BREATHLESS

di isachan
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** CAPITOLO UNO:CAMBIAMENTI ***
Capitolo 2: *** CAPITOLO DUE:OCCHI ***
Capitolo 3: *** CAPITOLO TRE: VECCHI TEMPI ***
Capitolo 4: *** CAPITOLO QUATTRO: SCOMMESSA ***
Capitolo 5: *** CAPITOLO CINQUE: APPARENZE ***
Capitolo 6: *** CAPITOLO SEI: BUGIARDA ***
Capitolo 7: *** CAPITOLO SETTE: BATTICUORE ***
Capitolo 8: *** CAPITOLO OTTO: SPESA ***
Capitolo 9: *** CAPITOLO NOVE: NEVE ***
Capitolo 10: *** CAPITOLO DIECI: CHIESE ***
Capitolo 11: *** CAPITOLO UNDICI: GIARDINO ***
Capitolo 12: *** CAPITOLO DODICI: SPEZZATA ***
Capitolo 13: *** CAPITOLO TREDICI: PEGNO ***
Capitolo 14: *** CAPITLO QUATTORDICI: STAGIONI ***
Capitolo 15: *** CAPITOLO QUINDICI: CASA ***



Capitolo 1
*** CAPITOLO UNO:CAMBIAMENTI ***


Welcome To PageBreeze

Un caloroso saluto a tuttiiiiii! xD Sono tornata e dopo un’infinità di tempo, mi sono dedicata  nuovamente a Kodocha.. *-*

Per tutte le precisazioni sulla storia, vi mando alla fine del capitolo! xD

 

 

                             Breathless                                                                                                                                              

                                                      “-Sai, a volte mi succede ancora.

                                                                                            -Cosa?

                                                                                           -A volte capita che mi manca il respiro…”

CAPITOLO UNO: CAMBIAMENTI

                                                          

 

Si guardò allo specchio ancora una volta e sorrise, aggiustandosi meglio il fermaglio luminoso che le teneva legate alcune ciocche dei lunghi capelli.

Non c’erano dubbi, era davvero bella come le dicevano tutti.

Si stupì un istante per quel pensiero così poco modesto. Un tempo, ne era certa, nella sua mente spensierata e leggera non ci sarebbe stato spazio per tanta vanità.

Ma forse, si disse, il trascorrere degli anni riesce a cambiare tutti. E alla fine aveva cambiato anche lei.

Se ne rese conto per la prima volta proprio quella sera, quando nel riflesso del suo bel viso le sembrò di scorgere nei suoi occhi una luce diversa. Così diversa che, per un attimo, quasi fece fatica a riconoscersi.

Non c’erano più gli occhi allegri di una bambina, né quelli curiosi e impazienti di un’adolescente.

Di fronte a lei c’erano gli occhi maturi e consapevoli di una donna.

Aveva solo 24 anni, è vero. Ma erano stati 24 anni pieni di tutto. Pieni di vita vera, di vita forte, di vita che a volte era stata anche crudele. Che le aveva tolto molte cose, ma che gliene aveva regalate altrettante.

Non c’era stato neppure un istante vuoto, niente. Ogni attimo era stato pieno di qualcosa e qualcosa aveva raccontato.

Alla fine, quindi, si era sempre sentita molto fortunata e aveva sempre pensato che la vita spesso le aveva donato anche molto più di quanto meritasse.

Fu con questi pensieri felici che si passò una mano fra i morbidi capelli ramati e diede un’occhiata veloce all’orologio appeso al muro della sua stanza.

Aveva esattamente mezz’ora di ritardo.

Sorrise, immaginando l’espressione nervosa e preoccupata sul volto del suo fidanzato che proprio in quel momento la stava aspettando nel ristorante più bello di tutta New York.

Le sembrava quasi di poterlo vedere, mentre ticchettava nervosamente con le dita sul tavolo e guardava di continuo l’ora sull’orologio da polso che lei stessa gli aveva regalato il Natale precedente.

Sapeva che non era giusto farlo aspettare sempre così tanto. Che era un comportamento scorretto e da prima donna. Ma sapeva anche che non appena l’avrebbe vista, il nervosismo sarebbe sparito e avrebbe lasciato il posto ad uno splendido sorriso.

Si sentì un po’ in colpa, perché spesso le era capitato di pensare che forse non meritava tutto quell’amore. Che non era giusto che lui la amasse così tanto. Che l’amasse oltre ogni limite conosciuto, oltre ogni umana capacità d’amare.

Poi però il senso di colpa spariva non appena si convinceva del fatto che, dopotutto, anche lei lo amava molto.

“Se mi ami almeno la metà di quanto ti amo io, allora mi ami abbastanza” le aveva detto lui un giorno, guardandola dritta negli occhi, nel tentativo di scacciare anche la minima ombra dal suo cuore.

Quella frase le era rimasta nella testa, le si era appiccicata, e tornava prepotente ogni volta che, restando da sola, sentiva di nuovo riaffiorare quello strano senso di inadeguatezza.

E si sentiva subito meglio.

 

Come previsto, quando arrivò nel ristorante lui la guardò e le corse incontro sorridendo, salutandola con un bacio dolcissimo.

- Scusami per il ritardo… magari sei qui da molto..

Lui scosse la testa deciso.

- Sono appena arrivato.

Le rispose con un sorriso.

Sapeva che non era vero, che lui lo diceva solo per non farla sentire in colpa.

Sorrise anche lei e lo baciò, felice e innamorata, perdendosi nel mare dei suoi occhi azzurri.

 

 

                                                                       ***

 

 

Aprì un poco gli occhi dorati e la prima cosa che avvertì fu il dolore acuto che proveniva dalla sua fronte sudata. Vi portò istintivamente una mano, premendola forte nel tentativo di farla smettere di pulsare in quel modo così forsennato e insopportabile.

Ma il dolore non accennava a diminuire.

Dannazione a lui che non imparava mai la lezione. Che di nuovo aveva passato la notte a ingurgitare tutto l’alcol che gli era passato tra le mani, mandando a quel paese tutti i buoni propositi con i quali aveva iniziato la settimana.

Era solo mercoledì – o giovedì, non avrebbe saputo dirlo con certezza vista la confusione mentale- e già di quei buoni propositi non era rimasta neppure l’ombra.

Ma non era affatto come si poteva pensare.

Akito Hayama non era di certo un ubriacone.

Non era per niente il tipo di persone che si lascia divorare da vizi o dipendenze. Lui amava tenere il controllo di tutto, in particolar modo della sua vita.

Quindi, il fatto che a volte passasse le notti in compagnia dell’alcol era una sua libera, liberissima scelta.

Un modo per staccare, per allontanarsi da quella realtà che a volte diventava soffocante.

Non gli era bastato comprare una casa tutta per sé o affermarsi nel mondo del karate. Certe notti sentiva comunque quella maledetta voglia di scappare.

E quando questo succedeva, Akito era solito scegliere tra due opzioni.

La prima era, appunto, quella di mettere a tacere i pensieri inondandoli di alcol.

La seconda era quella di farsi una sana scopata in compagnia di un’emerita sconosciuta.

Quella notte, però, i suoi pensieri dovevano essere stati abbastanza rumorosi perché, a giudicare dalla bionda che gli dormiva accanto completamente nuda, aveva avuto bisogno di entrambe le opzioni.

 

 

                                                                       ***

 

 

Tsuyoshi Sasaki non era mai stato portato per quel genere di cose. Era bravo a farne molte altre, di cose. Per esempio, era bravo a tenere in ordine la casa. O a fare la spesa. O a parlare con le persone. Ma soprattutto, era bravo ad amare la donna che, proprio in quel momento, lo guardava con aria interrogativa.

- Dai a me.. faccio io.

Gli disse, scuotendo la testa rassegnata e stringendosi nelle spalle esili. Lui la guardò con una luce liberatoria a brillare negli occhi scuri.

- Ti ho mai detto quanto ti amo?

Le chiese con sguardo ruffiano, porgendole il foglio bianco che da ormai più di due ore lo stava tormentando.

Aya Sugita sorrise del suo sorriso più dolce.

- Me lo ripeti in continuazione. E poi sai, il fatto che tu voglia sposarmi è una prova abbastanza schiacciante.

Tsuyoshi scoppiò in una piccola risata, mentre con una mano si aggiustava meglio gli occhiali enormi.

- Perspicace.

- Già. Comunque, amore, almeno potresti andare a fare la spesa per domani? Credi di riuscire a farcela da solo o ti serve il mio aiuto?

- Perspicace e anche spiritosa. Non c’è che dire. Ho scelto la migliore.

Scherzò, avvicinandosi a lei e depositandole un tenero bacio sulla fronte candida.

Diede un’occhiata da dietro la finestra al cielo che diventava sempre più scuro e minaccioso e, per precauzione, si convinse che sarebbe stato molto più prudente uscire con un ombrello.

- Ah, Aya…

Le disse, prima di richiudersi la porta alle spalle.

- … Sarebbe inutile dirti che non devi sistemare quei due allo stesso tavolo, vero?

Aya sbuffò, leggermente contrariata.

- Si si, lo so.. non preoccuparti. Sana e Akito siederanno il più lontano possibile.

- Perspicace, spiritosa e ragionevole. Mi congratulo sempre di più con me stesso.

Stavolta lei non sembrò aver apprezzato l’umorismo. Magari per colpa di quello stupido senso di tristezza e malinconia che la coglieva sempre se pensava a Sana e Akito. O meglio, se pensava al fatto che in realtà, di Sana e Akito, o almeno di quella Sana e di quell’Akito che conosceva, non era rimasto più nulla.

- Non essere triste per loro, Aya. Forse… è stato meglio così.

Come già detto, se c’era una cosa in cui Tsuyoshi eccelleva era proprio nell’amare e nel capire la sua fidanzata. Nel saper leggere ogni espressione, ogni sfumatura di sentimento che le attraversava gli occhi. Anche se durava solo un istante.

Lei lo guardò un attimo, facendo un cenno d’assenso con il capo e poi tornò a concentrarsi sul foglio bianco che le stava di fronte.

Decidere la suddivisione dei tavoli per gli invitati al suo matrimonio sembrò risollevarla almeno un po’.

Per questo Tsuyoshi finalmente si decise ad uscire, salutandola nuovamente con un bacio.

Appena varcò la soglia di casa alzò gli occhi verso il cielo e si strinse meglio nel cappotto pesante.

Nell’aria fredda di quel pomeriggio di inizio dicembre c’era un forte odore di pioggia.

 

 

                                                                       ***

 

 

Sbuffò sonoramente, mentre con una mano cercava inutilmente di mettere in ordine i capelli scuri scomposti dalle forti raffiche di vento. Magari era una sua sensazione, ma ogni volta che usciva di casa le sembrava che persino il vento si divertisse a farle i dispetti.

Certo, come no. Ora secondo te anche il vento ha una personalità?

Scosse la testa, dandosi mentalmente della sciocca.

Ma che ci poteva fare se un giorno si era svegliata ed era diventata la persona più pessimista del mondo?

Lei, proprio lei, che dell’ottimismo, quell’ottimismo a volte anche immotivato e infantile, aveva sempre fatto il suo punto di forza.

Magari è normale… crescendo un po’ di spensieratezza la si perde per forza, no?

Perché tanto la realtà ti sbatte in faccia comunque, prima o poi.

Ed era capitato che ad un certo punto di quell’ottimismo non aveva più saputo che farne.

Meglio essere realisti, si era detta. Meglio smetterla di pensare che la vita sia una favola rosa. Anche perché di “rosa” o di “favola” nella sua vita non c’era rimasto poi molto.

 

Entrò in macchina e controllò i messaggi nella segreteria del suo nuovo telefonino, regalo del suo ultimo compleanno.

La voce metallica e impersonale della segretaria cantilenava “Hai un nuovo messaggio”.

Premette il tasto 1” per ascoltarlo, anche se era praticamente quasi certa che fosse di sua madre.

O, al più, del suo capo che, per inciso, odiava mortalmente. Così come odiava il suo stupido lavoro di segretaria sottopagata di uno studio legale. Lei, lei che era sempre stata la più brava in tutto, specialmente nello studio, che voleva andare all’università, laurearsi a pieni voti e diventare un medico o un avvocato. Proprio lei che di quella vita sognata non aveva vissuto neppure un misero  istante.

“Fuka, amore…

Sua madre.

… Quando passi a prendere Shin? Oggi è un po’ irrequieto. Credo voglia la sua mamma.”

 

Il giorno in cui Fuka Matsui aveva perso il suo meraviglioso ottimismo era stato quello in cui, completamente sola, aveva scoperto di aspettare un bambino.

 

 

                                                                       ***

 

 

Chi l’ha detto che l’amore può vincere tutto?

Domanda strana, lo sapeva bene. Una domanda alla quale, con molta probabilità, non avrebbe mai trovato una risposta. Perché forse una risposta non c’era. O forse era molto più semplice di quanto potesse pensare.

Forse non c’era stato nessuno che aveva decretato che l’amore è la forza più grande. Forse erano state le persone, quelle che davvero l’avevano vissuto, l’amore - ma quello vero, quello che ti divora il cuore-a riconoscergli un tale potere.

Comunque, c’era stato un tempo in cui Sana Kurata se l’era fatta spesso, quella domanda. Specialmente quando le capitava di pensare a quella sera che risaliva ormai a 4 anni prima. Quella sera in cui era bastato un istante per distruggere quello che, almeno per lei, poteva essere, doveva essere, l’amore con la “A” maiuscola. Quello che ti capita una sola volta nella vita o che addirittura a volte non ti capita mai. Ma anche quello che richiede un incredibile impegno, un’assoluta devozione. Perché l’amore dà, ma deve anche ricevere. Perché per arrivarti nell’anima ha bisogno che tu gli indichi la strada, che gli liberi il cuore. E se ci riesci il cuore te lo prende tutto e diventa la catena che ti lega l’anima all’anima di un’altra persona.

C’era stato un tempo in cui si era sentita esattamente così. Saldamente legata ad un’altra anima.

Forse era stato in quell’istante… quando in un pomeriggio qualunque, passeggiando per le vie della sua Tokyo, Akito le aveva involontariamente sfiorato una mano. Un gesto normale, ovvio per due fidanzati.

Forse era stato il modo in cui poi si erano guardati e avevano inconsciamente sorriso, come se si fossero davvero resi conto che sfiorarsi, toccarsi, guardarsi e sorridersi erano la cosa più naturale del mondo. E più facile. E più giusta.

Forse fu proprio in quel pomeriggio che Sana Kurata pensò per la prima volta che la mano di Akito sarebbe stata quella che avrebbe stretto per tutta la vita.

 

 

Poi c’era stato quel giorno, quando Akito era tornato a casa, stanco e nervoso, dopo l’ennesima giornata di allenamenti e aveva trovato Sana con quella strana espressione sul viso.

“Mi hanno offerto una parte importante in un altro film, Akito.” Gli aveva detto lei  senza neppure guardarlo negli occhi.

Lui si era lasciato cadere sul divano e aveva incrociato le braccia, non degnandola neppure di uno sguardo.

“Mi fa piacere per te.”

“E’ in America. Dovrei trasferirmi lì per almeno un anno.”

Akito aveva spalancato gli occhi dorati e si era alzato di scatto, avvicinandosi alla sua fidanzata.

“Non capisco perché me ne parli, dal momento che sono sicuro che non accetterai.”

Finalmente lei l’aveva guardato e, con gli occhi lucidi, aveva scosso la testa, muovendo i suoi capelli lunghi. Solitamente, sarebbe bastato l’odore meraviglioso che si sprigionava nell’aria ogni volta che Sana  faceva quel gesto così naturale per far sparire l’Akito stanco e nervoso e far apparire l’Akito perdutamente innamorato.

Quella volta però l’unica cosa che avvertì nell’aria non fu il profumo dei capelli appena lavati di Sana, ma quello amaro di un’ inevitabile separazione.

“I… io.. non posso rifiutare. È troppo importante per il mio lavoro!”

“E io allora? Io che fine faccio? NOI CHE FINE FACCIAMO?”

“Io non voglio lasciarti, Akito! Non lo farei mai! Possiamo.. possiamo farcela… puoi aspettarmi… tu..”

“SMETTILA! Se sapessi con certezza che questa sarebbe l’ultima volta che mi lasci per uno stupido lavoro, ti aspetterei! Ma sappiamo entrambi benissimo che presto ci sarà un’altra offerta… io non ce la faccio più ad andare avanti così, Sana…”

Aveva abbassato il viso, lasciando che il miele dei suoi capelli gli ricoprisse la fronte.

“Devi scegliere, Sana… o il tuo lavoro… o me.”

“Non chiedermi questo, Akito! Non costringermi a rinunciare!”

“Scegli, Sana.. “

“NO AKITO! Non farmi scegliere…sai benissimo che senza il mio lavoro sarei infelice!”

“Io non ti ho mai chiesto di rinunciare al tuo lavoro! Vorrei solo che tu non andassi in ogni parte del mondo per girare un FOTTUTISSIMO FILM DEL CAZZO!”

“FANCULO AKITO! SAI QUANTO AMO IL MIO LAVORO! LO SAI!”

“No Sana… non so più niente. Anzi, una cosa la so…”

Lei l’aveva guardato, preoccupata e interrogativa.

“… so che non stai scegliendo me…”

Era rimasta impietrita. Per la prima volta nella sua vita, Sana Kurata non era riuscita a trovare le parole.

Lui le aveva dato le spalle, mormorando un “Domani manderò qualcuno a prendere le mie cose” e poi si era avviato verso la porta, con le gambe che erano improvvisamente diventate pesanti come blocchi di cemento.

Senza neppure sapere come, Sana gli si era letteralmente avventata contro, stringendogli forte la vita con le braccia esili.

“Ti prego Akito.. è come se io ti avessi chiesto di scegliere tra me e il karate.”

Lui si era voltato, lasciando che lei scorgesse quella piccola goccia salata che era nata in un angolo dei suoi occhi dorati.

“Esempio sbagliato, Sana. Perché io avrei scelto te.”

Si era sentita trafiggere il cuore da mille pugnali e aveva mollato la presa.

Era rimasta lì, immobile e silenziosa, e si era lasciata cadere sulle ginocchia, mentre l’aveva guardato andare via.

Aveva pianto tutta la notte, stringendo forte il cuscino sul quale fino a poche ore prima aveva dormito Akito. Aveva pensato di chiamarlo per dirgli che lo amava da impazzire e che per lui avrebbe rinunciato a qualsiasi cosa. Che non esisteva vita se non poteva averlo accanto. Che senza di lui si sarebbe sentita irrimediabilmente sola. E persa. E vuota.

Già. Aveva pensato di chiamarlo.

Ma non l’aveva fatto.

E, facendo prevalere la parte più smisurata del suo ego, la mattina dopo aveva preparato le valigie ed era partita per New York. Poi, da lì, non era mai più tornata.”

 

 

 

Chi l’ha detto che l’amore può vincere tutto?

Ancora oggi, quando rimaneva sola con i suoi pensieri, Sana Kurata si poneva questa domanda.

E, da qualche tempo, era riuscita a darsi una risposta. Sempre la stessa.

 

Non so chi è stato, ma di certo doveva essere un gran sognatore. O semplicemente molto ubriaco.

 

                                                                       /-/

 

 

Note dell’autrice: Allora, parto subito col dirvi che il mio progetto iniziale su questa fan fiction era quello di fare un unico capitolo. Però, man mano che scrivevo, mi sono resa conto che sarebbe stato un capitolo eccessivamente lungo.. xD Quindi alla fine ho deciso di postare questo che dovrebbe essere un’introduzione per il resto della storia. Prendetelo come una “visione d’insieme” sulla vita dei personaggi.

Comunque, visto che la storia sul mio PC è giunta quasi, e dico “quasi”, al termine, gli aggiornamenti dovrebbero essere più o meno puntuali. Almeno spero.. xD

Credo di aver detto tutto. A risentirci presto! Ovviamente attendo di sapere il vostro parere.. ^-^

Un saluto a tutti coloro che leggeranno!                                                                     

 

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Capitolo 2
*** CAPITOLO DUE:OCCHI ***


Welcome To PageBreeze

Saaaaaaaalve gente!!! Sono di nuovo io! ^-^ Si, lo so. Ho aggiunto questa storia solo pochi giorni fa però visto che questo capitolo era già pronto ho pensato di postarlo subito. ^-^

Per i soliti chiarimenti, vi aspetto al termine del capitolo!

 

 

CAPITOLO DUE: OCCHI

 

 

Sana Kurata avrebbe assolutamente potuto affermare, senza la minima ombra di dubbio, di adorare la città di New York. Di adorarne ogni singola strada, ogni suono, ogni altissimo grattacielo.

Quella città l’aveva stregata con il suo continuo e incessante movimento. Non c’era un istante in cui si poteva dire “Ecco, New York sta dormendo.” Perché New York non si fermava mai. Proprio come lei.

Ma c’era una cosa che adorava più di tutte. Era quando, nelle notti d’estate, se ne stava tranquillamente accoccolata nelle braccia calde di Naozumi, seduta sull’alta terrazza della loro splendida casa in centro e con occhi sognanti ammirava lo scintillio di milioni di luci colorate, sotto lo sguardo amorevole del suo dolcissimo fidanzato.

In quei momenti, se alzava lo sguardo, sopra di lei non c’erano più gli immensi grattacieli, ma solo il manto di stelle dei limpidissimi cieli d’agosto.

Però, ogni volta che Naozumi non c’era, ogni volta che rimaneva da sola e sentiva quello strano peso farsi largo sul cuore, si rendeva conto che il suo amore per New York, forse, era motivato anche e soprattutto da un altro fattore.

Le luci di New York non si spegnevano mai e, fortunatamente, non le lasciavano neppure il tempo di ricordarsi quanto orribile fosse avere paura del buio.

 

 

                                                                       ***

 

 

- Allora è vero quello che dicono tutte su di te!

Akito si voltò di scatto e si rese conto che la “bionda” – così l’aveva ribattezzata visto che, accidenti a lui, non riusciva a ricordarne il nome-, si era finalmente svegliata.

- Buongiorno…

Le disse, mentre sul suo viso comparve una leggerissima ombra di imbarazzo non appena notò che la ragazza con la quale aveva passato la notte non aveva alcuna vergogna nel mostrarsi completamente nuda.

Ovvio, Akito! C’hai passato la notte, anche se non ricordi un bel niente! Perché dovrebbe vergognarsi?

- Buongiorno anche a te, biondo.

Gli disse lei, accennando un sorriso divertito.

- Allora… questa notte noi…

- Abbiamo fatto sesso per tutta la notte, si. Ed è stato anche molto bello. Era questo che volevi sapere vero?

Akito spalancò un poco gli occhi dorati, cercando nel viso che gli stava di fronte un indizio, un ricordo, un’immagine qualsiasi che potesse riportarlo alla notte appena trascorsa. Ma non trovò niente.

Forse perché l’unica cosa alla quale riusciva a pensare era quella di alzarsi e di prendere al più presto una medicina per quel dannato mal di testa.

- Bene…

La voce acuta della “bionda” lo riscosse dai suoi pensieri.

- … ora devo andare. Il mio manager mi aspetta.

Manager?

Allora doveva essere un’attrice, una showgirl o qualcosa del genere.

Capì che la sua sensazione era più che giusta non appena lei si alzò e mise in mostra il suo fisico perfetto. Solo ora che poteva vederla “interamente” il biondo acceso dei lunghi capelli gli sembrò palesemente finto, un biondo forzato, innaturale. Guardandola meglio, anche in quel seno perfetto, ma un po’ troppo grande per il suo fisico snello, c’era decisamente molto poco di naturale.

- Ciao biondo. È stato un piacere!

Salì con un ginocchio sul letto e si sporse verso di lui, salutandolo con un leggero bacio sulle labbra.

- Ah..

Disse poi, sorridendo furbescamente.

- … non preoccuparti se non ricordi il mio nome. Ieri non mi hai neppure lasciato il tempo di dirtelo.

Akito scosse la testa e sorrise appena.

- Devo chiamarti “bionda” o un nome vero ce l’hai?

Rise divertita.

- Mi chiamo Naoko, ma “bionda” mi piace di più.

- Come ti pare…

Lei rise ancora e Akito notò che il suo sorriso, contrariamente alla maggior parte del suo aspetto esteriore, era fresco e leggero e le dava un’aria un po’ più infantile.

- Ma cos’è che hai detto prima? Cosa dicono tutte su di me?

Le chiese, prima che lasciasse la sua stanza. Lei lo guardò un lungo istante, come se quei lineamenti poco più che sconosciuti volesse imprimerli per bene nella memoria.

- Che a due occhi come i tuoi è impossibile dire di no.

Rise un poco anche lui. Ma solo un attimo, come si conveniva ad Akito. Uno per cui un sorriso costava più fatica di una maratona per tutta la città.

“Bionda” uscì dalla camera da letto, lasciandosi dietro una fortissima scia di profumo. Così forte che il mal di testa di Akito non potè fare altro che peggiorare.

 

 

***

 

 

- SANA, AMORE , CI SEI? SONO A CASA!

Scese le scale a grandi falcate e si gettò tra le braccia di Naozumi,- appena tornato dall’ennesimo servizio fotografico-, incurante del fatto di avere indosso solo un minuscolo asciugamano.

- Nao finalmente!

Urlò. Lui sorrise, più con gli occhi che con le labbra e sentì salire un lieve rossore sulle guance. Cretino lui che ancora, nonostante tutto il tempo trascorso, moriva di imbarazzo se la vedeva mezza nuda.

Lei se ne accorse e arrossì a sua volta.

- Sa… Sana io credo che…che sia meglio se vai a vestirti.

Per tutta risposta, lei gli si avvinghiò al collo e lo baciò, facendo scorrere sul petto le mani ancora umide.

- Io ho un’idea migliore.

Disse, mentre gli sbottonava i primi bottoni della camicia. E allora Naozumi scollegò il cervello, come succedeva ogni volta che faceva l’amore con Sana. Bastava una sua carezza e il cuore quasi esplodeva, tanta era la felicità di vederla finalmente solo sua.

- Mmm… direi che la tua idea mi piace molto più della mia.

Rise, mentre lui la baciava ancora e tuffava una mano tra i capelli appena lavati, chiudendo gli occhi e beandosi dell’estatica sensazione che gli provocava quell’avvolgente odore di pesca.

- Le mie idee sono sempre migliori delle tue, Nao.

Sorrise divertito, prendendola in braccio e portandola su per le scale, verso la camera da letto, senza lasciare mai quelle labbra così morbide e perfette.

- Mi sei mancata così tanto…

Le disse, mentre lei, lei che a volte era ancora la ragazzina goffa di un tempo, faceva apparire difficile anche una cosa estremamente semplice come sbottonare la cintura dei suoi pantaloni.

Proprio quando sembrava essere finalmente riuscita nell’impresa, ovviamente non senza l’aiuto di Naozumi, un suono proveniente dalla stanza accanto attirò la loro attenzione.

- Ma che…?

Fece Sana, tremendamente rossa in viso per l’eccitazione che, fino ad un istante prima, stava provando.

- Ah! Dev’essere una mail!

Riuscì a dire poi, scostandosi da Naozumi e mettendosi in ginocchio sul letto.

Lui la imitò, mettendosi a sedere sconfortato.

- Perché non spegni mai il PC, Sana? E poi chi ti manda una mail a quest’ora della notte?

- E secondo te come faccio a saperlo se non vado a controllare?

Naozumi sbuffò.

- Ok vai… ma torna immediatamente qui.

Lei sorrise e si risistemò l’asciugamano che le aveva tolto lui solo un istante prima. Velocemente si alzò e sentì un brivido di freddo non appena il suo corpo lasciò il caldo rifugio delle lenzuola di cotone e delle braccia di Naozumi. Desiderò ignorare quella dannata mail e tornare a fare quello che aveva interrotto, ma non lo fece. E in un attimo si trovò davanti lo schermo illuminato del suo PC.

Giuro che se è la solita mail pubblicitaria me la prendo con ogni singolo oggetto che mi ritrovo davanti!

Cliccò sull’icona raffigurante la piccola busta chiusa e, non appena lesse le prime righe, spalancò gli occhi più di quanto fosse umanamente possibile.

Il mittente era sconosciuto. Ma le prime 4 parole riuscirono a scombussolargli lo stomaco, la mente, il cuore, ogni cosa. Le sembrò che anche la più piccola cellula del suo corpo si mettesse a correre impazzita. Sulle prime, non riuscì a muovere neppure un muscolo e non poté fare altro che continuare a leggere.

 

“ Ciao, Sanachan. Sono Aya. Forse ti chiederai come faccio ad avere il tuo indirizzo mail visto che tu non me l’hai mai dato. Bè, diciamo che l’ho chiesto a Rey. “Chiesto” è un po’ riduttivo…direi che l’ho letteralmente obbligato a darmelo. Lui non voleva. Ha detto che era per la privacy.

Privacy? Tra me e te?

Quasi sono scoppiata a ridergli in faccia.

Comunque, alla fine come vedi sono riuscita a convincerlo.

Innanzitutto, vorrei dirti che ho cercato di trovare le parole giuste per iniziare questa mail. Mi sono arrovellata il cervello per non sembrarti troppo invadente, o troppo distante.

Ma non so affrontare certe situazioni. Non sono affatto brava a programmare i discorsi. Specialmente con te, che sei sempre stata la persona che meno badava a certi artifizi.

Per questo ho pensato che mi sarebbe bastato iniziare con un “Ciao, Sanachan!”. Perché era così che ti salutavo un tempo, quando ti vedevo arrivare a scuola tutta trafelata, perché come al solito eri in ritardo. O quando venivo a prenderti sotto casa tua, nei pomeriggi d’estate, per andare a fare un giro per negozi con Hisae e Fuka.

Te le ricordi queste cose? Ti ricordi com’era?

Io si. Mi ricordo ogni singolo momento passato insieme.

Sai, quando sei andata via, per i primi tempi, covavo la stupida convinzione che un giorno ti saresti resa conto che New York non era casa tua e che partire era stata una follia.

Ma poi passavano i giorni e tu non tornavi. E io non sapevo come fare per avere tue notizie.

Così ho lasciato che gli anni scivolassero via e che, insieme al tempo, portassero via anche le risate, gli sguardi complici, le parole che ci leggevamo negli occhi senza neppure pronunciarle.

È che avrei così tante cose da dirti… perché 4 anni di silenzio sono troppi anche per me. Sono successe così tante cose… siamo tutti così tanto cambiati.

Vorrei vedere come sei diventata. Vorrei sapere se sei davvero felice come appari sulle foto dei giornali, se davvero sei convinta che andare a New York sia stata la cosa giusta.

Scusami, sto divagando. Non volevo affatto mettermi a fare certi discorsi tristi. Scusami.

Il motivo per cui ti ho scritto è per darti una bellissima notizia.

Io e Tsuyoshi ci sposiamo! Ebbene, si! Finalmente ci siamo decisi ad affrontare il grande passo!

E ti vorrei accanto nel giorno più bello della mia vita. Vorrei che tu fossi con me sull’altare a sorridermi e a dirmi che ci sarai sempre, come un tempo, ogni volta che avrò bisogno di un’amica.

Vuoi essere la mia testimone, Sana?

So che è una domanda improvvisa, quindi non ti chiedo di rispondermi ora. Prenditi tutto il tempo che ti serve per riflettere.

Il matrimonio è fissato per il giorno di Natale. Romantico, vero?

So che ti sto dando poco preavviso, visto che mancano poco meno di venti giorni. Però non sai quanto ho riflettuto prima di decidermi a mandarti questa mail.

Comunque, la sera del 22 dicembre terrò una festa a casa mia e di Tsu (conviviamo da quasi due anni!).

L’indirizzo puoi chiederlo a Rey o a tua madre visto che loro sono venuti a trovarci qualche volta.

Se verrai, allora saprò che sarai la mia testimone.

Ovviamente l’invito è esteso anche a Naozumi.

Ti voglio bene, Sanachan. E sappi che questo non cambierà mai.

 

                                                                                                                      Con affetto, Aya.”

 

Le sembrò di non riuscire a vedere più nulla, se non uno schermo opaco e appannato. Forse, era per colpa delle lacrime che avevano iniziato a rigarle il volto fin da quando aveva letto il nome della sua migliore amica.

Strinse forte le ginocchia al petto e si sfogò in un pianto liberatorio.

Attirata dalle sue lacrime, la sagoma di Naozumi comparve da dietro lo stipite della porta e le si avvicinò, posizionandosi proprio di fronte alla piccola sedia sulla quale stava malamente seduta.

Sana quasi non se ne accorse.

- Ma che diavolo è successo? Perché stai piangendo?

Non rispose, limitandosi a fare un minuscolo cenno con la testa rossiccia per indicargli lo schermo del computer dietro di lui.

Naozumi si voltò, lesse quelle poche righe in un istante e in quello stesso istante capì il motivo di quelle lacrime.

- Vuoi andarci?

Alzò il viso e incontrò due occhi azzurri che la guardavano seri e preoccupati.

Lì per lì non seppe cosa dire. Voleva andare? Voleva davvero fare ritorno a Tokyo dopo tutto quel tempo? Forse si.

- Si.

Le labbra di Naozumi si sciolsero in un sorriso tenerissimo, mentre una mano si mosse veloce per raggiungere il suo viso e asciugarle le lacrime.

- Allora andremo.

 

 

                                                                       ***

 

 

- Tu credi che accetterà l’invito?

La guardò, facendo due passi verso di lei e sedendole accanto sul divano del soggiorno appena ristrutturato.

Poi sbuffò un poco. Era appena tornato dal supermercato dopo essere stato letteralmente investito da un temporale e l’ultima cosa che voleva era affrontare quel genere di discorsi che gli intristivano il cuore.

- Non fartela proprio questa domanda, Aya. È di Sana che stiamo parlando. Certo che accetterà.

- Come fai ad esserne così sicuro? Voglio dire…è…

Abbassò il capo, lasciando che i lunghi capelli, - ormai non portava più quel fiocchetto infantile-, le nascondessero gli occhioni nocciola.

- … è passato così tanto tempo.

- Questo non vuol dire niente!

Quasi urlò nel dirle quelle parole.

- Tu non puoi saperlo!

- Aya, ascolta. Noi siamo i suoi migliori amici. Siamo praticamente cresciuti insieme. Davvero credi che potrebbe non venire al nostro matrimonio?

Lei gli sorrise. Un sorriso esattamente a metà tra la sua immancabile dolcezza e un’insolita nostalgia.

- Già. Forse hai ragione tu. Forse mi sto facendo troppe paranoie. È che ne soffrirei moltissimo se non l’avessi accanto a me nel giorno più bello della mia vita.

Tsuyoshi le sfiorò una guancia. La pelle di Aya era incredibilmente candida e delicata. E nonostante l’avesse sfiorata infinite volte ormai, era assolutamente convinto che non se ne sarebbe mai stancato.

E si rese conto che anche lui nutriva le sue stesse paura. Anche lui avrebbe sofferto se non avesse avuto accanto tutti coloro con i quali, un tempo, era solito dividere le giornate.

- Verrà Aya, vedrai. Certe cose nemmeno il tempo riesce a farle morire.

Disse poi, cercando di convincere soprattutto se stesso.

 

 

                                                                       ***

 

 

 

C’era un altro motivo per cui Sana Kurata adorava New York. Era il fatto che c’era sempre così tanta gente che era praticamente impossibile sentirsi soli.

Eppure, quella notte ripensò alle parole di quella che un tempo era una delle sue migliori amiche e sentì distintamente aprirsi quella maledetta spaccatura al centro del cuore.

Così, mentre Naozumi la teneva stretta tra le braccia e la cullava in un silenzio così assoluto da sembrare quasi irreale, si rese conto che, forse per la prima volta da quando era a New York, neppure la dolcezza di Naozumi sarebbe riuscita a curarla.

E si sentì irrimediabilmente sola.

 

 

***

 

- MAMMA, MAMMA!

Vide il piccolo Shin muovere le labbra in uno splendido sorriso, non appena oltrepassò la soglia della porta della casa dove abitavano i suoi genitori.

- Eccomi qui, tesoro. Mi dispiace di averti fatto aspettare.

Spalancò le braccia e inginocchiandosi accolse suo figlio, avvolgendolo in una lunghissima stretta.

- Finalmente sei arrivata, figlia mia!

Sua madre le si presentò davanti, con le braccia incrociate e gli occhi stanchi. Dopotutto, badare a Shin praticamente ogni mattina non doveva essere un’impresa facile. D’altronde, però, non era facile neppure crescere un figlio senza un marito, un compagno o una qualsiasi figura maschile.

Così come non era facile mantenere sé stessa e il suo bambino con quel misero lavoro da segretaria.

Certo, i suoi genitori l’aiutavano, ma non navigavano certo nell’oro e non potevano fare più di tanto. Quindi, alla fine, era costretta a lavorare comunque e ad assentarsi da casa ogni mattina.

Le capitava spesso di sentirsi in colpa per non essere in grado di vivere ogni secondo accanto a suo figlio.

- Scusami, mamma. So che sono in ritardo, ma il mio capo, il mio odiosissimo capo, non ne voleva

proprio sapere di lasciarmi andare!

- Non preoccuparti, tesoro. So che è difficile, ma sappi che sono orgogliosa di te.

Orgogliosa, certo. Come no!

Avrebbe voluto tanto poter dire che anche lei era, in primo luogo, orgogliosa di se stessa.

Ma non era mai stata una persona bugiarda e mentire non le riusciva proprio. Senza contare il fatto che mentire a se stessi è un’impresa praticamente impossibile.

C’erano giorni nei quali odiava praticamente ogni cosa. Odiava il sole, le nuvole, il vento. Odiava gli alberi e la spiaggia. Odiava il suo lavoro, le persone, la sua casa.

Soprattutto, odiava Osaka. Quella città dalla quale, molti anni prima, era scappata e nella quale, alla fine, era stata costretta a tornare.

- Torniamo a casa, mamma? Sono stanco e ho tanto sonno.

Ma c’era una cosa che proprio non era mai riuscita ad odiare. Una cosa che le faceva sempre tornare la voglia di sorridere.

-Certo, amore. Andiamo a casa.

Era il volto fresco e pulito di suo figlio.

Salutò sua madre con un bacio e poi, con la mano stretta forte in quella minuscola di Shin, si avviò verso la porta.

Non appena entrarono in macchina, sentì addosso lo sguardo curioso del suo bambino.

- Mamma… perché ogni tanto diventi triste?

Ai bambini certe cose non puoi proprio nasconderle.

- Ma no, tesoro. La mamma è solo un po’ stanca.

Oh, no. Non era affatto stanchezza. Perché era tornata ancora quella strana fitta al centro dello stomaco. Succedeva sempre, ogni volta che guardava il volto di suo figlio e nei suoi occhi vedeva altri due occhi.

E come sempre accadeva, pensò che fossero stati messi lì apposta, al solo scopo di rinfacciarle quanto stupida fosse stata, quando, di fronte a quegli stessi occhi, aveva scioccamente ceduto.

Avrebbe potuto sopportare ogni cosa. Che Shin avesse quegli stessi capelli, quello stesso colore di pelle, quello stesso insopportabile carattere. Oh, si. L’avrebbe accettato, prima o poi.

Ma non quegli stessi occhi che, proprio in quel momento, la stavano guardando e di nuovo la uccidevano, mentre, ignari e ancora innocenti, brillavano sfacciatamente dello stesso, bellissimo colore dell’oro.

 

 

                                                                       /*/

 

 

Note dell’autrice: Bene, eccoci giunti alla fine di questo secondo capitolo. ^-^ Non ho assolutamente idea del numero di capitoli che comporranno questa storia perché le idee nella mia testa cambiano continuamente… xD Posso assicurarvi, comunque, che arriverò più o meno ad una diecina, o forse di più. ( Non ne ho la più pallida idea.. xD).

Mi sembra inutile tormentarvi ancora con i miei deliri e, quindi, vi lascio con l’invito ad esprimere, come sempre, quello che pensate su questa storia! ^-^

Un ringraziamento particolare a chi ha commentato il precedente capitolo, ovvero:

- EUTERPE_12;

- DEB;

- ELENAFIRE;

- RYANFOREVER.

E un grazie anche a chi si è limitato a leggere! xD A risentirci presto!

 

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Capitolo 3
*** CAPITOLO TRE: VECCHI TEMPI ***


Welcome To PageBreeze

Ciao a tutti!! ^-^  Sto aggiornando davvero a tempo di record! (Forse perché la maggior parte dei capitoli l’avevo già scritta.. xD) Comunque, ci risentiamo alla fine di questo terzo capitolo. ;)

 

 

CAPITOLO TRE: VECCHI TEMPI

 

 

Dopotutto, si capisce subito quando una giornata inizia male. Lo percepisci fin dal primo istante, fin da quando apri gli occhi. E Akito di certo non avrebbe saputo immaginare un buongiorno peggiore di quello. Insomma, come si può concepire l’idea di sentir suonare il campanello quando la sveglia segna appena le 8 del mattino?

In un primo momento, cercò di ignorare quel fastidiosissimo suono e si rintanò meglio sotto le coperte, nella speranza che quella tortura cessasse presto.

Ma quel dannatissimo campanello non sembrava affetto intenzionato a tacere.

Allora si alzò, e, con un gesto di stizza, raccolse i pantaloni della tuta gettati malamente sulla poltrona accanto a lui e se li infilò, maledicendo colui che quella mattina aveva gentilmente deciso di andare a svegliarlo.

Chiunque ci sia dietro quella maledetta porta, come buongiorno speciale, si ritroverà un bel pugno sul naso!

Con i nervi a fior di pelle, si precipitò verso l’ingresso e spalancò la porta biascicando un “Ma che cavolo…”. Ma tutte le parole offensive gli morirono in gola e gli istinti omicidi parvero placarsi non appena davanti a lui comparve il volto sorridente del suo migliore amico.

- Tsuyoshi? Ma che accidenti ci fai qui?

- Buongiorno anche a te, Akito! Non mi fai entrare?

Si passò confuso una mano fra i capelli biondi ancora spettinati a causa del brusco risveglio e, spostandosi appena, gli permise di entrare in casa.

- Tu lo sai che sono le 8 del mattino, si?

Per tutta risposta, Tsuyoshi si sedette sul divano facendogli cenno di accomodarsi al suo fianco.

- A quest’ora la gente normale sta uscendo per andare a lavoro, sai?

- Io non lavoro alle 8 del mattino!

- Non dovresti trascurare così il karate.

Lo rimproverò Tsuyoshi, sfilando gli occhiali enormi e pulendoli con il fazzoletto che aveva appena tirato fuori dalla tasca dei pantaloni scuri.

- Io non trascuro proprio un bel niente! Ho una palestra che gestisco come mi pare e piace!

- E sentiamo… da quando non vai a tenere una lezione ai tuoi allievi?

Akito sbuffò, vistosamente infastidito.

- Te lo dico chiaramente Tsuyoshi. Sono già abbastanza incazzato perché ho avuto un risveglio a dir poco spiacevole, quindi per cortesia evita di farmi la predica!

A Tsuyoshi fu chiarissimo che l’argomento “karate” era da considerarsi morto. Pazienza. Non era certo andato a casa del suo amico per parlare di lavoro.

- Ok, ok.. Ho capito. Andrai in palestra quando vorrai farlo. Perfetto. Comunque…

Si posizionò meglio sul divano in pelle nera.

- … non sono venuto qui per questo.

- Voglio sperarlo.

- In realtà…

Sorrise, leggermente a disagio.

-…avevo voglia di vederti.

Ok. Gli istinti omicidi tornarono a farsi prepotenti.

Che diavolo di scusa era?

- Stai scherzando?

- Affatto.

- E, di grazia, perché d’un tratto hai sentito l’impellente bisogno di vedermi?

- A dirti la verità, non lo so neppure io.

Gli occhi scuri divennero improvvisamente seri e sul volto ancora assonnato di Akito l’espressione rabbiosa di poco prima lasciò il posto ad uno sguardo confuso.

Ma non disse nulla, attendendo che Tsuyoshi si decidesse a dire qualcosa di sensato.

- Sai forse è stato per un discorso che ho affrontato ieri con Aya… noi abbiamo parlato un po’ dell’amicizia, dei vecchi tempi e…

Crac. Rottura di qualcosa nel petto in corso.

Le parole “vecchi” e “tempi” facevano decisamente male se usate nella stessa frase.

- E…?

Cercò di esortarlo a terminare il concetto, anche se non era del tutto sicuro di voler continuare a sentire.

- … E mi è venuta una folle nostalgia…

- Non riesco a seguirti.

Oh, invece ci riusciva. Eccome se ci riusciva! Solo che voleva accuratamente evitare di ascoltare le vocine insistenti che da dentro il cervello gli urlavano “Non fare il forte. Sei maledettamente nostalgico anche tu!”.

- Il fatto è che ho pensato che ora sono felice, anzi felicissimo… però..

- ….

- … però ci sono delle volte in cui credo che, crescendo, abbiamo perso qualcosa… come se ogni anno in più si sia preso in sacrificio una piccola parte di noi.

- Si può sapere di cosa avete parlato ieri tu e Aya?

- Di com’era quando eravamo ancora “tutti insieme”.

Akito lo guardò negli occhi, guardò negli occhi il suo migliore amico, e si sentì incredibilmente uguale a lui. Perché quei pensieri, quei ricordi, tornavano spesso a tormentare anche lui.

- E se crescere non fosse servito a nient’altro che a separarci?

- Non possiamo evitare di crescere. È impossibile.

- Si questo lo so, però…

Lo vide abbassare il volto e stringere le mani forte, fortissimo, a mo di pugno.

- E poi non è vero quello che dici.

Tsuyoshi alzò lo sguardo, arricciando un sopracciglio in segno di domanda.

- Noi, per esempio, non ci siamo mai separati. E non credo succederà mai.

Era vero. Mai nella vita Akito aveva pensato, neppure per il più piccolo istante, neppure nei momenti in cui il mondo sembrava crollargli sulle spalle, di poter fare a meno del suo migliore amico.

Si sentì un po’ più sollevato, quando lo vide alzarsi e riprendere la sua solita espressione allegra.

- Grazie, Akito. Non sai quanto avessi bisogno di sentire queste parole.

Quasi gli venne da piangere, quando sentì le braccia esili di Tsuyoshi stringergli forte le spalle larghe. A mala pena, riuscì a restituire la stretta.

- Ora vai su. Che ho decisamente bisogno di dormire.

Tsuyoshi rise un poco.

- Giusto. Aya si starà chiedendo dove sono finito.

Sorrise ancora una volta e poi si voltò, dirigendosi verso l’uscita.

- Ah… Akito.

- Mmm…?

- Te l’ho già detto che ti voglio bene e che voglio che tu sia il mio testimone di nozze?

Akito scosse la testa rassegnato.

- Mi hai chiesto di farti da testimone più di un mese fa.. e io ti ho già risposto di si.

- E la prima cosa?

Fece spallucce.

- Non c’è bisogno che tu me lo dica perché lo so già.

Tsuyoshi sorrise. E Akito rivide di nuovo quel bambino delle elementari dalla faccia ingenua e pulita che, con un paio di occhiali malamente messi sul naso e l’espressione smarrita da “primo giorno di scuola”, l’aveva guardato e, quasi automaticamente, gli aveva sorriso, senza aver neppure minimamente immaginato che quella, per Akito, era in assoluto la primissima volta che qualcuno gli regalava un sorriso.

 

 

 

***

 

 

Che poi, ripensandoci, la colpa forse era stata solo sua. 

Insomma, come aveva potuto pensare che quella notte, maledetta eppure bellissima, non avrebbe avuto conseguenze?

Eppure lei certe cose le capiva al volo. Non era una che si illudeva facilmente. E non era neppure il tipo di ragazza che si lascia trasportare dalle emozioni del momento e che và a letto con lo sconosciuto di turno. Anzi… nella sua vita aveva amato una persona soltanto. Sin dalle elementari il suo cuore era sempre appartenuto agli occhi scuri e al bel viso di Takaishi. E proprio quando aveva creduto di averlo perso per sempre, quando a separarla da lui si c’erano messi anche i chilometri che dividevano Tokyo da Osaka, lui era tornato. E quell’amore che pareva assopito si era risvegliato, trasformando quel sentimento bambino in un sentimento diverso… più maturo, molto più immenso di prima.

Era bastato un “Fuka, mi manchi”, sussurrato in una notte d’inverno, durante le loro solite telefonate, per far ricominciare tutto.

Da quella notte erano passati quasi undici anni.

Se ci pensava ora, però, il momento che più le era rimasto impresso nella mente, marchiato a fuoco nel cuore, era quello in cui, durante una serata casalinga passata a cenare insieme e a guardare la tv abbracciati sul divano, Takaishi l’aveva guardata e, senza il minimo tremore nella voce, le aveva detto un gelido “Fuka, basta così…”.

Da quella notte, invece, di anni ne erano passati quattro.

Quello che c’era stato in mezzo, in quei sette anni di fidanzamento, quasi non riusciva a ricordarlo.

O forse non voleva farlo perché ancora faceva male. Perché dopo quella notte, dopo l’ultima notte, c’era stata la notte successiva. Quella che per sempre le avrebbe cambiato la vita.

Quando senza neppure sapere il perché si era presentata fuori casa di Akito, sconvolta e spaventata, e gli aveva detto semplicemente “Mi ha lasciata…”

Akito aveva capito e l’aveva invitata ad entrare.

L’aveva seguito silenziosa sul divano, troppo devastata dal suo dolore per vedere le bottiglie vuote abbandonate sul pavimento o per sentire l’inconfondibile puzza d’alcol che impregnava i vestiti di Akito. L’unica cosa che aveva pensato in quel momento era stato “Siamo uguali. Anche lui è stato lasciato. Anche lui sa come mi sento…”

Solo una settimana prima, infatti, Aya le aveva confessato che Sana era partita per New York, lasciando Akito in modo forse definitivo. Nel sentire quelle parole quasi si era sentita morire.

“Che diavolo le passa per la testa a quella scema?” si era detta, furente. “I… io… ho lasciato Akito solo perché credevo che lei lo amasse davvero!”.

Quel pensiero l’aveva spaventata. Perché in quel momento si era resa conto che, se non fosse stato per Sana, se Akito non ne fosse stato innamorato al punto tale da non riuscire a stare con nessun’altra, allora lei… lei non l’avrebbe lasciato affatto.

Forse allora… forse non era vero che l’unico uomo che aveva amato era stato Takaishi.

Quello che provava per Akito non era mai riuscita a capirlo fino in fondo. Però le pareva che pensare a lui la destabilizzasse, le facesse perdere un po’ l’equilibrio.

Ne aveva avuto la conferma proprio quella notte, quando distrutta per la sua storia finita, aveva passato ore intere sdraiata sul pavimento del soggiorno di quella casa che fino a pochi giorni prima era stata anche di Sana, a fare l’amore con Akito.

E, nonostante sapesse che lui l’aveva fatto solo perché era disperato, ubriaco e con il cuore in frantumi, nonostante sapesse che era una cosa indiscutibilmente sbagliata e immorale, non se n’era mai pentita.

 

 

                                                                       ***

 

 

 

“- Ho deciso di tornare ad Osaka.

Gli occhi di Aya e Tsuyoshi si spalancano all’unisono e le loro mani lasciano cadere i fili d’erba fresca con cui stavano giocando solo un istante prima.

- C… cosa? E perché? Quando? Per quanto tempo?

Fuka socchiude gli occhi, inspirando a fondo il meraviglioso profumo di quel pomeriggio d’inizio estate.

- I miei vogliono tornare lì. Papà dice che è per lavoro. Partiremo la settimana prossima. E non so proprio quando torneremo

- La settimana prossima? Fuka ma… ma è prestissimo!

Aya non è mai stata brava a reggere i cambiamenti. Forse è per questo che sul suo bel viso sembra correre una lacrima dispettosa.

- Lo so, Ayachan… ma credimi.. è meglio così…

- Ma allora dobbiamo organizzare una festa per salutarti! Dobbiamo dirlo anche ad Akito!

Ad Akito? No. A lui proprio no.

- Nient’affatto Tsu! Nessuna festa…! Sapete come sono… non amo gli addii… e poi…

Stringe i pugni e prova ad inventare un sorriso.

- …Akito lo chiamerò io.

Sul volto di Aya altre lacrime si aggiungono alla prima.

- Perché andate tutti via? Prima Sana che và a New York… ora tu…Per caso c’entra qualcosa la rottura con Takaishi?

- No no…! Takaishi non c’entra nulla…

Si avvicina ad Aya e la abbraccia forte, cercando di soffocare quella maledetta voglia di urlare la verità. Di dire che non parte per il lavoro di suo padre, ma che se và via è perché è incinta di un bambino di Akito. E perché Akito non dovrà saperlo mai.

- Osaka non è lontana come New York. Potrete venire a trovarmi ogni volta che vorrete… e poi cercherò di tornare ogni tanto.

- Promesso?

Sorride. A furia di stare sempre insieme, Aya e Tsuyoshi fanno all’unisono anche le domande.

- Promesso.”

 

 

***

 

Stanco, si lasciò cadere sul letto. Anche se non l’avrebbe mai ammesso ad alta voce, il discorso di Tsuyoshi l’aveva destabilizzato. Quelle due piccolissime parole erano state capaci di far tornare in superficie tutti quei ricordi che a fatica era riuscito a mandar giù.

Vecchi tempi…

Che poi non c’era da stupirsi più di tanto, perché già lo conosceva quel nodo alla gola.

C’aveva convissuto per anni, da quando all’improvviso era nato per tormentarlo, il giorno in cui lei se n’era andata.

Da allora c’aveva provato ad andare avanti. E da qualche tempo credeva di esserci riuscito.

E allora perché gli erano bastate quelle maledette parole per sentirsi di nuovo soffocare?

Era stato come vedersi sbattuti in faccia, uno dopo l’altro, tutti i momenti della sua vita passata.

Era apparso di nuovo quel viso… il viso di Sana. Però era stato strano, perché di Sana ne erano apparse due. Una erala Sana bambina, quell’undicenne rumorosa e perennemente allegra che gli era entrata fin dentro le viscere, diventata poi l’adolescente, ancora più bella e rumorosa, con la quale per la prima volta aveva fatto l’amore. Quella era indiscutibilmente la sua Sana.

L’altra, invece, era la Sana in lacrime, col volto pallido e distrutto, che quattro anni prima era scappata in America, lasciandolo lì da solo, con il cuore frantumato, senza nessuno che potesse aiutarlo a rimetterne insieme i pezzi.

Di nuovo la stessa storia eh, Akito? Pensare a lei farà sempre così male? Il dolore non lo mandi giù. È come una macchia d’olio che, prima o poi, trova il modo per tornare a galla.

Comunque, insieme ai ricordi di Sana, era tornato anche un sentimento che credeva d’aver già superato. Era tornato il senso di colpa, lo stesso con cui si era svegliato la mattina dopo aver fatto l’amore con Fuka.

Che poi, in tutto quel tempo, a Fuka non c’aveva pensato molto. Però, nelle poche volte che la sua mente tornava a quel giorno, ricordava tutto alla perfezione. Ricordava persino quell’odore, l’odore bello, bellissimo, che gli era rimasto addosso per molti giorni, quasi come se volesse torturarlo.

L’odore di Fuka, della sua pelle, dei suoi capelli scuri. L’odore forte dei loro corpi nudi sul pavimento gelato, mischiato a quell’acido odore di alcol.

L’aveva portato addosso per molto tempo, come una punizione. Una punizione più che meritata, dopotutto.

Però non avrebbe mai potuto dire di essersene completamente pentito perché fare l’amore con Fuka, la migliore amica della donna che amava, per quanto sbagliato fosse, era stata la cosa più simile ad un’emozione che aveva provato da quando Sana era andata via.

Sdraiato sul suo letto, chiuse gli occhi nella speranza di riaddormentarsi per far passare quella stanchezza che gli toglieva anche la forza per respirare. Nello stato che precedette il sonno, la sua mente fu colpita da una nuova consapevolezza. Qualcosa che in realtà già conosceva, ma alla quale non aveva mai pensato seriamente. Un pensiero che per un lunghissimo istante gli si bloccò nella gola, graffiandola, per poi scendere giù, fino a pesargli sul cuore, come un macigno.

Dopo quella notte, di Fuka non aveva saputo più nulla.

 

 

                                                                       ***

 

 

“ – Dici sul serio, Ayachan?

