Midnight Train di Daphne S (/viewuser.php?uid=120166)
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Capitolo Primo. ***
Capitolo 2: *** Capitolo Secondo. ***
Capitolo 3: *** Capitolo Terzo. ***
Capitolo 4: *** Capitolo Quarto. ***
Capitolo 5: *** Capitolo Quinto. ***
Capitolo 6: *** Capitolo Sesto. ***
Capitolo 7: *** Capitolo Settimo. ***
Capitolo 8: *** Capitolo Ottavo. ***
Capitolo 1 *** Capitolo Primo. ***
MidnightTrain Capitolo Primo.
Just a small towngirl Livin' in a lonely world She took the midnight train goin'anywhere
Just a city boy Born and raised in south London He took the midnight train goin' anywhere.
La stazione di King's Cross appariva
deserta agli occhi dei pochi viaggiatori che si aggiravano fra il
supermarket ed il tabellone degli orari in attesa del proprio treno.
Come in tutte le stazioni c'era una grande varietà di persone:
diverse origini etniche, diverse direzioni, diverse storie. C'era chi
correva in maniera frettolosa verso il treno per prendersi il posto
migliore, chi con aria stanca arrancava, chi attendeva l'arrivo di
una chiamata o di un messaggio continuando a fissare lo schermo
spento del proprio cellulare.
Il treno proveniente da Oxford si fermò
al binario numero nove per far scendere i passeggeri e farne salire
degli altri, per ripetere poi lo stesso tragitto. Una ragazza dai
lunghi capelli castani scese dal vagone e stringendo la borsa al
petto si diresse velocemente verso il grande tabellone luminoso che
indicava i prossimi treni in partenza: mancavano dieci minuti alla
mezzanotte, ovvero l'ora in cui sarebbe partito il prossimo treno per
Brighton. La giovane andò con passo spedito alla macchinetta che
stampava i biglietti e, dopo aver estratto nervosamente quindici
pound dal portafoglio, acquistò il biglietto e corse verso il
binario numero sette.
A mezzanotte in punto il treno diretto
a Brighton partì da Londra. La ragazza sedeva in un posto vicino al
finestrino e con lo sguardo spento osservava il paesaggio che si
mostrava ai suoi occhi. Man mano che ci si allontanava dal centro
della capitale britannica, la periferia si mostrava in tutta la sua
freddezza invernale e le luci diminuivano man mano.
Grazie alla posizione che aveva assunto
e alla scarsa illuminazione all'interno del vagone, fu facile per la
giovane scivolare in un dolce e caldo torpore che sarebbe
inevitabilmente continuato se non fosse stato per la rumorosa ed
esagerata suoneria che partì da un telefonino evidentemente lì
vicino. I pochi passeggeri che avevano scelto il vagone numero
dodici, alzarono spazientiti lo sguardo ed anche i grandi occhi blu
della castana scivolarono su un ragazzo seduto accanto al finestrino
opposto al suo. Aveva dei capelli neri leggermente scompigliati ed
era vestito in maniera decisamente impeccabile: sciarpa firmata,
cappotto costoso e jeans scuri. Si sarebbe potuto riconoscere a un
miglio incarnato in lui il tipico ragazzo di città e di buona
famiglia.
Daphne, questo era il nome della
ragazza, lo osservò attentamente, avendo finalmente trovato un
qualcosa di interessante su cui concentrarsi. Lui prese il
telefonino, spense la suoneria e continuò a fissare lo schermo che
si illuminava a intermittenza: evidentemente chiunque lo stesse
provando a contattare non aveva buttato la spugna facilmente. Sul suo
volto si dipinse una smorfia di insofferenza e si sistemò il
telefono nella tasca dei jeans. Per un solo istante girò la testa ed
il quel momento il suo sguardo incrociò quello di Daphne che
ringraziò mentalmente la mancanza di illuminazione che nascose il
rossore che colorò le sue goti.
Era incredibilmente affascinante e
misterioso, pensava Daphne mentre nascondeva con una mano metà del
suo viso. Aveva dei lineamenti molto lineari ed eleganti e portava
sul volto un'espressione che celava infiniti stati d'animo e che lo
rendeva così distante, così surreale. Era come se, seduto su quel
sedile, vivesse una vita inaccessibile a qualunque persona tentasse
di violare la sua privacy.
Quando il treno si fermò bruscamente,
Daphne tornò violentemente con i piedi per terra: fuori dal
finestrino c'era la stazione di una fermata intermedia. La ragazza
sospirò, voltandosi nella direzione dello sconosciuto e notando che
quella fermata non lo aveva minimamente turbato in quanto non si era
mosso di un singolo millimetro.
Una puzza di vino rosso e profumo
scadente invase il vagone non appena salirono dei nuovi passeggeri.
Daphne guardò sconcertata i due uomini che erano saliti, sperando di
non dare in nessun modo nell'occhio. Erano vestiti in maniera povera
e dal loro odore si intendeva perfettamente che avevano abusato sia
di alcolici che di sigarette.
-Io voglio sedermi vicino questa bella
ragazza, Jim.- Bofonchiò uno dei due, buttandosi poi sul sedile
vuoto proprio davanti a Daphne e cominciando a guardarla con malizia.
-Io invece voglio dormire proprio qui.-
Disse Jim, stendendosi su due sedili vuoti a pochi metri di lì.
-Sei di Londra allora, signorina?-
Daphne continuò a fissare fuori dal finestrino lottando contro i
battiti del proprio cuore che per la paura sembravano essere sul
punto di sfondarle la cassa toracica. -Perché non rispondi? Forse
non hai sentito la mia domanda?- La ragazza affondò i denti nel
labbro inferiore, imponendosi di non muoversi di un millimetro
malgrado fosse convinta di aver cominciato ormai a tremare. -Hai
sentito si o no?- Lo sconosciuto sembrava si stesse innervosendo ed
infatti avvicinò pericolosamente il suo viso a quello di Daphne. Il
suo alito puzzava talmente tanto di vodka che la giovane pensò di
essere sul punto di svenire.
Accadde tutto velocemente: l'ubriacone
afferrò Daphne per la sciarpa che teneva intorno al collo e la
avvicinò tanto al suo viso da far quasi sfiorare le loro labbra e,
proprio quando la ragazza aveva chiuso gli occhi aspettandosi il
peggio, qualcuno aveva allontanato vigorosamente l'uomo afferrandolo
alle spalle.
-Stalle lontano.- Una voce maschile
scandì lentamente quelle due parole e, malgrado Daphne avesse
compreso che il pericolo si era allontanato, non riusciva ancora ad
aprire gli occhi. Continuava a tremare con forza, maledicendo se
stessa e quella sua folle decisione di andare a Brighton. Perché
proprio a Brighton poi? Una miriade di stupide domande cominciò ad
affollarle prepotentemente la testa in una sorta di meccanismo di
autodifesa: perché aveva mangiato il croissant con la cioccolata se
odiava profondamente la cioccolata quella mattina? Perché proprio il
treno della mezzanotte e perché proprio quella cabina? Era il karma,
era inevitabilmente il kar...
-Ehi, stai bene?- La stessa voce
maschile che l'aveva salvata tornò a riempire con dolcezza le
orecchie di Daphne. Due mani grandi e calde sfiorarono il suo viso e
la ragazza si sentì incredibilmente protetta e al sicuro.
-Io... Si, sto bene.- Deglutì, aprendo
infine gli occhi ed incrociando nuovamente quelli del “ragazzo di
città” che aveva osservato prima della fermata intermedia. Così
da vicino era ancora più mozzafiato la sua vista: aveva degli occhi
del colore degli smeraldi ed un neo proprio sopra l'angolo destro
della sua bocca. Lui sorrise, sedendosi poi al posto libero accanto a
Daphne ed allontanando le mani dal viso della ragazza.
-Avrei dovuto capire immediatamente le
intenzioni di quel tipo,- cominciò a dire, lanciando di tanto in
tanto un'occhiata ai due ubriaconi che ora dormivano felicemente a
qualche schiera di sedili da loro. -ma ero completamente
sovrappensiero e non ci ho fatto assolutamente caso. Scusami.-
-Mi hai tirata fuori da una brutta
situazione. Non devi scusarti di nulla. Anzi, ti ringrazio.- Ogni
parola che usciva dalla bocca di Daphne sembrava costarle
incredibilmente tanto: era come se un macigno si alzasse ad ogni
sillaba che pronunciava. Si sentiva in imbarazzo ed assolutamente
inadeguata davanti ciò che le era successo così in fretta.
-Io sono Nathan.- Sorrise, guardandola
fisso negli occhi.
-Daphne.-
-Ti sembra una domanda indiscreta se ti
chiedo perché sei sul treno per Brighton della mezzanotte?- Domandò
curioso, perdendosi per qualche istante nell'intenso blu degli occhi
di Daphne. La ragazza sorrise, arricciando le labbra.
-Potrei farti la stessa domanda.-
Ribatté prontamente lei, ridacchiando poi con dolcezza.
-Mi annoiavo.- Rispose Nathan,
poggiando la schiena sullo schienale e socchiudendo gli occhi. -Mi
sono detto: Brighton, perché no?-
-Già: Brighton, perché no?- Ripeté
Daphne mentendo. Lei di certo non era partita da Reading per andare a
Brighton per semplice noia, anche perché quella bravata notturna le
sarebbe costata l'ira degli zii. Sospirò, tentando di scacciare via
il pensiero.
-Pensavo di essere l'unico folle e
invece...-
Si scambiarono un'occhiata prima di
scoppiare a ridere. Fu come se per un istante le loro anime si
fossero liberate dei pesi che li avevano condotti a spendere quei
quindici pound per un biglietto del treno per andare verso la costa.
Il resto del viaggio passò in silenzio
e cinquantadue minuti dopo aver lasciato la stazione londinese, il
treno arrivò a destinazione. I passeggeri scesero lentamente,
caricando ogni passo con la propria stanchezza, le proprie
preoccupazioni. Daphne e Nathan scesero silenziosamente, senza
rovinare quella atmosfera che si era creata con tanta naturalezza.
Dopo aver fatto una ventina di passi nella direzione dell'uscita
della stazione, fu Nathan a rompere il silenzio schiarendosi
inizialmente la voce.
-Tu avevi in mente una meta?- Domandò,
guardando con interesse la ragazza. Daphne scosse la testa, cercando
di non proferire parola. Infondo lei non era mai stata in posti che
non fossero Reading e Oxford, ovvero dove andava all'università. Era
stata a Londra solamente per una gita con la sua classe quando aveva
dieci anni. -Lasci l'ardua scelta a me, eh?- Ridacchiò,
soffermandosi poi a pensare. Daphne osservò l'espressione buffa e
pensierosa che si dipinse sul suo viso e si ripeté che non poteva
assolutamente svelare a quel ragazzo il perché del suo viaggio, il
fatto che fosse una ragazza di una piccola città e che si potesse
permettere l'università solo grazie alla borsa di studio. Per una
sera sarebbe stata per quel ricco ragazzo di città la ragazza che
sarebbe sempre voluta essere. -Andiamo sul lungomare? So che è
inverno e so che fa freddo, ma non sono mai stato a Brighton a
dicembre e di conseguenza non conosco nessun altro luo...-
-Va benissimo.- Daphne sorrise e
prontamente anche le labbra di Nathan si piegarono in un ampio
sorriso. Si incamminarono così per la lunga via principale che
portava alla costa. Era incredibilmente semplice parlare con Nathan:
il fatto che fosse un perfetto sconosciuto che probabilmente non
avrebbe mai più rivisto rendeva molto più naturale parlare, esporre
le proprie idee ed i propri interessi.
-Niente domande personali.- Decretò ad
un tratto Daphne, guardando Nathan senza riuscire a scacciare il
sorriso.
-Niente di niente?- Domandò,
aggrottando le sopracciglia.
-Niente di niente.- Ripeté, abbassando
per un attimo lo sguardo e tornando poi ad affrontare quel verde così
incantevole. -Abbiamo l'occasione di essere noi stessi per una notte,
non sprechiamola con stupide domande ordinarie che possiamo porci
ogni giorno.-
-Ti sbagli.- Daphne inarcò un
sopracciglio. Si sbagliava? Fece per aprire bocca ma Nathan scoppiò
a ridere. -Non abbiamo una notte
ma malapena quattro ore visto che alla cinque c'è il prossimo treno
per King's Cross. Devo infilarmi nel mio letto prima che mia madre
tiri giù tutto il palazzo con le sue urla... Diciamo che alla
vigilia di Natale non sarebbe decisamente l'ideale cominciare la
giornata in quel modo.-
La vigilia di Natale. Era
veramente il ventiquattro dicembre? Mancavano circa due settimane
all'inizio delle lezioni ad Oxford: due settimane e sarebbe potuta
tornare ai suoi alloggi, lontana dagli zii e dall'odio sviscerato che
correva reciprocamente.
-Allora sfruttiamo
come si deve queste quattro ore di naturalezza.- Si corresse,
allontanando con la squillante risata ogni cattivo pensiero.
Succede delle volte
che due vite si incrocino nella più completa inconsapevolezza.
Succede che il destino riesca a tessere con tanta perfezione la vita
di ciascuno da stupire anche il più scettico degli uomini. Succede
che due persone si incontrino e siano destinate e non slegarsi più.
Il lungomare di
Brighton era illuminato da molti lampioni ed era tristemente vuoto
rispetto le serate estive. Tuttavia passeggiavano ancora molti
gruppetti di ragazzi e, malgrado il freddo, sembrava che il lunapark
lavorasse a pieno ritmo come suo solito. Nathan si poggiò ad un
muretto, tirando fuori dalla tasca del cappotto un pacchetto di Lucky
Strike blu.
-Ne vuoi una?-
Disse, allungando la mano in cui stringeva il pacchetto di sigarette
nella direzione di Daphne. La ragazza annuì, prendendone una e
portandosela alle labbra. Nathan accesa prima quella ragazza e poi la
sua, sciogliendosi dopo la prima boccata in un sospiro quasi di
sollievo.
-Ti capita mai di
fuggire da te stessa?- Domandò ad un tratto Nathan, non lasciando
trasparire da nessuno dei suoi gesti quasi sentimento avesse mosso
quella domanda. Daphne lo osservò per qualche istante nel tentativo
di cogliere qualche suggerimento dalle sue azioni, ma si scontrò con
un muro quasi di indifferenza.
-Non
fuggo mai da me stessa. Fuggo
da ciò che spaccio essere me stessa.- Le parole scivolarono fuori
dalla sua bocca con una leggerezza inaudita, leggerezza che andò ad
alleviare velocemente anche il suo cuore. Nathan fissò un punto
indefinito a mezz'aria, voltandosi poi con una espressione rilassata
sul volto verso Daphne.
-Come se ciò che
gli altri pensano che tu sia non combaci con la realtà.- Constatò,
portando poi la sigaretta alle labbra.
-Come se non
riuscissi a far combaciare ciò che vorrei essere con quello che
sono.- Si guardarono nello stesso istante negli occhi e rimasero in
silenzio, come se ammutoliti da quel così improvviso ed
incredibilmente naturale contatto visivo.
Quelle quattro ore
passarono nella più completa normalità e semplicità. Per una volta
fu come se entrambi si fossero spogliati degli stereotipi, di tutte
le cose che si erano sentiti dire negli ultimi diciannove anni delle
loro vite. Si ritrovarono a ridere per cose piccole, apparentemente
insignificanti che quasi per magia si erano rivestite di significato,
di un valore precedentemente sconosciuto. Ammiccare, ridacchiare
sotto i baffi, darsi leggere spinte: fu come tornare ad uno stato
d'originarietà che aveva perso tempo prima per strada nel tentativo
di costruire le proprie vite.
-Un giorno mi
racconterai il perché di questo viaggio notturno?- Domandò Nathan
mentre passava un braccio intorno alle spalle di Daphne. Camminavano
sul lungomare, diretti agli scalini che portavano alla spiaggia.
-Un giorno sì,
forse.- Ridacchiò, stringendosi al petto di lui e godendo del calore
che le procurava. -Se mai ci sarà l'occasione.- Aggiunse, con una
nota di tristezza nella voce. Lui ricambiò il suo sguardo e Daphne
giurò di aver colto della malinconia anche in Nathan, ma lui non
rispose. Scesero silenziosamente in spiaggia e, dopo essersi tolti le
scarpe, si sedettero su una sdraio.
-Credi nel
destino?- Le domandò, fissando il mare.
-Penso che ci siano
le coincidenze.- Ribatté, passandosi una mano fra i capelli castani.
-Quindi pensi che
sia una pura coincidenza il fatto che ci siamo ritrovati sullo stesso
treno e nello stesso vagone?-
-Penso che sia
stata fortuna.- Si sorrisero, tornando poi a guardare l'acqua del
mare. Era tutto completamente buio a parte i lampioni ed il lunapark.
La luna brillava alta nel cielo assieme alle sue stelle.
-A Londra è
impossibile vedere le stelle con così tanta chiarezza.- Disse Nathan
con voce leggermente roca. Daphne dovette riflettere su cosa
rispondere mentre osservava curiosamente una stella che brillava più
forte delle altre.
-Già... Non le ho
mai viste così...- Mentì, concentrandosi su ciò che guardava per
non lasciare che qualche sua movenza la tradisse. In realtà nella
campagna dove viveva lei le stelle si vedevano sempre
perfettamente... Non c'erano edifici nel raggio di interi chilometri
e d'estate amava rifugiarsi in qualche posto sconosciuto ai suoi zii
ed osservare la volta stellata con la musica che suonava nelle
orecchie.
Il treno è giunto a Londra alla
stazione di King's Cross, preghiamo i passeggeri di scendere dai
vagoni senza dimenticare i propri effetti personali.
Quella voce
metallica sembrò quasi risvegliare Daphne da un sogno. Aveva quasi
il timore di aprire gli occhi e di scoprire che Nathan era stato
semplicemente frutto della sua immaginazione. Eppure fu proprio una
delicata e gentile carezza sui suoi capelli che le fece riacquistare
fiducia e quando sbatté le palpebre, si ritrovò poggiata sul petto
di Nathan. Si era evidentemente addormentata in quella posizione
quando erano partiti da Brighton con il treno delle cinque e dieci.
Sbatté un aio di volte le palpebre quasi a volersi accertare per
l'ennesima volta che fosse tutto reale e poi si stiracchiò, notando
che Nathan era già sveglio e la guardava con dolcezza, carezzandole
delicatamente i capelli.
-Hai dormito bene?-
Domandò, alzandosi poi e sistemandosi la giacca e la sciarpa. Daphne
annuì ricambiando il sorriso ed alzandosi a sua volta.
-Grazie per la
compagnia.- Disse con un tono basso ma convinto di essere udito dalla
persona interessata. Nathan lasciò che il suo sorriso si allargasse
ulteriormente, guardando Daphne negli occhi.
-Grazie a te. Hai
reso una serata pessima una delle migliori della mia vita.- Se non
fossero stati presi dal scendere dal treno, probabilmente Nathan
avrebbe notato il colore porpora che si era diffuso su tutto il volto
di Daphne. Inutile dire che non solo la presenza del ragazzo le
faceva un certo effetto, ma anche determinate frasi avevano il loro
ruolo.
A quell'ora la
stazione di King's Cross era decisamente molto più popolata. I due
arrivarono all'uscita dell'edificio e per qualche istante rimasero in
silenzio a fissare le porte scorrevoli che si aprivano e chiudevano
in continuazione.
-Posso almeno
domandarti se ci rivedremo?- Domandò ad un certo punto Nathan,
voltandosi con un leggero sorriso sulle labbra verso Daphne. Lei si
morse il labbro inferiore prima di aprirsi in un dolce e largo
sorriso.
-Magari ci
beccheremo su un altro treno.- Rispose, sistemandosi poi una ciocca
di capelli dietro l'orecchio. Lui ridacchiò, fissandosi per qualche
istante le punte delle scarpe.
-Come torni a casa?
Hai bisogno di un passaggio? Ho la macchina parcheggiata qui
fuori...- Agitò un mazzo di chiavi fra le dita.
-Non ti
preoccupare.- Daphne sperò vivamente di non essere arrossita. Non
poteva dirgli che non viveva a Londra e che era della periferia di
Reading. -Me la so cavare da sola.- Le balenò in mente l'esperienza
della sera precedente e per poco riuscì a soffocare una risata.
Evidentemente a Nathan era passato lo stesso pensiero per la mente
visto che sorrideva sornione.
-Okay, allora ci
vediamo...- Nel momento in cui pronunciò l'ultima sillaba posò le
sue labbra su quelle di Daphne e si beò delle scariche che
attraversarono il suo corpo.
Daphne inizalmente
rimase interdetta, poi però lasciò che le sue braccia andassero a
cingere il suo collo, stringendolo a sé. Era più alto di lei e nel
momento in cui si sollevò sulle punte i loro corpi aderirono alla
perfezione. Fu un bacio lungo, intenso, un bacio d'addio. Si
perché fondamentalmente quello era un addio. Quante possibilità
avevano di rincontrarsi su un treno? Partivano centinaia di treni da
Londra, molti per le stesse destinazioni a soli pochi minuti di
distanza. E se anche si fossero mai rincontrati... Daphne non sarebbe
mai stata in grado di integrarsi nel mondo di Nathan e probabilmente
quest'ultimo non avrebbe mai accettato il suo. Quando si
allontanarono le mani di Nathan rimasero a carezzare dolcemente la
schiena di Daphne; rimasero qualche istante a perdersi l'uno negli
occhi degli altri. Passarono secondi, minuti, ore forse mentre si
bearono di quel contatto fisico, di quelle sensazioni che scaturivano
da ogni piccolo gesto, prima che qualcuno interrompesse quella magia.
-Io devo andare.-
Mormorò Nathan sulle labbra di Daphne. Lei annuì, posando un'ultima
volta la propria bocca su quella del ragazzo in un soffice bacio a
fior di labbra.
-A presto.-
Mormorò, cercando di convincersi con le proprie parole.
-A presto, Daph.-
La baciò sulla fronte, posando entrambe le mani sulle sue guance
bollenti. Poi Nathan si allontanò, regalandole da lontano un ultimo
sorriso. Daphne restò in piedi immobile nello stesso identico punto
in cui lui la lasciò per circa cinque minuti, come se inebetita da
quei contatti, da quella vicinanza così estranea eppure così
incredibilmente essenziale e piacevole.
Dopo essersi
riscossa dal suo torpore ed aver preso il biglietto, salì sul treno
diretto ad Oxford. Controllò il cellulare e notò che, tanto per
cambiare, non aveva ricevuto nessuna chiamata: come se dalle dieci
della sera precedente lei non fosse scomparsa di casa. Poteva esserle
successa qualsiasi cosa eppure sembrava che a nessuno gliene
importasse. Sospirò, sedendosi poi sulla poltrona come sempre vicino
al finestrino. Lanciò distrattamente uno sguardo a chi sedeva al
lato opposto e rimase delusa quando al posto di Nathan vide un
signore anziano intento a leggere il “The Economist”.
Eccomiqui con il primo capitolo! Spero che io sia riuscita ad attirare unpo' la vostra attenzione e la vostra curiosità. Daphne e Nathansicuramente si incontreranno nuovamente... ma dove? In qualicircostanze? Saranno gli stessi di questa notte? Se vi è piaciuto ilcapitolo, se avete qualche critica da fare, lasciate le vostrerecensioni che vi assicuro che stimolano l'autore ad aggiornare anchemolto più in fretta! Un abbraccio a tutti! |
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Capitolo 2 *** Capitolo Secondo. ***
MidnightTrain CapitoloSecondo.
Erano
passate tre settimane da quella strana ed incredibilmente non
ordinaria vigilia di Natale. Nonostante fosse cominciato il 2011 e le
lezioni ad Oxford fossero cominciate, l'immagine del sorriso di
Nathan tardava a scomparire dai ricordi di Daphne.
Non lo
aveva né sentito né, ovviamente, rivisto dopo quell'ultimo bacio
che si erano scambiati a Londra e, di certo, non si sarebbero
rivisti. Lei era rinchiusa ad Oxford fino a luglio e lui chissà
dov'era. Non sapeva né se studiava o lavorava, né quale università
frequentava, né quanti anni aveva... Era un perfetto sconosciuto che
tuttavia le era incredibilmente familiare nei suoi ricordi. In
conclusione doveva smetterla di pensare a Nathan e a quella notte a
Brighton, altrimenti sarebbe finita con il non seguire più neanche
mezza parola delle lezioni. Scosse la testa, fissando il quaderno
degli appunti vuoto in una maniera imbarazzante in confronto a quelli
degli altri studenti. Si trovava nella biblioteca principale
dell'università e cercava inutilmente di farsi entrare in testa
delle nozioni di storia. Era iscritta alla facoltà combinata di
Politica e Storia e nell'ultimo periodo proprio quest'ultima materia
sembrava approfittarsi della sua distrazione cronica.
-Daphne, io
e Evan ci andiamo a prendere un caffè, vieni con noi?-
Daphne alzò
lo sguardo dal quaderno, togliendosi gli occhiali che usava per
studiare ed incrociando lo sguardo di Victoria, la sua amica più
stretta lì ad Oxford. Annuì, raccogliendo le proprie cose e
sistemandole nella borsa di pelle. Quando ebbe terminato si alzò e
seguì i due amici fuori dalla biblioteca.
Arrivarono
in meno di dieci minuti ad una caffetteria che si trovava sulla
strada principale di Oxford. Vivere in quella piccola e graziosa
città universitaria era la cosa più bella che fosse capitata a
Daphne nei suoi diciannove anni di vita. I suoi genitori erano morti
quando aveva sette anni e da quel momento in poi aveva cominciato a
vivere con gli zii che sfortunatamente non le avevano reso la vita
facile. Si sedettero ad un tavolino abbastanza isolato dopo aver
preso le bevande scelte.
-Il
professor Brown sta diventando incredibilmente noioso e fastidioso.-
Decretò ad un certo punto Victoria, bevendo un lungo sorso del suo
cappuccino. -Non è possibile che ogni settimana io debba scrivere
tre saggi brevi e leggere una decina di libri.- Continuò, pulendosi
le labbra con il fazzoletto. -Ho capito che sono ad Oxford e che è
tosta, ma non può esagerare a questi livelli.-
Evan e Daphne si strinsero nelle spalle. Il professor Brown era il
loro professore di Storia e nell'ultimo periodo aveva cominciato a
stressare come non mai i propri studenti. Forse era indispettito dal
fatto che dei nove studenti dell'anno precedente solo quattro
avessero deciso di continuare a frequentare storia oltre a politica,
ma ciò non giustificava quel incredibile accanimento nei confronti
dei pochi fedeli.
-Hai
già letto la lista di libri che ci ha dato per questa settimana?-
Domandò Evan, addentando poi il suo croissant. Victoria e Daphne
scossero la testa, attendendo un continuo. -Sono undici libri sul
ventesimo secolo.- Decretò, mentre Victoria per poco non si
strozzava.
-Cambiando
argomento no...- Propose Daphne, posando la tazza ormai vuota sul
tavolino. -Sapete che oggi è il grande giorno?- Victoria ed Evan si
illuminarono, trascinati via dai tediosi argomenti di vita
universitaria.
-Cioè?
Si sono decisi a sbattere fuori Bro...- Evan non poté terminare la
frase perché Victoria gli assestò un micidiale colpo di gomito in
mezzo alle costole.
-C'è
il Big Match.- Disse soddisfatta Daphne, gustandosi le facce
meravigliate dei suoi amici.
Ben peggiore delle rivalità
ordinarie fra studenti troppo competitivi, era il conflitto secolare
che si era instaurato fra le due università più importanti
dell'Inghilterra: Oxford e Cambridge. Entrambe le università avevano
non solo cervelli formidabili dalla loro parte, ma anche invidiabili
ed allenati gruppi sportivi in tutte le discipline. Tuttavia dopo la
famosissima e seguitissima canoa, veniva il calcio. Ogni anno le due
università si sfidavano a gennaio per dimostrare quale fosse la più
forte non solo intellettualmente ma anche fisicamente. I preparativi
erano stati talmente sfarzosi ed insistenti che Daphne, malgrado la
sua bandata per lo Sconosciuto (chiamava così Nathan), li aveva
notati più volte. Victoria ed Evan si rimproverarono decine di volte
di essersi dimenticati di quel giorno così importante e rimediarono
immediatamente presentandosi nella Sala Comune del Brasenose College
con le felpe ed i colori della loro università.
