Sempre qui per te

di y3llowsoul
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Capitolo uno ***
Capitolo 2: *** secondo capitolo ***
Capitolo 3: *** terzo capitolo ***
Capitolo 4: *** quarto capitolo ***
Capitolo 5: *** quinto capitolo ***
Capitolo 6: *** sesto capitolo ***
Capitolo 7: *** settimo capitolo ***
Capitolo 8: *** ottavo capitolo ***
Capitolo 9: *** nono capitolo ***
Capitolo 10: *** decimo capitolo ***
Capitolo 11: *** undicesimo capitolo ***
Capitolo 12: *** dodicesimo capitolo ***
Capitolo 13: *** tredicesimo capitolo ***
Capitolo 14: *** quattordicesimo capitolo ***
Capitolo 15: *** quindicesimo capitolo ***
Capitolo 16: *** sedicesimo capitolo ***
Capitolo 17: *** diciassettimo capitolo ***
Capitolo 18: *** diciottesimo capitolo ***
Capitolo 19: *** 19o capitolo ***
Capitolo 20: *** Epilogo ***



Capitolo 1
*** Capitolo uno ***


Leucemia 1

Disclaimer: Numb3rs non appartiene a me. Peccato. E non mi appartengono neanche le piccole sezioni delle canzoni che iniziano ciascun capitolo.
Timeline: Seconda o forse anche terza stagione. Non tanto importante.
E mille grazie di nuovo a Alchimista che ha fatto e sta facendo un buonissimo lavoro correggendo questa storia! …E no, non cambierò l’aggettivo “geniale” in un altro per descriverla :)

 

 
Capitolo 1


We stood side by side,

each one fightin' for the other.

And we said until we died

we'd always be blood brothers.

(Bruce Springsteen, Blood Brothers)

 

Il telefono suonò. «Eppes».

«Hey, Charlie, come stai?»

Era suo fratello Don.

«Benissimo, se non ci fosse tutto questo stress per le tante cose da fare. Allora sii breve. Perché mi hai chiamato?»

«Avremmo bisogno del tuo aiuto, Charlie».

Charlie sogghigno. Chissà per quale ragione aveva immaginato una cosa simile.

«Questo già lo so. Altro?».

Da quando Don si era accorto di come le capacità matematiche di suo – in questo aspetto così talentuoso – fratello potevano aiutare lui e il suo team, erano passati pochi casi nei quali non le avevano impiegate. E Charlie amava aiutarli, per varie ragioni. Certo, era felice di contribuire con la sua matematica alla soluzione di vari crimini, ma trovava anche molto avvincente essere sempre lì da vicino. E infine – anche se poco tempo prima avrebbe riso se qualcuno gliel'avesse detto – gli piaceva lavorare insieme a suo fratello e soprattutto poter ottenere l'attenzione di quello, qualche volta.

Anche dalla voce di Don si poteva sentire che stava sogghignando per la sua risposta. «Stai forse dicendo che noi saremmo completamente imbranati senza di te?».

In effetti questo succedeva spaventosamente spesso, soprattutto quando avevano bisogno di risultati velocemente – e in ogni caso, quando avevano a disposizione abbastanza tempo?

Don diventò serio di nuovo. «Si tratta di due casi di morte abbastanza strani in una struttura che un tempo ospitava missionari cristiani a Santa Barbara. Adesso lì si trova un ospedale privato e nella settimana scorsa due pazienti sono morti d’influenza anche se erano ricoverati lì per altre ragioni; e anche altri pazienti sono stati infettati dal virus. Abbiamo avuto una segnalazione anonima e volevamo verificare quanto fosse corretta. Può darsi che sia l'opera di qualsiasi serial killer pazzo. Però non escludiamo per ora che possa essere bioterrorismo».

«E cosa devo fare io in questa faccenda?»

«Abbiamo pensato che forse potresti capire come queste persone hanno potuto infettarsi».

«Certo, non dovrebbe essere un problema. Però, per questo avrei bisogno di più di informazioni. Devo parlare con le persone ammalate».

«Okay» rispose Don, sorridendo tra sé. Appena qualche istante prima Charlie si era lamentato dello stress e adesso ne aveva accettato ancora di più. No, questi professori – soprattutto suo fratello – probabilmente non li avrebbe mai capiti.

«Megan ed io vogliamo andarci comunque. Verremo a prenderti, dato che la CalSci è di strada». E inoltre, in quel modo è più sicuro per tutti gli utenti del traffico, pensò Don e ridacchiò.

 

Pochi minuti più tardi Charlie salì nella macchina dei due agenti dell’FBI. Durante il percorso per l’ospedale privato i due gli diedero informazioni circa i differenti quadri clinici dei pazienti. Una delle vittime, una donna sulla tarda cinquantina, era stata ricoverata a causa di una spalla fratturata. L'altra vittima, un uomo anziano, aveva sofferto del morbo di Alzheimer ed era stato in ospedale solamente per un controllo pratico. Gli altri malati avevano malattie di ogni sorte: fratture, danni ad organi, malattie della pelle. C’erano a mala pene due persone che soffrissero dello stesso male.

Arrivati nel piccolo ospedale, fecero visita per prima a Jessica Hayles, una donna di circa 35 anni, che era stata ricoverata per delle bruciature non molto gravi e che, adesso, soffriva d'influenza già da più di una settimana. I tre si presentarono con i loro nomi e Don e Megan mostrarono alla donna i loro distintivi. Poi, chiesero le domande.

Charlie notò velocemente ogni dettaglio: da quando Mrs Hayles soffriva d’influenza, che farmaci aveva preso, perché era stata portata proprio in quell'ospedale e tanto altro. Per i suoi calcoli, ogni dettaglio poteva essere importante. Infine, quando Don e Megan sembravano aver finito e stavano per alzarsi continuò lui a fare domande.

«E come, esattamente, si è fatta queste bruciature?»

Mrs Hayles, che ovviamente aveva dimenticato la sua presenza, si voltò verso lui in una confusione blanda. «E' importante?»

Dicendo questo guardò di nuovo Don e allora quello dette la risposta. «Tutto può essere importante».

«Va bene. E' successo quando stavo cucinando. Volevo fare degli spaghetti, quando la pentola mi è scivolata dalle mani. Potete immaginare dove è finita l'acqua bollente, alla fine».

Charlie annuì scrivendo. «Lei ha una famiglia?»

La donna lo stava fissando. «Mi dica un po', chi è lei?»

Charlie, che era stato a grattarsi il naso, guardò in alto staccando gli occhi dalle sue informazioni. Non l'aveva detto all'inizio? Arrossì leggermente. Questa donna aveva dovuto considerarlo un imbecille, forse un novellino dell'FBI.

«Io sono un matematico e occasionalmente aiuto l'FBI in qualche caso» rispose nel modo più dignitoso e allo stesso tempo più modesto possibile, una prestazione che non era di certo facile.

Jessica Hayles annuì come se avesse capito, ma la sua bocca rimaneva aperta e Charlie credette di poter di intuire dietro la sua espressione che la donna si stava chiedendo come, per tutto il mondo, un matematico potesse scoprire da dove veniva il virus.

 

Gli interrogatori dei pazienti e del personale dell'ospedale occupò quasi tutto il pomeriggio e non solamente loro, ma anche i due agenti dovevano spesso esser pazienti quando Charlie voleva sapere di nuovo tutti i dettagli. Più tardi diventava, più irritati diventavano loro finché Don non riuscì più a tenere per sé i suoi pensieri.

«Charlie, stai esagerando!» l'ammonì quando lasciarono la penultima stanza «Devi davvero dare talmente fastidio alla gente con le tue domande?»

«Vuoi avere una formula alla fine, sì o no? E già i Greci antichi lo sapevano: per aspera ad aspra, se si vuole aver successo, si devono superare gli ostacoli».

Con questo, Don dovette ammettere la sua sconfitta. Ma in fondo sapeva anche lui che Charlie aveva ragione.

 

Finalmente e senza poterci ancora veramente credere avevano finito e tutti e tre si avvitarono alla loro macchina. Appena usciti dall’edificio sotto il sole di primavera, Charlie inciampò e sarebbe caduto se Don non l'avesse preso.

«Ehi, piano» lo canzonò sorridendo – il sole aveva cacciato il suo malumore in un attimo – e aggiunse: «Credo che ti abbiano insegnato a camminare, no?»

Però, il sorriso di Charlie gli sembrava un po’ troppo insicuro.

«Eh, stai bene?» si assicurò con un alito di preoccupazione, ma il ghigno di suo fratello stava già aumentando di sicurezza.

«Certo, perché no? O ti aspetti sul serio che io rida alle tue battute banali?»

Con questo lasciarono perdere il discorso e i tre ripartirono.


Megan e Don lasciarono scendere Charlie a casa sua; poi andarono nel loro ufficio, mentre Charlie si appartò nel garage per inserire tutte le informazioni nel suo computer. A turno sedeva davanti al computer oppure si spostava davanti alle lavagne senza fare attenzione ai dolori nelle membra e nella testa che si erano appropriati di lui. E poi successe.

Partendo dai bordi del suo campo visivo, una foschia nera e impenetrabile si diffuse davanti agli occhi di Charlie. Sentiva come se tremasse un po' e si tenne alla lavagna. Il tremolio finalmente finì e lui lasciò la presa dal suo appoggio. Aveva appena fatto così che la foschia nera calò su di lui con tutta la sua forza e senza che se ne rendesse conto cadde sul terreno di pietra freddo.

 

Charlie aprì gli occhi. Si accorse immediatamente che qualcosa non andava. Era confuso. Nonostante tutto stesse girando, Charlie poteva distinguere che la prospettiva che se gli presentava davanti era molto inconsueta. Chiuse di nuovo gli occhi, un po’ per le vertigini, un po’ perché non dovesse più sopportare quell'angolatura.

Cosa era successo? Si era messo in qualche modo in una contrazione spazio-temporale, forse? Se solo Larry fosse stato lì; lui sarebbe stato sicuramente in grado di spiegargli tutto, era sempre stato in grado di spiegargli tutto talmente bene. Va be', a volte si esprimeva in modo alquanto criptico, ma nonostante questo era sempre stato di grande aiuto per lui.

Però non adesso. Adesso Charlie doveva trovare da sé una soluzione. Doveva trovare da solo l'errore. Perché qualsiasi cosa fosse non era giusta. E inoltre aveva dolori ovunque. Ma perché?

Forse è a causa della superficie dura su cui mi trovo, pensò Charlie tra sé.

Superficie dura? Ma il suo letto era morbido! Era sempre stato morbido finora! Forse qualcuno aveva rubato il materasso? (Se era così, era stato sicuramente Don!)

Cautamente Charlie guardò attorno a sé. Ovvio che fosse talmente duro. Lì, sotto di lui, non c'era un letto. C'era la terra.

Charlie si raddrizzò e represse le vertigini. Era vero. Era sdraiato sul terreno, nel suo garage, non sul suo letto. Come era possibile che gli fosse successo una cosa così?

A scanso di equivoci rimase seduto ancora per qualche minuto. Quando finalmente le vertigini se ne furono completamente andate si mise in piedi, raccogliendo da terra i fogli che, a quanto pareva, aveva preso con sé quando era crollato.

Tutto ciò di cui aveva bisogna adesso era dormire. Ma nonostante si sentisse completamente stanco, Charlie non credeva di essere in grado di addormentarsi in quel momento. Nella sua mente c’era troppo chiasso, la domanda “cosa diavolo mi stava succedendo?” continuava a ronzare opprimente. Si sentiva malato e barcollava sui suoi piedi già da un po’ di tempo. Aveva creduto che il suo corpo potesse andare in tilt per una qualsiasi ragione, ma non si aspettava di certo qualcosa di simile.

E anche un'altra attesa non era diventata realtà: quando Charlie ce l'aveva finalmente fatta ad arrancare al piano superiore, nel suo letto – per fortuna suo padre stava già dormendo da tempo! – l'effetto dell'adrenalina era scomparso del tutto perché il suo corpo sconfisse la sua mente e Charlie si addormentò profondamente.

 

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Capitolo 2
*** secondo capitolo ***


leucemia 2

Ciao! E mille grazie a tutti che hanno letto e anzi recensito questa storia! Spero che non vi deluderò…
 

CAPITOLO DUE

 

I wonder how,

I wonder why.

(Fools' Garden, Lemon Tree)

 

Quando si svegliò la mattina seguente, Charlie si sentiva uno straccio. Aveva ancora dolori dappertutto e si sentiva come se avesse della febbre. Si toccò la fronte. No, sembrava tutto normale; grazie a Dio! Aveva talmente tanto da fare, in ogni caso: non aveva alcun bisogno di una malattia.

Siccome aveva ancora un po’ di tempo fino alla sua prima lezione, tentò un po’ di risolvere i problemi sulla lavagna in garage. Il computer non aveva ancora finito la sua parte di lavora durante la notte, ma malgrado questo Charlie non ebbe tempo di annoiarsi. Fece qualche calcolo alla lavagna finché non si fece ora di raggiungere la CalSci.

 

Nel pomeriggio presto aveva già concluso per quel giorno e tornò a casa. Finalmente anche il computer aveva adempiuto al suo dovere e Charlie riuscì a seguire le tracce dei virus. Questo doveva bastare al team come inizio, pensò tra di sé, e andò alla centrale dell’FBI.

I quattro agenti all’inizio non si accorsero di lui intenti a cercare i possibili motivi dell’assassino – se ce n’era davvero uno.

«Forse una degli infermieri…?» stava proponendo Megan. «Non sarebbe la prima volta: qualcuno che danneggia qualcun altro per smania di mettersi in luce,  perché vuole poi mostrarsi come un eroe. E per un infermiere sarebbe stato facilissimo far circolare i virus fra i pazienti, no? Avrebbe potuto dire che erano antidolorifici o qualcosa di simile».

«E’ possibile…» si intromise Charlie e gli altri si voltarono a lui. Ignorò l’improvvisa onda di nausea che tentò di opprimerlo. «…però non è perfettamente adatto a quello che ho trovato io».

«Ehi Charlie. Allora che cosa hai trovato?»

Charlie si avvicinò alla lavagna di magnete dove erano elencate le informazioni più importanti del caso.

«Sembra» cominciò, «che i virus venissero somministrati ai pazienti con delle medicine, perché la maggior parte delle persone ammalate è isolata dagli altri pazienti che hanno l’influenza. Però non sono riuscito a trovare un medicinale specifico che potrebbe essere stato somministrato a tutti i pazienti. Naturalmente è possibile che il medicinale sia stato dato in segreto, ma per distinguerlo si dovrebbe analizzare il sangue di ciascuno degli ammalati. Così ho cercato altre possibilità. Se guardo la faccenda con l’aiuto del mio sistema, sembra che siano stati modificati col virus medicinali completamente diversi, sempre in  modo di campioni, siccome tanti pazienti non hanno nessuna sorta di problema. Ecco i possibili medicinali che hanno causato le malattie».

Si voltò verso la lavagna per elencare i diversi medicinali che a suo giudizio dovevano essere tenuti in considerazione come mezzo di trasporto per i virus. Le stelle stavano danzando davanti ai suoi occhi, ma le ignorò.

Si voltò di nuovo verso il team. Aveva già aperto la bocca per dare ulteriori spiegazioni, quando una nuova ondata di nausea lo travolse. Per un attimo stette semplicemente in piedi tra la lavagna e il team, tentando di reprimere il conato finché non ce la fece più.

«Scusatemi un attimo» biascicò e scappò dalla sala verso bagno degli uomini.

David, Colby, Megan e Don si guardarono l’uno l’altro in confusione.

«Ma che cos’ha?» chiese David, ma nessuno sapeva una risposta. Tutti volsero uno sguardo interrogativo a Don.

«Penso che sia meglio che lo segua» mormorò Don che si era già levato a mezzo.

Nessuno gli contraddisse.

Quando Don entrò nel bagno dei maschi non ci volle molto per trovare Charlie. Senza esitare andò verso la cabina da cui si potevano sentire i suoni di vomito e bussò alla porta.

«Ehi Charlie? Stai bene?»

Tosse e affanno da dentro. E poi finalmente la risposta. «Certo. Non sono mai stato meglio».

Don non sapeva che cosa pensare. «Dimmi un po’, sei incinto o cosa?»

Invece di una risposta Don sentì la sciacquatura della toilette e poi il suono metallico della chiusura. La porta si aprì e Charlie uscì.

«Anche tu avresti dovuto accorgerti finora che dagli homo sapiens sono le femmine che diventano incinte».

Se non fosse stato così pallido, Charlie ce l’avrebbe quasi fatta a far credere a suo fratello che tutto fosse a posto. Ma siccome le cose erano così, Don toccò la fronte umida di sudore di Charlie malgrado la resistenza di quello.

«Hai la febbre» constatò poi in modo serio.

«E anche se fosse?» Charlie lo sbrigò. «Finché non svengo non me ne importa».

Don credette di aver capito male.

«Sei matto o cosa?! Quando sverrai sarà forse già troppo tardi!»

«Posso vivere con questo rischio».

«No, Charlie, con questo rischio puoi morire! Non ti ricordi come la mamma…»

«Ma dai, non esagerare!» ribatté Charlie in modo impaziente e irritato. Qualche volta lo snervava davvero il fatto che il suo fratello maggiore si arieggiasse tanto a suo protettore.

«Dobbiamo tornare dagli altri» tagliò corto Charlie.

Così dicendo si mosse con decisione attraverso il corridoio, seguito da vicino da Don.

 

Dopo quell’increscioso incidente i fratelli tornarono nell’ufficio in silenzio. A Don tornò alla mente quell’incidente davanti all’ospedale, e i due casi che erano così innocui di per sé, ottenevano, messi insieme, una causticità spiacevole. Certo, conosceva quel proverbio delle lucciole e delle lanterne, ma qualcosa gli diceva che c’era qualcosa che non andava. Osservava suo fratello accuratamente, ma quello non dava a vedere neanche la più minima debolezza.

Arrivato alla sala di conferenza continuò la spiegazione della sua teoria come se non fosse successo niente. Ma Don non fece più attenzione alle sue parole, ma piuttosto ai suoi gesti e al suo aspetto. Charlie era sempre pallido, ma questo non era tutto. I suoi movimenti erano più stanchi, le spalle erano spostate un po’ in avanti come se fossero sotto un carico invisibile. E più volte Don colse suo fratello quando quello, apparentemente per coincidenza, si appoggiava leggermente contro la lavagna o si aggrappava al tavolo, probabilmente per procurarsi così di un po’ di appoggio.

All’improvviso fu strappato dalle sue osservazioni. Tutti lo guardavano.

«E che cosa ne pensi tu, Don?» lo stava incitando Megan.

Don tentò di non arrossire. Apparentemente Charlie aveva appena spiegato il punto più importante della sua teoria e gli altri avevano detto che cosa ne pensavano.

«Eh… che cosa dico di che cosa?»

«Dimmi un po’, hai ascoltato ciò che ho detto?» Charlie sembrava un po’ irritato.

«Certo. È solamente la fine che non ho ben capito».

Megan, David e Colby si guardarono. Secondo loro Charlie si era espresso molto chiaramente. I due fratelli si comportavano stranamente quella mattina.

«La fine non l’hai ben capita» Charlie ripeté pieno di scetticismo. «Allora dimmi un po’ che cosa è talmente incomprensibile quando dico “Penso che sia l’opera del fornitore di medicinali”?»

Il cervello di Don lavorava a massimo, cercando una risposta adeguata. Non trovava niente.

«Eh beh» cercò di cavarsela, «perché dovrebbe farlo?»

«E’ lavoro vostro di trovare i motivi».

«Sì… sì, certo. Hai veramente fatto un lavoro eccellente».

Il desiderio di essere gentile con suo fratello era venuto completamente all’improvviso. Quando si era accorto di quanto male stava Charlie già in apparenza. Si alzò e gli dette un colpetto sulla schiena.

«Sono contento di poter sempre contare sul tuo aiuto».

Charlie, confuso, fece un passo indietro, fissandolo per qualche secondo, senza parole.

«Dimmi un po’, sei diventato un po’ matto?» chiese poi.

Non sarebbe stato giusto dire che Don non l’aveva mai ringraziato, no. E Charlie era contento quando Don gli mostrava la sua gratitudine. Ma ora stava esagerando un po’.

