È già ieri, è quasi domani. di KikiWhiteFly (/viewuser.php?uid=33036)
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** I. Se lo ripeto, funziona davvero. ***
Capitolo 2: *** II. Alla fine, albeggia. ***
Capitolo 3: *** III. Le frecce di Cupido sono sprecate. ***
Capitolo 4: *** IV. Non scappare. ***
Capitolo 5: *** V. L'impossibile che si completa nell'infinito ***
Capitolo 6: *** VI. L'universo vive per te. ***
Capitolo 7: *** VII. Se io lo vedessi adesso, soffocherei. ***
Capitolo 8: *** VIII. Torni o ritorni? ***
Capitolo 9: *** IX. Sarai sempre il mio muro contro il quale sbattere la testa ***
Capitolo 1 *** I. Se lo ripeto, funziona davvero. ***
Bene,
signori.
Vi
dico subito che tengo molto a questa storia, ma non aspettatevi
grandi slanci amorosi o romanticherie del genere. Quello che
narrerò
sarà l'amore... a distanza.
Sì, perché mi sono sempre
chiesta che cosa abbia fatto, cosa abbia provato e quante volte si
sia abbattuta o meno la nostra Sana Kurata dopo aver visto il suo
Akito partire.
Voi non ve lo siete mai chiesto?
Certo,
nel manga si vedono qua e là cosa hanno fatto i due in quei
tre anni
ma il tutto è narrato molto velocemente e, per un'amante
delle
introspezioni come me, questo non è abbastanza. Quindi, la
domanda
che mi sono posta è stata: come si è sentita Sana
dalla partenza di
Akito in poi? <3.
Or
bene, signori e signore, questa fan fiction comprenderà un
periodo
dell'adolescenza di Sana compreso tra i tredici ed i sedici anni (se
non vado errata, i due sono stati separati per ben tre anni –
e
mica cavoletti, eh ò.ò).
Ringrazio
in anticipo chi mi seguirà, vi dico subito che questa
sarà una long
fic non più lunga di quindici capitoli.
P.S.:
risponderò alle vostre recensioni tramite il nuovo servizio
di EFP
<3.
___________________________________________________________________
È
già ieri,
è quasi domani.
I.
«Se
lo ripeto, funziona davvero»
Mi
guardo attorno disorientata, sembra che tu sia partito veramente;
certo, lo so che la scelta è stata necessaria, capisco anche
le
ragioni che ti hanno spinto a prenderla ed io stessa ti ho chiesto di
andare. È che una piccola speranza la covo ancora nel
profondo –
magari potresti decidere di scendere dall'aeroporto
e gettarti
con uno slancio poco coordinato tra le mie braccia, proprio come in
un film americano –, ma questa è solo la fantasia
di una ragazzina
che ha smarrito per un attimo la ragione.
Mi
precipito verso le immense vetrate dalle quali solitamente gli aerei
decollano; i mormorii degli altri li lascio indietro, in questo
momento ho bisogno di dirti arrivederci –
perché sarà un arrivederci, vero? –,
non ci disturberà nessuno.
E
così mi trovo con le mani incollate ai vetri, a sperare che
anche tu
faccia la stessa cosa da lontano; non voglio piangere, ti ho promesso
che non l'avrei fatto.
Il
motto era “sorridi”,
giusto?
Il
volo per Los Angeles è in partenza.
Una
voce fastidiosa mi entra nei timpani, sembra quasi l'eco della
coscienza. Anche da questa distanza posso udire il rumore delle
eliche, i segnali acustici, una seconda voce fastidiosa che ripete lo
stesso messaggio – sta succedendo veramente, ripeto a me
stessa –;
chiudo gli occhi, poi tutto accade in un attimo. Le mie mani, quasi
per empatia, si staccano dal vetro e l'aereo si libra su,
più in
alto degli uccelli, più elevato di qualsiasi montagna...
Lassù, per
arrivare in un altro mondo, per incontrare un altro destino.
E
quando apro gli occhi quello strano gioco di luci, segnali e suoni
è
terminato.
È
terminato, sì.
Le
piante dei piedi rimangono incollate al pavimento, è solo la
parte
superiore del busto a muoversi; non credo che saresti fiero di me:
riaprendo gli occhi mi sono accorta che qualcosa di salato mi ha
bagnato le labbra.
Sospiro,
tra poco troverò il coraggio di voltarmi e sorridere
– ho bisogno
ancora di un attimo di panico, giusto il tempo che
Rei e gli
altri mi trovino.
La
sera prima eravamo racchiusi in uno spicchio lunare –
scopriva solo
le nostre figure, il resto era nascosto nell'ombra –, era
superfluo parlare. Sapevamo che semmai avessimo tirato in ballo
l'argomento Los Angeles uno dei due ne sarebbe
uscito ferito
e, a giudicare dalle recenti vicissitudini, io sarei stata la
più
debole.
Ho
tenuto la tua mano nella mia, tutto il tempo necessario. Avevo
l'impressione che mi sarebbe mancato quel calore, sentivo che dovevo
guardarti bene, rimanere ancora paralizzata da quegli occhi color
miele, perdere il respiro se mi avvicinavo più del dovuto
e...
«Non
pensare.»
Mi
sussurrasti, con un fil di voce – per quale motivo sai sempre
cosa
penso, eh?
«Questa
è la tua politica, Hayama?»
Ridacchiai,
voltandomi a guardare l'ultimo quarto di luna.
«E'
insistente questa luna.»
Dissi
alla fine, sospirando un po' affranta.
«Mai
quanto te.»
Mi
voltai verso di lui, certo che sapeva davvero come spezzare
l'atmosfera. Dopotutto, non mi aspettavo una frase da romanzo rosa
ma... niente, alla fine l'avevo già
perdonato. Quello era il
suo modo di farmi sentire speciale, quello era l'Akito Hayama di cui
mi ero follemente innamorata.
Alla
fine, restammo faccia a faccia – ad una spanna dal volto
– per
interminabili minuti, il tempo però non mi sembrò
mai passare così
velocemente. Era il tempo che avrei voluto allungare, fare in modo
che tutto fosse rimandato, escogitare una mossa oppure una strategia
per ricordarci ancora, per rivedere ogni tratto e inscatolarlo nella
memoria.
Poi
qualcosa ci destò, forse una lucciola oppure la presa di
coscienza
del fatto che era davvero tardi e l'indomani sarebbe stata una
giornata lunga.
Mia
madre ci chiamò, lo fece con un fil di voce
poiché evidentemente
aveva intuito l'atmosfera tesa che si era creata – non
stavamo
respirando anidride carbonica bensì parole, sospiri, attimi
di
smarrimento.
Fu
un attimo: le mani di Akito lasciarono le mie, così un pezzo
di me
se ne andò insieme a lui. Mi lanciai contro di lui quasi
istintivamente, poi ricordai che quello stesso pezzo lui ce l'aveva
indosso – sui vestiti, sulla pelle e... nel
cuore, forse?
Ritornò
per un attimo sui suoi passi, sillabò velocemente qualcosa
di
incomprensibile e poi mi avvicinò a lui; fu un gesto dettato
dall'istinto, i miei capelli si erano ritrovati sul suo petto senza
che me ne rendessi conto.
«Ricordati
che... Los Angeles è vicina. Vicina... vicina.»
Mi
costrinsi a non piangere, strizzai gli occhi con tutta la forza che
possedevo. L'aveva detto in modo incerto, trapelava un po' di
insicurezza nella sua voce. Più ripeteva quella supplica
sottovoce,
tanto più sembrava crederci, così decisi di
adottare quel metodo
anch'io.
E
ci ritrovammo a parlare sottovoce, per infinitesimali secondi, forse
quella era l'unica parola sensata da dire in quel momento.
«Se
lo ripeto, funziona davvero.»
Lascio
la debolezza da parte, stringo le nocche con vigore e dirigo lo
sguardo verso l'alto.
Dobbiamo
trovare sempre un punto d'appoggio ma, allo stesso tempo, imparare a
guardare oltre; detto così non sembra tanto difficile no,
Hayama?
«Sana,
che fine avevi fatto? Ti abbiamo cercato ovunque!»
Borbotta
Rei spazientito, sempre troppo premuroso. Fuka e gli altri si
avvicinano a me, chiedono se tutto va bene, anche loro un po'
ansiosi.
«Che
ne dite di mangiare? Il mio stomaco sta brontolando...»
«Sempre
la solita, Sana!»
Fuka
mi rimbecca, poi mi prende sottobraccio.
Ora
ci separa solo qualche miglia di troppo, Hayama... Cerco ancora di
non pensarci ma quel giorno, al ristorante, ho ordinato un hamburger
– volevo sentirti vicino a me... se lo
ripeto, funziona
davvero.
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Capitolo 2 *** II. Alla fine, albeggia. ***
II.
«Alla
fine, albeggia.»
Il
tempo scorre lentamente, senza sosta.
Ogni
attimo passato a pensare può essere un attimo perso... siamo
esseri
umani e, di conseguenza, un mucchietto di ossa di vetro che si
scalfisce continuamente.
La
nostalgia si fa sentire già dopo un mese, sembra che queste
lunghe
notti di luna piena siano interminabili.
È
risaputo: più si ragiona, tanto più è
possibile farsi male.
Sospiro
affranta, sono le quattro di mattina e non riesco a prender sonno.
Così mi ritrovo a pensare ed un po' ne
risento; so bene che non devo
darmi troppo tormento, il dottor Iwasaki me l'ha detto e tanto
più
la mia mammina. Però esistono quelle rare eccezioni in cui
guardare
il soffitto bianco, quasi immacolato, è necessario... giusto
per
fare i conti con la mia vita.
