Monique

di Soffiotta
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Prologo ***
Capitolo 2: *** 23 Maggio ***
Capitolo 3: *** Acqua ***
Capitolo 4: *** Clara ***
Capitolo 5: *** Influenza ***
Capitolo 6: *** Corridoio ***



Capitolo 1
*** Prologo ***


Prologo.






 


 
 
Tutti. Tutti siamo destinati ad arrivare al capolinea.
La nostra vita è un treno che non si ferma per niente e nessuno.
Ma possiamo controllare le fermate, e decidere chi far salire sul nostro vagone. O chi far scendere.
Solo così, possiamo ingannare il tempo, tenendo vicino a noi le persone che amiamo. Quelle che veramente sono essenziali per noi.
La vita, sì la vita, in realtà è solo un viaggio.
E io, Monique, vi racconterò il mio, di viaggio.
 

 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
Eccomi qui, con una nuova storia. Ormai questi personaggi sono diventati parte di me, spero che li amerete come è successo a me. Aggiornerò una volta a settimana, ma se le recensioni saranno “abbondanti” magari potrei aumentare la frequenza (:
Fatemi sapere se vi piace (:
Baci,   

Sofia.

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Capitolo 2
*** 23 Maggio ***



 

CAPITOLO 1- 23 MAGGIO






 