«Perché me lo chiedi? Non posso essere gentile con il mio fratellino per una volta?» Diventò di nuovo serio di colpo. «Vieni qua per un attimo?»

E senza aspettare risposta tirò un Charlie confuso con sé nella cucina, lontano dai suoi colleghi, finché non furono soli.

«Cosa intendi fare ancora oggi?»

Charlie aggrotto la fronte. Dove - per tutto il mondo - voleva andare a parare Don?

«Devo ancora andare al CalSci» rispose esitando.

«Ah sì». Una pausa minima. «E non sarebbe meglio se ti riposassi un po’? Penso che lo stress non ti faccia bene».

Ecco come stavano le cose! Don si preoccupava ancora a causa di quello stupido attacco di nausea di prima!

«Lascia perdere» rispose Charlie con un sorriso cauto.

Voleva andarsene il più velocemente possibile. Tutta quella storia davanti ai colleghi di Don era stata abbastanza imbarazzante per lui. E inoltre voleva evitare che Don facesse ancora altre domande.

«Adesso devo andare. In bocca al lupo!» aggiunse quando passò oltre il team e scivolò tra le porte dell’ascensore.

Don uscì dalla sala e lo guardò senza avere la minima idea di cosa pensare finché si accorse che c’era silenzio  attorno a lui. Accidenti, i suoi colleghi lo stavano osservando! Meglio se fingeva di stare a riflettere sul caso.

«Avete un’idea voi?» chiese, deliberatamente senza contesto.

«Di che cosa stai parlando?» chiese Megan. «Il caso o Charlie?»

«Naturalmente il caso» rispose Don troppo candido se fosse stato lui a giudicare. «Perché, cosa c’entra Charlie?»

Avrebbe dovuto essere chiaro a Don che non credevano alla sua spensieratezza. Ma adesso non se ne importava. Sarebbe stato in grado di deviarli di questa faccenda. I suoi affari privati non erano affar loro. Inoltre probabilmente non c’era niente di che preoccuparsi. Probabilmente Don stava semplicemente di nuovo esagerando e si preoccupava più del necessario come se sospettasse sempre che ci fossero guai ovunque. Era un’abitudine di lavoro diffusa un po’ in tutta l’FBI. Sì - si persuase Don - probabilmente non c’era niente. Charlie aveva semplicemente un giorno brutto. Ne avevano uno tutti ogni tanto.

«In ogni caso proporrei di scoprire chi fornisce l’ospedale di medicinali e…»

«Ma Charlie l’ha già detto!» intervenne David. «Quel farmacista di George Street. Come si chiamava?»

«Glennfield» rispose Colby subito.

«Sì, esatto» prese di nuovo parola Don, chiedendosi nello stesso istante quanto avesse ancora perso del discorso del fratello. «Propongo di andare da lui per interrogarlo».

La proposta - che Don effettivamente aveva fatto solo perché non aveva potuto pensare ad una cosa migliore in quel momento - fu accettata e così lui e Megan se ne andarono, mentre Colby e David cominciarono a cercare ulteriori informazioni sulla fornitura di medicinali e sulla farmacia.

 

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Capitolo 3
*** terzo capitolo ***


Leucemia 3

 

Grazie a tutti quelli che hanno letto e mille grazie anche a quelli che hanno anzi recensito la storia! Mi date veramente del coraggio per continuare a scrivere!

Perciò spero di non evocare false speranze…

 

 

CAPITOLO TRE

And what once seemed black and white
turns to so many shades of grey.
We lose ourselves in work to do,
in work to do and bills to pay.
(Bruce Springsteen, Blood Brothers)

 

«Sei preoccupato per Charlie, vero?» chiese Megan dopo appena un minuto nella macchina.

Don, che nonostante tutto aveva deciso di guidare, resistette alla tentazione di levare, snervato, gli occhi al cielo. Sì, si chiedeva cosa stava succedendo con il suo fratello minore. Ma non ne avrebbe parlato con nessuno.

«Dovrei?» chiese perciò con una seconda domanda, cambiando immediatamente l’argomento «Dove ha detto che si trova questa farmacia Charlie?»

«In George Street… Credi che i medicinali fossero già manipolati lì, prima di giungere in Ospedale?»

Il diversivo aveva funzionato! Va bene, forse Megan aveva solamente compassione per lui.

«Non lo so. Ma spero di scoprirlo adesso».

Non parlarono per la restante corsa e Megan non sembrava più pensare all’incidente nell’ufficio. Anche Don fece tornare i sui pensieri al caso. Però si ripromesse di avere un occhio di riguardo verso Charlie durante i prossimi giorni.

Parcheggiò la vettura direttamente davanti all’entrata della farmacia ed entrò con Megan.

«Buongiorno» salutò Megan e mostrò, come Don, il distintivo. «FBI. Vorremmo parlare con il signor Glennfield».

La giovane farmacista bionda aveva guardato i distintivi con occhi spalancati e mormorò confusa «Un attimo, per favore» prima di recarsi in magazzino.

Pochi attimi dopo al suo posto ritornò al banco un uomo sulla tarda quarantina con capelli già un po’ incanutiti.

«Buongiorno. Siete, come mi è stato detto, dell’FBI?»

«Sì, sono l’agente speciale Don Eppes e questa è la mia collega Megan Reeves. Abbiamo sentito che lei fornisce l’ospedale di medicinali».

«E’ giusto. Perché me lo chiede?»

«Recentemente ci sono stati spiacevoli incidenti in quell’ospedale» rispose Megan. «Alcuni dei medicinali sembrano esser stati manipolati con dei virus dell’influenza».

«Manipolato? Ma chi farebbe una cosa simile?»

«Siamo qui per scoprirlo. Lei può dirci chi avrebbe la possibilità di compiere una manipolazione di questo tipo?»

«Nessuno della mia farmacia. Metto la mano sul fuoco per i miei impiegati. Qui vendiamo gli stessi medicinali che mandiamo anche a questo ospedale, in fondo quella struttura non ne ha bisogno di così tanti. E finora i miei clienti non si sono mai lamentati di aver contratto l’influenza».

«Dunque lei presume che i virus fossero inseriti nei medicinali nell’ospedale e non prima?» ritornò alla carica Don.

«Eh beh, non sarebbe il primo scandalo per quest’ospedale».

Megan e Don si  rivolsero uno sguardo sorpreso. Questo era nuovo per loro.

«Cosa vuol dire?» volle sapere Megan.

«Eh beh, ho sentito che lì hanno lavorato sporco già più volte. Ma io non voglio incolpare nessuno di nulla, eh».

Ci avrebbero scommesso. Ma naturalmente Don voleva raccogliere ulteriori informazioni anche qui.

«Come si svolge esattamente la fornitura dei medicinali?»

«Dunque, ogni settimana riceviamo dall’ospedale una lista dei farmaci che desiderano. Naturalmente capita che all’ultimo momento aggiungono ordinazioni urgenti. Mandano un fornitore che viene a prendere i medicinali preparati».

«E chi vi ha accesso finché non vengono presi?»

«Eh beh, in teoria chiunque. Ma ovviamente si nota se gli impacchi sono aperti».

«Allora sarebbe possibile che la manipolazione fosse già stata eseguita durante la produzione?» rifletté Megan.

«Come ho detto, i miei clienti non si erano mai lamentati. E anche da altre parti non ho sentito niente di un’epidemia di influenza, capito? E sarebbe una coincidenza piuttosto improbabile se tutti i medicinali manipolati giungessero in proprio quell’ospedale. Avete già verificato se un paziente influenzato é stato portato in quell’ospedale? Probabilmente hanno semplicemente usato strumenti non propriamente disinfettati».

«Controlleremo anche questo» gli assicurò Megan e i due agenti si congedarono.


«Avete trovato qualcosa?» chiese Don a David e Colby appena arrivarono in ufficio.

«La ditta che fabbrica i medicinali è a posto» rispose Colby. «Non ci sono altri casi strani oltre che in quell’ospedale».

«Intanto parecchi pazienti hanno sporto querela; tra di loro c’è anche la famiglia della donna morta» li informò David.

«Allora cominciano a venire nei guai» osservò Don. «E siccome è una clinica privata non sarebbero contenti se la loro reputazione venisse rovinata e perdessero pazienti. Non è una sorpresa che non abbiano voluto rendere pubblico questo scandalo».

«Ma se veramente l’ospedale è responsabile per queste contaminazioni» osservò Megan «si danno l’accetta sui piedi. Però potrebbe anche essere un infermiere che persegue motivi propri…».

Don si ricordò le parole di Glennfield: «O il farmacista aveva ragione e i virus non erano liberati intenzionalmente ma inavvertitamente. Dovremmo verificarlo. E dovremmo controllare in modo particolare i fornitori».

Colby sbadigliò. «Per me va bene. Ma lo faremo domani, okay? Per oggi potremmo semplicemente terminare?»

Nessuno ebbe qualcosa in contrario.

 

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Capitolo 4
*** quarto capitolo ***


Leucemia 4

Ma come siete forti! Gioisco ogni volta come un bambino quando leggo le vostre recensioni! Mille grazie!
Per dare una risposta in ritardo: no, io non vado in vacanze, almeno non per più di qualche giorno. Ma molto divertimento a quelli che vanno in vacanze!
E spero che abbiate anche molto divertimento leggendo il prossimo capitolo…

CAPITOLO QUATTRO

 
Can you find my pain?
Can you heal it
and lay your hands upon me know
and cast this darkness from my soul?
You alone can light my way.
You alone can make me whole
once again.
(Don McLean, Crossroads)
 

Charlie cadde nel suo letto, sentendosi stremato come non si sentiva da tempo. Eppure era solo sera presto e la giornata non era stata più faticosa del solito. Quando era ritornato dall’FBI aveva solo preparato le sue lezioni per il giorno dopo e letto qualche saggio. Nonostante ciò, si sentiva completamente strapazzato. Doveva davvero fare di più per la sua salute. Forse fare di nuovo dello sport… camminare …

La porta si aprì e appoggiata allo stipite, Charlie vide sua madre. Levò gli occhi verso di lei, assonnato e confuso, ma sentendosi così bene come non si era sentito da giorni.

«Buon giorno, tesoro» disse con una voce chiara come un campanello eppure dolce, così bella come solo una madre poteva avere una. «Hai ben dormito?»

Come se tutto fosse normale lei tirò le tende e lasciò entrare il sole.

«Mamma…» Charlie era estremamente confuso. «Cosa fai qui?»

«Volevi esaudire un mio desiderio, l’hai già dimenticato?»

Charlie riflesse assiduamente. «Sì…» ammesse infine, «l’ho dimenticato». Non aveva idea di che cosa stesse parlando sua madre.

Lei gemette, sedendosi sulla sponda del suo letto.

«Non puoi provare ad indovinare, Charlie?» chiese con un sorriso triste. «In altre occasioni sei sempre stato quello che precedeva gli altri di un palmo». Sorrideva, presa dai suoi ricordi. «Sono sempre stata così fiera di te, e naturalmente anche di Don. Veramente non lo sai che cosa desidero che tu faccia?»

Charlie scosse il capo. Non riusciva a pensare chiaramente.

Margaret gemette di nuovo. «Sai quanto mi mancate? Tu, Don e vostro padre?»

«Manchi anche a noi, mamma».

Lo disse sul serio, ogni parola. Eppure riuscì a dirlo senza che la memoria gli stringesse la gola o gli fosse venuto da piangere.

Sua madre sorrise tristemente, guardando il lenzuolo bianco. «Allora puoi immaginare quanto mi dispiaccia di non esser andata da un dottore allora. Mi sono rimproverata talmente tanto di avervi lasciati soli… Ho volevo semplicemente essere forte, capisci? Sì… sì, lo capisci. Purtroppo. Non ho voluto mostrare agli altri la mia debolezza, soprattutto a voi. Non dovevate preoccuparvi. E’ per questo che non sono andata dal dottore per così tanto tempo. Volevo essere forte. Forte e coraggiosa. E che cosa sono stata, invece? Una stupida».

Charlie avrebbe voluto contraddirla, ma Margaret non lo lasciò parlare.

«No, ascoltami, Charlie, per favore: non abbiamo molto tempo. E’ stato stupido da parte mia non farmi esaminare subito. E non ha niente a che fare con il coraggio di credersi forte. Al contrario. Il coraggio è ammettere la verità, a sé stesso e agli altri. Il coraggio è scoprire che piani il destino ha per  ciascuno di noi e farsi incontro a questo. Lottare. Capisci che cosa voglio dirti?»

«Sì, penso» rispose Charlie esitando, «ma non so ancora cosa vuoi che faccia».

Margaret gemette una terza volta prima di continuare in modo insistente. «Aspetto con ansia il giorno in cui saremo tutti di nuovo insieme, Charlie, ma quel giorno non è ancora arrivato! Devi farti controllare il più presto possibile, mi hai capito? Devi vivere, Charlie! Non puoi fare questo a tuo padre e tuo fratello, non possono perdere anche te! Sai cosa gli faresti? Non devi lasciarlo succedere, Charlie: devi andare da un dottore! Me lo prometti? Promettimelo, Charlie! Charlie! Charlie…»

Charlie aprì gli occhi. Guardò attorno a sé, turbato. Sentiva ancora qualcuno accanto a se, ma non stava più sognando…

«Allora, sei sveglio finalmente?»

Suo padre stava in piedi accanto al suo letto.

«Papà… cosa c’è?»

«Niente. Mi sono semplicemente chiesto se non avevi lezione oggi».

«Accidenti…» Senza forza Charlie batté sul suo guanciale. L’energia riacquistata nel suo sogno era stata irreale, come tutto il resto. Istintivamente guardò verso la finestra. Le tende erano chiuse. Di fuori infuriava il vento.

Camminò un po’ barcollando fino alla porta. Suo padre lo guardò.

«Dimmi un po’, va bene tutto? Ho dovuto scuoterti per un’eternità, prima di riuscire a svegliarti».

«Sì, sì: tutto okay… Avrei semplicemente preferito continuare a dormire».

Alan rise. «Beh, succede a tutti, Charlie. Ma bisogna stringere i denti e andare avanti!»



Saltando la colazione, Charlie riuscì di arrivare alla sua prima lezione di quel girono senza un ritardo considerabile. Subito dopo chiamò dal suo ufficio il suo medico di famiglia, il dottore Steiner. L’assistente medico ascoltò con interesse fresco e professionale il resoconto di Charlie e poté dargli un appuntamento già per quel pomeriggio. Per fortuna Charlie a quell’ora non aveva lezioni, perché altrimenti avrebbe dovuto dire dove stava andando.

La visita dal Dott. Steiner cominciò quasi puntuale. Tuttavia per Charlie il tempo d’attesa sembrò incredibilmente lungo, e automaticamente gli venne in mente come Albert Einstein aveva tentato di spiegare la sua teoria della relatività alle persone comuni. Non aveva alcun dubbio: in quel momento era seduto sulla stufa.

Per fortuna il dottore venne velocemente al sodo dopo che Charlie ebbe di nuovo descritto le caratteristiche della sua malattia e dopo un check-up veloce.

«Dunque… purtroppo i suoi sintomi non lasciano tanto dubbio, Dottore Eppes».

Charlie trasalì un po’ quando il medico gli chiamò con il suo titolo di dottore. Non veniva chiamato così molto spesso.

«Purtroppo?» domandò.

«Sì. Apparentemente si sono già create cellule maligne nel suo sistema nervoso centrale. Siccome soffre, come mi ha detto, anche di stati di incoscienza e di vertigini sembra, inoltre, che sia già arrivato al midollo osseo e da ciò risulta esserci l’anemia. Naturalmente i sintomi potrebbero anche essere quelli di un’influenza, ma deduco dalla sua cartella clinica che l’ultima volta ha ricevuto il vaccino sei mesi fa. Dunque per quanto possibile, l’influenza è molto improbabile. Quindi i sintomi devono condurci a qualcos’altro, tanto più perché ha evitato il contatto fisico con le persone ammalate di influenza. Temo che qui abbiamo a che fare con qualcosa di molto serio. Naturalmente non possiamo evitare un’analisi del sangue, e dovrei anche eseguire la puntura del midollo osseo. Ho il sospetto, Dott. Eppes, che soffri di LMA».

Charlie non aveva capito alcuna parola. Però le fattezze deploranti del medico gli rivelarono abbastanza per farsi un’idea.

Si schiarì la gola. «Dottore Steiner – è vero che ho un dottorato, ma non in medicina. E non ho capito niente di quello che ha spiegato».

Il medico sembrava un po’ imbarazzato, non solo perché aveva usato tanto inutilmente i suoi termini professionali. Si era sentito ovviamente sollevato di aver finalmente confessato quella diagnosi negativa e adesso gli ripugnava dire quella spiacevole verità una seconda volta.

«Va bene» gemette. «Allora voglio dirglielo in breve. Signor Eppes – con molta probabilità lei ha la leucemia».

 

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Capitolo 5
*** quinto capitolo ***


Leucemia 5

Mille grazie per il vostro interesse e per le vostre parole così gentili! Però devo dirvi che Charlie ci metterà ancora un sacco di tempo per dire la verità... allora vi prego di rimanere pazienti...

CAPITOLO CINQUE

 

Don't hang on.
Nothing lasts forever
but the earth and sky.
It slips away.
And all your money
won't another minute buy.
Dust in the wind.
Everything is dust in the wind.
(Kansas, Dust in the Wind)
 

L’aria uscì in fretta dai polmoni di Charlie. I suoni attorno a lui cessarono improvvisamente, mentre riusciva solo a sentire un ronzare indefinibile che poteva anche semplicemente venire dalla sua testa che girava.

«Leucemia» ripeté con una voce atona.

«Sì. Più esattamente, parliamo della leucemia mieloide acuta, in breve LMA. A differenza della leucemia cronica, ci si può ammalare di quella acuta anche durante il corso della vita. Senza un trattamento medicinale, la malattia di solito ha un decorso mortale. Però, se cominciamo il più presto possibile con la terapia e se troveremo un donatore adeguato, lei ha – credo – di certo ancora una chance di superare questa malattia».

Di certo ancora una chance...

Mille pensieri corsero tutti in una volta nel cervello completamente sopraccaricato di Charlie. Mille domande si formarono e mandarono le loro parole alla lingua fino a che la prima riuscì a trovare la libertà attraversando le labbra inerti di Charlie.

«Vuol dire che l’LMA non è trasmissibile dai genitori ai figli?» si assicurò con una voce che non somigliava alla propria, pensando a sua madre.

«No, è stata contratta».

«Ma come?» bisbigliò Charlie. «Dove, per tutto del mondo, ho potuto contrarre questa malattia?»

«Nessuno sarà capace di darle una risposta a questa domanda. Attualmente stiamo ancora cercando le cause della leucemia. Inoltre non posso essere sicuro della cosa al cento per cento. Per questo adesso vorrei prelevarle del midollo osseo per farlo analizzare. Solo così avremmo delle certezze».

Come se fosse in trance Charlie si lasciò fare ogni cosa. Gli sembrava come se una nebbia lo imprigionasse. Non si accorse affatto di tutto ciò che stava succedendo attorno a lui, finché il dottore Steiner non gli parlò direttamente con voce insistente.

«Dovrà avere pazienza per due o tre gironi finché i risultati dell’analisi del midollo osseo non saranno qui. Le farò sapere immediatamente. Fino a quel momento la prego di non perdere le speranze, ma allo stesso tempo di essere realistico. È malato, Dott. Eppes. E se, contrariamente a tutte le attese, non fosse leucemia, allora sarebbe un’altra malattia molto seria. Le raccomando di riposarsi un po’ e di stare calmo. Se è davvero leucemia, non potrà evitare ulteriori stati di incoscienza. In questo caso dovrà anche cercare un donatore di midollo osseo adeguato. Ha fratelli o sorelle?»

Charlie annuì. «Don. È mio fratello».

«Bene. Lo informi il più presto possibile perché potremo fare i test necessari. E poi dovrà riposarsi e trovare un momento di pace. Se vuole potrei anche mandarla in ospedale….»

«No. Non l’ospedale».

«Va bene. Ma lei deve prendersi cura di sé, dottore Eppes! Vuole chiamare un membro della sua famiglia perché la venga a prendere?»

Charlie scosse il capo in silenzio.

«Sarebbe irresponsabile nella sua condizione psichica e fisica, guidare una macchina» lo ammonì il medico.

