Midnight Train

di Daphne S
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Capitolo Primo. ***
Capitolo 2: *** Capitolo Secondo. ***
Capitolo 3: *** Capitolo Terzo. ***
Capitolo 4: *** Capitolo Quarto. ***
Capitolo 5: *** Capitolo Quinto. ***
Capitolo 6: *** Capitolo Sesto. ***
Capitolo 7: *** Capitolo Settimo. ***
Capitolo 8: *** Capitolo Ottavo. ***



Capitolo 1
*** Capitolo Primo. ***


MidnightTrain
Capitolo Primo.


testo



Just a small towngirl
Livin' in a lonely world
She took the midnight train goin'anywhere

Just a city boy
Born and raised in south London
He took the midnight train goin' anywhere.

 

La stazione di King's Cross appariva deserta agli occhi dei pochi viaggiatori che si aggiravano fra il supermarket ed il tabellone degli orari in attesa del proprio treno. Come in tutte le stazioni c'era una grande varietà di persone: diverse origini etniche, diverse direzioni, diverse storie. C'era chi correva in maniera frettolosa verso il treno per prendersi il posto migliore, chi con aria stanca arrancava, chi attendeva l'arrivo di una chiamata o di un messaggio continuando a fissare lo schermo spento del proprio cellulare.

Il treno proveniente da Oxford si fermò al binario numero nove per far scendere i passeggeri e farne salire degli altri, per ripetere poi lo stesso tragitto. Una ragazza dai lunghi capelli castani scese dal vagone e stringendo la borsa al petto si diresse velocemente verso il grande tabellone luminoso che indicava i prossimi treni in partenza: mancavano dieci minuti alla mezzanotte, ovvero l'ora in cui sarebbe partito il prossimo treno per Brighton. La giovane andò con passo spedito alla macchinetta che stampava i biglietti e, dopo aver estratto nervosamente quindici pound dal portafoglio, acquistò il biglietto e corse verso il binario numero sette.


A mezzanotte in punto il treno diretto a Brighton partì da Londra. La ragazza sedeva in un posto vicino al finestrino e con lo sguardo spento osservava il paesaggio che si mostrava ai suoi occhi. Man mano che ci si allontanava dal centro della capitale britannica, la periferia si mostrava in tutta la sua freddezza invernale e le luci diminuivano man mano.

Grazie alla posizione che aveva assunto e alla scarsa illuminazione all'interno del vagone, fu facile per la giovane scivolare in un dolce e caldo torpore che sarebbe inevitabilmente continuato se non fosse stato per la rumorosa ed esagerata suoneria che partì da un telefonino evidentemente lì vicino. I pochi passeggeri che avevano scelto il vagone numero dodici, alzarono spazientiti lo sguardo ed anche i grandi occhi blu della castana scivolarono su un ragazzo seduto accanto al finestrino opposto al suo. Aveva dei capelli neri leggermente scompigliati ed era vestito in maniera decisamente impeccabile: sciarpa firmata, cappotto costoso e jeans scuri. Si sarebbe potuto riconoscere a un miglio incarnato in lui il tipico ragazzo di città e di buona famiglia.

Daphne, questo era il nome della ragazza, lo osservò attentamente, avendo finalmente trovato un qualcosa di interessante su cui concentrarsi. Lui prese il telefonino, spense la suoneria e continuò a fissare lo schermo che si illuminava a intermittenza: evidentemente chiunque lo stesse provando a contattare non aveva buttato la spugna facilmente. Sul suo volto si dipinse una smorfia di insofferenza e si sistemò il telefono nella tasca dei jeans. Per un solo istante girò la testa ed il quel momento il suo sguardo incrociò quello di Daphne che ringraziò mentalmente la mancanza di illuminazione che nascose il rossore che colorò le sue goti.

Era incredibilmente affascinante e misterioso, pensava Daphne mentre nascondeva con una mano metà del suo viso. Aveva dei lineamenti molto lineari ed eleganti e portava sul volto un'espressione che celava infiniti stati d'animo e che lo rendeva così distante, così surreale. Era come se, seduto su quel sedile, vivesse una vita inaccessibile a qualunque persona tentasse di violare la sua privacy.

Quando il treno si fermò bruscamente, Daphne tornò violentemente con i piedi per terra: fuori dal finestrino c'era la stazione di una fermata intermedia. La ragazza sospirò, voltandosi nella direzione dello sconosciuto e notando che quella fermata non lo aveva minimamente turbato in quanto non si era mosso di un singolo millimetro.

Una puzza di vino rosso e profumo scadente invase il vagone non appena salirono dei nuovi passeggeri. Daphne guardò sconcertata i due uomini che erano saliti, sperando di non dare in nessun modo nell'occhio. Erano vestiti in maniera povera e dal loro odore si intendeva perfettamente che avevano abusato sia di alcolici che di sigarette.

-Io voglio sedermi vicino questa bella ragazza, Jim.- Bofonchiò uno dei due, buttandosi poi sul sedile vuoto proprio davanti a Daphne e cominciando a guardarla con malizia.

-Io invece voglio dormire proprio qui.- Disse Jim, stendendosi su due sedili vuoti a pochi metri di lì.

-Sei di Londra allora, signorina?- Daphne continuò a fissare fuori dal finestrino lottando contro i battiti del proprio cuore che per la paura sembravano essere sul punto di sfondarle la cassa toracica. -Perché non rispondi? Forse non hai sentito la mia domanda?- La ragazza affondò i denti nel labbro inferiore, imponendosi di non muoversi di un millimetro malgrado fosse convinta di aver cominciato ormai a tremare. -Hai sentito si o no?- Lo sconosciuto sembrava si stesse innervosendo ed infatti avvicinò pericolosamente il suo viso a quello di Daphne. Il suo alito puzzava talmente tanto di vodka che la giovane pensò di essere sul punto di svenire.

Accadde tutto velocemente: l'ubriacone afferrò Daphne per la sciarpa che teneva intorno al collo e la avvicinò tanto al suo viso da far quasi sfiorare le loro labbra e, proprio quando la ragazza aveva chiuso gli occhi aspettandosi il peggio, qualcuno aveva allontanato vigorosamente l'uomo afferrandolo alle spalle.

-Stalle lontano.- Una voce maschile scandì lentamente quelle due parole e, malgrado Daphne avesse compreso che il pericolo si era allontanato, non riusciva ancora ad aprire gli occhi. Continuava a tremare con forza, maledicendo se stessa e quella sua folle decisione di andare a Brighton. Perché proprio a Brighton poi? Una miriade di stupide domande cominciò ad affollarle prepotentemente la testa in una sorta di meccanismo di autodifesa: perché aveva mangiato il croissant con la cioccolata se odiava profondamente la cioccolata quella mattina? Perché proprio il treno della mezzanotte e perché proprio quella cabina? Era il karma, era inevitabilmente il kar...

-Ehi, stai bene?- La stessa voce maschile che l'aveva salvata tornò a riempire con dolcezza le orecchie di Daphne. Due mani grandi e calde sfiorarono il suo viso e la ragazza si sentì incredibilmente protetta e al sicuro.

-Io... Si, sto bene.- Deglutì, aprendo infine gli occhi ed incrociando nuovamente quelli del “ragazzo di città” che aveva osservato prima della fermata intermedia. Così da vicino era ancora più mozzafiato la sua vista: aveva degli occhi del colore degli smeraldi ed un neo proprio sopra l'angolo destro della sua bocca. Lui sorrise, sedendosi poi al posto libero accanto a Daphne ed allontanando le mani dal viso della ragazza.

-Avrei dovuto capire immediatamente le intenzioni di quel tipo,- cominciò a dire, lanciando di tanto in tanto un'occhiata ai due ubriaconi che ora dormivano felicemente a qualche schiera di sedili da loro. -ma ero completamente sovrappensiero e non ci ho fatto assolutamente caso. Scusami.-

-Mi hai tirata fuori da una brutta situazione. Non devi scusarti di nulla. Anzi, ti ringrazio.- Ogni parola che usciva dalla bocca di Daphne sembrava costarle incredibilmente tanto: era come se un macigno si alzasse ad ogni sillaba che pronunciava. Si sentiva in imbarazzo ed assolutamente inadeguata davanti ciò che le era successo così in fretta.

-Io sono Nathan.- Sorrise, guardandola fisso negli occhi.

-Daphne.-

-Ti sembra una domanda indiscreta se ti chiedo perché sei sul treno per Brighton della mezzanotte?- Domandò curioso, perdendosi per qualche istante nell'intenso blu degli occhi di Daphne. La ragazza sorrise, arricciando le labbra.

-Potrei farti la stessa domanda.- Ribatté prontamente lei, ridacchiando poi con dolcezza.

-Mi annoiavo.- Rispose Nathan, poggiando la schiena sullo schienale e socchiudendo gli occhi. -Mi sono detto: Brighton, perché no?-

-Già: Brighton, perché no?- Ripeté Daphne mentendo. Lei di certo non era partita da Reading per andare a Brighton per semplice noia, anche perché quella bravata notturna le sarebbe costata l'ira degli zii. Sospirò, tentando di scacciare via il pensiero.

-Pensavo di essere l'unico folle e invece...-

Si scambiarono un'occhiata prima di scoppiare a ridere. Fu come se per un istante le loro anime si fossero liberate dei pesi che li avevano condotti a spendere quei quindici pound per un biglietto del treno per andare verso la costa.

Il resto del viaggio passò in silenzio e cinquantadue minuti dopo aver lasciato la stazione londinese, il treno arrivò a destinazione. I passeggeri scesero lentamente, caricando ogni passo con la propria stanchezza, le proprie preoccupazioni. Daphne e Nathan scesero silenziosamente, senza rovinare quella atmosfera che si era creata con tanta naturalezza. Dopo aver fatto una ventina di passi nella direzione dell'uscita della stazione, fu Nathan a rompere il silenzio schiarendosi inizialmente la voce.

-Tu avevi in mente una meta?- Domandò, guardando con interesse la ragazza. Daphne scosse la testa, cercando di non proferire parola. Infondo lei non era mai stata in posti che non fossero Reading e Oxford, ovvero dove andava all'università. Era stata a Londra solamente per una gita con la sua classe quando aveva dieci anni. -Lasci l'ardua scelta a me, eh?- Ridacchiò, soffermandosi poi a pensare. Daphne osservò l'espressione buffa e pensierosa che si dipinse sul suo viso e si ripeté che non poteva assolutamente svelare a quel ragazzo il perché del suo viaggio, il fatto che fosse una ragazza di una piccola città e che si potesse permettere l'università solo grazie alla borsa di studio. Per una sera sarebbe stata per quel ricco ragazzo di città la ragazza che sarebbe sempre voluta essere. -Andiamo sul lungomare? So che è inverno e so che fa freddo, ma non sono mai stato a Brighton a dicembre e di conseguenza non conosco nessun altro luo...-

-Va benissimo.- Daphne sorrise e prontamente anche le labbra di Nathan si piegarono in un ampio sorriso. Si incamminarono così per la lunga via principale che portava alla costa. Era incredibilmente semplice parlare con Nathan: il fatto che fosse un perfetto sconosciuto che probabilmente non avrebbe mai più rivisto rendeva molto più naturale parlare, esporre le proprie idee ed i propri interessi.

-Niente domande personali.- Decretò ad un tratto Daphne, guardando Nathan senza riuscire a scacciare il sorriso.

-Niente di niente?- Domandò, aggrottando le sopracciglia.

-Niente di niente.- Ripeté, abbassando per un attimo lo sguardo e tornando poi ad affrontare quel verde così incantevole. -Abbiamo l'occasione di essere noi stessi per una notte, non sprechiamola con stupide domande ordinarie che possiamo porci ogni giorno.-

-Ti sbagli.- Daphne inarcò un sopracciglio. Si sbagliava? Fece per aprire bocca ma Nathan scoppiò a ridere. -Non abbiamo una notte ma malapena quattro ore visto che alla cinque c'è il prossimo treno per King's Cross. Devo infilarmi nel mio letto prima che mia madre tiri giù tutto il palazzo con le sue urla... Diciamo che alla vigilia di Natale non sarebbe decisamente l'ideale cominciare la giornata in quel modo.-

La vigilia di Natale. Era veramente il ventiquattro dicembre? Mancavano circa due settimane all'inizio delle lezioni ad Oxford: due settimane e sarebbe potuta tornare ai suoi alloggi, lontana dagli zii e dall'odio sviscerato che correva reciprocamente.

-Allora sfruttiamo come si deve queste quattro ore di naturalezza.- Si corresse, allontanando con la squillante risata ogni cattivo pensiero.

Succede delle volte che due vite si incrocino nella più completa inconsapevolezza. Succede che il destino riesca a tessere con tanta perfezione la vita di ciascuno da stupire anche il più scettico degli uomini. Succede che due persone si incontrino e siano destinate e non slegarsi più.

Il lungomare di Brighton era illuminato da molti lampioni ed era tristemente vuoto rispetto le serate estive. Tuttavia passeggiavano ancora molti gruppetti di ragazzi e, malgrado il freddo, sembrava che il lunapark lavorasse a pieno ritmo come suo solito. Nathan si poggiò ad un muretto, tirando fuori dalla tasca del cappotto un pacchetto di Lucky Strike blu.

-Ne vuoi una?- Disse, allungando la mano in cui stringeva il pacchetto di sigarette nella direzione di Daphne. La ragazza annuì, prendendone una e portandosela alle labbra. Nathan accesa prima quella ragazza e poi la sua, sciogliendosi dopo la prima boccata in un sospiro quasi di sollievo.

-Ti capita mai di fuggire da te stessa?- Domandò ad un tratto Nathan, non lasciando trasparire da nessuno dei suoi gesti quasi sentimento avesse mosso quella domanda. Daphne lo osservò per qualche istante nel tentativo di cogliere qualche suggerimento dalle sue azioni, ma si scontrò con un muro quasi di indifferenza.

-Non fuggo mai da me stessa. Fuggo da ciò che spaccio essere me stessa.- Le parole scivolarono fuori dalla sua bocca con una leggerezza inaudita, leggerezza che andò ad alleviare velocemente anche il suo cuore. Nathan fissò un punto indefinito a mezz'aria, voltandosi poi con una espressione rilassata sul volto verso Daphne.

-Come se ciò che gli altri pensano che tu sia non combaci con la realtà.- Constatò, portando poi la sigaretta alle labbra.

-Come se non riuscissi a far combaciare ciò che vorrei essere con quello che sono.- Si guardarono nello stesso istante negli occhi e rimasero in silenzio, come se ammutoliti da quel così improvviso ed incredibilmente naturale contatto visivo.

Quelle quattro ore passarono nella più completa normalità e semplicità. Per una volta fu come se entrambi si fossero spogliati degli stereotipi, di tutte le cose che si erano sentiti dire negli ultimi diciannove anni delle loro vite. Si ritrovarono a ridere per cose piccole, apparentemente insignificanti che quasi per magia si erano rivestite di significato, di un valore precedentemente sconosciuto. Ammiccare, ridacchiare sotto i baffi, darsi leggere spinte: fu come tornare ad uno stato d'originarietà che aveva perso tempo prima per strada nel tentativo di costruire le proprie vite.

-Un giorno mi racconterai il perché di questo viaggio notturno?- Domandò Nathan mentre passava un braccio intorno alle spalle di Daphne. Camminavano sul lungomare, diretti agli scalini che portavano alla spiaggia.

-Un giorno sì, forse.- Ridacchiò, stringendosi al petto di lui e godendo del calore che le procurava. -Se mai ci sarà l'occasione.- Aggiunse, con una nota di tristezza nella voce. Lui ricambiò il suo sguardo e Daphne giurò di aver colto della malinconia anche in Nathan, ma lui non rispose. Scesero silenziosamente in spiaggia e, dopo essersi tolti le scarpe, si sedettero su una sdraio.

-Credi nel destino?- Le domandò, fissando il mare.

-Penso che ci siano le coincidenze.- Ribatté, passandosi una mano fra i capelli castani.

-Quindi pensi che sia una pura coincidenza il fatto che ci siamo ritrovati sullo stesso treno e nello stesso vagone?-

-Penso che sia stata fortuna.- Si sorrisero, tornando poi a guardare l'acqua del mare. Era tutto completamente buio a parte i lampioni ed il lunapark. La luna brillava alta nel cielo assieme alle sue stelle.

-A Londra è impossibile vedere le stelle con così tanta chiarezza.- Disse Nathan con voce leggermente roca. Daphne dovette riflettere su cosa rispondere mentre osservava curiosamente una stella che brillava più forte delle altre.

-Già... Non le ho mai viste così...- Mentì, concentrandosi su ciò che guardava per non lasciare che qualche sua movenza la tradisse. In realtà nella campagna dove viveva lei le stelle si vedevano sempre perfettamente... Non c'erano edifici nel raggio di interi chilometri e d'estate amava rifugiarsi in qualche posto sconosciuto ai suoi zii ed osservare la volta stellata con la musica che suonava nelle orecchie.


Il treno è giunto a Londra alla stazione di King's Cross, preghiamo i passeggeri di scendere dai vagoni senza dimenticare i propri effetti personali.

Quella voce metallica sembrò quasi risvegliare Daphne da un sogno. Aveva quasi il timore di aprire gli occhi e di scoprire che Nathan era stato semplicemente frutto della sua immaginazione. Eppure fu proprio una delicata e gentile carezza sui suoi capelli che le fece riacquistare fiducia e quando sbatté le palpebre, si ritrovò poggiata sul petto di Nathan. Si era evidentemente addormentata in quella posizione quando erano partiti da Brighton con il treno delle cinque e dieci. Sbatté un aio di volte le palpebre quasi a volersi accertare per l'ennesima volta che fosse tutto reale e poi si stiracchiò, notando che Nathan era già sveglio e la guardava con dolcezza, carezzandole delicatamente i capelli.

-Hai dormito bene?- Domandò, alzandosi poi e sistemandosi la giacca e la sciarpa. Daphne annuì ricambiando il sorriso ed alzandosi a sua volta.

-Grazie per la compagnia.- Disse con un tono basso ma convinto di essere udito dalla persona interessata. Nathan lasciò che il suo sorriso si allargasse ulteriormente, guardando Daphne negli occhi.

-Grazie a te. Hai reso una serata pessima una delle migliori della mia vita.- Se non fossero stati presi dal scendere dal treno, probabilmente Nathan avrebbe notato il colore porpora che si era diffuso su tutto il volto di Daphne. Inutile dire che non solo la presenza del ragazzo le faceva un certo effetto, ma anche determinate frasi avevano il loro ruolo.

A quell'ora la stazione di King's Cross era decisamente molto più popolata. I due arrivarono all'uscita dell'edificio e per qualche istante rimasero in silenzio a fissare le porte scorrevoli che si aprivano e chiudevano in continuazione.

-Posso almeno domandarti se ci rivedremo?- Domandò ad un certo punto Nathan, voltandosi con un leggero sorriso sulle labbra verso Daphne. Lei si morse il labbro inferiore prima di aprirsi in un dolce e largo sorriso.

-Magari ci beccheremo su un altro treno.- Rispose, sistemandosi poi una ciocca di capelli dietro l'orecchio. Lui ridacchiò, fissandosi per qualche istante le punte delle scarpe.

-Come torni a casa? Hai bisogno di un passaggio? Ho la macchina parcheggiata qui fuori...- Agitò un mazzo di chiavi fra le dita.

-Non ti preoccupare.- Daphne sperò vivamente di non essere arrossita. Non poteva dirgli che non viveva a Londra e che era della periferia di Reading. -Me la so cavare da sola.- Le balenò in mente l'esperienza della sera precedente e per poco riuscì a soffocare una risata. Evidentemente a Nathan era passato lo stesso pensiero per la mente visto che sorrideva sornione.

-Okay, allora ci vediamo...- Nel momento in cui pronunciò l'ultima sillaba posò le sue labbra su quelle di Daphne e si beò delle scariche che attraversarono il suo corpo.

Daphne inizalmente rimase interdetta, poi però lasciò che le sue braccia andassero a cingere il suo collo, stringendolo a sé. Era più alto di lei e nel momento in cui si sollevò sulle punte i loro corpi aderirono alla perfezione. Fu un bacio lungo, intenso, un bacio d'addio. Si perché fondamentalmente quello era un addio. Quante possibilità avevano di rincontrarsi su un treno? Partivano centinaia di treni da Londra, molti per le stesse destinazioni a soli pochi minuti di distanza. E se anche si fossero mai rincontrati... Daphne non sarebbe mai stata in grado di integrarsi nel mondo di Nathan e probabilmente quest'ultimo non avrebbe mai accettato il suo. Quando si allontanarono le mani di Nathan rimasero a carezzare dolcemente la schiena di Daphne; rimasero qualche istante a perdersi l'uno negli occhi degli altri. Passarono secondi, minuti, ore forse mentre si bearono di quel contatto fisico, di quelle sensazioni che scaturivano da ogni piccolo gesto, prima che qualcuno interrompesse quella magia.

-Io devo andare.- Mormorò Nathan sulle labbra di Daphne. Lei annuì, posando un'ultima volta la propria bocca su quella del ragazzo in un soffice bacio a fior di labbra.

-A presto.- Mormorò, cercando di convincersi con le proprie parole.

-A presto, Daph.- La baciò sulla fronte, posando entrambe le mani sulle sue guance bollenti. Poi Nathan si allontanò, regalandole da lontano un ultimo sorriso. Daphne restò in piedi immobile nello stesso identico punto in cui lui la lasciò per circa cinque minuti, come se inebetita da quei contatti, da quella vicinanza così estranea eppure così incredibilmente essenziale e piacevole.

Dopo essersi riscossa dal suo torpore ed aver preso il biglietto, salì sul treno diretto ad Oxford. Controllò il cellulare e notò che, tanto per cambiare, non aveva ricevuto nessuna chiamata: come se dalle dieci della sera precedente lei non fosse scomparsa di casa. Poteva esserle successa qualsiasi cosa eppure sembrava che a nessuno gliene importasse. Sospirò, sedendosi poi sulla poltrona come sempre vicino al finestrino. Lanciò distrattamente uno sguardo a chi sedeva al lato opposto e rimase delusa quando al posto di Nathan vide un signore anziano intento a leggere il “The Economist”.




Eccomiqui con il primo capitolo! Spero che io sia riuscita ad attirare unpo' la vostra attenzione e la vostra curiosità. Daphne e Nathansicuramente si incontreranno nuovamente... ma dove? In qualicircostanze? Saranno gli stessi di questa notte? Se vi è piaciuto ilcapitolo, se avete qualche critica da fare, lasciate le vostrerecensioni che vi assicuro che stimolano l'autore ad aggiornare anchemolto più in fretta! Un abbraccio a tutti!

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Capitolo 2
*** Capitolo Secondo. ***


MidnightTrain

CapitoloSecondo.



testo



 

Erano passate tre settimane da quella strana ed incredibilmente non ordinaria vigilia di Natale. Nonostante fosse cominciato il 2011 e le lezioni ad Oxford fossero cominciate, l'immagine del sorriso di Nathan tardava a scomparire dai ricordi di Daphne.

Non lo aveva né sentito né, ovviamente, rivisto dopo quell'ultimo bacio che si erano scambiati a Londra e, di certo, non si sarebbero rivisti. Lei era rinchiusa ad Oxford fino a luglio e lui chissà dov'era. Non sapeva né se studiava o lavorava, né quale università frequentava, né quanti anni aveva... Era un perfetto sconosciuto che tuttavia le era incredibilmente familiare nei suoi ricordi.
In conclusione doveva smetterla di pensare a Nathan e a quella notte a Brighton, altrimenti sarebbe finita con il non seguire più neanche mezza parola delle lezioni. Scosse la testa, fissando il quaderno degli appunti vuoto in una maniera imbarazzante in confronto a quelli degli altri studenti. Si trovava nella biblioteca principale dell'università e cercava inutilmente di farsi entrare in testa delle nozioni di storia. Era iscritta alla facoltà combinata di Politica e Storia e nell'ultimo periodo proprio quest'ultima materia sembrava approfittarsi della sua distrazione cronica.

-Daphne, io e Evan ci andiamo a prendere un caffè, vieni con noi?-

Daphne alzò lo sguardo dal quaderno, togliendosi gli occhiali che usava per studiare ed incrociando lo sguardo di Victoria, la sua amica più stretta lì ad Oxford. Annuì, raccogliendo le proprie cose e sistemandole nella borsa di pelle. Quando ebbe terminato si alzò e seguì i due amici fuori dalla biblioteca.

Arrivarono in meno di dieci minuti ad una caffetteria che si trovava sulla strada principale di Oxford. Vivere in quella piccola e graziosa città universitaria era la cosa più bella che fosse capitata a Daphne nei suoi diciannove anni di vita. I suoi genitori erano morti quando aveva sette anni e da quel momento in poi aveva cominciato a vivere con gli zii che sfortunatamente non le avevano reso la vita facile. Si sedettero ad un tavolino abbastanza isolato dopo aver preso le bevande scelte.

-Il professor Brown sta diventando incredibilmente noioso e fastidioso.- Decretò ad un certo punto Victoria, bevendo un lungo sorso del suo cappuccino. -Non è possibile che ogni settimana io debba scrivere tre saggi brevi e leggere una decina di libri.- Continuò, pulendosi le labbra con il fazzoletto. -Ho capito che sono ad Oxford e che è tosta, ma non può esagerare a questi livelli.- Evan e Daphne si strinsero nelle spalle. Il professor Brown era il loro professore di Storia e nell'ultimo periodo aveva cominciato a stressare come non mai i propri studenti. Forse era indispettito dal fatto che dei nove studenti dell'anno precedente solo quattro avessero deciso di continuare a frequentare storia oltre a politica, ma ciò non giustificava quel incredibile accanimento nei confronti dei pochi fedeli.

-Hai già letto la lista di libri che ci ha dato per questa settimana?- Domandò Evan, addentando poi il suo croissant. Victoria e Daphne scossero la testa, attendendo un continuo. -Sono undici libri sul ventesimo secolo.- Decretò, mentre Victoria per poco non si strozzava.

-Cambiando argomento no...- Propose Daphne, posando la tazza ormai vuota sul tavolino. -Sapete che oggi è il grande giorno?- Victoria ed Evan si illuminarono, trascinati via dai tediosi argomenti di vita universitaria.

-Cioè? Si sono decisi a sbattere fuori Bro...- Evan non poté terminare la frase perché Victoria gli assestò un micidiale colpo di gomito in mezzo alle costole.

-C'è il Big Match.- Disse soddisfatta Daphne, gustandosi le facce meravigliate dei suoi amici.

Ben peggiore delle rivalità ordinarie fra studenti troppo competitivi, era il conflitto secolare che si era instaurato fra le due università più importanti dell'Inghilterra: Oxford e Cambridge. Entrambe le università avevano non solo cervelli formidabili dalla loro parte, ma anche invidiabili ed allenati gruppi sportivi in tutte le discipline. Tuttavia dopo la famosissima e seguitissima canoa, veniva il calcio. Ogni anno le due università si sfidavano a gennaio per dimostrare quale fosse la più forte non solo intellettualmente ma anche fisicamente. I preparativi erano stati talmente sfarzosi ed insistenti che Daphne, malgrado la sua bandata per lo Sconosciuto (chiamava così Nathan), li aveva notati più volte. Victoria ed Evan si rimproverarono decine di volte di essersi dimenticati di quel giorno così importante e rimediarono immediatamente presentandosi nella Sala Comune del Brasenose College con le felpe ed i colori della loro università.

