Purificationem

di Nicole Bawer
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** PROLOGO - STEAM ***
Capitolo 2: *** Dust ***
Capitolo 3: *** THE HARM ***



Capitolo 1
*** PROLOGO - STEAM ***


Purificationem - steam

PROLOGO

 

Buio perfetto come si conviene ad un prologo. Ci sarebbero voluti i riflettori, ma le cose hanno spesso il fottuto vizio di non funzionare come si deve.

Il riflettore non c'è, ci accontentiamo di una di quelle lampadine appese a qualche filo della corrente scoperto. Lampeggia un po' quella lampadina, a lei sarebbe venuta una bella crisi epilettica, in altre circostanze. Ma non adesso.

Lo spettacolo deve continuare. No, iniziare, e il suo prologo è l'ultima parte che lei reciterà.

Non ancheggia, quando cammina sotto la luce: sono le sue ossa a scivolare tra di loro, quasi usurate e appiattite, ma lei se la ride, in fondo.

La luce è sua.

“Ciao.

“Se questo film avesse un regista sarebbe fottutamente sfigato a scegliere me per cominciare la storia, sì” tira su col naso, lì nel freddo, fa un mezzo sorriso con gli occhi che per un attimo roteano in basso, le sopracciglia aggrottate quasi naturalmente.

“Però sono qui, pare”fissa davanti a sé. Eppure nessuna telecamera. Ma se ci fosse vi avrebbe centrato lo sguardo addosso.

“Voglio che sappiate che al momento sono morta e che darei centinaia di galeoni, perché voi tutti foste al posto mio” gli occhi si alzano, il bianco attorno all'iride è quasi minaccioso.

“Voglio che sappiate” dice con lentezza e sorride.

“Voglio che sappiate che io ero la sua donna. E puttana. E madre. La sua qualcosa. Voglio che sappiate, che insieme saremmo stati capaci per davvero di sterminare ognuno di voi. E se questo non vi sta troppo bene, filate pure fuori dalle palle” l'angolo destro del ghigno ha quasi uno scatto stizzito verso l'alto, per un solo secondo, come il sopracciglio.

“Voglio che sappiate”

La luce lampeggia appena, come un singhiozzo.

“Che questa storia servirà solo a farvi sapere che ho un posto per ciascuno di voi qui all'inferno. Questa qui non sarà una bella storia e probabilmente non vi piacerà. E adesso, gente, con permesso, mi levo dai piedi”

Buio.


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STEAM

Tre oggetti: il tacco basso di una scarpa di vernice nera, lucida. Un soldatino di piombo con la lancia spuntata. La pagina di un vocabolario di latino: la lettera “m”, la prima parola è motus.

Soppeso quegli oggetti, con un piccolo, brontolante gorgoglio mentale di soddisfazione.

Prendo il tacco tra le dita: insospettabilmente leggero, liscio.

Nel 1942 succedevano molte cose, nel mondo: ventisei stati sottoscrivevano la Carta Atlantica, Rooswelt scriveva lettere a Churchill per aprire un secondo fronte in Francia, gli Americani bombardavano Tokyo, i Tedeschi strepitavano parole incomprensibili, negli USA giravano “I Married a Witch” con un’attrice Babbana.

E a me non importava un bel niente di tutto questo.

Perché sapevo queste cose, allora? Per quella ronzante e incessante radiolina di legno decrepita, sulla scrivania della direttrice. E ultimamente capitava fin troppo spesso di andarci, dalla direttrice.

Diciamo da quando avevo quindici anni e lo stacco d’età con gli altri ragazzi dell’orfanotrofio era cresciuto abbastanza, da permettere di affibbiarmi qualche compito di maggiore responsabilità. E odiavo tutto questo.

Lo odiavo. E non potevo farci un accidenti.

Detestavo quest’asfissiante, monocromatico polverone, che non riusciva a toccare nulla. Che attraversava ogni cosa, come un fantasma, senza toccarla davvero, ma creando un groviglio elettrico sopra la mia testa, nella mia testa, attraverso i miei occhi.

Grovigli di luci. Giostre. Lampadine. Insegne. Faretti delle auto. Un movimento che col passare degli anni scivolava a sempre maggiore velocità, girando su se stesso, sfocato, come attraverso gli occhi di un ubriaco. Il mio solo desiderio era trovare un maledetto interruttore.

E spegnere.

 

SPENTO

BOLLETTE:

No, non sperateci davvero: non mi metterò neppure a spiegarle le conseguenze di tutto quel consumo. Né tantomeno ne pagherei le spese.

 

Quello che era allora nella mia testa comprende spiegazioni troppo vaghe, troppo tormentate e, a dirla tutta, non dicono un bel niente.

L’estate di quell’anno, come ogni anno, mi avevano rispedito all’orfanotrofio dove ero nato.

Per certi versi, qualcuno avrebbe potuto pensare che da quelle parti la guerra non fosse arrivata. L’ordine delle cose non era cambiato: quel posto era ancora solido e in piedi su quei suoi mattoncini rossicci, accanto c’era ancora una piccola gelateria che ci vendeva palline di gelato mezzo sciolte, ogni settimana, o le scatolette a cioccolato e vaniglia per il dessert della mensa.

Era mantenuto pulito, come sempre, quel posto, le stanze erano decorose e in ordine, i ragazzini erano chiassosi, si continuava a organizzare gite non troppo elaborate, ma piuttosto frequenti.

