If I Can Stop [One Heart From Breaking]

di unknown_girl
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Capitolo 1 ***
Capitolo 2: *** Capitolo 2 ***
Capitolo 3: *** Capitolo 3 ***
Capitolo 4: *** Capitolo 4 ***
Capitolo 5: *** Capitolo 5 ***
Capitolo 6: *** Capitolo 6 ***
Capitolo 7: *** Capitolo 7 ***
Capitolo 8: *** Capitolo 8 ***
Capitolo 9: *** Capitolo 9 ***
Capitolo 10: *** Capitolo 10 ***
Capitolo 11: *** Capitolo 11 ***
Capitolo 12: *** Capitolo 12 ***
Capitolo 13: *** Capitolo 13 ***
Capitolo 14: *** Capitolo 14 ***
Capitolo 15: *** Capitolo 15 ***
Capitolo 16: *** Capitolo 16 ***
Capitolo 17: *** Capitolo 17 ***
Capitolo 18: *** Capitolo 18 ***
Capitolo 19: *** Capitolo 19 ***
Capitolo 20: *** Capitolo 20 ***
Capitolo 21: *** Capitolo 21 ***
Capitolo 22: *** Capitolo 22 ***
Capitolo 23: *** Capitolo 23 ***
Capitolo 24: *** Capitolo 24 - Parte 1 ***



Capitolo 1
*** Capitolo 1 ***


If I Can Stop - Capitolo 1

– Non m’importa.. –

Pronunciò quella frase osservando il paesaggio umido fuori dalla finestra. Il vetro appannato rendeva indefiniti i contorni delle auto e delle case all’esterno. I pochi suoni che si percepivano, il motore di un autobus, il gracchiare di un corvo solitario o lo sgocciolio delle tettoie, erano resi ancora più ovattati dal silenzio dell’alba inoltrata.

Non era riuscito a dormire bene quella notte. Un rancore in particolare lo aveva tenuto sveglio.

Rimase ancora qualche attimo davanti la finestra, con la mano che scansava la tenda da un lato, stringendo saldamente nell’altra la lettera che aveva ricevuto il pomeriggio prima.

Gli piaceva fermarsi ad osservare; a volte la contemplazione di spaccati banali e quotidiani lo rilassava, lasciava scorrere via i suoi pensieri per dar spazio alla sola quiete.

Sfortunatamente, la pratica abitudinaria non aveva avuto gli stessi effetti questa volta.

Strinse con maggiore forza la lettera nella sua mano sinistra, fin quasi ad accartocciarla, e lasciando ricadere la tenda, regalando nuovamente oscurità al piccolo salone, si avviò verso l’ingresso. Gettò con disprezzo l’oggetto di tale frustrazione nel cestino che si trovava vicino la porta d’entrata, rimanendo a fissarla con sguardo severo ancora per diversi attimi.

Stringendo leggermente i pugni trovò la giusta risoluzione per allontanarsi da lì, sperando di aver abbandonato anche il suo attaccamento a quell’oggetto ridicolo. Eppure..

Si abbandonò sul divano, coprendosi gli occhi affaticati dall’insonnia con il dorso della mano. Quella mattina sarebbe dovuto andare all’università. Non che la cosa lo entusiasmasse particolarmente ma… era il giorno in cui gli studenti stranieri dello scambio sarebbero arrivati, e tutti i ragazzi del suo corso con cui era riuscito ad instaurare un buon rapporto gli avevano raccomandato di esserci, di non mancare assolutamente all’accoglienza. Non avrebbe sicuramente fatto una buona impressione quella mattina visto che era di pessimo umore, ma d’altronde non era il tipo da non mantenere la parola data. Kiku, in particolare, si era raccomandato. Nonostante fosse giapponese ed una persona estremamente discreta, era stato molto insistente affinché partecipasse anche lui.

Spostò pigramente la mano dagli occhi, aprendo uno spiraglio verso l’orologio del salotto che segnava le sei e mezzo del mattino. Almeno avrebbe potuto prendersela comoda.

 

 

Sapeva di essere notevolmente in anticipo, ma era così eccitato all’idea di iniziare quella nuova pagina della sua vita che tutto il sonno e la stanchezza del viaggio erano spariti durante la notte. Quello che chiamavano “Erasmus”⁽¹⁾, poteva essere per tanti ragazzi della sua età un’esperienza di studio e di crescita straordinaria, ma a dir la verità le motivazioni che lo avevano spinto a fare quella scelta erano molto meno lusinghiere.

Aveva desiderato più di tutto allontanarsi dalla sua città, e anche dalle sue tante conoscenze. Come se avesse bisogno di cambiare aria per un po’.  Amava Parigi. Tuttavia, la curiosità dell’ignoto e dell’avventura si era impossessata di lui da tempo ormai, e quando per gli studenti del suo corso universitario si era prospettata la possibilità di un anno di studi all’estero gli era sembrato un segno inequivocabile. Doveva partire.

Purtroppo però anche quell’avventura avrebbe avuto i suoi svantaggi: il primo era legato a sua madre. Odiava l’idea di lasciarla sola per tutto quel tempo, ma lei al contrario si era dimostrata entusiasta e aveva insistito fino allo stremo perché presentasse la domanda. Gli ripeteva – Non potrà farti che bene! E’ giusto che tu abbia le tue esperienze senza preoccuparti di quello che farò io.. – insomma, le solite frasi che trovano i genitori per alleviare il senso di colpa di molti dei figli che lasciano casa per lunghi periodi. Le aveva però promesso che sarebbe tornato da lei un weekend al mese e che le avrebbe telefonato tutti i giorni, al che lei gli aveva regalato un sorriso pieno d’affetto ma che lasciava trapelare comunque una certa mestizia. Aveva portato con sé anche una sua foto per sentirla in qualche modo più vicina.

L’altro aspetto negativo era la destinazione: Londra.

Non era mai stato un grande amante di quella terra, tantomeno di quella gente. Forse anche questa era una specie di prova per aiutarlo ad abbattere qualche luogo comune e consentirgli di aprire di più la sua mente. Comunque, l’unica università europea che presentava la possibilità di seguire per un anno il suo corso di studi e la sua tipologia di esami era quella di Londra. Diciamo che avrebbe dovuto accontentarsi. Forse, alla fine, si sarebbe persino abituato a quel luogo, a quella visione del mondo e delle cose squisitamente anglosassone e a quella lingua che parlava e comprendeva perfettamente, ma che in un certo senso considerava aspra ed eccessivamente abusata.

Tirò un profondo sospiro ripensando a tutto quello che l’aveva portato lì, mentre sedeva su una delle panchine del bellissimo e ampio cortile universitario che cominciava a dipingersi dei colori autunnali. Si avvolse la sciarpa intorno al collo un'altra volta. Quella mattina faceva davvero freddo per essere ottobre, ma d’altronde si trovava in uno dei posti più umidi d’Europa, quasi mai baciato dal sole, isolato dalle fredde acque dell’oceano.

Riaprì il libro alla pagina dove aveva lasciato il segno e cominciò a leggere, aspettando con ansia il momento in cui avrebbe conosciuto i suoi nuovi compagni di corso… chissà se fra quelli non ci fossero stati anche qualche ragazza o ragazzo con cui intraprendere una nuova storia a breve termine. Calcolando quante se ne era lasciate alle spalle in appena ventisei anni di vita, in quell’arco di tempo era certo sarebbe riuscito a racimolare qualcosa. D’altronde in quel campo si era sempre considerato un esperto; ed effettivamente lo era davvero. A quel pensiero un sorriso malizioso gli piegò le labbra mentre mormorava fra sé:

– Non c’è fretta.. –

 

 

– Buongiorno Arthur. – Il giapponese si sporse verso l’inglese salutandolo cordialmente.

– Ah, buongiorno Kiku. – Rispose l’altro, non avendolo notato prima.

– Allora, sono arrivati i ragazzi stranieri? –

Il giapponese distese le braccia lungo il corpo, inclinando leggermente la testa da un lato.

– Stanno per arrivare. L’appuntamento con il loro gruppo era alle nove, e mancano pochi minuti ormai. –

L’inglese non rispose. Si limitò a sedersi su una delle tante sedie che occupavano ordinatamente entrambi i lati dell’ampio corridoio, fissando il pavimento.

– Va tutto bene, Arthur? – Domandò il giapponese con apprensione. – Hai l’aria esausta –

– Non è niente. Sto bene. – Sospirò e alzò lo sguardo verso l’altra figura di fronte a sé. – Allora…ripetimi un attimo i dettagli. Sono..quanti, cinque? –

Il giapponese assentì – Sì. Vengono tutti da paesi diversi. Sono sicuro di ricordare ci sia un italiano e una ungherese ma..gli altri non saprei. – Si sedette accanto al compagno di corso. – Visto che l’appuntamento era in cortile, forse dovremmo scendere.. –

L’inglese annuì debolmente, quindi si tirò in piedi. Quella mattina non avrebbe di certo fatto amicizia. Non era solo che non ne avesse voglia, quanto anche il fatto che, di quell’umore, sarebbe stato sicuramente intrattabile e avrebbe finito con l’irritare qualcuno. D’altronde, coi pensieri che si concentravano su tutt’altro, non gliene importava neanche un granché. Il fatto che non fosse mai stato fortunato nelle amicizie e nelle relazioni interpersonali era per lui un dato ormai assodato.

Percorse il corridoio e le scale, raggiungendo infine il cortile interno insieme al giapponese e i due trovarono nel luogo dell’appuntamento anche altri ragazzi del loro corso che, come loro, avrebbero dovuto dare il benvenuto ai nuovi studenti stranieri. La durata dell’Erasmus era fissata generalmente a un anno. Allo scadere di quell’arco di tempo molti ragazzi, tra i quali lui stesso, si sarebbero laureati; mentre gli studenti stranieri sarebbero tornati nel loro paese per presentare la loro tesi e laurearsi a loro volta. Sembrava tutto molto interessante, e per un attimo provò una certa amarezza pensando che il suo potenziale entusiasmo per quell’esperienza non potesse accendersi per via di quella stramaledetta lettera che aveva ricevuto da quell’idiota di Alfred. Non gli andava giù il fatto di considerarlo al punto da fargli distogliere la concentrazione dai suoi impegni quotidiani, ma non riusciva ad impedirlo.

Liberò la mente da quei pensieri nel momento in cui ricevette una leggera gomitata sul braccio da uno dei suoi compagni che cominciò ad indicargli i nuovi studenti stranieri che si avvicinavano attraverso il cortile. Tre ragazzi e due ragazze. Li osservò uno per uno: attirò per primo la sua attenzione il giovane dai capelli chiari, quasi albini, che avanzava con passo sicuro, le mani nelle tasche dei jeans e un ghigno sbarazzino stampato sul volto. La ragazza che gli stava accanto era invece molto più raffinata nei movimenti, con dei lunghi capelli castani e dei lineamenti delicati. L’altra ragazza dava l’impressione di essere meno socievole, soprattutto con quei lunghissimi e liscissimi capelli che le ricadevano quasi davanti al viso; aveva uno sguardo determinato e alquanto fiero. Tutto il contrario sembrava invece il secondo dei due ragazzi, il quale avanzava con un sorriso sincero, quasi saltellando dall’entusiasmo. E infine l’ultimo del gruppo su cui gli cadde lo sguardo: a prima vista sembrava proprio il classico “bel tipo” degli ambienti universitari: alto, sinuoso, biondo e con occhi chiari, un pizzetto ben curato che mostrava con sicurezza.

Quando si unirono al loro gruppo aveva appena finito di osservarli, e ci fu un generale giro di saluti, vaghe strette di mano e sorrisi dalla cui pratica si tenne però distante.

Dopo i primi attimi di confusione cominciarono delle ordinate presentazioni, che partirono da Roderich, Feliks e Kiku per giungere infine a lui. Pronunciò il suo nome debolmente, quasi gli pesasse il doverlo fare, senza neanche aggiungere una qualche frase di circostanza come “Piacere di conoscervi” oppure “Com’è andato il viaggio?”. In realtà si sorprese lui stesso per il grado di apatia con cui si era presentato, forse troppo sgarbato per un primo incontro. Almeno non fu costretto a pensarci troppo su visto che i ragazzi stranieri iniziarono a loro volta a presentarsi senza dare troppo peso al suo disinteresse.

Gilbert, Elizabeta, Natalia, Feliciano e Francis. Questi i nomi dei suoi nuovi compagni di corso.

 

Il gruppo rimase diversi minuti nel cortile a chiacchierare, scherzare, continuare con presentazioni più approfondite…il tempo per svagarsi però era ormai finito in quanto la maggior parte di loro di lì a poco avrebbe iniziato le lezioni della mattina. Kiku propose quindi, a chi fosse interessato o ne avesse la possibilità, di ritrovarsi più tardi, per pranzo. Per quel che lo riguardava già sapeva che avrebbe trascorso il resto del suo tempo dopo le lezioni soprattutto in biblioteca, dove non sarebbe stato disturbato. Un po’ di pace, e in realtà solitudine più di ogni altra cosa, era quello che stava cercando in quel momento.

Mentre il gruppo entrava nell’edificio salendo le scale, Roderich, suo compagno di corso da sempre, stava spiegando ad alcuni come raggiungere le aule dove si sarebbero svolte le loro nuove lezioni.

– Questo posto sembra enorme! – Esclamò l’italiano mentre si guardava intorno entusiasta.

– Oh bé, in realtà, tipo, lo è davvero! Cioè, io mi ci perdevo ancora dopo mesi! – Gli rispose Feliks.

Giunti nel corridoio il gruppo si separò visto che molti dovevano raggiungere luoghi diversi.

– Allora, a voi conviene proseguire qui a sinistra e giungere fino alle scale. Da lì se scendete un piano vi troverete l’aula B esattamente di fronte. – Spiegò Kiku a Gilbert, Elizabeta e Feliciano. Questi ultimi ringraziarono per l’informazione e si recarono nella direzione indicatagli insieme a Roderich e Feliks.

Il giapponese si voltò quindi verso quelli rimasti – Per noi è meglio di qua. – E indicò il lato opposto, verso il quale li invitò ad incamminarsi.

– Che lezione avreste voi adesso? – Domandò disinibito il francese mentre, continuando a camminare, si levava la giacca.

– Io adesso devo frequentare “Anglistica e Americanistica”. Voi? – Chiese Kiku.

– Ah, io avrei…aah, come si chiamava? Qualcosa come “La poetica e la narrativa di Poe nella letteratura successiva”. – Rispose il giovane biondo passandosi una mano tra i capelli.

– Oh, ho capito. Allora quando arriviamo alle scale a voi due conviene salire. – Disse Kiku affacciandosi verso l’amico inglese e Francis – Tu Arthur, hai il corso di epoca vittoriana se non sbaglio, vero? –

La domanda svegliò l’inglese dal suo torpore. Non aveva fatto molto caso a quello che avevano detto fino a quel momento.

– Mh? Ah, sì..certo. Aula venti. – Dopo aver completato la frase notò con la coda dell’occhio che il francese gli aveva lanciato un’occhiata curiosa. La cosa non lo infastidì più di tanto, pensando che un atteggiamento del genere avrebbe impressionato anche lui fosse stato nei suoi panni.

Si limitò ad abbassare lo sguardo, mentre procedevano per i corridoi.

– Comunque, devo farvi i complimenti. Parlate tutti molto bene. – Affermò Kiku sorridendo ai due ragazzi dell’Erasmus, anche se da parte della giovane Natalia si erano percepite appena poche parole durante la presentazione.

– Ahah, davvero? Merci⁽²⁾. – Rispose il francese.

Il gruppo si arrestò nel momento in cui si avvicinarono alle scale. Dovevano prendere direzioni diverse.

– Io devo raggiungere l’aula cinque. – Disse la ragazza, rivolgendosi al giapponese.

– Allora ti accompagno. È qui vicino, su questo piano. – Poi si voltò verso gli altri due – Voi invece salite per di qua, quindi..vi saluto. Se volete ci vediamo a pranzo, va bene? – E li salutò con un cenno della testa mentre si avviava lungo il corridoio con la giovane bielorussa accanto. Il francese ricambiò con un gesto della mano, mentre l’altro lo osservò allontanarsi in silenzio.

Senza neanche aspettare che il francese finisse di congedarsi cominciò a salire le scale.

– Ah, aspetta! – esclamò Francis affrettandosi sulle scale per raggiungerlo. L’inglese voltò leggermente lo sguardo verso di lui.

– Scusa. È che ho lezione. –

– Oh bé, anch’io…e a proposito, non mi ricordo quale fosse l’aula… –

– Hai detto che era il corso di Poe, giusto? – Domandò Arthur mentre iniziavano la seconda parte della rampa di scale che separava il primo dal secondo piano.

– Oui⁽³⁾. – Rispose l’altro con naturalezza mentre l’inglese gli lanciava un’occhiataccia per via del francesismo utilizzato. Non sopportava quella lingua, così come non sopportava i francesi. Ma doveva sforzarsi di mantenere un atteggiamento bendisposto; quel ragazzo era pur sempre un ospite della loro università, e se era lì una borsa di studio l’aveva vinta e pertanto meritava un minimo di rispetto. Persino da parte sua.

– Allora sei al secondo piano. Tra l’altro sono quasi sicuro che l’aula della lezione sia la G. Comunque quando arrivi su chiedi conferma a qualche altro ragazzo. –

Arrivarono a completare le scale proprio quando l’inglese concluse con le spiegazioni. Si arrestò un attimo, voltandosi a guardare il francese, ma prima che potesse dire qualcosa venne preceduto dall’altro.

– Arthur..giusto? – Domandò in tono retorico – Ci sarai anche tu più tardi? –

– Eh? – L’inglese rimase leggermente sorpreso da quell’interrogativo che non aveva niente a che fare con quello di cui avevano parlato fino a quel momento.

– ..no. Direi di no. Ho piuttosto da fare. – Rispose in tono fermo.

– Mh, capisco. – Sembrava quasi deluso dalla risposta ricevuta.

Dopo qualche attimo scrollò le spalle tirando un sospiro – Allora…ci vediamo in giro. Grazie delle dritte. – Disse lasciandolo con un cenno della mano e strizzando un occhio.

L’inglese rimase a fissarlo andare via ancora per qualche secondo, osservando la sua camminata elegante e sicura. Quindi gli voltò anch’egli le spalle e riprese a salire le altre scale che lo attendevano per raggiungere l’ultimo piano dell’edificio, cercando di non sprofondare di nuovo nei suoi pensieri solitari e di non lasciarsi distrarre dal rancore che si trascinava dietro, consumandolo di più ad ogni gradino che saliva.

 

 

Kiku diede uno sguardo al cellulare che estrasse dalla tasca dei pantaloni. Segnava le due passate. Non sarebbe sicuramente arrivato. Sospirò dentro di sé mentre osservava gli altri intorno al tavolo della mensa al quale si erano seduti ridere e scherzare come se si conoscessero da sempre. L’unica cosa spiacevole è che era proprio l’unico ad essere assente, quasi a significare fosse il solo a cui non importasse un granché di accogliere in maniera appropriata i nuovi arrivati. Forse è più impegnato del solito. Anche se..

 

 

Richiuse il libro di fronte a sé, il quale emise un suono tonfo, muovendo una certa quantità d’aria intorno, per via della pesantezza del volume. Si coprì il viso con i palmi delle mani, rilassandosi per qualche secondo. Ormai era da dopo le lezioni della mattina che era lì in biblioteca a studiare e raccogliere materiale. Diede uno sguardo all’orologio da polso: erano le cinque e mezzo. Non pensava di aver fatto così tardi.

Si stiracchiò silenziosamente, per non disturbare gli altri studenti che ancora studiavano, quindi si alzò, portando con sé i libri che aveva utilizzato e raggiunse gli scaffali dove li aveva trovati, riponendoli al loro posto. Poteva udire lo scroscio della pioggia sul tetto della biblioteca e sull’erba del giardino che circondava l’edificio, e rimase in ascolto di quel bel noto sottofondo per qualche secondo.

Sistemò meglio la tracolla sulla spalla e si diresse verso l’uscita mentre estraeva dalla tasca della giacca il cellulare. Era solito tenerlo sempre spento in biblioteca, e perciò lo riaccese per controllare eventuali messaggi o chiamate. Quando superò la porta d’uscita della biblioteca immettendosi nel grande portico gli arrivò un messaggio. Era da parte di Kiku: Francis mi ha detto che eri impegnato. Peccato! Ci vediamo domani.

Già. Il pranzo con gli altri che aveva saltato.

Sospirò internamente riponendo nella tasca il cellulare e aprendo in seguito la borsa per  estrarne l’ombrello. Accidenti, diluvia alla grande…e fa pure freddo. Pensò fra sé lamentandosi. Non riusciva a trovare quel maledetto ombrello nella borsa, quindi provò a cercarlo con maggiore attenzione, sfilandosi la tracolla. Possibile? Non riusciva a crederci neanche lui, aveva proprio lasciato l’ombrello a casa.

Certo, quella mattina, per come aveva la testa e l’umore, sarebbe stato in grado di scordarsi anche qualcosa di più importante, però..adesso si sarebbe davvero inzuppato. Gli venne una gran voglia di prendere a calci qualcosa, ma si trattenne limitandosi a sospirare profondamente con aria di rimpianto. Non che ci fossero molte altre possibilità visto che a casa doveva tornarci per forza. Stava già per levarsi la giacca, per usarla come copertura dalla pioggia, che una voce alle sue spalle gli si rivolse, scherzosa:

– Serve una mano? –

Si voltò lentamente, osservando la figura del giovane francese di quella mattina. Aveva un sorriso affabile sul viso, e anche se ancora non avevano lasciato il portico teneva in mano l’ombrello aperto allungandolo verso la sua testa, quasi a cercare di proteggerlo da tutta la pioggia che altrimenti avrebbe preso. Rispose solo dopo lunghi secondi di attesa e in tono vago.

– ..ah..no..cioè, non fa niente.. –   

L’altro si lasciò andare ad una garbata risatina divertita.

– Ehehe questo sì che è uno spettacolo insolito: un inglese senza ombrello. –

– Sì..immagino tu abbia ragione. – Rispose condividendo l’incredulità del francese davanti a un episodio del genere. Si risistemò la tracolla sulla spalla.

– Dai, ti accompagno io. – Propose l’altro avvicinandosi e concedendo all’inglese metà del suo ombrello.

– No! Voglio dire, non importa. Tu pensa ad andare, io me la caverò lo stesso. Non piove poi…così tanto. – Pronunciò l’ultima frase con un certo sconforto visto che gettando uno sguardo alla pioggia la vedeva cadere sempre più fitta.

– Ma se diluvia! – Rispose l’altro leggermente stupito dai suoi tentennamenti. – Tranquillo, non è un problema. – E così dicendo lo afferrò per un braccio, trascinandolo con sé verso il giardino dal quale avrebbero lasciato il complesso universitario.

– Ehi, a-aspe.. – Non finì neanche di lamentarsi che già si ritrovò a camminare insieme a lui sotto l’ombrello.

Fu colto da un certo senso di colpa. Non era stato esattamente gentile con lui quella mattina, eppure adesso aveva ricevuto un grande favore. In quel momento rimproverò se stesso per essere stato così maldisposto nei suoi confronti.

– …grazie. – Disse timidamente, abbassando lo sguardo.

Il francese per tutta risposta gli rivolse un ampio sorriso. – Figurati. – e continuò dopo una breve pausa:

– Abiti lontano? –

– No. Sto a due isolati dall’università. –

– Oh, perfetto! Allora ti porto fino a casa. –

– Scherzi? Va benissimo anche se mi lasci appena fuori dal complesso, il resto posso farlo da solo. – Rispose cercando di non approfittare ulteriormente della disponibilità del giovane.

Francis scosse la testa con aria disinvolta, rispondendo ironicamente.

– Se ti lascio tornare sotto la pioggia ti prenderai una polmonite. Preferisco portarti fino a casa. –

Arthur si voltò a fissarlo per qualche istante.

– Non mi va di approfittarne e poi essere in debito. –

Il francese a quella affermazione scoppiò in una sincera risata.

– Ahahah non preoccuparti! Se è quello il problema, sappi che non ti chiederò nulla in cambio. – E ammiccando gli fece l’occhiolino. L’inglese non riuscì a replicare con nulla di convincente, e quindi decise di lasciargli vincere la disputa e approfittare completamente della cortesia.

Rimasero diversi secondi, che parvero interminabili, senza parlare, mentre lasciavano ormai il complesso universitario. Fu inaspettatamente Arthur ad intraprendere una conversazione.

– Parli molto bene inglese. Sei bravo. Sono sicuro che non avrai difficoltà con le lezioni e gli esami. –

Il francese gli rivolse uno sguardo meravigliato – Oh, lo pensi davvero? Eheh, grazie mille allora. –

– È la tua prima volta a Londra? – Domandò l’inglese che era insolitamente in vena di chiacchierare.

– A dir la verità no. Mi è già capitato di venire qui…anche se non era per motivi di studio.. – Fece una breve pausa – Dove giriamo, a destra o a sinistra? – Domandò indicando col dito l’incrocio a pochi metri di distanza. – Qui a destra, poi la terza a sinistra e quindi sempre dritto. – Rispose l’altro mettendosi le mani in tasca per il freddo che si faceva più pungente. – D’accord⁽⁴⁾. –

L’inglese evitò commenti sul suo rinnovato francesismo e decise invece di continuare ad interrogare il suo nuovo compagno di corso.

– Tu e gli altri dove alloggiate? –

A quella domanda il francese rivolse lo sguardo verso l’alto, quasi si stesse concentrando per ricordare la risposta esatta. – Bé…in realtà non siamo tutti esattamente vicini..Elizabeta e Natalia condividono un appartamento vicino alla stazione con un’altra studentessa. Gilbert viene ospitato gratuitamente da un suo amico che abita in periferia, mentre io e Feliciano per adesso alloggiamo nel dormitorio universitario. –

L’inglese ascoltò con attenzione; gli appartamentini del dormitorio ai quali faceva riferimento erano probabilmente quelli con tariffe agevolate, o in certi casi addirittura gratuiti, riservati a studenti-lavoratori e borsisti.

– Aspetta, ma allora tu ti stai allungando tantissimo! Ti bastava attraversare la città universitaria ed eri già a casa! – Esclamò realizzando quanto avesse scomodato l’altro giovane.

– Aaah, ma avevo detto che non era un problema, no? Smetti di preoccuparti e fa’ piuttosto attenzione a non bagnarti. – Rispose l’altro tirandolo per un braccio più verso sé, per impedire che la pioggia che gocciava dall’ombrello lo inzuppasse sul lato esterno. – Di qua, no? – Chiese conferma.

– S-sì.. – Rispose incerto, non essendo riuscito a ribattere nulla. Rimase poi in silenzio, aspettando che il semaforo per il passaggio pedonale diventasse verde.

Il suo entusiasmo per la conversazione si era ormai affievolito e si trovava già a corto di argomenti da proporre. Osservò le incessanti gocce di pioggia colpire con violenza l’asfalto a poca distanza dai suoi piedi, per poi disperdersi in un’infinità di goccioline invisibili. Aveva visto abbastanza pioggia nella sua vita per essere quasi certo che non avrebbe smesso fino alla mattina successiva. Almeno avrebbe avuto un sottofondo di compagnia quella notte, nel caso non fosse di nuovo riuscito a dormire...per un attimo l’immagine della lettera che aveva lasciato nel cestino riapparve nella sua testa come un’insegna luminosa. Scacciò quel pensiero stringendo con forza le palpebre sugli occhi, calando per qualche secondo nell’oscurità. Avrebbe fatto i conti con se stesso e il suo risentimento più tardi, adesso voleva solo godersi quegli ultimi momenti di distrazione e vita sociale prima di ritirarsi nuovamente nel suo misero, buio e freddo appartamento. Nel momento in cui tornò con lo sguardo all’esterno il semaforo si fece verde, e i due ripresero a camminare fino a raggiungere l’altro lato del marciapiede e continuare quindi per dritto, nella direzione indicata dall’inglese.

Lungo la via si respirava un’aria balsamica di erba umida, mentre era scomparso il vociare di bambini che di solito giocavano per la strada a quell’ora della sera, e che accompagnava quasi sempre il suo rientro dall’università.

Notò con la coda dell’occhio che il francese si guardava intorno incuriosito. Poi incrociò il suo sguardo quando si voltò verso di lui. – Sembra carino qui. – Disse sorridendo.

L’inglese annuì col capo. – Sì, non è male. Se non altro è molto tranquillo. – Emise un debole sospiro, poi tirò fuori la mano destra dalla tasca dei pantaloni e col dito indicò qualcosa poco distante. – Quella lì è la mia. – Il francese cercò di seguire la traiettoria segnata dall’indicazione dell’altro, ma non riuscì a trattenere una leggera risata.

– Ahah, ho sempre pensato come facciate voi inglesi a mantenere il senso dell’orientamento con queste case assolutamente identiche tutte in fila. Non entrate mai nell’appartamento sbagliato? –

Arthur non rispose all’umorismo del francese con altrettanto spirito e gli lanciò un’altra delle sue occhiatacce. – Ma che dici? Come fai a sbagliarti? Vuoi dirmi che non riconosceresti casa tua? – E sbuffò rumorosamente lasciando intendere il suo disappunto, il quale tuttavia non sembrò intaccare il buon umore dell’altro. – Terraced House⁽⁵⁾ eh?.. – Sembrò canticchiare tra sé il francese, senza preoccuparsi delle critiche del giovane a fianco.

Arrivarono all’altezza della sua abitazione e ne salirono i pochi gradini che li separavano dall’entrata. Il francese approfittò della tettoia della porta per spostare da un lato l’ombrello, chiudendolo per metà. Quindi si voltò verso l’inglese che nel frattempo aveva estratto dalla borsa le chiavi di casa.

– Grazie. Sei stato gentile. –

L’altro sorrise. – Domani hai lezione? – Chiese con aria di aspettativa.

– ..sì. Ho due lezioni da seguire nel pomeriggio. –

– Io ho di nuovo il corso su Poe e “Storia Inglese”. –

– Anch’io ho “Storia Inglese” domani. – Rispose Arthur iniziando a giocherellare con le chiavi.

– Ah, bene. Allora ci vedremo domani insieme agli altri. –

– Suppongo di sì. – C’era stata una leggera indifferenza nel tono con cui si era espresso.

Forse l’altro non ci fece troppo caso visto che dopo un rapido sguardo riaprì completamente l’ombrello e gli diede le spalle, scendendo i gradini fino a raggiungere l’asfalto del marciapiede.

Un nuovo senso di colpa attraversò l’inglese che si era mostrato probabilmente troppo scostante nei suoi confronti, soprattutto dopo aver approfittato tanto della sua disponibilità. Cercò quindi di rimediare come poteva, ringraziandolo a gran voce, nella speranza che le sue parole lo raggiungessero oltre lo scrosciare della pioggia.

– Grazie per avermi accompagnato! Mi dispiace di averti fatto perdere tempo.. – Esitò nell’ultima parte della frase, come se l’avesse lasciata in sospeso.

Il francese si arrestò, voltandosi repentino quando gli giunse il ringraziamento dell’inglese che lo fissava dalla porta di casa. Sollevò una mano in segno di saluto.

– E’ stato divertente. E poi, adesso posso dire di sapere dove abiti. – Rispose ammiccando nuovamente, e senza aspettare una risposta da parte di Arthur, si voltò e ricominciò ad incamminarsi sotto la pioggia che, impietosa, continuava a cadere intensamente.

L’altro lo fissò allontanarsi, rimanendo con la bocca socchiusa, incerto.

Si rivolse infine alla porta di casa, infilando la chiave nella serratura. Spalancò la porta e nell’entrare si sfilò la borsa che buttò pigramente da un lato, mentre con l’altra spingeva la porta dietro di sé, per farla chiudere.

Davvero uno strano tipo…

Avanzò nell’appartamento, evitando intenzionalmente di lasciar cadere lo sguardo sul cestino posto vicino all’ingresso. Deciderò io quando meriterai la mia attenzione.. pensò tra sé, lasciandosi l’uscio di casa alle spalle.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

⁽¹⁾ acronimo di European Region Action Scheme for the Mobility of University Students, sancisce la possibilità di uno studente universitario europeo di effettuare in una università straniera un periodo di studio legalmente riconosciuto dalla propria università.

⁽²⁾ “Grazie”, in francese.

⁽³⁾ “Sì”, in francese.

⁽⁴⁾ “D’accordo”, in francese.

⁽⁵⁾ “Casa a schiera”, è una tipologia di abitazione caratterizzata dall'accostamento di più unità abitative, una a fianco dell'altra. La singola unità abitativa presenta in genere un fronte stretto per svilupparsi in profondità e in altezza su più piani. Presenta spesso un orto o un cortile retrostante e internamente una scala può portare ai piani superiori. Generalmente è una casa monofamiliare.

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Capitolo 2
*** Capitolo 2 ***


Ehilà Arthur!

Come va la vita? Qui comincia a fare un certo freddo sai? Ahahah, certo che lo sai!

Ehi, volevo dirti che quest’anno non posso venire da te durante le vacanze di Natale. Io e mio fratello abbiamo deciso di andarcene a sciare nell’Ontario. Pensa che forza! Mi ci vedi sullo skateboard?

Verrò a trovarti verso marzo, va bene? Non ti arrabbiare!

Ciao.

P.S. E non studiare troppo, che fa male alla salute!!!

Restò con lo sguardo fisso ancora qualche secondo sul foglio di carta che aveva ritirato fuori dalla busta gettata il giorno prima. Accovacciato all’ingresso, davanti al cestino delle cartacce, rileggendo per l’ennesima volta una lettera dalla quale non riusciva a staccarsi, faceva davvero pena.

Ne era consapevole, e tuttavia non riusciva proprio a comportarsi altrimenti: potevano sembrare solo poche righe, banali, scritte da un amico lontano, ma rappresentavano per lui una conseguenza ben precisa che avrebbe dovuto inevitabilmente affrontare: la solitudine.

Non che fosse una condizione nuova nella sua vita, al contrario..però erano anni che era abituato a passare quella ventina di giorni del periodo delle vacanze di Natale con Alfred. In fondo, era come un fratello per lui: erano cresciuti insieme, e anzi si sarebbe potuto dire che era stato proprio lui a crescere l’amico americano quando non era ancora in grado di badare a se stesso. Probabilmente era anche dovuto al fatto che era stato abituato, per forza di cose, a crescere molto più in fretta degli altri bambini, e a non fare affidamento sugli altri ma solo su se stesso. Da un lato questo gli aveva dato la forza e le capacità per stare accanto ad Alfred nella sua infanzia in parte sfortunata. Non era necessario ricordare quante ne avessero passate insieme, o quanto fosse stretto il loro rapporto al di là dei legami di sangue per sostenere che tenessero molto l’uno all’altro.

Eppure, nei momenti in cui Alfred gli riservava sorprese come quell’ultima lettera, persino lui veniva colto da amari dubbi. L’americano era perfettamente consapevole della sua condizione familiare, sapeva che il Natale, così come tutte le altre feste, per lui non significavano grandi rimpatriate in famiglia, piacevoli pranzi e risate coi parenti e amici. Da quando aveva iniziato l’università, a diciotto anni, e si era trasferito in quell’appartamento, aveva appositamente organizzato la sua vita in modo da non incontrare più alcuni elementi della sua famiglia. Da qui l’abitudine di dividersi tra lui e i suoi fratelli i genitori a Natale: ognuno tornava a casa quando era sicuro di non incontrare l’altro. In questo modo si riuscivano ad evitare spiacevoli tensioni, sfuriate inesorabili e gelide atmosfere. Solitamente, lui riusciva sempre ad avere posto a casa per il 24 o il 25, qualche volta condividendo la visita con il secondo dei suoi fratelli maggiori, che viveva e studiava a Cardiff. Almeno lui era quello con cui litigava meno spesso.

Si alzò da terra e ripiegò il foglio nella busta. Gli diede un’ultima occhiata prima di rigettarla nel cestino, lì da dove l’aveva tirata fuori. Si incamminò verso la cucina e poggiandosi sul tavolo con una mano si versò in un bicchiere un po’ del tè del pomeriggio precedente che era rimasto. Lo sorseggiò lentamente, mentre allungava lo sguardo sul giardino che si mostrava dalla finestra. “Non ti arrabbiare!”, era soprattutto quella la frase che riecheggiava nella sua testa. Che razza di richiesta era? Interrompere un’abitudine che si ripeteva ogni anno, consapevole che l’avrebbe lasciato solo per tutta la durata delle vacanze, per andarsi a prendere un po’ di neve in Canada? L’indifferenza implicita dell’americano gli bruciava dentro; aveva rinunciato a fargli visita così facilmente? La loro amicizia valeva dunque quanto una settimana bianca? Poggiò il tè sul tavolo, abbassando lo sguardo vitreo sul pavimento.

Perché? Perché era così dannatamente stupido e infantile?

La sua rabbia crebbe ancora di più. Era frustrante: dover ammettere di aver bisogno di una persona molto più di quanto quel qualcuno avesse bisogno di te. Odiava riconoscere di dover dipendere dagli altri, soprattutto da un punto di vista emotivo, ma Alfred era il suo amico più caro. Anzi, forse era il suo unico amico. Possibile che non capisse che una cosa del genere poteva distruggerlo? Possibile che non capisse che era solo, completamente solo, nonostante fosse chiaro come il sole?

- Non m’importa.. – Ripeteva ad alta voce, come un mantra, cercando di convincere se stesso che fosse davvero così.

Questa non te la perdono Alfred. Se ti senti davvero libero di dimenticarti di me, allora anch’io mi dimenticherò di te. E con quel pensiero in mente salì in camera sua, deciso a distrarsi con un po’ di studio, prima di lasciare l’appartamento per recarsi all’università.

- Sul serio? – Esclamò con stupore Francis. – Caspita, devi avere talento da vendere tu! –

- M-ma no! È solo, come dire, passione.. – Rispose leggermente imbarazzato Kiku.

- A dir la verità – Intervenne Roderich sistemandosi gli occhiali sul viso – Kiku è senza dubbio uno dei migliori studenti di quest’università. Se calcoliamo anche il fatto che è straniero, trovo sia sorprendente. Non è così? – Domandò retorico, cercando il consenso di Feliks al suo fianco.

- Scherzi? Cioè Kiku, sei tipo..fantastico! Io non ci sarei mai riuscito. – Rispose con sincero entusiasmo il polacco.

I quattro giovani si trovavano in un’aula vuota, aspettando la lezione di “Storia Inglese” che avrebbero avuto in comune. Dalle finestre della stanza penetrava della fievole luce solare, la quale era riuscita a farsi strada tra le nuvole scure. Erano da poco passate le due e a breve li avrebbero raggiunti anche gli altri ragazzi del corso.

- V-vi prego! Non dite così, è..imbarazzante – Disse il giapponese, arrossendo.

- Quindi sei venuto qui da Tōkyō quattro anni fa per studiare letteratura inglese? – Continuò il francese. – E’ stata dura all’inizio? – Domandò incuriosito.

Il giapponese si schiarì la voce – Beh, devo ammettere che i primi tempi è stato un po’ complicato. Conoscevo la lingua, ma giungere in un paese del tutto nuovo senza avere dei punti di riferimento può essere difficile. – fece una breve pausa, mentre tutti erano intenti ad ascoltarlo. – Però devo dire che oggi invece mi trovo davvero bene qui. Mi sono ben ambientato, e adoro il corso al quale mi sono iscritto. Ho ricevuto anche l’aiuto di molti ragazzi, soprattutto di Arthur all’inizio. –

- Ah sì? – Domandò sorpreso il francese.

- Oh, altroché. I primi giorni ero terrorizzato: sempre nascosto in fondo alle aule sia durante le pause che durante le lezioni; in una settimana non avevo fatto alcuna nuova amicizia. Devo aver suscitato una certa pena in lui, penso, vedendomi ad ogni lezione in quelle condizioni incresciose. –

- Ah, ma povero Kiku! – Esclamò il polacco.

Il giapponese strappò una leggera risata. – Purtroppo all’inizio è stato così. Però, ad una lezione, Arthur si è seduto accanto a me e ha cominciato a parlare…mi coinvolgeva nelle sue discussioni e mi faceva domande. Ricordo ancora con piacere la nostra prima chiacchierata. – Poi si voltò verso Roderich e Feliks e li indicò col dito, sorridendo. – E pochi giorni dopo mi ha presentato ai suoi amici. –

Francis ascoltava con grande attenzione le parole di Kiku. Erano così sincere.

La sua concentrazione fu tuttavia interrotta da una mano che gli si poggiò sulla spalla con grande energia.

- Ehilà! – esclamò con entusiasmo Gilbert, affiancato dall’italiano.

- Ahah, ehilà a voi! – Rispose scherzosamente Francis – Siete arrivati. –

Anche gli altri ragazzi salutarono i due che si erano uniti al gruppo.

- Nell’aula di “Storia Inglese” ci sono Arthur, Natalia ed Elizabeta. Li raggiungiamo? Tanto tra poco inizia la lezione. – Propose l’italiano.

- Certo. – Annuì l’austriaco.

Il gruppo lasciò silenziosamente l’aula libera e si diresse in quella dove avrebbero seguito la lezione imminente. La stanza, piena per più della metà, era spaziosa e luminosa e, nonostante i numerosi studenti, non fu difficile individuare i loro compagni. I giovani si salutarono tra loro e Kiku fu particolarmente sbrigativo nel raggiungere il suo amico inglese, seduto a sistemare i suoi appunti.

- Come va oggi? – Domandò piuttosto diretto.

L’inglese, alzando lo sguardo verso di lui, rispose sereno – Bene. Tu? –

- Sei sicuro? – Domandò nuovamente l’altro, quasi non avesse fatto caso alla risposta. Il giapponese gli si avvicinò maggiormente, bisbigliando – So che non eri in forma ieri…non ti chiederei mai il perché a meno che non sia tu a volerne parlare, però.. – Esitò per un istante – Stai bene davvero? – Gli domandò con tono apprensivo.

Nonostante l’espressione contrita dell’amico, Arthur provò un certo conforto nel vederlo preoccupato per lui. Per lo meno questo diminuiva il suo senso di scoramento. Gli poggiò delicatamente una mano sulla schiena, persuaso del fatto che cercare di nascondere il suo vero umore probabilmente avrebbe finito solo col peggiorare le cose. – Sto meglio adesso. Grazie per essertene preoccupato. – Rispose concedendogli un piccolo sorriso. Il giapponese sembrò sollevato.

Dopo che ebbe concluso di parlare con Kiku, l’inglese rivolse lo sguardo anche agli altri ragazzi che occupavano la fila, per salutali. Incrociato lo sguardo col francese ricevette un cenno amichevole con la mano, che ricambiò. Proprio in quel momento fece il suo ingresso in aula il professore. Tutti, da quel momento in poi, furono impegnati ad ascoltare la spiegazione e a prendere appunti.

 

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- Arthur…sei davvero sicuro? –

Sua madre era appoggiata allo stipite della porta con le braccia incrociate e un’espressione apprensiva.

- Non sei obbligato a farlo.. – Fece qualche passo dentro la stanza del figlio. – Possiamo provare a trovare un’altra soluzione. –

Il ragazzo era seduto sul bordo del letto, con una grande valigia aperta ai suoi piedi che si impegnava a riempire. Senza fermarsi o girarsi a guardarla rispose inflessibile. – Mi dispiace mamma. Ormai ho deciso. In fondo sai anche tu che è la cosa migliore. –

La giovane madre si portò una mano sul petto, quasi a cercare di trattenere un tuffo al cuore. Anche il più piccolo dei suoi figli avrebbe lasciato casa, la loro casa. Il senso di colpa l’aveva consumata: non era proprio riuscita a far sì che i suoi figli potessero convivere sotto lo stesso tetto, condividendo il calore e la complicità di una vera famiglia. Questo la feriva e la rendeva un fallimento come madre, ne era certa.

Calò un lunghissimo silenzio nella stanza, quasi spettrale. Arthur interruppe la sistemazione della valigia e poggiò le mani sulle ginocchia, volgendosi verso sua madre. Sembrava così affranta, e la sua figura esile amplificava l’idea di fragilità che le aveva sempre attribuito. Sapeva di infliggerle un grande dolore, ma non poteva fare altrimenti: si trattava della sua vita.

- Non è colpa tua mamma. – Disse guardandola intensamente. La sua voce era spezzata. Un nodo alla gola gli impedì di aggiungere altro. Abbassò lo sguardo vergognandosi tutt’a un tratto di incrociare i suoi occhi, mentre le mani cominciavano a tremargli.

Sentì improvvisamente una calda stretta avvolgerlo con forza e riconobbe sua madre, seduta sul letto accanto a lui, che lo stringeva a sé, scossa dai singhiozzi che cercava di soffocare. Avvolse a sua volta il corpo della donna tra le braccia. Col viso nascosto sul suo seno non riuscì a trattenere le lacrime che caddero copiose sul suo viso.

- Mi dispiace…mi dispiace.. – Ripeteva con voce insicura. – ..non piangere. –

La madre gli accarezzò i capelli con dolcezza, nel tentativo di confortarlo. Era ancora così vulnerabile. In fondo, era poco più di un bambino. Lo strinse più forte quando la assalì un cieco terrore all’idea di lasciarlo andare, di permettere che gli scivolasse dalle mani come era successo con i suoi figli maggiori.

- Ti voglio bene Arthur. – Riuscì a sussurrargli tra i singhiozzi.

Il ragazzo rimase rannicchiato tra le sue braccia, respirando il suo buon profumo e osservando le sottili ciocche che sporgevano dall’acconciatura che le raggruppava i capelli sulla nuca.

Si sentiva miserabile.

La sua vita lo era. Allontanarsi da quella casa e dalla sua vita vissuta fino a quel momento rappresentavano l’unica soluzione per tentare di dare una svolta alla sua esistenza. L’università era l’occasione perfetta: gli offriva il pretesto per vivere lontano da lì, e lo studio, inoltre, sarebbe stato una perfetta distrazione. Per qualche istante nella sua mente gli sembrò che quella potesse essere la felicità. La condizione più agognata, che tutti rincorrono senza sosta, probabilmente la maggiore aspirazione di una vita intera. Tutto gli sembrò così vicino e raggiungibile.

L’unica amarezza che restava era quella di lasciare i suoi genitori, gli unici di quella famiglia che davvero amasse, e gli unici che l’avessero mai amato. In realtà, aveva sempre voluto bene anche a tutti i suoi fratelli: ai gemelli⁽¹⁾, a William⁽²⁾ e Barclay⁽³⁾. Sfortunatamente loro si erano sempre dimostrati piuttosto freddi nei suoi confronti, se non addirittura ostili. All’inizio se ne rammaricava profondamente, dandosi sempre la colpa, pensando che fosse lui ad irritarli e a sbagliare nel modo di porsi. Crescendo però aveva capito che non poteva dipendere tutto da lui: la responsabilità dei loro pessimi rapporti era anche, o meglio in gran parte, loro. Perciò aveva cominciato a curarsi meno dei loro apprezzamenti e commenti, delle loro azioni e infine anche della loro presenza. Fin quando smise di curarsene del tutto.

A uno a uno finirono col lasciare casa: dapprima Barclay, il maggiore dei cinque, si trasferì a Glasgow e poco dopo trovò un lavoro a Edimburgo, intraprendendo la vita del pendolare. Un anno dopo toccò a William che andò a studiare a Cardiff. Quando fu lui a completare il liceo e a prepararsi per l’università decise che non avrebbe voluto rimanere oltre in quella casa. Lui e i gemelli erano gli ultimi rimasti a vivere assieme ai genitori.

Quel fluire di pensieri fu interrotto dalla calde mani della madre che gli sollevarono amorevolmente il viso. Lo fissò con gli occhi lucidi e gli disse con un filo di voce: – Va’ da tuo padre. –

E subito dopo si avvicinò al figlio per baciarlo sulla guancia, stringendolo ancora a lungo.

 

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- Chi vuole una birra? – Domandò a gran voce Feliks, trotterellando fuori dall’aula.

Il resto del gruppo reagì con entusiasmo. – Io volentieri! Ho proprio voglia di bere qualcosa! – Rispose Elizabeta afferrando l’amica Natalia per un braccio. – Ah, ok. – La bielorussa fu più lapidaria, come suo solito. Kiku si voltò con uno sguardo che non ammetteva repliche verso l’inglese. – Tu verrai. –

L’altro non declinò l’offerta e annuì con il capo.

In pochi minuti si ritrovarono tutti in gruppo a lasciare l’università dirigendosi verso il locale più vicino per un aperitivo tra amici. Il locale al quale giunsero era a fianco all’università ed era particolarmente frequentato dagli studenti. Si sedettero ad un largo tavolo circondato da alcuni divanetti e un ragazzo venne subito per prendere le ordinazioni: birre, qualche coca-cola, stuzzichini da bar…l’atmosfera era perfetta per concludere la giornata allegramente.

Fu Feliks a proporre per primo un argomento sul quale confrontarsi, spinto da una forte curiosità:

-Ehi, Francis! Perché non ci parli un po’ della Francia? Come si vive lì da voi? E Parigi? È davvero la città degli innamorati? – Chiese senza neanche riprende fiato il polacco, tamburellando le dita sul tavolo.

Il francese rise divertito – Ahah, ma certo! Adoro il mio paese e trovo ci si viva splendidamente; e Parigi, beh, penso sia senza ombra di dubbio una delle città più belle al mondo – Si sfilò dal polso un elastico e cominciò a legarsi i capelli – E, ovviamente, è la città di tutti gli innamorati. Se hai una fidanzata o qualcuno a cui tieni dovresti assolutamente portarlo almeno un weekend a Parigi. È pieno di posti dove…coronare il proprio sogno d’amore – Rispose alzando leggermente un sopracciglio, malizioso.

Gli altri ragazzi sembravano divertiti dai discorsi del francese. Roderich invece rimase indifferente, mentre all’inglese venne voglia di tirargli il portacenere in mezzo agli occhi. Che bisogno c’era di sghignazzare a quel modo? E soprattutto, chi aveva deciso che Parigi fosse la città degli innamorati? Da come l’aveva introdotta sembrava semplicemente una città piena di volgari bordelli. Sospirò profondamente, senza nascondere il suo disappunto; aveva ragione a confermare la propria opinione sui francesi: solo gente egocentrica, con una scarsa attitudine al pudore e all’igiene, pronta ad accoppiarsi col primo individuo che avessero ritenuto interessante.

- Che schifo.. – Non riuscì a trattenere un commento.

- Mh? Cosa? – Si voltò Kiku verso di lui. Scosse il capo, non volendo dare spiegazioni che magari avrebbero potuto rovinare quell’atmosfera piacevole e rilassata. Il giovane di prima arrivò con le ordinazioni e i ragazzi cominciarono a consumare le loro bevande. Il francese tuttavia aveva sentito il commento dell’inglese e non riuscì a resistere alla tentazione di stuzzicarlo. Dopo aver sorseggiato un po’ della sua birra riprese il suo discorso. – E voi invece? Che attrazioni avete per gli innamorati? – Domandò in tono vago, rivolgendosi ai ragazzi che abitavano a Londra. Feliks inclinò la testa da un lato. – Mah, niente di particolare..è pieno di posti qualunque come sale da ballo, ristoranti chic dove festeggiare un anniversario e banalità di quel genere. Raccontami di qualche luogo per innamorati particolare! – Lo esortò il polacco, incuriosito.

- Oh, oui⁽⁴⁾. Ne abbiamo moltissimi, sai? – Sorrise soddisfatto. – “Le Square du Vert Galant”⁽⁵⁾, l’avete mai sentito? È uno dei miei preferiti, si trova a l’Île de la Cité⁽⁶⁾. Ma non è il solo luogo romantico, posso consigliarvi una marea di vicoletti dove appartarvi, come ad esempio “Le passage des soupirs”⁽⁷⁾.. –

- Wow, sembra davvero poetico. – Sospirò Elizabeta, catturata da quei discorsi.

- Mia cara.. – Gli si rivolse Francis. – Puoi venire a farmi visita quando vuoi. Sarò felice di farti da guida e cavaliere. – Rispose con un occhiolino ammiccante e una voce sensuale.

- A descriverla così sembrerebbe tutta rosa e fiori la tua Parigi.. – Intervenne improvvisamente Arthur, mentre si portava alla bocca la sua birra, con tono di sfida.

Un ghigno comparve sul volto del francese. – Ogni città ha i suoi difetti, credo…bisogna solo capire se sono peggiori rispetto, non so, ad altre città.. – E gli lanciò uno sguardo sprezzante. L’inglese si sentì provocare da quegli occhi e da quel tono e rispose riponendo con energia la birra sul tavolo.

- E’ un elemento di orgoglio avere tanti posti che ti ostini a chiamare “romantici” quando poi servono solo a pomiciare volgarmente per strada? Porcate simili dovrebbero suscitare attrattiva? – Domandò con un certo impeto. I presenti si voltarono turbati verso l’inglese.

- Arthur, stiamo solo chiacchierando. – Cercò di calmarlo Kiku.

- Anch’io. – Affermò deciso senza distogliere lo sguardo dal francese. – Sto solo dicendo quello che penso. Se ha la lingua può sempre ribattere. –

Roderich si schiarì la voce, cercando di convincere l’inglese a tornare in uno stato di quiete. L’italiano d’altro canto, trovandosi a fianco di Francis, gli si avvicinò per cercare di dissuaderlo a lasciar perdere, ma prima che potesse sussurrargli qualcosa il giovane biondo riprese la parola. – Mh, direi di sì. Visto che la tua Londra è stata classificata l’anno scorso come la città più sporca d’Europa penso di poter considerare a prescindere la mia Parigi decisamente più “romantica” della capitale del roast-beef⁽⁸⁾. – Rispose sicuro il francese, provocando la risata soddisfatta di Gilbert, il quale sembrava essere l’unico a godersi lo spettacolo.

Arthur si sentì ribollire.

- Non è così sporca! – Disse alzando la voce. – Hai mai visto New York, eh?!

Kiku poggiò una mano sulla spalla dell’amico per cercare di calmarlo, ma non ebbe grande effetto.

- Mah, può darsi. Eppure il sondaggio classificava Londra non solo come la città più sporca, ma anche come quella più cara, con il cibo peggiore e che ospita le persone peggio vestite..⁽⁹⁾ –

- Queste sono offese gratuite razza di rospo⁽¹⁰⁾ mangia-lumache! – Inveì, tentando addirittura di alzarsi per mettergli le mani al collo. Il giapponese lo trattenne prontamente.

- Ehi, insomma! Ma che fate, tutti e due? Stavamo solo chiacchierando, non c’è bisogno di arrabbiarsi! –

- Sono d’accordo. Perché scadere nell’offesa incivile? – Aggiunse Roderich allungando una mano verso la spalla di Arthur per impedirgli gesti avventati.

- Ma che meraviglia…due teste calde che esplodono.. – Commentò indifferente Natalia osservando la scena.

Feliciano si avvicinò al francese – Francis! Perché ti comporti così? Non è carino quello che hai detto. – Lo rimproverò l’italiano.

L’atmosfera rimase per qualche minuto tesa: Arthur lanciava occhiate cariche di sprezzo al francese, il quale tuttavia si limitava ad osservarlo divertito, sicuro della sua superiorità. Quell’atteggiamento lo faceva infuriare, e confermava tra l’altro le sue convinzioni su quel maledetto popolo: tutti con la puzza sotto al naso, innamorati del loro ego, arroganti e superbi. Altro che luoghi comuni! Anche quel francese alla fine si era dimostrato uno stronzo come quelli che aveva incontrato in passato. Probabilmente anche l’altro pensava lo stesso di lui, ma non gli importava minimamente.

Dopo aver smorzato la tensione alcuni ripresero a chiacchierare per cercar di far distogliere l’attenzione dallo spiacevole accaduto. Paradossalmente, l’unico che sembrava del tutto a suo agio era proprio Francis: continuava a mostrare il suo sorriso affascinante come se non fosse successo nulla, perfettamente rilassato. In realtà aveva stuzzicato di proposito l’inglese, e gli era piaciuto. Osservare il suo viso accigliato e il suo orgoglio britannico ferito era uno spettacolo appagante. Non che lo facesse con cattiveria. Semplicemente, lo divertiva.

- Insomma, ma che hai? – Gli sussurrò all’orecchio Kiku.

L’inglese non rispose subito. Continuò per qualche secondo a guardare la birra di fronte a sé che aveva finito di bere, poi scrollò le spalle. – Scusa…è che in questi giorni sono suscettibile. – Fece attenzione a non farsi sentire dal francese. – Forse dovresti riposare un po’. Approfitta del weekend per staccare la spina..o se preferisci invece potremmo uscire, andare a fare un giro da qualche parte.. – Il giapponese cercava in tutti i modi di venire incontro all’amico. La disponibilità era una delle caratteristiche che più ammirava di Kiku. – Ti ringrazio, ma penso che mi aiuterebbe di più riposare..stare un po’ in pace. –

L’altro annuì. – Capisco. Se ti servisse qualcosa o cambiassi idea, sai che puoi chiamarmi. – Rispose appoggiandogli una mano sulla nuca, in un gesto affettuoso.

È una persecuzione. Una fottuta persecuzione. Già mi bastava quell’idiota di Alfred, adesso devo esasperarmi anche con infido cazzone francese. Pensava tra sé mentre rimaneva in silenzio, avendo perso la voglia di unirsi alle conversazioni degli altri. Rimase lì seduto a giocherellare col cellulare che aveva tirato fuori dalla tasca della giacca, con un certo cipiglio stampato sul viso.

- A lunedì allora! – Salutò il polacco, agitando la mano mentre si allontanava con Roderich, Arthur e Kiku. Il giapponese si inchinò gentilmente nel salutare il resto del gruppo, e l’austriaco fece altrettanto. L’unico che non degnò gli altri ragazzi neanche di uno sguardo fu l’inglese: si era posto alla testa del gruppo che si incamminava verso casa, con le mani in tasca, ancora risentito dal diverbio col francese.

Elizabeta e Natalia si incamminarono verso la stazione, mentre Feliciano, Francis e Gilbert restarono in gruppo, condividendo un pezzo di strada assieme.

- Beh, almeno qui la birra è buona eheheh – Ridacchiò allegro il tedesco.

- Mmh, sì..non male.. – Rispose distrattamente il francese.

- Francis.. – Lo chiamò l’italiano. – Non devi litigare con gli altri ragazzi del corso. –

- Ahahah! Figurati, questo con gli inglesi c’attacca troppo briga! – Continuava a ridacchiare Gilbert.

– Dovresti arrenderti al fatto che passerai qui un anno intero, sai? Armati di sopportazione! –

- Non è quello. Non avevo intenzione di litigare. – Si giustificò Francis.

L’italiano si aggrappò al braccio del biondo, stringendolo. – Francis non è cattivo, quindi non deve litigare con nessuno, va bene? – Disse bonario. – Aah, ma come sei carino Feli! – Rispose l’altro avvicinandosi a l’italiano per lasciargli un piccolo bacio sulla testa.

Il tedesco dovette sentirsi messo da parte visto che afferrò con gran forza l’altro braccio del francese, stringendolo a sé. – E’ che ti piace far casino, vero Francis? – Domandò retorico.

- Parbleu!⁽¹¹⁾ No, no, no. – Rispose stupito dal commento dell’amico. – Non mi piace litigare, a meno che la disputa non porti a qualche sviluppo interessante – Fece una pausa. – Sapete qual è il modo per litigare meno tra due amanti? – Domandò baldanzoso.

- Ma che c’entra adesso, Francis? – Chiese l’italiano, confuso.

Il francese non si preoccupò di dare spiegazioni e cominciò con un altro dei suoi discorsi “amorosi”.

- Sesso. – Disse scandendo lentamente le sillabe. – Sapete che in una coppia più sesso si fa più si rafforza il legame tra i due? È provato da un punto di vista chimico. –

L’italiano sorrise, mentre il tedesco rimase con un’espressione amara sul viso. – Stronzate. Non può essere vero in assoluto. – Ribatté.

– Ma sì ti dico. È come entrare in confidenza con una persona: è normale che più la frequenti più ti troverai a tuo agio con lei, finché magari non arriverai a considerarla un’amicizia importante. Così è anche col sesso in una coppia: più si fa sesso, più si entra in confidenza, e diminuiscono quindi le possibilità di scontro o di separazione. –

- Ma è una cazzata! – Si lamentò Gilbert, per niente persuaso dai ragionamenti del francese.

- Vuoi provare? – Domandò allusivo Francis, piegando il labbro in un sorriso malizioso.

- Ahah, no grazie. So che saresti disponibile ma declino l’offerta. – Rispose ironicamente l’altro. Il francese rispose con un’espressione inappagata sul viso. – Peccato – Sospirò. – Avremmo potuto approfondire il nostro rapporto e..godere di innumerevoli notti di piacere. –

- Francis.. – Lo richiamò l’italiano cercando di farlo desistere da quei discorsi imbarazzanti.

- Ahaha ok, ok ragazzi. – Allargò le braccia intorno ai due compagni ai lati, stringendoli a sé in un abbraccio, mentre continuavano a camminare. – Sapete che ancora non ho battezzato il mio arrivo in questa città? – Domandò alzando lo sguardo al cielo scuro.

- Ah sì? Io mi aspettavo che ti accoppiassi subito con la signora del dormitorio! – Rispose Gilbert scoppiando in una risata, seguito a ruota anche dall’italiano.

- Ma no, non sono così indecente. – Commentò il francese con un filo di autoironia. – In questo weekend mi darò da fare..vorrei trovare almeno un ragazzo e una ragazza con cui passare qualche ora. – Riportò lo sguardo verso i suoi amici. – Che dite? Due in un weekend ce la posso fare? –

Il tedesco gli diede una pacca amichevole sulla schiena, quasi fosse un incoraggiamento. – Ma sì. Uno affascinante come te ce la può fare. –

- Aaah che gentile sei, merci⁽¹²⁾. – Disse regalando anche a lui un bacio di ringraziamento che gli stampò su una guancia. I tre continuarono a scherzare tra loro, camminando lungo la strada. Poco dopo Gilbert li lasciò per proseguire in un’altra direzione che l’avrebbe portato in periferia, dove abitava col suo amico. Francis e Feliciano rientrarono invece nella città universitaria, dirigendosi verso il dormitorio. Passarono un’allegra serata insieme, giocando a carte e guardando stupidi programmi alla tv.

Quando Feliciano lasciò la camera, il francese decise di mettersi a riposare: si infilò sotto le coperte pensando, tutto eccitato, che lo avrebbe atteso un weekend intenso e impegnativo, che gli avrebbe sicuramente regalato molte soddisfazioni.

 

 

⁽¹⁾ I gemelli sono Irlanda e Irlanda del Nord.

⁽²⁾ Sarebbe Galles. Il nome William l’ho scelto io in base al fatto che è uno dei più popolari nel Galles (http://www.nomix.it/top100uk2007.php ).

⁽³⁾ Sarebbe Scozia. Come personaggio, Scozia è stato ideato dalle fan su Pixiv così come il suo nome, Barclay.

(http://www.pixiv.net/search.php?word=%E3%81%AD%E3%81%A4%E9%80%A0%E7%B4%B3%E5%A3%AB&s_mode=s_tag

http://www.pixiv.net/tags.php?tag=%E3%82%B9%E3%82%B3%E5%85%84

http://www.pixiv.net/tags.php?tag=%E3%82%AB%E3%83%BC%E3%82%AF%E3%83%A9%E3%83%B3%E3%83%89%E4%B8%80%E6%97%8F )

⁽⁴⁾ “Sì”, in francese.

⁽⁵⁾ Uno dei più gettonati luoghi romantici parigini (http://www.jeanmauro.com/guida-parigi/?p=79 )

⁽⁶⁾ E’ una delle due isole fluviali della Senna.

⁽⁷⁾ Una famosa strada pedonale parigina dall’atmosfera romantica (http://www.jeanmauro.com/guida-parigi/?p=79 )

⁽⁸⁾ I francesi sono soliti riferirsi agli inglesi col termine roast-beef (“les rosbifs”) in senso ironico o talvolta dispregiativo.

⁽⁹⁾ Non l’ho inventato: http://www.wuz.it/news/83066/turismo-londra-sporca.html

http://mytech.it/flash/2009/05/04/parigi-sopravvalutata-e-londra-sporca-dice-sondagg/

⁽¹⁰⁾ Così come i francesi chiamano gli inglesi “les rosbifs”, gli inglesi chiamano i francesi “frog” in base al fatto che le zampe di rospo sono un piatto francese.

http://wiki.answers.com/Q/Why_are_french_people_called_frogs

http://news.bbc.co.uk/2/hi/2913151.stm

⁽¹¹⁾ Esclamazione che indica stupore. “Perbacco!”/”Oddio!”, in francese.

⁽¹²⁾ “Grazie”, in francese.

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Capitolo 3
*** Capitolo 3 ***


- Allô?⁽¹⁾–

La sua voce risuonava calda nella cornetta del telefono. Gli sembrava quasi di poter distinguere il suo buon profumo. – Maman, c’est moi.⁽²⁾ – Rispose Francis mentre apriva le tende della sua stanza, facendo entrare della tiepida luce mattutina.

- Ah, Francis! – Esclamò di gioia. – Come stai tesoro? L’università come procede? Mangi abbastanza? Oddio, lì la cucina sarà pessima..vuoi che ti mandi qualcosa? – Cominciò a domandare a raffica la madre, così come capita a molti genitori in pena per i propri figli lontani.

- Ahah, mi piacerebbe maman⁽³⁾ ma non voglio farti spendere soldi in spedizioni troppo care. – Fece una pausa, mentre osservava fuori dalla finestra. – Qui tutto bene: L’università è bella, i corsi e i professori sembrano ottimi ma…preferirei sapere come stai tu. – Domandò con affetto.

La madre sorrise dall’altro capo del telefono. – Trésor⁽⁴⁾..ma io sto bene. Non devi preoccuparti. –

- Che facevi? –

- In realtà mi ero alzata da poco. Ieri sera sono uscita con le amiche. –

- Ooh, fantastico! Ti sei divertita? – Chiese incuriosito. – Molto. Siamo state al cinema, al pub, e infine a ballare – Concluse con una piccola risata. – Aah, mi sembra proprio uno splendido modo di affrontare la domenica sera. Mi raccomando a non dare mai confidenza a tipi strani. – Rispose Francis con tono protettivo, quasi fosse lui il genitore. In effetti, sua madre era ancora molto giovane e, soprattutto, bellissima. Visto che poi era single doveva far bene attenzione a quali fossero i pretendenti che le si avvicinassero: non poteva permettere di concedere la sua preziosa mamma a tipi loschi, incapaci di tenere a freno gli ormoni.

- Bien sûr, mon petit.⁽⁵⁾ – Rispose dolcemente. Adorava quando le faceva da cavaliere. Per quanti uomini potesse frequentare, amava suo figlio sopra ogni altro; e questo non sarebbe cambiato nemmeno fosse riuscita ad accasarsi. – Anche tu hai passato un piacevole weekend? –

A quella domanda il giovane si voltò d’istinto verso il suo letto, del tutto sfatto, nel quale fino a mezz’ora prima si trovava la seconda delle sue “prede” del weekend: uno splendido giovane conosciuto in un vivace locale che era riuscito a portarsi a letto in meno di tre ore.

- Sì. – Rispose esitando leggermente, mentre ricordava le follie di quella notte. – Direi di sì. – Un sorriso malizioso si dipinse sul suo volto. – Mi fa piacere. Invece, dimmi, come ti trovi coi ragazzi dell’università? – Domandò curiosa la madre. – Molto bene, sono tutti simpatici e disponib- – Si arrestò improvvisamente ripensando al battibecco scoppiato con Arthur al pub, venerdì. Trattenne una risata. – Ma sì, in fondo mi trovo bene con loro. –

- Beh, questa è la cosa più importante. Sai che puoi tornare quando vuoi per qualsiasi motivo, vero? Se le cose non dovessero andar bene lascia perdere l’Erasmus, mi preme di più la tua salute e serenità. –

- Non preoccuparti mamma. Va tutto bene, davvero. – Le rispose con tono rassicurante.

- E allora perché mi chiami così spesso, Francis? – Domandò ironica, ridendo. – E’ la quarta volta che ci sentiamo da quando sei arrivato mercoledì scorso. –

- Ma io non posso stare troppo tempo senza sentire la mia adorata mamma. – Disse amorevole.

- Aaah, mon trésor⁽⁶⁾! Se fossi lì ti bacerei. –

- Ahahah, anch’io maman⁽⁷⁾! Allora adesso ti lascio. Riposati per bene prima di andare a lavoro. E prenditi cura di te, mi raccomando. – Le disse apprensivo.

- Oui⁽⁸⁾ Francis. Anche tu fa’ il bravo, mi raccomando. Ti voglio bene. –

- Moi aussi.⁽⁹⁾ – Fece una pausa. – Ti richiamo io. A presto. –

Allontanò il telefono dall’orecchio, distendendo il braccio lungo il fianco. Per la prima volta da quando era arrivato a Londra la giornata sembrava buona. Il cielo si stava aprendo e il sole si faceva strada tra le nuvole. Osservò per qualche lungo istante il paesaggio di fronte a lui, quindi si voltò dando le spalle alla finestra e ricontemplò invece quello spettacolo certamente meno idilliaco del suo letto.

Come si era ripromesso, e come in fondo aveva scommesso con se stesso, sabato era stato impegnato alla ricerca di una giovane e affascinante fanciulla con cui potesse spendere una piacevole serata, e in effetti non era stato molto difficile trovarla. Anzi, si poteva dire che fosse stata proprio lei a fare il primo passo, probabilmente attratta dal suo fascino. Dopo una lunghissima ed estremamente piacevole chiacchierata in un bar e dopo una breve passeggiata per Regents Park era riuscito a farsi proporre di salire a casa sua. A volte la sua infallibilità lo stupiva seriamente.

Dopo una magnifica nottata di sesso sopraffino aveva anche ricevuto in dono un’ottima colazione e una marea di attenzioni e tenerezze da parte di quella meravigliosa creatura. Quando glielo chiese, le lasciò molto volentieri il suo numero. Una simile bellezza meritava di essere riscoperta molte altre volte ancora. Ne era rimasto estremamente appagato. Persino Londra poteva regalargli simili soddisfazioni; era solo questione di saper cercare e porsi nel modo giusto. Ma in questo, nessuno poteva più insegnargli niente: ormai era un maestro della seduzione, e ne andava orgoglioso.

Ma il suo weekend dei divertimenti non era ancora concluso: si era ripromesso di riuscire ad incontrare sia una ragazza che un ragazzo in quei due giorni, e così avrebbe fatto. Dopo una giornata spesa in altri dilettevoli piaceri quali un po’ di shopping e tour per la città, la sera si dedicò alla sua missione: si diresse sicuro ad un locale a metà tra il pub e le luci rosse, dove sapeva di avere più possibilità di incontrare qualcuno di interessante, e soprattutto disponibile. Tanto per non smentire se stesso e il suo carisma francese, impiegò meno di tre ore per conoscere un ragazzo interessante e interessato, chiacchierare un po’ e portarselo nel dormitorio per consumare una notte all’insegna del piacere più dissoluto. Come da copione, si guadagnò anche il suo numero. In cinque giorni aveva già conquistato due persone sulle quali far riferimento nelle serate più solitarie. Era grandemente soddisfatto.

Si grattò la nuca mentre, vestito di soli boxer, osservava ancora il letto di fronte a sé. A dire il vero nel divertirsi aveva anche infranto una regola del dormitorio, che vietava di ospitare terze persone nella propria stanza per la notte, ma questo non lo preoccupava minimamente. Gettò con noncuranza il portatile sulle lenzuola, dirigendosi verso il bagno per farsi una bella doccia rinfrescante. Nella tarda mattinata sarebbe tornato all’università e non vedeva l’ora di raccontare a Gilbert delle sue “gesta”. Sarebbe stato divertente.

- Pronto? –

- Ah, Arthur ciao. Mi dispiace disturbarti… -

- Ciao Kiku. Figurati, non mi disturbi affatto. – Disse tenendosi il cellulare tra la spalla e la guancia, mentre era impegnato a indossare i guanti di plastica del reparto frutta e verdura.

- Meno male. Volevo dirti che mi hanno spostato una visita medica ad oggi pomeriggio e quindi non potrò esserci a lezione. – Disse dispiaciuto.

- Oh, capisco. – Cominciò a scegliere le mele migliori fra quelle nella cassa davanti a sé. – Stai male? – Domandò con un filo di apprensione. – No, no. È solo una normale visita di controllo. Ti ringrazio. Allora, ti lascio alle tue cose. Ci vediamo giovedì. –

- Stammi bene. Ciao. – Riprese il telefono nella mano e attaccò. Sistematolo nella tasca della giacca riprese a fare la spesa di cui aveva bisogno. La mattina era il momento migliore per andare a fare rifornimenti: merce fresca e poca gente.

Prese le poche cose che si era segnato da comprare e uscì dal supermercato. Finalmente sembrava una bella giornata. Attraversò l’isolato che lo separava da casa sua e, rientrato, si occupò di sistemare la spesa. Ebbe anche il tempo di accendere il suo portatile per controllare la sua casella di posta: niente di interessante, solo pubblicità e un paio di notifiche dal forum degli studenti. Si stiracchiò sulla sedia, annoiato. Poco dopo avrebbe avuto un paio d’ore di lezione di “Storia della Letteratura” e, anche se in anticipo, decise di uscire, non avendo di meglio da fare. Spense il portatile, si mise la borsa sulla spalla e chiuse casa, dirigendosi verso la città universitaria.

- Francis! P-perché me lo racconti?! – Esclamò a gran voce Feliciano, rosso in volto.

- Sssh, così farai spaventare i ragazzi accanto. – Fece il francese poggiando una mano davanti alla bocca dell’amico. Un sorriso si fece strada sul suo volto. – Non pensavo potesse tanto imbarazzarti ahah. – Disse, ridendo divertito e lasciando la presa sull’italiano. L’altro riprese fiato, cercando di ricomporsi.

- N-non..è che..insomma, ragazze sì ma..poi..non… – Rispose balbettando, non sapendo bene come spiegarsi. – E’ che..non sono abituato a sentire di storie con…ragazzi..- Riuscì a completare una frase sensata, mentre il francese lo fissava con aria deliziata. – Aha, Feli. – Disse con un tono caldo, mentre con la mano accarezzava la guancia dell’altro. – Que jolie.⁽¹⁰⁾ – Continuò avvicinandosi pericolosamente all’italiano.

Feliciano poggiò le mani sul petto del francese, arrestandone l’avanzata. – F-Francis..forse..d-dovresti raccontarmi meglio di questa tua avventura, no? – Domandò arrossendo, cercando di distrarre il biondo.

- Oh? Allora vuoi che ti racconti? – Esclamò con sorpresa Francis. – Mi fa piacere! –

Si allontanò dall’italiano e si lasciò cadere sul letto. – Sai, è stato davvero piacevole stanotte: lui era proprio un Adone, ed è stato così eccitante! Non mi ricordavo che gli inglesi fossero così appassionati! E poi quando abbiam- – Venne interrotto improvvisamente. – N-no! Non devi raccontarmi proprio tutto! – Lo pregò l’amico, terrorizzato all’idea di farsi descrivere nel dettaglio le sue attività sessuali notturne. – Sono molto, molto felice che tu ti sia divertito questo weekend, davvero! – Riprese fiato, ancora turbato. – Il mio in confronto ti sembrerà essere stato una gran noia.. –

Il francese si tirò su, facendo leva sulle braccia e concentrandosi sulla figura del compagno in piedi di fronte a sé. – Ma no, perché mai? Cos’hai fatto di bello tu? –

- Ah, beh ecco..sono stato in una galleria d’arte, ho fatto della spesa, ho comprato qualche souvenir e..ho sentito mio fratello. – Il francese sorrise sincero. – E ti lamenti mon cher⁽¹¹⁾? Hai svolto delle splendide attività. – L’italiano gli sorrise, rincuorato anche dal fatto che sembrava aver esaurito la sua tempesta ormonale. Si avvicinò all’amico e gli si sedette a fianco. – Dovremmo organizzare un’uscita tutti insieme in questi giorni. Sarebbe carino. – Propose mentre alzava lo sguardo verso il soffitto.

- Ma certo! Sarebbe una fantastica idea. – Rispose mentre era intento ad osservare la camera di Feliciano: non sembrava un tipo molto ordinato. Era lì da meno di una settimana e in giro erano già sparse una marea di cianfrusaglie, e anche il suo letto era ancora sfatto…non quanto il suo, certo.

- Potremmo parlarne oggi con gli altri, che dici? Forse per il prossimo weekend quando siamo tutti un po’ più liberi. –

- Oui.⁽¹²⁾ Direi che è perfetto. – Si alzò, stiracchiandosi per bene. Poi tornò con gli occhi sull’italiano.

– Usciamo insieme tra poco? – Chiese accarezzandolo sulla testa. Quel ragazzo gli ispirava un certo senso di protezione: sembrava così ingenuo e delicato.

- Sì, volentieri! Tanto abbiamo tutti lezione. – Rispose con entusiasmo, lasciando anche lui la sua posizione e affrettandosi nei preparativi per uscire.

Camminava nell’atrio della facoltà dirigendosi verso le scale. Al primo piano avrebbe sicuramente trovato una qualche aula libera dove poter studiare almeno una mezzoretta, visto che era arrivato con un certo anticipo. Salì la prima rampa di scale, incrociando qualche faccia conosciuta che salutò con un cenno del capo e un sorriso. Le aule meno frequentate erano generalmente quelle dalla nove alla dodici: avrebbe tentato lì per prima cosa. Si affrettò verso quella direzione, ma svoltando a un angolo si scontrò con qualcosa a cui finì inavvertitamente addosso. Per la troppa fretta aveva finito col colpire qualcuno. Stava già per profondersi in sincere scuse ma quando, una volta ripreso l’equilibrio, alzò lo sguardo verso la sconosciuta vittima della sua continua fretta si ritrovò di fronte Francis, l’odioso francese dall’umorismo facile.

Serrò le labbra per impedire la fuga delle parole di scusa che non gli avrebbe certo riservato. Si accorse solo dopo, una volta ristabilitosi in una posizione ritta e stabile, che l’altro l’aveva tenuto per un braccio, impedendogli di sbilanciarsi troppo e di cadere.

- Ehilà, Arthur! Quanta fretta. – Esclamò con sorpresa, in un tono fastidiosamente beffardo.

L’inglese non rispose. Si limitò a regalargli una smorfia e, liberatosi dalla presa con un gesto rude, lo superò con noncuranza, senza aggiungere altro. Avrebbe continuato volentieri la sua camminata fiera lungo il corridoio, appagato di aver dimostrato il suo disinteresse nei confronti del francese, ma venne improvvisamente afferrato con forza per un polso. Si voltò di scatto, con sguardo severo verso il biondo dietro di sé. – Che vuoi? – Domandò bruscamente.

Il francese, dal canto suo, si abbandonò ad un’espressione divertita.

- Aaah, vedo che qualcuno è ancora stizzito qui.. –

- …mollami. – Lo intimò minaccioso.

L’altro, per tutta risposta, lo tirò verso sé con un secco strattone, ponendoselo di fronte. – Andiamo, non essere arrabbiato con me. Non volevo offenderti l’altro giorno. – Rispose serio.

L’inglese rimase sorpreso da quella reazione: si stava scusando davvero?

- Ah no? – Domandò ironico con un tono che mostrava come non riponesse la minima fiducia nelle sue parole. – Davvero, mi spiace. Sono stato scortese. – Gli regalò un grande sorriso che lo supplicava di perdonarlo. – Ti chiedo scusa. –

Arthur rimase con lo sguardo su di lui, in silenzio, ancora per qualche secondo. Cercava di capire se dicesse sul serio o meno, ma quando l’altro biondo prese a fissarlo intensamente con un’espressione piena di aspettativa dovette cedere. Sospirò profondamente.

- E va bene, ma smettila di fare quella faccia. – Si chinò ad osservare la mano del francese ancora ben stretta intorno al suo polso. Poi tornò su con lo sguardo. – Puoi lasciarmi ora. –

Il francese sembrò sollevato. Rise leggermente alla sua richiesta, ma non lo accontentò. Anzi, rinsaldò la presa, si voltò e cominciò a portarselo dietro, nella direzione in cui si stava dirigendo prima di incontrarlo. L’inglese, non aspettandosi minimamente un’iniziativa simile, fu costretto a seguirlo, trascinato quasi a forza. – Ehi! Ma che vuoi ancora? Io non devo andare di qua! – Lo sgridava alzando la voce, tentando nel frattempo di liberarsi dalla stretta. Francis, come fosse immune alle proteste sia fisiche che verbali del ragazzo, gli si rivolse con grande serenità. – Non preoccuparti, mancano più di venti minuti alla lezione. Dovrei prendere qualcosa al bar per Feliciano, ti va di accompagnarmi? – Disse ormai prossimo alle scale che l’inglese aveva percorso poco prima.

- No, non ne ho voglia! Mollami adesso! – Si lamentava ormai sfinito dai tentativi di svincolarsi.

- Ahahah. – Rideva con gusto l’altro, mentre iniziava a scendere le scale seguito dal compagno. – Dai, ti offrirò qualcosa per farmi perdonare. –

- Non mi va niente! – Continuava a desistere l’inglese.

Alla fine il francese riuscì a mantenere la presa intorno al polso dell’altro biondo e a trascinarlo nonostante la sua riluttanza fino al bar del piano terra. Lo lasciò solo una volta che si posizionò in fila per la cassa.

- Allora.. – Riprese fiato per un momento. – Come va la vita? – Domandò cercando di iniziare una conversazione pacifica. L’inglese, finalmente col braccio libero di muoversi, si risistemò.

- Sei davvero invadente, te l’hanno mai detto? – Domandò sbuffando, realizzando che ormai era inutile tornare indietro per studiare in un’aula. Aveva l’impressione che non l’avrebbe lasciato andare.

- Eheh, ma no. – Sorrise gentilmente. – E’ che sono pieno di energie. –

Sul volto dell’inglese si stampò un broncio. Stava per ribattere ma l’altro lo precedette. – Hai passato un buon weekend? –

- …sì. – Rispose sintetico.

- Io e Feliciano stavamo pensando di organizzare un’uscita tutti insieme, che dici? Oggi potremmo metterci d’accordo sul dove e quando. –

- Mh. – Assentì appena col capo. – Certo. Perché no. – Rispose non ancora del tutto bendisposto. Il francese gli diede una pacca amichevole sulla spalla. – Su, non essere così pessimista. Sarà una cosa piacevole, per stare assieme. – Poi arrivò il suo turno alla cassa. – Allora, tu cosa vuoi? –

- Non voglio niente, davvero. – Disse mettendosi le mani in tasca.

- Dai, non fare complimenti! Se no scelgo io per te. – Gli disse quasi fosse una minaccia. L’inglese girò il viso da un lato, senza rispondere, e quindi l’altro biondo prese l’iniziativa. – Ok, allora facciamo un tè e un cappuccino. Li porto via entrambi. – E così dicendo allungò le monete all’uomo dietro la cassa.

- Ma ti avevo detto che n- – Protestò Arthur, che fu però interrotto. – Te lo offrirò comunque. Poi tu fanne quel che vuoi. – Si allontanò dalla cassa e si diresse verso il bancone. L’altro ragazzo gli venne dietro, infastidito da quella stupida presa di posizione. Si mantenne a distanza dal francese, aspettando che finisse di prendere quello che aveva chiesto al giovane che serviva.

Questo tipo è dannatamente rompiscatole. Pensava tra sé mentre ne osservava le movenze che contrastavano così nettamente con l’opinione che si era fatto di lui: erano eleganti, così come i suoi gesti e le sue pose. A volte aveva l’impressione che le sue dita scivolassero flessuose come sull’acqua. Certo, pensava sarebbe stato strano incontrare un francese che non mantenesse un certo portamento e un’estetica discreta, eppure…osservando lui gli sembrava tutto così naturale e spontaneo che quasi non si sentiva infastidito da quell’atteggiamento, cosa che in genere avveniva.

Francis avanzò verso di lui con in mano il tè e il cappuccino. Gli fece cenno di andare, e quindi uscirono entrambi dal bar e si rincamminarono verso le scale.

Resta comunque un eccentrico narcisista. Ricominciò a pensare tra sé mentre saliva i gradini. A volte sembra parlare solo per gustarsi il suono della sua voce. È così irritante.

Nessuno dei due aggiunse altro e arrivarono nell’aula della lezione camminando in silenzio. Una volta entrati Feliciano, seduto ai primi banchi, li salutò con la mano. – Grazie mille Francis! Ehi Arthur, ciao! Come stai? – Domandò con un grande sorriso. L’inglese poggiò la borsa e rivolgendogli uno sguardo gentile gli rispose mentre si sfilava la giacca. – Tutto bene grazie. Spero anche tu. –

L’italiano annuì sorridente, quindi prese la bevanda ancora fumante che il francese gli stava allungando.

- Aaah, non c’è niente di meglio di qualcosa di caldo quando fa così freddo. – Disse fra sé mentre avvolgeva la bevanda con entrambe le mani, cercando di scaldarsi. Prese degli spiccioli dalla tasca dei pantaloni e li allungò verso l’amico, ma quest’ultimo li rifiutò con un cenno della mano e un occhiolino.

Arthur intanto si era seduto a fianco di Feliciano ed osservava il tè che il francese gli aveva offerto contro la sua volontà. Lo teneva in un angolo, non sapendo cosa farci. Francis si sedette accanto all’inglese, avvicinandosi per sussurrargli: – Quello è un regalo. Tienilo. –

La voce calda e inaspettata del biondo che gli accarezzava il lobo dell’orecchio lo fece sussultare per un attimo. Si voltò verso di lui con aria indispettita. – Non dovevi prenderlo, t’avevo detto che non lo volevo. –

Un semplice e sincero sorriso fu la pacata reazione dell’altro biondo che, senza aggiungere altro, iniziò ad occuparsi degli appunti del suo quaderno. L’altro restò ancora qualche secondo ad osservarlo scrivere in un elegante calligrafia sulla pagina bianca del quaderno.

C’era qualcosa in lui che continuava ad ispirargli grazia e armonia. Forse i lineamenti delicati, forse quel suo gesticolare molto fine, o forse la sua voce calma e suadente. In effetti, ripensandoci, anche quando avevano litigato la settimana scorsa, ricordava di non averlo visto scomporsi minimamente. Era rimasto lì, al suo posto, immobile, sorridendo alle sue provocazioni e continuando a consumare birra come nulla fosse. Un perfetto esempio di autocontrollo, doveva riconoscerlo. Viceversa, lui non aveva mai avuto una grande abilità nel celare i suoi umori e stati d’animo; era sempre stata una persona impulsiva e per niente equilibrata sotto il profilo emotivo.

Si sentì improvvisamente infantile. Stringendosi nelle spalle, in silenzio, osservava il banco vuoto di fronte a lui.

 

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- Anche questo era nell’elenco? – Domandò al figlio afferrando un volume di parecchie pagine dallo scaffale di fronte. – Mh? Fammi vedere. – Rispose il biondo avvicinandosi alla madre e poggiandole il mento su una spalla mentre leggeva attentamente il titolo del libro. – No. Questo per fortuna non devo comprarlo. –

- Oddio meno male! E’ così grande e pesante..e sembra anche complicato. – Commentò sfogliando qualche pagina mentre delle ciocche di capelli le scivolavano dalle spalle sul seno, coprendole in parte il grazioso profilo. – Non ho intenzione di comprarli tutti mamma. – Aggiunse Francis prendendo l’elastico che aveva attorno al polso e, posizionatosi alle spalle della donna, iniziò a riunire i capelli della madre in una treccia.

La donna si godè per qualche secondo il tocco delle dita del figlio sui suoi capelli prima di rispondere serenamente. – Compreremo tutto quello che sarà necessario, tesoro. – Chiuse gli occhi, rilassandosi per un attimo. – I libri più costosi posso studiarli nella biblioteca dell’università gratuitamente. –

Fermò con l’elastico la treccia che aveva terminato e poggiò entrambe le mani sulle spalle della madre, tirandola verso sé. – Non voglio farti spendere più di quanto tu abbia già fatto. –

La giovane donna si voltò verso il figlio, con le sopracciglia leggermente aggrottate. – Sono felice di utilizzare i nostri soldi per qualcosa di così importante! – E gli poggiò una mano sulla guancia.

- E’ una scelta lodevole quella che hai fatto e ne sono orgogliosa. Ti aiuterò con tutti i mezzi che ho, finanziari e di qualunque altro tipo. – Lo abbracciò con dolcezza.

