La Casa Stornella

di Trick
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Prologo ***
Capitolo 2: *** Ninna nanna ***
Capitolo 3: *** Acqua, baci e sapone ***
Capitolo 4: *** Moccoluffin e vestiti alla rovescia ***
Capitolo 5: *** Un tricheco serpentino ***
Capitolo 6: *** C'era una volta una storia vecchia ***
Capitolo 7: *** Cene di famiglia ***
Capitolo 8: *** Cene di lavoro ***



Capitolo 1
*** Prologo ***


Note dell'Autrice – sempre discutibilmente utili:

Prima che iniziate a leggere, ci terrei a fare una comunicazione speciale a tutti coloro che stanno seguendo – o rantolando nel tentativo di seguire, piuttosto – la long-fic Diario di un lupo in un branco di lupi. Prima che qualcuno gridi al massacro, sappiate che non ho la minima intenzione di lasciarla incompiuta. È la prima vera storia con la quale ho iniziato a scrivere ed è proprio quella grazie alla quale ho migliorato la mia scrittura amatoriale. Quindi, no, non ho assolutamente voglia di metterla in un angolino e dimenticarmene. Purtroppo, però, la mia momentanea ispirazione sembra rigurgitare tanto lei quanto tutte le altre storie di genere drammatico e angst del mio hard-disk. Non so cosa stia capitando al mio folle e spasmodico amore per il melodramma e il sangue, ma ho il cervello costantemente in modalità love&fluff e questo è tutto.

Qualcuno potrebbe dire: «Eh, no, scusa. Sono anni che porti avanti il Diario. Prima di iniziare qualcos'altro, sei moralmente obbligata a terminarla».

Ma anche no. Sono una libera scrittrice amatoriale in preda ad una crisi d'identità che – vergogna – ha voglia di coccole, et voilà!

Tutto questo sproloquio potenzialmente letale e discutibilmente utile mi è servito solo a rassicurare i lettori del Diario che, no, non ho intenzione di morire prima di concluderlo.

Non ho finito di tediarvi, quindi tornate qua. Ci sono un paio di cose che devo aggiungere su questa long-fic qui sotto.

È una What-If dalla prima all'ultima parola. Anzi, no. È il mio grandissimo What-If, quello che strugge e distrugge tutti i cuori delle Wotcher Wolfie dall'uscita dei Doni della Morte, ovvero “e se Remus e Tonks fossero sopravvissuti alla Battaglia di Hogwarts”?

Quindi, me ne duole, ma tant'è che questa è la situazione. Io vi ho avvisati. :)


*



La Casa Stornella
Prologo

Casa Stornella era una solida costruzione tipicamente inglese che sorgeva nell'assoluta tranquillità delle colline del Derbyshire, a poche miglia di distanza dal villaggio di Matlock. Nonostante la vicinanza con il tram-tram della vita cittadina, l'atmosfera che aleggiava attorno alla proprietà era prodigiosamente disarmante. La si scorgeva appena, così immersa nella morsa degli alberi e degli alti cespugli, solo dopo aver superato una ripida altura incolta. Possedeva un ampio giardino circondato da alte e verdeggianti siepi, che abbracciavano il perimetro della casa, alti comignoli di mattoni rossi e una grande porta di legno antico dai battenti d'ottone a forma di testa di volpe.
Chi aveva avuto modo di giudicarla, a Matlock, diceva che sarebbe stata davvero una gran bella casa, se non fosse stato per quel fastidioso e continuo odore di uova marce che infestava da anni la zona. Nessuno era stato in grado di trovare una soluzione a quel disgustoso fetore – nemmeno i più competenti esperti di edilizia e idraulica britannica – così Casa Stornella era rimasta disabitata per oltre vent'anni, abbandonata all'edera e alle sterpaglie.
Poi, improvvisamente, era comparsa quella buffa coppia di stranieri. La giovane moglie dovette aver lasciato il cuore in quella graziosa villetta dimenticata, perché il marito – che gli abitanti supposero l'avesse sposata ben da poco, vista la rapidità con la quale ancora accontentava ogni sua richiesta – s'affrettò presto a ultimare l'acquisto. A nulla erano valsi gli avvertimenti sul nauseante puzzo: quando la moglie aveva scoperto che la casa veniva chiamata Stornella poiché in primavera il boschetto attorno si riempiva di cardellini e usignoli cinguettanti, non aveva più voluto sentire ragione.
Da allora, ben di rado gli abitanti di Matlock li avevano incrociati passeggiare per le vie della cittadina: il postino disse di non aver mai recapitato loro una sola lettera, mentre il macellaio e il fruttivendolo di non aver mai visto la signora fare la spesa nelle loro botteghe. Assurdamente, poi, tutti erano certi di non averli mai visti scendere da lassù a bordo di un'automobile.
Come riuscissero a sopravvivere in quella totale emarginazione era un mistero tale per cui l'intera cittadina, per timore e per rassegnazione, smise di parlare di loro e di tutte quelle stramberie.
In realtà, per Remus e Tonks vivere a Casa Stornella era cosa più che semplice.
Potevano vantare una dimora grande e spaziosa – forse un po' troppo, si dicevano a volte – e i loro bambini avevano sconfinate distese di erba nella quale correre, rotolare e farsi del male. L'insopportabile tanfo che tanto faceva storcere il naso ai Babbani di Matlock non era che un vecchio demone d'acqua che aveva infestato il sistema fognario. Liberarsene, per Remus, fu un gioco da ragazzi; fu molto più difficile convincere la moglie a lasciarglielo tenere a scopo accademico da qualche parte del giardino. Remus non riuscì a spuntarla in alcun modo e fu costretto a portare il demone a Hogwarts, dove aveva ripreso a insegnare Difesa Contro Le Arti Oscure – e dove convinse Hagrid a nascondere l'orribile creature dagli occhi severi della Preside McGranitt.
Con notevole serenità di Tonks, poi, il piccolo Teddy si era adattato rapidamente all'aria fresca del Derbyshire e aveva iniziato a crescere forte e robusto, inciampando e ruzzolando su ogni radice del grande giardino. Avevano da poco deciso di prendere un animale domestico, quando Tonks aveva scoperto di aspettare un secondo bambino.
Per non remare contro la neonata tradizione di dare nomi importanti alla propria discendenza, chiamarono il secondogenito Alastor Kingsley e rimandarono l'idea di comprare un labrador ai mesi successivi. Poco più di un anno dopo, in loro si rinnovò quell'iniziale voglia di possedere un cucciolo, a cui si unirono i vivaci capricci di Teddy. Di nuovo, eccoli discutere a tavola se fosse più conveniente acquistare un Crup o un Diricawl e, di nuovo, ecco la signora Lupin restare incinta per terza volta.
Pareva essere una sorta di buffa maledizione – o di un sarcastico scherzo del destino, magari – ma ogniqualvolta decidevano di allargare la famiglia con un bel gatto o con un Kneazle, ecco spuntare un altro figlio.
Così, alle soglie del 2008, i coniugi Lupin potevano ben dire di avere quattro figli, ma nessun cane.

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Capitolo 2
*** Ninna nanna ***


Note dell'Autrice – sempre discutibilmente utili:
Non abituatevi al fatto che aggiornerò sempre a distanza di... uhm, quanto? Uno, due giorni? Ecco, per l'appunto. Ho deciso di postare oggi solo perché: a) il primo capitolo era già pronto da quando ho scritto il prologo; b) non riesco a dormire e mi annoio – stupida caffeinomania; c) basta. È stato il mio dito a cliccare da solo.
Come vi avevo accennato – non l'ho fatto? Uhm, beh, non so che farci, mi spiace – in questo capitolo compaiono i prodi eredi di Remus e Tonks, di cui uno è nato con tre occhi, una con l'alluce al posto del naso e l'altra con il superpotere di lanciare raggi gamma dalle orecchie.
...nessuno di voi mi ha preso sul serio, vero? Se tu che stai leggendo mi hai preso sul serio, sappi che potresti avere qualche problema di tipo riflessivo-cognitivo. :)
No, okay. Seriamente. Questo è il primo capitolo di una long-fic che, confesso, non so esattamente dove mi porterà. Poco professionale, voi dite? Chissenefrega, vi ripeto che ho bisogno di fluffosità – e il primo che allude al fatto che presto sarà San Valentino verrà mutilato via fax, poiché la sottoscritta odia candidamente San Valentino.
Le uniche note veramente utili (ma in realtà non lo sono affatto) che devo sottolineare sono: a) la filastrocca finale, che io sappia, è un made in mia nonna, ma tradotta in italiano da un ben più volgare e barbaro dialetto; b) tutti i nomi di Creature Magiche che compaiono sono stati spudoratamente letti sulla sempre fedele Wiki; c) i personaggi e i luoghi di questa fan fiction non appartengono a me, ma a J.K. Rowling – cosa che sapete perfettamente e che... no, un attimo. Tre di questi personaggi mi appartengono eccome, invece. Oh, chissenefrega. Piantatela di leggere le mie note inutili, così la mia incurabile logorrea può lasciarvi al capitolo.
Buona lettura, baldo popolo di Efp! :)
*

La Casa Stornella

Capitolo Uno

Ninna Nanna

 

Remus non ricordava da quanto tempo non rincasasse a quella tarda ora della sera – anni, probabilmente. Quando si Smaterializzò nel cortile di Casa Stornella, il suo orologio da taschino segnava le nove e quarantacinque minuti. Non si concesse neppure il tempo di lisciare il risvolto del lungo soprabito nero che indossava: era un'abitudine che aveva sempre avuto dacché aveva superato l'Esame per la Materializzazione. Salì con urgenza i gradini di pietra e sfiorò con un polpastrello il battente a forma di volpe. Pochi istanti dopo, questa aprì pigramente un occhio e fece un grande sbadiglio.
«Bentornato, professore...» biascicò appena, con la voce gracchiante un po' impastata.
Si udì un secco rumore metallico, prima che la porta s'aprisse sull'ampio salone di ingresso.
Se l'esterno di Casa Stornella si presentava come una confortevole e tradizionale dimora inglese, l'interno era indiscutibilmente una confortevole e tradizionale dimora magica.
Mentre l'attaccapanni si piegava su se stesso per aiutarlo a sfilare il soprabito dalle spalle, Remus allungò il collo verso la porta della cucina, da cui arrivava il sordo fruscio delle stoviglie che si lavavano e delle ramazze che spazzavano il pavimento.
«Mastro Lupin, ardito e nobile signore! Indomito condottiero di mille e mille sventure!» eruppe una voce da un quadro alla sua destra. «Mi pare siate in ritardo, quest'oggi: cosa vi ha trattenuto lungo la travagliata via del ritorno? Troll? Orchi? Draghi?».
«Magari si fosse trattato di un Drago, Sir Cadogan» scherzò con tono gentile Remus. «Riunione del Consiglio Scolastico nell'Ufficio della Preside McGranitt».
Il vecchio cavaliere dipinto fece una smorfia di disgusto.
«Per la buon anima del mio Crinedoro, qui... quella strega v'ha realmente trattenuto fino a questa tarda ora?».
«Sì, a breve le intenterò sicuramente causa presso il Ministero. Avete visto mia moglie?».
«Naturale, Mastro Lupin! Naturale! I miei occhi sono occhi di falco! Le mie braccia sono braccia di orso! Il mio cuore è cuore di Dra--».
«E le mie orecchie sono davvero stanche, temo» lo prese bonariamente in giro. «Dov'è mia moglie, Sir Cadogan?».
«Ha detto di doversi ristorare nelle stanze da bagno, vista l'immane tortura che oggi s'è rivelata essere addormentare i vostri bambini. Mi sono apparsi assai troppo vivaci, sì. E la vostra più piccola, quella canaglia, ha tentato di disegnarmi un grosso paio di baffi, Mastro Lupin! Proprio qui, sotto il mio eroico naso! È tutto il giorno che se ne va in giro a fare dei danni! Oh, povera, povera la vostra dolce moglie! Una così delicata creatura costretta a inseguire un demonio per ogni dove della casa».
«Che Godric mi aiuti ad accasarla in fretta...» mormorò Remus, passandosi una mano sul viso con aria esasperata. «Vedrò di fare due chiacchiere con lei, Sir Cadogan. Credo di poterla convincere a non recarvi disturbo... o di farlo a giorni alterni, perlomeno».
Si avviò velocemente verso la larga scalinata che portava al piano superiore, fingendo di non sentire l'aulico brontolare del quadro per non essere nuovamente bloccato dalle sue folli fantasie e dai suoi sconsiderati consigli. Talvolta, si chiedeva cosa gli fosse passato per la testa per portare Sir Cadogan a casa sua. Sapeva solo che quando aveva scoperto che il poveretto era stato portato in un vecchio ripostiglio del quarto piano di Hogwarts, solo e dimenticato, aveva avvertito il dovere morale di aiutare quel quadro squilibrato. Fortuna che sua moglie fosse squilibrata quanto lui e Sir Cadogan, o quello sarebbe affondato nel fiume con tutta la sua cornice dorata – e Remus con lui per aver avanzato l'insana proposta di appenderlo nell'ingresso, probabilmente.
Sebbene fosse molto allettato dall'idea di immergersi in una vasca bollente al più presto, Remus avvertì il bisogno di controllare che tutti e quattro i suoi figli stessero effettivamente dormendo. Non si sarebbe affatto stupito se gli avesse trovati tutti nascosti sotto le coperte in una delle loro stanze, illuminati solo dalla torcia a pile che Arthur aveva loro regalato. Due mattine prima, lui e Tonks li avevano trovati addormentati sul pavimento di legno della stanza di Teddy e Alastor, ingarbugliati gli uni con le altre e con un grossissimo libro di leggende irlandesi aperto lì accanto.
Quatto quatto, si avvicinò alla cameretta delle bambine, abbassò con estrema delicatezza la maniglia d'ottone e aprì la porta di qualche centimetro. La luce s'insinuò nella stanza buia, illuminando un piedino scoperto. Remus sorrise ed entrò con cautela, avanzando in punta di piedi verso il lettino di Andromeda. Prestando attenzione ad ogni movimento, afferrò il bordo della trapunta turchese e le rimboccò amorevolmente le coperte. Andromeda emise un incomprensibile borbottio e Remus alzò il capo per guardarla in viso.
Come Alastor, Andromeda aveva ereditato i capelli chiari del padre, ma, al contrario, non possedeva niente del buffo contegno assennato del fratello. Era una bambina dall'indole calma, dallo spirito generoso e dall'innocente ingenuità: fra i quattro, era indiscutibilmente la meno capricciosa e la più avvezza alle coccole.
Era anche estremamente timida, tant'è che aveva il vizio di nascondere il volto dagli sguardi degli adulti che cercavano di conversare con lei e di nascondersi dietro alle spalle dei genitori. Sebbene Tonks cercasse di incitarla a parlare, sembrava proprio che in pubblico Andromeda non riuscisse a spiccicare più di qualche stringata formula di cortesia. E dire che in casa, di norma, chiacchierava esattamente quanto gli altri.
Ciò che più di ogni altra cosa aveva sempre destato l'interesse dei loro conoscenti era la limpida tonalità azzurra dei suoi occhi. Quelli di Tonks – quelli naturali, perlomeno – erano scuri e brillanti; quelli di Remus, invece, erano di una calda tonalità ambrata. Quando avevano scoperto che gli occhi di Andromeda sarebbero rimasti celesti, Tonks e sua madre avevano drammaticamente annunciato un ritorno in voga dei geni Black. Remus aveva avuto l'incauto ardimento di domandare loro chi, in quella famiglia di pazzi sconsiderati, avesse posseduto due occhi tanto belli e lucenti. Andromeda Tonks aveva assottigliato pericolosamente le palpebre e aveva sibilato un gelido “Narcissa”.
Remus le aveva liquidate sostenendo quanto fossero irrimediabilmente svitate, perché non c'era proprio nulla – nulla – nei suoi figli che potesse ricondurre ai Black. Quando era nata Minerva, tuttavia, aveva dovuto ricredersi.
I suoi capelli erano dritti come dei fusi, neri e lucenti – e i suoi occhi lo erano altrettanto. A differenza di Tonks, tuttavia, la cui forma conferiva al volto qualcosa di naturalmente simpatico, gli occhi di Minerva erano stretti e allungati, come quelli di un predatore ad un balzo dalla preda.
Dopo qualche mese dalla sua nascita, Andromeda si era dichiarata sconvolta dalla somiglianza che correva fra lei e la defunta Bellatrix Black. Quel paragone aveva fatto infuriare Tonks e la questione era rapidamente degenerata in una violenta discussione fra madre e figlia.
All'età di cinque anni, Minerva era più bassa delle sue coetanee di almeno una spanna. Dominique Weasley, che aveva solo pochi mesi in più di lei, la superava già dell'intera testa. Era così piccola e minuta che tutti quanti, un po' per vezzeggiarla e un po' per divertirsi, l'avevano soprannominata Minima - e pareva proprio che quell'assurdo nomignolo avesse ormai sostituito il suo nome di battesimo. Minima, d'altro canto, di piccolo e minuto aveva solo la corporatura.
Era una bambina particolarmente sveglia e curiosa, dal temperamento impetuoso, testardo e impaziente. Era nata con la lingua lunga e la mente acuta: Remus aveva capito fin da subito che crescere Minima sarebbe stata un'epica crociata. Sembrava avere una visione del mondo in bianco e nero, senza compromessi o vie di mezzo, ed era ostinatamente convinta che ad ogni battaglia persa ne conseguisse un'altra più feroce. Anche il rispetto, nella sua infantile concezione della vita, era fatto di estremi. Nonostante fosse ancora così piccola, sembrava già capace di distinguere le persone a cui concedere la propria attenzione da quelle con le quali non valeva la pena confrontarsi. A differenza dei fratelli e di tutti gli altri bambini, pareva avvertire la differenza di meriti e pregi che differenziava un adulto da un altro e, in base al suo insindacabile giudizio, si comportava di conseguenza.
Il mese prima, durante la cena, Tonks stava raccontando a Remus di aver litigato con l'Auror Dawlish per un affare di carattere burocratico. Teddy stava cercando di nascondere i fagioli in un angolo del piatto, mentre ascoltava Alastor raccontare ad Andromeda la storia – letta in chissà quale enciclopedia della loro biblioteca - di come l'usanza delle forchette fosse arrivata in Gran Bretagna. Minima, seduta accanto alla madre, aveva alzato improvvisamente la testa dalla bistecca che stava sbocconcellando e aveva domandato candidamente:
«L'Auror Dawlish è il signore altissimo e con i capelli cortissimi, mamma? È quello che quando parla tiene tutta la pancia in fuori?».
Tonks aveva interrotto la conversazione con il marito e aveva guardato la figlia con aria di puro divertimento.
«Sì, tesoro, ma non è la pancia. È il petto».
«Sì, Minima» aveva incalzato d'un tratto Teddy, sporgendosi verso la sorellina e annuendo vigorosamente. «Si chiama “petto”, quello dell'Auror Dawlish. Ha un sacco di muscoli, lui! Deve essere fortissimo!».
«Perché?» aveva protestato Andromeda. «Papà non ha i muscoli, ma è fortissimo anche lui. Vero, papà, che tu sei fortissimo?».
«Assolutamente sì» aveva assicurato Remus. «E bada, Ted, che i muscoli non sono sempre indice di forza».
«Come Re Davide e il gigante Golia nei Libri delle Cronache» si era intromesso Alastor.
«Precisamente».
«Ma con te non vale. A te non servono i muscoli, papà. Sei un professore» aveva concluso con ovvietà Teddy. «I professori non hanno mica i muscoli come gli Auror».
Tonks stava per aprire la bocca, quando Minima aveva sentenziato con estrema semplicità:
«L'Auror Dawlish è un idiota».
L'avevano fissata tutti per un lungo istante di silenzio. Era stata Tonks la prima a parlare e la sua voce aveva una nota minacciosa.
«Minima, se ti sento ripetere la parola “idiota”, ti annodo la lingua al palato per i prossimi sei mesi».
«Ma lo è, mamma» aveva ripetuto lei con decisione. «Se ne gira con la pancia in fuori e il naso in su, e dice di essere una persona forte anche quando non serve che lo dica. Quando l'abbiamo visto a Diagon Alley, l'altra volta, aveva attaccato al suo mantello rosso un distintivo uguale a quello che tu porti in tasca. Se lo puliva sempre con la manica e quando girava si vedeva che voleva che tutti lo guardavamo. Io dico che è un idiota».
L'irritazione di Tonks per aver sentito Minima pronunciare la parola “idiota” si era presto trasformata in sbigottita ilarità. La vanità e l'estenuante contegno di Dawlish non era certo un segreto per la comunità magica, ma scoprire che Minima era stata in grado di trarne una descrizione così accurata aveva un che di preoccupantemente comico.
«Ciao, papà».
Remus trasalì impercettibilmente e si voltò verso il letto della sua bambina più piccola.
«Minima» le disse in un sussurro, avvicinandosi con estrema delicatezza e sedendosi sul bordo. «Perché sei ancora sveglia?».
«Non lo so».
«Non lo sai?».
«Non lo so» ripeté con voce convinta Minima. «A te succede di non sapere le cose, papà?».
Remus strinse fra loro le labbra e si massaggiò stancamente l'attaccatura fra le sopracciglia e il naso. Fra le incontrollabili particolarità di Minima, la peggiore era sicuramente la sua capacità di fare sempre domande che finivano per mettere gli adulti in imbarazzante difficoltà.
«Sì, tesoro» le rispose dopo un attimo di riflessione. «È normale non sapere tutto quanto. Ciò che non è normale è non sapere per quale motivo si è svegli... soprattutto quando chi dovrebbe dormire ha già superato da un bel pezzo l'ora della ritirata. Dico bene, signorina?».
«Sì, lo dice pure l'orologio. L'ho sentito fare due cucù, prima».
«Per l'appunto. Povero orologio, mai nessuno in questa casa che gli dia ascolto» scherzò piano Remus, cercando nella penombra il bordo della trapunta per rimboccare le coperte per la seconda volta nel giro di due minuti.
«Dovrebbe arrabbiarsi» aggiunse Minima. «Se ero io, l'orologio, mi arrabbiavo».
«Oh, questo lo so perfettamente» ridacchiò Remus, insaccandola fino al mento e controllando che fosse ben coperta. «A proposito di cose che si arrabbiano... vuoi provare a indovinare chi era molto arrabbiato, quando sono rientrato questa sera?».
Lei scosse vigorosamente il capo.
«No, papà. Non voglio indovinare».
«Beh, temo che dovrò ugualmente dirtelo. Posso sapere cos'hai combinato, oggi, a quel poveretto di Sir Cadogan?».
«Niente» affermò con voce innocente.
«Minima...» la avvisò Remus con un mezzo sorriso.
«Giuro solennemente, papà».
Diviso dal desiderio di ridere e quello di compiere i suoi doveri di genitore, Remus fece un sospiro stremato.
«Sir Cadogan non è dello stesso parere».
«Forse dobbiamo disegnarci un paio di occhiali».
A questa affermazione, Remus dovette appellare tutta la propria volontà per non scoppiare in una fragorosa risata.
«Forse qualcuno dovrebbe smetterla di usarlo come un album da disegno, non ti pare? Cosa faresti se domani mattina ti svegliassi con tutta la faccia scarabocchiata?».
Minima sembrò soppesare mentalmente la questione.
«Butto Teddy nel fiume, perché sicuramente Alastor e Dromeda non sono stati, a scarabocchiarmi la faccia».
«Ne deduco che in questa sporca faccenda c'entri anche Ted. Com'è possibile che voi due andiate d'accordo solo quando si tratta di fare dei pasticci?» mormorò piano Remus, prima di alzarsi dal letto. «Si è fatto davvero tardi, Minima. Se la mamma dovesse scoprire che non ti ho obbligato immediatamente a dormire, mi Trasfigurerebbe in un calzino».
Lei ridacchiò fra le coperte, mentre Remus le baciava appena la fronte liscia. Avviandosi verso la porta, gettò uno sguardo ad Andromeda. Per sua fortuna, era ancora profondamente addormentata. Si fermò sull'uscio e si voltò verso Minima.
«Giuri di metterti subito a dormire?» le domandò con un sorriso affettuoso.
«Solennemente, papà».