Per
quanto durante l'anno i trentuno college in cui era divisa
l'università di Oxford cercassero di mettersi i piedi in testa a
vicenda, in quelle occasioni particolari si schieravano in massa
contro Cambridge, pronti a non darla vinta ai nemici.
Per gli ultimi cinque anni l'università rivale aveva battuto Oxford
e, quell'anno, erano ben decisi a riscattarsi, soprattutto per il
nuovo attaccante proveniente dal Keble College: una promessa del
calcio a detta di molti.
Alle
tre lo stadio dell'università di Oxford era gremito di tifosi di
entrambe le squadre e il blu ed il giallo troneggiavano. Mancavano
esattamente trenta minuti al fischio d'inizio e Daphne sedeva accanto
a Victoria, intenta ad addentare il suo hot-dog.
-Quest'anno
li dobbiamo fare neri!- Esordì ad alta voce un ragazzo che si
sedette davanti al trio, alzando al cielo la mano. -Vai, ragazzi!-
Urlò verso il campo, malgrado nessuno potesse sentirlo.
Daphne
si guardò intorno, mentre un sorriso le si dipingeva con naturalezza
sulle labbra. Amava quell'università per il fatto che permetteva che
così tante persone di etnie e classi sociali differenti potessero
incrociarsi grazie alle loro capacità intellettuali. A nessuno
importava se lei non poteva permettersi dei costosi jeans o se girava
con il felpone dell'università ed i capelli sfatti per i dormitori.
Era il suo mondo, quello, ci si sentiva perfettamente a suo agio e
neanche i figli di papà le incutevano timore in quanto, alla fine
dei conti, all'interno di quelle mura secolari erano tutti uguali e
lontani dagli stereotipi che sopportavano le rispettive famiglie.
-Quest'anno
vinciamo di sicuro.- Disse Rebecca, una ragazza del loro college che
studiava medicina, sedendosi affianco a loro con una bustina piena di
patatine fritte.
-Da
cosa deriva tanta sicurezza?- Domandò scettico Evan, passandosi una
mano fra i capelli biondi.
-Il
nuovo attaccante, non avete sentito?- Incalzò la mora, mangiando con
gusto un paio di patatine mentre l'arbitro entrava in campo.
-Un
ragazzino del primo anno ora dovrebbe farci miracolosamente vincere
contro Cambridge vorresti dirmi?- Questa volta era Victoria ad essere
scettica. Rebecca ridacchiò, scuotendo la testa.
-Invece
è un ragazzino del
terzo anno.- Affermò soddisfatta.
-Per
quale motivo si è deciso solo all'ultimo anno a giocare a calcio?-
Domandò curiosa Daphne, mandando giù l'ultimo boccone del suo
hot-dog.
-Troppo
impegnato a studiare Economia e a passare tutti i fine settimana a
Londra.- Rebecca si strinse nelle spalle, mentre la squadra di
Cambridge veniva accolta in campo da fischi e urla di disapprovazione
da parte della comunità studentesca di Oxford.
Si
levarono differenti cori e, come sempre, tutti si ritrovarono
abbracciati a persone totalmente sconosciute a cantare testi mai
sentiti primi ed imparati al volo. Quando la squadra che vestiva il
colore blu entrò in campo un boato partì dalle schiere riservate
all'università che giocava in casa e diversi striscioni furono
levati in aria.
-Nathan,
facci sognare!- Urlò qualcuno alle spalle di Daphne. La ragazza si
giro, guardando basita un ragazzo con gli occhiali che gridava a gran
voce il nome dello Sconosciuto. Stupida, Daphne, sai quanti
Nathan esistono al mondo? Scosse
la testa, cercando di evitare il ragazzo alle sue spalle che
continuava ad esaltare quel nome.
-Come
si chiama questo nuovo attaccante?- Domandò Evan, mentre insieme a
Daphne cercava di vedere il campo, oscurato dalla miriade di
striscioni che erano stati levati al cielo.
-Nathan
Crawford.- Disse semplicemente Rebecca.
Daphne
si maledì per non avergli neanche domandato il cognome e cercò
disperatamente di riuscire a dare un'occhiata al campo, senza
successo.
-Daph,
cos'è quell'espressione così agitata?- Domandò all'improvviso
Victoria. La castana si girò, trovandosi addosso gli sguardi
inquisitori dei suoi tre amici. Arrossì, scuotendo poi con forza la
testa ed agitando la mano.
-Oh,
niente, solo che... Questi maledetti striscioni mi irritano, vorrei
vedere il campo!- Arrancò, continuando a sorridere come un ebete.
Gli amici scrollarono le spalle, sistemandosi poi per guardare la
partita. Fortunatamente le simpatiche ragazze che avevano
alzato gli striscioni, si decisero finalmente di permettere anche
agli altri studenti di gustarsi la partita.
Nel
momento in cui la visuale fu libera, gli occhi di Daphne cercarono
istintivamente Nathan Crawford. Interiormente era combattuta: da un
lato avrebbe voluto follemente rivederlo, dall'altro temeva di
scoprire che anche lui fosse uno studente di Oxford perché lei con
quella perfezione non aveva nulla a che fare. Una semplice ragazza
di campagna. Scosse la testa ed in quel preciso istante i suoi
occhi riconobbero una figura ben nota. Alto, fisico slanciato e
capelli neri. I capelli neri di Nathan erano illuminati dalla flebile
luce del sole che li donava dei meravigliosi riflessi. Correva
insieme ai suoi compagni di squadra, completando l'allenamento. Come
gli altri indossava una maglietta blu, aderenti e con le maniche
lunghe e i pantaloncini del medesimo colore con dei dettagli gialli
esaltavano i muscoli affusolati delle sue gambe quando correva.
Nathan.
Aveva ritrovato il suo Nathan.
Nonostante
il suo cuore fosse incredibilmente più leggero, contemporaneamente
una malinconia la invadeva: ora sapeva come si chiamava, dove e cosa
studiava, avrebbe potuto conoscerlo veramente, ripetere quelle
chiaccherate della vigilia, rifare quelle passeggiate... Eppure
qualcosa dentro di lei le diceva che sarebbe stato solamente tempo
sprecato. Malgrado fosse la prima a ritenere che Oxford desse la
possibilità a tutti di integrarsi, sentiva che quella perfezione di
stampo londinese era troppo anche per i canoni
dell'università. Era dell'ultimo anno, era un Crawford, faceva
parte di una famiglia radicata da secoli nel parlamento e nella
nobiltà inglese. Che speranze avrebbe mai potuto avere lei di fare
parte del suo mondo?
Scosse
nuovamente la testa e non riuscì a evitare che i suoi occhi
seguissero attentamente i movimenti del ragazzo. Quando segnò il gol
vincente per Oxford, il suo nome le riempì talmente tanto le
orecchie da inebriarle completamente il cervello.
La vittoria
di Oxford dopo cinque lunghi anni portò le conseguenze tanto attese
da tutta la popolazione studentesca e non. Gli stessi professori
andarono a festeggiare nel pub per eccellenza dell'università.
Nonostante
la mente di Daphne fosse completamente annebbiata dal nome e
dall'immagine di Nathan, non poté non farsi trascinare da quei
festeggiamenti. Infondo era un evento che uno studente poteva vivere
massimo una volta nel corso della sua permanenza ad Oxford e lei, di
certo, non voleva farsi mancare nulla.
-Li
abbiamo fatti neri!- Esultò Evan, stringendo in un abbraccio un
certo George. C'era da dire che i maschi assomigliavano seriamente a
degli scimmioni quando erano intenti a festeggiare qualcosa.
-Daphne!
Victoria!- Rebecca raggiunse le due ragazze, porgendoli due boccali
di birra strapieni. -A quanto pare stasera offre la casa! Non ho mai
visto il proprietario così gioioso!- Le tre ragazze sorrisero,
bevendo poi la bevanda ghiacciata.
-Oh
ma i giocatori quando arrivano?- Domandò Victoria guardandosi
curiosamente intorno.
-Faresti
meglio a domandare: quando arriva Damien?- Gongolò Rebecca, facendo
cin cin con il boccale dell'amica.
-Beccata!-
Daphne le puntò il dito contro, ridendo.
Tuttavia
ben presto si ritrovò a seguire lo sguardo dell'amica nella ricerca
dei giocatori di calcio. Nathan Crawford era uno di loro e, in cuor
suo, moriva dalla brama di vederlo. Chissà se lui si ricordava
ancora di lei? Chissà se l'aveva mai pensata in quelle tre lunghe
settimane?
-Un
applauso ai campioni!- Le urla provenienti dall'ingresso annunciarono
l'arrivo della squadra. Le ragazze più ubriache si fiondarono
addosso ai nuovi arrivati, strusciandosi loro addosso più del
dovuto. Daphne riconobbe immediatamente Nathan; aveva il suo
portamento elegante, pesato in ogni singolo movimento. Sembrava quasi
che si distinguesse al di sopra di tutti gli altri presenti a quei
festeggiamenti. Quando una ragazza dai capelli rossicci gli si fiondò
addosso, gettandogli poi le braccia al collo e baciandolo, il cuore
di Daphne si gelò, ma lui restò impassibile, immutato
esteriormente. Passò solamente un braccio intorno alla vita della
ragazza e accettò un boccale di birra che gli veniva offerto. Daphne
deglutì, buttando giù ciò che restava della sua birra, e si guardo
intorno. Notò immediatamente che Evan era finito addosso ad un muro
con Rebecca, tanto per cambiare, e che Victoria era accanto al
(secondo lei) meraviglioso Damien vicino al bancone. Begli amici,
lasciarla sola nel momento del bisogno! Scosse la testa, incrociando
le braccia sotto al seno e osservando ripugnata una coppia che si
stava baciando con una tale intensità da farle attorcigliarle le
budella.
Girò
prontamente i tacchi e si incamminò nella direzione del maxi
barattolo di Heineken dove riempì nuovamente il suo bicchiere.
Tuttavia la sua impresa fu interrotta da un ammasso di muscoli che le
cadde praticamente in braccio facendole non solo rovesciare
interamente il contenuto del bicchiere, ma anche perdere
l'equilibrio.
-James!
Stai fuori come un balcone!- Una voce fin troppo conosciuta
rimproverò il ragazzo che le era caduto addosso. Nathan Crawford
sollevò James da terra e gli diede un paio di schiaffi per farlo
riprendere. Daphne abbassò istintivamente lo sguardo, tentando di
evitare un qualsiasi contatto con il ragazzo ma, ovviamente, fallì
nella sua impresa.
-Ehi,
scusami!- La voce traballante di James fece alzare gli occhi da terra
a Daphne che, immediatamente, lasciò che il suo sguardo si
intrecciasse con quello di Nathan.
-Di
niente.- Mormorò con un filo di voce, mentre l'espressione di Nathan
assomigliava sempre più alla sua: pura sorpresa.
-Accompagnaci.-
Nathan invitò gentilmente Daphne a seguirlo. Entrarono nella parte
posteriore del locale e la ragazza aiutò Nathan a stendere James sul
divano. Dopo aver portato l'acqua ed una bacinella per il dopo
sbornia all'ubriaco, per la prima volta Nathan e Daphne rimasero in
silenzio a guardarsi negli occhi. Sembrò essere passato un secondo
da quel bacio a King's Cross. Sembrò che tutto fosse incredibilmente
recente, incredibilmente normale. Eppure contemporaneamente era come
si ci fosse una barriera di parole non dette e pensate fra loro.
-Studi
ad Oxford anche tu allora...- Constatò Nathan guardando la felpa di
Daphne con un sorriso. -A che college stai?- Aggiunse, sedendosi su
una sedia lì vicino. Lei lo imitò, accennando un sorriso. Era tutto
terribilmente sbagliato.
-Al
Brasenose.- Rispose, torturandosi una ciocca di capelli. -Tu sei al
Keble, vero? Oggi non si faceva altro che parlare di “quella stella
del calcio di Crawford”.- Sorrise con dolcezza, ricambiando il suo
sguardo di tanto in tanto.
Mentre
lui le parlava della sua quotidianità, di tutte quelle domande
troppo personali che non si erano posti a Brighton, Daphne osservava
inevitabilmente lui e la persona che era. Tralasciando il discorso
che Oxford univa intellettualmente tutti i suoi studenti, nessun
avrebbe potuto negare il baratro che c'era fra lei e lui. Bastava
osservare come era vestito, i racconti che faceva sulla sua vita a
Londra servito e riverito dalla sua famiglia, la sua casa nel pieno
centro proprio accanto al palazzo reale. Lei cosa mai avrebbe potuto
raccontargli? Di come d'estate lavorava in un misero fornaio aiutando
il signor Perkins a fare il pane e il dolci?
-Avresti
potuto dirmelo che stavi ad Oxford. Ci saremmo incontrati sicuramente
prima...- Disse con un dolce sorriso, allungando poi il braccio per
stringere la mano della ragazza. Daphne fu scossa da un tremito e
lasciò che le sue dita si incrociassero con quelle di Nathan.
Poteva
essere così sbagliato quel contatto così incredibilmente
piacevole?
Sorrise
quando lui le passò un braccio dietro la schiena, stringendola con
dolcezza al proprio petto e lasciandole un morbido bacio fra i
capelli.
-Mi
sono maledetto per non averti chiesto il numero e per non esserti
riuscito ad incontrare in nessun posto a Londra.- Sorrise, chiudendo
gli occhi e continuando a passare le dita fra i lunghi capelli di
Daphne. -Lo so che Londra è immensa ma il centro è uno solo e
magari nelle discoteche più frequentate... Mi sono sentito un idiota
a cercarti fra la folla.- Ridacchiò, soffocando la risata fra i
capelli castani. Daphne si sciolse completamente in quell'abbraccio e
mandò a quel paese tutti i suoi pregiudizi sulla loro differenza di
classi sociali e su tutti i problemi che sarebbero potuti nascere fra
loro ma ne tralasciò uno che non aveva neanche minimamente
considerato.
-Madison?-
Madison?
La voce di Nathan la fece voltare di scatto e quel dolce contatto
terminò bruscamente. Madison Linton era in piedi vicino allo stipite
in tutta la sua altezza e la sua bellezza. Daphne aveva un carattere
molto docile e gentile e solitamente non era tipo da farsi nemici.
Eppure quella dannata ragazza non l'aveva potuta vedere dalla prima
volta che aveva varcato la soglia del dipartimento di relazioni
internazionali e negli ultimi due anni la principessa bionda non
aveva fatto altro che punzecchiare Daphne e, quest'ultima, aveva
sempre provato a prendere le distanze da quella vipera.
-Nath,
da quand'è che frequenti questa gente di basso borgo?- Domandò
altezzosa, avvicinandosi suadente a Nathan lasciandogli un bacio
sulla guancia. Era lei la ragazza che precedentemente gli si era
strusciata addosso, come aveva fatto a non riconoscerla
immediatamente? Stupida, stupida idiota. Si era illusa nuovamente.
Avrebbe dovuto tenere sempre bene a mente che Nathan proveniva da un
gruppo differente di persone, che frequentava persone come Madison,
l'alta società londinese...
-Quand'è
che ci porti un po' di baguette?- Domandò con cattiveria, fissando
gli occhi blu di Daphne. La ragazza trasalì: si era completamente
dimenticata del fatto che quella idiota conosceva le sue occupazioni
estive in quando aveva una residenza anche a Reading. Scosse la
testa, lottando contro se stessa per non far scendere le lacrime.
Nathan fissava attonito sia Madison che Daphne.
-Di
che parli?- Domandò ad un tratto, guardando Madison. Il sorriso
trionfante della ragazza di allargò ulteriormente.
-Ma
come, la campagnola non ti ha mai raccontato delle sue attività
estive?- Cinguettò, beandosi dell'espressione tramortita di Nathan.
-Campagnola?-
No, era decisamente un incubo. Daphne si alzò di scatto, passandosi
una mano fra i capelli nervosamente.
-Non
sapevi che la signorinella vive in una fattoria nella campagna di
Reading?- Le mani di Daphne si strinsero in un pugno. Guardò Nathan
ma lui non disse una parola, pendeva completamente dalle labbra di
Madison continuando però a guardarla. Non disse nulla: né per
difenderla, né per accusarla, né per dire che non gliene potesse
importare di meno. Non disse assolutamente nulla ed un muro
pesantissimo di creò fra lui e Daphne. Cosa poteva mai aspettarsi
infondo? Che dicesse non gli interessava che fosse una campagnola?
Non sarebbe mai accaduto. Erano tutte balle il fatto che i pregiudizi
fossero terminati. Erano tutte stronzate.
Daphne
uscì velocemente da quella stanza, uscì velocemente dal pub senza
neanche cercare Evan, Victoria o Rebecca. Uscì per strada
stringendosi nella propria giacca e tirò su il cappuccio della sua
felpa.
Cosa
si aspettava infondo? Nathan non lo conosceva neanche. Ci aveva
scambiato quattro chiacchere su un treno per Brighton alla vigilia di
Natale, si era comportato in una determinata maniera con lei perché
non sapeva niente della sua vita, del suo presente... Pensava che
vivesse a Londra, come lui, pensava che magari fosse una ragazza
benestante, una ragazza da presentare ai nobili genitori senza creare
scalpore.
Possibile
che nel 2011 dovesse ancora vergognarsi della sua provenienza, di chi
fosse? Affondò i denti nel labbro inferiore fino a sentire il sapore
metallico del sangue nella sua bocca. Come aveva fatto ad illudersi
su Nathan Crawford? Quello stesso ragazzo che l'aveva baciata a
King's Cross come poteva essere quello che non aveva spiccicato mezza
parola mentre quella vipera di Madison la insultava gratuitamente? Ed
ora che se ne era andata e che vagava senza una meta per la cittadina
universitaria, magari lei lo stava baciando ancora con passione fra
una battuta e l'altra sulla ragazza di Reading, sulla fornaia.
Magari era bastato sapere che viveva in una fattoria per cancellare
le quattro ore più belle che potesse ricordare su una sdraio in riva
al mare.
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Capitolo 3 *** Capitolo Terzo. ***
Midnight Train Capitolo Terzo.
La vita
sembrava amare tirare scherzi formidabili nell'ultimo periodo. Da
quando Daphne si era legata al dito l'ultimo incontro con Nathan e si
era imposta di cancellarlo furiosamente dai propri pensieri,
stranamente le occasioni di incontrarlo erano quadruplicate.
Nell'ultimo
anno e mezzo che aveva trascorso ad Oxford non aveva mai avuto
l'occasione di incontrarlo, nemmeno per sbaglio, nemmeno da lontano:
Nathan Crawford era stato un fantasma. Eppure nel momento in cui si
era decisa ad evitarlo, appoggiata dal fatto che fossero in due
college differenti, magicamente compariva ovunque: nella biblioteca
comune, nelle riunione della comunità studentesca, nelle conferenze
tenute da importanti membri del parlamento e non. Ogni volta che si
guardava intorno, incrociava inevitabilmente la sua imponente figura.
Che poi fosse stato un ragazzo anonimo, uno di quelli che sembravano
più un fantasma che una persona... No. Nathan Crawford era
decisamente il tipo di ragazzo che quando entrava attirava
l'attenzione di chiunque e gli sguardi di chiunque: ragazze
follemente innamorate, ragazze che pensavano a come portarselo a
letto, ragazzi invidiosi del successo che riscuoteva e ragazzi
ammaliati dalle sue doti calcistiche. Nathan Crawford e la sua
sciarpa di Burberry erano sinonimo di popolarità.
Così
Daphne aveva cominciato ad evitare differenti luoghi ad Oxford, a
partire dalla biblioteca comune. Il Brasenose College vantava di una
meravigliosa biblioteca, perché mai doveva andare in quella comune
che non solo era lontana ma dove per prendersi un posto a sedere
bisognava darsele di santa ragione a suon di libri antichi?
Erano
passati esattamente dieci giorni da quella partita di calcio e dalla
vittoria di Oxford e Daphne sedeva ad un tavolo di legno antico con
un enorme tomo sulle trattative di pace nel corso della prima guerra
mondiale. Prendeva appunti su un quaderno che teneva alla destra del
libro, tenendo la testa poggiata sulla mano sinistra. Di tanto in
tanto si sistemava gli occhiali e si legava meglio i capelli. La sua
nuova tecnica era: essere il più anonima possibile. Se Nathan e
Madison erano pilastri di fama e notorietà non si sarebbero accorti
più di tanto dell'ennesimo topo di biblioteca, giusto? Daphne era
sempre stata una ragazza riservata, che preferiva studiare piuttosto
che andare alle feste organizzate dai diversi college, ed ora non
doveva fare altro che continuare a vivere la sua vita secondo quei
parametri. Quella mattina infatti indossava un paio di jeans scuri,
un maglione decisamente troppo largo (probabilmente della zia, una
signora molto in carne) e teneva i capelli legati in una coda alta.
Rebecca l'avrebbe definita una mise anti-stupro.
Fondamentalmente Oxford pullulava di elementi studiosissimi che
sapevano a memoria interi libri, non era una cosa originale
integrarsi in quel gruppo di elementi. Daphne alzò la testa
guardando circospetta gli altri studenti presenti: c'era il classico
gruppo di asiatici che parlava rigorosamente in cinese e, o
giapponese, c'era il topo infognato di turno, in quel caso Jeremy
Button e la sua faccia brufolosa adornata da spessissimi occhiali, ed
infine c'erano un paio di sgallettate entrate ad Oxford grazie a
innumerevoli raccomandazioni che disegnavano cuoricini sui loro tomi
nuovi di zecca. Scosse la testa, tentando di tornare a concentrarsi
sulle trattative di Versailles. Tuttavia un continuo sbattere di
porte le fece alzare di scatto la testa e le fece guardare irritata
il gruppo di ragazze che trafficavano vicino alla porta con dei
volantini in mano. L'espressione di Jeremy sembrava dire “Ora
vi attacco con il mio libro di Fisica Quantistica”,
quella degli asiatici sarebbe potuta essere riassunta in una marea di
frasi incomprensibili a chiunque non fosse del loro gruppo e quella
di Daphne era semplicemente irritata ma, tutto sommato, anche
incuriosita. Le ragazze appesero un paio di volantini alla
bacheca, allontanandosi poi fra le loro cinguettanti risate. Daphne
si alzò, riportando il libro alla bibliotecaria ed incamminandosi
verso l'uscita della Sala di Lettura. Chiuse silenziosamente la porta
alle proprie spalle e guardò incuriosita l'annuncio che era stato
appena appesto:
Il
Brasenose College ed il Keble College
sono
lieti di annunciare la loro nuova alleanza;
per
festeggiare la fusione dei nostri secolari istituti
questa
sera si terrà la cena nella mensa del Brasenose College alle ore
19.30.
Daphne
strabuzzò gli occhi e fissò attonita l'annuncio. Era decisamente
una presa in giro. Una presa in giro di dimensioni colossali fra
l'altro. Si guardò intorno quasi alla ricerca di una telecamera
pronta a riprendere la sua espressione sbalordita ma non vide altro
che un gruppetto di ragazze, probabilmente del primo anno, che
guardavano con occhi a forma di cuore l'annuncio.
«Magari
incontreremo qualche ragazzo carino.» Disse con aria sognante una
ragazza dal viso tondo e dai boccoli biondi.
«Magari
avrò finalmente l'occasione di parlare con Evan.» Disse sognante
una moretta dagli occhi a mandorla. Stava parlando di Evan
Montgomery, ovvero il suo migliore amico? Poteva veramente piacere a
qualcuno che non fosse Rebecca Johnson?
«Ma
la smettete di dire cavolate? Vi siete scordate chi è del Keble
College?» Una ragazza bionda dai tratti del viso spigolosi si fece
avanti in quel gruppetto e fissò con un sorriso soddisfatto sulle
labbra l'annuncio. «Nathan Crawford.» Decretò alla fine,
provocando sospiri sognanti nelle altre ragazze. Così girò i tacchi
e se ne andò ondeggiante con al seguito le altre ragazze.
Daphne
fissò per qualche altro minuto il volantino con aria sconcertata,
scosse poi la testa e si allontanò, stringendo forte il manico della
borsa.
Dal
momento che quel maledetto ragazzo non doveva assolutamente
offuscarle la mente e che quella lezione di politica si prospettava
molto interessante, quando varcò la soglia dell'aula si sedette
nella prima fila e non, come suo solito, verso il fondo insieme a
Victoria ed Evan. Aprì il quaderno degli appunti, si mise gli
occhiali e cercò di non perdere nessun passaggio del discorso del
professor Collins.
Fondamentalmente
cosa le interessava di quella grande serata di festeggiamenti fra il
Keble ed il Brasenose? Sarebbe stata una cena come le altre: prima un
aperitivo in cui i ragazzi come Evan ci avrebbero provato con le
ragazze del Keble, poi la cena, dove grazie ai posti assegnati le due
popolazioni studentesche si sarebbero potute mischiare e conversare
dei più svariati argomenti ed infine un after dinner, che
solitamente consisteva nel riunirsi nella Sala Comune e parlare, bere
qualcosa al bar e fumare qualche sigaretta nel cortile.
Non
ci sarebbe andata, ecco tutto. Per quale motivo si sarebbe mai dovuta
vestire elegantemente, sistemarsi i capelli, scendere a cena per
rovinarsi l'umore ritrovandosi davanti quella vipera di Madison, quel
idiota di Nathan e tante altre persone che la urtavano pesantemente?
In fondo il Keble era il classico college, anche più del Brasenose,
frequentato dagli ex-studenti di scuole private e prestigiose e, di
conseguenza, sarebbe stata un'allegra rimpatriata fra ricchi membri
della nobiltà dalla quale sarebbero rimasti esclusi i topi da
biblioteca, gli asiatici e persone come lei.
Importava poco che Evan, Rebecca e Victoria avessero frequentato
ottime scuole e che avrebbero potuto presentarla anche ai pezzi
grossi dell'alta società
inglese: l'avrebbero sempre urtata gli sguardi inquisitori di persone
che cercavano di contare quanti soldi avesse in tasca.
«Quindi,
come scadenza vi do il tredici febbraio.» La voce del professore
svegliò Daphne dai suoi pensieri. No, non era possibile, nonostante
si fosse messa appositamente al primo banco era riuscita a distrarsi?
Maledizione! «Vi manderò per e-mail i testi che dovrete leggere.»
Aggiunse, sorridendo tranquillo. Daphne tirò velocemente fuori la
sua agenda dalla borsa e segnò sul tredici febbraio la scadenza. La
scadenza di cosa poi se era riuscita a perdersi quarantacinque minuti
di lezione?
Mentre
gli studenti si precipitavano fuori dall'aula per andare a pranzo,
Daphne temporeggiò nel raccogliere i propri libri e nel sistemarli
nella borsa. Victoria ed Evan si avvicinarono, guardandola con
curiosità.
«A
cosa pensi?» Domandò Evan, facendola sobbalzare.
«A
chi pensi?»
Puntualizzò Victoria. Erano i suoi due migliori amici ma non
sapevano niente della storia di Nathan, del treno per Brighton, di
ciò che era successo nel pub quella sera.
«Io...
E' tutto apposto, davvero, solo che non riesco a dormire
ultimamente.» Arrancò Daphne, sistemandosi la borsa sulla spalla.
«E'
dal Big Match che ti vediamo strana, vero Evan?» Insistette
Victoria, stuzzicandola con una gomitata. Evan annuì ed Daphne
rifilò un'occhiataccia ad entrambi. Si erano addirittura alleati per
farle quel discorsetto?
«Va
tutto bene, solo che tutti questi saggi brevi mi stanno facendo
seriamente irritare.» Mentì, incamminandosi fuori dall'aula.