Francis sorrise con un pizzico di amarezza mentre stringeva le braccia intorno alla madre, ricambiandone l’abbraccio. – Grazie mamma. Non devi preoccuparti troppo però, ho da parte anche i miei di soldi. –

- Lo so. E non voglio dirti di non usarli..semplicemente, non esitare a chiedere una mano se ne hai bisogno, va bene? – Lo lasciò e si avvicinò allo scaffale riponendo al suo posto il libro appena esaminato.

- In fondo ti sei sudato i tuoi risparmi. Hai fatto così tanti lavoretti in giro per l’Europa in questi ultimi anni. –

- Sì. Sono state belle esperienze. Alcune più, altre meno..ma comunque tutte costruttive. –

- Però sono contenta che adesso, con l’università, tornerai a vivere a Parigi. –

Ripresero a camminare per la sezione di letteratura antica dell’enorme libreria, l’uno a fianco dell’altra. Francis le afferrò la mano. – Ti sono mancato in questi ultimi due anni? – Domandò retorico con tono smorzato. – Mi dispiace tanto. –

- E’ naturale che mi sia mancato! – Gli sorrise. – Ma non per questo resterai rinchiuso per sempre nelle nostre quattro mura di Parigi, giusto? Devi pensare alla tua vita. E’ una cosa lunga da costruire per bene. –

- Eheh, immagino di sì. –

Il ricordo di quegli ultimi due anni era uno dei migliori che aveva collezionato in tutta la sua giovane vita, e tuttavia era sempre stato accompagnato da un senso di rimorso.

Rimorso per non essere stato vicino alla persona più cara che avesse al mondo, quella che amava sopra ogni cosa. Era partito sbarazzino, a soli 19 anni appena compiuti, con un grande zaino in spalla e un diploma fresco di stampa nell’altra. Aveva concluso il liceo distintamente e il suo più grande sogno era sempre stato quello di viaggiare per il mondo, seguendo lo stile di vita bohemien di cui si era innamorato, studiandolo sui banchi di scuola. Sua madre era sempre stata una persona estremamente aperta e accondiscendente e insistette solo su alcuni punti fondamentali come un alloggio sicuro, la possibilità di prelevare attraverso la creazione di un suo personale conto in banca, e l’obbligo immancabile di telefonarle almeno due volte al giorno. Alla fine fu più facile di quanto immaginasse e d’altronde, per un giovane come lui, gli spostamenti e i trasporti risultavano particolarmente economici. In meno di dieci giorni organizzò la sua partenza e salutò con affetto la madre.

Non immaginava però che le sarebbe mancata così tanto e così presto.

La sua prima tappa fu un luogo che gli risultasse in qualche modo familiare, per potersi dapprima abituare alla nuova vita in maniera graduale. Scelse l’Italia e in particolare Firenze. Avrebbe dato qualunque cosa per soggiornare qualche tempo a Venezia, ma era decisamente troppo costosa, soprattutto per una prima esperienza di vita da solo. Conosceva qualcuno a Firenze che seppe aiutarlo a trovare un modesto alloggio presso un ristorante diroccato della periferia. Alloggiava alle stanze del primo piano e in cambio lavorava come cuoco, sguattero oppure gli affidavano commissioni di vario tipo.

Quello fu uno dei momenti migliori dei due anni che avrebbe trascorso in giro per l’Europa. L’Italia era un posto estremamente accogliente, con una vita alla quale era facile abituarsi. Il cibo era buono, la gente cordiale, la città splendida e il lavoro gli piaceva. Tuttavia avrebbe considerato un grosso errore quello di affezionarsi troppo ad un posto: in fondo, era partito per viaggiare.

Dopo tre settimane partì per un altro paese dirigendosi a nord, a Potsdam.

Il suo soggiorno nella maestosa città tedesca era andato bene, a parte il fatto che l’occupazione non era stata il massimo: non era riuscito a trovare un lavoretto neanche come spazzino, ed era stato costretto a fare la vita del vagabondo per qualche giorno. Per fortuna il clima caldo dell’estate e la benevolenza di alcuni turisti suoi connazionali l’avevano aiutato. Poi arrivò l’aiuto più grande. Incontrò una splendida ragazza della quale si invaghì. La loro storia d’amore durò esattamente quanto il suo soggiorno nella città tedesca: il tempo per innamorarsi, consumare, e capire che non poteva funzionare. Si lasciarono serenamente, come era quasi sempre avvenuto nelle sue passate relazioni, e cambiò destinazione.

Da lì in poi si trasferì per tempi molto più lunghi, dalle quattro alla dodici settimane per ciascuna città. Visse a Barcellona, Londra, Copenaghen, Praga, Vienna…tornò a Parigi per le principali festività e per i loro compleanni: suo e della madre. Furono un paio d’anni molto intensi, ricchi d’esperienze, ma che gli fecero provare anche una nostalgia di casa e degli affetti che mai aveva conosciuto. Non poté resistere oltre e in aprile tornò definitivamente nella sua città.

L’idea dell’università gli venne durante il suo soggiorno a Praga, dove aveva trovato un lavoretto come aiutante in una biblioteca comunale. Il suo impiego consisteva principalmente nel sistemare i volumi negli scaffali corretti e in questo modo gli erano passate tra le mani diverse opere che aveva trovato interessanti. Poesia, narrativa, teatro ecc. Era sempre stato portato per le lettere, ma quell’esperienza lo aveva fatto veramente innamorare della letteratura. Lo affascinava sopra ogni cosa scoprire come diverse personalità, nelle più disparate epoche, erano state in grado di esprimere i loro sentimenti o le loro idee, ciascuna a suo modo. In quei mesi trascorsi a Praga lesse probabilmente più di quanto non avesse mai fatto in tre anni di liceo⁽¹³⁾. Quando tornò a casa decise che avrebbe voluto approfondire quegli studi, e per la prima volta pensò ad un’ipotesi di lavoro futuro: desiderava fosse in campo artistico-letterario.

Ne parlò con la madre a lungo, e insieme convennero che se la sua passione era andata accrescendosi così tanto, allora sarebbe stato meglio sviluppare ad ottimi livelli la sua conoscenza in quel campo. Cosa meglio dell’università quindi?

- Francis? – La voce della madre riecheggiò nella sua testa.

Il ragazzo si voltò di scatto verso di lei, interrompendo bruscamente la rievocazione dei suoi ricordi.

- Ah, oui⁽¹⁴⁾? –

- Eri sovrappensiero? – Domandò stringendogli più forte la mano che il figlio teneva ancora con cura nella propria. Francis le sorrise. – Sì, scusami. Pensavo che non vedo l’ora di iniziare a leggere tutti questi splendidi libri. –

Continuarono per diverso tempo a girare lungo i piani e i corridoi della vasta libreria e Francis continuò a stringere nella sua la mano della madre per tutto il tempo. Adesso che avrebbe iniziato l’università sarebbe rimasto accanto a lei.

Peccato non sapesse che in pochi anni il desiderio di fuggire lontano si sarebbe nuovamente impadronito del suo animo, rendendo noiosa e priva di attrattiva persino la sua Parigi incantevole, che amava, ma che lo avrebbe presto fatto sentire come un uccellino in gabbia, limitato, incompleto…un fiore appassito consunto dalla monotonia.

 

 

⁽¹⁾ “Pronto”, in francese.

⁽²⁾ “Mamma, sono io”, in francese.

⁽³⁾ “Mamma”, in francese.

⁽⁴⁾ “Tesoro”, in francese.

⁽⁵⁾ “Certamente, piccolo mio”, in francese.

⁽⁶⁾ “Tesoro mio”, in francese.

⁽⁷⁾ Vedi nota ⁽³⁾

⁽⁸⁾ “Sì”, in francese.

⁽⁹⁾ “Anche io”, in francese.

⁽¹⁰⁾ “Che carino”, in francese.

⁽¹¹⁾ “Mio caro”, in francese.

⁽¹²⁾ Vedi nota ⁽⁸⁾

⁽¹³⁾ Il liceo francese dura leggermente meno di quello italiano

http://it.wikipedia.org/wiki/Istruzione_in_Francia

⁽¹⁴⁾ Vedi nota ⁽⁸⁾

 

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Aggiungo che non so il francese e che quindi se qualcuno dovesse notare qualche errore nelle traduzioni o nelle espressioni che scelgo vi sarei molto grata se me lo faceste sapere. Vorrei essere il più precisa possibile, e riconosco che molto spesso affidarsi a traduzioni trovate su internet o su dizionari online può non essere il massimo quindi…non esitate a dare consigli o a intervenire quando pensate ci siano errori! > w <

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Capitolo 4
*** Capitolo 4 ***


If I can stop one heart from breaking,

I shall not live in vain;

If I can ease one life the aching,

Or cool one pain,

Or help one fainting robin

Unto his nest again,

I shall not live in vain.⁽¹⁾

 

 

- Ma, tipo, che ore sono Arthur? – Domandò infreddolito il polacco.

L’inglese sollevò lo sguardo assorto dallo schermo del cellulare, quasi destandosi. Era così concentrato a rileggere il file che aveva aperto che della domanda dell’amico aveva colto soltanto quando lo aveva chiamato per nome. – Come? – Chiese sporgendosi verso il biondo.

- No, dico, che ore sono adesso? –

- Ah, scusami. – Tornò velocemente con gli occhi sul suo cellulare. – Le undici e dieci. –

- Ma cavolo mancano solo quelle due! – Esclamò spazientito il giovane tedesco che già da qualche minuto aveva cominciato a prendere a calci una lattina appiattita che aveva trovato sul marciapiede.

- Andiamo, sono due ragazze Gilbert. È normale che facciano tardi, sii più paziente. – Lo riprese il francese, per nulla infastidito dall’attesa.

- Se, come no…tanto tu non manderesti mai a quel paese delle donne a prescindere. – Rispose annoiato.

- Dai Gilbert. Se pensi alla bella domenica che ci aspetta forse ti distrarrai un po’. – Propose sorridendo Kiku.

Il sole era alto nel cielo. Erano stati fortunati a essere stati tutti d’accordo per uscire insieme quel giorno. Avevano scelto come luogo d’appuntamento l’ingresso della facoltà, ovviamente chiusa di domenica, per poi da lì dirigersi al bowling, fare un salto alla Namco Station e in altri posti interessanti, che gli permettessero di svagarsi e stare un po’ insieme.

- Guarda, stanno arrivando. – Disse l’austriaco indicando col dito la direzione nella quale si distinguevano le due ragazze avanzare verso di loro.

- Halleluja! – Gridò Gilbert verso le due che arrivavano. Il francese gli strinse un braccio intorno al collo e lo trascinò accanto a sé cercando di farlo star buono. – Insomma, sii gentile no? –

- Avevi qualcosa da dire, Mr. Crucco? – Domandò ironica l’ungherese, sottobraccio alla compagna.

- Ma no, scherzava lui. – Rispose il francese regalando un grande sorriso alla bellissima ragazza, mentre teneva ancora il tedesco nella presa.

- Salve ragazze. Come va? – Domandò l’austriaco ignorando gli schiamazzi di Gilbert.

- Bene, grazie. Ciao a tutti. – Rispose Natalia rivolgendo uno sguardo agli altri ragazzi.

Il gruppo cominciò a dirigersi verso la fermata metro poco distante e, una volta sul treno, Gilbert e Feliciano proposero di passare prima da Starbucks per un caffè. L’idea ebbe un grande successo e non appena scesero alla fermata si diressero a quello più vicino della zona.

- Vi va di sedervi? Così possiamo bere con calma. – Domandò l’austriaco sfilandosi il cappotto.

Tutti gli altri ragazzi assentirono con entusiasmo e, una volta sedutisi ad un tavolo abbastanza grande da comprendere tutti, arrivò una ragazza che prese in pochi minuti tutte le ordinazioni.

- Ehi, Arthur. – L’inglese si sentì chiamare. Rivolgendo un’occhiata verso la direzione della voce notò che era Francis, di qualche posto più lontano. Il francese, non appena ne incrociò lo sguardo, riprese a parlargli.

- Posso farti un paio di domande? – Chiese con un energico sorriso stampato in faccia.

- Certo. – Rispose l’inglese scrollando leggermente le spalle.

Il francese si alzò dal suo posto, scavalcando i ragazzi che si frapponevano tra lui e l’altro biondo più distante, e si sedette accanto ad Arthur.

- Quanto disturbo per un paio di domande. – Rispose l’inglese incrociando le braccia.

- Eheh, scusa ma..non volevo urlare da un capo all’altro del tavolo. – Accavallò le gambe sotto il tavolo.

- Allora…tu sei l’unico del gruppo nato e cresciuto a Londra giusto? –

- Esatto. Roderich si è trasferito qui da Vienna con la sua famiglia quando aveva dodici anni e.. –

- E Feliks è polacco? – Domandò il francese interrompendolo.

- Ha origini polacche, sì. I suoi bisnonni si trasferirono in Inghilterra, ma non a Londra: a Bristol. La sua famiglia abita lì. Lui vive a Londra in affitto solo per via dell’università. E Kiku, beh..mi sembra tu ne sia già al corrente. –

- Oui, oui.⁽²⁾ – Annuì col capo. – Bene allora, direi proprio che sei la persona più adatta alla quale possa rivolgermi. – Prima che uno dei due potesse aggiungere altro, la ragazza arrivò con le ordinazioni che distribuì tra i ragazzi. Dopo aver afferrato il suo caffè si voltò nuovamente verso il francese. – Per cosa? –

Anche il francese prese tra le mani la sua bevanda, e ne intinse appena le labbra visto che era ancora bollente. – Volevo chiederti dei consigli riguardo a certi posti. –

- Che ti serve? – Chiese stranamente interessato, mentre l’altro biondo soffiava sulla superficie del suo caffè. – Oh, sono diverse cose. Mi sono fatto una specie di elenco prima di partire. Volevo iniziare col chiederti se conoscevi qualche libreria particolare… – Disse lasciando la frase in sospeso.

- Particolare come? – Domandò incuriosito dall’argomento, portandosi il caffè alla bocca. Poi aggiunse:

- Cerchi della letteratura straniera difficile da reperire per caso? Oppure hai bisogno di un testo molto vecchio, fuori commercio? –

Il francese lo fissò leggermente sorpreso per qualche istante. Era la prima volta in poco più di una settimana che lo vedeva bendisposto nei suoi confronti. Sembrava addirittura interessato a quello che diceva. Forse bisognava solo prenderlo nel modo giusto. Forse…

- Mmh, mi interessano un po’ tutte queste cose. – Sorseggiò un po’ della sua bevanda calda. – Inoltre, mi piacerebbe sapere se c’è una libreria famosa per la sua atmosfera particolare, e se ce n’è una specializzata nella poesia e nella letteratura di viaggio. –

L’inglese continuava ad osservarlo con aria partecipe. Era la prima volta che lo sentiva parlare di qualcosa di serio, che andasse oltre la bellezza della sua tanto amata Parigi o del suo personale charme. Questo lo rendeva sicuramente più disponibile ad aiutarlo. Poggiò il caffè sul tavolo. – Ho capito. Penso di poterti aiutare visto che conosco quasi tutte le migliori librerie di questa città. Ti indicherò quelle che potranno esserti utili. –

- Oh, fantastico! – Esclamò soddisfatto. – Fammi sapere quando sei disponibile allora. A me va bene qualunque giorno anche prima o dopo le lezioni. –

L’inglese aggrottò appena le sopracciglia. – Che c’entro io? Sei tu che devi andarci. – Fece una pausa per osservare le reazioni dell’altro. – Ti farò una mappa precisa di dove si trovano, così non potrai perder- – Venne bruscamente interrotto dal francese. – Ma io vorrei andarci insieme a qualcun altro. È triste girare per librerie da soli, non trovi? E poi sei tu che conosci meglio di tutti questa città..mi piacerebbe fossi tu a farmi da Cicerone. – Rispose con un tono che cercava di essere il più convincente possibile. Ma l’inglese rispose piuttosto seccato e con grande, forse troppa, sincerità. – Ma non ho voglia di accompagnarti in qualunque luogo tu voglia come fossi una guida turistica. Ho altre cose più importanti da fare. –

- Non preoccuparti, non ti ruberò tanto tempo! E potrai sempre decidere quando vederci, in base ai tuoi impegni. Ti terrò fuori solo qualche ora, promesso! – Il francese si esprimeva con grande energia, congiungendo le mani in segno di preghiera per essere più persuasivo.

Arthur lo fissava con un’espressione annoiata, domandandosi come mai il suo cinismo fosse del tutto inefficace su quel tipo. Non era sua abitudine essere bendisposto ed espansivo con persone che conosceva appena o che non gli andavano a genio, e generalmente la diffidenza che riservava a questi ultimi li infastidiva al punto che preferivano rinunciare ad entrare in confidenza con lui, oppure, in alcuni casi, lo mandavano semplicemente a quel paese e abbandonavano qualunque tentativo di fare amicizia. Gli succedeva sempre; i meno pazienti erano quelli che rinunciavano per primi. D’altronde, non li biasimava nemmeno lui: sapeva di essere insopportabile, in fondo. Ai più risultava essere eccessivamente freddo, per niente socievole, impassibile fino a diventare spesso sprezzante. Nel complesso, una persona decisamente troppo impegnativa.

Eppure rimaneva colpito da come il suo atteggiamento per niente cordiale e anzi a tratti scortese non avesse ancora fatto desistere quell’idiota che ancora insisteva nel cercare di attaccare bottone. Una persona normale lo avrebbe già accantonato nel dimenticatoio delle relazioni umane.

L’idea di cosa potesse obiettare all’altro biondo lo fece distrarre da quei pensieri: lo fissava con uno sguardo smarrito, le labbra semi aperte che tentavano di elaborare una risposta. Non sapeva bene cosa inventarsi per rifiutare la sua offerta. Pensava che l’essere stato così sincero da dirgli chiaro e tondo che non ne aveva voglia potesse bastare a indisporlo e a farlo desistere…ma evidentemente non era stato sufficiente.

- Daaai, ci divertiremo promesso! – Continuava incalzante il francese.

L’inglese riuscì solo a scuotere lievemente la testa in un gesto di disapprovazione che però l’altro biondo sembrò non notare minimamente.

- Ok, allora è deciso! Grazie mille, Arthur. – Esclamò tutto contento, andando ad afferrare con due dita la guancia dell’altro giovane dandogli un pizzicotto. L’altro allontanò appena il viso da quella presa, mentre tentava di rimediare alla sua remissività. – Non ho detto sì! – Disse usando un tono fermo e deciso.

- Merci, merci, merci.⁽³⁾ – Rispose incurante l’altro continuando a strizzare la guancia del compagno.

- E smettila! – Si lamentava l’inglese che gli bloccò la mano allontanandola dal suo viso. Il francese lo fissava sorridendo, in silenzio, mentre Arthur, stizzito, pensava a cosa dire per fargli capire una volta per tutte che non lo avrebbe mai e poi mai accompagnato. Rimase concentrato su quel pensiero per diversi secondi, senza spostare lo sguardo dall’altro, ma alla fine si abbandonò ad un profondo sospiro di resa. Non era abituato a essere pressato così a lungo e, non sapendo come dire di no, fu costretto a cedere.

Ma che ha questo tipo? Pensava fra sé mentre osservava il francese che si vantava tutto eccitato della sua “vittoria” con gli altri ragazzi a fianco. Non riusciva a capire se fosse semplicemente stupido e ingenuo oppure stesse tentando di fare seriamente amicizia con lui. Il primo caso gli sembrava poco probabile: gli aveva dato l’impressione di essere una persona sveglia e avveduta, di quelle che capiscono certe cose al volo o con un semplice sguardo. Il secondo caso si sarebbe risolto di certo in una delusione per il francese: non sarebbe stato facile farsi strada all’interno del suo umore instabile e del suo spirito inquieto.

Poco male, pensò. Al massimo si sarebbe concesso qualche ora in alcune delle più belle librerie della città. Era meglio prenderla con filosofia se voleva evitare di accumulare altro stress.

Con questi pensieri continuò a bere il suo caffè, incurante dell’infantile frenesia del biondo accanto.

 

 

Girò le chiavi nella serratura della porta. Nell’aprire l’uscio di casa non poté impedire a una gelida ventata di metà ottobre di entrare nell’appartamento. Richiuse dietro di sé la porta con un suono cupo, poggiando la schiena sul suo legno caldo, rimanendo nell’oscurità per lunghi attimi. Rivolse lo sguardo verso il colorito spento del soffitto, in alto. Era una sua nota abitudine quella di fermarsi in contemplazione su scenari di nessun rilievo o interesse: un angolo della casa, un’increspatura profonda lungo il marciapiede, lo sgocciolio lento ma inesorabile di una tettoia…poteva rimanere ad osservare frangenti di quel tipo per ore.

Lo rilassava distogliere la mente da tutto il resto, prendersi una pausa per sé, o anche per non pensare a nulla. Semplicemente, osservare; e lasciare che tutti i suoi pensieri, le sue ansie e gli affanni, così come le emozioni, scivolassero via come l’acqua, seguendo il loro corso naturale. A volte questo sistema gli era servito per allontanare fastidiosi fantasmi del passato che ogni tanto tornavano a fargli visita, altre volte per lenire uno stato di grande agitazione, e altre volte non ne aveva sortito alcun beneficio.

Staccò con un gesto rapido la schiena dalla porta. Inspirò profondamente mentre riacquisiva equilibrio. Si sentiva stanco: era da molto tempo che non passava un’intera giornata in giro a divertirsi con gli amici. Sistemò il cappotto sull’appendiabiti dell’ingresso e si diresse verso le scale. Lentamente superò tutti i gradini, giungendo al piano superiore del suo piccolo appartamento. Entrò nella sua camera da letto, in fondo al breve corridoio, senza ancora accendere alcuna luce. I raggi spettrali della luna penetravano nella sua camera con delicatezza, attraverso le due finestre, illuminandone il letto. Si tolse le scarpe mentre camminava, lasciandole con incuria lungo il parquet.

Si gettò sul letto a peso morto, senza la forza di muovere ulteriormente alcun muscolo del corpo. Affondò il viso nei cuscini, riconoscendone il familiare profumo di pulito, e si strinse nelle spalle, aspettando che il calore della camera accogliente lo rivitalizzasse. Poi si sdraiò supino e prese il cellulare dalla tasca dei pantaloni. Cercò tra i file che aveva salvati all’interno dell’apparecchio, in particolare nella sezione che aveva dedicato alle poesie; studiando letteratura all’università, aveva avuto l’opportunità di confrontarsi con una quantità immensa di versi e di testi letterari, ed era solito salvare sul cellulare quelli che maggiormente lo avevano colpito. Versi da rileggere di sfuggita tra una fermata della metro e l’altra, da riscoprire aspettando l’inizio di una lezione, o da gustare prima di abbandonarsi al riposo notturno, come stava facendo in quel momento. Lo schermo del cellulare gli illuminò il viso stanco e appassito, mentre con le dita tornava alla stessa poesia con la quale aveva iniziato la sua giornata quella mattina: Dickinson.

Amava il suo poetare delicato e al tempo stesso raffinato, la mestizia con la quale avvolgeva ogni parola, rendendola preziosa, così come si sentiva attratto dal sentimento di rimpianto e malinconia che poteva assaporare attraverso i suoi versi. A volte gli sembrava che alcuni dei suoi componimenti gli parlassero, fino quasi a raffigurarlo. Adorava quando la poesia giungeva a tali livelli di profondità ed empatia.

Aprì la sua preferita della Dickinson, rileggendone i versi per l’ennesima volta: If I can stop one heart from breaking…Quelle parole riecheggiavano nella sua mente come un eco, delicato. Chiuse gli occhi e delle immagini iniziarono a sovrapporsi nella sua mente: neve che cade, un camino, due figure l’una accanto all’altra. Dischiuse nuovamente gli occhi, cogliendo un altro verso a caso della poesia: If I can ease one life the aching, Or cool one pain…

Erano parole così gradevoli. Si sentiva sempre confortato quando le leggeva, lasciandosi avvolgere da una sensazione di pace che lo alleviava dalle pene quotidiane. Non era un meccanismo facile da spiegare: in quasi cinque anni di università aveva conosciuto molti ragazzi ai quali le opere poetiche o letterarie non avevano mai ispirato nulla, nessun brivido, nessun affanno, nessun sospiro, nessun turbamento. Per qualche tempo, durante il suo primo anno, aveva persino pensato che fosse lui a dare troppo peso a quello che leggeva, che in fondo era solo inchiostro su carta, nulla più. Ma crescendo aveva cominciato invece a difendere quel suo personalissimo e particolare rapporto con le lettere: quello che significavano e soprattutto quello che significavano per lui, era parte di un sentimento tutto soggettivo, privato e prezioso; qualcosa che avrebbe dovuto proteggere e custodire, senza l’obbligo di condividerlo. Erano molti i casi in cui avrebbe potuto far parlare i versi al suo posto, rispecchiandosi in molte delle ombre che prendevano vita tra le parole di Shakespeare, Blake, Coleridge o delle sorelle Brontë. Forse, alla fine, era diventato un’ombra lui stesso: un’ombra senza principio né destinazione, un’ombra silenziosa senza legami né vincoli. Un individuo di nessun interesse.

Rivolse lo sguardo verso la finestra più vicina al letto, cercando la luna al di là del vetro gelido. Gli capitava sempre più spesso di sentirsi così miserabile e insignificante. Di certo gli ultimi avvenimenti non l’avevano aiutato a migliorare la sua autostima. Tornò sul cellulare e della nuova luce artificiale lo illuminò. Decise di regalarsi un ultimo verso di Dickinson prima di coricarsi, e la vista gli cadde sulla chiusa: I shall not live in vain.

Rimase a fissare quell’ultimo verso della poesia a lungo, finché la luce dell’apparecchio elettrico si spense, lasciandolo nell’oscurità. Forse era meglio riposarsi adesso. Lasciò cadere il cellulare sulle coperte e si alzò in piedi, sfilandosi dapprima il maglione e quindi i pantaloni. Passò lentamente ai bottoni della camicia, mentre si avvicinava alla finestra, per dare un’occhiata alla notte che sopraggiungeva veloce.

Una volta completati i preparativi per coricarsi si infilò sotto le coperte, cercando il cellulare per spegnerlo e riporlo sul comodino. Fu proprio nel momento in cui lo afferrò che arrivò un messaggio, con sua grande sorpresa. Si tirò su, poggiando la schiena al cuscino, e avvicinò lo schermo. Aprendo il messaggio vide che il mittente era Alfred.

Ehi, come va? Hai ricevuto la mia lettera?

Rispondi a questo messaggio appena lo leggi, ok?

Ciao ciao!

Un’espressione di amarezza si dipinse sul suo volto. Non gli era bastato tagliarlo fuori dalle sue priorità, ora doveva anche perseguitarlo con la sua insistenza molesta? Percepì all’improvviso un nodo alla gola che si preoccupò di ingoiare il più in fretta possibile: non voleva dare più niente a quel ragazzo, neanche la sua afflizione. Si sforzò nel fingere un’imperturbabilità che fosse credibile, fosse anche solo a se stesso, e premette il pollice sul tasto del cellulare per eliminare il messaggio, sperando di cancellare col messaggio anche la presenza dell’amico nei suoi pensieri.

Impostò la sveglia della mattina e spense il telefono, lasciandolo sul comodino accanto al letto. Chiuse gli occhi con forza, costringendosi a dormire e non a pensare: pensare che, in fondo, gli mancava. Gli mancava la sua presenza invadente, il suo fare infantile e sprovveduto, la sua parlata sconnessa e il suo abbigliamento scomposto. Gli mancava soprattutto l’entusiasmo dell’attesa: avrebbe potuto sentirsi solo molte volte in quei mesi prima di Natale, ma almeno aveva la certezza che il momento in cui quella casa avrebbe potuto nutrirsi nuovamente del calore della compagnia e della complicità che può effondere un’amicizia sarebbe arrivato. Era un momento che attendeva con grande ansia ogni anno.

Ma ormai era inutile esaltarsi tanto…quel momento non sarebbe arrivato. Non avrebbe riabbracciato quell’ampia schiena, né rivisto i suoi occhi fulgidi e pieni di vita; non avrebbe avuto nessuno a cui confidare i suoi desideri, nessuno che riempisse i suoi silenzi o che smorzasse il suo cinismo. Sarebbe rimasto solo con se stesso, a confrontarsi con le sue colpe e i suoi vizi.

Gli tornarono in mente i versi della poesia, mentre si stringeva ancora di più sotto le coperte. If I can ease one life the aching,Or cool one pain…se avesse rivolto ad Alfred una simile preghiera, l’avrebbe ascoltata? Avrebbe raccolto il suo grido d’aiuto? Avrebbe capito, ancora prima di tutto questo, che non aveva importanza quanto ripetesse che stava bene o che era orgoglioso dell’autosufficienza acquisita? Che non aveva importanza quanto respingesse qualunque tentativo di sostegno e di condivisione? Anche se non l’avrebbe mai ammesso, si sentiva solo. Abbandonato. Ripudiato. Avrebbe capito che era solo finzione indotta dall’insicurezza di un ragazzo immaturo e instabile?

Delle calde lacrime gli bruciarono le guance, scendendo improvvisamente copiose.

Quante di quelle poesie avrebbe dovuto far parlare al suo posto per poter fare arrivare il suo messaggio? Quante avrebbe dovuto dedicargliene?

Percepì la federa del cuscino assorbire le lacrime salate. Un singulto lo fece tremare. Strinse nei pugni le lenzuola. Non immaginava potesse fare così male. Chiuse gli occhi, esausto. Ogni muscolo del corpo adesso gli doleva facendolo sentire ancora più inerme. Avrebbe allontanato quei pensieri col torpore che si faceva strada attraverso le sue membra. Pregò di esserne avvolto al più presto per trovare un po’ di conforto e scacciare gli spettri che gli annebbiavano la mente. È solo un momento, pensò. Domani starò benissimo.

Poteva resistere. Una notte di sonno e si sarebbe perfettamente ripreso: avrebbe ricominciato un’altra settimana immergendosi nei soliti impegni e vivendo la quotidianità alla quale era abituato. Finché avesse avuto sufficienti distrazioni avrebbe sicuramente resistito.

Dopo aver rivolto un’ultima, repentina occhiata al cellulare poggiato sul comodino e dopo aver dedicato un ultimo pensiero nostalgico al suo amico lontano, accasciò la testa sul cuscino e chiuse gli occhi, desiderando che quella potesse essere l’ultima volta che piangeva per lui.

 

 

⁽¹⁾ Emily Dickinson, “If I Can Stop One Heart From Breaking”. Traduzione:

Se io potrò impedire ad un cuore di spezzarsi,

non avrò vissuto invano;

Se allevierò il dolore di una vita, o allevierò una pena,

O aiuterò un pettirosso caduto a rientrare nel nido,

Non avrò vissuto invano.

⁽²⁾ “Sì”, in francese.

⁽³⁾ “Grazie”, in francese.

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Capitolo 5
*** Capitolo 5 ***


- Ehi, dai un’occhiata a questo! –
Esclamò Francis accompagnando l’incitazione con un gesto della mano che invitava l’altro ad avvicinarsi. L’inglese, con le mani in tasca, si avvicinò al francese, sporgendosi per osservare il libro che aveva in mano. – Ti piace Orwell? – Domandò incuriosito.
- A dire il vero lo adoro. Ma trovo che il genio più profondo e la vera originalità di eminenti scrittori siano sempre nascosti nelle opere minori o incomplete. Se vuoi conoscere davvero la personalità di un grande artista cerca le sue opere di minor successo. – Rispose a mo’ di sentenza.
- Cos’è? Una specie di filosofia? – Chiese l’altro biondo alzando lo sguardo dal libro e rivolgendolo al compagno. – Ahah, più o meno. – Si voltò anche lui verso l’altro. – Ad ogni modo…non credi che sia un libro perfetto nel nostro caso? – Domandò sorridente.
- ..nostro? – Chiese incerto l’inglese, con sguardo diffidente. – Beh, sì. – Il francese sollevò le spalle con naturalezza. – Insomma, “Senza un soldo a Parigi e Londra”⁽¹⁾ è un titolo che dice molte cose, no? –
- A te forse. – Rispose conciso l’altro. Francis alzò lo sguardo al cielo, riflettendo per qualche attimo. – Mmh, forse hai ragione…in fondo, questo titolo rappresenta esattamente un periodo della mia vita. –
- Cioè? Eri già stato a Londra? – Domandò Arthur sorpreso. Il francese gli rivolse uno sguardo intenso e malizioso, soddisfatto del fatto che glielo avesse chiesto. Gli voltò le spalle senza dare una risposta e cominciò a camminare lentamente lungo il corridoio. – E-ehi? – Cercò di richiamarlo l’altro. – ..forse non vuoi dirmelo. Beh, non preoccuparti, non fa niente. – Rispose pacato mentre si avvicinava al biondo più alto, seguendone il passo. – Aaah, ma con te non c’è gusto! Pensavo di averti stuzzicato una certa curiosità, e invece sembri così indifferente. Ti sei arreso subito senza insistere neanche un po’. – Disse con un’espressione di delusione sul viso, gonfiando un poco le guance in segno di scontento, quasi fosse un bambino.
- Oh, scusa. – Rispose con ancora più meraviglia l’inglese. Non avrebbe mai pensato di scatenare una simile reazione nel francese. – E’ che non mi piace impicciarmi degli affari altrui. –
Francis si voltò regalandogli un sorriso compiaciuto. – Mh, la discrezione è una virtù lodevole. Peccato che io non ne abbia mai avuta abbastanza. – Afferrò per una mano il ragazzo, senza dargli il tempo di commentare nulla e lo avvicinò a sé. – Allora vorrà dire che ti racconterò un paio di cosette senza aspettare che tu me lo chieda. – Disse guardandolo divertito, mentre l’inglese, non aspettandosi minimamente un smile strattone, si ritrovò contro la sua volontà ad una ristretta distanza dall’altro. Arretrò di scatto, quasi spaventato. – C-che sarebbe? – Domandò turbato e per niente incuriosito.
Il francese sollevò il libro che aveva in mano, e fermò lo sguardo su di esso. – Sai, mi ricorda molto la mia vita di cinque anni fa. – Disse con un tono più temperato del solito, senza allontanare lo sguardo dalla copertina. Arthur notò un certo coinvolgimento nell’altro ragazzo. – Cinque anni fa sei stato a Londra? O forse, hai lavorato qui? – Domandò cercando di essere il più delicato possibile, non sapendo se potesse essere per lui un ricordo piacevole o doloroso.
Il francese alzò finalmente gli occhi dalla copertina. – Entrambe le cose, direi. – Rinforzando la presa, tornò ad avanzare lentamente lungo il corridoio. Il biondo più giovane non se la sentì di ritrarre la mano e lo lasciò fare, nonostante la cosa lo mettesse piuttosto a disagio.
- Sai, prima di iscrivermi all’università ho passato i due anni successivi alla maturità in giro per l’Europa. – Riprese Francis continuando nel suo discorso. – Davvero? – Domandò con sincera curiosità l’inglese.
– Come hai fatto? Ti sei spostato per lavoro? O hai viaggiato per piacere? – Si interessò di colpo all’argomento: aveva sempre desiderato lasciare Londra per andare in qualche posto lontano e sconosciuto. Separarsi da un ambiente soffocante e opprimente, sostenere le proprie scelte, organizzarsi la propria esistenza, fare le valigie e cambiare luogo ogni volta lo si desiderasse…erano cose che aveva letto solo sui libri e nei racconti. Ma nel profondo avrebbe davvero voluto avere le possibilità e, soprattutto, il coraggio di farlo. – Ho deciso che volevo vedere un po’ di luoghi interessanti e…guadagnandomi da vivere in ognuna delle città che toccavo riuscivo a mantenermi discretamente. Certo, non è stato sempre facilissimo ma…sicuramente divertente! – Rispose concludendo con una risata. Si fermò davanti ad un altro scaffale di libri e lasciò la mano del compagno. – Due anni? Accidenti, sembra un sacco di tempo. –
- Sì, abbastanza. Dopo un po’ però mi sono stufato e sono tornato a casa, eheh. – Concluse sbrigativo.
- Avrai conosciuto un sacco di gente e fatto una marea di esperienze…no? – Domandò timido l’altro, cercando di contenere il suo crescente interesse.
- Assolutamente. Sai, il mondo è pieno di persone…interessanti. – Rispose calando in un tono leggermente provocante, che però l’inglese non avvertì minimamente. – Per questo mi piace il titolo del libro! – Esclamò sventolando il volume in mano. – Sarebbe una testata perfetta per rappresentare quella fase della mia giovinezza. Per di più è Orwell, ed è un’opera minore, quindi secondo la mia teoria dovrebbe essere ancora più interessante dei suoi best sellers! Enfin et surtout⁽²⁾, devo assolutamente leggerlo adesso che sono proprio a Londra, ti pare? – Rispose pieno di energia.
L’inglese reagì solo con un cenno di assenso del capo, un po’ confuso da tutto quello che aveva detto con gran velocità. A volte aveva l’impressione che parlasse fin troppo bene la sua lingua. – Quindi sei…più grande di noi altri? – Chiese timoroso, pensando di essere troppo invadente. – Ah, di età dici? Penso di sì, a meno che fra voi non ci sia qualcuno che abbia più di ventisei anni. – Rispose facendogli l’occhiolino.
- Comunque, Arthur, questa libreria è meravigliosa! Mi piace un sacco! – Affermò con slancio guardandosi intorno. – E’ bella vero? – Rispose l’inglese. – Daunt⁽³⁾ è una delle mie preferite. È ben fornita e ha uno stile unico, per non parlare dell’architettura. Riesco a leggere e a studiare divinamente qui dentro. – Un sorriso sincero si dipinse sul suo volto: era pur sempre una sua passione, e non emozionarsi mentre ne parlava era difficile anche per uno riservato come lui. Il francese fissò lo sguardo sull’inglese, estasiato.
- Ehi, ehi, guarda un po’… – Commentò il ragazzo più grande premendo un dito sulla guancia dell’altro, come a prenderlo in giro. – Sai che è la prima volta che ti vedo sorridere come si deve? – Lo fissava con curiosità; gli era sembrato così carino in quel momento. Non avrebbe immaginato di poter osservare un’espressione del genere sul volto di un ragazzo che sembrava così suscettibile e scontroso.
- Ma che..? Non dire fesserie, scemo. – Rispose seccato l’altro dopo aver scostato il dito del francese dal suo viso, arrossendo sulle guance per il leggero imbarazzo e rivolgendo lo sguardo altrove.
- Ahah, era un complimento. – Sorrise con gentilezza. – Dovresti farlo un po’ più spesso. Sei molto più carino quando sorridi. –
- Non sono affari tuoi. – Concluse in tono aspro, rimettendosi improvvisamente a camminare lungo il corridoio per allontanarsi dal francese e da quell’atmosfera che lo stava mettendo decisamente a disagio. Cercò di temperare la fiamma che sentiva espandersi sul volto, dalle guance fino alle tempie.
Che razza di commento era quello? Si domandava prendendosela un po’ con l’altro biondo, un po’ con se stesso: forse si era risentito troppo per aver ricevuto un semplice apprezzamento.
- Andiamo al piano di sopra? – Domandò il francese sporgendosi verso l’inglese, dopo averlo raggiunto in pochi secondi. L’inglese si destò dai suoi pensieri, sorpreso dal vederlo comparire di nuovo al suo fianco così velocemente. Sbuffò contrariato, mentre abbassava lo sguardo verso le mattonelle del pavimento lucido. – ..sì. -
Salirono insieme al primo piano, dove si concentravano la letteratura e le guide turistiche di Gran Bretagna e Irlanda. Passarono diversi minuti in silenzio, lasciando spazio solo al rumore del legno che scricchiolava sotto i loro piedi. Francis poteva distinguere il suono compatto e conciso delle prime gocce di pioggia che cadevano sul tetto e sulle ampie finestre. Si sporse verso una di quelle ed ebbe la conferma che da lì a pochi attimi avrebbe probabilmente iniziato a piovere. Strinse i pugni che teneva nelle tasche della giacca. Cercò con lo sguardo la figura del compagno, e la riconobbe qualche metro più avanti, che esaminava alcuni titoli davanti a uno dei tanti ripiani.
Rimase a distanza, studiandone i comportamenti: gli occhi verdi e vispi che scorrevano i volumi di fronte a lui, i movimenti quasi impercettibili della testa, oscillante prima da un lato e poi dall’altro, le mani che si allungavano fino ad afferrare un tomo spesso, dalla copertina scura, le sue dita esperte che sfogliavano le pagine con grande cura, la sua espressione assorta…gli sembrò una scena così interessante da non volerla interrompere, limitandosi ad osservare il ragazzo da lontano. Qualcosa gli impediva di spezzare quel silenzio, di accorciare quella distanza: trovava piacevole osservarlo nei suoi gesti più naturali; e, di nuovo, gli sembrò carino. Anzi, questa volta lo trovò decisamente affascinante. Forse per l’espressione con la quale era immerso nei suoi pensieri o forse perché stava provando ad osservarlo con occhi imparziali, come se avesse avuto davanti una persona che incrociava per la prima volta.
Prese il cellulare dalla tasca della giacca e impostò la fotocamera. Si avvicinò di qualche passo, in assoluto silenzio, verso l’inglese. Distese il braccio di fronte a lui per poter riprendere la sagoma dell’altro all’altezza del viso. Premette lo zoom per rendere più nitida l’immagine e poterne cogliere i particolari.
Fece un altro passo in avanti. Trattenne il respiro per un istante quando scattò la foto. Era riuscito a cogliere quello che voleva. Tuttavia non fece neanche in tempo a controllare il suo scatto che l’altro ragazzo, voltandosi, si accorse della sua presenza poco più distante da lui. – Che stai facendo? – Domandò insospettito dalla posizione del cellulare che l’altro teneva in mano.
Il francese sorrise disinvolto, abituato a gestire situazioni imbarazzanti come quella, e distese il braccio lungo il corpo. – Mah, stavo solo fotografando qualcosa di bello… – Rispose con un tono ascendente, lasciando volontariamente la frase in sospeso. All’altro biondo non sfiorò minimamente l’idea che potesse essere lui l’oggetto di quelle attenzioni. Rispose distrattamente con un semplice mugugno. Francis si avvicinò ancora di alcuni passi, eliminando la distanza tra lui e l’inglese.
– Ti piacciono le cose belle? – Domandò interessato alla risposta.
L’altro giovane si voltò verso di lui come se non avesse sentito bene la domanda e rispose facendo spallucce. – Dipende da cosa consideri bello, no? – Ripose il volume che aveva in mano al suo posto, sul ripiano dello scaffale. – Ottima osservazione. – Disse il francese, soddisfatto del commento dell’altro biondo.
- Eppure… – Continuò nel suo discorso mentre con le dita sfiorava la copertina di alcuni libri davanti a lui.
- Per colpa di alcuni fattori esterni la nostra percezione della bellezza può venire alterata; e quando questo accade non si è in grado di essere sinceri con noi stessi, non trovi? –
Arthur lo guardò con attenzione, perdendosi per un attimo tra le sue parole. Gli riuscì ancora una volta difficile capire se stesse scherzando o parlasse seriamente, quindi optò per un approccio vago:
- Lo trovi ingiusto? – Continuava a studiarlo con gli occhi. – Tu no? – Distolse lo sguardo dai libri e lo rivolse verso il viso dell’inglese al suo fianco. – A cosa hai pensato quando ho parlato di “fattori esterni”? –
Arthur esitò a trovare una risposta. Non è che avesse dato tutto quel peso alle sue parole e dovette concentrarsi per fingere una qualche risposta ben ponderata e convincente. – Dove siamo nati e cresciuti? La cultura? La società nella quale viviamo? L’ambiente? –
Il francese sorrise inarcando le sopracciglia. – Mmh, molto bene. A me invece la prima cosa che è venuta in mente tra i “fattori esterni” sai qual è stata? – Domandò retorico, solo per il gusto di creare un’attesa non necessaria; infatti non lasciò all’inglese il tempo per rispondere. – La morale. –
Arthur inclinò appena la testa da un lato. Aveva davvero voglia di intraprendere un discorso del genere? O forse avrebbe fatto tutto quel giro di belle parole per giungere ad una conclusione molto più frivola? In ogni caso, decise di stare al suo gioco. – Pensi che sia seccante? – Gli domandò, curioso di sentire la risposta; non che si aspettasse troppo da un francese libertino.
- No, non direi…ma devi riconoscere che è il maggiore freno alle passioni umane più profonde. –
- Ed è un male per te? – C’era un filo di rimprovero nel tono che aveva usato.
- Questo dipende da quanto si è disposti ad accondiscendere ai principi etici che ci vengono imposti. – Si infilò le mani in tasca, analizzando il colore degli occhi dell’altro: non aveva mai fatto caso prima che fosse di un verde così intenso.
- Rinunciare a qualcosa, a qualcuno, a compiere un’azione, o abbandonare una certa condotta solo perché non sarebbe consono per il resto della società, o risulterebbe politicamente scorretto. – Fece una breve pausa. – Ti sarà capitato almeno una volta? –
Distolse di colpo lo sguardo dal francese. – Probabile. Ma non capisco cosa c’entri con quello che dicevi prima. – Francis lo scrutò con ancora maggior attenzione, mentre un sorriso malizioso si dipingeva sulle sue labbra. – “Non si fa”, “Non va bene”, se ci pensi sono tutte sentenze senza alcun fondamento. Se proverai a contestarle a qualcuno chiedendo “perché?” riceverai sempre la stessa risposta: “perché sì”. Ma quella non è certo una spiegazione valida e motivata. È una conseguenza delle imposizioni alle quali siamo soggetti: non capire perché sia così, ma imparare che non può essere altrimenti. Lo trovo davvero crudele. –
Prestò attenzione a tutte le parole dell’altro, con lo sguardo rivolto verso il basso, fisso sul legno del pavimento. Forse si stava impelagando in un argomento troppo impegnativo per un’uscita spensierata in libreria. – Forse senza limiti di questo genere sarebbe anche peggio. Senza certezze o norme comportamentali da seguire ci si potrebbe affidare solo al buonsenso della gente…e non tutti ne hanno a sufficienza. – Rispose alzando di poco gli occhi. – O forse sei uno a cui le regole non piacciono a prescindere? – Domandò rivolgendo completamente lo sguardo verso l’altro, con un filo di scherno nella voce. Il francese, che non era certo tipo da tirarsi indietro, accettò la provocazione del compagno e rispose a tono: – Se devono limitare le mie attività preferite direi proprio di sì. –
L’irritazione che si manifestava dall’espressione dell’inglese aumentò. Che tipo noioso che era, così insostenibile in qualsiasi argomento ci si venisse a trovare: o era troppo o troppo poco…quel ragazzo sembrava davvero non avere mezze misure, e il tono presuntuoso che utilizzava non faceva altro che aumentare la sua ostilità verso di lui.
- Penso che l’unica cosa importante sia rispettare l’altro e non approfittarne in nessun modo. Se queste due condizioni vengono mantenute, a mio giudizio, non c’è bisogno di nessun’altra regola. Sono convinto di questo. – Disse il francese con un’espressione seria sul viso.
- Sembra facile così. – Disse l’altro in tono sommesso. – Sono sicuro lo sia! – Disse il francese sorridendogli. – Questo vale soprattutto nei rapporti umani e nella sessualità. –
L’inglese lo guardò circospetto, senza rispondere. Francis, interpretando quello sguardo come un invito a spiegarsi meglio, continuò nella sua esposizione. – Nelle relazioni affettive, per esempio, crollerebbero molti stereotipi considerati negativi quali l’eccessiva differenza d’età e la differenza dei sessi. –
Arthur inarcò un sopracciglio. Chissà perché ma non lo stupiva minimamente il fatto che la conversazione fosse andata a finire proprio su quegli argomenti. Tutto gli sembrò improvvisamente una scusa bella e buona, e se ne risentì. – Insomma, basta stare in pace con la coscienza e puoi portarti a letto chi ti pare? E’ a questo che giungono i tuoi raffinati ragionamenti filosofici? – Domandò con sufficienza.
L’altro ragazzo lo guardò con aria sbigottita. Forse si era spiegato male? Sbatté le palpebre degli occhi un paio di volte, come se stesse cercando le parole giuste da utilizzare.
- Ci sono un sacco di modi di stare insieme ad una persona: il sesso è uno di questi. Ovviamente avrà caratteristiche, moventi e fini differenti a seconda dell’uomo o donna che scegliamo ma…penso che sia un argomento da dover affrontare senza timore in una relazione tra persone adulte e consapevoli. –
- Quindi ti basta che l’altra persona sia d’accordo e vai con chiunque? – Domandò ancora più irritato. Il francese per tutta risposta si lasciò andare ad una leggera risata. – Eheh, se sono interessato certo. Come ti dicevo esistono diversi tipi di relazione sessuale. – Una vena di malizia colorò la sua ultima affermazione.
- Esiste l’avventura di una notte, la relazione puramente sessuale stabile e duratura, gli incontri saltuari, la ricerca di nuove esperienze, per non parlare della diversità che esiste tra esperienze col sesso opposto o con il proprio. – Rispose con grande serenità.
- Ma che sei una specie di sessuologo tu?! – Chiese al francese alzando leggermente la voce.
- Ahahah! Un sessuologo? Mmh, no..direi di no. – Rispose vago, continuando a ridere.
L’inglese, non apprezzandone l’umorismo, si voltò dall’altra parte e cominciò a camminare lungo il corridoio. L’altro biondo lo seguì e lo raggiunse, continuando a camminargli accanto. – Ehi, ehi, che succede? Forse ti imbarazza l’argomento del sesso? – Domandò, stavolta senza malizia. – Perché dovrebbe? – Rispose brusco, senza guardarlo in faccia. – Mah, non saprei. Forse sei un po’ timido? –
- Non sono timido per niente! Tu, piuttosto, sei davvero assillante. Perché ogni tanto non fai riposare i muscoli della bocca? – Di nuovo era riuscito ad essere sincero al punto da risultare offensivo. E la cosa che più lo stupiva era che non se ne sentiva minimamente in colpa. – Ah, pardon!⁽⁴⁾ Ti ho fatto arrabbiare di nuovo, eheh. – Disse accompagnando le scuse con dei piccoli e rapidi cenni del capo.
Arthur si voltò verso il francese, guardandolo con un misto di stizza e curiosità: anche questa volta le sue parole dure non avevano avuto l’effetto che si sarebbe invece aspettato nei confronti di qualunque altra persona nella stessa situazione. Sembrava avere una specie di scudo protettivo contro il suo disprezzo e cinismo. Questo poteva non essere esattamente un vantaggio per lui: se avesse voluto allontanarlo in qualche modo non sarebbero bastate le sue occhiate ostili o i suoi insulti gratuiti. Alla fine le sue intuizioni si erano dunque rivelate corrette: sarebbe stata una persona estremamente fastidiosa.
- Cos’è quella faccia? – Domandò con un sorriso Francis.
L’inglese sembrò destarsi da un sogno, immerso com’era nei suoi pensieri. – Ah? No, niente. – Rispose incerto distogliendo lo sguardo dall’altro ragazzo.
Il francese cominciò a fischiettare. – Allora, dove altro andiamo adesso? – L’inglese riprese le scale per dirigersi nuovamente al piano terra. – Io andrò a casa mia, e tu tornerai al tuo dormitorio. – Rispose con voce cadenzata, scendendo con calma i gradini. – Oh, hai da fare? – Una piccola smorfia di insoddisfazione si dipinse sul viso del ragazzo più grande. Non diede all’inglese il tempo di pensare a una risposta. – Quando mi porti di nuovo in giro allora? – Domandò tutto esaltato. Dopo aver toccato il parquet del piano terra Arthur si voltò verso Francis, ancora sulle scale, e gli rispose il più persuasivo possibile.
- Ti conviene cercare un’altra guida, ok? Non sono così disponibile. – E riprese a camminare verso l’uscita senza aspettare una risposta dall’altro e senza curarsi del fatto che rimanesse indietro. Si fermò solo quando si sentì afferrare per un braccio, venendo strattonato in un’altra direzione.
- Ehi, dov- – Non ebbe il tempo di lamentarsi abbastanza col francese che quest’ultimo si voltò verso di lui e gli rispose con un sorriso luminoso, mentre continuava a portaselo dietro, verso le casse della libreria.
– Pago il libro, ok? – In pochi metri entrambi giunsero alla fila per pagare gli acquisti e l’inglese non oppose ulteriore resistenza, limitandosi ad aspettare il loro turno in silenzio, accanto all’altro.
Una volta giunti in cassa Francis pagò il suo volume, non senza profondere ammiccamenti e occhiate stuzzicanti alla ragazza in cassa, graziosa com’era. Si sentì nauseato da quell’atteggiamento marpione sopra ogni limite di decenza e si staccò dal compagno, avviandosi verso l’uscita per aspettarlo lì. Superò le porte e si ritrovò a respirare l’aria gelida che spirava lungo la strada, insinuandosi nei vicoli. La scarica di pioggia era durata poco per fortuna, ma aveva lasciato un’impronta di umidità notevole, accompagnata dal profumo balsamico di foglie bagnate. Si strinse nel cappotto, cercando di scaldarsi. Ormai era iniziato novembre e il clima della sua amata isola non era certo mite in quel periodo. Estrasse il cellulare per vedere che ore fossero. Le undici e trenta. Potevano prendersela comoda: alla lezione di quel giorno mancava più di un’ora.
Rimase ancora pochi istanti ad attendere da solo all’uscita della libreria. Il francese lo raggiunse con aria soddisfatta sventolando nuovamente il volume appena acquistato. – Se non l’hai già letto ti dirò cosa ne penso, va bene? – Disse quasi canticchiando, mentre riponeva il libro nello zaino. – Mh. Va bene. – Rispose in tono neutrale. I due ripresero a camminare in direzione della stazione della metro e fu stranamente l’inglese a intraprendere una nuova conversazione dopo pochi minuti di silenzio.
- Conoscevi già gli altri ragazzi dello scambio? – Domandò improvvisamente, senza distogliere lo sguardo dalla strada. Il francese voltò il viso verso l’altro, contento di poter continuare a chiacchierare.
- In realtà no. Ci siamo conosciuti la sera stessa del nostro arrivo a Londra. Nella graduatoria del bando pubblicata sul sito dell’università c’erano i nominativi e i recapiti mail di tutti i vincitori e ci siamo messi in contatto in quel modo. – Si tirò indietro una ciocca di capelli biondi – Abbiamo deciso che sarebbe stato carino incontrarci tutti insieme almeno una volta prima di iniziare qui l’università. Perciò, la sera prima ci siamo fatti una birra al pub e ci siamo presentati. –
- Beh, sembrate andare molto d’accordo. – Commentò voltando lo sguardo per la prima volta verso il francese. – Sono tutte brave persone. Ci siamo trovati subito bene insieme. – Rispose sorridente.
- Come ti trovi all’università? E l’alloggio? – Continuò a domandare il ragazzo più giovane. Francis non poté fare a meno di lanciargli un’occhiata piena di stupore: sembrava particolarmente bendisposto e curioso, oltre che più loquace del solito. – Mi piace l’università. Sono molto contento della scelta che ho fatto. Inoltre il dormitorio è confortevole e anche gli altri ragazzi sono tutti cordiali. – Lo fissò per alcuni istanti senza aggiungere altro. – E tu? – Chiese inclinando leggermente la testa da un lato. – Come ti vanno le cose? – I due si fermarono ad un semaforo pedonale per raggiungere l’altro lato del marciapiede. Arthur tornò a fissare negli occhi il francese con aria sciatta. – Tutto bene, grazie. -
Il cielo sembrava tornare ad aprirsi: un tiepido raggio di sole si fece strada tra le nuvole scure andando ad illuminare un tratto della via. Tra il fragore dei motori delle automobili e il brusio delle persone intorno a loro si riuscirono a distinguere alcuni cinguettii dai rami degli alberi sopra le loro teste.
- Ti manca Parigi? – Il francese inarcò le sopracciglia, sorpreso più di prima da tutti quei quesiti. Prima che potesse rispondere il semaforo si fece verde, e fu costretto ad incamminarsi lungo le strisce pedonali insieme all’inglese, ritardando di qualche secondo la risposta. – A dir la verità non particolarmente. Almeno per adesso. – Stava pensando di aggiungere qualche commento positivo nei confronti della città di Londra, elencandone i numerosissimi luoghi di piaceri e divertimento, la vita notturna sfrenata e senza regole, nonché i grandi poli d’attrazione, ma l’altro biondo lo precedette.
- Mi sarebbe piaciuto fare un’esperienza come la tua, sai? – Disse salendo sul marciapiede.
- Davvero? – Domandò incuriosito Francis. – Forse non ne hai avuto le possibilità..? – Disse in tono interrogativo e lasciando la frase in sospeso. L’inglese sospirò mentalmente. – In realtà avrei potuto partecipare al bando per l’Erasmus con ottime possibilità di rientrare nei primi tre posti a partire dal terzo anno in poi, però…non l’ho mai fatto. –
Francis gli rivolse uno sorriso comprensivo. – Forse non avevi davvero voglia di allontanarti da qui. Potrebbe essere così? – Domandò cercando di non stuzzicare troppo la sua suscettibilità.
Arthur restò pensieroso alcuni secondi, mentre respirando lasciava uscire dalle labbra delle piccole nuvole di vapore che si dissolsero immediatamente al contatto con l’aria fredda dell’esterno. – Forse è così… -
Il francese osservava interessato l’altro biondo. Quand’era tranquillo poteva essere addirittura piacevole parlare con lui. Probabilmente doveva solo imparare a non essere troppo indisponente nei suoi confronti, anche se, doveva ammettere, a volte era davvero allettante l’idea di provocarlo. Trovava spassose e appaganti le sue energiche reazioni cariche di risentimento, e nonostante la sua schiettezza sorpassasse molto spesso i limiti dell’educazione, gli regalava un godimento indescrivibile.
Decise di cambiare argomento vedendo l’inglese lievemente incupito. – Comunque Londra, al di là dei giudizi che mi hai già sentito esprimere.. – Disse con un sorriso ironico, rievocando il ricordo del battibecco al pub. – ..trovo che sia uno spasso! – Lanciò un’occhiata al più giovane con la coda dell’occhio per osservarne le reazioni. – E proprio per questo vorrei godermela per bene finché sarò qui. A questo proposito chi potrebbe essere più adatto di te come mentore, visto che ci sei nato e cresciuto? –
- Guarda che se abbiamo concetti molto dissimili di “divertimento” non penso proprio di poterti aiutare nella scelta dei luoghi da frequentare. – Rispose con una vena di sarcasmo. – Ahahah, ma no. Io sono un eclettico! Divido il mio tempo in molte attività differenti. – L’inglese sembrò non gradire, come molte altre volte, la sua nemmeno troppo velata malizia e gli lanciò un’occhiata di rimprovero, frenando il suo istinto di ribattere. Il francese si adoperò per rimediare. – E comunque, il mio hobby prediletto è la lettura. – Disse sorridendo, rivolto al compagno. – Apprezzo sia la prosa che la poesia. – Fece una pausa pensando a come spronare l’inglese a confrontarsi. – Hai un autore preferito per caso? – Domandò con tono ascendente.
– Non penso di averne uno solo in particolare, ma sicuramente riconosco quali sono quelli che apprezzo di più. – Rispose scorgendo in fondo al marciapiede la stazione della metro. – E non vorresti dirmi chi sono? – Lo pregò il biondo più alto. Arthur per tutta risposta gli rivolse una smorfia di noia. – No. – E così dicendo si affrettò verso le scale della stazione senza preoccuparsi che l’altro gli stesse dietro.
Francis sospirò, piegando le labbra in un sorriso compiaciuto, e sveltì il passo per raggiungere l’inglese dal carattere piacevolmente lunatico lungo le scale.
- Que enfant terrible⁽⁵⁾… -

 

 

⁽¹⁾ Titolo originale “Down and Out in Paris and London”
http://en.wikipedia.org/wiki/Down_and_Out_in_Paris_and_London
⁽²⁾ “Ultimo, ma non meno importante”, in francese.
⁽³⁾ Famosa libreria (bookshop) di Londra. http://www.londraweb.com/daunt_bookshop.htm
⁽⁴⁾ “Scusa”, “Perdono”, in francese.
⁽⁵⁾ “Che bambino/ragazzino difficile/tremendo”, in francese.

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Capitolo 6
*** Capitolo 6 ***


- Buongiorno Arthur! -

- Buongiorno signora Parsons. – Rispose gentilmente, mentre gettava la busta dell’immondizia nel cassonetto. – Questo è il tuo ultimo anno giusto? – Domandò la donna mentre cercava di trattenere il cane al guinzaglio. – Già. – Rispose il ragazzo abbassandosi un poco per poter accarezzare sulla testa il pastore tedesco della sua vicina. – Se tutto va bene a dicembre prossimo dovrei essermi laureato. –

- Aah, che meraviglia. Sono sicura che ce la farai con il massimo dei voti! Sei un ragazzo in gamba. –

- Grazie mille. Lo spero. – Rispose con un lieve sorriso, tornando nella sua posizione iniziale. – Mi raccomando, però: non stancarti troppo. Un giovane carino come te dovrebbe pensare anche ad altre faccende. – Disse la signora con un filo di malizia nella voce. Arthur strappò una piccola risata. – Non si preoccupi. Non esagererò. –

Salutò con un cenno della mano la sua vicina, mentre si avvicinava ai gradini dell’entrata del suo appartamento. Era una domenica mattina piuttosto nuvolosa, ma per fortuna asciutta. Raggiunse il piano superiore e tornò in camera sua, dove stava studiando le sorelle Brontë. Sfogliò qualche pagina del libro di letteratura che aveva aperto sulla scrivania, poi afferrò dalla sua piccola libreria una raccolta di poesie delle tre sorelle e andò all’indice. Gli era già capitato di studiare la loro poetica ovviamente, così come già conosceva un numero discreto delle loro poesie, e fra le tre quella che apprezzava di più era sicuramente Emily. Si passò una mano sulla fronte, un poco assonnato, mentre con gli occhi scorreva i versi della pagina alla quale aveva aperto il volume. La sua concentrazione fu distolta dalla suoneria del cellulare che iniziò a squillare prepotentemente interrompendo l’atmosfera di silenzio che avvolgeva la stanza. Si allungò velocemente verso l’apparecchio, facendo prima ben attenzione a vedere da parte di chi fosse la chiamata. Era sua madre. Poteva rispondere tranquillamente.

- Mamma. – Disse affettuosamente appena premette il pulsante per accettare la chiamata.

- Arthur. – Rispose la donna con grande gioia. – Come stai tesoro? – Il ragazzo si appoggiò sullo schienale della sedia. – Tutto bene. Stavo studiando qualcosa. –

- Ah, vuoi che ti chiami più tardi forse? – Domandò dispiaciuta, temendo di averlo disturbato. – Ma no, figurati. Ho più voglia di parlare con te che leggere saggi di critica del mio libro. – Fece una piccola pausa.

- Tu e papà come state? – La voce della donna dall’altro capo del telefono rispose calda nel cellulare.

– Noi stiamo benissimo. Sai, alla fine papà ha detto che mi porta al concerto di Natale a St Luke.⁽¹⁾ –

- Davvero? – Chiese con entusiasmo. – Me ne avevi parlato domenica scorsa. Quindi alla fine ha ceduto? –

La donna rise appena. – Mh, penso proprio di sì. – Disse con un filo di soddisfazione nella voce. – Ah, Arthur…senti ma, va tutto bene lì da te? Voglio dire..il cellulare funziona bene? Hai forse problemi di rete o ricezione in questo periodo? – Il ragazzo fu sorpreso da quella domanda. – No. Nulla di simile, funziona tutto alla perfezione. Come mai? Hai provato a chiamarmi altre volte ma non ci sei riuscita? –

- No, non io. Ma..vedi, Alfred mi ha mandato un messaggio l’altro giorno dicendo che non riusciva a mettersi in contatto con te, e mi sono preoccupata. –

Arthur avvertì come un soffio al cuore quando sentì quelle parole. Il segno del libro che aveva mantenuto fino a quel momento fu riassorbito dalle pagine quando queste si richiusero violentemente, nel momento in cui le dita gli scivolarono dal volume. Rimase con lo sguardo fisso sulla scrivania, senza riuscire a dire niente per alcuni secondi che parvero ad entrambi interminabili.

- Arthur, sei lì tesoro? – Domandò la madre. Il ragazzo sbatté le palpebre più volte, cercando di tornare alla realtà e inspirò profondamente. – S-sì…ma, quindi che t’ha detto? – Chiese con tono smorzato. – Bè, mi ha detto che ti aveva prima mandato una lettera. Ti aveva scritto di fargli sapere se l’avevi ricevuta o meno ma non gli è giunta alcuna conferma. Quindi non ti è arrivata questa lettera, suppongo? –

Arthur rimase in silenzio. Non sapeva se dirle o meno come stavano davvero le cose. Gli sembrò troppo complicato, e non ne aveva la minima voglia. Prima che potesse ricevere una risposta dal figlio la donna riprese a parlare. – Anche perché poi mi ha scritto che ti aveva mandato un messaggio, ma non gli hai risposto. Non hai ricevuto neanche quello? –

L’inglese si alzò dalla sedia, dirigendosi verso la finestra della sua stanza. Scostò la tenda, soffermandosi con lo sguardo sul cielo plumbeo. Era come se si fosse scordato di stare al telefono con la madre: continuava a restare in silenzio non sapendo né cosa né come rispondere. – Arthur, mi senti? Arthur? – Domandò la donna cominciando a preoccuparsi. Un nodo alla gola gli fece mancare il fiato. Odiava essere messo alle strette, ma non poteva certo attaccare il telefono in faccia alla madre senza darle una motivazione di qualche tipo. Per quanto odiasse essere infantile, in quel momento avrebbe di gran lunga preferito scappare, senza rendere conto a nessuno delle sue scelte, avrebbe preferito che nessuno interferisse in quella faccenda. Socchiuse gli occhi, abbassando lo sguardo.

- Non verrà. – Rispose sintetico e sommesso. La madre indugiò nell’elaborare una risposta; d’altronde, non era neanche sicura di aver capito bene cosa intendesse il figlio con quella sentenza a bruciapelo.

– Che intendi dire? –

- Alfred non viene quest’anno. – Aggiunse rapidamente, sperando che l’effetto di quelle parole gli risultasse più indolore rispetto all’ultima volta. La donna respirò a fondo. – Ah… – Non riuscì ad aggiungere altro. Non sapeva se fosse meglio affrontare l’argomento direttamente oppure limitarsi a rimanere nei propri confini di interesse. Nonostante fosse suo figlio perfino lei, come madre, aveva spesso difficoltà a capirne i sentimenti e l’inclinazione. – Non dirglielo, va bene? – Continuò il ragazzo, rendendo quella frase più simile ad una supplica che ad una richiesta. – Non deve saperlo. – Aggiunse.

La donna sospirò mentalmente. Non sapeva cosa fosse successo tra i due, ma sicuramente erano maturi abbastanza da potersela cavare da soli. Non erano più bambini, e non avrebbero avuto bisogno di indebite mediazioni. – Hai ricevuto sia la sua lettera che il messaggio quindi? – Domandò col maggiore tatto di cui disponesse in quel momento. – Sì. – Rispose il figlio. Fece una lunga pausa prima di aggiungere qualcos’altro. – Per favore, se ti contattasse di nuovo riferiscigli che non ho nulla da dirgli. – Disse scuro in volto, mentre lasciava ricadere la tenda sulla finestra. – Digli anche.. – Fece per aggiungere, interrompendosi solo per deglutire. – ..che sono molto impegnato in questo periodo e non ho il tempo di stargli appresso. –

La voce del ragazzo sembrava distante, fredda, quasi estranea alle sue orecchie. La madre si portò una mano vicino la bocca, come a trattenere parole indiscrete, che avrebbero potuto ferirlo maggiormente. Si sentì impotente, nonostante si trovassero nella stessa città, a pochi chilometri di distanza. Ma allo stesso tempo era anche consapevole che quel figlio non le avrebbe permesso facilmente di aiutalo, di avvicinarsi al punto da comprendere le sue afflizioni.

- Arthur…posso passare da te domani, se vuoi. – Propose timidamente. – Non preoccuparti. Non ce n’è bisogno. Sto benissimo. Inoltre domani avrei pochissimo tempo da dedicarti, e mi spiacerebbe. – Concluse il giovane tornando a deboli passi verso la scrivania. – Va bene. Come preferisci. – Rispose non sentendosela di insistere. – Però a me e tuo padre piacerebbe rivederti prima di Natale. –

- Certo. Anche a me. – Prese in mano una matita con la quale iniziò a giocherellare, in piedi di fronte alla sua scrivania. – La prossima settimana mi organizzo. Ti faccio sapere, ok? –

- Va bene tesoro. Allora…ti lascio allo studio. – Disse la donna, esitante nelle ultime parole. In qualche modo sperava di poterlo trattenere di più, ma non ne avrebbe mai avuto la risolutezza necessaria. – Va bene mamma. Saluta anche papà. – E dopo pochi altri scambi di battute interruppe la conversazione. La stanza tornò nella quiete, mentre il suo animo precipitò nuovamente nel turbamento e nell’amarezza. Avvicinò il portatile al bordo della scrivania e lo accese. Era curioso di vedere fino a dove poteva arrivare l’accanimento di quell’infantile insensibile. Si sedé sulla sedia e poggiò il cellulare da un lato, aspettando che si caricasse la schermata. Tamburellava con le dita sul legno della scrivania. Dopo aver effettuato l’accesso nel suo account e dopo aver aspettato qualche istante per permettere ai programmi di caricarsi, aprì la sua casella di posta, impaziente. Come si aspettava.

Alfred aveva provato a contattarlo anche per mail. Lasciò il puntatore del mouse sopra il messaggio dell’amico ancora non aperto, incerto se leggerlo o meno. Stava per decidersi a eliminarlo senza accertarsi del contenuto, quando il suo cellulare squillò di nuovo. Lo afferrò con la mano e osservò con attenzione lo schermo per riconoscere il mittente, ma il numero era sconosciuto. Si insospettì leggermente, ma preferì rispondere alla chiamata. – Pronto? – Rispose, per niente cordiale.

- Oh…quel tono spaventerebbe di certo chiunque. – Commentò la voce dall’altra parte, divertita. L’inglese cercò di prestare maggiore attenzione: non aveva idea di chi potesse essere.

- Ma chi è? – Domandò un po’ irritato.

- Ahah, non mi riconosci Arthur? –

L’inglese rimase in silenzio, non riuscendo a credere che fosse davvero chi gli era venuto in mente. Aveva riconosciuto un accento strano nella voce e anche una certa intonazione che non gli erano sconosciuti. Attese qualche secondo in silenzio, temendo di fare una figuraccia nel caso in cui la sua ipotesi fosse risultata errata. – ..Francis? – Domandò con un notevole tentennamento.

- Oui, Réponse exacte!⁽²⁾ – Esclamò a gran voce il francese, soddisfatto.

- Come diavolo hai avuto il mio numero?! – Proruppe a gran voce l’inglese, sbattendo una mano sulla scrivania. Il francese invece sembrava divertirsi un mondo dall’altra parte del telefono, ascoltando le reazioni del suo nevrotico compagno di corso. – Eheh, me lo sono fatto dare dal gentilissimo Kiku. –

- Cosa?! – Gridò pieno di stupore. – Su, non agitarti così. Non sono il tipo di stalker che immagini, è solo che mi serviva per informarti di una cosa. – Disse col suo solito tono tranquillo e pacato. – Cioè? – Domandò impaziente. Francis piegò le labbra in un sorriso. – Allora, dato che venerdì prossimo è la notte di Guy Fawkes⁽³⁾ stavamo pensando di andare a bruciare un po’ di fantocci nei falò. – Rise divertito.

Arthur sospirò appena. – E va bene, bruceremo fantocci tutto il pomeriggio allora. – Rispose frettolosamente, impaziente di terminare la conversazione. – Oh, fantastico! D’altronde, non avremmo accettato alcuna risposta di altro tipo, eheh. – Mormorò tra sé il francese. – Ora però stavo studiando. – Disse l’inglese, impegnandosi a raggiungere l’intonazione corretta al fine di non sembrare sgarbato. – Oh, va bien.⁽⁴⁾ Tanto ci vediamo domani a lezione. – Disse col tono di chi aspetta una conferma alle proprie asserzioni. – Sì, certo. A domani. –

- A domani, Arthur. –

 

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Arthur si sporse dalla finestra.

Faceva decisamente freddo e gli sembrò che l’aria gelida di gennaio gli tagliasse le guance rosse. Tuttavia la curiosità lo spingeva a restare affacciato: era da quella mattina che nell’abitazione a fianco vi era un continuo via vai di gente, operai, camion dei traslochi…tutto quello lo rendeva stranamente eccitato. Nonostante fosse ancora un bambino di dieci anni si era sempre dimostrato molto sveglio ed estremamente curioso. – Arthur, levati da lì o farai entrare il freddo in casa. – Lo ammonì il fratello maggiore, Barclay, tirandolo per un braccio. Il ragazzo richiuse la finestra e, voltatosi di nuovo verso il fratellino, gli fece una veloce carezza sulla testa per poi allontanarsi senza aggiungere altro.

Nonostante questo, l’inglese si riavvicinò alla finestra del salone, questa volta senza aprirla, e continuò ad osservarne l’esterno. – Non sapevo la signora Jones avesse una sorella. – Commentò in tono asciutto il giovane dai capelli rossicci, sedendosi svogliatamente sul divano e accavallando le gambe. – In realtà neanch’io. Non ne aveva mai parlato. – Rispose la madre, seduta sulla sedia del tavolo che si trovava al centro del salone, interrompendo per un momento la sua lettura. – Comunque, sembra che non fossero esattamente in buoni rapporti. – Aggiunse tenendo il segno del libro con un dito. Il figlio maggiore si lasciò andare a un sogghigno divertito. – Forse è per questo che non ne ha mai parlato. –

- Certo che…ritrovarsi così, da un giorno all’altro, con un nipote che si conosce appena in casa propria… – Lasciò la frase in sospeso, seria in volto. – Dev’essere dura. –

- Papà ha detto che ce n’è anche un altro: quel ragazzino ha un fratello. – Disse Barclay, mantenendo la sua posizione rilassata sul comodo divano. – Cosa? – Domandò la donna piena di stupore. – Questo non lo sapevo. – Un’occhiata le cadde sul figlio più piccolo che si trovava ancora vicino alla finestra, ma questa volta con lo sguardo rivolto verso di loro, quasi a cercare di capire di che stessero parlando. La madre gli fece cenno con la mano di avvicinarsi, e istintivamente il bambino la raggiunse sorridendo.

Lo afferrò, facendolo sedere sulle sue ginocchia, e cominciò a carezzarlo. – Mi raccomando Barclay, così come ho detto ai tuoi fratelli, parleremo di questo argomento solo all’interno delle nostre mura di casa: sarebbe estremamente maleducato andare a spettegolare in giro. – Il giovane fece una smorfia, bofonchiando qualcosa di incomprensibile. Poi, mentre stendeva le braccia verso l’alto in un sonoro sbadiglio, aggiunse. – Sai almeno come sono morti i genitori? –

- Barclay! – Esclamò la donna, colpita dalla sfacciataggine del figlio. – Ti prego… – Disse con tono sommesso, dando uno sguardo al figlio più piccolo sulle ginocchia. – Ehi, era solo per chiedere. – Rispose il giovane giustificandosi, mentre alzava le mani in segno di innocenza.

- Allora è vero che si è trasferito qualcuno? – Domandò Arthur introducendosi nella conversazione. La madre preferì rispondere prima che potesse farlo l’altro figlio. – Sì. – Disse annuendo col viso. – Hai presente la signora Jones? – Domandò senza aspettare una risposta. – Bè, adesso non abiterà più da sola. –

- Papà ha detto anche che erano di Washington se non sbaglio.. – Continuò con le sue supposizioni il giovane più distante. – Ma con chi ha parlato tuo padre? – Domandò la donna. – Ahah! Sai, penso proprio che la signora Jones questa mattina avesse un gran bisogno di confidarsi con qualcuno! – Esclamò continuando a ridere a gran voce. – Barclay! Smettila subito! Ti sentiranno persino gli operai nell’altro appartamento se non abbassi la voce! – Lo rimproverò la madre, cercando di zittirlo. Era incredibile come quel ragazzo non avesse il minimo senso della misura.

- Quindi si sono trasferiti due bambini da Washington perché hanno perso i genitori? – Domandò il più piccolo dei figli. – Arthur, tesoro, non penso siano due bambini con cui pot- – La donna non riuscì neanche a terminare la frase che venne interrotta. – Ora ce n’è solo uno Arthur, e ti consiglio di non farti troppe illusioni: non penso sia molto socievole al momento. – Commentò piuttosto diretto il fratello.

- In che senso ce n’è solo uno? Dov’è l’altro? – Domandò la madre, riprendendo a carezzare Arthur sulla schiena. – La signora Jones stamattina ha detto che è arrivato solo il più grande. L’altro lascerà Washington la prossima settimana. – La donna sospirò profondamente. Era davvero una brutta situazione. Il solo pensare che una cosa del genere potesse capitare alla sua famiglia, ai suoi figli, le insinuava un’angoscia indescrivibile. Perdere entrambi i genitori in un incidente stradale, ritrovarsi sballottati tra assistenti sociali, psicologi e parenti quasi sconosciuti, e infine essere spediti su un altro continente, dall’altra parte dell’oceano Atlantico, certo non era una delle esperienze di vita più piacevoli. Figuriamoci per dei bambini così piccoli. Quei pensieri la addolorarono e la fecero incupire in volto, ma d’altronde non c’era niente che lei potesse fare per loro. Sfiorò la testa del bambino sulle sue ginocchia, massaggiandone i capelli morbidi. Poi si rivolse al maggiore. – Barclay, forza, aiutami a preparare la cena. –

Il giovane inspirò profondamente, come per riacquistare le forze, e si tirò su dal divano con uno scatto veloce. – Ok, ok. Andiamo. – Disse avvicinandosi alla sedia dov’era seduta la madre. Afferrò il fratello più piccolo, facendolo alzare dalle ginocchia della donna, la quale quindi poté alzarsi. – Tesoro, tu puoi andare in camera tua a finire i compiti o a giocare se vuoi. Io e Barclay siamo in cucina, va bene? – Disse la madre con tono dolce, dandogli un’ultima carezza sulla guancia prima di dirigersi in un’altra stanza insieme al ragazzo.

Arthur rimase solo nell’ampio salotto. Pensava a quello che aveva ascoltato, amareggiato per la triste storia di quei due bambini. Eppure, nonostante il dispiacere, continuava a infiammarlo una grande curiosità: non appena aveva sentito del trasloco, nella confusione di quella mattina, e della presenza di un bambino, non aveva potuto trattenere una grande gioia. Sperava che quella potesse essere un’occasione per fare amicizia e trovare un amico con cui spendere insieme i pomeriggi e le giornate di festa. Non che a scuola non ne avesse, però non con tutti si trovava a suo agio allo stesso modo. Inoltre, abitando nel West End⁽⁵⁾, vicino al quartiere Mayfair⁽⁶⁾, erano pochi i compagni di classe disposti a venirlo a trovare a casa, abitando quasi tutti in zone molto più periferiche. Per non parlare di altri che invece lo consideravano o troppo snob o troppo bizzarro per essere frequentato.

Che fosse di buona famiglia e di condizione benestante non era certo un segreto, ma d’altro canto la sua famiglia aveva desiderato che lui e tutti i suoi fratelli studiassero in una scuola pubblica come tante, ed erano riusciti a crescerli senza renderli viziati. L’atteggiamento di diffidenza che molti gli riservavano era dettato solo da pregiudizi infantili, per i quali vivendo nelle vicinanze di Piccadilly⁽⁷⁾ dovesse essere necessariamente un certo tipo di persona. Un altro aspetto che non giocava a suo favore riguardava la sua indole: non era mai stato un bambino loquace o particolarmente impegnativo; anzi, la sua natura lo rendeva un timido e un introverso, lasciando spesso pensare agli altri bambini che fosse semplicemente un tipo solitario che non aveva voglia di interagire.

Di conseguenza, la sua infanzia non era stata particolarmente ricca di amicizie.

Si mosse nuovamente verso la finestra, guardando al di là del vetro reso quasi cristallino dal ghiaccio che vi si era depositato. Continuava a vedere i camion accostati al marciapiede e uomini che entravano e uscivano trasportando casse e attrezzi di diverso tipo, ma questa volta fu qualcos’altro che colpì la sua attenzione: seduto sul marciapiede, a maggiore distanza dal via vai degli operai, c’era una persona, anzi un bambino.

Si stringeva nelle ginocchia, guardando fisso davanti a sé; era piccolo, molto più piccolo di lui. Vide poi la signora Jones uscire dall’appartamento, parlando con uno degli addetti ai lavori, e quindi avvicinarsi al bambino più in là, abbassarsi su di lui e poggiargli una mano sulla testa. Gli disse qualcosa, e dopo pochi secondi si rialzò e tornò sui suoi passi, rientrando in casa. Non c’era dubbio: quel bambino era il nuovo arrivato dall’America.

Arthur strinse i pugni davanti la finestra. Desiderava avvicinarlo. Desiderava parlargli. Tese un orecchio per essere certo che la madre e il fratello fossero ancora in cucina, e i rumori di pentole uniti al brusio delle loro voci gliene diede conferma. Si diresse allora verso il ripostiglio dell’ingresso, afferrò il suo cappotto e se lo infilò. Aprì e richiuse la porta di casa col massimo della discrezione, per non farsi sentire. Corse lungo i gradini e si fermò a metà del vialetto per cogliere qualche fiore dal giardino; con quel clima rigido fiorivano soltanto le camelie tra le piante che avevano, e decise di staccarne alcune, anche se probabilmente sua madre si sarebbe arrabbiata. Voleva che quello fosse il suo piccolo dono di benvenuto per il nuovo vicino, e appena ebbe realizzato un minuscolo mazzetto superò il vialetto di casa e si ritrovò in strada dove, poco più avanti, poteva riconoscere la figura del bambino ancora accovacciato sul bordo del marciapiede. Esitò per qualche istante, non riuscendo a muovere un passo. Fece quindi un gran respiro e decise di proseguire nella sua decisione. Si avvicinò lentamente, senza fare rumore, e giunse accanto al ragazzino. Quest’ultimo notò la sua presenza e si voltò a guardarlo, alzando gli occhi verso di lui.

Era biondo, di una tonalità leggermente più scura della sua, e gli occhi erano chiari, di un bell’azzurro. Arthur sorrise timidamente, un po’ in imbarazzo. – Ciao. – Fu tutto quello che riuscì a dire in quel primo momento. Il più piccolo, ai suoi piedi, lo fissava con aria sorpresa ma attraverso uno sguardo spento, con occhi tersi ma immobili; aveva il viso pallido.

L’inglese decise di continuare nel suo tentativo. – Io sono Arthur. Abito qui. – Disse indicando col dito l’appartamento alle sue spalle. Aspettò qualche secondo prima di ricominciare a parlare per osservare le reazioni dell’altro, il quale però continuava a fissarlo con occhi smarriti, senza dire una parola. Il piccolo inglese sospirò mentalmente, pensando fosse normale che non avesse voglia di parlare. Scese dal marciapiede e si sedé anch’egli sul bordo, accanto all’altro bambino. Quindi si girò nuovamente verso di lui, sorridendo. – Ho saputo che ti sei trasferito e ho pensato di salutarti, dandoti questo come regalo di benvenuto. – Disse mentre gli avvicinava le camelie per fargliele vedere.

Il più piccolo abbassò lo sguardo verso i fiori che l’altro aveva in mano, osservandoli attentamente, ma ancora nessuna parola uscì dalle sue labbra. – Sai, mia madre mi ha detto che questa pianta è originaria del Giappone. – Continuò l’inglese, mentre accarezzava i petali dei fiori. Alzò il viso verso l’altro bambino: sembrava concentrato ad osservare i fiori, il loro colore intenso; il suo sguardo sembrava più acceso, ma non era sicuro di aver veramente catturato la sua attenzione.

- Oggi fa freddissimo. – Continuò Arthur, cambiando argomento e stringendosi nelle spalle. – Dicono che quest’anno nevicherà ancora tantissimo. Non è fantastico? Io adoro la neve. – Fece una pausa, continuando ad osservare il bambino a fianco, il quale distolse lo sguardo dai fiori e tornò a fissare l’inglese coi suoi grandi occhi. – Se vuoi, quando riprenderà a nevicare, potremo fare una marea di pupazzi sul viale, oppure prenderci a palle di neve. – Disse ridendo appena, sperando di coinvolgerlo nella conversazione.

Ma non stava andando come si era immaginato. Forse lo stava solamente importunando. Fece un profondo sospiro, non sapendo cosa fosse più giusto fare, se insistere o lasciar perdere. Certo, gli sarebbe dispiaciuto lasciarlo lì, da solo e al freddo, a fissare il nulla, ma era pur vero che non lo conosceva nemmeno e probabilmente un atteggiamento troppo importuno lo avrebbe irritato. Un’ulteriore complicazione era anche il fatto che non parlasse minimamente: non poteva sapere se lo stesse infastidendo o meno. Arthur riprese a fissare le camelie che aveva in mano. Rimase silenzioso a lungo, osservandone i petali di quel rosso intenso e bellissimo. L’americano accanto invece non distolse lo sguardo da lui nemmeno un attimo.

- Sai.. – Riprese con un filo di voce. – ..questa varietà di camelia ha un significato particolare: indica la bellezza perfetta…l’eccellenza assoluta. Almeno, così mi ha detto mia madre. – Commentò, ormai privo di altre argomentazioni.

Restò a fissare i fiori ancora qualche istante, quindi li strinse in un improvvisato mazzetto e glieli poggiò sulle ginocchia, delicatamente. Il bambino più piccolo sembrò stupito da quel gesto,ma non fece niente per rifiutarli. – Ecco, sono tuoi. Ti porteranno sicuramente fortuna. – Si voltò velocemente verso la porta di casa, per essere sicuro che nessuno si fosse ancora accorto della sua assenza, quindi tornò a parlare all’americano. – Se avrai bisogno di me io sarò qui. – Disse indicando nuovamente il suo appartamento.

- Puoi venirmi a trovare quando vuoi e…bè, se vorrai ci sono un sacco di cose che potremmo fare insieme. – Gli sorrise, mentre ne osservava gli occhi un’ultima volta prima di alzarsi e tornare sui suoi passi.

Si tirò su, pulendosi un poco i pantaloni con dei piccoli colpetti delle mani. Gli rivolse un ultimo sguardo.

- Ciao. – Disse voltandogli le spalle subito dopo, incamminandosi verso il vialetto di casa. In cuor suo sperava sinceramente di poterlo rivedere, così da fargli compagnia, magari anche aiutarlo e, in fondo, sperava di potersi sentire anche lui meno solo in quel modo. Ritrovarsi in un luogo sconosciuto e senza amici…doveva essere terrorizzato.

- Alfred. –

L’inglese si voltò di colpo, con lo sguardo fisso sull’americano. Il bambino sul marciapiede lo guardava con occhi vispi e un’espressione intensa in volto. Sembrava stringere con forza le camelie tra le mani.

- Mi chiamo Alfred. –

 

 

O fugace viaggiatore del cielo!

Segno silenzioso dei cieli d’inverno!

Quale vento contrario ha spinto le tue vele

Verso celle dove dorme un prigioniero?

 

[…] mai alcun sole splendente

con me è stato così dolce!

 

Per settimane, per settimane e giorni

Pesava sul mio cuore una oscura tristezza

Quando si alzava il mattino grigio e dolente

E rischiarava di debole luce la cella,

 

[…] Inanimato, silenzioso messaggero

Ha destato un’emozione la tua presenza

che mi conforta mentre sei qui

e mi sosterrà alla tua scomparsa⁽⁸⁾

 

 

 

 

 

⁽¹⁾ Chiesa di St Luke, che ospita i concerti della prestigiosa London Symphony Orchestra.

⁽²⁾ “Sì, risposta esatta”, in francese.

⁽³⁾ Notte di Guy Fawkes, conosciuta anche come Bonfire Night o Fireworks Night, è una celebrazione che si tiene il 5 novembre per la quale viene ricordata la sventata Congiura delle Polveri, del 5 novembre del 1605. I festeggiamenti pubblici vertono essenzialmente in uno spettacolo pirotecnico e soprattutto in un falò nel quale vengono bruciati i pupazzi dei congiurati. Per maggiori informazioni:

http://it.wikipedia.org/wiki/Guy_Fawkes_Night

http://en.wikipedia.org/wiki/Guy_Fawkes_Night

⁽⁴⁾ “Va bene”, in francese.