 
I miei occhi corrono velocemente sulla vetrata fredda dell’ospedale. La pioggia cade senza sosta e rende la sala d’attesa ancora più cupa del solito.
Mi stringo nel giaccone invernale, alla ricerca di un po’ di calore. Purtroppo in questa stanzetta i termosifoni sono spenti, l’ospedale non ha molti soldi.
Ma ormai ci ho quasi fatto l’abitudine a questo freddo e a questa stanza. Ogni martedì, giovedì e sabato entro qua dentro e ci rimango per tutto il pomeriggio. Un inferno, praticamente.
La processione settimanale all’ospedale è iniziata precisamente due anni e sei mesi fa. Quando i medici hanno comunicato a mia nonna che soffriva di insufficienza renale. Da allora, tre volte alla settimana, la dialisi l’attende.
Adoro mia nonna, ma quando la guardo nei suoi occhi vispi, che né la vecchiaia, né la malattia hanno spento, ho paura.
Ho paura di perderla da un momento all’altro. Ho paura di rimanere per l’ennesima volta sola.
Lei fa finta di niente, mi ripete in continuazione che si sente come quando aveva vent’anni. Ma più di tanto non si può negare l’evidenza. Non si può negare il suo respiro affannato per ogni piccolo sforzo.
Infondo non dovrei avere tutta questa paura, voglio dire, si sa che le persone anziane prima o poi ci lasciano, è il normale ciclo della vita. Bisogna farsene una ragione.
Ma io non posso perdere la mia unica, cara nonna.
Perché io, Monique, 17 anni appena, sono orfana. E mia nonna è l’unico appiglio a cui posso ancora aggrapparmi. L’unico.
Nemmeno la mia migliore amica potrà mai capirmi fino infondo, per quanto possa volermi bene.
Andiamo, lei quel maledetto 23 maggio non c’era. Lei i genitori ce li ha ancora.
Il ricordo di quel giorno mi passa velocemente davanti agli occhi, accompagnato da una fitta al cuore che ormai è legata al ricordo della mia famiglia.
Quel 23 maggio tutto era perfetto. Papà aveva chiesto al suo datore di lavoro il sabato libero. Permesso dato.
Ci portò al lago. Disse che sarebbe stato tutto magnifico, tutto perfetto. E infatti fu tutto così, ma solo fino ad un certo punto.
Partimmo al mattino presto. Papà, mamma, io e Gabriele. Gabriele, mio fratello. Ai miei occhi la persona migliore che fosse mai esistita.
Di solito tra sorella e fratello, soprattutto se il fratello è più grande (come nel nostro caso), non c’è per niente amore fraterno. Ma fra noi no. Noi eravamo diversi. Gabriele mi aiutava in tutto, e mi trattava come se fossi stata una gemma preziosa, da curare e da proteggere, da tutto e da tutti.
Quel mattino ricordo ancora che io e Gabriele eravamo seduti sui sedili posteriori della nuova macchina di papà, impegnati a pianificare il programma della giornata.
Mamma e papà davanti. A ogni semaforo rosso si davano un bacio. Si amavano, oh quanto si amavano. Eravamo il ritratto della famiglia felice. Sembrava tutto perfetto. Sembrava…
Passammo la giornata a ridere come non mai. All’ora di pranzo papà preparò la carne alla brace. Buona come solo lui la sapeva fare. Poi mamma stese gli asciugamani sulla riva del lago. Sento ancora le sue parole:”Sembriamo due mozzarelle! Dobbiamo assolutamente abbronzarci!”. E così facemmo. Prendemmo tanto di quel sole che le spalle diventarono rossissime. Papà e Gabriele invece andarono a pesca. Un sano momento padre-figlio.
Poi arrivarono le sei di sera. L’ora per ritirare tutto sulla macchina, e, a malincuore, tornare a casa.
Feci per raccogliere l’asciugamano da terra ma mamma mi fermò.
Ero stranita. Mi aveva appena detto che dovevamo ritirare e tornare a casa. E anche papà e Gabriele stavano facendo lo stesso.
Poi mamma si avvicinò a papà e dolcemente gli sussurrò qualcosa. Non capii bene tutto, riuscii a captare solo un “credo che sia il momento adatto per dirglielo”.
Mi preoccupai di quella affermazione, ma subito cambiai idea. Papà sorrideva, mamma pure. Doveva essere per forza qualcosa di bello.
“Monique, Gabriele” iniziò mia madre con il suo bellissimo sorriso “io e vostro padre vorremmo dirvi una cosa”
“Dai mamma non farci preoccupare” disse Gabriele. Io non ero preoccupata, no, i miei erano felici, ma ero curiosa. Molto curiosa.
A quel punto iniziò papà a parlare “Be’, sapete che tutti gli anni facciamo questa gita al lago, giusto?”
Io e Gabriele annuimmo nello stesso istante.
Poi mio padre prese un respiro e ci diede la notizia “Be, diciamo che il prossimo anno non saremo più in quattro ma in cinque” in quel momento tutto mi fu chiaro.
Mamma, mamma era incinta!
Saltai in piedi dalla gioia, e con me Gabriele. Ci fiondammo sui nostri genitori per abbracciarli.
Continuavamo a ripetere all’incirca tutti le stesse cose, ovvero quanto eravamo contenti e quanto tutto era stupendo.
Mamma disse che era incinta di due mesi.
A quel punto nulla poteva andare storto. Era la giornata ideale. Il sogno di ogni adolescente, stare in una famiglia dove esistono solo sorrisi.
Ma purtroppo ben presto arrivarono anche le lacrime.
Ritirammo tutto e salimmo in macchina ancora tutti elettrizzati per la bellissima notizia.
Con la macchina ci dirigemmo verso la strada principale quando ad un certo punto mamma si accorse di aver dimenticato un asciugamano in riva al lago.
Fece per scendere, ma l’anticipai. Non volevo che facesse alcun tipo di sforzo. Lei in grembo aveva una vita, un nuovo cuoricino che già batteva ritmicamente.
Papà, mamma e Gabriele mi aspettarono in macchina, con il motore acceso. L’asciugamano era veramente vicino. Ad andare e tornare non ci avrei messo nemmeno due minuti. Raggiunsi l’asciugamano, che era ancora caldo per l’effetto dei raggi del sole del giorno che stava terminando.
Lo afferrai e mi girai verso la macchina. Mi aspettavano. Sorridevano. E io sorridevo a loro.
Poi successe tutto all’improvviso.
Un camion proveniente dalla strada principale sbandò. La sua velocità era elevatissima.
Ebbi la “fortuna” di assistere a tutta la scena.
Il camion si schiantò a tutta velocità contro la nostra macchina, facendola andare a sbattere contro un muro. Lì dove si accartocciò, come una lattina vuota.
Peccato che la macchina non era vuota.
Lì dentro c’era la ragione per cui vivevo. C’era la mia famiglia.
Il camion continuò la sua corsa fermandosi qualche metro più in là anch’esso contro un muro di cemento.
In quell’attimo non seppi cosa fare.
Volevo correre, ma avevo le gambe immobilizzate.
Volevo urlare, ma avevo la gola completamente secca.
Volevo piangere, ma forse ero troppo impegnata a fissare la lamiera accartocciata per poterlo fare.
Poi realizzai che non potevo rimanere lì, ferma.
Iniziai a correre, diretta verso l’ammasso di lamiera che una volta era la nostra macchina.
Arrivata lì davanti mi si parò davanti uno spettacolo raccapricciante.
Mamma, papà e Gabriele.
Completamente ricoperti di sangue.
Attraverso l’apertura dove fino a poco tempo prima si trovavano i finestrini allungai le mani verso mia madre, che giaceva sotto l’enorme quantità vermiglia.
Gli toccai il collo, per sentire il battito. Proprio come mi avevano insegnato al corso di pronto soccorso.
Niente. Il suo cuore si era già spento. Così come quello del suo piccolo che portava nel grembo.
Avrei voluto piangere. Buttarmi a terra e gridare “perché a me?”.
Ma non potevo. Dovevo aiutare papà e Gabriele.
Con fatica mi allungai verso papà, le cui mani tenevano ancora stretto il volante. Papà, guidatore provetto. Le mie dita toccarono il suo collo, così come avevano fatto con la mamma.
Niente. Quel camion impazzito si era portato via anche la vita di mio padre.
Cercai con tutte le mie forze di trattenere le lacrime che pungevano gli occhi per uscire.
Guardai all’indietro. Sul sedile posteriore giaceva Gabriele. Con i suoi capelli biondi che in quel momento erano terribilmente macchiati di sangue.
Valutai il modo di poter spostarmi sul sedile posteriore. La macchina era veramente molto accartocciata. Fuori dall’auto vidi la gente che iniziava ad arrivare di corsa per venire in soccorso.
Venite, venite. Tanto ormai non c’era più nulla da fare. Mi avevano tolto i genitori. Coloro che con tanto amore mi avevano dato la vita.
Impossibilitata di raggiungere Gabriele lo fissai con gli occhi ormai pieni di lacrime.
Sentivo le voci della gente fuori che parlavano al telefono e davano informazioni sull’accaduto.
“L’ambulanza arriverà a momenti” disse un uomo sulla cinquantina.
Dietro di me arrivarono diverse persone che cercarono di farmi allontanare dalla macchina, dicendo che era pericoloso.
Ma io non volevo. Gabriele forse era ancora vivo. Io non potevo abbandonarlo proprio adesso. Quando più ne aveva bisogno.
Le lacrime iniziarono a scendere. Calde e veloci. Solcavano il mio viso lasciando piccole tracce.
Alle lacrime si mischiarono i singhiozzi, sempre più incontrollabili, sempre più forti.
Mi isolai dal mondo. Non sentivo più niente. Né la gente fuori che urlava. Né le sirene in lontananza.
Ero concentrata solo sul viso di Gabriele.
“Monique” disse ad un certo punto una voce. Era Gabriele. Il mio Gabriele.
“Oh Gabri, ti prego resisti. Non mi lasciare adesso. Ti prego. Io ti voglio bene!”
Implorai. Anche se sapevo che non sarebbe servito a niente.
“Monique” mi ridisse Gabriele “Ricordati che ti voglio bene, e che sei la persona migliore che conosco.”
Con queste parole chiuse definitivamente gli occhi.
Già, Gabriele non aprì mai più gli occhi. Gabriele morì pochi minuti dopo quelle ultime dolci parole. O almeno così mi comunicarono i medici che lo soccorsero.
 