«Ed
è per questo che eviti come la peste la biblioteca comune?» Perché
erano così maledettamente svegli ed attenti a tutto ciò che faceva?
Daphne tentennò, scuotendo poi la testa.
«E'
che mi sono stancata di dover fare fuori qualcuno ogni volta che
voglio sedermi.» Mentì, stringendosi poi nelle spalle.
«Lo
sai che puoi dirci tutto, vero?» Domandò Evan mentre stavano
entrando nella mensa. Daphne annuì, togliendosi a quel punto la
borsa dalla spalla e sedendosi ad un tavolino.
«Cambiando
argomento, avete saputo della cena di stasera con il Keble?» Domandò
Daphne, mentre Victoria tornava tutta raggiante portando i primi per
tutti e tre.
«Che
ti metti?» In quel preciso momento Daphne realizzò di essersi data
la zappa sui piedi. Come diavolo le era venuto in mente di parlare di
una cena alla quale non aveva la minima intenzione di partecipare?
Accennò un sorriso e accettò l'idea di essere arrivata al punto
critico in cui avrebbe dovuto vuotare il sacco. Maledizione.
«Io
non penso di venire.» Disse a bassa voce, addentando una sottospecie
di pasta al formaggio.
«Che
cosa?!» Il tono che usò Evan sembrò sovrastare il vociare della
mensa. Daphne invitò gli amici ad abbassare la voce con un gesto
della mano e poi sospirò.
«Okay,
vi racconto tutto.»
Così
disse agli amici di come quel ventitré dicembre aveva deciso di
prendere un treno ed andare a Londra e poi da lì, ormai dopo la
mezzanotte cioè alla vigilia di Natale, di prenderne un altro
diretto a Brighton. Raccontò di come Nathan l'aveva aiutata a
sbarazzarsi dell'ubriacone puzzolente, di come erano stati bene sulla
spiaggia e di come lui l'aveva baciata per salutarla a King's Cross.
Poi continuò la sua narrazione parlandoli di Madison, di come li
aveva beccati mentre si abbracciavano nel retro del pub, di James
ubriaco, di come l'aveva insultata e di come aveva reagito Nathan
quando aveva saputo tutto su di lei, su dove viveva e dove lavorava
per mettersi da parte qualche soldo per vivere.
«Ecco
perché questa sera non voglio venire. E' un occasione in più per
incontrare nuovamente Nathan, Madison e altri elementi della loro
elitaria comitiva.» Concluse tristemente, girando con aria
disgustata i maccheroni con la forchetta.
«Ti
capisco.» Mormorò Victoria dopo aver passato tutto il tempo del
racconto ad annuire e fare espressioni strane. «Solo che Nathan non
mi sembra il tipo da essere addirittura disgustato da persone di
altri livelli, ecco.» Evan annuì.
«Noi
due siamo andati nella sua stessa scuola, la King's School di Londra
e lui malgrado fosse veneratissimo, desideratissimo e bravissimo in
tutto, non era uno di quelli con la puzza sotto al naso.» Disse
Evan. Perfetto: i suoi due migliori amici erano andati a scuola
insieme con Nathan Crawford?
«Addirittura
una volta mi aiutò a fare un tema di politica.» Ridacchiò
Victoria. «Io ero una novellina, di solito tutti sfottevano quelli
del primo anno, lui invece mi aiutò. Non sapevo che fosse venuto ad
Oxford, in realtà.»
«Forse
è cambiato.» Decretò Evan.
Già.
Forse era cambiato. Perché neanche Daphne aveva visto in lui un
ragazzo scorbutico, presuntuoso quella volta sul treno. Possibile che
fosse cambiato nell'arco di un mese? O forse, semplicemente, non era
mai stato quello che lei si era illusa che lui fosse? Scosse la
testa, nel tentativo di cacciare via l'immagine di Nathan e si
concentrò ad esaminare il pasticcio di carne che si ritrovava
davanti come secondo. Odiava la mensa del Brasenose College.
Fortunatamente
né Evan, né Victoria, né Rebecca, che fu aggiornata sugli ultimi
avvenimenti, parlarono più nel tentativo di convincerla di andare
alla grande serata. Daphne aiutò le sue due amiche a vestirsi,
consigliando loro il vestito da mettere, gli orecchini da abbinare e
le scarpe. Nonostante un po' le dispiacesse mancare a quella serata
che avrebbe spezzato la monotonia della vita nel college, l'idea di
non incontrare Nathan le fece tornare il buonumore. C'era una
parte di lei che continuava a volerlo rivedere nella speranza di
poter incontrare in lui nuovamente quel ragazzo gentile e cordiale
che aveva conosciuto sul treno e che aveva visto al pub. D'altro
canto però, contemporaneamente, era viva in lei la paura di vedere
quel Nathan ammutolito dalle cantilene di Madison, che sembrava
disprezzare le sue origini in silenzio, senza fiatare, ferendo ancor
più duramente.
«Magari
vista l'occasione prepareranno qualcosa di decente.» Disse Rebecca
mentre si metteva il rossetto.
«In
tal caso portatemi qualcosa, non vorrei perdermi tale miracolo.»
Disse ridacchiando Daphne, mentre sistemava delle fotocopie sulla
scrivania. Erano nel suo dormitorio e mentre le due ragazze avevano
occupato entrambi gli specchi, lei cercava di mettere ordine in
quella camera. Sembrava che fosse appena esplosa una bomba
effettivamente.
«Mi
dispiace, Daph, tirare fuori questo argomento ma... Sono sempre stata
convinta del fatto che prima o poi il Keble ed il Brasenose si
sarebbero fusi.» Disse Victoria dopo che ebbe finito di mettersi il
mascara. «Tomas e Harry sono sempre stati molto legati ai due capi
del Keble.» Tomas ed Harry erano rispettivamente il presidente ed il
vicepresidente degli studenti del Brasenose College: organizzavano le
serata, le feste, le settimane delle matricole e si impegnavano nel
riempire di alcolici il bar del college. Daphne si strinse nelle
spalle: fondamentalmente era quello che diceva sempre anche lei. Il
Keble ed il Brasenose erano legati dall'appartenenza della
maggioranza degli studenti all'alta società e di conseguenza avevano
frequentato gli stessi prestigiosi istituti.
«Mah,
l'importante è che non diventi un'abitudine fare queste allegre
rimpatriate.» Disse Daphne,
buttandosi sul letto. Le due amiche sfilarono davanti a lei ricevendo
gli apprezzamenti e poi uscirono, dirette all'attesa cena. Daphne si
mise le cuffie dell'iPod nelle orecchie e prese un libro leggero da
leggere e cercò di scacciare con la lettura la sua fantasia su come
si sarebbe presentato Nathan quella serata.
Quando
Daphne aprì gli occhi era stesa a pancia in sotto sul letto; le
cuffie dell'iPod emettevano una canzone dei Muse ed il libro era
scivolato a terra. Si stropicciò gli occhi, sbadigliando, e si alzò,
stiracchiandosi leggermente. Chissà quanto tempo aveva dormito? Si
avvicinò alla scrivania e prese il cellulare: sul display erano
segnate le ventuno e trenta. Teoricamente l'aperitivo era durato
un'ora e quindi erano seduti a tavola da massimo quarantacinque
minuti tutto sommato. Scrollò le spalle, pensando che infondo
fumarsi una sigaretta era un'impresa abbastanza fattibile. Tutti gli
studenti sarebbero stati seduti a mensa e lei avrebbe avuto
l'opportunità di sgattaiolare fuori dal college inosservata, andare
a prendersi un panino al supermercato Tesco, tornare, fumarsi una
sigaretta e rientrare in stanza.
Aprì
l'armadio e tirò fuori un cappotto pesante e la felpa
dell'università. Si infilò inizialmente la felpa, poi si sistemò
lo scalda-collo ed infine chiuse per bene i bottoni della giacca,
nella speranza che il suo vestiario la tenesse calda nel momento in
cui avrebbe deciso di affrontare il gelo inglese. Per ultimi si
infilò gli stivali, prese il pacchetto di Chesterfield che teneva
sulla scrivania e lo mise in tasta, e poi uscì, contando le sterline
che era riuscita a raccattare in giro per la stanza.
Arrivò
in poco tempo al supermercato. Entrò dalle porte scorrevoli e si beò
dei riscaldamenti, incamminandosi poi verso il frigorifero dove
tenevano i sandwich. Ne prese uno al formaggio e al prosciutto,
andando poi verso la cassa.
«In
giro a quest'ora?» Le domandò il cassiere. Era un ragazzo
dall'aspetto simpatico e dai capelli castani. Indossava la divisa
rossa e bianca del supermercato e le sorrideva gentile. Daphne si
sentì avvampare, mentre raccattava gli spicci nella tasca del
giubbotto.
«Mi
è venuta improvvisamente fame.» Si giustificò accennando un
sorriso.
«Si
ho notato.» Sorrise anche lui, prendendo poi il sandwich e stampando
lo scontrino. Mentre lui compiva quelle azioni, Daphne lesse la
targhetta con il suo nome “David”. «Sono un pound e trenta
centesimi.» Disse infine, imbustando l'acquisto. La ragazza pagò,
mettendo poi il resto nuovamente in tasca.
«Grazie
e buona serata.» Disse Daphne, pronta già ad uscire.
«Aspetta!»
La voce di David la richiamò indietro. Daphne si girò incuriosita.
«Tu hai letto il mio nome, ma io non so il tuo!» Ah! L'aveva colta
proprio così in flagrante mentre guardava la targhetta?
«Mi
chiamo Daphne.» Disse con un sorriso.
«Buona
serata, Daphne, allora.»
«Buona
serata, David.»
Daphne
sentì le proprie guance avvampare mentre usciva dal supermercato
dirigendosi velocemente verso il Brasenose College. David era stato
tanto carino e gentile con lei, eppure non era riuscita ad eliminare
l'immagine di Nathan che sembrava parlare nella sua testa con la voce
di David. Stava forse diventando pazza? Presto il dipartimento di
psicologia avrebbe usato lei come cavia.
Arrivò
al college e dopo essersi identificata al portiere, si infilò sotto
i portici vicino al cortile. Il suo sguardo cadde sull'ala est del
college: lì si erano svolti i suoi colloqui d'ammissione esattamente
un anno prima. L'anno precedente era arrivata tutta nervosa ad Oxford
per passarvi i tre giorni necessari ad affrontare i colloqui:
inizialmente aveva fatto domanda al Magdalen College, visto che non
era conosciuto per un alto numero di figli di papà e non vantava
primi ministri come ex-alunni, però al suo arrivo nella cittadina
universitaria aveva scoperto di essere stata spostata al Brasenose
College. Quando la prima mattina era andata alle dieci un quarto a
sostenere il colloquio, aveva conosciuto alla mensa Madison Linton.
Inizialmente le era sembrata simpatica, disponibile, avevano parlato
del perché avessero scelto proprio quella facoltà ma, dopo che
Daphne fu uscita dal colloquio il comportamento della bionda mutò
drasticamente. Tentò prima di scoprire quali domande le avevano
fatto ma, siccome Daphne sapeva che fosse vietato parlare con
chiunque dell'intervista e dal momento che non voleva rischiare per
nessuna ragione al mondo di perdere l'occasione della sua vita di
entrare ad Oxford, non fece parola del colloquio con la ragazza. Da
quel momento Madison scagliò tutta la sua ira su Daphne e,
quest'ultima, fu incredibilmente soddisfatta quando scoprì che
avevano spostato l'acidissima bionda al Keble College.
Daphne
riemerse dai ricordi e si accese la sigaretta, poggiandosi contro il
muro. Fumava lentamente, gustandosi ogni tiro che faceva. C'era
un'incredibile calma in quel cortile. Si sentiva in lontananza il
brindare nella mensa, le risate, ma era come se tutto fosse
incredibilmente ovattato, distante.
«Ho
detto di no, papà.» Quella voce però era vicina e chiara e,
soprattutto, conosciuta. Daphne si affacciò, per vedere di chi si
trattava e vide Nathan che camminava avanti e indietro con il
telefono all'orecchio. Si nascose nuovamente, restando in ascolto.
«Non
mi interessa se sono affari, se è conveniente.» Lo sentì sospirare
profondamente. «Siamo nel 2011 e non accetto minimamente una cosa
simile. Io non ti aiuterò a convincere Edward.»
Chi
era Edward? E perché mai lo avrebbe dovuto convincere? Se poi si
trattava di cose anacronistiche...
«Hai
provato a fare il lavaggio del cervello anche a me ma, per fortuna,
ci ho messo due anni ma ho ragionato di testa mia» Sospirò
nuovamente ed i suoi passi si fermarono. Sembrava che si fosse
poggiato da qualche parte. «Eddie è piccolo, ancora, lui non
capisce... Lascialo in pace, ti prego.» Il suo tono ora sembrava una
supplica. Daphne cercava di respirare il meno possibile, la tensione
era palpabile nell'aria. «Maledizione!» Il tonfo di un cellulare
che cadeva a terra accompagnò il suo urlo. Un pezzo del Nokia arrivò
ai piedi di Daphne che, tuttavia, non se ne accorse, presa com'era
dal non farsi notare. «Lurido bastar...» Si interruppe quando per
raccogliere un pezzo del cellulare girò l'angolo e vide Daphne
immobile. La ragazza avvampò, chinandosi a raccogliere il pezzo
mancato e lasciandolo nelle mani di lui. Poi si voltò e fece per
andarsene ma la mano di Nathan la afferrò per un polso,
costringendola a tornare indietro.
«Io
non stavo origliando... Ero tornata da Tesco e stavo fumando una
sigaretta e...» Nathan portò il suo dito indice sulle labbra della
ragazza e lei rabbrividì con forza.
«Non
fa niente.» Mormorò, scuotendo poi la testa ed allontanando la
mano.
Si
guardarono negli occhi per qualche interminabile istante. Daphne
sembrava nuotare nello smeraldo delle sue iridi e poteva giurare che
più volte colse un luccichio. Lui scosse la testa, sospirando e
guardando le punte delle sue eleganti scarpe.
«Come
mai non c'eri a cena?» Domandò poi, guardandola. Evidentemente si
era accorto della sua assenza.
«Io
sto indietro con delle consegne, dovevo finire di leggere alcuni
libri.» Mentì con incertezza, non riuscendo a fare il modo tale che
dei tremolii non tradissero la sua voce.
«Non
cercavi invece di evitarmi?» La domanda di Nathan spiazzò
completamente Daphne che cominciò a scuotere la testa. Perché la
capiva così bene? Erano così chiare le sue intenzioni? «Sono
giorni che appena mi vedi scappi come se avessi una malattia
infettiva.» La sua ultima frase fece sorridere Daphne, che scaricò
un po' di tensione. «Se quella sera del Big Match io ho fatto
qualcosa...» Gli occhi di Daphne si alzarono di scatto da terra e
puntarono quelli di Nathan.
«Non
hai fatto niente quella sera.» Ed era proprio quello il
problema. «Non hai fatto niente di sbagliato o che non
avresti dovuto fare. Mi sarei meravigliata del contrario.» Assunse
un tono improvvisamente acido che colpì Nathan; Daphne lo capì dai
suoi occhi che si incupirono tristemente. «Ti sei comportato
seguendo alla perfezione i canoni di comportamento di voi superiori.»
Aggiunse, ormai guidata per mano dalla Rabbia in quello sfogo.
«Quindi
ora tu pensi che io mi creda un superiore!»
Alzò la voce a sua volta e Daphne rabbrividì sentendolo parlare in
quel modo.
«Sì, penso che tu sei esattamente
uguale a tutti quei deficienti che mi guardano male solo ed
esclusivamente perché non ho l'ombra di un quattrino in tasca!»
Daphne sentiva i propri occhi diventare lucidi e sembrava che la
temperatura si fosse abbassata drasticamente.
«Io
non ti ho mai guardata
in quel modo!»
«Cazzate!»
Urlò talmente forte che un paio di ragazzi si affacciarono dalla
mensa per capire da dove provenivano quelle grida. «Sono tutte
cazzate.» Ripeté a voce più bassa guardandolo negli occhi. «Quella
sera al pub mi hai guardato esattamente in quel modo quando quella
stronza di
Madison mi insultava gratuitamente.» Si morse il labbro inferiore
nel tentativo di non versare neanche mezza lacrima. «Se tu non fossi
stato come loro avresti
detto almeno una parola in mia difesa. Ma no! Ti faceva troppo schifo
l'idea di aver baciato una campagnola
o meglio, come mi chiama
Madison, una fornaia?
Non sia mai che il tuo nobile sangue venga mischiato con uno infimo
come il...»
«Stai
zitta.» La interruppe con un tono piatto, neutro. La sua voce era
leggermente roca. «Che cazzo ne sai di come mi sono comportato con
Madison dopo che te ne sei andata? Questa sera Madison non c'è! Sai
perché non c'è? Perché ci ho litigato a tal punto che non si
avvicina più a meno di due metri a me ed i miei amici!» Daphne
ammutolì ascoltando le sue parole. Cominciò a tremare leggermente,
mentre Nathan ribolliva di labbra. «Se non sai le cose stai zitta!
Non mi conosci per potermi giudicare! Chi sei per definirmi un figlio
di papà? Non hai sentito la conversazione che ho appena avuto al
telefono?» Daphne abbassò lo sguardo, mentre un senso di colpa e di
vergogna si impadroniva di lei. «Se hai questi cazzo di complessi di
inferiorità nei confronti dell'alta società inglese sono affari
tuoi!»
Mezzo
secondo dopo la mano di Daphne urtò la guancia di Nathan in uno
schiaffo talmente forte che sembrò che il suo eco rimbombasse per
interi secondi per il cortile. Si guardarono negli occhi in silenzio
per qualche lungo istante, ribollendo entrambi interiormente. Daphne
sembrò scorgere nello sguardo di Nathan rabbia, disprezzo e
delusione.
Fu proprio quell'ultimo sentimento a spaventarla. Lui deglutì,
passandosi poi una mano sul viso. Senza proferire mezza parola
cominciò a camminare, oltrepassandola, ed andò verso l'uscita del
Brasenose College. Daphne restò in silenzio vicino alla parete
contro la quale si poggiò un minuto dopo.
Aveva
sicuramente esagerato tirandogli quello schiaffo ma,
contemporaneamente, bruciavano di offesa in lei le parole che le
aveva detto. Come si permetteva a dirle che aveva dei complessi
d'inferiorità? Lei non
si sentiva inferiore proprio a nessuno e lui che era un perfetto
sconosciuto non aveva nessun diritto di accusarla in quel modo. E poi
lui se ne era andato, come se ne era andata lei quella sera dal pub.
Eppure lui l'aveva difesa davanti Madison, eppure Madison quella sera
non era venuta... Chissà cosa le aveva detto per scatenare in lei
una reazione tale da non avvicinarsi nemmeno al gruppetto di Nathan.
Daphne scosse la testa, nascondendosi poi il viso fra le mani mentre
calde lacrime le rigavano il viso, facendo nettamente contrasto con
il suo viso freddo.
Solo quando si alzò, dirigendosi
lentamente verso il dormitorio femminile, si accorse che nel
frattempo soffici fiocchi di neve avevano ricoperto il cortile e
l'intero college. La neve sembrava fosse scesa per nascondere tutte
le impurità, per rendere bella qualsiasi cosa fosse stata
imperfetta. Perché allora lei in quel momento si sentiva così
sbagliata ed incompleta?
** Salve a tutti! Beh, innanzitutto sono lusingata dai complimenti che mi avete fatto nelle recensioni e vi ho risposto con tanto piacere a tutti privatamente! Poi ringrazio anche tutti coloro che hanno aggiunto "Midnight Train" alle seguite e, addirittura, alle preferite e a quelle "da ricordare" (quanta fiducia *___*)! Mi raccomando, continuate a leggere, recensire, perché è grazie a voi che aggiorno così in fretta e sforno capitoli su capitoli senza sosta! Non sono riuscita a trattenermi dall'aggiornare subito oggi! Un abbraccio enorme, Silvia.
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Capitolo 4 *** Capitolo Quarto. ***
Midnight Train. Capitolo Quarto.
Erano tre
notti che non riusciva a chiudere occhio. Daphne si rigirò per
l'ennesima volta fra le coperte, sbuffando poi sonoramente: così non
andava assolutamente bene. Si alzò di scatto dal letto, andandosi
poi a buttare sotto il getto caldo della doccia. Doveva rendersi
conto che si trattava di una situazione ridicola: perché si faceva
tutti quei problemi per una persona che era totalmente estranea alla
sua vita? O meglio, per una persona che era entrata in un modo
completamente assurdo nella sua quotidianità ed era arrivata al
punto da condizionare questa stessa? Chiuse l'acqua, avvolgendosi in
un asciugamano e slegandosi i capelli. Si guardò nello specchio ed
esaminò le occhiaie: ottimo, danneggiava anche il suo aspetto fisico
quel Crawford maledetto! Ridacchiò, insultandolo mentalmente, e
volle darsi uno schiaffo da sola per quel sorriso idiota che era
dipinto sulle sue labbra. Andò nella sua stanza e frugò
nell'armadio alla ricerca di qualcosa da indossare, come se poi la
scelta fosse molta. Optò per il classico paio di jeans scuri ed una
camicia bianca, alla quale abbinò poi un maglioncino blu. Si legò i
capelli, passandosi poi un po' di mascara e dopo aver preso i libri
ed i quaderni sulla scrivani, si diresse alla biblioteca
comune. Nonostante si fosse ripromessa di non mettere piede in
quel luogo per evitare di incrociare persone non troppo gradite,
aveva ascoltato anche le parole dei suoi amici che poteva essere
riassunti nella formula “non ti curar di loro ma guarda e passa”.
Alla fine dell'anno mancavano come minimo quattro mesi e lei di certo
non avrebbe passato quei quattro mesi ad evitare una persona che la
insultava gratuitamente e un'altra che le dava della complessata.
Annuì con convinzione mentre si incamminava nella direzione della
biblioteca. Faceva particolarmente freddo quella mattina e la neve
non accennava a sciogliersi, anzi, sembrava che aumentasse giorno
dopo giorno. Quando passò accanto alla vetrina del Tesco,
istintivamente girò la testa per controllare se quel giorno ci fosse
David e, notando la sua presenza alla cassa, le venne in mente che
doveva comprare un pacchetto di sigarette. Entrando si abbassò
il cappuccio del cappotto e si diresse verso la cassa. Quando Daphne
si schiarì la voce per attirare l'attenzione del cassiere, David
alzò la testa ed il suo voltò si illuminò repentinamente.
«Daphne!»
Disse con un largo sorriso. Poi si guardò intorno e quando notò che
non c'erano clienti si rilassò. «Un nuovo attacco di fame?»
Aggiunse, senza smettere di sorridere.
«Mmh, in
realtà un attacco di nicotina.» Precisò, lasciandosi sfuggire una
leggera risata. «Chesterfield Light per favore.» Domandò,
indicando il pacchetto. David prese l'involucro azzurro e stampò lo
scontrino.
«Sono
cinque pound e sessanta.» Daphne pagò, arrossendo lievemente in
quanto David non era intenzionato a distogliere lo sguardo da lei.
«Ecco a te il resto.» Una valanga di spicci cadde nella mano destra
di Daphne che sorrise, mettendoseli in tasca.
«Beh
grazie allora, buona giornata!» David si guardò intorno e la sua
espressione divenne raggiante quando si accorse che non c'era altri
clienti a fare la fila per essere serviti.
«Fra una
settimana faccio vent'anni ed avevo intenzione di organizzare una
serata con un po' di amici, sei dei nostri?» I suoi occhi brillavano
nell'attesa di una risposta e Daphne non poté fare altro che annuire
e notare come il sorriso sulle labbra di David si allargasse
ulteriormente.
«Perfetto,
allora ti farò assolutamente sapere.» Daphne ricambiò il sorriso e
benedì il signore sulla cinquantina che si schiarì la voce per
attirare l'attenzione del cassiere. David la salutò con un cenno
della mano, servendo poi il signore, e Daphne gli sorrise da lontano
mentre usciva dal supermercato.
Tutto
sommato David era un ragazzo carino e disponibile ma il suo viso era
troppo pulito, innocente, le sembrava quasi una tabula rasa della
quale non ci fosse nient'altro da scoprire. Nathan invece era
l'esatto opposto: indecifrabile, misterioso, con tanti problemi per
la testa e tante cose da raccontare soffocate dentro per anni. E
Nathan non lo vedeva da quattro giorni prima, da quando gli aveva
tirato quello schiaffo. Scosse la testa, porgendo il tesserino
d'identificazione al portiere della biblioteca. Dopo che fu fatta
passare, si diresse con sicurezza verso il secondo piano dove avrebbe
incontrato Evan e Victoria. Tuttavia incontrò questi due prima della
sala di lettura: stavano seduti tranquillamente su delle poltrone a
chiaccherare. Li raggiunse, sedendosi a fianco a Evan, e rubò a
quest'ultimo il pacchetto di patatine che stringeva fra le mani.
«Buongiorno,
ragazzi.» Esordì, mentre Evan la fulminava con lo sguardo e
Victoria se la rideva sotto i baffi. «Come mai non stavate
studiando?» Aggiunse, incrociando le gambe sul divano di pelle
bordeaux. Si scambiarono un'occhiata e poi si strinsero nelle spalle.
«Gli unici
tre posti disponibili erano vicini a Nathan.» Disse con un tono
basso Victoria, quasi avesse paura di essere sentito.
«Abbiamo
pensato che non fosse esattamente il caso, ecco.» Completò Evan,
facendo nuovamente spallucce. Daphne sorrise con dolcezza: erano due
angeli, ecco cos'erano.
«Grazie.»
Mormorò, mandando giù un'altra patatina. I due amici sorrisero ed
in quell'istante arrivò Rebecca.
«Victoria!
Ho saputo!» Le teste di Evan e Daphne scattarono in fretta nella
direzione dell'amica. Le guance della ragazza divennero color porpora
e le sue mani strinsero un cuscino, quasi fosse combattuta tra la
voglia di tirarlo addosso a Rebecca e tra quella di usarlo per
coprirsi la faccia.
«Che cosa
hai saputo?» Scandì Evan, senza distogliere lo sguardo da Victoria
che sembrava essersi paralizzata definitivamente nella sua posizione
sorpresa iniziale.
«Non
gliel'hai ancora detto?» Incalzò Rebecca e uno scatto delle mani di
Victoria fece intendere che quel cuscino a breve avrebbe soffocato
l'amica.
«Che cosa
non ci hai ancora detto?» Questa volta fu Daphne a scandire bene le
sillabe. Victoria sorrise scuotendo la testa, quasi colta da
convulsioni improvvise.
«Dai! Sei
una vecchia suocera pettegola e vuoi sempre sapere tutto...Ora tocca
a te!» Evan si buttò addosso all'amica, facendole il solletico.
Daphne ringraziò mentalmente il cielo l'organizzazione di quella
biblioteca: fuori dalle sale di lettura si poteva anche fare la
Rivoluzione Francese ma, all'interno di quelle, uno starnuto era
peccato. Victoria scoppiò a ridere non appena le mani di Evan le
stuzzicarono i fianchi. «Ti arrendi?» Domandò, fermando un attimo
le mani. Victoria scosse la testa con convinzione ed Evan ricominciò,
aumentando il ritmo.
«Okay,
okay, okay mi arrendo! Hai vinto tu!» La bandiera bianca alzata da
Victoria fece tornare Evan al proprio posto. Rebecca si sedette
affianco ad Evan, guardandolo di tanto in tanto con gli occhi a forma
di cuore, e tutti e tre si sporsero curiosamente nella direzione
della ragazza che fece passare sulle proprie guance un vero e proprio
arcobaleno. Daphne poté giurare di non avere mai visto tante
tonalità di rosso, arancione e viola alternarsi sul viso di una
persona.
«Di chi si
tratta?» Domandò Evan, dando un pizzico al polpaccio della ragazza
che si lasciò scappare un leggero urlo. Daphne inarcò un
sopracciglio e Rebecca sorrise con la soddisfazione di chi sa già
tutto.
