Fratelli contro

di Blackvirgo
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Il sorriso di Toki ***
Capitolo 2: *** Le lacrime di Raoul ***
Capitolo 3: *** Lacrime in sorrisi ***



Capitolo 1
*** Il sorriso di Toki ***


Nuova pagina 2

Il sorriso di Toki


Nel carcere di Cassandra l’unico suono era il pianto: dei prigionieri, dei muri e dei demoni. A volte persino quello dei carcerieri. Aveva mura solide, il carcere di Cassandra, cancelli robusti e guardie ad ogni entrata. Solo la luce mancava ché la disperazione è sposa del buio.
Toki era grigio e immobile come la pietra della sua cella, non emetteva un fiato, un lamento o un gemito. Né pareva sentire le grida di agonia, i singhiozzi e i pianti che aleggiavano nell’aria assieme alla polvere.
I suoi carcerieri avevano avuto l’ordine di osservare ogni suo movimento, ma persino gli occhi del guerriero erano immoti. E alle guardie non restava che fissare una statua di cera incatenata.
Toki sedeva, immobile, proprio come faceva al monastero di Hokuto, nelle lunghe ore passate in meditazione, quando il tempo gli scivolava addosso e lui si concentrava in se stesso, estraneo ad ogni suono, ad ogni luce, ad ogni cosa.
Poi c’era stata l’Apocalisse e tutto era cambiato.
Era rimasto per due settimane a guardare in faccia la solitudine e la morte ed era sopravvissuto. Profondamente cambiato, ma pur sempre vivo. Quando l’allarme era cessato e Ken lo aveva dissepolto dalle ceneri velenose, Toki aveva trovato conforto tra le braccia del fratello e aveva potuto addormentarsi col sorriso, senza sapere – e, per la prima volta, senza preoccuparsi – se si sarebbe risvegliato o meno. Aveva abbracciato suo fratello e insieme a lui il sonno e l’oblio.
Si era svegliato nel suo letto, ma le radiazioni che erano entrate in ogni fibra del suo corpo lo stavano mutando: il tempo, per lui, aveva cominciato a scorrere veloce, molto più veloce di prima. Era fuggito da Hokuto, incapace di resistere a tanti sguardi affettuosi e pietosi, che leggevano nei suoi capelli candidi e nel suo volto provato le stigmate di una morte che lui non voleva – non ne era ancora pronto! – provare dentro. Se n’era andato e aveva vagato senza meta, senza scopo, ben conscio di avere poco tempo e nessuna soluzione al passato o al futuro. Finché era giunto a Miracle Village: in mezzo a tanto squallore e disperazione si era sentito a casa e, giorno dopo giorno, aveva ridato un senso alla vita che gli restava da vivere. Aveva tirato fuori da un cassetto il suo vecchio sogno di utilizzare le tecniche fatali della scuola di Hokuto per portare guarigione. Era così che si era meritato l’appellativo di “Salvatore” e la sua venuta veniva acclamata in ogni villaggio in cui metteva piede. Ma la distruzione sembrava seguirlo come la sua ombra e anche Miracle Village – la sua nuova casa – non era stato risparmiato dai banditi e dai predoni che scorrazzavano per il deserto. Di nuovo ogni equilibrio faticosamente costruito, ogni speranza creata dal nulla venivano distrutte dalla ferocia degli uomini. Proprio come quando un cacciatore gli aveva ammazzato Koko davanti ai suoi occhi, la rabbia lo aveva accecato: aveva sterminato i predoni per poi rimanere senza forza e diventare egli stesso una facile preda, venire catturato e portato a Cassandra assieme alla propria disperazione.
“Il re di Hokuto non vuole che costui incontri l’Uomo dalle Sette Stelle,” aveva detto uno dei suoi carcerieri mentre lo trasportavano a Cassandra.
Una frase che, in lui, aveva fatto rinascere fiducia, attesa e speranza. Perché solo un uomo poteva autoproclamarsi re quando Hokuto aveva sempre avuto solo un erede, solo un predestinato benedetto dalle sette stelle dell’Orsa Maggiore.
Potevano essere solo loro: Raoul e Kenshiro. Il fratello maggiore e il fratello minore.
La prigione di Cassandra divenne per Toki un luogo di riposo e meditazione. Il luogo ideale per attendere il proprio destino. Avrebbe affrontato di nuovo il buio e la solitudine, ma non l’avrebbe fatto con la certezza di morire. Aveva bisogno di prepararsi a vivere.
Fino allora il buio sarebbe stato perfetto.
Fino a quando i suoi carcerieri ebbero qualcosa da riferire: Toki aveva sorriso.
Il suo destino era arrivato e non si era limitato a bussare alla porta: l’aveva divelta.
 

