Life is Hope

di Globulo Rosso
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** L'illusa - Il bel visetto che mi faceva impazzire ***
Capitolo 2: *** L'infame - Perché mi sono innamorata di un altro. ***
Capitolo 3: *** La perdente - Bel nome, Jeremy. ***
Capitolo 4: *** L'omosessuale - E' stato come bere un bicchier d'acqua. ***



Capitolo 1
*** L'illusa - Il bel visetto che mi faceva impazzire ***


Premessa: questa storia affronterà temi un po’ delicati, e non risparmierà certo termini scurrili o pesanti. Quindi, avverto fin da subito, il rating è arancione per via del linguaggio, ma non rosso poiché non affronterà tematiche sessuali, e se lo farà, sarà soltanto allusione. Spero che queste quattro storie non vi risultino tediose, ma almeno un pochetto interessanti. La mia priorità è mostrarvi quattro modelli di vita.

Quattro esistenze squallide che possono, a volte, essere migliorate.

L’immagine è stata modificata da NicoRin per mia richiesta. E’ quindi vietato prelevarla, se non sotto suo o mio permesso.

La fan art non mi appartiene, ma è stata trovata sul web. Non intendo avvalermi della maternità di essa.

The fan art was founded on web. It’s not mine, i don’t own it.

Vorrei aggiungere una cosa in questo spazio. E' passato molto tempo dall'ultimo aggiornamento. O così é parso a me. Non mi sento in vena di scrivere. Non mi sento in vena perché non vivo di manga. Ho altre cose a cui pensare, molte altre. Perciò avevo accantonato il tutto per un po'. Due fic in cantiere per due contest, a cui ho dato forfait per malattia e per incapacità di scrivere. Tutto qui, o come si vuol dire...sono cresciuta in un colpo! Puff! Vedo in modo diverso, le cose, senza però rinnegare quello che é stato. Che poi, perché questo tono così epico ed eclatante?  



 

Prompt #49. Apatia, The One Hundred Prompt Project, di BlackIceCrystal

The One Hundred Prompt Project

 

Partecipa alla Love Challenge di Mayumi_San- “Do You love me?”


 

 

Life is Hope.

Happy B-Day, ! ;D

 

 

Il bel visetto che mi fa impazzire.

{L’illusa; Sakura Haruno }

 

 

Ogni volto nasconde una seconda identità.

Può essere celata dietro ad un sorriso, o tra le pagliuzze delle iridi, o dietro ad un ciuffo di capelli che ricade inerte sul viso.

Solo un attento osservatore la nota, la coglie, la fa sua.

L’identità di Sakura Haruno non é mai stata scoperta da nessuno, perché nessuno l’ha mai cercata veramente.

Lei perde il lavoro, lo ritrova, lo riperde.

Finisce lì, la sua esistenza. Tra un annuncio sul giornale e un curriculum pieno zeppo di cazzate.

A volte aggiunge delle credenziali, tanto per apparire più intelligente, o professionale.

Ma Sakura é sempre stata molto brillante, e non avrebbe bisogno di quelle scritte aggiunte a penna, all’ultimo minuto, su un foglio di carta intestato.

Però lo fa, senza pensarci due volte.

Cancella con il bianchetto e ci scrive sopra un master fasullo. Tanto nessuno andrà a controllare.

Quel giorno stava tornando a casa, l’iPod nelle orecchie e una tracolla su una spalla. Scrutava la strada davanti a sé senza vederla realmente.

Ma di certo qualcuno aveva visto lei.

Appoggiato alla moto da corsa, rossa, con il casco fra le mani e gli occhiali da sole alla radice del naso, un ragazzo dai capelli scuri la guarda di sottecchi.

Sakura non lo nota nemmeno, tutta presa com’é a cancellare e a riscrivere mentalmente il suo curriculum bugiardo.

Gli passa accanto, la solita camminata blanda e trasognata, tanto che sembrava caracollare per la strada.

Il ragazzo la osserva sparire dietro l’angolo, guardandola come mai nessuno l’aveva guardata.

Solo un attento osservatore la nota, la coglie, la fa sua.

“Ci sono, tesoro!”

Una ragazza dai capelli rossi sopraggiunge esagitata, un sorriso estasiato e pochi vestiti addosso.

“Non chiamarmi così, Karin. Sai quanto lo detesto.”

Lei sembra starci male, ma scrolla le spalle e prende il casco bianco che quel ragazzo le porge.

Tutto va avanti, come nulla fosse accaduto.

Sakura non vede, ma Sasuke sembra vedere per lei.

 

Il giorno seguente l’Haruno si sveglia di buona mattina e riparte, senza neanche fare colazione. Ha trovato un impiego e di certo non vuole farselo scappare. Da quel giorno lavorerà in libreria, e piuttosto di guadagnare qualche soldo in più si venderebbe al suo capo.

Lo pensa tranquillamente, senza rimanerne scandalizzata.

Il suo capo, il giorno prima, l’aveva vista rovistare tra gli annunci della bacheca del parco, in cerca, presupponeva, di un impiego.

Si era fatto avanti, lasciando cadere la palla da basket e chiedendo ai suoi amici di aspettare.

“Cerchi lavoro?”

Sakura non aveva udito, le cuffie nelle orecchie e la musica a palla. Tanto per isolarsi ancora un po’ dal mondo, come se non lo fosse già abbastanza.

Lui aveva ripetuto la domanda, sfiorandole una spalla.

La ragazza si era ritratta, improvvisamente, e l’aveva guardato con tanto d’occhi.

Qualcuno aveva rotto l’equilibrio in cui si trovava.

Con la melodia nella mente, riusciva a dimenticare qualsiasi cosa, persino che esistesse l’universo, oltre quella barriera di suono che si ostinava a creare.

“Scusa, ti ho spaventato?”

Quell’uomo aveva i capelli rossi, gli occhi nocciola e il fisico aitante. Le labbra si incurvavano in un sorriso quasi inquietante, talmente bello era.

“Mi dispiace, non l’avevo sentita.”

“Figurati, ma dammi del tu. Abbiamo, credo, la stessa età.” Sakura lo guardò di sottecchi, mentre accennava un sì con il capo.

Venticinque, massimo ventisei anni.

“Cerchi lavoro?”

“Sì, in effetti sì.” La ragazza sfiorò la bacheca con un polpastrello, per raggiungere il punto in cui prima era arrivata ad analizzare.

Cameriera da Teuchi.

Paga da schifo, ma l’assicurazione sanitaria la passano. Che se ne fa, poi, dell’assicurazione, se è una cameriera?

Segretaria presso Centro Assicurazione.

Paga ottima, ma requisiti che Sakura non può ottenere nemmeno fingendo.

“Io sono proprietario di una libreria, giù in centro. Cerco impiegati. Sei interessata?”

A quel punto lo guarda meglio, curiosa.

Lui gli porge un biglietto, sopra la posizione del suo esercizio e qualche dato scritto a matita sul salario e sull’orario di lavoro. Probabilmente li cercava così, i suoi dipendenti.

Paga buona, e requisiti raggiungibili.

“Ah grazie. Scusa, come hai detto che ti chiami?” fa fatica a rivolgersi a lui come se fossero amici, con il ‘tu’ al posto di un formale ‘lei’.

“Sasori, mi chiamo Sasori. Presentati domani, sul biglietto c’è scritto tutto. Ci vediamo!”

Ed era corso via, proprio come era giunto da lei.

Sakura aveva ripreso a camminare, ed era tornata a casa, senza più voltarsi indietro.

Ed è per questo che ci tiene a fare bella figura. Perché il capo è bello e perché la paga è buona.

L’impiego non è per nulla complicato e a lei servono soldi, subito.

Deve pagarsi i corsi di economia e non può far altro che arrangiarsi come può.

Passa per la stessa strada del giorno precedente, senza guardarsi intorno.

Si ficca le cuffie nelle orecchie e inizia a costruire la barriera, a forza di batteria e chitarra.

Sasuke é di nuovo lì, sembra aspetti.

Lei gli passa accanto, come il giorno prima, senza nemmeno notarlo.

Lui la vede, nel vero senso della parola. Vede il suo animo, vede l’illusione che la fa stare in piedi.

Illusa, pensa, povera illusa che pensa che il mondo le dia una possibilità.

“Ehi, vuoi un passaggio?”

Ma lei non lo ode, e cammina veloce verso la fermata dell’autobus. Sasuke sorride, forse per la stizza.

Karin sopraggiunge e lui non pensa ad altro che darle il casco, accendere la moto e ripartire.

 

“Bene. Questo è tutto. Ti sembra un bel lavoro?”

“Sì, molto bello, grazie.” Annuisce, vigorosamente, mentre si accinge a prendere la sua posizione, dietro al bancone.

“Accetti?”

“Accetto.”

Da quel giorno lavorerà in libreria, e piuttosto di guadagnare qualche soldo in più si venderebbe al suo capo.

E come l’aveva pensato, l’aveva poi fatto.

Dopo dieci giorni di finti sorrisi e di una disponibilità che non possedeva, Sakura spegne la luce per tornare a casa.

Esce e chiude i battenti, mette le chiavi nella tasca dei jeans skinny ed esce, pronta già a rinchiudersi in quel mondo fatto di apatia.

Quella notte, però, non riesce a farlo.

E’ strano come l’abitudine spezzata sia un sentore di quello che poi può divenire uno dei peggiori giorno della propria esistenza.

“Sakura, ti accompagno a casa io.”

Lei annuisce, sorridendo. E’ Sasori, il suo capo.

Lungo la strada non si parlano nemmeno, lui guarda la camicetta bianca di lei come se fosse la più bella cosa al mondo, e lei non fa altro che camminare più lenta, più eretta, per apparire, forse, meno stanca della vita di fronte agli occhi del suo principale.

Casa sua è sempre lì, non si sposta di una virgola.

La strada che deve percorrere è la medesima, e come al solito, passa davanti a quella moto rossa di Sasuke, che appoggiato alla sua due ruote, la osserva silenzioso, di sottecchi.

L’Uchiha rivolge un’occhiata tagliente al ragazzo dai capelli rossi, senza però essere visto.

Quell’uomo non gli va a genio. D’altronde non gli va a genio nessuno, a lui, tranne quella stupida bambola dai capelli rosa che ogni giorno gli passa accanto senza notarlo, e a cui sembra aver scrutato l’animo solo con un’occhiata.

“Siamo quasi arrivati, Sasori, ti ringrazio, ma non ce n’era bisogno.”
“Figurati, non c’è problema.”

La casa di Sakura è piccola, con un giardino ancora più piccolo ed un cancello in ferro mezzo arrugginito.

Si vede che c’è bisogno della manualità di un uomo, in quell’alloggio.

Sasori l’accompagna fino alla porta, quel sorriso che inquieta e gli occhi nocciola che sembrano brillare nella notte.

Pericolo, sembrano annunciare, Keep out.

“Grazie ancora, ci vediamo domani.”

Lei sorride ed entra, ma la porta non si chiude, e nemmeno con uno spintone sembra volerlo fare.

Poi nota la scarpa da ginnastica di Sasori, tra lo stipite e la sua porticina bianca e grigia.

“Ti ho fatto male? Scusa!” Ancora crede che lui abbia il piede infilato lì per sbaglio, mentre si affanna a farsi perdonare.

Lui sorride, e con un movimento secco apre la porta, ci si infila dentro e la trascina per il polso.

“Devi pagarti economia, vero, Sakura?”

“Sì.” Deglutisce, senza capire. La presa di lui fa male, e cerca di divincolarsi. Con un calcio chiude la porta e la sigilla girando la chiave nella toppa.

“Se urli, scordatela, economia.” Una schiaffo sul viso e cade per terra, in ginocchio. Sakura si morde il labbro, per non urlare.

Illusa, pensa, illusa perché ho creduto che il mondo mi donasse una possibilità.

Ma come fa, il mondo, ad aiutarti, se non hai nemmeno i soldi per pagarti la laurea di economia?
Il mondo se ne fotte, e lei l’ha sempre saputo.

Però ha voluto sperare che qualcosa cambiasse.
Sasori si sbottona i pantaloni, e la guarda dall’alto in basso, quel sorriso inquietante che lei l’aveva visto sfoggiare dal primo giorno.

Ora sa cos’è. E’ sadismo.

Puro sadismo.

“E ora taci, puttana, hai ben altro da fare.”

 

Sasuke aspetta Karin che tarda come al solito.

Sbuffa indispettito e annoiato, e si chiede perché sta ancora con lei, quando non ha neanche voglia di impegnarsi.

Forse è perché gliela dà, solo per quello. Perché si sfoga senza farsi tanti scrupoli e problemi su di lei. No, non con lei. Su di lei.

Per Sasuke, Karin è semplicemente un modo per riuscire a liberarsi di certi bisogni.

Sa benissimo che non dovrebbe pensare in quel modo, però lo fa comunque, tanto nessuno può aprirgli la testa e sondargli la mente.

La ragazza dai capelli rosa gli passa di fronte, il capo chino e i capelli sul viso. Però lo nota, il livido.

Oh, lo nota benissimo.

E la sera prima non ce l’aveva.

Sasuke si alza, e si avvicina a lei. Questa volta Sakura si accorge della sua presenza, e si blocca di colpo, tremante.

E’ guardinga, gli occhi guizzano veloci avanti e indietro, spaventati.

Ora vede tutto.

“Ti sei fatta male?”

“Chi sei?” arretra, la borsa stretta tra le braccia e gli occhi ridotti a due fessure intimidatorie.

Ad ogni battito di ciglia il capo le duole, ma evita di soffermarsi sulla fitta che sente alla tempia.

“Sasuke Uchiha.”
“Piacere.” Dice lei, e gli volta le spalle.

“Sakura, vero?” Lei si ferma di nuovo, ma non gli rivolge lo sguardo.

“Come fai a saperlo?”

“Non ti ricordi di me?” Certo che no, se no si sarebbe fermata a parlargli.

“No, scusa…” afferma lei, evasiva. Muove una gamba, ma di nuovo la voce autoritaria di lui la blocca lì dov’è.

Sasuke Uchiha, le dice, il tuo vecchio compagno di scuola per due anni.