- Certo che dico sul serio. Me l’ha detto Fukachan ieri sera al telefono.

Sana sorride, mettendosi a saltellare come una bambina, sotto lo sguardo rassegnato dei suoi migliori amici e del suo fidanzato.

- Sana datti un contegno! Se non te ne fossi accorta siamo in pieno centro in mezzo a migliaia di persone!

- Non cominciare Akito! Perché devi sempre essere così cupo e insensibile? Non sei contento per Fuka?

Akito si limita a fare spallucce.

- Non sono certo affari miei.

- Su questo Sana ha indiscutibilmente ragione, Akito! Sei il solito insensibile!

- Stai per caso cercando di morire, Tsuyoshi?

Tsuyoshi ride, seguito a ruota da Aya e da una sempre raggiante Sana.

- Visto? Cerca di mostrarti un po’ più entusiasta per le cose belle che succedono ai tuoi amici!

Akito alza un dito verso un azzurro cielo primaverile.

- Oh, oh! Takaishi si trasferisce a Tokyo per stare più vicino a Fuka! Ma che notizia meravigliosa!

Dice poi, in modo palesemente ironico, infilando nuovamente la mano in tasca.

- Così và meglio?

Chiede avvicinandosi al viso della sua fidanzata, sicuro del fatto che da un momento all’altro lei lo colpirà con quel suo solito, stupidissimo martello di plastica.

- SEI L’UOMO PIU’ INSENSIBILE CHE CONOSCO, AKITO!

E infatti in men che non si dica si ritrova con un bel bernoccolo a troneggiare sulla fronte.

- Andiamo, Sana! Non si può nemmeno scherzare! Mi hai fatto male!

- Sana lascialo stare… Akito fa il duro, ma in fondo sono sicuro che è contentissimo per Fuka.

Il solito Tsuyoshi che cerca di mettere tutti d’accordo.

- Si, lo so.. però potrebbe anche far vedere che è contento. Almeno una volta nella vita potrebbe mostrare quello che prova!

Sana incrocia le braccia, facendo comparire sul viso un broncio a dir poco adorabile. O meglio, adorabile per Akito, che le si avvicina, posizionandosi ad un centimetro dal suo naso.

- Mi pare che a te ho mostrato quello che provo, no?

Le guance di Sana si colorano di un accesissimo rosso porpora.

- S… si.. Akito… ma.. ma…

Tipico. Nonostante siano passati quasi due anni da quando sono diventati una “vera” coppia, ogni volta che si ritrova il volto di Akito così vicino al suo, a Sana ancora tremano le gambe.

Aya e Tsuyoshi si guardano e sorridono. A volte stentano ancora a credere che finalmente quei due si siano messi insieme come due persone normali. Ogni tanto si ritrovano a parlare di loro, della loro stranissima storia, e scoppiano a ridere nel ricordare l’espressione imbarazzata di Sana e quella fiera di Akito quando per la prima volta arrivarono a scuola tenendosi per mano.

Decisamente un momento indimenticabile!

- Sana per caso hai perso la parola?

La rimbecca lui, sogghignando. Forse è da presuntuosi, ma vedere l’effetto che ha sulla sua fidanzata lo mette sempre di buon umore.

- Sei un imbecille, Akito!

Urla, allontanandosi da lui e rivolgendo ad Aya la sua attenzione.

- Fuka ti ha detto quando verrà Takaishi?

- Si.. pare che tra massimo un mese dovrebbe aver finito con il trasloco.

Sana inizia nuovamente a saltellare, sotto lo sguardo rassegnato di Akito.

- Wow! Ma allora finirà qui il liceo!

- Esatto!

- Lui deve amarla davvero molto per fare un così grande passo! Sono assolutamente convinta che staranno insieme per sempre!

Akito la guarda e sorride appena, ben attento a non farsi vedere, perché ancora si stupisce di quanto lei sappia essere così smisuratamente romantica.

- Come fai a dirlo? Il tempo e le circostanze possono far cambiare tutto.

Non può farci niente. Adora farla arrabbiare. Ma, contrariamente a ciò che pensava, Sana non si arrabbia affatto. Piuttosto, assume un’espressione spaventata.

- Che vuol dire questo, Akito?

- Niente. Solo che di certe cose non puoi esserne certa.

- Vale anche per noi?

- Cosa?

- Non puoi essere certo neppure di noi?

Akito spalanca gli occhi un poco, sotto lo sguardo stupito di Aya e Tsuyoshi. Ok, non voleva dire questo. Assolutamente no! Voleva fare una battuta per farla arrabbiare un po’, come al solito. Ma lei doveva aver frainteso perché i suoi luminosi occhi nocciola erano diventati improvvisamente tristi.

- Non volevo dire questo, Sana!

- Ah no? E allora perché per noi dovrebbe essere diverso? Tu non credi che staremo insieme per sempre? Tu non ci credi!

Senza sapere come e perché, qualche lacrima scende a rigarle il viso.

- Ma che accidenti…? Sana ma perché piangi?

- Fanculo, Akito!

Le si avvicina incerto, asciugandole le lacrime con il dorso della mano. Il discorso si era evoluto nel modo peggiore.

- Noi siamo un’altra cosa, Sana. E so che per noi sarà per sempre.

Lei alza il viso verso di lui, mordendosi nervosamente il labbro inferiore.

- D… davvero?

Akito sorride e negli occhi di lei si riaccende la solita luce.

- Certo.

Sana gli getta le braccia al collo, stringendolo così forte che ad Akito, per qualche secondo, manca il respiro.

- Scusami, Akito. È che al solo pensiero che tra noi possa esserci una fine mi si ferma il cuore.

Le accarezza il viso e le lascia un bacio leggere sulle labbra ancora salate.

- Scusami anche tu.

Sana scuote la testa, asciugando le ultime lacrime. Poi, sorridente come sempre, si rivolge ad un’Aya e ad uno Tsuyoshi ancora frastornati per la scena alla quale hanno appena assistito, e con un semplicissimo “Dai ragazzi! Andiamo a vedere quel negozio!” li esorta a continuare la loro passeggiata pomeridiana. Loro la assecondano, dirigendosi allegri verso la vetrina indicata dall’amica.

Akito guarda Tsuyoshi e alza le spalle, riassumendo la sua solita espressione da duro. Poi prende la mano di Sana e inizia a camminarle accanto. Entrando nell’ennesimo negozio della giornata si ripromette di non fare mai più certe battute alla sua ragazza.

Ma  non immagina neppure lontanamente che, alla fine, sia su Fuka che su loro due avrebbe avuto ragione.”

 

 

                                                                       ***

 

Si posizionò meglio sul sedile, mentre con una mano si allacciava la cintura. Girò il capo, nella speranza di trovare gli occhi azzurri di Naozumi. Ma la sua speranza si rivelò vana quando notò che lui stava già dormendo.

Ma guardalo! Non siamo neppure partiti e già dorme come un bambino!

Comunque, non poté fare a meno di sorridere nel notare quanto bello fosse Naozumi quando dormiva. A volte le capitava di svegliarsi durante la notte solo per guardarlo dormire e rigirarsi nelle coperte. Bastava uno sguardo e lei si sentiva incredibilmente bene, in pace con il mondo.

 

Quando la voce del pilota annunciò il decollo, l’orologio sul suo polso segnava le due di notte del ventunesimo giorno di dicembre.

Era stata lei a scegliere quel volo, perché l’aveva ritenuto perfetto. Sarebbero arrivati proprio qualche ora prima della festa a casa di Aya e Tsuyoshi. Né troppo tardi per presentarcisi perfettamente riposati, né troppo presto per avere il tempo di fare un giro per le vie di Tokyo.

Tokyo…

Ancora non era riuscita a rendersi del tutto conto che da lì a poche ore sarebbe tornata nella sua vecchia città. Che avrebbe rivisto i suoi vecchi amici.

Vide che fuori dal finestrino le luci di New York si allontanavano lentamente e già le sembrò di essersi pentita della sua decisione.

Dovette faticare non poco per trattenere le lacrime che le si erano formate dietro gli occhi nocciola, già al solo pensiero di rivedere i suoi amici.

Bugiarda. Sai bene che quelle lacrime sono per lui.

Stupida lei, che quando aveva deciso di partire non aveva preventivato il fatto che avrebbe dovuto fare i conti anche con lui. Per quanto avrebbe cercato di evitarlo, sarebbe comunque stata costretta a vederlo, anche solo per pochissimo tempo.

Strizzò gli occhi forte, fortissimo, nel tentativo di rispedire indietro quella morsa nello stomaco.

Ma fu solo quando Naozumi finalmente si svegliò, le strinse una mano e le sorrise, che tornò a sentirsi un po’ meglio.

 

 

                                                                       /*/

 

Nota dell’autrice: Perfetto, eccoci giunti alla fine del terzo capitolo. Come avrete avuto modo di notare molte delle domande che mi avete posto nelle recensioni hanno trovato una riposta, come promesso. ^-^

Per il quarto capitolo ci vorrà più o meno una settimana, credo (non sono mai certa di niente.. xD).

Un ringraziamento particolare và, ovviamente, a chi mi ha fatto sapere le sue impressioni sulla mia storia fin’ora. Spero che continuerete a darmi il vostro parere anche nei capitoli che seguiranno! ;)

Un grosso saluto a tutti voi…! ^-^

 

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Capitolo 4
*** CAPITOLO QUATTRO: SCOMMESSA ***


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Eccomi con il quarto capitolo! Puntuale come un orologio svizzero.. ;)

 

 

CAPITOLO QUATTRO: SCOMMESSA

 

 

- Sana guarda! Siamo quasi arrivati!

Esortata da un Naozumi entusiasta, rivolse la sua attenzione allo spettacolo che si stagliava da dietro il finestrino e non poté fare a meno di spalancare le labbra, stupita.

Le luci di Tokyo erano ancora più belle di quanto ricordasse.

- E’ stupendo vero, Sana?

- Già.

- Su, allacciati la cintura. Il pilota ha detto che stiamo per atterrare.

In silenzio, obbedì alla richiesta del suo fidanzato, per poi tornare a concentrarsi sul meraviglioso spettacolo che la attendeva proprio sotto ai suoi occhi.

Quando l’aereo finalmente toccò terra, le sue mani iniziarono inspiegabilmente a tremare. Le infilò nelle tasche del cappotto pesante per evitare che Naozumi potesse accorgersene.

- Forza, Nao! Scendiamo da questo coso!

Disse sorridendo, cercando di mascherare l’inquietudine con un tono di voce più alto del solito.

Naozumi la guardò, scrutando quel viso in ogni minimo particolare e non riuscì a sentirsi tranquillo.

- Tutto ok, Sana? Qualcosa non và?

Lei scosse vistosamente la testa.

- No, no! È tutto ok!

- Se vuoi… se non te la senti noi… possiamo tornare indietro…

- Assolutamente no! Non posso mancare al matrimonio di Aya e Tsuyoshi! Non me lo perderei per nulla al mondo!

Le accarezzò il viso, costringendola ad incrociare il suo sguardo.

- E allora perché stai piangendo?

Cosa? Da dove diavolo erano uscite quelle lacrime? Non le aveva rimandate giù?

Sorpresa, si passò una mano sulle guance e sobbalzò un poco nel sentirle bagnate.

- Non preoccuparti. Queste… queste sono lacrime di gioia.

Mentì.

- Davvero?

- Certo! Sono solo molto felice di poter rivedere Tokyo e i miei amici!

Naozumi non rispose. Si limitò a fare un cenno d’assenso con il capo e ad aiutarla a slacciare la cintura.

Sana gli sorrise, cercando di convincersi del fatto che quella strana angoscia che sentiva era davvero dovuta alla gioia di essere tornata.

Ma non ci riuscì, perché mentire a sé stessi era troppo difficile.

Allora, mentre le porte dell’aereo si aprivano per lasciarli uscire, strinse forte la mano di Naozumi, pregando intensamente che almeno lui a quelle parole c’avesse creduto.

 

 

 

                                                                       ***

 

Sospirando appena, richiuse la pesante valigia che era adagiata sul suo letto da più di due ore.

Sarebbe stata via da casa solo per pochi giorni eppure, a giudicare dall’enorme quantità di roba che aveva a forza stipato in quel piccolo bagaglio, sembrava che la sua “vacanza” sarebbe dovuta durare dei mesi.

Era sempre stata così, lei. Preparare le valigie non era mai stato il suo forte.. non sapeva proprio come scegliere ciò che portare e ciò che, invece, sarebbe stato meglio lasciare a casa.

Nella sua vita le uniche volte che aveva preparato una valigia era stato quando aveva cambiato casa.

Prima, quasi un secolo fa, da Tokio a Osaka. Poi di nuovo a Tokio, prima di fare definitivamente ritorno ad Osaka, quattro anni prima. Ora la sua destinazione era nuovamente Tokyo, ma stavolta per un motivo diverso. Non si sarebbe di certo ritrasferita in quella città! Lì non c’era più niente per cui valesse la pena tornare. O meglio, lì, tra quelle strade affollate che aveva imparato ad amare, tra quei parchi pieni d’alberi in fiore, a due passi dalla scuola dove aveva smesso i panni di bambina per indossare quelli indiscutibilmente più scomodi di un’adulta, lì… c’era il padre del suo bambino.

L’uomo che le aveva per sempre sconvolto la vita, senza averne la minima idea.

Non aveva mai pensato di dirglielo.

Nonostante sua madre e suo padre le ripetevano spesso “Fuka, non è giusto che lui sia all’oscuro di tutto” e altre frasi del genere, lei il coraggio di parlare non l’aveva mai trovato.

Dopotutto, a cosa sarebbe servito confessare una tale verità?

Chi ne avrebbe tratto vantaggio?

Di certo non lei. Che avrebbe dovuto affrontare gli sguardi accusatori di un Akito certamente furioso e le domande indisponenti dei suoi migliori amici.

No, una tale situazione non avrebbe mai potuto reggerla.

 

 

Il telefono accanto a lei squillò più volte, fino a quando non si decise, scocciata, di andare a rispondere.

- Pronto?

- Allora sei in casa!  Credevo fossi già uscita!

- No, mamma ci sono ancora. Stavo per prendere le ultime cose.

- A che ora parte il treno, tesoro?

- Tra un’ora.

- Sei davvero sicura di voler andare?

Quella doveva essere la millesima volta che sua madre le poneva la stessa domanda.

- Si, mamma. Ne abbiamo già parlato. Non posso mancare al matrimonio di Aya e Tsuyoshi.

- Ma ci sarà anche lui, vero?

Spero con tutta me stessa di no!

- Credo di si…

- Capisco… però…

Desiderò ardentemente porre fine a quella scomoda conversazione.

- Senti, mamma. Shin resta con te e papà, no? Quindi non c’è assolutamente niente di cui preoccuparsi!

Dall’altro capo del telefono, sentì sua madre sospirare a lungo.

- Come dici tu. Allora buon viaggio, tesoro. Fai un colpo di telefono appena sei a Tokyo.

- Perfetto. Dai un bacio a Shin.

E con quel frettoloso saluto la conversazione si concluse.

Prendendo in mano i bagagli e il biglietto del treno sul comodino in salone, uscì a passo svelto, richiudendosi la porta alle spalle.

Le preoccupazioni di sua madre erano assolutamente infondate.

Anche se avesse visto Akito, anche se lui le avesse chiesto il motivo del suo improvviso trasferimento ad Osaka, anche se nei suoi occhi avesse rivisto gli occhi di Shin, non gli avrebbe detto nulla. Perché, come detto, nessuno ne avrebbe tratto vantaggio.

Così, mentre saliva sul taxi che l’avrebbe portata in stazione, ignorò l’ovvia considerazione che magari, invece, qualcuno, di quella verità, ne avrebbe giovato.

Quel qualcuno era Shin, perché lo sapeva anche lei che era profondamente ingiusto non dirgli chi fosse suo padre.

Un giorno, quando sarebbe stato abbastanza grande per capire, quando a scuola le maestre gli avrebbero assegnato un tema dove descrivere i suoi genitori, quando i suoi compagni gli avrebbero chiesto dove fosse il suo papà, lui certamente avrebbe preteso una spiegazione.

 

- Dove la porto, signorina?

Per ora, comunque, non c’era niente di cui preoccuparsi.

- Alla stazione centrale, grazie.

Avrebbe avuto ancora qualche anno per inventare una storia credibile.

 

 

 

                                                                       ***

 

 

- Tesoro è tutto pronto per stasera?

In realtà, la domanda che Tsuyoshi avrebbe voluto porre alla sua fidanzata, quasi moglie, era un’altra.

Notizie di Sanachan?

Però, vedere il volto di Aya così incredibilmente felice, gli aveva bloccato quelle parole in gola.

Era così dannatamente serena, così entusiasta, mentre, aiutata da un’altrettanto raggiante Hisae, finiva di appendere gli ultimi addobbi nel grande soggiorno che avrebbe ospitato la festa di quella sera.

- Si, amore. Questi sono gli ultimi.

Gli disse lei indicando i festoni che teneva tra le mani sottili.

Lui le sorrise, andandole accanto per aiutarla a sistemarli meglio.

- Sono così felice! Non posso credere che stasera ci sarà la nostra festa pre-matrimoniale!

Quando Aya se n’era uscita con le geniale trovata, almeno secondo lei, di organizzare una festa proprio pochi giorni prima del matrimonio, lui non aveva avuto il coraggio di opporsi.

D’altronde si sa, meglio non contraddire una futura sposa!

- Sono sicuro che sarà una festa bellissima.

Lei gli si gettò tra le braccia, ma solo per un istante. Perché poi fu richiamata da Hisae che, dal tono di voce preoccupato, doveva aver combinato qualche guaio in cucina.

- Amore vado a vedere cos’ha combinato quella pazza!

Tsuyoshi nemmeno rispose, troppo preso ad annusare il dolce profumo che i capelli di Aya lasciarono nell’aria intorno a lui. E, d’improvviso, chiedersi se Sana sarebbe o meno venuta alla festa, divenne una questione del tutto secondaria. Perché non c’era nulla da fare. Quando la vedeva sorridere in quel modo, non poteva proprio fare a meno di essere felice.

 

 

***

 

Per un istante, non appena mise piede nell’enorme aeroporto di Tokyo, ebbe voglia di prendere il primo volo e di tornare indietro.

Di guardare Naozumi negli occhi e di dirgli “Ok, Nao. C’ho provato, ma non ci riesco. Torniamo a casa”

L’unica cosa che riuscì a fare, però, fu quella di guardarsi intorno, con aria stordita e il cervello disorientato.

Naozumi le si avvicinò, trascinando a fatica i bagagli che aveva appena recuperato. Lei gli andò incontro, porgendogli una mano come a chiedergli se avesse bisogno di aiuto.

- Ce la faccio anche da solo, Sana. Non preoccuparti.

Lei non replicò, ancora troppo frastornata per accorgersi che, in realtà, al suo ragazzo,mingherlino come un tempo, un aiuto servisse sul serio.

In qualche modo, lui riuscì a caricare i bagagli sul taxi che li attendeva appena fuori dall’aeroporto.

- Su, Sana. Saliamo. 

Le disse poi, esortandola con un gesto della mano.

Lei rimaste immobile per qualche istante, con le braccia mollemente abbandonate lungo i fianchi, prima di riscuotersi, entrare nel piccolo abitacolo del taxi e sedersi accanto ad un Naozumi stranamente silenzioso.

Devo dirglielo.

- Nao… io…

Devi dirgli che non ce la faccio.

- Cosa?

Non ce la faccio.

- ….

- Sana?

Torniamo a casa, Nao.

- No, niente.

Niente.

 

 

                                                                       ***

 

Mentre si accingeva ad uscire di casa, ben coperto con un’enorme sciarpa e un pesante cappotto scuro, si maledisse infinite volte per la sua inguaribile pigrizia.

Perché se avesse portato l’auto dal meccanico quando si era rotta, ben due mesi prima, ora non sarebbe certo stato costretto ad andare fino a casa di Tsuyoshi contando solo sulle sue gambe e rischiando di prendersi una bella polmonite.

Avrei potuto chiedere a Tsuyoshi di venirmi a prendere…

Si, avrebbe potuto. Si maledisse anche per il suo stupido e immotivato orgoglio. Lui che aiuto non lo chiedeva a nessuno.

 

Quando arrivò fuori casa del suo migliore amico, nervoso e infreddolito, notò di avere una buona mezz’ora di anticipo.

Fuori dal cancello c’era solo una macchina parcheggiata, oltre a quelle di Aya e Tsuyoshi ovviamente.

Capì subito che si trattava di quella di Gomi.

Ma perché Gomi e Hisae arrivano sempre in anticipo?

Non li vedeva da un po’, in effetti.

Una delle ultime volte che aveva visto Gomi era stato quando si era presentato a casa sua, un pomeriggio d’estate di più di un anno prima, e con un enorme sorriso gli aveva comunicato che Hisae aveva accettato di sposarlo.

Non era stato in grado di decifrare il sentimento che aveva sentito nel petto.

Gli era sembrata felicità per la gioia del suo amico di sempre. Ma di sicuro c’era stata anche una punta, neppure tanto celata, d’invidia.

Comunque, era stata una cosa strana. Perché sul fatto che Tsuyoshi e Aya si sarebbero sposati, un giorno o l’altro, era stato sempre abbastanza sicuro.

Su Gomi e Hisae, però, non c’avrebbe scommesso neppure un misero yen.

Ma, d’altronde, lui non era mai stato portato per le scommesse.

 

 

“ Secondo voi chi si sposerà per primo tra noi?

Tipiche domande di una Sana Kurata seduta nella mensa del liceo, con i suoi storici amici e il suo finalmente fidanzato, Akito Hayama.

- Sana ma che domande fai?

- Akito non rompere! Nessuno ti ha interpellato! Stavo parlando con Ayachan e Fukachan!

Aya e Fuka, appunto, scoppiano a ridere.

- Bè, Sana... saremo indiscutibilmente io e Tsu a sposarci per primi! Vero amore?

Le guance di Tsuyoshi si colorarono di rosso. Incredibile come ancora sembrasse un idiota quando si affrontavano certi discorsi.

- Non credo proprio, Ayachan! Saremo io e Takaishi a sposarci per primi!

Takaishi, appena trasferitosi da Osaka, sorride e muove la testa in cenno d’assenso, prima di tornare a concentrarsi sul libro di fisica per cercare di ripassare la lezione in vista dell’imminente compito.

 Sana alza un sopracciglio in segno di stupore.

- Ne siete davvero convinte? Sarò io a sposarmi per prima!

- Non credi che dovresti almeno interpellarmi prima di decidere certe cose? Si da il caso che dovrei essere io quello che ti chiede di sposarlo.

Si avvicina ad Akito, sbattendo forte le ciglia e mordendosi il labbro inferiore, nella speranza di intenerirlo.

- Ma tu me lo chiederei prima di Tsuyoshi e Takaishi, vero?

Akito alza gli occhi al cielo e, tra le risate fragorose dei loro amici, biascica un -Mi farai impazzire, prima o poi…ne sono sicuro….

Sana spalanca le labbra in uno dei suoi meravigliosi sorrisi e ad Akito viene quasi voglia di prenderle una mano e di chiederglielo in quel momento, in una mensa scolastica, davanti a centinaia di persone, a soli diciassette anni, se per caso, se per miracolo, vuole sposarlo.

Sana, ovviamente, non se ne accorge e gira il volto allegro in direzione delle sue due amiche.

- Ma Hisae che fine ha fatto?

Aya fa spallucce.

- Pare che abbia preso l’influenza.

- Mmmm… si però non vi sembra strano che manchi anche Gomi?

- Che vuoi dire Fukachan?

La mora scuote la testa, dopo aver sentito la domanda ingenua di una Sana che, spesso, sa essere ancora tremendamente infantile.

- Ayachan ti prego spiegaglielo tu a questa ritardata!

Aya ride di gusto, notando l’espressione offesa di Sana.

- Sanachan, se mancano tutti e due magari ora sono insieme… ultimamente sono un po’ strani non l’hai notato? Sembrano molto più intimi di due normali amici.

- Cosa? Davvero? Non me ne sono accorta!

- Ma come cavolo si può essere così rimbambiti?

- AKITO! SEI UNO STUPIDO! Non è colpa mia se certe cose non le capisco.

- Ma l’hanno capito tutti!

- E io no! E comunque, se davvero quei due si mettessero insieme sarei felicissima!

Esclama entusiasta, con sguardo sognante. Pensare Gomi e Hisae insieme la rende felice.

Poi d’improvviso si alza di scatto dalla sedia sulla quale stava seduta.

- Sana che succede?

Chiedono tutti all’unisono.

- Se Hisae e Gomi si mettono insieme allora dobbiamo aggiungere anche loro per la nostra scommessa al “chi si sposa per primo”!

Tutti scoppiano a ridere. Tutti tranne Akito, ovviamente, ancora troppo impegnato a  finire la sua porzione di sushi.

Il suono della campanella che scandisce la fine della pausa pranzo li obbliga ad abbandonare la mensa per avviarsi verso le rispettive classi.

Si salutano in fretta, con  il sorriso sulle labbra e la convinzione che si sarebbero rivisti tutti dopo, una volta finite le lezioni, per organizzare un’altra delle loro ormai solite “serate tra coppie”.

Sulla porta della loro classe, Sana e Akito si scambiano un velocissimo bacio, stando ben attenti a non farsi vedere dal professore.

- E comunque, Akito… sappi che quella scommessa voglio vincerla io!”

 

 

Quel pomeriggio in mensa gli era tornato in mente per la prima volta proprio quando aveva saputo dell’imminente matrimonio tra Gomi e Hisae.

Sana, forse, non ne era mai venuta a conoscenza perché, stando a quanto aveva sentito dire da Hisae ad Aya, il giorno della cerimonia, lei era impegnata in qualche parte del mondo per girare un film.

Meglio così. Si era risparmiato lo strazio di rivederla e di vedersi sbattuta in faccia la cruda verità.

Abbiamo fallito…

 

Perché quella stupida scommessa l’avevano vinta Gomi e Hisae.

 

 

 

 

 

                                                                       ***

  

 

Un brivido di freddo le percorse tutta la schiena, non appena l’autista del taxi la informò che era arrivata a destinazione.

Lei pronunciò un frettoloso “Grazie” seguito da un altrettanto frettoloso “arrivederci” e poi, finalmente, abbandonò il sedile posteriore della piccola vettura.

Rimase immobile per un lunghissimo istante, prima di decidersi ad avviarsi verso il grande cancello, trascinando a fatica i pesanti bagagli che aveva preparato.

Si sentì incredibilmente sciocca e fuori luogo quando si rese conto che forse, quando Aya al telefono le aveva detto “Fukachan, non preoccuparti per lalbergo. Resti a dormire a casa mia e di Tsu!”, lei avrebbe dovuto dire un categorico “No grazie!” seguito da un altrettanto categorico  “Ah… e credo che non potrò esserci neppure per il matrimonio!”.

Ma proprio non ce l’aveva fatta a smorzare l’entusiasmo che aveva sentito nella voce allegra della sua vecchia amica. Così si era detta “Coraggio, Fuka! pochi giorni passeranno in fretta!”

Insomma, era vero che aveva messo in conto il fatto che tornare a Tokyo l’avrebbe quantomeno destabilizzata, ma quella strana e folle paura che sentiva in quel momento, proprio non se l’aspettava.

Per questo, subito dopo aver suonato il campanello, desiderò intensamente scappare via, per tornare ad Osaka e riabbracciare il suo bambino.

 

 

                                                                       ***

 

 

Il cuore le batteva all’impazzata, così forte che ebbe la sensazione che, da un momento all’altro, potesse schizzarle via dal petto.

Poco male.

Dopotutto, lei c’era già passata, la conosceva bene, quella sensazione. La sensazione di quando qualcuno il cuore te lo strappa via.

Però era abbastanza strano il fatto che si sentisse così anche in quel momento, mentre si avviava verso la casa di quelli che, in un tempo che ormai le sembrava lontanissimo, erano stati i suoi migliori amici.

Che comunque, era davvero felice di poterli rivedere. Di vedere come erano cambiati… di vedere se il volto di Aya aveva ancora quell’alone di materna tenerezza e se l’aria da bambino sperduto che caratterizzava il viso di Tsuyoshi, alla fine era andata via proprio com’erano andati via gli anni.

Pensandoci bene, durante la sua permanenza a New York non aveva legato praticamente con nessuno. Nessuno a parte Naozumi, ovviamente.

Strano. Perché lei era sempre stata un tipo molto socievole. Una di quelle persone che piacciono a tutti perché hanno la luce del sole sul viso, ogni volta che sorridono.

E un tempo lei sì, che sorrideva spesso.

Forse sono davvero cambiata…

- Sana, siamo quasi arrivati. Tutto ok?

La voce calma di Naozumi la riscosse dai suoi pensieri.

- S.. si. Tutto ok.

Gli sorrise un attimo, poi il sorriso le morì sul volto, non appena si accorse di essere di fronte a quella che doveva essere la casa di Aya e Tsuyoshi. Era una bella casa, posizionata proprio accanto al quartiere dove erano cresciuti.

Tipico di Aya…lei i cambiamenti li ha sempre odiati.

Arrivarono di fronte al grande cancello e restarono immobili per qualche secondo, come se ancora non avessero realmente deciso cosa fare.

C’è anche lui, dietro quella porta.

Respirò a fondo, portandosi una mano sul petto, mentre con l’altra si avvicinava al campanello.

Ho paura.

Poi le parve di stare meglio non appena sentì la mano calda di Naozumi stringere forte la sua.

Forse come per infonderle quel coraggio che da sola non avrebbe trovato mai. O forse semplicemente per entrare in quella casa e lanciare il chiarissimo messaggio che “Sana è la mia ragazza. Mia e basta.”

Capì che la seconda opzione era quella giusta quando, non appena si decise a suonare il campanello, lui le sorrise senza che quel sorriso riuscisse a nascondere la folle paura che traspariva dai suoi occhi azzurri.

Si, quella mano stretta nella sua avrebbe dovuto lanciare un messaggio.

E chi fosse il destinatario non c’era stato affatto bisogno di chiederlo.

 

 

Note dell’autrice: Bene, anche il quarto capitolo è andato! ^-^

Nel prossimo (che dovrei pubblicare tra una settimana) credo proprio che ci sarà l’incontro tra Sana e Akito. ;) Attendo le vostre recensioni.. e un grazie particolare a chi mi fa sempre sapere quello che pensa su questa storia! A risentirci presto.. ^-^

 

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Capitolo 5
*** CAPITOLO CINQUE: APPARENZE ***


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Eccomi con il quinto capitolo! Buona lettura…! ^-^

 

 

 

 

CAPITOLO CINQUE: APPARENZE                                                                   

 

 

A Tsuyoshi, non aveva chiesto nulla.

Eppure c’erano stati momenti nei quali avrebbe dato qualsiasi cosa per trovare il coraggio necessario per porre quella semplice, semplicissima domanda.

“Ci sarà anche lei?”

Quattro parole. Poche, pochissime, anche per uno che di usare le parole ne faceva sempre volentieri a meno.

Quattro parole. Quattro, come gli anni che erano passati dall’ultima volta che Sana aveva respirato la sua stessa aria.

Un tempo così lungo che, se ripensava a quegli ultimi momenti insieme, aveva l’impressione che si trattasse di un’altra vita.

Ma era un’impressione che durava solo un istante, perché poi tornava prepotente la consapevolezza che la vita era la stessa e che lei, di quella vita, gliene aveva fottuta anche troppa.

Se non fosse stato per lei, una vita, forse, non ce l’avresti nemmeno avuta.

Oh, certo… il senso di colpa.

Si, lo sapeva benissimo… era perfettamente cosciente del fatto che, se Sana non ci fosse stata, probabilmente avrebbe posto fine ai suoi giorni quando ancora era troppo piccolo per poter anche solo capire cosa fosse, la morte.

Questa era una cosa che sapevano proprio tutti.

Sana gli aveva insegnato ad amare la vita. Però, quella stessa vita, gliel’aveva portata via.

Il bilancio torna ad essere in pareggio, Sana. Non ti devo più niente.

E allora quel maledetto senso di colpa poteva anche sparire, una volta per tutte.

 

Fu Tsuyoshi che gli aprì il portone, dopo che ebbe suonato il campanello.

- Ciao Akito, vieni entra!

Lo esortò l’amico, e lui non se lo fece ripetere due volte. Con un unico passo fu dentro l’ingresso e già gli sembrò di sentirsi un po’ meglio, visto il bel calduccio che c’era in casa.

Prima di avviarsi verso la camera nella quale si stava svolgendo la festa, Tsuyoshi gli si piazzò di fronte, guardandolo così intensamente che Akito fu costretto a distogliere lo sguardo.

Sapeva benissimo il motivo di quello sguardo. Tsuyoshi stava cercando di fare quello che faceva praticamente da sempre, sin da quando l’aveva conosciuto, sin da quando era diventato il suo migliore amico.

Stava cercando di capire cosa ci fosse, oltre quegli occhi freddi, al di là di quel viso sempre impassibile.

- Non è ancora arrivata. E francamente non so se arriverà.

E, come sempre, aveva capito.

Ad Akito venne quasi da chiedergli a chi si riferisse, ma poi capì che sarebbe stata una domanda quantomeno ridicola, perché sapeva benissimo che Tsuyoshi parlava di lei.

- Non mi interessa.

Che poi, non era esattamente una bugia. Che ci fosse o meno non era importante. Tanto, lei, c’era comunque.

- Ho ritenuto opportuno dirtelo lo stesso.

Akito si strinse nelle spalle e poi si avviò verso il salone a passo svelto.

Non appena lo raggiunse, notò che era praticamente quasi vuoto. Vide la figura snella di Aya che si intratteneva a conversare con Hisae accanto all’enorme tavolo apparecchiato con ogni genere di cibarie possibile e immaginabile. Seduto al tavolo, appunto, Gomi stava già divorando un qualche genere di pasticcino.

Solo in un secondo momento, si accorse di un’altra figura familiare e sentì una strana sensazione nello stomaco.

Seduta sul divano, in un angolo della stanza, con le mani poggiate sulle ginocchia, Fuka lo stava guardando.

Forse era una sua impressione, ma vide una strana paura negli occhi della sua vecchia amica.

“Amica”, forse, non era la parola più adatta per descrivere Fuka. Fuka che era stata la sua prima ragazza, l’unica verosimile alternativa a Sana.

Le si avvicinò, con l’intento di salutarla nel modo più normale possibile. Non appena le fu abbastanza vicino per poterla vedere bene in volto, dovette ammettere che era davvero diventata una bellissima donna. Bella lo era sempre stata, in effetti.

- Ciao, Matsui.

 La salutò, facendo un piccolo cenno con il capo.

- Ciao, Hayama.

Rispose lei, accennando un piccolo sorriso. Sembrava visibilmente in imbarazzo e Akito giunse alla conclusione che quel leggero tremore che avvertì nella voce della donna, potesse essere la logica conseguenza di quell’unica notte che avevano passato insieme.

Forse quattro anni sono ancora troppo pochi per dimenticare.

- Come ti và la vita, Matsui?

La vide stringersi nelle spalle e abbassare il volto, notevolmente a disagio.

- Diciamo che và.

Akito si lasciò scappare una mezza risata.

- Queste sono le mie risposte, Matsui! Sono io quello di poche parole. Tu, invece, sei quella che parla a macchinetta!

Anche Fuka, rise un poco. Un riso amaro, tetro. Così diverso rispetto al suono della sua risata allegra.

- Bè, Hayama, nella vita si cambia.

 Disse lei, cercando di dare alle sue parole il tono più ironico possibile. Ma non ci riuscì e quelle poche lettere arrivarono alle orecchie di Akito piene di una freddezza tale che lui sentì distintamente un pezzo di cuore congelarsi e staccarsi da tutto il resto.

Forse una cosa come quella che abbiamo fatto noi due, Fuka,  non la si dimentica mai.

E Akito non poté fare altro che riconoscere quanto Fuka avesse ragione.

 

 

 

                                                                       ***

 

 

Se qualcuno gliel’avesse chiesto, non sarebbe stata in grado di spiegare quello che provò quando il viso allegro e felicemente commosso di Aya le si presentò di fronte, più tenero e dolce che mai.

- O mio Dio, Sanachan! Alla fine sei venuta!

Gridò la sua vecchia amica, stringendola immediatamente in un soffocante abbraccio. Sana ricambiò il gesto, mentre sul suo viso un sorriso sincero prendeva il posto dell’espressione smarrita e spaventata che aveva avuto fino ad un attimo prima.

- Secondo te potevo mancare?

Scherzò poi, staccandosi da lei e risistemandosi i lunghi capelli ramati dietro le spalle.

- Certo che no! Ma vieni di là… ci sono già tutti!

La esortò Aya, prima di notare finalmente la presenza di Naozumi alle spalle di Sana.

- Ah, Naozumi! Ci sei anche tu!

Gli si avvicinò, dandogli un veloce abbraccio seguito da una leggera pacca sulla spalla.

- Ma non state lì impalati! Sana, Naozumi, andiamo!

Disse, aumentando il sorriso, se possibile, ancora di più. Poi prese la mano di Sana e iniziò a condurla verso la stanza nella quale si stavano svolgendo i festeggiamenti.

Sana si bloccò un istante, piantonando i piedi su una delle piastrelle chiare dell’ingresso.

Nel vederla improvvisamente immobile, anche Naozumi e Aya si fermarono, preoccupati.

- Amore c’è qualcosa che non và?

Chiese lui, apprensivo. Aya, invece, non disse nulla. Piuttosto, si limitò a fissare il volto di Sana, scandagliandone ogni minimo particolare, conscia di aver già capito il motivo di quella frenata improvvisa.

D’altronde, anche Naozumi sembrava aver compreso perché non si mostrò affatto stupito quando Sana abbassò gli occhi senza dare una risposta alla sua domanda.

Aya le si avvicinò e la strinse nuovamente in un abbraccio.

- Non avere paura.

Le sussurrò piano, talmente piano che solo lei poté sentire. A Sana, per un attimo, parve di essere tornata indietro nel tempo. Quando, nei momenti difficili, che si trattasse di un compito in classe andato male o di una furiosa litigata con Akito, Aya riusciva sempre a trovare le parole giuste per farla stare meglio. Era un po’ come la voce della coscienza, lei. E proprio come la coscienza, era sempre stata in grado di decifrare i suoi pensieri, anche quelli più nascosti, trasformandoli in parole, frasi che riuscivano a spiegare tutto quello che lei non riusciva a dire.

Quanto le era mancata quella voce calma e paziente!

- Grazie, Ayachan.

Le disse in un orecchio, sorridendole luminosa, prima di prendere la mano del suo Naozumi e di ricominciare a camminare sicura, seguendola in salotto.

 

 

 

                                                                       ***

 

 

Com’era facilmente prevedibile, non appena lei e Naozumi misero piede nella sala addobbata a festa, gli sguardi di tutti i presenti si focalizzarono su loro due.

Ci fu un lunghissimo istante di silenzio, nel quale le sembrò di soffocare.

Inutile dire che la prima testa che notò fra quel mare di teste familiari, fu quella sempre biondissima di un Akito abbandonato contro il muro, con una mano nella tasca dei jeans e l’altra che reggeva un bicchiere quasi vuoto.

Stavolta il cuore le si fermò davvero. E, insieme al cuore, si fermò anche tutto il resto, tutto il mondo, tutte le persone in quella stanza che, di fronte al ciuffo biondo e sempre disordinato di Akito, parevano ora incredibilmente lontane.

Lui la guardò di rimando, negli occhi la solita aria di imperscrutabile indifferenza, prima di portarsi il bicchiere alle labbra per continuare a bere, incredibilmente tranquillo.

La prima cosa che pensò, non appena fu di nuovo in grado di concepire un pensiero, fu che il ragazzo, l’uomo, che le stava di fronte, proprio dall’altro lato della stanza, non era cambiato affatto.

Forse era un po’ più alto, e i capelli sembravano più lunghi. Per il resto, aveva esattamente lo stesso viso che ricordava. Gli occhi, quegli occhi così dannatamente belli, erano identici a quelli che, a volte, ancora la tormentavano, infestandole i sogni.

Poi accadde tutto in un istante, una frazione di tempo ancora più breve del battito di un cuore, e lui si staccò dal muro al quale stava poggiato e prese a camminare verso di lei.

Stregata da quella visione, neppure si accorse che al suo fianco, Naozumi era diventato improvvisamente teso.

- Ciao.

Disse Akito, non appena le fu abbastanza vicino, nella voce il solito tono freddo e distaccato.

D’istinto, lo guardò negli occhi e le venne spontaneo chiedersi come fosse possibile che due occhi come quelli, colorati come il sole, potessero invece essere freddi e taglienti come il ghiaccio.

- C.. ciao.

Balbettò, incerta e ancora frastornata dall’effetto che, nonostante i suoi innumerevoli buoni propositi, lui era ancora in grado di esercitare sul suo debole cuore.

Stupido, stupidissimo cuore!

Restarono per un po’ così, muti e immobili, mentre i loro occhi parlavano già di tutto.

Fu Naozumi a interrompere quella strana e surreale scenetta.

- Ciao, Hayama! Ne è passato di tempo, eh?

Akito a mala pena lo guardò, senza preoccuparsi di nascondere l’astio che aveva sempre nutrito nei suoi confronti.

- Già.

- Noto che sei sempre uno che ama parlare.

Akito neppure rispose. Quell’uomo aveva la capacità di farlo innervosire anche senza dire nulla, figuriamoci se si metteva anche a fare battute.

Oh, no. Non avrebbe retto oltre all’impulso irrefrenabile di togliere quello stupido sorrisino da quel faccino da pubblicità.

Quindi, per evitare di correre inutili rischi, decise che la cosa migliore da fare era allontanarsi da lui, o meglio…da loro.

Perché, si. Vederlo stringere con tanta vanità la mano di Sana non contribuiva certo a fargli passare la voglia di prenderlo a pugni.

Così gli diede le spalle e si avviò verso Tsuyoshi, che fin dall’inizio, preoccupato come al solito, aveva osservato tutta la scena e che lo attendeva paziente dall’altro lato del grande salone.

 

 

 

                                                                       ***

 

 

“- Fukachan, sai che ti voglio un sacco di bene e che sei la mia migliore amica, vero?

- Su, Sanachan, spara. Cosa devi chiedermi?

- Cosa ti fa pensare che dove chiederti qualcosa? Non posso semplicemente dirti che ti voglio bene?

Fuka alza le sopracciglia e scuote la testa, prima di picchiettare la spalla di Sana con dei piccoli buffetti affettuosi.

- Sanachan, ti conosco da troppo tempo per non sapere che quando inizi un discorso con frasi del tipo “sai che ti voglio bene” o “sei l’amica migliore del mondo”, devi chiedermi un favore.

- Uff… è così poca la fiducia che riponi nella tua cara amica?

- Proprio perché sei una “cara amica” certi tuoi atteggiamenti li capisco al volo.

Sana incrocia le braccia al petto, nascondendo un poco i piccoli fiorellini colorati disegnati sul minuscolo vestitino che ha scelto di indossare per quella che ama definire “una sana passeggiata tra amiche in compagnia di un po’ di sano shopping!”. Si, le chiama tutte così, le loro uscite pomeridiane. E Fuka ogni volta non può fare altro che sorridere, perché è assolutamente consapevole del fatto che Sana ha l’assurda tendenza di dare un nome ad ogni cosa. Nomi lunghi ed insensati, ovviamente.

- Ok, hai vinto! Volevo chiederti se potevi aiutarmi a studiare matematica, visto che gli esami di maturità sono pericolosamente vicini e io sono terribilmente indietro per colpa del mio lavoro.

- Sempre colpa del lavoro, eh?

- Cosa vorresti dire? Che è colpa mia se non ho abbastanza tempo per studiare come te?

L’espressione offesa che appare sul volto di Sana, per Fuka, è incredibilmente divertente.

- Assolutamente no, Sanachan! Cosa te lo fa pensare?

Scherza poi, sperando di farla arrabbiare ancora di più.

- Sono troppo felice per arrabbiarmi con te, quindi non proseguirò oltre questo argomento.

- Come mai così felice? C’entra qualcosa con il fatto che stamattina hai visto Akito?

Non c’è dubbio, l’espressione che assume Sana quando si parla di Akito è la migliore tra tutte le sue mille espressioni.

- No, non c’entra nulla. Sono felice perché oggi c’è un sole stupendo. Perché dev’essere sempre colpa di Akito se sono di buono o di cattivo umore?

Fuka si stringe nelle spalle.

- Forse perché è il tuo ragazzo e lo ami follemente?

- Oh, non è affatto vero. Lo amo come ogni ragazza ama il suo fidanzato.

Fuka la osserva girare il viso per nascondere il rossore che, di certo, le sta colorando le guance e non può fare altro che lasciarsi andare ad un sorriso.

A volte si ritrova a pensare alla fortuna che hanno avuto Sana e Akito. Insomma, devi stare proprio simpatico al destino se, a soli undici anni, ti ha fa incontrare l’amore della tua vita.

- Allora Fukachan, mi aiuterai a studiare oppure no?

La fortuna, comunque, deve aver baciato anche lei e Takaishi, visto che si sono conosciuti ancor prima di Akito e Sana.

- Certo, Sanachan. Non potrei sopportare il peso di non vederti passare l’esame per colpa mia.

E poi, altro favore per il quale ringraziare il destino o la fortuna, c’è l’amicizia che la lega a Sana e che l’ha fatta sentire parte di lei sin dal loro primo incontro.

Com’è che si dice? “Anime affini”.

- Ah, Fukachan…Guarda che, comunque, quello che ti ho detto prima lo penso davvero.

-  Dici così tante cose che mi perdonerai se non ricordo con esattezza ciò a cui ti stai riferendo.

- Spiritosa! Intendevo quando ti ho detto che ti voglio un sacco di bene. Dicevo sul serio, lo sai si?

La vede sorridere del suo sorriso migliore, bellissimo come solo un sorriso di Sana può essere.

- Certo che lo so. Ti voglio un sacco di bene anch’io, Sanachan.”

 

 

 

                                                                       ***

 

 

Quando la vide entrare, ebbe il fortissimo istinto di alzarsi dal divano e di correre ad abbracciarla forte, fortissimo. Di dirle che, nonostante tutto, nonostante il tempo, lei le voleva ancora un gran bene e che sarebbe stata per sempre la sua migliore amica.

Poi la vocina dentro di lei, chiamatela coscienza o razionalità, aveva parlato e le aveva caldamente suggerito che certe manifestazioni d’affetto non sarebbero state opportune. Specialmente se rivolte ad una di quelle persone alle quali nascondi un segreto grande come il mondo.

Quindi, era rimasta immobile sul divano, tra l’attesa e la paura che Sana si accorgesse della sua presenza.

Poi aveva visto Akito muoversi verso di lei e salutarla, nonostante la scomoda presenza di Naozumi, proprio nello stesso modo, con la stessa gelida freddezza, con cui aveva salutato anche lei poco tempo prima, non appena era arrivata alla festa.

Quando Akito si allontanò dalla coppia hollywoodiana, capì che era arrivato il momento. Che Sana si sarebbe irrimediabilmente accorta della sua presenza.

E infatti accadde che Sana girò il viso e, incontrando i suoi occhi, diede vita ad un bellissimo sorriso.

Il sorriso non l’hai perso comunque, vero Sana?

- FUKACHAN!

Urlò quasi correndo verso il divano sul quale stava seduta e gettandole le braccia al collo.

- Ciao, Sanachan..

- Mio Dio, Fukachan!! Come stai? Non sai quanto mi sei mancata! Cosa fai? Lavori? Sei andata all’università? Sei….

- Calma, calma Sana! Una domanda per volta…!

Scherzò, prendendole le mani per invitarla a prendere fiato.

Non hai perso né il sorriso, né la parlantina!

Sana rise, tirandosi un piccolo pugno sul capo e scombinando appena i capelli perfetti.

- Si, hai ragione. Scusa…

- Figurati! Ricordo bene quanto ami parlare!

Cercò di non fare caso a quella strana sensazione che provò nel dire quelle parole. Perché le sembrò che ricordare i tempi in cui le sue giornate erano piene delle parole a raffica e spesso insensate della sua ex migliore amica ( non era forse così, dopotutto?) le facesse venire una fottutissima voglia di piangere.

- Allora… prima domanda: come stai?

Fuka rise di gusto. Si, era incredibilmente bello riempirsi le giornate dei discorsi assurdi di Sana.

- Oh, sto benissimo. Me la cavo. E tu? Vedo che ti sei sistemata bene!

Le disse, facendo l’occhiolino e muovendo il capo in direzione di Naozumi che parlava allegramente con Aya.

Sana arrossì.

E non hai perso neanche il vizio di arrossire, quando si parla di sentimenti.

- Bè diciamo che non mi lamento. E tu?

- Io cosa?

- Voglio dire… tu e Takaishi?

Fuka abbassò lo sguardo. Dopotutto, sapeva che prima o poi gliel’avrebbe chiesto.

- Ci siamo lasciato molto tempo fa.

- Oh!

- Tranquilla. È tutto passato, ormai. Eravamo…. Come si dice? Incompatibili!

Sana aggrottò le sopracciglia, pensierosa. E Fuka si ritrovò a pensare che se una notizia del genere gliel’avesse data una diecina di anni prima, avrebbe dovuto fare fuoco e fiamme per fermare le urla isteriche che, ne era certa, Sana avrebbe lanciato.

Ma sei una donna, ora. E una donna cresciuta certe cose non le fa più, vero?

- Strano… avrei scommesso che sareste stati insieme per sempre!

- Le cose cambiano, Sana.

- Lo so…

Però sarebbe bello tornare indietro.

- E poi, sai, ho perso una scommessa anch’io.

- Ah, si? Su cosa avevi scommesso?

Almeno in questo non era cambiata. Nel capire certe cose sarebbe stata sempre incredibilmente lenta.

- Su te e Akito.

Nel silenzio che seguì la sua risposta, avrebbe potuto giurare di aver sentito distintamente qualcosa spezzarsi nel petto della donna che le stava di fronte.

E non seppe capire bene cosa fosse, se imbarazzo, sorpresa o nostalgia, la smorfia alla quale Sana diede vita, nella speranza, forse, di farla somigliare ad un sorriso.

 

 

 

                                                                      

                                                                       ***

 

 

 

Il resto della serata passò senza lasciare segni troppo evidenti, ma solo se per “evidenti” intendiamo i segni visibili agli occhi degli altri.

Perché, anche se non erano stati evidenti, le risate forzate di Sana, gli sguardi nascosti di Akito e l’espressione finta serena di Fuka, un segno dovevano averlo lasciato per forza.

Comunque nessuno, a parte loro tre, si era accorto di nulla.

Meglio così. Almeno le apparenza erano riusciti a salvarle.

 

 

 

                                                                       ***

 

- Come ti sono sembrati?

- Di chi parli?

- Di Sana e Akito ovviamente!

Si strinse nelle spalle, continuando a spazzare il pavimento per liberarlo dai segni lasciati dalla festa appena terminata.

- Mah… come sempre.

- In che senso?

Le sorrise un poco.

- Innamorati.

L’espressione che poi vide sul volto di Aya gli fece capire che anche lei aveva avuto la sua stessa impressione.

 

Forse non erano stati poi così bravi neppure a salvare le apparenze.

 

 

 

                                                                       /*/

 

Nota dell’autrice: Finalmente sono riuscita a descrivere i vari “incontri”.. xD mi è piaciuto parecchio scrivere questo capitolo, perché è pieno di pensieri introspettivi dei protagonisti e io amo scavare nelle teste dei personaggi delle mie storie (anche se, in questo caso, si tratta di pensieri quasi tutti abbastanza tristi.. xD).

Per qualsiasi domanda o curiosità, aspetto le vostre recensioni! J

E, ovviamente, il solito “grazie” a chi continua a dirmi sempre quello che pensa. Siete voi che mi spronate a continuare!

A presto.. ^-^

 

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Capitolo 6
*** CAPITOLO SEI: BUGIARDA ***


Welcome To PageBreeze

Via con il sesto capitolo! ^-^

 

 

CAPITOLO SEI: BUGIARDA

 

 

Avrebbe fatto qualsiasi cosa, si sarebbe spogliata di qualsiasi cosa, se solo fosse servito per evitarle di vedere l’espressione che invece vide sul volto di Naozumi quando, appena usciti da casa di Aya e Tsuyoshi, spinta da una forza che non credeva di avere –che non voleva avere- , incrociò il suo sguardo e gli disse semplicemente “Nao, devo parlare con lui”.

Lui capì, come sempre. E come sempre le sorrise, mascherando la paura folle che ancora aveva di lui.

- Ti aspetto sveglio, Sana.

Le disse poi, abbracciandola forte, forse per ricordarle quanto lui la amasse.

Come se già non fosse abbastanza chiaro.

Come se già non bastasse guardare un istante nei suoi occhi azzurri per capire che Naozumi Kamura amava Sana Kurata in un modo che molte persone non riescono neppure a concepire. Ed era proprio per questo, perché Sana sapeva che per lei Naozumi avrebbe fatto qualsiasi cosa, che quando si staccò dal suo abbraccio per avviarsi verso un Akito che, ignaro di tutto, si stava allontanando lentamente verso casa,  sentì l’irrefrenabile bisogno di chiedergli scusa. E su quel “Mi dispiace” , sussurrato così piano che forse lui neppure riuscì a sentirlo, gli diede le spalle e corse via.

 

 

 

                                                                       ***

 

 

Nel brevissimo tratto di strada che la separava da Akito, l’unica cosa che il suo cervello riuscì ad elaborare fu un confuso “Ma che diavolo gli dico?”

A quella domanda, alla quale ovviamente non seppe trovare risposta, ne seguirono moltissime altre.

In effetti, c’era qualcosa che voleva chiedergli. Tante, tantissime cose.

Per esempio, le sarebbe piaciuto sapere se praticava ancora il karate.

Se si era fatto nuovi amici o se, cosa molto più probabile, le sue amicizie iniziavano e finivano con Tsuyoshi. E se era ancora solo con lui che si sfogava quando era arrabbiato.

Poi avrebbe voluto sapere anche com’erano stati, quei quattro anni… cos’aveva fatto, come aveva passato le giornate, senza di lei.

Se, - e le sembrò di tremare al solo pensiero-, aveva conosciuto qualche ragazza.

Se baciava ancora bene come ricordava. Se era ancora dannatamente bello, quando faceva l’amore.

Se qualcun’altra l’aveva notata, quella piccolissima piega che gli corrugava la fronte mentre sognava.

Se altre mani, mani sconosciute, aveva toccato i suoi capelli biondi e conosciuto il suo corpo perfetto, sfiorando quel neo sul fianco che lei aveva baciato un milione di volte.

 

- AKITO!

Lo chiamò, per attirare la sua attenzione.

 

Ma si, qualcosa da dirgli l’avrebbe trovata.

 

 

                                                                       ***

 

Nel sentirsi chiamare, lui fermò la sua avanzata e si voltò di scatto, spalancando gli occhi, sorpreso di vedere chi era la persona che l’aveva appena chiamato. O sorpreso per il fatto che quella persona era sola, senza quel dannato damerino.

- A.. Akito…

Ripeté lei, muovendo qualche timido passo per avvicinarsi a lui. Quando gli fu di fronte, lo guardò negli occhi per un interminabile istante e si sentì una stupida per aver chiesto a Naozumi di andare via. Perché davvero, non sapeva cosa diavolo ci fosse da dire.

E di certo il modo in cui Akito la stava guardando, - come se stare lì con lei fosse l’ultima cosa al mondo che gli interessasse-, non l’aiutava affatto.

- Cosa vuoi?

Le chiese, il tono di voce meno scocciato di quanto volesse far credere.

- I.. io.. volevo parlarti. Facciamo due passi, ti và?

- Veramente…

- Ti prego. Solo due passi.

Quasi lo implorò.

Vide lo sguardo di Akito addolcirsi leggermente, prima che lui iniziasse a camminare, senza dire una parola. Istintivamente lo seguì, pensando che quel suo silenzio volesse dire che era d’accordo.

Camminarono l’uno accanto all’altra per un po’, senza che nessuno dei due avesse il coraggio di iniziare una conversazione. O meglio, lui non ci pensava neppure ad iniziarla.

Dopotutto, non era forse lei che gli aveva chiesto di parlare?

Forza, Sana. Da quando ti mancano le parole?