Io di quel maledetto 23 maggio ricordo nitidamente una cosa.
Che un camionista, ubriaco, mi ha portato via le cose più importanti per me.
Mamma, papà, Gabriele e il piccolo fratellino o sorellina che ancora riposava nel grembo della mamma.
Fisso la vetrata dell’ospedale. Ha cessato di piovere.
Guardo l’orologio. Bene, a minuti la nonna avrà finito.
 
 
 

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Capitolo 3
*** Acqua ***


Monique




CAPITOLO 2 – ACQUA






 

 
“Nonna eccoti!” Dico fissando mia nonna che esce dalla saletta della dialisi. Io non entro mai con lei, mi fa impressione il sangue.
Stanca ma sorridente mi viene incontro e ci dirigiamo verso l’uscita.
Nonna mi inizia a parlare, ma io non l’ascolto. Sono troppo impegnata a fissare una scena davanti a me che mi ipnotizza immediatamente. Una donna. Una donna che piange e si stringe al marito, suppongo.
Cerco di ascoltare cosa dice fra i singhiozzi. Capisco solo un “ce la farà”.
Poi vedo i suoi occhi posarsi su di me e non posso fare a meno che sentirmi in pena per lei. Non distoglie lo sguardo dai miei occhi e continua a fissarmi. Vedo le sue lacrime scendere veloci e finire la loro corsa sul maglione dell’uomo che la stringe.
Non riesco a pensare ad altro se non a tutta la sofferenza che si può trovare dentro un ospedale. Chi più chi meno, le persone che vengono qua non lo fanno certo per divertimento.
“Monique, mi stai ascoltando?” mi dice ad un tratto la nonna tirandomi uno strattone.
Evidentemente si è accorta che stavo pensando a tutt’altro che al suo discorso.
“Ehm sì scusa. Dicevi?”. Nonna sbuffa ma poi sorride, lo sa che mi perdo spesso nei miei pensieri.
È una mia caratteristica. Mi perdo a fissare il vuoto ascoltando solo il flusso di tutto ciò che mi passa per la testa.
“Dicevo che ha ricominciato a piovere e quindi mentre vai a comprare i biglietti chiedi anche un ombrello a Mario”.
Fisso la vetrata. Già, ha proprio ricominciato a piovere.
Mario lavora nel retro della stazione, vende i biglietti per i treni. Ci siamo conosciuti quando nonna ha iniziato a fare la dialisi. È un uomo simpatico e sempre con la battuta pronta. Giusto una settimana fa ha compiuto cinquantadue anni, per regalo ha voluto il modellino di un treno.
Io davvero non capisco cosa ci trovi di bello in tutti questi vagoni che gli passano davanti agli occhi ogni giorno. Ma lui dice che i treni rappresentano bene la vita.
Chi sale, chi scende.
Chi parte e chi arriva.
Ma mai nessuno che si fermi ad osservare cosa succede realmente.
E mi sa che ha pure ragione. Ormai nessuno si ferma più a guardare il mondo. No, siamo tutti troppo impegnati a rincorrere impegni e sogni irraggiungibili.
Faccio sedere nonna sulla panchina sotto la tettoia dell’ospedale e mi tiro su il cappuccio della giacca per coprirmi come meglio posso. Poi inizio a correre per arrivare il più in fretta possibile alla stazione. Sento la pioggia fredda che aderisce al mio viso. Brividi di freddo.
Entro nella stazione. Nella saletta d’attesa c’è una giovane coppia intenta a scambiarsi piccole dolcezze. Beati loro. Io, con Mattia, il mio ragazzo, è da molto, troppo tempo che non ho un rapporto così romantico.
“Buongiorno! Vedo che sei bella zuppa!” Mario. Con il suo solito sorriso e sempre pronto a sdrammatizzare su tutto.
“Buongiorno Mario.” Dico mentre cerco di scrollarmi di dosso l’enorme quantità d’acqua. È impressionante come piove a dirotto oggi.
Di nuovo i brividi di freddo. Se non prendo l’influenza sono fortunata.
Mario intanto ha già strappato due biglietti dal blocchetto e li sta infilando sotto la vetrata, così che io li prenda. Ormai non c’è nemmeno più bisogno che gli chieda i biglietti. Il tragitto è sempre quello. E mi sa che mai cambierà.
Prendo i biglietti e li ripongo in tasca. Poi tiro fuori dal borsellino i soldi e glieli passo.
Sto quasi per uscire ma poi mi torna in mente la richiesta della nonna.
“Mario, mi puoi imprestare un ombrello? Sai, per la nonna.”
E Mario, come al solito, non chiede spiegazioni. Solo mi sorride e mi passa un ombrello che era agganciato ad un appendiabiti.
“Grazie mille. Ciao!” Dico sorridendo.
La nonna non si è mossa, è lì, ferma ed infreddolita che mi aspetta. L’accompagno al treno e prendiamo posto. Il viaggio è tranquillo. Monotono come sempre. Per tutto il tempo mi perdo a fissare le gocce di pioggia che si infrangono contro i vetri del treno.
Arrivate a casa nonna va a riposarsi sul divano in cucina. Io, invece, accendo il cellulare e mi sdraio sul letto.
<< 1 nuovo messaggio. >> Questa è la scritta che lampeggia sul display. Apro il messaggio.
E’ Clara. La mia migliore amica. << Domani mi aspetti alla fermata del pullman? Bacio. >>
Rispondo velocemente al messaggio dicendo di sì. Di solito ci incontriamo davanti alla chiesa; domani mattina la accompagneranno i genitori fino alla fermata.
Butto il cellulare sul tappeto e mi distendo sul letto. Fisso il soffitto. Bianco, puro. Come la nostra amicizia. Non abbiamo mai litigato. Beh, mai forse è un po’ esagerato. Diciamo che non abbiamo mai litigato per più di mezza giornata. Siamo fatte così, legate da un filo indistruttibile. Un filo che chiamiamo amicizia.
Passo una mano fra i miei capelli ancora bagnati. Sarà meglio che li asciugo, se non voglio prendermi una polmonite.
Mi chiudo in bagno e accendo l’asciugacapelli. Fa un rumore assurdo, è talmente vecchio che per usarlo bisogna tenere premuto il pulsante d’accensione.
Fisso il mio riflesso nello specchio. È il volto di una ragazza a cui è stato tolto tutto, e che ha perso perfino la voglia di lottare per conquistare nuove gioie.
Il mascara è colato sulle guance. Ha formato due linee dai bordi indefiniti.
Perfino i miei occhi azzurri sembrano essere spenti. Azzurri, come quelli di mio fratello. Gabriele, quanto mi manchi.
Al suo pensiero una lacrima esce lenta e si deposita sopra il mascara già colato. Sembro un pagliaccio. Un pagliaccio che sorride per far piacere agli altri, per renderli felici, ma che dentro soffre come non mai. Riuscirò mai ad essere felice? A sorridere perché è veramente ciò che voglio?
Passo la mano fra i riccioli neri. Devo dire che occhi azzurri e riccioli neri è una bella combinazione.
Gli occhi, azzurri come il mare.
E i capelli, neri come il petrolio.
Fusi insieme formano il disastro ambientale. Be’, non mi sorprende che questi caratteri siano capitati a me. La mia vita è un disastro.
 
