A Way Through the Hell

di MaryLouise
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Prologo ***
Capitolo 2: *** I. Colorado Springs ***
Capitolo 3: *** II. Conoscenze ***
Capitolo 4: *** III. I Prince ***
Capitolo 5: *** IV. Cascade Park Manor ***
Capitolo 6: *** V. L'inizio ***
Capitolo 7: *** VI. Scoperte ***
Capitolo 8: *** VII. Ballo ***
Capitolo 9: *** VIII. Nebbia ***
Capitolo 10: *** IX. Appuntamento ***
Capitolo 11: *** X. Specchio ***
Capitolo 12: *** XI. Il signor Morrison ***
Capitolo 13: *** XII. Abominio ***
Capitolo 14: *** XIII. Occhi diversi ***
Capitolo 15: *** XIV. Doppelgänger ***
Capitolo 16: *** XV. Come Jane Eyre ***
Capitolo 17: *** XVI. Presagi di morte ***
Capitolo 18: *** XVII. Un colpo di fortuna ***
Capitolo 19: *** XVIII. Il musical ***



Capitolo 1
*** Prologo ***



 

A Narciso. Il più bel fiore di tutti i giardini del mondo.

 

 

Prologo

 

Il sole era fermo nel cielo blu cobalto, una sfera tinta di rosso che trasmetteva il proprio colore a qualunque essere illuminato dalla sua luce.
Una coppia passeggiava in un grande giardino vicino ad un'imponente casa coloniale.
L'uomo era alto e robusto, i capelli chiari erano tagliati molto corti, lunghe basette ne incorniciavano il viso sottile e candido, su cui spiccavano occhi mai visti prima. Il primo era castano scuro con riflessi dorati, il secondo era invece di un azzurro intenso, con pigmenti argentei.
Il possente braccio stringeva a sé la donna della sua vita.
Era di corporatura minuta, i capelli rosso fuoco le scendevano sulle spalle arrotolati in morbidi boccoli, incorniciando una fronte alta e un paio d'occhi castano dorati, tendenti al verde.
Gli zigomi alti lasciavano spazio a labbra color dei petali di una rosa.
Stringeva qualcosa tra le braccia, come se fosse la più importante che aveva. Si trattava di un frugoletto di pochi mesi, gli occhi lo specchio di quelli della madre, coperti da qualche ciuffo ramato.
Sorrideva alla vista dei visi dei genitori, le labbra carnose s'allargavano lasciando trasparire due fossette e le gengive sdentate.

 

Era in trappola. Dal palco su cui si trovava riusciva ad intravedere centinaia di persone in platea, ologrammi creati dalla carnefice. Lo sguardo della sua futura assassina era fisso su di lei.
Uno sguardo che non sarebbe mai riuscita a dimenticare. Lo sguardo castano scuro e azzurro intenso. Lo sguardo degli occhi diversi.

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Capitolo 2
*** I. Colorado Springs ***




.A Way Through the Hell.

I. Colorado Springs

 

Appiccicoso e viscido. Era evidente che il marciapiede fosse stato catramato da poco.
Spencer sospirò, scostandosi la frangetta dalla fronte. C'era molto umido.
Fissò per terra. Nonostante il catrame fosse stato appena messo, si vedevano chiaramente delle minuscole spaccature, simili a pori della pelle troppo dilatati.
Scaricò il borsone dal baule, appoggiandolo a terra con un tonfo sordo. Aspettò qualche secondo e poi se lo caricò in spalla, per sbatterlo successivamente sul letto con forza.
La casa non era un granché, ma del resto non erano mai state delle gran signore, lei e sua madre.
La sua stanza era pressoché minuscola, rispetto a quella di Milano.
Si era trasferita a Colorado Springs, nello stato del Colorado, dopo un'infanzia passata in Italia. Anche se, dire che si era trasferita era inesatto. Era ritornata a Colorado Springs. Dopo quindici anni di lontananza. I suoi erano divorziati da quando lei era ancora un fagottino. Lui l'aveva tradita e così sua madre aveva fatto le valigie ed era partita per l'Italia, dai suoi genitori.
Spencer aveva vissuto quindici anni a Milano nello stesso condominio dei nonni, appena fuori dalla città.
Non poteva sperare di risultare anonima in città. Oh, no. Mamma l'aveva messa in guardia; "In quella città tutti sanno tutto. Non sperare di avere una tua privacy!", diceva sempre.
Sarebbe stata la novità, la ragazza che "aveva attraversato l'Atlantico alla tenera età di pochi mesi a causa del divorzio dei suoi genitori".
Nessuno a Colorado Springs era mai salito su un aereo. E quando, quindici anni prima, lei e sua madre lo avevano fatto, in città non si era parlato d'altro.
Scostò le tendine ingrigite dalla polvere. La sua finestra dava su Memorial Park, l'unico parco del paese. Il suo condominio stava all'incrocio tra Cucharras Street e Hancock Avenue. Era uno degli edifici più in della cittadina; più grande della norma, con un piccolo giardino verde, vicino alla scuola e all'ospedale.
Spencer non trovava grandi vantaggi in quella casa. Era arredata in uno stile che lei aveva sempre definito rustico, da montanaro. Parquet in ebano, cucina in legno, caminetto di pietra con tappeti di lana, cassettoni di mogano e letti con coperte di pile. Assomigliava alle casette del Maine. Forse alla casa della signora Fletcher. Rise al pensiero della serie preferita di sua nonna. Durante l'infanzia aveva rivisto gli episodi circa cinque volte. Tutte le serie. Ormai era un'esperta in materia.  
Fece scorrere lentamente la cerniera metallica del borsone. Aprì i cassettoni e vi soffiò dentro per togliere la polvere. Soffocando gli starnuti, iniziò a riempirli con i suoi vestiti. Aveva uno strano modo di riporre i capi di vestiario. Nel primo cassetto le magliette, ordinate dalle sue preferite a quelle meno usate. Nel secondo cassetto i pantaloni, jeans a destra e quelli della tuta a sinistra. Nel terzo le felpe, a destra quelle colorate e a sinistra le bianche e nere. Infine nell'ultimo stava l'intimo; mutande, reggiseni, canottiere, calzini e pigiami alla rinfusa.
Appiattì il borsone con i piedi e lo spedì sotto il letto con un calcio. Batté contro lo zoccolino, producendo un rumore metallico soffuso.
«Spence! Mi verresti ad aiutare?».
La ragazza si sistemò la frangetta con una passata di mano e raggiunse la madre in cucina.
Joanne era in bilico su una scaletta in metallo, mezza arrugginita, con un grande scatolone pieno di conserve della nonna.
«Abbiamo una scorta fino a quando mi farai dei nipoti», sorrise.
L'altra alzò gli occhi al cielo, «Contaci».
«Nemmeno uno?», si girò verso di lei facendole gli occhioni dolci e sbattendo ripetutamente le palpebre con grazia.
Chissà se così aveva abbindolato anche suo padre. Ridacchiò. «Forse mezzo, si vedrà», scherzò.
La giornata passò così, tra il sistemare le valige e  il mangiare la marmellata della nonna.
Alla sera era stravolta. Le faceva male dappertutto, aveva fame ma era troppo stanca per mangiare, sarebbe riuscita a tirare fino al mattino seguente grazie alla conserva di mele ingurgitata durante il pomeriggio. Sua madre si preparò un panino; quella donna era un pozzo senza fondo. Sorrise.
Si trascinò faticosamente in camera strascicando i piedi e cercò a tentoni il pigiama nel cassettone. Sbuffò non trovandolo e si gettò sul letto.
S'infilò nelle coperte ghiacciate, tirandosi il lenzuolo quasi fino al naso. Cercò il suo iPod vicino al comodino e lo accese, mettendosi le cuffiette.
La riproduzione era ferma a My Heart dei Paramore.
Troppo stanca per ascoltarli, scelse qualcosa di più leggero.
 
Seems the only one who doesn't see your beauty
Is the face in the mirror looking back at you
You walk around here thinking you're not pretty

But that's not true, cause I know you...
 
Il fastidioso suono della sveglia le fracassò ripetutamente i timpani. Si alzò svogliatamente, per scoprire che si era addormentata sul letto coi vestiti della sera precedente. Strascicò i piedi verso il cassettone, in cerca di qualcosa di pulito. La scelta ricadde su una T-Shirt bianca dei Paramore e degli shorts color jeans. Ci mise circa cinque minuti per districare i nodi nei suoi capelli rossi, infine afferrò una brioche dal cestino in cucina ed uscì senza salutare la madre.
La Colorado School si trovava a pochi isolati da casa sua, si poteva raggiungere tranquillamente a piedi. Il quartiere era già vuoto alle otto del mattino. Arido ma allo stesso tempo umido era il clima, bollente come una padella antiaderente sul fuoco il marciapiede. Per fortuna aveva delle scarpe a suola alta.
Varcò il cancello scolastico con una certa sicurezza, esaminando l'ambiente. L'edificio era alto appena due piani, in mattoni rossi sporgenti, la cui calce era mezza scrostata. Il cortile intorno era coperto d'erba con molti salici intorno alla recinzione. Nell'angolo si notavano due altalene solitarie. Come lei.
All'improvviso i suoi occhi misero a fuoco gli esseri viventi. Una cinquantina di ragazzi attendeva in cortile il suono della campanella; abbracciati con il proprio partner o sdraiati sull'erba a parlare con gli amici. Così affiatati, riusciva quasi a distinguerne i legami invisibili.
Non c'era spazio per lei. Cinquanta persone già occupate, senza tempo per conoscerne altre.
Non aveva mai avuto degli amici e nemmeno a Colorado Springs ne avrebbe avuti.
Sentendo come una morsa allo stomaco, s'appoggiò a un lampione sentendosi mancare l'aria. Si tirò su il cappuccio, abbassando lentamente la testa con tristezza. Fece scendere il corpo seguendo il palo della luce e ci si rannicchiò contro, stringendo le ginocchia a sé. Un velo di lacrime le offuscò la vista.
Sarebbe rimasta sola, come sempre.
La tanto odiata campanella suonò; a malavoglia, i fidanzati si separarono e gli amici si salutarono.
Spence estrasse la cartina della scuola che sua madre le aveva messo in cartella la sera precedente e cercò la sua classe.
Pur essendo piccolo, l'edificio era un complicato intrico di aule e laboratori, almeno per chi lo percorreva per la prima volta; quando la ragazza trovò la classe giusta la lezione era già iniziata.
Il professore la fulminò con lo sguardo ma non fermò la spiegazione per presentarla alla classe, cosa che la fece sentire sollevata.
Prese qualche appunto, anche se aveva già studiato tutto sull'argomento a Milano.
La lezione successiva era Inglese. Con suo grande disappunto, la professoressa decise di presentarla alla classe. Spencer rimase seduta al suo posto a fissare il banco, nonostante sentisse venticinque sguardi pungenti e curiosi trafiggerle la schiena.
Quando la lezione iniziò, l'argomento non le era nuovo neppure quello; la Bisbetica Domata di Shakespeare.
L'aveva studiata a memoria a Milano.
Milano, Milano, Milano.
Le mancavano i nonni, la sua camera affacciata sul quel grande prato, i cornetti freschi al mattino...
«Cosa ne dice signorina Marshall, ci da una mano a completare la frase? Il signor Walker ha qualche difficoltà».
La frase... La frase... Oddio.
Il silenzio invase la stanza. Il viso di Spencer emanava terrore.
Qualcuno le suggerì, «I motivi per cui la musica fu scritta. Forse non fu creata per rinfrescare...».
Una punta d'esitazione. Nemmeno la voce si ricordava il resto.
I motivi per cui la musica fu scritta. Forse non fu creata per rinfrescare... Ma certo!
«I motivi per cui la musica fu scritta. Forse che non fu creata per rinfrescare la mente degli uomini dopo lo studio e le consuete sue fatiche?», concluse, guardando la professoressa compiaciuta.
«Molto bene Marshall, molto bene», disse a denti stretti quest'ultima.
Venticinque sguardi sorpresi si rivolsero a lei.
Ignorandoli, Spence rivolse lo sguardo sul libro.
Qualcosa o meglio qualcuno le sfiorò il braccio. «Non ti preoccupare per quelli lì, sono solo invidiosi».
Si ritrovò faccia a faccia con una ragazza alta e smilza. Il viso era magro ma possedeva ancora delle fossette nelle guance quando sorrideva, come una bimba. I capelli, ricci e biondi, le ricadevano sciolti sulle spalle, un paio di occhi di un azzurro intenso la fissava. Il sole lasciava intravedere il segno delle lenti a contatto.
Accorgendosi che l'altra indugiava, la ragazza parlò nuovamente, «Sono così strana?».
Spence sussultò. «No, beh, cioè, insomma!».
"Ma che bel discorso", pensò.
La bionda s'aprì in un sorriso. «Ehi, ehi. Calma. Rilassati. Fai un bel respiro».
Provò a seguire il suo consiglio. Inspirò a fondo e tossì involontariamente.
La sua compagna aggrottò le sopracciglia. Per riparare, tese istintivamente la mano. «Sono Spencer Marshall».
La sua interlocutrice ridacchiò, «Tutta la città sa chi sei. Adesso sei la novità, come un giocattolo nuovo regalato a dei bambini. Passerà», sospirò.
Nascose una smorfia. «Ma certo, la bambina prodigio che attraversa l'Atlantico. Patetico».
Si coprì la bocca con le mani cinque secondi dopo, rendendosi conto di aver esagerato.
«Non ti preoccupare noi giovani non siamo così... Arretrati come i nostri genitori», sembrava non trovare la parola adatta anche dopo aver concluso la frase.
«Arretrati?».
«Sì, di cervello».
«Della serie "Classico Paesino di Campagna"?».
«Esattamente».
«Quindi nessuno qui si fa i fatti suoi. Mamma aveva ragione».
«Giusto, sei nata qui».
«Direi purtroppo. Non so nemmeno perché siamo tornate, ma mia madre insisteva. Mi è dispiaciuto lasciare l'Italia».
«Dovrebbe essere bella», affermò la bionda con un tono quasi interrogativo.
«Di sicuro meglio che qui».
«Non volevi venire dunque. Eppure tutti i teenager che si rispettino amano l'America».
«Mi hai vista bene? Sono più tendente alla nerd che alla teenager di tendenza!».
La fissò da capo a piedi, soffermandosi sulla maglia. «I nerd ascoltano i Paramore?».
«In teoria no, sono una nerd fuori dal comune».
Entrambe scoppiarono a ridere.
«Non ti ci vedrei con gli occhialoni spessi, le scarpe ortopediche e con minimo una cinquantina di libri in mano».
«Dici? Eppure in Italia il ruolo mi si addiceva».
«In Italia? Impossibile. Cioè, guardati. Sei fantastica, ragazza».
«Non ho mai visto, non vedo e non vedrò mai nulla di così speciale in me. Sono una ragazza ordinaria, nata per essere trattata come tale».
Gli occhi azzurri della bionda si fecero seri. «Spencer, non sto scherzando». La sua voce si era indurita. «Non permettere mai a nessuno di metterti i piedi in testa, capito? Non sei una ragazza ordinaria, sei un essere umano e come tale devi essere trattata. Non da scarto della società».
Spencer cercò di abbozzare un sorriso, inquietata da tanta serietà. Ma si rendeva conto che aveva tremendamente ragione.

 

Buonasera.
Come state? Io molto acciaccata, sono bianca come un cadavere e ho l'influenza.
Ringrazio molto coloro che hanno commentato: Iria, Ellens, Little Shinedown, Lady mE, Ossequi_Monet, Amy_Black, ellesse, nali, abby_morns e Julia Bi, non pensavo foste così gentili da rispondere alle richieste che vi avevo scritto per messaggio, quindi grazie mille.
Ringrazio di nuovo Amy_Black, Iria, Little Shinedown e Lady mE che hanno inserito la storia tra le seguite.
Confidando in qualche commentino, vi saluto
Jo

Si ringrazia abby_morns per la copertina.

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Capitolo 3
*** II. Conoscenze ***


II. Conoscenze

 

La campanella era suonata già da dieci minuti. Si accingeva a riporre pigramente i libri nell'armadietto sbadigliando di tanto in tanto. Un ticchettio insistente interruppe il chiacchiericcio dei suoi nuovi compagni. Tutti si voltarono raggelati, il silenzio invase il corridoio. Tre ragazze erano appena entrate. Le prime due, disposte ai lati, erano identiche. Bionde e robuste, con il naso sproporzionato e gli occhi di un azzurro acquoso. Fu la terza ragazza ad attirare la sua attenzione. Era posizionata al centro del terzetto, ciò lasciava presagire chi ne fosse il capo. Era relativamente bassa rispetto alle altre due, ma bellissima. Aveva lunghi capelli neri che le ricadevano sulle spalle, lisci e talmente lucidi da riflettere l'illuminazione del corridoio. La pelle non aveva alcuna traccia d'imperfezione, gli zigomi erano poco pronunciati, gli occhi d'un azzurro intenso e il naso alla francese. La mora ammirò soddisfatta il silenzio carico d'ammirazione ed invidia, per poi proseguire il suo cammino. Il ticchettio continuò. Spencer dedusse che il fastidioso rumore provenisse da lei, che esibiva elegantemente un paio di calzature rosse con i tacchi a spillo.
Quando le fu abbastanza vicina, mormorò un saluto, esibendo il migliore dei suoi sorrisi. I presenti si lasciarono sfuggire un esclamazione di sorpresa e sgomento.
«Chi ha osato rivolgermi la parola?», gracchiò la mora, con voce insopportabile quanto il ticchettio delle sue scarpe.
Spencer uscì dal corridoio di persone che si era formato affianco agli armadietti. «Io», affermò.
«Identificarsi prego!», striderono le due bionde.
«Spencer Marshall, vengo da Milano», tese la mano sorridendo.
L'altra l'ignorò. «L'italiana! Dio Santo, si nota da come sei conciata che lo sei!».
Spencer si esaminò da capo a piedi, mentre la gente ridacchiava di sottofondo.
«Non trovo nulla di strano in me».
«Non premetterti di contraddirmi. Ho detto che sei una stracciona e lo sei».
Si guardò intorno, «Che ho fatto di male?».
La mora avvicinò a lei, sfiorandole il petto con il suo seno fiorente, «Credo non ti abbiano ancora spiegato chi sono IO qui».
«Ah sì! Tu sei...».
Un'espressione soddisfatta comparì sul viso della ragazza ma Spence s'interruppe di colpo. «No seriamente, chi sei?».
Una risatina scosse il gruppo di gente che ascoltava, subito spenta dagli occhi fiammeggianti della ragazza.
«Sono Althea Prince, Capitano delle Cheerleader e Capo del Comitato Studentesco. La ragazza più FAMOSA della scuola», spiegò saccente.
«E io sono Spencer Marshall, Studentessa della Colorado School, fan sfegatata dei Paramore, a cui non interessa se colei che ha davanti è la ragazza più famosa della scuola».
Althea fu messa a tacere. Nessuno osò aprir bocca, per paura di pagarne le conseguenze poi. Un silenzio carico di ansia e terrore regnava nel corridoio.
«Non ti conviene metterti contro di me, bambina».
«Non ti preoccupare cara, non ho nessuna intenzione di mettermi contro di te».
Non sapendo cosa rispondere, Althea concluse con un: «Fai bene Marshall, ne potresti pagare le conseguenze».
Si allontanò senza salutare, seguita dalle bionde e dall'ininterrotto tacchettio sul pavimento di pietra.
La sua nuova amica le si avvicinò rapidamente. «Alla faccia di non farti mettere i piedi in testa», scherzò.
«Odio le persone così. Divento acida quando mi si tratta male».
«Geo, Geo!», quattro ragazze in fondo al corridoio si sbracciavano, avanzando verso di loro.
Una era alta e snella con capelli biondi e mossi e due grandi occhi verdi. La seconda, d'altezza notevolmente inferiore, aveva dei lunghissimi capelli biondo miele, lineamenti ispanici ed un paio di occhi castani da cerbiatta. Infine la terza era altissima e magra, con capelli lisci di un castano scuro tendente al nero e occhi azzurro mare.
«Sei la prima in tutta la scuola a sfidare Althea! Te ne rendi conto?», parlò la prima.
«E' un evento così raro?», domandò Spence inclinando leggermente il capo verso sinistra.
«Mai accaduto», rispose l'ispanica, con un forte accento spagnolo.
«Un'altra stranezza di questa minuscola cittadina», commentò.
Quella alta la squadrò con i suoi occhioni blu. «Tu sei quella nuova? Piacere, Andrea Walker. Grazie per aver aiutato mio fratello a lezione», sorrise. Aveva una presa molto robusta per essere così magra, notò Spencer.
A seguire tutte le altre si presentarono: «Miranda Torman», dichiarò la prima.
L'ispanica invece si presentò come Julia Moreno.
Gli occhi color nocciola dorato di Spencer si rivolsero alla bionda con gli occhi azzurro cielo. «Spero non farai ancora la misteriosa per molto. Oppure finirò per chiamarti Senza Nome».
L'altra ci mise qualche secondo per realizzare. «Per tutte le zie di mia madre! Non mi sono ancora presentata?»
«Per me sei Senza Nome», continuò l'altra, divertita.
«Oh, scusami! Scusa, scusa!».
«Ehi ehi, non ti preoccupare. Meglio tardi che mai».
«Georgiana Evans», tese la mano con un sorrisone a trentadue denti stampato in faccia, «Tua futura Migliore Amica».
Spencer la strinse nella sua. «Okay Georgiana. Ma non azzardarti a fare certe previsioni», scherzò.
«Io non mi azzardo a fare niente signorina, è semplicemente intuito femminile».
Le altre ragazze la spinsero via ridendo, scatenando una follia collettiva.
«Cosa succede qui?», una voce profonda, ma allo stesso tempo calma e rasserenante.
Spence alzò lo sguardo e si trovò faccia a faccia con un ragazzo altissimo e castano, i capelli più lunghi del normale e scompigliati disordinatamente gli coprivano gli occhi, il cui colore cercava d'individuare. Il mento, da cui spuntavano delle puntine di barba appena fatta, era leggermente squadrato, le labbra poco carnose formavano una linea retta ma allo stesso tempo sinuosa.
«Sei nuova?», la guardò da capo a piedi, mettendo in mostra trentadue denti perfetti e bianchissimi.
«Sì, nuova di pacca!», esclamò Julia.
Spencer levò gli occhi al cielo. «No, lavata con Perlana!».
Il ragazzo ridacchiò. «Sono Aaron Torman, fratello di Miranda», con una scostò infastidito i capelli che gli coprivano la fronte e Spence vide finalmente i suoi occhi, di un verde smeraldo intenso.
Strinse istintivamente la sua mano e si meravigliò di quanto fosse liscia e calda.
«Spencer Marshall», cercò di non balbettare.
«Ti trovi bene qui?», gli occhi verdi la scrutavano cercando di carpirne anche i più piccoli particolari delle sue espressioni.
«Al momento sì. Non è propriamente un bel posto, ma la compagnia non è male», ammiccò verso Geo.
«Non hai problemi con la lingua?».
«No, sono bilingue. So italiano ed inglese». Julia le sorrise.
«Che corsi frequenti?»
«Scienze, inglese, matematica, filosofia e storia».
Mostrò trentadue denti perfetti. «Bene! Abbiamo molti corsi in comune».
Spence abbozzò un finto sorriso, non sapendo se credere al fatto che fosse una buona cosa oppure no.
«Hai da fare questo pomeriggio?», le domandò Andrea. Il viso di Aaron s'illuminò.
«Veramente dovrei finire di fare il trasloco con mia madre».
«Oddio ti stiamo scombussolando la giornata, è tutto nuovo per te, chissà come devi sentirti», Georgiana abbassò lo sguardo sui suoi sandaletti in pelle, mortificata.
«Non ti preoccupare, sono solo arrivata ieri e devo finire il trasloco».
«Se ti serve una mano io sono qui», s'offrì Aaron.
«Grazie lo stesso, ma ormai restano soltanto soprammobili leggeri da portare», cercò di sviare.
Il ragazzo sorrise, «No problem».
Raccolse lo zaino da terra, «Vado», annunciò imbarazzata.
«Certo, ci vediamo domani!», le rispose allegramente Georgiana.
La ragazza rispose con un sorriso appena accennato ed uscì dall'edificio.
 
«Dio Santo mamma, proprio il divano più grosso del mondo dovevi portare da Milano?», Spencer sbuffò cercando di smuovere il mobile in pelle, senza successo.
Si sedette sui gradini in marmo dell'entrata, appoggiando la testa sulle ginocchia, sconsolata.
Sua madre sbucò dall'ingresso, «Su tesoro, non fare così! Con un po' di volontà riuscirai a portarlo in salotto. Persevera, persevera!».
Perseverare, perseverare... Fanculo.
«Non ce la faccio più mi arrendo!», si stese sugli scalini e trattenne un brivido. Erano ghiacciati.
Sospirò lentamente più volte, cercando di calmare i battiti accelerati del suo cuore.
Un risucchio di cannuccia.
Spence spalancò le palpebre, facendo adattare le pupille alla luce del sole.
Un paio di occhi color verde smeraldo  la fissavano intensamente.
«Salve».
Era Aaron. Oddio.
«C-ciao», balbettò la ragazza, imbarazzata per la vicinanza tra i loro corpi.
S'affrettò a tirarsi su.
Risucchiò ancora con la cannuccia. «Ma non dovevi portare in casa solo i soprammobili "leggeri"?», commentò fissando il divano in pelle con aria critica.
«Ecco... Vedi... Non volevo disturbarti, mi hai appena conosciuta... Non mi sembrava carino approfittare di te in quel modo», cercò di scusarsi. Abbozzò un sorriso.
Scoppiò a ridere. Evidentemente se l'era bevuta. Poggiò il bicchiere di cartone di Starbucks che aveva in mano. «Dai, ti aiuto io», annunciò.
Arrossì, «Grazie mille».
Il ragazzo si posizionò sulla parte destra del divano e iniziò a sollevarlo. Spencer si precipitò sulla sinistra, aiutandolo.
Salirono gli scalini con molta cautela e fecero entrare il divano di sbieco dalla porta d'ingresso. «Possiamo fermarci due secondi?», mormorò a fatica.
«Certamente», Aaron mise in mostra i denti perfetti.
Spencer mollò il divano di colpo, che produsse un forte colpo sul parquet e polvere ovunque.
Tossì, tra le risate divertite del ragazzo castano.
«Non. Ce la faccio. Vado. A prendere dell'acqua», disse a scatti, tra i colpi di tosse.
Si recò in cucina e bevve una lunga sorsata direttamente dalla bottiglia.
«Grazie mille per averla aiutata, poverina non ce la faceva da sola con quel divano così pesante».
Mamma. Mamma stava parlando con Aaron. Oh, Cristo.
«Si figuri signora, non c'è problema, è un piacere aiutare sua figlia», stava pronunciando educatamente, quando la ragazza giunse, o meglio, si precipitò, all'ingresso.
Ignorando la madre, diede istruzioni ad Aaron, «Okay, dobbiamo metterlo lì», disse indicando la camera da letto. Era un miracolo solo il fatto che il divano potesse starci.
Portarono il mobile al suo posto e si scambiarono un cinque soddisfatto a lavoro concluso.
Aaron fissò l'orologio del corridoio «Sono già le cinque, devo correre a casa! E' stato un piacere conoscerla signora Marshall, a domani Spencer!».
«Arrivederci caro!», cinguettò la madre.
La ragazza fulminò la quarantenne che aveva affianco.
«Che c'è?», domandò Joanne chiudendo la porta.
«Hai fatto la gallina, mamma», rise sotto i baffi.
«Sono solo stata carina con un tuo amico, tesoro! Dai, non fare così», sorrise dandole un buffetto sulla guancia.
Fece la finta offesa e sospirò, «Mi hai messo in imbarazzo».
«Come se non ti succedesse mai. Sei timida come tuo padre». Ebbe un sussulto nel pronunciare quella parola.
La figlia le si avvicinò abbracciandola.
La donna si rilassò e sorrise, «Cosa farei se non ci fossi tu, amore».

 I am going away for a while
But I'll be back, don't try and follow me
'Cause I'll return as soon as possible
See I'm trying to find my place
But it might not be here where I feel safe
We all learn to make mistakes.

And run
From them, from them
With no direction
We'll run from them, from them
With no conviction.

'Cause I'm just one of those ghosts
Travelling endlessly
Don't need no roads
In fact they follow me.
And we just go in circles.

Spencer strinse più forte la presa sul corpo di sua madre.

 

Buongioorno :)
Piaciuto il capitolo? Spero di sì *w*
Un Grazie gigante a Amy_Black, Lupagic, Ossequi_Monet e July Blade (ex Julia Bi) che continuano a recensire e naturalmente alle 5 persone che hanno inserito la storia nelle seguite.
Un bacione a tutti
la vostra Jo

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Capitolo 4
*** III. I Prince ***



III. I Prince

 

Era una soleggiata domenica di fine settembre.
La città era deserta, nonostante fosse quasi ora di Messa, nessuno era ancora in piedi nella religiosa cittadina.
Spence aveva indossato i suoi fidati roller e girovagava tra Pikes Peak Avenue e Saint Union Boulevard.
Adorava pattinare, specialmente alla mattina presto, con l'aria che le rinfrescava il viso. Come quel giorno. Oltrepassò velocemente Foote Avenue, saltando qua e là tra i marciapiedi e grondando sulle panchine.
Arrivò a metà della strada ed inforcò Farragut Avenue, che attraversava il parco davanti casa.
Un rumore improvviso le bloccò le gambe. Si girò spaventata.
Lucida come uno specchio, rifletteva la luce solare dandole un tono ramato. Una Ferrari rossa avanzava velocissima. Si guardò intorno in cerca di una via di fuga.
Impossibile, l'auto stava a pochi metri da lei. Il guidatore, nascosto dai vetri scuri, suonò il clacson come un forsennato.
Un stridio di freni interruppe il silenzio mattutino.
«DEFICIENTE!», urlò Spencer.
La porta della Ferrari si aprì e ne uscì un ragazzo alto e muscoloso, con i capelli scuri e gli occhi di un azzurro ghiaccio.
«Stai attenta ragazzina, la prossima volta potresti farti male».
«Ragazzina? Ma ti sei visto? Non avrai più di sedici anni! Non ti hanno insegnato a guidare? Questa è una strada pedonale, non una scorciatoia! CRETINO!».
Il ragazzo le si avvicinò. Sentiva i pettorali sfiorarle il corpo e il suo respiro sul collo. Percepì il suo profumo. Acqua di Colonia. Bleah.
«Stai attenta, o la prossima volta che ti becco... Ti tiro sotto», commentò esibendo un sorrisino beffardo.
Uno schiocco secco si librò nell'aria.
Il ragazzo si portò la mano alla guancia, sconcertato.
«Stai attento, o la prossima volta che ti becco... Ne ricevi un altro», promise.
Dopodiché di allontanò sdegnata.