Prese un profondo respiro e si strinse nelle spalle, cercando di non far caso al freddo che c’era quella notte.

- E così Hisae e Gomi si sono sposati, eh? Tu lo sapevi?

Oh, brava, Sana! Bel modo di iniziare una conversazione!

- Si.

- Come mai nessuno me l’ha detto?

Akito fece spallucce.

- Forse perché nessuno sapeva come rintracciarti e in che parte del mondo fossi finita.

Colpita e affondata!

- Questo è vero, comunque…

Lui si fermò di scatto, guardandola truce.

- Mi hai raggiunto per parlarmi di Gomi e Hisae?

- N.. no.

- Lo spero, perché altrimenti la passeggiata termina qui.

Al diavolo! Era riuscita a farlo irritare nel giro di cinque secondi. Si sentì sciocca, e fuori luogo.

Per un attimo, desiderò davvero concludere lì quella breve passeggiata per tornare a casa da Naozumi che, di certo, la stava aspettando preoccupato.

Però non lo fece, perché ogni parte di lei, anche la più piccola e nascosta, desiderava restare lì, su quella strada quasi deserta, a notte inoltrata, per camminare accanto ad Akito.

E avrebbe potuto passare ore intere anche senza dirgli nulla, solo per sentirlo respirare.

Non farlo, Sana. Non ricordarti com’era…

Comunque, con molta probabilità, lui non la pensava allo stesso modo e, se non si fosse finalmente decisa a parlare di qualcosa di sensato, sarebbe andato via in fretta.

- Akito…

Il mugugno che uscì dalle labbra di lui, la convinse a continuare.

- Come stai?

- Cosa?

- Si insomma, come… come te la passi? Come ti và… la vita?

- Và…

Tipiche risposte di Akito che, accidenti a lui, non era affatto cambiato.

- Oh, Akito! Possibile che tu non abbia niente da dirmi? Raccontami qualcosa!

- Cosa vuoi sapere?

- Qualsiasi cosa…

- “Qualsiasi cosa” è un argomento troppo generico.

Ecco, in quel momento ebbe voglia di strangolarlo. O di tirare fuori il piko per prenderlo a martellate, come faceva un tempo.

- Ok, Akito. Probabilmente tra un secondo mi pentirò di quello che sto per chiederti, perché avevo     

promesso a me stessa che non avrei toccato l’argomento neppure sotto tortura, però… però ora mi sembra l’unica domanda possibile.

Senza sapere il motivo, si fermò di scatto e abbassò il viso.

- ... Com’è stato dopo che sono andata via?

Lui spalancò gli occhi. Di certo non aveva gradito la domanda. Ma, nel vederla così incredibilmente indifesa, non poté fare a meno di dirle la verità.

- Come se ogni minuto qualcuno mi sbranasse il cuore.

Era vero. Avrebbe voluto dirle molto di più, però. Per esempio, che ogni giorno era stato come girare a vuoto, percorrere una strada che conduceva ad un vicolo cieco. Perdersi nei minuti di una vita che non sembrava più sua, perché la sua se l’era portata via lei, il giorno in cui era salita su quel maledetto aereo.

Comunque, non gli sembrò il caso di renderla partecipe di ciò che aveva provato. Lei che il suo dolore non lo meritava neppure.

Sana finalmente alzò lo sguardo per incrociare quello di Akito e tremò, - si, tremò davvero-, nel vedere che quegli occhi dorati somigliavano tanto a quelli che l’avevano guardata infinite volte.

Quelli si, che erano gli occhi del suo Akito.

Si, Sana.. ma non avevi detto che era meglio non ricordare?

- Mi hai mai perdonata?

- Per cosa?

Gli si avvicinò e, senza sapere per mezzo di quale strana forza avesse agito, alzò una mano fino a sfiorargli il viso. Mossa sbagliata! Perché non appena le sue dita furono a contatto con quella pelle così familiare, si sentì morire.

- Per essermene andata… per non aver avuto il coraggio di restare con te.

Quando, di preciso, aveva iniziato a piangere, non lo sapeva. E non sapeva neppure come fare per fermare quelle lacrime.

- Non c’è niente da perdonare. Ormai è tutto passato.

Passato…

Com’era possibile che quelle parole, invece di consolarla, le fecero aumentare la voglia di piangere?

Si sforzò di ricacciare indietro le lacrime, per dimostrare a se stessa che Akito non sortiva più il minimo effetto su di lei.

Quindi si ricompose, asciugandosi il viso con il dorso della mano che, intanto, aveva già abbandonato il viso di Akito.

- Forse hai ragione. Forse non c’è niente da perdonare, però… però sento lo stesso il bisogno di chiederti scusa…

- Ti ho già detto che non è affatto necessario.

- Si, me l’hai già detto. Ma non potresti solo accettare le scuse senza dover sempre ribattere?

Ok, ora era irritata. Incredibile come avesse la capacità di cambiare umore nel giro di pochi secondi.

Però era strano, perché certe cose le succedevano solo se davanti a lei c’era Akito. Naozumi invece, il suo bellissimo e dolcissimo Naozumi, aveva il potere di trasmetterle una serenità inaudita.

- Come ti pare…

Rispose lui, prima di darle le spalle per andare a sedersi su una panchina poco distante.

Sana lo seguì, anche perché in effetti cominciava a non poterne più di camminare su quei tacchi altissimi, e, in silenzio, gli si sedette accanto.

 

Restarono così, immobili, senza dirsi una parola per moltissimi minuti.

Poi, casualmente, entrambi alzarono lo sguardo e i loro occhi si incontrarono ancora.

E Sana sentì un calore quasi dimenticato, eppure tanto familiare, impossessarsi del suo petto. Presa da una strana e inspiegabile paura, distolse lo sguardo per rivolgerlo alle deboli luci dei lampioni che illuminavano la panchina sulla quale erano seduti.

- Certo che non l’hai perso mai…

Tornò a guardarlo, stupida dal fatto che fosse stato lui, stavolta, a parlare per primo.

- Cosa?

- Il vizio di arrossire quando ti guardo.

Istintivamente, si portò le mani sulle guance, colpevole. E forse neppure si accorse del tono amaro con cui Akito aveva pronunciato quelle parole.

- Oh, non è affatto vero, Akito!

- Si che lo è.

- Visionario.

- Bugiarda.

Le sembrò di scorgergli sul viso una smorfia molto simile ad un sorriso. Magari flebile, flebilissimo, ma pur sempre un sorriso.

E le venne una voglia matta di sorridere a sua volta. E di abbracciarlo.

- Se è per questo, Akito, neanche tu l’hai perso mai.

- Cosa?

- Il vizio di guardarmi in quel modo.

Sembrò seriamente stupito.

- Quale modo?

- Come quando… mi amavi.

Di nuovo, Akito si lasciò andare ad un mezzo sorriso.

Si, aveva voglia di sorridere. Di abbracciarlo. E di piangere.

- Visionaria.

- Bugiardo.

A mala pena, riuscì a respirare.

 

 

 

                                                                       ***

 

 

Camminava avanti e indietro nella stessa stanza, - che, per inciso, era l’ingresso della casa d’infanzia di Sana-, da un tempo che gli sembrava infinito.

Nervoso, diede l’ennesima occhiata al suo orologio.

Erano passate quasi due ora da quando l’aveva lasciata e ancora lei non tornava.

Si maledisse una, due, cento volte, per aver acconsentito anche a quella richiesta. Dopotutto, sarebbe bastato dire un semplice “Sana, mi dispiace. Non voglio che parli con lui.”

Era o non era il suo ragazzo? Avrebbe dovuto dirle che si era sentito morire già dal momento in cui avevano deciso di fare ritorno a Tokyo. Vederla davanti a lui, mentre, con occhi imploranti, gli chiedeva di capirla, di capire che aveva bisogno di parlare con quell’Hayama, era stato il colpo di grazia.

Cazzo, Naozumi! Sei un uomo! Ricaccia indietro quella voglia di piangere!

No, non doveva pensare al peggio. Dopotutto, dove stava scritto che Sana l’avrebbe lasciato per tornare con Hayama? Il solo fatto che, dopo ben quattro anni, aveva sentito il bisogno di parlare con lui, non voleva assolutamente dire nulla.

Non era stata una fidanzata perfetta per tutto il tempo passato a New York?

Si, che lo era stata. E, in quei quattro anni, il fantasma di Akito non era mai tornato a tormentarlo.

Sana era la sua donna e, in quanto tale, era di lui che era innamorata.

Hayama apparteneva al passato. Un passato ingombrante, certo. Ma pur sempre passato.

E allora non c’era proprio niente di cui preoccuparsi.

 

 

 

                                                                       ***

 

 

Percorrere la strada che conduceva alla sua vecchia casa, avendo Akito al suo fianco, era indubbiamente uno strano scherzo del destino.

“Ironia della sorte!”, le venne da pensare.

 

- Da quanto tempo non ti riaccompagno a casa, eh?

Sorrise, amara.

- Sembra un’infinità.

- E’ un’infinità.

A volte in effetti, quei quattro anni, erano sembrati millenni.

- Akito…

- Mmm…?

- Ti.. ti squilla il cellulare, credo…

Mise una mano in tasca ed estrasse il cellulare che, effettivamente, stava squillando.

Lesse il nome del chiamante sul display, assunse un’indecifrabile espressione, e si allontanò di qualche passo, facendo segno a Sana di aspettarlo lì.

Lei avvertì una strana sensazione e una folle voglia di sapere chi diavolo chiamasse Akito a quell’ora di notte.

Sarà una ragazza?

Al pensiero, le sembrò che le gambe iniziassero a cederle.

Smettila, Sana! Non fare la bambina!

 

Dopo qualche minuto, finalmente Akito concluse la telefonata. Lei lo osservò e, senza pensarci due volte, glielo chiese.

- Chi era?

Lui la guardò, sorpreso e confuso per quella domanda così diretta. O forse solo per la sfacciataggine con la quale Sana gliel’aveva posta.

- Non credo siano affari tuoi.

- Lo so, ma…

- Niente ma, Sana! Non sono affari tuoi!

- Lo so benissimo che non sono affari miei, Akito! COSA CREDI?

Il tono della sua voce si era involontariamente alzato.

- … ma non potresti…

Abbassò il volto, perché non aveva nessunissima intenzione di supplicarlo guardandolo negli occhi.

- … dirmelo lo stesso…?

- Vuoi davvero saperlo?

- S.. si.

- Bene. Era una ragazza. Vuoi che ti dica anche come si chiama? Si chiama Naoko! Contenta?

Se solo avesse potuto, sarebbe tornata indietro, avrebbe riavvolto il nastro di pochi minuti, giusto il tempo di evitare di fargli quella stupida domanda.

Dio, che sciocca!

Chissà per quale assurdo motivo era convinta che non ci fosse nessuna ragazza.

Ovviamente, aveva sbagliato.

- Ci stai insieme? È la tua ragazza?

- Oh, andiamo! Ora smettila!

Si, Sana. Smettila!

- Ma non puoi dirm..

- ORA BASTA! CHE CAZZO VUOI SAPERE, KURATA?

Era a dir poco furioso.

- Vuoi sapere se ci sto insieme?? Se me la sono portata a letto? VUOI SAPERLO? BE’ LA RISPOSTA E’ SI! ME LA SONO PORTATA A LETTO! E NON E’ STATA L’UNICA! SODDISFATTA?

Soddisfatta? Poteva definirsi tale? Era “soddisfazione” quello che sentiva? O era il suo cuore che veniva fatto a pezzi?

Stavolta proprio non ci riuscì, a trattenere le lacrime.

- Cammina!

Le ordinò cattivo,- si, proprio cattivo-, scuotendola per un braccio, mentre ingaggiava una lotta contro se stesso per non far caso alla voglia matta che aveva di abbracciarla e di asciugarle le lacrime.

Aveva sempre odiato vederla piangere. Ogni volta che pensava a lei, - il che, nonostante tutto, avveniva ancora troppo spesso-, la immaginava con il suo migliore sorriso. Quello luminoso, caldo. Così inequivocabilmente suo.

Nel sentirsi trascinare, lei si riscosse, strattonando il braccio per liberarsi dalla presa di Akito.

Lui se ne accorse, ma non la lasciò.

- Andiamo, ti porto dal tuo ragazzo.

Le disse poi, marcando con un maggiore astio le ultime due parole, senza degnarla di uno sguardo e continuando a trascinarla.

Sana, nel sentire la frase pronunciata da Akito, si imbambolò, aprendo la bocca, sorpresa.

Già, il suo ragazzo.

Il viso tranquillo e sempre sorridente di Naozumi tornò prepotente nella sua mente, facendola sentire una persona orrenda.

Come aveva potuto non pensare a lui? A lui che, di certo, la stava aspettando, più preoccupato che mai?

Che diavolo aveva in testa quando aveva deciso di intromettersi nella vita privata di Akito con quelle domande inopportune?

Ma, soprattutto, perché il cuore continuava a farle un male cane?

Con la mente tartassata da domande, neppure si accorse che erano già arrivati,- o meglio, che Akito l’aveva trascinata-, di fronte la sua vecchia casa.

Non appena il grande cancello si stagliò di fronte a loro, Akito mollò la presa.

- Bene, Kurata. Direi che la nostra passeggiata termina qui.

Perentorio, come sempre. E senza attendere la sua risposta, le diede le spalle e iniziò a camminare.

- Aspetta, Akito!

No, Sana. Lascia che vada via…

Lui, comunque, si fermò, continuando a mostrarle la schiena.

- … so che c’è il matrimonio di Aya e Tsu, ma dopo la cerimonia…insomma… puoi dirmi se è con lei, con quella ragazza di prima, che…

Non farlo! Non renderti ridicola!

-… passerai la notte di Natale?

Bastò un istante, un secondo soltanto, e già si pentì di averglielo chiesto.

Dopotutto, che diritto aveva lei di sapere con chi Akito, - il suo ex, e odiato, compagno di classe, ex amico, ex fidanzato, ex centro del suo mondo-, passava il Natale?

“Ex”, Sana, sta proprio a significare che di certe cose non dovresti interessarti più.

Oh, accidenti!

E poi perché lui si era voltato e stava avanzando verso di lei senza dire nulla?

Credeva che guardarla in quel modo, con quei dannatissimi occhi, sarebbe servito a qualcosa?

Maledetto lui, che non smetteva di fissarla. E maledetta lei che, ancora, in quegli occhi d’oro vedeva il mondo intero.

Cercava di farla sentire in colpa? Di farle del male? Di ferirla?

Forse. O forse stava male anche lui, anche lui si sentiva impazzire, al pensiero che anche questo Natale li avrebbe visti separati.

Sei per caso impazzita? Hai passato gli ultimi natali con Akito? No, Sana! Li hai passati con Naozumi, ricordi?

Si, era vero. Però, da egoista qual era, aveva badato solo al dolore provato nel pensare che Akito potesse passare il Natale con qualcun’altra.

Forse anche Akito si è sentito così quando ha saputo di me e Naozumi.

Considerazione scontata, la sua.

Akito, intanto, aveva ancora quello sguardo. E Sana pensò che avrebbe dato qualsiasi cosa per sapere cosa si ci nascondeva dietro.

Po lui finalmente rispose. Secco, laconico, monosillabico.

- No.

Due lettere. E lei capì.

Quello sguardo voleva solo dire che lui, almeno lui, non era ancora pronto per passare il Natale con qualcun’altra.

E bastò per farla sentire egoista. E vigliacca.

Non posso più stare qui. Non posso più…guardarlo.

Così, fedele al suo egoismo e alla sua vigliaccheria, gli diede le spalle e, senza neppure salutarlo, corse via, con in bocca il sapore amaro delle sue lacrime.

 

 

 

                                                                       ***

 

-C’hai mai pensato al fatto che la vita è strana?

La guarda, senza rispondere. Sa che non servirebbe, perché quella è una delle solite domande alle quali Sana risponde da sola. Quelle che ogni tanto si pone, quando la sua mente è presa a farneticare su quel genere di discorsi che solo lei stessa è in grado di capire.

- … Voglio dire, hai mai pensato all’eventualità che potremmo non passare insieme il prossimo  Natale?

Si stringe nelle spalle, posizionandosi meglio sul divano del salone, sotto l’enorme plaid di lana che Sana, la ragazza più freddolosa del mondo, gli ha praticamente costretto a tirar fuori dall’armadio.

- Come ti vengono in mente certe cose?

- Non si risponde ad una domanda con un’altra domanda, lo sai Akito?

- Ah, no? E come dovrei rispondere ad una domanda del genere?

Lei sbuffa, finta irritata, e si accoccola meglio tra le braccia del suo ragazzo.

- Per esempio potresti dire che non passerai mai il giorno di Natale con qualcun’altra…questa si che sarebbe una bella risposta!

- Sei in cerca di romanticherie, Kurata?

Le chiede, guardandola come solo lui sa guardarla. Sana si lascia andare ad un piccola risata divertita. Eccolo svelato, il motivo di quella domanda.

- Mmm… e se anche fosse? Potresti assecondarmi almeno per una volta, no?

Sbuffa, mettendo su il suo inconfondibile broncio. Akito alza gli occhi al soffitto e scuote la testa.

Poi, nel vederla così vicina al suo viso, non può fare altro che baciare quelle labbra rosse e invitanti.

- Perché devi fare sempre così, Akito?

Chiede staccandosi da lui,- dopo qualche minuto, in verità-, incrociando le braccia nella speranza di mostrarsi offesa.

- Oh, e và bene, Kurata! Prometto…

Le si avvicina di nuovo, sorridendo. E Sana si rende conto che non c’è niente al mondo più bello del sorriso di Akito.

- … che non passerò mai il Natale con qualcun’altra. Contenta?

Il sorriso splendido che si spalanca sul volto di Sana e l’irruenza con la quale poi gli si getta tra le braccia, valgono indubbiamente come un convintissimo“si”.

 

 

Prese a pugni il muro dell’ingresso, non appena mise piede dentro casa.

Neppure fece caso ai graffi che gli sfiguravano il dorso della mano. O al sangue che gli colava dalle dita e che gli macchiava i polsi del maglione.

Nella sua mente solo una furiosa rabbia.

La stessa che aveva provato quando si era reso conto che era stata lei, bugiarda, ad infrangere quell’antica promessa.

 

 

                                                                       ***

 

Per quanto si sforzasse, quella notte proprio non ci riusciva proprio a prendere sonno.

Indubbiamente, ricordare l’immagine di Sana che tornava a casa, con gli occhi gonfi e rossi, non contribuiva a renderlo tranquillo.

E poi, anche il fatto che lei non gli avesse dato la minima spiegazione e che si fosse messa a letto senza guardarlo negli occhi, non era certamente un buon segno.

Per lo meno, dopo qualche minuto di teso silenzio, l’aveva chiamato chiedendogli di sdraiarsi accanto a lei.

Almeno mi vuole accanto…

Magra consolazione.

- Sana…?

Non ottenne risposta.

- Sana, dormi?

Lei scosse la testa, e i suoi capelli provocarono un leggero fruscio sul cotone del cuscino.

- Nemmeno io. Senti… prima hai pianto vero?

- N.. non.. ne voglio parlare.

- Sana! Ho il diritto di sapere cos’è successo, non credi?

Si, aveva indubbiamente il diritto di sapere cosa era successo tra la sua ragazza, la donna che amava praticamente da sempre, e l’uomo che più di tutti temeva al mondo.

Lei parve notare la difficoltà con cui Naozumi le fece quella domanda, così come parve accorgersi anche del tremore che ne caratterizzò ogni sillaba.

- Scusami, Nao…

- Non voglio che tu ti scusi! Voglio solo che mi dica cosa è successo…

La vide girarsi nel letto, forse per cercare il suo viso.

- Hai ragione. Ho pianto.

Era già arrivato a questa conclusione,- gli occhioni gonfi erano stati un illuminante indizio-, eppure quelle parole gli fecero un male atroce.

- P.. perché?

- Perché sono un’egoista. E una bugiarda.

- Una bugiarda?

- Come la chiameresti una persona che non tiene fede ad una promessa?

Non rispose, seguendo quella parte di cuore, o di cervello, che gli urlava di non indagare oltre.

Lei si girò di nuovo, dandogli le spalle, e poi, probabilmente, si addormentò.

 

 

 

                                                                       ***

 

- Fuka è già andata a dormire?

- Credo di si. È chiusa nella camera degli ospiti da un bel po’.

Si tolse gli occhiali, poggiandoli sul comodino accanto al letto, prima di raggiungere la sua futura sposa sotto il caldo tepore delle coperte.

- Senti, Tsu… non ti è sembrata un po’ strana?

- Strana? in che senso?

- Mah… non lo so. Soprattutto con Akito… non l’hai quasi mai guardato.

Nel buio della camera da letto, cercò gli occhi di Aya.

- Ma no, tesoro. È normale che dopo tutto questo tempo ci sia un po’ di imbarazzo.

- Ne sei convinto?

Le sorrise, carezzandole il capo, per farla poggiare sul suo petto.

- Certo.

La sentì tirare un mezzo sospiro.

- Ok, allora sono convinta anch’io.

 

 

 

                                                                       /*/

 

Note dell’autrice: Perfetto, eccoci giunti alla fine del sesto capitolo! Devo ammettere che è stato il capitolo più difficile da scrivere fin’ora. Il confronto tra Sana e Akito mi ha messo un bel po’ in difficoltà. Spero di essermela cavata abbastanza bene, comunque. Questo, però, potete dirmelo solo voi nelle vostre recensioni! ^-^

I soliti ringraziamenti a chi continua a seguirmi, perché mi aiuta a mantenere intatta la mia voglia di scrivere!

A presto! ^-^

 

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Capitolo 7
*** CAPITOLO SETTE: BATTICUORE ***


Welcome To PageBreeze

Salve a tutti!!! ^-^ Via con il settimo capitolo!

 

 

 

CAPITOLO SETTE: BATTICUORE

 

 

La mattina dopo, si svegliò con un nodo in gola e con un macigno sullo stomaco.

Ovvio, visti gli avvenimenti della nottata precedente.

Ma era comunque spaventata, perché quello stato d’animo era mille volte peggio di quanto si aspettasse.

Una paura strana. Paura di qualcosa che le si era infilato dentro, incastrandosi forzatamente nelle pieghe della tristezza e della nostalgia che si erano impossessate di lei da quando aveva rivisto il volto di Akito.

Che poi era strano, perché le sembrava di averla già provata, quella sensazione.

Senza la tristezza e la nostalgia, però. Solo quella sensazione, che già in passato,- un passato remoto, andato, sepolto-, le aveva incasinato il cuore.

Era tornato ancora, quello stupido batticuore, proprio come all’inizio di tutta la storia. Quando, in un giorno qualunque, sulla strada di casa dopo la scuola, l’aveva sentito per la prima volta.

 

 

“- ECCOME SE TI ODIO, AKITO HAYAMA!!

Urla, come al solito. E come al solito non si rende conto di essere su una strada, in mezzo a centinaia di persone. E, per lo più, di stare parlando completamente sola.

Ma che ci può fare se anche oggi quello stupido l’ha fatta arrabbiare?

Insomma, non è mica colpa sua se le uniche parole che le riserva quello che, in teoria, dovrebbe essere il suo migliore amico sono “stupida”, “gallina” e altri insulti che di “amichevole” hanno decisamente poco!

Mentre è impegnata a farsi rodere il fegato dalla rabbia, un bambino le sfiora involontariamente una gamba. Si gira per guardarlo, lui sorride e poi và via, con la piccola manina stretta in quella della donna che dovrebbe essere sua madre.

L’ha visto un attimo appena, giusto il tempo di notare che quel bambino ha i capelli dello stesso colore di quelli di Hayama.

Allora si concede di pensare un po’ al suo migliore amico, perché la rabbia le pare già un po’ diminuita. Pensa alle sue espressioni imbronciate, ai loro quotidiani scambi di battute.

Poi le vengono in mente quegli occhi dorati e d’improvviso la rabbia sparisce.

Si ritrova a sorridere da sola come una stupida ed ha un po’ paura.

Perché quello strano batticuore proprio non riesce a capirlo.”

 

 

 

                                                                       ***

 

 

Prese un profondo respiro, mentre lo specchio di fronte a lei rifletteva la sua immagine.

In fondo, era stata brava.

La festa era trascorsa senza particolari intoppi e non c’erano state domande indiscrete alle quali, ne era certa, non avrebbe saputo rispondere.

Rivederlo era stato strano. Non bello, non brutto. Solo terribilmente strano.

Non appena l’aveva salutato, - notando che il tempo era passato, ma lui era ancora più bello di quanto ricordasse-, quasi aveva avuto voglia di dirglielo. Di svelare il segreto che per sempre le avrebbe permesso di tenerlo legato a sé.

Poi si era ricordata quanto fosse orribile avere la sensazione di stare con qualcuno che non ti lascia solo perché è troppo altruista, o troppo vigliacco, per prendere una decisione.

Sorrise, ironica.

Ancora, come quand’erano appena adolescenti, era Akito l’uomo che le rovesciava la mente.

Rivedere Sana, invece, era stato bello. Bello e doloroso allo stesso tempo. Bello rivedere quegli occhioni cioccolato, quel sorriso che con il tempo era, forse, meno spontaneo, ma sempre contagioso. Bello risentire la sua risata.

Doloroso era stato, invece, rendersi conto di quanto il tempo le avesse separate, portandole in due mondi completamente opposti.

 

- Fukachan, sei sveglia?

Da dietro la porta della camera degli ospiti, Aya la chiamò.

- Si, mi sono appena svegliata!

- Perfetto. Allora scendi così preparo la colazione.

 

Eppure, nonostante a separare il suo mondo da quello di Sana ci fossero una valanga di segreti e bugie, oltre che migliaia di chilometri, ci sarebbe stato sempre qualcosa a tenerle legate.

Non l’affetto o i ricordi, no. La vita non era certo così sdolcinata.

A legarle c’erano quelle vicissitudini,- scherzi di cattivo gusto concepiti da un destino beffardo- che, per amore o per semplice follia, avevano fatto di Akito Hayama il centro esatto del loro universo.

 

 

***

 

 

- Sana, ti và di uscire a fare una passeggiata?

Se le andava? Ovviamente no.

Se avesse potuto scegliere, sarebbe rimasta tutto il giorno chiusa in casa, rigorosamente barricata sotto le coperte, nel buio e nel silenzio più totali, per cercare di liberarsi dal senso di colpa che la stava distruggendo e che le bloccava il respiro se pensava all’assurda e patetica scenata fatta ad Akito la notte prima.

Che la faceva sentire la persona peggiore del mondo se guardava Naozumi negli occhi e dentro ci vedeva solo la paura che aveva di perderla.

Paura che lei, di certo, non contribuiva a far sparire.

Se chiedere scusa fosse stato sufficiente, l’avrebbe fatto mille, un milione, un miliardo di volte.

Tutto, purché Naozumi tornasse a fidarsi di lei.

- Si, ok. Usciamo.

Al fatto che forse, invece, era lei, per prima, a non avere fiducia in se stessa, non c’aveva ancora pensato.

 

 

                                                                       ***

 

 

Imprecò contro il fato, il destino, la sorte e anche contro ogni possibile ed eventuale Dio, non appena se la ritrovò di fronte, a pochi metri da lui, mentre sorrideva amabilmente a quell’idiota di Kamura.

Possibile che fra tutte le strade della città, fra tutti i possibili posti da vedere, quei due avessero scelto di passare la mattinata proprio lì, a passeggiare sulla strada che, per forza di cose, lui era costretto a percorrere essendo l’unica che dal supermercato riconduceva a casa sua?

Bella mossa, destino del cavolo! Questa giuro che me la paghi!

Preso com’era ad imprecare contro ogni entità soprannaturale che fosse mai stata concepita dalla mente umana, non si accorse che la coppietta in questione stava avanzando tranquilla verso di lui.

Ebbe un moto di stizza, nel ritrovarseli a pochi centimetri.

- Ciao, Hayama.

Lo salutò Naozumi, tranquillo.

Sana, invece, a mala pena alzò lo sguardo. Evidentemente, i ricordi della litigata della nottata precedente ancora la tormentavano.

- Kamura.

Rispose, guardandolo un attimo e girando il capo, già intenzionato ad allontanarsi il prima possibile da quella ridicola scenetta.

- Hai fretta, Hayama?

Chiese Naozumi, bloccandolo istintivamente per un braccio.

Nel sentire quel contatto alquanto indesiderato, Akito si voltò e mise su lo sguardo più furente del suo repertorio. L’altro, dal canto suo, non si era ancora tolto dal volto quel sorrisetto fastidioso.

Raccogliendo tutto il suo autocontrollo, Akito decise di non dare retta alla vocina nella sua testa che lo spingeva ad assestargli un bel pugno sulla faccia per farlo sparire, quel dannato sorrisino felice.

- Già.

Rispose soltanto, liberando il braccio dalla presa di Naozumi, che non oppose la minima resistenza.

- E’ un peccato, perché volevamo invitarti a bere qualcosa con noi.

Gli occhi di Sana si spalancarono all’unisono con quelli di Akito.

Che razza di proposta era?

Per niente al mondo, neppure in punto di morte, avrebbe mai accettato di andare a sedersi in un bar e di dividere il tavolo con Naozumi Kamura.

Per fortuna, Sana sembrava della sua stessa opinione.

- Nao, forse è meglio lasciar perdere, insomma… poi vorrei tornare a casa. Sono un po’ stanca.

Naozumi sembrò averle creduto, o forse finse di averlo fatto, perché si voltò verso di lei e le sorrise.

Che idiota…

Akito invece, a quelle parole, non c’aveva creduto. Per lui era palese che Sana avesse mentito.

Con me, però, non sapevi mentire…

Scosse la testa, scacciando quell’indesiderato pensiero.

- Allora buona giornata, Hayama.

Dannato Kamura! Neppure vedere che la tua donna ti ha appena mentito riesce a farti levare quel maledetto sorrisino dalla faccia?

Per un istante, la sua mente abbandonò i pensieri omicidi verso Naozumi e si concentrò sul viso di Sana che, finalmente, lo guardava negli occhi.

Forse era impazzito, ma gli sembrò di vedere di nuovo quell’ombra di nostalgia. La stessa che aveva visto la notte prima, mentre lei, con il volto rigato dalle lacrime, gli urlava contro tutta la sua gelosia.

E non era egocentrismo o presunzione, no. Era palese che Sana, per chissà quale motivo, fosse ancora gelosa di lui.

Comunque, smise di pensarci quando vide la mano di Naozumi muoversi veloce per prendere quella di Sana, come per farle capire che era ora di continuare la loro romantica passeggiata mattutina.

E che non le avrebbe permesso di rimanere lì, a guardare Akito nel modo in cui lo stava guardando, neppure un secondo di più.

Prima di assecondare il desiderio del suo ragazzo, Sana si concesse un altro secondo per fissare il volto di Akito e, nel notare che anche lui la guardava ancora, abbozzò un piccolo sorriso.

- Ciao, Akito.

 

“- Ciao, Hayama. Ci si vede domani a scuola.

La guarda sorridere allegra, nella voce l’inconfondibile risata cristallina.

Da quando è diventato normale averla sempre intorno?

- Ciao, Kurata.

Lei fa un ultimo cenno di saluto con la mano e poi si allontana con il suo solito passo svelto, canticchiando l’ennesima stupida canzone appena inventata.

Akito segue con lo sguardo quei buffi codini oscillare ad ogni passo e si chiede se amarla così è normale, visti i suoi undici anni.

Non lo sa. E francamente non gli importa.

Sa solo che non vede l’ora che arrivi domani.”

 

- Ciao, Sana.

Con lo sguardo la seguì mentre, a testa bassa, lei si voltava e andava via. Il passo svelto c’era sempre. Ma non c’erano più stupide canzoncine e nemmeno buffi codini a oscillare avanti e indietro. Al loro posto, solo un’altra mano, impostore, a stringere la sua.

Serrò forte i pugni, preso da uno strano sentimento di rabbia e nostalgia e, correndo, si avviò verso casa.

Alla fine aveva avuto ragione Tsuyoshi. Crescere era stata una fregatura.

 

 

 

                                                                       ***

 

 

- Posso sapere per quale motivo gli hai chiesto di venire a prendere qualcosa con noi?

- Perché mi sembrava educato, visto che avevamo già deciso di andare in un bar.

- E ti sembra un buona ragione? Dimmi la verità, Naozumi, cosa volevi ottenere?

- Niente, Sana! Proprio niente! Ho pensato di invitarlo e l’ho fatto. Tutto qui. Non c’è niente di particolare da scoprire.

- Sei sicuro?

- Certo.

La sentì sbuffare, evidentemente poco convinta.

- E poi, credevo avessi piacere nel parlare con lui, visto che ieri notte avete litigato, no?

Lo sguardo terrorizzato che Sana gli rivolse fu più che sufficiente come risposta.

E poi volevo vedere se lo ami ancora.

Questo, ovviamente, non glielo disse mai.

 

 

                                                                       ***

 

Quando sua madre le aveva detto della sua relazione con il signor Onda, quasi non si era sorpresa.

D’altronde, quell’uomo era sempre stato nella sua vita, in un modo o nell’altro.

Non era riuscita a trattenere le lacrime, lacrime di felicità ovviamente, quando sua madre, l’incrollabile e imperturbabile Misako Kurata, le aveva telefonato e le aveva detto solo “Sana, credo che la tua mamma si sia innamorata”.

In quel momento, ricordò, avrebbe desiderato non essere a New York ed essere a Tokyo, per poterla abbracciare forte e dirle quanto stupenda fosse quella notizia.

Invece era stata costretta a rimanere a New York per girare l’ennesimo film e si era dovuta accontentare di qualche sporadica telefonata.

Quando poi aveva deciso di partecipare al matrimonio di Aya e Tsuyoshi, la prima persona alla quale aveva riferito del suo ritorno era stata proprio sua madre.

Evidentemente, però, la sorte si divertiva particolarmente a metterle i bastoni tra le ruote, perché la signora Misako le aveva comunicato di essere in viaggio con il suo fidanzato e che non avrebbe fatto ritorno prima dell’arrivo del nuovo anno.

 

Vorrei tanto che fossi qui, mamma.

 

Per certi versi, Sana si sentiva ancora una bambina. La stessa che, al ritorno dalla scuola, chiedeva consigli a sua madre su come “sconfiggere” quel mostro di bambino che impediva le lezioni e che rispondeva al nome di Akito Hayama.

 

Sono sicura che l’avevi capito fin dall’inizio che mi sarei innamorata di lui.

 

Sorrise, al ricordo di quei giorni divertenti. Divertenti come le diavolerie che sua madre teneva in casa, ma che, da qualche tempo, stando a quanto le aveva riferito in una delle loro ultime telefonate, aveva buttato via.

 

Anche tu sei cresciuta alla fine, vero mamma?

 

Di fronte a quella verità, tanto amara quanto reale, si sentì sperduta. Senza pensarci due volte, alzò la cornetta del telefono accanto a lei e compose il numero di sua madre, sperando con tutta se stessa che non avesse spento il cellulare.

Quando dall’altro capo dell’apparecchio, sentì la voce allegra di Misako, non riuscì a trattenere un sorriso.

- Mamma, sono io. Hai un minuto per me? Devo parlarti.

 

 

 

                                                                       ***

 

 

“- Mamma, come capisci quando sei innamorata di qualcuno?

Nonostante sia ormai una studentessa delle medie, Sana Kurata è ancora  incredibilmente tonta per certe cose.

Serafica, sua madre continua a bere una tazza di the.

- Suppongo che ognuno lo capisca a modo suo.

- Ma deve pur esserci un modo per capirlo! Qualcosa che sentono tutti, ma proprio tutti, quelli che sono innamorati!

La signora Misako sorride. Vedere sua figlia tormentarsi su certi argomenti è uno spettacolo troppo divertente.

- Capire se si è innamorati è la cosa più semplice del mondo, bambina mia.

- La fai facile, tu! Io credo che invece sia estremamente difficile!

- Vuoi provare a capire se sei innamorata?

Sana muove la testa in un cenno di assenso.

- Bene. Allora ti dico come l’ho capito io, le poche volte che mi è capitato. È molto semplice, sai?  Devi solo vedere se quando c’è lui ti manca il respiro.

- Oh!

Sana schiude le labbra, evidentemente stupita.

- A te succede, vero?

Si, che le succede. E, stando a quanto le ha appena detto sua madre, la cosa è più grave del previsto perché il respiro non le manca solo quando lo vede, ma anche se si distrae un attimo a pensarlo.

- S…si.

- Visto che era facile capirlo?

Ancora frastornata, Sana si alza dal divano e si dirige in camera sua, con l’intento di meditare a lungo su quella nuova consapevolezza. Sua madre la guarda e si lascia scappare una mezza risata quando la sente richiudersi la porta alle spalle e mugugnare un dolcissimo “ Hayama, accidenti a te!”.

 

 

                                                                       ***

 

 

Un’altra giornata, la seconda di quell’inferno per essere precisi, si avviava alla sua conclusione.

Ce la poteva fare. Doveva solo resistere altri due o tre giorni al massimo e quell’incubo sarebbe finito.

Forza, Fuka! Poi si torna a casa…

“Casa” per lei era dove si trovava suo figlio.

Sospirò, posizionandosi davanti al computer che si era portata dietro da Osaka e che aveva nascosto nella camera degli ospiti di Aya e Tsuyoshi.

Erano appena due giorni che non vedeva il suo bambino e già si sentiva mancare.

Per fortuna, qualche genio aveva inventato internet e le video conversazioni tramite chat.

Sorrise, quando il volto fresco e allegro di Shin comparve dall’altro lato dello schermo.

 

- Mamma, mamma!!

- Shin, tesoro! Come stai? Ti diverti con i nonni?

- Si, mi diverto! Però… tu quando torni?

- Presto amore, presto. Te lo prometto.

 

Presa com’era a parlare con suo figlio, non si accorse del rumore della porta che si apriva e del ticchettio di passi svelti che si avvicinavano a lei.

- Fukachan, che stai…? Oh…

Da dietro le sue spalle, Aya fissava confusa lo schermo illuminato del PC. Lo schermo che brillava del volto di Shin.

- Chi è quel bambino?

Fuka ci provò, davvero, a far sparire quell’espressione spaventata e a inventare una scusa credibile.

- A.. Ayachan, non ti ho sentita entrare! Lui è… è il figlio di una mia amica di Osaka.

Bè, come scusa poteva anche andare bene. O meglio, sarebbe potuta andare bene, se solo Shin non avesse parlato, ingenuo come solo un bambino di tre anni poteva essere.

- Mamma, chi è quella signora dietro di te?

Aya si portò le mani sulla bocca, forse per frenare le urla che invece avrebbe voluto lanciare.

- C… co.. cosa…? Mamma? F.. Fuka, ma… ma…

- Aya, ascolta… posso…

- Fuka questo.. è tuo figlio?

La voce di Aya tremò per lo stupore.

- S.. si.

- COSA?? Mio Dio, Fuka! Perché non ci hai detto niente? Quanti anni ha? E Takaishi lo sa? È per questo che ti ha lasciata? Perché aveva scoperto che eri incinta?

Magari!

Già. Magari. Magari fosse stato così semplice. Magari quel bambino fosse stato figlio di Takaishi. Magari non fosse stato figlio di Akito.

Fuka fece per rispondere, - ovviamente inventando l’ennesima bugia-, ma vide il volto di Aya diventare improvvisamente pallido.

- F..Fuka.. dimmi che… che sono impazzita…

Tremò, in preda al panico.

- In che senso, Aya?

- Nel senso che… che… quel bambino… insomma, gli occhi di quel bambino…

NO, NO, NO! DANNAZIONE!

- … somigliano incredibilmente a quelli di…

Non dirlo, ti prego!

- … a quelli di Akito…

Perfetto!

Il cuore perse un battito e il respirò le morì in gola. Era per questo che non aveva mai voluto parlare di Shin. Perché era maledettamente sicura che nessuno avrebbe creduto alla farsa che fosse figlio di Takaishi.

- FUKA, ACCIDENTI, DI’ QUALCOSA!

- Aya io… non…

La vide accasciarsi sulle ginocchia, con gli occhi fissi a puntare il vuoto sotto di lei e le mani a cingerle forte il capo.

Rimase immobile, senza sapere cosa dire. Che poi, c’era davvero qualcosa da dire?

Ecco fatto. Complimenti, Fuka.

D’altronde l’aveva sempre saputo che quegli occhi sarebbero stati la sua rovina.

 

 

                                              

                                                                       ***

 

Nella notte, ripensò alla telefonata con sua madre. Incredibile come quella donna fosse capace di risolvere i rompicapo più difficili con poche e semplici parole.

 

“-Sana ricordi quando mi chiedesti come si fa a capire se si è innamorati di qualcuno? Ricordi quella conversazione?

- Si.

- E ricordi anche cosa ti dissi?

- Si.

- E allora la risposta alla tua domanda la conosci già.”

 

Aveva ragione sua madre. La risposta la conosceva già, forse non l’aveva mai dimenticata.

Forse si era solo illusa di averlo fatto, troppo spaventata dalle conseguenze che quella consapevolezza avrebbe portato con sé.

Sentì Naozumi dormire e respirare tranquillo accanto a lei.

Si rigirò nelle coperte fino a posizionarsi a pochi centimetri dal suo volto. Lo vide muovere le labbra in una piccola smorfia, forse a causa di qualcosa che stava sognando, e gli lasciò un leggero bacio sulle labbra socchiuse.

 

Scusami, Naozumi, perché domani, non appena ti sveglierai, ti mentirò ancora.

Scusami, perché sono sempre la solita vigliacca.

Scusami, perché uno come te non me lo sono mai meritato.

Scusami, perché è con lui che ancora mi manca il respiro.

 

Sentì le prime lacrime scivolarle via dagli occhi e poi, silenziosamente, poggiò la testa sul suo petto, consapevole del fatto che quella, forse, sarebbe stata l’ultima volta che gli avrebbe dormito accanto.

 

 

 

                                                                       ***

 

 

- Sono le tre di notte.

- Già.

- Vuoi che vada via?

La guardò un attimo e poi seguì quella figura snella che lasciava il caldo delle coperte per recuperare i vestiti sparsi per la stanza.

- Tu vuoi andartene?

Le chiese, infilando la maglietta che indossava poche ore prima.

- No.

Rispose lei, lasciando trapelare un leggero tremore nella voce.

Akito si strinse nelle spalle, lasciandosi andare meglio nel cuscino soffice.

- Allora resta.

Lei sorrise e il suo viso parve illuminarsi e brillare dello stesso oro che le tingeva i lunghi capelli.

Quell’oro che, nonostante fosse palesemente finto, frutto di una qualche tintura,- questa la conclusione alla quale era arrivato la prima volta in cui era stato con lei-, le stava indiscutibilmente bene.

“Bionda” non se lo fece ripetere due volte e, sempre con un enorme sorriso, si ributtò nel groviglio di lenzuola e gli si accoccolò tra le braccia.

E anche se non l’avrebbe mai ammesso ad alta voce, Akito dovette riconoscere che, in quel momento, col sorriso ad illuminarle il volto, quella Naoko gli sembrò bellissima.

 

 

                                                                       /*/

 

Note dell’autrice: Eccomi qui, puntuale come sempre! Mi fa davvero troppo piacere vedere che la mia storia sta suscitando sempre più interesse! ^-^

Bè, cosa dire? Questo è un po’ un capitolo “intermedio”, un “ponte” con quello che succederà nel prossimo che è già quasi concluso! ;)

Inutile dire che attendo le vostre recensioni e che vi ringrazio per la costanza con la quale mi seguite!

A presto! ^-^

 

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Capitolo 8
*** CAPITOLO OTTO: SPESA ***


Welcome To PageBreeze

E come ogni sabato, ecco puntuale l’aggiornamento! ^^ Ci risentiamo alla fine del capitolo!

 

 

 

CAPITOLO OTTO: SPESA

 

 

Si diede mentalmente della stupida almeno un migliaio di volte, mentre, nervosa, percorreva quelle strade familiari.

Forse dire “stupida” era alquanto riduttivo. Si sentiva stupida, bugiarda, egoista, vigliacca ed era consapevole di meritare tutti gli aggettivi negativi che era possibile trovare su un dizionario aggiornato.

Colpa dell’organo irrazionale, confusionario e disubbidiente che si trovava nel suo petto e che, purtroppo, era necessario per la sua sopravvivenza.

Peccato, altrimenti ti avrei strappato via un bel po’ di tempo fa, stupido cuore!

Quello stesso cuore che le si era ancora frantumato quando, appena pochi minuti prima, aveva detto a Naozumi l’ennesima bugia.

“Nao, esco un attimo a fare un po’ di spesa.”

Oh, certo. La spesa. Ottima scusa. E pensare che quando, nei telefilm americani, le donne dicevano di dover uscire per andare a fare la spesa o qualsiasi altra commissione, lei quasi urlava contro i loro mariti/fidanzati per il fatto che non capivano quanto fosse palese che le loro mogli/fidanzate stessero mentendo.

“Oh, andiamo! Sai che sta andando dal suo amante! È così palese” diceva sempre.

E Naozumi, che era accanto a lei, sorrideva e scuoteva la testa divertito.

Ti ho mentito anch’io, Nao. L’hai capito?

Forse no. Perché non aveva visto neppure la minima ombra nei suoi occhi mentre, sorridendo, l’aveva salutata con un dolcissimo bacio.

Sono davvero così brava a recitare?

Comunque, smise di pensarci quando arrivò a destinazione e venne colta da una soffocante malinconia. Ricordava esattamente il giorno in cui aveva oltrepassato la soglia di quel portone per la prima volta.

 

“- Stai scherzando per caso? No, perché se è uno scherzo non è affatto divertente!

- Ti sembro il tipo che scherza su queste cose?

Lo guarda, spalancando gli occhi già lucidi e portandosi una mano sulla bocca per lo stupore.

- Quindi mi stai dicendo che… che…

Le sembra di non avere più voce. O forse ce l’ha ancora, ma non sa proprio dove andare a cercarla.

- … mi stai dicendo che questa è… casa nostra?

Eccola, la voce.

- Lo sarà, se lo vuoi anche tu.

- Se lo voglio? Mi chiedi se lo voglio? Oh, Akito! È il regalo più bello che potessi farmi! Certo che lo voglio!!

Akito sorride, - si, sorride davvero-, e le cinge le spalle in un tenerissimo abbraccio. Poi le deposita un leggero bacio sulla fronte, spostandole una ciocca di capelli che, ribelle, è caduta a ricoprirle gli occhi.

- Allora questa è casa nostra.

Dice lui, staccandosi dall’abbraccio e avanzando verso l’ingresso dell’abitazione. Quando giunge sulla porta, allunga una mano per fare cenno a Sana di entrare con lui.

Lei non se lo lascia ripetere e, in un istante, prende la mano di Akito e oltrepassa la soglia della loro nuova casa insieme a lui.

Quando si trova nel grande ingresso, non riesce a trattenere le lacrime e le lascia scendere giù, fino alle labbra.

- Casa nostra…

Ripete poi, ancora felicemente frastornata.

Akito la solleva tra le braccia e, sorridendo furbescamente, le sussurra un provocante “Che ne dici se ora andiamo a provare il nostro nuovo letto?”.

Sana scoppia a ridere di gusto e, quando le lacrime che ancora le bagnano il viso le scivolano fin dentro le labbra, non ha dubbi. Quelle sono le lacrime più buone del mondo.”

 

Come potevano essere passati ben cinque anni da quel giorno se a lei, ora che si trovava di nuovo di fronte a quel portone, parevano trascorsi solo cinque giorni?

Ma, ora che guardava meglio, oltre alla casa in sé, niente era rimasto come prima. Il piccolo giardino che la circondava non c’era più, così come la cuccia che lei aveva insistito tanto per comprare nella futura previsione, mai realizzatisi, di avere un cane.

Forse allora, non erano passati solo cinque anni.

Forse era passata una vita intera.

 

 

                                  

                                                                       ***

 

Tranquillo, Naozumi. È uscita per fare un po’ di spesa. Tutto qui.

Non sapeva neppure lui da quanto tempo stesse ripetendo quella frase. Come se ripeterla servisse a qualcosa. Come se servisse a convincerlo che si, Sana era davvero andata a fare la spesa. Che non era come temeva lui, che lei non era affatto andata da Hayama.

Ma si, devo stare tranquillo.

E poco importava che, quando aprì il frigo per bere un po’ di latte, vide che era già pieno.

 

 

 

                                                                       ***

 

Temette di aver sbagliato casa, - cosa che sapeva essere praticamente impossibile visto che tra quelle mura c’aveva abitato anche lei-, non appena un’alta figura dai capelli lunghi e biondi le si presentò di fronte dopo che ebbe suonato il campanello.

- Ciao!

Le disse quella sorridente. Il sorriso più fastidioso che Sana avesse mai visto.

- Cerchi Akito?

Chiese, mentre con un gesto veloce si portò una lunga ciocca dietro le spalle coperte da una maglietta fin troppo sottile, vista la stagione.

Akito.

Alle orecchie di Sana, quel nome suonò così sbagliato pronunciato dalle labbra di quella sconosciuta. Non sembrava più il nome più bello del mondo.

Non era più come quando, un tempo, chiusa nella sua stanza, lo ripeteva a bassa voce ed era come se ogni volta che pronunciava quelle cinque lettere, Akito diventasse un po’ più suo.

E un tempo Akito, suo lo era stato davvero.

- Cosa…?

- Ti ho chiesto se cerchi Akito. Comunque, piacere. Io sono Naoko.

Quella della telefonata.

Perché le stava porgendo una mano? Voleva forse che gliela stringesse?

Certo, Sana! Stringile la mano, che aspetti? Non imbambolarti!

Seguendo il consiglio della sua coscienza, si riscosse da quel torpore emotivo e allungò una mano fino ad incontrare quella di Naoko.

La stretta, però, durò un istante appena. Giusto il tempo di formulare un pensiero che le fece accapponare la pelle.

Hai toccato anche Akito, con queste mani?

Akito, appunto, spuntò da dietro le spalle di Naoko, con i capelli bagnati e con indosso solo i boxer, - quelli neri, che tanto piacevano a Sana-, e una maglietta umidiccia.

Anche una divinità greca, al suo confronto, sarebbe risultata ridicola. Incredibile come potesse esserci tanta bellezza racchiusa nel corpo di un solo uomo.

A Sana, di nuovo, mancò il respiro.

- Kurata? Che ci fai qui?

Chiese lui, sfiorando una spalla a Naoko,- gesto che Sana colse e dal quale venne irrimediabilmente ferita-, per farla scostare di qualche centimetro.

- I.. io.. ero passata a farti un saluto. Ma vedo che hai altro da fare.

Cercò di sorridere, mentre pronunciava quelle parole. Forse ci riuscì, perché Naoko la guardò serena e le disse -Non preoccuparti, io stavo andando via..

- Te ne vai?

Sentì Akito chiederle, e il tono di voce che usò somigliava incredibilmente a quello che, di solito, usava quando si rivolgeva a lei. A lei soltanto.

Non usarlo con qualcun’altra, Akito. Così mi uccidi.

- Si, ho un appuntamento di lavoro.

Rispose Naoko, sorridente.

- Però, se vuoi, ti chiamo appena mi libero.

Ok, questo era decisamente troppo. Il limite di sopportazione del suo fragile cuore era già stato superato quando un’estranea le aveva aperto la porta. La porta della sua vecchia casa. Sua e di Akito.

- Come vuoi.

Rispose soltanto lui.

Sana capì di non essere ancora morta solo quando sentì una voragine squarciarle il petto, mentre di fronte a lei, quella salutava il suo Akito con un bacio a fior di labbra e se ne andava via, con un sorrisino ebete dipinto su quel faccino schifosamente bello.

Capì che prima non era ancora morta, dunque. Ma solo perché morì in quell’esatto istante.

 

 

                                                                       ***

 

- E quindi cosa pensi di fare?

Si strinse nelle spalle, finendo di infilare un comodo jeans appena preso dall’armadio nel quale aveva riposto gli abiti messi in valigia prima di partire.

- Voglio dire, lui lo sa?

- Certo che no! Per quale motivo credi che me ne sia andata da Tokyo?

Aya, che prima se ne stava seduta sul letto, ancora vistosamente sconvolta dalla scoperta fatta la sera precedente, si alzò in piedi di scatto e le rivolse uno sguardo terribile.

- Cosa diavolo ti è saltato in mente, Fuka? Sei forse impazzita? Come hai potuto tenergli nascosta una cosa tanto grande? Ma che ti dice il cervello?

Fuka rispose allo sguardo della sua amica,- o almeno, di quella che un tempo era stata, senza alcun dubbio, una sua amica-, ricambiandolo con la stessa intensità.

- Non sono affari tuoi, Aya.

Gli occhi di Aya quasi presero fuoco.

- MA COME PUOI DIRE UNA COSA DEL GENERE? Voi due siete entrambi miei amici! E poi, quando accidenti è successo? Avete pensato a Sana? Mio Dio, se scoprisse una cosa del genere, sono sicura che ne morirebbe.

- CREDI CHE NON LO SAPPIA? CREDI CHE NON SIA CONSAPEVOLE DEL FATTO CHE ABBIAMO COMMESSO UN MADORNALE ERRORE?

Stava per mettersi a piangere, ne era assolutamente sicura.

- … certo che lo so. So che io e Akito abbiamo fatto una cosa orribile. Ma eravamo così… soli.

Incredibilmente, lo sguardo di Aya parve addolcirsi.

- Quindi è successo quando loro avevano già rotto?

- Vuoi dire dopo che Sana è sparita andandosene in America e fregandosene altamente di Akito? Si, tranquilla È successo dopo.

- Ma perché avete fatto una cosa del genere? Tu… tu lo amavi?

Fuka abbassò il capo, rivolgendo lo sguardo alle mattonelle del pavimento che erano improvvisamente diventate interessanti.

- Allora? Eri innamorata di Akito?

- N… non lo so. Non sapevo un bel niente, in realtà. Sapevo solo che Takaishi e Sana ci avevano abbandonati e che lui avrebbe senz’altro capito come mi sentivo.

Con una mano, Aya la costrinse ad alzare il viso. Poi, inaspettatamente, le sorrise, tenera e materna.

- Però sei stata brava. Hai deciso di tenere il bambino, nonostante tutto.

- Ma sono scappata via, come una vigliacca. Io… io non sapevo cosa fare. Non ero innamorata di Akito e anche se lo fossi stata, lui aveva fatto l’amore con me solo perché era disperato e anche ubriaco. Non avrebbe mai voluto un figlio da me. Io.. non volevo rovinargli la vita.

Solo quando finì di parlare, si accorse che stava piangendo.

- Non preoccuparti, Fukachan. Se non vorrai dirlo ad Akito capirò. Sappi solo che sono convinta che Akito non ti avrebbe mai chiesto di rinunciare a vostro figlio. Avrà anche un caratteraccio, ma è uno che sa bene cosa si prova ad essere un figlio indesiderato. Non avrebbe di certo ripetuto l’errore di suo padre. E poi, potrebbe essere un buon padre anche senza stare con te, no? Quindi non lo terresti legato per forza.

A quelle cose, Fuka, non c’aveva mai pensato. Forse, allora, avrebbe potuto dirglielo.

Avrebbe potuto, già. Perché sapeva benissimo che le parole di Aya erano vere.

Akito non si sarebbe mai tirato indietro di fronte alla verità. E mai avrebbe permesso a suo figlio di crescere senza un padre.

Ma era lei a non essere ancora pronta ad affrontare le conseguenze di quella notte di follia.

Non era ancora pronta per sostenere gli sguardi accusatori dei suoi vecchi amici e la rabbia tagliente di Akito. E, soprattutto, non era ancora abbastanza forte per sopportare il senso di colpa che provava se solo pensava a come, quella scomoda verità, avrebbe squarciato il cuore di Sana.

- I.. io.. non glielo dirò comunque. Non posso sconvolgergli la vita in questo modo. Non ce la faccio.

Sentì Aya abbracciarla forte, carezzandole i capelli con un mano.

- Andrà tutto bene, Fukachan. Te lo prometto.

E su quella promessa, che fu per il suo cuore come aria per i polmoni, si sentì molto meglio.

 

 

 

                                                                       ***

 

Le sembrò di essere tornata indietro nel tempo. Scaraventata violentemente in quello che, nella sua memoria, era scolpito come uno dei momenti peggiori della sua vita.

Quello in cui Akito era stato di qualcun’altra. Quello in cui Akito era stato di Fuka.