*

Nell'istante in cui apriva la porta della stanza dei due figli più grandi, Remus sapeva già che li avrebbe trovati svegli. Aveva appena infilato la testa nella stanza quando aveva sentito un sordo tonfo provenire dal letto più vicino alla finestra. Fece un sospiro rassegnato e accese le luci con un movimento pigro della bacchetta.
Alastor giaceva di schiena ai piedi del proprio letto, con le gambe ingarbugliate nelle lenzuola e gli occhiali storti sul naso. Quando ebbe riconosciuto la figura del padre, si mordicchiò nervosamente il labbro inferiore e gli rivolse un sorriso innocente.
Remus inarcò un sopracciglio e si voltò verso la trapunta sotto la quale si era nascosto Teddy. A giudicare dal ritmato tremolio, stava ridendo con il viso sepolto nel cuscino. Si avvicinò e gli tolse la coperta tutto d'un colpo. Teddy si girò rapidamente sulla schiena e scoppiò in una risata cristallina.
«Sei cascato da solo!» rise, mentre i capelli si tingevano del colore dei mirtilli. «Sei davvero cascato da solo!».
Alastor fece forza sulle piccole mani, si mise a sedere e si grattò timidamente una guancia, arrossendo appena. Remus lo osservò con espressione interrogativa.
«Non l'ho fatto apposta».
Se c'era qualcosa di cui l'intera comunità magica era totalmente d'accordo, era che il giovane Alastor Lupin era indiscutibilmente figlio di suo padre – e non solo per l'incredibile somiglianza fisica. Aveva compiuto otto anni lo scorso settembre e ne aveva già trascorsi cinque con la testa immersa nei libri. Sembrava avere una particolare predisposizione allo studio ed era dotato di una memoria sconcertante. All'età di sei anni, Remus lo aveva trovato seduto davanti al caminetto della biblioteca, mentre fissava con aria perplessa un vecchio poema gnomico scritto in Rune Antiche. Appoggiato acconto ai suoi piedi, Remus aveva riconosciuto il suo vecchio Compendio per la Lettura Semplificate delle Rune.
Remus si era avvicinato con un mezzo sorriso divertito, si era accomodato sulla proprio poltrona e aveva intrecciato fra loro le dita, in attesa. Fu solo in quel momento che Alastor aveva sollevato il viso dal pesante libro e aveva detto:
«C'è un passaggio che non capisco, papà».
Remus si era trattenuto con forza dal ridere, ma si era limitato a spronarlo silenziosamente con un movimento della mano. Com'era possibile che un bambino di sei anni, per quanto sveglio, potesse capire la sottile arte delle Rune Antiche?
«“Gefinn Óð ni, sjalfur sjalfum mér, à þeim meiði er manngi veit”» aveva recitato a gran voce Alastor, muovendo gli occhi davanti a sé come se stesse leggendo le parole nell'aria. «“Vlð hlefi mik sæ ldu né við hornigi. Ný sta ek niðr, nam ek upp rùnar, æpandi nam, fell ek aftr þaðan”».
Remus era rimasto in silenzio per diversi istanti, sconcertato. Aveva letto talmente tante volte quel poema gnomico da conoscerlo a memoria e sapeva che il figlio, contro ogni più logico giudizio, aveva appena ripetuto alla perfezione l'intera strofa della morte di Odino. Aveva sbattuto un paio di volte le palpebre, cercando una spiegazione a quell'inverosimile comportamento.
«Alastor» gli aveva detto con voce calma. «Come sei riuscito a impararlo a memoria?».
Il bambino lo aveva guardato con aria confusa e aveva alzato le spalle.
«L'ho letto, papà».
«Quante volte?».
«Una sola, prima che entrassi tu».
Quando lo aveva raccontato a Tonks, lei si era particolarmente agitata e aveva insistito per portare Alastor al San Mungo il giorno seguente. Remus non era molto entusiasta all'idea – aveva sempre detestato qualunque genere di ospedale o di infermeria – ed era oltremodo convinto che la reazione della moglie fosse assolutamente esagerata. Alla fine, tuttavia, aveva acconsentito.
Il Medimago specializzato in Magia Infantile, Eliphas Sheehan, aveva ascoltato il resoconto di Remus con grande interesse, lisciandosi pensieroso i lunghi baffi bianchi e annuendo con solenni grugniti. Aveva sottoposto Alastor a qualche quesito di logica, al quale il bambino aveva risposto con vivace acume. Poi, gli aveva fatto leggere una filastrocca lunga una ventina di righe e gli aveva chiesto se fosse in grado di ripetergliela. Alastor si era comportato esattamente come nella biblioteca di Casa Stornella: i suoi occhi sembravano scorrere lungo parole invisibili tracciate a mezz'aria.
Il responso del Mediamago Sheenan fu che Alastor era dotato di una sottile memoria eidetica che gli permetteva di visualizzare nella mente le immagini viste con limpidissima precisione. Aveva aggiunto che molti bambini possedevano quel particolare tipo di memoria e che, di norma, tendevano a perderla con il passare degli anni. Tuttavia, erano ormai trascorsi due anni, da allora, e la memoria di Alastor pareva incrementarsi anziché diminuire.
«Sei arrivato tardissimo, papà» affermò Teddy, gettandosi di pancia sul materasso e appoggiando il mento alle mani. «Dov'eri?».
Remus si avvicinò al letto di Teddy, lo afferrò per una caviglia, lo ribaltò sulla schiena e lo infilò di forza sotto le coperte.
«A Hogwarts per una riunione con il Consiglio. Quei vecchi brontoloni non volevano più tornarsene a casa».
«Dovevate liberare i ragni, allora» sentenziò lui con piglio deciso.
«Ragni? Quali ragni?».
«Non sono ragni, Teddy» lo corresse piano Alastor, rigirandosi nelle coperte. «Sono Acromantule».
«Beh, fa lo stesso. Hanno tante zampe, tanti occhi e tante tenaglie. Quei vecchi che non lasciavano tornare papà a casa sarebbero scappati come dei Fuochi Forsennati!».
«Non si può. Il Ministero della Magia ha inserito le Acromantule fra le Creature Ammazzamaghi».
«E allora devono liberarle anche con quelli del Ministero» ribatté con decisione Teddy. «A me piacciono».
Remus alzò gli occhi al cielo. Se c'era un'abitudine del suo primogenito che lo preoccupava davvero, quella era la sfrenata passione per qualunque cosa potesse essere definita anche solo remotamente imprudente. Non credeva che un bambino di nove anni potesse dimostrare un simile sprezzo del pericolo – lui, perlomeno, non lo aveva mai avuto. Eppure, Teddy era sempre pronto a tuffarsi da improbabili trampolini, a saltare rovinosi ostacoli, a familiarizzare con animali selvatici potenzialmente letali e a proporre ai fratelli più piccoli qualsivoglia genere di gioco rischioso.
L'anno prima, incurante delle più ovvie regole di sopravvivenza, aveva legato il capo di una corda al ramo di un grosso faggio che si ergeva dietro Casa Stornella. Poi, tenendo saldamente stretto l'altro capo, si era arrampicato sulla grondaia, aveva raggiunto il tetto e si era lanciato, convinto che avrebbe dondolato. Invece, si era rotto il polso destro e la gamba sinistra.
Il sesto senso di Remus gli diceva che il Cappello Parlante lo avrebbe Smistato a Grifondoro. Non poteva che essere così: era troppo sconsiderato e irrequieto per una qualsiasi delle altre Case. Non che per Remus fosse motivo di vergogna, naturalmente: era il Direttore di Grifondoro dacché Minerva McGranitt era diventata Preside, ma sospettava che la spontanea irruenza di Ted dovesse ancora raggiungere il culmine. Per allora, Remus prevedeva guai seri.
«Posso tenere un cucciolo di Acromantula, papà?» domandò con innocenza Teddy.
«Non abbiamo già avuto una conversazione simile la settimana scorsa, noi due?» ribatté Remus, costringendolo a infilarsi sotto le coperte.
Alzò la mano destra verso Alastor, schioccò con eloquenza le dita e indicò con decisione il letto. Il ragazzino si sfilò gli occhiali dal naso, li ripiegò con cura, li mise su un grosso libro di fiabe appoggiato al comodino e si gettò addosso le lenzuola.
«Avevamo parlato di un Camuflone, ma hai detto che è troppo grosso e perde un sacco di pelo» continuò Teddy. «Però, papà, lo sai che i draghi peruviani non superano mai i cinque metri di lunghezza?».
«La nostra porta d'ingresso non è abbastanza grande».
«E un Fiammagranchio? Sono piccolissimi, quelli!».
«Sputano fiamme dal posteriore, il che li rende veramente poco signorili».
Teddy soffocò una risatina alla parola “posteriore” e Remus sfruttò la sua distrazione per coprirlo fino al naso e avvicinarsi al letto di Alastor.
«Un Runespoor? Ha tre teste, papà, lo sapevi?» riprese imperterrito Teddy.
«Sì, e nessuna di loro varcherà la soglia di questa casa finché io sarò in vita».
«Un Tebo?».
«Diventerebbe invisibile e qualcuno finirebbe per inciamparvi sopra».
«Allora uno Yeti!».
Mentre rimboccava le coperte di Alastor, Remus si finse pensieroso.
«Quello è perfetto».
«Davvero!?» esclamarono in coro i due bambini.
«Ma, papà, gli Yeti sono creature native del Tibet» recitò Alastor con il tono tranquillo di chi sta leggendo a voce alta. «Possono raggiungere l'altezza massima di quattro metri e mezzo e divorano qualunque creatura incontrino sul loro cammino. La loro voracità è risaputa e temuta, tant'è che nessun Mago o Strega si è mai avvicinato abbastanza per verificare se lo Yeti sia imparentato con i Troll».
Teddy annuì con solenne enfasi.
«Già. Non è fantastico? Avrò uno Yeti tutto mio!».
«Se sarò fortunato, potrebbe mangiarvi tutti» commentò con estrema semplicità Remus. «Così, finalmente, io e vostra madre avremmo un attimo di serenità».
Mentre Teddy iniziava a protestare e Alastor ridacchiava fra le mani, Remus si avvicinò alla porta e spense le luci. Sull'uscio, si voltò per rivolgere ai figli un ultimo sguardo severo.
«Papà?» lo chiamò improvvisamente la voce di Teddy.
«No, Teddy. Non ho realmente intenzione di comprarti uno Yeti».
«Sì, lo avevo capito... volevo chiederti se domani possiamo andare a fare un giro a Diagon Alley».
«Oh, sì!» esclamò la voce entusiasta di Alastor. «Possiamo, papà?».
«Vedremo» disse Remus con un mezzo sorriso. «Prima, voglio sapere da vostra madre quante ne avete combinate, oggi».
«Siamo stati bravissimi, papà» rimbeccò Teddy. «Bravissimissimi».
«Come un branco di Chimere impazzite, di sicuro» concluse con divertito Remus. «Dormite, adesso. È tardissimo. Sogni di burro, sogni di miele...».
«...hanno già spento le candele».
«Sogni di latte, sogni di panna...».
«...chiudi gli occhi e fai la nanna».
Remus fece un movimento compiaciuto del capo.
«Buona notte» mormorò, richiudendo piano la porta della camera.


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Capitolo 3
*** Acqua, baci e sapone ***


Note dell'Autrice – sempre discutibilmente utili:
Prima di essere accusata di fare satira gratuita sulla saga di Twilight, vorrei precisare che sì, in questo capitolo c'è uno scambio di battute palesemente riferito al suddetto libro e sì, trovo che sia molto divertente da prendere in giro. Niente di cattivo, niente di volgare e niente di personale; non è il caso di dare il via ad un massacro di massa – soprattutto se il target in questione è la sottoscritta.
Buona lettura, gente! (:
*

