I wanna grow in your garden

di Roxe
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Deduction I ***
Capitolo 2: *** Deduction II ***
Capitolo 3: *** Deduction III ***
Capitolo 4: *** Deduction IV ***
Capitolo 5: *** Deduction V ***
Capitolo 6: *** Epilogue ***



Capitolo 1
*** Deduction I ***


Disclaimers: I personaggi da me trattati appartengono in primis a Sir Arthur Conan Doyle, che ha avuto la grazia d'inventarli alla fine del 1800, in secundis alla BBC ed ai suoi ottimi sceneggiatori che hanno deciso di riadattare l’originale in chiave moderna, in terzis (non so e se esiste) agli attori Benedict Cumberbatch e Martin Freeman, che hanno dato loro le fattezze e l’interpretazione che mi hanno ispirato questa storia.

NB I fatti narrati in questa storia sono grossomodo coevi a quelli della serie BBC, quindi nonostante la categoria 'slash' e l'introduzione decisamente strong, che potrebbe far pensare diversamente, tra Sherlock Holmes e John Watson non esiste alcun tipo di relazione sentimentale, sessuale o amorosa all'inizio della fic. I loro rapporti sono esattamente quelli che abbiamo visto nella serie TV.

 

 

Deduction I

 

 

TOC TOC

Il secco suono di due nocche ossute che sbattevano sul legno della porta rimbombò lungo le scale, seguito da una voce squillante e soffusa allo stesso tempo, nella quale si avvertiva già una sfumatura d’impazienza.

- Sherlooock! Lo sa che giorno è oggi vero?

Dall’interno dell’appartamento nessuna risposta.
Non che la cosa suscitasse alcuno stupore nella signora Hudson del resto, la quale ogni mese si avvicinava a quella porta conoscendo la sequenza degli avvenimenti con precisione minuziosa, pur senza avere la benché minima capacità deduttiva.

- Lo so che siete ancora in casa! Sarebbe molto cortese da parte vostra evitarmi problemi almeno questo mese!

John Watson fissò il suo coinquilino con aria rassegnata, poggiando la sua tazza di tè ancora fumante sul tavolo ed assaporando ancora per qualche secondo la sensazione delle sue membra intorpidite dal sonno adagiate sulla sedia della cucina, nella segreta e vana speranza che l’interpellato si decidesse a rispondere ai richiami della sua padrona di casa.
Vana speranza senza dubbio.
Sherlock Holmes non mostrò il minimo interesse per le lamentele soffocate che filtravano dalla porta, rimase seduto di fronte a lui, avvolto nella sua comoda vestaglia, le orecchie totalmente imperniabili, sorseggiando il suo tè senza staccare gli occhi dalla pagina di giornale che stava leggendo, come se al mondo non esistessero nient’altro che quel tè e quel giornale.

TOC TOC TOC

Il suono si fece più deciso ed aggressivo.

- Sherlock! Mi sto arrabbiando!

John Watson fece un sospiro, allungò le gambe sotto il tavolo e rilassò la schiena sulla sedia per una manciata di attimi, per poi chinarsi in avanti di colpo, poggiare le mani sul tavolo ed alzarsi con lentezza, pronto a tamponare l’ennesima falla nell’imperfetta vita di un genio.

- Siediti.

La voce di Holmes suonò fredda e priva d’inflessione, come sempre. Non staccò nemmeno per un istante gli occhi dall’articolo che stava leggendo.
Ed ovviamente lo stava leggendo.
Mentre parlava. Mentre ascoltava senza volerle sentire le urla educate della signora Hudson. Mentre intuiva senza sforzo le intenzioni di Watson.
La sua RAM reggeva una quantità di programmi aperti contemporaneamente senza grossi problemi.

- Oh andiamo! Vuoi lasciarla là fuori a strillare tutto il giorno? Tanto dovrai pagarglielo l’affitto prima o poi!

-Certo che dovrò pagarglielo. E voglio pagarglielo.

I suoi occhi attenti e vigili continuavano a restare fissi sul giornale, muovendosi da destra a sinistra velocemente.
- Ciò che non intendo pagarle è il mostruoso aumento che ha deciso d’infliggerci quest’anno senza nessuna concreta ragione.

John tornò a sedersi, corrucciando lievemente le sopracciglia, perfettamente cosciente che Holmes avrebbe comunque colto la sua espressione rassegnata, pur senza staccare gli occhi da quel benedetto giornale.

- L’inflazione c’è per tutti Sherlock, anche per la signora Hudson…

- La signora Hudson prende un affitto più che congruo per l’abitazione che ci offre, non ho nessuna intenzione di pagare un centesimo di più.

- Stai schermando vero? Ci fa pagare una miseria se consideri la zona in cui ci troviamo!

- Sciocchezze. L’altro giorno dal fruttivendolo ho incontrato una donna che-…

TOC TOC TOC

- Dal fruttivendolo?!...

- Sì, dal fruttivendolo. Questa donna mi ha raccontato-…

- Cosa diamine ci facevi tu dal fruttivendolo?!

- Stavo facendo un test sulla quantità d’arsenico che si può ricavare dagli ortaggi coltivati in alcune zone del Sussex, la smetti di fissarti su questioni del tutto irrilevanti? Il punto è che questa donna mi ha detto di pagare solo 478 sterline al mese d’affitto, e abita proprio qui in fondo alla strada.

-Sherlock Holmes! Apra subito questa porta!

- A-arsenico nella verdura?... Dobbiamo comunicarlo alla polizia?...

- Concentrati John. Quattrocentosettantotto sterline! È meno di due quinti di ciò che paga ciascuno di noi per la sua porzione d’appartamento, nonché soltanto tre decimi del tuo misero stipendio di medico del consultorio, che tradotto in modo che tu possa capirlo rende semplicemente un furto ciò che noi dobbiamo sborsare alla signora Hudson ogni mese.

- Ah… aspetta, in fondo alla strada hai detto? Non starai mica parlando della signora Chapman?...

-Non ho nessuna idea di quale sia il suo cognome. Bassa. Capelli biondo cenere schiariti con meches dozzinali. Soprappeso. 26 anni circa. Lieve strabismo all’occhio sinistro. Sposata da poco. Incinta da tre settimane. Ma non lo sa ancora.

-  Sì è la signora Chapman. C’incontriamo spesso quando vado a fare la spesa. È ovvio che paghi pochissimo d’affitto, lei e il marito sono una coppia appena sposata, ed hanno una serie di agevolazioni statali sull’affitto della prima casa.

- E va bene! Continui pure a far finta di non sentire! Ma non si libererà di me tanto facilmente!
Tornerò qui nel pomeriggio e guai a lei se non avrà pronti i soldi!

- VA BENE MRS. HUDSON! ALLE QUATTRO IN PUNTO!

L’urlo potente di Holmes rimbombò per tutta la casa, facendo sobbalzare John Watson sulla sedia, come sempre impreparato ai repentini cambi di rotta del suo imprevedibile coinquilino.

- Quindi mi stai dicendo che due persone solo perché sono sposate pagano una miseria d’affitto, mentre se vivono solo in coabitazione vengono liberamente vessate dai loro padroni di casa?

John cercò di darsi un tono, sollevando la sua tazza di tè ormai tiepido e portandola alle labbra, nel tentativo di non mostrarsi spiazzato dall’improvviso cambio di voce del suo interlocutore, che era passato senza soluzione di continuità da un urlo feroce alla consueta voce bassa e priva di tono.

- P-più o meno è così… sì…

Mentre Watson terminava di pronunciare la sua frase a mezza voce Sherlock abbassò di scatto il giornale, poggiando contemporaneamente la sua tazza di tè sul tavolo con un colpo secco che fece schizzare qualche goccia del liquido scuro sulla tovaglia color ocra. I suoi occhi si fissarono in quelli dell’amico, con un’espressione incredibilmente seria, e rimase immobile per svariati secondi, senza muovere nemmeno un muscolo in tutto il corpo.
Il dottore cercò di sostenere quello sguardo più a lungo possibile, rinunciando a chiedersi il perché di quella sfida non verbale, finchè non perse la battaglia ed abbassò gli occhi sulla sua tazza di tè, portandola alla bocca e sorseggiandone qualche goccia, nell’inutile tentativo di sembrare distratto.

- Vuoi sposarmi, John?

Per qualche ragione fisiologica l’epiglottide è la prima parte del corpo che cessa di funzionare correttamente quando il cervello è sorpreso da un’intensa emozione, e quelle poche gocce di tè che Watson aveva appena ingerito finirono inevitabilmente nel condotto sbagliato, portandolo a tossire furiosamente nel tentativo di espettorare la bevanda calda dai bronchi.
Una sorta di risata mista a tosse uscì dalla sua gola mentre cercava di non farsi soffocare dal tè.

- M-ma che… COUGH!... diavolo!... COUGH!

Tra un accesso di tosse e l’altro riuscì a sollevare lo sguardo verso Sherlock, guardandolo con espressione incredula, senza riuscire a smettere di ridere. E tossire.
Holmes continuava a fissarlo con la stessa espressione, nella stessa identica posizione.

- Sono serio.

- No, non lo sei! COUGH!

Continuando a ridere ed a tossire, John si diede un paio di pugni sul petto nel tentativo di riprendere il controllo del suo apparato respiratorio,  poi tornò a sollevare lo sguardo, aspettandosi che Holmes prendesse parte in qualche modo a quella scenetta ridicola.
Ma i secondi passavano e l’espressione di Sherlock non si era modificata in alcun modo.
Continuava ad osservare le sue goffe manovre perfettamente immobile, stringendo ancora la sua tazza di tè tra le dita.
La risata di Watson si spense lentamente. Soffocata.
Annientata da quello sguardo incomprensibilmente serio che restava fisso su di lui. Senza un movimento. Senza inspirare.
La tosse sparì all’improvviso.
Ma la gola si chiuse di nuovo, questa volta senza l’aiuto del tè.
Continuarono a fissarsi in silenzio per un tempo incalcolabile secondo le normali leggi della fisica.
Holmes cristallizzato in un momento nel tempo che sembrava protrarsi all’infinito.
John con la bocca lievemente socchiusa in un’espressione che si faceva ogni istante più incredula, finché dalla sua gola ancora irritata uscì un fioco suono gutturale involontario, che suonava quasi come una richiesta d’aiuto.

- Ah…

Driiiiiiiiin

Sherlock non mosse un muscolo.
Il telefono nella tasca della sua vestaglia iniziò a vibrare rumorosamente, tagliando il silenzio col suo squillo acuto e penetrante, senza provocare in lui la benché minima reazione.

Driiiiiiiiiin

John si scosse. Come risvegliato da quel suono.
Ma la bocca ancora socchiusa non riuscì ad articolare alcuna parola compiuta, gli occhi spalancati ed increduli fissi di fronte a lui.

Driiiiiiiiin

Holmes si alzò di scatto, spingendo con forza la sedia all’indietro ed allontanandosi dal tavolo a grandi passi, mentre frugava nella tasca alla ricerca del cellulare. Con un solo movimento del polso sollevò il telefono all’altezza del viso e lo aprì portandolo all’orecchio.

- Pronto?

Nessuna inflessione particolare nella voce, se non il fastidio di aver già intuito la ragione della chiamata.

- No.

L’ovvia e pronta risposta.
Qualunque fosse stata la domanda.

- No.

Troppo poco tempo tra un no e l’altro. Era ovvio che non provava il minimo interesse per qualunque cosa stessero dicendo all’altro capo dell’apparecchio.

- Assolutamente no.

La voce sempre bassa, intrisa di un senso di noia crescente che ne alterava impercettibilmente la tonalità.
John osservava la schiena di Sherlock, ascoltando il suono secco della sua voce, incapace di mettere insieme gli ultimi minuti della sua vita senza sentirsi pervaso da un vago senso di vertigine.
Gli capitava assai spesso ultimamente.
Era fin troppo facile lasciarsi improvvisamente sollevare dall’uragano Holmes per essere trasportato in uno dei suoi vorticosi processi mentali, tentando inutilmente di non farsi inghiottire dal vento, fino a quando l’inarrestabile forza centrifuga ti scaraventava fuori dal turbine lanciandoti in aperta campagna come la carcassa di un vecchio furgone.

- Va bene. Ci vediamo lì.

Conclusione atipica per una telefonata iniziata con una sequenza ininterrotta di ben tre no.
Sherlock girò su se stesso chiudendo il telefono con un rapido scatto, tornò nuovamente a sedersi al tavolo della cucina con un movimento brusco e puntò il dito indice verso Watson dall’altra parte del tavolo.

- Non te lo chiederò un’altra volta, John.

Cinque, sei, forse otto secondi.
Il dito puntato sul petto del dottore, appena sotto la bocca dischiusa dallo stupore.
Poi, veloce come si era seduto, Holmes si alzò nuovamente e si diresse a passo rapido verso la sua camera, abbandonando rapidamente vestaglia e pigiama in favore di un abbigliamento diurno.

-Datti una mossa e vestiti! Ci aspettano in centrale tra 20 minuti!

La risposta arrivò dopo svariati secondi, quasi impercettibile anche attraverso la porta spalancata.

- C-come?...

Un sonoro sospiro di rassegnazione uscì dal petto di Sherlock Holmes mentre si sistemava il colletto della camicia.
Scandì le parole una per una, come un insegnante infastidito che tenta di far entrare in testa un concetto semplicissimo al suo scolaro più lento.

- Ho detto… che l’ispettore Lestrade ci aspetta alla centrale. Vuole assolutamente propinarmi uno dei suoi insulsi e noiosi casi per i quali il mio contributo è totalmente e completamente sprecato, nonché superfluo.

Con enorme sforzo John riuscì a mettere insieme una risposta, ripetendola svariate volte tra sé e sé prima di riuscire a focalizzare compiutamente il contesto.

- Perché… l’hai accettato allora?...

- Perché mi servono i soldi per pagare l’affitto, ovviamente.

John Watson rimase immobile a fissare dritto davanti a sé ancora per qualche istante.
Poi si portò le mani al volto, rovesciò la testa all’indietro chiudendo gli occhi, e lasciò scorrere le dita verso il basso, molto lentamente.
Non appena la bocca fu libera dalla presa delle sue stesse mani dalla gola ancora roca uscì un flebile lamento.

- Oh dio…

 

 

 

 

Note:
1.  Il titolo della fic è la traduzione inglese di una frase della canzone Viva l’amor di Paola e Chiara, ovvero ‘voglio crescere nel tuo giardino’. La canzone non mi piace nemmeno granchè, e non sono una fan delle cantanti… >< Però quella frase mi è sempre piaciuta molto, al punto da sembrarmi quasi fuori luogo all’interno di una canzone pop dal testo piuttosto banale come quello.
Quando pubblicherò l’ultimo capitolo magari spiegherò anche meglio il significato che leggo in questa frase (farlo ora significherebbe spoilerare un po’ tutto il senso della storia… :P).

2. La fic è appena all’inizio… anche se è già tutta nella mia testa malata… XD Avevo anche pensato di finirla prima tutta e poi pubblicarla, ma poi ho pensato che probabilmente non sono nemmeno ad un quinto del tutto, il che mi ha fatto riflettere sulla possibilità di dividerla in capitoli, per la sanità mentale dell’eventuale lettore. XD 

3. L’intera scena della ‘proposta di matrimonio’ era apparsa nella mia mente in lingua inglese, ed una parte di me avrebbe voluto lasciarla com’era, visto che suonava meglio, e si adattava ovviamente di più al contesto. Poi però alla fine mi è parso ‘stonato’ lasciare solo quello scambio di battute in lingua ‘originale’ e scrivere tutto il resto in italiano… Anche perché non sarei stata in grado di fare altrimenti, essendo che io in realtà… non so l’inglese affatto! XD Solo che avendo visto l’intera serie in lingua originale mi sono abituata a sentir parlare inglese questi personaggi, e la fantasia lavora di conseguenza.
In ogni caso riporto il dialogo inglese originale così come mi è comparso nel cervello malato, visto che alla fine è stato lo spunto dell’intera fic:
-Would you marry me?
-What… COUGH…the hell! COUGH!...
-I’m serious.
-No, you’re not! COUGH!

4. Tra le varie fic ispirate a questa serie della BBC che ho letto sul sito (tutte molto belle devo dire, al punto di farmi tornare la voglia di scrivere… peggio per voi! XD), ho trovato particolarmente carina quella di Mikaeru, che illustrava anch'essa una proposta di matrimonio 'invertita' rispetto alla mia, tra l'altro in modo davvero intelligente e molto In Character secondo me. Devo qui ammettere di essere in parte debitrice di quella fic, perchè leggendo di sfuggita lo spezzone inserito nella pagina iniziale, dedussi (erroneamente... mica sono Sherlock Holmes io!) che la proposta era di Holmes a Watson, e da lì derivò la mia di idea. In realtà poi la fic e l'idea di Mikaeru erano completamente differenti, anche se altrettanto belle. Ma comunque la ringrazio per avermi ispirato!

