Let your colors burst

di Meggie
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Capitolo 1 ***
Capitolo 2: *** Capitolo 2 ***
Capitolo 3: *** Capitolo 3 ***



Capitolo 1
*** Capitolo 1 ***


LET YOUR COLORS BURST


Capitolo uno

Non fu amore a prima vista.
Di questo ne erano entrambi certi.
E non fu nemmeno così facile, nonostante l’ostinazione di Mercedes nell’affermare che fosse scritto nel destino, o qualcos’altro di così diabetico che anche per Kurt risultava essere troppo gay. E voleva dire parecchio.
Però, se c’era una cosa che Kurt aveva imparato dal professor  – oltre ai suoi terribili abbinamenti scarpe-pantaloni -, era il fatto che a volte il viaggio poteva essere entusiasmante. Non facile – decisamente no – o privo di salite, ma alla fine ne valeva comunque la pena.
Kurt poteva avere dubbi su molte cose, tranne una: ne era valsa decisamente la pena.

*

Non fu amore a prima vista.
Non sul serio.
Anche perché, in effetti, Kurt non era assolutamente lì per cercare l’amore. Piuttosto per capire se ci fosse una qualche speranza, per lui, di vivere in un mondo in cui non doveva costantemente temere di essere sbattuto contro un armadietto. O inondato di granita fosforescente. 
Kurt quella speranza l’aveva trovata e ne era rimasto affascinato.
Ma aveva trovato anche Blaine.
L’aveva incontrato letteralmente sul suo cammino, quasi per sbaglio. Lui, di certo, non l’aveva programmato. Non aveva programmato un sacco di cose, ma tra tutte, quella fu la più inaspettata, e anche la più piacevole.
Quando era arrivato alla Dalton, ripetendosi che era lì per spiare i Warblers e non di certo per vedere come fosse la scuola -figuriamoci- in realtà era rimasto incantato da tutto quanto. Dall’ingresso, dalle enormi scalinate, da quelle orride divise che conferivano a tutti gli studenti l’aspetto di piccoli maghi fuggiti da Hogwarts per rifugiarsi in Ohio.
Non era il McKinley quello. Decisamente no.
Kurt aveva cercato di essere il più invisibile possibile, cosa per cui falliva costantemente a scuola. E anche lì non andò tanto meglio.
O forse sì. Perché anche se sul suo viso aveva stampato a caratteri cubitali “Non sono di questo posto, lo so”, nessuno lo spedì fuori da quella scuola a calci. Anzi. Sul suo cammino, letteralmente, trovò Blaine.
Trovò il primo ragazzo che non si preoccupò di toccarlo in pubblico. E non per spingerlo contro un armadietto, ma per trascinarselo dietro Dio solo sapeva dove. Non aveva importanza, comunque. Kurt non ci pensò neppure ad opporre resistenza. L’aveva sentito blaterare sui Warblers e su delle prove e la sala dei Seniors e poi aveva iniziato a correre, mentre quel ragazzo gli stringeva il polso come se fosse normale.
Beh, forse lo era, ma non per lui, non per Kurt.
Non fu amore a prima vista, ma per la prima volta Kurt si sentì bene.
E quando vide Blaine avvicinarsi al gruppo dei Warblers e iniziare a cantare – a cantare TeenageDream guardandolo così tante volte che Kurt ebbe l’impressione che, beh, stesse cantando proprio a lui. Che sciocchezza. No? -, sorrise.
Non sapeva da quanto tempo non sorrideva in quel modo, non sapeva da quanto non si sentisse, non felice, quello sarebbe stato troppo, ma almeno sereno.
E osservava come tutti quei ragazzi fossero così presi da quel coro, come tutti cantassero con loro e saltassero sul posto. Neppure fosse stato un concerto. Erano come rockstar.
Kurt aveva continuato a sorridere e ad osservare Blaine che trascinava tutti quei ragazzi. Aveva stretto con più forza la sua borsa alla spalla e aveva espresso un desiderio.
Voleva tutto quello. Lo voleva disperatamente.
Ma quello non era il McKinley e l’incantesimo fu spazzato via nel momento in cui la canzone finì.
Kurt non aspettò di salutare Blaine o di complimentarsi con gli altri. Aveva visto abbastanza.
Uscì da quella stanza e prese a camminare velocemente verso una probabile uscita. Si perse due volte prima di riuscirci, ma alla fine raggiunse il parcheggio.
Le nocche della sua mano erano bianche da tanto stringeva la cinta della sua borsa. E il sorriso sulle sue labbra se n’era ormai andato.
Era andata meglio del previsto.
O peggio.
Kurt non riuscì veramente a capirlo se non fino alla seconda volta in cui vi tornò.
In ogni caso, non fu amore a prima vista.
Kurt ne era sciuro.

*

Kurt passò la giornata successiva a ripensare ai Warblers.
Non aveva detto a nessuno dei suoi compagni, neppure a Mercedes, della sua gita alla Dalton.
E non disse niente neppure quando ci tornò il giorno dopo.
Non sapeva bene il perché.
Non sapeva bene neppure perché ci fosse tornato, dopo due giorni. Non c’era motivo ed era rischioso e Kurt lo sapeva, ma…
Quando rivide l’entrata della Dalton non riuscì a preoccuparsi della possibilità di essere scoperto. Non gliene importava. 
Forse l’ultima volta che Karofsky l’aveva spinto contro gli armadietti aveva sbattuto la testa. Forse l’aveva sbattuta troppo forte e aveva iniziato a valutare che le manie suicide non erano poi tanto male. Kurt non lo sapeva, l’unica certezza era che si trovava di nuovo lì, a vagare per i corridoi della Dalton cercando di non essere notato.
Il problema, e lui lo sapeva, era che non ci sarebbe mai riuscito, probabilmente. Sapeva di essere l’opposto dell’invisibilità. E, beh, Kurt era anche abbastanza onesto con se stesso per ammettere tranquillamente che faceva di tutto per non essere invisibile. Anche quando tutto quello significava proporsi come bersaglio preferito di Karofsky e Azimio. Kurt era troppo fiero di se stesso per permettersi di cambiare per qualcuno.
Così, non fu assolutamente sorpreso quando in mezzo all’ammasso di studenti che si riversava per i corridoi per andare a pranzare, venne fermato da una mano e da un sorriso.
Blaine.
“Hey! Uh, Kurt, giusto?”
Kurt gli sorrise, cercando di non pensare alla mano di Blaine ancora sul suo braccio. Era la seconda volta che quel ragazzo lo toccava come se nulla fosse. Kurt decise che era una bella sensazione. Strana, ma piacevole. Avrebbe potuto abituarcisi.
Kurt osservò i ragazzi nel corridoio dirigersi tutti dalla stessa parte. Rimase in silenzio fino a quando non ci fu quasi più nessuno. A parte Blaine, ovviamente, che lo guardava con la testa leggermente inclinata e lo sguardo di chi cercava di capire cosa gli stesse passando per la testa. Kurt avrebbe tanto voluto saperlo lui per primo.
“Uhm, io…” iniziò a dire, prima di accorgersi di un altro paio di ragazzi fermi nel corridoio che guardavano nella loro direzione, forse aspettando Blaine. Decise che non importava, che poteva rischiare che anche loro sapessero, non sembravano particolarmente minacciosi. “… devo dirti una cosa.”

*

Kurt doveva ammettere che si sentiva leggermente in soggezione. E in imbarazzo.
Non importava che fosse stato lui a rivelare di non essere veramente uno studente della Dalton, e d’altra parte non importava neppure che, come aveva sottolineato David, l’avessero già capito. Si sentiva stupido. Stupido per essere tornato quando avrebbe potuto facilmente far dimenticare la sua presenza in quella scuola fino alle provinciali. Stupido per essersi attaccato a quella minima speranza che aveva intravisto due gironi prima. Stupido per aver pensato a Blaine perché era solo un ragazzo che gli aveva afferrato un polso, seriamente, non poteva pensare a lui, no?
Però era lì. Davanti a sé Blaine lo guardava ancora come se volesse leggergli dentro qualcosa che neppure lui conosceva bene, mentre Wes e David, i due ragazzi che aveva notato in corridoio, lo osservavano divertiti.
“Sei talmente pessimo come spia che ci hai quasi fatto tenerezza.”
Kurt sorrise leggermente alle parole di David. Almeno non rischiava di essere lanciato in un cassonetto. Erano progressi.
Ma Blaine, Blaine aveva capito subito. Aveva capito ancora prima che lui riuscisse ad ammetterlo a se stesso che non era lì veramente per i Warblers. Se così fosse stato, non avrebbe avuto motivo di tornare una seconda volta. Kurt lo sapeva. Ma si sentiva così patetico, così stupido ad aggrapparsi a qualcosa che non aveva e che non poteva avere ma che nonostante tutto gli infondeva speranza. Non riusciva ad ammetterlo a se stesso, non riusciva a ripeterselo senza fare una smorfia. Ma Blaine l’aveva capito, aveva afferrato quel pensiero ancora prima che lui riuscisse veramente a formularlo nella sua testa. L’aveva stretto nella sua mano e l’aveva protetto dagli altri.
E Kurt lo aveva mentalmente ringraziato quando aveva chiesto a David e Wes di lasciarli da soli.
Kurt l’aveva trovato un gesto gentile nei suoi confronti. Parlare dei suoi problemi a scuola, problemi riassumibili con “Sono l’unico ragazzo apertamente gay”, non era facile. Ma Blaine l’aveva messo a proprio agio e gli aveva fatto capire che non era da solo. Che non era l’unico e che la sua vita non doveva essere all’insegna della disperazione solo perché, beh, era capitato che gli piacessero i ragazzi.
Kurt si era sentito capito, capito veramente, per la prima volta nella sua vita.
Non era solo.
Blaine gli aveva detto “Coraggio” e lui si era sentito le lacrime pizzicare gli angoli degli occhi. Perché era ciò che si ripeteva sempre, ma quando era un altro, quando era un’altra persona a dirglielo, era meglio. Erano in due a crederci adesso.
Non era solo.
Blaine gli aveva mostrato che esistevano ragazzi, ragazzi normali, che non avevano paura di essere contagiati da una malattia, che malattia non era, che era una normalità solo un po’ diversa. Perché lì alla Dalton erano tutti uguali, non importava l’essere gay, non importava essere differente.
Kurt ne era rimasto abbagliato e si era sentito meno solo e meno abbandonato a se stesso. Per quanto al McKinley ci fossero persone che gli volevano bene e che lo sostenevano, nessuno avrebbe mai potuto capire sul serio. Perché nessuno era come lui. Blaine sì. Blaine poteva capirlo perché c’era già passato, ma ne era uscito e ora era lì, davanti a lui, e tutti – tutti! – in quella scuola sembravano adorarlo ed era come una rockstar e…
Kurt gli sorrise.
Non fu amore a prima vista. Kurt non era così stupido da ricascarci per l’ennesima volta.
Però fu abbastanza stupido da prendere Blaine e posizionarlo su un piedistallo. Fu più forte di lui.
E inizialmente non si rese assolutamente conto dello sbaglio.
Blaine era perfetto per stare lassù e dispensare consigli.
E Kurt, Kurt voleva solo ascoltarlo.
Ne era profondamente convinto.
Non c’era nulla di sbagliato.