 
 



















Note dell'autrice.


Eilà!!! (: Sono tornata con un nuovo capitolo (:
Lo so, avevo detto che avrei aggiornato una volta alla settimana ma ho visto che le recensioni sono state davvero tante (ben 12!) e quindi ho deciso di fare adesso l'aggiornamento (:
Poi... se le recensioni saranno sempre così abbondanti (dream *-*) seguirò uno schema per aggionare, ovvero nei giorni multipli di 5 (il 5,10,15,20,25,30 di ogni mese). Se saranno scarsine tornerò al classico aggiornamento settimanale.
Poi, vorrei ringraziare davvero di cuore tutte le persone che seguono la mia storia ed in particolare le persone che l'hanno recensita. Siete speciali <3


Ho creato una pagina su FaceBook dedicata alle mie storie dove metterò spoiler, avvisi e quant'altro.  http://www.facebook.com/pages/Nel-mondo-di-Soffiotta__/176329402398720?v=wall&ref=ts

Poi, questo è il mio profilo su FaceBook (: http://www.facebook.com/profile.php?id=1540920218

Pagina sempre su FaceBook dedicata ai libri http://www.facebook.com/pages/Libri-dipendenti-3/113195098720229

Mie ff (:
Sangue e Pelliccia http://www.efpfanfic.net/viewstory.php?sid=454170&i=1
Io sono Kristen Stewart http://www.efpfanfic.net/viewstory.php?sid=459559&i=1
Lettera ad una figlia http://www.efpfanfic.net/viewstory.php?sid=623220&i=1


Beh, credo di avervi detto tutto.

Un bacio,
Sofia.

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Capitolo 4
*** Clara ***


Monique.





CAPITOLO 3 – CLARA
 
 