5. È davvero un bel po’ di tempo che non scrivevo, quindi sono piuttosto arrugginita, abbiate pietà. :P

 

PS La richiesta dell'affitto da parte di Mrs Hudson, con relativa scarsa puntualità di Holmes nei pagamenti è quasi sicuramente una mia licenza poetica, perchè anche se nella serie BBC non si accenna mai alla questione, Arthur Conan Doyle racconta attraverso Watson che Sherlock Holmes paga una cifra astronomica di affitto alla signora Hudson, ed è questo il motivo per cui lei se lo tiene stretto come inquilino nonostante le sue molteplici stravaganze. Testualmente: "On the other hand, his payments were princely. I have no doubt that the house might have been purchased at the price which Holmes paid for his rooms during the years that I was with him."
Vista l'accuratezza della trasposizione BBC penso che la questione non sarebbe posta in termini diversi se dovesse saltare fuori. Ovviamente la mia era una esigenza di trama. XD

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Capitolo 2
*** Deduction II ***


Disclaimers: I personaggi da me trattati appartengono in primis a Sir Arthur Conan Doyle, che ha avuto la grazia d'inventarli alla fine del 1800, in secundis alla BBC ed ai suoi ottimi sceneggiatori che hanno deciso di riadattare l’originale in chiave moderna, in terzis (non so e se esiste) agli attori Benedict Cumberbatch e Martin Freeman, che hanno dato loro le fattezze e l’interpretazione che mi hanno ispirato questa storia.

 

 

 Deduction II

 

 

- Piove.

In piedi accanto al taxi che li aveva appena condotti alla centrale di New Scotland Yard, Sherlock Holmes osservava la pioggia venirgli incontro con la testa rovesciata all’indietro, fissando un punto indefinibile sopra le nuvole, completamente incurante delle copiose gocce d’acqua che si depositavano sul cappotto nero e tra le ciocche di capelli, scorrendogli lungo il viso.

- Già.

Watson si affrettò ad allungare una manciata di sterline all’autista, per poi  aprire l’ombrello e posizionarlo sulla testa di Holmes, stando ben attendo a non ostruire la sua visuale del cielo.

- Ehi amico! Così mi bagni tutti i sedili! Vuoi chiudere la maledetta portiera?! È pelle vera sai?!

- Ha ragione, ci scusi!

John appoggiò la mano libera sulla schiena di Sherlock, costringendolo con una lieve pressione a fare un paio di passi in avanti ed allontanandolo così dalla vettura tanto quanto bastava per poter chiudere alla meno peggio la portiera del taxi.
Congedò poi con un cenno del capo il conducente, che montò in macchina e ripartì con una sgommata, ragionevolmente spazientito.

- Prevedibile del resto, visto che in Inghilterra piove in media 106 giorni l’anno, di cui ben 71 nei mesi autunnali ed invernali.

John Watson sospirò.
Poi alzò lo sguardo, scrutando il cielo alla ricerca di quel punto indefinibile sopra le nuvole.

- Ottobre è una pessima scelta per un matrimonio.

Il dottore sgranò gli occhi, voltandosi lentamente a guardare Holmes.

Ma Sherlock non lo guardò a sua volta, abbassò semplicemente la testa e si mosse verso la centrale a grandi falcate.

Watson rimase in piedi sul marciapiede, con l’ombrello in mano.

Lo fissò mentre afferrava con decisione la maniglia e varcava l’ingresso sparendo poi all’interno dell’edificio.

Osservando la porta richiudersi lentamente con un flebile cigolio, John si scosse all’improvviso e scattò a sua volta verso l’entrata, riuscendo a bloccare il pesante vetro con una spalla qualche istante prima che si richiudesse del tutto, mentre con le mani strattonava febbrilmente l’ombrello, il quale sembrava non avere alcuna intenzione di chiudersi senza combattere.

Parecchi metri più avanti Holmes camminava ormai spedito lungo il corridoio della centrale, guardando fisso il pavimento davanti a se e muovendo distrattamente le mani mentre dalle sue labbra uscivano dei suoni più o meno indistinti a causa della lontananza.

Non aveva smesso di parlare, del tutto incurante del fatto di avere o meno un interlocutore.

Il dottore arrancò goffamente alle sue spalle, tentando di recuperare il terreno perduto, mentre cercava di vincere la sua battaglia contro l’ombrello ancora gocciolante che non voleva saperne di tornare alle sue dimensioni iniziali e infilarsi nella fodera.

- Maggio è il mese giusto per una cerimonia nuziale. La disponibilità floreale è la più varia.
Le invitate possono mettere in mostra i loro orripilanti e costosissimi cappellini senza paura di rovinarli. L’aria è tersa, i raggi del sole colpiscono l’Inghilterra con un angolo di 53°, scaldando l’atmosfera ed il suolo in modo perfetto. Gli uccellini cinguettano, la natura rinasce, i catering offrono la migliore selezione di pietanze.
E soprattutto non piove.  Per quanto possa non piovere in Inghilterra ovviamente.
È Maggio il mese giusto per un matrimonio.

Watson inspirò profondamente per ossigenare al meglio tutte le sue migliori capacità oratorie.

- Sherlock… ascoltami…

Era discretamente difficile riuscire a mantenere il passo di Holmes, tentare d’infilare il maledetto ombrello nella sua custodia, ed allo stesso tempo riuscire a mettere insieme un discorso logico.

- Senti… è…
È completamente assurdo quello che stai dicendo!
Non… non puoi volerti sposare solo per risparmiare sull’affitto! Non ha nessun senso!
Ci si sposa…   Ci si sposa quando un uomo e una donn-... cioè quando due persone sono innamorate! Quando hanno un progetto in comune, e vogliono passare il resto della vita insieme!
Qualcosa del tipo in salute e in malattia, in ricchezza e in povertà, e finché morte non ci separi, capisci?!
Non puoi ridurre tutto ad una deprimente questione catastale!
Io non credo proprio che-…

A quel punto Sherlock si fermò, voltandosi di scatto a guardare Watson.

E lui si fermò a sua volta, spaventato.
Ricambiò lo sguardo col fiato corto, come se avesse appena corso per cento metri.
Il dannatissimo ombrello ancora bagnato tra le mani, le labbra leggermente dischiuse.

Holmes lo fissò.
Con un’espressione sorpresa.
Poi scosse la testa, alzando gli occhi al cielo.
Come rassegnato.
Infine tornò a voltarsi e riprese a camminare a passo svelto, dandogli le spalle.

- È Maggio il mese giusto per un matrimonio, dicevo.
Non sembra dunque logico che la giovanissima figlia dell’uomo più ricco d’Inghilterra, nonché il settimo uomo più ricco dell’intero pianeta e proprietario di circa mezza città di Londra, organizzi le sue nozze in un freddo giovedì d’ Ottobre, senza che nessun giornale ne dia notizia, per poi sparire il giorno stesso delle nozze, a poche ora dalla cerimonia, senza lasciare traccia.

Watson rimase immobile, lasciando che Sherlock lo distanziasse nuovamente.

Poi chiuse gli occhi.
Serrò la mascella in una smorfia.
E lasciò scivolare tra i denti un sussurro appena percettibile.

 

- Idiota. Idiota. Idiota.

 

Holmes continuava ad avanzare lungo il corridoio, aggiungendo quasi un metro ad ogni passo tra lui e il dottore.

- Per quale motivo Lady Viola Georgina Grosvenor,  di soli 18 anni, figlia di Lord Gerard Grosvenor Duca di Westminster, dovrebbe convolare a nozze con Howard Warren Buffett in tutta fretta, di nascosto alla stampa, ed in un piovoso giorno autunnale?

Sentir pronunciare quei due nomi assieme sconvolse John a tal punto che la sua mente fu sgombra all’improvviso da tutto il garbuglio che aveva iniziato ad ammassarvisi sopra fin dal mattino.

- A-aspetta! Howard Buffett?... QUEL Buffett? V-vuoi dire il nipote di Warren Buffett, il magnate americano… Il terzo uomo più ricco del mondo?... Lui e… Viola Grosvenor stanno per… sposarsi?...

- Così pare.

Nonostante ci fosse ormai una discreta distanza tra i due la risposta giunse alle orecchie di Watson forte e chiara. Eppure suonava talmente impossibile da fargli credere di aver capito male ancora una volta.

- La figlia di Gerard Grosvenor… si sposa con il nipote di Warren Buffett…

Neanche ripeterlo ad alta voce rendeva il fatto più verosimile.

- È… pazzesco!...

- Sono d’accordo.
Niente fotografi. Niente televisione. Niente annunci. Un’unione di tale livello avrebbe sconvolto le borse di tutto il mondo, se le nozze fossero state annunciate. E questo sarebbe indubbiamente avvenuto se il matrimonio avesse avuto, com’è banale pensare, delle ragioni finanziarie.

- La volete piantare, maledizione?!

Dal fondo del corridoio giunse il ringhio rabbioso dell’ispettore Lestrade, che tentava disperatamente di attirare la loro attenzione agitando con furia le braccia per poi portarsi il dito indice davanti alla bocca in un gesto inequivocabile.

- Potreste evitare di urlare ai quattro venti quello che sta succedendo qui?! Si tratta di un caso della massima riservatezza! Se trapela anche solo mezza notizia io sono un uomo morto! E non sto utilizzando un eufemismo!

Sherlock si fermò a guardare Lestrade con aria divertita, infilando le mani nelle ampie tasche del cappotto.

-Dovresti vederti ispettore. La tua faccia racconta una lunga storia.
Le alte sfere stanno soffiando sulla brace del tuo barbeque vero?

- Non è il momento di fare dello spirito!

Il volto contratto dell’ispettore lasciava trasparire un evidente stato di tensione nonostante la penombra permettesse appena d’intravedere i suoi lineamenti.

- Se ci tenevi tanto alla riservatezza non avresti dovuto parlarmene per telefono. Chiunque avrebbe potuto intercettare la chiamata.

Lestrade rimase come pietrificato dal terrore.
Tutta la sua carriera gli passò davanti agli occhi come in un film, fotogramma per fotogramma, fino al momento finale in cui campeggiava sullo schermo a chiare lettere la parola ‘fine’.

- Stavo scherzando, non fare quella faccia.

Lentamente l’ispettore riprese a respirare, indirizzando uno sguardo omicida verso il suo nemico naturale.

- U-un giorno ti ucciderò Holmes…
Un giorno di questi penso che lo farò…

- In realtà non sapresti vivere senza di me.

- Stai zitto e seguimi!

Ma Holmes non lo seguì.

Si voltò all’improvviso e tornò sui suoi passi.

Percorse la distanza che lo separava da Watson in pochissimi istanti, fermandosi di fronte a lui.
John seguitava a fissare il vuoto, mentre nella sua testa vorticavano immagini confuse di uccellini, miliardari americani, catering e duchesse inglesi con orrendi cappellini.
Sherlock scosse leggermente la testa per liberare gli occhi dalla notevole massa di capelli, portò le mani dietro la schiena unendole tra loro e poi si chinò leggermente in avanti, verso l’orecchio di Watson.
Precauzione totalmente inutile, visto che dalle sue labbra la voce uscì forte e chiara.
Quasi stentorea.

 

- Okay. Non sono affatto pratico di questo genere di cose, quindi per evitare qualsiasi tipo di fraintendimento te lo chiederò chiaramente: Quello di poco fa era una specie di ‘’?

 

John trasalì, sollevando la testa verso Sherlock,  che era a pochi centimetri dalla sua.
Mentre il garbuglio tornava ad annodarsi.
Le sue braccia si mossero scompostamente nell’aria, formando cerchi, croci, ellissi ed ogni sorta di forma geometrica, fino a quando la voce finalmente uscì.

- N-no! No!... NO!
Assolutamente no!
Io non-…
No!…

- Ma di che diavolo state parlando?

Lestrade urlò esasperato, facendo qualche passo verso di loro.

- Di niente!

La risposta uscì dalla gola di Watson decisamente troppo alta ed affrettata, rimbombando rumorosamente tra le mura del corridoio e nelle orecchie di tutti i presenti.

Holmes si limitò a voltare la testa in direzione dell’ispettore.

- Datevi una mossa accidenti a voi! Ogni secondo che perdiamo qui a parlare ‘di niente’ lo togliete alla mia pensione!

Sherlock si raddrizzò lentamente, ruotò su se stesso facendo leva unicamente sui talloni, e poi andò con passo deciso incontro a Lestrade, che lo osservò avvicinarsi con sguardo torvo.
Non appena Holmes lo ebbe raggiunto aprì una delle porte sul lato destro del corridoio, invitandolo ad entrarvi.

- Da questa parte.

John Watson rimase fermo ancora qualche istante, osservando Sherlock Holmes e l’ispettore Lestrade sparire lentamente nella penombra.
Poi scattò verso quella porta, lanciando contro il muro con un gesto deciso l’ombrello e la sua custodia.

 

- Idiota!

 

 

 

 

Note:
1. Lady Viola Georgina Grosvenor e Howard Warren Buffett, con relativi genitori e nonni illustri, esistono veramente, e sono esattamente coloro che descrivo nella fic, cioè rispettivamente la quartogenita del Duca di Westminster, l’uomo più ricco d’Inghilterra, ed il nipote di Warren Buffett, imprenditore statunitense considerato il quarantesimo uomo più ricco di tutti i tempi, tra le altre cose.
OVVIAMENTE non hanno nessuna intenzione di sposarsi né ora né mai, e probabilmente non si conoscono nemmeno. Li ho soltanto presi in prestito per la mia storia, tanto per dare un tocco di attualità e verismo all’insieme.

2. L’ingresso di New Scotland Yard è un’entità fisica che non sono riuscita a decifrare con nessun filmato/film/foto trovati in rete, quindi mi scuso se la descrizione dell’ambiente presenta incongruenze con la realtà (che so, ha le porte scorrevoli in legno massello, non esistono corridoi, et cetera et cetera). Ogni dettaglio in più che sia a vostra conoscenza sarà utile al miglioramento della location!

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Capitolo 3
*** Deduction III ***


Disclaimers: I personaggi da me trattati appartengono in primis a Sir Arthur Conan Doyle, che ha avuto la grazia d'inventarli alla fine del 1800, in secundis alla BBC ed ai suoi ottimi sceneggiatori che hanno deciso di riadattare l’originale in chiave moderna, in terzis (non so e se esiste) agli attori Benedict Cumberbatch e Martin Freeman, che hanno dato loro le fattezze e l’interpretazione che mi hanno ispirato questa storia.

 

 

 

Deduction III

 

 

Camminavano a passo svelto, uno dietro l’altro, in rigoroso silenzio.

Lestrade li guidò attraverso una serie di corridoi, in un percorso tortuoso che sembrava non avere fine, conducendoli in un’area dell’edificio nella quale né Holmes né Watson erano mai stati prima.

Ad ogni rampa che scendevano l’aria si faceva più densa, e la luce più flebile.

L’ambiente risuonava solo del rumore dei loro passi.

Ad un tratto Lestrade si fermò di fronte ad una porta metallica, più spessa delle altre, situata in fondo ad un lungo corridoio privo di finestre che doveva essere situato almeno a 20 metri sotto il livello del suolo, a giudicare dal numero di scale che avevano fatto per arrivarci.
L’ispettore si guardò intorno con circospezione e poi posò la mano sulla maniglia, senza ruotarla, voltandosi verso Sherlock con un insolito sguardo disperato.

- Per favore… cerca di comportarti in modo umano.

Holmes non rispose, limitandosi a sorridere enigmaticamente.

Lestrade sospirò, abbandonando gli ultimi residui di speranza, poi tirò a se la maniglia, facendo cenno ad entrambi di entrare.

Sherlock Holmes e John Watson si ritrovarono in una stanzetta angusta, completamente priva di finestre, illuminata da fastidiose luci al neon di un giallo spento e malaticcio, adatte ad un’ottima sala interrogatori o ad una pessima mensa d’ospedale.
Al centro della stanza campeggiava un ingombrante tavolo in metallo, molto simile a quelli usati nelle camere mortuarie, che riempiva quasi interamente l’esiguo spazio disponibile.

Sul tavolo era posato un minuto abito da sposa di un elegante color avorio.
Era evidentemente un capo d’alta sartoria, realizzato con le stoffe più pregiate e ricamato con una serie infinita di particolari. L’intero bustino era ricoperto di quelli che sembravano essere minuscoli cristalli Svarovsky, che si rincorrevano in complesse figure floreali fino a sfumare nell’ampia ma elegante gonna, la quale terminava in un lungo strascico decorato con la stessa dovizia di particolari del bustino.
La sola presenza di quell’abito nella stanza rendeva l’ambiente più luminoso, rifrangendo la scialba illuminazione in mille minuscole particelle di luce.