*

Kurt non riuscì più a tenere Blaine e la sua fuga alla Dalton un segreto. Raccontò tutto a Mercedes. Di come fosse andato lì per spiare i Warblers, di come avesse scoperto venissero trattati, di come avesse conosciuto Blaine. Le raccontò di lui e dei messaggi che ogni tanto gli mandava – e grazie al cielo Blaine gli aveva dato il suo numero in caso avesse bisogno di sostegno. O semplicemente parlare – e di come, beh, fosse gay anche lui e “non era tutto fantastico?”
Mercedes lo aveva ascoltato e aveva sorriso – e forse si era anche annoiata un pochino, ma Kurt non poteva farci niente -, e aveva detto che magari avrebbe potuto farglielo conoscere. E in quel momento Kurt si era reso conto di non essere neppure sicuro che l’avrebbe rivisto. Almeno, non prima delle provinciali.
In realtà aveva evitato di pensarci perché pensarci avrebbe voluto dire ammettere di non avere un vero motivo per rivederlo. E tra la Dalton e Lima c’erano due ore di strada. Quattro, se si considerava il ritorno. Quattro ore.
(E lui aveva percorso quattro ore di strada in tre giorni, solo per rivederlo. Era l’emblema della pateticità. Avrebbe potuto vincere un premio, per quello.)
E nonostante Blaine non facesse che scrivergli cose che lo facevano sorridere per interi minuti dopo averle lette – e, seriamente, a volte si sentiva un po’ stupido a sorridere per un banalissimo “Come va?” – non sapeva se potevano considerarsi veramente amici.
Probabilmente no.
E se non erano amici perché uno di loro due avrebbe dovuto passare delle ore in macchina e attraversare l’Ohio per vedersi?
A conti fatti, probabilmente Kurt avrebbe preferito non avere una risposta a quella domanda.

*

Quando Karofsky l’aveva baciato si era sentito nuovamente perso e distrutto e solo. Si era fatto scivolare a terra, con la schiena contro gli armadietti, in quell’orribile e puzzolente spogliatoio, mentre cercava di capire cosa fosse appena successo.
Karofsky l’aveva baciato.
Era rimasto con lo sguardo fisso nel vuoto per un tempo inestimabile. Due minuti, o un’ora intera. Kurt non lo sapeva. Si era sentito più solo che mai lì, nascosto in un angolo di quegli spogliatoi, mentre il resto del mondo, completamente ignaro, andava avanti con la sua vita oltre quella porta.
Le lacrime gli erano uscite da sole. Non troppe perché, Dio, si sentiva un idiota a piangere per Karofsky e per qualcosa di così stupido come un bacio e-
Però qualcuna era uscita comunque.
Le aveva asciugate col dorso della mano, tirando su col naso e decidendo che doveva uscire da lì, che non poteva rischiare di farsi trovare dagli altri giocatori. Proprio no.
Aveva oltrepassato la porta a testa bassa e aveva percorso tutto il corridoio evitando gli sguardi di tutti, sperando non notassero le guance umide di lacrime o l’espressione sconvolta sul suo viso. Aveva afferrato di corsa la sua borsa e si era diretto verso i bagni con passo spedito.
Si era infilato in quello dei maschi perché per quel giorno ne aveva avuto abbastanza. Non importava il fatto che non si sentisse neppure a proprio agio in quel bagno. Era solo uno stramaledetto gabinetto, poteva passarci sopra per una volta. Una soltanto.
Era entrato in un cubicolo, l’aveva chiuso a chiave e si era seduto sulla tavoletta abbassata del water.
Poi, senza neppure pensarci – era stanco di farlo e gli faceva male la gola per tutte le lacrime che stava ingoiando e gli occhi gli bruciavano terribilmente, e non gliene fregava neppure niente di come stava trattando i suoi vestiti quel giorno – afferrò il cellulare e chiamò Blaine.
Blaine rispose dopo qualche squillo di troppo, tanto che Kurt pensò anche di mettere giù, ma rispose.
E non appena sentì la sua voce, si lasciò completamente andare.
Non si sentiva più così solo.

*

Kurt non raccontò niente a Mercedes.
Non gli piaceva tenerle dei segreti e non era neppure particolarmente bravo perché poi iniziava a sentirsi in colpa e alla fine le spiattellava comunque tutto. Il periodo di segretezza di Blaine era durato qualcosa come poco più di due giorni.
Ma questa volta non le disse niente.
Non sapeva perché. Non è che si sentisse in imbarazzo – beh, forse un po’ sì. Un po’ tanto. Ma non era quello il punto. Il punto forse era che si trattava di qualcosa che andava oltre lui e basta. C’entrava anche Karofsky. E per quanto lo ritenesse orribile, Kurt non era come lui. Non sarebbe andato in giro a raccontare a tutti ciò che sapeva.
Non l’avrebbe fatto perché sapeva quanto fosse difficile e frustrante e spaventoso e… no. Kurt sapeva di non essere una persona perfetta, ma non aveva intenzione di mettere Karofsky alla mercé di tutti. Nonostante tutto quello che aveva passato – e passato. Non era passato proprio un bel niente. Non era cambiato nulla – non avrebbe augurato a nessuno il suo stesso trattamento.
Neppure a Karofsky.
Quindi non l’aveva raccontato a Mercedes. 
L’aveva raccontato a Blaine, però, e l’aveva considerato abbastanza. L’aveva raccontato a lui perché era sicuro che Blaine avrebbe saputo cosa fare. Era lui che gli aveva detto “Coraggio”, era lui che gli aveva detto di essere forte, era lui che c’era già passato. Kurt pensava che Blaine potesse dargli tutte le risposte che cercava.
Forse non era così, ma a Kurt non importava.
Fino a quel momento Blaine aveva dimostrato di averle davvero, le risposte che cercava. Aveva dimostrato di essere interessato in lui e nella sua disastrosa vita sociale al McKinley.
Aveva dimostrato di essere interessato a lui, e tanto bastava.
E poi gli aveva detto di aspettarlo per il giorno dopo. Che sarebbe venuto a parlare con Karofsky, che non doveva avere paura, ci avrebbe pensato lui.
Coraggio
“Non devi. Non sei obbligato” e la sua voce diceva l’opposto delle sue parole, lo sapeva.
Kurt se lo immaginò sorridere. E non riuscì ad impedirsi di sorridere anche lui. Nonostante sulle guance avesse ancora il segno delle lacrime, nonostante si sentisse ancora malissimo. Blaine riusciva a rassicurarlo. Kurt non si era mai sentito così calmo con nessun ragazzo.
“Non vengo perché sono obbligato, Kurt, ma perché voglio. Non sei da solo, ok?”
Kurt sospirò, mordendosi il labbro inferiore che aveva iniziato a tremare. Sentiva le lacrime bruciargli gli occhi, ma sapeva che non avrebbe pianto.
Basta, Kurt, basta.
“Grazie Blaine” mormorò con voce tremula, mentre con gli occhi fissi davanti a sé vedeva come la vista gli si appannasse. Sbatté le palpebre un paio di volte e prese due respiri profondi, prima di ripetere, con voce più ferma, “Grazie”
Altre persone gli avevano fatto capire di essergli vicino. Altre persone gli volevano bene.
In quel momento, però, lo sentì sul serio. Lo sentì nel petto e fu una sensazione bellissima.
Non sei solo.
Non lo era, e forse non lo era mai stato neppure in passato, ma fu solo in quel momento che riuscì ad esserne convinto. 

*

Non fu amore a prima vista.
La prima volta che Kurt vide Blaine fu colpito più dall’insieme della Dalton e dai Warblers e dall’entusiasmo di tutti e, sì, forse anche dalla voce di Blaine e da come gli sorrideva, ma non fu amore a prima vista.
Questo perché Kurt sentì il suo cuore perdere un battito solo nell’esatto momento in cui lo guardò scendere le scale dopo che si era offerto di pagargli il pranzo. Dopo che Kurt gli aveva raccontato di come, quello con Karofsky, fosse il suo primo vero bacio. Un bacio che contasse, almeno. E i baci che contavano erano quelli con i ragazzi, non quelli dati a Brittany per far felice suo padre. Dopo che Blaine aveva affrontato Karofsky cercando di parlargli e di rassicurarlo e di fargli sapere che era normale essere confusi o spaventati. Ma che non era solo.
Dopo tutto quello, Kurt l’aveva guardato per un secondo, mentre Blaine, davanti a lui, scendeva le scale, e aveva pensato che avrebbe potuto facilmente innamorarsi di lui. Che le cose che si ripeteva nella testa, che era un amico – forse addirittura meno –, che non doveva comportarsi come aveva fatto con Finn, che sarebbe finita male, come sempre, non erano abbastanza.
E non avevano funzionato molto bene.
Quando, seduti sugli scalini, Blaine l’aveva guardato, Kurt aveva sperato per un istante di essere baciato da lui. Lì, sugli scalini della scuola dove tutti avrebbero potuto vederli. Lì in mezzo agli studenti, in mezzo a quelli che lo tormentavano, in mezzo a tutti.
Blaine, ovviamente, non l’aveva fatto, ma Kurt si era reso conto di ciò che aveva pensato. Di ciò che significava.
E quando l’aveva guardato, mentre iniziava a scendere le scale, aveva provato qualcosa.
Non fu amore a prima vista, perché quella era la terza volta che Kurt lo vedeva. E poi, amore era una parola grossa. Impegnativa. Forse… forse gli piaceva. Sì. Di sicuro.
Di sicuro.
Ma in ogni caso, Kurt non gli diede importanza.
Era fortunato ad avere Blaine come amico, non avrebbe rischiato di rovinare tutto. L’aveva già fatto in passato, mettersi in ridicolo perché aveva inseguito qualche assurda fantasia sentimentale. Non l’avrebbe più fatto.
Avrebbe fatto finta di niente. Aveva anche già abbastanza casini nella sua vita, senza doverci aggiungere una cotta per un ragazzo di un’altra scuola.
Che aveva visto tre volte.
Quando Blaine si girò sorridendogli, per sapere dove dovesse dirigersi per andare alla mensa, Kurt si inumidì le labbra e rispose al sorriso, prima di fargli strada.
Comunque, non era più così triste.

*

Fu in quell’occasione che Kurt presentò Blaine a Mercedes.
Non l’aveva programmato, ma non aveva potuto far finta di nulla quando Mercedes, con un vassoio in mano, aveva guardato attentamente Blaine, prima di spostare lo sguardo su di lui. Cos’avrebbe potuto dirle? Era chiaro che, beh, quello fosse Blaine.
Aveva una cavolo di divisa addosso. Non passava inosservato. Forse alla Dalton, ma non al McKinley.
Quindi aveva dovuto fare le dovute presentazioni. E sorbirsi le occhiatine consapevoli – che poi, consapevoli di cosa? – da parte di Mercedes. E il sorriso di Blaine, ovviamente. E Mercedes che, nuovamente, squadrava Blaine dalla testa ai piedi, forse alla ricerca di qualche difetto.
E alla fine era arrivata la domanda.
Kurt non era stupido, e la stava aspettando. Solo che quando Mercedes, con la cannuccia della Coca Cola tra le labbra e gli occhi fissi su di lui, gli chiese perché Blaine fosse lì, beh, non riuscì ad inventarsi qualcosa.
“Wicked!”
Kurt si girò di scatto verso Blaine, sgranando gli occhi. “Wicked?” ripeté titubante.
“Sì!” proseguì l’altro, stirando le labbra in un sorriso mentre si girava verso Mercedes, “Devi sapere che anch’io sono un grande fan di Wicked e sono riuscito a… a… beh, sono riuscito ad avere questa… copia. Questo DVD, sì. Ed è… ed è praticamente introvabile e sapevo che Kurt non l’aveva e sono dovuto venire qui di corsa. Letteralmente. A portarglielo. Sì.”
Kurt aggrottò le sopracciglia, guardando con la coda dell’occhio la reazione di Mercedes. Non sembrava particolarmente convinta – d’altra parte doveva ammettere che Blaine non era stato particolarmente convincente. E sperò che Mercedes non fosse a conoscenza del fatto che non esistesse proprio, un DVD di Wicked -, ma non disse nulla.
Rilasciò un sospiro di sollievo e sorrise a Blaine, che ricambiò non appena spostò lo sguardo su di lui.
Quando abbassò gli occhi sul pranzo del giorno – pranzo che aveva pagato Blaine. E nessun ragazzo gli aveva mai offerto niente. E non importava che fossero alla mensa scolastica, ok? Non importava proprio – sperò di non dover sottostare al terzo grado di Mercedes, una volta che Blaine se ne fosse andato.
Ma gli bastò una rapida occhiata verso la sua migliore amica per sapere che no, non se la sarebbe cavata così.
Grandioso.