La differenza c’era stata tre anni prima, quando per ottenere un ulteriore finanziamento, la direttrice aveva a malincuore, reso misto l’orfanotrofio. Ora i ragazzini erano di più, la direttrice si era comprata qualche camicetta. Ogni tanto gliele si poteva vedere addosso, talvolta con qualche modifica che riduceva sempre più l’indumento: da camicia, a giacchetta, a gilet, fino a scomparire – il sospetto diffuso era che fosse riuscita a confezionarsi della biancheria con quei tessuti.

Quanto a me. Avrei frequentato a settembre il quinto anno della scuola di Magia e Stregoneria di Hogwarts.

Casa: Serpeverde.

Ottimi voti, favore degli insegnanti, popolarità e un significativo gruppo segreto di gente che, come me, cerca disperatamente l’interruttore.

Anzi, no. Non come me.

Con loro è più facile fare il politico, che l’intellettuale. I miei veri pensieri, li ho sempre accuratamente conservati. L’incomprensione m’infastidisce, non avrebbe senso incorrervi.

Essere prefetto a scuola era un conto, ma ritrovarmi a occuparmi di Babbani che evitavo accuratamente di toccare, era piuttosto ironico. Ecco: ironico.

E a proposito di ironia: dovrei farmeli passare gli istinti cleptomani, prima che diventino evidenti.

Sorrido, a quel pensiero. Chiudo il cassetto.

La mia camera è doppia, il Babbano nella mia stanza si chiama come me. Il che è a sua volta ironico. Ma in modo terribile.

Così non ci penso: lo chiamo per cognome.

Phinny. Mi alzo, raccogliendo un libro dal letto, scendo quella rampa e mezza di scale scricchiolanti, fino alla piccola sala adattata un po’ a salotto, un po’ a biblioteca, che sta al primo piano, tra ingresso e mensa.

Mi siedo sul divano, rovescio il polso per aprire il libro. Pozioni. Camuffato con la magia in “Robin Hood”, Incantesimi era “Oliver Twist”,  Storia della Magia era “Delitto e Castigo”.

Pozioni, tomo I del settimo anno di Tilde Melania Mallory. Studiavo i libri degli anni successivi, il mio livello lo richiedeva, secondo Lumacorno.

E il mio livello, in effetti, non doveva essere malaccio se riuscivo ad eludere la traccia e compiere qualche piccola magia. E perché negarmi quel bel paio di esperimenti interessanti, lì all’orfanotrofio. In un certo senso li si poteva considerare compiti per le vacanze, no?

Ero a metà del libro, avevo sperimentato diciannove pozioni, tutto, ovviamente, mentre Phinny andava a spiare le ragazzine più piccole di lui che si facevano la doccia.

Ragazzo disgustoso, Phinny. E chi non lo era lì dentro?

Lì nella saletta c’erano un paio di finestre piuttosto grandi, aperte puntualmente la mattina, a lasciar passare il particolare freddo tipico di quell’ora. Fuori c’erano alcuni orfani, quelli che ancora studiavano lì nell’orfanotrofio e si erano alzati presto per andare a lezione. Nell’ora di buca si ficcavano sempre fuori, col gelo, con la pioggia e quant’altro. Qualcuno provava a fumare di nascosto: quell’anno ne erano stati scoperti tre, eppure gli altri continuavano, imperterriti. Neppure ne erano capaci, a dire il vero. Ad ogni modo facevano abbastanza confusione, lì fuori, da disturbarmi.

Giro appena la testa e vedo uno di loro, con la coda dell’occhio.

Toby Catcher ha buttato il mozzicone che si è spento per la quarta volta di seguito con un “’Fanculo”.

Gli altri se la ridono, gli danno qualche pacca, dicono qualcosa che non capisco, ma il tono è udibile.

Un interruttore. Un maledetto interruttore.

Inspiro.

Le Pozioni di questa sezione del volume, si collocano su un ulteriore livello di difficoltà, in quanto nel novero degli ingredienti non troveremo esclusivamente occorrente di carattere naturale, o – come abbiamo visto nella sezione precedente – di distillati e amalgami. Troveremo, invece pozioni composte da altri sieri precedentemente studiati, la cui conoscenza…

“Ehi Catcher, Phinny ti ha fatto un ritratto per terra con un bastone, guarda che somiglianza”

“Oh, andate al diavolo!”

Risate.

La cui conoscenza, inspiro, nervoso, la cui conoscenza è essenziale per accedere a questo livello. Si presentano, pertanto, di seguito, esercizi teorici, che…

“Complimentati con me, ti ho disegnato anche quelle tue orecchie da topo!”

“Razza di stronzo!”

Ancora risate. Tosse.

Che non permettono la composizione di un filtro vero e proprio, ma che ci danno un’idea preliminare della preparazione che affronteremo.

Nel caso della Pozione…

Uno dei ragazzi fischia, dopo una breve pausa.

“Lester, guarda qui.”

Tira su col naso.

“E tu che lo incoraggi! Che bravo, perché non te ne vai a rompere le palle in una scuola d’arte, Phinny?”

“Dammi il mozzicone che hai spento, ché lo incastro qui all’altezza della bocca”

Un altro scoppio di risate, ancora più burrascoso.

Gli effetti restringenti delle tre pozioni al capitolo ottavo della sezione precedente, influiscono in un siero, solo se combinati con... Un dannato interruttore. Le dita sono serrate sulle pagine del volume, come uncini.

“Quanto sei idiota Tom!”

Dietro la finestra. Senza che io abbia formulato mezzo incantesimo, Tom Phinny solleva il bastone con cui stava disegnando sul terriccio. Un rumore.

Altri. Tonfi profondi. Il vetro dietro di me è macchiato. E’ una lunga striscia di sangue, con qualche grumo di qualcosa di indefinito.