Per quanto durante l'anno i trentuno college in cui era divisa l'università di Oxford cercassero di mettersi i piedi in testa a vicenda, in quelle occasioni particolari si schieravano in massa contro Cambridge, pronti a non darla vinta ai nemici. Per gli ultimi cinque anni l'università rivale aveva battuto Oxford e, quell'anno, erano ben decisi a riscattarsi, soprattutto per il nuovo attaccante proveniente dal Keble College: una promessa del calcio a detta di molti.

Alle tre lo stadio dell'università di Oxford era gremito di tifosi di entrambe le squadre e il blu ed il giallo troneggiavano. Mancavano esattamente trenta minuti al fischio d'inizio e Daphne sedeva accanto a Victoria, intenta ad addentare il suo hot-dog.

-Quest'anno li dobbiamo fare neri!- Esordì ad alta voce un ragazzo che si sedette davanti al trio, alzando al cielo la mano. -Vai, ragazzi!- Urlò verso il campo, malgrado nessuno potesse sentirlo.

Daphne si guardò intorno, mentre un sorriso le si dipingeva con naturalezza sulle labbra. Amava quell'università per il fatto che permetteva che così tante persone di etnie e classi sociali differenti potessero incrociarsi grazie alle loro capacità intellettuali. A nessuno importava se lei non poteva permettersi dei costosi jeans o se girava con il felpone dell'università ed i capelli sfatti per i dormitori. Era il suo mondo, quello, ci si sentiva perfettamente a suo agio e neanche i figli di papà le incutevano timore in quanto, alla fine dei conti, all'interno di quelle mura secolari erano tutti uguali e lontani dagli stereotipi che sopportavano le rispettive famiglie.

-Quest'anno vinciamo di sicuro.- Disse Rebecca, una ragazza del loro college che studiava medicina, sedendosi affianco a loro con una bustina piena di patatine fritte.

-Da cosa deriva tanta sicurezza?- Domandò scettico Evan, passandosi una mano fra i capelli biondi.

-Il nuovo attaccante, non avete sentito?- Incalzò la mora, mangiando con gusto un paio di patatine mentre l'arbitro entrava in campo.

-Un ragazzino del primo anno ora dovrebbe farci miracolosamente vincere contro Cambridge vorresti dirmi?- Questa volta era Victoria ad essere scettica. Rebecca ridacchiò, scuotendo la testa.

-Invece è un ragazzino del terzo anno.- Affermò soddisfatta.

-Per quale motivo si è deciso solo all'ultimo anno a giocare a calcio?- Domandò curiosa Daphne, mandando giù l'ultimo boccone del suo hot-dog.

-Troppo impegnato a studiare Economia e a passare tutti i fine settimana a Londra.- Rebecca si strinse nelle spalle, mentre la squadra di Cambridge veniva accolta in campo da fischi e urla di disapprovazione da parte della comunità studentesca di Oxford.

Si levarono differenti cori e, come sempre, tutti si ritrovarono abbracciati a persone totalmente sconosciute a cantare testi mai sentiti primi ed imparati al volo. Quando la squadra che vestiva il colore blu entrò in campo un boato partì dalle schiere riservate all'università che giocava in casa e diversi striscioni furono levati in aria.

-Nathan, facci sognare!- Urlò qualcuno alle spalle di Daphne. La ragazza si giro, guardando basita un ragazzo con gli occhiali che gridava a gran voce il nome dello Sconosciuto. Stupida, Daphne, sai quanti Nathan esistono al mondo? Scosse la testa, cercando di evitare il ragazzo alle sue spalle che continuava ad esaltare quel nome.

-Come si chiama questo nuovo attaccante?- Domandò Evan, mentre insieme a Daphne cercava di vedere il campo, oscurato dalla miriade di striscioni che erano stati levati al cielo.

-Nathan Crawford.- Disse semplicemente Rebecca.

Daphne si maledì per non avergli neanche domandato il cognome e cercò disperatamente di riuscire a dare un'occhiata al campo, senza successo.

-Daph, cos'è quell'espressione così agitata?- Domandò all'improvviso Victoria. La castana si girò, trovandosi addosso gli sguardi inquisitori dei suoi tre amici. Arrossì, scuotendo poi con forza la testa ed agitando la mano.

-Oh, niente, solo che... Questi maledetti striscioni mi irritano, vorrei vedere il campo!- Arrancò, continuando a sorridere come un ebete. Gli amici scrollarono le spalle, sistemandosi poi per guardare la partita. Fortunatamente le simpatiche ragazze che avevano alzato gli striscioni, si decisero finalmente di permettere anche agli altri studenti di gustarsi la partita.

Nel momento in cui la visuale fu libera, gli occhi di Daphne cercarono istintivamente Nathan Crawford. Interiormente era combattuta: da un lato avrebbe voluto follemente rivederlo, dall'altro temeva di scoprire che anche lui fosse uno studente di Oxford perché lei con quella perfezione non aveva nulla a che fare. Una semplice ragazza di campagna. Scosse la testa ed in quel preciso istante i suoi occhi riconobbero una figura ben nota. Alto, fisico slanciato e capelli neri. I capelli neri di Nathan erano illuminati dalla flebile luce del sole che li donava dei meravigliosi riflessi. Correva insieme ai suoi compagni di squadra, completando l'allenamento. Come gli altri indossava una maglietta blu, aderenti e con le maniche lunghe e i pantaloncini del medesimo colore con dei dettagli gialli esaltavano i muscoli affusolati delle sue gambe quando correva.

Nathan. Aveva ritrovato il suo Nathan.

Nonostante il suo cuore fosse incredibilmente più leggero, contemporaneamente una malinconia la invadeva: ora sapeva come si chiamava, dove e cosa studiava, avrebbe potuto conoscerlo veramente, ripetere quelle chiaccherate della vigilia, rifare quelle passeggiate... Eppure qualcosa dentro di lei le diceva che sarebbe stato solamente tempo sprecato. Malgrado fosse la prima a ritenere che Oxford desse la possibilità a tutti di integrarsi, sentiva che quella perfezione di stampo londinese era troppo anche per i canoni dell'università. Era dell'ultimo anno, era un Crawford, faceva parte di una famiglia radicata da secoli nel parlamento e nella nobiltà inglese. Che speranze avrebbe mai potuto avere lei di fare parte del suo mondo?

Scosse nuovamente la testa e non riuscì a evitare che i suoi occhi seguissero attentamente i movimenti del ragazzo. Quando segnò il gol vincente per Oxford, il suo nome le riempì talmente tanto le orecchie da inebriarle completamente il cervello.

La vittoria di Oxford dopo cinque lunghi anni portò le conseguenze tanto attese da tutta la popolazione studentesca e non. Gli stessi professori andarono a festeggiare nel pub per eccellenza dell'università.

Nonostante la mente di Daphne fosse completamente annebbiata dal nome e dall'immagine di Nathan, non poté non farsi trascinare da quei festeggiamenti. Infondo era un evento che uno studente poteva vivere massimo una volta nel corso della sua permanenza ad Oxford e lei, di certo, non voleva farsi mancare nulla.

-Li abbiamo fatti neri!- Esultò Evan, stringendo in un abbraccio un certo George. C'era da dire che i maschi assomigliavano seriamente a degli scimmioni quando erano intenti a festeggiare qualcosa.

-Daphne! Victoria!- Rebecca raggiunse le due ragazze, porgendoli due boccali di birra strapieni. -A quanto pare stasera offre la casa! Non ho mai visto il proprietario così gioioso!- Le tre ragazze sorrisero, bevendo poi la bevanda ghiacciata.

-Oh ma i giocatori quando arrivano?- Domandò Victoria guardandosi curiosamente intorno.

-Faresti meglio a domandare: quando arriva Damien?- Gongolò Rebecca, facendo cin cin con il boccale dell'amica.

-Beccata!- Daphne le puntò il dito contro, ridendo.

Tuttavia ben presto si ritrovò a seguire lo sguardo dell'amica nella ricerca dei giocatori di calcio. Nathan Crawford era uno di loro e, in cuor suo, moriva dalla brama di vederlo. Chissà se lui si ricordava ancora di lei? Chissà se l'aveva mai pensata in quelle tre lunghe settimane?

-Un applauso ai campioni!- Le urla provenienti dall'ingresso annunciarono l'arrivo della squadra. Le ragazze più ubriache si fiondarono addosso ai nuovi arrivati, strusciandosi loro addosso più del dovuto. Daphne riconobbe immediatamente Nathan; aveva il suo portamento elegante, pesato in ogni singolo movimento. Sembrava quasi che si distinguesse al di sopra di tutti gli altri presenti a quei festeggiamenti. Quando una ragazza dai capelli rossicci gli si fiondò addosso, gettandogli poi le braccia al collo e baciandolo, il cuore di Daphne si gelò, ma lui restò impassibile, immutato esteriormente. Passò solamente un braccio intorno alla vita della ragazza e accettò un boccale di birra che gli veniva offerto. Daphne deglutì, buttando giù ciò che restava della sua birra, e si guardo intorno. Notò immediatamente che Evan era finito addosso ad un muro con Rebecca, tanto per cambiare, e che Victoria era accanto al (secondo lei) meraviglioso Damien vicino al bancone. Begli amici, lasciarla sola nel momento del bisogno! Scosse la testa, incrociando le braccia sotto al seno e osservando ripugnata una coppia che si stava baciando con una tale intensità da farle attorcigliarle le budella.

Girò prontamente i tacchi e si incamminò nella direzione del maxi barattolo di Heineken dove riempì nuovamente il suo bicchiere. Tuttavia la sua impresa fu interrotta da un ammasso di muscoli che le cadde praticamente in braccio facendole non solo rovesciare interamente il contenuto del bicchiere, ma anche perdere l'equilibrio.

-James! Stai fuori come un balcone!- Una voce fin troppo conosciuta rimproverò il ragazzo che le era caduto addosso. Nathan Crawford sollevò James da terra e gli diede un paio di schiaffi per farlo riprendere. Daphne abbassò istintivamente lo sguardo, tentando di evitare un qualsiasi contatto con il ragazzo ma, ovviamente, fallì nella sua impresa.

-Ehi, scusami!- La voce traballante di James fece alzare gli occhi da terra a Daphne che, immediatamente, lasciò che il suo sguardo si intrecciasse con quello di Nathan.

-Di niente.- Mormorò con un filo di voce, mentre l'espressione di Nathan assomigliava sempre più alla sua: pura sorpresa.

-Accompagnaci.- Nathan invitò gentilmente Daphne a seguirlo. Entrarono nella parte posteriore del locale e la ragazza aiutò Nathan a stendere James sul divano. Dopo aver portato l'acqua ed una bacinella per il dopo sbornia all'ubriaco, per la prima volta Nathan e Daphne rimasero in silenzio a guardarsi negli occhi. Sembrò essere passato un secondo da quel bacio a King's Cross. Sembrò che tutto fosse incredibilmente recente, incredibilmente normale. Eppure contemporaneamente era come si ci fosse una barriera di parole non dette e pensate fra loro.

-Studi ad Oxford anche tu allora...- Constatò Nathan guardando la felpa di Daphne con un sorriso. -A che college stai?- Aggiunse, sedendosi su una sedia lì vicino. Lei lo imitò, accennando un sorriso. Era tutto terribilmente sbagliato.

-Al Brasenose.- Rispose, torturandosi una ciocca di capelli. -Tu sei al Keble, vero? Oggi non si faceva altro che parlare di “quella stella del calcio di Crawford”.- Sorrise con dolcezza, ricambiando il suo sguardo di tanto in tanto.

Mentre lui le parlava della sua quotidianità, di tutte quelle domande troppo personali che non si erano posti a Brighton, Daphne osservava inevitabilmente lui e la persona che era. Tralasciando il discorso che Oxford univa intellettualmente tutti i suoi studenti, nessun avrebbe potuto negare il baratro che c'era fra lei e lui. Bastava osservare come era vestito, i racconti che faceva sulla sua vita a Londra servito e riverito dalla sua famiglia, la sua casa nel pieno centro proprio accanto al palazzo reale. Lei cosa mai avrebbe potuto raccontargli? Di come d'estate lavorava in un misero fornaio aiutando il signor Perkins a fare il pane e il dolci?

-Avresti potuto dirmelo che stavi ad Oxford. Ci saremmo incontrati sicuramente prima...- Disse con un dolce sorriso, allungando poi il braccio per stringere la mano della ragazza. Daphne fu scossa da un tremito e lasciò che le sue dita si incrociassero con quelle di Nathan.

Poteva essere così sbagliato quel contatto così incredibilmente piacevole?

Sorrise quando lui le passò un braccio dietro la schiena, stringendola con dolcezza al proprio petto e lasciandole un morbido bacio fra i capelli.

-Mi sono maledetto per non averti chiesto il numero e per non esserti riuscito ad incontrare in nessun posto a Londra.- Sorrise, chiudendo gli occhi e continuando a passare le dita fra i lunghi capelli di Daphne. -Lo so che Londra è immensa ma il centro è uno solo e magari nelle discoteche più frequentate... Mi sono sentito un idiota a cercarti fra la folla.- Ridacchiò, soffocando la risata fra i capelli castani. Daphne si sciolse completamente in quell'abbraccio e mandò a quel paese tutti i suoi pregiudizi sulla loro differenza di classi sociali e su tutti i problemi che sarebbero potuti nascere fra loro ma ne tralasciò uno che non aveva neanche minimamente considerato.

-Madison?-

Madison? La voce di Nathan la fece voltare di scatto e quel dolce contatto terminò bruscamente. Madison Linton era in piedi vicino allo stipite in tutta la sua altezza e la sua bellezza. Daphne aveva un carattere molto docile e gentile e solitamente non era tipo da farsi nemici. Eppure quella dannata ragazza non l'aveva potuta vedere dalla prima volta che aveva varcato la soglia del dipartimento di relazioni internazionali e negli ultimi due anni la principessa bionda non aveva fatto altro che punzecchiare Daphne e, quest'ultima, aveva sempre provato a prendere le distanze da quella vipera.

-Nath, da quand'è che frequenti questa gente di basso borgo?- Domandò altezzosa, avvicinandosi suadente a Nathan lasciandogli un bacio sulla guancia. Era lei la ragazza che precedentemente gli si era strusciata addosso, come aveva fatto a non riconoscerla immediatamente? Stupida, stupida idiota. Si era illusa nuovamente. Avrebbe dovuto tenere sempre bene a mente che Nathan proveniva da un gruppo differente di persone, che frequentava persone come Madison, l'alta società londinese...

-Quand'è che ci porti un po' di baguette?- Domandò con cattiveria, fissando gli occhi blu di Daphne. La ragazza trasalì: si era completamente dimenticata del fatto che quella idiota conosceva le sue occupazioni estive in quando aveva una residenza anche a Reading. Scosse la testa, lottando contro se stessa per non far scendere le lacrime. Nathan fissava attonito sia Madison che Daphne.

-Di che parli?- Domandò ad un tratto, guardando Madison. Il sorriso trionfante della ragazza di allargò ulteriormente.

-Ma come, la campagnola non ti ha mai raccontato delle sue attività estive?- Cinguettò, beandosi dell'espressione tramortita di Nathan.

-Campagnola?- No, era decisamente un incubo. Daphne si alzò di scatto, passandosi una mano fra i capelli nervosamente.

-Non sapevi che la signorinella vive in una fattoria nella campagna di Reading?- Le mani di Daphne si strinsero in un pugno. Guardò Nathan ma lui non disse una parola, pendeva completamente dalle labbra di Madison continuando però a guardarla. Non disse nulla: né per difenderla, né per accusarla, né per dire che non gliene potesse importare di meno. Non disse assolutamente nulla ed un muro pesantissimo di creò fra lui e Daphne. Cosa poteva mai aspettarsi infondo? Che dicesse non gli interessava che fosse una campagnola? Non sarebbe mai accaduto. Erano tutte balle il fatto che i pregiudizi fossero terminati. Erano tutte stronzate.

Daphne uscì velocemente da quella stanza, uscì velocemente dal pub senza neanche cercare Evan, Victoria o Rebecca. Uscì per strada stringendosi nella propria giacca e tirò su il cappuccio della sua felpa.

Cosa si aspettava infondo? Nathan non lo conosceva neanche. Ci aveva scambiato quattro chiacchere su un treno per Brighton alla vigilia di Natale, si era comportato in una determinata maniera con lei perché non sapeva niente della sua vita, del suo presente... Pensava che vivesse a Londra, come lui, pensava che magari fosse una ragazza benestante, una ragazza da presentare ai nobili genitori senza creare scalpore.

Possibile che nel 2011 dovesse ancora vergognarsi della sua provenienza, di chi fosse? Affondò i denti nel labbro inferiore fino a sentire il sapore metallico del sangue nella sua bocca. Come aveva fatto ad illudersi su Nathan Crawford? Quello stesso ragazzo che l'aveva baciata a King's Cross come poteva essere quello che non aveva spiccicato mezza parola mentre quella vipera di Madison la insultava gratuitamente? Ed ora che se ne era andata e che vagava senza una meta per la cittadina universitaria, magari lei lo stava baciando ancora con passione fra una battuta e l'altra sulla ragazza di Reading, sulla fornaia. Magari era bastato sapere che viveva in una fattoria per cancellare le quattro ore più belle che potesse ricordare su una sdraio in riva al mare.

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Capitolo 3
*** Capitolo Terzo. ***


Midnight Train

Capitolo Terzo.




testo
 

La vita sembrava amare tirare scherzi formidabili nell'ultimo periodo. Da quando Daphne si era legata al dito l'ultimo incontro con Nathan e si era imposta di cancellarlo furiosamente dai propri pensieri, stranamente le occasioni di incontrarlo erano quadruplicate.

Nell'ultimo anno e mezzo che aveva trascorso ad Oxford non aveva mai avuto l'occasione di incontrarlo, nemmeno per sbaglio, nemmeno da lontano: Nathan Crawford era stato un fantasma. Eppure nel momento in cui si era decisa ad evitarlo, appoggiata dal fatto che fossero in due college differenti, magicamente compariva ovunque: nella biblioteca comune, nelle riunione della comunità studentesca, nelle conferenze tenute da importanti membri del parlamento e non. Ogni volta che si guardava intorno, incrociava inevitabilmente la sua imponente figura. Che poi fosse stato un ragazzo anonimo, uno di quelli che sembravano più un fantasma che una persona... No. Nathan Crawford era decisamente il tipo di ragazzo che quando entrava attirava l'attenzione di chiunque e gli sguardi di chiunque: ragazze follemente innamorate, ragazze che pensavano a come portarselo a letto, ragazzi invidiosi del successo che riscuoteva e ragazzi ammaliati dalle sue doti calcistiche. Nathan Crawford e la sua sciarpa di Burberry erano sinonimo di popolarità.

Così Daphne aveva cominciato ad evitare differenti luoghi ad Oxford, a partire dalla biblioteca comune. Il Brasenose College vantava di una meravigliosa biblioteca, perché mai doveva andare in quella comune che non solo era lontana ma dove per prendersi un posto a sedere bisognava darsele di santa ragione a suon di libri antichi?

Erano passati esattamente dieci giorni da quella partita di calcio e dalla vittoria di Oxford e Daphne sedeva ad un tavolo di legno antico con un enorme tomo sulle trattative di pace nel corso della prima guerra mondiale. Prendeva appunti su un quaderno che teneva alla destra del libro, tenendo la testa poggiata sulla mano sinistra. Di tanto in tanto si sistemava gli occhiali e si legava meglio i capelli. La sua nuova tecnica era: essere il più anonima possibile. Se Nathan e Madison erano pilastri di fama e notorietà non si sarebbero accorti più di tanto dell'ennesimo topo di biblioteca, giusto? Daphne era sempre stata una ragazza riservata, che preferiva studiare piuttosto che andare alle feste organizzate dai diversi college, ed ora non doveva fare altro che continuare a vivere la sua vita secondo quei parametri. Quella mattina infatti indossava un paio di jeans scuri, un maglione decisamente troppo largo (probabilmente della zia, una signora molto in carne) e teneva i capelli legati in una coda alta. Rebecca l'avrebbe definita una mise anti-stupro. Fondamentalmente Oxford pullulava di elementi studiosissimi che sapevano a memoria interi libri, non era una cosa originale integrarsi in quel gruppo di elementi. Daphne alzò la testa guardando circospetta gli altri studenti presenti: c'era il classico gruppo di asiatici che parlava rigorosamente in cinese e, o giapponese, c'era il topo infognato di turno, in quel caso Jeremy Button e la sua faccia brufolosa adornata da spessissimi occhiali, ed infine c'erano un paio di sgallettate entrate ad Oxford grazie a innumerevoli raccomandazioni che disegnavano cuoricini sui loro tomi nuovi di zecca. Scosse la testa, tentando di tornare a concentrarsi sulle trattative di Versailles. Tuttavia un continuo sbattere di porte le fece alzare di scatto la testa e le fece guardare irritata il gruppo di ragazze che trafficavano vicino alla porta con dei volantini in mano. L'espressione di Jeremy sembrava dire “Ora vi attacco con il mio libro di Fisica Quantistica”, quella degli asiatici sarebbe potuta essere riassunta in una marea di frasi incomprensibili a chiunque non fosse del loro gruppo e quella di Daphne era semplicemente irritata ma, tutto sommato, anche incuriosita.
Le ragazze appesero un paio di volantini alla bacheca, allontanandosi poi fra le loro cinguettanti risate. Daphne si alzò, riportando il libro alla bibliotecaria ed incamminandosi verso l'uscita della Sala di Lettura. Chiuse silenziosamente la porta alle proprie spalle e guardò incuriosita l'annuncio che era stato appena appesto:

Il Brasenose College ed il Keble College

sono lieti di annunciare la loro nuova alleanza;

per festeggiare la fusione dei nostri secolari istituti

questa sera si terrà la cena nella mensa del Brasenose College alle ore 19.30.


Daphne strabuzzò gli occhi e fissò attonita l'annuncio. Era decisamente una presa in giro. Una presa in giro di dimensioni colossali fra l'altro. Si guardò intorno quasi alla ricerca di una telecamera pronta a riprendere la sua espressione sbalordita ma non vide altro che un gruppetto di ragazze, probabilmente del primo anno, che guardavano con occhi a forma di cuore l'annuncio.

«Magari incontreremo qualche ragazzo carino.» Disse con aria sognante una ragazza dal viso tondo e dai boccoli biondi.

«Magari avrò finalmente l'occasione di parlare con Evan.» Disse sognante una moretta dagli occhi a mandorla. Stava parlando di Evan Montgomery, ovvero il suo migliore amico? Poteva veramente piacere a qualcuno che non fosse Rebecca Johnson?

«Ma la smettete di dire cavolate? Vi siete scordate chi è del Keble College?» Una ragazza bionda dai tratti del viso spigolosi si fece avanti in quel gruppetto e fissò con un sorriso soddisfatto sulle labbra l'annuncio. «Nathan Crawford.» Decretò alla fine, provocando sospiri sognanti nelle altre ragazze. Così girò i tacchi e se ne andò ondeggiante con al seguito le altre ragazze.

Daphne fissò per qualche altro minuto il volantino con aria sconcertata, scosse poi la testa e si allontanò, stringendo forte il manico della borsa.


Dal momento che quel maledetto ragazzo non doveva assolutamente offuscarle la mente e che quella lezione di politica si prospettava molto interessante, quando varcò la soglia dell'aula si sedette nella prima fila e non, come suo solito, verso il fondo insieme a Victoria ed Evan. Aprì il quaderno degli appunti, si mise gli occhiali e cercò di non perdere nessun passaggio del discorso del professor Collins.

Fondamentalmente cosa le interessava di quella grande serata di festeggiamenti fra il Keble ed il Brasenose? Sarebbe stata una cena come le altre: prima un aperitivo in cui i ragazzi come Evan ci avrebbero provato con le ragazze del Keble, poi la cena, dove grazie ai posti assegnati le due popolazioni studentesche si sarebbero potute mischiare e conversare dei più svariati argomenti ed infine un after dinner, che solitamente consisteva nel riunirsi nella Sala Comune e parlare, bere qualcosa al bar e fumare qualche sigaretta nel cortile.

Non ci sarebbe andata, ecco tutto. Per quale motivo si sarebbe mai dovuta vestire elegantemente, sistemarsi i capelli, scendere a cena per rovinarsi l'umore ritrovandosi davanti quella vipera di Madison, quel idiota di Nathan e tante altre persone che la urtavano pesantemente? In fondo il Keble era il classico college, anche più del Brasenose, frequentato dagli ex-studenti di scuole private e prestigiose e, di conseguenza, sarebbe stata un'allegra rimpatriata fra ricchi membri della nobiltà dalla quale sarebbero rimasti esclusi i topi da biblioteca, gli asiatici e persone come lei. Importava poco che Evan, Rebecca e Victoria avessero frequentato ottime scuole e che avrebbero potuto presentarla anche ai pezzi grossi dell'alta società inglese: l'avrebbero sempre urtata gli sguardi inquisitori di persone che cercavano di contare quanti soldi avesse in tasca.

«Quindi, come scadenza vi do il tredici febbraio.» La voce del professore svegliò Daphne dai suoi pensieri. No, non era possibile, nonostante si fosse messa appositamente al primo banco era riuscita a distrarsi? Maledizione! «Vi manderò per e-mail i testi che dovrete leggere.» Aggiunse, sorridendo tranquillo. Daphne tirò velocemente fuori la sua agenda dalla borsa e segnò sul tredici febbraio la scadenza. La scadenza di cosa poi se era riuscita a perdersi quarantacinque minuti di lezione?

Mentre gli studenti si precipitavano fuori dall'aula per andare a pranzo, Daphne temporeggiò nel raccogliere i propri libri e nel sistemarli nella borsa. Victoria ed Evan si avvicinarono, guardandola con curiosità.

«A cosa pensi?» Domandò Evan, facendola sobbalzare.

«A chi pensi?» Puntualizzò Victoria. Erano i suoi due migliori amici ma non sapevano niente della storia di Nathan, del treno per Brighton, di ciò che era successo nel pub quella sera.

«Io... E' tutto apposto, davvero, solo che non riesco a dormire ultimamente.» Arrancò Daphne, sistemandosi la borsa sulla spalla.

«E' dal Big Match che ti vediamo strana, vero Evan?» Insistette Victoria, stuzzicandola con una gomitata. Evan annuì ed Daphne rifilò un'occhiataccia ad entrambi. Si erano addirittura alleati per farle quel discorsetto?

«Va tutto bene, solo che tutti questi saggi brevi mi stanno facendo seriamente irritare.» Mentì, incamminandosi fuori dall'aula.