Due anni. Alle medie. Neanche un ciclo completo, insomma. Sakura l’aveva rimosso, senza nemmeno rimembrare il suo volto.

“Ah, sì. Ora ricordo. Devo lavorare, scusa. Ci vediamo, magari.”

Sasuke accenna un saluto, le mani in tasca e l’espressione impassibile.

Ora che è certo della sua identità, non può fare a meno di sorridere appena.

“Ehi, tesoro, sei felice?”

“Può essere.” Sasuke lancia un casco a Karin, senza nemmeno dar peso a quel tesoro che odia tanto.

Ha visto il suo animo, ha visto l’illusione che la tiene in piedi.

Sakura Haruno, II C. A quei tempi, il desiderio di tutti i ragazzi era vedere un paio di tette, e quello delle ragazze era salire sul cavallo bianco dei sogni.

Cazzate o illusioni, ma consolanti.

Ora il mondo è fatto di ben altri problemi. Però gli occhi verdi di lei, Sasuke se li ricorda bene. Ripercorrevano la lavagna, il ciuffetto rosa sulla fronte e la mano veloce. In matematica era un genio, Sakura.

Ma lui aveva sempre trattato tutte con non curanza, e lei di certo non aveva fatto eccezione.

“Karin, dobbiamo parlare.”

 

Sakura torna a casa ancora più pallida di prima, e l’ematoma sembra brillare sulla pelle chiara come non mai.

Sasori non è con lei, per fortuna. Però a lavoro l’ha sempre spiata, da dietro gli scaffali, con quel sorriso che si pianta sempre sul volto quando i loro sguardi s’incrociano.

Il mondo fa schifo, altroché, e lei é stata un’illusa a credere di poter migliorare la propria esistenza. Cazzate, tutte cazzate.

Grosse come una casa.

“Ciao, Sakura.”

“Ciao Sasuke. Ora non ho tempo.” Alza una mano e gli passa accanto, proprio come aveva fatto i giorni precedenti, ed é certa che se non fosse stato per la sua voce, non l’avrebbe neanche notato.

“Come si chiama?” la prende per un braccio e la blocca. La guarda dall’alto in basso e scosta il ciuffo rosa di capelli, per vedere meglio quel livido violaceo che le impedisce la totale visione della strada.

“Non sono affari tuoi. Chi sei per preoccuparti per me?”

Ha rimosso l’infanzia, Sakura, troppo in fretta catapultata nel puttanaio che è la vita.

“Mi amavi, Sakura, non ricordi?”

“No, Sasuke. Appena appena so che sei il mio compagno delle medie.”

Certo, ricorda. Ora che vede i suoi occhi ricorda. Lui amato da tutte e lei una di loro.

Lui sembra sorridere, ma forse è un’illusione, come la vita che sta vivendo.

“Cazzate, lo sai bene chi sono.”

A quei tempi era il fascinoso Uchiha. Il più figo e il più ricco. Il più intelligente e il più sfacciato.

Il più tutto.

E lei, come un’allocca, era caduta nella rete come tutte le bambine del tempo.

“Amare, tsk, è una parolona.”

Lui la libera dalla stretta, scrutandola negli occhi verdi.

Si conoscono, sì, da sempre. Lui è entrato in lei e lei in lui.

Lui aveva finto di nulla e lei aveva scordato il suo volto, ma non le lacrime versate.

“Allora, come si chiama?” Accenna all’ematoma, lei si porta la mano al viso, sfiorando il gonfiore sull’occhio e sullo zigomo.

“Sasori.”

“Ci vediamo domani.”

“Buona notte.”

Fine della conversazione. In pochi secondi tutto era concluso. Una vita era tornata ad incontrarne un’altra e qualcosa sembrava essere cambiato, ma tutto in una manciata di brevi attimi.

La verità è che Sakura si sentiva vuota, dopo averlo fissato negli occhi.

E Sasuke si sentiva colmo di rabbia, dopo aver visto il suo viso ridotto in quel modo.

 

“Sei Sasori?”

“Sì, sono io. Che c’è?” Sembra rilassato, calmissimo. Lui e la sua banda di amici che giocano a basket nel parco. Normali giovani ragazzi come molti altri. Tutti tranne lui.

“Hai picchiato Sakura.” Afferma Sasuke, togliendosi il giaccone di pelle e poggiandolo sul sellino. Attraversa il campo e gli arriva di fronte. Il cemento sotto le suole arde per via del sole.

“Sì, e allora?” fa cenno ai suoi amici di stare dove sono, non sembra avere paura di lui.

“E allora gli hai rovinato il viso.”

“Non m’interessa. E’ solo una puttana che si è venduta. Problemi?”

Cazzate pure quelle. Sasuke lo sa.

“Il fatto è che a me quel visetto faceva impazzire.”

 

La mattina Sakura non deve lavorare. E’ domenica ed è libera. Sasori le aveva detto che sarebbe andato da lei, e le aveva intimato di stare zitta o poteva giocarsi la paga e gli straordinari.

A lei servivano quei soldi. Erano necessari. Per economia, per mangiare, per sussistere.

Si sporge dalla finestra e vede il ragazzo delle medie scavalcare il cancello e camminare veloce verso la porta.

D’istinto si aggiusta la maglietta e la gonna, e corre a guardarsi allo specchio. L’ematoma sta iniziando a divenire di un verde acido, con qualche striatura gialla verso l’esterno.

Sospira, e sente il campanello suonare.

“Ciao Sasuke.” Lui accenna un saluto col capo, ed entra, senza fare complimenti.

“Da domani lavorerai per me. E Sasori non ti darà più fastidio.” Per quanto sia futile dirlo, Sasuke è un pezzo grosso. Suo padre lo era e adesso lui lo è diventato.

Sakura si morde un labbro, le lacrime le rigano le guance e gli fanno bruciare l’occhio tumefatto.

Il mondo fa schifo, ma di tanto in tanto premia gli illusi. Quelli che a suon di pugni e di graffi e di morsi si sono procurati i loro posti in quell’esistenza.

 

Sasuke la guarda interessato, mentre lei si accinge a risolvere l’espressione alla lavagna. E’ l’unica ragazza che gli sia parsa sufficientemente intelligente da poter essere considerata.

L’aveva analizzata, osservata, scrutata.

Aveva trovato in lei tanta forza di vivere, ma nulla che potesse renderla ancora più curiosa ai suoi occhi.

Poi, quel giorno, lei aveva posato il gessetto e aveva sospirato. Si era voltata a fissare il professore, e aveva fatto un inchino.

“Mi dispiace, professore, ma non riesco a farla.” Si era morsa un labbro ed era tornata a posto. Gli occhi gonfi per l’umiliazione appena subita.

O forse per la sconfitta. Sasuke aveva soffiato, sempre più sprezzante.

Sta di fatto che si costringeva ad odiarla, per non apprezzare quel viso così fiero. E piuttosto di ammettere a se stesso di trovarla molto carina, si mordeva la lingua lanciando insulti sulla sua debolezza emotiva.

“Sei davvero stupida e debole, Haruno.” Lei l’aveva sentito sibilare ed aveva abbassato il capo, vinta dalla situazione.

“La prossima volta riuscirò a farla, Sasuke-kun.” Lui aveva sbuffato e si era messo a ridere tra sé e sé. Che illusa. Che stolta. Che ingenua.

Ma non si era mai dimenticato quel viso, quegli occhi, quell’anima ardente.

Tanto da sognarseli la notte, fino a rendersi conto di volerle, in qualche modo, assomigliarle. Dopo le medie però non l’aveva più vista. Al secondo anno lui si era trasferito e non l’aveva mai più sentita. Il giorno seguente, uno degli ultimi in cui la vide, Sakura alzò la mano e si offerse volontaria per l’esercizio di matematica.

L’espressione era simile a quella del giorno precedentemente.

Sakura non si scusò più, portò a termine l’espressione e tornò al posto, senza rivolgere la parola al ragazzo, nonostante ne avesse il diritto.

 

“Sei sempre stata un’illusa.”

“Me lo dici in continuazione, Sasuke. Smettila.”

“Ricordati che sei in debito con me, e sono mesi che non mi hai ancora ripagato.”

Lei sorride, mesta. Quegl’occhi e quel viso ora Sasuke li vede tutti i giorni, senza intermittenze.

Vivono assieme e lui non la perde mai di vista.

“Hai ragione, ma ogni notte credo che sia il pagamento, e invece il giorno seguente non lo è mai.” Ride, finalmente. Ha abbandonato l’iPod in un cassetto, e gli occhi sono tornati a splendere, sereni.

Lui scrolla le spalle, e la guarda, mentre inforca una foglia d’insalata e se la mangia.

Sasuke evita di dirle, però, che quel suo essere illusa l’ha portata da lui.

E di certo non glielo confesserà mai. Magari aspetta che faccia tutto da sola.

 

 

 

 

 

 

 

 

Cose da sapere/dedotte:

#1. La storia è ispirata dal film intitolato “The Expendables”, ovvero “I Mercenari”; la scena a cui in particolare debbo dire grazie è quella in cui Crishtmas torna a casa dalla sua donna, e la vede con un altro, perché lui, con il suo lavoro, non le dava certezza. Ovviamente la storia finisce analogamente, e “perché quel visetto mi fa impazzire”, deriva appunto da questo film. Vi consiglio di vederlo. Non è originalissimo, ma certe scene sono da mozzare il fiato ;D

#2. Sasuke è un vecchio compagno delle medie di Sakura, e fin lì ci eravamo capiti. Il punto è che lui era innamorato di lei, seppur non lo avesse mai confessato ad anima viva e tentasse in tutti i modi di nasconderlo persino a se stesso. Ora, però, vedendola, se ne rende conto. Lui la ama.

Lei, invece, ha pianto così tanto da non riuscire più a ricordarselo, talmente quell’amore è stato significativo per lei. E’ un trauma, se così si può dire, che l’ha indotta a dimenticare quel volto, ma che è poi riaffiorato fissando le iridi scure di lui.

Un amore latente, ecco.

#3. Sakura ha la parte dell’illusa in questa storia, perché non si dà tregua e combatte cercando di vincere quella società che strangola e soffoca i suoi sogni. Sasuke è importante, poiché è l’unico ad essersi reso conto della reale persona qual é, e che dunque, può dire di conoscerla meglio di tutti.

Inoltre, lo svolgimento rimanda alle primissime frasi, ovvero: “Ogni volto nasconde una seconda identità.

Può essere celata dietro ad un sorriso, o tra le pagliuzze delle iridi, o dietro ad un ciuffo di capelli che ricade inerte sul viso.

Solo un attento osservatore la nota, la coglie, la fa sua.

L’identità di Sakura Haruno non é mai stata scoperta da nessuno, perché nessuno l’ha mai cercata veramente.”

Sasuke ce l’ha fatta, al contrario di chiunque altro.

#4. Spero non consideriate Sakura una ragazza frivola, ma bensì soltanto una ragazza rassegnata. Lei deve assolutamente riuscire a sopravvivere, a pagare economia, ad affittare la sua casetta. Vuole e non può farcela se non da sola. Fin quando, ovviamente, non arriva lui.

 

Bene, la prossima Shot – lunga più o meno così – avrà come protagonista l’infame. Spero che la storia vi piaccia. Seguitemi e fatemi sapere cosa ne pensate.

Questa è dedicata a Luana, Pantera nera più nera del carbone. Spero ti piaccia. Ci ho messo il mio cuoricino ; D

 

DISCLAIMERS: Naruto e i suoi personaggi non mi appartengono, ma sono di proprietà di Masashi Kishimoto e di TV Tokyo. Utilizzati senza alcuno scopo di lucro, non intendo avvalermi della maternità di essi.

 

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Capitolo 2
*** L'infame - Perché mi sono innamorata di un altro. ***


Premessa: Scusate il mese buono tra un aggiornamento o l’altro, ma faccio fatica a trovare qualche attimo per me. L’università è decisamente una realtà differente dal liceo, e mi accorgo che la causa è sua, se sono cambiata. Però ci tengo a finire le mie raccolte, perché credo di essere una persona abbastanza coerente. Dunque, finirò questa e tutte le altre, ma non ho una data precisa da proporvi. Spero prima di Natale, di fatto credo sia improbabile, ma pazientate, per favore, mi farebbe piacere che seguiste questa raccolta.

Credo sia la mia preferita, se non l’unica decente.

Bene, benissimo. Ecco a voi l’infame. Un altro personaggio preso alla sprovvista da questo mondo, e che si è difeso a modo suo. Spero sia di vostro gradimento. Ringrazio con tutto il cuore le recensioni, le letture, e i vari preferiti/seguiti/ricordati. Sono davvero molto contenta.

Ripeto ancora: La fan art non mi appartiene, ma è stata trovata sul web. Non intendo avvalermi della maternità di essa.

The fan art was founded on web. It’s not mine, i don’t own it.

 

 

 

Prompt #43Caldo, The One Hundred Prompt Project, di BlackIceCrystal
[ovviamente in senso lato, eh? xD]
The One Hundred Prompt Project

 

 

Partecipa alla Love Challenge di Mayumi_San- “Do You love me?”

 

 

Perché mi sono innamorata di un altro.

{L’infame; Shikamaru Nara}

 

 

{Ringrazio Adri per la sua

disponibilità nella prima parte della storia.

Thanks, dude!}

 

 

 

La realtà delle cose non è visibile ad occhio umano.

Non si riesce a scorgere con le semplici pupille, vitree e vacue. Il mondo non è fatto di apparenza, ma di pura, labile, essenza.

Che cos’è l’essenza? Ognuno ne ha un’idea diversa.

Shikamaru crede addirittura che non esista. Che non ci sia un motore che guida il mondo, che la vita venga soffiata nel corpo da un essere superiore o che ogni stella del firmamento abbia un significato particolare.

Il mondo è tale perché é materia. Non bisogna domandare cosa ci sia sotto.

Le cose ci sono e basta.

La terra gira perché lo deve fare, o al massimo per via dell’attrazione magnetica esercitata da ogni singolo pianeta dell’orbita.

Le stelle sono tali perché qualcuno ha donato loro questo nome, o al massimo sono masse gassose che divengono incandescenti per via dell’attrito e della velocità a cui viaggiano.