 
«Ehi Evans piantala di giocare con quella lattina», la rimbeccò scherzosamente Julia.
Georgiana si girò e gliela passò con il piede. Al duo si aggiunse anche Andrea.
Spencer sedeva sul muretto, con le cuffiette nelle orecchie, ascoltando una delle tante canzoni dei Paramore.
Miranda le si sedette accanto. «Tutto a posto tesoro?».
Alzò lo sguardo, togliendosi un auricolare. «Sì certo. Ho un po' di sonno e quindi cerco di svegliarmi con della buona musica», rispose sorridendo.
«Lasciala stare Mir! Sta ascoltando i suoi Paramore, non dobbiamo disturbarla!».
Fece la linguaccia ad Andrea, che rise.
«I chi?», domandò Julia, poco informata sui gusti musicali americani.
«I Paramore: dal francese "Paramour", amore segreto. E' una band sviluppatasi a Franklin, Tennessee...».
«Hayley Williams & Company?», concluse Georgiana.
«Detto in modo sbrigativo ma... Sì, Hayley & Co».
Miranda le sorrise. In alcuni atteggiamenti sembrava più matura di tutte loro, anche se aveva soltanto quindici anni.
«Aggregati a noi!», Julia compieva uno strano palleggio con la lattina di Coca-Cola.
«No grazie».
«Miranda vieni?».
La bionda la guardò con aria critica. «E me lo chiedi?», domandò correndo verso il gruppetto.
Spencer appoggiò lo zaino viola sul muretto, sospirando.
Era strano, ma si trovava bene a Colorado. Non era una bruttissima città dopotutto. Ma forse era il fatto di avere trovato finalmente qualcuno con cui relazionarsi, con cui parlare e ridere. Delle amiche. Per lei era ancora strano dirlo.
«Buongiorno».
Aaron. A pochi metri da lei. Di nuovo.
Rabbrividì.
Prese le giuste distanze e rispose al saluto. Il ragazzo rise.
«Sempre così scostante?», domandò dopo qualche minuto di silenzio tra i due.
«E' colpa della mia educazione, almeno credo».
Il ragazzo la fissò incitandola a continuare.
«Mio padre tradì mia madre quando ero appena nata. Da allora ha sviluppato una specie di odio contro gli uomini».
«Quindi anche tu li odi?», chiese.
«No, no, per carità! Ma il fatto è che non sono abituata alla presenza maschile. Per questo m'imbarazzo facilmente».
«Ma dov'eri prima...».
«Milano», precisò.
«Ecco, a Milano non avevi un ragazzo?».
Il suono della campanella la salvò.
Si allontanò sorridendo, incurante del fatto che qualcuna aveva osservato la scena ed era morbosamente gelosa.
 
«Do you remember we were sittin' there by the water?», canticchiava Georgiana.
«Taylor Swift?», chiese.
«Conosci questa canzone?».
«Taylor Swift, Mine», recitò.
«Pensavo ascoltassi solo Paramore».
«Non è l'unica musica buona in giro; il country è forte».
«Di brutto, sorella», ribatté Geo sorridendo.
«I say "Can you believe it?"», attaccò Spencer.
«As we're lyin' on the couch, the moment, I can see it, yes, yes, I can see it now».
«Do you remember, we were sittin' there, by the water? You put your arm around me for the first time, you made a rebel of a careless man's careful daughter, you are the best thing that's ever been mine!», conclusero.
«Sei brava a cantare».
L'altra arrossì, «Ma fammi il piacere! Diciamo che me la cavo. Non posso essere definita come "Una che canta bene" se non ho mai cantato in pubblico. Almeno credo si ragioni così».
«Anche piuttosto bene te la cavi...», controbatté, «Aspetta, io sarei il tuo pubblico?».
«Il mio pubblico più numeroso finora».
La bionda la guardò sbigottita, «Non hai mai...».
«Se vuoi contare la doccia come pubblico va bene; anche se non è propriamente una persona».
Georgiana scoppiò a ridere, «Okay, okay. Ebbene sono onorata di essere la prima persona ad aver ascoltato la tua stupenda voce».
Avvampò, cercando di coprire gli occhi con il ciuffo.
«Perché non partecipi al Talent Show?».
«CHE COSA?!», il quadernone di Spencer cadde a terra con un tonfo sordo.
L'insegnante si girò indignata, «Evans e Marshall, PIANTATELA!».

«Spence, riguardo a prima non stavo scherzando. Potresti partecipare al Talent Show di gennaio».
Si girò di scatto, guardandola negli occhi in modo eloquente.
«Dai! Se proprio ti vergogni c'è sempre la band di Aaron», continuò.
Sempre Aaron di mezzo. Sospirò, «Aaron ha una band?».
«Da un anno. Diciamo che una nuova vocalist gli farebbe comodo».
«Ciao, amica di mia sorella», salutò allegramente il soggetto del loro discorso.
Spence chiuse lo sportello dell'armadietto, «Ciao, fratello della mia amica».
Scoppiarono a ridere entrambi.
«Parli del diavolo e spunta Aaron», Geo alzò gli occhi al cielo.
«Sempre spiritosa signorina Evans! Di che parlavate?», domandò rivolgendosi alla ragazza castana.
Deglutì a fatica. «Georgiana cercava di convincermi a partecipare al Talent Show di gennaio, dice che ho una bella voce». Il suo sguardo lasciava presagire il contrario.
«Mi sembra di capire che ti vergogni».
«Sì! Come uno scoiattolo nudo!», esclamò Georgiana. Spencer finse di darle uno scappellotto in testa.
«Gli scoiattoli sono nudi!», ribatté l'altra.
«Ma se hanno il pelo!».
Aaron la ignorò. «Io ho una band a scuola. Siamo circa in cinque, più la vocalist e due coriste. Ci farebbe comodo un'altra cantante, inoltre Geo dice che sei così brava».
Geo la guardò si sbieco. «Io me ne intendo, eh!», annuì come se cercasse di auto convincersi.
«AARON!». Una voce gracchiante interruppe i loro discorsi.
Sbiancò immediatamente. «Credo di dover andare».
«Perché?», lo guardò sbalordita.
«Aaron Thomas Torman, cosa ci fai qui?».
Lui abbozzò un finto sorriso, imbarazzato.
Spencer serrò di scatto la mascella, facendo sfregare ripetutamente i denti tra di loro.
La voce apparteneva ad Althea.
Le squadrò da capo a piedi. «Cosa ci fate qui con LUI?».
«Socializziamo», rispose Spencer fissandola negli occhi.
«Cosa ci fai tu qui invece, senza le tue ancelle?», domandò la bionda.
«Le ho mandate a farsi una maschera al viso. Non posso girare con due zombie».
I nervi di Spencer vibrarono per il nervosismo. Strinse i pugni facendo penetrare le unghie nella carne.
Le mani bianche e perfettamente curate di Althea percorsero la schiena di Aaron. Lui ebbe un brivido.
Si trattenne dal schiaffeggiarla. Come si permetteva di mettere le mani su un ragazzo con cui non aveva un minimo d'intimità?
«Andiamo amore», comandò strattonandolo.
Amore? Althea l'aveva chiamato AMORE?
Lo strattonò ancora. «Andiamo!».
Lo fissò. "Non te ne andare", pensò.
Lui la guardò mentre s'allontanava con il braccio di Althea in vita.
"Scusa", mimò con le labbra andandosene.

«Non ci credo, mio fratello è proprio un DEFICIENTE!».
Era la prima volta che vedeva Miranda così arrabbiata.
«Lo sapevo che non te lo dovevo dire; mannaggia a me», imprecò contro se stessa Spence.
«Non è la prima volta che si fa accalappiare da quella. Sarà minimo la decima volta. E' stato tutto un tira e molla! Lei lo ha fatto soffrire moltissimo, stando contemporaneamente con più ragazzi, è una vera e propria troia!», commentò Georgiana.
«Ma a quanto pare ci ricasca siempre», concluse Julia.
La ragazza s'interessò all'argomento. «Da quanto stanno insieme?».
Mir sospirò, «Da due anni. Si sono conosciuti in prima liceo. E' stato amore a prima vista per lei, Aaron invece non la sopportava ma ha ceduto a fine anno. Si sono baciati al ballo di primavera, davanti a tutti. Tipico di Althea», commentò sprezzantemente.
«Poi?».
«L'anno dopo hanno provato a stare insieme sul serio, anche se lei l'ha tradito svariate volte nel corso di sei mesi. Naturalmente se l'è lavorato per bene e adesso lui non fa nemmeno più caso alle sue scappatelle. Sopporta in silenzio. Quando le serve c'è, quando non le serve se ne va», concluse Andrea.
Come poteva sopportare una tale umiliazione? Come poteva essere così stupido?
Miranda fece schioccare la lingua, ignorando le occhiate sconcertate che Spencer le rivolgeva.
Geo interruppe il silenzio che si era formato tra di loro. «Che ne dite di andare da Starbucks?».
Scattò in piedi. «Ci sto».


Le fecero strada tra i viottoli della piccola città. La caffetteria si trovava vicino a Cascade Avenue.
Attraversarono un'ampia strada, posizionandosi sul marciapiede di sinistra. Mentre camminavano, qualcosa attirò l'attenzione di Spencer.
Una villetta dai mattoni rossi sporgenti le catturava lo sguardo. L'edera verde cadeva dal tetto alle pareti, avvinghiandosi a loro. I vetri coperti di polvere non lasciavano intravedere l'interno, il cancello malconcio era chiuso da un grosso catenaccio con un lucchetto arrugginito. Le piante del giardino erano incolte, abbandonate a loro stesse. Una scritta penzolava pigra sul cancello. "Cascade Park Manor", recitava.
Tirò l'amica bionda per la manica della giacca beige. «Cos'è?».
L'altra impallidì. «E' una casa, non vedi?».
«Molto diversa dalle altre».
«Solo perché è disabitata», tagliò corto.
«Perché lo dovrebbe essere? E' una bellissima residenza», mormorò in un sussurro.
«Muoviamoci, tra poco Starbucks chiude», annunciò Andrea, ricevendo un occhiata colma da gratitudine dalla bionda.
Il resto del pomeriggio trascorse velocemente tra un muffin ed un frappuccino. Spence dimenticò l'accaduto con Althea ed Aaron, ma promise a se stessa che avrebbe scoperto di più su Cascade Park Manor.

Un capitolo forse troppo corto ma fondamentale per ciò che avverrà poi.
Ringrazio infinitamente Amy_Black e Ossequi_Monet che continuano a commentare e le 5 persone che mi seguono costantemente; grazie mille.
Naturalmente se a qualcuno di voi andasse di leggere altre mie storie (in questo periodo sono particolarmente fissata con le One-Shot Albus/Minerva) ne sarei felice.
Buona serata
Jo


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Capitolo 5
*** IV. Cascade Park Manor ***



IV. Cascade Park Manor

 

«Meno male che questa lezione di inglese è finita, non la reggevo più».
Spencer ridacchiò.
«Abbiamo pure fatto sclerare quella cornacchia della Pardinge! CRAA! CRAA!», urlò Georgiana muovendo dall'alto al basso le braccia per imitare una cornacchia.
La zittì, onde evitare di essere scambiate per pazze tutt'e due, mentre un brusio che cresceva d'intensità attirò la loro attenzione.
Un ragazzo stava entrando dalla porta principale del corridoio, seguito da una scia di ragazze urlanti. Sorrideva e camminava con sicurezza; probabilmente si sentiva al di sopra degli altri, pensò.
«Chi è quello, il padrone del mondo?», domandò all'amica.
«Non farci caso, è quel pallone gonfiato di Christian Prince, fratello di Althea».
«Direi che il cognome lo rispecchia in pieno», disse sarcasticamente.
L'altra rise, «In effetti!».
Eppure non era per nulla un bel ragazzo; alto e fin troppo muscoloso, mascella larga e squadrata, bocca sottile e naso aquilino, capelli corti e scuri ed occhi azzurro ghiaccio.
«In molte lo adorano solo perché si può permettere la più costosa Acqua di Colonia sul mercato».
Strabuzzò gli occhi in un misto di incredulità e compassione per quelle poverette con problemi psicologici. Nello stesso istante nel suo cervello scattò un meccanismo. Come se un elastico le venisse sparato sulle tempie, la ragazza collegò i pezzi del puzzle.
Alto. Muscoloso. Moro. Occhi azzurri. Acqua di Colonia.
«Ehi Gi, possiede anche una Ferrari rossa per caso?».
«Sì perché? Non dirmi che t'interessa per la macchina!».
Era lui. LUI. Il ragazzo che l'aveva quasi investita.
«Cazzo!», esclamò, facendo scoppiare a ridere Georgiana.
«Che succede?».
«Domenica mattina stavo facendo un giro coi pattini e... Lui mi ha praticamente tirato sotto».
«Stai scherzando».
«Mai stata più seria, gliene ho anche dette quattro».
«Ragazza mia, ti stimo sempre di più», disse, dandole una pacca amichevole sulla spalla.
Cercò di coprirsi il viso con il cappuccio, inutilmente.
Lui si fermò di botto nel mezzo del corridoio, fissandola con aria altezzosa.
«Ancora tu?». Minimo una settantina di sguardi si posarono su di lei.
L'aveva notata. Che seccatura.
Alzò il viso, guardandolo con sfida, «Cos'è vuoi investirmi anche qui, ragazzino? Con il monopattino stavolta. Sarà più divertente, visto che la macchina non la sai guidare, sei ancora troppo piccolo. Si spera che col monopattino vada meglio».
Lui s'avvicinò di nuovo come l'altra volta. «Mi pareva d'aver capito che la ragazzina eri tu».
«Evidentemente hai capito male».
«Se ho capito bene che mi avresti dato un altro schiaffo, quando ci fossimo incontrati nuovamente», sorrise con scherno.
Tutto accadde molto velocemente.
Uno schiocco lacerò il silenzio che si era creato intorno a loro, lasciando settanta ragazze basite.
«Quello l'avevi capito bene, ragazzino», concluse.
Dopodiché sparì tra la massa di liceali preoccupate per la manata rossa rimasta sulla guancia del loro idolo, lasciando Christian Prince ancora più sconcertato.
« Spencer aspetta!», l'amica bionda la rincorreva per il corridoio.
Si girò sorridendole in modo quasi maligno, «Mi sento realizzata», rise.
«Non sai cosa hai combinato».
Si bloccò di colpo, fissandola negli occhi azzurri. «Una donna dovrà pure difendersi in qualche modo, no?».
Geo aprì l'armadietto di scatto, «Senza ombra di dubbio, ma forse ti sei difesa in modo eccessivo. Potresti rischiare di finire dal preside».
«Come siete severi da queste parti! A Milano non era così». Di fronte al suo sguardo severo puntualizzò, «Di solito non ci si fa beccare».
Chiuse l'armadietto fragorosamente. «Per l'appunto, Spencer Marshall! Non si dovrebbe compiere certe azioni in pubblico, diamine!».
«Che ho fatto di male?».
Georgiana scosse la testa e si allontanò, «Ci vediamo a lezione».
Chiuse l'armadietto sospirando.
«Qualcuno è di cattivo umore? Fa male di prima mattina». Il sorriso luminoso di Aaron la salutò.
«Ciao», borbottò imbarazzata riaprendo l'anta di metallo per creare una sorta di separé tra i loro corpi.
«Lo so, il mio comportamento di ieri è stato...», non trovò parole.
«Esatto. Non ci sono parole per descriverlo» rispose acida Spencer.
«Farei qualsiasi cosa per farmi perdonare», si appoggiò all'anta, chiudendola nuovamente.
«Qualsiasi?».
Annuì.
Sospirò. «Conosci Cascade Park Manor?».
S'accigliò, «La residenza abbandonata in Cascade Avenue?».
«Io. Tu. Cascade Park Manor. Alle quattro».
Sollevò le spalle, «Come vuole, capo».
La villetta dai mattoni rossi sporgenti con edera verde, i vetri coperti da millimetri di polvere e il cancello arrugginito era davanti a lei. Aaron le poggiò una mano sulla spalla, «Entriamo?».
Si girò. «Come? Volando?».
«Vieni con me».
La portò al termine della cancellata, ricoperta da una rete di metallo e dall'edera. Ne scostò una grossa fronda.
L'intreccio metallico era bucato in basso; un foro che lasciava passare una persona minuta.
«Ce la fai a passare di qui?».
«Credo di sì». Spence s'accucciò, lasciando passare una gamba alla volta nell'apertura. Molleggiando sui polpacci, fece passare il proprio corpo attraverso e si ritrovò nel giardino.
«Come passerai da questa parte?».
Per tutta risposta, Aaron s'arrampicò agilmente sulla cancellata e atterrò leggero sul suolo freddo.
«Ecco come faccio», sorrise.
«Riusciamo ad entrare?».
«Fossi in te non ci proverei».
«Perché? E' abbandonata, non c'è dentro nessuno».
«Non si può entrare», sviò.
«Allora che si fa?», domandò.
Le prese la mano. «Seguimi».
Si recarono nella parte occidentale dell'edificio, accanto al quale era appoggiata un'altissima scala a pioli in legno.
Aaron salì i primi gradini.
«Aspetta».
Si girò, «Cosa c'è?».
«Ho paura delle scale. Questa è troppo alta».
Le sorrise, «Nessuna scala è mai troppo alta».
«E' a pioli. Di legno. Ed è vecchia».
«Ti fidi di me?».
Storse il naso.
«Andiamo Spencer», le tese la mano.
La strinse tra le sue, rassegnata. «Come vuoi».
La scalata fu abbastanza rapida, si concentrò sul sorriso di Aaron e sul calore che emanavano le sue mani. Il ragazzo raggiunse la cresta del tetto e l'aiutò a salirci sopra.
I sassolini tra le tegole rotolarono verso il basso al loro passaggio.
Lui si sedette e la ragazza lo imitò, stringendo le gambe al petto e poggiando il mento sulle ginocchia. «E' fantastico».
 Si trovavano a circa sei metri d'altezza, da cui potevano osservare tutta la città, per quanto piccola fosse.
«Si vede la scuola da qui», indicò Aaron, «E anche il parco! Lo vedi il lago?».
Rise, «Sembri un bambino il giorno di Natale».
«Il bello è che non è la prima volta quassù, per me».
«Quante volte ci sei venuto?».
«Moltissime. Il foro che hai visto nella rete l'abbiamo creato io e i miei amici all'età di sette anni».
«Che monelli!».
Alzò le spalle, «Ne abbiamo combinate di peggio».
«Chi sono i tuoi amici? Sono gli stessi dell'infanzia? Non ti ho mai visto in compagnia. A parte...».
«I miei amici dall'infanzia sono William, Joe e Darren;  i componenti della mia band».
«Che cosa dolce! Piccoli bimbi crescono!», rise.
«Avevi amici a Milano?».
«Non esattamente. Ero considerata una ragazza strana e per questo isolata».
Batté ritmicamente le palpebre, «Strana?».
«Sai, gusti diversi nel vestire e nell'ascoltare musica, buoni voti a scuola e un modo di pensare che oserei definire intelligente».
«Oh, è il problema di molti ragazzi anche qui».
«E naturalmente tu non muovi un dito per cambiare qualcosa».
Sospirò. «Il sistema non può essere rivoluzionato da una singola persona».
«Il sistema? Così definisci l'emarginazione sociale? Se non è colpa del sistema di chi è allora?».
Sorrise, cercando di cambiare argomento. «Sei davvero troppo intelligente, sai?».
«Evidentemente ti rapporti solo con le tue coetanee stupide», si lasciò sfuggire.
Fissò le sue Nike bianche, triste. «E' sempre stato così. Io considerato il bello della scuola insieme a qualcun altro. Costretti a stare con i belli e sofisticati».
«Nessuno ti costringe».
«Si vede che non sei di qui. Spencer, a Colorado Springs tutto è legato a doppio filo. Niente è per caso».
Rabbrividì.
«Suona inquietante, lo so, ma è così. A volte anche i matrimoni sono programmati».
«Che cosa?», strabuzzò gli occhi.
«Le famiglie programmano unioni da quando i figli sono ancora in fasce. La cosa sorprendente è che non costringono i propri figli a sposarsi tra loro, ma li convincono subdolamente e indirettamente, usando qualsiasi mezzo».
«Dio, che vergogna!».
«Che ci vuoi fare? Si viene promesse ad un uomo da quando eravate bambini, così esso diviene l'unico che ti conosca veramente bene, il tuo migliore amico per obbligo ed infine tuo marito per essere il solo ad essere interessato apparentemente a te. Si vive nell'infelicità e nello sfornare figli per mantenere un surrogato di vita matrimoniale decente. Poi ci si allontana e si scopre reciprocamente l'amore, quello vero, che riempie il cuore. Ma non ci si può lasciare avvolgere dalla sua scia per il solo fatto di essere impegnati con qualcun altro e di avere una famiglia. Per il rispetto dei figli ai quali si rovinerebbe la vita si vive nella costante infelicità, che si tramuta in odio, depressione ed infine rassegnazione alla propria condizione». Ritrasse una lacrima pronta a sfuggire al suo controllo.
Rimase impietrita nel silenzio per qualche secondo. «Stai bene?», riuscì a farfugliare.
Cambiò argomento di colpo. «Che ne dici, vieni a provare con la band oggi?».
«Non so».
«Senti, tra mezz'ora ci sono le prove, ti va? Non ti costerebbe nulla».
«Hai ragione. Ci provo. Ma solo perché sei tu, eh!».
La sua risata argentina scosse il vicinato.
«Chi è la tua amica, Ron?», un ragazzo biondo e allampanato, gli rivolse l'attenzione.
«Ti chiamano Ron?».
Sorrise. «Solo loro».
«E' la tipa nuova?», un altro ragazzo poggiò il basso a terra.
«Spencer, loro sono Joe, Will e Darren», le presentò rispettivamente un ragazzo alto, robusto e dai capelli scuri, il ragazzo biondo e allampanato ed un ragazzo castano, più basso rispetto agli altri.
Le mani robuste e calde del moro strinsero le sue, «Piacere, sono il bassista della band. William è il chitarrista e Darren il batterista».
«L'ho portata qui per provare il ruolo di vocalist femminile», precisò Aaron.
«Sono un po' emozionata a dir la verità».
«Vocalist femminile? Ce l'abbiamo già».
«Ne vorrei un'altra, sai che non ha una voce molto potente».
«Se non ne siete soddisfatti, perché la tenete con voi?».
«E' solo colpa di...», l'occhiata furente di Aaron zittì William.
«Direi che possiamo cominciare, no?», cambiò argomento Joe.
«Come volete», sollevò le spalle Spencer.
«Hai particolari canzoni che sai cantare meglio di altre? Riesci a cantare meglio alto o basso?».
«Non ho canzoni in particolare, ma riesco a cantare meglio in modo alto. Mi farebbe piacere cantare Mean di Taylor Swift, se la conoscete».
«Abbiamo il più vasto repertorio musicale degli USA, baby», si vantò Darren.
I ragazzi s'avviarono agli strumenti.
«One, two, three, four!».
«You, with your words like knives, and swords and weapons that you use against me. You, have knocked me off my feet again, got me feeling like I’m nothing. You, with your voice like nails on a chalkboard, calling me out when I’m wounded», Spence sorrise allo sguardo sorpreso di Aaron.
«You, pickin’ on the weaker man. Well you can take me down, with just one single blow.
But you don’t know, what you don’t know
», le sue All Star grige battevano ritmicamente sul pavimento .
«Someday, I’ll be living in a big old city, and all you’re ever gonna be is mean.
Someday, I’ll be big enough so you can’t hit me, and all you’re ever gonna be is mean.
Why you gotta be so mean?».
«Cos'è questa MERDA?».
Interruppero tutti la prova e cercarono sorpresi il possessore di quella voce squillantemente acida, o meglio, la posseditrice. Il favoloso corpo di Althea Prince stava al centro della stanza, i suoi occhi azzurri fissavano infuocati il viso a cuore di Spence.
Il suo dito indice di protese verso di lei. «Cosa ci fa lei ?», trillò.
«Mi hanno chiesto di provare», appoggiò il microfono al sostenitore.
«Voi ce l'avete già una vocalist», ringhiò.
«Sarebbe una vocalist di supporto».
«La mia voce non ha bisogno di supporti. Potete aggiungerla al coro se volete».
Guardò sconcertata i ragazzi dietro di lei.
«Spencer stava provando perché lo vogliamo noi».
La mora incrociò le braccia, «Almeno che canti una canzone decente».
«Taylor Swift non è abbastanza decente per te?».
«Troppo country», la sfidò.
Strinse il microfono tra le mani fino a farle sudare.
Si girò vero i componenti della band sussurrando qualcosa. Le sorrisero. «Statemi dietro ragazzi!».
Le bacchette di legno della batteria di Darren produssero un rumore soffuso e ticchettando introdussero la melodia.
«I settled down, a twisted up frown, disguised as a smile, well. You would have never known! I had it all, but not what I wanted 'cause hope for me, was a place uncharted and overgrown! You'd make your way in, I'd resist you just like this, you can't tell me to feel, the truth never set me free... So, I did it myself!», la sua voce era grintosa ed arrabbiata, i suoi occhi castani fissavano i fondali di quelli ghiacciati di Althea, i cui stivali in pelle battevano fuori ritmo sul pavimento, saccenti e seccati.
«You can't be too careful anymore, when all that is waiting for you! Won't come any closer, you've got to reach out a little more, more, more, more, more!».
Il batterista chiuse la strofa, soddisfatto.
«Cristo, cos'è questo schifo?».
Spencer strabuzzò gli occhi.
«E' stata molto brava, Althea», Joe posò il basso.
«Assolutamente no! Se volete la inserite nel coro», incrociò le braccia.
«Althea!», la voce di Aaron, l'avrebbe riconosciuta tra mille.
«Non. Se. Ne. Parla.», il suo tono era categorico.
«O sta nel coro, o non se ne fa nulla», sorrise.
Aaron si girò verso di lei ed alzò le spalle, dispiaciuto.
«Brittani! Bridget!», batté le mani, «Ai vostri posti, si comincia!».
Le bionde comparvero dal nulla e si posizionarono sul palco.
«Cosa, mettiti a sinistra, vicino al tendone del sipario. Brava», le diede indicazioni la smorfiosa.
Le bionde in mezzo facevano a gara per mettersi in mostra, sgomitando l'una contro l'altra.
Mentre la melodia cominciava, introdotta da un Darren furente, Spence pensò a chi glielo aveva fatto fare di inserirsi nella band personale di Althea Prince.
Aaron gliel'avrebbe pagata. Eccome se gliel'avrebbe pagata.




Finalmente aggiorno, per farmi perdonare il capitolo è abbastanza lunghetto ;)

Ringrazio tanto Lady mE, Amy_Black, sevy, Ossequi_Monet e Little Shinedown che, gentilissime, hanno commentato il capitolo precendente.
Ringrazio inoltre coloro che continuano a seguirmi anche se non commentano e coloro che hanno inserito la storia nelle seguite.
Visto che sevy nei commenti di qualche capitolo fa ha chiesto informazioni riguardo alle canzoni inserite nel testo, ho deciso di postarle qui:


My Heart - Paramore (solo nominata) [Primo capitolo]
Tied Together With a Smile - Taylor Swift [Primo capitolo]
Misguided Ghosts - Paramore [Secondo capitolo]
Mine - Taylor Swift [Terzo capitolo]

Mean  -  Taylor Swift [Quarto capitolo]
Careful  -  Paramore [Quarto capitolo]


Consiglio vivamente a tutti di ascoltarle perchè sono favolose ;)
Alla prossima
la vostra Jo



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Capitolo 6
*** V. L'inizio ***



V. L'inizio

 

La borsa cadde sul parquet con un tonfo sordo.
«Ehi! Così lo rovini!», si lamentò sua madre.
«Scusa», borbottò tuffandosi sul divano.
«Qualcosa non va?», domandò.
«Mah, sono solo diventata la schiavetta personale di una smorfiosa».
«Che intendi?».
Sbuffò al ricordo, «Aaron mi ha convinto a provare con la sua band, ma la cantante non vuole farmi diventare vocalist di supporto, così mi ritrovo nel coro, affiancata da due galline grasse e bionde».
Joanne rise. La figlia mise il muso, «Non c'è niente da ridere», disse incrociando le braccia.
«Tesoro, tutti devono fanno gavetta per raggiungere i loro obiettivi».
«La band era già d'accordo. Per colpa sua sono stata inserita nel coro. Stupida bambina viziata».
Le accarezzò i capelli. «Ascoltami. Canta nel coro, ma fai del tuo meglio. Partecipa vivamente a tutte le attività; ogni occasione è buona per migliorare. Vedrai che prima o poi Aaron s'imporrà sulla ragazza», sorrise.
Spencer riuscì a convincersi. «Grazie mamma, cosa farei senza di te?».
«Ciò che farei io senza te, figlia mia».
«Sei nel CORO della band di mia fratello?», Miranda era davvero surriscaldata.
 La voce dell'amica la risvegliò dai suoi pensieri.
Alzò le spalle, «Colpa di Althea».
Il protagonista dei loro discorsi la chiamò dal fondo del corridoio.
«Oh no», mormorò.
«Io lo ammazzo!», per un attimo Mir apparve come una qualunque quindicenne.
La trattenne per un braccio. «Ci penso io tesoro. Và in classe».
Annuì a malavoglia e s'affrettò a scomparire.
«Spencer», sussurrò Aaron.
Si girò, cercando di mantenere la calma. «Ciao», salutò secca.
«Mi dispiace. Davvero», ammise.
«Non so cosa risponderti, per cui starò semplicemente zitta».
«Mi sono comportato in modo orrendo, riprovevole, abominevole, mostruoso».
«Di nuovo».
«Non guardarmi così, ti prego».
«Così come?», s'accigliò.
«I tuoi occhi mi scrutano, sembrano penetrarmi nell'anima».
«Vorrà dire che fisserò da un'altra parte mentre mi fai le tue scuse», concluse abbassando lo sguardo sulle mattonelle di pietra.
«Mi dispiace tanto. Sono stato uno stupido a farmi sottomettere in quel modo da Althea. Dopotutto la band è mia, potevo farne quello che volevo. Il fatto è che lei non è molto brava a cantare ed essendolo tu, pensavo avresti potuto aiutarla nel suo compito. Non me la sento di buttarla fuori».
Sbuffò.
«Farei qualsiasi cosa per farmi perdonare da te».
Ridacchiò. «Di nuovo».
«Oh, non ci sarà due senza tre. Seriamente, posso parlarne con Althea ed imporle la tua presenza come co-vocalist».
«No», pronunciò. «Voglio lavorare duramente per meritare quello che desidero. Non voglio sentirmi arrivata, né avere i santi in paradiso per diventare co-vocalist».
«Come vuoi. Anche se vorrei farmi perdonare in qualche modo».
«Uno ce n'è».
S'avvicinò, bisbigliandogli nell'orecchio.
«Di nuovo». Stavolta fu lui a dirlo.
 