«Damien
Rice.» Disse il nome in un mormorio ma bastò per far strabuzzare
gli occhi sia ad Evan che a Daphne.
«Alleluia!
Ce l'hai fatta!» Evan alzò i pugni al cielo in segno di vittoria e
Victoria gli assestò il suo solito colpo micidiale fra le costole.
«Maledetta...» Mugolò mentre si accasciava con nonchalance sulle
gambe di Rebecca.
«Vogliamo
i dettagli come minimo.» Disse Daphne, guardando con un ampio
sorriso l'amica.
Damien Rice
era stato per gli ultimi due anni la cotta di Victoria. Si erano
incontrati ai colloqui di due inverni prima alla mensa del Keble
College, dove la ragazza si era inizialmente iscritta, e da quel
momento ogni volta che l'aveva visto i suoi occhi si erano
illuminati. Sfortunatamente Damien rispecchiava perfettamente i
canoni di tutti i ragazzi di Oxford a parte Evan Montgomery ed il suo
provarci con tutte: bello, intelligente e dannatamente timido e senza
senso. I suoi comportamenti avevano fatto illudere Victoria nell'uno
o nell'altro senso e l'avevano condotta più volte sull'orlo di una
crisi isterica che per poco non era sfociata in una marea di
schiaffi.
«Beh ecco,
ieri ero andata a trovare Sue, una mia amica di Londra, al Keble
College perché era il compleanno e salendo le scale ho incontrato
Damien.» Cominciò a raccontare, giocherellando con i capelli. «Mi
ha salutata, come sempre, mi ha chiesto come stavo e poi mi ha
proposto di restare a pranzo da loro.» Sorrise fra le sue parole.
«Così ho accettato e dopo pranzo siamo andati a farci una
passeggiata nel parco del College che, fra parentesi, penso che sia
uno dei più belli che io abbia mai visto dopo il Magdalen.»
Sospirò, cominciando a torcersi le dita delle mani. «Poi mi ha
presa di colpo e mi ha chiesto perché mi comportavo in modo così
ambiguo con lui, perché non gli davo certezze, perché non riuscivo
a fargli capire se fossi interessata o meno.» Daphne strabuzzò gli
occhi, lui le aveva fatto i discorsi che lei avrebbe voluto fare da
sempre a lui? Assurdo! «Allora io gli ho detto che soffriva di
schizofrenia, che era lui quello non chiaro, quello ambiguo, che a me
lui piaceva da quando ci siamo conosciuti e lui mi ha presa e mi ha
baciata.» Un Ohh sospirato
sfuggì alle labbra di Daphne e di Rebecca appena l'amica finì di
raccontare. Evan si girò ad osservare le due ragazze, puntando poi
nuovamente lo sguardo su Victoria.
«Questi
particolari romantici e vomitevoli sono di troppo. Andiamo al sodo,
l'avete fatto in mezzo ai boschi?» Questa volta fu Victoria a
strabuzzare gli occhi e ad avvampare.
«Evan!»
Urlò, gettandosi addosso al ragazzo.
«Ma
Santo Dio sono due anni che vi sbavate reciprocamente dietro in tutte
queste smancerie! Bisogna quagliare qualc...» Un altro colpo fra le
costole lo fece ammutolire.
«Sei
proprio un maschio.» Decretò Rebecca incrociando le braccia al
petto e scuotendo la testa.
«Dal
momento che ti sei scelto amiche donne come minimo devi rispettare i
nostri batticuori.» Disse Daphne, mentre Evan rantolava stringendosi
la pancia.
«Se
avessi potuto scegliere di certo...» Daphne chiuse la bocca del
ragazzo con una mano. Aveva visto negli occhi di Victoria brillare la
scintilla che l'avrebbe portata a dare il colpo finale al ragazzo e,
probabilmente, l'avrebbe fatto finire all'ospedale. «Siete cattive.»
Disse infine, mettendosi nuovamente a sedere dritto. Tutti e quattro
scoppiarono a ridere e il suono leggero delle loro risate fu
interrotto da un cellulare che squillò. Victoria si toccò le tasche
ed estrasse da quella testa il suo telefono. Aggrottò le
sopracciglia e si alzò, allontanandosi dal divano.
Daphne
la osservò parlare al telefono. Inizialmente sorrise, chiunque
l'avesse chiamata, ma poi il suo volto si incupì improvvisamente. Si
sedette su una sedia e si portò una mano fra i capelli: il suo volto
era impallidito. Daphne attirò l'attenzione di Rebecca ed Evan che
si stavano punzecchiando e li indicò l'amica: entrambi i loro volti
mostrarono repentina preoccupazione.
«Non
è possibile...» La sentirono dire mentre scuoteva la testa. Sul suo
viso improvvisamente bianco erano cominciate a scendere infinite
lacrime. «No, no, no...» I re ragazzi si alzarono, raggiungendo
l'amica. Le mani di Victoria lasciarono scivolare il cellulare a
terra e poi andarono a coprire il suo viso.
«Cos'è
successo?» Domandò Evan mentre le carezzava con leggerezza un
braccio.
«Matthew
i-il ragazzo di mia sorella...» Disse fra un singhiozzo e l'altro,
mentre le lacrime non accennavano a smettere di scendere. «...è-era
in missione in Afghanistan e-e...un'autobomba è-è... è morto...»
Quelle ultime parole pesarono su tutti e tre i ragazzi che si erano
riuniti intorno a Victoria. Matthew Hertford era il ragazzo secolare
di Norah, la sorella di Victoria. Daphne l'aveva conosciuto il Natale
precedente quando lui era tornato a Londra con un permesso e aveva
fatto una sorpresa alla ragazza che era scoppiata in lacrime non
appena aveva messo il piede in casa. Era un ragazzo incredibilmente
intelligente e disponibile ma, soprattutto, convinto di ciò che
faceva e della missione che stava portando avanti in Afghanistan:
amava il suo lavoro, malgrado corresse quotidianamente dei rischi e
ripeteva più volte che “non l'avrebbe cambiato per nulla al
mondo”. Eppure quel ragazzo d'oro che si sarebbe dovuto sposare
l'estate seguente, non c'era più.
Due
giorni dopo Daphne, Evan e Victoria viaggiavano in silenzio nell'auto
del padre di quest'ultima. Erano diretti a Londra per i solenni
funerali di Matthew che non si sarebbero tenuti nell'imponente
abbazia di Westminster come imponeva la tradizione, ma in una chiesa
più piccola situata vicino a Gloucester Road dove Matthew aveva
richiesto chiaramente di essere sepolto.
Nelle
ultime quarantotto ore Victoria si era chiusa in un mutismo che non
era stato rotto da nessun gesto, da nessuna parola, da nessun pasto.
Era sempre stata particolarmente affezionata a Matthew e pensare alle
condizioni nelle quali sarebbe stata Norah di certo non la aiutava ad
affrontare quella perdita con tranquillità.
In
un paio d'ore arrivarono alla chiesa e, mentre il padre e Victoria
scesero velocemente, correndo ad abbracciare Norah, Daphne ed Evan
rimasero seduti in silenzio sul sedile posteriore. Guardavano fuori
dal finestrino ed il loro sguardi si erano posati inevitabilmente
sulla sorella di Victoria. Norah era alta, slanciata ed aveva dei
lunghi capelli neri che in quell'occasione si confondevano con
l'elegante abito che indossava. Aveva il viso spento, delle marcate
occhiaie e gli occhi infossati: sembrava lo spettro della bellezza di
un tempo. I due ragazzi scesero dall'automobile e si avvicinarono
alla famiglia, salutando ciascuno e porgendo le proprie condoglianze.
Davanti la chiesa si era riunito un numero modesto di persone, cui
maggior parte erano ragazzi vestiti nell'uniforme dell'accademia
militare.
«Sarà
una cerimonia per pochi intimi.» La voce di Norah era ferma e decisa
nel momento in cui dovette rispondere ad una signora dai capelli
brizzolati che le domandò come mai in un'occasione così solenne
erano presenti così poche persone. «Matt avrebbe voluto che fosse
così.» Aggiunse, senza battere ciglio. Daphne fu colpita dalla
freddezza e dalla determinazione di quella ragazza appena
ventiduenne.
«Ma
le persone farsi gli affari propri no, eh?» Sbottò Victoria dopo
che la signora si fu allontanata. Norah si limitò a stringersi nelle
spalle e a guardare con dolcezza la sorella minore.
«Fa
niente.» Mormorò, andando poi a salutare altre persone in uniforme.
Daphne
si guardò intorno e notò che c'era una grande varietà di ordini e
di gradi fra quei rappresentati delle forze armate inglesi. C'erano
uomini anziani con una grande moltitudine di spille di riconoscenza
appese sulla giacca e ragazzi dal viso giovane ed ingenuo che ne
mostravano al massimo una o due. Erano tutti dritti, impassibili sul
volto, come se stessero assistendo a un qualcosa che sapevano che
prima o poi sarebbe potuto capitare anche a loro. Lo stomaco di
Daphne si strinse a quell'ultimo pensiero e chiuse gli occhi,
stringendoli forte. Si senti improvvisamente piccola e futile con le
sue preoccupazioni su Nathan, sull'amore, mentre nel mondo ogni
giorno innumerevoli famiglie perdevano un figlio, un nipote, un
cognato, un marito... Scosse la testa, passandosi le mani fra i
capelli castani e seguendo Evan all'interno della Chiesa. Stava per
iniziare il funerale.
Si
posizionarono nella seconda fila, verso le navate laterali, accanto a
Victoria. Davanti a loro c'era Norah con la famiglia di Matthew e,
dall'altra parte della chiesa la famiglia di Victoria.
Daphne
sentì poco e niente di quella liturgia. La sua mente sembrava
tralasciare ogni singola parola, ogni singolo gesto, come se una
moltitudine di suoni la sfiorasse senza colpirla, come se non avesse
abbastanza energia per afferrarne nemmeno uno. Quelle parole, quella
cerimonia, la riportarono improvvisamente indietro nel tempo. Aveva
otto anni ed era in una chiesa dell'est di Londra al funerale dei
suoi genitori. Aveva già sentito migliaia di parole di condoglianza,
infinite persone l'avevano stretta a sé. I tuoi genitori
erano delle ottime persone le
avevano detto, arruffandole i capelli a caschetto. Tante persone
sedute ad ascoltare la messa, i nonni che piangevano e gli zii che
erano immobili, impassibili anche davanti alla morte oltre che a
tutto ciò che metteva loro davanti la vita. Le formule pronunciate
in coro dai presenti. Amen.
Quell'incidente automobilistico che li aveva portati lontani da lei.
Amen. Quel drogato che
era stato messo semplicemente agli arresti domiciliari. Amen.
E l'incenso. Daphne inspirò profondamente e l'incenso sembrò
inebetirla completamente, andandosi ad infilare in ogni sua cellula,
in ogni sua fibra. L'incenso, quanto odiava l'incenso. Quando si alzò
per l'ennesima formula un giramento di testa la fece traballare.
«Io
devo uscire.» Mormorò tenendo gli occhi chiusi ad Evan.
Non
aspettò una sua risposta, si diresse semplicemente verso l'uscita
pregando il cielo di non svenire. Fortunatamente si era collocata
vicino alla navata laterale, in quel modo poté allontanarsi senza
essere minimamente notata.
Maledetto
incenso.
Posò
entrambe le mani sul primo dei due portoni e spinse con tutta la sua
forza, rischiando quasi di cadere quando si mosse. Fece lo stesso
identico movimento con il secondo e non appena uscì all'aria aperta
respirò l'aria fredda di Londra e sembrò rinascere. Con forza tutti
i ricordi sgomberarono la sua mente e quel maledetto incenso svanì
miracolosamente dalle sue narici. Inspirò ed espirò profondamente
un paio di volte, aprendo poi gli occhi.
Inizialmente
il suo sguardo si concentrò sul palazzo che stava di fronte a lei e
alla mercedes bianca parcheggiata lì davanti. Poi scese lentamente
sulla neve che ricopriva le banchine della strada ed infine si andò
a posare su una figura che le dava le spalle.
Infondo
alle scale un uomo di una non definita età era in piedi immobile e
guardava la strada. Avrebbe potuto avere dieci come sessanta anni.
Indossava l'uniforme nera, rossa e bianca ed il copricapo tondo
copriva i capelli. Frugò nella borsa nera che portava sulla spalla e
scese lentamente gli scalini, tirando infine fuori una sigaretta.
«Scusi,
per caso avrebbe da accendere?» Domandò allo sconosciuto. Quando
questo si girò Daphne sentì le proprie gambe cedere sotto il suo
peso. «Nathan?»
Nathan
Crawford era in piedi davanti a lei in una divisa perfettamente
tirata a lucido. Dei riconoscimenti brillavano sulla sua giacca e per
un momento Daphne si domandò se stesse ancora sognando a causa
dell'incenso. Eppure lui si limitò a sbattere un paio di volta le
palpebre, forse sorpreso quanto lei, e solo dopo tirò fuori un
accendino dalla tasca dei pantaloni.
Daphne
lo prese, senza però accendersi la sigaretta. Perché Nathan era
vestito in quel modo? Perché sul suo petto brillavano quelle spille?
Perché si trovava al funerale di Matthew Hertford? Lui sembrò
leggere tutti i quesiti che la ragazza si stava ponendo ma non parlò,
limitandosi a dare un'occhiata alla chiesa a cui dava le spalle.
«Che...
che ci fai qui?» Domandò ad un tratto Daphne con voce roca. Nathan
non lasciò che i suoi occhi facessero trapelare una qualsiasi
emozione.
«Conoscevo
molto bene Matthew.» Rispose con calma. Perché lo conosceva? Come
lo conosceva? Innanzitutto non avevano la stessa età e poi era certa
che non fosse andato alla King's School come invece avevano fatto
Norah, Victoria, Evan e Nathan stesso. «E' stata una perdita
tremenda, era un ragazzo d'oro.» Dissero insieme quell'ultima
parola, sorridendo poi leggermente entrambi. Lo sguardo di Daphne si
andò a posare su ogni minimo dettaglio della sua uniforme: su ogni
bottone lucente, sulla cinta, sui pantaloni perfettamente stirati sul
copricapo che teneva a bada i suoi capelli neri sempre ribelli. Era
anche lui un cadetto? Aveva frequentato evidentemente l'accademia
militare, ma c'era altro che non era comprensibile semplicemente dal
suo aspetto fisico?
«E'
una semplice divisa, non c'è bisogno che tu mi faccia la
radiografia.» Disse ad un tratto con voce roca. Daphne lo guardò
negli occhi e per l'ennesima volta si maledì per essere stata colta
in flagrante: era incredibile, la riusciva a beccare sempre. Abbozzò
un sorriso, sospirando poi. «Come mai sei uscita prima dalla
chiesa?» Le domandò ad un tratto. Daphne boccheggiò qualche
istante, abbassando poi lo sguardo.
«Ho
dei brutti ricordi legati ai funerali.» Disse dopo aver acquistato
un po' di coraggio per riaffrontare gli occhi verdi di Nathan.
«Mi
spiace.» Il suo tono era sinceramente dispiaciuto e Daphne notò per
la prima volta quanto fossero intensi e sinceri i suoi occhi. Ogni
singola striatura del colore dell'ambra sembrava raccontare un po'
qualcosa di lui... Il verde si mischiava a quel colore in una calda
fusione che sembrava aprire l'anima di Nathan al mondo o, almeno,
alla parte del mondo disposta a comprenderlo e ad accettarlo.
«Senti,
Nathan, io volevo chiederti...» Stava per terminare la sua frase di
scuse quando fu interrotta dall'arrivo di un ragazzo. Non aveva più
di sedici anni: era alto, con delle spalle larghe, ma i segni della
pubertà sul suo bel viso tradivano l'età che dimostrava
esteriormente. Aveva i capelli neri rasati a millimetro, indossava la
stessa divisa di Nathan senza però nessuna spilla di riconoscimento
ed aveva degli occhi che non nascosero per un solo istante la
parentela che lo legava a Crawford.
«Edward,
rientra, non è il momento.» Disse secco Nathan.
Edward.
Daphne tornò a pochi giorni prima, alla telefonata che aveva
ascoltato, al telefono che Nathan aveva sbattuto a terra. Eddie
è ancora piccolo. Non ti aiuterò a convincerlo. Guardò
prima Nathan e poi il ragazzo al suo fianco e sembrò che il Crawford
maggiore avesse perfettamente capito cosa stesse passando per la sua
mente.
«Comunque
ti presto Daphne, studia con me ad Oxford.» Disse, guardando il
ragazzo. «Daphne, questo è Edward, mio fratello minore.» La
ragazza strinse con delicatezza la mano del piccolo, per così dire
visto che era più alto di lei, Crawford e accennò un sorriso a
entrambi.
«Piacere.»
Disse con leggera timidezza Edward, guardando poi Nathan.
Quest'ultimo guardò prima il fratello e poi la chiesa.
«Penso
che dovresti rientrare, papà sarà furioso.» Disse con autorità.
Daphne fu incredibilmente colpita: ogni volta che ci parlava vedeva
una sua sfaccettatura differente. I suoi occhi erano diventati
improvvisamente cupi ed inespressivi.
Tuttavia
nel momento in cui Edward Crawford si era girato per risalire la
gradinata, dalla chiesa incominciarono ad uscire tutte le persone che
avevano assistito alla messa: seguivano con passo lento e controllato
la bara portata invece da ragazzi in uniforme con il volto
incredibilmente rigido e monotono. Ogni passo era misurato, identico
all'altro, non sbagliavano un movimento, un gesto, niente: era una
marcia perfettamente organizzata.
«Scusami.»
Mormorò Daphne, guardando Nathan. Lui distolse lo sguardo dalle
persone e guardò la ragazza, accennando un dolce sorriso.
«Non
ti preoccupare.» I suoi occhi tornarono ad essere gentili ed
incredibilmente familiari. Era come se tutti quei colori della terra
che coloravano le sue iridi si fossero improvvisamente sciolti e
mescolati.
Non ti
preoccupare.
Mentre
Daphne si avvicinava a Victoria ed Evan, Nathan tornava da Edward e
da un uomo austero vestito identico a loro. Forse era il padre?
Abbassò infine lo sguardo, mentre innumerevoli domande su quello a
cui aveva appena assistito le tormentavano la mente.
Nathan
aveva frequentato l'accademia.
Edward
evidentemente frequentava l'accademia.
Il
padre aveva frequentato a suo tempo l'accademia.
La
famiglia Crawford era legata alle forze armate dell'Impero Britannico
ma in che modo? E fino a che punto? Perché Nathan ce l'aveva tanto
con il padre e perché conosceva così bene Matthew se a scuola non
si erano conosciuti e ad Oxford neanche? Si erano conosciuti in
accademia? Ma in quale occasione se Matthew era molto più grande?
«Grazie
per essere venuti.»
La
voce di Victoria riscosse Daphne dalle sue supposizioni. Guardò con
dolcezza l'amica e poi Evan. Passò un braccio intorno alle spalle
della ragazza che sembrava essere diventata improvvisamente fragile
come il cristallo e la strinse a se.
«Ti
vogliamo bene.» Mormorò, lasciando un bacio fra i suoi capelli.
«Esatto.»
Disse Evan, facendo lo stesso gesto. «Ti vogliamo bene.»
** Eccomi nuovamente qui! Bhe, vi confesso che ci ho messo un po' per partorire un'idea per scrivere questo capitolo ma, alla fine, dopo una lunga notte, ho partorito tutti i capitolo della fan-fiction ! Diciamo che ho un'idea completa finalmente che porterò a termine! Colgo l'occasione per ringraziare nuovamente chi ha recensito, chi ha aggiunto la storia alle seguite/preferite/da ricordare e vi incito a non essere solo lettori silenziosi ma a dirmi magari anche cosa vi piace/non vi piace! Amo leggere le recensioniii *_*!!! Un abbraccio a tutti, Silvia.
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Capitolo 5 *** Capitolo Quinto. ***
Midnight Train Capitolo Quinto.
Daphne era
tornata frastornata da Londra. Il problema non era costituito
solamente dalla morte di Matthew, dal dolore che aveva potuto leggere
negli occhi della famiglia, di Norah e Victoria ma anche da Nathan
Crawford e la sua misteriosa presenza a quel evento. Innanzitutto
era rimasta piacevolmente sorpresa dalle sue parole, dalla facilità
con cui aveva accettato le sue scuse ma, nonostante l'inattesa
sorpresa, ciò che l'aveva tramortita era stato vederlo con quella
divisa addosso e, soprattutto, vedere con i propri occhi Edward e suo
padre.
Daphne si
sciacquò il viso con l'acqua fredda, guardandosi poi alla specchio.
Le occhiaie fortunatamente erano diminuite ma il colore della sua
pelle era stranamente spento. Passò le dita sulle leggere lentiggini
che aveva sparse sulle guance e poi sospirò, chinandosi per
raccogliere la borsa che aveva poggiato a terra e voltando la schiena
al proprio riflesso. Uscì dalla sua stanza e si incamminò nella
direzione dell'entrata principale del Brasenose College, dove
l'aspettavano Victoria, Rebecca ed Evan. Da quando erano tornati
dalla capitale britannica, stranamente Victoria aveva assunto un
comportamento totalmente contrario a quello che aveva assunto nei
giorni in cui aveva appreso del lutto. Era come se improvvisamente la
sua mente avesse fatto tabula rasa delle giornate che aveva passato
affogando le lacrime nel proprio cuscino, come se quel funerale non
fosse mai avvenuto. Tuttavia si poteva comprendere facilmente che
fosse agitata, soprattutto per gli amici: delle volte parlava a
raffica, sorrideva in una maniera tanto esagerata da rendere falso
ogni suo gesto, sorvolava ogni argomento che potesse riguardare la
sua famiglia e, nello specifico, Norah.
«Alla
buon'ora!» La voce di Evan fece riscuotere Daphne dai suoi pensieri
e, nel momento in cui distolse lo sguardo da terra, incrociò tre
paia di occhi fisse su di lei.
«Io, ehm,
stavo finendo un saggio breve.» Si giustificò, schiarendosi la voce
e sistemandosi meglio la borsa a tracolla. «Vogliamo andare?»
Il
programma di quella domenica consisteva nell'andare a vedere prima
l'allenamento della squadra di Oxford e, dopo, la partita fra il
Keble College ed il Saint Catherine's. Ovviamente né a Rebecca, né
ad Evan, né tanto meno a Daphne interessava partecipare a
quell'evento della vita sociale dell'università ma da quando
Victoria si era baciata con Damien, per i tre era quasi impossibile
sfuggire alle partite del loro college affiliato.
Daphne
aveva passato le ultime due settimane a pensare a quello che aveva
visto a Londra. Continuava a domandarsi il perché della divisa di
Nathan e di tutte le spille che aveva viste appese sulla sua giacca,
continuava a non capire quale fosse il suo ruolo in quell'ambiente e
soprattutto i suoi legami con Matthew. Così aveva cercato di trovare
l'occasione giusta per parlare con Victoria, cercare di strapparle
qualche informazione, ma le era sembrata sempre esageratamente su
di giri, sempre impegnata a fingere qualcosa che in realtà non era:
felice. Quelle due settimane erano passate lentamente, noiosamente
quasi, e malgrado fossero ormai giunti a febbraio e quella vigilia di
Natale sembrava essere lontana, l'immagine di Nathan non abbandonava
i ricordi di Daphne. Non aveva più avuto l'occasione di parlare con
lui, di incontrarlo faccia a faccia. In realtà sembrava che si fosse
veramente volatizzato, in quanto neanche agli allenamenti calcistici
aveva avuto più modo di vederlo. Aveva sentito Damien raccontare a
Victoria che Nathan aveva la febbre e non usciva dalle quattro mura
del Keble College ma poteva durare una semplice febbre ben
quattordici giorni? Che fine aveva fatto Crawford? Infondo era
vero che stava girando una strana influenza per Oxford: lo stesso
David, che avrebbe dovuto festeggiare i suoi vent'anni organizzando
una serata in discoteca, si era sentito male e aveva rimandato a
quella stessa domenica. Daphne, mentre si sedeva sulle tribune
affianco ai suoi amici, continuava ad interrogarsi su come si sarebbe
dovuta acconciare, come si sarebbe dovuta comportare; per quanto
ritenesse che David fosse incredibilmente dolce e gentile, vedeva in
lui un ameba, un essere passivo che non sarebbe mai riuscito a
scuoterle l'anima come Nathan aveva fatto più volte, anche
inconsapevolmente.
«Vuoi
qualcosa da mangiare?» Domandò Rebecca alla ragazza, sedendosi
affianco a lei e tirando fuori dalla borsa un pacchetto di patatine
ed una scatola di biscotti.
«No,
grazie.» Accennò un sorriso, passandosi una mano fra i capelli
castani. Tuttavia Rebecca posò sulle sue gambe le due confezioni e
tirò fuori dalla propria borsa un enorme libro di anatomia. Sorrise
a Daphne e quest'ultima scoppiò a ridere. «Quello non lo voglio di
sicuro.» Ridacchiò ancora, accendendosi poi una sigaretta.
«Sei
la solita secchiona.» Disse Evan, sedendosi affianco a Rebecca.
Daphne notò come la ragazza arrossì violentemente.
Il
rapporto fra Evan e Rebecca era sempre stato particolarmente delicato
e particolare. Sin dal
loro primo anno al Brasenose College avevano avuto un feeling
particolare che si era concretizzato in baci rubati, abbracci
passionali e pieni di sentimento mostrati dopo aver bevuto qualche
bicchierino di troppo. Eppure, dopo due anni, erano ancora nella
stessa situazione iniziale: impacciati, sorridenti ed evidentemente
cotti l'uno dell'altro ma così rimbecilliti da non rendersene conto,
o meglio: Evan era così rimbecillito da non accorgersi né di ciò
che provava Rebecca né di ciò che provava lui stesso.
«Intanto
la secchiona ne capisce più di te di storia e sei tu quello che
frequenta la facoltà di storia e politica.» Ribatté, facendogli la
linguaccia. Il rossore dalle sue guance era leggermente svanito, ma i
suoi occhi continuavano a brillare.
«Ora
non è che se hai azzeccato un paio di date per puro culo
sfrontato puoi farti tanto la
gradassa.» Rispose a tono, fare schioccare poi la lingua. Daphne
distolse la sua attenzione dai loro battibecchi quotidiani dallo
sfondo melenso e guardò il campo.
Il
suo sguardo andò a cercare istintivamente la figura di Nathan
Crawford e quando non la trovò il suo cuore si riempì di un senso
di vuoto. Quello stesso vuoto l'aveva accompagnata nelle ultime due
settimane quando lo aveva cercato invano nella biblioteca comune, nel
campo di calcio, nelle riunioni del Keble con il Brasenose.
«Senza
Nathan non vinceremo mai contro il Catz(*)» Daphne sentì alcuni
ragazzi dietro di loro parlare e si voltò al nome di Crawford.
«Sai
che fine ha fatto? Non l'ho più visto in giro.» Commentò l'altro
ragazzo.
«Parli
del Diavolo...»
A
quelle parole Daphne si girò nuovamente verso il campo ed il suo
sguardo vide il ragazzo correre sull'erba verde verso i compagni. I
capelli neri erano sempre leggermente disordinati e la frangia era
stata sfoltita. Improvvisamente sentì come i polmoni riempirsi
d'aria nuova, il cuore prese a battere e si sentì leggera, al suo
posto. Che cosa le stava succedendo? Perché un sorriso ebete si era
dipinto sulle sue labbra alla sua semplice vista dopo due settimane?
Possibile che le fosse mancato?
Scosse la testa, mordicchiandosi leggermente il labbro inferiore.
«Damien
è bellissimo.» Disse con tono sognante Victoria, sospirando. Daphne
guardò il ragazzo accanto a Nathan; Damien era alto, con un fisico
giustamente allenato e delle spalle larghe, il viso tuttavia era
particolare, dai lineamenti non regolari, ma contemporaneamente aveva
un suo certo fascino. La castana si limitò ad annuire, rubando poi
un biscotto ad una Rebecca sempre più rossa nella sua discussione
con Evan: erano estremamente fastidiosi certe volte.