Sono sotto la tettoia del bar che aspetto l’arrivo del pullman che mi porterà dritta dritta a scuola. Clara dovrebbe arrivare a momenti.
Più in là, alla fine della tettoia, ci sono due ragazzi. Li vedo tutte le mattine, quando prendono il pullman. Li vedo da un anno e più. Li saprei descrivere, viste tutte le volte che mi sono passati accanto e che ho avuto modo di osservarli.
Ma in realtà non so niente di loro. In realtà sono solo due figure che mi passano davanti agli occhi ogni giorno, ma di cui non so nemmeno i nomi.
Strano eh? Eppure ci sono valanghe di persone che ci passano davanti agli occhi costantemente ma di cui non sappiamo assolutamente niente. Nulla.
“Allora? Non mi saluti nemmeno?” Mi giro di soprassalto. È Clara. E io naturalmente ero persa nei miei abituali pensieri.
“Oh! Sì, scusa.” Le dico mentre ci scambiamo due baci sulle guance. Questa mattina ha lasciato i capelli sciolti. Biondissimi e lisci. L’opposto dei miei.
Sento il suo profumo che mi invade le narici. Pesca. È il profumo che le ho regalato per il suo compleanno.
“Allora” mi dice sorridente “studiato per l’interrogazione di Diritto?”
Sgrano gli occhi di colpo. Cavolo. Diritto! L’ho dimenticato!
“Oddio no! E adesso come faccio? Se non prendo almeno un 7 sono rovinata! Lo sai che ho la media del 5 e mezzo!” dico cercando di trovare una soluzione. Me l’ero completamente scordato. Mannaggia a me.
Clara, davanti a me, sorride. So già dove vuole arrivare. Per lei il problema si risolve con il “tagliare” scuola. Lei infatti lo fa molto frequentemente. E per lei ogni scusa è buona per cercare di convincermi a farlo.
Io non ho mai tagliato. Non è da me. E poi dovrei trovare una scusa plausibile con la nonna, e io le bugie non le so dire!
“Be’, potresti…” non la lascio finire.
“Clara. Te lo ripeto oggi e te lo ripeterò all’infinito. No. NON – SALTO - SCUOLA.” Scandisco per bene le ultime tre parole nella speranza che le arrivi dritto il messaggio.
“Ok, ok! Non insisto.” Bene. Mi tolgo la cartella dalle spalle e l’appoggio a terra. Prendo il libro di Diritto e la richiudo.
Quaranta minuti di viaggio prima di arrivare a scuola. Qualcosa riuscirò a farmi entrare in testa?
Intanto il pullman arriva, e tutti cercano di salire per primi con l’intenzione di accaparrarsi i posti migliori. Io e Clara ne rimediamo due all’inizio del pullman.
Apro il libro. Norme, diritti, doveri. Nei quaranta minuti di viaggio mi arrivano un sacco di informazioni al cervello che reputo noiosissime. Ma tutto sbiadisce quando i miei occhi cadono in basso, a pagina 256.
In basso, c’è un’immagine raffigurante una donna che piange. Mi torna automaticamente in mente, come un flashback, la donna che piangeva nel corridoio d’ospedale.
Chissà cosa le era successo. Era distrutta. Poverina.
 

*

 
“Buongiorno ragazzi. State comodi.”
La Germolini. Professoressa di Matematica. Oggi ha la prima ora. Per tutto il tempo non fa altro che spiegare e spiegare argomenti che non catturano la mia attenzione. Sono troppo impegnata a parlare con la mia vicina di banco. Elena. Dice che il ragazzo l’ha mollata e che lei sta troppo male per poter voltare pagina.
Il mio, di ragazzo, invece sta seduto dall’altra parte dell’aula. Mi giro verso di lui. Scarabocchia su un foglio, di sicuro starà componendo una delle sue tante sottospecie di canzoni. Piene di parolacce e con nessun senso logico.
Ogni volta che lo guardo non faccio che ripetermi quanto sia stata stupida a fidanzarmi con lui. Eppure all’inizio sembrava un ragazzo davvero carino. Quando ci siamo conosciuti faceva il tipo romantico, proprio come il mio ideale di ragazzo. E forse è proprio grazie a quella scarsa interpretazione di romanticismo che mi ha conquistata.
Col tempo si è rivelato tutt’altro. Ragazzo romantico? Ma quando mai. Lui pensa solo a vantarsi della sua “bellezza”, quando in realtà, secondo me, non ha molto di cui vantarsi.
Per di più mi tratta solo come un oggetto. Mi porta in giro solo per mostrarmi ai suoi amici.
Tipo romantico eh?
Voglio lasciarlo. Devo solo trovare il momento giusto, in modo che lui non mi faccia troppe scenate come è successo alla sua ex.
La prof continua a spiegare, e la mia compagna di banco continua a parlare. Elena mi dice che io sono fortunata ad avere un ragazzo come Mattia. Non rispondo. Ma penso che glielo cederei volentieri.
La campanella suona. Fine dell’ora di Matematica. Ora, la tanto temuta ora di Diritto.
 

*

 
Alla fine scopriamo che la prof di Diritto è rimasta a casa per malattia. Influenza. Se lo avessi saputo non avrei passato la mattinata a tentare di studiare freneticamente Diritto.
Nell’ora buca io e Clara andiamo nella biblioteca della scuola. Adoriamo i libri. Possiamo considerarli la nostra droga. Già da piccole, alle elementari, tutti passavano il tempo a giocare con le bambole e le macchinine. Noi, invece, ci mettevamo in un angolino sotto una finestra e leggevamo la fiaba di Cappuccetto Rosso.
Clara si ferma davanti alla porta della biblioteca e scoppia a ridere. Mi giro verso di lei stranita.
“Cosa c’è di tanto comico? Una porta?” le chiedo sorridendo leggermente. So già che fra poco scoppierò a ridere pure io. È inutile negarlo. La risata delle amiche è contagiosa.
“Non ti ricorda niente questa porta?”
Fisso la porta cercando di ricordare qualsiasi cosa. Poi, facendo una smorfia, rispondo.
“Non direi.”
“E se ti dico… naso?” A quel punto scoppio a ridere. È una risata allegra e spensierata. Una risata che sento sempre di meno. Clara si riferisce ad un fatto successo in prima superiore, quando eravamo appena entrate nella nuova scuola. Ragioneria. Eravamo andate a visitare la biblioteca alla ricerca di libri da leggere, Clara si era chiusa dentro e non mi voleva lasciare entrare. Teneva la porta chiusa con tutte le forze che aveva. A quel punto mi ero avvicinata alla porta per dirle qualcosa del tipo: “Claretta? Aprimi!”, ma non avevo avuto nemmeno il tempo di cominciare la frase perché Clara aveva aperto la porta all’improvviso, colpendo in pieno il mio naso.
Di solito una persona normale dopo un colpo così forte al naso diventa seria. Io no, ero scoppiata a ridere mentre le lacrime mi scendevano dagli occhi per il dolore. E Clara era ancora più ridicola. Non sapeva se ridere o accompagnarmi al bagno per mettere il naso sotto l’acqua fredda.
Alla fine eravamo rimaste lì per circa un’ora e mezza sedute per terra senza smettere di ridere. Il mio naso per fortuna non era rotto, quella botta aveva portato solo un mare di risate.
Ovviamente tutto ciò era successo in prima superiore. Quando ancora avevo una famiglia, e quando ridere era l’azione più importante della giornata. Mi mancano quelle risate. Così spensierate e che portano un uragano di buonumore.
Io e Clara ci abbracciamo. È un gesto naturale. Ci viene spontaneo ormai. Chiunque ci veda non potrebbe mai obiettare sul fatto che ci vogliamo bene.
Io e lei. Unicamente, eternamente insieme.