«Non sono qui con la macchina» mormorò Charlie. «Sono venuto in bicicletta. Tornerò a casa a piedi. Vuol dire che prenderò con me la bici. Voglio dire, non andrò in bici. Prenderò la bici con me. Ma non andrò in bici…».

Il peggio era che Charlie non si accorse nemmeno di quanto stesse sragionando.


 
Pochi minuti dopo era su una strada di Los Angeles. Dovette orientarsi per un attimo. Poi gli attimi divennero di più. Nessuna delle strade gli sembrava familiare. Infine abbandonò le speranze e semplicemente prese la direzione che gli sembrava il più accogliente.

Tentava di comprendere quella grossa verità. Non ci riusciva. Non capiva. LMA! Leucemia! Perché? Perché lui, tra tutta quella gente? Perché non qualcun’altro?

E nello stesso istante Charlie sentì quanto stupida e ingiusta fosse quell’autocommiserazione. Quella malattia esisteva, punto. E c’erano persone che se ne ammalavano. Allora perché non poteva capitare anche lui? C’era qualcosa che lo distingueva dalle altre persone? Non era né migliore né peggiore di ogn’altra persona di questo mondo, nonostante non volesse escludere che ci fossero un sacco di persone migliori di lui.

Però una cosa Charlie la sapeva con certezza: non voleva morire. Voleva vivere. E avrebbe fatto tutto per seguire questo scopo. Non si sarebbe dato per vinto. Non sarebbe affondato nell’autocommiserazione. Si sarebbe fatto incontro a questa sfida. E se non ce l’avesse fatta – eh beh’, almeno aveva lottato.

Con sorpresa Charlie si accorse che era già buio. I suoi pensieri avevano fatto camminare i suoi piedi per ore senza che lui se ne fosse accorto. Il suo sguardo raggiunse un cartello stradale e finalmente seppe di nuovo dove si trovava. Non riusciva a credere quanto si fosse allontanato da casa sua.

Avrebbe semplicemente potuto sedersi sulla sua bicicletta e sarebbe stato a casa in mezz’ora. Però, il desiderio di camminare a piedi non era ancora svanito. E in questo modo la passeggiata sarebbe durata un po’ di più.

A casa sua entrò il più silenzioso possibile, dal garage. Non aveva alcuna voglia di rispondere a delle domande su dov’era stato, anche perché il suo cammino di varie ore attraverso la città esigeva il suo tributo in forma di sonno.

Non fu molto sorpreso di trovare Don nel soggiorno.

«Ehi, Charlie, eccoti. Sei stato nel garage tutto il tempo?»

Charlie emise un suono gutturale che si poteva presumere significasse ”sì”.

«Volevo solo dirti che abbiamo trovato il colpevole. Gli indizi bastano per arrestare quel farmacista, almeno provvisoriamente. Anzi, ci ha anche dato un antidoto per quest’influenza. Dovremo solo riprendere la sua deposizione. E tutto grazie al tuo aiuto».

L’agente sorrise e gli batté una mano sulla spalla. A Charlie ci volle un po’ per ricordarsi di cosa stesse parlando suo fratello.

«Ah… sì. Grandioso» rispose, ancora assorto nei suoi pensieri.

E ad un tratto cominciò di nuovo. Accidenti, non poteva lasciar starlo, per una volta? La stanza sembrava girare, diventava sempre più veloce, la faccia di Don davanti ai suoi occhi sfumò.

Cercando un appiglio, mezzo cieco, Charlie allungò le braccia. Eccolo qua, c’era qualcosa di solido. La sua mano si aggrappò a del legno. Doveva essere il tavolo da pranzo, rifletté la grande parte del suo cervello responsabile delle deduzioni logiche. Un secondo – o mezz’ora? – dopo sentì una presa ferrea attorno al suo omero. Pian piano il mondo cessò di girare e Charlie riuscì ad ascoltare le parole che qualcuno gli stava dicendo.

«…sentirmi? Charlie!»

Con uno sguardo barcollante, Charlie ripercorse la mano dal suo omero e si accorse che apparteneva a Don così come quegli occhi puntati su di lui che lo guardavano in modo preoccupato da sotto una fronte corrugata.

Charlie sentiva che attendeva una risposta di lui. «Tutto bene» lo rassicurò, e avrebbe dato chissà cosa per evitare di biascicare quelle parole.

Lo sguardo di Don rimase invariato. «Che cos’hai recentemente?» Fece una pausa. «Ti sei forse contagiato con quei virus d’influenza?»

«Chi si è contagiato coll’influenza?»

Come se fosse apparso da nulla Alan entrò. I suoi figli risposero contemporaneamente.

«Charlie» disse Don.

«Nessuno» disse Charlie.

Alan li osservò entrambi con uno sguardo indagatore.

«Siete entrambi vaccinati contro l’influenza» dichiarò poi in modo semplice. «Ma come mai parlate di questa cosa? C’è qualcosa che non va, Charlie? Non stai bene? Sei un po’ pallido…».

Charlie non poteva più ascoltarlo. Ogni volta gli chiedevano cosa gli stesse succedendo, eppure non aveva niente. Almeno lo sperava finché il dottore Steiner non aveva alcun risultato sicuro. Perché non lo capivano?

«Io. Sto. Bene» disse molto chiaramente e accentuò ogni parola prima di continuare in modo snervato: «E’ solo l’istinto del “grande fratello protettivo” di Don che di nuovo chiede la parola: aveva da fare così poco ultimamente…».

Don dovette ridere, non riuscì a controllarsi. «Io ho poco da fare?!»

«No, il tuo istinto, idiota!»

Alan, così come Don, era più confuso che adirato. «Charlie, come sarebbe?»

Charlie si voltò verso suo padre e si apprestò a rispondere, ma poi lasciò star; si voltò verso Don e di nuovo verso suo padre, finché abbandonò il tentativo di rispondere, apparentemente perché non gli vennero in mente risposte o scuse adeguate.

«Oh, lasciatemi in pace, va bene?» mormorò e sparì di sopra.

Don e suo padre si guardarono. Nessuno dei due capiva cosa fosse appena successo.

 

 

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Capitolo 6
*** sesto capitolo ***


Leucemia 6

Ciao a tutti!
E grazie per le recensioni!
Temo che i prossimi capitoli fino alla confessione di Charlie saranno un po’ duri, ma la confessione ci sarà, abbiate pazienza, vi prego.
E adesso buon divertimento col sesto capitolo! 
 

CAPITOLO SEI

 
Another turning point, a fork stuck in the road. 
Time grabs you by the wrist, directs you where to go.
So make the best of this test and don't ask why.
It's not a question, but a lesson learned in time.
(Green Day, Good Riddance)
 

Erano quasi le sei e mezza quando il cellulare di Charlie squillò, facendolo balzare in piedi come se fosse stato morso da una tarantola. Aveva passato l’ultima mezz’ora a correggere gli scritti dei suoi studenti sul divano nel soggiorno.

Sul display c’era un numero non registrato. Charlie sapeva chi era. Per fortuna, tre giorni prima, aveva dato al dottore Steiner il numero del suo cellulare e non quello di casa. Altrimenti anche suo padre o Don avrebbero potuto rispondere alla chiamata.

Charlie deglutì. Sapeva cosa stava per succedere.

«Eppes» rispose con una voce aspra e cominciò a camminare qua e là nella stanza.

«Buongiorno, Dott. Eppes. É lo studio medico di Dott. Steiner. Volevamo informarla che abbiamo appena ricevuto i risultati degli esami del suo midollo osseo».

L’assistente interruppe la suo fiume di parole e esitò. «Ehm… sta seduto?»

No, ma fra poco sarò sdraiato, pensò Charlie, ma disse: «Sì» e per precauzione si sedette di nuovo sul divano.

«Va bene… Dunque, mi dispiace ma devo comunicarle che il sospetto del dottore è stato confermato. Lei soffre di leucemia mieloide acuta».

Charlie non sapeva cosa aspettarsi. Non era una sorpresa. E neanche più un grande shock. Eppure, aver perso l’ultimo pezzetto di speranza che forse era ancora dentro di sé, da qualche parte, lo riempì di un vuoto.

«Il dottore desidera che lei prenda un appuntamento il più presto possibile per parlare del modo che adotterete per procedere. Gli va bene domani mattina alle undici e mezza?»

«Sì». Aveva la sua prima lezione alle nove e la successiva non prima delle due di pomeriggio.

«Bene. Le auguro una buona serata, dottor Eppes».

Charlie non aveva nessuna idea di come quella donna immaginava una buona serata. Però aveva il leggero sospetto che non intendesse quello che Charlie fece nel resto della propria. Incapace di concentrarsi ancora sugli scritti, salì in camera sua. Intanto, fuori cominciava già a diventare buio, tuttavia rinunciò a accendere la luce. Si ritirò in un angolo nel fondo della camera, si sedette sul pavimento, attirò le gambe al corpo e vi strinse le braccia attorno.

Adesso il risultato era sicuro. Aveva la leucemia.

Leucemia. Il nome suonava strano. Leucemia. Charlie aveva dato uno sguardo alle statistiche che mostravano la probabilità di morire di leucemia. Una probabilità troppo alta per i suoi gusti. Ma queste cose proprio non si potevano scegliere.

Se solo potesse fare qualcosa! Però la matematica non poteva aiutarlo questa volta. Non che non ci avesse provato, ma non aveva trovato nemmeno un inizio press’a poco adeguato.

Come, per tutto il mondo, lo avrebbe detto a suo padre? E a Don? E Amita? E Larry? Dio, sarebbe stato complicato con Larry… E Amita? Avrebbe pianto? Come avrebbero reagito tutti? Avrebbero avuto ancora qualche speranza? O l’avrebbero abbandonato? E alla fine anche lui avrebbe abbandonato sé stesso…

«Ehi, Charlie, non ti senti bene?»

Don era sulla soglia della porta. Come ci era arrivato in quel posto? E quando? …E cosa aveva appena chiesto?

«Stai bene?»

Grazie per averlo ripetuto, Don. «Sì, perché no?» rispose Charlie con quanta più nonchalance possibile.

«Eh beh…» Don lanciò uno sguardo nella stanza buia, illuminata solo da quello spiraglio di luce che penetrava attraverso della fessura della porta aperta sul corridoio. Charlie fu brevemente sorpreso di quanto tardi fosse. Doveva essere rimasto lì a terra per ore. E adesso Don si stava domandando il perché.

«Ah sì, quello…»

Charlie riflette intensamente, ma non gli venne in mente nessuna risposta per spiegare il motivo per cui si era nascosto nel buio di un angolo della sua camera. Tranne la verità, naturalmente.

«Sono solo un po’ stanco» rispose poi con poca immaginazione. Sperava che la sua misera scusa avrebbe retto.

«Dunque… perché non vai a letto?»

Accidenti! Ma perché Don doveva lavorare proprio nell’FBI?

«Sono affari miei, o no? Io… Volevo riflettere con calma».

Questo sembra già più plausibile, si rassicurò silenziosamente Charlie. Certo, rispose un’altra parte di sé, snervata, è anche la verità.

«Sul caso?»

Don gli aveva creduto! E, anzi, gli aveva offerto una scusa su un pianto d’argento!

«Appunto» mentì Charlie a sangue freddo.

Adesso Don l’avrebbe lasciato in pace. Non lo voleva certamente disturbare quando rifletteva. Di qualunque caso si trattasse.

«Sì, cose del genere sono davvero orribili» disse Don compassionevolmente.

Charlie quasi non riuscì a celare il suo spavento. Don non lo lasciò in pace; al contrario: si era seduto accanto a lui sul pavimento!

Charlie non aveva idea di come dovesse agire. In quel momento non sapeva nemmeno di quale caso stesse parlando suo fratello. Perciò lo liquidò con un “mmh” un po’ incerto.

«Quel Glennfield può veramente far compassione» continuò Don. Ovviamente voleva aiutare Charlie a venire a capo di quella situazione al meglio. E Charlie non osava dirgli certamente che non aveva alcuna voglia di parlare in quel momento, di qualsiasi caso si trattasse.

«Però ha meritato la sua punizione» iniziò di nuovo Don, perché Charlie ovviamente preferì chiudersi nel silenzio. «Comunque ha più o meno intenzionalmente ucciso due persone. E anche gli altri sarebbero potuti morire per il virus».

Finalmente Charlie aveva capito. Allora si trattava di quei virus d’influenza. Avevano arrestato il colpevole.

«Ha confessato?» la domanda scappò a Charlie prima che lui la pensasse.

Don era eccessivamente confuso. «Certo… da tempo. E’ ciò di cui stiamo parlando, no?»

No, Don, è ciò di cui stavi parlando tu.

«E perché l’ha fatto?»

È vero che la speranza era minima, ma forse avrebbe funzionato, malgrado tutto. Forse ce la farebbe a sfuggire ai suoi pensieri tristi, se avesse parlato del destino di un altro essere umano.

«Non te l’ho ancora detto? Era l’atto disperato di un padre in lutto… almeno Megan l’ha definito così. Ha voluto che l’ospedale fosse accusato e condannato per mal funzionamento perché il processo per sua figlia era stato sospeso».

«Sua figlia?»

«Sì. La piccola era malata e morì in quell’ospedale. Secondo il farmacista, i medici avevano lavorato male. E’ convinto che la bambina sarebbe potuta sopravvivere. Probabilmente si era semplicemente fatto troppe illusioni».

Automaticamente Charlie si dispiacque per la madre, prima che la sua compassione si trasmettesse anche alla figlia che era morta per la sua malattia e infine al padre disperato.

«Ma che cos’aveva lei?»

«La bambina? La povera aveva la leucemia».

Charlie credette di aver sentito male. Qualcuno lì sopra doveva detestarlo. Forse sarebbe dovuto andare alla sinagoga più spesso. O avrebbe dovuto bestemmiare di meno. O forse era peggio: forse non aveva niente a che fare con questo. Forse Don aveva scoperto qualcosa…

«Leucemia?» chiese Charlie, insicuro. Esitò. «Vuoi prendermi in giro?»

La parte della faccia di Don che Charlie poteva vedere malgrado la luce limitata, aveva un aspetto abbastanza confuso.

«Perché dovrei farlo? E inoltre i miei scherzi di solito sono migliori. Perché me lo chiedi? Qualcosa non va?»

Bene. Allora Don non sapeva di niente. Non ancora. Ma forse lì su non c’era nessuno che lo detestasse…? Forse tutto era solo un segno del destino…

«Va bene» gemette Don d’un tratto, mentre Charlie stava ancora riflettendo, e si alzò. Sembrava un po’ rassegnato. «Ti lascio in pace, adesso. In ogni caso, sembra che tu voglia sbarazzarti di me dall’inizio. Ma se prima o poi ti senti pronto a parlare di nuovo, non sarei contrario a sapere che cosa c’è che non va in te ultimamente».

Don chiuse la porta e lasciò Charlie da solo nel buio.

Avrebbe dovuto richiamarlo? Se lo avesse fatto adesso, Don avrebbe ancora potuto sentirlo. Però… in questo caso avrebbe dovuto dirgli che…

Il momento passò senza che lui facesse nulla. Charlie si sentì solamente peggio. Aveva mentito a Don. Prima o poi avrebbe dovuto dirlo a lui e a tutti gli altri. Avrebbe avuto bisogno del loro aiuto. E doveva ancora chiedere a Don se gli avrebbe donato il midollo osseo. E gliel’avrebbe chiesto, certo, fra poco...

 

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Capitolo 7
*** settimo capitolo ***


Leucemia7

Mille grazie per l'interesse e le vostre parole gentili! E vi prego, scusatemi per la cortezza dei capitoli...


CAPITOLO SETTE

 

There was a time when you let me know

what's real and going on below.

But now you never show it to me, do you?

(Leonard Cohen, Hallelujah)

 

«Okay, ragazzi: è tutto per oggi» decise Don e salutò la sua squadra. Tentò di mettere ancora un po’ d’ordine, con poco entusiasmo, nel caos di fascicoli e altre annotazioni, riflettendo su dove dovesse andare ora. Nel suo appartamento? In realtà non ne aveva tanta voglia. In realtà recentemente faceva fatica a farsi coraggio per qualsiasi cosa, e il suo stato d’animo era pericolosamente vicino al livello minimo di quell’anno.

Aveva veramente bisogno di compagnia adesso. Forse potrebbe andare a casa, da suo padre e Charlie…

No, probabilmente sarebbe andato nel suo appartamento. Avrebbe anche potuto riflettere sul caso lì, in tutta calma. Sì, questo di sicuro sarebbe stato molto più produttivo, nonostante Don si chiedesse come avrebbe potuto ancora riflettere al meglio a quell’ora. Il giorno era stato abbastanza faticoso. Erano sulle tracce di un gruppo di contrabbandieri. Va beh’, più o meno sulle tracce. Perché erano proprio quelle che avevano perso. Un camion con un grosso carico di armi rubate era in fuga da ieri sera e adesso era probabilmente fuori da L.A. da un pezzo. Avevano avuto un sacco di chiamate con indicazioni della popolazione: pareva che tutti avessero visto quel camion. Assurdo. Un sacco di dati… probabilmente farebbero tanto piacere a Char-

Va beh’, in ogni caso le indicazioni non erano servite a nulla. Non avevano trovato quei tipi. E Don non credeva che i contrabbandieri si trovassero ancora a Los Angeles. Anche se quella possibilità gli sembrava abbastanza improbabile… Eppure… Quanto alte potevano essere le probabilità che i contrabbandieri si trovassero ancora a Los Angeles? Charlie l’avrebbe sicuramen-

Ma no, Don non ci credeva. Almeno non proprio. Anche le loro indicazioni ci contraddicevano. Purtroppo. Perché avrebbero reso le cose tanto semplici... In ogni caso avrebbero potuto accerchiare la città con posti di blocco e infine arrestare i colpevoli… ma adesso, semplicemente, non sapeva come avrebbero dovuto agire al meglio. Forse Charlie avrebbe avuto un’idea…

Don si diede vinto. Semplicemente non ce la faceva. I suoi pensieri giravano in cerchio. Non importava quanto tentasse di tenerli lontano da suo fratello, tornarono sempre su di lui. Allora probabilmente non sarebbe riuscito a differire a riflettervi su ancora.

Non l’aveva più visto da quella serata, quattro giorni fa - che era passata, tra l’altro in modo davvero sgradevolmente – in cui avevano fatto luce nel caso di Glennfield. Ovviamente Charlie l’aveva evitato, particolarmente da quando Don aveva tentato di parlare con lui. Ma d’accordo, se non voleva… Don non sarebbe stato invadente. Almeno non per il momento.

Veramente strano, quanta importanza avesse Charlie per lui, pensò Don. Quando erano piccoli, Charlie era sempre stato un rompiscatole. Il piccolo bambino a cui Don aveva sempre dovuto badare; lui, il baby-sitter eterno. Charlie, il ragazzino snervante che ogni volta aveva bisogna del suo aiuto.

Però, col passare degli anni, gradualmente non gli era più dispiaciuto così tanto. Si era accorto che doveva prendersi cura del suo fratellino, che doveva proteggerlo, sì; e anzi si era reso conto che lui voleva proteggerlo. Un sentimento stranamente dolce era aumentato sempre di più in lui. E ogni volta quando Charlie aveva avuto bisogno di lui e era andato da lui, aveva sentito qualcosa come una pace interiore, un sentimento calore e familiarità.

Tuttavia quei tempi erano passati ora. Adesso sembrava che le cose si fossero capovolte, come se loro due avessero ad un tratto cambiato i propri ruoli. Quante volte Don era già andato da lui, il suo fratellino, per chiedere il suo aiuto? E Charlie c’era sempre stato, per lui. Non importava quanto stressato fosse; aveva sempre fatto tutto per essere utile al suo fratello maggiore.

Don rifletté su come fosse la situazione al contrario. Era lo stesso, no? Don era sempre lì per Charlie. Charlie poteva andare da lui in qualsiasi momento, se aveva un problema e Don l’avrebbe sempre aiutato, sempre. E questa era una cosa che sapeva anche Charlie… o no?

Eppure… Don non riuscì a reprimere completamente il sentimento che lì da qualche parte ci fosse uno squilibrio. Charlie poteva andare da lui, certo – ma quand’era che realmente andava da lui? Invece Don, qualche volta si chiedeva se fosse veramente in grado di fare il suo lavoro senza suo fratello. Qualche volta sembrava che fossero talmente dipendenti da Charlie che Don aveva dei dubbi sul fatto che poteva riuscire a fare una qualsiasi cosa da solo.