Dopo
aver assistito all'allenamento della squadra fra i sospiri di
Victoria, le guance rosse di Rebecca e le fastidiose battute di Evan,
cominciò la partita vera e propria. I tifosi delle due squadre
riempirono le tribune ed il vociare surclassò tutti gli altri suoni.
Daphne guardò l'orologio che portava al polso: le quindici e trenta.
Fra sette ore avrebbe avuto quella magnifica ed
attesissima festa
di compleanno. Si sarebbe portata dietro i suoi amici, non aveva la
minima intenzione di passare la serata da sola con una mandria di
sconosciuti e con David a fissarla insistentemente come suo solito.
La
partita aveva preso il via da almeno quindici minuti ed era
proseguita nella più completa monotonia; c'erano state un paio di
azioni ma nessuna degna di nota. Nathan era arrivato vicino al gol ma
nel momento cruciale, quando avrebbe dovuto reagire per tirare il
calcio, si era fatto prendere in contropiede da un difensore del
Catherine's. In quel momento Keats, il centrocampista del Keble,
riuscì a rubare la palla agli avversari. Furono un paio di veloci
passaggi quelli che fecero arrivare il pallone proprio ai piedi di
Nathan. Quest'ultimo si trovava già oltre la metà campo degli
avversari e si diresse con convinzione verso la porta. Successe tutto
in pochi istanti. Harris, un ragazzo del Catherine's, afferrò con
forza la maglia di Nathan nel tentativo di fermare la sua avanzata e
quella trattenuta strappò con violenza il tessuto verde di essa. Un
pezzo della maglia di Nathan cadde a terra nel momento in cui
l'arbitro fischiò e lo sguardo di Daphne si posò come quello di
molti su una cicatrice che interessava tutta la parte lombare della
schiena del ragazzo. Sedeva nella prima fila, quindi poté vedere
abbastanza bene quei segni che erano stati lasciati da un lato da una
brutta ustione e dall'altro da un evidente taglio profondo. Era una
ferita guarita male, piuttosto evidente, possibile che in ospedale
non fossero riusciti a fare di meglio?
«Lo
ammazza.» Disse il ragazzo seduto dietro Daphne.
Infatti
Nathan si voltò inizialmente con una estrema lentezza verso Harris
e, quando quello invece di scusarsi gli scoppiò a ridere in faccia,
il ragazzo si avvicinò in un paio di falcate e con un colpo solo lo
buttò a terra. Ne aveva viste di sfaccettature nel carattere di
Nathan ma quella le era incredibilmente nuova. Solo tre dei suoi
compagni messi insieme riuscirono a fermarlo dal continuare a
picchiare Harris. L'arbitro non tentennò assolutamente nella sua
decisione di espellerlo e Nathan non reagì in alcun modo. Lanciò
un'ultima occhiata a Harris e poi sputò a terra, dirigendosi poi
verso gli spogliatoi. Il clima tra gli spalti dei tifosi del Keble
era incredibilmente teso e nessuno sembrava avere più voglia di
tifare o parlare. Possibile che solamente perché gli aveva strappato
la maglia aveva reagito in quel modo così esagerato?
Si
girò verso i suoi amici ma anche le loro espressioni erano
incredibilmente stupite. Evan si limitò a stringersi nelle spalle,
Rebecca ad addentare una patatina e Victoria ad accertarsi che Damien
nel tentativo di trattenere Nathan non si fosse fatto male. Sempre
più cose non quadravano.
«Rebecca,
non sai quanto ti sono grata per avere accettato.»
Daphne
e Rebecca erano in piedi davanti allo specchio e si stavano finendo
di truccare. La prima indossava un semplice tubino nero, il suo abito
da occasione, e delle alte scarpe nere e grigio scuro. La seconda
invece indossava un paio di jeans stretti ed una maglia color panna
scollata sulla schiena.
«Figurati,
poi c'è anche...» Si azzittì improvvisamente, resasi conto di aver
detto qualcosa di troppo. Daphne si legò i lunghi capelli in un
elegante chignon e guardò con dolcezza l'amica.
«Evan?»
Rebecca arrossì vistosamente, concentrandosi a mettersi il mascara e
Daphne sorrise. Avevano scoperto quella mattina che Evan e David si
erano conosciuti quella stessa estate in un locale di Londra e che
avevano mantenuto i loro rapporti anche ad Oxford. Certo che tutti
quei piccoli dettagli le sfuggivano sempre, eh! «Ti piace tanto,
vero?»
«Si
nota così tanto?» Domandò preoccupata guardando l'amica.
«Beh,
onestamente si... Ma Evan è un pesce lesso e non se ne è ancora
accorto.» La tranquillizzò, mettendo poi a posto la sua borsetta
con i trucchi e indossando il cappotto. Rebecca la imitò, fissando
insistentemente il pavimento.
«Io
per lui sono semplicemente quella che si può fare in discoteca. Come
stasera, ad esempio.» Disse con una nota di tristezza, stringendosi
poi nelle spalle. «Sono troppo una secchiona.»
«Non
dire idiozie... Lo sappiamo tutti che quando ti scateni sei tutto
tranne che una secchiona. Sei fantastica stasera.» Rebecca le faceva
estremamente tenerezza: era una ragazza splendida, incredibilmente
intelligente, ma continuamente in lotta con quell'inutile stereotipo
di “secchiona”.
Gli
stereotipi condizionano sempre, in tutti i momenti la nostra vita.
Quando sorridiamo, quando camminiamo, quando parliamo. Evitiamo certi
gesti, certe movenze perché sono inusuali, non rispecchiano i canoni
prescritti dalla società e dei mass media. Per quando Daphne
potesse criticare Rebecca per farsi condizionare così tanto da
quelle stupide idee inculcate nelle loro menti da altri, non poteva
non rendersi conto che lei quotidianamente lottava con gli stessi
concetti. La ragazza povera. Il ragazzo ricco.
«Chissà
perché Nathan ha reagito così oggi.» Disse Daphne mentre
camminavano verso il locale situato sulla High Street.
«Era
da tanto che non lo nominavi.» Notò Rebecca, sorridendole.
«Comunque non so, mi è sembrata una reazione davvero assurda.»
Scrollò le spalle, stringendosi meglio nel cappotto: si gelava
quella sera ed i loro vestiti da discoteca non aiutavano di certo.
«Hai visto che cicatrice che aveva sulla schiena?» Daphne annuì,
mentre le veniva la pelle d'oca. Aveva la strana impressione che non
fosse a causa del freddo ma dell'immagine di Nathan. «Sembra una
operazione fatta d'urgenza, senza alcuna preoccupazione del
risultato... In ospedale avrebbero limitato i danni. Quello è
troppo.»
Mentre
Rebecca faceva un'ampia digressione di sfondo medico sulle ustioni e
sui modi di curarle, nasconderne i segni, Daphne continuava a
riflettere sul perché di quella ferita. Possibile che se la fosse
procurata in accademia?
«L'espulsione
era proprio il minimo.» Concluse Rebecca. Daphne non rispose,
notando che erano praticamente a due passi dal locale. Si
avvicinarono al bodyguard che dopo averle scrutate ed aver domandato
loro i nomi, le fece entrare.
«Buonasera,
ragazze!» Mentre lasciavano le giacche li si avvicinò una ragazza
dai capelli biondi e corti che con voce acuta ma gentile, diede loro
il benvenuto. «Il tavolo a nome David Harris? Sì, vi ci accompagno
io.»
Inizialmente
il fatto che il cognome di David fosse Harris non colpì l'attenzione
né di Daphne né di Rebecca ma quando arrivarono al tavolo e si
trovarono davanti un ragazzo del Saint Catherine's con un occhio
nero, collegarono velocemente David Harris a John Harris, quello
stesso ragazzo che Nathan aveva picchiato durante la partita.
«Daphne!
Finalmente!» David la accolse con un abbraccio, presentandola poi ai
suoi amici. Max, Francis, George,... Nomi su nomi si sovrapposero
nella sua mente mentre stringeva le mani dei ragazzi. Solo alla fine
il suo sguardo e quello spaesato di Rebecca incrociarono quello di
Evan. Le salutò entrambe, sorridente.
«Quanto
è piccolo il mondo, eh!»
La
serata partì velocemente. Il DJ di quella sera era particolarmente
bravo e sveglio a capire quali fossero i gusti delle persone
presente. Alternava differenti tipi di musica riuscendo a coinvolgere
tutti e, grazie alla vodka che venne servita a volontà al tavolo
prenotato da David, ben presto ci si sciolse, lasciandosi travolgere
dal ritmo. Cogliendo l'occasione datale dal fatto che David si
fosse allontanato per rispondere ad una chiamata, Daphne fissava con
interesse John Harris, sorseggiando il suo vodka-redbull. Ci doveva
essere obbligatoriamente un motivo se Nathan aveva reagito in quel
modo così violento proprio nei suoi confronti, o no?
«Mi
dispiace per il tuo occhio.» Mormorò forse con un tono troppo
suadente, avvicinandosi al ragazzo. Lui si voltò, guardandola con un
sorriso soddisfatto. Daphne si rese conto di aver bevuto troppo visto
la maniera in cui le girava la testa. «Crawford è proprio un
cretino.» Aggiunse, sperando che il suo volto avesse assunto una
espressione decisamente dolce. Il petto di John si gonfiò, mentre
portava alle labbra il suo bicchiere. Esteriormente era proprio un
deficiente.
«Il
punto è che non volevo farmi espellere, altrimenti lo gonfiavo.»
Disse e Daphne per poco non gli scoppiò a ridere in faccia. «Studi
ad Oxford allora...» Aggiunse, guardandola negli occhi. «Come ho
fatto a non aver mai visto una bellezza simile?» Quello era
decisamente troppo ma la curiosità di Daphne la spinse a continuare
quella messinscena per indagare oltre.
«Magari
era semplicemente disattento.» Crucciò il labbro inferiore,
fingendosi ferita. Lui giocherellò con una ciocca di capelli che
sfuggiva allo chignon, sorridendo.
«Non
mi distrarrò più tranquilla.» Le ricordava incredibilmente David
per il modo fastidioso in cui la guardava negli occhi.
«Promesso?»
Dondolò leggermente, sbattendo un paio di volta le ciglia. Lui
annuì, versandosi poi un altro po' di vodka nel bicchiere.
«Certamente,
bambola.» Daphne sorrise, guardandosi poi per un istante intorno.
Rebecca ed Evan erano scomparsi, David ballava con degli amici di cui
lei non si ricordava minimamente il nome: aveva la piena possibilità
di agire.
«Ma...Come
mai tutta questa avversione nei tuoi confronti da parte di Crawford?»
Domandò, pesando bene ogni singola parola.
«Lunga
storia.» Disse lui, facendo il vago. No, le regole le dettava lei,
lui non poteva permettersi quella vaghezza.
«Ma
abbiamo tanto tempo.» Insistette Daphne, mordicchiandosi con
insistenza il labbro inferiore. Parve funzionare quell'ultimo
trucchetto.
«Facciamo
che se balli con me te lo racconto.» Daphne annuì vittoriosa. La
mano di John strinse la sua e la condusse verso la pista da ballo.
La
musica era forte, rimbombava con violenza nelle orecchie della
ragazza, alterata anche per l'eccesso di alcol. La pista era piena,
nonostante fosse domenica, e studenti di tutte le età si muovevano:
chi sinuosamente, chi con meno energia.
La
mano di John passò dietro la schiena di Daphne e la strinse con
forza a sé, cominciando poi a muoversi in maniera evidentemente
sensuale e tentatrice. Lei cercò di contenersi, non esagerare con
nessun gesto ma il fiato di lui sul suo collo cominciava ad essere
estremamente esigente e fastidioso. Più volte le mani di John
cercarono di invitare il bacino di Daphne a fare movimenti più
consoni se fatti in un film porno che in un locale e lei
miracolosamente riuscì a controllare il suo desiderio di completare
l'opera di Nathan annerendo anche un altro suo occhio.
Ad
un tratto le labbra di John si posarono sul collo di Daphne, dando
inizio ad una calda scia di baci. Daphne si morse a sangue la labbra
mentre lui risaliva l'incavo del suo collo arrivando alla mandibola.
Quando fu sul punto di baciarla sulle labbra, lei si allontanò,
portando le labbra al suo orecchio.
«Mi
devi ancora raccontare la storia.» Urlò al suo orecchio. «Ti ho
concesso più di un ballo.»
Lui
annuì, evidentemente scocciata e, dopo averla presa nuovamente per
mano, si diresse fuori dal locale. Uscirono dall'uscita posteriore,
ritrovandosi su una strada abbastanza desolata in confronto alla High
Street. John spinse la ragazza contro un muro con non troppa
delicatezza, avventandosi nuovamente sul suo collo. Daphne posò le
mani sul suo petto e lo spinse via con forza.
«Prima
la storia.» Il freddo di Oxford la stava facendo tremare. Lui
sbuffò, posando una mano proprio al di sopra della spalla di Daphne,
contro il muro.
«Che
storia vuoi sentire? Non c'è nessuna storia.» Disse, mentre il suo
tono era sempre più simile a quello di uno sull'orlo del coma
etilico. «Pensavo fosse solo una scusa.» Ridacchiò, avvicinandosi
di più. Daphne strabuzzò gli occhi, schivando l'ennesimo bacio.
«Rientriamo
allora.» Cercò di avvicinarsi alla porta la lui la afferrò per un
braccio e la sbatté contro il muro.
«Lo
so che mi vuoi, bambola, il tuo corpo sta fremendo.» Disse, posando
il suo corpo su quello della ragazza. Aderirono perfettamente e
Daphne sentì l'eccitazione di John all'altezza del proprio bacino.
«Ho
solamente freddo, idiota!» Lo spinse nuovamente via ma lui non fece
altro che afferrarla con più violenza spingendola contro la parete.
«Zitta,
troia.» Sibilò sulle sue labbra. Immobilizzò i suoi polsi con le
proprie mani ed il suo corpo con il proprio fisico imponente,
baciandola poi con irruenza. La baciava con violenza, spingendo la
lingua nella bocca della ragazza che non poteva fare altro che
subire.
«Lasciami...»
Mormorò supplichevole, mentre lui infilava con forza le proprie mani
sotto il suo vestito. Non poteva essere vero, non poteva essere
vero... Non di nuovo. Continuò a toccarla ovunque sotto il suo
corto vestito, senza staccare le sue labbra dalle sue.
Sembrava
essere tornata indietro nel tempo. L'incenso tornò ad inebriarle la
mente. Quelle lezioni di matematica a casa sua, quando i suoi
genitori erano ancora vivi, quel ragazzo così carino che la aiutava
con i compiti di matematica. Quel ragazzo che aveva quindici anni e
da sette era in affidamento presso gli zii. Quel ragazzo che
conosceva da quando era nata. Poi quando gli zii e i suoi genitori se
ne andavano, quel ragazzo provetto provava ad insegnare altro
a
Daphne. Eppure lei scappava, scappava ogni volta... Si rifugiava a
vedere le stelle fra le lacrime, si rifugiava sempre più lontano,
finché non incontrò una stazione di polizia.
«Lasciami...
Lasciami, Simon...»
Nel
momento in cui John si allontanò per slacciarsi i pantaloni,
un'altra mano afferrò quella di Daphne spingendola lontana dal muro.
Daphne tenne gli occhi chiusi, cadendo a terra sia per l'effetto
dell'alcol che per la forza con cui l'avevano allontanato. Non voleva
vedere quello che le stava accadendo intorno, non voleva.
«Ti
giuro su Dio che tu sei morto.» Una voce non sconosciuta risuonò
nel vialetto e solo allora Daphne aprì gli occhi. Nathan? Sbatté le
palpebre, incredula ma il suo stupore fu spazzato via dal primo
gancio che andò a colpire il naso di John. Nathan sbatté il ragazzo
più volte contro la parete contro la quale lei era stata schiacciata
prima. In pochi istante John rantolò a terra, coprendosi con una
mano il volto e con l'altra il ventre che Nathan continuava a colpire
con calci.
Improvvisamente
si aprì la porta del locale ed uscirono Evan, Rebecca e David con i
suoi amici. Rebecca urlò, precipitandosi dentro a chiamare
probabilmente la sicurezza, mentre David si fiondò su Nathan,
allontanandolo dal fratello. Mentre David si concentrò a guardare
John, gli amici di David si avventarono su Nathan. Quest'ultimo
schivò i loro colpi più volte ma lo scimmione di nome George lo
colpì in pieno volto, facendolo inciampare.
«Che
cazzo succede qui?» Il bodyguard dell'ingresso allontanò George da
Nathan, spingendo poi quest'ultimo via. Rebecca guardava spiazzata la
scena ed Evan cercava di scendere a compromessi con l'uomo. David
aveva aiutato John a rialzarsi, facendogli dare le spalle alla porta
in modo tale che l'uomo non potesse vedere il suo volto insanguinato.
Era conciato veramente male.
«Avete
dieci secondi per andarvene o chiamo la polizia.» Decretò infine,
chiudendo la porta alle sue spalle ed andandosene. Ci fu un attimo di
silenzio, che fu rotto da David.
«Ti
giuro sulla tomba di mia madre che se ti vedo ti spacco la faccia.»
Sputò per terra guardando Nathan. Quest'ultimo fece per reagire ma
Daphne afferrò in tempo le sue mani.
«Andatevene
e ce ne andiamo anche noi.» Disse con tono fermo.
«Da
quand'è che frequenti questa gente di merda?» Le domandò con
disprezzo David, fissando Nathan.
«Per
lo meno lui non tenta di stuprarmi.» Guardò con odio John, che era
sorretto dai suoi amici poco più in là. David strabuzzò gli occhi,
dandole poi le spalle ed allontanandosi.
«Dovete
portarlo in ospedale!» Urlò Rebecca, per avvicinarsi poi di corsa
all'amica.
Le
mani di Daphne erano rimaste intrecciate con quelle di Nathan.
Stavano in piedi in completo silenzio. Lui tremava leggermente,
respirando profondamente, ma non osava parlare. Daphne si sentiva
inadeguata dinanzi tutto ciò che era successo. Si era
improvvisamente ritrovata durante gli anni della sua infanzia...
Simon... Eppure continuava a ripetersi di aver bevuto decisamente
troppo alcol quella sera... Simon... Eppure Nathan da dove era
sbucato? ...Simon... Lui la rincorreva per la casa, la afferrava e
provava a buttarla a terra... Simon... Ma lei scappava... Faceva
freddo quella sera ma Daphne non lo riusciva più a percepire.
«Daph,
stai bene?» Le domandò Rebecca. O forse era Evan?
«E'
bianca cadaverica...» No, questo era Evan. Prima due mani si
posarono sulle sue guance, facendole scuotere la testa.
«Apri
gli occhi!» Parlò nuovamente Rebecca. Improvvisamente le mancò la
terra sotto i piedi e si sentì sprofondare. Tutto nella sua mente si
annerì non appena le sue ginocchia cedettero. Due mani forti la
afferrarono, evitandole l'impatto con il terreno.
Simon...
Si
rigirò fra le lenzuola e pregò con tutta se stessa che tutto ciò
che passava per la sua mente fossero i rimasugli di un orrendo
incubo. Si portò la coperta fin sopra al naso, aprendo poi gli
occhi. Le pareti che vedeva erano verdi. Le sue erano gialle. Dove
diavolo si trovava? Si girò di scatto ed il suo sguardo vide una
figura che le dava le spalle a torso nudo. Strizzò gli occhi e dai
capelli neri capì che si trattava di Nathan. Aveva un corpo a dir
poco perfetto
e, mentre alzava le braccia per indossare una maglia, il suo sguardo
si posò nuovamente sulla cicatrice. Da quella distanza era ancora
più inguardabile. Nathan si voltò di scatto e beccò il suo sguardo
curioso. Arrossì, sistemandosi frettolosamente la maglietta e
avvicinandosi al letto.
«Stai
tranquilla, stai da me perché era più vicino alla discoteca... Sono
le quattro del mattino, hai dormito due ore.» Le disse, passandole
una mano fra i capelli. Si era quasi dimenticata da quanto fosse
bello e delicato il suo tocco, per non parlare dei suoi occhi del
colore degli smeraldi...
«Rebecca
ed Evan?» Mormorò, posando nuovamente la testa sul cuscino.
«Sono
stati qui fino a mezz'ora fa, sono tornati al Brasenose.» Disse con
dolcezza. In quel momento Daphne notò un livido viola sullo zigomo
di Nathan. Passò il suo indice con delicatezza sul punto ferito.
«Non è niente, tranquilla.» Mormorò con voce leggermente roca.
«Come ti senti?»
«Cos'è
quella cicatrice sulla schiena?» Domandò ad un tratto, schivando la
sua domanda. Lui evidentemente non se la era aspettata e rimase
interdetto, boccheggiando qualche istante. Distolse lo sguardo,
deglutendo.
«Chi
è Simon?» Domandò di rimando lui e, questa volta, fu Daphne ad
essere stupita e presa in contropiede. «Non hai fatto che ripetere
il suo nome.»
**
Ehm!
Eccomi qui! Si, questo è un capitolo un po' crudo
,
ecco, ma era incredibilmente necessario per svelare la storia di
entrambi i personaggi :) ! Spero di non aver urtato la sensibilità
di nessuno per i temi trattati... Non posso fare altro che
ringraziare tutti coloro che mi hanno seguita fino a qui e sperare
che continuerete a farlo. Risponderò personalmente alle vostre
recensioni appena ho un attimo di tempo; con l'inizio della scuola mi
sono ritrovata catapultata su noiosissimi vocabolari di greco ç__ç
maledetta maturità! Un abbraccio a tutti, Silvia.
|
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Capitolo 6 *** Capitolo Sesto. ***
MidnightTrain CapitoloSesto.
Nathan
guardò Daphne per dei lunghi, interminabili istanti e si perse
completamente nel blu dei suoi occhi. Perché gli stava facendo
quella domanda? Perché lo
voleva mettere così tanto in difficoltà? Chiuse gli occhi,
sospirando poi sonoramente.
Cos'è
quella cicatrice?
L'aveva
notata, come l'avevano notata in molti in quell'ultimo periodo, però
per una ragione a lui non chiara non riusciva a risponderle, a
mentirle come aveva mentito a tutti gli altri che gli avevano posto
la stessa domanda. Lei era diversa, se ne era reso conto dalla
prima volta che aveva incrociato il suo sguardo su quel treno.
«Chi
è Simon?» Quelle parole scivolarono con una estrema fluidità dalle
sue labbra e, per una volta, benedì il suo parlare senza pensare:
l'aveva decisamente distolta dalla sua domanda primaria, in quando
Daphne era arrossita violentemente ed aveva abbassato lo sguardo.
«Hai detto il suo nome più volte mentre dormivi.» Aggiunse,
leggendo lo smarrimento nei suoi occhi. Lei sbatté le palpebre un
paio di volte, passandosi poi le mani fra i capelli castani. Le
ciocche di capelli si infilavano sinuosamente fra le sue dita lunghe
e sottili, come quelle di un pianista.
Daphne
cominciò a tremare con più forza, non appena colse lo sguardo di
Nathan insistere. Non poteva scoprirsi in quel modo, non con lui. Non
poteva lasciare cadere tutte le sue barriere, tutta la sua apparente
forza e rivelare quel suo, forse, unico punto veramente debole e
vulnerabile. Nathan era lì a pochi centimetri da lei, seduto con le
gambe incrociate sul letto, con le mani posate sulle proprie cosce,
in attesa di un qualsiasi cenno. Senza che se ne accorgesse, delle
lacrime cominciarono a rigarle velocemente le goti, come se le parole
che stava soffocando a forza dentro di sé stessero venendo fuori in
quella forma liquida.
«Ehi,
tranquilla...» Mormorò Nathan, prendendole all'istante le mani e
tirandola verso il proprio petto, contro il quale la spinse poi
dolcemente, passando le braccia intorno alla sua schiena. Daphne
inspirò profondamente, nel tentativo di adottare una vecchia tecnica
per trattenere le lacrime ma fallì miseramente in quanto non solo
cominciò a piangere più violentemente, ma il profumo della felpa
che indossava Nathan la inebriò profondamente, rendendola
definitivamente ed incurabilmente assuefatta a quell'odore. Stava
cedendo, se ne rendeva perfettamente conto, e non riusciva a
raccogliere le forze per riscattarsi da quella situazione. «Daphne,
calmati.» Nathan le prese il viso fra le mani, costringendola a
guardarlo dritto negli occhi. «Non è successo niente, tranquilla.»
Aggiunse in un roco sussurro.
Daphne
annuì con vigore, passandosi poi una mano sul viso nel tentativo di
scacciare le lacrime. Non osava immaginare come era il suo viso in
quel momento; Nathan sicuramente non l'aveva fatta struccare quando
erano tornati dalla discoteca e le lacrime probabilmente avevano
fatto diventare il suo mascara un perfetto acquarello a cui il suo
viso aveva fatto da base.
«I
miei zii per guadagnare un po' di soldi avevano preso in affidamento
un ragazzo che aveva rischiato di andare in riformatorio, Simon.»
Mentre la voce usciva con estrema naturalezza dalle sue labbra,
Daphne si domandava se si fosse completamente impazzita ad esporsi a
Nathan in quella maniera. «Io avevo otto anni e lui quindici, lo
conoscevo praticamente da quando ero nata visto che stava in
affidamento dai miei zii da quando aveva otto anni.» Sospirò,
guardando poi di sfuggita Nathan e rimanendo elettrizzata
dall'intensità dello sguardo che le stava riservando: quasi non
respirava e nei suoi occhi si poteva leggere pura preoccupazione.
«I miei genitori ed i miei zii uscivano sempre insieme il pomeriggio
e solitamente io e Simon restavamo a casa insieme, lui mi aiutava
sempre a fare i compiti.» Si passò una mano fra i lunghi capelli
castani, scompigliandoli leggermente. «Simon mi ripeteva sempre che
ero una bellissima bambina e che adorava i miei occhi azzurri; io mi
vergognavo sempre perché comunque lui era più grande e poi avevo
sempre avuto una cotta segreta, la cotta da scuola elementare
insomma.» Un altro sospiro. Un'altra occhiata di Nathan. «Un
pomeriggio comincio a sfiorarmi, ad abbracciarmi, a provare a
baciarmi. Ero piccola, non capivo neanche quello che mi faceva, e
scappavo, cercavo sempre di correre lontana da lui.» Un singhiozzo
ruppe all'improvviso la voce di Daphne. «Lui mi afferrava sempre per
le gambe, mi buttava a terra, diceva che voleva solamente giocare
un po' con me... Io mi rialzavo e scappavo nuovamente.»
«Lui
ti ha mai fatto qualcosa?» Domandò Nathan con voce roca,
mentre sentiva una rabbia crescente impadronirsi di lui. Non era un
ragazzo violento e poche volte si era trovato coinvolto in delle
risse serie, l'ultima quella sera, ma se pensava che qualcuno aveva
osato avvicinarsi a Daphne e farle del male, istintivamente le sue
mani si stringevano in dei serrati pugni.
«No.»
Mormorò Daphne, ricambiando il suo sguardo. Anche Nathan tremava e
la sua presa sicura sulle sue spalle, sul suo viso, la facevano
sentire incredibilmente protetta, al sicuro, come se tutto il mondo
potesse essere racchiuso improvvisamente in un unico, dolce, intenso
abbraccio. «Io riuscivo sempre a scappare, ero piccola e veloce.»
Abbozzò un leggero sorriso. «Lui provava a minacciarmi, diceva che
se non uscivo dal mio nascondiglio lui avrebbe raccontato a tutti che
avevo una cotta per lui.» Si accorse in quel momento che le sue dita
avevano stretto incredibilmente forte la maglia che portava Nathan.
Lasciò la presa, senza però spostare la mani dal petto del ragazzo.