*

Dopo quel giorno, Blaine aveva iniziato a telefonargli. E Kurt aveva iniziato a raccontargli tutto ciò che gli passava per la testa. Anche le cose più imbarazzanti.
Ma sentire la risata di Blaine dall’altro capo del telefono lo faceva sorridere. E gli faceva dimenticare le battutine stupide che buttava fuori senza pensarci.
Era bello avere qualcuno come Blaine con cui parlare. Era bello e a Kurt ogni tanto, quando Blaine gli diceva qualcosa di gentile o rideva appassionatamente, batteva il cuore un po’ più forte. Aveva una cotta proprio stupida, ma non era nulla di ingestibile.
E poi valeva la pena sopportare quei… sintomi, se voleva dire averlo nella sua vita.
Kurt non ne era sicuro, ma pensava che a quel punto potevano considerarsi amici. E nonostante la sua cotta irrazionale – irrazionale, poi. Blaine era perfetto. E lo capiva completamente. E aveva il suo senso dell’umorismo e non c’era nessuno ad avere il suo senso dell’umorismo. Neppure Mercedes, probabilmente – non provava alcun senso di malessere per quella parola.
Non voleva niente di più.
Era già abbastanza grato che in quel momento della sua vita Blaine fosse capitato sul suo cammino. Non osava sperare in altro. Si sarebbe accontentato di averlo come amico. Di avere accanto qualcuno come lui, che potesse capirlo, e confortarlo, e aiutarlo ed essere se stesso senza aver paura che Kurt potesse contagiarlo come una malattia infettiva.
“Allora, che ne dici?”
Kurt osservò il soffitto della sua camera dal letto su cui era sdraiato, stringendo tra le dita il cellulare e cercando di non sorridere come un idiota. E stava fallendo miseramente su quest’ultimo punto.
Ma non era colpa sua. Blaine l’aveva invitato a vedere RENT. E, beh, d’accordo l’essere amici, ma su certe cose, lì, al sicuro nella sua stanza, non poteva farci nulla. Lì, dove nessuno poteva vederlo, dove, soprattutto, non poteva vederlo Blaine, poteva lasciarsi andare.
“Dico che sono curioso di vedere come il tuo guardaroba abbia risentito della clausura forzata a causa delle divise della Dalton” rispose alla fine, cercando di non far trapelare troppo l’eccitazione nella sua voce.
Blaine scoppiò a ridere. “Vediamo se riuscirò a stupirti”
“Ok. Adesso ho paura” ridacchiò, girandosi su un fianco e cercando di non parlare troppo ad alta voce. Non voleva che suo padre lo sentisse. Aveva solo accennato vagamente di Blaine, soffermandosi più sul fatto che era andato a spiare i Warblers che non che avesse conosciuto un ragazzo.
Avrebbe dovuto dirglielo, però, dato che aveva appena accettato di uscire con lui.
Come un appuntamento.
Da amici, però. Amici.
Suo padre non avrebbe avuto da ridire e oh, andiamo, erano solo amici.
Due amici che sarebbero andati a vedere RENT.
Quando Blaine gli diede la buonanotte, Kurt si limitò a sorridere, come se l’altro potesse vederlo, e a chiudere la conversazione.
Solo pochi giorni prima era convinto che la sua vita avrebbe fatto schifo. Solo pochi giorni prima Blaine non faceva neppure parte della sua vita. E c’erano solo le spinte contro gli armadietti e i nomignoli e le prese in giro e quella sensazione di essere solo, sempre e comunque solo, ovunque si trovasse.
Adesso c’era un bacio di troppo, oltre alle spinte e agli insulti e alle prese in giro, ma c’era anche qualcosa che gli faceva dimenticare tutto quello.
Solo amici. Ma non importava.
Non fu affatto amore a prima vista, e all’inizio fu solo una cotta. Kurt ne era sicuro.
Solo che poi iniziò a diventare altro. Blaine divenne di più e per Kurt divenne quasi troppo, quasi troppo per lui. Anche solo come amici.
In quel periodo ancora non sapeva quanto avesse torto. Non sapeva un mucchio di cose e si convinceva di certe altre solo per poter essere tranquillo, per stringere un po’ di quella tranquillità che Blaine gli aveva regalato.
Prima di appoggiare il telefono sul comodino, gli arrivò un messaggio e Kurt non ne fu affatto sorpreso.
From Blaine:
Buonanotte :)
Si addormentò col sorriso sulle labbra.
In quel periodo non sapeva un sacco di cose che pensava di conoscere, ma non gli importava. Se le faceva bastare.

NOTE: Ed eccoci qui con la prima parte di quella che è ormai diventata un’epopea.
Allora, questa storia nasce nel momento in cui vedo Special Education e decido che sarebbe bello vedere tutto quell’episodio con gli occhi di Kurt. Doveva essere una riflessione su Blaine da parte di Kurt. Doveva essere breve. Poi si è allungata sempre di più e ha iniziato a lievitare come una torta. Il risultato è che 1) non è più una one shot; 2) per adesso conta 25 pagine. E non è ancora finita, anzi. Questa storia copre il periodo che va dalla puntata 2x06 alla 2x12 circa.
Per chiarire, per me la Dalton è un collegio, quindi rimangono lì a dormire. Questo lo specifico perché Ryan Murphy e soci è evidente non hanno idea della distanza Lima-Westerville. Che sono due ore. A quanto pare secondo loro Kurt e Blaine si potrebbero fare 4 ore di strada per un caffè (ogni riferimento alla 2x12 è assolutamente voluto). Insomma, io Googlemaps lo so usare, ok? XD Quindi ho cercato di sopperire alla loro mancanza di ricerche con le teorie che sono uscite nella mia t-list e in community americane. Comunque, la Dalton è un collegio. Fino a quando uno di RIB non mi dirà testualmente il contrario, rimarrò così (e nel momento in cui smentiranno questa cosa li ucciderò. Con la loro mancanza di ricerca mi faranno uscire fuori di testa, lo so).
Ultima cosa: il titolo è preso da Firework di Katy Perry. Titolo deciso prima che uscisse fuori la notizia che sarebbe stata inserita in un episodio. Sono una veggente, è chiaro.
E poi devo assolutamente ringraziare Misako93 che si è betata tutto <3 Grazie grazie grazie ;O; 

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Capitolo 2
*** Capitolo 2 ***


CAPITOLO 2

Kurt aveva avuto un sacco di momenti imbarazzanti con suo padre. E alcuni anche particolarmente difficili.
Erano ormai arrivati ad un punto di comprensione reciproca che difficilmente qualcosa avrebbe potuto scalfire quell’equilibrio, Kurt ne era convinto.
Era anche abbastanza convinto che far sapere a suo padre che , aveva intenzione di uscire con un ragazzo e che no, non ci sarebbe stato nessun altro, ma che, hey, non avrebbe dovuto preoccuparsi perché erano soltanto amici, rientrasse in uno di quei momenti imbarazzanti e difficili. Più il primo che il secondo.
In realtà Kurt aveva ipotizzato reazioni molto peggiori, doveva ammetterlo. Solo che lo sguardo comprensivo, consapevole e tipicamente da padre che Burt gli rifilò, non riuscì a non farlo arrossire un po’ sulle guance.
“È il tuo ragazzo?”
Kurt si era immaginato un’altra domanda. Una domanda che non cercasse di farlo strozzare con la saliva, magari. “No! No, papà! Te l’ho detto, è uno dei Warblers, l’ho conosciuto quando sono andato a spiarli alla Dalton, con decisamente poco successo, e siamo rimasti in contatto. Propenderei per il fatto che possiamo considerarci amici, in un certo senso. O forse è solo particolarmente interessato alla mia pessima vita sociale, il che non lo escluderei, perché assomiglia terribilmente ad una rock star. Solo versione liceale, sai? E ammetto di non avere idea del perché mi abbia chiesto di andare con lui, probabilmente ha avuto pietà di me e della mia mancanza di appuntamenti con dir si voglia, o qualcosa del genere, ma ti prometto che le sue intenzioni sono totalmente amichevoli e che non-“
“D’accordo”
Kurt si bloccò di colpo, a corto di fiato, fissando gli occhi su suo padre. “D’accordo nel senso che posso andare?”
Burt si strinse nelle spalle, prima di afferrare il bicchiere di spremuta di prugna e fico che gli aveva preparato Kurt e berlo in un solo sorso.
“Sì, nel senso che puoi andare, Kurt” rispose alla fine ad un Kurt particolarmente raggiante.
Kurt gli si lanciò addosso, stringendolo stretto tra le sue braccia, con le labbra distese in un sorriso.
Probabilmente non avrebbe dovuto essere così felice. Perché, razionalmente, sapeva che era anche abbastanza stupido.
Ma la sua vita aveva raramente picchi di vera felicità e quell’anno scolastico era iniziato in talmente tanti modi orribili, che aveva deciso che avrebbe cercato di prendere il meglio, almeno dove poteva.
Quindi sì, forse era una reazione esagerata, ma era Kurt. Tutto in lui era esagerato.
Suo padre non si sarebbe di certo sconvolto per quello.

