano tremante con le sue labbra, in un baciamano computo, ma
dal
quale traspariva un fervore che la faceva sorridere ed arrossire ancora
adesso.
Proprio
come una ragazzina.
Quella
osservazione la colpì, in piena faccia, con la stessa
violenza di uno schiaffo:
le ricordò il giorno in cui Nihal aveva visto Fen per la prima
volta.
I
movimenti lenti e ritmici della spazzola si fermarono e i suoi occhi
pizzicarono
nel ricordare la reazione della ragazza. In quel momento lo specchio le
mandò
indietro l’immagine di una donna preoccupata.
Non era
gelosa, non lo era mai stata, – a sua opinione niente le
apparteneva – ma aveva
paura dei pensieri di Nihal. Era pur sempre un’adolescente. E
come tale era
impossibile da gestire, non poteva farla ragionare.
L’amore
non sente ragioni, specialmente il
primo
amore, quello adolescenziale.
Nihal non
pensava minimamente che Soana sapesse quello che provava per Fen, e
lei, di
conseguenza, non aveva intenzione di darlo a vedere. Preferiva che la
nipote se
la sbrigasse da sola, ma sapeva al contempo che sarebbe rimasta delusa,
ferita,
forse per sempre.
Il
cuore si strinse in una presa d’acciaio e la spazzola
finì per caderle dalle
mani, atterrando per terra con un tonfo sordo, l’unico rumore
che spezzò per
qualche secondo il silenzio della piccola casa ai margini del bosco
nella Terra
del Vento.
Non
voleva che sua nipote soffrisse o era la sua gelosia che,
inconsciamente, la
stava implorando di parlare a Nihal, di precisarle la situazione, di
spiegarle
che Fen apparteneva solamente a lei?
Non lo
sapeva – rabbrividì – e non voleva
saperlo.
Si
chinò su se stessa e afferrò la spazzola, per poi
riporla sul tavolino in
legno. Ancora per una volta sollevò gli occhi e, fissandoli
sullo specchio,
studiò la sua espressione mentre si faceva sempre
più divertita.
Come poteva
provare gelosia per sua nipote? Infondo era una ragazzina!
Un
risolino gioioso le scappò dalle labbra,
indietreggiò di qualche passo e si
tappò la bocca, ancora gli occhi volarono allo specchio. Si
sentiva dispiaciuta
per quella stupida gioia, era un’offesa ai sentimenti di
Nihal.
Scosse
la testa, si schiarì la voce e appiattì la tunica
sul grembo, per darsi un
contegno, dopo, con un gesto di stizza afferrò uno dei
sassolini magici che
usava per l’incantesimo di comunicazione e lo
scagliò contro la superficie
riflettente. Andò in mille pezzi, lei sorrise di nuovo.
Doveva pur sfogare la
rabbia, in un modo o nell’altro.
<<
Soana, tutto a posto là dentro? >> la voce di
Sennar, dalla cucina a
giudicare dalla lontananza, la fece sobbalzare.
La maga
ad un gesto sbrigativo della mano accompagnò una parola
biascicata in una
lingua incomprensibile, davanti i suoi occhi lo specchio
tornò integro.
Senza
rivolgere più nessuna attenzione alla suo riflesso
afferrò la mantella, che
giaceva piegata sul letto, aprì la porta e se la chiuse alle
spalle.
Soana,
datti una calmata, sei
una donna matura
– si disse, dopodiché attraverso lo stretto e
piccolo corridoio e accennò un
sorriso cordiale a Sennar, intento ai fornelli, ringraziandolo per la
colazione, poi guardò fuori dalla finestrella angusta.
<< Nihal? >>
chiese, con nonchalance.
<<
Dorme. >>
fu la risposta.
Sogna,
sicuramente Fen.
– ringhiò una vocina squittente
e fastidiosa, nella sua testa.
Soana, sei
una donna matura.
– ripeté, e, come nulla fosse,
annuì, si sedette e iniziò a bere svogliata il
latte dalla sua scodella.