⁽⁵⁾ Distretto di Londra famoso pei i divertimenti e lo shopping. Contiene molti tra i più famosi luoghi della città, come Trafalgar Square, Oxford Street, Regent Street, Piccadilly Circus, Mayfair e Green Park. Per maggiori informazioni:

http://it.wikipedia.org/wiki/Londra#Borghi_di_Londra

⁽⁶⁾ Area del West End, probabilmente la più ricca ed elegante di Londra. Al suo interno vi è anche Grosvenor Square, dove oggi ha sede l’ambasciata statunitense. Per maggiori informazioni:

http://www.sognandolondra.com/it/informazioni-londra/zone-londra/oxford-circus-bond-street-londra/

⁽⁷⁾ Una delle principali strade di Londra, che termina a Piccadilly Circus, compresa nella City Of Westminster (borgo di Londra all’interno del West End). Per maggiori informazioni:

http://it.wikipedia.org/wiki/Piccadilly

⁽⁸⁾ Emily Brontë, “To a Wreath of Snow”.

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Capitolo 7
*** Capitolo 7 ***


Le lingue di fuoco salivano alte nel cielo. Scintillavano vigorose, accompagnate dallo scricchiolio della legna che bruciava, alla base del gigantesco falò. Nonostante si ripetesse uguale ogni anno, era sempre uno spettacolo piuttosto piacevole. Se non altro era un modo efficace per riscaldarsi in quella serata pungente.

- Ma tu, tipo, non hai nessun fantoccio? – Domandò Feliks aggrottando le sopracciglia.

- Mi spiace. Non ho fatto in tempo a farne uno. – Rispose Arthur con un filo di rammarico. – Non importa. Possiamo gettare insieme il mio, se vuoi. – Propose Kiku. Prima che l’inglese potesse rispondere, fu afferrato per un braccio dal tedesco al suo fianco. – Ehi, Arthur! Vedi un po’ se il mio può andare bene! – Esclamò con grande eccitazione. Il ragazzo biondo osservò il fantoccio che Gilbert teneva saldamente in mano e quindi gli rispose. – A dir la verità il fantoccio dovrebbe essere realizzato con degli stracci e non con la carta…ma penso possa andar bene lo stesso. –

- Cosa? Vuoi dire che il mio fantoccio è sbagliato?! – Domandò incredulo l’altro. Poi si staccò dal braccio dell’inglese e cominciò a lamentarsi tra sé. – Cacchio! Il mio capolavoro dovrebbe essere perfetto! – Il francese cercò di rassicurare l’amico e si avvicinò, avvolgendogli un braccio intorno al collo. – Non temere, Gil. Una volta che saranno tutti carbonizzati ci sarà ben poca differenza fra il tuo e gli altri pupazzi. – Commentò sorridendo. Poi aggiunse, rivolgendo lo sguardo al cielo, con un sospiro. – Peccato che oggi siamo pochi rispetto al solito. – Il giapponese gli rispose poggiandogli una mano sulla spalla. – E’ vero. Oggi un po’ di gente non è potuta venire ma..sono sicuro ci divertiremo lo stesso. –

- Oui.⁽¹⁾ Senza dubbio. – Rispose Francis tornando con gli occhi verso il gigantesco falò di fronte a loro. C’erano diverse persone riunite intorno al grande fuoco. Sembrava una celebrazione estremamente divertente per la gente del posto. Ogni tanto si aggiungeva qualche bambino che si avvicinava per gettare tra le fiamme qualche buffa rappresentazione di Guy Fawkes.

- Magari più tardi potremmo anche farci un giro, oppure riposarci in qualche locale. – Propose il biondo francese. – Io preferirei un posto tranquillo e caldo se non vi spiace. – Disse Arthur, stringendo i pugni all’interno delle tasche della giacca. – Mh..sì, tipo, anch’io. Oggi fa freddo accidenti! – Commentò Feliks.

- Oh, allora penso che sceglieremo un posto al chiuso. – Concluse il ragazzo biondo, allontanando il braccio dal compagno tedesco, scompigliandogli un poco i capelli. Poi gli venne in mente un’idea da proporre.

- Ehi, sentite un attimo: che dite se venite tutti da me? Nella mia stanza del dormitorio, intendo. Non dovremmo neanche pagare, posso offrivi io qualcosa. – Francis avanzò l’idea con slancio, e gli altri presenti lo fissarono per qualche istante in silenzio. Il primo ad esprimersi fu il tedesco al suo fianco.

– Fico! Io ci sto! – Urlò come suo solito, agitando le braccia. A uno a uno espressero il loro consenso anche gli altri ragazzi del gruppo. – Così potremmo anche vedere i fuochi d’artificio di stasera. – Disse Arthur, avvicinandosi a Kiku. – Fuochi d’artificio? Perché li fanno, tipo, in facoltà? – Domandò incuriosito il polacco. – No, però dal tetto del dormitorio si gode di una vista perfetta. I fuochi che lanciano da Brockwell Park⁽²⁾ si vedono benissimo. – Rispose l’inglese. – Non sapevo si potessero vedere da Goldsmiths⁽³⁾. – Disse il giapponese. – Bè, allora ancora meglio, no? – Rispose Francis congiungendo le mani per scaldarsi. – Bene! Allora è deciso, muoviamoci gente! – Gridò a gran voce Gilbert gettando tra le fiamme il suo malriuscito fantoccio di carta.

 

Non ci misero molto a raggiungere la città universitaria. Era piuttosto deserta a quell’ora del pomeriggio e il dormitorio era silenzioso e tranquillo. Attraversarono il complesso e salirono al quarto piano, quello dove si trovava il piccolo appartamento del francese. Il biondo aprì la porta di fronte a sé, girando lentamente la chiave nella serratura e prima di entrare si rivolse agli altri. – Voi entrate pure e accomodatevi. Io vado a vedere se Feliciano se la sente di unirsi a noi. –

- Ah è vero, avevi detto che stava male. – Commentò Kiku mentre seguiva gli altri ragazzi all’interno dell’appartamento. Francis si allontanò verso la stanza dell’italiano, accanto alla sua, e nel frattempo gli altri abbandonarono i propri cappotti sul letto e aspettarono il suo ritorno. Feliks cominciò a curiosare in giro: prima sulla scrivania, poi nella piccola libreria e sulle mensole, Gilbert sembrava invece trovarsi perfettamente a proprio agio e si accasciò senza troppe cerimonie sulla sedia. Arthur si sedé sul bordo del letto, leggermente affaticato da quella giornata.

Il biondo più grande tornò dopo qualche minuto e chiuse delicatamente la porta dietro di sé.

- Allora, come sta? – Domandò il polacco venendogli incontro. – Stava riposando, non me la sono sentita di svegliarlo. Aveva la fronte ancora un po’ calda. – Rispose il francese avvicinandosi al piccolo frigo della camera e dando una pacca amichevole sulla schiena di Feliks. Afferrò qualche lattina e si fermò al centro della stanza, cercando di guardare un po’ tutti i presenti. – Allora…abbiamo birra, Coca Cola e…uh, c’è anche un chinotto! – Gilbert si avvicinò con uno scatto veloce e afferrò una lattina di birra, mentre Kiku declinò gentilmente l’offerta. – Arthur, scegli pure. – Disse il francese rivolgendosi al ragazzo sul letto. – Birra, grazie. – Rispose l’inglese. – E a me questo per favore. – Si intromise il polacco prendendo il chinotto dalle mani del padrone di casa, il quale decise per una birra.

Il pomeriggio sembrò passare veloce, e soprattutto piacevole. Nonostante alcuni attriti iniziali, alla fine avevano formato un bel gruppo: si trovavano bene insieme ed era gradevole spendere le proprie ore in lunghe chiacchierate. Bevvero insieme, fecero qualche partita a carte e continuarono a conversare a lungo, scoprendo alcune curiosità sulla vita privata dei loro rispettivi compagni di corso: Gilbert raccontò un po’ di suo fratello che studiava ingegneria a Berlino; si chiamava Ludwig. Feliks confessò ai ragazzi stranieri alcune delle iniziali avventure del loro piccolo gruppo, o di come una volta avesse preparato un esame da settecento pagine in soli tre giorni. Francis, in maniera piuttosto prevedibile, li sorprese con alcuni aneddoti sulle sue stravaganti esperienze sessuali e amorose.

L’inglese non riusciva a credere al fatto che fosse in grado di raccontare episodi così intimi e privati in maniera tanto spudorata e senza vergogna. Sembrava non temere nemmeno il giudizio della gente, quello che avrebbe potuto pensare di lui una volta che avesse confessato con grande nonchalance di essere un libertino pansessuale, come amava spesso definirsi lui stesso. Da un suo personale punto di vista quella prospettiva lo faceva semplicemente rabbrividire e si sentiva oltre ogni modo disgustato da certi racconti ma, grazie a Dio, quella sera il francese non parlò solo di argomenti piccanti.

Accennò qualcosa sulla sua famiglia cominciando a parlare della madre, col volto illuminato e con voce appassionata, dando l’idea di esserle affezionato sopra ogni altro. In un simile contesto, l’argomento “padre” emerse spontaneo, e fu l’occasione nella quale Francis confessò di non avere idea di chi fosse. Gli altri ragazzi pensarono di evitare di scendere nei dettagli e cambiare presto argomento di conversazione, per discrezione e per non toccare un tasto potenzialmente dolente, ma fu inaspettatamente il giovane francese a voler continuare sulla tematica spinosa, parlandone con grande scioltezza e tranquillità.

Raccontò di come la madre avesse intrapreso numerose relazioni, sfortunatamente tutte piuttosto brevi, fin da giovanissima e di come, a soli diciotto anni, si fosse ritrovata incinta. Il suo giovane fidanzatino non fu in grado di affrontare la complessa situazione, resa ancora più difficile dal fatto che la ragazza non aveva la minima intenzione di abortire. Come spesso, purtroppo, accade in questi casi il giovanotto se la diede a gambe, abbandonandola. La madre non ricevé nemmeno l’aiuto dei genitori, i quali anzi preferirono cacciarla di casa, accusandola di essere una poco di buono e una sgualdrinella.

Con una forza d’animo oltre l’immaginabile, la giovane donna raccolse le sue cose e si trasferì dalla sua migliore amica, insieme alla quale completò il liceo, riuscendo a diplomarsi tra le tante complicazioni che una gravidanza è in grado di infliggere. E a luglio si ritrovò con un bellissimo pargoletto tra le braccia.

I genitori dell’amica con la quale viveva ormai da diversi mesi contribuirono notevolmente al sostentamento di quella nuova, minuscola famiglia. Si aggiunse anche il grande sostegno di molte delle sue ex compagne di scuola, l’ammirazione delle loro famiglie, e tutti, in qualche modo, la aiutarono a non farsi mancare mai niente. La giovinetta, trascorsa l’estate ad accudire il figlio giorno e notte, ricolma di un amore sconfinato nei suoi confronti, e per nulla pentita della sua scelta, cominciò a cercare disperatamente un impiego, in modo da poter fare affidamento sulle sue sole forze, senza approfittare ulteriormente della benevolenza di coloro che l’avevano tanto aiutata.

Dapprima ricevé un sussidio da parte dello stato, che riscuoteva presso il comune, riservato alle ragazze madri: era un’entrata sicura ogni mese, e questo le permise di mettere da parte un po’ di risparmi. Inoltre, grazie all’assistente sociale che accettò di farsi affidare, riuscì a trovare in un solo mese un lavoro che rispettasse le sue esigenze. Un part-time in una profumeria del centro città.

A novembre, ad un anno esatto di distanza da quando era rimasta incinta, cominciò la sua vita da pendolare, la sua vita da madre e lavoratrice. Le amiche facevano a turni per poter accudire il piccolo in sua assenza, quando lavorava in negozio. Cresceva a vista d’occhio, e le sembrava diventasse sempre più grazioso.

Nonostante fosse stremata, ridotta quasi a pelle e ossa, e nonostante fosse priva di un compagno, di una presenza maschile stabile e sulla quale fare affidamento, si sentiva irrimediabilmente felice.

Anche se le due persone più importanti della sua vita, che fino all’anno prima aveva amato più di chiunque altro al mondo, l’avevano ripudiata e l’avevano infamata come una donna di facili costumi e un’immatura irresponsabile, non poteva non sentirsi fiera.

Fiera per essere riuscita a completare gli studi, quasi ogni giorno costretta ad abbandonare l’aula di lezione per qualche minuto, rifugiandosi in bagno, in preda ad una nausea insopportabile; aveva dovuto affrontare il riso e l’indiscrezione di molti dei suoi compagni di scuola, nonché dei professori, eppure continuava a sentirsi fiera di aver mantenuto la tenacia e la forza necessaria al raggiungimento del suo desiderio più grande; le stesse che gli permettevano, adesso, di osservare il proprio figlio dormire sereno. Nessuno avrebbe potuto toglierle quell’orgoglio, ed era ben consapevole che, se non avesse voluto cadere nella terribile trappola della frustrazione, avrebbe dovuto conservare e custodire quei sentimenti di orgoglio e stima nei confronti di se stessa.

L’ultima volta che vide il padre del suo bambino era settembre, un caldo e umido pomeriggio di settembre. Riuscì a trovarla, non seppe neanche lei come. La guardò negli occhi, e osservò anche il piccolo tra le sue braccia. Esordì con parole sconnesse. Si scusò, dicendo quanto fosse dispiaciuto, poi scoppiò in lacrime mentre continuava a blaterare di cose che a quel punto della loro storia non avevano più la minima importanza. Le fu chiaro in un momento che non era quello ciò di cui aveva bisogno: un uomo debole, un ragazzino infantile che non l’avrebbe mai resa felice, e soprattutto che non sarebbe mai stato in grado di proteggere suo figlio, figuriamoci di amarlo. Lo congedò senza troppe cerimonie, irritata per aver perso solo tempo prezioso. Quella fu l’ultima volta che lo vide. Quelli erano gli ultimi ricordi che conservava del padre di Francis.

A Natale invece, per la prima volta da quando se n’era andata di casa, ricevé una telefonata dai suoi genitori. Volevano sapere se fosse ancora viva probabilmente, o che fine avesse fatto fare al bambino. Li lasciò incredibilmente stupiti quando raccontò loro che aveva partorito e che da lì a pochi mesi si sarebbe trasferita col figlio in un piccolo appartamento in periferia. Parlarono poco. Sia la ragazza che i genitori furono freddi e concisi, distaccati come fossero degli estranei. Suo padre fece qualche giro di parole, ma alla fine lasciò intendere che se voleva poteva portare il bambino da loro ogni tanto, se si fosse trovata in difficoltà col lavoro.

Un insostenibile sentimento di ripugnanza la prese dritta allo stomaco nel sentire quelle parole. Si sforzò di mantenere il controllo di sé e rispose sintetica e pungente che non aveva bisogno del loro aiuto, e non ne avrebbe più necessitato per il resto della sua vita. Aggiunse, poco prima di riattaccare la cornetta, che aveva ormai intrapreso la sua vita da giovane indipendente e che non avrebbero più dovuto interferire con essa in nessun modo. Il loro legame d’affetto e di sangue si era interrotto il giorno che l’avevano abbandonata.

Le sembrò fin troppo facile troncare quella telefonata senza aggiungere altro né tantomeno aspettare una risposta dall’altro capo del telefono. Solo silenzio nella stanza. Nessuna interferenza, nessun rimpianto, nessuna lacrima. L’unica cosa che contava in quel momento era suo figlio. Finché avrebbe avuto lui sarebbe stata completa, sarebbe stata felice. Fu così che quel giorno sua madre divenne una donna.

 

- Tua madre è una donna straordinaria, Francis. –

La voce di Kiku riecheggiò tra le pareti bianche e silenziose della stanza. Sembravano essere rimasti tutti senza parole. In effetti, quella che aveva raccontato il francese era una storia di vita estremamente amara e crudele, ma lui stesso era convinto che contenesse un’encomiabile forza di riscatto, rappresentata dalla figura della madre, che alla fine rendeva il racconto una grande fonte di insegnamento.

- Sì. – Rispose con energia Francis all’amico giapponese. Lasciò trascorrere qualche secondo di silenzio. – E’ la persona che stimo di più al mondo. – Aggiunse mentre finiva di sorseggiare la sua birra. – Cioè, Francis, il tuo racconto mi ha, tipo, troppo commosso! – Esclamò il polacco portandosi un fazzoletto sugli occhi. Il biondo francese strappò una risata. – Ahah, scusami Feliks! Non volevo certo farti piangere! – Disse mentre cercava di consolarlo poggiandogli una mano sulla spalla. Il polacco si soffiò rumorosamente il naso. – Devi considerarti molto fortunato ad avere una simile donna nella tua vita, sai? –

Arthur restò a fissare la scena, profondamente colpito dal racconto del ragazzo. Lo invase una sensazione di grande malinconia. Non pensava un tipo come lui potesse avere una storia del genere alle spalle. Di certo questo gli insegnava ancora una volta come fosse ingannevole giudicare una persona dalle apparenze. Eppure, nonostante quello che aveva ascoltato, alla malinconia fece presto spazio un altro sentimento, probabilmente l’ultimo che sarebbe stato opportuno esternare in quel momento: invidia.

Pensò che fosse dovuto anche a come Francis dimostrava di reagire a quell’infelice vicenda della sua vita: generalmente, dopo un racconto del genere, nessuno si sarebbe aspettato di vedere il diretto interessato profondersi in sincere risate e ampi sorrisi; e invece lui era lì, seduto sulla sedia, con un’espressione quasi beata in volto. Non gli era chiaro il perché, ma continuando ad osservarlo cresceva in lui una profonda invidia. Poteva sentirla nascere nella sua coscienza, farsi strada fino alle ossa, ed espandersi tra le membra del suo corpo. Se avesse voluto essere sincero con se stesso avrebbe potuto spiegare il perché di quella reazione.

Invidiava come quel ragazzo, nonostante le difficoltà famigliari che aveva dovuto affrontare nella vita, sicuramente più impegnative e dolorose delle sue, sembrasse spudoratamente e oltremodo felice. Forse nella sua vita si era sentito molte volte solo, gli era stato negato un affetto fondamentale come quello paterno, e forse la sua era una famiglia fragile e ristretta, composta dalla sola madre, e malgrado tutto ciò dava l’impressione che non gli mancasse nulla, che godesse appieno, e con una gioia consapevole, di tutto ciò che aveva. L’inglese abbandonò lo sguardo spento sulla sua lattina di birra, consumata già da un pezzo.

Certo, sapeva bene che quella poteva essere solo una sua impressione soggettiva e che di quel tipo in realtà non sapeva nulla; non si sarebbe stupito se quella ostentata sicurezza da parte del francese si fosse rivelata semplicemente una scorza da utilizzare come copertura, come difesa. Fatto stava che quegli occhi vibranti ed intensi, così come la sua figura agile e delicata che effondeva grande stima di sé e una spensieratezza che mai aveva conosciuto in vita sua, catturarono profondamente la sua attenzione e contribuirono ad accrescere il sentimento di invidia nel suo cuore, finendo col farlo sentire meschino.

- Arthur, la tua lattina. –

Il francese gli rivolse un sorriso, mentre la sua mano, allungata verso di lui, attendeva la consegna della birra ormai finita. L’inglese si scosse, tornando velocemente alla realtà. – Ah, sì grazie. – E gliela porse lentamente. – Merci.⁽⁴⁾ – Rispose il biondo più grande alzandosi e dirigendosi verso il contenitore per l’immondizia. – Bè, insomma, dopo questa storia strappalacrime.. – Commentò Gilbert, interrompendosi qualche secondo per sorseggiare le ultime gocce della sua birra e quindi tirare la lattina verso l’amico francese. – ..ora che facciamo? – Concluse stiracchiandosi sulla sedia. Kiku diede una veloce occhiata al suo orologio da polso. – Bè, sono quasi le sette e mezzo ormai. – Quindi si voltò verso l’inglese. – Non è tra poco che.. – L’amico non gli lasciò neanche concludere la frase. – Sì. Lo spettacolo inizia alle sette e trenta, sarà meglio affrettarci verso il tetto. – Rispose alzandosi dal letto. – Oh, perfetto. Prendo la giacca e andiamo allora. – Disse il francese, non appena ebbe finito di sistemare.

Il gruppo di amici si incamminò velocemente lungo il corridoio, giungendo alle scale che li avrebbero condotti sul tetto. Una volta raggiunta la loro destinazione si avvicinarono alla ringhiera, appoggiandovisi e attendendo con ansia l’inizio dei fuochi d’artificio. – Accidenti Arthur, io non avevo mai saputo che fosse possibile vedere, cioè, così bene la città da qui! – Esclamò Feliks, ammirando il paesaggio che si estendeva davanti a lui. Non era certo paragonabile al London Eye⁽⁵⁾, certo, ma il panorama era discreto. – Quindi tu li hai sempre visti da qui i fuochi? Cavolo! A saperlo, tipo, prima! –

- Sì. Ogni anno venivo qui su per godermi lo spettacolo. Non è male, vero? – Rispose l’inglese con un sorriso. – Affatto. – Commentò il giapponese. – Anche se…mi sembra strano il fatto che siamo i soli studenti ad aver pensato di venire qui sopra. – Arthur gli rivolse un sorrisetto divertito. – E’ perché i ragazzi in genere preferiscono andare direttamente al parco per vederli da vicino. –

- Oh. Eppure, in un certo senso, trovo questa terrazza appartata molto più romantica di una folla caotica con cui essere costretti a condividere un momento del genere, non trovi? – Intervenne il francese rivolgendo lo sguardo all’inglese poco distante. Il britannico lo fissò interdetto, mentre l’altro sfoggiava uno dei suoi soliti sorrisi fiduciosi, senza allontanare gli occhi dall’amico. Il ragazzo più giovane stava per esprimere la sua disapprovazione, ma fece appena in tempo a dischiudere le labbra che il fragore dello scoppio del primo fuoco inghiottì ogni altro suono intorno a loro.

- Forte! Stanno iniziando! – Gridò il tedesco agitandosi sulla ringhiera. Tutti i ragazzi abbandonarono le precedenti conversazioni per concentrarsi sullo spettacolo che era appena cominciato. Lingue di fuoco colorate iniziarono ad esplodere nel cielo scuro, illuminandolo. Quella era la prima volta, per l’inglese, che osservava l’esibizione pirotecnica di Guy Fawkes in compagnia da quando si era trasferito a vivere da solo. Il fragore degli scoppi gli rimbombava nel petto e nella testa e i bagliori delle esplosioni illuminavano il suo viso e quello degli altri ragazzi. Passarono diversi minuti prima che qualcuno tornasse a parlare.

Il primo a rompere il silenzio fu il giapponese. – Non sono bellissimi? – Commentò a bassa voce, timidamente. Il francese, che contemplava lo spettacolo coi gomiti appoggiati alla ringhiera e il viso raccolto nelle mani, rispose sospirando. – Oui. C’est magnifique.⁽⁶⁾ -

Feliks afferrò improvvisamente il braccio dell’inglese stringendolo con forza. – Mi piace tantissimo! Cioè, devo assolutamente riprenderne qualcuno! – E così dicendo prese dalla tasca della giacca la fotocamera che si era portato appresso e cominciò a riprendere l’esibizione con un video. – E’ sicuramente un ottimo inizio di weekend, no? – Domandò retorico al resto del gruppo. Il giapponese assentì con un ampio sorriso.

- Già. Direi che questo è stato un ottimo venerdì. –

L’inglese si appoggiò leggermente al polacco che ancora lo stringeva per un braccio e distolse lo sguardo dal cielo per rivolgerlo momentaneamente in direzione del francese. Non riusciva ancora a distrarsi del tutto dal turbamento di prima. Rimase ad analizzare il profilo dell’altro biondo a lungo, rammentando il sentimento che aveva evocato in lui la sua storia. Lo sentiva crescere così ampio che aveva paura potessero accorgersene anche gli altri compagni che gli stavano vicino. Sospirò mentalmente mentre cercava di scacciare quella noiosa sensazione, e pochi secondi dopo il suo sguardo fisso si incrociò con quello di Francis, il quale si voltò distrattamente nella sua direzione. Per un attimo ebbe il timore che i suoi pensieri fossero stati così intensi da essere giunti persino a lui, e un nodo alla gola gli impedì di respirare regolarmente per alcuni lunghissimi attimi.

Il ragazzo francese ammiccò, strizzando un occhio. Quindi tornò velocemente con gli occhi al cielo, godendosi lo spettacolo di luci e colori di quella serata. In quel momento Arthur tornò inaspettatamente a sentirsi di gran lunga più infantile rispetto al compagno più grande. Nonostante quel francese presentasse molti aspetti del suo carattere decisamente discutibili, c’era qualcosa nella sua indole e nella sua personalità che lo attraeva, che lo colpiva. Forse l’impressione di risolutezza che suggeriva il suo agire determinato e per nulla incerto, o forse la capacità grazie alla quale riusciva sempre a mostrarsi affabile e disponibile nei confronti degli altri, oppure l’innegabile fascino, quasi magnetico, che esercitava il suo spirito sempre radioso e sopra le righe.

Si sciolse il nodo che aveva in gola. Deglutì lentamente, restando a fissare il profilo dell’altro biondo. Adesso i rimbombi delle esplosioni sembravano quasi ovattati e distanti ai suoi orecchi. Cominciò a pensare che quel ragazzo godesse di un livello di maturità e di stabilità emotiva davvero invidiabile. Desiderò ardentemente possedere quella condizione psichica privilegiata: riuscire a placare i suoi tormenti, vincerli addirittura, uscendo finalmente vittorioso da un conflitto all’interno del suo animo che non si era mai interrotto; essere felice della sua vita, seppur imperfetta; essere in grado di sorridere, nonostante non ci fosse niente per cui valesse la pena farlo.

Sospirò a fondo, lasciando che del sottile vapore uscisse dalle sue labbra e si disperdesse nell’aria gelida. Continuavano alti i motivi colorati ad infiammare il cielo di quella serata scura e fredda, così come continuava a viaggiare alta, nei suoi pensieri, l’insoddisfazione per qualcosa che non riusciva a raggiungere, che non riusciva ad ottenere: l’insoddisfazione per non riuscire a diventare la persona che avrebbe desiderato essere.

 

 

⁽¹⁾ “Sì”, in francese.

⁽²⁾ Parco di Londra, a Norwood Road (distretto di Lamberth), dove si tengono spettacoli pirotecnici gratuiti nella serata di Guy Fawkes. http://en.wikipedia.org/wiki/Brockwell_Park

http://guide.supereva.it/london/interventi/2009/10/tutti-i-fuochi-dartificio-di-guy-fawkes-night-a-londra

⁽³⁾ “Goldsmiths, University of London”, è un’importante università di Londra che si trova a New Cross (distretto di Lewisham), ed è quella frequentata dai protagonisti della fiction.

http://en.wikipedia.org/wiki/Goldsmiths,_University_of_London#Student_life

http://www.gold.ac.uk/study/search/?level[ug]=1&q=literature

Qui c’è una mappa per farsi un’idea http://img820.imageshack.us/img820/6985/fireworksr.png

⁽⁴⁾ “Grazie”, in francese.

⁽⁵⁾ Famosa ruota panoramica di Londra. http://it.wikipedia.org/wiki/London_Eye

⁽⁶⁾ “Sì. E’ bellissimo/magnifico”, in francese.

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Capitolo 8
*** Capitolo 8 ***


Afferrò il bordo della pagina con due dita e la voltò senza staccare un attimo gli occhi dal libro. L’aula era silenziosa e luminosa e l’atmosfera tranquilla che vi si respirava lo rilassava. Arthur proseguì la lettura del libro che si era portato appresso. Sembrava estremamente concentrato; gli piaceva isolarsi dal resto del mondo quando cominciava a leggere. Prestava attenzione solo alle parole d’inchiostro nero che scorrevano sulle carta leggera. Fu certo per questo motivo che non si accorse minimamente dell’entrata in aula di una sua conoscenza. Continuò a leggere, avidamente, finché una voce familiare non lo distrasse all’improvviso.

- Ehilà, Arthur. –

L’inglese sollevò di colpo gli occhi e si ritrovò il viso del compagno francese di fronte. Sorrideva affabile, piegato verso di lui, coi gomiti poggiati sul banco e le mani che sorreggevano il volto. – Ciao. – Rispose dopo pochi istanti, mentre chiudeva il libro lasciando il segno col dito. – Com’è andata a casa? – Domandò curioso. – Très bien!⁽¹⁾ – Rispose con entusiasmo il biondo di fronte, tornando in posizione retta. – Ho trovato mia madre in forma. –

- Mi fa molto piacere. – Commentò l’inglese con un sorriso sincero. – Ti mancava Parigi? –

- A dir la verità per niente. Più che altro avevo voglia di rivedere mia madre e..un altro paio di conoscenze. – Rispose il francese stiracchiandosi leggermente. – Sembri stanco. – Disse il biondo più giovane osservandolo. Francis si lasciò andare ad uno sbadiglio. – È che sono tornato ieri notte. Avrò dormito sì e no quattro ore. – Il francese si sedette sul bordo del tavolo e con un agile movimento ruotò verso l’inglese, scavalcando il banco e sedendosi accanto all’amico. – Inoltre, mamma mi ha riempito di cose.. – Disse cominciando a frugare nella borsa che poggiò sulle ginocchia. Ne estrasse dopo pochi secondi una grande busta piena di confezioni strane. – Et voilà!⁽²⁾ Un po’ di gustose specialità direttamente dalla France⁽³⁾. – Esclamò avvicinando all’inglese uno dei tanti pacchi che aveva all’interno della busta. Arthur lo fissò circospetto, avvicinando lentamente la mano verso l’offerta del compagno e analizzandola con attenzione mentre la afferrava. – Sembrano snacks.. –

- Précisément⁽⁴⁾. –Rispose il biondo accanto avvicinandosi all’amico. – Ce ne sono per tutti. Me ne ha lasciati una marea. Mi farebbe piacere sapere cosa ne pensi, poi. –

- Grazie. Ma non dovevi. – Rispose Arthur poggiando il dono sul banco. – Pas de quoi.⁽⁵⁾ – Aggiunse l’altro.

Il francese rimase per qualche secondo in silenzio, osservando il ragazzo col suo solito sorriso accattivante, dopodiché lo sguardo gli cadde sul libro che l’inglese teneva ancora in mano. – Che leggi, Arthur? – Domandò con interesse. – Leggevo “Bartleby lo scrivano”. – Rispose sporgendo leggermente il libro verso il ragazzo, per mostrarglielo. – Ooh, tu sì che hai buon gusto, mon ami⁽⁶⁾. – Commentò passandosi una mano tra i capelli. – L’hai letto? – Chiese l’inglese guardandolo negli occhi. – Sì. E devo dire che è stata una lettura interessante. Particolare, non c’è che dire, ma ad ogni modo stimolante. – Arthur gli sorrise. Si entusiasmava sempre quando poteva condividere la sua passione con qualcun altro. E il francese, per quanto stupido e frivolo sembrasse, aveva dato prova di essere tutt’altro che uno sprovveduto in materia universitaria e letteraria. – Hai finito Orwell, per caso? – Domandò Arthur. – Oui. C’est amusant.⁽⁷⁾ – Rispose Francis afferrando l’elastico che aveva al polso e legandosi i capelli. – Oggi sfoggi un sacco di francese. – Commentò sarcastico il ragazzo accanto. – Ahah, hai ragione. Sarà perché sono appena stato a casa. – Rise un poco. – Comunque, la prossima volta ti porto il libro di Orwell. Voglio che adesso sia tu a leggerlo. –

- Vuoi prestarmi il tuo libro? Sei sicuro? – Chiese stupito l’inglese. Il francese strinse il braccio intorno alle spalle dell’amico, avvicinandosi ulteriormente. – Sicurissimo. Devi fare la tua parte in quanto rappresentante di Londra, no?⁽⁸⁾ Poi mi dirai che ne pensi. – Rispose con tono più caldo. – O-ok..grazie allora. – Rispose il biondo più giovane leggermente a disagio per l’eccessiva vicinanza dell’altro e il suo fare ammiccante. L’atmosfera imbarazzante venne interrotta dal cellulare dell’inglese che cominciò a suonare. Il ragazzo si precipitò sulla borsa che aveva poggiato sul posto vuoto al suo fianco e ne estrasse velocemente il cellulare. Non voleva disturbare gli altri ragazzi nell’aula che, come loro, stavano aspettando la lezione. Stava per premere senza neanche pensarci il pulsante per accettare la chiamata, quando di sfuggita scorse con lo sguardo delle lettere, nel nome della chiamata, che lo fecero bruscamente arrestare.

Merda.. pensò tra sé mentre riconosceva il nome di Alfred sullo schermo. Mi sta davvero chiamando da Washington quell’idiota? Ma è fuori di testa? Continuava a chiedersi mentre il cellulare continuava a ripetere la rumorosa suoneria.

- Non rispondi? – Domandò il francese, colpito da quello strano atteggiamento, mentre sporgeva un poco il viso verso il compagno. L’inglese non aveva intenzione di accettare la chiamata, eppure era indeciso su cosa fare: avrebbe di gran lunga preferito lasciar squillare il cellulare finché l’americano non si fosse stancato, ma non poteva continuare a disturbare l’aula; allo stesso modo non aveva intenzione di alzarsi ed uscire solo per far continuare a squillare l’apparecchio nel corridoio. Arrivato a quel punto dei ragionamenti la scelta fu piuttosto repentina: pigiò con forza il pollice sul tasto rosso, e attaccò. Rimase in silenzio alcuni secondi, fissando lo schermo del cellulare, inspirando profondamente. Francis non sapeva se fosse il caso di dire qualcosa o meno. Voleva evitare di essere eccessivamente invadente, tanto più che ormai aveva imparato a conoscere le reazioni di Arthur e immaginava che probabilmente gli si sarebbe scagliato contro.

- Tra poco inizierà la lezione.. – Disse cercando di esprimere una sicurezza convincente col tono della voce. Il francese accennò un segno col capo, continuando a fissarlo, stuzzicato nella curiosità ma consapevole che sarebbe stato preferibile tacere. Gli diede una pacca sulla spalla, mantenendo la presa intorno all’inglese.

– Sei teso per caso? – Domandò con un filo di malizia. Arthur si affrettò a tornare con lo sguardo sul cellulare, e in particolare si preoccupò di spegnerlo nell’immediato, per evitare di ricevere altre chiamate dall’amico americano. Una certa irritazione cominciò a farsi strada nel sangue, mentre un’espressione amara si dipingeva sul suo viso, suscitando nei suoi occhi un’aria di frustrazione. Una volta assicuratosi di aver chiuso l’apparecchio alzò lo sguardo verso il francese accanto, che ancora lo stringeva con un braccio.

- No. – Disse sintetico, aggiungendo poco dopo: – Perché? – Domandò con un filo di malinconia nella voce. Francis rimase per un attimo turbato sia dall’espressione che dalla voce del compagno. Avvicinò lentamente il dorso della mano alla guancia dell’inglese, sfiorandola appena. Da un lato temeva di essere indiscreto, ma dall’altro gli era difficile resistere troppo. Avrebbe tirato la corda solo un po’. – Tutto bene? – Domandò respirandogli a pochi centimetri dal volto. Il ragazzo accanto rimase impassibile, fissandolo negli occhi con uno sguardo spento e abbattuto, senza sapere cosa dire. Non aveva certo voglia di dare spiegazioni al francese, ma non riusciva nemmeno a mentire, rispondendo con un risoluto “sì”. Stringeva ancora il cellulare in mano, affievolendo la presa sempre di più, senza sapere cosa fare, senza sapere come fare per impedire allo scoramento di impossessarsi dei suoi pensieri. Abbassò gli occhi, perseverando nel silenzio. Il francese sembrava cominciasse a sentirsi in apprensione.

Che gli prende adesso? Pensò il biondo più grande mentre la sua mano rimaneva immobile sulla pelle liscia e chiara dell’inglese. Quell’immagine cominciò ad infastidirlo: non gli piacevano quegli occhi. – Ehi, sembra che tu abbia bisogno di un abbraccio. – E così dicendo si avvicinò fino ad aderire al corpo dell’inglese, stringendolo in una calda presa. Le sue mani scivolarono sulla schiena dell’altro biondo e il suo viso si poggiò sulla spalla sottile.

Tuttavia la reazione dell’altro non fu esattamente come se l’era immaginata. A quel contatto Arthur sgranò gli occhi, come se si fosse svegliato di soprassalto. Fu scosso da un tremito e per la grande sorpresa di quel gesto si ritirò velocemente dal corpo del francese, spingendo i palmi delle mani contro il suo petto, respingendolo con forza e decisione. I battiti accelerati del cuore sembravano scoppiargli nelle tempie.

– Che diavolo fai, idiota?! – Urlò a gran voce, senza curarsi del luogo nel quale si trovavano. Francis, bruscamente allontanato, lo fissava intimorito. Aveva capito che era un tipo timido, questo sì, ma non pensava che avrebbe potuto reagire in maniera tanto isterica ad un semplice abbraccio. La sua espressione sgomenta dovette avere un certo effetto sull’inglese, visto che quest’ultimo allentò la presa delle mani su di lui e distolse lo sguardo altrove, verso il resto dell’aula e gli altri ragazzi, come se si fosse ricordato in quel momento che non erano soli. – Ehi, ehi. Qualcuno è un po’ nervoso qui? – Commentò cercando di essere ironico, per smorzare un poco la tensione che sentiva attraversargli il corpo. L’inglesino sembrava davvero sconvolto: lo vide tornare a fissarlo con aria imbarazzata, allontanando sempre di più le mani dal suo corpo. Non sapeva bene se dire qualcosa per calmarlo o limitarsi a rimanere in silenzio. Pensandoci, non era certo una situazione che poteva dire di aver affrontato già altre volte nel suo curriculum di bizzarre avventure.

- Non prenderti certe…confidenze. – Rispose il più giovane a tono basso, voltandosi subito dopo dall’altra parte, dandogli quasi le spalle. Il ragazzo al suo fianco rimase basito per dei lunghi istanti, poi scoppiò in una grossa risata. – Ahahah! Scusa sai, ma..se per un abbraccio reagisci in questo modo non oso immaginare in altre “situazioni” cosa potresti fare! Ahah. – Disse in tono provocante, continuando a ridersela.

Arthur posò velocemente il cellulare sul banco e, rivolgendosi verso il francese, lo afferrò per la maglia con entrambe le mani, avvicinandolo a lui con aria minacciosa e sguardo cupo. – Vuoi litigare, rospaccio? –

Il francese piegò le labbra in un sorriso malizioso. Non si poteva certo dire che fosse un tipo amabile e socievole, ma almeno adesso lo riconosceva. – Eheh, “Preferirei di no”⁽⁹⁾. – Disse allungando lo sguardo sul libro dell’inglese che si trovava sul tavolo e facendogli poi l’occhiolino. Arthur strappò un ghigno. – Tsk, sei sempre di spirito, vedo. – E così dicendo allentò la presa sull’altro fino a lasciarlo andare. Francis stava per ribattere a suo modo, ma prima che potesse proferir parola una voce energica lo chiamò dalla soglia della porta dell’aula. – Ehi, barbetta francese!! –

Il giovane si voltò in direzione della chiamata e vide Gilbert e Feliciano che avanzavano verso i banchi. Ovviamente, era stato il tedesco ad urlare in quel modo e adesso si avvicinava a passo svelto con un sorriso sbarazzino stampato in volto. – Yo, Francis! Che hai? T’ho pietrificato? Ahah! – Disse sghignazzando, mentre gli dava un colpetto su una spalla. – Ma figurati. – Rispose ricomponendosi velocemente. – Stavamo solo.. – Si interruppe, lanciando un’occhiata veloce all’inglese al suo fianco, per poi ritornare con lo sguardo verso Gilbert. – Allora, come state oggi? – Domandò cambiando con destrezza e velocità l’argomento di conversazione. – Ciao Francis! Tutto bene, te? – Disse sorridendo l’italiano, raggiunto il gruppo qualche istante dopo il tedesco. – Bonjour⁽¹⁰⁾ Feli. Guarda un po’ cos’ho per te qui. – Il francese si sporse verso la busta che aveva già mostrato prima all’inglese e ne estrasse qualche confezione di snacks che passò sia all’italiano che a Gilbert. – Wow! Francis, sono davvero per noi?! – Domandò Feliciano, quasi saltellando per la gioia. – Bien sûr!⁽¹¹⁾ – Rispose il biondo con energia. Il ragazzo albino, senza farsi troppe domande, aveva già aperto uno dei pacchetti e cominciato a sgranocchiare qualcosa. – Mh, non sono male. Grazie, amico! –

L’italiano fece il giro del banco e si sedette vicino all’inglese, col quale iniziò a chiacchierare. L’altro biondo preferì non intromettersi, così da lasciare al piccolo isterico britannico il tempo e lo spazio necessario per sbollire la rabbia e l’irritazione. Continuò a parlare con l’amico tedesco, aspettando l’arrivo degli altri compagni e quindi l’inizio della lezione. Si limitò solo un paio di volte a lanciare uno sguardo curioso verso Arthur, ben accorto a non farsi notare. Sospirò mentalmente pensando a come a volte potesse essere davvero difficile trattare con quel ragazzo. D’altro canto, tuttavia, la cosa lo divertiva parecchio: il modo in cui i loro scambi di battuta sembravano essere quasi sempre segnali di sfida lo stimolava parecchio, così come lo stuzzicare l’altro lo soddisfaceva molto più intensamente che l’essere infastidito. Spesso aveva l’idea che entrambi si trovassero in una competizione continua, in cui il premio finale consistesse nell’affermazione del proprio io, del proprio ego; la vittoria di una personalità sull’altra, la sopraffazione di un carisma su quello dell’avversario. Indubbiamente una prospettiva del genere per uno come lui era a dir poco eccitante, ma non aveva idea di come la potesse interpretare il suo rivale. Lanciò un’altra occhiata, di sfuggita, verso il britannico al suo fianco.

Aveva ancora il cellulare in mano; anzi, adesso lo teneva con entrambe le mani, mentre continuava a parlare con Feliciano. Sembrava più rilassato, più a suo agio. O forse era solo una sua impressione. Decise di strafare e di mettersi alla prova, cosciente del fatto che probabilmente non gliel’avrebbe mai data vinta, e gli diede una piccola gomitata, per richiamarne l’attenzione.

- Ehi, Arthur. Ti va se dopo le lezioni andiamo in qualche altra biblioteca del centro? – Domandò con aria beffarda, con un sorriso al di là della malizia. Non era proprio riuscito a resistere alla provocazione, era come se le reazioni di stizza o di indifferenza dell’altro lo incitassero a continuare. L’inglese si voltò lentamente, esprimendo in volto tutta la sua esasperazione per quel tipo, fin troppo fastidioso. Lo fissò con uno sguardo tagliente, come a volerlo intimorire, e quindi scandì con calma e precisione le sue parole, senza allontanare per un attimo gli occhi da lui.

- “Preferisco di no”.⁽¹²⁾ -

 

 

Francis e Feliciano stavano salendo le scale del dormitorio, per tornare nelle loro camere. Le lezioni di quel giorno erano durate a lungo, e ormai era quasi ora di cena. – Ehi Francis, domani dovrei fare un salto in biblioteca per cercare un libro. Ti va di venire? – Domandò l’italiano all’amico francese. – Ma certo, Feli. Ti accompagno volentieri. – Rispose con un sorriso. – Evviva! Grazie mille. Almeno domani non mi perderò tra gli scaffali visto che ci vado nell’orario in cui c’è Arthur. – Aggiunse il moro.

- Viene anche lui? – Chiese Francis, infilandosi le mani in tasca. – E’ che lavora lì come part-time, quindi mi ha detto che se fossi venuto nei giorni in cui era di turno mi avrebbe aiutato lui a cercare i libri che mi servono. – I due ragazzi iniziarono a salire l’ultima rampa di scale.

- Oh, non sapevo lavorasse part-time. – Rispose il francese alzando lo sguardo al soffitto. – Immagino sia per pagarsi un po’ dell’affitto. – Disse, avanzando una supposizione. – Sì, infatti è così. Se anche tu ne hai bisogno puoi farti dire i suoi orari, così perderai meno tempo quando avrai bisogno di un certo volume. –

- Vedremo.. – Commentò il biondo, lasciando la frase volutamente in sospeso. Terminate le scale i due avanzarono lungo l’ampio corridoio, giungendo infine alle loro camere. – Ah, Francis, c’era un’altra cosa di cui volevo parlarti. – L’italiano afferrò le chiavi della camera dalla tasca dei pantaloni e cominciò a giocherellarci, temporeggiando sulla porta. – Noi due dovremmo cominciare a guardare un po’ in giro per l’appartamento.. – Il francese estrasse le mani dalle tasche e fece qualche passo verso l’italiano, appoggiando una spalla contro lo stipite della porta. – Oh, sai che hai proprio ragione? Me ne ero completamente scordato, ormai siamo già a dicembre. – Fece una piccola pausa, durante la quale si isolò momentaneamente nei suoi pensieri. – Abbiamo le camere fino al ventuno del mese, giusto? – Domandò all’amico di fronte. Feliciano annuì. – Sì, entro le tre del pomeriggio dovremo lasciarle. – Il ragazzo biondo si lasciò andare ad una piccola smorfia e sospirò profondamente. – Aah, adesso dovremo pensare anche a questo. Sarà meglio dare un’occhiata alla bacheca annunci dell’università. –

- Sì, credo anch’io. – Rispose l’italiano infilando la chiave dell’appartamento nella serratura. – Bè, se proprio ci andasse male, potremmo chiedere aiuto ai ragazzi del corso. Probabilmente loro, vivendo qui da più tempo, potrebbero consigliarci meglio. – Propose il ragazzo moro, aprendo la porta della stanza. – Già. Spero solo che quest’attività non ci rubi troppo tempo ed energie. – Commentò il francese, accarezzandosi la nuca. Feliciano gli poggiò una mano sulla spalla con energia. – Non temere, Francis! Sono sicuro che andrà tutto alla perfezione! – Esclamò con un grande sorriso. – Eheh, tu sei uno che non si scoraggia mai, eh Feli? Fai bene. Il buonumore allunga sicuramente la vita. – Rispose l’altro sorridendogli a sua volta. Quindi lo afferrò delicatamente per un braccio, e lo spinse nell’appartamento. – Su, adesso va’ pure a rilassarti, ci vediamo più tardi per cena. Passo a bussarti, va bien? ⁽¹³⁾ -

- Ah, ok! Allora a più tardi Francis. – E così dicendo gli rivolse un ultimo cenno di saluto con la mano e chiuse la porta alle sue spalle, mentre il francese già si avviava verso il suo appartamento. Dopo essersi introdotto nella stanza si gettò esausto sul letto, avvertendo improvvisamente una grande fiacchezza. Rimase per diversi minuti immobile, con gli occhi socchiusi rivolti al soffitto bianchissimo e il dorso della mano poggiato sulla fronte. Il weekend appena trascorso era stato così piacevole e rilassante che quel rientro gli era sembrato fin troppo intenso ed impegnativo, quasi traumatico. Ma perlomeno aveva potuto rivedere la sua città e la madre. Inaspettatamente, l’aveva trovata molto meglio di quanto non si aspettasse: sembrava piena di vita ed energie, spendeva il suo tempo in molte attività piacevoli e circondata dalle sue amiche di sempre. Il fatto di non farla sentire sola lo confortava infinitamente. Sarebbe potuto tornare a Londra più sereno. Si distolse da quei pensieri, mentre si alzava dal letto dirigendosi verso la borsa che aveva lasciato vicino l’entrata, per terra. Si chinò ad aprirla e ne estrasse il cellulare. Quindi, camminando a piccoli passi avanti e indietro per la piccola stanza, consultò la rubrica e selezionò il numero che gli interessava: aveva voglia di giocarsi l’ultima carta rimastagli. Attese diversi squilli prima di ricevere una risposta dall’altro capo del telefono. – Chi è? – Domandò la voce dell’inglese. Il francese esitò alcuni secondi prima di reagire.

- Da come rispondi direi che non hai salvato il mio numero sul cellulare. –

- Francis?! – Esclamò sorpreso il ragazzo più giovane. – Sei tu che dovresti cancellare il mio numero dal tuo cellulare visto che te lo sei preso senza il mio consenso! – Concluse a tono, rispondendo alla provocazione del francese. Francis rise divertito a quella contestazione. – Ahah, ma così possiamo tenerci in contatto, no? O forse, è proprio questo che non vuoi?. – Commentò l’altro, offrendo all’inglese una nuova occasione di sfida. – Esatto. – Rispose caustico l’altro, senza il minimo tatto. – Visto che non andiamo minimamente d’accordo non capisco perché dovresti avere il mio numero. È un modo come un altro per attirare l’attenzione degli altri, forse? Oppure ti diverte troppo infastidire chiunque ti ritrovi accanto? – Concluse con un tono tagliente e inflessibile. Nei primi istanti il francese sentì di aver incassato qualche colpo. Sperava di trovarlo meno nervoso, e invece sembrava non aver ancora smaltito il nervosismo di quella mattina. Che tipo complicato che è! pensò tra sé. Solo per un abbraccio innocente..

- Arthur.. – Iniziò Francis, non facendo caso alle domande poco garbate che gli aveva rivolto. – ..sei ancora così arrabbiato? – Fece una breve pausa, attendendo qualche reazione da parte del ragazzo, ma invano.

- Stento a credere che possa essertela presa così tanto solo per un gesto di conforto. Non credi anche tu? – Domandò con voce vispa, cercando di richiamare la sua attenzione e di spronarlo a una risposta che fosse mossa da considerazioni concrete piuttosto che dettate unicamente da un cieco risentimento.

L’inglese, sdraiato sul divano nel salone del suo piccolo appartamento, ascoltò con attenzione le parole dell’altro. Ed ecco, succedeva di nuovo: si sentiva ancora una volta infantile di fronte alle valutazioni equilibrate e ragionevoli che il francese gli proponeva con quel suo fare sempre bendisposto e pacifico. Fintanto che quel tipo avesse mantenuto quell’atteggiamento lui sarebbe sempre sembrato in torto, sarebbe sempre passato per la testa calda del gruppo, per quello sempre disposto a polemizzare e attaccar briga; anche se in realtà, di voglia di litigare, non ne aveva proprio per niente. Semplicemente, detestava la sfacciataggine e odiava scendere a compromessi.

Sospirò mentalmente pensando che fosse un discorso troppo complicato da spiegare, e non era decisamente dell’umore giusto per intraprendere una simile discussione; tanto più che il francese non era certo una persona con la quale condividesse una tale confidenza da potersi mettere a nudo in quel modo.

- Ascolta.. – Riprese Arthur dopo una lunga pausa. – ..non puoi stupirti se gli altri non hanno il tuo stesso estro vivace, e considerarlo un’offesa. – Il francese si rincuorò per aver percepito una certa disposizione a trattare l’argomento. – Mi interessa solo trovarmi in buoni rapporti con te, come con tutti gli altri ragazzi del gruppo. È spiacevole ritrovarsi a litigare la metà delle volte che ci si incontra, non trovi? – Rispose il biondo, interrompendo la sua camminata per la stanza ed arrestandosi di fronte alla finestra. – Questo dipende da te. – Commentò impietoso il più giovane, mentre l’altro inarcò un sopracciglio in segno di disapprovazione – Sì ma.. – Cominciò cercando di utilizzare un tono disteso, per non farlo irritare con le parole che stava per rivolgergli. – ..con gli altri ragazzi non ho di questi problemi. –

L’inglese, com’era ovvio, afferrò al volo il significato di quella frase: se con tutti gli altri si trovava perfettamente a suo agio, probabilmente il problema non era da ricercare nell’atteggiamento del francese quanto nel proprio. E in fondo ne era anche consapevole: non aveva mai avuto un bel carattere e sicuramente aveva moltissimi difetti, ma certo non lo avrebbe ammesso così facilmente, e tantomeno non avrebbe mai chiesto scusa a un tipo tanto insopportabile che conosceva appena, per di più parigino. – Forse ti sfugge il fatto che potrei non voler entrare tanto in confidenza con te, come invece fai tu. – Rispose poggiando la nuca sul bracciolo del divano.

Un velo di amarezza coprì il volto di Francis. Quel britannico era un tipo davvero ostinato e con un pessimo carattere, eppure non accettava l’idea di non riuscire ad avere il minimo effetto su di lui. Nella sua vita aveva sempre considerato l’indifferenza degli altri, più che il loro rifiuto, la vera sconfitta. Ma d’altro canto lui non era certo il tipo da gettare la spugna così facilmente. Si dimostrava determinato e risoluto quando si trattava di raggiungere i suoi obiettivi. – Mi odi proprio, eh? – Rispose ironico, con voce lievemente affranta.

Arthur rimase spiazzato da quel commento. Aveva percepito un innegabile sconforto nelle sue parole, e per un attimo gli balenò in mente la possibilità di averlo offeso più del dovuto. Si alzò di scatto dal divano, non sapendo bene come fare per rimediare. Purtroppo gli capitava spesso: finire con l’essere troppo sincero o addirittura andare oltre la sincerità, dicendo cose che nella maggior parte dei casi nemmeno pensava davvero, solo perché preso dalla rabbia e perché il suo orgoglio gli impediva di cedere e darla vinta all’avversario. Come accadeva sempre in questi casi, lo avvolse un improvviso e profondo senso di colpa. Un sentimento che, anche in questo caso, non avrebbe mai riconosciuto né condiviso.

- Non è che ti odio.. – Rispose a voce bassa, mostrandosi più docile. – Penso solo che probabilmente non siamo compatibili. – Aggiunse, mentre si sedeva composto sul divano. – Però si può andare d’accordo anche senza essere compatibili, dico bene? – Disse il francese, notando una maggiore mansuetudine nell’altro. Arthur pensò qualche secondo prima di rispondere; non voleva peggiorare la situazione, e trovare un equilibrio tra la sua indole instabile e le buone maniere non era facile. – ..certo. Voglio dire, credo di sì. – Rispose esitante l’inglese. Francis strappò un sorriso, un po’ rincuorato da quella risposta.

- Senti.. – Continuò all’improvviso il più giovane, senza aspettare che aggiungesse qualcosa. – ..non devi darmi troppo spago, va bene? Sono fatto così e..la cosa potrà anche stupirti, ma.. – Aveva iniziato a parlare non sapendo bene cosa dire, in realtà. Sentiva di voler riparare ai danni che aveva fatto, ma la cosa non sembrava riuscirgli un granché bene. Avrebbe voluto dirgli che non doveva preoccuparsi per quello che era successo quella mattina, che alla fine era una cosa da niente e sapeva che non c’era nulla di male in quello che aveva fatto, che era stato un gesto ingenuo e innocuo; avrebbe voluto dirgli che le sue reazioni erano determinate solo dal suo essere schivo e facilmente irritabile, forse anche un tantino asociale, ma che fondamentalmente non voleva essere scortese di proposito. Peccato che tutte quelle considerazioni rimasero solo nella sua mente.

Ciò nonostante l’altro biondo non poté fare a meno di ridere sotto i baffi, pensando a come l’inglese stesse cercando di arrampicarsi sugli specchi oppure come stesse tentando di scusarsi in modo estremamente vago e impacciato. Si sentì sollevato, anche se quelle poche frasi sconnesse e senza senso che aveva ascoltato dal ragazzo non gli dimostravano né assicuravano nulla. Ora era sufficientemente soddisfatto.

– Arthur.. – Disse Francis interrompendo il confuso discorso dell’amico, mentre un sorriso gli piegava le labbra. – Ci vediamo domani in biblioteca. Accompagno Feliciano a cercare il libro che gli serve. –

- Ah.. – Rispose sorpreso l’inglese, da un lato infinitamente grato all’altro per aver troncato il suo tentativo piuttosto scadente di farsi perdonare le offese gratuite che gli aveva lanciato. Stava per prendere la parola, ma Francis fu più veloce e conciso. – Buonanotte. –

E così dicendo attaccò senza complimenti il telefono, spezzando bruscamente la conversazione. Mentre il biondo più grande, risollevato nello spirito per aver più o meno aggiustato le cose con l’amico, se la rideva nella sua stanza, divertito per come aveva liquidato l’altro lasciandolo senza dubbio di sasso, e godendosi la sua piccola vendetta, l’inglese, ancora seduto sul suo divano, pensò in un primo momento che si fosse interrotto il segnale o fosse caduta la linea, ma poi, non notando alcuna anomalia nella ricezione, giunse all’unica soluzione possibile. Mi ha attaccato in faccia?

Lì per lì si sentì preso in giro e gli venne una gran voglia di tirare il cellulare verso la cucina. Poi gli venne quasi da ridere, pensando a quanto potesse essere stupido quel ragazzo. Aveva modi bizzarri anche per prendersi una rivincita. Si lasciò andare ad una risata liberatoria. – Tsk, che imbecille… -

Poteva andare bene così. Gliel’avrebbe concesso, per quella sera.

 

⁽¹⁾ “Molto bene”, in francese.

⁽²⁾ “E voilà”, in francese.

⁽³⁾ “Francia”, in francese.

⁽⁴⁾ “Precisamente”, in francese.

⁽⁵⁾ “Di nulla”, in francese.

⁽⁶⁾ “Amico mio”, in francese.

⁽⁷⁾ “Sì. È divertente”, in francese.

⁽⁸⁾ In quanto il titolo del volume, quello che Francis ha comprato al Daunt bookshop, era “Senza un soldo a Parigi e Londra”.

⁽⁹⁾ Qui c’è una citazione dal romanzo “Bartleby, lo scrivano”: difatti il protagonista, Bartleby, lavora come copista ma si rifiuta di svolgere altri compiti, rispondendo al suo principale con il famoso “Preferirei di no”. Francis fa quindi dell’ironia rifiutando l’offerta di Arthur attraverso la famosa citazione dello scrivano.

⁽¹⁰⁾ “Buongiorno”, in francese.

⁽¹¹⁾ “Naturalmente”, in francese.

⁽¹²⁾ Questa è un’altra citazione legata al romanzo di Bartleby: lo scrivano, infatti, tecnicamente non rifiuta mai di svolgere altri compiti ma si limita a rispondere “Preferirei di no”. Nel romanzo, ci sarà solo una volta in cui Bartleby cambierà la sua risposta, nel momento in cui dirà “Preferisco di no”. In questo caso quindi, Arthur risponde alla citazione precedente del francese con un tono più duro, evidenziando come non abbia alcuna intenzione di accettare la proposta dell’altro. Per maggiori informazioni:

http://it.wikipedia.org/wiki/Bartleby_lo_scrivano



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Capitolo 9
*** Capitolo 9 ***


- Mi sa che sta laggiù. – Disse a bassa voce Feliciano, per non disturbare gli altri presenti.

- Ok. In caso chiederemo ai ragazzi del bancone. – Rispose Francis, attento anche lui a moderare il tono della voce. La biblioteca era decisamente grande, più di come se la ricordava. Il colore caldo, rossastro, delle strutture in legno conferiva all’ambiente un’atmosfera accogliente e rilassante. Un delicato profumo di carta e di vecchi volumi gli sembrava conciliare perfettamente la concentrazione per la lettura.

- L’ho visto! È laggiù. – Disse all’improvviso l’italiano rivolto all’amico biondo e indicando col dito la figura dell’inglese che aveva scorto dietro al bancone verso il quale si stavano dirigendo. – Arthur! – Lo chiamò Feliciano appoggiando entrambe le mani sul legno della struttura. Il giovane inglese si voltò verso entrambi, mentre sembrava occupato a sistemare un paio di cartelline che teneva in mano. – Ehi, siete arrivati. – Rispose avvicinandosi. – Salut!⁽¹⁾ – Disse il francese ammiccando, ricordando piacevolmente l’episodio della sera prima. Il britannico sembrò in un primo momento rivolgergli una specie di smorfia, arricciando le labbra da un lato, ma un istante dopo gli rispose con un tono disponibile. – Ciao, escargot.⁽²⁾ – Quindi tornò con lo sguardo sull’italiano, quello tra i due che gli aveva chiesto espressamente aiuto per quel giorno.

– Allora, l’altra volta mi parlavi di alcuni saggi su Carroll, giusto? – Domandò Arthur, sapendo già la risposta e posizionando in uno sportello le cartelle. – Sì. – Annuì energico Feliciano. – Se potessi aiutarmi a vedere se avete quelli che cerco mi faresti un favore. – L’inglese sorrise appena. – Certo. Seguitemi di qua. – E così dicendo uscì dal bancone e si diresse verso la parte più interna dalla biblioteca, camminando tra diversi corridoi pieni di libri preziosi, alcuni anche particolarmente antichi. I due ospiti si guardavano intorno incuriositi e affascinati. Il biondo in testa al gruppo si fermò dopo qualche minuto davanti a uno scaffale particolarmente grande, tirando su lo sguardo in cerca di qualcosa. Poi domandò all’italiano a fianco. – Ti servono solo quelli in lingua inglese? –

- Mmh, penso di sì…a meno che non abbiate anche qualcosa in italiano. Sarebbe perfetto ma, non credo che potr- – Il moro venne interrotto dal britannico. – Stai scherzando? Questa è una biblioteca di tutto rispetto. Abbiamo libri in almeno venti altre lingue oltre all’inglese. – Disse sfoggiando un po’ di orgoglio.

- Wow! – Esclamò l’italiano, sinceramente colpito. – Bè, allora..andrà benissimo! Posso leggere sia in inglese che in italiano ovviamente. Tutto quello che c’è può essermi utile. –

- Cercagli anche testi in francese, Arthur. – Disse l’altro biondo prendendo la parola. – Io posso tradurglieli senza problemi. – Aggiunse facendo l’occhiolino al compagno vicino. – Davvero Francis? Ma…ti darei troppo disturbo! – Replicò Feliciano. – Il francese continuò a sorridergli, scuotendo appena la testa. – Nessun problema, Feli. –

- Allora ti cerco quello che c’è in inglese, italiano e francese, va bene? – Domandò Arthur cominciando a scorrere i codici dei libri, evidenziati sul dorso di ogni volume. – Qui posso trovarti solo quelli in lingua inglese. Poi andrò a consultare il catalogo per cercarti quelli in italiano e francese. – Disse mentre si chinava verso un ripiano in basso. – Ecco qui. – Aggiunse infine.

Francis e Feliciano si avvicinarono all’altro ragazzo accovacciato. – Qui ho due delle edizioni più autorevoli di Alice: una è quella con le note di Martin Gardner⁽³⁾, l’altra è della casa editrice Abrams⁽⁴⁾ e presenta anche un testo critico sul testo e sull’autore. Le vuoi entrambe? – Domandò voltandosi verso l’italiano.

– Sì, grazie. – Rispose sorridendo. L’inglese si alzò con i due volumi in mano. – Immagino tu ne abbia bisogno per un po’ di tempo. Penso ti convenga chiedere un prestito mensile. – Il giovane di fronte annuì, aggiungendo: – Spero solo di avere il tempo necessario per finirli entrambi in un mese. Sarà un periodo un po’ faticoso dicembre. – Vi era un filo di scoraggiamento nella voce del ragazzo. Il biondo lo guardò per qualche istante. Stava appena schiudendo le labbra per rivolgergli degli incoraggiamenti quando il francese, più puntuale, poggiò una mano sulla spalla dell’amico moro. – Aah, ma Feliciano è solo un po’ preoccupato per via della ricerca del nuovo appartamento. – Disse andando poi a scompigliare i capelli del ragazzo. Arthur sembrò sorpreso. – Pensavo alloggiassi nel dormitorio. – Commentò rivolto all’italiano. – Sì, infatti. Il punto è che gli appartamenti gratuiti dell’ultimo piano possono essere occupati dallo stesso studente al massimo un trimestre. Per dare la possibilità a più ragazzi di usufruire dell’agevolazione. –

- Davvero? Allora le regole devono essere cambiate. Quando al primo anno usufruii anch’io degli alloggi all’ultimo piano concedevano fino ad un anno accademico. Si vede che gli studenti sono aumentati, e di conseguenza anche la domanda. – Disse il britannico lanciando un’occhiata prima all’italiano, poi al francese. – Feli si preoccupa troppo. Ha paura di non riuscire a trovare un altro posto prima di essere cacciato. – Commentò nuovamente Francis, continuando a carezzare la testa dell’italiano.

- E’ che…tra lo studio e le lezioni, temo di non avere tempo a sufficienza per cercare con attenzione un appartamento abbastanza vicino, comodo e soprattutto economico. – Disse mettendo su un piccolo broncio. – A tal proposito, Arthur, visto che il nostro amico, qui.. – Si interruppe indicando con un cenno della testa il giovane italiano al suo fianco. – ..è tanto angustiato…sai per caso se nel tuo quartiere o nella tua via ci sono degli appartamenti in affitto? – Chiese con naturalezza il biondo maggiore. L’inglese distolse momentaneamente lo sguardo dai compagni, intento a pensare. – Non saprei, non ci ho fatto caso. Ma posso controllare se vuoi. – Rispose appoggiando una mano sul bordo di un ripiano dello scaffale. – Lo faresti? – Disse l’italiano quasi incredulo, reinserendosi nel discorso. – Certo. Se vedo qualche annuncio te lo faccio sapere. – Si voltò poi a guardare il francese. – Quindi serve anche a te un nuovo appartamento? –

- Sì. Tutti e due ora alloggiamo nel dormitorio, quindi…quando sarà fine dicembre dovremo fare le valigie. – Rispose con un largo sorriso. Sembrava molto più tranquillo e rilassato dell’amico. Pensò che fosse un atteggiamento coerente con la sua personalità, troppo solare e spensierata per oscurarsi davanti ad una difficoltà così infima. Tornò quindi sull’italiano. – Non preoccuparti Feliciano, c’è un sacco di tempo. Inoltre, possiamo provare a chiedere anche agli altri: Kiku e Feliks hanno avuto diverse esperienze di questo tipo, e ancora adesso alloggiano in camere in affitto. – Disse, sperando di aver rassicurato l’italiano.

Il moro annuì con la testa, inspirando profondamente. – Ok. In effetti, non ha molto senso preoccuparsi in questo modo quando si ha ancora così tanto tempo a disposizione. Grazie, mi sento più tranquillo! – Disse ridendo come un ragazzino. Arthur sperò che quel commento non si sarebbe risolto in un atteggiamento di procrastinazione deleterio e controproducente, il che sarebbe stato abbastanza prevedibile da parte di un italiano, e preferì non aggiungere altro riguardo a quell’argomento. – Bene. Allora, io intanto vado a cercarti gli altri possibili testi in italiano e in francese. -

- Potrei restare qui a dare un’occhiata nel frattempo? – Domandò Feliciano con le mani giunte, come a pregarlo. L’inglese gli sorrise leggermente. – Certo. Fai pure. – E cominciò a voltarsi per tornare al bancone dove avrebbe utilizzato la ricerca dei volumi sul catalogo digitale. – Arthur, vengo io con te. – Disse improvvisamente il francese, seguendo i passi dell’inglese. – Come vuoi. – Rispose l’altro senza troppo interesse. Il biondo maggiore fece un cenno con la mano all’italiano e si affrettò per mantenere il passo del britannico ora al suo fianco. – Questa biblioteca mi piace sempre di più, sai? –

- Davvero? – Chiese incuriosito. – Mi fa piacere. Io mi ci trovo molto bene. –

- Non sapevo facessi dei turni qua dentro per guadagnare un po’ di soldi. – Commentò il francese mettendosi le mani in tasca. – Non mi piace dipendere del tutto dai miei. Se posso contribuire in qualche modo lo faccio volentieri. – Rispose il più giovane. – Sì, ti capisco bene. – Disse sorridendo l’altro. Poi aggiunse a bruciapelo. – Come stai, Arthur? – L’altro si voltò a guardarlo con un’espressione un po’ sorpresa in volto. Come faceva a trovare tanto naturale passare da un argomento all’altro senza nessuna logica? Strappò una piccola risata pensando a quanto, in fondo, lo stile del francese fosse piuttosto originale. Anche se, certo, non lo avrebbe mai ammesso apertamente. – Tutto bene, grazie. E tu? – Fece una breve pausa. – Mi sei sembrato molto più sereno rispetto al tuo amico riguardo all’affitto. – Francis inclinò le labbra in un sorriso interessato. – Infatti la cosa non mi preoccupa più di tanto. – Stava per aggiungere qualcos’altro, ma venne preceduto dal compagno accanto. – Male che ti vada potrai tornare alla tua vita sotto ai ponti vivendo di beneficenza, giusto? –

Al contrario di quanto ci si potesse aspettare, Francis trovò brillante quell’intervento dell’inglese e, da un lato, apprezzò anche il fatto che avesse davvero ascoltato con attenzione la sua storia, settimane addietro, per poterne ricordare quei dettagli. – Ahah, sì infatti. Di sicuro saprei già come cavarmela! – Anche Arthur si lasciò andare ad un piccolo sogghigno privo di ostilità. – A parte gli scherzi.. – Continuò l’inglese. – Se vi doveste trovare in difficoltà…insomma, puoi chiedere una mano se vuoi.. – Il francese si deliziò all’ascolto di quelle parole. In qualche modo, lo galvanizzavano. – Ooh, merci beaucoup⁽⁵⁾. È molto gentile da parte tua. – Rispose con una vena di malizia che non riuscì a domare. – Non è niente di che, e non mi costa nulla. Tutto qui. – Uscirono dall’intrico di corridoi più fitti, affacciandosi nella sala principale, di ben altro respiro. – Presterò più attenzione agli alloggi della mia zona. Se trovo qualcosa ti faccio sapere. – Concluse mentre raggiungeva il bancone informazioni da dove prima si erano incamminati. – Grazie. – Rispose l’altro biondo soddisfatto del loro scambio di battute.

Arthur si posizionò al suo posto, davanti al computer di ricerca e cominciò a lavorare in silenzio con la tastiera. Il francese poggiò i gomiti sul legno del bancone, abbandonando il viso sui palmi delle mani e diffondendo uno sguardo piacevolmente distratto nella direzione dell’inglese. – Mmh.. – Mugugnò fra sé pensando a come poter continuare la conversazione. – ..come ti senti oggi? – L’inglese gli rispose senza distogliere gli occhi dallo schermo. – Normale. Perché? – Disse piegando le labbra da un lato. – Sembri un po’ stanco. Sicuro di non affaticarti troppo? – Domandò premuroso, con un sorriso dei suoi stampati sul volto. Arthur alzò appena lo sguardo su di lui. – Sicuro. In realtà mi sento in forma. –

- Sei arrabbiato? – Chiese a bruciapelo il francese cambiando, di nuovo, completamente discorso. L’altro biondo sbatté un paio di volte gli occhi, non avendo ben compreso il senso della sua domanda. – Perché? Dovrei? – Il francese rise debolmente. – Eheh, io vorrei sperare di no. – Fece una piccola pausa. – Sai, riguardo a ieri sera.. – Disse lasciando la frase in sospeso. – Ooh.. – Commentò in tono discendente, intuendo la ragione della sua ironia. Premette invio sulla tastiera del computer con un gesto deciso, quindi rivolse lo sguardo completamente al francese, sporgendosi maggiormente verso di lui. – Se ti può far piacere saperlo ti ho trovato divertente ieri sera. – L’altro biondo spalancò le orbite degli occhi. Forse non aveva sentito bene. – Moi?⁽⁵⁾ – Domandò indicandosi con l’indice di una mano. L’inglese piegò le labbra in un leggero sorriso, trovando buffa la sua reazione. – Sì. – Tornò per qualche secondo con gli occhi sullo schermo. – Voglio dire, non mi aspettavo una reazione del genere. Mi ha fatto sorridere, tutto qui. – Rispose senza essere più preciso. Francis sembrò estasiato da quelle parole. – Davvero? Ahah, e io che pensavo mi avresti messo le mani al collo stamane! – Rise appena. – Che meraviglia averti strappato un sorriso, allora. Peccato che non fossi lì da te per godermi quella vista. – Aggiunse con un filo di malizia. L’altro ragazzo si limitò a lanciargli un’occhiata guardinga e preferì non dargli corda. – Abbiamo un testo in francese, mentre un titolo interessante in lingua italiana non si trova attualmente in questa biblioteca. – Disse approfittando del fatto che il computer aveva completato la ricerca. – Oh! – Esclamò Francis inarcando un poco le sopracciglia. – Penso gli andrà bene anche solo il testo in francese, allora. – L’inglese scrollò le spalle. – Nessun problema, invece: può tranquillamente usufruire del prestito interbibliotecario. Gli farò arrivare qui il testo in meno di tre giorni. – Rispose con tono deciso. – Wow, che efficienza! – Esclamò il biondo maggiore.

- Io vado a prendergli il volume in francese, tu nel frattempo torna da lui e portalo qui che mi serve per compilare i dati del prestito. – Gli suggerì mentre usciva dal bancone. Francis alzò il braccio improvvisando un saluto militare. – Sissignore! – Esclamò ironico. L’inglese gli rivolse uno sguardo veloce, senza commenti, e si diresse nella direzione opposta a quella del francese, il quale, facendo retrofront, tornò sui suoi passi per andare a prendere l’italiano lasciato tra i grandi scaffali più in là.

 

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- Ma sei fuori di testa? Come ti viene anche solo in mente? –

Tuonò con tono minaccioso Barclay, mentre si allontanava la sigaretta dalla bocca con due dita.

- Guarda che non stavo parlando con te. – Rispose Arthur rivolgendogli a malapena lo sguardo. – Per favore Barclay, non ti agitare. – Rispose il padre dei due ragazzi, con grande calma. Quindi tornò con gli occhi sul figlio più giovane. – Vediamo un po’.. – Disse assumendo un’espressione pensosa e cominciando a massaggiarsi il mento. Arthur conosceva bene quella postura: significava che stava riflettendo con attenzione. L’uomo riprese dopo qualche secondo la parola. – Non ho nulla in contrario a mandarti in vacanza, questo è ovvio. – Fece un’altra pausa più breve. – Forse si tratta solo di definire meglio i dettagli. Ripetimi un attimo, dov’è che tu e Alfred vorreste andare? –

- Nelle Highlands.⁽⁶⁾ – Rispose il biondo, seduto al tavolo del salone, con le braccia incrociate sul petto. – La trovo una splendida meta. E mi confermi quello che mi hai accennato prima riguardo alla durata di questo soggiorno? – Domandò il padre, alzandosi dalla sedia per dirigersi verso il ripostiglio dell’ingresso. – Sì. Vorremmo starci tutto agosto. – Rispose con voce un po’ più forte il figlio, assicurandosi che sentisse bene la risposta anche se allontanatosi.

– È qui che sei fuori di testa. Anzi, che dico, è assurdo pure tutto il resto! – Si introdusse nuovamente nel discorso Barclay, seduto sul divano. Agitava tutto concitato la mano destra, nella quale teneva ancora la sigaretta, mentre rivolgeva al fratello più piccolo uno sguardo bieco.

– Barclay, non ce n’è bisogno. – Disse l’uomo, adesso in piedi all’entrata del salone, mentre si infilava il cappotto che aveva estratto dal ripostiglio. – Facciamo così Arthur: ne riparliamo stasera visto che adesso devo uscire. Va bene? – Domandò al ragazzo seduto sulla sedia. – Certo. Non c’è problema papà. – Rispose con tono sereno il biondo. Dopo un sorriso e un veloce cenno con la mano, l’uomo si avviò verso la porta e, afferrata la borsa sulla sedia dell’ingresso, la richiuse dietro di sé. Seguirono nel salone dei lunghi istanti di silenzio, interrotti infine dal giovane dai capelli rossi. – Tanto non ci andrai, e lo sai anche tu. È da matti anche solo prendere in considerazione la tua proposta. – Commentò aspirando del fumo dalla sigaretta che si riportò sulle labbra. – Questi non sono affari tuoi. Smettila di impicciarti. – Rispose il minore, lanciandogli un’occhiata torva. Per tutta risposta l’altro sollevò il corpo dallo schienale del divano, sporgendosi verso Arthur e alzando la voce. – Ehi mocciosetto, cosa credi? Di essere diventato un adulto solo perché hai finito la scuola dell’obbligo?⁽⁷⁾ – L’altro continuò invece ad usare un tono pacato e uniforme. – Ti ripeto che non sono affari tuoi. È inutile che ti scaldi. –

- Dove pensi di andare a sedici anni, per un mese dall’altra parte del paese con un bambinetto appresso? – Tuonò più minaccioso il fratello maggiore. – So badare a me stesso. E comunque Alfred ha avuto il permesso della zia per venire con me in vacanza. – Rispose tamburellando le dita sul tavolo. – Hai solo quattro anni in più di lui, mio caro, non sei certo un adulto che se ne può andare in giro dove, come e quando vuole. Mi hai capito? –

- Non spetta a te deciderlo. Non sei mica tu mio padre. – Per la prima volta Arthur usò un tono sprezzante e sfacciato nei confronti del fratello maggiore, il quale, in un impeto di rabbia gettò per terra una pila di libri che si trovava sopra il tavolino del salotto, davanti al divano, lanciandogli un calcio deciso. – Zitto, idiota di un ragazzino! – Gridò, alzandosi in piedi. – Sei davvero ottuso, infantile e testardo come un mulo! Ti prenderei a calci nel sedere! – Tra le urla che si alzavano dal salone, spuntò anche William, un altro dei fratelli, dall’angolo della porta. – Piantatela di urlare voi due! Sto cercando di fare una telefonata. – Aveva l’aria spazientita e un certo cipiglio stampato sul volto. – Me ne frego! – Continuò a gridare il maggiore dai capelli rossi, voltandosi verso l’altro ragazzo sulla porta. Sembrava davvero furioso. – Sto parlando con lui! Va’ a telefonare di sopra! – Quella reazione intimorì per un attimo anche Arthur. Non che in famiglia non fossero ben abituati alle sfuriate di Barclay, ma ogni volta insinuavano un innegabile sgomento, facendo sentire il rivale quasi sempre in soggezione. E anche se odiava ammetterlo, aveva quell’effetto anche su di lui. William lasciò il salone lanciando qualche imprecazione verso il maggiore, lagnandosi della sua prepotenza e maleducazione. Tornò per qualche istante il silenzio nella stanza, ma non durò a lungo. – Devi smetterla di pensarti come un adulto che può fare quel che cazzo gli pare, hai capito?! – Tornò a urlare intimorendo il fratello con un altro dei suoi sguardi minacciosi. – Mi fa incazzare questo tuo atteggiamento! Non è la prima volta che te ne esci con queste gite fuori porta che durano settimane! Se hai problemi a restare in questa casa fattene una ragione e non metterti a chiedere l’impossibile! Sei ridicolo! – Sbraitò consumando con rabbia la sigaretta nel posacenere. A quelle parole Arthur si alzò con uno scatto dalla sedia, mentre guardava in faccia il fratello, pronto ad affrontarlo come fin troppo spesso era costretto a fare. – E chissà perché io avrei dei problemi, idiota! Come se tu non rompessi! – Fece una brevissima pausa e poi riprese a gran voce, stringendo con forza i pugni. – Meno male che te ne vai in Scozia a lavorare! Non sarò più costretto a vedere la tua faccia qua dentro! – Non appena ebbe concluso quelle parole venne afferrato per la maglia dal maggiore e sbattuto senza premura sulla parete alle sue spalle. Barclay lo fissava severo, con occhi scuri e sprezzanti, tenendolo saldamente tra le mani. – Ti riempirei di botte, stronzetto che non sei altro! –

- Tsk, e fallo allora! Ma non pensare che non risponda! – Disse cercando di tenere testa al fratello.

Prima che la situazione degenerasse verso il peggio, si sporse di nuovo dall’entrata del salone William, probabilmente attirato dai rumori sospetti e dalle forti grida dei due. – Barclay, falla finita. – Disse al ragazzo dai capelli rossi, afferrandolo per un braccio tentando di farlo desistere. – Sparisci tu! Non sono affari tuoi! – Rispose l’altro voltandosi verso di lui. – Barclay.. – Ripetè William, con tono calmo e disteso come a suggerire all’altro di fare altrettanto. Strinse appena la presa sul polso del fratello maggiore e, a poco a poco, delicatamente, fece forza per allontanare il braccio dalla maglia di Arthur. Dopo alcuni tentativi di resistenza Barclay decise di cedere, probabilmente non più determinato come prima ad insistere nella competizione col fratello minore. Assestò un’ultima spinta alle spalle di Arthur, spingendolo ancora più contro il muro e poi fece qualche passo indietro, come chi si ritira da un confronto. – Va al diavolo. – E detto questo uscì dal salone, con passi pesanti; quindi si sentì aprire la porta di casa e sbatterla violentemente dopo un brevissimo istante. I due fratelli rimasti in casa mantennero a lungo un gelido silenzio. Arthur aveva entrambi i palmi delle mani poggiati al muro, sorreggendosi, e lo sguardo rivolto al tappeto del pavimento. Respirava piano, come per non farsi sentire dal più grande, ancora immobile nel salone. – Perché? –

Quella domanda ruppe il silenzio glaciale che si respirava intorno alle loro figure. Il più giovane alzò il viso e rivolse lo sguardo verso l’altro, con espressione contrariata. Non fece in tempo a rispondere che la domanda si fece più precisa. – Perché ti comporti così? – Il tono di William era distaccato e l’intonazione con la quale aveva accompagnato la domanda la faceva assomigliare molto di più ad un rimprovero. Arthur strinse i pugni, profondamente risentito, distaccandosi dal muro e riassumendo una stabile posizione eretta.

- Stai dicendo che la colpa è mia? – Chiese irritato. William sospirò, poggiando entrambe le mani sui fianchi. – Barclay è un isterico impulsivo e ha la sua parte di responsabilità. Ma perché tu devi provocarlo in questo modo? È un modo per attirare l’attenzione o cos’altro? – Rispose il maggiore senza far troppo caso al tono indisponente del fratello minore. – Ma chi desidera le vostre di attenzioni!? Fai tanto l’equilibrato quando io e lui discutiamo ma alla fine sei schierato anche tu, da sempre! – Riprese un attimo fiato. – Va’ all’inferno insieme a quell’altro idiota! – Gridò infine. Si mosse verso l’uscita più vicina del salone, quella alle spalle del fratello, ed avanzò verso di essa passando accanto al giovane in silenzio, ma si sentì tirare per un polso appena lo superò. – Arthur.. – Disse William cercando di venire incontro al più piccolo, con un tono più apprensivo di quello usato in precedenza. – Non toccarmi. – Rispose freddo l’altro, lanciandogli un’occhiata più che indispettita e scansando la presa del fratello con un brusco movimento del braccio. Senza più voltarsi salì le scale, dirigendosi in camera sua e sbattendo dietro di sé la porta, dando un doppio giro di chiave alla serratura. Non avrebbe voluto vedere nessuno per almeno mezza giornata.

Andò a gettarsi sul letto, sprofondando il volto nel cuscino. Cercò di placare la rabbia che sembrava corrodergli le membra in quel momento e strinse coi pugni i lembi delle lenzuola. Alla fine finiva sempre in quel modo: grida, insulti e sbattimenti di porte. Era uno scenario fin troppo familiare ormai, anche se questo, certo, non significava che ne fosse assuefatto al punto da renderlo insensibile. Sollevò appena il volto dal cuscino, cercando di inspirare a fondo, pensando a quanto gli sarebbe piaciuto fuggire da lì, in quello stesso istante, se solo gli fosse stato possibile, se ne avesse avuto davvero il coraggio. Ma in fondo era un debole, e ne era ben consapevole. C’era qualcosa che lo teneva legato a quella misera condizione, a quelle mura domestiche, famigliari, ma che allo stesso tempo lo facevano sentire ogni giorno più umiliato e ignobilmente schernito. Aveva voglia di andarsene il più lontano possibile, raggiungere un luogo dove nessuno lo conoscesse, dove nessuno fosse in grado di leggere la storia del suo passato attraverso i suoi occhi ormai spenti e senza più vigore. Voleva scomparire.

Si alzò, afferrando il cellulare sulla scrivania. Selezionò velocemente un numero dalla rubrica e si portò il telefono all’orecchio. Alfred sarebbe stato di certo in casa, avrebbe sicuramente potuto tirarsi su il morale con lui. Essendo l’amico più piccolo ancora un ragazzino non se la sentiva di parlare apertamente con lui delle questioni più delicate e personali che lo riguardavano. Tuttavia, l’innato buonumore dell’americano e la sua ingenua schiettezza l’avrebbero aiutato a sorridere. In quello ci riusciva sempre. Pazienza, si disse. Se non poteva realizzare i suoi desideri in quel momento, avrebbe aspettato. Non era un tipo impulsivo, poteva farcela a ingoiare ancora per un po’ pillole di amarezza e infelicità. Il suo momento sarebbe arrivato, ne era sicuro. L’importante era che non venisse abbandonato, che almeno una persona che credesse in lui accettasse di restare al suo fianco. E per ora quella persona c’era: l’unico amico che avesse, l’unico di cui avesse bisogno e che accettasse di sostenerlo. Finché avesse avuto lui avrebbe atteso. Per lo meno, non avrebbe atteso da solo.

 

 

⁽¹⁾ “Salve”, in francese.

⁽²⁾ “Lumaca”, in francese.

⁽³⁾ Ha divulgato i libri di Lewis Carroll, pubblicando una famosa edizione di Alice nel Paese delle Meraviglie.

⁽⁴⁾ Casa editrice americana di libri illustrati di alta qualità.

⁽⁵⁾ “Grazie mille”, in francese.

⁽⁶⁾ Rappresentano la regione montuosa della Scozia.

⁽⁷⁾ In Inghilterra l’obbligo scolastico termina all’età di 16 anni.

http://www.londraweb.com/Sistema%20Scolastico%20Inglese.htm

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Capitolo 10
*** Capitolo 10 ***


- Centocinquantatre sterline⁽¹⁾ a settimana?! – Esclamò stupito Francis, sgranando gli occhi sulla pagina di giornale dove aveva letto il prezzo di un affitto.

- Mi sembra, cioè, decisamente troppo, tipo. – Commentò il polacco, con le mani in tasca, mentre prendeva a calci qualche sassolino per terra. – Una singola..per una sola settimana per di più.. – Continuò il francese leggermente abbattuto. Provò a voltare pagina, sperando di trovare offerte migliori.

- Dovresti cercare offerte speciali per studenti universitari. Forse così sarebbe più facile risparmiare. – Suggerì Roderich, seduto sulla panchina insieme al francese e all’ungherese.

- Io condivido una camera in affitto insieme a Natalia e ce la caviamo con poco, ma devo dire che non è una gran bella zona e inoltre è parecchio distante dall’università. Col treno ci impieghiamo quasi un’ora. –

- Sei molto gentile, Eliza. Non so se sarò costretto a trasferirmi così lontano. – Rispose il francese voltando un’altra pagina del giornale. – Certo, se non riuscissi a trovare niente di più vicino o più economico.. – Aggiunse lasciando la frase in sospeso. Il giovane polacco si stiracchiò sbadigliando, portando le braccia verso l’alto. – Hai chiesto anche ad Arthur? – Domandò rivolto all’altro biondo sulla panchina. Francis annuì.

- Sì. L’altro giorno mi aveva anche segnalato un paio di appartamenti, ma uno ho scoperto che era già stato preso, l’altro era un po’ troppo caro. – A quelle parole il polacco sbuffò rumorosamente. – E’ proprio una rottura di scatole, vero? Cioè, Francis, se nel mio appartamento ci fosse una camera libera ti inviterei volentieri. Il padrone di casa fa, tipo, prezzi piuttosto ragionevoli. –

- Ti ringrazio comunque del pensiero, Feliks. – Rispose il francese chiudendo il giornale. – Ma sei sicuro che nessuno dei rappresentanti Erasmus ti possa dare una mano? – Intervenne nuovamente l’austriaco, tirando su gli occhiali sul naso con un dito. – Ho provato a rivolgermi a loro in segreteria, ma sembra che possano fare ben poco. Sapevo già da molto prima di partire per Londra che la disponibilità degli appartamenti universitari sarebbe stata di un trimestre al massimo, ma pensavo che me la sarei cavata facilmente. – Si interruppe per qualche secondo. – Se proprio non trovassi un buco nel quale rintanarmi mi hanno assicurato che cercherebbero di prorogare di qualche settimana la disponibilità della mia stanza..ma dovrebbero comunque scendere a compromessi col dirigente del dormitorio. – Sospirò profondamente.