*

Blaine sembrava un ragazzo normalissimo.
Senza divisa, qualcosa dell’aura da antico gentiluomo se n’era andata. Non totalmente, in effetti. Nonostante i capelli fossero stati liberati dalla morsa di gel e chissà cos’altro, la cravatta che spuntava da sotto il maglione gli faceva capire che a certe abitudini proprio non sapeva rinunciare.
Però c’erano anche le Converse che sbucavano dal bordo dei jeans, e un atteggiamento decisamente più rilassato che lo avvolgeva.
Blaine sembrava un ragazzo normalissimo, ma Kurt decise che gli piaceva anche questa versione.
E RENT era andato bene. Anche se Kurt doveva ammettere che la sua attenzione era rimasta altrove.
Ad esempio su quei capelli.
Ma era giusto un esempio.
Era ad un appuntamento. Con un ragazzo. Gay. E carino, Dio, Blaine era carino da morire. Era più basso di lui e i suoi capelli erano assurdi, ma…
Era stato difficile rimanere concentrato sul musical e non sbirciare di continuo il ragazzo accanto a sé. Kurt aveva deciso di smetterla di provare ad evitare che i suoi occhi cadessero su Blaine. Tanto era inutile. E così si era ritrovato ad osservarlo quando, ogni tanto, rideva per una battuta, o muoveva le labbra canticchiando fra sé e sé una canzone. Aveva deciso che RENT lo conosceva a memoria, mentre Blaine era ancora tutto da scoprire. C’erano delle priorità, ecco.
Quando Blaine si era girato verso di lui, beccandolo mentre lo stava guardando, gli aveva sorriso e dal palco era iniziata “I’ll cover you”, Kurt si era sentito arrossire. Non aveva distolto lo sguardo, grato per il buio in sala, e aveva ricambiato il sorriso.
E poi Blaine si era sporto verso di lui e gli aveva sussurrato nell’orecchio – probabilmente per non disturbare gli altri spettatori sì, ok, però… Kurt aveva avuto un attimo un problema a capire bene come si faceva a respirare – “Questa è una delle mie canzoni preferite, sai?”
L’attimo dopo era di nuovo al suo posto, ma Kurt era rimasto fermo immobile ancora per qualche secondo, come a gustarsi il fiato caldo di Blaine che gli aveva colpito il collo.
Allora era quello che si provava a sentirsi addosso il respiro del ragazzo che ti piace.
Kurt aveva cercato di concentrarsi, giusto un pochino, sullo spettacolo, ma aveva finito per continuare a lanciare occhiate fintamente distratte a Blaine e a vagare con la mente.
E ora erano lì, nel momento che Kurt aveva sperato non arrivasse mai.
“È stata una bella serata. Grazie per essere venuto con me”
Kurt gli sorrise, valutando se era appropriato che lo abbracciasse, per salutarlo. Erano amici. Era una cosa… normale. Poteva esserlo, almeno.
Ma non ci fu bisogno di pensare eccessivamente, perché fu Blaine a sporgersi verso di lui e ad abbracciarlo. Come un amico.
Non durò abbastanza per diventare imbarazzante, ma per Kurt fu sufficiente per poter sentire il suo profumo e saggiare la consistenza del suo giubbotto – e delle sue spalle – sotto le mani.
Quando si separarono, Kurt lo salutò con un sorriso. Si sentiva più felice di quanto non riuscisse a ricordare di essere mai stato.
E no, la sua vita non era improvvisamente perfetta, ma quel momento, quell’attimo specifico, era riuscito a fargli dimenticare il resto.
Per un istante era stato tutto perfetto e Kurt ne era rimasto affascinato. Intrappolato.
Blaine era riuscito ad allontanare i pensieri negativi. Anche solo per una sera. Anche solo come amico.
Era abbastanza.
Quando mise in moto la sua macchina, pronto per tornare a casa, non fu affatto difficile scegliere quale CD ascoltare. Prese la colonna sonora di RENT e l’infilò nel lettore.
E nonostante fosse proprio una cosa stupida, non riuscì ad impedirsi di ascoltare più e più volte I’ll cover you. Ogni volta sentiva il respiro di Blaine sul collo.
E ogni volta doveva costringersi a stringere il volante con un po’ più di forza.
Ma ne valeva la pena.

*

Kurt sapeva che non era molto giusto nei confronti di Mercedes, che avrebbe forse dovuto sforzarsi di più per far funzionare quell’uscita a tre e che non avrebbe dovuto donare la totalità delle sue attenzioni a Blaine. Kurt lo sapeva, ma non riusciva a cambiare la situazione.
Con Blaine stava parlando di cose su cui non aveva mai discusso con nessuno, neppure con lui (e, in effetti, non era tra i primi argomenti di conversazione chiacchierare sul Dont’ ask, don’t tell). Non lo stava facendo apposta, non voleva escludere Mercedes volutamente. In realtà, non se ne stava neppure accorgendo, del fatto che la sua migliore amica fosse sostanzialmente muta.
Mercedes successivamente gli avrebbe fatto notare, senza mascherare il sarcasmo, che “per forza, quando sei con Blaine esiste solo lui”. Che non era vero, però Kurt era abbastanza onesto con se stesso da ammettere che nelle parole di Mercedes ci fosse un fondo di verità.
Ma lui, sul serio, non lo stava facendo apposta.
E il punto era che parlare con Blaine era interessante. E lo capiva. Non doveva aver paura di fare battute, o di affrontare argomenti troppo gay, no grazie, non mi interessano, perché Blaine non avrebbe mai pensato niente del genere su di lui.
Poteva parlare del suo numero preferito di Vogue e scatenare in Blaine lo stesso entusiasmo che sentiva lui.
Quindi sì, forse stava ignorando un po’ Mercedes, ma lei la poteva vedere ogni giorno e ad ogni prova del Glee Club e a scuola e nei pomeriggi e anche a casa! Blaine no.
Era giustificato, almeno un po’.
E aveva anche provato ad integrarla nella conversazione, ma la cosa non aveva funzionato.
Aveva nuovamente finito col concentrarsi su Blaine.
Era un disastro. Soprattutto come amico. E lo sapeva.
Quando vide Mercedes roteare gli occhi su una battuta che aveva fatto invece ridere Blaine, Kurt pensò che si sarebbe fatto perdonare con una super sessione di shopping. E un mega frullato da Starbucks, se necessario (sì, era disposto anche a quello per Mercedes. Che non iniziasse a dire che non le voleva abbastanza bene).
Però giusto per un’altra oretta, poteva continuare a godersi Blaine.

*

Se avessero chiesto a Kurt di riassumere quella settimana, non avrebbe saputo da dove iniziare.
Il punto era, più che altro, che Kurt era estremamente confuso anche sui sentimenti legati ad essa. Era un ammasso indistinto, una sorta di vortice in cui gli sembrava di essere caduto e da cui non riusciva a trovare una via di fuga.
Sì, non voleva realmente fuggire da tutte le emozioni. Ce n’erano state di belle. Alcune splendide – il sorriso di suo padre, gli occhi di Carole pieni di una luce particolare, il sorriso e l’accettazione nella famiglia da parte di Finn – altre meno.
L’addio al McKinley.
L’addio ai suoi amici, alla sua scuola, al suo mondo, per andare in un posto di cui non conosceva assolutamente nulla. Blaine. Blaine era là. Ma la sua vita, la sua vera vita no.
Blaine non era la sua vita.
 Kurt non avrebbe mai voluto rovinare quel sentimento di benessere che aveva avvolto tutto il Glee Club. Non avrebbe mai voluto vedere suo padre così preoccupato, o l’espressione addolorata sul viso di Carole. Non avrebbe mai voluto dire addio a tutto, anche ai lati negativi di quella scuola, solo per paura.
Coraggio.
Non era stato abbastanza. Non era stato abbastanza forte o abbastanza sicuro o abbastanza certo da potercela fare. Avevano vinto loro. Aveva vinto la paura, ancora di più che un gesto violento o una spinta o un insulto. Essere spinto contro un armadietto lo faceva arrabbiare, lo faceva guardare quegli stupidi trogloditi privi di cervello con rabbia e un pizzico di compassione per la loro mancanza di civiltà e umanità. La paura, però, lo faceva paralizzare.
Gli bloccava il respiro in gola e gli impediva di fare qualsiasi cosa. Girare un angolo era come superare la più difficile delle prove.
“Karofsky tornerà a scuola”
Gli avevano detto così e lui non aveva sentito altro.
Sarebbe ricominciato tutto come prima. Tutto uguale. Come se nulla fosse successo.
E, sul serio, lui non avrebbe mai voluto andarsene, ma era stata la paura ad agire. Il Coraggio non era stato abbastanza.
Forse Blaine aveva sbagliato consiglio.
Forse era stato Kurt a sbagliare.
Si era odiato. Per un milione di motivi diversi. L’aveva fatto.
E la rabbia non era stata abbastanza da soppiantare la tristezza e tutto era semplicemente troppo per essere vissuto ancora.
Avevano vinto loro. E si sentiva da schifo anche per quel motivo, perché stava scappando, permettendogli di continuare ad agire indisturbati.
Karofsky era tornato al McKinley.
E Kurt se n’era andato.

*

Non aveva mai avuto difficoltà a preparare una valigia. Era ordinato e organizzato e sapeva sempre quali combinazioni di vestiti fossero più adatti per una determinata occasione.
Eppure era lì che fissava quel borsone da quasi mezzora, e il massimo che era riuscito a decidere era stato quali calzini portare. Non un granché.
Sospirò, sedendosi sul bordo del letto, cercando di evitare i vestiti impilati sopra. Era inutile portare così tanta roba. Avrebbe indossato una divisa esattamente come tutti gli altri. Non ci sarebbe stata più nessuna differenza tra lui e il resto del mondo. Per lo meno, di quel mondo.
E andava bene. Sì. Anche se quando pensava al trasferimento alla Dalton gli salivano le lacrime agli occhi e aveva voglia di afferrare il cuscino e farlo schiantare da qualche parte e gridare e un sacco di altre cose che avrebbero potuto sfociare in violenza.
Neppure il pensiero che non sarebbe stato da solo, non totalmente, perché Blaine era lì e si era preoccupato tantissimo per tutto quello che era successo, sommergendolo di messaggi, riusciva a risollevarlo.
Era solo mortalmente triste. Forse era uno di quei suoi momenti altamente teatrali, ma lui era teatrale. Non avrebbe potuto farci niente.
Lanciò un’occhiata alla sedia, su cui era appoggiata la divisa della Dalton, mentre lo sguardo gli si appannava. E avrebbe potuto dare la colpa all’uniforme – perché era veramente orribile. Come tutte le uniformi, in effetti, anche se potevano avere il loro fascino. Ma sugli altri. Su Blaine, ad esempio – ma in realtà non poteva prendersi in giro in questo modo.
La verità era che non aveva idea di cosa fare. Non che avesse scelta, in effetti. Aveva deciso di andarsene e l’avrebbe fatto e avrebbe iniziato a frequentare la Dalton, una scuola dove non venivi spinto contro gli armadietti, non dovevi aver paura di ricevere una granita in pieno viso e gli insulti non venivano tollerati. Una scuola in cui non era importante se eri gay. Perché eri comunque come tutti gli altri.
Una scuola da cui Kurt era rimasto affascinato perché gli aveva dato un minimo di speranza. La speranza che ci potesse essere un mondo in cui avrebbe potuto essere se stesso senza averne paura.
E c’era Blaine. Blaine che all’inizio della settimana gli aveva mandato un messaggio per congratularsi del matrimonio. E giusto un’ora prima gli aveva invece scritto di essere forte. Coraggio.
Kurt si prese la testa tra le mani e prese un respiro profondo, cercando di mandar via le lacrime che gli pizzicavano agli angoli degli occhi.
Coraggio.
Quando spostò lo sguardo sui vestiti accanto a lui che attendevano di essere sistemati nei suoi bagagli, Kurt decise che l’importante sarebbero stati gli accessori. Tutta la moda si basava su di essi. Non avrebbe lasciato che una divisa soffocasse il suo senso della moda.
Coraggio.