La Casa Stornella
Capitolo Due
Acqua, baci e sapone




Fra tutte le assurde previsioni di vita coniugale che aveva sopportato dacché si era sposato, undici anni prima, il più irragionevole rimaneva quella secondo la quale sua moglie avrebbe presto perduto ogni caratteristica attraente e si sarebbe rapidamente trasformata – testuali parole – da una graziosa fata dei boschi a una Banshee delle brughiere.
Remus era fiero di rispondere a tutte quelle insinuazioni dicendo che non soltanto riteneva sua moglie bella quanto il primo giorno in cui l'aveva incontrata, ma che, essendo diventata la madre dei propri figli, la sua opinione su di lei era andata osannandosi nel tempo.
E come avrebbe potuto non essere così, dopotutto? Come avrebbe potuto smettere di amarla? Se lei non fosse entrata nella sua vita, lui sarebbe probabilmente morto in qualche taverna di periferia del mondo magico, riverso su un pavimento lercio e bagnato, con la barba incolta e l'alito impregnato di Whisky Incendiario contraffatto.
Lei storceva ancora il naso nauseata, quando le faceva notare la naturalezza con la quale si sarebbe potuto compiere quel destino parallelo.
«Perché ti è così difficile crederlo?» le aveva domandato una volta, mentre lui cercava di convincerla che, senza di lei, sarebbe perfino potuto morire in una rissa fra Troll in qualche angolo sperduto della Gran Bretagna.
Lei lo aveva fissato per un lunghissimo istante di silenzio, prima che l'angolo sinistro delle labbra si arricciasse in un vago sogghigno.
«Beh, perdonami se non ho ancora iniziato a trovare allettante l'idea della vedovanza».
Nonostante gli anni e nonostante i loro quattro figli, lei era sempre la stessa. I suoi occhi erano ancora brillanti e spavaldi e, sebbene avesse deciso di togliere uno di quei buffi anellini di ferro che portava al capo del sopracciglio sinistro, le sue orecchie contavano ancora almeno una decina di orecchini. Preferiva ancora sfoggiare un'acconciatura corta, ma sembrava aver rivalutato l'impatto del rosa sulla propria immagine. Sebbene continuasse a cambiare la tonalità dei propri capelli con la medesima frequenza di prima, aveva trovato nel cremisi un degno sostituto all'accecante colore dei suoi primi vent'anni. Perfino Remus aveva dovuto ammettere che, per quanto la ritenesse strepitosa con i capelli rosa, quella buffa sfumatura fra carminio, cremisi e lampone – mai una volta che i suoi colori fossero facilmente riconoscibili – era indiscutibilmente inimitabile.
Anche il suo guardaroba, nel corso della maternità, aveva subito qualche restauro. Accanto alle sue T-shirt delle Sorelle Stravagarie – poiché se c'era qualcosa di immutabile, quella era la sua passione per la loro musica – erano andati via via comparendo delle belle vesti da strega, qualche completo classico per le riunioni al Quartier Generale degli Auror e, con immane stupore di Remus, qualche abito da sera di raso che compariva per le occasioni ufficiali e spariva non appena mettevano a letto i bambini.
Aveva ancora quell'umorismo un po' scanzonato e un po' volgare che l'aveva fatto innamorare di lei, la sua risata era ancora acuta e cristallina ed era ancora la stessa goffa e disordinata strega che inciampava nel corridoio e scendeva a colazione con i calzini spaiati.
Arrivato alla porta del bagno, Remus bussò delicatamente tre volte. Attese qualche secondo, ma non sentì alcun rumore provenire dall'interno. Fece un secondo tentativo senza migliori risultati e tentò di abbassare la maniglia. La porta non era aperta che di pochi centimetri, quando le sue orecchie furono raggiunte dalle assordanti percussioni delle Sorelle Stravagarie. Entrò nella stanza e si richiuse velocemente la porta alle spalle, pregando in cuor suo che i bambini non si fossero svegliati.
Quando l'aroma dolciastro dei sali da bagno gli arrivò sotto il naso, fece un grande respiro sereno. Erano davvero mesi che non arrivava a casa così stanco.
Le stanze da bagno di Casa Stornella – come la maggior parte degli altri locali – erano, per indiscutibile volere di Tonks, soleggiate e spaziose. La donna non aveva voluto sentire ragioni: aveva trascorso la prima parte della sua vita d'adulta in uno scomodo e umido monolocale di Gerrart Street e non aveva la minima intenzione di trascorrerne il resto in una scatola con il tetto.
Se non fosse stato per il Ministero della Magia, tuttavia, non avrebbero mai potuto permettersi un'abitazione come Casa Stornella.
Non erano trascorsi che cinque mesi da quando Harry aveva sconfitto Lord Voldemort e ognuno di loro stava ancora cercando di riprendere in mano le redini delle proprie vite. Non era affatto un periodo facile e la pace appena conquistata non aveva ancora il sapore della vittoria.
La perdita di Fred aveva stravolto l'intero clan Weasley e i loro sorrisi e i loro abbracci avevano l'affettato slancio di chi finge di non attraversare alcun lutto. Si stringevano l'uno con l'altro, trascorrevano ogni giorno insieme e, per quanto tutti si sentissero impotenti dinanzi a quell'ingiustizia, si doveva solo aspettare che il tempo raschiasse il dolore per permettere loro di vivere un'altra volta.
Sebbene la nascita del nipotino le avesse dato un motivo per reagire, poi, Andromeda Tonks non riusciva ancora a superare la perdita del marito – e, sicuramente, non l'avrebbe mai superata. Per quanto gli sforzi di Tonks di trattenere le lacrime davanti alla madre fossero encomiabili, anche il suo animo era ancora appesantito dalla gravità di tutte le perdite che avevano subito. A questo, si era poi aggiunto il rinnovato rancore verso i Malfoy che, alle soglie del loro processo, erano riusciti per la seconda volta ad evitare Azkaban. Remus aveva tentato inutilmente di placare la furia di Andromeda, il giorno in cui la notizia era stata pubblicata sulla Gazzetta del Profeta, ma la donna sembrava fuori di sé.
«Perché sono liberi!? Perché!?» strillava rabbiosa, muovendosi per il soggiorno come una feroce belva rinchiusa in gabba. «Questa è giustizia!? È questa!? È questa!?».
Remus aveva avuto bisogno dell'intero pomeriggio e di tutta la sua persuasione per calmarla. Non che ritenesse giusto il verdetto finale del Wizengamot, tutt'altro: il fatto che Lucius Malfoy si fosse salvato da Azkaban era un oltraggio per qualunque mago o strega possedesse un minimo di onestà. Tuttavia, sapeva anche che Draco Malfoy, in fondo, non era nient'altro che un ragazzino spaventato gettato fra le fauci di una guerra che non gli era mai appartenuta e la gelida Narcissa, nonostante tutto, era semplicemente una madre devota più di ogni altra cosa al suo unico figlio. Remus sperava che queste, perlomeno, fossero state le valutazioni che avevano tenuto i Malfoy lontano da Azkaban, piuttosto che un immorale giro di mazzette fra le mani dell'appena restaurato Ministero della Magia.
In questo clima di totale confusione fra ciò che è giusto e ciò che è sbagliato, fra passato e futuro e fra lacrime e sorrisi, Remus e Tonks si erano lasciati convincere da Andromeda a tornare nel vecchio monolocale di Gerrert Street. Entrambi sapevano perfettamente quanto Andromeda detestasse quell'appartamento di periferia e quanto avesse bisogno di compagnia, ma sapevano anche che era una donna tenace e orgogliosa e non avrebbe mai impedito a Tonks di organizzare le fondamenta di una famiglia che, in fin dei conti, era nata così in fretta da non aver lasciato loro nemmeno il tempo per esserne pronti.
Ed era assolutamente vero, a conti fatti. Teddy era nato nel pieno della guerra e i problemi sul dove avrebbe dormito o sul come lo avrebbero cresciuto erano irrilevanti, dinanzi alla più temibile possibilità che venissero tutti sterminati dai Mangiamorte. Ora, invece, tutti quei problemi erano tornati e Remus e Tonks, improvvisamente, si erano resi conti di non avere la più pallida idea di cosa fare.
L'appartamento in Gerrert Street era troppo piccolo e malmesso per un bambino dall'esuberanza di Teddy, ma non avevano ancora la possibilità di cercare una sistemazione più adatta. Con il Ministero della Magia in continuo ripristino, la maggior parte degli stipendi erano diminuiti, così i Galeoni scarseggiavano un po' in tutte le tasche magiche. Remus, poi, che dopo la caduta di Lord Voldemort aveva promesso a se stesso che non avrebbe mai più sostenuto un solo duello magico, trascorreva gran parte delle giornate nel gruppo di volontari che si era offerto di sistemare i gravissimi danni a Hogwarts. Nonostante la professoressa McGranitt, nominata recentemente Preside senza alcuna obiezione da parte del Consiglio Scolastico, avesse già reclamato Remus come nuovo insegnante di Difesa Contro le Arti Oscure – una cattedra non più maledetta, fortunatamente – le alte mura, i pennacchi, le merlature e le colonne erano ancora distrutte. L'intera ala ovest, inoltre, era da ricostruire completamente, e sarebbero serviti diversi mesi prima che la scuola fosse nuovamente agibile.
Mancavano poche settimane al Natale del 1998, quando il Ministero aveva spedito loro quel gufo.
Era una fredda domenica relativamente tranquilla e Remus e Tonks erano stati svegliati dagli strilli scocciati di Teddy. Tonks aveva sferrato al marito un violento calcio nel fianco, ricordandogli chi, la mattina prima, avesse abbandonato le coperte per preparare loro la colazione. Remus si era alzato con un grande sbadiglio, aveva sollevato Teddy dal lettino e si era avviato verso la cucina, strascicando ogni passo sul pavimento. Si era accorto del gufo imperiale che stava dritto e impettito davanti alla finestra solo dopo aver controllato che Teddy non sarebbe riuscito a scappare dal seggiolone – un'abitudine fin troppo pericolosa che sperava avrebbe perduto crescendo.
Non aveva riconosciuto immediatamente il gufo, ma lo stemma di cera impresso sulla pergamena era inconfondibile. La lettera era intestata soltanto a lui e Remus aveva aggrottato le sopracciglia, pensieroso. Se fosse stata intestata a Tonks, non si sarebbe affatto preoccupato: qualche collaboratore dei Mangiamorte era ancora in fuga e non era affatto insolito che il Ministero contattasse personalmente gli Auror. Quel “Remus Lupin” l'aveva lasciato perplesso, così si era affrettato a chiamare Tonks, pregando in cuor suo che non ci fossero altri problemi ad attenderli.
Quando Tonks l'aveva raggiunto, con gli occhi ancora socchiusi e una smorfia infastidita sulla faccia, si era limitata a scuotere interrogativa il capo e a preparare il latte per Teddy che, poverino, continuava a dimenarsi in cerca di attenzioni.
«È una lettera del Ministero» aveva detto Remus con voce piatta.
«È domenica. Rispondigli che tua moglie di domenica diventa una pazza isterica e che augura loro di essere investiti dal Nottetempo».
Remus si era limitato a fare un lieve sospiro rassegnato.
«La apro?».
«No, tienila chiusa. Credo che i pannolini di tuo figlio siano finiti».
«D'accordo. La apro».
«Sei matto? È una lettera del Ministero. Potrebbe perfino essere un invito alla prossima stagione di caccia al licantropo».
«Non ho mai partecipato alla caccia al licantropo» si era finto interessato Remus, mentre apriva con cauta precisione la busta. «Potrebbe essere divertente».
Mentre Tonks prendeva in braccio Teddy e controllava che bevesse la giusta dose di latte dal biberon, Remus aveva iniziato a leggere mentalmente. All'inizio, non era riuscito a recepire appieno lo straordinario contenuto della lettera.
«Non sono sorda, Remus. Puoi evitare di parlare così forte» aveva detto lei con pesante ironia.
Remus le aveva rivolto uno sguardo sconvolto che le aveva gelato il sorriso sulle labbra.
«Che diavolo è successo...?» gli aveva chiesto in un sibilo.
«Mi... mi vogliono... mi...».
«Io li ammazzo, quei bastardi. Li ammazzo tutti quanti, se solo provano a--».
«No. Loro non... ecco, la situazione è... è... ci danno dei soldi».
Tonks si era bloccata a metà di un'imprecazione particolarmente volgare e lo aveva fissato in esterrefatto silenzio per qualche momento. Confusa, aveva allontanato inconsciamente il biberon dalla bocca di Teddy, che aveva iniziato a lamentarsi con ripetuti strilli.
«...cosa?».
«Ci stanno offrendo dei soldi» aveva ripetuto Remus con enfasi, passandosi sconcertato una mano fra i capelli. «E, per la santa spada di Godric Grifondoro, sono un mucchio di soldi!».
«Mi prendi in giro».
Remus aveva scosso violentemente il capo, mentre sul viso gli compariva un sorriso stordito.
«Affatto. “Vi informiamo che l'Ufficio Regolazione e Controllo delle Creature Magiche, a seguito di recenti rettificazioni del passato operato, ha ratificato un indennizzo verso tutti i registrati presso la Divisione Animali, Esseri e Spiriti. Comprendiamo che tale provvedimento non ha il potere di coprire le scorrette manovre mosse verso di Voi negli anni trascorsi, ma speriamo che possiate essere in grado di farne buon uso”» aveva letto Remus tutto d'un fiato. «Merlino, Ninfadora... guarda».
Quando Tonks aveva visto la cifra, era sbiancata. Aveva affermato che quel numero aveva più zeri dei fan delle Sorelle Stravagarie presenti all'ultimo concerto a Liverpool ed era scoppiata in una risata incontrollata. Ad entrambi erano servite diverse ore, prima di rendersi conto di cosa questo significasse per loro.
«Possiamo comprarci una casa vera, Remus» aveva sentenziato quella notte Tonks, in preda all'euforia. «Per le sottogonne di Tosca, possiamo comprarci una casa! E un cane, magari. Che dici? Compriamo un cane?».
Remus l'aveva guardata con aria sognante e si era avvicinato per rubarle un bacio a fior di labbra.
«Certo. Compriamo un cane».
*

Tonks era immersa nella vasca da bagno fumante fino al seno, con le braccia distese sui bordi di ceramica e il capo appoggiato all'indietro. Teneva gli occhi chiusi, mentre le labbra piene si muovevano silenziose seguendo le parole di Can you dance like an Hippogriff. Cercando di sopravvivere al frastuono della musica che usciva dalla radio, Remus la fissò con un mezzo sorriso; era indiscutibilmente la donna più attraente che avesse mai visto.
Sollevò la bacchetta e la mosse svogliatamente a mezz'aria: la musica si interruppe di colpo. L'unico movimento di Tonks fu un sogghigno appena accennato.
«Hai appena interrotto una delle più belle canzoni della discografia delle Sorelle Stravagarie, Remus» disse con voce grave, senza aprire gli occhi. «Pentiti dinanzi a cotale peccato o verrai scaraventato nella bolgia dei profani della musica e sarai costretto ad ascoltare Celestina Warbeck per il resto dell'eternità».
«Poco male» rispose indifferente lui, iniziando a sbottonare i bottoni dorati del proprio panciotto. «Credo di aver appena perso la mia sensibilità uditiva».
«Scocciatore» sentenziò lei. Dischiuse le palpebre e gli rivolse uno sguardo serio. «Come mai sei arrivato così tardi?».
«Ho seguito un Bianconiglio che non conosceva la strada e ci siamo perduti lungo la via del ritorno».
Tonks emise un gemito divertito.
«Lo dicevano tutti che avrei avuto un pessimo ascendente su di te».
Dopo aver ripiegato con cura il panciotto e averlo riposto nella ceste degli abiti sporchi, Remus disfò il nodo della cravatta, la arrotolò con altrettanta precisione e iniziò a sbottonare la camicia. Tonks lo osservava con uno sguardo a metà fra l'esasperato e l'affascinato.
«Non credere che ti lascerò invadere il mio spazio vitale» scherzò, indicando con decisione la vasca da bagno. «I tuoi figli mi hanno distrutto, oggi».
«Siamo sposati da undici anni e devo ancora capire per quale motivo siano “i miei figli” solo quando c'è qualcosa da rimproverare loro».
«Io sono sopravvissuta all'immane fatica della gravidanza e del parto, Remus, quindi è a te che spettano le colpe del loro pestifero corredo genetico».
«La trovo una conclusione scientificamente infondata» ribatté lui, mentre sfilava la cintura. «E pure un poco sessista, se posso permettermi».
«Sessista? Io?» ripeté con drammaticità lei. «Mi auguro tu stia scherzando, uomo. E ora levati dalla mia vista e fila in cucina a farmi un panino».
Lui scoppiò a ridere, la liquidò con un gesto veloce della mano, terminò di svestirsi e si immerse nell'altro lato della vasca da bagno.
«Seriamente, Remus» disse Tonks non appena si fu seduto. «Che accidenti volevano quei bacchettoni del Consiglio per rapirti fino a quest'ora?».
Con un leggero mormorio, Remus appoggiò il capo al bordo e si passò stancamente una mano sul viso.
«Francamente, mia cara, non ne ho la più pallida idea. Ho smesso di ascoltarli dopo le prime due ore di riunione. Credo di aver sentito le parole “parco”, “acqua” e “lavori” diverse volte, quindi suppongo sia possibile che vogliano costruire una piscina nei giardini di Hogwarts».
Tonks rise.
«Avrebbe un'utilità indiscutibile» continuò Remus con enfasi. «Pensa: mi basterebbe aprire la finestra della mia aula per affogare gli studenti che mi pongono delle domande troppo ridicole. Sai cosa mi ha domandato, oggi, Crispin Crockford?».
«Il figlio di Cyril Crockford dell'Ufficio per i Giochi e gli Sport Magici?».
«Proprio lui. Mi ha chiesto se è vero che i vampiri luccicano alla luce del sole» spiegò con tono tetro, scrutando con espressione penetrante la moglie. «“Luccicare al sole”, tesoro. Ti rendi conto? Come gli è potuta venire in mente un'idea tanto balorda?».
«Mai dire mai, Remus» ridacchiò lei. «Alla prossima lezione, potresti scoprire che i licantropi diventano più pelosi se i loro capelli sono lunghi».
Remus soffocò una risata.
«Che la buonanima di Mago Merlino mi aiuti».
Tonks ritrasse le gambe, si arpionò con forza al bordo della vasca e fece per stringersi a lui, ma la mano sinistra scivolò sulla ceramica bagnata e avrebbe probabilmente sbattuto la testa all'indietro, se Remus non l'avesse afferrata al volo.
«Dovrebbe esserci un salvagente nello scantinato» la prese in giro, inarcando un sopracciglio.
Lei lo inondò nuovamente di schizzi. Mentre lui alzava una mano per asciugare un poco il volto, Tonks si sporse verso di lui e gli baciò la punta del naso.
«Potresti farti crescere un altro po' i capelli» commentò con serietà. «I bambini si divertirebbero un sacco a farti le treccine durante i pleniluni».
«Vorrei aspettare almeno i loro quindici anni, prima di veder svanire il rispetto per la paternità che rappresento» ribatté Remus, sfiorandole con i polpastrelli le spalle bagnate e avvicinandosi alle sue labbra.
Dopo undici anniversari e quattro figli, i baci di Remus erano ancora come lui: controllati, gentili e oltremodo galanti.
Sapere che era realmente accanto a lei era una sensazione a cui Tonks non avrebbe mai rinunciato. Nemmeno volendo, si diceva, ne sarebbe stata capace: lui anticipava i suoi pensieri, prevedeva le sue mosse e conosceva ogni suo timore, ogni suo segreto e ogni suo desiderio. Non si erano mai posti alcun limite – qualcosa che entrambi definivano un'assurdità, oltretutto – e continuavano a parlare per ore, a confrontarsi, a discutere e ad essere vivi e in continua evoluzione.
Tonks non poteva immaginare di trascorrere il resto dei propri giorni senza di lui – proprio lei, che aveva sempre preferito una radiocronaca di Quidditch alle frasi romantiche dei cioccolatini!
«Teddy vorrebbe andare a Diagon Alley, domani» la informò con tono indifferente lui, mentre tracciava una scia di baci lungo la linea del suo collo.
«Mmh...» mugugnò Tonks, gettando il capo indietro e passando le dita bagnate fra i suoi capelli lunghi. «Credo che abbia finito la scorta personale di Fuochi Forsennati».
«Rimandiamo a Natale, che ne pensi? Sono anni che in questa casa non trascorre una sola settimana senza esplosioni di Detonazioni Deluxe».
«Non è vero» lo corresse sarcastica Tonks, carezzandogli la mandibola. «Il mese scorso ha usato solo Spari Standard e qualche Detonatore Abbindolante».
Remus si allontanò di qualche centimetro da lei e le rivolse un'occhiata pensierosa.
«Mi chiedo se George e Ron siano a conoscenza dei vasti problemi educativi che stanno generando in tutte le famiglie magiche della Gran Bretagna».
«Ecco ciò che accade quando una strega decide di sposare un professore» ridacchiò lei contro la sua spalla destra. «I suoi figli non saranno mai beneducati come la comunità magica vorrebbe. Senza contare che dovrà pure aspettare che emerga dal Ghirigoro per l'intera domenica pomeriggio...».
«È solo per scopo didattico».
«Non usare Alastor come scusa alle tue perversioni da bibliotecario».
«Non l'ho mai fatto».
«Lo fai sempre. Tu e quel mangialibri di tuo figlio siete la causa principale del disboscamento del pianeta».
Remus soffocò una risata, le scostò un ciuffo porpora dalla fronte e la fissò intensamente negli occhi con un sorriso d'estasi appena accennato.
«Ti amo».
Lei sbuffò teatralmente e inclinò il capo.
«Che razza di cliché».
«Lascia il cestino, Cappuccetto Rosso, e vieni a letto con me» sussurrò improvvisamente Remus, mentre le labbra si piegavano in un ghigno malandrino.
Tonks scoppiò a ridere.
«Che occhi grandi hai» gli diede corda, mordicchiandosi l'interno della guancia e appoggiando le mani sull'incavo delle sue spalle.
«Mi servono per guardarti meglio...».
Erano anni che ripetevano quel vivace scambio di battute nei momenti d'intimità e, nonostante l'incredibile numero di volte in cui l'avevano recitato, nessuno dei due sembrava ancora intenzionato a giudicarlo ripetitivo. Per Tonks, quell'ironica buffonata significava che i bambini erano definitivamente nel mondo dei sogni e che Casa Stornella, dopo un'intera giornata di schermaglie fra piccoli Maghi Oscuri ammantati dalle coperte di pile e minuscoli Draghi con i visi impiastricciati di tempera rossa, era solo per loro.
«Che orecchie grandi hai».
«Mi servono per sentirti meglio...».
«Che mani grandi hai».
«Mi servono per toccarti meglio...».
Remus si riavvicinò nuovamente al suo collo e iniziò a baciare la linea della gola di Tonks, che gettò il capo all'indietro con un mormorio soddisfatto.
«Che bocca grande hai».
Lui sollevò la testa e inarcò un sopracciglio con un malizia che a Tonks, più che un lupo, ricordò una volpe.
«Indovina un po' perché, mia cara».


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Capitolo 4
*** Moccoluffin e vestiti alla rovescia ***


Note dell'Autrice – sempre discutibilmente utili:
Mi sono resa conto di aver commesso un imperdonabile errore con gli anni. Cioè, no, un attimo. In realtà, non è affatto un errore imperdonabile, ma chissenefrega. Nel precedente capitolo, ho stupidamente scritto che Remus e Tonks sono sposati da undici anni, il che è impossibile, dal momento che questa fan fiction è ambientata alla fine del 2007, ergo Remus e Tonks sono sposati da dieci anni. La cosa importante che dovreste sapere, in realtà, è che non dovete assolutamente credere che gli aggiornamenti rimarranno così perfettamente rapidi e costanti. Non sopravvalutatemi pure voi o mi verrà una crisi isterica e morirò in totale solitudine. Il che sarebbe triste sia per voi che non potreste leggere la fine di Casa Stornella, sia perché sarei morta. Basta, ho finito di dire sciocchezze. Giuro solennemente che non scriverò mai più delle note dell'autrice che non siano realmente utili ai fini della storia.
Buona lettura, folks! :)
La Casa Stornella
Capitolo Tre
Moccoluffin e vestiti alla rovescia




Tonks fu svegliata da un violento rumore proveniente dal piano di sotto. Nella penombra della stanza da letto, si allungò verso il comodino e si mise a cercare l'orologio a tentoni, ma rovesciò la lampada, un libro regalatole dalla madre e mai sfogliato (“Crescere una mezza dozzina di pestiferi fanciulli magici: oggi si può”), la tazza vuota nella quale aveva bevuto la cioccolata la sera prima e l'ultimo numero del Settimanale delle Streghe.
Nonostante l'improvviso caos, Remus non si era mosso di un centimetro. Tonks si era ormai rassegnata all'indolenza che il marito dimostrava al momento del risveglio. Talvolta, si diceva che se qualche pazzo svitato avesse bombardato Casa Stornella mentre dormiva, Remus si sarebbe svegliato ore dopo con una coperta di tegole e calcinacci sulla testa.
Lei, al contrario, era sempre stata un tipo piuttosto mattutino e si era accollata l'ingrato compito di svegliarlo con veemente insistenza dacché si erano sposati. Non che se ne lamentasse: capitava che Remus non avesse la minima intenzione di abbandonare il letto e, a quel punto, lei si sentiva autorizzata ad utilizzare il pugno duro degli Auror – e, spesso, era piuttosto terapeutico.
«Remus» lo chiamò con poca convinzione lei, scuotendolo per un braccio. «Remus, ho sentito un boato venire da giù, ho ribaltato il comodino e non trovo quel fottuto orologio».
Remus si strinse ancora di più nella trapunta, come se Tonks non avesse nemmeno parlato. Lei alzò gli occhi al soffitto con un profondo sospiro.
«Tosca, scusa per la mancanza di pazienza...» disse fra sé, prima di colpire la spalla del marito con un sonoro schiaffo.
«Oh!» esclamò con voce roca lui, stringendosi in una ridicola posizione fetale. «Ebbepesto. Saoi?».
«Eh?».
«Presto» sillabò faticosamente Remus, girando sulla schiena e affondando la faccia nel cuscino. «Cosa vuoi?».
«Credo sia appena scoppiato qualcosa al piano di sotto e...» s'interruppe di colpo, inarcando minacciosamente un sopracciglio. «Remus, non avrai nascosto in giardino qualche altra sciocca Creatura Oscura, vero?».
«Non di recente. Buona notte. Ti amo».
«Remus!» strillò lei, colpendolo con più forza. «Giuro sulla mia intera collezione di dischi delle Sorelle Stravagarie che se non ti alzi immediatamente, ti--».
Un acuto rumore di cocci infranti impedì a Remus di sapere cosa, esattamente, la moglie avesse intenzione di fargli. Meno di un istante dopo, Tonks era già in piedi e stava cercando di raggiungere la porta nell'oscurità, ma, non ricordando di aver rovesciato la lampada sul pavimento, vi rovinò sopra e finì per terra.
«Porco di quel Troll schifoso!» imprecò sonoramente.
Remus allungò un braccio, accese la luce e le rivolse un'occhiata insonnolita. Tonks si ritrovò combattuta fra il desiderio di soffocarlo con il cuscino e quello di saltargli addosso – possibile che quell'uomo potesse essere affascinante anche con tutti i capelli scompigliati davanti alla fronte?
«Buongiorno, tesoro».
«Oh, buongiorno, mia Bella Addormentata!» esclamò con pesante sarcasmo lei, mettendosi in piedi e massaggiandosi dolorante un fianco. «Ho attraversato un bosco buio e schifoso, ammazzato un puzzolente Drago e scalato a mani nude 'sto castello sperduto nel Kirghizistan orientale. Vi dispiacerebbe farmi la cortesia di alzarvi da quel dannato letto prima che vi cavi un occhio con il vostro stupido fuso?».
Remus chiuse le palpebre, si grattò pensieroso la nuca e rimase in silenzio qualche istante.
«Conosci realmente la collocazione geografica del Kirghizistan?».
«Va' a mangiare Vermicoli!» gli gridò Tonks, cercando di trattenere una risata mentre afferrava una ciabatta e gliela scagliava contro. «I bambini sono svegli e sono di sotto da soli» aggiunse con particolare enfasi.
Il volto di Remus si contrasse in un'espressione drammaticamente inquieta.
«Di' “buongiorno”, mia cara».
*