Tutt’intorno al tavolo, completamente assorti nella contemplazione del prezioso pezzo di stoffa, stazionavano sei uomini in giacca e cravatta, rigorosamente vestiti di nero, impeccabilmente sbarbati, ed immancabilmente muniti di auricolare.
A vederli lì, tutti in cerchio, ad una distanza perfettamente identica uno dall’altro, si sarebbe potuto pensare che facessero parte di un segreto esperimento di clonazione.
Oppure di una nuova boy band inglese.
Nessuno di loro fece una mossa o emise un suono all’ingresso di Holmes, Watson e Lestrade nella stanza, ma tutti alzarono contemporaneamente lo sguardo verso i nuovi arrivati, spostando l’attenzione dal vestito all’ispettore, in evidente attesa di spiegazioni.

Lestrade, visibilmente teso, fece qualche passo in avanti e parlò con voce rotta.

- Signori, vi presento Sherlock Holmes, il consulente del quale vi avevo parlato. Holmes, questi sono-…

- Sì, sì.

Sherlock lo interruppe con aria seccata, muovendo la mano avanti e indietro come a voler sgombrare l’aria dalla noia.

- Saltiamo le presentazioni ok? SIS. CIA. Sicurezza privata. Inviato dell’ambasciata americana. Ancora SIS e… mmmh! Amico  di famiglia!

Aveva snocciolato l’elenco in fretta, spostando il dito indice su ognuno degli uomini che aveva di fronte, mentre decifrava il motivo della loro presenza alla prima occhiata.

- Manca solo mio fratello!

- Ah… Lui-…

- Non dirmelo. Scommetto che si trova in un’altra stanza di questo stesso edificio, pomposamente attrezzata d’ogni più sfarzoso comfort e d’ogni più moderno ritrovato tecnologico, ad intrattenere i suoi illustri ospiti -nello specifico il padre della sposa e il futuro suocero- tranquillizzandoli sulla buona riuscita dell’operazione. E tutti insieme stanno guardando un bel video in diretta del nostro allegro meeting.

Mentre parlava Holmes aveva ispezionato ogni parete della stanza, andando poi a fissare lo sguardo nell’angolo in alto a destra, che a occhio nudo non sembrava presentare nulla di anomalo, sfoggiando un ampio e malizioso sorriso in quella direzione.
Alzò infine la mano destra, agitandola in segno di saluto.

- Ciao ciao Mycroft!

In un’altra stanza dello stesso edificio, pomposamente attrezzata d’ogni più sfarzoso comfort e d’ogni più moderno ritrovato tecnologico, seduto di fronte ad uno schermo gigante sul quale campeggiava Sherlock Holmes che agitava la mano destra guardando dritto verso la telecamera nascosta, Mycroft sorrise.

- Allora!

Sherlock battè le mani tra loro e si guardò intorno con aria divertita, abbassando poi lo sguardo sul vestito.
Come sempre era compiaciuto della prima impressione che dava alla gente.

- Dov’è il corpo?

Tutti e sei gli uomini in nero iniziarono ad agitarsi visibilmente, muovendosi in modo scomposto, combattuti tra l’irritazione e lo stupore.
Lestrade, agitato quanto i suoi ospiti, tentò di prendere in mano la situazione prima che degenerasse irreparabilmente.
John Watson sorrise.

- N-non c’è nessun corpo… La ragazza è semplicemente-…

- Sparita. Sì questo me lo avete già detto al telefono ispettore. Agente 000, altre informazioni?

Dopo qualche istante d’imbarazzo generale, uno dei due agenti del SIS iniziò a parlare, senza nascondere la sua irritazione.

- Lady Viola è stata vista per l’ultima volta a casa sua, due ore e quarantasette minuti fa, solo mezz’ora prima dell’inizio del rito.
Una macchina, guidata da persone fidate, sarebbe dovuta passare a prenderla per portarla sul luogo della cerimonia, ma quando è arrivata non ha trovato nessuno.

L’agente della CIA s’inserì subito dopo.

- L’abito è stato rinvenuto a tre isolati dalla villa, appoggiato sopra un cassonetto in bella vista, ed è l’unico indizio che abbiamo, per adesso. Nessuno ha visto depositare il vestito o prelevare la ragazza. Non ci sono segni d’effrazione o di lotta nell’abitazione. Nessuna impronta sconosciuta sul vestito.

Holmes non staccò mai lo sguardo dall’abito durante l’intero racconto, una mano poggiata sul mento e l’altra stretta al gomito, il dito indice che tamburellava appena percettibilmente sulla guancia.

Seguirono una serie interminabile di secondi nei quali Sherlock continuò a fissare il vestito senza dire una parola, e gli altri otto uomini nella stanza iniziarono a guardarsi con aria interrogativa, senza avere il coraggio di proferire parola, come invasi da uno strano, indefinibile timore d’interferire con un processo mentale particolarmente delicato.

Dopo due interi minuti di religioso silenzio il secondo uomo del SIS si schiarì nervosamente la voce, per poi iniziare a parlare con voce bassa.

- He-hem!... Immagino… che sappiate già di chi stiamo parlando. L’ipotesi più probabile è che sia stata prelevata di fronte alla sua abitazione ed in seguito costretta a cambiarsi per rendere più semplice lo spostamento e più complessa l’identificazione. I rapitori si sono poi liberati del vestito, ed una volta al sicuro ci aspettiamo che procedano con la richiesta di-…

- Riscatto.
Ipotesi banale Agente 0000. Noiosa.
Nessuno si prenderebbe la briga di rapire Lady Viola Grosvenor per ottenere un semplice riscatto. Al massimo rapisci Brooklyn Joseph Beckam se vuoi tirar su qualche soldo facile.
No. Nessuno sapeva del matrimonio. Nessuno doveva saperlo.

Holmes alzò lo sguardo verso il sesto uomo in nero, fissandolo con insistenza.

- Vogliamo dirglielo signor amico di famiglia?
Ma sì, diciamoglielo. Tanto qui siamo tutti bravi ragazzi e nessuno andrà in giro a fare la spia.
Un matrimonio in Ottobre, organizzato in fretta e furia, una cerimonia privata, nessun annuncio, nessuna notizia trapelata alla stampa, nessuna pubblicità.
La ragazza è incinta, vero?

L’amico di famiglia inspirò con forza, visibilmente imbarazzato e sorpreso.

- Ah…

- Non mi deve rispondere. Era una domanda retorica.

L’affermazione di Sherlock fu accolta da un imbarazzato quanto eloquente silenzio.

- Quindi siamo di fronte ad un banale matrimonio riparatore, alla fine.     Bah, che sciocchezza. Al giorno d’oggi è anacronistico sposarsi per una ragione del genere. C’è l’aborto, la convivenza, l’affido condiviso, gli alimenti.
Ha molto più senso sposarsi per motivi economici, piuttosto.

Al suo fianco, Watson trasalì impercettibilmente, sollevando d’istinto la testa.

-John!

Un autentico attacco di panico silenzioso scosse le membra di Watson, impedendogli di voltarsi verso di lui.
Era sicuro che Holmes non si sarebbe fatto il benché minimo problema a dire qualcosa d’incommensurabilmente imbarazzante anche di fronte a due membri del SIS, un agente della CIA, un ambasciatore americano ed un amico intimo della famiglia Grosvenor.

- S- sì?...

- Parlami di questo vestito!

Tirando un mezzo sospiro di sollievo, Watson scosse la testa, allontanandosi d’istinto dal tavolo ed accostandosi con le spalle alla porta.

- Sherlock… non mi sembra proprio il caso di-…

- Andiamo! Sentirti parlare mi aiuta a pensare. Su, su!

John ripose le sue ultime speranze nell’ispettore Lestrade, rivolgendogli una muta richiesta d’aiuto, e ricevendo in risposta un’alzata di spalle.
Come sempre non aveva scampo.
Anche se non se ne rendeva conto in modo cosciente, in qualche modo lo feriva dover ogni volta fare la conta delle banalità di fronte a Holmes, soprattutto perché percepiva che Sherlock non si aspettava null’altro da lui se non un elenco dell’ovvio, sul quale innestare le sue acute intuizioni.
Watson sospirò, scrollando mestamente le spalle.
Poi fece un passo verso il tavolo ed abbassò lo sguardo sul vestito, iniziando ad osservarlo attentamente.
Holmes fece la medesima cosa, unendo le mani tra loro e portando gli indici all’altezza della bocca, per poggiarli poi sulle labbra.

- È un abito cucito a mano, di ottima fattura. La stoffa usata direi che è seta mista a… organza forse. Le decorazioni sembrano in vero cristallo. La taglia è… una 42. O una 40. Molto piccola comunque. Nella zona sotto le braccia il vestito è leggermente umido, direi che è la prova che la sposa lo aveva indosso fino a poco tempo fa.
Mmmh che altro… Sembra intatto. Non ci sono macchie né strappi, e non c’è nemmeno-…

Watson aggrottò improvvisamente le sopracciglia e si allungò con una mossa improvvisa sul tavolo, afferrando un lembo dell’abito ed avvicinandolo al volto per poterlo osservare meglio.

-… non c’è nemmeno alcun segno di sfregamento sullo strascico…

John si voltò di scatto verso Holmes, stringendo la stoffa tra le mani.

- Non è mai uscita di casa con indosso questo vestito!

Sul volto di Sherlock si dipinse un sorriso compiaciuto mentre si voltava in direzione di Watson, allontanando lentamente le dita dalle labbra.

 

-Eccellente!

 

Una violenta ed inattesa vampata di calore salì al volto di Watson mentre osservava  quel sorriso.
Non se l’aspettava.
Era stato colto impreparato dall’espressione così genuinamente felice, dalla soddisfazione intensa che leggeva in quegli occhi, sorprendentemente inattesa.
Abbasssò di scatto lo sguardo, sperando invano che Holmes non si fosse accorto della sua reazione.
Era ridicolo sentirsi così. Come lo scolaro più lento che avvampa d’emozione ed orgoglio di fronte al suo insegnante più esigente quando per la prima volta riesce a superare le sue misere aspettative.

- Stai migliorando John! Decisamente!

Davvero ridicolo.

- Quindi!

Sherlock Holmes sollevò nuovamente le mani di fronte al viso, unendo le dita tra di loro ed alzando gli occhi verso il soffitto, in una sfacciata caricatura di posa meditativa.

- O i nostri ipotetici rapitori, dopo aver curiosamente scelto proprio il giorno delle sue segretissime nozze per prelevarla, hanno gentilmente chiesto a Miss Viola Georgina Grosvenor di spogliarsi sull’ingresso di casa, stando ben attenti a non strappare un singolo bottone né a perdersi un singolo svarovsky, per poi uscire in pieno giorno con lei in mutande ed il vestito accuratamente ripiegato sottobraccio, andando a depositarlo in bella vista sopra un cassonetto a pochi isolati di distanza. Oppure…

Rimasero tutti sospesi sulle labbra di Holmes, dimenticandosi di respirare. Fino a quando Lestrade, schiacciato dal peso della suspance, non ruppe timidamente il silenzio.

- Oppure?...

- Mmhh… Quanto hai detto che era la ricompensa per notizie utili al ritrovamento della ragazza ispettore?

- Ci-… cinquantamila sterline.

Holmes alzò lo sguardo verso l’angolo in alto a destra della stanza, ammiccando in quella direzione.

- Accetto assegni o contanti.

Poi tornò a fissare uno per uno i sei uomini in nero che aveva di fronte.

- Avete controllato se mancava qualcos’altro in casa a parte lei? Argenteria, quadri, vasi. O magari che so… una sua maglia, un suo paio di pantaloni ed un suo paio di scarpe?

Gli agenti del SIS, quello della CIA e l’agente della sicurezza si guardarono a vicenda, evidentemente imbarazzati.

- N-no… veramente noi…

Holmes scosse la testa scompostamente, alzando le braccia.

- Perché gli inglesi e gli americani si ostinano ad investire soldi e risorse in questi servizi segreti totalmente disfunzionali? Posso capire gli americani, che non hanno a disposizione me. Ma gli inglesi potrebbero davvero risparmiarseli tutti questi auricolari e questi completini neri!

A quel punto l’agente della CIA sembrò perdere definitivamente la pazienza. Si staccò dal muro dirigendosi verso Sherlock con aria minacciosa.

- Adesso basta!...

Ma Holmes non parve accorgersi dei suoi movimenti. Aveva abbassato la testa poggiando il mento sul pugno chiuso, e fissava il vestito sul tavolo senza vederlo, completamente assorto.

- A questo punto ci serve un luogo. Un luogo preciso. Che abbia un significato.
Non può essere un posto qualunque.

- Mi stia a sentire lei! Con che diritto-…

- Sssssssssh! Sto pensando.

Sherlock lo zittì con un ampio e rapido gesto del braccio, piazzando la mano a pochi centimetri dalla bocca dell’uomo, che indietreggiò istintivamente, zittendosi.

- Sono una giovanissima nobildonna inglese. Sono scappata di casa ad un’ora dal mio matrimonio. Ho buttato il mio prezioso vestito su un cassonetto e mi devo nascondere. Mi voglio nascondere. Nessuno mi deve trovare. Ma allo stesso tempo voglio stare in un posto che abbia un senso. Un senso per me. Qualcosa che sia rassicurante e significativo allo stesso tempo. Vado da qualcuno che conosco? No. Non voglio vedere nessuno che mi conosce. Voglio stare sola. In un posto che non verrebbe in mente a nessuno, ma che allo stesso tempo in qualche modo mi appartiene. Mi serve un contatto. Mi serve silenzio. Mi servono le mie radici. Mi serve…

Sherlock alzò di scatto la testa, battendo con forza il pugno sul palmo della mano.

-… un simbolo!

Poi si voltò verso Lestrade, che ricambiò l’occhiata con uno sguardo carico d’aspettativa.

 

- Mi serve il cetriolo!

 

L’ispettore ebbe appena il tempo di sgranare gli occhi e spalancare la bocca.

- C-come?...

Senza dare il tempo a nessuno di elaborare il concetto, Holmes scattò verso la porta, afferrando la maniglia ed uscendo di corsa dalla stanza, senza guardarsi indietro.

Lestrade e gli altri uomini presenti, dopo aver fissato inebetiti la porta spalancata nella quale era appena sparito Sherlock, si voltarono tutti verso Watson, fissandolo con occhi sgranati ed increduli.

John indietreggiò lentamente, schiacciato dal peso di quegli sguardi, scuotendo la testa ed alzando le braccia in segno di resa.

- S-scusate… Non ho davvero idea di cosa-…

- JOHN! MUOVITI!

L’urlo feroce rimbombò in ogni angolo dell’edificio.

- Ah… mi dispiace, io-…

Watson lanciò un ultimo sguardo mortificato a quegli uomini sconvolti, poi scattò anche lui fuori dalla porta, sparendo nel buio del corridoio.

Dietro a Sherlock Holmes.

 

 

 

 

 

 

Note:
1. Per chi non lo sapesse il SIS è l’acronimo che sta ad indicare il Security Intelligence Service, ovverosia la versione inglese della CIA americana, cioè detto in soldoni… i servizi segreti inglesi! James Bond è un agente del SIS per capirci, da qui le battute di Holmes sul numero di matricola dei due agenti.

2. Dai vostri commenti (forse sbaglio) ho avuto a volte l’impressione che venga data per scontata una relazione amorosa già in corso tra Holmes e Watson fin dall’inizio della fic…
Indubbiamente è colpa mia che non ho precisato nulla al riguardo… >< Con un’introduzione così strong per una fic classificata slash si poteva benissimo dedurre che tra i due ci fosse già una relazione sentimentale.
In realtà non è così. Gli avvenimenti sono più o meno contemporanei alla serie BBC, e tra i due c’è lo stesso rapporto che abbiamo visto sullo schermo.
Penso che sia importante precisarlo per due motivi: prima di tutto il grado di follia della proposta di Holmes viene drasticamente ridimensionato se visto in una prospettiva di coppia già formata…
Se i due fossero legati sentimentalmente la sua resterebbe comunque una dichiarazione avventata e fuori contesto, intendiamoci! Ma non sarebbe completamente priva di senso e scollegata dalla realtà come invece volevo che fosse.
In secondo luogo se i due fossero già accoppiati le reazioni di Watson sarebbero tutte un po’ fuori luogo, perché esageratamente sconvolte e ostili. Per quanto possa essere fuori di zucca una proposta di matrimonio messa in quei termini, se hai una relazione amorosa con la persona che ti fa quella proposta avrai reazioni di tutt’altro tipo. Altrettanto sconvolte forse, ma molto più incentrate sulla relazione già presente, sulla sua serietà, e sulla prospettiva di coppia a lungo termine.
Comunque intendiamoci… se l’ho classificata slash una ragione ovviamente c’è! XD Quindi è scontato che la proposta di Holmes, per quanto folle ed apparentemente priva di qualsiasi motivazione sentimentale, abbia alzato un bel po’ di ‘polvere’ a giro… E chissà come finirà la faccenda… ** Però ci tenevo comunque a precisare la situazione iniziale.
Ho anche aggiunto questa stessa precisazione all’inizio del primo capitolo, proprio per correggere il mio errore di valutazione, in modo che chiunque andrà a leggere la fic in futuro non sia tratto in inganno dall’introduzione.