Da un lato detestava il fatto che Charlie gli offrisse il suo aiuto mostrandogli che la squadra era spacciata senza di lui… almeno qualche volta. Però, dall’altro lato era contento quando non era costretto a chiedere lui stesso l’aiuto di Charlie. Perché in quei momenti aveva sempre la sensazione di sfruttare il suo fratellino…

Però, questa volta non avrebbe chiesto l’aiuto di Charlie. E questa volta, se conosceva bene suo fratello, probabilmente non sarebbe neanche venuto lui spontaneamente da Don.

E inoltre ce l’avrebbero fatta anche senza di Charlie. Dio, altri dipartimenti non lavorano neanche con un matematico tutto il tempo! E la sua squadra non era affatto la peggiore. Avrebbero potuto fare anche a meno di lui una volta. Charlie era talmente stressato ultimamente che Don non voleva chiedergli nulla.

E inoltre…

Avrebbe semplicemente chiesto l’aiuto di Larry e Amita.

 

 

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Capitolo 8
*** ottavo capitolo ***


Leucemia 8

 

E di nuovo mille grazie per le vostre recensioni gentilissime! E sì, BlackCobra, Don si dà vinto probabilmente troppo presto, ma chissà, forse tenterà un’altra volta di parlare con Charlie… (ma scusatemi, non in questo capitolo)

 

 
CAPITOLO OTTO

 

I walk this empty street

on the boulevard of broken dreams

where the city sleeps,

and I'm the only one

and I walk alone.

(Green Day, Boulevard of Broken Dreams)

 

Charlie uscì dall’ufficio della preside dello California Institute of Science. Aveva finalmente chiarito questa cosa… almeno per quanto riguardava il suo lavoro.

Si era licenziato. Solo fino a nuovo ordine, certamente. Il suo capo aveva ascoltato la sua storia, gli aveva offerto qualche sguardo compassionevole e gli aveva assicurato che avrebbe potuto riprendere la sua cattedra nella CalSci non appena sarebbe guarito della sua malattia. Lei avrebbe cercato di trovare una sostituzione temporanea.

Il suo ottimismo gli faceva bene.

Finora lei era la sola persona che sapeva della sua malattia. In un certo senso, si sentiva meschino ad averlo detto prima a lei e non alle persone che gli erano più vicine. Però era stato più facile così anche se sapeva di dover mettere a parte della cosa anche la sua famiglia e i suoi amici.

Fino ad ora non ne aveva avuto l’opportunità. Tuttavia qualche volta si chiedeva se ci fosse davvero un’opportunità per una confessione del genere.

Non aveva ancora idea su come l’avrebbe detto a tutti, e non aveva neanche tanto tempo. Almeno sapeva che la preside avrebbe trattato la sua storia con discrezione e non avrebbe detto niente a nessuno. Avrebbe preferito non dirlo neanche a lei, ma era stato inevitabile per i suoi progetti. E adesso aveva almeno qualcosa per orientarsi: avrebbe lavorato ancora quel giorno e la settimana successiva e sarebbe stato in malattia da quel punto in poi. Si era già prefissato di tenere duro per quel periodo – perché questo gli avrebbe anche dato del tempo per dire la verità. La chemioterapia sarebbe cominciata il suo primo giorno di malattia e dopo questo, se Don avesse messo a disposizione il midollo, ci sarebbe stato il trapianto. E a seconda del risultato dei test e del decorso della terapia, il trapianto sarebbe continuato…

Almeno il lato lavorativo della vita di Charlie era chiaro.

Charlie bussò alla porta davanti alla quale era arrivato e entrò subito, senza di aspettare una risposta. Davanti all’ufficio di Larry non aveva mai dovuto aspettare.

Dentro, però, non vide solo Larry, ma anche Amita. I due sembravano lavorare ad un progetto completamente sconosciuto a Charlie.

«Ciao» li salutò non senza esser sorpreso. «Cosa fate?»

«Non puoi indovinarlo?» chiese Amita che era ovviamente stressata, ma prima che Charlie potesse cercare di esprimere in parole la sua inconsapevolezza, lei stessa rispose: «E’ quell’algoritmo per l’FBI».

Charlie credette che qualcuno gli stesse tirando il terreno da sotto i piedi. Un algoritmo per l’FBI? Perché non ne sapeva nulla?

«Che algoritmo?» chiese con la fronte corrugata.

«Eh beh, quello che tu non hai voluto prendere» Amita sembrava sempre più snervata «Don ha chiesto il nostro aiuto dopo che tu hai rifiutato».

«Dopo che io…?»

Charlie cercava nel caos della sua testa. Don aveva veramente chiesto il suo aiuto senza che lui potesse ricordarlo? No, questo era piuttosto improbabile. Ed era possibile che Charlie si fosse rifiutato di aiutarlo? No, certamente no… o sì?

«Qualcosa non va, Charles?»

Charlie levò lo sguardo in confusione, fissando brevemente il viso di Larry prima di dare di nuovo la preferenza al vuoto.

«No. No, va tutto bene. In bocca al lupo per la formula».

Si sentiva come in un sogno mentre barcollava fuori dall’ufficio di Larry. Però non era possibile che sognasse. Perché in questo caso la voce di Amita l’avrebbe svegliato sicuramente.

«Charlie!»

Charlie si voltò lentamente. Amita aveva un’espressione confusa. Che strano.

«Non vuoi… non vuoi aiutarci?»

«No… No». Adesso sembrava completamente deciso. «Don l’ha chiesto a voi, non a me».

Non fece attenzione agli sguardi sorpresi che i suoi amici si lanciarono l’uno all’altro prima che lasciasse l’ufficio.

 

Charlie vagava nel campus senza meta, senza sapere dove lo portassero le gambe.

“Don ha chiesto il nostro aiuto dopo che tu hai rifiutato…”

Don aveva chiesto aiuto a loro? Perché? Perché non era venuto da lui? Forse Charlie aveva fatto un errore con il suo ultimo calcolo e non lo sapeva? E perché, in quel caso, Don non gliel’aveva detto? Oppure, forse, Don gliel’aveva detto e Charlie non lo sapeva perché di nuovo non aveva fatto attenzione?

Don ce l’aveva con lui. Charlie lo sapeva. Per quale altra ragione avrebbe dovuto rivolgersi ai suoi amici, alle sue spalle?

Furioso, diede un calcio alla panchina più vicina. Non gli mancava che questa! Aveva attirato su sé la rabbia o almeno il malcontento di suo fratello. Ancora una volta. Possibile che non riuscisse mai ad accontentare Don?

Sii contento Donny-Boy pensò amaro fra poco ti sarai liberato di me in ogni caso. E allora ti sarai levato di dosso il piccolo rompiscatole, come hai sempre voluto.

Però… se aveva sbagliato delle cose, Don avrebbe almeno potuto dirglielo. Se al momento non era in forma, che colpa ne aveva lui? Avrebbe perfino dato uno sguardo su tutto, se solo Don gliel’avesse chiesto.

Però Don non aveva chiesto a lui, ma a Larry e Amita, le due persone che - oltre alla sua famiglia - gli erano più vicine. Ma perché? Don aveva voluto solo tormentare il suo fratellino? Voleva solo mostrargli che Larry e Amita erano più vicini a lui che a Charlie? Voleva mostrargli che aveva fiducia in loro e non in suo fratello?

In ogni caso, però, tutto quello non è tanto sbagliato, pensò Charlie, amaro.

Una nuova ondata di furia traboccò in lui. Non poteva esserne certo, ma un sospetto cocente gli diceva che una grande parte di quella furia ere diretta a sé stesso. Naturalmente Don non aveva fiducia in lui. E aveva ragione. Charlie taceva già da giorni che aveva la leucemia. Ma perché, per l’amor del cielo, non gliel’aveva ancora detto? Però… Don aveva potuto accorgersene? Aveva potuto scoprirlo?

Comunque, che Don lo sapesse o meno era una cosa marginale. Don non aveva più fiducia in lui. E Charlie non poteva rimproverarlo per questo.

Lascia perdere, pensò tra di sé. Recentemente hai troppi problemi. Forse non è male se non devi anche occuparti della faccenda dell’FBI. Sarebbe meglio se ti concentrassi sul problema di passare la settimana illeso. O sul problema di come vuoi dirlo agli altri.

Ma le tormentose domande non avevano risposta.

 

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Capitolo 9
*** nono capitolo ***


Leucemia 9

Grazie per le vostre recensioni! Le leggo sempre con grandissimo piacere! E scusatemi di nuovo per la cortezza...



CAPITOLO NOVE

 

If it’s alright,

then you’re all wrong.

(Friendly Indians, Psych-Theme)

 

«Hei, Don».

«Amita! Larry! Avete scoperto qualcosa?»

Don li osservò avvicinarsi un po’ insicuri. Certo, per quei due le visite alla centrale dell’FBI erano sempre una sorta di avventura. Charlie, invece, ormai era abituato…

«Sì, si potrebbe dire così» rispose Larry «In base alle probabilità, abbiamo stilato un elenco di strade che i contrabbandieri hanno potuto usare e con l’aiuto dei vostri dati abbiamo anche potuto accertarci di alcune potenziali destinazioni».

«Vuoi dire che sapete dove si trovano i contrabbandieri adesso?»

«Solo con una certezza matematica».

«Okay, dunque… andate nella sala della conferenza. Io chiamo gli altri».

 

Poco dopo, Amita e Larry avevano proiettato una cartina dei dintorni più vicini di Los Angeles al muro, davanti alla squadra di Don.

«Abbiamo sottoposto tutte le strade che vanno fuori città a un’analisi esatta. Così abbiamo trovato questo» spiegò Larry, indicando una linea all’est della città. «Questo è il percorso più probabile. Supponiamo che siano andati con il camion prima sul “Pamona Freeway” e da qui su una qualsiasi strada federale».

«Quanto ne siete sicuri?»

«23 per cento».

La squadra lo guardò stupita: anche senza studi matematici sapevano che non era una percentuale tanto alta.

«Pensavo che foste abbastanza sicuri…» disse Don, infine, un po’ deluso.

«Lo siamo. Se tenete conto del numero di strade che escono da Los Angeles, 23 per cento è una probabilità molto alta».

«Va beh’… ma non avevi parlato anche di probabili destinazioni?»

«Sì, abbiamo trovato Yuma, in Arizona. Ma le probabilità che siano lì sono davvero poche. Più alte che per altre località, certo, ma… va beh’, in ogni caso non vuol dire tanto».

«Verificheremo lo stesso» assicurò loro Don. «Grazie, ci avete aiutato veramente tanto».

«Non c’è di che» rispose Larry, e la riunione si sciolse.

«Ah… Don?»

Don si voltò mentre gli altri erano già usciti fuori; la sua squadra si era messa a lavoro e Larry andava, accompagnato da Megan, nella direzione degli ascensori. Amita era ancora lì.

«Posso farti una domanda?»

Se lo aspettava. Naturalmente Don si era accorso che Amita era stata abbastanza taciturna tutto il tempo. Aveva dunque una preoccupazione. E l’agente non riuscì a trattenere un’idea spiacevole e molto specifica.

«Certo, dimmi» la pregò, simulando nonchalance.

«Ah… Che cos’avevi detto che Charlie ha risposto quando gli hai domandato il suo aiuto?»

Addio, nonchalance. Nonostante Don a scuola fosse quasi riuscito a raggiungere la perfezione in materia di scuse, sentì perfettamente la sua faccia diventare calda. Aveva raccontato a Larry e Amita che Charlie aveva rifiutato di aiutarlo perché al momento aveva troppe di cose per la testa. Va beh’, precisamente aveva detto loro che Charlie non lo aiutava perché aveva così tanto da fare. Aveva evitato di dire bugie ovvie a loro. Come anche adesso.

«E’ così stressato ultimamente» eluse.

Amita annuì, distratta, guardando per terra.

«Tu sai che cosa ha che non va?» chiese infine dopo qualche momento di pausa.

Don la guardò un po’ sorpreso. Dunque non era il solo ad essersi accorto dello strano compartimento di Charlie. Va beh’, non era una sorpresa così grande. I sentimenti e i pensieri di Charlie – almeno quando non riguardavano la matematica, cosa che però accadeva spesso – erano di solito come un libro aperto, almeno per Don.

Di solito.

Scosse il capo. «No, non so che cos’ha. Ma forse è davvero lo stress. Non è che faccia una vita tranquilla».

Da qualche parte dentro di sé aveva sperato di poter fare sorridere Amita, ma non ci era riuscito.

«Ti ha mai detto qualcosa del genere?» chiese ancora.

Di nuovo Don dovette scuotere il capo.  «Mi ha detto ben poco ultimamente».

«È lo stesso con me» confessò Amita.

Per un attimo Don la guardò compassionevolmente prima di decidere di far svanire quei pensieri tetri. «Forse gli serve solamente un po’ di tempo per sé, tutto qui. Fra qualche girono sarà tornato quello di sempre. Credimi, fra poco tornerà tutto normale».

«Se lo dici tu…» rispose Amita che non sembrava ancora sempre convinta, ma alla fine levò gli occhi e riuscì a far apparire anche l’ombra del suo solito sorriso «Mi dispiace di averti scocciato. Ma… semplicemente mi sta evitando. E io non so…»

«Non ha niente a che fare con te» la interruppe Don con forza. «Charlie sa molto bene come vanno le cose con te». Don esitò, ma poi sorrise, aggiungendo: «E se mai lo dimenticasse, gli farò io una bella lavata di capo, puoi starne certa!».

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Capitolo 10
*** decimo capitolo ***


Leucemia 10

Ciao, e di nuovo mille grazie per il vostro interesse e le vostre opinioni! E penso che sia di nuovo il punto giusto per ringraziare la mia fantastica beta Alchimista! :)

 

 

CAPITOLO DIECI

 

I'm all tied up on the inside.

No one knows quite what I've got.

And I know that, on the outside,

what I used to be I'm not

anymore.

(Don McLean, Crossroads)

 

«I colleghi di Yuma hanno trovato qualcosa nel frattempo?» volle sapere Don da David quando vide il suo collega già seduto al tavolo mentre lui entrava nell’ufficio la mattina seguente.

«No, ancora niente. A dire la verità comincio a dubitare che il camion sia veramente lì».

Don annuì. Anche lui cominciava a non crederci.

«Dì un po’, perché questa volta Charlie non ci ha aiutato?» chiese Colby da dietro allo schermo del suo computer.

La risposta di Don fu eccezionalmente violenta.

«Non penso proprio che sia colpa di Larry e Amita se noi non troviamo il camion! Non importa se sono stati loro due ad aiutarci o un altro – chiunque avesse fatto questi calcoli sarebbe probabilmente giunto alla stessa soluzione. Charlie non è quel ragazzo prodigio che credete!» Con questo Don sparì nella cucina.

Colby guardò David con la bocca leggermente aperta.

«Ho detto qualcosa di sbagliato?»

David scrollò le spalle. Sapeva solo che c’era qualcosa che non andava.

 

Era nervosa, come raramente era stata davanti alla porta del suo ufficio.

Sì o no? Devo o no? Finalmente levò, esitando, una mano e bussò leggermente con la nocca del suo indice destro.

Dentro, il silenzio. Bussò un’altra volta, più risoluta della prima volta. Di nuovo passò qualche secondo, ma poi sentì una voce stanca chiamare «Avanti!» e entrò.

«Amita» la salutò Charlie e sembrava essere contento. Ma forse era solo un buon attore. Chi poteva saperlo?

«Ciao, Charlie. Ti disturbo?»

«Ah… No. No, naturalmente no. Vieni».

Si sbagliava o Charlie si comportava realmente in modo più nervoso del solito?

«Volevo chiederti un favore» venne al punto lei.

«Certo, volentieri, dimmi. Di che cosa si tratta?»

«Va beh’, è solo che…» Amita esitò. Poi però prese coraggio e le parole caddero dalla sua bocca con una velocità che mozzava il fiato. «Don ha chiamato perché non hanno ancora trovato il camion e credono che ci sia un errore nella formula… perciò volevo chiederti aiuto».

Charlie tacque. Aiutava Amita volentieri. E aiutava volentieri anche Don. Almeno quando suo fratello voleva davvero il suo aiuto.

«Che cosa ne dice Don?» chiese ed era con spavento che Amita sentisse il timbro fresco e brusco.

«Beh’, niente… non ne ho ancora parlato con lui. Ma penso che sia tua la decisione di aiutarci o meno».

Charlie scosse il capo. «Non è così semplice».

«Per favore, Charlie! Noi non facciamo progressi! Le cose che abbiamo calcolato… qualcosa non è corretto! I risultati sono così… così improbabili!»

Esitò, riflettendo, prima di continuare con una voce più dolce. «Vuoi veramente che questi contrabbandieri di armi riescano a fuggire e che poi con queste armi una moltitudine di persone innocenti vengano uccise?»

Il silenzio seguente durò ancora più del primo. Tesa e con guardo implorante, Amita guardò Charlie. Se qualcuno poteva risolvere questo problema ingarbugliato, quello era lui! Doveva aiutarli! Prima che accadesse qualcosa di grave! E poi… non poteva nascondersi da loro nel suo ufficio per tutto il tempo.

«Va bene, lo farò».

Amita era raggiante. «Grazie, Charlie!»

«Non c’è di che. In fin dei conti non sono sempre io al centro dell’attenzione. E’ il mio dovere di aiutare, malgrado tutto».

Il sorriso di Amita svanì. In quell’attimo si accorse chiaramente che Charlie era cambiato. Il suo timbro di voce non era neanche troppo amaro, ma aveva qualcosa di chiuso, come se stesse chiudendo sé stesso. Amita non poteva dargli un nome, ma qualcosa non andava.

«Allora, di che cosa si tratta esattamente?» la voce di Charlie fece ritornare Amita dai suoi pensieri.

E mentre andavano nell’ufficio di Larry, Amita continuò ad informare Charlie sui dettagli.

Senza di bussare entrarono l’ufficio di Larry.

«Ciao Larry. Cosa avete già scoperto?»

«Charles! Vuol dire che ci aiuti?»

Charlie annuì brevemente.

«Allora?» riprovò.

«Va beh… Come Amita ti ha forse già detto, abbiamo già calcolato le probabilità per le varie strade che escono da Los Angeles. Siccome l’FBI finora non ha trovato niente, siamo tornati sui nostri risultati, aggiungendo qualche probabilità per strade laterali fuori alla città».

Concentrato al massimo, Charlie annuì, guardando una delle cartine della città con le probabilità contrassegnate. Aggrottò la fronte.

«Avete…» tacque, espirò rumorosamente e ricominciò a parlare dopo alcuni secondi. «Perché…» Di nuovo tacque. Di nuovo ricominciò: «Perché avete guardato solo le strade che escono da Los Angeles?»

Amita aggrottò la fronte. Non capiva la domanda di Charlie.

«Perché il camion è scomparso qui».

«Sì, ecco!» si ingegnò Charlie.

In quell’attimo diventò chiaro a tutti e tre che parlavano sicuramente di cose diverse.

«Voglio dire» ricominciò a parlare Charlie, tentando di far capire i suoi pensieri ai suoi amici, «Chi ci ha detto che il veicolo è veramente uscito dalla città?»

«L’FBI» rispose Amita laconicamente.

Un po’ contro la sua volontà, Charlie sbuffò. «Credetemi, amici: se volete essere sicuri, non fate mai affidamento sulle informazioni dell’FBI».

Charlie si accorse che la sua voce stava diventando un po’ amara e di nuovo l’irritazione per Don voleva sorgere dentro in lui come veleno.

Però, questo non aveva niente a che fare con la loro faccenda e Charlie deglutì il sentimento per nasconderlo di nuovo al suo interno.

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Capitolo 11
*** undicesimo capitolo ***


Leucemia 11

 

Ciao a tutti! Scusate il ritardo! E avreste dovuto aspettare ancora di più se Alchimista non fosse stata talmente velocissima! Sei incredibile!
Ma penso che non ci metterò talmente tanto per il prossimo capitolo. E mille, mille grazie per le vostre recensioni!

 

 
CAPITOLO UNDICI

 

You say yes,

I say no.

You say stop

and I say go, go, go!

