I Can Wait Forever di DubheShadow (/viewuser.php?uid=80351)
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** 23/12/1822 – Lettera al mio amato ***
Capitolo 2: *** 10/01/1823 – Lettera alla mia amata ***
Capitolo 3: *** 27/01/1823 - Seconda lettera al mio amato ***
Capitolo 4: *** 12/02/1823 – Seconda lettera alla mia amata ***
Capitolo 5: *** 12/02/1823 – Terza lettera ***
Capitolo 6: *** 19/02/1823 – Terza lettera alla mia amata ***
Capitolo 7: *** 21/02/1823 – Quarta lettera al mio amato ***
Capitolo 8: *** 26/02/1823 – Quarta lettera ***
Capitolo 9: *** 02/03/1823 – Quinta lettera ***
Capitolo 10: *** 06/03/1823 – Interludio ***
Capitolo 11: *** 07/03/1823 – Interludio ***
Capitolo 1 *** 23/12/1822 – Lettera al mio amato ***
23/12/1822 – Lettera al mio
amato
Colonia.
Oggi,
in qualche
parte del mondo, è il compleanno di qualcuno. Forse il tuo.
Scrivo
su un tavolo
minuto che non mi è mai appartenuto, e che per caso
s’è trovato in questa
stanza dove sommariamente soggiorno. Il letto è a due posti,
ed è strano
addormentarsi da sola in questo vasto spazio, con coperte calde e
morbidi
cuscini che nella notte prendono forme umane, ma non mi abbracciano. O,
almeno,
non lo fanno come lo facevi tu.
Al
nostro addio, ci
siamo detti che nessuna distanza avrebbe potuto dividere i nostri
cuori. L’uno
nell’altro, mano nella mano, sangue che scorre in due vene di
due corpi
diversi, ma che – disgrazia! – è lo
stesso, condiviso come una caramella fra
due bambini. Ogni goccia mia ha sapore di te.
Oggi
mi sono
tagliata. Un piccolo graffio sull’indice, sottile. Colpa del
gatto. Ed è
sgorgato un po’ di sangue, sai? Ma non sapeva di te. Era
aspro, acido, era solo
mio, era qualcosa d’estraneo a ciò che ero
abituata a condividere.
Posso
aspettare.
Posso aspettare di sentire di nuovo quella dolcezza scivolare fra il
liquido
rosso, e avvolgermi del suo incantevole odore. Ma intanto…
ogni giorno senza di
te – senza te con me – è come un
coltello che va a recidere sempre la stessa
ferita, e apre cascate acidule da cui non vorrei mai attingere vita.
La
sedia da dove ora
ti scrivo è un semplice sgabello in legno, la parte
superiore rivestita di un
cuscino duro e ruvido al tatto, color panna. Odio quel giallognolo che
mischiano dappertutto, è un colore così obsoleto!
Rivoglio la mia stanza
acquamarina, quella che condividevo con te. E rivoglio quello specchio
sottile
in cui apparivo così fantastica, come lo eri tu quando mi
sedevi al fianco e mi
carezzavi la schiena, dolcemente, un ricordo cui per ora non desidero
rimembrare. Altrimenti finirei per disperarmi ancora.
Qua
lo specchio è un
enorme lastrone posto in fronte alla scrivania, e ogni volta che alzo
lo
sguardo dalla pergamena vedo il mio volto deturpato dalla solitudine.
Le guance
incavate sotto il naso, che seguono lunghe curve fino ai bordi delle
labbra,
perennemente rivolti al basso. Gli zigomi sembrano ancora
più appuntiti di come
lo sono di solito, e il viso è gonfio, gonfio di dolore e
della cioccolata che
mangio. Divoro tutto, perché ho paura che la mia bocca,
nell’astiosa brama di
muoversi, cerchi altre lingue cui concatenarsi. Che pensiero stupido.
Sono solo
golosa. Golosa di qualcosa che s’avvicini al sapore del tuo
collo, delle tue
labbra, del tuo corpo…
I
miei stessi capelli sono
spenti. Vorrei che ci fossi tu a pettinarmeli; perché,
ricordi? Ti dicevo che
erano troppo lunghi, ma tu non volevi che li tagliassi, e allora mi
venivi alle
spalle, mi toglievi delicatamente la spazzola dalle mani e prendevi a
lisciarmeli fino in fondo alla schiena. Eri così leggero che
quasi non sentivo
il tuo tocco, e i nodi restavano lì dov’erano
perché temevi di farmi male, eseguendo
più pressione del dovuto. Nodi che creavano un groviglio
imbarazzante, invero,
però quanto mi mancano, ora!
Posso
aspettare a lungo,
forse per sempre… e chiedermi quanto durerà
questo maledetto viaggio lontano da
te. Non ho nemmeno un ritratto che riassuma i tratti del tuo volto. Non
ho
avuto il tempo di fartelo. Deplorevole, non credi? È che ho
paura di uccidere
la tua bellezza, se solo cercassi di riprodurla con le mie mani
grossolane,
poco gentili. Tuttora ho paura, di cosa non so.
Mi
sento come una
margherita: m’ama, m’amerà ancora,
davvero m’ama ancora? E intanto sfiorisco.
Deliziosa, mi ritroverai che sarò solo un gambo! Un tuo
bacio, solo uno, e
sboccerò di nuovo. È una promessa.
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Capitolo 2 *** 10/01/1823 – Lettera alla mia amata ***
10/01/1823 – Lettera alla mia amata
Parigi.
Io posso aspettare. Per sempre, forse, per un secondo, due o magari
anche tre, l'inseguire un filo rosso che imbroglia il nostro destino.
Ti scrivo che ora è sera, con macchie di luce come steli
allungati sulla pergamena, muovo le dita e il pennino scivola, con la
sua piuma, sono impigliati i nostri sogni. Oh, mia donna,
c'è sempre la paura che essi s'infrangano per la strada.
Ora, il crepitare del fuoco, ch'abile dolor frammisto alle note
più basse della tua mancanza, scalda queste lettere, forse
troppo acute, algide, vigliacche.
Ora, avrei voglia di tirarmi indietro.
Ma ahimè, questo pensier che mi strugge, questo filo rosso
che pian piano storno a me, e che un giorno all'altro,
finirà. E tu, magari, tra le mie braccia, mi dirai ti amo.
"E... m'ama? M'amerà". Pizzicheremo assieme petali di
margherita, per scoprirlo.
Tra poco, quest'arso crepuscolo, si laverà da solo,
tingendosi in un corteo abbagliante di stelle, che fioco bisbiglia alla
luna. E io, non son forse tra quelli? Non son forse, anch'io, a
bisbigliare il mio rorido amore a te luna, alla più bella?
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Capitolo 3 *** 27/01/1823 - Seconda lettera al mio amato ***
27/01/1823 – Seconda
lettera al mio amato
Sulla strada per Parigi.
Caro. Sto partendo… sto
tornando.
Il
paesaggio che mi
dice addio è di una struggente bellezza. La neve, nella
notte buia, ha
tinteggiato i prati sporchi del suo velo adamantino. L’aria
è frizzante,
pizzica appena il naso, e ne sento la frescura sotto le mie dita,
infagottate
in umidi guanti di raso. Vorrei carezzare queste dolci colline, ma
è tardi… era
tardi, quando vi ho dovuto dare l’ultimo saluto. E tuttora
rimpiango di non
essermi svegliata, nottetempo, per meravigliare per l’estrema
volta la mia
mente, con il lento discendere dei fiocchi e il loro danzare fra i
bagliori di
luna. Un giorno ti porterò con me, un giorno, fra questi
boschi incantevoli,
giocheremo a rincorrerci. Mi sbroglierai le gonne dai rami,
quand’esse vi
s’impiglieranno, birichine come i miei pensieri?
Una
cameriera stamane
è arrivata trafelata che già, triste, avevo
posato il primo piede sul
predellino della carrozza. Mi ha consegnato la tua lettera. Non posso
non
immaginare cos’avrei perduto e lasciato indietro, se non
avessi indugiato
quell’attimo in più a rimirare ciò che
ero prossima ad abbandonare. Avrei
dimenticato anche una parte preziosa del mio amato cuore!
Ora
ti scrivo che i
cavalli si muovono ad un allegro trotto, e se porto lo sguardo oltre la
finestrella posso ammirare le campagne scorrere mute e solitarie al
lato della
strada. Che sciocchezza che sto facendo! Ho appoggiato una delle
valigie in
grembo e ivi, in fretta, vi ho aperto il calamaio e la penna, la
pergamena
stesa… non oso pensare a come s’imbratterebbe il
mio vestito, se un incauto
dosso scaraventasse tutto all’aria! Ma questo e altro, tutto,
tutto per la
gioia e la prontezza che mi porta a scriverti ancora.
Non
so quanto durerà
il viaggio. Forse rimarrò giorni senza la
possibilità di comunicare con te:
quest’amara riflessione mi strugge, il pennino tentenna al
tremore della mia
mano. Mi sento indifesa, senza le tue braccia a cingermi… e
a sussurrarmi
poesie.
Le
tue poesie… sei
l’unico che in una manciata di parole sa infiammarmi le
membra, spezzettarmi
l’anima, e poi raccogliere il tutto per creare una
composizione solo tua: la
mia vita rimodellata, una statua dagli occhi socchiusi in estasi.