La vita è un caso, o al massimo è tale perché un uomo ed una donna si sono uniti ed hanno generato un figlio.

Basta. Fine.

Questa è la storia.

Ed è per questo che Shikamaru è considerato un infame puro. Un genietto maligno che sfalda le opinioni, i sogni, le fantasie altrui per il puro gusto di farlo.

“Secondo te…”

“Secondo me niente. E’ così e basta.” Questa è la risposta ad ogni domanda. Non importa in quale campo, non è vitale se è un richiesta intelligente o poco significativa.

La risposta è sempre la medesima.

I conoscenti lo guardano dall’alto in basso, troppo indispettiti dalla sua logica schiacciante per poterlo considerare un amico.

Gli amici non lo guardano nemmeno, dato che non li possiede.

I familiari li ha persi per strada, ognuno ha scelto la propria via e nessuno di loro si è più incontrato. Ma a Shikamaru importa poco.

Lui scrolla le spalle e fa un tiro alla sua sigaretta. Le Winston sono le sue compagne di vita.

Almeno un pacchetto ogni giorno lo fa fuori, visto che spreca tanta energia nello sfottere la gente, schioccando la lingua sul palato e arcuando il sopracciglio.

E’ solo, non ha nessuno, perché tutti lo vedono come colui che solo vuol rimanere. E di certo Shikamaru non fa assolutamente nulla per smentirlo.

Anzi, butta la cicca della sigaretta per terra, soffia irritato, e continua a camminare.

Per lui l’universo non ha nulla di eclatante. La nascita di un figlio è solo la nascita di un figlio.
Il sole sorge e poi tramonta, e lui non riesce a cogliere la vitalità di una tale, immensa, meraviglia.

Oggi cammina, la sua sigaretta in bocca e le mani in tasca.

Non ha nulla da fare, dato che i suoi genitori gli pagano gli studi e lui ha già tutto in testa da un po’. Può anche essere un infame, Shikamaru, ma ciò non toglie che sia estremamente intelligente. Ha una memoria fotografica che farebbe paura ai migliori criminologi del Paese.

E’ semplicemente inarrivabile.

Forse è anche per questo che è un infame, od é considerato tale. Perché é superiore a tutti.

Temari l’ha lasciato e lui ha risposto al dramma con un pacchetto di sigarette in più del solito. Una dopo l’altra, aspira e brucia l’ossigeno nei polmoni, sostituendolo volontariamente con il petrolio e il catrame.

Chi se ne fotte. La morte è naturale, prima o poi accadrà anche a me. Tanto vale che decida io come.  E accompagna il suo pensiero con un tiro alla sua Winston, tanto lungo da finirla.

Quel giorno cammina per la strada, attraversa le strisce e non controlla né a destra né a sinistra. L’ha già fatto talmente tante volte e non gli è mai successo nulla. E’ strano vedere come per certe cose Shikamaru creda inconsciamente nel destino, lui che é il suo più accanito nemico.

Perché é destino quello, no?
Non mi mettono mai sotto, quindi è destino che io muoia in un altro modo.

E’ tanto infame e intelligente quanto in realtà é ipocrita con sé stesso.

La macchina nera non lo vede, però, e a lui pare di morire.

Poco prima scaglia una bestemmia al cielo, al guidatore, e a quella fottuta macchina nera che ha osato investirlo.

Il destino non è per nulla affidabile.

 

Dolore.
Incommensurabile dolore. Allo stomaco, al bacino, alle ossa degli arti.

E alla testa, cazzo, alla testa. Un dolore lancinante, che lo strema e lo percuote, come mille stilettate nel capo.

Ma ce l’ha ancora, il cervello? Perché gli sembra di non riuscire a mettere insieme una frase.

Apre appena gli occhi e scorge una macchia chiara. Giallo, forse.

Li richiude sperando che quella macchia abbia sentito la sua flebile richiesta.

“Antidolorifici, ora.”

Le palpebre sono troppo pesanti, e si riaddormenta, senza sognare.

 

“Ehi, buongiorno, siamo finalmente svegli, signore?”

Che voce acuta e fastidiosa.

E’ una donna, certo. Almeno questo lo riesce a dedurre, Shikamaru. Perché se non è una donna è senz’altro un eunuco, ma non crede che al giorno d’oggi ce ne siano ancora, di quelli.

Non riesce a parlare e nemmeno a muovere il braccio, nonostante le voglia dire esplicitamente di stare zitta e di andarsene.

“La devo cambiare.”

Cosa?

Cambiare? Cosa cosa cosa?

Sgrana gli occhi, sorpreso. Cazzo, non ci aveva pensato. Poteva prevedere le conseguenze, Shikamaru, prima di essere messo sotto. Certo, come se un fatto simile potesse mai essere programmato.

“Stia tranquillo, sono giorni che lo faccio, non si è mai lamentato.”

Ora la guarda meglio, nonostante la vista offuscata. Sembra che abbia perso tre decimi in un colpo solo, o che abbia bevuto tre litri in più di alcol; la sensazione é la stessa.

E’ bella, questo deve ammetterlo. E’ bella e prosperosa, aggiunge.

E’…piacevole alla vista. Molto.

Ma non si può sentire, cazzo, quello no. Ha una voce che lui non riesce a sopportare.

Lei si avvicina e gli alza la schiena, con un movimento veloce gli toglie il cuscino da sotto il capo e gliene mette uno nuovo.

Fresco, pulito, asettico.

Poi sente la sua mano togliergli da dosso la coperta e il lenzuolo. D’istinto si ribella, allungando le mani. Ma quelle non si muovono di un centimetro. Troppo dolore. Non ha intenzione di farlo.

Lei aspetta, invano. Spera che le sue membra si animino, ma non accade nulla. Allora sospira, lungamente.

“Non ci siamo, Signor Nara. Deve darsi una mossa. Lo so che fa male, ma non può rimanere bloccato così per sempre.”

Che sia un vegetale?

Un vegetale, sì. Non può muoversi, non ci riesce perché il cervello manda impulsi a vuoto. Magari il cervelletto si è staccato dal ponte, o si è rotto qualche vertebra, oppure non può muovere il collo perché altrimenti cadrebbe all’indietro. Oppure…

“Non ha subito danni di alcun tipo, quindi presumo che sia troppo pigro per respingere il dolore che sente.”

Ok. Quella donna inizia a fargli paura. Decisamente. Con uno sguardo gli ha  sondato la mente e ha capito che tipo era.

Prende un panno chiaro, lo inzuppa in una bacinella blu e lo strizza, prima di passarlo sulle sue gambe inerti e sui piedi. L’acqua è tiepida, la sente scivolare sui calcagni e sulle ginocchia.

Almeno questo lo percepisce. Quindi non ha perso la sensibilità.

Quando arriva al cavallo rimane interdetto, senza riuscire però a farsi capire. Ha un…coso, infilato su per il sedere.

“Ora cambio il catetere.” Ah, ecco. Il catetere. Forse è arrossito, probabilmente è paonazzo, ma non sa se ha dimostrato il suo imbarazzo.

La bionda procace ci mette un attimo, e un secondo dopo Shikamaru ha un paio di mutande di cotone nuovo.

Deglutisce, gli fa male la gola. Come se qualcuno gli avesse infilato una mano per tirargli fuori a forza i polmoni. Di fatto è successo qualcosa di analogo, ma la mano in realtà era un tubo, e non ha tirato fuori nulla, piuttosto hanno fatto sì che circolasse l’ossigeno.

“Su, Signor Nara.” Mormora, avvicinandosi a lui. La coda di cavallo gli sfiora la fronte, senza poter fare nulla per impedirglielo.

Cazzo, lasciami stare.

Prende la flebo e lo cambia, mettendo una sacca nuova. All’interno c’è un liquido trasparente, all’apparenza viscoso.

Shikamaru non lo sa, non può toccarlo.

“Ci vediamo più tardi, la costringerò a deambulare.”

Deambulare, tsk. Deambulare. Suona bene, quella parola, ma i suoi arti di certo non lo faranno. Rimarranno inchiodati al lenzuolo fresco e bianco del letto, e i suoi piedi non toccheranno il pavimento disinfettato nemmeno per scherzo.

Shikamaru preferisce stare dov’é. Dormire, andarsene un po’ da quel mondo che considera più infame di lui.

“Ci vediamo dopo.”

Provvederò a dormire, dopo. Così non mi sveglierà. Che razza di infermiera è una che sveglia il suo paziente mentre riposa? Nah. Non lo farebbe mai. Figurarsi.

 

“Ahia.”

“Abbiamo riacquistato la parola, vedo. Per fortuna.” La vista annebbiata, ma sempre meno confusa di quella mattina. La bionda procace, di nuovo lei.

“Chi é…lei?” dice, poco convinto se darle del tu o del lei. In effetti avranno la stessa età, più o meno.

“Sono Ino Yamanaka. L’infermiera che si occupa di lei.”

Infermiera, ah.

“Mi ha fatto male.”

“Le chiedo scusa.” Nonostante ciò, Ino non smetteva di massaggiargli le gambe vigorosamente.

“Che cosa sta facendo?”

“Riattivo la circolazione.” Afferma, come se fosse ovvio. La coda ciondola mollemente ad ogni suo movimento. Da quella posizione riesce a vedere l’incavo dei seni. Shikamaru distoglie lo sguardo, imbarazzato.

Dio santo, non è affatto male.

Ino alza gli occhi, un sorriso sarcastico sul volto dimostra che ha capito che tragitto hanno fatto le iridi di lui. Ma evita di rimproverarlo, è malato.

“Ho male…”

“Lo so.”

Questo è l’aiuto che un’infermiera dovrebbe dare? Non sta aiutando Shikamaru, e di certo quelle parole quasi sprezzanti non servono a rinvigorirlo.

“Cosa…”

“Le è successo?” interrompe lei. Anzi, conclude lei. Shikamaru annuisce, il più vigorosamente possibile, ma ad ogni scatto del capo, il collo gli duole fortemente.

Meglio stare fermi.

“E’ stato investito da un Renault nera, é rimasto in coma per dodici giorni ed è morto per trentasei secondi. Tutto qui.”

Fine della storia. Dunque era morto ed era rinato. Magnifico, davvero. Quel mondo tanto infame non era.

“…ma la cosa che mi sorprende, è che in questi dodici giorni non è venuto nessuno.” Shikamaru sorride, ironico, abbassando lo sguardo sulle mani e sulle lunga dita affusolate di lei. Lo sa lui perché non è venuto nessuno, ma non ha intenzione di dirglielo.

“Non sono affari suoi.”

“Ha ragione. Probabilmente no.” Cessa di massaggiare e sospira, riportando la coperta a coprire il corpo del ragazzo. Si sa, però, che la riservatezza e la pacatezza non siano doti di Ino Yamanaka, e quindi, sorridendo, continua a sondare l’aura misteriosa intorno al giovane uomo.

“Litigi in famiglia, vero? Anche io, ma non irrimediabili.” Afferma, cambiando la sacca della flebo. Shikamaru l’ha vista farlo talmente tante volte, che ormai l’ha fatto suo, quel movimento. Lei che prende il sacchetto, lei che toglie il sacchetto, lei che ne mette uno nuovo.

Lei, lei, lei.

“Ho detto che non sono affari suoi.” Ino sorride, scostando la ciocca bionda che le ricade sulla fronte dietro l’orecchio.

“Mi ha appena confermato la mia teoria.” Dice, osando addirittura poggiarsi sul suo letto. Gli sfiora la mano, involontariamente. La ritrae qualche attimo dopo, leggermente in imbarazzo.

Strano, però. Quello dei due che è arrossito, è stato Shikamaru.

 

“E’ per questo che sei solo?”

“Più o meno.”

“Perché sei un infame?”

“Esattamente.” Sono passati altri tre giorni e non un cane ha fatto visita al Nara. Lui non ha dato molto peso ad un fattore così opinabile, ma la ragazza guarda Shikamaru stranita e spaesata.

“Se io fossi rimasta in coma per tutto questo tempo, il mio ragazzo mi avrebbe sicuramente cercata.”

Oh, questo fa male. Non sa perché, ma fa male. Shikamaru si morde un labbro, prima di cambiare discorso, improvvisamente. Non è nessuno, lei, per lui.

Lei non è mai stata sua. Solo perché lo assiste, non significa che lei abbia sentimenti verso di lui. Al massimo carità, o misericordia. Non attrazione, non amore.

Cazzo, ecco, di che parlava. Dell’ infamia del mondo. O meglio, dell’infamia che il mondo sbatte in faccia ai suoi poveri, teneri sognatori.

“Posso fumare?”

“No, non puoi farlo. Sei in riabilitazione, Shikamaru, non dirlo nemmeno per scherzo.” Pare colpita, all’inizio, di questo cambio di rotta, ma poi si alza di scatto e afferra il pacchetto di sigarette sul comodino, accanto al ragazzo. La mano di Shikamaru si muoveva lenta verso le sue Winston, ma i riflessi non erano ancora completamente ristabiliti e perciò, Ino, arriva prima di lui.

Sembrano le sue uniche compagne di vita, quelle sigarette. Sono sul comodino insieme ad un bicchiere colmo d’acqua, al suo portafogli e alle sue chiavi di casa. Non c’è null’altro. Nemmeno un cellulare.

Secondo Shikamaru è inutile averne uno, se non si ha nessuno da contattare. Un’idea coerente, non trovate?

“Ino, per favore. Sono in astinenza.”

“Te le darò appena il dottore mi dirà che sei fuori pericolo, Shikamaru.”

Non riesce a trattenere un sorriso ironico, il ragazzo, vedendola uscire, ridendo.

Allora lei tornerà.

 

“Ho lasciato il mio ragazzo.”

“Non mi pare di avertelo chiesto.”

“Perché mi sono innamorata di un altro.” Il pavimento è freddo sotto i suoi piedi nudi; al ragazzo vengono i brividi, ma non ha intenzione di fermarsi. Forse perché concentrarsi, cercando di non cadere a terra, lo distoglie dall’ultima affermazione della bionda. Il mondo va avanti, lui pare perdersi i pezzi per strada. Un po’ ci sta male, ma d’altronde l’aveva sempre pensato, che quel fottuto universo non badasse alle sue creature.