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Capitolo 2
*** Le lacrime di Raoul ***


Le lacrime di Raoul


Nella vita di ognuno ci sono episodi che sono come fratture: per quanto si possa gettare un ponte tra le due estremità, la crepa rimane, insanata e insanabile, a ricordare, in ogni momento, che c’è stato un prima e un dopo.
Quando Toki si guardava indietro, vedeva la sua vita come una strada collegata da una lunga fila di ponti. Nei rari momenti in cui era il pessimismo o la tristezza o la stanchezza a dominarlo vedeva un paesaggio solcato da innumerevoli fenditure.
La prima di queste fratture risaliva alla sua infanzia, quando Toki e Raoul si erano ritrovati a osservare le lapidi dei loro genitori e della loro infanzia. Abbandonati, ma non soli: in quel momento erano due bambini che, uniti, credevano di avere la forza di non lasciarsi sopraffare dal mondo. Fu allora che comparve un uomo dagli occhi freddi che, lungi dal lasciarsi impietosire dalla loro condizione di orfani, li aveva messi alla prova, li avevi messi contro. O almeno ci aveva provato. E, fosse dipeso solo da Toki, ci sarebbe anche riuscito: piccolo e disperato, vedeva nel mondo un mostro in grado di divorarlo in ogni momento e si vedeva impotente davanti a tanta crudeltà e sfortuna. Ma non era dipeso solo da Toki: Ryuken avrebbe dovuto fare i conti con l’amore e la determinazione di due bambini che avevano solo il loro legame a difenderli dal mondo.  Caro, caro Raoul: forte e volitivo, non avrebbe mai permesso a nessuno di fare del male al suo fratellino e, piuttosto che abbandonarlo, aveva preferito rischiare di precipitare assieme a lui da quella maledetta scarpata, ma abbandonarlo mai. Avevano giurato di restare insieme e i giuramenti vanno rispettati, soprattutto se sono giuramenti di sangue.
“Quando due fratelli aspirano allo stesso destino, prima o poi dovranno affrontarsi,” aveva profetizzato il maestro Ryuken, rivedendo se stesso e un altro ragazzino di tanti anni prima nei due fratelli che lo fronteggiavano. Occhi scuri e così risoluti da apparire cattivi sul volto dell’uno, occhi chiari, pieni di speranza e terrore sul volto dell’altro. Alla fine aveva accettato di accogliere entrambi sotto il suo tetto e le circostanze lo portarono ad allenare entrambi per un titolo che solo uno avrebbe ereditato.
Tuttavia Ryuken non aveva capito che condividere lo stesso destino non sarebbe bastato a mettere due fratelli l’uno contro l’altro: per quello ci voleva la stessa ambizione, lo stesso cieco e ottuso orgoglio. Ma aveva sbagliato: lui, Toki, non aveva mai desiderato quel destino, né tantomeno avrebbe mai voluto scontrarsi con Raoul per un titolo a cui non aspirava.
Un titolo che sembrava importante solo per Raoul e per Jagger. Non per lui né per Kenshiro che alla fine aveva battuto tutti. Ken, il bambino dallo sguardo triste e sincero. Cosa avevano già visto i tuoi occhi, Ken?
“Sei stato un ottimo allievo e diventeresti un grande maestro, Toki,” gli aveva detto Ryuken, un giorno, “ma non hai l’anima del guerriero.”
Era per questo che non era stato scelto per diventare il successore della Sacra Scuola di Hokuto: l’eredità – il futuro – era di Kenshiro.
L’anima del guerriero: ci avrebbe messo molto tempo a comprendere cosa intendesse il Maestro Ryuken con quelle quattro parole.
Ora, Toki ci era riuscito: per l’ennesima volta, il maestro Ryuken aveva dimostrato di non aver mai compreso fino in fondo i suoi allievi. Per Ryuken l’anima del guerriero era l’anima del combattente. Per Ryuken – che aveva combattuto anche contro il proprio fratello, che l’avrebbe ucciso se questi non si fosse arreso – il più grande onore era diventare l’erede di Hokuto.
Il mite, saggio Toki, il cui sogno era di applicare alla medicina le arti della scuola di Hokuto, non poteva apparire un guerriero agli occhi miopi di Ryuken, agli occhi di un uomo per il quale le uniche, reali guerre erano quelle in cui si abbattevano nemici e fratelli con colpi mortali, tramandati da millenni in un monastero sconosciuto ai comuni mortali.
Fato volle che sia Ryuken che il fratello battuto cadessero proprio sotto quei colpi mortali, portati con forza e maestria da uno degli allievi che Ryuken stesso aveva rigettato e, alla fin fine, messo contro ai propri fratelli.
Il destino ha modi bizzarri di manifestarsi. A volte è discreto e bussa alle porte, altre volte è così irruente da scardinarle. Il destino è spesso crudele: non lo si può piegare e nemmeno guarire.