-.Lo
spazio diValentina.-
Eccomi
con un’altra One-shot, forse un po’
inquietante? Lascio a voi l’ardua sentenza!
Soana:
Mi fai sembrare un’emerita pazza. U_u
Io:
Magari era proprio quello che volevo. U_u
Soana:
Ne dubito, non sei così intelligente da pensare una cosa del
genere.
Io:
heyyy!!! Se proprio vuoi saperlo Fen muore, e tu finirai per metterti
con Ido. Il MIO Ido >___<
Soana:
Fennn cosa?? O.O … e chi è Ido??
Io:
Vabbé, lasciamo perdere ^^”
Risposte:
Tawara: Hola, sono
Valentina!! *O*
Grazie per i complimenti e per l’avvertimento. Posso
controllare una storia
quanto voglio, prima di pubblicarla, ma ci sarà sempre
qualcosa che mi scappa!!
Dimmi se ti piace questa, e non ti preoccupare per le recensioni pazze,
mi
piacciono. Sono la prima a farle. xD Alla prossima, spero. Ciaooo, che
Aster
sia con te. u_u
MonyPurpa: Ma
graaaazie!! Ti ringrazio per
i complimenti, tutte le donne di questi libri mi hanno sempre
affascinato, e la
regina-bambina mi aveva praticamente lasciata spiazzata, inizialmente.
Quiiiindi,
ho provato a fare del mio meglio. :D
Sulana:
… e non ci sei riuscita!
Soana:
Almeno tu non sembri una pazza squilibrata!
Sulana:
ah no? -.-“
Io:
Basta voi due!! Alla prossima, mi auguro, ciao Mony!! *o*
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Capitolo 3 *** Illa puella ***
Illa puella
[lezioni
di volo, Nihal della Terra Del Vento, le cronache del Mondo Emerso]
Sapeva
che lui non
sarebbe tornato. L’aveva visto morire, dopotutto, ma non
riusciva a
rassegnarsi, non avrebbe mai abbassato la cresta, e nessuno sarebbe
riuscito a
tagliargliela.
Neanche quella ragazza.
Perché continuava ad
insistere? Perché faceva tutti quegli sforzi inutili per
farsi accettare?
Non lo capiva, non voleva
più capire niente. Aveva solo voglia di lasciarsi andare
alla vita e seguire il
suo compagno, come sentiva di fare, uccidendo tutti quelli che
avrebbero voluto
impedirglielo, sempre se qualcuno avesse avuto il coraggio di farlo.
Solo quella ragazzetta gli
sbarrava la strada.
Lui, dal suo conto,
sentiva già esaurire la sua scorta di pazienza, che tra
l’altro non era mai
esistita.
La allontanava, ma lei non
mollava e tentava ancora di avvicinarsi, l’aveva fatto
infinite volte.
Minacciava chiunque, ma
solo lei sembrava non essere impaurita. Non lo era mai stata, impaurita.
Tutti scappavano
incontrando il suo sguardo di braci ardenti, solo lei lo sosteneva
audacemente,
con il suo, viola.
L’aveva quasi uccisa, una
volta, c’era andato vicinissimo, ma aveva fallito, per colpa
di quello stupido
gnomo.
Il tempo passava,
lasciandolo del tutto insofferente: il dì la ragazzetta gli
parlava, parlava di
tutto, ma dopo quel giorno in cui l’aveva quasi uccisa
manteneva le distanze;
la notte, in sogno, il suo compagno, il suo unico alleato, lo pregava
di
andargli incontro, e la sua immagine, stampata indelebilmente sotto le
palpebre, gli sorrideva, incoraggiandolo, invogliandolo per quella
strada che
aveva intrapreso. Doveva continuare ad imporsi, doveva farlo per lui.
Per il
loro patto.
E poi c’erano quelle
catene, il dolore, un dolore che da un paio di giorni non voleva
ammettere gli
pesasse più del lecito.
Decise di ribellarsi e,
quando lo trascinarono al solito posto, fece di tutto per impedire ad
altri di
decidere dove lui dovesse andare, ma il dolore era diventato
insopportabile.