E’ un po’ come un guscio di noce, Shikamaru. Fuori è indurito dalle intemperie, dalle cadute, dai calci; dentro è vuoto, senza possibilità di germoglio.

Una metafora poco originale, ma perfetta, per lo stato in cui si trova la sua anima ferita.

“Buon per te, dimenticherai presto quello di prima.”

“Sarà, ma lui non fa altro che imprecare verso tutti. Non capisce che sbaglia, a farsi terra bruciata tutto intorno.” Shikamaru alza gli occhi al cielo, esasperato. Sente la stretta delicata di Ino, attorno al suo braccio, farsi leggermente più intensa.

“In fondo lo capisco. Questo mondo è infame, e lui vuole essere più infame del mondo stesso. Buona tattica, fai complimenti al tuo nuovo ragazzo.” Ino sospira, guardando per terra.

“Non lo è ancora. Devo chiederglielo, però ho paura della sua crudeltà.” Shikamaru alza un sopracciglio, ironico.

Lo sa lui, lo sa lei, lo sa anche quella Renault nera che l’ha messo sotto. Insieme alle ossa rotte, si è rotto anche lo scudo impenetrabile della sua principale difesa. Una piccolissima crepa, eh, mettiamo bene in chiaro questo fatto. Ma c’è, ed è significativa.

“Sii coerente. Diglielo.” Io odio le persone incoerenti. “Già va tutto a puttane, non gettiamo benzina sul fuoco.” Ino lo fa voltare e tornano indietro, lentamente, verso la sua stanza.

“Da quanto sei qui, Shikamaru? Lo sai?” Ha perso il conto, o forse il ragazzo non si è mai messo a segnare i giorni di prigionia. Sa solo che è passato tanto tempo, e non ne può più. Vuole andare a fare causa a quella Renault e al suo guidatore, vuole comprarsi un nuovo pacchetto di sigarette, vuole recuperare gli esami che ha perso, vuole tornare a lavoro.

Chissà se qualcuno l’ha cercato, mentre era via. Lontano da tutti.

Qualcuno che non sia lei, ovviamente.

“Non ricordo…un mese, forse?”

“Ventinove giorni.” Shikamaru alza le spalle, leggermente sorpreso. E’ passato davvero così tanto tempo? Wow, lui non se ne è reso conto.

“Ti dimetteranno tra una settimana. Invalidità al 7%. Avrai bisogno di fisioterapia e non potrai più fare sport pesanti, tipo kick boxing…sci…robe simili…” gesticola con le mani, concentrata sui suoi esempi calzanti. Alza il mento e gli occhi al cielo, la coda ciondola con il suo capo.

“Avrai bisogno di qualcuno che ti controlli, non ti pare?” Shikamaru si ferma, di colpo. Due passi e sarebbe giunto nella sua stanza. Oh, ha capito l’allusione. Ha capito tutto. Non è tardo, lui.

“Qualcuno da consigliarmi, Ino?” Lei sorride, apre la porta e lo accompagna dentro, facendogli da stampella.

“Qualcuno ce l’ho…”

 

A Shikamaru non sono mai piaciute le stelle.

A Shikamaru non sono mai piaciuti i pianti, le strida, le urla di gioia dei bambini.
A Shikamaru non sono mai piaciute le donne civettuole, con la voce acuta e altisonante.

Non si sa come, ma ora sospira, invece di imprecare. Sospira esasperato o rassegnato, ma sospira. Non scrolla il capo ad ogni affermazione. E non riesce nemmeno più a liquidare l’interlocutore con la sua fatidica frase: “E’ così e basta”.

Sembra affamato, perennemente. Affamato di sensazioni, di vita.

Non può dire che sia colpa dell’incidente, no. Sarebbe incoerente da parte sua credere che quel bastardo di un destino gli abbia mandato un messaggio criptato ed estremamente doloroso per fargli cambiare pensiero.

Probabilmente doveva succedere perché, in fondo, nel suo subconscio, lo desiderava. O probabilmente è accaduto a causa sua. Non lo sa, non ha nemmeno voglia di cercarsi una motivazione, lui che vuole una spiegazione per tutto. Lo prende come viene e si fa un tiro alla Winston. Quel vizio non riesce a mollarlo, invece. La nicotina deve essere un elemento del suo corpo. Un po’ come l’ossigeno, il carbonio, o che altro.

Ma quando entra in giardino la finisce nel porticato e la getta sul vialetto, prima di varcare la soglia di casa.

“Tesoro.” Dice lei, dall’altra stanza. “Sento l’olezzo delle tue sigarette da qua. Porca miseria, è possibile che tu non mi dia mai ascolto?” La sente alzarsi di peso dal divano, il verso stizzito del gatto che si è dovuto spostare dalle sua ginocchia, e poi la vede appoggiata allo stipite della porta della sala, un cipiglio deciso e impertinente.

“Mi dispiace, ma queste non le abbandonerei neanche per i miei punti di invalidità.” Dice, sventolando il pacchetto davanti ai suoi occhi.

Lei sorride e lo lascia chinarsi e baciarla sulla fronte.

“Mi piaci con la coda, lo sai, Ino?”

“Sei davvero un infame, Shikamaru.” Il ragazzo si butta sul divano, allargando le braccia, divertito.

“Lo so, me lo dicono in tanti.”

Mondo zero, Shikamaru uno. Finalmente sentiva un caldo avvolgente.

Alla fine ce l’ha fatta.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Cose da sapere/dedotte:

#1. L’inizio di questa storia è stato inventato da un mio caro amico, e vorrei ringraziarlo, perché so che ci ha messo l’anima. Adri, stupido quanto intelligente. Quindi, vorrei ringraziarlo per la sua perla di saggezza, che regala di tanto in tanto ai suoi amici, ma mai a me. Come sono felice!

Ah, inoltre vorrei sottolineare che la prima frase s’ispira al ‘Piccolo Principe’ e al suo significato: “Non si può vedere che con il cuore; l’essenziale è invisibile agli occhi.”

Bene, il concetto è lo stesso, ma espresso in modo differente.

#2. Come avrete capito, Shikamaru è stato investito da un’auto, e dato il grave incidente, ha subito danni permanenti. Con 7% d’invalidità, intendo la percentuale che i medici tolgono alla persona quando essa non può più tornare allo stato precedente. Con incidenti gravi, si rischia anche la paralisi, che equivale ad un 95/98% d’invalidità. Ho messo solo 7% poiché mio padre ha avuto un incidente simile, ma gliene hanno tolti 10 per via di un problema permanente alla spalla. Oserei dire che Shikamaru non potrà più sforzare i muscoli e le sue ossa in movimenti dapprima indifferenti, ma che ora possono procurargli un dolore particolare. Anche se si è giovani, non tutto si risana. Questo è il concetto che vorrei trasmettere; e cosa ancora più importante, insieme alla salute, la sua infamia si è affievolita.

#3. Shikamaru ha il ruolo dell’infame in questa storia, poiché reagisce in modo radicale ed aggressivo, verso quel mondo che non gli ha dato nulla e che mai glielo darà.

Ed è per questo che Shikamaru è considerato un infame puro. Un genietto maligno che sfalda le opinioni, i sogni, le fantasie altrui per il puro gusto di farlo.

 E’ un genietto maligno in quanto non dà spazio a sentimenti e a sogni, ma preferisce la concreta e cruda realtà, senza giri di parole.
Senza illusioni.

E’un po’ il contrario di Sakura, il personaggio precedente, che invece si lasciava cullare dalle illusioni come su una barca. Lui no. Vive di cattiveria perché di cattiveria è fatto il mondo. Nessuno ha mai provato a leggerlo, comunque, a comprendere questa sua crudeltà. Nessuno l’ha fatto perché le sue offese facevano colpo, il dolore delle sue stilettate bruciava, tagliente. Ma se non può parlare, allora, il manico del coltello passa all’interlocutore. Ino Yamanaka. Un colpo di fortuna, diciamo.

O meglio, quel destino che Shikamaru tanto snobba. Sarà stato lui? Sarà stato lui a farlo trovare su quel lettino, ed essere curato da lei?

Vorrei che consideraste l’incontro con lei come esperienza di cambiamento, più che l’incidente stesso. Dopotutto, incidente o no, se Shikamaru non avesse incontrato Ino e la sua caparbietà, forse sarebbe rimasto lo stesso.

Non si può mai sapere.

#4. Ancora un’ ultima cosa: il fatto che Shikamaru sia cambiato, non significa che sia incoerente con la sua persona. Ha solo voglia di vedere sul serio, e magari, non attraverso gli occhi apatici di sempre. Perché non ci si stanca di vivere in un mondo sempre uguale? Senza sorprese, come lo vedeva lui?

Forse lo voleva, nel profondo, ma non l’ha mai ammesso. Difatti, vorrei che consideraste Shikamaru come un ragazzo intrinsecamente consapevole della bellezza di quel mondo, ma che non aveva possibilità, e soprattutto capacità, di coglierne la magnificenza.

 

Bene così, credo di aver finito! :D

Ok, il prossimo sarà ‘La perdente’, lunghezza simile, soggetto e storia differente.
Au revoir!

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Capitolo 3
*** La perdente - Bel nome, Jeremy. ***


Premessa: in questo capitolo parlerò di gravidanze indesiderate. Vorrei che consideraste ciò che è scritto non come mio pensiero personale, ma pensieri dei protagonisti, dovuti alle loro esperienze. Vi prego di rendervi conto che sono i personaggi che parlano per via delle circostanze vissute, e non l’autrice. Ve lo direi volentieri e non mi farei rimorsi, in caso contrario. Non sono tipo da nascondere al mondo ciò che penso, perché ho il diritto di farlo. Ad ogni modo, buona lettura, e grazie mille a tutti i lettori e commentatori. Grazie grazie grazie! Mi avete reso felice. Spero che questa shot sia di vostro gradimento e sia abbastanza per le vostre aspettative. Che poi ve ne siate create leggendo questa raccolta, sarebbe un onore. Ok, basta. Smetto qui. Vi lascio con la perdente, che piuttosto di soffrire, evita di vivere.

Ricordo ancora :La fan art non mi appartiene, ma è stata trovata sul web. Non intendo avvalermi della maternità di essa.

The fan art was founded on web. It’s not mine, i don’t own it.

 

 

Prompt #8, Luce; The One Hundred Prompt Project, di BlackIceCrystal
The One Hundred Prompt Project

 

 

Partecipa alla Love Challenge di Mayumi_San- “Do You love me?”

 

 

 

 

 

Bel nome, Jeremy.

 

 

{La perdente; Hinata Hyuuga}

 

 

“Sei a terra?

Meglio, è da distesi che si vede il cielo.”

 

 

 

 

A chi non é capitato, di cadere?

Battere il mento sul pavimento o sul selciato, sbucciarsi le ginocchia, puntare i palmi delle mani in avanti, così da proteggersi il viso. Sarà successo anche a voi.

Quando cadi digrigni i denti dal dolore, o imprechi, oppure in certi casi ti lagni con il mondo, ma ti alzi.

Dopo pochi secondi, dopo un eternità, ma ti alzi.

Disinfetti la ferita e pace. Fine della storia. Al massimo ci metti un cerotto sopra, o nel peggiore dei casi ti fai dare qualche punto, ma la storia termina così.

Caduta e ripresa.

La vita funziona un po’ allo stesso modo.

Caduta e ripresa.

Succede che alcuni individui, però, non riescano a staccare le membra da terra, e rimangano bloccati con la schiena stesa sulla strada fredda.

Li chiamano perdenti, quando invece sono solo deboli. Deboli perché da soli non riescono a spuntarla, perché la vita li ha segnati e loro, perdenti, si ritrovano schiacciati al muro, gli occhi guizzanti da una parte all’altra, in preda al terrore.

Meglio rimanere nella merda, piuttosto di continuare a rialzarsi per poi ricaderci dentro.

Per loro non ha senso tentare. Una volta basta e avanza. Hanno provato e hanno fallito. Non gli piace più il gioco della vita.

Non lo concepiscono: secondo i perdenti esso è controproducente, perché bene o male non la spunteranno mai. Peccato che l’hanno creato loro, quel gioco.

E’ uno spreco fermarsi alla prima mano, non credete?

A Poker si può avere sfiga una volta, due, tre. Prima o poi la ruota gira, e un bel full di Jack non te lo toglie nessuno. Però devi giocare, è ovvio.

Provate a convincerli voi, i perdenti, a riprendere le carte e tentare la sorte.

Hinata non lo farebbe mai. Non vuole rischiare altro dolore, altre sofferenze, altra compassione. Sente quella sensazione d’impotenza bruciarle il petto e narcotizzarle la mente. Un lexolan naturale da cui non riesce a staccarsi.

Preferisce l’inerzia della sconfitta, lei. E’ caduta e non si rialza. Non si è più ripresa.

Non ne vuole sapere. La polvere del pavimento è più facile da sopportare di tutti i problemi che la vita le sta mettendo davanti.

Perciò, lucida meticolosa i tasti d’avorio con un panno umido, senza rendersi conto dei sospiri che emette. D’altronde, nessuno pare accorgersi di lei, e per Hinata è molto meglio così.

Quel pianoforte é estremamente costoso. Tutti ci passano accanto e lo sfiorano con lo sguardo, guardandolo con interesse, con meraviglia, con passione. Nessuno lo compra, però. La sua bellezza, il suo valore, viene oscurato dall’apparenza dei soldi. E’ una vera condanna. Se fosse per Hinata, commessa del negozietto sulla terza strada, quel piano avrebbe trovato già un padrone. Lei lo affiderebbe alle cure di una persona sensibile e meticolosa, ma l’umanità scarseggia di individui simili. O si è sensibili, o si è meticolosi. Entrambe le cose é estremamente raro.

Lavora lì da circa tre anni. E’ sempre stato il suo sogno, la musica.

Fare l’artista. Cantare, suonare, vivere attraverso l’eteree emozioni che solo le note sanno dare. Per lei musica non significa ribalta. Lo spettacolo e i riflettori sono l’ultimo dei suoi progetti. Vuole semplicemente vivere, quasi volesse essere uno spartito lei stessa.

Nel cassetto, accanto ai calzini a pois blu, nasconde il suo più intimo desiderio. Comporre una melodia da zero, che faccia parte di lei e che esprima una parte di lei.