Certo, era molto diverso.

All’epoca non erano che ragazzini che si affacciavano per la prima volta sul palcoscenico dei sentimenti.

Essere fidanzati significava solo passare qualche pomeriggio al luna park, fare insieme i compiti e, di tanto in tanto, scambiarsi qualche bacio. Baci innocenti, proprio come quello che Naoko aveva lasciato sulle labbra di Akito, appena un istante prima.

Si, però era diverso. Perché quel bacio voleva dire qualcos’altro. Voleva dire che prima, durante la notte certamente, c’era stato molto di più.

 

Quante altre mani ti hanno toccato, Akito?

Quanti altri corpi si sono uniti al tuo?

Quanti altri occhi hanno avuto la fortuna di vederti come ti ho visto io?

 

- Allora, Kurata, resti lì ancora per molto o entri e mi dici come mai sei passata a quest’ora del mattino?

Giusto. Peccato che ancora non riuscisse a ricordare il motivo per cui era andata a casa sua.

O meglio, lo ricordava bene. Ma aveva un’atroce paura di fare la scelta sbagliata.

C’era Naoko, prima. E chissà se ci sarà ancora.

 

Mosse qualche passo, giusto quelli necessari per oltrepassare la soglia di quella che era stata casa sua, anche se solo per un annetto.

Quando mise piede nell’ingresso, fece fatica a riconoscere quelle stanze. Incredibile come Akito avesse cambiato praticamente ogni cosa rispetto all’antico periodo in cui erano stati conviventi.

Faceva male tenere le cose com’erano prima, vero?

Lui, però, era bello esattamente come lo ricordava. Forse di più. Così bello che faceva male guardarlo. Che il cuore, ad un certo punto, non ne poteva più di tutta quella bellezza. Che il respiro, inevitabilmente, non ce la faceva a non morire.

Proprio come un tempo, proprio come sempre, di fronte agli occhi di Akito, tutto si paralizzava.

 

- Allora, vuoi dirmi cosa vuoi o hai intenzione di stare a fissarmi tutto il giorno? Sai com’è… stavo facendo la doccia.

Dopo aver fatto l’amore tutta la notte, c’è bisogno di una bella doccia, vero Akito?

Lo vide avvicinarsi a lei, mentre con una mano si tamponava i capelli ancora bagnati.

Noi, però, la doccia la facevamo insieme.

- Kurata…?

Consapevole del fatto che se non avesse al più presto articolato una frase di senso compiuto, Akito l’avrebbe cacciata via, disse la prima cosa che le venne in mente. La prima che aveva pensato non appena aveva visto Naoko aprirle la porta.

- Lei è… è bionda.

- Cosa?

- Dicevi che non ti piacciono le bionde.

 

 

“- Giuro che se non la smette di fissarti vado a tirarle tutti quei bei ricci che si ritrova!

- Smettila, Sana. Non mi sta affatto fissando.

- Ah no? E allora deve avere qualche problema agli occhi, una qualche paralisi, perché è da quando siamo entrati in questo cavolo di bar che non la smette di guardarti!

Sana continua ad agitarsi, gesticolando vistosamente, senza preoccuparsi di attirare l’attenzione degli altri clienti del bar, che ovviamente si sono accorti della sua presenza.

- Sana, ti prego. È pieno di gente, non fare scenate inutili.

Si alza di scatto, sbattendo le mani sul tavolo e provocando la caduta della bibita che Akito stava, inutilmente, cercando di bere in tranquillità.

Nel vedere il suo bicchiere rovesciato, Akito si porta le mani sul viso, disperato.

Sana, di contro, neppure lo nota, troppo intenta nel fissare la ragazza che, a detta di lei, continua a fissare il suo Akito.

- Guardala! Continua a fissarti! Questo è davvero troppo! Ora vado lì e gliene dico quattro!

Scosta la sedia, intenzionata a ribadire ad ogni persona di sesso femminile che Akito Hayama è il suo ragazzo. Suo, e basta.

Akito la blocca per un braccio, costringendola a sedere.

- Ora basta, Sana. Stai diventando paranoica.

Le dice, accarezzandole il viso per rassicurarla.

- E poi quella ragazza è bionda.

- E quindi? Che differenza fa?

Akito alza un braccio con l’intento di attirare l’attenzione di  un cameriere, - rigorosamente di sesso maschile-, per riordinare la bibita che Sana ha rovesciato sul tavolino.

Poi si rivolge verso la sua ragazza e le sorride.

- A me non piacciono le bionde.”

 

 

                                                                       ***

 

Sul fatto che, di fronte ad Akito, diventasse una stupida fatta e finita e che perdesse completamente l’uso della ragione, non c’erano mai stati dubbi.

Si era soffermata molte volte, durante il periodo del loro fidanzamento, a pensare che non fosse giusto.

Insomma, non è giusto dipendere totalmente da qualcun altro. Non è giusto che un’altra persona eserciti su di te un potere tanto grande da essere in grado di distruggerti o di spedirti in paradiso con una sola parola o, addirittura, anche senza dire nulla. Magari con uno sguardo o con un movimento delle labbra.

Era questo, l’amore?

Bella fregatura, allora.

Però, molte volte si era ritrovata a pensare che tutto quel dipendere da Akito, fosse anche una cosa straordinaria. Perché era vero che a lui bastava poco per spaccarle il cuore, ma era anche vero che bastava altrettanto poco per farla sentire la persona più felice del mondo. Una felicità privilegiata, che non a tutti è concesso di provare. Anzi, che in pochi, molto pochi, riescono a raggiungere.

Ma se ci riesci, arriva quel momento in cui la pioggia diventa bellissima, il vento diventa una carezza, il buio diventa magia e l’inverno diventa più caldo, perché l’estate te la senti nel cuore.

In fondo no, non era affatto male dipendere da qualcuno come lei, un tempo, dipendeva da Akito.

“Un tempo”, Sana? Ne sei sicura?

Se quella domanda la sua coscienza gliel’avesse fatta pochi giorni prima, avrebbe indubbiamente risposto “si”. Avrebbe detto a sé stessa che Akito faceva parte del passato e che quegli strani attacchi di malinconia che a New York le toglievano il fiato, erano solo degli innocui strascichi di un sentimento che era stato troppo grande per poter essere del tutto resettato.

Si, avrebbe risposto così. E, forse, c’avrebbe anche creduto.

Ora però, ora che Akito le stava davanti, ora che aveva provato sulla sua pelle com’era vederlo con qualcun’altra, ora non sarebbe stato tanto facile convincersi che ciò che temeva non era altro che una sua paura.

Che lei, la grande e forte Sana Kurata, l’invidiatissima ragazza di Naozumi Kamura, non era più innamorata di Akito. Perché nessuno avrebbe mai potuto concepire, nemmeno nell’universo più remoto, che qualcuno potesse preferire ad un attore bello e dolce come Naozumi, un ragazzo “qualunque” come Akito.

Oh, certo. Ora è un ragazzo “qualunque”, eh?

E invece, a dispetto di tutto, a scapito della ragione stessa, era stato il suo cuore a scegliere.

A decidere che Akito era tutto fuorché un ragazzo “qualunque”. Che il suo viso era il primo a venirle in mente, se si soffermava a riflettere un po’ sull’amore. Che quello di Naozumi, suo malgrado, compariva soltanto quando la razionalità scacciava via quello di Akito.

 

Akito, intanto, non le aveva ancora dato una risposta. Anche se al suo “Dicevi che le bionde non ti piacciono” , non c’era molto da rispondere.

Naoko era bionda, giusto?

Quindi, evidentemente, lui aveva cambiato gusti. Succede, nella vita. Succede che si cambia.

Bastava guardare com’erano cambiati, loro due.

 

- Nella vita si cambia. Non l’avevi notato?

Le disse Akito, alzando le spalle, per nulla toccato da quelle parole.

D’altronde, c’avrebbe scommesso anche la vita sul fatto che le avrebbe risposto così.

- Si, l’ho notato.

- E allora non credo proprio tu debba stupirti più di tanto.

Calmo, come sempre. Razionale, come sempre.

- La rivedrai ancora?

- Vuoi continuare la lite dell’altra notte, per caso? Perché io non ho proprio voglia di discutere.

- Voglio solo sapere se la rivedrai.

Lo stava di nuovo supplicando. E di nuovo si stava maledicendo.

Akito avanzò verso di lei di qualche passo, senza la minima luce negli occhi.

- Credo di si.

Rispose, e la sua voce giunse alle orecchie di Sana più tagliente di una lama affilata.

- Anche… anche oggi?

Lui parve non capire il dolore che si nascondeva dietro la sua domanda.

- Non lo so.

- Oggi no.

Implorò, mentre già sentiva di nuovo voglia di piangere.

- …ti  prego.

Si rese conto che lui aveva capito perché vide i suoi occhi accendersi di qualcosa che tanto somigliava alla rabbia. O all’irritazione. Niente di positivo, comunque.

- Non sono un bambino. A certe cose non ci bado più.

- Non è una stupidata da bambini, Akito! Oggi è il 24 dicembre! È… il nostro giorno.

Il viso di lui tornò a farsi impassibile come fino a pochi istanti prima.

- Se non sbaglio, sei stata tu la prima a passare quello che chiami il “nostro giorno” con qualcun altro.

Non c’era niente da rispondere perché non era una domanda, piuttosto un’affermazione.

Perché anche se nessuno gliel’aveva mai detto esplicitamente, era ovvio che Akito sapesse, o fosse quasi certo, che Sana aveva passato quel giorno in compagnia di Naozumi, da quando era diventata la sua ragazza.

Perciò lei non poté fare altro che restare in silenzio.

- Devi dirmi altro?

Sana alzò lo sguardo, gli occhi appannati dalle lacrime, come per pregarlo di non mandarla via. Akito incrociò le braccia al petto, visibilmente spazientito.

- Smettila di piangere.

Le ordinò, senza tradire la più piccola emozione o il minimo cedimento. La sua voce era rimasta ferma fin dal primo istante.

Non conto davvero più niente per te?

- Non… non ci… riesco.

Ammise, senza vergognarsi.

Era vero. Se fosse stata capace di controllare l’impulso di piangere, non avrebbe versato neppure una lacrima.

Poi successe qualcosa. Forse perché la vide così indifesa o perché provava ancora qualcosa o semplicemente perché, da uomo, venne mosso da una sorta di tenerezza nel vederla piangere. Non capì bene il motivo, fatto sta che Akito le si avvicinò e, d’istinto, la accolse tra le sue braccia.

In quella frazione di secondo, quando sentì che sotto al suo viso il battito del cuore di Akito accelerava,- o forse, chissà, era una sua impressione-, si sentì morire.

Si, ma dell’altra morte. Quella bella, quella che ti fa battere il cuore e che ti toglie il respiro.

Quanto tempo era che non moriva così?

Quattro anni.

Non appena sentì che, dopo un tempo che non avrebbe saputo determinare, le braccia di Akito lentamente mollavano la presa, strinse le sue con forza dietro la schiena di lui, per impedirgli di sciogliere quel contatto così vitale.

- Akito, abbracciami ancora un po’.

Implorò. Lui non se lo fece ripetere due volte e tornò a circondarle le spalle, spingendole meglio la testa sul suo petto.

- Non vederla più.

Lui mugugnò, immergendo il viso nei suoi capelli rossi.

- Intendo Naoko. Non vederla più. Mi ha fatto un male atroce trovarla qui.

Come risvegliatosi da un sogno, Akito si scostò da lei bruscamente sciogliendo l’abbraccio.

- Cosa vuoi da me, Sana?

Le mani di lei tremarono un poco, forse per il freddo che provava ora che non era più tra le braccia di Akito.

Nel vederla lì, in silenzio, Akito sentì una strana rabbia impossessarsi di lui. Così le si avvicinò e, violento, la scosse per le spalle.

- ALLORA? POSSO SAPERE CHE COSA VUOI?

- Voglio che tu non la veda più.

- Perché?

Ma si, tanto era inutile continuare a fingere che tutto andasse bene. Tanto la verità sarebbe comunque tornata per ucciderla, prima o poi.

- Perché io… io credo di amarti ancora..

Perfetto. La bomba era stata sganciata. Ora si trattava solo di fare il conto delle vittime.

- Stai scherzando?

- Potrei scherzare su una cosa simile?

Potrebbe, in realtà, essendo una bravissima attrice. Ma dubita fortemente che sarebbe così brava a fingere di piangere in quel modo così disperato.

- Tu mi hai lasciato.

Sancì lui, e la sua voce arrivò alle orecchie di Sana più triste di quanto avrebbe voluto.

- Non volevo lasciarti, questo lo sai bene. Ero spaventata e arrabbiata. Volevo andare via per un po’ e poi tornare, per rimettere le cose apposto.

Sul serio? Ottimo progetto davvero.

- Ma non sei tornata.

Innegabile.

- Lo so. Ma tu non mi hai mai cercata.

Oh, no. Questo sarebbe stato meglio non dirlo, perché i lineamenti di Akito furono deformati da uno sguardo rabbioso,- e “rabbioso” non rende l’idea di come davvero fosse, quello sguardo-, prima che la prendesse per le spalle, quasi stritolandogliele, e la spingesse con forza verso la parete dietro di lei.

- ORA LA COLPA SAREBBE MIA?

Urlò, a pochi centimetri dal suo viso.

- E’ COLPA MIA SE SEI STATA TROPPO VIGLIACCA PER AFFRONTARE UNA STORIA IMPORTANTE E SE, DA PERFETTA BAMBINA QUALE SEI, HAI PREFERITO SCAPPARE DALL’ALTRA PARTE DEL MONDO E METTERTI CON QUELL’IDIOTA DI KAMURA? DIMMI, SANA, E’ COLPA MIA?

Presa com’era ad ascoltarlo, e a piangere, quasi non sentiva il dolore che la stretta di Akito provocava alle sue spalle esili.

Lui, comunque, forse consapevole di poterle fare del male, le lasciò, facendo cadere le braccia inermi lungo i fianchi.

Restò in silenzio per qualche secondo,- secondi che sembrarono un’infinità-, e poi puntò gli occhi in quelli di lei. E Sana si rese conto che se uno sguardo avesse avuto la capacità di uccidere, quello che Akito le stava riservando l’avrebbe annientata all’istante.

- S.. scusami.

Balbettò, mentre ingoiava l’ennesimo quantitativo di lacrime.

- Scusami… perché so di non avere il diritto di amarti ancora.

Non avrebbe saputo dire dove, di preciso, trovò la forza per farlo, fatto sta che sollevò una mano e andò ad accarezzargli il volto.

Akito, inaspettatamente, non si oppose a quel lievissimo contatto. Anzi, poggiò una mano su quella di lei, facendola affondare meglio sulla pelle del volto.

A quel gesto inatteso, Sana tremò per la commozione.

- Akito…

Sussurrò poi, mentre lentamente si sollevava sulle punte per avvicinare le sue labbra a quelle di lui. Perché si, non resisteva più all’impulso di baciarlo e di sentire di nuovo il suo sapore.

Ogni cellula del suo corpo si divincolava nel tentativo di raggiungere il volto di Akito, la sua pelle, il suo cuore, la sua anima.

Nel notare che lui non si spostava e che, quindi, c’erano concrete possibilità che non l’avrebbe respinta, prese coraggio e, sussurrando vicino al suo orecchio, glielo confessò ancora.

- … ti amo.

Si complimentò con se stessa. Dire “ti amo” due volte nel giro di pochi minuti, non era proprio una cosa da lei.

Te lo ripeterei all’infinito, se solo bastasse per farti tornare mio.

Senza attendere la risposta di Akito,- o forse per timore che la sua risposta non sarebbe arrivata affatto-, portò le labbra su quelle di lui, in un bacio nel quale ripose anche la sua anima.

Akito rispose con una foga nella quale Sana non avrebbe minimamente sperato, stringendo le braccia intorno alla piccola vita di lei e avanzando di qualche passo fino a costringerla, di nuovo, alla parete dietro di loro.

Con forza, - o con disperazione-, approfondì quel contatto, facendosi spazio tra le labbra di Sana, per inserirvi la lingua e poter risentire quell’antico sapore.

Le loro labbra si muovevano all’unisono, perfettamente incastrate le une nelle altre, e si scontravano affamate, quasi con violenza.

Lei, stretta tra la parete e il corpo di Akito, gli fece scivolare una mano nei capelli biondi, beandosi della meravigliosa sensazione che il tocco di quei sottili fili d’oro le provocava.

Lui la imitò, infilandole una mano nei capelli, quasi strappandoli, nel tentativo di avvicinare ulteriormente i loro visi, come se già il fatto che tra loro non passasse neppure l’aria, non fosse abbastanza.

Si staccarono solo quando i loro polmoni iniziarono a bruciare per la mancanza d’ossigeno.

- A… Akito.

Balbettò, con le guance ancora rosse e l’anima sulle labbra.

- Credo sia meglio che tu te ne vada.

Il rossore di un istante prima lasciò il posto ad un pallido biancore. Era letteralmente sbiancata, ne era certa.

- C… cosa?

Chiese, nella speranza di aver capito male le sue parole.

Lui la guardò ancora, ma lo sguardo era tornato quello impassibile di sempre.

- Ti ho detto di andartene.

- Ma…

- Niente ma. Quello che è successo non si ripeterà perché io non permetterò che si ripeta. Torna da Kamura.

- Cosa dici, Akito? E allora quel…

Riecco quello sguardo freddo. A Sana si gelò il sangue.

- Quello che è successo è stato uno sbaglio, Sana.

Non seppe spiegarsi il perché, ma c’era qualcosa di terribilmente sbagliato,- diverso dalla tenerezza alla quale era abituata-, quando lui pronunciò il suo nome.

- Io non ti amo più.

Non appena Akito terminò la frase, a Sana sembrò di sentire distintamente la lama affondare impietosa sotto la pelle, passare nelle vene, congelarle il sangue, spaccarle il cuore.

Tutto, fuori e dentro di lei, era paralizzato. Solo le gambe, inspiegabilmente, si mossero e decisero, forse per risparmiarle l’ennesima ferita, – come se essere ulteriormente ferita fosse possibile-, di portarla il più lontano possibile, via da quel gelidissimo inferno.

 

 

                                                                       ***

 

- Aya, quando torniamo a casa posso vedere il vestito che indosserai domani?

- Assolutamente no, Fuka! Deve essere una sorpresa per tutti. Sono andata a sceglierlo da sola appositamente per non farlo vedere a nessuno prima del matrimonio.

Fuka sbuffò.

Dall’altro lato del tavolino, seduta con la sua solita compostezza, mentre finiva di bere una cioccolata calda, Aya sorrise.

- Oh, andiamo. Solo a me, non lo dirò a nessuno!

- Non esiste al mondo.

Capendo che non sarebbe riuscita a convincerla, Fuka abbandonò l’argomento e si mise meglio a sedere, tornando a concentrarsi sul cornetto ricolmo di nutella che il cameriere le aveva appena servito.

- Aya, senti. Avevi detto anche a Sana di venire qui?

Aya capì che dietro la domanda dell’amica si nascondeva una frase neppure tanto celata. Dietro quelle parole Fuka stava dicendo “Ti prego, dimmi che non c’è anche lei. Non riuscirei neppure a guardarla in faccia e capirebbe che le nascondo qualcosa”.

- Si, gliel’ho detto.

Vide Fuka irrigidirsi di colpo.

- .. ma ha detto che non poteva venire perché doveva fare una cosa importante.

- Capisco.

L’espressione di Fuka tornò ad essere più serena.

- Ah, ecco. Sta arrivando Hisae!

Le fece notare Aya, indicando la figura dell’amica che, proprio in quel momento, stava attraversando la strada tutta trafelata e correva verso l’ingresso del bar per raggiungerle, evidentemente in ritardo.

- Ciao ragazze! Scusate, ma quell’imbecille di mio marito mi ha costretta ad accompagnarlo dall’altra parte della città! Ah.. tanti auguri, Fuka!

Fuka e Aya si lasciarono andare ad una piccola risatina.

- Grazie mille, Hisae. Comunque, quando vi deciderete a comprare un’altra macchina? Così non saresti più costretta a dividerla con Gomi.

- Non abbiamo uno stipendio così esorbitante per potercela permettere e poi sono sicura che, anche se avessi una macchina tutta mia, quello stupido di Gomi troverebbe comunque il modo per farmi arrivare in ritardo.

- Oh, su questo non ho alcun dubbio.

Sentenziò Aya, visibilmente divertita.

- Ah, Hisae..

Si intromise Fuka, non appena la vide accomodarsi accanto a loro.

-.. non ti ho mai chiesto scusa per non essere venuta al vostro matrimonio.

Sai com’è, dovevo badare a mio figlio che era ancora troppo piccolo.

- Oh, non preoccuparti Fuka. So che non potevi per lavoro, tranquilla.

- Già. In quel periodo avevo qualche problema di troppo.

Mentì, spudorata.

Dall’altro lato del tavolo vide Aya lanciarle uno sguardo accusatore, ma non vi badò.

 

 

                                                                       ***

 

 

L’unica cosa che riuscì a pensare, dopo essere uscita,- o meglio, scappata-, da casa di Akito, fu quella di soddisfare l’ingestibile bisogno che aveva di essere consolata. Abbracciata. Protetta. Amata.

Dopotutto, Akito l’aveva freddata con quel suo “Io non ti amo più”. Era normale che sentisse la necessità di qualcuno che, invece, quell’amore avrebbe voluto e potuto darglielo, no?

Era normale che, per colpa della sua folle paura di rimanere da sola, desiderava qualcuno che le dormisse accanto tutte le notti e che fosse a sua disposizione ogni volta che il buio tornava a spaventarla, no?

Era normale che volesse qualcuno da amare, no?

Si, Sana, stai tranquilla. È normale.

Bene, e allora era perfettamente normale il fatto che stava tornando da Naozumi, per dirgli che non l’avrebbe mai lasciato e che sarebbe stata felicissima di continuare a lasciarsi amare da lui.

E pazienza se, da dentro al suo petto, sentiva il cuore urlarle “vigliacca”.

 

 

                                                                       ***

 

Smise di prendere a pugni la parete alla quale, fino ad un istante prima era poggiata Sana, solo quando vide la mano sanguinare in modo eccessivo.

Insomma, il fatto che ora fosse così incazzato, e deluso, e disperato, non era un dato preoccupante, no?

In fondo, chiunque al suo posto si sarebbe sentito esattamente come si sentiva lui in quel momento.

Perché si, insomma, come diavolo si era permessa, quella stupida, di dirgli che lo amava ancora?

Quando, di preciso, le aveva dato il permesso di ripiombare di nuovo nella sua vita?

Andiamo, Akito. Sai benissimo che Sana Kurata non ha bisogno del permesso per intromettersi nella tua vita. E poi, sii onesto con te stesso, lei dalla tua vita non se n’è mai andata sul serio.

Ecco. Era proprio questo che lo faceva incazzare così tanto. Che gli faceva ribollire il sangue nelle vene e che gli torturava il cervello.

Il fatto che lei decidesse sempre tutto da sola.

Lei aveva deciso di lasciarlo. Lei aveva deciso di tornare. Lei, - anche se su questo si sarebbe potuto aprire una sorta di dibattito interiore-, l’aveva baciato.

Mi dispiace, Kurata. Stavolta non ti permetterò di sconvolgermi la vita.

Si lasciò cadere sul divano poco distante, con la fermissima intenzione di non ripensare mai più a quel maledetto, e bellissimo, bacio. Di non pensare più a quei capelli rossi, a quelle labbra morbide e a quel sapore irresistibile.

Ma si, in fondo è stato uno stupido bacio. Domani l’avrò già dimenticato.

Certo, un solo bacio si dimentica in fretta, specialmente se dato ad una persona che, a detta di lui, non si ama più.

Esatto, Sana. Spiacente, io non ti amo più.

Ma si, lui non l’amava più.

E pazienza se, dentro al suo petto, sentiva il cuore urlargli “vigliacco”.

 

 

                                                                       /*/

 

Note dell’autrice: Eccoci giunti anche alla fine di questo ottavo capitolo. Cavolo, mi sembra impossibile aver già pubblicato otto capitoli! Sembra solo ieri il giorno in cui l’idea di questa storia ha iniziato a balenarmi in testa.. ;)

Questo è, senza dubbio, un capitolo molto significativo. Descrivere la scena del bacio tra Sana e Akito è stata quasi una liberazione.. Mentre li immaginavo, nella mia mente ripetevo “finalmente, finalmente, finalmente!” xD. Anche se poi, ahimè, ho dovuto chiudere decisamente male quel momento tanto atteso! >.< (Gli sviluppi della storia mi hanno praticamente obbligata a farlo!).

Bene, inutile dire che vi ringrazio come sempre per le recensioni meravigliose che mi regalate ogni volta e che attendo con ansia di sapere cosa ne pensate di questo capitolo che, per me, è uno dei più importanti! (Almeno fin’ora!) ;)

A presto! ^^

 

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Capitolo 9
*** CAPITOLO NOVE: NEVE ***


Welcome To PageBreeze

Eccomi qui!! ^^ Via con il nono capitolo!

 

 

 

CAPITOLO NOVE: NEVE

 

 

Ci fu un momento,- e ci fu davvero-, nel quale, non appena la vide rientrare in casa e sul viso le scorse quello sguardo spento, pensò seriamente di lasciarla.

No, non era uno scherzo. Ci pensò sul serio, perché capì in un attimo il motivo di quello sguardo distrutto. Capì, - d’altronde l’aveva già sospettato-, che Sana non era stata in nessun supermercato a fare la spesa da brava fidanzata. Affatto. Era tornata ancora da lui.

E, per un istante, pensò di non voler sapere più nulla. Di lei. Di Hayama. Della loro storia infinita.

Non voleva sapere cosa si erano detti, il perché Sana era tornata a casa in quello stato. Niente. Voleva solo smettere di soffrire e di essere parte di quella ridicola farsa.

Tutto questo, tutti questi pensieri, questa voglia di chiudere definitivamente con l’unica donna che avesse mai amato, durò il breve arco di pochi secondi, forse anche meno.

Giusto il tempo di vederla avvicinarsi a lui e lasciare che gli sfiorasse il volto con una mano, prima di poggiare la testa sul suo petto.

- Scusami, Nao.

La sentì sussurrare mentre nell’aria intorno a lui già si diffondeva il dolcissimo profumo dei suoi capelli rossi.

- Scusami. Prometto che d’ora in poi non ti farò soffrire mai più. Non esisterà nessun altro tranne te.

   Mi impegnerò con tutta me stessa per amarti come meriti.

D’istinto la abbracciò forte, attirandola a sé ancora di più e poggiando il capo nell’incavo della sua spalla.

- Mi permetterai di amarti ancora, Nao?

E davvero non ci riuscì a mettere in atto i suoi buoni propositi. Di fronte a quella domanda, non poté fare altro che ascoltare il suo cuore e mettere, per l’ennesima volta, da parte l’orgoglio.

Anche un solo istante con te, Sana, vale molto di più di tutto l’orgoglio del mondo.

- Si, ne sarei felice.

Va bene, Sana. Sarò l’uomo più felice del mondo se riuscirai ad amarmi anche la metà di quanto hai amato lui.

La sentì accoccolarsi meglio sul suo petto e non fece caso, o forse volle illudersi di non averlo fatto, a quelle strane gocce salate che gli bagnarono il petto.

 

 

 

                                                                       ***

 

Non sapeva quando, di preciso, avesse iniziato a nevicare.

Però, nel momento in cui poggiò le dita sottili sui vetri del balcone della camera da letto per scorgere il calmo paesaggio notturno, vide che un meraviglioso e soffice manto bianco aveva già ricoperto ogni cosa.

Nevicava, proprio come si conveniva alla notte della Vigilia di Natale.

E sentì di nuovo il cuore pulsare nel petto. Un battito stanco, forse malato, ma pur sempre un battito. Un piccolo, impercettibile colpo sotto le costole, per ricordarle che, nonostante tutto, era ancora viva. Che la morte che aveva sentito nelle ossa mentre scappava via da Akito ancora una volta, non aveva comunque ucciso il suo cuore.

Forse l’aveva fermato per un po’, giusto il tempo di assimilare l’ennesima delusione, di soffocare la voglia di morire al pensiero che sì, stavolta era finita davvero.

Che non c’era più posto per Sana e Akito. Almeno non in questa vita.

 

Forse in un’altra vita, Akito, riusciremo ad essere meno vigliacchi.

Forse saremo capaci di capire che quello che ci legava non andava sprecato.

Ma me ne sono resa conto troppo tardi, sai? Che un amore così meritava persone migliori. 

 

Distolse per un attimo lo sguardo dal paesaggio imbiancato e lo rivolse verso Naozumi che intanto dormiva tranquillo. Studiò con meticolosa attenzione ogni lineamento di quel volto familiare e si sentì una stupida.

Come poteva aver anche solo pensato di lasciarlo? Di lasciare un uomo così meraviglioso?

Forse perché, per un istante, aveva lasciato libero il suo cuore di scegliere. E il suo cuore aveva scelto indiscutibilmente, maledettamente, incomprensibilmente, ancora Akito.

Aveva scelto di annegare in quegli occhi dorati, di saziarsi del sapore di quelle labbra così sue e di cullarsi nell’assoluta certezza che di quel sapore non si sarebbe saziata mai.

Ma era maledettamente sciocco, e masochista, pensarci adesso. Adesso che, forse, lui stava provando il sapore di altre labbra, e annegando in altri occhi.

Mentre, solo poche ore prima, aveva promesso a Naozumi che sarebbe diventata la donna che meritava, aveva sentito una sensazione strana. Un pensiero nuovo a riecheggiare fra le pareti del suo cervello. A urlare quasi, come una condanna.

La consapevolezza che se Naozumi non l’avesse ripresa con sé, se lei non fosse stata abbastanza brava a convincerlo, allora sarebbe rimasta davvero sola.

Forse era un pensiero sciocco… che avrebbe dovuto già provare anche quando, quattro anni prima, aveva gettato al vento tutta la sua vecchia vita, come si fa con un vestito passato di moda.

Eppure quella volta era stato diverso.

C’era stata la rabbia, il dolore, folle e accecante dolore, mescolato alla voglia di fuggire lontano, di evadere da quella storia che era diventata soffocante. Di non vedere più la delusione che appariva negli occhi di Akito ogni volta che lei annunciava allegra di aver avuto una parte nell’ennesimo film. La necessità di non doversi più giustificare con nessuno e di fare ciò che amava senza restrizioni.

Salire su quell’aereo per New York doveva essere solo un modo come un altro per staccare un po’ la spina. Non era, o meglio, non doveva essere, una fine.

C’era stato il pensiero costante, il dubbio legittimo, la lontana speranza, che non sarebbe stato tutto perduto. Che quando sarebbe stata in grado di tornare a Tokyo, Akito sarebbe stato ancora, e sempre, suo.

Poi era apparso Naozumi, inaspettato come una mattina di sole in un giorno d’inverno, e il coraggio di tornare non l’aveva più trovato.

 

Si, quella volta era stato diverso.

Stavolta invece, lo stato d’animo era completamente differente. Stavolta non c’era più il beneficio del dubbio… quel pensiero che “Forse non è ancora finita…che quando gli dirò che non ho mai smesso di amarlo, allora tornerà da me.”

E invece lui non era tornato. E stavolta, davvero, era andato tutto perduto.

 

Sarà meglio che accetti una buona volta che Akito non farà più parte della mia vita.

Sarà meglio che ami Naozumi come merita di essere amato.

E pazienza se ora mi sembra di morire… e se il mio cuore continua ad urlare che non c’è abbastanza tempo, che una sola vita è troppo breve per amare qualcun’ altro come amo Akito.

Stavolta dovrà essere  il mio cuore ad accettare la mia decisione.

 

Giurò a sé stessa che non avrebbe ceduto alla voglia di piangere. Che quando Naozumi si sarebbe svegliato, la mattina dopo, sarebbe stata una fidanzata perfetta.

Ma non quella notte, non ancora.

Non mentre fuori stava ancora nevicando… non finché sul display del suo cellulare, alla voce “data” seguiva la scritta “24 Dicembre”.

Per quella notte poteva essere sé stessa, poteva sentire ancora quella voglia di morire e di correre da Akito per passare la Vigilia insieme. Per scacciare dalla loro vecchia casa qualsiasi donna osasse mettere le mani sul corpo di Akito, in quel giorno così importante.

Sospirò, alzando gli occhi  per ricacciare indietro le lacrime e vide che dal cielo notturno continuavano a scendere fiocchi di neve.

E per un istante le sembrò di vedere, nel grande giardino che circondava la sua casa d’infanzia, un bambino accovacciato sulle ginocchia, con i capelli biondi disordinati dal vento e dai fiocchi di neve, concentrarsi per creare un minuscolo pupazzo, con due piccoli sassi al posto degli occhi e due ramoscelli al posto della braccia.

Un colpo alla memoria, uno schiaffo in pieno viso, una valanga a franarle sul cuore.

Quella scena nitida, incredibilmente reale anche se così lontana. Lo stesso giardino, lo stesso cielo, la stessa bianchissima neve.

“E’ per me? Questo sarebbe il mio regalo?” , gli aveva chiesto allegra.

Lui aveva acconsentito, con il capo chino e le guance leggermente arrossate, colpa dell’inevitabile imbarazzo.

“Grazie!”, aveva risposto, sinceramente colpita dal gesto di quello che allora era per lei solo “un grande amico”.

Solo a distanza di anni capì che quella notte anche lei gli aveva fatto un regalo. Perché, anche se lì per lì non se ne accorse, era stato quello il momento in cui, per ringraziarlo, gli aveva regalato il suo cuore.

 

 

                                                                       ***

 

Il suo era stato indubbiamente un comportamento idiota. E immotivato. E masochista.

Però non c’era riuscito a comportarsi diversamente. Proprio non era stato in grado di acconsentire alla richiesta che Naoko gli aveva fatto, solo poche ore prima.

“Akito, posso passare da te stanotte?”. Un domanda semplice da capire, senza un significato nascosto, senza bisogno di interpretazioni.

Era stato così spontaneo il modo in cui la voce allegra di Naoko l’aveva formulata, che Akito si era ritrovato spiazzato. Disarmato, di fronte alla consapevolezza che anche questa Vigilia non l’avrebbe visto insieme a Sana.

E allora sarebbe stato più che legittimo permettere a Naoko di entrare nella sua casa, nella sua vita e nel suo cuore.

Nessuno avrebbe osato rimproverargli qualcosa se, a quella spensierata domanda ascoltata da dietro un telefono, avesse risposto semplicemente “Si”.

Non sarebbero serviti giri di parole, grandi discorsi che a lui non si addicevano per niente. Solo un “Si”, veloce e indolore come lo strappo di un cerotto sopra la ferita.

Perché una ferita c’era, ed era una cosa che non poteva negare.

Qualcuno era tornato per riaprirla ancora,… aveva sradicato i punti con inaudita violenza, e affondato le unghie nel taglio con cattiveria cieca.

E la ferita aveva ricominciato a sanguinare, dolorosa e copiosa come quando gli era stata inferta per la prima volta, da mani che non avrebbe mai creduto capaci di ferire.

La ferita peggiore è quella provocata dalle mani che fino ad un attimo prima ci accarezzavano.

E non sai quanto ancora faccia male.

 

E allora aveva capito che non sarebbe bastata Naoko a tamponare il suo dolore. Che il sangue non avrebbe cessato di scorrere. Che non sarebbe comunque stata in grado di salvare il suo cuore.

Per questo, dopo aver preso un profondo respiro, a quella semplice domanda aveva risposto con un rassegnato “Scusami, Naoko. Ma stanotte voglio restare solo.”

E il tono della sua voce era stato così affranto che quello “scusami” più che a Naoko, sembrava rivolto al suo cuore.. per le crepe che era stato costretto a sopportare e per l’ostinazione con la quale, nonostante tutto, continuava pulsargli nel petto.

 

Mosse qualche passo stanco per dirigersi verso il balcone che si trovava in soggiorno e poggiò le dita sulle lastre vetrate.

La neve era ovunque. Sulle strade, sulle fronde spoglie degli alberi, sulle auto immobili lungo i marciapiedi.

Era tutto incredibilmente silenzioso, muto, come una vecchia fotografia.

Quando su quel manto bianco gli sembrò di vedere due bambini scambiarsi il secondo di una serie infinita di baci, capì che l’unico modo per guarire era quello di ammalarsi ancora di lei.

Di superare l’orgoglio e il risentimento e di ammettere a sé stesso che c’era una sola verità. Chiara, semplice e innegabile come la neve che ancora stava guardando.

Ti amo ancora.. anche se non lo meriti.

Dopotutto, era così facile capirlo.

- Ti amo, Sana…

Sussurrò a bassa voce, nella vana illusione che lei potesse sentirlo.

Portò una mano sul petto e sentì che il suo cuore aveva iniziato a battere più forte.

E gli sembrò che anche la ferita facesse già un po’ meno male.

 

 

 

                                                                       ***

 

Al suo compleanno non c’aveva mai tenuto molto. Forse perché cadeva in un giorno nel quale le persone sono impegnate solo ad attendere la mezzanotte per scambiarsi i regali e darsi stupidi baci sulle guance in segno d’augurio.

Quindi, quando qualcuno le faceva gli auguri si chiedeva se glieli facesse perché era il suo compleanno o perché era la vigilia di una delle feste più importanti dell’anno.

Poi,- ed era una cosa che la faceva incazzare da morire-, aveva sempre ricevuto un unico regalo. Sarebbe stato impossibile infatti aspettarsi un regalo di compleanno e uno per Natale, visto che tra le due ricorrenze passavano appena 24 ore.

Proprio una bella fregatura, nascere la Vigilia di Natale.

Però c’era un aspetto positivo… il fatto che aveva sempre passato il compleanno circondata di persone.

Le tombolate organizzate in famiglia erano una ricorrenza irrinunciabile e, quindi, si ritrovava ogni anno seduta ad una grande tavolata, a cenare con ogni cibo possibile e immaginabile e a giocare a tombola e ad ogni gioco di carte umanamente conosciuto.

Dopotutto, non era poi così male essere nati il 24 dicembre.

Sospirò, coprendosi meglio con le coperte pesanti e stringendo le braccia intorno al petto per lenire il freddo pungente che aleggiava nella stanza.

Era indiscutibilmente la prima volta che passava il suo compleanno rannicchiata su un letto, quando la sveglia sul comodino segnava appena le 22:30.

 Bè, di certo non poteva pretendere tombolate e grandi cene fino a notte inoltrata, visto l’evento che si sarebbe consumato solo poche ore dopo.

Aya e Tsuyoshi, infatti, aveva ritenuto opportuno andare a letto molto presto. Era troppa l’ansia che li accompagnava in vista del loro imminente matrimonio.

E allora lei era rimasta sola, con il desiderio di essere lontana chilometri e chilometri da quella casa.

Di stringere forte il suo bambino e di svegliarlo presto la mattina di Natale per fargli trovare il tanto atteso regalo sotto l’albero in soggiorno.

Forza, Fuka. Presto potrai tornare a casa.

Si, bastava solo pazientare un po’. E cercare di non essere così egoista e provare a gioire per la felicità dei suoi migliori amici. E poi avrebbe potuto fare quello che le riusciva meglio… fuggire.

Fuggire ancora, e portare con sé quella inconfessabile verità. E chi se ne importa del fatto che avrebbe lasciato ad Aya l’incombenza di non rivelare un segreto così sconvolgente! Tanto lei, da donna matura e comprensiva qual’era sempre stata, avrebbe capito e non l’avrebbe mai tradita.

Scusami Aya… spero solo che un giorno riuscirai a perdonarmi.

 

 

 

                                                                       ***

 

Nella notte, lo sentì respirare tranquillo. Solo ora che tutto intorno a lei era finalmente silenzioso, poteva effettivamente rendersi conto dell’importante svolta che stava per accompagnare la sua vita in una nuova direzione, ancora più bella di quella precedente.

Ricordò che già decidere di andare a convivere con il suo ragazzo di sempre, praticamente l’unico uomo con cui avesse intrattenuto una relazione, era stato un cambiamento enorme.

Lei, che i cambiamenti li aveva sempre odiati.

Di quello, però, non si era mai pentita e, ne era certa, non si sarebbe pentita mai.

Nel buio che aleggiava nella camera da letto, si lasciò andare ad un sorriso commosso.

Ancora poche ore e sarebbe diventata la signora “Sasaki”. Ancora poche ore e Tsuyoshi sarebbe diventato suo marito. Suo marito.

Le suonava ancora così strano pronunciare le parole “Tsuyoshi” e “marito” nella stessa frase.

Da domani, dovrò iniziare ad abituarmi.

Pensò tra sé e sé, coprendosi meglio con le coperte profumate e chiudendo gli occhi nella speranza di prendere sonno.

Probabilmente, non sarebbe riuscita a dormire neppure un istante.

Pazienza.

Qualche ora di sonno sacrificata non era niente se il premio in palio era una vita intera da passare con l’uomo che amava. E lei lo sapeva bene.

 

 

                                  

                                                                       ***

 

“- Quando ti sposerai con Akito, Sanachan, che periodo dell’anno vorresti scegliere?

- Chi ti dice che mi sposerò con quell’idiota, Fukachan?

Fuka sorride, scuotendo la testa e scambiandosi uno sguardo rassegnato con Aya, seduta accanto a lei sul divano della casa che Sana e Akito hanno appena comprato.

- Oh, andiamo! Solo perché ieri avete litigato non puoi dire che non sai se lo sposerai. Non potresti sposare nessun’altro, ne sei assolutamente consapevole anche tu.

Sana sbuffa e stringe i pugni, prima di alzarsi e andare in cucina a posare il vassoio con le tazze che prima contenevano il tè preparato per le sue migliori amiche.

Quando torna nel salotto dove la stanno aspettando le sente ancora ridacchiare per lo scambio di battute avuto prima con Fuka.

Proprio non riesce a capire come le sue amiche possano anche solo pensare che lei voglia sposare un tipo incorreggibile come Akito Hayama!

- Allora Sanachan, in cucina hai trovato anche un po’ di sincerità?

La rimbecca Fuka, ghignando divertita.

- Spiritosa! Davvero molto spiritosa!

- Su, Sanachan. Sai che Fukachan ha ragione. Tu non vedi l’ora di sposare Akito.

Sulle parole di Aya, la saggia del gruppo, si limita a sbuffare e a incrociare le braccia, fintamente offesa.

Bastano pochi secondi e torna a sorridere come sempre, perché, in realtà, sa benissimo che le sue amiche hanno ragione. Lei non vede l’ora che Akito, l’incorreggibile e scorbutico Akito, le chieda di sposarlo.

- Se proprio devo sposare quell’imbecille…

Dice poi, cercando inutilmente di far sparire quel luccichio che le illumina gli occhi.

- … mi piacerebbe farlo il giorno di Natale.”

 

 

 

                                                                       ***

 

Lo spettacolo che si trovò di fronte agli occhi, non appena fu abbastanza vicina per scorgere la piccola chiesetta ad occhio nudo, la lasciò per qualche istante senza parole.

Aveva vissuto a Tokyo praticamente per tutta la sua vita, esclusi quegli ultimi quattro anni, eppure non ricordava di aver mai visto le mura antiche di quella chiesa così caratteristica. C’era qualcosa di magico nelle insenature delle pareti corrose dal tempo e dai mille uragani; qualcosa che faceva di quella piccola struttura un ponte con un’epoca lontana dove gli unici suoni che si sentivano nell’aria erano quelli soavi e gioiosi degli uccellini cinguettanti e del frusciare delle fronde degli alberi mosse dal vento, nelle fresche mattine di primavera.

Lì, in quel piccolo, piccolissimo squarcio di terra, pareva di essere tornati indietro di un bel po’ di secoli.

Ad aiutare quel ritorno al passato c’erano anche gli alberi interamente ricoperti dalla neve caduta durante tutta la nottata precedente.

Vorrei tanto sposarmi anch’io in un posto come questo.

In realtà, da quando la sua storia con Akito era finita, non aveva mai pensato all’ipotesi di potersi sposare. Si era sempre sentita mancare già al solo pensiero di poter passare il resto della vita trovandosi ogni mattina accanto un volto diverso da quello di Akito.

Però, nel sentire l’atmosfera di pace e di serenità che si respirava nell’aria in quel momento, pensò che sarebbe stato bello potersi sposare. Forse un giorno, forse neppure troppo lontano, quando il suo cuore sarebbe stato pieno di qualcuno diverso da Akito.

Quando qualcun altro, Naozumi per esempio, sarebbe stato in grado di riempire tutti i buchi della sua anima, di trovarne i tasselli mancanti.

 

- Aya e Tsuyoshi hanno scelto un bel posto vero?

In piedi accanto a lei, Naozumi le strinse una mano.

- Si, è bellissimo.

Era strano comportarsi normalmente dopo ciò che era successo appena un giorno prima. Avevano passato la notte in silenzio, ed erano andati a dormire senza che nessuno dei due trovasse il coraggio di iniziare una conversazione. E lei sarebbe stata sempre grata a Naozumi per non averle chiesto nulla di ciò che, invece, ne era certa, avrebbe tanto voluto chiederle.

Non c’era stato nessun “Sei andata da Hayama, vero?” o “Cos’è successo tra voi?” o “Sei tornata da me perché lui ti ha respinta?”. Niente. Solo un abbraccio dolce e pieno d’amore. Lo stesso amore che lei stessa si era ripromessa infinite volte di ricambiare, senza però riuscirci mai.

Stavolta, però, sarebbe stato diverso. Stavolta non ci sarebbe stato più il fantasma di Akito ad aleggiare sulla loro storia, perché il fantasma di Akito era stato debellato definitivamente il giorno precedente. Tutto era sparito su quel perentorio “Io non ti amo più”.

 

- Sana, vieni. Entriamo. Sei la testimone, non puoi arrivare in ritardo.

Santo Naozumi che, in un momento come quello, aveva anche la forza di scherzare.

Lo fai per me, vero? Perché sai che sto soffrendo.

- Si, entriamo.

Da oggi in poi ti prometto che farò di tutto per meritare il tuo amore.

- Nao, aspetta un momento…

Lo bloccò, afferrandolo per un braccio e sgualcendo appena la giacca dello smoking in seta nera che avevano comprato insieme qualche tempo prima. Un’idea nuova, forse folle, a balenarle in testa.

E giuro che ti amerò anche di più di quanto io abbia mai amato Akito.

- Cosa c’è, Sana? Qualcosa non và?

Forse amarti come ho amato lui sarebbe già abbastanza.

- Naozumi, vorresti sposarmi?

 

 

***

 

“- Che accidenti significa che è partita?

- Esattamente quello che ho detto, Tsuyoshi. Sana è partita.

Si alza di scatto, scuotendo la testa sconvolto per la confessione del suo migliore amico.

- Per dove? E, soprattutto, quando tornerà?

Akito si stringe nelle spalle, cercando di nascondere quella tristezza nello sguardo che, invece, Tsuyoshi nota in meno di un istante.

- Dovrebbe essere a New York per girare l’ennesimo film e no, non credo che tornerà.

- COSA? AKITO, SIETE FORSE IMPAZZITI?

Oh,si. Devono essere assolutamente impazziti perché Tsuyoshi non ce la fa proprio a concepire l’idea che quei due, gli stessi imbecilli che c’hanno messo anni per dichiararsi il loro reciproco amore, che per tutta la vita non hanno fatto altro che amarsi, alla fine abbiano deciso di separarsi.

- Và al diavolo anche tu, Tsuyoshi!

- O no, bello mio! Così è troppo facile! Ora mi spieghi tutto come si deve. Dimmi per quale cazzo di motivo la tua ragazza è andata via senza darti il minimo preavviso!

- Le ho chiesto di rinunciare e lei ha scelto di partire comunque. Non c’è nient’altro da spiegare.

- Bene. Davvero ottimo, Akito. Complimenti.

- CHE CAZZO VUOI CHE TI DICA? Ha scelto lei di andare via.

- E tu, ovviamente, non hai fatto nulla per fermarla.

Ancora non gli sembra vero. Prenderebbe a schiaffi il volto di Akito se poi non fosse assolutamente certo che sarebbe lui stesso ad avere la peggio.

- Ho scoperto che è partita solo stamattina, quando sono tornato a casa e lei non c’era più.

- Mio Dio… Sana non può averti fatto questo.

- A quanto pare invece l’ha fatto eccome.

Improvvisamente, la voglia di prendere il suo amico a schiaffi lascia il posto all’impulso di abbracciarlo forte. È peggio di una pugnalata al cuore vedere quegli occhi così spenti.

- Quindi non… non le hai chiesto quella cosa?

Akito si lascia andare ad un mezzo sorriso, ma Tsuyoshi sa benissimo che, in realtà, il suo amico non vede l’ora di piangere.

- Vuoi sapere se ho fatto in tempo a chiederle di sposarmi prima che mi abbandonasse? No, Tsuyoshi. Non ho fatto in tempo.”                                                                

 

 

/*/

 

 

Note dell’autrice: Si, lo so benissimo che molte di voi vorranno uccidermi per il modo in cui ho concluso il capitolo. Però non disperate.. ho intenzione di continuare con questa storia ancora per un po’, e quindi dovranno succedere ancora molte cose! ;)

Che dire? Questo è un capitolo introspettivo, uno di quelli che amo tanto scrivere, anche se fondamentalmente non succede niente di rilevante. Ma posso assicurarvi che gli sviluppi “importanti” arriveranno eccome! ^^

I soliti ringraziamenti di rito per tutte voi che mi seguite sempre e mi riempite di complimenti! Vi adoro infinitamente! ;)

Aspetto ovviamente recensioni.

A prestissimo! ^^

 

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Capitolo 10
*** CAPITOLO DIECI: CHIESE ***


Welcome To PageBreeze

Ed ecco il decimo! ;) Ci risentiamo alla fine del capitolo. ^^

 

 

 

CAPITOLO DIECI : CHIESE

 

 

Le Chiese, a lui, non erano mai piaciute. Il motivo principale andava ricercato nel fatto che non era mai stato un tipo molto religioso e, quindi, le uniche volte che ci metteva piede era per la Messa di Natale e per altre sporadiche ricorrenze.

Eppure, agli spiriti ci credeva eccome. Da quando sua madre gli era apparsa, mentre, ferito da una coltellata di Komori, lottava tra la vita e la morte,- più vicino alla morte che alla vita-, si era convinto dell’esistenza di qualcosa di sovrumano, qualcosa che c’era, al di là di ciò che gli occhi potevano scorgere.

Però neppure quella visione, che di certo non avrebbe mai dimenticato, era bastata per farlo diventare un vero “credente”.

Poi, il fatto di sposarsi in una Chiesa, davanti ad un uomo che si arrogava il diritto di rappresentare niente po’ po’ di meno che Dio, non l’aveva mai sopportato.

Se fosse dipeso da lui, i matrimoni neppure sarebbero esistiti.

Perché il “ti amo”, il “per sempre”, il “voglio vivere il resto della mia vita con te”, avevano molto più valore se sussurrati nell’orecchio della persona amata, quando nessun’ altro poteva sentire.

Però, per Sana, queste cose le avresti gridate al mondo intero.

Si, era vero. Il pensiero di sposarla era nato dal nulla, in un giorno qualsiasi, mentre l’aveva guardata cucinare,- o perlomeno, provare a farlo-,  e in quel grembiule legato di fretta dietro la schiena e in quei capelli raccolti malamente in un’acconciatura tutt’altro che perfetta,  aveva tanto sentito il profumo di casa. E poco importava che, all’epoca, avessero ancora meno di vent’anni, perché lui era assolutamente certo che non ci sarebbe mai stata altra donna con la quale avrebbe desiderato formare una famiglia. Una di quelle vere, con i figli, i problemi e tutto il resto.

E gliel’avrebbe chiesto davvero, di sposarlo. Se solo lei gliene avesse lasciato il tempo.

Dovevamo esserci noi due, fuori da questa Chiesa. Dovevi essere tu, quella con l’abito bianco.

 

- Akito, finalmente sei arrivato! Su, muoviti! Aya sarà qui a momenti e io ho bisogno del mio testimone!

Tsuyoshi arrivò correndo verso di lui che, ancora, non aveva avuto il coraggio di oltrepassare l’ingresso.

- Non dirmi che manco solo io! Gomi è arrivato prima di me?

Scherzò, cercando di smorzare la tensione e di far sparire l’espressione ovviamente nervosa che aleggiava sul volto del suo amico.

- Certo che è già arrivato! Lo vedi? È già sull’altare!

Gli disse, indicando l’altare addobbato a festa che si stagliava alla fine del lungo corridoio contornato da corone fiorate.

Akito, oltre alla figura sempre buffa di Gomi, ne notò un’altra; Al capo opposto del piccolo altare in legno, Sana se ne stava immobile, i capelli raccolti in una morbida acconciatura e il seno lasciato appena scoperto dalla profonda scollatura del suo vestito blu.

Dio, era bellissima.

Accanto a lei, Hisae gesticolava, raccontando qualcosa che, di certo, Sana non stava neppure ascoltando.

- Allora, Akito! Ti muovi o no?

- Eccomi, eccomi…arrivo.

Si lamentò entrando in Chiesa. Nel tragitto che lo conduceva all’altare non si voltò neppure un istante. D’altronde, non c’era nessuno di particolarmente interessante da vedere.

Alzò lo sguardo solo quando ebbe di fronte la figura snella di Sana. Lei lo guardò un istante e ,- forse era colpa del phard particolarmente acceso-, le sue guance presero colore.

Akito la salutò con un minuscolo cenno del capo, cenno che poi riservò anche ad Hisae e a Gomi.

In prima fila, stranamente seduti l’uno accanto all’altra, c’erano Fuka e Kamura. Quest’ultimo, non appena si accorse della sua presenza, smise di conversare con Fuka per riservargli uno sguardo truce al quale sostituì subito uno dei suoi soliti e fastidiosissimi sorrisini.

A quanto vedo, ti sei ripreso Sana anche stavolta, eh?

Pensò tra sé, e quasi provò compassione per l’uomo che aveva sempre odiato.

Poi, però, lo vide alzarsi e avvicinarsi a Sana, per lasciarle un bacio sulle labbra e sussurrarle qualcosa che, ne era certo, somigliava ad un “si”.

Non capì il motivo di quella piccola, minuscola parola, ma, vedendo il sorriso che generò sul volto di Sana, fu certo che la compassione che aveva creduto di provare per Kamura appena un istante prima, era già sparita.

 

 

***

 

 

Non avrebbe saputo spiegare bene il motivo, ma il matrimonio di Aya e Tsuyoshi se l’era immaginato molte volte nella sua testa. Forse perché, per le ragazze, è praticamente normale immaginare il matrimonio delle loro migliori amiche. Fa parte di quelle cose delle quali si discute tra i banchi di scuola, in una pausa tra le lezioni sempre troppo noiose, o passando davanti ad un negozio di abiti da sposa.

Un tempo, parlare di matrimonio era diventata una cosa più che normale. Da quando, un giorno in mensa, Sana se n’era uscita con quella stupida scommessa sul “Chi si sarebbe sposata per prima”.

La stessa Sana che avrebbe voluto sposarsi il giorno di Natale.

Che avrebbe voluto sposare il suo Akito.

E che invece se ne stava lì, accanto ad una sempre raggiante Hisae, a fare da testimone all’amore che legava Aya e Tsuyoshi, nello stesso giorno che sarebbe dovuto essere il suo.

 

Cos’hai pensato quando hai saputo che si sarebbero sposati proprio a Natale?

Ti sei arrabbiata con Aya?

L’hai odiata perché ti ha rubato il sogno? O le hai voluto ancora più bene perché hai pensato che forse l’ha fatto proprio perché tu, il tuo sogno, non eri riuscita a viverlo?

 

Si rese conto che non l’avrebbe saputo mai, perché mai avrebbe avuto il coraggio di chiederglielo.

Accanto a lei, vide Naozumi alzarsi per avvicinarsi a Sana e sentì una sorta di nodo alla gola, un senso di estraneità nel vederli insieme, perché ancora, per lei, Sana sarebbe sempre appartenuta ad Akito.

È un po’ ipocrita questo ragionamento fatto da te, non credi?

Si, lo credeva. Ma Akito, Sana l’aveva perso ancora prima di quella notte. L’aveva perso quando, inspiegabilmente,- inspiegabilmente, almeno per lei-,  aveva preferito il lavoro all’amore della sua vita.