Post scriptum: nel viaggio di ritorno
mi fermerò alcuni
giorni – meno di una settimana, in ogni caso –
nella dimora di Madame Leroy,
una mia vecchia conoscenza, per riprendere le forze. Il viaggio
è lungo, e non
me la sento di affrontarlo tutto d’un fiato: lei abita a
Namur, quindi lungo la
strada, ed è tanto che mi prega di farle visita. Spero che
questo ulteriore
ritardo non ti faccia spiacere.
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Capitolo 4 *** 12/02/1823 – Seconda lettera alla mia amata ***
12/02/1823
– Seconda lettera alla mia amata
Parigi.
Oh,
mia
dama, che quel filo rosso di cui v’avevo parlato non imbrogli
davvero il nostro
fato? E che esso sia sgraziato non v’è dubbio.
Notre-Dame
è una stella scesa in cielo, di quelle infervorate dai
sospiri della
mezzanotte. E mentre questa scoloriva i suoi panni oramai usurati,
è dentro al
mio core che s’aperta una frattura.
Stamane,
il
nitrire dei cavalli fu il tristo annunzio della mia partenza. Con tal
rammarico
ve ne chiedo venia, che il vostro solerte animo non disdegni
ciò che mi spinge
a farlo.
Parto
col
respiro asciugato in ciò che scrivo, sulla mia grafia
è dove passa il vento.
Poiché ebbi la sacrale notizia di mia madre, che reclama il
mio nome al suo
capezzale morente. Mi sento quasi in imbarazzo a confidarlo a voi. E
pure è
tutto questo che posso fare, celarmi dietro la vostra ira che
scalcerà ai
portoni della mia residenza. Ho paura, mia signora, che quando voi
arriverete agli
spalti di questa città, io sia già troppo lontano
per udire ancora il rumore
del vostro battito.
Ora
vi
scrivo, il calamaio stretto tra le cosce, sulla condensa di questo
finestrino
che frappone il mio sguardo al mondo. Bagna il retro di questo foglio,
così
sottile. A vostra differenza, non ho valigie su cui incidere le mie
sentenze,
non ne ho portate. La fretta che mi ha ingiunto il grave stato di mia
madre ha
indotto a portare solo le carte della mia novella, racchiuse in una
sacca di
camoscio marrone, e fogli bianchi a cui è stato estirpato
quest’immaturo su cui
ora scrivo. L’altri fogli, casti del mio inchiostro, saranno
impregnati dal
dolore di questa imminente morte. Il dolore di una, ahimè,
certa morte a cui
vado a porgere i miei ultimi saluti. Ma sarà un attimo, ve
lo giuro, mia dama.
E
ancora
gli attimi che ci separano sono infiniti. E non è forse vero
che un attimo è
per sempre?
Londra,
mentre osservo questi fiocchi di neve che scendono giù dalle
stelle, è
l’angosciosa sorte a cui vado incontro.
E
che
sappiate perdonarmi. Stringere il nodo della benedizione attorno ai
pensieri
che mi concederete, che sian lieti o mesti.
Oh,
addio,
monna musa!
Addio!
Addio!
Post scriptum: Speditemi le vostre lettere
a Casa Hinchinghooke, nell’amata Londra a cui sto per far
ritorno. Al
mio arrivo, avrò modo di leggerle. Ho ancora bisogno dei vostri umidi baci, non
scordatelo.
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Capitolo 5 *** 12/02/1823 – Terza lettera ***
12/02/1823 – Terza lettera
Parigi.
Finalmente
sono
tornata. Stanca, ch’era sera, o forse già notte
inoltrata.
Sono tornata, bramando ogni volta il
sapore fruttato della
tua pelle, desiderandolo sempre di più ad ogni passo, ad
ogni singolo sospiro
di giglio, che mi avvicinava a quel quartiere parigino che tanto
conosco, e che
tanto mi è caro.
Ero lì, a strapparmi lo
strascico della gonna da viaggio,
tanto i miei piedi calpestavano veloci e agitati le pietre della
strada, e i
tacchi che vi s’impigliavano senza possibilità di
scampo. Tanto correvo, per
raggiungere il tuo portone in legno chiaro, e per sommergerlo, il
sorriso al
volto, di piccoli pugni di gioia. Aspettando che tu, dai piani alti,
dal tuo
studio –
oh, riuscivo anche a vederlo!
La luce giallognola delle candele che traspariva dall’ombra
delle tende alla
finestra, e un’ombra più scura, il tuo corpo
chinato a scrivere – arrivassi trafelato
a darmi quell’abbraccio di ben ritrovata.
Non
che sia
indifferente al fragile corpo della tua adorata madre.
Ma davvero il mio cuore ha urtato i
cancelli della
desolazione, schiacciato come un prigioniero in una gabbia per
canarini, quando
ha realizzato la tua spiacevole assenza.
Colonia
è lontana da
Parigi. Era un breve viaggio, solo le vacanze natalizie, niente
più, per
riappacificarmi con quei parenti lontani che da tanto non vedevo.
Colonia è
lontana, anche Londra… una manciata di giorni! Non ti avrei
chiesto altro.
Dannazione al dì in cui il
mio sguardo s’incatenò ai tuoi
occhi di mandorla e cannella dispersa. M’hai frantumato
l’anima!
Ora
basta
divagazioni, ecco com’è andata: ho trovato il tuo
maggiordomo, solo, nella
cucina, e mi ha consegnato la tua lettera. Non ha pronunciato parola,
né un
tocco di conforto, nulla, mentre mi scorgeva davvero sfiorire come una
rosa
arsa dal sole. Perché ribollivo di disperazione e dolore, ma
anche – e
soprattutto – di rabbia. Sì, sono irata con te!
Le
tue promesse,
vanificate in un soffio. Saremmo potuti partire assieme, affiancati
nella
stessa carrozza, soggiornare a Le Havre, là dove io ben
ricordo che… no, non
voglio ricordare ciò che ivi accadde. Ora, mi pare una
romanticheria alle
soglie del sogno, distante secoli o ere, lontana universi. E pensare
che invece
è stato solo quest’estate… tutto era
cosparso dal profumo dei gelsomini in
fiore.
Leggendo al flebile lume che il tuo
maggiordomo mi offriva,
ho lasciato cadere la valigia sottile che sempre porto con me. Era
pronta per
irrorare, una volta per tutte, il foglio candido delle tinte del tuo
splendido
corpo inondato d’amore. Quante mattine mi sono svegliata al
tuo fianco,
desiderando d’imprimerti così, nel tenue sonno
fanciullesco e fra le lenzuola che
a stento nascondevano le tue forme. Il mio corredo da disegno,
precipitato al
suolo! Un gesto così sconsiderato, ma così
naturale… tremavo, lo ammetto, e non
ho saputo più controllare altro che non fosse il battere
delle mie ciglia per
scacciare le lacrime. I miei pastelli, riversi a terra, sembravano da
soli
formare le tinte per un quadro di angosciosa bellezza, alcuni incrinati
per la
caduta, altri ancora mezzi infilati nella custodia del piccolo
bagaglio. Hai
distrutto un brandello della mia arte.
Sai
bene che le mie
mostre, e i tuoi astrusi viaggi da scrittore, finiscono sempre per
dividerci. I
momenti passati assieme sono una perla di mare che resta perennemente
nascosta
nel suo ruvido guscio, per proteggerla, per renderla più
intima e preziosa di quanto
già essa sia. Non puoi vendere la nostra ultima perla
così. All’aria, all’asta,
lanciala giocoliere, più in alto, cosicché tutti
gli interessati possano
vederne i riflessi luccicare alla luce. Via, via, chi è il
compratore migliore?
Tu, vigliacco, che giaci nell’ultima fila, e offri il tempo
per comprarla,
offri un affetto insulso per una madre che non vedi da anni.
Non
sprecherò altre
parole.
T’inseguo.
In capo al mondo.
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Capitolo 6 *** 19/02/1823 – Terza lettera alla mia amata ***
19/02/1823 – Terza lettera alla mia
amata
Le Havre. Lettera
non giunta a
destinazione.
Vi scrivo sopra i banchi di una stanza
abitata da ricordi troppo
densi, si fanno strada, vibrano come echi negli anditi bui di questo
palazzo,
ove ora ricucio la mia infanzia. Sono nato qua, vi ricordate?
Rammentate di
quell’estate quand’io vi conobbi? Era sera, e il
vento laminava ogni stanza, le
luci delle lanterne ch’ora sporgono da questi muri
illuminavano il vostro
volto, così ambrato, delizioso, miele funesto, insito del
veleno più dolce.
Rimembrate le ore gentili in cui la vostra
mano scorreva sulla tela
ora vuota, ora colma dei tratteggi di esili pennelli, i volti che
prendevano
vita nelle tinte decise che incidevate con grazia propria, e si
affinavano
lungo gli orizzonti che ponevate, cesellati tramonti che… Le
mie dita s’aprono
lungo l’aria, sento lo scoccare del vostro cuore, il pennello
impietrito nella
mano vostra destra, richiudo con fermezza il pugno dei miei brividi al
vostro
polso, il pennello che casca giù, quel lieve sibilare che
sfuma nell’ombra
delle vostre labbra volte alle mie e in quell’attimo, un
frantume di silenzio
sceso in mezzo, i cocci si ricompongono nello scorrere
dell’elisir di lunga
vita. La porta s’apre.
Un vostro bacio, tutto ciò che
bramo.
Proprio in questa stanza, bruto scherzo del
destino che mi distoglie
dalle parole.