Il destino è una stella, una maledizione, una strada già tracciata. Per Raoul il destino era un’opera da costruire con il proprio pugno, a costo di cancellare quello che molte altre mani avevano costruito. Raoul non aveva mai accettato che qualcuno potesse decidere per lui se non lui stesso: così come, da bambino, non aveva accettato di separarsi da suo fratello, ora, da uomo fatto e finito, non avrebbe accettato nessuna interferenza nel suo progetto di diventare Imperatore del Mondo.
Un giorno, tanto tempo prima, Toki aveva fatto un giuramento Raoul. E i giuramenti vanno mantenuti, e soprattutto quelli di sangue.
Glielo aveva chiesto Raoul stesso – caro, caro, Raoul! – in quel giorno in cui si vide privato della sua eredità. Erano insieme, nella sala principale del tempio, quando Jagger era entrato trafelato e arrabbiato. “Ha scelto Kenshiro,” aveva detto. “Il maestro Ryuken ha scelto Kenshiro! Non avete intenzione di fare nulla voi due?”
Il silenzio era stato l’unica risposta che avevano concesso a Jagger. Silenzio e disprezzo.
Poi Raoul si era alzato in piedi: “Dovrai fermarmi se mai farò qualcosa di stupido. Sei l’unico a poterlo a fare.” E se n’era andato. Toki lo aveva guardato allontanarsi senza dire nulla, con il cuore pesante e una sensazione – dentro – di vuoto crescente. Una crepa nel cuore. Toki aveva pensato, molte volte, che non avrebbe mai dovuto lasciar partire Raoul: quella sì che era stata una mossa veramente stupida. Allora – prima della fine del mondo – avrebbe potuto fermarlo. Avrebbe potuto ricordargli un altro giuramento di tanti anni prima in cui – bambini in un mondo feroce – avevano deciso di affrontare la vita insieme. Di difendersi l’un l’altro. Ma il destino è un serpente che si morde la coda e lo fa con denti avvelenati.
Caro, caro fratello.
Toki e Raoul erano uno di fronte all’altro, occhi neri e tanto determinati da apparire cattivi, occhi azzurri pieni di speranza e di tristezza. Si erano ritrovati nel luogo di quel primo fatidico giorno, ad osservarli da lontano vi erano le tombe in cui avevano sepolto i loro genitori assieme alla loro infanzia e Kenshiro, l’uomo dalle sette stelle. Il futuro e il passato.  
Sembrava che la profezia del Maestro Ryuken si fosse finalmente avverata: Toki e Raoul avrebbero dovuto combattere. Per davvero. Solo che non lo facevano perché ambivano alla stessa posizione, ma perché il giuramento tradito di tanti anni prima esigeva un tributo fatto di sangue e di parole, di ricordi e colpi micidiali, di sorrisi e di lacrime.
Ripercorsero assieme la loro vita – insieme, bambini, allievi di Ryuken, maestri degli altri fratelli, e poi adulti a percorrere insieme strade tanto diverse quanto solitarie –  e fu come conoscersi di nuovo.
Raoul conobbe in Toki il guerriero che non aveva mai visto, capace di parare e sferrare colpi letali con il sorriso sulle labbra e la serenità nel cuore, come il mare calmo che accoglie il fiume impetuoso e che, a sua volta, può scatenare tempeste furibonde.
Toki vide affiorare in Raoul la pietà che mai aveva mostrato: vide lacrime rigargli le guance, mentre ricordava e combatteva, caricando ogni pugno con tutta la sua forza, con tutta la sua determinazione e con tutta la sua rabbia. Era uragano e fulmine e terremoto.
Quando caddero a terra, Toki, ormai stremato, si arrese. Incapace di rialzarsi, attese. Aveva fatto ciò che doveva: sapeva che non avrebbe potuto fermare Raoul nelle sue condizioni, ma finalmente aveva ritrovato suo fratello. Aveva ritrovato l’uomo che se n’era andato da Hokuto senza voltarsi indietro e aveva ritrovato il bambino che non lo aveva abbandonato. E anche Raoul lo aveva ritrovato mentre piangeva, inginocchiato accanto al corpo troppo provato, troppo invecchiato e troppo fragile di Toki. “Mio saggio e gentile e fratello,” mormorava, colmo di rabbia, tristezza e frustrazione. Alzò il pugno per calare l’ultimo colpo, ma si sa che le lacrime appannano il cuore ancora più degli occhi.
Il suo pugno fece tremare la terra: i pochi spettatori pensarono che per Toki fosse giunta la fine. Solo per un attimo.
“Questo era per il tuo destino avverso,” commentò Raoul rialzandosi, lasciando Toki fra polvere e lacrime, mentre il suo sguardo – nero e determinato, ma troppo triste per essere cattivo – puntava all’orizzonte.
Toki chiuse gli occhi e sorrise. La Stella della Morte brillava sul suo viso pallido e sereno. Aveva mantenuto il suo ultimo giuramento, gettato l’ultimo ponte. Peccato non avere abbastanza vita per mantenere anche il primo.
Caro, caro Raoul.       