«No, Teddy. È sbagliato!».
«È giustissimo, invece! C'è scritto lì! Diglielo, Alastor, che c'è scritto come dico io, che sono anche il più grande!».
La cucina di Casa Stornella era un ampio locale al pianterreno, dalle grandi finestre che davano sul giardino e dal soffitto di rustiche travi lignee. Le pareti – che un tempo erano state di un beige slavato e ricoperto dalle macchie di umidità – era state recentemente tinteggiate di un allegro giallo pastello. La mobilia era fatta di raffinato ciliegio e le credenze e i cassetti erano decorate da simpatiche incisioni raffiguranti le più gloriose gesta degli epici condottieri magici, da Merlino ai quattro Fondatori di Hogwarts. Era probabilmente il regalo più costoso che i coniugi Lupin avessero mai ricevuto dai vecchi membri dell'Ordine della Fenice, pochi giorni dopo la notizia del loro trasloco da Gerrert Street.
Tonks ripeteva sempre quanto fosse un peccato essere una cuoca talmente pessima, perché adorava quella cucina così soleggiata e spaziosa. Remus, d'altro canto, le ricordava in continuazione che se lei avesse cercato di cuocere qualcosa di più complicato di un uovo strapazzato, probabilmente l'intera stanza sarebbe esplosa. Era una fortuna, in effetti, che Remus sapesse cucinare – ancora di più, inoltre, lo era il fatto che la piccola Andromeda non sembrava aver ereditato le doti culinarie delle madre e s'affrettava sempre ad aiutare il padre con zuppe, arrosti e crostate d'ogni genere.
In quel momento, tuttavia, la bella cucina di Casa Stornella sembrava essere avvolta da una bianca e impalpabile polvere candida.
Seduto al suo abituale posto, Alastor si sorreggeva la testa con le mani mentre scrutava con un cipiglio confuso una vecchia copia del Settimanale delle Streghe che Tonks aveva dimenticato in soggiorno. Non che avesse ancora bisogno di rileggere il contenuto dell'inserto gastronomico – sapeva già quante uova e quanta farina fossero necessari per creare dei gustosi muffin – ma non riusciva a capire per quale motivo all'interno della ciotola che Teddy aveva recuperato dalla credenza ci fosse solo una strana poltiglia giallognola.
«Non lo so» decretò infine, scuotendo sconsolato il capo.
In bilico sulla seggiola di fronte e con il pugno saldamente stretto attorno a un cucchiaio di legno sporco fino alla punta del manico, Teddy lo scrutò bieco.
«Che vuol dire “non lo so”? Le leggi tu, le cose che ci dobbiamo mettere!».
«Papà dice sempre che non importa soltanto quello che ci metti dentro, perché devi anche mischiarlo bene» disse Andromeda, grattandosi una guancia e sporcandosi di farina senza rendersene conto.
Minima si alzò sulle punte dei piedi e scrutò con una smorfia disgustata il contenuto della ciotola.
«Io dico che se lo mangiamo, poi moriamo».
«Non puoi morire mangiando dei muffin!» replicò con veemenza Teddy.
«Sì, se ne ingoi un pezzo troppo grosso» s'aggiunse Alastor con voce seria. «Ti si incastra in gola e soffochi».
«Ma pensi che è un muffin, questo?» riprese Minima, indicando la brodaglia con la mano destra. «È soltanto un... un... Moccoluffin!».
Gli altri tre la fissarono in silenzio per qualche secondo.
«Che cos'è un Moccoluffin?» s'informò candidamente Andromeda.
«Niente» rispose con durezza Teddy. «Non esiste, un Moccoluffin».
«Esiste, invece!» protestò Minima. «È questo, un Moccoluffin! Un po' moccolo e un po' muffin!».
Al suono della parola “moccolo”, la faccia indignata di Teddy si trasformò in un'espressione di vivace divertimento. Quasi contemporaneamente, i quattro bambini iniziarono a ridacchiare fra di loro.
«Moccoluffin...» ripeté Teddy fra le risate. «Che scemenza».
«Mi fa piacere che abbiate iniziato allegramente la mattinata» proruppe una voce ilare alle loro spalle. «Così, non mi verranno i sensi di colpa quando vi appenderò per il naso al filo del bucato».
«Mamma!».
Tonks si appoggiò allo stipite della porta con la spalla sinistra e incrociò le braccia al petto con un cipiglio di pigra severità. Dietro di lei, Remus fece un rapido calcolo dei danni e disse:
«Con tutta la farina che c'è sul pavimento si potrebbe giocare a palle di neve fino a maggio».
«Sì!» strillò eccitato Teddy, saltando con un guizzo dalla sedia e iniziando a saltellare in mezzo alla cucina. Ad ogni balzo, sotto i suoi piedini nudi si alzavano leggere nuvolette candide. «Lo facciamo davvero, papà? Lo facciamo?».
«Certo che no» replicò con assoluta fermezza Remus. «Tonks, tesoro, il tuo primogenito ha dei problemi con la sottile arte dell'ironia. Ieri sera, credeva volessi comprargli uno Yeti».
«Non vuoi?» commento Tonks con espressione teatralmente sorpresa. «Che padre degenere. E a proposito di cose che degenerano... che vi è saltato in mente?» aggiunse con tono pericoloso, scrutando ad uno a uno i propri figli.
Teddy le stava sorridendo con fare birbante, dondolandosi sulle punte dei piedi con aria beata; Alastor aveva riabbassato gli occhi sulla rivista impiastricciata di crema, ma Tonks sapeva perfettamente che non la stava leggendo; Andromeda si stava grattando una guancia con espressione timida, fissando insistentemente la farina che ricopriva sul pavimento; Minima, immobile accanto alla sorella, guardava con indifferenza dritto dinanzi a sé, sbattendo innocentemente le palpebre.
«Volevamo fare dei muffin» spiegò semplicemente Teddy, sollevando le spalle e sorridendo ancora di più. «Ma ci sono venuti dei Moccoluffin».
Remus e Tonks si scambiarono un'occhiata perplessa.
«Moccoluffin, Teddy?».
«Sì» rispose al suo posto Alastor, annuendo compito. «Un po' muffin e un po' moccolo».
Tonks si passò esasperata una mano sul volto, ma con la coda dell'occhio Remus la vide trattenere un sorriso. Stringendo a sua volta le labbra per non farsi scappare una risata poco opportuna, incrociò le braccia al petto e fissò ognuno dei propri figli con la fronte aggrottata. Poi, si avvicinò alla tavola, afferrò il cucchiaio con la punta dell'indice e del pollice ed esaminò con raccapriccio la sostanza appiccicosa contenuta nella ciotola.
«Che Godric ci aiuti...» mormorò. «Credo che abbiano appena inventato una sostanza illegale».
«Mmh» mugugnò Tonks. «Vedrò di far partire una squadra di Auror a caccia di Moccoluffin Oscuri non appena possibile».
«Davvero, mamma?».
«No, Teddy» replicò con enfasi, indirizzando un'occhiata eloquente al bambino. «Cosa preferisci, Remus? Cuochi o cucina?».
«Assolutamente cucina» rispose con prontezza lui, sfilando il Settimanale delle Streghe dalle mani di Alastor e iniziando a leggerlo con curiosità. «Perlomeno, lei sta ferma».
Tonks fece un sogghigno divertito e schioccò le dita a mezz'aria.
«Avanti, chef dell'Apocalisse» ordinò con tono incontestabile. «Tutti in bagno, così vi affogo nella vasca».
*

«Non volevamo fare un pasticcio, mamma» disse a bassa voce Andromeda, mentre Tonks la aiutava a sbucare dal vestitino azzurro. «Volevamo solo fare i muffin buoni per te e papà».
«Lo so, tesoro» le sorrise Tonks con dolcezza. «Però, la prossima volta, preferirei che chiamaste la cavalleria prima di fare esplodere la cucina. Avreste potuto farvi del male».
«Come hai fatto tu quando hai cotto l'arrosto tutto nero?» domandò genuinamente Minima, cercando di girare nel verso giusto un calzino già infilato per metà. «Che ti sei fatta malissimo e papà ha chiamato la nonna Andromeda?».
Tonks cercò di camuffare il proprio imbarazzo con un leggero colpo di tosse.
«Mmh... sì, più o meno» la liquidò rapidamente. «Teddy, ti stai mettendo la maglietta al contrario».
«Lo so, mamma» rispose lui. «Voglio mettere dall'altra parte anche le scarpe».
«E perché mai dovresti fare una cosa tanto stupida?» s'informò divertita lei, mentre sistemava la gonna di Andromeda.
«Perché è stupido, mamma» disse prontamente Minima, alzando il naso dal calzino. «Il più stupido di tutti gli stupidi».
«Minima, finiscila» la rimproverò con estrema severità Tonks. «Se ti sento parlare di nuovo in questa maniera, giuro che non vedrai nient'altro che le pareti della tua stanza per i prossimi dieci anni».
Teddy fece una sonora pernacchia all'indirizzo della sorellina più piccola.
«E tu non fare smorfie a tua sorella o ti mozzo la lingua» aggiunse Tonks. «Morgana, perché ti stai infilando le scarpe al contrario, Teddy?».
Alastor e Andromeda iniziarono a ridacchiare, mentre Minima – palesemente risentita dal rimbrotto della madre – finse di non sentirli e continuò imperterrita a rigirarsi il calzino.
«Voglio vedere se a Diagon Alley capiscono dove ho messo la testa» spiegò con un sorriso scanzonato. «Se mi metto anche il berretto al contrario, tutti quanti diranno: “Ehi, guarda! Teddy Lupin non ha la testa!”».
Tonks non fu più in grado di trattenersi e scoppiò in una fragorosa risata, a cui si aggiunsero quelle dei figli – e perfino Minima, nonostante tutto, sembrò ridacchiare un poco.
«Certo che capiranno dove hai la testa. A casa, dentro un armadio, insieme al senno dei genitori che non ti hanno insegnato a vestirti» disse Tonks, allungandosi per arruffargli i capelli turchesi. «Alastor, metti a posto il risvolto dei pantaloni: siamo nel Derbyshire, non in una palude».
«Sarebbe fantastico vivere in una palude!» esclamò entusiasta Teddy. «Ci sarebbero un sacco di Marciotti!».
«Ma le paludi puzzano e i Marciotti ti confondono le idee» replicò piano Andromeda. «Non sarebbe bello viverci. Proprio no».
«Io preferisco il Derbyshire» annuì solennemente Alastor.
«Ma tu non ci sei mai stato in una palude» replicò con vivacità Teddy, sbracciando le mani. «Come fai a dire che non preferivi una palude gigante, come una Palude Portatile dei Tiri Vispi Weasley?».
Tonks finì di aggiustare il fiocchetto verde fra i riccioli chiari di Andromeda e alzò gli occhi al cielo.
«Dovrò fare quattro chiacchiere con George Weasley, non appena lo vedo. Sta seriamente minando alle strategie educative mie e di vostro padre» commentò con un sorriso storto. «Sei perfetta, tesoro».
«Grazie, mamma» pigolò Andromeda.
«Io sono prontissimo! Andiamo?» eruppe con entusiasmo Teddy, infilandosi il berretto delle Holyheads Harpies di traverso.
«Tua sorella non è ancora pronta» gli rispose tranquillamente Tonks, appoggiandosi con le mani al lavandino e scrutando con un sogghigno i vani tentativi di Minima di infilarsi il vestito da sola. «Perché non scendi a controllare che tuo padre non abbia portato in casa altre strane Creature Oscure? Se lo ha fatto, digli che questa sera mangeremo il suo fegato arrosto».
«Forte!» esclamò focosamente Teddy. «Andiamo, Alastor!».
Alastor annuì appena, saltò giù dalla cassapanca sulla quale si era seduto per allacciare le scarpe e corse di buona lena dietro al fratello. Tonks scosse appena la testa, prima di guardare le proprie figlie. Andromeda si era arrampicata sul bordo della vasca da bagno e osservava silenziosamente Minima, ancora tutta presa dal suo vestito.
«Minima, posso aiutarti?» le domandò Tonks.
«No, grazie» rispose stringata lei, mentre cercava di far sbucare il braccio sinistro dalla manica destra. «Ce la faccio».
«La mamma è brava con i vestiti difficili» disse Andromeda con un sorriso gentile, appoggiando i gomiti sulle ginocchia per sostenere la testa. «E questi sono vestiti difficili. Vero, mamma?».
«Sì. Vostra nonna non sembra capace di comprarvi qualcosa di facilmente indossabile. Non pensa mai che io e vostro padre, poi, dobbiamo tribolare per infilare le gambe nel posto giusto. Pensa un po', Minima, se ti stessi sbagliando e ti stessi infilando il vestito al contrario... ci toccherebbe girare per Diagon Alley con due piedi che parlano».
«E con Teddy senza testa!» aggiunse divertita Andromeda.
«Già!» le diede corda Tonks, ridacchiando. «Immagina un po' la scena: tutti i maghi e le streghe di Diagon Alley che bisbigliano l'uno con l'altro: “Guarda un po' i Lupin! Sono così poveri che non possono nemmeno permettersi le teste dei figli!”».
Era evidente quanto Minima si stesse tenacemente sforzando di non ridere, ma il suo giovanissimo orgoglio non poté nulla contro l'assurdità di quanto la madre le aveva appena detto. Fece un vago soffio, si mordicchiò le labbra e iniziò a ridere senza controllo. La risata della sorella contagiò rapidamente anche Andromeda.
«Sei ancora arrabbiata con me?» domandò Tonks, chinandosi dinanzi a lei e aggiustandole un ciuffo scuro dietro all'orecchio sinistro. «Perché, se dovessi ancora esserlo, sarei parecchio triste e i miei capelli diventerebbero come il pelo dei topi».
«Bleah!» disse Andromeda, mostrando la lingua.
Minima sollevò gli occhi verso il viso della madre e, molto lentamente, scosse il capo.
«Non sono arrabbiata».
«Sai perché ti ho sgridata, vero?» le chiese quasi con casualità, iniziando a vestirla con gesti meccanici.
«Perché ho detto che Teddy è stupido – il più stupido» rispose velocemente lei. «Però, mamma... si mette la maglietta girata perché pensa che così la gente non gli vede la testa; e si gira pure le scarpe, così cade e si rompe tutta la faccia. A me sembra stupido».
«Non è comunque una cosa carina da dire a tuo fratello. Non è una cosa carina da dire a nessuno, veramente».
«Ma la signorina Hermione dice sempre al signor Ron che è stupido» commentò con espressione confusa Andromeda. «Perché glielo dice, se non è una cosa carina da dire?».
«È vero!» confermò Minima, voltandosi di nuovo verso la madre. «E gli tira pure le cose in testa! Perché gliele tira, mamma?».
«Forse non gli vuole bene» propose timidamente Andromeda. «Io non tiro niente addosso a chi voglio bene».
Tonks si bloccò con la spazzola salda nella mano e fissò a lungo entrambe le figlie.
«Certo che Hermione vuole bene a Ron. Non dite sciocchezze».
«Se gli vuole bene, perché alla festa di Halloween gli ha tirato il porridge sulla faccia?».
Tonks emise un sospiro fra il divertito e l'esasperato.
«Un giorno, bambine, vi sposerete e capirete che anche i grandi che si vogliono bene litigano in maniera molto, molto, molto stupida, e finiscono per dire e fare qualcosa di altrettanto stupido di cui si pentiranno per molto, molto, molto tempo».
«E si lanciano il porridge?» domandò perplessa Andromeda.
Sorridendo fra i baffi, Tonks pensò fosse meglio evitare di raccontare che lei aveva ricoperto di caffè la testa del loro padre, che aveva incantato i cucchiai in modo che lo inseguissero per tutto l'appartamento di Gerrart Street con il compito di sfondargli il cranio e che lo aveva chiuso fuori dalla portafinestra del balcone, solo l'inverno prima, con nient'altro che un paio di mutande addosso.
«Beh, può succedere» rispose con poca convinzione Tonks, mordicchiandosi l'interno della guancia. «Però, ecco... di norma, se ne pentono in fretta. Allungami il piede sinistro, Minima».
«Ma perché si fa così, mamma?» chiese lei, appoggiando le mani a terra e stendendo una gamba per aria.
Tonks le infilò la scarpina di vernice e iniziò a stringere rapidamente la piccola cinghia.
«Anche voi litigate spesso, vi lanciate gli oggetti e vi tirate i capelli» disse con ovvietà. «Eppure, vi volete bene. No?».
«Non lo so» rispose in fretta Minima, guadagnandosi un'occhiata in tralice da parte della madre. «A volte, Teddy mi fa moltissimo arrabbiare».
«A me mi aveva detto che c'era una Chimera chiusa in bagno» raccontò in un mormorio Andromeda, chinando il capo e fissandosi imbarazzata i piedi. «Avevo paura che se entravo per fare la pipì, quella mi mangiava, ma mi scappava davvero tantissimo e me la sono fatta addosso...».
«Cosa?» domandò Tonks con voce allegra, sgranando gli occhi a quella rivelazione. «È questo il motivo per cui ti sei fatta la pipì addosso lo scorso mese?».
Lentamente e senza alzare lo sguardo, Andromeda fece un cenno affermativo con la testa.
«Oh, per tutte le sottogonne di Tosca!» rise Tonks, passandosi una mano fra i capelli purpurei. «Dromeda, tesoro, perché non lo hai detto a me o a papà?».
«Mi vergogno» confessò debolmente. «Non ci aveva creduto nessuno; io, invece, sì».
Tonks si avvicinò a lei, le scostò un ricciolo sfuggito al nastro dietro la schiena e le scoccò un bacio sulla fronte. La bambina le gettò le braccia al collo e Tonks, con un lieve sospiro rassegnato, la prese in braccio.
«Su, Minima» disse all'altra figlia. «Non volevi che papà ti accompagnasse a fare un giro all'Apoteca?».
«Sì!» esclamò eccitata, sgusciando velocemente alle spalle della madre e svanendo oltre la porta.
«Parola mia, quando tua sorella andrà a Hogwarts e verrà Smistata a Serpeverde, a tuo padre partirà un embolo».
«Davvero?» domandò preoccupata Andromeda, scrutando la madre con gli occhi spalancati. «E lo si mangia, quest'embolo?».
Tonks la fissò intensamente per qualche istante e scoppiò a ridere.


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Capitolo 5
*** Un tricheco serpentino ***


Note dell'Autrice – sempre discutibilmente utili:
Non sono molto convinta di questo capitolo, ma tenerlo non cambierà la situazione. Alla vostra, gente!