Osservò attentamente il volto di Naozumi avvicinarsi a quello di Sana, forse per sussurrarle qualcosa in un orecchio. Quando lui si allontanò per tornare a sedersi accanto a lei, poté vedere un bellissimo sorriso nascere sul volto di Sana.

D’istinto, voltò il capo verso Akito, forse per vederne la reazione, e non si stupì affatto dello sguardo gelido che trovò ad oscurargli il volto.

Dedurre che Akito era ancora innamorato di Sana, era una cosa così semplice che persino un bambino l’avrebbe capito.

In effetti, anche il sorriso che ancora aleggiava sulle labbra di Sana insidiò nella sua mente un legittimo dubbio.

Era un sorriso bellissimo. Talmente bello, da sembrare finto.

 

 

                                                                       ***

 

Lo scintillio emozionato che vide negli occhi di Aya, mentre lei, con quelle labbra rosse che aveva sfiorato infinite volte, pronunciava il fatidico “Si”, era qualcosa che difficilmente avrebbe dimenticato.

Anzi, con moltissima probabilità, non l’avrebbe dimenticato mai.

In realtà, in cuor suo sperò di non dimenticare mai neppure il più microscopico particolare di quella che, come facilmente prevedibile, era diventata la giornata più bella di tutta la sua vita.

E mentre prendeva l’esile mano di sua moglie per infilare al suo dito l’anello che l’avrebbe resa veramente sua, non poté fare a meno di chiedersi il motivo per cui la gente non corresse a sposarsi in ogni momento.

Ogni persona avrebbe dovuto gioire della gioia della quale lui stava gioendo in quel momento.

Altruista come solo Tsuyoshi sapeva essere, desiderò con tutto se stesso che le persone alle quali voleva bene, potessero un giorno provare anche solo la metà della felicità che stava provando lui in quel momento.

Lo desiderò per tutti, specialmente per Akito e Sana.

 

 

                                                                       ***

 

Durante la cerimonia, si domandò più e più volte se quella strana voglia di piangere che sentiva nel cuore, fosse una cosa del tutto normale.

Se era dovuta semplicemente alla gioia che provava per Aya e Tsuyoshi, una commozione legittima, la commozione tipica della “migliore amica”.

O magari all’indifferenza di Akito, che, per tutta la durata del rituale in Chiesa, non le aveva riservato che un misero sguardo.

Fatto sta che aveva avuto una dannatissima voglia di piangere. E avrebbe pianto, se solo Naozumi non le si fosse avvicinato per dirle che anche lui voleva sposarla.

Nel sentire quella minuscola parola, quel “si” sussurrato in un orecchio, in un primo momento si era sentita felice. Si, proprio felice.

E si era ritrovata a sorridere, uno di quei vecchi sorrisi, quelli che un tempo le appartenevano e ai quali nessun’altro sapeva dare vita. Perché erano suoi. Suoi e basta.

Ma la realtà che conosceva, quella che le dava motivi per sorridere ogni secondo, non c’era più.

E i suoi sorrisi non duravano che qualche istante.

E così, come tutti quelli ai quali aveva dato vita da quando si era trasferita a New York, anche quello sparì dopo pochi secondi.

E l’espressione disincantata con la quale conviveva da ormai parecchio tempo, era tornata prepotente a modificare i lineamenti del suo bellissimo viso.

Quella luce che le si accendeva negli occhi non appena le sue labbra si curvavano in un sorriso, non c’era più. Era sparita insieme a quei buffi e caratteristici codini e a quel vizio di parlare sempre, anche quando non c’era niente da dire.

Colpa del tempo che passa, aveva sempre pensato.

Forse aveva ragione. In effetti, il tempo è ciò che più di ogni altra cosa, riesce a farci cambiare.

E allora perché, il giorno prima, mentre baciava Akito, aveva avuto voglia di mettersi a urlare? E di ridere, come una sciocca, a perdifiato e senza un apparente motivo?

Perché contro Akito, il tempo non sembrava avere alcun potere?

 

- Sana, come mai prima sorridevi? Naozumi ti ha detto qualcosa di bello?

Il tempo, comunque, sembrava non aver avuto potere neanche su Hisae, estroversa e curiosa come la bambina della sesta elementare che, ogni tanto, l’aveva aiutata a studiare.

- Non ricordo di preciso. Comunque niente di particolare.

Certo, Sana. In effetti il fatto che ti ha detto che sarebbe felice di sposarti non è niente di particolare, vero?

- Mmmm.. capisco.

Hisae sembrava leggermente delusa. Forse l’atmosfera romantica che aleggiava in Chiesa, mentre Aya e Tsuyoshi si scambiavano le fedi, le vite, le anime, faceva venire voglia di notizie importanti.

- Tu non hai mai pensato di sposarti, Sana?

La domanda tanto temuta era arrivata, puntuale come una condanna.

- Per ora è un pensiero abbastanza lontano. Io e Nao siamo sempre così impegnati con il lavoro.

Vide Hisae alzare un sopracciglio e scuotere la testa.

- Peccato, però. Sono sicura che lui ti sposerebbe anche adesso.

Su, Sana. Diglielo che avete appena deciso di sposarvi! Dille che anche tu lo sposeresti ora, quella meraviglia d’uomo che hai accanto. Dille che presto lo sposerai davvero. E che non vedi l’ora di vederlo ad aspettarti impaziente di fronte all’altare.

- Io lo amo, Hisae. Lo amo tanto.

- Lo so, Sana. Perché me lo dici adesso?

Giusto, perché glielo diceva? Nessuno aveva mai messo in dubbio il suo amore verso Naozumi.

- Mi sembrava opportuno fartelo presente.

Hisae sorrise, un sorriso che Sana non riuscì a decifrare, e poi tornò a concentrarsi su Aya e Tsuyoshi che, nel frattempo, si stavano scambiando il fatidico “bacio dopo il sì”.

Solo in quel momento, Sana notò che Akito la stava guardando. Non appena si rese conto che non sarebbe stata in grado di reggere oltre il suo sguardo, rivolse il capo verso Naozumi e gli sorrise.

Si, lei lo amava tantissimo. E l’avrebbe sposato il prima possibile.

Il fatto che ancora non fosse pronta per dirlo ad alta voce ai suoi vecchi amici, non voleva dire proprio niente. Avere paura, dopotutto, era legittimo.

Si, era normale che avesse paura.

E al fatto che, se guardava Akito, se immaginava il loro ultimo bacio, sentiva persino le viscere contorcersi per la voglia di baciarlo ancora, ritenne opportuno non dare importanza.

 

 

 

                                                                       ***

 

Una piccola, minuscola, chiesetta, in una strada possibilmente poco affollata, in mezzo agli alberi, pochissimi invitati,- solo quelli che proprio non potevano mancare-, e lei che avanzava radiosa per andargli incontro, avvolta in un lunghissimo abito bianco.

Era così che, un tempo, immaginava il giorno del suo matrimonio. Capitava spesso durante la notte, quando rigirandosi tra le coperte, si ritrovava di fronte al viso addormentato di Sana.

In quei momenti, era solito convivere con la voglia di prendersi a pugni da solo, perché a un tipo “tosto” come Akito Hayama non era permesso fare fantasie sul giorno del suo matrimonio.

Quella che amava fantasticare, immaginare tutto nei minimi particolari, era sempre stata Sana.

Se ci pensava, era una cosa abbastanza buffa. Non le aveva mai chiesto di sposarlo, eppure lei all’epoca parlava di matrimonio come se avessero dovuto sposarsi da un momento all’altro.

Nel brevissimo periodo nel quale avevano convissuto, erano state molte le sere passate sul divano, ad ascoltare le assurde fantasticherie matrimoniali che solo una mente contorta come quella di Sana avrebbe potuto partorire.

Una volta, e lo ricordava benissimo,- come se quei dannatissimi quattro anni non fossero mai passati-, si era fissata con il matrimonio in spiaggia. Con il mare, il tramonto, e tutto il resto.

Lui c’aveva messo un bel po’ per farle capire che, visto il suo desiderio di sposarsi a Natale, non era esattamente l’ideale sposarsi all’aperto e a due passi dal mare in tempesta.

Ricordò persino di essere scoppiato a ridere, nel vedere l’espressione demoralizzata che comparve sul volto di Sana.

Non rideva da un bel po’, in effetti.

L’unica persona che riusciva a far apparire sulle sue labbra qualcosa simile ad un sorriso, era Tsuyoshi.

Lo stesso Tsuyoshi che, proprio in quel momento, stava uscendo dalla Chiesa, con una mano raccolta sul capo, per proteggersi dalle valanghe di riso che, da lì a breve, gli sarebbero piombate addosso, e con l’altra a stringere forte quella di sua moglie.

Vedere quella scena lo fece sorridere.

E sorrise davvero, almeno fino a quando non notò che, a pochi passi da lui, Kamura stava passando le braccia intorno alla vita di Sana, per stringerla in un disgustoso abbraccio.

Non fare l’idiota, Akito. È un abbraccio. Non può essere disgustoso.

Però il senso di nausea c’era. Ed era anche molto forte. Ma venne sostituito da un sentimento molto simile al terrore, non appena una domanda gli si materializzò cristallina dentro al cervello.

E se lui, un giorno, dovesse sposarla?

Al matrimonio di Sana con qualcun altro, in effetti, non c’aveva mai pensato.

Inoltre, dopo che lei gli aveva confessato di amarlo appena un giorno prima, aveva covato l’egoistico pensiero che non sarebbe tornata da Kamura. Che non avrebbe avuto il coraggio di stare, ancora, con un uomo che non amava. O che forse amava anche, ma mai, mai quanto era stata capace di amare lui.

Non trovi che sia presuntuoso da parte tua pensare una cosa del genere?

No, affatto. Sulla considerazione che Sana non avrebbe mai amato nessuno come aveva amato, anzi, come amava lui, non c’erano dubbi.

E allora perché era tornata da Kamura? Perché, ancora una volta, si accontentava?

Sei una vigliacca, Sana.

Verissimo. Non aveva mai conosciuto nessun’altro con un livello di vigliaccheria pari a quello della sua ex.

Sana era una vigliacca. Così vigliacca che, prima o poi, quell’idiota di Kamura l’avrebbe anche sposato.

Ma non era forse un vigliacco anche lui che ancora si ostinava ad ignorare quella voragine che sentiva aprirsi nel petto se solo la immaginava avanzare allegra e indossare quel lunghissimo abito bianco per qualcun altro?

Non c’è nessuna voragine nel mio petto.

Per un istante, tra quel mare di persone, incontrò gli occhi di Sana e scosse la testa, trattenendo a stento la voglia di prendere a pugni il muro della Chiesa.

Non poteva, non doveva essere il suo cuore quello che, nel guardarla, iniziava a battere più forte e che invece per poco non moriva, nel vederla distogliere lo sguardo e rivolgerlo a Kamura.

Forse si, forse sono un vigliacco anch’io.

 

 

 

                                                                       ***

 

 

Non appena mise piede nell’enorme ristorante che Aya e Tsuyoshi avevano scelto per ospitare il loro ricevimento, divise equamente i suoi sguardi tra la “coppietta felice” e un silenziosissimo Akito.

Poi, quando il suo cuore sentenziò di non poterne più di quei visi che gli provocavano così tanto dolore, si concentrò sull’ambiente circostante.

La sala era stata addobbata in modo davvero superbo.

Il buon gusto, dopotutto, era sempre stata una caratteristica essenziale di Aya.

E poi era una sala talmente grande che pareva quasi di potersi perdere tra le enormi vetrate che si affacciavano su un giardino altrettanto meraviglioso.

Tsuyoshi deve guadagnare davvero bene, se può permettersi un posto così!

Quel pensiero le fece tornare in mente che lei, invece, a mala pena arrivava a fine mese e aveva un figlio da mantenere.

La vita, a volta, sapeva essere incredibilmente ingiusta.

 

- Davvero un bel posto, non trovi Fuka?

Voltò il capo nella direzione dalla quale proveniva la voce che aveva appena parlato e si ritrovò di fronte al volto allegro e sorridente di Hisae.

- Già. È stupendo.

Rispose, sperando di apparire molto più felice di quanto in realtà non fosse.

Hisae le sorrise, passandosi una mano tra i capelli biondi, che le arrivavano appena sotto le spalle.

Fuka si concesse un secondo per osservare la sua vecchia amica e si rese conto che, quasi certamente, quella era la prima volta che la vedeva con i capelli lasciati sciolti, senza quelle buffissime  treccine arrotolate ai lati della testa.

Una cosa che proprio non era mai riuscita a capire, era il motivo per cui Hisae avesse sempre quell’incomprensibile vizio di legare i capelli in quella ridicola acconciatura!

Ora che finalmente poteva vedere i suoi capelli ricaderle sulle spalle in morbidissimi boccoli, si rendeva conto di quanto il viso di Hisae ne guadagnasse in bellezza e femminilità.

Crescere è stato un bene proprio per tutti, allora.

- A che tavolo sei seduta?

Le chiese Hisae, che nel frattempo era stata raggiunta da un sempre goffissimo e poco raffinato Gomi.

Si strinse nelle spalle, cosciente del fatto che Aya non le avesse ancora detto quale fosse il suo posto.

Poi, poco lontano da lei, vide Sana sbracciarsi allegra per farle cenno che il suo posto era lì, proprio allo stesso tavolo al quale stavano seduti lei e Naozumi.

Sentì il cuore sobbalzarle nella gola e mozzarle il respiro. Lanciò uno sguardo terrorizzato ad Aya, come per chiederle spiegazioni, ben cosciente del fatto che, con moltissima probabilità, la suddivisione dei tavoli era stata decisa molto prima che Aya scoprisse il suo “piccolo segreto” e che la neo-sposa avesse decisamente troppe cose a cui pensare, cose alle quali dare la priorità, rispetto ad un posto al tavolo sbagliato.

Tra l’altro, Aya, il suo sguardo terrorizzato, neppure lo notò, troppo bella e radiosa accanto al suo Tsuyoshi per preoccuparsi del suo meritatissimo senso di colpa.

- Oh, sei al tavolo con Sana e Naozumi a quanto vedo! Noi invece siamo con Akito!

Affermò Hisae, prima di lasciarsi trascinare da Gomi, che non vedeva già l’ora di prendere posto per iniziare a mangiare.

Fuka li osservò dirigersi allegri al tavolo che Aya e Tsuyoshi avevano scelto per loro e invidiò follemente la loro spensieratezza.

Vide Akito lanciarle uno sguardo distratto e subito abbassò il capo, restando immobile per qualche secondo a fissare le fredde mattonelle del pavimento.

Forse non è vero che crescere è stato un bene per tutti.

Facendo leva su tutto il coraggio di cui era capace, si incamminò verso il suo tavolo per sedersi vicino a Sana, che la accolse con un enorme sorriso.

Per poco, non scoppiò a piangere.

Per me, di certo, non lo è stato .

Solo ora che le sedeva accanto, poteva notare quanto il loro tavolo e quello al quale sedeva Akito fossero lontani.

Capire che la motivazione di quella siderale distanza fosse il fatto di voler tenere “distanti” Sana e Akito, fu una cosa semplicissima.

Una cosa semplicissima, che però la fece sentire molto triste.

Rivolse uno sguardo alla sua ex migliore amica e le sorrise, fingendo di non aver notato il velo di malinconia che le offuscava le bellissime sfaccettature dei suoi occhioni cioccolato.

Forse, Sana, crescere non è stato un bene neppure per te.

 

 

 

                                                                       ***

 

Li osservò più volte, durante quella lunga, lunghissima serata.

Ovviamente, la quasi totalità delle sue attenzioni furono rivolte a quello splendore di donna che era appena diventata sua moglie.

A fatica, riuscì a staccare gli occhi da quel viso così dolce e perfetto, da quei lineamenti così incredibilmente belli, per indirizzarli nella direzione dei tavoli ai quali erano seduti, ovviamente, Sana e Akito.

Si maledisse più volte, perché davvero non riusciva a capacitarsi del perché non si convincesse una buona volta a lasciarli in pace. A lasciare che ci morissero annegati, nel loro fottutissimo orgoglio.

Perché li aveva visti quegli sguardi che di tanto in tanto Akito lanciava a Sana, e, in quegli occhi spenti c’aveva rivisto quell’antica rabbia, quella voglia di mandare a quel paese tutto e tutti e di tornare il ragazzino stronzo dal cuore di ghiaccio.

E la cosa che più lo faceva arrabbiare era il fatto che fosse assolutamente certo che Sana lo amasse ancora. Perché la Sana che se ne stava seduta accanto a Naozumi, che gli sorrideva allegra e che di tanto in tanto gli accarezzava il viso, non aveva niente in comune con la Sana di Akito.

E Tsuyoshi lo sapeva, perché gli era rimasto appiccicato nella mente quel luccichio che le appariva negli occhi se solo Akito la sfiorava.

Quei sorrisi, quei gesti leggeri, quegli sguardi distratti che parevano urlare mille volte “Ti amo”.

Quei sorrisi, quei gesti leggeri, quegli sguardi distratti che non avevano niente a che vedere con quelli che riservava a Naozumi.

In qualche modo, la vera Sana era rimasta con Akito, così come il vero Akito era rimasto con Sana.

Neppure un bravo ragazzo dolce e innamorato come Naozumi sarebbe stato in grado di rappresentare per Sana neppure la metà di ciò che aveva sempre rappresentato Akito.

Era questa la cosa che più di tutte lo faceva incazzare.

Non la si può sprecare così, un’anima gemella.

 

- Tesoro, guarda, sta arrivando la torta!

Gli fece notare Aya, balzando in piedi di scatto e muovendo nell’aria una bellissima scia di profumo.

Tsuyoshi la imitò, alzandosi e stringendole la vita esile con un braccio.

Non appena il cameriere depose l’enorme torta nuziale di fronte a loro, rivolse un ultimo, fugacissimo sguardo al suo migliore amico e vide che lui, al contrario, stava ancora osservando Sana.

Sana che faceva finta di non vederlo, ma che non appena Naozumi si distraeva a parlare un attimo con Fuka, ricambiava lo sguardo.

Vedere certe scene, contribuì solo a fargli aumentare la voglia di prendere a schiaffi entrambi.

- Tesoro, tutto ok? Ti eri incantato? Dobbiamo tagliare la torta!

- Mi ero distratto un attimo, tesoro. Ora sono tutto per la mia bellissima moglie.

Aya gli sorrise splendida e lo baciò delicata sulle labbra. Lui ricambiò con amore, ripromettendo a se stesso che di quei due imbecilli non avrebbe voluto sapere più nulla.

 

Però credo che, alla fine, sarà solo questione di tempo.

Credo che Sana capirà che fare l’attrice non vuol dire dover recitare anche nella vita.

Credo che Akito troverà il coraggio necessario per ammettere a se stesso di non averla mai dimenticata e per perdonarla.

O almeno lo spero.

Dopotutto, la miriade di consigli dati in questi anni non possono andare perduti, no?

 

 

                                                                       ***

 

Guardare Sana e Fuka che, sedute allo stesso tavolo, si sorridevano continuamente e parlavano del più e del meno, era una scena alla quale mai nella sua vita avrebbe voluto assistere.

Troppe erano le somiglianze, le analogie che collegavano quell’allegro quadretto ai pomeriggi passati al luna park, dopo la scuola. E ai discorsi assurdi che solo loro due, in qualità di “migliori amiche”, erano in grado di capire.

“Ho conosciuto una ragazza fantastica, Hayama! Si chiama Fuka! Credo che diventeremo ottime amiche!”

Erano state esattamente queste le parole con le quali Sana aveva annunciato l’ingresso di Fuka Matsui nelle loro vite, il giorno dell’ingresso alle scuole medie.

Se qualcuno le avesse guardate ora, sorridenti e allegre, avrebbe certamente dedotto che la previsione dell’allora adolescente Sana, si era avverata.

Che Sana e Fuka erano davvero diventate ottime amiche. E che non si erano mai separate.

E invece Akito sapeva benissimo che le parole che si stavano scambiando, i sorrisi che di tanto in tanto si regalavano, non avevano nulla a che vedere con gli assurdi discorsi e le risate a perdifiato di quei lontani giorni di scuola.

E sapeva altrettanto bene che la colpa, in un modo o nell’altro, era stata sua.

Lui aveva portato Sana ad andare via, a scappare dalla città nella quale era nata e cresciuta, dai suoi più cari amici, dai suoi familiari, per rifugiarsi in una vita che di lei non sapeva nulla.

E sempre lui aveva portato Fuka a tradire la sua migliore amica. A tradirla nel peggior modo possibile, nel modo in cui mai nessuno dovrebbe essere tradito.

Nella sua vita, Akito Hayama aveva fatto molte cose brutte, cose delle quali non andava fiero, cose che avrebbe volentieri cancellato con un colpo di spugna.

Aver portato Sana e Fuka a separarsi era stata indubbiamente la peggiore.

E mentre continuava a guardarle scambiarsi gesti costruiti ad arte e sorrisi che non sapevano più brillare, sentì l’impellente bisogno di chiedere scusa ad entrambe.

Ma ovviamente, lasciò che quel bisogno gli morisse nella gola.

 

 

 

                                                                       ***

 

 

Dovette riconoscere a sé stessa di essere stata più forte del previsto.

Era “rinchiusa” nello stesso salone nel quale si trovava anche Akito da quasi tre ore a ancora non aveva sentito quella solita voglia di scappare.

Forse per merito di Naozumi, che l’aveva perdonata senza indugio e che aveva accettato di sposarla senza tradire il minimo segno di incertezza.

O forse per merito di Fuka, che, durante quella lunghissima cena, le aveva fatto ricordare com’era bello poter avere una migliore amica.

Che le aveva parlato come le parlava un tempo, senza riserve o stupidi timori.

Che era stata semplicemente Fuka. E che le aveva permesso di essere quello che non riusciva ad essere da molto tempo… semplicemente Sana.

 

- Oh, guarda Sana! Aya e Tsuyoshi stanno aprendo le danze!

Le fece notare un Naozumi entusiasta. Lei proiettò lo sguardo sul punto della sala indicato dal suo ragazzo e non riuscì a non sorridere nel vedere quella scena così romantica.

Aya e Tsuyoshi erano davvero meravigliosi insieme, la coppia più bella che avesse mai visto.

A parte te e Akito, ovviamente.

Le sussurrò la sua coscienza, come per infliggerle una rabbiosa pugnalata al petto.

Pugnalata che arrivò, puntuale e dolorosa come ogni pensiero che portava il nome di Akito.

 

- Amore ti và di ballare?

Tornò a guardare il volto sereno di Naozumi e sorrise.

- Certo, Nao! Facciamo vedere ai neo sposi che siamo noi la coppia migliore!

Sperò con tutta sé stessa che lui avesse apprezzato l’umorismo e che non avesse minimamente sospettato che dietro quella battuta si celasse una spaventosa voglia di urlare.

- Oh, ma sono sicuro che anche loro sanno benissimo che siamo la coppia migliore!

Le rispose, facendole un occhiolino in segno di complicità, alzandosi dal tavolo e porgendole una mano per invitarla a ballare.

Sana ridacchiò, stringendo forte la mano di Naozumi e seguendolo al centro del salone, dove la maggior parte degli invitati avevano già iniziato a danzare.

 

 

 

                                                                       ***

 

 

“- E che ne dici di un corso di ballo?

- Spero vivamente che tu stia scherzando, Kurata.

- Oh, andiamo Akito! Possibile che non ti vada di fare nulla? Dedichi il tuo tempo solo al karate!

- Bè ritengo che il karate sia un impegno più che sufficiente, specialmente ora che sto cercando di aprire una palestra tutta mia.

Sana incrocia le braccia e alza gli occhi al cielo, visibilmente contrariata.

-Se è per questo, uomo dai mille impegni, anch’io ho un lavoro che mi tiene occupata! Ma ciò non vuol dire che non posso desiderare di fare qualcosa con il mio fidanzato! O sbaglio?

Akito si stringe nelle spalle, non degnandola neppure di uno sguardo, troppo concentrato a guidare per le strade affollatissime di un sabato pomeriggio di Tokyo.

- Ora neanche rispondi? Bene! Vorrà dire che al corso di ballo c’andrò da sola!

Ecco, esattamente le parole con le quali, sapeva bene, Akito sarebbe crollato.

- Cos’hai detto scusa? Dov’è che vai da sola?

Si lascia andare ad una piccola risatina, stando ben attenta a non farsi sentire da lui.

- Hai capito benissimo! Se non verrai con me andrò da sola. Tanto ci saranno un sacco di uomini disposti a farmi da cavaliere.

Lo sguardo furente che Akito le riserva è esattamente l’effetto che sperava di ottenere con quella frase.

- Oh, andiamo. Non lo faresti mai. Da sola ti annoieresti a morte.

- Tu credi?

Gli chiede, cercando di sembrare seria.

- Ne sono assolutamente convinto.

- Bene, Akito. Allora sei pronto a rischiare? Potrei divertirmi molto anche senza di te.

Lo vede mordersi il labbro inferiore, segno del suo visibile nervosismo.

- Maledizione, Kurata. E và bene! Proviamo questo dannatissimo corso di ballo!

Sana si lascia andare ad un sorriso splendido e ad un’espressione evidentemente soddisfatta.

Ha vinto lei anche stavolta.

- Akito..?

- Ora che altro vuoi?

- Accosta un attimo.

- Per quale motivo?

- Tu accosta.

Akito alza gli occhi al cielo e acconsente, tanto per cambiare, alla richiesta della sua fidanzata.

Non appena il motore dell’auto si spegne, lei gli si getta tra le braccia e lo bacia con  foga.

Lui, ovviamente, è ben lieto di rispondere a quel gesto inatteso.

- Ora capisci perché ti ho chiesto di accostare? Stavo impazzendo per la voglia di darti un bacio.

Anche Akito stavolta si lascia andare ad un sorriso.

Sana sarà anche un’egoista che lo “costringe” a fare tutto quello che le passa per la testa, ma è anche vero che sa sempre trovare il modo per ricompensarlo.”

 

 

 

                                                                       ***

 

Saldamente seduto sulla sua sedia, constatò che le poche lezioni di ballo che aveva preso con Sana non erano servite a nulla, almeno per lei.

Ciò che stava facendo con quell’idiota di Kamura non poteva essere definito, neppure nell’universo più remoto, un ballo.

Piuttosto, era solo uno stare in piedi abbracciati e muovere i piedi ogni tanto, per far vedere che non erano ancora diventati due statue di marmo.

Una scena davvero patetica, Kamura.

Se solo ci fosse stato lui a ballare con Sana, la scena sarebbe stata completamente diversa.

Certo, non era un ballerino provetto neppure lui,- anche perché aveva preso sì e no una diecina di lezioni-, ma di certo avrebbe saputo fare molto meglio.

Non se ne sarebbe stato immobile come un emerito imbecille e avrebbe saputo far sembrare stupendo anche il più goffo dei movimenti.

Stupendo, perché l’avrebbe fatto con lei.

Lei che amava ballare, e che l’aveva sempre fatto abbastanza bene, ma che ora sembrava solo una sagoma vuota.

Allora, visto che la colpa di quella orribile scenetta non era di Sana, per forza di cose doveva essere di Kamura. Era per lui che i movimenti di Sana risultavano spenti. E vuoti. E inutili.

Almeno io sapevo farla sorridere.

Certo, anche ora lei sorrideva. E ad un occhio inesperto, un occhio che non l’aveva ammirata in ogni suo più piccolo dettaglio per gran parte della sua vita, sarebbe anche potuta sembrare felice.

Ma lui non si limitava a guardarla, lui la vedeva davvero.

E quello che vedeva era solo una donna che faceva di tutto per apparire felice. Che creava sorrisi alla stessa velocità di uno schiocco di dita e che, invece, non sapeva che un vero sorriso è una cosa più rara.

Dov’è il tuo sorriso, Sana?

 

Per tutta la durata del ballo non fece altro che guardarla, senza preoccuparsi che lei potesse vederlo.

Era così bella, fasciata in quel vestito blu, che guardarla era una necessità.

Fu solo quando terminò la musica che anche lei lo guardò.

E per quel breve istante, la fitta di tristezza che le attraversò gli occhi, non le permise di creare neppure il più finto dei sorrisi.

 

 

***

 

Si, c’aveva provato a fare finta di niente. A ballare con Naozumi tranquillamente, come se Akito non fosse seduto a pochi metri da lei e non la guardasse in quel modo.

Inutile dire che tutti i suoi tentativi si erano rivelati vani.

Non con Naozumi, però, visto che lui sembrava incredibilmente tranquillo e sereno.

Erano stati gli occhi di Akito che le avevano trasmesso l’inequivocabile messaggio che a quella stupida commedia lui non c’aveva creduto. Che avrebbe potuto sorridere a Naozumi anche per tutta la notte, ridere a crepapelle ad ogni sua battuta o raccontare aneddoti divertenti sulla loro vita a New York,… ma che tutto questo non sarebbe comunque bastato per mentire a lui.

Non appena la musica terminò e Naozumi sciolse la loro stretta, il suo sguardo sfuggì al suo controllo e si diresse verso il punto della sala nel quale era seduto Akito.

E lei si sentì indifesa. Nuda. Priva di barriere protettive, senza la forza di creare l’ennesimo sorriso mentitore.

E capì che non avrebbe resistito a lungo.

- Nao, io… io esco a prendere un po’ d’aria.

Disse piano, abbassando gli occhi.

- Qualcosa non và?

Scosse vistosamente il capo.

- No, no.. è solo che ho voglia di fare un giro in giardino. Ho notato che è molto grande e vorrei vederlo.

- Vuoi che venga con te?

Era ovvio che Naozumi sperasse in un sì.

- Non preoccuparti, tu resta pure qui, amore.

Provò disgusto verso sé stessa non appena si rese conto che l’aveva chiamato “amore” solo per indorare un po’ la pillola. Per fargli credere che fosse tutto ok.

Lui la guardò in silenzio per qualche istante, negli occhi un’insolita preoccupazione, e poi le sorrise.

- Come vuoi. Non metterci troppo, amore.

Il tono amaro con cui Naozumi pronunciò quell’ultima parola le fece capire che, almeno stavolta, lui non le aveva affatto creduto.

 

 

 

                                                                       ***

 

 

Ormai si era reso conto che ingaggiare una battaglia contro il suo cuore non sarebbe servito a nulla se non ad aumentare la sua sofferenza e a farlo uscire dallo scontro con le ossa distrutte e con la consapevolezza che, per quanto si sforzasse, contro il suo cuore non avrebbe mai vinto.

Fu per questo che quando la vide uscire dalla sala a passo svelto e con il capo chino, lasciando Naozumi dietro di lei, immobile e solo, non resistette all’impulso di seguirla.

Così, cercando di non farsi notare da nessuno, o almeno da Kamura, lasciò la sala dove la festa era ormai entrata nel vivo, ed uscì per andare a cercarla in giardino.

 

 

                                                                       /*/

 

 

Note dell’autrice: Eccoci qui. Questo capitolo è venuto un po’ più lungo del previsto… Ho preferito non chiuderlo prima perché non volevo “spezzare” troppo la scena.. E poi, finendolo così, spero di essere riuscita a suscitare una maggiore curiosità per il prossimo capitolo che, vi anticipo già da ora, sarà forse il più importante di tutti. ;)

Sarà ripetitiva, ma ringrazio tutte coloro che hanno recensito e spero di poter sapere il vostro parere anche su questo capitolo.

A prestissimo, bacioni! ^^

 

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Capitolo 11
*** CAPITOLO UNDICI: GIARDINO ***


Welcome To PageBreeze

Salveeeeeeeeeeeee!!! E come ogni sabato.. Buona lettura.. ^^

 

 

CAPITOLO UNDICI: GIARDINO

 

 

 

Dopo aver girato a vuoto tra i cespugli e gli alberi spogli e ricoperti di neve per un bel po’ di minuti, finalmente la vide.

Se ne stava immobile con i gomiti poggiati ad una piccola ringhiera in legno e con lo sguardo rivolto verso il cielo stranamente limpido.

Aveva scelto l’unica zona di quell’enorme giardino priva di lampioni accesi, per questo ad illuminarla c’era solo il tenue bagliore della luna piena.

Gli sembrò bellissima. Talmente bella che restò per qualche secondo ad osservarla in silenzio, nascosto dietro il tronco di un albero come un bambino spaventato.

Non essere idiota, Akito. È Sana… da quando ti imbarazza parlare con lei?

Giusto. Lei era Sana. Nonostante tutto il tempo sprecato, in lei c’era sempre la bambina ficcanaso e rumorosa di cui si era innamorato.

Doveva essere lì da qualche parte, sotto quella pelle che non toccava da troppo tempo, in mezzo a quei capelli che si muovevano leggeri ad ogni alito di vento, dentro a quegli occhi che ormai avevano perso la capacità di brillare.

Si, doveva esserci. Ben nascosta dagli errori e dalle bugie, dall’egoismo cresciuto di pari passo con l’età,… lì, dove solo lui avrebbe potuto trovarla, doveva esserci la sua Sana.

Voleva rivederla, parlare con lei e prenderla in giro per farla incazzare. Ridere come uno stupido ad ogni sua ridicola gaffe. E baciarla fino a star male, fino a perdere il respiro per dividere con lei anche l’ultimo soffio di aria.

Su, Akito. Spostati da questo cazzo di tronco e và da lei.

Era finito il tempo delle attese e dei tormenti. Le continue domande della sua mente… quei “Chissà cosa sta facendo” o “Chissà se a New York è felice davvero.

In quel momento lei non era a New York, lontana migliaia e migliaia di chilometri. Era lì, a pochi passi da lui.

Bastava solo allungare una mano.

 

 

                                                                       ***

 

 

- Bella serata vero?

Voltò il capo con uno scatto improvviso e sussultò portandosi una mano sul petto non appena vide l’alta figura di Akito immobile di fronte a lei.

Lui, mani nelle tasche e aria imperscrutabile, mosse qualche passo fin quando non le fu abbastanza vicino per vederla in volto.

- C… cosa?

Balbettò, visibilmente frastornata per quell’inattesa presenza.

Lui continuò a camminare, oltrepassandola, fino a raggiungere la piccola ringhiera in legno dove lei stava poggiata fino ad un istante prima.

- Dicevo che è una bella serata. C’è un cielo stupendo.

- S.. si. Bellissimo.

Bellissimo il cielo. Bellissimo tu.

Lei lo imitò, poggiando i gomiti sulla ringhiera e cercando di concentrarsi sulla luna piena e non sul volto di Akito.

- E’ stato un bel matrimonio, non trovi?

Stavolta lo guardò, stupida per la sua insolita voglia di chiacchierare.

Ma guardarlo fu un errore imperdonabile.

Illuminato solo dalla luce della luna era fastidiosamente bello. Si, una bellezza fastidiosa, di fronte alla quale non poté fare altro che restare in silenzio, pregando intensamente che Akito non si accorgesse del suo imbarazzo.

- Hai perso la parola, Kurata?

Rispondi alle domande Sana! Non imbambolarti come al solito!

- Si, è stato un bel matrimonio. E sono molto felice per Aya e Tsu.

Rispose meccanicamente, tornando a concentrarsi sull’immenso manto di stelle.

Avere Akito accanto, a pochi centimetri di distanza, in una zona del giardino praticamente priva di illuminazione e abbastanza lontana dalle luci e dai suoni della festa, la rendeva particolarmente nervosa.

Non sapeva cosa fare. Non sapeva se dare ascolto a quella vocina nel cervello che le urlava di andare via e di tornare nella sala per raggiungere Naozumi, o se dare retta al battito accelerato del suo cuore che giovava della presenza di Akito come i polmoni giovavano di una sana boccata d’ossigeno.

Fu costretta ad assecondare il suo cuore, visto che anche i muscoli del corpo sembravano non avere la benché minima intenzione di muoversi.

Restò immobile accanto ad Akito per qualche secondo, fino a quando lui non parlò ancora; il tono di voce incredibilmente tranquillo.

- Come mai sei qui?

Oh, andiamo. Lo sai benissimo perché sono qui.

- Volevo prendere una boccata d’aria.

Akito ridacchiò, scuotendo il capo e lasciando che i ciuffi più lunghi della sua frangetta disordinata gli solleticassero la fronte.

- Una boccata d’aria? In una notte così gelida e nel bel mezzo di una festa?

- Ci trovi qualcosa di strano?

Su, Akito. Dove vuoi arrivare?

- Anche se credessi alla scusa della “boccata d’aria”, non riuscirei comunque a spiegarmi il motivo per cui non hai voluto che il tuo fidanzato venisse con te.

D’istinto, alzò lo sguardo verso di lui, come per fargli capire che sarebbe stato molto meglio chiudere il discorso in quell’esatto istante. E che se avesse continuato a farle quel genere di domande sarebbero di nuovo finiti a litigare. E lei ne sarebbe uscita annientata ancora una volta.

- Io non ci vedo proprio niente di strano.

Stavolta fu lui a guardarla e, non appena incontrò i suoi occhi, l’espressione tranquilla che aveva avuto fino ad un attimo prima lasciò il posto ad una smorfia che gli contrasse il viso in un indecifrabile mezzo sorriso.

- C’è qualcosa che ti diverte, Akito?

Lui ridacchiò ancora.. due volte nel giro di una manciata di secondi.

- Si, Kurata. In realtà trovo che il tuo tentativo di mentire sia molto divertente.

Sentenziò, stringendosi nelle spalle.

- Io non tento di fare un bel niente! Tantomeno di mentirti.

- Ne sei sicura?

Le chiese, avvicinandosi a lei, fino a lasciare lo spazio di appena qualche centimetro tra i loro volti.

Lei cercò di non fare caso alla scossa che sentì dentro il suo petto e provò ad assumere un atteggiamento composto e convincente.

- Certo che sono sicura.

Lui sorrise di nuovo, per la terza volta.

- Non puoi mentirmi, Sana.

Le sembrò di non avere più la terra sotto ai piedi, non appena le labbra di Akito pronunciarono il suo nome e lo riempirono di quell’antica e insperata dolcezza.

E senza terra sotto ai piedi sbandò, perdendo completamente l’equilibrio e la capacità di inventare qualsiasi parvenza di menzogna.

- Ok, hai vinto. Sono uscita dalla sala perché non riuscivo più a reggere il tuo sguardo. Soddisfatto?

Incredibile a credersi, ma Akito sorrise ancora. Stavolta però era un sorriso diverso. Un sorriso che non si fermò sulle labbra, ma che arrivò fin dentro agli occhi, accendendoli per qualche breve istante.

Lei lo notò, vide quella piccola scintilla, e sorrise a sua volta.

- E tu invece?

- Io cosa?

- Tu perché sei qui?

Mi spiace Akito. Non ti permetterò di lasciare a me il peso della verità.

Si preparò mentalmente ad ascoltare una stupida bugia, mentre già cercava nella sua testa la frase più idonea per rispondergli a tono.

E invece, inspiegabilmente, lui non mentì.

Le gettò addosso la verità, come una spinta inattesa dietro le spalle.

- Sono uscito a cercarti.

Ma la spinta era sull’orlo di un precipizio.

- P.. perché?

Bastava davvero poco,- un movimento sbagliato, un respiro di troppo-, per precipitare e schiantarsi al suolo.

- Perché volevo vederti da sola, senza Kamura a girarti intorno.

- Ora mi hai vista, no? Devi dirmi qualcosa?

Bisognava solo trattenere il respiro e restare perfettamente immobile.

- Io sono geloso, Sana. Non sopporto più di vederti insieme a lui.

Ma respirare era necessario e non muoversi era impossibile.

E allora respirò, si mosse e, inevitabilmente, precipitò.

 

 

                                                                       ***

 

 

Passarono alcuni lunghissimi secondi,- granelli di sabbia che scendevano a rilento nella clessidra-, prima che il suo cervello metabolizzasse le parole di Akito.

Quando finalmente la sua mente le assicurò che ciò che avevano appena udito le sue orecchie corrispondesse alla verità, si porto d’istinto una mano sul cuore. Un pugno chiuso, a premere forte sul petto in segno di protezione.

Protezione da chi?

Era da Akito che doveva proteggere il suo cuore?

O era lei stessa che continuava a pugnalarlo?

Perché erano pugnalate, lame aguzze sotto la carne, tutti i tentativi di mettere a tacere quel cuore che tanto cercava di proteggere,… di ignorare deliberatamente i ripetuti segnali di resa.. i battiti che diventavano sempre più flebili man mano che il pensiero di Akito si allontanava.

Ma non c’era più tempo per Akito. Basta batticuori improvvisi, o baci che mozzavano il fiato. O giornate di pioggia passate a fare l’amore sotto le coperte, a mischiarsi così tanto, così forte, fino ad avere sul corpo un’unica pelle, a sentire nel petto anche i suoi battiti, e a respirare nell’aria quel fortissimo odore di vita.

Basta.

Perché poi capita di svegliarsi un mattino qualunque e di rendersi conto che tutto quell’amore non era bastato.

 

- Cos’hai detto? Puoi ripetere per favore?

- Ora non fare finta di non aver capito.

Sapeva benissimo che Akito non avrebbe ripetuto quanto detto poco prima neppure sotto la minaccia della peggiore delle torture. Però voleva risentire quelle parole… era troppa la paura che aveva che lui non le avesse pronunciate davvero.

- Che diavolo vuol dire che sei geloso?

Lui si strinse nelle spalle, come se dalla sua bocca fosse appena uscita una frase qualunque.

- Secondo te cosa vuol dire? Quanti significati può avere un’affermazione del genere?

Quella risposta,- che in realtà era una mezza domanda-, le fece capire che le sue orecchie avevano sentito benissimo.

Akito aveva tranquillamente, limpidamente, inequivocabilmente ammesso di essere geloso.

E in lei si stava scatenando l’inferno.

- Non puoi essere geloso!

Quasi gli urlò contro, serrando forte i pugni lungo i fianchi, fino a sentire le unghie graffiarle palmi delle mani.

- A quanto pare invece posso.

Sentenziò con calma inaudita.

- M…. ma… ie… ieri.. mi hai… cacciata.

Balbettò, mentre inconsciamente abbassava il capo e cercava di trattenere la voglia di prenderlo a schiaffi. E di fargli male, molto, molto male. Perché non poteva restare impunito per quello che le aveva appena rivelato… non poteva sconvolgerla in quel modo, mandarla in paradiso e poi gettarla all’inferno, nel giro di pochi secondi.

- Lo so.

Sentì una rabbia cieca impossessarsi di lei… la tranquillità con la quale Akito le stava parlando era insopportabile.

Serrò i pugni ancora di più e alzò il viso in uno scatto d’incontrollabile ira.

- Lo sai? Che accidenti vuol dire che lo sai? Si può sapere dove vuoi arrivare?

Urlò a pochi centimetri dal suo viso.

- So di averti cacciata. Ma so anche di aver sbagliato a farlo.

Oh, perfetto.

Dov’era finita tutta la rabbia? Possibile che fosse già sparita? Che se ne fosse già andata, sciolta come neve al sole, di fronte alle parole di Akito?

Complimenti, Sana. Davvero molto coerente.

- A.. Akito.. i.. io.. non capisco cosa vuoi dirmi.

Era vero. Non capiva niente. Né il motivo della sua presenza lì in giardino, né le sue parole, né tantomeno lo sguardo con cui la stava di nuovo immobilizzando.

Vedendola ferma e silenziosa, incapace di formulare anche la più semplice delle risposte, Akito mosse qualche passo e le si avvicinò al punto tale da poter sentire il suo respiro divenire irregolare e il battito del suo cuore aumentare d’intensità.

- Davvero non capisci, Sana?

Lei lo guardò in silenzio, scuotendo appena la testa, come a supplicarlo di non prolungare oltre quella maledetta attesa e di dirle quello che doveva, in fretta e senza ulteriori indugi.

- Ieri ero arrabbiato. Si sbagliano molte cose, quando si è arrabbiati. Lo sai anche tu, no? La rabbia, la delusione, il risentimento, sono sentimenti che ti spingono a fare cose che non vorresti mai fare.

Si fermò un attimo per prendere un profondo respiro. Anche tutta la tranquillità che l’aveva accompagnato fino a qualche istante prima, era completamente scomparsa.

- … quindi, Sana.. ho capito che io…

- … mi ami?

Gli chiese d’istinto, mentre si rendeva conto di non voler affatto sapere la risposta. Di non doverla sapere. Perché saperlo l’avrebbe sconvolta. Avrebbe distrutto tutti i suoi nuovi equilibri.

E lei non voleva cadere mai più.

- … Sana, io…

- NO, AKITO!

Urlò, fissando lo sguardo sull’erba perfettamente tagliata di quello splendido giardino, e scuotendo forte il capo.

- … Non voglio saperlo! Non mi interessa… non mi interessa più.

Desiderò scappare, andare via il prima possibile da quella situazione. E allora non appena terminò la frase, scattò per tornare nella sala dei festeggiamenti e per raggiungere Naozumi.

Ma riuscì a muoversi solo di pochi centimetri, perché Akito la bloccò, stringendole un polso con forza e costringendola a tornare sui suoi passi.

- Perché stai scappando?

Le chiese, mentre i suoi occhi la imploravano di restare.

- Io…io gli ho chiesto di sposarmi.

Glielo disse così, senza giri di parole, senza inutili tentennamenti.

Di getto, improvvisamente, con la stessa violenza di un temporale nel bel mezzo dell’estate.

- Cosa?

- Si, Akito. Io e Naozumi ci sposeremo presto.

Dirgli quelle parole fu come infliggere un colpo mortale. E anche come riceverlo.

Descrivere quello che vide negli occhi di Akito, sarebbe a dir poco impossibile.

Di certo ci vide sorpresa,… quella sorpresa cattiva, che ti toglie l’aria e ti fa perdere la forza per stare in piedi.

Poi ci vide rabbia, nera, folle e accecante. Quella che ti fa venire voglia di spaccare ogni cosa, di prendere a pugni ogni parte di mondo.

Infine, e fu questo che la uccise, ci vide disperazione. Quella che ti disintegra, che ti spacca in mille pezzi…, che ti colpisce quando perdi un’occasione che sai bene non capiterà più e ti rendi conto che quell’occasione era proprio l’unica cosa che non dovevi perdere.

Ci vide tutto questo, insomma. E un sacco di altre cose.

Lo lesse così bene, quello sguardo, perché l’aveva portato sul volto anche lei, per moltissimo tempo. Forse, ogni tanto, ce l’aveva ancora… ogni tanto tornava prepotente ad impossessarsi dei suoi occhi.

Ogni tanto… , ogni volta che non c’era Akito.

- Ora è meglio se torno dentro o Naozumi tra poco uscirà a cercarmi.

Per la seconda volta nel giro di pochi minuti, diede le spalle ad Akito per andare via. E per la seconda volta lui la fermò. Stavolta con meno calma, con molta meno freddezza. La afferrò per le spalle e, con una forza inaudita, la costrinse di fronte a lui, facendola indietreggiare di qualche passo, fino a far scontrare la sua schiena con il tronco dell’albero dietro il quale, poco prima, lui stesso si era nascosto.

- Tu non vai da nessuna parte.

Ordinò, stringendo ancora di più la presa intorno alle esili spalle di lei. Lei che tremò e lo guardò, quasi terrorizzata.

- A.. Akito.. mi fai.. mi fai male…

Lui neppure la ascoltò, perché non allentò la presa neanche di un millimetro e mosse in avanti il capo, fino a far scontrare le loro fronti.

- Possibile che tu non capisca? Non lo capisci che mi uccidi ogni volta che gli permetti anche solo di sfiorarti? Non vedi che impazzisco se gli sorridi? Davvero non te ne accorgi?

Era disperato. E lei desiderava solo morire… porre fine a quell’agonia, non vedere più il suo Akito tremare quasi fino alle lacrime.

-… preferirei strapparmi la pelle con le mie stesse mani piuttosto che vederti all’altare insieme a qualcun altro... Non sposarlo, Sana… ti prego.

 Non riuscì a capire quello che le scattò nel cervello… sentì solo una scossa fortissima, un calcio violento nel petto, che la portarono a sollevarsi sulle punte e a raggiungere le sue labbra, aggrappandosi alla sua schiena con tutta la forza di cui era capace.

Quando lui rispose al bacio, quasi stritolandola contro il suo torace, si rese conto di non avere via d’uscita.

Era come se qualcuno le avesse iniettato nelle vene l’odore di Akito. E avrebbe potuto fare qualsiasi cosa, imprecare contro qualsiasi Dio, dare vita alla sua migliore interpretazione da attrice, ma Akito sarebbe sempre stato dentro di lei. Scorreva nelle sue stesse vene, all’interno del suo stesso sangue. 

- … non sposarlo…

Ripeté meccanicamente, non appena lasciò le labbra di Sana, giusto il tempo necessario per respirare.

Lei non rispose, perché non voleva sprecare neppure un solo istante a fare qualcosa di diverso dal baciare Akito. Baciarlo al punto tale da non sentire nient’altro se non il suo sapore… da non far caso al gelo che aleggiava in quella freddissima notte o al senso di colpa per aver tradito Naozumi ancora una volta.

C’era solo Akito, e le sue mani che scendevano frettolose e tremanti ad accarezzarle la schiena, provocandole brividi che partivano direttamente dal cuore.

Serrò le braccia intorno alle sue spalle, mentre infilava una mano tra i suoi capelli biondi e chiudeva gli occhi per estraniarsi completamente da tutto il resto, anche se sapeva bene che in quel momento non c’era assolutamente niente che avrebbe potuto attirare la sua attenzione.

Akito si strinse a lei ancora di più, fermandosi con le mani sui suoi fianchi e raccogliendo la morbida stoffa blu del vestito fino a lasciarle scoperte le gambe perfette.

In quel momento, gli sembrò di non essere più in grado di ragionare. Il suo corpo si muoveva da solo, guidato dal suo cuore, mentre la sua mente veniva messa a tacere.

Iniziò ad accarezzarle le gambe, senza lasciare le sue labbra neppure per un istante.

Stretta tra lui e il tronco dell’albero, lei sentì il respiro diventare sempre più affannato e infilò le mani sotto la giacca di Akito, sfiorando la sua pelle dal sottile tessuto della camicia scura che stava indossando.

Le loro labbra si scontravano, avide e instancabili, come se in quei pochi minuti volessero recuperare tutto il tempo perso. Perso a fare altro, a vivere lontani migliaia di chilometri, a dannarsi per cercare di stare meglio, quando invece sarebbe bastato solo mettere da parte l’orgoglio e la paura e capire che l’unica cosa da fare era semplicemente tornare indietro.

- Akito…

Gli sussurrò, avvicinandosi al suo orecchio e invitandolo a continuare.

Lui gli si gettò impaziente sul collo nudo, affondando con il viso in quella pelle morbida, inspirando il più a lungo possibile quell’odore mai dimenticato.

Dal collo arrivò in fretta alla scollatura, depositando una scia di baci fino all’incavo tra i seni, mentre con una mano la liberava dal piccolo copri spalle di pelliccia e afferrava la sottile spallina del vestito, lasciandola cadere fino al gomito, per permettere ai suoi occhi di poter rivedere quel seno piccolo e perfetto.

Si concesse qualche secondo per ammirarla meglio. Teneva ancora gli occhi chiusi e le sue guance si erano colorate di un accesissimo rosso. Rosso come le sue labbra socchiuse, con le quali, sempre più spesso, pronunciava il suo nome.

Riuscì a resistere solo pochi istanti, prima di gettarsi sul suo seno e baciarlo con passione e dolcezza.

Infilò una mano sotto il vestito risalendo lungo il ventre sottile, per riscendere poi, in una lentissima carezza, fino all’orlo in pizzo degli slip. Si soffermò qualche secondo a giocherellarci, spostando le dita dal tessuto ricamato alla morbida pelle del basso ventre, fino a quando non si decise a scostare quel piccolo pezzo di stoffa per scendere ancora più in basso, con estenuante lentezza.

Quando lei lo chiamò ancora, quasi urlando il suo nome, infilandogli le mani sotto la camicia e accarezzandogli la schiena con le unghie, capì che non avrebbe potuto attendere ancora.  Con un gesto secco e improvviso si liberò della cintura e dei bottoni dei pantaloni e portò le braccia sotto le cosce di lei per sollevarle le gambe. Lei non oppose resistenza e lasciò che lui la sollevasse da terra avvinghiandogli le gambe intorno al bacino e poggiando meglio la schiena al tronco dell’albero, senza neppure far caso ai graffi che quella corteccia ruvida poteva causare alla sua pelle quasi del tutto scoperta.

Bastò un attimo appena e lo sentì dentro di lei. Le ci volle tutto l’autocontrollo di cui era capace per non mettersi ad urlare di gioia.

Quando lo sentì muoversi in lei, entrarle non solo nel corpo, ma  anche nell’anima, fu come essersi risvegliata da un sogno.

E le venne spontaneo chiedersi cos’aveva fatto in quegli ultimi quattro anni…

Come aveva passato le giornate, con quale spirito si era alzata ogni mattina, pur sapendo di non poter vedere i suoi occhi?

Dov’era stata,… chi era stata, se non l’aveva avuto accanto?

Ora l’ho capito…E’ solo al tuo fianco che posso essere me stessa.

Poteva sentire il battito accelerato di Akito così distintamente che le sembrava che il suo cuore battesse nel suo petto.

E tutto tornò ad avere un senso.

Come le tessere mancanti di un puzzle che non riusciva a finire da troppo tempo, o come un indovinello dispettoso che sembrava non avere soluzione.

Perché mentre si lasciava andare felice e stanca tra le sue braccia, mentre lo sentiva emettere un ultimo lunghissimo sospiro, capì che le tessere mancanti del puzzle erano solo finite sotto il letto.

E che la soluzione dell’indovinello era sempre stata sotto al suo naso.

 

 

 

                                                                       ***

 

“- Pronto?

- Si, Fukachan, sono Sana. Ti disturbo?

- No, no, Sanachan, dimmi pure.

Con la mano a stringere forte il suo nuovo telefonino, si siede sull’enorme letto della sua camera, prendendo un profondo respiro.

- E.. ecco.. io… volevo confessarti una cosa…

Balbetta, mentre con la mano libera tormenta i lunghi capelli rossi, appena lavati.

- Dimmi allora. Ti ascolto.

- Non è… così semplice..

Dall’altro capo del telefono, sente Fuka sbuffare sonoramente.

- Sanachan si può sapere cosa succede? Qualcosa di grave?

Scuote vistosamente la testa, come se Fuka potesse vederla.

- No, no! Và tutto bene.. anzi.. benissimo!

Dopo qualche istante di silenzio, Fuka inizia a ridacchiare divertita.

- Ah.. ho capito. C’entra Akito, non è vero? È successo qualcosa tra voi?

Al solo sentire il nome di Akito, avverte distintamente i battiti del suo cuore diventare frenetici e le guance colorarsi di un accesissimo rosso.

- Ecco… io… cioè.. ieri sera, come sai, è.. è venuto a casa mia e… poi.. si insomma.. eravamo soli e…

- O MIO DIO, SANACHAN! AVETE FATTO L’AMORE?

Ecco. La solita Fuka che non conosce mezze misure. D’altronde è risaputo che se avesse dovuto aspettare una confessione di Sana, la sedicenne più imbranata e goffa del mondo, avrebbe potuto anche attendere una giornata intera.

- E.. ecco noi…

- Oh, andiamo Sanachan! Rispondi chiaramente.. si o no?

- S… si…

- WOW! Voglio sapere tutti i dettagli! Com’è stato? Cosa ti ha detto lui? Oddio, Sanachan, DIMMI TUTTO!

Sana si porta una mano sulle guance, per evitare che si surriscaldino troppo. Le sembra di andare a fuoco se solo le immagini della notte appena conclusa le passano indisturbate per la mente.

- E’ stato… bellissimo.

- E ti aspetti che io mi accontenti di così poco? I dettagli, Sanachan! I DETTAGLI!

In realtà, Sana sa benissimo che neppure raccontando ogni minimo particolare, riuscirebbe a spiegare a parole quello che è stato, fare l’amore con Akito.

Non saprebbe descrivere quei brividi lungo la schiena, quel subbuglio nello stomaco, quella vertigine… quella paura irrazionale di farsi male, chetata in fretta da quel “ Non avere paura”, sussurrato da Akito vicino al suo orecchio.

Per non parlare poi della scossa che le scombussolava ogni cellula del corpo, mentre Akito si muoveva paziente dentro di lei.