- Insomma, preferirei non arrivare a complicarmi la vita in quel modo. –

- Non ti abbattere, Francis. Hai ancora più di due settimane di tempo. – Disse Eliza poggiando una mano sulla spalla del francese. Il ragazzo si voltò verso di lei, regalandole uno dei suoi sorrisi migliori. – Merci, ma chérie.⁽²⁾ – Reclinò la testa da un lato, sospirando di nuovo. Forse aveva perso troppo tempo nei mesi precedenti pensando che sarebbe stata un’impresa fin troppo facile riuscire a trovare una banalissima camera in affitto. Per un attimo gli balenò nella testa che, se si fosse trovato veramente in una situazione disperata, a pochi giorni dalla data fatidica nella quale avrebbe dovuto lasciare la stanza, avrebbe potuto giocarsi le sue ultime carte e chiedere ospitalità alle diverse “conoscenze” che aveva fatto sia all’interno che al di fuori dell’università. Tra i suoi incantevoli amanti, senza distinzione alcuna tra uomini o donne, ci sarebbe stato almeno qualcuno un po’ più disinvolto e smaliziato degli altri da accettarlo per qualche tempo in casa propria? Si ripeté questo interrogativo nella mente diverse volte, cercando di infondersi una qualche precaria speranza di successo. Fu infine distratto dal chiacchiericcio del gruppo.

Si sporse in avanti, incuriosito, e notò che era arrivato anche Arthur nell’atrio. Il polacco già in piedi si affrettò a salutarlo con una stretta veloce, quindi l’inglese si rivolse anche agli altri ragazzi. Francis gli rivolse un sorriso dei suoi, mentre ne fissava i movimenti delle mani che sembravano cercare qualcosa nella borsa. – Tieni, Francis. – Disse il biondo in piedi, rivolto al compagno francese, allungandogli qualcosa che sembrava essere un opuscolo. Il maggiore distese il braccio verso l’oggetto, afferrandolo e avvicinandoselo per osservarlo meglio. – Per me? – Domandò mentre la copertina gli faceva già intuire di cosa si trattasse. Era un piccolo fascicolo di compra-vendita e affitto appartamenti. Ne sfogliò senza grande attenzione qualche pagina, mentre un altro sorriso gli piegava le labbra. Alzò lo sguardo verso l’inglese. – Grazie infinite, Arthur. Mi sarà sicuramente utile. – In realtà non si aspettava che l’incurante britannico si sarebbe impegnato tanto per quella faccenda: da quando ne avevano parlato l’ultima volta in biblioteca, era già il secondo depliant che gli portava e molto spesso gli parlava di case e prezzi che aveva visto nei dintorni della sua zona. La cosa gli regalava un grande piacere. Forse, alla fine, era davvero riuscito ad allacciare una qualche sottospecie di relazione con quel ragazzo, senza dubbio il più difficile e schivo del gruppo. Restò a fissare ancora qualche secondo l’inglese. Era meglio non correre troppo e cedere ad ingannevoli entusiasmi: gli sembrava il tipo di persona lunatica abbastanza da poter cambiare facilmente opinione su di lui nel momento in cui fosse incappato in una mossa falsa. E non avrebbe certo gradito, a quel punto, inimicarselo più di quanto già non fosse. – Di niente. – Rispose il giovane in piedi, distogliendo lo sguardo dal francese mentre si dedicava a richiudere la borsa a tracolla.

- Accidenti! – Esclamò il polacco rompendo il silenzio. – Io, tipo, ancora devo mettermi a pensare a tutti i regali di Natale che devo fare! – Continuò in tono lamentoso Feliks. Eliza sorrise strappando una piccola risata. – Vero. Il tempo ormai sembra non essere mai abbastanza quando si avvicinano le feste. –

- Come vola il tempo.. – Sospirò Francis, poggiando il mento sul palmo di una mano. – ..mi sembra ieri di essere arrivato a Londra. – L’austriaco gli rivolse un’occhiata. – Sì, ti capisco. – Si sistemò gli occhiali sul naso e quindi riprese il discorso. – Immagino che per le feste tornerete a casa. – Disse rivolto al francese e alla ragazza ungherese. I due assentirono con dei cenni del capo. – Oui.⁽³⁾ Natale è sempre meglio in famiglia. – Commentò il biondo. – E voi? Cosa farete durante le feste? – Domandò incuriosito.

- Io starò a casa mia a Bristol. Tornerò a Londra, tipo, solo per gli esami di gennaio. – Rispose Feliks. Il biondo francese spostò quindi lo sguardo sull’inglese, attendendo una risposta, che tuttavia non arrivò. Arthur sembrava più concentrato a fissare i detriti del terreno piuttosto che seguire il discorso del gruppo.

- Io e Arthur staremo qui a Londra. – Rispose Roderich, facendo le veci dell’amico inglese. Quindi aggiunse: – Kiku invece dovrebbe tornare a casa, in Giappone, come ogni anno. In genere parte sempre una settimana prima dell’inizio della pausa natalizia. – Francis sorrise soddisfatto. – Capisco. -

- Potremmo andare a fare shopping natalizio tutti insieme, prima che, cioè, tutti se ne tornino a casa per le feste. – Disse Feliks avanzando un’idea. Eliza fu la prima ad accoglierla con entusiasmo. – Sì! Così potrete indicarci un po’ di posti dove trovare le cose più caratteristiche o particolari! Voglio portare un po’ di souvenir a casa e non so bene dove trovare quelli più belli. – L’austriaco sorrise composto. – Potremmo essere delle ottime guide per quello, vero Arthur? – Domandò retorico rivolgendo lo sguardo all’altro ragazzo, per cercarne l’assenso. L’inglese alzò velocemente il viso e rispose piuttosto distrattamente.

– Sì, certo. – E tornò subito dopo ad abbassare gli occhi. – Io adoro lo shopping! Sarebbe eccitante andare tutti insieme per spese folli. – Disse Francis, rispondendo alla proposta del polacco. – Bé, allora possiamo organizzarci, tipo, per uno di questi ultimi weekend. Che dite? – Domandò il polacco tutto contento che la sua proposta avesse avuto tanto successo. – Certo. Non c’è problema. – Aggiunse Roderich.

- Scusate.. – Disse quasi timidamente il britannico, dopo alcuni momenti. – ..io adesso ho il turno in biblioteca. Ci vediamo alla lezione delle sei. – Concluse mentre si rimetteva in spalla la borsa. – Okay, Arthur. A dopo allora! – Disse il polacco dando una pacca sulla spalla dell’amico. – Ti registro la lezione delle tre come al solito, allora. – Rispose l’austriaco con un cenno di saluto della mano.

– Sì, grazie mille Rod. A dopo. – E così dicendo si allontanò dal gruppo, voltandogli le spalle, mentre gli ultimi saluti ancora gli giungevano alle orecchie. Infilò le mani nelle tasche della giacca e immerse il mento nella sciarpa che gli avvolgeva il collo, cercando di trovare un po’ di conforto da quel freddo pungente. Giunse al portico dell’atrio e cominciò a percorrerlo in tutta la sua lunghezza. Sicuramente avrebbe apprezzato maggiormente quelle temperature rigide se fossero state accompagnate da un po’ di neve. Era un elemento che aveva sempre amato dell’inverno: quella sua capacità di tingere tutto di bianco, di rendere tutti i suoni così ovattati e delicati, quasi distanti. In quelle atmosfere pallide, spesso al limite del reale, anche i suoni più spiacevoli potevano sembrare sopportabili alle sue orecchie. Anche la città e i suoi abitanti sembravano sospendere le loro normali attività in quelle giornate fuori dal tempo.

Sentì una vibrazione all’interno di una delle tasche della giacca che lo fece distogliere da quei pensieri. Afferrò il cellulare e ne osservò lo schermo: una chiamata. Si arrestò, rimanendo a fissare le lettere che componevano il nome del mittente. Ormai era una pratica quotidiana: l’immancabile chiamata di quel tipo sembrava iniziare a scandire le sue giornate, come un pensiero solitario che ogni tanto riemerge, per poi scomparire nuovamente negli angoli più bui della mente. Fissò ancora per brevissimi istanti il nome di Alfred sulla schermata, quindi avvicinò un dito al tasto rosso dell’apparecchio per interrompere la chiamata, come ormai era sempre solito fare, ma prima che potesse arrivare a premerlo la chiamata si interruppe da sola. Sbatté un paio di volte le palpebre, leggermente stupito.

Strano..pensò. In genere l’americano era capace di restare attaccato alla chiamata, nella vana speranza di una sua risposta, anche per diversi minuti. Per questo l’inglese aveva cominciato a rifiutare automaticamente le chiamate, onde evitare insistenti e fastidiosi sottofondi di suoneria, o vibrazioni e avvisi di chiamate perse quando impostava il silenzioso. Forse era riuscito a farlo finalmente desistere. In quel caso ne sarebbe rimasto grandemente compiaciuto: avrebbe significato la sua vittoria sull’altro, la sua capacità di imporsi e anche la sua neo acquisita facoltà di scartare l’insopprimibile bisogno dell’americano: imparare a mettere da parte il ricordo della sua figura a cui sapeva di essere fin troppo legato. Un piccolo e amaro sorriso si dipinse sulle sue labbra. In fondo, lo sapeva bene, una conquista del genere sarebbe stata solo una magra consolazione. Riprese il passo, più lentamente di prima, come se si sentisse più pesante e affaticato. Scostò appena qualche ciuffo della frangetta dalla fronte, respirando profondamente. Un’altra vibrazione. Riabbassò lo sguardo verso il cellulare: era un messaggio. Lo aprì con noncuranza, mentre continuava ad avanzare lungo il portico. Poi gli occhi si concentrarono sul testo. E di nuovo fu costretto ad arrestarsi. Il leggero sorriso di pochi secondi prima scomparve, le labbra si distesero in un’espressione che sembrava sospesa tra l’amarezza e il disappunto. Osservava quelle parole, che ripeteva continuamente nella sua mente, senza riuscire a distogliere lo sguardo.

Guarda che ho capito che stai facendo. Non sono mica stupido.

Era ironico. Forse nella mente di Alfred quel messaggio sarebbe dovuto essere una specie di minaccia? Un modo come un altro per fargli capire che avrebbe continuato ad infastidirlo? Qualunque fosse la vera motivazione non poteva interessargli di meno. Aveva deciso che non era importante, che quell’idiota sarebbe anche potuto rimanere dov’era, lui non se ne sarebbe più curato. Così aveva scelto e così era determinato a proseguire. Si concentrò nuovamente sull’ultima frase del testo del messaggio, non riuscendo a trattenere un ghigno. – Sì che lo sei, invece.. –

Inspirò profondamente, mentre tornava con lo sguardo davanti a sé e riprendeva a camminare. Un paio di movimenti con le dita sulla tastiera ed eliminò il messaggio, con la stessa velocità con la quale aveva intenzione di relegare il ricordo dell’amico nel dimenticatoio della sua mente e dei suoi interessi. Spense l’apparecchio, riponendolo in tasca, mentre già poteva intravedere l’edificio nel quale avrebbe presto raggiunto la biblioteca.

 

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- Ahi, ahi, ahi! – Si lamentava a gran voce Alfred, seduto sul muretto del cortile di scuola.

- Smettila di fare il bambino. Ti sta bene, così impari a fare a pugni. – Rispose Arthur continuando, noncurante delle proteste, a tamponare con forza l’angolo delle labbra dell’amico. – Non è..colpa mia! Ehi, ahia! Vacci piano! – Continuava a lagnarsi l’altro. – Certo, tu quando mai hai responsabilità? – Domandò l’inglese con retorica. Alfred non rispose, preferendo continuare a borbottare tra una sofferenza e l’altra. In realtà era la prima volta che faceva a pugni con qualcuno. Non era mai stato uno di quei ragazzini problematici che attaccano briga con qualunque bulletto della scuola tanto per sfogare un po’ di frustrazione adolescenziale. Al contrario, era un tipo piuttosto popolare e amato nella sua classe e si poteva dire che non avesse nemici nella scuola.

- Tsk.. – L’inglese allontanò la mano dal viso del più piccolo, sospirando profondamente. – Finirò di sistemarti a casa. Mi serve dell’acqua ossigenata e qualche cerotto. – Disse riponendo in tasca il fazzoletto inumidito con l’acqua che aveva utilizzato per tamponargli il viso. – Forza, alzati. – Disse con tono severo, tirandolo per un braccio per farlo sollevare. L’altro ragazzo si alzò lentamente, dandosi qualche pacca con le mani sui vestiti stropicciati e leggermente sporchi di terra. Il britannico si incamminò senza aspettarlo, con lo zaino sulle spalle e infilandosi le mani nelle tasche dei pantaloni. Alfred lo raggiunse silenziosamente in pochi secondi, ponendosi al suo fianco. Si massaggiò ancora per qualche secondo la guancia, poi anche lui preferì infilare le mani nelle tasche della larga felpa scura che indossava, abbassando lo sguardo sui suoi piedi. – Riesci a camminare bene? Ti fa male qualcosa? – Domandò improvvisamente l’inglese mantenendo il solito tono severo, ma aggiungendo stavolta un pizzico di apprensione nella voce. L’americano alzò velocemente lo sguardo verso l’amico. – No, no. Mi fa solo un po’ male la faccia e il braccio destro. Sto bene, davvero. – Rispose accennando un piccolo sorriso che però l’altro non colse. Tornò il silenzio tra i due, mentre superavano il cancello d’entrata principale della scuola e continuavano la camminata sul marciapiede. La strada era piena di alberi in fiore dai quali cadevano fiocchi di polline che si liberavano nell’aria, trasportati dal vento, sprigionando un inconfondibile profumo di primavera lungo la via.

- Ringrazia piuttosto che nessun insegnante ti abbia visto. – Commentò Arthur riprendendo il discorso. – Ti avrebbero sospeso, lo sai questo? – Chiese all’amico a fianco rivolgendogli lo sguardo. Il più giovane gonfiò le guance, senza rispondere. In quel momento, appena un quarto d’ora prima, aveva semplicemente perso la testa. Non era riuscito a controllarsi e aveva dato retta al solo istinto. Colpa del suo essere impulsivo ma anche delle provocazioni che aveva ricevuto. Il bamboccio con cui era finito a fare a botte era di quattro anni più grande, esattamente della stessa età di Arthur. – Allora? – Lo incalzava l’inglese. – Che ti è preso? Perché l’hai picchiato? –

L’americano alzò lo sguardo al cielo, reclinando la nuca all’indietro. C’era un profumo piacevole nell’aria quella giornata e il sole regalava ai passanti dei caldi raggi delicati. Sbuffò pesantemente, quindi finalmente rispose scrollando le spalle. – Mi ha fatto arrabbiare. – L’inglese sospirò, passandosi una mano tra i capelli.

– Cosa ha fatto? – Domandò cercando ti capire la causa che aveva scatenato la rissa tra i due. – Quel tipo…è un idiota. Dovresti anche conoscerlo. Sta nel tuo stesso piano ed è del quinto anno.⁽⁴⁾ – Rispose, consapevole di aver aggirato la domanda. – L’avevo già capito chi è. L’ho visto di sfuggita mentre si allontanava. – L’inglese fece una pausa. – E sì: è un idiota. Ma questo non cambia il fatto che tu lo abbia preso a pugni. Vuoi dirmi perché? – Chiese ancora Arthur, non avendo ricevuto chiarificazioni soddisfacenti. Non era difficile intuire che Alfred non avesse voglia di confidargli il motivo che lo aveva irritato al punto tale da farlo finire a pugni con altro ragazzo, molto più grande e minaccioso di lui, e difatti continuava nel suo ostinato silenzio. – Capisco.. – Commentò l’inglese a bassa voce, arrendendosi al fatto che fosse inutile insistere. Calò nuovamente il silenzio tra i due, che durò per tutto il tragitto che li avrebbe riportati a casa; persino sull’autobus non scambiarono una parola. Alfred si limitava a lanciargli qualche occhiata di tanto in tanto, soffermandosi ad osservarne il profilo: le ciocche di capelli biondi che gli accarezzavano la fronte, gli occhi velati, costantemente distratti nella contemplazione di qualcosa. Spesso si divertiva a passargli una mano davanti al viso in quei momenti, per richiamarlo alla realtà. E ogni volta che succedeva la reazione di Arthur era sempre la stessa: qualche battito di palpebra, il mento che si alzava leggermente verso di lui, e infine i suoi occhi, tornati tersi, che lo fissavano mentre con le labbra accennava un piccolo sorriso imbarazzato. Osservandone l’aria assorta e lo sguardo distante avrebbe voluto ripetere quel gesto a cui era tanto abituato, ma sapeva bene che non era la situazione più adatta per farlo. Forse Arthur era arrabbiato con lui e probabilmente aveva anche ragione di esserlo, ma avrebbe provato timore e troppa vergogna a confessargli che il motivo per il quale aveva litigato così violentemente con quel tipo lo riguardava direttamente.

Curtis, quello il suo nome, era uno dei tanti bulli della scuola. Uno dal quale era meglio stare alla larga, circondato da amicizie poco raccomandabili e sempre invischiato in risse di ogni tipo e spedizioni di maltrattamento su innocenti malcapitati. Aveva la stessa età di Arthur ed erano stati compagni di classe per cinque anni, odiandosi a vicenda; poi il bellimbusto era stato bocciato all’ultimo anno della secondaria e si erano separati, distanziandosi ancora di più da Arthur nel momento in cui l’anno dopo riuscì a farsi bocciare una seconda volta, sempre al quinto anno. Si incrociavano sporadicamente solo nei corridoi dell’istituto visto che entrambe le classi si trovavano all’ultimo piano. A Curtis non era mai andato a genio il biondo per due motivi principali: il primo era quello stereotipo per il quale lo stesso Arthur era ormai abituato a essere respinto o comunque guardato con occhi diversi: la sua famiglia benestante, il fatto che abitasse in un bel quartiere e avesse una casa grande e distinta…tutti elementi che lo rendevano un elemento sospetto e verso il quale mostrare diffidenza. O almeno questo era quello che aveva imparato accadesse nei ragionamenti dei suoi coetanei.

Il secondo motivo era di tutt’altro tipo: Arthur era sempre stato un ragazzino sveglio, dalla spiccata intelligenza e con una grande propensione allo studio, soprattutto verso le materie letterarie. Di conseguenza la sua costanza e preparazione durante gli anni scolastici erano sempre risultate impeccabili, oltre al fatto che mantenesse anche una condotta perfetta. Già dal primo anno cominciò a spiccare come uno degli elementi più talentuosi dell’istituto e questo, come spesso accade, favorì l’insorgere di sentimenti ostili tra i suoi compagni, mossi da malevole invidia, e di ripugnanza da parte di chi, come Curtis, non poteva sopportare la vista di un giovane a modo che semplicemente amava studiare e proseguire lungo la sua strada, senza curarsi di chi lo circondava. Persino la superiorità che Arthur dimostrava nell’ignorare certe frecciate o commenti inopportuni lo irritava da morire. Ma questo era un atteggiamento piuttosto comune tra ragazzi di quell’età, abituati a fare gli spacconi per difendersi dalla loro stessa mediocrità.

Alfred distolse lo sguardo dall’amico al suo fianco, rivolgendolo lontano, verso le strade piene di veicoli che osservava dall’alto dell’autobus. Quella mattina, quando stavano per uscire da scuola, stava aspettando Arthur sulla scalinata di scuola per tornare a casa insieme, come facevano ogni giorno. Il biondo più grande lo raggiunse, chiedendogli se potesse aspettarlo dieci minuti perché doveva chiedere consiglio ad un insegnante riguardo ad alcuni libri da utilizzare per la preparazione dell’esame di fine anno.⁽⁵⁾ Discese quindi le scale, andandosi a sedere sul muretto del cortile, aspettando l’amico. Lasciò lo zaino per terra, e poggiò il mento sul palmo di una mano, mentre fissava con aria annoiata gli altri ragazzi che a mano a mano lasciavano il complesso scolastico. Poi fu improvvisamente distratto da una sgradevole voce maschile.

- Ehi! Stai ancora appresso a quel tipo tu? –

L’americano si voltò verso il suo interlocutore, osservandone alcuni tratti distintivi come il cappello rovesciato, il piercing al sopracciglio e dei tatuaggi quasi minacciosi che portava su entrambi i dorsi delle mani, anche se non riusciva a distinguerne le figure che vi erano rappresentate. – Come, scusa? – Domandò non afferrando il senso della domanda. – Parlo del tuo amichetto. So che vi frequentate. – Disse avvicinandosi maggiormente al più giovane, lanciandogli un’occhiata superba mentre lo squadrava dall’alto in basso. – Devo quindi dedurre che sei uno sfigato anche tu? – Chiese provocatorio mentre rideva con sfrontatezza, incrociando le braccia sul petto. Alfred capì finalmente cosa voleva dire e a chi si stesse riferendo. Probabilmente aveva visto parlare lui e Arthur sulle scale, poco prima. – Perché dovrei esserlo? –

Domandò a sua volta il più giovane con un certo cipiglio in volto, mentre si alzava dal muretto per avvicinarsi all’altro ragazzo. Non gradiva le offese gratuite e immotivate, soprattutto se da un tipo come quello. – Ti sei scelto un “Signor Sopracciglia” tutto in tiro e con la puzza sotto al naso come amico. Fai una gran pena, moccioso. – Disse il teppista con tono duro, spintonando il più giovane con una mano. Alfred fu costretto ad arretrare di un paio di passi, ma senza mai distogliere lo sguardo dall’altro: quello che aveva sentito non gli era piaciuto per niente. Aveva usato un linguaggio provocatorio e irritante. Inoltre, cosa che lo aveva infastidito ancora di più, stava offendendo Arthur in sua presenza. – Ti avverto, non devi permetterti di parlare di lui in questo modo. – Disse con voce ferma, tornando in avanti di un passo. – Ah, no? E che mi fai, se no? – Domandò altezzoso, afferrando l’americano per la felpa, avvicinandolo maggiormente a sé. Alfred afferrò il polso dell’altro ragazzo, costringendolo a lasciare la presa con una mossa veloce. Non aveva intenzione di farsi intimorire così facilmente, tanto più che quel tipo lo stava seriamente seccando.

– Ti ripeto, sta’ attento a quel che dici. – Rispose il più giovane con sguardo torvo. – Non provare a minacciarmi, poppante! – Fece l’altro, su di giri, spintonando l’americano con maggiore violenza. – Giusto uno sfigato come te poteva stare appresso ad uno stronzo figlio di papà che nessuno si fila! – Disse scoppiando poi in una grossa e arrogante risata. Ma il divertimento durò molto poco visto che nel giro di pochissimi istanti Alfred caricò il braccio, strinse le dita in un pugno e lo sferrò dritto sul viso di Curtis. Era la prima volta che gli capitava di picchiare un ragazzo, ma la sua reazione era stata talmente istintiva e fulminea che non aveva avuto neanche il tempo di ragionarci su. Aveva semplicemente perso la testa: quelle parole ancora gli bruciavano nelle tempie rimbombando come un eco.

Il bulletto davanti a sé sembrava dolorante: l’aveva visto indietreggiare di qualche passo dopo il colpo ricevuto e portarsi velocemente una mano sullo zigomo, lì dove il suo pugno era arrivato. Quindi si voltò verso quello che ormai era diventato il suo avversario e afferratolo nuovamente per la felpa gli scaricò un paio di colpi sul viso mentre gli lanciava contro ogni tipo di imprecazione immaginabile. Grazie a una certa prontezza di riflessi e alla forza che sicuramente non gli mancava, Alfred incassò solo di striscio l’ultimo colpo del ragazzo più grande, riuscendo a respingerlo. Da quel momento i corpi dei due ragazzi cominciarono una lotta sfrenata agitando braccia e gambe contemporaneamente per colpirsi. Il breve conflitto fu infine interrotto dallo stesso Curtis il quale, avendo sentito la voce di un professore farsi vicina, spinse via il ragazzo più piccolo, liberandolo dalla presa, e se la diede a gambe, affrettandosi verso il cancello e infine uscendone, dileguandosi tra i passanti sul marciapiede.

Alfred rimase per diversi secondi accasciato a terra, provato dai colpi ricevuti, cercando di riprendere fiato e di riacquistare le forze per alzarsi. La voce dell’insegnante che anche a lui era parso di sentire era quella della professoressa Harvey, che aveva appena finito di parlare con l’amico inglese e lo stava riaccompagnando alla porta d’uscita. Difatti, l’americano era appena riuscito a mettersi in piedi che sentì Arthur chiamarlo ad alta voce, con tono allarmato. Si voltò nella sua direzione e lo vide scendere le scale in gran fretta e poi afferrarlo per il viso, cercando di capire cosa fosse successo. Alfred lanciò un’occhiata al portone dell’edificio, per assicurarsi di non essere stato visto da nessun professore, e per fortuna così fu. Per diverso tempo si sentì come rinchiuso in una botte di vetro, incapace di interagire con l’amico che dopo averlo fatto sedere sul muretto era andato a prendere un po’ d’acqua dai bagni del piano terra. Tutti i suoni gli giungevano smorzati, come se rimbalzassero a contatto coi suoi timpani, ed avvertì anche qualche vertigine. Si passò il dorso della mano sulla bocca per alleviare il dolore pulsante che percepiva alla mascella, e quando la abbassò notò del sangue su di essa. I passi veloci dell’inglese che tornava dove l’aveva lasciato gli fecero alzare lo sguardo. Arthur sembrava piuttosto preoccupato dalle sue condizioni; cominciò quindi ad imbevere un fazzoletto di stoffa che tirò fuori da una tasca dello zaino, e con quello cercava di pulirgli il viso e bagnare le piccole ferite e i gonfiori già evidenti.

- Al, dobbiamo scendere. –

L’americano sbatté le palpebre degli occhi, come destandosi dal sonno e sollevò lo sguardo, cercando con gli occhi la figura dell’amico. L’inglese era in piedi, a poca distanza da lui, e lo stava invitando ad alzarsi per scendere alla loro fermata. Alfred lasciò perdere i ricordi della rissa e afferrato lo zaino ai suoi piedi si sollevò dal sedile e raggiunse velocemente l’amico. Scesero in silenzio, e altrettanto in silenzio percorsero il breve tragitto che li separava dalla loro via, entrambi a testa bassa, entrambi incerti se prendere la parola o meno. Giunsero all’altezza delle loro abitazioni, l’una accanto all’altra, e finalmente uno dei due aprì bocca.

- Entra. Devo medicarti. – Disse Arthur voltandosi di sfuggita a guardarlo. L’americano abbozzò un sorriso e annuì debolmente, mentre lo seguiva sulle scale del vialetto di casa. In realtà era una loro vecchia abitudine quella di pranzare insieme dopo scuola: né Arthur né Alfred tornando a casa avrebbero trovato qualcuno dei componenti delle loro famiglie ad aspettarli, ognuno immerso nella propria attività di studio, lavoro e impegni. Pertanto, quando rientravano da scuola uno dei due si fermava sempre a casa dell’altro per stare un po’ in compagnia e non mangiare soli. Molto spesso studiavano anche insieme, prolungando fino a sera la permanenza a casa dell’altro. Tuttavia Alfred pensava che l’amico fosse troppo arrabbiato per restare con lui anche dopo scuola, ed era già pronto a tornare in casa da solo. Ne rimase quindi felicemente stupito.

L’inglese aprì la porta di casa e poggiò nell’ingresso lo zaino. Si voltò qualche secondo a fissare l’americano entrare, e quindi aggiunse: – Mettiti seduto in cucina, arrivo subito. – E si diresse verso il bagno del piano terra per procurarsi l’occorrente, mentre Alfred si trascinava pigramente verso la cucina sedendosi su una delle sedie intorno al tavolo. Ci vollero pochi istanti per veder arrivare l’inglese nella stanza con in mano diverse cose: un po’ d’acqua ossigenata e cotone, della garza e una scatola di cerotti. Arthur si posizionò in piedi davanti all’americano, tirandogli su il mento con una mano e quindi, bagnando un dischetto di cotone con il disinfettante, iniziò a tamponargli le escoriazioni sul volto.

- Ahiahiahi! – Cominciò a lamentarsi Alfred agitandosi sulla sedia come un bambino. – Sta’ un po’ fermo. – Rispose l’inglese infastidito dai suoi movimenti eccessivi. Tornò con cura e pazienza ad occuparsi del suo viso, passandogli il cotone in ogni punto dove fosse necessario. Quindi strappò un piccolo pezzo di garza e la poggiò sullo zigomo sinistro del più giovane, facendola aderire utilizzando un paio di piccoli cerotti.

– Penso che zia si arrabbierà.. – Commentò Alfred ad un certo punto. L’inglese sospirò.

– Lo penso anch’io. – E così dicendo gli coprì l’ultima abrasione con un altro cerotto. Si allontanò di un passo, guardando l’altro fisso negli occhi. Fu il primo momento in cui riuscì a rilassarsi per un istante. Se ci ripensava, quando l’aveva visto in quelle condizioni, dolorante e ferito in volto, si era davvero spaventato.

- Che ti preparo? – Domandò Arthur continuando a guardare l’amico di fronte a sé, mentre gli passava, leggera, una mano sui capelli, sistemandoli un poco. Il più giovane sollevò maggiormente il viso, pensando alla risposta. – Hamburger? – Propose incerto, ma con occhi sognanti. L’inglese ritirò la mano e arricciò le labbra da un lato. – Non ne ho, mi spiace. – Non poté non provare un pizzico di godimento quando vide l’americano assumere un’espressione rattristata e gonfiare una guancia mettendo su un piccolo broncio. Il britannico gli voltò le spalle e si avvicinò al frigo, aprendolo. – Ma ho altre cose migliori. – Disse dando un’occhiata a quello che c’era dentro. – C’è dell’arrosto con patate che è avanzato. –

Alfred sembrò ravvivarsi un po’ a quella notizia. – Va benissimo. – Rispose abbandonandosi ad un sorriso soddisfatto. Arthur annuì e tirò quindi fuori il piatto, pronto per metterlo a scaldare. L’americano fissava l’inglese e i suoi movimenti, e nel silenzio dell’attesa finì col ritornare a pensare alle parole di Curtis. Se c’era una cosa che non sopportava erano i fraintendimenti; non tanto quelli che riguardavo lui stesso ma piuttosto quelli nei confronti di Arthur. Erano cresciuti insieme e in tutti quegli anni aveva imparato a conoscerlo a fondo, e poteva dire di essere uno dei pochissimi a sapere che tipo di persona realmente fosse. In un certo senso, sentiva di essere un privilegiato.

Era orgoglioso di essere forse l’unica persona al mondo a sapere veramente come fosse fatto quel ragazzo e aveva sempre custodito gelosamente questa sua prerogativa, anche se non aveva mai avuto voglia di condividerla con altri. Per questo motivo non aveva, istintivamente, una buona impressione delle persone che ronzavano intorno all’amico, fossero semplici conoscenze scolastiche o pseudo-amici. Aveva sempre la sensazione, che spesso era stata confermata, che non avessero la minima idea di quello che si nascondesse sotto quella scorza di cinismo e apparente imperturbabilità. In parte quella considerazione gli serviva per mascherare una profonda gelosia con cui non era mai riuscito a fare bene i conti, fin da piccolo. Sapeva di trovarsi su di un piedistallo rispetto a tutti gli altri per quel che riguardava il suo rapporto con Arthur, ma non apprezzava comunque che dei terzi gli si avvicinassero troppo. Probabilmente accadeva perché era ancora troppo infantile. Era un sentimento difficile da gestire, che lo metteva continuamente in contrasto con se stesso e a volte lo rendeva eccessivamente possessivo nei confronti dell’inglese.

Si alzò dalla sedia, lentamente, avanzando a piccoli e misurati passi verso l’amico concentrato sulla cucina.

Proprio perché sapeva che nessuno era a conoscenza del vero carattere e della vera indole dell’amico, gli ribolliva il sangue quando era costretto ad osservare come le amicizie di Arthur nascessero e svanissero nei giro di brevissimo tempo, o quando era costretto a sentire commenti e considerazioni come quelli di quel giorno, seppur meno violenti. Odiava come Arthur venisse osservato dagli altri intorno a lui, gli apparivano tutti una massa di idioti, incapaci di andare oltre le apparenze e le loro banali e personali aspettative. Per lui che aveva visto tutto, ormai, di quel ragazzo, i suoi momenti peggiori, così come i migliori, le sue debolezze nei momenti di maggiore vulnerabilità, lui che aveva avuto la possibilità di ascoltare le sue paure, dispiaceri e i suoi desideri più sinceri, che aveva visto fino in fondo la persona che era e come fosse l’unico a cui Arthur avesse permesso di farlo, pensando a tutto questo non riusciva a trattenere una gran rabbia e amarezza quando altri ragazzi allontanavano l’inglese con disprezzo e diffidenza, categorizzandolo con stereotipati quanto inappropriati aggettivi.

Si ritrovò alle spalle dell’inglese e gli venne istintivo allargare le braccia su di lui, cingendogli le spalle per abbracciarlo, mentre affondava il viso sulla spalla dell’altro. Non avrebbe mai avuto il coraggio di confessargli la vera ragione della scazzottata, ma in cuor suo sapeva che sarebbe stato pronto a rifarlo. Il maggiore rimase stupito da quel gesto, non l’aveva sentito arrivare alle sue spalle e si era sentito stringere all’improvviso. Alzò un poco il viso verso di lui, cercando di ruotarlo il più possibile per incrociare lo sguardo di Alfred, ma notò che aveva sprofondato il viso sulla sua spalla. Sospirò sorridendo appena e allungò una mano verso l’amico, poggiandola sui suoi capelli.

- Che succede? Devi dirmi qualcosa? – Chiese con tono lieve, quasi sussurrandogli, mentre gli carezzava i ciuffi biondi, per tranquillizzarlo. Alfred, senza spostarsi minimamente da quella posizione, chiuse gli occhi per qualche secondo godendo esclusivamente del tocco delle dita dell’amico. Lo aiutava a rilassarsi e a tornare in sé, così come la stretta nella quale poteva sentire così vicino l’inglese gli ridonava le forze, a poco a poco. – Niente. – Rispose l’americano dopo lunghi secondi di silenzio. – Sto bene adesso. –

 

⁽¹⁾ 180 euro circa.

⁽²⁾ “Grazie mia cara”, in francese.

⁽³⁾ “Sì”, in francese.

⁽⁴⁾ L’ultimo anno della scuola secondaria, che va dagli 11 ai 16 anni. La scuola di Arthur e Alfred è un istituto che comprende sia la scuola secondaria (che frequenta Alfred, avendo 14 anni) che terziaria (che frequenta invece Arthur, avendo 18 anni). Curtis invece, come si leggerà in seguito, pur avendo la stessa età di Arthur e avendo frequentato insieme a lui tutti e cinque gli anni della scuola secondaria, essendo stato bocciato due volte all’ultimo anno frequenta ancora il quinto.

⁽⁵⁾ Alla fine della scuola terziaria, a 18 anni, i ragazzi devono sostenere un esame, il “General Certificate of Education Advanced Level” (GCE- Advanced), con l’ottenimento del quale potranno iscriversi all’università. Per maggiori informazioni http://www.londraweb.com/Sistema%20Scolastico%20Inglese.htm

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Capitolo 11
*** Capitolo 11 ***


Il molesto suono della suoneria del cellulare riecheggiava nella stanza ancora in ombra. Arthur si rigirò un paio di volte nel letto, disturbato da quel risveglio sgradevole. Si coprì il viso e tutta la testa con le lenzuola, sperando di allontanare quell’irritante quanto continuo sottofondo. Dopo qualche secondo si voltò verso il comodino, lì dove era poggiato l’apparecchio e si allungò per afferrarlo. Se lo avvicinò all’orecchio, posizionandosi su di un fianco, e rispose svogliatamente scordandosi perfino di guardare da parte di chi fosse la chiamata. – …pronto? – Rispose con voce chiaramente assonnata.

- Ti ho svegliato Arthur? – Domandò una voce maschile dall’altro capo del telefono. L’inglese riconobbe la voce del padre e cercò di dischiudere maggiormente gli occhi. – Papà? – Disse, a metà tra la veglia e la sonnolenza, raccogliendo le forze per alcuni secondi prima che riuscisse a riprendere la parola. – Non fa niente. Non avevo messo la sveglia, tutto qui. – Rispose alzando il viso verso il comodino poco distante per dare un’occhiata all’ora. Erano quasi le dieci del mattino. – Mi dispiace. – Disse l’uomo con un pizzico di rammarico. – Allora rimettiti a dormire, possiamo sentirci più tardi. –

- Non ti preoccupare, tanto ora non riuscirei a riaddormentarmi. – Rispose il ragazzo, strofinandosi gli occhi con la mano libera, lasciandola poi a coprire il viso stanco. – Sei sicuro? È questione di poco comunque.. – Il padre si interruppe un istante – ..tutto bene lì da te, Arthur? Come va con lo studio? – L’inglese non riuscì a trattenere uno sbadiglio prima di rispondere alla domanda. – Sì. Tutto ok, anche con lo studio e la biblioteca. Tra poco ci saranno le vacanze, quindi.. – Rispose lasciando la frase in sospeso. – Sì. – Continuò il padre. – Era a questo proposito che volevo parlarti. – L’inglese sollevò leggermente la mano dal viso.

– Dimmi tutto. – Rispose perdendosi con lo sguardo nella stanza debolmente illuminata. – Barclay e gli altri ci hanno fatto sapere quando verrebbero, quindi volevo avvisare anche te. – Poi aggiunse. – William, Tomas e Ryan⁽¹⁾ saranno a casa il ventiquattro sera. A Natale invece William andrà dai genitori della ragazza. –

- E Barclay? – Domandò il biondo, interrompendo il discorso del padre. – Barclay viene il ventisei. Però c’è una proposta che vorrei farti. Vorrei che tu mi ascoltassi per bene e ci riflettessi seriamente. – A quella richiesta ambigua Arthur aprì completamente gli occhi, fino a poco prima solo socchiusi. L’uomo riprese a parlare senza aspettare una risposta da parte del figlio. – Barclay il mese scorso si è preso delle ferie che ha deciso di utilizzare in questa settimana, e tornerà qui a Londra per alcuni giorni. – Fece una pausa, cercando di sondare le reazioni del giovane. – Quindi mi sono permesso di proporgli un pranzo di famiglia, insieme a te. Per provare a riunirci noi quattro.. – Stava continuando nello spiegare la proposta, ma venne interrotto bruscamente. – Papà.. – Intervenne il ragazzo con tono fermo. – No. – Aggiunse piuttosto freddo e distaccato, affondando la guancia un poco più in profondità sul cuscino. – Arthur, ascoltami. Quando io e tua madre abbiamo avanzato questa proposta si è dimostrato insolitamente e discretamente interessato. Non si è tirato indietro. Penso sia un elemento da prendere in considerazione. –

Arthur restò in silenzio per alcuni secondi. – Discretamente interessato, dici? – Sospirò, senza nemmeno provare a nascondere un certo fastidio nel tono. – Papà, ho sempre apprezzato gli sforzi tuoi e di mamma per ricucire il quadro della bella famiglia unita e felice ma…in tutta onestà non penso sia possibile. – Ci fu un lungo silenzio dall’altro lato del telefono. – Mi sembrava di averti chiesto di rifletterci seriamente, Arthur. Il fatto che, forse, Barclay abbia mostrato l’intenzione di fare il primo passo dovrebbe motivarti almeno un po’, no? – Odiava quando il padre usava quel tono con lui: a metà tra il rimprovero e l’esortazione pacifica, lo faceva sentire sempre in trappola, costretto ad accondiscendere in qualche modo. Non aveva alcuna voglia di accettare la sua proposta, neanche gliel’avesse chiesto in ginocchio, però avrebbe potuto farglielo capire a poco a poco, senza essere troppo duro e sgarbato. – La cosa non mi motiva minimamente, e comunque so che non è davvero interessato. Avrà solo voluto provare a farvi contenti. – Aggiunse dopo aver deglutito. – Ma posso prometterti di pensarci un po’, va bene? Posso darti una risposta nei prossimi giorni? – Concluse Arthur in tono ascendente. Avvertì un profondo respiro dall’altro capo del telefono. – Va bene, rimaniamo così. Ma sii ragionevole per favore. È una situazione che dovrete affrontare prima o poi. – L’uomo fece un’altra pausa. – Ti richiamo venerdì, allora. – L’inglese quindi rispose continuando a fissare la stanza ormai dai contorni più nitidi, avendo lasciato abituare gli occhi all’oscurità. – Okay papà. Stai bene e salutami mamma. –

Pochi attimi dopo si ritrovò col braccio che aveva portato il cellulare all’orecchio completamente disteso sul letto, come se fosse privo di forze. Richiuse gli occhi, sentendosi improvvisamente esausto, e non per essersi svegliato prima di quanto sperasse. Quelle conversazioni con la famiglia avevano sempre la capacità di lasciargli addosso un tale scoramento che di solito aveva bisogno di alcune ore per smaltirlo.

Dopo un profondo sospiro riaprì gli occhi, lentamente, restando in contemplazione della finestra per alcuni minuti. Poi raccolse finalmente le forze e si tirò su dal letto, sedendosi sul bordo mentre con i piedi scalzi cercava le pantofole. Si alzò pigramente indossando la felpa che era poggiata sulla sedia e andò a sollevare completamente la serranda della finestra e ad aprirne le ante. Sembrava una giornata nuvolosa e l’aria che si respirava era piuttosto umida. Dopo un breve sbadiglio tornò sui suoi passi e lasciò la stanza, dirigendosi al piano di sotto. Diede un’altra occhiata all’orologio del piccolo salone: ormai erano le dieci passate.

Entrò in cucina e mise su dell’acqua per il tè, pensando che all’ora di pranzo lo aspettava un appuntamento con Kiku. Il giapponese infatti sarebbe partito l’indomani per tornare a casa, a Tōkyō, e avrebbero approfittato di quella giornata per salutarsi prima delle feste. Si abbandonò su una sedia del tavolo della cucina, aspettando che l’acqua bollisse, mentre lo sguardo si perdeva oltre la siepe del giardino che poteva scorgere dal vetro della finestra, ancora appannato. Dopo pochi minuti rivolse la sua attenzione nuovamente alla cucina, in particolare soffermandosi su alcuni dei fogli e degli appunti attaccati alla parete del frigo. Si alzò dalla sedia, avanzando lentamente verso di esso e strappò alcuni di quei post-it: in alcuni vi era scritto cosa comprare per la spesa, su un altro aveva appuntato di chiamare Feliks…c’era poi un foglio di carta, molto più ampio degli altri bigliettini, che teneva ormai attaccato lì da molto tempo. Era un’altra poesia, una delle tante che teneva attaccate o appuntate per la casa; in genere trascriveva quelle che lo colpivano particolarmente o altre che raccontavano esperienze e stati d’animo che condivideva intensamente. Quella che adesso stava osservando, riassaporandone i versi, era una di quel genere. Gli sembrava stesse parlando esattamente di lui, e per quanto potesse essere scoraggiante, vista la malinconia dei versi, non riusciva ad allontanarsene. Preferiva lasciarla ben presente nella sua quotidianità, appesa lì, ad una fredda parete d’acciaio, pronta a ricordargli chi era e da dove venisse, pronta a ricordargli su quali sentimenti si basasse la sua intera esistenza.

Sentì l’acqua bollire e si distrasse dai versi, avvicinandosi velocemente al fornello. Spense il fuoco e lasciò le foglie del tè in infusione, poggiando le mani sui fianchi. Le parole del padre tornarono a riecheggiare nella mente e per quanto desiderasse scacciarle non poteva fare a meno di coinvolgerle nei suoi pensieri. Rimase in piedi di fronte alla teiera per tutti i minuti necessari all’infusione, e dopo essersi versato il tè nella tazza si mosse nuovamente verso il frigo, posizionandosi davanti ad esso mentre con gli occhi tornava sulle parole della poesia, intingendo le labbra nella bevanda ancora bollente.

 

Io sono l’unico il cui destino
lingua non indaga, occhio non piange;
non ho mai causato un cupo pensiero,
né un sorriso di gioia, da quando sono nato.

Tra piaceri segreti e lacrime segrete,
questa mutevole vita mi è sfuggita,
dopo diciott’anni ancora così solitaria
come nel giorno della mia nascita.

E vi furono tempi che non posso nascondere,
tempi in cui tutto ciò era terribile,
quando la mia triste anima perse il suo orgoglio
e desiderò qualcuno che l’amasse.

Ma ciò apparteneva ai primi ardori
di sentimenti poi repressi dal dolore;
e sono morti da così lungo tempo
che stento a credere siano mai esistiti.

Prima si dissolse la speranza giovanile,
poi svanì l’arcobaleno della fantasia;
infine l’esperienza mi insegnò che mai
crebbe in un cuore mortale la verità.

Era già amaro pensare che l’umanità
fosse insincera, sterile, servile;
ma peggio fu fidarmi della mia mente
e trovarvi la stessa corruzione.⁽²⁾

 

 

- Sei più silenzioso del solito oggi. È successo qualcosa, per caso? –

Il giapponese si sporse un poco verso l’inglese, seduto di fronte a lui. Arthur scosse leggermente la testa, come per rassicurarlo. –Scusami. – Rispose avvicinando i gomiti sul tavolo. – È che oggi mi ha chiamato mio padre e..mi ha parlato dei “turni” per le feste. – A quelle parole il giapponese dischiuse leggermente le labbra, sapendo a cosa si riferisse l’inglese. Nonostante Arthur fosse un tipo schivo e decisamente riservato non era raro che si confidasse con le persone che considerasse a lui vicine e delle quali si fidasse. E indubbiamente i suoi compagni di corso, Roderich, Feliks e soprattutto Kiku, erano sicuramente tra quelli. Tutti e tre erano a conoscenza della sua un po’ complessa e particolare situazione familiare, così come sapevano anche del rapporto speciale, anche se quasi sempre a distanza, che manteneva con Alfred, e nei momenti di bisogno si erano sempre dimostrati molto disponibili.

- Ci sono problemi quest’anno? – Domandò impensierito. L’inglese scosse leggermente la testa. – No, no. – Spostò con le dita la tazza di tè che aveva di fronte. – È solo che.. – Sospirò, interrompendosi una seconda volta. – A dire il vero questo Natale il problema non saranno i miei fratelli. – Rispose secco e tutto d’un fiato. Il giapponese avvicinò di poco il viso. – Che succede, Arthur? – Domandò composto, ma nascondendo un’apprensione crescente. Il biondo poggiò il viso sul palmo di una mano, inclinando la testa. – È Alfred. – Rispose allungando lo sguardo verso la sala del bar nella quale erano seduti, come a controllare che non ci fossero sguardi indiscreti che potessero disturbarlo in quel momento. – Non verrà per le vacanze. Starà in Canada, da Matthew. Si divertirà a sciare penso.. – Rispose cercando di lasciar trasparire la minor quantità possibile di malinconia, mentre lo sguardo si piegava verso il basso, sul tavolo di legno che separava lui e il giovane moro. – Davvero? – Domandò Kiku con grande sorpresa. – Ma come…voglio dire, quando te l’ha detto? – Sporse il busto in avanti, verso l’inglese. – Circa tre mesi fa. Comunque per il venticinque starò sicuramente dai miei. Forse potrei decidere di andare anche il ventiquattro, ancora non sono sicuro.. – Disse con l’intenzione di continuare la frase che però venne interrotta dall’amico. – Arthur, non vorrei essere indiscreto ma..perchè non me l’hai detto prima? Ci saremmo potuti organizzare per non lasciarti solo durante le vacanze. Saresti potuto stare da Feliks, o da Roderich o…magari avrei potuto rimandare di qualche giorno la partenza e.. –

- Kiku. – Disse l’inglese in tono fermo. – Non devi preoccuparti. Non ho intenzione di disturbare nessuno con questa storia, te l’ho detto solo perché mi sembrava giusto fartelo sapere. – Inclinò la testa da un lato, sentendosi leggermente a disagio. Non sapeva bene neanche lui perché era giunto a confessare tutto quello. Nonostante si fosse ripromesso di non condividere la notizia con nessuno le parole gi erano uscite di bocca in modo così spontaneo che non era riuscito a ricacciarle in gola. Improvvisamente ebbe come l’impressione di aver parlato troppo. – Bè, ma se gli altri non lo sanno dovresti parlargliene. Feliks e Roderich sarebbero sicuramente lieti di tenerti compagnia durante la pausa natalizia. – Propose il giapponese, con un debole sorriso sulle labbra. – Accidenti, adesso mi sento inquieto a partire. – Commentò sospirando Kiku. – Ehi, dico davvero: non c’è nulla di cui preoccuparsi. Sono abituato a queste situazioni e inoltre sarà un’ottima occasione per concentrarmi sugli esami della prossima sessione. – Rispose in tono ironico, cercando di smorzare la tensione che si era venuta a creare. – Sarà anche così..però, te ne prego, parlane con Feliks e Roderich. Non c’è motivo di isolarsi quando si ha la possibilità di stare assieme, dico bene? Cerca di stare con loro il più possibile perlomeno. – Continuò il moro dopo una breve pausa. – Senza contare che potrebbero essere disponibili anche gli altri ragazzi dello scambio. Magari alcuni di loro torneranno a casa solo per le festività principali. – Concluse congiungendo le mani davanti al volto e appoggiandovisi. L’inglese si sforzò di fingere un sorriso. – Va bene, va bene. Ma vorrei capissi che non è assolutamente un problema per me. E comunque, Francis e Feliciano hanno sicuramente cose più importanti alle quali pensare in questo momento. –

- Ah! Ecco cosa mi sono ricordato! – Esclamò tutto d’un tratto il giapponese, portandosi una mano davanti alla bocca. – Stamattina ho saputo che il ragazzo che condivideva con me la stanza dell’appartamento nel quale alloggio ha lasciato Londra. Quindi posso offrire un posto letto e metà stanza. Volevo dirlo al più presto agli altri per aiutarli.. – Arthur rimase stupito da quella notizia. – Sul serio? Sarebbe un’ottima possibilità per loro. A lezione devi parlargliene assolutamente. – Concluse con un sorriso sincero stavolta.

- L’unica cosa che mi dispiace è che..potrò ospitare solo uno di loro due. Non ho un secondo posto letto. –

- Capisco. Però, penso sia sempre meglio di niente. – Rispose l’inglese afferrando la tazza e portandosene il bordo sulle labbra, finendo il suo tè. – Vedrai, a chi rimarrà fuori troveremo qualcos’altro. Ne sono sicuro. –

Rimase con lo sguardo distante, fisso a guardare il vuoto. Solo in quel momento fece caso al fatto di aver usato il verbo “troveremo”, come se anche lui fosse coinvolto attivamente in quella ricerca ancora senza successo. D’altro canto, non poteva dire di non aver partecipato all’opera di ricerca di un appartamento: aveva consegnato volantini, si era informato su prezzi e annunci..anche se alla fine era consapevole che, in fondo, la cosa non lo interessava più di tanto. Avrebbe continuato a vivere tranquillamente anche sapendo che Feliciano e Francis abitavano sotto un ponte, in condizioni precarie. Alzò lo sguardo, che però rimase sempre fisso nel vuoto: se ci rifletteva un attimo non era esattamente un pensiero gentile quello che gli era appena passato per la testa. Per qualche secondo fu intimorito e turbato dalla sua stessa impassibilità. A volte non sapeva spiegare come certe considerazioni fuoriuscissero dalla sua mente con tanta naturalezza; forse, non era più abituato a trattare con garbo chi gli stava intorno, forse aveva finito col diventare un apatico antisociale che meritava nient’altro che la solitudine, o forse si trattava solo di un periodo di particolare irritazione.

Nonostante non avesse condiviso col giapponese il suo pensiero indelicato si sentì improvvisamente in colpa e mortificato, come se si fosse denudato davanti a tutti i presenti del bar, lasciandosi sfuggire qualcosa di compromettente. Assunse un’espressione contrita e pensosa, quasi innaturale, e non seppe spiegarsi perché proprio in quel momento gli tornarono in mente le parole del padre e l’incombenza della sua proposta. In un attimo si sovrapposero nella sua mente le figure dei genitori, dei fratelli, di Barclay in particolare, e di Alfred; il tutto accompagnato da un insostenibile quanto fulmineo senso di angoscia che lo costrinse ad ingoiare l’amaro nodo che gli si era aggrovigliato in gola. Si sentì senza forze, demoralizzato e demotivato, senza sapere esattamente rispetto a cosa.

Sì, credo sia proprio un periodo di stress..pensò tra sé mentre osservava le mani pallide del giovane di fronte a sé poggiarsi delicatamente sul tavolo. Forse avrebbe dovuto pensare a qualche modo per distrarsi, per uscire dalla sua piccola abitazione che sempre di più assomigliava ad una cella di auto isolamento. Magari avrebbe potuto adottare un piccolo animale domestico, per avere un po’ di compagnia e riuscire ad occuparsi di qualcuno che non fosse se stesso. Rise tra sé a quel pensiero. Probabilmente era messo peggio di quel che si aspettasse se cominciava a pensare seriamente a una simile possibilità. Si passò una mano sulla fronte, inclinando la testa, mentre si lasciava andare ad un profondo sospiro. Odiava essere messo alle strette in quel modo: gli sembrava di non avere altra scelta e la cosa gli provocava sempre una sensazione spiacevole. Di conseguenza era portato a mostrarsi recalcitrante verso chi lo costringeva a certe decisioni forzate, senza alternativa.

Giunse alla conclusione che avrebbe dovuto chiamare al più presto i suoi genitori, per dare una risposta in merito alla loro proposta. Non aveva la minima intenzione di dargliela vinta. In effetti, più che cedere a loro, non voleva per nulla al mondo cedere a suo fratello. Era una questione di principio, o meglio ancora di orgoglio: non avrebbe accettato di mostrarsi così remissivo e accondiscendente dopo tutto quello che c’era stato, dopo aver visto come erano andate a finire le cose, come erano riusciti a sfaldare il loro rapporto con la stessa facilità con cui un ragno intesse una ragnatela impeccabile, la stessa che intrecciava nella sua mente i fili dei ricordi infranti. Ricordi di un’infanzia mai veramente vissuta, di un’adolescenza costellata di delusioni e rimorsi, sensi di colpa che non sarebbe riuscito a confessare a nessuno. Se ci rifletteva meglio, non c’era alcun motivo per cui avrebbe desiderato riappacificare il suo legame con Barclay; sapeva bene che non avrebbe avuto niente da offrirgli, e non era certo il tipo da portare pazienza a sufficienza per ricostruire un rapporto mai veramente sbocciato. Gli sembrò così irreale come possibilità che cominciò a pensare che parte delle parole di suo padre, quella mattina, fossero state semplicemente menzogna. Magari aveva enfatizzato la reazione del fratello, lasciando intendere che fosse disposto a chissà quale passo in avanti di maturità, come se adesso fosse benintenzionato nei suoi confronti. Non si sarebbe potuto sentire più preso in giro e umiliato.

- Offro io, va bene Arthur? –

La voce del giapponese lo fece tornare al presente e con un brusco movimento allontanò la mano dalla fronte rialzando lo sguardo verso l’altro giovane che già si stava alzando per andare a pagare il conto. Dischiuse le labbra per fermarlo ma non emise alcun suono rilevante. Lasciò che il giapponese si allontanasse, poco più in là, e rimase a fissarne la figura per diversi minuti. Voltò lo sguardo alla sua sinistra, verso il vetro, solo quando cominciò ad udire un suono fin troppo familiare. Senza neanche il bisogno di sporgersi poteva vedere spesse gocce di pioggia scendere rapide lungo la strada. Rimase incantato ad osservarne il moto e l’intensità crescente della loro caduta. Appoggiò il mento sul palmo di una mano mentre abbassava lo sguardo sulla sua tazza, ormai vuota, fissandone i minuscoli residui di tè sul fondo.

 

 

⁽¹⁾ William, Tomas e Ryan sono rispettivamente i nomi che ho scelto per Galles, Irlanda del Nord e Irlanda.

⁽²⁾ Emily Dickinson, “I am the only being whose doom”. Ho trascritto la poesia usando il genere maschile per rendere lo stesso effetto dell’originale inglese in cui non vi è differenza grammaticale tra maschile e femminile. In questo modo si rivolge anche meglio ad Arthur, essendo un ragazzo.

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Capitolo 12
*** Capitolo 12 ***


Estrasse il cellulare dalla tasca dei pantaloni, osservandone l’ora. Era piuttosto in anticipo per l’inizio della lezione, ma nella sua stanza del dormitorio non aveva niente di meglio da fare. Feliciano era fuori, mentre lui quel giorno si era preso una pausa da tutti gli appuntamenti e visite fugaci con i suoi numerosi spasimanti. Accavallò le gambe, leggermente annoiato, mentre scivolava sullo schienale della sedia. Il corridoio era deserto e silenzioso, quasi spettrale a dir la verità. Sospirò profondamente, incrociando le braccia sul petto e reclinando la testa all’indietro, con lo sguardo perso a fissare il soffitto.

Una settimana. Mancava esattamente una settimana al ventuno di dicembre e ancora non aveva la minima idea di dove avrebbe alloggiato da lì in poi. Doveva ammettere che quella situazione aveva un che di elettrizzante, ma si rendeva ben conto dei rischi che correva. L’ultima persona a cui aveva chiesto aiuto era stata una sua compagna di corso, una delle sue tante nuove “conoscenze”. Nonostante fossero stati insieme solo un paio di volte aveva deciso di mettere da parte la decenza e azzardare a chiedere ospitalità anche a lei. Peccato che il colpo non fosse andato a segno, visto che aveva gentilmente respinto la sua proposta. Non che non se lo aspettasse, in fondo…ma d’altra parte era sempre stato un tipo ottimista e dalle grandi speranze. Non aveva neanche voluto accennare alla madre della sua condizione potenzialmente precaria. L’avrebbe fatta preoccupare e basta, e ciò era l’ultima cosa che desiderasse. Avrebbe mantenuto il segreto finché non si fosse ritrovato concretamente in difficoltà. Socchiuse un poco gli occhi, provando ad allontanare per un attimo quei pensieri in grado di suscitargli solo ansia.

Poteva sentire gli scricchiolii della grondaia sulla quale stava probabilmente passeggiando qualche piccione, così come poteva ascoltare i chiacchiericci lontani e ovattati degli studenti al piano inferiore, che gli giungevano dalle finestre del corridoio appena socchiuse. Sospirò di nuovo, lentamente, come in attesa di qualcosa, una qualche manna dal cielo che potesse ravvivargli l’umore, donargli un po’ di fiducia della quale persino uno come lui stava perdendo le ultime riserve.

- Che fai? Dormi? –

Spalancò gli occhi quando avvertì quella voce familiare così vicina. Notò sopra di lui la figura di Arthur, sporta col viso in avanti, verso di lui, con uno sguardo un po’ incuriosito, un po’ indagatore. Sbatté un paio di volte le palpebre e quindi gli regalò un sorriso divertito. – Ehi! – Esclamò, felice di essere stato “disturbato”. Sollevò la schiena, tornando in una posizione composta. – No, no, non dormivo. Ero solo annoiato. – Aggiunse incrociando le braccia al petto, senza distogliere lo sguardo dal compagno. Quindi portò una mano sul legno della postazione accanto alla sua, battendovi un paio di volte la mano sopra, per invitarlo a sedersi. L’inglese osservò il gesto e quindi poggiò lo zaino a terra e accettò l’invito, sedendosi al suo fianco. – Allora.. – Cominciò Arthur, dopo un piccolo sospiro. – ..come vanno le cose? –

Il francese si passò una mano tra i capelli, tirandosi indietro le ciocche più sporgenti. – Abbastanza bene, direi. – Rispose con un sorriso leggermente velato di amarezza. – Siete riusciti a trovare una sistemazione tu e Feliciano? Kiku vi aveva parlato di quella stanza, no? – Domandò quasi incalzante l’altro biondo. – Oui.⁽¹⁾ E infatti è stato di grande aiuto, dovremo ringraziarlo a dovere quando tornerà dal Giappone. –

- Come avete sfruttato la cosa? – Chiese Arthur interessato. – Ho insistito perché fosse Feliciano a prendere quel posto letto da Kiku. – Rispose Francis, conciso e senza esitazioni, con un altro sorriso più solare questa volta. – In fondo, è molto meglio così. – Continuò il francese. – Lui non è assolutamente abituato a rinunciare a certe comodità o ad arrangiarsi, non se la caverebbe facilmente da solo. Inoltre, io ho già un’esperienza di vita vagabonda alle spalle e quindi se mi trovassi davvero in difficoltà, senza un posto letto, saprei affrontare bene le difficoltà di quella condizione disagevole. –

- Quindi…Feliciano è andato a stare da Kiku? – Domandò lentamente l’inglese, senza distogliere lo sguardo dall’altro. – Essendo già partito per Tōkyō, Kiku gli ha lasciato le chiavi dell’appartamento e il ventuno Feliciano si trasferirà lì. Poi quando Kiku tornerà condivideranno la stanza insieme. – Il francese sembrò sinceramente felice mentre esponeva le sue parole. D’altra parte, era lui che aveva insistito fino allo stremo perché fosse Feliciano a sfruttare quell’occasione, nonostante le tante proteste dell’italiano che in quel modo si sentiva solo più in debito nei suoi confronti. Non gli era minimamente pesato rinunciare a quella proposta, sapeva che era la cosa più giusta da fare. – E tu, allora? – Tornò a chiedere il britannico. Francis scrollò le spalle, mantenendo la sua espressione beata come di chi è consapevole di stare sfidando la sorte, sicuro delle proprie capacità. – Io ho ancora una settimana di tempo per cercare una soluzione. – Rispose facendogli l’occhiolino.

L’inglese rimase a fissarlo con sguardo assente, forse velato da un pizzico di malinconia. Sembrava quasi che un po’ gli dispiacessero quelle parole. Ruotò gli occhi verso il pavimento, fissando i contorni delle mattonelle chiare e lucide, rimanendo in silenzio per alcuni lunghi secondi.

- Hai davvero poco tempo.. – Commentò con voce lieve, cercando di essere il più discreto possibile. Il francese accennò una risata, facendo dell’ironia. – Eheh, sì! Direi anche troppo poco. –

- E se non trovassi nulla per il ventuno? Hai davvero intenzione di metterti a vivere di elemosina? – Domandò il biondo più giovane con una punta di rimprovero nella voce. Il francese lo guardò negli occhi con aria stupita, la bocca socchiusa e le sopracciglia inarcate verso l’alto. – Ma non ho scelta, Arthur. – Rispose con voce pacata, come se volesse tranquillizzare l’altro. Avvicinò una mano al viso dell’inglese, sfiorandogli una ciocca di capelli che gli cadeva sugli occhi. – Non posso fare altrimenti, non trovi? – Gli sorrise di nuovo, socchiudendo gli occhi. L’altro biondo rimase ad osservarne l’espressione sul volto, quasi imperturbabile. Gli sembrava così strano che riuscisse a rimanere così calmo e disinvolto persino in una situazione del genere. Pensò che o avesse una fiducia in se stesso davvero smisurata, oppure fosse semplicemente un sempliciotto superficiale, troppo sciocco per comprendere le conseguenze delle sue azioni e la loro gravità. Eppure non riuscì a mascherare un esile cipiglio nel momento in cui si sentì di scartare la seconda possibilità alla quale aveva pensato, consapevole che in fondo il francese non era esattamente il tipo di persona che avrebbe descritto come uno sprovveduto. Sentì le dita del biondo allontanarsi dal suo viso, mentre manteneva lo sguardo su di lui, come magnetizzato, e cominciò a immaginare la vita dell’altro in mezzo ad una strada: non riusciva a nascondere che da un lato la cosa lo divertiva, e forse immaginava quella scena anche con una punta di godimento, ma d’altra parte sapeva bene che non era una condizione invidiabile. Improvvisamente le sue labbra cominciarono a muoversi da sole, lasciando uscire parole che non aveva neanche lontanamente previsto di confessare.

- Allora potresti venire a stare da me –

Silenzio. Per infiniti secondi il lungo corridoio nel quale erano seduti calò nel più assoluto mutismo, nella quiete più tesa. Non appena ebbe concluso la frase, le labbra e la gola gli si seccarono bruscamente e interruppe il respiro per alcuni istanti. Non avrebbe voluto dirlo, non avrebbe mai voluto presentargli una simile proposta. Era stato solo un suo pensiero, una possibilità generosa che aveva preso in considerazione nell’ultima settimana, un proposito ingenuo e senza significato, da mantenere per sé. Perché gli era sfuggito dalle labbra con tanta noncuranza, quasi ribelle? Si sentì terribilmente in imbarazzo per quella gaffe, riuscendogli difficile pensare a come adesso avrebbe potuto smentire in maniera credibile le sue parole. Cominciò a concentrare la sua attenzione sui cigolii della grondaia: ticchettii irritanti che sembravano aiutarlo a scandire i secondi che trascorrevano nel silenzio, indifferenti allo scenario del quale erano diventati loro malgrado testimoni.

- Intendi nel tuo appartamento? – Domandò il francese con notevole esitazione, abbassando lo sguardo sulle mani dell’inglese che sembravano voler trattenere qualcosa, strette com’erano tra di loro. L’inglese lasciò che fosse qualche colpo di tosse la prima reazione alla spinosa domanda che non gli lasciava molte vie di fuga. Si portò una mano davanti alle labbra, per coprirsi, mentre si ingegnava nel trovare una risposta che fosse prima di tutto garbata, per quanto la cosa gli richiedesse notevole sforzo, e convincente a sufficienza nello smentire il suggerimento che si era lasciato sfuggire. Gli bastarono pochi secondi per capire che non sarebbe stato in grado di venirne fuori facilmente.

- Pensavo che.. – Cominciò aprendo i palmi delle mani irrequiete sulle ginocchia. – ..se tu non avessi trovato proprio niente entro la data prevista…bè, magari per le vacanze di Natale avrei..potuto ospitarti. Temporaneamente, insomma, giusto per..non.. – Il francese poggiò il piede che teneva accavallato sul ginocchio a terra, distaccando la schiena dal legno della sedia e avvicinandosi maggiormente all’inglese, sempre più confuso, o forse semplicemente incredulo. – Sul serio? Lo faresti? Mon Dieu⁽²⁾, saresti la mia salvezza, lo sai questo? – Disse sempre più esaltato da quell’offerta improbabile e assolutamente inaspettata. Si portò una mano sulle labbra, che spostò poi verso il mento, come per trattenere un urlo di gioia. L’inglese voltò timidamente lo sguardo verso di lui, osservandone la reazione infantile, ma sinceramente estasiata. Si congelarono i suoi pensieri per dei lunghi momenti. Rimase colpito dall’espressione di quel viso e dal suo tono di voce. Per un attimo gli sembrò che tutto dipendesse da lui in quel momento, ed effettivamente la realtà era poco distante da quell’idea: probabilmente avrebbe potuto decidere con un sì o con un no delle future condizioni di vita londinese del francese, sarebbe toccato a lui scegliere tra il tendergli una mano oppure voltargli le spalle e lasciare che se la cavasse da solo.

Ma si stava ingannando nuovamente, sapendo che la verità non era nemmeno quella. La vera ragione per la quale aveva pensato in quei giorni ad una simile proposta, ad una tale eventualità, era tutt’altra.

- Anche se.. – La voce calda del francese interruppe i suoi pensieri. – In realtà non vorrei che per te diventasse un problema. Sei stato gentile, ma mi dispiacerebbe se poi dov- – Venne bruscamente interrotto dal suono stridulo della porta dell’aula di fronte a loro che si aprì di colpo, come se gli studenti dell’ultima lezione non vedessero l’ora di andarsene. La sorpresa fece voltare per alcuni secondi il biondo verso l’aula che a mano a mano si sgombrava, vedendone uscire i giovani in fila. Riuscì persino a riconoscere qualche volto conosciuto, ma preferì tornare con lo sguardo sul britannico al suo fianco, per riprendere il filo del discorso che cercava di esporgli.

Non appena volse gli occhi verso l’altro quest’ultimo si alzò velocemente dal suo posto, mettendosi ritto in piedi, curvandosi giusto il tempo per afferrare lo zaino che aveva lasciato per terra, ai suoi piedi. Stava per richiamarlo, ma Arthur fu più veloce, voltando il viso verso di lui, guardandolo fisso negli occhi, parlando velocemente e senza esitazioni.

- Domani. A casa mia alle 15 in punto. Ci metteremo d’accordo sui dettagli e su alcune questioni che mi preme mettere in chiaro. – E detto questo allontanò lo sguardo, portandosi lo zaino in spalla, e con una mano in tasca si avvicinò all’aula nella quale entrò infilandosi negli spazi vuoti che alcuni studenti ancora impegnati ad uscire lasciavano tra di loro. Francis riuscì solo a balbettare qualche monosillabo di difficile interpretazione, non riuscendo né a ribattere né tantomeno a fermare l’inglese piuttosto repentino nella sua ultima reazione imprevista che l’aveva lasciato a bocca aperta. Non riuscì a non sorridere in quel momento: era quasi sicuro di aver trovato una sistemazione sicura, un’offerta così generosa che non aveva più intenzione di lasciarsi sfuggire visto come era sembrato risoluto l’altro biondo. Strappò una piccola risata mentre anche lui afferrava la borsa, ripensando alla reazione bizzarra di Arthur. Era da lui, in effetti. Mascherare una certa ben disposizione con una verniciata di brutalità e scortesia; o almeno, questa era la sua personale interpretazione di un lato del carattere di quel ragazzo.

Si alzò dal suo posto, senza la minima fretta di raggiungere l’altro ormai già all’interno dell’aula. Aveva un sorriso splendente sul viso, che gli avrebbe di certo illuminato tutto il resto della giornata. Sentì un fremito lungo la schiena, eccitato all’idea di poter condividere un appartamento comodo e vicino all’università con qualcuno per di più già di sua conoscenza, guadagnandoci anche in compagnia. Si sentiva felice, irrimediabilmente ed immensamente felice.

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- Maman!⁽³⁾ Sono a casa! –

La voce del giovane riecheggiò per tutto l’ingresso e non solo, spandendosi fin lungo le pareti chiare del piccolo appartamento. Gettò lo zaino ad un angolo, come spesso faceva quando tornava distrutto da scuola. Giocherellò con le dita sulla plastica della busta che teneva in una mano, mentre si avvicinava al salone, sporgendosi verso si esso col viso. Vide la figura della madre seduta sulla sedia accanto al tavolo rotondo: un gomito poggiato sul legno e le dita di una mano che le sorreggevano la fronte; lo sguardo basso, che sembrava cupo, immerso in chissà quali pensieri. Il giovane sorrise all’idea di averla trovata e le si avvicinò quasi ondeggiando, sorridendo pieno di buon umore.

– Ciao mamma. Ti ho portato un po’ di spesa. – Disse ponendosi di fronte alla donna, sorreggendo fiero la busta all’altezza del fianco destro. La madre sollevò di colpo lo sguardo in un sussulto. Sembrava non lo avesse sentito neanche rientrare in casa e salutarla a gran voce. Si mosse con gesti veloci ma sconnessi, come se le si fossero arrugginite le articolazioni del corpo, dando l’impressione di essere spaesata, agitata. Osservò gli occhi del figlio per un breve istante, sorridendogli fiacca e innaturale, lasciando scivolare il gomito via dal tavolo e congiungendo le mani sul grembo. – Ciao, tesoro. Com’è andata a scuola? – Domandò tornando a guardare il biondo, sollevando il viso verso di lui. A guardarlo da lì seduta, pensò che fosse davvero alto per avere solo sedici anni. Anche se l’altezza non era la sola cosa che avrebbe colpito una ragazza nel vederlo: certo, essendo la madre non godeva della massima trasparenza e credibilità, ma trovava suo figlio davvero grazioso. Quelle sue ciocche bionde che gli ricadevano un poso sul viso adesso che aveva deciso di lasciarsi crescere i capelli, e quei suoi occhi fulgidi e vispi che non facevano altro che esaltare ancora di più il suo sorriso affascinante. Stava crescendo davvero meglio di quanto si sarebbe aspettata; fosse stata una ragazza della sua età l’avrebbe trovato davvero irresistibile, così fiorente e incantevole. Strappò una piccola risata amara a quel pensiero, portandosi una mano vicino alla bocca per coprire i movimenti delle labbra che si piegavano in un altro sorriso.

Il biondo le sorrise di riflesso, incapace di resistere al volto della madre. – Bien.⁽⁴⁾ – Quindi poggiò la busta da un lato, sul tavolo, avvicinando poi una mano al viso della donna di fronte a sé, sollevandole appena il mento, sfiorandolo con le dita. – È tutto a posto, maman⁽⁵⁾? – Domandò leggero, quasi in un sussurro, avendo percepito un filo di tensione e malinconia nei suoi gesti e nei suoi occhi, meno luminosi del solito. La donna rimase con lo sguardo fisso su di lui a lungo, con aria indecisa, come di chi sa di essere stato scoperto ma si tormenta nell’indecisione, ponderando se sia meglio perseverare nella dissimulazione o confessarsi. Sospirò, portando la mano su quella del figlio e stringendola, sorridendogli mestamente.

- Je suis desolèe, Francis.⁽⁶⁾ – Rispose abbassando lo sguardo. – Non volevo farti preoccupare. –

Il ragazzo si affrettò a piegare le ginocchia e ad accucciarsi di fronte a lei, senza staccare la mano dal suo viso, poggiando l’altra sulla gamba sottile della donna. – Cos’è successo? Hai litigato con Philippe? – Chiese con un filo di apprensione nella voce. Certo, non sarebbe stata la prima volta. Per quanto la cosa lo addolorasse, sua madre era piuttosto sfortunata in amore e la durata media di una sua relazione oscillava tra la otto e le dieci settimane. Lui stesso da qualche anno si era dato da fare per trovare un compagno stabile per la madre, esaminando attentamente ogni pretendente che si avvicinava, soppesandone qualità e difetti per accertarsi che fosse in grado di portare a termine l’unico compito che esigeva davvero da ciascuno di loro: rendere felice sua madre.

Lo attraversò quindi come un fulmine il dubbio che anche questa volta le cose potessero essere andate non esattamente a buon fine tra lei e il suo ultimo partner. Aspettava con grande attesa la risposta della donna, che non tardò ad arrivare. Lei scrollò le spalle, inarcando un poco le sopracciglia, con un’espressione stanca che ben si abbinava al suo viso sfibrato e svigorito. Piegò le labbra in un sorriso tagliente, mentre rispondeva: – Mpf, sì…diciamo di sì. – Si portò una mano vicino al volto, sistemandosi dietro all’orecchio una ciocca di capelli chiari. – Non lo rivedrò. L’ho lasciato. – Rispose tutto d’un fiato, cercando di essere sintetica. Francis allungò la mano dal mento alla guancia della madre, aprendo il palmo su di essa, carezzandola mentre sul suo viso si dipingeva un’espressione amareggiata. Odiava vedere la madre in quelle condizioni, così come odiava sapere che era stata delusa in qualche modo. Strinse l’altra mano intorno al ginocchio della gamba della donna, come a richiamarne l’attenzione, cercando il suo sguardo.

- Je suis vraiment navré, maman.⁽⁷⁾ – Sporse il viso verso di lei, e contemporaneamente la avvicinò a sé con la mano che aveva poggiato sul suo viso triste, lasciandole un bacio sull’altra guancia, cercando di consolarla. – Che ti ha fatto? – Domandò con le labbra ancora sulla sua pelle, con tono decisamente più fermo. Poggiò la fronte sulla sua tempia, in attesa di una risposta. La donna sembrò tremare per un attimo, lasciandosi sfuggire un piccolo lamento, e chiuse gli occhi, accasciandosi sul figlio. – Evidentemente non si sentiva abbastanza soddisfatto visto che mi ha confessato di frequentare da tempo un’altra donna. – Rispose mentre andò a stringere con la mano, che teneva ancora sul grembo, la veste che le ricadeva con ampie pieghe sul corpo. – Mi sento..una stupida. – Aggiunse con voce spezzata, inclinando la testa da un lato, piegandola sul palmo del ragazzo.

In quel momento Francis, guardando la madre, pensò che fosse simile ad una farfalla al di là di un vetro di cristallo: così bella e pur così fragile. Le ali vibranti e pitturate dei colori più splendidi avrebbero probabilmente rappresentato i suoi occhi vibranti e cangianti, tinti di un azzurro luminoso che andava mescolandosi a sprazzi di verde e giallo lungo la cresta delle iridi. Non di meno, il vetro di cristallo sarebbe stato lui stesso: uno scudo protettivo ma quasi invisibile, con un occhio sempre rivolto alla magnifica creatura al suo interno.

- Tu es magnifique.⁽⁸⁾ – Le sussurrò ad un orecchio, tornando a baciarle la guancia. – Un uomo di così poco valore, è stato sicuramente meglio perderlo. Tu meriti molto di più, credimi. – Discostò leggermente il viso dalla pelle della madre, osservandone gli occhi adesso lucidi e passando un pollice poco sopra lo zigomo, come ad impedire ad eventuali lacrime di rigare quel volto angelico. – Ne t’inquiète pas, maman.⁽⁹⁾ – Passò la mano sul suo collo, fino a raggiunger la nuca, spingendola verso sé, mentre con l’altra mano andava ad avvolgerla dietro la schiena, abbracciandola. – Ne pleure pas.⁽¹⁰⁾ -

Le braccia esili della donna confluirono velocemente intorno al busto del giovane, rispondendo alla stretta con un’intensità che somigliava fin troppo ad un disperato bisogno di aiuto. Affondò il viso su di lui, poggiando la fronte sulla sua spalla mentre stringeva le dita nella sua camicia, con forza. Non le piaceva costringere il figlio ad osservarla in quelle condizioni di instabilità e vulnerabilità, ma era l’unico che le era rimasto su cui fare affidamento; così come rappresentava la persona che più amava al mondo, quella alla quale aveva dedicato la sua vita. – Merci infiniment, Francis.⁽¹¹⁾ -

Gli sussurrò accanto, lasciando scendere solo una lacrima dai suoi occhi. Il ragazzo la strinse più a sé, ascoltandone i respiri a poco a poco sempre più regolari, mentre inspirava intensamente il profumo dei suoi capelli. Chiuse gli occhi, andando con la mente a pensare a quale vendetta organizzare per quell’uomo così privo di riguardi nei confronti di sua madre, della sua amatissima madre. Non sarebbe stata certo la prima volta, in fondo. Molti altri dei suoi precedenti uomini avevano subito lo stesso trattamento: chi si era ritrovato con il citofono rotto, chi aveva accidentalmente perso il portafoglio, chi tornando a casa aveva rinvenuto una finestra rotta…erano tutti omaggi che Francis aveva di buon grado offerto a tutti coloro che in un modo o nell’altro avevano fatto del male a sua madre, oppure non erano stati onesti con lei.

Era solito entrare in confidenza con tutti gli uomini che mettevano piede in casa e che sua madre frequentava; anzi, si poteva dire che l’ostacolo principale affinché una relazione andasse in porto era proprio rappresentato da lui: se Francis non avesse gradito il compagno del momento della madre o gli fosse sembrato inadatto, quest’ultimo non avrebbe di certo avuto possibilità. E così anche giovane donna era la prima a confidarsi con lui, a domandargli consiglio, a informarsi su come li avesse trovati e cosa ne pensasse. Il suo punto di vista, le sue sensazioni ed impressioni erano per lei fondamentali; non avrebbe mai lasciato entrare nella sua vita un uomo che il figlio non gradisse. Anche perché, in tutti i casi che le erano capitati finora, ed erano davvero tanti, i sospetti e le perplessità del giovane avevano sempre trovato conferma, a volte del tutto, a volte solo in parte.

Tornò a dischiudere gli occhi quando sentì le dita della madre passargli tra i capelli. Continuò a stringerla, dolcemente quanto fermamente, mentre ricordava di come Philippe andasse particolarmente fiero della sua macchina, sempre ben pulita, ben curata: una Renault Mégane Scénic di uno splendido argento metallizzato. Chissà quale sarebbe stata la sua reazione nel vedere una lunga e spessa riga, incredibilmente antiestetica, proprio lungo gli sportelli della sua amata vettura.

⁽¹⁾ “Sì”, in francese.

⁽²⁾ “Mio Dio, Oddio”, in francese.

⁽³⁾ “Mamma”, in francese.

⁽⁴⁾ “Bene”, in francese.

⁽⁵⁾ Vedi nota ⁽³⁾

⁽⁶⁾ “Mi dispiace, Francis”, in francese.

⁽⁷⁾ “Mi spiace davvero molto, mamma”, in francese.

⁽⁸⁾ “Tu sei magnifica”, in francese.

⁽⁹⁾ “Non preoccuparti, mamma”, in francese.

⁽¹⁰⁾ “Non piangere”, in francese.

⁽¹¹⁾ “Ti ringrazio tanto, Francis”, in francese.

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Capitolo 13
*** Capitolo 13 ***


Avvertiva solo il ticchettio dell’orologio in salone in quel momento. Quel battito meccanico sembrava seguire così bene le pulsazioni del suo cuore che cominciò ad unire le due cadenze tra loro finché non ebbe la sensazione che fossero diventate una cosa sola. Era rigidamente seduto sul divano, la schiena ritta che non lasciava trasparire il minimo timore, le mani poggiate sulle ginocchia, le braccia tese verso di esse.

Lasciò scivolare lo sguardo verso il tappeto e poi verso il tavolino da salotto sul quale vi erano poggiati un paio di libri, un insignificante soprammobile, il telecomando dello stereo e il suo cellulare. Continuò a scandagliare quell’ambiente, rivolgendosi poi ai pochi mobili, alle pareti, alle superfici…sembrava tutto pulito e in ordine. Quella notte non aveva riposato per niente bene, e anche se alla fine era riuscito ad addormentarsi aveva avuto un sonno incostante ed agitato fino all’alba. Ricordava ancora la sensazione che percepì nello svegliarsi con le mani che gli tremavano; e una volta alzato aveva cominciato a dedicarsi alle pulizie di casa come un forsennato, nonostante non avesse bisogno di tutta quella cura dato che era una persona coscienziosa e amante della precisione, dedicando al suo appartamento già sufficiente tempo durante la settimana. Ma quella sensazione gli crebbe come un prurito incontrollato.

Aveva iniziato con l’intenzione di dare solo una spolverata e una sistemata, finendo poi col lasciarsi prendere la mano. Il perché riusciva anche a comprenderlo: quel giorno avrebbe aperto la porta di casa a quello che per lui era tutto sommato ancora un perfetto sconosciuto. E l’idea che un estraneo varcasse la soglia del suo personale rifugio di mura lo metteva a disagio, spingendolo ad un auto-alienazione. Aveva la sensazione che chiunque entrasse potesse leggere cosa si nascondesse dietro ogni singolo segno sul muro, dietro una pagina di giornale, al di là di un tè non finito e poggiato sul ripiano della cucina, oltre un foglio spiegazzato nel quale erano appuntate delle righe a matita, probabilmente versi..era un po’ come gettare uno sguardo nel suo mondo, nelle sue attitudini, alzare il sipario del suo riserbo. Forse invece era lui stesso ad amplificare troppo quell’impressione, esacerbandola fino all’indolenza, lasciandosi cogliere da un’ingiustificata inquietudine.

Non che poi potesse lamentarsi troppo visto che era stato proprio lui ad avanzare quella proposta al francese. Ogni volta che ricordava la spontaneità con la quale gli erano sfuggite quelle parole non riusciva a trattenere un sorriso, seguito da una risata soffocata. Ne era stato travolto dapprima nella mente, ritrovandosi tramortito, e quindi aveva lasciato che si liberassero dalla sua gola, facendosi strada tra le particelle d’aria. Peccato che quello sul suo viso non fosse né un sorriso di soddisfazione né di apprezzamento. Era solo l’espressione di una triste ed amara consapevolezza: la prova tangibile della sua pietosa condizione, verso la quale lui stesso provava imbarazzo. Forse Francis aveva interpretato il suo gesto come un improvviso quanto inaspettato slancio di generosità ed umanità ma le ragioni che lo avevano spinto a quella scelta imprevista anche per lui stesso erano di tutt’altra natura.

Allungò con calma una mano verso il cellulare sul tavolino: le quindici e venti. Il suo compagno di corso sarebbe arrivato tra pochi minuti e nella sua mente si fece un rapido elenco di tutto ciò di cui avrebbe dovuto occuparsi prima del suo arrivo. Spuntò mentalmente ogni singola voce che scorreva nei suoi pensieri. Era pronto. Non aveva nulla da temere. Per un attimo lo pizzicò la tentazione di abbandonarsi sul divano, sciogliendo la schiena ancora in tensione, ma abbandonò presto l’idea. L’attesa lo teneva come su una corda di violino, tesa e asciutta prima di essere avvicinata dall’archetto. Ora che ci faceva caso la giornata era anche abbastanza piacevole, coperta da nuvole pesanti che sembravano macchiare il cielo, come fosse una tela da dipingere. Poteva sembrare singolare, ma trovava splendidi scenari del genere: gli ispiravano sempre un’atmosfera sfuggente e rarefatta, che gli ricordava le giornate di neve. Quelle nuvole gli fecero ricordare che quella di quel giorno sarebbe stata una delle ultime notti trascorse solo nel suo appartamento, per almeno qualche tempo..un mese, forse molto meno. E lo aveva desiderato al punto da cedere nella proposta, al punto da mettersi in ridicolo.

Prima che potesse tornare con la mente a darsi la risposta al perché di quella sua rassegnazione, avvertì chiaramente il campanello della porta che gli fece tremare per un attimo le ginocchia. Era lì. Si alzò velocemente, scomponendo tutto quel quadro ordinato che aveva disegnato sui contorni della sua figura, affrettandosi verso la porta, ritrovando la compostezza solo nel momento in cui afferrò con forza la maniglia, girandola e tirandola verso sé. Sporse il viso di fretta, certo che fosse lui, e i lineamenti di quel viso gliene diedero presto conferma, sciogliendo quel cumulo di apprensione che sembrava gli comprimesse l’espressione del volto.

- Bonjour! Je suis arrivé!⁽¹⁾ – Esclamò col suo riconoscibile entusiasmo il francese di fronte alla porta di casa, sollevando una mano in cenno di saluto. I lineamenti del suo volto erano distesi in un sorriso magnetico e quasi di riflesso ebbe la tentazione per un attimo di sorridergli a sua volta, ma si trattenne dall’impulso.

Spalancò del tutto la porta, facendosi da parte per farlo avanzare nell’appartamento. – Vieni, entra. – Rispose conciso, sapendo che avrebbe potuto essere più accogliente di così, ma non riuscì a trovare nient’altro di opportuno da aggiungere, restando ad osservarlo con sguardo d’attesa. Il francese gli rivolse un piccolo cenno con la testa ed entrò nell’ingresso, non potendo fare a meno di guardarsi intorno con curiosità, muovendo lo sguardo a destra e a sinistra, verso l’alto e il basso, per poi tornare con gli occhi sul compagno di corso, piegando le labbra in un altro sorriso sincero. – Sembra molto carino. –

Il più giovane chiuse con calma la porta, per poi rivolgere tutte le sue attenzioni all’altro biondo. – Grazie. – Il suo tono risuonò delicato tra le pareti, aggiungendo subito dopo: – Ci sono un po’ di cose che devo mettere in chiaro però, è meglio se ci sediamo – Disse indicando con la mano il piccolo salotto subito sulla destra. Il francese si voltò in quella direzione e mosse la testa come in segno di sorpresa.

– Oh! Va bien,⁽²⁾ Arthur – Raggiunse il centro del salotto, continuando a guardarsi un poco intorno di tanto in tanto e si lasciò andare sul divano, slacciandosi la giacca. – Vuoi un tè? O forse qualcos’altro? – Domandò l’inglese ancora in piedi, sporgendosi. Il francese si voltò verso l’altro dopo aver poggiato la giacca sul bracciolo del divano, portandosi una mano ai capelli per sistemare qualche ciocca scomposta.

– Perché no? Merci!⁽³⁾ – Poggiò la schiena sul tessuto morbido e accogliente dello schienale, mentre l’altro ragazzo gli sorrise appena per poi dirigersi in cucina, parlandogli da lì. – Come procede la preparazione esami? – Domandò accompagnato dal tintinnio della teiera e dall’acqua che scorreva. – Bene, direi. Mi trovo splendidamente. I professori sembrano tutti molto disponibili e i testi sono assai interessanti. A te come procede? – Sollevò le braccia, incrociandole dietro la nuca e reclinando leggermente la testa indietro. Chiuse un attimo gli occhi, nell’attesa di una risposta. Avvertì i passi dell’altro sul legno del parquet farsi più vicini e la sua voce gli arrivò più chiara stavolta. – Tutto regolare per adesso, grazie. – Rispose l’inglese che era tornato in salone, raggiungendo anch’egli il divano e sedendosi. Francis riaprì completamente gli occhi e si voltò a guardarlo; sembrava più silenzioso del solito quel pomeriggio. Stava per introdurre un argomento qualsiasi per poterlo invogliare a parlare, ma l’altro fu più veloce.

