È già ieri, è quasi domani.

di KikiWhiteFly
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** I. Se lo ripeto, funziona davvero. ***
Capitolo 2: *** II. Alla fine, albeggia. ***
Capitolo 3: *** III. Le frecce di Cupido sono sprecate. ***
Capitolo 4: *** IV. Non scappare. ***
Capitolo 5: *** V. L'impossibile che si completa nell'infinito ***
Capitolo 6: *** VI. L'universo vive per te. ***
Capitolo 7: *** VII. Se io lo vedessi adesso, soffocherei. ***
Capitolo 8: *** VIII. Torni o ritorni? ***
Capitolo 9: *** IX. Sarai sempre il mio muro contro il quale sbattere la testa ***



Capitolo 1
*** I. Se lo ripeto, funziona davvero. ***




Bene, signori.

Vi dico subito che tengo molto a questa storia, ma non aspettatevi grandi slanci amorosi o romanticherie del genere. Quello che narrerò sarà l'amore... a distanza. Sì, perché mi sono sempre chiesta che cosa abbia fatto, cosa abbia provato e quante volte si sia abbattuta o meno la nostra Sana Kurata dopo aver visto il suo Akito partire.
Voi non ve lo siete mai chiesto?

Certo, nel manga si vedono qua e là cosa hanno fatto i due in quei tre anni ma il tutto è narrato molto velocemente e, per un'amante delle introspezioni come me, questo non è abbastanza. Quindi, la domanda che mi sono posta è stata: come si è sentita Sana dalla partenza di Akito in poi? <3.

Or bene, signori e signore, questa fan fiction comprenderà un periodo dell'adolescenza di Sana compreso tra i tredici ed i sedici anni (se non vado errata, i due sono stati separati per ben tre anni – e mica cavoletti, eh ò.ò).

Ringrazio in anticipo chi mi seguirà, vi dico subito che questa sarà una long fic non più lunga di quindici capitoli.

P.S.: risponderò alle vostre recensioni tramite il nuovo servizio di EFP <3.


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È già ieri, è quasi domani.






I.



«Se lo ripeto, funziona davvero»







Mi guardo attorno disorientata, sembra che tu sia partito veramente; certo, lo so che la scelta è stata necessaria, capisco anche le ragioni che ti hanno spinto a prenderla ed io stessa ti ho chiesto di andare. È che una piccola speranza la covo ancora nel profondo – magari potresti decidere di scendere dall'aeroporto e gettarti con uno slancio poco coordinato tra le mie braccia, proprio come in un film americano –, ma questa è solo la fantasia di una ragazzina che ha smarrito per un attimo la ragione.

Mi precipito verso le immense vetrate dalle quali solitamente gli aerei decollano; i mormorii degli altri li lascio indietro, in questo momento ho bisogno di dirti arrivederci – perché sarà un arrivederci, vero? –, non ci disturberà nessuno.

E così mi trovo con le mani incollate ai vetri, a sperare che anche tu faccia la stessa cosa da lontano; non voglio piangere, ti ho promesso che non l'avrei fatto.

Il motto era “sorridi”, giusto?


Il volo per Los Angeles è in partenza.


Una voce fastidiosa mi entra nei timpani, sembra quasi l'eco della coscienza. Anche da questa distanza posso udire il rumore delle eliche, i segnali acustici, una seconda voce fastidiosa che ripete lo stesso messaggio – sta succedendo veramente, ripeto a me stessa –; chiudo gli occhi, poi tutto accade in un attimo. Le mie mani, quasi per empatia, si staccano dal vetro e l'aereo si libra su, più in alto degli uccelli, più elevato di qualsiasi montagna... Lassù, per arrivare in un altro mondo, per incontrare un altro destino.

E quando apro gli occhi quello strano gioco di luci, segnali e suoni è terminato.

È terminato, sì.

Le piante dei piedi rimangono incollate al pavimento, è solo la parte superiore del busto a muoversi; non credo che saresti fiero di me: riaprendo gli occhi mi sono accorta che qualcosa di salato mi ha bagnato le labbra.

Sospiro, tra poco troverò il coraggio di voltarmi e sorridere – ho bisogno ancora di un attimo di panico, giusto il tempo che Rei e gli altri mi trovino.




La sera prima eravamo racchiusi in uno spicchio lunare – scopriva solo le nostre figure, il resto era nascosto nell'ombra –, era superfluo parlare. Sapevamo che semmai avessimo tirato in ballo l'argomento Los Angeles uno dei due ne sarebbe uscito ferito e, a giudicare dalle recenti vicissitudini, io sarei stata la più debole.

Ho tenuto la tua mano nella mia, tutto il tempo necessario. Avevo l'impressione che mi sarebbe mancato quel calore, sentivo che dovevo guardarti bene, rimanere ancora paralizzata da quegli occhi color miele, perdere il respiro se mi avvicinavo più del dovuto e...

«Non pensare.»

Mi sussurrasti, con un fil di voce – per quale motivo sai sempre cosa penso, eh?

«Questa è la tua politica, Hayama?»

Ridacchiai, voltandomi a guardare l'ultimo quarto di luna.

«E' insistente questa luna.»

Dissi alla fine, sospirando un po' affranta.

«Mai quanto te.»

Mi voltai verso di lui, certo che sapeva davvero come spezzare l'atmosfera. Dopotutto, non mi aspettavo una frase da romanzo rosa ma... niente, alla fine l'avevo già perdonato. Quello era il suo modo di farmi sentire speciale, quello era l'Akito Hayama di cui mi ero follemente innamorata.

Alla fine, restammo faccia a faccia – ad una spanna dal volto – per interminabili minuti, il tempo però non mi sembrò mai passare così velocemente. Era il tempo che avrei voluto allungare, fare in modo che tutto fosse rimandato, escogitare una mossa oppure una strategia per ricordarci ancora, per rivedere ogni tratto e inscatolarlo nella memoria.

Poi qualcosa ci destò, forse una lucciola oppure la presa di coscienza del fatto che era davvero tardi e l'indomani sarebbe stata una giornata lunga.

Mia madre ci chiamò, lo fece con un fil di voce poiché evidentemente aveva intuito l'atmosfera tesa che si era creata – non stavamo respirando anidride carbonica bensì parole, sospiri, attimi di smarrimento.

Fu un attimo: le mani di Akito lasciarono le mie, così un pezzo di me se ne andò insieme a lui. Mi lanciai contro di lui quasi istintivamente, poi ricordai che quello stesso pezzo lui ce l'aveva indosso – sui vestiti, sulla pelle e... nel cuore, forse?

Ritornò per un attimo sui suoi passi, sillabò velocemente qualcosa di incomprensibile e poi mi avvicinò a lui; fu un gesto dettato dall'istinto, i miei capelli si erano ritrovati sul suo petto senza che me ne rendessi conto.

«Ricordati che... Los Angeles è vicina. Vicina... vicina

Mi costrinsi a non piangere, strizzai gli occhi con tutta la forza che possedevo. L'aveva detto in modo incerto, trapelava un po' di insicurezza nella sua voce. Più ripeteva quella supplica sottovoce, tanto più sembrava crederci, così decisi di adottare quel metodo anch'io.

E ci ritrovammo a parlare sottovoce, per infinitesimali secondi, forse quella era l'unica parola sensata da dire in quel momento.

«Se lo ripeto, funziona davvero.»






Lascio la debolezza da parte, stringo le nocche con vigore e dirigo lo sguardo verso l'alto.

Dobbiamo trovare sempre un punto d'appoggio ma, allo stesso tempo, imparare a guardare oltre; detto così non sembra tanto difficile no, Hayama?


«Sana, che fine avevi fatto? Ti abbiamo cercato ovunque!»

Borbotta Rei spazientito, sempre troppo premuroso. Fuka e gli altri si avvicinano a me, chiedono se tutto va bene, anche loro un po' ansiosi.

«Che ne dite di mangiare? Il mio stomaco sta brontolando...»

«Sempre la solita, Sana!»

Fuka mi rimbecca, poi mi prende sottobraccio.

Ora ci separa solo qualche miglia di troppo, Hayama... Cerco ancora di non pensarci ma quel giorno, al ristorante, ho ordinato un hamburger – volevo sentirti vicino a me... se lo ripeto, funziona davvero.





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Capitolo 2
*** II. Alla fine, albeggia. ***








II.



«Alla fine, albeggia.»










Il tempo scorre lentamente, senza sosta.

Ogni attimo passato a pensare può essere un attimo perso... siamo esseri umani e, di conseguenza, un mucchietto di ossa di vetro che si scalfisce continuamente.

La nostalgia si fa sentire già dopo un mese, sembra che queste lunghe notti di luna piena siano interminabili.

È risaputo: più si ragiona, tanto più è possibile farsi male.









Sospiro affranta, sono le quattro di mattina e non riesco a prender sonno.

Così mi ritrovo a pensare ed un po' ne risento; so bene che non devo darmi troppo tormento, il dottor Iwasaki me l'ha detto e tanto più la mia mammina. Però esistono quelle rare eccezioni in cui guardare il soffitto bianco, quasi immacolato, è necessario... giusto per fare i conti con la mia vita.