Una Hinata versione danzabile.

Sorride, riponendo la salvietta bagnata nel cassetto e tornando a fare un giro per il negozio. Si dirige dritta dritta verso gli strumenti ad arco.

Si sofferma sempre su uno in particolare, Jeremy, così lo chiama. Un violino panciuto e dal legno chiaro, con sfumature ambrate e lacca uniforme.

Lo ama, quasi quanto quel pianoforte. Verso sera, quando suo padre se ne è andato e i clienti non arrivano più, lei si siede sullo sgabello e se lo rigira tra le mani, tremante.

Ma lo fa solo in quel breve lasso di tempo, quando gli occhi del papà non la possono giudicare, severi.

Sembrano solcare la sua anima in cerca di crepe, e dopo averle trovate, martellare fino a che il muro d’equilibrio di Hinata non crolli sotto il suo stesso peso. Ha paura, di lui.

Lo teme.

Nessun figlio dovrebbe temere il proprio padre. Nessuno.

Eppure lei deglutisce e abbassa il capo, in segno di rispetto. Quale rispetto poi? Lei non ne prova.

Da quando è rimasta incinta niente è più lo stesso. Non vuole trovare una giustificazione, Hinata. E’ solo colpa sua. E’ lei la colpevole di tutto.
Si é lasciata andare alle illusioni, si è lasciata cadere tra le sue braccia. E’ rimasta fregata.

Quel bastardo è sparito appena saputo che Hinata aspettava un bebè. Eppure a ventisei anni si suppone che l’uomo sia abbastanza maturo per prendersi le proprie responsabilità.

La Hyuuga sospira, passandosi la mano sul ventre rigonfio. Pochi mesi e darà al mondo il bambino di uno sconosciuto.

Non si ricorda nemmeno come si chiamava. L’ha completamente rimosso. Il giorno prima ha bagnato il cuscino di lacrime, invocando il suo nome, chiedendo che tornasse e l’amasse come faceva sempre. La mattina seguente si è alzata con un mal di campo intermittente.

Ricordava il suo volto, ma non il suo nome.

Quel giorno Hinata confessò tutto a suo padre, e inciampando sui suoi errori, decise di non rialzarsi più.

Sospira, riponendo nella sua custodia il prezioso strumento. Non l’ha mai suonato. L’ha solo toccato, respirato, vissuto attraverso le note suonate e composte da altri. Non è mai stato suo, Jeremy. Di fatto nulla è stato suo, nemmeno la sua personale esistenza.

Quella l’ha perduta nel momento stesso in cui si abbandonata alle lacrime. Si è rassegnata e ha smesso di scalciare, esasperata.

Annaspare, rilassarsi, annegare.

“E’ magnifico.” Quella voce di ragazzo la fa sobbalzare. Si volta appena alla sua destra, i capelli corvini ondeggiano con il capo, lentamente. Le reazioni di Hinata sono sempre state pacate e delicate, e persino i suoi movimenti seguono l’onda della sua anima.

Sembra una curva, che dolcemente, tende all’infinito.

“S-Sì. E’ magnifico.” Annuisce, vigorosamente, e le sue guance s’imporporano immediatamente. E’ fatta così, lei. Non riesce a non dubitare di sé stessa. Si tocca la pancia, d’impulso.

Appoggia la mano sul ventre e l’accarezza, voltandosi poi a guardarlo.

“Scusa, avrei dovuto farmi notare, ma sono rimasto ad osservarti…Sai, sembravi così presa.” Il ragazzo fa un passo indietro, sorridente. Gesticola in fretta e furia, portandosi una mano ai capelli, grattandosi la nuca in segno di mortificazione.

Sembra molto aperto, solare, deciso.

A quell’analisi repentina Hinata sospira e guarda il pavimento lucido del negozio.

Lei non é così, cazzo. Perché lei non può essere come lui?

“Non si preoccupi. Mi scusi per la mancanza, io…” Il ragazzo la interrompe, prendendo una bella boccata d’aria.

“Scusare? Te? Ma scherzi!? Ti chiedo scusa io per averti…” apre la bocca, sta per terminare la frase. No, non vuole dirlo. Scrolla la testa e continua, cambiando discorso.

“Non darmi del lei, per favore. Abbiamo la stessa età.” E’ vero. I tratti di lui paiono freschi, giovanili, molto simili ai suoi. Hinata annuisce, sorridendo leggermente. E’ ancora paonazza, ma non riesce a non porsi domande.

Cosa voleva dire? Ha ventiquattro anni? Chi é? Mi conosce? Come si chiama?

“Sono maleducato, in effetti.” Porge la mano ad Hinata, sorridendo. “Mi chiamo Kiba. Kiba Inuzuka. Piacere mio.” Si rende conto di aver scorto solo brevemente i suoi lineamenti, ma di non aver ancora osservato i suoi occhi. Quando alza il capo quei pozzi nocciola sembrano mandarle un segnale, qualcosa che si avvicina molto ad una scossa. No, non siamo banali.

Non è romanticheria gratuita e nemmeno un colpo di fulmine.

Hinata non crede più a queste sciocchezzuole. Ci credeva, è vero, ma ha smesso da quando ha scoperto di portare in grembo un bambino che, è brutto dirlo, non vuole affatto.

Kiba non sembra vedere la sua pancia, comunque. Continua a guardarla negli occhi e inclina il capo, sorridendo.

Cerca in tutti i modi di farla parlare, ma più che lievi cenni o mormorii incomprensibili non riesce ad ottenere.

Non gli interessa scavare, non gli interessa sapere. Gli interessa vederla.

“Perché non lo suoni?” Indica il violino, ormai riposto nella sua custodia scura, che troneggia sopra un piedistallo, sopra tutti gli altri strumenti ad arco.

Lei si fa ancora più rossa, si stringe nelle spalle, vuole caderci dentro.

“Io?”

“Sì, tu.” Afferma, incrociando le braccia. Hinata non se la sente. Non l’ha mai suonato e non crede di farlo. Jeremy è stato di suo padre, e sarà di sua sorella. Non sarà suo. Lei non è nessuno, o forse è semplicemente una perdente incinta di uno sconosciuto.

Non ha voce, mai ne avrà. Dramma poco originale, vero?

Uno crede di essere pronto a certe cose. Di essere pronto a diventare genitore quando Dio gli manda quella creatura da accudire, e che quando i genitori lo sapranno riuscirà a sostenere una vita senza di loro.

Balle, cazzate. Bugie. Tutte bugie. I film non fanno cultura, e nemmeno esperienza. Hinata sospira, facendo un passo indietro. Un metro sembra tanto, per una persona normale. Un metro da un ragazzo bello, solare, e decisamente genuino. Per lei, invece, quel metro che lo separa da lui non è che un centimetro, vale meno di niente.

Perché chi vuoi che si avvicini ad un perdente, Hinata? Quelle parole sembrano rimbombare dolorose nel cranio. Le parole del padre dette con disprezzo, rabbia, furore.

Si morde un labbro, indecisa.

“Io non sono brava…” Kiba ride, di gusto. Si porta addirittura la mano allo stomaco, dopo che gli spasmi d’ilarità l’hanno catturato. La ragazza sgrana gli occhi, sorpresa. Forse ride di lei.

Sì, probabilmente ride di lei. Deglutisce, imperterrita. Sai che novità.

“Non mi prendere in giro, so benissimo che suoni fantasticamente. Cioè, ti ho sentito.” Afferma, leggermente titubante. Di nuovo si porta il braccio dietro la schiena. Sembra lo faccia ogni volta che é esitante.
Sceglie le parole, i movimenti, gli atteggiamenti, Kiba, in modo che lei non ne risulti spaventata. Che la conosca? Che sappia che Hinata teme il mondo? No.

Probabilmente nessuno conosce questo suo aspetto. Ed è anche sbagliato, tra l’altro. Lei non teme il mondo, lei teme di non riuscire più a rialzarsi, la prossima volta che esso gli farà lo sgambetto. Quindi rimane per terra e aspetta da laggiù.

Comodo, non vi pare?

“Come lo sai?” Gli chiede, portandosi le mani al grembo.

Quel rapporto inizia così, con dei gesti. Minuscoli dettagli che sfuggono alle persone distratte. Quelle mani giunte, quel rossore sulle gote, non è che sintomo di vanità per molti, se non per tutti.

Le lusinghe, direbbero, fanno bene all’ego. Ma Kiba non sta facendo alcun complimento, e Hinata non ne riceve alcuno. Un vantaggio, sì, forse c’è.

Kiba l’ha svegliata.

“Io abito qui vicino. Proprio dietro al negozio. Quando scendo per andare a lavoro ti sento suonare. Sei tu che apri alle 8.00, vero?” Sì, sì è lei. Annuisce, aggiustandosi la camicia. Tutti gesti involontari, servono a farla stare eretta, a resistere a quel ‘contatto’ prolungato.

“Bè, allora sei una bugiarda. Suoni da dio. Però sento sempre il pianoforte.” Afferma, scrollando le spalle. Si volta e si dirige verso quello strumento lucidato, a grandi falcate. Pochi passi e lo raggiunge. Scorre un dito sui tasti, contemplando.

Hinata socchiude i suoi, non trattiene un sorriso. Sembra che lui la capisca.

E’ strano vedere che il mondo a volte, dopo averti tolto tutto, ti regali qualcosa. Magari prova pena  per i suoi inquilini. Inquilini, sì. Hinata crede di essere un’inquilina in quella terra, non un padrone. Lei non oserebbe mai ardire a tale ruolo. Lei, che se lo merita tanto e che ne avrebbe il diritto.

Dopotutto Hinata non l’ha voluto, quel bambino. Hinata non vuole soffrire di voglie, non vuole le smagliature, non vuole i crampi allo stomaco.

Merda, Hinata non vuole quel bambino.

“Mi accompagni?”

“D-dove?”

“Come dove?” ridacchia, poggiandosi sulla seggiola, “al pianoforte, no?” Fa cenno di avvicinarsi. In pochi attimi aveva già sistemato un'altra sedia accanto alla sua, in modo che fossero belli larghi.

“Ti va di suonare Inno alla Gioia? Tanto per testare come siamo messi. Per vedere se insieme andiamo bene.” Aggiunge, sorridendo. Hinata gli si siede affianco, insicura.

Sfiora la sua mano e la ritrae, paonazza. Kiba sembra non essersene reso conto, e poggia le sue sull’ottava di mezzo.

Si concentra, conta, inizia.

Mi mi fa sol sol…

Si ferma, notando che lei non ha nemmeno iniziato.

“Bé? So che ne sei capace, su. Accompagna la mia melodia.” Lei deglutisce, gli occhi lucidi. Vuole dirgli che gli piace vederlo suonare, vorrebbe osservarlo. Non lo fa, poggia le mani e inizia gli accordi. Lui sorride e la insegue, mettendosi in pari.

Fa mi re do do re mi re do do…

E suonano fino all’ora di chiusura. Hinata non si è mai sentita tanto importante.

 

“Vai via. Non voglio vederti.” Richiude la porta seccamente, senza che però la sua espressione di disgusto scappi ad Hinata. Suo padre non sopporta la vista di sua figlia conciata in quello stato.

La detesta. La visione di una Hyuuga abbandonata e privata della sua dignità.

Una gazzella in una famiglia di leoni.

Una perdente tra i vincenti. Di fatto la sua stirpe è rinomata e importante. Non nasconderemo lo scalpore di una tale notizia nella società attorno alla famiglia. Sciacalli che non aspettavano altro che un passo falso da parte di uno di loro.

Vendono meraviglia, gli Hyuuga. Vendono emozioni. La musica è vita, purezza, sogno.

Per questo sono stati sempre invidiati, perché l’arte va oltre qualsiasi lavoro manuale, qualsiasi retorica o arnese.

Dopotutto, un lavoro che rende l’uomo la sua essenza vale molto di più di molti altri beni terreni. Perciò, quando gli avvoltoi hanno intravisto un barlume d’instabilità, ci si sono fiondati come lupi.

Questo soffre, suo padre. La perdita di reputazione.

Hinata sa di esserne la colpevole. Lei che ha provato a credere in qualcosa, ma che ne è uscita sconfitta.

Stupida, stupida Hinata.

“Papà…”

“Lascia perdere. Sai benissimo che ti detesterà fino a quando non darai via il bambino.” Hanabi la guarda dall’alto in basso, nonostante sia la minore e sia anche più bassa di lei. In tutte le sfaccettature, dunque.

Un altro colpo da subire. Probabilmente isolati, tali insulti, possono essere narcotizzati. Sono umiliazioni leggere, abitudinarie, possono essere contrastate. Ma giorni e giorni fanno di quelle briciole un intero macigno. Un po’ come continuare ad infilare il dito nella ferita, appena essa è riuscita a cicatrizzare. La riapri, troppo debole per poter resistere ancora.

Hinata trattiene le lacrime mordendosi il labbro. Annuisce, e lascia che lei se ne vada, sparendo dal corridoio.

“A-andrò al negozio, papà.” Sussurra, ancora di fronte alla porta. Ci andrà perché potrà piangere senza che nessuno la veda. Si siederà a fianco a Jeremy e lascerà che la polvere la sotterri di qualche altro centimetro. Tanto nessuno le farà caso.

E’ una perdente, almeno questo ruolo le lascia un po’ di silenzio attorno a sé.

Forse è l’unico vantaggio che una tale filosofia le renda. Peccato che lei, in fondo, ami il rumore.

 

“Ciao Hinata!” Kiba entra dal negozio facendo tintinnare il campanello della porta. Hinata sobbalza, rischiando quasi di far cadere il panno che ha tra le mani. Questa volta tocca all’ottone degli strumenti a fiato. Un oboe viene riposto con molta fatica sul suo scaffale.

“Ciao Kiba…” dice, tornando dietro al bancone, sempre rossa in viso.

“Ho finito di lavorare, ti va di suonare?”

“Io, bé, io non posso farti usare il piano senza che tu lo compra…” dice, sentendosi in imbarazzo. 

Se fosse per Hinata, commessa del negozietto sulla terza strada, quel piano avrebbe trovato già un padrone.