Stringo
il lenzuolo tra le dita, cerco di non fiatare – altrimenti
Rei e
mia madre si preoccuperebbero troppo –, poi respiro; alla
fine,
respirare non mi è sembrato mai necessario come in questo
momento.
Sapete
cosa avrei voglia di fare in questi casi?
Fare
la valigia, prendere un maledetto volo per Los Angeles e precipitarmi
da Akito.
Poco
dopo, mi rendo conto del fatto che la nostra promessa sarebbe vana in
quel caso. Qualche secondo di incertezza, quasi mi alzo senza motivo,
poi il peso della coscienza si fa più gravoso e precipito
nuovamente
sul materasso.
Il
cielo, visto da qui, sembra fatto di cartapesta. Così, anche
i
pensieri paiono essere di una leggera carta velina... basterebbe
accartocciare un vecchio foglio e gettarlo via, nel dimenticatoio.
Invece,
so essere davvero masochista: compongo, decompongo e ricompongo lo
stesso foglio, quasi a volerlo distruggere con tutte le mie forze.
E
vivere, rivivere, percorrere in continuazione lo stesso sentiero, gli
stessi ricordi, le medesime emozioni... Mi fa male, mi
fa
ricordare che sono un misero essere umano accartocciato su se stesso
dalla nascita alla morte, un minuscolo frammento di un intero
universo.
E
penso che Akito, alla fine, faccia parte dell'intero universo.
Non
riesco a prendere sonno, non più ormai. Il cielo si sta
rischiarando
pian piano, è uno spettacolo che voglio godermi fino in
fondo; è
leggero il mormorio del vento, l'accartocciarsi delle foglie, i
rumori grandi e piccoli che giungono più e più
volte nelle mie
orecchie.
Il
cellulare vibra, è a qualche centimetro da me. Mi volto
stralunata,
non mi aspettavo una chiamata alle cinque di mattina. Men che meno da
Akito Hayama, famoso per la sua proverbiale pigrizia.
«Perché
sei sveglio?»
Domando
precipitosamente, impedendogli di darmi il buongiorno.
«Perché
non riesci a smettere di pensare a me.»
A
quel punto arrossisco, anche se lui non può vederlo il mio
volto è
di un colore improponibile. Annuisco esterrefatta, a volte penso
proprio che Hayama abbia qualche potere di cui non sono a conoscenza:
è umanamente impossibile penetrare in modo così
reale nella mente
di un'altra persona.
«Hayama,
ti dai troppa importanza. Semplicemente... non ho molto
sonno.»
Cerco
di salvarmi in qualche modo, sarebbe imbarazzante ammettere che mi
manca da morire, che vorrei che ogni alba lui la vedesse come la vedo
io e, allo stesso modo, ogni tramonto. Ogni cosa resta uguale,
è il
nostro cuore a cambiare... così, egoisticamente, desidero
che quello
di Hayama resti accanto al mio.
«Mpf...»,
borbotta quasi divertito.
«Allora...
Los Angeles di sera com'è?»
Incalzo
il discorso, ben sapendo quanto mi stia trafiggendo in questo
momento.
Akito
biascica qualcosa che non riesco ad afferrare, mi tormenta in
positivo ed in negativo una e soltanto una sola parola.
«Vuota.»
Non
sarà una parola di troppa importanza per chiunque altro ma
per me ha
un grandissimo significato. Ridacchio sottovoce, forse una lacrima mi
è appena rotolata dalle ciglia, tuttavia cerco di mantenere
un tono
fermo.
«E'
quasi l'alba.»
Una
distesa di colori si presenta davanti i miei occhi, sembra quasi una
tavolozza; Akito annuisce seriamente, dopodiché mugugna:
«E' quasi
notte. Sana...», la voce è leggermente trascinata,
strano da parte
sua, «... Alla fine, albeggia. Sempre.
»
Temo
di esser rimasta qualche secondo inebetita; quando cerco di dibattere
dall'altro capo del telefono si sente solo un fastidioso segnale.
«Alla
fine, albeggia.»
Ripeto
a me stessa, spalancando la finestra della mia camera.
Hai
ragione Akito... siamo sempre sotto lo stesso cielo.
_________________________
Questo
capitolo è molto breve, sì.
Più
che altro, è un momento di sconforto di Sana...
un'introspezione a
cui ho voluto dedicare un capitolo. Volevo spiegare la frase di
Akito, per chiarire: dunque, con quell'albeggia,
Akito intende
dire a Sana che domani sarà un altro giorno, un giorno in
meno li
separa.
Infatti,
per quanto possano essere lontani “sono sempre
sotto lo stesso
cielo”.
Ringrazio
tutti i lettori, in verità non mi aspettavo di ricevere
così tante
recensioni. Ragion per cui, sono molto felice. <3.
Il
capitolo successivo sarà pubblicato la prossima settimana,
il tempo
di correggere ed organizzare le idee XD.
Kiki-chan.
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Capitolo 3 *** III. Le frecce di Cupido sono sprecate. ***
III.
«Le
frecce di Cupido sono sprecate.»
Mi
sento terribilmente a disagio, odio quando succede.
Di
norma sono una ragazza che si adatta alle situazioni più
disparate
ma, questa volta, mi sembra un'impresa assai ostica.
Tutto
era iniziato un tranquillo pomeriggio di inizio Aprile, nel bel mezzo
di un avventuroso – impossibile, inutile,
irrisolvibile –
esercizio di algebra.
Aya
aveva lasciato cadere la penna sul foglio, gli occhi si erano rivolti
verso il soffitto e le sue pupille erano roteate per qualche nano
secondo; da non crederci, anche lei poteva perdere le staffe.
«Perché
non facciamo una pausa, eh?»
Tsuyoshi
si era alzato in piedi, aveva allargato le braccia teatralmente e ci
aveva proposto un'alternativa sicuramente più godibile.
Inutile dire
che ero stata la prima a scattare in piedi; Aya, Tsuyoshi e Fuka
–
fino ad allora totalmente indifferente – mi avevano seguito a
ruota.
Si
chiacchierava, si scherzava, si dibatteva amichevolmente.
Finché una
proposta non mi destabilizzò, almeno per qualche secondo.
«Che
ne dite se facessimo un'uscita di coppia?», la mia mascella
rischiò
quasi di rasentare il suolo; Aya e Tsuyoshi si voltarono verso di me,
in perfetta sincronia. Solo dopo Fuka parve intuire dove avesse
sbagliato, quando ormai era troppo tardi.
«Oh,
beh, Sana. Intendevo... sai, no?»
«Certo.»
Cosa
avrei dovuto sapere?
Cercai
di non dar troppo peso al sorriso di scuse di Fuka dal momento che
sembrava tenere a quell'uscita in modo particolare. Non sarei stata
certamente io a rovinare i suoi piani, giammai: in fondo, anche Akito
avrebbe rifiutato quella proposta – conoscendolo, non avrebbe
degnato di attenzione Fuka nemmeno per un'infinitesimale secondo.
«In
ogni caso, uscire ti farà bene.»
Se
Aya voleva in qualche modo risollevarmi di morale, aveva scelto il
modo sbagliato; sentivo che il discorso avrebbe imboccato una via che
non mi sarebbe piaciuta per niente, era solo questione di tempo ed
avrebbero posto l'arguta domanda.
«E
se uscissi insieme a noi quattro?»
Ecco,
appunto.
Noi
quattro, ovvero si intendeva: Fuka e Takaishi (che ormai avevano
consolidato il loro rapporto. Fuka, negli ultimi tempi, era nella
cosiddetta fase “love-love”,
ecco perché ogni occasione
le sembrava buona per esternare i propri sentimenti), nonché
Aya e
Tsuyoshi, di cui non nutrivo alcun dubbio.
«No,
davvero... non mi pare il caso!»
Esclamai
esagitata, non volevo trovarmi in una situazione così
spiacevole.
Sebbene fossimo amici, mi sembrava in qualche modo di “rompere”
l'equilibrio che vi era, non mi sarei sentita a mio agio, lo
sapevo già.
«Dunque,
è deciso. Che ne dite... questo sabato?»
Fantastico,
ero stata anche ignorata.
Sospirai
rassegnata, Aya da parte sua mi diede una pacca sulla spalla come a
dire “sopporta, in fondo si tratta solo
di un pomeriggio”.
Dunque,
per un pomeriggio avrei potuto anche sacrificarmi.
In
fondo sono sempre i miei amici, basta solo divertirsi un po'. Peccato
che Fuka abbia avuto la strabiliante idea di prenotare in un
ristorantino da poco aperto in zona, il nome già diabetico
mi fa
pensare che all'interno sarà ancora peggio.
Infatti,
ogni speranza è vana: non esistono sedie o sgabelli,
bensì una
serie dietro l'altro di scomodissimi cuoricini sui quali appoggiarsi
diventa un'impresa – Fuka sostiene che è
comodissimo, ma in quanto
diabetica di parte la sua opinione non conta.
La
cosa peggiore di questo locale sono i menù... sto leggendo
una serie
di portate da far venire il voltastomaco, credo di essere
improvvisamente inappetente.
«Non
è fantastico, Sana?!»
Urla
Fuka, piuttosto agitata.
Annuisco
poco convinta, cercando di capire se esista o meno un bagno. Questa
invasione di cuori è decisamente demotivante vista la mia
recente
situazione, anche se capisco che la mia amica non lo abbia fatto di
proposito; mi dileguo velocemente con una scusa banale, spero almeno
di respirare una ventata di normalità in bagno.