Silenzio.

Le mie labbra sono dischiuse a lasciarmi respirare, o forse solo in un’espressione di pacato stupore. Un piccolo salto dentro di me, poi un sorriso.

Oh eccolo lì, finalmente: l’interruttore.

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Capitolo 2
*** Dust ***


Dust

DUST

 

Non c’era persona al mondo che Fedora Thomas odiasse più di sua nonna. Heather Huxley.

Secondo lei, smistare dei ragazzini a undici anni è quanto di più idiota si possa fare, dato che, evidentemente, c’è chi nasce Serpeverde e muore Tassorosso.

Sua nonna ne è un lampante esempio. Era stata una Grifondoro. Ora è un’insopportabile, acida e vecchia strega che succhia opache caramelle zuccherate e mollicce, stringendo le labbra in un’espressione piuttosto idiota.

2013: la vecchia ha ottantacinque anni. Ha ottantacinque anni e riesce ancora a insegnare Storia della Magia in tedesco.

Fintanto che rimaneva lì in Germania, Fedora poteva persino provare un certo affetto da nipote, per quella sua nonnina. Eppure da quando si era presa il meritato anno sabbatico, per scrivere quel dannato libro, non aveva fatto che crearle problemi.

All’uscita da Hogwarts, Fedora avrebbe voluto sposarsi, lavorare come una matta assieme a Logan, arrancare per un posto fisso e stipendiato, comprare una topaia di casa e mettere su famiglia. Non le sarebbe importato di cominciare da un livello tanto basso. A lei andava bene, anzi la divertiva l’idea.

I suoi genitori non si erano troppo impicciati. Era bastata nonna Heather a far sparire in fretta e furia Logan.

Voleva il suo aiuto, aveva detto, per quel libro.

La prima risposta era stata “no”, successivamente l’idea degli incassi le aveva fatto pensare che approfittare di una nonna tanto meschina, non sarebbe stato poi esattamente sbagliato.

Lei avrebbe messo da parte dei soldi, ritrovato Logan, e avrebbe vissuto come le pareva.

La certezza di Fedora era che qualsiasi idiozia avesse scritto nonna Heather, sarebbe certamente stata pubblicata e ben venduta. Ovvio, naturalmente, con la sua fama: attualmente a Hogwarts e in altre tre o quattro scuole in Europa, il libro di Storia della Magia redatto da lei, era il più aggiornato, il più comprensibile e dunque quello più in voga.

Era certo: avrebbero pubblicato anche gli sbadigli di Heather Huxley.

Ora il suo obiettivo era scrivere la biografia del Mago Oscuro sconfitto sedici anni prima, il mago di cui lei era quasi coetanea: Tom Riddle.

Non c’era persona al mondo che Fedora Thomas odiasse più di sua nonna. Specialmente in quel momento: si trovavano a Notturn Halley a ficcanasare nella casa affittata a Riddle, nel periodo in cui era commesso presso Magie Sinister.

La proprietaria di casa – una donna fastidiosamente somigliante a nonna Heather – aveva chiarito fin da subito che la casa era stata affittata anche ad altri, dopo Riddle e che quelli avevano lasciato lì roba loro. Fedora sperava fosse sufficiente questo a cambiare posto, invece sua nonna l’aveva ugualmente trascinata là dentro.

Che il posto fosse poco illuminato e, a dirla tutta, piuttosto lugubre, se l’aspettavano entrambe. In compenso era in ordine.

“Guarda guarda” aveva sorriso la nonna uscendo dalla camera da letto, con uno strano ghignetto divertito.

“Le coperte sono state rubate dai dormitori di Hogwarts, che tipo”

Giusto, si dice Fedora. Appunto numero ottantaquattro: Riddle aveva tendenze cleptomani. Quando hanno esplorato la sua stanza all’orfanotrofio hanno trovato un tacco, un soldatino di piombo e la pagina di un vocabolario di latino.

Tutto maledettamente decrepito.

Nasce il trentuno dicembre del ventisei, spaventa i ragazzini, ruba. È mezzosangue, ma discende da una famiglia pura per generazioni. I Gaunt.

Deglutisce, entra nella stanza da letto. Coperte verdi. Cuciture in filo argentato, quella trapunta sembra la cosa più calda dell’intera stanza.

L’unico oggetto che contiene un ricordo. Forse.

Comincia a rovistare nella cassettiera, tenendo il block notes tra i denti, la penna dietro l’orecchio.

Il primo cassetto è vuoto, il secondo no. Tira fuori una camicetta ingiallita, sulla schiena la stoffa è trattenuta da una spilla da balia. Come sui manichini dei negozi, le viene in mente: lo fanno per far sembrare l’abito più sfiancato. Trova un reggiseno color crema con una frase scritta col rossetto: “cute as hell”.

Tira fuori, poi, un calzettone sottile, appallottolato.

Sul fondo c’è un sacchetto di tabacco da quaranta grammi, con ancora del tabacco dentro. Delle cartine, invece, c’è solo la confezione.

La nonna fa capolino dietro di lei, le prende la camicia dalle mani.

Fa un ghigno strano.

“Divertente” dice, solo.

“Cosa è divertente?”

La nonna non risponde, fa per andar via.

“Oh be’, qui possiamo anche lasciar perdere, sai? Pare che dopo Riddle qui ci sia venuta a vivere un’altra persona. Ormai avrà contaminato quanto di utile si poteva reperire su di lui”

Esce dalla stanza canticchiando “What the little boys are made of?”, come una matta.

Fedora la insegue: che nervi. La padrona di casa gliel’aveva anche detto.

