La lotta senza esclusione di colpi dei coniugi Tsukino per il divorzio

di Return_to_Nibelheim
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Tsukino Fusai no Jingi Naki Tatakai - Prologo ***
Capitolo 2: *** Capitolo 1 - Le prime questioni legali dei Coniugi Tsukino ***
Capitolo 3: *** Capitolo 2 - Malintesi di vecchia data avvelenano il cuore dei coniugi Tsukino ***



Capitolo 1
*** Tsukino Fusai no Jingi Naki Tatakai - Prologo ***


L’angolo di Calcifer, lo spirito del fuoco: (E della malevolenza… Nd Sophie) All’autrice qualche tempo fa è venuta la fissazione per un telefilm giapponese intitolato “La lotta senza esclusione di colpi dei coniugi Sasaki”, che parla di una coppia di avvocati che in ogni puntata si ritrovano ai ferri corti e minacciano di divorziare per poi ritornare puccini puccetti alla fine. Ne consiglia la visione. Ma all’autrice di solito piace roba molto brutta quindi non è che dovete farlo per forza. Non bisogna averlo visto per capire cosa succede in questa storia, e se lo si è visto non si deve temere di ritrovare le stesse identiche situazioni, l’ha usato solo come spunto.

O almeno ha provato a farlo.

Visto che la mia coppia preferita sono Usagi e Mamoru ma a raccontarli in chiave normale ci hanno già pensato la Takeuchi, gli autori dell’anime e schiere di fan ben più bravi di lei, come al solito si tuffa come un paperotto sulle loro controparti regali. Che hanno i vestiti più belli.

Auguriamo a tutti coloro che avranno la bontà di dare una possibilità a questa storia una buona lettura.

 

 

 

LA LOTTA SENZA ESCLUSIONE DI COLPI

DEI CONIUGI TSUKINO

PER IL DIVORZIO

*

(Tsukino Fusai no Jingi Naki Tatakai)

 

 

PROLOGO:

 

Benché la cerimonia d’incoronazione dei sovrani fosse ufficiosamente avvenuta parecchi anni prima, il processo per unificare la Terra sotto l’illuminata reggenza di Neo Queen Serenity fu più lunga e fondamentalmente più sofferta di quanto si potesse prevedere. A lungo i leader delle nazioni più potenti e bellicose si erano opposti con veemenza alla cosa, insinuando il sospetto e il dubbio che questi “stranieri” dotati di “misteriosi poteri” potessero rivelarsi presenze se non ostili addirittura diaboliche il cui scopo sarebbe stato quello di assoggettare la razza umana ai propri capricci. Dimenticato il bene che le guerriere Sailor capeggiate dalla coraggiosa Sailor Moon aveva fatto per loro, rimase solo la malignità umana. Si diffusero falsità e maldicenze sui sovrani, rendendo pubblici persino i penosi risultati scolastici della regina al grido di “Vogliamo veramente una sovrana semi-analfabeta?”, e solo lunghi e pazienti negoziati permisero una risoluzione.

Trascorsero mesi che poi divennero anni.

All’età di 23 anni Neo Queen Serenity divenne a pieno titolo regina della Terra.

Cominciò per il pianeta un periodo di pace e incredibile prosperità che mai nessuno avrebbe potuto immaginare neppure nelle più sfrenate fantasie. E di bocca in bocca tra il popolo riconoscente crebbe la leggenda della regina dal cuore generoso e dall’incredibile bellezza la quale, segregata nel suo inaccessibile palazzo di cristallo e nascosta agli occhi di tutti, consacrava se stessa al benessere del proprio regno.

Del re Endymion invece si parlava poco e niente.

Si sapeva giusto che esisteva.

Non che questo al sovrano desse fastidio.

Schivo per natura, un po’ timido, non era mai stato un tipo particolarmente bramoso di stare sotto i riflettori e la luce della ribalta la lasciava volentieri alla sua sposa. Poi, come amava ripeterle certe volte facendola arrossire e ridere in quella maniera così civettuola che tanto gli piaceva, approvava molto di più che la gente passasse il tempo a parlare delle gesta di un’affascinante e giovane regina dagli occhi azzurri che di un uomo.

Amava Serenity.

Più di quanto non amasse se stesso.

Vederla splendere come una stella, fiera e altera, potente regina benevola amata dal suo popolo era per lui fonte di grande gioia e orgoglio, eppure c’erano quelle volte in cui, del tutto inaspettatamente, veniva colto da pensieri inopportuni e non poteva fare a meno di sentirsi un po’ un accessorio da poco: un orpello della regina al pari del suo scettro o di una borsa. Il consorte di rappresentanza, il pupazzo vestito a festa con poca o nulla voce in capitolo sulle questioni di regno. Quello del resto era un dato di fatto: la regina era Serenity.

A lei dovevano tutto.

A lei e al suo potente cristallo d’argento.

Per cui i cortigiani portavano alla regina Serenity i documenti da firmare, i consiglieri discutevano con lei delle manovre di governo più adatte o di come comportarsi nel caso in cui da qualche parte scoppiasse qualche (raro e di piccola portata) conflitto. Neppure se egli avesse voluto occuparsi per un qualche capriccio della gestione della casa avrebbe potuto fare granché perché le domestiche e le cameriere tenevano in conto solo le disposizioni della regina. A lui così non restava altro da fare che andare a caccia o scrivere qualche lettera, e presenziare alle cerimonie ufficiose in cui era richiesta la presenza di entrambi. E amarla.

Cosa che non richiedeva un grande sforzo.

Il potere non aveva reso Serenity arrogante o altezzosa, e persino la devozione incondizionata della gente le aveva fatto dimenticare la ragazzina dolce, generosa e un po’ sciocca che aveva conosciuto e di cui si era innamorato. La regina era sempre più che felice di condividere col suo sposo ogni suo pensiero, dalle frivolezze quotidiane alle questioni di regno: teneva in grande considerazione ogni parola che usciva dalle labbra del re e non capitava di rado che essa cambiasse idea uniformandosi a quello di lui, dal momento che questi risultava quasi sempre obiettivamente più saggio e assennato. Egli però non riusciva a non avvertire queste premure come concessioni fatte a un bambino per non fargli fare capricci, e a volte diventava così frustrante…

 

 

- Usako, io cosa sono per questo regno?

Le parole gli erano uscite dalle labbra in maniera del tutto inaspettata, tanto da sorprendere persino lui stesso. Era immerso nella lettura ma il cervello non voleva saperne di andare oltre le prime frasi di un trattato scientifico che normalmente avrebbe trovato elementare: la mente continuava a masticare certi pensieri astrusi e inconsistenti finché quella frase non gli era saltata fuori. Aveva rivolto alla regina uno sguardo attonito che lei aveva ricambiato con un sorriso.

Abbandonato il balcone e la placida contemplazione delle luci della sua amata città Serenity gli era venuta vicino e inginocchiatasi al suo fianco aveva preso la sua mano tra le sue: Endymion le aveva sentite un po’ fredde a causa dell’aria della sera. Con la sinistra le aveva racchiuse entrambe donandole il suo calore. Lei si era chinata posando le sue labbra sulla pelle un po’ ruvida. Lui le aveva sentite piegarsi in un riso segreto, appena accennato.

- Che domande, Mamo-chan… - aveva sospirato con giocosa rassegnazione. - Tu sei il re Endymion, sovrano della Terra. Sei la sua luce, la sua forza. Sei la mia. – Poi aveva sollevato lo sguardo celato dietro le ciglia color miele e l’aveva fissato negli occhi blu, salda e sicura, e le sue dita si erano strette in una tacita preghiera attorno a quella di lui. – Senza di te, senza il tuo potere, non avremmo tutto questo.

- Insomma – aveva concluso lui in sua vece – sarei un generatore ideale.

Gli occhi assunsero un’espressione di muta perplessità.

La bocca si fece smorfia confusa.

- Esatto, amore.

Lui le aveva sorriso in maniera sghemba, un po’ amara. Usagi, che non era mai stata una persona particolarmente amante dei libri e della cultura, non si era mai interessata alle materie scolastiche e men che meno a certe astrusità tecnico-scientifiche. Lui la conosceva bene, le leggeva in faccia che non aveva la più pallida idea di cosa fosse un generatore ideale, ma che non potesse ritenere il suo Mamo-chan meno che ideale.

Ma questo…

- Usako, questo a volte non mi basta.