“Ah, davvero? Ma ieri io e te suonavamo benissimo.” Dice, un po’ mortificato. Il sorriso di lui scompare per qualche secondo, per poi tornare più vivo di prima.

“Allora lo compro, Hinata. Ora.”

Lei lo affiderebbe alle cure di una persona sensibile e meticolosa.

Hinata si cruccia, esitante. Costa tanto, quel pianoforte. E’ molto prezioso.

“Ma è caro. Molto…”

“E chi se ne frega?” dice, prendendo un libretto degli assegni e poggiando una penna sulla carta. L’ha appena sfilato dal porta penne che è appoggiato al bancone.

“Quanto fa?” alza gli occhi, ridendo. Hinata non capisce. Perché lo fa? E’ un investimento importante, lungo, che frutterà relativamente poco.

“P-perché lo compri?” si azzarda a chiederne persino il motivo. Non sa perché lo fa, dovrebbe essere solo contenta di far guadagnare soldi alla famiglia. Fin’ora ha sempre pensato che portare a casa più soldi che poteva avrebbe significato la sua reintegrazione nella nucleo famigliare.

Ma i soldi non sembrano bastare mai.

“Perché voglio suonare con te. Adesso.” Alza le spalle, naturale.

Forse è per questo motivo che gliel’ha chiesto. Perché voleva sentirsi dire quelle parole.

Inizia a vedere una luce, nel buio del suo baratro. Qualcuno ha acceso una fiaccola e vuole salvarla.

 

“Quanto manca, Hinata?” E’ la prima volta che glielo chiede. Si conoscono da due mesi e lui non ha mai accennato alla pancia di lei. Un po’ se lo aspettava. Prima o poi gliel’avrebbe domandato. Come fa a sopportare una creatura che nemmeno vuole?

“Un mese e quattro giorni.” Una creatura che non vuole, ma di cui si ricorda tutto. Dal primo battito, al primo calcio. La prima nausea, la prima fantasia.

“Bè, allora abbiamo ancora un po’ di tempo per suonare insieme, prima che tu mi abbandoni per dar peso a lui.” Hinata arrossisce. Non sa perché gli dice questo.

Di fatto non sa molte cose di lui. Sono due mesi che si conoscono e Kiba gli ha sempre parlato poco di lui, giusto l’essenziale.
Lei vuole sapere tutto, vuole conoscerlo a fondo. Essere parte della vita del ragazzo che ha risollevato la sua.

“Perché…” ci pensa un attimo, esitante. Non dovrebbe parlare. Non ne ha il diritto. “…perché vuoi suonare con me?” Solo con me? Quel ‘solo’ lo omette, sarebbe troppo intimo. 

Kiba ridacchia, risvoltandosi le maniche della camicia a quadrettoni che porta. I muscoli tesi e le labbra tirate, poi, in un sorriso ironico.

“Con due cervelli una persona non dovrebbe essere più intelligente?” chiede, accennando con il capo al ventre della ragazza. Lei abbassa la testa, i capelli che le fanno da scudo.

Forse ha detto qualcosa di sbagliato.

Qualcosa che non andava assolutamente insinuato. Ha una ragazza, sì. Certo, lui ha una ragazza. E lui è un giovane molto curioso appassionato di musica.

Tutto qui.

“Se suoni Jeremy giuro che te lo dico.” Afferma, mettendosi le mani nelle tasche dei jeans sdruciti.

 

“Come si chiama, quel violino?”

“In che senso, scusa, non ho capito…”

“Come si chiama. So che ti piace dare nomi agli strumenti che ami di più. Me l’hai detto tu, no?”

Hinata sorrise, riponendo il prezioso arco nel suo cofanetto nero.

“Lui…” oh, che cosa stupida. “Lui…”

“Non è stupido, secondo me. Anche io lo farei.” Sgrana un po’ gli occhi, Hinata, prima di rispondergli. Lascia cadere mollemente le mani lungo i fianchi, i capelli si spostano da destra a sinistra seguendo il movimento del suo busto.

“Jeremy.” Sente la mano di lui sfiorarle appena una spalla, per poi ritrarsi, improvvisamente.

“Bel nome, Jeremy.” In quel momento la luce si era fatta più forte. Intensa come non mai. E pensare che non era nemmeno servito un gesto vero e proprio, ma semplicemente un abbozzo di esso, per farle tornare la speranza.

 

“Non credo di farcela…” di nuovo, tremante, si porta le mani al seno. No, dio, lei non può farlo.

Suo padre, sua sorella…la sua famiglia. Quella fottuta vita si regge in piedi su pochi cardini cigolanti, ma che sembrano essere l’unica via per sostenere quelle continue prove.

Non può farcela. No, cazzo, lei non ne è assolutamente capace.

“E allora non saprai mai quello che volevo dirti.” Afferma, allargando le braccia e alzando le spalle. E’ bello, diamine, maledettamente bello. Con quei capelli arruffati, quegli occhi scuri, quel sorriso salvatore.

Ehi, ehi, ehi. Hinata, non ti eri ripromessa di evitare? Non puoi farlo, rischi di ricadere e farti ancora più male.

“O-ok.” Annuisce vigorosamente, e senza pensarci, riprende il violino dalla custodia e lo poggia al mento. Il crine dell’archetto è setoso, rigido quanto basta per renderla sicura.

Kiba le si pone davanti, in attesa. Sembra aspettare solo che lei inizi a suonare, così da chiudere gli occhi e udire, vivere, una parte dell’anima di lei.

La melodia comincia lenta, strascicata, quasi sofferente. La ragazza socchiude le palpebre, si lascia andare. Questo è il rapporto che ha con la sua esistenza?

E’ dolore? Il crine sfrega più deciso e intenso. Sembra acquistare energia ad ogni accordo. Rapido, una toccata e cambia ancora.

Non è solo dolore. E’ cambiato, sì. Il suo approccio alla vita. Grazie a lui e alle loro sonate insieme.

Si fa di nuovo lento, ma dolce. Come se i suoi pensieri contaminassero Jeremy e da esso ne esca un tripudio di ricordi e sensazioni.

Vendono meraviglia, gli Hyuuga. Vendono emozioni. La musica è vita, purezza, sogno.

Una lacrima gli riga la guancia, e la mano di Kiba interrompe la sua sonata. Sente le labbra di lui poggiarsi sulle sue, leggere.

Un bacio casto, nulla di più. Poi qualcosa di più vero. Concreto, reale.

Le mani di lui le tolgono Jeremy dalla sua stretta, brancolanti. Nella passione fanno fatica a trovare gli oggetti che cercano.

Lei si limita ad assaporare quella botta di esistenza.

Kiba si azzarda addirittura a prenderla per la vita e avvicinarla più che può, il bambino in mezzo a loro e un bacio che sa di speranza.

Si stacca, ansimante. Gli occhi lucidi di lei lo supplicano di riavere quel contatto.

“E’ stato difficile Hinata, riprendersi la propria vita?”

 

Ogni tanto le scappa di chiamarlo angelo custode. Lui accenna un sorriso e scrolla le spalle.

Un’esistenza rimane semplice esistenza se non si agisce con caparbia.

No, la vita non è rosa e fiori. La vita rimane una merda, ma tra il letame è cresciuto un germoglio. Un passo alla volta, ragazzi, un passo alla volta. Non si può pretendere che dopo sconfitte cocenti l’animo umano reagisca agendo da vincitore.

Sarebbe una balla grande come una casa. Hinata é, e rimarrà sempre una perdente. Una perdente che però, in cuor suo, sa di aver speranze di vittoria.

Che dite? E’ un paradosso? Forse, può darsi.

Ha un bambino tra le braccia e una fede al dito. Suo padre e sua sorella la guardano con stizza e dispetto, ma l’odio sembra esserci leggermente attenuato. E’ sangue del loro sangue, vorrà pur significare qualcosa.

Ad ogni modo, la perdente ha capito che può risollevarsi dalle proprie delusioni tutte le volte che vuole, tanto qualcuno le manderà una fiaccola e le porgerà una mano per aiutarla ad alzarsi. Chiamatelo egoismo, chiamatelo opportunismo, fate come vi pare.

Io la chiamerei semplicemente giustizia.

“No, che angelo!” esclama Kiba, alzandosi dallo sgabello e dirigendosi verso la ragazza. “Gli angeli non possono innamorarsi degli umani. Sai che palle, non poterti baciare tutte le volte che voglio?”

Il bimbo emette un verso incomprensibile, tra le braccia della mamma.

Non lo voleva, certo, ma ormai c’é. Hinata non può far altro che tenerselo, chiunque lui sia.

Chiunque divenga. Se perdente, se vincitore.

Se illuso, se infame.

Se omosessuale, se etero.

Sarà quello che gli pare, non può far altro che adattarsi. Dopotutto e anche questo, quello a cui sono chiamati i veri campioni: adattarsi. In fin dei conti essi rimarranno vincitori in qualsiasi campo.

Alla faccia della perdente.

 

 

 

 

 

Cose da sapere/dedotte:

#1. Questa shot è solo speranza. Pura e volubile speranza. Forse la più intinta in essa, perché chi meglio di una persona che si è lasciata andare può sperare nell’essere raccolta da terra? Devo confessare che all’inizio questa storia doveva finire male, ma ho cambiato idea alla fine, proprio nell’ultimo paragrafo. Queste storie devono essere accumunate dal fatto che in qualsiasi caso, in qualsiasi modo, quattro persone completamente diverse l’uno dall’altra trovano la loro via per la felicità. A differenza di Shikamaru, o Sakura, i quali reagivano chi aggrappandosi alle illusioni chi chiudendosi nell’infamia, Hinata non ha difese, e perciò, rimane sdraiata sulla schiena, a fissare il mondo vivere senza di lei.

#2. La citazione a inizio storia è molto evocativa, e mi sembrava perfetta per questa shot – di Benigni, tra parentesi -. Inoltre ho scelto come canzone ‘L’inno alla Gioia’ di Beethoven, perché mi sembra una perfetta colonna sonora per questo capitolo. Le note citate sono davvero l’inizio della melodia della canzone. Lo so perché l’ho suonata migliaia di volte ;D

#3. Di nuovo, vorrei sottolineare il fatto che i pensieri sull’aborto non sono i pensieri dell’autrice, ma in queste circostanze ho provato ad immedesimarmi nella figura della ragazza, che si sente presa in giro e abbandonata. Sappiamo tutti quanto il padre di lei possa essere duro nei suoi confronti. Hinata coincide con la figura della perdente perché a forza di sentirselo dire si è convinta di esserlo. Non ha un padre per suo figlio, non ha abbastanza forza per riuscire a portare avanti la gravidanza da sola. Ha pianto per tutto e quel tutto l’ha sotterrata sempre più in basso. Non riesce più a muoversi, non vuole farlo.

Chi vorrebbe trovarsi nella sua situazione? Direte che è un dramma banale, bene. Lo sarà. Eppure è sempre penoso essere protagonisti o semplici spettatori di una situazione simile. Perché il mondo a volte ti pugnala in diversi modi, e non sai nemmeno quale capiterà a te. Speri che in quel momento, la fortuna, sia dalla tua parte.

#4. Come avrete capito, ogni personaggio ha la sua medicina, in questo caso Kiba. Immagino che non molti di voi abbiano apprezzato la coppia, ma che ci volete fare, io insieme li amo troppo. Davvero, davvero troppo. Sono perfetti uno per l’altro. E comunque, per Naruto ho altri progetti.
Ad ogni modo, vi svelo quello che voleva essere il progetto iniziale, e che ha mantenuto un po’ l’impostazione fino al termine della stesura. Kiba era un semplice angelo, un’apparizione fatta apposta per aiutarla a resistere, ad alzarsi e a scrollarsi di dosso tutta quella polvere che aveva accumulato rimanendo sdraiata per terra. Poi sarebbe scomparso, dopo essersi assicurato che lei ce l’aveva fatta. Ma lasciava troppo amaro in bocca per poter essere lasciato così, io che in questa raccolta mi prodigo per avere amore e tenerezza.

Ah, Jeremy, per chi non l’avesse compreso, è il violino. Il simbolo della vita di Hinata. Suonandolo ha prevaricato quei confini, e li ha sostituiti con i suoi personali.

“E’ stato difficile Hinata, riprendersi la propria vita?”

Ecco il senso di questa frase.

 

Benissimo, ci vediamo la prossima settimana con l’ultima shot. Sì, ragazzi, sta per terminare la tortura, non vi preoccupate. Spero che vi sia piaciuta e vi ringrazio per i commenti positivi, per le letture e per tutti i preferiti/ricordati/seguiti.

Mi fate felice ogni giorno di più. Come vi ho detto, tengo molto a questa raccolta. Non so perché, ma mi piace; Al prossimo e ultimo giro!
Glob °°

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Capitolo 4
*** L'omosessuale - E' stato come bere un bicchier d'acqua. ***


Premessa: come al solito mi tocca ripetere che le idee espresse in questa shot non sono affini al pensiero dell’autrice. I pensieri del protagonista sono ponderati, basati sulla sua personale esperienza di vita. Vorrei che vi dimenticaste di me, come posso dire … l’autrice non esiste, la mentalità è sua, non sono io che parlo, ma lui, lui e la sua esistenza. O ciò che ha tratto, dalla sua esistenza. Qualche zampino su riferimenti ai capitoli passati c’è, credo lo noterete, ma dovevo pur metterlo. Mi ha fatto piacere essere con voi, leggere le vostre recensioni e commenti, vedervi inserire la raccolta nei preferiti/seguiti/ricordate. E’ per me un’enorme soddisfazione avervi fatto riflettere, o sorridere, o semplicemente farvi aver passato degli ottimi 5 minuti per via delle mie parole. Come sapete ci tenevo molto, a questa raccolta. Avevo proprio voglia di scriverla. Ad ogni modo, GRAZIE. Di cuore. E bando alle ciance, vi lascio alla lettura, non prima di aver sottolineato sempre i dovuti credits.

La fan art non è mia, è stata trovata sul Web. Non intendo avvalermi della maternità di essa. The Fan art is not mine, i’ve found it on web. I don’t own it.

 

 

Prompt # 31, Sole; 


The One Hundred Prompt Project

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E’ stato come bere un bicchier d’acqua.