«Ed è per questo che eviti come la peste la biblioteca comune?» Perché erano così maledettamente svegli ed attenti a tutto ciò che faceva? Daphne tentennò, scuotendo poi la testa.

«E' che mi sono stancata di dover fare fuori qualcuno ogni volta che voglio sedermi.» Mentì, stringendosi poi nelle spalle.

«Lo sai che puoi dirci tutto, vero?» Domandò Evan mentre stavano entrando nella mensa. Daphne annuì, togliendosi a quel punto la borsa dalla spalla e sedendosi ad un tavolino.

«Cambiando argomento, avete saputo della cena di stasera con il Keble?» Domandò Daphne, mentre Victoria tornava tutta raggiante portando i primi per tutti e tre.

«Che ti metti?» In quel preciso momento Daphne realizzò di essersi data la zappa sui piedi. Come diavolo le era venuto in mente di parlare di una cena alla quale non aveva la minima intenzione di partecipare? Accennò un sorriso e accettò l'idea di essere arrivata al punto critico in cui avrebbe dovuto vuotare il sacco. Maledizione.

«Io non penso di venire.» Disse a bassa voce, addentando una sottospecie di pasta al formaggio.

«Che cosa?!» Il tono che usò Evan sembrò sovrastare il vociare della mensa. Daphne invitò gli amici ad abbassare la voce con un gesto della mano e poi sospirò.

«Okay, vi racconto tutto.»

Così disse agli amici di come quel ventitré dicembre aveva deciso di prendere un treno ed andare a Londra e poi da lì, ormai dopo la mezzanotte cioè alla vigilia di Natale, di prenderne un altro diretto a Brighton. Raccontò di come Nathan l'aveva aiutata a sbarazzarsi dell'ubriacone puzzolente, di come erano stati bene sulla spiaggia e di come lui l'aveva baciata per salutarla a King's Cross. Poi continuò la sua narrazione parlandoli di Madison, di come li aveva beccati mentre si abbracciavano nel retro del pub, di James ubriaco, di come l'aveva insultata e di come aveva reagito Nathan quando aveva saputo tutto su di lei, su dove viveva e dove lavorava per mettersi da parte qualche soldo per vivere.

«Ecco perché questa sera non voglio venire. E' un occasione in più per incontrare nuovamente Nathan, Madison e altri elementi della loro elitaria comitiva.» Concluse tristemente, girando con aria disgustata i maccheroni con la forchetta.

«Ti capisco.» Mormorò Victoria dopo aver passato tutto il tempo del racconto ad annuire e fare espressioni strane. «Solo che Nathan non mi sembra il tipo da essere addirittura disgustato da persone di altri livelli, ecco.» Evan annuì.

«Noi due siamo andati nella sua stessa scuola, la King's School di Londra e lui malgrado fosse veneratissimo, desideratissimo e bravissimo in tutto, non era uno di quelli con la puzza sotto al naso.» Disse Evan. Perfetto: i suoi due migliori amici erano andati a scuola insieme con Nathan Crawford?

«Addirittura una volta mi aiutò a fare un tema di politica.» Ridacchiò Victoria. «Io ero una novellina, di solito tutti sfottevano quelli del primo anno, lui invece mi aiutò. Non sapevo che fosse venuto ad Oxford, in realtà.»

«Forse è cambiato.» Decretò Evan.

Già. Forse era cambiato. Perché neanche Daphne aveva visto in lui un ragazzo scorbutico, presuntuoso quella volta sul treno. Possibile che fosse cambiato nell'arco di un mese? O forse, semplicemente, non era mai stato quello che lei si era illusa che lui fosse? Scosse la testa, nel tentativo di cacciare via l'immagine di Nathan e si concentrò ad esaminare il pasticcio di carne che si ritrovava davanti come secondo. Odiava la mensa del Brasenose College.


Fortunatamente né Evan, né Victoria, né Rebecca, che fu aggiornata sugli ultimi avvenimenti, parlarono più nel tentativo di convincerla di andare alla grande serata. Daphne aiutò le sue due amiche a vestirsi, consigliando loro il vestito da mettere, gli orecchini da abbinare e le scarpe. Nonostante un po' le dispiacesse mancare a quella serata che avrebbe spezzato la monotonia della vita nel college, l'idea di non incontrare Nathan le fece tornare il buonumore.
C'era una parte di lei che continuava a volerlo rivedere nella speranza di poter incontrare in lui nuovamente quel ragazzo gentile e cordiale che aveva conosciuto sul treno e che aveva visto al pub. D'altro canto però, contemporaneamente, era viva in lei la paura di vedere quel Nathan ammutolito dalle cantilene di Madison, che sembrava disprezzare le sue origini in silenzio, senza fiatare, ferendo ancor più duramente.

«Magari vista l'occasione prepareranno qualcosa di decente.» Disse Rebecca mentre si metteva il rossetto.

«In tal caso portatemi qualcosa, non vorrei perdermi tale miracolo.» Disse ridacchiando Daphne, mentre sistemava delle fotocopie sulla scrivania. Erano nel suo dormitorio e mentre le due ragazze avevano occupato entrambi gli specchi, lei cercava di mettere ordine in quella camera. Sembrava che fosse appena esplosa una bomba effettivamente.

«Mi dispiace, Daph, tirare fuori questo argomento ma... Sono sempre stata convinta del fatto che prima o poi il Keble ed il Brasenose si sarebbero fusi.» Disse Victoria dopo che ebbe finito di mettersi il mascara. «Tomas e Harry sono sempre stati molto legati ai due capi del Keble.» Tomas ed Harry erano rispettivamente il presidente ed il vicepresidente degli studenti del Brasenose College: organizzavano le serata, le feste, le settimane delle matricole e si impegnavano nel riempire di alcolici il bar del college. Daphne si strinse nelle spalle: fondamentalmente era quello che diceva sempre anche lei. Il Keble ed il Brasenose erano legati dall'appartenenza della maggioranza degli studenti all'alta società e di conseguenza avevano frequentato gli stessi prestigiosi istituti.

«Mah, l'importante è che non diventi un'abitudine fare queste allegre rimpatriate.» Disse Daphne, buttandosi sul letto. Le due amiche sfilarono davanti a lei ricevendo gli apprezzamenti e poi uscirono, dirette all'attesa cena. Daphne si mise le cuffie dell'iPod nelle orecchie e prese un libro leggero da leggere e cercò di scacciare con la lettura la sua fantasia su come si sarebbe presentato Nathan quella serata.


Quando Daphne aprì gli occhi era stesa a pancia in sotto sul letto; le cuffie dell'iPod emettevano una canzone dei Muse ed il libro era scivolato a terra. Si stropicciò gli occhi, sbadigliando, e si alzò, stiracchiandosi leggermente. Chissà quanto tempo aveva dormito? Si avvicinò alla scrivania e prese il cellulare: sul display erano segnate le ventuno e trenta. Teoricamente l'aperitivo era durato un'ora e quindi erano seduti a tavola da massimo quarantacinque minuti tutto sommato. Scrollò le spalle, pensando che infondo fumarsi una sigaretta era un'impresa abbastanza fattibile. Tutti gli studenti sarebbero stati seduti a mensa e lei avrebbe avuto l'opportunità di sgattaiolare fuori dal college inosservata, andare a prendersi un panino al supermercato Tesco, tornare, fumarsi una sigaretta e rientrare in stanza.

Aprì l'armadio e tirò fuori un cappotto pesante e la felpa dell'università. Si infilò inizialmente la felpa, poi si sistemò lo scalda-collo ed infine chiuse per bene i bottoni della giacca, nella speranza che il suo vestiario la tenesse calda nel momento in cui avrebbe deciso di affrontare il gelo inglese. Per ultimi si infilò gli stivali, prese il pacchetto di Chesterfield che teneva sulla scrivania e lo mise in tasta, e poi uscì, contando le sterline che era riuscita a raccattare in giro per la stanza.

Arrivò in poco tempo al supermercato. Entrò dalle porte scorrevoli e si beò dei riscaldamenti, incamminandosi poi verso il frigorifero dove tenevano i sandwich. Ne prese uno al formaggio e al prosciutto, andando poi verso la cassa.

«In giro a quest'ora?» Le domandò il cassiere. Era un ragazzo dall'aspetto simpatico e dai capelli castani. Indossava la divisa rossa e bianca del supermercato e le sorrideva gentile. Daphne si sentì avvampare, mentre raccattava gli spicci nella tasca del giubbotto.

«Mi è venuta improvvisamente fame.» Si giustificò accennando un sorriso.

«Si ho notato.» Sorrise anche lui, prendendo poi il sandwich e stampando lo scontrino. Mentre lui compiva quelle azioni, Daphne lesse la targhetta con il suo nome “David”. «Sono un pound e trenta centesimi.» Disse infine, imbustando l'acquisto. La ragazza pagò, mettendo poi il resto nuovamente in tasca.

«Grazie e buona serata.» Disse Daphne, pronta già ad uscire.

«Aspetta!» La voce di David la richiamò indietro. Daphne si girò incuriosita. «Tu hai letto il mio nome, ma io non so il tuo!» Ah! L'aveva colta proprio così in flagrante mentre guardava la targhetta?

«Mi chiamo Daphne.» Disse con un sorriso.

«Buona serata, Daphne, allora.»

«Buona serata, David.»

Daphne sentì le proprie guance avvampare mentre usciva dal supermercato dirigendosi velocemente verso il Brasenose College. David era stato tanto carino e gentile con lei, eppure non era riuscita ad eliminare l'immagine di Nathan che sembrava parlare nella sua testa con la voce di David. Stava forse diventando pazza? Presto il dipartimento di psicologia avrebbe usato lei come cavia.

Arrivò al college e dopo essersi identificata al portiere, si infilò sotto i portici vicino al cortile. Il suo sguardo cadde sull'ala est del college: lì si erano svolti i suoi colloqui d'ammissione esattamente un anno prima. L'anno precedente era arrivata tutta nervosa ad Oxford per passarvi i tre giorni necessari ad affrontare i colloqui: inizialmente aveva fatto domanda al Magdalen College, visto che non era conosciuto per un alto numero di figli di papà e non vantava primi ministri come ex-alunni, però al suo arrivo nella cittadina universitaria aveva scoperto di essere stata spostata al Brasenose College. Quando la prima mattina era andata alle dieci un quarto a sostenere il colloquio, aveva conosciuto alla mensa Madison Linton. Inizialmente le era sembrata simpatica, disponibile, avevano parlato del perché avessero scelto proprio quella facoltà ma, dopo che Daphne fu uscita dal colloquio il comportamento della bionda mutò drasticamente. Tentò prima di scoprire quali domande le avevano fatto ma, siccome Daphne sapeva che fosse vietato parlare con chiunque dell'intervista e dal momento che non voleva rischiare per nessuna ragione al mondo di perdere l'occasione della sua vita di entrare ad Oxford, non fece parola del colloquio con la ragazza. Da quel momento Madison scagliò tutta la sua ira su Daphne e, quest'ultima, fu incredibilmente soddisfatta quando scoprì che avevano spostato l'acidissima bionda al Keble College.

Daphne riemerse dai ricordi e si accese la sigaretta, poggiandosi contro il muro. Fumava lentamente, gustandosi ogni tiro che faceva. C'era un'incredibile calma in quel cortile. Si sentiva in lontananza il brindare nella mensa, le risate, ma era come se tutto fosse incredibilmente ovattato, distante.

«Ho detto di no, papà.» Quella voce però era vicina e chiara e, soprattutto, conosciuta. Daphne si affacciò, per vedere di chi si trattava e vide Nathan che camminava avanti e indietro con il telefono all'orecchio. Si nascose nuovamente, restando in ascolto.

«Non mi interessa se sono affari, se è conveniente.» Lo sentì sospirare profondamente. «Siamo nel 2011 e non accetto minimamente una cosa simile. Io non ti aiuterò a convincere Edward.»

Chi era Edward? E perché mai lo avrebbe dovuto convincere? Se poi si trattava di cose anacronistiche...

«Hai provato a fare il lavaggio del cervello anche a me ma, per fortuna, ci ho messo due anni ma ho ragionato di testa mia» Sospirò nuovamente ed i suoi passi si fermarono. Sembrava che si fosse poggiato da qualche parte. «Eddie è piccolo, ancora, lui non capisce... Lascialo in pace, ti prego.» Il suo tono ora sembrava una supplica. Daphne cercava di respirare il meno possibile, la tensione era palpabile nell'aria. «Maledizione!» Il tonfo di un cellulare che cadeva a terra accompagnò il suo urlo. Un pezzo del Nokia arrivò ai piedi di Daphne che, tuttavia, non se ne accorse, presa com'era dal non farsi notare. «Lurido bastar...» Si interruppe quando per raccogliere un pezzo del cellulare girò l'angolo e vide Daphne immobile. La ragazza avvampò, chinandosi a raccogliere il pezzo mancato e lasciandolo nelle mani di lui. Poi si voltò e fece per andarsene ma la mano di Nathan la afferrò per un polso, costringendola a tornare indietro.

«Io non stavo origliando... Ero tornata da Tesco e stavo fumando una sigaretta e...» Nathan portò il suo dito indice sulle labbra della ragazza e lei rabbrividì con forza.

«Non fa niente.» Mormorò, scuotendo poi la testa ed allontanando la mano.

Si guardarono negli occhi per qualche interminabile istante. Daphne sembrava nuotare nello smeraldo delle sue iridi e poteva giurare che più volte colse un luccichio. Lui scosse la testa, sospirando e guardando le punte delle sue eleganti scarpe.

«Come mai non c'eri a cena?» Domandò poi, guardandola. Evidentemente si era accorto della sua assenza.

«Io sto indietro con delle consegne, dovevo finire di leggere alcuni libri.» Mentì con incertezza, non riuscendo a fare il modo tale che dei tremolii non tradissero la sua voce.

«Non cercavi invece di evitarmi?» La domanda di Nathan spiazzò completamente Daphne che cominciò a scuotere la testa. Perché la capiva così bene? Erano così chiare le sue intenzioni? «Sono giorni che appena mi vedi scappi come se avessi una malattia infettiva.» La sua ultima frase fece sorridere Daphne, che scaricò un po' di tensione. «Se quella sera del Big Match io ho fatto qualcosa...» Gli occhi di Daphne si alzarono di scatto da terra e puntarono quelli di Nathan.

«Non hai fatto niente quella sera.» Ed era proprio quello il problema. «Non hai fatto niente di sbagliato o che non avresti dovuto fare. Mi sarei meravigliata del contrario.» Assunse un tono improvvisamente acido che colpì Nathan; Daphne lo capì dai suoi occhi che si incupirono tristemente. «Ti sei comportato seguendo alla perfezione i canoni di comportamento di voi superiori.» Aggiunse, ormai guidata per mano dalla Rabbia in quello sfogo.

«Quindi ora tu pensi che io mi creda un superiore!» Alzò la voce a sua volta e Daphne rabbrividì sentendolo parlare in quel modo.

«Sì, penso che tu sei esattamente uguale a tutti quei deficienti che mi guardano male solo ed esclusivamente perché non ho l'ombra di un quattrino in tasca!» Daphne sentiva i propri occhi diventare lucidi e sembrava che la temperatura si fosse abbassata drasticamente.

«Io non ti ho mai guardata in quel modo!»

«Cazzate!» Urlò talmente forte che un paio di ragazzi si affacciarono dalla mensa per capire da dove provenivano quelle grida. «Sono tutte cazzate.» Ripeté a voce più bassa guardandolo negli occhi. «Quella sera al pub mi hai guardato esattamente in quel modo quando quella stronza di Madison mi insultava gratuitamente.» Si morse il labbro inferiore nel tentativo di non versare neanche mezza lacrima. «Se tu non fossi stato come loro avresti detto almeno una parola in mia difesa. Ma no! Ti faceva troppo schifo l'idea di aver baciato una campagnola o meglio, come mi chiama Madison, una fornaia? Non sia mai che il tuo nobile sangue venga mischiato con uno infimo come il...»

«Stai zitta.» La interruppe con un tono piatto, neutro. La sua voce era leggermente roca. «Che cazzo ne sai di come mi sono comportato con Madison dopo che te ne sei andata? Questa sera Madison non c'è! Sai perché non c'è? Perché ci ho litigato a tal punto che non si avvicina più a meno di due metri a me ed i miei amici!» Daphne ammutolì ascoltando le sue parole. Cominciò a tremare leggermente, mentre Nathan ribolliva di labbra. «Se non sai le cose stai zitta! Non mi conosci per potermi giudicare! Chi sei per definirmi un figlio di papà? Non hai sentito la conversazione che ho appena avuto al telefono?» Daphne abbassò lo sguardo, mentre un senso di colpa e di vergogna si impadroniva di lei. «Se hai questi cazzo di complessi di inferiorità nei confronti dell'alta società inglese sono affari tuoi!»

Mezzo secondo dopo la mano di Daphne urtò la guancia di Nathan in uno schiaffo talmente forte che sembrò che il suo eco rimbombasse per interi secondi per il cortile. Si guardarono negli occhi in silenzio per qualche lungo istante, ribollendo entrambi interiormente. Daphne sembrò scorgere nello sguardo di Nathan rabbia, disprezzo e delusione. Fu proprio quell'ultimo sentimento a spaventarla. Lui deglutì, passandosi poi una mano sul viso. Senza proferire mezza parola cominciò a camminare, oltrepassandola, ed andò verso l'uscita del Brasenose College. Daphne restò in silenzio vicino alla parete contro la quale si poggiò un minuto dopo.

Aveva sicuramente esagerato tirandogli quello schiaffo ma, contemporaneamente, bruciavano di offesa in lei le parole che le aveva detto. Come si permetteva a dirle che aveva dei complessi d'inferiorità? Lei non si sentiva inferiore proprio a nessuno e lui che era un perfetto sconosciuto non aveva nessun diritto di accusarla in quel modo. E poi lui se ne era andato, come se ne era andata lei quella sera dal pub. Eppure lui l'aveva difesa davanti Madison, eppure Madison quella sera non era venuta... Chissà cosa le aveva detto per scatenare in lei una reazione tale da non avvicinarsi nemmeno al gruppetto di Nathan. Daphne scosse la testa, nascondendosi poi il viso fra le mani mentre calde lacrime le rigavano il viso, facendo nettamente contrasto con il suo viso freddo.

Solo quando si alzò, dirigendosi lentamente verso il dormitorio femminile, si accorse che nel frattempo soffici fiocchi di neve avevano ricoperto il cortile e l'intero college. La neve sembrava fosse scesa per nascondere tutte le impurità, per rendere bella qualsiasi cosa fosse stata imperfetta. Perché allora lei in quel momento si sentiva così sbagliata ed incompleta?




**

Salve a tutti! Beh, innanzitutto sono lusingata dai complimenti che mi avete fatto nelle recensioni e vi ho risposto con tanto piacere a tutti privatamente! Poi ringrazio anche tutti coloro che hanno aggiunto "Midnight Train" alle seguite e, addirittura, alle preferite e a quelle "da ricordare" (quanta fiducia *___*)! Mi raccomando, continuate a leggere, recensire, perché è grazie a voi che aggiorno così in fretta e sforno capitoli su capitoli senza sosta! Non sono riuscita a trattenermi dall'aggiornare subito oggi!

Un abbraccio enorme,

Silvia.

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Capitolo 4
*** Capitolo Quarto. ***


Midnight Train.
Capitolo Quarto.

testo

Erano tre notti che non riusciva a chiudere occhio. Daphne si rigirò per l'ennesima volta fra le coperte, sbuffando poi sonoramente: così non andava assolutamente bene. Si alzò di scatto dal letto, andandosi poi a buttare sotto il getto caldo della doccia. Doveva rendersi conto che si trattava di una situazione ridicola: perché si faceva tutti quei problemi per una persona che era totalmente estranea alla sua vita? O meglio, per una persona che era entrata in un modo completamente assurdo nella sua quotidianità ed era arrivata al punto da condizionare questa stessa? Chiuse l'acqua, avvolgendosi in un asciugamano e slegandosi i capelli. Si guardò nello specchio ed esaminò le occhiaie: ottimo, danneggiava anche il suo aspetto fisico quel Crawford maledetto! Ridacchiò, insultandolo mentalmente, e volle darsi uno schiaffo da sola per quel sorriso idiota che era dipinto sulle sue labbra. Andò nella sua stanza e frugò nell'armadio alla ricerca di qualcosa da indossare, come se poi la scelta fosse molta. Optò per il classico paio di jeans scuri ed una camicia bianca, alla quale abbinò poi un maglioncino blu. Si legò i capelli, passandosi poi un po' di mascara e dopo aver preso i libri ed i quaderni sulla scrivani, si diresse alla biblioteca comune.
Nonostante si fosse ripromessa di non mettere piede in quel luogo per evitare di incrociare persone non troppo gradite, aveva ascoltato anche le parole dei suoi amici che poteva essere riassunti nella formula “non ti curar di loro ma guarda e passa”. Alla fine dell'anno mancavano come minimo quattro mesi e lei di certo non avrebbe passato quei quattro mesi ad evitare una persona che la insultava gratuitamente e un'altra che le dava della complessata. Annuì con convinzione mentre si incamminava nella direzione della biblioteca. Faceva particolarmente freddo quella mattina e la neve non accennava a sciogliersi, anzi, sembrava che aumentasse giorno dopo giorno. Quando passò accanto alla vetrina del Tesco, istintivamente girò la testa per controllare se quel giorno ci fosse David e, notando la sua presenza alla cassa, le venne in mente che doveva comprare un pacchetto di sigarette.
Entrando si abbassò il cappuccio del cappotto e si diresse verso la cassa. Quando Daphne si schiarì la voce per attirare l'attenzione del cassiere, David alzò la testa ed il suo voltò si illuminò repentinamente.

«Daphne!» Disse con un largo sorriso. Poi si guardò intorno e quando notò che non c'erano clienti si rilassò. «Un nuovo attacco di fame?» Aggiunse, senza smettere di sorridere.

«Mmh, in realtà un attacco di nicotina.» Precisò, lasciandosi sfuggire una leggera risata. «Chesterfield Light per favore.» Domandò, indicando il pacchetto. David prese l'involucro azzurro e stampò lo scontrino.

«Sono cinque pound e sessanta.» Daphne pagò, arrossendo lievemente in quanto David non era intenzionato a distogliere lo sguardo da lei. «Ecco a te il resto.» Una valanga di spicci cadde nella mano destra di Daphne che sorrise, mettendoseli in tasca.

«Beh grazie allora, buona giornata!» David si guardò intorno e la sua espressione divenne raggiante quando si accorse che non c'era altri clienti a fare la fila per essere serviti.

«Fra una settimana faccio vent'anni ed avevo intenzione di organizzare una serata con un po' di amici, sei dei nostri?» I suoi occhi brillavano nell'attesa di una risposta e Daphne non poté fare altro che annuire e notare come il sorriso sulle labbra di David si allargasse ulteriormente.

«Perfetto, allora ti farò assolutamente sapere.» Daphne ricambiò il sorriso e benedì il signore sulla cinquantina che si schiarì la voce per attirare l'attenzione del cassiere. David la salutò con un cenno della mano, servendo poi il signore, e Daphne gli sorrise da lontano mentre usciva dal supermercato.

Tutto sommato David era un ragazzo carino e disponibile ma il suo viso era troppo pulito, innocente, le sembrava quasi una tabula rasa della quale non ci fosse nient'altro da scoprire. Nathan invece era l'esatto opposto: indecifrabile, misterioso, con tanti problemi per la testa e tante cose da raccontare soffocate dentro per anni. E Nathan non lo vedeva da quattro giorni prima, da quando gli aveva tirato quello schiaffo. Scosse la testa, porgendo il tesserino d'identificazione al portiere della biblioteca. Dopo che fu fatta passare, si diresse con sicurezza verso il secondo piano dove avrebbe incontrato Evan e Victoria. Tuttavia incontrò questi due prima della sala di lettura: stavano seduti tranquillamente su delle poltrone a chiaccherare. Li raggiunse, sedendosi a fianco a Evan, e rubò a quest'ultimo il pacchetto di patatine che stringeva fra le mani.

«Buongiorno, ragazzi.» Esordì, mentre Evan la fulminava con lo sguardo e Victoria se la rideva sotto i baffi. «Come mai non stavate studiando?» Aggiunse, incrociando le gambe sul divano di pelle bordeaux. Si scambiarono un'occhiata e poi si strinsero nelle spalle.

«Gli unici tre posti disponibili erano vicini a Nathan.» Disse con un tono basso Victoria, quasi avesse paura di essere sentito.

«Abbiamo pensato che non fosse esattamente il caso, ecco.» Completò Evan, facendo nuovamente spallucce. Daphne sorrise con dolcezza: erano due angeli, ecco cos'erano.

«Grazie.» Mormorò, mandando giù un'altra patatina. I due amici sorrisero ed in quell'istante arrivò Rebecca.

«Victoria! Ho saputo!» Le teste di Evan e Daphne scattarono in fretta nella direzione dell'amica. Le guance della ragazza divennero color porpora e le sue mani strinsero un cuscino, quasi fosse combattuta tra la voglia di tirarlo addosso a Rebecca e tra quella di usarlo per coprirsi la faccia.

«Che cosa hai saputo?» Scandì Evan, senza distogliere lo sguardo da Victoria che sembrava essersi paralizzata definitivamente nella sua posizione sorpresa iniziale.

«Non gliel'hai ancora detto?» Incalzò Rebecca e uno scatto delle mani di Victoria fece intendere che quel cuscino a breve avrebbe soffocato l'amica.

«Che cosa non ci hai ancora detto?» Questa volta fu Daphne a scandire bene le sillabe. Victoria sorrise scuotendo la testa, quasi colta da convulsioni improvvise.

«Dai! Sei una vecchia suocera pettegola e vuoi sempre sapere tutto...Ora tocca a te!» Evan si buttò addosso all'amica, facendole il solletico. Daphne ringraziò mentalmente il cielo l'organizzazione di quella biblioteca: fuori dalle sale di lettura si poteva anche fare la Rivoluzione Francese ma, all'interno di quelle, uno starnuto era peccato. Victoria scoppiò a ridere non appena le mani di Evan le stuzzicarono i fianchi. «Ti arrendi?» Domandò, fermando un attimo le mani. Victoria scosse la testa con convinzione ed Evan ricominciò, aumentando il ritmo.

«Okay, okay, okay mi arrendo! Hai vinto tu!» La bandiera bianca alzata da Victoria fece tornare Evan al proprio posto. Rebecca si sedette affianco ad Evan, guardandolo di tanto in tanto con gli occhi a forma di cuore, e tutti e tre si sporsero curiosamente nella direzione della ragazza che fece passare sulle proprie guance un vero e proprio arcobaleno. Daphne poté giurare di non avere mai visto tante tonalità di rosso, arancione e viola alternarsi sul viso di una persona.

«Di chi si tratta?» Domandò Evan, dando un pizzico al polpaccio della ragazza che si lasciò scappare un leggero urlo. Daphne inarcò un sopracciglio e Rebecca sorrise con la soddisfazione di chi sa già tutto.