3. La scena finale in cui Holmes s’immedesima in Lady Viola, cercando di capire dove possa essersi andata a nascondere, si conclude con una smaccatissima citazione da… (dai che lo sapete pure voi!)…. Ghostbuster 2! XDD Per la precisione è la scena in cui Peter, Egon, Ray, e Windsor cercano un modo per risvegliare la bontà della gente contro la malvagità che pulsa sotto New York, e scelgono di animare con la melma rosa la Statua della Libertà. XD

4.  Ancora una volta mi scuso con Lady Viola Georgina Grosvenor per averla ‘inserita’ nella mia fic, affibbiandole addirittura una gravidanza non desiderata… XD Ovviamente anche questa è una mia totale illazione. I’m sorry Lady, temo che sia il prezzo da pagare per la fama e la ricchezza… **

 

 

 

 

Appendice delirante. (è sempre colpa di Mikaeru però…)

 

Ci dev’essere qualche allineamento astrale tra il mio cervello e le frasi che Mikaeru sceglie come presentazione delle sue fic… Tutte quelle che posta mi fanno venire in mente roba di volta in volta più folle! XD
In realtà avviene molto semplicemente che tocca sempre delle tematiche carinissime! Quindi m’ispira! **
Questa volta però è un delirio veramente delirante, ed anche brevissimo, scaturito dalla pornonovella numero uno, e nello specifico dalla domanda di Watson a Holmes “Prima che c’incontrassimo… chi c’era?”.
Ovviamente la dedico all’ispiratrice, e mi riprometto di dedicarle in futuro anche qualcosa di meglio… XD

Trattasi di una… Mboh?
Flashsongfic?
Un brevissimo scambio di battute tra Watson e Holmes, ispirato da Mikaeru e da una song.
Niente che meriti uno spazio tutto suo, comunque. XD
Quindi la piazzo qui, tipo la pubblicità dopo una puntata di Sherlock! Hahaha!

 

WARNING È in inglese…
Che ci fo? Li sento parlare in inglese questi. Non ci faccio niente. Mi parlano in inglese ed io li devo pure decifrare…
WARNING 2 Non so l’inglese!
Conciòsiacosache… non preoccupatevi o voi ignoranti della sherlockiana (e shakespeariana…) lingua come me, che il testo è semplicissimo e comprensibilissimo. ANZI… Sarà sicuramente strapieno di errori grammaticali e quant’altro, quindi si accettano di ottimo grado correzioni d’ogni sorta e genere! ><
Buona fortuna a chi continua a leggere… (non siete obbligati a farlo ovviamente… XD)

 

 

Mambo Number Five.

 

 

- Sherlock… Before we met… who was there? (cit.)

- No one. You’re the first, the one, and the only.

- Really?

- Obviously! I am brain, John. You know.

-Yeah… I know…

- So… what about you?

- Me?... You don’t really wanna know…

- Of course i want! C’mon!

- Ok… so…. Let me think….
I loved Angela, Pamela, Sandra, and Rita. Then comes Marica in my life. And then I found Erica by my side. After was another Rita, and after Tina. Then I met Sandra in the morning, and I had funny with Mary in the night. A little bit of Jessica and here I am. A little bit of you makes me your man!

- That’s. Not. Funny.

- I’m not brain, sorry….

 

Note:
1. L’idea (chiamiamola pomposamente così… XD) nasce dal fatto che vedo Holmes sostanzialmente come un essere asessuato. ‘Tutto cervello’ come dice lui stesso. Quindi ho sempre pensato che John Watson fosse in fondo l’unico legame sentimentale della sua vita.
Watson invece viene ritratto da Doyle (e anche dalla serie BBC in un certo senso) come piuttosto sensibile al fascino femminile, ed inoltre sembra riscuotere un discreto successo col gentil sesso.

2. L’elenco di Watson, così come il titolo della scemezza, sono liberamente e più o meno letteralmente tratti dalla canzone di Lou Bega intitolata, per l’appunto, Mambo N°5….

See ya folks! **

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Capitolo 4
*** Deduction IV ***


Disclaimers: I personaggi da me trattati appartengono in primis a Sir Arthur Conan Doyle, che ha avuto la grazia d'inventarli alla fine del 1800, in secundis alla BBC ed ai suoi ottimi sceneggiatori che hanno deciso di riadattare l’originale in chiave moderna, in terzis (non so e se esiste) agli attori Benedict Cumberbatch e Martin Freeman, che hanno dato loro le fattezze e l’interpretazione che mi hanno ispirato questa storia.

 

 

Deduction IV

 

- Ci porti al Cetriolo! Il più in fretta possibile!

- Subito Sir! Conosco una scorciatoia che ci farà evitare il traffico! Con questa pioggia è da pazzi girare per Londra in auto!

John Watson si sistemò alla meno peggio sul sedile, aggiustandosi la giacca sulle spalle nel tentativo di darsi un contegno.
Del resto era appena saltato dentro il taxi in corsa, mentre Sherlock Holmes lo afferrava per il colletto tirandolo dentro all’ultimo momento.
Non c’era decisamente male come inizio di mattinata.
Dopo essersi concesso qualche istante per riprendersi e calmare il battito cardiaco ancora accelerato, si voltò verso l’amico.

- Non sarebbe stato meglio lasciar fare a loro?.. Dopotutto sono-…

- Naaah. Prima che riescano a coordinarsi e ad inviare qualcuno sul posto ne avremo già recuperate due di duchesse. E poi  se la trovo prima io potrò tirare un po’ sul prezzo.

Sherlock guardava fuori dal finestrino, apparentemente assorto.
La pioggia della mattina si era fatta più intensa. Batteva con insistenza sul tetto dell’auto, producendo un tenue crepitìo che avvolgeva l’abitacolo in un’atmosfera ovattata, quasi surreale, disegnando sul vetro fitti rivoli dalle mille diramazioni.
Al di là di quella superficie trasparente la città impazziva nel caos.
File interminabili di autovetture imbottigliate lungo le strade principali e secondarie paralizzavano l’intera circolazione, saturando l’aria con le urla monotone e prolungate dei loro clacson. Gli edicolanti si agitavano attorno al banco, stendendo teli di fortuna sulle riviste ormai rovinate. I venditori di ombrelli si appostavano sotto le tettoie più grandi, allungando le braccia cariche della loro preziosa merce verso i pochi temerari che si avventuravano a piedi lungo i marciapiedi, nell’inutile tentativo di ripararsi camminando a ridosso delle case.

- Dove hai messo l’ombrello John?

- Eh?... Oh.. Al diavolo quell’accidenti di ombrello! Ho perso la battaglia!

Sherlock si girò verso di lui, scrutandolo con stupore.

- Avevi ingaggiato una battaglia… con l’ombrello?

Watson distolse lo sguardo, rendendosi conto da solo dell’assurdità della cosa.

- P-più o meno… Senti! Mi vuoi spiegare come mai pensi che Lady-… che lei si trovi proprio alla 30 St Mary Axe?

- È semplice John.
Londra le appartiene. La sua famiglia è proprietaria del centro della città. Ne possiede, fisicamente e legalmente, 1.238.800 metri quadrati, che dà in affitto con un regolare contratto di locazione a chiunque desideri averne una parte. Sapendo solamente questo sarebbe stato impossibile riuscire a capire dove fosse. Ma in questa storia non c’è in ballo solo la famiglia del Duca di Westminster.
Nella città di Londra, quella città che appartiene a Viola Grosvenor, anche Howard Buffet è il proprietario di qualcosa. Di un edificio moderno, sfacciato e polemico, che ha cambiato il volto della city divenendone il nuovo, controverso simbolo. Nel 2009 Warren Buffet ha investito 2,6 miliardi di dollari nella compagnia proprietaria della torre, la SWISS Re Company, divenendone a tutti gli effetti coproprietario. Ed ecco il punto d’incontro! Il campo neutro! Il ponte tra antico e moderno, tra passato e futuro! Una famiglia dell’antica nobiltà inglese che si unisce in matrimonio con una famiglia d’industriali americani, capisci quello che sto dicendo? C’è un unico posto nel quale Viola Georgina Grosvenor può sentirsi in contatto con se stessa, la sua famiglia ed il suo passato, e allo stesso tempo sentirsi vicina all’uomo che sta per sposare ed al suo futuro.
Un solo luogo. Unico in tutta Londra. Unico al mondo.
Lei si trova al Gherkin.

Aveva ascoltato Holmes a bocca aperta, lo sguardo attento, la mente rapita dal suono di quella voce solitamente bassa e pacata che si accendeva d’intonazioni e sfumature ogni volta ch’era infiammata dalla potenza della sua mente.

Sentirlo parlare era impressionante sempre allo stesso modo.
Come la prima volta.

Sherlock si voltò nuovamente verso di lui.

E John gli sorrise.

 

- Tu sei… pazzesco…

 

Qualcosa d’indefinibile si mosse nello stomaco di Holmes mentre guardava quel sorriso.
Eppure se l’aspettava.
Era abituato a quelle espressioni colme di meraviglia, a quelle frasi cariche d’ammirazione e stupore che gli rivolgeva la gente, così noiosamente ripetitive.
Non c’era nulla d’insolito. Niente di straordinario.
Tornò a voltare la testa di lato, distogliendo lo sguardo da quello di Watson, certo che non si fosse accorto di quell’attimo indefinibile.

Per qualche ragione era diverso quando lo diceva lui.

- Sei davvero pazzesco.

Per qualche ragione…

 

- Eccoci arrivati signori! Più veloce della luce!

John si frugò in tasca ed allungò una banconota da 10 sterline al tassista.

- Grazie! Tenga pure il resto!

Sollevò poi il bavero della giacca sulla nuca ed aprì la portiera, pronto ad uscire, quando l’uomo si voltò verso di lui, fissandolo con espressione eccitata, mentre dalle sue labbra usciva una voce che avrebbe voluto essere un sussurro, ma per l’emozione era forte e scomposta.

- Ma voi cosa siete, una specie di agenti segreti? Tipo James Bond?! A me potete dirlo! Terrò la bocca chiusa!

Watson si bloccò sul sedile, cercando di ricapitolare mentalmente quanti segreti di stato avevano rivelato in quel taxi in dieci minuti di corsa, mentre la triste immagine di Lestrade mestamente raggomitolato in fondo ad una lunga, lunghissima lista di collocamento si materializzava davanti ai suoi occhi…

- No. Siamo attori di teatro. Stavamo ripassando la parte.

La voce di Sherlock non lasciò trasparire alcun tipo di emozione o esitazione.
John si voltò verso di lui, ancora una volta stupito dalla prontezza dei suoi riflessi.

- Davvero? Che figata! E cosa recitate?

- Il Frankenstein al National Theatre. Venga a vederci mi raccomando.

Mentre parlava Holmes tirò a sua volta l’ampio colletto del cappotto sopra la testa, e si lanciò poi fuori dalla macchina in direzione della SWISS Re Tower, sparendo in mezzo al diluvio universale.
Watson si affrettò a corrergli dietro.

Il tassista si sporse in avanti mentre li osservava svanire letteralmente dietro un muro d’acqua, allungando un braccio fuori dal finestrino del tutto incurante dell’incolumità della sua giacca.

- Verrò di sicuro!

 La sua voce sparì nello scroscio assordante della pioggia.

 

Sherlock Holmes e John Watson s’infilarono di corsa tra le grandi losanghe di metallo che incorniciavano l’ingresso del Gherkin, riparandosi sotto l’ampia tettoia. Entrambi abbassarono i colletti delle giacche e si scrollarono di dosso tutta l’acqua che si erano presi nel pur breve tragitto senza riparo.
Il dottore scosse la testa con forza, liberandosi dalle ultime gocce di pioggia, poi si guardò intorno.

Lo spiazzo coperto di fronte all’ingresso dell’edificio era pieno di gente, quasi tutta in cerca di riparo dal nubifragio che si stava abbattendo su Londra.
Un curioso concentrato eterogeneo di persone d’ogni età e nazione, che per  la maggior parte lanciava anatemi nelle più svariate lingue contro il meteo britannico. Una coppia d’impiegati in giacca e cravatta fumava la sua sigaretta, osservando il cielo nell’attesa di rientrare in ufficio dopo la piccola pausa.
John allungò lo sguardo oltre i vetri, scrutando all’interno dell’edificio, nella vana quanto assurda speranza d’intravedere l’oggetto delle loro ricerche.
A ben pensarci non aveva nessuna idea di come fosse fatta Lady Viola Grosvenor.
Sospirò, voltandosi verso Sherlock.

- Da dove iniziamo?

- Dall’unico posto in cui può essere.

Holmes si mosse verso le porte girevoli, seguito da Watson.
Entrò nell’edificio con passo fermo, ignorò gli ascensori e prese una scala laterale che li condusse lontano dalla zona più frequentata della torre.
Continuarono a camminare quasi in cerchio per circa cinque minuti, fino a che Sherlock si fermò di fronte ad una porta bianca, completamente anonima e ben mimetizzata nella parete altrettanto candida sulla quale si trovava. Prima di aprirla Holmes diede una rapida occhiata in giro, per assicurarsi che non ci fosse nessuno nei dintorni, poi tirò la maniglia ed entrò, tallonato da John.

Si ritrovarono in un piccolo disimpegno, largo poco più di un paio di metri.
Sul lato sinistro del pianerottolo si estendeva una scala molto semplice, anch’essa bianca, con brutte ma funzionali finiture in ferro grigio. Fin dalla prima occhiata l’ambiente si discostava smaccatamente dal lusso e dalla modernità del resto dell’edificio, a dimostrazione che erano appena entrati nelle scale di servizio, riservate unicamente ai casi d’emergenza. Un posto nel quale nessuno si sarebbe mai sognato di passare, se non per casi eccezionali.
O per nascondersi.
Sherlock alzò la testa, fissando attraverso la sottile fessura tra una rampa e l’altra un punto indefinito tra il sesto ed il ventisettesimo piano.

- Lei è qui.

Watson fece qualche passo in avanti ed alzò la testa a sua volta, tentando di sbirciare nella fenditura per poter quantificare l’altezza complessiva di quella scalinata.

- Fammi capire…

Tornò indietro lentamente, voltandosi con altrettanta lentezza verso Sherlock.

- Vuoi farti quarantuno piani a piedi?...

Holmes non rispose, limitandosi a fissare insistentemente la scalinata, come in attesa di qualcosa.

- Stai scherzando vero? Dimmi che stai scherzando…

John aspettò invano un qualsiasi cenno d’assenso, poi tornò ad alzare la testa, fissando con disperazione quella scala infinita.

- No, non stai scherzando… Sei serio…

- Ovviamente sono serio.

La risposta lo colse quasi impreparato, spingendolo a voltarsi nuovamente verso di lui.
Nello stesso istante Holmes fece la medesima cosa, posando i suoi occhi chiari in quelli di John, con un’espressione improvvisamente dura, quasi arrabbiata.

 

- E quando dico che sono serio. Sono serio.

 

Watson si paralizzò.
Gli occhi spalancati fissi in quelli di Sherlock.
Il respiro fermo in gola.
I polmoni stretti in una tenaglia. Ad ogni battito più serrata, più dolorosa.
Le pupille contratte fino a diventare due punte di spillo, nell’inutile tentativo di sottrarre luce agli occhi, che non riuscivano a smettere di guardare.
Dritto nei suoi.
Sempre più vicini.

O era solo un’impressione?

Sì, doveva esserlo.
Una specie d’illusione ottica.

Uno sbaglio.

Eppure…

 

TAP TAP TAP

L’inconfondibile rumore di una serie di passi rimbombò improvvisamente sopra la loro testa.
Entrambi alzarono di scatto lo sguardo, scorgendo un movimento appena percettibile svariati piani sopra di loro.
Sherlock si mosse verso la scala con cautela. Ogni muscolo del corpo teso a non produrre il benchè minimo suono.
Lentamente appoggiò il piede destro sul primo gradino.