*

Quando Kurt finì di allacciarsi la cravatta, cercò di non pensare a cosa significasse tutto quello. Cercò di non prestare troppa attenzione allo specchio, di non riflettere su cosa stava per accadere e di, semplicemente, farlo accadere e basta.
Stringendo forte la cinghia della sua borsa di Marc Jacobs, iniziò a percorrere il corridoio principale della Dalton. Gli studenti si stavano già dirigendo verso le loro aule e Kurt cercò di continuare a non pensare a dove stesse andando, muovendo i piedi in automatico. Aveva già percorso quei corridoi e quelle scale più e più volte, con Blaine.
Kurt non aveva bisogno di pensare.
Non aveva neppure bisogno di sperare di non trovare uno dei soliti uomini di Neanderthal  appena girato un angolo.
Non aveva bisogno di aver paura. Il massimo che aveva ottenuto, lì, era stato incontrare Jeremy, un ragazzo che gli aveva presentato il giorno prima Blaine, e battergli il cinque. In mezzo ad un corridoio. Come se fosse stata la cosa più normale del mondo.
Lo era.
Kurt doveva ancora abituarsi a tutto quello. Doveva abituarsi al non avere costantemente gli occhi di tutti puntati addosso. E quelli che lo guardavano, lì, erano probabilmente solo curiosi nel notare una faccia nuova. Non avevano intenzione di deriderlo. O di farlo sbattere contro gli armadietti in ferro.
Non doveva guardarsi le spalle, ma solo guardare avanti. E non pensare. Perché pensare lo faceva agitare e forse sì, era un tipo di agitazione completamente diversa da quando camminava lungo i corridoio del McKinley, ma c’era.
Era tutto così diverso e sorridente e uguale, che Kurt per la prima volta si rese conto del fatto che avrebbe potuto essere come tutti gli altri, se solo l’avesse voluto.
Kurt era spaventato.
Non era sicuro di volerlo.

*

Chiunque gli avesse detto che nelle scuole private non si studiava affatto perché, hey, basta pagare!, avrebbe probabilmente ricevuto un pugno in pieno volto da Kurt.
No, probabilmente no – ma il suo miglior sguardo giudicatore non gliel’avrebbe di certo tolto nessuno -, ma la tentazione sarebbe stata forte.
Si era reso conto di essere indietro su praticamente tutti i programmi. Lui, che era uno dei migliori studenti nella maggior parte delle classi, al McKinley. Tranne scienze. Ma era solo una materia, non era nulla di grave.
Lì, invece, Kurt aveva dovuto faticare per stare dietro alle spiegazioni degli insegnanti. E il fatto che fosse arrivato ad anno scolastico già iniziato non lo stava affatto aiutando.
Aveva avuto la sensazione di essere fuori luogo e indietro e ignorante, una cosa che sbatteva sempre in faccia agli altri con una sorta di sadica soddisfazione, perché la scuola era sempre stata qualcosa in cui era riuscito ad eccellere.
Fino a quel momento.
Kurt abbandonò i libri sulla scrivania della sua stanza, prima di sedersi sul letto.
Era stanco, frustrato e stanco. E gli mancava Mercedes in modi incredibili. E il Glee Club. E la sua scuola.
Ed era così stupido e stanco e perso che sì, nonostante tutto, considerava ancora il McKinley ancora come suo.
E come sempre, quando pensava alle risate con la sua migliore amica, al rannicchiarsi contro di lei e spettegolare, all’aggirarsi a braccetto con lei nei corridoi, si ritrovò con un nodo in gola e con l’incapacità di scioglierlo in qualche modo. Sembrava che tutto fosse bloccato lì, a metà strada, e che non riuscisse né a buttarlo fuori né a ricacciarlo dentro, in profondità.
Si sentiva costantemente in bilico, in quei giorni. E odiava quella sensazione. La odiava perché gli infondeva un’insicurezza tale da farlo vacillare riguardo a quelle che erano sempre state le sue certezze.
Chi era. Cosa voleva.
Si passò una mano sul viso e sospirò, cercando di deglutire e finendo per emettere un suono indistinto che assomigliava fin troppo ad un piccolo gemito. Kurt non l’avrebbe permesso di nuovo.
Prese un respiro profondo e anche se il nodo alla gola rimase lì, immobile, si alzò in piedi, si guardò rapidamente allo specchio per vedere se fosse presentabile, afferrò la sua borsa e aprì la porta della stanza. Giusto in tempo per trovarsi davanti Blaine, sorridente come il suo solito e con una mano alzata e chiusa in un pugno, pronto per bussare.
“Hey. Stavo per bussarti”
Kurt stirò le labbra in un sorriso. “L’ho notato”
“Sì, beh,” Blaine ridacchiò e abbassò la mano “ti va di venire a mangiare? Così mi racconti com’è stato la tua prima mattinata qui”
Disastrosa, grazie.
Kurt aveva la risposta sulla punta della lingua, ma si trattenne. Forse alla fine gliel’avrebbe comunque detto, ma in quel momento si limitò ad annuire e a richiudere la porta dietro di sé.
“Andiamo”
Blaine gli sorrise, prima di fargli un cenno con la testa, e Kurt si sentì leggermente meglio. E pensò che in fondo fosse fortunato a non essere completamente solo. Che sarebbe stata solo una questione di abitudine e quello era il primo giorno, era normale che si sentisse spaesato, no?
Che fosse fortunato ad avere Blaine, ad averlo accanto, a conoscerlo già.
Kurt ne era convinto.
Ma le sue previsioni per il futuro non si erano mai avverate totalmente. Avrebbe dovuto ricordarselo anche in quel momento, forse.

*

“Non so se sia una buona idea”
Blaine non spostò lo sguardo dai suoi occhi. La testa leggermente inclinata di lato, le labbra stirate in un leggero sorriso – sembrava sempre così serio, Blaine, tra quelle mura. Anche i suoi sorrisi erano piccoli e appena accennati. Ma Kurt quasi non ci fece caso - e l’attenzione tutta concentrata su di lui.
Kurt si sentiva in soggezione. E mentre cercava un modo per evitare il suo sguardo, non faceva che pensare a Mercedes e ai suoi amici e…
“Io penso di sì, ma sta a te decidere”
Kurt gli lanciò un’occhiata veloce, prima di riprendere a mangiare. “È come se li tradissi” mormorò una volta ingoiato il boccone.
In realtà ne aveva parlato con Mercedes. E lei l’aveva, beh, obbligato ad entrare nei Warblers perché non ha proprio senso che tu non canti, Kurt. Non ha proprio senso.
Secondo lui, invece, il senso ce l’aveva eccome. Ma a giudicare dalla domanda di Blaine sembrava l’unico a pensarla così.
Quando risollevò lo sguardo dal suo piatto, Blaine lo stava ancora guardando. “Solo… pensaci, ok? Non sei obbligato e solitamente per entrare nei Warblers bisogna fare un’audizione, ma ho… parlato con gli altri e sono d’accordo ad accettarti. Niente audizione. Basta che tu lo voglia, e sei dentro”
Kurt aggrottò le sopracciglia. “… e perché dovrebbero prendermi senza neppure sapere come canto?” chiese, cercando di leggere qualcosa nello sguardo di Blaine “Che cosa gli hai detto?”
Blaine sorrise, inclinandosi leggermente all’indietro fino ad appoggiarsi contro lo schienale della sedia. “Uh… che canti benissimo?”
Kurt emise un gemito sorpreso e sgranò gli occhi. “Ma non mi hai mai sentito cantare!”
“Certo che ti ho sentito! Quella volta, in macchi-“
“Quella volta non conta, Blaine!” lo interruppe lui, non lasciandogli il tempo di continuare.
“Certo che conta” rispose Blaine, non particolarmente turbato dal tono con cui gli aveva risposto “E comunque so che sei un controtenore, Kurt. Questo è bastato a convincerli. Basterebbe a convincere chiunque, in effetti”
“Potrei essere un controtenore che fa schifo” borbottò infastidito, infilzando con particolare enfasi un pezzetto di polpetta.
Blaine si limitò a sorridergli, prima di prendere il suo vassoio ed alzarsi in piedi. “Pensaci e fammi sapere. Le prove sono oggi pomeriggio”
Non gli diede il tempo di fargli notare come arrivare, chiedergli – pregarlo, anzi – di unirsi ai Warblers, inventarsi la sua bravura su due piedi – che poi Blaine non si fosse inventato proprio nulla perché era bravo e lo sapeva, grazie tante, era un altro discorso. Blaine non sapeva come cantava, non avrebbe dovuto e… - ed infine andarsene via prima che lui potesse finire il suo pranzo, fosse incredibilmente incivile e maleducato.
Kurt osservò il suo piatto con le patate mezze mangiucchiate e decise che non aveva più fame.
Lanciò un’occhiata al resto dei ragazzi presenti nella sala, tutti nella loro divisa, e desiderò ardentemente chiudere gli occhi solo per un istante e avere davanti a lui Mercedes pronta a consigliarlo.
Ma Mercedes era a due ore di distanza da lui, probabilmente intenta a decidere cosa mangiare, lottando da sola per schivare le granite in faccia che sarebbero arrivate nel dopopranzo.
Mercedes era esattamente dove l’aveva lasciata.
Fece ricadere la forchetta nel piatto con un tintinnio. Sì, aveva decisamente perso l’appetito.

*

Alla fine, Mercedes l’aveva minacciato. Gli aveva detto di entrare nei Warblers subitoimmediatamenteall’istanteKurtHummel! Perché non avrebbe tollerato il non vederlo cantare. E che tutti i loro compagni la pensavano esattamente allo stesso modo. (Beh, forse Rachel aveva avuto qualche rimostranza, ma era stata messa a tacere. Mercedes, comunque, non gliene aveva parlato e lui aveva fatto finta di non averlo intuito).
Kurt aveva deciso che se doveva entrare nei Warblers, l’avrebbe fatto in grande stile. L’avrebbe fatto per vincere alle provinciali perché avrebbe dato il meglio di sé, proprio come faceva sempre. Anche se al McKinley non era comunque mai stato abbastanza.
I Warblers, però, non si erano dimostrati esattamente come nelle sue aspettative. Aspettative dovute a cosa, poi, non lo sapeva. O sì, forse lo sapeva – perché quell’esibizione, quell’esibizione era stata illuminante per un milione di motivi diversi. Quindi sì, forse si era lasciato trasportare, ma chi non l’avrebbe fatto al suo posto? Non se ne faceva una colpa.
E razionalmente sapeva anche che era assurdo rimanerci male per la bocciatura delle sue idee, perché era il nuovo arrivato e, sul serio, non sapevano neppure come cantasse. Era lì perché Blaine aveva parlato loro di lui, non perché sapessero veramente qualcosa al riguardo.
Solo che sì, il sorriso si era bloccato a metà e non aveva saputo come proseguire. E quando gli avevano affidato Pavarotti, con tutta la pomposità del caso – e lui si era imposto di non roteare gli occhi, perché, sul serio, sembravano peggio di un circolo di zitelle di mezza età, quei tre riuniti dietro ad una scrivania -, si era lasciato andare, cercando di spezzare un po’ quell’atmosfera da ultimo arrivato. L’atmosfera da “hai tutti gli occhi addosso, vedi di non metterti in imbarazzo”. Kurt aveva pensato di fare una battuta. Era una battuta carina. Non pungente come alcune sue uscite che solitamente gli procuravano occhiatacce da parte di Rachel (non era colpa sua, comunque, se lei era una calamita per certe cose. Fosse stata un pochino più accondiscendente, Kurt gliele avrebbe risparmiate).
Nessuno aveva riso.
E sì, lui si era sentito in imbarazzo. Il sorriso che prima era solo a metà strada, adesso sembrava essersi ghiacciato sulle sue labbra.
Solo Blaine aveva stirato le labbra e abbassato la testa, l’aveva visto con la coda dell’occhio e si era rassicurato del fatto che, beh, almeno uno lì dentro aveva senso dell’umorismo.
Era già qualcosa.
Poi era stato messo nuovamente a tacere da Wes – e sì, lo sapeva che Wes non l’aveva veramente zittito, ma lui si era sentito così, quindi amen – e Kurt aveva capito veramente di non essere più al McKinley.
E non era qualcosa di negativo – se n’era andato dalla sua vecchia scuola per un motivo ben preciso, non di certo perché si era svegliato male un giorno – solo che doveva abituarsi. E, sul serio, poteva farcela.
I Warblers non erano i New Directions, e andava bene così. Non poteva pretendere che lo fossero.
Non poteva pretenderlo e non sarebbe mai accaduto. Quindi doveva accettare ciò che aveva in quel momento – idee bocciate, niente assolo per le provinciali e un uccellino di nome Pavarotti come compagno di stanza – e farsene una ragione.
La Dalton non era il McKinley e lui era solo all’inizio. Era il nuovo arrivato. Poteva farcela.
Blaine era lì. Blaine che sorrideva alle sue battute quando tutti lo guardavano perplessi. Blaine che l’aveva rincorso per le scale per dirgli di prepararsi un assolo perché aveva la possibilità di convincere i Warblers. Blaine che, Kurt ne era sicuro, aveva convinto Wes, David e quel ragazzo di cui non ricordava il nome, a dargli una possibilità.
Non era il McKinley e andava bene così. Era diverso, ma non peggiore o migliore. Doveva solo abituarsi, doveva solo conoscerli e, sì, poteva anche ammettere che Wes non era stato affatto maleducato nei suoi confronti. Doveva solo abituarsi.
E c’era Blaine. Blaine che ogni tanto lo incrociava nei corridoi, e che stirava sempre le labbra in un sorriso gentile, e che non aveva paura di sfiorargli una spalla o di farsi vedere con lui.
E c’erano anche tutti quegli altri ragazzi di cui non ricordava il nome, che si erano presentati e l’avevano accolto nelle classi e nei corridoi e nella mensa.
Non era il McKinley e andava bene così.
Era solo diverso.
Kurt poteva farcela. Era appena arrivato. Poteva farcela.