«Eccomi!», lo raggiunse dall'altra parte della recinzione, facendo passare il suo corpo attraverso il foro che s'affrettò a coprire con l'edera.
«Cosa vuoi sapere ancora su questa casa abbandonata?». Sembrava scocciato e allo stesso tempo divertito.
«Tutto quello che sai».
«Te l'ho già detto».
«Non mi hai detto un bel nulla e tu sai, eccome se sai, come tutti quelli che abitano qui».
«Perché t'interessa tanto?».
«Perché dalla prima volta che l'ho vista mi ha catturato l'attenzione; solitaria e vuota, nessuno che me ne vuole parlare, avrà qualcosa di speciale in fondo, no?».
«Tu non dovresti saperlo».
«Aaron».
Sollevò le spalle, «Come vuoi».
«Ti ascolto».
«In questa casa ha sempre vissuto, da moltissimi secoli, una dinastia di illusionisti».
«Illusionisti?».
«In realtà tutti in città li definivano come maghi o stregoni e li evitavano».
«Ho sempre saputo e creduto che la persone speciali cercassero di nascondersi dagli altri».
«Oh, loro no. Erano orgogliosi del loro dono».
«Quali erano esattamente le loro capacità?».
«Sapevano ammaliare gli esseri viventi, la natura era a loro servizio, avevano il potere assoluto. Perciò la gente stava lontana da qui, come fa tuttora».
«Perché la casa è abbandonata?».
«Spencer», si spazientì.
«Scusa, troppe domande insieme».
«L'ultimo discendente fu A. Allen».
«Chi?».
«A. Allen. Nessuno ha mai saputo quale fosse il suo vero nome ed il cognome non era quello paterno. Nessuno si è mai interessato a loro. Facevano troppa paura. Per Colorado Springs erano gli Illusionisti; senza origini, né patria, né nome».
«Parlami di lui».
«Fu l'ultimo ad abitare Cascade Park Manor. Non era come la sua famiglia; sognava una vita normale, non voleva vivere rintanato nella residenza da cui tutti stavano alla larga. Decise così di farla finita, modificò il proprio aspetto ed imparò a comportarsi come un mortale».
«Non era mortale?».
«Per quanto ne sappiamo gli Illusionisti non sono mortali. Possono decidere di porre fine alla loro vita, semplicemente volendolo, ma il processo per ucciderli è lungo e complicato».
Inspirò a fondo. «Và avanti».
«Vivendo tra la gente di Colorado Springs, conobbe una donna. Nessuno seppe mai il suo nome, nessuno vide mai il suo viso. Si sapeva soltanto che Allen era in città, viveva in città e aveva una relazione con una residente. La gente mascherava il terrore cercando semplicemente di non pensarci».
«E' ancora vivo?».
«Dicono di no, sono convinti che abbia posto fine alla sua vita, ma se aveva qualcuno da amare, perché l'avrebbe fatto? Io sono convinto che sia ancora vivo», affermò sussurrando.
Rabbrividì, cercando di non farglielo notare.
«Credo sia ora di tornare a casa, inizia a far freddo».
Tentativo smascherato, ma in questa occasione Spence era d'accordo con lui.
«Non sai altro su Allen?».
«No».
«Dove potrei ricavare altre informazioni? In Comune?».
«Nessuno conosce particolari in più su questa storia. Devi rassegnarti, lo dico soprattutto per il tuo bene».
Sbuffò. Lui scostò la fronda d'edera, «Avanti, a casa».
Incrociò le braccia.
«Muoviti!», la incitò, per poi passarle davanti.
«Spencer».
«Arrivo, arrivo! Non c'è bisogno che mi chiami ancora!».
«Io non ti ho chiamata».
«Sì che l'hai fatto».
Gli occhi verdi fissarono i suoi. «No».
Un brivido ghiacciato le percorse la spina dorsale, solleticandole i nervi. Una risatina nervosa irruppe nel silenzio, a mascherare il terrore della sua proprietaria.
 
«Sei impazzita per caso?», Geo era sconvolta.
«Oh, non guardarmi così! Ti ho solo chiesto di aiutarmi a cercare più informazioni sull'argomento».
«Solo, eh? Ha ragione Aaron, stai lontana da quella maledetta casa, porterà solo guai».
«Siete tutti uguali!», sbuffò.
«Chi civetta qui? Chi civetta qui?».
«Gallina all'angolo, mi dileguo», annunciò la bionda.
«Sempre sola nel momento del bisogno», mormorò tra sé Spencer.
«Si parla anche da sole adesso?».
«Stavo riflettendo ad alta voce su quanto fossi stupida in una scala da uno a dieci. Forse undici».
Althea non fece in tempo a rispondere che la voce di Aaron interruppe la loro conversazione. «Bene ragazze, ci siete tutte? Gli altri sono in palestra che ci aspettano».
Darren prese la parola una volta che furono tutti al loro posto. «Oggi proveremo una canzone nuova, probabilmente qualcuno di voi la conoscerà già, gli altri dovranno impararla. E' Better Than Revenge di Taylor Swift».
L'acuta voce dell'ape regina mora si librò sopra le altre, «COSA? Non riesco a credere che la nostra band interpreti brani di quella Yankee che fa country!».
Cercò di mantenere la calma inspirando più volte. Autocontrollo, Spencer. «Mi propongo per insegnarvela!», suggerì mentre la vocalist alzava gli occhi al cielo, «E' una canzone molto veloce, bisogna aver proprietà di linguaggio».
«Credo di sapermela cavare da sola, grazie», ribatté fredda la mora.
«Ecco i testi», Aaron distribuì i fogli ai ragazzi.
Darren riprodusse il ritmo del brano, «Cominciamo».
«Now go stand in the corner and think about what you did. Ha, Time for a little revenge!
The story starts when it was hot and it was summer and, I had it all; I had him right there where I wanted him», la sua tonalità di voce era troppo elevata rispetto a quella della canzone. «She came along, got him along, and let's hear the applause, she took him faster than you can say sabotage. I never saw it coming, nor did I suspected it, I underestimated just who I was dealing with.
She had to know the pain was beating on me like a drum, she underestimated just who she was stealing from!
», il tono s'assottigliava sempre più, sfiorando il limite del sopportabile. «She's not a saint and she's not what you think, she's an actress, whoa!».

«Basta, basta!», Darren gettò via le bacchette.
Althea incrociò le braccia, «Cosa c'è che non va? Ho cantato perfettamente».
«Su questo ho qualche dubbio», affermò Joe tra i finti colpi di tosse. Le bionde ridacchiarono, subito zittite dall'ape regina.
«Spencer, per favore, canta tu».
«No», rispose tra i sorrisetti compiaciuti delle tre oche. «La vocalist è Althea, io sono solo una corista. Il brano va bene così, l'ha cantato perfettamente».
«Chi l'avrebbe detto? Sembra tu abbia un minimo di cervello».
«Cosa che tu non avrai mai, nemmeno se piangi in cinese».
Aaron si avvicinò. «Hai in mente qualcosa?», bisbigliò al suo orecchio.
Scosse lievemente la testa.
«Mi fido».
«Come io mi sono fidata di te».
Abbozzò un sorriso, il più bello che avesse mai visto.

 


Okay, non uccidetemi, so di essere in stra-ritardo con gli aggiornamenti ma ho avuto molto da fare in questo periodo.
Il capitolo è uno di quelli principali, spero vi abbiate prestato attenzione. Prego inoltre, chi stesse compiendo congetture varie sui prossimi capitoli (vedi Ossequi_Monet per citarne una a caso) di comunicarmeli per MP e non nelle recensioni, onde evitare di rovinare la storia agli altri utenti.
Ringrazio tutti coloro che hanno commentato finora e inserito la storia nelle seguite. Grazie davvero, mi rendete infinitamente felice.
Buona serata a tutti
Jo

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Capitolo 7
*** VI. Scoperte ***



VI. Scoperte

 

«Sono stravolta», si lasciò cadere sul proprio letto che cigolò, come di consueto.
«Stupide molle», borbottò.
S'infilò le cuffie nelle orecchie e si coprì il viso con il cappuccio.
 
How can I decide what's right? When you're clouding up my mind, can't win your losing fight all the time.
Not gonna ever own what's mine, when you're always taking sides. 
You won't take away my pride. No, not this time. Not this time.
How did we get here? When I use to know you so well. 
How did we get here? Well, I think I know.
The truth is hiding in your eyes and it's hanging on your tongue. 
Just boiling in my blood, but you think that I can't see.
What kind of man that you are, if you're a man at all. 
Well, I will figure this one out on my own. On my own.

I'm screaming "I love you so ". 
But my thoughts you can't decode. 

 
«Spencer», le bisbigliò sua madre all'orecchio.
«Dimmi», biascicò mezza addormentata.
«Una tua compagna di classe è venuta a trovarti».
L'uscio era occupato dalla smilza figura di Georgiana, i cui capelli biondi ricadevano in morbidi ricci sulle spalle.
Alzò il bavero della giacca in pelle, «Ehi Spence», sorrise.
«Ciao Geo, accomodati pure».
«Grazie».
«Vi lascio sole», annunciò Joanne.
«Cosa ti porta qui?», le chiese una volta che sua madre ebbe chiuso la porta.
«Ho scoperto una cosa che ti piacerà».
«I Paramore fanno un concerto a Colorado Springs?».
«No, di più».
«Come uccidere Althea?».
«So che è una prospettiva allettante, ma purtroppo non ho ancora escogitato nulla».
«Mi arrendo allora».
«Cascade Park Manor ti dice qualcosa?».
«Pensavo non volessi aiutarmi», la stuzzicò.
«Direi che sono stata costretta», sospirò la bionda.
«Ti adoro!», esclamò abbracciandola.
«Attenta alla borsa», sbottò. «C'è dentro il mio portatile».
Fece scorrere la cerniera di metallo con aria professionale, estrasse il computer con cautela, lo avviò ed aprì un documento di testo.
«Ho pensato di copiare qui le informazioni, visto che non hai ancora l'abilitazione per la rete wireless in casa».
«Sei un genio», la ringraziò.
L'altra iniziò a leggere ad alta voce.
"Cascade Park Manor venne costruita nei primi anni dopo la fondazione di Colorado Springs. Vi abitò per secoli un'unica famiglia, gli Illusionisti, di cui ancora oggi non si conosce il vero cognome.
Il capostipite costruttore della residenza di famiglia fu Byron, arrivato da pochi mesi in città con la moglie Ingrid.
Entrambi avevano un dono, che gli altri abitanti non tardarono a scoprire.
Erano capaci di penetrare nella mente altrui, carpire i pensieri e controllarli a proprio piacimento. Erano padroni della natura e degli agenti atmosferici, inoltre non invecchiavano mai.
Spaventati da quello che erano capaci di fare, gli abitanti si rivoltarono contro di loro e li costrinsero a rimanere chiusi per sempre all'interno della loro residenza.
Istruirono le generazioni successive a non avvicinarsi mai alla casa e gli Illusionisti vennero dimenticati col passare degli anni.
Dall'altra parte, gli isolati istruirono le loro generazioni ad odiare Colorado Springs.".
«Com'è possibile che s'imparentassero tra loro?».
«Va avanti a leggere». Obbedì.
"La tradizione di questa antica famiglia era come quella degli antichi Egizi.
Essi pensavano infatti che il faraone si dovesse imparentare con una delle sue sorelle, per trasmettere il carattere divino anche ai suoi successori. Così fecero gli Illusionisti.".
Spence era più che sconvolta, «E' risaputo che procreando con i propri fratelli si rischia di avere una prole malformata!».
«Dimentichi che gli Illusionisti non erano propriamente umani. Magari a loro non è mai successo».
"Tuttavia, l'ultimo loro discendente fino ad oggi, A. Allen, crebbe educato come la famiglia desiderava, ma con ideali molto diversi. Non aveva mai visto il mondo, là fuori, non era mai uscito nemmeno in giardino, voleva esplorare il mondo. Non aveva mai avuto contatti con altre persone che non fossero i suoi familiari, inoltre odiava l'idea che un giorno avrebbe dovuto sposare una delle sue sorelle: Virginia, Agnes o Grace.
Una notte riuscì a fuggire dalla residenza e, travestito da normalissimo mortale, visitò la città.
Fu infine attirato dalle sgargianti luci della piazza principale, in cui si festeggiava il giorno del patrono.
Le persone ballavano in cerchio, le une con le braccia sulle spalle degli altri, i piedi che s'incrociavano, simile a una delle tante danze greche viste sui libri che aveva divorato.
E fu lì, in mezzo a quella moltitudine d'umani mai visti prima, se non sui libri d'anatomia che conosceva a memoria, che la vide.
Capelli rosso fuoco le scendevano sulle spalle arrotolati in morbidi boccoli, incorniciando una fronte alta e un paio d'occhi castano dorati tendenti al verde.
Gli zigomi alti lasciavano spazio a labbra color dei petali di una rosa.
Era vestita con una gonna colorata che le scopriva le caviglie, ornate da pendoli d'oro. Agitava le mani e i fianchi con grazia, una camicetta candida le metteva in risalto il seno e la fascia verde che raccoglieva i capelli ribelli li faceva spiccare in mezzo alla piazza gremita.
Decise che doveva conoscerla. Nulla glielo avrebbe impedito.
Tuttavia non cercò un approccio al momento, bensì aspettò qualche giorno.
La terza notte dopo quel fuggevole incontro la cercò e le si rivelò. Ella fuggì spaventata, gli abitanti di Colorado Springs non erano abituati agli estranei e non lo sono ancora oggi. Allen tornò quindi a casa, sconsolato.
Nonostante ciò, non si fece scoraggiare. Le scrisse quotidianamente per una settimana, cercando di rassicurarla. Infine la decima notte di recò nuovamente da lei e le parlò con tenerezza, presentandosi come amico. La donna decise così di lasciarlo entrare nella sua vita.
Si vedevano ogni notte di nascosto, lui fuggiva da Cascade Park Manor e si trovavano all'interno del parco nei pressi del cimitero di Colorado Springs. Sotto la fioca luce dei lampioni sbocciò il loro amore".
«E poi?».
«Il documento finisce qui. Non ho trovato altro».
«Perché mai dovrebbero parlare di A. Allen e della donna se questi avvenimenti non hanno in qualche modo influenzato il paese? Del resto, nessuno a Colorado Springs sapeva dei loro incontri».
«Devo dire che il tuo ragionamento non fa una piega».
«Posso chiederti dove hai trovato le informazioni?».
«Oh, è stato difficile. Ho trascritto minuziosamente ciò che sapevo fin da bambina, come tutti i miei coetanei, inoltre ho chiesto ulteriori informazioni a mia nonna. Ha la memoria migliore di tutto il paese, probabilmente».
Notando l'espressione stupita dell'amica parlò di nuovo, «Vieni con me».
«Dove mi porti?», chiese Spencer.
Mostrò un sorrisetto compiaciuto. «In biblioteca».
 
La stanza era ampia e ben illuminata, grandi librerie di legno massiccio ricoperte di libri circondavano le pareti e lucidi tavoli rotondi ornavano il centro del locale.
«Da che sezione dovremmo cominciare?».
«Da quella di storia, credo».
La ricerca durò circa due ore, al termine della quale trovarono solo conferme a ciò che avevano precedentemente letto nel documento.
La bionda sedeva sfinita sulla sedia di legno, boccheggiante.
«Non perderti d'animo, Geo. Dobbiamo continuare a cercare!».
«Acqua... Acqua», biascicò l'altra.
«Ci dev'essere una soluzione».
Il suo sguardo percorse i titoli sulle librerie. Storia, Narrativa, Occulto, Horror, Fantasy, Poesia, Giallo... Occulto! Ecco dove cercare!
La sezione era abbastanza ridotta, ciò le sollevò un poco il morale.
Un libro intarsiato, dalla copertina in legno, attirò la sua attenzione. La scrittura dorata in gotico recitava: "Creature magiche".
Potevano, gli Illusionisti, essere considerati come creature speciali?
Lo sfilò dal ripiano, la polvere le diede fastidio agli occhi e la fece starnutire.
Aprì il libro, le pagine erano grosse e ingiallite, percepiva lo spessore dell'inchiostro.
Li trovò sotto la categoria 'Creature magiche con sembianze umane', seguiti da diverse pagine sui vampiri. Fu tuttavia delusa dalla scarsa lunghezza delle informazioni.
 "Gli Illusionisti arrivarono a Colorado Springs poco dopo la sua fondazione nel 1871. Byron Allen con sua moglie Ingrid costruirono la residenza, tutt'ora abitata, di Cascade Park Manor".
A quando risaliva il testo? Guardò sul retro. 1995, perfetto. Quella data stabiliva qualcosa d'importante, nel '95 la casa era ancora abitata.
Seguiva un gigantesco albero genealogico della famiglia che le confermò un'altra cosa: si sposavano tra loro. Rabbrividì.
Dopo l'albero genealogico vi era la minuziosa descrizione della storia tra A. e la Rossa.
Rileggendola, le venne in mente una puntigliosa questione su cui non aveva ancora riflettuto completamente.
«Se nessuno a Colorado Springs era a conoscenza dei loro incontri clandestini, perché l'intera storia è scritta qui?».
«Hai ragione. Qui c'è qualcosa che non quadra!».
Aggrottò le sopracciglia. Ovvio che qualcosa non quadrava. Ma lei l'avrebbe fatta quadrare. Ad ogni costo.



Oh, sono proprio imperdonabile. Non aggiorno da tanto, troppo tempo.
By the way, sono felice che, anche se meno delle altre volte, continuate a seguirmi. Grazie, grazie mille. Davvero.
Al prossimo capitolo.
Buona serata a tutti, cari lettori.
Jo

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Capitolo 8
*** VII. Ballo ***



VII. Ballo

 
«Il che…?».
«Il ballo d'autunno, è un'usanza della nostra scuola da anni», le spiegò Andrea.
«In Italia non si usa».
«Davvero?», strabuzzò gli occhi Mir.
«E cosa si fa a questo ballo?».
«Si balla! E si conoscono ragazzi, si flirta!».
La squadrò da capo a piedi. «Julia», alzò gli occhi al cielo.
«Hai già in mente qualcosa?».
«Geo!», l'ammonì.
«Scusa! Magari pensavi a qualche vestito in particolare».
«Oh, giusto! Non ti ho ancora detto che non verrò».
«Perché?».
«Andiamo! Ti sembro una da ballo?».
«Sì».
Rimase in silenzio, squadrandola da capo a piedi.
La bionda passò alle suppliche. «Dai».
«No».
«Per favore».
«No».
«Per favore!», esclamarono in coro.
«No».
«Ti ricordo che mi devi un favore».
Sbuffò. Cascade Park Manor, giusto.
«Questo è un ricatto».
«Esattamente».
«Dovrei quindi permetterti di conciarmi una Barbie».
«Esattamente».
Alzò gli occhi al cielo. «Come vuoi».
«Evviva!», batté le mani.
 
Le sue dita scorrevano delicate sulle corde della chitarra acustica, la melodia le veniva dal cuore, le labbra erano la porta del suono.
«It's a little bit funny this feeling inside me. I'm not one of those who can easily hide.
I don't have much money but boy if I did, I'd buy a big house where we both could live.
So excuse me forgetting but these things I do. See I've forgotten if they're green or they're blue
».

«Ehi».
Rabbrividì, di nuovo Aaron.
Stai calma, stai calma.
«Ciao», sorrise.
«Che cantavi?».
«Your Song, di Ellie Goulding».
«Non era di Elton John?».
«E' una cover. Riesco a emulare meglio la tonalità visto che è cantata da una donna».
«Và avanti».
«Scherzi?».
«Per favore». Cos'era, il giorno delle suppliche?
«Anyway the thing is, what I really mean: yours are the sweetest eyes I've ever seen. And you can tell everybody this is your song. It maybe quite simple but now that it's done. I hope you don't mind, I hope you don't mind, that I put down in words. How wonderful life is, now you're in the world».
Lui ascoltava rapito quella stupenda melodia.
«If I was a sculptor but then again no. Or a girl who makes potions in the travelling show. I know it's not much but it's the best I can do. My gift is my song and this one's for you».
Gli sorrise: "Il mio dono è la mia canzone, questa è per te".
«And you can tell everybody this is your song. It may be quite simple but now that it's done. I hope you don't mind, I hope you don't mind that I put down in words.
How wonderful life is, now you're in the world».
Lo fissò dritto negli occhi, il suo modo per chiederglielo: "Puoi a tutti che questa è la nostra canzone. Può essere semplice, ma ormai è fatta. Spero non t'importi che io l'abbia tradotta in parole. Com'è bella la vita, ora che tu sei il mondo".
Strinse le mani tra le sue, aveva capito. «Sarà la nostra canzone, Spence».
S'illuminò, «Dici davvero?».
«Non scherzo e, onde evitare che tu non mi preda sul serio... Spencer Marshall, vuoi venire al ballo d’autunno con me?».
«Stai scherzando».
«Sono molto serio».
Gli buttò le braccia al collo, «Accetto!».
La strinse forte, per poi sussurrarle, «Vengo a prenderti alle otto».
 
Gli urletti di gioia delle sue nuove amiche invasero la sua camera.
«Ragazze, un po' di contegno!».
«Mio fratello si è svegliato, finalmente!», Miranda sprizzava felicità da tutti i pori.
«Dobbiamo darci dentro coi preparativi!», le brillarono gli occhi.
«Giù le mani!», schiaffeggiò le affusolate dita bianche della bionda che bramavano i suoi capelli.
«Spencer. Ti fidi di me?», la fissava con i suoi splendidi occhi blu.
Inspirò profondamente, «Ciecamente».
«Allora rilassati».
 
Il parco intorno alla scuola era immerso nel buio, l'unica fonte di luce proveniva dalle ampie finestre che la circondavano.
Le pareti erano decorati da festoni colorati, il pavimento del corridoio era così tirato a lucido da riflettere la sua immagine.
I capelli rossi le ricadevano sulle spalle in morbidi boccoli, da cui spuntavano un paio di grossi orecchini tondi d'argento.
Gli occhi verdi sfumati di nocciola erano messi in risalto dal trucco grigio-verde che s'intonava allo smeraldo del suo vestito. Una collana d'argento le metteva in risalto il petto candido, un paio di scarpe argentate col tacco sottile le avvolgevano le caviglie.
Doveva ammettere che Georgiana aveva fatto proprio un bel lavoro.
«Sei stupenda», commentò la sua amica.
I suoi capelli ricci erano raccolti in uno chignon da cui spuntava qualche ciocca bionda.
Il vestito azzurro le risaltava gli occhi e la pelle, grandi orecchini d'oro bianco le arrivavano fino alle spalle.
«Tu di più».
Le diede un leggero pugno sulla spalla nuda, «Scherzi? Sei tu la regina stasera».
Strinse la sua mano magra e varcò la porta che portava alla palestra.
I canestri erano ornati da palloncini blu e bianchi, le pareti da ghirlande di rose candide.
Lunghi tavoli coperti da tovaglie azzurre erano carichi di caraffe di succo d'uva, punch e Coca Cola attorniati da pizzette e pasticcini.
Dal palco cadevano pesanti tende di velluto blu e uno striscione immacolato recitava: "Ballo d'Autunno 2010".
«E'.Fantastico.».
«Devi andare sul palco, Spence», le diede una leggera spinta.
«Saliranno sul palco ad allietare la serata i "Blixen"!», annunciò la voce di una ragazza a lei sconosciuta, probabilmente la speaker della serata.
«Ci chiamiamo così?», ridacchiò.
«Su, muoviti!».
Salì sul palco cautamente; era su un paio di trampoli, del resto.
Althea era già al centro della scena. I capelli scuri e resi ancor più lisci dalla piastra le coprivano la schiena nuda. Un body di raso nero le metteva in risalto il petto fiorente, da cui pendeva una sottile catenina d'oro. Le labbra perfette erano dipinte da un velo di rossetto rosa acceso.
«Ciao a tutti, ragazzi», esordì con la sua voce stridula.
Il pubblico maschile fischiò di piacere.
Ghignò, «Questa sera v'intratterremo noi, quindi ballate ma soprattutto divertitevi!».
Gli studenti esultarono.
Darren partì con la melodia, a malavoglia.
«Now go stand in the corner and think about what you did. Ha, Time for a little revenge!
The story starts when it was hot and it was summer and, I had it all; I had him right there where I wanted him. She came along, got him along, and let's hear the applause, she took him faster than you can say sabotage. I never saw it coming, nor did I suspected it, I underestimated just who I was dealing with. She had to know the pain was beating on me like a drum, she underestimated just who she was stealing from! She's not a saint and she's not what you think, she's an actress, whoa!», sfiorava il limite dell'ascoltabile.
La gente rimaneva ferma, impassibile. Nemmeno la sua bellezza poteva mascherare la sua incapacità nel canto.
Aaron scosse la testa. Erano finiti.
«Canta tu», suggerì Joe.
«Non posso», ribatté con veemenza.
«O canti, o finiamo nella merda».
Darren si alzò per sollevare di peso Althea, che strepitò come una gallina.
«Vai davanti a quel fottuto microfono», sillabò.
La platea rimaneva ancora in silenzio.
«She lives in a fairy tale, somewhere too far for us to find. Forgotten the taste and smell of the world that she's left behind. It's all about the exposure the lens I told her. The angles were all wrong now she's ripping wings off of butterflies. Keep your feet on the ground when your head's in the clouds. Well go get your shovel and we'll dig a deep hole to bury the castle, bury the castle!
Well go get your shovel and we'll dig a deep hole to bury the castle, bury the castle!
Ba da ba ba da ba ba da!».
I presenti esplosero in un boato di applausi e i loro corpi cominciarono ad ondeggiare a ritmo di musica.
Althea scese dal palco, recandosi verso un angolo della palestra. Si mise a parlare con un ragazzo alto e robusto, il buio non le permetteva di distinguerlo chiaramente ma era sicura fosse suo fratello Christian.
Stavano tramando qualcosa, ne era tremendamente sicura.
 
«A che pensi?», più tardi la voce vellutata di Aaron le sfiorò la schiena nuda.
«A niente», mentì.
«Balliamo?», domandò.
Si guardò intorno. «Non c'è nessuno e nemmeno la musica».
Rise, «Non stiamo più suonando».
«Quindi come possiamo ballare?».
«Si può ballare anche senza musica».
«Che assurdità».
«Provaci, almeno».
«Come vuoi».
Abbracciò la sua vita ed iniziarono ad ondeggiare insieme.
«Emozionante», commentò sarcasticamente.
«Ammettilo, non è male».
«Okay, mi arrendo!».
«Era ora», sorrise.
«Adesso che si fa?».
I loro visi erano molto vicini. «Dimmelo tu».
Sorrise imbarazzata, «Non lo so».
«Io ho un'idea».
Si sottrasse alla sua presa. «Aaron, no».
«Come vuoi».
Le vibrò qualcosa in borsa. «Saranno le ragazze che mi cercano. Devo scappare».
Lui annuì, rimanendo solo in palestra.
 
«Sei stata fantastica stasera! Una voce fuori dal comune!».
«Non esagerare, Miranda».
«Potrei diventare la tua manager, mi assumi?», domandò Georgiana con gli occhi scintillanti.
«Ma piantala!», rise la rossa.
«Ragazze, permettetemi di portarvi a casa con la mia nuova macchina», Andrea fece ruotare il mazzo di chiavi intorno al dito indice.
«Con il catorcio intenderai dire», la punzecchiò Julia.
«Invidiosa, sei solo invidiosa perché non ti hanno ancora regalato una macchina».
«Bugiarda!».
Iniziarono a rincorrersi per l'atrio, facendosi il solletico. Era un miracolo il solo fatto che non si slogassero una caviglia su quei trampoli!
«Un po' di contegno, per favore!», scherzò lei.
Uscirono dalla scuola.
Il buio circondava il vicinato, avvolgendolo nelle sue spire scure. Nulla era distinguibile, tranne due figure strettamente avvinghiate tra loro nell'ombra.
«Chi sono?».
«Chi vuoi che siano, due ragazzi che si sbaciucchiano».
«Capitan ovvio», rise.
Tuttavia quando i suoi occhi s'abituarono al buio, le forme divennero indistinguibili. Althea e Aaron. Insieme. Avvinghiati in un bacio appassionato.
Il suo singulto li interruppe.
«Spencer», borbottò a mo' di scusa.
«Aaron».
Althea rise.
Si girò di scatto, piantando in asso le sue amiche e superando i due piccioncini.
«Spencer, per favore, lasciami spiegare».
«Non abbiamo nulla da dirci», commentò secca.
«Non è come pensi».
«Oh no, infatti. Avevate le lingue cacciate reciprocamente l'uno nella gola dell'altro, non è come penso, giusto?».
L'altro rimase in silenzio e la rossa se ne andò, senza salutarlo.
Georgiana la raggiunse. «Abbiamo parlato troppo presto, mi dispiace».
«Non è colpa vostra, la colpa è solo mia».
«Che dici, tesoro?».
«Non dovevo provarci con un ragazzo occupato, ecco tutto».
Le superò velocemente.
«Ehi ma dove vai?», le gridò Andrea.
«Torno a casa a piedi», borbottò.
Fanculo se non avevano sentito.
Fanculo a tutti.
Una figura immersa nell'ombra era appoggiata al lampione ormai spento.
«Salve, Marshall». Christian Prince.
«Fanculo anche a te».

 


Buonasera bei bambini, come direbbe la mia viscida insegnante d'inglese.
Spero vi sia piaciuto il capitolo, forse un po' noioso ma fondamentale per capire ciò che avverrà poi. Vi consiglio di fare molta attenzione ai particolari :)
Ringrazio abby_morns,
Amy_Black,
Little Shinedown
che continuano a seguirmi e Lady mE, sevy, Ossequi_Monet   che hanno commentato i capitoli precedenti.
M'inchino a love_vulturi e Hermiuna, che hanno inserito la storia nelle preferite e a 
 abby_mornsAmy_Black Fire Queen,  Iria, Lady mE, Little Shinedown che l'hanno inserita nelle preferite.
Grazie davvero a tutte.
Buona serata

Jo
 

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Capitolo 9
*** VIII. Nebbia ***



VIII. Nebbia

 

Si alzò dolorante. Le ossa dei piedi scricchiolarono sorde sotto il suo peso. In una qualunque mattinata l'avrebbe adorato, ma in questo caso lo odiava.
La schiena le faceva male, come se centinaia di spilli gliel'avessero perforata.
Scelse un'innocente T-Shirt bianca abbinata ad un paio di jeans a pinocchietto.
Si legò i capelli rosso infuocato con un nastro di raso verde e si lavò il viso con acqua ghiacciata.
«Ciao tesoro», le sorrise sua madre.
Afferrò una brioche ancora calda dal cesto al centro del tavolo e aprì la porta.
«Ciao», borbottò uscendo.
Attraversò la strada alzando il bavero della giacca, per proteggersi dall'aria ghiacciata.
«Marshall».
Si fermò di botto, girandosi lentamente. «Tu». Suonava come un'imprecazione più che una domanda.
«Eri più loquace ieri», sorrise beffardo Christian Prince.
«Finiscila».
«Considerando il saluto che mi hai rivolto però, direi che è un grande passo in avanti».
S'avvicinò a lui, fino a percepire l'acqua di Colonia. «Chiudi il becco».
L'afferrò improvvisamente per i fianchi.
«Toglimi.Le.Mani.Di.Dosso».
S'avvicinò ancora di più. «Non è una situazione poi così tragica», ridacchiò.
Le abbassò la sciarpa di lana verde con il dito indice. «Che mi racconti?».
Spencer lo spinse via con forza. «Ti ho detto di mollarmi, idiota!».
«Non fare così, dai».
«Se anche fossi il ragazzo più carino della scuola, non è detto che tutte non vedano l'ora di saltarti in braccio», affermò prima di scomparire dalla sua vista.
 