“Hai riconosciuto quei vestiti?” le chiede, seccata.

“Sì” risponde la nonna girando la testa bianca, sbirciando distrattamente Fedora con i rugosi occhi marroni.

“Sono piuttosto sicura: si trattava di una Serpeverde più grande di me di due anni. Tale Gray. Niente di ciò che cerchiamo, in ogni caso”

Fischietta, ora. Fedora sbuffa, s’infila in tasca il sacchetto di tabacco e il calzino nella borsa. Non che fumi, ma le va. Scende, seguendo la nonna, appuntando sul block notes solo il dettaglio della coperta.

“Una Mangiamorte, lei. Morta quasi subito, in realtà. Non era granché”.

Fedora fa un versetto per assentire.

“Per esempio, è durata molto di più Virginia Haze”.

Ok, pensa Fedora, ma chi se ne frega? Chi se ne frega che sa tutte queste cose, quella vecchia. Sono superflue.

Scendono in strada. C’è uno strano tintinnio d’intorno, a Fedora ci vuole un po’ per capire che sono i sonaglietti alle porte dei negozi. Guarda per un momento le vetrine impolverate. Una strega sulla trentina esce da un negozio con un cofanetto di mogano e scivola via, tutta curva.

“Penso che questo ambiente calzasse a pennello, a Riddle” commenta la nonna.

Fedora scuote la testa.

“Sarebbe piuttosto banale. Secondo me era attratto dagli ambienti più aristocratici”

La nonna non risponde, sorride un po’.

“Hai appuntato tutto, vero?”

“Sì”

“Voglio intervistare qualche orfano” dice, “tra quelli che sono ancora vivi”.

 

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Alla fine si tratta sempre di soldi, a pensarci.

Mi basterebbero quelli e, per esempio, non mi troverei qui. Mi basterebbero quelli e non dovrei trovarmi in certe situazioni degradanti, per così dire.

E tutto sarebbe: perfetto. Obbediente.

Esattamente come lo si vuole, elastico, modellabile secondo il proprio pensiero. Ad esempio, ecco: mi ritroverei a toccare scuro e raffinato legno lucido, a sedermi su poltrone comode e a leggere un libro con una rilegatura come si deve.

Invece le cose sono un po’ diverse, direi.

Alla fine, no. Non si tratta di soldi: la parola giusta è potere. Esatto: si tratta sempre di potere.

Strofino tra i polpastrelli un galeone. Un prestito: i miei insegnanti me ne fanno parecchi; mi adorano, loro. Tutti. Lui no, però.

Chissà perché, poi.

Con gli altri è talmente semplice, far sembrare sincero un sorriso, affabile e brillante un discorso. Eppure sotto quegli occhi, sotto quei dannati occhi, ogni cosa deve necessariamente vacillare. Ed essere esaminata. Chissà, poi, secondo quali criteri.

Strofino ancora un po’ la moneta, cerco con la magia di calcolarne i contatti.

È stata toccata da ottocentonovantatre persone, due delle quali sono Babbani.

Chissà in quale assurda circostanza è accaduto.

Faccio sparire il galeone tra le dita, come per magia, mi ritrovo a pensare, con un sorrisino.

Chiudo il libro che stavo leggendo, appoggiato alla stessa finestra dove un mese prima avevo involontariamente causato la follia di Phinny. L’avevano portato via, d’allora.

Tanto meglio.

Faccio per andar via, ma mi soffermo giusto un po’. Che seccatura: troppa confusione.

Sollevo un sopracciglio, ignoro. Questi dannati orfanelli, chissà che avranno da divertirsi: la maggior parte di loro finirà col crepare sotto una bomba. Sempre che non finiscano col farmi arrabbiare prima che ciò accada, come insegna il buon Phinny.

Sorrido, di quel pensiero. Dannazione, fortuna che nessuno mi legge nella mente.

Un paio di persone scendono le scale. Una ragazza, anzi due, una che sembra più o meno della mia età e una più piccola che le corre dietro.

La grande attraversa tutta la stanza, guardandomi, per un attimo, con un sorrisino di chi in realtà sta per scoppiare a ridere, dopo un dispetto.

Nuova, tra gli orfani, ma ha un’aria conosciuta. È possibile che sia una strega.

Cerco di ricordarmi. Poi mi viene in mente che sia addirittura una mia compagna di casata a Hogwarts. Soltanto che non ne ricordo neppure il nome. Questo significa matematicamente che è una studentessa piuttosto insignificante, altrimenti l’avrei registrata, come faccio con tutti.

Dà una risposta sgarbata ai balbettii della Babbana, non capisco neppure cosa abbia detto, in realtà, fatto sta che quei modi troppo vistosi sono piuttosto irritanti. Giusto un po’. Non abbastanza da rimanerne perplesso.

Davanti a loro passano un paio di orfani, m’impediscono di tenerla d’occhio, si fermano a guardarla, come confusi. Aggrotto le sopracciglia per comprenderne il motivo.

Poi lo sguardo va a finire sui vestiti di lei. Gonna nera e un maglione verde da uomo, più grande di parecchie misure.

Il mio.

La squadro e serro la mascella.

Davvero irritante.

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Capitolo 3
*** THE HARM ***


the harm

THE HARM

 

Jimmy Lewis non fu mai adottato.

Restò in orfanotrofio sino alla maggiore età: le prospettive di lavoro per uno come lui, allora, erano piuttosto insoddisfacenti. Jimmy sposò Sandra Glenn, più grande di lui di sette anni e divorziata, lavorò in una rosticceria piuttosto fuori mano, rispetto a dove abitava: si trovava a ridosso di una strada in mezzo a due o tre quartieri piuttosto piccoli, un posto frequentato abbastanza, da permettere un rendimento poco più che sufficiente.