- Allora, vorrei iniziare a spiegarti un po’ di cose se non ti spiace. – Lo guardava fisso, con i gomiti sulle gambe e le mani che ricadevano senza forza sulle ginocchia, il viso rivolto completamente a lui. Il francese annuì mentre lasciava che le mani dietro la sua nuca si sciogliessero dalla stretta e tornassero verso il basso, decidendo di incrociarle all’altezza del petto, senza smettere per un solo istante di osservare gli occhi dell’altro.

- Prima di tutto, ci sono delle cose che non tollererò in nessun caso.. – Iniziò l’inglese con sguardo un poco severo e tono sicuro, come se volesse assicurare alle sue posizioni una maggiore credibilità. -..qui dentro non devono mai entrare le tue nuove amichette londinesi, non devi portare in casa nessuno a meno che tu non abbia il mio chiaro e preciso permesso, intesi? – Il francese non poté trattenere una risata vagamente soffocata, non tanto per la richiesta in sé, che era più che comprensibile, ma per l’espressione sul volto del britannico mentre gli rivolgeva quelle parole. Le sopracciglia aggrottate e le labbra appena dischiuse e leggermente all’insù gli conferivano un’aria tutt’altro che minacciosa, anche se immaginava non fosse esattamente quello l’effetto che l’inglese volesse trasmettere. Lo osservava con attenzione, ma sempre sorridendo, lasciandosi scappare una battuta. – Se è per questo mi sono fatto anche degli amichetti londinesi. – Rispose sollevando un sopracciglio, enfatizzando col tono sia la parola “fatto” che “amichetti”, tanto perché gli era impossibile resistere ad una provocazione, soprattutto con quel ragazzo dal pudore tutto vittoriano. Come si immaginava la reazione dell’altro non fu delle più accomodanti e dallo sguardo di rimprovero unito ad un espressione che suggeriva sconforto poté comprendere che non aveva apprezzato la sua sferzante ironia. Pensò di rassicurarlo con un leggero ammicco, strizzandogli un occhio, ma anche quella non fu una pensata brillante. Il biondo si limitò a scuotere leggermente la testa sospirando profondamente, come una madre che osserva l’incorreggibile comportamento di un figlio viziato, continuando nel suo discorso, sforzandosi per far finta di non essere mai stato interrotto. – E ovviamente non è ammesso alcun tipo di sostanza stupefacente. Di qualunque tipo. – Fece una pausa, per assicurare a quella affermazione tutta la fermezza possibile.

- Con la violazione di una di queste due regole ti caccerò fuori di casa senza il minimo ripensamento e non mi importerà nulla se avrai o meno un posto dove andare. È tutto chiaro? – Domandò retorico, aspettando però, allo stesso tempo, una risposta di conferma da parte dell’altro, ancora con le braccia incrociate sul busto. Il maggiore per tutta risposta continuava a sorridergli, pensando che quell’espressione risoluta e a tratti corrucciata non riusciva proprio a incutergli il minimo timore, trovandola anzi graziosa. Certo, avrebbe tenuto per sé questo pensiero, immaginando le eventuali reazioni del britannico fin troppo virtuoso.

- Chiarissimo. – Piegò le labbra in un sorriso ancora più ampio. – Anzi, se può rassicurarti non soffro di vizi malsani quali alcool, fumo e stupefacenti. Semplicemente, mi piace consumare del buon vino in quantità moderate, e per quanto riguarda il fumo mi capita molto di rado di consumare sigarette. –

- Bene. –Commentò laconico l’altro. – Allora ci sono più possibilità che andremo d’accordo qui dentro. – Aggiunse con un velo di beffa, per non smentirsi. Non diede al francese neanche il tempo di rispondere che tornò a completare il suo discorso. – Altro punto importante.. – Si portò una mano sul viso, poggiando il mento sul palmo aperto. – ..in questa casa tutto è disposto secondo un certo criterio, e se un oggetto si trova in un posto è perché deve rimanerci. Mi spiego meglio: ti capiterà spesso di trovare dei post-it o dei fogli attaccati qua e là sui quali sono scritte…delle cose. – Disse esitando nell’ultima parte, non avendo la sicurezza sufficiente per dichiarare quello che effettivamente erano, cioè “poesie”. Non che la cosa lo imbarazzasse, ma gli sembrava una confessione davvero troppo intima per un primo incontro tra quelle mura domestiche. – Non devi mai pensare di spostarli, o cancellarli, tantomeno buttarli, capito? Fanno parte di questo arredamento, e voglio che rimangano tali. – Concluse inclinando un poco il viso per abbassare lo sguardo, sperando non si incuriosisse troppo e sfruttasse la sua impeccabile intraprendenza per rivolgergli domande più specifiche, che certo avrebbe declinato con raffinato garbo d’oltremanica.

In effetti il compagno non poteva affermare di aver compreso appieno quale fosse il materiale a cui si riferisse, ma se davvero fosse rimasto lì a vivere per un po’ di tempo, l’avrebbe probabilmente scoperto lui stesso e pertanto decise di non approfondire l’argomento, pur rimanendo con un appetito di curiosità che non poteva saziare nell’immediato. – Non temere, Francis non ti scombinerà l’appartamento. – Fu la sua sintetica risposta, accompagnata da un altro occhiolino che suggeriva complicità. – C’è altro, mon cher?⁽⁴⁾ – Domandò infine, rimanendo con un’espressione di attesa stampata sul volto. L’altro biondo tornò con lo sguardo su di lui, e per un attimo lo sfiorò la tentazione di ringhiargli per quel francesismo indesiderato, ma si trattenne. – Sì. Un’ultima cosa importante. Tu non dovrai mai entrare in camera mia senza il mio permesso. – Terminò la frase con una leggera smorfia sul viso che non si impegnò a nascondere, osservandolo con occhi disillusi. Il maggiore strappò una risata, in parte per quella richiesta, in parte per l’espressione dell’inglese che sembrava sempre appagarlo in qualche modo, portandosi un paio di dita sulle labbra per frenare l’entusiasmo. – Oui, oui,⁽⁵⁾ senza dubbio! Puoi dormire sonni tranquilli. – Fu la risposta del francese, fin troppo satura di ambiguità per i gusti dell’altro che non gli risparmiò un’occhiata di rimprovero. Stava quasi per congedarlo, pensando che avessero parlato anche troppo, ma Francis decise di aggiungere la sua a quella discussione.

– Bene, allora se hai concluso permettimi di avanzare qualche piccola richiesta da parte mia. – Cominciò il ragazzo colpendo con entusiasmo i palmi delle mani sulle cosce, regalando un sonoro cambio di scena al loro confronto. Arthur non sembrò particolarmente lieto di quella richiesta, che quasi gli sembrava invadente considerato che era lui l’ospite e pertanto lui avrebbe dovuto adattarsi alle sue esigenze, e non viceversa. Ma i suoi pregiudizi furono spazzati via con un colpo di sorpresa quando l’altro continuò a parlare.

- Sarò io soltanto a fare la spesa, e tu mi lascerai scritte ogni tua richiesta e la lista delle necessità. E sarò io a pagarla visto che hai insistito tanto per non farmi contribuire a pagare metà dell’affitto. Cucinerò i pasti per entrambi e mi occuperò anche delle faccende domestiche, completamente, dai piatti da lavare al giardino. Tu non dovrai preoccuparti di niente, seguirò le tue istruzioni alla lettera. –

Le sue parole esprimevano un certo trasporto che non sapeva bene come spiegarsi. Era così appassionato mentre forse cercava di convincerlo ad accettare quelle condizioni che gli risultò difficile pensare di respingere le sue parole, ancor più trovare il coraggio di farlo. In realtà, non era male per niente ciò che gli proponeva e tutto sommato era anche corretto da parte sua visto che lui gli offriva un’occasione tanto preziosa e conveniente. Per i primi istanti si trovò in difficoltà, incerto se utilizzare una sorta di galateo e respingere almeno una volta la sua proposta o accettare subito, di buon grado. Fu il francese a sciogliere i suoi dubbi, aggiungendo in ultima stanza, con tono ironico.

- Ah, tranquillo! La tua stanza continuerai a pulirla tu. – E gli sorrise sincero, sperando di poterlo conquistare e convincere a dire sì con quell’ultima battuta, certo che gli sarebbe stato difficile rifiutare tanta riconoscenza. D’altronde lui non era certo il tipo del profittatore, che pure aveva incontrato nella sua prima fase di giovinezza, in particolare durante i suoi viaggi in Europa. Aveva intenzione di ripagare con la stessa intensità, e forse anche di più, la gentilezza che gli veniva offerta e se poteva dare una mano o essere utile in qualsiasi modo non avrebbe mai rifiutato. La battuta del francese sembrò aiutare a sciogliere la tensione dell’altro che si lasciò andare ad una breve quanto esile risata, scrollando un poco le spalle e portandosi una mano tra i capelli, rispondendo con maggiore sicurezza adesso.

- Andata! – Disse guardandolo negli occhi, accettando quella proposta, pensando che avesse dimostrato onestà e riconoscenza a proporgliela. Forse in fondo era una brava persona, sperava solo di non doversi ricredere in corso d’opera. Il francese congiunse le mani davanti a sé in un sonoro colpo, per dimostrare tutto il suo entusiasmo. – Excellent!⁽⁶⁾ -

- Discuteremo i dettagli la prossima settimana, quando ti trasferirai qui. – Concluse l’inglese con un sorriso timido, mentre l’altro gli sorrideva di riflesso. – Oh, il tuo tè. – Aggiunse Arthur alzandosi velocemente e tornando in cucina per lasciare in infusione le foglie di tè. Francis lo seguì con lo sguardo, studiandone i contorni della figura con gli occhi come era solito fare, per poi perdersi ad osservare l’appartamento, alzandosi dal divano. Cominciò a camminare lentamente con le mani congiunte dietro la schiena, curiosando in giro, senza toccare niente, arrivando all’ingresso, a fianco delle scale che davano alle stanze del piano di sopra, scrutandone la prospettiva che lasciava intravedere ben poco. Certo, era piccola quella casa ma decisamente graziosa, sicuramente meglio di molti altri tuguri nei quali era stato costretto ad abitare in situazioni molto più precarie di quella. Almeno sarebbe stato felice di poter dare una bella notizia alla madre e non farla preoccupare. Sentirla sollevata e serena dopo la telefonata del giorno prima, dove le confermava che probabilmente aveva trovato una nuova sistemazione, lo aveva tranquillizzato.

Spostò senza fretta lo sguardo sulla toletta d’ingresso, incontrando carte e altri oggetti ordinatamente disposti sul ripiano, trovandolo per qualche motivo tipico di Arthur. Sembrava una persona piuttosto precisa e accurata, e la cosa lo affascinava parecchio. Non che lui fosse un tipo veramente disordinato, ma di certo era sregolato ed eccessivo in diversi aspetti della sua condotta e non era solito procedere per programmazioni e schemi fissi nelle sue giornate. Come in un brano musicale, lui amava soprattutto la variazione, e più fosse stata inaspettata e stravagante più l’avrebbe assecondata. Forse per questo rimaneva colpito da chi invece manteneva una coerenza costante, quasi impeccabile, stabile nei confini dei propri vincoli senza lasciarsi cogliere di sorpresa, regalando a colleghi e conoscenti la certezza della loro intuibilità. Era convinto che si trattasse di un vero e proprio stile di vita, come un ideale poetico o filosofico che guidasse le scelte e le azioni di un individuo, seguendone le naturali inclinazioni; e in fondo anche lui aveva il proprio da seguire. Quei pensieri che si dilungavano, uniti dal sottile filo della distrazione, furono interrotti da un’improvvisa vibrazione nella tasca dei pantaloni, che gli fece abbassare di colpo il viso ed estrarre il cellulare. Proprio in quel momento tornò anche l’inglese dalla cucina, affiancandosi all’altro biondo, intento ad osservare lo schermo dell’apparecchio.

Vedendolo concentrato ad osservare forse un messaggio preferì non interromperlo, rimanendo ad osservarlo in attesa di una sua parola o di un suo gesto, che arrivò qualche istante dopo, quando l’altro voltò il viso sorridente per esprimersi con un tono che suggeriva un certo rammarico, che però gli sembrò più di circostanza che altro. – Mon cher,⁽⁷⁾ me ne dispiaccio ma adesso dovrei proprio scappare. Volevi dirmi qualcos’altro ancora? – L’inglese schiuse appena le labbra per rispondere, pensando se ci fosse qualcosa di importante da fargli sapere oltre a quello di cui avevano già discusso. – Mh, non mi sembra. Penso sia tutto. In caso te lo farò sapere la prossima settimana. – E andò a congiungere le mani dietro la schiena, affrettandosi ad aggiungere. – Ah, il tuo tè però.. –

- Ti ringrazio, Arthur, purtroppo però non posso fermarmi oltre. Sono certo sia delizioso, te lo lascio volentieri! – Rispose il francese riponendo il cellulare nella tasca e avvicinandosi nuovamente al divano del salone, cercando la giacca. L’altro biondo lo seguì con lo sguardo, non insistendo oltre, aspettandolo tornare all’ingresso per congedarlo. Forse aveva un appuntamento con qualcuna, o qualcuno, tutto poteva essere quando si parlava di Francis Bonnefoy, per quanto poco ancora ne potesse sapere aveva imparato a non stupirsi di niente con lui. Lo vide avvicinarsi a grandi passi alla porta, infilandosi la giacca un poco di fretta e accennò un sorriso mal riuscito, fissandolo ad occhi un poco bassi.

- Allora a presto. – Sussurrò aprendo la porta, notando con uno sguardo ancora una volta il cielo plumbeo di quel pomeriggio regalare un’atmosfera leggermente apatica alle strade del suo quartiere.

– A prestissimo. – Rispose l’altro ragazzo con un veloce cenno del capo, lasciando l’appartamento con garbo, senza mostrare una fretta eccessiva per non sembrare scortese, scendendo i gradini del viale mentre sembrava rivolgere lo sguardo verso l’alto, magari colpito anch’egli dal colore di quel cielo che a Londra era sempre stato uno spettacolo fin troppo ordinario. L’inglese accompagnò senza fretta la porta, chiudendola di fronte a sé, lasciando che la quiete e il silenzio riprendessero timidamente possesso dell’appartamento. Sospirò appena, lasciando la maniglia della porta e voltandosi verso la cucina, finendo di preparare il tè che avrebbe bevuto lui al posto del francese, versandoselo ancora bollente nella tazza. Era andato tutto bene almeno.

Gli era sembrato che l’altro avesse accettato di buon grado le sue regole, o almeno lo sperava. In ogni caso avrebbe potuto verificarlo con certezza solo a partire dalla settimana successiva, quando sarebbe giunto a vivere effettivamente da lui. il fatto che tutto fosse andato più o meno come aveva pensato lo rassicurava, un po’ come accade quando ci si conforta delle proprie previsioni azzeccate; dunque avrebbe seriamente e definitivamente condiviso il suo appartamento con Francis Bonnefoy per un mese circa.

Nel complesso, era riuscito a soddisfare una sua personale esigenza, che niente aveva a che fare con le problematiche che avrebbe dovuto affrontare il compagno di corso in relazione al trovare un appartamento. No, non era certo questo che l’aveva spinto ad avanzare quella proposta inaspettata e discutibile. Semplicemente, era un egoista; e spesso gli egoisti che cominciano ad accusare i colpi della solitudine possono dar prova di tutta la loro disperazione con gesti sconsiderati e del tutto fuori dalla norma, e così era stato per lui, che mai si sarebbe sognato di ospitare qualcuno in quella casa…eccetto l’americano.

Non era stato un periodo facile per lui, e quegli ultimi tre mesi avevano messo a dura prova i suoi nervi e la sua pazienza, nonché il suo umore. Uno strano quanto sfortunato accostamento di eventi aveva ridotto in fin di vita la sua già cagionevole autostima, e cancellato ogni traccia di tiepido interessamento verso chiunque e verso qualunque cosa. Quasi gli veniva da ridere pensando che in realtà poteva essere un ragazzo più cortese e gradevole di come si fosse mostrato in quegli ultimi tempi, e senza ombra di dubbio i suoi più stretti compagni di corso ne erano consapevoli. Si portò il bordo della tazza sulle labbra, appena inumidendole con la bevanda ancora troppo calda, pensando che fosse giunto ad un tale livello da doversi preoccupare del vero significato della parola “solitudine”. La cosa lo faceva sentire piuttosto ridicolo, se non patetico, eppure ne era cosciente, sotto la sua spessa scorza di orgoglio, che non era felice. Non era minimamente felice. Sì, forse si sentiva anche abbandonato per colpa di quell’idiota americano, ma era l’insieme delle tensioni e dei sentimenti spesso contrastanti che lo scuoteva intimamente, nella sua sensibilità più nascosta e vulnerabile, lasciandolo come carta straccia lacerata, senza alcuna forza. Sembrava che anche il fantasma del fratello fosse tornato a tormentarlo, confondendolo con le sue parole e atteggiamenti ambigui e inafferrabili, ferendolo con la sua noncuranza che adesso sembrava voler dissimulare.

Se aveva ceduto, almeno, non aveva molto da rimproverarsi visti e considerati gli scenari nei quali doveva giostrarsi contemporaneamente. La consapevolezza di rimanere solo persino durante le vacanze natalizie, in un periodo in cui solitamente era abituato a condividere se stesso con un’altra persona a lui così vicina, lo aveva spinto a desiderare l’ombra di una compagnia in maniera disperata, biasimandosi per questo, allontanandosi così tanto dallo stoicismo con il quale era abituato a contraddistinguersi e in parte anche a vantarsi, con una punta di autocompiacimento. Evidentemente questa volta non era bastato, trovando un campo ormai arido, al limite della sterilità, sul quale non riusciva più a fare effetto.

Perciò era consapevole del perché quelle parole, pochi giorni prima nel corridoio, gli fossero uscite senza pensarci, quasi si fossero mosse da sole, svincolandosi dalla gabbia del suo petto e fuoriuscendo dalle sue labbra, lanciandole simili a frecce, come a chiedere aiuto, mascherandole in una richiesta che sembrava invece tendere una mano per donare aiuto. Sapeva che non si poteva esattamente definire nobile o ammirevole quello che aveva fatto, o meglio le motivazioni che lo avevano spinto a farlo, ma a quel punto del suo percorso non temeva più neanche il giudizio. Desiderava una presenza viva accanto a sé, un’energia stimolante che gli desse l’illusione di essere ancora circondato da qualcuno in mezzo a quel mare di delusioni, separazioni e tradimenti. Anche il francese sarebbe bastato all’obiettivo, non gli interessava. Per quanto la sua presenza non fosse delle più rilassanti e le loro personalità cozzassero come un accordo musicale mal riuscito, alla fine quello che contava davvero era che rincasasse la sera nel suo appartamento, che gli facesse qualche domanda banale e insignificante, anche di mera circostanza, “come stai?”, “cosa hai fatto oggi?”…ricercava la certezza che durante la notte ci fosse qualcuno, anche se distante, nel divanoletto del piano di sotto, che dormiva come lui in quella casa, che avrebbe aperto gli occhi come lui la mattina seguente, e magari avrebbe mangiato al suo stesso tavolo, fosse anche solo per un pasto veloce e distratto.

Il tè che aveva da poco deglutito sembrò male accoppiarsi a quei pensieri tanto che gli provocò una sensazione di nausea intensa in pochi secondi, costringendolo a portarsi una mano sulla bocca, tossendo un paio di volte. Si voltò di nuovo verso la cucina e gettò con un movimento secco della mano il tè nel lavandino, rovesciando la tazza con noncuranza per farne ricadere tutto il liquido. Si abbassò col viso sul rubinetto a sorseggiare un po’ d’acqua, e nel tornare in posizione eretta inspirò profondamente diverse volte prima di passarsi il dorso della mano sulle labbra per raccogliere alcune gocce d’acqua che ancora le bagnavano. Voltò lentamente lo sguardo alla portafinestra della cucina, osservando per lunghi istanti il piccolo giardino silenzioso del retro, con occhi velati. Lasciò la cucina a piccoli passi, alla ricerca del divano per sdraiarsi, certo che un po’ di riposo gli avrebbe fatto bene.

Si lasciò cadere sulla sua superficie morbida e ampia, appoggiando la nuca ad un bracciolo e socchiuse gli occhi a guardare il soffitto per diversi minuti, in assoluto silenzio. Trovò infine la forza per portarsi il palmo di una mano sulla fronte, a spostarsi i ciuffi della frangetta e a massaggiarsi leggermente, mentre con l’altra si allungò un poco per afferrare il cellulare che era rimasto sul tavolino del divano, portandoselo davanti al viso per vedere se vi fossero state chiamate o messaggi da quella mattina.

Nulla di nuovo o insolito…a parte la chiamata persa di Alfred e un suo messaggio che neanche aprì, cancellandolo direttamente. Abbandonò l’apparecchio sul divano, senza prestarci la minima attenzione, e si strinse su se stesso, rannicchiandosi, chiudendo gli occhi pensando che quelle, in effetti, sarebbero state le sue ultime vacanze natalizie come studente universitario, e forse anche le ultime nella sua amata città di Londra. Risvegliandosi, ricordò solo il ticchettio di timide gocce di pioggia infrangersi sull’asfalto del marciapiede e della strada mentre chiudeva gli occhi, lasciandosi catturare dalle braccia di un sonno leggero e avvolgente.

 

 

⁽¹⁾ “Buongiorno! Sono arrivato!”, in francese.

⁽²⁾ “Va bene”, in francese.

⁽³⁾ “Grazie”, in francese.

⁽⁴⁾ “Mio caro”, in francese.

⁽⁵⁾ “Sì, sì”, in francese.

⁽⁶⁾ “Eccellente!”, in francese.

⁽⁷⁾ “Mio caro”, in francese.

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Capitolo 14
*** Capitolo 14 ***


Ma i cuori che allora mi adoravano

Da tempo hanno tradito la promessa

E gli amici che allora mi attorniavano

Tutti mi hanno abbandonato

Mi è stato rivelato in un sogno

Nato non dal riposo notturno

Il sogno di una veglia d’angoscia

Di un dolore che non voleva piangere

Ora non volgerti aspramente da me⁽¹⁾

 

La neve rendeva bianca e candida la città di Londra ormai da due giorni.

Arthur sembrava divertirsi ad osservare le orme che lasciava con gli scarponi alle sue spalle. Gli piaceva pensare che fossero loro a seguirlo e non lui a lasciarle con i propri passi. Era così facile per lui distrarsi in atmosfere come quella. – Arthur, che fai? Vieni qui e stammi vicino. Dobbiamo tornare a casa. –

La voce del fratello maggiore Barclay non era caratterizzata da un tono di rimprovero quanto piuttosto di esortazione. Non era frequente una neve tanto abbondante a Londra, e nell’incertezza i loro genitori avevano deciso di fare rifornimenti delle prime necessità. Barclay e Arthur avrebbero dovuto occuparsi di alcune piccole spese minori, e ora che le avevano concluse si avviavano verso la strada di casa. il maggiore sembrava non staccargli gli occhi da dosso, controllando con attenzione che tornasse a camminare al suo fianco. Non che fosse così piccolo a otto anni, in realtà era anche un ragazzino piuttosto maturo per la sua età, ma nutriva per natura una certa apprensione per il minore di tutti i suoi fratelli, anche se questo privilegio sarebbe durato solo per un paio di anni ancora.

- Ti pesa molto? – Domandò Arthur affiancandosi a lui e alzando lo sguardo verso la borsa a tracolla che cingeva la spalla del fratello. – Nah, per niente. Tu piuttosto, non sei stanco? Riesci ancora a camminare? –

Arthur seguiva il fratello a piccoli passi, cercando di seguirne il ritmo, concentrato con lo sguardo sui piedi dell’altro che avanzavano così sicuri lungo il marciapiede reso candido e soffice da quel manto di neve. Ci mise qualche secondo a rispondere, attento a contare tutti i passi che faceva l’altro da quando aveva cominciato a fissargli i piedi. Alzò lo sguardo abbandonando quel passatempo e scosse la testa con un sorriso. – Non sono stanco. – La mano del maggiore si posò per qualche secondo sulla sua testa, scompigliandogli un poco i capelli. – Per quanto odi la neve spero che continui a scenderne ancora tanta. – Si lamentò fra sé tirando su col naso. – Non ti piace? A me moltissimo, magari nevicasse così ogni mese! – La sue parole erano colme di sincero entusiasmo. – Così potrei perdere molti più giorni di scuola. – Aggiunse l’altro ignorando l’intervento ingenuo del fratello. Le mani che teneva in tasca cominciarono a disegnare dei cerchi immaginari sull’interno della stoffa e il suo sguardo si perse altrove, nella lontananza dell’incrocio avvolto da una sottile nebbia. Arthur si limitò a fissare per alcuni secondi l’espressione fin troppo distaccata di Barclay e decise di non rispondere, sapendo che quello non era un argomento che sarebbe stato in grado di affrontare; non tanto perché avesse poche informazioni al riguardo, ma perché pensava che sicuramente l’altro si sarebbe arrabbiato se avesse provato a esporre qualche commento o suggerimento sulla questione. Il più grande dei suoi fratelli d’altronde non aveva mai amato la scuola, anzi era sempre stata il suo più grande punto debole. E non era questione di intelligenza né di predisposizione: semplicemente, non gli interessava. Preferiva di gran lunga dedicare la giornata ad altre attività che a lui piaceva sempre definire “più costruttive”. Per i suoi genitori non era facile: non erano i tipi da passare sopra una tale pigrizia e disimpegno, ma erano ormai al giro di boa; tutto quello che avevano provato fino a quel momento era stato piuttosto inutile, se non peggiorativo. L’unica tattica che gli restava era quella della costrizione e dei ricatti, o forse non avrebbe funzionato neanche quella.

Per Arthur, nonostante comprendesse che gli studi del fratello dovevano essere molto diversi dai suoi, era difficile immaginare come non si potesse apprezzare neanche una delle materie che le loro scuole proponevano. Ma lui era sempre stato molto diverso da Barclay.

- Però alla fine della scuola non manca molto. – Decise di rompere il silenzio con un altro commento spontaneo, accompagnato da una scrollata di spalle. Il giovane dai capelli rossi si voltò verso di lui abbassando leggermente il viso, con un atteggiamento tipico di chi ormai non sa più di cosa gioire nella vita, il che stonava parecchio nell’insieme, data la sua tenera età. – Se non dovessi andare a scuola potrei già essere produttivo nel mondo del lavoro, capisci? Potrei direttamente fare quello che ho sempre voluto, perché perdere tempo con stupidi libri che ti raccontano cose che non ti serviranno mai a niente? – Le sue parole erano aspre, come succo di limone sulla lingua. Arthur decise di sviare l’argomento in modo stupido, con la prima cosa che gli venne in mente. Si fermò di colpo e si piegò sul posto a raccogliere un po’ di neve ai suoi piedi, facendone una palla modesta. Se la rigirò un po’ tra le mani, con il fratello che ancora camminava più avanti, non essendosi accorto che l’altro si era fermato. Tirò quel piccolo accumulo di neve sul fianco di Barclay, divertendosi ad osservare quel materiale biancastro disfarsi in tanti granelli dissimili. Il ragazzo si arrestò, voltandosi pigramente indietro, ancora con le mani in tasca, mentre l’attenzione del più piccolo si era concentrata sul naso rosso del fratello. Faceva davvero freddo quel giorno. – ..scemo. – Fu la risposta del fratello che strusciava con il piede un po’ di neve ai suoi piedi per direzionarla verso il più piccolo, riuscendo solo a sfiorargli uno scarpone.

Arthur spostò il suo sguardo dal naso rosso dell’altro alla sua borsa a tracolla, e correndo velocemente la distanza che li separava tornò ad affiancarsi a lui, aggrappandosi con la mano alla sacca piena. Poco dopo spostò la mano nella parte inferiore, sul fondo, provando a sollevarla per sondarne il peso. – Ehi, pesa invece! – Esclamò a gran voce più per prendersi gioco dell’altro che per essere serio. – Certo, per i marmocchi bassi e mingherlini come te è un peso troppo grande questo. – Rispose Barclay alzando il mento per mostrare superiorità, mentre sulle sue labbra si dipingeva un sorriso. Anche se aveva ben compreso che si trattasse di una beffa, Arthur gonfiò una guancia istintivamente, sollevando ulteriormente la borsa con la mano, come per mostrare maggiore forza. – Guarda! Ehi, guarda! – Cercava di richiamarne l’attenzione saltellando mentre camminava, con occhi pieni di aspettativa. In effetti cominciava a pesargli un po’ troppo quella borsa, era meglio che il fratello si girasse in fretta.

- Oh, ma quello è niente. – Rispose l’altro inarcando le sopracciglia mentre osservava quegli esilaranti tentativi del fratellino per mostrarsi un prestante sollevatore di pesi. Sfilò le mani dalle tasche e afferrò la tracolla spostandosela sul fianco opposto, con grande sollievo per la piccola mano del minore, e senza arrestare il passo si chinò quel poco necessario per afferrare Arthur sotto le maniche del giubbotto, all’altezza delle ascelle, e sollevarlo. Ricordava che quando era più piccolo Barclay lo prendeva in braccio molto spesso, oppure restava spesso seduto sulle sue ginocchia per tutto il pomeriggio; più si faceva grande più saltuariamente accadeva. Certo, con la crescita si faceva anche lui più pesante, ma a volte aveva come la sensazione che non fosse solo quello il motivo per cui quei gesti di affetto diminuivano di frequenza. Istintivamente si attaccò al suo collo, affondando nella sciarpa folta e morbida, sorridendo inconsapevolmente, mentre con le ginocchia si avvinghiava con una alla schiena e con la seconda all’altezza dell’addome dell’altro. Gli scappò una risata, e dopo aver sollevato il viso dalla sua spalla già si era dimenticato il motivo per cui era finito là sopra. – Questo è essere forti. –

Aggiunse il ragazzo che adesso camminava con la borsa a tracolla da un lato e il fratellino tra le braccia, poggiato sul fianco opposto. Il suo sorriso esprimeva tutta la sicurezza che nutriva in se stesso, e certo Arthur non l’avrebbe mai negata. Si fidava ciecamente di lui e ne ammirava molte delle qualità. All’epoca pensava davvero che avrebbe voluto diventare un po’ come lui da grande. Emanava un tale fascino: sicurezza, determinazione, forza, obiettività. Certo, aveva i suoi difetti –molti, a dir la verità– e i suoi lati deboli e di gran lunga meno attraenti, ma a quell’età lo trovava davvero nel pieno dello splendore. Avrebbe fatto di tutto per assomigliargli almeno in una piccola percentuale, per mostrare un centesimo della sua disinvoltura e autostima, per riuscire a farsi strada tra gli altri come lui invece riusciva solo di soppiatto, spesso anche chiedendo prima il permesso, riuscire ad essere quello che voleva quando voleva, senza timore del pubblico che aveva di fronte, senza il terrore di essere schiacciato o inghiottito dalle risate altrui, dalle lame affilate del loro disprezzo, dal silenzio della loro indifferenza che tutto ad un tratto diventava assordante.

Amava suo fratello. E non solo per queste sue qualità; lo avrebbe apprezzato comunque per il semplice fatto che faceva parte della sua famiglia. Ma tutte quelle virtù, quelle che lo entusiasmavano più del resto, non avrebbe mai immaginato che sarebbero scomparse a poco a poco, come gocce d’acqua che evaporano allo schiudersi tiepido del mattino, lasciandogli solo la rabbia e la frustrazione di non riuscire ormai a riconoscere il fratello più amato, lo stesso che diverse volte gli aveva giurato che avrebbe risposto ad ogni sua chiamata, ad ogni suo gesto, per quanto sussurrato; lo stesso con il quale adesso organizzava il Natale ad incastri per non doverlo affrontare, trascinando a stento la propria inettitudine come un cancro silenzioso lungo il suo cammino solitario.

Il fratello minore restava disteso tra le braccia sicure dell’altro, provando a contare i fiocchi di neve che cadevano lentamente, temporeggiando nel timore di deformarsi al suolo. Il suo respiro caldo e compatto disegnava dei cerchi irregolari che si dissolvevano in un battito di ciglia tra il vento gelido. In quell’atmosfera sempre più rarefatta, che riusciva magicamente ad unire i sentimenti opposti nel suo cuore, di turbamento e di serenità, trovò l’occasione per sussurrare al fratello qualcosa che in quei tempi di stabilità e tranquillità emotiva era così facile da pronunciare, da mostrare. Strinse le braccia intorno al collo del ragazzo con maggiore forza, premendo il viso intorpidito sulla sua sciarpa, lasciando che vi affondasse a poco a poco, socchiudendo gli occhi mentre gli confessava quanto fosse importante per lui.

- Ti voglio bene, Barclay. –

 

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- Quiscè?⁽²⁾ – Domandò l’inglese osservando con aria sospetta il pezzo di torta salata che aveva infilzato nella forchetta, la stessa con la quale giocherellava nel piatto ancora pieno di fronte a lui.

- Quiche.⁽³⁾ – Disse ancora Francis, forse per la terza o quarta volta. Aveva ben chiaro che il ragazzo non fosse portato per il francese e che non fosse esattamente bendisposto verso la sua lingua, ma perlomeno il nome di una ricetta avrebbe potuto impararlo. – Qui-che. – Ripeté di nuovo, sillabando, per renderglielo di più facile memorizzazione.

L’inglese addentò parte della porzione che si era riservato nella forchetta e cominciò a masticare lentamente con aria spocchiosa. – Quello che è. – Disse ciancicando un po’ le parole per via del boccone che aveva in bocca. In effetti, doveva ammetterlo, non era per niente male: la combinazione delle verdure era intrigante, e la pasta utilizzata per avvolgerle era ben cotta e saporita. Era la prima volta che mangiava cucina francese e anche se l’altro aveva impiegato non meno di un quarto d’ora per convincerlo ad assaggiarne un pezzo, confessava che ne era valsa la pena; forse poteva anche azzardare a dire che il francese sembrava bravo a cucinare.

- Come ti sembra? – Domandò Francis con evidente trepidazione, magari dovuta a qualche forma di ansia da prestazione gastronomica. Poggiava entrambi i gomiti sul tavolo e le mani erano congiunte a sorreggere il mento del viso, mentre la camicia color lilla che indossava era un po’ troppo sbottonata per i gusti dell’inglese. L’altro biondo concluse pazientemente di masticare, divertendosi un po’ a farlo attendere.

- Non male. – Si limitò a rispondere, senza sbilanciarsi troppo. Eppure il neo-coinquilino sembrò inorgoglirsi a quel giudizio: se non altro era riuscito a non farglielo sputare. – Oh, è un buon traguardo allora! Vedrai, ti cucinerò un sacco di cose nuove, penso che mi divertirò particolarmente. –

- Ma non è necessario che sia sempre tu a cucinare. E poi non so se potranno piacermi le cose che mi prepari, lascia perdere. – Rispondeva scuotendo la testa, mentre si era finalmente deciso a continuare a mangiare quella torta salata francese. Il maggiore dischiuse maggiormente gli occhi assumendo un’aria stupita, sciogliendo le mani dalla loro presa e agitandole appena in aria, vicino al volto. – Ma era nel nostro patto, non ricordi? mi occupo io dei pasti e della casa; e se non ti piace quello che preparo puoi sempre dirmi cosa preferisci mangiare, io obbedirò. – Concluse con un sorriso solare, che contrastava con la nebbia mattutina che poteva osservare distintamente dalla portafinestra della cucina, ancora fredda e umida. Arthur afferrò la tazza di tè con le dita, portandosela alle labbra e bevendone alcuni sorsi, per poi riprendere a parlare di tutt’altro, con la tazza fumante ancora a pochi centimetri dalla bocca. – Com’è andata questa prima notte? -

Nell’ambiente si avvertì per pochi istanti solo il cinguettare mattutino degli uccellini al di fuori, unito a qualche piccolo tintinnio di forchetta che Francis aveva cominciato ad utilizzare per consumare anche lui la sua colazione. Quest’ultimo si interruppe nell’avvicinare il boccone alla bocca, preferendo per educazione rispondere prima al ragazzo, con un altro dei suoi sorrisi smaglianti. – Benissimo. Non pensavo potesse essere così comodo il materasso di un divano-letto, davvero. – Si permise poi di interrompersi un attimo per mangiare, concedendosi qualche secondo per masticare e l’inglese ne approfittò per interrogarlo nuovamente. – Sei riuscito a sistemare tutto nello spazio che ti ho dato? E nel bagno? Hai sistemato le tue cose? Forse il letto è un po’ scomodo da rifare. -

Sorrideva, il francese, per tutte quelle che gli sembravano, anche se un po’ audacemente, delle premure e la cosa non poteva che riverirlo. – L’armadio in salone è perfetto, c’è tutto lo spazio di cui ho bisogno, così come pure il bagno. E per quel che riguarda il letto no, non mi risulta difficile da rifare. – infilzò un altro pezzo di torta con la forchetta. – Quando dico che ho vissuto in luoghi al limite dell’umana decenza parlo sul serio, per questo ti confesso candidamente che mi trovo più che a mio agio qui. È una casetta deliziosa, mi piace molto. – Rispose confermando le sue parole anche con dei cenni del capo. L’inglese continuò a bere il suo tè, tornando a parlare con un leggero ritardo. – Meglio così, allora. – Poggiò la tazza sul tavolo, addossandosi con la schiena alla sedia. – A che ora hai lezione tu? –

- La prima è alle dodici. Non penso usciremo insieme. – Francis inarcò un sopracciglio restando in un’aria di attesa, cercando una conferma alla sua supposizione. – Già. Io esco tra una mezz’ora. – L’altro giovane spostò leggermente indietro la sedia per alzarsi, afferrando il piatto e la tazza sporchi, avvicinandosi al lavello. – Vedi di comportarti bene in mia assenza. Non provare nemmeno a curiosare in giro aprendo ogni anta e cassetto di casa mia. Ricordi cos’è che non puoi fare, no? – Domandò in tono ascendente, mostrando di non voler attendere troppo una conferma da parte dell’altro. – Perfettamente, Arthur! Quindi.. – Lasciò la frase in sospeso alzandosi a sua volta e raggiungendo il biondo che stava per aprire l’acqua, presumibilmente per lavare le stoviglie. Gli poggiò una mano su una spalla, mentre con l’altra gli afferrò con garbo il polso e lo costrinse ad allontanarsi da lì, guidandolo verso l’uscita. – ..è meglio se tu vai a finire di prepararti per uscire, che alla cucina ci pensa il sottoscritto. – Concluse con un occhiolino, mentre l’altro cercava di opporre un minimo di resistenza. – Sì, ma..posso pulire la mia roba, non è necessario fare tutto da sol- – Ricevé una piccola spinta sulla schiena che lo accompagnava elegantemente fuori dalla cucina. – A stasera, Arthur. – Fu l’ultima risposta del biondo maggiore, prima di dargli le spalle e andare a sparecchiare la tavola e riassettare la cucina. L’inglese si limitò a un’occhiata vagamente corrucciata, un sospiro, e poi una noncurante voltata di spalle, decidendo di lasciar perdere e andare in camera per finire di prepararsi.

Passando per il salone lanciò uno sguardo al divano letto, ora aperto e con le lenzuola sfatte. Che strana sensazione che era. Non era decisamente abituato a immaginarsi quella come scena di inizio giornata; percepiva nettamente un’idea di caos e straniamento nell’osservare quanto potesse essere diverso il suo piccolo salone quella mattina. Gli passò anche l’idea di abbandonare i buoni propositi e rivedere la sua offerta, ma riconosceva che era una possibilità dettata solo da un leggero panico passeggero. Sarebbe bastato qualche giorno per abituarsi a quella nuova presenza in casa, doveva confidare in questo; in fondo aveva dato la sua parola che l’avrebbe ospitato. Fece le scale con un leggero affanno, tornando in camera sua e alla propria scrivania, riprendendo quello che stava facendo prima di scendere per la colazione: controllare la posta. Doveva ammettere che in quell’ultima settimana le mail di Alfred erano almeno raddoppiate, forse si stava davvero disperando? Se anche fosse stato il caso, non avrebbe certo avuto una risposta visto che continuava ad eliminarle senza la minima intenzione né curiosità di osservarne il contenuto. Neanche una sbirciata. Che poteva avere ancora da dirgli non lo sapeva.

Spense il computer senza grande fretta e dopo essersi dato una sciacquata al viso e ai denti nel bagno, prese lo zaino carico dei libri di lezione e scese di sotto, mentre ad ogni passo si accompagnava un leggero rumore di stoviglie proveniente dalla cucina. Al pianerottolo si sporse col viso verso quella direzione e lanciò un saluto. – Francis, io sto uscendo.. – Lasciando la frase in sospeso ad aspettare una risposta o un assenso. – Oh! – Avvertì una piccola esclamazione e poi il flusso dell’acqua che si arrestava. Pochi istanti dopo la figura luminosa del francese lo raggiungeva velocemente verso l’entrata, con un canovaccio che ancora stava utilizzando per asciugarsi le mani umide. – Buone lezioni, Arthur. Anzi, buona giornata. – Rispose con qualche ciuffo scomposto che ricadeva davanti agli occhi ma sempre con lo stesso sorriso rassicurante che ormai lo caratterizzava. L’inglese sorrise timidamente per poi aggiungere: – Per favore, non farmi stare in apprensione: non mettermi in disordine casa e…non curiosare. Tanto camera mia è chiusa a chiave. – Concluse con quell’ultima frase forse con l’idea che l’altro l’avrebbe interpretata come un avvertimento. Il francese non si sforzò di trattenere una piccola risata. – Ahahah, no, puoi seguire serenamente la lezione, tanto tra un’oretta esco anche io. Farò in tempo a rimettere a posto la cucina e il salone. – Era estremamente divertente osservare come quel timoroso britannico non fosse minimamente abituato a farsi invadere, seppur accondiscendente, i propri spazi. Non sembrava il tipo di persona a cui piace dividere le proprie cose e nemmeno uno incline a fidarsi del prossimo. Ma probabilmente aveva tutte le buone ragioni per farlo; lo pensava spesso anche lui che in fondo fidarsi è bene ma non fidarsi è meglio. Solo che, come molte delle altre sue citazioni preferite, molto spesso restavano appese alla sua mente più come filosofie di vita che come norme alle quali attenersi più o meno scrupolosamente. Era una questione di flessibilità, ne era certo. Arthur ne era senza ombra di dubbio decisamente carente, mentre lui ne adottava anche più del necessario; se ci pensava, alla fine, l’unione non era male: poteva realizzarsi una buona compensazione durante il periodo in cui sarebbe rimasto ospite in casa sua.

Gli lasciò una leggera pacca sulla spalla per invitarlo a tranquillizzarsi e ad avviarsi. – Ne t’inquiète pas.⁽⁴⁾ -

- È inutile che mi parli in francese, come te lo devo dire? – Si lamentò seccato il britannico che, dopo essersi sistemato la tracolla sulla spalla, si era avvicinato alla porta e ne aveva afferrato la maniglia. – Eheh, sono sicuro che capisci più di quanto tu voglia lasciar intendere. – Sogghignò benevolmente l’altro, sollevando una mano e agitandola lievemente in cenno di saluto mentre osservava il suo compagno di corso scomparire dietro il legno della porta, richiudendola dietro di sé.

Francis rimase per alcuni secondi ad osservare dal vetro dell’ampia finestra del soggiorno i suoi passi lungo il viale, fino a quando la vista glielo permise, quindi voltò lo sguardo alla sua sinistra, verso il salone nel quale aveva trascorso la sua prima notte da ospite. Calcolava con delle occhiate veloci tutte le cose di cui occuparsi e il tempo che avrebbe impiegato nelle singole operazioni. Lenzuola, divano-letto, vestiti…quegli occhi azzurri e vispi sembravano danzare tra le figure che incontravano, suggerendogli un tempo complessivo di attività di circa un quarto d’ora. C’era tempo.

Fece forza sulla spalla con cui era appoggiato alla parete delle scale per tornare in posizione retta, voltarsi e tornare in cucina per completare quello che aveva iniziato. Nell’incedere soffuso dei propri passi ripeteva nella sua mente solo una parola, compensazione. Ora che ci pensava, forse avrebbe dovuto impegnarsi un pizzico di più per non risultare un elemento troppo molesto nella vita dell’altro giovane, per quel poco che ne avrebbe condivisa con lui. Non gli andava di ritrovarsi in mezzo alla strada per una mossa falsa o mal calcolata dettata da un’infantile avventatezza. Ma la sua attenzione venne catturata improvvisamente da qualcos’altro, un quadrato bianco su quella parete color panna; avvicinò il viso e realizzò che era un piccolo post-it. In effetti l’inglese lo aveva avvertito che ne avrebbe trovati diversi in casa, anche se non aveva mai pensato a cosa potesse esservi scritto sopra. Con aria curiosa dunque cominciò a leggere le parole che erano elegantemente delineate dalle curve dell’inchiostro nero pece.

Per diversi minuti l’ambiente fu attraversato solo dal respiro quasi trattenuto del ragazzo che sembrava non volesse disturbare quell’atmosfera incantevole che si era creata come un fotogramma rubato. Le sue labbra erano piegate in un sorriso inevitabile e le dita della sua mano ora sfioravano i contorni del foglio mentre sussurrava tra le labbra, avviandosi verso la cucina.

- Merveilleuse..⁽⁵⁾ –

E prima un’ora di tristi pensieri

E poi un effondersi di lacrime amare

E poi una tetra calma diffonde

Una nebbia mortale su gioie e pene

E poi un battito e una luce di lampo

E poi un respiro dall’alto

E poi una stella si accende nel cielo

La stella gloriosa la stella d’amore⁽⁶⁾

 

⁽¹⁾ Emily Brontë, “But the Hearts that Once Adored Me”.

⁽²⁾ È la pronuncia errata, di Arthur, di un piatto francese (vedi nota seguente).

⁽³⁾ Torta salata francese caratterizzata dalla possibilità di essere cucinata in numerose varianti a seconda del ripieno che si predilige. http://it.wikipedia.org/wiki/Quiche

⁽⁴⁾ “Non preoccuparti”, in francese.

⁽⁵⁾ “Meravigliosa”, in francese.

⁽⁶⁾ Emily Brontë, “And First an Hour of Mournful Musing”.

 

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Capitolo 15
*** Capitolo 15 ***


Un guizzo schivo con gli occhi; era riuscito solo a notare la mano del francese che sospesa in aria teneva il piccolo libro di fronte al suo sguardo concentrato. Il gomito era poggiato sul tavolo, leggermente spostato all’esterno rispetto al polso, mentre l’altra mano sosteneva il mento del biondo.

Era da parecchio ormai che si trovavano in quella posa, l’uno di fronte all’altro, a studiare i rispettivi libri di testo. il tavolo della cucina era abbastanza ampio, poggiato al muro sul lato maggiore e distava meno di tre metri dalla cucina che si estendeva parallela ad esso. Il più assoluto silenzio regnava da quasi un’ora nella stanza, interrotto solo dal leggero sfogliare delle pagine di carta e da qualche colpetto di matita di tanto in tanto. Gli occhiali da lettura dell’inglese scivolavano sul naso, distanti dagli occhi verdi che erano tornati a scorrere il testo poggiato sul legno. Non pensava sarebbe riuscito a stare zitto così a lungo, il francese; forse quando studiava lo faceva seriamente. Arthur scostò di nuovo lo sguardo dal libro per dare un’occhiata all’ora segnata dall’orologio alla parete: le otto e venti. Fuori la densa oscurità dava l’idea di essere già in piena notte visto che la sera era resa ancora più fosca a causa delle nubi scure che si erano accumulate durante la giornata. Avevano cenato da un pezzo ma dopo che Francis aveva sparecchiato e risistemato la cucina non avevano più scambiato parola, immergendosi nello studio. Avrebbe potuto andarsene in camera sua eppure aveva preferito condividere quell’ambiente con lui. D’altra parte, se l’aveva invitato a risiedere a casa sua anche lui aveva i suoi motivi: sarebbe andata bene anche una silenziosa compagnia serale.

- Ehi.. – Quel sospiro scandito in una sola sillaba gli arrivò di sorpresa, facendogli scattare il viso verso l’alto, a cercare la fonte di quel richiamo, la stessa che aveva di fronte dall’altra estremità del tavolo. Il francese sorrideva con aria stanca, sembrando assonnato, con la mano adesso reclina che teneva il libro verso il basso per permettergli la visuale dell’inglese, il quale con aria distratta sbatté un paio di volte le ciglia e fece un piccolo movimento con una spalla, domandando: – Cosa? – Sorrise di nuovo il francese, già galvanizzato all’idea di poter intraprendere una conversazione. – Sai, stavo leggendo in questo saggio.. – Fece una pausa, come ad introdurre la propria argomentazione con un pizzico di indugio. – ..di quale grande fascino abbia esercitato negli scrittori e nei poeti di tutti i tempi la tematica dell’ambiguità della natura umana. Se ci pensi è un aspetto terribilmente attraente. – L’inglese lo guardava con aria perplessa; sperava non avesse intenzione di intraprendere un soliloquio sull’argomento. Decise quindi di prenderla alla larga, sul vago, con un sorriso piuttosto forzato. – Immagino di sì. – E concludendo senza aggiungere altro tornò con lo sguardo sul proprio testo, sottovalutando tuttavia l’insistenza del francese. – Ti sei mai chiesto se possa essere qualcosa di attribuibile all’essere umano in quanto tale o piuttosto solo a dei singoli individui? – Il giovane più grande sembrava seriamente interessato all’argomento o forse aveva semplicemente perso la voglia di studiare; in ogni caso il britannico sembrava sul punto di perdere la pazienza mentre manifestava la noia crescente con un grande sospiro, alzando nuovamente il viso verso di lui. – No, ma potrei chiedermi se non sia il caso per te di cambiare stanza per studiare. –

Francis, certo di quella reazione prevedibile, non riuscì come sempre a trattenere una leggera risata. – Eheh, dai, sono così fastidioso? Eppure, il discorso dovrebbe interessarti visto quello che stai leggendo. O forse sbaglio? – Il ragazzo indicò con lo sguardo il testo nelle mani dell’altro: un’edizione di Jane Eyre che sembrava piuttosto vecchia. – Per ora mi interessa leggere, grazie. – Continuava sulla difensiva l’inglese, ignorando il più possibile i suoi stimoli. – Secondo me tu sei uno di quelli che pensa solo ad alcuni individui come ambigui nella loro natura più intima. – Non resisteva. Se non l’avesse stuzzicato almeno un po’ non sarebbe riuscito a tornare sul suo testo tanto facilmente. Doveva solo stare attento a non forzare la mano o sarebbe di certo stato attaccato con parole particolarmente taglienti. – Allora rallegrati, tu sei fra quelli. – Voltò una pagina del libro per poi poggiare entrambi i gomiti sul tavolo mentre si stringeva nelle spalle, forse desiderando il dono dell’invisibilità in quel momento di distrazione molesta. – Davvero? Quindi mi trovi ambiguo? – Gli occhi del francese erano grandi, come spalancati, e il suo tono suggeriva un vivo interesse. – Ma ambiguo in che senso? Nelle parole? Nella gestualità? Nell’incoerenza tra il dire e il fare forse? Non dirmi nei costumi sessuali perché non sei il tipo da scadere nella volgare banalità. –

L’altro giovane si portò il pollice e l’indice su una tempia, inclinando leggermente il volto da un lato; gli occhi si erano fatti sottili e le dita dell’altra mano tamburellavano con fare irritato sul legno. Pensò che fosse meglio cambiare tattica, magari rispondendogli lo avrebbe placato, accontentandolo come un cane a cui si regala un osso per non farlo più guaire. – È la tua mente che è ambigua. Sembri uno di quelli che pensa continuamente ad altro mentre ascolta le persone, dando più importanza ai tuoi sottintesi e alle tue interpretazioni piuttosto che alle parole che ti vengono rivolte. In più sembri ambiguo nelle intenzioni: dai l’impressione di covare sempre qualche doppio fine in quello che fai. –

- Ehi, questi non erano esattamente dei complimenti. – Le labbra del francese si piegarono in una piccola smorfia di disappunto. – Da come mi dipingi sembro un poco di buono dotato di un’eccessiva autostima. Mh, ma abbiamo ancora tempo per conoscerci meglio. – I suoi occhi volarono verso il soffitto, in un’espressione pensierosa. – Non penso ne avremo il tempo. – Commentò con voce bassa, quasi sussurrata mentre riavvicinava le mani al libro nella speranza che le sue parole fossero bastate a farlo desistere dal continuare quella conversazione del tutto inattesa e soprattutto indesiderata. – A proposito, potrei chiederti che programmi hai per le feste? Così posso organizzarmi con le date per tornare a casa. –

Niente, non era serata per studiare evidentemente. Arthur afferrò con le dita la stanghetta degli occhiali da lettura e se li tolse con lentezza, prendendo qualche secondo per organizzare la risposta. – Io non sarò a casa solo il venticinque, quindi puoi fare come ti pare. – Il suo tono era più freddo e distante del solito.

– Vai fuori o resti in città? Fate una grande riunione famigliare con genitori, fratelli, sorelle, cugini, zii e amici? A casa mia è sempre una cosa piuttosto ristretta. – L’inglese reagì inaspettatamente con una risata soffocata a quelle parole. Sentirsi domandare una cosa del genere era piuttosto ironico per lui. – La cosa buffa è che siamo anche parecchi in famiglia, ma no: non c’è alcuna grande riunione famigliare che si svolge a Natale. – Francis continuava a rivolgersi al compagno mentre poneva il segnalibro lì dove era arrivato con la lettura. – Quindi hai molti fratelli e sorelle? Più grandi o più piccoli? – Pose una mano sul libro ora chiuso spostandolo lentamente da parte mentre con l’altra mano si sosteneva il mento. Era più difficile di quanto pensasse reprimere la sua naturale ed istintiva curiosità nei confronti dell’altro. Arthur esitò a quelle domande, incerto se troncare sul nascere l’argomento spinoso o rispondere con studiata disinvoltura. Schiuse le labbra come per prendere fiato mentre rivolgeva lo sguardo al legno del tavolo, temporeggiando. – Ne ho quattro. Tutti più grandi. Tutti maschi. – Le sue dita si intrecciavano sulle pagine ingiallite del libro ancora aperto davanti a sé. La loro superficie ruvida sembrava allietare quella amara sensazione di disagio.

- Quattro? Tutti fratelli? Wow, non me l’aspettavo! E pensare che io ho sempre desiderato una sorellina più piccola. Deve essere stata molto animata casa vostra quando eravate tutti insieme sotto un tetto. – Il suo stupore era sincero e ad ogni parola si accompagnava con entusiasmo un gesto di approvazione, un’inclinazione del viso, un sorriso ampio e luminoso. In effetti, tutta quell’esaltazione stava per disturbare seriamente il britannico, ma pensando alla situazione famigliare del francese bloccò ogni impulso di rimproverarlo. Probabilmente non aveva molti parenti oltre alla madre e ritenne comprensibile il fatto che sentire di una famiglia tanto numerosa potesse averlo interessato. Ripose quindi da parte il nervosismo, rispondendo con maggiore tranquillità.

- In un certo senso…ma comunque non illuderti troppo: anche se siamo tanti non godiamo di una grande unione. – Strano, non credeva di poter confessare una cosa del genere con una tale naturalezza. Aveva proprio ragione Esopo quando diceva che l’abitudine rende sopportabili anche le cose spaventose. – Oh, mi spiace molto. – Il maggiore prese la saggia decisione di sviare elegantemente l’argomento. Aveva ricevuto già abbastanza informazioni considerata la personalità burbera del ragazzo. Pertanto, con un repentino commento si rivolse all’inglese usando un timbro di voce molto più sonoro. – Tu devi avere un debole per quella donna, eh? – Le sue parole spiazzarono completamente il biondo più giovane che gli lanciò un’occhiata confusa. – Come prego? – Il francese sorrise alla reazione dell’altro indicando con l’indice il libro che aveva trovava di fronte, ancora reclino sul tavolo. Arthur abbassò lo sguardo dove l’indicazione del ragazzo lo guidava e riuscì a collegare gli elementi. – Ah, ti riferisci a lei? – Domandò retorico afferrando i bordi del testo fino a sollevarlo per mostrarne la copertina. – La apprezzo molto, sì, come anche le altre due sorelle. A te piace? – I suoi occhi avevano inevitabilmente assunto un singolare fulgore e le sue labbra erano timidamente curvate in un’espressione amichevole. Il francese riconobbe quella vibrazione nello sguardo: aveva fatto centro; ogni volta che si entrava nel campo artistico-letterario la disposizione del giovane arcigno mutava completamente, o quasi. Era interessante osservare come i suoi muscoli si distendessero e il suo sguardo si addolcisse mostrando un lato di sé sicuramente più intimo e sincero rispetto a quello con cui era solito mostrarsi. Francis annuì con energia e con un incontrastato buon umore. – Oh sì, moltissimo. Tutte e tre, anche a me. Sai, in realtà, mi era venuto in mente già dall’altro giorno: in casa tua certe tracce non passano inosservate. – Era stato volutamente sfuggente nelle parole per poter sondare con cautela la reazione del ragazzo, ma in ogni caso il giudizio che aveva di quella sua curiosa quanto originale pratica era del tutto positivo, anzi entusiasta. Non aveva il minimo dubbio che un’abitudine del genere potesse essere frutto di una personalità sensibile e preziosa; il suo desiderio era solo quello di poter sfiorare quella superficie incorporea con le proprie sollecitazioni. Cosa non avrebbe dato per sentirlo parlare disinibito e senza timori.

Arthur mosse lentamente gli occhi alla propria sinistra, verso la cucina e in particolare verso il frigo, solo uno dei tanti luoghi dove si ritrovavano appese le sue piccole tracce, come le aveva chiamate il francese. Si soffermò non più di pochi secondi su quella finissima carta che aderiva alla superficie dell’elettrodomestico per poi scivolare nuovamente con lo sguardo verso la figura di fronte a sé. – Non ti si può nascondere niente, eh? – Il tono era ironico ma per nulla caustico e l’inclinazione del suo volto sembrò al suo interlocutore un incentivo a continuare la conversazione. – Ti confesso che le ho lette quasi tutte e vorrei che mi credessi nel dirti che hai davvero buon gusto. Perlomeno, trovo le tue preferenze poetiche abbastanza simili alle mie. – Anche se il commento del biondo non suonava esattamente come un complimento, l’inglese non riuscì a nascondere un sorriso lievemente imbarazzato. A dir la verità, visto e considerato come il suo rapporto con quelle poesie fosse intimamente personale e visto come sentiva vicine le parole di quei versi, gli era quasi impossibile distinguere tra il canto delle loro rime e la propria personalità, la propria vita. In qualche modo, quello che aveva disseminato per casa parlava di lui e per lui. – Questo mi fa molto piacere. –

- Eppure sai che non saprei dire se sei un tipo più per la poesia o per la prosa? – Si portò il palmo di fronte alla bocca e lo poggiò sulle labbra, in una posa meditativa mentre tamburellava con l’indice sulla propria guancia. – Mmh, forse ti si addicono entrambe. – L’inglese sembrava ora più propenso a dialogare e rispose prontamente all’altro giovane. – Io invece ti ho sempre inquadrato nello schieramento poesia. –

- Ahah, ehi mi fa piacere tu abbia pensato a me in questi termini! Forse è così, chissà. In ogni caso, il fascino delle parole resta immutato qualunque sia la forma scelta, non trovi? – Domandò con curiosità. – Concordo. Come tendenza personale però, penso di avere una predilezione per la poesia. Non dico che sia qualcosa di quantificabile, né di qualitativamente diverso però..la poesia mi tocca diversamente da un romanzo, per quanto sia affascinante e coinvolgente. – La mimica facciale e gestuale del più giovane esprimeva il timore di aver parlato troppo, ma il francese era pronto ad allontanare quella sgradevole sensazione cercando di metterlo a suo agio con altre domande alle quali non avrebbe resistito a rispondere. – Forse ti impressiona di più? O magari ti spinge a riflessioni estranee alla prosa? La cosa mi interessa particolarmente, davvero. – Ed era così. Non solo per il suo forte desiderio di sentire l’inglese mettersi in gioco, ma anche perché il suo amore per la poesia e la letteratura non era da meno. Il ragazzo sospirò, ma con un sorriso sul viso, ruotando leggermente gli occhi all’indietro, forse mentre cercava le giuste parole per esprimersi.

– La poesia che preferisco è quella composta di poche immagini e di una lunghezza media; deve essere qualcosa di conciso ma esaustivo. Poi apprezzo soprattutto i componimenti che parlano dell’uomo e della natura o di elementi che mi sono vicini: un sentimento, una condizione, un luogo, una visione…detto così mi sa che non si capisce molto, vero? – Si schiarì la voce, riprendendo poi a parlare. – Dicono che la poesia abbia un impatto maggiore rispetto alla prosa, giusto? Questo perché, dicono, la poesia usa un altro tipo di linguaggio che può essere più aulico, più criptico o semplicemente più impegnativo. – Il biondo di fronte a lui annuiva con interesse, attento ad ogni parola che veniva utilizzata, catturato dal discorso sempre di più.

- Ma a mio avviso una divisione del genere non ha un gran senso: conoscerai sicuramente un sacco di poesie, antiche o contemporanee, classiche o moderne, che sono di una comprensione talmente semplice da risultare banali; oppure di poeti dell’avanti Cristo che sono spesso più vicini alla nostra sensibilità di quanto possa valere per i poeti del dopoguerra, per esempio.. – L’inglese attendeva un segno di conferma da parte dell’altro che non tardò ad arrivare. – Ho capito perfettamente che vuoi dire. Il latino di Catullo, tanto per citare il classico, è assai facile e anche il contenuto è molto vicino al sentimento d’amore come lo intendiamo noi oggi. – Gli occhi di Arthur tornarono a brillare mentre si faceva più avanti con la schiena.

- Esatto! Tra l’altro lui è uno dei miei preferiti tra i latini ed è…bè, comunque non parlavamo di Catullo.. – Interruppe quello scorrere di pensieri e parole per non perdere il filo del discorso precedente. – Quindi, se su questo siamo davvero d’accordo allora vuol dire che la differenza tra prosa e poesia non è un fatto di forma, di stile o di figure retoriche, ma riguarda soltanto le parole: la scelta che ne si fa, la loro disposizione, il loro valore, la forza, l’unione con tutte le altre. È sbagliato credere che la prosa sia più facile da leggere o più moderna e che la poesia sia una forma d’arte complessa, pedante e per pochi eletti. Tu come la pensi? –

Che avrebbe dato per fotografare quegli occhi verdi che lo fissavano pieni di aspettativa, attesa, entusiasmo. Era indubbiamente molto più piacevole conversare con lui di quell’umore e carico di tale ben disposizione. Fu proprio in quel momento che per la prima volta da quando aveva fatto la sua conoscenza si sentì finalmente alla pari: sembrava vaporata quella cortina di disprezzo con la quale il britannico era solito rivolgersi a lui, rinfacciandogli ora l’ambiguità, ora la lascivia, ora l’invadenza. Quelle frecciatine sembravano aver smesso di scoccare in quell’arco di tempo sospeso tra il reale e il fantastico in cui la distensione di Arthur contribuiva a far rilassare maggiormente anche lui stesso, certo che in quel momento l’altro riconoscesse in lui un interlocutore valido e non un fastidio da mettere a tacere.

Come poi in quell’intercalare finale avesse espresso il desiderio di conoscere la sua opinione era sicuramente un grande riconoscimento da parte dell’inglese. Francis cominciò inconsapevolmente a dondolare, quasi impercettibile, un piede sotto al tavolo, quello che apparteneva alla gamba che era accavallata sull’altra, e il suo sorriso non riusciva a mascherare una irrefrenabile contentezza.

- Penso che le definizioni siano per definizione sempre mancanti e non raggruppino mai ogni caso riscontrabile. C’è sempre qualcosa che sfugge agli schemi che cerchiamo di creare. Quello che tu puoi considerare interessante a me può sembrare tremendamente noioso e così via, alla fine è sempre meglio essere discreti e democratici, io credo. Pertanto, capisco quello che vuoi dire e lo condivido; e penso anche di aver capito che sei uno a cui piace particolarmente ritrovarsi nelle parole che legge..o sbaglio? –

Il ragazzo più grande notò un piccolo lampo di incertezza nel volto dell’altro. Aveva bisogno di un passo indietro? Eppure stava andando così bene fino a quel momento. Pensò tuttavia di mettere da parte la soddisfazione personale per tamponare immediatamente la piccola falla creatasi a causa delle sue parole affrettate; non che ci trovasse nulla di strano o addirittura offensivo in quella domanda, ma ormai abituato al punto di vista del biondo più giovane gli venne in mente che avrebbe potuto considerarlo inopportuno, se non molesto. Nonostante tutto, il suo interlocutore, inaspettatamente, rispose a quella domanda. – Da cosa riusciresti a dirlo? – Il francese studiò attentamente i lineamenti di quel volto, l’eventuale tensione nella sua espressione e nelle sue mani, attento al più piccolo fremito, cominciando a prestare un occhio anche alla regolarità del suo respiro. Tutta quella concentrazione era fondamentale per riuscire a intuire la disposizione attuale del britannico: quanto era tornato sulle sue? Quanto si era sentito punzecchiato? Quanto aveva voglia di continuare la conversazione?

Interloquire con lui era un’attività più impegnativa di quanto di sarebbe mai immaginato, doveva ammetterlo, però era anche un buon allenamento per prestare un po’ più di attenzione a quello che lasciava uscire dalle sue labbra visto che in genere era molto, ma molto più spavaldo. Acquisire un po’ di autocontrollo non gli avrebbe fatto così male. Lui, se non altro, riusciva a vedere sempre un lato positivo in tutto quello che gli accadeva e con cui veniva messo alla prova. – A dir la verità, mi è venuto in mente leggendo qualche poesia che ho trovato attaccata in giro. Sono fotografie molto precise, immagini umane, schizzi di emozioni. Non ci sono accenni all’epica, né alla politica o alla società..sono semplicemente riflessi di una vita, scorci di un pensiero. Quindi, ho immaginato che o ti ci rispecchi in qualche modo oppure hai davvero un debole per quelle scrittrici e mantieni le loro riflessioni più intime sempre in bella vista. Ma propendo per la prima…ancora adesso. – Il suo tono era stato pacato e amichevole, anche se nutriva un po’ di timore per la reazione dell’altro. Per alcuni interminabili secondi i respiri dei due ragazzi erano divisi soltanto dallo scoccare leggero delle lancette dell’orologio della cucina, come se nessuno sapesse bene cosa dire né cosa fare. Fu in quel momento che il francese assisté alla reazione più bizzarra e inaspettata a cui avrebbe mai potuto pensare. Gli occhi dell’altro guizzarono verso l’alto mentre le labbra si schiusero in una risata che tentò di soffocare, ma senza successo; in un attimo le spalle dell’altro si strinsero fino a rimpicciolirne la figura, come se cercasse di retrocedere o di nascondersi, e lo vide portarsi un mano alla bocca, probabilmente per coprire il riso da cui era stato colto mentre i suoi occhi continuavano a vagare, evitando quelli del francese, brillando di un tenero imbarazzo. La sua reazione esplose così spontaneamente che Francis stesso non riuscì a non sorridergli a sua volta, disorientato riguardo le effettive conseguenze delle sue parole ma più che certo che in quel momento Arthur gli stesse apparendo oltremodo incantevole: assisteva in quel momento all’imbarazzo più grazioso e raffinato che ricordasse. Tornò a parlare con tono lievemente irregolare, scosso da una risata spensierata che gli aveva attaccato l’altro. – Forse ho detto qualcosa di…strano, vero? Un po’ impudente? – Si portò una mano alla nuca, infilando qualche ciocca bionda tra le dita e massaggiandosi il collo, allungando lo sguardo sul libro sotto al suo viso e percependo un esile quanto trascurabile disagio farsi strada in lui. Finse distrazione, ma la verità era che non poté fare a meno di risollevare lo sguardo verso l’inglese: le sue dita che ne celavano parte dell’espressione sfuggente, quelle labbra che erano ancora distese a sorridere, nascoste dal suo fare evasivo ma incredibilmente gentile, la naturale e disinvolta incertezza con la quale evitava il suo sguardo alla ricerca di un riparo.

- Mpf, solo un pizzico imprudente immagino.. – Il più giovane poggiò entrambe le mani sul proprio testo e sospirò profondamente. – Penso che non studierò oltre, stasera. – Il rumore secco della sedia che indietreggiava sul pavimento stordì la pace mentale del francese, costringendolo a tornare velocemente alla realtà. – Dormi? – Domandò interrompendo i massaggi al collo ma tenendo ancora quella posizione. Arthur si sollevo lentamente, potandosi il libro al petto e sorreggendolo con una sola mano mentre osservava il francese dall’alto ora, dando un piccolo accenno con la testa e una lieve scrollata di spalle.

– Mh, forse. – Sorrise con molto meno imbarazzo di prima, anzi sembrando quasi divertito da quell’atmosfera. – A domani. – Non aspettò una risposta. Il tocco dei suoi passi si mescolava a quello delle lancette dell’orologio, inflessibili. Francis ebbe solo il tempo di accorgersi quanto la sua gola fosse diventata dannatamente secca prima di poterlo salutare a sua volta, ora incontrandone con lo sguardo solo la schiena stretta che si avvicinava alle scale dell’ingresso. – Buonanotte. –

Non si sentì soddisfatto finché non ascoltò il suono della porta della sua camera che si chiudeva. Era la giusta interruzione. Espirò, come fosse affaticato, lasciando che il suo braccio scivolasse reclino lungo il fianco e sollevando il ginocchio fino a far poggiare il piede sul bordo della sedia. Con l’altra mano si sorreggeva il mento, spostando lo sguardo sulle pagine del libro e saltando con gli occhi da una parola all’altra senza ordine né senso, mormorando tra sé: – …buonanotte. –

 

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Capitolo 16
*** Capitolo 16 ***


Il cielo terso e il clima meno umido del solito che favoriva lo spirare di una pungente tramontana, costituivano gli elementi ideali per una piccola gita sul London Eye⁽¹⁾. La vista sarebbe stata sicuramente ottima, per non parlare dello splendido effetto che le luci e le decorazioni di Natale regalavano alla città; da quell’altezza l’effetto era di centinaia di piccoli fuochi colorati, iridescenti. Se si disponeva di buona fantasia si poteva anche immaginare quali bizzarre figure potevano comporre quei scintillii.
Arthur e Roderich erano piuttosto abituati alla vista di quella città, anche dall’alto, mentre il francese era comprensibilmente emozionato e attento a scrutare ogni particolare di quella vista, ogni angolo di quella città che avrebbe giurato essere tanto inospitale. – Ehi, ormai riesco a riconoscere sia Buckingham Palace che St. Paul! – Commentò con orgoglio Francis, in piedi di fronte all’ampio vetro della cabina e indicando sul vetro rispettivamente il palazzo e la cattedrale. – So che sei uno di quelli che è più andato a spasso per la città in questi primi tre mesi. – Rispose l’austriaco con un sorriso, sfregando leggermente le mani tra di loro per scaldarsi. – Oh sì, adoro visitare le città, i luoghi, le persone.. – il ragazzo moro lo seguiva con le parole mostrando di condividere il suo pensiero. – È una cosa che adoro anch’io. Viaggiare è sempre stata una delle nostre grandi passioni di famiglia. Poi i tuoi racconti mi hanno affascinato, insomma, per avere ventisei anni hai visitato un sacco di luoghi. – Fece una pausa per lanciare un’occhiata al britannico che gli era seduto accanto. – Mi domandavo infatti come mai non cogliessi l’occasione con questa pausa natalizia per raggiungere qualche nuova meta. – Commentò un po’ con ironia, un po’ con interesse. Francis si voltò completamente verso i due amici e sorpassò un paio di persone per porsi più vicino a loro, anzi esattamente di fronte, mettendo le mani in tasca per scaldarsi. – Non che l’idea non mi entusiasmi, però al momento non ho grandi risparmi da parte. – Alzò gli occhi al cielo con un’espressione riflessiva per poi continuare. – E preferirei non distrarmi in quest’anno di studio. È pur sempre l’ultimo e inoltre sono in Erasmus; è bene che lo concluda seriamente. –
- Oh, sì sì, certamente. – L’austriaco sembrava dispiaciuto di aver forse insinuato qualcosa di sbagliato. – Ma tu mi sembri un ragazzo brillante Francis, davvero. Da quello che mi hai raccontato dovresti trovarti bene qui. – Il ragazzo in piedi annuì con energia, sfoggiando un altro dei suoi sorrisi. – Oui,⁽²⁾ magnificamente. Mi piace tantissimo l’università e anche gli esami e le lezioni sono assai interessanti. Non sono per niente pentito della mia scelta. – L’inglese era l’unico che appariva estraniato da quella conversazione; non solo perché non si univa alla chiacchierata, ma anche per il fatto che il suo sguardo era altrove, apparentemente immobile a fissare un punto indefinito della cabina, cercando uno spiraglio tra le sagome della gente per osservare le luci del paesaggio al di là del vetro. – Avete dei piatti tradizionali in Francia per le festività natalizie? – Domandò l’austriaco cambiando completamente argomento. – Adoro cucinare e sarebbe divertente provare qualche nuova ricetta. – Il biondo in piedi sembrò entusiasmarsi più dell’altro a quella proposta. – Oh, in quel caso dovrei assolutamente assaggiare il tuo esperimento per darti un giudizio! Il Buche de Noël⁽³⁾ è il mio preferito, anche se non è semplicissimo da preparare; ma se già ti destreggi in cucina.. – Francis abbassò lo sguardo verso l’inglese distratto e si rivolse specificamente a lui. – Ne farò uno per te Arthur, così il venticinque potrai farlo assaggiare ai tuoi. – E concluse con un’espressione gentile. Il ragazzo sembrò destarsi da un sogno ad occhi aperti quando sentì vagamente chiamare il suo nome e ruotò velocemente gli occhi dal vetro verso l’amico di fronte, sbattendo le palpebre velocemente per i primi istanti e cercando di ricollegare i frammenti di frase che gli erano giunti alle orecchie in maniera distante.
– Ah, bè, gli farebbe sicuramente piacere, grazie. –
- Ma è vero che Francis cucina divinamente? Ho sentito parlare molto bene delle sue doti gastronomiche. – Il moro aveva inclinato la schiena per sporgersi verso il compagno seduto accanto. Il biondo sorrise spontaneamente con una breve risata e abbassò per poco lo sguardo al suolo. – Sì, non è male. Posso dire che se la cava bene. – I suoi occhi erano adesso tornati sul compagno francese e ne cercavano le iridi azzurre. – Troppo gentile. – Francis accennò un inchino con il capo, lasciando scivolare le ciocche bionde sul viso. – Chissà se riusciremo prima o dopo Natale a fare un pranzo tutti insieme.. – Aggiunse Roderich.
- Penso che durante le vacanze sia difficile, ormai sono tornati tutti a casa per le feste. Siamo rimasti solo noi tre qui a Londra, e anche Francis parte tra poco. – Si pronunciò l’inglese dissolvendo ogni speranza dell’austriaco. – Mh, sì, in effetti…anche tu tornerai a casa dai tuoi per un po’, immagino. – Disse il giovane col pizzetto, allungando nuovamente lo sguardo verso paesaggio all’esterno. Arthur si abbandonò ad uno sguardo stupito mentre l’amico al suo fianco schiuse le labbra in un’espressione imbarazzata, come se avesse voluto rispondere in qualche modo al commento del francese, ma lasciò la responsabilità di farlo al diretto interessato, come era giusto. – Io sono dai miei solo il giorno di Natale. Per il resto resterò nel mio appartamento. – Non vi era nessuna increspatura nel tono né nell’espressione; i suoi occhi fissavano semplicemente quelli dell’altro giovane senza nessuna emozione particolare.
- Oh, così poco? Capisco.. – Francis assunse un atteggiamento di circostanza, cosa che gli riusciva sempre molto difficile vista la sua naturale inclinazione alla spontaneità. – E il resto delle vacanze quindi? Non le passerai da solo spero? – Sapeva che era una mossa azzardata, ma aveva bisogno di sapere se davvero l’amico britannico avesse intenzione di rinchiudersi nel suo notorio auto-isolamento. Come ben si aspettava l’altro biondo fece una smorfia di disappunto, aggrottando le sopracciglia e rispondendo con una punta di acidità. – Sì, perché? Pensi che sia una cosa da sfigati? –
- E se dopo ci andassimo tutti a prendere una cioccolata calda, che ne dite? – Intervenne prontamente l’austriaco, unendo le mani in un sonoro battito per attirare l’attenzione dei due potenziali litiganti. Non era il caso di rovinare un piacevole pomeriggio per una cosa del genere. La proposta per fortuna entusiasmò tanto il francese da fargli completamente perdere di vista l’oggetto di discussione precedente, almeno in apparenza. Non tornò più sull’argomento con Arthur, e nemmeno in privato con Roderich; era curioso ovviamente, lo ammetteva che era un lato del suo carattere forse poco lodevole, ma sapeva anche come tenersi a bada ed essere discreto. Erano pochi al momento gli elementi che aveva a disposizione eppure poteva già intuire che probabilmente all’interno della famiglia Kirkland non corressero esattamente buoni rapporti, anche se ne ignorava il motivo. L’altro elemento certo che aveva a disposizione era che Arthur avrebbe trascorso le vacanze di Natale interamente da solo e per quanto la cosa gli sembrasse assurda aveva intuito una certa serietà nelle sue parole e nel suo tono di voce. Tutto ciò cominciò a dargli da pensare, come un fischio nelle orecchie che rimane come un molesto sottofondo anche durante le attività più quotidiane. Un ronzio che lo spingeva a domandarsi non tanto il perché quanto il come. Il come comportarsi adesso, per esempio, se ci fosse qualcosa che poteva fare per cambiare i solitari programmi del suo misantropo padrone di casa. La sua riconoscenza nei confronti dell’altro prendeva anche questo tipo di forma, d’altronde: un interesse schietto e sincero, senza problematici doppi fini. Sapeva che non erano affari suoi, ma non avrebbe potuto fare a meno di elaborare qualche espediente per rendere le vacanze dell’altro meno malinconiche, nonostante non avesse alcun diritto di definirle con quell’aggettivo; magari Arthur preferiva davvero passarle per conto proprio, e da un lato gli sembrava anche una possibilità credibile, ma gli era sempre stato insegnato che, se in compagnia, qualunque cosa diventa più piacevole e gradevole, di certo meno noiosa. Forse era un pensiero ingenuo, ma era uno dei pochi punti fermi che gli aveva donato la madre e ad esso si sommava l’obbligo nei confronti dell’inglese che sentiva ancora intensamente. La sua mente cominciò a pensare, accavallando immagini e riflessioni, mentre lo sguardo scivolava di nuovo su quelle luci e quei colori al di là del vetro, inserendo le mani nelle tasche e lasciandosi sfuggire un sospiro.

 

- Arthur! Il telefono squilla! – Cercò di chiamarlo più forte che potesse dalla cucina, mentre era occupato a tagliare le verdure per la minestra che avrebbe cucinato di lì a pochi minuti. L’aveva visto salire in camera prima e, supponendo che fosse ancora lì, tentava di fargli arrivare la sua voce.
Avvertì distintamente i passi del ragazzo affrettarsi lungo le scale, provocando dei tonfi cupi che il legno contribuiva a dilatare. Il cellulare era sul tavolo della cucina alle sue spalle, dove Arthur l’aveva lasciato, e continuava a squillare e a vibrare. L’inglese entrò veloce dalla porta, rivolgendosi fulmineo al francese mentre sollevava l’apparecchio. – Grazie. – L’altro ragazzo sorrise, tornando poi al tagliere per non disturbare la conversazione. – Pronto? Oh, ciao mamma come va? – Rispose, portandosi una mano sulla nuca e inclinando il viso da un lato. – Ehi, tesoro. Noi tutto bene qui, e tu? Sei stato molto impegnato ultimamente? Ho provato a chiamarti ieri ma non mi hai risposto.. –
- Lo so, scusa, è che mi ero addormentato.. – Camminò verso l’altro, mettendosi al suo fianco e sporgendosi per osservare cosa stesse cucinando, notando le diverse verdure fresche che stava tagliando a tocchi regolari e ordinati. IL maggiore gli lanciò velocemente un’occhiata sorridente mentre continuava nel suo lavoro. – ..spero non fosse niente di importante. È tutto apposto, no? – Domandò allontanando il viso da lì. La madre strappò una risata gentile. – Sì, sì..avevo solo voglia di sentire il preferito dei miei ragazzi. – Poteva avvertire dal tono della sua voce che dall’altra parte del telefono la madre stava sfoggiando uno dei suoi sorrisi più dolci e finì per farsi contagiare, piegando a sua volta le labbra in un sorriso timido ma spontaneo. – Arthur, noi ci vedremo dopodomani ma lo sai che se vuoi puoi venire anche il ventiquattro, vero? Ci farebbe tanto piacere, soprattutto ai ragazzi. – La sua voce era quasi supplichevole.
Il britannico fece qualche passo verso la sedia del tavolo e la scostò, sedendosi poi lentamente su di essa e fermando lo sguardo sulla schiena del biondo. – Dici? – Lasciò trascorrere dei lunghi attimi di silenzio mentre poggiava il gomito del braccio col quale sorreggeva il cellulare sul legno del tavolo. – Ci posso pensare. – La risposta fu breve ma se non altro positiva. Niente poteva suonare più rincuorante alle orecchie della madre. – Davvero? Ti prego, pensaci eh. Sarebbe il miglior regalo di Natale, Arthur. – Il ragazzo intervenne di nuovo. – Basta che mi confermi che Barclay c’è solo il ventisei. –
- Barclay avrebbe tanto voluto vederti il mese scorso quando è tornato a Londra. Gli è dispiaciuto che tu non sia più venuto. – Arthur tamburellava le dita dell’altra mano sul tavolo, sovrappensiero. – Ma non mi dire.. – Il timbro della voce era inevitabilmente sarcastico e leggermente pungente. – Art.. – Iniziò la donna chiamandolo come era solita fare quando voleva essere il più chiara possibile. – Non pensare che io non sappia cosa è successo e quanto possa essere complicato per voi due adesso, però ti assicuro che Barclay ha finalmente intenzione di assumersi le sue responsabilità. Lui vuole.. – Si interruppe qualche secondo per trovare la giusta espressione. – ..recuperare, ecco. Farsi perdonare. – Durante l’ascolto di quelle parole il ragazzo sembrava più distratto di prima, quasi fosse maggiormente concentrato ad osservare i movimenti delle spalle del francese piuttosto che le parole della madre. Non poteva farci niente, quando si trattava dei suoi fratelli, di Barclay in particolare, era colto da un atteggiamento di sfiducia e indifferenza. Ciò nonostante si sforzò di rispondere nel modo più pacato e composto possibile. – Anche nel caso fosse davvero intenzionato come dici, la decisione se accettare o meno le sue scuse spetterebbe solo a me. E posso dirti fin da ora che declino qualunque sua offerta di questo genere. –
- Anche quelle di Alfred? – La domanda arrivò come un fulmine a ciel sereno, tanto che Arthur rimase turbato, sentendo la necessità di far trascorrere qualche secondo prima di rispondere. – E lui che centra? Ti ha chiamata di nuovo? Non mi interessa cosa ti ha detto, non ne voglio sapere niente.. – Il suo sguardo si muoveva agitato da un capo all’altro della stanza. – È dispiaciuto. Sa di aver sbagliato, me l’ha spiegato. Vorrebbe solo che gli permettessi di contattarti, così potrebbe chieder- – La donna fu bruscamente interrotta dal figlio fin troppo indisposto per farle concludere la frase. – A quanto pare sono circondato da persone che devono farsi perdonare. – Il tono gelido spiazzò la madre, allertandola, mentre il biondo cercò di recuperare, tendendole la mano nel modo più rispettoso possibile. – Ti prego mamma, dico sul serio, è una cosa tra me e Alfred. Se è abbastanza maturo saprà assumersi le proprie responsabilità; io sono stufo di subire le conseguenze delle sue stupidaggini e della sua infantilità. Per adesso non voglio che tu faccia niente. Per favore. – Sentì la madre sospirare dall’altro capo del telefono, chiaro segno di accondiscendenza, e provò un rinfrancante sollievo. Entrambi sapevano che sarebbe stato meglio concludere lì quella conversazione. Anche perché l’attenzione di Arthur fu colta dal ticchettio del mestolo che sbatteva contro l’acciaio della pentola. A quanto pareva la cena sarebbe stata pronta tra poco. – Mamma, scusa, ma dovrei andare..ci vediamo dopodomani okay? – Disse alzandosi dalla sedia e avvicinandosi all’altro ragazzo per osservare la minestra. – Oh, certo va bene. Ne riparleremo in un altro momento. A dopodomani allora, buonanotte tesoro. –
Nel suo silenzio quasi religioso il francese aveva comunque prestato un orecchio di riguardo alla conversazione del compagno, soffermandosi alla ricerca di particolari che potessero offrirgli un quadro più chiaro della sua situazione personale; la sua naturale curiosità gli impediva di provare un totale disinteresse, al massimo avrebbe potuto provare a fingerne, pur sempre in modesta quantità. Attese con pazienza ed educazione che l’altro attaccasse e poi si voltò senza fretta verso di lui, notando che gli si era accostato, probabilmente per osservare l’andamento della loro cena. – Ti piace la minestra di verdure, sì? – Domandò con un sorriso mentre continuava a girare col mestolo. L’inglese si infilò il cellulare in tasca e si lasciò sfuggire un sospiro poco pronunciato. – Certo, molto anche. –
- Parfait.⁽⁴⁾ – E concluse con un piccolo ammicco. Quindi poggiò la mano libera sulla spalla dell’inglese e lo scostò. – Su, su, vatti a sedere che ora la metto nei piatti. – Arthur corrugò leggermente la fronte e decise di dare ascolto al francese. Pose i gomiti sul tavolo e attese, preoccupandosi solo di posizionare due tovaglioli ai loro posti, visto che il resto delle stoviglie era già apparecchiato da prima. Non dovette attendere molto: Francis arrivò in tavola con quella grossa pentola che sprigionava un gradevolissimo profumo e in meno di un minuto riempì i loro piatti, sedendosi poi a sua volta. Non gliel’avrebbe confessato, ma da quando c’era lui ai fornelli riusciva a mangiare più regolarmente e di certo una cucina molto più sana e invitante. Non che gli piacesse la cucina francese, sia chiaro, anche perché non gli avrebbe mai permesso di cucinare solo quella in casa sua; al massimo, ecco, avrebbe potuto fargli assaggiare qualche piatto tipico, giusto di tanto in tanto. Fatto stava che non riusciva a trovare nessun pasto da lui preparato finora che non fosse stato di suo gradimento. Si portò il cucchiaio alla bocca e per evitare di scottarsi soffiò sopra la minestra per alcune volte, poi vi intinse prudentemente le labbra e ne assaporò una metà: buona.
- È ottima, davvero. – Confermò a voce strappando un sorriso. Francis, naturalmente, rimase entusiasta del complimento. – Merci beaucoup!⁽⁵⁾ Ce n’è ancora tanta, se vuoi. – In effetti gli era venuta decisamente bene: la stava gustando con il maggior giudizio critico possibile e l’esito poteva dirsi piuttosto positivo. Però l’eccellente risultato della sua ricetta non riuscì a distrarlo dal suo piccolo tarlo, come un prurito che non si riesce a sedare. Fu così che con il sorriso più conveniente che riuscisse a mettere su domandò con nonchalance, senza nessuna esitazione. – Chi è Alfred? –
Arthur sollevò repentino lo sguardo verso l’altro, assottigliando gli occhi e scrutandolo attentamente, senza mai smettere di consumare la cena. Rimase composto e senza lasciar trasparire alcuna apparente difficoltà. Scrollò le spalle mentre sul volto si dipingeva una smorfia di disappunto. – Sarebbe il mio migliore amico. –
- Oh, davvero? È dell’università? – Le sue domande continuavano spontanee e innocenti. L’inglese piegò le labbra in un piccolo sorriso beffardo e scosse il capo. – No, no, lui è americano. Vive a Washington e ha iniziato quest’anno il college. – Il francese spalancò gli occhi con sorpresa. – Wow, un’amicizia a distanza allora. – Andava meglio del previsto, gli stava dando informazioni e sembrava neanche troppo spazientito.
– Nella nostra amicizia c’è ben poco per cui dire “wow”. È un rapporto disordinato e…a senso unico. – Francis poteva riconoscere una vena di amarezza nel tono delle sue parole; forse era meglio non insistere, o forse al contrario doveva mostrarsi disponibile ad ascoltarlo? – Mi spiace, forse..avete litigato? Io non volevo impicciarmi, ma prima non ho potuto fare a meno di ascoltare.. –
- Non fa niente, in fondo sono io che sono rimasto qui a parlare. – Il più giovane utilizzò un attimo il tovagliolo e fece una pausa per bere un bicchiere d’acqua. Poi riprese in mano il cucchiaio e cominciò a giocherellare con la minestra rimasta nel piatto. – Diciamo che se non avesse deciso di piantarmi in asso per le vacanze di Natale senza neanche consultarmi sarei più bendisposto nei suoi confronti. – Da qui non ci volle molto al giovane col pizzetto per collegare tutti i vari pezzi di un puzzle che diventava sempre più chiaro e completo. – Allora è per questo che dicevi che avresti passato le vacanze da solo? – Fece una pausa, lasciando cadere lo sguardo sul tavolo. – Scusami Arthur, se avessi saputo non sarei stato così insensibile da fare certe battute. – L’inglese lo osservò in silenzio per alcuni secondi, dopodiché tornò a mangiare. – Non era mai successo e io..pensavo stupidamente che fosse una specie di tradizione, capisci? Qualcosa che uno aspetta per tutto l’anno visto che abitiamo in due continenti diversi, non so se mi spiego. – Chissà perché poi stava confidando tutti questi pensieri al francese? Gli venne quasi spontaneo in quel momento; magari aveva toccato il limite e sentiva il bisogno di raccontarlo a qualcun altro oltre a Kiku e Roderich. Poteva essere inconsciamente alla ricerca di comprensione e sostegno, anche solo qualcuno che condividesse con lui l’opinione per la quale Alfred F. Jones fosse un idiota insensibile e menefreghista. Continuò, mentre il francese lo guardava in silenzio, intenzionato a lasciargli il maggior spazio possibile: d’altronde si vedeva chiaramente che il ragazzo nutriva il bisogno di sfogarsi un po’.
- E invece no: ricevo una lettera che mi dice che ha già organizzato e persino prenotato la sua vacanza in Canada col fratello. Che considerazione, eh? Se ce l’avessi avuto davanti gliel’avrei fatto ingoiare quel pezzo di carta. – Mandò giù l’ultimo cucchiaio di minestra e andò a poggiare con un pizzico di veemenza le spalle indietro, sullo schienale della sedia. Inspirò profondamente, per riprendere il controllo dopo essersi lasciato andare. – Ma non importa, sai. Alla fine avrò più tempo per me, per la biblioteca, per gli esami.. – L’altro biondo alzò un gomito sul tavolo e andò a sorreggersi il mento con il palmo della mano. – È per questo che non gli rispondi mai? – Domandò con un tono che non aveva pretese e Arthur rispose annuendo con dei piccoli movimenti del capo. – Non ho voglia di sentirlo. Non penso mi interessi più. – Afferrò nuovamente il bicchiere e bevve ancora, poggiandolo poi con un tonfo sul tavolo. A questo punto è chiaro che l’intenzione del francese di stare a Parigi il meno possibile per le feste era ancora più rinforzata. Avrebbe cercato di lasciarlo solo il meno possibile, era il minimo che potesse fare. Sbatté qualche volta le palpebre e decise di dare una spallata a quegli argomenti demoralizzanti; sorrise come suo solito e prese con una mano il piatto dell’inglese, domandandogli con tono ascendente: – Ancora un po’? –
Il compagno osservò prima il piatto, poi la pentola ancora piena di minestra e poi di nuovo il francese, gonfiando appena una guancia nel rispondergli. – Ancora, grazie. –
L’altro giovane gradì enormemente la risposta affermativa dell’altro e non si risparmiò nel riempirgli un altro piatto che gli porse poi con attenzione. – Mi raccomando, devi mangiare. L’inverno è freddo qui e le energie per studiare sono fondamentali. Quando sono arrivato il tuo frigo era miseramente vuoto, a volte mi domando come tu sia sopravvissuto finora. – Ecco, sì, meglio punzecchiarlo pacificamente, con qualche battuta innocua, magari si sarebbe distratto da quei cupi pensieri e avrebbe raccolto tutta la fantasia possibile per trovare qualche insulto da rivolgergli. Previsioni piuttosto esatte.
– Sta’ zitto. Non c’era niente che non andava nel mio frigo. Piuttosto, adesso è pieno di cose strane e dall’odore forte. Mi auguro solo tu sia sicuro di utilizzare i tuoi soldi della spesa per alimenti commestibili. – Rispose a tratti bofonchiando. Francis non si sentì mai così rincuorato dall’asprezza delle sue parole.
– Ahahah, ma finora direi che è andata benissimo visto che hai gradito ogni mio esperimento gastronomico, no? – L’altro alzò gli occhi al cielo, sospirando. – Sì, sì.. – Preoccupandosi maggiormente di finire la sua cena piuttosto che di prestare orecchio ai vanti del francese, non sfiorandolo minimamente l’idea che il francese stesse modificando i propri piani di vacanze per rendere meno solitarie le sue.