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Capitolo 3
*** Lacrime in sorrisi ***


Lacrime in sorrisi

 

Sono le esperienze condivise a rendere gli uomini fratelli. È chiamare madre e padre le stesse persone, respirare la stessa aria, ricevere gli stessi insegnamenti, gli stessi rimproveri. Viverli e superarli assieme.

Raoul, Toki, Jagger e Ken non avevano mai chiamato madre e padre le stesse persone, ma tutti loro avevano chiamato Ryuken “Maestro”. Il loro legame si era creato sin da bambini, sottoposti agli stessi allenamenti feroci, allo sguardo attento e indifferente di un uomo che cercava un successore giocando con il destino di quattro ragazzi che aveva fatto diventare fratelli. E che un giorno avrebbero combattuto per un destino che non avevano chiesto.

Raoul voleva diventare il più forte perché solo la forza può piegare il destino al proprio volere.

Toki voleva portare guarigione usando quelle tecniche che permettevano di uccidere un uomo in pochi secondi.

Jagger voleva dimostrare di essere il migliore di tutti loro.

Kenshiro voleva essere felice con la sua Julia.

Di loro, nessuno aveva realizzato il proprio sogno. Dopo la guerra che aveva distrutto il mondo, si erano dispersi come piume nel vento, avevano inseguito i loro sogni di gloria e disperazione e alla fine, proprio come aveva profetizzato Ryuken, avevano combattuto l’uno contro l’altro.

Il racconto di Kenshiro era stato lungo e sofferto. Aveva fatto loro compagnia nelle lunghe serate del loro viaggio, assieme a tanti altri ricordi.  

“Combattiamo,” aveva detto Toki prima di affrontare Raoul, “sarà il nostro ultimo allenamento”.  Kenshiro aveva obbedito nonostante non avesse mai voluto combattere contro Toki, colui che da sempre considerava il migliore nella sacra arte di Hokuto, colui che alla forza univa equilibrio ed eleganza. Colui che sempre era stato il più caro tra i suoi fratelli.

 

“Le battaglie si vincono prima con la testa, poi col cuore e solo da ultimo con il corpo,” aveva ripetuto Toki a Ken in allenamento molte volte. “Prima di ogni battaglia devi conoscere il tuo nemico, studiarlo, valutare i suoi punti di forza e i suoi punti deboli. Ma soprattutto devi conoscere te stesso, la tua forza e le tue debolezze. Ci sono battaglie che si vincono ancora prima di arrivare alle mani.”

Ken lo aveva fatto con una tigre selvatica e l’animale si era ritirato senza neppure minacciarlo.