Non faceva che preparare polli e girarli sullo spiedo, continuò a girare polli fino alla pensione, nonostante ormai il braccio sinistro fosse andato completamente, da quando aveva quindici anni.

Nonostante Jimmy non lavorasse in rosticceria da ormai parecchio, casa sua sapeva terribilmente di pollo allo spiedo. Sua moglie era morta da dieci anni e, in effetti, lui non faceva che ripeterlo sin dall’inizio della conversazione.

Fedora sorseggia il suo tè, mentre la nonna non ha ancora toccato il suo.

“Riddle, Riddle. Era un po’ un punto di riferimento là dentro: frequentava una scuola fuori città, capite? Roba per gente importante. Tutti avevano grandi aspettative su di lui.”

A settantanove anni suonati, il signor Lewis spesso ripeteva le stesse cose una decina di volte. I nipotini erano nella cucina, attraverso la porta che comunicava col salotto, Fedora poteva vederli giocare con un curioso aggeggio Babbano, collegato a – sì quella la riconosce, ormai le si vedono ovunque – una televisione.

“Viveva ancora all’orfanotrofio, quando ho cominciato ad avere problemi al braccio,” si indica il braccio sinistro, il pollice e l’anulare di quella mano sono stati amputati.

“Avrò avuto otto anni, credo. Non che lui vivesse lì troppo a lungo, intendiamoci. Ci veniva solo d’estate. Sfido io: finiva di fare il prefetto a scuola e la direttrice lo riempiva d’incarichi, perché era uno dei più grandi.” Ridacchia divertito, la nonna lo imita: che vocetta quei due vecchietti, si ritrovò a pensare Fedora, piuttosto agghiacciante.

“Pensiamo di essere imparentate con lui,” spiega la nonna, fingendo un tono appena malinconico, girando il suo tè col cucchiaino, poi lo sbatte delicatamente sul bordo, per far cader via le goccioline.

“Purtroppo una volta individuata questa pista, abbiamo saputo che era già morto da circa sedici anni. L’unico modo per sapere se noi eravamo la sua famiglia, ora, è raccogliere testimonianze qua e là.” ormai è la terza volta che la nonna lo ripete: perde colpi anche lei.

“Sì, naturalmente, naturalmente.”asserisce il vecchio.

“Oh, allora, vediamo: ho già detto che era tra i più grandi, sì. A volte teneva d’occhio i più piccoli, o gli si chiedeva di dare qualche dritta ai nuovi arrivati. Non aveva un gran rapporto con i suoi coetanei, però. Da piccolo doveva essere stato un po’ aggressivo con qualcuno, tendevano ad aver paura di lui. Ah e poi ci fu quel giorno, quando arrivò lì una sua compagna di scuola. La direttrice andò su tutte le furie.”

“Ah, sì?” Fedora smette di rimestare lo zucchero rimasto sul fondo, col cucchiaino.

“Come si chiamava? Era una certa Haze, forse? Virginia Haze?” tenta nonna Heather.

“Oh, non mi ricordo certo il nome. Però sì, sì può essere, era una ragazzina talmente magra.”

“Cielo, può darsi sia proprio la Haze.” fa la nonna, con un ghignetto.

“Quanto astio.” mormora Fedora, con un mezzo sorriso.

“Quella sì che ha dato un bel po’ da pensare a Riddle: in una sola giornata, ha rubato gli abiti di alcune sue compagne lì all’orfanotrofio e il maglione di lui, l’ha provocato – e lui, pensate, ha mantenuto la calma in maniera talmente diplomatica -, ed è finita in infermeria per una crisi epilettica.”

Fedora non scoppia a ridere, solo perché non le pare il caso. Diplomatico, certo: doveva averla maledetta per punizione, altro che crisi epilettica.

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Il soffitto di quel posto del cazzo spunta fuori dal colletto di un maglione, l'aria le graffia il viso o magari è solo quella sua buffa euforia che ancora le serra lo stomaco e che ogni tanto lei richiama, per farla scorrere lentamente, finché il suo effetto non si dissolve. Non dovrebbe essere euforica: non poi troppo, visto che si ritrova, suo malgrado, ancora in mezzo a Babbani.

Ma lo è. Euforica: per quello che ha fatto. Da sola, con le sue mani. Le guarderebbe volentieri, con soddisfazione, ma la vocetta di Beth s'intromette nei suoi pensieri.

"Ma è di Riddle quel..." il volume della sua voce si abbassa a fine frase, lasciandola incompleta. Lei alza gli occhi al cielo e ridacchia.

Apre qualche altro cassetto, trovandolo vuoto, gira i tacchi e fila fuori dalla stanza, i passi che risuonano appena come se le facessero da colonna sonora. Sì, insomma, qualcosa come Honky Tonk Train Blues. Il maglione le va largo, entra in un'altra camera, deve essere di qualche ragazza, sospira, e si mette a cercare lì qualcosa che attiri la sua attenzione. L'incendio le ha fatto fuori anche le mutande e ora non ha più niente.

Fischia soddisfatta, trovando tre reggiseni e una camicetta appena decente.

"Ok, bene." lancia quello che ha trovato a Beth, dietro di lei, che riesce, pare, ad afferrare tutto, giusto con qualche urletto di sorpresa; lei l'ignora e si sfrega le mani, ragionando sul da farsi con Honky Tonk Train Blues ancora nella testa.