Stringo il lenzuolo tra le dita, cerco di non fiatare – altrimenti Rei e mia madre si preoccuperebbero troppo –, poi respiro; alla fine, respirare non mi è sembrato mai necessario come in questo momento.


Sapete cosa avrei voglia di fare in questi casi?


Fare la valigia, prendere un maledetto volo per Los Angeles e precipitarmi da Akito.

Poco dopo, mi rendo conto del fatto che la nostra promessa sarebbe vana in quel caso. Qualche secondo di incertezza, quasi mi alzo senza motivo, poi il peso della coscienza si fa più gravoso e precipito nuovamente sul materasso.

Il cielo, visto da qui, sembra fatto di cartapesta. Così, anche i pensieri paiono essere di una leggera carta velina... basterebbe accartocciare un vecchio foglio e gettarlo via, nel dimenticatoio.

Invece, so essere davvero masochista: compongo, decompongo e ricompongo lo stesso foglio, quasi a volerlo distruggere con tutte le mie forze.

E vivere, rivivere, percorrere in continuazione lo stesso sentiero, gli stessi ricordi, le medesime emozioni... Mi fa male, mi fa ricordare che sono un misero essere umano accartocciato su se stesso dalla nascita alla morte, un minuscolo frammento di un intero universo.

E penso che Akito, alla fine, faccia parte dell'intero universo.






Non riesco a prendere sonno, non più ormai. Il cielo si sta rischiarando pian piano, è uno spettacolo che voglio godermi fino in fondo; è leggero il mormorio del vento, l'accartocciarsi delle foglie, i rumori grandi e piccoli che giungono più e più volte nelle mie orecchie.

Il cellulare vibra, è a qualche centimetro da me. Mi volto stralunata, non mi aspettavo una chiamata alle cinque di mattina. Men che meno da Akito Hayama, famoso per la sua proverbiale pigrizia.

«Perché sei sveglio?»

Domando precipitosamente, impedendogli di darmi il buongiorno.

«Perché non riesci a smettere di pensare a me.»

A quel punto arrossisco, anche se lui non può vederlo il mio volto è di un colore improponibile. Annuisco esterrefatta, a volte penso proprio che Hayama abbia qualche potere di cui non sono a conoscenza: è umanamente impossibile penetrare in modo così reale nella mente di un'altra persona.

«Hayama, ti dai troppa importanza. Semplicemente... non ho molto sonno.»

Cerco di salvarmi in qualche modo, sarebbe imbarazzante ammettere che mi manca da morire, che vorrei che ogni alba lui la vedesse come la vedo io e, allo stesso modo, ogni tramonto. Ogni cosa resta uguale, è il nostro cuore a cambiare... così, egoisticamente, desidero che quello di Hayama resti accanto al mio.

«Mpf...», borbotta quasi divertito.

«Allora... Los Angeles di sera com'è?»

Incalzo il discorso, ben sapendo quanto mi stia trafiggendo in questo momento.

Akito biascica qualcosa che non riesco ad afferrare, mi tormenta in positivo ed in negativo una e soltanto una sola parola.

«Vuota.»

Non sarà una parola di troppa importanza per chiunque altro ma per me ha un grandissimo significato. Ridacchio sottovoce, forse una lacrima mi è appena rotolata dalle ciglia, tuttavia cerco di mantenere un tono fermo.

«E' quasi l'alba.»

Una distesa di colori si presenta davanti i miei occhi, sembra quasi una tavolozza; Akito annuisce seriamente, dopodiché mugugna: «E' quasi notte. Sana...», la voce è leggermente trascinata, strano da parte sua, «... Alla fine, albeggia. Sempre. »

Temo di esser rimasta qualche secondo inebetita; quando cerco di dibattere dall'altro capo del telefono si sente solo un fastidioso segnale.

«Alla fine, albeggia.»

Ripeto a me stessa, spalancando la finestra della mia camera.

Hai ragione Akito... siamo sempre sotto lo stesso cielo.







_________________________









Questo capitolo è molto breve, sì.

Più che altro, è un momento di sconforto di Sana... un'introspezione a cui ho voluto dedicare un capitolo. Volevo spiegare la frase di Akito, per chiarire: dunque, con quell'albeggia, Akito intende dire a Sana che domani sarà un altro giorno, un giorno in meno li separa.

Infatti, per quanto possano essere lontani “sono sempre sotto lo stesso cielo”.

Ringrazio tutti i lettori, in verità non mi aspettavo di ricevere così tante recensioni. Ragion per cui, sono molto felice. <3.

Il capitolo successivo sarà pubblicato la prossima settimana, il tempo di correggere ed organizzare le idee XD.



Kiki-chan.


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Capitolo 3
*** III. Le frecce di Cupido sono sprecate. ***


III.



«Le frecce di Cupido sono sprecate.»









Mi sento terribilmente a disagio, odio quando succede.

Di norma sono una ragazza che si adatta alle situazioni più disparate ma, questa volta, mi sembra un'impresa assai ostica.




Tutto era iniziato un tranquillo pomeriggio di inizio Aprile, nel bel mezzo di un avventuroso – impossibile, inutile, irrisolvibile – esercizio di algebra.

Aya aveva lasciato cadere la penna sul foglio, gli occhi si erano rivolti verso il soffitto e le sue pupille erano roteate per qualche nano secondo; da non crederci, anche lei poteva perdere le staffe.

«Perché non facciamo una pausa, eh?»

Tsuyoshi si era alzato in piedi, aveva allargato le braccia teatralmente e ci aveva proposto un'alternativa sicuramente più godibile. Inutile dire che ero stata la prima a scattare in piedi; Aya, Tsuyoshi e Fuka – fino ad allora totalmente indifferente – mi avevano seguito a ruota.

Si chiacchierava, si scherzava, si dibatteva amichevolmente. Finché una proposta non mi destabilizzò, almeno per qualche secondo.

«Che ne dite se facessimo un'uscita di coppia?», la mia mascella rischiò quasi di rasentare il suolo; Aya e Tsuyoshi si voltarono verso di me, in perfetta sincronia. Solo dopo Fuka parve intuire dove avesse sbagliato, quando ormai era troppo tardi.

«Oh, beh, Sana. Intendevo... sai, no?»

«Certo.»

Cosa avrei dovuto sapere?

Cercai di non dar troppo peso al sorriso di scuse di Fuka dal momento che sembrava tenere a quell'uscita in modo particolare. Non sarei stata certamente io a rovinare i suoi piani, giammai: in fondo, anche Akito avrebbe rifiutato quella proposta – conoscendolo, non avrebbe degnato di attenzione Fuka nemmeno per un'infinitesimale secondo.

«In ogni caso, uscire ti farà bene.»

Se Aya voleva in qualche modo risollevarmi di morale, aveva scelto il modo sbagliato; sentivo che il discorso avrebbe imboccato una via che non mi sarebbe piaciuta per niente, era solo questione di tempo ed avrebbero posto l'arguta domanda.

«E se uscissi insieme a noi quattro?»

Ecco, appunto.

Noi quattro, ovvero si intendeva: Fuka e Takaishi (che ormai avevano consolidato il loro rapporto. Fuka, negli ultimi tempi, era nella cosiddetta fase “love-love”, ecco perché ogni occasione le sembrava buona per esternare i propri sentimenti), nonché Aya e Tsuyoshi, di cui non nutrivo alcun dubbio.

«No, davvero... non mi pare il caso!»

Esclamai esagitata, non volevo trovarmi in una situazione così spiacevole. Sebbene fossimo amici, mi sembrava in qualche modo di “rompere” l'equilibrio che vi era, non mi sarei sentita a mio agio, lo sapevo già.

«Dunque, è deciso. Che ne dite... questo sabato?»

Fantastico, ero stata anche ignorata.

Sospirai rassegnata, Aya da parte sua mi diede una pacca sulla spalla come a dire “sopporta, in fondo si tratta solo di un pomeriggio”.




Dunque, per un pomeriggio avrei potuto anche sacrificarmi.

In fondo sono sempre i miei amici, basta solo divertirsi un po'. Peccato che Fuka abbia avuto la strabiliante idea di prenotare in un ristorantino da poco aperto in zona, il nome già diabetico mi fa pensare che all'interno sarà ancora peggio.

Infatti, ogni speranza è vana: non esistono sedie o sgabelli, bensì una serie dietro l'altro di scomodissimi cuoricini sui quali appoggiarsi diventa un'impresa – Fuka sostiene che è comodissimo, ma in quanto diabetica di parte la sua opinione non conta.

La cosa peggiore di questo locale sono i menù... sto leggendo una serie di portate da far venire il voltastomaco, credo di essere improvvisamente inappetente.

«Non è fantastico, Sana?!»

Urla Fuka, piuttosto agitata.

Annuisco poco convinta, cercando di capire se esista o meno un bagno. Questa invasione di cuori è decisamente demotivante vista la mia recente situazione, anche se capisco che la mia amica non lo abbia fatto di proposito; mi dileguo velocemente con una scusa banale, spero almeno di respirare una ventata di normalità in bagno.