Ci
mancherebbe, non si sono risparmiati affatto. Mi guardo allo
specchio, mi viene quasi da sorridere... Penso ad Hayama e
all'espressione contrita che assumerebbe se entrasse in un vortice di
sentimentalismo del genere.
Probabilmente
direbbe qualcosa come: «Le frecce di Cupido sono
sprecate.»
Avrebbe
ragione, davvero: io stessa trovo che tutto ciò sia un
eccesso di
sentimentalismo, dopotutto capisco che delle coppiette
normali
apprezzerebbero il locale, badando poco al fatto che sia
un'esplosione di cuori vivente.
Oltrepasso
la soglia della toilette piuttosto divertita, più penso a
cosa
direbbe Akito tanto più sento che mi potrei divertire.
In
qualche modo, inconsciamente o meno, Hayama è accanto a me.
«Tutto
bene, Sana?», domanda premurosamente Aya, sfiorandomi la
spalla.
«Sì.
Hayama si sarebbe divertito, qui.»
Ridacchio
tra me e me; quando tornerà lo porterò
sicuramente in questo
locale, merita almeno una sua visita – l'attesa,
allora, non
sembra così vana.
__________________________________________
Anche
se questo vi sembrerà apparentemente un capitolo no-sense
io
mi sono divertita un bel po' a scriverlo XD. Dal momento che non
tutti i capitoli tratteranno ciò che prova Sana lontano da
Akito –
la storia prenderebbe una piega un po' troppo drammatica e non
è mia
intenzione –, ho voluto “spezzare”
l'atmosfera. In fondo, ho
immaginato che prima o poi questo momento sarebbe arrivato...
Già
nel nono volume tutte le coppiette sembrano essersi
“consolidate”,
un'uscita di coppia mi è sembrata normale. Se alcuni di voi
pensano
che abbia esagerato nel descrivere con il disagio di Sana in una
situazione del genere... beh, non avete vissuto l'esperienza
– per
mia sfortuna mi è capitato e vi giuro che non è
molto bello essere
l'incomodo - -.
Il
capitolo si conclude con un pensiero di Sana verso Akito –
giuro,
quando l'ho immaginato in un locale del genere sono scoppiata a
ridere da sola davanti il pc XD –, il fatto che prima o poi
Sana
porterà Hayama in quel locale, le fa pensare che attenderlo
ne valga
veramente la pena :). Sono quelle piccole cose che la fanno star
bene, in pratica :).
Dopo
questo sproloquio – viva il dono della sintesi :D –
circa il
senso (?) di questo capitolo, vi do appuntamento al prossimo :)...
Spero presto, anche se sono oberata di impegni ; ; .
(ovvero:
perché io mi riduco sempre all'ultimo secondo per
recuperare? ._.)
Kiki-chan.
|
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Capitolo 4 *** IV. Non scappare. ***
IV.
«Non
scappare.»
(Prima
parte)
«Ti
senti bene?»
È
una voce allarmata, come quella di un padre. Mi guardo le piante dei
piedi piuttosto disorientata, poi rivolgo il mio sguardo a quegli
occhi sinceri, sento quasi di poter immergervi dentro i miei
pensieri.
«Definisca
il concetto di bene.»
Ad
affondare, alla fine, sono stata io.
Questa
sensazione a cui non so dare un nome, è un po' come la salsedine
che si impregna sulla pelle asciutta: è un vago sentore ma
non
posso afferrarla, più la cerco più sento che si
allontana da me.
«Sana...
se hai bisogno di piangere, sono qui.»
Perché
devono offrirci sempre “una spalla su cui
piangere”, eh?
Insomma,
penso che ci siano momenti nella vita in cui una persona debba
sedersi e perdersi, sedersi ed incantarsi, sedersi e pensare.
Nessuno
– nessuna eccezione, beninteso! – può
urtare questo
inattaccabile equilibrio, è bene che ognuno di noi non si
senta
soffocare, annegare con la fantasia non può essere
così nocivo.
«Sana?»,
una voce mi scuote ed è quasi l'alta marea ad investirmi.
Peccato,
ora che le onde del mare mi stavano dondolando.
«S-Sì...»,
rispondo insicura, sto ancora facendo mente locale, «...
Stavo
bene.»
«Stavi?»
Il
dottor Iwasaki appunta qualcosa su un piccolo block notes, sono
curiosa di sapere cosa ha dedotto da un semplice verbo al passato. In
ogni caso, ha turbato la mia quiete; sospiro laconicamente,
è quasi
strano esser tornata in questa anonima stanza di pochi metri quadri.
«Sogno
spesso di andare al mare. Nuotare mi spaventa un po' ma camminare...
non so, forse perché la spiaggia non sembra avere mai
fine...»
«Vorresti
tornare lì, ora?»
Asserisco
con il capo, dopodiché ho il consenso da parte del mio
psicologo.
Non è neppure necessario concentrarsi, ormai diventa un
processo
quasi meccanico; la mia mente si concentra sul luogo e poi elabora
fantasie infinite, sembra quasi di poter riscrivere nero su bianco la
propria storia.
Disegnare,
tracciare contorni e sfumare quelli più chiari per annerire
quelli
più scuri.
Così,
rifiuto di vedere la realtà se mi sembra troppo vicina... E
creo
questo mondo ideale, questa barriera che mi protegge da ogni cosa,
questo abbraccio dal quale sono avviluppata – è
più forte di me,
non riesco ad ingannarlo.
«Hayama...
Dimmi, non vorresti venire qui?»
L'espressione
contrita non suggerisce nessun esito positivo, tuttavia spero che
stuzzicandolo un po' riesca ad avere la meglio. Invece, l'unica cosa
che sento è una risposta a cui ormai sono abituata.
«No,
ho da fare ben altro.»
Anche
se è così insensibile, mi limito ad incassare il
colpo con
eleganza.
Un
paio di lacrime serpeggiano severamente sui miei zigomi, vorrei
gridargli contro ma so che le sue parole potrebbero farmi ancora
più
male.
Salsedine,
la chiamano.
Hayama,
tu sei la mia salsedine. Non sei materialmente accanto a me, eppure
ormai ti sei impregnato sulla mia pelle, sui miei vestiti, sul mio
Io. L'hai fatto senza pensarci, perché
pensi che io possa
completarti.
Perché
pretendiamo di amarci, se non siamo disposti a farci del male?
Dimmi
Hayama, quante volte ancora mi colpirai?
E
quante, quante saranno le volte che ti farai perdonare?
La
sabbia è bollente, la temperatura sale.
La
tiepida spiaggia di inizio primavera sembra quasi un ricordo, ora che
i miei piedi iniziano a lamentarsi per il dolore. Inizio a correre
–
sempre dritto –, magari i problemi si potessero annientare
così.
Invece,
un nuovo dilemma si pone di fronte a me: tu, muro, salsedine,
scoglio. Mi sta quasi annebbiando la vista la tua figura, fino a poco
tempo fa non pensavo neppure che potessi esercitare un tale potere su
di me; indietreggio senza pensarci due volte ma se faccio un passo
indietro la sabbia non mi lascia via di scampo.
Davanti
a me c'è un'alta barricata, la tua espressione mi sta
imponendo
qualcosa. Sai bene quanto non voglia diventare una donna
addomesticabile, ragion per cui non mi piegherò ai tuoi
voleri.
Lascerò che sia tu a parlare, sono stanca di rincorrere la
tua
mente.
«Non
scappare.»
Queste
sono le tue parole?
Davvero
– non scherziamo, per favore –, sei disposto a
farmi soffrire a
tal punto?
Non
sto scappando, affatto. Sto semplicemente affrontando la
realtà di
tutti i giorni dall'altra parte ed evadere un po', giusto un po', non
mi sembra un azione così ignobile.
Quello
che mi sta facendo Hayama è ignobile, non c'è
alcun dubbio. Ma non
ho il coraggio di odiarti, temo che non potrò mai
odiarti
abbastanza.
«Basta!»
Mi
dimeno come una bambina, il sangue fluisce tutto al cervello, la mia
testa diventa pesante. Il dottore si avvicina, cerca di calmarmi
probabilmente; l'unica cosa che sento è il rumore delle
onde, è lo
sconquasso del cielo, sono le parole di Hayama che rimbombano nella
testa come un frastuono.
Ditemi... si
può evadere dalla vita?
__________________________________
Ho
cercato di immedesimarmi nella psiche di Sana in questo capitolo,
è
stato un capitolo piuttosto difficile (questa è solo la
prima parte,
fra qualche giorno posterò la seconda :D) ma non temete, la
storia
non prenderà questa piega... Diciamo solo che ho voluto
inserire un
capitolo più introspettivo, penso che Sana si sia sentita
così,
specialmente nei primi tempi (ricordo che Akito è partito da
pochi
mesi, stando alla mia storia), spero abbiate gradito :).
Ci
sono molti spunti e riflessioni personali, sui quali mi
concentrerò
nel prossimo capitolo. Ringrazio tutti voi per le recensioni, ci
sentiamo presto : ).
Kiki.
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Capitolo 5 *** V. L'impossibile che si completa nell'infinito ***
V.
«L'impossibile che si completa
nell'infinito.»
(Seconda
parte)
Improvvisamente apro gli occhi, tutto sembra essere
tornato alla normalità.
Per un attimo mi sono lasciata trascinare,
l'invisibile corrente di ricordi mi ha trasportata lontano; sembra che
il dottor Iwasaki cerchi qualcosa nei miei occhi, il suo tono sembra
seriamente preoccupato.