La Casa Stornella
Capitolo Quattro
Un tricheco serpentino




La Bisbetica Chiacchierina era un adorabile caffè che si faceva spazio fra il negozio di abiti per ogni occasione di Madama McClan e la Gringott.
Confrontato con l'imponente banca, la Bisbetica sembrava realmente un posto minuscolo, e a nulla serviva lo spazio dinanzi alla porta ricoperto di ampi ombrelloni dai colori sgargianti e decine di tavolini Autocamminanti che si spostavano da una parte all'altra – costringendo spesso i clienti a inseguirli per l'intera strada. Durante la stagione invernale, i gestori del caffè circondavano la proprietà con ottimi Incantesimi Riscaldanti, cosicché i propri avventori potessero sedere all'aperto nonostante la neve e il gelo.
Era ad uno di questi bei tavoli di legno di quercia che la famiglia dei Lupin si era accomodata al suo arrivo a Diagon Alley. Sebbene a Remus fosse bastato un pigro colpo della bacchetta per ripulire la cucina dal burrascoso passaggio dei figli, nessuno di loro pareva aver voglia di mettersi ai fornelli. A loro giustificazione, c'era sicuramente da aggiungere la rinomata bontà dei muffin al cioccolato di Miranda Pilliwickle – la rotonda consorte di Haverlock Pilliwickle, settimo di una lunga tradizione di Pilliwickle alla gestione della storica Bisbetica.
«Che fame!» brontolò Teddy con uno sbuffo irrequieto. «Ho così fame che mi mangerei pure un Orclumpo gigante!».
Alastor abbassò la lista della vivande che stava leggendo – a modo suo, s'intende – e assottigliò le palpebre con espressione concentrata.
«Un Orclumpo è un fungo rosa ricoperto di setole nere» recitò improvvisamente, scuotendo il capo. «E si nutre di vermi. Vuoi mangiare qualcosa che si nutre di vermi?».
«Ho tanta fame».
«Sposta il braccio dalla portata di mascella di tuo fratello, Alastor» scherzò Tonks. «Né io né tuo padre abbiamo intenzione di portarti al San Mungo perché Teddy ti ha azzannato una mano».
Con un sogghigno birbante sulla faccia, Teddy gonfiò il petto e imitò il suono di un acuto ululato, facendo ridere tutti e attirando su di sé lo sguardo allarmato di un mago dal naso rubizzo seduto al tavolo accanto.
«Devi avere proprio una fame da lupo, tesoro» commentò la voce gentile della signora Pilliwickle, avanzando verso di loro con la bacchetta puntata verso l'alto e un grande vassoio che le galleggiava sulla testa. «Non dirmi che queste cinque tazze di Cioccolatte Scoppiettante sono tutte per te».
«No!» protestò rapidamente Minima, allungando il collo per scrutare con aria torva la strega. «Anch'io ho tanta fame!».
«Sì, ma è meglio che mangi prima Teddy» aggiunse Alastor. «O mi morderà una mano».
Ridacchiando divertita, la signora Pilliwickle fece Levitare con precisione le tazze fumanti davanti ad ognuno dei bambini, sorridendo loro con fare intenerito.
«Badate di berla immediatamente, così vi scotterete tutto lo stomaco» li avvertì in fretta Remus.
«Ahi!» esclamò Teddy, tirando la lingua in fuori, mentre i suoi capelli viravano ad un acceso rosso peperone.
«Per l'appunto» concluse Remus, allungando una mano sul tavolo per prendere l'ultima tazza rimasta.
«Immagino che il Caffè Risvegliante sia suo, signora Lupin» riprese la signora Pilliwickle, muovendo sapientemente la bacchetta.
«Per la barba di Merlino, certo che sì» scherzò con un sopracciglio inarcato Tonks, portandosi un polpastrello sotto l'occhio sinistro. «Il miglior anti-occhiaie mai inventato».
Remus estrasse dal mantello un paio di Galeoni dorati e li porse alla strega. Lei aveva appena infilato le mani nella tasca del grembiule alla ricerca delle Falci per il resto, quando Remus la fermò con un gesto galante del capo.
«Non dica sciocchezze, signora Pilliwickle. Avete il servizio più veloce dell'intera Gran Bretagna».
«E i muffin più buoni del mondo!» aggiunse con entusiasmo Teddy, gettandosene in bocca uno con fare famelico.
La signora Pilliwickle arrossì compiaciuta, li salutò con sincera riconoscenza e svanì nuovamente all'interno della Bisbetica.
«Teddy, non sei un Troll. Da' a quel muffin dei morsi quanto più umani possibile» disse Tonks, mentre soffiava sul proprio caffè.
«Papà, andiamo all'Apoteca?» s'intromise Minima, occhieggiando speranzosa verso il padre. «Mamma me l'ha promesso».
«No, non l'ho fatto» replicò con un eloquente sorriso Tonks. «Ho detto che tu avevi intenzione di andarci».
«Posso lo stesso?».
Remus abbassò cautamente la tazza di Cioccolatte Scoppiettante – l'ultima volta che ne aveva bevuta in fretta una aveva sputato fumo dalle orecchie per un'ora – e fissò intensamente la sua ultimogenita.
«Cosa c'è di così bello in quell'Apoteca, Minima?» s'informò curiosamente. «Sono solo scaffali impolverati ricoperti di nauseanti ingredienti per pozioni».
«Mi piacciono» commentò semplicemente lei. «Quando sarò grande, ne farò un sacco».
«Già, quando finirai sottoterra con i Serpeverde...» le fece il verso Teddy, ondeggiando beffardamente la testa.
«Teddy, non fare lo sciocco» lo rimbrottò duramente Tonks. «Serpeverde è un'ottima Casa, ora, e non si trova sottoterra, ma nei Sotterranei di Hogwarts».
«I Sotterranei stanno sottoterra, mamma» spiegò Alastor, mentre staccava le praline di cioccolato del proprio muffin e le portava una ad una alla bocca.
«Fa lo stesso» proruppe gelidamente Minima, arricciando scontrosa il naso. «Io non ci vado a Serpeverde».
«Sì, invece» continuò testardo Teddy, annuendo con foga. «Perché hai la lingua come quella dei serpenti... sssssssssh!».
«Ted» lo intimò con serietà Remus, sollevando l'indice a monito.
Rimasero in silenzio qualche minuto, a sorseggiare Cioccolatte e a masticare muffin. Dopo il tacito rimprovero del padre, Teddy teneva la testa china sulla propria colazione, muto e immobile; Alastor continuava a mangiare le praline e a leccarsi le labbra; Andromeda, come di consueto, aveva smesso di parlare da quando erano arrivati al Paiolo Magico e continuava a sbocconcellare lentamente; Minima giocava con un angolo del proprio tovagliolo, fissando il cucchiaio con aria distratta. Remus e Tonks si scambiarono un'occhiata in tralice, ma prima che qualcuno dei due potesse dire qualcosa, la vocina di Minima si levò dal tavolo.
«Io non ci vado a Serpeverde» proclamò con piglio combattivo. «Ci vanno solo le persone cattive che fanno del male. Non ci vado, io».
*


Avevano appena deciso che il primo negozio in cui si sarebbero recati sarebbe stato la cancelleria Scribbulus, a pochi passi dalla Bisbetica, poiché Remus aveva bisogno di un paio di nuove Piume Rosse Autoinchiostranti.
Prima che George Weasley ne vendesse i diritti alla cancelleria – insieme alle Piume a Risposta Pronta e alle Piume Autocorreggenti – Remus era solito usarle come scuse per visitare i Tiri Vispi senza la riprovevole presenza dei figli. Ben pochi, infatti, erano a conoscenza degli arguti consigli che Remus aveva gentilmente dato a George in merito alle sue più recenti invenzioni, come il Celataccuino, una particolare agenda incantata per mostrare il proprio contenuto solo agli occhi di chi avesse pronunciato la parola d'ordine scelta dal proprietario – e Remus, in campo di parole d'ordine e marachelle, era sicuramente uno dei maggiori esperti in circolazione. Lungi da lui permettere alla notizia di spargersi fra le lingue lunghe della comunità magica: aveva una reputazione di rispettabile professore di Hogwarts e una suocera che lo avrebbe probabilmente strangolato con il filo del bucato, se solo avesse scoperto che le innovazioni apportate da George alle Caccabombe erano state una sua idea.
Si stavano incamminando allegramente verso Scribbulus, ridendo fra loro e completamente dimentichi della tensione creatasi durante la colazione. Fortunatamente per la loro mattinata domenicale, Tonks aveva trovato il modo di distrarre tutti loro con un'improvvisata sfida con Teddy a “chi riesce a trasformare il proprio naso in più nasi”, e i musi lunghi erano diventati presto fragorose risate.
Non erano che a pochi passi dalla porta della cancelleria, quando udirono una voce squillante levarsi distintamente fra il chiacchiericcio generale della gente.
«Remus, vecchio mio! Quale stupefacente e inaspettato piacere trovarti qui!».
Né Tonks né Remus ebbero alcun bisogno di voltarsi indietro per riconoscerne il proprietario. Tonks lanciò un'occhiata di traverso al marito e quasi scoppiò a ridere, vedendo l'espressione di puro sconforto che gli aleggiava sul volto.
«Oh, Godric...» mormorò fra i denti Remus, massaggiandosi nervosamente l'attaccatura del naso. «Dimmi che non è davvero lui. Non l'ho salutato che da tredici ore...».
«Fingerò di essere lo Spirito del Natale Presente, allora» rispose lei con un sorriso divertito. «Ma poi non lamentarti se lo chiamo signor Scrooge e mi prende per matta».
Mentre i bambini scrutavano con famelica curiosità il mago che avanzava verso di loro – eccezion fatta per Andromeda, che si era lestamente nascosta dietro le lunghe gambe del padre – Remus e Tonks si voltarono con il più educato dei sorrisi.
«Buongiorno, Horace» salutò disinvolto Remus, inclinando appena il capo. «Salutate il professor Lumacorno, ragazzi».
«Buongiorno, professor Lumacorno» recitarono in coro loro.
In quegli ultimi nove anni, l'unica cosa di Horace Lumacorno ad essere cambiata era stata la sua pancia: i ricchi e appaganti pranzi di Hogwarts avevano notevolmente inciso sul suo girovita già sufficientemente largo. Sfoggiava ancora quegli strani baffi che lo facevano tanto assomigliare a un tricheco e il suo sarto era ancora lo stesso da cui si rivolgeva quando andavano di moda le ghette e le redingote. Come il suo appetito, poi, la sua implacabile dedizione per la ricerca di giovani talenti era ancora insaziabile.
«Per le mutande di Merlino, non posso credere alla mia fortuna!» disse con un gigantesco sorriso Lumacorno, tendendo le mani verso di loro come se volesse abbracciarli tutti. «Non speravo proprio di trovarvi qui, tutti insieme! Mia cara Ninfadora, come stai?».
Tonks arricciò il naso con tanta rapidità da farlo apparire un tic nervoso.
«Egregiamente, professore. Ma il mio nome è Tonks, nubile o sposata che sia».
«Oh, come mi sarebbe piaciuto averti fra le mie studentesse!» rise. «Peccato che tu abbia frequentato Hogwarts durante il mio periodo di pensionamento... un peccato, davvero. Oh, beh, perlomeno, posso dire di aver avuto tuo marito e, sicuramente, potrò dire di aver avuto anche i vostri bambini, un giorno!».
«Dove ci vuole avere, signor professore?» domandò con incertezza Teddy, scrutando dubbioso verso l'alto.
Lumacorno scoppiò nuovamente a ridere, e si sarebbe sicuramente chinato verso Teddy per scompigliargli i capelli turchesi, se solo la sua imponente pancia non fosse stata tanto pronunciata.
«Tu devi essere il giovane Ted! Tuo padre ripete sempre che sei molto sveglio. Splendido, splendido, ragazzo mio! E tu...» continuò con uno sgargiante sorriso, ammiccando in direzione di Alastor. «Immagino che tu sia Alastor, non è vero? Oh, mio caro, mio caro! Porti il nome del migliore Auror che abbia mai varcato la porta del Ministero della Magia! Eravamo grandi amici, sai, io e il vecchio Moody? Grandissimi, davvero, chiedi pure a tuo padre!».
Alastor lanciò al padre un'occhiata interrogativa e Remus, trattenendo a sua volta una risata, annuì un paio di volte.
«E questa adorabile signorina deve essere... Andromeda, vero?» continuò Lumacorno, fissando Minima con intensa serietà.
Lei scosse prontamente il capo e alzò con fierezza il piccolo mento, scrutandolo senza la minima traccia di un sorriso. Remus pregò mentalmente che non dicesse nulla di inappropriato, perché aveva già capito che l'opinione che la bambina si era fatta dell'anziano professore non era decisamente fra le migliori.
«No» negò lei con durezza. «Io sono Minima».
«Minima?» ripeté confuso Lumacorno, inarcando le folte sopracciglia. «Non sapevo che-- oh, ma certo!» proruppe d'un tratto. «Sei Minerva, non è così?».
«No» rispose gelidamente. «Sono Minima».
Tonks sentì Remus emettere un impercettibile grugnito di disappunto e si sentì in dovere di salvare la situazione.
«Lei è Andromeda, professor Lumacorno» s'intromise in fretta, indicando con l'indice la testa riccioluta della bambina. «Proprio qui, dietro le gambe di mio marito. Coraggio, Dromeda» la incitò con serena allegria. «Staccati dai pantaloni di papà».
Remus sapeva perfettamente – e di certo lo sapeva anche Tonks – che Andromeda avrebbe cercato di svanire ancora di più dietro alla figura del padre. Non erano mai riusciti ad aiutarla a superare quell'insormontabile timidezza che si portava dietro dacché aveva iniziato a parlare, e qualunque loro tentativo si era rivelato totalmente vano. La loro ultima speranza era stata riposta sullo scorrere del tempo e su Hogwarts.
«Perdonala, Horace. È molto timida» spiegò pacatamente Remus, mentre avvertiva la sensazione delle piccole dita di Andromeda stringersi con forza attorno alla stoffa dei propri pantaloni. Allungò indietro il braccio destro e le posò la mano sulla testa, carezzandole dolcemente i capelli chiari.
«D'altronde, Remus, nemmeno tu eri un bambino di molte parole! Se la memoria non m'inganna, mi pare che iniziasti a parlare un po' di più solo attorno al tuo quinto anno!» rise di gusto Lumacorno. «Era davvero un brillante ragazzino, vostro padre! Oh, eccome, eccome! Uno dei miei migliori studenti a cui abbia mai avuto l'onore di insegnare, non c'è dubbio!».
Remus evitò di ricordare a Lumacorno quanto profonda e disastrosa fosse la sua applicazione nell'arte delle Pozioni.
Nel corso dei sette anni trascorsi a Hogwarts, aveva perfino perso il conto del numero di calderoni fusi, esplosi o svaniti nel nulla a causa della sua inettitudine. Non che non si fosse mai impegnato abbastanza, al contrario: Remus conosceva perfettamente il contenuto di Pozioni Avanzate e i suoi temi erano, di norma, impeccabili. Inspiegabilmente, non era mai riuscito a distillare un solo elisir senza bruciarsi le sopracciglia o attentare alla salute della classe intera.
Come se non bastasse la sua naturale avversione alle Pozioni, il suo particolare olfatto riusciva a captare ogni aroma degli ingredienti con atroce sensibilità, provocandogli continui giramenti di testa. Oltretutto, il forte odore delle foglie di Aconito lo faceva svenire in continuazione – non c'era da stupirsi che fosse così altamente pericoloso per i licantropi.
In molti, tuttavia, continuarono a domandarsi come fosse possibile che il Prefetto Lupin, tanto preciso e diligente, avesse ottenuto ben nove G.U.F.O. non inferiori a Eccezionale e un clamoroso Troll in Pozioni che era passato alla storia.
«Mi dispiace veramente molto non aver potuto insegnare anche a te, mia cara» riprese con gaiezza Lumacorno, rivolgendosi a Tonks con un affettuoso sorriso. «Mi hanno detto che i tuoi voti in Pozioni erano esemplari – e, che Merlino lo porti in pace, il caro Severus non era certo famoso per le larghe maniche del suo mantello!».
«Me la cavavo» rispose con educato riserbo Tonks.
«Oh, suvvia, cara! Non essere modesta! Minerva mi ha confidato che sei stata l'unica del tuo anno a conseguire un M.A.G.O. Eccezionale in Pozioni».
«Beh, sì» confessò Tonks con un mezzo sorriso imbarazzato. «Dovevo, professore, o non avrei avuto alcuna possibilità di diventare un'Auror».
«Naturale, naturale!» esclamò a gran voce Lumacorno, lisciandosi con una mano rotonda una piega della sgargiante veste che indossava. «E voi, miei giovani ragazzi? Pensate di seguire le nobili orme dei vostri prodi genitori?» domandò ai bambini, con una luce ambiziosa negli occhi che avrebbe turbato chiunque non lo conoscesse abbastanza. In fin dei conti, era un uomo del tutto innocuo.
«Io voglio prendere i Draghi!» affermò immediatamente Teddy, sfoggiando un gigantesco sorriso. «Oppure una Chimera! O un Grifone, anche!».
Lumacorno fissò per qualche istante Teddy, poi scoppiò in una bassa e spensierata risata.
«Che Salazar mi porti! Abbiamo un temerario, qui! Lasciati dire, tuttavia, mio caro ragazzo, che le Creature Magiche rischierebbero di portarti verso un inglorioso destino! Il consiglio che, di norma, tendo a dare ai giovanotti ardimentosi come te è di dedicarsi ad attività più elevate e fruttuose... nessuno di voi ha interesse per la nobile arte delle pozioni, magari?».
Teddy e Alastor si voltarono come un unico corpo verso Minima, che non aveva ancora accennato ad un solo misero cenno di apprezzamento nei confronti di Lumacorno. Tonks guardò Remus con aria incerta e lui, altrettanto dubbioso, si limitò ad alzare impercettibilmente le spalle. Perfino Andromeda parve sporgersi un poco oltre le gambe del padre, sebbene tenesse ancora il capo stoicamente chino verso le proprie scarpe e non sembrasse intenzionata a dire una sola parola. Lumacorno interpretò correttamente l'eloquente scambio di sguardi dei due fratellini.
«Oh, forse tu, signorina?» eruppe con voce carezzevole, lisciandosi il baffo sinistro. «Eccezionale, eccezionale! Questa sì, che è un'inclinazione pregevole – e in una streghetta così giovane, poi! Dimmi, dimmi, mia cara – e senza timore! - per quale motivo ti piacciono tanto le pozioni, uhm?».
Minima sbatté un paio di volte le palpebre con aria estremamente calcolatrice. Sembrava realmente un piccolo gatto in procinto di attaccare.
«Io non l'ho detto».
Preso alla sprovvista, Lumacorno sollevò la testa in direzione di Remus, che arrischiò un imbarazzato sorriso di scuse.
«Minima è solo molto affascinata dall'Apoteca, professore» sviò Tonks. «Ha soltanto cinque anni ed è molto curiosa. Lo sono un po' tutti. Pensi: Alastor sembra avere la passione per la Storia della Magia!» continuò, allungando una mano per colpire appena la testa del proprio secondogenito. «Incredibile, non trova? Ha otto anni e trova piacevole leggere libri su cui io mi addormentavo a diciassette!».
Lumacorno parve riprendersi dallo smarrimento causato dal minaccioso comportamento di Minima con incredibile rapidità e rivolse ad Alastor un'occhiata carica di interesse.
«Singolare. Molto singolare» sentenziò infine. «È indizio di notevole ingegno. E di una appassionata predilezione per l'ignoto, naturalmente... non vorrei calpestare la carica che tuo padre ricopre a Hogwarts – lungi da me essere irrispettoso verso la nobile casa di Grifondoro! - ma credo che la casa di Serpeverde, per tuo conto, potrebbe realmente aiutarti nella via del successo, senz'altro».
«Suvvia, Horace» lo schernì con un'educata risata Remus. «Se lo Smistamento dipendesse da te, ci sarebbero soltanto Serpeverde».
«Comprendo la tua riluttanza, amico mio, ma non puoi dire che Serpeverde non offra ai suoi giovani protetti la chiave della gloria».
«Serpeverde fa diventare cattive le persone» commentò di punto in bianco Minima, stringendo con rabbia i piccoli pugni. «E io non ci vado».
Tirò su con il naso, si mordicchiò il labbro inferiore e aggrottò la fronte in un'espressione capricciosa. Per la prima volta dopo un paio anni, Tonks ebbe l'impressione che fosse sull'orlo del pianto. Prima che qualcuno di loro potesse dire qualsiasi altra cosa, Minima voltò rapidamente sui tacchi e corse verso l'entrata di Scribbulus, fingendo di non sentire la voce della madre che la richiamava indietro.
«Mi scusi, professore» si congedò con urgenza Tonks, sfrecciando rapidamente lungo la scia di Minima.
Andromeda si staccò dal padre e la seguì con altrettanta prontezza. Remus fece un sospiro rassegnato e si rivolse ai figli più grandi.
«Andate con loro, per favore. Io vi raggiungo subito».
«Okay» annuì Teddy. «Arrivederci, signor professore».
Alastor abbozzò un cortese inchino che, nonostante tutto, fece arricciare le labbra del padre.
«Arrivederci, professor Lumacorno. È stato un grandissimo piacere» recitò compito, prima di girare sui tacchi e affrettarsi a raggiungere il fratello.
Dopo essersi assicurato che tutti loro avessero raggiunto Tonks, Remus rivolse a Lumacorno un'occhiata di profonde scuse.
«Devi perdonarla, Horace. Ho l'impressione che stia bollendo qualcosa nel calderone, ma devo ancora capire cosa».
Lumacorno alzò la mano in un gesto indifferente.
«Non preoccuparti, Remus. Non sono ancora abbastanza vecchio per tradurre in ingiuria le parole di una bambina, per quanto spiacevoli possano sembrare».
«Non riesco a capire da dove provenga la repulsione di Minima» scosse il capo lui, incrociando fra loro le braccia. «Nessuno di noi due ha mai parlato dei trascorsi di Serpeverde, né abbiamo mai parlato in loro presenza di Mangiamorte e Lord Voldemort». Lumacorno trasalì, ma Remus parve non accorgersene. «Per loro, la guerra è fatta di favole e leggende. Che Godric mi aiuti, non sanno nemmeno di essere imparentati con... beh, lo sai».
L'anziano professore annuì con solennità.
«Non è facile spiegare a un bambino come funziona il mondo».
«Non è facile spiegare ai tuoi figli che la loro prozia era una pazza assassina, piuttosto».
«Le assomiglia» commentò schiettamente Lumacorno. «E qualcuno glielo farà notare, prima o poi».
Remus emise un vago sbuffo e fece un sorriso un po' storto.
«Già» rispose. «Sembra quasi che la nobile e antichissima casata dei Black non voglia accettare l'estinzione».
Lumacorno rimase in silenzio qualche secondo. Quando parlò, la sua voce era carica di amarezza.
«È qualcosa che dovrete dire loro, Remus. Questa comunità ha sofferto troppo a causa dei Mangiamorte per poterli dimenticare dall'oggi al domani, ed io lo so bene – oh, se lo so bene! Quanti errori commessi, ragazzo mio, quanti errori...».
«Horace, non--».
«No, Remus. Il mio rammarico non può svanire con qualche parola di conforto, per quanto buona e onesta» lo interruppe con un sorriso tirato. «Tanti sono gli anni passati fra i giovani Serpeverde e tanti, tanti sono coloro che ho visto farsi inghiottire da quel mostro. Erano così talentuosi, Remus... così capaci. Non sai per quanto tempo mi sono ripetuto: “Horace, Horace... avresti potuto fare molto di più”. Ma non l'ho fatto... non l'ho fatto».
«Hai fatto quello che hai potuto» replicò con profonda sincerità Remus, appoggiandogli una mano sulla spalla. «È stata una triste combinazione di scelte sbagliate da parte di noi tutti, Horace, e ognuno di noi deve accettare di vivere con il cruccio di non aver compiuto quelle giuste, ma non dovresti addossarti anche la colpa di quelle altrui. Non ne vale la pena».
Mestamente, Lumacorno fece un lieve cenno di assenso con il capo.
«Hai ragione, naturalmente. Ma è così difficile, Remus...».
«Non credo di aver detto che fosse facile» replicò lui con un mezzo sorriso. «Cambiando argomento, Horace... avrei bisogno di--».
«Una supplenza per il prossimo martedì mattina, certo» lo anticipò lui, cercando di apparire allegro e gioviale nonostante lo sguardo fosco. «Minerva mi ha già avvertito. Fra l'altro... hai bisogno di Pozione Antilupo, questo mese, o...?».
«Ti ringrazio davvero di cuore, ma mia moglie s'ingelosirebbe se sapesse che preferisco la tua» scherzò Remus.
«Lo dicevo, io, che quella ragazza è un portento con le pozioni! Beh, Remus, credo proprio che i tuoi doveri di padre di famiglia ti stiano aspettando, no?» disse, tendendo la mano rotonda verso il collega.
Remus la strinse con un sorriso.
«Assolutamente, o rischio che Ninfadora mi avveleni con la prima dose di Pozione».
«E, detto fra me e te...» aggiunse con fare cospiratore Lumacorno. «Temo che la tua figlia più piccola finirà nella mia Casa. Tu e Godric Grifondoro dovrete farvene una ragione, amico mio».