Ci mancherebbe, non si sono risparmiati affatto. Mi guardo allo specchio, mi viene quasi da sorridere... Penso ad Hayama e all'espressione contrita che assumerebbe se entrasse in un vortice di sentimentalismo del genere.

Probabilmente direbbe qualcosa come: «Le frecce di Cupido sono sprecate.»

Avrebbe ragione, davvero: io stessa trovo che tutto ciò sia un eccesso di sentimentalismo, dopotutto capisco che delle coppiette normali apprezzerebbero il locale, badando poco al fatto che sia un'esplosione di cuori vivente.

Oltrepasso la soglia della toilette piuttosto divertita, più penso a cosa direbbe Akito tanto più sento che mi potrei divertire.

In qualche modo, inconsciamente o meno, Hayama è accanto a me.


«Tutto bene, Sana?», domanda premurosamente Aya, sfiorandomi la spalla.

«Sì. Hayama si sarebbe divertito, qui.»

Ridacchio tra me e me; quando tornerà lo porterò sicuramente in questo locale, merita almeno una sua visita – l'attesa, allora, non sembra così vana.







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Anche se questo vi sembrerà apparentemente un capitolo no-sense io mi sono divertita un bel po' a scriverlo XD. Dal momento che non tutti i capitoli tratteranno ciò che prova Sana lontano da Akito – la storia prenderebbe una piega un po' troppo drammatica e non è mia intenzione –, ho voluto “spezzare” l'atmosfera. In fondo, ho immaginato che prima o poi questo momento sarebbe arrivato... Già nel nono volume tutte le coppiette sembrano essersi “consolidate”, un'uscita di coppia mi è sembrata normale. Se alcuni di voi pensano che abbia esagerato nel descrivere con il disagio di Sana in una situazione del genere... beh, non avete vissuto l'esperienza – per mia sfortuna mi è capitato e vi giuro che non è molto bello essere l'incomodo - -.

Il capitolo si conclude con un pensiero di Sana verso Akito – giuro, quando l'ho immaginato in un locale del genere sono scoppiata a ridere da sola davanti il pc XD –, il fatto che prima o poi Sana porterà Hayama in quel locale, le fa pensare che attenderlo ne valga veramente la pena :). Sono quelle piccole cose che la fanno star bene, in pratica :).

Dopo questo sproloquio – viva il dono della sintesi :D – circa il senso (?) di questo capitolo, vi do appuntamento al prossimo :)... Spero presto, anche se sono oberata di impegni ; ; .

(ovvero: perché io mi riduco sempre all'ultimo secondo per recuperare? ._.)


Kiki-chan.

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Capitolo 4
*** IV. Non scappare. ***




IV.



«Non scappare.»


(Prima parte)













«Ti senti bene?»

È una voce allarmata, come quella di un padre. Mi guardo le piante dei piedi piuttosto disorientata, poi rivolgo il mio sguardo a quegli occhi sinceri, sento quasi di poter immergervi dentro i miei pensieri.

«Definisca il concetto di bene.»

Ad affondare, alla fine, sono stata io.

Questa sensazione a cui non so dare un nome, è un po' come la salsedine che si impregna sulla pelle asciutta: è un vago sentore ma non posso afferrarla, più la cerco più sento che si allontana da me.

«Sana... se hai bisogno di piangere, sono qui.»

Perché devono offrirci sempre “una spalla su cui piangere”, eh?

Insomma, penso che ci siano momenti nella vita in cui una persona debba sedersi e perdersi, sedersi ed incantarsi, sedersi e pensare.

Nessuno – nessuna eccezione, beninteso! – può urtare questo inattaccabile equilibrio, è bene che ognuno di noi non si senta soffocare, annegare con la fantasia non può essere così nocivo.

«Sana?», una voce mi scuote ed è quasi l'alta marea ad investirmi.

Peccato, ora che le onde del mare mi stavano dondolando.

«S-Sì...», rispondo insicura, sto ancora facendo mente locale, «... Stavo bene.»

«Stavi?»

Il dottor Iwasaki appunta qualcosa su un piccolo block notes, sono curiosa di sapere cosa ha dedotto da un semplice verbo al passato. In ogni caso, ha turbato la mia quiete; sospiro laconicamente, è quasi strano esser tornata in questa anonima stanza di pochi metri quadri.

«Sogno spesso di andare al mare. Nuotare mi spaventa un po' ma camminare... non so, forse perché la spiaggia non sembra avere mai fine...»

«Vorresti tornare lì, ora?»

Asserisco con il capo, dopodiché ho il consenso da parte del mio psicologo. Non è neppure necessario concentrarsi, ormai diventa un processo quasi meccanico; la mia mente si concentra sul luogo e poi elabora fantasie infinite, sembra quasi di poter riscrivere nero su bianco la propria storia.

Disegnare, tracciare contorni e sfumare quelli più chiari per annerire quelli più scuri.

Così, rifiuto di vedere la realtà se mi sembra troppo vicina... E creo questo mondo ideale, questa barriera che mi protegge da ogni cosa, questo abbraccio dal quale sono avviluppata – è più forte di me, non riesco ad ingannarlo.

«Hayama... Dimmi, non vorresti venire qui?»

L'espressione contrita non suggerisce nessun esito positivo, tuttavia spero che stuzzicandolo un po' riesca ad avere la meglio. Invece, l'unica cosa che sento è una risposta a cui ormai sono abituata.

«No, ho da fare ben altro.»

Anche se è così insensibile, mi limito ad incassare il colpo con eleganza.

Un paio di lacrime serpeggiano severamente sui miei zigomi, vorrei gridargli contro ma so che le sue parole potrebbero farmi ancora più male.

Salsedine, la chiamano.

Hayama, tu sei la mia salsedine. Non sei materialmente accanto a me, eppure ormai ti sei impregnato sulla mia pelle, sui miei vestiti, sul mio Io. L'hai fatto senza pensarci, perché pensi che io possa completarti.

Perché pretendiamo di amarci, se non siamo disposti a farci del male?

Dimmi Hayama, quante volte ancora mi colpirai?

E quante, quante saranno le volte che ti farai perdonare?





La sabbia è bollente, la temperatura sale.

La tiepida spiaggia di inizio primavera sembra quasi un ricordo, ora che i miei piedi iniziano a lamentarsi per il dolore. Inizio a correre – sempre dritto –, magari i problemi si potessero annientare così.

Invece, un nuovo dilemma si pone di fronte a me: tu, muro, salsedine, scoglio. Mi sta quasi annebbiando la vista la tua figura, fino a poco tempo fa non pensavo neppure che potessi esercitare un tale potere su di me; indietreggio senza pensarci due volte ma se faccio un passo indietro la sabbia non mi lascia via di scampo.

Davanti a me c'è un'alta barricata, la tua espressione mi sta imponendo qualcosa. Sai bene quanto non voglia diventare una donna addomesticabile, ragion per cui non mi piegherò ai tuoi voleri. Lascerò che sia tu a parlare, sono stanca di rincorrere la tua mente.



«Non scappare.»

Queste sono le tue parole?

Davvero – non scherziamo, per favore –, sei disposto a farmi soffrire a tal punto?

Non sto scappando, affatto. Sto semplicemente affrontando la realtà di tutti i giorni dall'altra parte ed evadere un po', giusto un po', non mi sembra un azione così ignobile.

Quello che mi sta facendo Hayama è ignobile, non c'è alcun dubbio. Ma non ho il coraggio di odiarti, temo che non potrò mai odiarti abbastanza.



«Basta!»

Mi dimeno come una bambina, il sangue fluisce tutto al cervello, la mia testa diventa pesante. Il dottore si avvicina, cerca di calmarmi probabilmente; l'unica cosa che sento è il rumore delle onde, è lo sconquasso del cielo, sono le parole di Hayama che rimbombano nella testa come un frastuono.

Ditemi... si può evadere dalla vita?





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Ho cercato di immedesimarmi nella psiche di Sana in questo capitolo, è stato un capitolo piuttosto difficile (questa è solo la prima parte, fra qualche giorno posterò la seconda :D) ma non temete, la storia non prenderà questa piega... Diciamo solo che ho voluto inserire un capitolo più introspettivo, penso che Sana si sia sentita così, specialmente nei primi tempi (ricordo che Akito è partito da pochi mesi, stando alla mia storia), spero abbiate gradito :).

Ci sono molti spunti e riflessioni personali, sui quali mi concentrerò nel prossimo capitolo. Ringrazio tutti voi per le recensioni, ci sentiamo presto : ).



Kiki.



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Capitolo 5
*** V. L'impossibile che si completa nell'infinito ***


V.




«L'impossibile che si completa nell'infinito.»



(Seconda parte)










Improvvisamente apro gli occhi, tutto sembra essere tornato alla normalità.

Per un attimo mi sono lasciata trascinare, l'invisibile corrente di ricordi mi ha trasportata lontano; sembra che il dottor Iwasaki cerchi qualcosa nei miei occhi, il suo tono sembra seriamente preoccupato.