La voce, uscita a fatica in un soffio stizzito, era risultata roca e un po’ lamentevole. Si era sciolto dalla sua stretta e ignorando quegli occhi che lo guardavano senza capire, sordo persino a quel sentirsi chiamare a se con tanta disperata dolcezza dalla sua sposa, si era chiuso la porta delle stanze da letto alle spalle e si era incamminato per la reggia. Avrebbe passato fuori quella notte, a riflettere, e tra un pensiero e l'altro avrebbe cominciato a farsi strada la parola "divorzio".

 

 

*

Tsukino Fusai no Jingi Naki Tatakai

Fine prologo

*

 

Il cantuccio di Sophie: Innanzitutto è doveroso fare le scuse alle lettrici di Sakura, io giuro che non lo faccio apposta a lasciarla da parte quella storia ma è veramente complicata, c’è tutto un gioco di flashback e presente che poi è passato che mi fa uscire pazza, e questa mi è uscita in maniera più scorrevole e rilassante, mi ha fatta respirare un po’, almeno questo prologo, spero che anche a leggerla non sia risultata una pesantezza insostenibile. Sono cocciuta quindi finirò entrambe. Magari ecco, sopportatemi un pochino. Sicuramente sarò incorsa/incorrerò/incorro nelle solite libertà dell’artista, but no problem it’s just fanfic (credo che me lo farò tatuare su una natica)! Coniugi Tsukino è voluto per un motivo che è facilmente intuibile, non correggetemi dicendo che il cognome di Mamoru è Chiba per favore! XD Ah, i generatori ideali ovviamente non esistono: sono generatori teorici che rifornirebbero di energia infinita e incalcolabile dal punto di vista della potenza.

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Capitolo 2
*** Capitolo 1 - Le prime questioni legali dei Coniugi Tsukino ***


CAPITOLO 1:

Le prime questioni legali dei coniugi Tsukino

 

I primi anni di vita coniugale, che aveva preceduto di qualche tempo la cerimonia di incoronazione ufficiosa e quella d’insediamento, Mamoru e Usagi li avevano trascorsi nel vecchio appartamento di lui che era più che sufficiente ad ospitare tra le sue stanze una giovane coppia piena di promesse.

Promesse matrimoniali, cioè.

La cerimonia si era deciso di farla non appena raggiunta la maggiore età di lei: in Chiesa, all’occidentale, perché l’abito bianco tutto veli e svolazzi e campane che suonavano a festa al loro passaggio un sogno che lei si portava dietro fin da bimba e a Mamoru non è che importasse granché il dove e il come. Amava Usagi Tsukino e voleva farne la sua sposa, per cui gli premeva solo che fosse redatto un atto matrimoniale valido, per il resto la sua sposa aveva totale carta bianca per fare tutto ciò che la rendesse felice in quello che definiva nella maniera ottimistica e romantica che la contraddistingueva: “il primo giorno della nostra vita insieme”.

Avevano scritto i loro voti.

Usagi l’aveva visto in un film e la cosa l’aveva affascinata

Li avevano letti ad alta voce in chiesa, davanti a tutti i loro amici e parenti. Lui avrebbe avuto intenzione di attingere a romanzi e opere a lui particolarmente care ma dubitava che la sua sposa l’avrebbe capito e avrebbe odiato l’idea di aprire il suo cuore per ritrovarsi davanti uno sguardo vacuo. Era sicuro che Usako avrebbe bevuto ogni parola che gli uscisse dalle labbra con immenso trasporto, che le guance le si sarebbero colorate di imbarazzo, che gli occhi le sarebbero brillati di gioia e che il cuore le sarebbe scoppiato nel petto ma questo non gli bastava: voleva che capisse realmente, che avesse una chiara percezione di quello che avrebbe voluto dirle, che capisse la forza dei suoi sentimenti e come le fosse grato di averlo salvato da se stesso e da una vita monotona. Ci mise settimane perché la sua intenzione era quella di risultare a dir poco perfetto: si gettò con impegno sui film e sui manga preferiti di lei anche se non erano proprio il suo genere e questo ottenne l’effetto sperato. Usagi si era commossa, e anche se aveva provocato qualche risatina da parte degli inviati non gli era importato.

Quando era stato il turno di lei la cerimonia si era trasformata in un varietà.

Mamoru aveva incominciato a avvertire qualcosa di strano quando aveva notato, dando una rapida occhiata di sottecchi ai foglietti tutti accartocciati che aveva nascosti dietro il bouquet, la presenza di kanji sporadici: ora, chiunque conoscesse un minimo la sposa sapeva che i voti di Usagi in giapponese erano sempre stati troppo scarsi per permetterle di esprimersi al meglio in qualcosa che non fosse alfabeto sillabico e che, anche se l’occasione avrebbe reso necessario l’uso dei kanji lei sarebbe stata troppo pigra per andarli a cercare sul dizionario. Lei stessa nel notare quei simboli complicati aveva sgranato gli occhi, sollevando le sopracciglia per un secondo in un moto di stupore e panico che non era passato certo inosservato al suo futuro marito.

Ma non si era persa d’animo.

Aveva preso i fogli in mano con lentezza e grande attenzione

Gli aveva sorriso gentile anche se il suo viso era sbiancato di almeno due toni.

Poi aveva cominciato a leggere le sue promesse, con qualche incertezza: il sospetto che non fosse farina del suo sacco era cominciato già ai primi accenni di scuse al suo futuro marito per la sua pigrizia, alla sua lentaggine e a alle sue grandi mancanze come fidanzata prima e come moglie da quel momento innanzi. La certezza sull’identità del misterioso autore giunse quando nel leggere la parte in cui Usagi Tsukino dichiarava che se suo marito non fosse rimasto soddisfatto da lei non avrebbe dovuto far altro che guardarsi intorno in cerca di fanciulle più belle, più intelligenti e più maritabili il punto di ebollizione aveva raggiunto il suo massimo e la timida sposina, livida dalla rabbia, aveva sollevato il pugno in direzione delle panche strillando:

- Questa me la paghi, Rei-chan!

La risposta dell’amica fu soffocata sul nascere dal pronto intervento all’unisono di Minako e Makoto mentre Ami, che per l’imbarazzo era diventata rossa fino alla punta dei capelli, guardò tutto il tempo verso terra fingendo di accarezzare una Luna più basita del normale.

Era così tipico di Usagi che dopo un primo momento di smarrimento Mamoru non poté far altro che riderne di gusto. E così, in quel modo un po’ strano, agli occhi di dio divennero i coniugi Tsukino.

 

 

*

 

La questione del cognome era sorta quasi per caso.

La sera in cui Mamoru era stato presentato ufficiosamente a casa Tsukino come fidanzato di Usagi, e solo a seguito di ripetute visite informali in presenza di mamma-Ikuko e della raccolta di una considerevole dose di coraggio da parte del giovane, papà-Kenji aveva insistito affinché egli rimanesse a cena. Era stato un invito non particolarmente gentile quanto piuttosto intimidatorio da parte sua, una richiesta che aveva più il sapore della sfida, e Mamoru si era visto obbligato ad accettare ma presa da parte la fidanzata l’aveva supplicata di farlo sedere in corrispondenza della più vicina uscita di sicurezza nel caso in cui le cose si fossero fatte violente.

- Non preoccuparti, Mamoru – si era intromesso Shingo assestandogli una pacca sulla spalla con fare cameratesco. – Quando era fotografo di guerra papà non ha mai imparato le tecniche di combattimento a mani nude. Se non mette mano alla pistola o ai coltelli da sushi che sono in cucina sei salvo. – E con quello si era guadagnato una pacca stizzita sulla nuca dalla sorella, che comunque non aveva detto nulla che bollassero quelle parole come idiozie.

La cena aveva finito per somigliare a un terzo grado.

Kenji aveva sentito il bisogno di affogare nell’alcool il dispiacere per l’imminente perdita della sua bambina: a nulla valsero le ripetute proteste di Ikuko e Usagi, che con rassegnazione tentarono di riportarlo alla ragione rammentandogli che non c’era ancora nessun matrimonio in vista e che tra l’altro Usagi andava ancora al liceo. Aveva passato la serata a svuotare fiaschette su fiaschette di sakè assieme al suo futuro genero, che di bicchiere in bicchiere era riuscito a sopportare tutto con incredibile sangue freddo e rassegnazione mentre l’altro si lasciava andare a canzoni popolari nostalgiche sulla fine dell’estate o a storie imbarazzanti su Usagi che in età prescolare aveva giurato che non avrebbe mai sposato nessuno tranne il suo papà. Il tutto intervallato da:

- Non sono ancora pronto a diventare nonno!

Nulla, nemmeno le raccomandazioni di Ikuko l’avevano preparato a tutto questo.