 

- Lady Viola Georgina Grosvenor?

 

L’eco di quel nome rimbalzò tra una parete e l’altra della stretta ed altissima scalinata, perdendosi tra le pieghe del ferro e del cemento.

- Andate via per favore!

Una voce elegante, graziosa e fragile da diciottenne spaventata giunse loro dall’alto, seguita subito dopo da un suono di passi veloci e leggeri che si allontanavano rapidamente.

Holmes scattò in avanti, iniziando a salire di corsa la scala.
Watson gli fu subito dietro.

Primo Piano.

- È lei?

- Certo che è lei! Muoviti!

- Sarà almeno otto piani sopra di noi! Non riusciremo a raggiungerla! Forse dovremmo-…

Secondo Piano.

Quasi a volerlo smentire con i fatti Sherlock iniziò a saltare in corsa tre gradini alla volta, cosa che gli riusciva relativamente facile vista la lunghezza dei suoi arti inferiori.
Questo non valeva ovviamente per John, che fu costretto ad aumentare considerevolmente il ritmo dell’ascesa, mettendo a dura prova i muscoli delle sue gambe.

Terzo Piano.

- Si fermi Lady Viola! Non vogliamo farle del male! Siamo qui per conto di suo padre!

- Per favore… per favore andate via…

Parole affannate, rotte dal pianto. Quasi impercettibili.

Quarto Piano.

Watson e Holmes recuperavano terreno ad ogni passo, ma la distanza che li separava dalla ragazza era notevole, e lei continuava a salire, sebbene più lentamente di loro.
Le scale sempre più strette, ed i gradini sempre più alti.
La fatica iniziava a farsi sentire.

Quinto Piano.

Il fiato sempre più corto.
Le gambe indolenzite per lo sforzo rallentavano progressivamente la loro andatura. Ma entrambi continuavano ad inerpicarsi lungo quella scala interminabile, rampa dopo rampa, seguendo quei passi incerti che si facevano ad ogni metro più vicini.

- Sherlock… La stiamo… solo spaventando…

Sesto Piano.

John tentò di proseguire la frase, ma i polmoni non glielo permisero.
Lo sforzo che stava facendo era di gran lunga superiore a quello di Holmes, che sembrava salire quelle scale con l’agilità di un gatto, quasi senza fatica, distanziandolo ad ogni falcata.

- Dobbiamo fermarla.

Settimo Piano.

La voce di Sherlock suonò appena alterata dall’affanno.
La sua andatura non accennava a rallentare, e il dottore ormai doveva aggrapparsi al mancorrente ed aiutarsi con la spinta delle braccia per poter mantenere il suo ritmo.

Ottavo Piano.

I quadricipiti urlavano silenziosamente, rilasciando acido lattico ad ogni gradino.
Le orecchie ronzavano, schiacciate dalla pressione sanguigna.
Le mani indolenzite riuscivano a stento a mantenere la presa.

Nono Piano.

La gola secca e la milza dolorante manifestavano il loro cocente disappunto per una pessima tecnica di respirazione.

Decimo Piano.

Il cuore pompava talmente forte da sfondarli il petto.

Undicesimo piano.

A metà della rampa Watson si fermò improvvisamente, ruotò su se stesso e facendo perno sul mancorrente si sdraiò lungo disteso sui gradini, in verticale, rovesciando la testa all’indietro e chiudendo gli occhi.

- Ok basta… Sto per morire… Mi fermo qui.

Non sentiva nemmeno gli spigoli dei gradini che premevano ad intervalli regolari sulla schiena e sulle gambe. Riusciva solo a percepire il refrigerio del contatto tra la superficie fresca delle scale e la sua pelle rovente e sudata.
Si concentrò sul battito frenetico del cuore, che gli rimbombava nelle orecchie fino ad assordarlo, rimbalzando nella gola fin quasi ad ostruirgli la trachea. Lasciò i polmoni espandersi fino a toccare la cassa toracica, nel tentativo di ossigenare quel poco che era rimasto dei suoi bronchi.
Il dolore alla milza peggiorava ad ogni respiro, costringendolo a premere con forza una mano sul fianco, nel tentativo di soffocarlo.

Non avvertì i passi di Holmes fermarsi sopra di lui e poi tornare indietro precipitosamente.
Rimase fermo, dolorante, con gli occhi chiusi, assordato dal frastuono nel suo petto, fino a quando sentì due dita premergli sulla gola, ed una mano afferrargli il polso con forza.

Aprì gli occhi e vide Sherlock chino sopra di lui.
Il volto umido di sudore.
Il respiro alterato.
Lo sguardo febbrile.
La bocca dischiusa per catturare l’aria ad intervalli secchi e regolari, nel tentativo di trattenere l’affanno accumulato in undici piani di salita.
Due dita frementi premute sul suo collo, incapaci di controllare il tremore.

Panico.

- Stai bene, John?

La voce uscì rotta dalla gola.
A causa del fiatone.
E non solo.
Le dita si strinsero sul polso, tastandone maldestramente l’interno nel tentativo di percepire il battito cardiaco.
Lo sguardo vagava sul volto di John, cercando una risposta che tardava ad arrivare.

- Per l’amor del cielo dimmi che stai bene!

Raccogliendo il poco fiato che aveva Watson riuscì a sollevare leggermente la testa, senza poter trattenere una smorfia di dolore causata da un’acuta fitta alla milza.

- S-sto bene… Non preoccuparti, sono solo-…

- Non stai avendo un infarto vero?...

John fissò stupito quegli occhi colmi di profonda, incontrollabile angoscia.

- Certo che no, io-…

- CI SERVE UN DOTTORE QUI!

L’urlo fu talmente forte da raggiungere il quarantunesimo piano e poi tornare indietro moltiplicato, continuando a lungo ad aleggiare nell’aria.

- Sono io un dottore! Ti dico che sto bene!

Watson tentò di alzarsi, ma Holmes gli strinse il braccio ancora più forte, bloccandolo vicino al suo petto.

- Sherlock, lasciami il polso.

Ma lui non sembrò ascoltarlo.
Si passò la mano libera tra i capelli. Tremolante. Convulsa.
Continuando a premere le dita sui tendini fin quasi a fargli male.
Il fiato sempre più corto, alterato.
La sua testa iniziò a ruotare a destra e a sinistra scompostamente, alla ricerca disperata di qualcosa cui aggrappare lo sguardo.

- Sherlock!

Watson urlò.
Allungò di scatto il braccio libero e gli afferrò il mento con la mano, costringendolo a guardarlo.
Fisso negli occhi.

- Calmati.

Il respiro di Holmes si fermò.
Di colpo.
Lo sguardo catturato da quello di John.
Le dita allentarono la pressione, pur senza liberare del tutto il polso dalla stretta.
Le membra si rilassarono.
Dagli occhi sparirono gradualmente il panico e la confusione.

Watson inspirò, lasciando andare la presa.
Adagio si lasciò ricadere all’indietro, tornando a posare la testa sul gradino, senza distogliere lo sguardo da quello di Sherlock.
Poi espirò.
Lentamente.

- C’è qualcosa che posso fare per convincerti che non sto avendo un infarto?

Sherlock continuava a fissarlo.
Nuovamente calmo.
Controllato.
Razionale.

Nuovamente Holmes.

- No.

Senza il minimo preavviso allungò la mano sul colletto di Watson, ed iniziò a sbottonargli la camicia.
Preso totalmente alla sprovvista John cercò ancora una volta di liberare il polso con un vigoroso strattone, mentre con l’altra mano tentava di fermare le dita di Sherlock che rapidamente sganciavano un bottone dietro l’altro, incuranti delle sue proteste.

- S-smettila! Sei impazzito?!...

Watson afferrò a sua volta il polso di Holmes, allontanando violentemente la sua mano dal petto, ormai quasi completamente scoperto.

- Piantala ti ho detto! Se non la smetti io!-...

 

- V-va tutto bene?...

 

Sherlock si bloccò, alzando lo sguardo nella direzione da cui proveniva quella voce.
John si limitò a rovesciare la testa all’indietro, trovandosi di fronte l’immagine ribaltata dell’esile figura che si affacciava cautamente dalla rampa superiore.

Scese timidamente sul pianerottolo e fu di fronte a loro.
A pochi metri da loro.
Undici gradini sopra di loro.

La biondissima. Ricchissima. Giovanissima.
Lady Viola Georgina Grosvenor.

Il volto delicato sporco del trucco da matrimonio ormai completamente scolato sulle guance a causa delle lacrime.
Un paio di jeans, scarpe da ginnastica ed un sobrio maglioncino di lana azzurro, che esaltava magnificamente la sua carnagione chiara, tipicamente inglese.
I capelli sciolti le ricadevano sulle spalle con grandi boccoli, unico residuo ancora pressoché intatto della sua acconciatura da cerimonia.

- Vi sentite male?... M-mi dispiace tanto… io-…

John lasciò la mano di Sherlock e tentò inutilmente di sollevarsi sull’unico braccio che aveva a disposizione, essendo l’altro ancora saldamente imprigionato tra le dita di Holmes.

- Non preoccupatevi Milady! Io sto benissimo! Il mio amico qui mi dava già per spacciato, ma-…

- Mi dispiace davvero tanto…

Le labbra rosate le s’incresparono verso il basso, iniziando a tremare visibilmente. Le sopracciglia chiare ed appena visibili si piegarono in una smorfia di dolore. Dai chiari occhi imbrattati di nero iniziarono a scenderle grosse lacrime silenziose.
Fino a quando scoppiò in un pianto dirotto.

Si sedette sul primo gradino della scalinata, prendendosi le ginocchia tra le mani e nascondendo la testa, mentre i singhiozzi la scuotevano da capo a piedi, facendola tremare come un fuscello.

- E voi... state bene?...

La timida domanda di Watson non ricevette altra risposta che una serie di gemiti soffocati.

Nessuno dei due uomini osò muoversi, per timore di spaventarla.
John sdraiato sui gradini col busto leggermente sollevato, il gomito piantato a terra, la testa rovesciata all’indietro.
Holmes inginocchiato al suo fianco, chino sopra di lui, il polso di Watson ancora stretto nella mano. Lo sguardo fisso sulla ragazza. Senza dire una parola.

Rimasero quasi un minuto in silenzio, ascoltando il pianto soffocato della giovanissima sposa, che sembrava ben lontana dall’aver esaurito tutte le sue lacrime.

Era lì da ore ormai.
Sola.
Infreddolita.
Spaventata.

No che non stava bene.
Sicuramente quello era il peggior giorno della sua giovane vita.
Ne sarebbero venuti altri, anche più duri, ma se qualcuno glielo avesse detto in quel momento, non ci avrebbe creduto.

- Perché siete fuggita?...

La voce di John era uscita da sola, a metà strada tra la curiosità ed il desiderio di conforto.
Osservava quel corpo gracile e delicato scosso dai tremiti, e non riusciva a pensare ad un modo per far cessare quel pianto.

L’immaginava in piedi all’ingresso della sua villa, con indosso quello splendido vestito, il velo leggero che le ricadeva sulle spalle, incorniciandole il volto assieme ai suoi splendidi boccoli biondi, mentre stringeva nervosamente il suo bouquet di gigli bianchi e rose pallide, passando il peso da un piede all’altro nel tentativo di alleviare il fastidio di quelle scarpe tanto belle ma così terribilmente strette.
E poi la vedeva sfilarsi quell’abito di dosso tra le lacrime, gettarlo in un cassonetto e correre a perdifiato in mezzo alla città, lontano da tutto, per rifugiarsi sui gradini di una scala di servizio, a piangere e piangere ancora, senza riuscire a fermarsi.

Forse non amava Howard Buffet.
Probabilmente era incinta di un altro, innamorata di un lattaio. O magari del postino.
Il matrimonio le era stato imposto dalla sua famiglia, che aveva pensato bene di cogliere l’occasione per imparentarsi con una delle famiglie più ricche del pianeta.
Ma lei all’ultimo momento si era ribellata.
Era fuggita.
Per riprendersi la sua libertà.

 

- Hai perso il bambino vero?

 

Watson abbassò lo sguardo su Sherlock, con gli occhi sbarrati dallo stupore.

- Lo hai perso e non lo hai ancora detto a nessuno.

Holmes fissava la ragazza senza espressione. Il suo volto non lasciava trasparire alcun tipo d’emozione o empatia.

Lady Viola smise improvvisamente di singhiozzare.
Rimase immobile con la testa tra le braccia, le gambe unite e le ginocchia serrate. Senza emettere più alcun suono. O fare il benchè minimo movimento.
Come una statua di sale.

Poi.
Appena percettibile.
Trapelò attraverso la stoffa la sua voce sottile, rassegnata, tesa nello sforzo di trattenere le lacrime.

- Adesso… Adesso n-non c’è più nessun motivo per sposarmi con Howard…

John inspirò con forza, spalancando gli occhi.
Fissò quel corpo raggomitolato sulle scale, così indifeso, nuovamente scosso da singhiozzi sommessi.

 

E sorrise.

 

- Ma voi ne siete innamorata?

Watson avvertì distintamente un lieve sussulto attraversare le dita di Holmes, ancora premute sulla sua pelle.

Lady Viola Georgina Grosvenor prese fiato.
Sollevò la testa dalle ginocchia, e fissò i suoi occhi grandi, chiari, in quelli di John.
Per qualche istante contemplò il suo sorriso, senza parlare.
Fino a quando riaffiorarono le lacrime. E lei tornò a nascondere il volto tra le braccia.

La risposta fu appena percettibile.

- Sì…

 

Watson sorrise ancora.

Dolcemente.

Uno di quei sorrisi che affiorano dall’anima solo quando per una volta è tutto chiaro, e semplice.
Quando la soluzione è ovvia.
E non c’è più niente di cui preoccuparsi.
Perché tutto andrà bene.

Tutto andrà come deve andare.

John chiuse gli occhi. Rilasciò tutto il peso del corpo all’indietro, rilassando ogni muscolo, e riempiendo i polmoni d’aria.

Mentre quel sorriso si allargava sul suo volto.

 

- E di quale altro motivo avete bisogno?

 

Sentì le dita di Sherlock stringersi intorno al suo polso.
Una strana pressione.
Forte e delicata allo stesso tempo.

Ma non si voltò verso di lui.
E non aprì gli occhi.

Tese l’orecchio in direzione della ragazza, e l’udì sollevare la testa.
La sentì sfregarsi gli occhi, mentre si asciugava le lacrime con un gesto deciso. Avvertì che si stava alzando lentamente, ed iniziava a scendere i gradini che li separavano, fino a quando non si fermò. Al suo fianco.
Inginocchiandosi accanto a lui.

- G-grazie…

Allora aprì gli occhi, fissandoli in quelli ancora umidi della graziosissima quartogenita del Duca di Wesminster.
Tentò di mettersi a sedere, ricambiando quello sguardo dispiaciuto, ma lei lo fermò con un gesto della mano.

- Oh no, state giù, vi prego! Mi dispiace di avervi arrecato tutto questo disturbo. Io-…

Lady Viola si passò nuovamente le mani sul volto, tentando con scarso successo di pulirlo dalle vistose sbavature di rimmel che le solcavano le guance.
La voce ancora incrinata dall’emozione, ma finalmente tranquilla.

- Accidenti… devo essere un mostro…

- Non dite sciocchezze!

John tentò ancora una volta di liberare il braccio dalla stretta di Sherlock per infilare la mano in tasca, ma si accorse subito che lui non aveva ancora nessuna intenzione di lasciarlo andare.
Si girò a guardarlo con aria seccata, e ricevendo in cambio un’occhiata innocente e stupita.
Con un sospiro rassegnato infilò rapidamente la mano libera nella tasca opposta dei pantaloni, tirandone fuori un fazzoletto bianco dalle sottili bordature azzurre. Poi sollevò completamente il busto da terra e si voltò verso la ragazza, porgendole il fazzoletto con un sorriso rassicurante.

- Siete bellissima invece.

Avvertì distintamente la presa di Sherlock sul suo polso farsi più serrata.
Quasi dolorosa.

Lady Viola arrossì impercettibilmente, nascondendo il viso dietro il fazzoletto e fissando John da dietro la stoffa chiara, con gli occhi che le brillavano di una strana luce.
Una luce nuova.

- Mi dispiace…

Abbassò il viso sul pezzo di stoffa, coprendosi la faccia.

- Mi dispiace davvero…

Senza nessun preavviso Lady Viola si lasciò cadere in avanti.
A testa bassa.
Appoggiò tutto il peso del corpo sul petto di Watson, che spalancò gli occhi, trattenendo il respiro.
Solo in quel momento, avvertendo il calore della ragazza direttamente sulla sua pelle nuda, si ricordò che aveva la camicia quasi completamente slacciata.