In questi quadri incorniciati da trafori
d’oro, leggo quasi il
distacco che v’ho sempre posto, quello che
v’è dall’oro alla tela, il
passepartout, un lenzuolo candido in cui vi trattengo. Per farvi
sentire unica
regnante del mio corpo. Questo porgervi lontana, questo voi
che v’incava nella crisalide di cristallo che ho cercato di
costruirvi attorno, invano.
È normale, penso, che questo filo
s’allunghi sempre più. È normale che
prima o poi sarà crudelmente reciso.
In serata ho fatto una camminata nei
dintorni. L’aria tagliente e la
neve che insiste s’era placata, e la patina a ricoprire il
tutto, dolcemente,
ha reso una piacevole passeggiata nella quiete di questi anni. Si
respira
un’aria stabile, un’armonia dei sensi che quasi mi
trasferirei qui. Sapete, vi
ho comprato una tavoletta di cioccolato, quello che voi amate, alla
cannella.
Lo divoravamo assieme di nascosto, rubato dalle riserve in cucina.
L’ho avvolto
in una carta che scricchiolante era dir poco, crepitava, rossa, come il
fuoco
del mio cuore, come quella vampa che è finita per ardere
anche voi. Ho messo il
nastro, come il broncio, l’ira inestricabile che so abbiate
in volto quest’ora
e non saprete mai perdonarmi.
Ora, la tormenta si è risvegliata.
Vi devo lasciare, quasi le mie
dita non riescono a staccarsi dal pennino impregnato
dell’odoroso inchiostro di
cui è amante, e scenderò giù nella
tavolata di questi miei parenti, già
immagino le candele che bruciano come il nostro amore, da troppo tempo
cristallizzato nelle lacrime dei dorsi e, oh, mai consumato.
Domani sarà la volta di partire.
Non vedo l’ora che quest’inferno
finisca per riavere le vostre mani, labbra, il vostro corpo.
Ritornerò. È una
promessa.
Non vi muoviate. È un ordine.
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Capitolo 7 *** 21/02/1823 – Quarta lettera al mio amato ***
21/02/1823 – Quarta lettera al mio
amato
Le Havre.
Ho deciso che resterò a Le
Havre. Oh, non mi sfuggirai,
stanne certo. Il tuo viaggio si è rivelato più
breve del previsto, e io troppo
lenta nel mio folle amore a rincorrerti, che già
m’eri scivolato fra le dita.
Sei come un nastro rosso, un legame che mi stringe il polso e che poi,
per
disattenzione o per un evento increscioso, si slega e vola al suolo. La
tua
stretta è sempre stata delicata, quasi impercettibile, ma
nonostante tutto mi riscaldava.
E ora, più che mai, è davvero questo calore che
mi manca: sono fredda come una
rosa abbandonata al gelo del più niveo degli inverni.
L’attesa…
questa
attesa, impagabile, per raggiungerti ancora, si sta scoprendo un
periodo raro.
Ho sempre avuto un temperamento agitato, tu stesso hai
potuto… constatarlo,
leggendo la mia ira repentina della scorsa lettera. Ma adesso ho tempo,
finché
la tua nave non salpi nuovamente alla volta del porto sicuro di Le
Havre e
delle mie braccia, per riflettere e far ragione dei miei sentimenti.
T’amo ancora, come quel
primo giorno. Sotto il mio tocco, il
mio sguardo desideroso, ti ho osservato mutare nella candida immagine
di un
quadro perfetto. È del mio amore che, prima di tutto, sono
sicura.
Forse
sto cominciando
a perdonarti… oh, tutto, tutto questo, pur di averti di
nuovo con me. Il fato
s’è rivoltato contro i nostri cuori, un nodo nel
filo scarlatto che ci lega, e
che non vuole permetterci di toccarci ancora.
Ti aspetto. Interrompo qui il mio
inseguimento, fino a che
la mia anima riuscirà a resistere a questa distanza
sgradevole e amara. Può
darsi che più in là parta davvero, se solo
potessi avere notizie tue e della
tua povera madre… spero che questa situazione non si
prolunghi più del dovuto.
Il piacere dell’attesa che sto riscoprendo mi fa notare che,
sai bene, si
brucerà presto. È un piacere ingannevole che
copre un bisogno ancor più
impellente - parlo dei bisogni del cuore, quelli a cui non puoi mancare.
Non
permettere che
questa miccia arrivi alla sua fine, finirei per scoppiare.
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Capitolo 8 *** 26/02/1823 – Quarta lettera ***
26/02/1823
– Quarta lettera
Londra, Casa
Hinchinghooke.
La finestra
cigola. La candela
fraseggia nel suo tremante abbraccio. Nastri ocra screziati sulle
pareti di
questo pallido inferno. Davvero, potreste capirmi? È
opprimente, le lacrime di
vetro che ricadono in acide spire sul mio volto mi corrodono le gote,
arrossate
dal mesto e melodioso flautare basso dello scuro, che ahimè,
subito, ora,
incrina la volta celeste.
E si tinge
d’immenso, la
notte. Una vena contorta frange il cielo in miriadi di diamanti
fasulli,
ricordi soffiati dal vento, si gioca a biglie sul terreno arido e
febbrile di
questo lutto.
M’avvicino.
Ha il volto
infiammato da ciocche che increspano come carta straccia la sua fronte.
Ho
appoggiato le mie labbra, anni orsono dal distacco del mio respiro a
quest’anima pia. Il guanciale la stringe, è una
morsa fatale, insipida. La
donzella non è altro che la metamorfosi, il feto intricato
nel suo pensare,
così assorta… svegliati, mia bella.
Un bacio. Tutto
quello che
desideri?
Un altro passo.
Un altro
grido.
«Chiudete
la finestra!»
Un altro
silenzio. Un altro.
Un altro.
Capocchie nere
che
appassiscono nelle braci di queste lanterne. Fiori, ancora fiori.
L’odore
inebria d’alcol, cognac, acquavite, fragole e ciliegie
raccolte in grembo. E
d’un tratto la vedo, la mano che si cinge a me e mi trasporta
verso i lidi d’un
passato… picchiettato di mari, nevi che scendono. Oh, mia
dolce Provenza. Le
lavande in fasci sbocciano come sogni nell’azzurro del cielo
che sfuma le sue
nuvole come creste spumate, amorosa morte di sirene alla deriva.
Camminiamoci ancora,
oh madre, tra questi signori d’ametista schiariti che
accordano il mio cuore al
vostro, e d’un tratto sono assieme, note
all’inverso tratteggiate nel vostro
sorriso.
«Ti
voglio bene.»
«Anche
io.»
Strinsi
il lembo delle sue
vesti e ridetti. Gaio come un angelo caduto, beato della sua ribellione
a Dio,
logorato dalla fiamma felice che vi vibra in corpo. Oh, madre, lacrime
amare al
melanconico ricordo.
La
trascinai per una mano,
il polso così seccato ai vostri sbuffi, tutti da convincere,
fasulli come
l’illusione del vostro riposo mortale. Tra l’altre
dita lasciai correre i fili
candidi fioriti dell’aquilone, ricamato coll’amor
vostro. Oh, lo vedete? Vola
alto, verso voi, lascia che le vostre mani s’appiglino
stanche come ultimo
doloso riscatto a questa vita, e poi rifugge vigliacco, lasciandovi
sull’orlo
stroncato del purgatorio. Ma meritereste solo il paradiso.
Farò
il pianista, vi dissi un
giorno, madre. Vostro era il picchiettare ferrato e algido, saporoso di
siero,
che ascoltavo ozioso nell’altre stanze, sull’altre
carte sudate dello studio
mio, frammisto al mio cupo ansimare interrotto dall’incanto
da voi tessuto.
M’alzavo, allora, inseguivo la scia del vostro suono nelle
dimore che ho
lasciato. I miei occhi vagavano sul vostro divorare le note ammansite,
un
diesis dall’innalzare solenne il suo imperioso comando, un
bemolle
dall’acquietare il mio animo. V’amo, madre. Ora
è il per sempre.
Studiai piano
sotto la vostra
veduta. Sulle stringhe di quell’inchiostro, tuttavia, vi
dissi, farò lo
scrittore.
Avrei bucato
storie, vi
raccomandai, con lo stesso solerte tono delle vostre dita. E sarebbe
stato
fatto con la sacrale impronta dell’animo vostro.
Sparisco, vi
dissi, un giorno.
Ritornerò, l’altro.
Tagliai quel filo
d’Arianna
come l’estirpare un fiore di lavanda dalla terra.
M’aggrappo al peccato mio
come le nuvole sopra il cielo di Fiandra.
È ora,
v’è morta? Su questo
capezzale sfiorito giace la rosa scarnificata da Dio.
E che la paghi,
tra le spire
di quest’incendio sfiorirò anch’io,
vorrà dire. Mi ritroverete, tutti, che sarò
solo il silenzio bruciato da queste lacrime. Mi vedrete, tutti, sparire
come la
donna immacolata nella crisalide del ricordo, su questo letto.
Oh, vi
racconterò la mia infanzia,
monna musa. Un giorno o l’altro. Forse mai.
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Capitolo 9 *** 02/03/1823 – Quinta lettera ***
02/03/1823 – Quinta lettera
Le Havre.
Le
Havre si è
rivestita, con l’arrivo della tua lettera, di una calma
surreale… pare aver
trattenuto il fiato assieme a me, mentre leggevo. Mi avevi
già preannunciato,
giorni addietro, della grave fine cui andavi incontro, ma sentirne il
dolore,
palpabile, il tuo forse stupore a dover accettare il tutto…
mi spiace.