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Capitolo 6
*** C'era una volta una storia vecchia ***


Note dell'Autrice – sempre discutibilmente utili:
Mi dispiace, mi dispiace, mi dispiace e mi stra-dispiace! È tipo da... uhm, febbraio, sì, che non aggiorno. Lo so, sono un'inguaribile fan-writer poco professionale, non abbiatene. Questo capitolo aveva la stessa fretta di uscire di un bradipo stitico. Cioè, dico, avete letto questa metafora? Dovrebbe farvi pensare: «Oh, cavolo, la poverina è completamente in botta! Evitiamo di sovraccaricarla di problemi e non linciamola pubblicamente». Sarebbe effettivamente carino se non lo faceste.
Ehm... c'erano un paio di cosette che mi ero appuntata di scrivere in queste note, ma non trovo più il post-it. No, un attimo. Okay, dal mio cervello è partito un fiducioso segnale. Ah, ecco! Un sacco di voi altri mi ha chiesto quanti anni hanno i pargoli dei coniugi Lupin.
Di Teddy sappiamo che è nato più o meno i primi giorni dell'aprile del 1998 – di conseguenza ha nove anni. Io ho scelto il 3 di aprile, così, a stra-casaccio.
Alastor è nato il 18 settembre del 1999, quindi di anni ne ha otto. Andromeda è nata il 9 luglio del 2001, mentre Minima il 13 novembre del 2002 e, se la matematica non è un'opinione, la prima ha sei anni e la seconda cinque.
Un'altra cosa buffa/inutile/interessante/inutile/cretina/decisamente inutile che un'amica mi ha domandato dopo aver letto i primi capitoli è stata: «Ehi, ma 'sti bambini ce l'hanno, una faccia?».
«Ma che cavolo di domanda è?» le ho detto. Cioè, scusate un attimo... hanno la faccia che immaginate voi, come in tutte le cose che si leggono, grazie al cielo. Invece no, questa insisteva, insisteva, insisteva ed io mi sono ritrovata a cercare per il web quattro ragazzini che potessero anche solo lontanamente assomigliare ai miei immaginari giovani Lupin... che adesso vi sbatto pure qui sotto, mica crediate!
Teddy → VAI QUI
Andromeda e Alastor → ANCORA QUI

Minima→ E DI NUOVO QUI
Non so chi siano questi bambini, ma - giuro! - non li ho rapiti. Non so nemmeno se siano remotamente famosi. Erano lì, su Gugol Images, e li ho presi su. Il che, forse, significa che li ho rapiti, non so... se qualcuno li conosce, dite ai genitori che li ho trovati io, grazie.
E basta con 'ste boiate, va'.





La Casa Stornella
Capitolo Cinque
C'era una volta una storia vecchia




Come tutti i figli di maghi e streghe che avevano vissuto la cruda atrocità della guerra contro Lord Voldemort, anche i piccoli Lupin avevano tratto la conclusione che ciò che era accaduto, in sostanza, non fosse altro che un'avvincente fiaba – a tratti un po' triste, certo, ma con un bel lieto fine. Nelle loro menti, non esistevano brutalità come il sangue e le lacrime: c'erano solo gli eroi vittoriosi che sconfiggevano le forze Oscure, e tanto bastava ad alimentare la loro fervida immaginazione. Forse, se avessero potuto vedere realmente quanto curva e debole apparisse allora la figura di Harry – il paladino, il valoroso, il Prescelto – si sarebbero fatti fin da subito un'idea ben più diversa e matura di cosa, essenzialmente, tutto quello era costato loro; ma non erano che bambini, e certi aspetti della vita sarebbero rimasti un mistero ancora qualche anno.
Nelle centinaia di racconti che avevano sentito raccontare davanti al fuoco – o attorno alla lunghissima tavola della Tana, spesso – non c'era spazio per il grigiore delle battaglie e per il fiato pesante della morte. Non c'erano cattivi un po' meno cattivi, né buoni un po' meno buoni: c'erano solo parole fatte di coraggio, di onore e di giustizia.
In virtù della rinnovata pace, Remus e Tonks avevano omesso loro qualsiasi dettaglio potesse essere troppo sinistro e spietato per la loro età spensierata. Indiscutibilmente, le rispettive infanzie di entrambi – l'una distrutta dalla licantropia e l'altra dalla prima guerra contro Lord Voldemort – avevano notevolmente inciso su quella ferrea e insindacabile decisione. Non era ancora giunto il momento, si ripetevano.
Nessuno dei loro figli sapeva chi fossero i Malfoy – nessuno li nominava mai, a Casa Stornella. Non che ce ne fosse bisogno, in effetti: Lucius Malfoy era ormai sprofondato oltre i cancelli della sua maestosa villa e, sebbene di tanto si vedessero ancora per Diagon Alley, né la moglie né il figlio sembravano intenzionati a far sentire la voce nella chiassosa ripresa della vita normale. Non sapevano di essere i più giovani discendenti di una delle più antiche e crudeli casate di Purosangue mai esistite; non sapevano che il corpo del nonno di cui Teddy portava il nome era stato ritrovato settimane dopo la morte, abbandonato ai rapaci e ai ratti nella buia foresta di Dean; non sapevano chi fosse stata e cosa avesse rappresentato per l'intera Gran Bretagna Bellatrix Lestrange.
Erano parte della prima generazione nata con la speranza di un futuro migliore, dopo secoli di guerre, scontri e lutti, e nessuno – nessuno – avrebbe avuto il coraggio di sporcare quell'innocenza che tanta fatica e sacrificio aveva richiesto.
Men che meno, fra l'altro, erano venuti a conoscenza della malaugurata fama di Serpeverde – un'idea di Remus, per lo più, poiché capitava ancora che Tonks si lasciasse sfuggire qualche velata allusione alla loro storica perfidia. Gli avevano raccontato di Hogwarts, gli avevano spiegato come avvenisse lo Smistamento, gli avevano descritto la magnificenza dei giardini e della Sala Grande e la straordinaria propensione che le scale del castello avevano per i cambiamenti inaspettati. Conoscevano la casa di Grifondoro, naturalmente, e con essa il coraggio, la nobiltà d'animo e la generosità; allo stesso modo, di Tassorosso conoscevano la lealtà, la determinazione e il sacrificio; di Corvonero, poi, conoscevano la saggezza, l'intelligenza e la perspicacia; infine, c'era Serpeverde, con la sua astuzia, la sua ambizione e la sua intraprendenza.
A Hogwarts non esistevano buoni e cattivi, e tanto bastava.
*


Se c'era qualcosa che proprio non si sarebbe potuto dire sul conto di Minima, era che fosse una bambina suscettibile – permalosa, magari, ma non suscettibile. Pareva non condividere le tipiche paure che accomunavano fra loro i bambini, ed era qualcosa che tanto Remus quanto Tonks avevano sempre trovato un po' preoccupante. Perfino Teddy, nonostante il carattere esuberante, spericolato e imprudente, covava di nascosto un paio di irragionevoli timori – era terrorizzato da quei buffi pagliacci a molla che scattavano fuori dalle scatole, ad esempio.
Al contrario dei fratelli, Minima sembrava immune alla paura.
Poi, l'anno prima, Andromeda aveva scoperto i resti di un piccolo cardellino nel retro del giardino. Il triste avvenimento aveva portato con sé una valanga di impietose domande sulla morte e sulla vita, e Remus, incredibilmente, si era ritrovato a pregare che gli domandassero come nascessero i bambini.
Si erano riuniti nell'accogliente salotto di Casa Stornella. Teddy era coricato a pancia in giù sul tappetto e si sorreggeva la testa con le mani, mentre dondolava nervosamente le gambe. Accanto al caminetto sfrigolante e ben più composto – come sempre – era seduto Alastor, mentre Andromeda aveva trovato posto fra le gambe di Tonks, che aveva iniziato ad accarezzarle distrattamente i bei riccioli chiari. Minima si era acciambellata ai piedi della poltrona di Remus, immobile e attenta.
«È come andare a dormire?» aveva domandato Alastor.
«Non proprio» aveva risposto alla fine Remus, grattandosi pensieroso la tempia destra. «Quando si muore, non si può tornare indietro – a meno che non si voglia diventare un fantasma, certo».
«E se diventi un fantasma, vuol dire che non muori mai più?» aveva chiesto Andromeda, perplessa.
«Si è già morti» l'aveva corretta Tonks con un sorriso storto. «Non puoi mica morire tutte le volte che ti pare».
«Non è una cosa bella. Perché l'hanno fatta, se non è una cosa bella?».
Remus e Tonks si erano scambiati un'occhiata eloquente.
«Così, noi tutti avremmo imparato quanto è importante la vita» aveva detto pacatamente Remus.
«A me, questa cosa della morte mi pare una fregatura» aveva commentato con decisione Teddy, scuotendo il capo verdognolo. «Se non sei più qui, dove vai?».
«Non lo sa nessuno di preciso. In qualche posto divertente, immagino».
«Come un parco giochi?».
Remus aveva alzato le spalle.
«Forse. Non lo so».
«Ma tu sai sempre tutto!» aveva protesto con un sbuffo Teddy, fissando il padre con veemenza. «Non è giusto che non sai dove bisogna andare quando sei morto!».
«Questa è una cosa che non sa proprio nessuno».
«Perché?».
«Perché si muore una volta sola» ripeté Tonks. «E nessuno si è mai preso la briga di tornare indietro per farci sapere come va la morte, dall'altra parte».
«Non mi piace» aveva commentato titubante Minima, giocherellando nervosamente con i bottoni del pigiama. «Non voglio morire».
Remus si era umettato le labbra, riflettendo rapidamente su quale fosse la risposta da dare alla propria ultimogenita. Negli occhi di Minima c'era un luce timorosa del tutto nuova.
«La morte non è nulla di cui si debba avere paura» aveva spiegato lentamente, scrutando in tralice la moglie. Lei aveva annuito con un sorriso di incoraggiamento. «Se così fosse, dovremmo avere paura anche della vita».
«Non è vero» aveva ribattuto Minima con una vocina lamentosa. «Non sai nemmeno dove vai».
«È questo, tesoro, ciò che si teme. Non la morte, ma l'ignoto».
«Che cos'è l'ignoto?» si era informata Andromeda, voltando il capo per guardare la madre.
«Ignoto» ripeté automaticamente Alastor, bloccandosi qualche istante e chiudendo le palpebre con espressione concentrata. «Aggettivo riferito a ciò di cui non si ha alcuna conoscenza o esperienza; non identificato o non identificabile. Può indicare anche una persona sconosciuta o di cui non si è riusciti a stabilire l'identità. Espresso solo singolarmente, denota ciò che non si conosce e che ha quindi carattere di mistero».
Remus gli rivolse un sorriso gentile.
«Non avrei saputo dirlo meglio».
Minima parve aver perso interesse per l'argomento, poiché si era chiusa in un impenetrabile silenzio e non aveva più detto una parola. Né Remus né Tonks erano intenzionati a forzarla, così l'argomento era stato presto sostituito da qualcosa dai contenuti più allegri.
Dopo quella sera, Minima non aveva più parlato della morte, ma entrambi, tuttavia, sapevano che la questione fremeva ancora nella sua mente. Come Tonks ripeteva in continuazione, Minima aveva ereditato il brutto vizio del padre di tenere per sé i problemi; fin quando non avesse voluto lei, non se ne sarebbe più discusso.
Tonks dubitava che ci fosse questa sua delicata paura alla base della sua repulsione per Serpeverde, ma era più che intenzionata ad arrivare a capo della faccenda prima dell'ora di pranzo.
Quando raggiunse l'entrata di Scribbulus, trovò Minima accucciata in un angolino, con le gambe saldamente strette al petto e il busto scosso da violenti singhiozzi. Fece un respiro profondo – poiché quello era indiscutibilmente un pessimo presagio – e si sedette accanto a lei, accavallando un piede sull'altro.
«Che succede?».
Minima non diede nemmeno segno di averla udita. Tonks intrecciò le dita e si accorse che Teddy, Alastor e Andromeda erano in piedi accanto a lei, in silenziosa attesa. Si domandò per quale motivo Remus non li avesse tenuti con sé, quando sapeva perfettamente che Minima avrebbe difficilmente aperto bocca in loro presenza. Ne dedusse che la conversazione con il professor Lumacorno stava sviando verso un argomento ancora più delicato e fece un sospiro affranto.
«Perché non andate a dare un'occhiata alla vetrina del Serraglio Stregato?» propose loro con un sorriso un po' storto, indicando il negozio all'altro capo della strada con un cenno del capo.
«Sì!» esclamò entusiasta Teddy, lanciandosi rapidamente verso l'emporio di animali.
«Ho detto la vetrina, Teddy, non l'intero magazzino!» gli ricordò a gran voce Tonks, passandosi una mano fra i capelli. «State lì, dove posso vedervi» si rivolse agli altri due. «E se Teddy muove un solo piede fuori dal mio campo visivo, avete il permesso di atterrarlo e prenderlo a calci nel didietro».
Alastor e Andromeda ridacchiarono fra loro e si affrettarono a seguire il fratello, che già saltellava davanti al Serraglio Stregato in preda all'euforia. Rimasta finalmente sola con Minima, Tonks cercò di riprendere la conversazione.
«Cos'è successo?».
La bambina scosse con ferrea decisione il capo e Tonks, con un lieve sospiro, appoggiò la nuca all'ingresso di Scribbulus e iniziò a scrutare distrattamente le tegole del tetto dell'edificio di fronte.
«Posso raccontarti una storia da grandi, Minerva?» domandò d'un tratto, intrecciando fra loro le dita e arricciando il naso pensierosa.
Al suono del proprio nome di battesimo, Minima sollevò la testa con aria circospetta: era oltremodo insolito che qualcuno la chiamasse Minerva. Perfino Andromeda Tonks, che si era sempre dichiarata contraria a sciocchezze come i nomignoli, aveva preso l'abitudine di chiamarla semplicemente Minima. Alcuni dei loro conoscenti, oltretutto, dovevano faticare non poco prima di ricordare quale fosse, effettivamente, il vero nome della bambina.
«Molto da grandi, intendo» riprese Tonks, scrutandola in tralice.
Minima annuì una volta e si asciugò rapidamente il naso con la manica del vestito.
«È una storia che inizia molto tempo fa, quando nessuno di voi era ancora nato. Nemmeno io ero ancora nata, in effetti» iniziò a raccontare. «Tanti anni fa, c'era una famiglia Purosangue molto ricca, potente e temuta».
«Purosangue?».
Tonks si mordicchiò pensierosa il labbro inferiore, chiedendosi se esistesse realmente il modo di trasformare una storia ricca di orrore in una favola per bambini.
«È una parola un po' vecchia. Un Purosangue è qualcuno che non ha nessun parente Babbano. Ormai, non ce ne sono molti».
«Noi lo siamo?».
«No. I miei nonni erano Babbani» spiegò semplicemente Tonks. «E c'è stato un tempo in cui certi Purosangue credevano che i Babbani fossero... beh, che non fossero alla loro altezza e che non meritassero la magia».
«Ed è vero?».
«Certo che no. È una sciocchezza. Ma alcuni lo credevano al punto da odiare ogni Babbano, ogni figlio di Babbano e chiunque non condividesse il loro pensiero».
Minima aggrottò pensierosamente la fronte.
«Odiare non è una bella cosa» commentò placida. «Anche questa famiglia fortissima odiava così tanta gente?».
«Oh, sì... eccome».
«E perché li odiavano? I Babbani gli avevano fatto delle cose brutte?».
Tonks fece un profondo respiro.
«Niente di brutto. Li odiavano perché erano tutti pazzi. E cattivi. Molto, molto cattivi» rispose.
«Ed erano Serpeverde?».
Tonks annuì appena.
«Lo sapevo!» strillò infervorata Minima, picchiando i piedi per terra e guardando la madre come se questa l'avesse appena tradita. «Lo sapevo! Lo sapevo! Lo sapevo!».
«Ehi, uragano Minima, fammi finire!» la interruppe con un mezzo sorriso Tonks, afferrandole scherzosamente un orecchio e muovendole appena la testa. «C'era anche una ragazza. Una bella, giovane strega che faceva parte di quella famiglia di pazzi. E pure lei era una Serpeverde».
«Era cattiva, allora».
«No, non lo era. Era buona e gentile, e quando divenne più grande, s'innamorò perdutamente di un NatoBabbano – uno con i genitori Babbani. Quando la scoprirono, i suoi genitori andarono su tutte le furie».
Minima aggrottò confusa le sopracciglia.
«Perché?».
«Perché non volevano che lei lo sposasse».
«Perché?».
«Perché lui era un Babbano».
«Oh» commentò semplicemente Minima, grattandosi una guancia. «E poi?».
«La costrinsero a scegliere. Se avesse rinunciato a quel ragazzo, avrebbe vissuto nello sfarzo e nel lusso per tutto il resto della propria vita, circondata da oro, gioielli e bei vestiti. Sarebbe stata ricchissima».
«E se non lo faceva?».
«Se non avesse rinunciato a lui, avrebbe perso ogni cosa».
«Cos'ha fatto?».
Tonks fece un sorriso sghembo.
«Rinunciò alle montagne di Galeoni, ai ricchi manieri e agli abiti ricamati. Scelse di stare con il giovane di cui era innamorata e di affrontare ogni difficoltà della vita con le proprie forze. Sapeva a cosa sarebbe andata in contro: lui era uno squattrinato e lei non aveva più nulla, ma a nessuno di loro importava qualcosa. Rimasero poveri in canna fino alla fine, ma non smisero mai di amarsi».
«E lei era una Serpeverde?» domandò circospetta Minima, inclinando la testa. «Non ci credo».
«Potrai domandarglielo di persona, se vorrai» rispose divertita Tonks. «Stasera, a cena».
Minima scosse il capo.
«Ma stasera ceniamo dalla nonna».
Tonks fece un sorriso storto e le scompigliò i capelli scuri.
«Lo so».
*



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Capitolo 7
*** Cene di famiglia ***


Note dell'Autrice – sempre discutibilmente utili:
La mia visione di Andromeda Tonks è scriteriatamente mutata nel corso del tempo. All'inizio, credevo fosse adorabile, perché una Black che sposa un Nato Babbano non può che essere buona, gentile e adorabile. Poi sono cresciuta e ho capito che no, se uno è un bastardo, rimane bastardo. Voglio dire, pure Sirius Black è un Black atipico, ma rimane comunque un maledetto infame. Fighissimo infame, okay, ma sempre infame.
Nota numero due, in questa storia Andromeda Tonks sarà sempre definita con l'appellativo di signora Tonks”, perché a) non voglio confonderla con quella in versione mignon e b) fa più figo, perché pure Molly Weasley è sempre e soltanto “la signora Weasley”.