«Tesoro, mi dispiace per ieri sera», Geo abbassò gli occhi verso il pavimento.
«Non fa niente. E' passato».
«Passato? Scherzi?!», Miranda strabuzzò gli occhi.
«Sono seria ragazze, non c'è nessun problema».
Entrambe sbiancarono.
«Che succede?».
«La causa delle tue sofferenze è a ore quattro».
Mantieni la calma, mantieni la calma.
Si girò cercando il suo sguardo. «Dimmi».
«C-ciao», stavolta era lui a balbettare.
«Usa parole tue, mi raccomando», ribatté scontrosa.
«Mi dispiace per ieri sera».
«Come ve lo devo dire? Sto bene, non ho bisogno di qualcuno che mi faccia la carità».
«Io non ti faccio la carità».
«La carità di commiserazione e pietà».
«Benissimo, allora niente carità».
«Dicevamo?», proseguì.
«Mi dispiace per ieri sera, Althea mi ha...».
«Sedotto?».
«Esattamente», ammise.
Rimase in religioso silenzio, fissandolo.
«Arriverò al sodo. Vorrei che mi concedessi una seconda possibilità».
«Terza», precisò.
«Terza», ripeté.
«Come vuoi. Cosa hai intenzione di fare, ora?».
«T'interessa ancora Cascade Park Manor?».
Cercò di nascondere il luccichio dei suoi occhi, «Sì, m'interessa ancora, perché?».
«Ho intenzione di portarti al Municipio».
«Che assurdità, perché mai mi porteresti al Municipio?».
«Ti dico solo due parole: Ufficio Anagrafe».
 
«E' stato abbastanza facile, mia madre lavora qui e mio padre è il vicesindaco di Colorado Springs, per cui...», iniziò a decantare Aaron.
«Vai al sodo », lo interruppe. «Perché mi hai portato qui?».
«Per accertarci di alcune date. Sai, non sono sicuro di quando gli Allen arrivarono in città».
«1871», sputò l'altra.
«Come fai a saperlo?».
«Georgiana ha svolto delle ricerche per me», ridacchiò.
«Và avanti».
Gli raccontò minuziosamente tutto ciò che aveva scoperto fino ad allora.
«Non è giusto, sai gran parte di quello che avrei voluto cercare insieme a te!», si lamentò.
«Tu stavi in poltrona a far la muffa, io mi sono data da fare», lo punzecchiò.
S'illuminò di colpo. «Che ne dici di cercare la data di nascita di A. Allen?».
«Scherzi? Non abbiamo nessun informazione a riguardo, potrebbe anche essere nato un secolo fa!».
«Non esagerare. Si sa che è l'ultimo discendente della famiglia, non dev'essere nato tanto in là con gli anni, considerando la lunghezza dell'albero genealogico che mi hai descritto!».
«Il tuo ragionamento non fa una piega. Propongo di cominciare dagli anni '50».
La ricerca durò un'oretta e mezza. I due eroi si fermarono al 1965. La data di nascita di A. Allen risaliva al 15 marzo. Era stato registrato sotto il nome di Alistair.
«Alistair Gregor Allen nato a Colorado Springs il 15 marzo 1965 da lady Rowena e sir George Allen», recitò la rossa.
«Troviamo le date di nascita delle sue sorelle».
« Virginia Frieda Allen nata a Colorado Springs il 6 ottobre 1967 da lady Rowena e sir George Allen.
Agnes Rebecca Allen nata a Colorado Springs il 17 dicembre 1969 da lady Rowena e sir George Allen.
 Grace Mariel Allen nata a Colorado Springs il 28 febbraio 1971 da lady Rowena e sir George Allen».
«Intervallati ognuno di due anni e qualche mese», notò il ragazzo.
«Ora cosa suggerisci di fare?».
«Innanzitutto di controllare eventuali date di nascita molto dopo il 1965».
Lo fissò, sgranando gli occhi. «Secondo te Alistair e la Rossa hanno avuto figli?».
S'aprì in un sorrisetto malizioso.
Continuarono a sfogliare.
«Guarda qui! Helena S. Allen nata a Colorado Springs il... Diamine è cancellato!», imprecò Aaron.
«Da Alistair Gregor Allen e signora», continuò Spencer.
Sbuffò. «Non è possibile, per ogni mistero risolto se ne presenta un altro!».
«Propongo di andare da Starbucks a rimuginarci sopra, vieni?».
S'illuminò. «E me lo chiedi?».
 
«Ragazzi datemi un secondo per respirare vi prego, ho un sovraccarico d'informazioni!», si lamentò Georgiana.
Aaron poggiò le mani sul tavolo. «Facciamo il punto della situazione. Alistair Gregor Allen è del 1965. Ha conosciuto la Rossa e hanno avuto una figlia, non si sa quando».
«Bell'aiuto», borbottò Spencer.
«Mi dispiace, ma questa volta non ho la minima idea di come aiutarvi».
«E' stato tutto inutile».
«Ragazze, non dobbiamo demordere, troveremo una soluzione, vedrete».
La giornata non era iniziata bene e probabilmente sarebbe finita anche peggio.
 
Sedette in preda allo sconforto sul divano.
«Questa scena non mi è nuova», sua madre le sia avvicinò, scompigliandole delicatamente i capelli sfumati di fuoco.
«E' tutto un completo disastro».
«Ti va di parlarne?».
«Hai presente Cascade Park Manor?».
Joanne s'irrigidì di colpo.
«Che succede?».
«Quella casa è pericolosa. Non ti dovresti avvicinare».
«Perché?».
«Disabitata. Pericolante. In una parola: rischioso».
«Non ti ci mettere anche tu!».
«E' la verità! Sono solo preoccupata per te».
«Non hai intenzione di aiutarmi allora».
«Esattamente».
Sbuffò, chiudendo la porta della propria camera dietro di sé con un tonfo sordo.
La giornata non era iniziata bene e probabilmente sarebbe finita anche peggio. Decisamente peggio.
 
 
La via era buia e stretta, i lampioni non funzionavano.
Alzò il bavero della giacca per proteggersi dall'aria gelida.
Qualcos'altro attirò la sua attenzione. Non ci aveva mai fatto caso, eppure era sempre stato sulla strada vicino a scuola.
Il cimitero di Colorado Springs era avvolto da una coltre di nebbia fitta, tuttavia riusciva a distinguerlo chiaramente.
Varcò il cancello di ferro battuto.
Il suolo era lievemente ghiacciato, camminava con cautela.
Le lapidi di pietra era disposte con cura, quasi geometricamente.
In fondo, isolato da tutto e nascosto da scuri cipressi, s'ergeva un mausoleo di marmo.
S'avvicinò. "Famiglia Allen", recitava la scritta dorata. Rabbrividì.
Il cancelletto di rame era chiuso da un catenaccio.
Provò a forzarlo, senza risultato.
Girò i tacchi per andarsene. Uno scricchiolio la interruppe.
Il cancello era aperto.
Entrò sospettosa e illuminò con il cellulare le lapidi.
Byron Allen e sua moglie, morti nel 1900.
Seguivano una decina di loculi, tra cui quello di George Allen e sua moglie Rowena, morti nel 1990. Accanto a loro stavano le sorelle Gloria e Magdalena e il fratello Jean.
I genitori di Alistair.
Le lapidi che seguivano erano di Agnes e Grace, le sorelle minori di A.
Mancavano la sua lapide e quella della sorella Virginia.
Potevano essere stati sepolti in qualsiasi parte del mondo. O non essere stati sepolti affatto. Un'altra opzione le perforò la mente. Erano ancora vivi.
Un brivido scosse la sua spina dorsale. La nebbia s'era infittita, tingendosi di un azzurro chiaro. Non l'aveva mai vista di quel colore. Un odore acro e dolciastro pervase le sue narici, come legna profumata che brucia.
«Spencer».
Si girò di scatto.
La nebbia s'era addensata, ma nessuna traccia di vita. Allucinazioni dovute alla paura, cercò di convincersi.
«Spencer», sillabò una voce femminile.
Stavolta il suo nome era stato pronunciato forte e chiaro. Ma chi l'aveva pronunciato?
«Chi è là?», cercò d'ingrossare la tonalità di voce, ma ne uscì un grido strozzato.
La coltre di nebbia ormai cerulea era molto vicina a lei. «Spencer».
«Cosa vuoi?».
«Vattene da qui», sussurrò. Una spire cobalto iniziò ad avvolgerle i fianchi. Percepiva l'umidità sulla pelle.
«Non mi fai paura», sputò.
«Invece dovresti», ridacchiò l'altra.
La spire cobalto serrò i ranghi intorno al suo corpo, dopo averlo avvolto del tutto. L'umidità s'era fatta soffocante, faticava a respirare.
«Chi sei?», tossì.
«Questo non ti deve interessare».
«Lasciami, non riesco a respirare».
«Oh, è proprio ciò che voglio. O te ne vai per sempre, o distruggerò tutti i tuoi cari e tu, tesoro, sarai l'ultima», minacciò.
«Pensi di spaventarmi?», cercò d'apparire spavalda.
«Non sai contro chi ti stai mettendo».
«Non è un'espressione che mi suona nuova».
Le spire pressavano la sua cassa toracica, l'aria entrava a fatica nelle narici e strisciava nei polmoni. Respirò pesantemente, cercando di carpire più ossigeno possibile.
«Lasciami».
«Solo se lascerai Colorado Springs».
«Non ci penso minimamente». La nebbia l'avvolse ancor di più, in pochi minuti non sarebbe più riuscita a respirare.
«Ragazzina! Ehi, ragazzina!». In cinque secondi la nube cobalto si dissolse, facendola stramazzare a terra.
Inspirò profondamente. Aria.
Un uomo minuto e vestito di scuro le si avvicinò. «Tutto bene?».
La pelle chiara era adornata da rughe, che nascondevano gli occhi scuri come caramelle di liquirizia. Le labbra erano una linea sottile, tracciata dal sottile pennello di un esperto pittore. Dal mento vagamente triangolare saliva il suo profilo austero, delineato dal naso aquilino.
«Sì. Ora sì».
«Vedevo che ti tenevi la gola e parlavi da sola», borbottò imbarazzato, «Mi sono preoccupato».
«E' tutto a posto ora, signore».
«Bene. Non voglio affari strani nel mio cimitero. Perché sei qui?».
«Non credo siano affari suoi».
«Oh, no. Lo sono proprio perché sei nel mio cimitero. Su, parla».
«Non l'avevo mai notato, eppure è sempre stato sulla strada che percorro ogni giorno verso scuola. Sono nuova di qui, volevo solo dare un'occhiata».
«Certo, proprio nel mausoleo degli Allen. Come hai fatto ad entrare? E' chiuso da anni, nessuno è mai riuscito a forzare la serratura».
«Si è aperto da solo», confessò. Tanto non avrebbe creduto ad una simile assurdità.
Al contrario di ciò che pensava, l'uomo rimase in silenzio, pensieroso. «Cosa cercavi?».
Era deciso a farle l'interrogatorio di terzo grado, quindi. «Informazioni sugli Allen. Sa dirmi qualcosa su di loro?».
«Niente che tu non sappia già».
Dannazione.
«Tuttavia, ti consiglio d'andare in fondo alla faccenda. Non avere paura d'approfondire».
S'illuminò. «Da dove dovrei cominciare?».
L'uomo puntò il dito a oriente, all'incrocio tra le strade principali. Spencer sapeva bene cosa stava indicando.

 

Buonasera people!
Come vi è sembrato il capitolo? Mi scuso per i continui cambi di scena e le puntualizzazioni ma ho ritenuto fosse necessario, per evitare che sia io -soprattutto io xD- che voi, possiate perdervi nei casini della mia storia.
Ringrazio tutti quelli che continuano a seguirmi, giorno per giorno. Mi dispiace solo che alcune persone abbiano inserito la storia nelle seguite/preferite e non commentino... O magari anche chi la legge saltuariamente. Mi piacerebbe discutere con voi su cosa ne pensate, davvero.
Buona serata a tutti
Jo

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Capitolo 10
*** IX. Appuntamento ***



IX. Appuntamento

 

«Hai intenzione di perseguitarmi anche nei prossimi giorni?», domandò Spencer.
Il borioso Christian Prince stava davanti a lei; un maglione azzurro a coste aderiva ai suoi pettorali, facendo risaltare gli occhi di ghiaccio, jeans perfettamente invecchiati fasciavano le gambe muscolose. «Solo per i prossimi tre anni», ridacchiò.
«Ti faciliterò la faccenda. Cosa vuoi da me?».
«Questa volta sono innocente. Vorrei solo conoscerti meglio».
«Dovrei crederti?».
«Perché no?».
«Potrei scriverti una lista lunga da qui fino a Milano».
«Basta semplicemente dirlo a voce».
«Benissimo. Primo, i nostri turbolenti incontri non presagiscono nulla di buono. Secondo, sono assolutamente sicura di non avere nulla in comune con te, riccone viziato. Terzo, non frequenterei mai uno che si mette così tanta Acqua di Colonia».
«Tutto qui? Pensavo fosse più lunga».
«Lo è. Devo solo organizzare le idee».
«Ascoltami Spencer», mormorò. Le sembrava strano che la chiamasse per nome. «Non chiedo nulla da te, o quasi».
«Cosa intendi?».
«Una possibilità. Solo una».
«Non mi pare opportuno».
«Oh, per favore!».
«Va bene», alzò le spalle e mise le mani in alto.
«Questo giovedì alle cinque. Ti vengo a prendere davanti casa».
Sbuffò. L'aveva fregata. «Come vuoi».
 
«Esci con Christian Prince?», Georgiana scandì le parole lentamente.
«Zitta! Se lo sapessero in giro!».
«Si scatenerebbe un putiferio, ecco cosa succederebbe se lo sapessero in giro! Le ragazzine con il cervello da canarino che gli vanno dietro cercherebbero di farti fuori», rise.
«Appunto, ci tengo alla mia vita».
«Ma tu lo odiavi tesoro, perché d'improvviso ci esci insieme?», domandò Miranda.
«Chi disprezza, compra», affermò filosofica Andrea.
«Piantatela! Si chiama pressione psicologica. Mi ha perseguitato per più di una settimana».
«Sei una che cede facilmente», notò Julia.
«No. Sono una che si esaspera facilmente».
 
Il giovedì era giunto veloce come il vento, veloce come Achille, eroe dell'Iliade.
Era giunto troppo veloce e Spencer era stranamente agitata.
"Non va bene, non devo essere agitata, è solo Christian Prince del resto, giusto?", continuava a ripetersi nella mente.
Dopo quindici minuti d'indugi davanti ai cassetti aperti optò per un vestitino corto verde chiaro e si coprì le spalle con un maglioncino grigio.
Raccolse i capelli rossi in una morbida crocchia e li fece risaltare inserendo un cerchietto argentato.
Non aveva assolutamente voglia di indossare le ballerine, più adatte all'abbinamento del momento, così si allacciò le sue adorate All Star nere.
«Io esco mamma!», urlò alla donna dalla cucina.
«Divertiti!», le rispose dal bagno.
Aprì la porta e si trovò davanti il ragazzo moro, che stava per suonare il campanello.
«Buongiorno», salutò.
Indossava una candida camicia di lino che aderiva perfettamente al suo fisico scultoreo e un paio di jeans scuri.
«C-ciao», si sorprese a balbettare.
Sembrò non notarlo. «Non ho mai visto una ragazza con un vestito e le All Star», ridacchiò.
Quello l'aveva notato però. «Non avevo voglia d'indossare le ballerine. Sono scomode», borbottò.
Sorrise. «Vieni con me».
La residenza dei Prince era un'imponente casa coloniale, vagamente somigliante alla Casa Bianca. Sbuffò; esibizionisti. «Che bella casa», mentì.
«Esibizionisti», l'imitò Christian.
Lo fulminò con lo sguardo, «Stavo cercando d'avere tatto».
«Non ti ho chiesto di mentire. Potevi semplicemente dire ciò che pensavi».
«Come vuoi. La casa non mi piace».
Rise, «Ti va d'entrare?».
«Credo d'essere costretta».
L'interno era decorato come un maniero medievale. Un grande tappeto rosso s'estendeva lungo il pavimento di pietra del corridoio, candelabri d'oro e arazzi orientali decoravano le pareti.
Spalancò teatralmente la bocca.
«Piantala di fare così», ridacchiò lui. «Seguimi».
Salirono l'ampio scalone in  marmo bianco alla fine del corridoio, arrivando al piano superiore.
La condusse in un intricato intreccio di camminamenti e infine abbassò la maniglia di una porta di fronte a loro.
La sua stanza era molto ampia e luminosa. Un grande tappeto copriva circa i tre quarti del pavimento di parquet, una grossa libreria carica di libri occupava metà della parete alla sua destra, una scrivania in fondo alla stanza era affacciata sul centro di Colorado Springs affiancata da un enorme letto a due piazze.
«Mi pare un po' eccessivo», balbettò.
«Nah. Un letto così è molto comodo, dovresti provarlo prima o poi».
«Spero non sia un invito». Inarcò un sopracciglio.
«Si vedrà», sorrise ironico.
«Cosa siamo qui a fare?», domandò.
«A parlare».
«Parlare?».
«Agli appuntamenti non bisogna per forza fare qualcosa».
Alzò le spalle. «Hai molti libri», divagò.
«Sì, mi piace leggere».
«Allora abbiamo qualcosa in comune. Una delle poche. Uniche».
Uno squillò metallico interruppe la sua provocazione. Era il suo telefono.
Con un colpo da maestro Christian afferrò il cellulare.
«Messaggino, messaggino!».
«Fermo!».
«Come sta andando? Bacio, Andrea», lesse lui.
«Non hai diritto di leggere i miei messaggi».
«Curiosità», si scusò.
«Te la faccio vedere io, la curiosità!», strillò l'altra rincorrendolo per la camera.
Inciampò nel tappeto, ruzzolando a terra. I capelli ramati le coprivano la visuale, li scostò con la mano. Christian era sparito. «Dove sei?».
Si guardò intorno.
«Sono qui!», possenti braccia la sollevarono da terra, facendola volteggiare in aria.
«Mettimi giù!».
«Come vuoi», annunciò solenne, facendola cadere sul letto.
«Ahi».
S'appoggiò dolcemente al materasso, «Perdonami».
Arricciò il labbro, «Non sono sicura di poterlo fare».
S'avvicinò a lei. «Dai».
«Altrimenti?».
Riusciva a percepire ogni singola sfumatura dei suoi occhi azzurri.
«Devo organizzare le idee», sorrise.
«Christian?».
La porta s'aprì di scatto, la signora Prince era sulla soglia.
«Non ti hanno insegnato a bussare, mamma?», si girò con nonchalance.
Lei arrossì come un peperone.
Gli occhi blu della donna si soffermarono su di lei. «Non mi hai ancora presentato la tua amica».
«Non eri in casa», si scusò lui. «Spencer lei è mia madre, mamma lei è Spencer».
«E' un piacere, signora Prince».
«Lo è anche per me», affermò osservando, quasi disgustata, le sue Converse. «Torno di sotto, attendiamo ospiti a cena stasera».
«A dopo».
«Arrivederci».
«Ci vediamo dopo. Ciao Spencer».
Lui rise sommessamente.
«Che figura!», arrossì di nuovo, violentemente.
«Chissà che film mentali si starà facendo mia madre», mormorò lui.
«Come puoi divertirti in una situazione come questa?», era sconvolta. «Mi avrà sicuramente preso per una poco di buono!».
Allacciò le mani alla sua vita. «Non credevo t'importasse».
Sospirò. «No, infatti».
«Sicura?».
«Sicurissima. Ora, se vuoi scusarmi, è tardi e dovrei tornare a casa».
Alzò le spalle, «Come desidera, madame».
Sorrise agitando le dita delle mano destra. «Adieu».
 
«Non ci credo».
Scosse la testa, sconsolata. «Purtroppo sì».
«Ha tentato di baciarti?», domandarono le ragazze in coro, sconvolte.
«Esattamente».
«E sua madre è entrata proprio mentre ci provava?».
«Non ti dico in che assurda posizione ci trovavamo», arrossì.
«Què verguenza!», esclamò Julia.
«Chissà cosa penserà di me», sospirò Spence.
«Che t'interessa? Tanto è la prima e ultima volta che esci con lui, giusto?», fece notare Geo.
«Giusto».
«Houston abbiamo un problema, Prince a ore nove», esclamò Andrea.
Scomparirono in un battito di ciglia.
«Salve, bella ragazza».
«Christian, per favore, troppi complimenti».
«Scusa», abbassò il capo. «Hai intenzione d'uscire ancora con me?».
«Assolutamente no».
«Perché?».
«E' giusto così. Apparteniamo a due mondi completamente diversi Christian, credo che tu lo abbia notato».
«Ascoltami. Non mi è mai capitato di dirlo ad una ragazza però mi piaci. Non da impazzire ma mi piaci».
Arrossì. «E' meglio per tutti e due», concluse, «Adesso devo andare, scusami».
S'allontanò velocemente da Christian Prince, lasciandolo ancora una volta sconcertato in mezzo al corridoio.
 
«He was lying when he said he moved to L.A, he’s just hiding out on the other side of town with his head in his hands and she’s just 7 miles away. He’s staring out the window and puts her picture down saying, missing you like this is such sweet sorrow, won’t you come back to me? I’ll be here, today and here tomorrow in dark blue Tennessee».
«Te l'ho sempre detto che avevi una voce favolosa».
«Ciao Aaron», poggiò la chitarra a terra e si sedette a bordo palco, lasciando penzolare le gambe nel vuoto.
«Che hai?».
«Sono stanca».
«Stanca?».
«Stanca di tutto».
«Ti va di raccontare?».
«Ho tanti casini per la testa. Gli Allen, Prince, tu».
«Non sono completamente aggiornato sugli ultimi due soggetti della tua frase».
Rise amaramente. «Prince mi ha chiesto di uscire. Ho accettato ma non ho intenzione di ripetere l'esperienza. Invece tu... Beh, ciò che mi da più fastidio è il non riuscire a capire da che parte stai».
Sembrava spaesato. «Cosa intendi?»
«Stai con Althea, ma ci provi con me».
«Oh Spencer, mi dispiace. Non volevo che fraintendessi».
«Cosa?», dilatò le pupille.
«Non era mia intenzione provarci con te».
«L'hai fatto».
«Io amo Althea, non mi è mai passato per l'anticamera del cervello di farlo».
«L'hai fatto», ripeté seccata.
«No, invece».
«Come puoi negarlo?», si stava surriscaldando.
«Non ti ho mai sfiorato con un dito».
«Ci hai provato più volte però. Gli sguardi che mi lanciavi, quando mi hai difeso da lei, hai suggerito di baciarci al ballo autunnale!».
Le prese le spalle. «Non so cosa te lo abbia fatto pensare, ma ti giuro, non ho mai voluto farlo. Io amo Althea. Per me sei solo una grande amica».
Solo una grande amica. Quelle parole le spezzarono il cuore in mille frammenti.
«Solo una grande amica», mormorò in tono sommesso.
Squillò il suo cellulare. Lo guardò, rapido.
«Devo andare», annunciò baciandole la fronte.
Dunque negava tutto. Rabbia iniziò a invaderle in cuore, non fece nulla per fermarla.
Forse la sua grande amica non sarebbe più rimasta tale.
I’ll be here, today and here tomorrow in dark blue Tennessee.
 
Agì d'istinto quando vide la robusta figura del primogenito Prince aggirarsi per i corridoi. «Christian, aspetta».
Si girò, «Dimmi».

«Mi sono resa conto di essermi comportata da stupida, scusa».
«Sarebbe un "accetto di uscire con te"?». Si aprì in un sorriso, «Sono felice che tu abbia cambiato idea».
Cercò d'imitarlo, «Stavolta decido io dove andare. Martedì alle quattro da me», sintetizzò secca.
«Agli ordini».
Rise a denti stretti.
«Gruppo di ficcanaso in arrivo, mi dileguo», annunciò girando sui tacchi.
«Possibile che tutti si dileguino al comparire di qualcun'altro?», domandò irritata dal suo gruppo d'amiche.
«Possibile», annuì Andrea.
«Novità?».
«Lasciami pensare, Aaron ha appena affermato di non averci mai provato con me e di conseguenza ho accettato d'uscire di nuovo con Prince».
Miranda spalancò la bocca.
«Tutto in meno di venti minuti, fabuloso», commentò Julia.
«Niente commenti, per favore».
«Che hai intenzione di fare ora?», domandò Georgiana.
«Sicuramente di lasciare la band».
«Fai bene», annuirono all'unisono.
Un sospiro le uscì naturale dalle labbra. «Lo so».



Buonasera! Piaciuto il capitolo? Spero di sì!
Mi scuso per l'estremo ritardo nell'aggiornare ma sono troppo presa con la scuola persino per andare agli allenamenti! :(
Cercherò d'impegnarmi di più, comunque.
Ringrazio tutti quell iche mi seguono, ancora una volta. E' davvero importante per me.
Ora scappo ad una festa.
Buona serata a tutti
Jo
PS: Ovviamente le recensioni sono ben accette ;)

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Capitolo 11
*** X. Specchio ***




X. Specchio

 

Le sorrise, «Come siamo vestite bene».
Guardò se stessa da capo a piedi. Indossava stivali di pelle bruni al ginocchio, leggins beige e un paio di shorts marrone scuro dalla cui fascia in vita spuntavano piccoli bottoni dorati.
Una camicia verde bottiglia le metteva in risalto gli occhi tendenti al castano e una cintura chiara gliela stringeva appena sotto il seno.
«Lo ammetto. L'ho fatto apposta».
«Devo quindi dedurre che hai un minimo di stile».
«Esattamente».
Cambiò argomento. «Dove mi porti?».
«Seguimi, ti mostrerò un posto speciale».
La seguì obbediente. Arrivati a destinazione, lei scostò la tenda d'edera e passò attraverso il foro nella rete. «Dai, muoviti».
Sbiancò appena si rese conto di dove si trovava. «Cascade Park Manor?».
«Non fare il fifone».
«Perché siamo qui?».
«Curiosità».
«Non è una curiosità sana».
«Non m'interessa minimamente».
«Ora mi spieghi che succede».
S'avvicinò alla porta di legno. «Non ora, okay?».
«Io entro; se vuoi aspettarmi fai pure, altrimenti ci vediamo domani a scuola. Non c'è bisogno che tu faccia l'eroe».
Una smorfia di disappunto comparve sul suo volto. «Ti aspetto qui».
Posò la mano sulla maniglia, facendo scattare la serratura a fatica. Aprì la porta esercitando una leggera pressione.
Una scia di pulviscolo illuminata dal sole uscì dal locale buio, facendola tossire.
«Vado», annunciò senza esitazioni. Lui rimase fermo, gli occhi azzurri sbarrati su di lei.
Varcò la soglia cercando d'apparire impavida e chiuse la porta alle sue spalle.
Il corridoio stretto e angusto era immerso nel buio. Si aiutò con l'illuminazione del display del cellulare.
Un'ampia scala di marmo grigio stava alla fine del passaggio. Percorse cautamente i gradini, attenta a non far rumore. Le impronte sulla polvere segnavano i suoi passi.
Un'altro corridoio si sviluppava al primo piano, orizzontalmente. Nonostante la sporcizia del tempo distingueva chiaramente le maioliche bianche e blu, incastonate nel cemento chiaro.
Dal muro spiccava una serie di porte di legno scuro. Una attirò la sua attenzione. Era in mogano, intarsi d'oro sugli stipiti diramavano verso il centro. Girò il pomello d'ottone lentamente, si aprì con un cigolio.
La stanza era immersa nel buio. Mosse i primi passi e la luce solare che scemava all'orizzonte penetrò attraverso le vetrate sporche. Si trattava di una salone immenso. Drappi scarlatti e scoloriti pendevano a fianco delle finestre, trattenuti da cordoni eleganti dorati. Il pavimento era interamente di marmo. Trattenne il respiro, quasi timorosa di infrangere quell'atmosfera perfetta, e si diresse al centro della sala guardandosi intorno.
D'improvviso i drappi si liberarono dai cordoni e l'oscurità sopraggiunse.
Respirava a fatica, percepiva l'umidità aumentare nel locale dapprima secco. Fumo ceruleo strisciò al di sotto della fessura della porta. La nebbia. Gocce di sudore freddo le scesero lungo le tempie. «Oh signorina, anche lei qui?», trillò una suadente voce femminile.
Apparteneva ad una donna alta e magra, dai lunghi e lisci capelli corvini raccolti in una crocchia morbida, dai cui scendevano ciocche scure a incorniciare il viso dai lineamenti sottili.
I suoi occhi erano grandi, decorati da spesse e lunghe ciglia. Il loro colore era diverso, notò con stupore. Il sinistro era castano scuro con riflessi dorati, il destro di un azzurro intenso, con pigmenti argentei.
Cercò di sorriderle. «Chi è lei?».
«Grace Mariel Allen», le rispose allegramente.
Sbiancò all'improvviso. «Non è possibile, lei è...».
«Morta?», rise.
Comparvero altre figure, uomini e donne. Erano vestiti distintamente, con lunghi ed ingombranti abiti del primo Novecento.
Si disposero in fila davanti a lei e le fecero una profonda riverenza. Dovevano essere una trentina.
Le venne naturale sorridere, avvampando all'istante. Solo allora si accorse che i suoi abiti avevano cambiato aspetto.
Un vestito aderiva al suo corpo, risaltando le sue curve. Lo strascico decorato da fini perle bianche si avvolgeva in basso, intorno ai piedi. Il colore verde smeraldo s'intonava ai suoi occhi, in contrasto con la carnagione pallida. Un'ampia scollatura le metteva in mostra l'incavo del seno, dalle cuciture sulle spalle partivano vaporose mezze maniche di tulle verde chiaro.
Un uomo alto e allampanato le si avvicinò. «Mi concede questo ballo, signorina?».
Si sentiva più spaesata che mai. Annuì distrattamente.
Le lunghe dita di lui afferrarono la sua mano sinistra, con le altre le cinse la vita.
«Non c'è musica», commentò stranita.
Al termine della sua frase una dolce melodia si diffuse nel salone, uomini e donne formarono coppie ed iniziarono a danzare.
«Da dove provenite, dolce fanciulla?».
«Milano», sussurrò incerta.
«E' molto lontano? Non l'ho mai sentito nominare. Dovrebbe essere un villaggio incantevole».
«Oh sì, altroché».
«Sapete, per un attimo ero convinto che foste nata e vissuta qui. La casa non appartiene alla vostra famiglia?», sorrise affabile.
«No. Sicuramente vi confondete con un'altra dama».
Le sopracciglia scure del ragazzo s'inarcarono. «Probabilmente. Vi porgo le mie scuse».
«Credo che possa bastare così, Andrew. Vorrei ballare io con la signorina, adesso». La voce apparteneva ad una donna alta e distinta. I lineamenti duri e marcati erano incorniciati dai ricci capelli corvini, leggermente sfumati d'argento.
Gli occhi grandi erano celati da lunghe ciglia scure.
Il vestito nero che indossava le aderiva al corpo magro, facendo risaltare il suo fascino femminile. Era bellissima.
Ancora scossa, si abbandonò a lei, fissandola. «Chi sei?».
«Non mi riconosci, bambina?».
«No», rispose, sempre più spaventata.
Le sorrise cordiale, «Oh, al momento non ha importanza».
La stanza era notevolmente cambiata mentre ballava col giovane di nome Andrew.
I pesanti drappi tinti di un rosso acceso velavano i vetri e il pavimento rispecchiava i loro volti, tirato a lucido con sorprendente perfezione.
I tavoli ai lati erano decorati da tovaglie immacolate e offrivano cibi pregiati agli ospiti. Caviale, tacchini dorati, tartine con fegato d'oca e paté di olive, formaggi italiani con miele d'acero stavano in bella mostra sui piatti di ceramica.
«Perché sono qui?».
Rise, «Lo scoprirai molto presto. Prima di quanto credi».
Era sempre più spaventata. «Cosa vuoi da me?», balbettò.
«Vieni, ti vorrei mostrare qualcosa».
Seguì obbediente la donna, tra i suoi turbinii di tulle scuro.
Lei si fece strada tra gli invitati, aprì una porta lignea davanti a loro e la fece entrare in una piccola stanza foderata di velluto blu.
Era arredata semplicemente, con un divanetto bianco a destra, illuminato dalla fioca luce proveniente dall'ampia finestra di fronte.
Con un semplice gesto, la donna fece calare i drappi cobalto e il buio sopraggiunse.
Sfiorò qualcosa davanti a loro; la superficie s'illuminò, risplendendo nella sala.
Un grande e polveroso specchio illuminava le loro figure di una luce fredda e tetra.
«Cos'è?».
«Uno specchio».
«Lo vedo. A cosa serve? Perché me lo mostri?».
«Chiudi gli occhi e rilassati», ordinò dolcemente.
Non sapeva perché, ma era volenterosa di obbedire ad ogni suo ordine, quasi fosse costretta da sottili fili invisibili.
«Libera la mente, non pensare a nulla. Lascia che ti attraversi».
«Che mi attraversi cosa?», tentò di domandare, subito zittita da un forte senso di freddo sulla pelle.
Aprì gli occhi istintivamente. La superficie liscia dello specchio davanti a lei aveva preso a turbinare, fumi azzurri e fini si contorcevano tra loro in una spirale cerulea.
Tese la mano verso il fumo vorticante, che iniziò ad avvolgersi lungo le sue dita pallide.
In un istante si trovò in un grande giardino fiorito, delle stesse dimensioni di quello della casa in cui si trovava.
Il sole era fermo nel cielo blu cobalto, una sfera tinta di rosso che trasmetteva il proprio colore a qualunque essere illuminato dalla sua luce.
Una coppia felice passeggiava tra gli alberi di pesco in fiore.
L'uomo era alto e robusto, i capelli chiari erano tagliati molto corti, lunghe basette ne incorniciavano il viso sottile e candido, su cui spiccavano gli occhi diversi. Il primo era castano scuro con riflessi dorati, il secondo era invece di un azzurro intenso, con pigmenti argentei. Proprio come quelli di Grace.
Il suo possente braccio stringeva a sé una donna minuta.
I capelli rosso fuoco le scendevano sulle spalle arrotolati in morbidi boccoli, incorniciando una fronte alta e un paio d'occhi castano dorati tendenti al verde.
Gli zigomi alti lasciavano pian piano spazio a labbra color dei petali di una rosa.
Stringeva qualcosa tra le braccia, come se fosse la più importante che aveva. Si trattava di un frugoletto di pochi mesi, dagli occhi castano-dorati coperti da qualche ciuffo ramato.
Sorrideva alla vista dei visi dei genitori, le labbra carnose s'allargavano lasciando trasparire due fossette e le gengive sdentate.
«Guardala amore, non è un angelo?», l'uomo era estasiato alla vista della figlia.
«Lo è, perché ha i tuoi occhi», sorrise la donna.
«Per il resto è tutta sua madre», ribatté dolcemente.
Lei ridacchiò, dandogli un buffetto sulle guance.
«Che scena commovente», commentò ironicamente la signora mora apparsa improvvisamente al suo fianco.
«Chi sono? Perché mi stai mostrando questo?».
Prima che la dama potesse rispondere, calde gocce d'acqua iniziarono a piovere dal cielo.
«Che diavolo...».
«Che sta succedendo?», chiese, ma la donna era disorientata quanto lei.
Sottili zampilli d'acqua fioccavano ovunque distruggendo gli alberi, il giardino, l'uomo, la donna e la bambina.
Di colpo furono catapultate nella sala di velluto blu.
La afferrò per il braccio, stringendolo forte. «Chi sei? Perché sono qui? Cosa vuoi da me?».
La gentildonna s'illuminò in un inquietante sorriso sghembo. «Lo scoprirai prima di quanto tu creda», sussurrò prima di svanire in una nuvola di fumo ceruleo.
In un istante era scomparsa.
Disorientata, corse verso la porta, per scoprire che si era dissolta. In preda al panico tastò il velluto lungo tutte le pareti, cercandola. Il vestito lungo e ingombrante non era certo d'aiuto, la sua marea di capelli rossi le si appiccicava sul viso.
Percorse ogni centimetro della tappezzeria di cobalto, in preda al panico, mentre l'affanno le faceva battere forte il cuore.
Finalmente la trovò.