«Damien Rice.» Disse il nome in un mormorio ma bastò per far strabuzzare gli occhi sia ad Evan che a Daphne.

«Alleluia! Ce l'hai fatta!» Evan alzò i pugni al cielo in segno di vittoria e Victoria gli assestò il suo solito colpo micidiale fra le costole. «Maledetta...» Mugolò mentre si accasciava con nonchalance sulle gambe di Rebecca.

«Vogliamo i dettagli come minimo.» Disse Daphne, guardando con un ampio sorriso l'amica.

Damien Rice era stato per gli ultimi due anni la cotta di Victoria. Si erano incontrati ai colloqui di due inverni prima alla mensa del Keble College, dove la ragazza si era inizialmente iscritta, e da quel momento ogni volta che l'aveva visto i suoi occhi si erano illuminati. Sfortunatamente Damien rispecchiava perfettamente i canoni di tutti i ragazzi di Oxford a parte Evan Montgomery ed il suo provarci con tutte: bello, intelligente e dannatamente timido e senza senso. I suoi comportamenti avevano fatto illudere Victoria nell'uno o nell'altro senso e l'avevano condotta più volte sull'orlo di una crisi isterica che per poco non era sfociata in una marea di schiaffi.

«Beh ecco, ieri ero andata a trovare Sue, una mia amica di Londra, al Keble College perché era il compleanno e salendo le scale ho incontrato Damien.» Cominciò a raccontare, giocherellando con i capelli. «Mi ha salutata, come sempre, mi ha chiesto come stavo e poi mi ha proposto di restare a pranzo da loro.» Sorrise fra le sue parole. «Così ho accettato e dopo pranzo siamo andati a farci una passeggiata nel parco del College che, fra parentesi, penso che sia uno dei più belli che io abbia mai visto dopo il Magdalen.» Sospirò, cominciando a torcersi le dita delle mani. «Poi mi ha presa di colpo e mi ha chiesto perché mi comportavo in modo così ambiguo con lui, perché non gli davo certezze, perché non riuscivo a fargli capire se fossi interessata o meno.» Daphne strabuzzò gli occhi, lui le aveva fatto i discorsi che lei avrebbe voluto fare da sempre a lui? Assurdo! «Allora io gli ho detto che soffriva di schizofrenia, che era lui quello non chiaro, quello ambiguo, che a me lui piaceva da quando ci siamo conosciuti e lui mi ha presa e mi ha baciata.» Un Ohh sospirato sfuggì alle labbra di Daphne e di Rebecca appena l'amica finì di raccontare. Evan si girò ad osservare le due ragazze, puntando poi nuovamente lo sguardo su Victoria.

«Questi particolari romantici e vomitevoli sono di troppo. Andiamo al sodo, l'avete fatto in mezzo ai boschi?» Questa volta fu Victoria a strabuzzare gli occhi e ad avvampare.

«Evan!» Urlò, gettandosi addosso al ragazzo.

«Ma Santo Dio sono due anni che vi sbavate reciprocamente dietro in tutte queste smancerie! Bisogna quagliare qualc...» Un altro colpo fra le costole lo fece ammutolire.

«Sei proprio un maschio.» Decretò Rebecca incrociando le braccia al petto e scuotendo la testa.

«Dal momento che ti sei scelto amiche donne come minimo devi rispettare i nostri batticuori.» Disse Daphne, mentre Evan rantolava stringendosi la pancia.

«Se avessi potuto scegliere di certo...» Daphne chiuse la bocca del ragazzo con una mano. Aveva visto negli occhi di Victoria brillare la scintilla che l'avrebbe portata a dare il colpo finale al ragazzo e, probabilmente, l'avrebbe fatto finire all'ospedale. «Siete cattive.» Disse infine, mettendosi nuovamente a sedere dritto. Tutti e quattro scoppiarono a ridere e il suono leggero delle loro risate fu interrotto da un cellulare che squillò. Victoria si toccò le tasche ed estrasse da quella testa il suo telefono. Aggrottò le sopracciglia e si alzò, allontanandosi dal divano.

Daphne la osservò parlare al telefono. Inizialmente sorrise, chiunque l'avesse chiamata, ma poi il suo volto si incupì improvvisamente. Si sedette su una sedia e si portò una mano fra i capelli: il suo volto era impallidito. Daphne attirò l'attenzione di Rebecca ed Evan che si stavano punzecchiando e li indicò l'amica: entrambi i loro volti mostrarono repentina preoccupazione.

«Non è possibile...» La sentirono dire mentre scuoteva la testa. Sul suo viso improvvisamente bianco erano cominciate a scendere infinite lacrime. «No, no, no...» I re ragazzi si alzarono, raggiungendo l'amica. Le mani di Victoria lasciarono scivolare il cellulare a terra e poi andarono a coprire il suo viso.

«Cos'è successo?» Domandò Evan mentre le carezzava con leggerezza un braccio.

«Matthew i-il ragazzo di mia sorella...» Disse fra un singhiozzo e l'altro, mentre le lacrime non accennavano a smettere di scendere. «...è-era in missione in Afghanistan e-e...un'autobomba è-è... è morto...» Quelle ultime parole pesarono su tutti e tre i ragazzi che si erano riuniti intorno a Victoria. Matthew Hertford era il ragazzo secolare di Norah, la sorella di Victoria. Daphne l'aveva conosciuto il Natale precedente quando lui era tornato a Londra con un permesso e aveva fatto una sorpresa alla ragazza che era scoppiata in lacrime non appena aveva messo il piede in casa. Era un ragazzo incredibilmente intelligente e disponibile ma, soprattutto, convinto di ciò che faceva e della missione che stava portando avanti in Afghanistan: amava il suo lavoro, malgrado corresse quotidianamente dei rischi e ripeteva più volte che “non l'avrebbe cambiato per nulla al mondo”. Eppure quel ragazzo d'oro che si sarebbe dovuto sposare l'estate seguente, non c'era più.


Due giorni dopo Daphne, Evan e Victoria viaggiavano in silenzio nell'auto del padre di quest'ultima. Erano diretti a Londra per i solenni funerali di Matthew che non si sarebbero tenuti nell'imponente abbazia di Westminster come imponeva la tradizione, ma in una chiesa più piccola situata vicino a Gloucester Road dove Matthew aveva richiesto chiaramente di essere sepolto.

Nelle ultime quarantotto ore Victoria si era chiusa in un mutismo che non era stato rotto da nessun gesto, da nessuna parola, da nessun pasto. Era sempre stata particolarmente affezionata a Matthew e pensare alle condizioni nelle quali sarebbe stata Norah di certo non la aiutava ad affrontare quella perdita con tranquillità.

In un paio d'ore arrivarono alla chiesa e, mentre il padre e Victoria scesero velocemente, correndo ad abbracciare Norah, Daphne ed Evan rimasero seduti in silenzio sul sedile posteriore. Guardavano fuori dal finestrino ed il loro sguardi si erano posati inevitabilmente sulla sorella di Victoria. Norah era alta, slanciata ed aveva dei lunghi capelli neri che in quell'occasione si confondevano con l'elegante abito che indossava. Aveva il viso spento, delle marcate occhiaie e gli occhi infossati: sembrava lo spettro della bellezza di un tempo. I due ragazzi scesero dall'automobile e si avvicinarono alla famiglia, salutando ciascuno e porgendo le proprie condoglianze. Davanti la chiesa si era riunito un numero modesto di persone, cui maggior parte erano ragazzi vestiti nell'uniforme dell'accademia militare.

«Sarà una cerimonia per pochi intimi.» La voce di Norah era ferma e decisa nel momento in cui dovette rispondere ad una signora dai capelli brizzolati che le domandò come mai in un'occasione così solenne erano presenti così poche persone. «Matt avrebbe voluto che fosse così.» Aggiunse, senza battere ciglio. Daphne fu colpita dalla freddezza e dalla determinazione di quella ragazza appena ventiduenne.

«Ma le persone farsi gli affari propri no, eh?» Sbottò Victoria dopo che la signora si fu allontanata. Norah si limitò a stringersi nelle spalle e a guardare con dolcezza la sorella minore.

«Fa niente.» Mormorò, andando poi a salutare altre persone in uniforme.

Daphne si guardò intorno e notò che c'era una grande varietà di ordini e di gradi fra quei rappresentati delle forze armate inglesi. C'erano uomini anziani con una grande moltitudine di spille di riconoscenza appese sulla giacca e ragazzi dal viso giovane ed ingenuo che ne mostravano al massimo una o due. Erano tutti dritti, impassibili sul volto, come se stessero assistendo a un qualcosa che sapevano che prima o poi sarebbe potuto capitare anche a loro. Lo stomaco di Daphne si strinse a quell'ultimo pensiero e chiuse gli occhi, stringendoli forte. Si senti improvvisamente piccola e futile con le sue preoccupazioni su Nathan, sull'amore, mentre nel mondo ogni giorno innumerevoli famiglie perdevano un figlio, un nipote, un cognato, un marito... Scosse la testa, passandosi le mani fra i capelli castani e seguendo Evan all'interno della Chiesa. Stava per iniziare il funerale.

Si posizionarono nella seconda fila, verso le navate laterali, accanto a Victoria. Davanti a loro c'era Norah con la famiglia di Matthew e, dall'altra parte della chiesa la famiglia di Victoria.

Daphne sentì poco e niente di quella liturgia. La sua mente sembrava tralasciare ogni singola parola, ogni singolo gesto, come se una moltitudine di suoni la sfiorasse senza colpirla, come se non avesse abbastanza energia per afferrarne nemmeno uno. Quelle parole, quella cerimonia, la riportarono improvvisamente indietro nel tempo. Aveva otto anni ed era in una chiesa dell'est di Londra al funerale dei suoi genitori. Aveva già sentito migliaia di parole di condoglianza, infinite persone l'avevano stretta a sé. I tuoi genitori erano delle ottime persone le avevano detto, arruffandole i capelli a caschetto. Tante persone sedute ad ascoltare la messa, i nonni che piangevano e gli zii che erano immobili, impassibili anche davanti alla morte oltre che a tutto ciò che metteva loro davanti la vita. Le formule pronunciate in coro dai presenti. Amen. Quell'incidente automobilistico che li aveva portati lontani da lei. Amen. Quel drogato che era stato messo semplicemente agli arresti domiciliari. Amen. E l'incenso. Daphne inspirò profondamente e l'incenso sembrò inebetirla completamente, andandosi ad infilare in ogni sua cellula, in ogni sua fibra. L'incenso, quanto odiava l'incenso. Quando si alzò per l'ennesima formula un giramento di testa la fece traballare.

«Io devo uscire.» Mormorò tenendo gli occhi chiusi ad Evan.

Non aspettò una sua risposta, si diresse semplicemente verso l'uscita pregando il cielo di non svenire. Fortunatamente si era collocata vicino alla navata laterale, in quel modo poté allontanarsi senza essere minimamente notata.

Maledetto incenso.

Posò entrambe le mani sul primo dei due portoni e spinse con tutta la sua forza, rischiando quasi di cadere quando si mosse. Fece lo stesso identico movimento con il secondo e non appena uscì all'aria aperta respirò l'aria fredda di Londra e sembrò rinascere. Con forza tutti i ricordi sgomberarono la sua mente e quel maledetto incenso svanì miracolosamente dalle sue narici. Inspirò ed espirò profondamente un paio di volte, aprendo poi gli occhi.

Inizialmente il suo sguardo si concentrò sul palazzo che stava di fronte a lei e alla mercedes bianca parcheggiata lì davanti. Poi scese lentamente sulla neve che ricopriva le banchine della strada ed infine si andò a posare su una figura che le dava le spalle.

Infondo alle scale un uomo di una non definita età era in piedi immobile e guardava la strada. Avrebbe potuto avere dieci come sessanta anni. Indossava l'uniforme nera, rossa e bianca ed il copricapo tondo copriva i capelli. Frugò nella borsa nera che portava sulla spalla e scese lentamente gli scalini, tirando infine fuori una sigaretta.

«Scusi, per caso avrebbe da accendere?» Domandò allo sconosciuto. Quando questo si girò Daphne sentì le proprie gambe cedere sotto il suo peso. «Nathan?»

Nathan Crawford era in piedi davanti a lei in una divisa perfettamente tirata a lucido. Dei riconoscimenti brillavano sulla sua giacca e per un momento Daphne si domandò se stesse ancora sognando a causa dell'incenso. Eppure lui si limitò a sbattere un paio di volta le palpebre, forse sorpreso quanto lei, e solo dopo tirò fuori un accendino dalla tasca dei pantaloni.

Daphne lo prese, senza però accendersi la sigaretta. Perché Nathan era vestito in quel modo? Perché sul suo petto brillavano quelle spille? Perché si trovava al funerale di Matthew Hertford? Lui sembrò leggere tutti i quesiti che la ragazza si stava ponendo ma non parlò, limitandosi a dare un'occhiata alla chiesa a cui dava le spalle.

«Che... che ci fai qui?» Domandò ad un tratto Daphne con voce roca. Nathan non lasciò che i suoi occhi facessero trapelare una qualsiasi emozione.

«Conoscevo molto bene Matthew.» Rispose con calma. Perché lo conosceva? Come lo conosceva? Innanzitutto non avevano la stessa età e poi era certa che non fosse andato alla King's School come invece avevano fatto Norah, Victoria, Evan e Nathan stesso. «E' stata una perdita tremenda, era un ragazzo d'oro.» Dissero insieme quell'ultima parola, sorridendo poi leggermente entrambi. Lo sguardo di Daphne si andò a posare su ogni minimo dettaglio della sua uniforme: su ogni bottone lucente, sulla cinta, sui pantaloni perfettamente stirati sul copricapo che teneva a bada i suoi capelli neri sempre ribelli. Era anche lui un cadetto? Aveva frequentato evidentemente l'accademia militare, ma c'era altro che non era comprensibile semplicemente dal suo aspetto fisico?

«E' una semplice divisa, non c'è bisogno che tu mi faccia la radiografia.» Disse ad un tratto con voce roca. Daphne lo guardò negli occhi e per l'ennesima volta si maledì per essere stata colta in flagrante: era incredibile, la riusciva a beccare sempre. Abbozzò un sorriso, sospirando poi. «Come mai sei uscita prima dalla chiesa?» Le domandò ad un tratto. Daphne boccheggiò qualche istante, abbassando poi lo sguardo.

«Ho dei brutti ricordi legati ai funerali.» Disse dopo aver acquistato un po' di coraggio per riaffrontare gli occhi verdi di Nathan.

«Mi spiace.» Il suo tono era sinceramente dispiaciuto e Daphne notò per la prima volta quanto fossero intensi e sinceri i suoi occhi. Ogni singola striatura del colore dell'ambra sembrava raccontare un po' qualcosa di lui... Il verde si mischiava a quel colore in una calda fusione che sembrava aprire l'anima di Nathan al mondo o, almeno, alla parte del mondo disposta a comprenderlo e ad accettarlo.

«Senti, Nathan, io volevo chiederti...» Stava per terminare la sua frase di scuse quando fu interrotta dall'arrivo di un ragazzo. Non aveva più di sedici anni: era alto, con delle spalle larghe, ma i segni della pubertà sul suo bel viso tradivano l'età che dimostrava esteriormente. Aveva i capelli neri rasati a millimetro, indossava la stessa divisa di Nathan senza però nessuna spilla di riconoscimento ed aveva degli occhi che non nascosero per un solo istante la parentela che lo legava a Crawford.

«Edward, rientra, non è il momento.» Disse secco Nathan.

Edward. Daphne tornò a pochi giorni prima, alla telefonata che aveva ascoltato, al telefono che Nathan aveva sbattuto a terra. Eddie è ancora piccolo. Non ti aiuterò a convincerlo. Guardò prima Nathan e poi il ragazzo al suo fianco e sembrò che il Crawford maggiore avesse perfettamente capito cosa stesse passando per la sua mente.

«Comunque ti presto Daphne, studia con me ad Oxford.» Disse, guardando il ragazzo. «Daphne, questo è Edward, mio fratello minore.» La ragazza strinse con delicatezza la mano del piccolo, per così dire visto che era più alto di lei, Crawford e accennò un sorriso a entrambi.

«Piacere.» Disse con leggera timidezza Edward, guardando poi Nathan. Quest'ultimo guardò prima il fratello e poi la chiesa.

«Penso che dovresti rientrare, papà sarà furioso.» Disse con autorità. Daphne fu incredibilmente colpita: ogni volta che ci parlava vedeva una sua sfaccettatura differente. I suoi occhi erano diventati improvvisamente cupi ed inespressivi.

Tuttavia nel momento in cui Edward Crawford si era girato per risalire la gradinata, dalla chiesa incominciarono ad uscire tutte le persone che avevano assistito alla messa: seguivano con passo lento e controllato la bara portata invece da ragazzi in uniforme con il volto incredibilmente rigido e monotono. Ogni passo era misurato, identico all'altro, non sbagliavano un movimento, un gesto, niente: era una marcia perfettamente organizzata.

«Scusami.» Mormorò Daphne, guardando Nathan. Lui distolse lo sguardo dalle persone e guardò la ragazza, accennando un dolce sorriso.

«Non ti preoccupare.» I suoi occhi tornarono ad essere gentili ed incredibilmente familiari. Era come se tutti quei colori della terra che coloravano le sue iridi si fossero improvvisamente sciolti e mescolati.

Non ti preoccupare.

Mentre Daphne si avvicinava a Victoria ed Evan, Nathan tornava da Edward e da un uomo austero vestito identico a loro. Forse era il padre? Abbassò infine lo sguardo, mentre innumerevoli domande su quello a cui aveva appena assistito le tormentavano la mente.

Nathan aveva frequentato l'accademia.

Edward evidentemente frequentava l'accademia.

Il padre aveva frequentato a suo tempo l'accademia.

La famiglia Crawford era legata alle forze armate dell'Impero Britannico ma in che modo? E fino a che punto? Perché Nathan ce l'aveva tanto con il padre e perché conosceva così bene Matthew se a scuola non si erano conosciuti e ad Oxford neanche? Si erano conosciuti in accademia? Ma in quale occasione se Matthew era molto più grande?

«Grazie per essere venuti.»

La voce di Victoria riscosse Daphne dalle sue supposizioni. Guardò con dolcezza l'amica e poi Evan. Passò un braccio intorno alle spalle della ragazza che sembrava essere diventata improvvisamente fragile come il cristallo e la strinse a se.

«Ti vogliamo bene.» Mormorò, lasciando un bacio fra i suoi capelli.

«Esatto.» Disse Evan, facendo lo stesso gesto. «Ti vogliamo bene.»


**

Eccomi nuovamente qui!
Bhe, vi confesso che ci ho messo un po' per partorire un'idea per scrivere questo capitolo ma, alla fine, dopo una lunga notte, ho partorito tutti i capitolo della fan-fiction ! Diciamo che ho un'idea completa finalmente che porterò a termine! Colgo l'occasione per ringraziare nuovamente chi ha recensito, chi ha aggiunto la storia alle seguite/preferite/da ricordare e vi incito a non essere solo lettori silenziosi ma a dirmi magari anche cosa vi piace/non vi piace! Amo leggere le recensioniii *_*!!!
Un abbraccio a tutti,
Silvia.

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Capitolo 5
*** Capitolo Quinto. ***


Midnight Train
Capitolo Quinto.

testo

 

Daphne era tornata frastornata da Londra. Il problema non era costituito solamente dalla morte di Matthew, dal dolore che aveva potuto leggere negli occhi della famiglia, di Norah e Victoria ma anche da Nathan Crawford e la sua misteriosa presenza a quel evento.
Innanzitutto era rimasta piacevolmente sorpresa dalle sue parole, dalla facilità con cui aveva accettato le sue scuse ma, nonostante l'inattesa sorpresa, ciò che l'aveva tramortita era stato vederlo con quella divisa addosso e, soprattutto, vedere con i propri occhi Edward e suo padre.

Daphne si sciacquò il viso con l'acqua fredda, guardandosi poi alla specchio. Le occhiaie fortunatamente erano diminuite ma il colore della sua pelle era stranamente spento. Passò le dita sulle leggere lentiggini che aveva sparse sulle guance e poi sospirò, chinandosi per raccogliere la borsa che aveva poggiato a terra e voltando la schiena al proprio riflesso.
Uscì dalla sua stanza e si incamminò nella direzione dell'entrata principale del Brasenose College, dove l'aspettavano Victoria, Rebecca ed Evan.
Da quando erano tornati dalla capitale britannica, stranamente Victoria aveva assunto un comportamento totalmente contrario a quello che aveva assunto nei giorni in cui aveva appreso del lutto. Era come se improvvisamente la sua mente avesse fatto tabula rasa delle giornate che aveva passato affogando le lacrime nel proprio cuscino, come se quel funerale non fosse mai avvenuto. Tuttavia si poteva comprendere facilmente che fosse agitata, soprattutto per gli amici: delle volte parlava a raffica, sorrideva in una maniera tanto esagerata da rendere falso ogni suo gesto, sorvolava ogni argomento che potesse riguardare la sua famiglia e, nello specifico, Norah.

«Alla buon'ora!» La voce di Evan fece riscuotere Daphne dai suoi pensieri e, nel momento in cui distolse lo sguardo da terra, incrociò tre paia di occhi fisse su di lei.

«Io, ehm, stavo finendo un saggio breve.» Si giustificò, schiarendosi la voce e sistemandosi meglio la borsa a tracolla. «Vogliamo andare?»

Il programma di quella domenica consisteva nell'andare a vedere prima l'allenamento della squadra di Oxford e, dopo, la partita fra il Keble College ed il Saint Catherine's. Ovviamente né a Rebecca, né ad Evan, né tanto meno a Daphne interessava partecipare a quell'evento della vita sociale dell'università ma da quando Victoria si era baciata con Damien, per i tre era quasi impossibile sfuggire alle partite del loro college affiliato.

Daphne aveva passato le ultime due settimane a pensare a quello che aveva visto a Londra. Continuava a domandarsi il perché della divisa di Nathan e di tutte le spille che aveva viste appese sulla sua giacca, continuava a non capire quale fosse il suo ruolo in quell'ambiente e soprattutto i suoi legami con Matthew. Così aveva cercato di trovare l'occasione giusta per parlare con Victoria, cercare di strapparle qualche informazione, ma le era sembrata sempre esageratamente su di giri, sempre impegnata a fingere qualcosa che in realtà non era: felice. Quelle due settimane erano passate lentamente, noiosamente quasi, e malgrado fossero ormai giunti a febbraio e quella vigilia di Natale sembrava essere lontana, l'immagine di Nathan non abbandonava i ricordi di Daphne. Non aveva più avuto l'occasione di parlare con lui, di incontrarlo faccia a faccia. In realtà sembrava che si fosse veramente volatizzato, in quanto neanche agli allenamenti calcistici aveva avuto più modo di vederlo. Aveva sentito Damien raccontare a Victoria che Nathan aveva la febbre e non usciva dalle quattro mura del Keble College ma poteva durare una semplice febbre ben quattordici giorni? Che fine aveva fatto Crawford?
Infondo era vero che stava girando una strana influenza per Oxford: lo stesso David, che avrebbe dovuto festeggiare i suoi vent'anni organizzando una serata in discoteca, si era sentito male e aveva rimandato a quella stessa domenica. Daphne, mentre si sedeva sulle tribune affianco ai suoi amici, continuava ad interrogarsi su come si sarebbe dovuta acconciare, come si sarebbe dovuta comportare; per quanto ritenesse che David fosse incredibilmente dolce e gentile, vedeva in lui un ameba, un essere passivo che non sarebbe mai riuscito a scuoterle l'anima come Nathan aveva fatto più volte, anche inconsapevolmente.

«Vuoi qualcosa da mangiare?» Domandò Rebecca alla ragazza, sedendosi affianco a lei e tirando fuori dalla borsa un pacchetto di patatine ed una scatola di biscotti.

«No, grazie.» Accennò un sorriso, passandosi una mano fra i capelli castani. Tuttavia Rebecca posò sulle sue gambe le due confezioni e tirò fuori dalla propria borsa un enorme libro di anatomia. Sorrise a Daphne e quest'ultima scoppiò a ridere. «Quello non lo voglio di sicuro.» Ridacchiò ancora, accendendosi poi una sigaretta.

«Sei la solita secchiona.» Disse Evan, sedendosi affianco a Rebecca. Daphne notò come la ragazza arrossì violentemente.

Il rapporto fra Evan e Rebecca era sempre stato particolarmente delicato e particolare. Sin dal loro primo anno al Brasenose College avevano avuto un feeling particolare che si era concretizzato in baci rubati, abbracci passionali e pieni di sentimento mostrati dopo aver bevuto qualche bicchierino di troppo. Eppure, dopo due anni, erano ancora nella stessa situazione iniziale: impacciati, sorridenti ed evidentemente cotti l'uno dell'altro ma così rimbecilliti da non rendersene conto, o meglio: Evan era così rimbecillito da non accorgersi né di ciò che provava Rebecca né di ciò che provava lui stesso.

«Intanto la secchiona ne capisce più di te di storia e sei tu quello che frequenta la facoltà di storia e politica.» Ribatté, facendogli la linguaccia. Il rossore dalle sue guance era leggermente svanito, ma i suoi occhi continuavano a brillare.

«Ora non è che se hai azzeccato un paio di date per puro culo sfrontato puoi farti tanto la gradassa.» Rispose a tono, fare schioccare poi la lingua. Daphne distolse la sua attenzione dai loro battibecchi quotidiani dallo sfondo melenso e guardò il campo.

Il suo sguardo andò a cercare istintivamente la figura di Nathan Crawford e quando non la trovò il suo cuore si riempì di un senso di vuoto. Quello stesso vuoto l'aveva accompagnata nelle ultime due settimane quando lo aveva cercato invano nella biblioteca comune, nel campo di calcio, nelle riunioni del Keble con il Brasenose.

«Senza Nathan non vinceremo mai contro il Catz(*)» Daphne sentì alcuni ragazzi dietro di loro parlare e si voltò al nome di Crawford.

«Sai che fine ha fatto? Non l'ho più visto in giro.» Commentò l'altro ragazzo.

«Parli del Diavolo...»

A quelle parole Daphne si girò nuovamente verso il campo ed il suo sguardo vide il ragazzo correre sull'erba verde verso i compagni. I capelli neri erano sempre leggermente disordinati e la frangia era stata sfoltita. Improvvisamente sentì come i polmoni riempirsi d'aria nuova, il cuore prese a battere e si sentì leggera, al suo posto. Che cosa le stava succedendo? Perché un sorriso ebete si era dipinto sulle sue labbra alla sua semplice vista dopo due settimane? Possibile che le fosse mancato? Scosse la testa, mordicchiandosi leggermente il labbro inferiore.

«Damien è bellissimo.» Disse con tono sognante Victoria, sospirando. Daphne guardò il ragazzo accanto a Nathan; Damien era alto, con un fisico giustamente allenato e delle spalle larghe, il viso tuttavia era particolare, dai lineamenti non regolari, ma contemporaneamente aveva un suo certo fascino. La castana si limitò ad annuire, rubando poi un biscotto ad una Rebecca sempre più rossa nella sua discussione con Evan: erano estremamente fastidiosi certe volte.