(The Beatles, Hello Goodbye)

 

«Ciao, amici» salutò Charlie, un po’ troppo asciutto, mentre i tre si avvicinarono alla squadra.

Gli agenti si voltarono verso loro.

«Charlie!» lo chiamò Don, rimasto di stucco «Cosa ci fai qui?»

«Vuoi che me ne vada?»

Don era confuso. In quel momento sembrava che sua anima stesse per spacciarsi. Com’era stato amaro il tono di Charlie! Anzi, brusco!

«No…» balbettò senza sapere cosa fare. «No, puoi rimanere qui, se vuoi».

Charlie ebbe voglia di urlare. Puoi rimanere qui. Significava che non avevano niente in contrario se fosse rimasto. Significava che era tollerato.

«Me ne andrò fra poco, non preoccupatevi» assicurò Charlie tentando di non mostrare il suo malumore. Non era stato tanto fortunato, però, con quel tentativo. «Volevamo solo presentarvi una nuova idea».

«Riguardo i camion?»

«Esatto. Abbiamo sviluppato un nuovo algoritmo di ricerca».

Mentre andavano nella sala di conferenza, Charlie sentì – non per la prima volta in quei giorni – un dolore lancinante alla testa che attenuò la sua irritazione o qualsiasi cosa fosse. Sentiva la stanchezza strisciare giù, dentro di lui, senza fermarsi. Per fortuna non sarebbe durato a lungo. Avrebbe semplicemente presentato i loro risultati alla squadra e poi sarebbe finalmente tornato a casa. Poi avrebbe solamente riflettuto in tranquillità sul caso e – se necessario – avrebbe ottimizzato i loro risultati.

Almeno se Don gliel’avesse lasciato fare.

Però non sembrava che andasse tanto male, per ora. Don sembrava pronto ad ascoltarlo. Beh, allora, coraggio!

«Secondo la nostra supposizione, il motivo per cui non avete ancora trovato il camion è che avevate un punto di partenza sbagliato» rivelò alla squadra Charlie. Si era già completamente calmato quando vide, con la coda dell’occhio con quanta attenzione Don seguisse le sue parole.

«Punto di partenza sbagliato? Che volete dire con questo?» lo interruppe Colby.

«Dunque, noi sospettavamo» cominciò in risposta Larry, «che il camion non si trovasse più in Los Angeles. Però non l’abbiamo trovato fuori città. Vuol dire…»

«…che fuori città è un’area abbastanza ampia» completò Colby con un po’ di sarcasmo.

Larry tentò di spiegare il loro punto di vista senza di contraddire l’agente: «Ma è anche possibile che il veicolo si trovi ancora nella città, o no?»

«In teoria è possibile, certo» ammise Megan, «ma è molto più probabile che abbiano lasciato la città già da tempo. Vogliono vendere la loro merce il più presto possibile e a Los Angeles sono diventati già troppo vistosi».

«Il che vuol dire che non possono lasciare la città senza avere problemi seri» intervenne allora Amita.

«A ogni modo» riprese la parola Charlie «abbiamo sviluppato un metodo che dovrebbe aiutarvi a trovare il camion, che sia ancora in città o meno».

Fu David a fare la domanda finale, quella che Charlie si aspettava.

«E che metodo è?»

«In fondo è davvero semplice. Questo principio viene anche applicato dai cacciatori, per esempio. Penso che Ian Edgerton abbia anche fatto qualcosa del genere quando ha lavorato con noi una volta. Comunque, dovete prendere l’ultima posizione del camion che conoscete. Partendo da questo punto vi muovete verso l’esterno in spirali continuando finché non troverete il camion. Abbiamo considerato nell’algoritmo di cerca anche la composizione del terreno e molti altri dati, come le deposizioni dei testimoni, anche se naturalmente non si devono dimenticare i buchi temporali. Ecco qualche percorso provvisorio. Naturalmente l’algoritmo di ricerca è ancora abbastanza approssimativo. Abbiamo pensato che avreste voluto i risultati quanto prima. Se volete posso ancora migliorarlo, tentare di eliminare le dichiarazioni false e così via».

La squadra prese le piantine della città con gli itinerari segnati.

«Fantastico, sembra quasi un gita» disse Colby.

«Informerò già le automobili del LAPD. Forse ci possono aiutare con la ricerca» propose David e Don annuì con approvazione.

«Va beh… avete ancora bisogno di noi?» volle sapere Charlie, voltandosi nonostante l’agitazione verso suo fratello.

«No» rispose Don in breve e Charlie prese subito il suo laptop. «Voglio dire… Puoi venire un attimo, per favore?»

Senza aspettare una risposta tirò verso sé un Charlie confuso prendendolo per il gomito, via dagli altri in una sala di conferenza vuota, perché fossero soli.

«Okay» cominciò Don, «puoi andartene in un attimo se vuoi, ma voglio una risposta da te».

Charlie non aveva la più pallida idea di che cosa suo fratello stasse parlando. In tensione aspettò la domanda che avrebbe fatto svanire la sua confusione.

«Allora, cosa c’è? Che cosa ti ho fatto?»

Charlie si era sbagliato. La domanda di Don non fece svanire la sua perplessità, ma anzi, la fece aumentare. Tutto questo non aveva senso! Don sapeva esattamente che cos’aveva fatto! E l’aveva fatto apposta… o no? Allora perché diceva di non averne idea? O stava parlando di una cosa completamente diversa? E se sì, di cosa?

«Che vuoi dire?»

«Ma dai, Charlie! Non puoi ingannarmi. Mi accorgo benissimo di come mi eviti. Non importa che ti ho fatto, mi dispiace molto. Vorrei solo sapere cos’è…».

Charlie era confuso, ancora di più che prima.

«Di che cosa stai parlando? Sei tu che ha evitato me! E quando hai avuto un problema sei andato da Larry e Amita!»

«Ma solo perché…» Don esitò. Questa era una delle cose che non amava pronunciare. «Solo perché tu non hai più voluto avere nulla a che fare con me! Ti sei isolato da me già da giorni, non mi parli più! Anche ora che hai spiegato il nuovo algoritmo, non mi hai guardato nemmeno una volta. Certo che non sono venuto da te con questo stupido caso se non volevi nemmeno guardarmi! Solo… non riesco a capire perché! Accidenti, Charlie, cosa ti ho fatto?»

Charlie era sconvolto. Talmente sconvolto che l’aver saputo che Don – a quanto pareva – non lo odiasse era passato in secondo piano. Erano realmente vere le cose che Don gli aveva appena detto? Era stato davvero talmente poco affabile verso suo fratello, non solo per questo caso, ma anche prima? Come era stato possibile tutto questo? Come aveva potuto farsi influenzare in tal modo da quella maledetta notizia?

Ad un tratto Charlie sentì la sua coscienza sporca. Avrebbe dovuto essere onesto nei confronti di Don. Avrebbe dovuto confessargli tutto subito, confessarlo a tutti. Non si era nemmeno accorto di quanto si fosse isolato dal resto del mondo. Cos’altro era successo a causa delle sue continue bugie a suo padre, a Don e a tutti gli altri? E adesso Don credeva addirittura che fosse colpa sua

«Non hai fatto male niente, Don, davvero! Non ce l’ho con te. Almeno non più».

Adesso era arrivato il momento. Quel malinteso aveva aperto gli occhi a Charlie. Doveva dirlo a Don.

«Sono solo stato talmente brusco a voi ultimamente perché... dunque…»

«Don?»

Colby entrò, improvviso.

«Questa mattina un camion ha attirato l’attenzione di una pattuglia! Era nei pressi di una fabbrica in Downtown».

«Okay… ah… avete già controllato la targa?»

«Proprio di questo si tratta; non ne ha una!»

«Bene, okay… grazie, Colby. Io… ah… vengo subito».

Colby uscì e Don si voltò di nuovo verso Charlie.

«Allora, cosa stavi per dire?»

Ma Charlie non poteva. Quello non era il posto giusto, non era l’ora giusta. Sapeva che Don adesso voleva andare e che era rimasto solo a causa sua.

«No… lascia perdere. Devi andare: ti aspettano. Non era importante comunque».

«Sì? Davvero?» volle assicurarsi l’agente.

«Sì. Davvero. Sono solo… un po’ stressato ultimamente».

Don mise le sue mani sulle spalle di Charlie.

«Okay… ma non importa di cosa si tratti, puoi sempre venire da me, capito?»

Charlie annuì. Si sentiva davvero male.

«Dai, va!» disse poi tentando di sorridere. Gli angoli della sua bocca facevano tanta fatica a lottare contro la forza di gravità. Se Don non se ne fosse andato in breve, avrebbe probabilmente perso del tutto il controllo e gli avrebbe detto tutto. Ma fortunatamente Don gli diede solo un dolce colpo sul dorso, sorridendo, prima di uscire dall'ufficio.

 

 

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Capitolo 12
*** dodicesimo capitolo ***


Leucemia 12

 

Ma siete bravissime/-i! Che stupenda reazione su quest’ultimo capitolo! Mille grazie!

E vi prometto: non ci metterò ancora tanto fino alla confessione… ma un po’ :)

E sì, mi sto davvero divertendo^^

 

 

 

CAPITOLO DODICI

  

All around me are familiar faces,

worn out places, worn out faces.

Bright and early for their daily races,

going nowhere, going nowhere.

(Tears for Fears, Mad World)

  

Completamente esausto, Charlie si lasciò cadere sul vecchio divano nel suo garage. Voleva riposarsi… dormire…

Chiuse gli occhi. Più forte del solito, il profumo familiare di gesso venne al suo naso mentre sprofondava nei cuscini morbidi.

Ad un tratto i suoi occhi si aprirono malgrado non riuscisse a tenerli aperti. Eppure non era riuscito a resistere all’impulso: voleva vedere qualcosa.

Charlie si guardò attorno. Nel vecchio garage non era cambiato niente. Era ancora tutto caotico e impolverato e sembrava accogliente come la settimana prima, quando il mondo era ancora in ordine.

Charlie aggrottò la fronte, un po’ sorpreso dal proprio ragionamento.  

Quando il mondo era ancora in ordine… Ma lo era anche adesso, o no? Niente era cambiato, niente di sconvolgente. La terra girava sempre attorno al sole, gli Stati Uniti avevano sempre lo stesso presidente, suo padre amava sempre sedere sulla sua poltrona preferita la sera per leggere un libro, Don non aveva cessato di inseguire criminali di giorno e di notte, i koi fuori nella piscina del giardino continuavano allegramente a nuotare, il garage aveva l’aspetto di sempre, e anche lui si sentiva quasi come sempre. Quasi.

Niente era cambiato. Eppure tutto era diverso. Perché?

Charlie rifletté. Se – constatando obbiettivamente (grazie a Dio, Larry non poteva leggere i suoi pensieri in quel momento: constatazione obbiettiva… che assurdità!) – niente era cambiato, allora a cambiare doveva essere stato chi constatava. Lui. Charlie. Dottor Charles Edward Eppes. Professore di matematica applicata.

Charlie si fece scappare un suono tra il pianto e il riso. Professore di matematica. Titolo di dottore. Che cosa significava tutto questo? Niente, niente cazzo! Non era importante, anzi era completamente irrilevante! Chi se ne fregava se aveva due titoli di dottore o tre? Chi se sarebbe fregato, quando lui sarebbe morto? Don, Amita, Larry, suo padre? No, affatto.

Avrebbe dovuto passare più tempo con loro. E più tempo con sua madre… Dio, perché pensava proprio a lei? Lei li aveva già lasciati! E anche lui se ne sarebbe andato fra poco! Non avrebbe dovuto pensare a lei! Avrebbe dovuto pensare a quelli che stava per lasciare! Oddio, gli sarebbero mancati talmente tanto…

«Smettila».

Charlie si spaventò. Adesso aveva anche un disturbo dissociativo di personalità? Però le parole erano uscite senza dubbio dalla sua bocca, ed erano la verità. Non doveva accettare tutto questo. Non doveva darsi per vinto. Ma che cazzo stava pensando? Gli sarebbero mancati talmente tanto? Era forse impazzito tutto a un tratto? Nessuno gli sarebbe mancato! Non avrebbe lasciato nessuno! Non se ne sarebbe andato!

Speriamo.

Le viscere di Charlie sembravano essersi scolte nell’aria. Ma forse erano semplicemente salite fino alla sua gola, perché ora lì c’era un enorme nodo. Non voleva morire. Voleva rimanere lì. Non voleva lasciare gli altri. Ma cosa avrebbe fatto se, invece, avesse dovuto?

Automaticamente Charlie scosse il capo. Non sarebbe successo. Non lo avrebbe permesso, per loro e per se stesso. Sarebbe rimasto con loro. Avrebbe lottato. Fino alla fine.

A bassa voce, ma abbastanza alta per riconoscere un po’ di isteria, Charlie rise brevemente. Sì, avrebbe lottato fino alla fine – e non importava che fine sarebbe stata, se felice o meno: avrebbe fatto di tutto per rimanere con quelli che amava.

Sorrise. Che lo vogliono oppure no.

Eppure… Charlie non poteva far svanire il presentimento che, se ce l’avesse fatta a combattere la malattia, sarebbe cambiato. Dio, era cambiato già adesso, lo sentiva! Ma, poi, perché no? Chissà, forse – sì, certamente! – sarebbe stato più forte quando tutto questo sarebbe finito. Già per questo valeva la pena lottare.

Charlie ebbe quasi un infarto quando il suo cellulare squillò, facendolo saltare fuori dai suoi pensieri.

«Pronto?» accettò la chiamata.

«Ciao, Charlie, sono io, Don. Ah… ti sto disturbando?»

Charlie rifletté brevemente. La risposta per quella domanda era difficile per due versi. Uno, non era abituato a sentirla da Don e due, non sapeva nemmeno lui stesso se era stato disturbato o meno.

«No» rispose alla fine. Sto solo accarezzando tristi pensieri, aggiunse nel silenzio della sua mente.

«Bene. Perché il camion che la pattuglia ha visto non è il nostro. E perciò… Hai detto che forse avresti potuto migliorare quell’al…quel metodo di ricerca per noi, no?»

«Certo. Posso farlo».

Dall’altro capo del telefono era come se un gran peso fosse stato sollevato dal cuore di Don.  

«Ottimo. Grazie, Charlie. Sarebbe di grande aiuto per noi». Cambiò argomento. «Sei a casa?»

«Sì».

«Okay. Allora forse riusciamo a vederci stasera». Poi aggiunse con un sogghigno: «Spero che mi abbiate lasciato qualcosa della cena».

Dopo che ebbero attaccato Charlie si chiese se davvero c’era ancora qualcosa della cena. Non ricordava. Non ricordava nemmeno che cosa avevano mangiato quella sera.

Mise il pensiero del cibo in secondo piano nel suo cervello, facendo spazio per il caso di Don. Però, avrebbe dovuto alzarsi, andare a prendere i documenti, sperimentare qualche cosa alla lavagna. Spesso la gente sorrideva di lui che scriveva sempre tutto sulle lavagne, ma era semplicemente molto più strutturato, anche più chiaro in un certo senso.

Eppure non voleva alzarsi. Era talmente comodo il divano. Semplicemente non riusciva a darsi forza. Perché, maledizione, aveva messo un divano comodo nel suo garage e non un letto di chiodi per rilassarsi? A che cosa aveva pensato? Certamente non a come arredare un locale in modo efficiente. Doveva assolutamente rivedere quella scelta. Anche se… adesso non era più così importante.

«No, adesso basta!» disse Charlie, determinato e si alzò. Era stufo di pensarci.

Determinato, andò verso la scrivania e prese il documento. Usò tutte le sue riserve mentre continuava a scrivere le date rilevanti alla lavagna, poi l’algoritmo di ricerca su un’altra. E poi calcolava.

Non sapeva per quanto tempo fosse rimasto nel garage, quanto ci avesse messo per il calcolo. Il tempo non era così importante adesso. Erano altri i numeri in primo piano ora. Charlie era vicinissimo alla soluzione, lo sapeva.

E poi, ad un tratto, fu colto da quella spiacevole sensazione di debolezza.

Non di nuovo, pensò, disperato, non adesso, dammi solo qualche minuto in più.

Si aggrappò alla parte bassa della lavagna. Le nocche delle dita spiccavano con un bianco così simile al suo viso. Sarebbe passato tutto fra un attimo…

Si concentrò sui numeri e le formule che erano bianche come il suo viso e le sue nocche e che coprivano il verde delle lavagne attorno a lui. Così bianco come la luce… come le pile di fogli attorno a lui… come i fulmini davanti ai suoi occhi… finché il bianco scomparve… e diventò buio.

 

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Capitolo 13
*** tredicesimo capitolo ***


Leucemia 13

 

Grande! Le vostre recensioni mi rendono sempre contentissima! Vi prego, continuate così!

 

 

CAPITOLO TREDICI

 

“Fools,” said I, “you do not know

silence like a cancer grows.

Hear my words that I might teach you.”

(Simon and Garfunkel, Sound of Silence)

 

«Hai sentito?»

Alan si sollevò dalla sua poltrona, guardando il figlio con aria interrogativa.

Don, sonnecchiando sul divano, si svegliò di soprassalto quando gli fu fatta una domanda così all’improvviso. Non aveva ascoltato che i primi dieci minuti della partita dei 49er che c’era alla televisione.

«Sentito cosa?» chiese allora, un po’ assonnato, sollevandosi anche lui.

«Penso che venisse dal garage» rispose Alan. «Qualsiasi cosa fosse, ha fatto un bel fracasso. E in più a quest’ora».

«Cosa?» tornò alla carica Don, divertito, sbadigliando forte. «Vorrai dire chi. Scommetto che è Charlie che si sta snervando perché di nuovo niente va come vuole lui. Aspetta un attimo, gli do ancora dieci secondi» aggiunse, schernendolo bonariamente. «Poi entrerà con lo stesso chiasso e tenterà di rovinarci la serata con il suo malumore».

«Charlie?» chiamò suo padre verso il garage senza far attenzione sulle parole di Don. «Cosa fai?»

Però, non ricevette risposta. I dieci secondi di Don passarono senza un avvenimento degno di nota. C’era il silenzio più assoluto in casa, si poteva sentire solo il commentatore della tv.

«Non si può più far affidamento neanche su Charlie» mormorò Don. E poi gli venne di nuovo in mente quanto stranamente Charlie si fosse comportato ultimamente, ed ebbe un sentimento fiacco nello stomaco.

Alan sembrava avere gli stessi suoi pensieri.

«Si comporta in modo un po’ strano ultimamente, non pensi?»

Don annuì per mostrare consenso, guardando suo padre interrogativo. Lo sguardo di Alan era una preghiera silenziosa.

«Andrò a vedere che succede» mormorò Don anche se non era necessario, e si alzò dal divano. Probabilmente si stavano preoccupando troppo per quella cosa. Con molta probabilità era semplicemente una lavagna caduta in terra e Charlie non aveva sentito i richiami di suo padre. Eppure il sentimento inquieto rimaneva.

Mentre apriva la porta, chiese: «Charlie? Tutto…»

Però il resto della frase gli rimase in gola. Adesso capiva la causa di quel rumore. Infatti, c’era una lavagna un po’ danneggiata in terra. Ma non era tutto. Perché accanto della lavagna c’era –

«Charlie!»

In un attimo era accanto a suo fratello, inginocchiatosi per terra. Dette dei colpetti sulla sue guance.

«Charlie!»

Però Charlie non si muoveva. Era pallido come la morte e teneva i suoi occhi chiusi. Sembrava che fosse svenuto.

«Charlie, svegliati! Papà!» chiamò sopra la sua spalla. «Vieni, dai!»

Alan, però, non avrebbe avuto bisogno di quell’invito. Nei suoi pensieri aveva seguito suo figlio ascoltando i suoi passi e apparve immediatamente alla porta.

«Che è successo?»

Il suo sguardo cadde sulla figura di suo figlio sdraiato a terra e a quanto pareva senza vita.  

«Charlie!»

Anche lui adesso si inginocchiò accanto a lui, dall’altro lato. «Che cos’ha?»

«Non lo so» rispose Don e fece fatica a conservare il sangue freddo.

Febbrilmente pensò a cosa dovessero fare mentre alternatamente scuoteva la spalla di Charlie e dava colpetti contro la sua guancia.