Le mani sudate girarono la maniglia d'ottone e si ritrovò nel salone. Stavolta era vuoto e buio.
Terrorizzata, iniziò a correre per la stanza, cercando una via d'uscita.
Inciampò nello strascico smeraldo del vestito e cadde, graffandosi la guancia sinistra. Infine, stremata, svenne.
 
«Spencer? Spencer!», una voce maschile la svegliò.
S'accorse d'essere sul freddo pavimento di marmo, tornato sporco. Si guardò intorno e le sue pupille misero a fuoco la figura di Christian, inginocchiato a terra, che la stringeva tra le sue braccia.
«Oh», fu tutto ciò che riuscì a dire.
«Stai bene?».
«Io... Credo di sì. Perché sei venuto?».
Lui parve piuttosto indispettito da quell'insolita domanda. «Erano passati più di quaranta minuti. Ero convinto ti fossi persa».
Un sorriso leggero affiorò sulle sue labbra. «In un certo senso è così».
«Che è successo?».
Si rialzò in piedi, notando con piacere che i suoi vestiti erano tornati quelli di prima. «Non me la sento di parlarne, al momento», affermò assestandosi la coda di cavallo infuocata.
Non ne rimase turbato. «Sappi che quando avrai bisogno di me, io ci sarò», disse poggiandole un mano sulla spalla.
Lei si girò, sorridendogli.
«Ti sei tagliata», si rabbuiò.
«Non è niente», minimizzò, mente lui le sfiorava la guancia violata con la mano.
Arrossì di colpo. «Credo sia ora di andare».
Scesero le scale velocemente, non volevano passare un minuto di più in quella casa.
«Spencer».
«Dimmi», rispose.
La fissò stranito, «Non ho aperto bocca».
Nascose a stento i brividi che la scossero. «Ero convinta che mi avessi chiamato».
Spinse la porta d'ingresso ed un fascio di luce dorata li avvolse. Era tenue, stava sopraggiungendo la sera. «Dai», la incitò, «E' ora di andare».
Lei annuì e si richiuse la porta alla spalle con un tonfo sordo.

 



Ecco il decimo capitolo, finalmente.
Volevo porvi una domanda. Recentemente, un utente del sito che aveva inziato a leggere la storia ha detto di non trovarla interessante, affermando che non ha intersecato il suo interesse da subito.
Ora, non voglio che voi siate falsi e facciate i gentili scrivendo: "Non stare ad ascoltarlo, è perfetta", o cose del genere.
Vorrei solo la vostra opinione, possibilmente sincera. Mi fa sempre piacere ricevere critiche, anche se ovviamente vengono accolte in modo diverso dai complimenti e, qualche volta, fanno un po' male.
Mi piacerebbe capire dove ho sbagliato o dove sto tutt'ora sbagliando, cosa dovrei cambiare. Se è lo stile in generale fatevene una ragione, io scrivo così.
Per il resto, credo di poter fare qualcosa.
Ringrazio tutti coloro che mi seguono sempre, anche solo silenziosamente. Sarei felice che potreste dire qualcosa in merito a ciò che ho chiesto.
Buona serata a tutti.
Jo

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Capitolo 12
*** XI. Il signor Morrison ***



XI. Il signor Morrison

 

Il suo respiro ansante lacerò il silenzio mattutino di dicembre.
Un sogno o meglio, incubo, l'aveva svegliata di soprassalto.
Di nuovo quella scena. L'uomo e la donna nel giardino fiorito, con la bambina in braccio. Poi una risata, fredda e glaciale, l'aveva scossa dal sonno. Le era rimasta nelle orecchie, nella mente, in ogni membra del corpo.
Scostò la frangia dalla fronte appiccicosa e si alzò dal letto. Si specchiò sulla superficie lucida sopra il cassettone. I capelli di fuoco erano aggrovigliati in una massa informe, gli occhi verdi evidenziati da pesanti borse.
«Che brutta cera», borbottò tra sé.
Si spazzolò i capelli alla meno peggio e si lavò il viso con acqua ghiacciata. Scelse una semplice camicia azzurra e un paio di jeans, li indossò velocemente ed uscì di casa senza salutare sua madre, che ancora dormiva.
Durante il viaggio verso scuola, il suo sguardo si soffermò su una distesa di lapidi, circondata da una cancellata in ferro.
La vista del cimitero l'attirò, come una calamita. Fu improvvisamente sicura che il guardiano avrebbe trovato risposta ai suoi dubbi.
Trovò l'uomo minuto seduto su una vecchia sedia logora, mentre sonnecchiava con la bocca aperta.
«Signore?», lo chiamò, incerta.
Lui borbottò qualcosa, aprì le palpebre a fatica. Poi si stiracchiò un poco. «Oh, ancora tu».
Arrossì fino alla punta delle orecchie. «Mi dispiace disturbarla ma, ecco, mi chiedevo se...».
«Se potessi aiutarti in qualcos'altro?».
«Esattamente».
Il suo viso colmo di rughe si distese in un sorriso. «Non hai che da chiedere».
«Mi sono recata a Cascade Park Manor, come lei aveva suggerito».
«Che hai scoperto?».
«Praticamente nulla. O meglio, ho scoperto qualcosa, ma ciò che mi è accaduto ha suscitato in me più domande di prima». Gli raccontò brevemente ciò che le era successo.
Lui annuì lievemente con la testa ricoperta da sottile peluria scura. «Credo di doverti raccontare qualcosa. Potrebbe aiutarti a chiarire qualche dubbio».
Si aprì in un sorriso e attese, impaziente, che iniziasse a parlare.
«Come sai, Alistair apparteneva alla famiglia degli Allen, gli Illusionisti che vivevano a Cascade Park Manor isolati dal resto della città».
Annuì.
«E come hai già scoperto, deciso a ribellarsi dalla prigionia domestica a cui era sottoposto fin dalla nascita, Alistair decise di esplorare Colorado Springs e conobbe la giovane ragazza che divenne la sua sposa».
«Non ne conosce il nome?».
«Nessuno lo sa».
«Com'è possibile allora, che tutta la città sapesse di loro?».
Le sorrise semplicemente. «Avranno fatto due più due quando sui documenti dell'Anagrafe sarà comparso il nome di Helena».
«Ho notato che sul documento non compare il nome della madre. Dice semplicemente "Helena S. Allen, nata da Alistair Allen e signora"».
«Evidentemente non volevano condividerlo. Ho elaborato notevoli congetture. Tra cui quella, più probabile, che se qualcuno avesse saputo il nome della signora Allen, quest'ultima sarebbe stata in pericolo di vita».
«Perché?».
«Non lo so», concluse sconsolato. «Sono solo un povero vecchio a guardia di un cimitero».
«Che dovrei fare? Vorrei risposte!», esclamò agitata.
«L'unico luogo in cui trovare risposte sai qual è. Devi esplorarlo da cima a fondo, carpire più informazioni possibili. Non dare nulla per scontato, tutto è importante».
Diede un'occhiata all'orologio. «Devo andare a scuola. Lo ringrazio signor...».
L'ometto s'aprì in un sorriso sdentato. «Morrison».
«Arrivederci, signor Morrison».
«Arrivederci», salutò in un sussurro.
Si  rigirò verso di lui, stupita. Ma il custode era tornato in guardiola, a sonnecchiare.
Avrebbe giurato che egli avesse sussurrato il suo nome. Eppure lei non glielo aveva mai detto.
 
 
Era lì, al centro del corridoio. La sua figura alta e slanciata ed i suoi capelli castani spiccavano tra la folla composta principalmente da adolescenti tinte di biondo.
Era lì ed Althea gli era avvinghiata come una gatta, strusciando gli artigli sul suo petto e facendo le fusa.
Si avvicinò alla coppia cercando d'apparire sicura di sé, per quanto la bellezza della mora fosse la principale causa della sua bassa autostima.
«Ciao», sputò. Per quanto contrariata fosse, in qualche modo bisognava cominciare la conversazione.
«Oh, ciao Spencer», Althea pronunciò il suo nome some se fosse un insulto.
Il suo fidanzato la salutò, borbottando in modo sommesso.
«Hai bisogno di qualcosa?», domandò la ragazza.
«Sono venuta qui per dirvi, anzi per dirti, Aaron, che lascio la band».
Una maschera di compiacimento comparve sul volto perfetto della rampolla dei Prince. «Vi lascio soli», cinguettò.
«Lasci la band?», ripeté il ragazzo con un'espressione ebete.
«Sì».
«Posso sapere almeno il perché? Qual è la causa di questa terribile perdita per il gruppo? Chi devo rimproverare?».
«Solo te stesso».
«Stai scherzando, spero. Che ho fatto di male?».
«Sei un enorme ipocrita».
«Io?».
«Non ricordi il discorso di qualche giorno fa? "Oh, Spencer non volevo provarci con te, io amo Althea. Hai frainteso!"», borbottò in una sua pessima imitazione.
«Ti stai comportando da bambina. Confondi la sfera emotiva con quella professionale».
«Probabilmente è così. Ma tu sei un bugiardo».
«Non è vero! Sono sempre stato onesto, non ho mai tradito Althea!».
«Ah no? Forse non ti hanno spiegato il tradimento avviene anche con il pensiero e l'immaginazione».
«Non ho immaginato proprio un bel niente!».
«Come puoi dire una cosa simile?», la sua voce sfiorava il limite del tono normale. «Primo, mi hai sempre difeso davanti a lei!».
«Lo ritenevo necessario. Non perché è la mia ragazza allora devo sempre darle ragione».
«Hai fatto un così serio discorso sui matrimoni combinati... Ero convinta che ne fossi coinvolto anche tu».
«Dio no! La mia famiglia non è così arcaica!».
«Ogni volta che ti riappacificavi con Althea sei venuto a chiedermi scusa», tentò di nuovo, cercando di mantenere la calma.
«Pensavo ci stessi male».
«Dunque avevi intuito che mi piacevi. Avevi intuito che mi sei sempre piaciuto!», era quasi sull'orlo delle lacrime.
«Sì. Ma non potevo obbligarti ad amare qualcun'altro, no?».
Giocò la sua ultima carta. «Mi hai invitato al ballo autunnale».
«Avevo litigato con Althea».
Gocce bollenti esplosero dai suoi occhi rigandole il viso. «Dunque ero solo un ripiego».
Annuì. «Mi dispiace».
Un schiocco sferzò l'aria, lasciando un vistoso segno rosso a cinque dita sulla guancia.
«Tu, per me, non esisti più», decretò prima di dileguarsi tra la folla che animava il corridoio, sconvolta.
 
 
Attraversò ancora una volta la stanza buia, spaventata più che mai.
Aprì la piccola porta davanti a lei, ritrovandosi nella stanza di velluto blu. Lo specchio era lì, come illuminato dalla luce della luna. Si avvicinò titubante.
La superficie divenne plumbea e la sua immagine apparve sullo sfondo, contornata da riflessi argentei.
I capelli rossi erano sciolti sulle spalle, ciuffi ribelli della frangia delineavano gli occhi castano-verdi e il naso sottile. Le gote piene e rosee mettevano in mostra gli zigomi alti e la bocca piccola e carnosa.
Toccò la lastra liscia istintivamente e alcuni particolari incominciarono a cambiare.
Le sopracciglia del suo riflesso si fecero folte e scure, i capelli si tinsero di nero corvino, gli occhi cambiarono colore. Castano nocciola e azzurro ghiaccio.
Con suo grande stupore, la figura della donna riflessa le era molto simile; le labbra, la struttura del viso.
Sfiorò le gote della dama, che sorrise. «Spencer», sillabò.
Si allontanò di colpo.
«No, non andartene».
«Chi sei?», si trovò a domandare per l'ennesima volta.
«Sono Grace, ricordi?».
«Perché sei qui?».
Ridacchiò. «Dovrei chiederlo io a te».
«Cerco risposte».
«Devi porre domande, allora».
«Ne ho poste fin troppe, ricevendo poche risposte soddisfacenti».
Le sorrise. «La verità è difficile da trovare».
«E' ancor più difficile se non si ha idea di dove partire a ricercare», replicò piccata.
«Basta porre le domande giuste».
«Cosa sei, lo Specchio delle Brame?», commentò ironica.
«Probabile», rise l'altra. «Tuttavia, se hai bisogno di risposte, è meglio che tu ponga le domande prima che lei torni».
Rimase turbata da come Grace aveva concluso la frase, ma decise di non curarsene.
«Tu sei morta, giusto? Quindi come puoi essere all'interno di uno specchio e come puoi essermi apparsa l'altra volta?».
«Gli Illusionisti possono porre fine alla loro vita terrena in qualsiasi momento. Tuttavia la loro anima può continuare a vivere se lo desiderano e dunque può assumere molteplici forme».
«Quindi l'anima di un Illusionista conserva i poteri dell'individuo stesso?».
«Sì e no. Può conservare l'essenza del potere della persona; i poteri che più lo caratterizzano, che aveva maggiormente sviluppato. Ma non sarà mai potente quanto un Illusionista dotato del proprio corpo».
«Allora sei ancora viva».
«La mia essenza spiritica lo è».
«Potete anche porre fine alla vita della vostra anima?».
«L'Illusionista che decide di far vivere la propria essenza solitamente lo fa per portare a termine importanti compiti trascurati, spesso a causa di una morte prematura. L'anima, che inizialmente muore con il corpo, può essere richiamata alla vita da un altro Illusionista, tramite un processo molto complicato. Solitamente si usa farlo per chiedere un aiuto da parte del defunto».
«Una volta tornata in vita può darsi la morte da sola?».
«Sì. Ma a quanto ne so è molto doloroso».
«Posso chiederti perché hai posto fine alla tua vita? Insomma, da quello che dice il documento d'anagrafe saresti ancora nel fiore  degli anni».
«Non è stata una mia scelta. Mi hanno assassinata».
«Chi è stato?», sussurrò.
Gli occhi diversi della donna si velarono di lacrime di rabbia.
«E' stata lei».
«Lei? Lei chi?».
Sputò il nome come se fosse una bestemmia: «Virginia».
«Perché?», si agitò la ragazza.
Le pupille della sua interlocutrice si dilatarono. «Arriva».
«Chi?».
«Mia... Sorella».
Sudore freddo iniziò a pervaderla. Non sapeva se lasciare spazio al terrore o mantenersi lucida.
«Scappa».
Quelle parole le fecero scegliere la prima opzione. «Dove vado?», si guardò intorno come un coniglio impaurito.
«Cerca la porta, poi sempre dritto».
«Così facendo le andrò incontro!».
«Fidati di me», mormorò Grace prima di svanire in una nube violetta all'interno dello specchio.
Tastò con le mani la superficie liscia e fredda.
«No, aspetta! Non andartene!».
La nebbia si tinse di purpureo e volse al verde smeraldo.
Una figura emerse dai turbinii di fumo all'interno dello specchio.
Il viso aveva lineamenti induriti dagli anni, le scure sopracciglia marcate delineavano un paio d'occhi diversi, le labbra erano tese in una linea sottile.
«Alistair?», domandò impulsiva.
L'uomo annuì lentamente. La sua mano si avvicinò allo specchio e Spencer si trovò ad imitarlo.
Le loro dita quasi si sfioravano, lo specchio sottile era l'unica barriera.
Lacrime cristalline rigarono le guance pallide dell'uomo e giunsero fino al mento squadrato.
«Spencer», mormorò.
«Tu mi conosci?».
Annuì di nuovo.
Un ticchettio lugubre ed insistente iniziò ad invadere la casa. Stava salendo le scale.
«Come...», prima che potesse finire la frase, lo specchio s'infranse in migliaia di schegge adamantine.
Volarono ovunque, a terra, sul suo corpo, sul suo viso. Urlò di dolore, gli occhi le bruciavano in modo terribile.
L'ultimo ricordo di quel momento fu l'intensa scia di sangue scarlatto che andava propagandosi sul velluto blu, poi le palpebre si fecero pesanti ed il buio oscurò la sua vista.

 

 

Sono tornata per vostra sfortuna!  *ridacchia ed evita i pomodori*
Mi scuso per l'enorme ritardo di quasi un mese, ma ero davvero impegnata con la scuola.
Ora che è finita -non ci posso ancora credere- potrò dedicarmi seriamente a questa storia e a quelle che sto progettando -per chi seguisse le mie One-Shot di Hp con pairing Albus/Minerva, sto scrivendo una LongFic, come più volte promesso ;) -
Ringrazio quelli che continuano a seguirmi nonostante tutto -2 che l'hanno inserita nelle preferite, 9 nelle seguite *w*-, anche se il numero dei commenti è notevolmente calato di questi tempi -ringrazio  Amy_Black perché commenta sempre-.
Come ho già detto mi piacerebbe che chi mi segue silenziosamente lasciasse qualche commento ogni tanto. Vorrei avere anche la vostra opinione, insomma!
Buona serata a tutti
Jo

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Capitolo 13
*** XII. Abominio ***



XII. Abominio 

 

La voce concitata di sua madre la risveglio dal sonno in cui era caduta.
«Dottore, si riprenderà? Che è successo? Quando l'avete trovata? Come sta?».
«Sto bene, mamma», mormorò a fatica, con la voce ancora impastata.
«Spencer!», la voce della donna si illuminò di speranza.
Tentò di aprire gli occhi, senza riuscirci.
«Mamma... Non ci vedo», piagnucolò. Davanti a lei solo buio.
«Cosa?».
«NON CI VEDO!».
Un mano ruvida si posò sulla sua spalla. «Signorina Marshall non si preoccupi. E' solo una benda. E' rimasta ferita al viso, soprattutto sulle palpebre. Dovrà tenere la benda sugli occhi per un po' di tempo, dopodiché potrà uscire di casa solo con occhiali da sole scuri fino a quando verrà ritenuto opportuno dal sottoscritto».
Le due donne dai capelli rossi sospirarono.
«Potrò vedere bene di nuovo?».
«Potrà. Ma la riabilitazione sarà lunga».
Percepì Joanne avvicinarsi al suo capezzale. «Bimba mia, che è successo?».
«Io... Non lo so». Era la verità, o almeno in parte. Non sapeva ciò che era accaduto dopo il suo svenimento.
La madre lanciò un'occhiata speranzosa al medico che la figlia non poté cogliere. «Vi lascio sole», annunciò quello, comprendendo.
«Ora mi racconti tutto».
«Lo farò. Ma tu devi promettermi di ascoltare, fino alla fine».
«Lo prometto».
«Sono tornata a Cascade Park Manor».
La voce della madre giunse tagliente al suo orecchio. «Quando?».
«L'ultima volta è stata ieri».
«Sei tornata là nonostante ti avessi raccomandato di non farlo!».
«Ho scoperto cose che mi coinvolgono troppo. Voglio saperne di più».
«Ebbene che hai trovato di così interessante?», notò che il tono di sua madre era leggermente cambiato.
«Ho conosciuto parte della storia della famiglia Allen».
Il silenzio invase la stanza.
«La famiglia Allen? Gli Illusionisti?».
«Tu li conosci?».
«Tutti i cittadini di Colorado Springs li conoscevano, o almeno di fama».
«La loro storia è così intrigante, mamma. Ho solo loro in mente, voglio sempre saperne di più. Per questo sono andata alla villa così tante volte».
«Hai cavato qualche ragno dal buco?».
«Una zampa o due».
«Racconta».
«Ho scoperto che la loro famiglia risale alla fondazione di Colorado Springs nel 1871, ma chissà da dove provengono esattamente! Hanno piantato radici qui, ma i cittadini li hanno isolati per i loro incredibili poteri. L'ultima generazione è tua coetanea e due dei quattro fratelli sono ancora vivi».
Percepì sua madre trattenere il respiro. «Cosa? Io credevo che fossero tutti morti!».
«Probabilmente lo pensavano tutti. A parte il signor Morrison, è ovvio».
«Il signor Morrison?».
«Il custode del cimitero», minimizzò. «Sono andata al mausoleo degli Allen. Le tombe di Alistair e Virginia non ci sono».
«Virginia... Alistair...».
«Inoltre Virginia ha ucciso sua sorella Grace e probabilmente anche Agnes».
«Oh, Dio».
«L'ultima volta che sono andata alla villa ho visto Grace allo specchio. E anche Alistair. Non è la prima volta che vedo Grace, qualche settimana fa ho anche incontrato una donna molto simile a lei, sempre a Cascade Park Manor».
«Non so proprio come aiutarti tesoro, ne so molto meno di te in questa faccenda». Si avvicinò e strinse le mani tra le sue. Un gemito soffocato la fece preoccupare.
«Cosa c'è ora?».
«Il tuo braccio», bisbigliò Joanne.
Tastò i propri arti superiori. Il destro era liscio, ma nel sinistro percepì qualcosa di strano.
L'epidermide era tesa, gonfia ed irregolare. Come se qualcuno ci avesse inciso sopra.
Fece scorrere il dito indice seguendo la linea sull'avambraccio. Pareva una frase.
La percorse più volte, freneticamente. La grafia elegante esibiva una parola.
«Abominio», dissero insieme, agghiacciate.
«Che significa, mamma?», domandò mentre calde lacrime iniziavano a rigarle le guance.
«Non lo so».
«Che dovrei fare adesso?».
«Non devi più andare a Cascade Park Manor. Promettimelo».
«Non puoi chiedermi una cosa simile».
«Promettimelo».
Sospirò. «Te lo prometto».
 
Percepì un respiro caldo sul suo viso. Allungò le mani, annaspando nel vuoto fino a trovare un corpo. Tastò la fronte liscia, scese lungo le tempie, sfiorò le gote, posò il dito tra le labbra e lo fece scendere lungo i contorni; sul mento squadrato, sul collo possente, sui muscoli del petto.
Sorrise. «Ciao Christian».
«Ciao Spencer. Tua madre mi ha fatto entrare a patto che non ti svegliassi. Ops».
«Non ti preoccupare, ero in dormiveglia», ridacchiò. «Come stai?».
«Dovrei chiederlo io a te!».
«Sto bene, tra qualche settimana potrò togliere la benda», minimizzò.
«Posso chiederti com'è potuto accadere?».
«E' stata colpa mia, non dovevo tornare a Cascade Park Manor. Almeno non da sola».
Era rimasto senza parole.
«Lo specchio è esploso e...».
«Lo specchio? Ancora quello specchio? E' esploso?».
Annuì. «Non è tutto. Ho parlato con Grace. Mi ha raccontato d'essere stata assassinata. E' stata Virginia».
«Virginia Frieda o come si chiama?».
«Sì. Ha ucciso Grace e Agnes. Ha ucciso le sue sorelle!».
«Oh, cavolo».
«Sei disposto a farmi un favore?».
«Tutto quello che vuoi», sembrava davvero serio.
«Ho promesso a mia madre che non sarei andata mai più a Cascade Park Manor. Tuttavia devo scoprire perché Virginia le ha uccise».
«Scusa ma non riesco proprio a capire».
«Tu dovresti andare alla villa, magari parlare con il signor Morrison, il custode del cimitero. Devi scoprire il più possibile».
«Io?».
«Per favore, Christian. Ho bisogno di sapere».
«Va bene, come vuoi», annunciò. Dopodiché le baciò la fronte ed uscì dalla stanza.
 
 
La mattina successiva varcò il corridoio a piccoli passi, sorretta da Georgiana e Julia.
«Andate piano, vi ricordo che non vedo dove metto i piedi».
«Desculpame, chica. Andremo più piano», si scusò la spagnola.
L'altra bionda non era dello stesso parere. «Se avessi preso quel caspita di bastone per ciechi».
«Dannazione Geo, come te lo devo dire? Non sono cieca».
«Ma non ci vedi».
«Ma guarirò».
«Non così in fretta, Marshall». Quella voce, così dannatamente acuta ed insopportabile.
«Althea», sputò.
«Vedo che sai ancora riconoscermi, nonostante tu non veda la mia stupenda persona».
«Non potrò vedere la tua stupenda persona, ma la tua stupenda voce rimane la stessa».
La mora rimase in silenzio per alcuni secondi. «Ti conviene stare attenta, rossa. Sei cieca, dunque potrai essere messa nel sacco più facilmente».
«Non oseresti attaccare una persona in queste condizioni», sibilò Georgiana.
«Io no, ma ci sono tante persone senza scrupoli al mondo», ridacchiò quell'altra, subito imitata dalle due oche bionde come sempre al suo seguito.
«Che ci fai qui Althea? Vatti a fare un giro», ringhiò una voce amica.
Quella sbuffò. Il ticchettio insistente delle sue scarpe si perse nel corridoio e Spencer dedusse che si era allontanata.
«Joe?», chiese.
«Joe», confermò lui. «Ho saputo che lascerai la band».
«E' la verità».
«Perché?».
«Questo non ti riguarda», balbettò.
«Come vuoi. Comunque, sappi che io ed i ragazzi sentiremo la tua mancanza. Dunque pensavamo di chiederti di cantare per noi, un'ultima volta».
«Che cosa carina ragazzi, certo che canterò per voi, non vedo l'ora!».
«Allora dopo scuola, che ne dici? Ti aspettiamo il prima possibile al solito posto».
«Certamente», concluse prima di salutarlo.
Le due amiche la scortarono fino in classe. Si sedette al proprio banco ed aprì il quadernone, conscia che non avrebbe potuto prendere appunti. Lasciò che la mente vagasse libera, la professoressa Pardinge non avrebbe potuto dirle nulla. S’addormentò sul banco, mentre l’insegnante borbottava qualcosa a proposito di Jane Eyre.
Al termine della giornata scolastica si recò in sala prove, come aveva stabilito con Joe.
Salutò Darren, seduto a bordo palco. Joe imbracciò la chitarra.
Spencer cantò "Your Song" con tutta la dolcezza ed il sentimento di cui era capace, tanto che alla fine i due ragazzi avevano le lacrime agli occhi, prontamente scacciate dalla loro virilità.
Li abbracciò entrambi e loro la stritolarono in una morsa possente ma amichevole.
«Parteciperai al talent-show di questo mese?», chiese Darren.
Ebbe un sussulto. Era Gennaio ed il tempo dello spettacolo era giunto.
«Non so», mormorò incerta.
«Oh, ti prego», supplicò, «Sono anni che vince quell'arpia di Althea!».
«Com'è possibile?».
«E' una delle poche a partecipare, anzi, l'unica. Intimidisce le sue avversarie pochi giorni prima dell'esibizione, costringendole a ritirarsi. Di conseguenza si esibisce -sì, ci degna anche dell'ascolto delle sue doti canore- e vince a tavolino».
«Quest'anno ci sei tu, sappiamo che non ti farai spaventare da lei», affermò Darren, gonfiando il petto d'orgoglio.
«Ragazzi, sono lusingata dal vostro entusiasmo e dai vostri complimenti, ma non voglio essere il vostro cavallo di Troia, utilizzato per far scendere Althea dal piedistallo. Non sono la leader di un movimento di ribellione, solo una ragazza a cui non piacciono le ingiustizie e che non sopporta le prepotenze».
«Non ti chiediamo di essere il nostro cavallo di Troia. Tuttavia il talent-show sarebbe un'opportunità per te stessa: mettere in mostra ciò che sai fare e, soprattutto, metterti alla prova».
«Saremmo onorati di accompagnarti con gli strumenti», s'illuminò Joe.
Sospirò. «Purtroppo per me le argomentazioni che mi avete sottoposto sono convincenti. Non mi resta che iscrivermi».
Dopo quella fatidica frase fu sommersa di abbracci da non riuscire più quasi a respirare e di quella parola, incisa sul suo braccio, rimase solo un ricordo.