Le
vite volano via
come un soffio, ognuno, in un modo o nell’altro,
dovrà passare il periodo
dell’ammissione di una perdita. L’arte di perdere
non è difficile da imparare,
diceva qualcuno. Anche se alla fine si tratta solo di relegare la
sofferenza in
una parte del cuore, farla giacere e maturare finché essa
non deciderà da sola
di raggiungere scogli più quieti, privata della forza della
mareggiata, e
divenire, ormai, un palpitare sordo, l’ombra triste di un
ricordo lontano.
Vorrei
essere lì con
te, in questo momento, consolarti, per quanto le mie fragili membra
possano
riuscire a farlo. Non sono mai stata brava con le parole, ho
comunicato, lungo
la mia vita, solo per immagini: il narratore di ogni nostra ballata sei
sempre
stato tu, con le tue dita lunghe e sottili, da pianista, ogni storia un
tasto –
nero, bianco, nero, bianco, bianco… un tasto nero
è la dolente visione di ogni
racconto che non raggiunge il lieto fine. Non ti sembra ridicolo?
Piccolo,
relegato nell’alto, più duro a premersi, ma
così struggente! Lucidato, si
riflette dei lucori altrui, per nascondere sulla sua superficie solo
gorghi
oscuri in cui smarrirsi per sempre.
Ed
è per questo che
ritengo opportuno venire da te. A salvarti, finché
può la mia sola presenza
eluderti dal commettere sciocchezze. Non che non confidi nel tuo buon
senso, o
altro. Oh, non ho più voce per spiegarmi meglio. Desidero
solo stare al tuo
fianco, rassicurarti, stringerti la mano e con un bacio asciugarti una
lacrima
fuggitiva che s’allontana dai tuoi occhi tristi. Perdonami se
non potrò essere
in grado di fare altro, ma quel poco permettimi di donartelo.
Le
giornate nella tua
villa a Le Havre trascorrono lente. Tua zia è stata molto
gentile con me, ad
accogliermi come ha sempre fatto, nonostante stavolta tu non eri con
me. Ha
preso la notizia con garbata mestizia, ma nella notte l’ho
sentita abbandonarsi
a un breve pianto, nella sua stanza affianco alla mia.
È
una donna forte. La
mattina dopo, nella sua crocchia argentea, era di nuovo perfetta come
lo è
sempre stata. Solo due cambiamenti ne incutevano le sembianze: la veste
nera, a
collo alto, e una luce un po’ più spenta negli
occhi.
Io
ho trascorso
oziosi pomeriggi di lettura. Non mi riesce facile abbandonarmi
all’arte, quando
ogni pennellata s’inasprisce di rimembranze infelici. Solo
una storia può
portare, in questo momento, la mia mente altrove: non immagini quanti
mari ho
navigato, quanti posti ho visitato, nella notte, all’alba,
fra le coltri di un
cielo cosparso da costellazioni diverse, più nuove,
più vive! Ho letto con attenzione
trasognata di amori così simili al nostro, ma che mai si
sono rivelati più
intensi del sentimento che custodisco in me.
Ieri,
per festeggiare
il sopraggiungere di Marzo – sai bene quanto ami questo mese,
quanto gioisca
delle ultime, sparute nevicate che ogni tanto mi fanno visita a
sorpresa – mi
sono addentrata nel giardino della villa, lasciando indietro il patio
da cui
sovente avevo già assaporato l’aria marina di Le
Havre. Il sale pare corrodere
qui, prima che negli altri luoghi, la neve che in Febbraio vi si era
posata. Ho
scovato, nei rami di un biancospino, spuntato come un fiore, un
mucchietto
residuo di neve. L’ho sfiorato, incauta, graffiandomi la mano
e permettendo che
i guanti in pizzo venissero pizzicati dalle fronde, ho goduto del suo
tocco
gelido e dell’incavo sciolto che il mio dito ha formato nel
grumo. Per un
istante mi sono sentita una bambina. Quante volte mi hai chiamato
così,
lambendo parti del mio animo che a me stessa erano ancora sconosciuti.
Passeggiare
in
solitudine, scortata dalle meraviglie della natura fino al pergolato
d’ipomee
che tanto amo, è stato piacevole e ritemprante. Forse
l’ispirazione di un nuovo
quadro, qualcosa, stavolta, di davvero sensazionale, si sta affacciando
alle
finestre della mia mente occlusa dalla nostalgia. Potrei provare a
darvi una
prima bozza a Londra, che ne pensi?
Ah!
Dimenticavo di
comunicartelo. È passato di qui tuo cugino per visitare la
madre, durante un
pomeriggio. L’ho trovato in ottima forma, fresco come un
frutto estivo, e sono
contenta che la moglie stia conducendo una vita felice. Mi ha chiesto,
impudente, quand’è che anche noi decideremo di
condurre in matrimonio la nostra
relazione. Ho sviato la domanda con una risata lieve,
dopodiché mi ha sfidato a
scacchi per trascorrere il tempo, accorgendosi forse della sua
sfrontatezza e
ritornando sui suoi passi. Ha imparato bene dai tuoi insegnamenti,
dalle
diverse partite che abbiamo fatto non sono riuscita una volta a
batterlo.
Sapendo
della tua
passata sosta, però, si è infervorato non poco.
Credo siano due anni che non vi
incrociate, dopo un’infanzia intera trascorsa fra le pareti
di un’unica dimora,
e tu hai eluso una delle possibilità che avevi anche solo
per stringergli la
mano, come si fa fra vecchi amici. Ha promesso che al tuo ritorno
verrà di
nuovo.
Ho
l’impressione che
non siano in pochi coloro che ti danno la caccia.
Tua, per sempre,
Evangeline Leibniz
Post scriptum: nonostante tutto, la
domanda del tuo parente
mi ha scosso. Quando, per una buona volta, mi sposerai? Non ce la
faccio più a
far tacere i timori del cuore e le dicerie della gente.
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Capitolo 10 *** 06/03/1823 – Interludio ***
06/03/1823
– Interludio
Londra, Casa
Hinchinghooke.
La tela
s’incava sotto le sue
mani sottili. Il corpo di una donna, apoteosi di piacere che rifugge
dall’armonia fatale, la matita che consuma la sua grafite nei
tratti grossolani
e imprecisi delle sue fragili dita. Il tramonto tinge d’oro
le fibre tessute,
così delicato che pare quasi mortificare il suo animo con la
fuggevole bellezza
dei suoi nastri. Passati lì per caso a condurlo in una scia
di docile piacere.
Vi amo.
In ogni secondo.
Ascolto l’organo che abortisce voi nell’accordo di
rimembrarvi sempre. Prima o
poi.
Un movimento
più in basso,
strascicando le forme di un braccio, i pizzi e i merletti affinati dal
filare
una mano. Fasci di lavande a ricoprire il tutto, un universo
frammentato, una
marea ritratta nell’odoroso ricordo. È
così forte che quasi infastidisce:
l’alcol che permea forte e stilla di dolore acidi tagli. Le
lavande hanno
l’odore di fiori blu in un campo deserto. Hanno odore
d’oceano, di quello
forte, del sale che corrode la stessa tela, fino a sfinirlo nelle
lacrime che
cascano in frantumi d’infanzia.
Si vede
appassire, sfiorire
greve, sulle gambe petali seccati, strappati crudelmente alle rose
ch’aveva
donato alla madre al suo arrivo. Poi sospira. La matita gli sfugge
quasi, ma
stringe di nuovo, deciso. Si sente burattinaio, costruttore del
miraggio,
artefice di una composizione incisa a parole, e visioni sussurrate
nell’inseguirete il distacco.
Un sibilo fioco
più in fondo,
asciutto, gli annunzia che la matita ricade al suolo, nello scoccare,
all’unisono, del suo cuore.
Mani. Mani.
Ancora mani. Mani
che si allentano, come un affresco decadente, separati da una crepa che
apre
uno squarcio inafferrabile. Un vuoto marginale. Il vuoto in cui ricade,
straziato come i suoi sogni, amori affacciati da un oceano di carta.
Non era mai stato
un bravo
pittore. Ci aveva provato, talvolta, suo malgrado bozze increspate e
sporche,
stracciate delle proprie mani, abituate forse all’inseguire
l’inchiostro, che
ad altro.
Il ribollire
ridente
dell’acqua, il pennello che vaga nella frescura del barattolo
di fragili vetri
incrinati.
Veloce. Il
chiaroscuro sulle
ombre delle mani, il respiro trattenuto un attimo prima di scoppiare.
Li ha
dipinti. Apparsi misticamente come anelli su un fondale ingrigito.
Il violetto, la
punta
d’ametiste fuso, così fluido a puntellare gli
steli. Indorato è l’orizzonte in
cui si spiega il fragile volare della sera, su ali arrossate
d’imbarazzo.
Mancherebbe solo
il piano, si
dice. La melodia che l’accompagna algido
nell’altalena di soni, frammisti e
fragili, il cantilenare d’inaudite sirene.
Sirene,
vi prendo e vi
porto via. L’inganno della bugia che serbate in seno, siero
invischiato al
petrolio più oscuro, vanifica ogni vostro respiro.
Madre,
sapete del ricadere
di gocce in un pozzo profondo.
