Family Portrait di Ely79 (/viewuser.php?uid=61615)
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Antefatto ***
Capitolo 2: *** I ***
Capitolo 3: *** II ***
Capitolo 4: *** III ***
Capitolo 5: *** IV ***
Capitolo 1 *** Antefatto ***
Antefatto
Questa
storia ha partecipato al contest "What-If the War" indetto da Trick,
classificandosi prima. Il giudizio dei giudici, Trick e SakiJune,
verrà riportato al termine dell'ultimo capitolo.
NB. In quanche modo la storia prende le mosse dalla mia "Diciotto calle
bianche", ma potete leggerla a prescindere da essa. Buona lettura!
Antefatto
6 maggio 1980
Salone estivo, Lestrange Hall, Cornovaglia
Misurò a larghi passi il salone, intento a soppesare parole e
lacrime. Da qualche tempo la battaglia s’inaspriva: avevano
subito perdite, molti erano rimasti feriti, alcuni erano stati
imprigionati ad Azkaban con l’accusa di essere dei sovversivi. Li
spacciavano per delinquenti efferati, ma la verità era che loro
stavano combattendo per un mondo migliore, dove la magia potesse
tornare nelle mani di chi la meritava davvero.
«Non voglio perderti» singhiozzò nuovamente la donna, il volto sprofondato fra le mani.
Si volse a guardarla. Era così fragile nella sua disperazione,
la figura di un dramma troppo grande per un palcoscenico infinitamente
piccolo. Rabastan sedette al suo fianco, cingendole le spalle con un
braccio.
«Lo faccio per noi. Per il nostro futuro».
«Ho paura» pianse Elanor, cercando conforto sul petto del
marito. «Ogni giorno esci da quella porta e non so se ti
vedrò tornare. Gli Auror passano di continuo fuori dei nostri
cancelli, sorvolano la tenuta, in attesa di un pretesto qualsiasi per
portarti via. Ogni volta che sento i cani abbaiare temo di vederli
avanzare, pronti a distruggere la nostra vita».
Tremava mentre parlava, facendogli desiderare di poter porre fine al
più presto a quel tormento. A volte, nel cuore della notte, la
sentiva alzarsi e andare alle finestre in cerca di presenze
rivelatrici. Poi tornava a letto e si stendeva su di lui, quasi
tentasse di difenderlo con il suo corpo fragile e minuto, da chi covava
nell’ombra.
«Rabastan, ti scongiuro… ascoltami».
Gli occhi azzurri del marito la fissarono a lungo. Uno sguardo che
parlava di una decisione già presa, irrevocabile e legittima.
«Ti prego» lo supplicò, le guance bagnate di lacrime.
Le asciugò il viso con quella mano che ogni notte si muoveva
nell’aria, tracciando scie mortali. Una, dieci, cento vite in
meno, pur di salvarne una sola. Quella della sua Elanor.
«Ho giurato di servire il Maestro» rispose torvo, provando
la sgradevole sensazione d’essere abitato da un animale
mostruoso. Il Marchio Nero. «Non lascerò che un gruppo di
fasulli paladini ostacoli il progetto. Dobbiamo vincere e rimettere a
posto le cose. La magia deve tornare ad essere nostra. Tu devi avere
ciò che quegli esseri indegni ti hanno sottratto. La magia
è nostra di diritto e la riavremo».
Elanor ascoltava, le labbra strette per l’ansia ed il timore di
udire quanto sarebbe seguito. Rabastan aveva solo ventitré anni,
eppure mostrava un discernimento degno di un uomo molto più
maturo. E lei, di due anni più giovane, a volte stentava a
comprendere il perché delle sue scelte, anche se giuste e
ponderate.
«Sarei felice di dare la mia vita per vederti diventare la strega
che hai sempre sognato, ma so che non sarà necessario. Non
permetterò a nessuno di mettersi sulla strada della tua
guarigione, nessuno interferirà con la mia battaglia. Io
vivrò per te. L’ho promesso e sai che non è da me
venir meno alla parola data» disse, zittendo le proteste della
moglie con un bacio affettuoso. «Riavrai ciò che quegli
infami ti hanno tolto con l’inganno»
«Rabastan…»
«Ti guarirò, fosse l’ultima cosa che faccio» promise.
Nonostante il dolore che l’attanagliava, Elanor cercò
d’annuire alla promessa del suo amato sposo. Aveva sempre
mantenuto i suoi giuramenti, anche a costo di fare scelte pericolose o
impopolari.
«Fidati di me, Elanor. Fidati di Lord Voldemort» la esortò, tenendola stretta a sé.
***
8 maggio 1980
Salone dei Marmi Verdi, Lestrange-Black Manor, Northumbria
«Cosa?!» strillò isterica Bellatrix, mandando in
frantumi un grosso vaso. «L’ha convinta che
sbagliava?»
«So quanto la notizia ti rattristi, ma Rabastan l’ha
convinta che i suoi timori sono infondati, dovuti ai tentativi di
opposizione dei mentecatti di Silente e che non ha di che preoccuparsi.