La Casa Stornella
Capitolo Sei
Cene di famiglia




È un dato di fatto come maghi e streghe invecchino ben più lentamente dei Babbani. I loro capelli tendono a ingrigire e a cadere attorno agli ottant'anni; le mani raggrinziscono, le ossa si piegano e i muscoli si sgonfiano solo dopo parecchie decine di anni; i denti si indeboliscono quando ormai si ha un secolo di vita alle spalle. Per qualunque Babbano, un mago di settant'anni non potrebbe mai dimostrarne più di una cinquantina – perfino una quarantina, se il mago in questione è particolarmente avvenente.
Andromeda Tonks, oltre ad essere una strega, era anche una Black, e c'era poco da stupirsi che all'età di cinquantacinque anni fosse ancora una delle più affascinanti donne dell'intera comunità magica. Sebbene la perdita del marito continuasse ad essere una profonda, profondissima ferita, la signora Tonks era stata in grado di restare saldamente in piedi, aggrappandosi con quanta più forza disponesse a tutto ciò che le era rimasto: prima uno, poi due, poi tre, e infine quattro nipoti con due genitori a suo parere inaffidabili si erano rivelati un motivo oltremodo sufficiente per mantenere la testa sulle spalle.
Amava sua figlia (e con il passare degli anni doveva ammettere di aver iniziato a nutrire un certo attaccamento anche nei riguardi di Remus), ma era troppo vivace e scalmanata. Ora che era diventata un pezzo grosso all'interno del Quartier Generale degli Auror, qualcuno già vociferava che ne sarebbe presto diventata il capo e Andromeda sapeva perfettamente quali sarebbero state le conseguenze: i suoi nipoti sarebbero cresciuti con una madre perennemente rinchiusa in un ufficio e un padre che rincasava alla sera tardi per poi sparire per ore a correggere centinaia di pergamene.
In realtà, la gestione del tempo e del lavoro a Casa Stornella era perfettamente equilibrata e sebbene la signora Tonks fosse perennemente contrariata, sapevano tutti che amava tenere i bambini quando la figlia e il genero erano entrambi impegnati con il lavoro. Ma era una Black, e il melodramma, in qualche modo, le era rimasto appiccicato come una Gomma Bolle Bollenti sotto la suola delle raffinate scarpette.
«...e mentre quella carogna di Catriona Chittock usciva dal negozio di Marjorie con quelle sue guance gonfie rosse quanto due pomodori, si è incastrata nella porta d'ingresso» stava raccontando con tono leggero la signora Tonks. «Una scena scandalosa, credetemi. Un Troll avrebbe causato meno imbarazzo».
Remus e Tonks sollevarono le teste dalla cena e si scambiarono uno sguardo eloquente. Sapevano entrambi che il contegnoso modo di raccontare della signora Tonks era tutto una farsa: lei e Marjorie McClan odiavano la signora Chittock dacché era ancora la signorina Pennifold, e nessuno dei due si sarebbe stupito, se avessero scoperto che tanto Andromeda quanto Madama McClan erano coinvolte nell'umiliante episodio.
«Ci sono i Troll a Diagon Alley?» domandò con stupore Teddy, mentre i suoi occhi vispi brillavano di curiosità. «Perché non li ho mai visti?».
«I Troll non vivono in città» commentò rapidamente Alastor. «Vivono solo nei pressi dei fiumi, nelle foreste e sulle montagne».
«Lo so!» ribatté l'altro indignato. «Ma, magari, qualcuno poteva averceli portati».
«Non dire sciocchezze, Ted» lo ammonì con pratica accondiscendenza la signora Tonks. «Chi potrebbe mai essere tanto pazzo da portare un Troll a Diagon Alley?».
«Hagrid» rispose d'impulso Remus, mentre infilzava con aria scettica un pezzo agnello arrosto particolarmente bruciacchiato. «Lo scorso mese ha cercato di camuffare un Erkling da Gnomo. Non è una scelta particolarmente saggia, portare in una scuola un animale che si nutre di...» mosse la mano a mezz'aria con un gesto eloquente. «Beh, sapete entrambe di cosa si nutre».
«Di bambini» rispose con innocente candore Minima, alzando di colpo il viso dal proprio piatto e attirando su di sé diversi sguardi sconcertati.
«Che forza!» commentò dopo un istante di silenzio Teddy, con un bagliore preoccupantemente eccitato negli occhi. «Papà, possiamo...?».
«No, non compreremo un Erkling».
*

«È vero ciò che si dice sulla professoressa Sprite, Remus?» domandò con sincero interesse la signora Tonks, mentre sorseggiava un sorso di té con il mignolo destro alzato con estrema signorilità.
Remus sollevò perplesso entrambe le sopracciglia e le rivolse un sorriso gentile.
«Cosa, di preciso?».
«Ma che andrà in pensione alla fine del prossimo anno scolastico, ovviamente».
«Ah» disse lui. «No, in realtà, non ha ancora preso una decisione definitiva».
«Eppure, si dice che lei e la Preside McGranitt abbiano già trovato un sostituto».
«Ehm... beh, temo siano solo congetture, per il momento e...» si fermò improvvisamente, accigliato. Socchiuse gli occhi e scrutò la signora Tonks con profondo scetticismo. «Andromeda... da chi l'hai saputo?».
Lei dovette trovare quella domanda piuttosto ridicola, perché fece una smorfia che pareva voler dire “io sono Andromeda Tonks, santo cielo!”.
«Dal professor Lumacorno. Da chi altri, sennò? Tu non hai mai la decenza di informarmi su ciò che accade o non accade a Hogwarts. Non che Ninfadora dimostri un garbo maggiore, naturalmente, ma...».
«Oh, che Tosca m'aiuti!» esclamò Tonks, comodamente rannicchiata sul piccolo divanetto del soggiorno e con la testa mollemente sostenuta sul palmo della mano.
Remus l'aveva intravista occhieggiare con palese insistenza verso il grande orologio a pendolo dacché si erano accomodati per bere la consueta tazza di tè dopo la spaventosa cena. Aveva imparato a riconoscere il preludio ad una litigata “in stile Tonks” da parecchi anni, ormai, ed era più che pronto a trovare rapidamente una scusa per sfuggirne.
«Mamma, non puoi pretendere che io e Remus ti snoccioliamo tutto quello che succede a Hogwarts e al Ministero ogni dannata volta. Qualcuno potrebbe pensare che sei stata assoldata da qualche psicopatico terrorista».
«È questione di buona conversazione, Ninfadora. Non posso credere che...».
«Non chiamarmi Ninfadora!».
Remus chiuse le palpebre e appoggiò la nuca al cuscino della poltrona con un sospiro affranto. Forse, si disse, avrebbe potuto sgattaiolare al piano di sopra prima di essere tirato in causa: avrebbe fatto qualunque cosa, pur di evitare un simile pericolo. Dopo qualche minuto, la causa della discussione originaria era già stata dimenticata, ma ormai erano stati riaperti troppi vecchi quesiti per poter sperare che le acque si riappacificassero rapidamente. Remus considerò di lasciar loro almeno una dozzina di anni di tempo per sistemare la conflittualità del loro rapporto; avrebbe potuto prendere con sé i bambini ed emigrare all'estero fino a quel meraviglioso giorno. Si stava giusto crogiolando nella fantasia di un viaggio attraverso l'Europa centrale, quando si sentì tirare con insistenza la manica della camicia.
«Papà, la mamma e la nonna litigano ancora?» pigolò tristemente Andromeda.
«No, no, no! Non stanno litigando» mentì con un sorriso di spudorata serenità lui, aggiustandole un ricciolo biondo dietro all'orecchio sinistro. «È solo il loro modo di parlare l'una con l'altra, questo. Sai, quando sono insieme, hanno così tante belle cose da raccontarsi che vogliono essere certe che l'altra le senta bene».
«Ecco perché urlano sempre».
Remus dovette appellarsi a tutto il suo controllo per non scoppiare a ridere. In quel preciso istante, alle sue spalle, la signora Tonks stava gridando qualcosa a proposito di un vestito di pizzo che non era mai stato sufficientemente apprezzato dalla figlia e quella, da gran donna di classe qual era, lo aveva appena paragonato al deretano di un Goblin – o qualcosa del genere.
«Papà?» riprese con più sicurezza Andromeda.
«Sì?».
«Non riusciamo più a trovare Minima».
*

«Che significa “sparita”, Alastor?» s'informò accoratamente la signora Tonks. «Come può Minerva essere “sparita”?».
Ritti in mezzo al corridoio del primo piano, i tre bambini si scambiarono uno sguardo preoccupato.
«Non vogliamo sgridarvi» li rassicurò in fretta Remus, infilando le mani nelle tasche e appoggiandosi alla parete con aria tranquilla. «Vogliamo solo capire dove può essersi nascosta».
«Non lo sappiamo!» scosse la testa Alastor. «Prima stavamo giocando a nascondino e poi non l'abbiamo più vista! L'abbiamo cercata dappertutto, ma è come se fosse sparita nel nulla!».
«Beh, direi che ha proprio vinto, allora» commentò divertita Tonks.
«Che sciocchezze» commentò la signora Tonks. «E dove dovrebbe essere andata? Nel forno insieme al mio rognone?».
«Oh, no! Alastor, Dromeda! Andiamo!» gridò allarmato Teddy, precipitandosi verso le scale e seguito a ruota libera dal fratello e dalla sorella. «Dobbiamo salvarla prima che quello se la mangi!».
«“Quello”?» ripeté oltraggiata la signora Tonks. «“Quello” è il mio rognone!».
Tonks ebbe la creanza di attendere giusto un paio di istanti prima di scoppiare in una sfrenata risata. Remus si portò una mano alla bocca per trattenere le risa, ma quando la signora Tonks lo fulminò con un'occhiata, si dimostrò molto accorto nell'assumere un'espressione assolutamente colpevole e pentita. Tonks, al contrario, continuò a ridere sfrenatamente ed ebbe qualche problema ad informarli che sarebbe scesa lei, in cucina, per controllare che i figli non combinassero qualche guaio. Remus e la signora Tonks riuscirono a sentire la sua risata fin quando non si fu richiusa la porta della cucina alle spalle.
«Il mio rognone è davvero così cattivo?» domandò lei qualche secondo dopo, con un'espressione talmente affrante e delusa che Remus proprio non se la sentì di assentire.
«Certo che no» le rispose con sfrontata sicurezza. «Coraggio, Campanellino, dove preferisci cercare la nostra Bimba Sperduta?».
La signora Tonks aggrottò torva le sopracciglia.
«Era una battuta?».
«Ehm, avrebbe dovuto esserlo, sì».
«Una battuta Babbana?».
«Sì. Sì, temo di sì...».
Lei annuì un paio di volte, mentre Remus si umettava imbarazzato le labbra.
«Era ridicola» commentò francamente la donna, avviandosi lungo il corridoio con passo pratico. «Da' un'occhiata nelle camere da letto, mentre io controllo in soffitta».
«Certo».
«Ah! Remus! Un'ultima cosa...» lo richiamò improvvisamente la signora Tonks.
«Sì?».
Le labbra della strega si arricciarono in un sorriso di bieca soddisfazione.
«Bada che io ho sempre tifato per Capitan Uncino».
*

Erano anni che la signora Tonks non risaliva la piccola scala di legno che portava alla soffitta della sua piccola e curata villetta. Erano così tanti, in effetti, che quasi aveva dimenticato quanto fosse scomoda, di che colore fosse e quanto fosse poco illuminata. Mentre apriva la piccola porticina chiara con un movimento sbrigativo della bacchetta, si rese conto per l'ennesima volta di non averla mai dimenticata – di non averla mai richiusa.
Erano trascorsi nove anni dacché vi era salita, con Remus accanto a lei, le mani saldamente strette attorno ai suoi fianchi e la voce roca che sussurrava frasi confortanti di cui la signora Tonks non aveva mai davvero ascoltato le parole. Ed era stato sempre Remus a incantare il baule in cui avevano religiosamente riposto la maggior parte degli oggetti che erano appartenuti a Ted in modo che librasse sopra le loro testa, verso quella soffitta oscura in cui sarebbe rimasto per sempre sepolto. Non era necessario che Andromeda seguisse quel grigio corteo. Non era necessario che nessuno di loro lo seguisse, ma fu naturale: era come una richiesta mai espressa, come un fatto di ineluttabile concretezza – come qualcosa da cui non potevano sfuggire. C'era Remus, accanto alla signora Tonks, e c'era Tonks, subito dietro, con i capelli scoloriti e il piccolo Teddy con la chioma variopinta fra le braccia. E poi c'era l'altro Ted, quello dentro al baule che guidava tutti loro verso quell'ultimo congedo familiare.
Risalire quelle scale, per la signora Tonks, era una sfida che aveva continuato ad evitare da quel giorno. Non sapeva dove avesse trovato la naturalezza di lasciare a Remus il compito di stanare Minima nelle stanze da letto. Una parte di sé, si rese improvvisamente conto, non aveva nemmeno pensato a cosa avesse sigillato nella soffitta.
Mentre posava il piede sul primo gradino, sorrise serenamente. Era certa che se lui fosse stato ancora vivo, avrebbe perfino avuto la sfrontatezza di dirgli: “Ce l'ho fatta, Ted. Ce l'ho proprio fatta”.
*

L'istinto della signora Tonks non la deluse affatto: Minima era proprio lì, dove meno ci si sarebbe aspettato di trovarla.
Era piuttosto raro che i suoi nipoti si inoltrassero nella soffitta. Non che mancassero di spirito d'avventura (Teddy ne era così ricolmo che avrebbe potuto dividerlo con altri dieci bambini e sarebbero comunque stati tutti troppo curiosi), ma avevano imparato che i loro pellegrinaggi in quell'anfratto polveroso avevano sempre il potere di rattristarla, in un modo o nell'altro. Poco importava che fosse a causa di una vecchia pipa sbeccata o di una sciarpa gialla e nera di cui domandavano insistentemente informazioni: la nonna diventava sempre malinconica e silenziosa, mentre raccontava loro di quanto fumasse o di cosa facesse a scuola il nonno. Come se avessero stretto fra loro un tacito accorto, quei piccoli furti di passato si erano fatti via via sempre meno frequenti.
«Minima?» la chiamò gentilmente la signora Tonks.
Minima era seduta a gambe incrociate sotto al lucernario al centro del tetto e sembrò fingere a tutti i costi di non aver sentito la voce della nonna.
«Minerva?» ritentò con maggiore insistenza quella, avvicinandosi lentamente a lei. Ad ogni passo, leggere nuvolette di polvere si sollevavano attorno a lei. «Minerva, cosa fai quassù?».
«Volevo vincere» mormorò la bambina con aria distratta. «Qui non mi cercava nessuno».
«Non stento a crederlo. Non si riuscirebbe a trovare nemmeno un Gigante, con questo buio».
Non ottenendo nessuna risposta, la signora Tonks iniziò ad avvertire un insolito disagio ed Appellò una vecchia poltrona che ammuffiva in un angolo da decenni.
«Gratta e netta».
Riconobbe ciò che Minima stringeva fra le piccole mani solo dopo essersi seduta. Sebbene fosse trascorsa una vita intera dal giorno in cui la Gazzetta del Profeta aveva pubblicato quell'articolo, per lei sarebbe stato impossibile dimenticarsene. Nulla di quanto giaceva in quella soffitta poteva essere dimenticato.
«Dove hai trovato quel ritaglio di giornale?» le domandò subito, accorgendosi troppo tardi dell'involontario tono brusco.
«Qui» rispose lei, alzando appena il mento.
La signora Tonks imprecò mentalmente. Non sarebbe nemmeno riuscita a spiegare per quale diavolo di motivo avesse conservato quel diavolo di articolo per tutti quegli anni. Risaliva all'inverno del 1981 e non le aveva mai causato nient'altro che dolore; eppure, per qualche strano motivo, non era riuscita a trattenersi dalla necessità di conservarlo.
«Questa sei tu, nonna?».
Con un profondo respiro, la signora Tonks allungò una mano verso di lei e afferrò la vecchia stampa con la sensazione che si sarebbe sbriciolata fra le sue dita. Venne attraversata da un brivido di freddo nell'incrociare ancora una volta gli occhi scuri e alienati di Bellatrix.
Non l'aveva mai temuta – mai, nemmeno quando aveva tentato di ucciderla dopo la sua fuga – ma c'era sempre stato nel suo sguardo qualcosa di tremendamente spaventoso. Era sempre stata sbagliata, Bellatrix, fin da quando erano nate. Era sempre stata troppo spaventosa e sbagliata, perfino in una famiglia spaventosa e sbagliata come quella dei Black. La sorella maggiore le rideva da quella fotografia con arrogante presunzione, come se volesse rimarcare di aver vinto qualcosa di quella maledetta guerra, nonostante tutto. Era probabilmente un'idea malsana, ma la signora Tonks aveva davvero l'impressione che Bellatrix fosse lì per ricordare soltanto a lei, ventisei anni dopo essere stata fotografata, che aveva perduto. Bellatrix si era sbarazzata di Ted, alla fine dei giochi – e in qualche assurdo modo aveva vinto lei.
«No» smentì in fretta. «No, non sono io».
«E chi è? Sembri proprio te».
La signora Tonks si umettò nervosamente le labbra e appoggiò stancamente il capo alla poltrona.
«Nessuno» mentì con voce flebile. «È solo una donna che mi assomigliava molto. Non ha niente a che fare con noi».
A parte il fatto che ha ammazzato tuo nonno.
Se Minima trovò quella risposta poco esauriente, non lo diede a vedere. Si alzò con calma dal pavimento, si scrollò un po' di polvere dalle ginocchia e mosse qualche passo in direzione della nonna, accanto la quale rimase in silenzio per qualche istante, fissando intensamente la vecchia fotografia.
«È bella, ma tu sei più bella» commentò con innocente schiettezza.
La signora Tonks le carezzò leggermente i capelli scuri con un lieve sorriso sulle labbra. Lei e la sorella maggiore si erano sempre assomigliate ben più di quanto nessuna delle due avrebbe desiderato: i suoi capelli erano un poco più chiari, ma ricadevano con la stessa composta eleganza sulle spalle; i suoi occhi erano solo vagamente più grandi, ma brillavano della stessa energica determinazione; le loro labbra avevano la stessa linea sottile, ma le sue sorridevano con maggiore frequenza. E amavano entrambe nello stesso feroce modo, con la stessa totale devozione – ma, alla fine, Bellatrix aveva scelto di essere fedele all'uomo sbagliato.
Minima le assomigliava più di quanto la signora Tonks non avesse immaginato e, allo stesso tempo, le assomigliava molto meno di quanto non avesse potuto sperare. Ne aveva tragicamente ereditato l'aspetto (e talvolta aveva quasi l'impressione di parlare con la stessa bambina che un tempo era stata sua sorella), ma della casata dei Black non era rimasto niente che potesse rigenerare in lei quella perversione e quell'insana follia che Bellatrix aveva fomentato per tutta la vita. Minima era Minerva Lupin, e tanto bastava a placare le chiacchiere insistenti che si levavano da Diagon Alley. Era un caso, tutt'al più, un buffo scherzo della sorte.
I Black non si vogliono proprio estinguere!” esclamava qualcuno talvolta.
Un parte della signora Tonks, tuttavia, continuava a temere che un giorno quella malsana somiglianza avrebbe potuto causarle dei problemi. Bellatrix faceva parte di un passato troppo presente e drammatico per poter essere dimenticata e Minima, per sua disgrazia, rischiava di venirne intaccata. Come la signora Tonks, Minima sfoggiava impunemente tutti i tratti riconducibili alla famiglia Black, e la signora Tonks era perfettamente a conoscenza di quante difficoltà si trascinassero dietro.
«Nonna?».
«Sì?».
«Raccontami la storia della ragazza che si è innamorata ed è scappata di casa».
La signora Tonks sorrise di nuovo. Ma, forse, pensò mentre aiutava Minima a salirle sulle gambe, Bellatrix non era riuscita a vincere proprio un accidente.