Una scia rossa
gli imporpora
le gote di lui bambino. Screzia gli occhi in un temperamento che sa di
cioccolata, mista a lacrime di cannella. Ha il volto sporco di terra.
Piange.
Poi una danza
più oscura, più
dolce, l’infinito, il tremore del cuore afferrato
d’altre mani…
Lei profuma di
crisantemi,
invece. Ha petali che sono ciglia, lunghe, sottili filamenti di
violino,
sbocciate nel rigoglioso silenzio che vi cresce dentro.
L’intimità odorosa di
lapidi e petali fusi nell’essenza del suo respiro.
***
La porta è socchiusa. Non
cigola, non produce rumore, quando
una mano la spinge per entrare nella stanza. La figura viene investita
dai
raggi brucianti di un ultimo sole, che alla fine del suo percorso
riesce a
infuocare l’ambiente, intrufolando tiepidi serpenti di rubino
da ogni interstizio.
Un
odore di vernici
la investe. Casa. Casa è dove c’è lui:
dove ogni filo dei suoi capelli di grano
si trascina il sapore dell’estate, dove la vita si consuma
nei baci riversi
sulla sua pelle luminosa.
Sta
dipingendo. La
sua mano, decisa nell’impugnare una penna, ora è
insicura sulla tela e pare
giocare con i peli del pennello che tratteggiano delicati il suo dolore.
Gli
si avvicina,
nonostante vorrebbe in cuor suo restare
un’eternità a rimirarlo nell’ombra,
sentendolo ignaro della sua presenza. Lascia scorrere le dita sul suo
braccio –
il primo tocco è un tuono che percuote le membra
–, la camicia bianca
arrotolata fino al gomito, quindi gliele avvolge attorno al polso con
cui
acquerella il quadro. Lo guida in alcune rifiniture, qualche istante
per
assaporare in pace il suo profumo di fiori di pesco, e cannella, e
legno di
sandalo. Un’armonia di sensi che le inebria la mente.
Ferma
il tratto, ed
entrambi tremano, hanno sempre tremato, delle foglie nate sullo stesso
ramo di
betulla e pronte a cadere sulle sponde del fiume. In silenzio. I loro
sguardi
non si cercano perché non ancora pronti a incontrarsi,
rifuggono adocchiando il
nulla.
È
seduto su uno
sgabello senza spalliera, e lei sente la sua schiena che le sfiora il
grembo.
Stavolta non è il corpetto azzurro troppo stretto a levarle
il respiro, è una
presa diversa a scuoterle l’animo. Quasi non si accorge di
essersi chinata
appena, per lasciar scivolare le labbra sul suo collo liscio, le spighe
di
grano della sua chioma che la sfiorano e le solleticano il viso, come
una
carezza data in un campo pronto al raccolto.
«Byron, mio
Byron.» È un sussurro che infrange ogni
specchio.
***
«Scacco matto.»
«Oh, perdessi meno
spesso» sospira Evangeline.
«T’amerei di
meno?» Il ragazzo fa per rimettere a posto le
pedine, un giocatore accorto, che carezza ogni pezzo levigato con la
stessa
cura di una sarta che ammira la sua ultima creazione. Un sorriso mesto
spunta
appena dal suo volto, quindi prende un respiro e continua: «A
dodici anni
m’innamorai per la prima volta. Una ragazza di strada,
capelli rossi, l’accento
di Nantes. Una figlia di Satana.»
«Un po’
azzardato, per un bambino.» Lo aiuta nel richiudere
la scacchiera in cristallo, dopo che l’esercito è
ritornato silenzioso nelle
sue bare, custodite da quella lastra lucida, troppo pulita per portarsi
dietro
così tante vite mangiate. Il re nero giace accanto alla sua
regina, ma non si
tengono per mano: muto è il ringraziamento verso quella
figura femminea che, di
nuovo, lo aveva salvato.
«Non ero
immaturo» dice, quasi stesse cercando una scusa per
il suo comportamento, quindi si alza dalla poltrona rivestita di
velluto rosso.
Il salone è pervaso dalla solitudine, solo il fuoco nel
camino crepita stanco
le sue lamentele. Pochi sono i riverberi di luce, qualche candela
poggiata su
un candelabro dorato, sparse per l’ampia stanza con la
casualità di un
cameriere distratto.
Tutto
giace
nell’immobile penombra di una scena da consumarsi al buio.
«Non lo sei mai stato,
vero? Non hai età, non hai mai avuto
anno in cui annotare un cambiamento nel tuo spirito.»
Evangeline resta seduta,
e osserva l’uomo percorrere il tavolino rotondo di legno,
lentamente, un passo
per volta, accompagnando il tutto con una mano che soprappensiero ne
ripercorre
il bordo incavato. Un dito che segue il percorso del destino,
lasciandosi
trasportare, senza rivolte.
«Ho cristallizzato la mia
vita nel momento in cui mio padre
è morto. L’ho visto cadere come un bicchiere di
vetro. L’ubriaco tira un po’ la
tovaglia, e il calice s’infrange al suolo. Sparge un veleno
d’imbrogli.» Lo
sguardo, invisibile, coperto da ombre fragili e impalpabili come
nebbia, è
privato anche del suo consueto chiarore.
Il ricordo si
disperde, è il liquido che macchia il tappeto una volta che
il bicchiere ha
completato la sua caduta. « Lei, la rossa… quella
bambinetta dei miei sogni,
colpa sua» e l’incertezza si diverte a colpire la
sua voce in balbuzie stolida.
«Mia madre mi aveva… avvisato, e così
aveva fatto con lui. Chi ha i capelli di
fuoco è solo un bugiardo partorito
dall’inferno.» Una pausa: la voce roca
sfuma nel soffio di una vita devastata. «Io ho aperto le
porte dell’oltretomba,
portandola in casa. Era un angelo sperduto fra la polvere di Vaucluse,
ma poi
s’è rivelato demone dell’anima
mia.»
«Continua, per
favore.»
«Fuggimmo, incontro alle
lavande in sboccio. Vaucluse non è
mai stata rifugio più casto: eravamo aliti dispersi nel
vento, non eravamo
nulla, eravamo la proiezione di un passato cancellato male. Io e la rossa, che ci confondevamo fra
i fiori, amandoci
fino allo scandalo, fino al disastro, il sangue che riverse la mia
vita. Colpa
sua, maledetta!» È arrivato alle spalle della
donna, ma non la tocca.
Osserva la dolce linea della sua nuca piegata in basso, i capelli
castani
raccolti in uno chignon semplice, gli occhi socchiusi in un ascolto
assorto.
Osserva le sue bugie, i suoi segreti taciuti, scivolare a terra e
liberarsi
della loro coltre di gelo.
«Lei…
è ancora viva?» chiede.
«Oh, Eva, non sai che il
demonio non muore?»
***
Sfiora
il
corteo, bianco, una crisalide di lapidi spezzate e poi subito nere. La
scia del
suo dito, l’unghia tonda, che scivola fluida in una scala
gentile, le fa
crescere brividi di solitudine in seno.
La tentazione a cui sta per cedere il suo
amato è languida, mortale.
Ha paura che quelle dita, come filamenti spinati, ricadano in cenere
nell’alternanza del campo santo nella quale, ora –
per sempre – incide il suo
tono. Più in alto, imperioso, come un mare di vetro in
frantumi.
La stanza è un locale oblungo,
illuminato dalle luce di un camino
che arde nel rossore delle sue braci e combatte la notte, una fiamma
s’infila
come un’ombra lungo la parete e crea un ramo frastagliato, un
teatrino di luci
e tenebre circonfondono il tutto. Un pianoforte, un uomo su uno
sgabello, una
donna oltre la coltre di legno scurito, in fronte all’amore
impersonato.
«In principio ci furono due mani.
Odorose d’inchiostro che s’amavano
in un intrecciarsi perpetuo, profilate lungo una penombra
interminabile.
Un’assenza, un’angoscia che premeva nel petto dei
due. Si contesero, appena,
per sempre. Combatterono a rose rosse e talvolta dal nero gentile,
asservite
con rovi che stillarono sangue puro. Poi nacqui e sfilarono cinque anni
senza
accorgermene, intrisi nei miei occhi di bambino. Da Le Havre, la
vergine neve
imbiancava i loro animi insanguinati d’amore, scappammo a
Vaucluse, Valensole.
E là, le lavande imperversavano in un oceano di ametiste,
acute, rozze,
accoglienti come le mani dei miei genitori.»
Scomposta, il suo respiro ansante le percuote
il petto, ansiosa.
Pretende. Sta seduta in una poltrona, ricamata con rami neri e foglie
di
primavera beccate da passerotti infatuati. Sta in fronte a lui e lo
guarda
negli occhi.
«La conobbi che era appena
cominciata l’estate, in uno di quei
giorni in cui s’attendeva oziosi lo sboccio delle lavande,
così frementi
d’avere in corpo il profumo screziato di quei fiori, in
cascate di gemme dal
proprio stelo. La conobbi che di nascosto m’ero inoltrato in
un campo violetto,
i fiori trattenuti ancora a sé, alcuni prematuri reclamavano
la loro morte per
sfuggire all’astiosa vita solitaria, in attesa dei loro
fratelli. Ne raccolsi
una, la spiga più bella, piegato, con gli occhi accesi di
stupore.»
La musica intorno a loro, quelle note che
salgono al cielo e
ricadono meste, s’accorda perfetta, richiudendo porte
d’inferni e paradisi al
loro passaggio, alla voce narrante che novella un’immagine e
ne interpreta
un’altra.