Dopo aver assistito all'allenamento della squadra fra i sospiri di Victoria, le guance rosse di Rebecca e le fastidiose battute di Evan, cominciò la partita vera e propria. I tifosi delle due squadre riempirono le tribune ed il vociare surclassò tutti gli altri suoni. Daphne guardò l'orologio che portava al polso: le quindici e trenta. Fra sette ore avrebbe avuto quella magnifica ed attesissima festa di compleanno. Si sarebbe portata dietro i suoi amici, non aveva la minima intenzione di passare la serata da sola con una mandria di sconosciuti e con David a fissarla insistentemente come suo solito.

La partita aveva preso il via da almeno quindici minuti ed era proseguita nella più completa monotonia; c'erano state un paio di azioni ma nessuna degna di nota. Nathan era arrivato vicino al gol ma nel momento cruciale, quando avrebbe dovuto reagire per tirare il calcio, si era fatto prendere in contropiede da un difensore del Catherine's. In quel momento Keats, il centrocampista del Keble, riuscì a rubare la palla agli avversari. Furono un paio di veloci passaggi quelli che fecero arrivare il pallone proprio ai piedi di Nathan. Quest'ultimo si trovava già oltre la metà campo degli avversari e si diresse con convinzione verso la porta. Successe tutto in pochi istanti. Harris, un ragazzo del Catherine's, afferrò con forza la maglia di Nathan nel tentativo di fermare la sua avanzata e quella trattenuta strappò con violenza il tessuto verde di essa. Un pezzo della maglia di Nathan cadde a terra nel momento in cui l'arbitro fischiò e lo sguardo di Daphne si posò come quello di molti su una cicatrice che interessava tutta la parte lombare della schiena del ragazzo. Sedeva nella prima fila, quindi poté vedere abbastanza bene quei segni che erano stati lasciati da un lato da una brutta ustione e dall'altro da un evidente taglio profondo. Era una ferita guarita male, piuttosto evidente, possibile che in ospedale non fossero riusciti a fare di meglio?

«Lo ammazza.» Disse il ragazzo seduto dietro Daphne.

Infatti Nathan si voltò inizialmente con una estrema lentezza verso Harris e, quando quello invece di scusarsi gli scoppiò a ridere in faccia, il ragazzo si avvicinò in un paio di falcate e con un colpo solo lo buttò a terra. Ne aveva viste di sfaccettature nel carattere di Nathan ma quella le era incredibilmente nuova. Solo tre dei suoi compagni messi insieme riuscirono a fermarlo dal continuare a picchiare Harris. L'arbitro non tentennò assolutamente nella sua decisione di espellerlo e Nathan non reagì in alcun modo. Lanciò un'ultima occhiata a Harris e poi sputò a terra, dirigendosi poi verso gli spogliatoi. Il clima tra gli spalti dei tifosi del Keble era incredibilmente teso e nessuno sembrava avere più voglia di tifare o parlare. Possibile che solamente perché gli aveva strappato la maglia aveva reagito in quel modo così esagerato?

Si girò verso i suoi amici ma anche le loro espressioni erano incredibilmente stupite. Evan si limitò a stringersi nelle spalle, Rebecca ad addentare una patatina e Victoria ad accertarsi che Damien nel tentativo di trattenere Nathan non si fosse fatto male. Sempre più cose non quadravano.


«Rebecca, non sai quanto ti sono grata per avere accettato.»

Daphne e Rebecca erano in piedi davanti allo specchio e si stavano finendo di truccare. La prima indossava un semplice tubino nero, il suo abito da occasione, e delle alte scarpe nere e grigio scuro. La seconda invece indossava un paio di jeans stretti ed una maglia color panna scollata sulla schiena.

«Figurati, poi c'è anche...» Si azzittì improvvisamente, resasi conto di aver detto qualcosa di troppo. Daphne si legò i lunghi capelli in un elegante chignon e guardò con dolcezza l'amica.

«Evan?» Rebecca arrossì vistosamente, concentrandosi a mettersi il mascara e Daphne sorrise. Avevano scoperto quella mattina che Evan e David si erano conosciuti quella stessa estate in un locale di Londra e che avevano mantenuto i loro rapporti anche ad Oxford. Certo che tutti quei piccoli dettagli le sfuggivano sempre, eh! «Ti piace tanto, vero?»

«Si nota così tanto?» Domandò preoccupata guardando l'amica.

«Beh, onestamente si... Ma Evan è un pesce lesso e non se ne è ancora accorto.» La tranquillizzò, mettendo poi a posto la sua borsetta con i trucchi e indossando il cappotto. Rebecca la imitò, fissando insistentemente il pavimento.

«Io per lui sono semplicemente quella che si può fare in discoteca. Come stasera, ad esempio.» Disse con una nota di tristezza, stringendosi poi nelle spalle. «Sono troppo una secchiona.»

«Non dire idiozie... Lo sappiamo tutti che quando ti scateni sei tutto tranne che una secchiona. Sei fantastica stasera.» Rebecca le faceva estremamente tenerezza: era una ragazza splendida, incredibilmente intelligente, ma continuamente in lotta con quell'inutile stereotipo di “secchiona”.

Gli stereotipi condizionano sempre, in tutti i momenti la nostra vita. Quando sorridiamo, quando camminiamo, quando parliamo. Evitiamo certi gesti, certe movenze perché sono inusuali, non rispecchiano i canoni prescritti dalla società e dei mass media.
Per quando Daphne potesse criticare Rebecca per farsi condizionare così tanto da quelle stupide idee inculcate nelle loro menti da altri, non poteva non rendersi conto che lei quotidianamente lottava con gli stessi concetti. La ragazza povera. Il ragazzo ricco.

«Chissà perché Nathan ha reagito così oggi.» Disse Daphne mentre camminavano verso il locale situato sulla High Street.

«Era da tanto che non lo nominavi.» Notò Rebecca, sorridendole. «Comunque non so, mi è sembrata una reazione davvero assurda.» Scrollò le spalle, stringendosi meglio nel cappotto: si gelava quella sera ed i loro vestiti da discoteca non aiutavano di certo. «Hai visto che cicatrice che aveva sulla schiena?» Daphne annuì, mentre le veniva la pelle d'oca. Aveva la strana impressione che non fosse a causa del freddo ma dell'immagine di Nathan. «Sembra una operazione fatta d'urgenza, senza alcuna preoccupazione del risultato... In ospedale avrebbero limitato i danni. Quello è troppo

Mentre Rebecca faceva un'ampia digressione di sfondo medico sulle ustioni e sui modi di curarle, nasconderne i segni, Daphne continuava a riflettere sul perché di quella ferita. Possibile che se la fosse procurata in accademia?

«L'espulsione era proprio il minimo.» Concluse Rebecca. Daphne non rispose, notando che erano praticamente a due passi dal locale. Si avvicinarono al bodyguard che dopo averle scrutate ed aver domandato loro i nomi, le fece entrare.

«Buonasera, ragazze!» Mentre lasciavano le giacche li si avvicinò una ragazza dai capelli biondi e corti che con voce acuta ma gentile, diede loro il benvenuto. «Il tavolo a nome David Harris? Sì, vi ci accompagno io.»

Inizialmente il fatto che il cognome di David fosse Harris non colpì l'attenzione né di Daphne né di Rebecca ma quando arrivarono al tavolo e si trovarono davanti un ragazzo del Saint Catherine's con un occhio nero, collegarono velocemente David Harris a John Harris, quello stesso ragazzo che Nathan aveva picchiato durante la partita.

«Daphne! Finalmente!» David la accolse con un abbraccio, presentandola poi ai suoi amici. Max, Francis, George,... Nomi su nomi si sovrapposero nella sua mente mentre stringeva le mani dei ragazzi. Solo alla fine il suo sguardo e quello spaesato di Rebecca incrociarono quello di Evan. Le salutò entrambe, sorridente.

«Quanto è piccolo il mondo, eh!»


La serata partì velocemente. Il DJ di quella sera era particolarmente bravo e sveglio a capire quali fossero i gusti delle persone presente. Alternava differenti tipi di musica riuscendo a coinvolgere tutti e, grazie alla vodka che venne servita a volontà al tavolo prenotato da David, ben presto ci si sciolse, lasciandosi travolgere dal ritmo.
Cogliendo l'occasione datale dal fatto che David si fosse allontanato per rispondere ad una chiamata, Daphne fissava con interesse John Harris, sorseggiando il suo vodka-redbull. Ci doveva essere obbligatoriamente un motivo se Nathan aveva reagito in quel modo così violento proprio nei suoi confronti, o no?

«Mi dispiace per il tuo occhio.» Mormorò forse con un tono troppo suadente, avvicinandosi al ragazzo. Lui si voltò, guardandola con un sorriso soddisfatto. Daphne si rese conto di aver bevuto troppo visto la maniera in cui le girava la testa. «Crawford è proprio un cretino.» Aggiunse, sperando che il suo volto avesse assunto una espressione decisamente dolce. Il petto di John si gonfiò, mentre portava alle labbra il suo bicchiere. Esteriormente era proprio un deficiente.

«Il punto è che non volevo farmi espellere, altrimenti lo gonfiavo.» Disse e Daphne per poco non gli scoppiò a ridere in faccia. «Studi ad Oxford allora...» Aggiunse, guardandola negli occhi. «Come ho fatto a non aver mai visto una bellezza simile?» Quello era decisamente troppo ma la curiosità di Daphne la spinse a continuare quella messinscena per indagare oltre.

«Magari era semplicemente disattento.» Crucciò il labbro inferiore, fingendosi ferita. Lui giocherellò con una ciocca di capelli che sfuggiva allo chignon, sorridendo.

«Non mi distrarrò più tranquilla.» Le ricordava incredibilmente David per il modo fastidioso in cui la guardava negli occhi.

«Promesso?» Dondolò leggermente, sbattendo un paio di volta le ciglia. Lui annuì, versandosi poi un altro po' di vodka nel bicchiere.

«Certamente, bambola.» Daphne sorrise, guardandosi poi per un istante intorno. Rebecca ed Evan erano scomparsi, David ballava con degli amici di cui lei non si ricordava minimamente il nome: aveva la piena possibilità di agire.

«Ma...Come mai tutta questa avversione nei tuoi confronti da parte di Crawford?» Domandò, pesando bene ogni singola parola.

«Lunga storia.» Disse lui, facendo il vago. No, le regole le dettava lei, lui non poteva permettersi quella vaghezza.

«Ma abbiamo tanto tempo.» Insistette Daphne, mordicchiandosi con insistenza il labbro inferiore. Parve funzionare quell'ultimo trucchetto.

«Facciamo che se balli con me te lo racconto.» Daphne annuì vittoriosa. La mano di John strinse la sua e la condusse verso la pista da ballo.

La musica era forte, rimbombava con violenza nelle orecchie della ragazza, alterata anche per l'eccesso di alcol. La pista era piena, nonostante fosse domenica, e studenti di tutte le età si muovevano: chi sinuosamente, chi con meno energia.

La mano di John passò dietro la schiena di Daphne e la strinse con forza a sé, cominciando poi a muoversi in maniera evidentemente sensuale e tentatrice. Lei cercò di contenersi, non esagerare con nessun gesto ma il fiato di lui sul suo collo cominciava ad essere estremamente esigente e fastidioso. Più volte le mani di John cercarono di invitare il bacino di Daphne a fare movimenti più consoni se fatti in un film porno che in un locale e lei miracolosamente riuscì a controllare il suo desiderio di completare l'opera di Nathan annerendo anche un altro suo occhio.

Ad un tratto le labbra di John si posarono sul collo di Daphne, dando inizio ad una calda scia di baci. Daphne si morse a sangue la labbra mentre lui risaliva l'incavo del suo collo arrivando alla mandibola. Quando fu sul punto di baciarla sulle labbra, lei si allontanò, portando le labbra al suo orecchio.

«Mi devi ancora raccontare la storia.» Urlò al suo orecchio. «Ti ho concesso più di un ballo.»

Lui annuì, evidentemente scocciata e, dopo averla presa nuovamente per mano, si diresse fuori dal locale. Uscirono dall'uscita posteriore, ritrovandosi su una strada abbastanza desolata in confronto alla High Street. John spinse la ragazza contro un muro con non troppa delicatezza, avventandosi nuovamente sul suo collo. Daphne posò le mani sul suo petto e lo spinse via con forza.

«Prima la storia.» Il freddo di Oxford la stava facendo tremare. Lui sbuffò, posando una mano proprio al di sopra della spalla di Daphne, contro il muro.

«Che storia vuoi sentire? Non c'è nessuna storia.» Disse, mentre il suo tono era sempre più simile a quello di uno sull'orlo del coma etilico. «Pensavo fosse solo una scusa.» Ridacchiò, avvicinandosi di più. Daphne strabuzzò gli occhi, schivando l'ennesimo bacio.

«Rientriamo allora.» Cercò di avvicinarsi alla porta la lui la afferrò per un braccio e la sbatté contro il muro.

«Lo so che mi vuoi, bambola, il tuo corpo sta fremendo.» Disse, posando il suo corpo su quello della ragazza. Aderirono perfettamente e Daphne sentì l'eccitazione di John all'altezza del proprio bacino.

«Ho solamente freddo, idiota!» Lo spinse nuovamente via ma lui non fece altro che afferrarla con più violenza spingendola contro la parete.

«Zitta, troia.» Sibilò sulle sue labbra. Immobilizzò i suoi polsi con le proprie mani ed il suo corpo con il proprio fisico imponente, baciandola poi con irruenza. La baciava con violenza, spingendo la lingua nella bocca della ragazza che non poteva fare altro che subire.

«Lasciami...» Mormorò supplichevole, mentre lui infilava con forza le proprie mani sotto il suo vestito. Non poteva essere vero, non poteva essere vero... Non di nuovo. Continuò a toccarla ovunque sotto il suo corto vestito, senza staccare le sue labbra dalle sue.

Sembrava essere tornata indietro nel tempo. L'incenso tornò ad inebriarle la mente. Quelle lezioni di matematica a casa sua, quando i suoi genitori erano ancora vivi, quel ragazzo così carino che la aiutava con i compiti di matematica. Quel ragazzo che aveva quindici anni e da sette era in affidamento presso gli zii. Quel ragazzo che conosceva da quando era nata. Poi quando gli zii e i suoi genitori se ne andavano, quel ragazzo provetto provava ad insegnare altro a Daphne. Eppure lei scappava, scappava ogni volta... Si rifugiava a vedere le stelle fra le lacrime, si rifugiava sempre più lontano, finché non incontrò una stazione di polizia.

«Lasciami... Lasciami, Simon...»

Nel momento in cui John si allontanò per slacciarsi i pantaloni, un'altra mano afferrò quella di Daphne spingendola lontana dal muro. Daphne tenne gli occhi chiusi, cadendo a terra sia per l'effetto dell'alcol che per la forza con cui l'avevano allontanato. Non voleva vedere quello che le stava accadendo intorno, non voleva.

«Ti giuro su Dio che tu sei morto.» Una voce non sconosciuta risuonò nel vialetto e solo allora Daphne aprì gli occhi. Nathan? Sbatté le palpebre, incredula ma il suo stupore fu spazzato via dal primo gancio che andò a colpire il naso di John. Nathan sbatté il ragazzo più volte contro la parete contro la quale lei era stata schiacciata prima. In pochi istante John rantolò a terra, coprendosi con una mano il volto e con l'altra il ventre che Nathan continuava a colpire con calci.

Improvvisamente si aprì la porta del locale ed uscirono Evan, Rebecca e David con i suoi amici. Rebecca urlò, precipitandosi dentro a chiamare probabilmente la sicurezza, mentre David si fiondò su Nathan, allontanandolo dal fratello. Mentre David si concentrò a guardare John, gli amici di David si avventarono su Nathan. Quest'ultimo schivò i loro colpi più volte ma lo scimmione di nome George lo colpì in pieno volto, facendolo inciampare.

«Che cazzo succede qui?» Il bodyguard dell'ingresso allontanò George da Nathan, spingendo poi quest'ultimo via. Rebecca guardava spiazzata la scena ed Evan cercava di scendere a compromessi con l'uomo. David aveva aiutato John a rialzarsi, facendogli dare le spalle alla porta in modo tale che l'uomo non potesse vedere il suo volto insanguinato. Era conciato veramente male.

«Avete dieci secondi per andarvene o chiamo la polizia.» Decretò infine, chiudendo la porta alle sue spalle ed andandosene. Ci fu un attimo di silenzio, che fu rotto da David.

«Ti giuro sulla tomba di mia madre che se ti vedo ti spacco la faccia.» Sputò per terra guardando Nathan. Quest'ultimo fece per reagire ma Daphne afferrò in tempo le sue mani.

«Andatevene e ce ne andiamo anche noi.» Disse con tono fermo.

«Da quand'è che frequenti questa gente di merda?» Le domandò con disprezzo David, fissando Nathan.

«Per lo meno lui non tenta di stuprarmi.» Guardò con odio John, che era sorretto dai suoi amici poco più in là. David strabuzzò gli occhi, dandole poi le spalle ed allontanandosi.

«Dovete portarlo in ospedale!» Urlò Rebecca, per avvicinarsi poi di corsa all'amica.

Le mani di Daphne erano rimaste intrecciate con quelle di Nathan. Stavano in piedi in completo silenzio. Lui tremava leggermente, respirando profondamente, ma non osava parlare. Daphne si sentiva inadeguata dinanzi tutto ciò che era successo. Si era improvvisamente ritrovata durante gli anni della sua infanzia... Simon... Eppure continuava a ripetersi di aver bevuto decisamente troppo alcol quella sera... Simon... Eppure Nathan da dove era sbucato? ...Simon... Lui la rincorreva per la casa, la afferrava e provava a buttarla a terra... Simon... Ma lei scappava... Faceva freddo quella sera ma Daphne non lo riusciva più a percepire.

«Daph, stai bene?» Le domandò Rebecca. O forse era Evan?

«E' bianca cadaverica...» No, questo era Evan. Prima due mani si posarono sulle sue guance, facendole scuotere la testa.

«Apri gli occhi!» Parlò nuovamente Rebecca. Improvvisamente le mancò la terra sotto i piedi e si sentì sprofondare. Tutto nella sua mente si annerì non appena le sue ginocchia cedettero. Due mani forti la afferrarono, evitandole l'impatto con il terreno.

Simon...


Si rigirò fra le lenzuola e pregò con tutta se stessa che tutto ciò che passava per la sua mente fossero i rimasugli di un orrendo incubo. Si portò la coperta fin sopra al naso, aprendo poi gli occhi. Le pareti che vedeva erano verdi. Le sue erano gialle. Dove diavolo si trovava? Si girò di scatto ed il suo sguardo vide una figura che le dava le spalle a torso nudo. Strizzò gli occhi e dai capelli neri capì che si trattava di Nathan. Aveva un corpo a dir poco perfetto e, mentre alzava le braccia per indossare una maglia, il suo sguardo si posò nuovamente sulla cicatrice. Da quella distanza era ancora più inguardabile. Nathan si voltò di scatto e beccò il suo sguardo curioso. Arrossì, sistemandosi frettolosamente la maglietta e avvicinandosi al letto.

«Stai tranquilla, stai da me perché era più vicino alla discoteca... Sono le quattro del mattino, hai dormito due ore.» Le disse, passandole una mano fra i capelli. Si era quasi dimenticata da quanto fosse bello e delicato il suo tocco, per non parlare dei suoi occhi del colore degli smeraldi...

«Rebecca ed Evan?» Mormorò, posando nuovamente la testa sul cuscino.

«Sono stati qui fino a mezz'ora fa, sono tornati al Brasenose.» Disse con dolcezza. In quel momento Daphne notò un livido viola sullo zigomo di Nathan. Passò il suo indice con delicatezza sul punto ferito. «Non è niente, tranquilla.» Mormorò con voce leggermente roca. «Come ti senti?»

«Cos'è quella cicatrice sulla schiena?» Domandò ad un tratto, schivando la sua domanda. Lui evidentemente non se la era aspettata e rimase interdetto, boccheggiando qualche istante. Distolse lo sguardo, deglutendo.

«Chi è Simon?» Domandò di rimando lui e, questa volta, fu Daphne ad essere stupita e presa in contropiede. «Non hai fatto che ripetere il suo nome.»




**

Ehm! Eccomi qui! Si, questo è un capitolo un po' crudo , ecco, ma era incredibilmente necessario per svelare la storia di entrambi i personaggi :) ! Spero di non aver urtato la sensibilità di nessuno per i temi trattati...
Non posso fare altro che ringraziare tutti coloro che mi hanno seguita fino a qui e sperare che continuerete a farlo. Risponderò personalmente alle vostre recensioni appena ho un attimo di tempo; con l'inizio della scuola mi sono ritrovata catapultata su noiosissimi vocabolari di greco ç__ç maledetta maturità! Un abbraccio a tutti,
Silvia.

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Capitolo 6
*** Capitolo Sesto. ***


MidnightTrain

CapitoloSesto.



testo



Nathan guardò Daphne per dei lunghi, interminabili istanti e si perse completamente nel blu dei suoi occhi. Perché gli stava facendo quella domanda? Perché lo voleva mettere così tanto in difficoltà? Chiuse gli occhi, sospirando poi sonoramente.

Cos'è quella cicatrice?

L'aveva notata, come l'avevano notata in molti in quell'ultimo periodo, però per una ragione a lui non chiara non riusciva a risponderle, a mentirle come aveva mentito a tutti gli altri che gli avevano posto la stessa domanda. Lei era diversa, se ne era reso conto dalla prima volta che aveva incrociato il suo sguardo su quel treno.

«Chi è Simon?» Quelle parole scivolarono con una estrema fluidità dalle sue labbra e, per una volta, benedì il suo parlare senza pensare: l'aveva decisamente distolta dalla sua domanda primaria, in quando Daphne era arrossita violentemente ed aveva abbassato lo sguardo. «Hai detto il suo nome più volte mentre dormivi.» Aggiunse, leggendo lo smarrimento nei suoi occhi. Lei sbatté le palpebre un paio di volte, passandosi poi le mani fra i capelli castani. Le ciocche di capelli si infilavano sinuosamente fra le sue dita lunghe e sottili, come quelle di un pianista.

Daphne cominciò a tremare con più forza, non appena colse lo sguardo di Nathan insistere. Non poteva scoprirsi in quel modo, non con lui. Non poteva lasciare cadere tutte le sue barriere, tutta la sua apparente forza e rivelare quel suo, forse, unico punto veramente debole e vulnerabile. Nathan era lì a pochi centimetri da lei, seduto con le gambe incrociate sul letto, con le mani posate sulle proprie cosce, in attesa di un qualsiasi cenno. Senza che se ne accorgesse, delle lacrime cominciarono a rigarle velocemente le goti, come se le parole che stava soffocando a forza dentro di sé stessero venendo fuori in quella forma liquida.

«Ehi, tranquilla...» Mormorò Nathan, prendendole all'istante le mani e tirandola verso il proprio petto, contro il quale la spinse poi dolcemente, passando le braccia intorno alla sua schiena. Daphne inspirò profondamente, nel tentativo di adottare una vecchia tecnica per trattenere le lacrime ma fallì miseramente in quanto non solo cominciò a piangere più violentemente, ma il profumo della felpa che indossava Nathan la inebriò profondamente, rendendola definitivamente ed incurabilmente assuefatta a quell'odore. Stava cedendo, se ne rendeva perfettamente conto, e non riusciva a raccogliere le forze per riscattarsi da quella situazione. «Daphne, calmati.» Nathan le prese il viso fra le mani, costringendola a guardarlo dritto negli occhi. «Non è successo niente, tranquilla.» Aggiunse in un roco sussurro.

Daphne annuì con vigore, passandosi poi una mano sul viso nel tentativo di scacciare le lacrime. Non osava immaginare come era il suo viso in quel momento; Nathan sicuramente non l'aveva fatta struccare quando erano tornati dalla discoteca e le lacrime probabilmente avevano fatto diventare il suo mascara un perfetto acquarello a cui il suo viso aveva fatto da base.

«I miei zii per guadagnare un po' di soldi avevano preso in affidamento un ragazzo che aveva rischiato di andare in riformatorio, Simon.» Mentre la voce usciva con estrema naturalezza dalle sue labbra, Daphne si domandava se si fosse completamente impazzita ad esporsi a Nathan in quella maniera. «Io avevo otto anni e lui quindici, lo conoscevo praticamente da quando ero nata visto che stava in affidamento dai miei zii da quando aveva otto anni.» Sospirò, guardando poi di sfuggita Nathan e rimanendo elettrizzata dall'intensità dello sguardo che le stava riservando: quasi non respirava e nei suoi occhi si poteva leggere pura preoccupazione. «I miei genitori ed i miei zii uscivano sempre insieme il pomeriggio e solitamente io e Simon restavamo a casa insieme, lui mi aiutava sempre a fare i compiti.» Si passò una mano fra i lunghi capelli castani, scompigliandoli leggermente. «Simon mi ripeteva sempre che ero una bellissima bambina e che adorava i miei occhi azzurri; io mi vergognavo sempre perché comunque lui era più grande e poi avevo sempre avuto una cotta segreta, la cotta da scuola elementare insomma.» Un altro sospiro. Un'altra occhiata di Nathan. «Un pomeriggio comincio a sfiorarmi, ad abbracciarmi, a provare a baciarmi. Ero piccola, non capivo neanche quello che mi faceva, e scappavo, cercavo sempre di correre lontana da lui.» Un singhiozzo ruppe all'improvviso la voce di Daphne. «Lui mi afferrava sempre per le gambe, mi buttava a terra, diceva che voleva solamente giocare un po' con me... Io mi rialzavo e scappavo nuovamente.»

«Lui ti ha mai fatto qualcosa?» Domandò Nathan con voce roca, mentre sentiva una rabbia crescente impadronirsi di lui. Non era un ragazzo violento e poche volte si era trovato coinvolto in delle risse serie, l'ultima quella sera, ma se pensava che qualcuno aveva osato avvicinarsi a Daphne e farle del male, istintivamente le sue mani si stringevano in dei serrati pugni.