«Cosa c'era, laggiù?»
Come spiegarlo in poche parole?
Laggiù c'è tutto: i miei
sentimenti, la mia libertà, il mio io
interiore. Come
spiegare la sottile
sensazione di vuoto che si prova non riuscendo a
stringere nulla di concreto nel palmo della propria mano?
E come esprimere la felicità, la gioia,
l'euforia, quando davanti a sé si vedono i propri sogni... È
solo una finzione, lo so, laggiù il paese delle lacrime non
esiste.
«L'impossibile
che si completa nell'infinito.»
Forse è un'affermazione criptica,
decisamente da analizzare.
«E Hayama... era lì?»
Ecco il mio punto debole, più cerco di
allontanare il suo ricordo tanto più gli altri lo
risvegliano. Annuisco brevemente, non voglio soffermarmi sull'argomento
ancora per molto. A quanto pare l'intenzione del mio psicologo non
è la stessa, vuole scavare nella mia mente e cogliere
qualcosa di inafferrabile da parte mia.
«Tra poco sarà il
“compleanno di mezzo”, vero, Sana? Forse
è per questo che...», ammorbidisce il tono di
voce, «... che i tuoi sogni sono diventati così
“concreti”.»
Odio dover ricordare quell'avvento, mi fa sentire
solo peggio.
Dirigo lo sguardo dalla parte opposta, candidi
fiocchi di neve danzano nell'aria e tantissimi flash si risvegliano
nella mia memoria; tempo addietro, Hayama mi aveva giurato di passare
ogni “compleanno di mezzo” insieme, ma dev'essere
stata solo un'altra delle tante promesse infrante.
Se mi udisse fare simili pensieri mi odierebbe, ne
sono certa; eppure, in minima parte, non riesco a fare a meno di
provare un fortissimo rancore verso di lui... tanti giuramenti, ora
come ora, mi sembrano coriandoli di cristallo che volano nell'aria e si
frantumano contro il primo ostacolo che incontrano.
Il dottor Iwasaki si alza, mette nella cartella
alcuni fogli, sembra che stia per andarsene. Non mi rivolge parola,
pare che la nostra seduta sia terminata prima del previsto quest'oggi.
«Se non vuoi salvarti tu, Sana, non
può farlo nessun altro.»
E' una frase tagliente, dai molteplici significati.
Il mio sguardo si rivolge disperatamente a quello
del dottore, allora, la mia mano quasi per istinto stringe la manica
della sua giacca.
«Lui... mi ha abbandonata...»,
sono lacrime quelle che sfiorano la mia pelle, eppure sono
così fredde da parere cubetti di ghiaccio, «... Le
nostre promesse, tutte le nostre promesse, ormai sono
inutili.»
Singhiozzo debolmente, qualche attimo di panico
dentro; il dottore si lascia cadere con un tonfo sordo sulla
poltroncina, sembra che mi stia offrendo un salvagente al quale
aggrapparmi.
«Sono sicuro che se le ricorda
tutte.»
Ne sono consapevole ma per quanto saranno ancora
vive nella sua memoria?
E per quanto sarò ancora nei suoi
pensieri, d'ora in avanti?
«E se un giorno si dovesse svegliare e
decidere di non chiamarmi più... o di rimanere
lì, o di amare qualcun'altra oppure dimenticarmi. Io non
sono abbastanza forte per lui, io sono... fragile?»
Già, io sono fragile.
È un soffio che ci separa dal baratro,
ne sono certa.
Iniziamo tutti dalla stessa linea di partenza ed
arriviamo tutti al traguardo, sì, non è possibile
però evitare gli ostacoli; io, semplicemente, ho scelto di
aggirarli e di ignorarli quando li sento vicini.
Una mossa vigliacca, già.
Affrontare la realtà potrebbe essere
difficile, ho paura di annegare o, ancora peggio, di lasciarmi andare.
Sono dei piccoli escamotage che, spesso, mi salvano nel cuore della
notte, quando le lacrime sono ormai prossime al tormento.
Tutte le mie paure sono un gigantesco baratro,
presto o tardi mi piomberà addosso ed io non
potrò far nulla per affrontarlo... perché
sarò stata una grande codarda, perché non mi
salverò semplicemente evitando il dolore.
«Perché tieni tutto dentro di
te, Sana? Sai che questo potrebbe provocarti gravi
conseguenze?»
Lo so, ho tenuto in conto i rischi.
È solo che decido di rischiare, pur
sapendo di poter affondare... Devo solo stare allerta e riuscire a non
farmi inghiottire dalla sofferenza.
_____________________________________________
«Non ti sembra di esagerare coi
medicinali?»
Fuka cammina accanto a me, le sue attenzioni a
volte sono ossessive.
Per fortuna, a telefono, ho specificato di voler
passare “un
tranquillo pomeriggio, a spasso per le vetrine di Tokyo”.
«Stai tranquilla.»
Le intimo, riponendo la scatola all'interno della
borsa.
Forse sto prendendo più medicinali del
solito ma si tratta semplicemente di una
“precauzione”; il dottor Iwasaki, il mio
psichiatra, mi ha consigliato delle pasticche che agiscono come degli anti
ansiolitici, da non prendere alla leggera però.
Devo ammettere che non è stata una
cattiva idea, è quasi passato un mese e non sto sentendo
più dolore.
Fino ad oggi, non credevo esistesse un modo per
eliminare la sofferenza... eppure, il progresso in medicina deve aver
fatto grandi passi in avanti, sembra che il mio cuore si sia placato un
po'. O, almeno, quanto basta per non sentire più una forte
morsa all'altezza del petto.
«Guarda quel completo!»,
indico, quasi rallegrandomene, «Entriamo, voglio
provarlo.»
Fuka mi segue a ruota, non mancando di rivolgermi
qualche occhiata torva. Fingo di non averla vista, lei non
può sapere proprio nulla: non capisce né cosa si
prova, né come ci si sente.
Non sono a terra, sono sprofondata.
L'unica cosa che può salvarmi
è quella, che sia una dipendenza o meno non spetta deciderlo
a lei.
Non so
ancora che mi costerà caro sacrificare il dolore... ironico,
vero?
«Sana? Ehi, Sana!»
Luci soffuse, nubi bianche, vuoto abissale.
Mai la mia
anima è stata più leggera di così.
________________________________________________
Note: sì,
scusate il ritardo, tra problemi di connessione e problemi di
ispirazione non so cosa sia peggio -_-. Comunque sia, nei commenti ho
letto parecchi dubbi: lo scorso capitolo era uno
“stacco” dalla storia, diciamo, ho semplicemente
presentato una situazione che Sana potrebbe aver vissuto. Si era
concentrata così tanto da essersi fatta trascinare dai
ricordi. Così in questo capitolo – il continuo del
precedente – si sfoga con il suo psicologo.
Ho fatto un salto temporale, ormai è
passato quasi un anno da quando Akito è partito; le paure di
Sana dopotutto sono comprensibili, credo, almeno io la vedo
così. Sto per presentare un altro problema, che forse avrete
già intuito... il dottore ha consigliato a Sana degli
anti-ansiolitici, da prendere con moderazione, sono cose che esistono
veramente, non ho inventato nulla. Danno un certo sollievo ma bisogna
sapersi controllare. Sana voleva semplicemente evitare il dolore, stare
un po' meno male – comprensibile ma non giustificabile.
Vi dico solamente che questo capitolo per quanto
breve l'ho sentito molto, mi sono ritrovata molto in esso :).
In ultimo, vi anticipo che questa storia non
proseguirà ancora per molto... inizialmente dovevano essere
dieci capitoli ma credo di arrivare a dodici, a conti fatti. Per chi mi
ha chiesto se Hayama si farà vedere nella storia, vi
rispondo molto semplicemente che accadrà, ma a tempo debito.
La storia, principalmente, vuol essere un'introspezione approfondita :).
A presto – si spera! XD –, vi
anticipo che tra non molto potreste vedere una one-shot/polpettone
(ammazzatemi se non è vero, una shot di venti pagine D:),
Akito/Sana ovviamente :).
Kiki <3.
|
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Capitolo 6 *** VI. L'universo vive per te. ***
Più
questa storia va avanti, tanto più diventa complicata XD.
Ormai
credo sia, in tutto e per tutto, un'introspezione psicologica di
Sana. Sarà che sono legata a questo personaggio in modo
speciale –
forse alcune volte mi sento come lei, fragile e al tempo stesso forte
– ma sta diventando davvero più che una
“fan fiction” per me
:).
Ecco
perché, stavolta lascerò che a parlare sia la coscienza
di
Sana (dal prossimo capitolo a parlare sarà nuovamente Sana,
in prima
persona).
Buona
lettura.
VI.
«L'universo
vive per te.»
[Coscienza
POV]
Tu
non te ne rendi conto, ti sembra soltanto di stare meglio.
«Ne
prendo una...», la guardi per un attimo; è
così piccola, non può
procurarti grandi danni, «... Ne prendo due per
sicurezza.»
Per
sicurezza, sì.
E,
invece, ti sei appena messa in pericolo.
Alzarsi
la mattina senza aver fatto brutti sogni la notte, senza nessun
Hayama dispettoso che si insinua nei tuoi pensieri; anzi, non
sentirlo da quasi una settimana non sembra pesarti affatto. Tutto
sembra andare meglio, persino le sedute con il dottor Iwasaki sono
piacevoli; puoi uscire con i tuoi amici senza il disagio di sentirti
“un terzo incomodo” ed ultimamente hai ripreso a
sperimentare la
cucina francese, pur con qualche fallimento.