Non potrebbe mai spiegare quella magia… la magia di sentire i loro respiri fondersi e i loro cuori battere insieme, mischiarsi così tanto da sentire un unico battito. O la sensazione di toccare il cielo con un dito, di avere la più grande felicità tra le mani, nel sentire quel “Ti amo”, sussurrato sulle sue labbra.

No. Non saprebbe proprio trovare le parole per rendere giustizia alla sua prima notte con Akito.

- Fukachan.. non so spiegartelo.

- Eh, no! Ora facciamo così… mi metto qualcosa di presentabile e vengo da te. Sarò lì tra circa mezz’ora!

- Ma…

- Niente “ma”, Sanachan! Voglio sapere tutto!

Sana si lascia scappare una piccola risata. È pienamente consapevole del fatto che Fuka desisterà tanto facilmente. E allora tanto vale assecondarla.

- Come vuoi, Fukachan. Ah… chiama anche Ayachan e portala con te! Lei non sa ancora nulla.

- Certo, certo! Allora ci vediamo tra poco!

- Perfetto.

Stacca il cellulare dall’orecchio, ponendo fine alla conversazione, e sorride. Ha già il mal di testa se solo pensa alle domande che le faranno Fuka e Aya non appena entreranno in casa sua.

Pazienza. È così felice che potrebbe rispondere a tutte le domande del mondo senza stancarsi mai.

Si lascia andare sul letto, cadendo con la schiena sul morbido materasso e rivolgendo il capo verso il soffitto.

Chiude gli occhi e inspira profondamente. E non sa se è la realtà o solo una sua impressione… ma le sembra che in quella stanza tutto abbia ancora lo stesso, bellissimo, odore di Akito.”

 

 

 

                                                                       ***

 

Si guardò intorno e sbuffò, visibilmente spazientito.

Sana era uscita da almeno venti minuti e ancora non si decideva a tornare.

Che accidenti sta facendo in quel giardino da sola?

Non appena la sua mente elaborò questa domanda, i suoi occhi azzurri vagarono per tutta la sala e notarono che Sana non era l’unica persona ad essersi allontanata.

Oh, certo! Sempre in mezzo ai piedi, eh Hayama?

Tirò un profondo sospiro.

In fondo, non era certo del fatto che Akito fosse in giardino con Sana.

Per quanto ne sapeva, poteva essersi allontanato per fare una telefonata, o essere tranquillamente andato in bagno.

Giusto. Non devo tirare conclusioni troppo affrettate. Ora mi alzo e vado a controllare in bagno.

Prima di riuscire a mettere in atto il suo proposito, lasciò passare qualche minuto. Per quanto si ostinasse a negarlo, infatti, il suo cuore stava letteralmente morendo di paura. Perché era cosciente del fatto che c’era la possibilità che Akito e Sana fossero insieme. Che stessero parlando indisturbati in giardino, senza nessuno che potesse “controllarli”.

Bravo, Naozumi! Hai davvero molta fiducia nella tua futura moglie!

Fiducia? Si trattava davvero di mancanza di fiducia?

O era quel maledetto terrore di rendersi conto che, quella proposta, Sana gliel’aveva fatta solo per disperazione? Che gli avesse chiesto di sposarla solo perché, forse, lui l’aveva respinta?

Decise di porre fine ai suoi dubbi e, di scatto, si alzò dalla sua sedia, oltrepassò la sala e si diresse verso il corridoio per accedere ai bagni.

Esitò qualche secondo prima di trovare il coraggio per entrare e controllare se ci fosse Akito. Quando trovò il coraggio, e oltrepassò la porta che conduceva nei bagni, notò che di Hayama non c’era nemmeno l’ombra.

E in un attimo sentì la speranza fuggire via e la vita che aveva immaginato di vivere con Sana si sgretolò di fronte ai suoi occhi.

Tutto crollò in un istante, come un castello di sabbia durante una mareggiata.

Eppure stavolta ci credevo davvero…

Si lasciò andare sulle ginocchia, portandosi le mani sul viso per nascondere le lacrime che iniziavano a rigargli le guance.

E pianse.

Pianse per tutte le volte che si era sentito tradito, umiliato, usato.

Per tutte le volte che era stato stupido, cieco, ostinato. Che aveva fatto finta di non vedere, di non capire.. mentre invece aveva visto benissimo.. e aveva capito ogni cosa.

Sana, la sua Sana, sarebbe stata sempre innamorata di Akito. E per quanto si sforzasse, per quanto fingesse per fargli credere che andava tutto bene, sarebbe bastata una sola parola di Akito per farla crollare.

Forse stava crollando proprio in quel momento, nella penombra del giardino, sotto la luce della luna.

Se è davvero così, non voglio saperlo. Non voglio vederlo.

Smise di piangere solo quando sentì dei passi veloci avvicinarsi alla porta.. probabilmente qualcuno doveva davvero usare il bagno.

Si alzò da terra e si nascose per non farsi notare, perché nessuno doveva vederlo in quello stato pietoso.

Si affacciò dal suo nascondiglio,- che altro non era che uno dei tanti bagni disponibili-, per vedere a chi appartenessero i passi che aveva appena sentito.

Si stupì un poco quando vide le figure di Aya e Fuka che gesticolavano nervosamente e parlavano con un tono di voce decisamente più basso del normale.

Perché bisbigliano? Cos’avranno da nascondere?

Il suo senso morale avrebbe voluto che uscisse allo scoperto, salutasse le due donne con gentilezza e uscisse dal bagno lasciandole da sole, senza interessarsi delle loro conversazioni.

Ma era troppo incazzato col mondo per dare retta al suo senso morale.

E allora restò immobile, tendendo l’orecchio per cercare di captare più parole possibili.

Una frase lo colpì violentemente, come una secchiata d’acqua gelida in una calda e sonnacchiosa mattina d’inizio agosto.

Perché avrebbe potuto giurare su ciò che di più caro aveva al mondo, di aver sentito distintamente Aya fare a Fuka una domanda che somigliava a “Allora hai deciso di non dire niente del bambino ad Akito?”.

Si. Le parole gli erano arrivate chiare nelle orecchie e avevano trovato conferma nella risposta nervosa di Fuka, che sibilò un perentorio “No. Credo sia meglio per tutti mantenere il segreto. Akito non dovrà mai sapere di avere un figlio”

Devo aver capito male… perché Akito non ha nessun figlio. E non può aver avuto nessun figlio da Fuka.

Lui e Fuka non sono mai stati insieme… Sana me l’avrebbe detto.

A meno che…

D’istinto si portò una mano sulla bocca, per evitare di mettersi a urlare.

… a meno che non sia successo dopo che Sana l’ha lasciato. Se è così allora…allora Akito e Fuka hanno un figlio… e né lui né Sana ne sono a conoscenza.

Sentì un’idea materializzarsi nel cervello, come una lampadina che si accende sulle teste dei personaggi dei cartoni animati.

Ma sarebbe molto più giusto che Fuka rivelasse ad Akito la verità. E che lo sapesse anche Sana.

Uno strano sentimento prese a bruciargli nel petto. Un sentimento che lo spinse ad attendere nascosto l’uscita di Aya per poter avere l’occasione di parlare da solo con Fuka.

Non dovette attendere che qualche minuto, perché sentì Tsuyoshi chiamare la sua neo sposa e quest’ultima dileguarsi in fretta per tornare in sala e continuare il ricevimento.

Spalancò la porta di colpo e vide Fuka sobbalzare e sgranare gli occhi, terrorizzata.

- Naozumi? Che… che stai facendo? Da quanto… sei… qui?

Lui infilò le mani nelle tasche dei pantaloni e sorrise furbescamente.

- Sono stato qui abbastanza a lungo per ascoltare il discorso tra te e Aya. E come potrai immaginare, io non ho nessuna intenzione di mantenere il tuo piccolo segreto.

Vide Fuka portarsi le mani sul petto e indietreggiare in preda al panico.

- Cosa? Quale segreto? Io non ho nessun segreto!

Tentò di mentire.

- E allora l’ho immaginato io il figlio che hai con Akito?

Ma lui sapeva benissimo cos’aveva appena sentito. E non si sarebbe fatto prendere in giro tanto facilmente.

Fuka gli rivolse uno sguardo disperato.

- Naozumi non puoi… tu non puoi dirlo a nessuno!

- Certo che posso! Voglio che Sana capisca chi è l’uomo che continua ad amare!

Oh, ecco qual era, quello strano sentimento.

Era solo la voglia di vendetta.

- Cos’è? Un dispetto? Vuoi fare un dispetto a Sana perché è ancora innamorata di Akito? Cosa pensi di ottenere?

- Voglio solo che tu dica a lei e ad Hayama la verità.

- Tu stai giocando con la vita delle persone solo per ottenere un po’ di vendetta!

Si strinse nelle spalle, guardandola di traverso.

- E se anche fosse? Sono stanco di essere la vittima di turno. Quindi, sappi che se non parlerai tu lo farò io.

Sentenziò cinico e senza tradire il minimo dubbio.

Di fronte a lui, Fuka serrò gli occhi, forse per trattenere le lacrime, strinse forte i pugni lungo i fianchi e si avviò verso la porta.

- Tanto non tornerà da te.

Gli disse tagliente, prima di aprire la porta e lasciarlo solo.

Lui sentì la rabbia crescere, diventare sempre più nera e accecante, perché Fuka aveva ragione.. Sana non sarebbe tornata. In qualsiasi caso, lui l’avrebbe persa.

Si, forse non tornerà da me. Ma non sarà neanche sua.

 

 

                                  

                                                                       /*/

 

Note dell’autrice: Ok, sono perfettamente consapevole del fatto che molte di voi coveranno una profonda rabbia nei confronti di Naozumi, dopo aver letto la fine del capitolo. xD Ma sappiate che mi serviva qualcuno che “costringesse” Fuka a svelare la verità. E chi meglio del povero e ferito Naozumi? ;)

La scena tra Sana e Akito, invece, è stata una vera e propria liberazione! Non vedevo l’ora di poterla mettere per iscritto, visto che mi ronzava in testa praticamente dall’inizio della storia. xD

Bene, la smetto di annoiarvi con i miei deliri e mando il solito ringraziamento alle mie assidue “commentatrici”. Vi adoro davvero, e non mi stancherò mai di ripetervelo! *-*

Spero di riuscire a finire il prossimo capitolo in una settimana, ma non posso assicuravi nulla per adesso. (Sono un po’ impegnata in questo periodo xD).

A presto, bacioni! ^^

 

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Capitolo 12
*** CAPITOLO DODICI: SPEZZATA ***


Welcome To PageBreeze

Oddio ho aggiornato in tempo! Sono fiera di me! xD

Via con il dodicesimo capitolo! ^^

 

 

CAPITOLO DODICI: SPEZZATA

 

 

Non sapeva cosa fare. Non sapeva se dirle qualcosa per rompere quell’irreale silenzio o se invece sarebbe stato meglio restare lì a guardarla rivestirsi frettolosa, mentre con una mano cercava di acconciare alla bell’e meglio i capelli spettinati, forse per nascondere i segni di quanto era appena successo.

O forse, cosa molto più probabile, solo per rientrare in sala con un aspetto quantomeno decente.

Che poi, se fosse dipeso da lui, in quella maledetta sala non ce l’avrebbe fatta più rientrare. L’avrebbe presa per mano e, senza dire neppure una parola, l’avrebbe riportata nella loro vecchia casa, per fare l’amore con lei tutta la notte.

In fondo, era convinto che Tsuyoshi avrebbe capito.

Nella peggiore delle ipotesi, l’avrebbe chiamato la mattina dopo per spiegargli tutto e scusarsi con lui per il mancato saluto, assolutamente certo che le sue scuse Tsuyoshi non le avrebbe neppure volute, perché troppo sorpreso, e felice, di saperlo di nuovo insieme a Sana.

Si, la sua volontà sarebbe stata proprio quella.

Ma non era per nulla convinto che anche Sana la pensasse come lui. Magari sarebbe voluta tornare in sala per parlare con Kamura o per continuare la festa insieme agli altri,… o magari sarebbe voluta entrare con il sorriso sul volto, pronta a lasciarsi alle spalle quell’ultima mezz’ora e a continuare la sua vita con Kamura, tranquilla come se nulla fosse successo.

Oh, no.

Sapeva bene che quell’ultima possibilità era praticamente inesistente…perché per quanto lei si sforzasse di apparire “tranquilla”, non sarebbe mai riuscita a far sparire quel bellissimo rossore sulle gote e quella nuova luce negli occhi.

Agli altri sarebbe bastato solo un istante, uno sguardo casuale, per capire tutto… per vedere che lei era tornata ad essere sua.

- Non… fissarmi così…

Balbettò imbarazzata, mentre infilava il piccolo copri spalle che lui le aveva tolto solo poco tempo prima.

- Io non ti sto fissando!

- Si, che mi stai fissando Akito…

Lui si strinse nelle spalle e sorrise appena.

- E se anche fosse? Ti da fastidio?

La vide scuotere la testa e arrossire.

- N..  no no! Non mi da fastidio.. è solo che… ecco.. mi imbarazzi parecchio se mi fissi senza dire nulla.

- Bè, non ho niente di particolare da dire.

Sana aggrottò le sopracciglia e sbuffò, delusa dalla risposta di lui.

- Perfetto. Allora sarò io a parlare.

Gli disse, abbassando il capo e tamburellando con le dita sui fianchi, evidentemente nervosa.

Lui non rispose, muovendo qualche passo e avvicinandosi a lei per farle capire la sua volontà di ascoltare quello che aveva da dirgli.

- Senti, Akito. Io non so cosa significhi per te quello che abbiamo fatto… non so se è stato importante come lo è stato per me, se è stato solo un “ritorno al passato” per commemorare i vecchi tempi… o se, invece, ha significato molto di più…

La vide mordersi il labbro inferiore per smorzare la tensione del momento.

- …però voglio che tu sappia che per me è stato quanto di più bello mi sia successo da quattro anni a questa parte. E quindi, qualsiasi sia la tua decisione, io non tornerò con Naozumi. Ho capito che lui mi ama troppo… e che non merita che io continui a mentirgli fingendo che vada tutto bene. E, soprattutto, non voglio più mentire a me stessa continuando a ripetermi che non ti amo più.

Perché la verità, Akito, è che purtroppo ti amo ancora in modo pazzesco…

- Sana io…

- No, Akito… fammi finire ti prego…

Lo implorò, alzando un mano verso il suo viso per farlo tacere.

- … Quindi io non tornerò con Naozumi e non tornerò neanche in America. Andrò nella mia vecchia casa e vivrò qui perché… perché Tokyo è la mia città, il posto in cui voglio vivere. Ma sarei la donna più felice del mondo se tu mi volessi ancora con te.. se mi permettessi di tornare nella nostra casa…

Lo guardò negli occhi, mentre qualche lacrima già iniziava a rigarle le guance arrossate.

- … Akito, tu.. mi vuoi ancora?

Lui si sentì scoppiare il cuore.

Come poteva chiedergli una cosa del genere? Come poteva non conoscere già la risposta? Come poteva non averla letta nei suoi occhi?

Alzò una mano per accarezzarle il viso e scacciare quelle lacrime, perché di lacrime ne erano state versate già troppe.

- Non ho fatto altro che volerti, e amarti, per ogni secondo della mia vita.

Le sussurrò a pochi centimetri dal viso. Lei schiuse appena le labbra, come per dirgli qualcosa, ma riuscì solo ad emettere un frenetico e balbettante sospiro.

Prese il suo volto tra le mani, guardandola negli occhi lucidi.

Le lacrime iniziarono a scendere più copiose, ma stavolta lui non le fermò. Quelle erano lacrime di gioia, lacrime che scendevano fino a perdersi nel meraviglioso sorriso che era nato per illuminare il volto di Sana.

- Siamo proprio due stupidi vero?

Gli chiese, alternando alle parole tanti, splendidi sorrisi.

- … abbiamo sprecato quattro anni. Promettimi che non  sprecheremo neppure un altro secondo.

Anche lui si lasciò andare ad un dolcissimo sorriso.

- Te lo prometto.

Disse poi, prima di avvicinarsi a lei e chiuderle le labbra in un bacio leggero.

Passò qualche secondo prima che Akito riuscisse a trovare il coraggio, e la forza, di staccarsi dal suo viso, e non appena ci riuscì, la vide tornare improvvisamente seria.

- Forse è meglio tornare dentro. Devo…parlare con Naozumi.

Ora iniziava la parte più difficile, perché le lesse negli occhi una nuova tristezza… era l’amara consapevolezza di chi sta per spezzare il cuore proprio a quella persona alla quale aveva promesso di non fare mai del male.

Vedendola così turbata, così inevitabilmente colpevole, le si avvicinò di nuovo e le strinse forte una mano.

- Andrà tutto bene, Sana.

- Sto per distruggere la vita di un uomo che, nonostante tutto, ho amato davvero…mi sento una persona orribile. Come può andare tutto bene?

Gli chiese, scoppiando nuovamente in lacrime e gettandosi sul suo petto. E lui la accolse prontamente in una calda stretta.

- Noi, Sana, abbiamo ferito i nostri cuori così tanto e così a lungo, che non riesco a capire come mai battano ancora… Ci siamo fatti del male a vicenda, ma soprattutto abbiamo fatto del male a noi stessi, cercando di vivere una vita che non sarebbe mai stata quella che volevamo. Ora abbiamo capito che è arrivato il momento di smettere di farci del male e questo porterà delle conseguenze. È inevitabile che qualcuno ne soffra… ma non sei una persona orribile, solo perché hai scelto di non essere più tu quella che deve soffrire. E Kamura ti ama troppo per non capirlo…

Le prese il volto tra le mani e sperò che nei suoi occhi lei potesse leggere tutto quello che lui avrebbe voluto dirle.

Le avrebbe detto qualsiasi cosa, le avrebbe urlato “Ti amo” un milione di volte pur di far sparire quell’espressione distrutta.

- Tu credi davvero che capirà?

- Si, lo credo davvero.

La vide sorridergli, leggermente sollevata.

- Ok, allora ora vado dentro e dico a Naozumi tutta la verità.

Decise poi, prima di girarsi, dare le spalle ad Akito e accingersi a camminare verso l’ingresso del grande ristorante.

- Si, vai… e poi si torna a casa.

Quelle ultime parole gli uscirono così, senza averle programmate. Ma se avesse saputo l’effetto che avrebbero avuto su di lei, le avrebbe ripetute infinite volte ancora. Perché la vide girarsi e guardarlo, con gli occhi a brillare di nuovo di quell’antica luce, e con le labbra curvate in uno dei suoi migliori sorrisi.

E anche lui capì di essere finalmente tornato a casa.

 

 

                                                                       ***

 

Sentì lo stomaco contorcersi in una morsa soffocante e dolorosa, non appena la vide oltrepassare l’ingresso e fare ritorno nella grandissima sala addobbata a festa.

Era molto diversa dalla Sana che era uscita in giardino, poco meno di un’ora prima.

Gli occhi, in particolar modo, erano del tutto cambiati… strano, perché fino a quel momento non aveva mai notato la differenza. Mai. In tutti quegli anni, quei giorni trascorsi con lei, passati a viverle accanto, i suoi occhi gli erano sempre sembrati normali.

Solo ora si rendeva conto di quanto le sue convinzione fossero sempre state sbagliate.

La Sana che aveva avuto accanto in quei bellissimi quattro anni non era la bambina prodigio della quale si era innamorato, guardandola ridere e recitare da dietro lo schermo della televisione.

Era solo una ragazza bellissima che aveva il suo stesso viso, la sua stessa voce e il suo stesso profumo.

Perché ora che la guardava avanzare incerta verso di lui, nei suoi lineamenti rivedeva quella forza, quella sicurezza, quella vita.

In realtà, il suo volto era corrucciato in un’espressione tutt’altro che serena o tranquilla…sembrava tesa, dispiaciuta, quasi in lacrime.

Però i suoi occhi erano tornati a brillare e le sue gote avevano di nuovo imparato ad arrossire.

E si sentì morire, perché era sicuro che fosse merito dell’uomo che più di tutti temeva al mondo. L’uomo del quale aveva sempre avuto una maledetta paura… perché gli bastava anche solo uno sguardo per fare di Sana ciò che voleva. Ed era certo che, durante quella lunghissima ora in giardino, lui l’avesse guardata ancora.

La attese immobile in un angolo della sala, con il cuore troppo pesante per fare anche un misero passo.

E in pochi secondi lei gli arrivò di fronte e lo guardò in silenzio.

- C’hai messo un bel po’ a rientrare.

Si sforzò di sorriderle e di sembrare il meno agitato possibile. Ma lei ricambiò il sorriso e tutto apparve inequivocabilmente chiaro.

- Scusami, Nao. Io…

Perché anche il sorriso era cambiato.

E lei era tornata la Sana di cui si era fottutamente innamorato.

- … io devo parlarti.

E rivedendo la vera Sana, rendendosi conto che lui non l’aveva mai avuta davvero, non poté fare altro che odiarla. E amarla ancora di più.

 

 

 

                                                                       ***

 

Li aveva visti senza averli cercati. Era successo così, mentre rideva allegro con sua moglie tra un lento ed un giro di valzer che nessuno dei due era in grado di ballare.

Aveva lanciato uno sguardo distratto e casuale verso l’ingresso e li aveva visti entrare, prima lei e poi lui, a pochi passi di distanza l’una dall’altro.

Non si tenevano per mano, non si sfioravano, non si guardavano neppure. Per quanto ne sapeva, potevano anche provenire da luoghi diversi.

Ma a lui era bastata una frazione di secondo per capire che Sana e Akito, le persone più vigliacche e sciocche che avesse mai conosciuto, erano finalmente riusciti ad accettare il fatto che non avrebbero mai smesso di amarsi.

E capì anche che, a giudicare dal rossore sulle gote e dai capelli leggermente spettinati di lei, con molta probabilità, si erano amati proprio fino ad un attimo prima.

Dio ti ringrazio! Allora non sono del tutto rincitrulliti come pensavo.

Nel vederli di nuovo così simili agli adolescenti innamorati di una diecina di anni prima, sentì le labbra curvarsi in un enorme sorriso.

- Tesoro, tutto ok? Come mai sorridi?

Rivolse il capo verso il viso rilassato e allegro di sua moglie.

- Oh, niente tesoro. Sono solo molto felice di vedere che i miei consigli non sono andati perduti.

Vide Aya alzare un sopracciglio con aria interrogativa e poi rivolgere uno sguardo a Sana e Akito.

Il luccichio commosso che le scorse negli occhi bastò per dirgli che anche lei aveva capito.

 

 

 

                                                                       ***

 

Non aveva idea di cosa si provasse nello spezzare un cuore.

Non conosceva i cambiamenti che prendevano possesso del viso, o l’ombra che scendeva sugli occhi, mentre nel petto si apriva l’incurabile ferita.

Forse avrebbe dovuto saperlo. Dopotutto, aveva sentito il suo cuore spezzarsi mille volte. La prima, la più atroce di tutte, quando aveva lasciato Akito.

Ecco, forse a lui il cuore l’aveva spezzato. Ma in quel momento era stata troppo occupata a rimettere in moto il suo per potersi soffermare a guardare come ti cambia, avere il cuore in frantumi.

Stavolta invece l’avrebbe visto eccome.

Non appena avrebbe confessato a Naozumi tutta la verità, avrebbe potuto chiaramente distinguere il rumore di un cuore che va in mille pezzi.

E sarebbe stata proprio lei ad innescare la bomba.

Vorrei tanto che tu tornassi a sorridere il più in fretta possibile.

Che ti scordassi di me facilmente, che mi archiviassi tra le cose passate e che mi vedessi per quella che sono… una donna che non ha mai meritato il tuo amore.

Vorrei tanto vederti ripartire da stanotte.

- Nao io… io devo parlarti.

Espressione contrita, sguardo fisso nel vuoto.

Le prime parole per iniziare a ferire.

- So già quello che devi dirmi.

La voglia di piangere e chiedergli scusa. Di dirgli che, comunque, è stato il compagno migliore che si potesse volere.

- No, Nao ascoltami… io voglio spiegarti tutto.

L’ingestibile bisogno di fargli capire che la colpa non è stata sua.

Che è lei quella sbagliata. O che forse entrambi hanno sbagliato la vita. Che in un’altra, magari, la loro storia sarebbe anche potuta durare.

- No, Sana. Non ce n’è bisogno, credimi. Piuttosto sono io a doverti dire qualcosa. Ed è una cosa che avresti dovuto sapere già molto tempo fa. Qualcosa che ti hanno tenuto nascosto, ma che ora dovrà venire alla luce.

- Non capisco…Cosa stai cercando di dirmi?

- Prima di sparire dalla tua vita, voglio solo che tu sappia che razza di persona è l’uomo che continui ad amare.

- Naozumi, ma… insomma che stai dicendo?

- Oh, lo saprai presto. Guarda lì… Mi pare che Matsui ti stia facendo cenno di raggiungerla.

In effetti, poco distante da loro, c’era proprio Fuka che, con un impercettibile movimento della mano, pareva invitarla ad avvicinarsi a lei.

Due cose la colpirono e la confusero particolarmente;

Il fatto che accanto a Fuka ci fosse un Akito visibilmente turbato e che gli occhi della sua vecchia amica fossero gonfi e pieni di lacrime a stento trattenute.

- Ma cosa…

- Su, Sana. Non li raggiungi? Credo che troverai molto interessante quello che hanno da dirti.

Lo vide sorridere di un sorriso che non gli aveva mai visto e che quasi le fece paura.

Era quello il sorriso di chi ha il cuore spezzato?

 

 

***

 

Aveva temuto quel momento, pregando con ogni fibra del suo corpo che non giungesse mai, sin da quando Aya l’aveva invitata al suo matrimonio.

E invece, come in ogni colpo di scena che si rispetti, quel momento era arrivato.

Si era imposto in modo perentorio, senza lasciarle possibilità d’appello.

Nella sua mente l’aveva immaginato molte volte, cercando attentamente le parole da usare, le scuse da accampare e i modi per provare a farsi perdonare.

L’aveva immaginato molte volte, dunque, proprio perché sapeva che prima o poi sarebbe arrivato.

Ma ora che di fronte a lei c’erano il volto confuso di Akito e quello quasi spaventato di Sana, ora che aveva l’assoluta certezza che con poche parole gli avrebbe sconvolto le vite e distrutto i cuori, ora… le mancavano lo parole.

- Allora, Matsui, vuoi dirci cosa succede?

Ecco. Se era Akito quello che iniziava a fare domande, allora doveva aver già capito qualcosa.

D’altronde, tra tutti i componenti del “vecchio” gruppetto, era sempre stato quello dotato del maggiore spirito di osservazione.

Akito non parlava quasi mai, perché preferiva di gran lunga osservare.

E ci riusciva anche molto bene.

Ti guardava così tanto e così a lungo finché non riusciva a scavarti dentro e a farti sentire completamente incapace di mentire.

Era per questo che non volevo mai che mi guardassi…

- Si, cosa succede Fukachan?

Ancora “Fukachan”?

Tra pochi secondi, Sana, desidererai di non avermi mai conosciuta.

- Ecco, io… devo confessarvi una cosa. Soprattutto a te, Akito. E non so proprio da dove cominciare.

- Su, Fukachan. Prova a cominciare dal principio, no? E fai sparire quell’espressione triste! Qualsiasi cosa sia la risolveremo insieme! Puoi sempre contare su di noi, vero Akito?

- Certo, Sana. Ora lasciala parlare.

Oh, no.

Doveva aver fatto proprio qualcosa di orribile per meritare tutto questo. Per essere costretta a dire la verità proprio ora. Ora che finalmente,- e ne era assolutamente certa-, Sana era tornata di Akito.

Lo si capiva dal modo in cui lo guardava. L’aveva sempre guardato così, in realtà. Però ora lo faceva senza paura di essere scoperta, senza temere che qualcuno potesse leggerle negli occhi che Akito era e sarebbe sempre stato l’amore della sua vita.

Egoisticamente, molto egoisticamente, avrebbe quasi preferito che Sana e Akito avessero davvero smesso di amarsi quel maledetto giorno in cui lei se n’era andata a New York. Che l’amore di Naozumi fosse davvero bastato per convincere la sua vecchia amica a cambiare vita.

Sarebbe stato meglio. Si sarebbe sentita un po’ meno in colpa per essersi messa in mezzo in una storia che non c’era già più, in un amore che aveva già detto tutto quello che aveva da dire.

Forse in quel caso le ferite, prima o poi, sarebbero anche potute guarire.

Ma così era impossibile.

Eppure, Sana, una parte di me l’ha sempre saputo che prima o poi saresti tornata.

- Allora Fukachan? Vuoi dirci che succede?

Succede che sto per spaccarti il cuore…

Il nodo alla gola non le permise di guardarla ancora a lungo. Spostò il volto in direzione di Akito che intanto era tornato silenzioso.

Forse la stava studiando, forse, in cuor suo, stava già capendo.

E allora tanto valeva facilitargli il lavoro.

- Senti, Akito…

Tanto valeva togliersi il pensiero al più presto.

-… credo proprio che dovremmo dire a Sana quello che abbiamo fatto quattro anni fa…

Si, tanto valeva ucciderli in fretta. E provare a ricominciare il prima possibile.

 

 

 

                                                                       ***

 

 

Doveva essere un sogno. Un brutto, bruttissimo sogno. Uno di quelli che ti fanno svegliare nel bel mezzo della notte, con la fronte sudata e il battito accelerato.

Che ti lasciano quel velo di terrore, quella sensazione di non essere ancora totalmente fuori pericolo, perché le immagini di quell’incubo sono ancora così vivide che pare di averle davvero vissute.

Poi i secondi passano e il cuore inizia ad acquetarsi, e piano piano si fa strada la consapevolezza che è stato solo un cattivo scherzo della mente e il terrore lascia spazio alla calda sensazione di essere completamente al sicuro.

Si, ora mi sveglio e tutto finisce.

E invece non riusciva a svegliarsi.

Tutto era dannatamente chiaro, crudelmente gettato di fronte ai suoi occhi, urlato senza pietà nelle sue orecchie.

“- .. credo proprio che dovremmo dire a Sana quello che abbiamo fatto quattro anni fa…”

Gli occhi di Akito erano stati più eloquenti di qualsiasi discorso. Uno sguardo terrorizzato era bastato per far capire a Fuka che lui non avrebbe detto una parola.

Che rivelare la verità era un fardello che doveva pesare solo sulle sue spalle.

E allora Fuka aveva parlato.

“Sana…”

Nei suoi occhi scuri c’aveva visto solo terrore.

“… quando hai lasciato Akito, io… ecco noi…”

Aveva assistito immobile, mentre Akito provava a fermarla, stringendole forte un braccio con le dita della mano.

Ma Fuka quasi l’aveva ignorato e si era bloccata solo per prendere un profondo respiro.

“… abbiamo passato la notte insieme…”

Ecco. Quello che aveva visto dopo era stata una cosa abbastanza strana… c’era stata solo un’immagine sfuocata, dai contorni sbiaditi…

Akito e Fuka ancora adolescenti che camminavano insieme, e felici, tenendosi per mano, lungo la strada che li conduceva alla loro vecchia scuola.

In un angolo, nascosta dove loro non potevano vederla, c’era la proiezione della Sana adolescente. La ragazza imbranata e goffa, che aveva appena scoperto di essere innamorata del suo migliore amico.

Li guardava avanzare sereni, imprigionata nell’impossibilità di poter tornare indietro per rimediare al suo errore.

Per accorgersi che di Akito, in realtà, era stata innamorata sin dall’inizio. Sin dalla prima volta in cui, per caso, era inciampata nei suoi occhi dorati.

Poi, d’improvviso, l’immagine era cambiata.

Di fronte a lei era apparso l’Akito ventenne, con il volto identico a quello della loro ultima, furiosa litigata.

Accanto a lui, nella loro casa, c’era di nuovo Fuka.

Ma stavolta non si tenevano solo per mano. No, quel gesto innocente non poteva bastare per due adulti come loro.

E allora riecco quel lancinante dolore. Riecco quella insistente e malata voglia di morire.

La stessa che aveva provato quel lontanissimo giorno in montagna, con il telefono a mala pena sorretto dalle dita tremanti, mentre Akito le confessava di stare con Fuka e l’amore per il suo migliore amico le piombava addosso, pesante e insopportabile, costringendola a schiantarsi al suolo.

Il buio che ora stava provando, la sensazione di essere ancora rimasta spiazzata, di aver aperto di nuovo la porta sbagliata, erano ferite molto simili a quelle provate quel giorno.

Simili, certo. Ma molto, molto più forti.

- Sana, ti prego… dì qualcosa…

Le sembrò la voce di Fuka. L’orribile suono emesso dalle labbra di chi l’aveva ancora tradita.

Se solo ne avesse avuto la forza, se solo si fosse ricordata come muovere un braccio, non avrebbe atteso neppure un altro istante prima di lasciarle sul volto i segni di un fortissimo schiaffo.

Anche se tanto, neppure con tutta la forza del mondo avrebbe potuto farle così male.

- SI PUO’ SAPERE CHE CAZZO TI E’ SALTATO IN MENTE, MATSUI?

Questo invece, doveva essere Akito.

Incredibile il disgusto che provò nel pensare quel nome.

Chi era l’uomo con cui aveva fatto l’amore appena pochi minuti prima?

Di certo, non il suo Akito..

Perché il suo Akito non l’avrebbe mai sfiorata senza dirle di aver passato una notte con la sua migliore amica.

Non avrebbe avuto il coraggio di guardarla negli occhi e di respingerla urlandole contro tutto il suo risentimento e facendola sentire una persona orrenda.

Non sarebbe uscito in giardino per chiederle di non sposare Naozumi, per dirle di restare con lui…

Non avrebbe fatto l’amore con lei, sapendo di aver amato in quel modo anche Fuka.

- Io… ho dovuto dirglielo… Mi dispiace, Akito..

A mala pena sentì le parole di Fuka.

E venne prese da un’incontrollabile rabbia. Dalla voglia di urlarle di stare zitta, di smetterla di dire cose tanto impossibili.

Forza, Akito! Dille che non è vero! Che si sta inventando tutto!

- … mi dispiace davvero, Akito. Ma l’ho fatto perché devo confessare una cosa anche a te.

Dille che non puoi avermi fatto questo!

Ma Akito non disse nulla.

E per farla morire, non dovette dire nient’altro.

 

 

                                                                       ***

 

Non era mai stato un tipo molto socievole, uno che ama stare in mezzo alla gente o passare del tempo a inventare stupidi scherzi da fare agli amici di sempre, giusto per ridere un po’.

E sopportava ancor meno di essere la vittima di qualche scherzo elaborato da un amico che, evidentemente, non aveva proprio niente di meglio da fare.

Per quanto ricordasse, solo una volta Tsuyoshi aveva provato a fargliene uno, durante i primi giorni delle scuole elementari.

Gli aveva nascosto i pastelli colorati con i quali passava il tempo a scarabocchiare sui fogli bianchi che gli dava la maestra, mettendoli nella sua borsa cosicché lui non potesse trovarli.

Non appena Tsuyoshi glieli aveva restituiti, mostrandogli un enorme sorriso e urlando a gran voce “ Scherzo riuscito!” , gli aveva lanciato un’occhiata terribile per fargli capire che certe cose, a lui, non piacevano per niente.

Da allora, i pastelli, Tsuyoshi non glieli aveva nascosti più.

Però ora, di certo, non avrebbe reagito nello stesso modo. Ora avrebbe desiderato con tutto se stesso di essere l’innocente vittima di uno scherzo di cattivissimo gusto.

Avrebbe tanto voluto vedere Fuka scoppiare a ridere allegra, prendere sotto braccio una Sana ugualmente divertita e sentirle urlare all’unisono “Scherzo riuscito!”.

Si, certo, magari all’inizio si sarebbe arrabbiato con loro, facendole una scenata che non avrebbero dimenticato tanto facilmente.

Magari non le avrebbe parlate per un po’, giusto il tempo per farle riflettere sul fatto che certi scherzi non si dovrebbero mai neppure concepire.

Poi, però, dentro di sé si sarebbe lasciato andare ad un lungo sospiro liberatore e, forse, anche a qualche sorriso.

Perché, comunque, lo scherzo era riuscito davvero. E lui c’era cascato come un emerito imbecille.

Andiamo, Matsui. Ora mettiti a ridere…

E invece Fuka non faceva altro che piangere e tremare, stringendo forte le mani sul cuore.

“- Dopo quella notte,… sono stata costretta a tornare ad Osaka, perché ero incinta…di tuo figlio…”

Il tempo si era congelato su quelle ultime due parole.

“… tuo figlio…”

Aveva smesso di scorrere, le lancette sull’orologio avevano smesso di girare.

Le persone intorno a loro erano sparite, la musica nella sala si era affievolita fino a diventare solo un suono lontanissimo.

L’unica cosa che riuscì a distinguere con crudele precisione, fu il volto di Sana e la luce nei suoi occhi che, d’improvviso, si spegneva. La lentezza con la quale lei si portava una mano sulle labbra e indietreggiava di qualche passo, mentre quella meravigliosa sfumatura rossa sulle gote lasciava il posto ad un tristissimo pallore.

 - Akito, mi… mi dispiace. Non ho mai voluto dirtelo perché non volevo… sconvolgerti la vita..

Se solo avesse avuto la forza per parlare, avrebbe urlato a Fuka tutta la sua rabbia. Le avrebbe detto che era stata una stronza e una donna meschina. Che una cosa del genere non può essere taciuta.

E che, soprattutto, non può essere rivelata in quel modo.

Non ora, non… davanti alla sua Sana.

- … Sana, io… io non so cosa dire. Ora sei sconvolta e lo capisco… però sappi che per Akito quella notte non ha significato niente… davvero lui…

Si, era vero. Per lui non aveva significato nulla quella maledettissima notte.

Non era stato nient’altro se non un modo per provare a lenire quella inossidabile e perpetua voglia di Sana.

Ma Sana non avrebbe compreso. Sana non c’avrebbe creduto.

Un figlio suo e di Fuka, non l’avrebbe mai accettato.

Lo capì con assoluta certezza quando la vide stringere ancora più forte la mano sulle labbra e rivolgere lo sguardo dritto nel vuoto.

Avrebbe tanto voluto sfiorarla, prenderle una mano e dirle che sarebbe andato tutto bene.

Che neanche un figlio con Fuka gli avrebbe impedito di amarla.

Ma lei neppure lo guardò e corse via, inciampando più volte sui suoi stessi tacchi.

E lui sentì ancora quella sensazione…

La stessa provata tanti anni prima, nei giorni in cui lei si era ammalata di quella strana malattia che le aveva tolto il sorriso e l’aveva resa immobile come una bambola.

E proprio come allora, era di nuovo lui che, senza neppure accorgersene, la spezzava in due ancora una volta.

 

 

                                                                       ***

 

Li aveva guardati parlare per tutto il tempo della loro conversazione.

Era rimasto nascosto dietro una parete poco distante per vedere se Fuka avrebbe davvero avuto il coraggio di confessare a Sana e ad Hayama tutta la verità.

O se, invece, l’incombenza di rivelare quell’importantissimo segreto sarebbe toccata proprio a lui.

Ma Fuka era stata brava.

Tra le lacrime, aveva raccontato di quella notte e del figlio che era nato da quell’insana unione.

Aveva potuto distintamente vedere lo sguardo terrorizzato e sconvolto di Hayama e, a quella visione, era seguito un ghigno di malata soddisfazione.

Quel pensiero che batteva in testa e recitava “Ora soffri un po’ anche tu, Hayama!”

Sana, invece, non poteva vederla perché gli dava le spalle.

Quello che era certo, era il fatto che lei fosse rimasta immobile per tutto il tempo senza dire nemmeno una parola.

Si sporse un poco per riuscire a vedere meglio ciò che stava succedendo e iniziò a sentire un nodo formarsi nella gola, non appena vide Sana voltarsi, con una mano poggiata forte sulle labbra e con gli occhi puntati sul pavimento.

Ebbe l’impulso fortissimo di uscire dal suo nascondiglio e di correrle incontro per accoglierla tra le sue braccia e per dirle che sarebbe andato tutto bene.

Ma non lo fece, perché poi si materializzò nella sua testa la consapevolezza che era stato lui a farle questo.

Era stato lui a costringere Fuka a dire la verità.

E l’aveva fatto proprio per farla pagare a Sana.

Per punirla perché non era stata in grado di amarlo davvero e di dimenticare Hayama.

Di certo, era riuscito nel suo intento.

Di certo, ora lei stava soffrendo in modo pazzesco.

Forse anche di più di quanto non avesse sofferto lui stesso per averla persa.

La vide correre in fretta per allontanarsi da Fuka e da Hayama e dirigersi nuovamente verso l’uscita.

Gli passò accanto senza neppure vederlo.

Ma, in compenso, lui poté vedere il dolore dipinto sul volto della donna che aveva sempre amato.

E si sentì morire.

E capì che, costringendo Fuka a rivelare tutto, aveva commesso un gravissimo errore.

 

 

                                                                       /*/

 

Note dell’autrice: Bene, eccomi qui. Non so nemmeno io come ho fatto ad aggiornare in tempo, quindi mi perdonerete se questo capitolo non è proprio il massimo della vita! L’ho scritto davvero in tempo record! ;)

Il prossimo sarà molto più importante di questo. ;)

Inutile dire che aspetto recensioni!

A presto! ^^

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Capitolo 13
*** CAPITOLO TREDICI: PEGNO ***


Welcome To PageBreeze

Eccomi qui! Questo capitolo è stato una vera faticaccia! xD

 

 

CAPITOLO TREDICI: PEGNO

 

 

Yuu.

Le poche volte che aveva pensato all’eventualità remota di diventare padre, gli sarebbe tanto piaciuto chiamare suo figlio Yuu.

Un nome breve, facile da pronunciare e senza inutili fronzoli.

Semplice ed essenziale, proprio come lui.

A Sana non l’aveva mai detto, ma ogni tanto aveva passato le notti ad immaginare il volto del loro bambino.

Non sapeva di preciso per quale motivo, ma era sempre stato convinto che Sana gli avrebbe donato un bel maschietto.

Così aveva speso un po’ di fantasia per immaginarlo… E pensare a lui era stato un po’ come aspettarlo davvero.

Avrebbe voluto che somigliasse a Sana. Che prendesse la sua bellezza, la sua forza e, soprattutto, il suo sorriso. Che ridesse sempre, anche per la più piccola scemenza e che avesse tanti amici con i quali passare le giornate.

Che avesse i suoi occhioni cioccolato e che potesse riempirli della stessa, bellissima luce.

A lui sarebbe bastato dargli anche un piccolissimo neo. Giusto per far capire agli altri che quello era anche suo figlio.

Suo e di Sana.

Un pezzo di loro che prendeva vita, il loro amore che assumeva le sembianze di un bellissimo bambino biondo.

Si, perché i capelli rossicci di Sana non sarebbero stati del tutto indicati per un uomo.

Ovviamente, aveva sbagliato ogni previsione.

- Akito, forse… forse dovresti correre da Sana..

In effetti, un bambino c’era.

- Come si chiama?

Forse i suoi capelli biondi li aveva davvero.

- Chi?

Di certo non aveva il sorriso di Sana.

- Mio figlio.

E nemmeno i suoi occhi o il suo chiarissimo colore di pelle.

- Si chiama… Shin..

Si, un bambino c’era.

Ma di certo non era il suo Yuu.

 

 

                                                                       ***

 

Aveva sempre avuto paura del buio. Una paura folle e irrazionale, che le faceva perdere il senso della realtà.

Il buio, per lei, era sempre coinciso con la solitudine. E la solitudine era la cosa peggiore che potesse capitare a chi, come lei, aveva l’incontrollabile terrore di essere abbandonata.

Solo con Akito il buio della sua stanza, un tempo, faceva un po’ meno paura.

Solo con lui, durante le notti passate a dormirgli sul petto, aveva imparato a non far caso alla lampadina che si spegneva sul comodino.

Perché tanto, a quei tempi, la luce ce l’aveva nel cuore.

Perché tanto, a quei tempi, il buio non esisteva.

Ma ora era tornato, le si era scaraventato addosso, nel bel mezzo di una festa straripante di luci e di gente.

Era bastato girarsi un istante, distrarsi ad essere per un attimo di nuovo felice, e tutto si era oscurato.

Ogni cosa si era fossilizzata… era rimasta bloccata a quei pochi e lunghissimi minuti.

Si era incastrata tra le lettere di quelle parole maledette…

“.. Dopo quella notte sono stata costretta a tornare ad Osaka, perché ero incinta… di tuo figlio…”

E il buio le si era infilato dentro e le aveva bloccato il respiro.

Eppure… eppure era stata immersa nella luce fino ad un attimo prima.

E questo rendeva tutto ancora più difficile.

Il buio è più buio se hai visto quanto è capace di brillare la luce.

Ora non riesco a vedere più niente…

Però, dopotutto non era andata poi così male.

Perlomeno, era riuscita a voltare le spalle all’uomo più importante della sua vita e alla sua migliore amica, e a ritrovare la strada di casa.

Nella corsa che l’aveva riportata nel suo rifugio sicuro, tutto intorno era apparso distorto.

Le strade vuote, i viali innevati, persino il profumo nell’aria.

Niente somigliava a quei paesaggi tanto familiari scolpiti nella memoria.

Non riconosceva più nemmeno casa sua. La sua bellissima e amatissima casa d’infanzia.

Non appena spalancò il grande portone e se lo richiuse in fretta dietro le spalle, si lasciò cadere a terra, facendo vagare i suoi occhi arsi dalle lacrime per tutto il salone.

Sul divano poco distante le sembrò di vedere se stessa ancora adolescente, con un libro tra le mani e l’espressione confusa di chi non ha ancora capito a cosa dovrebbe servire la matematica.

Di fronte a lei, seduta sulla poltrona in pelle color crema, immaginò una Fuka divertita, con le lacrime agli occhi e le gote arrossate per le troppo risate.

Si, Fuka rideva sempre nel vedere la smorfia che le nasceva sul viso ogni volta che cercava di decifrare un’espressione di matematica.

La testa prese a girarle vorticosamente. Così forte che dovette portarsi le mani sulla fronte per cercare di lenire quella sensazione di dolore.

Ma il dolore non passava.

Ed erano passati troppo anni dall’ultima volta in cui aveva visto Fuka ridere in quel modo.

Perché mi hai fatto una cosa tanto orribile…?

Possibile che fosse bastato far trascorrere un po’ di tempo per distruggere la loro antica amicizia?

Davvero erano state così deboli?

Non avresti potuto farmi più male…

Si sforzò di sollevarsi sulle gambe e fece di fretta le scale fino a raggiungere la camera da letto.

 Non appena si ritrovò di fronte all’enorme letto nella sua stanza, corse per gettarsi nel caldo tepore delle lenzuola.

Ma sarebbe stato molto meglio non farlo.

Le si affollarono nella mente le immagini della prima volta in cui aveva fatto l’amore con Akito, proprio in quello stesso letto, tra quelle stesse lenzuola.

Era stato indubbiamente il momento più bello di tutta la sua vita.

Come hai potuto farlo anche con lei…?

Come hai potuto donarle un figlio…?

Avrebbe tanto voluto urlargli che lo odiava. Che era stato uno stronzo e che aveva sporcato la cosa più bella che la vita potesse donare ad un uomo, dimostrando che lui, un’anima gemella proprio non se la meritava.

Si, anche lei aveva sbagliato. Era stata con Naozumi fino ad un giorno prima.

Ma quella era un’altra cosa.

Un figlio era un segno indelebile, un marchio stampato a fuoco sulla pelle.

Un mezzo con cui il destino ti dimostra che certi errori non te li puoi dimenticare.

Avrebbe preferito di gran lunga morire piuttosto che vedere un figlio con il sorriso di Fuka e gli occhi di Akito.

Oh, si. Gli occhi di Akito erano talmente belli che suo figlio avrebbe dovuto per forza ereditarli.

Questa, Sana, come la supererai?

Esisteva un modo per superare una cosa del genere?

Esisteva un modo per smettere di soffrire in quella maniera così straziante?

Forse, stavolta, non riuscirò a superarla…

Perdere Akito quattro anni prima era stato atroce.

Prendere l’aereo e andare dall’altra parte del mondo era stato dilaniante.

Ritrovarselo sulla pelle, poche ora prima in quel grande giardino, era stato come rinascere.

Sentire Fuka pronunciare quelle parole, era stato come morire.

Sentir nascere dentro la consapevolezza che, stavolta, non c’era più niente da fare.

Che avrebbe potuto dire qualsiasi cosa, fare qualsiasi cosa, ma i fatti non sarebbero cambiati.

Akito e Fuka avrebbero continuato ad aver un figlio insieme.

Loro, che in una sola notte avevano costruito molto di più di quanto non avessero fatto lei ed Akito durante tutta una vita passata ad amarsi.

Voleva dimenticarlo.

Dimenticarlo davvero.

Eliminare il suo volto dalla memoria o, tutt’al più, odiarlo così tanto fino a far diventare disgustoso persino il suo odore.

Questa non posso superarla, Akito…

Con questa, lo so, è davvero finita.

 

 

                                                                       ***

 

Non aveva la minima idea di cosa fossa successo in quel brevissimo lasso di tempo.

Ma non poteva essere una cosa tanto importante, no?

In fondo, cosa mai sarebbe potuto succedere in meno di quindici minuti?

Cosa accidenti si erano detti, quei tre?

Però qualcosa, qualcosa di grave, se l’erano detta per forza.

Perché Sana era scappata via con le mani sul volto e lo sguardo fisso sul pavimento.

E Fuka era immobile in un angolo, distrutta da un pianto disperato, mentre, di fronte a lei, Akito la guardava furente e la scuoteva per le spalle con la mani, forse per farla parlare.

- Tesoro, cosa succede? Che hanno Fuka e Akito? E Sana dov’è?

Ecco. Sarebbe stato molto bello e sollevante saperlo.

Ma intromettersi in quel momento non gli sembrava affatto opportuno.

- In realtà, Aya, non ne ho la più pallida idea.

Magari sarebbe passato a trovare Akito l’indomani mattina.

Giusto per chiedergli se andava tutto bene.

- Ok, spero non sia niente di grave..

E per far sparire dal cuore quella bruttissima sensazione.

- Ma no, tranquilla tesoro. Vedrai che non è niente.

Non doveva essere niente.

Akito e Sana non potevano aver rovinato tutto ancora una volta.

Avrebbero dovuto attendere ancora un po’, prima di poter tornare ad impegolarsi nei loro stupidissimi litigi.

Non fatemi brutti scherzi! Tra due giorni si parte per la luna di miele!

 

 

                                                                       ***

 

Non aveva messo in preventivo di sentirsi così male.

Certo, aveva assolutamente messo in conto che perderla, stavolta per davvero, l’avrebbe fatto sentire un uomo finito.

E, nonostante lui si ostinasse a credere che sarebbe andato tutto bene, dentro di sé aveva sempre covato la convinzione che, prima o poi, Sana l’avrebbe lasciato solo.

Ma non aveva mai pensato al fatto che tutto sarebbe finito.. così.

Vederla scappare via dalla festa, con quell’espressione dipinta sul volto e le gambe talmente fragili da non riuscire a sorreggerla, era stata un’esperienza orrenda. E straziante. E indelebile.

Quando aveva praticamente costretto Fuka a rivelare la verità sul bambino concepito con Hayama, non aveva fatto il conto delle vittime che quella rivelazione avrebbe portato con sé.

Non aveva pensato che le ferite procurate da quelle poche parole sarebbero state così gravi e profonde.

Avrebbe solo voluto farli stare male. Vendicarsi per tutto quello che gli avevano fatto.

Fargli sapere cosa si prova ad essere traditi dalla persona che ami.

E invece tutto era degenerato.

E l’espressione smarrita e sconvolta di Sana ne era stata la conferma.

Lui l’aveva uccisa.

L’aveva uccisa dentro.

E da quella morte non sarebbe guarita tanto facilmente.

Forse, non sarebbe guarita affatto.

Non posso pensare di averti ucciso il sorriso.

E il tempo non avrebbe potuto aiutare neanche lui stesso.

Il senso di colpa, quel blocco di cemento sul cuore, non sarebbe mai sparito se Sana non fosse tornata più quella di sempre.

E, anche se faceva male ammetterlo, Sana sarebbe potuta tornare quella di sempre solo con Akito accanto.

Scusami, ma non riuscivo ad accettarlo…

Perché non volevo rassegnarmi all’idea che qualcun altro occupava già il posto che avrei tanto voluto occupare io.

A testa bassa e con le mani scosse da fortissimi tremori, estrasse dalla tasca dei pantaloni la chiave e la infilò nella toppa.

Fare quel piccolo movimento, quel mezzo giro, fu una cosa estremamente difficile.

E pensò che era stato un bene che Sana avesse tanto insistito per fargli prendere i doppioni delle chiavi della sua vecchia casa. Altrimenti avrebbe preferito di gran lunga passare tutta la notte accovacciato dietro il grande portone, piuttosto che suonare il campanello e disturbare la solitudine forzata della sua ex ragazza.

Dio, quanto faceva male pensarla in questi termini.

Fino a poche ore fa, dovevi essere mia moglie…

Con un lievissimo movimento della mano, spinse la porta e si ritrovò immerso nel buio e nel silenzio della grandissima villa lussuosa.

Eppure un tempo quelle stanze erano così piene di luce e di rumori.

Già. Sarebbe stato bello tornare indietro, tornare a quando sia lui che Sana erano poco più che due bambini e lui poteva andare a trovarla ogni volta che il lavoro non lo teneva lontano dalla sua Tokyo.

Sarebbe stato bello vedere la signora Misako girare allegra e chiassosa per tutta la casa, con il povero signor Onda a inseguirla come un forsennato per implorarla di terminare il suo ultimo libro.

Sarebbe stato bello rivedere l’affetto e la devozione con i quali Rey seguiva Sana in ogni sua mossa, quasi come un angelo custode.

Soprattutto, sarebbe stato bello vedere Sana scendere in fretta dalle scale, con i capelli legati ancora in due buffissimi codini e con il suo caratteristico sorriso ad illuminarle il volto ancora bambino.

Tornare indietro a quei tempi in cui ancora lei non sapeva di essere innamorata del suo migliore amico e vedeva tutto con un’estrema facilità e con un contagiosissimo ottimismo.

Anche se all’epoca lui aveva capito che Sana già apparteneva ad Hayama, andava bene lo stesso. Perché lei voleva molto bene anche a lui e quindi il fatto di amarla non era mai stato un peso.

Forse, per assurdo, non lo era stato neppure dopo, neppure quando Sana e Hayama erano diventati una vera coppia.

Perché sapeva che se solo ne avesse avuto bisogno, sarebbe bastato prendere un aereo, un treno o, più semplicemente, un macchina, per andare da lei e per vederla.

A quei tempi, bastava anche un solo sorriso o un’oretta passata a chiacchierare del più e del meno di fronte ad una tazza di the.

Così non era difficile. Amarla senza pretendere nulla in cambio era sopportabile. Addirittura piacevole.

Amarla era diventato più difficile da quando lei, infreddolita e quasi in lacrime, si era presentata senza preavviso davanti alla sua nuova casa newyorchese e, invece di salutarlo, gli aveva detto solo “Fammi capire che posso essere felice anche senza di lui”.

Ecco. Da quel preciso momento era iniziata la parte più problematica.

Sana era lì, finalmente sua, mentre quelle labbra che aveva sempre sognato di sfiorare gli chiedevano solo di renderla felice.

Era il suo sogno che diventava realtà.

E lui si era sentito spiazzato. E spudoratamente entusiasta.

Talmente entusiasta da essere incredulo. Talmente incredulo da essere terrorizzato.

Era rimasto imbambolato per qualche secondo, aspettando che qualcuno saltasse fuori e gli indicasse una telecamera nascosta con la quale riprendere quello che, con molta probabilità, non era altro che un terribile scherzo.

Ma non era saltato fuori proprio nessuno.

Anzi, Sana aveva continuato ad avere quello sguardo implorante

E lui aveva ceduto. L’aveva attirata a sé con un braccio e l’aveva stretta talmente forte da farle mancare il respiro

Da allora era iniziata la sua sfida personale con Hayama. O meglio, con il ricordo che Sana aveva di lui.

E il pensiero costante di comportarsi, di agire e di parlare in modo tale che lei non potesse ripensare a lui.