«Cosa c'era, laggiù?»

Come spiegarlo in poche parole?

Laggiù c'è tutto: i miei sentimenti, la mia libertà, il mio io interiore. Come spiegare la sottile

sensazione di vuoto che si prova non riuscendo a stringere nulla di concreto nel palmo della propria mano?

E come esprimere la felicità, la gioia, l'euforia, quando davanti a sé si vedono i propri sogni... È solo una finzione, lo so, laggiù il paese delle lacrime non esiste.

«L'impossibile che si completa nell'infinito.»

Forse è un'affermazione criptica, decisamente da analizzare.

«E Hayama... era lì?»

Ecco il mio punto debole, più cerco di allontanare il suo ricordo tanto più gli altri lo risvegliano. Annuisco brevemente, non voglio soffermarmi sull'argomento ancora per molto. A quanto pare l'intenzione del mio psicologo non è la stessa, vuole scavare nella mia mente e cogliere qualcosa di inafferrabile da parte mia.

«Tra poco sarà il “compleanno di mezzo”, vero, Sana? Forse è per questo che...», ammorbidisce il tono di voce, «... che i tuoi sogni sono diventati così “concreti”.»

Odio dover ricordare quell'avvento, mi fa sentire solo peggio.

Dirigo lo sguardo dalla parte opposta, candidi fiocchi di neve danzano nell'aria e tantissimi flash si risvegliano nella mia memoria; tempo addietro, Hayama mi aveva giurato di passare ogni “compleanno di mezzo” insieme, ma dev'essere stata solo un'altra delle tante promesse infrante.

Se mi udisse fare simili pensieri mi odierebbe, ne sono certa; eppure, in minima parte, non riesco a fare a meno di provare un fortissimo rancore verso di lui... tanti giuramenti, ora come ora, mi sembrano coriandoli di cristallo che volano nell'aria e si frantumano contro il primo ostacolo che incontrano.

Il dottor Iwasaki si alza, mette nella cartella alcuni fogli, sembra che stia per andarsene. Non mi rivolge parola, pare che la nostra seduta sia terminata prima del previsto quest'oggi.

«Se non vuoi salvarti tu, Sana, non può farlo nessun altro.»

E' una frase tagliente, dai molteplici significati.

Il mio sguardo si rivolge disperatamente a quello del dottore, allora, la mia mano quasi per istinto stringe la manica della sua giacca.

«Lui... mi ha abbandonata...», sono lacrime quelle che sfiorano la mia pelle, eppure sono così fredde da parere cubetti di ghiaccio, «... Le nostre promesse, tutte le nostre promesse, ormai sono inutili.»

Singhiozzo debolmente, qualche attimo di panico dentro; il dottore si lascia cadere con un tonfo sordo sulla poltroncina, sembra che mi stia offrendo un salvagente al quale aggrapparmi.

«Sono sicuro che se le ricorda tutte.»

Ne sono consapevole ma per quanto saranno ancora vive nella sua memoria?

E per quanto sarò ancora nei suoi pensieri, d'ora in avanti?

«E se un giorno si dovesse svegliare e decidere di non chiamarmi più... o di rimanere lì, o di amare qualcun'altra oppure dimenticarmi. Io non sono abbastanza forte per lui, io sono... fragile?»

Già, io sono fragile.

È un soffio che ci separa dal baratro, ne sono certa.

Iniziamo tutti dalla stessa linea di partenza ed arriviamo tutti al traguardo, sì, non è possibile però evitare gli ostacoli; io, semplicemente, ho scelto di aggirarli e di ignorarli quando li sento vicini.

Una mossa vigliacca, già.

Affrontare la realtà potrebbe essere difficile, ho paura di annegare o, ancora peggio, di lasciarmi andare. Sono dei piccoli escamotage che, spesso, mi salvano nel cuore della notte, quando le lacrime sono ormai prossime al tormento.

Tutte le mie paure sono un gigantesco baratro, presto o tardi mi piomberà addosso ed io non potrò far nulla per affrontarlo... perché sarò stata una grande codarda, perché non mi salverò semplicemente evitando il dolore.

«Perché tieni tutto dentro di te, Sana? Sai che questo potrebbe provocarti gravi conseguenze?»

Lo so, ho tenuto in conto i rischi.

È solo che decido di rischiare, pur sapendo di poter affondare... Devo solo stare allerta e riuscire a non farmi inghiottire dalla sofferenza.







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«Non ti sembra di esagerare coi medicinali?»

Fuka cammina accanto a me, le sue attenzioni a volte sono ossessive.

Per fortuna, a telefono, ho specificato di voler passare “un tranquillo pomeriggio, a spasso per le vetrine di Tokyo”.

«Stai tranquilla.»

Le intimo, riponendo la scatola all'interno della borsa.

Forse sto prendendo più medicinali del solito ma si tratta semplicemente di una “precauzione”; il dottor Iwasaki, il mio psichiatra, mi ha consigliato delle pasticche che agiscono come degli anti ansiolitici, da non prendere alla leggera però.

Devo ammettere che non è stata una cattiva idea, è quasi passato un mese e non sto sentendo più dolore.

Fino ad oggi, non credevo esistesse un modo per eliminare la sofferenza... eppure, il progresso in medicina deve aver fatto grandi passi in avanti, sembra che il mio cuore si sia placato un po'. O, almeno, quanto basta per non sentire più una forte morsa all'altezza del petto.

«Guarda quel completo!», indico, quasi rallegrandomene, «Entriamo, voglio provarlo.»

Fuka mi segue a ruota, non mancando di rivolgermi qualche occhiata torva. Fingo di non averla vista, lei non può sapere proprio nulla: non capisce né cosa si prova, né come ci si sente.

Non sono a terra, sono sprofondata.

L'unica cosa che può salvarmi è quella, che sia una dipendenza o meno non spetta deciderlo a lei.

Non so ancora che mi costerà caro sacrificare il dolore... ironico, vero?

«Sana? Ehi, Sana!»

Luci soffuse, nubi bianche, vuoto abissale.

Mai la mia anima è stata più leggera di così.













________________________________________________







Note: sì, scusate il ritardo, tra problemi di connessione e problemi di ispirazione non so cosa sia peggio -_-. Comunque sia, nei commenti ho letto parecchi dubbi: lo scorso capitolo era uno “stacco” dalla storia, diciamo, ho semplicemente presentato una situazione che Sana potrebbe aver vissuto. Si era concentrata così tanto da essersi fatta trascinare dai ricordi. Così in questo capitolo – il continuo del precedente – si sfoga con il suo psicologo.

Ho fatto un salto temporale, ormai è passato quasi un anno da quando Akito è partito; le paure di Sana dopotutto sono comprensibili, credo, almeno io la vedo così. Sto per presentare un altro problema, che forse avrete già intuito... il dottore ha consigliato a Sana degli anti-ansiolitici, da prendere con moderazione, sono cose che esistono veramente, non ho inventato nulla. Danno un certo sollievo ma bisogna sapersi controllare. Sana voleva semplicemente evitare il dolore, stare un po' meno male – comprensibile ma non giustificabile.

Vi dico solamente che questo capitolo per quanto breve l'ho sentito molto, mi sono ritrovata molto in esso :).

In ultimo, vi anticipo che questa storia non proseguirà ancora per molto... inizialmente dovevano essere dieci capitoli ma credo di arrivare a dodici, a conti fatti. Per chi mi ha chiesto se Hayama si farà vedere nella storia, vi rispondo molto semplicemente che accadrà, ma a tempo debito. La storia, principalmente, vuol essere un'introspezione approfondita :).

A presto – si spera! XD –, vi anticipo che tra non molto potreste vedere una one-shot/polpettone (ammazzatemi se non è vero, una shot di venti pagine D:), Akito/Sana ovviamente :).


Kiki <3.

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Capitolo 6
*** VI. L'universo vive per te. ***


Più questa storia va avanti, tanto più diventa complicata XD.

Ormai credo sia, in tutto e per tutto, un'introspezione psicologica di Sana. Sarà che sono legata a questo personaggio in modo speciale – forse alcune volte mi sento come lei, fragile e al tempo stesso forte – ma sta diventando davvero più che una “fan fiction” per me :).

Ecco perché, stavolta lascerò che a parlare sia la coscienza di Sana (dal prossimo capitolo a parlare sarà nuovamente Sana, in prima persona).

Buona lettura.








VI.



«L'universo vive per te.»


[Coscienza POV]












Tu non te ne rendi conto, ti sembra soltanto di stare meglio.

«Ne prendo una...», la guardi per un attimo; è così piccola, non può procurarti grandi danni, «... Ne prendo due per sicurezza.»

Per sicurezza, sì.

E, invece, ti sei appena messa in pericolo.

Alzarsi la mattina senza aver fatto brutti sogni la notte, senza nessun Hayama dispettoso che si insinua nei tuoi pensieri; anzi, non sentirlo da quasi una settimana non sembra pesarti affatto. Tutto sembra andare meglio, persino le sedute con il dottor Iwasaki sono piacevoli; puoi uscire con i tuoi amici senza il disagio di sentirti “un terzo incomodo” ed ultimamente hai ripreso a sperimentare la cucina francese, pur con qualche fallimento.