Pietà (: Vi imploro pietà per averci messo così tanto tempo ad aggiornare (: Da ora se le recensioni continueranno ad essere parecchie aggiornerò nei giorni multipli di 5 (5,10,15,20,25,30 di ogni mese)Altrimenti continuerò con la classica settimana.
Poi.. un grazie davvero ENORME a tutti quelli che hanno recensito, ma quanto siete gentili? *-*


Beh, questo è ancora un capitolo di "presentazione", infatti qui conosciamo Clara, la migliore amica.
Vi dico solo che nel prossimo ci sarà un fattore molto importante che entrerà nella storia (:


Ho creato anche una pagina su Facebook ( http://www.facebook.com/pages/Nel-mondo-di-Soffiotta__/176329402398720?v=wall&ref=ts ) dove inserirò spoiler e altro ^^



Che dire ancora? Spero che il capitolo vi sia piaciuto,

Un bacio,
Sofia.

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Capitolo 5
*** Influenza ***


Monique.




CAPITOLO 4 – INFLUENZA





 
 

Sono le nove e mezza del mattino. È mercoledì. E io sono ancora sotto le coperte.
Motivo? Influenza. Ho talmente tanto catarro nella gola che faccio perfino fatica a respirare e mi sembra di avere al posto della trachea un tubo che brucia senza sosta. A ogni minima parola che pronuncio mi fa male. Così rimango in silenzio. Almeno oggi ho la scusa per poterlo fare.
Adoro stare in silenzio e non dover dare troppe spiegazioni alla gente. È come se fossi rinchiusa in una bolla di sapone. Rinchiusa nel mio mondo, dove l’unica voce che ho è quella dei miei pensieri.
Nonna è ancora a letto. Quando si sveglierà dovrò giustificare il motivo per cui non sono andata a scuola. Non sarà difficile, il mio aspetto è veramente orribile.
Appoggio una mano sulla fronte. Scotta. Sarà meglio che almeno per oggi non metto il naso fuori di casa.
Allungo la mano verso il comodino e afferro il mio iPod. Non sono una ragazza di quelle con la playlist aggiornata giorno per giorno. No, e non sono nemmeno una di quelle ragazze che ascoltano determinate canzoni solo perché sono in foga in quel momento.
Sul mio iPod c’è solo musica che realmente mi piace. Più della metà delle canzoni sono solo melodie. Pianoforti, violini. I suoni di questi strumenti mi rilassano nel modo più assoluto.
Metto le cuffiette e parte la traccia numero 3. È una melodia, ovviamente.
Mi abbandono al suono delle note che si rincorrono sulla tastiera del pianoforte.
Non so quanto rimango con le cuffiette, dieci minuti? Un’ora? So solo che ad un certo punto sento un rumore. Nonna, si è svegliata.
“Ehi nonna, sono qui.” Dico con la voce rauca, per evitare che non mi veda e si prenda un colpo. Si gira verso di me, abbiamo le camere una di fronte all’altra. I capelli castani sono tutti scompigliati e la camicia da notte bianca e candida le accarezza le ginocchia.
“Oh. Monique. Cosa ci fai qui? Non stai bene?” Eccola, subito che si preoccupa.
“Tranquilla nonna, è solo un po’ d’influenza.” La vedo accelerare il passo e venire verso di me. Tende la mano verso la mia fronte, come immaginavo facesse.
“Oh tesoro! Scotti! Ti vado a prendere un panno bagnato.” In pochi secondi sparisce dalla mia stanza. Lo sapevo, si preoccupa sempre; anche quando, come in questo caso, non c’è alcun motivo di farlo. Dopo poco torna con un panno inzuppato d’acqua. Me lo adagia dolcemente sulla fronte e mi bacia la guancia. Bastano pochi minuti, e mi addormento nuovamente.
 