 

 

⁽¹⁾ È una ruota panoramica aperta al pubblico nel 2000 che si innalza per 135 metri all’estremità ovest dei Jubilee Gardens, sulla riva sud del Tamigi tra il Ponte di Westminster e lo Hungerford Bridge.
⁽²⁾ “Sì”, in francese.
⁽³⁾ Dolce tradizionale che si prepara nelle vicinanze del Natale in paesi come la Francia, il Belgio e il Canada.
⁽⁴⁾ “Perfetto”, in francese.
⁽⁵⁾ “Grazie mille”, in francese.

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Capitolo 17
*** Capitolo 17 ***


- Ce la fai ad arrivare da solo alla stazione allora? –
L’inglese sostava nel piccolo ingresso con le braccia incrociate all’altezza del petto, osservando la discesa per le scale del suo coinquilino. Data la brevità del suo soggiorno nella città natale si era portato appresso solo uno zaino di medie dimensioni. – Sicuro! So muovermi perfettamente per la città ormai. – Rispose terminando gli scalini e giungendo al piano terra. – Sei davvero certo che tornerai per così poco a casa? – Domandò Arthur poggiandosi sulla toletta a fianco. – Bè.. – Cominciò con una scrollata di spalle. – Potrei domandarti lo stesso, no? – Concludendo con un sorriso per fargli comprendere che la sua intenzione non era provocatoria, affrettandosi ad aggiungere qualcos’altro per evitare di essere aggredito verbalmente.
- No, comunque, sono certo. Tornerò qui il ventisei, in tarda serata. Ma ovviamente se tu decidessi di trattenerti dai tuoi più a lungo basta che mi avverti. Io resterò più giorni a casa e tornerò quando sarà più comodo a te. Va bene? – L’altro ragazzo, che nel frattempo gli aveva lanciato un paio di occhiate indisposte, rispose. – Sono certo non accadrà. Piuttosto, muoviti o perderai il treno. – E si scostò dal mobile per avvicinarsi alla porta e salutare l’amico. – Okay, okay, ma essendo alle nove e trenta penso di potermela prendere abbastanza comoda. – Seguì l’inglese, il quale fu così gentile da aprirgli anche la porta e prodigarsi in convenevoli. – Allora, fai buon viaggio e..passa un buon Natale. – Francis annuì. – Grazie mille, e ovviamente buon Natale anche a te e alla tua famiglia. Oh, a proposito…il dolce è in frigo, mi raccomando lascialo lì il più a lungo possibile e quando lo trasporti tienilo sempre orizzontale. –
L’inglese aggrottò la fronte in un’espressione di stupore e incomprensione. – Quale dolce? – Niente avrebbe potuto appagare maggiormente l’altro biondo che quel volto dall’aria spaesata. – Ma il Buche de Noël⁽¹⁾ che ti avevo promesso, ovviamente. Fammi sapere com’è venuto e cosa ne pensano i tuoi, intesi? – Il suo interlocutore però non sembrava aver superato lo stato di confusione. – Frena un attimo, quando diavolo lo avresti fatto? – Francis rise sonoramente, tirandosi indietro i capelli con una mano. – Tu eri stanco, sei andato a dormire presto ieri sera, perciò.. – Lasciò la frase in sospeso, sicuro che il resto fosse facilmente immaginabile. – Hai usato la mia cucina di notte senza il mio permesso e mentre dormivo? – Francis piegò le labbra in un sorriso divertito. – Mhh, non definirei le nove di sera notte fonda, ma comunque è già successo altre volte che ti abbia preparato la colazione mentre tu ancora dormivi, no? Ricorda che è Natale, è vietato arrabbiarsi e litigare. – Concluse con un occhiolino mentre Arthur schiudeva le labbra per ribattere ma il francese decise prontamente di non lasciargli nessun margine di intervento.
– Oh, il treno. Così lo perderò davvero, eheh. – Un movimento veloce del braccio per sistemare meglio lo zaino sulla spalla concluse quella conversazione e il maggiore decise che fosse il caso di varcare l’uscio di casa. L’inglese da parte sua estinse ogni intenzione di controbattere, pensando che in fondo le osservazioni del francese non gli lasciavano grandi possibilità di polemica. Si limitò a un sospiro che assomigliava più a uno sbuffo e posò lo sguardo prima su di lui e poi verso il cielo, commentando senza astio nel tono.
– ..almeno non piove. – Francis gli diede per alcuni istanti le spalle, dando un’occhiata al cielo non proprio limpidissimo ma se non altro senza nuvoloni scuri e minacciosi. – Perfetto! È la mia giornata fortunata. – Restò ad osservarlo sorridente, volendo riservare a lui l’ultima parola e la responsabilità di terminare la loro chiacchierata. Arthur abbassò il viso, fissando i cespugli del vialetto e il colorito spento di alcune foglie secche cadute sull’asfalto. – Fa’ buon viaggio, Bonnefoy. – E un sorriso, spento almeno quanto il colore di quelle foglie, prese forma sul suo volto. Nulla a che vedere con la tonalità vivace e cangiante del sorriso del biondo col pizzetto; ma a questo c’era abituato. – Merci, Arthur. Stai bene, eh. – Gli suggerì attraverso un lieve cenno della testa, sperando davvero in cuor suo che non avesse alcun tipo di problema in quei tre giorni. Non che fossero affari suoi, è chiaro.
Voltò del tutto le spalle, mostrandogli la schiena e scendendo prima i pochi gradini di cemento e poi camminando lungo il vialetto, immettendosi infine sul marciapiede. Il britannico restò sulla porta con le mani in tasca, ad osservarlo, finché non lo vide giungere all’incrocio. Poi lo sguardo gli cadde ancora una volta sulla composta e ben poco curata vegetazione del suo piccolo giardino. Forse era il caso di dare una sistemata anche a quell’aspetto della casa, prima o poi. Solita pigrizia che suggeriva di rimandare le cose, evidentemente. Chiuse la porta dietro di sé, sapendo che era ora anche per lui di prepararsi e uscire. Tornare nel quartiere da cui proveniva, tornare nella sua vera casa, nella sua vera camera. Senza Alfred, quest’anno. Generalmente era il ventitre sera o il ventiquattro mattina che lo andava a prendere all’aeroporto; poi l’amico restava da lui per tutte le vacanze.
Lo sapeva che era troppo presto per poter dire che non gli mancasse e che non gliene importasse più nulla, ma stava tentando con tutte le forze di cancellarlo dai suoi pensieri, di sforzarsi per riuscirci. In questo periodo, durante le festività, sarebbe stato sicuramente ancora più difficile. Salendo le scale per tornare in camera sua gli venne anche in mente che non aveva la minima idea di come trascorrere l’ultimo dell’anno. Non che fosse qualcosa di fondamentale né di importante, però si era scordato di calcolare questo elemento. Senza contare che avrebbe avuto Francis in casa, visto che non restava a Parigi. Scrollò istintivamente la testa perché tutti quei pensieri cominciavano ad assomigliare a mosche fastidiose che gli ronzavano intorno. Pazienza, pazienza…non è un problema di adesso. Pensò entrando in camera e cominciando a prepararsi per tornare anche lui a casa.

 
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Possibile che fosse sempre l’ultimo a scendere dagli aerei? Ma che aveva, un primato da difendere forse? No, in realtà sapeva perfettamente che era tutta colpa del suo connaturale disordine fisico e mentale che trasformava in caos qualunque luogo nel quale sostasse per più di dieci minuti, qualunque sedile sopra cui si sedesse, qualunque metro quadro occupasse, da seduto quanto da in piedi. Era una cosa sconvolgente, in effetti. Già se lo immaginava, intento a raccogliere intorno a sé e sotto al sedile cartacce e avanzi di ogni genere, magari con il filo delle cuffie che ovviamente andava ad impigliarsi ovunque, riuscendo anche a trovare il modo per regalare qualche gomitata alla persona accanto…sperando non avesse preso il posto centrale, mietendo così ben due vittime invece di una sola. Ovviamente tutto questo ad atterraggio già bello che concluso. No, il suo cervello non ci arrivava proprio che magari sarebbe stato il caso di cominciare a prepararsi una decina di minuti prima, se non altro fare un po’ d’ordine tra le proprie cose. Okay, il viaggio era lungo e stancante ma perché quando era lui che arrivava in America non aveva mai di questi problemi? È Alfred, ricorda…stiamo parlando di Alfred F. Jones.. Pensò mentre attendeva col cappotto completamente allacciato e le mani in tasca, osservando viso per viso le persone dello stesso volo dell’amico che uscivano dalla porta automatica. Era quasi un quarto d’ora che stava là davanti in attesa, presupponendo che anche questa volta sarebbe stato Alfred tra gli ultimi ad uscire; e infatti eccolo lì, finalmente, a quasi un’ora dall’arrivo del suo volo, con un’espressione distesa e spensierata, guardandosi tutt’intorno alla ricerca di colui che sarebbe dovuto venire a prenderlo. Con una mano trascinava il trolley dietro di sé e con l’altra stringeva il pesante piumino color blu acciaio.
- No, dico, potevi prendertela anche con un po’ più di calma in fondo.. – L’inglese non riuscì a trattenersi dal salutarlo con un pizzico di ironia, quel che bastava a ricordargli che ancora una volta l’aveva fatto aspettare decisamente troppo. L’americano voltò velocemente il viso nella sua direzione, non facendo molto caso alle sue parole, sorridendogli come un ragazzino che riceve il miglior regalo di Natale e andandogli incontro iniziando a ridere tra sé. – Hey, guarda che io stavo dormendo fino a mezzora fa! – Rispose con tono fin troppo acuto cercando di giustificarsi come al solito e posando a fianco il trolley, gettandoci sopra il giaccone con noncuranza senza accorgersi infatti che appena qualche istante dopo esso cadde a terra, sgualcendosi. – A-ha. Peccato allora che non fossi lì per vederti fare l’atterraggio senza cintura. Sai che bello vederti cadere dal sedile? – Rispose l’altro raddoppiando l’ironia precedente e notando il piumino scivolare dalla valigia. – Al, attento alla giac- – Ma Alfred non gli concesse neanche il tempo di concludere la frase che allargò le braccia andando subito a stringerlo con forza, chiudendolo in una stretta che l’inglese conosceva bene. Il più giovane piegò il viso sull’altro, facendolo aderire alla sua spalla e andando ad unire le mani sopra la schiena dell’amico. – Ciao Arthur! – Esclamò con entusiasmo il più minore, andando poi a piegarsi sulle ginocchia quel poco che gli bastava per saldare la presa intorno a lui e raccogliere le forze, per poi ritornare in posizione eretta sollevando l’inglese con sé, senza più fargli toccare terra. – Mi sei mancato! – Aggiunse continuando a sorridere e a tenerlo saldamente a sé, mentre Arthur non era neanche riuscito a ricambiare l’abbraccio allargando le braccia. – Sì, Al..anch’io sono contento di vederti ma..ngh..forse è meglio se mi metti giù. – Rispose cominciando ad avvertire una leggera mancanza d’aria, provocando le prevedibili risate dell’americano che assecondò la sua proposta, poggiandolo a terra e sciogliendo la presa intorno a lui. Sistemò le mani sui fianchi e restò a fissare l’amico che si ricomponeva con la stessa espressione felice di prima; Arthur perse qualche secondo a stirarsi il cappotto leggermente stropicciato, assestandogli qualche colpetto con le mani, quindi tornò con lo sguardo sul ragazzo, sorridendogli di rimando e questa volta regalandogli lui un abbraccio; si avvicinò fino a stringerlo con le braccia dietro la schiena con qualche pacca amichevole, rispondendogli. – Ciao Alfred. –
Sentì le dita dell’altro infilarsi tra i suoi capelli e scomporglieli, non riuscendo a scorgere l’espressione entusiasta che si era dipinta sul volto dell’amico in quel momento ma riuscendo nettamente a distinguere i lamenti del suo stomaco che gorgogliava. – Ops.. – Commentò Alfred senza troppo imbarazzo, scostandosi dall’inglese per non costringerlo ad ascoltare quel concerto enterico. – Scusa sai, questi viaggi sono sempre lunghissimi e il cibo che offrono non è molto soddisfacente, muoio di fame! – Aggiunse ridendo tra sé. Arthur strappò un sorriso, pensando che su certi aspetti della sua personalità fosse davvero incorreggibile. – Quindi non hai mangiato niente sul volo? Dai allora, andiamo subito a casa così puoi pranzare. – E si abbassò con la schiena per raccogliere il piumino dell’altro ancora per terra. – No, no, ho mangiato tutto; però se il cibo non mi piace è come se non avessi mangiato niente. Ho fame uguale, anche più di prima. – Rispose con un leggero tono di lagna, afferrando il trolley e cominciando a muoversi al fianco dell’inglese che sembrava non avesse intenzione di commentare quella spiegazione piuttosto bizzarra. – Ci fermiamo un attimo al Mc, okay? Faccio presto. – Propose il più giovane ricordando perfettamente che nell’aeroporto c’era anche il suo fast-food preferito. – Ma ti rovinerai il pranzo con quelle schifezze! –
– Scherzi? È ovvio che poi a casa pranzo! – Rispose con stupore, quasi risentito che l’inglese volesse negargli il suo amato cibo. – Arthur, tu non hai idea di quanto io sia affamato in questo momento, non arriverei mai a pranzo senza uno spuntino e da qui a casa tua è almeno un’ora. Fammi mangiare qualcosa per fermarmi lo stomaco, tanto non ho intenzione di lasciare nulla del menù di tua madre, tranquillo. – Era concitato sia nei gesti che nel parlare, forse aveva davvero la necessità di mettere qualcosa sotto i denti. Sapeva bene che Alfred era in grado di diventare isterico se non veniva accontentato in campo alimentare e in realtà era anche convinto del fatto che se pure si fosse ingozzato adesso al fast-food avrebbe avuto la forza e l’appetito anche per spazzolarsi il pranzo a casa. – Okay, okay, mister “ragazzino denutrito che se non mangia adesso sviene”. – Rispose ironico, seguendolo in direzione della zona ristorazione.

Si sedettero ad un tavolo e mentre Alfred tornava col suo menù l’inglese si intrattenne osservando dall’immensa vetrata la pista dalla quale partivano e atterravano di continuo gli aerei. L’americano prese posto e cominciò a mangiare con voracità, lanciandogli qualche occhiata incuriosita. – Vuoi un pezzo, Art? metà panino? Qualche patatina? – Domandò parlando con la bocca piena, mentre poggiava i gomiti sul tavolo. L’inglese lo guardò con una smorfia, pensando che non fosse un Mc menù completo ciò che avrebbe esattamente definito come “spuntino”. – No, grazie. E cerca di non dare spettacolo di quello che mastichi quando parli. – Il più giovane rispose con un oscillante quanto vago cenno del capo, masticando qualche sillaba incomprensibile oltre al cibo nella bocca, per poi ingoiare rumorosamente e fare una piccola pausa.
- Allora, come stanno tutti? Zia mi ha detto che hai iniziato anche a lavorare nella biblioteca universitaria. Con lo studio hai quasi finito no? Il prossimo anno è l’ultimo, beato te! – Arthur sorrise mentre si sfilava finalmente il cappotto. – Stanno bene. Il giorno che hai parlato con mia madre avevo il mio primo turno in biblioteca. È molto piacevole e poi è poco impegnativo, riesco a gestirmi bene il tempo. – Fece una pausa sorreggendosi il mento nel palmo di una mano e inclinando leggermente la testa da un lato. – Ma non è questa la cosa più importante. Tu, piuttosto, devi raccontarmi un bel po’ di cose! Com’è il college? Ti trovi bene? come sono le lezioni e gli insegnanti? Hai fatto nuove amicizie? – Quando il britannico iniziava con le domande a raffica ciò era sempre indice di una sincera curiosità. A settembre Alfred aveva iniziato l’università a New York, scegliendo la facoltà di informatica, e sapeva bene che era un’esperienza fondamentale per lui; per quanto potessero aver parlato al telefono, via chat o anche via webcam, parlarne dal vivo era tutta un’altra cosa e attendeva da tanto di poterlo fare. L’americano apparve subito entusiasta della domanda, tanto che nel dare un altro morso al suo maestoso panino la foga finì per fargli colare una notevole quantità di salsa e anche per fargli saltare un paio di cetrioli dalla farcitura interna. – Mngh, all-wora.. – Iniziò che ancora aveva la bocca traboccante di cibo e poco ci mancò che si strozzasse. Si assestò un paio di pugni sul torace per mandar giù il boccone senza fatali conseguenze e con la mano fece un cenno di attesa all’amico per sorseggiare quasi metà della sua coca-cola tutta d’un fiato. Al termine di questa esilarante scenetta tirò un profondo sospiro per riprendere aria e iniziare a parlare. – Dicevo, sì, dunque…È tutto fantastico, Arthur! – Esclamò urlando nel ristorante come un invasato, facendo sobbalzare per un attimo l’inglese dal proprio posto. – Il college è veramente fichissimo! È enorme e poi ha un sacco di aule, di biblioteche, di spazi all’aperto..e anche i dormitori sono comodi, sto in camera con due ragazzi un sacco forti, uno è del mio stesso corso. Poi le lezioni sono interessanti! Oddio, alcune sono così difficili che non c’ho capito quasi niente, però ho già trovato qualcuno disposto ad aiutarmi! – Probabilmente un bambino che scartava sotto l’albero il proprio regalo di Natale sarebbe stato meno entusiasta di lui in questo momento. Il suo fervore lo rinfrancava dai timori e dai dubbi che aveva nutrito in tutti quei mesi fisicamente lontano da lui; sapeva che non era certo un tipo né studioso né diligente né particolarmente incline all’organizzazione del tempo e delle proprie attività, ma sapeva altrettanto bene che erano sempre state due sue grandi passioni i computer e la tecnologia. Forse doveva solo nutrire un po’ più di aspettative per lui, avere più fiducia. Fatto stava che di lì a poco si sarebbe presentata la prima grande prova: gli esami invernali.
- Mi fa molto piacere, davvero. Stai studiando nel contempo, sì? Quando hai il primo esame? Di che tipo è? Ti può servire una mano in qualcosa mentre sei qui? – Domandò il maggiore osservando come l’amico azzannava nuovamente il panino. L’americano fece spallucce, ma non tanto perché le domande fossero troppe e non sapesse da dove iniziare, quanto per la risposta che stava per dargli. – Ah, boh. Non ne ho idea, ancora non ho controllato. – Arthur diede qualche colpo di palpebra assottigliando gli occhi e assumendo uno sguardo sospettoso. – Come “boh”? Ti riferivi agli esami, giusto? Come puoi non esserti preso la briga di segnarti le date? Saranno già uscite da un pezzo! Dai Alfred, non comportarti così. Sei all’università, diamine, e lì costa pure un sacco di soldi! Sii serio per una volta. – Il suo tono aveva il sapore amaro della paternale, come era solito fare nei confronti di Alfred, e il suo atteggiamento era palesemente contrariato; gli sbuffi che aveva emesso contribuivano ad amplificare la sua seccatura e il fatto che alzasse continuamente gli occhi al cielo era indubbio indice di esasperazione. L’americano riconobbe distintamente tutti questi segnali, agitandosi e rimproverandosi per essersi lasciato scappare con tanta noncuranza quel dettaglio che adesso gli stava costando una noiosa strigliata: quando attaccava non c’era scampo, gliele avrebbe suonate per le lunghe cominciando ad elencargli per la milionesima volta tutti i suoi difetti e tutte le sue responsabilità mancate. Dio…non adesso Arthur, sono appena arrivato accidenti pensò tra sé ingoiando in fretta e furia il suo boccone sovrabbondante come al solito, rischiando di farsi finire il bolo nei polmoni per la seconda volta. – Frena, frena, frena, stai calmo! – Allungò una mano, lasciando il panino nell’altra, e afferrò il polso dell’amico di fronte scuotendolo leggermente, cercando attraverso quel goffo tentativo di interrompere la sua sfuriata da padre frustrato. – È tutto okay, in questa sessione ho pochi esami e tutti piccoli, giuro! E poi, ahm, ho già aperto i libri qualche volta, tranquillo! – Disse, concludendo con quella balla stratosferica e guardandolo nel modo più convincente e rassicurante possibile. Peccato che l’inglese lo conoscesse troppo bene per mettere da parte la lagnanza e credere alle sue parole. Espirò profondamente, fissandolo con un cipiglio minaccioso. – Devi studiare. È chiaro? Non fare il buffone e risparmia a tua zia lo strazio di spendere soldi inutilmente. – Ritirò il polso con un gesto secco, abbassando lo sguardo sul tavolo macchiato di unto qua e là. – Ti faccio studiare sodo durante queste vacanze. – Asserì con un cenno del capo, per mostrarsi più deciso e perentorio e incrociando le braccia al petto mentre stendeva la schiena sulla sedia. – E dai Arthur, è Natale! Mi organizzo da me, non ti stressare eheh. – Rispose il più giovane prendendola con ironia e sperando di sdrammatizzare quel suo sguardo torvo.
– Studio, studio, lo so. Ho solo i miei tempi, ecco. – Concluse inserendo nella bocca l’ultimo pezzo del suo doppio hamburger e notando che l’altro stava già schiudendo nuovamente le labbra, di certo per continuare a polemizzare; meglio interromperlo sul nascere. – Ah! Sai cosa? Quest’anno ho proprio voglia di neve, cavoli! L’anno scorso è stato uno schifo, neanche un fiocco a Natale. Hai sentito le previsioni, che dicono? Se nevica stai fuori con me tutto il giorno a fare pupazzi di neve? Magari sai cosa, possiamo scegliere una bella discesa e farcela con lo slittino dieci volte di fila! Dai, dai, dai, lo so che ti piace la neve. – Sparava domande a raffica per confondere le idee dell’amico e distrarlo, così da scostare l’argomento con un aggraziato colpo di fianchi. In effetti come tattica funzionò, ma solo a metà: Arthur sapeva benissimo che aveva cambiato volutamente il tema della conversazione, ma sospirando mentalmente aveva deciso di assecondarlo; d’altronde era appena arrivato ed era la vigilia di Natale, era la prima volta che si rivedevano dopo mesi e per di più stava pure mangiando: meglio rimandare la discussione a un momento più opportuno. Questo avrebbe potuto concederglielo.
Scosse appena la testa, come per scrollarsi di dosso tutti gli ulteriori attacchi verbali che gli erano venuti in mente e tentò un sorriso che finì però contratto in una tiepida smorfia. – No, non mi sono informato sulle previsioni e in slittino con te non ci torno, l’ultima volta mi hai quasi ammazzato. – Alfred scoppiò in una risata quasi sguaiata, portando entrambe le mani a tenersi gli addominali. – Ahahahahah! Oddio sì, è vero! Però dai, anche tu non è che ti fossi tenuto così bene! Ahahah! – E continuava a ridere di fronte a lui, come se non ci fosse niente di più divertente al mondo che quel ricordo in cui, in una bellissima mattinata di gennaio e con le strade fioccanti di neve fresca, i due si erano concessi un po’ di svago e avevano tentato una piccola discesa con lo slittino. Peccato che l’americano si fosse mal direzionato proprio nella fase di maggiore velocità e avesse preso una brutta inclinazione, pericolosamente vicina ad un palo della luce; onde evitare il peggio aveva quindi puntato il tallone di un piede sulla neve, inclinando il corpo nella direzione opposta sperando di correggere così la loro rischiosa rotta, finendo però col cappottare la piccola vettura dello slittino e cadendo sul candido manto nevoso. Ci impiegò parecchio tempo, una volta a terra, per accorgersi che l’amico inglese era finito sotterrato dalla sua stazza.
- Sì, sì, ridi tu. Io per poco non morivo soffocato. – Commentò Arthur gettando lo sguardo altrove mentre l’amico ancora rideva a crepapelle. – Finito lo spuntino? – Domandò voltando nuovamente il viso verso di lui, calcando con tono ironico l’ultima parola. L’altro giovane biondo tornò in una posizione più o meno retta con la schiena e andò ad asciugarsi qualche lacrima agli occhi, riprendendo a poco a poco fiato. – Oh, sì. Adesso possiamo davvero uscire. – Usò per l’ultima volta uno dei fazzoletti di carta inclusi nel menù e si alzò afferrando il vassoio e portandoselo dietro in direzione del grosso portarifiuti, mentre l’inglese si alzava per infilarsi il cappotto e controllare la valigia dell’amico. Arthur diede un’occhiata all’orologio: erano da poco passate le undici. Sarebbero arrivati giusto in tempo per il pranzo.

 
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- E dimmi, sei riuscito a mangiare come si deve? Ero così in pena per questo! Non sarai dimagrito troppo, vero tesoro? – La signora Bonnefoy si destreggiava sul piano della cucina tagliando gli ingredienti che di lì a poco avrebbe dovuto bollire mentre non per questo si distraeva dalla chiacchierata col figlio, iniziata non appena l’aveva visto e abbracciato in stazione. Da quell’istante non aveva smesso un attimo di parlare; era il suo modo di esprimere tutta la propria contentezza nel ricongiungersi al ragazzo, quel suo instancabile porgli domande e il desiderio di farsi raccontare tutto fin nei minimi dettagli. Era uno di quegli atteggiamenti che Francis amava di più di sua madre, ricordandole tanto un’adolescente alla sua prima gita scolastica; e certo non gli pesava il fatto di raccontarle ogni cosa per ore e ore, finché non sarebbe stata soddisfatta. – Eheh, no maman⁽²⁾ avrò perso al massimo un chilo. – Rispose inclinando il capo mentre faceva la sua parte in cucina, a fianco della donna. Appena rientrati in casa la madre gli aveva quasi intimato di rilassarsi e che avrebbe pensato a tutto lei, ma Francis non era certo tipo da starsene comodo ad osservare una bella donna che sgobbava per lui, tanto più se si trattava della madre. Si era quindi concesso giusto una doccia veloce, un cambio d’abiti e poi aveva raggiunto la donna ai fornelli.
- Dai, raccontami. Come ti trovi in questa nuova sistemazione? Ti tratta bene, sì? Hai spazio a sufficienza? – Il ragazzo sorrise ampiamente mentre continuava a pelare alcune patate sul lavello. – Bene, davvero. Non mi lamento di nulla e lo spazio mi basta e avanza pure, non temere. Inoltre, uno dei compiti che mi sono assegnato per sdebitarmi è quello di cucinare, quindi non essere in pena. – Si voltò un attimo per lanciarle un occhiolino. – Mi occupo sia del pranzo che della cena, e a volte anche della colazione. –
- Magnifico! Allora sarà sicuramente contento anche lui della tua ottima cucina. – Francis ruotò l’espressione verso l’alto, in segno di riflessione. – Gli piace molto, ma penso abbia qualche difficoltà ad ammetterlo. – Aggiunse, sorridendo tra sé. – È stato molto gentile a non chiederti alcun affitto. Gli farò un bel dolce, così glielo porti per ringraziarlo da parte mia. Arthur, vero? – Domandò con tono ascendente per averne conferma. – Oui,⁽³⁾ Arthur Kirkland, e sono sicuro lo gradirà moltissimo. Appena torno però vorrei cercare di sistemarmi da qualche altra parte. Non vorrei disturbarlo più di quanto non abbia già fatto; dopo Natale forse avrò più fortuna con gli appartamenti. – Mise insieme tutto quello che avevano tagliato ad arte e lo rovesciò in una grande ciotola d’acqua, passando alla fase del risciacquo. – Francis, puoi stare tranquillo. Anche se l’affitto è un po’ più caro di quello che hai pagato finora andrà bene lo stesso, te lo posso pagare, davvero. Voglio essere sicura che tu stia in una camera calda e accogliente, non in una baracca, quindi prendi in considerazione anche affitti meno economici del solito, va bien?⁽⁴⁾ Non farmi preoccupare.. – Concluse con un velo di rammarico nella voce che il biondo fu subito pronto ad allontanare. – No, no, tu non avrai nulla di cui preoccuparti, giuro. – E si allungò su di lei per lasciarle un bacio sui capelli morbidi che profumavano sempre di buono. La donna socchiuse gli occhi per godersi appieno quel gesto affettuoso che per tutti quei mesi gli era mancato così tanto. Poi alzò il viso verso il figlio, scolando con le mani le verdure crude. – Adèle, Cécile e Jaqueline arriveranno verso le cinque insieme ai ragazzi, così cucineremo tutti insieme e metteremo i regali sotto l’albero. – Come quasi ogni anno, la tradizione si ripeteva anche a casa Bonnefoy, in cui la vigilia era trascorsa con amici piuttosto che con parenti. Non che ogni anno fosse sempre possibile adunare tutti quanti, ma quando era possibile Francis e la madre amavano trascorrere quella serata speciale in compagnia delle amiche e degli amici più cari che avevano. Le tre donne che aveva citato la madre rappresentavano le sue più care e intime amiche, le stesse che l’avevano aiutata durante la gravidanza, ma soprattutto dopo di essa, contribuendo a crescere Francis come se fosse stato per loro un fratello minore o un nipote acquisito. Senza di loro probabilmente per quella minuscola famiglia non sarebbe stato possibile costruire nulla di quello che possedevano attualmente. Senza contare che Francis era un grande amico dei rispettivi compagni e mariti di quelle che era solito chiamare “zie”. Non c’erano legami di sangue, ma il tutto era compensato da splendide unioni affettive; e sua madre lo diceva sempre, “quando c’è l’amore non vi è bisogno di alcun formalismo”. E così era.
- Benissimo! Mi ha fatto tanto piacere quando mi hai detto che quest’anno sarebbero potute venire tutte e tre. Dennet come sta? Mi avevi detto che si era operato al ginocchio. – Il ragazzo si spostò verso i fornelli, accendendo quello più grande. – Oh, sì, un intervento da niente, non temere. Sta benissimo, Cécile l’ha accudito come un pargolo. Anche se dopo due settimane stava per rimandarlo a calci a lavoro. – Francis rise di gusto mentre afferrava una grossa pentola e la riempiva d’acqua, posizionandola poi sul fuoco. – Sarà una splendida vigilia, maman.⁽⁵⁾ – Aggiunse poi, poggiando il bacino sulla cucina e posizionando le mani sul granito del ripiano. – Mi sei mancata. – E confessandole questo pensiero forse leggermente infantile distese un braccio verso di lei, per invitarla ad avvicinarsi o, meglio, ad abbracciarlo. La donna rispose con uno dei suoi sorrisi migliori, di quelli che facevano girare la testa perfino al figlio il quale, per quanto sinceramente affezionato, non poteva certo nascondere a se stesso che la propria madre fosse una donna splendida, di certo la più bella che avesse mai visto. Strinse le braccia intorno al ragazzo, unendole all’altezza della zona lombare, sulla schiena, mentre sembrava farsi così piccola tra quelle spalle strette che si comprimevano nell’abbraccio. Per risposta Francis lasciò scivolare il braccio su di lei, andando ad avvolgerla e stringerla a sé, donandole un secondo bacio sui capelli. Restarono così per diversi minuti, in silenzio, semplicemente a godersi la loro vicinanza. – ..sicuro di non restare? – Bisbigliò la donna, con il viso poggiato sul petto del giovane mentre cominciava a carezzargli la schiena con movimenti circolari. Il biondo sospirò appena, socchiudendo gli occhi e adagiando il mento sui suoi capelli. – È solo, maman⁽⁶⁾…vorrei fargli un po’ di compagnia. – Sapeva che era la cosa giusta da fare, nonostante avrebbe voluto stare il più a lungo possibile con sua madre. Ma era certo che l’immagine di Arthur completamente solo in quell’appartamento, accompagnato solo dal suo costante malumore e nervosismo, non l’avrebbe abbandonato per un solo giorno delle vacanze che avrebbe trascorso a Parigi. Sapeva che non era nessuno per dare giudizi del genere, così come era consapevole di non essere una persona a lui vicina, ma sapeva altrettanto bene che quel ragazzo era decisamente troppo orgoglioso per ammettere che si sentiva fondamentalmente triste. In realtà lo aveva sempre pensato: la sua figura schiva e introversa gli ricordava uno di quegli eroi romantici dei racconti dell’ottocento; ma al di là di questi parallelismi letterari, era profondamente convinto che Arthur fosse un tipo sicuramente poco socievole ma che non amasse più di tanto -o almeno non così tanto come voleva far credere- la solitudine. Chi non avrebbe avuto bisogno di un po’ di compagnia ogni tanto? Almeno, nella sua ingenuità e spontaneità era questo che pensava.
- Va bien, mon petit chou.⁽⁷⁾ Sono molto fiera di te. – Sollevò il viso, sfiorando il mento dell’altro col proprio profilo e decidendo di chiudere l’argomento con un bacio sulla guancia del suo generoso ragazzo.

 

 

⁽¹⁾ Dolce tradizionale che si prepara nelle vicinanze del Natale in paesi come la Francia, il Belgio e il Canada.
⁽²⁾ “Mamma”, in francese.
⁽³⁾ “Sì”, in francese.
⁽⁴⁾ “Va bene”, in francese.
⁽⁵⁾ Vedi nota 2
⁽⁶⁾ Vedi nota 2
⁽⁷⁾ Espressione di affetto che si traduce come “caro” o “tesoro” e che si può riferire sia ai propri figli che al proprio compagno.

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Capitolo 18
*** Capitolo 18 ***


Andata com’era andata, avrebbe tirato le somme di quel Natale più tardi, magari in un momento di maggior riposo e lucidità mentale visto che erano stati due giorni particolarmente intensi: appena dopo la dipartita del francese la mattina della vigilia, era stato anche per lui il momento di tornare a casa; aveva rivisto suo fratello William e i gemelli Tomas e Ryan.

William gli era sembrato quasi invecchiato, tanto era che non lo vedeva, ma forse era solo l’effetto del suo nuovo taglio di barba, lasciata crescere ad arte più folta sul mento e via via più rasata ai lati del viso. Gli donava, indubbiamente, ma per tutto il tempo in cui restò ad osservarlo non poté fare a meno di domandarsi se la sua nuova ragazza avesse gradito quel nuovo look così maturo. I gemelli, al contrario, sembravano aver trascorso un periodo di ibernazione, non alterando minimamente nessuna delle loro caratteristiche fisiche; gli sembrava un intervallo così breve quello che li aveva separati, e invece l’ultima volta che li aveva visti era stato tra fine luglio e inizio agosto, per le vacanze estive.

Inutile poi raccontare di come gli occhi della madre si fossero improvvisamente illuminati quando aveva varcato la soglia di ingresso ancora con l’impermeabile sgocciolante. Non era certo un segreto nella famiglia Kirkland che fosse lui, Arthur, il preferito della signora e che avesse un debole particolare per quello che era il minore dei suoi figli. Nonostante fosse stato il padre ad aprirgli la porta e ad accoglierlo, la donna era stata la prima ad abbracciarlo e a baciarlo sulle guance, scusandosi come sempre per avergli lasciato delle tracce di rossetto sul viso. Aveva incontrato di nuovo il suo profumo di agrumi dopo tanto tempo, e l’aveva trovata ancora una volta più bella che mai, con quei capelli castano chiaro uniti sulla nuca che lasciavano ricadere solo qualche ciocca dalla forma ricurva lungo il viso sottile. Probabilmente rappresentava un suo piccolo e segreto capriccio infantile, ma amava lasciarsi viziare un po’ e ricevere il più attenzioni possibile dai suoi genitori in quelle occasioni di ricongiungimento. Era un po’ come tornare al piacere del focolare.

Persino rivedere i suoi fratelli era stata un’esperienza meno spiacevole di quel che ricordava. Non tanto per Tomas e Ryan –coi quali non aveva mai avuto grossi problemi– quanto per William, tendenzialmente più cinico e distaccato rispetto ai gemelli. In quell’occasione l’aveva invece accolto fin troppo calorosamente, standogli attaccato come un segugio e riempiendolo di domande inaspettate riguardo la sua vita, i suoi studi, la sua condizione lavorativa. Aveva persino portato un braccio intorno alla sua spalla per cingerlo ed avvicinarselo, come forse ormai si vede fare tra fratelli solo nei film. Un pranzo veloce e frugale era stata l’unica cosa che aveva permesso a William e al suo crescente interesse di placarsi. Per un attimo Arthur aveva avuto l’impressione che stesse come cercando di raccogliere informazioni per qualche scopo non ben identificato, ma per fortuna il concerto del pomeriggio lo distrasse da questo pensiero. Come aveva promesso il padre, avrebbe portato sua madre a vedere il concerto di Natale a St. Luke e ovviamente aveva ben pensato di coinvolgere anche i suoi ragazzi. Niente di meglio in quel momento avrebbe potuto rilassarlo: il suono ovattato dei corni, quello pieno dell’organo e quello leggermente nasale degli oboi, insieme a tutti gli altri strumenti e alle splendide voci del coro, contribuirono a sollevargli lo spirito, rinfrancandolo da un peso interiore che non riuscì bene a descrivere a se stesso. Riconobbe solo che nel momento in cui venne intonato il suo brano natalizio preferito, O Come All Ye Faithful, esso si sciolse come neve al sole.

La serata si concluse quindi come nella migliore delle tradizioni, con una cena degna della vigilia e l’apertura dei regali a mezzanotte. Fu solo quando incontrò il lenzuolo freddo e ormai inodore del suo letto si ricordò del lascito di inospitalità che ancora possedeva quella casa, e non riuscì ad addormentarsi prima di un paio d’ore. La giornata di Natale sarebbe trascorsa più o meno allo stesso modo della vigilia se non fosse stato per l’ennesimo tentativo –stavolta non solo dei genitori, ma addirittura anche del fratello William– di tirare nuovamente in ballo Barclay e il suo “desiderio” di ricongiungersi a lui. Era solito utilizzare in quelle occasioni uno sguardo completamente inespressivo o quasi, e limitarsi più che altro ad ascoltare: senza obiezioni le parole degli interlocutori si sarebbero sicuramente esaurite più velocemente; era stato quello, indubbiamente, il momento di maggiore noia nella sua breve permanenza a casa. Nonostante ripetesse ad ogni proposta che non era interessato, le argomentazioni sembravano rigenerarsi continuamente come dalle ceneri di una fenice; non era abituato a vederli insistere tanto, suo fratello poi…sembrava stesse diventando una cosa seria. Se non altro se l’era cavata per il rotto della cuffia quando William era dovuto partire per andare a pranzo dai genitori della propria fidanzata e con l’occasione si era interrotto l’argomento. Certo, questo non gli aveva comunque permesso di eliminare quel sapore amaro dalla bocca che perdurò anche durante il pranzo di Natale e ben oltre.

In definitiva aveva lasciato quella casa con maggiore scetticismo di quando ci era entrato, sentendosi infastidito e preso in giro per l’ennesima volta, desiderando fortemente solo il piccolo salone del suo modesto appartamento solitario e silenzioso, ma se non altro suo e suo soltanto: dopo aver dormito male anche la seconda notte, frastornato da tutti quei pensieri, e aver salutato distrattamente i genitori la mattina del ventisei, decise di tornare a casa esclusivamente a piedi; una lunga passeggiata lo avrebbe forse aiutato a distrarsi, anche se non era nemmeno certo che fosse distrarsi quello di cui avesse bisogno. Alla fine era giunto nel suo quartiere dopo l’ora di pranzo e si era messo a pensare che probabilmente alla stessa tavola dove aveva mangiato coi suoi per quegli ultimi due giorni era in quel momento seduto suo fratello maggiore Barclay, tornato a Londra dai genitori per le feste. Che strana sensazione pensare che per quelle poche ore si trovassero a poche miglia di distanza l’uno dall’altra.

Eppure ritrovare quelle pareti strette e scure, unite ai suoi post-it personali, gli allentarono così tanto la tensione che crollò dopo pochi minuti sul divano del salotto, in un sonno profondo. Si risvegliò solo nel tardo pomeriggio, profondamente infastidito dalle vibrazioni del cellulare a cui era piuttosto sensibile. Nell’allungarsi per afferrarlo, lì sul tavolino che si trovava tra la tv e il divano, fece anche cadere qualche foglio e soprammobile poggiati su di esso. I suoi occhi erano ancora semi-sbarrati e non riusciva a identificare bene il nome di colui che lo stava probabilmente chiamando in quel momento; gli ci volle così tanto per mettere a fuoco quello che c’era scritto che prima che potesse rispondere la chiamata terminò. Sbuffò sonoramente e reclinò la nuca sul bracciolo del divano, aspettando di raggiungere un livello di coscienza sufficiente da consentirgli perlomeno di rispondere al telefono. Attese qualche minuto, e nel riprendere il cellulare per visualizzarne lo schermo riuscì infine a distinguere chiaramente ben due messaggi e tre chiamate perse. Non pensava di aver dormito tanto. Controllò i messaggi, entrambi da parte di Francis.

Ecco cosa si era dimenticato, il coinquilino rospo che tornava da Parigi! Il contenuto dei messaggi era più o meno lo stesso, solo mandati a distanza di un’oretta circa, e lo avvertiva che sarebbe giunto a breve in stazione e da lì avrebbe preso i mezzi disponibili per giungere all’appartamento. Per educazione, gli chiedeva conferma che andasse tutto bene e che potesse tornare senza che lo disturbasse o che magari stesse fuori casa. Dopo essersi rivolto un paio di vigorosi insulti, l’inglese compose il numero dell’amico e lo chiamò lui stesso. Attese per qualche secondo, poi la voce squillante dell’altro gli risuonò nel timpano.

- Arthur, se riposavi mi spiace averti svegliato. – Il ragazzo ancora sdraiato sul divano rimase a bocca socchiusa, leggermente sorpreso. – Come sai ch- no che non dormivo comunque.. – Disse con voce rauca e impastata, trattenendo uno sbadiglio. – Ahahah, lo sapevo! Je suis désolé.⁽¹⁾ – La risposta del britannico, più suscettibile del solito, assomigliò ad un ringhio. – Ho detto che non dormivo! Dove sei tu? Stai arrivando? – Domandò strizzando gli occhi qualche volta e tirando su la schiena dal divano, non senza qualche difficoltà. La voce del francese continuava a profondersi serena e musicale attraverso il microfono del cellulare, nonostante la scortesia gratuita dell’interlocutore. – Sì, sono davanti alla tua porta di casa. – Arthur scosse leggermente il capo per spostarsi dagli occhi alcuni ciuffi scomposti della frangetta. Riflettendo sulle parole che aveva appena ascoltato assottigliò ancora una volta lo sguardo per poi voltarsi e sporgersi col corpo in direzione dell’ingresso. – Sei qui? Sei arrivato adesso, allora? – Si alzò a fatica, camminando a passi pesanti verso la soglia di casa, afferrandone la maniglia che tuttavia gli scivolò un paio di volte prima di riuscire ad impugnarla correttamente. Aprì con uno scatto spazientito la porta di legno e lo vide lì, in piedi sull’uscio con il cellulare in una mano, vicino all’orecchio, e con l’altra che poggiava sul trolley al suo fianco.

- A dire il vero no. Sono qui seduto sui gradini di casa da quasi un’ora. – Continuava a parlare nell’apparecchio nonostante avesse l’altro proprio di fronte a sé, che lo fissava con aria sia assonnata che smarrita. E a sua volta l’inglese continuò a parlare con il cellulare ancora all’orecchio. – E perché non hai suonato, stupido? – I suoi occhi si assottigliarono ancora di più, scuotendo la testa in segno di incapacità di comprendere il comportamento dell’altro biondo. – Non potevo disturbarti. Non sapevo se fossi in casa o se fossi occupato in altro. Quindi ho aspettato che rispondessi al cellulare. – Gli sorrise Francis, trovando la cosa divertente. – Bè, alla fine hai risposto. – E con quell’ultima osservazione allontanò il cellulare dall’orecchio e lo chiuse, interrompendo la chiamata e limitandosi a parlare con lui faccia a faccia, in attesa che anche l’amico facesse altrettanto. Il più giovane abbandonò a sua volta il cellulare in una tasca dei pantaloni, e con un sospiro che non avrebbe saputo dire che significato avesse, si scostò leggermente da un lato mentre spalancava la porta per far entrare il ragazzo e la sua valigia.

– Grazie. – Rispose in un sussurro il francese dopo essere entrato nell’ingresso e aver ceduto alla tentazione di guardarsi un po’ intorno per vedere se non fosse cambiato qualcosa in quel grazioso appartamento che aveva lasciato per appena qualche giorno.

Quel che rimaneva della serata trascorse in grande pace e tranquillità, con Arthur e Francis che ebbero le forze di concedersi solo una breve chiacchierata prima di crollare nel sonno, entrambi stanchi per motivi diversi ma comprensibili. Il francese non ebbe alcun problema a riadattarsi al suo giaciglio –che aveva sempre trovato molto comodo, per essere un divano-letto– e in meno di un’ora aveva ceduto al tiepido abbraccio di Morfeo, lasciando la possibilità al suo padrone di casa di fare altrettanto e di ritirarsi nella propria stanza. L’epilogo fu praticamente lo stesso: si addormentò quasi subito, giusto il tempo di notare prima come la sua memoria del cellulare fosse carica di almeno tre nuovi messaggi da parte di Alfred; non fu una cosa lunga, li eliminò senza aprirli come sempre, senza alcuna traccia di esitazione, per poi godersi infine il meritato riposo, abbandonando la veglia di una notte che preannunciava neve.

 

Nonostante il prolungato riposo, quella mattina, quella del ventisette, Arthur si svegliò spossato, con un leggero ma costante cerchio alla testa. Erano le nove, eppure si sentiva come se avesse dormito appena poche ore; colpa dei troppi festeggiamenti, forse. Per questo motivo preferì iniziare la giornata con una rilassante doccia calda, cercando di scacciare un po’ di stanchezza, e dopo essersi asciugato e vestito scese di sotto per il suo tè mattutino, trovando Francis seduto sul divano già tutto rifatto e in ordine, intento a guardare un programma tv. – Buongiorno, Arthur! – Esclamò il francese voltandosi un attimo verso l’altro ragazzo che entrava in cucina. – ‘giorno. – Rispose l’inglese con un cenno sbrigativo della mano, domandandosi se il suo coinquilino non fosse in realtà un androide programmato per avere sempre lo stesso buon umore e la stessa energia. In confronto, lui assomigliava ad un letto sfatto, un po’ come suggeriva l’espressione del suo viso in quel momento, caratterizzata da degli occhi ancora assonnati e dalle labbra curvate verso il basso. Francis continuò a parlargli dal salone, abbassando il volume della televisione. – Ho scoperto una pasticceria francese poco lontano da qui stamattina. Ne ho approfittato per comprare delle brioche, perché non ci fai colazione? Te ne ho lasciata una nel fornetto così puoi scaldartela. – Il ragazzo nella cucina si avvicinò al piccolo elettrodomestico, riflettendo sul fatto che non avrebbe mai pensato potesse esistere un negozio del genere a Londra.

– Pasticceria francese? – Domandò in parte ironico, in parte incuriosito, mentre apriva lo sportello del microonde, scrutando con leggero sospetto la brioche poggiata all’interno. Poi tornò su con la schiena, aggiungendo: – Grazie, allora. Adesso sento com’è. – E impostò il timer per riscaldarsi la colazione mentre Francis, dal salone, sorrise senza aggiungere altro e rialzò di poco il volume. Arthur nell’attesa si preparò anche il tè, abbondando nella quantità di foglie per ottenere una tazza più piena del solito: quella mattina ne aveva davvero bisogno. In pochi minuti poté godersi la propria colazione, in piedi, appoggiato su di un fianco al piano della cucina mentre con lo sguardo osservava i timidi raggi solari che dalle tende della portafinestra filtravano, donando all’ambiente un colorito pallido. – Allora? Com’è? – Domandò l’altro giovane, che aveva sentito Arthur tirar fuori dal fornetto il suo piccolo omaggio dalla madrepatria. L’inglese masticò con calma la sfoglia calda, trovandola molto gustosa, addirittura squisita, e pensò tra sé al modo meno entusiasta possibile di rispondere a quella domanda. – Mh, non male. Diciamo che si può fare. –

La risposta non stupì il francese, il quale anzi da molto tempo aveva imparato che l’orgoglioso inglesino non gli avrebbe facilmente regalato complimenti in campo gastronomico, nonostante fosse certo che apprezzasse le sue specialità. Arthur fece appena in tempo ad ingoiare l’ultimo pezzo di quella colazione e a bagnarsi le labbra con il tè che il campanello della porta risuonò fastidiosamente nell’appartamento. Il ragazzo nella cucina si bloccò un attimo, rimanendo nella sua posizione a pensare chi diavolo potesse essere in quel giorno e a quell’ora; forse un pacco, una raccomandata? Francis però fu più celere, e mentre si alzava dal divano si rivolse all’amico: – Tu finisci la tua colazione, vado io! –

Per forza di cose il più giovane non ebbe il tempo di replicare e pertanto decise di rimanere lì a sorseggiare il suo tè caldo, sperando non ci fosse bisogno di lui alla porta. Il francese invece, dopo essere arrivato in pochi secondi all’entrata, diede un’occhiata attraverso lo spioncino della porta, notando un ragazzo con un grosso zaino o forse una valigia, questo non gli risultò molto chiaro. Probabilmente era uno di quelli del volantinaggio, o forse un promoter. Fatto stava che non sapendo se Arthur si sarebbe limitato a cacciarlo via o ad aprirgli preferì spalancare la porta con uno dei suoi soliti sorrisi per sentire almeno chi fosse e cosa volesse. Al massimo si sarebbe beccato una sgridata.

– Sì? – Domandò in tono ascendente, dondolando inconsciamente sul posto mentre restava in attesa di una risposta. Ma quella che ricevé fu una reazione del tutto inaspettata, se non smisurata.

- O mio Dio! – Il giovane ragazzo alla porta portò in un gesto celere quanto disperato entrambe le mani sulla testa, tra i capelli, facendo cadere senza cura un marsupio che prima teneva in mano.

Il francese si ritrovò spiazzato, ritirandosi istintivamente di un passo indietro, un po’ intimorito. Quel giovane non avrà avuto più di venticinque anni, ne era certo, e dall’abbigliamento sembrava uno sportivo. Anche se, certo, gli occhiali che portava leggermente bassi sul naso e il taglio dei capelli –di un colore a metà tra il biondo grano e il biondo miele– che lasciava in evidenza una leggera vertigine culminante in un ciuffo spesso, piuttosto sporgente, suggerivano al ragazzo un’aria lontanamente nerd. Forse perché si era concentrato troppo sul suo aspetto, o forse perché era ancora sulla difensiva, il francese non riuscì a spiccicare parola in quei primi secondi; pertanto, il ragazzone continuò nella sua inspiegabile e incomprensibile tragedia greca, somigliando sempre più a un tossicomane in crisi d’astinenza. – Oddio, oddio, oddio! Ha addirittura cambiato appartamento? E ora come faccio?! Non pensavo arrivasse a tanto! Cavolo, mi odia davvero! Magari è fuggito quando gli ho detto che venivo qui a Londra oppure…o cacchio, devo chiamare Katherine..⁽²⁾ – Lasciò i capelli dalla presa e si mise a frugare febbrilmente nelle tasche in cerca di qualcosa, forse del cellulare, mentre sembrava aver completamente dimenticato che c’era una persona sulla soglia di casa che gli aveva aperto e chiesto chi fosse, cosa volesse. Sembrò ricordarsene solo quando ebbe finalmente il cellulare tra le mani, sporgendosi col viso verso il francese ancora basito e confuso, domandando: – Quando se n’è andato? Ti ha per caso accennato dove si trasferiva? Sai se ha lasciato qualcosa? Magari ho la speranza che torni a prendersela almeno.. –

- Cos-? – Francis necessitò di qualche secondo per mettere insieme le idee in mezzo a tutta quella confusione: era in dubbio se definirlo del tutto squilibrato o semplicemente molto confuso, forse per colpa di un indirizzo sbagliato…o forse perché cercava qualcun altro? In effetti quella non era casa sua, avrebbe dovuto essere chiaro su questo. – Mi perdoni, questo è il numero quindici…se è sicuro di non aver sbagliato indirizzo forse cercava..ehm, Arthur? Si riferiva a lui per caso? – Domandò timidamente ma al tempo stesso in tono gentile, mentre l’espressione dell’altro cambiò completamente al sentir pronunciare il nome del padrone di casa: alzò immediatamente gli occhi dallo schermo dell’apparente costoso telefono e rimase per qualche secondo a bocca aperta, come se stesse cercando di impastare le parole. – Sì! Sì, cioè, Arthur Kirkland! Abita ancora qui? Dov’è? Che ti ha detto? E tu chi sei poi? – Francis si guardò per un attimo indietro, cercando l’aiuto dell’amico probabilmente ancora in cucina, e non trovandolo tornò con gli occhi sullo sconosciuto alla porta. – Io sono Francis, e Arthur mi ha semplicemente offerto ospitalità per qualche tempo. – Stava continuando nella spiegazione, quando però la voce dell’inglese che si avvicinava lo distrasse, facendolo nuovamente voltare all’indietro. – Chi è? Perché sento tutto questo chiasso? – Domandò Arthur mentre usciva dalla cucina e si sporgeva verso l’ingresso per controllare cosa accadesse.

- Arthur? – Domandò tra sé il giovane alla porta, salendo il gradino che lo distanziava dall’uscio della porta, introducendosi senza troppa discrezione dentro casa. il biondo col pizzetto si fece da un lato, aprendo del tutto la porta per farlo entrare dato che aveva ormai compreso che a quanto pareva i due si conoscevano; o perlomeno, il ragazzone conosceva senz’altro Arthur. Osservò l’avanzare del misterioso personaggio, la vista del quale fece a dir poco impallidire il britannico che era riuscito a fare appena pochi passi nel salone per dirigersi all’ingresso. Sembrava completamente sgomento, come se fosse l’ultima persona sulla faccia della terra a pensare potesse apparirgli di fronte –e in effetti era così-; anche se distante, il francese poté scorgere il dilatarsi degli occhi dell’amico e la schiusa delle sue labbra, elementi che gli donarono un’espressione turbata, se non sconvolta; il suo corpo sembrava completamente rigido, avendo interrotto ogni sorta di movimento spontaneo. Si insinuò in lui il sospetto che avesse fatto male a lasciarlo entrare.

- …Alfred? – Domandò Arthur senza scostare gli occhi dal ragazzo, con un filo di voce. Francis si limitò ad osservare prima l’uno e poi l’altro, sentendosi improvvisamente di troppo e senza la minima idea di cosa dire o fare. Ma quell’imbarazzante silenzio durò poco visto che con uno slancio inaspettato il giovane biondo con gli occhiali balzò il gradino del salone e si gettò sull’inglese, gridando il suo nome prima di chinarsi su di lui e stringerlo con una forza che poche altre volte aveva visto sfoderare. Le sue braccia lo avvolsero completamente, stringendosi intorno alla schiena, all’altezza della vita, e dopo un impercettibile chinarsi verso il basso tornò su, in posizione completamente eretta, portandosi dietro Arthur, il quale pertanto si ritrovò sollevato da terra come un peso piuma dato che il robusto ragazzo sembrava non risentirne del minimo sforzo. Una cosa era certa però: l’inglese non dava minimamente l’idea di aver gradito quel gesto affrettato e forse indelicato, e Francis non poté fare a meno di notare quanto scalciasse per cercare di svincolarsi dalle sue braccia e scendere da lì.

- Mettimi giù, imbecille! Non toccarmi! Mollami, maledizione! – Si opponeva con queste e molte altre imprecazioni all’appiccicume del ragazzo che invece proprio non ne voleva sapere di staccarsi anzi, piuttosto, era impegnato a chiamarlo ancora per nome –senza ricevere alcuna risposta pacifica da parte dell’altro– e a strofinarsi contro di lui con fare infantile.

Possibile quindi fosse lui quell’Alfred di cui gli aveva parlato Arthur? Le conclusioni sembravano non poter essere altrimenti: sembravano intimi, almeno in una confidenza tale da poter permettere all’inglese di dare dell’imbecille all’altro senza il minimo problema, e Alfred sembrava essere giunto proprio per lui, per cercarlo. Facendo due più due il biondo col pizzetto pensò che non potesse essere altrimenti: evidentemente quello era il famoso Alfred F. Jones, il miglior amico di Arthur Kirkland. E da quanto il britannico sembrava arrabbiato e irritato nell’incontrarlo, di certo ogni dubbio veniva meno: era senz’altro lui, l’Alfred che gli aveva candidamente dato buca per le vacanze di Natale di quell’anno. Almeno, questo era quanto gli aveva confessato il suo coinquilino.

Forse poteva sembrare scortese in quel momento, ma alla vista dell’inglese che veniva sollevato senza sforzo da quella montagna di ragazzo Francis non resisté e si lasciò andare ad una tiepida risata, cercando di nascondersi dietro il palmo di una mano; lo trovava buffo. Intanto sarebbe stato meglio portare dentro le borse e la valigia dell’altro: si prospettava una lunga e impegnativa giornata.

 

⁽¹⁾ “Mi spiace”, in francese.

⁽²⁾ Il nome della madre di Arthur, puramente di fantasia.

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Capitolo 19
*** Capitolo 19 ***


Non ci volle molto perché Francis Bonnefoy, come rare volte gli era capitato in vita sua, cominciasse a maturare una netta percezione di inadeguatezza e impreparazione. Era una situazione piuttosto anomala, come altrettanto anomali sembravano i due soggetti interessati. Tutti e tre erano seduti sul divano del piccolo salone e ovviamente al francese era toccata la parte dello spartiacque: alla sua destra aveva l’inglese che guardava ovunque tranne che nella direzione del nuovo ospite, mentre alla sua sinistra era accovacciato in una posa trascurata Alfred. Almeno poco prima era riuscito a calmare gli animi quel tanto necessario a non farli picchiare: il suo padrone di casa sembrava essere a dir poco adirato per quella visita inaspettata e poco c’era mancato che volasse qualche ceffone, al contrario invece degli insulti sui quali certo lo sboccato britannico non si era risparmiato. Diciamo pure che con un pronto intervento era riuscito a dividerli e ad evitare il peggio; e adesso si ritrovavano lì, seduti in silenzio ad aspettare la prossima mossa di qualcuno. D’accordo che era stato lui a proporre di sedersi e parlare –nonché presentarsi– con calma, però avrebbe indubbiamente gradito un po’ di collaborazione, soprattutto da parte di Arthur visto che per lui il suo amico americano era ancora un estraneo.

- Insomma.. – Cominciò timidamente, inclinando la testa da un lato. – Sei venuto da Washington quindi? – L’americano cercò di prestare un minimo di attenzione al francese, anche se sembrava più occupato a sporgere il viso in avanti per riuscire a cogliere il profilo dell’inglese più in là. Sbuffò col naso nel momento in cui riscontrò la reticenza dell’amico a incrociare il suo sguardo e pertanto dedicò all’altro ragazzo la maggior parte della sua concentrazione. – Già, dai mitici States. Eppure guarda tu che razza di accoglienza mi devo sorbire. – Rispose lamentandosi mentre poggiava un gomito sul bracciolo e andava a stendere il mento sul palmo aperto della mano, non preoccupandosi di nascondere a chi potesse essere rivolta quella frecciatina polemica. Come si aspettava, la reazione dell’inglesino accigliato fu repentina quanto notevole: Arthur si voltò finalmente nella sua direzione e si sporse per guardarlo in faccia, cominciando ad urlargli nuovamente addosso. – Ma che diavolo vuoi, idiota?! Volevi per caso il tappeto rosso? E chi aveva voglia di vederti poi? Chi ti ha detto di autoinvitarti? –

- Parli come se non ne sapessi niente tu! Potevi rispondermi allora e convincermi a non venire! Tanto sarei venuto lo stesso, ma almeno sarei stato preparato ad una reazione del genere! – Rispose a tono Alfred, osservando l’inglese con un’aria scontenta. Nel mezzo il francese cercava di attaccare la schiena al divano il più possibile per permettere ai due di parlare liberamente, serrando le labbra per evitare di intromettersi nella loro conversazione. – E in base a cosa avrei dovuto sapere che ti saresti introdotto in casa mia a tuo piacimento, senza neanche la decenza di avvisarmi e con una faccia tosta inaudita? Dopo come ti sei comportato era proprio l’ultima trovata che potesse venirti in mente! – Arthur lo fissava severo, utilizzando un tono particolarmente duro e freddo, quasi dimenticandosi della presenza del francese nella stanza.

– Ehi, ehi, ehi, frena un po’.. – Alfred si fece più avanti sul sedile del divano, allungando una mano verso l’inglese in un gesto che esprimeva una richiesta di tregua. – Io ti ho avvisato per quasi un mese che sarei venuto a Londra, che farnetichi? – Domandò l’americano assottigliando gli occhi. – Ma dai? Davvero? e come mai io non ne sapevo niente allora? – Controbatté con ironia pungente l’altro, alzando gli occhi al cielo in un sospiro spazientito. – Ma se ti ho mandato mail e messaggi ogni santo giorno dicendoti che avevo intenzione di venire da te! Ho persino modificato il mio pacchetto vacanza per poter rimediare e restare un po’ qui. –

E in quel momento Francis realizzò che, per quanto sgradevoli fossero le voci rabbiose di quei due che si scontravano, sarebbero state comunque meglio di quel silenzio imbarazzante che proprio adesso era calato nel salone. Non ci volle molto al francese per comprendere il fulcro del malinteso, ma ovviamente lasciò che fosse il diretto interessato a risponderne. Interessato che, in quel momento, si mostrava con un’aria turbata e degli occhi a dir poco sfuggenti che guizzavano ovunque tranne che nella direzione dell’americano; per mascherare il proprio disagio l’inglese preferì corrucciare lo sguardo, ma non riuscì ad aggiungere niente a parole, limitandosi a incrociare le braccia sul ventre e a inspirare intensamente.

Spiegato il mistero insomma: se l’orgoglio e la collera del britannico gli avevano suggerito di eliminare mail e messaggi senza neanche aprirli per leggerne il contenuto, certo non poteva dare la colpa all’americano…anche se avrebbe voluto farlo con tutto se stesso. Nel tentativo di cercare una scappatoia quindi, la sua mente si mise in moto attraverso questo complesso ragionamento: sì, lui non si era curato di leggere i suoi messaggi, ma perché era arrabbiato; ed essendo la causa della sua rabbia l’atteggiamento egoista e insensibile dell’americano, in definitiva era comunque colpa di Alfred. Ecco, in questo modo tutto sarebbe filato e il suo orgoglio sarebbe rimasto intatto e lucente nell’involucro di vetro della sua interiorità. Ma anche l’americano, per quanto non eccessivamente perspicace, era riuscito a realizzare il quadro della situazione, che l’atteggiamento insicuro e assente dell’amico inglese confermava.

- Non ci credo…non hai letto neanche una di tutte le mail che ti ho mandato? E nemmeno un messaggio? – Il suo tono si trovava in un delicato equilibrio tra lo sconcerto e il rammarico. I suoi occhi seguivano in ogni più lieve movimento la figura dell’amico e traducevano quel suo fare schivo in una risposta affermativa alle sue domande. Ancora silenzio. Arthur sembrava non saper davvero cosa dire, ma era evidente che la sua rabbia e frustrazione stavano aumentando. Sempre di più si agitava su quel divano e sempre di più gli sembrava incalzante lo sguardo di Alfred che pretendeva una risposta. Non resistette oltre.

Si alzò in piedi con uno scatto e con voce forte, ma al tempo stesso colorata da un pizzico di insicurezza, si rivolse un’ultima volta all’americano: – Al diavolo! Non dovevi venire comunque, non ti voglio qui! Va’ all’inferno! – I suoi passi pesanti riecheggiarono per tutto l’appartamento, sia sul legno del parquet che sulla moquette dei gradini delle scale, finché il colpo potente della porta della sua camera che si richiudeva alle sue spalle concluse quel concerto di grida e chiasso. Nell’intermezzo Alfred ebbe solo il tempo di una breve quanto inconcludente osservazione: – Ehi, come siamo shakespeariani oggi! – Allungò il collo all’indietro cercando di raggiungerlo con la voce, ma come detto prima il colpo finale della porta fu l’unica risposta a quell’ammonimento inascoltato. Poi di nuovo silenzio. Un imbarazzante silenzio.

Francis non aveva mai visto Arthur così arrabbiato –neanche quando aveva parlato male della sua Londra o quando aveva tentato di abbracciarlo– e sapeva di rappresentare una forma di intromissione tra i due, tanto più che la questione sembrava delicata. In quei pochi secondi pensò che sarebbe stato meglio allontanarsi da casa dell’inglese per un po’, anche se dove mai sarebbe potuto andare non lo sapeva; pensò anche di provare a salire su dal lui e tentare di ragionarci, ma scartò subito l’ipotesi: in fondo era l’ultima persona che poteva arrogarsi un diritto simile, tanto più col migliore amico dello stesso in casa.

Un improvviso quanto volutamente esagerato colpo di tosse lo fece sobbalzare dal divano. – Quindi tu sei un suo compagno di corso? – L’americano domandò quasi come se non fosse successo nulla, in un palese tentativo di uscire dall’imbarazzo generale che scorreva inesorabile tra i due. Il suo sguardo era vispo, ma si vedeva che era velato di malinconia. – Ah, s-sì…voglio dire, sono venuto qui per l’Erasmus e…sì. – Strano a dirsi ma il francese trovava in quel momento particolarmente difficile l’attività di esprimersi. Era notevolmente teso. – Oh! Grande! Ma allora parli davvero bene, sai? Senti, ti spiace se…ehm, non so, magari potremmo preparare il pranzo? Ti do una mano. Mh? – E nel pronunciare quell’interiezione mostrò negli occhi tutti i suoi diciannove anni, tutta la giovinezza di un ragazzo che in quel modo impacciato cercava forse di fare amicizia e soprattutto di distrarsi dall’accaduto. Considerato questo, Francis non poté fare a meno di sorridergli onestamente e accondiscendere. – Ma certo! Anzi, avrei proprio bisogno di una mano. A te piace il purè, Alfred? – Domandò mentre si alzava dal divano e si tirava su le maniche del maglioncino color panna. – Purè? Intendi quella cosa gialla molliccia? Ma sì, sì che mi piace! – E con rinnovata carica scattò dal divano anch’egli, seguendo quindi la sua nuova conoscenza in cucina. Per lungo tempo all’interno di quell’ambiente non nominarono altro che gli ingredienti da utilizzare, parlando dei gusti dell’americano che si divertiva fin troppo a confrontarli con quelli del francese –evidentemente mettere a confronto due cucine così diverse rappresentava per il più giovane una fonte di puro spasso– passarono in seguito anche a parlare di sé, permettendo a entrambi di apprendere qualcosa in più sull’altro, e in particolare Alfred non la smetteva di fare domande. Poi di nuovo una pausa silenziosa. Per la cucina solo il rumore dell’acqua che bolliva accompagnata dall’odore di uno stufato che avanzava nella cottura. Il ragazzo con gli occhiali, a testa bassa, giocava con i lacci sfatti delle scarpe da tennis, mentre il francese ruotava con un mestolo lo stufato; inclinando la testa da un lato, fin quasi a poggiarla sulla spalla, trovò le parole giuste per chiedere: – Non vuoi salire da lui? –

Forse avrebbe peccato di indiscrezione, ma sarebbe stato sicuramente meglio che rimanere nell’amaro di un silenzio forzato che altro non faceva che distanziarli e irrigidirli. L’americano restò a testa bassa, infilandosi le mani in tasca e rispondendo in un mugugno. – Sai, sarebbe capace di tirarmi addosso qualcosa di veramente pesante se gli entrassi adesso in camera…senza contare che l’avrà sicuramente chiusa a chiave. – Rispose trasformando il mugugno in un borbottio e continuando: – Devo preservare la mia salute, capisci? – Concluse alzando lo sguardo e cercando negli occhi del francese una conferma. – Oh…bè, sì certo. Non stento a credere che possa diventare violento quando si arrabbia…immagino. – Rispose leggermente incerto sulla calibratura delle parole. Temeva di dire troppo come troppo poco. E nessuna delle due prospettive era confortante. – Fidati, tu non l’hai mai visto arrabbiato. – Commentò l’americano in tono leggermente pungente e con sguardo duro, anche se non lo rivolse direttamente all’altro ragazzo.

Evidentemente il giovane col pizzetto era caduto nel fosso del “troppo”. Magari gli era sembrato arrogante? In tal caso meglio recuperare. – Però so che siete grandi amici. Vi conoscete da una vita, no? –

– Te ne ha parlato? Che ti ha detto di me? – Domandò il più giovane palesando stupore e una leggera ansia nella voce. – Ti è molto affezionato, si vede chiaramente. – Iniziò l’altro cercando di rassicurarlo come prima cosa. – Forse è per questo che mi sembrava così abbattuto quando parlava…diciamo, dell’incidente di Natale.. – Continuò con i piedi di piombo lungo quel campo minato. Ed evidentemente fece centro sopra la prima mina visto che il volto di Alfred si incupì d’improvviso, mostrando una smorfia piuttosto elaborata. – Nhhh, è complicato. Io non è che partivo con l’intenzione di…cioè, in realtà ci ho pensato ma…e poi non è che sono restato con le mani in mano! Io l’ho chiamato tutti i giorni per almeno sei volte al giorno! Poi le mail e..i messaggi e.. – Poi venne interrotto da una cauta pacca sulla spalla da parte del francese. – Alfred, non ti preoccupare. Non è mia intenzione giudicarti, io nemmeno ti conosco. Solo che, queste parole dovresti dirle a lui, non a me. – Concluse con un sorriso fiducioso. – Sono sicuro che appena si sarà calmato proverà ad ascoltarti. – L’americano costruì un’altra smorfia ironica, ridendosela sotto i baffi.

– Ahah, sì, lui? Piuttosto mi guarda spirare. – Incrociò le braccia al petto appoggiandosi al frigo con la spalla. – Ci sono delle volte che non vuole sentire né scuse né spiegazioni. E di certo questa è una di quelle volte. – E concluse con uno sbuffo. – Magari devi solo dargli un po’ di tempo o aspettare il momento giusto. Non ti abbattere, dai. – Francis si portò alle labbra il mestolo per assaggiare lo stufato che sembrava ormai pronto, mentre Alfred non resisté ai crampi della fame e si scostò dal frigo per aprirlo e curiosare all’interno. – Il punto è che ho poco tempo. – E azzannò un avanzo di frittata che era lì poggiata sul ripiano più alto, chiudendo poi l’elettrodomestico e accasciandosi di nuovo su di esso. – Oh, mi auguro non fosse tua.. – Aggiunse mentre masticava affamato. Il francese scosse la testa ridendo. – Tranquillo, mi fa piacere se la finisci tu. Spero ti piaccia. – Prese quindi tre piatti e li poggiò sulla mensola della cucina, riempiendoli a uno a uno. – Bè, siamo pronti per il pranzo! Siediti pure, ti porto il piatto. – L’americano trangugiò gli ultimi bocconi di quell’avanzo e tutto rivitalizzato andò ad occupare un posto al tavolo della cucina. – Ne preparo uno anche per Arthur, magari quando scende lo mangia. Oppure potrei provare a portarglielo in camera, che dici? – Domandò poggiando di fronte all’altro ragazzo una ciotola fumante di stufato. – Dico che è più importante la salute. – Affermò piuttosto conciso, attendendo che anche il francese si sedesse. – Il purè sarà pronto in pochi minuti, il tempo di finire lo stufato. – E sorridendo per la battuta di prima del più giovane, si sedé lentamente. Fu indubbiamente il pasto più strano che consumò durante la sua permanenza nell’appartamento del compagno di corso: lo trovò estraniante, anche se non spiacevole. L’idea che stesse pranzando con la stessa persona che aveva fatto rinchiudere nella propria stanza l’inglese, lo rendeva simile ad un funambolo che cerca di tenersi in equilibrio sul filo della vita.

 

 

Due colpi di legno sulla porta, sordi, echeggiarono tra le pareti della stanza silenziosa, provocando nell’inglese che era sdraiato sul letto un lieve tremore. Non che stesse dormendo, semplicemente riposava un po’, forse rifletteva o forse si limitava a contare le sottili crepe del soffitto, ricominciando ogni volta da capo. Si rivoltò sul materasso alcune volte, sperando avesse sentito male e quel bussare non provenisse da dietro la sua porta. Ma la fortuna non era dalla sua e appena qualche istante dopo risuonò un altro tocco sul legno della porta, seguito stavolta da una voce, quella del francese.

- Arthur, sono Francis. Scusa se ti disturbo, solo che…avevo pensato di portarti il pranzo, sono già le quattro. Non hai un po’ di fame? – Dannato coinquilino e dannate premure. Se avesse avuto fame o qualunque altra cosa avrebbe provveduto lui stesso. Una smorfia si dipinse sul suo volto già segnato dall’irritazione, e portando il dorso di una mano sui capelli della frangetta si sforzò di far uscire la voce. – Non lo voglio, lascialo pure in frigo. – E non aggiunse altro, mettendosi su un fianco e dando le spalle alla porta. Sicuro di averlo congedato con quelle poche parole socchiuse gli occhi, pensando che se si fosse addormentato avrebbe trovato un po’ di conforto. Ma la voce di Francis tornò a farsi sentire.

- Arthur…non potrai restare lì chiuso per sempre, ti pare? Perché non provi a uscire? In fondo non è solo un tuo problema. – E poi una pausa. – Voglio dire, anch’io non so che fare in questa situazione. Capisci? –

Forse era stato un tantino pungente, ma sapeva ormai che per spronare mister Arthur Kirkland bisognava provocarlo quel poco sufficiente. Tutto si sarebbe aspettato però tranne che quello che ricevé, vale a dire un silenzio inesorabile e prolungato.

Già era pronto a lasciare il vassoio con una mano per andare a tapparsi un orecchio per il troppo frastuono che avrebbe provocato l’inglese coi suoi strepiti e le sue proteste, urlandogli contro cose tipo “ma cosa ne sai?”, “fatti gli affari tuoi” –se era fortunato, se no avrebbe udito un altro tipo di vocabolo al posto di “affari”– oppure qualche altra imprecazione o insulto colorito, di quelli che sapeva fare lui insomma. I secondi passavano, ma dall’altra parte della porta neanche una risposta, un sospiro, nulla. Pensò di aver fatto centro e di essersi meritato la sua totale indifferenza, e già stava per voltare le spalle alla stanza quando la porta si schiuse d’improvviso, in un minuscolo spiraglio. Francis, già su di un fianco pronto a fare dietrofront, rimase con lo sguardo appeso a quello scorcio luminoso che però non lasciava intravedere la figura dell’inglese. Che preferisse restare nascosto dietro la porta?

- Lo so. Non volevo coinvolgerti in questa faccenda, ma non è colpa mia se quello è piombato in casa. Mi rendo conto non sia educato lasciarti solo con uno sconosciuto, tu che sei pure l’ospite. – Arthur cominciò a parlare in un tono così tranquillo che l’altro per poco non temé si sentisse poco bene, magari saltare il pranzo gli aveva fatto davvero male. – Io di là non ci torno adesso. Se vuoi potrei farti entrare per un po’, non lo so, però non troppo insomma. – Continuava a mugugnare da dietro il legno chiaro, senza sporgere il viso sull’apertura per non incrociare il suo sguardo. Francis ascoltò con quanta più attenzione possibile, voltandosi di nuovo verso la stanza e avvicinando il viso al timido scorcio –sperando di non perderci il naso con una brusca e improvvisa chiusura della porta da parte dell’altro–

- Arthur, capisco che intendi e ti ringrazio per il pensiero, però penso che il problema sia più tuo che mio. Non sono minimamente affari miei, ma non ti nascondo che mi piacerebbe vedervi chiarire le cose. Ho chiacchierato un po’ con Alfred in queste ore, sai? E muore dalla voglia di parlarti un attimo, di spiegarsi credo. Magari appena ti passa potresti concedergli cinque minuti, che ne pensi? –

La porta si spalancò di colpo, rivelando per intero la figura dell’inglese in piedi sulla soglia. Fu una concatenazione di mosse che si risolse nel giro di pochi istanti, fulminei. Il francese sul momento sussultò leggermente, rischiando di inclinare il vassoio che teneva in mano con potenziali conseguenze alle quali non voleva nemmeno pensare, e venne tirato con forza dall’inglese che lo afferrò per un avambraccio. Lo spinse nella camera velocemente, tanto che il ragazzo col pizzetto dovette destreggiarsi in maniera quasi circense per riuscire a non far colare nemmeno una goccia di brodo dello stufato sul parquet. Quindi, prima che potesse voltarsi del tutto verso l’amico, quest’ultimo aveva già sbattuto la porta dietro sé e adesso lo vedeva impegnato a richiuderla a chiave, così come era prima. Quando gli mostrò il volto invece delle spalle, Francis notò uno sguardo spento e rammaricato, tanto che lì per lì abbassò lo sguardo sul pavimento pensando che fosse per colpa di qualche macchia che aveva accidentalmente provocato col cibo che gli aveva portato; no, nessuna colpa grazie al cielo. Tornò quindi su di lui, decidendo di sfoggiare l’arma più efficace di cui disponesse: gli sorrise ampiamente, domandandogli poi con voce piena e uniforme, in tono cordiale: – Allora? Me lo assaggi un po’ di stufato? -

E così accadde una di quelle cose a cui forse aveva assistito al massimo un paio di volte in quei tre mesi di permanenza a Londra. Il momento in cui si sarebbe aspettato un rifiuto e invece riceve un assenso; era uno strano meccanismo quello dell’inglese, ma niente era meglio dei momenti in cui riusciva ad emergere dalla prevedibilità dei suoi schemi. Non spesero molte parole: Arthur gli fece un cenno veloce con la mano, forse una smorfia –non capì esattamente– e senza realizzare bene si ritrovarono seduti per terra, con la schiena appoggiata al letto; l’inglese che teneva il vassoio sopra le gambe incrociate cominciò ad assaggiare timidamente il piatto cucinato dall’altro, il quale era seduto lì al suo fianco a parlare di cose totalmente inutili, con l’intento di distrarlo il più possibile: iniziò con il metodo di cottura utilizzato per la carne dello stufato e finì col riflettere ad alta voce sullo scarso livello d’igiene che aveva potuto osservare nell’ultima macelleria nella quale si era recato. Parlò, parlò e parlò, di tutto come di niente, osservando con disinvoltura l’altro ragazzo che sembrava seguirlo con lo sguardo mentre consumava il suo tardo pranzo. Dopo qualche boccone anzi cominciò anche ad interloquire, aggiungendo maggior confronto a quel dialogo. Senza che se ne accorgessero trascorse quasi un’ora, eppure erano ancora lì, seduti sul parquet a chiacchierare come due vecchi amici; in effetti Arthur aveva mangiato solo metà pranzo, ma Francis non poté fare a meno di sentirsi soddisfatto per essere riuscito a convincerlo a mangiare almeno quello. Lo osservava continuamente: sembrava rilassato, più disteso, forse un po’ sollevato. In fondo, quello voleva essere il suo primario obiettivo. Durante una breve pausa gli balenò nella mente il pensiero di come però avrebbero potuto risolvere la questione di quella sera, e in realtà anche dei giorni a venire –per quanto non sapesse quanto Alfred avrebbe potuto o voluto fermarsi–

- Ehi Arthur, stavo pensando…almeno a cena ti andrebbe di scendere? Dai, prova a stare insieme a noi di sotto. Anzi, sai cosa? Se vuoi mi sposto io, così tu e Alfred parlate un po’ se ne hai voglia. Non restare chiuso qui, non è salutare. – Avendo usato il tono più cortese e supplichevole possibile sperava che almeno non gli avrebbe tirato il resto dello stufato addosso. E grazie al cielo fu così. L’amico alzò lo sguardo al soffitto, poi alla stanza, accompagnando i suoi movimenti con dei leggeri sospiri che suggerivano un ragionare profondo e meditato; poi rispose mentre si portava una mano sulla nuca a carezzarsi i ciuffi più corti dei capelli.

- Basta che non mi lasci solo con lui. Non devi andartene. Anzi, devi parlare con me, capito? Non voglio scendere per vedervi chiacchierare e far comunella, intesi? – Il francese congiunse i palmi delle mani in un sonoro colpo che fece destare l’inglese, esultando: – Sicuro! Benissimo anzi! Dai, dai, forza, tirati su e vieni in cucina con me! – Francis scattò in piedi come una molla, provocando nell’altro un istintivo arretramento nel timore di essere travolto dai suoi euforici movimenti. – Che? Adesso? No, è presto, ancora no. Non mi va di stare a guard- – Ma il britannico finì inascoltato visto che il francese gli aveva già afferrato una mano per tirarlo su in piedi con un gesto repentino quanto forte e deciso. Arthur non poté opporsi, visto che l’altro era avvantaggiato dall’effetto sorpresa; barcollò per un secondo, ora in posizione eretta, e fissò a lungo l’amico biondo con sguardo un po’ spaventato, un po’ risentito. – Ma che diavolo fai? Ti sembra il modo si trattare le pers- – Niente, un’altra interruzione stroncò le polemiche dell’inglese. Francis partì ancora al contrattacco, mantenendo la presa della mano sul più giovane e avviandosi verso la porta, trascinandoselo dietro. – Ehi! – Tuonò per sgridarlo. – Ma mi ascolti quando parlo? – Continuò a lamentarsi Arthur, osservando come il francese lo conduceva prima fuori dalla stanza e poi lungo le scale. Francis quindi si arrestò bruscamente a metà scalinata circa, voltandosi a guardare l’altro di un paio di gradini più in alto, dandogli istintivamente una maggiore stretta con la mano e parlandogli a bassa voce per non essere sentito da Alfred.

- Tu stai bene, sì? – Il suo sguardo era terso, sincero, e sul viso si manteneva un sorriso così naturale che procurò un leggero imbarazzo all’amico che fece pertanto spallucce, inclinando la testa da un lato per fingere di guardare chissà dove, tranne che verso gli occhi dell’altro, rispondendo apparentemente scorbutico: – Tsk, certo che sto bene. – Quello sguardo apprensivo cominciava davvero ad irritarlo. – Quindi piantala di fissarmi con quella faccia da idiota. – Una volta tanto quelle parole rudi e sgarbate dell’inglese rincuorarono Francis, pensando che se era tornato a colpirlo con tali frecciatine probabilmente si era un po’ ripreso. Gli sorrise ancora, quasi apprezzando il suo insulto, tendendogli il braccio per spingerlo quei due gradini più in basso per azzerare la distanza tra loro. L’uno accanto all’altro, nella penombra delle scale non illuminate, protetto da un alone di segretezza che solo le ore serali regalavano a quell’appartamento, il francese lasciò che l’altro ragazzo si arrestasse alla sua stessa altezza per poi sporgersi verso di lui, andando a sfiorargli l’orecchio col proprio profilo lineare per sussurrargli: – Ti sto appiccicato allora. –

Le dita del francese si strinsero con maggiore forza intorno a quelle dell’altro, percorrendone per alcuni istanti la forma affusolata, mentre un paio dei suoi respiri finirono direttamente sulla pelle del collo del suo interlocutore il quale reagì nella più prevedibile delle aspettative: al di là della pelle che gli si accapponò per il respiro fin troppo vicino dell’altro, furono soprattutto i suoi muscoli tesi e irrigiditi ad essere avvertiti nettamente dal francese: la contrazione della mano di Arthur, come in una convulsione, forzò lo scioglimento della loro presa e il successivo distacco, mentre un leggero balzo indietro lo allontanò dalla pericolosa sagoma francese. – Non ce n’è bisogno, deviato di un maniaco. – Disse ringhiandogli contro.