Vivi in un mondo dove Hayama non esiste, non è mai esistito.





La realtà è tutta apparenza, però; da un lato il tuo umore potrebbe sembrare decisamente migliorato, i tuoi occhi ridenti non desterebbero mai sospetti, dall'altro stai recitando una parte.

Una parte che ti sta a pennello, l'illusa.

Credi che il dolore si possa resettare, come in un computer?

Affronta la realtà, Sana, sbatti contro di essa: non siamo automi, non siamo macchine... Vorremmo esserlo, ma ci è stata donata un'anima, un destino, un'unica possibilità di vita.

E davvero – starai scherzando, mi auguro – vuoi censurare il tuo stesso cuore?

Io sono la tua coscienza, Sana, la stessa che ti penetra ogni giorno nel cervello e continuerà a farlo finché la mente ed il cuore avranno vita; io sono te, Sana, tu sei me. Siamo parte dello stesso ingarbugliato universo, del medesimo infinito... E tutto ciò che provi tu, da qualche parte del tuo essere, lo sento anche io.

Non puoi fingere con me, non puoi barricarmi o sopprimermi – forse, sono l'unica a cui puoi dire tutta la verità.




Dimmi...

cosa si prova quando l'intero universo vive, obbedisce alle leggi del mondo, lotta per la sopravvivenza e tu lo rifiuti?

L'universo vive per te, Sana.

Tu non devi vivere per lui, non necessariamente; l'universo, però, vive per te.

Ricordalo nelle notti più buie, quando ti sentirai quasi soffocare o, peggio, inghiottita dalla sofferenza. Sai, io e te non siamo certi che esista un “Creatore” che ha generato queste infinite meraviglie eppure se ti ha chiesto di essere messa al mondo un motivo ci dovrà pur essere: forse per scoprire quanto possa far male un bacio mai dato oppure una cicatrice mai rimarginata o, addirittura, una ferita ancora sanguinante.

E tu, come minimo, non dovresti dimostrarti riconoscente?

Basterebbe accettare, un sì a bassa voce, più soffrirai e più ti renderai conto fino a che punto può arrivare la tua forza.

Ma, per ora, dimmi... sei pronta a risvegliarti?

E no, non aver paura: nessuno ti minaccerà, né ti rimprovererà, al tuo risveglio vedrai solamente una serie di sguardi commossi e carezze materne.

Ti basterà ammettere di aver sfiorato la disperazione ma di esser intenzionata a risalire a galla: Hayama non vorrebbe mai ritrovarti così, si sentirebbe in colpa e tutti i tuoi sforzi per convincerlo che tutto va a gonfie vele sarebbero stati vani.

Hayama, sì, cosa direbbe in questo momento?

Rinnegalo, dimenticalo, odialo... Eppure, sei sicura che lui ti terrebbe la mano, ti starebbe accanto, sarebbe addirittura capace di prendere il primo volo Los Angeles – Tokyo, senza preavviso.

Lotta per lui, Sana, per voi... Vedrai, ti sentirai più leggera – davvero, senza nessun inganno – quando il cuore e la mente accetteranno cosa significa vivere un amore a distanza.


Fa male, ogni momento.

Fa male quando lo senti e quando non lo senti.

Fa male a scuola, a casa, ai giardini, con gli amici, senza amici, con i suoi conoscenti e senza i suoi conoscenti.

Fa male sentirsi dire: “Hayama, il tuo 'fidanzato' a distanza”, apostrofando quelle parole con un ché di saccente; fanno male le accuse degli altri e la compassione.

Ecco, quella è la cosa che fa più male in assoluto.

Poverina, costretta ad aspettarlo... Chissà se Hayama-kun avrà conosciuto una bella americana.”, dicono.

Ma a quel punto...”

E le loro espressioni fintamente dispiaciute, il loro tono compassionevole – male, male, male.

Devi imparare che Akito Hayama aspetta per te come tu stai attendendo fervidamente per lui; non esiste una forza che può dominare il tempo, siamo noi a dover imparare ad impiegarlo.


Akito Hayama è il tuo universo, va da sé che tu sei il suo macrocosmo... e, indovina?

L'universo vive per te, Sana.

Vive per te.

Quelle parole ti sollazzano la mente per diversi istanti, finché non riesci a schiudere gli occhi: come ti avevo detto, una serie di persone accanto a te attendevano il tuo risveglio e ti stanno osservando con un moto di commozione.

Ti senti leggermente indebolita, ma è tutto normale: è l'effetto delle flebo, presto svanirà questa sensazione di spossatezza; osservi per un momento lo scenario di fronte a te, osservi fino a che punto le persone che ti sono più care possano aver sofferto a causa della tua presunzione.

Sì, la presunzione di voler essere invincibile: un'eroina, in parole povere.

Sei già un'eroina, sciocca... puoi essere tutto quello che vuoi, se lo desideri.




«Mamm... mammina?»

Misako Kurata si precipita verso di te, ti stringe forte la mano ed avverti un calore che ti arriva fin dentro il cuore.

«Per favore, non dire nulla di tutto questo ad Hayama.»

Non vorresti mai che lui soffrisse a causa tua, conoscendolo si prenderebbe tutta la colpa.

«No, non ti preoccupare.»

Ti sfiora il naso in maniera birichina, sorridi senza motivo.

Fuka è a qualche metro di distanza, sembra ancora scossa, agitata... devi averla proprio fatta preoccupare.

«Ehi!», tendi il braccio, desideri la sua mano, «Non ti preoccupare, Fuka, non lo farò più.»

Lei abbassa le spalle, persino i lineamenti del suo viso non sembrano più essere così contratti.

«Bene, Sana, perché mi hai spaventata. Alla faccia del nostro “tranquillo pomeriggio”.»

Ridacchiate insieme, dopodiché la tua espressione si fa seria, imperiosa: «Fuka, sai una cosa?», riesci a calamitare la sua attenzione, «L'universo vive per noi.»







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Capitolo 7
*** VII. Se io lo vedessi adesso, soffocherei. ***





VII.



«Se io lo vedessi adesso, soffocherei».











«Davvero tornerai a recitare?».

Naozumi, dall'altro capo della cornetta, sembra possedere un tono così speranzoso che deludere le sue aspettative mi pare d'un tratto un delitto.

«Vorrei. Sto aspettando l'aggancio giusto...».

Rispondo molto vagamente, tornare a recitare sarebbe bellissimo ma vorrei farlo nel modo giusto. Vorrei, cioè, potermi impegnare come un tempo e dare il massimo – il ché, a conti fatti, significherebbe dover essere in piena forma.

«Sana, devo proprio andare».

«Oh, d'accordo. Ci sentiamo, allora».

Un breve mugugno – quel che basta per definirsi un cenno d'assenso – e la linea cade.



Chiacchierare con Naozumi è sempre piacevole, sembra volermi sostenere in qualunque cosa – a volte mi chiedo quale effetto avrebbe avuto sulla mia salute innamorarmi di Naozumi. Poi, ricordo, è un pensiero davvero infelice.

In ogni caso, vorrei davvero poter pensare alla mia carriera: mi mancano i tempi in cui ero in grado di lavorare persino dieci ore al giorno, sembrerebbero passati secoli ma, invero, mi distanziano solo alcuni anni.

Forse avevo solo meno pensieri.

È proprio quello che mi manca, alcune volte: i tempi in cui avevamo tanta fretta di diventar grandi e non vedevamo l'ora di fare progetti, viaggiare, esplorare questo vasto ed ingarbugliato mondo. E c'è ancora molto tempo per farlo, lo so, tuttavia preferisco ieri a domani, perché ieri i miei pensieri non erano così... fragili.

Ora si scontrano contro la dura realtà, sembra quasi di vederli affogare a volte – dovrei stare attenta, in ogni caso, a non andare a picco assieme a loro –, ho imparato a domarli, però.


«Sana!».

Rei oltrepassa la soglia di casa con un sorriso raggiante, reca in mano dei documenti apparentemente importanti.

«Abbiamo un aggancio! E credo che ti piacerà moltissimo».

Mi invita a sedere, si toglie persino gli occhiali – diamine, penso, dev'essere proprio una questione vitale.

«Non dirmi che dobbiamo andare ad Hollywood!».

Ridacchio tra me e me.

Osservando l'espressione di Rei, però, mi rendo conto di non aver fatto una battuta divertente.

«Ti hanno offerto un ruolo da protagonista in un telefilm che dovrà essere lanciato l'anno prossimo. E, indovina, qual è la patria dei telefilm?».

Boccheggio ripetutamente per qualche secondo, mi rendo conto solo in quel momento di aver appena ricevuto una “proposta internazionale”.

L'America, sì, a qualche passo di distanza.

«Stai scherzando?».

Rei nega placidamente con il capo, quello sembra tutto fuorché uno scherzo.

«Affatto», afferma, «Ma non ti ho ancora detto tutto, Sana: alloggeremo a Los Angeles».