*

 
“Monique? Monique?” Mi sveglio improvvisamente disturbata da una voce che continua a chiamarmi. Apro gli occhi lentamente, mi sento veramente stanchissima. Metto a fuoco l’immagine davanti a me. È la nonna.
“Monique, stai meglio?” Beh, sinceramente non sto meglio, anzi, mi sento uno straccio. Ma è meglio non fare preoccupare ulteriormente la nonna. Così, do la risposta più sensata.
“Sì, sto meglio. Tranquilla nonna.” E le faccio un sorriso forzato. Parlare mi fa un male terribile alla gola, molto di più di ‘sta mattina. Nonna sorride e va in cucina.
Io allungo una mano verso il comodino e afferro il cellulare per guardare l’ora. Cavolo! Le sei e mezza di sera! Ho dormito nove ore!
Provo a stiracchiarmi, ma sento le ossa che si oppongono, così ci rinuncio.
Afferro un giornale che avevo lasciato sul comodino. Vanity Fair. Il mio giornale preferito.
Scorro le pagine velocemente, guardando solo i vestiti e non facendo caso alle scritte. Poi vedo una modella. Ha i capelli raccolti e un vestito rosso fuoco, ma non è quello che mi colpisce. Sulle guance ha disegnate due lacrime con la matita nera. Ed ecco che mi torna in mente quell’immagine. La donna in ospedale che piange e si stringe al marito.
Non riesco a capire perché quella scena mi continua a tornare in mente, in fondo non era nulla di atroce. Eppure non riesco a togliermela dalla testa, onestamente non so cosa pensare.
Nemmeno la conosco quella donna! L’ho vista giusto per qualche istante e poi basta.
“Tesoro ti ho portato un po’ di brodo caldo.”
“Grazie nonna.” Sorseggio il brodo bollente, che scende nella mia gola senza alcun intoppo.
Certi dicono che quando una scena ci colpisce in un modo particolare, poco tempo dopo avrai a che fare con i soggetti di quella scena.
Quindi io dovrei avere a che fare con quella signora? E perché mai? E soprattutto, in che modo?
La risposta a tutte queste domande è una sola. Io non avrò mai a che fare con quella donna. E le persone che suppongono questa teoria si dovrebbero rendere conto che è un’inutile pagliacciata.
Il destino non esiste. Siamo noi e solo noi i creatori del nostro futuro.
Potrà essere tragico, potrà essere meraviglioso. Ma in ogni caso, sarà sempre e solo opera nostra.
La matita, che serve per disegnarlo, in mano ce l’abbiamo solo noi.
Noi, e nessun altro.

 






 










Angolino di Sofia.
Eccomi qua carissimi e carissime (: Come promesso ecco il nuovo capitolo. Questo è l'ultimo capitolo "di presentazione", nel prossimo ci sarà una svolta MOLTO significativa per la storia.
Voglio ringraziare tutti coloro che leggoro, ma in particolare chi recensisce. Grazie, non sapete quanto mi fanno piacere i vostri commenti.
Mmm, che dire ancora? Spero mi seguiate, e... sì, recensite se vi va (:
Vi ricordo che ci sono anche su FB (Sofia Gaiero).

Un bacio grande,
Sofia
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Capitolo 6
*** Corridoio ***


CAPITOLO 5 – CORRIDOIO





 
 