«M’ero piegato, le dita
strette intorno al verde del gambo, premevo
con forza perché venisse via. Il tatto, scottante, invasivo
e distorto d’altra
pelle, che sfilava dal terreno la pianta novizia. Ci ritrovammo
instabili, la
spiga violetta stretta nelle sue mani. Nel trionfo di due volti. Uno
solo.» Lei
lo guarda, la sua pupilla dilatata trattiene nell’intenso il
buio, distoglie
per un istante lo sguardo.
«Le disgrazie, Eva, sono
ghiacciate. L’amore però s’accende del
rossore soffuso, placato, dei suoi capelli. Lei, impacciata, le mani in
grembo,
lasciò la lavanda a me, e s’allontanò
d’imbarazzo dipinta sull’esanime pelle.»
Byron cessa la fugace melodia. Le candele
brucianti ai muri indorano
i contorni del pianoforte come filigrana di sole ad accendere picchi
d’intimità.
«Per poco non scappò.
Oramai ammaliato, corsi dietro al suo fuggire,
lo strascico della bianca veste che le copriva le gambe in una corolla
di
giglio, rialzato tra le mani. Era lacera, povera, sporca. Timida come
la
farfalla che si posa sul suo primo fiore.»
«Sai, mio Byron, ho un inconsueta
passione per i tuoi racconti. Sono
bestiole ammansite dalle tue sillabe, sussurrate col dolcezza,
intrinseche di
melanconia; accendono fuochi di gelosia in me. Continua, oh mio Byron,
pure per
sempre.»
«La trascinai a casa, corremmo come
due fiori estirpati dallo stesso
stelo, mano nella mano, e pian piano calava la sera.»
Evangeline esitante, chiede, il farfugliare
delle sue mani a
mezz’aria è il giogo di un linguaggio profondo,
taciuto.
«E fu tua?» Lui affranca
un dito alle labbra schiuse, lascia che il
monito plachi tutto, cali il sipario di un intoccabile silenzio.
«Mio padre la raccolse in casa, mia
madre l’occhieggiò come un gatto
randagio, e lei odiava i gatti che d’estate sgusciavano nel
verone
passeggiando.» Stacca il dito dalle labbra, semoventi, il
monito spezzato, le
dita che scompaiono sulla tastiera del pianoforte.
«Non aveva famiglia, lei era il
reietto a cui tanto aspiravo, il
fascinoso terrore che mi incastrava nella trama intessuta. Mi amava, o
faceva
finta.»
«E basta? Solo questo?»
Pensierosa, le palpebre che si socchiudono
in una foga, la smania di un bacio, mosaico di ciglia.
«Era il mio segreto più
turgido, il rampollo di un fiore d’oro che
splendeva ai tramonti di baci, le lavande sotto i nostri piedi
intralciavano il
passo. Che amore, quel profumo, la fragranza di toni assaporava il
bacio. E fu
il mio primo bacio, l’inimitabile.» Si blocca, la
musica attorno si riaccende
con un botto basso. Le mani avevano sbattuto con forza contro i tasti,
poi di
nuovo silenzio. «Oh, Evangeline, l’emozione che
trasudate è un concetto
d’invidia pura, non vogliatemene. È una parte
importante. È d’infanzia.»
«Non curartene, Byron, è
solo il mio cuore che piange a tradimento.
Avrei voluto esser io quel papavero appena colto e curato con tanta
passione.
Quando l’hai baciata, che sapore ebbe?»
«Un sapore diverso. Ha sapore?
Tutto ciò che è tensione allo
spasimo, ha tutt’altro sapore. È lo sbocciare di
un mondo silente, dove le
timide roselline crescono sottosopra e sopravvivono alimentandosi di
brividi
contrastanti. Perché con lei, c’era una soglia
focosa in cui sprofondavo lieto
e incauto e spiragli di brina che stoccavano ai fianchi.»
«Qual era, il suo nome?»
«Katherine.» E mentre lo
dice, contrae la faccia in un espressione
dolosa.
E poi s’alzano, statuine affusolate
che vagano sul palco di un
carillon stonato.
Riprenderai, mio
Byron, perché
nell’altra parte, son sicura, il soleggiare del giorno mi
aiuterà a non averne
paura.
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Capitolo 11 *** 07/03/1823 – Interludio ***
07/03/1823
– Interludio
Londra, Casa
Hinchinghooke.
Il suono delle posate
d’argento è lo straziante requiem dei
cuori soli. Poche parole, solo quelle più necessarie,
l’imbarazzo dell’infanzia
perduta e delle memorie comuni: non v’è alone di
consolazione, solo triste e
immutata condivisione del dolore.
La
composizione di
frutta, nel vassoio al centro, pare attendere l’artista che
ne dipingerà i
tratti, con cauta lentezza e studio d’ombre. Giorno dopo
giorno, aspettando
l’ora del primo mattino, resterà lì a
impolverarsi e a rinsecchirsi, finché di
essa non rimarrà che un’immagine senza sapore.
I
piatti sono pieni
di ricordi, vuoti di cibo. I ghirigori attorno ai bordi, sapientemente
dipinti
da mani esperte, giacciono nella loro tenue tonalità
salmone, e si tengono
forza, filamento per filamento, lì a sospendersi in un
cerchio nel bianco della
porcellana.
Una
domestica
interrompe la quiete, portando un cesto di pane appena sfornato, caldo,
poi
tiepido, poi abbandonato a raffreddarsi intonso. È entrata
da una porticina in
legno, secondaria, con un intaglio in vetro nella parte alta che
tuttora è appannato
dai fumi della cucina. Quando rientra, l’uscio si richiude
facendo vibrare
l’argenteria accuratamente lucidata negli armadi a vista, con
uno scampanellio
che si riversa fra i vetri delle ante e dei ripiani.
«Quali sono i vostri
programmi per la giornata?» Chiede
Evangeline. Ha un segno sotto l’occhio sinistro, come una
piega lasciata dal
segno di un cuscino – un sogno interrotto, e le palpebre
appena schiuse di chi
è desto ma assonnato. Offre un sorriso prudente ai tre
uomini che siedono alla
tavola rettangolare.
Il
più giovane, che
le siede di fronte, prende un tovagliolo e se lo tampona sulle labbra.
«Io e
Delbert saremo fuori fino a stasera» dice, indifferente,
quindi si passa le
dita fra i capelli biondo cenere raccolti in un codino.
L’altro,
seduto alla
sua destra, annuisce con fare intento. Si dondola sui piedi della
sedia,
portando lo schienale in un’angolazione impossibile. Le
labbra rosee come
quelle di una fanciulla hanno una piega orgogliosa, carica di una
dignità
affetta dal risentimento. A ritmo del suo dondolio, le tende rosa pesco
piegano
in numerosi sbuffi da una delle vetrate, confondendosi al raso bianco
dei veli
più sottili e irrompendo nella sala da pranzo. Una
finestrella è stata lasciata
aperta per rinfrescare l’ambiente.
«Eva, che ne direste di
prendere una boccata d’aria? La
colazione è terminata, non c’è bisogno
che ci tratteniamo più del dovuto. Sono
certo che anche i miei fratelli abbiano le loro incombenze da
svolgere» propone
Byron e le prende una mano da sotto il tavolo, sgusciando fra i
riccioli
merlettati della tovaglia chiara, raggiungendola in uno spasimo
d’amore.
Lei
arrossisce,
accorgendosi della sua impudenza, e con un cenno del capo che
s’avvicina a un
inchino si accommiata dai due: «Vi auguro di trascorrere una
bella giornata.» Il
suo sguardo si sofferma un istante in più su Delbert, che
però non risponde,
scuote soltanto la testa, lasciando che i ricci castani gli coprano
parte del
volto.
Mentre
si
allontanano, il parquet ricoperto dal tabriz persiano attutisce il
ticchettio
delle suole, il cui ritmo si uniforma a un solitario pendolo
nell’angolo. Tic-tac, tic-tac, è anche il rumore dei
telai che tessono fitti orditi nelle
terre d’oriente.
Byron
la trascina in
giardino, attraverso una vetrata scorrevole che vi s’immette
direttamente dalla
stanza. Una ventata fresca li investe al primo impatto e la giovane
rabbrividisce.
«Volete che rientri per
prendervi una cappa?»
«No, Byron, non ce
n’è bisogno. Sto bene così.»
Il
prato fruscia
sotto i loro passi sommessi, l’erba che si piega in dolci
onde e che si rialza,
carezzando le caviglie con un bisbiglio inudibile. Nel vialetto di
pietre, fra
un masso levigato e l’altro, sono cresciuti sparuti mucchi
erbacei, da cui
spuntano boccioli di timide primule. Il
fiore giustifica i mazzi.
Il
sentiero conduce,
con una lieve salita, a un ponte in legno, con dei sostentamenti di
ferro
leggermente arrugginito ai bordi. Sotto la passerella gorgoglia un
rivolo d’acqua
pura, che si colora dei riflessi verdini della natura appena
inselvatichita che
lo circonda.
«Vi è sempre
piaciuto, questo posto. Nelle primavere,
bevevate l’acqua a lunghe sorsate, senza preoccuparvi delle
macchie d’erba che
vi sporcavano il vestito. Vi inginocchiavate lì, fra le
libellule, pronta a
spiccare il volo.» Indica una conca sabbiosa che immette
gradatamente al rio,
ampio in quel tratto non più di un paio di braccia. Per
tutto il tempo non le
ha mai lasciato la mano, e ora che sono saliti sul ponticello, il legno
geme
contrito ad ogni spostamento di peso.