Rei sembra gioire di felicità, gonfia addirittura il petto; io, invece, non riesco proprio ad abituarmi a quella notizia: dovrei essere felice, euforica, dovrei precipitarmi alla cornetta del telefono e comporre quel numero.

Dovrei e vorrei, invero, ma la paura mi impedisce di muovermi.

È la fragilità, più che la paura, a piegarmi – inevitabilmente.

È una forza che non riesco a controllare, è il mio cuore che rimbalza in bocca, è la mano che trema di spavento, è lo sguardo disorientato, è la lacrima che, insolente, scalfisce lo zigomo.

E, tuttavia, ci sarebbero milioni e milioni di ragioni per essere felice: Akito, la mia ancora di salvezza, è improvvisamente raggiungibile... potrei respirare il profumo della sua giacca al vento sulla mia pelle, potrei toccare con mano i nostri sentimenti.

Sarebbe bellissimo, davvero, se non fosse che gli ultimi due anni sono stati un vero e proprio inferno: il mio cuore ha sentito la mancanza di Akito e, non solo, si è anche ribellato; è stata dura, durissima, riemergere da quell'abissale vuoto senza fine nel quale si era costretta la mia anima – e tornare a sorridere, lavorare ed amare senza colpa alcuna.



Negli ultimi due anni, in pratica, ne ho passate davvero di tutti i colori e adesso che, finalmente, ho capito di non dover addossarmi nessuna colpa il mio spirito sembra essere nato nuovamente, aver ritrovato la luce nel lungo e tortuoso cammino che ho percorso, sino ad ora, nell'ignoto.

«I-Io non posso...», i miei occhi si riempiono di lacrime, «... Io non posso, Rei, davvero».

Rei mi osserva con disappunto; tutto il suo entusiasmo sembra improvvisamente essere sfumato nel nulla.

«Cosa stai dicendo, Sana? È Akito, il tuo ragazzo...».

Poggia una mano sulla sua spalla ma, dal mio punto di vista, sembra aver appena riaperto una vecchia ferita.

«Se io lo vedessi adesso, soffocherei», affermo, la voce rotta dal pianto, «Soffocherei. Non sarei in grado di tornare a galla».

Rei scuote leggermente la testa, boccheggia ripetutamente – un vano tentativo di trovare le parole adatte – e, infine, sospira laconicamente.

Tutto quel che riempie la stanza è il silenzio.

Le pareti, però, sembra quasi che parlino: di me, di lui, di noi.

Quel noi che, con il tempo, abbiamo imparato ad accettare – persino ad amare –, e che ora siamo costretti ad aspettare.

«Lo capisco. Lo posso capire».

Rei sforza un sorriso, eppure dietro le spesse lenti scure i suoi occhi mi sembrano infinitamente tristi.

Vorrei potergli spiegare che non deve addossarsi alcuna colpa, so che agisce solo in funzione del mio bene; vorrei avere la forza di rivedere Akito a Los Angeles e correre tra le sue braccia ma, infine, mi dovrei rendere conto che il nostro idillio è solo questione di tempo.

I miei occhi si sono riempiti di lacrime, stringo ancora i pugni ma temo che non serva a molto – per quale motivo sono sempre così fragile quando si tratta di lui, eh?


«Lui mi manca. Mi manca da morire», deglutisco, le emozioni mi bloccano la gola come cemento,

«Ma rivederlo, rivederci, renderebbe la sua mancanza ancor più insopportabile».


E Rei prova a dire qualcosa ma, alla fine, quel che resta sulle sue labbra non è altro che un sorriso amaro. Poi, senza neppure rendermene conto, le sue braccia avvolgono il mio collo ed emanano un tepore simile all'amore – l'affetto di un padre, tutto lì.

Le lacrime si sciolgono sulle mie guance, il dolore sfigura le mie espressioni, l'amore non fa altro che caricare le lacrime ed il dolore di intensità.

«L'amore è insopportabile, Rei. È davvero insopportabile».

Tra le braccia di Rei, per una lacrima che si spegne tante altre rinascono e soffrono in egual maniera.

E, ho pensato infine, forse è proprio questo la vita: un ciclo continuo e, tuttavia, vitale per ogni singola esistenza. Una lacrima che si spegne, tante altre che si avvicinano senza pudore.

Non è tutto sprecato, affatto: per qualcosa che cade, c'è sempre qualcosa che resta.

Resta per essere amata, coltivata e fortificata ogni giorno – la mia pena, a quel punto, si fa più sopportabile.





* * * * *







Note.


Mi rendo conto di essere in ritardo .w.

Maggio/Giugno/Luglio sono stati dei mesi terribili, davvero, densi di studio. Alla fine, però, sono riuscita a dare la maturità e ne sono uscita indenne (?). Fino ad Ottobre, quindi, niente impegni. Goduria assoluta. ùù.

Quindi, sì, anche se sono sparita ho scritto parecchio: questo capitolo, sebbene non sia molto lungo, è stato molto impegnativo. Ci sono tante cose all'interno: la fragilità di Sana, il dolore di un amore vissuto a distanza, l'affetto di un padre come Rei – pur non consanguineo.

Ed il dolore, in sottofondo, che sovrasta la protagonista.

Una specificazione: non so quanto “Hollywood” disti da “Los Angeles”, potrebbero essere anche distare parecchio, ma... possiamo far finta che siano vicine? Serviva ai fini della storia, ecco. XD.


Ulteriori informazioni: il prossimo sarà il penultimo capitolo.

Ebbene sì, siamo giunti quasi alla fine di questa “Odissea”.

Vi anticipo solo che sarà solamente Akito/Sana – una lunga telefonata tra i due, quindi troverete molti dialoghi. Parleranno di cose molto importanti, quasi “a cuore aperto”.

L'ultimo capitolo era lungo una decina di pagine – era tutto bello e pronto per l'occasione – ma, indovinate un po'?

Un Trojan – virus letale, vi consiglio di non aprire mai troppe finestre insieme <_< – mi ha bloccato il pc per circa tre giorni. Ed io ho penato per restaurarlo.

Tutte le mie quattrocento fan fiction, più o meno, cancellate.

Non vi dico come ho sofferto. y________y.

E, niente, lo sto riscrivendo – che altro posso fare? XD –, ci vorrà un po' di tempo perché sarà molto lungo ma vi prometto che vi sorprenderà. <3.

Infine vorrei ringraziare tutti voi che commentate con tanto affetto, sia qui che su Facebook, è sempre un piacere parlare con voi.

: ).

A presto,


Kì.


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Capitolo 8
*** VIII. Torni o ritorni? ***


VIII.



«Torni o ritorni?».




Il telefono vibra durante le ore che precedono la venuta di un'altra giornata: una, due, tre volte. Schiudendo gli occhi – appena un po', quel che 

basta per avere una panoramica semi visibile della mia camera – mi accorgo che il display illumina la stanza a più riprese.

Poi, mi volto verso l'orologio a muro: sono le cinque del mattino, una debole luce appare dietro la linea dell'orizzonte – un giorno in meno.

Il telefono vibra ancora e, stavolta, sono costretta ad alzarmi: sono in pochi ad avere questo numero e c'è una certa persona che sa 

benissimo quanto mi urti essere svegliata all'alba.

Tuttavia, i miei moniti sembrano essere serviti davvero a poco.


«Ti sto odiando, sappilo».

Dall'altro capo del telefono odo un breve mugugno, mi sembra di poterlo vedere: sarcastico e menefreghista come sempre, il solito Hayama.

«Lo so», quella è la sua difesa, «Qui è notte».

«Ti devo mancare molto, Hayama!», ridacchio a bassa voce, non vorrei svegliare l'intera casa.

«Sono tutti uguali, qui. Con degli enormi davanzali e...».

«È un modo poco galante per farmi sapere quanto sia diversa? E, per l'appunto, quanto ti manco?».

Provocare Hayama è una delle cose che più mi aggrada: darei qualsiasi cosa, in questo momento, per osservare la sua espressione 

imbarazzata, nonché il suo volto paonazzo.

«Sei soddisfatta di questa accurata analisi, Kurata?», borbotta Hayama, piuttosto risentito.

«Non mi dispiace», lo beffeggio, ridacchiando sommessamente.

Un attimo di silenzio – Hayama respira sulla cornetta, riesco a sentirlo –, qualche istante di imbarazzo.

«Per essere nella città che non dorme mai sono più sveglia di te, Hayama, sai?», ridacchio. «A proposito, ultimamente mi hanno offerto un

ruolo da protagonista, si dovrebbe girare a Los Angeles».

Dall'altra parte nessuna risposta, stavolta, solo silenzio.

Non è un silenzio imbarazzante, men che meno fastidioso: tutt'altro, è riflessivo. 

Potrebbe non sembrare a primo acchito ma, anche in silenzio, ci stiamo parlando.

«Ma non ho accettato», bisbiglio infine.

Hayama non risponde – teme di urtare la mia sensibilità, forse? –, sento il sangue affluire sino alle guance e, in men che non si dica, divento paonazza.