 

Buonasera a tutti!
Eccomi tornata con un nuovo capitolo che spero vi sia piaciuto.
Ringrazio infinitamente le 2 persone che hanno inserito la storia nei preferiti e le 11 che l'hanno inserita nelle seguite! Grazie mille! *w*
Ovviamente i commenti sono sempre ben accetti.
Buona serata.
Jo

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Capitolo 14
*** XIII. Occhi diversi ***



XIII. Occhi diversi

 

 

La preparazione per lo spettacolo l'assorbì così tanto da farle quasi dimenticare Cascade Park Manor e tutta la stirpe degli Allen.
Ogni giorno, dopo la scuola, si recava a casa e provava la canzone così tante volte fino ad avere la gola secca. Cercava la perfezione in modo ossessivo, anche se era cosciente del fatto che fosse solo uno stupido concorso scolastico. Tuttavia sapeva che era la sua occasione per mostrare quello che era capace di fare e sì, anche per avere una rivincita su Althea. Probabilmente si stava davvero tramutando nel cavallo di Troia della Colorado School.
Persino la sua vista cominciava a migliorare, era passata dalla benda al paio di occhiali scuri.
La fatidica sera dello spettacolo giunse prima che Spencer potesse rendersi conto che il tempo passava velocemente. Troppo velocemente.
Arrivò a scuola un'ora prima dell'inizio dello show ed iniziò a scrutare la lista dei partecipanti. Con sua grande delusione scoprì che Joe e Darren avevano ragione.
Le uniche iscritte erano lei ed Althea,  la prima ad esibirsi era proprio quest'ultima.
Entrò nel salone. Le luci erano già abbassate ma nonostante il buio le decorazioni si vedevano un poco, grazie ai loro colori sgargianti. Festoni argentati pendevano dalle pareti e decoravano i tabelloni dei canestri, insieme a rose dorate.
Quando la figura formosa della sua avversaria fece ingresso sul palco fu accolta da una marea di applausi da parte di un entusiasta pubblico maschile, ma anche da qualche fischio, impercettibile in mezzo a quel frastuono.
Si avvicinò al microfono e mormorò poche parole di ringraziamento.
Spencer, con grande disappunto, notò che Aaron l'avrebbe musicalmente accompagnata.
Si riscosse da quello strano sentimento; in fondo doveva farsene una ragione, lo sapeva.
Le luci si puntarono sul palco, illuminando i due protagonisti della scena; la chioma scura della capo cheerleader brillava più che mai.
Fu quando Aaron solleticò le corde della chitarra che a Spencer gelarono le vene.
Stava suonando "Your Song". La stessa canzone con cui lei si sarebbe esibita.
Come facevano a saperlo?
Forse non era quello a darle più fastidio. Quella canzone era sua e di Aaron. Ma lui la stava cantando con Althea.
Il peggio era che la voce della mora non pareva nemmeno la sua, sembrava migliore, come se si fosse esercitata.
Raggelò improvvisamente. Era migliorata, come se si fosse esercitata tutti i pomeriggi fino a farsi rinsecchire la gola.
Quella non era la voce di Althea, ma la sua.
Le lacrime le velarono gli occhi. Sollevò gli occhiali tamponandoseli con le dita.
Avrebbe voluto cercare con lo sguardo il viso di una persona amica, che la facesse sentire meglio.
Tra la folla svettava una figura alta e robusta, i capelli scuri di Christian si mimetizzavano con il buio del salone.
Come se percepisse il disorientamento di Spencer, il ragazzo si girò e gli azzurro ghiaccio fissarono i suoi, con un'espressione interrogativa.
Lei non se ne accorse, ma non poté impedire alle lacrime di rigarle le guance.
«Spencer». Il ragazzo, che si era avvicinato, le posò la mano sulla spalla.
«Lasciami!», gli ringhiò contro, uscendo dalla sala nel modo più veloce possibile, nonostante le mancasse la vista.
Agitò il bastone a destra e a manca, incurante del male che provocava agli sventurati che colpiva accidentalmente sugli stinchi.
«Dio, che ti succede?!».
Con suo grande disappunto scoprì che l'amico l'aveva seguita anche in corridoio. «Che mi succede? Hanno utilizzato la mia canzone, la nostra canzone!».
«La nostra?».
Le lacrime le bagnavano le guance, rendendole umido il viso. «Mia e di Aaron!».
«Che cosa? Ti prego, calmati e siediti qui», le consigliò conducendola verso la rampa di scale davanti a loro.
Obbedì a malavoglia, asciugandosi con le maniche della felpa. «Tempo fa ho dedicato "Your Song" ad Aaron. Sarebbe stato il brano con cui mi sarei esibita. Ma l'hanno usato per lo spettacolo, non si sono fatti scrupoli, specialmente lui».
Il suo interlocutore rimase per un attimo disorientato, poi inspirò profondamente. «Non so che dire Spencer. So che è difficile ma devi dimenticartelo, il prima possibile. E' per il tuo bene».
«Come puoi dire una cosa simile?», si scaldò improvvisamente. «Tu non hai idea di cosa sia l'amore! Sei un maschio insensibile e stupido, esattamente come tutti gli altri! Sei un frivolo farfallone che vola di fiore in fiore!».
«Spence calmati, non sai cosa stai dicendo».
Ma era proprio la sua pazienza a farla adirare. «So perfettamente quello che sto dicendo; è quello che penso di te!».
Christian Prince ebbe un sussulto. Tentò di avvicinare le mani alle sue, fu la goccia che fece traboccare il vaso.
Mosse la mano destra alla cieca.
Il viso del ragazzo venne violentemente sferzato. Lo schiocco ruppe il silenzio del corridoio.
Il moro non si portò la mano sulla guancia, né la guardò scioccato. Non che questo avrebbe fatto differenza per l'amica cieca.
«Sappi che io ci sarò sempre per te. Anche se ciò che mi hai dato è solo questo», disse accennando all'enorme chiazza rossa sulla faccia, anche se la ragazza non se ne accorse.
Fremeva di rabbia, le lacrime inondavano il suo volto. «Non m'interessa di te. Tu mi stai usando», sillabò a scatti.
Si allontanò verso una meta indefinita, lasciando Prince sconvolto sui gradini. Picchiava il bastone bianco ovunque, correndo alla cieca. Dopo la rampa di scale prese il corridoio a sinistra; ovunque era meglio che stare con lui.
L'ambiente era completamente silenzioso, i suoi occhi riuscivano a distinguere solo un vago chiarore che filtrava dalle lenti scure degli occhiali.
Avanzò lentamente in direzione di quella fonte luminosa.
Percepì una folata d'aria fredda sul viso, la finestra era aperta. Intuì che la luce proveniva dalla luna.
La immaginò grande e luminosa, con enormi crateri che determinavano zone d'ombra e penombra e che ne facevano risaltare la superficie irregolare, che brillava d'argento.
Si sporse un poco, in modo che la brezza ghiacciata le scompigliasse i capelli. Alzò gli occhiali, sentì una carezza fresca sugli occhi ed inspirò a fondo.
Si stava rapidamente calmando quando un paio di mani l'afferrarono.
Si dimenò, disorientata, ma la stretta era troppo forte perché potesse ribellarsi.
Di colpo si ritrovò a gambe all'aria, sul cornicione. Le mani sfiorarono il vuoto, strappandole un gemito.
«Lasciami!».
Ma la morsa non s'allentò e Spencer venne catapultata nel nulla.
 
You were my conscience
so solid now you’re like water.
And we started drowning

not like we’d sink any farther.

L'aria le sferzava il viso violentemente, facendole lacrimare gli occhi. Gli occhiali scuri saltarono via e volarono da qualche parte, sentì il loro rotolare a terra. Ne dedusse che mancavano pochi metri prima del suo sfracellarsi al suolo.
Una puntata della Signora in Giallo le vagava per la testa, la ricordava perfettamente. La vittima volava dall'ultimo piano di un grattacielo e si contorceva in un perfetto volo ad angelo, prima di schiantarsi non prima di aver emesso un urlo agghiacciante.
Istintivamente le sue labbra si schiusero ed un vago gemito, che poi si tramutò in un urlo glaciale, uscì dalla sua gola.
                                                                                                                              
But I let my heart go
it’s somewhere down the bottom.
But I’ll get a new one

and come back from the hope that you’ve stolen.

Sentiva che il pavimento della sua scuola si avvicinava sempre di più, mancavano pochi metri alla sua morte.
All'improvviso si fermò con un violento strattone. Qualcosa si era impigliato alla gamba del pantalone, frenando la sua caduta.
Rimase perfettamente immobile e tese le braccia verso il vuoto, molto lentamente. Odiava il fatto di essere cieca, chissà quanto mancava a terra.
«Aiuto!», urlò.
La testa iniziò a formicolarle, fu allora che si rese conto di essere appesa a testa in giù.
«AIUTO!».
 
I’ll stop the whole world, I’ll stop the whole world
From turning into a monster, and eating us alive.
Don’t  you ever wonder how we survive?
Well now that your gone, the world is ours.

 
«Spencer?».
«CHRISTIAN! Santo cielo tirami giù!».
«Come diavolo sei finita lì?».
«Tirami giù, per favore!».
Il ragazzo sospirò, paziente. «Va bene, ora prendo una scala».
Una scala? Quanto distava il pavimento da lei?
Passò una serie interminabile di secondi ed improvvisamente sentì i suoi passi in lontananza, accompagnati da un cigolio metallico.
«Cosa mi fai fare? Ho dovuto sedurre la bidella per prendere la scala a quest'ora», borbottò.
Finalmente sentì il contatto con le sue mani calde e provò una sensazione di sollievo. L'accolse nelle sue braccia possenti, Spencer vi si rifugiò come un gattino spaventato.
«Ehi, ehi. Tremi tutta», notò il moro.
Lei non rispose, si limitò a stringerlo forte.
 
I’m only human, I’ve got a skeleton in me.
but I’m not the villain, despite what you’re always preaching.


«Che ti è successo?».
«Non ne ho idea. Ero in corridoio, di sopra, mi sono ritrovata nel vuoto».
«Chi è stato?».
«Dio, non lo so!», sbottò irritata. «Non ci vedo, ricordi?».
«Di sicuro è stato un ragazzo; una donna non può avere una forza di questo tipo, né essere capace di fare una cosa del genere».
Qualcosa scattò nella mente di Spencer. «E' stata Althea».
«Cosa? Mia sorella?».
«Ti conviene stare attenta, rossa. Sei cieca, dunque potrai essere messa nel sacco più facilmente. Ci sono tante persone senza scrupoli al mondo. Mi ha minacciato con queste esatte parole».
«So che Althea è priva di scrupoli e coscienza, che ti ha reso le cose non facili qui a Colorado Springs, ma non sarebbe capace di compiere una roba del genere».
 
Call me a traitor, I’m just collecting your victims
And they’re getting stronger
I hear them calling, and calling.


«Tu non mi credi».
«Non è così, lo sai. Però come puoi pretendere che io ti creda quando incolpi mia sorella in questo modo?».
La rabbia iniziò a ribollire nel sangue.
«Tu.Non.Mi.Credi.».
«Ascolta Spencer...».
«Vattene».
«Cerca di capirmi, è mia sorella!».
«Vattene».
Cercò di abbracciarla. «Non toccarmi!», gli diede uno strattone e si voltò.
Lui le trattenne con forza e la costrinse a guardarlo. «Dannazione Spence!».
«Lasciami!». Distingueva una vaga figura davanti a lei, i suoi contorni erano sfocati, ma riusciva a focalizzare gli occhi azzurri.
Improvvisamente l'espressione di Christian mutò dall’irritato allo spaventato, anche se la sua interlocutrice non se ne accorse.
«Spencer», chiamò. «I tuoi occhi».
«I miei occhi cosa?».
«Stanno cambiando colore».
 
I’ll stop the whole world, I’ll stop the whole world
From turning into a monster, and eating us alive.


Le si ghiacciarono le membra. Stavano cambiando colore?
Lo abbandonò in mezzo al giardino e corse via, agitando le mani davanti a sé. Come se avesse una cartina mentale raggiunse l'entrata principale, attraverso il complicato intrico di stradine nel parco.
«Spencer!», la voce di Georgiana la interruppe a metà corridoio.
«Portami uno specchio!».
«Cosa?».
«Uno specchio!».
Se era rimasta scossa dalla sua richiesta questo Geo non lo diede a vedere. La portò dritta in bagno.
La luce dei neon l'accecò. «Specchio...», biascicò.
«Eccolo qui».
Una figura dai capelli rossicci la fissava dalla superficie liscia e trasparente. Notò che i contorni si andavano definendo. Si avvicinò.
Riusciva a vedere ancora poco chiaramente i suoi occhi. Ma aveva la certezza che fossero ancora verdi.
«Cos'hanno i miei occhi?».
Georgiana s'avvicinò e rimase in silenzio per molto tempo. «Stanno cambiando», concluse infine.
Ritornò allo specchio. I contorni del suo sguardo si definirono. Fu allora che notò che il colore dei suoi occhi stava mutando.
La zona dell'iride destra intorno alla pupilla cominciava a scurirsi, fino al castano. Quella destra invece si schiariva, fino al bianco. «Oddio no», sussurrò.
Piccole macchie dello stesso colore comparvero nelle iridi, espandendosi fino ad inglobarsi reciprocamente. Castano intenso ed azzurro acceso.
«No!», gemette.
Finalmente i colori si consolidarono e si avverò la sua paura più grande. Anche lei aveva gli occhi diversi.
«NO!».
«Spencer...».
«NO!», urlò di nuovo.
Il braccio le pulsava, la scritta Abominio bruciava più che mai.
La bionda le mise una mano sulla spalla. «Tesoro...».
Si voltò di scatto, gli occhi inondati di lacrime. «Guardami! Guarda cosa sono diventata!».
Quella indietreggiò. «Oh.Mio.Dio».
 
Don’t you ever wonder how we survive?
Well, now that you’re gone the world is ours.

 


Eccomi quaa!
Cominciamo subito con i ringraziamenti. 
GRAZIE a chi ha inserito la storia nelle preferite:

1 - Hermiuna 
2 - love_vulturi 
3 - Lupagic 
4 - Mika_Benny 
5 - _XeliX_ 

GRAZIE a chi l'ha inserita nelle seguite:

1 - abby_morns 
2 - Amy_Black 
3 - Cristie 
4 - Iria 
5 - Lady Gourmande 
6 - Lady mE 
7 - Lilith Lancaster 
8 - Lillyna_138 
9 - Little Shinedown 
10 - Lunetta921 
11 - Mika_Benny 
12 - ___Chocolate 

GRAZIE a chi mi seguiva silenziosamente e ha deciso di farsi sentire.
GRAZIE a chi non l'ha ancora fatto, cosa che spero faccia presto.
Grazie di tutto, è davvero importante per me.
Spero che il capitolo sia stato all'altezza delle vostre aspettative, visto che vi avevo detto che era uno dei miei preferiti, è lo è.
Anche il prossimo mi piace particolarmente, soprattutto perchè è lungo e denso di eventi, risultano cinque pagine su Word ;)
La canzone inserita è dei Paramore - Monster. Consiglio di ascoltarla rileggendo il pezzo in cui Spencer cade nel vuoto.
Allora alla prossima guys!
Jo

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Capitolo 15
*** XIV. Doppelgänger ***



XIV. Doppelgänger

 

Si svegliò con la testa vorticante. Barcollò per la stanza e si dovette appoggiare al muro per non cadere. Una forte nausea le attanagliava lo stomaco. Si trattenne fino ad arrivare in bagno, poi scaricò tutto nel water.
Si sciacquò la bocca con acqua fresca, disgustata. Si lavò il viso con abbondanti dosi di sapone, per levare quello sgradevole effetto appiccicoso.
Fissò il suo riflesso allo specchio; un volto sconosciuto l'osservava circospetto.
Un fiume di capelli rossi le incorniciava il viso dai lineamenti dolci, la labbra erano contratte in una sottile smorfia di disappunto a causa di quel paio di occhi che non riconosceva come suoi.
Castano scuro, ornato da pagliuzze dorate. Azzurro cielo, sfumato d'argento.
Sfiorò la superficie trasparente con le dita. «Che mi sta succedendo?», mormorò.
Una risatina si propagò nella stanza.
«Chi è là?».
Un'altra risata. «Mamma?».
«Non sono tua madre, sciocchina».
Qualcosa prese vita all'interno dello specchio. Una ragazza minuta, dalla folta chioma infuocata...
«Oddio!».
Di nuovo quella risata. «Ci sei arrivata finalmente».
La sua copia teneva gli occhi chiusi, ma parlava tranquillamente.
Era confusa più che mai. «No, non ci sono proprio arrivata», ammise.
La figura davanti a lei si avvicinò. «Sono te. L'altra parte di te, ovviamente. Quella migliore».
«Cosa?».
«Non fare l'ingenua con me, bambina», la pungolò.
«Sei una specie di alter-ego?».
«Alter-ego, Doppelgänger...», spiegò annoiata, «Ci sono molti modi di chiamarci...».
«Cosa vuoi da me? Perché sei qui? Quando ti sei sviluppata?».
«Domande, domande, domande».
«Rispondi».
Sbuffò. «Sono da sempre presente in te, faccio parte del tuo essere da quando sei nata».
«Come hai fatto ad uscire?».
«E' stato lo specchio».
Quale specchio? C'entrava Cascade Park Manor forse?
«Lo specchio? Quello specchio?».
Il Doppelgänger aprì gli occhi di scatto, fissandola intensamente con sguardo ipnotico. Esibì un sorriso malvagio. «Sì».
Allora vide quegli occhi che tanto la tormentavano. Castano ed azzurro formavano una combinazione terrificante e contribuivano a rendere lo sguardo del suo alter-ego quasi assassino. Urlò. Il grido risuonò per tutta la casa allarmando sua madre, che corse in bagno.
«Spencer che succede?».
Si rifugiò tra le sue braccia, spaventata per la seconda volta. Chiuse gli occhi. La donna non sapeva quello che le era successo la notte prima, né doveva venirne a conoscenza.
Mormorava frasi sconnesse, lacrime calde le rigavano le guance.
L'ultimo ricordo fu il profumo di sua madre, uguale a quello che ricordava da bambina. Poi il buio.
 
Aprì gli occhi; la vista le si riassestò quasi subito. Mormorò qualcosa.
«Spencer», sussurrò qualcuno dolcemente.
Cercò di mettersi a sedere, ma venne spinta a sdraiarsi da un paio di mani forti e calde. «Christian?».
«Sì, sono io».
«Cosa ci fai qui?», chiese con un sorriso ebete sulle labbra.
«Oggi non c'eri a scuola. Sono venuto e tua madre ha detto che stavi dormendo, perché stamattina non sei stata bene. Mi hai fatto preoccupare, sai?».
«Diglielo a quella», borbottò.
«A quella chi?».
Si mise a sedere, Christian non glielo impedì. «Hai mai sentito parlare dei Doppelgänger?».
«No».
«Prendi quel portatile, sopra il cassettone».
Lui obbedì e glielo passò.
«Un doppelgänger è una copia spettrale o anche reale (sosia) di una persona vivente. Il termine si riferisce a un qualsiasi doppio o sosia di una persona, più comunemente in relazione al cosiddetto "gemello maligno"», lesse dopo qualche minuto.
«Questo che c'entra?».
«Ho visto il mio doppelgänger allo specchio. Mi ha parlato».
Rimase in silenzio.
«Non mi credi di nuovo, eh?».
«Spencer, non dire così. Penso soltanto che tu sia stravolta da tutto quello che è successo in questi giorni. Forse potresti rimanere a casa per qualche tempo, in modo da calmarti un po'».
«Christian, ti giuro che l'ho vista!».
Ancora silenzio.
«Come credi che mi siano venuti questi occhi?». Quasi urlava. La voce le vibrava dalla rabbia.
«Non me lo so spiegare».
«E questo braccio? Lo vedi?!», gli mostrò l'arto inciso.
Le sue iridi azzurre si dilatarono dallo stupore. «Chi è stato?».
«Questa è una delle mie tante domande, Christian. Tutto riconduce a quel dannato specchio. Mi sono risvegliata dopo la sua esplosione con questa scritta sul braccio, gli occhi sono cambiati appena ho ripreso la vista e ho trovato quella cosa in bagno».
«Non so come aiutarti».
«Invece sì, lo sai. Ti ricordi quando ti ho chiesto di andare a Cascade Park Manor per me?».
Lui annuì.
«Devi andarci».
Di fronte all'espressione sconvolta del ragazzo si corresse, «Vorrei che ci andassi. E' importante per me, devo capire che mi sta succedendo. Io in quella casa non ci posso più entrare; non perché non voglia, ma perché vengo rifiutata. Ne sono sicura Christian, la residenza è comandata da qualcuno, qualcuno che non mi vuole tra i piedi. E' un Illusionista. Credo d'aver capito chi è, solo che non comprendo perché mi vuole far fuori».
 
Le lancette parevano ferme, inchiodate sulla superficie bianca dell'orologio. La classe era immersa nel silenzio, infranto dalle parole del professore di scienze che scorrevano come un fiume in piena.
Spencer non si preoccupò nemmeno di prendere appunti, invece la testa bionda di Georgiana era china sui fogli macchiati di frasi.
Li avrebbe copiati una volta a casa, la sua testa era troppo occupata a pensare ad altro.
Era certa che la presenza che governava la casa fosse Virginia, per questo lo specchio era scoppiato. Dunque era stata lei ad assassinare Grace e Alistair? Forse anche Agnes?
Qualcosa la folgorò all'istante. Al cimitero c'erano le tombe dei genitori di Alistair, seguivano quelle di Agnes e Grace. Mancavano la lapide di A. e quella di Virginia.
Come poteva essere vivo se l'aveva visto in quello specchio? Dunque non mostrava solo gli Illusionisti defunti? Era sicura che fosse così.
Alistair era quindi vivo ed imprigionato nello specchio?
«Signorina Marshall?», il professore di scienze richiamò la sua attenzione. «Potrebbe cortesemente spiegarci quello che stavamo dicendo?».
Un brivido la percorse improvvisamente. Geo le avvicinò il foglio e Spencer lesse attraverso gli occhiali scuri che le velavano gli occhi. Nessuno, tranne Christian e le sue amiche, sapevano che aveva riacquisito la vista. Inoltre nessuno, tranne il suo nuovo amico e Geo, conosceva tutta la storia.
«Stavamo parlando di Keplero, professore. Nato a Weil der Stadt il 27 dicembre del 1571, figlio di pellettieri caduti in disgrazia», buttava l'occhio sugli appunti continuamente, ma l'uomo parve non accorgersene. «Suo padre si farà mercenario e abbandonerà la famiglia, sua madre rischierà di essere giustiziata, accusata di confabulare con il diavolo. Tuttavia ebbe grande fortuna poiché in Germania lo studio era tenuto in grande considerazione ed egli era un entusiasta giovane studioso».
«Molto bene, Marshall».
Sorrise tra sé. La bionda le diede una gomitata. «Come si dice?».
«Mi hai salvato le chiappe per la seconda volta. Grazie».
«Ma ti pare?», rise quell'altra.
 
Appena la campanella suonò, Spencer si precipitò in bagno. La vescica le stava scoppiando.
Non amava molto i bagni scolastici, erano sporchi e mal tenuti.
Davanti a lei si sviluppava una serie di cunicoli dalle porte sfondate o pasticciate. Li esaminò tutti, prima di scegliere quello con meno carta igienica in giro e con il water più pulito. La scelta fu ardua.
Ricoprì l'asse di carta igienica e si sedette comodamente sopra, dopo essersi abbassata i pantaloni.
Improvvisamente la porta del bagno si aprì, un ticchettio vagamente familiare si diffuse sul pavimento di ceramica, imbrattato dal sudiciume.
«Bellissima performance ieri sera», si complimentò una voce da oca.
«Grazie tesoro, pensa che mi hanno assicurato un ruolo importante nello spettacolo che si terrà tra qualche settimana».
Althea e le gemelle bionde parlavano di uno spettacolo a Spencer ancora sconosciuto. Si arrampicò sul gabinetto e scostò la porta, in modo da vedere la scena. La capo cheerleader era chinata verso lo specchio, le labbra si velavano di rossetto scuro.
Il silenzio sopraggiunse tra le tre ragazze.
La mora si girò indispettita verso le due oche. «Cosa c'è?».
«Senza offesa cara, sappiamo che quella non era la tua voce».
«Oh, sciocchine, mi avete scoperta», civettò quell'altra. «E' vero, non era la mia voce, solo uno stupido scherzetto», ridacchiò.
Di fronte all'espressione stupita delle sue tirapiedi proseguì con disinvoltura. «Ovviamente tutti ci sono cascati», spiegò. «La Marshall ha cantato davanti a Joe e Darren ed io ho registrato tutto».
Le altre due risero in modo forzato.
«Non ci credo! Sei un genio Althea!».
«Suvvia ragazze, così mi fate arrossire! La registrazione era molto buona, come avete potuto notare. Ho semplicemente cantato in playback e, cosa ancor più sorprendente, nessuno se n'è accorto, nemmeno Aaron!».
«A proposito», scattò una delle gemelle, «Ti vedi ancora con Roberts, quello della squadra di rugby?».
«Certamente».
Ancora risate, «Aaron non se n'è ancora accorto?».
«Ragazze, per chi mi prendete? Sono diventata esperta, ormai. Lo vedo dopo gli allenamenti, sapete, la squadra finisce un'ora dopo le nostre prove ed io sono una ragazza paziente».
Le oche sghignazzarono.
«Dovreste vederlo, mi obbedisce come un cagnolino. E' talmente ottuso, poveretto! Mi adora come una dea, farebbe di tutto per me. Ad esempio, qualche giorno fa è bastato dirgli che una certa Marshall mi minacciava, che avevo paura di lei... Al resto ci ha pensato lui». Rise, diabolica, «Purtroppo non è riuscita a toglierla di mezzo».
Le bionde sospirarono come se Althea avesse perso un'occasione d'oro.
«Ala fine è riuscito a portarti a letto?», cambiò discorso una delle due.
«Ho resistito un po', ma alla fine ho ceduto. La nostra relazione va avanti da sei mesi».
«La cosa più divertente è che il signorino Torman non sospetta nulla! Non sa nemmeno che non sei più vergine da...».
Althea fece un rapido conto mentale. «Quasi due anni».
Risate, risate, risate.
Spencer dovette reggersi alle pareti del cubicolo per non cadere. Qualche lacrima le scese lungo il viso.
Aaron era fedele ad Althea e lei lo tradiva così spudoratamente! Una relazione che andava avanti da sei mesi, praticamente da quando lei era giunta a scuola.
L'ape regina uscì dal bagno, seguita dalle sue fedeli.
Spence si rannicchiò sulla tavoletta del water, poggiando la testa sulle ginocchia.
Doveva parlare con Aaron, subito.
 
Lo vide sulla porta del corridoio che dava sul cortile. Avanzò verso di lui e finse di guardare da un'altra parte, inutilmente.
«Credevo che non esistessi più per te», commentò seccato.
«E' vero, ma non sono così senza cuore. Ho sentito qualcosa che dovresti sapere. Te lo dico perché ci tengo a te, nonostante tu mi abbia trattato da schifo».
Lui rimase in silenzio per qualche secondo, poi riprese. «Dai, dimmi».
«Ero in bagno ed è entrata Althea. Si è messa a parlare con le gemelle».
«Dio, non ci credo! Ora cerchi d'infangarla?».
«Senti, mi ascolti altrimenti me ne vado ora».
Alzò le spalle. «Come vuoi».
«Ha parlato di me, ma questo non è importante. Lei ha una relazione da sei mesi, Aaron. Con un certo Roberts della squadra di rugby. Inoltre non è più...».
«Và avanti».
Prese fiato. «Non è più vergine. Da due anni».
Lui rimase in silenzio.
Spencer avvicinò la mano alla sua spalla, ma egli si scostò di scatto. «Tu non impari mai, vero?».
Sgranò gli occhi.
«Odi il fatto che io stia con lei, perché vorresti avermi tutto per te, dunque infanghi la sua reputazione in questo modo». Non le diede tempo di replicare, «Ascolta, so che può non sembrare così ma Althea è una brava ragazza, solo molto insicura di se stessa. Ed io la amo. Quindi, per cortesia, lasciaci in pace».
Rimase senza parole. Le lacrime affiorarono dalle pupille e scesero lungo le guance, superando la protezione degli occhiali. «Forse dovresti ridurre un poco le dimensioni del tuo ego. Tu che ne dici?», domandò prima di sparire nel nulla, non preoccupandosi di apparire cieca.
 