«E tu mi trascinavi
lontano, perché temevi che sarei potuta
scivolare in acqua, nonostante il torrente sia poco profondo. Mi
portavi sul
ponte…»
«Vi bloccavo il corpo
contro la balaustra che in estate
gettava foglie di rampicanti a sfiorare le rive sotto di
loro.»
«Come stai facendo
ora.»
«E
vi…» Una mano lo blocca, fermandosi sulle labbra
di lui.
Un paio d’occhi azzurri, intimoriti, bagnati di lacrime
sospese sull’orlo
dell’abbandono, si fissano in quelli dell’uomo.
È una preghiera muta che induce
al silenzio.
È il sussurro:
«Smettila di darmi del voi. Ti prego, Byron,
non posso sopportare più questo tuo lasciarmi indietro,
lontana da te.»
Lui ride, poco più che un
andirivieni, un tintinnio di felicità
cosparso nell’aria. La condensa che spira dalla sua bocca,
ora aperta,
strascica fumi che velano vascelli d’intimità,
vascelli di carta, con le ali
ripiegate lungo le fiancate.
«E ti dicevo che eravamo solo un
sussurro. Un sussurro nel vento, e
che presto saremmo volati via con esso, danzando su quei piani
impalpabili di
una passione che ci allenta e poi restringe i nostri corpi in un tango
che è
veleno d’amore, scorre nelle mie mani intrecciate alla tua
schiena e…»
E s’infiorano ali
d’argento che trasudano disperazioni imperlate dal
vuoto che li separa. Un respiro, due, è un sospiro che si
trasforma in ordine e
muta in piacere.
«E voleremo più
giù, più su, più in fondo. Ove non si
fa ritorno.»
***
«Byron!
Rose, rose rosse! Rose
fiorite, rosse come il filo che m’hai legato al
polso.»
Evangeline alza
il volto,
pallido, quasi mascherato di porcellana, la crocchia di filamenti
screziati di
cannella, cioccolato al latte, fuso nell’assecondare il denso
mormorare
dell’animo.
Byron accorre,
nel vialetto
incorniciato da verdi cespugli, peonie rosate sono sporte come
pettegole
indiscrete, premature, ingenue. I suoi passi sono pacati, cheti,
imprimono
vestigia sulla terra smossa, come petali di rose corrose.
Nel cielo, i
banchi di nuvole
londinesi sono canarini da trattenere tra le stecche di ferro di una
voliera,
si ha paura che possano increspare le ali verso lacrime che
ingrigirebbero il
soleggiato meriggio ch’ora si godono.
Le betulle si
librano accanto,
affrancate da braccia più alte, confuse, ramate e schiarite
di un verde che
s’accende e s’arriccia.
Lei è
in fondo, china tra
petali come pizzi arrossati dal sangue, la veste di raso magenta la
costringe
in una statua dal profilo incerto, quasi si contenga a stento nella
gabbia
posta. Ora s’alza, lieve, le ciocche che le ricoprono il
volto, le scosta con
un gesto delle dita. Mentre Byron le gira dietro, lento, il cuore che
gli batte
in petto, un palpitare simile alle onde frante, le cinge la vita. Lei
s’infiamma
in volto, le guance cosparse di quella tinta apparsa in sprazzi a
intrecciare
un piacere scabro. Sente il corpo dell’amato, quel petto
premerle contro la
schiena, freme. Fremono tutt’e due. Vibrano al cospetto della
loro felicità.
Questa è l’ouverture di una sinfonia dal timbro
talmente basso da strisciare in
terra.
Byron abbassa il
capo posando
il volto nell’incavo tra il collo e la spalla sinistra della
sua dama. Le prime
note che s’accendono del profumo di fiori gelati.
«Rosse
come il demonio. Come i
suoi capelli che fuggirono in una scia devastante. Attenta a
strattonarlo; mi
portò via, per certi versi, staccando a forza
l’essenza di un amore straziato.»
***
Il distacco dei
loro respiri,
le mani sciolte dal casto nodo che dapprima s’era creato, il
sentiero di
riccioli d’erba che affiorano dal terreno, li accompagna
distendendo la terra
in piccole dune. I loro piedi che tratteggiano il sentiero verso casa.
«Lei
viveva in me e io in lei.
Un essere decomposto, disfatto, l’embrione che si serviva di
me, la scintilla
dell’incendio. D’un tratto la vidi, la vampa che
allungava le sue lingue,
colate mai fredde, lungo l’apoteosi del nostro amore. Oh,
Eva, l’amore è
servitù, nevvero?»
Lei deglutisce,
socchiude gli
occhi, le labbra dischiuse, appagata e affranta dalle parole di Byron.
«Erano
quindici, gli anni che
aveva, seguivo la sua ombra per casa. Timida e fragile, furba,
artefatta. Mi
mise un dito sulle labbra, il monito di un silenzio oscuro. Aveva
progettato
tutto. Mi aveva messo fili immaginari in una schiena e li aveva
trascinati. Mi
sono sempre chiesto cosa sia ciò che l’abbia
spinta a fare tutto… questo.
Perché i cocci della sua infanzia distrutta invasero anche
la mia.»
«L’imbroglio,
giusto. È come
dipingere un quadro difficile, la punta che si spezza, il pennello che
sbava. È
arte l’inganno di mascherare il tutto.» Evangeline
alza le ciglia schiarite, di
fulgido grano, e pare quasi voler sfiorare il cielo, con gli occhi, le
dita,
che rotea in su per cogliere quel raggio di sole che
s’insinua come un silenzio
sepolto e riemerso.
«Katherine
aveva bisogno di
me, me lo aveva scritto. Impossibile negare che m’aveva
avvisato. Le sottili
lettere sulle mura della soffitta, tracciate col dito sporco
d’inchiostro,
tondeggiavano. Non stavano mai ferme. Quel reclamare a me, un grido
strozzato
che parte dall’oltretomba e non giunge in vita. Ho bisogno di
te, sei tutto,
sei l’ordito in cui inseguo i miei sogni, mi diceva. Era il
cartello di
polvere, una cancellata impercettibile che sotto la mia presa, prima o
poi, si
sarebbe spezzata.»
«Ma
dimmi, cosa è successo
veramente?» Lui le rivolge uno sguardo intenso, gli occhi di
lei colmi delle
increspature del ghiaccio, di un amore di vetro incrinato. Un
acchiappasogni
dalle tinte riprese a guardare specchi di mare riversi, un fondale che
proietta
i propri sogni in lustrini dorati che s’interpongono
all’acquamarina infinita.
«Disse
che mio padre… tradiva
mia madre. L’aveva visto con un’altra donna,
l’intreccio d’altre vesti, il
profumo d’altre carni. Era qualcosa di doloroso, mi fidavo di
Katherine. Era
come camminare su un filo sospeso sopra l’oblio del terrore,
avrei voluto
chiudere gli occhi, ma l’attrazione verso ciò che
reclamava il mio essere
dabbasso, era troppo forte. Sai, il filo si fa sempre più
sdrucito mano a mano,
lungo il cammino, fino a quando non c’è
più nulla. È una sciocchezza superare
il vuoto, camminarvi sopra, viverci, alla fine la caduta è
inevitabile.» Ride.
E si sente cadere, le ciocche dorate che gli ricoprono la fronte tersa
da
goccioline di sudore, che nascono dall’interno, paiono
avvizzire, spegnere le
loro tinte accese.
«A quei
tempi, mio padre era
il riflesso distorto di mia madre. Era lui che aveva assecondato
l’accoglienza
di Katherine nella nostra famiglia. Mi sentivo trafitto, trafitto in
controluce. Lei, lui; lei che mi diceva: chi ha i capelli
rossi porta solo
male in famiglia, lui che osservava le note scorrere dalle
labbra aperte di
Katherine, sciogliere tutti i nodi intricati nel cuore e farsi beffe di
noi.»
«Cantava,
Katy, allora, era
lei la tua vera musa.» Lei cerca le sue dita lunghe, le
trova, le stringe,
assapora il gelo raccolto in quella pelle, si propaga in una malinconia
immensa.
«Lo fu
per tanto tempo. Lo fu
di tutti, tuttavia mia madre non restava ammaliata e non ne ho mai
capito il
perché. Mio padre pagava le lezioni di canto, potevamo
permettercele, sì, ma
era sempre un costo che gravava su un componente della famiglia
indesiderato
da…»
Madre.
Tutto questo vuoi
dire. Quanti sono i petali di margherita rimasti? Li hai donati tutti
ad altre
donne, per me, cosa offri per me?
«Byron,
cosa fece
Katherine?»
«Mi ha
ingannato, mentre
l’alcol corrodeva mio padre che tornava a casa a sera
attardata, mentre mia
madre guardava afflitta disfarsi tutto. Piansi anche io.
L’ultimo limbo a cui
si stringevano le mie mani diventava un brandello caduto nel vuoto. Ero
convinto che amava un’altra, Katherine aveva detto
così, sapendo quanto tenevo
alla felicità di mio padre. Qual era la verità?
Evangeline, la vuoi davvero?»
L’istante,
il secondo, l’ora,
perfetta in cui il cuore disperde il suo acido. Lei annuisce mentre
Byron
sbarra gli occhi, intrattenendo tutto il timore a galla.