Vivi
in un mondo dove Hayama non esiste, non è mai esistito.
La
realtà è tutta apparenza,
però; da un lato il tuo umore
potrebbe sembrare decisamente migliorato, i tuoi occhi ridenti non
desterebbero mai sospetti, dall'altro stai recitando una parte.
Una
parte che ti sta a pennello, l'illusa.
Credi
che il dolore si possa resettare, come in un computer?
Affronta
la realtà, Sana, sbatti contro di essa: non siamo automi,
non siamo
macchine... Vorremmo esserlo, ma ci è
stata donata un'anima,
un destino, un'unica possibilità di vita.
E
davvero – starai scherzando, mi auguro – vuoi censurare
il
tuo stesso cuore?
Io
sono la tua coscienza, Sana, la stessa che ti penetra ogni giorno nel
cervello e continuerà a farlo finché la mente ed
il cuore avranno
vita; io sono te, Sana, tu sei me. Siamo parte dello stesso
ingarbugliato universo, del medesimo infinito... E tutto ciò
che
provi tu, da qualche parte del tuo essere, lo sento anche io.
Non
puoi fingere con me, non puoi barricarmi o sopprimermi –
forse,
sono l'unica a cui puoi dire tutta la verità.
Dimmi...
cosa
si prova quando l'intero universo vive, obbedisce alle leggi del
mondo, lotta per la sopravvivenza e tu lo rifiuti?
L'universo
vive per te, Sana.
Tu
non devi vivere per lui, non necessariamente; l'universo,
però, vive
per te.
Ricordalo
nelle notti più buie, quando ti sentirai quasi soffocare o,
peggio,
inghiottita dalla sofferenza. Sai, io e te non siamo certi che esista
un “Creatore” che ha generato
queste infinite meraviglie
eppure se ti ha chiesto di essere messa al mondo un motivo ci
dovrà
pur essere: forse per scoprire quanto possa far male un bacio mai
dato oppure una cicatrice mai rimarginata o, addirittura, una ferita
ancora sanguinante.
E
tu, come minimo, non dovresti dimostrarti riconoscente?
Basterebbe
accettare, un sì a bassa voce,
più soffrirai e più ti
renderai conto fino a che punto può arrivare la tua forza.
Ma,
per ora, dimmi... sei pronta a risvegliarti?
E
no, non aver paura: nessuno ti minaccerà, né ti
rimprovererà, al
tuo risveglio vedrai solamente una serie di sguardi commossi e
carezze materne.
Ti
basterà ammettere di aver sfiorato la disperazione ma di
esser
intenzionata a risalire a galla: Hayama non vorrebbe mai ritrovarti
così, si sentirebbe in colpa e tutti i tuoi sforzi per
convincerlo
che tutto va a gonfie vele sarebbero stati vani.
Hayama,
sì, cosa direbbe in questo momento?
Rinnegalo,
dimenticalo, odialo... Eppure, sei sicura che lui ti terrebbe
la
mano, ti starebbe accanto, sarebbe addirittura capace di prendere il
primo volo Los Angeles – Tokyo, senza preavviso.
Lotta
per lui, Sana, per voi... Vedrai, ti sentirai
più leggera –
davvero, senza nessun inganno – quando il cuore e la mente
accetteranno cosa significa vivere un amore a distanza.
Fa
male, ogni momento.
Fa
male quando lo senti e quando non lo senti.
Fa
male a scuola, a casa, ai giardini, con gli amici, senza amici, con i
suoi conoscenti e senza i suoi conoscenti.
Fa
male sentirsi dire: “Hayama, il tuo 'fidanzato' a
distanza”,
apostrofando quelle parole con un ché di saccente; fanno
male le
accuse degli altri e la compassione.
Ecco,
quella è la cosa che fa più male in assoluto.
“Poverina, costretta ad aspettarlo...
Chissà se Hayama-kun avrà conosciuto
una bella americana.”, dicono.
“Ma
a quel punto...”
E
le loro espressioni fintamente dispiaciute, il loro tono
compassionevole – male, male, male.
Devi
imparare che Akito Hayama aspetta per te come tu stai attendendo
fervidamente per lui; non esiste una forza che può dominare
il
tempo, siamo noi a dover imparare ad impiegarlo.
Akito
Hayama è il tuo universo, va da sé che tu sei il
suo macrocosmo...
e, indovina?
L'universo
vive per te, Sana.
Vive
per te.
Quelle
parole ti sollazzano la mente per diversi istanti, finché
non riesci
a schiudere gli occhi: come ti avevo detto, una serie di persone
accanto a te attendevano il tuo risveglio e ti stanno osservando con
un moto di commozione.
Ti
senti leggermente indebolita, ma è tutto normale:
è l'effetto delle
flebo, presto svanirà questa sensazione di spossatezza;
osservi per
un momento lo scenario di fronte a te, osservi fino a che punto le
persone che ti sono più care possano aver sofferto a causa
della tua
presunzione.
Sì,
la presunzione di voler essere invincibile: un'eroina, in parole
povere.
Sei
già un'eroina, sciocca... puoi
essere tutto quello che vuoi, se lo desideri.
«Mamm...
mammina?»
Misako
Kurata si precipita verso di te, ti stringe forte la mano ed avverti
un calore che ti arriva fin dentro il cuore.
«Per
favore, non dire nulla di tutto questo ad Hayama.»
Non
vorresti mai che lui soffrisse a causa tua, conoscendolo si
prenderebbe tutta la colpa.
«No,
non ti preoccupare.»
Ti
sfiora il naso in maniera birichina, sorridi senza motivo.
Fuka
è a qualche metro di distanza, sembra ancora scossa,
agitata... devi
averla proprio fatta preoccupare.
«Ehi!»,
tendi il braccio, desideri la sua mano, «Non ti preoccupare,
Fuka,
non lo farò più.»
Lei
abbassa le spalle, persino i lineamenti del suo viso non sembrano
più
essere così contratti.
«Bene,
Sana, perché mi hai spaventata. Alla faccia del nostro
“tranquillo
pomeriggio”.»
Ridacchiate
insieme, dopodiché la tua espressione si fa seria,
imperiosa: «Fuka,
sai una cosa?», riesci a calamitare la sua
attenzione,
«L'universo vive per noi.»
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Capitolo 7 *** VII. Se io lo vedessi adesso, soffocherei. ***
VII.
«Se
io lo vedessi adesso, soffocherei».
«Davvero
tornerai a recitare?».
Naozumi,
dall'altro capo della cornetta, sembra possedere un tono
così
speranzoso che deludere le sue aspettative mi pare d'un tratto un
delitto.
«Vorrei.
Sto aspettando l'aggancio giusto...».
Rispondo
molto vagamente, tornare a recitare sarebbe bellissimo ma vorrei
farlo nel modo giusto. Vorrei, cioè, potermi impegnare come
un tempo
e dare il massimo – il ché, a conti fatti,
significherebbe dover
essere in piena forma.
«Sana,
devo proprio andare».
«Oh,
d'accordo. Ci sentiamo, allora».
Un
breve mugugno – quel che basta per definirsi un cenno
d'assenso –
e la linea cade.
Chiacchierare
con Naozumi è sempre piacevole, sembra volermi sostenere in
qualunque cosa – a volte mi chiedo quale effetto avrebbe
avuto
sulla mia salute innamorarmi di Naozumi. Poi, ricordo, è un
pensiero
davvero infelice.
In
ogni caso, vorrei davvero
poter pensare alla mia carriera: mi mancano i tempi in cui ero in
grado di lavorare persino dieci ore al giorno, sembrerebbero passati
secoli ma, invero, mi distanziano solo alcuni anni.
Forse
avevo solo meno pensieri.
È
proprio quello che mi manca, alcune volte: i tempi
in cui
avevamo tanta fretta di diventar grandi e non vedevamo l'ora di fare
progetti, viaggiare, esplorare questo vasto ed ingarbugliato mondo. E
c'è ancora molto tempo per farlo, lo so, tuttavia preferisco
ieri
a domani, perché ieri i miei
pensieri non erano così...
fragili.
Ora
si scontrano contro la dura realtà, sembra quasi di vederli
affogare
a volte – dovrei stare attenta, in ogni caso, a non andare a
picco
assieme a loro –, ho imparato a domarli, però.
«Sana!».
Rei
oltrepassa la soglia di casa con un sorriso raggiante, reca in mano
dei documenti apparentemente importanti.
«Abbiamo
un aggancio! E credo che ti piacerà moltissimo».
Mi
invita a sedere, si toglie persino gli occhiali – diamine,
penso,
dev'essere proprio una questione vitale.
«Non
dirmi che dobbiamo andare ad Hollywood!».
Ridacchio
tra me e me.
Osservando
l'espressione di Rei, però, mi rendo conto di non aver fatto
una
battuta divertente.
«Ti
hanno offerto un ruolo da protagonista in un telefilm che
dovrà
essere lanciato l'anno prossimo. E, indovina, qual è la
patria dei
telefilm?».
Boccheggio
ripetutamente per qualche secondo, mi rendo conto solo in quel
momento di aver appena ricevuto una “proposta
internazionale”.
L'America,
sì, a qualche passo di distanza.
«Stai
scherzando?».
Rei
nega placidamente con il capo, quello sembra tutto fuorché
uno
scherzo.
«Affatto»,
afferma, «Ma non ti ho ancora detto tutto, Sana: alloggeremo
a Los
Angeles».