Un po’ incalzato dal padre di Usagi e un po’ perché l’alcool finiva col rendere più tollerabile e un po’ meno strana l’intera situazione, Mamoru aveva finito col bere un po’ troppo e quando era arrivato il momento di tornare a casa si era ritrovato a non reggersi molto fermamente sulle gambe. Non era troppo tardi e si era insistito per lasciarlo riposare qualche ora sul divano, cassando con vigore l’idea di Usagi che aveva optato per lasciargli usare il suo letto.

Era piuttosto tardi quando si era sentito di nuovo abbastanza in sé. Doveva essersi in qualche modo appisolato senza accorgersene perché gli pareva di aver chiuso gli occhi solo per alcuni istanti ma le luci erano spente: dovevano essere andati tutti a dormire da un pezzo e lui non si era accorto di niente. Quando aveva provato a sollevarsi un peso sul petto lo aveva fatto ripiombare sui cuscini. Usagi, che gli si era appisolata addosso, si era svegliata con un mugugno roco. Si era sollevata a sedere passandosi pigramente i palmi sulle palpebre per strofinarsi via il sonno come i bambini. Mamoru le aveva sorriso intenerito, era stata lì tutto il tempo?

- Ti senti meglio, Mamo-chan?

- Adesso sì. Credo di aver bevuto un po’ troppo.

- E’ che non sei abituato. Tutta colpa di papà, domani gli darò una bella strigliata!

- Non arrabbiarti troppo con lui, ha solo paura di perderti. - Mamoru aveva ridacchiato sommessamente immaginando la scena che si sarebbe prospettata all’indomani e provò pena per Kenji. Tirandosi su a sedere le aveva passato una mano sul viso e lei si era abbandonata con tenerezza al suo calore. – Io lo capisco, sai?

Lei lo aveva fissato seria come non mai.

Sì, anche lei lo capiva, il dolore di perdere qualcuno che ami.

- Tu non mi perderai, Mamo-chan, e neanche papà. Non andrò da nessuna parte.

E quando lo abbracciò, premendosi contro di lui e cingendogli la schiena con le mani non fu solo un gesto d’amore e tenerezza ma un modo di fargli sentire la sua presenza anche lì, nella fitta penombra fumosa di una notte di luna calante. La strinse forte di rimando, avvertendo la determinazione di lei, la sua forza. Mamoru le premette il mento sulla nuca inspirando l’odore dei suoi capelli. Avere accanto Usagi lo faceva sentire così sicuro.

Di se stesso, di loro come coppia.

Del fatto che le cose sarebbero finite sempre al meglio.

Era stata la sua famiglia così unita e allegra a trasmetterle tutto questo?

- Usako, credi che quando ci sposeremo dovrei essere io a entrare nella tua famiglia?

Lei aveva ridacchiato piano, vibrandogli piacevolmente contro il petto: - E’ il sakè che parla, Mamo-chan?

- No, io… Ci pensavo da un po’. – aveva detto anche se non era del tutto vero. L’idea gli era venuta istintivamente in quel momento ma dall’istante in cui gli era uscita dalle labbra era stato come se l’avesse sempre avuta inconsciamente lì, pronta a saltar fuori a tradimento. Forse era davvero l’alcool a parlare. La passeggiata di mezz’ora abbondante che l’attendeva da lì al suo appartamento gli avrebbe fatto passare la sbornia. – Sai, il mio passato… Il fatto che non ricordi nulla… Non ho mai recuperato totalmente la memoria e a volte ho ancora l’impressione che Mamoru Chiba non sia neppure il mio vero nome. Come posso chiederti di appartenere a un qualcosa di così inconsistente?

- Io voglio appartenere solo a te, del resto non m’importa, per cui decidi tu solo in piena libertà e io ti seguirò. – aveva sentenziato lei con sicurezza. – In più quando saremo re e regina il nostro cognome non avrà più molta importanza, no?

Su questo aveva tristemente ragione.

 

 

*

 

 

Serenity aveva accolto con gioia l’arrivo di schiere di domestici e cuochi nel Palazzo di Cristallo a seguito della loro incoronazione, ma soprattutto il suo conseguente esilio a vita dalla cucina e dall’armadio degli spazzoloni.

Endymion un po’ meno.

Nei primi tempi del loro matrimonio Usagi ci aveva tenuto molto a tenere fede a quei voti nuziali pur vistosamente non farina del suo sacco e si era impegnata anima e corpo per lasciarsi alle spalle quasi 2 decenni di inettitudine e diventare il prototipo di moglie di cui il signor Tsukino si sarebbe vantato con gli amici. Una sfida che Mamoru sapeva essere persa in partenza. Lo accettava quietamente come il fatto che il cielo non è giallo e la neve non cade ad agosto.

Poi dopo un po’ aveva finito col trovarlo addirittura bello.

Era l’incognita, il mistero a divertirlo. Il varcare ogni sera la porta di casa dal ritorno dal lavoro e non sapere cosa avrebbe trovato al di là della soglia. Forse un giorno non avrebbe trovato neppure la casa. Divenne un gioco mettersi a tavola e scommettere su quale di quelle cibarie tutte ugualmente carbonizzate all’esterno (anche quelle che di fatto non richiedevano di essere messe su fiamma) e dall’aspetto improponibile fossero sorprendentemente buone e quali gli avrebbero fatto passare la notte tra il gabinetto e il divano. Era il trovare sempre Usagi ad accoglierlo con un sorriso, anche con i capelli impiastricciati di pastella e schizzi di cioccolato a colargli dalla fronte, che si impegnasse tanto per loro, a fargli venire sempre una gran voglia di baciarla appena attraversata la soglia, tra le flebili proteste di lei sul fatto che si sarebbe sporcato tutto e lei non era brava col bucato.

- Non importa – le rispondeva zittendola tra i baci. – Lo farò io.

- No, non devi. – protestava lei. – Imparerò.

- Mi fa piacere aiutarti.

- Sei tanto caro, Mamo-chan…

In realtà spesso e volentieri finiva per fare un po’ tutto lui in casa per rimediare ai pasticci di Usagi ma questo non gli pesava per nulla. Era sempre stato abituato a cavarsela da solo fin dalla più tenera età e, tipo ordinato e preciso per natura, non aveva difficoltà ad occuparsi del caos di una o due persone anche di ritorno dal lavoro. Il fatto è che Usagi non capiva. Non essendo una donna con la vocazione della casalinga non poteva certamente capire lo stato d’animo di un uomo costretto a fare quello che avrebbe dovuto essere il suo lavoro. Una legione di domestici con cui farcire il suo palazzo era stata la sua prima richiesta ufficiosa da regina, e l’aveva fatto solo per sgravare il marito dalle fatiche improbe a cui sentiva di averlo costretto per anni.

Ma non era così.

Lui a tratti lo trovava anche rilassante.

Da sovrano non poteva certo prendere la scopa e darsi da fare, non avrebbe fatto in tempo a formulare il desiderio di pulire le stalle che almeno 4 persone si sarebbero gettate addosso famelicamente all’unica ramazza disponibile per tirare l’ambiente a lucido. Non faceva in tempo a voltarsi lasciando un libro aperto sulla scrivania dello studio che subito veniva teletrasportato al suo scaffale. E che non gli venisse in mente di mettere piede in cucina, le cuoche sapevano essere molto cattive.

 

 

*

 

C’era con Artemis un rapporto di amichevole cameratismo.

Era cominciato come un’istintiva simpatia in gioventù, essendo loro gli unici due rappresentanti di sesso maschile del gruppo, per poi svilupparsi in maniera più profonda in periodo di pace, dopo il matrimonio. Al tempo non c’era stato nemmeno di che discutere. Mamoru sapeva, era scontato al punto che l’argomento non venne neppure introdotto per sbaglio da nessuno dei due, che Luna sarebbe andata ad abitare con loro a seguito del matrimonio nel suo doppio ruolo di guardiana e di animale domestico di Usagi, cosa che aveva messo fin da principio il neo marito in posizione di minoranza. Le frequenti visite di Artemis in qualche modo avevano rappresentato un piacevole diversivo. Passavano le serate sul balcone a chiacchierare e quando tornava in camera trovava Usagi in un marasma caotico di coperte e lenzuola arrotolate in prossimità del viso. Poco avvezza alle coperte leggere dei letti all’occidentale, quando non aveva Mamoru da abbracciare tra le coltri tendeva sempre ad agitarsi e a scoprirsi la pancia, e toccava a lui ripristinare un ordine per non ritrovarsi all’addiaccio.

Adesso non accadeva più.

Andare a letto insieme e risvegliarsi insieme faceva parte delle loro piccole routine regali, e se capitava che uno dei due si attardasse rispetto all’altro, avevano stanze apposite per non disturbare il sonno del coniuge cui però il re preferiva non ricorrere.

