Apotheosis of Overdose

di Asuka Soryu Langley
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Blasphemy ***
Capitolo 2: *** Wake Up ***



Capitolo 1
*** Blasphemy ***


Com'è vivere?

Qualcosa nella mia testa, ad ogni risveglio, mi chiedeva insistentemente se ero viva, e com'era vivere, e io cosa potevo rispondergli? Ignoravo il suo parlare, come mi era stato consigliato di fare fin dall'età di sei anni, “ignorali, non sono reali” ma questa frase la ripeteva a pappagallo anche la vocina che sentivo, chi dei due mondi avesse ragione, io non lo sapevo.

Sassi, i sassi erano molto simili a me, non parlavo, non dialogavo ne interagivo con il mondo, a mala pena mi muovevo, non mi nutrivo, ne pensavo a me, in alcun modo. Quella domanda mi tormentava veramente, com'è vivere?

Com'era farlo? Io lo facevo poi? era vivere anche rimanere seduti su quel letto sfatto dalla mattina alla sera, era vivere guardando il tuo piatto vuoto. Era vivere, insomma il non vivere lo era?

Era impossibile, pensare di vivere, che fosse vivere, in quella cella asettica, in quel modo asettico. Lo sguardo indagatore del custode di questo pazzo pazzo mondo, mille celle come le mie, mille anime come le mie, e loro vivevano? La solita giornata, il solito mondo differente per ogni anima, e caramelle colorate per tutti, caramelle, già cosi ci dicevano, ma sapevo bene che erano psicofarmaci, quelle caramelle colorate, ogni persona ne aveva tutte sue, e tutti dopo si sentivano altre persone ancora, era cambiarci, renderci uguali a loro, era questo che volevano, lo scopo di quelle caramelle.

 

Perchè volerci cambiare?
Perchè non viviamo? Perchè non viviamo? Com'è vivere?

Ancora quella voce, perchè parlava per me, perchè solo lei doveva sapersi esprimere?

Mi voltai, ancora quelle mura color bianco vomitato da chissà quale esperto imbianchino. Poi camici bianchi, camici azzurri, camici, e sotto ai camici bianchi dei vestito, i camici azzurri non avevano nessun vestito sotto ai camici, perchè?

I vestiti facevano parte del vivere, i camici azzurri non vivevano da tempo.

Da che la mia memoria ricordi non ho mai visto posti diversi da questo, ma ne ho sentito parlare dalle persone che portano i camici bianchi. Non ne parlavano a me, ma il mio udito ne aveva catturate di cose proibite.

 

Ancora quelle caramelle, quelle schifosissime pillole, una, due, tre, quante erano le mie necessità?

Un dolce sacrificio, un eterno sacrificio, era la mia vita.

E per vivere serve l'agonia, quindi io vivevo, ma la vita non è fatta solo di agonia, la vita è Quell'agonia particolare che ti fa desiderare sempre di più la vita. Un'agonia che ti fa desiderar altra agonia, come una droga.

Droga, era ciò che mi distraeva dal mondo, la droga mi distraeva dalla droga di vivere, perchè io non vivevo affatto, nemmeno sopravvivevo, forse ero solo un essere che aspettava incosciente di ricevere la sua dose, una drogata in astinenza, poiché la prima botta di droga la ricevi nel momento stesso che nasci.

 

La mamma. Chi è la mamma?
La mamma, quell'entità che ti da alla luce, la privi di un po' di vita ogni giorno, e si spegne, quant'era la luce della mamma? Si è spenta in fretta quella luce, non mi sorprende affatto, Fu portata in questo luogo perchè aspettava me, la mamma non era sposata, e io pareva fossi la figlia del demonio. Ma non importa, della mamma non ho ricordo, ne ricordo cosa provasse per me.

 

E tutte quelle persone, come me non avevano veramente niente di sbagliato, io non ero un'errore, ero esattamente come loro, un essere, un'entità umana, o forse ero solo una copia esatta del loro corpo, l'interno, il mio essere era costantemente bombardato da sostanze che lo annullavano.