Rei
sembra gioire di felicità, gonfia addirittura il petto; io,
invece,
non riesco proprio ad abituarmi a quella notizia: dovrei
essere felice, euforica, dovrei precipitarmi alla
cornetta del
telefono e comporre quel numero.
Dovrei
e vorrei, invero, ma la paura mi impedisce di
muovermi.
È
la fragilità, più che la paura, a piegarmi
– inevitabilmente.
È
una forza che non riesco a controllare, è il mio cuore che
rimbalza
in bocca, è la mano che trema di spavento, è lo
sguardo
disorientato, è la lacrima che, insolente, scalfisce lo
zigomo.
E,
tuttavia, ci sarebbero milioni e milioni di ragioni per essere
felice: Akito, la mia ancora di salvezza, è improvvisamente
raggiungibile... potrei respirare il profumo della sua giacca al
vento sulla mia pelle, potrei toccare con mano i
nostri
sentimenti.
Sarebbe
bellissimo, davvero, se non fosse che gli ultimi due anni sono stati
un vero e proprio inferno: il mio cuore ha sentito la mancanza di
Akito e, non solo, si è anche ribellato; è stata
dura, durissima,
riemergere da quell'abissale vuoto senza fine nel quale si era
costretta la mia anima – e tornare a sorridere, lavorare ed
amare
senza colpa alcuna.
Negli
ultimi due anni, in pratica, ne ho passate davvero di tutti i colori
e adesso che, finalmente, ho capito di non dover addossarmi nessuna
colpa il mio spirito sembra essere nato nuovamente, aver ritrovato la
luce nel lungo e tortuoso cammino che ho percorso, sino ad ora,
nell'ignoto.
«I-Io
non posso...», i miei occhi si riempiono di lacrime,
«... Io non
posso, Rei, davvero».
Rei
mi osserva con disappunto; tutto il suo entusiasmo sembra
improvvisamente essere sfumato nel nulla.
«Cosa
stai dicendo, Sana? È Akito, il tuo
ragazzo...».
Poggia
una mano sulla sua spalla ma, dal mio punto di vista, sembra aver
appena riaperto una vecchia ferita.
«Se
io lo vedessi adesso, soffocherei», affermo, la voce rotta
dal
pianto, «Soffocherei. Non sarei in grado
di tornare a
galla».
Rei
scuote leggermente la testa, boccheggia ripetutamente – un
vano
tentativo di trovare le parole adatte –
e, infine, sospira
laconicamente.
Tutto
quel che riempie la stanza è il silenzio.
Le
pareti, però, sembra quasi che parlino: di me, di lui,
di
noi.
Quel
noi che,
con il tempo,
abbiamo imparato ad accettare – persino
ad amare
–, e che ora siamo costretti ad aspettare.
«Lo
capisco. Lo posso capire».
Rei
sforza un sorriso, eppure dietro le spesse lenti scure i suoi occhi
mi sembrano infinitamente tristi.
Vorrei
potergli spiegare che non deve addossarsi alcuna colpa, so che agisce
solo in funzione del mio bene; vorrei avere la forza di rivedere
Akito a Los Angeles e correre tra le sue braccia ma, infine, mi
dovrei rendere conto che il nostro idillio è solo questione
di
tempo.
I
miei occhi si sono riempiti di lacrime, stringo ancora i pugni ma
temo che non serva a molto – per quale motivo sono
sempre così
fragile quando si tratta di lui, eh?
«Lui
mi manca. Mi manca da morire», deglutisco, le emozioni mi
bloccano
la gola come cemento,
«Ma
rivederlo, rivederci, renderebbe la sua mancanza
ancor più
insopportabile».
E
Rei prova a dire qualcosa ma, alla fine, quel che resta sulle sue
labbra non è altro che un sorriso amaro. Poi, senza neppure
rendermene conto, le sue braccia avvolgono il mio collo ed emanano un
tepore simile all'amore – l'affetto di un padre,
tutto lì.
Le
lacrime si sciolgono sulle mie guance, il dolore sfigura le mie
espressioni, l'amore non fa altro che caricare le lacrime ed il
dolore di intensità.
«L'amore
è insopportabile, Rei. È davvero insopportabile».
Tra
le braccia di Rei, per una lacrima che si spegne tante altre
rinascono e soffrono in egual maniera.
E,
ho pensato infine, forse è proprio questo la vita: un ciclo
continuo
e, tuttavia, vitale per ogni singola esistenza. Una lacrima che si
spegne, tante altre che si avvicinano senza pudore.
Non
è tutto sprecato, affatto: per qualcosa che cade,
c'è sempre
qualcosa che resta.
Resta
per essere amata, coltivata e fortificata ogni giorno – la
mia
pena, a quel punto, si fa più sopportabile.
*
* * * *
Note.
Mi
rendo conto di essere in ritardo .w.
Maggio/Giugno/Luglio
sono stati dei mesi terribili, davvero, densi di studio. Alla fine,
però, sono riuscita a dare la maturità e ne sono
uscita indenne
(?). Fino ad Ottobre, quindi, niente impegni. Goduria assoluta.
ùù.
Quindi,
sì, anche se sono sparita ho scritto parecchio: questo
capitolo,
sebbene non sia molto lungo, è stato molto impegnativo. Ci
sono
tante cose all'interno: la fragilità di Sana, il dolore di
un amore
vissuto a distanza, l'affetto di un padre come Rei – pur non
consanguineo.
Ed
il dolore, in sottofondo, che sovrasta la protagonista.
Una
specificazione: non so quanto “Hollywood” disti da
“Los
Angeles”, potrebbero essere anche distare parecchio, ma...
possiamo
far finta che siano vicine? Serviva ai fini della storia, ecco. XD.
Ulteriori
informazioni: il prossimo sarà il
penultimo capitolo.
Ebbene
sì, siamo giunti quasi alla fine di
questa “Odissea”.
Vi
anticipo solo che sarà solamente
Akito/Sana – una lunga
telefonata tra i due, quindi troverete molti dialoghi. Parleranno di
cose molto importanti, quasi “a cuore aperto”.
L'ultimo
capitolo era lungo una decina di pagine – era tutto bello e
pronto
per l'occasione – ma, indovinate un po'?
Un
Trojan – virus letale, vi consiglio di non aprire mai troppe
finestre insieme <_< – mi ha bloccato il pc per
circa tre
giorni. Ed io ho penato per restaurarlo.
Tutte
le mie quattrocento fan fiction, più o meno, cancellate.
Non
vi dico come ho sofferto. y________y.
E,
niente, lo sto riscrivendo – che altro posso fare? XD
–, ci vorrà
un po' di tempo perché sarà molto lungo ma vi
prometto che vi
sorprenderà. <3.
Infine
vorrei ringraziare tutti voi che commentate con tanto affetto, sia
qui che su Facebook, è sempre un piacere parlare con voi.
:
).
A
presto,
Kì.
|
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Capitolo 8 *** VIII. Torni o ritorni? ***
VIII.
«Torni
o ritorni?».
Il
telefono vibra durante le ore che precedono la venuta di un'altra
giornata: una, due, tre volte. Schiudendo gli occhi – appena
un
po', quel che
basta per avere una
panoramica semi visibile della mia
camera – mi accorgo che il display illumina la stanza a
più
riprese.
Poi,
mi volto verso l'orologio a muro: sono le cinque del mattino, una
debole luce appare dietro la linea dell'orizzonte –
un giorno in
meno.
Il
telefono vibra ancora e, stavolta, sono costretta ad alzarmi: sono in
pochi ad avere questo numero e c'è una certa
persona che sa
benissimo quanto mi
urti essere svegliata all'alba.
Tuttavia,
i miei moniti sembrano essere serviti davvero a poco.
«Ti
sto odiando, sappilo».
Dall'altro
capo del telefono odo un breve mugugno, mi sembra di poterlo vedere:
sarcastico e menefreghista come sempre, il solito Hayama.
«Lo
so», quella
è la sua difesa, «Qui è
notte».
«Ti
devo mancare molto, Hayama!», ridacchio a bassa voce, non
vorrei
svegliare l'intera casa.
«Sono
tutti uguali, qui. Con degli enormi davanzali e...».
«È un
modo poco galante per farmi sapere quanto sia diversa? E, per
l'appunto, quanto ti manco?».
Provocare
Hayama è una delle cose che più mi aggrada: darei
qualsiasi cosa,
in questo momento, per osservare la sua espressione
imbarazzata,
nonché il suo volto paonazzo.
«Sei
soddisfatta di questa accurata analisi, Kurata?», borbotta
Hayama,
piuttosto risentito.
«Non
mi dispiace»,
lo beffeggio,
ridacchiando sommessamente.
Un
attimo di silenzio – Hayama respira sulla cornetta, riesco
a sentirlo –, qualche
istante di
imbarazzo.
«Per
essere nella città
che non dorme mai
sono
più sveglia di te, Hayama,
sai?», ridacchio. «A proposito, ultimamente mi
hanno offerto un
ruolo da protagonista, si dovrebbe girare a
Los Angeles».
Dall'altra
parte nessuna risposta, stavolta, solo silenzio.
Non è un
silenzio imbarazzante, men che meno fastidioso: tutt'altro,
è
riflessivo.
Potrebbe non
sembrare a primo acchito ma, anche in
silenzio, ci stiamo parlando.
«Ma non
ho accettato», bisbiglio infine.
Hayama non
risponde – teme di urtare la mia
sensibilità, forse? –, sento il sangue
affluire sino alle guance e, in men che non si dica,
divento paonazza.