“Non devi farti guidare dalla rabbia, ma dalla ragione. Non devi colpire a caso con tutta la forza che hai in corpo, ma devi mirare il punto giusto e lì concentrare la forza necessaria. E, nel tuo cuore, devi sempre ricordare che tu e il tuo avversario siete uomini e in quella lotta non c’è solo il vostro valore guerriero a confronto, ma anche la vostra umanità, il vostro coraggio, le motivazioni che vi portano a rischiare la vostra vita e a essere disposti a toglierla a un altro uomo.”

Nei molti duelli che aveva disputato con Jagger aveva sempre tenuto a mente questo principio. Ricordava una volta in cui il fratello lo aveva massacrato mentre lui si era limitato a obbedire agli ordini del Maestro colpendo solo – con mano leggera –  i suoi punti di pressione. Ricordava di una volta in cui Jagger voleva mostrare la propria superiorità e Ken non voleva fargli troppo male, proprio perché fino ad allora lo aveva chiamato “fratello”.

“Quando la tua testa e il tuo cuore saranno pronti, allora potrai usare tutto quello che hai imparato finora e tutto quello che ancora devi imparare per avere la meglio sul tuo nemico. Senza rimorsi. Senza rimpianti.”

Lo aveva fatto con molti nemici, ma erano pochi quelli che ricordava con rammarico. C’era stato Shin, il suo amico, il rapitore di Julia, colui che gli aveva lasciato sette stelle nel petto. E c’era stato Jagger quando era diventato così meschino da cancellare il fatto che un tempo erano stati fratelli. 

L’aveva fatto in ogni combattimento ed erano stati pochi quelli persi.

 

Ora toccava a Toki e Ken combattere: l’ultimo allenamento, l’ultimo dialogo senza parole.

Fu breve e intenso, senza vinti né vincitori, senza vittime o carnefici. Un solo tocco, gentile e delicato: il tocco di un guaritore che affida la propria anima a u guerriero. Toki aveva affidato la sua anima a Kenshiro. Tanto lui non ne avrebbe avuto bisogno. La sua non era l’anima di un guerriero – lo aveva detto anche Ryuken  tanto tempo prima – per cui non gli sarebbe servita per combattere con Raoul. Invece a Ken sarebbe servita, eccome: a lui non mancava l’anima del guerriero, vero, ma se Toki aveva imparato qualcosa nella sua breve vita era che i guerrieri combattono e distruggono tutto quello che si para davanti a loro. Compresi se stessi alle volte. Poi arrivano gli uomini che ricostruiscono quello che i guerrieri e le loro guerre hanno annientato. Quella distruzione, Toki, se l’era portata dentro dal giorno dell’Apocalisse. Si era avvinghiata ad ogni fibra del suo corpo, ad ogni respiro, ad ogni battito del suo cuore e lui aveva potuto combatterla soltanto accettandola, soltanto cercando di vivere al massimo ogni respiro e ogni battito del cuore anche se erano malati.

Aveva ammirato la determinazione di Rei che lo aveva portato a prolungare la sua sofferenza per compiere il proprio dovere. Il guerriero di Nanto non aveva scelto la morte neppure per un attimo, si era limitato ad accettarla quando era arrivata. Ecco quello che lui stesso avrebbe voluto fare: il suo destino era segnato, dalle stelle dell’Orsa Maggiore e dalla Stella della Morte. C’era stato un momento della sua vita in cui l’aveva fuggito, ora invece faceva parte di lui, necessario e inevitabile come il suo stesso respiro.

Avrebbe combattuto Raoul, avrebbe perso e sarebbe morto. Poi avrebbe aspettato il fratello, pazientemente, e lo avrebbe accolto con un sorriso.

Nel frattempo sarebbe vissuto in Kenshiro, attraverso l’anima che gli aveva appena donato e attraverso la stima e l’affetto che aveva guadagnato nel giovane fratello. Avrebbe combattuto assieme a lui le sue battaglie e gioito per le sue vittorie.

 

“Anche tu hai un destino, Kenshiro: trasformare le lacrime in sorrisi.”

Glielo aveva detto molte volte, ma quella notte, scintillante come le stelle che stava per raggiungere, con quel viso troppo vecchio per i suoi pochi anni e il corpo del suo assassino tra le braccia, a Toki parve di tornare giovane.

 

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