{Gaara – L’omosessuale}

 

C’è qualcosa di estremamente lugubre nella figura ricurva di un uomo disperato. Qualcosa che obbliga gli astanti a rifuggire il suo sguardo, presi da una sorta di senso di colpa che gli comprime le menti. Colpevoli di nulla, per altro, ma agli occhi dell’uomo disperato colpevoli di essere felici.

Analizziamo per qualche attimo la parola ‘disperato’. In questo caso si tratta di una persona privata del suo Cuore, dei sentimenti che prova e sente nei confronti degli altri. La ragione? Forse la conoscete già. E sì, non parlo del cuore che palpita, il muscolo che pompa il sangue ossigenato nelle vene. No, quello è necessario, ma non vitale. Prenderete questa affermazione come futile e incoerente, ma aspettate che la frase giunga al termine, prima di giudicare.

Il cuore è necessario, il Cuore è vitale. L’uomo non esiste, senza emozioni. Non è nessuno, se non un involucro vuoto, che si muove per inerzia, che solca le strade del mondo con una ragione sovrana, sottile, distaccata, fredda.

Un morto vivente, ecco cosa. Un gelido corpo senz’anima. Tutta questa premessa ha un motivo valido. Non trovate anche voi estenuante, fingere di essere privo di Cuore? Privo di amore, di emozioni, di spirito? Non è estremamente ipocrita e innaturale? Perché pretendere di non essere se stessi? L’unica risposta plausibile è la paura. Paura di essere giudicati, derisi, spiati, scherniti. Paura di essere isolati.

Gaara ha smesso di dormire per questo. Ogni volta che la sua testa tocca la superficie fresca del cuscino i suoi occhi si sgranano, come se il letto fosse sinonimo di rimorso. Non riesce a chiudere le palpebre e sognare, se non sotto sonniferi efficaci. E per questo si reputa un drogato. Nessuno sembra smentire la sua affermazione, comunque. A pochi interessa la storia delle occhiaie di lui, dei capelli scompigliati e delle sue iridi sempre più vacue e stanche.

Lui è un frocio, a nessuno importa. Digrigna i denti, Gaara, spostando lo sguardo verso terra, a quel pensiero. E’ in metropolitana, ascolta la voce lenta e strascicata dell’autoparlante. La prossima fermata è la sua. Quando pensa non censura gli insulti. No, preferisce ripetersi le parole nella sua mente, come per assuefarsi. Frocio, finocchio, bastardo, addirittura scherzo della natura. Forse spera di narcotizzare la punta di ostilità che si accende all’altezza del petto, in qualche modo.

Ripiega veloce il giornale, guardando fisso di fronte a sé. Le luci passano rapidissime, la galleria è rischiarata di tanto in tanto da bagliori accecanti e fastidiosi. Si massaggia le tempie, sempre più stanco. Un’altra giornata di lavoro è terminata, e lui non può che compiacersene. Eppure quella soddisfazione viene schiacciata da un’ira cieca, che lo assale appena varca la porta di casa sua. Sa già che, appena messo piede nella sua dimora, qualcosa gli salirà dalle viscere, fino ad intaccare la sua mente. Qualcosa che lo divora, da dentro.

Il suo Cuore. Sospira, scendendo mollemente dalla metro, chiamando un taxi per farsi portare a casa. Agli occhi estranei non è nessuno, se non un ragazzo giovane, forse fin troppo smunto e trascurato. Nel momento in cui la relazione diventa più stretta, il ragazzo obbliga sé stesso a dire la verità. Perché dovrebbe mentire, se già al mondo ci sono abbastanza bugiardi?
E  fino ad ora, nessuno ha mantenuto i contatti con lui. Perché è frocio.

Digrigna i denti, nervoso. Sente già la sensazione percuotergli le membra. Gira la chiave nella toppa, apre la porta e la richiude con un gesto secco alle sue spalle. Per un secondo pare rimanere lucido, fissa il suo clone alla specchio. Quell’immagine lo fa cadere in ginocchio, non prima di aver gettato per terra la grossa superficie riflettente. Perché non si riconosce, Gaara. Quello non è lui, ma solo un fantoccio.

Respira affannosamente, sbattendo le palpebre innumerevoli volte. Nulla. L’ira non pare scemare. Digrigna i denti e stringe i pugni. Quella furia che ha in corpo cresce ogni istante. Mai, e dico mai, Gaara ne ha provata così tanta in una notte. Prende il giaccone ed esce, chiudendosi la porta alle spalle.  I cocci di vetro ancora sparsi per terra sembrano riflettere un monito per la stanza, ignorato dall’intera esistenza del ragazzo. Non privarti del tuo Cuore. Uscendo da casa sua persino l’eco di quel consiglio svanisce.

 

Sedersi al bar e ordinare un bicchier d’acqua attira le attenzioni degli altri clienti, questo è poco ma sicuro. Sono altri giudizi, ragazzi, di poco conto, ma pur sempre giudizi. C’è chi si chiede perché lo fa – deve portare qualcuno a casa? Sta male? - , c’è chi lo canzona mentalmente – che sfigato, non regge -, chi annuisce a quel gesto di responsabilità giovanile – forse non sono tutti persi, questi giovani, forse – e c’è chi invece lo serve senza farsi domande, tanto gli basta che paghi. Si guarda intorno, poco interessato. In quel bar ci sono sempre le solite quattro facce, persone senza via di scampo. Non hanno imparato a non affidarsi all’alcol, nei momenti di dolore. Perciò non hanno modo di uscire dal baratro in cui loro stessi sono caduti. Gaara pare guardarli con disprezzo, quasi risentito. E questi stronzi si reputano migliori di me? Perché alla fine è logico che tanto dolore sfoci in odio. Agli occhi di Gaara, arrossati dalla ferita inferta al suo orgoglio, quelle persone valgono meno di niente. Non capisce, e non capirà mai cosa non va in lui, perché in effetti, non c’è niente di storto.

Manda giù un lungo sorso di acqua fresca e appoggia il bicchiere sul bancone, lentamente. Affossa le mani nei capelli rossi, richiudendosi su se stesso, in se stesso. I suoi occhi scorgono il legno scheggiato del tavolone, e quella visione un po’ lo rassicura. Si è sempre considerato la spina nel fianco di qualcuno. Essere talmente fastidioso da non poter essere dimenticato ha sempre giovato alla sua ira. E’ un toccasana, una sorta di balsamo tranquillizzante. Che sa di menta. Lui ama la menta, cazzo. Gli ricorda l’infanzia.

“Ho lasciato Shikamaru, fratellino. Troppo apatico, troppo infame.” Una ragazza bionda si siede accanto a lui, soffiando. Gaara si gira appena a guardare il suo viso stanco, per poi tornare al tavolo scheggiato. Quella vista lo calma, non ne capisce nemmeno lui il motivo. Forse gli rimembra lo specchio, i tanti vetri che ha gettato a terra, in un impeto d’ira. Temari, così si chiama la sorella, ordina qualcosa di forte, allungando il collo e la mano verso il barman. Lui sorride, prima di preparare quello da lei richiesto. Si conoscono già, la giovane frequenta quel bar forse da un paio d’anni. Temari non ha mai nascosto il sollievo ricavato da un bicchierino con gli amici, o in questo caso, con il fratello.

“Mi dispiace per te.” Gaara annuisce, il tono lapidario di chi vuole mostrare la propria indifferenza. Ma lei lo conosce, non si fa scoraggiare.

“Gaara, devi smetterla d’isolarti.” Sussurra, più tra sé e sé che per lui. Il dolore del fratello è qualcosa che non riesce a sopportare, qualcosa di malsano, che gli rode gli organi, che divampa inestinguibile. Ci vorrebbe una sorgente d’acqua pura, qualcosa che riesca a placare quel sentimento d’odio che si porta appresso come il suo miglior amico. Perché non ha che quella rabbia, lui, che quel dolore. E Temari non riesce a comprenderlo.

“Ho parlato con Kankuro, sai? Lui dice che…” non fa in tempo a concludere la frase che il disagio di quell’affermazione le stringe il cuore. E’ costretta ad abbassare gli occhi, imbarazzata. Gaara sorride, ironico. Emette un verso dal significato inequivocabile. Fa schioccare la lingua contro il palato e si alza, il rumore dello sgabello sul pavimento fa torcere il collo a qualche curioso.

“Non fare così, fammi almeno finire …” sembra una supplica, quella di lei. Poggia la mano d’istinto sull’avambraccio di lui, chiedendo implicitamente di restare. Gaara scrolla il capo, ridendo. E’ esasperato.

“Smettila, cazzo. Lasciami vivere. So bene cosa pensa di me Kankuro. E non voglia neanche la tua stupida commiserazione.” La mano di Temari scivola via, lentamente. Un groppo in gola che stenta ad essere trattenuto, il capo chino e un sospiro lungo. Perché non essere accettati dagli estranei è complicato da sopportare, ma dalla propria famiglia è quasi impossibile. Deglutisce, Temari, vedendolo abbandonare la sala. Lei vorrebbe dirgli che le è vicina, che è sua sorella e che Kankuro è suo fratello. Che a nessuno dei due importa com’è. Eppure non ci riesce, non è capace di mentire a se stessa. Non è come Shikamaru, lei.

“Pago io per lui.” Dice, sorseggiando il drink ghiacciato che le ha appena servito il barman. Poi dà un’occhiata al bicchiere del fratello. Un dito d’acqua naturale è quello che resta della sua ordinazione. L’angolo della bocca si tira in un sorriso intenerito. Gaara non cambierà mai, nessuno riuscirà a cambiarlo.

 

Si è seduto sulla panchina della stazione, solo e muto. Guarda i binari vuoti, di fronte a sé, senza riuscire veramente a pensare a qualcosa. E’ perso, come è perso il suo Cuore. Lontano da tutti, in un isolamento volontario. Ma lui se ne fotte, a lui non importa più di nessuno. Starà bene da solo, dopotutto ha sempre vissuto in quel modo. Non farà alcuna differenza se per un giorno, o per una vita. Anzi, ha deciso. Per lui non esisterà nemmeno il tempo. Si annulla, cancellato, tanto si sta limitando a camminare in quel fottuto mondo senza lasciarci davvero un segno. Si sta volutamente privando della sua anima, pur di essere accettato. E quella consapevolezza – perché lo sa, anche se non vuole ripeterselo – lo fa soffrire immensamente.

Finalmente pare accorgersi dei binari. Ogni tanto c’ha pensato, di buttarsi e farla finita. Sarebbe un incoerente a non ammetterlo. Non l’ha mai detto a nessuno, perché non ha mai creduto che a qualcuno potesse interessare la sua esistenza. Forse mancherebbe solo a Temari. Kankuro, bè, non vuole saperne di lui. Non vuole vivere all’ombra di una bugia solo per far piacere a lui, solo per farsi apprezzare. Ha già lottato abbastanza, ora non ne ha più voglia. Le forze l’hanno abbandonato, ad ogni tentativo di farsi amare Gaara sprofondava in una voragine più profonda, più oscura. Mai una mano l’ha sollevato, mai gli è stato dato un appiglio. Che se la vedesse da solo, molti sono come lui. Sorride, nella solitudine della stazione. Ride di quel come lui, pronunciato con un sibilante e sottile disprezzo. Come se fosse una specie diversa, una razza malsana. Cazzate, enormi cazzate, ma che piacciono molto agli ignoranti.

Guarda l’orologio, distratto. Alle 23.00 passerà il treno per andarsene da lì, e lui è deciso a prenderlo. Di fatto non ha che pochi soldi, nel portafogli, un documento e i vestiti che ha addosso, ma basteranno per un week end lontano dalle facce note, lontano da casa sua.

Non è un dramma, non sentire propria la dimora in cui si vive? Respira lento, scandendo nella sua mente i secondi. Pochi attimi e sarà momentaneamente libero. Ogni tanto capita che prenda e se ne vada. Almeno una volta al mese prende un treno diverso, e sparisce per due giorni. Torna il lunedì, giusto in tempo per andare a lavoro. Ad ogni ritorno sembra pronto per sopportare un altro mese di finzioni e menzogne. In qualche modo ritrova la sua forza, la sua lucidità.

“E’ libero?” Si è appena seduto a metà del vagone, abbandonando le membra allo schienale, quasi sollevato. Gaara torce appena il collo, per vedere chi ha deciso di rovinargli il momento di solitudine. Un ragazzo dai capelli biondi, occhi chiari e sorriso quasi snervante gli si pongono davanti come una luce abbagliante. Non l’aveva mai visto, rimane leggermente sorpreso. Quanto sole, quanta vita.

Ci vorrebbe una sorgente d’acqua pura, qualcosa che riesca a placare quel sentimento d’odio che si porta appresso come il suo miglior amico.

“Ci sono un sacco di posti liberi.” Dice, accennando allo spazio rimasto vuoto attorno a lui. Saranno una decina in tutto, i passeggeri, compresi loro due. Il ragazzo sconosciuto ride, grattandosi il capo. Gaara sembra stizzito da tanta felicità. Gli dà fastidio, quasi fosse invidioso di lui e della sua capacità di andare avanti.

“Non mi piace stare solo.” Dice lui, scavalcando di forza le gambe del giovane, senza dare peso a quelle parole scoraggianti. Gaara soffia, irritato, ma silenzioso. Non vuole mostrare i suoi sentimenti, anche perché si considera vuoto.

“Bene, dato che il viaggio sarà lungo, che ne dici di fare conversazione? Sono Naruto, piacere.” Gaara non risponde, fingendo di non vedere la mano abbronzata dello sconosciuto protesa verso di lui. Con un sorriso risentito la fa scivolare lentamente sul bracciolo. Si mette a guardare fuori dal finestrino, appoggiando il capo al palmo della mano. Sbuffa, annoiato.

“Non so che cosa tu abbia, ma dovresti essere positivo.” Gli dice, voltandosi improvvisamente verso di lui, gli occhi ridotti a due fessure intestardite, quasi volesse spronare Gaara. Notare che si sono appena conosciuti. Sembra estremamente espansivo ed estroverso, due caratteristiche che Gaara non ha mai apprezzato, probabilmente perché non le hai mai possedute.