- Ah…

D’improvviso un dolore lancinante gli trafisse il braccio.
Talmente forte da farlo urlare.
John si morse il labbro.
Un gemito strozzato gli uscì tra i denti.

- Sherlock! Mi stai spezzando il polso!

Il volto contratto dal dorore si fissò in quello di Holmes.
Che ricambiò lo sguardo. Impassibile.
Le dita serrate attorno a quel polso con una morsa tanto stretta da sentire le ossa scricchiolare sotto la pressione dei polpastrelli.
Gli occhi colmi di un’ira fredda ed implacabile, sottili come fessure.
Puntati in quelli di John.

SBAM clang

TAP tap Tap TAP

- Da questa parte?
                    - Controllate anche qui!
     - Muovetevi!
                   - Voi di là! Agente Wise, lei di qua!

In quel momento dal fondo della scala giunsero una quantità di rumori, urla e voci che si accavallavano nell’evidente tentativo di produrre l’imitazione perfetta di una rivolta popolare, annuncio chiaro quanto chiassoso dell’entrata in scena di tutte le forze dell’ordine americane ed inglesi messe assieme, in un variopinto ed inefficiente caos.

Lady Viola Georgina Grosvenor alzò la testa, posando uno sguardo composto e sereno sul fondo della scala.

John Watson riprese a respirare, sentendo la presa allentarsi ed il sangue tornare gradualmente a scorrere nella sua mano.

Sherlock Holmes alzò gli occhi al cielo, emettendo un profondo sospiro.

- Era ora.

I suoi occhi vagarono verso l’alto, senza una meta, incontrando un inaspettato sprazzo d’azzurro che si affacciava da una piccola finestra situata a pochi metri dalle loro teste.

Un azzurro intenso.
Chiaro.

Senza nuvole.

 

 

- Ma guarda. Ha smesso di piovere.

 

 

 

 

 

Note:
1. Mi sono riservata la nota per questo capitolo nel caso qualcuno non avesse afferrato l’allusione di Holmes al cetriolo nel capitolo precedente, per mantenere un po’ di suspance… XD
Questo è un caso in cui la battuta funziona meglio in italiano che in inglese, perché qualunque britannico, e soprattutto qualunque londinese che si rispetti, quando gli viene nominato il Cetriolo, non pensa sicuramente ad una verdura, né a qualcosa di osceno, ma alla SWISS Re Tower, aka 30 St Mary Axe, aka The Gherkin (cetriolo –appunto- in inglese), il simpatico ed allusivo soprannome che le è stato affibbiato dal quotidiano The Guardian alla presentazione del progetto e poi adottato da tutta l'Inghilterra.
Il Cetriolo quindi altri non è che la torre di 42 piani alta 180 metri ideata da Norman Foster, che torreggia su Londra con la sua innegabile forma di supposta con calza a rete. Da quando è stata costruita ha caratterizzato fortemente lo skyline di Londra, divenendone uno dei simboli principali.
Tutto quello che Holmes racconta riguardo alla proprietà della torre corrisponde a verità. Così come tutto quello che dice sulle proprietà terriere della famiglia Grosvenor.
Corrispondono alla realtà anche i colori della scala di servizio della torre, peraltro (mancorrenti grigi e gradini bianchi)! XD Sempre che non l’abbiano ridipinta nel frattempo. **

2. Se volete vedere ‘Sherlock Holmes’ che recita il Frankenstein al National Theater di Londra potete andarci… perché ce lo troverete davvero! XD
Chissà, magari tra il pubblico incontrerete anche il tassista! **

3. La scena in cui Sherlock si preoccupa delle condizioni di John è una citazione quasi letterale da Arthur Conan Doyle in persona. Per la precisione ho ‘rubato’ la battuta dal racconto L’avventura dei tre Garrideb, in cui Watson viene ferito da un colpo di pistola, e Holmes pronuncia una frase quasi identica a quella usata da me: “ È ferito Watson? Per l’amor di Dio mi dica che non è ferito!”
Il seguito ovviamente è differente!XD Ma secondo me altrettanto carino. **
Ve lo riporto in inglese perché in italiano non rende:
“It was worth a wound—it was worth many wounds—to know the depth of loyalty and love which lay behind that cold mask.”
Sono peraltro ragionevolmente convinta che gli sceneggiatori della BBC si siano in parte ispirati alla stessa scena per realizzare lo scambio di battute finale in piscina.
Alla fine è uno dei nodi cruciali del rapporto Holmes/Watson nel lavoro di Doyle.
Nonché in assoluto il più slash… XD

4. Ringrazio per la terza ed ultima volta Lady Viola Georgina Grosvenor per la gentile (quanto involontaria) partecipazione! ><

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Capitolo 5
*** Deduction V ***


Disclaimers: I personaggi da me trattati appartengono in primis a Sir Arthur Conan Doyle, che ha avuto la grazia d'inventarli alla fine del 1800, in secundis alla BBC ed ai suoi ottimi sceneggiatori che hanno deciso di riadattare l’originale in chiave moderna, in terzis (non so e se esiste) agli attori Benedict Cumberbatch e Martin Freeman, che hanno dato loro le fattezze e l’interpretazione che mi hanno ispirato questa storia.

 

 

Deduction V

 

 

L'aria era tersa.

Come sempre, dopo un acquazzone.

Un sole tiepido ed abbagliante si rifletteva nelle pozze d’acqua che puntellavano le strade, infiltrandosi nelle crepe dei marciapiedi per poi scorrere via tra le pietre e l’asfalto.
Mucchi di foglie bagnate d’ogni colore tappezzavano il terreno. Vittime del violento scroscio che aveva sferzato l’aria per ore, strappandole con forza dai loro rami.

Nemmeno una nube all’orizzonte.
Quasi che si fossero completamente sciolte assieme alla pioggia, precipitando dall’alto goccia dopo goccia e depositandosi su ogni cosa, come la rugiada al mattino.

Un cielo sfacciatamente azzurro riempiva lo spazio tra gli edifici.

Baker Street sonnecchiava immersa in un’insolita calma, completamente fusa con l’atmosfera quieta della città dopo la tempesta.
Poche le macchine parcheggiate, quasi nessuna in movimento lungo la strada.
I rari passanti si affrettavano lungo il marciapiede, con la testa china, attenti a evitare ogni incontro ravvicinato tra le suole delle loro scarpe ed ogni superficie d’acqua più profonda di qualche millimetro.

Sherlock Holmes e John Watson sentirono il pesante portone del 221B richiudersi lentamente alle loro spalle, con un debole cigolio.
Rimasero immobili nell’ingresso, l’uno di fianco all’altro.
Le gambe leggermente divaricate, le mani affondate nelle tasche, tanto da tendere la stoffa della giacca fino ad allontanarla dal corpo, la testa appena sollevata, lo sguardo fisso sui primi otto gradini dell’erta scala foderata di moquette rossa che conduceva al primo piano dell’abitazione.
Appena la metà di quelli necessari per raggiungere il loro appartamento.

Watson fece penetrare con forza l’aria nei polmoni, senza staccare gli occhi da quegli scalini.

 

- Non penso di farcela.

 

Holmes si girò con calma verso di lui, senza muovere un singolo muscolo che non appartenesse al suo collo.

- Vuoi che ti porti in braccio?

- No no! Ce la faccio, ce la faccio!

Questa volta John non si prese nemmeno il disturbo di chiedersi se stesse dicendo sul serio.
E non fece l’errore di voltarsi a guardarlo.
Si mosse deciso verso la scala, affrontando il primo scalino con determinazione, fino a quando i muscoli delle gambe non gli ricordarono che avevano già dato a sufficienza per quella giornata, costringendolo a bloccare bruscamente ogni movimento.
Serrò le dita attorno al mancorrente, trattenendo una smorfia di dolore. Prese fiato ancora una volta, e poi iniziò nuovamente a salire, con estrema cautela.

Mentre stringeva quel legno scuro nel palmo della mano gli tornò in mente la prima volta che era salito per quella scala, con l’aiuto di un bastone. Altrettanto lentamente.
Frenato da un dolore immaginario che era solo nella sua testa, osservando dal basso la schiena del suo futuro coinquilino che saliva agilmente quegli stessi gradini, lasciandolo indietro.
Solo una volta arrivato in cima, di fronte alla porta d’ingresso, Sherlock si era voltato verso di lui, fermandosi ad aspettarlo.

Adesso come allora, non era cambiato molto.

Non sarebbe mai stato capace di stare al suo passo, se Holmes avesse deciso di avanzare alla sua consueta velocità.

Ma non lo fece.

Rimase dietro di lui, salendo le scale gradino dopo gradino, con lentezza.

Watson avvertiva la sua presenza alle spalle.
E si stupì nel sentirsene rassicurato.
Per la prima volta non fu colto dall’impellente desiderio di aumentare l’andatura, sforzandosi al di là delle sue possibilità nel disperato tentativo di raggiungere un ritmo se non uguale per lo meno compatibile a quello di Sherlock.

Per la prima volta lasciò che fosse lui ad adattarsi al suo passo.

Salirono quella scala un gradino alla volta.
Senza fretta.

Quando finalmente John arrivò davanti alla porta si limitò a spingerla debolmente con la mano, certo di non trovare resistenza.
Riuscì appena a fare qualche passo nella stanza, lanciando il giubbotto sulla poltrona e trascinandosi verso il divano, per poi rovinarci sopra con tutto il peso facendo appello alle ultime forze residue.
La sensazione del suo corpo finalmente libero dalle sevizie della forza di gravità adagiato su una superficie morbida lo fece mugolare di sollievo.
Allungò le vertebre sullo schienale, divaricando le gambe e distendendole il più possibile fino a quando non incapparono nel tavolino. Poi lasciò ricadere le braccia lungo i fianchi, i palmi sollevati, ed abbandonò la testa sulla spalliera con gli occhi chiusi, beandosi di quella sensazione di benessere, senza pensare a niente.

- Mmmh…

Holmes rimase ad osservarlo sull’ingresso, fino a quando Watson non smise di muoversi, poi entrò anche lui nell’appartamento, chiudendo la porta alle sue spalle e lasciandosi cadere all’indietro su di essa, la maniglia ancora tra le mani.
Il suo sguardo vagò nel caos del soggiorno, abbagliato dalla luce intensa del primo pomeriggio che penetrava attraverso le finestre.

- Casa dolce casa!

Si staccò lentamente dalla porta, infilando una mano nella tasca del cappotto e tirandone fuori una voluminosa busta marrone un po’ spiegazzata.

- Trovo che sia ancora più dolce quando hai in tasca centomila sterline in contanti guadagnate senza nessuna fatica.

- Parla per te…

La voce di John suonò tremula e sconnessa, impastata da un misto d’indolenzimento e rilassamento maldestramente mescolati assieme.
Sherlock si sfilò il cappotto mentre si voltava a guardare quel corpo inerte abbandonato sul divano, scuotendo la testa.

- Passare mesi a fare lo zoppo certo non ha potenziato la tua muscolatura.

- Mh…

Un suono gutturale uscì dalla gola di Watson, mentre con fatica sollevava un braccio e lo appoggiava sulla fronte, lasciandolo letteralmente cadere sopra gli occhi ancora chiusi.

- Vuoi che vada in farmacia a prenderti qualcosa?

John sollevò con un gesto curiosamente rapido il braccio che aveva appena appoggiato sopra la testa, ruotandola in direzione di Holmes e fissandolo con espressione incredula. Gli occhi socchiusi, la bocca serrata e le sopracciglia inarcate nella massima espressione di sospetto e scetticismo che la posizone gli consentiva.
Sherlock sostenne quello sguardo per alcuni secondi, poi si voltò verso la scrivania, scrollando le spalle.

- Ok sì, questa volta stavo scherzando.

Watson tornò a coprirsi gli occhi col braccio, emettendo un sonoro quanto rassegnato sospiro.
Holmes appoggiò la busta sullo scrittoio, iniziando poi a rovistare in quel macello di scartoffie, alla ricerca di qualcosa.
Per quasi un minuto riuscì a condurre le indagini con una modalità relativamente civile, alzando con garbo gli ammassi di libri, fogli e riviste ammucchiati uno sopra l’altro in disordine sparso, e spostando con un quasi criterio gli oggetti improbabili che si ritrovava in mano ogni qualvolta l’allungava in una zona del tavolo nascosta alla vista.
Dal divano John ascoltava quei fruscii perfettamente immobile, gli occhi ancora chiusi, seguendo in silenzio quella rumorosa ricognizione.
Solo quando i fruscii si trasformarono in tonfi, ed ogni sorta d’oggetto iniziò a cadere per terra, impietosamente abbattuto dall’impazienza di Holmes, si decise ad intervenire.

- Cosa stai cercando?

- Una busta.

- Secondo cassetto a sinistra. Sotto le cartelle verdi. Dovrebbero essercene di diverse misure.

- Hmpf.

Il mugugno inarticolato di Sherlock suonò alle orecchie di Watson come una specie di grazie, mentre avvertiva il cassetto aprirsi e richiudersi rapidamente, accompagnato da un inconfondibile fruscìo di carta da lettere.

Ma dopo qualche istante di silenzio una nuova ricerca ebbe evidentemente inizio, perché uno sguaiato baccano di cassetti aperti e poi richiusi con rapidità ed impazienza invase nuovamente la stanza.

- E ora cosa stai cercando?

- Una penna.

- Sul tavolo di cucina.

Sentì i passi di Sherlock che si dirigevano verso la sala da pranzo, poi il rumore di una sedia spostata con discreto entusiasmo.
E infine di nuovo silenzio.

Tese l’orecchio, cercando d’indovinare i movimenti di Holmes, ma nessun suono giunse dalla sala. Quindi tornò a concentrarsi sui suoi muscoli indolenziti, inarcando la schiena quel tanto che bastava per avvertire una piacevole pressione tra le scapole premute sulla morbida pelle del divano. D’improvviso un dolore sordo e fastidioso gli attraversò il braccio mentre sgranchiva le dita, e come di riflesso lo sollevò dalla fronte, alzandolo sopra la testa. Con fatica aprì gli occhi, fissandoli all’altezza del dolore, e s’imbattè in cinque piccole chiazze nere, appena sotto il palmo della mano.
D’istinto ruotò  il polso verso la luce, osservando il marchio con attenzione, nel tentativo d’immaginare come sarebbe diventato quando l’intero ematoma sarebbe affiorato del tutto. Le dita erano il punto di pressione più forte e il livido stava già comparendo, ma probabilmente avrebbe avuto un’impronta rossa tutta attorno al polso già tra qualche ora.

- Sei fiero di te? Mi resterà il segno per una settimana.

Dalla cucina nessuna risposta.
John Watson sospirò, alzando il braccio verso l’alto ed osservando la sua sagoma stagliarsi controluce. Poi chiuse ancora gli occhi e lo lasciò ricadere sul divano, con un tonfo sordo.

La testa libera.
Finalmente.

Inspiegabilmente.

Sgombra da tutti i dubbi, l’insicurezza, l’imbarazzo, la vergogna, lo stupore, l’incredulità, la rabbia, il dolore, la timidezza, l’ansia.
La paura.

Il groviglio si era sciolto.
Non esisteva più.

Probabilmente non era mai esistito, dopotutto.

Ancora una volta.
Era solo nella sua immaginazione.

La tensione accumulata fino a quel momento scivolò via di colpo.
In un istante.
Defluì dalla pelle e dai muscoli. Liberò il suo stomaco, e rilasciò le sue membra, scorrendo via dalle palpebre fino a renderle pesanti. Troppo pesanti per sollevarsi ancora.

Il rumore della sedia in cucina che si spostava ancora una volta, trascinata sul pavimento con un fastidioso stridore, colpì il suo orecchio.
Poi i passi di Sherlock risuonarono nel soggiorno, diretti verso l’ingresso.
Ad occhi chiusi John tentò d’indovinare i suoi movimenti di fronte alla porta, mentre Holmes armeggiava con qualcosa che doveva essere carta, e muoveva avanti e indietro l’anta con un gracchiante scricchiolio.
Fatica sprecata, a pensarci bene.

- Che fai?

- Sistemo questa noiosa faccenda del canone di locazione.

La tentazione di aprire gli occhi e vedere in che modo il loro ingresso, una busta ed una penna potessero risolvere la suddetta faccenda fu quasi irresistibile. Ma il peso delle palpebre vinse sulla curiosità.
Watson riuscì appena a dischiudere le labbra, pronunciando una domanda di cui non gl’interessava avere la risposta.

- Come mai ti sei deciso?

- Perché se non le darò questi dannati soldi alle quattro e mezza in punto, Mrs Hudson si autodistruggerà.