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Capitolo 8
*** Cene di lavoro ***


Note dell'Autrice – sempre discutibilmente utili:
Sono desolata per l'incredibile ritardo, ma in questo periodo la mia ispirazione ha toccato l'apice della depressione. Chiedo perdono.
In questa long-fic, Harry non è ancora Capo degli Auror. Harry ha sconfitto Lord V. con un culo fuori da ogni logica, gente, e io non voglio rendermi colpevole di aver messo la sicurezza magica della Gran Bretagna nelle mani del Prescelto più fortunato che la letteratura abbia mai visto.
Senza offesa, eh, Harry? Adoro i tuoi occhiali, ma con metà del tuo fondoschiena avrei già fatto trentasei all'Enalotto.

La Casa Stornella
Capitolo Sette
Cene di lavoro




La gente tendeva a ricordare con parecchia chiarezza i grossi occhiali cerchiati di Percy Weasley. Fin dagli anni di Hogwarts, avevano sempre avuto la capacità di aumentare notevolmente l'impetto visivo del giovane mago, incrementando ogni visibile sfaccettatura del suo carattere serio e puntiglioso. Erano occhiali particolarmente grossi e antiquati, e il vizio di Percy di aggiustarseli in continuazione sul lungo naso dritto non faceva che attirare maggiormente l'attenzione su quanto fosse effettivamente ridicolo. A Percy, ovviamente, certi dettagli del comune senso estetico erano completamenti sconosciuti e, sebbene si vociferasse che una certa Audrey dell'Ufficio Passaporta trovasse quegli occhiali particolarmente affascinanti, l'impressione che si era soliti avere circa il personaggio di Percy Weasley era piuttosto gravosa.
Non avendo mai avuto modo di conoscere il terzogenito della famiglia Weasley prima della Battaglia di Hogwarts, Tonks aveva imparato a combattere la sua rigida pignoleria nel peggior campo di guerra: il Ministero della Magia, patria della burocrazia più inutile e degli accumuli di scartoffie cartacee. Con il trascorrere degli anni, poteva ben dire di aver raggiunto un buon livello di resistenza ai suoi micidiali interventi, ma non aveva ancora la prontezza di reazione di George Weasley e, talvolta, Percy continuava ancora ad averla vinta.
«...ed il punto che vado specificatamente sottolineando, Auror Tonks, è dunque il seguente: laddove vengono a mostrarsi lacune, inefficienze o mancanze di professionalità che difficilmente potrebbero evitare lo sguardo critico della delegazione francese di Monsieur Chevalier, il Ministro Shacklebolt invita al repentino ripristino dell'adeguatezza richiesta dalle norme vigenti, con particolare attenzione, nel preciso, a questo particolare ripristino».
Senza distogliere gli occhi brillanti dall'espressione compita di Percy, Tonks si umettò leggermente le labbra e sbatté un paio di volte le palpebre, senza tentare minimamente di camuffare il suo desiderio di ridere.
«Mi sono persa alla parola “specificatamente”, Percy».
Lui sollevò di scatto la testa dalle centinaia di pergamene che stringeva fra le mani. Aggiustò gli occhiali sul naso nervosamente, fece una smorfia stizzita e parve fremere con crescente agitazione.
«Ehi, non prendertela» scherzò Tonks, portando nuovamente alla labbra la tazza da cui stava sorseggiando caffè. «Mi sono distratta: è una parola così bella. Credo sia appena diventata la mia parola preferita del giorno».
«Non mi prenda in giro».
«Ti sto solo specificatamente chiedendo di ripetere quello che hai detto. E non c'è bisogno di darmi del lei, ceniamo insieme almeno quattro o cinque volte al me--».
«Le sto dicendo, Auror Tonks, che attendiamo la delegazione di Monsieur Chevalier per il prossimo martedì. Per quella data, il Ministro Shacklebolt le sarebbe infinitamente grato se ricomponesse l'ordine in quest'ufficio».
«Certo. Dammi un secondo che cerco l'indirizzo di Mary Poppins sulla mia agenda...».
«Chi?» domandò perplesso Percy, inclinando appena il capo e sistemando ancora gli occhiali. «Gradirei ricordarle, Auror Tonks, che il personale non addetto al Quartier Generale degli Auror deve essere approvato previo consenso della Commissione Generale del--».
«Percy!» strillò Tonks. «Stavo solo scherzando».
Lui parve particolarmente offeso.
«Io prendo le mie competenze con estrema serietà».
«E dire che non se ne accorge nessuno!» disse con pesante sarcasmo. «Quanto talento sprecato!».
Percy mosse la mano a mezz'aria come se la questione avesse perduto improvvisamente di importanza, cercò con estrema rapidità fra i plichi di pergamene che aveva fra le braccia, ne estrasse uno considerevolmente spesso e lo lasciò cadere sulla scrivania di Tonks.
«“Nuova Normativa Regolamentare e Cavillosa per il Quartier Generale degli Auror”» lesse attentamente lei, sollevando un sopracciglio. «“Cavillosa”? Oh, Tosca, chi è il perverso psicopatico che ha avuto l'idea di chiamarlo “cavillosa”?».
Lui assottigliò pericolosamente gli occhi e, per la terza volta nel giro di pochi minuti, spostò nervosamente gli occhiali.
«Io».
«Ah, avrei dovuto immaginarlo» disse Tonks, sollevando entrambe le mani in segno di resa. «Chi, se non il paladino degli idiomi perduti, poteva chiamarlo “cavillosa”? Ora come ora, sono stupita che tu non lo abbia chiamato “specificatamente cavillosa”».
Percy ignorò il suo commento per l'ennesima volta e Tonks si chiese quante di quelle battute avesse dovuto sopportare l'allampanato giovane durante la sua adolescenza. Era un Weasley piuttosto atipico, a conti fatti: Bill aveva sempre camuffato accuratamente un animo piuttosto scanzonato e irriverente, due caratteristiche che Charlie, al contrario, non si era mai preoccupato di nascondere. Ginny si era rilevata, se possibile, peggio di lui e perfino Ron, a modo suo, aveva ereditato quel non-so-che tutto matto annidato nei geni Weasley. E poi c'erano stati i gemelli – o quello che di loro era rimasto – e molte delle loro bravate erano già diventate leggendarie.
Al pensiero di Fred Weasley, Tonks s'incupì un poco e smise di ascoltare il lontano ronzio delle parole di Percy. Dalla Battaglia di Hogwarts e dalla fine della guerra erano trascorsi quasi dieci anni, eppure c'erano squarci e ferite da cui nessuno di loro sarebbe mai guarito.
«Tonks, mi ha sentito?».
Tonks lo fissò con sguardo ebete e una vocina dentro la sua testa bisbigliò “certo, come no”. Annuì con estrema lentezza, senza avere la più pallida idea di cosa Percy avesse appena blaterato.
«Non voglio problemi con Monsieur Chevalier, Tonks» le sibilò. «Sono mesi che organizzo ogni singolo dettaglio. Legga quelle pergamene e riorganizzi le sue squadre».
«Perché io?» chiese con voce lamentosa Tonks. «Perché non Robards? È lui, il capo!».
«Gawain Robards è troppo impegnato per potersi dedicare anche a questo. Il Ministro ha suggerito che se ne occupi lei».
«Kingsley ti ha suggerito... cosa? Scherzi? Quel figlio di--».
«Auror!» la ammonì con voce isterica Percy, raddrizzando ancora gli occhiali. «Non si rivolga al Ministro come--».
«Tua madre ha invitato anche lui, stasera?» lo interruppe lestamente Tonks, incrociando stizzita le braccia al petto.
«Tonks, non... le faccende familiari non--».
«Faccende familiari? Faccende familiari!? La sola faccenda familiare è che lo ammazzo prima della torta di rabarbaro, ecco qual è la faccenda familiare! Quel dannato! È il padrino del mio secondogenito e si permette di... di... di...» ringhiò a pugni stretti. «Io lo ammazzerò, Percy, quindi ti consiglio specificatamente di correre a cercare un nuovo Ministro della Magia».
Percy si passò stancamente una mano sulla fronte.
«Naturalmente, naturalmente...» la liquidò in fretta. «La lascio alle sue scalmane, agente Tonks. Impari la Nuova Normativa Regolamentare e Cavillosa per il Quartier Generale degli Auror e prepari l'ufficio per Monsieur Chevalier».
Con un'ultima occhiata sprezzante, Percy girò sui tacchi e uscì dal cubicolo in cui lavorava Tonks. Non appena lui e le sue ridondanti pergamene furono spariti dalla sua vista, Tonks imprecò con estrema volgarità. Le facce arrossate di Charles Savage e Philibert Proudfoot fecero improvvisamente capolino nel suo cubicolo. Agli occhi di Tonks, era fin troppo chiaro che i due colleghi avevano sghignazzato sotto i baffi per tutta la durata del suo colloquio con Percy (e molti altri avevano sicuramente origliato ogni parola).
«Avete poco da ridere, bastardi» disse loro con aria depressa, sprofondando nuovamente nella poltrona e afferrando la tazza di caffè. «Siete fregati quanto me, voi due».
*

«Lui dov'è?».
Presa alla sprovvista, Molly Weasley sbatté un paio di volte le palpebre con aria confusa. Asciugò le piccole mani tozze nel lungo grembiule che indossava, sfilò la bacchetta magica dalla tasca e spense la radio con un leggero colpetto.
Sebbene la nascita dei nipoti si fosse rivelata un balsamo per il vuoto lasciato dalla tragica scomparsa di Fred, il suo carattere nervoso e protettivo si era via via acuito con il trascorrere del tempo. I suoi costanti preparativi di ricche e prelibate cene alle quali avrebbero partecipato tutti i componenti del clan Weasley avevano qualcosa di vagamente ossessivo. Pareva proprio che il rito della cena settimanale alla Tana avesse assunto un connotato profondamente terapeutico per la signora Weasley, come se le teste rosse che tornavano a popolare la vecchia dimora potessero portare con loro un poco di Fred. In realtà, pareva quasi che per ognuno di loro i ritrovi alla Tana possedessero il potere di lenire ogni ferita che la guerra aveva lasciato squarciata.
Ognuno di loro aveva perso qualcosa e ognuno di loro aveva bisogno di ricordare che la vita, in qualche modo ironico e perverso, doveva proseguire con la stessa briosa serenità degli anni precedenti.
Il grande giardino della Tana veniva circondato da efficienti Incantesimi Riscaldanti ogni venerdì sera dacché i più piccoli avevano memoria e la casa sembrava infiammarsi con decine di teste rosse, piccoli maghi e streghe alle prese con le prime incontrollabili magie e coppie di genitori che sfoggiavano sorrisi sfiniti.
Remus aveva tentato inutilmente di dissuadere Tonks dall'intento di generare un putiferio quel venerdì sera: quando se l'era vista capitombolare nel salotto di Casa Stornella, poche ore prima, si era ritrovato piuttosto impreparato dinanzi alla sua implacabile furia. Aveva parlato di uccidere il Ministro della Magia, nonché loro grande amico e padrino di Alastor, come aveva gentilmente cercato di ricordarle, ma nulla di quanto avesse detto sembrava aver funzionato.
Ed ora era lì, dritto e rassegnato alle spalle della moglie che aveva iniziato a sondare ogni angolo della Tana alla ricerca del profilo alto e scuro di Kingsley Shacklebolt con la minacciosa intenzione di Trasfigurarlo in una teiera.
Vedendola varcare la soglia con la foga di un crociato, la signora Weasley aveva sbattuto un paio di volte gli occhi e aveva rivolto a Remus uno sguardo perplesso. Mentre cercava di contenere l'entusiasmo con cui Teddy continuava a saltellarle attorno, disse:
«Per tutti gli gnomi del Devonshire, chi sta cercando?».
«Kingsley» rispose brevemente Remus con un'alzata di spalle. «Temo che...».
«Oh, no!» urlò improvvisamente la signora Weasley. «No, no, no! Niente lavoro al venerdì sera! Tonks!».
Remus la guardò svanire di corsa dietro la scia della moglie con più rapidità di una Materializzazione. Fece un sospiro affranto e alzò le mani in segno di resa.
«Bene, ragazzi» disse ai figli. «Andiamo a cercare-- dov'è Teddy?».
«Roxanne ha dei nuovi Fuochi d'Artificio Freddi» spiegò candidamente Alastor.
Remus sospirò di nuovo e fissò il viso dei tre figli più piccoli illuminarsi di infantile speranza.
«Potete andare».
I bambini erano svaniti prima ancora che potesse terminare la frase.
*

«Alla buon'ora!» gridò Bill Weasley quando Remus ebbe raggiunto il retro della Tana.
Una lunghissima tavolata blu si estendeva per diversi metri – tutt'attorno dovevano esserci le soliti trenta sedie, in effetti – splendidamente illuminata da decine di fluttuanti torce. Sebbene la primavera fosse ancora piuttosto lontana, gli Incantesimi Riscaldanti generavano a loro tutti la stessa placida sensazione di caldo di una serata estiva.
Mentre Bill si avvicinava, Remus sfilò la giacca e se la ripiegò delicatamente sul braccio. Nonostante gli mancasse poco al traguardo dei quarant'anni, Bill Weasley sfoggiava ancora un invidiabile prestanza fisica e una brillante chioma rosso fuoco. Le insistenti pretese della signora Weasley si erano rilevate sempre più vane: pareva che con l'avanzare dell'età la decisione del suo primogenito di portare i capelli “come un mendicante di Notturn Alley” si fosse ormai cementata. Sembrava ormai impossibile immaginare Bill Weasley con i capelli corti. Alle sue spalle, George e Ron gli rivolsero un allegro sorriso.
L'affiatamento fra i due più giovani fratelli era notevolmente incrementato dacché Ron aveva deciso di aiutare George nell'impresa dei Tiri Vispi. Per George, la perdita di Fred aveva causato la perdita di ogni altra cosa; l'intero clan Weasley aveva dovuto riemergere con feroce costanza dalle proprie ceneri e ognuno di loro avrebbe conservato in eterno il segno della prematura scomparsa di Fred, ma George, fra tutti, era quello precipitato più a fondo.
Recuperare ciò che era rimasto di George Weasley era stato talmente difficile da far scivolare nella disperazione la maggior parte di loro. Era incredibile che dopo aver resistito a Lord Voldemort e ai suoi Mangiamorte quando nessun altro aveva conservato la speranza, i Weasley si arrendessero davanti all'apatia dalla quale George aveva scelto di farsi anestetizzare.
Ripensare a quel ragazzo pallido e distrutto e rivederlo in quel momento, con una sgargiante maglietta verde su cui spiccava la scritta “miglior papà del mondo” e il sorriso frizzante stampato sul faccione lentigginoso, avrebbe ridato la speranza all'uomo più disgraziato dell'intero pianeta.
«Ehi, Remus» lo salutò allegramente.
«Ragazzi» ricambiò lui. Lanciò un'occhiata penetrante in direzione di George e inclinò pensieroso il capo. «Quanti Fuochi d'Artificio Freddi ti sono rimasti?».
«Almeno una dozzina, amico mio».
«Ti offro il doppio del loro valore per farli sparire dalla vista di Teddy per almeno un paio di ore».
Mentre George e Ron scoppiavano a ridere, Bill gli assestò una sonora pacca sulla schiena e indicò brevemente con la testa il gruppetto di bambini che schiamazzavano accanto agli alberi che separavano le ampie campagne di Ottery St. Catchpole dalla Tana.
«Tranquillo. Ho pagato Victoire per vigilare costantemente sul resto del branco».
«Pagato?».
«Una Bacchetta di Liquirizia prima di cena» gli confessò in orecchio. «Ti offro il doppio di quanto ho offerto a lei per non dirlo a Fleur».
«Remus!» gridò improvvisamente Harry, spuntando d'un colpo e facendo sobbalzare entrambi.
Indossava ancora la veste d'ordinanza del Quartier Generale degli Auror e il profondo sorriso che sfoggiava non riusciva a coprire appieno il velo di stanchezza che appannava i suoi occhi verdi al di là degli occhiali rotondi. Talvolta, per Remus era difficile rendersi conto che Harry era diventato un uomo (nonché marito e padre), così come gli era difficile per ognuno dei ragazzi che aveva visto sedere fra i banchi dell'aula di Difesa Contro le Arti Oscure. Capitava che si lasciasse trasportare dal ricordo del neonato che era stato un tempo, quando Lily e James erano vivi e Sirius era più lontano da Azkaban e dalla morte di quanto non lo sarebbe mai più stato; dal ragazzino con i capelli scompigliati che aveva incontrato di nuovo sull'Hogwarts Express, al quale aveva insegnato come evocare correttamente un Incanto Patronus e al quale aveva riconsegnato la Mappa del Malandrino senza il minimo morso della coscienza. E poi c'era Ron, quel ragazzetto smilzo e magro come un allocco e con il naso lungo ricoperto di lentiggini; Hermione, con i suoi capelli crespi e i denti sporgenti; Ginny, con la folta zazzera danzante e il sorriso impacciato da bambina; Neville, tutto sua madre, con il suo rospo stretto fra le mani paffute.
Remus si chiedeva spesso se si sarebbe mai rassegnato a quella lieve nostalgia nel rivedere tutti quei vecchi ragazzi diventare sempre più adulti, ma una grande parte della sua testa, con tutta franchezza, non sarebbe mai stata pronta ad abbandonarla: il tempo che continuava a scorrere era il lieto fine per cui ognuno di loro aveva deciso di combattere e morire, dunque perché rattristarsene?
«Harry, sembri distrutto» commentò Bill con un cipiglio preoccupato.
«Sì, amico, bella faccia» scherzò rapidamente Ron, porgendo due bicchieri di Vino Elfico verso lui e Remus.
«Ehi, Ron, mostra un po' di comprensione» continuò Bill. «Tua sorella è pazza e incinta».
«Non è pazza...» mormorò Harry, grattandosi la nuca. «È solo... incinta».
«Ah, Angelina mi ha fatto impazzire tanto con Roxanne quanto con Freddie!» si intromise George, sollevando le mani in segno di resa. «Era così pazza che qualche volta avrei tanto voluto essere io, quello sul divano a lamentarmi delle caviglie pesanti».
«Fleur è uscita di senno solo con Dominique e Louis. Si agitava in continuazione, strepitava in francese, io non capivo un accidente di quello che stava dicendo, sbagliavo immancabilmente ogni cosa e lei strepitava ancora di più. Se non sono finito al San Mungo allora, sarò immune per il resto della mia vita».
«Beh, di certo io rimarrò immune ad avere altri bambini» sentenziò con estrema decisione Ron. «Rose è già sufficientemente perfetta».
«Giusto» annuì seriamente George. «Non vale la pena rischiare che il secondogenito prenda dal padre».
Il gruppetto scoppiò in una nuova tiepida risatina. Senza aggiungere altro, i quattro maghi più giovani si voltarono interessati verso Remus, che era rimasto ad ascoltare i brevi resoconti delle gravidanze delle rispettive moglie con aria estranea. Lui sorseggiò un goccio di vino e alzò distrattamente le spalle.
«Non guardate me: Tonks è calma e ragionevole solo quando aspetta un bambino... temo sia il motivo principale per il quale ora sono padre di quattro figli, in effetti» rispose loro, scatenando altre risate.
«Ve lo dicevo, io, che licantropi e quasi licantropi non sono più fertili degli umani!» ridacchiò Bill, strizzando fugacemente un occhio verso Remus. «Sono soltanto impareggiabili nel--».
L'eco vicino di una donna che strillava impedì a tutti loro di conoscere in quale campo, secondo Bill Weasley, lui e Remus avrebbero dovuto essere impareggiabili. Si voltarono tutti verso la porta della cucina che si affacciava sul retro del giardino appena in tempo per vedere Tonks agitare le braccia al vento con una sfolgorante chioma rosso peperone, la signora Weasley sbuffare con le gote arrossate nel tentativo di spingerla fuori dalla Tana, l'alta figura di Percy seguirla con uno sguardo di boriosa rassegnazione e Kingsley Shacklebolt, ultimo membro di quello strano corteo, appoggiarsi con una spalla allo stipite di legno e ridacchiare con estremo divertimento all'indirizzo di Tonks.
«Tu! Maledetto bastardo di un Ministro bastardo!» strillò stizzita Tonks, voltando la testa e cercando di incendiare Kingsley con uno sguardo oltre le rotondette forme della signora Weasley.
«Tonks!» la rimproverò lestamente lei.
«Si dà il caso che tuo figlio e il tuo Ministro della Magia stiano cercando uccidermi! E ora spostati, Molly, o ti arresterò per resistenza a pubblico ufficiale!».
Remus si sentì improvvisamente fissato da svariate persone. Li guardò uno a uno, scosse la testa e terminò di bere il proprio bicchiere di Vino Elfico.
«A costo di sembrare ripetitivo, non guardate me» disse.
Harry si sistemò gli occhiali sul naso e ridacchiò:
«Beh, Remus, direi che puoi accantonare l'ipotesi di un quintogenito in arrivo».





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