Ricorda il pianoforte in casa di suo padre che la suonava, senza che nessuno lo toccasse, rivede se stessa ballare con sua madre. Suo padre che fuma. Mentre ci ripensa, ghignando a occhi socchiusi, scende le scale, torna al piano di sotto, in quella specie di sala, dove si riuniscono i mocciosi più pigri, o quelli che vengono pestati dai più grandi, se solo mettono piede fuori.

Percorre le scale con troppa frenesia, al punto che rischia di rotolare giù un paio di volte. Quando arriva, con la musica nelle orecchie, gira su se stessa, i tasti del pianoforte che immagina vengono schiacciati così forte che il suono è dannatamente intenso e la fa sentire ubriaca, o con la febbre. Decide di smetterla, però.

Si ricompone, come meglio può e cammina per la stanza, lo sguardo attraversa l'arredo povero di quel postaccio, i suoi divani sbiaditi e un gruppo di orfanelli che cerca di trafficare di nascosto con una bottiglia; infine cade su un ragazzo che le sembra di aver già visto. Aggrotta le sopracciglia, mentre Beth farnetica qualcosa che lei non sta neppure a sentire, fa scorrere nella sua mente qualche possibile concordanza e poi rammenta.

Shelley le aveva scritto per lettera – citando sin troppo meticolosamente la catena di informatori – che il tipino sul divanetto che se ne sta a leggere da bravo mago asociale, da quell'anno, sarebbe diventato il loro prefetto, insieme a Blackwood e al posto di Barrows e Gregory.

Tu guarda, un altro mago ficcato tra i Babbani. Ma non un puro. In quei libroni che suo padre aveva in biblioteca – roba vietata, sembrerebbe – dove erano riportate e aggiornate le genealogie di ogni Purosangue al mondo, lui non c'era. Gliel'aveva detto suo padre, quando, da piccola, le chiese di elencargli i cognomi dei compagni di casata, alternando “Sì”, “No”, a seconda di chi potesse o meno permettersi di frequentare. Poi lei era diventata uno scorbutico serpentaccio a sonagli e aveva finito con l'evitare anche i puri, se non le andavano a genio.

“Orasiarrabbiaorasiarrabbia.” fa, infine, la voce di Beth, rassegnata e lamentosa.

Guarda ancora un po' il ragazzo, che solo ora solleva lo sguardo – non la testa – per guardarla, poi fissa la parete, si avvicina alla porta.

La musica è definitivamente sfumata via, l'euforia si inabissa in un attimo in un freddo fumo nero. Risentimento.

Diciotto. No, diciannove.

Diciannove giorni ancora tra controlli all'ospedale, breve interrogatorio per stabilire se l'incendio fosse o meno doloso, incontro con lo psicologo per verificare se la cosa l'avesse scioccata troppo o troppo poco, ramanzina di qualche addetto a chissà cosa per il calcio nelle palle rifilato allo psicologo.

Diciannove giorni passati ancora in mezzo a uffici Babbani o ospedali, diciannove giorni di pazienza e di malriusciti tentativi di autocontrollo.

Se la ragazza fantasticasse o definisse cose di questo genere, probabilmente immaginerebbe i suoi nervi come un gruppetto infuriato di donne in sindrome premestruale, che servono a un bar, dove vengono solo operai grassi e maschilisti e il padrone è un molestatore viscido sulla cinquantina.

Diciotto. Fanculo, probabilmente sono molte di più.

Ma fingiamo che siano solo diciotto. Diciotto orfanelle in un quadrato mattonato che si chiama Wool, o Wood – deve controllare se è una “l” o una “d”.

Dalla tasca della camicia di uno dei ragazzini sporge una sigaretta: l'idiota non l'ha neppure nascosta bene. Così, invece di uscire dalla stanza, Efimiya Gray si gira, lo raggiunge e gliela sfila, se la mette tra le labbra, spenta. Socchiude gli occhi, simulando un'espressione beata.

“Mh, buona.” fa, pronunciando male le parole.

Non sa perché fa così: non sa se questi gesti hanno più qualcosa di isterico, che allegro e beffardo. Anzi, è sicuramente così.

“Ragazza.”

“Oh, ecco.” fa Beth.

Efimiya si gira verso il ragazzo. È il mago. Cioè, il prefetto. Come si chiama?

“Ah ah?” fa, togliendosi la sigaretta dalle labbra, con le dita, come se la stesse fumando per davvero.

Quando il ragazzo si avvicina, per qualche motivo, l'aria si raffredda, se non fosse per la Traccia, Efimiya penserebbe a un incantesimo. L'effetto è quasi piacevole, le strappa un ghigno.

“Quel maglione.” dice lui, calmo, con un'espressione che sembrerebbe affabile.

“Sì?”

“Credo proprio che sia mio.” stavolta accenna un sorriso. Lei fa una smorfia: le sembra un sorriso falso. Ok, giochiamo a fare gli affabili, signor prefetto.

“Oh,” fa lei, stirando un attimo le pieghe all'altezza della pancia, con la mano.“ Sì, qualcuno deve avermelo detto.” Beth dietro di lei emette un verso sconsolato.

“Se non hai roba da metterti, devi parlarne con la direttrice. Ti accompagno?” il Babbano dietro di lui la sta incenerendo con lo sguardo, per il furto della sigaretta che non può neppure reclamare.

Divertente, tutto sommato, quel posto.

“Va bene.”

“Solo che questa qui non puoi fumarla,” dice, togliendole la sigaretta. Poi si gira verso il ragazzino.“Dato che è vietato. Vietato, giusto?” il ragazzino fa una smorfia vagamente animalesca, poi abbassa lo sguardo.