«No.» Mormorò Daphne, ricambiando il suo sguardo. Anche Nathan tremava e la sua presa sicura sulle sue spalle, sul suo viso, la facevano sentire incredibilmente protetta, al sicuro, come se tutto il mondo potesse essere racchiuso improvvisamente in un unico, dolce, intenso abbraccio. «Io riuscivo sempre a scappare, ero piccola e veloce.» Abbozzò un leggero sorriso. «Lui provava a minacciarmi, diceva che se non uscivo dal mio nascondiglio lui avrebbe raccontato a tutti che avevo una cotta per lui.» Si accorse in quel momento che le sue dita avevano stretto incredibilmente forte la maglia che portava Nathan. Lasciò la presa, senza però spostare la mani dal petto del ragazzo. Le mani di Nathan scesero dalle guance di Daphne al suo collo, alle sue spalle, alle sue braccia ed infine si posarono su quelle di lei, stringendole piano. «Un giorno mentre stavo scappando da Simon, uscii di casa e corsi, corsi nel pieno della campagna, corsi diretta a Reading e per strada incontrai un poliziotto in borghese che mi portò nella stazione e non so come, non so perché vuotai il sacco. Mi sentivo incredibilmente stupida ricordo, pensavo che mi sarebbero scoppiati a ridere in faccia, invece presero seri provvedimenti.»
Per qualche lungo, interminabile istante, calò fra loro il silenzio, intercalato da sospiri, singhiozzi e brevi ma intensi sorrisi. I loro occhi sembravano liquefarsi nel momento in cui si incrociavano, come una danza sconosciuta agli uomini, talmente bella da essere indimenticabile. Daphne si strofinò la mano sugli occhi, cercando quasi di rimuovere con la forza le righe lasciate dalle lacrime. Si era mostrata esageratamente fragile ai suoi occhi.
«Scusami, io non volevo...» Mormorò, mordendosi poi il labbro inferiore.

Nathan la guardò intensamente negli occhi, chiudendo poi morbidamente le sue palpebre con i polpastrelli. La strinse con dolcezza a sé come aveva fatto infinite volte quella sera e la sentì tremare contro il suo petto, abbandonandosi con dolce violenza a lui, quasi lottando contro il proprio desiderio di abbandonarsi completamente. Non ebbe il coraggio né di chiederle altro, né di domandarle perché si era avvicinata così fastidiosamente a quel Harris. Fastidiosamente, quello era l'avverbio corretto. Aveva provato un fastidio diffondersi per le sue membra quando l'aveva vista così stretta a lui.


Daphne aprì gli occhi e nuovamente si ritrovò in una stanza che non assomigliava minimamente alla sua. Si rigirò fra le coperte e quando si voltò verso l'armadio, sperò di vedere Nathan ma, per suo disappunto, scoprì ben presto di essere da sola nella stanza.

Si alzò dal letto stropicciandosi gli occhi e lanciando un'occhiata all'orologio: mezzogiorno. Dannazione, aveva perso la lezione di politica! Si sedette sul letto, mentre nella sua mente riaffioravano tutte le parole che aveva detto a Nathan, tutti i segreti sul suo passato che gli aveva rivelato, ed un amaro le invadeva la bocca ed un formicolio si impadroniva delle sue membra: che fosse paura? Paura di cosa? Del fatto che si potesse allontanare da lei?

Scosse la testa, alzandosi nuovamente. Si avvicinò lentamente allo specchio, strofinandosi poi energicamente gli occhi nel tentativo di togliere tutto il mascara che, colando, aveva disegnato dei ghirigori. L'aveva vista in quelle condizioni? Maledizione, ecco perché non c'era più nella stanza, probabilmente si era spaventato di quella visione: sembrava decisamente indemoniata. Si passò le mani fra i capelli, andandosi poi a sciacquare il viso in bagno.

Calma. Doveva stare assolutamente calma. Nathan l'aveva salvata da una brutta situazione la sera precedente e, probabilmente, aveva capito le motivazioni che l'avevano ridotta in quello stato. Gli aveva pianto addosso. Probabilmente si era addormentata piangendo. Eppure nonostante l'imbarazzo che le stava facendo avvampare le guance, il suo profumo sembrava essersi impresso nelle sue narici, nella sua mente, nei suoi ricordi. Profumava come i boschi, un profumo silvestre incredibilmente penetrante e indimenticabile.

All'improvviso un rumore invase la stanza, sopraffacendo i suoi ricordi notturni. Si voltò di scatto, andando diretta verso la camera da letto. Sembrava una... vibrazione? Ma da dove proveniva? Inizialmente rovistò fra le coperte, mettendo sotto sopra il letto e, poi, si avvicinò alla scrivania. Dopo aver spostato un paio di libri di economia e storia dell'economia, trovò fra dei fogli scritti il cellulare.

Lauren.

Lauren? Chi era Lauren? Fissò il telefonino sbigottita finché non smise di suonare e, solo dopo, si accorse che aveva anche due messaggi non letti. Mittente: Lauren. Rigirò il cellulare fra le mani per qualche istante, indecisa sul da farsi.

«Tesoro, perché sei scappato così? Stavamo così bene fra le coperte...»

No, non era possibile. Fu sul punto di posare il telefono sulla scrivania, quando un impulso di autolesionismo la convinse a leggere anche il secondo messaggio.

«Mi sei mancato questa notte... Ci vediamo domattina per colazione? :)»

Perché se la stava prendendo così? Infondo fra loro non c'era assolutamente niente . Era liberissimo di portarsi a letto tutte le ragazze che desiderava, giusto? Perché non era convinta neanche di mezza parola che usciva dalle sue labbra? Perché?

Quando la sua mano fu a due centimetri dalla scrivania di mogano, pronta a lasciare l'iPhone, il cellulare vibrò nuovamente. Nuovamente Lauren.

«Grazie per la colazione! ;)»

Quello era decisamente troppo. Tornò vicino al letto e prese una felpa a caso; le importava ben poco di privare Nathan di una sua firmatissima e splendente felpa. La indossò, coprendo a malapena il vestito corto e si guardò allo specchio. Perché i suoi occhi erano così rossi e lucidi ? Cosa si era aspettata? Scosse la testa, avvicinando a grandi falcate alla porta e posò la mano sulla maniglia dorata; in quello stesso istante la porta si aprì e si ritrovò faccia a faccia con Nathan.

«Sei sveglia!» Il suo sorriso era così schifosamente largo e felice da sembrare incredibilmente...

«Ipocrita!» Urlò di rimando Daphne, sbattendo contro il suo petto l'iPhone bianco. «E' andata bene la colazione con Lauren?»

«Con chi?» Alzò un sopracciglio e la sua faccia sbigottita fece indiavolare maggiormente Daphne che, con rabbia, lo spinse lontano dalla porta.

«Hai ancora il coraggio di mentirmi? Basta! Ho letto i messaggi!»

«Daphne, di cosa diavolo stai parlando? Sono stato a lezione!» Tirò fuori dalla tracolla dei libri e dei quaderni, buttandoli poi a terra. «Che diavolo hai?» Poi prese il cellulare in mano e, dopo averlo osservato qualche istante, scoppiò a ridere, buttando poi di scatto tutti i libri a terra, seguiti dal cellulare. Daphne sobbalzò, facendo poi un paio di passi indietro; l'espressione di Nathan cominciava a farle paura.

«Punto primo: questo non è il mio cellulare, ma quello di Thomas Ichter, il portiere della squadra. Ha l'abitudine di venire in camera mia prima di andarsi a scopare Lauren. Lauren Hales è del primo anno, ha dei capelli neri che sembrano paglia e mi fa davvero tanto schifo. Punto secondo: se anche fosse stato il mio cazzo di cellulare ed io mi fossi fatto Lauren Hales, tu che diritto avresti avuto di farti i fatti miei e venirmi a giudicare? Possibile che sai solo ed esclusivamente giudicare nella tua cazzo di vita?»

Daphne restò in silenzio, guardando Nathan negli occhi e desiderando di potessi scavare una fossa da sola. Possibile che non combinava altro che guai? Perché, perché qualsiasi cosa facesse non faceva altro che deteriorare il suo rapporto con lui, lui che era l'unico che in quel periodo le era stato accanto? Lui che... che conosceva il suo più profondo segreto?

«Nathan, scusami.» Mormorò, alzando le mani quasi a volergli sfiorare il viso in una gentile carezza.

«Non mi toccare.» Con un brusco movimento allontanò le sue braccia. Aprì nuovamente la tracolla, tirando fuori una busta di carta bianca. «Questa era la cazzo di colazione che non ho fatto perché volevo fare con te.» Buttò la busta a terra, facendo fare infine la stessa fine alla borsa.

«Nathan, io...» Lui la zittì con un cenno della mano.

«Daphne, ti prego, vattene adesso, non ho voglia di parlare adesso.» La sua voce era pesante, quasi delusa? Si sedette sul letto, portando le mani alla testa. Daphne restò in piedi ferma, immobile alla porta e continuò a guardare incessantemente i movimenti di Nathan: sembrava infinitamente inquieto, nervoso, perché lo aveva toccato tanto? Era stato solo un malinteso.

«Non ho mai raccontato a nessuno della cicatrice che ho.» Disse con voce leggermente roca, alzando poi lo sguardo ed incrociando lo sguardo di Daphne. «A nessuno.» Ripeté con voce leggermente più bassa, alzandosi poi in piedi e cominciando a camminare avanti e indietro per la stanza. «Questa notte avrei voluto veramente raccontarti tutto perché io mi fidavo... io mi fido di te.»

«Nathan, anche i...» La zittì nuovamente con un movimento.

«Non ti fidi di me, Daphne.» Scosse la testa, avvicinandosi alla ragazza e poggiando una mano sulla sua guancia. La guardò negli occhi blu; era leggermente più bassa e da quella distanza poteva sprofondare nei suoi occhi che sembravano essere l'oceano, l'oceano più bello, più blu. «Non ti fidi.» Si allontanò dandole le spalle.

Daphne tremava, inchiodata in quel del pavimento, incapace di fare un passo, incapace di pensare, parlare. Possibile che lo avesse deluso?

«Io ti ho raccontato tutto di me, io...» Si morse il labbro inferiore, facendo poi un passo nella sua direzione ma tornando nuovamente indietro. «Sei il primo a cui l'ho raccontato.» Aggiunse in un leggero mormorio.

«Allora sono io a non fidarmi più della persona che sei; evidentemente non sei la Daphne a cui ero pronto a dire tutto.» La sua sentenza pesò come un macigno su Daphne che, per poco, non si sentì mancare nuovamente il pavimento sotto i piedi. «Scusami ma non ho voglia di continuare questa conversazione, sono abbastanza stanco.»

Daphne lo guardò un'ultima volta, ma lui né si voltò, né aggiunse altre parole. La ragazza si voltò silenziosamente, uscendo poi in fretta dalla stanza. Voleva allontanarsi da quella stanza nella quale aveva rivelato il suo segreto a Nathan. Voleva allontanarsi da quella stanza dove le era venuta la malsana idea di farsi gli affari di qualcuno leggendo i messaggi. Voleva allontanarsi da quella stanza dove Nathan sembrava aver decisamente posto i paletti della loro relazione in un verso decisamente negativo e differente da quello che aveva desiderato, da quello che aveva sognato. Le dava fastidio tutto del Keble College. Il colore delle felpe; come il colore delle felpe di Nathan. Le davano fastidio le foto della squadra del college appese su ogni muro di ogni corridoio; Nathan faceva parte della squadra. Le dava fastidio il fatto che il Keble College fosse rinomato per il suo corso di Economia e Management; Nathan era iscritto a quella facoltà. Le dava fastidio ogni singolo angolo, ogni singola voce, ogni singola persona che incontrava. Ma soprattutto le dava fastidio quel profumo silvestre che sembrava perseguitarla. Perché aveva rovinato nuovamente tutto?


«Daphne, mangia su.» Victoria sventolò una busta piena di biscotti davanti il viso della ragazza che, per l'ennesima volta, non fece altro che scuotere la testa sconsolata.

«Non è successo nulla, dai.» Neanche Evan sembrava convinto mentre pronunciava quelle parole, tentando di infilare un biscotto nella bocca della ragazza. Daphne si portò le mani sul viso, scuotendo ancora la testa.

Erano nella caffetteria della biblioteca e, a due giorni dalle ultime parole che si erano rivolti Nathan e Daphne, la situazione non sembrava aver fatto altro che precipitare. Nonostante Victoria stesse con Damien che era il migliore amico di Nathan, quest'ultimo aveva cominciato ad evitare tutti i luoghi comuni che aveva sempre frequentato.

«Evan, mi passi il mio libro di anatomia?» Rebecca si intromise nella conversazione con un ampio sorriso.

«Reb, non mi sembra il momento.» Rispose Evan, facendo un cenno con la mano.

«Ma la smettete di torturarla?» Sbottò di rimando la ragazza, portandosi scocciata le mani sui fianchi e sbuffando.

«Ma cosa vuoi saperne tu!» Evan non si lasciò di certo sfuggire l'ennesima occasione per scatenare un battibecco.

«Di sicuro ne so più di te su molte cose, testa di zucca.»

«Senti,...»

«ZITTI!» Daphne sbottò, alzandosi di colpo dal divano di pelle e raccogliendo frettolosamente le sue cose dal tavolino e dalla poltrona. «Mi sono rotta di sentire i vostri continui, stupidi ed inutili battibecchi! Chiudetevi in una stanza e risolvete i vostri diverbi in un altro modo, no? Tanto siete abituati!» Rebecca spalancò gli occhi ed Evan dovette trattenere una risata.

«Non ti permettere.» Sibilò Rebecca, non abbassando di un millimetro lo sguardo. Daphne accettò quella silenziosa sfida.

«Mi permetto eccome. Lasciate in pace me e fatevi una ricca sc...» La sua ultima parola fu coperta dagli insulti che cominciò a sputare a raffica Rebecca. Evan la dovette trattenere per le braccia per evitare che andasse a finire contro Daphne. Quest'ultima invece dopo essersi sistemata, si allontanò in fretta dalla biblioteca.

Cosa le stava succedendo? Possibile che quel suo litigio con Nathan avesse avuto un tale effetto sulla sua quotidianità? Erano passati solo due giorni infondo. Due soli maledettissimi giorni. Non poteva lasciare che la condizionasse così tanto, non poteva lasciare che arrivasse addirittura al punto di minare la sua concentrazione nello studio, i suoi rapporti interpersonali, i suoi impegni fuori dall'università.

«Girano voci che c'entri la Monroe.» Disse una voce a lei conosciuta.

Si fermò, avvicinandosi all'angolo che stava per voltare, appiattendosi praticamente contro la parete. Era Madison Linton quella che parlava.
«Monroe? Daphne Monroe? Quella sfigata campagnola castana?» Parlò una voce che non aveva mai udito prima. Daphne respirava, tentando di trattenere i suoi istinti.

«Nathan non ha mai picchiato nessuno, figuriamoci se si macchiava le mani per una Daphne Monroe.» Intervenne una terza ragazza. Che simpatica combriccola.

«Ogni volta che torna da Londra dopo lunghi periodi è sempre così strano.» Commentò Madison, sospirando poi. «Gli fanno davvero il lavaggio del cervello.»

«A proposito, cosa ci va a fare a Londra ogni santa volta? L'anno scorso non stava mai a lezione.»

«L'anno scorso stava in Iraq e non ha perso l'anno solo ed esclusivamente perché il padre ha sborsato una cifra spropositata di soldi. Vi siete mai domandate perché all'improvviso è comparsa una libreria nuova al Keble?» Dette quelle parole, si allontanò insieme al suo seguito e Daphne restò totalmente tramortita a fissare la riproduzione di un quadro di Hayez che era appeso alla parete di fronte a quella contro cui si era poggiata.

Iraq. Era andato in Iraq, quindi, magari procurandosi lì quella cicatrice. Sospirò, tentando di far calmare il suo cuore che aveva cominciato a battere all'impazzata; Iraq. Quel nome continuava a martellarle il cervello, sembrava essere sul punto di collassare. Iraq. Quella notte voleva raccontarle tutto. Le avrebbe raccontato quella mattina, quando era intenzionato a fare colazione insieme. Aveva rovinato tutto. Come si sarebbe sentita lei se improvvisamente avesse scelto di aprire un profondissimo segreto ad una persona e quella persona l'avesse in modo ugualmente repentino delusa?


Daphne stava in piedi immobile davanti l'ingresso principale del Keble College. Teneva le braccia incrociate al petto ed i suoi piedi erano immersi in buona parte nella neve. Quarantotto ore prima era in una delle stanze di quell'edificio stretta fra le braccia di Nathan. Il solo pensiero di quei momenti riusciva a scaldarla facendole dimenticare di essere inglobata dal gelido clima invernale dell'Inghilterra. Doveva parlargli. Doveva vederlo. Non sapeva cosa volesse dirgli per l'esattezza ma sapeva solamente di avere la folle necessità di vederlo, di parlargli, era sicura che le parole sarebbero venute da sé.

«Monroe! Che ci fai qui? Hai perso la via di casa?» I biondi capelli svolazzanti di Madison furono in quattro e quattr'otto davanti a Daphne, coprendole completamente la visuale del Keble. La squadrava con la sua aria di superiore e masticava con poco eleganza un chewing-gum.
«No, stavo semplicemente aspettando una persona.» Rispose, affrontando coraggiosamente il suo sguardo. Madison ridacchiò, passandosi poi una mano fra i capelli.

«Stai aspettando Nathan? Sei arrivata un po' in ritardo...» Rise nuovamente, mentre i suoi occhi lasciavano passare un'espressione di sadismo puro. «Potresti aspettarlo inutilmente giorni, settimane, mesi... anni, a questo punto.» Daphne alzò un sopracciglio, mentre la sua espressione sorpresa dava l'occasione a Madison di sorridere soddisfatta per la propria vittoria.

«Dov'è?» Domandò, non abbassando lo sguardo.

«Mmh, potrebbe essere ovunque a quest'ora...» Ovunque? Il cuore di Daphne batteva all'impazzata. Era partito così all'improvviso senza dire nulla? Senza dirle nulla? No, non era assolutamente possibile. «Sta andando alla stazione, è uscito poco fa.» Per poco Daphne non si lasciò cadere sulla soffice neve che riempiva lo spiazzo davanti l'entrata del college.

Senza dire nulla voltò le spalle alla ragazza e cominciò a correre a perdifiato verso quella maledetta stazione. Era impazzito? Perché tutto d'un tratto aveva deciso di voler andare a Londra? Per causa sua? Non era possibile. Non poteva andare così. Non poteva avere avuto un impatto così grande su di lui. No. E poi, non poteva andarsene in quella maniera. Doveva chiedergli talmente tante cose, doveva rendersi partecipe del suo mondo, delle sue parole, delle sue fragilità. Voleva essere un punto di riferimento per lui. Voleva dirgli che lei si fidava di lui, si fidava veramente di lui.


I was made to believe I'll never love somebody else again,

Made a plan, stay the man, who can only love himself,

Lonely was the song I sang 'till the day you came,

Showing me another way and all that my love can bring.

Scese dall'autobus numero 82 e si precipitò verso l'ingresso della stazione. Treni per Londra. Treni per Londra. Il prossimo era in partenza fra nove minuti. In pochi istanti fu sulla banchina a guardarsi intorno nel tentativo di vedere un ragazzo in divisa ma non lo trovò. Forse era già partito?

Half of my heart's got a real good imagination

Half of my heart's got you

Half of my heart's got a right mind to tell you

That half of my heart won't do

«Daphne? Che ci fai qui?»

Daphne si voltò di scatto e nel momento in cui il suo sguardo incrociò quello di Nathan, il suo cuore balzò così forse nella gabbia toracica che per poco non ebbe un infarto lì davanti a lui. Sentì i propri occhi riempirsi di lacrime di gioia ed istintivamente buttò le braccia al suo collo, abbracciandolo energicamente.

«Mi rifiuto di credere che tu voglia arruolarti nuovamente solo perché io sono una povera idiota che si costruisce storie immaginarie per un messaggio. Mi rifiuto di pensare che tu voglia tornare in Iraq per un'idiozia simile. Mi rifiuto di pensare che io abbia potuto scatenare tutto questo. Mi rifiuto di credere che...»

«Daph, respira» Posò le mani sulle guance della ragazza come aveva fatto molte volte e la costrinse a guardarlo negli occhi. «Non indosso neanche la divisa.» Daphne sbatté un paio di volte le palpebre, notando poi che indossava un cappotto e dei semplici jeans. Arrossì visibilmente, sentendo le proprie goti avvampare per il contatto con le mani fredde di Nathan.

«Io mi fido di te. Non ho mai raccontato di Simon a nessuno e l'ho raccontato a te che fino a pochi mesi fa eri uno sconosciuto. Mi fido di te.» Si morse le labbra, sospirando poi. «Ero gelosa. Ero follemente gelosa di quella fantomatica Lauren perché pensavo che tu provassi qualcosa per me, perché pensavo che ci fosse qualcosa fra noi dopo quella notte, perché pensavo che tu ricambiassi i miei sentimenti... E quei messaggi, quei messaggi hanno demolito le mie illusioni ma non la mia idea di te.» Disse tutto d'un fiato, notando con piacere che Nathan era rimasto in silenzio, ammutolito dalle sue parole. «Poi ho sentito Madison parlare di te, dell'anno scorso, dell'Iraq e... E non andare, ti prego.» Posò le proprie mani sulle sue, notando con piacere che si intrecciarono con dolcezza.

Nathan deglutì, beandosi di quel leggero contatto che c'era fra loro. Leggero fisicamente ma tagliente e profondo da un punto di vista spirituale. Si sentiva magnetizzato dai suoi occhi, dalle sue parole, dalle buffe espressioni che assumeva quando si dimenticava di respirare fra una frase e l'altra, era come se la sua anima fosse stata intrappolata, catturata e legata con forza a quella di Daphne. Era come se si fosse creato un legame più forte di quelle stupide litigate, di quelle parole che si erano detti per rabbia.

«Sto andando a Londra perché è passato esattamente un anno da quando mio cugino è morto in Iraq ed io ero con lui in quel momento.» Disse, notando come le parole scivolavano con facilità fuori dalla sua bocca. «Mi ha salvato la vita.»

Il rumore del treno in avvicinamento li fece voltare ed i loro sguardi si posarono sui vagoni che si materializzarono davanti i loro occhi.

«Ci vediamo quando torni allora.»

Non fece in tempo a terminare la frase che le labbra di Nathan si posarono sulle sue. La trascinò in un bacio improvviso, pieno di parole, pieno di sentimenti. La strinse a sé passando le braccia dietro la sua schiena, poi sui suoi fianchi, poi nuovamente sul suo viso. Si allontanò da Daphne per prendere fiato e, mentre lasciava dei delicati baci a stampo sulle sue labbra accaldate, la guardò negli occhi, stupendosi per l'ennesima volta dell'effetto che gli facevano.

«Vieni con me.» Mormorò, sistemandole poi una ciocca di capelli dietro l'orecchio.

«A Londra?» Daphne sembrava essere appena stata colpita da un getto di acqua gelida.

«Sì. Voglio che tu sia parte del mio presente e, per esserlo, devi conoscere il mio passato.» Sorrise, prendendole poi la mano. «Mi fido di te.»

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Capitolo 7
*** Capitolo Settimo. ***


MidnightTrain

CapitoloSettimo.


testo

Mistreated, misplaced, misunderstood

Miss 'No way, it's all good', it didn't slow me down

Mistaken, always second guessing, underestimated

Look, I'm still around


Cos'era quel maledetto rumore? No, non poteva essere la sveglia, non di già. Nathan Crawford si rigirò fra le coperte, sbuffando sonoramente, ed allungò il braccio fino a premere il bottone che spense quell'infernale baccano. L'orologio digitale segnava le sette e cinquantacinque; si svegliava sempre a quell'ora quando si trovava a Londra dai suoi genitori.

Restò per qualche istante a guardare nel buio pesto il soffitto, beandosi del caldo che si era creato sotto le coperte. Era il sei febbraio ed esattamente un anno prima Peter aveva sacrificato la sua vita per salvare sua; era in quel letto, sotto quelle coperte grazie al cugino morto a soli ventidue anni senza avere avuto neanche la possibilità di formare una famiglia, innamorarsi e sposare una donna. Era morto per la patria e ne era contento. O almeno così dicevano.

Si alzò con estrema lentezza, buttando senza prestarci attenzione le coperte per terra. Indossò le ciabatte e si infilò la vestaglia, stiracchiandosi e passandosi le mani fra i capelli. Tirò su le serrande e si beò per qualche istante della vista di Hyde Park; era una bella giornata senza nuvole e inondata dai raggi del sole: evento più unico che raro nell'inverno londinese. Il cimitero sarebbe stato un po' meno triste, almeno dal punto di vista climatico. Forse era veramente meteoropatico, il sole riusciva a infondergli un po' di ottimismo anche in quella cupa giornata.

Dopo aver lanciato un'ultima occhiata al parco, uscì dalla stanza, scendendo le scale che lo portavano al quarto piano della palazzina; la sua stanza occupava per intero la mansarda, era il suo rifugio dal mondo, nessuno poteva disturbarlo lì sopra. Salutando nel mentre alcuni domestici, passò davanti la stanza degli ospiti e restò per qualche istante a contemplare la porta bianca. Daphne era lì con lui. Sembrava così assurdo, così incredibilmente strano ma contemporaneamente lo rendeva felice, davvero felice. L'aveva conosciuta su un treno che aveva preso per puro caso per andare per puro caso a Brighton. L'aveva conosciuta su quel treno e le loro vite si erano intrecciate inevitabilmente e, sempre, per puro, purissimo caso. E quella mattina era lì, lì che dormiva nella stanza degli ospiti, magari lasciando che il volto assumesse quelle buffissime espressioni che aveva contemplato quando aveva dormito con lui ad Oxford.

Una porta sbatté e Nathan si svegliò dalle sue fantasie ad occhi aperti; un ragazzo vestito di tutto punto con una lucidissima divisa nera addosso era uscito da una stanza.

«Edward, buongiorno!» Nathan si avvicinò al fratello, sorridendo leggermente. «Come mai così presto? Di solito non cominci alle dieci?» Edward tentennò per qualche istante, senza però lasciare che il suo corpo perdesse di un millimetro la posa assunta. Stava perfettamente sull'attenti.

«Abbiamo un allenamento aggiuntivo.» Disse con calma apparente.

«Per quale motivo?» C'era qualcosa di sospetto.


La casa dei Crawford era decisamente la più bella che avesse mai visto. Una palazzina nel pieno centro della capitale di quattro piani più mansarda, un giardino strepitoso occultato dalle palazzine circostanti ed un garage pieno di macchine lussuose. Quando aprì gli occhi per dei tonfi provenienti dal corridoio, ebbe quasi paura di essere sul punto di svegliarsi da un magnifico sogno e, nell'aprire le palpebre, pesò ogni singolo movimento, sperando di ritrovarsi nella splendida stanza degli ospiti dove si era addormentata la sera prima.

«Non ci vai.» Quella era decisamente la voce di Nathan ed era decisamente irritata. Conosceva le sue tonalità ormai. «Io lo so che non vuoi andarci, Eddie!» Aggiunse, insistendo.

«Io voglio andarci. Io devo andarci.» L'ultima volta che aveva sentito la voce del fratello era stato il giorno del funerale di Matthew.

«C'è papà dietro tutta questa storia, vero?» Un altro tonfo, un altro sbuffo. «Oggi tu non ci vai. Oggi no.» Pesanti passi le fecero capire che qualcuno, probabilmente Nathan, stava facendo avanti e indietro per il corridoio. «Porca miseria!» L'ennesimo tonfo.