Le giornate, il giorno e la notte, esistevano, ma non per noi, il ritmo del mondo era scandito da una lampadina e da dei capricci di un'inserviente che tornava sempre troppo presto a casa. E tutte quelle persone, come me, perse a loro stesse, nelle loro piccole celle, o in celle comuni, un po' a turno.

 

Com'è vivere, dunque?

 

Rimanevo muta fissando la mia porta, alle volte, quando si era nelle sale comuni, fissavo a porta “degli altri” che per noi era inaccessibile

indifferentemente da quale porta si trattasse immaginavo sempre di stare dall'altra parte, e di provar a rispondere a tale domanda, ma niente le porte erano chiuse quelle poche volte che si aprivano mi lasciavano intravedere il mondo

Mi voltai, la mia attenzione venne rapita da un gruppo di pazienti che avevano creato scompiglio picchiandosi, tutti gli infermieri erano la, a cercare di separarli, con quelle siringhe stracolme di sedativi, che metà sarebbero sicuramente bastate per stender l'intero edificio.

Scompiglio, urla e tradimento all'alto ordine, ma non importava, ne ad inquisitori ne ai carcerati. Allora mi alzai, non so cosa mi prese, ne da che forza attingevo, ma sicura mi diressi verso la Loro porta, la aprii, e del vento mi investi a fatica, dimenticandosi cosi che trà me e loro non vi era differenza se non la piccola particolarità del vivere.

Cosi vuoi vivere, com'è vivere?

 

Silenziosa, come la neve che cade d'inverno mi lasciavo quella porta alle spalle, chiudersi lenta con dentro tutto ciò che ero, il mondo fuori, il mondo dentro. Rimasi a guardare il fuori per lungo tempo, un'anima in più, una in meno, pensavo, non si sarebbero accorti di me, del fatto che mancavo all'appello, troppa confusione, ne avranno per una ventina di minuti.. com'era bello il mondo? Non lo era, non mi sembrava niente di speciale, era diverso da dentro però, e questo mi bastava

Scalza presi a camminare tra il selciato, era dolore quel camminare, un piacevolissimo dolore, credo sorrisi al mio primo dolore, sentivo i miei piedi e sentivo ciò che provavano, era meraviglioso.

È questo vivere quindi? Com'è vivere?

Ah già, ancora quella voce, di certo non poteva sparire anche quella dietro la porta bianca lucida, ero lontana da quell'edificio oramai, ma la mia malattia, insanità mentale, era rimasta. Passate ore, passati sassi alberi e un fiume, qualche casa e con rispetto pure qualche Dio, mi accovacciai sotto un grosso albero, dall'ombra estesa, era sera, e tutto attorno non c'era rumore alcuno se non il gracidare di qualche rana, il cinguettare di qualche fringuello, e il vento che si divertiva a scompigliare i capelli degli alberi, e pure i miei, corti.

 

Già stanca di vivere?

Scossi la testa, volevo solo veder se a quel mondo era possibile dormire senza assumere nulla.. e cosi fù, tale la pace, tale la quiete, che non passò nemmeno un minuto, la mia testa, cosi come il mio corpo si accasciò beatamente a terra, piano, leggera, con le foglie tutte attorno ad attutire, ed il freddo chi lo sentiva in quel pezzo di paradiso.

 

Una luce, l'indomani, una luce calda e dolce come il miele mi svegliò, non visite indiscrete di finti benefattori, solo quella luce che si illuminava, non sembrava vero, sempre un po' di più. Alzare il capo dolcemente, con una foglia ancora appiccicata in viso, il camice cartaceo quasi distrutto che lasciava intravedere il mio corpo, osseo fino all'invero simile, in un mondo alla quale io non appartenevo affatto, ma ero cosi dannatamente felice di quel nuovo mondo.