“Ci sono posti liberi, ti ripeto. E altri passeggeri.” Dice lui, voltandosi dall’altra parte. Non è dell’umore adatto per parlare, non ora che cerca di ritrovare un po’ di resistenza al prossimo mese. Il biondo non demorde, attratto da quel silenzio.

“Ci conosciamo, io e te?” Gaara arcua un sopracciglio, leggermente sorpreso dalla domanda. Non ha mai conosciuto nessuno di nome Naruto, lui è il primo.

“No, non ci conosciamo.” Il tono apatico e indifferente in cui lo dice non tradisce la sua curiosità. Perché dopo anni di finzione, è bravo, a recitare.

“Ah, peccato.” Sembra deluso, si gratta il mento e alza gli occhi al cielo, come per riflettere. “Forse mi assomigli, ecco perché credevo di conoscerti.” Gaara si cruccia, alzando il collo appoggiato allo schienale del sedile. Non capisce perché lui continui a seccarlo, perché continui a parlargli, perché non smetta di fare considerazioni e affermazioni su di lui, come se lo conoscesse da sempre.

“Perché mi disturbi? E io e te siamo diversi. Io non do aria alla bocca inutilmente.” Non ha mai parlato così tanto, Gaara. Forse non si è mai sentito così in dovere di farlo. Quel ragazzo sembra aver spazzato via le sue difese, con la forza di un fiume in piena. Il deserto che è la sua anima ne aveva bisogno. Infinitamente bisogno. Lo bramava, desiderava un po’ di acqua pura.

“Bè, mi incuriosisci. E poi, qual è il problema? E’ strano che io voglia far amicizia con te? Stiamo viaggiando insieme, che male c’è?” dice, alzando le spalle, guardando il compagno di viaggio risentito e crucciato. Gaara si massaggia le tempie, non riuscendo a comprendere.

Perché non ha che quella rabbia, lui, che quel dolore.

Non ci riesce perché nessuno gli ha dato la possibilità di essere pienamente se stesso. Nessuno è mai stato così naturale, così spontaneo, con lui. Deglutisce, chiudendo per un secondo gli occhi. Lo sa perché è così tranquillo, Naruto, perché non sa che lui è gay. Insomma, certe rivelazioni fanno il loro effetto, in qualsiasi caso, con chiunque. Anche con la persona più buona presente sulla terra. E allora diciamolo, cazzo, a questo idiota. Diciamoglielo e togliamoci il sassolino dalla scarpa. E’ un po’ una sua teoria, questa. Vedere come le persone cambiano dopo notizia simili. Vedere dapprima la sorpresa, poi la diffidenza, poi il sorriso di circostanza che dipinge loro il volto. Ipocriti e falsi uomini.

“Sono gay.” Dice guardandolo fisso in volto. Naruto torce il collo, leggermente. E’ sorpreso, molto, ma non si ritrae.

“ Scusa, eh, ma tu ti presenti così, alle persone? No perché prima dovresti dire il tuo nome.”

 

“Dov’eri finito?” Il biondo si appoggia al bracciolo, irato. La sua espressione esprime tutto il suo rancore, quasi lui gli avesse dato buca. Gaara non si aspettava certo di rivederlo, questo è sicuro. E’ passato un mese e dopo quel viaggio non si sono più rivisti. Ognuno è andato per la sua strada, ma quelle ore passate a parlare l’avevano reso sopportabile, quasi piacevole. Gaara non lo saluta nemmeno, sedendosi con un tonfo accanto a lui. Prende sempre il treno delle 23.00, solo che sono passati trenta giorni, dall’ultima volta.

“Che vuoi da me?” gli dice, guardandolo di sottecchi. Sembra che le occhiaie si siano diradate, o abbiano almeno acquistato un colore più sano, quasi rosato. Come se qualcos’altro gli avesse tolto il sonno. Non i pregiudizi della gente, ma quella testa bionda e quegli occhi azzurri.

“Cavolo, sempre nervoso, eh?” domanda retorica, logicamente. E’ ovvio che lo sia. Naruto soffia, esasperato, ritornando a guardare il treno muoversi lentamente sui binari.

Gaara non parla, non saprebbe cosa dire. Non ha mai provato queste sensazioni e non ha voglia di perdere quel sapore di nuovo che gli lasciano. Qualcosa di fresco, che nel suo immaginario acquista il profumo di menta. Ama la menta, ed è strano che associ quell’odore a lui, a Naruto. Schiocca la lingua, distogliendo lo sguardo dalla chioma bionda del giovane.

“Volevo chiederti se ti va di venire con me, questa volta.” Si volta come la prima volta, guardandolo speranzoso. Gaara si ritrae appena, non si aspettava quella domanda.

“Perché? E’ comunque no. Ho da fare.”

“Non mi va di stare solo, ricordi? E tu mi stai simpatico.” Aggiunge, naturale. Sta celando a se stesso i suoi sentimenti. Non gli sta solo simpatico, ma vedrà di farselo bastare, per ora. Gaara non sembra il tipo da aprirsi facilmente, e lui vuole che il giovane si fidi di lui, che lo riconosca come amico, che lo apprezzi. Che lo consideri la sua acqua pura, la sua menta.

“Portati un amico, la prossima volta.” Gaara si accomoda meglio nel sedile, affossandosi nello schienale, chiudendo gli occhi.

“Ah, lo sapevo che avresti risposto così.” Sorride, dandogli un pugnetto sulla spalla. Lui lo considera già un amico, Gaara è rimasto molto indietro, sulla tabella di marcia. Non importa, Naruto aspetterà anche mesi, anni, purché lui si faccia conoscere. Perché l’ha capito, è bastata qualche ora.

Gaara è estremamente solo, ma estremamente tenacie. Sopporta, dilaniando se stesso e la sua anima. Naruto lo ammira, e gli pare di essergli affine. Un tempo anche lui era stato così. Senza nessuno a cui confidare da che parte pendeva il suo Cuore. Poi li aveva trovati, uno ad uno, gli amici. E giorno dopo giorno, si era creato il suo spazio, la sua vita in mezzo agli altri. Ora non era solo, non era più come Gaara.

“Te l’ho detto, siamo simili, io e te.” Risponde sorridendo allo sguardo accusatorio ed esasperato che il compagno di viaggio gli lancia.

“ E non fare quella faccia, ho un po’ di cose da dirti.” Aggiunge, continuando a guardarlo.

 

All’inizio credeva di farlo più per se stesso, Naruto. Per dimostrare a Gaara che non si vive in solitudine, che tanti lo amerebbero se lui lasciasse una porta aperta. Poi si era ricreduto, lentamente. Lo faceva perché si era innamorato, e non gli dispiaceva rendersene conto.

“Com’è stato conoscermi, Gaara?” Il giovane lo guarda arcuando un sopracciglio, una mano appoggiato all’anca e l’espressione sempre meno stanca. Inizia a dormire, placido, libero. Si sente meglio, e viaggia di più.

“E’ stato come bere un bicchier d’acqua.” Dice, sedendosi sempre al suo solito posto. Non si salutano nemmeno più, quando s’incontrano. A quella risposta Naruto pare leggermente deluso, fraintendendo la sua affermazione. Non sa cosa significa per Gaara, quell’espressione. Temari sarebbe contenta di vedere attingere la sua forza da un fonte che non è l’odio, o l’apatia. E se la fonte di turno è un ragazzo biondo, bello, ed estremamente determinato, la cosa è ancora più piacevole.

“Ah.” Mugugna il biondo, ricomponendosi nel sedile, mordendosi un labbro. “Pensa che per me non è stato affatto facile. Sono venuto qui tutti i week end prima di capire che viaggi una volta al mese.” Gaara si irrigidisce, stringendo i braccioli?

Perché? Perché l’ha fatto? Perché continua a farlo?

“E per quale motivo?” pronuncia, lentamente, cercando di dissimulare quella strana sensazione che lo prende all’altezza del petto.

“Oh, bè, a me pareva ovvio.” Ridacchia, Naruto, sporgendosi verso di lui. Un bacio. Semplicissimo, bellissimo, magnifico bacio. Appoggia le labbra su quelle di lui, e si ritrae, rosso in viso.

“Ora spero sia ovvio anche a te.” Aggiunge, guardando fuori dal finestrino. Gaara rimane fermo sulla sua poltrona, senza più riuscire ad emettere suono. Fa persino quasi fatica a respirare.

Non privarti del tuo Cuore. Non privarti del tuo Cuore. Non privarti del tuo Cuore.

Stringe i denti, sgrana gli occhi. Ha capito, ha compreso, finalmente. Sa cosa significa essere liberi dalle proprie paure. Da ciò che l’ha sempre chiuso in quel mondo fatto di cocci di vetro.

“Se la proposta del mese scorso di venire con te è ancora valida, l’accetto.” Dice, annuendo, senza però guardarlo negli occhi.

 

Casa sua era sempre stata vuota, anonima. Un po’ come quel corpo che costringeva ad alzarsi al mattino, che lo portava al lavoro, che sforzava davanti al pc. Naruto ha risvegliato quell’idea di pace che era nascosta in un angolo della sua mente. Si era lasciato disarmare, mese dopo mese, in quel treno. Poi non solo più lì. A casa del biondo, davanti a Temari, persino davanti a Kankuro. Però non aveva reagito con irruenza, non aveva mai più rotto un vetro. Ci sono voluti anni prima che Gaara riuscisse ad apparire sereno, senza l’ombra di quel dolore portato per una vita intera, prima dell’arrivo di Naruto. Non è stato facile, per il giovane Uzumaki, sopportare quell’animo così pregno di dolore. Non come bere un bicchier d’acqua, certo. Decisamente più complicato e lungo.

Ma ha un Cuore, cazzo, questo che conta. L’ha ritrovato e non ha alcuna intenzione di lasciarlo scappare via. Naruto sorride, servendogli un bicchiere d’acqua e sedendosi di fronte a lui.

“Non mi piace che tu beva birra.” Afferma Gaara, accennando alla bottiglia che lui tiene in mano. Naruto per tutta risposta ridacchia, e trangugia un bel sorso pieno. Poi poggia la bottiglia sul tavolo, non mollandone la presa.

“ E allora toglimela, Gaara, visto che ti dà così fastidio.” Il giovane arcua un sopracciglio, rimanendo apatico. Poi si alza e afferra la bottiglia verde, rapido. La poggia sul lavabo, incrociando le braccia.

Facile come bere un bicchier d’acqua.” Dice, accennando un sorriso sghembo. In fondo Naruto sa che Gaara ha ritrovato il suo Cuore per merito suo, ma forse non è consapevole che il rosso la pensa diversamente. Naruto non ha ritrovato il suo Cuore, Naruto è il suo Cuore. Prima o poi, forse più poi che prima, Gaara glielo dirà.

 

Fine.

 

 

 

Cose da sapere/dedotte:

#1. Questa shot era dedicata all’omosessuale. Vi sarete domandati perché, dopo tre modelli ‘astratti’, quali l’illusa, l’infame e la perdente io ne abbia mostrato uno così concreto. Bene, il motivo c’é. A parte il fatto che l’idea è stata concepita di getto, e che i primi quattro modi d’essere che mi sono venuti in mente sono stati questi, ho deciso di mantenere l’omosessuale perché è il prototipo perfetto dell’isolamento. Dei pregiudizi, detto in modo banale. Voglio rappresentare questa diffidenza, in questa shot. Un po’ come chi si basa sull’illusione, per andare avanti. Chi si aggrappa all’infamia, per difendersi. Chi si lascia morire, come i perdenti. E chi per farsi accettare si isola, o si trasforma, o abbandona la parte fondamentale della sua vita: i sentimenti. E’ per questo che ho scelto questo quarto modello di vita, solo per questo. Non ho strani intenti cospiratori o offensivi, e spero non siano stati indotti da qualche mia frase.

2# Piccola precisazione, ma importante. Probabilmente crederete che Gaara sia OOC, e per un tratto mi è sembrato tale, ma il fatto che lui si apra con Naruto  non significa che sia diventato improvvisamente estroverso, ma che abbia trovato il suo personale modo di esprimersi. Probabilmente in certe parti assomigliava a Sasuke, per il modo sarcastico di rispondere, ma dovevo farli interagire, e il tentativo persistente di Gaara di allontanare Naruto con frasi scoraggianti è quello che più mi ha convinto. Se è OOC, comunque, non fatevi scrupoli e ditemelo, in questo modo cercherò di migliorare. E per quanto riguarda Naruto, ce lo vedo bene nella parte della persona espansiva, poiché in effetti lo è, e non lo nasconde affatto.

#3 Come avrete notato, la coppia è yaoi, NaruGaa o GaaNaru, una delle poche che apprezzo e che apprezzerò mai in vita mia. Non so perché, ma ce li vedo bene insieme. Sono simili, per quanto diversi. La stessa faccia della medaglia. Anche nel Manga e nell’anime questa somiglianza e attaccamento era sottolineato più volte ed era molto marcato. Quindi ci sono andata a nozze, trovandone le possibili analogie e differenze. So che molti di voi non apprezzano la coppia, ma prendetela come è venuta. Spontanea, come la shot.

4# E’ presente più volte la similitudine dell’acqua e della fonte. Se volete saperne il motivo, ve lo spiego subito. C’è un riferimento al contesto di Naruto, ovvero al Villaggio della Sabbia e a quello della Foglia. Sapete benissimo che Gaara arriva da un villaggio in mezzo ad un deserto, caldo,  privo di qualsiasi sorgente d’acqua. Bene, ho voluto rappresentare questo lato della loro conoscenza con la metafora della fonte. Insomma, Naruto ha dato la vita al deserto di Gaara, non lo pensate anche voi? E poi mi è stato servito il riferimento su un piatto d’argento, non potevo non inserirlo in qualche modo.

 

Bene, termina qui questa raccolta. Spero in modo indolore e senza tante cadute di stile. Spero vi sia piaciuta, e che non vi abbia fatto storcere il naso troppe volte. Vi ringrazio ancora per tutto, e vi chiedo scusa per gli eventuali errori di battitura e di grammatica. Sono stata attenta, ma questo pc nuovo non ha il correttore automatico, dato che non ha il pacchetto Word. Sì, sì, prima o poi alzo il sedere dalla sedia e vado a comperarlo. Alla prossima,

Glob <3

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