Come se lui potesse saperlo, penso fra me e me, portando le ginocchia insù e appoggiandovi placidamente il capo.

«Hai fatto bene».

Sono tre parole, pochissime lettere a mandarmi in tilt. Hayama non è mai stato un tipo eloquente, anzi, eppure quel che dice è incisivo, diretto, a volte sin troppo.

«Mi manchi, Hayama».

È una frase detta con insicurezza, sì, il mio stato d'animo trapela in un attimo: quelle parole sono autentiche, sì, ma mi

preme ricordargli che è al centro dei miei pensieri, sempre. Nonostante la lontananza che ci divide, Los Angeles nel mio cuore non è troppo lontana.

«Hai fatto bene a dirmelo».

Hayama ha solo aggiunto due parole alla frase precedente, eppure mi sento d'un tratto frastornata; non si sa mai cosa potrebbe voler dire, forse tutto o forse niente.

Alcuni minuti di silenzio, il sole si eleva in alto nel frattempo: è uno spettacolo che vale la pena di contemplare in silenzio – i minuti scorrono

sul display e, parimenti, i nostri pensieri –, la mancanza di Akito in quel momento è più forte che mai.

«Torno, comunque», esordisce d'un tratto, nel modo più naturale possibile.

«Cosa? Quando?!».

Improvvisamente il cuore accelera, il mondo sembra essersi capovolto.

«Tra due settimane, Kurata. Ora, tenta di non svegliare la casa», Akito apostrofa le parole con tono sarcastico, convinto che possa

perdere il mio autocontrollo. E, in effetti, se non mi avesse frenata sarebbe stato così.

Poi, nella mia mente si materializza una visione agghiacciante: all'iniziale entusiasmo si sostituisce ben presto un timore – paura? – più grande.

«Torni o ritorni?».

Sapete, c'è una bella differenza tra le due cose: quando una persona decide di tornare, lo fa per restare. Al contrario, il ritorno implica una partenza.

In sostanza, non si è mai troppo certi di chi abbiamo al nostro fianco: tornare o ritornare sono due facce diverse della stessa medaglia, il mondo 

potrebbe essere messo a soqquadro grazie a quell'unica e indiscutibile differenza.

«Torno».

Tiro un sospiro di sollievo, posso affermare di aver accantonato un pesante macigno dal cuore; Hayama sa sempre come 

rispondere, d'altronde – potrebbe essere una parola eppure potrebbe voler dire tutto.

«Allora ti aspetto», sussurro, dopo un breve respiro.

«Non voglio che tu mi aspetti, Kurata. Voglio che tu mi venga incontro», probabilmente è la frase più lunga che ho udito direttamente da Akito 

Hayama, sin dal principio di questa conversazione.

Sì, dev'essere sicuramente così.

Mi limito a sorridere tra me e me – le parole di Hayama riescono sempre a penetrare nel mio animo, ogni volta in maniera diversa –, dopodiché 

dibatto: «Sempre».

Hayama sta per attaccare, lo avverto, ma prima sembra voler dire qualcosa – sono i suoi sospiri, i suoi brevi respiri e la strana abitudine di 

tossicchiare nervosamente quando si sente teso a farmelo intuire.

«Non mi dispiace affatto».

Poi, il suono di un tasto e la magia si spegne improvvisamente – ma, nonostante tutto, ho continuato a sognare ad occhi aperti.

Hayama è vicino. Los Angeles è lontana. E Noi siamo inevitabili.




* * *




Perdonate il ritardo, l'ispirazione è stata piuttosto assente ultimamente! Ç.Ç

Comunque, questo è il penultimo capitolo... il prossimo sarà l'ultimo, decisamente lungo e, no, non voglio spoilerarvi. <3

Vi dico solamente che dopo questa storia ne ho un'altra in cantiere – non mi fermo mai, no. D:

Il “Non mi dispiace affatto” è una frase tipica di Hayama, credo sia comprensibile sia per chi ha visto solo l'anime, sia per chi ha letto il manga.

Il “Noi” finale è volutamente in lettera maiuscola, prendetela come una licenza poetica – per sottolineare la tensione, insomma.

E, niente, credo che questo capitolo sia un po' ad interpretazione personale... in realtà ho messo vari accenni, spero che li abbiate colti.

Nel caso, mi scuso per essere rimasta molto “sul vago”.

Al prossimo – ed ultimo! – capitolo, vi aspetto!


Kì.



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Capitolo 9
*** IX. Sarai sempre il mio muro contro il quale sbattere la testa ***




IX.



«Sarai sempre il mio muro contro il quale sbattere la testa».






È inutile far finta che sia un giorno come gli altri, arrivata all'aeroporto di Tokyo me ne rendo perfettamente conto. Così, con le dita premute contro l'ampia vetrata, attendo con impazienza quel che si rivelerà un definitivo ritorno. Il tempo è passato, ma è come se non fosse trascorso mai davvero: i nostri amici sono gli stessi di sempre, in fondo. Aya e Tsuyoshi fanno ancora coppia fissa, Fuka è irritata per qualcosa che Takaishi deve averle detto, Rei chiacchiera al cellulare, nella speranza di trovarmi nuovi ingaggi e mia madre sta rincorrendo Marochan.

Nel mio cuore, invece, tutto è cambiato: non sono più la ragazzina di un tempo, questi due anni hanno formato il mio carattere e mi hanno reso una persona differente, nuova.

Non avere Akito Hayama accanto a me, per quanto doloroso, mi ha permesso di mettermi in contatto con coloro che hanno sofferto molto di più. Nel mondo c'è così tanto dolore e, come un riflesso in uno stagno d'acqua, c'è anche tanto amore. Sta a noi, effimeri esseri umani di passaggio, lottare contro il primo e far trionfare il secondo.


Sono ancora in balia dei miei pensieri quando avverto un grande scossone in direzione delle spalle. Rei chiama il mio nome più volte, dal suo tono agitato evinco che il momento è finalmente arrivato. È il rumore di un megafono a ridestarmi, nonché la conseguente calca di persone che si fanno largo nella piattaforma. Il mio cuore inizia a martellare, il respiro si fa titubante e sembra che le parole mi siano state portate via come per magia. Mi ero preparata a tutto ciò, avevo persino pensato ad una battuta d'effetto, eppure ora ogni cosa sembra offuscata dai mille pensieri che affollano la mia mente.

Hayama sta camminando sul mio stesso suolo, sta compiendo gli stessi passi che mi porteranno da lui, stiamo respirando lo stesso ossigeno. Muovo ancora un passo in avanti, gli occhi più sgranati che mai – ti prego, ti prego, fa che non sia un sogno, non voglio svegliarmi –, improvvisamente le urla e la confusione diventano rumori ovattati, coperti dal solo incedere dei miei passi. Tutto si muove confusamente, davanti ai miei occhi si manifestano tanti colori differenti, ogni gesto sembra essere una corsa contro il tempo ma non riesco a udire nulla.

Mi fermo, allora, perché i miei occhi forse hanno visto quel che sperano non sia un'illusione: è una chioma bionda, leggermente spettinata, sembra un po' disorientata ma si abitua dopo qualche istante. Sono solo una decina di passi, ora, a separarci dall'inevitabile: ti prego Hayama, penso, cercami con lo sguardo. E come se i miei desideri potessero, magicamente, venir esauditi qualcosa scuote Hayama – la furia di un passante, la sua valigia che tocca il suolo, il suo disappunto nel rialzarla – e i suoi occhi si dirigono verso di me. Dorati, paralizzanti, incantevoli: esattamente come li ricordavo, non è cambiato di una virgola. Non l'ho nemmeno guardato, mi sono concentrata solo sul suo sguardo: volevo vedere, egoisticamente, se i suoi lineamenti corrispondevano ancora a quelli che un tempo prima mi avevano fatto tante promesse. Cercavo il suo riflesso nel mio, nulla più.

Stavolta sono cinque passi, li ho contati mentalmente, che ci separano: non esiste più la linea Tokyo-Stati Uniti, non esiste più alcun fuso orario, non esiste più nessun aereo.

Ora non regge nessuna giustificazione, non è più il cielo che ci separa ma il suolo. Eppure, Hayama, non ti sembra di camminare a raso terra?
Dietro di me le espressioni festose, le risate cristalline ed i cori di bentornato sono incontenibili ma dalle mie labbra non riesce a uscire che un flebile sospiro.

Sorprendentemente è Hayama a prendere parola, a spezzare quell'imbarazzante attesa.

«Speravo fossi cambiata almeno un po', Kurata», asserisce, commentando con lo sguardo le mie forme non proprio prorompenti.

«Sai che... potrei usarlo?».
«Non oserai».
Sulle mie labbra indugia un ghigno sardonico, pochi istanti dopo sulla testa di Hayama si forma un bernoccolo di medie dimensioni.
«Non sono proprio riuscita a lasciarlo a casa», sentenzio, complimentandomi con me stessa per aver sfoggiato un destro niente male.
Le risate dei nostri amici riempiono l'aria e, dopo un iniziale momento di titubanza, sembra che il tempo non sia passato: siamo ancora gli stessi, ci punzecchiamo a vicenda ed i nostri sguardi diventano complici solo quando nessuno li guarda.