 

Cos'aveva di cosi diverso il vostro cervello dal mio? Forse il mio era cosi dannatamente sviluppato che voi, avete tentato in tutti i modi di sedarlo per tanto tempo. I pensieri quel giorno, partirono spediti come razzi, non importava a cosa pensassi, ma il fatto stesso che lo facessi era una cosa sorprendente.

Sentii abbaiare poi quel giorno, Alzai il mio fragile corpo dal suolo, ed intravidi un cane, un grosso e peloso cane bianco, sembrava una di quelle nuvole che stavano in cielo, accanto a quel cane, un ragazzo basito mi stava fissando, Forse di me per la prima volta non fu il caso clinico, ma il mio mortale corpo a stupir.

Lui senz'altro vive, com'è quindi vivere?

 

Ero nuda, davanti al mondo, e il mondo sembrò esclamare pena per me

Si avvicinò a me, togliendosi il cappotto, veloce come un fulmine, lo strinse attorno al mio corpo, e all'improvviso notai che avevo veramente freddo, un bisogno disperato di quel cappotto, se me lo avesse tolto, avrei senz'altro preso a tremar. Lo guardai negli occhi, i miei occhi, grandi e vitrei sembravano voler scavare dentro ai suoi, che erano dolci e stranamente luminosi, Non fosse che era impossibile, si poteva pensar che i miei occhi per un attimo avessero rubato l vita ai suoi, luccicando per un po', e poi giù qualcosa di bagnato sulla guancia.

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Capitolo 2
*** Wake Up ***


Strinse di più le sue braccia attorno al mio corpo, esclamando tutto d'un fiato, come se avesse paura le parole potessero sfuggirgli dalla mente

-e tu da dove esci! Ma non sai che è estremamente pericoloso rimanere a dormire qua fuori? Senti! Sei bagnata come un pulcino! Che ci facevi li? E dove sono i tuoi vestiti?!-

 

Non gli risposi, mi limitavo a fissarlo ancora negli occhi, non so se fosse una cosa bella, o una cosa brutta, o ancor peggio indifferente, ma ricordo che tutto attorno sembrò come sparire, come se non importasse affatto il non aver scarpe, vestiti, quel mondo nuovo, gli uccellini e il cane, erano tutti quanti spariti.

 

Mi alzò, era forte, ma lo erano stati tutti con me, per un attimo tremai,e distolsi lo sguardo da quegli occhi, fissando il pavimento che diventava un poco più lontano da me, affidavo involontariamente il mio corpo, un'altra volta ancora, ad un'altra persona, ma quant'era caldo quel suo cappotto... il mondo sembrò quasi muoversi, in braccio a quel ragazzo, avvertire che c'era altro, oltre te stessa, e pensare che te stessa sei stata accolta da quel qualcosa oltre a te. Io davvero non ricordo, ma poteva chiamarsi completezza tutto ciò?

 

Perchè fremi in te stessa, vivi?

 

Vivere, ancora quella domanda, forse ora lo stavo facendo, forse, guardando il mondo rimanendo impassibile ad esso, vivevo? Nel mio piccolo spiavo i suoi movimenti sicuri, e il luogo che da folto bosco diventava rado giardino, era una casa forse quell'edificio cosi caldo?

Aveva un colore diverso dal bianco, delle finestre con dei vetri, fiori ed una porta accogliente, tutto fuor che il posto tetro e triste dove avevo vissuto, Quella senza ombra di dubbio era una Casa.

 

La casa, quel luogo che non conosco.

 

Entrò con tutto il mio essere trà le braccia, il cane aveva ripreso ad abbaiare, e una donna di anziana età ci accolse tutta agitata facendo strada al ragazzo, sembrava saltellare, era una donna di età anziana, bassa, e con i capelli bianchi raccolti, mi metteva addosso uno strano senso di dolcezza..

 

-Presto presto!, appoggiala qui- disse posando la mano su un letto grande il doppio del mio ex letto

-Math, su forza, appoggiala li, io vado a prepararle qualcosa da mangiare! È pelle ossa!-

 

e la vidi scattare con un'agilità felina spaventosa fuori da quella stanza, veloce e tutta agitata, quella donna aveva senz'altro una gran forza.