“Sì, Riddle.”

Lui le fa un cenno, esce dalla stanza, procede per il corridoio; lei lo segue incuriosita.

“Riddleriddelriddle” canticchia lei.

Lui continua a camminare, le dà le spalle.

“Fa rima con un sacco di cose, non te l'hanno mai dato un soprannome?”

Lui non le risponde, lei sorride e riprende: “Sì, sai, qualcosa come Giggle, Nipple, Jingle, Middle.”

Lui si ferma, il sorriso di lei si allarga.

Ora le tornano in mente molte più cose su Riddle: è un ragazzo che piace a parecchie, a scuola ed è quel nome che spunta fuori anche troppe volte a lezione, visto che è il secchione di turno.

Il fottuto signor “Quindici punti a Serpeverde”.

Lui si gira appena, l'espressione come pensosa e preoccupata, si posa le dita suella tempia sospirando.

“Cielo. Che insubordinazione.”

Efimiya sente dapprima soltanto uno schiocco sonoro vicino al viso, poi la guancia riscaldarsi, può persino immaginarla mentre si arrossa, istintivamente porta la mano a toccarsi dove le fa male.

Sbatte le palpebre incredula, una voce nella sua testa come allarmata che le fa: “Mi ha dato uno schiaffo?!”

Lo guarda starsene lì, con le dita ancora tese, in una posa quasi aggraziata, l'espressione seria.

“Mi hai appena dato uno schiaffo!” ringhia.

Lui non le risponde, le sfila il maglione e la scaraventa a terra, lei cerca di puntellarsi sui palmi delle mani, quelli scivolano appena sul pavimento: ha le mani sudate.

“Robaccia infettata come questa,” dice, sollevando tra le dita il maglione. “Non intendo più indossarla.”

Il maglione prende fuoco, lui lo lascia cadere per farlo incenerire a terra, poi il fuoco sparisce. Efimiya sgrana gli occhi. Quello era un incantesimo. O forse lui aveva un accendino e lei non l'ha visto. Trae un respiro col naso, quasi si sente raschiare; deglutisce.

“Tu,” le viene fuori dalla gola come un verso a metà tra un ringhio e una risata.

Porta le braccia attorno alla sua stessa vita, per sopportare il freddo.

“Tu dici che sarei io quella infetta? Disgustoso Mezzosangue, sei tu la vera feccia.” così dicendo, rovescia il capo all’indietro e scoppia a ridere, coi capelli che le solleticano la schiena. Sembra pazza.

Lui inarca le sopracciglia, le dà le spalle; uno dei ragazzi si affaccia al corridoio, lui lo raggiunge, gli dice di prendersi cura della ragazza nuova, che per qualche motivo sei è spogliata e l'ha aggredito. L'orfano annuisce e fa per raggiungerla. Riddle si allontana, lei può vederlo in fondo al corridoio, come se stesse per svoltare l'angolo e sparire alla vista, ma comunque lì, in linea d'aria.

Poi il dolore. Dal nulla, lancinate, terribile, come gelo che sveglia le membra, le ridesta, con una sola unica consapevolezza che diventa imponente e assoluta come un dio. Un grottesco dio che calamita su di sé ogni interesse, ogni funzione del corpo, ogni allucinazione. Do. lo. re.

Dolore. E le sue grida devono essere preghiere.

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“Crisi epilettica, mh?” fa Fedora. Si trovano ormai a miglia di distanza dalla casa di Jimmy Lewis e Fedora comincia a essere stanca di starsene lì in mezzo a vecchietti ficcati già per metà in una cassa da morto. Sospira.

Prima che accadesse tutto quello che era accaduto, non aveva mai provato moti di odio verso la nonna, ma quando esci dall'allucinazione della tenerezza della famiglia, ti rendi conto di tutto il reale squallore di una persona, ne noti ogni difetto, ne vedi le ripugnanti debolezze, ne comprendi le banalità. E la nonna – è evidente – era una delle stupide troiette infatuate di quello che sarebbe stato il genocida che aveva ingannato e mentito a tutti.

Perché glielo leggeva in faccia, a sua nonna, che quella per Lord Voldemort e la sua reale vicenda biografica era un'ossessione malsana. Chissà cosa voleva scoprire realmente. Fedora sorride di quei pensieri. Non sa nella vita di chi alto dovrà frugare, come una ladra, ma comincia a pensare che quella ricerca comincia ad avere un interesse.

 

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Dovrei essere più cauto.

Davvero la maledizione Cruciatus è stata un azzardo, considerando, tra l'altro, che era la prima volta che la utilizzavo. Ma diciamo che curiosità e una buona dose di rabbia sortiscono in me effetti non esattamente controllati, suppongo che rimarrà per sempre una mia debolezza.

Storco le labbra quando mi passa per la testa quella parola, cercando un sinonimo che mi suoni meglio.

Pecca ecco, direi che si addice molto di più a me.

Che seccatura. Ho architettato tutto abbastanza bene, perché non fossi incolpato di nulla. Ogni perplessità era stata razionalmente giustificata. La ragazza non ha più indosso il maglione: naturalmente quella capricciosa me l'ha lanciato addosso, rifiutando l'aiuto che le avevo pazientemente offerto davanti a tutti. Si è sentita male subito dopo e questa non è certamente colpa mia. La facciata ecco.

Eppure, quella facciata deve pur sempre fare i conti con la fama oscura che mi trascino, da quando ero bambino, lì all'orfanotrofio. E quindi? Be' sono pur sempre uno dei più grandi e con un paio di non richieste responsabilità. Ero il terzo da quel pomeriggio a dover sorvegliare la malata lì nel lettino. Che seccatura, appunto. Quelli del mio anno, all'orfanotrofio, in un certo senso equivalevano ai prefetti di Hogwarts. Guardo la ragazza. Come le è venuto in mente di svenire? Che razza di gracilina.