Quella sera però la frustrazione aveva raggiunto gli argini e, nonostante fosse l’ora di andare a dormire e la regina non era mai stato tipo da ore piccole aveva deciso di incamminarsi in solitudine attraverso i giardini di sud est, in un piccolo gazebo isolato poco frequentato dagli abitanti del palazzo. Lì si era acceso una sigaretta e lunghi istanti silenziosi erano passati a contemplare i pigri ghirigori di fumo grigiastro ravvoltolarsi verso le stelle. La voce familiare di Artemis non l’aveva nemmeno sorpreso a dispetto del fatto che come al solito il vecchio amico non avesse prodotto il benché minimo rumore.

- Davvero un brutto vizio che credevo si fosse lasciato alle spalle. – disse il felino storcendo il muso in una smorfia. – Ho sentito l’odore dalle mie stanze.

Il re aveva sorriso.

- Credevo che anche tu non riuscissi a dormire.

Con un agile balzo l’altro era saltato sulla balaustra accanto al sovrano.

- Qualcosa la preoccupa?

- Questioni patrimoniali.

Alle parole del sovrano Artemis aveva chinato la testa di lato in un moto di muta curiosità. Chiaramente non aveva capito ma Endymion non fece niente per rendergli più chiare le sue parole: continuava a fissare ipnotizzato il cielo con la sigaretta accesa che si consumava lentamente bruciando di un vivo vermiglio al vento leggero della notte: dava solo sporadiche boccate ogni tanto, ma sembrava che non aspirasse nemmeno.

Non aveva mai fumato per davvero.

Artemis aveva ragione, era davvero un brutto vizio.

Se la regina ne fosse venuta a conoscenza si sarebbe scatenato l’inferno.

In uno sbuffo grigiastro aveva continuato, quasi rivolto a se stesso in elucubrazioni solitarie: - In via ipotetica, Artemis; se un re divorzia dalla moglie i beni vengono divisi in un modo particolare? – aveva chiesto. – Insomma, il regno ereditato a seguito delle nostre nozze è un bene matrimoniale e nel caso visto il mio apporto minimo alle questioni di regno mi toccherebbero, non so, la Papuasia, l’Antartide e l’Isola di Pasqua o potrei rivendicare dei diritti su qualcosa di dignitoso come gli stati dell’America settentrionale e dell’Oceania?

- In via ipotetica?

- In via ipotetica – gli aveva fatto eco il re.

- Beh, in via ipotetica… - E Artemis aveva scandito piano e con attenzione quelle parole, soppesandole molto attentamente perché al sovrano non sfuggisse la loro importanza. – E’ più probabile che la Terra appartenga alla vostra stirpe, che rappresenti quindi un’eredità personale che in caso di divorzio passerebbe interamente a voi.

Endymion aveva incavato il mento tra le spalle in un placido segno d’assenso e la risposta era stato un sospiro indecifrabile: era uno strano miscuglio tra rassegnazione e sollievo che non sarebbe stato in grado di interpretare neppure il diretto interessato.

- Capisco… – aveva replicato, e non aveva aggiunto altro.

Tra i due era calato un silenzio teso e poco piacevole, scandito dal pigro oscillare del fumo a cui faceva eco quello della coda candida del felino, che aveva assottigliato gli occhi azzurri scrutando il profilo assorto del suo sovrano.

No, si era corretto, del suo amico.

- Re Endymion, se posso chiedere cosa…

- No, non puoi. – l’aveva interrotto bruscamente lui schiacciando ciò che restava della cicca contro il cornicione e guatando con occhi impassibili quella brutta ditata nera sulla pietra azzurrina. Ascoltare il proprio tono di voce arrochito dal sonno e dal freddo, così duro e autoritario, l’aveva come risvegliato da un sogno. Si era rivolto verso l’altro, lo sguardo gentile di sempre e un sorriso gentile a incurvargli appena le labbra. - Non preoccuparti Artemis, davvero. – L’aveva rassicurato il sovrano invitandolo a salire sulla propria spalla per tornare dentro. Cominciava a farsi davvero troppo tardi per stare fuori. -  Stavo solo riflettendo di questioni senza importanza. E’ che ho un mucchio di tempo per farlo ultimamente.

 

 

*

 

Era rimasto per qualche tempo davanti alle porte delle loro stanze, indeciso sul da farsi. Era accorso al primo soffocato mugugno che si era fatto strada a fatica attraverso l’uscio massiccio: lo spettacolo era di quelli che risultano improbabili anche dopo averli visti per tanti anni. La regina Serenity, la somma sovrana della terra, modello di grazia virtù e potenza, ravvoltolata scompostamente in un ammasso improbabile di preziose coltri di seta, con la pancia scoperta dal fine tessuto della sua veste da notte e la bocca scoperchiata in un sonoro russare.

Quella notte si addormentò ridacchiando, abbracciato a lei.

 

 

*

 

Tsukino Fusai no Jingi Naki Tatakai

Fine Capitolo 1

 

*

 

 

 

L’angolino di Sophie: Non devo farmi perdonare di mostruosi ritardi stavolta, non devo mettere note strane, non devo buttarmi giù o dire quanto mi faccia schifo questo capitolo per cui saltiamo allegramente l’angolo di Calcifer, lui apprezza, non è mai stato un gran faticatore, più riposa meglio sta. Un capitolo che è venuto liscio liscio come l’olio a parte l’ultima parte che è stata un piccolo parto ma niente di particolarmente osceno come certi paragrafi di Sakura che veramente, gli darei fuoco. Magari è scappato qualche errore di battitura ma ricontrollerò con calma un po’ più in là. Ho risposto alle lettrici nel luogo apposito quindi non devo dilungarmi a parte ringraziamenti generici e bacini di amore e devozione. Non sono scesa in tecnicismi legali ma dovevo dare un senso al titolo del capitolo.

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Capitolo 3
*** Capitolo 2 - Malintesi di vecchia data avvelenano il cuore dei coniugi Tsukino ***


CAPITOLO 2:

Malintesi di vecchia data avvelenano il cuore dei coniugi Tsukino

 

Persino al tempo del loro fidanzamento c’erano momenti in cui Mamoru veniva preso da un cupo sconforto. D’improvviso, alla sprovvista, come il primo fulmine che squarcia il cielo tingendolo di viola. Quasi sempre nei periodi di pace, quando non c’era molto altro a cui pensare.

Usagi non ne era mai venuta a conoscenza: era stato sempre molto attento a tenere nascosto quanto provava perché sapeva che la cosa l’avrebbe distrutta, o quantomeno stressata. Si sarebbe data mille colpe che non aveva e avrebbe trascorso ogni momento della giornata a pensare a come poter rimediare, a cosa poter fare perché il suo Mamo-chan tornasse quello di sempre quando a dirla tutta lui non riusciva a trovarle una colpa che fosse una: Usako era una fidanzata perfetta e non ci sarebbe stato nulla che avrebbe potuto fare di più per lui. Eppure c’erano quei momenti radi e subdoli in cui guardandola negli occhi non riusciva a pensare ad altro che al bisogno di fuggire da lei e al diavolo tutto il resto. Ma non vi aveva mai dato importanza. Erano brevi e se ne andavano improvvisamente così come venivano lasciandolo tornare quello di sempre. Bastava sempre poco.

A volte niente.

Magari era il fatto che Usako gli offrisse il primo boccone del suo dolce preferito durante un appuntamento al centro commerciale o come si illuminava radiosa quando all’uscita della scuola lo scorgeva in lontananza scostandosi dal gruppo delle amiche per cercare il suo braccio. Un broncio o un sorriso che mostrava solo a lui, un gioco particolare della luce del sole tra i suoi capelli di cui nessun altro s’avvedeva. Piccole attenzioni spontanee da parte di lei, inconsapevole, peculiarità che lo ammaliavano. Si sentiva il centro del suo piccolo universo: la stringeva a sé, la baciava e improvvisamente tutti i dubbi provati fino a un istante prima parevano sciocchi.

 

 

*

 

 

… Al risveglio del re Endymion la mattina successiva tutto pareva avvolto da una luce diversa, più calda, un bagliore che lo costrinse a strizzare gli occhi e a porvi davanti i palmi perché le palpebre non bastavano a fare da schermo. Dalle labbra sfuggì un gemito roco tra i denti serrati. Serenity doveva aver dimenticato di tirare le tende la notte prima e lui non ci aveva badato per la stanchezza. Ora invece il sole del primo mattino filtrava attraverso le sottili tende a baldacchino proiettando tra le coltri ombre opache, di un flebile giallo pulcino.