 

Chissà, lei vive.

 

Ma tutti si viveva a stento, anche il più vitale di noi, comuni esseri mortali, tradiva senz'altro dentro di se un senso di morte apparente, chissà, che lacrime aveva versato in passato quella donna, smisi di fissare la porta d'uscita, rimasta aperta, e tornai a guardarmi attorno, il ragazzo era ancora li, cercava di capire se ero ferita, sembrava imbarazzato, nello scrutare il mio involucro, ma solo di un'inutile involucro si trattava, io invece continuai a guardare quella stanza, c'erano delle immagini appese sui muri, degli armadi strani, tutti di legno, con bellissimi disegni di fiori sopra, un tappeto a terra, ma non bianco, era colorato e con delle immagini che mettevano nostalgia.

 

Fui poi coperta con un lenzuolo ricolmo di fiori anch'esso, quasi en potevo sentire l'odore, e ancora quel dolce caldo.

 

-Quindi come stai? Non sei ferita vero? Da dove vieni? Come ti chiami?-

 

mi chiese tutto d'un fiato il ragazzo, ma io non risposi, non perchè non volessi farlo, ma più precisamente perchè non sapevo bene come poterlo fare, Sapevo come utilizzare le parole, ma non sapevo quali parole dover utilizzare in quell'istante. Rimasi a fissargli gli occhi, ancora una volta, muta davanti al mondo.

 

Si diresse verso la porta aggiungendo un solo -Riposati, ci dirai tutto più tardi- sparendo dietro ad altre mura. Nona avrei potuto desiderare di più, niente di più che una porta che rimaneva aperta, dei fiori tutti attorno a me, un dolce profumo nell'aria, Stavo forse per trovare i miei sogni mai sognati, realizzati?

E quel letto, cosi caldo, la finestra, bassa, colma di luce riempiva la stanza senza la prepotenza di una lampada al neon.

 

Chi sei? Da dove vieni, quindi?

 

Ci si metteva anche quella voce adesso, a farmi domande senza senso, non che ne avesse mai fatte di sensate, ma in fondo, io chi ero?

La mia identità mi era stata privata nel momento esatto della mia nascita. Non avevo un nome, solo una cartella clinica e un numero a barre che mi identificava, niente di umano, ma a noi l'umanità sembrava non servire affatto, volevano trasformarci in umani, benpensanti, trascurando il trattarci da tali.

 

Mi addormentai in quel calore, ero certa non fosse solo calore fisico, con quelle domande incastonate tra il mio occhio destro e il suo orecchio
Bianco è il capello, la luna si ritinge di rosso, segui l'alta marea e affogheresti tra le sabbie

C'era un bel posto, ma io ero all'uscio di esso, non vi potevo entrar, furono le scale a prendermi e farmi scivolar laggiù, dove un branco di mucche vestite a festa tutte originali, intonarono un cantico triste.

Dicono poi che le luci si spensero, e si spensero davvero, qualcosa pervase quel posto, delicato ma prorompente.

 

Aprii gli occhi, il sogno era finito, o forse non era un sogno, leggero ed insensato come sempre, sembrava ogni volta allungarsi in ogni sua azione, nell'aria un dolce profumo, e nuovamente quella nonnina tutta arzilla che portava un piatto di... minestra arancione

-E' zuppa di zucca, è buona sai? Mangiala, cosi ti rimetterai un po' in forze-

 

Avrei dovuto dirgli grazie, ma non lo feci, guardavo quella strana minestra di quello strano colore, e ora avrei mangiato? Dopo tanto tempo, non ricordavo quasi come si facesse.

Una cucchiaiata, poi un'altra ancora, mentre quella nonnina non mi lasciava sola, pensavo che in fondo, non era cosi male quella strana zuppa.

 

Il tempo passava ma sembrava non lasciare alcuna traccia dietro di se, e le parole, i r acconti della vecchia donna, sembravano scivolare dentro le mie orecchie, fare loro il mio cervello, convincermi di cose che non avevo mai visto, e tornare fuori come se nulla fosse, era una vita, che mi veniva raccontata, regalata da una dolce signora.