*

L’aiuto di Rachel – Rachel! Era arrivato a chiederle aiuto. Era chiaro quanto ci tenesse. La cosa sorprendente era stata, in effetti, vedere come lei avesse accettato. Era stato sorprendente. (E bello) – non era bastato.
Forse aveva sbagliato a chiedere a lei in primo luogo, ma Rachel era proprio come lui. Odiava ammetterlo, e il pensiero gli metteva anche un po’ i brividi ad essere onesti, ma era così e lo sapevano entrambi.
Comunque non era bastato.
Non aveva avuto l’assolo. Nonostante gli applausi di tutti quando aveva finito di cantare Don’t cry for me Argentina. Quando aveva finito di cantare magistralmente Don’t cry for me Argentina.
Blaine gli aveva detto di non esagerare così tanto la prossima volta. Che lì erano tutti uguali, tutti con una divisa, tutti un gruppo unico di voci. Non c’erano stelle più luminose, non doveva urlare per farsi sentire.
Non doveva gridare così forte.
Kurt l’aveva guardato, stirando le labbra in un sorriso.
Non aveva idea di come fare a non gridare. Non aveva idea di come fare per farsi ascoltare se non poteva essere così. Così teatrale ed esagerato e Kurt.
Kurt aveva guardato Blaine e sulla punta della lingua si era formata una domanda. “Tu come hai fatto?”
Ed era lì, ad un passo dal chiederglielo. Perché lo guardava e vedeva quella divisa, e quel sorriso appena accennato, e quella persona così composta e compassata e perfetta, che elargiva consigli a bassa voce e cercava di non ferirlo. Quella persona inserita talmente bene in quel gruppo che nessuno avrebbe potuto distinguerlo dagli altri.
Tu come hai fatto, Blaine?
Ma non glielo chiese.
Blaine si allontanò da lui e Kurt rimase lì, immobile e seduto, con la mente completamente vuota.
A conti fatti, forse fu quello il momento in cui avrebbe dovuto accorgersi di alcune piccole cose.
A conti fatti, avrebbe dovuto capirlo subito.
Ma non fece niente del genere.
Perché si sentiva solo, nonostante tutto. Nonostante il ragazzo che gli piacesse si sforzasse di rassicurarlo e di fare un sacco di cose carine per lui e di farlo sentire parte di qualcosa.
Ed essere parte di qualcosa di speciale, rendeva speciali. Rachel aveva sempre avuto ragione al riguardo.
Ma in quel momento, non sapeva proprio a cosa appartenesse.
Non era più nei New Directions. E non si sentiva parte dei Warblers – e Blaine, con tutta la gentilezza del mondo, doveva concederglielo, gli aveva detto esattamente quello. Brillava troppo. Non dovresti brillare così tanto.
Non si sentiva parte di niente.
Soltanto solo. Nonostante Blaine e i ragazzi tutti così gentili e disponibili ad aiutarlo. Si sentiva solo.
Si rimise in piedi solo dopo qualche minuto, percorse tutti i corridoi della Dalton e si infilò nella sua camera.
Neppure Pavarotti trillò quando lo vide entrare.

NOTE: Ok, di questo capitolo (a parte il classico: la Dalton è un collegio. Amen, ok? – anche perché, effettivamente, ancora non sappiamo se lo sia o meno. Fino a quel momento, questo rimane canon ù_ù -), devo parlare di una cosa. La voce di Chris Colfer. Ovunque viene riportato che è un soprano. E mi starebbe pure bene, ma per essere un soprano dovrebbe essere donna. Che abbia la voce come un soprano è una cosa, che lo sia, è un’altra. Chris Colfer si è definito un “countertenor” e mi starebbe bene pure questo se non fosse che in italiano esistono due traduzioni. Controtenore e tenore leggero. Ora. Io c’ho provato a capire la differenza, ma ancora adesso non so cosa sia Chris. E mi dispiace, giuro, ma… beh. Ho deciso di tenere controtenore ._.’ Se siete più afferrati di me sul canto, illuminatemi, vi prego X’D
Detto questo, spero che questo capitolo vi piaccia e grazie a tutti quelli che hanno letto il primo <3

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Capitolo 3
*** Capitolo 3 ***


LET YOUR COLORS BURST

CAPITOLO 3

Ciò che Kurt ricordava delle provinciali erano i riflettori, gli applausi, qualche mezzo sorriso e poco altro.
E una vittoria a pari merito con i New Directions.
Ciò che Kurt ricordava era più che altro legato alle sensazioni, piuttosto che ad avvenimenti effettivi. La sensazione di inadeguatezza. La sensazione di non essere parte di tutto quello. Di essere dalla parte sbagliata, in qualche modo.
Di quanto fosse sbagliato.
Di quanto fosse giusto, invece, lo sguardo di Blaine addosso, anche durante una performance. Anche durante qualcosa di puramente scenico perché in effetti era così, era solo coreografia e non era per lui tutto quello, era per il pubblico.
E il suo cuore che la pensava diversamente, solo per un secondo. Che si permetteva di ritenerlo importante, di ritenerlo rivolto a sé.
Kurt ricordava tutto quello e poco altro.
Ricordava l’abbraccio di Mercedes, di come si fosse sentito a casa.
E ricordava la mano di Blaine sulla propria spalla. “Dobbiamo andare”. Ricordava l’arrivederci. Di nuovo, ancora una volta guardando Mercedes negli occhi, gettando occhiate al resto del Glee Club. Non il suo, però, non più.
Ricordava poche cose, che però non facevano altro che ripetersi in continuazione nella sua mente. Senza sosta.
Solo due settimane prima era stato con loro. Aveva fatto parte di quel gruppo.
Kurt guardò con la coda dell’occhio gli altri ragazzi chiacchierare animatamente gli uni con gli altri. Vide Wes complimentarsi con ciascuno dei suoi compagni e stringere mani a tutti quanti. Chiuse gli occhi, provando a complimentarsi con se stesso, ma non ci riuscì. Le parole non si formavano neppure. Non riusciva neppure a pensarlo.
“Tutto bene?”
Girò la testa verso Blaine, accanto a lui, che lo guardava con la testa leggermente inclinata e un leggero sorriso. Sembrava preoccupato e meno partecipe a festeggiare rispetto agli altri.
Kurt gli sorrise, consapevole di quanto risultasse forzato, ma era il massimo che avrebbe potuto ottenere in quel momento. “Non preoccuparti”. E sapeva che era una frase stupida, perché Blaine era così attento a lui e al farlo sentire parte del tutto, farlo sentire a casa, farlo sentire al sicuro, che Kurt sapeva sarebbe stato impossibile.
Blaine era un buon amico. Praticamente perfetto.
“Sicuro?”
Kurt annuì, cercando di essere più convincente questa volta, prima di avviarsi verso gli altri. “Dobbiamo andare” mormorò, facendo un cenno con la testa verso l’uscita.
Non aspettò la risposta di Blaine, si limitò a girarsi e a riprendere a camminare. Ma sentì lo sguardo dell’altro puntato addosso fino a quando non salirono sull’autobus, diretti nuovamente alla Dalton.

*

“Avanti!”
Kurt alzò gli occhi al cielo in modo teatrale ed esagerato, sperando di risultare abbastanza chiaro, ma dato che Blaine continuava a tirargli la manica della divisa probabilmente non fu così.
“Sono stanco e devo ancora finire il saggio su-“
“Quello lo farai domani. Anzi. Ti aiuto, prometto. Tu però ora vieni a festeggiare con noi. Abbiamo vinto! Siamo passati! Kurt, non puoi rimanere in camera a studiare, te lo proibisco”
Kurt alzò un sopracciglio, cercando di non notare il fatto che la mano di Blaine fosse ancora sul suo braccio. O quel sorriso che gli illuminava il viso. O quello sguardo consapevole del fatto che non avrebbe mai ricevuto un no come risposta.
A volte Kurt non lo sopportava proprio.
Ma per la maggior parte del tempo non riusciva neppure a pensarlo, un modo per dirgli di no. Era impossibile. Impossibile per lui e per la sua testa e per la sua voce. Andavano sempre in un’unica direzione.
“D’accordo” sbuffò infine. Era vero che non aveva voglia di festeggiare. Non con loro. E ogni volta che ci pensava si rendeva conto di quanto fosse ingiusto nei confronti di quei ragazzi che, in un modo o nell’altro, l’avevano accolto. E stavano cercando di farlo sentire parte di un gruppo.
Non era colpa loro. Non era colpa di nessuno. Ma non poteva farci niente se non faceva che perdersi e crogiolarsi in quella malinconia che rispuntava ogni volta che ripensava ai New Directions. Era un sentimento di amarezza e di nostalgia che ormai lo accompagnava ogni giorno da quando si era trasferito lì e che si era solo accentuato quando li aveva rivisti, su quel palco, a cantare tutti insieme.
Tutti insieme, tranne lui.
Era felice per i Warblers. Lo era sul serio. Perché, beh, erano favolosi e vocalmente erano pazzeschi e Kurt lo sapeva, dannazione, non era sordo e non era stupido. Era felice per loro, perché poteva solo immaginare quanto fosse stato difficile arrivare fino a quel punto. Solo che lui non era parte di quel percorso.
Non si sentiva parte di niente.
“Ottimo!” esclamò Blaine, trascinandolo velocemente fuori dalla stanza, “si stavano tutti chiedendo dove fossi. Non possiamo festeggiare se manca un membro!”
Kurt stirò le labbra in un sorriso, guardando Blaine che lo trascinava per il corridoio.
“Vieni, passiamo di qui, conosco una scorciatoia”
Kurt si limitò a seguirlo e ad aumentare il passo. Blaine aveva ancora la mano stretta attorno al suo braccio e Kurt aveva ancora gli occhi puntati su di lui. E gli venne in mente quando poche settimane prima si era ritrovato a correre tra i corridoi della Dalton. Anche allora Blaine l’aveva convinto a prendere una scorciatoia. Anche allora l’aveva trascinato in giro tenendo il suo polso stretto tra le dita.
Abbassò gli occhi.
Non aveva voglia di festeggiare, ma aveva voglia di stare con lui. Voleva che quella mano continuasse a tenerlo stretto. Voleva ascoltare Blaine rifilargli consigli che si rivelavano forse disastrosi, ma in cui credeva fermamente. Voleva vederlo sorridere come quando, poco prima, si era presentato davanti alla sua porta, o come quando erano usciti quelle volte insieme. Voleva sapere la sua opinione riguardo all’ultima copertina di Vogue, che lui aveva trovato sottotono. Voleva sapere come sarebbero stati i suoi capelli senza tutto quel gel.
Voleva un mucchio di cose e non aveva idea di come poterle avere.
Aumentò la corsa, fiancheggiando Blaine, e sorrise leggermente. Per il momento si sarebbe accontentato di quello. Della presa sul suo braccio, del sorriso, delle piccole cose.
Dei festeggiamenti con gli altre Warblers e delle risate con gli altri ragazzi.
Si sarebbe accontentato.