«Ragazzi, ragazzi smettetela!» Una voce femminile interruppe Edward che aveva appena riprovato a rispondere al fratello, era la madre. Catherine Mc Millan era una donna alta e dai capelli biondi boccolosi ed incredibilmente perfetti. Forse tutta la bellezza dei figli era merito suo. La sera precedente a cena aveva mostrato un'indole estremamente pacata e piuttosto sottomessa all'imponente figura del marito. «Edward, vai all'Accademia, sei già in ritardo.»

«Tu sai il motivo per cui sta andando? Lo sai, mamma?» Silenzio. Un altro tonfo. «Tu lo sai e lasci che lui vada, ti sei impazzita? Ti sei scordata poi che giorno è oggi, mamma? Hai parlato con zia Claire? Ti ricordi che un anno fa ha perso suo figlio?»

«Nathan, calmati.»

«Edward non osare mettere il piede fuori di questa casa prima delle nove e trenta.»

«E' una sua scelta.»

«Ma la vuoi smettere di prenderti in giro da solo? Non vedi che è papà che fa tutto?»

Daphne era rimasta seduta immobile sul letto, con le mani sulle coperte e un'espressione sbigottita sul volto. Nathan, Edward e Catherine stavano parlando dell'Accademia e, avendo passando meno di ventiquattro ore in quella casa, aveva capito quanto fosse importante per la loro famiglia. Tutte le stanze della palazzina vantavano ritratto di colonnelli, generali, figure di prim'ordine; spille, riconoscimenti reali, foto con la regina: i Crawford erano grandi esponenti delle forze armate britanniche. La tensione fra gli uomini della famiglia era palpabile, se ne era accorta la sera precedente quando avevano cenato tutti insieme. Nathan ed il padre praticamente non si parlavano. Edward pendeva dalle labbra del padre e Nathan cercava in tutti i modi di coinvolgerlo in discorsi che non riguardassero l'Accademia, le armi, “quella fantastica spada che ora so usare”.

«Nathaniel.» La voce del padre rimbombò per il corridoio così pesantemente da infilarsi con chiarezza anche nella sua stanza. «Smettila di fare scenate di prima mattina.»

«Scenate?» Quel tono non era niente in confronto a quelli che aveva usato con lei. «Spero che tu stia scherzando! Sai che cosa cazzo è successo un anno fa, papà? Hai rischiato di perdere tuo figlio in Iraq e cosa fai? Mandi il tuo altro figlio a prepararsi per il provino per l'esercito? Tu sei malato!»
«Tu sei ripetitivo, invece.» La serie di parole che seguì fu poco chiara sia per i tonfi che fecero da intercalare, sia per Catherine che tentava invano di placare il marito ed il figlio maggiore.

«Nate, hai degli ospiti, basta.»

Ok, era appena stata tirata in ballo. Daphne si ributtò sul letto, coprendosi il volto con le coperte e facendo finta di dormire. Era sicura del fatto che Nathan sarebbe venuta a cercarla e, di certo, non l'avrebbe fatto sentire a proprio agio sapere che aveva sentito tutta la sfuriata con la sua famiglia.

«Edward, mettiti una cazzo di mano sulla coscienza.»

«Basta!»

Quell'ultima parola corrispose al suono della maniglia che si abbassava, alla porta che si apriva lentamente e alla comparsa di Nathan nella stanza degli ospiti. Respirava pesantemente mentre richiudeva la porta alle proprie spalle e sembrava provare a contenere la sua rabbia ad ogni respiro che faceva. Rimase per qualche istante in silenzio, facendo poi dei passi verso il letto. Daphne cercò di rimanere il più immobile possibile, sperando che non venisse scoperta.

«Lo so che sei sveglia.» Maledizione. Spostò la coperta, rivelando il proprio viso. La stanza era ancora buia ma, nella penombra, riusciva a riconoscere i dolci lineamenti del viso di Nathan. «Mi spiace se ti abbiamo svegliata.» Nathan si sedette sul letto e Daphne si tirò su col busto, sorridendogli leggermente.

«Tranquillo, io ero sveglia già da un po'.» Mentì, passandogli con delicatezza una mano fra i capelli. «Tutto okay?» Aggiunse, guardandolo con dolcezza mista a preoccupazione. Lui annuì, sospirando poi.

«E' routine qui da noi.» Disse con amarezza, abbozzando poi una sottospecie di leggero sorriso. Daphne lo imitò, posando poi la propria mano sulla sua. Nathan si lasciò sfuggire un “ahi” ed un momento decisamente troppo repentino. Daphne accese velocemente l'abat-jour, non lasciando che lui ritraesse la mano. Alla luce della lampada era incredibilmente rossastra e gonfia.

«Ti sei fatto male? Che hai fatto?» Domandò preoccupata, guardandolo contrariata mentre spendeva la lampada giustificandosi con un “ho gli occhi stanchi”.

«Ho la brutta abitudine di prendere a pugni i muri.» Disse a denti stretti. Quei tonfi continui li aveva procurati lui... Carezzò con leggerezza la sua mano, sfiorando con i polpastrelli le nocche, le dita sottili ma vigorose, il suo polso. «Io non ci voglio credere che anche Edward si stia lasciando abbindolare con così tanta facilità.» Mormorò, stendendosi poi sul letto che, fortunatamente, era a due piazze abbondanti. Daphne restò interdetta, continuando a stringere con delicatezza la sua mano e a guardando con materno affetto quasi. Cosa dirgli? Cosa rispondergli? Non immaginava neanche lontanamente cosa potesse voler dire essere in una situazione simile. «Eddie è intelligente, dovrebbe capire, ma lui... lui... è così astuto a fare il lavaggio del cervello. Sa che punti toccare, dove insistere, dove lasciar correre...» Stava parlando evidentemente del padre.

Rimasero così in silenzio, a guardarsi. Lui la guardava dal passo, appigliandosi con le dita ai suoi capelli, giocandoci leggermente. Lei lo guardava dall'altro, lasciando che le sue dita sfiorassero il suo collo, la linea della sua mandibola. Quando la mano di Nathan raggiunse la nuca di Daphne, la spinse delicatamente verso di sé, catturando le sue labbra in un bacio. Iniziò come un bacio delicato, leggero, ma Daphne sentiva l'irrequietezza dell'animo di Nathan sulle proprie labbra, sentiva la sua rabbia repressa, la sua frustrazione, la sua delusione. Approfondirono quel bacio e lei ben presto si trovò stesa sul letto con lui sopra di lei. Ogni suo tocco era letale. Ogni suo bacio era un colpo ben assestato. La stava debilitando lentamente e sapientemente e lei non poteva fare altro che lasciarsi in balia dei suoi movimenti, dei suoi sorrisi. Eppure c'era sempre quel retrogusto di amaro, di insoddisfatto che nasceva da lui, dai suoi pensieri che tentava di scacciare con forza.

«Scusami.» Mormorò quando scivolò al lato di lei, interrompendo bruscamente un bacio decisamente troppo accaldato. Scusami?Portò la mano al suo viso, sistemandole come suo solito dei capelli dietro l'orecchio. Lui si sentiva esageratamente nervoso, inquieto e, di certo, non poteva sfogare il suo disappunto su Daphne, sui suoi sentimenti, su ciò che stavano cercando di far crescere.

«Non ti preoccupare.» Mormorò con dolcezza la ragazza, stringendosi maggiormente al suo corpo e carezzando il suo viso. Erano faccia a faccia, stesi su un fianco. Lei lo stringeva con dolcezza, passando infine le mani dietro la sua ampia schiena. Lui sembrava un bambino, quasi, perso, abbandonato completamente alle coccole di lei, alle parole di lei.

«Peter era come un fratello per me. Mi ha insegnato tutto.» Mormorò Nathan. I suoi occhi erano chiuse e scandiva lentamente le parole. «Non posso perdere anche Edward per la stessa ragione, per la guerra. Non posso.»

«Nathan, infondo però la scelta è la sua, tu non puoi fare molto e soprattutto non devi sentirti in colpa se non riesci a convincerlo.» Disse, nel tentativo di migliorare in un qualsiasi modo il suo umore.

«Se non ci riesco vuol dire che non sono stato un fratello maggiore degno di questo nome; degno di persuadere il fratello, di essere un modello da seguire... Non riesco a invogliarlo a studiare, ad andare all'università.» In quel mormorio uscì tutta la tristezza e l'amarezza.

Restarono stesi in silenzio, abbracciati in quel modo innocente ma incredibilmente intimo. Daphne osservò nella penombra la linea del suo naso, la forma dei suoi occhi, la barba leggermente lasciata crescere sul volto, un grazioso neo vicino l'occhio, i capelli neri sempre spettinati. Ben presto si accorse che Nathan si era addormentato vicino a lei in una posizione fetale. Smise di carezzargli la schiena, lasciando che le sue mani restassero immobili, e godette per quanto possibile di quel contatto, chiudendo gli occhi e sprofondando sul cuscino in un profondo sonno senza sogni.


Nathan parcheggiò la sua mini cooper verde bottiglia davanti l'entrata principale del cimitero di Highgate; scesero dall'autovettura e lui andò di fretta a comprare dei fiori, mentre Daphne restò poggiata allo sportello, osservando la maestosa facciata.

Se non fosse stato un cimitero, sarebbe decisamente stato un posto niente male. Il verde risplendeva grazie a quel sole tanto insolito per il clima invernale dell'Inghilterra. Una miriade di persone entrava ed usciva portando fiori, asciugandosi il volto con fazzoletti o abbracciando i cari ancora vivi. Distolse lo sguardo da una nonna che abbracciava il proprio nipote e voltò la testa nella direzione di Nathan, che le stava venendo incontro. Indossava una camicia azzurra ed un maglione blu, i jeans scuri ed un cappotto. Le sue goti erano arrossate per il freddo e spiccavano per il loro colorito acceso sul suo viso, malgrado la barba leggermente cresciuto che si era rifiutato di togliere quella mattina, come ulteriore screzio al padre.

«Andiamo?» Domandò con un leggero sorriso, passando il braccio intorno le spalle della ragazza. Daphne annuì leggermente, seguendolo poi verso l'entrata. Era tutto talmente assurdo ed inspiegabile. Fino a ventiquattro ore prima era a Oxford, davanti il Keble College, spaventata che lui potesse tornare in Iraq, ed in quel momento era lì, con lui, a Londra, ed aveva assistito ad un tipico litigio con la famiglia perché il fratello minore voleva arruolarsi. Non le aveva ancora raccontato nulla: né di ciò che era successo esattamente un anno prima, né della sua vita e di tutti i suoi problemi che, in quel momento come non mai, erano decisamente evidenti.
Camminarono in silenzio per quel silenzioso luogo di riposo e in meno di cinque minuti arrivarono di fronte quella che assomigliava decisamente ad una tomba di famiglia, Daphne capì che erano giunti a destinazione non appena Nathan sospirò, passandosi una mano fra i capelli. Restò fermo, immobile, ad osservare le incisioni in latino sulla pietra. I muscoli del collo erano tesi e respirava appena, stringendo con forza le mani intorno ai fiori che aveva comprato.

«Ti aspetto fuori.» Disse Daphne con dolcezza, lasciandogli una morbida carezza sull'avambraccio. «E' una tua cosa intima, lo so. Non ti preoccupare.» Aggiunse, abbozzando un leggero sorriso che lui ricambiò immediatamente.

«Ci metto poco.» Mormorò con voce leggermente roca, chinandosi poi a lasciare un veloce bacio sulle labbra della ragazza. Daphne gli indicò con un cenno del capo di entrare e lui non tentennò, sorridendo un'altra volta. Nonostante ci fosse il sole e tutto sembrasse estremamente luminoso, quando aveva incrociato lo sguardo di Nathan si era sentita precipitare nel buio: era così fragile e inquieto che non si poteva restare indifferenti.

«Mamma, è qui che riposa Peter?» Daphne si voltò di scatto e vide un bambino biondo accanto a quella che doveva essere sua madre. Il bambino non aveva più di dieci anni ed indossava una divisa nera e rossa come quella che aveva visto ad Edward, con la differenza che aveva scritto sul petto “Scuola Primaria”; faceva impressione vedere quel ragazzino vestito come un uomo, dritto ed orgoglioso come un uomo e con un obiettivo impresso palesemente nella mente. La donna aveva sul viso i segni del dolore, della stanchezza, ma era elegante e composta nel suo portamento. Il tailleur nero risaltava le curve che un tempo erano state avvenenti e gli occhiali da sole nascondevano i suoi occhi, cui tristezza era tradita dalle marcate occhiaie che si potevano scorgere.

«Sì, Daniel. E' qui che Peter riposa.» Rispose, quasi meccanicamente, chinandosi poi ad accarezzare i capelli del figlio. In quel momento uscì anche Nathan che si paralizzò non appena vide la donna ed il piccolo Daniel. La signora alzò lo sguardo e vide il ragazzo, soffermandosi prima per un istante sulla figura di Daphne.

«Nathan, quanto tempo...» La sua voce era leggermente roca. Si avvicinò al ragazzo, abbracciandolo con affetto quasi materno, quasi aggrappandosi a lui. «Non ci vediamo da...»

«Dal funerale, zia Claire.» Disse Nathan, abbassando poi lo sguardo. «Mi dispiace se non ci siamo potuti vedere prima, mi dispiace per il comportamento dei miei, mi dispiace, zia, non sai quanto.» Disse tutto d'un fiato. Claire. L'aveva nominata quella mattina litigando con i suoi genitori... Era la madre del cugino Peter? Perché le loro famiglie non avevano nessun tipo di rapporto se Peter aveva salvato la vita a Nathan?

«Nate, tranquillo, lo so che non è colpa tua.»

«Devo tutto a Peter. I miei genitori devono tutto a Peter.» Continuò, scuotendo enfaticamente la testa. I suoi pugni erano serrati e lo stesso valeva per la sua mascella. Claire fece un cenno al piccolo Daniel, quasi invitando Nathan ad evitare il discorso.

«Ehi, ometto, come stai?» Nathan si sedette sui talloni, essendo comunque più alto di Daniel, e scompigliò i capelli del bambino. «Ti presento una persona a me molto cara. Daniel, questa è Daphne.» La ragazza prima sorrise a Claire e poi raggiunse Nathan, assumendo la sua stessa posizione.

«Ciao, Daniel!» Sorrise, mentre il bambino la scrutava curiosamente.

«Hai visto la mia nuova divisa?» Disse ad un tratto, rivolgendosi a Nathan ma continuando a indugiare con lo sguardo su Daphne.

«Ti piace l'accademia?» Il tono che usò Nathan era incredibilmente piatto e Daphne riuscì a cogliere come Claire cominciò a torcersi improvvisamente le mani. Daphne non osava minimamente immaginare cosa volesse dire avere perso un figlio in guerra ed avere il figlio più piccolo all'Accademia Militare, pronto un giorno forse a seguire le orme della propria famiglia. Daniel annuì vigorosamente, raggiungendo poi la madre.

«Andiamo da Peter?» La signora annuì, stringendo a sé il figlio.

«Nathan, fatti vedere presto, lo sai che da noi sei sempre il benvenuto. Sempre. Sei sempre stato come un figlio per noi.» Abbracciò Nathan e Daphne pensò che quel suo aggrapparsi al ragazzo fosse un tentativo di provare nuovamente la sensazione di stringere a sé il proprio figlio. Claire la salutò cortesemente, entrando poi nella tomba di famiglia.

Il tragitto fino alla macchina fu fatto nel più completo silenzio. Nathan camminava velocemente, non lanciando un'occhiata a niente di ciò che gli passava intorno o che lo circondava. Camminava tenendo le mani nelle tasche del cappotto e col il volto chino a terra. Più volte rischiò di urtare contro dei passanti e più volte Daphne lo dovette prendere sottobraccio per indirizzarlo verso l'uscita di Highgate. Salirono poi in macchina e Nathan mise in moto; ogni semaforo rosso lo faceva inveire, ogni passante che non attraversava sulle strisce lo faceva innervosire. Sembrava essere decisamente sul punto di esplodere e raggiunse quel punto quando ad un semaforo pedonale attraversò la strada un gruppo di ragazzi con la divisa dell'Accademia.

«Ti rendi conto che è una cazzo di malattia? Hai visto mia madre? Hai visto Claire?» Mentre parlava guardava fisso davanti a sé, tenendo le mani ben piantate sul volante. «Sono completamente assoggettate agli uomini Crawford, a questa cazzo di fissa che i figli devono andare all'Accademia e devono diventare marescialli, ufficiali, devono fare parte dell'esercito. Claire ha perso un figlio in guerra e che cazzo fa? Manda Daniel alla scuola elementare di quel manicomio? Gli fanno ogni giorno il lavaggio del cervello, ogni santo giorno.» Appena scattò il verde, accelerò con forza e con esagerazione. Daphne non osava fiatare. «Mia madre e mio padre hanno visto il dolore nella famiglia di Peter e nonostante tutto continuano ad insistere affinché Edward segua le sue orme. Sono matti, sono completamente matti. I valori, che cazzo valori possono essere così importanti per sacrificare i figli?» Inchiodò, rendendosi conto che stava per investire una ragazza che aveva attraversato senza guardare. «Che cazzo me ne frega che mio padre mi parli di Peter come uno che “è morto per la patria”? E' morto e nessuna patria, nessun valore lo riporterà mai indietro.»

«Nathan, accosta.» Mormorò Daphne, guardandolo seriamente. Lui obbedì, fermandosi poco dopo una fermata dell'autobus. Spense la macchina e cominciò a respirare pesantemente, senza togliere le mani dal volante né distogliere lo sguardo dal parabrezza. Daphne allontanò le sue braccia dal volante e poi, portando le mani sul suo viso, lo fece voltare nella sua direzione. Solo dopo aver messo le mani dietro la sua nuca, lo spinse con dolcezza verso di sé come lui aveva fatto quella notte dopo la discoteca, dopo Harris. Lo sentì prima resistere e poi abbandonarsi completamente contro di lei, quasi in un disperato abbraccio. Non osò parlare, né provare a dire una qualsiasi parola per provare a consolarlo. Nessuna parola sembrava essere all'altezza di quella situazione. Il minimo rumore rischiava di rovinare quell'atmosfera che si era creata nella mini cooper. Una atmosfera talmente densa che sembrava aver svuotato completamente Daphne fino ad annullarla di fronte al conflitto interiore di Nathan.


Edward uscì dall'Accademia, stringendo a sé la borsa a tracolla; erano le cinque del pomeriggio ed era decisamente esausto da quell'ennesima giornata passata in quel maledetto luogo. Camminava apparentemente con orgoglio nella sua lucente divisa, marciando con energia nella direzione direzione della macchina che lo attendeva per riportarlo a casa.
Salì a bordo dell'automobile e indicò al conducente di portando a Mayfair; doveva vedersi con Lucas per sistemare una vecchia situazione. Si rilassò contro il sedile in pelle e cominciò a guardare distrattamente fuori dal finestrino. Era il sei febbraio quel giorno. Come poteva pensare Nathan che si fosse dimenticato di quel giorno? Ricordava come se fosse avvenuto il giorno precedente cosa era successo esattamente un anno prima.

Aveva passato la giornata a casa di Damien, un suo compagno di Accademia, quando rientrando aveva visto la madre in lacrime e la televisione accesa. Si era precipitato al suo fianco e aveva visto che c'era il notiziario: c'era stato un attentato a Bagdad ed erano morti del soldati inglesi i cui nomi non erano ancora stati rivelati. Nathan era partito per l'Iraq a giugno, subito dopo aver dato gli esami del primo anno ad Oxford, e si trovava proprio nel punto dove era esploso il kamikaze. Aveva stretto la madre a sé e si erano seduti insieme sul divano, nella disperata attesa di una telefonata, di un qualsiasi segno; il padre non rispondeva alle disperate telefonate della madre e nessuno sembrava essere in grado di dare ulteriori notizie su ciò che era accaduto.


«Edward, siamo arrivati.» L'autista avvisò il ragazzo che, per un istante, si destò dai suoi ricordi.
«Solo un attimo.» Disse, sistemandosi la giacca.


Solo alle venti il telefono di casa aveva squillato dopo due interminabili ore d'attesa. Claire Crawford, sua zia, aveva telefonato, comunicando che suo figlio Peter era morto quel pomeriggio e che Nathan era stato operato d'urgenza e che non c'erano notizie sulle sue condizioni, non sapeva neanche se fosse sopravvissuto all'intervento. Il padre era rientrato verso le ventuno, calmo come suo solito, senza neanche minimamente scomporsi alla notizia dell'attentato e delle condizioni del figlio maggiore. «Se la caverà. I nostri medici sono in gamba.» Aveva commentato, andando poi a chiudersi nello studio mentre sua moglie continuava a piangere guardando attonita le immagini che passavano a ripetizione sullo schermo nel tentativo di scoprire qualcosa di più su suo figlio.


Edward scese dall'auto e proprio davanti al bar Defoux, vide Lucas, stretto nella sua giacca di pelle nera. Si avvicinò in fretta, facendo un veloce cenno con il capo ed stringendogli poi la mano. Quando fu certo che un involucro di plastica fosse rimasto nella sua mano dopo quella stretta, lasciò la presa, infilandola in fretta nella tasca dei pantaloni.

«Quanto ti devo?» Domandò, guardandosi intorno con fare circospetto.

«Cinquanta, al solito.» Rispose Lucas, giocherellando con il piercing che aveva sulla lingua. Edward tirò fuori il portafoglio dalla borsa a tracolla e lasciò la banconota da cinquanta sterline nella mano del ragazzo.

«Alla prossima.» Lo salutò, allontanandosi poi sia dal bar che dalla macchina che lo stava aspettando.

Raggiunse abbastanza velocemente Hyde Park e dopo essersi infilato in un posto abbastanza riservato e frequentato da poche persone, si poggiò al tronco di un albero, buttando la borsa a terra. Tirò fuori dalla tasca la bustina che vi aveva infilato Lucas e osservò la marijuana che ora era sul palmo della sua mano. Perché continuava a rifugiarsi negli spinelli? Per quale motivo aveva la necessità di rilassarsi in quel modo?
Preparò velocemente lo spinello, nascondendo poi le cartine e l'erba rimanente nella borsa. Si poggiò poi con la schiena all'albero e si rilassò, inspirando la prima boccata. Stava scappando da qualcosa o forse da se stesso? Infondo aveva la vita che la maggioranza degli adolescenti di buona famiglia avrebbe desiderato: un patrimonio stabile, tante proprietà sparse per il paese, un padre importante ed un posto assicurato all'Accademia. Già, l'Accademia, ma veramente per lui valeva così tanto? Era veramente il suo sogno? Sì. Sì. Sì. Ripeteva, continuando a fumare. Era cresciuto giocando coi soldatini ed indossando le vecchie uniformi del padre, curiosando nell'albero genealogico e sognando di imitare la sua famiglia ed renderla orgogliosa. Aveva un'altra strada se non quella per il suo futuro? Era bravo nell'addestramento, uno dei migliori, poteva veramente andare avanti mentre negli studi non era esattamente una eccellenza. Suo padre era sempre fiero di lui quando parlava con altre persone, lo idealizzava come il perfetto figlio. Se avesse mollato tutto che fine avrebbe fatto, quella di Nathan? Nathan che non era andato all'Accademia e si era diplomato brillantemente alla King's School di Londra, andando poi ad Oxford a far valere le sue doti intellettuali. Economia e Management, voleva diventare un pezzo grosso lui ma non nell'ambito militare. Il padre lo aveva praticamente disconosciuto come figlio, non vantandosene mai davanti gli amici, continuando sempre a litigarci. E poi Nathan era andato in Iraq, era entrato per un colpo di matto nell'Accademia, e tutto era apparentemente cambiato... Non aveva mai visto suo padre così felice. Due figli nell'Accademia che seguivano le sue orme. Poi dopo l'Iraq, dopo la sua miracolosa sopravvivenza, Nathan era cambiato, aveva riconquistato il suo atteggiamento di odio nei confronti dell'esercito e aveva cominciato a provare a convincerlo a lasciare quel folle tragitto. Quando era tornato a casa ad aprile inoltrato, aveva reso un inferno la vita a casa: litigate continue, porte sbattute, pugni al muro e, quella situazione, non era ancora cambiata. Il padre pur di non avere più il figlio maggiore in casa aveva fatto una donazione prosperosa all'università di Oxford, pur di far riammettere il figlio senza che perdesse un anno e, ogni volta che Nathan tornava per i weekend, il padre si eclissava nello studio oppure lo affrontava, facendo rimbombare le urla per tutta la palazzina.

«Edward?»

Il ragazzo saltò, voltandosi di scatto e facendo cadere istintivamente lo spinello. Davanti a lui era in piedi Daphne, la presunta ragazza, forse, di Nathan. Era sola, stranamente. Cosa ci faceva in quella parte del parco? I suoi capelli castani era smossi dal vento ed i suoi occhi blu erano infinitamente preoccupati... o forse indemoniati? L'aveva colto in flagrante e cosa sarebbe successo a quel punto? Sarebbe corsa a dirlo a Nathan?

«Io devo andare. Ci vediamo dopo.» Disse frettolosamente Edward, mettendosi la borsa a tracolla e scappando lontano da Hyde Park, sotto lo sguardo interdetto di Daphne.


Daphne rientrò nella stanza degli ospiti dopo aver salutato con un bacio sulle labbra Nathan e richiuse con fretta la porta alle proprie spalle. Cosa avrebbe dovuto fare a quel punto? Da un lato c'era un Nathan distrutto, soprattutto dopo che era andato a casa della famiglia di Peter (proprio per quello si era concessa una passeggiata solitaria per Hyde Park) e dall'altro c'era lei che aveva visto il prediletto fratello minore di Nathan fumare uno spinello con una espressione decisamente abbattuta in volto. Si passò le mani fra i capelli, cominciando a camminare avanti ed indietro per la stanza. Possibile che più venisse trascinata nella vita di Nathan e più era inglobata ed annullata da tutte le problematiche che sorgevano?




**

Ok, questo capitolo ammetto che sia inutile dal punto di vista Daph/Nathan, ma era necessario per delineare la figura di Nathan! Spero che vi piaccia insomma! =) Grazie come sempre a tutti voi che fantasticamente recensite e mi supportate, giuro che appena avrò un attimo di tempo risponderò come si deve alle vostre recensioni. Non immaginate quanto mi possano fare piacere.

Un bacione,

Silvia.


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Capitolo 8
*** Capitolo Ottavo. ***


Pubblicità^^: Ho iniziato a scrivere una nuova Fan Fiction che porterò avanti in contemporanea con “Midnight Train”, ovvero “Coming Home”,che ne dite di leggerla e farmi sapere che ne pensate? Ne sarei tanto tanto contenta! Intanto vi auguro una buona lettura della mia Midnight Train!


Midnight Train
Capitolo Ottavo

testo



Quel sette febbraio la temperatura a Londra era decisamente bassa ed il cielo si era incupito in confronto al giorno precedente; la pioggia rendeva svelto il passo di coloro che camminavano sui marciapiedi o che si dirigevano verso la metro e Hyde Park era triste e vuoto visto dalla finestra della stanza degli ospiti di casa Crawford.