– Vedi di fare la persona normale, chiaro? – E passandogli accanto, superandolo, gli lanciò un’occhiata vigile e di rimprovero, scendendo gli ultimi gradini che gli mancavano per giungere al piano, aspettando che l’altro si muovesse a venirgli dietro. Certo non si sarebbe ripresentato davanti ad Alfred da solo. Il biondo francese non perse tempo; dopo una breve risata di gusto saltò a piedi uniti i gradini mancanti e si accostò a lui, precedendolo nell’entrata in salone e voltandosi un’ultima volta nella sua direzione, con una notevole torsione del collo per poter incrociare il suo sguardo e cogliere la sua attenzione; e in quel momento si permise un rapido ammicco, un occhiolino incoraggiante, mentre dei sottili ciuffi biondi gli ricadevano sulle palpebre degli occhi. Francis si compiacque di vedere come Arthur ricambiasse lo sguardo, anche se decisamente più disincanto del proprio, e quelle occhiate durarono giusto il tempo necessario per realizzare che avrebbe fatto di tutto perché quella serata andasse bene e per il verso giusto. Per tutti e tre.

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Capitolo 20
*** Capitolo 20 ***


Si potrebbe dire che in quella serata Francis Bonnefoy avesse giocato un po’ il ruolo dell’arbitro di gara, dando prova di eccellenti capacità di monitoraggio. Sicuramente ebbe un ruolo importante anche la maturità -o presunta tale- con la quale i due protagonisti si comportarono: Arthur sembrava essersi rinchiuso in una bolla di isolamento, senza spiccicare una parola se non strettamente necessario ed evitando con grande maestria di incontrare lo sguardo dell’amico americano che, da parte sua, era diventato ugualmente silenzioso e innaturalmente timido.

L’inglese e il francese si erano occupati della cena, mentre Alfred aveva vagato tra la cucina e il salone, osservando loro e di tanto in tanto concedendosi un po’ di zapping. Il pasto si era infine svolto nel più religioso dei silenzi; l’americano aveva giusto espresso un giudizio entusiasta riguardo la ricetta del francese, ma era subito tornato sulle sue. Ma la parte peggiore veniva adesso, nel dopocena: ancora tutti e tre seduti al tavolo della cucina, coi piatti vuoti davanti a sé, si osservavano l’un l’altro brevemente, come in una serie di istantanee fotografiche, e inaspettatamente fu proprio Arthur a spezzare il silenzio.

– Aiuta Francis a lavare i piatti. – Ovviamente il tono della sentenza -perché questo era- dava l’idea di non ammettere la minima replica, mentre lo sguardo gelido che rivolgeva al più giovane dei tre contribuiva ad accrescere la sua aura di minacciosità. Alfred apparve per un attimo a disagio, non tanto per l’ordine espresso dal ragazzo, quanto invece per il fatto che si fosse rivolto proprio a lui e attraverso quel tono scuro. Ricambiò lo sguardo, anche se decisamente più incerto e timoroso rispetto a quello inflessibile dell’inglese, e così come gli capitava sempre quando si trovava nell’imbarazzo, accennò un sorriso impacciato decidendo quindi di alzarsi con un leggero cenno di assenso del capo. Così fece pure il francese il quale, nell’alzarsi, prese con sé i piatti e le posate dando poi le spalle ad Arthur e dedicandosi invece alla cucina insieme ad Alfred che, nel frattempo, gli si era affiancato incuriosito, come un bambino a cui viene assegnato un compito per la prima volta e non sa cosa deve fare. Francis gli sorrise, parlandogli in tono pacato e amichevole, chiedendogli di passargli piatti e stoviglie sporche. In quei quindici minuti successivi soltanto i loro bisbigli si alternavano allo scroscio dell’acqua calda del lavello, come se avessero paura di disturbare Arthur il quale per tutto il tempo rimase seduto al suo posto, prima intento a giocare col legno del tavolo e poi con i fogli di una rivista a caso che era poggiata lì vicino sul ripiano. Non sembrava volersene andare, ma in compenso non mostrava la minima intenzione di voler partecipare al dialogo tra i due, per quanto scarno. Piuttosto, dava l’idea di essere una specie di sorvegliante che in silenzio osserva il lavoro dei due tirapiedi; o almeno, questa era la prima immagine che al francese era venuta in mente.

– Tu non puoi dormire in salone. – Si espresse finalmente l’inglese, un po’ come un fulmine a ciel sereno. Francis, che ormai si stava asciugando le mani, si voltò verso di lui non sapendo a chi si stesse riferendo.

– Io? – Domandò insicuro. – Non tu, lui. – Aggiunse Arthur indicando con un cenno della mano il ragazzo più giovane a fianco del francese. – Ci dorme Francis in salone, quindi ti devi trovare un’altra sistemazione. – Commentò laconico e crudo. L’americano diede un’occhiata prima al biondo col pizzetto, poi di nuovo ad Arthur. – Bè…c’è sempre camera tua, no? – A quell’interrogativa retorica l’inglese rispose con una smorfia suggestiva, ritirando leggermente indietro la testa per la sorpresa. – Come? – Alfred sembrò cominciare a trovarsi in difficoltà di fronte alla riluttanza così manifesta dell’amico. – Ahm, sì bè..ci dormiamo spesso insieme quando sono qui…no? – Cercava delle conferme alle proprie supposizioni da parte dell’amico, come se stesse cercando di rievocare in lui dei ricordi che sembrava aver dimenticato, oppure volutamente ignorato. – Il tuo letto è grande e…insomma, non sarà mica la prima volta, giusto? – Gli occhi di Alfred guizzavano da Arthur a Francis, a ricercarne un supporto morale forse, temendo che l’inglese l’avrebbe azzannato alla giugulare da un momento all’altro per quella proposta che a lui sembrava la più scontata del mondo. E in effetti lo sarebbe stata in una condizione normale, peccato che Alfred avesse dimenticato quel piccolo dettaglio che voleva che Arthur fosse furioso con lui, figuriamoci quanta voglia avrebbe avuto di dividerci il letto. Da parte sua Francis non se la sentì di intervenire e preferì attendere l’intervento del padrone di casa, il quale dopo aver squadrato con occhi carichi di rimprovero e astio la figura dell’americano gli rivolse delle parole dure: – Certo che tu hai proprio la faccia come il culo. –

Le dita dell’inglese adesso accartocciavano nervosamente l’angolo di una pagina della rivista che aveva di fronte, poggiata sul tavolo, e aveva l’aria di uno che stesse per esplodere da un momento all’altro. – Ma non ti vergogni di essere così stronzo? – Domandò con tono sempre più forte, sporgendosi verso il suo interlocutore, e fu qui che Francis decise per un’entrata a gamba tesa. Si staccò dalla cucina e pose la propria figura tra le altre due, cercando di alterarne se non altro il contatto visivo, proponendo: – Ma che importa adesso? Alla sistemazione dei letti possiamo pensarci dopo, dico bene? Perché invece adesso non andiamo in salone e ci rilassiamo? – Per quanto però l’intervento del francese fosse stato puntuale e pacifico non ebbe esattamente l’effetto desiderato. Arthur difatti chiuse con un gesto brusco la rivista, facendola sbattere con forza sul tavolo, e tirò indietro la sedia con uno stridente gracchiare sulle piastrelle della cucina, alzandosi poi in piedi e ignorando completamente l’intervento del ragazzo più grande. – Sai che c’è? Puoi dormire dove ti pare, tanto per me è come se non ci fossi; meriti solo di essere ignorato. –

E pronunciate queste parole nella più fredda delle intonazioni, si scostò dal tavolo e si diresse verso l’uscita della cucina, sennonché l’americano si sporse verso di lui per afferrargli con forza un polso, nel tentativo di fermarlo. – La vuoi smettere, Art? – Lo stringeva preoccupandosi di non avvolgerlo in una stretta troppo blanda e insicura ma al tempo stesso controllandone la forza, per evitare di essere troppo aggressivo: voleva mostrarsi risoluto e determinato, ma il timore di strafare e cadere in errore lo frenava. Evidentemente tutte queste remore e riflessioni furono del tutto inutili visto che l’inglese, ben lontano dal farsi ammansire, con uno scatto brusco e scortese del braccio si liberò dalla sua presa combattuta, fulminandolo con lo sguardo. – Non mi toccare. – E senza aggiungere altro né voltandosi di nuovo indietro, lasciò la cucina a passo svelto, salendo le scale e dirigendosi presumibilmente in camera. Come solo lui sapeva fare, aveva lasciato i due compagni a digerire un senso di amarezza e imbarazzo notevoli, soprattutto per l’americano. Il francese, ancora con il canovaccio in una mano, si affrettò a confortare l’altro ragazzo, vittima dell’ennesima aggressione verbale da parte del britannico dalla lingua tagliente.

– …tutto okay? – Domandò con un atteggiamento timido, sfiorando con una mano il braccio di Alfred. Il ragazzo sbuffò sonoramente, scuotendo la testa senza rispondere nell’immediato; quindi si scostò dal ripiano della cucina e fece qualche passo verso l’uscita per poi voltarsi e dire: – Mi prendo una mezzora e poi salgo su a dirgliene quattro. –

Era molto più presto di quando era solito coricarsi. Forse poco più tardi delle dieci, non ne era certo.

La stanza era buia, illuminata debolmente solo dalla tiepida luce della luna che filtrava dalla finestra. Non si era nemmeno preoccupato di abbassare la serranda; dettagli insignificanti, alla fine. Il cuscino poi gli sembrava meno comodo del solito, o magari erano i muscoli della sua cervicale che erano troppo tesi e gli impedivano il sonno. Aveva passato gli ultimi dieci minuti a rigirarsi nel letto come un ossesso, non riuscendo ad adeguarsi mentalmente all’idea di avere Alfred in casa, tanto più alla consapevolezza che prima o poi sarebbe salito in camera e si sarebbe infilato nel suo letto. Per come si presentava in quel momento la sua condizione interiore, un subbuglio di rabbia e frustrazione, quella imminente certezza gli appariva come una violenza psicologica, uno stupro della privacy, un oltraggio al proprio ego scalfito. La parte più fiera di sé bruciava come se gli stessero versando alcool sulle ferite aperte e scalciava interiormente allo stesso modo di come un bambino fa i capricci. Provava a controllare il respiro, magari se si fosse addormentato subito avrebbe evitato di vederlo entrare in camera e di addormentarsi al suo fianco. Ma come avrebbe fatto a rilassarsi a sufficienza per poter chiudere gli occhi e lasciarsi docilmente prendere dal sonno? Sarebbe stato più facile farsi pestare e tramortire, almeno sarebbe riuscito a lasciare quel mondo di veglia inquieta. Si pentì amaramente di non aver preso almeno una camomilla prima di coricarsi, ma se ripensava a come si era congedato dalla cucina, certo non sarebbe potuto tornare indietro a prepararsi un infuso.

Andata come era andata, ormai era troppo tardi: già sentiva dei passi sulle scale. Quante possibilità ci sarebbero potute essere che fosse Francis? Gli venne istintivo trattenere il respiro in quel momento, come se un suo minimo rumore avrebbe in qualche modo potuto cambiare la direzione di quei passi che invece entrarono piuttosto diretti nella sua camera. Il parquet scricchiolò sotto quei piedi incespicanti -forse per via del buio- mentre Arthur, con le coperte tirate su fino al naso, osservava quella nuova figura scura con la coda dell’occhio appena schiuso, fingendo di dormire. Ovvio che fosse lui, aver pensato il contrario era stato solo un infantile quanto improduttivo conforto passeggero. Lo vide esitare sulla soglia e poi chiudere la porta dietro sé. Poi finalmente lo osservò avanzare verso il letto, mentre l’inglese dal canto suo evitava anche il più piccolo movimento per rendere più credibile la sua recita. Riuscì a notare che Alfred teneva con sé una borsa piuttosto capiente, simile a quelle da palestra, e dei vestiti tra le braccia, probabilmente un pigiama. Se Arthur avesse potuto prevedere tutto questo si sarebbe di certo liberato di quell’ampio e comodo letto ad una piazza e mezzo che adesso invece lo stava costringendo a dormire insieme all’americano. Già sapeva che quella sarebbe stata una delle notti più lunghe della sua vita.

Tanto per contornare il tutto con altre piacevoli circostanze, Alfred non sembrava nemmeno fare troppo caso ad eventuali movimenti bruschi e soprattutto rumorosi: vinta l’incertezza iniziale, non si era più preoccupato di controllare i propri passi ed era giunto verso il letto con un incedere pesante, riuscendo anche a colpire un angolo del letto col ginocchio e inoltre, non pago di questo e dando ancora una volta prova della sua grande pigrizia, aveva lasciato cadere a terra la borsa senza accompagnarla, provocando un tonfo che rimbombò ben distinto nella stanza. Già questo sarebbe bastato all’inglese per cacciarlo a dormire sul pianerottolo, ma in questo particolare caso l’offesa subita gli impediva anche solo di rivolgergli la parola, fosse pure per un rimprovero. Era sdraiato su di un fianco, col viso rivolto verso la porta, mentre alle sue spalle sentiva le vesti dell’americano scivolare sulla pelle, poi un rumore di cinta: il tintinnio della fibbia e l’ardiglione che sfregava sul cuoio. Si stupì di quanto attentamente stesse seguendo nella mente i suoi movimenti e di come in ogni istante fosse certo di quale parte dell’abbigliamento l’altro stesse abbandonando. Alfred fu piuttosto lento, come suo solito, ma la parte peggiore fu quando sollevò le coperte in maniera così energica da far sì che una folata di aria fredda colpisse esattamente la schiena dell’inglese, facendolo gelare per un istante. Avrebbe voluto tirargli una tallonata in un fianco, ma sarebbe venuto meno al suo impegno di fingersi addormentato.

L’americano dedicò parecchio tempo a sistemarsi su quel materasso attraverso ampi movimenti, adagiandosi senza alcuna attenzione per il suo compagno di letto e impiegandoci all’incirca due minuti per riuscire a trovare una posizione adatta e che lo facesse stare finalmente fermo e quieto. Inutile dire che l’inglese fosse ormai saturo della sua maleducazione, tanto che gli balenò l’idea che lo stesse facendo apposta; forse Alfred si era accorto che non stava realmente dormendo? In ogni caso, anche se provato, Arthur a quel punto avrebbe volentieri accettato di concentrarsi per riuscire a dormire e ad ignorare la scomoda presenza dell’altro accanto a sé. Tuttavia i suoi buoni propositi furono cancellati con una sola frase.

- Arthur, lo so che sei sveglio. – La voce dell’americano gli suonò particolarmente matura in quel momento. Poco male, non si sarebbe certo lasciato abbindolare; per quanto lo riguardava poteva anche parlare da solo tutta la notte, non aveva intenzione di confrontarsi con lui. – Devi ascoltarmi adesso, e anche per bene, okay? Quindi girati, dai. – Insisteva il più giovane, mostrandosi il più cordiale possibile mentre alzava le braccia per incrociarle dietro la nuca, sopra il cuscino, tenendosi la testa leggermente rialzata e con la sguardo rivolto al soffitto chiaro. Forse sperava che qualche secondo di attesa avrebbe facilitato il processo di convincimento dell’inglese a collaborare, ma le sue previsioni erano state fin troppo ottimiste. Arthur difatti, per quanto avesse voglia di voltarsi e urlargli in faccia che non lo sopportava e voleva essere lasciato in pace, si sforzò di mantenere l’autocontrollo, senza accennare il più esile dei movimenti né alcun assenso alla sua proposta. Cadde quindi il silenzio, interrotto ad intervalli regolari dai sospiri dell’americano, il quale non si poteva certo dire fosse un tipo paziente. Ruotò quindi il viso verso l’altro, sfiorandone con lo sguardo i capelli biondi, l’unica cosa in grado di emergere da quell’avviluppo di lenzuola e coperte nel quale l’amico si era infagottato -o forse nascosto-

Alfred lo fissò a lungo, decidendo infine di allungare un braccio verso di lui per poggiare una mano sulla sua spalla, tirandolo con forza contenuta, temendo reazioni violente o inaspettate. Ma in effetti una brusca risposta era il minimo che potesse aspettarsi da lui, tant’è che a quel contatto l’inglese -che dovesse continuare a fingere di dormire o meno- ebbe l’impulso incontrollato di scostarsi con un colpo di spalla, respingendo la mano dell’altro e raggomitolandosi con maggiore smania tra le coperte, trattenendo commenti verbali. L’americano, anche se respinto, poteva almeno ritenersi soddisfatto di aver appurato con certezza il fatto che non stesse realmente dormendo. – Ehi, non ho mica la peste sai? – Rispose aggrottando le sopracciglia e gonfiando una guancia. – Insomma, smettila di fare l’immaturo e parliamone civilmente. – A quelle parole Arthur non poté più trattenersi e si lasciò andare ad un’amara quanto cinica risata. – Ahah, sentirti dare dell’immaturo a qualcuno è davvero ironico. E comunque non ho alcuna voglia di parlare con te adesso, lasciami in pace e dormi per conto tuo. – Il tono inflessibile avrebbe probabilmente fatto desistere chiunque dal ritentare un qualunque approccio, ma se c’era una cosa di cui Alfred F. Jones godeva in quantità illimitata era la testardaggine. Voleva essere ascoltato, e si sarebbe fatto ascoltare. Abbandonò quindi la sua posa e si voltò anch’egli su di un fianco, come l’altro, mettendosi ad osservare le pieghe irregolari delle lenzuola intorno alla figura dell’amico poco distante. Poggiò un gomito sul cuscino e pose sul palmo il mento, restando ancora qualche attimo in silenzio a fissarlo e basta. Infine, deciso nel suo proposito e riacquistata una maggiore sicurezza di sé, riprese a parlare.

– Forse la verità è che non sei in grado di confrontarti seriamente con me. O magari è perché sai che metà della colpa è tua visto che neanche hai mai letto i miei messaggi, le mie mail.. – Lasciò sfumare il tono seguendo una scala discendente, a voler lasciare la frase in sospeso nell’attesa di una reazione repentina da parte dell’altro. Arthur Kirkland sarà stato anche una personalità complessa e sotto certi aspetti misteriosa, ma per lui aveva ormai ben pochi segreti.

E difatti, come previsto, il suo intervento provocatorio servì se non altro a farlo voltare verso di sé, nonostante sapesse che non sarebbe stato con buone intenzioni. L’inglese ruotò velocemente tutto il corpo verso l’americano, giungendo finalmente a guardarlo negli occhi, sollevandosi leggermente dal materasso. – Oltre a idiota e insensibile sei anche arrogante e ipocrita! Come se potessi avere timore a confrontarmi con uno come te. – Come spesso Alfred era solito fare, reagì a quella risposta scontrosa dell’amico in maniera del tutto opposta; sapeva che questo genere di effetto sorpresa solitamente o lo disorientava, ammansendolo, oppure lo irritava maggiormente. Sperando quindi che sortisse soprattutto il primo dei due effetti esclamò con un sorriso: – Oooh! Finalmente ti sei girato! – E aggiunse all’esclamazione anche un gesto di accompagno della mano. – Sei davvero imbecille. Non abbiamo nulla da dirci, non mi interessa se adesso fai i capricci. Se proprio vuoi sfogarti con qualcuno consulta un buon analista. – E detto questo fece per tornare a dargli le spalle, ma Alfred aveva previsto anche questo, e con un puntuale scatto della mano che teneva libera andò ad afferrare un braccio dell’inglese, forzandolo a rimanere nella sua posizione.

– Non sei solo tu a decidere come concludere la questione. Io ho intenzione di scusarmi come si deve e subito dopo di spiegare come sono andate le cose, perché non credere che tu sia a conoscenza di tutto. –

– Peccato che io non sia interessato a conoscere ulteriori dettagli della vicenda, mi basta quello che so. Tanto per te è sufficiente sempre e solo chiedere scusa e pensi che tutto sia bello che risolto, comportandoti allo stesso modo nelle occasioni successive, facendo sempre gli stessi errori. Sei irrecuperabile, quindi se non puoi fare a meno di comportarti così io ti rispondo che mi sono stufato, cercati un altro amico, ne hai a bizzeffe tanto, no? – E con uno strattone cercò di liberarsi dalla presa, ma senza successo. Tornò a dare uno sguardo agli occhi del più giovane e li vide leggermente assottigliati in un’espressione contrita. – Perché parli così? Lo sai benissimo che gli altri miei amici non sono certo oggetto di paragone. Lo so che ho sbagliato, ma è proprio per questo che voglio scusarmi, quindi ascoltami! – Provò a dare una possibilità all’inglese, allentando notevolmente la presa che manteneva sul suo braccio. Ma, come temeva, Arthur sfruttò quell’occasione per scostarsi e ritirare l’arto, mostrando di nuovo l’intenzione si voltarsi dall’altra parte guidato dalla più totale indifferenza. – Eh no, eh. – Si lamentò l’americano, optando per la tattica “a mali estremi, estremi rimedi”; si slanciò quindi verso di lui per bloccarlo, cingendolo per il busto e le spalle per poi costringerlo ad atterrare con la schiena sul materasso.

- Ho detto ascoltami, cavolo! – Ripeté tenendolo saldo poco sotto di sé, mentre l’altro aveva già preso a lamentarsi e ad agitarsi, in un tentativo di ribellione. – Levati, non toccarm- – Ma questa volta fu il più giovane ad interromperlo. – E basta! Sta’ zitto un attimo adesso, devo parlare io! – E con un altro movimento veloce se lo avvicinò ancora, facendo attenzione che non si agitasse troppo come un pesce fuor d’acqua. – Il punto è che io ho realizzato di aver fatto un errore già dal giorno dopo in cui ti avevo spedito la lettera! Mi è bastato rifletterci su attentamente per capire che non era certo stata la mossa migliore. – Queste due frasi a primo impatto sembrarono zittire Arthur, il quale non rispose e si limitò a fissare l’americano negli occhi, vedendolo momentaneamente in sospeso nel continuare la sua spiegazione. – La verità è che è stato tutto un attimo: mi è arrivata una mail con delle offerte di vacanze nel periodo natalizio, le ho sfogliate, e ne ho vista una interessantissima. Sono un impulsivo, lo sai e non lo nego, quindi in quel momento mi sono precipitato a controllare che le date coincidessero con le vacanze universitarie e che Matthew fosse disponibile, dato che la vacanza era in Canada e serviva un’altra persona per soddisfare le condizioni del pacchetto. E…e se vuoi che sia completamente sincero in realtà ho anche sbagliato a leggere l’offerta, perché io pensavo fosse per una settimana, non per due. Pensavo che quest’anno avrei potuto fare solo sette giorni da te invece che le solite due settimane, quindi…ho compilato tutto e ho pagato subito. Ho fatto una cazzata, okay? Ma ero così entusiasta di andare a fare snowboard che non ho pensato a nient’altro; se solo mi fossi fermato dieci minuti a riflettere avrei capito da solo che come minimo mi sarei dovuto consultare prima con te.. – La sua voce si andava affievolendo, come se avesse esaurito tutto il fiato disponibile. L’inglese tuttavia rimaneva ancora immobile lì accanto a lui, senza dire una parola; se davvero voleva spiegarsi come diceva e si era imposto in modo tanto deciso per poterlo fare, allora avrebbe voluto sentire tutto quello che aveva da dire, tutte le eventuali idiozie che avrebbe montato, o le sicure scuse che avrebbe trovato per giustificarsi. Lo osservava, attentamente, adesso senza timore di incrociare i suoi occhi anzi, in questo frangente lo avrebbero aiutato a capire se fosse davvero sincero o meno. L’americano dunque, dopo quella breve pausa, riprese:

– È pure ironico. Io ti ho spedito quella lettera perché avevo pensato che magari una mail sarebbe stata troppo rapida e diretta. Magari con una spedizione postale che ad arrivare ci avrebbe messo alcuni giorni mi sarebbe potuto venire in mente qualcos’altro che forse non avevo calcolato nella fretta, così poi ti avrei contattato subito per ridefinire i termini magari…lo so, anche io se lo ripeto adesso mi sento un idiota ad aver fatto un ragionamento tanto stupido. Sono stato frettoloso e non ho pensato. L’ho capito che sono stato egoista, quindi puoi dirmelo quanto ti pare. Però, ecco.. – E nel riprendere il filo del discorso non si era neanche accorto che aveva cominciato spontaneamente a strofinare il palmo di una mano sulla spalla di Arthur, a carezzarlo; forse per prendere coraggio nell’imbarazzante momento dell’autocritica. – ..pensavo che avrei potuto aggiustare tutto, ma tu non mi hai mai risposto, fin dall’inizio. Quindi tutti i miei progetti di recupero sono crollati, non sapevo più come fare senza un minimo riscontro da parte tua. Ho cominciato ad inviarti decine di mail, a chiamarti venti volte al giorno, non mi importava niente se mi avrebbe sbancato, e poi anche i messaggi. E in ognuno di questi ti dicevo che mi dispiaceva tanto e che non mi importava niente della vacanza, l’avrei modificata, cancellata, l’importante era che almeno mi rispondessi. Però non è successo. Capisci che non avevo più idea di cosa fare? Come riuscire a contattarti? È stato frustrante, anche se so che me lo meritavo. Ho provato anche a rivolgermi a tua madre e le ho raccontato tutto per cercare di farmi aiutare, ma non è servito a molto alla fine. L’ultima possibilità rimasta era quella di venire direttamente qui. Presentandomi a casa tua non avresti avuto la possibilità di liquidarmi come nel caso di una chiamata al cellulare. Nonostante io sapessi bene che l’effetto sorpresa era vitale, mi è sembrato comunque più corretto avvertirti prima, anche perché magari ti saresti arrabbiato di più; quindi l’ultima mail e l’ultimo messaggio che ti ho spedito annunciavano la mia partenza, ma tanto so che non li hai mai neanche letti… – Ingoiò, facendo un’altra pausa, mentre quella mano si era fermata sulla spalla dell’altro. lo sguardo di Alfred in quel momento si abbassò, concentrandosi sulle lenzuola che ancora avvolgevano l’inglese, ad osservarne le pieghe e i chiaroscuri.

– Per cercare di recuperare e venire da te ho modificato all’ultimo il mio pacchetto, dimezzandolo e cambiando il biglietto aereo. Ho perso dei soldi e ne ho spesi degli altri, ma non mi è importato. Forse è stata anche una specie di giustizia divina, ma comunque…dovevo venire, capisci? Anche se solo per pochi giorni. Dai Art, non puoi dirmi che non mi dispiace, io mi sento un coglione per quello che è successo e lo so bene che è colpa mia. Però, ti prego, non odiarmi così, dai…mi perdoni? Mi dispiace davvero, lo sai. Non volevo. Dimmi qualcosa, Art.. –

Il ragazzo dagli occhi verdi continuava a fissarlo, un po’ stupito un po’ malinconico; in realtà sapeva che era dispiaciuto, era in grado di leggerlo sia nella sua voce che nel suo sguardo. Quello che gli bruciava era il fatto che dovesse sempre rovinare tutto per colpa della sua stupidità, che dovessero arrivare a simili livelli solo perché era un impulsivo infantile. Da parte sua, Arthur certo non aveva raggiunto un livello di autocritica tale da poter individuare in quella faccenda anche un minimo di colpa propria: forse se avesse letto i messaggi e fosse stato un po’ meno orgoglioso avrebbero potuto risolvere la cosa in tempi più rapidi; ma questo nella sua mente non era al momento contemplabile. Rimase ancora a lungo in silenzio, a riflettere, a pensare a come reagire, a cosa dirgli, pensare se cedere e nel caso quanto. – Che vuoi che ti dica? – Rispose in un sospiro. – Mi viene solo da dirti che sei un coglione, per l’appunto. – Alfred sorrise con un velo di malinconia a quelle parole. – Eheh, lo so, hai ragione…mi spiace tanto. – E la sua presa intorno all’inglese divenne sempre più docile e morbida. – Lo so che non mi crederai mai, però..io non volevo lasciarti solo. Okay, nella pratica ti ci ho costretto, ma davvero…scusa, non volevo. Ci ho pensato solo dopo e..sono idiota Art, mi dispiace. Se vuoi ti pago un volo e vieni con me in Canada, vuoi? Eh? Dai, lo faccio! Non ho problemi a spendere soldi per te! – Gli sorrise nella più sincera speranza che con quella spiegazione avrebbe potuto fare un passo in avanti verso la loro riappacificazione, non desiderando altro che l’amico lo perdonasse, anche se a poco a poco; gli sarebbe andato bene lo stesso.

– Lo sai che durante le vacanze di Natale preferisco rimanere in città per studiare. Sono gli ultimi esami e non voglio distrazioni; non verrei con te in Canada neanche gratis. – Arthur approfittò dello scioglimento della stretta da parte dell’americano per scostarsi un po’ da lui, e quindi aggiunse. – E non lo so se ti perdono. Non te lo meriti. – Tornò a voltarsi su di un fianco, dando le spalle all’amico e rannicchiandosi sotto le coperte. Poi si sentì avvolgere da qualcosa, un’altra presa forse? Eppure non sembrava costrittiva stavolta, anzi; assomigliava più a un caldo abbraccio.

Protese il viso all’indietro, osservando la testa di Alfred che andava a poggiarsi sulla sua spalla, mentre quelle braccia forti e sicure lo avevano agganciato per i fianchi. – Va bene.. – Sospirò debolmente il più giovane. – Magari allora…ci pensi un po’ su, no? Ricorda che puoi fare quello che vuoi per punirmi: puoi picchiarmi, puoi togliermi il cibo, sequestrarmi la playstation..tutto quello che vuoi. Se ti può essere d’aiuto mi va benissimo. Solo…mi perdonerai alla fine, vero? Non subito eh, ma tra un po’..? – Quel suo atteggiamento era uguale a quello di un bambino che non desidera altro che riappacificarsi con la madre arrabbiata a causa di un suo capriccio. Aveva un che di tenero e infantile, ma non abbastanza da far sciogliere Arthur come neve al sole. Avrebbe tirato la corda quanto l’avrebbe ritenuto necessario; per il resto avrebbe dato tempo al tempo.

Non fece gesti bruschi, ne rifiutò l’abbraccio dell’amico cacciandolo o mostrando ritrosia. Si limitò a rispondergli con voce pacata. – Vedremo Alfred, vedremo.. – E lasciò ricadere il viso sul cuscino, inspirando profondamente e socchiudendo gli occhi, lasciandosi poi avvolgere dal silenzio per alcuni lunghi istanti.

– Adesso fammi dormire però. – Aggiunse con lo stesso tono paziente di prima, sentendo le membra del proprio corpo farsi sempre più pesanti e affaticate. L’americano lo sciolse lentamente dall’abbraccio, liberandolo infine del tutto e, dandogli una piccola pacca sulla schiena, gli rispose. – Okay, Art. –

Si allontanò da lui il necessario per potersi comodamente sdraiare e posizionare nella sua metà del letto, sospirando e mettendosi a fissare il soffitto per un momento. – Buonanotte. – Disse andando poi a voltarsi anch’egli da un lato e dando a sua volta le spalle all’amico, per poi rintanare il viso nel cuscino e forzarsi a chiudere gli occhi, mentre Arthur rispose solo più tardi con un flebile tono che sfiorava la rassegnazione.

– Sì. Buonanotte. – E in quel momento niente gli sembrò più confortante del silenzio che cadde tra di loro e che andò ad avvolgere tutta la stanza e poi la casa, le strade, l’intero quartiere; tutto ciò che li circondava sembrava come avvolto in una dimensione estranea che li rendeva gli unici protagonisti di quella notte; due respiri a poco a poco sempre più regolari che avevano esaurito il momento delle parole. Ognuno coi propri pensieri e rammarichi, ognuno col le proprie colpe -ammesse o meno- e ognuno con le proprie aspettative. Entrambi entravano adesso nel regno del sonno, senza la minima idea di come il giorno seguente avrebbero guardato in faccia l’altro, senza sapere se sarebbero riusciti o meno a fare un passo avanti verso la riconciliazione, né sapendo se avessero davvero perso qualcosa di importante lungo la strada o spezzato un legame di fiducia ormai irrecuperabile. Per il momento, la regolarità dei loro respiri che si armonizzavano nella notte era una prospettiva più che soddisfacente.

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Capitolo 21
*** Capitolo 21 ***


“ È stata la seconda volta in cui mi hai scartato come se fossi un estraneo di cui non ti importa nulla. Fallo una terza e sarà davvero l’ultima. Te lo giuro.”

 

Il crepitare crescente delle uova sul fuoco distolse improvvisamente Alfred dai suoi pensieri, o meglio, dal ricordo di quelle parole taglienti ed essenziali. Non poteva certo dire fossero state il migliore dei buongiorno da parte dell’inglese, ma almeno lasciavano intuire un’esile volontà di superare l’accaduto. Almeno, questo si augurava.

Fece saltare le uova nella padella, non riuscendo tuttavia ad impedire che si spezzassero e scomponessero, finendo a fare uova strapazzate piuttosto che una frittata come si era proposto. Spense il fuoco, voltandosi poi verso il tavolo della cucina e versando le uova nel suo piatto. – Ehi, ho finito anch’io qui! – Disse a gran voce, per richiamare gli altri due ragazzi che si trovavano poco distanti in salone. L’americano aveva deciso di cucinare da solo la colazione, anche per sperare di ricambiare il favore della sera prima da parte del francese, ma l’inglese viziato aveva rifiutato di farsi preparare qualcosa da lui rispondendo laconicamente che l’unico cibo che ingeriva era quello cucinato da sua madre, da se stesso e, per quel breve periodo di convivenza, dal francese barbetta -così l’aveva chiamato-

Non aveva dunque insistito, finendo col cucinare solo la colazione per sé mentre Francis già aveva pronto il pasto per sé e per il padrone di casa. Nell’attesa quindi che l’americano finisse di prepararsi da mangiare -sempre se fosse stato davvero in grado- Francis ne aveva approfittato per andare a rifare il letto in salone e Arthur si era proposto di aiutarlo. No, non era stato colto da altruismo spassionato, voleva semplicemente evitare di stare ancora da solo con Alfred. Avrebbe avuto bisogno di riabituarsi alla sua presenza a poco a poco, e la notte appena trascorsa era già stato un tempo più che sufficiente. Interessato alla vicenda, ovviamente, il maggiore aveva approfittato di quella breve vicinanza con l’inglese per domandargli se fosse tutto apposto e se avesse almeno dormito bene, usando tutta la discrezione possibile. Non poté lamentarsi del risultato visto che ricevé una risposta, addirittura pacata; fu meno entusiasta di sapere che no, Arthur non aveva dormito bene -almeno così gli aveva confessato-

In ogni caso non ci fu il tempo per un dialogo più articolato in quanto non appena ebbero richiuso il divano-letto l’americano urlò dalla cucina che era pronta anche la sua colazione e quindi i due tornarono in cucina e si sedettero. Francis fu sollevato dal fatto che non avvertì quella stessa pungente tensione della sera prima, vedendo più disteso sia Alfred che lo stesso Arthur, il quale anzi interloquiva di tanto in tanto con l’amico anche se senza scambiare battute particolarmente impegnative. Probabilmente quella notte avevano avuto occasione per chiarirsi, pensò. – Quindi quand’è che devi ripartire? – Si rivolse ad un certo punto Arthur al più giovane dei tre, mentre col cucchiaio nella scodella mescolava ancora un po’ lo yogurt col muesli preparato in casa dal francese. – Ho il volo il trentuno mattina. – Rispose mentre con entrambe le mani afferrò e strizzò la confezione di ketchup che aveva prima tirato fuori dal frigo, facendone sgorgare una quantità oltre l’abbondante. Si portò alla bocca la prima forchettata e aggiunse: – Spero di non disturbare troppo per qualche giorno. – L’amico non rispose, preferendo consumare la propria colazione in silenzio mentre Francis, per non lasciare l’americano in imbarazzo senza una risposta, si permise di commentare: – Dai, sarà una buona occasione per assaggiare un po’ di cucina francese. – E gli fece un occhiolino portandosi alle labbra la propria tazza fumante di caffè. Alfred rispose entusiasta. – Sì! Ti prego, mi piacerebbe tantissimo! Assaggerei cose che non ho mai mangiato in vita mia! Sono sicuro saranno ottime, anche se.. – E ruotò lo sguardo verso l’inglese. – ..a dire il vero non immaginavo Arthur potesse gradire cucina francese, sai? – L’interpellato sospirò profondamente, finendo di masticare con calma prima di rispondere. – E quando esattamente avrei detto che mi piace? – Alfred fece inavvertitamente un boccone troppo grande e ci impiegò un po’ per mandarlo giù. – Bé, la mangi no? Quindi non ti fa schifo, immagino. –

– Ma nemmeno ne sono un grande fan. Semplicemente Francis cucina bene e quello che prepara è abbastanza buono. – Rispose stringato senza volersi sbilanciare verso i complimenti. Ma il francese apprezzò molto anche quei modesti commenti. – Ma grazie, Arthur. – Disse con sincerità, sorridendogli. Alfred intanto si guardava intorno, cercando del latte che però non trovò sul tavolo. Quindi si alzò pigramente e si avvicinò al frigo mentre le voci degli altri due gli giungevano distrattamente alle orecchie. Aprì l’elettrodomestico e prese la piccola confezione di latte sul secondo ripiano, chiudendo poi lo sportello con una spallata, non potendo fare a meno di notare il foglio della poesia lì appeso. Lo stesso da tanto tempo. – Ehi Art.. – Disse sfiorando con due dita il bordo della carta e ritornando a sedersi al tavolo.

– ..quando toglierai quella poesia deprimente dal frigo? È da quando sono venuto qui la prima volta che la vedo lì appesa, perché non la cambi con un’altra più allegra? – Propose mentre si concentrava a versarsi un po’ di latte senza far danni. – E perché tu non ti fai gli affari tuoi? Se non ti piace non la leggere, io non ho alcun motivo per levarla. È perfetta lì dov’è. – Francis voltò un attimo il viso verso il frigo. Per lui che ormai trascorreva metà del suo tempo in cucina era diventata una presenza costante, quasi una compagna in quel piccolo ambiente silenzioso che ben si sposava con la malinconia di quelle parole in versi. Tuttavia comprendeva quello che cercasse di dire l’americano, anche se lui avrebbe usato un altro tipo di formula per esprimersi. – Ma potresti cambiarla no? Di tanto in tanto, dico.. – Insisteva Alfred mentre infilzava altri pezzi di uova mischiandole col ketchup. – Il cambiamento necessita di una motivazione, Alfred. Quando accadrà qualcosa che mi farà pensare di sostituirla, lo farò. Per il momento risparmiati i commenti. –

E senza aggiungere altro continuò a mangiare, così come pure gli altri due. Nessuno tirò nuovamente fuori l’argomento, nemmeno Alfred, nonostante esso continuò a serpeggiare silenzioso e a lungo all’interno dei loro rispettivi pensieri.

 

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Il fumo bruno della sigaretta veniva velocemente trasportato dal leggero vento primaverile che soffiava alla luce di un tramonto che bruciava gli occhi. Poteva già gustare nell’aria il sapore dolce dell’estate. Tra poco anche la scuola sarebbe finita e avrebbe finalmente conseguito il Bac.⁽¹⁾

Studiare non era mai stato un problema, ma come tutte le persone scostanti e trasportate dalla corrente degli umori e dei desideri, il giovane Francis era uno di quei tipi che difficilmente manteneva i propri interessi inalterati. Per di più ci si era messo anche questo nuovo sopraggiunto spirito libero che, insinuatosi in lui, lo premeva sempre di più per una partenza: non aveva idee precise, le uniche condizioni indispensabili erano che fosse presto e in una direzione assolutamente casuale. Alcuni avevano dato la colpa agli ormoni, altri al suo carattere, altri ancora al fatto che fosse tutta una scusa per allontanarsi dai diversi impegni sentimentali che era andato accumulando con troppa pericolosa ingenuità e incuranza. Era famelico, questo sì, ma in fondo mai veramente avido. Tanto prendeva quanto donava, nessuno si era mai lamentato delle sue scarse attenzioni fino a quel momento. Un incauto insomma, ma se non altro onesto.

I suoi occhi erano fissi su quel rosso fiammingo del sole; assomigliava al colore vivido delle arance sbucciate. Inspirò ancora un tiro dalla sigaretta quasi avvizzita, non facendo caso alle danze che la cenere lucida, scivolando dalla sigaretta, eseguiva durante la caduta. Pensava invece che sarebbe dovuto salire più spesso lì sopra, sul terrazzo del suo liceo, per osservare quell’incantevole spettacolo di fine primavera. Poggiava i gomiti contro la sbarra del parapetto, lasciando che i capelli mossi dal vento gli infastidissero il profilo, la giacca penzoloni sulla ringhiera e i primi due bottoni della camicia slacciati. Il suo maestro di pianoforte della scuola lo rimproverava sempre per questo: diceva che avrebbe dovuto vestirsi in maniera più decorosa per venire a lezione, eppure si giustificava sempre dicendo che la metà del genio di Mozart proveniva dal suo essere spesso del tutto trasandato. Nulla di scientifico né fondato nelle sue parole, ovviamente, una semplice provocazione a proprio discapito; eppure il maestro, strizzando gli occhi e cominciando ad allisciarsi nervosamente i baffi, scuoteva la testa dando qualche rancido colpo di tosse, abbandonando ogni proposito di dissenso e cominciando con la lezione. Forse era così paziente con il suo allievo perché era uno dei più dotati, o forse perché il giovane francese sapeva quali carte giuste utilizzare per farsi perdonare. E già sapeva che avrebbe dovuto trovare un’altra battuta altrettanto affascinante per poter deviare il discorso dal perché non aveva svolto gli esercizi come avrebbe dovuto. Li aveva sfogliati, quello sì, anche eseguiti due o tre volte, ma in quella settimana era stato fortemente distratto da un proprio personale arrangiamento per pianoforte del Lacrimosa, dal Requiem di Preisner.⁽²⁾ Gli era giunta per caso alle orecchie e se ne era innamorato -non di rado era sedotto da più cose o persone contemporaneamente- la madre d’altronde lo incitava, essendone rimasta incantata allo stesso modo quando il figlio l’aveva condiviso con lei. In fondo, di fronte a una tale bellezza, esercizi per le scale o per i cambi di mano sembravano quasi deturpanti; e di bellezza Francis Bonnefoy se ne intendeva, nel bene e nel male. Non avrebbe mai permesso a niente di suo gradimento di svanire senza prima essere apprezzato come lui avrebbe desiderato e pertanto aveva elegantemente scansato gli studi formalistici per dedicarsi all’ultima delle sue attrazioni. Alla fine anche il suo maestro aveva dovuto arrendersi all’idea di avere di fronte l’allievo probabilmente meno incline a seguire i suoi assegni con diligenza.

Si posizionò con le mani fluttuanti nell’aria e cominciò con le mani a ripetere la sequenza di tasti del suo arrangiamento, attraverso un immaginario pianoforte della sua mente. Socchiuse gli occhi tenendo la sigaretta con le sole labbra, lasciando che quel vento tiepido e gentile continuasse a insinuarsi tra i capelli e nelle aperture della camicia. Ripercorse con i movimenti delle dita quasi tutta la sua discreta creazione che ricordava a memoria, quando fu interrotto da una voce femminile alle sue spalle.

– Sei ancora qui, pianista? – Francis schiuse gli occhi, riconoscendo la voce familiare. Sorrise e rispose senza voltarsi, tornando a poggiare i gomiti sulla ringhiera. – Sermon et melon, chaque chose à son moment.⁽³⁾ –

I passi cadenzati della ragazza alle sue spalle procedevano regolari, dandogli la certezza di un avvicinamento sempre maggiore. Afferrò la sigaretta con un paio di dita e la sfilò dalle labbra, lasciando che il fumo uscisse dai polmoni e si disperdesse in una nuvola opaca. – Bé, dimmi quale dei due preferisci per primo allora. – Vi era della leggera provocazione in quel tono, affiancato da un sorriso che sapeva di nostalgia. Il ragazzo non poté notarlo perché ancora voltato e nel momento in cui la percepì di fianco a sé e si voltò per guardarla, quel sorriso era già scomparso dal suo viso. Gli occhi del francese caddero dapprima su quelli neri come il carbone dell’altra, grandi quanto due diamanti, per poi scendere verso il busto, concentrandosi per pochi istanti sui seni che aveva sempre trovato perfetti, e poi scendere fino alle gambe atletiche che la minigonna intraprendente lasciava nude e degne di tutte le attenzioni ottiche possibili.

– Hai di nuovo fatto indisporre il maestro? – Domandò mentre le ciocche castane della frangetta mosse dal vento le sfioravano gli zigomi alti. Francis fece spallucce, sorridendo con finta innocenza. – Soffre di un’acuta forma di mentalità ristretta, io sto solo cercando di aiutarlo. – Sollevò i gomiti dalla ringhiera, tirando su la schiena e posizionandosi ritto. – Audrine, la luce di questo tramonto ti rende più bella del solito. – La ragazza rise, sollevando una mano per accennare all’altro una battuta d’arresto. – Lascia stare, non sono qui per farmi adorare. – Disse con tono fermo ma divertito, come se avesse sentito chissà quanti complimenti provenire da quelle labbra. E in effetti Francis Bonnefoy era uno che riempiva di attenzioni e di belle parole tutti i suoi compagni e compagne di avventure amorose, senza riserve.

– In realtà sono preoccupata per te. – Lo guardò negli occhi, facendo una piccola pausa. – Mi sembri più strano del solito ultimamente, più distratto e…anche malinconico. Non vorrei che fosse per colpa mia, ma se vuoi possiamo.. ­– Il giovane la fermò mentre lasciava cadere altra cenere sulle mattonelle del terrazzo. Le poggiò un palmo su una guancia e le rispose senza che potesse concludere i suoi pensieri. – Ehi, ehi, come sarebbe malinconico? Ti do davvero quest’impressione? Ti assicuro che non c’è nulla che mi turbi mia cara, tantomeno tu. In realtà ero io che pensavo che questa storia potesse averti fatto troppo male, e me ne dispiaccio davvero. Tu sei una splendida ragazza, lo sai che lo penso, vero? – Audrine, sua compagna di scuola dal primo anno, inclinò il viso verso quella mano calda che la accoglieva, rivolgendogli uno sguardo magnetico. – Mi sarebbe solo piaciuto continuare ad essere la tua ragazza, penso. Ma lo sai che non ce l’ho con te. Ho capito che è meglio così; in fondo non poteva funzionare. Però, ecco, se sei triste per colpa mia ti prego di dirmelo perché non lo sopporterei. – Il ragazzo le sorrise dolcemente, scrutando da vicino i tratti del viso di quella che fino ad una settimana prima era stata l’ultima delle sue ragazze. Aveva quasi sfiorato i tre mesi, si era mantenuto nella media. Ma come tutte le altre volte, alla fine non aveva funzionato. Le ragioni erano più o meno sempre le stesse e potevano essere raggruppate in due grandi categorie: o vi era una progressiva quanto inarrestabile perdita di interesse, oppure i suoi occhi e il suo cuore finivano con l’interessarsi a qualcun’altro. Erano sempre state acque mosse e leggermente torbide quelle dei suoi sentimenti, spesso a lui stesso incomprensibili. L’unica cosa in cui era un vero asso era quella di riuscire a non far soffrire troppo nessuno; la sua sensibilità e delicatezza lo avevano sempre avvantaggiato con le donne, era in grado di slegarsene di continuo ma non aveva ricordo di nessuna separazione furiosa né tragica. Sapeva cosa dire, come dirlo, come far sembrare la cosa inevitabile e anzi, addirittura giusta e positiva. Sapeva come lasciare il ricordo migliore di sé senza troppi rancori, sapeva far sentire le ragazze importanti e splendide senza sforzi eccessivi e in ogni caso non aveva mai avuto problemi a incontrarle e mantenere buoni rapporti anche dopo la fine di una storia, breve o lunga che fosse stata. Audrine era solo l’ultima di una lunga lista e, come tutte le altre, l’avrebbe sempre ricordata alla perfezione nella sua mente, in ogni singolo dettaglio.

– Nulla del genere ma chérie.⁽⁴⁾ Ho trascorso splendidi momenti con te e non mi pento di nulla. Voglio solo che tu non ti senta affranta per questo. – Carezzava quel viso con dolcezza, trovando tenero quel suo modo di preoccuparsi per lui ancora adesso, ancora così visibilmente innamorata di lui. Da un certo punto di vista era a dir poco elettrizzante. – Chissà se riuscirai a stare con qualcuno per più di sei mesi. – Commentò con un sorriso amaro la ragazza. Al giovane venne istintivo sorridere di rimando, seppur sapesse che c’era del tragico vero in quelle parole.

– Oh, ma è già successo una volta! Sono arrivato ad un anno tempo fa, ma è una storia vecchia. – Ormai non faceva più caso alla sigaretta che si consumava silenziosa nell’altra sua mano, quegli occhi femminili che supplicavano affetto avevano la precedenza su tutto. – Mi dispiace, davvero. In realtà sono stato parecchio giù in questi ultimi giorni, lo confesso, ma non è per colpa tua, Audrine. – Le labbra della ragazza tremarono con dei movimenti leggeri, quasi impercettibili. – Pensi molto? – Il giovane inclinò di pochi gradi il capo, osservando quel viso angelico con tenerezza. – Molto, sì. Penso proprio sia una questione tra me e me stesso. – Concluse cominciando ad essere seriamente distratto da quelle labbra rosee. – Forse è perché sei inarrivabile. Una specie di grande vaso di Pandora. Chissà che succede se qualcuno ti schiude. – Audrine esitava sul profilo dell’altro, sfiorandogli il naso e a tratti lo zigomo, lasciando che venisse tentato dal suo invito a procedere. – Pandora, eh? Trésor,⁽⁵⁾ questo è un gran bel complimento. Ma tu sei assai più bella di un vaso leggendario. – E non aggiungendo altro già stava andando a baciare quelle labbra, come a coronare una riappacificazione e a rubare un ultimo bacio nostalgico, ma Audrine lo fermò. – Promettimi.. – Sospirò a pochi millimetri dalle labbra del francese scostandosi con gentilezza per completare quello che aveva da dire. L’altro schiuse maggiormente gli occhi, mostrando il massimo dell’attenzione alla giovane di fronte a sé. – Promettimi che se mai troverai la persona giusta me la farai conoscere. Me lo prometti? Ti prego. Lo so che pensi sempre che sia quella giusta quando ti fidanzi, però…mi piacerebbe conoscere prima o poi la persona che ti renderà veramente felice. Magari non esiste e vivrai per sempre di storie a medio termine, ma se un giorno sarai davvero sicuro di averla trovata, te ne prego, vorrei conoscerla. Non sarò gelosa e nemmeno arrabbiata, te lo giuro. Se saremo ancora in contatto, Francis…mi piacerebbe. –

Inutile dire che il cuore tenero del biondo fu colpito dritto al cuore da quelle parole così sincere e del tutto inaspettate. Era sempre doloroso anche per lui vedere come diversi dei suoi fidanzati e fidanzate rimanessero in qualche modo indissolubilmente legati a lui e nel profondo ancora innamorati. A volte si domandava perché mai Madre Natura fosse stata così crudele con lui da rendere il suo cuore così facile alla seduzione. Poteva essere un dono quanto una maledizione. Eppure era stato sincero in ogni storia che aveva avuto, di breve, medio o lungo termine; era davvero innamorato delle persone con cui si impegnava. Peccato che alla fine il sentimento finisse sempre con l’intiepidirsi, se non con lo sfumare verso del semplice interesse. – Audrine.. – Cominciò Francis sorridendole. – Credi a me quando ti dico che sei una ragazza speciale. Una delle creature più affascinanti di questa terra. – Il vento che saliva portò i capelli della ragazza sul viso del francese, sfiorandone il contorno. – Te lo prometto. Ti prometto che se ci sarà in questo mondo quella persona per me, tu sarai la prima a conoscerla. È una promessa, mia cara. Sul mio onore. –

La giovane piegò le labbra in un’espressione compassionevole, seguita da poche parole espresse in un sussurro sfuggente. – Mi raccomando. E non dar troppo fastidio alle ragazze, eh…e nemmeno ai ragazzi. – Aggiunse, trovando la cosa divertente. La mano di Francis carezzò con maggiore impegno quella pelle morbida, avvicinando a sé ancora di poco quel viso, il tanto sufficiente a soffiare su quelle labbra piene poche parole prima di concedersi un malinconico bacio di addio.

– Ne t’inquiète pas.⁽⁶⁾ – E senza aspettare una risposta lasciò che le loro labbra si congiungessero, per l’ultima volta in veste di amanti, chiudendo gli occhi sul viso della ragazza che ricambiava il desiderio di consumare quell’ultimo incontro alla luce del tramonto. Chissà se la stessa stava escogitando qualche escamotage per riuscire a trattenerlo o a farlo tornare indietro; di certo non sarebbe stata la prima a farlo. In quel momento tuttavia sembrava davvero non esserci spazio per altro al di fuori dell’incontro dei loro respiri, uniti in un ritmo che procedeva all’unisono ma che avrebbe avuto vita breve: uno sbattimento di ciglia, un colpo d’ali di farfalla, la consumazione di quell’ultimo tocco di sigaretta. In quei pochi secondi il francese avrebbe definitivamente concluso un’altra delle sue tante avventure ed esaurito avidamente per l’ennesima volta l’elisir d’amore che tanto lo catturava di continuo. Forse era un uomo destinato a quella vita, a quell’inclinazione per molti peccaminosa. Magari sarebbe potuto diventare una specie di dongiovanni, un modello vivente di godimento pieno e incondizionato, un’incarnazione della vitalità intesa nel suo senso più ampio ed energico; un uomo che assapora e non si accontenta, un uomo che vive alla ricerca della sensualità euforica e che investe in un progetto di vita ignoto a lui stesso, prendendo sul momento tutto ciò che di più affascinante incontra; un galante, un gentiluomo, un amabile corteggiatore che avanzava i propri inviti con garbo e passione, trattando i propri partner come statue di avorio, elevandole alla più alta delle preziosità, ma allo stesso tempo incapace di perseverarvi fino alla coronazione di un affetto stabile, duraturo, unico.

Aveva anche pensato fosse per lui una specie di dannazione: un destino amaro che lo rendeva volubile ma allo stesso tempo, come un suggerimento nascosto, avvalorava l’ipotesi che fosse giusto e imprescindibile per lui continuare a mutare, a migrare, a saltare da un cuore all’altro, come se lui stesso fosse un dono da condividere, troppo egoista da riservare ad una sola persona. Indubbiamente c’era un’importante quantità di narcisismo in questa sua personale interpretazione, ma Francis Bonnefoy non era mai stato solo ego sbrigliato: chiunque tra tutti quelli che si erano trovati tra le sue braccia poteva confermare quanto fosse straordinariamente in grado di far sentire la propria controparte la presenza più prodigiosa e indispensabile nella sua vita. Non era l’attaccamento né il rispetto né la sincerità che gli mancava. L’unica cosa che non riusciva a coltivare e a garantire, era la sola costanza. La fedeltà eterna che gli amanti più o meno consapevolmente si scambiano in ogni bacio, respiro, gesto. Certo, era solo un tassello in mezzo a tanti altri che rappresentavano pregi e qualità notevoli, ma sfortunatamente era anche quello più importante.

Se gli avessero chiesto cosa cercava dalla vita avrebbe risposto: la bellezza. La ricerca di ciò che piace e la sua conseguente venerazione costituivano il suo obiettivo principale e le persone erano senza dubbio la meraviglia più affascinante di quella terra; più ne avrebbe amate più avrebbe potuto godere e accrescersi, più avrebbe avuto e più ne avrebbe voluto, incontentabile e incontenibile quanto nel dare quanto nel ricevere, eppure ancora così ingenuamente inconsapevole che il sentimento provato fino a quel momento rappresentava solo dei poveri granelli di sabbia rispetto ad una costa ben più immensa e pericolosa, di gran lunga più lontana dalla sua portata e da qualunque altra esperienza.

 

 

 

 

 

 

⁽¹⁾ Abbreviazione di Baccalauréat. Corrisponde all’incirca alla maturità dei licei italiani nel sistema scolastico francese. Per maggiori informazioni: http://it.wikipedia.org/wiki/Maturit%C3%A0_francese

⁽²⁾ Requiem For My Friend, di Zbigniew Preisner. Il Lacrimosa rappresenta l’ottavo movimento. Per chi volesse ascoltarlo http://www.youtube.com/watch?v=1MOkUwbAdEU

⁽³⁾ Proverbio francese che significa: “Sermone e melone, ogni cosa al suo momento”.

⁽⁴⁾ “Mia cara”, in francese.

⁽⁵⁾ “Tesoro”, in francese.

⁽⁶⁾ “Non ti preoccupare”, in francese.

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Capitolo 22
*** Capitolo 22 ***


– Fantastico! Quindi hai visto un sacco di posti in vita tua! Come ti invidio! –

La voce dell’americano risuonava potente lungo il banco frigo del supermercato in cui lui e Francis si erano recati per fare spese. Come aveva ben accettato anche l’inglese, era il francese che da quando si era trasferito da Arthur si occupava della maggior parte delle mansioni di casa. La spesa era solo una delle sue tante attività. Il motivo per cui si trovava lì anche l’americano era che Francis l’aveva invitato ad unirsi all’uscita. Gli era sembrato vagamente annoiato quel pomeriggio e probabilmente una passeggiata e un po’ di spesa lo avrebbero distratto. L’idea era stata buona, anzi ottima. Aveva già avuto l’impressione che andassero d’accordo all’inizio, ma più parlavano più si rendeva conto che le loro personalità erano felicemente compatibili da molti punti di vista. Inoltre, entrambi mostravano un atteggiamento simile nei confronti degli eventi: un’instancabile tendenza a cercare sempre il lato positivo delle cose e a dare un po’ di fiducia al tempo. Non era male per niente.

– Ti piace viaggiare? – Domandò il francese allontanando per un attimo lo sguardo dall’altro per cercare dello yogurt tra gli scaffali. – È questo il punto. In realtà mi piace moltissimo, ma non ho mai viaggiato un granché. Anzi, se proprio devo essere sincero, l’unico posto che ho visitato è l’Inghilterra, Scozia al massimo. Insomma, immagino ci sia tanto altro da vedere oltre a quest’isoletta fredda e umida, no? – Domandò retorico, con un pizzico di scherno nel tono che poteva permettersi solo perché certo che Arthur fosse assente. Il francese non poté fare a meno di assentire con una risata trattenuta. – Oh, su questo non posso certo darti torto. Il mondo è pieno di meraviglie. Per quanto io possa aver viaggiato, le mie esperienze si limitano comunque all’Europa. Per esempio, non sono mai stato negli Stati Uniti. – E tornando su di lui lanciò da una breve distanza due vasi di yogurt nel carrello che Alfred teneva davanti a sé.

– È un bel posto! – Esclamò il ragazzo. – Se mai vorrai venire non esitare a chiamarmi. Ho amici e conoscenze sia a New York che a Washington, Los Angeles, persino in Florida. Potrei garantirti un soggiorno spettacolare. – Concluse con un sorriso a trentadue denti. – Troppo gentile, sarebbe davvero magnifico. È un paese per il quale nutro un grande fascino. – Rispose il maggiore mentre avanzava lentamente lungo il bancone gelido. – Dai, raccontami qualcosa! Che paese europeo mi consiglieresti di visitare per primo? Cosa c’è di bello da vedere? E il cibo? Dov’è che si mangia davvero bene? – Sembrava un bambino in attesa dei racconti fantastici della buonanotte e irrefrenabile nella curiosità. Gli sorrise di nuovo, accontentandolo. – L’Europa è piena di bei posti, devo dire. Prima di tutto, potrei farti una splendida guida completa della Francia, se vorrai, dove si mangia divinamente. Sono sincero, non lo dico per nazionalismo. Se ti interessa continuare a mangiare bene non puoi saltare l’Italia ovviamente; in aggiunta, ho sperimentato delle buone cucine anche in Austria e in Germania, anche se magari meno variegate per quel che riguarda gli alimenti. Trovo sottovalutata anche la Spagna, sai? È uno dei posti in cui più mi sono divertito e dove ho mangiato meglio. Danimarca e Belgio anche non sono male. –

Alfred osservava il compagno con sguardo estasiato, perdendosi ad immaginare chissà quali meraviglie culinarie, non facendo altro che aumentare il suo perenne e portentoso appetito. Continuarono ad affiancare il banco frigo, inserendo di tanto in tanto qualcosa nel carrello mentre le parole scorrevano a fiumane dalle labbra del francese. – Vieni, andiamo di qua. – Suggerì il maggiore mentre poggiando una mano sulla schiena dell’americano lo direzionava verso il successivo settore del supermercato. Alfred sorrise, avanzando coi gomiti poggiati pigramente sul carrello e dando uno sguardo al suo interno. – Sai, non pensavo Arthur potesse davvero mangiare questa roba. – L’altro giovane si voltò con un: – Mh? –

– Voglio dire.. – Continuò l’americano per spiegarsi meglio. – ..non avevo idea che per esempio potesse piacergli il muesli. – Concluse indicando col dito la confezione di cereali misti che poco prima il francese aveva riposto tra la spesa. – Aah, capisco. – Rispose tirando leggermente indietro la testa, come se le parole dell’altro avessero acquisito un senso solo in quel momento. – Bé, devo dire che è un tipo forse un po’ schizzinoso; poi è terribilmente diffidente. Solo per riuscire a fargli assaggiare una cosa mi occorrono almeno quindici minuti di paziente attività persuasiva. A volte penso di assomigliare ad un sofista. –

– Un che? – Domandò con tono acuto l’americano. – Niente, niente. – Rispose Francis con un cenno della mano, aggiungendo poi: – Però se mi dici che non avresti mai immaginato iniziasse a mangiare muesli vuol dire che forse sto facendo progressi! – Concluse con una risata di circostanza, molto più scettica delle sue solite ben più spontanee. – Guarda che è una cosa eccezionale. Voglio dire, alla fine Arthur è una persona complicata; non è facile stargli appresso. A dirla tutta, io non riesco nemmeno a credere che abbia davvero deciso di ospitarti in casa. è stato un po’ uno shock. – Disse il più giovane cominciando a giocherellare con le ruote del carrello. Francis lo osservò per qualche istante prima di rispondere con un altro sorriso. – Eheh, penso di capire quello che vuoi dire. Ma in ogni caso, non penso di andargli molto a genio. Spesso ho la sensazione che mi sopporti a malapena. – Alfred abbassò la testa nascondendo un sorrisetto. Quindi rispose sollevando il viso e facendo spallucce. – Fidati di me. Se davvero non ti sopportasse non ti avrebbe fatto infilare nemmeno un piede in casa sua. Questo lo so per certo. –

Il francese infilò le mani nelle tasche, spostando la sua attenzione sui prodotti dello scaffale davanti al quale si trovavano, prendendosi un attimo per riflettere su quelle parole. – In realtà sono contento, sai? A parte quei pochissimi amici dell’università, non l’ho mai visto frequentare nessun’altro. Quindi è positivo che faccia nuove conoscenze. Se poi ha pure deciso di ospitarti in casa, vuol dire che ci sono buone probabilità che ti rispetti o che ti consideri comunque degno della sua…mhh, disponibilità, ecco. – Alfred alzò la testa, mettendosi ad osservare il soffitto, come se riflettesse sulle parole giuste da utilizzare o se cercasse di capire se si fosse espresso con correttezza. La mano con la quale cominciò a strofinarsi il mento enfatizzava la posa riflessiva che aveva assunto. – Ahah, questa sì che è una bella notizia allora! Se non altro, posso sperare che almeno non mi uccida nel sonno! – I due risero insieme, sciogliendo quella leggera tensione che forse l’argomento aveva alimentato, continuando con serenità il loro giro all’interno del supermercato e rifornendosi dell’occorrente. In effetti, quelle parole dell’americano erano più confortanti di quanto potesse pensare; non nascondeva che molto spesso si era sentito messo da parte o tenuto distante anche solo con uno sguardo di Arthur, con un suo gesto, con quelle parole mancate che tuttavia molto spesso sono più chiare di un no. Non che Arthur Kirkland fosse una persona da considerare temibile, almeno non per lui, ma in ogni caso era evidente che aveva una grande capacità di tenere a distanza le persone a lui sgradite. Sapeva bene che entrambi non potevano considerarsi amici, eppure il discorso di Alfred unito a degli episodi di maggiore avvicinamento che aveva avuto con Arthur in quegli ultimi giorni, lo rincuorarono. Per tutto il pomeriggio ebbe la sensazione che in qualche modo la sua presenza in quella casa fosse maggiormente giustificata e armonizzata nel contesto. Inizialmente non nascondeva che aveva avuto il serio timore di perdersi in quelle mura fatte solo di silenzi e di post-it che gli ricordavano inesorabilmente che era un estraneo, un esiliato, un ospite sospetto all’interno di un appartamento che spesso mutava in un mondo a parte, completamente alieno. Il mondo di Arthur Kirkland, avrebbe voluto aggiungere. Così impenetrabile quanto affascinante. Così affascinante quanto pericoloso. Ma in effetti, Francis amava il rischio. Bruciarsi sarebbe stato sempre meglio che vivere nel rimpianto.

Fu sulla strada di casa che gli venne in mente che sarebbe stata perfetta un’uscita tutti e tre insieme, magari a cena. Cosa sarebbe potuto andare storto o peggiorare? Nulla, ne era più che sicuro. Non esitò quindi a consultarsi con Alfred, che accolse la proposta con entusiasmo. Probabilmente era la sua natura curiosa ed altruista -anche se Arthur l’avrebbe semplicemente definita ficcanaso- che lo spingeva a simili improvvisate, ma era genuinamente sincero il suo desiderio di distendere gli animi di quei due; riappacificarli e riavvicinarli. In parte, stava già succedendo. Come meglio suggellare una pace degli spiriti se non con una piacevole serata in compagnia, magari accompagnata anche da una birra? Gli piaceva volare con la fantasia, al francese, e mettersi a costruire degli scenari che avrebbero fatto invidia ad un set cinematografico; eppure, era certo che non vi potesse essere soluzione migliore.

 

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– Tanto tornerai in meno di una settimana, mi ci gioco quello che ti pare. –

William se ne stava in piedi, appoggiato allo stipite della porta di legno, osservando il fratello maggiore afferrare concitato abiti e cianfrusaglie varie dal letto per poi gettarle con foga nel borsone da palestra che teneva accanto. – Sta’ zitto Wil. Tu non sai proprio un bel niente. – Rispose secco e diffidente Barclay.

Arthur si trovava seminascosto, dietro a William, cercando di spiare la scena. – Pensi davvero che da domani potrai iniziare una nuova vita? A sedici anni? Condividendo un appartamento estivo con due tuoi amici svitati? Insomma, ragiona Barc. – Il maggiore sembrava ignorare le parole dell’altro, limitandosi a completare i preparativi per l’imminente partenza. William sospirò profondamente, sciogliendo le braccia dalla loro posizione incrociata all’altezza del petto. – Quale diavolo è il tuo problema? Se sei in preda ad un’altra delle tue crisi adolescenziali almeno cerca di non coinvolgere chi ti sta attorno! –

­– Ti ho detto di stare zitto maledizione! Non sono affari tuoi! – Tuonò Barclay, finalmente voltandosi verso il fratello e notando solo in quel momento che dietro a William ci fosse anche Arthur. I suoi occhi infiammati di rabbia si posarono su di lui, lasciando l’ambiente nel silenzio totale per dei lunghi istanti. Poi, come ridestato, sollevò lo sguardo verso William, rispondendo ora con maggiore autocontrollo:

– Non ho intenzione di sprecare altro tempo nella scuola e in questo posto, è chiaro? È la mia decisione e ne ho pieno diritto. Quindi fatti da parte. – Tornò a dare le spalle ai fratelli, cercando di finire la propria borsa. – Barclay, a sedici anni nessuno è pronto per vivere in maniera autonoma. Potrai resistere qualche mese forse, ma senza un lavoro cosa pensi di fare? Dovresti cercare di darti una calmata invece, con tutta questa smania di andare Dio solo sa dove. Sei preda di un moto di ribellione, niente di più. –

William fece un passo verso di lui, intraprendendo un difficile tentativo di persuasione che già immaginava non sarebbe andato a buon fine. Nonostante fosse di un anno più giovane di Barclay, William aveva sempre dimostrato una maturità molto spiccata, che a volte quasi stonava con i suoi fragili quindici anni. – Che cazzo ne sai tu di cosa sono preda, eh? Perché non ti fai un bel pacco di affari tuoi, piuttosto? Se tu vivi bene qui fai pure, io ne ho le palle piene. – Arthur continuava ad osservare la scena in silenzio, non più nascosto dietro al fratello ma adesso coperto dal profilo della porta, non avendo il coraggio di fare neanche un solo passo in avanti. Cominciava ad essere abituato a quelle scene che negli ultimi due anni erano diventate piuttosto frequenti in casa Kirkland. Dai quattordici anni in poi, Barclay era diventato sempre più problematico, quello che di solito i professori della loro scuola definivano come “un ragazzo difficile”. Negli studi andava sempre peggio, aveva rischiato di essere rimandato più di una volta, e come se non bastasse si aggiungeva a questo una perenne irrequietudine e repulsione verso tutto ciò che entrasse in contatto con lui: dai famigliari, agli amici, ai professori. Per completare il quadro, ultimamente era saltato anche fuori un bel coinvolgimento in serate fin troppo all’insegna dell’alcool, del fumo e dello sballo. A undici anni Arthur non poteva certo avere gli elementi per decifrare tutti i messaggi che gli scorrevano ogni giorno davanti agli occhi, ma altrettanto certo era il fatto che comprendesse perfettamente che le cose non stavano andando per il verso giusto. La mente di Barclay era diventata qualcosa di impenetrabile persino per loro, i suoi fratelli; gli unici che avessero avuto qualche vantaggio su di lui rispetto ai loro genitori.

– Calmati. – Fece William avvicinandosi ancora di qualche passo e ponendosi al suo fianco, accennando con i palmi delle mani un invito alla distensione. – Adesso sei arrabbiato, prenderesti solo una decisione stupida e avventata. Cerca di ragionare. Pensa a mamma e papà. – I suoi sforzi erano lodevoli, ma Barclay era decisamente una testa calda fuori dal comune per accettare di farsi sedare dal fratello più giovane. – Io ho già ragionato! Piantala di trattarmi come un idiota, ti credi di sapere tutto eh? Stai solo cercando di fare le loro veci e non ne hai alcun diritto. Sta’ al tuo posto e non rompere! – Tuonò di nuovo, estirpando ogni speranza dell’altro di approcciarsi con un dialogo pacifico. – Barclay.. – Tentò di ricominciare daccapo William, ma fu bruscamente interrotto.

– Vaffanculo! – Tagliò corto il maggiore, tirando con violenza la chiusura lampo della borsa e afferrandone i manici, scostandosi dal fratello e urtandolo con una spalla, mentre si voltava verso la porta. I riflessi di William però lo guidarono bene: afferrò di colpo Barclay per un polso, arrestandone la dipartita. – Vuoi aspettare? Lo capisci che nessuno è contro di te? Sto solo cercando di aiutarti. Andarsene in questo modo è da stupidi e non servirebbe a nulla. Te ne prego, rifletti un attimo e parliamone. – La voce del più giovane era distesa ma ferma, sperando che almeno col tono potesse convincere il fratello riottoso a dargli una possibilità. Gli occhi di Arthur erano fissi sui due ragazzi, i cui contorni erano illuminati da una debole luce artificiale che trafilava dai fori della serranda. Non osava aprire bocca. Anche perché non avrebbe saputo né cosa dire né cosa fare; era come immobilizzato ad osservare scorrere il flusso degli eventi, esattamente come uno spettatore impotente. In cuor suo, sperava solo che William riuscisse a fermare Barclay. Ammetteva che ormai a stento era in grado di riconoscerlo negli atteggiamenti e nella personalità, ma era pur sempre suo fratello; ed era sempre il suo preferito. Il più amato dei suoi fratelli maggiori.

– Ascoltami bene, William.. – Cominciò Barclay svincolandosi dalla presa del fratello con un gesto brusco e piuttosto violento. – ..tu prova a metterti sulla mia strada ancora una volta.. – Aggiunse lasciando in sospeso la frase, probabilmente per caricare di tensione la minaccia rivolta all’altro. – ..e non mi farò alcuno scrupolo. Nemmeno nei tuoi confronti. – William fissava il fratello negli occhi, senza alcuna esitazione. Abbassare o volgere altrove lo sguardo avrebbe significato una sottomissione ai suoi capricci umorali di adolescente frustrato, e William non aveva mai amato mostrarsi inferiore rispetto al maggiore, tantomeno nelle sfide. Senza contare che c’era Arthur a pochi passi da loro. Sarebbe stato ancora più umiliante mostrarsi debole di fronte a lui; e non avrebbe dato un buon esempio. Le sue labbra erano serrate, gli occhi ancora fissi su di lui. Non una parola. Non una risposta.

Lo stesso Arthur sembrava sospeso in un silenzio tombale, trattenendo il respiro nel terrore che la situazione potesse degenerare e volgere al peggio. Non sarebbe stata la prima volta che i due fratelli maggiori fossero arrivati alle mani; era già capitato. Ma l’idea che potesse succedere in quel momento davanti ai suoi occhi, lo pietrificava nell’incertezza: l’incapacità di scegliere se chiedere aiuto o scostarsi dalla responsabilità di farlo.

Barclay continuò a fissare scuro in volto il fratello finché non gli sembrò abbastanza da poter lasciare la stanza. Con un lento e calibrato movimento di spalle, ruotò piano su se stesso stringendo con maggiore forza i manici della borsa e inspirando così profondamente da diventare quasi rumoroso, visto il silenzio spettrale nel quale erano calati. Finalmente si decise a voltarsi del tutto e a cominciare a camminare. Passi pesanti, come tonfi, e rapidi nella successione. I suoi occhi brillavano di rabbia come due fiamme e non si soffermarono su niente, tantomeno sul fratello minore ancora seminascosto dallo stipite della porta. Arthur non ebbe il coraggio di alzare lo sguardo su di lui se non nel momento in cui Barclay lo superò, potendone osservare quindi solo la schiena. Lo fissò. Lo fissò intensamente avanzare lungo il corridoio e poi sparire, ingoiato dalle scale. In quell’istante la sua mente si svuotò, come acqua risucchiata dal lavandino. La sua gola era secca. I muscoli tesi e lo sguardo contrito in un’espressione ferita. Sentì gli occhi scottargli. Prese a voltarsi lentamente verso l’altro fratello rimasto esattamente immobile dov’era. Il suo volto era nascosto e rivolto verso il basso; poteva udire il suo respiro farsi sempre più affannoso.

La sensazione di impotenza e frustrazione che scaturì in sé quel giorno sarebbe rimasta un ricordo indelebile. Realizzò solo parecchio tempo dopo che, come un debole, non era mai riuscito a fare assolutamente nulla durante situazioni simili. Sarebbe rimasto sempre l’osservatore che finge indiscrezione, arbitro inconsapevole di una partita che non sarebbe mai stato in grado di dirigere.

– Va’ in camera tua. – La frase di William, pronunciata come una sentenza, fu come un colpo di frusta su carne fresca. Arthur ebbe un sussulto seguito da un leggero tremore. Avrebbe voluto dire qualcosa, qualsiasi cosa. Avrebbe voluto non sentirsi ingerire da una crudele sensazione di inadeguatezza. Ma la verità era che non era mai stato adeguato. Almeno, non ancora.

Si sentì scoppiare in un istante: scattò come una lepre spaventata, ruotando le piante dei piedi in un batter di ciglia e correndo senza voltarsi nella propria stanza. La rabbia e la mortificazione erano tali che non ebbe neanche le forze per chiudere la porta dietro sé una volta entrato. Inspirò, trattenendo delle lacrime infiammate che sentiva scalciare dentro i suoi occhi. Odiava quel periodo della sua vita: essere costretti ad osservare impotenti lo sgretolarsi di una tela i cui fili lo avevano sempre sostenuto, dandogli forza e certezze. Volare ad ali spiegate sotto un cielo pieno di luce per poi ritrovarsi a cadere, sempre più giù, osservando sciogliersi dal proprio corpo un sostegno dopo l’altro. Soffrire, piangere, gridare, eppure ancora continuare a cadere. Una caduta libera verso gli scogli e la schiuma del mare che calcifica un risentimento selvaggio quanto ingenuo verso se stessi.

Arthur si volse verso la finestra, incrociando con lo sguardo la figura di Barclay che si allontanava per la via, accarezzata dalla debole luce di lampioni color piombo. Il vetro era freddo così come il suo respiro. Una stretta al petto lo accompagnò per tutto il tempo che restò ad osservare il fratello. Non si sciolse neanche quando lo vide scomparire come un’ombra dietro un albero spoglio. Trattenne il fiato e sollevò lo sguardo al cielo scuro: non si vedeva neanche una stella quella notte.

 

 

 

L’americano distese un braccio verso l’inglese, affiancandosi a lui. Gli strinse una spalla, tirandolo a sé in un gesto amichevole. Riconosceva che fosse una mossa azzardata, ma ormai la sua filosofia era diventata “o la va o la spacca”. – Allora Art, come procede lo studio per gli esami? –

Il francese, egregio regista qual’era, aveva osservato con la coda dell’occhio le mosse di Alfred e aveva leggermente affrettato il passo, quel poco necessario per distanziarsi leggermente dai due. Avrebbe supportato le tattiche dell’americano per riuscire a ristabilizzare il suo rapporto con l’inglese.

Inglese il quale non nascose un certo disappunto verso quella mossa, storcendo il naso e voltandosi verso di lui con un’espressione scettica e soprattutto suscettibile. Conosceva bene quella tecnica. – Già, gli esami. Sbaglio o anche tu ne avresti nella sessione invernale? – Disse rispondendo con un’altra domanda. – Certo, sì, infatti non appena sarò tornato a casa mi metterò subito a studiare per bene e vedrai che bei voti prenderò! Sarai fiero di me! Eheheh! – Concluse ridendo tra sé e concentrandosi per sondare ogni più piccola reazione dell’amico. – Non parlare come se fossi tua zia. Non sarei fiero di vederti prendere un voto decente; sarebbe anzi il minimo richiesto dal tuo senso del dovere, se solo ne avessi. –

– Ahi, ahi, ahi. – Sussurrò tra i denti Alfred, con un sorriso, rivolgendosi poi al francese appena più avanti.

– Ehi Francis, perché non mi dai una mano? Mi sa che devo ripartire da capo! – Il ragazzo più grande si voltò senza interrompere il passo, offrendogli un suggerimento: – Retromarcia Al, retromarcia. – E strizzò un occhio. L’inglese sospirò piegando l’angolo delle labbra verso l’alto. – Cos’è? Una consulenza in diretta questa? – Non c’era astio nella sua voce. Poteva essere una splendida occasione per continuare l’abbordaggio. – Lo sai che sono uno stimato consulente, no Arthur? – Disse il francese mentre tornava a guardare di fronte a sé. Il britannico stava per aggiungere un commentino caustico, ma fu preceduto dall’americano. – Okay, okay, allora facciamo rewind. – Esclamò Alfred assestando una pacca sulla spalla dell’amico. Poi si schiarì la voce, come se stesse iniziando a parlare solo in quel momento senza che prima si fosse già rivolto ad Arthur. – Arthur! So che sarai molto occupato con la preparazione degli esami, ma volevo chiederti se potevi darmi una piccola mano con matematica. Sai, ho iniziato a studiare pe- –

Il ragazzo non poté completare la frase. – Fai da solo. Sei grande ormai per farti aiutare. E poi non ho tempo da perdere a colmare le tue lacune scolastiche. – Rispose conciso Arthur, scostando lo sguardo verso l’americano e rivolgendogli un sorriso beffardo, provocatorio. Un’ottima cosa. Quando Arthur Kirkland si affidava ad uno sgarbo divertito e pungente significava che era di buon umore; o meglio, che almeno non era troppo arrabbiato. Per chi, come l’americano, era in grado di riconoscere quei segnali, quello era un ottimo incentivo per continuare la conversazione. Alfred rispose con un’altra risata sincera, sollevato anche dal fatto che l’amico per il momento non sembrava avere intenzione di scostarsi dal suo goffo abbraccio.

– Mhh, mi sa che è meglio se vado a piedi, che dici Francis? – Domandò al più grande riferendosi alla metafora di prima, senza raffreddare quel grande sorriso che si era stampato sul volto. – Ahahah! – Francis apprezzò molto quell’ironia matura dell’americano; era un’ottima tattica per mostrarsi decisi ma al tempo stesso divertenti nei confronti dell’inglese. – Facciamo che se va male anche questa prendiamo un autobus eh. – Aggiunse scuotendo leggermente le mani all’interno delle tasche del cappotto, per poi voltarsi nuovamente a dare un’occhiata ai due ragazzi. Come si aspettava, quell’atmosfera rilassata unita all’ironia che lui stesso stava sostenendo insieme ad Alfred, non potevano lasciare indifferente Arthur che anzi, come previsto, aveva colto la palla al balzo per unire a quel gioco di battute un po’ del suo sempre vivace sarcasmo. D’altronde, Francis l’aveva sempre saputo che il buonumore era contagioso.

– Silenzio allora, devo concentrarmi. – Disse Alfred con tono volutamente austero, fingendo di dare un’aria solenne a quei momenti. Rimase a pensare con lo sguardo fisso verso il marciapiede mentre l’inglese si limitava ad alzare gli occhi al cielo e a sospirare, con l’aria di uno che nutriva scarse aspettative. Poi un’esclamazione: – Ah! – Arthur sussultò senza accorgersene e la sorpresa lo fece voltare verso l’americano al suo fianco. – Cosa urli, cretino? – Alfred ricambiò lo sguardo, rispondendogli come se non avesse sentito l’insulto gratuito dell’amico. – Ci sono, ci sono! Visto che siamo in vacanza, visto che agli esami manca il tempo che manca, e visto che siamo tre amici che staranno insieme ancora per poco, io propongo di affrettarci a raggiungere il locale per festeggiare e basta! Che dite? Fantastico, no? – Disse a gran voce, guardando prima l’inglese, poi il francese, carico di un entusiasmo puro e infantile, come se avesse proposto l’idea più incredibile dell’universo.

Francis rispose prontamente al suo entusiasmo. – Mi sembra un ragionamento perfetto. Per me è un sì assoluto. – E conclusa la risposta affermativa tornò ad accostarsi a loro, restando adesso al passo e lanciando occhiate di fervente attesa verso l’inglese il quale, nel momento in cui stava schiudendo le labbra per pronunciare il suo prevedibile rifiuto, venne rapidamente tirato da un lato da Alfred. – Ah! L’autobus! Sta arrivando alla fermata! Dai saliamo che so già dove portarvi! – E senza chiedere né confrontarsi, l’americano trascinò con la propria forza il ragazzo verso l’autobus quasi in partenza, costringendolo a una breve accelerazione, mentre il francese si godè lo spettacolo esilarante che si era creato, seguendo il gruppetto e salendo sul mezzo con un agile salto. Almeno, alla fine l’avevano preso davvero quell’autobus metaforico. Persino Arthur dopo le prime proteste avrebbe apprezzato una serata diversa dal solito come quella; Francis vedeva Arthur sempre più vicino al traguardo “perdoniamo Alfred o perlomeno torniamo ad essere amici”. Per quanto non fossero affari suoi, poteva solo che apprezzare un finale di quel genere. Sarebbe stata una splendida serata, ne era certo.

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Capitolo 23
*** Capitolo 23 ***


If I Can Stop - Capitolo 23

Quei pochi giorni insieme sembrarono svanire con la stessa velocità di un foglio di carta che prende fuoco.

Era già la vigilia di un nuovo anno e non aveva neanche avuto il tempo di pensare quali nuovi propositi potesse augurarsi. Non che in genere si abbandonasse a simili folcloristiche tradizioni, ma a dire il vero quest’anno desiderava avere in mente un quadro più preciso di come avrebbe dovuto organizzare la propria vita. L’inglese sedeva sul divano a gambe incrociate, una trascurabile rivista in una mano, nell’altra la penna: amava soltanto l’ultima pagina dei cruciverba. Erano ormai quasi quindici minuti che sedeva lì in attesa. La puntualità non era mai stata un’abitudine per l’americano. Se avesse perso il volo avrebbe certo trascorso un delizioso capodanno in aeroporto, la cosa non l’avrebbe riguardato. Diede uno sguardo all’orologio da polso: le sette e quarantasette minuti esatte.

Sospirò tirando all’indietro la testa e appoggiando la nuca allo schienale del divano. Il soffitto era ancora scuro, tinto appena con la pallida luce del mattino presto. Sentiva il tintinnio delle posate in cucina, dove Francis stava probabilmente mettendo a posto. Tornò a pensare al capodanno, al termine di un altro anno, e finì con l’allacciarsi ad altri pensieri: la proposta dei suoi genitori per la vigilia, Barclay, gli esami, l’ultimo anno di università. Erano stati mesi diversi rispetto alla routine di quel periodo dell’anno alla quale era abituato. Ma se questo fosse stato un vantaggio o uno svantaggio non sapeva dire. In parte gli mancava la ben costruita solitudine che lui stesso si era sempre riservato, tuttavia non riusciva a reprimere un inesplicabile bisogno di qualcosa di diverso, di nuovo e di inatteso. Qualcosa che sfuggisse al suo controllo, fosse difficile da prevedere e magari che fosse anche tanto originale da stupirlo. Sorrise a quei pensieri. I suoi affanni interiori sarebbero sicuramente stati un ottimo punto di partenza per uno sceneggiato teatrale. Si sentì improvvisamente sciocco, infantile, e realizzato questo sollevò il capo dallo schienale del divano, rivolgendo lo sguardo verso la cucina: – Ehi Francis. –  

Il ragazzo si sporse. – Mi hai chiamato? – Domandò con il canovaccio ancora in mano. – Verresti qui un attimo? – Chiese l’inglese, spostando lo sguardo ora verso lo schermo nero della televisione di fronte a sé.

– Mais oui.⁽¹⁾ – Il francese tirò il canovaccio sul tavolo, avvicinandosi con un sorriso e a piccoli passi, giungendo infine al divano e sedendosi accanto all’amico. – Tu sei davvero sicuro di non avere alcun impegno per stasera? In tutta franchezza mi sembra poco credibile. – Francis sorrise mostrando un velato compiacimento. – È così, è così. Te l’ho detto. Avrei passato solo il Natale a Parigi, e per il resto.. – Sospirò nella pausa. – ..bé, non sono stato invitato ad alcun festone, quindi non saprei dove andare a far baldoria. –

Sporse il viso verso il profilo dell’inglese che ancora fissava la televisione spenta, aggiungendo con tono maggiormente marcato: – Ovviamente, se tu hai dei programmi personali per stasera le mie azioni saranno del tutto volte ad impedire che la mia figura diventi un elemento di disturbo per te. –

Arthur ruotò finalmente lo sguardo verso di lui, con un’espressione incuriosita. – Ma come ti esprimi bene, Bonnefoy. – Rispose ironico. – Merci beaucoup.⁽²⁾ Sto cercando di rendere pregevole la mia facondia. – E concluse con un sorriso ben consapevole. Il ragazzo lo fissò con occhi ancora più incuriositi, inarcando le sopracciglia. – Da quando conosci parole così desuete? – Chiese continuando quel gioco di retorica e lessico ricercato. – Uso molto il dizionario. – Asserì il francese con un cenno del capo. – E poi le dispense universitarie sono davvero utili per questo. Trovo un sacco di parole nuove tra i saggi che abbiamo in lettura. – Detto questo, poggiò i palmi sulle ginocchia e fece forza per alzarsi, continuando a parlare mentre si riavvicinava alla cucina. – In ogni caso, qualunque cosa tu abbia in mente per stasera, ti pregherei di non farti problemi al riguardo. Sentiti libero di fare quello che vuoi, come vuoi, senza dovermi coinvolgere. – L’inglese diede un’altra occhiata all’orologio da polso: le sette e cinquanta. Erano in ritardo rispetto all’orario stabilito. Ma fortunatamente lo aveva già previsto giocando d’anticipo. Strappò una risata mentre con una mano andò a sistemarsi la frangetta. – Penso sia proprio questo il punto: non ho alcun programma per la serata. – Rispose tra sé rifugiandosi nel lato ironico della cosa.