Era stato quello il momento, l’attimo nel quale nel suo cervello si era materializzato quel “Forse vuole essere davvero mia..”.

Ed era stato proprio da quel momento che amarla era diventato maledettamente difficile.

 

 

                                                                       ***

 

Salì le scale con snervante lentezza. Ogni gradino era un passo in più che lo avvicinava al confronto finale.

Alla linea di confine che avrebbe completamente cambiato la sua vita.

Sarebbe stato costretto ad oltrepassarla, portando con sé alcune cose e lasciandone altre.

Sana, indubbiamente la cosa più importante, sarebbe rimasta dall’altra parte. Nella “vecchia vita”, malamente nascosta tra le esperienze passate.

Ma prima… prima doveva trovare la forza per dirle addio. E anche per chiederle scusa.

Non appena mise piede sull’ultimo gradino, vide che la porta della camera da letto di Sana era chiusa.

Sbarrata e senza lasciar trasparire la minima luce… segno inequivocabile che non voleva essere disturbata.

Però, Sana, non posso andarmene senza averti salutata…

Prendendo un profondo respiro, e cercando di non far caso a quella ritrovata voglia di piangere, alzò un braccio e strinse le dita in un pugno per bussare su quella liscia superficie in legno.

Due colpi leggeri, quasi impercettibili.. uno dopo l’altro, trattenendo uno solo, lunghissimo fiato.

- Sana…Sono io…

Non sentì neppure un misero mugugno. Niente.

Ma era assolutamente preparato al fatto che lei non avrebbe voluto vedere nessuno. Tantomeno lui.

Non è vero.. non ero preparato ad un bel niente!

Non ero preparato a perderti. E non credo che lo sarò mai…

- Sana ascoltami… so che.. che ora non vuoi parlarmi…che ti senti uno schifo e che vorresti solo stare sotto le coperte e piangere tutta la notte…

Lo sapeva, ma avrebbe tanto voluto buttare giù quella maledetta porta, prenderla in braccio e sussurrarle che sarebbe andato tutto bene. Che non era importante che Akito e Fuka avessero un figlio insieme. Che lei non sarebbe mai rimasta sola, perché lui avrebbe continuato ad amarla comunque. Che forse questa era la volta buona per dimenticare quello stupido di Hayama una volta per tutte. E per iniziare seriamente una nuova vita insieme.

Ma Sana non avrebbe ascoltato nemmeno una parola.

Anzi, magari gli avrebbe anche tirato uno schiaffo in pieno viso. E gli avrebbe urlato contro che era un pazzo. Che avrebbe di gran lunga preferito morire piuttosto che accettare il fatto che Fuka e Akito avessero avuto un figlio.

- … io volevo solo dirti che mi dispiace davvero per quello che è successo. Si, lo so che molto probabilmente non mi crederai, ma è così. Saperti così disperata, immaginarti con il volto rigato dalle lacrime, mi distrugge. Il dolore che provo se penso che stavolta ti ho persa per sempre, non è niente rispetto a quello che mi divora se penso che anche tu hai il cuore spezzato. Tu non lo sai, ma sono stato io a dire a Matsui di confessarti la verità..

La sentì emettere un lamento soffocato.

- Tu…. Tu lo sapevi…?

A mala pena riconobbe la sua voce.

- L’ho scoperto mentre tu e Hayama… eravate in giardino.

Non avrebbe potuto giurarlo con assoluta certezza, ma gli sembrò di sentirla scoppiare a piangere.

E capì che il male che le aveva fatto non se lo sarebbe mai perdonato.

Era il momento di andare via dalla sua vita e di lasciarla sola ad affrontare quella prova difficilissima.

- Sana io.. sono venuto qui solo per dirti addio.. Ho chiamato Maeda… gli ho detto di prenotarmi un posto sul primo aereo disponibile.. e lui mi ha detto che ce n’è uno tra due ore.

Ad ogni parola pronunciata, le lacrime di Sana parevano diventare più copiose. E la vita un po’ più inutile.

- … manderò qualcuno domattina a prendere le mie cose per farmele spedire a New York.

Abbassò il capo e non si vergognò di sentirsi debole e distrutto.

Dietro quella porta c’era tutta la sua vita.

- … Buona fortuna, Sana..

E lui l’aveva stritolata così forte da disintegrarla.

- .. spero che un giorno potrai perdonarmi.

Non aspettò neanche di sentire la sua eventuale risposta e corse giù per le scale, per scappare via il più in fretta possibile.

Arrivò di fronte alla porta d’ingresso e portò una mano sulla maniglia per girarla e uscire a piangere per strada, dentro un taxi, sul sedile dell’aereo che da lì a poco l’avrebbe riportato dall’altra parte del mondo.

Ma fu costretto a bloccarsi perché avvertì un susseguirsi di passi frettolosi e leggeri avvicinarsi a lui.

D’istinto alzò lo sguardo verso la ringhiera che delimitava il piano superiore e la vide.

E gli si bloccò il cuore.

Aveva il viso segnato da lunghe scie salate e gli occhi scavati da due enormi aloni violacei.

Persino i capelli sempre perfetti e luminosi erano disordinati in un’inguardabile e arruffata mezza coda.

Teneva le mani strette forte intorno alle sbarre sottili della ringhiera e forse neppure si accorse che le sue gambe stravano freneticamente tremando.

Eppure, per lui, era sempre vergognosamente bella.

- Mi dispiace Naozumi!

A quelle parole si sciolse del tutto e non gliene importò più nulla di nascondere le lacrime per mantenere un minimo di dignità.

- … mi dispiace di non essere riuscita ad amarti come meritavi.

Dopotutto, che importava della dignità se stava perdendo il suo cuore?

Si sforzò di sorriderle, sperando che lei capisse che l’aveva già perdonata.. perché di certo non sarebbe stato capace di articolare neppure una misera parola.

Gli sembrò di vederle muovere le labbra in una smorfia che, forse per chi non avesse mai visto il vero sorriso di Sana, sarebbe anche potuta sembrare un sorriso.

Le lanciò un ultimo, disperatissimo sguardo e poi le diede le spalle e aprì la porta che l’avrebbe fatto uscire per sempre dalla sua vita.

Uscì richiudendosela in fretta alle spalle e concedendosi qualche secondo per ricominciare a respirare. Lasciò andare il capo all’indietro fino a quando non arrivò a toccare la dura superficie in legno del portone.

Lì dietro, comunque, c’aveva lasciato il suo cuore.

 

 

                                                                       ***

 

Aveva oltrepassato quel cancello così tante volte che ormai era come oltrepassare la soglia di casa sua.

Che poi anche quella, in realtà, era stata un po’ casa sua, un posto dove potersi sempre sentire al sicuro.

Tanto tempo fa, sotto quella stessa luna, in un piccolo gazebo nel parco vicino alla scuola, era iniziato il suo amore per Sana. E con esso anche la sua vita.

E ora lui stava per porre fine a tutto quanto.

Non seppe neppure dove trovò la forza per oltrepassare il giardino che separava il cancello dalla casa, ma quando arrivò di fronte a quel grande portone si concesse qualche secondo per riprendere fiato e poi alzò una mano fino a raggiungere il campanello.

Il suono che riecheggiò nell’aria parve tanto quello che precede la scena madre di un film.

Il boato finale, il colpo di scena che nessuno si aspettava.

E che, inevitabilmente, ti lascia con l’amaro in bocca. Perché il finale non ti soddisfa affatto. E una fine come quella proprio non l’avevi immaginata.

Ma il copione non può essere cambiato, perché troppo è stato fatto. Troppo è stato sbagliato.

E allora non ti resta che rassegnarti e accettare l’idea che non è affatto andata come volevi tu.

Se anche questo fosse solo un brutto film, Sana, basterebbe spegnere il televisore.

Gli sembrava ancora tutto così assurdo… poco più di due ore prima stava facendo l’amore con lei e ora… ora stava per dirle addio.

E ciò che più gli faceva male era l’assoluta certezza di averle davvero spezzato il cuore.

Perché se fosse stato lei a decidere di lasciarlo, se gli avesse sbattuto la porta in faccia dicendogli di essere innamorata di Naozumi, .. Bè, sarebbe stato diverso.

Certo, ugualmente doloroso e lacerante. Ma forse più sopportabile.

Perché lei, almeno lei, sarebbe stata felice.

E magari dopo un po’ lo sarebbe stato anche lui.

Sarebbe stato molto meglio se non ti fossi mai innamorata di uno come me.

Sarebbe stato molto meglio se, fin dall’inizio, avessi preferito Kamura.

Prima di presentarsi di fronte casa sua aveva pensato alle parole da dirle. A come spiegarle quello che Fuka aveva appena rivelato ad entrambi.

Dirle perché, dopo neanche due giorni dalla sua partenza, aveva sentito il disgustoso bisogno di portarsi a letto la sua migliore amica.

E di concepirci persino un figlio.

Ma qualsiasi parola, qualsiasi scusa gli fosse passata per la testa, si sgretolò nell’esatto momento nel quale lei aprì piano la porta e lo guardò con quegli occhi.

- Cosa.. cosa vuoi…?

Dio, come stonavano quelle occhiaie scure e quel tristissimo pallore che le stavano uccidendo i lineamenti del volto.

- Sana…

Ma il suo nome suonava ancora dannatamente bene.

- Lasciami in pace, Akito! Io non… non voglio più vederti.

Lei fece per chiudere la porta, - e probabilmente anche la loro storia-, con un gesto secco e improvviso. Ma lui la anticipò, avanzando di mezzo passo con un piede e bloccando la porta.

- Aspetta…!

- Cosa? Cosa dovrei aspettare? Che tu mi racconti com’è stato scoparti la mia migliore amica? O cos’hai provato quando ti ha confessato che avete concepito un bel figlioletto?

Non sapeva se nei suoi occhi c’era più rabbia o più disperazione.

- No! Io voglio solo…

- Non mi interessa sentire quello che vuoi! Io voglio solo che tu vada via…

Eppure a quelle parole sembrava non crederci neppure lei.

Le si avvicinò, ma ad ogni passo che faceva, lei indietreggiava impaurita.

- Ti ho detto di andare via!

La vide abbassare il capo e iniziare a piangere come una bambina.

In quel momento, avrebbe volentieri barattato anche la sua stessa vita per far sparire tutte quelle lacrime.

- Me ne andrò via, Sana… sono venuto per dirti proprio questo…

Lei alzò il volto di scatto e lo guardò come se volesse implorarlo di ripetere quelle ultime parole.

- Co… cos’hai.. detto?

Stavolta fu lui ad abbassare il capo per non dover essere costretto a sostenere il suo sguardo.

- Ho detto che me ne vado…

Nonostante lei cercasse di nasconderlo, lui riuscì a notare quel leggerissimo tremolio che le scosse il labbro inferiore.

Ti prego… non guardarmi così.

- Senti Sana, io so di averti fatto una cosa orribile… so che avrei dovuto dirti quello che era successo tra me e Matsui quando sei andata via… ma non era stato niente per me. Non aveva significato niente…

- E allora perché l’hai fatto? Perché… mi hai fatto questo? Perché con lei?

Cosa voleva sentirsi dire? Voleva una spiegazione logica per quel gesto folle?

Ma avrebbe dovuto saperlo che non c’è logica nei gesti folli.

- Perché ero disperato. E lei… non lo so. Lei era lì.. e io non sono riuscito a pensare.

Non c’era davvero altro motivo, altra giustificazione, se non la disperazione.

La disperazione, dopotutto, sa essere devastante come il più forte innamoramento. Sa farti perdere il senso delle cose, sa come fare per farti dimenticare che, in certi casi, si dovrebbe prima pensare.

- … Come hai potuto fare l’amore con me, senza dirmi una cosa tanto grave?

Questo, invece, lo sapeva. A questo poteva provare a rispondere.

- Perché ti amo, Sana. Ti amo così tanto che vorrei passare ogni dannatissimo secondo a fare l’amore con te!

Gli occhi di lei si colorarono di rabbia furiosa e di incontenibile disperazione.

Possono esserci sentimenti tanto contrastanti negli occhi di una sola persona?

Possono convivere, apparire nel medesimo istante, due espressioni così assolute?

- Se davvero mi avessi amato almeno un po’, non mi avresti mai fatto una cosa tanto orrenda.

Si, rabbia e disperazione potevano indubbiamente albergare nello stesso cuore, nello stesso, identico istante.

Lo capì, perché stavano albergando nel suo proprio in quel momento. Proprio nel sentire l’assurda e inconcepibile conclusione alla quale lei era arrivata.

Perché un pensiero del genere non avrebbe mai dovuto neppure concepirlo.

Dirgli che non l’aveva mai amata davvero era di gran lunga la peggiore delle menzogne.

- Amarti è l’unica cosa certa che c’è sempre stata nella mia vita piena di casini…

Lasciò che una mano si sollevasse da sola per raggiungere la guancia di lei e sentire sulle dita la fresca consistenza delle sue lacrime.

- … e la certezza che ti amerò ancora domani, e sempre, è più radicata della prova scientifica che il sole sorge ogni mattina. O che la gente invecchia con il passare del tempo...

Le lacrime sulle sue dita iniziarono a diventare inevitabilmente più copiose.

- …tu sei la mia più salda sicurezza. L’amore che provo per te è l’unica cosa che nessuno potrà mai togliermi… nessuno, Sana. Comunque vada, io ti porterò sempre con me, anche se sarai dall’altra parte del mondo.. quindi credimi se ti dico che preferirei essere morto, piuttosto che averti fatto questo…

Era sincero.

Ogni parola, ogni sillaba, ogni lettera, ogni respiro era stato sincero.

E forse, visto che portò le mani sulle sue per stringerle forte, c’aveva creduto anche lei.

-.. Akito tu… vai con lei?

Avrebbe voluto dirle che non se ne sarebbe mai andato e che avrebbe aspettato fuori dal suo cancello tutto il tempo necessario affinché lei potesse perdonarlo.

Ma non c’era stata possibilità di scelta.

Un figlio è un figlio.

È una parte di te che ha un volto diverso, che sorride di un altro sorriso, che parla con una voce mai udita.

Partire con Fuka per andare a vivere a Osaka era stata l’unica scelta possibile sin dal primo momento.

In realtà, non c’era neppure un’alternativa vagliabile.

Non sarebbe stato l’uomo che lei l’aveva fatto diventare, se avesse girato le spalle a suo figlio.

Sarebbe stato un buon padre, o almeno c’avrebbe provato. Anche se ciò voleva dire perdere Sana.

Le conseguenze che certi errori portano con sé ti impongono delle scelte che, anche se non vuoi, ti cambiano la vita. Ti indirizzano verso la direzione opposta, sono la freccia che ti indica la strada più lontana e sconosciuta.

Stanno lì ad attenderti dall’altra parte, sornioni e pieni di soddisfazione.

E tu capisci che, da adulti, gli errori non si dimenticano in fretta come da bambini. Che non basta più stringere il mignolino dell’amico offeso e offrirgli il tuo giocattolo preferito come pegno per essere perdonato.

No, da adulti il pegno è molto più grande.

Il mio pegno, stavolta, sei tu.

- Non posso abbandonare mio figlio. Non me lo perdonerei.

Non me lo perdoneresti neanche tu.

- .. Ma non ci sarà mai più nulla tra me e Fuka. Vado ad Osaka per mio figlio, non per lei.

Non ci sarebbe stata più nessuna dopo di lei, così come non c’era stata nessuna prima.

- Cosa… cosa dovrei dire adesso? Addio?

Mai parola era stata più fastidiosa di quella.

“Addio” voleva dire “Fine”. Fine di tutto, fine di loro due, dei loro progetti, dei loro giorni futuri.

- No, Sana. Io non ti dirò mai addio. Perché se un giorno mi rivorrai, io ci sarò. Ti basterà solo venirmi a cercare.

Lei rimase in silenzio, schiudendo appena le labbra nel tentativo di parlare, ma senza riuscirci.

Magari non sapeva come dirgli che per lei, invece, quello era proprio un addio.

Magari, più semplicemente, non sapeva quali parole si dovessero usare in un momento come quello.

Lui d’istinto la attirò a sé, stringendola talmente forte da sentire le sue lacrime macchiare la stoffa della camicia.

E la sentì singhiozzare ancora di più.

C’erano tante cose in quell’abbraccio… tante parole, tante immagini accavallate.

C’erano tutti i pezzi di loro, di quello che erano stati insieme.. Ed erano stati molto, insieme. 

Fu lei a staccarsi per prima, tirando su con il naso arrossato e passandosi una mano sotto gli occhi per asciugare le lacrime.

- Bè allora…

- Allora vai via? Cosa dovrei dirti quindi? Ciao? Dovrei salutarti come se ti potessi vedere domani mattina per fare un giro in centro? Dovrei davvero…

La vide abbassare gli occhi e lasciare scendere altre, nuove lacrime.

- … dirti solo “ciao”?

- Si, Sana. Dimmi solo “ciao”.

Così sembrava meno difficile. Meno definitivo. Un “ciao” è una parola che lascia aperte infinite possibilità… vedersi, non vedersi, sentirsi per telefono o semplicemente incontrarsi in qualche sogno.

“Ciao” significava avere l’opportunità di scegliere.. di decidere cosa fare.

Un “Addio”, invece, non lasciava spazio a niente’altro. Era la parola da usare per chiudere qualcosa.

Addio era solo addio.

E loro ancora non potevano ancora permetterselo.

- Sai qual è la cosa che mi fa più rabbia, Akito? È la dannatissima consapevolezza che domani mattina, quando mi sveglierò sola nel mio letto, ti avrò già perdonato. E non mi sarà rimasto neppure l’odio per provare a dimenticarti… non mi sarà rimasto niente.. E sarò costretta a continuare ad amarti pur sapendo che non potrò mai superare il fatto che tu e Fuka avete un bambino.

No, non era ancora tempo per un addio.

Per ora, guardarla negli occhi e dirle “Ti amo” non significava affatto che sarebbe stata l’ultima volta che le avrebbe detto quelle due parole.

Per ora, vedere il suo viso rigato dalle lacrime voleva solo dire averla fatta piangere dopo una delle loro solite litigate, prima di farla tornare a sorridere chiedendole scusa.

Per ora, girarsi di spalle e uscire da quella porta voleva solo dire andare via per un po’.

Magari poi, quello, sarebbe diventato davvero un addio.

O, forse, sarebbe tornato ad essere un semplice “ciao”.

 

 

***

 

Le lenzuola odoravano di lavanda e primavera.

Un profumo familiare e caldo, che la avvolse per un istante in un’affettuosa e morbida carezza.

Si, perché per un attimo, non appena aprì gli occhi e si ritrovò nel suo letto d’infanzia, si sentì davvero al sicuro.

Lì, in quel piccolissimo spazio di mondo, inaccessibile per tutti gli altri, nessuno avrebbe mai potuto farle del male.

Poi però, come capita sempre nelle peggiori mattine, i ricordi della nottata precedente iniziarono a martellarle in testa con furiosa violenza.

E capì che non c’era bisogno che qualcuno entrasse nella sua stanza, che violasse il suo sicurissimo nido, per poterle fare del male.

Akito e Fuka avevano la capacità di ferirla a morte senza neppure sfiorarla.

Proprio com’era successo la notte prima.

E proprio come in quel momento, sentì una lama graffiarle forte sul cuore e il respiro bloccarsi e bruciarle la gola…

Sarebbe stato così per tutte le mattine a venire?

Sarebbe davvero stata sempre così male?

Sarebbe stato molto più facile morire…

Nel giro di un’ora era passata dalla prospettiva di una vita felice nuovamente accanto al suo Akito, alla prospettiva di un’esistenza senza le persone che, in quei 24 anni, erano state i suoi compagni di viaggio.

Senza Fuka, la sua divertente e ottimista migliore amica…

Senza Naozumi, il suo uomo ideale e perfetto, lo scoglio al quale aggrapparsi con forza ogni qualvolta si sentiva sperduta… L’angelo bellissimo e paziente, dal sorriso dolcissimo e gli occhi del colore del mare.

E, soprattutto, senza Akito… che era stato… Bè, che era stato semplicemente Akito.

E non c’era certo bisogno che fosse nient’altro.

Adesso cosa mi rimane?

Adesso, senza Fuka, Naozumi ed Akito, non rimaneva nient’altro che una disperata solitudine.

La consapevolezza di non sapere come fare per alzarsi da quel letto.

Per arrivare fino in bagno a fare una doccia e poi scendere per preparare la colazione.

Per risalire in camera e passare del tempo stando in piedi di fronte all’armadio, troppo indecisa se  scegliere la maglia rosa a con il collo soffice ed enorme o la camicia nera comprata in una delle più esclusive boutique d’alta moda.

Come avrebbe fatto ad occupare anche solo un misero istante del suo tempo per rivolgere la mente a pensieri tanto… inutili?

Con le lacrime a rigarle il volto, si rigirò nel letto stringendo forte le lenzuola intorno al torace.

 

Si, le lenzuola odoravano di lavanda e primavera.

Ma il suo inverno era appena cominciato.

 

 

                                                                       ***

 

 

Avrebbe tanto avuto bisogno che qualcuno gli dicesse che stava facendo la cosa giusta.

Che tutti, al suo posto, si sarebbero comportati esattamente come si stava comportando lui in quel momento.

Perché quella scelta, la decisione di accettare che la sua vita non sarebbe più stata quella di prima, gli sembrava davvero l’unica possibile.

Ironia della sorte, certo, che proprio ad uno come lui, con quella storia particolare, con le spalle ancora un po’ indolenzite dal peso di quell’infanzia mai vissuta, fosse capitata proprio una cosa del genere.

Che gli si fosse aperta di fronte agli occhi un’altra strada… la possibilità di essere egoista, di spendere ogni secondo delle sue giornate stando attaccato al citofono della donna che amava per implorarla di perdonarlo ancora una volta.

E al diavolo tutto il resto. Anche se il resto aveva il volto di un bambino con il suo stesso sangue a scorrere nelle vene.

Dopotutto, sarebbe stato molto facile. Facile dire a Fuka di tornare ad Osaka e di continuare a vivere la sua vita come aveva fatto fino a quel momento… se c’era riuscita per più di tre anni, ci sarebbe riuscita per tutto il tempo necessario.

Forse un giorno, forse poi, sarebbe anche potuto andare a trovarli.

Ma lui lo sapeva bene…non sarebbe mai stato capace di fare una cosa del genere.

Per quanto avesse fatto di tutto per dimostrare il contrario, non era un persona così orribile.

Forse un tempo era stato sul punto di diventarlo. Ma poi era arrivata Sana e tutto aveva preso una nuova direzione.

È colpa tua se non posso abbandonare mio figlio, sai…?

Sei stata tu a farmi capire che certi valori non si possono mai dimentucare.

E allora aveva scelto di prendere l’altra via, quella più difficile e più dignitosa.

Una vera ingiustizia che le scelte più giuste fossero anche quelle più insopportabili.

- Sei pronto, Akito?

Dovette sforzarsi per non scoppiare a piangere di fronte al viso nervoso di Fuka.

Non l’aveva mai notato prima, ma quando si incazzava o quando qualcosa la turbava, assumeva un’espressione che quasi somigliava a quella di Sana.

Anche i suoi occhi si oscuravano un poco e le sfaccettature colorate diventavano opache.

- Si, andiamo Matsui.

Per il resto, però, Fuka non aveva proprio niente di lei.

Gli arrivò accanto, porgendogli uno dei due biglietti appena comprati in stazione. Lui lo afferrò senza esitare e se lo infilò nella tasca dei jeans.

Fu un gesto così frettoloso e repentino che Fuka lo guardò un istante si intristì ancora di più.

Come se in quella fretta, in quel voler nascondere subito il biglietto, c’avesse letto l’immenso sforzo, il sacrificio disumano che Akito stava facendo solo per colpa sua.

- Akito… sei davvero sicuro di voler venire con me?

- Ne abbiamo già parlato, Matsui.

“Il treno per Osaka è in arrivo sul terzo binario…”

- Si, lo so… ma lei..

La guardò come solo lui era capace di guardare qualcuno.

- Te lo ripeto per l’ultima volta, Matsui. Tu hai fatto nascere mio figlio. Lei lasciala fuori da questa storia.

La vide acconsentire con il capo e poi dargli le spalle per dirigersi verso il binario sul quale stava arrivando il treno che li avrebbe portati via da Tokyo.

La seguì e le si posizionò accanto, prendendo i suoi bagagli per evitarle di sforzarsi troppo.

Un po’, comunque, era davvero curioso di conoscere suo figlio e di vedere se gli somigliasse in qualcosa.

“Il treno per Osaka è in arrivo sul terzo binario…”

Ma, per attimo, sperò che quel treno non arrivasse mai.

 

 

                                                                       /*/

 

 

Note dell’autrice: Ok, ce l’ho fatta! So di avervi fatto aspettare più del solito, ma alla fine sono riuscita a pubblicare anche questo capitolo! Vi dico subito che per arrivare alla fine ne mancano al massimo altri due. Cavolo, mi commuovo se penso che siamo quasi arrivati all’epilogo.

Ho finito di scrivere questo capitolo praticamente due minuti fa e quindi, vista l’ora, non mi sorprenderei se ci fosse qualche errore (Se così fosse, perdonatemi xD).

Bene, aspetto come sempre le vostre recensioni!

A presto (almeno spero xD)! ^^

 

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Capitolo 14
*** CAPITLO QUATTORDICI: STAGIONI ***


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Eccomi qui! Con un po’ di ritardo, ma sono tornata! ^^

 

 

CAPITOLO QUATTORDICI: STAGIONI

 

Gennaio- Akito

 

C’è stato un momento nel quale ho pensato che quei dannatissimi quattro anni non fossero mai davvero passati.

O che magari fossero anche passati, ma che non avessero cambiato granché, almeno dentro di noi.

Perché fare l’amore con te, stringerti così forte da sentire il tuo respiro sulla mia anima, aveva fatto sorgere nella mia mente l’illusoria convinzione che il tempo potesse accartocciarsi su se stesso. Che potesse consentirci di tornare indietro per cambiare le nostre scelte.

E io le avrei cambiate senza pensarci su neppure un istante.

Perché sono state quelle scelte, errori causati dalla fragilità dello spirito umano, a condannarci a questo.

E per due innamorati come noi,- perché si, sai benissimo che lo siamo-, non c’è condanna peggiore che essere costretti a stare lontani e a non poter dare la colpa ad altri se non a noi stessi e alla nostra ineguagliabile stupidità.

È bastato girarsi un istante, uscire dalla porta come si fa nei giorni normali, e tu non c’eri già più.

Avevi scelto di cambiare casa, di cambiare città, di cambiare vita. Di cambiare persino quel futuro che avevamo già scritto quella sera di tantissimi anni fa, seduti su una panchina nel nostro piccolissimo gazebo.

Forse tu non lo sai perché non te l’ho mai detto, ma durante questi ultimi quattro anni sono tornato molto spesso a visitarlo.

Non all’inizio, però. C’è voluto un po’ di tempo prima che ritrovassi il coraggio di percorrere quella strada.

Non so neanche se lo si possa definire coraggio… forse invece, quel bisogno di vedere quasi ogni giorno il posto in cui tutto è cominciato,  era solo debolezza. Un modo per sentirmi ancora vicino a te.

Non lo so. Comunque, non funzionava.

Senza di te quel gazebo non era altro che un gazebo. Due panchine coperte da un piccola cupola in metallo.

Era freddo e triste come una vecchia auto abbandonata ai margini di una strada deserta da cui nessuno passa più.

Quel gazebo, forse, era un po’ come me. Eravamo due rottami, due pezzi di una storia che apparteneva al passato, ma che da quel passato non erano in grado di tirarsi fuori.

Tu eri andata avanti, io ero rimasto incastrato al momento nel quale capii che mi avresti stravolto la vita.

Sai, un giorno ho letto da qualche parte che non si può sentire la mancanza di qualcosa che non si è mai conosciuta.

Forte di questa convinzione, sono arrivato anche a desiderare,- e non te lo nascondo-, di non averti mai incontrata. O di non averti permesso di togliermi la ruggine dal cuore e di spaccarlo per entrarci dentro e scriverci le lettere del tuo nome come un tatuaggio indelebile.

Ho pensato che fossi solo un tatuaggio sbagliato. Che se non ti avessi mai permesso di intrometterti nella mia vita, non sarei stato costretto a soffrire come un cane quando te ne sei andata.

Perché tu non ti sei accontentata. Non ti è bastato far parte della mia vita come una delle tantissime persone che incontriamo durante il nostro percorso… una di quelle che restano solo per un po’, magari condividono qualcosa con te, ti fanno passare qualche giornata divertente, ma poi se ne vanno via.

E tu puoi anche rimanerci male lì per lì, ma poi te ne dimentichi e con il tempo neanche te le ricordi più.

No, tu dovevi entrare in quella parte di cuore dalla quale non era più possibile uscire. Hai preferito infilarti in un vicolo cieco e proteggerti costruendo ricordi su ricordi, regalandomi momenti che sapevi bene non sarei mai stato in grado di cancellare. E una volta che ci sei riuscita, una volta che sei riuscita a crearti intorno il più sicuro dei rifugi, ti sei sentita soffocare. E hai deciso che forse era ora di uscire… e l’hai fatto nell’unico modo possibile… spaccando tutto.

Come un bambino capriccioso che decide di buttare il giocattolo che fino ad un giorno prima era stato il suo preferito, hai deciso che era il momento di diventare adulta.

Ma vuoi sapere come mi sono sentito io?

Svuotato.

Si, credo che sia la parola giusta per descrivere il mio stato d’animo quando ho aperto la porta di casa nostra e non ho trovato più i tuoi vestiti nell’armadio.

Non so perché ti sto dicendo queste cose… perché sto rivangando episodi che appartengono a quel passato che ci eravamo lasciati alle spalle la notte di quest’ultimo Natale, durante il matrimonio di Aya e Tsuyoshi.

Forse quel dolore lo sto rivangando per provare a farti capire perché ti ho fatto una cosa così orrenda.

Ora non so se questo possa considerarsi un’attenuante, una sorta di mezza giustificazione, per quello che ho fatto con Matsui la prima notte nella quale mi sono ritrovato completamente solo.

Non so come la pensi tu, ma io credo che di un dolore come quello che mi hai lasciato quel giorno non puoi non tenerne conto.

Ti chiedo solo di pensarci almeno un istante, prima di decidere che è tutto irrecuperabile.

So di non poter pretendere che tu possa dimenticare quella notte… non posso farlo neppure io, dal momento che proprio da quella notte è nato mio figlio.

Si, ormai è un mese che sono qui.

Vorrei tanto poterti chiamare e raccontarti che quando l’ho visto la prima volta ho sentito una scossa fortissima nello stomaco.

Non te lo saprei spiegare a parole, perché è una cosa che se non la vivi non la puoi capire.

Fuka mi ha presentato come un suo vecchio amico, o come uno zio,- ora non ricordo di preciso-, e lui mi ha guardato un attimo con aria confusa.

Ha i miei occhi. Ce l’ha davvero, Sana. È stato come rivedere me stesso bambino… per fortuna, però, lui ha i miei occhi ma non il mio sguardo.

Il suo è quello di un bambino amato e felice.

Ho capito subito che Matsui è davvero una buona madre.

I primi giorni ho cercato di parlare con lui, di capire se il fatto che fossero già passati più di tre anni dalla sua nascita, non fosse comunque un ostacolo per provare a conoscerci.

Qualche giorno fa mi ha sorriso per la prima volta… e ho capito che mi aveva riconosciuto.

Ieri, dopo averlo messo a letto, stavo per uscire dalla porta della sua stanza e l’ho sentito parlare nel sonno… mi pare abbia detto “papà”.

E in quel momento ho capito che lui è davvero mio figlio. E che, nonostante tutto, non potrei mai desiderare che non fosse mai venuto al mondo.

So che non dovrei dirlo proprio a te… dopotutto, è per colpa di sua che credo di averti persa per sempre.

Però, lo sai.. sei stata presente in ogni minuto della mia vita e allora ho sempre avuto l’abitudine di raccontarti tutto. Tu hai sempre saputo tutto di me. Mi conosci molto meglio di quanto io non conosca me stesso. L’unica volta in cui ho potuto provare a vedere se ero in grado di cavarmela anche da solo, sono stato sul punto di morire.

E allora sono arrivato alla conclusione che mi manca da pazzi poterti raccontare ogni cosa.

Mi manca dirti che Tsuyoshi ha pensato all’ennesimo regalo da fare alla sua Aya, o che c’è un allievo nella mia palestra che è già molto più bravo di me, per poi sentirti dire che non è vero… che non è possibile che ci sia qualcuno più bravo di me perché per te io sono il migliore.

Ma a me non è mai importato essere il migliore nel karate.

Sarei voluto essere il migliore per te. L’uomo degno di starti accanto.

E ancora ci spero, sai?

Forse sono uno stupido.

O forse sono solo molto innamorato.

Il che, in fondo, è praticamente la stessa cosa.

 

 

                                                                       ***

 

Febbraio- Naozumi

 

Non avevo mai notato quanto New York potesse essere il posto peggiore in cui vivere.

Ti sembrerà una cosa stupida, perché ti ho sempre detto che per me era la città più bella del mondo  e che me ne sono innamorato sin dalla prima volta in cui ci ho messo piede.

È tutto così rumoroso, e luminoso… la gente non si ferma mai. Non ha neppure un attimo per pensare… sono sempre tutti così indaffarati, hanno sempre tutti così tanto da fare.

Non me ne sono mai accorto prima… forse perché anch’io avevo sempre qualcosa da fare.

Non che adesso sia diventato una specie di nullafacente vagabondo,… sai che non sono un tipo che passa le sue giornate seduto scomposto sul divano a guardare squallidi programmi televisivi e a mangiare gli avanzi della sera prima, con una bottiglia di birra scadente tra le mani.

Se fossi stato uno così, credo che non avresti passato con me neppure un giorno della tua vita.

Il lavoro và abbastanza bene. Proprio qualche giorno fa ho iniziato a girare le prime scene di un nuovo film che, stando ai grandi nomi che recitano al mio fianco, dovrebbe diventare un vero successo.

A me, però, non importa granché.

Non mi importa di molte cose, in realtà.

Sai, ieri sono stato al nostro solito ristorante... quello dove andavamo quasi ogni venerdì sera e Jack e Kate mi hanno chiesto di te.

“Ehi, Naozumi, dov’è la tua amata fidanzatina?” mi hanno detto con il sorriso sul volto.

Loro non sanno che non eri con me nel loro ristorante perché ti avevo lasciata dall’altra parte del mondo.

Io non ho risposto e mi sono limitato ad alzare le spalle e ho sperato con tutto me stesso che quel gesto bastasse per fargli capire che non volevo parlare di te.

Per fortuna hanno capito e mi hanno riservato uno sguardo compassionevole.

E Dio solo sa quanto li ho odiati per questo!

Se ne stavano lì, la classica coppietta felice che prova pena per lo sfigato che è stato mollato dalla sua bellissima fidanzata innamorata di un altro da tutta la vita.

Li ho odiati. E ho odiato anche te.

Poi però ho pensato a quello che ti ho fatto e ho odiato anche me stesso.

È una cosa frustrante, sai? Sapere di non averti lasciato nient’altro che un mare di sofferenza.

Eppure ti ho amata così tanto. Ti amo così tanto.

Vorrei chiamarti per sapere come stai. Per sapere se sei riuscita a stare un po’ meglio o se ancora ti manca la forza per respirare.

Vorrei sapere se Hayama ha fatto qualcosa per riprenderti con sè e se tu hai ceduto di fronte a lui. Se lo ami ancora e se lo perdonerai.

Ma il massimo che riesco a fare è comporre il tuo numero e riattaccare non appena sento il primo squillo.

Forse un giorno riuscirò a chiamarti davvero. O forse ti verrò anche a trovare.

Intanto resto bloccato qui, immobile e sperduto nell’immenso caos di New York.

E tra tutto questo mare di gente mi riscopro ancora a cercare il tuo viso, pur sapendo che non lo troverò mai.

Questa città ha cambiato volto da quando sei andata via.

A volte penso che vorrei andarmene anch’io…magari in Europa o da qualche altra parte.

Ma poi capisco che ovunque sarebbe lo stesso. Che ovunque ti cercherei. Che ovunque mi mancheresti.

E allora resto qui e provo ad occuparmi la vita con cose diverse da te.

E magari un giorno, chissà, potrò anche riuscirci.

 

 

                                                                       ***

 

Marzo- Tsuyoshi

 

A volte ho come l’impressione che avrei potuto fare molto di più.

Si, insomma, che avrei potuto regalarvi più tempo e più attenzione. Perché, che avevate entrambi bisogno di un amico, mi sembra abbastanza scontato.

L’ho sempre saputo che siete due imbecilli che si fanno corrodere dall’orgoglio e da stupidissimi errori, quindi non mi dovrei stupire più di tanto se siete arrivati a perdervi, ancora una volta.

Invece, non appena ho saputo la verità, mi sono stupito eccome.

Perché non potevo credere che foste stati capaci di impegolarvi in una situazione tanto assurda.

Dico davvero, stupidi senza cervello.

E ora non offendetevi, perché è esattamente quello che siete.

Ho dovuto praticamente costringere Aya a dirmi tutto quello che sapeva. Perché è mia moglie, accidenti, e credo di avere il sacrosanto diritto di condividere con lei ciò che la tormenta.

Dopo il matrimonio, durante i giorni della luna di miele, era quasi sempre assente. Che ci fosse qualcosa che la turbava l’avrebbe capito anche un cieco.

All’inizio ha anche provato a negare, a dirmi che non aveva idea del perché tu te ne fossi andato all’improvviso, mentre Sana era rimasta nella sua vecchia casa. Senza Naozumi. E senza di te.

Poi però ha capito che sarebbe stato inutile continuare a mentire, perché sono suo marito, sto con lei praticamente da tutta la vita, e mi basta un istante per rendermi conto se qualcosa non và.

E allora mi ha confessato tutto, mi ha detto di Fuka e del suo bambino. E io ho avuto una voglia pazzesca di prenderti a pugni, stupidissimo di un Akito!

E te l’ho anche detto, non appena ho trovato il coraggio di farti qualche telefonata per sapere come procedevano le cose tra te e tuo figlio.

Ti ho detto che sei l’uomo più stupido che io abbia mai conosciuto.

Ti voglio bene e lo sai. Sono cresciuto con te e ti ho visto innamorarti di lei. Sin dal primo istante, ho capito che c’era qualcosa di molto speciale che vi legava e che, con moltissima probabilità, vi avrebbe legati per sempre.

E allora dimmi cos’ho sbagliato. Dimmi perché le cose non sono andate come avevo previsto.

Perché qualcosa dev’essere successo… qualcosa di diverso, qualcosa che ti è scattato nel cervello, che è scattato anche a lei, e che vi ha fatto svegliare una mattina e pensare che la cosa migliore da fare era buttare nel cesso un amore che, forse, non meritavate.

Perché non ne hai parlato con me?

Perché non mi hai detto che eri stato così disperato da fare l’amore con la migliore amica di Sana?

Perché, quando hai capito che da solo non ce la facevi, non mi hai chiesto aiuto?

Sai che ci sarei stato, Akito.

Avrei potuto parlare con Sana, dirle che volevi che tornasse a casa. Dirle che volevi sposarla.

Ma tu dicevi che andava tutto bene, che il fatto che lei fosse andata a New York e che si fosse messa con Naozumi, forse era stata la cosa migliore per tutti e due.

Balle, clamorose menzogne.

Forse la colpa è stata anche mia. Colpa per averci creduto, a quelle bugie, ignorando la vocina dentro di me che mi urlava di aprire gli occhi.

Ma non volevo intromettermi, non volevo forzarti a fare qualcosa che non volevi fare. E invece non ho pensato che l’unica cosa che volevi era proprio quella di riavere lei.

Sciocco io. Sciocco tu. Sciocca lei.

Ed è così triste pensare che una cosa bella come il vostro amore possa essersi rovinata per un po’ di sciocchezza.

È così facile distruggere tutto.

Sai, Akito, ieri sono passato da casa di Sana. Volevo vedere come stava, volevo parlare un po’ con lei per cercare di farle capire che non era ancora tutto perduto. Che se ti amava allora qualcosa si poteva recuperare.

Ma lei non c’era. Ho suonato il campanello per un bel po’ di minuti, ma non ho ricevuto risposta.

In un primo momento ho creduto che fosse uscita per fare un giro e allora l’ho aspettata per un po’.

Poi ho visto la signora Misako uscire in giardino per innaffiare le sue bellissime piante e le ho rivolto un caloroso saluto. Lei mi ha guardato un attimo confusa e poi mi ha chiesto cosa facessi lì.

“Sto aspettando Sana!”, le ho risposto.

Lei si è avvicinata a me e mi ha sorriso appena, prima di dirmi che Sana non c’era. Perlomeno, non in quel momento e non ci sarebbe stata neppure in quelli immediatamente successivi.

Si è trasferita, Akito. È andata ad abitare con Rey e sua moglie Asako, in un piccolo paesino alle porte di Parigi.

Tu sei ad Osaka e lei in Francia. Siete di nuovo distanti  un mondo intero.

Quanto durerà questa situazione?

Avete davvero intenzione di non fare niente? Di lasciare le cose così come sono?

Accidenti a voi! So che non è facile rimediare, ma almeno provateci!

Mi sento un po’ più vuoto anch’io senza di voi. Mi sento un po’ più triste anch’io, se so che non siete felici.

Aya continua a dirmi di non fare nulla. Di lasciare che siate voi due a decidere in quale direzione far evolvere le cose.

Credo che la ascolterò, anche perché non saprei cosa fare per aiutarvi.

Dovrete essere voi due a capire che essere felici è un dovere. E che pensare di poter vivere senza dar peso alla voce del cuore è solo una follia. E una macroscopica utopia.

Quindi io aspetterò in disparte le vostre mosse, con la promessa che ci sarò sempre, e in ogni momento, se vi servisse ancora un amico.

Sento, o forse spero, che ci sarà aria di cambiamenti.

In fondo, è già primavera.

 

                                                                       ***

 

Aprile- Sana

 

Forse ti sembrerà strano, ma mi sono resa conto che la primavera è davvero arrivata solo questa mattina.

Per capirlo, mi è servito sentire Asako entrare nella mia stanza per svegliarmi e vederla spalancare le ante della finestra accanto al letto.

Ecco, in quel momento ho sentito un fortissimo odore di fiori. E ho capito che l’inverno era passato… almeno sul calendario.

Già, perché dentro di me, l’ inverno, lo sento ancora saldamente ancorato al cuore.

Non c’è l’ombra neppure di un piccolissimo bocciolo, niente che possa dimostrarmi un po’ di primavera.

Strano, vero?

Perché io sono sempre stata una persona piena di entusiasmo e di voglia di vivere, e spesso sentivo la primavera molto prima di tutti gli altri, la sentivo anche nel più gelido inverno, anche durante il più triste degli autunni.

Inutile dire che la colpa è tua.

Dopotutto, di chi altri potrebbe essere?

È per colpa tua che sono stata “costretta” a fuggire da Tokio e dalla mia vecchia casa…tra quelle mura familiari erano troppe le cose che mi parlavano di te.

Incredibile come una sola persona possa essere capace di influenzare a tal punto la tua vita. Bisognerebbe creare dei limiti, dei confini oltre i quali i sentimenti non possono andare, giusto per proteggersi un po’ di cuore.

Se così fosse stato, ora non mi ritroverei in queste condizioni. Non sarei costretta a quest’apatia che mi spinge a non trovare un senso a niente. A non vivere il passare dei giorni con l’entusiasmo tipico di chi ha qualcosa da aspettare. Perché io non aspetto più niente.

Trovo che sia la cosa più orribile che possa capitare, lo stato d’animo peggiore che una persona possa provare… il non aspettarsi niente, perché tanto ogni nuovo giorno è uguale al precedente e il tempo lo vedi passare solo sulla calendario.

Prima era tutto diverso. Prima, c’erano tanti progetti, tante cose da fare e il tempo sembrava non bastare mai. Ora ne ho così tanto che non so che farne. Ne ho così tanto che quasi vorrei regalarlo.

Eppure so che mi basterebbe guardarti per tornare ad emozionarmi di fronte ad un’alba.

Mi basterebbe sentire la tua voce per ricominciare a interrogarmi su cosa fare domani. E per creare progetti, sogni, aspettative.

So benissimo di essere una donna fortunata. Ho una famiglia che mi ama e un lavoro che la maggior parte della gente può solo desiderare.

Sto bene qui, con Rey e Asako. Hanno avuto una bambina, sai?

È nata quando ero ancora a New York, quindi l’ho vista per la prima volta quando mi sono trasferita qui. Qualche giorno fa, ha compiuto due anni.

Si chiama Nami ed ha lo stesso viso di sua madre. Rey si arrabbia molto quando qualcuno gli fa notare che potrebbe anche non essere sua figlia, visto che non gli somiglia per niente.

Però non è vero. Ritengo che da Rey abbia preso il sorriso. E questo basta per renderla indiscutibilmente sua figlia.

Ogni volta che guardo Nami, mi viene inevitabilmente in mente il fatto che anche tu ora hai un bambino. E non ti odio abbastanza per non voler sapere com’è stato incontrarlo. Come ti sei sentito quando hai incontrato i suoi occhi per la prima volta.

Vorrei sapere se ti somiglia e se sei riuscito ad entrargli nel cuore. Ma questo, probabilmente, lo so già. Perché tu sai entrare nel cuore, Akito. Il problema è che poi non sai più uscire. O lo sai ma non vuoi dirmi come fare, perché ritieni che meriti ancora un po’ di sofferenza.

Se è così, se davvero conosci un modo per permettermi di non amarti più, allora ti prego di dirmelo e di permettermi di liberarmi di te una volta per tutte.

O perlomeno dimmi come fare per trovare un senso anche a ciò che non porta il tuo nome e che non ha il tuo volto.

Sono sempre stata così piena di te, durante il corso di tutta la mia vita, che ho paura che se riuscissi a cancellarti, poi non mi resterebbe più niente. Ho paura che la tua mancanza finirà per svuotarmi e io resterò qui da sola, ad annaspare senza fiato, sapendo che non ci sarà mai nient’altro con cui potermi riempire.

E allora dimmelo tu cosa fare, perché io non lo so.

So solo che non riuscirò ad odiarti finché continuerai a mancarmi. Finché continuerò a pensare che è molto meglio amarti soffrendo, piuttosto che cancellarti.

E mi dispiace di essere stata così stupida. Mi dispiace di essermene andata quattro anni fa.

Mi dispiace di averti lasciato con il cuore stracolmo di rabbia e di delusione e di averti fornito la possibilità di tradirmi nel modo peggiore in cui potevi tradirmi.

Perché sei stato debole e sciocco, e su questo non ci sono dubbi.

Ma sono stata debole e sciocca anch’io, forse molto più di te.

E allora magari questa sofferenza me la merito. Ma sento che potrei stare molto meglio se solo ti vedessi anche un istante… magari da lontano, dal ciglio opposto della strada, o in mezzo ad un mare di persone. Mi basterebbe uno sguardo fugace, giusto il tempo di vedere se la voglia di abbracciarti supera quella di prenderti a schiaffi e di mandarti a quel paese.

Che stupida, questo lo so già. Mi sembra inutile persino dirti la risposta, perché se sto ancora qui a pensarti vuol dire che, con il cuore, vorrei prendere il primo aereo e gettarmi tra le tue braccia.

E al diavolo Fuka, al diavolo gli errori, il tempo sprecato a farci del male. Al diavolo tutto.

Poi penso che, tra il mare di sbagli commessi, c’è un bambino che porta sul viso i tuoi lineamenti, e allora capisco che forse è meglio mantenerla, questa distanza.

Perché a volte il cuore non basta, a volte è necessaria anche un po’ di ragione.

Eppure nei sentimenti, ho sempre pensato, è il cuore quello che deve decidere.

Forse sbagliavo… ma so che sarebbe davvero bellissimo, se solo bastasse poterlo seguire.

 

 

                                                                       ***

 

Maggio- Fuka

 

Non ho mai avuto un’amica come te. Forse non ho mai avuto una vera amica, prima di incontrarti.

Te lo ricordi il momento in cui ci siamo viste per la prima volta, vero?

Ci siamo soffermate molto spesso a ripensarci, negli anni a venire. E ogni volta ci lasciavamo scappare una risata divertita.

Perché se ci pensi, è stata una cosa strana. Voglio dire, anche se non ci fossimo viste in bagno, anche se non ti avessi chiesto un po’ di lacca per sistemare la frangetta tagliata troppo corta, ci saremmo incontrate nella stessa aula solo pochi minuti dopo.

Si, ci saremmo viste in aula, ma forse sarebbe stato tutto diverso.

Forse non ci saremmo parlate subito, forse mi sarei seduta lontana da te, accanto ad un’altra compagna che magari avrebbe preso il tuo posto.

Forse, se non ci fossimo parlate in quel bagno, non ci saremmo mai scelte.

Perché noi ci siamo scelte, Sana. È bastato un attimo, due parole scambiate qua e là, e subito abbiamo capito che c’era quell’alchimia. Che io sarei diventata la tua migliore amica e che tu saresti diventata la mia.

E così è stato. Almeno fino a quel maledettissimo giorno di più di quattro anni fa.

Credimi, fare l’amore con Akito era l’ultima cosa che mi passava per la testa. Se tu me l’avessi detto tanti anni fa, tra una battuta e l’altra, ti sarei scoppiata a ridere in faccia.

E ti avrei detto che mai e poi mai ti avrei fatto una cosa del genere. Che mai e poi mai lui l’avrebbe fatta a te.

Ed era vero, è sempre stato vero, almeno fino a quando non hai deciso che la cosa migliore da fare era scappare dall’altra parte del mondo e metterti con un uomo che con il tuo Akito non c’entrava nulla. Che non c’entrava nulla neppure con te.

E non so se è stata colpa del destino o del nostro sconfinato timore di restare da sole, ma anche Takaishi, a quei tempi, prese la tua stessa decisione.

E io, come te, ero troppo debole per non cercare aiuto. E conforto. E amore.

Tu l’hai fatto con Naozumi, io l’ho fatto con Akito.

Si, lo so bene che è una cosa completamente diversa.. che stando con Akito ho fatto del male anche a te. Ma quella notte non è stato nient’altro che un modo per rendermi conto che non ero l’unica a soffrire. E il fatto che ci fosse qualcun altro che soffrisse come me, che avesse la mia stessa voglia di morire, mi ha fatto sentire un po’ meno disperata.

Solo per un po’.

Credimi, non ho pensato al fatto che ti avrei distrutta. Non ho pensato che anche se eri a New York, il tuo cuore era rimasto accanto ad Akito.

Se ti può consolare, è stato così anche per il suo.

Poi, il fatto che da quell’errore sia nato mio figlio, è una cosa che non potevo prevedere. E che non posso assolutamente rinnegare.

Mio figlio è tutta la mia vita da quando Takaishi se n’è andato. E da quando te ne sei andata anche tu.

Mi ha spinto a tornare ad amare la vita, mi ha fatto sentire di nuovo importante perché ha bisogno che io mi prenda cura di lui.

E questo non c’entra niente con Akito.

Certo, lui è il padre. Ma può continuare ad esserlo anche senza dover rinunciare a te.

È qui da qualche mese ormai, e mi sembra che le cose stiano andando anche meglio del previsto.

Forse non dovrei raccontare queste cose proprio a te, ma sei la mia migliore amica e voglio che tu sappia che certe cose non sono mai cambiate.

L’amore che prova Akito verso di te, per esempio. E quello che tu provi per lui.

Perché ti conosco fin troppo bene per non essere assolutamente certa del fatto che, in questo momento, sarai da qualche parte del mondo a pensare a lui e a dannarti perché non riesci ad odiarlo.

Se è così, non dannarti più.

Non tentare di odiarlo perché non ci riusciresti. Perché odiarlo non servirebbe, non ti restituirebbe la voglia di sorridere. Quella, lo sai, dipende da lui.

So che una cosa come quella che ti abbiamo fatto non si può perdonare facilmente, ma ti voglio troppo bene per non chiederti di perdonare almeno Akito.

Non perdonare me se non te la senti… almeno non ancora. Prenditi tutto il tempo che ti serve, lascia scorrere tutta la vita che vuoi far scorrere.

Lui, però, cerca di perdonarlo. Lo dico per te, perché so che solo lui può farti tornare quella di sempre.

E lo dico per lui, perché gli voglio bene. Perché non sai che la sera, quando pensa che siamo già andati tutti a dormire, lo sento piangere da dietro la sua porta. Lo sento singhiozzare il tuo nome.

E se l’amore che provate l’uno per l’altra è sopravvissuto anche ad un errore come il nostro, allora vuol dire che non potrà mai morire. E tu non lo devi sprecare.

Fallo per lui, fallo per te.

Ho provato anch’io ad odiare Takaishi, quando mi ha lasciata. Ho provato a fargliela pagare e hai visto com’è andata a finire.

Dopo lo stupore iniziale, dopo lo shock per la separazione, ho pensato che la cosa migliore da fare fosse odiarlo. Odiarlo così tanto da far rimanere nella mia mente solo i momenti peggiori…da non ricordare il modo in cui mi guardava, ma solo gli occhi che aveva nel momento in cui mi diceva che era meglio andare via.

Ho lasciato che la rabbia si impossessasse di me e mi corrodesse, fino a farmi dimenticare che avrei potuto odiarlo anche per tutta la vita, ma la ferita non si sarebbe rimarginata.

Perlomeno, non così in fretta. Non riempiendola di rancore.

È stato solo quando ho capito che non dovevo essere arrabbiata, che non dovevo costringermi ad odiarlo, che ho iniziato a stare un po’ meglio.

E allora ho accettato il fatto che le storie d’amore possono anche finire e che l’unico motivo per il quale Takaishi mi ha lasciato è che, semplicemente, non era più innamorato di me.

E di questo non posso certo fargliene una colpa.

Ho continuato ad amarlo per un bel po’, forse lo amo tutt’ora. Ma riesco a convivere con il ricordo della nostra storia, riesco a pensare a lui e, a volte, mi viene anche da sorridere.

Ma avrei tanto voluto che mi avesse lasciata per uno stupido litigio o per un po’ d’orgoglio, proprio com’è successo a te e ad Akito.

Un errore si può riparare, la mancanza d’amore no.

È più facile rassegnarsi se chi ti lascia non ti ama più, perché alla fine sai che non c’è niente che tu possa fare per cambiare la situazione.

Ma voi vi amate ancora. E c’è qualcosa che potete fare.

Potete perdonarvi.

Fidati, Sana, lo devi a quell’enorme pezzo di vita vissuto accanto ad Akito. Lo devi ai vostri momenti, alle sensazioni che ancora provate quando siete vicini. Lo devi ai brividi che vi regalate con un solo sguardo, ai sorrisi che hai voluto soffocare, ai progetti che dovevate realizzare. Lo devi ai figli che sognavate di avere, ai respiri che dovevate farvi mancare.

Soprattutto, lo devi al tuo cuore… Stavolta, ti giuro, lo dovresti davvero ascoltare.

 

                                                                       ***

 

Giugno.

 

Aprì le finestre lentamente, cercando di fare meno rumore possibile. Sentì il legno ruvido delle ante sotto le dita e la brezza mattutina accarezzargli il viso ancora leggermente insonnolito.

Restò immobile per qualche secondo, piacevolmente sorpreso dal calmo paesaggio che gli si stagliava di fronte. C’era una calma quasi irreale eppure bellissima… così diversa dal caos che accompagnava i suoi risvegli nelle mattine a Tokyo.

Inspirò a fondo, sollevando il capo e alzando gli occhi verso il cielo. Quasi si sentì perso, di certo minuscolo, al cospetto di quell’immensa distesa azzurra e limpidissima.

Non c’era neanche una nuvola, quasi come se niente dovesse intaccare quel manto immacolato.

Era tutto così perfetto da sembrare quasi una fotografia, o un’immagine di quelle che si vedono sui cartelloni pubblicitari e che si usano per attirare turisti in questa o quella zona del mondo.

Tutto odorava già d’estate.

- Akito, sei già sveglio?

Fuka fece capolino dallo stipite della porta, con indosso ancora l’enorme pigiama con il quale amava dormire.

In questo, somigliava molto alla sua Sana.

Anche lei, infatti, era solita dormire con dei pigiami davvero poco consoni e femminili, anche quando fuori iniziavano le giornate più calde.