Un ghigno divertito affiorò sul volto di John.
Riusciva quasi ad immaginarsela, in procinto di sfondare la porta a forza di batterci sopra con le sue nocche ossute, col viso rosso per l’indignazione e la voce roca per il troppo urlare.
Povera Mrs Hudson.
Probabilmente le era toccato il peggior inquilino del sistema solare.

Watson buttò fuori tutta l’aria che aveva nei polmoni, con un profondo sospiro.

 

- Dimmi una cosa Sherlock… Tu sei ricco, per quale ragione ti fai tanti problemi per il costo dell’affitto?...

 

Non era chiaro nemmeno a John stesso il senso di quella domanda.
Era uscita così. Scivolando tra le maglie del buon senso e finendogli sulla lingua, per saltare poi fuori dalle labbra del tutto inconsapevole del suo peso.
Non si aspettava nessuna conseguenza.
Né alcuna risposta.

Sherlock Holmes rimase fermo accanto all’ingresso, osservando John Watson disteso sul divano con gli occhi chiusi, la testa rovesciata all’indietro, le braccia abbandonate lungo il corpo, le gambe divaricate. E un’espresione divertita sul viso.

Lo osservò a lungo. In silenzio.
Sincronizzando il respiro con il suo.
In attesa.

Era tutto il giorno che aspettava.
Anche solo un cenno.
Una sillaba.
Un gesto.

O magari un ceffone.

Qualcosa di vagamente comprensibile.
Che non fosse una risata, un silenzio imbarazzante, uno sterile elenco di banalità, uno sguardo terrorizzato.
O un’interminabile sequenza di ‘no’.

Si mosse verso il divano, evitando di fare il minimo rumore, e si fermò di fronte a John.
Senza mai smettere di guardarlo.

Doveva essere una semplice questione d’affitto.
Lo era. Era soltanto questo.

All’inizio.

Con estrema cautela si voltò, staccando gli occhi da lui e fissandoli al centro della stanza, in mezzo a quella luce abbagliante.
Piegò le gambe lentamente, lasciandosi cadere all’indietro, fino a che non impattò con la superficie del divano. Sedendosi al fianco di Watson.

La tensione accumulata fino a quel momento gli cadde addosso improvvisamente.
In un istante.
S’infiltrò nel petto. Paralizzò il suo collo e chiuse il suo stomaco, contraendo ogni muscolo del suo corpo.
La schiena rimase rigida, molto lontana dalla spalliera. Le gambe appena divaricate flesse con un angolo di novanta gradi esatti, la testa perfettamente in linea con il busto, e lo sguardo fisso nel vuoto, come incantato.

C’era qualcosa in quella posa. Così scomoda e artificiosa.
Che in qualche modo aveva la forma esatta dell’imbarazzo.

Holmes intrecciò le dita nervosamente ed alzò gli occhi al cielo, inspirando con forza.

Dio, era così difficile.
Spiegarsi.

Farsi capire da lui.

Eppure era talmente chiaro. Evidente.
Da tanto tempo ormai.
Tanto da far male al cuore.

Già.
Il cuore.

Quello che non avrebbe dovuto avere.

 

Sherlock si lasciò andare all’indietro, con lentezza, affondando la schiena nel divano. Lo sguardo fisso nel nulla.
Rimase immobile per qualche istante, con la testa appoggiata sulla parete, ben al di sopra della spalliera, incapace di staccare gli occhi dalla luce.

Forse avrebbe dovuto urlare.
Arrabbiarsi.
Afferrarlo e scuoterlo con tutta la forza che aveva.
Ignorarlo.
Prenderlo a schiaffi.

Buttare fuori le parole, senza pensare.

Eh.
Non pensare.
Una cosa che gli riusciva davvero male.

Chiuse gli occhi. Ascoltando il respiro di John seduto al suo fianco, come addormentato, inconsapevole della sua presenza.

Era davvero buffo che si trovasse in quella situazione.

Proprio lui.
Che sapeva sempre cosa fare. Prima di tutti gli altri.
Meglio di tutti gli altri.
Calmo. Freddo. Determinato.

In qualunque situazione.

Qualunque tranne quella.

 

Holmes riaprì gli occhi di scatto, puntandoli sul soffitto.
Prese fiato e trattenne l’aria nei polmoni il più a lungo possibile, fino a che non li sentì scoppiare per la pressione. Allora aprì la bocca ed espirò con forza, svuotandoli fino a sentire i bronchi contrarsi per la mancanza d’ossigeno.
Quindi iniziò a lasciarsi scivolare verso il basso, gradualmente.
Il bacino scorreva sulla pelle ruvida del divano, vincendo l’attrito della stoffa dei pantaloni, mentre la nuca grattava delicatamente la carta da parati, lasciando sul muro una scia di ciocche scure che seguivano con distacco quel movimento discendente.

Calò un centimetro ancora. Altri due. E ancora altri quattro.
Sempre più giù.
Fino a che la sua testa non si adagiò sulla spalliera, alla stessa altezza di quella di Watson.
Esattamente la stessa.

Solo allora tornò a voltarsi, fissando gli occhi in quelli chiusi di John, perfettamente di fronte ai suoi.
Guardò quel profilo tranquillo per un tempo che gli sembrò infinito. E forse lo era.
Incapace di muovere un solo muscolo del corpo, come anestetizzato da quell’espressione serena e inconsapevole.

 

Che cos’altro doveva fare?

 

Lentamente distolse lo sguardo.
Tornò a fissare il soffitto con aria assorta, perdendosi tra le mille venature del legno che osservavano sfacciatamente la sua vita scorrere sotto di loro.
Prese fiato per l’ennesima volta.

E d’un tratto lo fece.

Si lasciò cadere di lato.

Annullò lo spazio che li separava, abbandonandosi sulla sua spalla.
Appoggiò la testa nell’incavo del suo collo, senza respirare.
Senza pensare.
Finalmente.

Soltanto il suo calore sotto di lui, e il suo respiro tra i capelli.
Mai così vicino.

 

John Watson spalancò gli occhi.
Il cuore fermo nel petto.

Il peso di Sherlock addosso.
D’improvviso.
La sua testa appoggiata sul collo.
I capelli arruffati premuti sulla guancia.
Un tepore delicato attraverso la stoffa.
Il suo odore nella bocca. Nella gola.

Mai così vicino.

 

Per un’infinità di secondi si dimenticò di respirare, impedendo al corpo di compiere il benché minimo movimento, paralizzato nell’attimo in cui aveva sentito il fianco di Holmes aderire al suo.
Durò appena un istante.
Il panico.

Poi l’aria tornò a riempire i suoi polmoni, ed il cuore riprese a battere, mentre un placido sorriso spuntava sul suo volto, ed i suoi occhi si chiudevano dolcemente.

No, non ci cascava più ormai.

Non ci pensò neanche un secondo.
Ruotò la testa di lato e premette le labbra tra quei capelli.
Un brevissimo contatto.
Quel sapore gl’invase i sensi, lasciandolo stordito.

Ma fu solo un istante.

Un bacio leggero.

Poi Watson raddrizzò la testa, appoggiandola su quella di Holmes. Abbandonandosi addosso a lui.
Affondò la guancia tra i suoi capelli, prendendo nuovamente fiato e lasciando il cuore correre alla velocità che desiderava.
Con gli occhi chiusi, continuò a sorridere, assaporando il suo odore e il suo calore.

Rinunciando a capire.
Finalmente.

Limitandosi a godere di quella pace, senza chiedersi niente.

Chissà. Forse lo aveva raggiunto.
L’occhio del ciclone.

Intorno a lui tutto e tutti continuavano a roteare vorticosamente, travolti dalla furia del tornado. Spezzati e sconvolti dalla potenza dell’uragano. Del tutto incapaci di prevedere in quale direzione li avrebbe trascinati quel vento.

Ma non lui.
Non più.

Perfettamente al centro.
Lontano da ogni turbamento.
Immerso nella calma assoluta, e circondato dalla tempesta.

Esattamente nel luogo in cui voleva essere.

Quello che non riusciva ancora a distinguere, nonostante tutto, era la differenza tra stare al centro…

           … ed essere il centro.

 

 

 

 

 

 

Note:
1. Come avrete notato in questo capitolo lascio intendere, attraverso le parole di Watson, che Holmes sia discretamente ricco, e non abbia in realtà nessun problema a pagare l’affitto di Baker Street. Questo discorso si ricollega al PS che avevo aggiunto nel primo capitolo, ed è strettamente legato al fatto che… in realtà questa faccenda nunn’è cchiara. XD A prescindere dalla fonte cui si vuol fare riferimento.
Lo stesso Arthur Conan Doyle fa una discreta confusione in merito, presentandoci Holmes come un soggetto che cerca un coinquilino per abbattere i costi dell’affitto, per comunicarci poco tempo dopo che sta pagando alla signora Hudson una cifra tanto alta da comprare l’intero edificio se sommata negli anni, e non pago di ciò arriva persino a dirci –attraverso le parole di Holmes stesso- che l’investigatore ha da parte un gruzzolo tale che potrebbe benissimo permettersi di vivere in agiatezza e senza lavorare fino alla fine dei suoi giorni.
Quindi! La domanda che ora tutti si stanno facendo è questa:
Che accidenti se ne doveva fare Sherlock Holmes di un coinquilino? O.O
Solo Doyle lo sapeva. Si è portato il segreto nella tomba.
O meglio… probabilmente non lo sapeva nemmeno lui, visto che non è la prima né l’ultima incongruenza presente nei suoi racconti.
Non resta che mettersi il cuore in pace e rassegnarsi…
Io in questo caso mi sono voluta rifare alla fonte che descrive Holmes come un uomo agiato, nonostante le contraddizioni della cosa.

2. In questo capitolo ho tentato di fare un giochetto semantico che non sono certa sia riuscito al 100%, quindi facciamo un po’ di analisi logica, vi va?**
Nella parte finale ho cercato di operare un’inversione del punto di vista, trasferendola temporaneamente da Watson a Holmes.
Fin dall’inizio della fic ho mostrato quasi esclusivamente le reazioni di John alla proposta di Sherlock, lasciando che quest’ultimo costituisse solo un elemento di dubbio -per il lettore come per Watson- con il suo comportamento (pensa solo all’affitto, oppure?...). Nella scena finale invece, ribalto la prospettiva, ed in un certo senso ripercorro la giornata dal punto di vista di Holmes:
All’inizio per Sherlock è davvero solo una questione d’affitto. Uno come lui non ha certo bisogno di un pezzo di carta per confermare che Watson è il suo compagno (Mikaeru docet **). Per lui è semplicemente scontato, sottinteso. Ma la reazione di John lo spiazza, gli fa capire che lui non ha capito. E gli fa temere che per Watson non sia lo stesso.
A quel punto inizia ad aver bisogno di sentire un .
La prima proposta era davvero solo un “Vuoi mettere una firma su un pezzo di carta per pagare meno d’affitto?”.
Ma la seconda volta che arriva la domanda… significa tutta un’altra cosa.
La fic si focalizza sui dubbi e sull’incertezza di John, ma nel pezzo finale del capitolo si dovrebbe capire che per tutto il tempo, praticamente fin dall’inizio, la posizione di Holmes è stata assai più scomoda della sua.
È lui che si è proposto, ricevendo come risposta una risata, seguita poi da strani balbettamenti molto più vicini ad un no che ad un .
È lui che di fatto viene rifiutato, più di una volta. Ritrovandosi persino un John che flirta con una bionda diciottenne miliardaria.
In buona sostanza, rivisitando l’intera storia dal punto di vista di Sherlock, Watson si comporta come uno stronzo di prima categoria… XD
Ovviamente Holmes si rende conto che parte del problema consiste nel fatto che non riesce a spiegarsi come dovrebbe, e viene frainteso. Ma allo stesso modo non riesce a fare di meglio.
È la storia della sua vita: cercare di spiegare quello che nella sua mente è chiarissimo ma che gli atri non riescono ad afferrare in alcun modo.

What's it like, not being me? It must be so relaxing.… XD

Tutto ciò si sarebbe dovuto capire dalla parte finale del capitolo. **
Ho tentato di concentrarlo rendendolo allo stesso tempo il più possibile chiaro ed evidente, ma via via che scrivevo mi sono resa conto che per farlo capire perfettamente senza spiegarlo in modo esplicito avrei dovuto ricominciare da capo la giornata dal punto di vista di Holmes, e la mia idea non era quella.
In un certo senso anzi preferivo che il suo punto di vista fosse meno chiaro, più sfuggente, una finestra aperta sul suo modo di pensare e poi subito richiusa, per lasciare spazio all’immaginazione di chi legge.
Poi però ho pensato anche che mi dispiaceva se non si capiva questa cosa, allora ho aggiunto la nota! XD

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Capitolo 6
*** Epilogue ***


Disclaimers: I personaggi da me trattati appartengono in primis a Sir Arthur Conan Doyle, che ha avuto la grazia d'inventarli alla fine del 1800, in secundis alla BBC ed ai suoi ottimi sceneggiatori che hanno deciso di riadattare l’originale in chiave moderna, in terzis (non so e se esiste) agli attori Benedict Cumberbatch e Martin Freeman, che hanno dato loro le fattezze e l’interpretazione che mi hanno ispirato questa storia.

 

 

 

Epilogue

 

 

 

Alle ore quattro, zero minuti e undici secondi Mrs Hudson salì l’ultimo gradino ed approdò sul pianerottolo, fermandosi di fronte all’appartamento di Sherlock Holmes.

Si schiarì la voce, preparandosi spiritualmente alla dura prova che l’attendeva, ed accostò il dorso della mano alla porta, pronta a bussare per l’eternità e oltre, se fosse stato necessario. Ma qualche istante prima di toccare il legno si fermò, accorgendosi dello spiraglio di luce che filtrava dall’anta appena accostata.

-Sherlock, John, siete in casa?...

Attese per qualche istante una risposta, poi spinse la porta con delicatezza, cercando d’intravedere qualche segno di vita attraverso la fessura che si allargava lentamente davanti ai suoi occhi.

D’improvviso qualcosa cadde dall’alto, direttamente sulle sue mani.

- Ah!...

Mrs Hudson trasalì, tirandosi indietro di scatto, ma i suoi riflessi, ancora ottimi nonostante l’età, furono più rapidi del suo pensiero, ed istintivamente allungò una mano in avanti, intercettando l’oggetto non identificato prima che cadesse a terra.

Nell’instante in cui le sue dita si chiudevano attorno a quella cosa maledisse la sua prontezza.
Chissà quale orrore stava toccando.
Conoscendo il proprietario dell’appartamento sarebbe stata fortunata se si trattava di una testa di cane o di un ratto essiccato.

Non appena ebbe l’oggetto tra le mani e poté osservarlo da vicino fu evidente la sua natura innocua, e la donna sembrò tranquillizzarsi.

Era una busta.
Una busta bianca, formato classico, un po’ spiegazzata.

L’indiscrezione prese rapidamente il posto della preoccupazione, mentre Mrs Hudson iniziava a pontificare sul contenuto di quella che sembrava a tutti gli effetti essere una lettera, passando mentalmente in rassegna il reato di violazione della privacy.
Girò la busta sul dorso, alla ricerca di un eventuale destinatario, e vi trovò una scritta a penna, in corsivo, tracciata dall’inconfondibile calligrafia di Holmes.

 

Per Mrs Hudson

 

- Oh, ma guarda…

Completamente catturata dalla curiosità, la donna fece qualche passo nella stanza aprendo completamente la porta, con gli occhi fissi sulla busta.
Le sue dita sollevarono agilmente e con una certa dose di fretta un lembo del plico, rivelandone il contenuto.
Era piena di sterline di grosso taglio, infilate dentro alla rinfusa, tutte spiegazzate ed accartocciate nei più vari modi, come pezzetti di carta privi di valore.

Sul volto rugoso di Mrs Hudson comparve un tenero sorriso.

- Ero certa di poter contare su di voi, Sherlock. Mi rincresce d’ essere stata così rigida, ma dovete capirmi… con questa crisi si deve tirare la cinghia… Solo i ricchi possono permettersi di essere pazienti…

Mentre parlava i suoi occhi scorrevano tra le banconote, iniziando a sommarle rapidamente.

Cinquanta. Cento. Duecento.

- A proposito di ricchi! La sapete l’ultima? L’ho appena sentita alla radio! Il duca di Westminster ha annunciato le nozze di Lady Viola con Howard Warren Buffet! Quel supermiliardario americano!
Cioè… non proprio lui, è il nipote. Ma non c’è molta differenza, credo.

L’operazione  di conteggio era meno semplice del previsto.
Ogni volta che individuava un foglio da 50 doveva liberarlo dalla matassa degli altri, lisciandolo tra le dita ed inserendolo nuovamente nella busta in posizione più acconcia.