Lui aveva bisogno del buio.

Che l’occhio si abituasse con calma all’inizio di un nuovo giorno.

Serenity, all’opposto, aveva sempre adorato svegliarsi bagnata dalla piena luce del mattino forse per vecchie abitudini dure a morire, ma per venire incontro alle esigenze del consorte aveva accettato di votarsi all’oscurità mattutina. Un piccolissimo sacrificio che aveva fatto volentieri per lui, e che non le cambiava poi molto le cose, nel pratico. Mamoru era sempre il primo ad alzarsi e come prima cosa (se non contiamo il suo bisogno impellente della prima tazza di caffè del mattino)  si premurava di spalancare le tende per lei. Da sovrani questo non era stato più possibile, ovvero da quando i loro domestici avevano deciso che aprirsi le tende da sé doveva essere troppo proletario.

Così come infilarsi le ciabatte.

O imburrarsi il pane.

Se non fosse stato per le ferme proteste del re niente niente si sarebbe insistito anche per cambiare loro i vestiti. Ma, e su quest’unica cosa era stato categorico, nessuno e per nessun motivo avrebbe messo le mani addosso alla regina. Per il resto non c’era stata opposizione che avesse tenuto, così dal giorno dell’insediamento ogni mattina si erano visti invadere la stanza da un piccolo e solerte esercito invasore che predisponeva tutto il necessario per il sacro risveglio della loro amata regina e del di lei consorte: i due avevano finito per trovare la cosa immensamente buffa. Spesso erano già svegli al loro arrivo, a osservare quello spettacolo divertiti.

A sghignazzare insieme dell’aria asprigna della cameriera che portava il limone per il tè.

Al pensiero di quella piccola quotidiana il viso del re si schiuse in un pigro sorriso mentre con la mano tastò alla cieca alla sua sinistra in cerca del tepore della moglie: tra le dita non strinse che aria e lenzuola appena tiepide. Subito si agitò nella sua mente il pensiero che dovesse essere passata di molto l’ora della sveglia: possibile che fosse stato così stanco da non accorgersi della routine quotidiana, lui che di solito si svegliava al minimo scricchiolio del materasso? Schiuse appena un occhio e si sincerò della cosa.

Pareva che il sole non fosse che un baluginio appena accennato dietro le case e nel cielo sembravano non esserci ancora che vaghe spruzzate di turchese. In pratica non dovevano essere neppure le 6, il che rendeva praticamente un miracolo il fatto che Serenity fosse già sveglia. Questo lo fece rizzare a sedere con uno scatto deciso dei reni.

Che le fosse accaduto qualcosa?

Ma no, non ebbe neanche il tempo di far montare il panico perché era proprio lì, a pochi passi da lui, seduta al tavolinetto da tè del terrazzo a godersi l’aria fresca del mattino: un vezzo che si concedeva spesso, prima, quando la mattina restava spesso e volentieri a casa da sola e non aveva una scaletta fitta d’impegni e un centinaio e più di persone ad assicurarsi che la rispettasse. Adesso non riusciva più a svegliarsi in tempo per ritagliarsi qualche minuto di tranquillità: di solito anzi per schiodarla dal letto al mattino bisognava portarla in braccio fino alla vasca da bagno e buttarcela dentro di prepotenza. Endymion, scrollatosi ormai di dosso ogni rimasuglio di sonno, era sceso dal letto per raggiungerla, rabbrividendo alla brezza contro il torace nudo.

Non fu notato.

Lei gli dava quasi totalmente le spalle.

Le lunghe candide vesti da camera si rimescolavano ai capelli insolitamente sciolti facendola sembrare molto più giovane, e bella come non mai: non ne intravedeva che uno scorcio di viso, le dita affusolate che sorreggevano leziosamente la guancia, un baluginio d’azzurro dello sguardo sognante e nostalgico che dietro ciglia ricurve contemplavano i confini di palazzo, le case e le strade, la luce del sole che cominciava a imbiondire la sua città assopita. Una regina innamorata che non riusciva mai a distogliere lo sguardo dal suo regno.

- Il nostro – lo correggeva sempre lei.

Il pensiero lo fece sorridere intenerito mentre a passi solenni le si faceva accanto: cingendola da dietro si era chinato su di lei per un bacio ma il contatto delle sue labbra contro il collo l’aveva fatta sobbalzare comicamente.

- Troppo freddo? – si era scusato lui.

- No… - aveva mormorato lei soprappensiero mentre una mano era salita a lambirgli timidamente la guancia ruvida di un velo di barba. – No, affatto. – aveva ripetuto a se stessa, più sicura. – E’ che mi hai colta di sorpresa in certi pensieri, ero distratta. Mi dispiace. – Finalmente si era voltata verso di lui incerta, quasi titubante, e un sorriso teso e appena accennato che gli incurvava le labbra non riusciva a raggiungere gli occhi.

- Qualcosa ti turba?

Lei aveva sembrato pensarci un po’ su.

- … Niente di cui valga la pena discutere adesso, con una giornata così bella.

Endymion le aveva scostato una ciocca di capelli dal viso e si era chinato su di lei per catturarne le labbra in un bacio gentile: lei vi si era staccata quasi subito, poi si era alzata in piedi sciogliendosi educatamente dalla stretta di lui: poi, ticchettando elegantemente in punta di piedi sui suoi scarpini da camera di cristallo aveva biascicato a bassa voce qualcosa di confuso a riguardo del bisogno di chiamare all’istante qualcuno che portasse loro la colazione: perché ormai erano entrambi svegli e sarebbe stato sciocco aspettare ancora; perché stava morendo di fame; perché l’avrebbe aspettata una lunga e faticosa giornata, non aveva tempo per poltrire.

 

 

*

 

 

Le battaglie della regina Serenity in tempo di pace erano combattute contro nemici molto più temibili dei demoni: al chiuso del suo studio reale, tra scartoffie e documentazioni che la lasciavano solo a sera con gli occhi che le si incrociavano per la stanchezza e il polso a pezzi. La gente di fuori o anche solo la servitù di palazzo aveva l’immagine totalmente fuorviante di questa eterea sovrana da favola che rinchiusa nella torre più alta e inaccessibile del suo splendente palazzo trascorreva il tempo in preghiera davanti a un magico pezzo di vetro.

Certo era una mezza verità.

La regina avrebbe preferito di gran lunga questa versione dei fatti: almeno, pensava, avrebbe potuto approntare un divanetto nella sala delle invocazioni e schiacciare all’occorrenza qualche pisolino. Ma quello, che era stato il metodo di sua madre e che aveva funzionato benissimo per millenni su Silver Millennium, a quanto pareva non andava più bene. Persino la stirpe della luna si era arresa alla modernità. Il fatto era che, le avevano spiegato, il potere del Cristallo d’argento poteva servire nei momenti di grande scompiglio, di guerra, al limite come ipotetico spauracchio per nemici e malintenzionati, ma in tempo di pace il suo unico compito era quello di portare il bel tempo o una pioggia provvidenziale, a garantire raccolti abbondanti, un clima temperato e poco altro, ma non poteva certo cambiare il cuore o l’indole degli uomini. A questo serviva il “potere della burocrazia reale” come l’aveva chiamata Mercury.

“Reale rottura di scatole” l’aveva ribattezzata con prontezza di spirito la regina.

Questo però non la esulava dal trascorrere gran parte delle sue giornate chiusa tra quattro mura come un’impiegata sotto la sorveglianza solerte della sua consigliera mentre fuori imperversava un tempo meraviglioso grazie ai poteri del suo cristallo d’argento. L’ironia di tutto questo non mancava di deprimerla.

 

 

*

 

 

- Io non credo che il regno abbia bisogno di un “Piano di risanamento delle falde acquifere.”

- Io invece penso proprio di sì. – aveva replicato Luna tra il basito e lo sconcertato, negli occhi un furore omicida tutto felino verso la sovrana che si era presa l’ennesima pausa-riposo della giornata e ora si stiracchiava e rigirava sbadigliando sullo scomodo divano dello studio, con l’avambraccio sugli occhi a coprirle la vista estenuante della pila di scartoffie che l’aspettava. – Maestà, dobbiamo veramente fare queste storie tutti i giorni?

- Fuori è troppo bello per lavorare. – aveva mugugnato lei strascicando stancamente le parole. – Magari se facessi piovere andrebbe meglio.

- O magari le verrebbe la voglia di saltellare tra le pozzanghere.

La replica sdegnata della sovrana non era stata però molto convincente.