Le mani di Nathan scesero dalle guance di Daphne al suo collo, alle
sue spalle, alle sue braccia ed infine si posarono su quelle di lei,
stringendole piano. «Un giorno mentre stavo scappando da Simon,
uscii di casa e corsi, corsi nel pieno della campagna, corsi diretta
a Reading e per strada incontrai un poliziotto in borghese che mi
portò nella stazione e non so come, non so perché vuotai il sacco.
Mi sentivo incredibilmente stupida ricordo, pensavo che mi sarebbero
scoppiati a ridere in faccia, invece presero seri provvedimenti.» Per
qualche lungo, interminabile istante, calò fra loro il silenzio,
intercalato da sospiri, singhiozzi e brevi ma intensi sorrisi. I loro
occhi sembravano liquefarsi nel momento in cui si incrociavano, come
una danza sconosciuta agli uomini, talmente bella da essere
indimenticabile. Daphne si strofinò la mano sugli occhi, cercando
quasi di rimuovere con la forza le righe lasciate dalle lacrime. Si
era mostrata esageratamente fragile ai suoi occhi. «Scusami,
io non volevo...» Mormorò, mordendosi poi il labbro inferiore.
Nathan
la guardò intensamente negli occhi, chiudendo poi morbidamente le
sue palpebre con i polpastrelli. La strinse con dolcezza a sé come
aveva fatto infinite volte quella sera e la sentì tremare contro il
suo petto, abbandonandosi con dolce violenza a lui, quasi lottando
contro il proprio desiderio di abbandonarsi completamente. Non ebbe
il coraggio né di chiederle altro, né di domandarle perché si era
avvicinata così fastidiosamente a quel Harris. Fastidiosamente,
quello era l'avverbio corretto. Aveva provato un fastidio diffondersi
per le sue membra quando l'aveva vista così stretta a lui.
Daphne
aprì gli occhi e nuovamente si ritrovò in una stanza che non
assomigliava minimamente alla sua. Si rigirò fra le coperte e quando
si voltò verso l'armadio, sperò di vedere Nathan ma, per suo
disappunto, scoprì ben presto di essere da sola nella stanza.
Si
alzò dal letto stropicciandosi gli occhi e lanciando un'occhiata
all'orologio: mezzogiorno. Dannazione, aveva perso la lezione di
politica! Si sedette sul letto, mentre nella sua mente riaffioravano
tutte le parole che aveva detto a Nathan, tutti i segreti sul suo
passato che gli aveva rivelato, ed un amaro le invadeva la bocca ed
un formicolio si impadroniva delle sue membra: che fosse paura?
Paura di cosa? Del fatto che si potesse allontanare da lei?
Scosse
la testa, alzandosi nuovamente. Si avvicinò lentamente allo
specchio, strofinandosi poi energicamente gli occhi nel tentativo di
togliere tutto il mascara che, colando, aveva disegnato dei
ghirigori. L'aveva vista in quelle condizioni? Maledizione, ecco
perché non c'era più nella stanza, probabilmente si era spaventato
di quella visione: sembrava decisamente indemoniata. Si passò
le mani fra i capelli, andandosi poi a sciacquare il viso in bagno.
Calma.
Doveva stare assolutamente calma. Nathan l'aveva salvata da una
brutta situazione la sera precedente e, probabilmente, aveva capito
le motivazioni che l'avevano ridotta in quello stato. Gli aveva
pianto addosso. Probabilmente si era addormentata piangendo.
Eppure nonostante l'imbarazzo che le stava facendo avvampare le
guance, il suo profumo sembrava essersi impresso nelle sue narici,
nella sua mente, nei suoi ricordi. Profumava come i boschi, un
profumo silvestre incredibilmente penetrante e indimenticabile.
All'improvviso
un rumore invase la stanza, sopraffacendo i suoi ricordi notturni. Si
voltò di scatto, andando diretta verso la camera da letto. Sembrava
una... vibrazione? Ma da dove proveniva? Inizialmente rovistò fra le
coperte, mettendo sotto sopra il letto e, poi, si avvicinò alla
scrivania. Dopo aver spostato un paio di libri di economia e storia
dell'economia, trovò fra dei fogli scritti il cellulare.
Lauren.
Lauren?
Chi era Lauren? Fissò il telefonino sbigottita finché non smise di
suonare e, solo dopo, si accorse che aveva anche due messaggi non
letti. Mittente: Lauren. Rigirò il cellulare fra le mani per qualche
istante, indecisa sul da farsi.
«Tesoro,
perché sei scappato così? Stavamo così bene fra le coperte...»
No,
non era possibile. Fu sul punto di posare il telefono sulla
scrivania, quando un impulso di autolesionismo la convinse a leggere
anche il secondo messaggio.
«Mi sei
mancato questa notte... Ci vediamo domattina per colazione? :)»
Perché
se la stava prendendo così? Infondo fra loro non c'era assolutamente
niente . Era liberissimo di portarsi a letto tutte le ragazze
che desiderava, giusto? Perché non era convinta neanche di mezza
parola che usciva dalle sue labbra? Perché?
Quando
la sua mano fu a due centimetri dalla scrivania di mogano, pronta a
lasciare l'iPhone, il cellulare vibrò nuovamente. Nuovamente Lauren.
«Grazie
per la colazione! ;)»
Quello
era decisamente troppo. Tornò vicino al letto e prese una felpa a
caso; le importava ben poco di privare Nathan di una sua firmatissima
e splendente felpa. La indossò, coprendo a malapena il vestito corto
e si guardò allo specchio. Perché i suoi occhi erano così rossi e
lucidi ? Cosa si era aspettata? Scosse la testa, avvicinando a
grandi falcate alla porta e posò la mano sulla maniglia dorata; in
quello stesso istante la porta si aprì e si ritrovò faccia a faccia
con Nathan.
«Sei
sveglia!» Il suo sorriso era così schifosamente largo e felice da
sembrare incredibilmente...
«Ipocrita!»
Urlò di rimando Daphne, sbattendo contro il suo petto l'iPhone
bianco. «E' andata bene la colazione con Lauren?»
«Con
chi?» Alzò un sopracciglio e la sua faccia sbigottita fece
indiavolare maggiormente Daphne che, con rabbia, lo spinse lontano
dalla porta.
«Hai
ancora il coraggio di mentirmi? Basta! Ho letto i messaggi!»
«Daphne,
di cosa diavolo stai parlando? Sono stato a lezione!» Tirò fuori
dalla tracolla dei libri e dei quaderni, buttandoli poi a terra. «Che
diavolo hai?» Poi prese il cellulare in mano e, dopo averlo
osservato qualche istante, scoppiò a ridere, buttando poi di scatto
tutti i libri a terra, seguiti dal cellulare. Daphne sobbalzò,
facendo poi un paio di passi indietro; l'espressione di Nathan
cominciava a farle paura.
«Punto
primo: questo non è il mio cellulare, ma quello di Thomas Ichter, il
portiere della squadra. Ha l'abitudine di venire in camera mia prima
di andarsi a scopare Lauren. Lauren Hales è del primo anno, ha dei
capelli neri che sembrano paglia e mi fa davvero tanto schifo. Punto
secondo: se anche fosse stato il mio cazzo di cellulare ed io mi
fossi fatto Lauren Hales, tu che diritto avresti avuto di farti i
fatti miei e venirmi a giudicare? Possibile che sai solo ed
esclusivamente giudicare nella tua cazzo di vita?»
Daphne
restò in silenzio, guardando Nathan negli occhi e desiderando di
potessi scavare una fossa da sola. Possibile che non combinava altro
che guai? Perché, perché qualsiasi cosa facesse non faceva altro
che deteriorare il suo rapporto con lui, lui che era l'unico che in
quel periodo le era stato accanto? Lui che... che conosceva il suo
più profondo segreto?
«Nathan,
scusami.» Mormorò, alzando le mani quasi a volergli sfiorare il
viso in una gentile carezza.
«Non
mi toccare.» Con un brusco movimento allontanò le sue braccia. Aprì
nuovamente la tracolla, tirando fuori una busta di carta bianca.
«Questa era la cazzo di colazione che non ho fatto perché volevo
fare con te.» Buttò la busta a terra, facendo fare infine la stessa
fine alla borsa.
«Nathan,
io...» Lui la zittì con un cenno della mano.
«Daphne,
ti prego, vattene adesso, non ho voglia di parlare adesso.» La sua
voce era pesante, quasi delusa? Si sedette sul letto,
portando le mani alla testa. Daphne restò in piedi ferma, immobile
alla porta e continuò a guardare incessantemente i movimenti di
Nathan: sembrava infinitamente inquieto, nervoso, perché lo aveva
toccato tanto? Era stato solo un malinteso.
«Non
ho mai raccontato a nessuno della cicatrice che ho.» Disse con voce
leggermente roca, alzando poi lo sguardo ed incrociando lo sguardo di
Daphne. «A nessuno.» Ripeté con voce leggermente più bassa,
alzandosi poi in piedi e cominciando a camminare avanti e indietro
per la stanza. «Questa notte avrei voluto veramente raccontarti
tutto perché io mi fidavo... io mi fido di te.»
«Nathan,
anche i...» La zittì nuovamente con un movimento.
«Non
ti fidi di me, Daphne.» Scosse la testa, avvicinandosi alla ragazza
e poggiando una mano sulla sua guancia. La guardò negli occhi blu;
era leggermente più bassa e da quella distanza poteva sprofondare
nei suoi occhi che sembravano essere l'oceano, l'oceano più bello,
più blu. «Non ti fidi.» Si allontanò dandole le spalle.
Daphne
tremava, inchiodata in quel del pavimento, incapace di fare un passo,
incapace di pensare, parlare. Possibile che lo avesse deluso?
«Io
ti ho raccontato tutto di me, io...» Si morse il labbro inferiore,
facendo poi un passo nella sua direzione ma tornando nuovamente
indietro. «Sei il primo a cui l'ho raccontato.» Aggiunse in un
leggero mormorio.
«Allora
sono io a non fidarmi più della persona che sei; evidentemente non
sei la Daphne a cui ero pronto a dire tutto.» La sua sentenza pesò
come un macigno su Daphne che, per poco, non si sentì mancare
nuovamente il pavimento sotto i piedi. «Scusami ma non ho voglia di
continuare questa conversazione, sono abbastanza stanco.»
Daphne
lo guardò un'ultima volta, ma lui né si voltò, né aggiunse altre
parole. La ragazza si voltò silenziosamente, uscendo poi in fretta
dalla stanza. Voleva allontanarsi da quella stanza nella quale aveva
rivelato il suo segreto a Nathan. Voleva allontanarsi da quella
stanza dove le era venuta la malsana idea di farsi gli affari di
qualcuno leggendo i messaggi. Voleva allontanarsi da quella stanza
dove Nathan sembrava aver decisamente posto i paletti della loro
relazione in un verso decisamente negativo e differente da quello che
aveva desiderato, da quello che aveva sognato. Le dava fastidio tutto
del Keble College. Il colore delle felpe; come il colore delle felpe
di Nathan. Le davano fastidio le foto della squadra del college
appese su ogni muro di ogni corridoio; Nathan faceva parte della
squadra. Le dava fastidio il fatto che il Keble College fosse
rinomato per il suo corso di Economia e Management; Nathan era
iscritto a quella facoltà. Le dava fastidio ogni singolo angolo,
ogni singola voce, ogni singola persona che incontrava. Ma
soprattutto le dava fastidio quel profumo silvestre che sembrava
perseguitarla. Perché aveva rovinato nuovamente tutto?
«Daphne,
mangia su.» Victoria sventolò una busta piena di biscotti davanti
il viso della ragazza che, per l'ennesima volta, non fece altro che
scuotere la testa sconsolata.
«Non
è successo nulla, dai.» Neanche Evan sembrava convinto mentre
pronunciava quelle parole, tentando di infilare un biscotto nella
bocca della ragazza. Daphne si portò le mani sul viso, scuotendo
ancora la testa.
Erano
nella caffetteria della biblioteca e, a due giorni dalle ultime
parole che si erano rivolti Nathan e Daphne, la situazione non
sembrava aver fatto altro che precipitare. Nonostante Victoria stesse
con Damien che era il migliore amico di Nathan, quest'ultimo aveva
cominciato ad evitare tutti i luoghi comuni che aveva sempre
frequentato.
«Evan,
mi passi il mio libro di anatomia?» Rebecca si intromise nella
conversazione con un ampio sorriso.
«Reb,
non mi sembra il momento.» Rispose Evan, facendo un cenno con la
mano.
«Ma
la smettete di torturarla?» Sbottò di rimando la ragazza,
portandosi scocciata le mani sui fianchi e sbuffando.
«Ma
cosa vuoi saperne tu!» Evan non si lasciò di certo sfuggire
l'ennesima occasione per scatenare un battibecco.
«Di
sicuro ne so più di te su molte cose, testa di zucca.»
«Senti,...»
«ZITTI!»
Daphne sbottò, alzandosi di colpo dal divano di pelle e raccogliendo
frettolosamente le sue cose dal tavolino e dalla poltrona. «Mi sono
rotta di sentire i vostri continui, stupidi ed inutili battibecchi!
Chiudetevi in una stanza e risolvete i vostri diverbi in un altro
modo, no? Tanto siete abituati!» Rebecca spalancò gli occhi ed Evan
dovette trattenere una risata.
«Non
ti permettere.» Sibilò Rebecca, non abbassando di un millimetro lo
sguardo. Daphne accettò quella silenziosa sfida.
«Mi
permetto eccome. Lasciate in pace me e fatevi una ricca sc...» La
sua ultima parola fu coperta dagli insulti che cominciò a sputare a
raffica Rebecca. Evan la dovette trattenere per le braccia per
evitare che andasse a finire contro Daphne. Quest'ultima invece dopo
essersi sistemata, si allontanò in fretta dalla biblioteca.
Cosa
le stava succedendo? Possibile che quel suo litigio con Nathan avesse
avuto un tale effetto sulla sua quotidianità? Erano passati solo due
giorni infondo. Due soli maledettissimi giorni. Non poteva lasciare
che la condizionasse così tanto, non poteva lasciare che arrivasse
addirittura al punto di minare la sua concentrazione nello studio, i
suoi rapporti interpersonali, i suoi impegni fuori dall'università.
«Girano
voci che c'entri la Monroe.» Disse una voce a lei conosciuta.
Si
fermò, avvicinandosi all'angolo che stava per voltare, appiattendosi
praticamente contro la parete. Era Madison Linton quella che
parlava. «Monroe? Daphne Monroe? Quella sfigata campagnola
castana?» Parlò una voce che non aveva mai udito prima. Daphne
respirava, tentando di trattenere i suoi istinti.
«Nathan
non ha mai picchiato nessuno, figuriamoci se si macchiava le mani per
una Daphne Monroe.» Intervenne una terza ragazza. Che simpatica
combriccola.
«Ogni
volta che torna da Londra dopo lunghi periodi è sempre così
strano.» Commentò Madison, sospirando poi. «Gli fanno davvero il
lavaggio del cervello.»
«A
proposito, cosa ci va a fare a Londra ogni santa volta? L'anno scorso
non stava mai a lezione.»
«L'anno
scorso stava in Iraq e non ha perso l'anno solo ed esclusivamente
perché il padre ha sborsato una cifra spropositata di soldi. Vi
siete mai domandate perché all'improvviso è comparsa una libreria
nuova al Keble?» Dette quelle parole, si allontanò insieme al suo
seguito e Daphne restò totalmente tramortita a fissare la
riproduzione di un quadro di Hayez che era appeso alla parete di
fronte a quella contro cui si era poggiata.
Iraq.
Era andato in Iraq, quindi, magari procurandosi lì quella cicatrice.
Sospirò, tentando di far calmare il suo cuore che aveva cominciato a
battere all'impazzata; Iraq. Quel nome continuava a martellarle il
cervello, sembrava essere sul punto di collassare. Iraq. Quella notte
voleva raccontarle tutto. Le avrebbe raccontato quella mattina,
quando era intenzionato a fare colazione insieme. Aveva rovinato
tutto. Come si sarebbe sentita lei se improvvisamente avesse scelto
di aprire un profondissimo segreto ad una persona e quella persona
l'avesse in modo ugualmente repentino delusa?
Daphne
stava in piedi immobile davanti l'ingresso principale del Keble
College. Teneva le braccia incrociate al petto ed i suoi piedi erano
immersi in buona parte nella neve. Quarantotto ore prima era in una
delle stanze di quell'edificio stretta fra le braccia di Nathan. Il
solo pensiero di quei momenti riusciva a scaldarla facendole
dimenticare di essere inglobata dal gelido clima invernale
dell'Inghilterra. Doveva parlargli. Doveva vederlo. Non sapeva cosa
volesse dirgli per l'esattezza ma sapeva solamente di avere la folle
necessità di vederlo, di parlargli, era sicura che le parole
sarebbero venute da sé.
«Monroe!
Che ci fai qui? Hai perso la via di casa?» I biondi capelli
svolazzanti di Madison furono in quattro e quattr'otto davanti a
Daphne, coprendole completamente la visuale del Keble. La squadrava
con la sua aria di superiore e masticava con poco eleganza un
chewing-gum. «No, stavo semplicemente aspettando una persona.»
Rispose, affrontando coraggiosamente il suo sguardo. Madison
ridacchiò, passandosi poi una mano fra i capelli.
«Stai
aspettando Nathan? Sei arrivata un po' in ritardo...» Rise
nuovamente, mentre i suoi occhi lasciavano passare un'espressione di
sadismo puro. «Potresti aspettarlo inutilmente giorni, settimane,
mesi... anni, a questo punto.» Daphne alzò un sopracciglio, mentre
la sua espressione sorpresa dava l'occasione a Madison di sorridere
soddisfatta per la propria vittoria.
«Dov'è?»
Domandò, non abbassando lo sguardo.
«Mmh,
potrebbe essere ovunque a quest'ora...» Ovunque? Il cuore di Daphne
batteva all'impazzata. Era partito così all'improvviso senza dire
nulla? Senza dirle nulla? No, non era assolutamente possibile. «Sta
andando alla stazione, è uscito poco fa.» Per poco Daphne non si
lasciò cadere sulla soffice neve che riempiva lo spiazzo davanti
l'entrata del college.
Senza
dire nulla voltò le spalle alla ragazza e cominciò a correre a
perdifiato verso quella maledetta stazione. Era impazzito? Perché
tutto d'un tratto aveva deciso di voler andare a Londra? Per causa
sua? Non era possibile. Non poteva andare così. Non poteva avere
avuto un impatto così grande su di lui. No. E poi, non poteva
andarsene in quella maniera. Doveva chiedergli talmente tante cose,
doveva rendersi partecipe del suo mondo, delle sue parole, delle sue
fragilità. Voleva essere un punto di riferimento per lui. Voleva
dirgli che lei si fidava di lui, si fidava veramente di lui.
I
was made to believe I'll never love somebody else again,
Made
a plan, stay the man, who can only love himself,
Lonely
was the song I sang 'till the day you came,
Showing
me another way and all that my love can bring.
Scese
dall'autobus numero 82 e si precipitò verso l'ingresso della
stazione. Treni per Londra. Treni per Londra. Il prossimo era in
partenza fra nove minuti. In pochi istanti fu sulla banchina a
guardarsi intorno nel tentativo di vedere un ragazzo in divisa ma non
lo trovò. Forse era già partito?
Half
of my heart's got a real good imagination
Half
of my heart's got you
Half
of my heart's got a right mind to tell you
That
half of my heart won't do
«Daphne?
Che ci fai qui?»
Daphne
si voltò di scatto e nel momento in cui il suo sguardo incrociò
quello di Nathan, il suo cuore balzò così forse nella gabbia
toracica che per poco non ebbe un infarto lì davanti a lui. Sentì i
propri occhi riempirsi di lacrime di gioia ed istintivamente buttò
le braccia al suo collo, abbracciandolo energicamente.
«Mi
rifiuto di credere che tu voglia arruolarti nuovamente solo perché
io sono una povera idiota che si costruisce storie immaginarie per un
messaggio. Mi rifiuto di pensare che tu voglia tornare in Iraq per
un'idiozia simile. Mi rifiuto di pensare che io abbia potuto
scatenare tutto questo. Mi rifiuto di credere che...»
«Daph,
respira» Posò le mani sulle guance della ragazza come aveva fatto
molte volte e la costrinse a guardarlo negli occhi. «Non indosso
neanche la divisa.» Daphne sbatté un paio di volte le palpebre,
notando poi che indossava un cappotto e dei semplici jeans. Arrossì
visibilmente, sentendo le proprie goti avvampare per il contatto con
le mani fredde di Nathan.
«Io
mi fido di te. Non ho mai raccontato di Simon a nessuno e l'ho
raccontato a te che fino a pochi mesi fa eri uno sconosciuto. Mi fido
di te.» Si morse le labbra, sospirando poi. «Ero gelosa. Ero
follemente gelosa di quella fantomatica Lauren perché pensavo che tu
provassi qualcosa per me, perché pensavo che ci fosse qualcosa fra
noi dopo quella notte, perché pensavo che tu ricambiassi i miei
sentimenti... E quei messaggi, quei messaggi hanno demolito le mie
illusioni ma non la mia idea di te.» Disse tutto d'un fiato, notando
con piacere che Nathan era rimasto in silenzio, ammutolito dalle sue
parole. «Poi ho sentito Madison parlare di te, dell'anno scorso,
dell'Iraq e... E non andare, ti prego.» Posò le proprie mani sulle
sue, notando con piacere che si intrecciarono con dolcezza.
Nathan
deglutì, beandosi di quel leggero contatto che c'era fra loro.
Leggero fisicamente ma tagliente e profondo da un punto di vista
spirituale. Si sentiva magnetizzato dai suoi occhi, dalle sue parole,
dalle buffe espressioni che assumeva quando si dimenticava di
respirare fra una frase e l'altra, era come se la sua anima fosse
stata intrappolata, catturata e legata con forza a quella di Daphne.
Era come se si fosse creato un legame più forte di quelle stupide
litigate, di quelle parole che si erano detti per rabbia.
«Sto
andando a Londra perché è passato esattamente un anno da quando mio
cugino è morto in Iraq ed io ero con lui in quel momento.» Disse,
notando come le parole scivolavano con facilità fuori dalla sua
bocca. «Mi ha salvato la vita.»
Il
rumore del treno in avvicinamento li fece voltare ed i loro sguardi
si posarono sui vagoni che si materializzarono davanti i loro occhi.
«Ci
vediamo quando torni allora.»
Non
fece in tempo a terminare la frase che le labbra di Nathan si
posarono sulle sue. La trascinò in un bacio improvviso, pieno di
parole, pieno di sentimenti. La strinse a sé passando le braccia
dietro la sua schiena, poi sui suoi fianchi, poi nuovamente sul suo
viso. Si allontanò da Daphne per prendere fiato e, mentre lasciava
dei delicati baci a stampo sulle sue labbra accaldate, la guardò
negli occhi, stupendosi per l'ennesima volta dell'effetto che gli
facevano.
«Vieni
con me.» Mormorò, sistemandole poi una ciocca di capelli dietro
l'orecchio.
«A
Londra?» Daphne sembrava essere appena stata colpita da un getto di
acqua gelida.
«Sì.
Voglio che tu sia parte del mio presente e, per esserlo, devi
conoscere il mio passato.» Sorrise, prendendole poi la mano. «Mi
fido di te.»
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Capitolo 7 *** Capitolo Settimo. ***
MidnightTrain CapitoloSettimo.
Mistreated,
misplaced, misunderstood
Miss
'No way, it's all good', it didn't slow me down
Mistaken,
always second guessing, underestimated
Look,
I'm still around
Cos'era
quel maledetto rumore? No, non poteva essere la sveglia, non di già.
Nathan Crawford si rigirò fra le coperte, sbuffando sonoramente, ed
allungò il braccio fino a premere il bottone che spense
quell'infernale baccano. L'orologio digitale segnava le sette e
cinquantacinque; si svegliava sempre a quell'ora quando si trovava a
Londra dai suoi genitori.
Restò
per qualche istante a guardare nel buio pesto il soffitto, beandosi
del caldo che si era creato sotto le coperte. Era il sei febbraio ed
esattamente un anno prima Peter aveva sacrificato la sua vita per
salvare sua; era in quel letto, sotto quelle coperte grazie al cugino
morto a soli ventidue anni senza avere avuto neanche la possibilità
di formare una famiglia, innamorarsi e sposare una donna. Era morto
per la patria e ne era contento. O almeno così dicevano.
Si
alzò con estrema lentezza, buttando senza prestarci attenzione le
coperte per terra. Indossò le ciabatte e si infilò la vestaglia,
stiracchiandosi e passandosi le mani fra i capelli. Tirò su le
serrande e si beò per qualche istante della vista di Hyde Park; era
una bella giornata senza nuvole e inondata dai raggi del sole: evento
più unico che raro nell'inverno londinese. Il cimitero sarebbe stato
un po' meno triste, almeno dal punto di vista climatico. Forse era
veramente meteoropatico, il sole riusciva a infondergli un po' di
ottimismo anche in quella cupa giornata.
Dopo
aver lanciato un'ultima occhiata al parco, uscì dalla stanza,
scendendo le scale che lo portavano al quarto piano della palazzina;
la sua stanza occupava per intero la mansarda, era il suo rifugio dal
mondo, nessuno poteva disturbarlo lì sopra. Salutando nel mentre
alcuni domestici, passò davanti la stanza degli ospiti e restò per
qualche istante a contemplare la porta bianca. Daphne era lì con
lui. Sembrava così assurdo, così incredibilmente strano ma
contemporaneamente lo rendeva felice, davvero felice. L'aveva
conosciuta su un treno che aveva preso per puro caso per andare per
puro caso a Brighton. L'aveva conosciuta su quel treno e le loro vite
si erano intrecciate inevitabilmente e, sempre, per puro, purissimo
caso. E quella mattina era lì, lì che dormiva nella stanza degli
ospiti, magari lasciando che il volto assumesse quelle buffissime
espressioni che aveva contemplato quando aveva dormito con lui ad
Oxford.
Una
porta sbatté e Nathan si svegliò dalle sue fantasie ad occhi
aperti; un ragazzo vestito di tutto punto con una lucidissima divisa
nera addosso era uscito da una stanza.
«Edward,
buongiorno!» Nathan si avvicinò al fratello, sorridendo
leggermente. «Come mai così presto? Di solito non cominci alle
dieci?» Edward tentennò per qualche istante, senza però lasciare
che il suo corpo perdesse di un millimetro la posa assunta. Stava
perfettamente sull'attenti.
«Abbiamo
un allenamento aggiuntivo.» Disse con calma apparente.
«Per
quale motivo?» C'era qualcosa di sospetto.
La
casa dei Crawford era decisamente la più bella che avesse mai visto.
Una palazzina nel pieno centro della capitale di quattro piani più
mansarda, un giardino strepitoso occultato dalle palazzine
circostanti ed un garage pieno di macchine lussuose. Quando aprì gli
occhi per dei tonfi provenienti dal corridoio, ebbe quasi paura di
essere sul punto di svegliarsi da un magnifico sogno e, nell'aprire
le palpebre, pesò ogni singolo movimento, sperando di ritrovarsi
nella splendida stanza degli ospiti dove si era addormentata la sera
prima.
«Non
ci vai.» Quella era decisamente la voce di Nathan ed era decisamente
irritata. Conosceva le sue tonalità ormai. «Io lo so che non vuoi
andarci, Eddie!» Aggiunse, insistendo.
«Io
voglio andarci. Io devo
andarci.» L'ultima
volta che aveva sentito la voce del fratello era stato il giorno del
funerale di Matthew.
«C'è
papà dietro tutta questa storia, vero?» Un altro tonfo, un altro
sbuffo. «Oggi tu non ci vai. Oggi no.» Pesanti passi le fecero
capire che qualcuno, probabilmente Nathan, stava facendo avanti e
indietro per il corridoio. «Porca miseria!» L'ennesimo tonfo.