«Katherine
voleva andarsene
dalla famiglia. Katherine non voleva me, voleva solo i soldi,
un’eredità che
spillava dalle attenzioni di mio padre, a poco a poco, goccia a goccia
fino a
riempire un vaso. E ora lo vedi, il vaso, trabocca, in frantumi di
ceramica.
Mentre la verità era solo un uomo deluso dalla morte del
fratello caro. Ma
nell’inganno che Katherine mi aveva tessuto addosso, dovevo
difendere mio padre
e porre fine ai suoi pianti. E lo vuoi il finale, Evangeline, lo vuoi
davvero?»
Un sospiro. Non
v’è bisogno
che legga il suo volto per scoprire la risposta.
«Ho
ucciso mio padre.»
Si sente una
macchia
d’inchiostro. Isolata. Stacca la mano da Evangeline, la
guarda negli occhi
disperso, ferito, il viso sfregiato in una smorfia di sconforto che per
poco
non si trasforma in pianto. Ma lui è forte, non
può piangere, anche se il
rimorso lo è di più. E poi le macchie
d’inchiostro sono già un immensa lacrima
partorita da uno scrittore distratto.
***
Nessuno li ha visti, nessuno ha
parlato di loro, non una
figura umana che s’interessi di cosa si stia consumando in
quella stanza, ove
ogni sera vi si sprangano, con il clangore di una serratura che mette a
tacere
ogni voce. Può un lutto serrare le bocche di qualsiasi
individuo? L’arte del
silenzio è il frusciare delle ombre. Le tende che
s’aprono e si riversano da
una finestra discosta: un fruscio.
«Lo soffri, eppure continui
ad amare il freddo. Chiudi gli
scuri, Evangeline.»
Una
veste cala a
terra, dopo che i lacci che racchiudevano il tutto –
è lo schiudersi di un
fiore, il dilagare di ogni emozione – sono stati sciolti da
una mano rapita dal
fremito dell’incoscienza. Le gonne turchesi prendono le forme
di una distesa
marina, una polla sull’aldilà che frantuma la
monotonia del gelido marmo. Da
esso, spunta una sirena dai capelli dipinti di sorbo. Dietro un
paravento di
fine carta vermiglia, una voce risponde: «Non
ancora.»
Non
ancora. Aspetta
lì, Byron, sdraiato sul letto, lo sguardo triste e pensoso,
la camicia
sbottonata tanto che basta a far affiorare la pelle del cuore. Questo
batte,
bussa alle porte del desiderio, mentre lo sguardo rifugge dalle zone
buie di un
corpo nudo, un mimo perfetto, nascosto. Il sussurro della seta che lo
riveste
trascina con sé un muto grido, la dolcezza del suo suono
è paura, sconcerto,
indulgente disperazione. Le mani di lei annodano un fiocco dietro la
schiena
per stringere la vita in un abbraccio sottile.
Evangeline
esce, i
piedi nudi che calpestano il pavimento come se stessero galleggiando
fra petali
di rose, tra le braccia l’impacco maldestro del vestito da
giorno, il mare che
l’ha partorita. La vestaglia si ferma più su del
ginocchio, ed è tenuta in cima
da due fettucce rosse così come il tessuto. Si è
sbrogliata i capelli, le
ricadono sulla schiena in un rivolo di ciocche dalle sfumature ramate.
«Chiudi gli scuri,
Evangeline. Prenderai freddo» insiste.
Fa
finta di non
sentirlo, getta l’abito su una poltrona azzurra e si avvicina
al letto.
L’alcova ha un soffitto intelaiato a fiori color orchidea e
lampone, le cui
foglie vanno a creare un manto intricato d’arabesque.
Sui colonnati si sparpagliano motivi d’edera e malve
intrecciate.
Lei gli poggia un dito sulle labbra
quando questi fa per
protestare, accostandosi al suo volto. «Voglio farti vedere
una cosa.»
S’inginocchia
e
rimesta con un braccio sotto al baldacchino, alla ricerca di qualcosa.
Quando
ne riesce, ha in mano la sua valigia da disegno. Le borchie che ne
costringono
gli angoli sono ammaccate e scurite, il cuoio nero graffiato, caduchi
protagonisti di viaggi e mostre, arti e lavori. La apre, e i ganci che
ne
legavano il contenuto scattano via all’unisono.
Una
manciata di fogli
si riversa a terra. Tutti i colori con cui dipingeva le anime del
mondo, i
barattoli in cui intingeva ogni emozione, i pennelli unghiati e sempre
pronti a
graffiare la tela, sono tutti spariti. Solo pagine, carte, pergamene
– ogni
tonalità capace d’accogliere tratti di grafite
– è ciò che si scaglia sul
pavimento come il getto di una fontana: un
fruscio. Si nascondono per l’impiantito, piastrelle
scalfite di volti e
reami lontani, specchi che danno su una realtà distorta
dall’effluvio di un
incantesimo.
«Ma…»
sfugge dalle labbra di Byron, più un suono
impercettibile che un reclamo vero. Non lascia le coperte, ma ne
infiora di
pieghe infervorate la superficie liscia, le sue dita strette ad
afferrare il
tessuto.
«È tutto a
posto» dice la donna. Si china a raccogliere il
primo che ha toccato il suolo, lo tiene vicino al petto per non farne
vedere il
contenuto all’amato, è una bambina che protegge la
sua bambola preferita
stringendola al seno. Si siede appena sotto il bacino di lui, lasciando
che le
sue mani l’abbraccino, quindi rivolta il disegno
perché lui possa osservarlo.
I
colori sono sprazzi
intonsi di luce su una scena dominata dal nero. Per una volta
Evangeline non si
è dedicata alle tenui tinte degli acquarelli, ma ha usato
pastelli oliati per
generare il fascino di un distacco infelice. Una, due, cinque spighe di
lavande
dai riflessi vitrei sono poggiate su un pianoforte verticale, e i tasti
s’incavano sotto la loro premurosa pressione. La melodia
delle terre di
Provenza si sparge sugli spartiti appena sbozzati.
«Bianco, nero, bianco,
bianco…» sussurra lei.
Il
dipinto è ripreso
di profilo, e si vede la figura in ombra di un uomo, seduto su uno
sgabello di
fronte allo strumento. Le braccia sono abbandonate sui fianchi, in un
atto di
mesta rinuncia, e gli occhi socchiusi paiono fremere allo sfiorare di
ricordi
distanti nel tempo. Un piede è poggiato sul pedale, quasi a
voler spingere quel
suono a non smorzarsi, a durare finché anche il destino non
ne avrà tracciato
una fine sicura.
È
tutto buio, è la
coltre della morte che si distende e si rivela sullo sfondo sfumato:
una tenda
bianca, così sottile che si intravede da essa
l’infinità di un cielo stellato,
e così pieghettata su se stessa, sgualcita, che le sue
crespe formano un altro
volto, femmineo, contrapposto a quello del giovane.
Il
viso etereo si
protende verso di lui, le labbra schiuse in un bacio consolatorio. E si
sa,
ora, che la macchia biancastra che rischiara parte della guancia del
ragazzo è
in verità una mano di fumo, una carezza proveniente dalle
distese di un
territorio sconosciuto. Vaucluse, non sei
mai stata rifugio più bello.
«Non l’avevo
finito. Non volevo mostrartelo prima, ma ora…
ora era il momento giusto.»
«Sono io»
constata Byron. Oramai il foglio giace fra le sue
dita, gliel’ha strappato per perdersi fra i ricami della sua
vita, coinvolta in
una bozza piccola, inferma, delicata come la sua esistenza ora riposa
appesa a
un filo. E la lascia, inutile pergamena – che scivolasse pure
in terra fra le
sue compagne di carta. Si dimentica, nella notte, ciò che
affolla le vie del
tormento.
Prende
Evangeline fra
le braccia e la porta a stendersi su di sé. I primi baci si
consumano nella
disastrosa quiete di un segreto sussurrato troppo forte, nella bramosia
di
cadere vittime dell’ardore. Il gelo che proviene dalla
finestra aperta è
divenuto brezza piacevole, aria fresca da concedersi in respiri
affannosi.
Byron
fa scivolare le
labbra sul collo della donna, percorrendone la pelle con la leggiadria
di un
accordo, e brividi di piacere scuotono il corpo di lei. La spallina le
ricade
sul braccio, mentre la bocca dell’uomo si muove lungo la
spalla e scende,
cauta, a liberarla da ogni pudore. Il giovane accoglie il suo seno
turgido,
pervaso da un profumo più caldo e tenero, che si scontra con
la sua lingua
ansiosa.
Più
in basso, le mani
di lui raccolgono la vestaglia in spire che sono il cristallizzarsi del
volo di
una farfalla, onde marine permeate da un sapore vermiglio, e in una
carezza che
sfiora i fianchi di lei porta il tessuto a cedere dalla carne.
Dita
d’artista
slacciano gli ultimi bottoni della stropicciata camicia di Byron,
sfilano i
calzoni di velluto marrone; a far compagnia ai sogni di lei dispersi al
suolo,
si aggiungono le vesti portate via con insofferenza. Un
fruscio, e non è più silenzio.
«Ti prego, scappiamo
incontro alle lavande in sboccio» lo
implora lei.
E
si chiude così,
come se nulla fosse mai accaduto, un velo che si stende sulla fulgida
superficie del mare… un bacio di luna per gli immigrati del
cielo.
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