Luna sospirò affranta. Sarebbe stata una di quelle giornate in cui ad andar bene si sarebbe riuscito a svolgere la metà del lavoro programmato, ed si sarebbe quindi reso necessario smistare e separare i carteggi per ordine di importanza perché non succedessero disastri, compito non facile per un gatto ma essere la consigliera delle regina comportava anche questo. Mentre a balzi leggeri atterrava sulla scrivania della sovrana pronta a immergersi nel lavoro l’altra aveva sollevato appena il braccio, guardandola di sottecchi.

Poi aveva chiesto con aria casuale:

– Dimmi Luna, quando mi raggiungerà il re?

- Mi chiede di scusarlo ma oggi non verrà. – aveva replicato distrattamente il felino senza sollevare lo sguardo dal suo compito. Serenity l’aveva fissata a dir poco incredula, eppure stavolta le aveva promesso che non sarebbe mancato per nulla al mondo! Sarebbe stato la sua salvezza. In giornate come questa, in cui si sentiva talmente spossata da non riuscire neppure a sollevare la testa dal bracciolo, bastava che il re Endymion facesse capolino dall’uscio per offrire il proprio aiuto che subito lei si rianimava per diventare una regina di tutto rispetto. - … E di grazia, Luna, perché non viene? – aveva chiesto la sovrana cercando di nascondere la grande delusione.

- Impegni di palazzo.

- Del tipo?

- Oggi è impegnato in un compito di rappresentanza, mi pare che adesso si trovi nei giardini a intrattenere l’ambasciatore dell’Ovest e sua figlia.

A quelle parole la sovrana era balzata in piedi di scatto.

- Figlia? – aveva urlato. – Nessuno mi ha mai parlato della presenza di una figlia!

Si era alzata in piedi, percorrendo più volte la stanza in grandi falcate rabbiose a mo’ di animale in cattività.

- E’ giovane? E’ carina? – aveva inquisito agitando forsennatamente le braccia. – Luna, manda immediatamente a chiamare il capo del Reparto Investigativo Reale, indagheremo sulla cosa. Anzi no. – si era corretta subito. – Non chiamare Mercury, c’è la possibilità che mi dia della pazza e si rifiuti di eseguire i miei ordini. Magari chiama qualcuno che rispetti la mia autorità.

- Maestà, se solo si calmasse per un secondo…

- Calmarmi è proprio fuori discussione.

- Ma ascolti…

- Oh, questo è veramente un quadretto tipico! – l’aveva interrotta di nuovo la sovrana, il cui viso aveva raggiunto delle inquietanti tinte purpuree. – Mentre la moglie vecchia e noiosa è costretta a trascorrere tutte le sue giornate incarcerata tra quattro mura muffite come un’impiegata, sommersa di lavoro per il bene del loro regno – invano Luna aveva cercato di obiettare a questo punto che non sarebbe poi così oberata se non si distraesse e procrastinasse in continuazione - il marito infingardo, con l’aiuto di consiglieri traditori – e Luna si era vista investire da una guatata omicida – intrattiene nei giardini giovani e belle straniere!

- Giovani non c’è dubbio… - aveva bofonchiato in un mugugno il felino.

La replica della regina era stata un singulto d’orrore.

- Allora le cose stanno davvero così! Magari a quest’ora quei due stanno già siglando un patto d’alleanza infrattati in qualche cespuglio!

- Sì, se non fosse che Briana Flores ha 9 anni.

Serenity si era ammutolita con la mano già stretta attorno alla maniglia della porta, pronta a interrompere il romantico incontro di culture in cui immaginava il suo sposo. Erano seguiti lunghi attimi di totale immobilità durante i quali il viso della regina si era sbiancato di colpo per poi riassumere un bel colorito sano d’imbarazzo.

- E da quando?

- Da questo aprile. Prima se non erro ne aveva 8.

La regina aveva tentato di raccattare gli ultimi rimasugli della sua dignità. - Questo non sarebbe successo se mi avessi mandato quei fascicoli aggiornati sugli ambasciatori stranieri e le loro famiglie!

- Che infatti sono sulla sua pila di cose da fare da un mese.

- … Io ho una pila di cose da fare? – Luna le aveva indicato con nonchalance il lato est della stanza, quella seconda scrivania di cui ormai restava ben poco ricoperta com’era di volumi, carteggi e fascicoli plastificati che arrivavano a coprire la finestra. – Ah, ecco perché da un po’ di tempo mi pareva che facesse buio prima, credevo fosse arrivato l’inverno.

Proprio in quel momento la porta si era aperta, e Jupiter era entrata portando con cura materna tra le braccia l’ennesimo mazzo di carteggi della giornata. Non sarebbe stato nemmeno un suo compito ma era l’unica abbastanza forte da potersi occupare di quell’ammasso di carta. Sensibile com’era le bastò un’occhiata per capire che aria tirasse, e un piccolo sorriso complice in direzione della regina (scambiare due parole era proibito durante il lavoro, sarebbe stata ulteriore fonte di distrazione e Luna si sarebbe accanita su entrambe) per illuminarle almeno un pochino quella giornata.

Sorriso che immediatamente si spense di fronte a quella nuova mole di lavoro.

Una volta che l’amica si fu chiusa la porta alle spalle la regina si lasciò sfuggire un sospiro sconsolato. - Direi che è veramente ora di mettersi seriamente al lavoro. – e con l’aria di chi veniva trascinata al patibolo si recò in direzione di quello spreco di carta. Era una fortuna che con l’aiuto del Cristallo d’Argento potesse far crescere foreste rigogliose in poco tempo altrimenti la Terra sarebbe stata totalmente disboscata nel giro di pochi mesi. Si era accasciata al suo posto prendendo in mano la sua penna d’oca bianca per intingerla nell’inchiostro dorato che veniva riservato alle documentazioni ufficiali e poggiando stancamente la guancia sull’altra si preparò a fare il proprio dovere.

Ma di foglio in foglio lo sguardo correva sempre alla finestra.

Cercando di ricordare l’ultima volta in cui avesse trascorso del tempo con il marito.

- Non era davvero così che immaginavo sarebbe stato diventare regina… - pensò sconsolata.

 

 

*

 

 

Capitava di rado che Serenity ed Endymion trascorressero del tempo insieme come coppia, in intimità o in qualcosa che vagamente le somigliasse perché in quanto sovrani avevano una precisa immagine di sé da mostrare in pubblico. Alle cerimonie ufficiali o ai numerosi balli che venivano indetti a palazzo si imponeva alla reale coppia una rigida disciplina comportamentale che riduceva a zero tenerezze ed effusioni; si arrivava al punto in cui persino il tenersi per mano prevedeva l’uso dei guanti, come se toccarsi la pelle nuda rappresentasse uno scandalo.

Non si salvava nemmeno l’ora dei pasti, un tempo la preferita della regina.

L’etichetta reale prevedeva che tra i due ci fossero almeno 4 metri di tavolata imbandita a separarli, cosa che li costringeva a comunicare mediante strilli da mercato del pesce, o affidando una comunicazione per l’altro nelle mani dell’immancabile domestico che sorvegliava il loro convito, il quale raramente riportava la frase con precisione dando vita a volte a malintesi imbarazzanti. Decisamente non adatto allo scambio di romanticherie.

Così toccava a loro ritagliarsi brevi momenti.

Incontrarsi di nascosto come amanti, felici come ragazzi.

La sera, i primi tempi, studiavamo minuziosamente l’uno la scaletta giornaliera dell’altro; calcolavano tempistiche, tragitti da percorrere ed eventualmente da modificare per strapparsi un bacio di sfuggita all’ombra di un salice, o una carezza appena accennata dietro una colonna. Era poco ma bastava. Poi era trascorso il tempo.

I mesi si erano fatti anni, poi decenni.

Il loro potere si era fatto più forte, il regno rinsaldato, il che rendeva sempre più necessaria un’opera di politica estera che veniva quasi interamente svolta dal re. Era stato deciso quasi senza discuterne: più diplomatico di natura e più scaltro di carattere nonché praticamente disutile alla vita di palazzo, corrispondeva di facciata anche all’immagine del potere politico come prerogativa prettamente maschile che la maggior parte degli ambasciatori del regno abbracciava. Il che significava impegni più pressanti, periodi di lontananza più lunghi.

Viaggi e compiti di accoglienza ai visitatori illustri.

Mentre Serenity restava imprigionata nel suo bellissimo palazzo di cristallo.