 

Guardai la nonnina, e poi la finestra, che razza di prigione poteva mai essere quella, che aveva le porte d'uscita aperte, e le luci cosi calde?

Le persone li sembravano sorridere, Con le stagioni dipinte sul volto, ma sembrava non importare affatto, e il diverso non era più un pericolo.

 

 

Tutto l'amore che hai, dovresti giocartelo.

 

Disse quella voce, leggera e soave, non più di una volta, ma quello già bastò per impiantar quella frase la dov'è ora.

Provai quindi a parlare, a vivere, rispondendo ciò che mi fu chiesto tempo prima.

 

Un Nome, serve un nome, uno solo.

 

Diane

 

Dissi sicura a voce moderata, sicura di una cosa lo ero davvero, quel nome non mi apparteneva quanto io non appartenevo a lui. Ma ciò non importava, non avrebbero potuto in alcun modo risalire a me, a ciò che ero, e poi.. io avevo sempre desiderato un nome come quello, che male c'era se iniziavo a vivere con esso?

 

La vecchia sorrise ed esclamo

-Diane! Ecco, ma che bel nome che hai figliola, Hei Math! Hai sentito? Si chiama Diane!-

 

il ragazzo sbucò dalla porta tutto sorridente, che strana cosa era il suo sorriso poi, non era come quello della nonnina, ne come il mio, anche se il mio in effetti sembrò esser nato poco dopo il suo.

 

E' tutto cosi bello, tutto cosi dannatamente bello e surreale. Non trovi, Diane?

 

Quella voce, quella dannata riuscì a smorzar il mio primo sorriso, la mia prima volta.

 

Proteggimi, proteggiti per quello che sei, una sognatrice del mondo reale, castigata in questo mondo collerico,.

Quando tutto questo finirà, e anche quando l'altro finirà, potrai dire d'aver vissuto, e farà male

ad ogni modo, ti rimaniamo sempre e solo noi.

 

 

Ricordi della mia vecchia vita mi passarono davanti, fin da quando ero una giovane, e ancora prima, quando giovane mi suonava già vecchio.

Io, che crescevo, piano, ed imparavo in quella casa di cura cos'era sbagliato e cosa non lo era, a modo mio, a modo loro, una bambina completamente sana veniva traviata nel più profondo, e sul mio viso i segni inconfondibili della paura, dello shock, ma perchè?

Per un attimo quella vita quella nuova, quella bella quella che ho sempre desiderato, proprio quella, mi sembrò trasformarsi in quella vecchia, quella triste, quella che fino a poco fa mi apparteneva, o forse appartenevo io a lei.

 

 

Era tutto confuso, la vecchia che diventava piano l'infermiere, il ragazzo che era il vicino di cella, i muri tornavano bianchi, sbalzavano di colore, dal Normale al Normale.

Qual'era la vera normalità?

 

 

Non sei contenta Diane? Ci sei riuscita. Ci hai raggiunto.

 

Diceva quella voce, mentre io cominciavo ad alzare il mio corpo su quel letto, ad allontanarmi dalla vecchia infermiera, dal ragazzo premuroso, dal mondo che avevo trovato e da quello che avevo appena lasciato

 

-oh no lo stà facendo di nuovo!-

 

cosa stavo facendo di nuovo? Qui?

 

-Presto cerca di calmarla io cerco le sue medicine!-

 

le mie cosa? Ma dove sono?

Dove sei, diane?  

D-dove sono?

 

Si, i rumori, le voci, i suoni, ora si sentivano solo quelli!, le immagini erano sempre più confuse e i colori si univano tra di loro. Le cose non avevano più una forma concreta, e la luce andava piano ad affievolirsi

 

-La perdiamo cosi!-

poi, tutto d'un tratto il freddo, il gelo del mondo seppe colpirmi un'altra volta, ignara e piangente, urlavo al vuoto, ma le mie parole, quello che avrei voluto dire, usciva sordo agli altri, e stridente a me, come un pianto d'infante, ero un neonato, dunque?