Come se
lui potesse saperlo, penso fra me e me, portando le ginocchia
insù e
appoggiandovi placidamente il capo.
«Hai
fatto bene».
Sono tre
parole, pochissime lettere a mandarmi in tilt. Hayama non è
mai
stato un tipo eloquente, anzi, eppure quel che dice è
incisivo,
diretto, a volte sin troppo.
«Mi
manchi, Hayama».
È una
frase detta con insicurezza, sì, il mio stato d'animo
trapela in un
attimo: quelle parole sono autentiche, sì, ma mi
preme ricordargli
che è al centro dei miei pensieri, sempre.
Nonostante la
lontananza che ci divide, Los Angeles nel mio cuore non è
troppo
lontana.
«Hai
fatto bene a dirmelo».
Hayama ha
solo aggiunto due parole alla frase precedente, eppure mi sento d'un
tratto frastornata; non si sa mai cosa potrebbe voler dire, forse
tutto o forse niente.
Alcuni
minuti di silenzio, il sole si eleva in alto nel frattempo:
è uno
spettacolo che vale la pena di contemplare in silenzio – i
minuti
scorrono
sul display e,
parimenti, i nostri pensieri –, la mancanza
di Akito in quel momento è più forte che mai.
«Torno,
comunque», esordisce d'un tratto, nel modo più
naturale possibile.
«Cosa?
Quando?!».
Improvvisamente
il cuore accelera, il mondo sembra essersi capovolto.
«Tra due
settimane, Kurata. Ora, tenta di non svegliare la casa»,
Akito
apostrofa le parole con tono sarcastico, convinto che possa
perdere
il mio autocontrollo. E, in effetti, se non mi avesse frenata sarebbe
stato così.
Poi, nella
mia mente si materializza una visione agghiacciante: all'iniziale
entusiasmo si sostituisce ben presto un timore –
paura? –
più grande.
«Torni
o ritorni?».
Sapete,
c'è una bella differenza tra le due cose: quando una persona
decide
di tornare, lo fa per restare. Al contrario, il ritorno
implica una partenza.
In
sostanza, non si è mai troppo certi di chi abbiamo al nostro
fianco:
tornare o ritornare sono due facce diverse della stessa medaglia, il
mondo
potrebbe essere
messo a soqquadro grazie a quell'unica e
indiscutibile differenza.
«Torno».
Tiro un
sospiro di sollievo, posso affermare di aver accantonato un pesante
macigno dal cuore; Hayama sa sempre come
rispondere,
d'altronde –
potrebbe essere una parola eppure potrebbe voler dire tutto.
«Allora
ti aspetto», sussurro, dopo un breve respiro.
«Non
voglio che tu mi aspetti, Kurata. Voglio che tu mi venga
incontro»,
probabilmente è la frase più lunga che ho udito
direttamente da
Akito
Hayama, sin dal
principio di questa conversazione.
Sì,
dev'essere sicuramente così.
Mi limito
a sorridere tra me e me – le parole di Hayama riescono sempre
a
penetrare nel mio animo, ogni volta in maniera diversa –,
dopodiché
dibatto:
«Sempre».
Hayama sta
per attaccare, lo avverto, ma prima sembra voler dire qualcosa
–
sono i suoi sospiri, i suoi brevi respiri e la strana abitudine
di
tossicchiare
nervosamente quando si sente teso a farmelo intuire.
«Non
mi dispiace affatto».
Poi, il
suono di un tasto e la magia si spegne improvvisamente – ma,
nonostante tutto, ho continuato a sognare ad occhi aperti.
Hayama è
vicino. Los Angeles è lontana. E Noi
siamo inevitabili.
* * *
Perdonate
il ritardo, l'ispirazione è stata piuttosto assente
ultimamente! Ç.Ç
Comunque,
questo è il penultimo capitolo... il prossimo
sarà l'ultimo,
decisamente lungo e, no, non voglio spoilerarvi. <3
Vi dico
solamente che dopo questa storia ne ho un'altra in cantiere –
non
mi fermo mai, no. D:
Il “Non
mi dispiace affatto” è una frase tipica
di Hayama, credo sia
comprensibile sia per chi ha visto solo l'anime, sia per chi ha letto
il manga.
Il “Noi”
finale è volutamente in lettera maiuscola, prendetela come
una
licenza poetica – per sottolineare la tensione, insomma.
E, niente,
credo che questo capitolo sia un po' ad interpretazione personale...
in realtà ho messo vari accenni, spero che li abbiate colti.
Nel
caso, mi scuso per essere rimasta molto “sul vago”.
Al
prossimo – ed ultimo! – capitolo, vi aspetto!
Kì.
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Capitolo 9 *** IX. Sarai sempre il mio muro contro il quale sbattere la testa ***
IX.
«Sarai
sempre il mio muro contro il quale sbattere la testa».
È
inutile far finta che sia un giorno come gli altri, arrivata
all'aeroporto di Tokyo me ne rendo perfettamente conto.
Così, con le
dita premute contro l'ampia vetrata, attendo con impazienza quel che
si rivelerà un definitivo ritorno. Il tempo è
passato, ma è come
se non fosse trascorso mai davvero: i
nostri amici sono gli stessi di sempre, in fondo. Aya e Tsuyoshi
fanno ancora coppia fissa, Fuka è irritata per qualcosa che
Takaishi
deve averle detto, Rei chiacchiera al cellulare, nella speranza di
trovarmi nuovi ingaggi e mia madre sta rincorrendo Marochan.
Nel
mio cuore, invece, tutto è cambiato: non sono più
la ragazzina di
un tempo, questi due anni hanno formato il mio carattere e mi hanno
reso una persona differente, nuova.
Non
avere Akito Hayama accanto a me, per quanto doloroso, mi ha permesso
di mettermi in contatto con coloro che hanno sofferto molto di
più.
Nel mondo c'è così tanto dolore e, come un
riflesso in uno stagno
d'acqua, c'è anche tanto amore. Sta a noi, effimeri esseri
umani di
passaggio, lottare contro il primo e far trionfare il secondo.
Sono
ancora in balia dei miei pensieri quando avverto un grande scossone
in direzione delle spalle. Rei chiama il mio nome più volte,
dal suo
tono agitato evinco che il momento è
finalmente arrivato. È
il rumore di un megafono a ridestarmi, nonché la conseguente
calca
di persone che si fanno largo nella piattaforma. Il mio cuore inizia a
martellare, il respiro si fa titubante e sembra che le parole mi
siano state portate via come per magia. Mi ero preparata a tutto
ciò,
avevo persino pensato ad una battuta d'effetto, eppure ora ogni cosa
sembra offuscata dai mille pensieri che affollano la mia mente.
Hayama
sta camminando sul mio stesso suolo, sta compiendo gli stessi passi
che mi porteranno da lui, stiamo respirando lo stesso ossigeno. Muovo
ancora un passo in avanti, gli occhi più sgranati che mai –
ti
prego, ti prego, fa che non sia un sogno, non voglio svegliarmi
–,
improvvisamente le urla e la confusione diventano rumori ovattati,
coperti dal solo incedere dei miei passi. Tutto si muove
confusamente, davanti ai miei occhi si manifestano tanti colori
differenti, ogni gesto sembra essere una corsa contro il tempo ma non
riesco a udire nulla.
Mi
fermo, allora, perché i miei occhi forse hanno visto quel
che
sperano non sia un'illusione: è una chioma bionda,
leggermente
spettinata, sembra un po' disorientata ma si abitua dopo qualche
istante. Sono solo una decina di passi, ora, a separarci
dall'inevitabile:
ti prego
Hayama, penso, cercami con lo sguardo. E
come se i miei
desideri potessero, magicamente, venir esauditi qualcosa scuote
Hayama – la furia di un passante, la sua valigia che tocca il
suolo, il suo disappunto nel rialzarla – e i suoi occhi si
dirigono
verso di me. Dorati, paralizzanti, incantevoli: esattamente come li
ricordavo, non è cambiato di una virgola. Non l'ho nemmeno
guardato,
mi sono concentrata solo sul suo sguardo: volevo vedere,
egoisticamente, se i suoi lineamenti corrispondevano ancora a quelli
che un tempo prima mi avevano fatto tante promesse. Cercavo il suo
riflesso nel mio, nulla più.
Stavolta
sono cinque passi, li ho contati mentalmente, che ci separano: non
esiste più la linea Tokyo-Stati Uniti,
non esiste più alcun
fuso orario, non esiste più nessun aereo.
Ora
non regge nessuna giustificazione, non è più il
cielo che ci separa
ma il suolo. Eppure, Hayama, non ti sembra di camminare a
raso
terra?
Dietro di me
le
espressioni festose, le risate cristalline ed i cori di bentornato
sono incontenibili ma dalle mie labbra non riesce a uscire che un
flebile sospiro.
Sorprendentemente
è Hayama a prendere parola, a spezzare quell'imbarazzante
attesa.
«Speravo
fossi cambiata almeno un po', Kurata», asserisce, commentando
con lo
sguardo le mie forme non proprio prorompenti.
«Sai
che... potrei usarlo?».
«Non oserai».
Sulle mie labbra
indugia un ghigno sardonico, pochi istanti dopo sulla testa di Hayama
si forma un bernoccolo di medie dimensioni.
«Non sono proprio
riuscita a lasciarlo a casa», sentenzio, complimentandomi con
me
stessa per aver sfoggiato un destro niente male.
Le risate dei
nostri amici riempiono l'aria e, dopo un iniziale momento di
titubanza, sembra che il tempo non sia passato: siamo ancora gli
stessi, ci punzecchiamo a vicenda ed i nostri sguardi diventano
complici solo quando nessuno li guarda.