*

Era patetico.
E forse in un altro momento avrebbe agito diversamente. Forse avrebbe agito e basta.
Ma era stanco. E non aveva voglia di festeggiare. E, soprattutto, era lì solo per un motivo. Un motivo che era andato a prenderlo nella sua camera, l’aveva letteralmente trascinato per i corridoi della Dalton e poi l’aveva posizionato su uno dei divani in pelle che occupavano la stanza.
Blaine.
Un motivo che poi l’aveva lasciato lì, con un bicchiere di Dio solo sapeva cosa in mano. Un motivo che in quel momento stava parlando con Wes,  Jeremy e Flint dall’altra parte della stanza.
Era patetico.
Era una festa per i Warblers. Per tutti quanti, non di certo un’uscita a due. Blaine non aveva alcun obbligo a stare lì a far compagnia a uno che non voleva compagnia.
E lui era stato solo un idiota a pensare di passare una serata con lui. Ed era un idiota a pensare che Blaine dovesse lasciar perdere tutti i suoi amici per far sì che il suo morale non precipitasse più a terra di quanto già non fosse. Blaine non gli doveva niente. Proprio niente.
“Non sembri divertirti”
Kurt spostò di scatto lo sguardo da Blaine verso la figura in piedi davanti a lui. “Sono solo stanco. Non avrei dovuto venire, mi dispiace se vi sto rovinando la-“
“Ma piantala” David lo interruppe con un sorriso, prima di sedersi accanto a lui e lanciare un’occhiata veloce in direzione di Blaine. Kurt deglutì. Era stata un’occhiata casuale, giusto? “Non si può festeggiare se manca uno di noi. Ed è stata una giornata lunga, hai il diritto di essere stanco”, David tornò a guardarlo, sempre sorridente, e Kurt si sentì leggermente meglio. Anche se continuò a sperare che quell’occhiata in direzione di Blaine fosse solo…
… niente.
E Kurt quasi si morsicò la lingua quando si rese conto di essere tornato a guardarlo. E di aver indugiato forse un po’ troppo sulla sua figura per poter passare inosservato. Di aver indugiato troppo sulla linea delle spalle, sulla mano sinistra che stringeva un bicchiere, sul profilo del viso e sul leggero sorriso che incurvava le sue labbra. Uno di quei sorrisi appena accennati. Blaine era sempre così cordiale, così perfetto, quando parlava con gli altri, quando sorrideva. Non era mai sopra le righe o vistoso o particolare o teatrale.
Non era niente come lui. Come Kurt.
Distolse nuovamente lo sguardo.
Non era totalmente vero. Quando cantava Blaine sorrideva. Sorrideva tantissimo e si muoveva e agitava le mani in quel modo che Kurt trovava adorabile e che lo faceva spesso deconcentrare. E quando era con lui, a volte, si comportava allo stesso modo. Sfogliava Vogue o Vanity Fair o Elle, sdraiato sul suo letto, e borbottava infastidito da alcuni abbinamenti di vestiti o di colori o di accessori.
A volte era come lui. A volte era come Kurt.
Ma solo a volte.
“Va tutto bene?”
Kurt si ricordò solo in quel momento che David era ancora accanto a lui. “Uh. Sì. Certo. Scusami. Non so dove ho la testa-“
Ed era pronto a continuare con una delle sue solite battute, ma la risatina di David lo bloccò. “Sì, beh, credo di avere un’idea”
Uh.
Kurt si impose di giocare la carta dell’ignoranza perché no, non sarebbe andata come le altre volte, non avrebbe di nuovo rischiato di rendersi ridicolo per un ragazzo e non avrebbe di nuovo rischiato di farsi spezzare il cuore. Farselo spezzare sul serio, questa volta.
Aggrottò le sopracciglia, guardando David negli occhi, ma l’altro si limitò a scuotere le spalle e a dargli una pacca sulla spalla prima di alzarsi in piedi. “Coraggio, Kurt”
Coraggio.
Kurt gli sorrise, seguendo David con lo sguardo mentre si dirigeva verso Ezra e Matthew.
Coraggio.
Si costrinse a non girare la testa verso Blaine. Si costrinse a non guardarlo di nuovo perché, sul serio, era patetico.
Ma quella parola, quel ‘Coraggio’ pronunciato da David, era così diverso da come era abituato a sentirselo ripetere, che Kurt non aveva idea di cosa provare. Non aveva idea di cosa fare o di come agire.
Non l’avrebbe saputo ancora per un po’ di tempo.
Non l’avrebbe saputo perché in quel momento era ancora così assorto da quell’aura che pensava di vedere attorno a Blaine da non pensare neppure di andare oltre. Di andare veramente oltre.
Gli ci sarebbe voluto solo un altro po’ di tempo, anche se Kurt non lo sapeva ancora.
Perché in quel momento, non sapeva più nulla, né su di sé né del suo mondo. Perché tutto, tutto era stato mandato all’aria.
Riprese a sorseggiare dal suo bicchiere, facendo una smorfia disgustata al sapore che accolse in bocca.
Cinque minuti dopo, stava ripercorrendo i corridoi della Dalton, diretto verso la sua stanza.

*

La fregatura nell’avere una cotta verso qualcuno era che si vedevano solo alcune cose. E si tralasciavano altre.
Kurt avrebbe dovuto saperlo, perché era così che si era comportato con Finn. O con Sam.
Una cotta, però, era irrazionale. C’era e non c’erano motivi validi. C’era perché era così.
Questo, Kurt lo sapeva per certo.
Lo sapeva perché l’ultima cosa di cui poteva aver bisogno in quel momento era una cotta per qualcuno, ma era capitato. E non era neppure totalmente irrazionale, perché nonostante le tempistiche sbagliate, Blaine era una scelta decisamente migliore di Finn o di Sam o di qualsiasi altro ragazzo. Perché Blaine gli sorrideva – quasi sempre in modo controllato e impeccabile, ma a volte, a volte si lasciava andare e rideva con lui e Kurt doveva fermarsi per imporsi di respirare perché se ne dimenticava. E lo sfiorava, di continuo, per sbaglio o no, sulla spalla, sul ginocchio, lungo il braccio. Parlava con lui e invadeva i suoi spazi e non aveva paura di essergli così vicino da poter essere scambiato per il suo ragazzo, non aveva paura di stargli vicino e basta. E lo ascoltava e lo capiva e lo consigliava, spesso con idee forse dettate più da un passato di cui Kurt non conosceva quasi nulla, che altro. Ma c’era. Era lì ed era lì per lui.
Non lo lasciava solo.
E quindi sì, forse era irrazionale, ma Blaine gli piaceva.
Kurt vedeva solo quello. Le cose belle. La parte luminosa e perfetta e levigata e così a modo che avrebbe potuto conquistare anche Burt, ne era sicuro.
Kurt vedeva solo quello.
Anche quando Blaine non era così bravo, anche quando, nonostante gli sforzi, non risultava perfetto, Kurt non se ne accorgeva.
Era una cotta stupida e irrazionale, come tutte le cotte.
Gli piaceva. Blaine gli piaceva e a volte cercava di dimenticarsene. Cercava di mettere da parte tutto perché a mostrarlo, a provare ad afferrarlo, sarebbe finita come con Finn. Un disastro.
Kurt lo sapeva.
E così si cullava con quel sentimento, con quelle farfalle nello stomaco che svolazzavano, anche quando Blaine parlava con altri, anche quando non era con lui, anche quando gli dava uno di quegli stupidi consigli, anche quando non era perfetto.
Perché per Kurt lo era.
Era solo una cotta, che Kurt chiamava amore perché, beh, doveva essere quello. Era stato innamorato di Finn, no? E quello era simile, quindi, sì, doveva essere amore.
Ma non lo era. Non ancora.
Era solo una cotta.
Perché non fu amore a prima vista.
Fu amore solo quando Kurt aprì gli occhi, li aprì sul serio, e vide i limiti di Blaine. E vedendo quei limiti lo accettò comunque.
In quel momento fu amore. Solo in quel momento.