«Ragazzi,
ragazzi smettetela!» Una voce femminile interruppe Edward che aveva
appena riprovato a rispondere al fratello, era la madre. Catherine Mc
Millan era una donna alta e dai capelli biondi boccolosi ed
incredibilmente perfetti.
Forse tutta la bellezza dei figli era merito suo. La sera precedente
a cena aveva mostrato un'indole estremamente pacata e piuttosto
sottomessa all'imponente figura del marito. «Edward, vai
all'Accademia, sei già in ritardo.»
«Tu
sai il motivo per cui sta andando? Lo sai, mamma?» Silenzio. Un
altro tonfo. «Tu lo sai e lasci che lui vada, ti sei impazzita? Ti
sei scordata poi che giorno è oggi, mamma? Hai parlato con zia
Claire? Ti ricordi che un anno fa ha perso suo figlio?»
«Nathan,
calmati.»
«Edward
non osare
mettere il piede fuori di questa casa prima delle nove e trenta.»
«E'
una sua scelta.»
«Ma
la vuoi smettere di prenderti in giro da solo? Non vedi che è papà
che fa tutto?»
Daphne
era rimasta seduta immobile sul letto, con le mani sulle coperte e
un'espressione sbigottita sul volto. Nathan, Edward e Catherine
stavano parlando dell'Accademia e, avendo passando meno di
ventiquattro ore in quella casa, aveva capito quanto fosse importante
per la loro famiglia. Tutte le stanze della palazzina vantavano
ritratto di colonnelli, generali, figure di prim'ordine; spille,
riconoscimenti reali, foto con la regina: i Crawford erano grandi
esponenti delle forze armate britanniche. La tensione fra gli uomini
della famiglia era palpabile, se ne era accorta la sera precedente
quando avevano cenato tutti insieme. Nathan ed il padre praticamente
non si parlavano. Edward pendeva dalle labbra del padre e Nathan
cercava in tutti i modi di coinvolgerlo in discorsi che non
riguardassero l'Accademia, le armi, “quella fantastica spada che
ora so usare”.
«Nathaniel.»
La voce del padre rimbombò per il corridoio così pesantemente da
infilarsi con chiarezza anche nella sua stanza. «Smettila di fare
scenate di prima mattina.»
«Scenate?»
Quel tono non era niente in confronto a quelli che aveva usato con
lei. «Spero che tu stia scherzando! Sai che cosa cazzo è successo
un anno fa, papà? Hai rischiato di perdere tuo figlio in Iraq e cosa
fai? Mandi il tuo altro figlio a prepararsi per il provino per
l'esercito? Tu sei malato!» «Tu sei ripetitivo, invece.» La
serie di parole che seguì fu poco chiara sia per i tonfi che fecero
da intercalare, sia per Catherine che tentava invano di placare il
marito ed il figlio maggiore.
«Nate,
hai degli ospiti, basta.»
Ok,
era appena stata tirata in ballo. Daphne si ributtò sul letto,
coprendosi il volto con le coperte e facendo finta di dormire. Era
sicura del fatto che Nathan sarebbe venuta a cercarla e, di certo,
non l'avrebbe fatto sentire a proprio agio sapere che aveva sentito
tutta la sfuriata con la sua famiglia.
«Edward,
mettiti una cazzo di mano sulla coscienza.»
«Basta!»
Quell'ultima
parola corrispose al suono della maniglia che si abbassava, alla
porta che si apriva lentamente e alla comparsa di Nathan nella stanza
degli ospiti. Respirava pesantemente mentre richiudeva la porta alle
proprie spalle e sembrava provare a contenere la sua rabbia ad ogni
respiro che faceva. Rimase per qualche istante in silenzio, facendo
poi dei passi verso il letto. Daphne cercò di rimanere il più
immobile possibile, sperando che non venisse scoperta.
«Lo
so che sei sveglia.» Maledizione. Spostò la coperta, rivelando il
proprio viso. La stanza era ancora buia ma, nella penombra, riusciva
a riconoscere i dolci lineamenti del viso di Nathan. «Mi spiace se
ti abbiamo svegliata.» Nathan si sedette sul letto e Daphne si tirò
su col busto, sorridendogli leggermente.
«Tranquillo,
io ero sveglia già da un po'.» Mentì, passandogli con delicatezza
una mano fra i capelli. «Tutto okay?» Aggiunse, guardandolo con
dolcezza mista a preoccupazione. Lui annuì, sospirando poi.
«E'
routine qui da noi.» Disse con amarezza, abbozzando poi una
sottospecie di leggero sorriso. Daphne lo imitò, posando poi la
propria mano sulla sua. Nathan si lasciò sfuggire un “ahi” ed un
momento decisamente troppo repentino. Daphne accese velocemente
l'abat-jour, non lasciando che lui ritraesse la mano. Alla luce della
lampada era incredibilmente rossastra e gonfia.
«Ti
sei fatto male? Che hai fatto?» Domandò preoccupata, guardandolo
contrariata mentre spendeva la lampada giustificandosi con un “ho
gli occhi stanchi”.
«Ho
la brutta abitudine di prendere a pugni i muri.» Disse a denti
stretti. Quei tonfi continui li aveva procurati lui... Carezzò con
leggerezza la sua mano, sfiorando con i polpastrelli le nocche, le
dita sottili ma vigorose, il suo polso. «Io non ci voglio credere
che anche Edward si stia lasciando abbindolare con così tanta
facilità.» Mormorò, stendendosi poi sul letto che, fortunatamente,
era a due piazze abbondanti. Daphne restò interdetta, continuando a
stringere con delicatezza la sua mano e a guardando con materno
affetto quasi. Cosa dirgli? Cosa rispondergli? Non immaginava neanche
lontanamente cosa potesse voler dire essere in una situazione simile.
«Eddie è intelligente, dovrebbe capire, ma lui... lui... è così
astuto a fare il lavaggio del cervello. Sa che punti toccare, dove
insistere, dove lasciar correre...» Stava parlando evidentemente del
padre.
Rimasero
così in silenzio, a guardarsi. Lui la guardava dal passo,
appigliandosi con le dita ai suoi capelli, giocandoci leggermente.
Lei lo guardava dall'altro, lasciando che le sue dita sfiorassero il
suo collo, la linea della sua mandibola. Quando la mano di Nathan
raggiunse la nuca di Daphne, la spinse delicatamente verso di sé,
catturando le sue labbra in un bacio. Iniziò come un bacio delicato,
leggero, ma Daphne sentiva l'irrequietezza dell'animo di Nathan sulle
proprie labbra, sentiva la sua rabbia repressa, la sua frustrazione,
la sua delusione. Approfondirono quel bacio e lei ben presto si trovò
stesa sul letto con lui sopra di lei. Ogni suo tocco era letale. Ogni
suo bacio era un colpo ben assestato. La stava debilitando lentamente
e sapientemente e lei non poteva fare altro che lasciarsi in balia
dei suoi movimenti, dei suoi sorrisi. Eppure c'era sempre quel
retrogusto di amaro, di insoddisfatto che nasceva da lui, dai suoi
pensieri che tentava di scacciare con forza.
«Scusami.»
Mormorò quando scivolò al lato di lei, interrompendo bruscamente un
bacio decisamente troppo accaldato. Scusami?Portò
la mano al suo viso, sistemandole come suo solito dei capelli dietro
l'orecchio. Lui si sentiva esageratamente nervoso, inquieto e, di
certo, non poteva sfogare il suo disappunto su Daphne, sui suoi
sentimenti, su ciò che stavano cercando di far crescere.
«Non
ti preoccupare.» Mormorò con dolcezza la ragazza, stringendosi
maggiormente al suo corpo e carezzando il suo viso. Erano faccia a
faccia, stesi su un fianco. Lei lo stringeva con dolcezza, passando
infine le mani dietro la sua ampia schiena. Lui sembrava un bambino,
quasi, perso, abbandonato completamente alle coccole di lei, alle
parole di lei.
«Peter
era come un fratello per me. Mi ha insegnato tutto.» Mormorò
Nathan. I suoi occhi erano chiuse e scandiva lentamente le parole.
«Non posso perdere anche Edward per la stessa ragione, per la
guerra. Non posso.»
«Nathan,
infondo però la scelta è la sua, tu non puoi fare molto e
soprattutto non devi sentirti in colpa se non riesci a convincerlo.»
Disse, nel tentativo di migliorare in un qualsiasi modo il suo umore.
«Se
non ci riesco vuol dire che non sono stato un fratello maggiore degno
di questo nome; degno di persuadere il fratello, di essere un modello
da seguire... Non riesco a invogliarlo a studiare, ad andare
all'università.» In quel mormorio uscì tutta la tristezza e
l'amarezza.
Restarono
stesi in silenzio, abbracciati in quel modo innocente ma
incredibilmente intimo. Daphne osservò nella penombra la linea del
suo naso, la forma dei suoi occhi, la barba leggermente lasciata
crescere sul volto, un grazioso neo vicino l'occhio, i capelli neri
sempre spettinati. Ben presto si accorse che Nathan si era
addormentato vicino a lei in una posizione fetale. Smise di
carezzargli la schiena, lasciando che le sue mani restassero
immobili, e godette per quanto possibile di quel contatto, chiudendo
gli occhi e sprofondando sul cuscino in un profondo sonno senza
sogni.
Nathan
parcheggiò la sua mini cooper verde bottiglia davanti l'entrata
principale del cimitero di Highgate; scesero dall'autovettura e lui
andò di fretta a comprare dei fiori, mentre Daphne restò poggiata
allo sportello, osservando la maestosa facciata.
Se
non fosse stato un cimitero, sarebbe decisamente stato un posto
niente male. Il verde risplendeva grazie a quel sole tanto insolito
per il clima invernale dell'Inghilterra. Una miriade di persone
entrava ed usciva portando fiori, asciugandosi il volto con
fazzoletti o abbracciando i cari ancora vivi. Distolse lo sguardo da
una nonna che abbracciava il proprio nipote e voltò la testa nella
direzione di Nathan, che le stava venendo incontro. Indossava una
camicia azzurra ed un maglione blu, i jeans scuri ed un cappotto. Le
sue goti erano arrossate per il freddo e spiccavano per il loro
colorito acceso sul suo viso, malgrado la barba leggermente cresciuto
che si era rifiutato di togliere quella mattina, come ulteriore
screzio al padre.
«Andiamo?»
Domandò con un leggero sorriso, passando il braccio intorno le
spalle della ragazza. Daphne annuì leggermente, seguendolo poi verso
l'entrata. Era tutto talmente assurdo ed inspiegabile.
Fino a ventiquattro ore prima era a Oxford, davanti il Keble College,
spaventata che lui potesse tornare in Iraq, ed in quel momento era
lì, con lui, a Londra, ed aveva assistito ad un tipico litigio con
la famiglia perché il fratello minore voleva arruolarsi. Non le
aveva ancora raccontato nulla: né di ciò che era successo
esattamente un anno prima, né della sua vita e di tutti i suoi
problemi che, in quel momento come non mai, erano decisamente
evidenti. Camminarono in silenzio per quel silenzioso luogo di
riposo e in meno di cinque minuti arrivarono di fronte quella che
assomigliava decisamente ad una tomba di famiglia, Daphne capì che
erano giunti a destinazione non appena Nathan sospirò, passandosi
una mano fra i capelli. Restò fermo, immobile, ad osservare le
incisioni in latino sulla pietra. I muscoli del collo erano tesi e
respirava appena, stringendo con forza le mani intorno ai fiori che
aveva comprato.
«Ti
aspetto fuori.» Disse Daphne con dolcezza, lasciandogli una morbida
carezza sull'avambraccio. «E' una tua cosa intima, lo so. Non ti
preoccupare.» Aggiunse, abbozzando un leggero sorriso che lui
ricambiò immediatamente.
«Ci
metto poco.» Mormorò con voce leggermente roca, chinandosi poi a
lasciare un veloce bacio sulle labbra della ragazza. Daphne gli
indicò con un cenno del capo di entrare e lui non tentennò,
sorridendo un'altra volta. Nonostante ci fosse il sole e tutto
sembrasse estremamente luminoso, quando aveva incrociato lo sguardo
di Nathan si era sentita precipitare nel buio: era così fragile e
inquieto che non si poteva restare indifferenti.
«Mamma,
è qui che riposa Peter?» Daphne si voltò di scatto e vide un
bambino biondo accanto a quella che doveva essere sua madre. Il
bambino non aveva più di dieci anni ed indossava una divisa nera e
rossa come quella che aveva visto ad Edward, con la differenza che
aveva scritto sul petto “Scuola Primaria”; faceva impressione
vedere quel ragazzino vestito come un uomo, dritto ed orgoglioso come
un uomo e con un obiettivo impresso palesemente nella mente. La donna
aveva sul viso i segni del dolore, della stanchezza, ma era elegante
e composta nel suo portamento. Il tailleur nero risaltava le curve
che un tempo erano state avvenenti e gli occhiali da sole
nascondevano i suoi occhi, cui tristezza era tradita dalle marcate
occhiaie che si potevano scorgere.
«Sì,
Daniel. E' qui che Peter riposa.» Rispose, quasi meccanicamente,
chinandosi poi ad accarezzare i capelli del figlio. In quel momento
uscì anche Nathan che si paralizzò non appena vide la donna ed il
piccolo Daniel. La signora alzò lo sguardo e vide il ragazzo,
soffermandosi prima per un istante sulla figura di Daphne.
«Nathan,
quanto tempo...» La sua voce era leggermente roca. Si avvicinò al
ragazzo, abbracciandolo con affetto quasi materno, quasi
aggrappandosi a lui. «Non ci vediamo da...»
«Dal
funerale, zia Claire.» Disse Nathan, abbassando poi lo sguardo. «Mi
dispiace se non ci siamo potuti vedere prima, mi dispiace per il
comportamento dei miei, mi dispiace, zia, non sai quanto.» Disse
tutto d'un fiato. Claire. L'aveva nominata quella mattina litigando
con i suoi genitori... Era la madre del cugino Peter? Perché le loro
famiglie non avevano nessun tipo di rapporto se Peter aveva salvato
la vita a Nathan?
«Nate,
tranquillo, lo so che non è colpa tua.»
«Devo
tutto a Peter. I miei genitori devono tutto a Peter.» Continuò,
scuotendo enfaticamente la testa. I suoi pugni erano serrati e lo
stesso valeva per la sua mascella. Claire fece un cenno al piccolo
Daniel, quasi invitando Nathan ad evitare il discorso.
«Ehi,
ometto, come stai?» Nathan si sedette sui talloni, essendo comunque
più alto di Daniel, e scompigliò i capelli del bambino. «Ti
presento una persona a me molto cara. Daniel, questa è Daphne.» La
ragazza prima sorrise a Claire e poi raggiunse Nathan, assumendo la
sua stessa posizione.
«Ciao,
Daniel!» Sorrise, mentre il bambino la scrutava curiosamente.
«Hai
visto la mia nuova divisa?» Disse ad un tratto, rivolgendosi a
Nathan ma continuando a indugiare con lo sguardo su Daphne.
«Ti
piace l'accademia?» Il tono che usò Nathan era incredibilmente
piatto e Daphne riuscì a cogliere come Claire cominciò a torcersi
improvvisamente le mani. Daphne non osava minimamente immaginare cosa
volesse dire avere perso un figlio in guerra ed avere il figlio più
piccolo all'Accademia Militare, pronto un giorno forse a seguire le
orme della propria famiglia. Daniel annuì vigorosamente,
raggiungendo poi la madre.
«Andiamo
da Peter?» La signora annuì, stringendo a sé il figlio.
«Nathan,
fatti vedere presto, lo sai che da noi sei sempre il benvenuto.
Sempre. Sei sempre stato come un figlio per noi.» Abbracciò Nathan
e Daphne pensò che quel suo aggrapparsi al ragazzo fosse un
tentativo di provare nuovamente la sensazione di stringere a sé il
proprio figlio. Claire la salutò cortesemente, entrando poi nella
tomba di famiglia.
Il
tragitto fino alla macchina fu fatto nel più completo silenzio.
Nathan camminava velocemente, non lanciando un'occhiata a niente di
ciò che gli passava intorno o che lo circondava. Camminava tenendo
le mani nelle tasche del cappotto e col il volto chino a terra. Più
volte rischiò di urtare contro dei passanti e più volte Daphne lo
dovette prendere sottobraccio per indirizzarlo verso l'uscita di
Highgate. Salirono poi in macchina e Nathan mise in moto; ogni
semaforo rosso lo faceva inveire, ogni passante che non attraversava
sulle strisce lo faceva innervosire. Sembrava essere decisamente sul
punto di esplodere e raggiunse quel punto quando ad un semaforo
pedonale attraversò la strada un gruppo di ragazzi con la divisa
dell'Accademia.
«Ti
rendi conto che è una cazzo di malattia? Hai visto mia madre? Hai
visto Claire?» Mentre parlava guardava fisso davanti a sé, tenendo
le mani ben piantate sul volante. «Sono completamente assoggettate
agli uomini Crawford, a questa cazzo di fissa che i figli devono
andare all'Accademia e devono diventare marescialli, ufficiali,
devono fare parte dell'esercito. Claire ha perso un figlio in guerra
e che cazzo fa? Manda Daniel alla scuola elementare di quel
manicomio? Gli fanno ogni giorno il lavaggio del cervello, ogni santo
giorno.» Appena scattò il verde, accelerò con forza e con
esagerazione. Daphne non osava fiatare. «Mia madre e mio padre hanno
visto il dolore nella famiglia di Peter e nonostante tutto continuano
ad insistere affinché Edward segua le sue orme. Sono matti, sono
completamente matti. I valori, che cazzo valori possono essere così
importanti per sacrificare i figli?» Inchiodò, rendendosi conto che
stava per investire una ragazza che aveva attraversato senza
guardare. «Che cazzo me ne frega che mio padre mi parli di Peter
come uno che “è morto per la patria”? E' morto e nessuna patria,
nessun valore lo riporterà mai indietro.»
«Nathan,
accosta.» Mormorò Daphne, guardandolo seriamente. Lui obbedì,
fermandosi poco dopo una fermata dell'autobus. Spense la macchina e
cominciò a respirare pesantemente, senza togliere le mani dal
volante né distogliere lo sguardo dal parabrezza. Daphne allontanò
le sue braccia dal volante e poi, portando le mani sul suo viso, lo
fece voltare nella sua direzione. Solo dopo aver messo le mani dietro
la sua nuca, lo spinse con dolcezza verso di sé come lui aveva fatto
quella notte dopo la discoteca, dopo Harris. Lo sentì prima
resistere e poi abbandonarsi completamente contro di lei, quasi in un
disperato abbraccio. Non osò parlare, né provare a dire una
qualsiasi parola per provare a consolarlo. Nessuna parola sembrava
essere all'altezza di quella situazione. Il minimo rumore rischiava
di rovinare quell'atmosfera che si era creata nella mini cooper. Una
atmosfera talmente densa che sembrava aver svuotato completamente
Daphne fino ad annullarla di fronte al conflitto interiore di Nathan.
Edward
uscì dall'Accademia, stringendo a sé la borsa a tracolla; erano le
cinque del pomeriggio ed era decisamente esausto da quell'ennesima
giornata passata in quel maledetto luogo. Camminava apparentemente
con orgoglio nella sua lucente divisa, marciando con energia nella
direzione direzione della macchina che lo attendeva per riportarlo a
casa. Salì a bordo dell'automobile e indicò al conducente di
portando a Mayfair; doveva vedersi con Lucas per sistemare una
vecchia situazione. Si rilassò contro il sedile in pelle e cominciò
a guardare distrattamente fuori dal finestrino. Era il sei febbraio
quel giorno. Come poteva pensare Nathan che si fosse dimenticato di
quel giorno? Ricordava come se fosse avvenuto il giorno precedente
cosa era successo esattamente un anno prima.
Aveva
passato la giornata a casa di Damien, un suo compagno di Accademia,
quando rientrando aveva visto la madre in lacrime e la televisione
accesa. Si era precipitato al suo fianco e aveva visto che c'era il
notiziario: c'era stato un attentato a Bagdad ed erano morti del
soldati inglesi i cui nomi non erano ancora stati rivelati. Nathan
era partito per l'Iraq a giugno, subito dopo aver dato gli esami del
primo anno ad Oxford, e si trovava proprio nel punto dove era esploso
il kamikaze. Aveva stretto la madre a sé e si erano seduti insieme
sul divano, nella disperata attesa di una telefonata, di un qualsiasi
segno; il padre non rispondeva alle disperate telefonate della madre
e nessuno sembrava essere in grado di dare ulteriori notizie su ciò
che era accaduto.
«Edward,
siamo arrivati.» L'autista avvisò il ragazzo che, per un istante,
si destò dai suoi ricordi. «Solo un attimo.» Disse,
sistemandosi la giacca.
Solo
alle venti il telefono di casa aveva squillato dopo due interminabili
ore d'attesa. Claire Crawford, sua zia, aveva telefonato, comunicando
che suo figlio Peter era morto quel pomeriggio e che Nathan era stato
operato d'urgenza e che non c'erano notizie sulle sue condizioni, non
sapeva neanche se fosse sopravvissuto all'intervento. Il padre era
rientrato verso le ventuno, calmo come suo solito, senza neanche
minimamente scomporsi alla notizia dell'attentato e delle condizioni
del figlio maggiore. «Se la caverà. I nostri medici sono in gamba.»
Aveva commentato, andando poi a chiudersi nello studio mentre sua
moglie continuava a piangere guardando attonita le immagini che
passavano a ripetizione sullo schermo nel tentativo di scoprire
qualcosa di più su suo figlio.
Edward
scese dall'auto e proprio davanti al bar Defoux, vide Lucas, stretto
nella sua giacca di pelle nera. Si avvicinò in fretta, facendo un
veloce cenno con il capo ed stringendogli poi la mano. Quando fu
certo che un involucro di plastica fosse rimasto nella sua mano dopo
quella stretta, lasciò la presa, infilandola in fretta nella tasca
dei pantaloni.
«Quanto
ti devo?» Domandò, guardandosi intorno con fare circospetto.
«Cinquanta,
al solito.» Rispose Lucas, giocherellando con il piercing che aveva
sulla lingua. Edward tirò fuori il portafoglio dalla borsa a
tracolla e lasciò la banconota da cinquanta sterline nella mano del
ragazzo.
«Alla
prossima.» Lo salutò, allontanandosi poi sia dal bar che dalla
macchina che lo stava aspettando.
Raggiunse
abbastanza velocemente Hyde Park e dopo essersi infilato in un posto
abbastanza riservato e frequentato da poche persone, si poggiò al
tronco di un albero, buttando la borsa a terra. Tirò fuori dalla
tasca la bustina che vi aveva infilato Lucas e osservò la marijuana
che ora era sul palmo della sua mano. Perché continuava a rifugiarsi
negli spinelli? Per quale motivo aveva la necessità di rilassarsi in
quel modo? Preparò velocemente lo spinello, nascondendo
poi le cartine e l'erba rimanente nella borsa. Si poggiò poi con la
schiena all'albero e si rilassò, inspirando la prima boccata. Stava
scappando da qualcosa o forse da se stesso? Infondo aveva la vita che
la maggioranza degli adolescenti di buona famiglia avrebbe
desiderato: un patrimonio stabile, tante proprietà sparse per il
paese, un padre importante ed un posto assicurato all'Accademia. Già,
l'Accademia, ma veramente per lui valeva così tanto? Era veramente
il suo sogno? Sì. Sì. Sì. Ripeteva, continuando a fumare. Era
cresciuto giocando coi soldatini ed indossando le vecchie uniformi
del padre, curiosando nell'albero genealogico e sognando di imitare
la sua famiglia ed renderla orgogliosa. Aveva un'altra strada se non
quella per il suo futuro? Era bravo nell'addestramento, uno dei
migliori, poteva veramente andare avanti mentre negli studi non era
esattamente una eccellenza. Suo padre era sempre fiero di lui quando
parlava con altre persone, lo idealizzava come il perfetto figlio. Se
avesse mollato tutto che fine avrebbe fatto, quella di Nathan? Nathan
che non era andato all'Accademia e si era diplomato brillantemente
alla King's School di Londra, andando poi ad Oxford a far valere le
sue doti intellettuali. Economia e Management, voleva
diventare un pezzo grosso lui ma non nell'ambito militare. Il padre
lo aveva praticamente disconosciuto come figlio, non vantandosene mai
davanti gli amici, continuando sempre a litigarci. E poi Nathan era
andato in Iraq, era entrato per un colpo di matto nell'Accademia, e
tutto era apparentemente cambiato... Non aveva mai visto suo padre
così felice. Due figli nell'Accademia che seguivano le sue orme. Poi
dopo l'Iraq, dopo la sua miracolosa sopravvivenza, Nathan era
cambiato, aveva riconquistato il suo atteggiamento di odio nei
confronti dell'esercito e aveva cominciato a provare a convincerlo a
lasciare quel folle tragitto. Quando era tornato a casa ad aprile
inoltrato, aveva reso un inferno la vita a casa: litigate continue,
porte sbattute, pugni al muro e, quella situazione, non era ancora
cambiata. Il padre pur di non avere più il figlio maggiore in casa
aveva fatto una donazione prosperosa all'università di Oxford, pur
di far riammettere il figlio senza che perdesse un anno e, ogni volta
che Nathan tornava per i weekend, il padre si eclissava nello studio
oppure lo affrontava, facendo rimbombare le urla per tutta la
palazzina.
«Edward?»
Il
ragazzo saltò, voltandosi di scatto e facendo cadere istintivamente
lo spinello. Davanti a lui era in piedi Daphne, la presunta ragazza,
forse, di Nathan. Era sola, stranamente. Cosa ci faceva in quella
parte del parco? I suoi capelli castani era smossi dal vento ed i
suoi occhi blu erano infinitamente preoccupati... o forse
indemoniati? L'aveva colto in flagrante e cosa sarebbe successo a
quel punto? Sarebbe corsa a dirlo a Nathan?
«Io
devo andare. Ci vediamo dopo.» Disse frettolosamente Edward,
mettendosi la borsa a tracolla e scappando lontano da Hyde Park,
sotto lo sguardo interdetto di Daphne.
Daphne
rientrò nella stanza degli ospiti dopo aver salutato con un bacio
sulle labbra Nathan e richiuse con fretta la porta alle proprie
spalle. Cosa avrebbe dovuto fare a quel punto? Da un lato c'era un
Nathan distrutto, soprattutto dopo che era andato a casa della
famiglia di Peter (proprio per quello si era concessa una passeggiata
solitaria per Hyde Park) e dall'altro c'era lei che aveva visto il
prediletto fratello minore di Nathan fumare uno spinello con una
espressione decisamente abbattuta in volto. Si passò le mani fra i
capelli, cominciando a camminare avanti ed indietro per la stanza.
Possibile che più venisse trascinata nella vita di Nathan e più era
inglobata ed annullata da tutte le problematiche che sorgevano?
**
Ok,
questo capitolo ammetto che sia inutile dal punto di vista
Daph/Nathan, ma era necessario per delineare la figura di Nathan!
Spero che vi piaccia insomma! =) Grazie come sempre a tutti voi che
fantasticamente recensite e mi supportate, giuro che appena avrò un
attimo di tempo risponderò come si deve alle vostre recensioni. Non
immaginate quanto mi possano fare piacere.
Un
bacione,
Silvia.
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Capitolo 8 *** Capitolo Ottavo. ***
Pubblicità^^: Ho iniziato a scrivere una nuova Fan Fiction che porterò avanti in contemporanea con “Midnight Train”, ovvero “Coming Home”,che ne dite di leggerla e farmi sapere che ne pensate? Ne sarei tanto tanto contenta! Intanto vi auguro una buona lettura della mia Midnight Train!
Midnight Train Capitolo Ottavo
Quel sette febbraio la
temperatura a Londra era decisamente bassa ed il cielo si era
incupito in confronto al giorno precedente; la pioggia rendeva svelto
il passo di coloro che camminavano sui marciapiedi o che si
dirigevano verso la metro e Hyde Park era triste e vuoto visto dalla
finestra della stanza degli ospiti di casa Crawford.