«Tesoro sei a casa?», la voce di sua madre le giunse dal salotto.
«Sì», borbottò.
«Ti ha accompagnato a casa Georgiana?».
Mugugnò qualcosa in risposta.
Percepì la sua stretta calda sulle braccia ed il suo respiro sulle spalle.
«Allora com'è andata a scuola?».
«Bene».
«Che hai fatto di bello?».
«Niente di che».
Sentì sua madre trattenere il respiro. «Ascolta, Spencer. Non capisco che ti succeda in questo periodo, mi sembri cambiata».
Era cambiata, eccome se lo era. Come poteva dire a sua mamma che era davvero innamorata ma che l'oggetto dei suoi desideri non si curava di lei? Come poteva dirle che aveva persone ignobili attorno, che aveva rischiato di morire più volte a Cascade Park Manor, che  aveva visto il suo alter-ego allo specchio, che, che il colore dei suoi occhi era cambiato, che Roberts aveva tentato di ucciderla su commissione di Althea?
Joanne intanto continuava il suo discorso. «Ti vedo strana in questi mesi, quasi da quando siamo arrivate qui. Eppure non frequenti cattive compagnie, forse è a causa degli Allen? Non sei andata di nuovo a Cascade Park senza il mio permesso, vero?».
«No».
«Oh, bene. Tesoro non puoi immaginare quanto sia preoccupata per te...».
«PREOCCUPATA PER ME?!», esplose, «Quando mai? Cosa sai di me? Sentiamo!», il respiro le si fece affannoso ma impedì alla donna di parlare.
«Sai che ho rischiato di morire non solo quella volta a Cascade Park Manor? Devi ringraziare Christian se sono ancora viva! Sai che tentano di uccidermi persino a scuola? Sai che Aaron è pazzo di Althea anche se lei continua a mettergli le corna?», s'interruppe un secondo. «Sai che ho visto il mio alter-ego allo specchio? E' per quello che ho urlato, la mattina scorsa. Mi ha parlato, terrorizzandomi. E' malvagia, mamma», prese un respiro profondo, pronta a continuare. «Sai che tutto ciò è dovuto all'esplosione dello specchio nella villa? Sai che ho ripreso la vista, dopo essermi salvata da un volo di testa dal secondo piano della mia scuola? Quel che è peggio, sai che tengo questi occhiali per non mostrare alla gente il colore attuale dei miei occhi?». Finalmente si zittì.
L'espressione di sua madre non era mutata durante il suo monologo. La donna rimase in silenzio e le si avvicinò, cauta.
Percepì le sue mani sfiorarle i capelli e poi abbassarle gli occhiali. Alzò gli occhi, che si erano fatti lucidi a causa delle lacrime.
Nelle pupille scure della genitrice vedeva riflessi i suoi occhi. Ghiaccio e mandorla, una combinazione che le dava un aspetto sinistro, quasi pericoloso.
Joanne urlò, subito portandosi una mano davanti alla bocca per soffocarne i gemiti. «Mio Dio...».
Spencer si rifugiò tra le sue braccia, dando libero sfogo al pianto. «Lo vedi, mamma? Lo vedi cosa sono diventata?».

 

Buon pomeriggio cari e care!
Dopo quasi due mesi  che non aggiorno causa estate, eccomi qui di nuovo! *felicità -.-"*
Avevo preannunciato che sarebbe stato un capitolo denso di avvenimenti, o almeno credo.
Comunque ringrazio le 5 persone che l'hanno inserita nei preferite e le 11 che l'hanno inerita nelle seguite. Grazie.
Attendo qualche commento, anche se so che non me lo merito minimamente xD
Un bacione a tutti
Jo 
PS: Mi ero dimenticata di dire che ho rivisto tutti i capitoli e ho cambiato la copertina. Un grazie enorme ad abby_morns a proposito. So che sarebbe una rottura rileggere i capitoli e nemmeno a me andrebbe, quindi nemmeno ve lo consiglio. C'è qualche piccolo cambiamento verso gli ultimi aggiornamenti, diciamo dal capitolo 11 più o meno ;)

 


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Capitolo 16
*** XV. Come Jane Eyre ***



XV. Come Jane Eyre

 

Quando il mattino seguente Spencer si risvegliò nel proprio letto, nella sua mente vagarono le immagini della sera precedente.
Era esplosa dalla rabbia ed aveva rivelato tutto ciò che le passava per la testa; infine, presa da uno scatto d’ira, aveva gettato a terra gli occhiali e mostrato a Joanne l’attuale natura dei suoi occhi.
La donna era rimasta atterrita e lei, piangendo, si era rifugiata tra le sue braccia.
Si mise a sedere e si toccò il viso. Gli occhi erano gonfi e bruciavano, i residui delle lacrime erano incrostati sulle guance.
Si alzò di scatto, appoggiandosi al muro per combattere il mal di testa che minacciava di farla crollare. Si diresse in questo modo fino al bagno; aprì il rubinetto e sciacquò il viso, lasciando che le gocce di acqua fresca e dolce lavassero quelle salate e di dolore intrise sulla pelle.
Si legò i capelli sporchi in una coda di cavallo e se la strinse con forza sulla nuca.
Non si preoccupò nemmeno di cambiarsi d’abito; la canottiera bianca era stropicciata dal suo sonno tormentato, i jeans un po’ sporchi.
Non osava guardare il proprio riflesso allo specchio per paura di confrontarsi con la sua parte malvagia o di vedere ancora i propri occhi, quasi diabolici.
Indossò il paio di occhiali scuri che tanto odiava, ma che erano diventati i suoi migliori amici perché l’aiutavano a celare la sua vera identità.
La strada verso scuola era deserta, persino il gabbiotto del signor Morrison era vuoto ed il cimitero non aveva più la stessa attrattiva di prima.
Proseguì per la via senza distrarsi ulteriormente. Gli occhi fissavano il vuoto, schermati dal vetro scuro, i piedi si muovevano da soli, meccanicamente.
Arrivò a scuola in pochi minuti; nel corridoio principale c’era gran fermento, parte dei ragazzi erano riuniti intorno ad una bacheca e mormoravano eccitati.
Individuò subito la bionda chioma di Georgiana e le si avvicinò. «Cos’è tutto questa eccitazione?».
«Buongiorno anche a te, Spencer», salutò tranquillamente. «La scuola organizza uno spettacolo teatrale o meglio, un musical. L’ha detto pure la Pardinge giorni fa, durante una sua lezione».
La rossa sbuffò. Come se lei fosse stata attenta a quello che le diceva la sua professoressa di arte; aveva ben altro a cui pensare.
«Mi stai ascoltando?».
Si riscosse dai suoi pensieri, «Oh, scusa».
«Dicevo che reciteremo “Jane Eyre”».
«Jane Eyre? E’ il mio libro preferito! A quando i provini?».
«Questo pomeriggio», rispose asciutta. Poi, di colpo, assunse un’espressione a metà tra l’addolcito e il contrariato. «La parte della protagonista è già stata assegnata», sputò.
«A chi?», Spencer inspirò a fondo, immaginava già la risposta.
L’altra aggrottò un poco la fronte. «Ad Althea».
Trovò conferma alle parole dell’amica ancora una volta.
Sul foglio in bacheca, sotto il titolo dell’opera stava una griglia con i nomi dei personaggi affiancati da quelli degli attori.
L’unico personaggio già assegnato era proprio quello di Jane Eyre, affiancato dal nome di Althea Prince.
 
«Non fare quella faccia, i provini sono aperti per gli altri personaggi», più tardi Andrea cercò di risollevarle il morale.
«Certo, potrei essere scritturata come Adèle, Bertha Mason o peggio, la signora Fairfax! Oppure Grace Poole!».
«Io credo che non sia importante il personaggio, quanto come lo si interpreta», saltò su Miranda.
«Ora ditemi come ha fatto Althea a diventare Jane Eyre!».
«L’hanno sentita cantare al Talent Show e gliel’hanno proposto subito dopo».
Spencer sussultò. Ecco di che parlavano nei bagni Althea e le oche bionde!
Dunque erano rimasti colpiti dalla sua voce, Althea cantava semplicemente in playback!
Qualcosa iniziò a girarle per la testa.
L’avrebbe pagata, eccome se l’avrebbe pagata.
 
I provini si svolsero quel pomeriggio, nella palestra.
La lista dei candidati era lunga, il giudice era la professoressa Pardinge. Sarebbe stato un pomeriggio infinito.
Salirono sul palco tutti i suoi amici e qualche sconosciuto. Ognuno di loro parve fare buona impressione all’insegnante, nonostante la sua espressione fosse sempre neutra.
Quando fu il suo turno, Spencer salì sul palco e cantò la canzone stabilita con tutta la forza e dolcezza di cui era capace.
La Pardinge le rivolse lo stesso sorriso neutro e la congedò con uno sbrigativo gesto della mano.
Poco dopo di lei salì sul palco Aaron, in lizza per il ruolo del signor Rochester. Era l’unico maschio degli esaminati ed essendo l’unico personaggio maschile di rilievo, oltre a St. John, Spence immaginò che la parte sarebbe andata a lui, visto che l’audizione gli andò magnificamente.
Una volta terminati i provini la sala era praticamente vuota. La professoressa si accingeva a sistemare i fogli dei propri appunti quando una voce risuonò per la palestra. «Ci sono anch’io, prof!».
La muscolosa figura di Christian Prince si ergeva sulla soglia. Il cuore di Spencer ebbe un sussulto, non bene accetto dalla sua proprietaria.
«Sempre in ritardo, Prince», borbottò l’insegnante.
Christian non se ne curò e salì sul palco con disinvoltura, schiarendosi la voce.
Fu la prima volta che lo sentì cantare e doveva ammettere che non era niente male. Aveva una voce più profonda di quella di Aaron e più espressiva. Notò le movenze del suo corpo mentre cantava; era proprio bravo.
Dopo la sua audizione, la Pardinge si assicurò che non ci fosse nessun’altro e chiuse le iscrizioni.
Appena fuori dalla palestra, Spencer si fermò per fare i complimenti al suo amico.
«Grazie», le rispose asciutto.
«Volevo anche approfittarne per ringraziarti per tutto ciò che hai fatto e che stai facendo per me», mormorò. «So che di questi tempi non sono stata esattamente la migliore persona con cui rapportarsi e mi dispiace. Tuttavia non mi hai mai abbandonato, sei sempre rimasto al mio fianco».
Lui le si avvicinò. Percepiva il suo respiro sul collo. «Non c’è di che», rispose prima di sfiorarle la guancia con le labbra.
Spencer avvampò all’istante, ma il suo amico non se ne accorse perché usciva dalla palestra.
Si diresse in bagno poco dopo, ancora confusa da quel bacio sfuggente.
Sperò che l’acqua fresca potesse schiarirle le idee e se ne buttò in gran quantità sul viso. Quando alzò gli occhi, sussultò.
Di fronte a lei stava l’altra Spencer.
«Tu!».
«Oh, non pronunciare questa battuta da film!».
«Cosa vuoi da me?», quasi singhiozzò.
«Adesso piange», rise l’altra. «Non conosci le storie delle persone che hanno incontrato il proprio doppelgänger?».
«Che gli è successo?».
«La loro parte malvagia ha preso il sopravvento», ridacchiò, fissandola in modo perverso con gli occhi diversi.
«Tu non mi avrai».
«Ne sei sicura? E’ capitato a tutti. Già ora stai cambiando, Spencer. Inizierai a variare spesso di umore, tratterai i tuoi amici ed i tuoi cari come pezze da piedi, finché non rimarrai sola. Allora m’impadronirò di te e impazzirai. Rimarrai per sempre segregata nella parte più infima della tua mente, fino alla fine dei tuoi giorni».
«NO».
Rise. Rise rovesciando la testa all’indietro, con la bocca aperta. Aveva una dentatura affilata, come quella di un animale feroce.
«NO!».
Ma quella continuava a ridere.
«NO, NO!». Prese la testa tra le mani ed iniziò a scuoterla, tirandosi i capelli. «NO!», urlò ancora.
«Spencer, tutto bene?».
Miranda era appena entrata in bagno.
«Cosa? Io… Si, sto bene», concluse infine.
Le sorrise, affabile, si lavò le mani in modo sbrigativo ed uscì, non prima di averle ammiccato dalla porta.
Scosse di nuovo la testa. Quell’orribile essere era solo frutto della sua psiche, doveva disfarsene al più presto.
 
Si alzò prima del solito, la mattina seguente. Uscì di casa senza salutare la madre, che ancora dormiva. Non avevano più parlato della litigata di qualche giorno prima, Joanne si era chiusa in un silenzio infrangibile. Era triste e malinconica, Spencer avrebbe giurato di aver visto qualche lacrima rigarle le guance, un giorno.
Proseguì verso scuola senza fermarsi, senza lasciare che i pensieri interferissero come facevano nell’ultimo periodo.
Il corridoio era colmo di studenti, riuniti intorno alla bacheca. Ciò le fece presagire che i risultati delle audizioni fossero già stati pubblicati.
Si avvicinò al capannello, facendosi largo tra la folla a gomitate.
La parte di Adèle era stata assegnata a Julia. Era abbastanza piccola da somigliare ad una bambina ed il suo strano accento pareva quasi francese.
La signora Fairfax sarebbe stata Miranda. Spencer avrebbe odiato quel ruolo, ma all’amica non importava. Credo che non sia importante il personaggio, quanto come lo si interpreta.
Bertha Mason sarebbe stata interpretata da Andrea, Diana invece da Georgiana, insieme ad una delle due gemelle bionde, che avrebbe interpretato la sorella Mary.
L’altra bionda avrebbe recitato la parte di Helen Burns, migliore amica di Jane ai tempi di Lowood.
Scoprì, con grande piacere, che Aaron avrebbe interpretato St. John, fratello di Mary e Diana.
Christian sarebbe stato il signor Rochester.
Il suo nome non compariva. In tutta la lista. La scorse tutta, leggendo i nomi degli interpreti, finché non lo vide, in fondo. Non sarebbe stata Berta Mason, né la signora Fairfax né Adèle. Ma qualcosa di molto peggio. La sostituta della protagonista. La sostituta di Althea.
 
Non stette attenta alla lezione di biologia, tanto per cambiare. Fortunatamente aveva gli appunti di Georgiana; quella ragazza era indispensabile per il suo rendimento scolastico.
L’amica non commentò il suo stato catatonico, sapeva quanto ci tenesse al musical, eppure se fosse stata attenta una volta tanto avrebbe sentito che il vincitore del talent-show avrebbe avuto diritto al principale ruolo maschile o femminile.
Si maledisse mentalmente e maledisse tutto ciò che le stava accadendo in quel periodo, non dimenticandosi di citare tutti i nomi della dinastia Allen, ormai imparati a memoria.
Uscì dalla classe in fretta, con la testa tra le nuvole. Il risultato fu che andò a sbattere con la spalla contro lo stipite della porta e tutti i libri che aveva in mano caddero per terra.
Appena vide la robusta figura della professoressa Pardinge, si bloccò in mezzo al corridoio. Raccolse la sua roba e la inseguì.«Professoressa, aspetti!».
La donna si girò e la guardò, sorpresa. «Dimmi Marshall».
Prese un respiro profondo e sputò tutto d’un fiato: «Non sono d’accordo con la distribuzione delle parti riguardo il musical».
L’insegnante si accigliò un poco. «Che cosa non ti convince?».
«Non capisco perché mi ha inserita come unica sostituta».
«Mia cara, il personaggio di Jane è molto importante, se dovesse succedere qualcosa ad Althea avremmo qualcuno per sostituirla. Inoltre ho notato che tu e lei avete una voce molto simile, per altro stupenda, quindi non ci sarà alcun problema».
Spencer esplose. «La nostra voce è UGUALE non simile, perché è la MIA! Althea ha registrato la mia voce mentre cantavo per Joe e Darren della band di Aaron Torman! Mi metta alla prova, professoressa! Faccia audizioni separate a me e ad Althea!».
La Pardinge rimase in silenzio per qualche istante, poi ribatté: «La tua accusa è molto grave, Marshall. Althea si è meritata il ruolo grazie alle sue incredibili doti canore…».
«Oh, andiamo professoressa!», la interruppe. «Lo sappiamo tutt’e due che Althea è una campana stonata, com’è possibile che sia migliorata in così poco tempo?».
La campanella suonò.
«Dovresti vergognarti, Marshall. Infangare in questo modo una tua compagna! Mi hai molto deluso», scosse il capo. «Forse è meglio che tu vada a lezione».
Spencer, non sapendo cosa ribattere, se ne andò a testa bassa, strascicando i piedi.
Se dovesse succedere qualcosa ad Althea avremmo qualcuno per sostituirla. Una strana idea le vagò per la testa e si affrettò a scacciarla, inorridita.
Far scendere Althea dal piedistallo si stava rivelando più difficile del previsto.



Buonasera!
Il mio buon cuore *ma doveee?* mi ha convinto ad aggiornare prima di partire per l'ultima settimana di vacanza *sigh*
Dunque eccolo qui, un altro capitolo denso di avvenimenti.
Ci avviciniamo al succo della storia e alla mia parte preferitaaa *__*
Ora direi che vado xD
Grazie ai 5 che hanno inserito la storia nei preferiti e ai 12 nelle seguite. GRAZIE <3
Buona serata a tutti
Jo

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Capitolo 17
*** XVI. Presagi di morte ***



XVI. Presagi di morte

 
Le prove cominciarono la settimana successiva all’esposizione dei risultati dei provini in bacheca.
Althea dominava il palco, con la sua figura formosa ed impossibile da non notare.
Sembrava soddisfatta di come stavano andando le cose, tranne per il fatto che Edward Rochester sarebbe stato interpretato da suo fratello invece che da Aaron, come evidentemente sperava.
Spencer studiava le battute a malavoglia, non contava nel fatto che sarebbe capitato qualcosa alla capo cheerleader. Era impossibile infangarla, sia con la verità che con le menzogne.
Christian notò questo comportamento nell’amica e le propose di studiare le battute insieme.
«Sono il protagonista e tu sei la sostituta di Jane, dobbiamo entrambi sapere molto bene le nostre battute».
Basandosi su questo solido argomento l’aveva convinta. Eppure ogni battuta letta per lei era come una pugnalata al cuore. Perché gran parte della novella narra dell’amore apparentemente non corrisposto, poi ricambiato ma non vivibile per forze di causa maggiore.
Un po’ come lei ed Aaron. Certo, senza la prima moglie, l’infanzia difficile, la povertà e tutto il resto. Ma quasi.
E' pazza colei che si lascia accendere da un amore segreto il quale, se non sarà conosciuto e corrisposto, divorerà la sua vita e se invece lo sarà, dovrà condurla ignis fatuus, in un pantano limaccioso e senza via d'uscita. Sembrava scritta apposta per lei.
Ma anche Christian la metteva in difficoltà e probabilmente in modo consapevole.
Pronunciava alcune frasi con una tale enfasi da metterle i brividi.
«Eri proprio tu quella che, in quest’ultimo mese, mi guizzava fra le mani come un’anguilla, piena di spine come una rosa canina? Non potevo mettere un dito su nessuna parte senza pungermi; e adesso mi sembra di aver accolto fra le braccia un agnello smarrito. Vagavi fuor dell’ovile in cerca del tuo pastore, non è vero, Jane?». Di nuovo, pareva si rivolgesse e parlasse seriamente di lei.
Provavano anche le scene più intime; abbracci, carezze e avvicinamenti impetuosi.
Al moro parevano non fare alcun effetto, ma a lei ne facevano anche fin troppo e questo non le piaceva.
Il rapporto con sua madre non era migliorato; aveva gradualmente preso le distanze ed ora le loro conversazioni si riducevano al racconto della loro giornata con voce piatta, senza emozioni. Eppure Spencer continuava ad incontrare il proprio alter-ego; sempre più nitido e definito.
Stava accadendo proprio come lei le aveva descritto: sbalzi d’umore, idee strane che le vagavano per la mente. Era più rude con i propri amici e non ne comprendeva il motivo. Sapeva soltanto che ogni volta che ciò accadeva, la doppelgänger diventava più forte.
«Spencer sei ancora tra le nuvole?».
Scosse la testa, come per risvegliarsi. «Scusa Christian. Dove eravamo arrivati?».
Si avvicinò a lei. «Il suo viso era l'oggetto che più amavo vedere in una stanza, illuminava più del fuoco più ardente», sussurrò.
Lei borbottò qualcosa ed allontanò il volto dal suo, visibilmente imbarazzata.
«Tutto bene?», domandò.
«Si. E’ che in questi giorni ho troppe cose a cui pensare».
«Diciamo in questo periodo».
«In questo periodo».
Poggiò il copione e si appollaiò sul tavolo della cucina di Spencer. «Ti va di parlarne?».
Annuì. «Di questi tempi non riesco a sfogarmi nemmeno con Georgiana. Ho paura che mi prenderebbe per pazza e figuriamoci le altre. E’ tutta colpa degli Allen. Se non fossi entrata in casa loro non avrei avuto tutti questi problemi. Mi sento strana da quando ho riacquistato la vista; cambio umore spesso e vi tratto da schifo. Poi c’è questo», alzò la manica della felpa e Christian poté ammirare l’epitaffio inciso sul braccio. Abominio. Quella parola le bruciava dentro.
«Non me l’hai mai fatto vedere, Spencer», l’ammonì.
«Perché pensavo ti avrebbe terrorizzato, come ha terrorizzato me».
«Di sicuro si riferisce ad una persona, in questo caso te. L’unica cosa che mi viene in mente assomiglia al parere che Hitler aveva dei non ariani, in particolare degli ebrei».
«Spiegati meglio».
«E’ semplice, ti faccio un esempio. I matrimoni misti tra ebrei ed ariani erano vietati. Gli ebrei si dovevano riprodurre solo con ebrei, gli ariani solo con ariani. Di conseguenza i figli di un’unione proibita erano considerati degli abomini del genere umano, poiché rovinavano il sangue ariano».
«Vuoi dire che…».
«Sono solo supposizioni, Spencer. Per saperne di più sai dove dovrò andare. Ma tu verrai con me».
Sgranò gli occhi. «E come?».
 
Scostò la fronda d’edera. «Non metterci troppo, Christian».
Lui le sorrise, «Sta tranquilla».
«E stai attento».
«Come sempre». Le si avvicinò e la strinse forte  a sé.
Lei si scostò quasi subito, imbarazzata, mentre lui si avviava in giardino. Tuttavia tentò di conservare l’aroma della sua Acqua di Colonia nelle proprie narici. Forse quel particolare profumo non era poi così male.
 
Christian Prince entrò all’interno della residenza degli Allen. L’ambiente era buio e polveroso. Utilizzò una torcia, portata per l’occorrenza, per illuminare. In fondo al corridoio, la grande scala portava al piano di sopra, già pienamente ispezionato dalla sua amica.
Esaminò le pareti; c’erano quattro porte.
La prima dava su un’ampia cucina, evidentemente gli Illusionisti avevano abitudini umane. La seconda si apriva sul salotto, vasto ed arredato con gusto.
La terza stanza era vuota, completamente. Entrò con fare circospetto, guardandosi intorno.
Nulla la decorava, a parte il pavimento liscio di marmo, il soffitto e quattro pareti.
Poi, improvvisamente, vapori violacei apparvero dal nulla ed una statua apparve al centro della sala.
Si avvicinò piano. Si trattava della stupenda scultura di una donna.
Agnes Rebecca Allen; 17 dicembre 1969- 24 aprile 1993. Che la tua bellezza non possa essere scalfita nemmeno dalla morte”, recitava l’epigrafe.
I lineamenti sinuosi del corpo erano avvolti da una tunica, leggera persino nel marmo, che ne lasciava intravedere i seni sodi e la pancia piatta. Sul petto era adagiata una collana, il cui ciondolo era tondo come una piccola palla di metallo arrugginita. Non era in marmo come il resto dell’opera. Il petto ampio lasciava spazio al collo sottile come quello di un cigno. Il viso era favoloso, i tratti delicati e le labbra carnose, il naso alla francese e gli occhi velati da spesse e lunghe ciglia. I capelli lunghi e mossi coprivano completamente la spalla sinistra, lasciando la destra nuda, poiché la tunica era leggermente scostata.
Istintivamente Christian avvicinò una mano verso la guancia della statua e quella sorrise.
Si scostò di scatto, cadendo, quasi soffocando un urlo.
La testa di Agnes si girò verso di lui, tempo un battito di ciglia e al posto della statua stava una donna in carne ed ossa.
Si avvicinò. «Ti sei fatto male?».
«No, non si preoccupi», rispose, per quanto trovasse strano parlare con una morta. O era una statua? Era inquietante comunque.
«Non credo sia una buona idea parlare con lei. Del resto, com’è possibile? E’…».
«Morta? Sì, lo sono da molti anni ormai. Eppure sono ancora qui, a parlare con te. So che non è umanamente possibile, ma io non sono umana, ricordi? E poi, non sei venuto qui in cerca di risposte per la tua amica?».
Questi Illusionisti cominciavano sul serio a preoccuparlo.
«Anche tu sei stata assassinata da Virginia?».
La donna annuì, in silenzio.
«Come ha fatto?».
Agnes strinse le mani intorno alla pallina che portava al collo e tirò. Le costò un notevole sforzo ma Christian capì. La dama aveva estratto dal centro del petto uno stiletto di metallo arrugginito, con sangue incrostato insieme a del liquido argentato.
La palla apparteneva alla cima dell’elsa del pugnale.
«Mi ha ucciso in questo modo: pugnalandomi al petto».
«Ma voi Illusionisti non potete essere uccisi da un semplice pugnale!».
«Esatto. Vedi queste macchie argentate? Virginia ha lasciato refluire il suo odio represso, di conseguenza il mio cuore puro ha cessato di battere. Solo gli Illusionisti possono far refluire i propri sentimenti, per questo solo loro posso uccidere i propri simili».
«Quindi per uccidere Virginia bisogna far refluire l’amore in un’arma contundente, in modo da stroncare il suo cuore malvagio?».
«Impari in fretta, Christian».
«Perché ha ucciso te e Grace? I vostri genitori lo sapevano?».
«Certo che lo sapevano, eppure lei aveva acquistato così tanto potere da intimorirli. Uccidendo un Illusionista, il suo carnefice ne assume il potere. Virginia aveva il potere di altre due giovani Illusioniste. Ci uccise perché non voleva rivali. Essendo la più grande di noi tre avrebbe avuto diritto a sposare mio fratello Alistair, ma non voleva che garantirgli una scelta. Progettava di mandare avanti la stirpe, più potente ad ogni generazione. Ma Alistair non rispettò il suo disegno e s’innamorò di una donna mortale da cui ebbe una figlia, mia nipote Helena».
«E’ morta anche lei? Posso parlarci?».
Agnes sorrise. «Helena è viva e ti chiedo di proteggerla. E’ in pericolo; sia lei che sua madre».
«Non ho idea di chi sia Helena».
«Presto lo capirai; è destino che v’incontriate. Ora è meglio che tu vada».
In una nuvola di fumo la donna si dissolse per incarnarsi nella statua.
Christian si diresse verso l’uscita. «Grazie, Agnes», mormorò prima di chiudere la porta alle sue spalle.
 
Spirali di fumo la invadevano, la voce di Virginia risuonava in una roca risata. Volti passarono in rassegna davanti a lei. Sua madre e sua nonna tristi, suo nonno morto, Aaron furente, Christian raggiante.
Sudori freddi le pervadevano tutto il corpo. Si svegliò di soprassalto.
La sua stanza era ancora buia, doveva essere mattina presto. Qualcosa brillava accanto al suo letto.
Due pietre preziose, ambra ed acquamarina. Sbatté le palpebre.
Ciò che le si rivelò davanti fu fin troppo chiaro, terrificante.
Una sagoma femminile era seduta ai suoi piedi. I capelli vaporosi, il fisico minuto. Gli occhi diversi brillavano nel buio, l’unica fonte di luce della stanza.
La ragazza esibì un sorriso malvagio, sfoderando due file di aguzzi denti metallici.
Spencer urlò.
Quelle due pietre preziose si avvicinarono sempre più, fino ad arrivare ad un palmo dal naso.
Sentì un clangore metallico, come se qualcosa si schiudesse. Non esitò ad immaginare che fossero le labbra dell’altra Spencer.
Qualcosa di freddo le penetrò la carne, all’altezza del collo. Un dolore lancinante la pervase, gocce di sangue iniziarono scendere lungo il petto, sul lenzuolo.
Urlò di nuovo, in preda al panico.
La porta della camera si aprì di scatto, la forma familiare del corpo di sua madre la rassicurò.
La creatura la fissò diabolica, per poi pulirsi le labbra sporche di sangue con il braccio. Infine si dissolse in spire di fumo azzurro.
Sua madre corse accanto al letto, sconvolta. «Oh Cristo, Spencer», mormorò una volta accesa la luce.
La trascinò in bagno, non badando alle gocce di sangue che segnavano il loro cammino.
Lo spettacolo che vide allo specchio fu osceno. La parte sinistra del collo era martoriata da trentadue piccole perforazioni, come se la colpevole fosse stata dotata di trentadue di canini di metallo. Erano allineate in due perfette semilune, al centro la pelle era arrossata e gonfia. Intorno c’era sangue, che scendeva copioso.
«Bisogna disinfettare», borbottò Joanne.
Versò il disinfettante su un pezzo di cotone ed iniziò a tamponarle i fori. Spence urlò dal dolore trentadue volte. Dopodiché sua madre le applicò il cicatrizzante e le fasciò il collo con una garza leggera.
«Puoi andare a letto se vuoi. Anche se non credo che riuscirai a dormire dopo ciò che ti è successo».
Spencer annuì.
«Ho preso tutto questo sottogamba, Spence. Mi dispiace», l’abbracciò stretta.
«Non riuscirei a perdonarmi se dovesse succederti qualcosa», mormorò. Lo disse come se fosse in parte colpevole anche lei.
 
La mattina successiva era uno straccio. Si sistemò alla meglio ed uscì in fretta, dopo aver salutato Joanne con un bacio sulla fronte.
Le strade erano deserte, come al solito. Si strinse nella sciarpa; per fortuna era fine febbraio e non era così inusuale indossarla. In questo modo le avrebbe nascosto la garza. La ferita bruciava ancora.
L’edificio scolastico ormai tanto familiare si avvicinava ad ogni passo.
Improvvisamente iniziò a notare qualcosa di strano.
Attraverso la schermatura delle lenti a contatto colorate che indossava al posto degli occhiali ormai obsoleti, vide che qualcosa non andava. Le figure delle poche persone in cortile iniziarono a delinearsi, ma notò qualcosa al loro fianco.
Era una specie di foschia azzurra, sottile, disposta come una riga. Pareva quasi una parola.
Avvicinandosi scoprì che la propria deduzione era esatta.
Cinque ragazzi giocavano a palla nell’erba. Di fianco alle loro teste si estendevano delle parole in azzurro acceso, come se fossero insegne al neon.
Strinse gli occhi per decifrarle.
Alla destra di un ragazzo alto e allampanato compariva la parola infarto.
Alla destra di uno biondo e mingherlino tumore allo stomaco.
Una ragazza poggiata ad un albero esibiva la scritta incidente stradale.
Un’altra ancora peggio. Parto.
Non ci mise molto a capire che le stava capitando. Chiaramente quelle parole avevano un unico filo conduttore. La morte.
Poteva vedere in che modo sarebbero morte le persone che fissava. Non era possibile.
Si girò da un’altra parte. Tumore al pancreas, annegamento, suicidio, overdose.
Si spostò di qualche metro. Emorragia, AIDS, epatite.
Corse lontano, più veloce possibile. Il parcheggio era poco distante.
Vide la professoressa Pardinge uscire dalla propria auto.
Fece per girarsi ma sentì che la chiamava. «Buongiorno Marshall».
Chiuse gli occhi di scatto. «Buongiorno».
«Marshall, gradirei che mi guardassi negli occhi quando ti parlo».
«Mi scusi professoressa, ma oggi non è possibile».
«E come mai?».
«Non posso spiegarglielo».
«Guardami, Marshall».
«La prego, non me lo ordini».
«Invece è proprio quello che sto facendo. Avanti, guardami».
Aprì piano le palpebre, a malavoglia.
La professoressa Pardinge la squadrava, contrariata.
Diabete lesse alla destra del suo capo.
«Visto? Ho la faccia verde per caso?».
«No, professoressa. Mi spiace».
«Spero non ricapiti più».
«Non succederà».
«Ci vediamo a lezione», borbottò girandosi sui tacchi.
«Ah, professoressa?».
«Sì?».
«Sa che una dieta sana ed equilibrata, accompagnata da esercizio fisico, tengono  in salute molto più a lungo? L’ho letto sul giornale stamattina».
Si accigliò. «Certo che lo so, Marshall», ribatté quasi seccata. «Lo sanno tutti».