«Forse dovremmo chiamare un dottore?» propose dopo qualche attimo.

Alan annuì. «Chiamo il dott. Steiner».

Tutti e due sapevano che in questo momento stavano pensando alla stessa cosa.

Alan non era molto ottimista sul fatto di provare a raggiungere il dottore nel suo studio. Così compose subito il suo numero privato. L’aveva ancora dal periodo in cui sua moglie si era ammalata di cancro. Ad un tratto tutti quei ricordi furono di nuovo vividi come se tutto ciò non fosse successo che ieri. Anche Margaret aveva cominciato con attacchi di debolezza e di svenimento. Quando era in fine andata dal dott. Steiner, era stato troppo tardi. Il cancro l’aveva uccisa. E se anche Charlie adesso…

Con tutta la sua forza di volontà Alan tentò di far sparire quel pensiero tanto inquietante. Non ci riuscì.

«Steiner».

«Buona sera, Dott. Steiner. Sono Alan Eppes. La prego di scusare questa chiamata ad un’ora tanto tarda, ma mio figlio è appena svenuto e non riusciamo a farlo rinvenire».

Alan deglutì. Per due secondi insopportabilmente lunghi ci fu il silenzio all’altra parte. «Capisco…. Beh, in ogni caso credo che non ci sia ragione di preoccuparsi così tanto».

Alan mandò un sospiro di sollievo. Già si pentiva di aver chiamato il dottore per una stupidata. Però il medico continuò: «Un incidente del genere non è una novità in quello stadio della malattia. Soprattutto quando uno è – la prego di scusare il termine – talmente irragionevole e avventato come il nostro paziente».

Dopo aver ritrovato le parole Alan chiese: «Mi scusi… ma di che malattia stiamo parlando?»

Pensava di poter vedere veramente come il dottore all’altra parte aggrottava la fronte mentre rispondeva con un’altra domanda: «Non gliene ha parlato?»

«Parlato di che cosa

Alan stava per perdere il controllo di se stesso.

«Parli, la prego! Cos’ha mio figlio?»

Il dottore fu fortunato. Alan lo lasciò in pace per un attimo quando sentì la voce di Don dal garage dirgli: «Papà! Penso che si stia svegliando!»

«Perfetto!» disse Alan agitato «Aspetti» fece, poi, nel ricevitore abbastanza bruscamente; ma già un attimo dopo si accorse di quanto scortese fosse stato e aggiunse un «per favore» breve ma umile mentre correva nel garage, il cordless in mano.

«Stai bene?» stava chiedendo Don a suo fratello in modo inquieto quando suo padre entrò nel garage.

«Certo» mormorò Charlie e si sostenne con uno sforzo enorme sui suoi gomiti, tentando di ignorare il garage che ancora girava attorno a lui. Detestava esser sdraiato lì a terra mentre due uomini adulti l’accerchiavano in piedi, o meglio, rispettivamente, uno in ginocchio ed uno in piedi. E lo detestava almeno tanto quanto fare la domanda che aveva sulla punta della lingua. Eppure non riuscì a trattenerla.

«Che cosa… è successo esattamente?»

«Eh beh’, lo vorremmo sapere anche noi!» disse Alan, facendo un passo avanti e incrociando le braccia al petto.

Però Don, che non poteva completamente capire la furia di suo padre, sapeva che per Charlie era importantissimo sapere cosa fosse successo. Aveva sempre il bisogno di analizzare tutto.

«Abbiamo sentito un rumore fortissimo. Allora sono venuto in garage e ti ho visto sdraiato in terra. Non eri conoscente e perciò abbiamo telefonato al dott. Steiner».

«Che mi stava per dire cos’hai» finì il rapporto Alan, sembrando abbastanza eccitato.

Di botto, tutto l’intontimento di Charlie svanì.  

«Stava per cosa?!»

«Non stavo per fare niente» la voce fresca del medico penetrò ben percettibile, anche se bassa, dal ricevitore che Alan teneva ancora ben stretto in mano. A quanto pareva aveva ascoltato la conversazione.

«Penso che accenderò il vivavoce» borbottò Alan a nessuno in particolare e premette il tasto adatto.

«Naturalmente sono del parere che sarebbe meglio se lei avesse raccontato tutto alla sua famiglia, dott. Eppes» continuò il medico e i tre fissarono il ricevitore. «Io però non dirò niente».

«Bene» replicò Charlie risolutamente. «Farò anch’io così».

«Non stai parlando sul serio, Charlie! Dovrai dirci la verità!» s’indignò Alan, ma Charlie rimase calmo e al contempo brusco.

«Non puoi costringermi».

Alan perse la bussola. «Mi dirai subito che cos’hai!» gridò, chinandosi e scuotendo fortemente le spalle di suo figlio. Ma Charlie lo fissò con fermezza truce.

«Non ti dirò niente» rispose prontamente.

Un silenzio teso cadde nella stanza.

«Se permette» disse il dottore ad un tratto e si poteva sentire che si schiarì la gola «se permette vorrei darle un consiglio, professore Eppes. Sospetto che non abbia detto niente della sua malattia alla sua famiglia per non inquietarla. Però, a volte può tormentare molto più non saper niente che poter affrontare la verità…».

Lottando contro la presa leggera di Don, Charlie si sedette. Però non osava ancora stare in piedi.

«La prego di comprendermi!» gridò verso il ricevitore e si sentiva abbastanza idiota a farlo. «Mia madre…» Si interruppe.

«Dott. Eppes», il medico aveva un timbro rigido, un po’ come il padre di Charlie, «pensa veramente che suo padre e suo fratello non abbiano fatto le stesse associazioni che ha fatto lei? Ma è una decisione sua. Dovrete chiarire questa faccenda tra di voi, signori. Non voglio essere scortese, ma penso che sia meglio se concludiamo questa telefonata».

«Sì, certo» borbottò Alan e chiuse la chiamata.

Fissò dall’alto in basso suo figlio con uno sguardo impenetrabile, il ricevitore ancora in mano.

«Allora?» chiese infine, le braccia incrociate al petto.

All’improvviso Don sentì dentro di sé un’onda di compassione per suo fratello. Naturalmente voleva sapere che cosa c’era che non andava, e questo certamente non da poco; eppure Alan utilizzava tutta la sua potenza per forzare Charlie a dire loro la verità in quel preciso momento.

E se Charlie avesse bisogno di un po’ più di tempo…?

«Papà…» tentò Don cautamente, «se proprio non vuole adesso…»

«Allora deve!» lo apostrofò Alan con rigore. «E solo perché tu ti interessi a tuo fratello esclusivamente quando ti aiuta, non vuol dire che sia la stessa cosa per tutti in questa stanza!»

Quello fu un colpo basso. Per alcuni battiti del suo cuore Don rimase senza fiato.

«Che… che… che vuoi dire?» balbettò finalmente. «Come puoi anche solo pensare una cosa simile?» Si voltò verso suo fratello, che aveva i gomiti sulle ginocchia e la testa tra le mani. «Charlie, non devi crederlo, capito? E’ assurdo! Non avrei…»

«Smettetela» mormorò Charlie e Don stette zitto. Come, per tutto il mondo, avrebbe mai potuto parlar loro se non lo lasciavano nemmeno prendere parola?

Tolse le mani dalla faccia e li guardò. Il momento della verità era giunto. Non ci sarebbe stato più ritorno.

«Dunque… volete sapere che cosa ho?»

«Certo» i due risposero come se fossero una voce sola.

«Va beh. Bene». Deglutì di nuovo. Maledizione, perché la sua gola era talmente secca? E la sua voce talmente velata?

«Sono malato. Ma si può guarire la malattia. Ho buone probabilità di tornare completamente sano». Charlie credeva fosse meglio calmarli un po’ fin dal principio. Non c’era bisogno di dire loro quanto stesse ingigantendo quelle “buone probabilità”.

«Ho la leucemia».

 

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Capitolo 14
*** quattordicesimo capitolo ***


Leucemia 14

 

Oh-oh… Ma state tutti bene? Devo ammettere che dopo le vostre recensioni avevo la coscienza un po’ sporca… Ma nessuno deve continuare la lettura dal reparto della neurologia, vero? :)
Allora, per calmarvi un po’, ecco il prossimo capitolo:

 

  

CAPITOLO QUATTORDICI

 

And now I understand

what you tried to say to me.

(Don McLean, Vincent)

 

Botta. Era questa la parola giusta. L’aveva detto. Ciò significava dire che non c’era bisogno di dirlo ancora una volta. Fino a quel momento Charlie non si era mai reso conto di quanto quel segreto avesse pesato su di lui. Fuori dal suo controllo, il suo umore si risollevò un po’.

«Cos’hai detto?» bisbigliò Alan mentre Don lo fissava, sconcertato, con la bocca aperta.

L’umore di Charlie scivolò di nuovo in basso. No, non l’avrebbe ripetuto, assolutamente no.

«Tu hai la leucemia?» continuò a gracchiare Alan.

Una parte di Charlie gli era grato, Un’altra aveva ad un tratto compassione con lui. Sì, sentire una notizia del genere era difficile. Lo sapeva.

«Eh, Papà»

Charlie voleva alzarsi e posare almeno una mano sulla spalla di suo padre, ma temeva che se lo avesse fatto sarebbe svenuto di nuovo. E soprattutto ora non era ciò che voleva.

«Non è così grave come si crede all’inizio… La leucemia è guaribile: ho una reale possibilità di farcela. Il pericolo di morire in un incidente stradale è 200 volte più alto di quello della leucemia».

Saggiamente, per la statistica appena detta, Charlie era partito dal presupposto che si trattasse di un campione non ammalato.

«No, fermati!» disse Alan ad un tratto con voce chiara e stridula. «Aspetta – che cosa state facendo? Stai tentando di consolarmi?»

«Beh’…»

«Smettila! Smettila immediatamente!»

Confuso, Charlie guardò versi di lui.

«E’ la stessa cosa che ha fatto all’inizio Margaret» riuscì ancora a dire Alan con voce soffocata, prima di volgersi altrove, lontano dai suoi figli e fuori dal garage.

Turbato, Charlie tenne lo sguardo sue spalle del padre finché fu possibile. Aveva fatto un errore? Cercando aiuto volle voltarsi verso Don, ma quello sembrava turbato tanto quanto lui.

«Leucemia?» bisbigliò. «Non e uno scherzo?»

Charlie capì subito che cosa stesse pensando suo fratello.

«Hai detto anche tu che l’ospedale non lavora bene» ricordò a Don.

«E’ ciò che dice Glennfield».

Perché Don doveva essere talmente pessimista? Charlie quasi si perse nella disperazione. Era veramente necessario che tutti lo dessero già per vinto?

«Don, per favore» pregò. «Non puoi almeno fingere di aver ancora speranza per me?»

Don lo fissò con spavento.

«Sì!… certo, voglio dire… Non credo che morirai, Charlie, voglio dire… se lo dici tu che hai una chance reale, allora…»

Don esitò. E poi, finalmente, tornò il vecchio Don, quel Don che parlava con il fratello minore in modo insistente, ma incoraggiandolo.

«Eh, fratellino, un Eppes non si da per vinto così facilmente! Io so che puoi farcela, capito? E inoltre non puoi lasciarmi solo con papà. Dove andremmo a finire?»

Sollievo caldo si diffuse nello stomaco di Charlie.

«Sei il migliore, Don» disse, esausto.

Ma non era ancora la fine. C’era ancora qualcosa…

Di nuovo, Charlie fu a disagio. Poteva tentare di parlarne con Don adesso? Però prima era, meglio era. E pian piano il tempo gli sfuggiva via dalle mani…

«Don?» Di nuovo la sua voce si velò e dovette rischiarsi la gola. «C’è un’altra cosa.»

«Come? Peggio di così?»

«Ah… sì». Charlie non sapeva da dove cominciare. «Allora… si tratta di questo… Vi ho detto che si può guarire dalla leucemia. E… e per questo bisogna fare la chemioterapia e poi… dunque…»

«E’ per i soldi?» lo interruppe Don. «Non è un problema, posso…»

«No, no, i soldi non sono affatto un problema» fece Charlie scuotendo la testa, mentre la sua disperazione aumentava. Come avrebbe dovuto dirglielo?

«Dunque, sai, leucemia vuol dire che il mio corpo non è più capace di creare sangue propriamente…».

Don non aveva la minima idea di cosa Charlie intendeva dirgli. Pian piano diventava sempre più impaziente. Però non voleva fargli pressione: in fondo poteva vedere quali giri di parole Charlie stesse facendo.

«Allora… la causa è che qualcosa non va col midollo osseo. E perciò… dunque, perciò qualcun altro dovrebbe donarmi il suo… e normalmente con fratelli succede così… Dunque, il dott. Steiner mi ha detto, siccome hai il mio stesso gruppo sanguigno, che avrebbe dovuto funzionare… in caso che tu sia d’accordo» aggiunse velocemente, guardando teso la faccia di suo fratello. Adesso gliel’aveva detto. Adesso la decisione stava a Don.

Quello, però, non era proprio sicuro di aver capito bene ciò che Charlie aveva balbettato.

«Allora vuoi dire che devo donarti il mio midollo osseo?» ripeté incerto.

«No, voglio dire… insomma… se non vuoi lo capisco, davvero, va bene. Il dott. Steiner ha solo detto che avrei dovuto chiedertelo» balbettò Charlie affrettatamente, ma Don lo interruppe.

«Charlie!»

Charlie smise di balbettare e Don continuò in modo tranquillo, la mano sulla spalla di Charlie. «Credi seriamente che ci sia una qualsiasi cosa che non farei per salvarti la vita? Certo che ti donerò il mio midollo osseo, è fuori discussione!»

Charlie represse il sollievo; non doveva che suo fratello fosse costretto a quella scelta senza possibilità di tirarsi indietro. «Vuoi… non vuoi rifletterci ancora una volta?» chiese di nuovo in modo insistente. «Un intervento del genere non è senza di rischi e se… insomma, se ti succedesse qualcosa…»

Con una dolcezza sconosciuta Don lo interruppe. «Charlie, so esattamente che cosa sto per fare. E il rischio è molto più grande per te che per me. Non tentare di fermarmi. Lo farò. Farei tutto per te».

 

 

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Capitolo 15
*** quindicesimo capitolo ***


Leucemia16

 

Siete troppo formidabili! Mille grazie per le vostre opinioni!
Ah sì, e nessuno ha bisogno di scusarsi quando scrive una recensione talmente gentile, va bene, Sherry? :)

 

 

CAPITOLO QUINDICI

 

You would live a hundred years

if I could show you how.

I won't desert you now.

(Les Misérables, The Rain)

 

Per qualche istante i due rimasero seduti sul terreno in armonia e silenzio. Finalmente Don si alzò, tendendo la sua mano verso Charlie.

«Dai, vieni. Oppure vuoi rimanere qui per tutta la notte?»

Charlie scosse il capo, sorrise un po’ insicuro e poi si lasciò tirare su da suo fratello. Era così immensamente sollevato dal fatto che adesso lo sapessero almeno suo padre e Don.

Don.

Charlie avrebbe voluto cantare per la gioia. Aveva veramente il migliore fratello che si potesse desiderare. Don lo sosteneva. Don sarebbe rimasto a fianco suo. Don gli avrebbe dato la forza.

L’agente dell’FBI accompagnò Charlie in casa, fino al divano in soggiorno.

«Va beh… adesso risposati un po’, d’accordo? Io… torno subito. Devo… devo solamente… fare una cosa».

Repentinamente uscì dalla stanza. Charlie fissò la sua schiena, inquieto.

 

Don si sentì costretto a andare fuori. Aveva assolutamente bisogno di aria fresca. Le sue gambe lo portarono come da sole al vecchio laghetto di koi, in giardino. Memorie d’infanzia affioravano nella sua testa. Come lui e Charlie correvano attorno al laghetto, giocando. Come Charlie, in seguito, aveva potuto sedere sul bordo per osservare i pesci. Come sua madre riuscisse a richiamarlo in casa solo all’ora di cena o quando diventava buio…

Un nodo si formò nella gola di Don e umidità si accumulò nei suoi occhi. Lentamente si lasciò scivolare a terra, verso il bordo del laghetto. Ad un tratto si sentiva così infinitamente debole.

Charlie.

Leucemia.

Da quando poteva ricordare, Don era stato forte. Sempre. Anche quando suo madre era morta. Aveva tentato di sostenere la famiglia. E ce l’aveva fatta. Fino ad ora.

Lentamente, con strani intervalli, la disperazione sorse dentro di lui.

Charlie ha la leucemia!

Don avrebbe voluto che fosse un incubo: avrebbe voluto svegliarsi e che tutto fosse stato come sempre. Charlie sarebbe stato sano, sprizzante di gioia di vivere ed energia, lo avrebbe snervato con le sue infinite analisi di statistiche di baseball…

Però non era un incubo. Gli incubi tendevano a diventare realtà. Don l’aveva già vissuto una volta.

Semplicemente non poteva essere così! Charlie non poteva essere malato! L’avrebbe detto loro molto prima!

Però l’aveva detto loro. Adesso.

Ad un tratto, così tante cose divennero logiche! Finalmente gli fu chiaro perché Charlie si era allontanato da tutti, che cosa aveva sempre nascosto loro, che cosa occupava la sua mente. Era talmente semplice, talmente logico. E talmente inconcepibile.

Lacrime scivolavano sul volto di Don. Voleva farle sparire con impazienza, ma ne venivano altre. Grazie a Dio non lo vedeva nessuno, soprattutto non Charlie. Charlie non doveva vederlo piangere, soprattutto non piangere a causa sua.

Dio, Charlie non aveva idea! Non aveva la più pallida idea di quanto fosse importante per lui che il suo fratellino stesse bene! Quanto importante lui stesso fosse per Don… anche se Don non l’aveva mai ammesso.

Charlie non doveva morire! Non adesso che erano da poco riusciti a superare la morte di Margaret! Non poteva lasciarli anche lui, non poteva! Non doveva! Don sapeva che non ce l’avrebbe fatta a superare anche la morte di Charlie. Non sarebbe riuscito a sopportare di vedere suo fratello spegnersi lentamente, il suo fratellino a cui aveva sempre badato, il suo fratellino su cui aveva sempre vegliato. Il solo pensiero sembrava strappare il cuore dal petto di Don.

Charlie doveva farcela. Costava quel che costava. Don avrebbe lottato per lui.

…Ma come?

La disperazione e l’impotenza crearono un nodo nella gola di Don. Che cosa poteva fare lui? Sì, poteva donare il suo midollo osseo a Charlie. E poi? Non poteva portar via i dolori e le sofferenze, non importava quanto lo volesse. Non poteva fare niente. Era condannato a non far niente. Non poteva sostenere quel peso al posto di Charlie. Se Charlie fosse crollato sotto la sua malattia, Don non sarebbe stato in grado di fare niente. Sarebbe stato obbligato a vederlo morire. Come era stato con Margaret.

Don singhiozzò, nascondendo il viso tra le braccia. Era proprio ciò di cui aveva sempre avuto paura, che qualcosa sarebbe successa a Charlie e lui non avrebbe potuto fare niente…

Era talmente ingiusto! Perché tra tutta la gente proprio Charlie? Perché il suo fratellino? Non era giusto! Charlie non poteva sopportarlo! Era troppo debole per combattere contro una cosa del genere!

Fermati, Don si ordinò. Non pensarlo. Non è vero. Charlie non è debole.

Ma la forza di Charlie sarebbe bastata? O avrebbe dovuto darsi vinto alla sua malattia?

E finalmente Don seppe la risposta.

Lui non poteva fare niente, no; Don non poteva combattere. Non poteva dichiarare guerra a quella malattia al posto di Charlie, per quanto lo volesse. Però poteva dargli la forza di cui aveva bisogno per vincere quella guerra. Avrebbe sostenuto Charlie. L’avrebbe sollevato quando sarebbe stato a terra. Avrebbe vegliato su di lui quando sarebbe stato esausto. L’avrebbe sostenuto quando avrebbe tentato di rialzarsi. Avrebbe camminato al suo fianco quando avrebbe tentato di aprire un varco attraverso l’oscurità.

Sarebbe stato lì, per lui.

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Capitolo 16
*** sedicesimo capitolo ***


Leucemia 16

E di nuovo mille grazie per le vostre recensioni! Sono talmente onorata che penso che esagireste un po' con la vostra gentilezza e la lode... ma fa niente, amo molto le esagerazioni :)

Spero che vi piacerà.