Il treno corre veloce, come se avesse bisogno di arrivare in fretta alla stazione. Nonna è seduta davanti a me, con il viso ormai rassegnato di una persona che sta per fare la dialisi. Lancio un’occhiata all’orologio che ho al polso. Le due e mezza del pomeriggio. Fra cinque minuti arriveremo a destinazione.
“Com’è andata oggi a scuola?” Mi chiede la nonna.
“Tutto bene, mi hanno solo chiesto perché ieri ero assente, ma per il resto tutto nella norma.”
“Ok.” Quando la nonna conclude con un “Ok” significa che non ha voglia di parlare. Magari è stanca, magari no, ma preferisce rimanere in silenzio a contemplare il mondo intorno a lei.
Il treno fa una frenata brusca. Guardo fuori dal finestrino. Arrivati.
Mi alzo velocemente e aiuto la nonna a fare lo stesso. Scendiamo dal treno e ci dirigiamo verso l’ingresso dell’ospedale.
Oggi non piove, fortunatamente. In cielo si vede un sole opaco, che cerca inutilmente di fare capolino tra le nuvole. Entriamo nell’atrio dell’ospedale e percorriamo il corridoio fino ad arrivare alla stanza con la dicitura “dialisi”.
“Ok, vai. Ci vediamo dopo.” Le dico sedendomi nella solita saletta. Nonna entra nella stanza e sparisce dalla mia visuale. Apro lo zainetto e prendo i compiti di Matematica. Rimango circa un quarto d’ora a svolgere esercizi, ma poi richiudo il quaderno. Non ho voglia di Matematica. La farò dopo. Abbandono la testa allo schienale della sedia e sbuffo: prima che la nonna finisca devono passare ancora quattro ore.
Di solito ho dei passatempi con me. Libri, iPod o altre cose. Ma oggi ero di fretta, e il mio zainetto non contiene nulla, a parte i compiti.
Ora che ci penso è due anni e mezzo che entro qui dentro tre volte alla settimana, ma escluso il tragitto ingresso-saletta non ho mai fatto un giro per vedere com’è l’ospedale. Beh, c’è sempre una prima volta.
Mi alzo e afferro lo zainetto che metto a spalle.
Entro in un corridoio con le pareti dipinte di arancione. Ci sono diverse infermiere sorridenti che escono ed entrano da stanze diverse. Alzo gli occhi e leggo un cartello. Pediatria. Ecco perché le pareti sono così colorate e le infermiere hanno quei bei sorrisi accesi. È tutto per aiutare i bambini a guarire, o perlomeno a non rattristirsi ancora di più.
Percorro i corridoi e sbircio di tanto in tanto nelle camere aperte.
In una vedo due bambine. Si abbracciano e sorridono. Sembriamo io e Clara da piccole, con la differenza che le loro braccia sono ricoperte da tubicini.
Nelle altre stanze lo scenario più o meno è sempre quello. Bambini, genitori disperati e infermiere sorridenti. È strano, di solito sono gli adulti, così forti ed invincibili, a consolare i bambini.
In questo reparto lo scenario è tutto l’inverso. Qui sono i bambini, adagiati su lettini d’ospedale e con le braccia massacrate dagli aghi, che sorridendo consolano i genitori disperati.
Proseguo e finisco in una sala d’attesa, assomiglia a quella dove mi siedo ad aspettare la nonna, ma è più grande. C’è una macchinetta per le bibite. Inserisco i soldi e prendo una bottiglietta d’acqua.
Entro in un altro corridoio, più cupo del precedente e dove le infermiere girano correndo. Come se le vite dei pazienti potessero spegnersi da un momento all’altro. Mi bastano pochi passi per capire che è realmente così.
Reparto Rianimazione. La differenza che c’è tra questo reparto e quello di pediatria è enorme. Le camere sono diverse: piccoli ritagli d’ospedale racchiusi fra le mura. Ogni stanza ha un vetro che dà sul corridoio. Qui non ci sono bambine che sorridono ma solo persone distese sui letti, con gli occhi chiusi e un’espressione sofferente dipinta sul volto. Attaccate a macchinari che contano il loro battito come se volessero scandire il secondo.
Penso a quanto debba essere brutto sapere che una persona a te cara sia chiusa in una stanza d’ospedale, ma la cosa più atroce è il fatto di non sapere se si risveglierà mai.
Smetto di guardare all’interno delle camere e proseguo. Questo reparto mi mette troppa tristezza.
In fondo al corridoio trovo un’altra saletta. Mi siedo e raccolgo le gambe al petto. Lo faccio sempre quando sono triste. Rimango lì a pensare per parecchio tempo, quando ad un certo punto vengo distratta da una voce.
“Ciao.” Mi giro alla ricerca della fonte di quel suono.
No. Non ci posso credere. È la signora che avevo visto l’altro giorno nel corridoio piangere. È la signora che mi è continuata a venire in mente. È la signora con cui non avrei mai pensato di parlare!
“Ehm. Buongiorno.” Rispondo perplessa.
“Piacere, Ada.” Il timbro della sua voce è triste, grave. Assomiglia al mio, quando avevo appena perso i genitori. Mi porge la mano, gliela stringo e rispondo.
“Monique.”
“Monique eh? Bel nome.” Mette su un falso sorriso. Uno di quelli che ormai sono abile a fare.
“Grazie.”
Rimaniamo un po’ in silenzio. Lei è seduta vicino a me. I capelli rossi e lisci le incorniciano il viso con un caschetto tagliato alla perfezione. Porta una gonna che le arriva al ginocchio e una camicia bianca con sopra un maglione nero.
“Sei qui per qualcuno?” Mi dice fissandomi.
“Sì, ma non è in questo reparto. Sono qui per mia nonna cha fa la dialisi.” Annuisce. Vorrei porle la stessa domanda, ma mi sembra scortese. Per fortuna ci pensa lei a cancellare il mio dubbio.
“Io invece sono qui per mio figlio. Alex.” Fa una pausa. “È in coma.”
 Mentre lo dice le scende una lacrima. Vorrei tanto dirle qualcosa per tirarle su il morale. Dirle che tutto si sistemerà. Ma so benissimo che quando si parla di salute niente è mai certo.
Cerco di dire comunque qualcosa. Per non fare la figura di quella che se ne frega del dolore altrui.
“Mi dispiace.” Un’altra lacrima le riga la guancia.
“Tu frequenti la scuola di ragioneria, giusto?” Annuisco stranita.
“Sì ma…” Vorrei chiederle come fa a saperlo, ma non mi lascia finire.
“Anche mio figlio frequenta quella scuola. A volte lo vado a prendere all’uscita e molto tempo fa mi aveva detto che tu eri la ragazza che aveva appena perso i genitori. Mi dispiace.”
Logico. Perché mai dovrebbe conoscermi? Solo perche sono “quella” che ha perso i genitori. È orribile il modo in cui poi gli altri ti etichettano. Le etichette rimangono attaccate per tutta la vita, indelebili sulla nostra pelle, anzi, sulla nostra anima.
Io, ad esempio, un’etichetta ce l’ho. L’orfana.
“Conosci mio figlio? Si chiama Alex Righi. Frequenta la Quarta D.”
“No, mi dispiace. La scuola è grande e poi io sono in Quarta A.” Annuisce.
Singhiozzando continua il suo discorso.
“Tu credi che mio figlio si risveglierà mai?” Ecco. La domanda a cui nessuno vorrebbe mai dare una disposta. È una domanda di una madre disperata, che vorrebbe solo sapere se rivedrà ancora gli occhi di suo figlio. Mi alzo dalla sedia e la fisso.
“Lo spero per lei. Lo spero davvero.” E con quelle parole mi incammino verso la stanza dove la nonna sta facendo la dialisi. Lasciando lì, su una sedia, una madre disperata.
Rimarrei volentieri con lei, ma ho già visto troppo dolore. Non riuscirei a sopportarne altro.





 

Ehilà (: Scusate per l'assenza ma ho avuto qualche problemino con EFP ma poi soprattutto mi è nato un fratellino (Mirco), quindi sono stata molto impegnata (:
Tornerò ad aggiornare una volta alla settimana, ogni domenica...
Un bacio..

Sofia.

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