*



Oggi tutti gli occhi sono puntati addosso ad Akito Hayama, come se fosse la notizia del momento: sono centinaia le domande che gli sono rivolte e altrettante le risposte che vengono date con un secco “meh”. Non è da lui dilungarsi in ampollose descrizioni concernenti il cosiddetto “sogno americano” o minuziosi scrorci paesaggistici, lascia che siano gli altri a parlare per lui. I nostri amici sono così concentrati nel far valere l'uno le teorie dell'altro da non accorgersi del fatto che Hayama si è appena separato dalla folla di persone e, con un tacito segnale, mi invita a seguirlo.

Devo ammetterlo: ho aspettato ardentemente questo momento, eppure ora che è qui vorrei rimandarlo il più possibile. Ora le farfalle nello stomaco si fanno sentire, ora devo trovare il coraggio di sciogliere il nodo in gola che mi attanaglia, ora è già qui.
Akito compie un gesto che potrei definire sorprendente, ma che non oso commentare con sarcasmo: afferra la mia mano e la tiene stretta a sé mentre percorriamo i viottoli affollati della città. Le mani di Akito sono calde, di un calore che arriva sino al cuore, passando direttamente per le vie endovenose.

«Così sei diventato un vero american boy, Hayama».
Akito sfodera un mezzo sorriso, poi ribatte: «I can't understand you, young lady».

L'istinto sarebbe quello di canzonarlo per bene, ma il mio subconscio deve aver lottato strenuamente se il mio sguardo non può fare a meno di indugiare sulle sue labbra e, con un piccolo balzo, ritrovarvisi: è come se sapessero ancora di limone, di neve, di dimmi che Los Angeles è vicina.
Qualche secondo dopo Hayama annuisce tra sé e sé, mentre il calore si colora sulle mie guance e mi gioca strani scherzi. Stavolta è Akito a prendere parola, si trova solo a qualche spanna dal mio viso:
«Per un attimo ho pensato che non fosse passato il tempo per te, Sana».
Nessun Kurata, nessun appellativo canzonatorio, nessun vezzeggiativo. Poi, sento la fronte di Akito sulla mia spalla ed è come se un muro si fosse abbattuto tra di noi.

«Non temere, Hayama, sarai sempre il mio muro contro il quale sbattere la testa», i miei pensieri si traducono in parole e temo – anzi, ne sono quasi certa –, che siano suonate particolarmente melense. «Ecco, adesso un fidanzato normale dovrebbe rispondere con una frase romantica».
Inveisco, forse inutilmente, quando le mie confessioni imbarazzanti non ricevono risposta alcuna. Hayama si limita a paralizzarmi con quel suo sguardo indagatore, mettendomi a tacere con una sentenza che non lascia spazio ad ulteriori indugi: «Non sono mai stato bravo con le parole, Kurata».
È solo qualche millimetro di distanza a separarci, abbastanza da consentirmi di replicare: «Non è vero, Hayama. Non è vero».

Me lo hai provato ora, vorrei dire, ma il tempo e l'intesa non sono mai stati così in sintonia e tutto il resto è polvere, aria, cenere: nulla è concreto, non più, sulle labbra di Hayama.



*



Qualche anno dopo.



Qualcuno ha detto: non c'è nulla di nuovo sotto il sole, una volta. È vero, non esiste niente in questo mondo che non sia già stato provato da qualcun altro, non esiste individuo che non abbia provato il dolore che altri hanno già sperimentato. Eppure ce ne stupiamo ogni volta, pur sapendone riconoscere i sintomi: non c'è nulla di nuovo sotto il sole, ci ripetiamo di nuovo, nonostante qualcosa di diverso ci sia, in effetti. Non è ciò che c'è sotto il sole ad essere diverso, è il sole stesso ad esserlo: negli occhi di Hayama, nello specifico, lo vedo e lo rivedo ogni giorno”.


«Dimmi che hai terminato questa sceneggiatura, Kurata. Sei in ritardo».

Hayama appare alle mie spalle, per fortuna me ne sono accorta in tempo: fremo impercettibilmente per lo stupore e, con un incredibile acutezza di riflessi, lo stringo tra le mie braccia.

«Uhm, devo aver preso da mia madre», dibatto scherzosamente.

Hayama arcua un sopracciglio, dopodiché punta lo sguardo alla numerosa pila di fogli tra le mie mani.

«Ricordami perché questo copione è così segreto», sentenzia freddamente.

«Perché è una sorpresa».
Mi ero già preparata a questa domanda, anche perché se Hayama ne sapesse il contenuto insisterebbe per leggere e rileggere il copione. E, per la civile convivenza, credo che questa soluzione sia migliore per ambedue.

«Dì la verità, Kurata...», Akito si avvicina più del dovuto, devo ricordarmi di tenere erte le mie difese. «Ti vergogni dei tuoi errori grammaticali?».

«Non essere stupido! Hayama, se avessi il mio martelletto in questo momento...», sono costretta a lasciare la frase in sospeso, le dita di Hayama iniziano a pizzicare i miei fianchi: conosce le mie debolezze, eppure le sfrutta.

«Sì?», chiede lui, sarcasticamente.

«Non lo fare», supplico, con un tono sin troppo accondiscendente affinché sembri reale.

«Cosa?», domanda nuovamente, poggiando le labbra sull'incavo del mio collo.

«Questo... mi distrae», ammetto, vagamente piccata.

«Bene».

«Potrei approfittare di questo tuo momento di debolezza per colpirti alle spalle, Hayama», esordisco improvvisamente, con l'intenzione di impormi. «O sbatterti contro un muro, farebbe molto più male».
«Impossibile, Kurata. Poi, contro chi sbatteresti la testa?».

Akito Hayama mostra il suo aspetto per quello che è davvero: nient'altro che un presuntuoso, egocentrico e arrogante fidanzato. Non mi risultava che fosse anche megalomane ma, a quanto pare, l'aria americana deve averlo cambiato.

«Sappi che ti odio, Hayama, in questo momento. Stai sfruttando una confidenza imbarazzante avvenuta tanti anni fa», rispondo inviperita, stavolta.

Hayama abbozza un mezzo sorriso, per poi esordire con un semplice: «Perfetto. Sono pronto a rinfacciartelo tutta la vita».

Ed è proprio quando sarei pronta a tirar fuori il proverbiale martellino rosso che Hayama inizia a stupirmi. Abbasso leggermente le spalle, esalo un gran sospiro e trattengo ogni emozione.

«Hayama?», bisbiglio, avvicinandomi al suo timpano. «Mi hai appena detto una cosa bellissima».

Mi hai appena detto quanto mi ami, vorrei dire, ma sono sicura che lo avrà capito da solo.





Fine –



***







Lo so,
mi faccio sentire dopo decadi. Non vi sto qui a elencare i miei mille impegni, son tornata a postare su EFP dopo svariato tempo! Dunque, passando alla fan fiction: spero si capisca, Sana sta scrivendo la sua prima sceneggiatura e l'ha basata sulla sua storia con Akito. Inoltre, ci sono altri riferimenti: il “Dimmi che Los Angeles è vicina” è un riferimento ad uno degli ultimi volumi, prima che Sana e Akito si separino. Quando nel presente Sana dice che: “L'aria americana deve averlo cambiato”, è perché Hayama va ancora negli USA di tanto in tanto. Verosimilmente con un problema come il suo credo che almeno qualche controllo dovrebbe farselo, anche se ovviamente vi resta molto di meno. Ho immaginato che fosse tornato da poco da un viaggio negli Stati Uniti, ecco spiegata la frase.
Veniamo alla parte finale: vi ringrazio, questo fandom è sempre così caloroso nei miei confronti. Grazie per le letture, perché questa storia è diversa dalle altre e c'è molto dramma all'interno. Già solo per il fatto che siate arrivati alla fine vi stimo, ecco. Inoltre è stata una storia difficile, per “calarmi” nel personaggio ho optato per la prima persona (è una rarissima eccezione, scrivo sempre in terza persona!). Grazie a tutti coloro che hanno lasciato un commento, più di una volta mi son commossa per la sensibilità con la quale avete accolto questa storia. :')
E inoltre grazie a:
BuongiornoBellAnima, dancemylife, Euterpe_12, luchia nanami, Piccola Sana, Summer_Sun, Altaria, Elizabeth_J, sarahmanga,Aiofjane,aki96, Di4ever, elenafire, Helder Bode, isachan, katia22, kikkab, kiss88, lady_free, LallyQueen, laretta, Manila, Marika95, Sara_Skater89, sarelf, scirocco, Sweet Stella, Uotani, _Silvia_Salvatore_ , per le preferite/seguite/ricordate.

Prossimamente – il tempo di portare a termine qualche progetto, così da tornare qui stabilmente – tornerò con una commedia romantica, ovviamente Sana/Akito. Inoltre, se per caso seguite altre mie storie o volete ulteriori aggiornamenti, in questa pagina li troverete tutti. :)

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