- E’ troppo pericoloso, Maestà, non possiamo permetterle di andare fuori – le ripetevano tutti in continuazione. – Non sarebbe abbastanza protetta e qualcuno potrebbe approfittarne per tendere un agguato. Il suo posto è qui, al sicuro di queste mura. – era il coro unanime di chi le stava intorno. Quando poi aveva chiesto al re quella prima e unica volta di appoggiarla nel suo desiderio di seguirlo in qualcuno dei suoi viaggi diplomatici si era sentita tradita nell’udirlo perorare la causa di tutti gli altri. – Serenity, il tuo posto è qui.

- No. Il mio posto è accanto a te. – aveva replicato lei sentendo premere agli angoli degli occhi due grosse lacrime ma lottando contro il desiderio di lasciarle scorrere. Non voleva che finisse come al solito, con lei che frignava come una bambina.

Non era servito lo stesso a farsi prendere sul serio.

Endymion le aveva preso il viso tra le mani baciandole devoto la fronte con un sospiro stanco, di sopportazione, come se quella conversazione bastasse a spossarlo, e l’idea che quei pochi momenti di intimità notturna fossero sprecati in un litigio senza senso era bastato a farla sciogliere in un pianto disperato. Gli si era accasciata sul petto in singhiozzi, consolata dalle dita di lui che le scorrevano gentili tra i capelli.

- Non mi vuoi?

Lui non le aveva risposto.

- Qui per te è più sicuro. Sono certo che comprendi. – aveva detto.

Lei aveva annuito per far terminare quella penosa discussione che non avrebbe portato da nessuna parte se non a rendere più tristi quelle ultime ore che li separavano da un viaggio che avrebbe tenuto il suo sposo lontano per giorni, forse settimane. Non era stato chiaro, nessuno le aveva detto nulla di preciso, forse per paura della sua reazione.

Ma non capiva, non avrebbe mai capito.

Anche se smise di chiedergli di portarla con sé e a ogni partenza lo salutò sempre con un sorriso. Perché le pareva un controsenso trascorrere l’esistenza a portare la pace in un regno “troppo pericoloso” per farci due passi in libertà in compagnia del suo sposo. Perché le parole di Endymion le erano sembrate solo l’ennesima scusa per allontanarsi da un rapporto vecchio e stantio.

 

 

*

 

 

Una volta Luna era entrata in camera di Usagi e l’aveva trovata così intenta a fare smorfie e pose allo specchio da non accorgersi neppure della porta che scricchiolava. Si era accomodata sul letto per godersi lo spettacolo da una posizione più comoda, perché anche se la tentazione di richiamarla alla realtà era forte, da brava micetta responsabile, era uno spettacolo piuttosto divertente.

Usagi stava mettendo in scena una commedia.

Piroettava, turnicava e balzellava nel poco spazio della sua stanza; agitava le braccia studiando la posizione più aggraziata delle mani, perché le dita non prendessero una foggia ad artiglio, perché gli arti tenessero una certa eleganza di fondo, studiando la tensione giusta della caviglia perché il polpaccio non si avvicinasse a quello di un calciatore più che a quello di una bella guerriera. Le gonne alla marinaretta erano impietose in questo senso.

Poi c’era il viso.

Si osservava le espressioni da ogni angolazione trasmutandolo con naturalezza da un sorriso fiero a un altero cipiglio, borbottando frasi d’amore, verità e giustizia un po’ per tutti gli usi con una serietà che se applicata in ambito scolastico le avrebbe permesso di essere laureata a 14 anni. Solo quando Luna non resistendo più a quella scena assolutamente comica era rotolata sul piumino sghignazzando rumorosamente l’altra si era accorta di non essere sola. Allora il suo viso aveva raggiunto ammirevoli vette di rosso e aveva persino cercato di abbozzare qualche esercizio di stretching, anche se era stata impietosamente sgamata dall’amica.

– Non penserai mica che tutte quelle mosse di trasformazione e di apparizione di Sailor Moon siano improvvisate! – le aveva ribattuto palesando una non troppo convincente alterigia, mentre il viso cercava di acquisire una tonalità non proprio naturale ma quanto meno qualcosa che la facesse avvicinare più a un essere umano e meno a una lampada di un locale di strip-tease. – Sono studio di una precisa preparazione scenica.

Luna l’aveva guatata di sottecchi.

- Quindi suppongo che tu abbia già fatto i tuoi compiti.

- Oh Luna, ma non serve – aveva ridacchiato lei come se le fosse stata posta una domanda molto sciocca. In effetti lo era dal momento che tutti i suoi libri giacevano ancora nella sua cartella, buttata in malo modo sotto al letto. - Una principessa non deve occuparsi di queste cose ma solo di essere sempre carina ed elegante, e di avere le parole giuste per ogni occasione mondana. Quando sarò regina e dovrò essere d’esempio a tutte le donne del mio regno a che servirà l’inglese o la matematica?

Non ci è dato di riportare la risposta del felino per questioni di rating, basti sapere che un minuto dopo Usagi era china sulla scrivania pronta a fare il suo dovere di studentessa delle medie oltre che di guerriera.

 

 

*

 

 

A dispetto delle apparenze Usagi era sempre stata una persona piuttosto insicura su se stessa e sulle proprie capacità. Non era particolarmente carina con quel viso tondo e una spiccata tendenza alla pinguedine, i suoi voti a scuola rasentavano quelli che si sarebbero potuti avere in presenza di un grave deficit mentale e il suo carattere naif mal si adattava alla frenetica quotidianità giovanile giapponese votata al rigore e all’eccellenza.

Non lo dava a vedere ma non vuol dire che non soffrisse.

Poi le era stato dato un potere speciale, le era stata affidata la leadership di un gruppo.

Era sempre l’emergenza, la situazione di pericolo, il nuovo nemico giunto sulla Terra a tirarle fuori la forza, la luce splendente che le permetteva di trionfare nella situazione più disperata contro i nemici più forti. Era Sailor Moon e c’era di che esserne orgogliosi. Nella vita reale però, una volta sciolta la trasformazione o durante i sonnacchiosi periodi di pace continuava ad esserci quella Usagi sciocca e tonta che a volte sentiva proprio di detestare.

Era bello lasciarla da parte per un po’.

Indulgere in fantasie su quando sarebbe stata una regina fiera e nobile. Tralasciare quei compiti noiosi, i libri di esercizi e i test fallimentari, le punizioni e le paternali e viaggiare in avanti con l’immaginazione fino a quando non sarebbe stata da meno delle sue amiche o del suo eccezionale Mamo-chan. Intendeva lavorarci seriamente, ma non essendo un tipo cerebrale che avrebbe fatto dello studio la propria forza per il momento la via della perfezione era lastricata di superfici riflettenti.

 

 

*

 

 

Il bello di un Palazzo di Cristallo è che ovunque si trovano piani in cui specchiarsi. Persino l’innocua ringhiera del balcone delle proprie stanze può restituire un nitido riflesso di sé, con lo sfondo di un cielo scuro quasi senza luna. Serenity canticchiava distrattamente a se stessa tra le labbra serrate nei denti un vecchio motivetto ballabile, battendo la punta di un piede fasciato di bassi scarpini tintinnanti, col viso un po’ piegato su un lato: la regina che gli restituiva lo sguardo era nostalgica, pensosa. Succede, dopo una certa età.

Si perde la freschezza, l’innocenza.

Per quanto il volto resti giovane è l’animo, inevitabilmente, a mutare.

Se avesse incontrato oggi quella ragazzina infantile, buffa e spensierata di pochi decenni prima quanto avrebbe avuto a che spartire con lei, si domandava pigramente lasciando scorrere un dito lungo il contorno di quel pallido viso di cristallo: molto all’apparenza, poco nello spirito si rispondeva tra sé e sé mentre continuando a cantare quella buffa canzone da bambini tra le sopracciglia le si formava una sottile ruga d’espressione. La cosa non mancava di turbarla. Benché fosse stata avvertita di quanto accadesse ai membri della famiglia reale la consapevolezza di non invecchiare non l’aveva entusiasmata come avrebbe pensato: quello sguardo che a tratti si faceva freddo, maturo, sul viso da bimba le pareva un abominio. Per rifuggirlo, per nascondere tutto questo da qualche recesso di se stessa, aveva cominciato ad appellarsi agli specchi.

In cerca di occhi innocenti.

Di un sorriso aperto, dolce e confidente.

Di quel vecchio entusiasmo onesto e quell’incrollabile fiducia nel prossimo.