«Sei pronta, Daph?»
Daphne stava alla finestra con le braccia incrociate sotto il seno ed
il cuore incredibilmente pesante; aveva deciso di non dire niente a
Nathan del problemino del
fratello, anche perché fondamentalmente si trattava di un solo
spinello: quanti se ne era fumata anche lei a tempo debito? Eppure si
sentiva maledettamente in colpa nei confronti di Nathan, dei suoi
occhi verdi così colmi di fiducia e continuava a rivivere
mentalmente il momento in cui le era crollato fra le braccia il
giorno precedente nella mini cooper sfogando tutto il suo disappunto,
la sua rabbia nei confronti della sua apparentemente perfetta
famiglia. «Daphne?»
«Si,
sono pronta, due minuti!» Disse con voce leggermente roca, prendendo
dalla scrivania il cellulare e guardandosi un'ultima volta allo
specchio: dal momento che la sua partenza era stata una decisione
presa all'ultimo minuto non aveva avuto modo di portarsi qualche cosa
di ricambio e, di conseguenza, il suo riflesso indossava una felpa
della King's di Londra che le stava almeno tre volte sia in altezza
che in larghezza.
Uscì
dalla stanza con un leggero sorriso, alzandosi poi sulle punte per
lasciare un bacio sulle labbra di Nathan.
«Alla
buon'ora. Facciamo colazione e poi andiamo in stazione, l'autista
passa fra venti minuti.» Era così calmo, così rilassato quella
mattina, ma se ci si soffermava qualche istante in più sul suo viso,
sui suoi occhi, si poteva notare un leggero gonfiore e arrossamento.
La giornata precedente si era conclusa con l'ennesima, furiosa
litigata con il padre sul perché non avessero neanche fatto una
telefonata alla famiglia di Peter e Nathan si era chiuso in camera
sbattendo la porta.
«Stai
bene?» Domandò timidamente Daphne, stringendogli poi con dolcezza
la mano. Lui ricambiò la stretta e si voltò per sorriderle.
«Tutto
apposto, non ti preoccupare.»
Scesero
le scale in silenzio, raggiungendo nello stesso modo la sala da
pranzo, dove trovarono seduto al tavolo Edward. Quella mattina
indossava un semplice paio di jeans ed una polo. Quando il suo
sguardo incrociò quello di Daphne restò impassibile, mentre la
ragazza fu scossa da un forte tremito.
«Oggi
non vai?» Domandò Nathan abbozzando un sorriso e prendendo posto
davanti al fratello. Daphne si sedette accanto ad Edward, sperando
così di non dover incrociare il suo sguardo per quei quindici minuti
scarsi di colazione.
«Dopo
pranzo.» Rispose con calma, sorseggiando il suo latte.
«Che
fai il prossimo week-end?» Ribatté Nathan, immergendo il suo
plumcake nel latte.
«Non
ho progetti.» Scrollò le spalle, guardando poi il fratello negli
occhi. «Perché?» Aggiunse, inarcando un sopracciglio.
«Che
ne dici di venire a Oxford? Non ci sei mai stato.» Propose, mentre i
suoi occhi brillavano speranzosi. Edward tentennò e Daphne colse
l'occasione per sfruttare il loro segreto
per accennare un colpetto di tosse molto eloquente.
«Perché
no!» Disse con tono innaturale, sorridendo poi ampiamente. Infondo a
parte la finzione e la spintarella di Daphne era stato sempre curioso
di vedere una vita accademica, una vita universitaria di cui si stava
privando a prescindere e che Nathan adorava invece così tanto.
«D'accordo.» Aggiunse con più entusiasmo.
«Perfetto,
ci sarà anche una partita del Keble College.» Nathan sorrideva
raggiante e fece un occhiolino a Daphne che colpevole ricambiò con
un sorriso. Un solo spinello.
Si ripeté, nel tentativo di non lasciarsi tradire da stupide
incertezze.
«Nathaniel,
l'autista la aspetta qui fuori.»
«Grazie,
Mary Sue.» Nathan sorrise alla cameriera e si alzò, andando ad
abbracciare con forza il fratello. Lo strinse a sé, dandogli poi un
paio di pacche sulla schiena. «Ti voglio bene.» Aggiunse,
guardandolo dritto negli occhi.
«Anche
io te ne voglio.» Rispose Edward e Daphne avrebbe potuto giurare
sull'onestà di quelle parole e sull'aver visto un luccichio
attraversare lo sguardo dei due fratelli. «Ciao, Daphne.» Disse
voltandosi verso di lei e la ragazza lo salutò con due baci sulle
guance, evitando ogni contatto visivo come d'altro canto fece anche
lui.
«Alla
settimana prossima.» Farfugliò confusamente, prendendo poi la mano
di Nathan ed allontanandosi velocemente dall'oggetto dei suoi sensi
di colpa e del suo imbarazzo.
Salirono
nella lucente auto nera che li aspettava fuori casa ed in meno di
quindici minuti furono alla stazione di King's Cross, dove fra dieci
minuti sarebbe partito il treno per Oxford. Daphne entrò per prima
attraverso le porte scorrevoli e poco dopo aver messo piede nella
grande sala d'ingresso, si sentì afferrare per l'avambraccio e
venire trascinata indietro. Le sue labbra si posarono su quelle di
Nathan in un caldo e dolce bacio che la avvolse completamente con il
suo calore, la sua intensità. Passò le braccia intorno al suo collo
e schiuse le labbra, approfondendo quel contatto, mordendo il suo
labbro inferiore ed infilando le mani fra i suoi capelli, incurante
completamente del fatto che si trovassero all'ingresso di una delle
stazioni principali di Londra sotto lo sguardo indispettito di
molteplici persone che stavano lì o per andare a lavoro o per andare
a trovare parenti e che volenti o meno si stavano godendo la scena di
quel bacio che per quanto era intenso, quasi disperatamente, sembrava
un bacio d'addio, uno di quelli dei film, quando i protagonisti si
devono separare. Quando si allontanarono, Nathan continuò a
tenere i loro visi a pochi millimetri, disegnando circonferenze con i
pollici sulle guance della ragazza. Daphne si sentiva ardere su
centimetro della sua pelle: le labbra sembravano pulsare per la
passione di cui erano appena state rese partecipi e le sue goti
sembrava essere sul punto di andare in fiamme. Vedeva Nathan
sorriderle con dolcezza, leggermente con il fiato spezzato e per la
prima volta notò quelle linee color terra che attraversava il verde
dei suoi occhi.
«Pensavo
dovessimo onorare il nostro primo bacio.» Mormorò con voce roca,
sfiorandole le labbra con i polpastrelli. Daphne sorrise al ricordo
del loro primo bacio sulla via del ritorno da Brighton: la sorpresa
di quel contatto nuovo apparentemente sconosciuto ma interiormente
familiare e speciale, il mistero che avvolgeva la figura di quel
ragazzo che era seduto sul sedile opposto al suo, quel cellulare che
aveva suonato e che lui aveva spento con sprezzo: quante cose si
chiarivano a distanza di poco più di un mese.
Il treno per Oxford
partirà dal binario numero sei fra due minuti.
A
quella voce metallica cominciarono a correre fra i passanti,
incuranti degli sguardi che ricevettero ma con un sorriso ben
impresso sulle labbra e le loro mani intrecciate in una frazione di
infinito che sembrava avvolgerli. Salirono con il fiatone sul
vagone e scoppiarono a ridere, baciandosi nuovamente, staccandosi,
trovando il posto a sedere e ricominciando, fra un sorriso e l'altro,
una battuta e l'altra.
«Qui
si scende per Reading?» La voce di un signore anziano la fece
voltare e distrarre dalla contemplazione di quella città a lei così
conosciuta. Lei annuì, sorridendo e lo osservò allontanarsi. Nathan
dormiva con la fronte poggiata al finestrino e la bocca leggermente
schiusa. Riconosceva ogni singolo millimetro di ciò che le si
parava davanti da fuori il finestrino: avrebbe potuto collocare a
memoria tutte le aziende, i negozi di quella piccola cittadina.
Ripercorse mentalmente e con ribrezzo la strada che avrebbe dovuto
fare per raggiungere la campagna di Reading, la sua casa in mezzo al
nulla, oppure il fornaio, dove fra pochi mesi si sarebbe trovata
nuovamente a lavorare. Storse la bocca, pensando che fortunatamente
non avrebbe rivisto la sua famiglia almeno fino a giugno inoltrato.
Il suo sguardo si posò distrattamente su una panchina e per poco non
urlò, riconoscendo una figura fin troppo nota seduta lì con calma.
Capelli rossicci e corti, pelle chiara e occhi blu. Il ragazzo
indossava un capello e le cuffie dell'iPod pendevano dalle sue
orecchie. Stringeva fra le dita una sigaretta che fumava con calma e
lentezza guardandosi intorno.
«Simon...»
Mormorò, mentre il treno cominciava a muoversi. Il ragazzo si voltò
per osservare i vagoni spostarsi e di istinto, come aveva fatto tante
volte da piccola, Daphne si appiattì contro il sedile nella speranza
di non essere vista. Non considerò neanche il pensiero che i vetri
erano oscurati e da fuori si potevano vedere a malapena i contorni
dei passeggeri.
Cosa
ci faceva Simon? Quando era uscito dal riformatorio? Dove
viveva in quel momento?
Si
sentì scossa dai brividi e cercò di immaginarsi il desiderio che
quell'ormai uomo aveva di trovarla, di fargliela pagare per averlo
spedito nel riformatorio, per averlo incolpato ed aver rivelato il
loro piccolo segreto. Si nascose il viso fra le mani,
rannicchiandosi contro il sedile ed avendo quasi paura di guardare
Nathan, ancora profondamente addormentato, ignaro di tutto. Forse
era andato a Reading per trovare i suoi zii, che tanto lo avevano
trattato bene e che lo avevano amato come il figlio che non avevano
mai potuto avere, prima che una ragazzina orfana lo facesse sbattere
dietro le sbarre per tentate molestie. E se aveva parlato con i suoi
zii probabilmente per quanto erano stupidi ed incoscienti e
desiderosi di vendetta gli avevano detto che studiava ad Oxford, che
magari alloggiava al Braseno-coso di cui non si ricordavano mai il
nome e magari lui era lì ad aspettare un altro treno per Oxford.
Daphne si diede un colpetto sulla fronte: era divorata completamente
dalle paranoie e la situazione non poteva che peggiorare se non si
metteva l'anima in pace.
«Sei
sicura di stare bene? E' da quando siamo scesi dal treno che ti vedo
strana.» Disse Nathan, guardandola sospettoso. Lei scosse la testa,
agitando poi anche le mani.
«Sono
solo un po' stanca, ora dormo un paio di orette.» Abbozzò una
sottospecie di sorriso. Aveva nuovamente mentito a Nathan, l'unico al
quale avrebbe dovuto, avrebbe voluto dire
tutto incondizionatamente: ma se avesse saputo di Simon si sarebbe
innervosito, si sarebbe voluto informare, avrebbe voluto cercarlo e
sarebbero stati guai per tutti a quel punto.
«Ok, ti credo allora.» Si chinò sul suo viso,
baciandola con dolcezza e sorridendole nuovamente. «Io vado al Keble
ad informarmi su cosa hanno combinato in mia assenza quei cretini dei
miei amici.» Lei annuì, salutandolo con un cenno della mano. Quando
si allontanò, restò per qualche istante a contemplare l'entrata del
suo college, prima di decidersi ad entrare.
«Daphne, eri scomparsa!» Aveva appena posato il piede
sul terzo scalino quando qualcuno l'aveva afferrata per il braccio,
costringendola a voltarsi. Evan sorrideva raggiante. «Ho capito che
Crawford è uno stallone ma sciuparlo per tre giorni mi sembra una
esagerazione! Ci siamo preoccupati!» Aggiunse, ridacchiando. Daphne
sorrise, sciogliendo un po' della tensione che l'aveva tanto
irrigidita.
«Siamo andati a Londra, ieri era un giorno importante
per lui.» Spiegò mantenendosi sul vago.
«Dove spero tu l'abbia sciupato per bene.»
«Idiota!» Gli diede una scherzosa spintarella. «Le
altre dove sono? Tu non dovresti essere a lezione?»
«Non
ho sentito la sveglia.» Disse, alzando le mani quasi in propria
difesa, cominciando a ridacchiare. «Victoria sta alla lezione di
storia, Rebecca aveva una esercitazione su dei cadaveri da fare.» La
faccia disgustata alla parola cadavere
accomunò le espressioni
dei due.
«A proposito di Rebecca... Scusami per la sceneggiata
dell'altro giorno.» Abbassò lo sguardo, accennando un sorriso.
«Avevi le tue motivazioni per essere nervosa,
tranquilla.»
«Accompagnami su in camera dai.» Daphne cominciò a
salire le scale, con un ridacchiante Evan alle proprie spalle.
«Non sono Crawford, ricordatelo. Non puoi sciuparmi.»
Daphne lo incenerì con lo sguardo, scoppiando a ridere nuovamente.
Raggiunsero il piano della stanza di Daphne e quando la ragazza
infilò la chiave nella serratura, vide Evan chinarsi a terra con la
coda dell'occhio.
«Che fai?» Domandò curiosamente, aprendo intanto la
porta.
«Per te.» Le porse un pacchetto. «Stava qui per
terra, c'è il tuo nome.» Evan fece spallucce, entrando poi nella
stanza e buttandosi sul letto.
«Togliti le scarpe!» Ordinò Daphne mentre richiudeva
la porta ed osservava quel piccolo pacchetto con il suo nome stampato
sopra.
«Non
lo apri?» Domandò Evan, poggiandosi sul gomito e guardandola.
Daphne annuì, tirando lo spago che chiudeva quella scatoletta di
cartone e poi aprendo quest'ultima. Quando vide il contenuto si sentì
inizialmente mancare e poi essere afferrata al volo da qualcuno, Evan
probabilmente che alla velocità della luce aveva abbandonato il
letto e l'aveva aiutata a non schiantarsi contro la moquette.
«Daphne, che è successo?» Le domandava stando
inginocchiato davanti a lei dopo averla fatta sedere su una sedia,
sventolando un quaderno per farle aria. Daphne scosse la testa,
pallida e tremolante, stringendo ancora fra le dita il bracciale che
aveva trovato nella scatola. «Parla, Daphne, sono io, Evan, lo sai
che puoi dirmi tutto. Di chi si tratta?» Daphne lo guardò negli
occhi e sentì quell'enorme peso di cui si era parzialmente liberata
parlando con Nathan, desideroso di uscire ed essere condiviso anche
con Evan e, per la seconda volta in una settimana, si ritrovò a
raccontare la storia di Simon, del riformatorio, delle corse per
casa, delle ripetizioni, dei compiti fatti assieme.
«Oggi
l'ho visto alla stazione dopo più di dieci anni.» Disse infine,
continuando a scuotere la testa. «Avevo otto anni quando lui se ne è
andato e lui ne aveva quindici. E questo braccialetto...» Sventolò
il bracciale di perline blu. «...Glielo regalai prima che succedesse
tutto e lui se lo era messo al polso, dicendo che gli avrebbe
permesso di non dimenticarsi mai di me.» Sospirò, mentre Evan la
ascoltava attonito, senza spiccicare parola. «Capisci che non è un
caso che io riceva questo
bracciale il giorno in
cui lo vedo a Reading, dove abitano i miei zii che lui tanto ama e
considera la sua unica famiglia.» Si nascose il viso fra le mani,
mentre Evan la stringeva a sé, sussurrandole di calmarsi ad un
orecchio.
«Stai calma, sei ad Oxford, sei sempre con noi, non può
succederti nulla. Nessun non autorizzato può entrare nei College ed
ogni singola entrata è controllata e piena di telecamere, allarmi:
non c'è pericolo.» Provò a confortarla, strofinando le proprie
mani sulle sue spalle, quasi a volerle infondere calore e sicurezza.
«Penso che tu ne debba parlare anche con Nathan di tutto questo.»
Aggiunse, mentre Daphne ricominciava a tremare al pensiero della
rabbia che si sarebbe generata all'interno di Nathan a quella
notizia. Aveva già così tanti problemi a cui pensare: la famiglia,
in primis il fratello, il recente anniversario della morte di Peter.
Come poteva appesantirlo con quell'ennesima e pesante notizia che,
sicuramente, lo avrebbe stravolto?
«Hai ragione.» Eppure quando disse quelle due parole
ne era pienamente convinta. Voleva dire incondizionatamente la verità
a Nathan, sempre, e quella era una questione decisamente seria che
non poteva tenere per sé, aveva bisogno del suo appoggio, del suo
aiuto, dei suoi abbracci che le infondevano così tanta sicurezza.
«Io devo andare.» Si alzò di scatto, cercando di ignorare i
giramenti di testa che la colpirono così improvvisamente. «Grazie,
Evan.» Sorrise con dolcezza, pienamente riconoscente all'amico per
esserle stato accanto in quelle frazione di incertezza che l'aveva
colpita e si chinò, baciandolo con affetto su una guancia.
Uscì di fretta dal Brasenose College, raggiungendo
ancora più velocemente il Keble. Si identificò in fretta al
portiere, ringraziando mentalmente la fratellanza che si era
istituita fra i due college e salì velocemente per le scale.
«Allora a presto, Nathan.» Una voce femminile anticipò
il passaggio di lunghi capelli dorati. Madison Linton? Che ci stava
facendo nella stanza di Nathan? Non si erano rotti tutti i rapporti
fra i loro dopo la partita fra Cambridge ed Oxford, lì dove la aveva
insultata al pub?
Nathan stava nella sua stanza a sistemare le cose dopo
il viaggio a Londra. Se lo era immaginato estremamente duro ma grazie
alla presenza di Daphne era riuscito a resistere, a non sfociare il
discussioni con il padre più violente di quelle che si era concesso.
Quante cose doveva a quella ragazza, aveva veramente la capacità di
farlo stare bene, di farlo ridere, di farlo aprire, di fargli dire
cose che non si sarebbe mai immaginato di dire... Quando sentì
bussare alla porta, immaginò che si trattasse di Daphne e corse ad
aprire energicamente, con un ampio sorriso che scomparve non appena
vide Madison.
«Che ci fai qui?» Domandò, guardandosi sospettoso
intorno. «Ti avevo detto che non avevo più intenzione di...»
«Ieri era il sei febbraio.» Incominciò lei, entrando
nella stanza. Nathan richiuse la porta alle proprie spalle,
poggiandosi con la schiena alla porta e guardandola curioso. Il suo
cuore prese a battere, sapeva di cosa stava parlando e quasi si
sentiva in colpa per averla accolta in quel modo brusco. «Perché
quando sei andato a Londra non mi hai detto di venire con te? Si
tratta di Peter...» La sua voce si incrinò non appena pronunciò
quel nome. «Tu sai tutto, sai quanto ci potessi tenere, quanto mi
potesse fare piacere.» Si sedette sul letto, passandosi le mani fra
i lunghi capelli biondi.
«Nessuno ti ha impedito di venire, Madison.» Disse
senza spostarsi dalla posizione assunta.
«Io e Peter siamo stati insieme due anni e per due anni
siamo stati nascosti, quasi fossimo Romeo e Giulietta perché i
Linton odiavano la sua famiglia e viceversa. Io ero perfetta per un
Crawford, ma amavo Peter... Se fossi andata con te ieri, magari,
nessun ci avrebbe fatto caso alla mia presenza.» Scosse la testa.
«Sto dicendo un mucchio di idiozie, scusami.» Si alzò in piedi,
sistemandosi la sciarpa rosa intorno al collo. «E' solo che mi manca
da morire.»
Quando Nathan vide Madison scoppiare a piangere, si
avvicinò istintivamente, abbracciandola. Gli passarono davanti le
loro fughe di casa in cui fingevano di appartarsi ma in realtà lei
raggiungeva Peter e lui li faceva da palo, Peter che gli parlava di
Madison, il loro primo bacio architettato con maestria con Juliett,
la sua ormai ex-ragazza, le bugie dette ai Linton, ai Crawford, a
tutti... Quell'amore che aveva fatto apparire Madison genuina ai suoi
occhi, così genuina da rivalutare la sua figura di stronza
opportunista, così genuina da difenderla molte volte in pubblico,
finché non l'aveva vista trattare Daphne in quel modo. Dopo il sei
febbraio era cambiata completamente, diventando la caricatura
esagerata della cretina che era stata prima di innamorarsi di Peter e
dopo aver visto definitivamente la persona che era diventata, le
aveva imposto di tagliare i ponti. Per lui, per lei, per Daphne.
Pensò a quante volte dopo il sei febbraio lei da ubriaca lo aveva
baciato, quando dopo l'Iraq aveva voluto fare sesso con lui e lui
aveva accettato, facendolo con rabbia, disprezzo, odio per quella
guerra che gli aveva portato via un cugino... Era stato solo sesso,
lei si era alzata, si era rivestita e se ne era andata e lui non era
uscito dalla stanza divorato dai sensi di colpa: Madison era l'amore
storico di Peter e lui se l'era portata a letto dopo che era morto.
Si staccarono da quell'abbraccio e si guardarono negli
occhi. Madison scosse la testa, sorridendo e si avvicinò, posando le
labbra su quelle di Nathan. Lui reagì, per la prima volta riuscì a
reagire a Madison, al forte legame che c'era fra loro per via di
Peter, consapevole finalmente della cosa giusta da fare e la
allontanò, spingendola via da sé e sciogliendo quell'abbraccio.
«L'unica persona che mi interessa ora è Daphne.»
Disse con voce chiara e decisa. «E tu dovresti capire che non sono
un fantasma di Peter, anche se so che ci assomiglio.» Disse
seriamente, guardandola dritto negli occhi. Lei annuì, scacciando
poi le lacrime con un passaggio della mano sul viso.
«Scusami, hai ragione.» Mormorò, incamminandosi poi
verso l'uscita. «Per quanto io non la sopporti, devo dire che è
fortunata questa Daphne.» Sorrise con dolcezza, aprendo poi la
porta. «Allora a presto, Nathan.» Lo salutò, allontanandosi poi
velocemente da quella stanza.
Nathan la osservò allontanarsi e dopo qualche istante
chiuse nuovamente la porta, camminando avanti e indietro per la
stanza. Non fece neanche in tempo a formulare un pensiero di senso
compiuto che qualcun altro bussò alla porta. Andò ad aprire e si
sentì incredibilmente bene qualche vide Daphne davanti a lui.
Contemporaneamente un senso di colpa cominciò a divorarlo
dall'interno. Doveva dirle di Madison? Di come aveva provato a
baciarlo? Del legame che c'era fra di loro?
«Hey...» Mormorò, baciandola con dolcezza. Daphne
ricambiò quel bacio, guardandolo poi negli occhi, ancora turbata per
aver visto Madison.
«Che hai combinato in mia assenza?» Sfoderò un
magnifico sorriso che avrebbe potuto vincere il premio per la
finzione, intrecciando le braccia intorno al suo collo. «Ho
controllato cosa devo studiare. Le solite cose, insomma...» Le aveva
mentito. Non poteva dirle di Madison: si sarebbe innervosita,
infuriata, avrebbe fatto una scenata per nulla. Perché non c'era
assolutamente nulla, nulla di importante, era semplicemente una
vecchia faccenda fra lui e Madison che era stata accantonata e non
sarebbe più stata tirata fuori. «Tu?» Domandò con naturalezza,
sistemandole dietro l'orecchio una ciocca di capelli.
«Ho salutato Evan, niente di che.» Mentì anche lei.
Se lui le nascondeva il fatto che parlasse ancora con Madison, perché
mai lei avrebbe dovuto confidargli di Simon, di tutto ciò che aveva
visto e ricevuto in quella giornata? Perché doveva dirgli del fatto
che Edward fumasse spinelli? Evidentemente la sincerità non era un
valore che Nathan contemplava come pilastro della loro relazione,
evidentemente ancora il loro livello di fiducia reciproca non era
abbastanza alto.
«Come mai sei passata?» Si sentiva morire ogni secondo
che quella bugia cresceva: faceva incredibilmente male mentirle, ma
ormai era troppo tardi e, soprattutto, era una cosa così priva di
valore che avrebbe fatto più danni che benefici. Non ne valeva la
pena.
«Volevo salutarti al volo prima di rinchiudermi a
leggere un mattone di politica infinito.» Lo baciò nuovamente sulle
labbra, girandosi poi ed allontanandosi velocemente. Non aveva voglia
di vederlo, di stare con lui, di portare avanti quel fantomatico
spettacolo di burattini, almeno non quel giorno.
Delusa? Sì, lo ero, sia da se stessa che da lui. Lei si
era ripromessa di non mentirgli a prescindere dagli eventi, dalle
motivazioni, e lo aveva fatto nuovamente. Lui che le aveva detto
sempre tutto diretto le stava nascondendo il fatto che parlasse con
Madison, nonostante sostenesse davanti a lei che i loro rapporti
fossero finiti.
Uscì a passo svelto dal Keble College: erano le quattro
del pomeriggio e probabilmente gli altri stavano rientrando da
lezione. Decise di passare al Tesco di comprare un pacchetto di
sigarette, incurante del fatto che avrebbe potuto incontrare David
lì. Infondo i suoi problemi erano col fratello, non con lui. In un
paio di minuti stava per voltare l'angolo che l'avrebbe fatta trovare
davanti al supermercato quando qualcuno l'afferrò per un braccio e
la spinse contro un muro. Quel giorno ce l'avevano tutti col suo
braccio e con le spinte?
«Ti ricordi di me?» Gli di Daphne incrociarono quelli
di Simon, blu come il mare, invariati negli anni.
«Cosa vuoi?» Sibilò, divincolandosi dalla sua presa.
Ma era troppo forte, come sempre.
«Ti ricordi di me sì o no?» Domandò nuovamente.
Sembrava posseduto.
«Sì che mi ricordo, idiota.» I denti di Daphne erano
stretti, la mascella serrata.
«Questa volta non riesci a scappare, eh?» La canzonò
mentre continuava a dimenarsi. Maledetta lei e le stradine infrattate
che prendeva. Doveva passare per la strada principale e non fare
idiozie! Daphne lo guardò negli occhi e i flash ripetuti della sua
infanzia le passarono davanti gli occhi. Non gliela aveva data vinta
allora e, di certo, non gliela avrebbe data vinta in quel momento.
Cominciò a urlare ma lui le tappò la mano con la bocca, facendo
soffocare le sue grida in gola.
«Che ne dici di farci un giretto?» Le propose in una
domanda retorica. Odio. Quello era l'unico sentimento che traboccava
dal cuore di Daphne. Odio. Con la forza ed il coraggio che aveva
morse le dita che le coprivano la bocca e Simon saltò indietro,
lasciando la presa. Daphne scappò ma andò a sbattere contro il
petto di qualcuno. Era finita. Daphne si ripeté mentalmente
che era in trappola, che Simon era venuto con i suoi scagnozzi, ma
quella persona contro la quale era finita la scansò.
«Vai in negozio.»
«David?» Daphne alzò finalmente gli occhi e vide il
ragazzo con la divisa del supermercato. Annuì, allontanandosi. Per
un momento sperò che David alzasse le mani, facesse del male a
Simon, ma quest'ultimo scappò a gambe levate, urlando un ultimo «Non
finisce qui.»
Eccomi
qui carissimi lettori e lettrici **
Che
dire, vi ho appena presentato un capitolo un po' denso e pieno di
eventi (spero non pesante)! Ho rispolverato il rapporto
Nathan/Madison, Daphne/Simon e Nathan/Daphne, ovviamente... Ogni
evento è necessario per la trama che la mia malata mente ha
partorito (sempre più complicata, potete notare!!)
Ringrazio
le magnifiche persone che hanno aggiunto “Midnight Train” alle
preferite, o da ricordare, o alle seguite... Siete Fantastici! E un
grazie ancora più grande a Lucya Lawliet, Shadow_Soul, __PleaseStay.
Le vostre recensioni mi danno sempre la voglia di continuare a
scrivere! Grazie Grazie :) Alla prossima,
Silvia.
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