CAPITOLO SEDICI

All my bags are packed.

I’m ready to go.

(John Denver, Leaving on a Jet Plane)

 

Charlie si sentiva un po’ insicuro sulle gambe. Però doveva andare tutto per il meglio: quella era la sua ultima lezione e l’avrebbe portata a termine in un modo o un altro. Solo quella lezione, poi avrebbe concluso tutto. Era quasi all’arrivo della prima tappa. Niente più confessioni, niente più calcoli per questo o quel collega e anche il gruppo di contrabbandieri era stato arrestato. Niente più confessioni salvo due, quella al suo corso e forse la più difficile.

«Buongiorno» salutò gli studenti, tentando di sembrare energico come al solito. Non era affatto semplice. La memoria delle ore passate era ancora nella sua mente.

Ancora prima di aver informato il suo primo corso quella mattina, aveva parlato ad Amita della sua malattia fuori, nel campus. L’aveva detto chiaramente che sarebbe sopravvissuto, che sarebbe solamente dovuto andare in ospedale per un po’. Le aveva raccontato tutto. Lei aveva pianto e lui aveva tentato di consolarla. Però il pensiero che forse avrebbe dovuto lasciarla per sempre in un futuro abbastanza vicino era stato tremendo per lui. In ogni caso lei lo appoggiava. Era sconvolta, ma avrebbe lottato con lui. Cosa mai sarebbe potuto accadergli se Amita era al suo fianco?

Volse i suoi pensieri di nuovo nella matematica. Doveva tenere duro, almeno per quell’ultimo giorno.

«Ci riallacceremo all’ultima lezione e parleremo un po’ più delle dispersioni, però questa volta non più con gli errori quadratici lineari, ma con quelli quadratici medi. Alcuni di voi potrebbero già conoscere la formula» disse, voltandosi verso la lavagna per scrivere la formula che in fondo non era troppo complicata.

Successe di nuovo. Stelle danzavano ancora una volta davanti ai suoi occhi. Charlie li chiuse. Credeva di barcollare un po’ e si appoggiò leggermente contro la lavagna.

Non crollare… tieni duro… solamente un altro paio di minuti…

Pochi secondi dopo era finito. Charlie riuscì a riaprire gli occhi e continuò a scrivere la formula. Questo non sarebbe dovuto succedergli un’altra volta: i suoi studenti avrebbero potuto notare qualcosa…

Si voltò. «Come potete vedere…»

«Ah… professore Eppes?»

Uno dei suoi studenti, un giovanotto brillante ma nervoso di nome Stevens, aveva alzato la mano.

«Sì?»

«Ehm… non dovrebbe essere il reciproco di N dopo il segno d’uguaglianza?»

Charlie si voltò di nuovo verso la lavagna. In effetti... Lì c’era N, non 1/N. Come poteva essergli accaduto?

Per un attimo rimase davanti alla lavagna come pietrificato prima di riuscire a prendere il gesso, sbrigativo, eliminando il suo errore.

«Certo. Lei ha ragione. Grazie, Mr. Stevens».

Charlie faceva fatica a far nascere un sorriso sulle sue labbra e Stevens sembrava felice di aver potuto correggere il suo professore.

Charlie tentò di non farsi confondere troppo da quell’errore e continuò la lezione. «Quel parametro dello stocastico ha una grande importanza nella matematica applicata e viene spesso utilizzato…»

 

Quando ebbe concluso quella lezione Charlie fu certo che doveva esser stata una noia per i suoi studenti. In seguito, pensandoci, non avrebbe saputo più spiegare come era riuscito a sostenere i minuti successivi, per lui lunghi come un’eternità, ma alla fine, in fondo, era fiero di sé. Non era crollato e dopo quell’incidente imbarazzante non aveva fatto altri errori. Adesso, però, era sfinito. Eppure doveva superare un altro ostacolo.

«Prima che ve ne andiate» fermò i suoi studenti che dopo la conclusione della sua lezione cominciavano a riporre le loro cose, ma che, sentendo la sua voce, si fermarono «prima che ve ne andiate vorrei informarvi che dovrete consegnare i vostri compiti non a me, ma al professore Kipler».

Le facce degli studenti si dipinsero di stupore e Charlie sapeva che doveva loro una spiegazione.

Si schiarì la gola. «Il professore Kipler non solo correggerà i vostri compiti, ma, a tempo indeterminato, assumerà anche la direzione di questo corso».

Charlie si fermò. Non sapeva ancora come dirlo ai suoi studenti. Con il tempo avrebbe dovuto essere in grado di farlo, si era detto.

«Perché?» domandò una studentessa dalla seconda fila.

«Sarò impedito fino a nuovo ordine».

I suoi studenti, che avevano solo pochi anni in meno a lui, si guardarono. Probabilmente pensarono all’occupazione secondaria di Charlie per l’FBI. No, probabilmente pochissimi di loro in quel momento stavano pensando a una cosa talmente banale come una malattia. Però, avevano il diritto di saperlo. Charlie l’aveva già fatto capire a sé stesso, anche se non era stato facile. Ed era ancor più difficile far diventare quell’intenzione una realtà…

«Ha qualcosa da fare con l’FBI?» la domanda, quasi repressa, bisbigliata interruppe il silenzio teso e fece saltare Charlie dai suoi pensieri, convincendolo a dire la verità.

«No. No, devo deluderla. La ragione della mia assenza è molto meno spettacolare». Respirò a pieni polmoni. «Sono malato. Perciò sospenderò fino a nuovo ordine il mio insegnamento alla CalSci».

Charlie guardò facce prive di comprensione e piene di spavento. Qua e là, occhi restavano sul professore con compassione. Non poteva sopportarlo, doveva assolutamente alleggerire un po’ l’atmosfera.

«Dunque… oggi è la vostra ultima occasione per rinfacciarmi tutte le cose che fino ad ora, per gentilezza, non avete detto» disse a tutti tentando di sorridere. Avrebbe voluto piangere. Non sarebbe riuscito a sostenerlo ancora per molto. Doveva finire quella cosa in fretta. Comunque non sapeva più cos’altro dire.

«Dunque… vi… vi saluto, augurandovi una vita fortunata… fate in modo che la CalSci sia fiera di voi!»

Aveva finito. Era alla fine, sia della sua lezione che della sua forza. Voleva solamente restare solo, risposarsi. Però non gli fu ancora dato. I suoi studenti erano ancora lì, attorno a lui, e lo fissavano.

«Lei morrà?»

Era stato un bisbiglio fioco, dal fondo della sala. La domanda, che in fondo non era una sorpresa per Charlie, lo colpì come una sferzata. Ma tentò di passarci sopra.

«Allora non sono riuscito ad insegnarvi nulla? Le coincidenze sono una realtà matematica! Non è possibile calcolare il momento della morte, solo le probabilità…»

Si interruppe. I visi solenni dei giovani davanti a lui facevano chiaramente intendere i loro pensieri. Charlie respirò profondamente.

«Forse. Le mie prospettive non sono cattive. Però vi prego di perdonarmi se rinuncio a diventare uno dei vostri oggetti di esperimenti matematici dandovi le mie probabilità di sopravvivenza».

«Lei è il miglior professore che abbiamo mai avuto!»

Charlie voltò la testa. Lì, c’era una studentessa con occhi umidi che aveva appena chiuso la bocca. I suoi compagni annuirono fortemente. Charlie aveva aperto la propria bocca, però non sapeva cosa rispondere.

«Ma dai, non esagerare!» mormorò alla fine.

Trovò la reazione dei suoi studenti davvero commovente ed era veramente grato per la loro compassione, ma in quel momento non c’era altro che desiderava che essere solo.

«Vi… vi ringrazio molto per la vostra partecipazione. Però sarei molto grato se mi lasciaste solo adesso».

I suoi studenti capirono. Finalmente lasciarono l’aula, l’uno dopo l’altro. Charlie si accorse appena delle loro parole d’addio mentre tentava di raccogliere i suoi documenti. Nella sua testa girava tutto, ronzava e rombava, aveva le vertigini e la nausea. Non appena furono usciti dall’uditorio gli ultimi studenti, ciò che rimaneva della sua forza sembrò scappare con loro. Completamente esausto si appoggiò contro il muro accanto all’enorme lavagna, lasciandosi scivolare a terra. Nascose il viso tra le mani fresche, provando sollievo e appoggiò i gomiti sulle ginocchia. Sarebbe finito fra poco. Fra poco si sarebbe alzato e – andato nel suo ufficio e raccolto qualche cosetta – si sarebbe ritirato definitivamente e sarebbe tornato a casa. Voleva solo riposare un attimino. Fra poco l'avrebbe fatto… ma non adesso.

Come da lontano – o era un sogno? – Charlie si accorse che l’uditorio stava di nuovo diventando pieno di gente. Probabilmente era una vista strana per gli studenti: uno dei loro professori – o poteva considerarsi un compagno? Non sembrava più anziano di loro e solo pochi erano già stati ad una sua lezione – era seduto accanto al muro del loro uditorio, quasi indifferente alla gente attorno a lui. Bizzarro.

Ad un tratto, delle voci gli chiesero se fosse tutto a posto. Di nuovo questa domanda snervante. Charlie tentò di rassicurarli nel modo il più disinvolto possibile che stava bene, che era tutto in ordine. Si rilassò solo un po’. Non c’era nulla di male, in fondo. “Possiamo aiutarla?” “No, grazie, non è necessario”. Scrollando le spalle, gli studenti lo lasciarono stare.

«Charles?»

Charlie sapeva che cosa stava per accadere.

«Sarò via in un attimo».

Doveva essere uno dei suoi colleghi. Chi altro lo avrebbe chiamato col suo nome?

«Charles… stai bene?»

Gradualmente, la nebbia cominciò a svanire. C’era solo un uomo che poteva essere davanti a lui in quel momento.

«Sì, certo. Sarò via in un attimo, Larry».

Larry non credette a nessuna di quelle parole. Si abbassò sulle ginocchia, tastando la fronte del suo miglior amico.

«Hai la febbre» constatò un po’ inquietato. «Dovresti andartene a casa». Riflette per un attimo. «Vieni, ti accompagno nel tuo ufficio e tu ti riposerai. E quando avrò finito qui ti porto a casa».

Charlie capì che sarebbe stato inutile protestare, già solo perché Larry aveva ragione.

Larry diede un esercizio ai suoi studenti prima di aiutarlo ad alzarsi, sostenendolo fino al suo ufficio.

«Grazie, Larry» disse Charlie sinceramente quando si sedette sulla sua sedia.

Larry non disse niente. Guardò in silenzio il suo amico. Qualche secondo dopo Charlie si accorse che Larry era ancora lì.

«Cosa c’è? Dai, devi andare dai tuoi studenti».

«Sei sicuro che io possa lasciarti solo?»

«Certo. Se ci dovrebbero essere problemi posso sempre chiamare aiuto. E comunque, cosa dovrebbe succedermi qui?»

«Va bene» rispose Larry in modo esitante. «Dunque… stai qui. Tornerò dopo e ti porterò a casa».

«Non sei obbligato a farlo, Larry…»

«Ma lo farò».

Con questo, Larry sparì.

 

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Capitolo 17
*** diciassettimo capitolo ***


Leucemia 17

E di nuovo vi ringrazio per le vostre recensioni che ogni volta mi rendono talmente felicissima :)

 

 

CAPITOLO DICIASSETTE

 

And now my life has changed in, oh, so many ways.

My independence seems to vanish in the haze.

But ev'ry now and then I feel so insecure,

I know that I just need you like I've never done before.

(The Beatles, Help)

 

Affrettato e ancora più caotico del solito, Larry raccolse i suoi documenti a lezione conclusa ed uscì dall’aula, dirigendosi con passi rapidi verso l’ufficio di Charlie.

«Eccomi di nuo…vo».

Larry guardò nella stanza. Nella stanza vuota. Charlie non c’era.

«Charles?»

Immediatamente Larry fu di nuovo in corridoio, cominciando una ricerca frenetica del suo vecchio alunno.

«Charles?!»

Gli studenti che incontrava guardavano quel tipo strano con meraviglia e qualche volta anche divertimento, ma Larry non si accorse di quegli sguardi curiosi. Continuò a muoversi nervoso, colto da un sentimento di paura indefinita, chiamando ancora il nome di Charlie…

«Stai cercando me?»

Da un corridoio laterale rispetto a quello di Larry, Charlie si mosse verso di lui.

«Charles!» disse Larry per un’ultima volta, e oltre al rilievo c’era anche un po’ di rimprovero nella sua voce. «Che stai facendo? Ti ho cercato dappertutto! Ti avevo detto di rimanere in ufficio. Dai, adesso vieni, ti porto a casa».

In silenzio i due paia di passi percorsero il corridoio, arrivando fuori, nel caldo sole californio e infine alla macchina di Larry.

Quando furono saliti Larry tornò alla carica. «Perché l’hai fatto? Perché non sei rimasto nel tuo ufficio?»

«Mi sono ritirato».

«Ritirato? Perché ritirato? Avresti potuto farlo anche per telefono, dal tuo ufficio. Oppure meglio: da casa tua. Ma perché sei venuto a lavorare oggi?»

Non era affatto facile dirglielo, ancora meno se Larry non gli lasciava nemmeno il tempo di parlare. «Non mi sono ritirato solo per oggi…»

«E’ una buona idea! Dovresti veramente riposarti per qualche…»

«Larry, ti prego».

E infine, tacque.

«Non mi sono ritirato non solo per oggi, ma per un periodo indeterminato».

«Che… che vuoi dire? È possibile?»

Charlie respirò profondamente.

«Sì, è possibile. Per essere più esatti, mi sono appena licenziato. Però se voglio ricominciare, la CalSci mi accoglierà di nuovo a braccia aperte, a detta della preside».

Per alcuni secondi Larry fissò il suo amico a bocca aperta. «Ho capito bene? Ti sei licenziato? Ma perché, per l’amor del cielo? Per lavorare con Don? Ma Charles…»

«Larry, ti prego, lasciami finire».

Respirò ancora una volta.

«Devo dirti qualcosa di molto importante».

«Sì?»

In fondo era una frase facilissima. Verbo ed oggetto. Fin a quel punto capiva anche lui la grammatica. E la frase aveva già resistito ad una prova.

«Ho la leucemia».

L’aveva detto. Sì, ne era abbastanza sicuro. Però Larry rimase in silenzio.

«Larry, hai capito? Ho la leucemia!»

Ancora nessuna reazione.

«Larry, mi ascolti?»

E finalmente ci fu una risposta.

«Sì. Sì, certo».

In qualche modo non era la risposta che Charlie si aspettava. «Larry – hai capito che cosa ti ho detto?»

Nessuna reazione.

«Larry, per favore ascoltami». Charlie accentuò ogni singola parola. «Io sono malato, lo capisci? Ho l’LMA, è una malattia del sangue. Io soffro di leucemia».

Charlie tentava di allacciare un contatto visivo con Larry, ma il suo amico si comportava in modo poco collaborativo. Almeno la sua successiva risposta fu un po’ più consapevole della prima.

«Ah… sì?». Un’esitazione breve prima di levare la sua testa con un movimento brusco. «Sai, Charles? Non è un bene».

Se lo si avesse ascoltato bene, si sarebbe potuta sentire una traccia sottile di preoccupazione nella voce di Larry. Però, in quel momento le preoccupazioni di Charlie per Larry sembravano predominare nell’atmosfera, poco dopo la confusione di Charlie.

«Ah… sì… Sì, questo lo so, Larry».

«Forse dovresti andare dal dottore».

«Larry – sono già stato dal dottore. O pensi che la malattia me l’abbia diagnosticata la commessa del supermercato?»

Larry scosse il capo, ma Charlie dubitava che fosse una risposta alla sua domanda.

«Charles… allora credi davvero di avere questa malattia?»

Charlie non era sicuro di aver ben capito il suo vecchio professore, anzi in quel momento non capiva più niente.

«Sì. Sì, lo credo davvero».

«Charles, dai, vedi… Sai quanto sia improbabile ammalarsi di leucemia?»

«Tre nuovi ammalati su 100.000 abitanti ogni anno».

«Esatto. Adesso capisci cosa cerco di dirti?»

«Ad essere sincero… no».

Larry sospirò profondamente come se dovesse spiegare a Charlie che la terra girava attorno al sole. Gli mise una mano sulla spalla.

«Vedi, Charles… viviamo su un pianeta incredibilmente bello, in un numero inimmaginabilmente grande di galassie. E su questo pianeta ci vivono, amano e ridono più di sei miliardi di persone. E solo una percentuale piccolissima di questi sei miliardi persone ha la leucemia. Perché, per tutto il mondo, dovresti averla tu tra tutte queste persone?»

Charlie non era ancora sicuro di aver ben capito.

«Larry, correggimi se mi sbaglio, ma se ho capito bene tu non credi che io sia ammalato di leucemia?»

«Ecco, esatto!» gridò Larry e sembrava contento che il suo ex-studente l’avesse finalmente capito.

Ad un tratto, Charlie si sentì terribilmente perduto. Non aveva idea di cosa fare. Aveva finalmente trovato il coraggio di dire a Larry della leucemia e adesso lui non voleva credergli? L’idea che Larry, appena saputo della sua malattia, sarebbe stato un vero appoggio per lui l’aveva così tanto confortato. Era il suo miglior amico! L’aveva capirlo! Sempre!

Perché non questa volta?

«Larry, ti prego» supplicò Charlie con crescente disperazione «devi comprenderlo! Sono stato dal dottore! Ho un certificato! Posso mostrati i risultati dell’analisi del sangue!»

«Ci credi davvero, allora?» Adesso Larry suonava preoccupato, anzi compassionevole. Pensò. «Dimmi, conosci il film A beautiful Mind”

Certo che Charlie lo conosceva. E non ci mise tanto per realizzare cosa Larry intendeva dirgli.

«Larry, non sono né matto né schizofrenico». aggiunse in modo secco, tentando di nascondere la sua disperazione. «Ma grazie per avermi paragonato ad un genio».

Larry non sembrava più essere molto tranquillo in quella situazione.

«Ma Charles… nessuno ha detto che sei matto».

«Certo, tu». Quasi con divertimento Charlie vide quanto a disagio fosse Larry.

Però non dimenticava l’esplosività del problema.

«Va beh, va beh, va beh…».

Ah ecco: Larry voleva lasciar stare. Si sentiva a disagio. Aveva paura. Aveva paura che Charlie fosse matto. Oppure che forse malgrado tutto…

«Sai che cosa faremo? Ti porto a casa tua. E poi potrai mostrarmi tutti i tuoi certificati di questa cosa».

«Va bene».

Charlie si era quasi rassegnato alla situazione. Se Larry non voleva credergli, allora avrebbe dovuto provarglielo.

La corsa si svolse in silenzio. Nessuno dei due sapeva come trattare l’altro. E ognuno aveva un problema con cui poteva stimolare la propria testa.

 

 

 

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Capitolo 18
*** diciottesimo capitolo ***


Leucemia18

 

CAPITOLO DICIOTTO

 

Whenever things go wrong, I'll be with you.

Whenever clouds are there, we'll fight that through.

You never walk alone. I'll be with you.

(Mathou, You Never Walk Alone)

 

Charlie tentava di nascondere il tremolio di fronte al suo miglior amico quando aprì la porta. Quella maledetta febbre!

«Charlie?» giunse dal soggiorno la voce di Alan. «Sei tu?»

«Sì!» rispose Charlie – e avrebbe preferito che sua voce fosse sembrata più forte.

«Cosa c’è?» Si era precipitato da loro Alan «Che è successo? Credevo che saresti tornato più tardi. Non stai bene?»

Charlie non sapeva se essere grato o snervato mentre suo padre l’osservava con preoccupazione e tensione. «Non agitarti, papà. Sto bene».

«Non è vero» lo interruppe Larry ad un tratto. «Charles è svenuto durante la lezione».

«No che non sono svenuto!» intervenne Charlie, ma Alan non lo ascoltava e Larry non si faceva confondere.

«Ha la febbre».

«Solo un po’!»

«Dovrebbe andare dal dottore».

«Ci sono già stato!»

«E forse…»

«Non sono matto!»

Quello era troppo. Ancora una volta le stelle danzarono davanti agli occhi di Charlie che si appoggiò contro il muro.