Facendo leva sulle braccia si era raddrizzata in preda a una subitanea ispirazione e un volto fiero e risoluto incorniciato da lunghi capelli biondi sospinti all’indietro le era venuto incontro dalle ante della porta mentre si faceva strada fuori dalle stanze da letto reali con due manate decisamente poco regali, ma che servirono allo scopo. Aggirandosi con sicurezza in quella labirintica costruzione che le aveva fatto perdere più volte l’orientamento aveva snobbato il percorso più breve e quindi più facile per la sua destinazione, optando invece più lungo ma con l’innegabile pregio di essere poco frequentato a quell’ora da domestici e similari ficcanaso. Percorse la tenue penombra di un ambiente illuminato di tenui bagliori cerulei a lunghe falcate energiche mentre il suono dei suoi passi le rimbombava intorno, rimbalzando tra pareti e perdendosi contro l’alto soffitto avvolto nel buio, schiudendo le labbra in un timido sorriso prima a destra poi a sinistra, in direzione di quelle figure gemelle vestite di un bianco talmente splendente che parevano brillare di luce propria.

Stava diventando proprio brava.

Persino la ricercatezza di un rossore di guance appena accennato.

Nonostante il profondo tumulto interiore che la invadeva pareva un riso innocuo e sincero che avrebbe ingannato persino sua madre. Controllando di tanto in tanto alla fedele superficie riflettente che il tutto non si trasformasse in una smorfia disgustata lo mantenne solidamente, rallentando il passo, fino ad arrivare alla Sala di Preghiera, dove lo rivolse a due solerti guardie di piantone prima di complimentarsi con loro per l’ottimo lavoro svolto, al punto che permise loro di prendersi una meritata notte di riposo. Nascose il tremore delle mani dietro le pieghe del vestito, nel ricevere altezzosamente un inchino grato e devoto da parte dei due, e attese che voltassero l’angolo lasciandola sola prima recarsi pian piano al suo interno, con titubanza reverenziale.

Luci di un malva caldissimo ad accoglierla.

L’argento brillante del suo cristallo nella teca preziosa foderata di velluto.

La stanza, piccola e di pianta circolare, era completamente spoglia se non si contava il piedistallo su cui poggiava la preziosa gemma e l’acqua che, immancabile, circondava lo spazio di preghiera. Da sempre, la regina ricordava una struttura del genere anche a Silver Millennium, l’acqua e la luna venivano considerate intimamente connesse l’una all’altra: si credeva che il potere di questo elemento riuscisse a incrementare i magici poteri di quel gioiello straordinario. Nessuno aveva mai condotto degli studi a sostegno di questa tesi e nel frattempo la povera regina era costretta ad assolvere ai propri doveri inginocchiata nell’acqua come un pescatore di paese. Sua madre la regina Serenity lo faceva, le regine di Silver Millennium prima di lei lo avevano fatto, non c’era modo di scampare a quella condanna, più che altro perché l’acqua non si sapeva da dove provenise ma ipotizzava dal Polo Nord visto che raggiungeva temperature infime). Luna era stata categorica in merito e a nulla erano valse le proteste della regina, seppur a suo avviso piuttosto logiche, che era capitato ben raramente di combattere nella vicinanza di fiumi, laghi o fontanelle del parco, eppure il suo dovere il Cristallo lo aveva sempre fatto più che discretamente.

Serenity aveva rabbrividito al primo contatto dei piedi nudi con il liquido, osservando il proprio riflesso deformato nella concavità della teca con le mani affondate con forza nelle pieghe del tessuto delle sue vesti fino a sentire il tessuto penetrarle nelle carni. La bocca era stretta in una linea esangue e sulla fronte le sopracciglia le si erano accartocciate in una ruga d’espressione pensosa.

- Faccio ancora in tempo a lasciar perdere. – aveva sussurrato paurosamente a se stessa dando voce a quel viso irresoluto. – In fondo non è questa grande idea. Lo ripeté a se stessa molte volte come un mantra, ma le gambe parevano incollate al suolo. Rimase lunghi istanti in attesa di quel coraggio che la riportasse sui suoi passi, finché un nome si fece prepotentemente strada in lei.

Quello che l’aveva guidata fin lì.

- Mamo-chan…

Il Cristallo, obbediente ai desideri del cuore della sua detentrice, mostrò nella superficie increspata dell’acqua smossa dai lembi delle gonne della sovrana uno scorcio dei giardini, e un piccolo gazebo sotto il quale un uomo e un felino candido come la neve si perdevano in piacevoli chiacchiere tra amici tra una sigaretta e l’altra, un vecchio vizio che proprio non voleva perdere. Parevano non aspettare nessun altro. Serenity ridacchiò sospirando come se le mancasse il respiro e il suo sollievo assunse la forma di un vapore evanescente che arzigogolò con grazia verso l’aria; quella sera, quando Endymion l’aveva abbandonata dopo poche incomprensibili parole perso in cupe meditazioni aveva temuto che ci fosse di mezzo una donna, ma adesso quei timori che l’avevano guidata fin lì nel cuore della notte, sembravano d’improvviso sciocchi anche se la sua ansia aveva basi perfettamente razionali.

Perché se era vero che, come diceva Luna, Briana Flores aveva 9 anni era altrettanto vero che Azalea Hédérvary ne aveva 20; Irina Andreevna 16; Rebecca Hernandez 25. Figlie adolescenti e senza preoccupazioni tutte languidità e innocenza. Troppe mogli di secondo letto altrettanto giovani e lasciate sole per troppo tempo da mariti impegnati. Anche lei era sempre molto impegnata. Il parallelismo non mancava di turbarla, aveva sentito troppi pettegolezzi di corte. Una scorsa veloce a quei fascicoli dateli da Luna ed era impazzita.

Erano tutte troppo belle.

Aveva trascorso notti insonni rosicata dal dubbio, indecisa sul da farsi, finché non aveva supplicato Venus di pedinare il sovrano dal momento che temeva un complotto ai suoi danni, col risultato di gettare il Palazzo nel caos e di fare la figura della pazza.

Sciacquando via quei cupi pensieri aveva indugiato un istante a contemplare il volto del suo re, bello come la prima volta in cui vi aveva posato lo sguardo.

Vinta dalla curiosità tese l’orecchio per udirne le parole e ne inorridì.

- In via ipotetica – stava domandando al suo ascoltatore. - Se un re divorzia da sua moglie…

 

 

*

 

 

Quando era giovane non le sarebbe mai accaduto di dare così tanta importanza a quelle parole. Le avrebbe bollate come sciocchezze, probabilmente vi avrebbe riso oppure, arrivando proprio alle ipotesi più improbabili, non avrebbe nemmeno collegato il discorso a loro due, se non altro perché re e regina non lo erano ancora. Di certo non l’avrebbero ridotta a quell’ammasso caotico di coperte imbevute di lacrime che Endymion aveva trovato al suo ritorno dai giardini.

Nell’udire lo scricchiolio sommesso della porta si era immobilizzata d’istinto, come morta, fingendo di essere immersa in un sogno ignaro. Una parte di lei avrebbe voluto che lui si accorgesse di qualcosa per toglierle questo peso che le schiacciava il cuore ma a quel punto cosa avrebbe potuto spiegargli, che l’aveva spiato in un momento d’intimità?

Avrebbe capito?

Nella notte, stretta tra quelle braccia forti senza riuscire ad avvertirne il calore aveva continuato a piangere in silenzio e l’arrivo della luce di un nuovo giorno non aveva portato consiglio come si era aspettata ma una nuova risolutezza assieme a occhi rossi e gonfi decisamente poco regali, ma nulla che un po’ d’acqua fredda non riuscisse a sciacquare via almeno in parte.

Lei non aveva alcuna intenzione di farsi lasciare da quell’uomo.

E comunque, se il divorzio fosse stato proprio inevitabile, non sarebbe accaduto alle sue condizioni.

 

 

*

 

Tsukino Fusai no Jingi Naki Tatakai

Fine Capitolo 2

 

*

 

 

Il cantuccio di Sophie: Mi sa che metto le mani avanti e anticipo che per il prossimo capitolo non ho proprio nessuna idea su dove voglia andare a parare a parte il titolo e uno scambio di battute che mi dà l’idea di una cosa più scorrevole e che a me personalmente ha fatto piegare dal ridere. Ma io rido anche alle barzellette di Pierino di 40 anni fa quindi non è che sia dotata di un umorismo proprio fine. Insomma, l’aggiornamento potrebbe stentare anche perché voglio provare a riprendere in mano Sakura che come tutti ormai sapranno è l’equivalente letterario amatoriale di un parto senza epidurale ma tant’è. I capitoli troppo lunghi mi sfiancano, non sono avvezza. Per protesta mi darò alle drabble. Come sempre grazie a chi legge, a chi apprezza e a chi commenta. Con menzione particolare a chi fa tutte e tre le cose, hahaha! :D

Visto? Umorismo di patata.

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