- Si, mi sono appena svegliato.

La vide entrare lentamente e subito riconobbe lo sguardo che le scorse sul viso.

Quello era lo sguardo che Fuka aveva quando stava per iniziare uno dei suoi soliti discorsi.

Uno dei suoi vecchi discorsi. Quelli che amava fare quando era ancora la ragazza allegra e chiacchierona di un tempo.

- Senti, Akito… io devo parlarti.

Appunto.

Lui si strinse nelle spalle e si preparò mentalmente ad ascoltarla.

- In realtà, è un discorso che voglio farti da un bel po’.. ma non ho mai avuto la giusta occasione per farlo. Ora Shin è di là che dorme e mi sembra anche abbastanza tranquillo, quindi ho deciso di farlo ora.

- Matsui, si può sapere cosa devi dirmi?

- Si tratta di te. E di Sana.

Avvertì una pugnalata al cuore, solo nel sentire quel nome.

Abbassò il capo e fece qualche passo per raggiungere il letto e per sedersi sulle lenzuola disfatte, conscio che quella sarebbe stata una lunga conversazione. Lunga e molto difficile.

- Ecco io.. io credo che tu dovresti tornare a casa.

- Come ti salta in mente una cosa del genere?

- Io ti sento, Akito.

- Cosa?

- Voglio dire, io ti sento piangere quasi ogni notte. E ti sento dire il suo nome.

Di fronte a quella inaspettata rivelazione, si sentì perso. Un uomo minuscolo di fronte ad una verità troppo grande e troppo pesante da sopportare.

Perché finché era solo lui a saperlo, finché piangeva in silenzio sotto le lenzuola senza che nessuno potesse sentirlo, allora era diverso. Faceva male, certo, ma almeno non doveva giustificarsi inventando assurde motivazioni alle quali neppure uno stupido avrebbe creduto.

Ora, invece, Fuka conosceva la sua debolezza. Forse l’aveva sempre conosciuta, ma se le dici ad alta voce le cose sembrano molto più vere. E fanno molto più male.

- E con questo cosa vorresti dirmi, Matsui?

- Voglio dirti che non è necessario che tu continui a soffrire così. Sei venuto qui per conoscere tuo figlio e l’hai fatto. Sei riuscito ad entrare nel suo cuore e credo che anche lui sia riuscito ad entrare nel tuo. Vedervi insieme mi rende la persona più felice del mondo, mi fa sentire meno in colpa per i tre anni che, egoisticamente, vi ho negato…

E ora perché lei stava piangendo?

- … ma non potrei mai chiederti di sacrificare la tua vita per nostro figlio. Mai. Perché ti voglio bene e credo che tu sia una persona meravigliosa… e so che non ci lasceresti mai se non fossi io a chiederti di farlo.

- Lo stai facendo? Mi stai chiedendo di lasciarvi?

D’improvviso anche a lui venne voglia di piangere.

- Si. Ma non fraintendermi, non voglio che tu ci lasci definitivamente. Voglio solo che tu torni a Tokyo e che cerchi di rimettere in piedi la tua vita.

- La mia vita va benissimo così.

La vide asciugarsi le lacrime e sorridergli appena.

- Non dire sciocchezze, Akito. La tua vita non và affatto bene se non c’è Sana. Ti sto chiedendo di tornare a casa per riprenderti la donna che ami, perché non voglio che mio figlio sia l’alibi per non cercare di rimediare ai tuoi errori.

Ora non piangeva più. E non sorrideva neppure. Ora aveva lo sguardo forte e determinato di quando l’aveva conosciuta.

- Tu sarai sempre il padre di Shin, questo non potrà mai cambiare. E potrai continuare ad essere suo padre per tutto il tempo che vorrai. Potrai telefonargli ogni giorno, ogni ora.. potrai venirci a trovare ogni fine settimana e potremmo venire anche noi, di tanto in tanto.

- Lei… lei non mi vuole più.

- Oh, sciocchezze! Sono sicura che lei non vede l’ora che tu torni a casa. È la mia migliore amica, nessuno la conosce meglio di me.

Lei si lasciò andare ad un breve risata.

Incredibile come Fuka fosse capace di cambiare umore nel giro di pochi secondi.

- Quando… quando potrò rivedere mio figlio?

- Quando vorrai! Noi siamo qui, non scappiamo mica!

Certo, ora si metteva anche a fare battutine.

Un tempo, aveva odiato quel suo lato del carattere.. quel suo voler sdrammatizzare su tutto, anche quando non c’era proprio nulla da sdrammatizzare.

Eppure ora gli venne il fortissimo impulso di abbracciarla forte.

E lo fece, cingendole con le braccia la vita sottile. La sentì emettere un mezzo sospiro, di certo sintomatico di un comprensibile stupore.

- Grazie…

Sussurrò vicino al suo orecchio. Lei si separò da lui e gli sorrise, mentre una nuova lacrima scendeva a rigarle il volto leggermente arrossato.

- Di niente. Ora vai su, inizia a preparate i bagagli!

Per un attimo, rivide la Fuka di un tempo. Anzi, vide molto di più. Vide una donna matura e determinata, piena di forza d’animo e di coraggio. Vide la madre di suo figlio e non avrebbe potuto vedere niente di meglio.

La seguì con lo sguardo, mentre lei si dirigeva frettolosa verso la porta.

Prima di uscire, si girò ancora per guardarlo e alzò l’indice, puntandolo minacciosa verso di lui.

- Ah, sappi che la prossima volta che ci vedremo voglio che tu mi dica che stai di nuovo insieme a Sana!

Stavolta anche a lui scappò una piccola risata.

Lei neppure ascoltò la sua eventuale risposta, uscì dalla stanza e si diresse verso la cucina, forse per preparare la colazione per Shin.

Già, Shin.

A lui come l’avrebbe detto? Come gli avrebbe detto che stava per andare via?

Pensando al dolore che avrebbe procurato a suo figlio, quasi pensò che sarebbe stato molto meglio restare ad Osaka.

Poi ricordò le parole di Fuka e capì che Shin non avrebbe sofferto più di tanto. Avrebbe comunque continuato ad avere un padre, perché lui non sarebbe mai sparito dalla sua vita. Sarebbe andato a trovarlo spesso, l’avrebbe chiamato più volte al giorno.

Si, forse Fuka aveva ragione. Forse poteva davvero funzionare.

Poteva concedersi di amare Shin e di amare Sana, senza che una cosa escludesse l’altra.

Shin ci sarebbe sempre stato.

Sana, invece… per Sana avrebbe ancora dovuto lottare.

Avrebbe dovuto fare di tutto per riportarla da lui.

Si, Fuka aveva ragione anche su questo. Serviva solo un po’ di coraggio.

 

 

                                                                       /*/

 

Note dell’autrice: Eccomi qui! Ormai pubblicare capitolo ad orari indecenti è diventata un’abitudine! xD Bene, come avrete avuto modo di notare, questo capitolo è leggermente diverso da quelli precedenti… Ho voluto descrivere il passare del tempo analizzando il punto di vista dei singoli personaggi, facendoli parlare in prima persona. Spero che abbiate apprezzato questo piccolo cambiamento! ;)

Come avevo già anticipato, il prossimo capitolo dovrebbe essere quello conclusivo. Credo che sarà un po’ più lungo degli altri e quindi mi ci vorrà un po’ più di tempo per scriverlo come voglio io!

Confido nella vostra infinita pazienza! ^^

Ringrazio tutte le mie accanite lettrici, perché è per loro che mi sono affezionata ancora di più a questa storia! Vi adoro davvero! *-*

Ora la smetto di annoiarvi e vi aspetto, come sempre, nelle recensioni. ;)

A presto! ^^

 

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Capitolo 15
*** CAPITOLO QUINDICI: CASA ***


Welcome To PageBreeze

Salve a tuttiiiiiiiiiiiii!!! So di avere un ritardo mega colossale! Ma ce l’ho fatta a terminare questa storia! Meglio tardi che mai dopotutto, no? ;)

Visto tutto il tempo che è passato dall’ultimo aggiornamento, credo sarebbe meglio dare una rilettura veloce ai capitoli precedenti, giusto per non perdere il filo! ;)

Ci risentiamo alla fine del capitolo! Buona lettura!

 

 

 

CAPITOLO QUINDICI: CASA

 

 

Odiava prendere l’aereo. Odiava il fatto che se cadi da quel coso traballante, non c’è la benché minima possibilità di uscirne vivo.

E poi, particolare tutt’altro che trascurabile, soffriva terribilmente di vertigini.

E a certe altezze, si sa, se soffri di vertigini non dovresti neppure salirci.

Se fosse dipeso da lui, infatti, non ci sarebbe salito affatto. Avrebbe preferito di gran lunga fare un viaggio lungo giornate intere, arrivare alla meta stanco e sfiancato. Tutto, ma non salire ancora su un maledettissimo aereo.

Proprio come tantissimi anni prima, era costretto ad andare dall’altra parte del mondo.

E proprio come allora, lo faceva lasciandosi indietro un gigantesco pezzo di vita.

Si, perché lei non l’aveva voluto. Non gli aveva dato neppure il permesso di parlarle o di vederla. Era rimasta chiusa in casa per un giorno intero.

Solo Rey era sceso per degnarsi di parlare con lui. Aveva oltrepassato il cancello della grande casa nella quale viveva con sua moglie Asako, con gli occhi bassi e lo sguardo di chi sta per infliggere una ferita mortale.

E lui aveva capito.

Sana non l’avrebbe perdonato. Sana non sarebbe tornata. Non l’avrebbe accolto con un sorriso e con le lacrime agli occhi, gettandosi tra le sue braccia, con la sua solita, bellissima, irruenza.

Forse stavolta aveva fatto male i conti. Forse neppure l’amore più grande è in grado di superare tutto. Forse ci sono cose che ti lasciano un segno del quale non puoi liberarti.

Loro non sarebbero più stati Sana e Akito. Perlomeno, non quelli che conoscevano tutti.

Qualcosa si era rotto,… qualcosa aveva aperto una crepa insanabile.

Rey aveva usato poche parole. Il minimo indispensabile per rendere il concetto il più chiaro possibile.

“Mi dispiace, Hayama. Lei non vuole vederti.”

C’aveva provato a supplicare Rey di farlo entrare lo stesso, convinto che se solo avesse avuto anche pochi secondi per parlarle, lei avrebbe capito quanto ancora la amasse.

Ma forse era stato terribilmente sciocco, e infantile, credere che bastasse dirsi “Ti amo” per cancellare tutti gli errori. Gli errori cambiano le persone, le mutano in maniera irreversibile.

E poi niente è più come prima.

 

 

 

                                                                       ***

 

I vetri della finestra nella sua stanza portavano ancora addosso i segni delle sue dita fragili e tremanti.

Come l’alone di una risata che si stampa sul finestrino di un’auto e rimane lì anche quando resti da sola, giusto per ricordarti che un tempo sapevi anche sorridere.

O come le impronte delle mani di due amanti innamorati in una fredda nottata piovosa, nascosti in una piccola macchina, magari rubata al padre di lui, tra i cespugli di una collinetta isolata.

L’aveva capito col tempo che tutte le esperienze più forti lasciano un segno. Tutte le emozioni più grandi, belle o devastanti, si incollano a fuco alle pareti del cuore, così come si erano incollate al vetro le impronte delle sue dita.

L’aveva guardato per tutto il tempo, stando ben attenta a non farsi notare.

L’aveva guardato e si era sentita impazzire lentamente. Non ricordava che fosse così bello.. o forse lo ricordava, ma trovarselo davanti era stata tutta un’altra cosa.

Erano passati solo pochi mesi da quella bellissima e maledetta notte di Natale, eppure a lei sembrava di essere morta da molto più tempo.

Non credeva, o forse ci sperava, che lui fosse capace di farle ancora quell’effetto.

Di farla sentire in quel modo, nonostante tutto.

Perché nella sua mente aveva fatto nascere l’illusoria convinzione che stavolta sarebbe stato diverso, perché una cosa come quella che lui le aveva fatto non poteva aver lasciato tutto come prima.

No, una cosa del genere non poteva non aver avuto ripercussioni sull’amore che provava per Akito.

Avrebbe dovuto ucciderlo, dimezzarlo, quantomeno scalfirlo.

E invece l’unica cosa che si era scalfita era stato ancora, come sempre, il suo cuore.

“Allora c’è ancora...”

Aveva pensato durante quei lunghissimi momenti, sentendolo battere dopo tanto tempo.

“… ma perché funziona solo con lui?”

Già. Perché vederlo lì e sapere di non potere, di non dovere andare a parlargli, era stata una tortura.

Mentre l’aveva guardato parlare con Rey, implorandolo quasi di farlo entrare, si era convinta che dentro quegli occhi dorati non ci vedeva più niente.

E invece ci vedeva ancora tutto. Forse anche di più, forse ci vedeva anche quello che non c’era.

Come sempre, gli occhi di Akito raccontavano una storia diversa. Una storia imparata ormai a memoria, ma che non si era ancora stancata di sentire. Perché quella storia la raccontavano solo a lei. E lei, dal cuore caparbio e cocciuto, voleva solo mettersi seduta ad ascoltarla per tutta la vita.

Però non aveva fatto niente per fermarlo. Da dietro quella maledetta finestra, si era sentita come paralizzata. Inchiodata alle gelide e impersonali mattonelle del pavimento lucido di una casa che non era sua e che sua non lo sarebbe mai stata.

Vederlo lì fuori, a pochi passi dal grande cancello in metallo, le aveva fatto venire una voglia pazzesca di tornare indietro, di tornare nell’unico posto nel quale si era sempre sentita davvero a casa.

E quel posto, inutile dirlo, era qualsiasi pezzo di mondo nel quale ci fosse anche Akito.

Un po’ come quando cammini distratta per le strade della tua città, tra vicoli e scorciatoie che conosci da una vita intera, e ti rendi conto che, nonostante tutto, da quel posto non potresti mai andare via. Perché quel posto è tuo. È il pezzo di mondo che ti appartiene, l’unico rifugio nel quale sorridi e dici “Questa è casa mia”.

Una sensazione bellissima, la consapevolezza di sapere che, anche se un giorno sarai costretta ad andare lontano, niente andrà perduto. Quel posto ci sarà sempre, sarà lì ad aspettare il tuo ritorno, con gli stessi vicoli e le stesse scorciatoie che avevi lasciato.

Ecco, era esattamente questo quello che provava quando vedeva Akito.

Provava quell’inossidabile senso di appartenenza, quella sensazione di appagamento e di felicità che si prova quando si torna a casa dopo un lungo viaggio.

Senza di lui, non esisteva più nemmeno casa sua. Senza di lui, era come sentirsi una nomade che vaga per strade che non conosce senza avere un posto nel quale poter fare ritorno.

Lui era il muretto di fronte alla scuola, dove ti sedevi con i tuoi primi amichetti e parlavi della prossima volta che avreste saltato le lezioni.

Era l’odore di muffin caldi e di latte che c’era ogni mattina quando ti alzavi e tua madre ti preparava la colazione, raccomandandosi di studiare e di comportarti bene con gli insegnanti, mentre tu continuavi a sbuffare scocciata e insonnolita, perché queste cose te le ripeteva ogni santissima mattina, senza renderti conto di quanto, quelle raccomandazioni, ti sarebbero mancate.

Lui era il tavolino del bar in centro, sempre lo stesso, nel quale andavi quasi ogni pomeriggio con le amiche di sempre, dove ognuna aveva il suo posto stabilito,- perché un posto non è mai uguale all’altro-, per parlare delle lezioni appena finite o di quel nuovo ragazzo che ti ha riservato uno sguardo in più.

Lui era tutto questo. E lei l’aveva lasciato andare, perché troppo terrorizzata dall’idea di poter scoprire che, casa sua, non era più come la ricordava.

Ma casa tua resta sempre casa tua, qualsiasi cosa succeda.

E lo capì quella notte, mentre pensava al volto distrutto di Akito.

Akito che con molta probabilità era già su un aereo per tornare in Giappone.

Forse ad Osaka. O forse a Tokyo.

Non lo sapeva. Forse, neppure le importava.

Nella sua mente era apparsa un’incontestabile verità. Un desiderio che non si sarebbe mai spento. E che in cuor suo sapeva di voler assecondare.

In fondo, voleva solo tornare a casa.

 

 

                                                                       ***

 

 

 

Se solo non fosse stato un pensiero assurdo, e terribilmente insensato, avrebbe quasi potuto giurare che le mura della sua vecchia casa fossero in grado di parlargli. Di sussurrargli parole dritte nelle orecchie… e si era reso conto che non bastava alzare le mani ai lati del capo per cercare di tapparle… le parole sarebbero arrivate lo stesso. E la cosa che più lo infastidiva era il fatto che l’argomento di tutti quei bei discorsi era ovviamente sempre lo stesso.

Sana. Sana. E ancora Sana.

Forse era stato un errore tornare indietro. Forse sarebbe stato molto meglio guardare in faccia la realtà e accettare che le cose non sarebbero mai potute tornare quelle di prima. Di quell’antico periodo solo una cosa era rimasta pressoché invariata… l’amore reciproco che legava lui e Sana.

Tutto il resto, tutto il contorno nel quale si ritrovavano ad agire, era completamente diverso.

E allora magari era  stato stupido pensare che sarebbe bastato andare a Parigi, presentarsi quasi in lacrime di fronte al portone della casa nella quale lei si era rifugiata per implorarle perdono.  

Che poi, il perdono mica puoi ottenerlo così. Mica la si regala in un istante, una cosa tanto importante. Ci vuole tempo, impegno, devozione.

Non era forse per questo che era tornato nella loro vecchia casa?

L’aveva fatto per farle capire che le avrebbe dedicato tutto il tempo del mondo. Tutto l’impegno. Tutta la sua devozione.

Ma ora era terribilmente difficile aspettarla. Ora che si rendeva conto che c’era la possibilità che lei non sarebbe mai tornata. Perché a Parigi non aveva neppure voluto vederlo. Non gli aveva concesso neanche un secondo. Non si era impietosita di fronte alla constatazione che lui fosse andato dall’altra parte del mondo solo per dirle che l’amava.

Forse era stato da egoisti pensare che prendere un aereo l’avrebbe legittimato a pretendere qualcosa da lei. Come se sorvolare mezzo mondo fosse minimamente paragonabile a quello che lui e Fuka le avevano fatto.

Che poi, a proposito, iniziava a sentire la mancanza di Shin.

Gli mancava suo figlio. Gli mancava Sana. Era così pieno di vuoto che quasi non riusciva a respirare.

Pieno di vuoto eh, Akito? Davvero un bel paradosso.

D’altronde, la sua stessa vita era stata un gigantesco paradosso.

Era nato sentendo già il peso della morte sulle spalle. Aveva imparato cosa significa “morire” prima ancora di imparare a camminare.

Non era questo un assurdo paradosso?

Forse è un paradosso anche sperare che tu possa tornare da me, proprio nel momento in cui ti ho inferto la ferita peggiore.

Però sperare non era sbagliato. Sperare non costava niente. E anche se fosse costato il più caro dei prezzi, avrebbe comunque sperato.

Se fosse stato necessario, avrebbe passato anni interi stando seduto sul divano in salotto, proprio come in quel momento, ad attendere il rumore del portone che si apre per lasciar spazio all’esile figura della sua Sana.

Perché aggrapparsi alla speranza era l’unica cosa che gli rimaneva.

E il loro amore meritava tutta la speranza del mondo.

 

 

                                                                       ***

- Sana, sei sicura di quello che stai facendo?

Sorrise, pensando che non è affatto vero che nella vita non ci sono cose che restano sempre uguali.

- Si, Rey. Non sono mai stata così sicura di qualcosa come lo sono adesso.

Rey, per esempio, non era cambiato di una virgola.

- Ok, piccola. Mi raccomando.

- Non sono più una bambina, scemo!

Gli diede una piccola pacca sulla spalla e gli fece una linguaccia divertita, in memoria dei vecchi tempi.

- … me la caverò benissimo, non preoccuparti.

Lo vide stringersi nelle spalle e scuotere la testa, mentre le labbra davano vita ad un piccolo sorriso.

- Dopotutto, ero certo che sarebbe andata a finire così. Ma giuro che se quello ti fa ancora soffrire io..

- Alt! Non credo ci sia bisogno del tuo intervento, Rey. Io e Akito siamo due persone molto più mature adesso. Credo che non rifaremo più certi errori. Almeno lo spero.

- Lui sa che stai tornando a Tokyo?

- No. Glielo dirò quando sarò a casa.

- Sono sicuro che ti sta aspettando…

Lo spero.

Dopotutto, tornare da lui era l’unica alternativa che le era rimasta.

- Già. Lo credo anch’io.

A dir la verità, altre alternative non erano mai neppure esistite.

 

 

 

 

                                                                       ***

 

- Mamma, papà quando torna?

Sorrise, portando una mano sul volto del suo bambino per accarezzarlo lentamente.

- Papà è tornato nella sua vecchia casa. Però verrà a trovarci presto.

- Perché è andato via? Non stava bene qui con me?

Come spiegare le assurde dinamiche delle storie d’amore ad un bambino di quattro anni?

- No, tesoro.. certo che stava bene con te. Papà ti ama tanto, ma aveva delle questioni da sistemare nella sua vecchia casa. Doveva cercare di fare pace con una persona molto importante per lui.

- E c’è riuscito?

Ai bambini servono certezze. Ancore sicure alle quali potersi aggrappare in ogni momento.

- Spero di si.

- Quindi ora papà non è più triste come prima?

Ai bambini serve sapere che le persone che li circondano sono felici.

- No tesoro. Adesso papà è molto contento.

- Allora sono contento anch’io.

Sarebbe bello poter mantenere la generosità e la bontà quasi commovente dei bambini.

- Ma mamma, quando posso chiamarlo?

Shin la guardò dritto negli occhi, quegli enormi occhioni dorati, e si accoccolò sul suo petto.

- Più tardi, tesoro. Stasera lo chiamiamo insieme.

- Promesso?

Era sicuro che Akito sarebbe stato un ottimo padre. Quindi guardò suo figlio negli occhi, gli depositò un tenero bacio sulla guancia paffuta e gli rispose con un piccolo, semplicissimo “Si”.

 

 

 

                                                                       ***

 

Le venne in mente, non appena mise piede nel piccolo viale che portava alla loro vecchia casa, che il fatto che il tempo cura tutte le ferite e che ti permette di dimenticare anche ciò che credevi impossibile cancellare, era solo una grandissima cazzata.

Il tempo non è niente, non serve a niente, se il cuore resta quello di sempre. Non ha senso lo scorrere delle stagioni, il giro che il sole compie ogni giorno nel cielo, se il cuore decide che non vuole cambiare. Ciò che vuole tenersi dentro, incastrato tra quei battiti che quasi malediresti, non lo puoi cacciare neppure con tutto il tempo del mondo.

Per esempio, la lievissima crepa sul muro accanto al portone di casa era rimasta identica a sempre.

Forse si era un po’ allargata, di certo a causa dei violenti temporali d’inverno. Però c’era.

Così come c’era l’albero di pesco nel giardino della casa del vicino. Ora era in piena fioritura. Bello e maestoso nei suoi chiarissimi colori.

Si fermò un istante a guardarlo, negli occhi il lieve tremore che precede una lacrima. E le venne spontaneo chiedersi se i vicini della casa con l’albero di pesco fossero ancora felici come li ricordava. Se fossero ancora quella coppia bellissima e innamorata che li aveva accolti con un sorriso e una torta di mele, il giorno in cui lei e Akito si erano trasferiti accanto a loro.

Abbassò il capo, chiudendo forte gli occhi nella speranza che quel gesto le permettesse di chiudere dentro di se anche le lacrime.

Ma non poté non sentire la risata allegra di un bambino provenire proprio dal giardino accanto.

D’istinto, alzò gli occhi e li rivolse verso il luogo dal quale proveniva quel bellissimo suono.

E lo vide. I capelli corti e nerissimi, un paio di minuscoli jeans sporchi sulle ginocchia e una maglietta a righe colorate, talmente piccola che pareva quella di un bamboloccio.

Le minuscole manine erano immerse nell’aiuola a ridosso del grande albero, e giocavano con la terra fresca e profumata dei fiori. Le gote erano visibilmente arrossate, provocando un meraviglioso contrasto con il bianco candidissimo del resto del viso.

Restò a fissarlo per qualche secondo, come stregata da quella piccola visione inaspettata, fino a quando non vide una donna avvicinarsi a lui per sollevarlo tra le braccia.

Quella era la sua vecchia vicina di casa. La riconobbe dall’azzurrissimo colore degli occhi. Un azzurro talmente intenso da far pensare subito alle onde del mare.

Però, e sentì una morsa intorno allo stomaco di fronte a quella verità, quella donna era molto cambiata. Non era più la ragazzina dai lunghissimi capelli ondulati e disordinati che aveva conosciuto tanti anni prima. E non era più neanche tanto magra come ricordava. Adesso era una donna matura. Bellissima certo, ma molto cresciuta. I capelli mossi di un tempo ora arrivavano a mala pena fino alle spalle ed erano raccolti in una femminile codina bassa.

Fu una conclusione più che logica pensare che il bambino che reggeva sorridente tra le braccia fosse suo figlio.

Non riuscì a smettere di guardarli, pur sapendo che presto la sua vecchia vicina di casa si sarebbe accorta della sua presenza.

E, infatti, così fu.

Nami, questo era il suo nome, voltò il capo e la vide. In un primo momento forse neppure la riconobbe, perché arricciò le sopracciglia in un’espressione confusa, come se stesse cercando nella sua memoria un indizio per dare un nome a quel volto familiare.

Passarono appena una manciata di secondi e la donna mosse le labbra in un gigantesco sorriso.

- Sana?!

Chiese, avvicinandosi alla piccola staccionata in legno che separava le loro case.

Sana scosse il capo, come risvegliatasi da un sogno, e si passò veloce una mano tra i capelli disordinati dal lieve venticello per cercare di domarli almeno un po’.

- Sana sei davvero tu?

Le domandò Nami, ancora visibilmente stupita da quella inaspettata presenza.

- Si, sono proprio io.

Rispose lei cercando di mascherare l’inquietudine con uno dei suoi soliti sorrisi.

A quell’affermazione, gli occhi azzurri di Nami si accesero di una brillantissima luce.

- O mio Dio, Sana! Non posso crederci! Dove sei stata in tutto questi anni? Ho chiesto a chiunque in giro, ma nessuno sapeva dov’eri finita!

- Sono stata a New York. Sai com’è… a causa del mio lavoro.

Nami sorrise ancora, ma stavolta lo fece solo per far capire alla donna che le stava di fronte e che era così imbarazzata da non riuscire quasi a guardarla, che lei non era affatto una stupida.

Era ovvio che Sana non fosse andata via per lavoro.

Glielo si leggeva negli occhi che la causa di tutto era stata la sua improvvisa e inaspettata rottura con il suo bellissimo e taciturno fidanzato biondo.

- Accidenti, Nami! Questo è tuo figlio?

Domandò, nella speranza di deviare la loro conversazione su binari meno traumatici.

- Si, lui è il mio Yuki.

Sana allungò una mano per sfiorare il viso ancora arrossato di quella piccola meraviglia e le venne spontaneo sorridere quando si accorse che la sua pelle era soffice come un manto d’erba fresca appena lavata.

- E ora? Ora hai risolto tutto?

Esordì Nami, guardandola dritta negli occhi.

Lei restò in silenzio, senza sapere bene cosa rispondere.

- … con il lavoro intendo. Hai risolto?

Era ovvio che non si sarebbe liberata tanto facilmente della legittima curiosità della sua vecchia vicina.

- Oh, si certo. Spero di essere un po’ meno impegnata.

- Quindi tornerete qui?

Quasi morì su quel “tornerete”.

Perché non “tornerai”?

Perché parlare per due?

Nami stava senz’altro parlando anche di Akito.

- .. si, insomma è tornato anche lui, no? Mi pare di averlo intravisto uscire in giardino qualche giorno fa.

Fu come avvertire una scossa, un’iniezione di vita dritta nel petto.

Akito era davvero tornato a Tokyo. Era davvero tornato nella loro vecchia casa.

Akito non era tornato ad Osaka. Non era tornato da lei. O meglio, da loro.

Aveva deciso di restarsene lì, tra quelle mura che li avevano visti insieme e felici. Chissà, forse davvero la stava aspettando.

-… Cosa c’è, Sana? Siete tornati insieme, no?

Avrebbe voluto chiedere a Nami di cambiare domanda, o perlomeno di non formularla in quel modo così… diretto. Perché a una domanda del genere non sapeva ancora rispondere.

Si strinse nelle spalle

Forse, però, una cosa poteva dirla. Di una cosa almeno, poteva essere sicura.

 - Per ora, Nami, mi basta sapere che siamo tornati.

Senza accorgersene, si ritrovò a sorridere come un tempo.

- … su quell’ “insieme” stiamo ancora lavorando.

Sorrise anche Nami e Sana si accorse che quella donna, forse come tutto il resto, non era cambiata poi molto.

 

 

                                                                       ***

 

Se ci pensava bene, in fondo era una cosa abbastanza strana.

Se ne rendeva conto solo ora, ora che era seduto sul suo vecchio divano da un numero indefinito di ore, che non aveva mai capito un bel niente.

Quella sensazione devastante, che quasi gli mozzava il respiro non era, come aveva sempre pensato, la voglia incontrollabile di poter tornare indietro per rimediare ai suoi errori e per riprendersi Sana.

Certo, quello avrebbe voluto farlo. Perlomeno per evitare di perdere tutto quel tempo per cercare di rimediare.

Però non era il rimorso per gli errori commessi a farlo stare così disperatamente male.

No, era il fatto di aver finalmente capito che, di lei, non gli mancava il passato. Non gli mancavano le cose già fatte o le esperienza già vissute. Quelle c’erano, erano rimaste intatte ed indelebili nella memoria e nessuno le avrebbe mai cambiate.

Di lei gli mancavano i sogni. E i progetti. Quella vita che così tante volte avevano immaginato.

Gli mancava pensare al momento in cui l’avrebbe aspettata all’altare, con Tsuyoshi accanto, come sempre. E con la chiesa riempita di tutte le persone che avevano sempre fatto parte delle loro vite. Suo padre, sua sorella, i loro vecchi compagni di scuola e i nuovi colleghi di lavoro. Poi, ovviamente, la madre di Sana con i suoi assurdi copricapo e Rey, l’eterno angelo custode della sua sognata sposa.

Gli mancava pensare al modo in cui sarebbero diventati genitori, a come Sana sarebbe di certo stata la madre migliore del mondo. E al modo in cui avrebbe perdonato a lui tutti gli errori nei quali di certo sarebbe incappato, nel goffo tentativo di essere un buon padre.

Gli mancava pensare all’espressione sconvolta di una Sana più adulta di fronte alla prima minuscola ruga ai lati della fronte, una mattina qualsiasi di fronte allo specchio.

Ecco, gli mancava sognare tutto questo.

Andandosene via, scappando prima a New York e ora a Parigi, e non permettendogli di chiederle scusa, lei aveva mandato in pezzi tutti i suoi sogni.

E, una volta andati in frantumi, i sogni sono quasi impossibili da riparare.

Si, lei gli aveva tolto la possibilità di sognare.

Ma forse questa era solo la sua giusta punizione.

 

***

 

 

Non sapeva se sarebbe stato meglio cercare le chiavi del portone nella sua enorme borsa, tra il mare di cianfrusaglie che, ovviamente, non servivano proprio ad un bel niente, oppure farsi coraggio, alzare un braccio, allungare un dito e suonare quel maledetto campanello dorato.

Per qualche istante, comunque, preferì restarsene immobile, il cuore in subbuglio e lo sguardo fisso su quella scritta che era rimasta identica a sempre.

“Casa Hayama- Kurata”

Già. Perché sua madre le aveva sempre categoricamente sconsigliato di affittare a qualcun altro quella casa. E anche se lei le ripeteva sempre che tanto lì non ci sarebbe mai tornata e che sarebbe stato molto meglio che una casa tanto bella non restasse incustodita, sua madre sorrideva e scuoteva la testa, peggio di una bambina ostinata.

Quel sorriso, l’aveva sempre saputo, voleva dire “Nella vita non si sa mai, Sana”.

Era vero, dopotutto. La vita riserva sempre così tanti colpi di scena che sarebbe stupido pensare per qualcosa, qualsiasi cosa, che sarà per sempre. O che non sarà mai più.

“Sempre” e “Mai” erano due parole che, per lei, avevano ormai perso ogni significato. Erano lettere dell’alfabeto mescolate insieme senza un criterio, senza una vera ragione.

Perché, quelle parole, le aveva accostate ad Akito.

Sempre insieme”, “Non ci lasceremo mai”, “Non ci tradiremo mai”. E altre frasi che avevano fatto, di quelle due stupidissime parole, il centro dei suoi pensieri passati.

E invece, insieme, non ci erano più stati.

E invece si erano lasciati.

E invece si erano traditi.

La vita ti smentisce continuamente. Sembra quasi che provi un gusto quasi perverso nel farlo.

Quindi è vero che nella vita non si sa mai.

E allora anche su questo sua madre aveva avuto ragione.

 

 

                                                                       ***

 

Ci sono cose, però, che la vita non riesce a cambiare. Forse non è alla vita che spetta farlo.

Siamo noi che dobbiamo scegliere. Imparare a capire ciò che ci fa male da ciò che, invece, ci rende felici. E siamo noi a doverci liberare delle cose che ci distruggono per lasciare spazio solo a quelle che ci fanno sorridere.

Facile a dirsi no?

Ma come ci si deve comportare se c’è qualcosa che ti annienta e ti fa rinascere nello stesso tempo?

Lei, adesso, cosa doveva fare?

Lei, adesso, cosa era tornata a fare?

Lei, adesso, cosa avrebbe dovuto dire?

Tre domande alle quali non sapeva rispondere, ma con le quali si sarebbe dovuta confrontare da lì a qualche frazione di secondo, giusto il tempo di realizzare che quelli che aveva appena sentito da dietro il portone, erano dei passi e che la voce che aveva appena chiesto “Chi è?” era proprio quella di Akito.

- Sono… sono io.

Almeno era riuscita a rispondergli.

Inutile dire che, non appena capì da quali labbra proveniva quella voce, Akito aprì il portone con scatto fulmineo e lei se lo ritrovò di fronte, più bello e doloroso che mai.

- Kurata!

Ancora, e sempre, quel vizio di chiamarla per cognome.

- Non mi fai entrare?

Si spostò d’istinto alla sua domanda, giusto il tempo per permetterle di oltrepassare la soglia di casa.

Non appena fu dentro, non poté fare a meno di piazzarsi di fronte a lui e di guardarlo in silenzio per qualche secondo.

- Kurata…

Ancora, e sempre, quel vizio di avere quegli occhi.

- Ciao, Akito.

- Io.. sono stato a Parigi. Si, insomma… sono stato a casa di Rey per…

- Lo so. Ti ho visto.

A quella confessione, lui non si mosse di un millimetro e i lineamenti del suo bellissimo viso non cambiarono di una virgola. Tipico di Akito, restare impassibile.

Peccato che, poi, bastasse guardarlo negli occhi per vedere che, dentro, aveva una vera e propria tempesta.

- Non hai voluto nemmeno parlarmi un istante.

- Ero arrabbiata con te. Ma che dico… “arrabbiata” non rende neppure l’idea di come mi sentivo. Era furiosa. Delusa. Svuotata. Distrutta. E lo sono ancora.

- E allora perché sei qui?

Distolse lo sguardo da lui e si diresse verso il divano del salone, sedendosi lentamente e poggiando le mani sulle ginocchia gracili.

- Perché avevo due scelte. Potevo scegliere di restare con Rey e Asako nella loro casa, o di prendere una casa tutta mia in qualsiasi parte del mondo, e di concentrarmi sul mio lavoro. Di chiudere tutta la mia storia con te, Fuka e il vostro bambino in un cassetto che mi sarei sforzata di lasciare sbarrato. E credo che, forse, con molta pazienza sarei anche riuscita a ricostruirmi una vita normale e abbastanza serena.

Si fermò un istante per riprendere fiato e per lanciare uno sguardo veloce ad Akito che, nel frattempo, si era seduto accanto a lei.

- L’altra scelta che avevo era quella di tornare. Di riprendere la vita che avevo prima che me ne andassi a New York. Perdonarmi, e perdonare te, per tutti gli errori commessi e rassegnarmi al fatto che ti amo in un modo così esagerato che ogni volta che ti guardo mi si ferma il cuore. E provare a vedere se può ancora funzionare.

Ci furono molti istanti di totale silenzio. Poi Akito le si avvicinò e, quasi con timore, le accarezzò leggero una guancia arrossata.

- Sei tornata.

Le disse soltanto. Lei lasciò andare qualche lacrima e fece un breve cenno d’assenso con il capo rossiccio. Nell’aria c’era un fortissimo odore di casa.

- Stavolta resti per sempre vero?

“Sempre”. Ancora quella stupida parola.

- Non so se sarà per sempre. So solo che ci sarò, almeno fino a domani.

Questo era il massimo che poteva promettergli, almeno per il momento.

- Bè, vedrò di farmelo bastare.

Vide Akito sorriderle e sorrise anche lei.

E capì di aver fatto la scelta migliore.

 

 

                                                                       /*/                                                                  

 

 

Due anni dopo.

 

Richiuse la valigia, spingendo forte sul ruvido tessuto nero, con estenuante lentezza.

Era abituato a viaggiare. L’aveva praticamente fatto per tutta la vita. Ma c’erano volte nelle quali prendere un aereo era incredibilmente difficile.

Volte nelle quali gli sembrava di impazzire e di lasciare dietro di se molto più di un semplice pezzo di mondo.

Ora, per esempio, stava lasciando il suo dolore. La sua devastante solitudine. Quella brutta, bruttissima sensazione di vuoto che l’aveva accompagnato da quando era tornato a New York. Da quando ci era tornato da solo.

Erano passati poco più di due anni da allora eppure il suo stato d’animo era cambiato solo due giorni prima. Quando si era svegliato con il suono fastidioso del telefono sul comodino e, biascicando un confusissimo “Chi è?”, aveva sentito la sua voce.

L’aveva riconosciuta subito, nonostante la sua mente fosse ancora stordita a causa del sonno malamente interrotto.

“Sono io…”

Aveva sussurrato lei, mentre le parole quasi le morivano tra i denti. Era stato in grado di avvertire distintamente la tensione che le spezzava la voce. Tensione più che giustificata, ovviamente.

Lui non era stato in grado di dire nulla, se non qualche mezzo mugugno incomprensibile.

“… so che la mia telefonata era l’ultima cosa che aspettavi, ma…”

Aveva avuto una voglia matta di dirle che, invece, la stava aspettando da ben due anni.

“…ma voglio che tu sappia che io sto bene. Si, insomma…ho risolto… tutto.”

Era stato come tornare a respirare dopo tanto tempo trascorso in apnea. La sua aria era sempre e solo lei.

“… e tu? Tu.. come stai, Naozumi?”

Era stato terribilmente difficile rispondere a quella semplice domanda. Avrebbe voluto, e dovuto, dirle che stava malissimo e che si sentiva una merda. Che era stato costretto a vivere ogni giorno con il senso di colpa per aver distrutto la vita all’unica donna che avesse mai amato.

“… B.. bene…Sto abbastanza bene…”

L’aveva sentita emettere un sospiro diverso dal solito. E gli era bastato un istante per capire che era il sospiro che accompagna un sorriso.

“Mi fa piacere. Io ti ho chiamato per dirti che… che è tutto ok. E che puoi venire a trovarmi ogni tanto, se ti va…Io, sai, sono tornata nella mia vecchia casa a Tokyo. Alla fine sono riuscita a perdonarlo…”

Era tornata da lui. Ancora una volta. Forse, da Hayama, non se n’era mai andata davvero.

E lui, invece? Lui voleva rivederla? Andare a trovarla e vederla con lui?

 “Non sei obbligato a partire adesso, sai? Io ci tenevo solo a farti sapere che mi piacerebbe rivederti, un giorno o l’altro…”

“Sana, io…”

“Non serve a niente far finta che il passato non ci sia mai stato. Se c’è una cosa che ho imparato da tutta questa storia, è che il passato torna, se non lo affronti. Tu sei stato parte della mia vita per molto tempo… e vorrei che lo fossi ancora. Vorrei tanto poter tornare ad essere tua amica. Vorrei poter tornare indietro e non rovinare più quello che avevamo, perché eri il migliore amico migliore del mondo, sai?”

Il suo migliore amico. Ecco cosa era sempre stato. Un amico. Uno squallido amico.

“Verrò…”

Però esserle amico era sempre stato il suo desiderio più grande.

“Cosa…?”

E se lei lo voleva ancora, allora sarebbe stato suo amico per tutta la vita.

“Io… io verrò a trovarti, Sana. Te lo prometto.”

E allora non gli restava altro che tornare da lei.

 

                                                                       ***

 

- Sei stato a trovarli, tesoro?

Tsuyoshi alzò una mano in direzione del viso, nel tentativo di aggiustarsi meglio gli occhiali sul naso sottile.

- Si, Aya. Sono appena stato a casa loro..

Sua moglie sorrise di un sorriso raggiante e si lasciò andare sul piccolo divano in pelle chiarissima del salone.

- …Mi hanno detto di salutarti.

- Oh, chiamerò Sana stasera così faremo due chiacchiere.

Tsuyoshi si lasciò andare ad un piccolo sorriso e si accomodò accanto ad Aya, poggiandole una mano sul ventre ormai incredibilmente ingrassato.

- Sono sicuro che continuerà a proporti i suoi solito nomi assurdi.

Aya scosse il capo, mentre sul viso tornava quella bellissima espressione serena.

- Su questo non ci sono dubbi! Però mi fa piacere sapere che si interessa così alla nostra futura bambina..

Tsuyoshi acconsentì con il capo, lasciandosi andare ad una piccola risata non appena gli vennero in mente tutti i nomi più strana che Sana aveva proposto per la loro futura e imminente bambina.

- E poi…

Continuò Aya, ridacchiando a sua volta.

- .. a dirti la verità, mi fa morire dal ridere!

- Mi sembra che Sana sia tornata quella di un tempo da quando è tornata insieme ad Akito.

Molte cose erano tornate quelle di un tempo. Quando Akito si era presentato fuori casa sua con quell’antica espressione sul volto, non c’era stato alcun bisogno di parlarsi.

Perché a Tsuyoshi era apparso chiaro, lampante e folgorante come il sole. Lei era tornata. Era tornata davvero.

- Finalmente ho ritrovato la mia vecchia migliore amica.

Disse Aya, forse più a se stessa che a suo marito. Tsuyoshi sorrise e quasi gli venne da piangere per la commozione.

- E io ho ritrovato il mio.

E Dio solo sapeva quanto gli era mancato.

Sentì sua moglie accoccolarsi meglio sul suo petto, cingendo l’enorme ventre con entrambe le braccia. E gli venne in mente che qualcuno un giorno gliel’aveva detto, che le persone tornano sempre nel posto in cui sono state felici. E così era stato per Akito e Sana.

Gli sarebbe tanto piaciuto ricordare anche da quali labbra erano uscite quelle parole rassicuranti. Ma più si sforzava di ricordare, meno la sua mente collaborava.

Per quanto ne sapeva, poteva anche averle letto in qualche libro o sentite durante la scena di qualche film.

Ma forse non era poi così importante sapere chi le avesse pronunciate. L’importante era aver capito, con assoluta certezza, che quelle parole erano vere.

 

***

 

 

- MAMMA, MAMMA!

Fuka alzò per un attimo gli occhi dalla pagina del libro sul quale era concentrata, per rivolgerli alla figura allegra e saltellante di suo figlio che aveva appena fatto capolino nella sua stanza.

- Che succede, tesoro?

Shin allargò il già enorme sorriso e corse fino a raggiungerla sul morbido materasso del letto.

- Ha chiamato papà!

Fuka lo guardò leggermente confusa e si strinse nelle spalle. Akito era andato via da poche ore. Come mai aveva già sentito la necessità di chiamare suo figlio? E cosa gli aveva detto per renderlo così allegro?

- E cosa ti ha detto?

- Ha detto che presto verrà a trovarci! E che forse porterà anche un’altra persona!
- E chi?

Un’immagine le si materializzò nel cervello. Un volto familiare e caldo. Bello e sorridente come amava ricordarlo.

No. Non poteva parlare di lei. Non poteva parlare di Sana.

- Non ricordo bene il suo nome, mamma. Però era un nome molto corto e carino!

Forse invece si.

- Per caso quel nome è “Sana”?

- Si! Si! Esatto mamma! La conosci?

Le venne da piangere come una stupida, ma si trattenne per non correre il rischio di turbare suo figlio.

Certo che la conosceva. E se Akito aveva detto una cosa del genere a Shin, se davvero gli aveva detto che con molta probabilità sarebbe venuto con lei, allora Sana doveva aver perdonato ogni cosa.

- Si, tesoro la conosco.

Doveva aver perdonato anche lei.

- Ah, si? E chi è?

Sorrise. E le sembrò di essere tornata indietro nel tempo, fino a quei momenti spensierati passati tra i banchi di scuola.

- La mia migliore amica.

                                                                      

 

***

 

 

Il sole, quel giorno, sembrava non voler mai morire.  Se ne stava lì, sospeso proprio al centro del cielo, incurante del fatto che fosse già ora di lasciare il posto alla luna.

Forse, era proprio questo il suo intento… aspettare che la luna si decidesse a sorgere, anche se lui non se n’era ancora andato. Che gli donasse la possibilità di poter splendere insieme, e di illuminare quel bellissimo tramonto, almeno per un po’.

Comodamente sdraiato sulla sua nuova amaca in giardino, si lasciò scappare un mezzo sorriso.

Da quando era diventato così poetico?

Un tempo non si sarebbe perso a fantasticare romantiche e smielate storielle sull’amore impossibile tra il sole e la luna.

Un tempo, il sole, non l’avrebbe neppure guardato.

Ora invece prestava attenzione a tutto.. anche alle cose più piccole. Per esempio, amava sentire il rumore del mare. Ma non quello del mare in tempesta, quello quasi gli faceva paura.

Amava il rumore del mare d’agosto, quando le onde sono così piccole e leggere che devi prestare molta attenzione per poterle ascoltare.

Erano quelle le cose che preferiva, quelle che richiedevano maggiore attenzione. Che non si notavano subito, perché non avevano il dono che hanno le persone estroverse e bizzarre… quelle le vedi anche se non vorresti vederle, perché sono così fragorose, e rumorose, che è impossibile ignorarle. Lui preferiva le cose che stavano in silenzio, magari nascoste in un angolino, ad aspettare che qualcuno si fermasse a guardarle e che vedesse che non erano poi così diverse da tutte le altre.

Era una piccola cosa anche lui, dopotutto.

Aveva avuto bisogno di qualcuno che lo notasse, che si accorgesse della sua esistenza, e che sprecasse un po’ del suo tempo per indagare più a fondo e per vedere che, forse, in lui c’era qualcosa per cui valeva la pena fermarsi.

E a fermarsi era stata lei.

Ed era quasi incredibile il fatto che ancora oggi, a distanza di anni e anni dal loro primo incontro, lei gli sembrasse la cosa più bella che avesse mai visto.

Qualcosa che non c’entrava niente con tutte la altre cose che si trovavano in giro per il mondo. Le altre cose non erano degne neppure di avvicinarla.

Era sempre bellissimo riscoprirsi così follemente innamorato. Sentire quella scossa nel petto, quel brivido lungo tutta la schiena. E vedere che a volte, se l’aveva di fronte, gli tremavano ancora le gambe.

Davanti ai suoi occhi, si sentiva di nuovo bambino. O meglio, del bambino tornava ad avere le speranze, i sogni, le aspettative. Per il resto, si sentiva soprattutto un uomo. Uno di quelli veri, che sanno sempre cosa fare e che se sbagliano sanno rimediare.

E, da uomo, la cosa che più voleva fare era prendersi cura di lei. E lo faceva, o almeno ci provava, ogni volta che la stringeva tra le braccia. Che la guardava dormirgli accanto nella notte e sentiva sulla pelle il suo respiro calmo. In quei momenti si rendeva conto di quanto fosse stato incredibilmente fortunato.

Lei era una presenza ingombrante. Si sentiva anche quando non c’era. Il suo profumo restava ad aleggiare nell’aria circostante, dispettoso come la frase di una canzone che non vuole uscirti dal cervello.

Avete presente, no? Quando ti svegli una mattina qualsiasi di un giorno qualsiasi e, per un motivo che non conosci, ti entra in testa una canzone che pensavi di aver dimenticato.

E allora inizi a canticchiarla dentro di te e poi non te ne liberi più. Ti rimbomba nel cervello, aggrappandosi come un’erba appiccicosa e testarda, e tu non puoi fare altro che continuare a cantarla.

Ecco, lei era stata proprio come una canzone. All’inizio era stata fastidiosa e irritante, perché era praticamente impossibile liberarsene. Poi era diventata melodia. Colonna sonora. Il motivetto del quale non puoi più fare a meno.

- SONO A CASA!

Eccola, la sua melodia. Aveva persino imparato a condividerla con quel maledettissimo lavoro che la teneva spesso lontana da lui e dalla loro casa.

Tanto ormai aveva capito che se non erano riusciti a separarli tutti i loro errori e le loro pazzie, men che meno ci sarebbe riuscito un misero lavoro.

La vide avanzare a passi svelti verso di lui, con un sorriso ad illuminarle il volto perfetto, fasciata in un leggerissimo abitino a fiori blu.

I capelli erano lasciati liberi di muoversi ad ogni passo e oscillavano leggeri sulle spalle nude.

Era bellissima. Ma questa non era certo una novità. Così come bellissimo era lo scintillio della piccola fede in oro bianco che le adornava l’esile anulare della mano minuscola e femminile.

Si, alla fine c’era riuscito a sposarla.

Sana Kurata era sua moglie da appena due mesi. Lui, invece, era suo marito da tutta la vita.

- Akito! Com’è andato il viaggio? Per telefono non mi hai spiegato niente!

Si strinse nelle spalle, mentre puntava i piedi sul terreno umido per alzarsi in piedi. Non appena se la ritrovò di fronte, così meravigliosamente vicina, la accolse in fretta fra le braccia.

- Mi sei mancata…

La sentì ridacchiare contro il suo petto.

- Sei stato via solo per tre giorni! Che uomo debole!

Era inutile. A volte sapeva essere davvero fastidiosa.

Si separò da lei, lanciandole uno sguardo scocciato.

Lei, per contro, sorrise ancora.

- Come sta lui?

Gli venne spontaneo spalancare un po’ gli occhi. Era la prima volta che Sana gli faceva una domanda del genere. Forse, era la prima volta che chiedeva di figlio senza tremare o senza abbassare il capo.

- Sta.. sta bene, grazie.

- Mi fa piacere. Sarà stato contento di vederti.

Che Sana avesse finalmente accettato l’esistenza di Shin?

- Si, molto contento.

- Bene.

Lei continuava a sorridere, quasi come se volesse fargli capire che stavolta era tutto ok. Che forse era arrivato il momento di provare ad affrontare l’ingombrante presenza del bambino che lui aveva concepito con Fuka.

E a lui venne voglia di urlarle che l’amava.  Ogni giorno di più.

- E’ cresciuto tanto, sai?

La vide sedersi sull’amaca, con una mano stretta sul grembo sottile, mentre con l’altra tamburellava sul tessuto a righe colorate, come per farli cenno di sedersi accanto a lei.

- Immagino. Ora ha 5 anni giusto?

- 6 tra qualche mese..

- Deve essere un bambino molto bello.

Si strinse nelle spalle, mentre quasi senza accorgersene alzava una mano fino a raggiungere il volto di lei per accarezzarlo lentamente.

- Non so. Dicono che mi somigli parecchio.

- Oh, allora sarà di certo bellissimo!

Riuscì a carpire un leggerissimo tremolio nella sua voce, segno inequivocabile che certi argomenti le facevano ancora molto male.

- Senti, Akito… io non voglio che tu ti senta obbligato a non parlarmi di tuo figlio anche quando vorresti farlo. Puoi dirmi tutto quello che vuoi, lo sai… io ti amo e voglio che tu ti senta libero di raccontarmi tutto.

Era indubbio il fatto che uno come lui non meritasse una donna come Sana.

Gli venne una voglia assurda di abbracciarla fortissimo e di dirle che l’amava da impazzire e che l’avrebbe amata per tutta la vita.

- Dici sul serio?

- Certo.

Lei sorrise ancora, come per rassicurarlo, come per dirgli che non doveva affatto preoccuparsi.

E allora lui trovò il coraggio per parlare, per dirle un pensiero che lo tormentava da tantissimo tempo e che non riusciva più a non esprimere.

- Senti, Sana… credi che un giorno potrai perdonare anche lei?

E con quel “lei”, ovviamente, si riferiva a Fuka.

Già, perché non trovava affatto giusto che fosse stato solo lui ad essere perdonato. Avevano sbagliato entrambi dopotutto. Non doveva essere solo Fuka a pagarne le conseguenze.

Stavolta, la vide irrigidirsi mentre il sorriso le moriva sul volto.

-… non fraintendermi, Sana. So che è difficile, l’ho provato sulla mia pelle quanto può essere duro riconquistare il perdono. Però lei ti vuole bene. Ogni volta che vado a trovarli non mi chiede mai di te, ma glielo leggo negli occhi che vorrebbe sapere come stai.

Vide un lampo di nostalgia illuminarle le iridi cioccolato. Fu in quel momento che si rese conto che anche a Sana mancava moltissimo la sua migliore amica.

E che proprio perché sentiva così tanto la sua mancanza, ci sarebbe voluto ancora un po’ di tempo per poter tornare a fidarsi di lei.

Più grande è il bene che vuoi a qualcuno, più lenta è la guarigione se quel qualcuno ti ferisce.

- Credo che potrò venire con te quando andrai a trovarla. E a trovare il tuo bambino.

Non ce la faceva ancora a dire il suo nome. D’altronde, non poteva pretendere che tutto tornasse alla normalità in così poco tempo.

Forse le cose non sarebbero mai tornate alla normalità.

- Allora fino a quel giorno non ne parleremo più. Promesso

Forse la normalità neppure esisteva..

- Ah, Akito.. devo dirti una cosa molto importante.

Era solo una condizione momentanea.. quello che ti sembra normale oggi, può apparirti insolito domani se qualcosa è cambiato rispetto a ieri

- Dimmi, Sana.

Forse magari a lui neppure serviva, la normalità.

- Io sono… sono incinta. Aspettiamo un bambino, Akito!

Tutto cambia di continuo e nessuno ha modo di evitarlo.

Ma finché sarebbe cambiato insieme alla sua Sana, sarebbe andato tutto bene.

 

 

                                                                       /*/

                                                                                                                      *FINE*

 

 

Note dell’autrice: Ok, è ufficiale. Sono commossa come una stupida ragazza romantica e iper sensibile! Ma questa storia mi ha tenuta impegnata per così tanto tempo che sapere di essere riuscita a finirla mi riempie di gioia e allo stesso tempo di tanta, tanta tristezza.

Credo sia normale, dopotutto. Finire qualcosa che hai iniziato è sempre motivo di soddisfazione personale, ma ti lascia anche quel retrogusto di amaro in bocca.

Bene, mi sono sfogata anche troppo con voi mie care e amatissime lettrici! Ma che ci posso fare? Sono una romantica! xD

Spero davvero con tutto il cuore che questa lunghissima attesa sia stata ripagata almeno un po’ e che i miei sforzi siano stati apprezzati! Vi chiedo infinitamente scusa per tutto il tempo che ho impiegato per scrivere questo capitolo. Ma sono stata davvero molto incasinata e sono dovuta stare via di casa per un po’. Scrivere era diventato quasi impossibile! Dopotutto, sto pubblicando quest’ultimo capitolo quando il mio orologio segna l’1:00 esatta, quindi sono ormai abituata a scrivere in orari davvero assurdi! xD

Bè, che altro dire? Ovviamente aspetto di sapere il vostro parere! Sappiate che le vostre recensioni sono state davvero molto preziose per me, quindi non finirò mai di ringraziarvi per tutta l’attenzione che mi avete sempre riservato!

Bene, non mi resta che darvi appuntamento alla mia prossima storia.. perché si, ho intenzione di rimettermi a scrivere molto presto! ;)

Bacioni! ^^

 

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