«Sei pronta, Daph?» Daphne stava alla finestra con le braccia incrociate sotto il seno ed il cuore incredibilmente pesante; aveva deciso di non dire niente a Nathan del problemino del fratello, anche perché fondamentalmente si trattava di un solo spinello: quanti se ne era fumata anche lei a tempo debito? Eppure si sentiva maledettamente in colpa nei confronti di Nathan, dei suoi occhi verdi così colmi di fiducia e continuava a rivivere mentalmente il momento in cui le era crollato fra le braccia il giorno precedente nella mini cooper sfogando tutto il suo disappunto, la sua rabbia nei confronti della sua apparentemente perfetta famiglia. «Daphne?»

«Si, sono pronta, due minuti!» Disse con voce leggermente roca, prendendo dalla scrivania il cellulare e guardandosi un'ultima volta allo specchio: dal momento che la sua partenza era stata una decisione presa all'ultimo minuto non aveva avuto modo di portarsi qualche cosa di ricambio e, di conseguenza, il suo riflesso indossava una felpa della King's di Londra che le stava almeno tre volte sia in altezza che in larghezza.

Uscì dalla stanza con un leggero sorriso, alzandosi poi sulle punte per lasciare un bacio sulle labbra di Nathan.

«Alla buon'ora. Facciamo colazione e poi andiamo in stazione, l'autista passa fra venti minuti.» Era così calmo, così rilassato quella mattina, ma se ci si soffermava qualche istante in più sul suo viso, sui suoi occhi, si poteva notare un leggero gonfiore e arrossamento. La giornata precedente si era conclusa con l'ennesima, furiosa litigata con il padre sul perché non avessero neanche fatto una telefonata alla famiglia di Peter e Nathan si era chiuso in camera sbattendo la porta.

«Stai bene?» Domandò timidamente Daphne, stringendogli poi con dolcezza la mano. Lui ricambiò la stretta e si voltò per sorriderle.

«Tutto apposto, non ti preoccupare.»

Scesero le scale in silenzio, raggiungendo nello stesso modo la sala da pranzo, dove trovarono seduto al tavolo Edward. Quella mattina indossava un semplice paio di jeans ed una polo. Quando il suo sguardo incrociò quello di Daphne restò impassibile, mentre la ragazza fu scossa da un forte tremito.

«Oggi non vai?» Domandò Nathan abbozzando un sorriso e prendendo posto davanti al fratello. Daphne si sedette accanto ad Edward, sperando così di non dover incrociare il suo sguardo per quei quindici minuti scarsi di colazione.

«Dopo pranzo.» Rispose con calma, sorseggiando il suo latte.

«Che fai il prossimo week-end?» Ribatté Nathan, immergendo il suo plumcake nel latte.

«Non ho progetti.» Scrollò le spalle, guardando poi il fratello negli occhi. «Perché?» Aggiunse, inarcando un sopracciglio.

«Che ne dici di venire a Oxford? Non ci sei mai stato.» Propose, mentre i suoi occhi brillavano speranzosi. Edward tentennò e Daphne colse l'occasione per sfruttare il loro segreto per accennare un colpetto di tosse molto eloquente.

«Perché no!» Disse con tono innaturale, sorridendo poi ampiamente. Infondo a parte la finzione e la spintarella di Daphne era stato sempre curioso di vedere una vita accademica, una vita universitaria di cui si stava privando a prescindere e che Nathan adorava invece così tanto. «D'accordo.» Aggiunse con più entusiasmo.

«Perfetto, ci sarà anche una partita del Keble College.» Nathan sorrideva raggiante e fece un occhiolino a Daphne che colpevole ricambiò con un sorriso. Un solo spinello. Si ripeté, nel tentativo di non lasciarsi tradire da stupide incertezze.

«Nathaniel, l'autista la aspetta qui fuori.»

«Grazie, Mary Sue.» Nathan sorrise alla cameriera e si alzò, andando ad abbracciare con forza il fratello. Lo strinse a sé, dandogli poi un paio di pacche sulla schiena. «Ti voglio bene.» Aggiunse, guardandolo dritto negli occhi.

«Anche io te ne voglio.» Rispose Edward e Daphne avrebbe potuto giurare sull'onestà di quelle parole e sull'aver visto un luccichio attraversare lo sguardo dei due fratelli. «Ciao, Daphne.» Disse voltandosi verso di lei e la ragazza lo salutò con due baci sulle guance, evitando ogni contatto visivo come d'altro canto fece anche lui.

«Alla settimana prossima.» Farfugliò confusamente, prendendo poi la mano di Nathan ed allontanandosi velocemente dall'oggetto dei suoi sensi di colpa e del suo imbarazzo.

Salirono nella lucente auto nera che li aspettava fuori casa ed in meno di quindici minuti furono alla stazione di King's Cross, dove fra dieci minuti sarebbe partito il treno per Oxford. Daphne entrò per prima attraverso le porte scorrevoli e poco dopo aver messo piede nella grande sala d'ingresso, si sentì afferrare per l'avambraccio e venire trascinata indietro. Le sue labbra si posarono su quelle di Nathan in un caldo e dolce bacio che la avvolse completamente con il suo calore, la sua intensità. Passò le braccia intorno al suo collo e schiuse le labbra, approfondendo quel contatto, mordendo il suo labbro inferiore ed infilando le mani fra i suoi capelli, incurante completamente del fatto che si trovassero all'ingresso di una delle stazioni principali di Londra sotto lo sguardo indispettito di molteplici persone che stavano lì o per andare a lavoro o per andare a trovare parenti e che volenti o meno si stavano godendo la scena di quel bacio che per quanto era intenso, quasi disperatamente, sembrava un bacio d'addio, uno di quelli dei film, quando i protagonisti si devono separare.
Quando si allontanarono, Nathan continuò a tenere i loro visi a pochi millimetri, disegnando circonferenze con i pollici sulle guance della ragazza. Daphne si sentiva ardere su centimetro della sua pelle: le labbra sembravano pulsare per la passione di cui erano appena state rese partecipi e le sue goti sembrava essere sul punto di andare in fiamme. Vedeva Nathan sorriderle con dolcezza, leggermente con il fiato spezzato e per la prima volta notò quelle linee color terra che attraversava il verde dei suoi occhi.

«Pensavo dovessimo onorare il nostro primo bacio.» Mormorò con voce roca, sfiorandole le labbra con i polpastrelli. Daphne sorrise al ricordo del loro primo bacio sulla via del ritorno da Brighton: la sorpresa di quel contatto nuovo apparentemente sconosciuto ma interiormente familiare e speciale, il mistero che avvolgeva la figura di quel ragazzo che era seduto sul sedile opposto al suo, quel cellulare che aveva suonato e che lui aveva spento con sprezzo: quante cose si chiarivano a distanza di poco più di un mese.

Il treno per Oxford partirà dal binario numero sei fra due minuti.

A quella voce metallica cominciarono a correre fra i passanti, incuranti degli sguardi che ricevettero ma con un sorriso ben impresso sulle labbra e le loro mani intrecciate in una frazione di infinito che sembrava avvolgerli.
Salirono con il fiatone sul vagone e scoppiarono a ridere, baciandosi nuovamente, staccandosi, trovando il posto a sedere e ricominciando, fra un sorriso e l'altro, una battuta e l'altra.

«Qui si scende per Reading?» La voce di un signore anziano la fece voltare e distrarre dalla contemplazione di quella città a lei così conosciuta. Lei annuì, sorridendo e lo osservò allontanarsi. Nathan dormiva con la fronte poggiata al finestrino e la bocca leggermente schiusa.
Riconosceva ogni singolo millimetro di ciò che le si parava davanti da fuori il finestrino: avrebbe potuto collocare a memoria tutte le aziende, i negozi di quella piccola cittadina. Ripercorse mentalmente e con ribrezzo la strada che avrebbe dovuto fare per raggiungere la campagna di Reading, la sua casa in mezzo al nulla, oppure il fornaio, dove fra pochi mesi si sarebbe trovata nuovamente a lavorare. Storse la bocca, pensando che fortunatamente non avrebbe rivisto la sua famiglia almeno fino a giugno inoltrato. Il suo sguardo si posò distrattamente su una panchina e per poco non urlò, riconoscendo una figura fin troppo nota seduta lì con calma. Capelli rossicci e corti, pelle chiara e occhi blu. Il ragazzo indossava un capello e le cuffie dell'iPod pendevano dalle sue orecchie. Stringeva fra le dita una sigaretta che fumava con calma e lentezza guardandosi intorno.

«Simon...» Mormorò, mentre il treno cominciava a muoversi. Il ragazzo si voltò per osservare i vagoni spostarsi e di istinto, come aveva fatto tante volte da piccola, Daphne si appiattì contro il sedile nella speranza di non essere vista. Non considerò neanche il pensiero che i vetri erano oscurati e da fuori si potevano vedere a malapena i contorni dei passeggeri.

Cosa ci faceva Simon?
Quando era uscito dal riformatorio?
Dove viveva in quel momento?

Si sentì scossa dai brividi e cercò di immaginarsi il desiderio che quell'ormai uomo aveva di trovarla, di fargliela pagare per averlo spedito nel riformatorio, per averlo incolpato ed aver rivelato il loro piccolo segreto. Si nascose il viso fra le mani, rannicchiandosi contro il sedile ed avendo quasi paura di guardare Nathan, ancora profondamente addormentato, ignaro di tutto.
Forse era andato a Reading per trovare i suoi zii, che tanto lo avevano trattato bene e che lo avevano amato come il figlio che non avevano mai potuto avere, prima che una ragazzina orfana lo facesse sbattere dietro le sbarre per tentate molestie. E se aveva parlato con i suoi zii probabilmente per quanto erano stupidi ed incoscienti e desiderosi di vendetta gli avevano detto che studiava ad Oxford, che magari alloggiava al Braseno-coso di cui non si ricordavano mai il nome e magari lui era lì ad aspettare un altro treno per Oxford. Daphne si diede un colpetto sulla fronte: era divorata completamente dalle paranoie e la situazione non poteva che peggiorare se non si metteva l'anima in pace.


«Sei sicura di stare bene? E' da quando siamo scesi dal treno che ti vedo strana.» Disse Nathan, guardandola sospettoso. Lei scosse la testa, agitando poi anche le mani.

«Sono solo un po' stanca, ora dormo un paio di orette.» Abbozzò una sottospecie di sorriso. Aveva nuovamente mentito a Nathan, l'unico al quale avrebbe dovuto, avrebbe voluto dire tutto incondizionatamente: ma se avesse saputo di Simon si sarebbe innervosito, si sarebbe voluto informare, avrebbe voluto cercarlo e sarebbero stati guai per tutti a quel punto.

«Ok, ti credo allora.» Si chinò sul suo viso, baciandola con dolcezza e sorridendole nuovamente. «Io vado al Keble ad informarmi su cosa hanno combinato in mia assenza quei cretini dei miei amici.» Lei annuì, salutandolo con un cenno della mano. Quando si allontanò, restò per qualche istante a contemplare l'entrata del suo college, prima di decidersi ad entrare.

«Daphne, eri scomparsa!» Aveva appena posato il piede sul terzo scalino quando qualcuno l'aveva afferrata per il braccio, costringendola a voltarsi. Evan sorrideva raggiante. «Ho capito che Crawford è uno stallone ma sciuparlo per tre giorni mi sembra una esagerazione! Ci siamo preoccupati!» Aggiunse, ridacchiando. Daphne sorrise, sciogliendo un po' della tensione che l'aveva tanto irrigidita.

«Siamo andati a Londra, ieri era un giorno importante per lui.» Spiegò mantenendosi sul vago.

«Dove spero tu l'abbia sciupato per bene.»

«Idiota!» Gli diede una scherzosa spintarella. «Le altre dove sono? Tu non dovresti essere a lezione?»

«Non ho sentito la sveglia.» Disse, alzando le mani quasi in propria difesa, cominciando a ridacchiare. «Victoria sta alla lezione di storia, Rebecca aveva una esercitazione su dei cadaveri da fare.» La faccia disgustata alla parola cadavere accomunò le espressioni dei due.

«A proposito di Rebecca... Scusami per la sceneggiata dell'altro giorno.» Abbassò lo sguardo, accennando un sorriso.

«Avevi le tue motivazioni per essere nervosa, tranquilla.»

«Accompagnami su in camera dai.» Daphne cominciò a salire le scale, con un ridacchiante Evan alle proprie spalle.

«Non sono Crawford, ricordatelo. Non puoi sciuparmi.» Daphne lo incenerì con lo sguardo, scoppiando a ridere nuovamente. Raggiunsero il piano della stanza di Daphne e quando la ragazza infilò la chiave nella serratura, vide Evan chinarsi a terra con la coda dell'occhio.

«Che fai?» Domandò curiosamente, aprendo intanto la porta.

«Per te.» Le porse un pacchetto. «Stava qui per terra, c'è il tuo nome.» Evan fece spallucce, entrando poi nella stanza e buttandosi sul letto.

«Togliti le scarpe!» Ordinò Daphne mentre richiudeva la porta ed osservava quel piccolo pacchetto con il suo nome stampato sopra.

«Non lo apri?» Domandò Evan, poggiandosi sul gomito e guardandola. Daphne annuì, tirando lo spago che chiudeva quella scatoletta di cartone e poi aprendo quest'ultima. Quando vide il contenuto si sentì inizialmente mancare e poi essere afferrata al volo da qualcuno, Evan probabilmente che alla velocità della luce aveva abbandonato il letto e l'aveva aiutata a non schiantarsi contro la moquette.

«Daphne, che è successo?» Le domandava stando inginocchiato davanti a lei dopo averla fatta sedere su una sedia, sventolando un quaderno per farle aria. Daphne scosse la testa, pallida e tremolante, stringendo ancora fra le dita il bracciale che aveva trovato nella scatola. «Parla, Daphne, sono io, Evan, lo sai che puoi dirmi tutto. Di chi si tratta?» Daphne lo guardò negli occhi e sentì quell'enorme peso di cui si era parzialmente liberata parlando con Nathan, desideroso di uscire ed essere condiviso anche con Evan e, per la seconda volta in una settimana, si ritrovò a raccontare la storia di Simon, del riformatorio, delle corse per casa, delle ripetizioni, dei compiti fatti assieme.

«Oggi l'ho visto alla stazione dopo più di dieci anni.» Disse infine, continuando a scuotere la testa. «Avevo otto anni quando lui se ne è andato e lui ne aveva quindici. E questo braccialetto...» Sventolò il bracciale di perline blu. «...Glielo regalai prima che succedesse tutto e lui se lo era messo al polso, dicendo che gli avrebbe permesso di non dimenticarsi mai di me.» Sospirò, mentre Evan la ascoltava attonito, senza spiccicare parola. «Capisci che non è un caso che io riceva questo bracciale il giorno in cui lo vedo a Reading, dove abitano i miei zii che lui tanto ama e considera la sua unica famiglia.» Si nascose il viso fra le mani, mentre Evan la stringeva a sé, sussurrandole di calmarsi ad un orecchio.

«Stai calma, sei ad Oxford, sei sempre con noi, non può succederti nulla. Nessun non autorizzato può entrare nei College ed ogni singola entrata è controllata e piena di telecamere, allarmi: non c'è pericolo.» Provò a confortarla, strofinando le proprie mani sulle sue spalle, quasi a volerle infondere calore e sicurezza. «Penso che tu ne debba parlare anche con Nathan di tutto questo.» Aggiunse, mentre Daphne ricominciava a tremare al pensiero della rabbia che si sarebbe generata all'interno di Nathan a quella notizia. Aveva già così tanti problemi a cui pensare: la famiglia, in primis il fratello, il recente anniversario della morte di Peter. Come poteva appesantirlo con quell'ennesima e pesante notizia che, sicuramente, lo avrebbe stravolto?

«Hai ragione.» Eppure quando disse quelle due parole ne era pienamente convinta. Voleva dire incondizionatamente la verità a Nathan, sempre, e quella era una questione decisamente seria che non poteva tenere per sé, aveva bisogno del suo appoggio, del suo aiuto, dei suoi abbracci che le infondevano così tanta sicurezza. «Io devo andare.» Si alzò di scatto, cercando di ignorare i giramenti di testa che la colpirono così improvvisamente. «Grazie, Evan.» Sorrise con dolcezza, pienamente riconoscente all'amico per esserle stato accanto in quelle frazione di incertezza che l'aveva colpita e si chinò, baciandolo con affetto su una guancia.

Uscì di fretta dal Brasenose College, raggiungendo ancora più velocemente il Keble. Si identificò in fretta al portiere, ringraziando mentalmente la fratellanza che si era istituita fra i due college e salì velocemente per le scale.

«Allora a presto, Nathan.» Una voce femminile anticipò il passaggio di lunghi capelli dorati. Madison Linton? Che ci stava facendo nella stanza di Nathan? Non si erano rotti tutti i rapporti fra i loro dopo la partita fra Cambridge ed Oxford, lì dove la aveva insultata al pub?


Nathan stava nella sua stanza a sistemare le cose dopo il viaggio a Londra. Se lo era immaginato estremamente duro ma grazie alla presenza di Daphne era riuscito a resistere, a non sfociare il discussioni con il padre più violente di quelle che si era concesso. Quante cose doveva a quella ragazza, aveva veramente la capacità di farlo stare bene, di farlo ridere, di farlo aprire, di fargli dire cose che non si sarebbe mai immaginato di dire...
Quando sentì bussare alla porta, immaginò che si trattasse di Daphne e corse ad aprire energicamente, con un ampio sorriso che scomparve non appena vide Madison.

«Che ci fai qui?» Domandò, guardandosi sospettoso intorno. «Ti avevo detto che non avevo più intenzione di...»

«Ieri era il sei febbraio.» Incominciò lei, entrando nella stanza. Nathan richiuse la porta alle proprie spalle, poggiandosi con la schiena alla porta e guardandola curioso. Il suo cuore prese a battere, sapeva di cosa stava parlando e quasi si sentiva in colpa per averla accolta in quel modo brusco. «Perché quando sei andato a Londra non mi hai detto di venire con te? Si tratta di Peter...» La sua voce si incrinò non appena pronunciò quel nome. «Tu sai tutto, sai quanto ci potessi tenere, quanto mi potesse fare piacere.» Si sedette sul letto, passandosi le mani fra i lunghi capelli biondi.

«Nessuno ti ha impedito di venire, Madison.» Disse senza spostarsi dalla posizione assunta.

«Io e Peter siamo stati insieme due anni e per due anni siamo stati nascosti, quasi fossimo Romeo e Giulietta perché i Linton odiavano la sua famiglia e viceversa. Io ero perfetta per un Crawford, ma amavo Peter... Se fossi andata con te ieri, magari, nessun ci avrebbe fatto caso alla mia presenza.» Scosse la testa. «Sto dicendo un mucchio di idiozie, scusami.» Si alzò in piedi, sistemandosi la sciarpa rosa intorno al collo. «E' solo che mi manca da morire.»

Quando Nathan vide Madison scoppiare a piangere, si avvicinò istintivamente, abbracciandola. Gli passarono davanti le loro fughe di casa in cui fingevano di appartarsi ma in realtà lei raggiungeva Peter e lui li faceva da palo, Peter che gli parlava di Madison, il loro primo bacio architettato con maestria con Juliett, la sua ormai ex-ragazza, le bugie dette ai Linton, ai Crawford, a tutti... Quell'amore che aveva fatto apparire Madison genuina ai suoi occhi, così genuina da rivalutare la sua figura di stronza opportunista, così genuina da difenderla molte volte in pubblico, finché non l'aveva vista trattare Daphne in quel modo. Dopo il sei febbraio era cambiata completamente, diventando la caricatura esagerata della cretina che era stata prima di innamorarsi di Peter e dopo aver visto definitivamente la persona che era diventata, le aveva imposto di tagliare i ponti. Per lui, per lei, per Daphne. Pensò a quante volte dopo il sei febbraio lei da ubriaca lo aveva baciato, quando dopo l'Iraq aveva voluto fare sesso con lui e lui aveva accettato, facendolo con rabbia, disprezzo, odio per quella guerra che gli aveva portato via un cugino... Era stato solo sesso, lei si era alzata, si era rivestita e se ne era andata e lui non era uscito dalla stanza divorato dai sensi di colpa: Madison era l'amore storico di Peter e lui se l'era portata a letto dopo che era morto.

Si staccarono da quell'abbraccio e si guardarono negli occhi. Madison scosse la testa, sorridendo e si avvicinò, posando le labbra su quelle di Nathan. Lui reagì, per la prima volta riuscì a reagire a Madison, al forte legame che c'era fra loro per via di Peter, consapevole finalmente della cosa giusta da fare e la allontanò, spingendola via da sé e sciogliendo quell'abbraccio.

«L'unica persona che mi interessa ora è Daphne.» Disse con voce chiara e decisa. «E tu dovresti capire che non sono un fantasma di Peter, anche se so che ci assomiglio.» Disse seriamente, guardandola dritto negli occhi. Lei annuì, scacciando poi le lacrime con un passaggio della mano sul viso.

«Scusami, hai ragione.» Mormorò, incamminandosi poi verso l'uscita. «Per quanto io non la sopporti, devo dire che è fortunata questa Daphne.» Sorrise con dolcezza, aprendo poi la porta. «Allora a presto, Nathan.» Lo salutò, allontanandosi poi velocemente da quella stanza.

Nathan la osservò allontanarsi e dopo qualche istante chiuse nuovamente la porta, camminando avanti e indietro per la stanza. Non fece neanche in tempo a formulare un pensiero di senso compiuto che qualcun altro bussò alla porta. Andò ad aprire e si sentì incredibilmente bene qualche vide Daphne davanti a lui. Contemporaneamente un senso di colpa cominciò a divorarlo dall'interno. Doveva dirle di Madison? Di come aveva provato a baciarlo? Del legame che c'era fra di loro?

«Hey...» Mormorò, baciandola con dolcezza. Daphne ricambiò quel bacio, guardandolo poi negli occhi, ancora turbata per aver visto Madison.

«Che hai combinato in mia assenza?» Sfoderò un magnifico sorriso che avrebbe potuto vincere il premio per la finzione, intrecciando le braccia intorno al suo collo.
«Ho controllato cosa devo studiare. Le solite cose, insomma...» Le aveva mentito. Non poteva dirle di Madison: si sarebbe innervosita, infuriata, avrebbe fatto una scenata per nulla. Perché non c'era assolutamente nulla, nulla di importante, era semplicemente una vecchia faccenda fra lui e Madison che era stata accantonata e non sarebbe più stata tirata fuori. «Tu?» Domandò con naturalezza, sistemandole dietro l'orecchio una ciocca di capelli.

«Ho salutato Evan, niente di che.» Mentì anche lei. Se lui le nascondeva il fatto che parlasse ancora con Madison, perché mai lei avrebbe dovuto confidargli di Simon, di tutto ciò che aveva visto e ricevuto in quella giornata? Perché doveva dirgli del fatto che Edward fumasse spinelli? Evidentemente la sincerità non era un valore che Nathan contemplava come pilastro della loro relazione, evidentemente ancora il loro livello di fiducia reciproca non era abbastanza alto.

«Come mai sei passata?» Si sentiva morire ogni secondo che quella bugia cresceva: faceva incredibilmente male mentirle, ma ormai era troppo tardi e, soprattutto, era una cosa così priva di valore che avrebbe fatto più danni che benefici. Non ne valeva la pena.

«Volevo salutarti al volo prima di rinchiudermi a leggere un mattone di politica infinito.» Lo baciò nuovamente sulle labbra, girandosi poi ed allontanandosi velocemente. Non aveva voglia di vederlo, di stare con lui, di portare avanti quel fantomatico spettacolo di burattini, almeno non quel giorno.

Delusa? Sì, lo ero, sia da se stessa che da lui. Lei si era ripromessa di non mentirgli a prescindere dagli eventi, dalle motivazioni, e lo aveva fatto nuovamente. Lui che le aveva detto sempre tutto diretto le stava nascondendo il fatto che parlasse con Madison, nonostante sostenesse davanti a lei che i loro rapporti fossero finiti.

Uscì a passo svelto dal Keble College: erano le quattro del pomeriggio e probabilmente gli altri stavano rientrando da lezione. Decise di passare al Tesco di comprare un pacchetto di sigarette, incurante del fatto che avrebbe potuto incontrare David lì. Infondo i suoi problemi erano col fratello, non con lui. In un paio di minuti stava per voltare l'angolo che l'avrebbe fatta trovare davanti al supermercato quando qualcuno l'afferrò per un braccio e la spinse contro un muro. Quel giorno ce l'avevano tutti col suo braccio e con le spinte?

«Ti ricordi di me?» Gli di Daphne incrociarono quelli di Simon, blu come il mare, invariati negli anni.

«Cosa vuoi?» Sibilò, divincolandosi dalla sua presa. Ma era troppo forte, come sempre.

«Ti ricordi di me sì o no?» Domandò nuovamente. Sembrava posseduto.

«Sì che mi ricordo, idiota.» I denti di Daphne erano stretti, la mascella serrata.

«Questa volta non riesci a scappare, eh?» La canzonò mentre continuava a dimenarsi. Maledetta lei e le stradine infrattate che prendeva. Doveva passare per la strada principale e non fare idiozie! Daphne lo guardò negli occhi e i flash ripetuti della sua infanzia le passarono davanti gli occhi. Non gliela aveva data vinta allora e, di certo, non gliela avrebbe data vinta in quel momento. Cominciò a urlare ma lui le tappò la mano con la bocca, facendo soffocare le sue grida in gola.

«Che ne dici di farci un giretto?» Le propose in una domanda retorica. Odio. Quello era l'unico sentimento che traboccava dal cuore di Daphne. Odio. Con la forza ed il coraggio che aveva morse le dita che le coprivano la bocca e Simon saltò indietro, lasciando la presa. Daphne scappò ma andò a sbattere contro il petto di qualcuno. Era finita. Daphne si ripeté mentalmente che era in trappola, che Simon era venuto con i suoi scagnozzi, ma quella persona contro la quale era finita la scansò.

«Vai in negozio.»

«David?» Daphne alzò finalmente gli occhi e vide il ragazzo con la divisa del supermercato. Annuì, allontanandosi. Per un momento sperò che David alzasse le mani, facesse del male a Simon, ma quest'ultimo scappò a gambe levate, urlando un ultimo «Non finisce qui.»




Eccomi qui carissimi lettori e lettrici **

Che dire, vi ho appena presentato un capitolo un po' denso e pieno di eventi (spero non pesante)! Ho rispolverato il rapporto Nathan/Madison, Daphne/Simon e Nathan/Daphne, ovviamente... Ogni evento è necessario per la trama che la mia malata mente ha partorito (sempre più complicata, potete notare!!)

Ringrazio le magnifiche persone che hanno aggiunto “Midnight Train” alle preferite, o da ricordare, o alle seguite... Siete Fantastici! E un grazie ancora più grande a Lucya Lawliet, Shadow_Soul, __PleaseStay. Le vostre recensioni mi danno sempre la voglia di continuare a scrivere! Grazie Grazie :)
Alla prossima,

Silvia.

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