«Charlie! Stai bene? Charlie!»

Da qualche parte venne un braccio e una mano che lo sostennero attorno alle spalle.

«Sto bene» balbettò Charlie. «Solo… solo devo sdraiarmi… sarà finito fra poco…»

Probabilmente nel suo subconscio Charlie si accorse che veniva guidato nel soggiorno mentre le stelle continuavano a danzargli davanti agli occhi.

«Dai, siediti figliolo, sdraiati. Prenda la coperta. Ti farò un tè».

Alan sparì nella cucina. Rimase solo un Larry scioccato.

Gradualmente i dintorni del campo visivo di Charlie divennero di nuovo più chiari; i contorni tornavano; la stanza smise di girare. Stava di nuovo bene, almeno per il momento.

«Charles?»

La voce di Larry suonò sottile. Charlie voltò la testa e tentò di alzarsi un po’. Aveva dimenticato che Larry non era abituato a tutto quello.

«Mi spiace, Larry. Non volevo che lo vedessi…».

Larry scosse il capo. «Non lo capisco… non lo capisco…»

«Larry…»

«No, no, no, no, no, non dire niente, non voglio sentire niente».

«Larry, per favore…»

«Sta zitto!»

Non aveva un buon aspetto. Niente affatto. Per essere esatti, Larry aveva un aspetto miserevole. Charlie non sapeva cosa fare. Larry era il suo miglior amico e la cosa era reciproca. Come Charlie avrebbe potuto aiutarlo a venire a capo della possibilità che forse sarebbe morto di lì a poco?

«Ecco, il tè è pronto!»

Con un vassoio tra mani Alan entrò nel soggiorno, interrompendo l’atmosfera tesa. Mise il vassoio sul tavolo e guardò suo figlio in modo preoccupato.

«Charlie…?» chiese cautamente.

«Sto bene» rispose meccanicamente. L’aveva detto talmente spesso negli ultimi giorni che le parole vennero da sé dalla sua bocca.

«Non tentare di illudermi!» insorse Alan prima di diventare di nuovo basso e dolce. Mise le mani sulle spalle di suo figlio sdraiato sul divano. «Puoi metterti a sederti?» chiese invano perché tentava già a sollevarlo. Però non si era aspettato la resistenza di Charlie.

«Sì… no… non trattarmi come un uomo morente!» li lamentò Charlie, irritato, e anche la tensione di Alan diventò evidente.

«Ma lo sei!»

Per qualche attimo nessuno disse niente; nessuno anzi respirava.

«Grazie» disse Charlie alla fine e nessuno dei tre sapeva di che cosa esattamente parlasse.

Di nuovo c’era un silenzio teso, prima che Alan si schiarisse la gola e provasse a cominciare una chiacchierata, sembrando grottescamente disinvolto considerata la situazione.

«Va bene, voi due – com’è stata la vostra giornata?»

«Buona» rispose Charlie, conformemente alla verità. «Ho portato a termine le due lezioni in modo normale. Ho raccontato agli studenti della mia malattia e poi mi sono licenziato. E’ solo che non sono ancora riuscito a svuotare il mio ufficio. Larry mi ha portato qui».

«E’ stato gentile da parte tua, Larry».

«Si… si fa ciò che si può».

Se Lawrence Fleinhardt di solito non apparteneva al mondo normale e reagiva in modo confuso, adesso era estremamente difficile trovare un’espressione adatta per il suo stato d’animo. Il fatto che il suo miglior amico e il padre di questo stessero parlando della malattia di uno dei due con tanta scioltezza… – no, non poteva credere a ciò che stava succedendo, tanto meno analizzarlo. Spostava lo sguardo, sempre in confusione e perplessità, dall’uno all’altro Eppes e non percepiva più le loro parole.

«Allora è vero?» si assicurò, sempre incredulo, interrompendo così la loro conversazione. Lo guardarono, e adesso Alan sembrava confuso quanto Larry.

«Cos’è vero?»

«Che…» Era sempre tanto difficile manifestare quest’ipotesi. «Che Charles ha la leucemia».

Con stupore e rimprovero Alan guardò suo figlio. «Non gliel’hai detto?»

«Ma sì, naturalmente! Però non mi ha creduto».

«Era semplicemente così improbabile» balbettò Larry, ricordandosi della conversazione nella sua macchina.

«Le coincidenze sono una realtà matematica, Larry. Eventi statisticamente improbabili accadono continuamente. Lo sai bene anche tu che se non fosse così la terra non si sarebbe mai formata».

«Come… come puoi farlo? Come puoi parlarne in questo modo?»

«Ho avuto il tempo di rassegnarmi alla faccenda, Larry. Credimi, fra poco guarderai queste cose in modo meno serio».

Larry non credette a nessuna di quelle parole.

«Ma… ma non… non puoi semplicemente lasciarmi solo!»

L’ex-mentore di Charlie si sentiva completamente perso, come se nuotasse in un lago immenso e scuro che solo sporadicamente veniva illuminato da lucciole e come se avesse appena perso il suo salvagente. O come se la persona che era stata accanto a lui per tutto questo tempo, ora fosse affondata…

«Larry, ascoltami!»

Larry levò lo sguardo e lo puntò direttamente negli occhi intensi di Charlie.

«Non devi abbandonare la speranza! Ti prego! Non so ancora con sicurezza come si svilupperà la malattia! Le prospettive che diventi di nuovo completamente sano sono molte! Dovrò solamente concedermi qualche settimana di riposo, ecco tutto!»

Ognuno dei tre uomini presenti sapeva che Charlie stava sminuendo il tutto. Eppure le sue parole attizzarono la speranza di tutti.

«Va bene» disse Larry infine e addirittura ce la fece a sorridere. «Va bene. Credo in te. Ehi, voglio dire – fino a questo punto hai fatto così tante cose che chiunque avrebbe creduto impossibili! Solo per dirne una: laureato a Princeton a 16 anni!»

«Questo è vero!» intervenne Alan prima che Larry cominciasse sul serio l’elenco «Charles, non importa che cosa succederà, io voglio che tu sappia una cosa: in qualsiasi momento avrai bisogno di me, io sarò qui per te».

Charlie annuì solamente. Non sapeva che dire. Lo sostenevano tutti. Era talmente grato del fatto che potesse confidare in loro, che non trovava parole per esprimerlo.

Che cosa avrebbe potuto desiderare di meglio?

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Ah sì.... sembra che stiamo per finire la storia. Ci mancano ancora due capitoli. Spero che la fine vi piacerà. In ogni caso mille grazie per le vostre recensioni fino a questo punto!

Buon Natale a tutti!!!

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Capitolo 19
*** 19o capitolo ***


Leucemia 19

Mille grazie per le vostre recensioni! Ogni volta è un grandissimo piacere per me leggerle!

 

 

CAPITOLO DICIANNOVE

Wherever you go, I'll be there beside you
'cause you are my brother, my brother under the sun.
We are like birds of a feather,
we are two hearts joined together,
we will be forever as one,
my brother under the sun.
(Bryan Adams, Brothers under the Sun)

Don entrò nella sua vecchia casa nella luce dorata del sole del tardo pomeriggio, lasciando scivolare il suo sguardo intorno. I mobili di legno scuro scintillavano nella luce che penetrava dalla grande finestra. I raggi del sole basso rendevano visibile la polvere nell’aria, aumentando l’atmosfera malinconica. Tutto aveva un aspetto così falso: era troppo in ordine, troppo vuoto. Abbandonato.
La prima volta, ci era voluta più forza per ammetterlo, ma la sensazione e allo stesso tempo la quotidianità erano diventate compagne fin troppo abituali per lui: sentiva la mancanza di suo fratello.
«Papà?» chiamò.

Nessuna risposta. Forse Alan era andato a fare la spesa.
Un po’ maldestro, Don bighellonò tra le stanze abbandonate. Il suo sguardo si fermò sul grande orologio a pendolo. Le sei del pomeriggio. Giusto in tempo.
Prese il cordless dalla base e continuò la sua escursione mentre componeva il numero a memoria.
«Charlie Eppes» rispose una voce caldamente famigliare.
«Ciao, fratellino».
«Don! Ciao!»

Dalla risposta di Charlie si poteva sentire che stava sorridendo. Era almeno un buon inizio, no?
Nel frattempo, Don era arrivato alla sua destinazione e si sedette, il ricevitore in mano, sul bordo del laghetto dei Koi. Al momento non poteva essere più vicino a suo fratellino che lì.
«Allora, come stai oggi?» chiese Don, proponendo la domanda standard per cominciare la conversazione.
«Bene» rispose Charlie, conformemente alla verità.
Don sentì con felicità che non sembrava nemmeno stanco come nei giorni più brutti. In quei giorni, la loro conversazione, che era diventata una routine quotidiana, spesso non durava nemmeno cinque minuti. La conversazione che Don aspettava con ansia durante tutta la giornata. La conversazione per cui anche Charlie gioiva di più. Anche suo padre e Amita telefonavano ogni giorno e Larry si faceva vivo quasi quanto loro. Eppure fino ad allora Charlie ce l’aveva fatta a impedire che almeno Larry e Amita venissero a visitarlo.
«Oggi è un buon giorno» aggiunse Charlie inutilmente. Voleva dire, tradotto: oggi possiamo parlare più a lungo. Tutto normalmente. Puoi star tranquillo.
Don sorrise.

«Un buon giorno, sì? Allora oggi non hai dovuto fare lezioni?»
«Dai, smettila» disse Charlie e Don poteva vederlo davanti ai suoi occhi, con un sorriso stanco e tanto meno vivace paragonato a qualche tempo prima. Significato delle sue parole: continua.
«Perché?» continuò a punzecchiare il suo fratello minore. «Dimmi, oggi hai di nuovo potuto spiegare a quello – come si chiama, Peter? – quella legge dei grandi numeri di… di quel francese? Oppure ha trovato un’altra opportunità per annoiarti?» Uguale a: se quel tipo ti annoia, dimmelo. Mi prenderò io cura di lui.
Dopo che Charlie gli ebbe raccontato del momentaneo vicino di letto, Don ci aveva messo un po’ per smaltire la sua irritazione sul fatto che uno sconosciuto importunasse talmente tanto Charlie e l’esaurisse solo per gioco.
«Per prima cosa Bernoulli era svizzero; seconda cosa: sì, il mio compagno di stanza si chiama davvero Peter; terza cosa: lascialo stare. E’ gentile». E grazie a Dio non è in camera in questo momento, aggiunse Charlie silenziosamente.
«Ma è anche molto scocciante». Voleva dire qualcosa come: Stai davvero bene? Sembri esausto.
Ma che cosa non ti fa sentire tale?
pensò Charlie un po’ triste, facendo sprofondare di più la testa nel cuscino e voltando lo sguardo un po’ di più verso la finestra. Avrebbe preferito essere lì, ma avrebbe dovuto alzarsi e in quel momento un simile gesto era al di sopra delle sue possibilità. In fin dei conti non voleva che succedesse ancora una volta.
Solo il giorno prima si era svegliato sul pavimento della sua stanza. Una mano l’aveva scosso e quando la nebbia si era dilatata aveva potuto distinguere Peter sopra di lui con uno sguardo preoccupato. Poi, la memoria era ritornata pian piano. Doveva aver provato ad andare in bagno prima di essere avvolto in un velo nero. I dottori gli avevano assicurato che una cosa del genere non era fuori dell’ordinario, eppure Charlie aveva preferito non raccontare questa storia alla sua famiglia. Tanto, in un modo o un altro, sarebbero forse riusciti comunque a tirargliela fuori quando sarebbero venuti a fargli visita la prossima volta.
Era esausto. La chemioterapia non era una passeggiata. Poteva a mala pena tenere in mano il ricevitore: era senza forze. Aveva la febbre e tremolava malgrado il caldo. I dottori avevano detto che questo accadeva a causa degli antibiotici, ma in fondo a Charlie non importava perché si sentiva davvero male; avrebbe solo voluto che fosse finito subito. Stava lì già da tre settimane e mezza e aveva già superato la metà della fase di induzione. Sperava che tutto diventasse più sopportabile dopo il trapianto del midollo osseo fra due settimane.
Charlie rabbrividì e la febbre non fu la sola causa. Se qualcosa fosse andato male col trapianto… se fosse successo qualcosa a Don…
«Charlie? Stai bene?»
«Sì, ah… sì, certo… mi – mi spiace, hai detto qualcosa?» Ti prego, non smettere di parlare con me in modo normale.
«Si. Ho detto che intendo venire di nuovo il prossimo fine settimana. Non ho servizio, né altro impegni. Potrei prendermi il fine settimana libero per te»
Charlie arrossì un po’. «Lo sai che non ce n’è bisogno. Questa clinica è talmente lontana da voi e tutto questo per… ebbene…».
«Che vuoi dire?» Don insistette vedendo che il fratello non continuava. La sua fronte era aggrottata.
«E beh’, venite sempre, facendo un viaggio enorme e poi non potete rimanere per più di un’ora o due perché dopo sono… ebbene, allo stremo. Inoltre è sempre così complicato; dovrete di nuovo mettere quella maschera chirurgica per evitare che mi ammali e tutto il resto... Voglio dire: avrete davvero migliore cose da fare che sprecare una giornata intera solo per visitare uno scheletro con cui non si sa che fare». E inoltre non voglio che mi vediate così. E se non venite, forse la nostalgia diventerà più grande e mi sforzerò di più e poi forse ce la farò… non voglio essere un peso.
Don era rimasto in silenzio, profondamente scioccato. Gli mancavano le parole. Certo, di tanto in tanto Charlie aveva accennato a cose del genere, ma non l’aveva ancora mai pronunciate tanto chiaramente come adesso.
«Sono stanco adesso. A domani».
Fu il timbro malinconico di Charlie a far saltare Don dai suoi pensieri.

«NO! Aspetta, Charlie!» Non puoi lasciare l’argomento così! Non devi pensarla in quel modo!
Per un attimo Don fu certo che suo fratello avesse già riattaccato, quando nonostante tutto rispose in modo un po’ farfugliante.

«Che c’è?»
Ad un tratto, Don non seppe più che cosa voleva dirgli. «Non… non avrai parlato sul serio ora, vero? Charlie?»
Charlie tacque.
«Ascolta, Charlie, papà e io veniamo a farti visita con piacere, non importa per quanto tempo possiamo rimanere o quanti chilometri ci sono fino a quella stupida clinica». Voglio finalmente vederti di nuovo. Voglio darti forza. Siamo qui per te, lo sai, vero?
«Ma… ma sicuramente avete delle cose più importanti da fare».
«No» disse Don semplicemente. «No, non c’è una cosa più importante».
I sentimenti minacciavano di sopraffare Charlie e di nuovo sentì la pressione di dover proteggere suo fratello da un errore terribile.

«Ci… ci hai pensato ancora una volta? Il trapianto, intendo…» Non voglio che tu corra un rischio che non puoi stimare e che qualcosa ti succeda per colpa mia…
«Charlie, dai, non cominciare di nuovo! Non c’è una ragione per me di non darti il mio midollo». Sorrise, e la sua voce diventò più dolce. «Ma ci sono un sacco di ragioni per farlo».
Con un po’ di riluttanza, anche Charlie sorrise.

«Allora verrai per il fine settimana?» Sono davvero così importante per te da sacrificare il tuo fine settimana libero?
Inizialmente non aveva voluto chiederlo nemmeno. Si sentiva come un bambino piagnucolante che stava mendicando un dolcetto al supermercato.
«Certo. Devo, perché l’ultima volta non ho terminato con… come si chiamava? Kelly, vero?»
Charlie sogghignò.

«Allora così stanno le cose, eh? Non vieni per me ogni volta, ma per le belle infermiere del posto!».
«Ma no!» si indignò Don falsamente e lo corresse: «Vengo a causa di una bella infermiera». E lo sai bene che non è vero. Vengo solamente per te. Mi manchi.
Charlie rise e a Don faceva tenerezza. La conversazione era di nuovo così… normale, come se non ci fossero affatto quei nuvoli scuri che pressavano sugli animi.

Forse, pensò, forse tutto sarebbe tornato a posto malgrado la situazione attuale. Forse ce l’avrebbero fatta insieme a far passare l’oscurità, finché non sarebbe rimasto che il suo ricordo, un’ombra, un nulla.

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Capitolo 20
*** Epilogo ***


Leucemia 20

 

Dunque… ecco l’ultimo capitolo. Scusate la cortezza. Spero che vi piaccia e che sia una fine appropriata per la storia.
Vi ringrazio moltissimo per aver seguito questa storia e ringrazio soprattutto quelli che l’hanno recensita. Siete bravissimi!
E poi… non ci sono parole per esprimere la gratitudine che ha meritata Alchimista per aver coretto la storia!
Mille grazie!

 

 

EPILOGO


I see skies of blue
and clouds of white,
the bright blessed day,
the dark sacred night.
And I think to myself:
What a wonderful world!

(Louis Armstrong, What a Wonderful World)

C’era il sole.
Era un giorno caldo. Dentro, però - nello studio del dottore Steiner - c’era una fresca aria gradevole.
«Dunque, dott. Eppes. Abbiamo analizzato i suoi prelievi del sangue».
A Charlie sembrava di stare sui carboni ardenti mentre il dottore Steiner guardava i suoi documenti. L’adrenalina inondava il suo corpo tanto che la spossatezza che l’aveva accompagnato durante i mesi scorsi era sparita, come andata in secondo piano. Quella era l’ora della verità. Ce l’aveva fatta? Aveva davvero superato la malattia? Oppure i mesi passati nel tormento erano stati solo un periodo di rodaggio che avrebbe abbreviato l’attesa dell’inferno?
Gli avevano dato moltissime medicine durante la chemioterapia. E Charlie non aveva potuto cacciare del tutto il pensiero che, temporaneamente, sarebbe stato meglio se non avesse ricevuto affatto le compresse e le fleboclisi. Ma, ovviamente, erano stati necessarie.
E ovviamente, anche il trapianto del midollo era stato necessario. Charlie era stato così felice e sollevato dal fatto che Don - che al momento stava nella sala d’aspetto, non meno nervoso di lui, insieme a suo padre – avesse superato l’intervento senza alcun danno, che quasi aveva dimenticato la propria stanchezza e i propri dolori, almeno per un po’.
Proprio come in quel momento. Quasi non si accorgeva dei dolori, ma la tensione che minacciava di farlo a pezzi non era meno tormentante. E non sapeva per quanto tempo ancora l’avrebbe sopportata. Più di una volta, durante le settimane scorse, si era sentito allo stremo. Sfinito. Non aveva voluto fare più nulla. Era stato stanco della vita, delle sofferenze, dei dolori. C’erano stati giorni in cui ogni speranza di miglioramento sembrava pura utopia.
Ma poi, c’erano stati anche giorni migliori. Giorni in cui si era sentito meglio e aveva potuto passare un po’ di tempo con i suoi amici e la sua famiglia. Se non ci fossero stati quei giorni, probabilmente Charlie si sarebbe dato per vinto. Erano stati quei giorni che l’avevano aiutato a tener duro. Quei giorni e l’appoggio di quelli che l’amavano. Amita… Larry… suo padre… Don…
Don.
Automaticamente, Charlie sorrise al suo pensiero. Non c’era un dubbio: senza Don non ce l’avrebbe fatta. E non solo per la questione del midollo osseo.
Don aveva mantenuto la sua promessa. Era stato lì per Charlie, sempre. Qualche volta era rimasto accanto al suo letto per tutta la notte, paziente, sostenendolo. Di tanto in tanto Charlie aveva avuto la sensazione che suo fratello fosse disperato, quando era al suo fianco, come se il desiderio di correre via dalla sua camera fosse sempre più forte per quanto avesse provato a nasconderlo.

Qualche volta, quando Don aveva creduto che Charlie dormisse, Charlie l’aveva sentito pregare a voce bassa, ma in modo fervido. E la volontà di Charlie di sopravvivere dopo quelle situazioni era aumentata straordinariamente.
«Lei sembra aver superato la chemioterapia e il trapianto abbastanza bene».
Charlie annuì convinto. Il dott. Steiner stava forse venendo al dunque finalmente?
«Eseguiremo un nuovo test fra qualche settimana» riprese il medico, «solo per esserne certi. Comunque la diagnosi è alquanto chiara. Dott. Eppes – lei è guarito».

Fine.

 

 

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