*
Oggi
tutti gli occhi sono puntati addosso ad Akito Hayama, come se fosse
la notizia del momento: sono centinaia le domande che gli sono
rivolte e altrettante le risposte che vengono date con un secco
“meh”. Non è da lui
dilungarsi in ampollose descrizioni
concernenti il cosiddetto “sogno
americano” o minuziosi
scrorci paesaggistici, lascia che siano gli altri a parlare per lui.
I nostri amici sono così concentrati nel far valere l'uno le
teorie
dell'altro da non accorgersi del fatto che Hayama si è
appena
separato dalla folla di persone e, con un tacito segnale, mi invita a
seguirlo.
Devo
ammetterlo: ho aspettato ardentemente questo momento, eppure ora che
è qui vorrei rimandarlo il più possibile. Ora le
farfalle nello
stomaco si fanno sentire, ora devo trovare il coraggio di sciogliere
il nodo in gola che mi attanaglia, ora è
già qui.
Akito
compie un gesto che potrei definire sorprendente, ma che non oso
commentare con sarcasmo: afferra la mia mano e la tiene stretta a
sé
mentre percorriamo i viottoli affollati della città. Le mani
di
Akito sono calde, di un calore che arriva sino al cuore, passando
direttamente per le vie endovenose.
«Così sei diventato un
vero american boy, Hayama».
Akito sfodera un mezzo
sorriso, poi ribatte: «I can't understand you,
young lady».
L'istinto
sarebbe quello di canzonarlo per bene, ma il mio subconscio deve aver
lottato strenuamente se il mio sguardo non può fare a meno
di
indugiare sulle sue labbra e, con un piccolo balzo, ritrovarvisi:
è
come se sapessero ancora di limone, di neve, di dimmi che Los
Angeles è vicina.
Qualche
secondo dopo Hayama annuisce tra sé e sé, mentre
il calore si
colora sulle mie guance e mi gioca strani scherzi. Stavolta
è Akito
a prendere parola, si trova solo a qualche spanna dal mio viso: «Per
un attimo ho pensato che non fosse passato il tempo per te, Sana».
Nessun Kurata, nessun appellativo canzonatorio, nessun
vezzeggiativo. Poi, sento la fronte di Akito sulla mia spalla ed
è
come se un muro si fosse abbattuto tra di noi.
«Non
temere, Hayama, sarai sempre il mio muro contro il quale sbattere la
testa», i miei pensieri si traducono in parole e temo
– anzi, ne
sono quasi certa –, che siano suonate particolarmente
melense.
«Ecco, adesso un fidanzato normale dovrebbe rispondere con
una frase
romantica».
Inveisco, forse inutilmente, quando le mie
confessioni imbarazzanti non ricevono risposta alcuna. Hayama si
limita a paralizzarmi con quel suo sguardo indagatore, mettendomi a
tacere con una sentenza che non lascia spazio ad ulteriori indugi:
«Non sono mai stato bravo con le parole, Kurata».
È solo
qualche millimetro di distanza a separarci, abbastanza da consentirmi
di replicare: «Non è vero, Hayama. Non
è vero».
Me
lo hai provato ora, vorrei
dire,
ma il tempo e l'intesa non sono mai stati così in sintonia e
tutto
il resto è polvere, aria, cenere: nulla è
concreto, non
più,
sulle labbra di Hayama.
*
Qualche
anno dopo.
“Qualcuno
ha detto: non c'è nulla di nuovo sotto il sole,
una volta. È
vero, non esiste niente in questo mondo che non sia già
stato
provato da qualcun altro, non esiste individuo che non abbia provato
il dolore che altri hanno già sperimentato. Eppure ce ne
stupiamo
ogni volta, pur sapendone riconoscere i sintomi: non c'è
nulla di
nuovo sotto il sole, ci ripetiamo di nuovo, nonostante qualcosa di
diverso ci sia, in effetti. Non è ciò che
c'è sotto il sole ad
essere diverso, è il sole stesso ad
esserlo: negli occhi di
Hayama, nello specifico, lo vedo e lo rivedo ogni giorno”.
«Dimmi
che hai terminato questa sceneggiatura, Kurata. Sei in
ritardo».
Hayama
appare alle mie spalle, per fortuna me ne sono accorta in tempo:
fremo impercettibilmente per lo stupore e, con un incredibile
acutezza di riflessi, lo stringo tra le mie braccia.
«Uhm,
devo aver preso da mia madre», dibatto scherzosamente.
Hayama
arcua un sopracciglio, dopodiché punta lo sguardo alla
numerosa pila
di fogli tra le mie mani.
«Ricordami
perché questo copione è così
segreto», sentenzia freddamente.
«Perché
è una sorpresa».
Mi ero già preparata a questa domanda, anche
perché se Hayama ne sapesse il contenuto insisterebbe per
leggere e
rileggere il copione. E, per la civile convivenza, credo che questa
soluzione sia migliore per ambedue.
«Dì
la verità, Kurata...», Akito si avvicina
più del dovuto, devo
ricordarmi di tenere erte le mie difese. «Ti vergogni dei
tuoi
errori grammaticali?».
«Non
essere stupido! Hayama, se avessi il mio martelletto in questo
momento...», sono costretta a lasciare la frase in sospeso,
le dita
di Hayama iniziano a pizzicare i miei fianchi: conosce le mie
debolezze, eppure le sfrutta.
«Sì?»,
chiede lui, sarcasticamente.
«Non
lo fare», supplico, con un tono sin troppo accondiscendente
affinché
sembri reale.
«Cosa?»,
domanda nuovamente, poggiando le labbra sull'incavo del mio collo.
«Questo...
mi distrae», ammetto,
vagamente piccata.
«Bene».
«Potrei
approfittare di questo tuo momento di debolezza per colpirti alle
spalle, Hayama», esordisco improvvisamente, con l'intenzione
di
impormi. «O sbatterti contro un muro, farebbe molto
più
male».
«Impossibile, Kurata. Poi, contro chi sbatteresti la
testa?».
Akito
Hayama mostra il suo aspetto per quello che è davvero:
nient'altro
che un presuntuoso, egocentrico e arrogante fidanzato. Non mi
risultava che fosse anche megalomane ma, a quanto pare, l'aria
americana deve averlo cambiato.
«Sappi
che ti odio, Hayama, in questo momento. Stai sfruttando una
confidenza imbarazzante avvenuta tanti anni fa», rispondo
inviperita, stavolta.
Hayama
abbozza un mezzo sorriso, per poi esordire con un semplice:
«Perfetto. Sono pronto a rinfacciartelo tutta la
vita».
Ed
è proprio quando sarei pronta a tirar fuori il proverbiale
martellino rosso che Hayama inizia a stupirmi. Abbasso leggermente le
spalle, esalo un gran sospiro e trattengo ogni emozione.
«Hayama?»,
bisbiglio, avvicinandomi al suo timpano. «Mi hai appena detto
una
cosa bellissima».
Mi
hai appena detto quanto mi ami, vorrei
dire, ma sono sicura che lo avrà
capito da solo.
– Fine
–
***
Lo
so, mi faccio
sentire dopo decadi. Non vi sto qui a elencare i miei mille impegni,
son tornata a postare su EFP dopo svariato tempo! Dunque, passando
alla fan fiction: spero si capisca, Sana sta scrivendo la sua prima
sceneggiatura e l'ha basata sulla sua storia con Akito. Inoltre, ci
sono altri riferimenti: il “Dimmi
che Los Angeles è vicina” è
un riferimento ad uno degli ultimi volumi, prima che Sana e Akito si
separino. Quando nel presente Sana dice che: “L'aria
americana deve
averlo cambiato”, è perché Hayama va
ancora negli USA di tanto in
tanto. Verosimilmente con un problema come il suo credo che almeno
qualche controllo dovrebbe farselo, anche se ovviamente vi resta
molto di meno. Ho immaginato che fosse tornato da poco da un viaggio
negli Stati Uniti, ecco spiegata la frase.
Veniamo alla parte
finale: vi ringrazio, questo fandom è sempre così
caloroso nei miei
confronti. Grazie per le letture, perché questa storia
è diversa
dalle altre e c'è molto dramma all'interno. Già
solo per il fatto
che siate arrivati alla fine vi stimo, ecco. Inoltre è stata
una
storia difficile, per “calarmi” nel personaggio ho
optato per la
prima persona (è una rarissima eccezione, scrivo sempre in
terza
persona!). Grazie a tutti coloro che hanno lasciato un commento,
più
di una volta mi son commossa per la sensibilità con la quale
avete
accolto questa storia. :')
E inoltre grazie a:
BuongiornoBellAnima,
dancemylife, Euterpe_12, luchia nanami, Piccola Sana, Summer_Sun,
Altaria, Elizabeth_J, sarahmanga,Aiofjane,aki96, Di4ever, elenafire,
Helder Bode, isachan, katia22, kikkab, kiss88, lady_free, LallyQueen,
laretta, Manila, Marika95, Sara_Skater89, sarelf, scirocco, Sweet
Stella, Uotani, _Silvia_Salvatore_
, per
le preferite/seguite/ricordate.
Prossimamente
– il tempo di portare a termine qualche progetto,
così da tornare
qui stabilmente – tornerò con una commedia
romantica, ovviamente
Sana/Akito. Inoltre, se per caso seguite altre mie storie o volete
ulteriori aggiornamenti, in
questa pagina li troverete tutti. :)
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