Buonasera!
Questo è un altro dei miei capitoli preferiti *w*
Ringrazio infinitamente le 5 persone che hanno inserito questa misera storiella nelle preferite e le 13 che l'hanno inserita nelle seguite. GRAZiE *w*
Attendo commentini.
Buona serata cari
Jo

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Capitolo 18
*** XVII. Un colpo di fortuna ***



XVII. Un colpo di fortuna

 
A lezione fissò il pavimento per tutto il tempo. Non rivolse parola a nessuno, in particolare a Georgiana.
Evitò di guardarla, evitò di guardare chiunque.
All’intervallo si recò in bagno per sbrigare i suoi bisogni, infine si lavò le mani evitando accuratamente di guardarsi allo specchio. Non avrebbe potuto sopportare di sapere come sarebbe morta.
La sera dello spettacolo musicale si avvicinava, tutti gli interpreti erano eccitati.
Si esercitavano un’ora dopo scuola, in più ognuno studiava la propria parte a casa.
Spencer era ormai svogliata –non che fosse mai stata volonterosa, dato la parte che le avevano assegnato- e la studiava a malavoglia. Tuttavia la presenza costante di Christian, che la spronava e le stava accanto, l’aiutava molto.
Di una cosa era orgogliosa: aveva imparato perfettamente la propria parte e la sapeva cento volte meglio di Althea.
Ciò che più l’imbarazzava nel provare le parti con Christian era la scena del bacio.
Secondo il copione, Jane Eyre ed Edward Rochester si sarebbero dovuti scambiare un bacio nella quindicesima scena, l’ultima.
Christian ovviamente non voleva l’ora di provarlo, ma Spencer si era rifiutata categoricamente e si limitava a lasciargli baciare la guancia. Del resto avrebbe semplicemente finto di baciare sua sorella, dunque non avrebbe avuto problemi.
Nel frattempo Christian le aveva raccontato dettagliatamente l’incontro con Agnes a Cascade Park Manor. L’ennesima preoccupazione si aggiungeva alle altre: Helena.
Chi era la misteriosa nipote di Agnes, nonché figlia di Alistair Allen e signora? E perché Christian era destinato ad incontrarla? Non sapeva perché, ma la consapevolezza di un disegno più grande in cui Christian si sarebbe probabilmente accoppiato con Helena iniziava a darle sui nervi.
Intravide la sua figura tra la folla, per quanto la sua vista fosse offuscata dalle parole azzurre alla destra di ogni ragazzo, riusciva perfettamente a distinguerlo tra la gente.
Si accorse di lei ed agitò la mano in sua direzione. Si girò di scatto. Lo avrebbe evitato, come evitava tutte le sue amiche. Il problema era seminarlo.
Si confuse tra gli altri studenti che affollavano il corridoio principale, non sarebbe stato difficile passare inosservata ma a causa della sua chioma rossa era facilmente riconoscibile.
Christian si sporse oltre la calca. «Spencer!», chiamò.
Per tutta risposta lei accelerò il passo. Svoltò a sinistra e proseguì fino all’aula di chimica, per uscire in cortile dalla porta a vetri.
«Marshall!», chiamò quello.
Iniziò a correre. Sentiva il suo passo leggero, da vero corridore, che la seguiva, ma non se ne curò.
Proseguì imperterrita. Girò intorno all’edificio, fino a che non trovo un buon posto in cui nascondersi. Era un cassonetto della spazzatura di medie dimensioni.
Si nascose a lato, fece strusciare la schiena contro la superficie arrugginita e si accoccolò a terra, stringendo le ginocchia a sé.
Non vedendola, Christian si fermò di scatto. Vedeva le sue sneakers muoversi nervosamente. Trattenne il respiro, fino a che non si allontanò.
Uscì con cautela, guardandosi intorno. Poi si avviò con naturalezza in classe.
La lezione durò troppo, le lancette dell’orologio parevano incollate al quadrante.
Al successivo cambio d’ora il suo obiettivo era cambiare i libri, dunque giungere all’armadietto inosservata.
Uscì di classe strisciando contro il muro, con il cappuccio sollevato, come un vero agente segreto. Si sentiva un po’ stupida a dire la verità.
Procedette a zigzag tra la folla. Mancavano pochi metri al suo armadietto, lo raggiunse senza problemi.
Fece scattare la serratura e cambiò i libri in fretta. Scienze con inglese.
Lo richiuse di scatto e s’incamminò velocemente per il corridoio.
«Spencer!». Diavolo, l’aveva beccata.
Accelerò e s’intrufolò in classe, chiudendo la porta di scatto.
Christian batté sul vetro con forza. «Cazzo, Marshall!».
Si appiattì e fece scorrere la schiena lungo il legno, nascondendosi finché non se ne andò.
«Che fai lì?».
I suoi occhi indugiarono sulle scarpe della sua interlocutrice. Erano le tennis di Georgiana.
«Niente», minimizzò.
«E allora vieni su», le tese una mano.
Si alzò guardando a terra.                                                                                                
«Ti da così fastidio guardarmi?».
«Scusa».
«C’è qualcosa che devi dirmi?». Dannazione quella biondina la capiva al volo. «Coraggio, sputa il rospo».
Sospirò, «Vedo come moriranno le persone».
«Che cosa?».
Si sedette al proprio banco, imitata dalla sua interlocutrice. «La mia doppelgänger mi ha morso ed ora, non so perché, vedo come morirà una determinata persona».
Geo rabbrividì di colpo. «Quindi è per questo che non mi guardi in faccia».
«Esatto».
Un silenzio imbarazzante intervenne tra le due, interrotto dall’amica. «Avanti, guardami».
«Come?!».
«Ho detto guardami». Le prese il viso tra le mani e la costrinse a guardarla.
Dischiuse gli occhi con estrema lentezza, mettendo a fuoco la sua sagoma.
Quello che vide le fece male.
«Avanti, dimmelo. Come morirò?».
«Non dovresti saperlo. Nessuno avrebbe diritto a saperlo».
«Eh no. Non voglio che questo privilegio sia condiviso solo da te e Gesù Cristo», ridacchiò.
Deglutì. «Morirai d’infarto».
L’altra sospirò. «Oh beh. Almeno morirò senza soffrire, d’un colpo. Poi saperlo mi aiuterà a vivere più a lungo; vorrà dire che starò attenta al mio cuoricino».
Era incredibile come la prendesse alla leggera. Lei non ne sarebbe stata capace.
«Allora, è per questo che eviti Prince da tutta la mattina? Non vuoi vedere come morirà?».
Sorrise imbarazzata e dispiaciuta al tempo stesso. «Beccata».
«Senti, Spencer. Prima o poi tutti dovremmo morire. Che importa sapere come? Sarebbe peggio se tu vedessi il giorno in cui ognuno di noi morirà, quella sarebbe davvero una tragedia. Inizieresti a contare i giorni che mancano alla tua fine e sarebbe orribile, non trovi?».
«Hai ragione. Eppure pensa com’è per me, me ne vado in giro tranquilla ma conosco come morirà ogni persona che vedo. E’ straziante!».
«So cosa provi», sembrava volesse continuare, invece si zittì. «Anzi, sinceramente, non lo so proprio. Dico così per cercare di farti stare meglio. Tuttavia pensa a come deve sentirsi Christian, lo stai evitando come se fosse un lebbroso, ci manca solo il campanellino alla caviglia! E’ stato così carino con te. Ti ha aiutata in molti momenti difficili, ora hai un vero amico su cui contare –a parte me, ovviamente-. Fatti coraggio e va’ a parlargli». Le diede una leggera pacca sulla spalla.
«Lo farò, davvero», promise.
La Pardinge fece il suo ingresso in classe. Georgiana si girò verso di lei. «Hai già visto come morirà la professoressa?».
«Certo, è stata la mia prima figura di merda di stamattina. Mi sono rifiutata di guardarla in faccia».
La bionda scoppiò a ridere silenziosamente. «Quindi?», la incitò.
«Morirà di diabete. Si è congedata da me ed io le ho detto: sa che una dieta sana ed equilibrata, accompagnata da esercizio fisico, tengono  in salute molto più a lungo? L’ho letto sul giornale stamattina».
Geo scoppiò in una risata fragorosa. «Non ci credo!».
La Pardinge si girò di scatto. «Evans e Marshall, separatevi», ordinò secca.
Staccarono i banchi quel tanto che bastava per rimanere ancora abbastanza vicine da conversare.
«E tu? Ti sei vista allo specchio?», continuò l’amica.
«No e ne sono terrorizzata. Credo che abolirò gli specchi in casa mia. Del resto uno mi è esploso in faccia rendendomi cieca per settimane, poi i miei occhi hanno cambiato colore, ho iniziato a vedere il mio alter-ego che mi ha morsa e adesso vedo come morirà la gente. Odio gli specchi, definitivamente».
«Chi è colui che morirà nel modo peggiore in questa classe?».
Spencer le diede un pugno sulla spalla. «Ti diverti? Non c’è niente da ridere, non è un gioco!».
«Evans e Marshall è l’ultimo avviso. Alla prossima vi sbatto fuori».
«Ci scusi professoressa».
«Allora? Dai rispondi».
«Anne. Morirà di leucemia».
«Oh Dio. Vorrei non avertelo mai chiesto. Credo che tu abbia il più odioso dono del mondo».
«Te l’ho detto che non era un gioco. Il tutto grazie ad un fottuto specchio».
Rimasero in silenzio per qualche istante. Georgiana copiò diligentemente ciò che la Pardinge aveva scritto alla lavagna, Spencer pure.
Ad un certo punto, la bionda alzò lo sguardo dal foglio e la fissò, gli occhi scintillanti. «Oggi hai visto Althea per caso?».
«Voi due là in fondo», le indicò la Pardinge. «FUORI».
 
 
Le prove generali dello spettacolo si svolsero nel teatro, che cominciava a vestirsi per l’occasione.
I fondali di Thornfield Hall e Lowood erano già pronti, ne mancavano due semplici da terminare.
Una sfilza di ragazze del laboratorio di cucito attorniava Althea, per sistemarle il vestito.
La capo cheerleader sbraitava a destra e a manca. «Stai attenta con quello spillo», «Mi rovini le scarpe», «Non toccarmi i capelli». Era proprio insopportabile.
Provò un segreto piacere a leggere tumore al seno alla sua destra. Scosse subito la testa; non lo avrebbe augurato neppure al suo peggior nemico, figuriamoci ad Althea.
Odiava il suo doppelgänger ed il cambiamento che quel  dannato specchio le aveva provocato.
A causa degli Allen doveva viaggiare con un paio di lenti a contatto castano chiaro, una sciarpa intorno al collo e le maniche della felpa perennemente abbassate. Come se la sarebbe cavata a luglio?
Inoltre c’era il problema della malvagità che le invadeva lentamente il cuore. In più si sentiva osservata, sempre. Pareva che un centinaio d’occhi fossero puntati su di lei costantemente, per giudicarla.
Probabilmente stava impazzendo davvero, pensò.
Si sedette su una delle poltrone in platea, osservando Christian che si esercitava sul palco.
Lo aveva evitato per tutta la mattinata, ma provò un discreto sollievo nel leggere vecchiaia al suo fianco.
Sulla scena il moro si muoveva con naturalezza, agitava le mani che seguivano i toni della voce; imperiosa o dolce a seconda delle richieste del copione.
Dopo pranzo avevano parlato.
Spencer gli si era avvicinata con discrezione, scusandosi per il suo comportamento e spiegandogli il perché del suo fuggi fuggi mattutino. Lui l’aveva presa quasi con nonchalance, quasi s’aspettasse che le cose si sarebbero evolute in quel modo. Aveva insistito per sapere come sarebbe morto e lei era stata lieta di comunicarglielo. Christian aveva risposto con una scrollata di spalle. «Magari vivrò fino a novanta e passa anni. Che palle». Il solito sbruffone, aveva pensato lei sorridendo.
Lo osservò passarsi la mano destra tra la folta chioma scura e si asciugò le piccole gocce di sudore che gli costellavano la fronte. Si girò verso Spencer e le sorrise.
Lei alzò il pollice e rispose al sorriso. «Bravo».
«Grazie», disse prima di sparire tra i tessuti colorati che le sarte gli stavano facendo indossare.
Lo osservò bene. I capelli neri, i lineamenti marcati e fini allo stesso tempo, gli occhi azzurri, la bocca carnosa, la mascella squadrata. Si sorprese, con suo grande disgusto, a trovarlo carino.
Eppure negli ultimi mesi era stato così sensibile e premuroso, pareva quasi che nutrisse un interesse verso di lei. Non avrebbe mai creduto che la vera natura di Christian Prince, quello borioso e pieno di sé all’apparenza, si rivelasse in questo modo.
Come non avrebbe mai creduto che la vera natura di Aaron Torman fosse falsa e doppiogiochista, invece di gentile e disponibile.
Sua nonna diceva sempre i bravi ragazzi esistono ancora e che se avesse aspettato, ne avrebbe trovato uno anche per lei.
Tuttavia si ritrovò a pensare che forse Christian era un bravo ragazzo, sotto la scorza da spaccone.
Invece Aaron era tutto l’opposto, un falso mascherato da santo. E lei ci era cascata in pieno.
Comunque ora doveva girare pagina. Aveva tentato di avvertirlo, eppure lui aveva preferito rimanere con Althea. Evidentemente l’amava davvero. Beata lei.
Non sapeva quanto avrebbe dato per avere un ragazzo dolce e premuroso ma anche forte e protettivo, che la stringesse ogni qualvolta si sentisse sola, che la facesse ridere se triste.
Aveva bisogno di qualcuno; non dal punto di vista delle amicizie, bensì da quello affettivo.
Si ricordava di una leggenda, che le avevano raccontato tempo prima.
Uomo e donna erano un essere unico, un'insieme di terracotta. Ma la terracotta si ruppe, le due metà si dispersero per il mondo e iniziarono a cercarsi disperatamente. Iniziarono a cercare la metà persa, con la consapevolezza di poter trascorrere una vita intera a esplorare, senza trovarla. Con la consapevolezza di rischiare di perdere un'esistenza alla ricerca del senso della vita.
Ebbene, qual'era il senso della vita?
Probabilmente realizzare i propri sogni. Ma se non si riuscisse a realizzarli, diciamo che l'avere a fianco una persona che ti ama incondizionatamente allevia la frustrazione.
Un urlo isterico interruppe il flusso dei suoi pensieri.
Althea stava strepitando e battendo i piedi come una bambina. «Questo vestito fa schifo! Ma guardatemi, sembro una stracciona! Non sapete cucire, nemmeno infilare un filo nella cruna dell’ago!».
«Ma, Althea, Jane Eyre è un personaggio caratterizzato dalla povertà. Hai letto il libro?», chiese gentilmente una delle sartine.
«O meglio, hai letto il copione?», chiese seccata un’altra.
Quella esplose. «Non osare parlarmi in questo modo», ringhiò.
Iniziò ad indietreggiare, verso bordo palco. «Voi siete solo delle povere pezzenti, non avete diritto di parlarmi in questo modo!», esclamò imperiosa agitando le braccia.
«Althea», l’ammonì Aaron, avvicinandosi.
«Non toccarmi! Stammi lontano!», indietreggiò ulteriormente. «Siete solo dei poveri deficienti, ecco cosa siete!».
«Sorellina, cerca di calmarti», intervenne Christian.
«Non dirmi cosa devo fare! Sono perfettamente padrona di me stessa e delle mie azioni».
«Invece ti devi calmare», Aaron cercò di accarezzarla.
Ormai a bordo palco, Althea lo evitò e gli rispose con uno schiaffo che fece risuonare tutto il teatro.
Nel farlo si sbilanciò. Il busto ondeggiò pericolosamente nel vuoto, agitò le braccia per tenersi in equilibrio, inutilmente. Aaron rimase immobile, del resto tutto si svolse troppo velocemente perché qualcuno potesse intervenire.
Althea Prince cadde dal palco, con un tonfo sordo accompagnato da un crac.
Spencer inorridì al pensiero che fossero le ossa della capo cheerleader.
Si avvicinò lentamente alla piccola folla che si era radunata intorno. Christian saltò a terra. «Largo, largo! Fate largo ho detto!».
Si avvicinò alla sorella e le toccò varie parti del corpo domandandole qualcosa. Lei rispose con voce flebile.
«Si è rotta due costole, chiamate il 911!».
Diversi mormorii agitarono la folla. La professoressa Pardinge, avvertita da due sartine, si avvicinò correndo e trascinando una barella.
«Prince, Torman, riuscite a spostarla?».
Aaron e Christian la sollevarono con delicatezza, per adagiarla sulla barella.
«Vado ad avvertire i suoi genitori. Marshall, seguimi!».
Spence inorridì. Voleva incolparla dell’infortunio di Althea, per caso? Non che la odiasse a tal punto da compiere una cosa del genere.
La donna aprì la porta del suo ufficio e la fece accomodare.
Si sedette in poltrona ed aprì una voluminosa rubrica telefonica.
La conversazione con i Prince durò pochi secondi. Riagganciò il telefono ed iniziò a fissarla.
«Immagino che tu sappia perché ti ho chiamata qui».
«No, professoressa», rispose sinceramente.
«Ma come, pensavo non aspettassi altro!».
«Che intende?».
«Ora che la signorina Prince è infortunata, sei la nuova Jane Eyre. Alla fine il ruolo di sostituta di è rivelato proficuo. Congratulazioni».
Spencer non poteva credere alle proprie orecchie.



Sera gente!
Dopo un'eternità che non aggiornavo, eccomi qui. *Yuppyduuuh ironici del pubblico*
Ringrazio le 5 persone che hanno inserito la storia nei preferiti e le -ben 14!- che l'hanno inserita nelle seguite. Grazie *_*
Attendo commenti. Spero il capitolo sia piaciuto, se sì fatemi sapere. Se no, vorrà dire che mi cercherò una pala per sotterrarmi ._.
Buona serata xP

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Capitolo 19
*** XVIII. Il musical ***



XVIII. Il musical


 
La sera dello spettacolo arrivò. Spencer scostò le tende del sipario. Il teatro era strapieno. Sua madre, in prima fila, agitò una mano per salutarla. Le rispose con un sorriso imbarazzato.
«Spencer?», una sartina le si era avvicinata.
Richiuse le tende. «Dimmi Anne».
«Dovresti mettere il vestito. Le altre ragazze ti aspettano per truccarti».
Dopo aver indossato una palandrana grigio scuro, s’infilò una parrucca castana in testa, assicurandosi che non uscissero ciuffi rossi. Le truccatrici le velarono il viso di fard chiaro e le scurirono le ciglia con il mascara.
La Pardinge spuntò dalla porta. «In scena tra cinque minuti», annunciò.
Una ragazza minuta e di bassa statura, che avrebbe interpretato Jane Eyre da piccola, si preparò dietro le quinte.
Il sipario si aprì, accompagnato da applausi scroscianti.
Il musical cominciava.
Le prime scene –Jane a casa della zia e all’orfanotrofio- si svolsero brillantemente. Qualcuno dei personaggi steccò mentre cantava, niente che un pubblico di genitori avrebbe potuto notare.
La sua voce fuori campo annunciò il cambio di scena: «Fin qui ho narrato con molti particolari gli avvenimenti della mia esistenza poco varia; durante quegli otto anni la mia vita corse uniforme, ma non triste, perché lavoravo molto. Avevo a mia disposizione i mezzi per acquistare un'eccellente istruzione ed ero stimolata dall'amore per gli studi (e per alcuni di essi in particolare), dal desiderio di distinguermi in tutto, oltre che al piacere  che provavo nel rendere contente le mie maestre, specie quelle che amavo. così, trassi il massimo profitto dai vantaggi che mi erano offerti».
Entrò subito dopo, accolta da numerosi applausi. Salutò Miranda, impeccabile nelle vesti della signora Fairfax, ignorando la scritta alla sua destra; come fece con tutti gli altri attori.
La scena si concluse ancor prima di quanto si aspettasse. Durante l’abbassamento delle luci, aiutò Julia a spostare un divanetto al centro del palco, sul quale si sedettero, facendo finta di studiare insieme.
La spagnola recitò molto bene, cercando di cambiare il proprio accento in favore di quello francese. Il risultato non fu ottimo ma accettabile, tutto sommato.
Solo durante la sesta scena comparve Christian. Jane Eyre è di ritorno a casa quando incontra uno sconosciuto che cade da cavallo a causa del ghiaccio per strada.
Vestito di scuro, con il mantello allacciato al collo e la tuba in testa, Christian sembrava un modello ottocentesco.
Alle sue spalle, dietro le quinte, sartine, truccatrici, scenografe e registe sospiravano per lui.
Solo verso la decima scena, quella prima della proposta di matrimonio di Mr. Rochester, Spencer s’accorse che qualcosa non andava.
Un sottile fumo azzurro s’andava propagando per i teloni scuri delle quinte. Sapeva bene che quando compariva fumo ceruleo, niente di buono era in arrivo.
Una voce iniziò a penetrarle le orecchie. «Spencer. Spencer». Il suo nome intervallato da risate acute, glaciali.
Cercò di mantenere il controllo e continuò a recitare imperterrita, era cosciente del fatto che il fumo fosse visibile solo a lei.
«Non potrai sfuggirmi a lungo, bambina. Anche se fingi di non ascoltarmi, lo so che mi senti. Non hai seguito il mio consiglio, dovevi andartene da Colorado Springs. Ora eccomi qui, a mettere in atto la mia vendetta. So che tu ed il tuo amichetto avete fatto infrazione in casa mia e parlato diverse volte con le mie sorelle. So che hai visto mio fratello», sussurrò tagliente. «Ebbene ora vedrai ogni membro della tua famiglia morire lentamente, soffrendo. Ma prima di tutto incrementerò la tua pazzia, fino a sforare i limiti dell’umano».
Sudori freddi le colavano lungo le tempie. Christian si accorse del suo stato ma fece finta di niente.
«So a chi tieni di più. Ed è proprio colui che andrò ad uccidere».
Il suo pensiero volò al ragazzo che le stava di fronte.
«Non lui, sciocchina. Una persona molto più importante».
Si sforzò di non pensare, sapeva che le avrebbe potuto leggere nella mente.
«Ora direi che dopo averti avvertita posso anche andarmene e lasciarti al tuo musical. E ricordati che se sarai recidiva, ne eliminerò uno alla volta», annunciò prima di lasciarla.
«Qualche volta ho nei suoi confronti una sensazione curiosa, specialmente quando mi è vicina, come ora. Mi sembra di avere una corda nella parte sinistra nel mio petto strettamente legata a una corda analoga nella parte corrispondente della sua personcina. E se mare e terra si frapporranno tra noi, tempo che quella congiunzione andrà spezzata, e ho la convinzione che comincerò a sanguinare dentro.. quanto a lei.. mi dimenticherà!».
Era giunto il momento. Mr. Rochester aveva proposto a Jane di sposarlo, lei aveva accettato, ora si sarebbero dovuti baciare.
Christian si avvicinò, lentamente. La platea era immersa in un silenzio totale, carico di tensione.
Le prese il viso tra le mani e lo avvicinò al suo. «Non aver paura», le sussurrò.
Le loro labbra erano sempre più vicine, il cuore di Spencer batteva all’impazzata.
Piegò di scatto la testa verso sinistra, lasciandosi baciare la guancia all’altezza della bocca, in modo che sembrasse un vero bacio a stampo. I drappi del sipario calarono e la platea esplose in un applauso fragoroso.
Prince sembrava contrariato. «Stai bene?».
«Mai stata meglio», mentì.
«Ti stai comportando in modo strano ed hai una pessima cera, persino con il fondotinta addosso».
Per notarlo un ragazzo voleva dire che stava davvero male. «In effetti non mi sento molto bene, ma voglio continuare lo spettacolo».
Scrollò le spalle. «Come vuoi».
Dopo una ventina di minuti di pausa, in cui Spencer si scolò una bottiglietta d’acqua naturale, le cortine del sipario si schiusero nuovamente.
La scena trattava del matrimonio tra Jane ed Edward, della conseguente scoperta di Bertha Mason, prima moglie di Rochester, segregata a Thornfield a causa della sua pazzia e della fuga di Jane da quella situazione.
Furono le due scene migliori dello spettacolo. O almeno così la pensava Spencer.
Nella terzultima scena entrò Aaron. Aveva provato talmente tante volte quella parte con Christian, doveva solo immaginare che fosse lui al suo posto. Probabilmente non avrebbe comunque migliorato le cose.
Aaron s’immedesimò perfettamente nella freddezza di St. John, persino quando arrivò il momento in cui il personaggio propone a Jane di sposarlo per aiutarlo nella missione in India.
Se fosse dipeso da lei, gli avrebbe volentieri risposto con uno schiaffone.
Giunsero alla scena finale, la più commovente.
Jane ritorna da Edward dopo un anno. Bertha Mason è morta in un incendio a Thornfield, in cui Rochester è rimasto cieco e ha perso una mano.
Eppure i due si sposano e vivono felici, avendo due figli.
«La compagnia di Edward non mi stanca mai: lui non si stanca mai della mia, cosi come non ci stanchiamo delle pulsazioni del cuore che batte nei nostri petti», furono le ultime parole che pronunciò Spence, mano nella mano con Christian, prima che il sipario si chiudesse per l’ultima volta.
La platea esplose definitivamente. Quando le cortine si riaprirono per le presentazioni, il pubblico era in piedi, in preda ad una standing ovation.
Furono presentati uno ad uno, gli spettatori applaudirono fino a spellarsi le mani, soprattutto per lei ed il suo co-protagonista.
Cercò con lo sguardo sua madre. Ma l’unica chioma rossa della sala non c’era. Il suo sedile era vuoto.
Cadde in preda alla delusione; Joanne avrebbe dovuto essere lì a sostenerla e a complimentarsi per la riuscita dello spettacolo, invece non c’era.
Da quanto tempo se n’era andata? Da subito, oppure da poco? E perché?
Non si gustò particolarmente la festa dopo lo spettacolo. 
I tavoli erano decorati semplicemente da tovaglie bianche, con scodelle di plastica colme di patatine e frutta secca, vassoi di pizzette e focacce, un’enorme torta e l’immancabile punch.
Christian si stava versando da bere nell'angolo, le sue amiche parlavano tra loro con piatti colmi di ben di Dio. Appena le raggiunse, un applauso partì da Georgiana e si propagò per tutta la sala. Spencer divenne del colore dei suoi capelli. Christian le si avvicinò applaudendo e la strinse a sé, tra gli sguardi compiaciuti di Georgiana, Julia, Andrea e Miranda e quelli un po' invidiosi del resto del cast femminile.
La professoressa Pardinge mise un po' di musica e subito si cominciò a ballare. Il suo co-protagonista le chiese il permesso per un ballo. Accettò, ignorando l'occhiataccia che le rivolse Aaron da un angolo della sala.
La mano destra di Christian strinse la sua, due volte più piccola, con l'altra le cinse la vita.
Seguiva il suo cavaliere, lasciandosi guidare da lui. Fissava il pavimento, imbarazzata. Il suo amico se ne accorse e le sollevo il viso con una mano, sfregando delicatamente il proprio naso contro la sua guancia.
Le accarezzò i capelli rossi, liberi dalla parrucca castana, e fece in modo che la testa di Spencer s'appoggiasse sulla sua spalla mentre ondeggiavano lentamente per la palestra.
«E' normale che Torman ti guardi così male?», domandò.
Non si curò nemmeno di girarsi, probabilmente Aaron le stava perforando la schiena con gli occhi. «Non m'importa più di Aaron», affermò, nonostante ci fosse una punta di falsità nella frase. «Mi ha ferita. Ho chiuso con lui». Questo era assolutamente vero.
«Lo so. Per questo io non voglio farlo con te», mormorò al suo orecchio.
Spence contrasse la mano sulla sua spalla.
«Non potrei mai perdonarmi di perderti. Non ora che ti ho trovata», concluse.
Sospirò silenziosamente, cercando di calmare l'ansia che le attanagliava la gola. Che cos'era, una specie di dichiarazione? Da parte di Christian Prince? Quel Christian Prince?
Colui che pensava privo di sentimenti verso gli altri?
Forse doveva davvero ricredersi. Chi credeva incapace di amare si rivelava tutt'altro. Colui del quale si era innamorata invece, si rivelava un grande imbecille.
 
La vista del portone di casa segnava la fine della serata. Christian, da gentiluomo quale Edward Rochester, in cui si era impersonato, si era offerto di accompagnarla a casa.
Erano le undici e mezza.
«Allora, passata una bella serata?».
«Sì, mi sono divertita molto. Sei un bravo attore».
Sorrise sotto i baffi. «Lo so, me lo dicono tutti», si vantò.
Gli diede un pugno sulla spalla. «Non montarti troppo la testa».
«Stai tranquilla, non lo farò. Non sono mica uno che se la mena, io», affermò.
Spencer si trattenne dall'alzare gli occhi al cielo.
Lui l'attirò a sé con gentilezza. «Sono un bravo attore, sì, però sappi che con te non ho mai finto», sussurrò.
Avvampò da capo a piedi.
«Ci vediamo domani». Christian le stampò un bacio leggero sulla fronte, prima di andarsene.
Nel silenzio della notte Spencer avrebbe giurato di sentirlo ridacchiare tra sé. Spaccone.
Entrò in casa con il sorriso sulle labbra, ma lo spettacolo che l'attendeva la lasciò basita.
Sua madre stava seduta al tavolo della cucina, la testa tra le mani, la superficie di legno bagnata di lacrime.
«Mamma? Che ti succede?», domandò allarmata.
Per tutta risposa Joanne strinse forte la figlia, scossa dai singhiozzi.
Le accarezzò i capelli. «Dai, racconta».
Asciugandosi le lacrime mentre strofinava gli occhi, Jo prese a parlare. «Qualche settimana fa, durante una conversazione telefonica, tua nonna mi ha fatto notare che trova il nonno più stanco ed affaticato. E' dimagrito notevolmente, i pantaloni gli stanno larghi, non mangia volentieri».
Il viso solare della figlia s'incupì. «Che significa?».
«Tua nonna mi ha chiamato durante il tuo spettacolo. Si è recata all'ospedale con il nonno per una visita specialistica e...». Non ce la fece a continuare, presa dai singulti.
«Ti prego, vai avanti».
Sua madre le strinse forte la mano, mentre gli occhi colmi di lacrime, specchio dei suoi, la fissavano.
«Gli hanno diagnosticato un cancro», sputò. «Tuo nonno sta morendo».





Sera gente!
Mi scuso immediatamente per averci messo così tanto ad aggiornare ma non ce la facevo con scuola e vari impegni.
Però ho rimediato appena possibile, eh!
Grazie ai 5 che hanno inserito la storia nelle preferite e ai 14 (e dico 14!) che l'hanno inserita nelle seguite, oltre ai 72 commentatori.
Spero continui a piacervi e spero continuiate a seguirmi, magari commentando anche ogni tanto (ho notato che il numero delle recensioni è calato progressivamente).
Grazie a tutti ancora e buona serata
Jo

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