*

 “Dai” borbottò aggrottando le sopracciglia, “Per favore? Solo un pochino?” arricciò le labbra, mentre le mani continuavano a stringere il cellulare, “Non fare l’antipatico, andiamo” sbuffò, scrutando attentamente all’interno della gabbia.
Pavarotti gli restituì lo sguardo, inclinando la testa di lato. Ma non disse nulla.
“Che cosa ti costa? Mi accontento di poco, giuro!” esclamò esasperato. 
Pavarotti non ne voleva sapere apparentemente. Lo guardava, ma il suo becco rimaneva chiuso. Non cinguettava da un giorno intero. E stava perdendo le piume.
E dire che solo un paio di giorni prima Kurt avrebbe pagato per farlo stare zitto e dargli la possibilità di studiare, e quello non aveva fatto altro che trillare felice.
Stupido usignolo.
Un usignolo muto, in quel momento.
Incrociò le mani sotto il mento, continuando a fissare intensamente Pavarotti, cercando in qualche modo di convincerlo ad aprire il becco.
Fu in quel momento che sentì dei passi riecheggiare in corridoio e quando sollevò lo sguardo Blaine era appena entrato nella stanza.
Gli aveva mandato un messaggio poco prima, preso dalla disperazione di star assistendo agli ultimi momenti di vita di Pavarotti. Forse l’aveva avvelenato. E sì, forse gli aveva augurato il peggio un paio di giorni prima, perché era snervante dover recuperare interi programmi scolastici con un usignolo trillante nelle orecchie, ma non gli aveva fatto nulla, in realtà. Se ne stava occupando sul serio e si stava impegnando.
E Pavarotti, invece, non cantava più.
Forse era bastata la maledizione?
“Ho ricevuto il messaggio, che succede?” Blaine gli si avvicinò, preoccupato.
“È Pavarotti, penso stia male” rispose, allontanandosi leggermente dalla gabbia. “Mi sto prendendo cura di lui, ma non canta e sta anche perdendo le piume” continuò.
Blaine lo guardò, prima di sedersi e osservare Pavarotti aggrottando le sopracciglia. “Oh, sta solo facendo la muta. Sta cambiando le piume, quindi il suo corpo deve solo rallentare un po’” disse infine, con tono rassicurante.
Kurt chiuse gli occhi ed emise un sospiro di sollievo. Ok. Pavarotti non stava per morire, quindi.
La sua maledizione nei suoi confronti non era stata letale. Non gli aveva fatto nulla. 
“Non preoccuparti” proseguì Blaine sedendosi meglio accanto a lui, “Ha cibo e acqua e sembra che la sua gabbia gli piaccia”
Sembra che la sua gabbia gli piaccia.
Kurt stirò le labbra a quelle parole. Avrebbe voluto ribattere che era pur sempre una gabbia. E una gabbia aveva le sbarre e una serratura e degli obblighi.
Ma Pavarotti era solo un usignolo, in che altro posto avrebbe potuto vivere se non lì?
 “Dagli un po’ di tempo” mormorò Blaine, e la sua voce era sempre così calma, così sicura, così certa, sempre e comunque. Kurt aveva così tanta voglia di chiedergli se stessero ancora parlando di Pavarotti. Se, forse, non stessero parlando di lui.
Anche a lui serviva solo un po’ di tempo, no?
Solo quello. Solo del tempo. E avrebbe nuovamente fatto parte di un gruppo. Proprio come Blaine.
Tu come hai fatto?
“Canterà di nuovo in men che non si dica” disse infine Blaine, prima di girarsi a guardarlo e Kurt non riuscì a dire nulla, solo ad osservarlo di rimando e a sorridergli leggermente. Avrebbe voluto fargli quella domanda. Avrebbe voluto sapere, perché c’erano così tante cose che non riusciva a capire. C’erano così tante cose che andavano oltre. Così tante cose che non poteva capire.
Kurt pensava che fosse solo una questione di conoscenza. Che prima o poi sarebbe arrivato ad un punto in cui tutto gli sarebbe apparso chiaro. Sarebbe arrivato ad essere così integrato all’interno di quella scuola da essere come Blaine.
L’aveva fatto Blaine, poteva riuscirci anche lui, no?
“Non dimenticarti delle prove dei Warblers alle cinque”
Kurt annuì, mordendosi leggermente le labbra. Sembrava aver perso completamente le parole. Forse era così, forse non le aveva più.
Le aveva rimesse in gabbia.
Blaine si inclinò verso di lui, colpendolo scherzosamente con la spalla, “Regionali, arriviamo!” disse allegro e Kurt non poté non sorridergli, questa volta leggermente più convinto.
E poi Blaine gli diede una pacca sul ginocchio e Kurt si limitò a seguirlo con lo sguardo mentre usciva dalla stanza.
Le parole erano sparite dalle sue labbra. Le aveva rimesse in gabbia, non c’erano più.
Forse era in gabbia anche lui.
Era come Pavarotti.
Kurt osservò l’usignolo e inclinò la testa.
E si chiese quanto, invece, ci fosse di Blaine in quelle parole. Quanto in gabbia fosse lui.
Kurt non sapeva se sarebbe mai riuscito a penetrare in quel’ambiente così tanto da sentirlo proprio. Non sapeva se sarebbe mai arrivato ad annullarsi per essere invisibile.
Non farti vedere.
Sembra che la sua gabbia gli piaccia.
Nasconditi.

Kurt però non si era mai nascosto in tutta la sua vita. Mai.
Blaine forse sì.

*

 Blaine lo faceva impazzire. Completamente. Senza neppure accorgersene, perché Kurt dubitava che fosse così, così consapevolmente maligno, nei suoi confronti.
Solo che lo faceva impazzire.
E non era un modo melodrammatico per dire che era perso di lui – anche se lo era – o che la sua sola presenza gli impediva di concentrarsi – anche se era vero -. No. Blaine lo faceva impazzire veramente.
Gli sorrideva, e lo sfiorava, sempre senza avere paura, sempre senza pensarci due volte, sempre senza il timore di poter essere contagiato. E gli parlava e lo ascoltava e gli dava consigli e Kurt si perdeva. Si perdeva ad osservarlo, a cullarsi con quelle farfalle nello stomaco, ad ascoltarlo cantare.
E poi, poi Blaine diventava di nuovo perfetto e così a modo e così gentile e sicuro e controllato.
E Kurt impazziva.
Erano piccole cose e piccoli dettagli, ma Kurt ci faceva sempre più caso. Sempre di più. Ogni giorno era come accorgersi di mille particolari, mille sfumature a cui non aveva neppure pensato e che erano sempre state lì.
Il suo sorriso cambiava, quando c’erano gli altri.
E raddrizzava la schiena e annuiva composto e le mani erano sempre elegantemente appoggiate alle gambe.
E poi si metteva a cantare e si trasformava di nuovo. E riprendeva a sorridere come sorrideva a lui, con un sorriso che gli illuminava gli occhi e faceva battere il cuore di Kurt all’impazzata. E si muoveva, saltava, si divertiva come un ragazzino. Flirtava con lui.
E Kurt impazziva.
Blaine l’avrebbe fatto uscire fuori di testa. Ogni giorno che passava alla Dalton, ogni giorno che trascorreva tra quelle mura, ogni momento che si ritrovava con Blaine, Kurt se ne convinceva sempre di più.
Ti farà impazzire. Ti farà impazzire sul serio.

*

Jeremy era nel suo corso di storia, ed era stato abbastanza gentile da passargli gli appunti che si era perso dall’inizio dell’anno – un’enormità di fogli grazie a cui Kurt era diventato ancora più pallido del solito quando l’aveva adocchiata -, ma Kurt era comunque incline a mandare tutto al diavolo.
Il livello di preparazione alla Dalton era di gran lunga superiore rispetto al McKinley, Kurt l’aveva sempre sospettato, ma trovarsi davanti all’incapacità cronaca – sua – di rimanere al passo era frustrante. Non era abituato a stare indietro.
In ogni campo.
E poi era entrato Blaine nella stanza, e Kurt si era dimenticato tutto quello che aveva appena studiato. Bella fregatura.
In compenso, ci aveva guadagnato il poter cantare una canzone con lui. Loro due da soli. Niente Warblers, niente osservatori, nessuno pronto a sbirciare o a ridere o a prenderlo in giro perché era vicino ad un ragazzo. Perché era così vicino ad un ragazzo.
Baby, it’s cold outside.
Le parole, dette da Blaine avevano la capacità di far fare cose, al suo stomaco, che Kurt non credeva possibili.
Aveva sempre pensato di essere stato innamorato di Finn. E forse, forse, era stato così. Ma quella era un’altra cosa. Più bella. Che lo spaventava anche un po’, perché era qualcosa di un po’ più grande. Perché nonostante ogni tanto si ritrovasse a pensare a quei dettagli che lo facevano impazzire – e non in senso buono – di Blaine, bastava un sorriso come quello, come quello che gli stava rivolgendo in quel momento, per dimenticarsene.
Forse Kurt l’aveva messo su un piedistallo che non meritava del tutto, ma non importava. A Kurt non importava perché quella sensazione che gli faceva provare valeva la pensa di tutto.
Blaine gli faceva contorcere lo stomaco come se avesse avuto la nausea, ma stava benissimo. E il suo cuore sembrava sempre sottoposto ad uno sforzo immane, ma non era doloroso. E la sua testa ogni tanto si perdeva informazioni su Carlo Magno o Salinger o Shakespeare, ma faceva posto al sorriso di Blaine.
Andava bene così.
Senza una vera coerenza, senza un vero perché. Kurt non sapeva trovare risposte a delle domande che neppure si poneva, sapeva solo quello che provava.
E provava una gran paura e qualcosa di ancora più forte che la contrastava.
Era nuovo, ed era bello.
Blaine aveva degli occhi stranissimi. Kurt lo sapeva. Ma quando si era ritrovato a pochi centimetri dal suo viso, e la bocca aveva continuato a emettere suoni senza che neppure lui se ne accorgesse, troppo preso ad osservare il ragazzo che aveva davanti, se n’era accorto sul serio.
E Blaine gli aveva guardato le labbra. Kurt ne era sicuro. Non era stupido. E poteva essere un sognatore romantico, sul serio, ma Blaine gli aveva guardato le labbra.
E quando qualcuno ti guarda le labbra è perché ti vuole baciare, giusto?
Funzionava sempre così, nei film.
Il bacio, comunque, non era arrivato. Kurt aveva continuato a cantare e a girovagare per la stanza mentre annunciava quanto fosse tardi e che no, non poteva proprio rimanere lì ancora. Doveva andare.
E andava bene così, Kurt non si era aspettato nulla. Gli bastava quello, gli bastava flirtare con lui e vedere Blaine seguirlo come nessun ragazzo aveva mai fatto e guardarlo come se fosse stato qualcosa di importante.
Ma era solo la canzone, giusto?
Nel momento in cui ricadde sul divano accanto a Blaine, Kurt non seppe in cosa sperare. Perché Blaine era lì, a qualche centimetro da lui, e gli stava sorridendo e Dio, era bellissimo. Avevano flirtato – e Kurt non era esperto in tutto quello, ma sì, era abbastanza sicuro di cos’avessero appena fatto. Di cosa facevano di continuo quando cantavano. O quando cantava solo Blaine – e avevano riso e avevano cantato. E ora erano lì.
E l’attimo dopo era già finito. L’attimo dopo Blaine si stava complimentando con lui del fatto che nessuna ragazza con cui l’avrebbero fatto cantare a quello spettacolo di Natale al Kings Island sarebbe stata brava quanto lui.
Kurt l’aveva osservato uscire dalla stanza. Si era inumidito le labbra, quasi immaginandosi qualcosa che non avrebbe potuto avere perché erano solo amici. E flirtavano e scherzavano e Blaine non faceva che toccarlo, una pacca sulla spalla, una stretta al ginocchio, una presa sul suo polso, ma erano solo amici.
Solo quando si era ritrovato a parlare con il professor Shuester e si era lasciato sfuggire quelle parole, quel “Sono innamorato di lui”, si era reso conto di dove era arrivato. Di che cos’era quella sensazione che contrastava la paura.
Kurt aveva sorriso. Innamorato. Sono innamorato di lui.
Era la prima volta che provava qualcosa del genere. Era la prima volta che quel sentimento arrivava così in profondità. Aveva avuto cotte stupide e come tutti gli stupidi adolescenti si era lasciato trasportare dal tepore di una possibilità che Kurt sapeva non esistere affatto. Come tutti gli adolescenti stupidi si era convinto che fosse abbastanza la sua, di volontà, per creare magicamente un rapporto con Finn.
Con Blaine era diverso, però.
Non sapeva cosa fare, si ritrovava ad osservarlo proprio come un adolescente stupido, ma si ritrovava anche a pensare a quanto, comunque, fosse fortunato ad averlo nella propria vita.
Erano solo amici. E lui era innamorato.
Era un gran casino. E Kurt non sapeva ancora se ne sarebbe valsa la pena.
Ma in quel momento non gli importava. Non gli importava proprio.

*

NOTE: Ed ecco qui la terza parte :)
Con la prossima chiudiamo questa storia \o/
E niente, non so cosa dire di questa parte XD Uh… spero vi piaccia? <3 Grazie per i commenti e per leggerla, mi fa un enorme piacere sapere che avete voglia di seguirla.
A presto con la quarta e ultima parte :)

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