Non ho potuto neppure protestare troppo. Il professor Silente mi tiene già abbastanza d'occhio, mi costa fatica compiere incantesimi, impedendogli di controllarmi e ostacolarmi, dato che prendo ogni dovuta precauzione. Eppure sono convinto che la strega orfana sia finita lì proprio a causa di Silente. E allora è meglio non insospettire nessuno ed essere paziente. Ancora. E ancora. Ma non per sempre.

Sbircio nuovamente la ragazzina, oltre i fogli dello stesso libro che sfogliavo, prima che lei arrivasse a fare baccano giù in sala. Le pagine sono così sottili e lisce che sembrano tessuto, se mi concentro su questo posso persino ignorare la ragazza fastidiosa che se ne sta a dormire sul letto dell'infermeria. E volendo posso sopportare gli altri pochi giorni di noia, prima del rientro a Hogwarts.

“Ipocrita.”

Non mi sono accorto di quando la ragazza si è svegliata. Non la guardo, naturalmente.

La sento schioccare appena la lingua, “Quella era una M.S.P.” dice lentamente, la voce calma, al punto da non promettere niente di buono, alzo per un secondo gli occhi, poi torno al libro e cambio pagina.

“Ipocrita, mh? Che cosa intendi?” paragrafo terzo, eccolo. “Una M.S.P? A cosa ti riferisci? Non è colpa mia se hai attacchi epilettici in pieno corridoio.”

“Aspetta che torniamo ad Hogwarst e vedrai.”

“Sarà che ti agiti troppo, sicuro. Se ti sbracciassi meno non accadrebbe, non credi? Certe persone finiscono per rimanere paralizzate appena prima di smettere di fare maratone.” ma di che diavolo parlo? Non c'era bisogno di stuzzicarla, ma sono talmente vendicativo, sospiro rassegnato.

Non risponde. Ottima cosa. Ritorno al libro. Anzi, che sciocchezza, devo avvisare quella disgustosa direttrice, così almeno potrò lasciarla in mano a qualche Babbano che se ne occupi come si deve. Ora l'avviso e potrò tornare a farmi gli affari miei. Faccio per alzarmi, apro la porta e mi sporgo. Ecco che passa quel verme di Jimmy. Obeso, lui. E disgustoso, come qualsiasi Babbano.

“Ehi, Jim,” fingo gentilezza, quasi. E distacco, ovvio. “La ragazza si è ripresa, dì alla direttrice che può mandare qualcun altro a occuparsene” dico, calmo.

Jimmy sorride, un sorriso ebete. Distacco. Una barriera, che non mi tocchi nemmeno. Invece, mentre Jimmy avanza, dondolando nella sua forma grassa, mi sfiora la mano. La ritraggo. Jimmy sente il movimento ma non si gira, temendo di essersi sbagliato, indugia un attimo, poi sorride e va via.

“Bene.” dico, cercando di riscuotermi con la mia stessa voce. Eppure trema appena. Nervosamente. Mi avvicino al lettino e mi chino, affinché solo lei possa udirmi. “Adesso verrà uno dei tuoi amici Babbani ad accudirti, non sarebbe il primo che lo fa, a quanto dicono” mi ero ripromesso di non darle più tanta importanza da provocarla, ma sono nervoso. Troppo.

La porta si apre, una ragazzina entra con dei vestiti, arriva anche un ragazzo, che si mette ad aspettare fuori, per darle il tempo di vestirsi. Insieme a loro c'è Jimmy, che saluta e se ne va, massaggiandosi il braccio con cui mi ha urtato poco prima.

“Ecco, la direttrice verrà tra due ore, più o meno, nel frattempo resta qui” fa la ragazza, le appoggia gli abiti ai piedi del letto. Sospiro, finalmente posso andare. Esco, lasciando quei due a badare a lei, ma non faccio in tempo ad avviarmi, che la vedo schizzare via dalla stanza.

“Piantagrane.” sussurro stizzito, riesco ad afferrarla appena passa, la sbatto in camera chiudo la porta, lasciando fuori gli altri due ragazzi.

“Che fai? Eh?” guardo i vestiti a terra. “Smettila di creare problemi. Sei fastidiosa.”

“Presuntuoso,” sorride lei, si è puntellata con le mani sul bordo del letto, per non scivolare, la testa china coi capelli scarmigliati che le ricadono sul viso e lo sguardo aguzzo, sgraziato.

“Non sono il tuo clown, non agisco per annoiarti o divertirti, non me ne frega un cazzo. Io sono così e sono io ad andarci di mezzo, quindi torna a leggere e levati dalle palle.” così dicendo, fa per oltrepassarmi; prima che lo faccia, le afferro il polso, lei non è neppure davanti a me, con la coda dell'occhio vedo il suo orecchio e i suoi capelli che al momento sembrano un nido di tordi.

“La verità.” sento il mio stesso tono freddo e serio.

“Ti manda Silente è così?”

Lei ridacchia, io aggrotto le sopracciglia.

“Ma bene, allora aveva ragione lui. Sei intelligente.” con uno strattone libera il polso.

“Sì, Riddle, perché altro credi che sia qui? Da sempre sono io il suo braccio destro. Ti osserva da un po', ma questo lo sapevi,” fa una breve pausa, mentre io irrigidito, assorbo quelle informazioni.

“Oppure no? Eh Riddle?”

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