 

Un'ospedale, uno di quei posti, dove basta l'odore per riconoscerli, odore di medicine e di dottori. Odore di salute e malattia. Morte in fine.
Sentivo come se tutto quello che era successo poco prima non fosse mai davvero successo, e volevo mia madre, la volevo con tutta me stessa.

Non avevo mai avuto il bisogno della mamma, mai avevo invocato il suo nome, e ora piangevo il suo essere.

 

Però.. era come se le braccia di mia madre le avessi attorno a me, precisamente sul mio collo, perchè sentivo cosi freddo se c'era lei?

Perchè doveva essere cosi?

Ma come Diane, ancora non ci arrivi?

 

 

Arrivare a cosa? A cosa dovrei arrivare?

 

Perchè la mamma mi stava strozzando? Non era morta? Non l'avevo mai vista.. com'era bella però.. la mia mamma.

 

-Fermatela!!-

 

ferma..tela?

 

 

-Ucciderà la piccola!-

 

ma come.. io.. sono grande...

 

però le forze mancavano, e le mie urla si stavano mescolando all'ansimare della mamma,

 

perchè ansimi, Mamma?

 

Ed il mondo sembrava quasi svanire davanti ai miei occhi, non c'era più la donna, l'anziana, il ragazzo la mamma, gli infermieri, i matti, i sani, il giusto e l'errore.

Cera solo una piccola porta bianca, tinta da poco, in una stanza nera come il fumo, e c'ero io, davanti a quella piccola porta.

 

Diane, non sei contenta?

 

Perchè.. dovrei esserlo?

Finalmente risposi a piena voce con convinzione a me stessa.

 

Perchè hai vissuto, ben tre minuti, hai vissuto la vita di tua madre, la sua nascita e la sua morte, hai vissuto la sua pazzia e la sua paura, il suo modo di comprendere le cose, e hai vissuto un minuto intenso della tua vita, Diane

 

Sembrò finire tutto cosi in fretta. Tutto cosi velocemente...

 

Quindi io avevo vissuto, qualche minuto o poco più, ma com'era vivere?

 

Mamma.. smettila..

 

ma sembrava che la mia voce non volesse più uscire dalla mia bocca, come quando piangi talmente forte e non riesci a parlare, ma non stavo affatto piangendo, in realtà credo che il mio vivere sia cessato in quest'istante perchè non sentivo più niente

niente di quello che avrei potuto sentire, ne il dolore che mi provocavano le mani della mamma sul collo..

 

 

Si esatto, sei nata e sei morta, hai vissuto una vita non tua, non lo trovi cosi triste?

In fondo chi era tua madre per darti la vita, e chi per togliertela?
 

E cosi, è questo vivere, insomma, il vivere consiste nel morire, prima o dopo

però sono felice

ho visto la mamma, ho vissuto una vita, ne ho vissuta un'altra e poi quand'è toccato alla mia, sono morta per la mamma

 

E non ti fa arrabbiare che tua madre ci abbia ucciso?

 

No, non mi importa, ho visto la mamma, la mia mamma... e se poi posso ancora varcare una porta come quella, va tutto bene, no?

Ma cosa ci fosse dall'altra parte di quella porta bianca non lo seppi mai, decisi, scelsi che era meglio rimanere in quella stanza color nerofumo, e dimenticarsi di tutto il resto, compresa la mamma.

 

Potrebbe sembrarvi strana questa conclusione, ma forse, solo ora potrete capire la mia frase

Talmente felice da sentirsi morire, io in fondo, è come se non fossi mai morta, era solo la mia vita a non esser stata vissuta, ho vissuto i nove mesi più belli, e poi ci hanno separato, questa cosa ha fatto piangere la mamma, non voleva, e non volevo nemmeno io, in fondo, però ora, io e la mamma stiamo bene.

 

l'una nella cella accanto all'altra.

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