Trecento. Trecentocinquanta. Quattrocento. Quattrocentocinquanta.

- È una notizia incredibile! Il Dow Jones ha già guadagnato 3 punti dopo l’annuncio ufficiale! E il Footsie addirittura 5!

Lo sguardo fisso sulle banconote, del tutto ignara di chi o cosa avesse attorno, Mrs Huson parlava senza essersi realmente sincerata di avere un interlocutore.
La sua innata dote di contabile e la sua sviscerata passione per le chiacchiere mondane le permettevano di elaborare la somma contemporaneamente al pettegolezzo.

Seicento. Settecento. Ottocentocinquanta.

- Si sposeranno il 15 di Maggio, in cima al Gherkin!
Ma non dentro eh! Proprio in cima! Si faranno portare su da un elicottero, o qualcosa del genere. E anche il prete lo porteranno lassù! E spargeranno dall’alto petali bianchi di cento fiori diversi durante tutta la funzione!
Bah! Scommetto che è un’idea dell’americano questa! Noi inglesi non organizzeremmo mai una cerimonia così pacchiana.

Mille.

- Oh che caro ragazzo! Avete aggiunto anche i soldi per la riparazione del muro! L’ho sempre detto che in fondo siete-…

La voce le morì in gola.
Quando Mrs Hudson sollevò lo sguardo dalla busta, divenendo  finalmente consapevole dell’ambiente in cui si trovata, i suoi occhi si posarono d’istinto sul divano di fronte a lei.
E allora li vide.

Sherlock Holmes e John Watson.

Seduti su quel divano. Profondamente addormentati.

 

L’uno appoggiato all’altro.

 

Per poter posare la testa sulla spalla di John, Sherlock era scivolato talmente in basso col bacino da uscire dal sedile, restando sospeso nel vuoto con metà del busto.

Era tanto più alto di lui.
Eppure adesso sembrava così piccolo, accartocciato in quella scomoda posizione. Abbandonato sul fianco di Watson con tutto il suo peso, la testa perfettamente inserita nell’incavo del collo, come se esistesse da sempre all’unico scopo di esservi ospitata.
Il suo corpo era come in bilico. Completamente sbilanciato. Costretto a schiacciare le sue membra lunghe e sottili verso il basso, pur di poter stare alla sua stessa altezza.

Pur di potersi appoggiare addosso a lui.

La testa di Watson era posata sulla sua.
La guancia affondava tra i suoi capelli, nascondendo il viso tra quelle ciocche scure e disordinate.
La fronte distesa. Il collo reclinato, come lo stelo di un fiore che si flette sorpreso da un’imprevedibile nevicata fuori stagione.
Il busto leggermente obliquo. In modo quasi impercettibile.
Appoggiato a quello di Holmes.

La frequenza del loro respiro era in perfetta sincronia.
Il loro petto si alzava e si abbassava all’unisono, seguendo un ritmo lento e regolare.
Le braccia abbandonate lungo il corpo si sfioravano delicatamente, ricadendo oltre il bordo del divano con una curva leggera.

Mrs Hudson osservò a lungo quei volti quieti, rilassati, svuotati d’ogni pensiero. Senza riuscire a definire con chiarezza il sentimento che provava guardandoli.
Un bizzarro impasto di tenerezza ed invidia, che non riusciva a controllare né indirizzare, e che lasciò infine affiorare delicatamente nel petto.

Un dolce sorriso comparve sul suo volto.

Sì, proprio quello.
Quel sorriso che affiora dall'anima solo nell’istante in cui diventa tutto chiaro.
Quello che si schiude sulle labbra soltanto il giorno in cui s’incontra qualcosa che capita di vedere una sola volta nella vita. Quando si è molto fortunati.

E non c’è più niente da chiedere. Né alcuna risposta da dare.
Perché va bene così.
Non manca niente.

Tutto è già completamente perfetto.

Mrs Hudson prese un grande respiro, scuotendo leggermente la testa, senza mai smettere di sorridere.
Poi distolse a fatica lo sguardo, e lo fece vagare nella stanza, come alla ricerca di qualcosa, finché i suoi occhi non si posarono sulla poltrona nera alle sue spalle, sulla quale Sherlock aveva lanciato il suo cappotto.
Con un gesto rapido richiuse la busta ancora aperta che aveva tra le mani e la infilò in tasca, dirigendosi verso la poltrona e prendendo in mano la giacca.

Lentamente, attenta a non fare alcun rumore, tornò ad avvicinarsi ai due uomini addormentati.

Si fermò di fianco al tavolino, osservandoli ancora per qualche istante.

Poi tese il cappotto tra le mani e si allungò dolcemente in avanti, posandolo addosso ad entrambi, con delicatezza.

Aggiustò appena il tessuto sui loro fianchi, per evitare che scivolasse. E si tirò subito indietro trattenendo il fiato, cercando sui loro volti un minimo segno, un aggrottarsi di ciglia, un’alterazione del respiro che tradisse il disturbo provocato dalla sua azione.

Ma niente di loro si mosse.

Mrs Hudson indietreggiò lentamente, continuando a guardarli.

Si fermò a pochi passi dalla porta, scoprendosi incapace di staccare gli occhi da quella scena. Incatenata a quell’istante di cui solo lei in tutto il mondo era testimone.

Prese un altro grande respiro.
E si decise a voltarsi.

Varcò la porta con passo leggero e si avviò per le scale, in direzione del suo appartamento.
A metà della prima rampa rallentò l’andatura, fin quasi a fermarsi.
Infilò una mano in tasca e strinse tra le dita la busta piena di sterline, scuotendo la testa con rassegnazione, mentre una vaga espressione di biasimo compariva sul suo volto.

 

- Mi chiedo come mai non si siano ancora decisi a sposarsi! Risparmierebbero un sacco di soldi sull’affitto!

 

Il suono dei suoi passi riprese ad allontanarsi, sparendo nel vano delle scale, fino a quando la stanza non ritrovò la sua calma, e la sua quiete.

Il sole ormai basso sull’orizzonte disegnava lunghe ombre dietro ogni oggetto che sfiorava, irradiandolo d’una luce calda e sottile.
Fuori dalla finestra il cielo era ancora azzurro, ma i primi accenni del tramonto iniziavano già a mescolarlo al rosso ed all’arancio.
In lontananza il sommesso latrato di un cane.
Un remoto richiamo.
Poi più nulla.

Attraverso la porta aperta il brusio della radio di Mrs Hudson giungeva dal basso, appena percettibile.

 

- La risposta è sempre no?

 

La sua voce riempì la stanza, facendo a pezzi il silenzio.

Non sapeva nemmeno a chi l’aveva chiesto.
Una seconda volta.

Probabilmente lui stava già dormendo da un’ora.

 

- Sì

 

Sherlock Holmes aprì gli occhi.

 

- Sì nel senso di… sì, la risposta è sempre no?... Oppure sì nel senso di…

 

John Watson sorrise.

 

Il flebile suono della radio diffondeva nell’aria una ballata lenta.
Melodica.

 

Un fragile canto di chitarra, e parole confuse.

 

 

Du du ruru
           Du du ruru

                                                    Du du ruru

                                      Du du ruru

 

            I'm quiet you know

                   You make a first impression


                                                  But I've found I'm scared to know I'm…

                                       …always on your mind


                                                                   Even the best fall down sometimes


                                                        Even the wrong words seem to rhyme


                      Out of the doubt that fills my mind


                                                                                    I somehow find


                                                                                                          you and I

 

                                                                                                              collide

 



                                               Don't stop here


                                  I lost my place

 


                                            
I'm close behind

 

                
                   Du du ruru
          Du du ruru

                         Du du ruru

 

                                                        Du du ruru

 

 

 

 

 

Note: (sarà una lunga notte, preparatevi…**)
1. Immagino che molte/i di voi -quantomeno quelli che stanno leggendo la fic in fieri- si staranno chiedendo…
Ma quante volte la fa ‘sta benedetta domanda Holmes? O.o
In realtà una volta sola. XD (due se contiamo quella iniziale, ovviamente)
L’avevo inserita alla fine del capitolo precedente per creare suspance, e volevo mettere la risposta nell’epilogo, ma mi sono accorta che separando la domanda dalla risposta, la risposta cambiava radicalmente di senso… **;;
Quindi mi sono limitata ad eliminare la suspance dal capitolo V.  ><
Mi dispiace per la modifica in corso d’opera! >< Spero che non vi abbia rovinato in alcun modo la lettura.

2. Una promessa è una promessa… Quindi è giunto il momento di spiegare più approfonditamente il significato che do al titolo di questa fic.
Voglio crescere nel tuo giardino per me è un’espressione perfetta -poetica al punto giusto senza essere sdolcinata, ed allo stesso tempo fortemente ed accuratamente descrittiva- di quella che è la materia concreta dell’unione tra due persone.
Non ha niente a che vedere con i contratti, il sesso, gli affitti da pagare, i figli, le regole sociali, quello che dice la gente, o i giuramenti di fronte a Dio o a testimoni. Racconta semplicemente la scelta di vivere insieme a qualcuno, non tanto fisicamente, quanto mentalmente e spiritualmente. È la decisione di evolvere all’interno del ‘giardino’ dell’altro, che non è un luogo fisico, ma è quel posto astratto nel quale risiede l’essenza di una persona, la sua anima, il suo modo di essere.
Voglio crescere nel tuo giardino è voler lasciare il proprio mondo, per mettere radici in quello dell’altro, adattandosi al suo clima, e cibandosi della sua terra. Non è un semplice «voglio stare nel tuo giardino» che auspica una mera e potenzialmente brevissima vicinanza. Il concetto di crescita sottintende una volontà di lunga permanenza. Un desiderio d’improntare se stessi ed il proprio futuro sulla presenza dell’altro nella propria vita.
Voglio crescere nel tuo giardino è un Voglio sposarti libero da tutte le convenzioni contrattuali, sessuali, religiose e sociali del termine. È il modo più breve, completo e calzante di dire «voglio sposare la tua persona, voglio far parte del tuo modo di essere, voglio imparate da te ed insegnarti quello che so, voglio divenire al tuo fianco e grazie a te, in modo che ciò che io sarò in futuro non sarà mai più scindibile dalla tua presenza nella mia vita».
Che la risposa di Watson fosse no (camuffato da sì), oppure realmente sì, non ha importanza.
Non ne ha nessuna.
John può sposare Holmes, oppure Mary Morstan, o Pamela, o Rita.
Non ha una grande rilevanza ciò che avviene di fronte alla legge, sotto le lenzuola, di fronte a Dio, a Mrs Hudson, di fronte al fisco o al resto del mondo. Perché in realtà quello che succede, e che non smetterà mai di succedere, è che le menti e le anime di questi due uomini continueranno comunque a voler crescere nello stesso giardino, legate da qualcosa che non è amore e non è amicizia,  non è stima e non è ammirazione, non è rispetto e non è un rapporto di lavoro, ma è qualcosa che sta in mezzo a tutte queste cose, le comprende tutte e non ne incarna perfettamente nessuna.

La risposta alla domanda di Holmes in realtà è già stata data prima che la facesse.
Ancor prima di scrivere qualsiasi altra cosa.
Per questo ho potuto spiegarlo solo ora.

Tra l’altro il tema ‘ortofrutticolo’ è a mio avviso particolarmente azzeccato per un’altra ragione:
Avrete sentito parlare della teoria secondo cui ogni coppia riuscita (d’innamorati come di amici) è sempre composta da un fiore e da un giardiniere. Il rapporto in sostanza per funzionare non può essere paritario, ma deve essere guidato da un ‘curatore’ (il soggetto preponderante del rapporto, cioè il giardiniere) che si occupa  del ‘curato’ (il soggetto più debole, che necessita della guida dell’altro, cioè il fiore).
Tra Holmes e Watson l’ovvio è considerare Sherlock il giardiniere, il ‘conduttore’ indiscusso del rapporto. Lui decide, lui fa, lui disfa, lui trascina la mente di John nella sua, costringendolo a corrergli sempre dietro, sconvolgendo la sua vita, educando il suo intelletto, mostrandogli ciò che non conosce ed insegnandogli quello che non sa. Sin dal primo momento in cui s’incontrano Watson viene letteralmente trapiantato nel giardino di Holmes, mette radici nel suo mondo, e cresce nutrendosi della sua eccezionalità.
Questo è sicuramente vero, ma è vero anche l’inverso.
Perché se è innegabile che sia Sherlock Holmes a guidare Watson, immergendolo nella sua genialità, è vero allo stesso modo che John si prende cura di Holmes, curando l’aspetto ‘umano’ della sua vita, di cui Sherlock ha scarsissimo controllo. Sotto questa luce è Holmes ad essere un fiore raro e prezioso che necessita di cure del tutto particolari, e Watson è il diligente giardiniere che si occupa di zappettare intorno alle sue radici e fornirgli la giusta quantità di acqua.
E non solo questo.
Mi dispiace un po’ che la serie BBC, seppur splendida e straordinariamente fedele all’originale nella sua attualizzazione, non abbia avuto il coraggio di andare fino in fondo (almeno per ora) portando a galla un tema che sarebbe adattissimo al ventunesimo secolo.
Quando Holmes incontra Watson, è un drogato.
Ma non un drogato leggero, è un uomo che s’inietta in vena cocaina ed eroina TRE VOLTE AL GIORNO. Ha le braccia piene di buchi. Nei periodi in cui non lavora su un caso cade in uno stato depressivo cronico, che tenta di combattere con le sostanze stupefacenti.
Quando Holmes incontra Watson, sta camminando sull’orlo di un precipizio. La sua vita (come quella di molti geni) è totalmente sbilanciata dalla sua genialità, che da un lato lo rende superiore agli altri, ma dall’altro lo porta all’autodistruzione.
È Watson che inconsciamente lo afferra per il bavero della giacca e piano piano lo allontana da quel precipizio, divenendo il suo ‘aggancio’ alla normalità.
La potenza è nulla senza controllo.
E John Watson in qualche modo diventa il controllo di Sherlock, il suo contrappeso, quel qualcosa che lo mantiene in equilibrio.
Così com’è avvenuto per Watson quindi, allo stesso modo anche Holmes viene lentamente trapiantato nel giardino del dottore, mette radici nel suo mondo, e cresce nutrendosi della sua normalità.
Entrambi sono il fiore ed il giardiniere, a seconda del punto dal quale li osservi.
Per questo il loro rapporto, apparentemente sbilanciatissimo, in realtà è perfettamente equilibrato.
Sono come le due braccia di una bilancia. Entrambe tirano dal lato inverso l’una all’altra, e se fossero separate cadrebbero in direzioni opposte, ma finchè saranno unite, resteranno in perfetto equilibrio.

3. Nella serie BBC, quando Watson (scambiato per il fidanzato di Holmes) visita Baker Street per la prima volta, Mrs Hudson parla di un’altra affittacamere della zona, tale Mrs Turner, la quale a suo dire ‘prenderebbe anche coppie gay sposate’. La precisazione lascia intendere che Mrs Hudson NON lo fa (chissà.. magari proprio perché pagherebbero troppo poco d’affitto! XD), e ciò sarebbe in apparente contraddizione con la frase che pronuncia alla fine della fic, in cui auspica un matrimonio tra Holmes e Watson.
Ma io sono certa che per Sherlock farebbe un’eccezione. ;)

4. Il Dow Jones e il Footsie (FTSE in realtà, che sta per Financial Times Stock Exchange, ma si sa…gli inglesi sono spiritosi…) sono i due indici di borsa ragionevolmente più attendibili per valutare il benessere economico rispettivamente degli Stati Uniti e dell’Inghilterra.
Come aveva giustamente predetto Holmes, l’annuncio di un matrimonio tra due delle famiglie più ricche del mondo ha creato scompiglio.

5. La canzone che manda la radio di Mrs Hudson è Collide di Howie Day.

 

Ed eccoci arrivati alla fine…
Ringrazio un milione di volte tutte le coraggiose -e gli eventuali coraggiosi- che hanno osato spingersi fin qui, non solo per la pazienza di aver letto questa roba interminabile (16mila caratteri, cavoli… mi sorprendo di me stessa XD), ma soprattutto per la gentilezza dimostrata nei commenti e negli apprezzamenti, tutti davvero bellissimi e immeritati.
Vi ringrazio soprattutto perché avete accolto me e il mio ‘lavoro’ con gentilezza e calore, nonostante fossi un’emerita nessuna che è entrata nella sezione ‘a gamba tesa’, sparando lì una long senza troppi complimenti. ><
Questo fandom è davvero accogliente, e sono molto felice di aver avuto il coraggio ed il tempo di condividere con voi la mia folle idea.
Grazie a tutte/i!
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