Come hai detto? – Domandò l’altro tornando a sporgersi dalla cucina. Arthur scosse la testa senza rispondere, sollevandosi dal divano e cominciando a procedere verso l’ingresso. Finalmente sentì dei tonfi per le scale, riuscendo a scorgere dei piedi che si muovevano a passi sgraziati lungo i gradini. – Eccomi eccomi eccomi! Sono pronto! Scusa se ci ho messo tanto eh. – L’americano appariva trafelato, come al solito quando si trattava di rispettare un orario o un appuntamento. Saltò insieme gli ultimi tre scalini che lo separavano dal piano terra senza difficoltà, atterrando a pochi passi dall’inglese e facendo sobbalzare il marsupio che aveva allacciato ai fianchi. – Voilà! Siamo pronti? – Esclamò allargando le braccia e gettando rozzamente a terra la borsa da palestra piena della sua roba. – Io sarei pronto da circa venti minuti, comunque sì: andiamo. – Rispose Arthur con una punta vagamente acida e, dopo essersi voltato per dirigersi verso la porta, tornò con gli occhi sull’americano, come se avesse notato improvvisamente qualcosa. – Tu sei sicuro di essere pronto? – Domandò continuando a fissare l’altro con le sopracciglia inarcate, assumendo un’espressione che assomigliava allo stupore. Alfred, che si era appena chinato per afferrare la borsa che poco prima aveva fatto ruzzolare, rispose con altrettanto stupore: Certo! Perché non dovrei? Cerchi di trattenermi, di’ la verità eheh. – Concluse con dell’ironia gratuita e una risatina odiosa alle orecchie del britannico. – No imbecille, mi riferivo al tuo cervello bacato che ha lasciato di sopra il trolley. – Sferzò laconico l’inglese, contraendo lo sguardo in un’espressione più dura della precedente. L’americano cadde dalle nuvole, sobbalzando sul posto come se fosse stato punto da una vespa. – No! Asp- oddio no! – Esclamò sfiorando la balbuzie, agitando le braccia e le mani tra i vestiti come se potesse aver dimenticato nelle tasche un oggetto ingombrante come un trolley. Al pari di una scheggia si voltò e ritornò sulle scale, facendo i gradini a tre a tre, mostrando una fretta disperata quanto esilarante. Arthur lasciò reclinare il capo all’indietro, abbandonandosi a un sospiro arreso, di chi ormai non nutre più speranze. Restò così, nell’attesa che l’amico a dir poco idiota scendesse di nuovo -col trolley, stavolta-

Francis aveva assistito alla scena dalla porta della cucina e ovviamente non era riuscito a trattenere una risata divertita, rivolgendosi poi all’amico in attesa. – Ma è sempre così quindi? – E mostrò un sorriso senza pari. L’inglese rispose con la stessa tonalità caratteristica di un automa, mentre continuava a fissare il soffitto sconsolato. – Sì. È sempre così. – Ecco di nuovo il rombo dal primo piano che lasciava presagire un’imminente discesa di qualcosa di pesante e goffo. Il ragazzo discese con il trolley in una mano, giungendo al pianerottolo con un affanno esageratamente ostentato.

– Okay. Tutto apposto, sono pronto. Francis lasciò la cucina per raggiungere gli altri due nell’ingresso. A quanto pareva era proprio giunto il momento dell’addio. – Mio carissimo Alfred, è stato un piacere fare la tua conoscenza. – Disse al più giovane con un piccolo inchino del capo. L’americano sorrise ampiamente, aprendo l’unico braccio che aveva libero per rapire il francese in un abbraccio caloroso. – Anche per me! È stato forte, sei un tipo in gamba. Mi raccomando, sentiamoci! – E dopo avergli assestato un paio di pacche sulla schiena si scostò lentamente, come a dolersi di quel distacco. – Senza dubbio. Tanto i contatti ce li siamo scambiati. Fammi sapere come va la vacanza e gli esami eh. – Rispose, insieme ad un occhiolino finale. – Contaci! –

Con quell’ultima esclamazione il giovane americano si chinò per raccattare tutte -e stavolta tutte davvero- le sue cose, continuando a lanciare cenni e saluti al francese alla porta, finché non finì di caricare tutto sul taxi e la portiera oscurò la visione della sua figura. Francis, da parte sua, ricambiò ogni saluto e restò sulla soglia a fissare la vettura partire e scomparire poi all’incrocio. Strano tipo quell’americano, anche se in senso buono. Un tipo davvero alla mano, spiritoso, molto pieno di vita. Apprezzava quel genere di persone; quelle che nelle giornate più malinconiche, nel momento in cui ne incroci lo sguardo, riescono a farti sentire dannatamente stupido per il tempo che stai sprecando a fare il muso lungo piuttosto che a sorridere. Chissà se anche ad Arthur l’americano faceva quell’effetto. Si lasciò raffreddare da un po’ di quella brezza mattutina, gelida ma ritemprante. Quel clima e quel cielo pallido e silenzioso gli fecero improvvisamente salire un incontrollabile voglia di tabacco. Rientrò in casa il tempo necessario per raccogliere il necessario, poi tornò di fuori e lasciando la porta accostata si sedé sui gradini umidi e granulosi del vialetto. La sua sigaretta fu pronta in un minuto e la accese con una lentezza sconvolgente, come se fosse un gesto che non compiva da secoli. Quando sentì il fumo riempirgli i polmoni provò un senso di nostalgia che lo rinfrancò. Amava il biancore sporco di quel cielo, riempito qua e là da qualche tonalità più livida che poteva far presagire un temporale. Avrebbe piovuto? Forse sì, forse no. In fondo sarebbe stata una serata speciale in ogni caso, era pur sempre l’ultimo dell’anno. Sarebbe stato un festeggiamento particolarmente insolito, se non altro per i suoi standard, ma la cosa lo intrigava non poco; infine restava sempre un irrefrenabile ed irreprensibile curioso: andare fuori dalla tradizione era una sfida più che ben accetta. Avrebbe preparato un pranzo leggero, qualcosa di semplice, per poi sbizzarrirsi con il gran cenone della sera. La scelta del menù dei festeggiamenti sarebbe stato indubbiamente un modo splendido per ingannare l’attesa del ritorno di Arthur.  

 

 

L’aeroporto era più affollato del solito. Colpa delle vacanze, della vigilia, della meta gettonata che rappresentava Londra per molti turisti. Rischiava di divenire asfissiante. Il tragitto in taxi era stato silenzioso fino a sfiorare la noia; il check-in anche peggio. Solo ad un paio di persone dal loro turno l’americano ebbe il coraggio, o forse solo il pretesto, di rompere il silenzio. Attaccò dicendo che non aveva pesato il trolley prima di partire, che aveva il dubbio di essersi scordato qualcosa, che forse aveva riempito troppo il bagaglio a mano e via discorrendo. L’inglese si limitava a rispondere con fredda obiettività, dicendo che se il trolley era andato bene all’andata sarebbe andato bene anche al ritorno e che se si era davvero scordato qualcosa non sarebbe potuto tornare indietro a riprenderla in ogni caso, quindi tanto valeva rilassarsi. Pertanto, non durò a lungo la loro conversazione.

Fecero velocemente il check-in, senza alcun intoppo. Erano le nove e il volo era alle dieci e un quarto. Non c’era alcuna fretta particolare, quindi optarono per sedersi in un bar e prendere qualcosa. Inutile dire che Alfred non si risparmiò una seconda abbondante colazione. Sarebbe giunto a destinazione anche prima delle otto di quella sera e calcolando il fuso orario sarebbe arrivato giusto in tempo per pranzare insieme a Matthew a Ottawa. Da lì si sarebbero velocemente spostati al vicino impianto sciistico di Centennial Park⁽³⁾, dove avrebbero sicuramente sciato fino allo sfinimento e poi si sarebbero goduti uno scoppiettante Capodanno organizzato dallo stesso residence. Davvero un bellissimo programma, doveva riconoscerlo. In confronto ai modesti festeggiamenti che erano soliti organizzare negli anni passati, questo era strabiliante. Come poteva dargli torto ad aver scelto Ottawa e la sua neve invece di Londra e qualche fuoco d’artificio? Rimuginare su quella riflessione fatta e rifatta fino allo stremo nella sua mente lo stava rendendo irritabile, perciò cercò di scansare il più possibile lontano da sé quelle considerazioni. Quel che era fatto era fatto. Continuare a prendersela avrebbe solo significato autorizzare candidamente Alfred F. Jones a persistere nel fargli del male; e questo avrebbe urtato il suo orgoglio molto più dello sgarbo irrimediabile che pure l’americano gli aveva riservato.

Ingoiò l’amaro caffè nero che aveva ordinato tutto d’un fiato, per centrifugare quelle sensazioni contrastanti di speranza e disperazione, e prima che potesse trovare qualche banale argomento di conversazione per ingannare il tempo l’americano gli si rivolse. – Art, senti…sei ancora molto arrabbiato per questa faccenda? Se non ne vuoi più parlare va benissimo, solo…volevo sapere se stavi meglio, ecco. – Domandò a testa bassa mentre si portava alla bocca uno dei due bomboloni alla crema che aveva preso; oltre ad una fetta di cheesecake, ovviamente. Arthur scosse impercettibile il capo, con sguardo indefinito, sollevando leggermente le spalle in segno di indifferenza. – Affrontiamo la cosa per quello che è. Alla fine ne abbiamo già parlato, ti ho dato la mia risposta. Va bene così. – Concluse, stupendosi lui stesso del proprio autocontrollo. Avrebbe potuto benissimo lanciargli qualche frecciatina velenosa, ma forse per la stanchezza o per la noia non aveva raccolto le sufficienti energie mentali per scagliarla a dovere. Alfred sollevò lo sguardo e gli donò un sorriso tiepido e comprensivo, non aggiungendo altro e iniziando a divorare la sua ordinazione. Sì, probabilmente era la cosa migliore. Sapeva anche lui che, per esperienza, era molto meglio lasciare all’inglese il tempo necessario per smaltire i torti subiti piuttosto che tempestarlo con domande inopportune e ravvicinate.

Le nove e trenta. L’americano avrebbe fatto meglio ad avvicinarsi per il controllo documenti e il metal detector. Entrambi si alzarono senza fretta, camminando a fianco ma di nuovo in silenzio. Era un insolito modo di salutarsi, quello di quest’anno. Generalmente i loro addii aeroportuali erano di tutt’altro stampo e carattere. Questo contribuì ad acuire il senso di colpa dell’americano già abbastanza mortificato per l’accaduto. Giunsero alla grande porta vetrata che separava il controllo documenti e i successivi terminal dal resto dell’aeroporto. Arthur sospirò, con le mani nelle tasche, andando poi ad ancorare lo sguardo sul viso dell’americano che gli sorrideva di rimando. Assomigliava a un cucciolo smarrito quando assumeva quell’aria di timida riconciliazione. – Allora mio caro.. – Cominciò il maggiore sollevando un sopracciglio.

Non posso che augurarti buon viaggio e buon divertimento. Oh, sì, anche buon anno nuovo. – Concluse con un sorriso che non riusciva a non far apparire forzato. Alfred annuì con energia, andando poi subito ad abbassare lo sguardo e a sospirare una risata tra sé. – Ehi Art…mi mancherai un sacco, sai? – Afferrò i manici del borsone che teneva sulla spalla, facendo un piccolo salto sul posto per tirarli più su. – Sarà una vacanza diversa, è vero, ma già so che sarà meno speciale degli anni passati. – Poi scrollò le spalle, ridendo ancora. – Ma me la sono voluta, quindi ora la smetto di lamentarmi come un idiota. – Arthur gli sorrise con una sfumatura di scherno. – Bravo. Una cosa giusta ogni tanto la dici. – Rispose caustico ma ironico, mentre con le dita delle mani giocherellava nervosamente col tessuto interno delle tasche. Sentiva di non avere nient’altro da aggiungere. – Okay, allora.. – Farfugliò Alfred dando un’occhiata alla vetrata e poi tornando con gli occhi sull’amico. Sospirò un altro sorriso, si sfilò i manici della borsa dalla spalla e lasciò la presa sul trolley, abbandonandolo noncurante al suo fianco. Allargò le braccia sull’inglese, avvolgendolo in un abbraccio inaspettato. Poggiò la fronte sulla spalla dell’amico e lo contornò col suo corpo, senza aggiungere parole. Se avesse reagito male lo avrebbe accettato.

In effetti l’inglese di primo istinto si irrigidì, tirandosi indietro con le spalle e la nuca, ma nel giro di alcuni secondi decise di lasciarlo fare. Non era una cosa insolita che si abbracciassero, solo che c’era ancora la stridula voce dell’orgoglio che gli suggeriva di trattenersi e non concedersi agli slanci dell’amico. Tuttavia, avendo scelto senza neanche troppa consapevolezza la strada della lenta e faticosa riconciliazione, rigettò con una figurata scrollata di spalle quella voce che gli suggeriva di respingere l’americano a tutti i costi. Alla fine avrebbe anche potuto interpretarlo come un gesto caritatevole verso l’altro, il che l’avrebbe aiutato a sentirsi meno incoerente verso se stesso.

Poggiò a sua volta il viso accanto a quello dell’altro, sfiorandone la guancia con la frangetta e trattenendo per qualche istante il respiro, nell’attesa che il contatto finisse presto così da non dimostrare implicitamente che aveva nostalgia di quel calore. Anche a lui sarebbe mancato durante le vacanze, questo era indubbio. Ma al tempo stesso accettava il cambiamento come un volere indiscutibile di qualcuno o qualcosa che la maggior parte delle volte si limitava a chiamare destino. Magari sarebbe stato per il meglio. Se c’era una cosa di cui aveva particolarmente sentito il bisogno in quell’ultima metà dell’anno era di uscire dagli schemi. Un bisogno che lo aveva spinto anche a compiere alcune pazzie, almeno dal suo punto di vista. Prima fra tutte, quella di essersi messo in casa un francese promiscuo. Eppure, almeno fino a quel momento, non aveva avvertito grandi novità. Nonostante bramasse così tanto un rinnovamento della propria esistenza e una metamorfosi interiore così radicale da sconvolgerlo e da salvarlo dai propri demoni e debolezze, tutto continuava a scorrere allo stesso modo, identico e inesorabile. I soliti sogni, le solite giornate, le solite abitudini, le stesse paure e gli stessi difetti, gli stessi visi, lo stesso disinteresse, la stessa apatia. Di nuovo la ben conosciuta pulsione di rigurgitare ogni tozzo di quell’esistenza che gli stava così stretta, così scomoda, così insopportabile. Lasciarsi vivere dagli accadimenti era diventato l’unico modo sostenibile col quale avrebbe potuto continuare a mantenere un patto di reciproca tolleranza fra lui e la propria indomita ritrosia verso tutto e tutti. Rendersi passivo ai limiti dell’autostima era stato facile all’inizio, anzi confortante; pensava che avrebbe potuto cavarsela in quel modo in eterno. Peccato che col passare del tempo fosse invece peggiorata la sua stravaganza e volubilità. Perfezionava costantemente un atteggiamento sempre più lunatico, mentre nutriva il proprio orgoglio con un’indifferenza senza pari verso tutto ciò che superasse i confini dei propri interessi. Effettivamente, aveva messo su un gran bel quadretto di presentazione. Non lo stupiva il fatto che non avesse una nutrita cerchia di amici, né che la maggior parte delle persone preferisse evitarlo. Come dar loro torto. Ed ecco che lo faceva di nuovo: volare da un pensiero all’altro a ruota libera per poi giungere sempre allo stesso indistruttibile nocciolo concettuale. In fondo, era più facile di quanto non sembrasse: semplicemente, Arthur Kirkland era infelice.

Rigettò nel caveau della propria coscienza questi sprazzi di pensieri amari con un sospiro affaticato, mentre con un gesto garbato ma deciso si scostò dall’americano ancora con le braccia intorno a lui. Alzò lo sguardo verso l’altro incrociandone gli occhi sinceri nascosti dietro il riflesso delle lenti; gli sorrise impacciato, quasi inconsapevole della piega verso l’alto che avevano assunto le sue labbra. Bisbigliò delle frasi di circostanza, ancora una volta, ma senza nascondere a se stesso che c’era del vero in quelle parole. – Dai Al. Adesso devi andare. È tutto apposto, viaggia pure tranquillo. Ci vedremo a Pasqua, okay? – I suoi palmi delle mani poggiavano sugli avambracci dell’americano, come se volesse sorreggerlo, mentre i suoi occhi erano ancora fissi e attenti su quelli di Alfred. Lui sorrise cercando di nascondere una certa malinconia; una battaglia persa, visto che non era mai stato capace di mentire credibilmente quando si trattava del proprio umore. Tornò in posizione retta con la schiena, abbandonando del tutto la presa intorno all’amico. Inspirò a lungo come se dovesse andare in apnea, quindi ruotò il busto per afferrare nuovamente il trolley e la borsa al suo fianco. Era difficile doverlo salutare fingendo che non ci fosse nulla di diverso. Scrollò le spalle cercando di alleggerirsi dalla lieve agitazione che lo aveva colto, quindi rispose annuendo con vigore per rassicurarlo ed imprimergli nel ricordo un’idea di certezza assoluta. – Certo! – Restò a fissare l’inglese, ma più ripercorreva i dettagli del suo viso più il suo senso di colpa lo pungeva, interiormente e profondamente. Fece un cenno con la mano ed un ultimo sorriso prima di voltarsi su un fianco e cominciare a camminare verso la vetrata. Per quegli istanti in cui camminò deciso e a testa bassa verso il proprio volo, alle sue orecchie giunse chiaro soltanto il rumore delle ruote del trolley sulla pavimentazione chiara e liscia dell’ambiente. Cominciò a sentirsi un reo confesso che, mortificato delle proprie turpi azioni, procedeva mesto ma dignitoso verso la propria cella di isolamento, accettando stoicamente la pena per i proprio peccati. Era curioso come tutto quell’imbarazzo e quella frustrazione che lo stavano pervadendo adesso non lo avevano nemmeno sfiorato per tutto il tempo in cui aveva potuto osservare Arthur bene in viso e parlargli. Sembrava che la sua assenza, fisica o visiva che fosse, gli ricordasse molte più cose che non la sua presenza. Sarebbe stato un boccone molto più amaro da ingoiare di quanto avesse pensato.

Ah! – Esclamò. Un pensiero gli aveva attraversato il cervello come un lampo. A dire il vero era una cosa piuttosto importante, che si era ripetuto più volte di dirgli durante la sua breve permanenza a Londra. Non sarebbe potuta capitare più puntuale visto che di certo sarebbe stata un’occasione per concludere il loro addio in maniera meno imbarazzante. Si voltò di centottanta gradi con la stessa velocità di uno schiocco di dita, puntando l’indice verso l’amico ora distante e parlandogli a gran voce, con tono energico e un sorriso a trentadue denti. – Ehi! Ricorda sempre che se quel francese fa qualcosa di sbagliato devo essere il primo a saperlo, chiaro? – Domandò retorico con un rapido cenno del capo. Arthur non solo sorrise a quella frase ironicamente incontestabile, ma finì col cedere anche ad una modesta risata. Distese le spalle e, rendendosi complice di quell’umorismo, gli rispose coerente con un ampio sorriso: Naturalmente Al. Saresti certo il primo a saperlo. – L’americano parve ben soddisfatto della risposta e pertanto gli bastò sollevare un braccio in segno di saluto un’ultima volta per poter tornare sui propri passi, attraversando la porta vetro scorrevole e ben intenzionato a non voltarsi ancora. Aveva fatto bene a dirglielo. Si sentiva già un po’ meglio adesso che l’ultimo ricordo di Arthur era rappresentato da un viso divertito e sorridente. Almeno questo avrebbe alleviato il suo senso di colpa durante le nove lunghe ore di volo. Tirò fuori dalla tasca del giaccone il passaporto e si avvicinò alla zona del controllo documenti. Rallentò il passo a poco a poco, arrestandosi poi del tutto a meno di cinque passi dalla fila di persone in attesa del loro turno. Era una tentazione troppo forte per resistervi e lui non era mai stato un asso in coerenza e autocontrollo. Espirò, rimproverando a se stesso la propria inettitudine, e decise di voltarsi indietro ancora quell’ultima volta, con un movimento rapido e deciso, allo stesso modo di come preferiva levarsi i cerotti con un unico strappo netto.

Arthur non era più lì fuori, oltre la vetrata. Era già andato via. Da un lato peccato, pensò, avrebbe voluto seguire un’ultima volta la sua figura elegante che camminava lontano, verso l’uscita; dall’altro meglio, almeno non avrebbe avuto rimpianti pensando che forse avrebbe potuto vederlo un’ultima volta se si fosse voltato di nuovo. Si mise finalmente in fila, chinando la testa sul passaporto che teneva in mano, senza concentrarsi su nessun dettaglio in particolare. “È stata la seconda volta in cui mi hai scartato come se fossi un estraneo di cui non ti importa nulla.” Di nuovo queste parole gli tornarono alla mente, come un mantra. Le conseguenze furono piuttosto inevitabili: non passarono molti secondi prima che i ricordi di Alfred tornassero a un pomeriggio di primavera, terso e lucente come un vetro, di diversi anni prima. Quella prima volta in cui lo aveva ferito in maniera indelebile.

 

 

 

 

– Che hai detto? –

Gli occhi luminosi e verdi dell’inglese si erano improvvisamente spenti, appannati da uno stupore troppo grande per non manifestarsi anche in quelle sue fulgide iridi. Ogni suono intorno a loro appariva insignificante quanto un dettaglio trascurabile. La sua attenzione era completamente rivolta al viso dell’americano che aveva appena pronunciato delle parole che avrebbero cambiato per sempre gran parte del loro rapporto. – Che significa? Stai scherzando, vero? –

Alfred aveva interrotto i suoi dondolamenti sull’altalena e lasciava adesso che le catene esaurissero da sole la spinta. Il suo sguardo era basso, rivolto al terriccio scuro ai suoi piedi, mentre la sciarpetta leggera che aveva al collo gli copriva le labbra rendendo impossibile scorgere una sua ben definita espressione facciale. Si voltò verso l’amico, scuotendo un poco la testa per abbassare il tessuto che gli copriva la bocca.

– No, davvero: torno negli States. Torno a casa. – L’inglese non riusciva a mettere due parole di fila in quel momento: manteneva gli occhi sgranati e le labbra dischiuse, pensando a un’infinità di domande nella sua mente, ma non riuscendo a realizzarne verbalmente nemmeno una delle tante. – Ho deciso che mi iscriverò lì al liceo. Sarà come un nuovo inizio, una nuova vita. Magari riuscirò a ricordare qualcosa in più di quando ero piccolo. – Il più giovane calciò con noncuranza un sasso ai suoi piedi. – A-aspetta scusa.. – Riuscì a pronunciarsi Arthur ancora scosso dalla notizia. – Stai dicendo che hai già deciso di andare? Lascerai Londra per sempre? Ma…tua zia? – Alfred scrollò le spalle e rispose accennando un sorriso. – È tutto già deciso. Nel giro di qualche giorno acquisterò i biglietti. Anche Matthew vuole venire con me e bé, riguardo nostra zia, direi che se da un lato le dispiace lasciarci, dall’altro penso sia felice di vederci tornare negli States. Prima o poi doveva succedere tanto, e io sono pronto adesso. –

– Ma perché non me ne hai parlato prima? Guarda che sei ancora giovane per una cosa del genere, e poi da chi starai? Come vivrai? Ma insomma, non puoi annunciare una cosa del genere da un giorno all’altro! – Disse con tono apprensivo l’amico, alzando la voce e guardandolo in parte severo, in parte preoccupato; ma la sua tattica sembrò non avere il minimo effetto sull’altro, il quale continuava a fissare il terreno sotto ai suoi piedi con aria inflessibile. – A quattordici anni non si è più bambini, Arthur. Io ho scelto la mia strada come tu hai scelto la tua. Quest’anno inizierai l’università, ed è quello che hai sempre voluto. Anch’io ho fatto la mia scelta, ed è questa. Non ho intenzione di ripensarci, non pretendo nemmeno che tu capisca. – Quelle parole cominciavano a ferire l’inglese sempre più confuso. – Ma perché non me ne hai parlato prima? Mi consulti solo a cose fatte per rendermi noti i tuoi progetti di vita? Non è corretto! E poi perché parli in questo modo freddo e distaccato? Pensi di sembrare più maturo in questo modo, eh? –

Alfred infine sollevò il volto, guardando Arthur come non era mai successo prima, carico di un’imperturbabilità e di una determinazione che erano sconosciute all’inglese. – Non sono qui per chiederti il permesso. Cosa ti aspettavi? Che sarei rimasto qui a giocare con te e a farti compagnia per il resto della mia vita? Anch’io voglio crescere, fare le mie scelte, vedere tanti luoghi diversi, realizzare i miei progetti. Se la cosa non ti sta bene poco mi importa, io ho già deciso; mi sembrava solo giusto fartelo sapere, ma certo non ho mai pensato di doverti interpellare riguardo una scelta che appartiene e spetta solo a me. –

Fu come una scarica elettrica. Quelle parole che non avrebbe mai dimenticato erano state marchiate nel recinto della memoria. Né sarebbe sbiadito il ricordo del suo sguardo e della sua voce: freddi al punto di essere riusciti ad alzare un muro invisibile tra di loro. È difficile descrivere le sensazioni che invasero il cuore dell’inglese in quel momento: dolore, tradimento, rabbia, mortificazione. Era come se gli si fosse spalancato un baratro sotto i piedi e lo avesse inghiottito, precipitando al suo interno in una caduta libera che forse non avrebbe più toccato fine da quel giorno in poi. La gola, improvvisamente secca, cominciò a fargli male e una sensazione di intorpidimento generale lo colse in tutti gli arti. Si sentì così piccolo in quel momento. Così impotente. Così stupido. Si vergognava immensamente di aver sopravvalutato se stesso fino a quel punto. Che diritto aveva in fondo di parlargli in quel modo? Non aveva alcuna autorità per entrare così prepotentemente nella sua sfera personale e privata. Era stato davvero un idiota. Un idiota inopportuno. E se ne vergognava grandemente. Le parole di Alfred, per quanto dure o crudeli, lo avevano messo davanti a quella verità rendendogliela comprensibile. Non aveva davvero alcun diritto di protestare. Per quanto lo addolorasse, evidentemente Alfred non poteva appartenere a quel luogo e a quel tempo. E tantomeno poteva appartenere a lui, ad Arthur Kirkland.

Ruotò gli occhi verso il basso, assaporando quella fitta dolente che cresceva nel petto. Provava vergogna anche solo ad incrociare gli occhi dell’amico e lo sforzo di parlare per dare una risposta fu immane.

– Scusami. – Fu la prima parola che gli venne in mente. – Hai ragione. Non volevo sembrare egoista. È ovvio che è una tua scelta. Forse ho reagito così solo perché mi spiace che tu te ne vada. Ma è un problema mio in fondo. – Un tiepido vento di primavera inoltrata mosse i capelli biondi dei due ragazzi, lasciandoli nel silenzio. Il profumo del polline saliva per tutto il viale e si espandeva in quella piccola isola di verde attrezzata con qualche gioco per bambini. Il sole era alto, luminoso, le strade calme e deserte. Era uno splendido pomeriggio di maggio. Il più infelice che Arthur ricordasse. Quello in cui aveva capito di aver perso in qualche modo il suo migliore amico, o almeno una parte importante di lui, costretto ad ingoiare ancora una volta l’amara pillola del tradimento e dell’abbandono.

L’americano sembrò non avere intenzione di rispondere. Sapeva di essere stato duro; in effetti per lui non era esattamente un periodo facile. La sua serenità doveva fare i conti con la difficile età dell’adolescenza e di quelle scelte che nella peggiore delle ipotesi cambieranno per sempre la propria vita futura. Ma su una cosa aveva indubbiamente ragione: si sentiva pronto e determinato. Col senno di poi e guardandosi ora all’età di diciannove anni indietro, avrebbe certo risposto che in quel momento era la scelta di cui aveva maggiore bisogno: il cambiamento. Spesso non ci sono spiegazioni in merito a tali salti nel vuoto; si necessita di qualcos’altro, di esperienze che nemmeno noi stessi sapremmo spiegare, ma intanto si è sicuri di trovarle in quel luogo lontano che si sente sempre più il bisogno di raggiungere. Lasciare gli affetti, le persone, i luoghi, le abitudini. Appallottolare tutto quanto come una brutta copia di un tema e gettarlo con un colpo secco nel cestino. Era qualcosa di molto vicino a ciò che provava in quel momento Alfred. Probabilmente non avrebbe voluto ferire nessuno, ma come diceva Hegel: affinché qualcosa nasca, è necessario che qualcos’altro prima muoia. Come in un cerchio. Nella vita così come nei rapporti umani. Si muore e si risorge. Quel giorno, era stata una parte del cuore di Arthur a morire.    

Si sforzava per mantenere le mani ferme e prive di tremori, cercando di rinchiudere in una giara di cristallo quel male interiore che si espandeva come olio, desiderando imprigionarlo nel fondale dei ricordi. Come il più prezioso e doloroso dei segreti. Non aggiunsero molto altro. L’inglese riuscì a spiccicare qualche altra parola, giusto quelle necessarie affinché l’americano potesse capire che aveva solo voglia di tornare a casa. Dal canto suo, Alfred non riuscì a rivolgergli le parole che avrebbe voluto. Desiderò dirgli che non voleva sembrare disinteressato e insensibile, desiderò chiedergli perdono per la sua crudeltà. Eppure non vi riuscì. Lo guardò andare via osservando la sua schiena che gli appariva più stretta del solito. Contò ogni passo che gli vide compiere, cercando in ognuno di quei secondi di urlare verso di lui, richiamarlo, recuperare, espiare la sua colpa con una sola e semplice parola. Ma lo vide voltare l’angolo mentre ancora muoveva le labbra senza poter emettere un soffio di voce, colpevole di aver fatto credere al suo unico vero amico che davvero non contasse, e che in fondo non gli sarebbe importato più di tanto essere separato da lui da un intero oceano. E come Arthur in quel pomeriggio portò con sé il segreto di essere stato ferito in maniera così intima e profonda, così Alfred conservò il segreto di avergli domandato perdono ogni singolo giorno della sua vita, in cuor suo, per quelle parole. Ma aveva mancato l’occasione. Decise che non essendo riuscito a scusarsi in quello stesso pomeriggio, mentre lo vedeva andare via, non lo avrebbe più fatto. Avrebbe mantenuto il segreto. Niente in quella giornata avrebbe mai cambiato i suoi progetti, nonostante il suo spirito fosse pentito: sarebbe tornato negli Stati Uniti, lì da dove proveniva, lì dove era cresciuto per quei suoi pochi primi anni di vita. La terra della sua famiglia e il luogo dal quale era sicuro avrebbe cominciato una nuova vita. Londra era stata la sua città, era vero, e ne conservava i ricordi più belli. Ma già sapeva che infine non sarebbe stata né la città né la sua vita di prima a mancargli. L’unica cosa di cui avrebbe avuto nostalgia sarebbe stata una sola persona; e sarebbe stata lui, Arthur. Un giorno, chissà, forse gliel’avrebbe detto.

Alla fine quel giorno, quel pomeriggio di maggio, rimase nel ricordo di entrambi un cambio di rotta: un evento che aveva incrinato qualcosa nel loro rapporto, ma che in qualche modo si sforzavano ad ogni incontro di recuperare, di aggiustare. Un’opera di restauro che nessuno dei due sapeva se sarebbe andata a buon fine o meno, se avrebbe visto una fine, una conclusione felice. Da quel momento in poi cominciò la loro vita a distanza, la loro corrispondenza saltuaria e singhiozzante durante la quale avevano l’occasione di riunirsi solo durante le feste e l’estate. Momenti in cui entrambi si ritrovavano più maturi; diversi ma allo stesso tempo sempre gli stessi nell’essenza, in ciò che l’uno amava riconoscere nell’altro. Quella ferita non sarebbe stata cancellata: chi l’aveva subita non aveva alcuna intenzione di lasciare che cicatrizzasse, mentre chi l’aveva inferta era aggrappato ad essa come se fosse una questione ancora aperta, per la quale un giorno avrebbe forse sperato di ricevere il perdono. La loro relazione era continuata grazie ad un silenzioso consenso, accompagnato dalla consapevolezza delle imperfezioni della loro amicizia. Era andata piuttosto bene, fino a quel momento; ma era pura illusione pensare che successivi errori sarebbero potuti essere tollerati. L’americano era già a quota due. Forse era il momento di ritirarsi per un po’, fare un passo indietro e riflettere attentamente, dare tempo al tempo, cose di questo genere. Avrebbe recuperato anche quell’ultimo sbaglio alla fine, ne era certo. Tuttavia, avrebbe anche desiderato non fare più errori, non essere più costretto a incontrare quel senso di colpa acerbo e penoso. Evidentemente era più complicato di quel che pensasse. E la dolce ironia di tutta quella loro storia, era proprio il fatto che, a discapito di tutto, Arthur Kirkland e Alfred F. Jones fossero infine giunti, pur in tempi, età e contesti differenti, ad avvertire la stessa profonda esigenza: ancora una volta, il cambiamento. All’americano era accaduto prima ed era stata un’esigenza dettata in parte dalla giovane età, in parte dalle sue radici affettive che gemevano per essere riconosciute e rivisitate. All’inglese accadeva invece adesso, nella maturità, e si trattava di un’esasperazione, non oltre tollerabile, di un sentimento di sterilità e malinconia che lo accompagnava da troppo tempo ormai. Diversi, ma in fin dei conti uniti da esperienze ed emozioni simili.

In qualche modo si sarebbero riavvicinati. Lo sapevano entrambi. Avrebbero semplicemente atteso il momento giusto per ritrovare lo sguardo dell’altro e comprendere da quegli occhi che potevano riprendere da dove si erano scioccamente, goffamente e ingiustamente interrotti.

 

 

 

 

 

Sogno, ora dove sei?

Sono passati lunghi anni

Dal giorno in cui vidi morire la luce

Sulla tua fronte d’angelo –

 

Sventura, sventura per me

Eri così bello e luminoso,

come potevo pensare che il tuo ricordo

non mi avrebbe portato che pena?

 

Il raggio del sole e la tempesta,

la sacra sera d’estate,

l’immobile calma notte solenne,

il limpido splendore del plenilunio

 

un tempo si intrecciavano a te

ora si intrecciano alla pena –

visione perduta! È finita per me –

non puoi tornare a risplendere – ⁽⁴⁾

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

⁽¹⁾ “Ma sì”, “certo”, in francese.

⁽²⁾ “Grazie mille”, in francese.

⁽³⁾ Località costituita da due grandi parchi naturali, vicino Toronto.

http://en.wikipedia.org/wiki/Centennial_Park_(Toronto)

⁽⁴⁾ Emily Brontë, “O Dream, where are thou now?”.

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Capitolo 24
*** Capitolo 24 - Parte 1 ***


Capitolo 24 - Parte 1

Il buio sembrava essere arrivato prima del previsto quella sera. Per fortuna le sfavillanti luci delle case e delle strade contribuivano a rendere quella serata ancora molto lunga. Ticchettava distrattamente con la forchetta sul piatto, allungando lo sguardo verso la porta finestra della cucina per scorgere neanche sapeva lui cosa al di là del vetro. – Allora, com’era? –

La voce del francese lo fece voltare e gli sorrise senza farci troppo caso. – Oh, squisita. – Ma si rese subito conto che la distrazione lo aveva portato ad eccedere troppo nella sincerità dei complimenti, quindi tentò di rimediare goffamente. – Voglio dire, non male. Buona, sì. Direi buona. – Si tappò la bocca con un’altra forchettata di pesce, sogliola per la precisione. Volendo essere ancora più esatti, sogliola alla mugnaia.⁽¹⁾ Quindi, seduto com’era sul marmo del ripiano della cucina, cominciò a dondolare le gambe nel vuoto sperando di non essersi compromesso troppo. Francis, ben lungi dall’essere ingannato, sorrise di fronte all’ennesimo tentativo di affievolire le sue abilità e, sorseggiato un altro goccio di vino bianco, rispose baldanzoso. – Ti ringrazio tanto, Arthur. – Ostentando una certa forzatura ironica nel tono, tanto per fargli sapere che l’aveva beccato nel malriuscito auto salvataggio. Poggiò entrambi i gomiti sul tavolo poco distante e continuò a mangiare a sua volta. L’inglese preferì un repentino cambio di discorso. – Anche il vino è buono. Sicuro davvero che lo posso prendere anch’io? – Domandò con insolito garbo andando a sollevare il bicchiere al suo fianco, per osservarne il chiaro contenuto alcolico all’interno sotto la luce artificiale della lampada a parete. – Certo! Te l’ho detto, me l’ha dato mia madre per le feste, quindi se non lo usassi oggi sarebbe sprecato, non trovi? E poi è così dolce, sarebbe un peccato non berlo. –

– Anche il risotto comunque era buono. – Aggiunse Arthur poco prima di scolarsi il secondo bicchiere. L’altro giovane sorrise, trattenendo una provocazione gratuita. – Erano ottimi gli scampi, quindi è venuto molto bene e.. – Continuò osservando dall’alto al basso la figura dell’inglese seduto a gambe all’aria sulla cucina. – ..vacci piano con quello, buongustaio. Potrebbe farti girare troppo la testa. – Scosse la testa, come per mandare più facilmente giù quello che aveva bevuto forse con troppa fretta, posando poi il bicchiere sul ripiano. – È solo che di solito non bevo vino. – Si giustificò. – Me lo hai detto. Sei più un tipo da birra o superalcolici, vero? – Domandò retorico il francese ormai agli ultimi bocconi del piatto. Il suo interlocutore scrollò le spalle, volgendo lo sguardo all’amico seduto. – Temo di sì. – Si limitò a rispondere senza colpo ferire. – Lasciati lo spazio per il ratatouille, mi raccomando. Se non assaggi quello mi offendo. – Concluse con un occhiolino. L’inglese sorrise di nuovo -forse l’alcool lo stava distendendo un po’ troppo- e finendo l’ultimo boccone di sogliola rispose mentre ancora masticava. – Tranquillo, ne ho voglia. Assaggio tutto. – Francis poggiò la schiena all’indietro e sorrise ampiamente. – Fantastico allora! Così magari riesco a farti mettere su qualcosa. – Il ragazzo sembrò non capire il riferimento del francese e rimase a fissarlo con aria di attesa. – Qualcosa cosa? – L’altro biondo alzò in un gesto morbido le mani come se stesse riflettendo su una risposta. – Non so, un chilo forse. O uno e mezzo. O magari due, direttamente. – La sua espressione era pacifica e pertanto l’inglese sospirò un lamento innocuo mentre scendeva lentamente dal ripiano, tornando con i piedi a terra. – Bah, non ho bisogno di ingrassare. – Rispose conciso mentre portava il piatto e il bicchiere sul tavolo, andandosi a sedere di fronte al compagno. – Ma se posso permettermi, non eri messo tanto bene quando sono arrivato qui dentro. Diciamo che la tua alimentazione mancava…di qualche elemento, ecco. – Arthur, stranamente ben disposto al dialogo e con le difese ancora abbassate, decise di interagire. – Ah sì? E in base a cosa lo diresti? – Domandò poggiando il mento sul palmo di una mano. – Bé, il tuo frigo era uno spettacolo avvilente. – Trattenne una risata tra i denti e, senza aspettarselo, il francese poté godere della vista di una spontanea risata da parte dell’inglese. Sembrava così rilassato; un po’ strano se pensava al fatto che solo alcune ore prima aveva salutato Alfred in aeroporto. O magari era proprio per quello. – Ahah, sì bé…non è che mi andasse di impegnarmi poi tanto nel fare la spesa, sai. Tantomeno nel cucinare. – Si portò una mano alla frangetta, sistemandosi qualche ciuffo. – Per questo ci sono io, allora! – Esclamò battendo entrambi i palmi sul tavolo e ammiccando con un altro occhiolino, alzandosi poi per andare a prendere l’altra portata. – Ratatouille!⁽²⁾ - Esclamò come se stesse presentando un ospite importante. Afferrò saldamente l’ampia ciotola di coccio che aveva lasciato coperta da parte, poggiandola poi al centro del tavolo e scoperchiandola. Servì per primo Arthur, assegnandogli un’abbondante porzione, quindi si occupò di sé e infine poté finalmente sedersi al suo posto. Non poté fare a meno di lanciare qualche occhiata furtiva al ragazzo per sondarne reazioni ed espressioni facciali. Sembrava andasse bene.

– Ci saranno i fuochi a mezzanotte. E da qui sentiremo anche il coro e l’orchestra a New Cross. – Disse l’inglese dopo qualche minuto di silenzio. – Oh, magnifico. Potremmo uscire e andare a vedere quindi? – Domandò con garbo Francis, non volendo forzare la volontà dell’altro. Arthur rispose positivo, con un sostenuto: ­– Certo. –

C’era qualcosa che non quadrava del tutto al francese, in effetti. Non che gli dispiacesse osservare un po’ di distensione negli atteggiamenti del coinquilino e, forse azzardando, anche un timido buonumore; non era quello. Ma percepiva una certa mancanza di spontaneità nel suo umore. Aveva l’impressione che stesse cercando di imporsi un’impacciata contentezza che tuttavia sembrava così distante dai suoi veri pensieri. Magari stava cercando di sostituire sentimenti più bui con uno stato d’animo diverso e più sereno. O forse non voleva semplicemente dare a vedere che disprezzava quel capodanno indubbiamente inconsueto, anzi estraneo. La fulminante sensazione di essere di troppo e di non essere gradito gli fece interrompere il pasto per alcuni lunghi istanti, trascinandolo in un limbo pensieroso dal quale lo trasse fuori lo stesso inglese.

– Francis? – La sua voce riecheggiò nei timpani del francese, facendolo cadere dalle nuvole. – Oui?⁽³⁾

– Non ti addormentare per favore, ti vorrei lucido almeno fino al countdown. – Aggiunse il ragazzo che ormai aveva quasi finito il suo piatto. Sembrava stranamente vorace quella sera. Francis rise con un leggero imbarazzo che non riuscì a celare; in genere non si distraeva fino a quel punto tra i propri pensieri; non quando era in compagnia almeno. – Oh no, no. Ero solo sovrappensiero, scusami. Spero ti piacciano le verdure a proposito. – Rispose tornando finalmente a mangiare. – Le ho gradite, ti ringrazio. – Il francese sorrise di nuovo, pensando che trovasse davvero degli accorgimenti minuziosi pur di non fargli un complimento. Alzò il volto, facendo roteare a lungo lo sguardo nella cucina, saltando da un’angolazione all’altra come se stesse cercando di ingannare il tempo. Poi i suoi occhi incontrarono l’orologio a parete.

– Sono già le nove. – Commentò ad alta voce.

L’inglese poggiò la forchetta sul tovagliolo, sospirando dopo la sua prova di velocità con il ratatuoille; si distese sullo schienale, strizzando a malapena gli occhi. – Il concerto inizia alle undici, ma non dobbiamo per forza andarlo a sentire. Possiamo uscire per il conto alla rovescia finale e sentirci il concerto in sottofondo e vedere quel che si riesce dei fuochi. Che ne dici? – Propose abbastanza sicuro che il francese non avrebbe soprasseduto. – Dico che è un ottimo programma! Nel frattempo potremmo giocare a carte o vedere qualcosa in tv se ti va, oppure.. – Arthur non lo lasciò completare, interrompendolo con un deciso:

– Perfetto. – Alzò poi le braccia verso l’alto, stirandosi la schiena; prese il proprio piatto e bicchiere e li portò al lavandino, dove iniziò a lavarli. Francis, ancora seduto di fronte al proprio Ratatouille da finire, cercò di fermarlo. – Ehi lascia, faccio io. – E si sarebbe anche alzato se solo la minaccia di Arthur non l’avesse raggiunto. – Vedi di restare lì buono e seduto. Posso benissimo lavare i piatti della mia cucina. – Rispose usando un’intonazione che non accettava repliche. L’altro sorrise, obbedendo al comando. Finì senza fretta la sua porzione mentre di tanto in tanto lanciava innocue occhiate all’amico che tanto si stava operando per dare una pulita a stoviglie e cucina. Infine si alzò anch’egli per assisterlo nelle ultime faccende e riporre in frigo gli avanzi. A mangiare il resto ci avrebbero pensato dopo la mezzanotte se ne avessero avuto ancora voglia; i festeggiamenti si preannunciavano densi: fuochi d’artificio, musica, persino un coro. Ad essere sincero Francis pensava sarebbe andata molto peggio quella vigilia e invece si stava ricredendo, soprattutto grazie all’inaspettato buon umore di Arthur; che poi fosse sincero o forzato rimaneva un mistero persino per lui.

Quella sera gli sembrò la prima volta in cui pur ritrovandosi soli insieme per più di tre ore fossero riusciti a non entrare in conflitto. Non vi erano occhiate di avversione inespressa né battutine caustiche sull’altro. Poteva dire che anzi stava andando tutto fin troppo bene. Continuava a pensare fermamente che sotto sotto Arthur Kirkland fosse una persona molto più piacevole e apprezzabile di quel che volesse dare a vedere. Stranamente, la cosa lo onorava e galvanizzava allo stesso tempo, creando un coagulo di entusiasmo che probabilmente avrebbe fatto meglio a tenere a bada. Provava un sottile compiacimento ad essere testimone, e nelle giornate fortunate a volte autore, di quegli sguardi docili dell’altro. Si dice che la fortuna sia una ruota; e come tale, costantemente gira. Doveva proprio essere il suo turno fortunato allora.

Nel completare l’opera di sparecchiamento e messa in ordine si fecero le dieci. Nessuno dei due aveva in mente grandi piani per la serata, ritrovandosi in accordo nel privilegiare attività quali carte e giochi di società, magari accompagnati con della buona musica e qualche ristretta puntata. Presero le carte e giocarono tutti i giochi che entrambi conoscevano, riuscendo a guadagnare qualcosa con un pizzico di fortuna -chi più chi meno. L’inglese fu certo più sfortunato, mentre il maggiore allenamento del francese con le carte gli assicurò maggiore quantità di vittoria e anche di spiccioli. Il tempo scorse via come acqua dal rubinetto e ormai nessuno dei due avrebbe potuto ricordare quante partite avessero effettivamente fatto. Poker, dama, scacchi, bingo, burraco, persino una partitella a Cluedo erano riusciti a farsi. Il clima non poteva essere più sereno: scherzavano e ridevano come se quella fosse un’altra delle tante altre serate di gioco che avevano condiviso insieme. Persino sulla scelta della musica erano riusciti a venirsi incontro: niente melanconia, niente musica impegnata, niente atmosfera natalizia; puro rock progressista contornato da un po’ di new wave. Avvicinandosi poi la mezzanotte avevano invece cominciato a virare verso il post-rock, non preoccupandosi più di tanto ad alzare di qualche tacca il volume delle casse. Insomma, era pur sempre capodanno.

– Dammi quei cinquanta pennies.⁽⁴⁾ – Fece Arthur con uno sguardo che cercava di rendere serio e torvo. Seduto a gambe incrociate sul divano, curvò la schiena verso il francese allungando un braccio verso di lui che terminava con un bel palmo aperto. – Come? – Esclamò con stupore il francese con ancora le carte dell’ultima partita in mano. – Su, forza, quest’ultima l’ho vinta io. Dammi quei pennies. – Continuò l’inglese sforzandosi per essere credibile nella sua cieca determinazione. – Eh no mio caro, ti ricordo che per due partite non hai avuto gli spicci sufficienti per ripagarmi delle mie vittorie. Quindi dovremmo considerare questi pence come una saldatura del debito. – Arthur aggrottò le sopracciglia, avanzando con quel palmo aperto verso l’amico. – Andiamo razza di taccagno, sono solo settanta pennies! – Si lamentò non potendo fare a meno di sorridere. E il francese sorrise di rimando, facendosi indietro con la schiena. – Nah, nah, nah, niente da fare bello mio. Quel che è vinto è vinto. – Poi fece una pausa, divertendosi a far tintinnare i pennies nel suo pungo ben saldo. – Nessuna pietà. – Aggiunse con un’espressione e un tono cinematografici, tanto per prendere in giro il più sfortunato. Arthur sbuffò e mise su un’espressione delusa, poggiando la schiena sul bracciolo del divano. – Spilorcio. –

– Sì, è un appellativo comune che in genere danno ai giocatori più fortunati. – Rispose Francis con un ammicco. – Ho perso solo tre partite in più di te. – Commentò senza astio nella voce, lanciando senza cura le carte della sua ultima mano sul cuscino del divano. – Davvero? Chissà perché io ne avevo segnate almeno dieci… – Commentò l’altro lasciando la frase volutamente in sospeso. – Avrai contato male. – Disse mettendo su un’espressione  buffa che cercava di divagare sull’argomento.

– Chissà, può darsi. – Francis scrollò le spalle in un atteggiamento di amichevole complicità, poi si liberò di una sincera risata che tratteneva da troppo tempo e aggiunse: – Okay, okay Mr. Kirkland, mancano meno di venti minuti all’anno nuovo. Cosa vuole fare? – Domandò divertendosi a dargli del lei. L’inglese diede un’occhiata al suo orologio da polso per avere conferma dell’orario. – Penso che potremmo prepararci per uscire, caro il mio rospo. – E qui un sorriso mai stato così ampio si dipinse sulle sue labbra. – Ehi! Era da un sacco che non mi chiamavi così! Non è carino, proprio alla vigilia di un nuovo anno. – Protestò senza grande serietà il francese, neanche lontanamente offeso. Il suo spasso era così evidente che Arthur non perse neanche tempo prezioso ad ascoltare le finte lamentele: recuperò le scarpe, si alzò dal divano senza preoccuparsi di mettere a posto le carte e afferrò il cellulare sul tavolino di fronte al divano. Avvicinandosi all’ingresso ne osservò lo schermo; c’era un messaggio da parte di Alfred. Lo lesse con attenzione, ma senza temporeggiare. Non che ci fosse molto da impensierirsi: il ragazzone era arrivato a destinazione, saluti vari da parte di Matthew e ovviamente auguri per i festeggiamenti del nuovo anno. Piegò le labbra da un lato, pensando che avrebbe dovuto fargli piacere quell’interessamento, ma nonostante tutto non riusciva a definirsi entusiasta. Fu il primo messaggio da parte di Alfred che lasciò in memoria dopo tanti mesi.

Afferrò il giubbotto, già con i pensieri altrove rispetto al Canada e al suo amico, rivolgendosi ora al francese. – Allora andiamo? Se non ti sbrighi perderemo i fuochi. – Francis mandò giù l’ultimo sorso di tropical che si era preparato prima, per bagnarsi la gola durante le partite. Si avvicinò a grandi passi all’inglese, raggiungendolo e prendendo il giaccone a sua volta. – Eccomi, eccomi. Non vedo l’ora di vedere questi fuochi britannici. – Commentò ironico, stupendosi del fatto che l’altro avesse ignorato la provocazione liquidandola con un sospiro.

Fuori era freddo. Un freddo così non lo ricordava nemmeno quando lui e la madre erano stati invitati a festeggiare il Capodanno a Saint-Malo,⁽⁵⁾ ospitati da un’amica. Sentiva le lame del gelo conficcarsi nelle guance scoperte, mentre col mento cercava rifugio nella sciarpa di lana. Il viale era inaspettatamente pieno di gente: bambini, ragazzi e famiglie che camminavano lungo i marciapiedi, altri che si erano direttamente accampati sulla strada per aspettare lo spettacolo pirotecnico, altri ancora con il naso all’insù e la fotocamera alla mano pronti per riprendere il primo lancio. Riusciva a distinguere abbastanza bene anche la musica che veniva suonata a New Cross, accompagnata da splendide voci, dolci e perfettamente sincrone.

– Accidenti, è pieno di gente qui! – Esclamò Francis. – Sì. È un quartiere popolare, sarebbe improbabile che qualcuno di qui si comprasse il biglietto per il concerto all’aperto di New Cross. Anche se l’audio non è eccezionale, tanto vale ascoltarlo a distanza. E poi i fuochi si vedono niente male da qui, siamo fortunati. –

Arthur chiuse casa e avanzò per il vialetto raggiungendo il francese e mettendosi le mani infreddolite nelle tasche. – Farai gli auguri a tua madre? – La domanda gli venne spontanea, ma non ne identificò il motivo. Per un attimo si vergognò di avergliela fatta. – A Parigi sono già nell’anno nuovo, le ho mandato un messaggio poco fa, quando eri in bagno. Dopo la chiamerò. – Rispose allegro. L’inglese si rassicurò del fatto che la sua domanda non avesse scomodato né infastidito il suo interlocutore e rispose pertanto con un sorrisetto di circostanza. – E tu non chiamerai i tuoi? – Domandò di rimando il biondino col pizzetto.

Pessimo azzardo, pensò subito dopo il parigino. Quasi dimenticava che Arthur non sprigionava grande entusiasmo a parlare della propria famiglia. Peccato se ne ricordò solo a frittata già fatta; cercò di trattenere il nervosismo causato dalla terribile gaffe e si precipitò per tentare un recupero. – Cioè, scusa. Lo so che non sono affari miei. Mi era solo sorta spontanea come dom- – Il ragazzo lo interruppe con una smorfia pacifica. – Non fa niente. In realtà non c’è niente di male a chiederlo. – E subito dopo aggiunse con un sospiro: – Sicuramente chiamerò i miei, dopo la mezzanotte. A meno che non siano loro a chiamare prima me, cosa assai più probabile. – Con ancora le mani in tasca l’inglese saltellava con lo sguardo dal francese alla folla e viceversa. I ragazzini del suo quartiere erano più rumorosi del solito in quella serata. Come dar loro torto. Fece spallucce, rinnovando un’occhiata neutra verso l’amico per spezzare quell’imbarazzo ingiustificato. – Tu hai comprato qualche aggeggio? – Domandò con interesse.

L’altro sembrò non capire lì per lì. – ..aggeggio? – Ripeté con tono demarcativo. – Sì insomma, qualche piccolo fuoco d’artificio, stellina, scoppiettini vari, no? – Fece qualche passo verso di lui. – Hai niente? – Francis aprì la bocca assumendo un’espressione di stupore, avendo capito solo ora a cosa si riferisse.

– Aaah, quelli dici! No, mi spiace; non ho comprato nulla del genere. – Concluse con un tono leggermente rammaricato. L’inglese non sembrò soffrirne. – Poco male. – Disse conciso tirando appena su col naso. Si gelava proprio. Soprattutto rimanendo fermi in piedi come pali ad osservare il resto intorno a sé. I due ragazzi rimasero lì in mezzo alla strada immobili, in silenzio, a guardarsi intorno e poi a guardarsi l’un l’altro, probabilmente non avendo idea di cosa aggiungere per riprendere una conversazione. Fu il più giovane che alcuni secondi dopo riprese a parlare. – A cosa avevi pensato? – Domandò osservando bene negli occhi l’altro, con aria di rimprovero. Il francese rispose con sincera ingenuità. – Excuse moi?⁽⁶⁾ – L’inglese sembrò non gradire quell’atteggiamento. – Avevi pensato a cose strane, non è così? – Lo incalzò con maggiore insistenza. – Mh, ad essere sincero…faccio fatica a seguirti. – Arthur alzò gli occhi al cielo, scuotendo per un attimo le mani nelle tasche. – Sì, come no. Figurati se non hai pensato ad altre cose con quel “aggeggi”. – Il francese collegò immediatamente, esclamando tutta la sua sorpresa. – Ooh! Ti riferivi a quelli? – Domandò sottolineando col tono l’ultima parola. La cosa cominciava ad essere divertente, e ancora più divertente era il fatto che la nota maliziosa non fosse partita da lui. – Buffo, non ci avevo neanche lontanamente pensato, sai? Non è che sotto la tua pudicizia vittoriana si nasconde un perverso? – Domandò senza preoccuparsi di essere pungente. – Un’altra parola e finisci male. Giuro. – Il tono questa volta era più minaccioso. – Ma non ho cominciato io, sei tu che hai pensato a strani aggeggi. – Continuò il francese, sempre enfatizzando la parola colpevole di ambiguità. – La vuoi finire? Cercavo solo di anticiparti, visto che la tua porcaggine si spreca! – Francis scoppiò a ridere, per nulla scalfito dagli insulti ancora piuttosto gentili dell’amico.

 – Ahahah! Oddio Arthur, non è che la mia compagnia ti ha contagiato? In questo caso potremmo cominciare a condividere molte più esperienze! – Le sue risate erano talmente forti e spassionate che cominciò a piegarsi in avanti con la schiena, mentre il volto dell’inglese si riempiva di imbarazzo e rabbia, probabilmente anche preoccupato che chiunque vicino a loro potesse sentirli. Tirò fuori dalle tasche le mani e cominciò ad agitarsi, guardandosi un po’ a destra un po’ a sinistra, trattenendosi dal colpire l’idiota dritto sul mento. – Okay, adesso sai che faccio? Cerco un petardo, di quelli belli grossi, e ti ci faccio saltare la testa, che dici? Così la smetti di fare battute sconce e di ridere come una scolaretta sguaiata! – Esclamò con forza, con tono di rimprovero e in parte di disprezzo, già sentendo che le proprie guance cominciavano a tingersi e ad accaldarsi -e stavolta non per il freddo.

– Sì, ecco. – Cercò di rispondere trattenendo le risate. – Bello grosso mi sembra l’ideale. – Quella proprio non riuscì a trattenerla. Era troppo perfetta come battuta per non condividerla con chi, di fronte a una simile ironia doppio sensista, sarebbe sicuramente andato su tutte le furie; e aveva fatto bene i calcoli: Arthur sgranò gli occhi e si avvicinò quasi con un balzo a lui, afferrandogli un avambraccio con forza e tirandoselo vicino per non farsi sentire dal resto della folla. – La vuoi finire con queste stronzate? Sii serio! –

– Come faccio ad essere serio al sera di Capodanno? – Chiese retorico sorridendogli, per nulla infastidito da quella presa tutt’altro che delicata. Come già aveva assodato più volte, far innervosire l’inglese poteva risultare una delle attività più piacevoli che avesse mai scoperto a Londra. Soprattutto se di mezzo c’erano ambiguità scottanti di ambito sessuale.

– Oh, perché invece gli altri giorni la tua integrità ti contraddistingue. – Il francese sorrise ancora. Era più forte di lui: i battibecchi a suon di battute sferzanti rappresentavano il nettare del suo diletto. – Ma tu dovresti rilassarti, Arthur. – Disse pronunciando alla francese il suo nome. – E non storpiarmi il nome, rospaccio. – Francis scrollò le spalle. – Anche tu storpi il mio. – Lo sguardo dell’inglese si fece adesso esasperato. – Sei tu che hai scelto l’Inghilterra per l’Erasmus, non rompere. –

– Ma io adoro l’Inghilterra! – Disse a gran voce e con un sorriso forzatamente vicino all’ebetismo. – Io invece ti detesto e vorrei spaccarti quella faccia da idiota, va bene? – Era riuscito a spazientirlo, ma non ancora così tanto da diventare violento anche fisicamente oltre che verbalmente.

– Suvvia Arthur, non devi prendertela così; pensa che poteva capitarti di peggio. – Commentò tutto allegro, allungando una mano sulla spalla dell’amico. – Cosa esiste peggio di te? – Domandò con genuina incredulità. – Ahah, vieni che te lo dico all’orecchio! – E strinse quindi la presa sulla sua spalla per farlo avvicinare a sé, mentre col volto cercava di raggiungere l’orecchio dell’altro il quale decisamente respinse l’approccio. Cercò di ritirarsi indietro, evitando il più possibile di stargli vicino come se ne fosse disgustato.

– Non ti avvicinare viscido lascivo! Stammi lontano, non toccar- – Poi un grosso boato mise a tacere entrambi. I due ragazzi voltarono all’unisono i volti verso il cielo, constatando che lo scoppio avvertito altro non era che il primo segnale d’inizio dello spettacolo. Le scintille fumanti e lucenti del primo lancio ancora vibravano nel cielo scuro, lasciando scemare nell’aria tante piccole fiammelle di color ocra. Stava iniziando. Le urla di bambini e ragazzi avevano già del tutto coperto gli ultimi riecheggiamenti dello sparo. La gente cercava di radunarsi nei punti in cui la prospettiva era migliore, mentre altri cominciarono ad accendere i propri piccoli razzi, luci, stelle. In lontananza, nonostante il frastuono, si poteva ancora udire la melodia dei canti tradizionali che l’orchestra suonava e il coro eseguiva. All’inglese sembrò di riconoscere le note d’inizio di O Come All Ye Faithful⁽⁷⁾ ma era troppo distratto da tutto il contesto per porvi maggiore attenzione. Francis colpì con una gomitata il fianco dell’amico, esclamando: – Arthur, i fuochi! Iniziano! Dai mettiamoci più in qua! – L’inglese trattenne un’imprecazione solo grazie alla vista di bambini nelle vicinanze e prima che potesse rispondere con un’altra gomitata si sentì trascinare per il giubbotto. – Okay, okay, ho capito! Fermiamoci qui, andrà bene! – E cercò di puntare i piedi per arrestare la folle corsa del francese chissà dove. Il ragazzo teneva il mento costantemente all’insù, come se non volesse assolutamente perdere lo scoppio successivo. Sembrava emozionato come uno di quei marmocchi. – Quello era d’apertura, giusto? Quindi dovrebbero lasciar trascorrere qualche minuto prima che inizi il vero spettacolo. – L’inglese lo ascoltava distrattamente, più concentrato a ricomporsi gli abiti sgualciti dalla sua stretta; il suo sguardo era basso e privo di aspettative. Rispose fiacco, facendo spallucce. – Sì, in genere fanno così. – Francis abbassò finalmente gli occhi sull’amico. – Adesso inizierà la parte in cui i cellulari di tutti squillano e vibrano in continuazione per via delle chiamate e i messaggi di auguri. –

– E la cosa ti entusiasma, vedo. – Commentò superficiale. – No, ma è divertente. – Gli sorrise spensierato.

– Intendo, osservare come in fondo facciamo tutti le stesse cose. – Il britannico sembrava però difficile da abbindolare. – Io non ho alcun cellulare che squillerà o vibrerà in continuazione. – E si rimise le mani in tasca. – Scommetto di sì invece. Almeno un po’. – Il maggiore tornò con lo sguardo verso il cielo, in attesa.

– Tu scommetti un po’ troppo spesso per i miei gusti. – Restarono in silenzio per alcuni secondi, finché Arthur non pensò che avrebbe voluto aggiungere altro in risposta a quei fastidiosi commenti del francese, sempre così sicuri di sé, come se ne sapesse davvero qualcosa di lui. Era un pensiero che lo infastidiva, ma lo realizzava sempre in ritardo rispetto all’enunciazione che lo generava. Schiuse pertanto le labbra per continuare a replicare e aggiungere obiezioni impeccabili, ma il secondo scoppio nell’aria glielo impedì.

Stavolta era verde e giallo e la forma ricordava quella di un fiore. Adesso lo spettacolo stava davvero iniziando. Afferrò velocemente il cellulare dalla tasca per osservarne l’ora e vide che mancava ancora un minuto alla mezzanotte. La gente intorno a loro era euforica e da un gruppo di ragazzi in collegamento tramite cellulare con il countdown televisivo partì la conta: cinquantanove, cinquantotto, cinquantasette…

Tutti si unirono, levando un coro non indifferente mentre i colori dei fuochi continuavano a illuminare splendidamente il cielo. L’inglese ebbe la conferma in quel momento che il canto intonato dal coro in quel momento era proprio O Come All Ye Faithful. Sorrise nella direzione della musica: non era male che potesse godere del sottofondo di uno dei suoi canti preferiti proprio durante il countdown. Nella distrazione generale, notò che Francis si voltò verso di lui dicendogli qualcosa, ma non riuscì a comprendere nemmeno una parola. Si sporse col viso verso di lui, ma prima che potesse tendere l’orecchio qualcos’altro monopolizzò la sua attenzione.

Sentì muoversi qualcosa nella sua mano, anzi, vibrare. Si ricordò di star tenendo il cellulare ancora nel palmo e quando rivolse lo sguardo all’apparecchio lo vide illuminarsi e suonare. Sembrava una chiamata. Odiò profondamente il fatto di riceverla in quel momento perché tutto ciò avrebbe solo assicurato la vittoria al rospo francese che appena pochi secondi prima aveva lanciato un’altra delle sue tante e sciocche scommesse. Detestava che avesse ragione, fosse anche per una cosa così stupida e insignificante. Come si aspettava, Francis non esitò a gloriarsi della propria supposta preveggenza. – Visto? Hai visto? Avevo ragione, una chiamata! Ed esattamente a meno di un minuto da mezzanotte, wow! Che fai, non rispondi? – Domandò con intrattenibile curiosità, peccando di impertinenza. – Vuoi farti gli affari tuoi? Pensa a guardare i fuochi te. – Rispose conciso l’inglese che, sempre più perplesso, si domandava chi potesse essere visto che il display segnava un numero sconosciuto. Il biondo col pizzetto rise, quasi fosse felice di essere la fonte di irritabilità maggiore di quel ragazzo; ma infine tornò con lo sguardo verso l’alto, a godersi lo spettacolo. Era un giovialone e si divertiva a esagerare, ma un maleducato mai.

Arthur restò titubante per un altro paio di secondi rispetto alla scelta se rispondere o meno. Poi pensò che se avesse scoperto che era solo qualcuno che aveva sbagliato numero avrebbe avuto una bella rivincita sull’altro. Non avendo nulla in più da perdere, decise quindi di vedere chi fosse e schiacciò il tasto verde del cellulare per accettare la chiamata. Si portò l’altra mano all’orecchio per poter riuscire a distinguere meglio la voce dall’altra parte del telefono. – Pronto? – Domandò come di norma, abbassando lo sguardo verso il basso. Alcuni bambini gli sgattaiolavano vicino alle gambe, mentre sull’asfalto della strada poteva osservare i riflessi lucenti di tutti gli aggeggi che stavano sparando, facendo saltare o incendiare. Non era proprio l’ambiente migliore per una chiamata, ma almeno sapeva non sarebbe durata tanto.

– …Arthur? – La voce che lo aveva chiamato per nome era gentile ma comunque dal tono risoluto. Aveva un che di familiare, ma i rumori attorno a sé erano troppo forti per poterla identificare con certezza. In realtà, non era neanche certo di conoscere davvero quella voce. Cercò di tapparsi con maggiore forza l’orecchio per isolarsi meglio e alzò la voce. – Sì? Pronto? Non la sento molto bene, c’è un sacco di gente qui. Chi è? Mi sente? – Non sapeva dire se la linea fosse caduta o meno visto che non distingueva alcun suono dall’altro capo del telefono; solo gli schiamazzi e gli scoppi dei fuochi arrivavano chiari alle sue orecchie.

– Pronto? È ancora lì? Pronto? – Cercò di insistere, nel caso all’altro fossero sfuggite le sue parole di prima. Il francese lanciò un’occhiata sottile all’amico che sembrava sempre più in difficoltà. Sorrise, trovandolo buffo. – Arthur. – Riapparve improvvisamente la misteriosa voce. Il giovane stava per riprendere la conversazione con un’altra domanda, ma l’altro aggiunse repentino: – Arthur, sono Barclay. –

Un’altra esplosione nel cielo andò a corrispondere al suono sordo del cuore dell’inglese che probabilmente aveva saltato un battito per la shockante sorpresa. Sbatté gli occhi, cercando di aggrapparsi prima alla ragione piuttosto che all’emotività. Non poteva essere lui. Non poteva essere lui per la semplice ragione che Barclay Kirkland non l’avrebbe mai chiamato. Forse era uno scherzo idiota dei gemelli. Elaborò questa e un’altra magra lista di possibilità, ma tutto ciò che riuscì a balbettare al telefono fu un mesto: – Come? –

– Sono io Arthur. Sono Barclay. – Ripeté la voce maschile. Le sue speranze venivano ora sempre meno: aveva avuto l’impressione iniziale che quella voce gli fosse familiare, e riascoltandola adesso ancor di più, ma era impossibile fosse davvero suo fratello. Più se lo ripeteva più i dubbi lo assalivano. Esattamente come una verità che non vuole essere ascoltata, respingeva quell’ipotesi nel terrore che potesse corrispondere alla realtà. Le sue labbra non si muovevano così come neppure il suo corpo; era paralizzato come un bambino spaventato. Riusciva adesso solo a distinguere qualche nota dolce del canto in sottofondo e qualche scoppio di piroette attorno a sé. Il peso del proprio respiro gli sembrò improvvisamente insostenibile. – Barclay? – Ancora una volta, nulla di quello che gli era passato per la testa scese fino alle sue labbra, limitandosi a dei tremanti monosillabi.

Quel nome però non poté non destare l’attenzione del francese a fianco che, per quanto intento ad osservare lo spettacolo in cielo, non si era distratto più di tanto. Si voltò quasi completamente verso l’amico, osservando la strana piega che aveva assunto la sua schiena e tutto il corpo: sembrava stesse per rinchiudersi come un riccio su se stesso, col capo basso e le spalle in avanti, nascondendo lo sguardo con fermezza. Non che ne sapesse molto dei suoi fratelli visto che Arthur si era mostrato più inviolabile di una cassaforte nel merito, ma quelle rare volte che avevano accennato l’argomento il nome del fratello maggiore, Barclay per l’appunto, era sempre saltato fuori. Restò ad osservarlo, cercando di non mostrarsi inopportuno, mentre pensava a come avrebbe dovuto comportarsi nel momento in cui avesse concluso la telefonata. Nel frattempo Arthur rimase sospeso nel tempo di quei lunghi secondi nei quali attendeva una risposta da parte di chi, quasi sicuramente ormai, era davvero suo fratello.

– Lo so che è strano. In realtà, è strano anche per me. Ma dovevo farlo. – Il ragazzo si prese una pausa.

– Immagino che prima di tutto dovrei farti gli auguri. – Aggiunse con un tono leggermente ironico che sapeva di imbarazzo. Il minore tuttavia non riusciva a rispondere, continuava solo a sentire un gran dolore all’altezza del torace che come fiamme si espandeva velocemente verso il collo e verso tutti gli arti. Ma grazie al cielo, Barclay aveva previsto questa possibilità, per cui non aspettò alcuna particolare reazione da parte del fratello. – Mi ritengo molto fortunato ad averti ancora in linea. Avresti potuto attaccarmi in faccia, l’avrei capito. – Un’altra pausa. – Arthur, mamma e papà ti hanno spiegato le mie intenzioni in queste ultime settimane, non è vero? – Il ragazzo cominciò ad accusare i primi sintomi di stanchezza emotiva: gambe deboli, gola secca e dolente, occhi arrossati e gonfi; elaborare un suono di senso compiuto gli risultò un compito immane. – Mi hanno…parlato di te, ma… – Non aggiunse altro; sia perché avrebbe dovuto concentrare insieme nuove energie per proseguire nello stringato dialogo, sia perché non aveva idea di cosa obiettare o sostenere. In primis, per il fatto che non aveva nemmeno l’idea del motivo di quella chiamata. Tutto era allo stesso tempo confuso e incredibile. – Bé, era vero. Io ho davvero intenzione di…rivederti, ecco. Ho cercato di incontrarti diverse volte in questi ultimi tempi, chiedendo l’appoggio di mamma e papà perché sapevo che altrimenti non ti saresti fidato. Ma capisco che tu non ne abbia voglia. È solo che mi dispiace, vorrei provare a mettere a posto le cose adesso. Posso farlo. Posso farlo, ora. Se tu vuoi, io vorrei che provassimo a rivederci. Magari non subito se non ti va, okay. Però, vorrei… – La voce del ragazzo appariva meno sicura rispetto a prima; adesso era completamente in balia della grazia del fratello, che avrebbe dovuto decidere se rispondergli o attaccargli il telefono in faccia.   

Arthur era sempre più in difficoltà. A tratti faceva ancora fatica a credere che fosse Barclay a parlare, per quanto ormai fosse ben assodato dalle circostanze. Si voltò su di un fianco, per dare le spalle al francese che sempre meno riusciva a osservare i fuochi nel cielo piuttosto che l’amico accanto a sé. Mugugnò qualcosa, una specie di rantolo incerto. La verità è che non aveva la minima idea di cosa dire. Era del tutto impreparato. Mai avrebbe immaginato una situazione più irreale di quella, ma era accaduta; anzi, stava accadendo. Se solo ripensava a tutte le volte in cui avrebbe voluto tornare indietro, cancellare quel giorno in cui aveva irrimediabilmente sbagliato -come tanti altri giorni- o a quante volte aveva sognato di svegliarsi a casa propria, scendere in cucina e trovare lì anche il maggiore dei suoi fratelli…In quel momento ogni suo pensiero gli sembrò così stupido e infantile che provò una gran vergogna, alla quale però non poteva non sottrarre anche una forte dose di incredula felicità e di rabbia.

Felicità, perché non avrebbe mai creduto di poter ricevere più in vita sua una chiamata da parte di quel fratello che aveva amato più degli altri; e rabbia, in parte verso lo stesso Barclay, in parte verso se stesso. Avrebbe dovuto rispondere. Per quanto incapace avrebbe dovuto dare una risposta a Barclay che per la prima volta in quasi otto anni aveva deciso, apparentemente di sua volontà, di contattarlo, di parlare con lui, di pregarlo per una seconda possibilità.

Rimbombavano come tuoni quegli scoppi in alto, nel cielo nero come il mare di pece nel quale si sentiva sprofondare sempre di più. A ogni esplosione si armonizzava un balzo del suo cuore nella cassa toracica, come un’unione armonica di percussioni. Doveva parlare. Doveva dire qualcosa.

– Credi che…potresti pensarci un po’ su? – Il maggiore venne di nuovo in soccorso del minore, suggerendogli risposte brevi che non lo avrebbero messo in difficoltà. Arthur si decise a balbettare una risposta. – S-sì. È solo che…io non…me lo aspettavo. – Si guardava intorno spaesato, pensando che non esistesse peggior contrasto che quello di essere circondati da persone cariche di infinita gioia quando nel proprio animo regna invece la malinconia. Sbatté le palpebre più volte nel tentativo di schiarirsi la vista; sentiva gli occhi e la testa appesantiti e le urla dei ragazzi gli giungevano così sfumate e lontane, come se si trovasse rinchiuso in un’ampolla di vetro, isolato da ogni cosa.

– Lo so. Lo so bene, Arthur. Ma ti giuro che è vero. Sono sincero. Mi dispiace per come ho lasciato finire le cose. La realtà è che avrei tanto di cui parlarti, tanto da spiegarti. Ma non posso farlo adesso, capisci? A dire il vero neanche voglio: sono cose che preferisco spiegarti di persona. Non volevo disturbarti proprio adesso, ma ho pensato che sarebbe stato più facile. Mi spiace trattenerti oltre, penso già di averti rovinato abbastanza l’umore. – Concluse con una risatina amara dopo quel tentativo di fare dell’ironia. Fu quello il momento in cui Arthur cominciò ad avvertire un forte bisogno di gridare. Tutto era fin troppo impegnativo per lui e sentiva che lo stress lo piegava sempre di più. Era in grado di diventare così fragile quando si trattava di Barclay. Quando accadeva tornava esattamente il bambino che era quando il suo legame col fratello sembrava essere l’unico al mondo, il più prezioso. Ma disprezzava quella debolezza. Quella stessa che gli stava facendo gonfiare gli occhi e il torace di una tristezza che sperava di aver dimenticato. Come avrebbe potuto spiegare al telefono al fratello che i suoi sentimenti si aggrovigliavano in una metastasi di gioia, rabbia e dolore? Come poteva fargli capire che era così felice delle sue parole da trasformare quella gioia in un doloroso sentimento di nostalgia?

Soffocò un gemito afflitto, cercando di rispondere quel che bastava per poter concludere la telefonata. Non avrebbe resistito ancora a lungo. – Ho…capito. – Si limitò a pronunciare, mentre concentrato com’era a fissare l’asfalto non si era nemmeno accorto che il francese, proprio dietro sé, lo stava ormai guardando fisso da tempo, con sguardo piuttosto preoccupato. Barclay gli sussurrò le ultime parole con un tono talmente disteso che per un attimo gli sembrò di immaginare le sue labbra sorridere mentre pronunciava quelle frasi. – Okay Arthur. Siamo a posto allora. Ci pensi un po’ e mi fai sapere? Il mio numero è questo. Io aspetterò. – Un altro scoppio provocò un battito di ciglia involontario dell’inglese. Barclay attese alcuni secondi in silenzio, dopodiché si avviò a guidare la conclusione di quella telefonata. – Okay. – Ripeté ancora. – Bene, dai. Ti lascio festeggiare allora. – Il ragazzo tirò su col naso, lasciando poi che la mano con cui fino a quel momento si era coperto l’orecchio scivolasse adesso lungo il suo fianco, come un peso morto. – Va bene. – Riuscì a mugugnare dopo aver deglutito. – E auguri di buon anno. – Aggiunse di fretta il maggiore, ricordandosi solo in quel momento che ci fosse un countdown in corso. Arthur soffiò una esile risata spontanea, lasciando che del vapore uscisse dalle sue labbra congelate. – Sì. – Non riuscì ad aggiungere altro, tantomeno a ricambiare gli auguri. Si odiò in quel momento. Era davvero patetico. – Vado allora. Ricorda che…nel caso lo volessi, tu puoi chiamarmi quando vuoi. Per qualsiasi cosa, intendo. Davvero. A me…farebbe piacere. – Annuì tra sé, sentendo le forze dell’autocontrollo abbandonarlo sempre di più. Sorrise al nulla di fronte a sé e mugugnò di nuovo. – Mh mh. – La sua prestazione era seriamente da cestinare. Il fratello si decise infine a concludere quella chiamata. – Ciao Arthur. – Sussurrò in tono di sospensione, forse perché gli venne il dubbio di poter aggiungere qualcosa. Ma per una volta fu il minore a riempire quel vuoto comunicativo con un piuttosto formale: – Ciao Barclay. –

Non aspettò un secondo di più. Staccò il cellulare dal lobo e lo tenne sul palmo, di fronte ai suoi occhi osservandone lo schermo, ipnotizzato. Non sapeva neanche perché lo stesse fissando. Forse per convincersi a realizzare che quella conversazione fosse davvero avvenuta, che avesse davvero parlato con Barclay, suo fratello, o magari per non dover incontrare troppo presto lo sguardo indagatore del francese a cui onestamente pensò solo in quel frangente di rielaborazione mentale. Tirò un’altra volta su col naso, lasciando che i suoi sensi tornassero a poco a poco reattivi: le urla e gli schiamazzi, così come gli scoppi luminosi nel cielo e le note del canto natalizio, tornavano a rappresentare dei suoni sempre più presenti e definiti; l’odore di umido gli rinnovò improvvisamente la concentrazione, mentre i suoi occhi ruotarono nel tentativo di focalizzare nuovamente lo scenario nel quale suo malgrado era immerso. Alzò lo sguardo al cielo, a osservare i colori che illuminavano la serata. Continuavano, dentro di sé, a scontrarsi gioia e malessere, in una lotta spietata che non sperimentava per la prima volta; il risultato era inevitabilmente doloroso.

Francis si affiancò all’amico, decidendo di rischiare e farsi avanti: – Arthur? – Fece con timidezza, per non sembrare invasivo. L’inglese riportò molto lentamente lo sguardo ad altezza d’uomo, abbandonando la contemplazione dei colori di quel cielo poco stellato. Sbatté le palpebre diverse volte, più che altro nel tentativo di riuscire a calmare il bruciore agli occhi che saliva e che gli faceva temere per il peggio. – Sto bene. Io…sto bene, sto bene… – Balbettò con voce tremante e sguardo sfuggente. Non riusciva a impedire che le mani gli tremassero e per un attimo ebbe la sensazione che il cellulare gli stesse per sfuggire dalla debole presa. Francis attese a lungo prima di tentare con un’altra domanda: preferì prima osservare le sue reazioni, per riuscire a comprenderne lo stato d’animo. Tutto quello che poteva dire era che sembrasse sconvolto, agitato, ferito, o forse tutte le cose insieme. Quello che gli sfuggiva ovviamente era il perché, ma sul momento non se la sentì di domandarglielo. Stava già valutando ipotesi alternative come sdrammatizzare, far finta che non fosse successo niente, o anche distrarlo con qualche battuta scema; e invece fu proprio lo stesso Arthur a riprendere il discorso e a soddisfare la curiosità inespressa del francese.

– Era Barclay. Era mio fratello. Lui ha… – Si interruppe, sentendosi sempre più insicuro ed esposto in quella flagrante debolezza. La sua voce tremava anche più delle sue mani. Fu questione di un attimo: Arthur Kirkland si ritrovò a crollare completamente davanti agli occhi di Francis Bonnefoy.

Scoppiò in lacrime con la stessa facilità dei suoi attacchi d’ira. L’amico ne rimase completamente spiazzato: sussultò tra le spalle sgranando gli occhi senza riuscire a credere a quello che stava accadendo. L’inglese versava copiose lacrime dagli occhi in un pianto tutto sommato silenzioso, ma non per questo meno violento. Non essendo Francis un ingenuo, quelle poche parole dell’amico gli erano bastate per farsi una vaga idea di cosa avesse potuto scatenare quel pianto: aveva parlato di suo fratello, Barclay, il maggiore che ricordava gli avesse dato più problemi degli altri; così come ricordava che non lo sentiva da molto tempo, avendo tagliato del tutto i ponti con lui. Non aveva idea di cosa lo avesse spinto a chiamarlo quella sera, ma certo aveva avuto un effetto piuttosto devastante sul britannico. Oramai non gli importava saperne di più, anzi ne sapeva già abbastanza. Aveva ben altro su cui concentrarsi. Si avvicinò ancora, quel tanto necessario a colmare quasi totalmente la distanza tra i loro corpi, non cercando di incontrare gli occhi del ragazzo che erano schivi, bassi, serrati nel tentativo forse di trattenersi. Gli sorrise con un’espressione mesta, poggiando con cautela una mano sulla sua spalla e sussurrandogli vicino. – Ehi, non preoccuparti. Piangi pure. – La mano del biondo col pizzetto cominciò a frizionare prima la spalla e poi la schiena del ragazzo, tentando di trasmettergli conforto e soprattutto la sicurezza di non essere sottoposto a un giudizio severo per aver manifestato così improvvisamente una debolezza infantile. – Ti farà bene, vedrai. Piangi. Lascia che passi. – Aggiunse con voce ovattata, ben sapendo che con tutti i rumori che li circondavano il rischio di non essere sentito era concreto. Eppure quelle parole giunsero al ragazzo, sempre più piegato su se stesso, sempre più misero in quella irrefrenabile implosione di sofferenza che lo faceva sentire così a rischio e vulnerabile. La sua mente si era svuotata: come acqua risucchiata dal lavandino. Se prima nella sua testa si accavallavano continue immagini e pensieri caotici, adesso era esattamente l’opposto: non riusciva a pensare a nulla, non riusciva a focalizzare. Completamente perso in uno sfogo emotivo che probabilmente aveva rimandato per troppo tempo, riusciva solo a piangere; singhiozzava come un bambino che ha ricevuto la prima sberla dai genitori, inerme e incapace di reagire, minuto e sprovvisto di quell’aura di arcigna sicurezza di sé che adesso lo aveva completamente abbandonato.

Si strinse maggiormente nelle spalle, senza dire niente, riuscendo solo a lasciare che le lacrime continuassero a scendere ininterrotte lungo le sue guance infuocate, con la testa ancora bassa che sentiva sempre più come un macigno. Senza accorgersene, il suo corpo reclinò su quello dell’altro, finendo col poggiare la fronte sulla spalla del francese, cercando di affondare la sua disperazione in quel tessuto pesante e morbido che era il suo giaccone. Una mano titubante afferrò un piccolo lembo della sua giacca, aggrappandosi con una timida forza. Aveva il serio timore che sarebbe crollato a terra se non si fosse appoggiato a lui. Nulla poteva risultare più incomprensibile in quel momento. Non vi era spazio per niente nella sua mente. Il pianto era la sua sola possibilità di comunicazione attuale.

Francis, da parte sua, non perse tempo nel dubbio e non appena si rese conto che l’altro stava cercando sostegno, cinse la mano con maggiore ampiezza intorno alla schiena del ragazzo, sorreggendolo, mentre anche l’altro braccio si muoveva verso di lui. Ne risultò infine una specie di abbraccio, con le braccia del maggiore che si muovevano intorno al minore. Non sapeva se considerare questo momento come eccezionale, ma dovendo essere sincero con se stesso, giunse alla conclusione che avrebbe preferito non vedere Arthur in quelle condizioni. Era così poco familiare quella parte di lui. Si rattristò infinitamente di quell’esito inaspettato. Le lacrime erano uno spettacolo che non aveva mai gradito, sia negli uomini che nelle donne. Non vi era nulla di più amaro di un pianto disperato, di quelli che fanno perdere di vista ogni speranza.

Strinse con una maggiore forza le braccia intorno al ragazzo, continuando nei suoi cauti tentativi di conforto. Arthur sembrava aver trovato un rifugio permanente: continuava nei suoi singhiozzi sommessi che gli scuotevano le spalle, senza l’apparente intenzione di spostarsi da lì ancora per molto. Nessuno sembrava interessarsi alla scena; d’altronde, perché avrebbero dovuto? Tutto continuava allo stesso modo di come era iniziato: i bambini si rincorrevano, urlavano, i fuochi scoppiavano in aria con rombi e mille colori diversi, la gente gridava, cantava, si abbracciava, le voci del coro continuavano sulle ultime note potenti di Oh Come All Ye Faithful, la musica saliva d’intensità con un climax struggente. In effetti, nessun’altra atmosfera avrebbe potuto essere più perfetta per la gioia quanto per il dolore. Non esistono i momenti per essere tristi o quelli per essere felici; esistono solo i momenti per essere se stessi, e forse Arthur Kirkland aveva finalmente scelto di essere se stesso per quella serata, abbandonando per qualche minuto una patina superficiale di pungente diffidenza e faceta eloquenza. Al francese sarebbe andato bene uguale. Lasciò che il ragazzo si aggrappasse a lui, che piangesse ancora, finché avesse voluto, come avesse voluto. Ne avrebbe giovato, di questo era più che certo. Nessuna terapia funziona meglio di un sano sfogo; ne sarebbe uscito sollevato, indubbiamente. Il tempo delle domande sarebbe forse venuto o forse no. Nulla al momento era più lontano dai suoi pensieri e più estraneo alle sue attenzioni.

Non parlò. Nessuno dei due lo fece; non era necessario. I fuochi nel cielo continuavano a esplodere luminosi, festosi, unici protagonisti di quella serata. Quello, senza dubbio, sarebbe stato il più bizzarro dei Capodanno che entrambi avrebbero mai ricordato; la fine di un anno che si conclude in un mare tormentato di lacrime e rabbia, stupore e rimpianto, gioia e dolore. Un Capodanno a cui rimaneva solo la speranza di aggrapparsi all’eventualità di un conforto, come stavano facendo le mani dell’inglese. Un Capodanno a cui rimaneva solo la possibilità di una silenziosa redenzione, come invece stavano facendo le braccia di Francis.

Per un momento solo, per quei soli pochi istanti, le due giovani figure isolate dalla folla sembrarono aver trovato per la prima volta qualcosa in comune da poter condividere in silenzio, senza sguardi, lì dove le parole diventano superflue e ingannevoli.

 

     

 

⁽¹⁾ “A la meuniere”, in francese.

⁽²⁾ Piatto tradizionale provenzale a base di verdura stufata.

⁽³⁾ “Sì”, in francese.

⁽⁴⁾ Plurale di penny, la denominazione di minor valore delle monete nel Regno Unito.

⁽⁵⁾ Comune francese della regione della Bretagna.

⁽⁶⁾ “Scusa?”, in francese.

⁽⁷⁾ Traduzione inglese del canto natalizio “Adeste Fideles” http://www.youtube.com/watch?v=0cE1_9aXh-8

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Salve a tutti. Volevo solo annunciare a chi è interessato che con questo capitolo (diviso in due parti) direi che siamo circa al giro di boa. In realtà, oltre a questo volevo aggiungere un mio piccolo e personale appunto: mi dispiace per questi ultimi capitoli, perché davvero non sono soddisfatta di come siano usciti, penso si noterà. Spero di poter riprendere con maggiore animo e soprattutto con maggiore qualità questo progetto. Anche se non sembra, ci tengo molto.

Quindi niente, queste non sono altro che inutili considerazioni dell’autrice a fine pagina; volevo solo condividere questo pensiero visto che di solito sono sempre la prima ad accorgersi quando quello che scrivo non è soddisfacente. Per chi non ci trova nulla di diverso non so che dire, meglio per lui/lei forse, ma in compenso questo prolungato scivolone c’è; lo so.

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