Solo allora si accorse
della ragazza che, con il petto gonfio d’orgoglio e lo
sguardo fiero, avanzava
a passo sostenuto verso di loro.
<< Ehi, voi!
>> la sua voce era squillante, ancora infantile, ma al
contempo trasudava
rispettabilità. << D’ora in poi non
voglio più vedere quelle catene!
>> La reazione dei due fu irrispettosa.
La cosa lo irritò
ugualmente: non voleva essere protetto da una ragazzetta. Lui si era
sempre
difeso da solo. Tuttavia era troppo preso dal dolore per curarsene.
La conversazione seguì per
un po’, ma lui non stava più molto attento, era
intento ad ispezionarsi la
ferita. Uno l’apostrofò e mise in discussione la
sua parola, lei provò ancora
una volta ad avvisarli, ma di
nuovo nessuno dei due intendeva portare lei il
rispetto preteso.
Fu un attimo, sguainò la
spada e li minacciò, sta volta non un obbiezione si mosse
contro la ragazza,
anzi, i due annuirono e andarono via con passo concitato.
Lei si voltò e lo guardò
mentre lui riversava ogni sua attenzione alla ferita, provò
ad avvicinarsi, lui
fu più veloce, si scansò e
l’avvisò sbuffando vistosamente.
La ragazza non sembrò
preoccuparsene, questo lo fece adirare ancora di più, era
già pronto ad
ucciderla, sta volta ci sarebbe riuscito, ma si fermò,
spiazzato da un
fendente, che tagliò l’aria appena sotto di lui.
La catena era andata in
pezzi e ora lei era stata veloce più di lui, chinandosi
sulla ferita.
Si sarebbe voluto
spostare, e l’avrebbe anche fatto se solo la sua ferita ora
non fosse avvolta
da un tepore che gli regalava quel
sollievo desiderato da tempo.
Curioso, chinò il capo e
notò la ragazzetta completamente dedita alla sua ferita
purulenta. La fonte del
calore erano le sue mani piccole e affusolate, protese verso di lui.
Di nuovo s’irritò, in quel
momento trovò la forza di allontanarsi e lo fece, ma come
nulla fosse lei si
avvicinò e ricominciò a curarlo.
Rimase per del tempo a
fissarla, a fissare la sue mani, a valutare l’affetto che lei
potesse
ipoteticamente provare nei suoi confronti, e si stupì nel
capire che non era
una bugia quello che lei diceva. Loro due
erano uguali.
Infelicità, confusione,
tanta sofferenza…
La ragazzina accennò un
sorriso nel notare che la ferita non era più infetta e si
deterse la fronte con
il dorso della mano, accasciandosi al suo fianco, come se si fidasse
ciecamente
di lui.
Continuò ad osservarla,
l’irritazione lasciò spazio alla
curiosità e, anche se non l’avrebbe mai
creduto, alla gratitudine.
<< Mi devi la
libertà, Oarf. Da oggi vedi di fare il buono.
>> biascicò la ragazza,
mentre si alzava in piedi e puntava il suo sguardo viola dritto in
quello di
lui.
Per la prima volta fu
accondiscendente e tornò nel suo giaciglio senza forzate.
La sera si ritrovò a
pensare intensamente quella ragazza, mentre l’immagine di
Dhuval si disperdeva.
Soffocò un ruggito. Non
voleva dimenticarlo, ma era grato alla ragazza. Tra l’altro
erano dannatamente
simili, e forse provare non gli sarebbe costato niente.
Lanciò un occhiata veloce
alla zampa quasi del tutto guarita e poi si accucciò contro
la paglia, calando
le palpebre verdi e squamose per dare riposo al suo sguardo di fuoco.
Per la prima volta, quella
notte, Oarf non sognò Dhuval.
Valentina'Space...
Non sono morta e non
sono un miraggio ;D, spero vi piaccia, bacio.
Ido: certo, ti
concentri anche su un drago, ed io???
io: sarai il prossimo,
prometto, mio macho *o*
Ido: per sta volta
posso anche perdonarti ù___ù
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