Qualunque cosa accada, noi vinceremo» spiegò con calma
Rodolphus.
«Avevamo stabilito che sarebbe morta! Dovevi ucciderla!» urlò, fuori di sé.
Due quadri vennero fatti a brandelli dai Tagliuzzanti della strega. Essere privata del piacere di un’agonia era qualcosa che non poteva accettare a cuor leggero.
«Ora non serve più» rispose laconico, levando di
scatto la bacchetta per deviare l’incantesimo diretto alla
bottiglia di cognac che teneva in mano.
Quando sua moglie perdeva il controllo, si accaniva contro chiunque
fosse nei paraggi. Il bisogno spasmodico di causare dolore e sofferenza
le riempiva la testa fino a traboccare e a riversarsi su ogni cosa. Non
molto tempo prima aveva ucciso il gatto della Carrow come contropartita
per non essere riuscita a freddare il reietto Sirius Black.
«E se cambiasse idea un’altra volta? Il tuo caro fratellino
mette lei avanti la causa! Se se ne andasse nel momento sbagliato,
quando più abbiamo bisogno della sua forza? Ci hai pensato,
stupido bamboccio?»
Che lei gli rinfacciasse di continuo la loro differenza
d’età non lo toccava minimamente. Sapeva che, in fondo,
era tra i punti di forza del loro matrimonio.
«Non accadrà, stai tranquilla» l’interruppe con un gesto perentorio della mano.
«Ma quella…» insisté, la voce resa stridula dalle troppe grida.
«Bellatrix!» la zittì, alzando la voce per tornare
ad un tono più pacato subito dopo. «Il Maestro in persona
mi ha detto che va bene così. Vorresti disattendere le sue
parole? Oseresti tanto?»
Mentiva. Lord Voldemort non era minimamente interessato alle beghe
familiari dei Mangiamorte. Lasciava che ciascuno degli adepti
risolvesse da sé quel tipo di problemi.
«Oseresti?» ripeté, irritato.
Scrutò la donna, i suoi capelli arruffati, lo sguardo stravolto,
ansimare per lo sforzo di reprimere tutta la collera che provava.
«No, certo che no» sbuffò, dando un calcio all’elfo che stava raccogliendo i cocci del vaso.
«Bene. Allora brindiamo a questa rinnovata alleanza» disse,
porgendole un bicchiere di liquore. «E non temere, amore mio:
molto presto troveremo qualcun altro su cui sfogare i nostri bisogni di
morte».
***
21 luglio 1997
Malfoy Manor, Wiltshire
La sera calava pigra sulla campagna. Un nastro sanguigno si stendeva
all’orizzonte, oltre il viale dove una coppia di pavoni
becchettava fra la ghiaia. Una pace stranamente tesa regnava sul mondo.
Oltre il grande cancello apparve una figura minuta, avvolta in un
mantello di un tenue color pervinca. Mosse la mano e il cancello si
aprì. Gli uccelli si allontanarono lanciando stridule grida,
scomparendo dietro le siepi dove avevano il nido.
Nonostante il lussureggiante tripudio del giardino declamasse a gran
voce la meraviglia dell’estate, il vuoto che vi regnava
raccontava una storia diversa. Una storia di paura e tenebra.
La villa crebbe dinnanzi ai suoi occhi, dispiegandosi nella sua austera
maestà. Salì lentamente il grande scalone, notando segni
di incantesimi sulle colonne e i cornicioni.
Esitò un istante prima di bussare. L’eco dei colpi si spense rapido, lasciandola sola con i suoi pensieri.
Ad un tratto, un’altra donna apparve dietro i battenti di
quercia, scrutando con stupore l’ospite inattesa. Il biondo dei
suoi capelli aveva perso da tempo l’abituale luminosità.
«Elanor?» esclamò perplessa la padrona di casa. «Che fai qui?»
Il brivido nella voce tradiva la sua angoscia. Da mesi il palazzo si
era tramutato in un covo di latitanti e figure cupe. Proprio non era in
vena di ricevere visite di cortesia: la situazione era abbastanza
difficile senza che quella strega arrivasse a farle
un’improvvisata.
«Narcissa, ti prego, fammi entrare. È importante».
L’altra esitava, le dita che artigliavano disperate la maniglia d’ottone.
«Devo parlargli. È importante» spiegò.
«Vattene, Elanor. Per favore. Lui non…» iniziò, le labbra che tremavano.
«Non cercare di dissuadermi, Narcissa. So che il Maestro è
qui» replicò decisa, posando una mano sulla porta.
Camminarono in silenzio nei corridoi ombrosi, dirigendosi al piano
superiore, al salone che Lord Voldemort aveva eletto a suo quartier
generale.
«Elanor!»
La donna si volse, scoprendo un uomo che avanzava correndo verso di
lei. Ebbe a malapena il tempo di riconoscere il volto di suo marito
dietro alla barba bionda e incolta.
«Rabastan!»
Si vedevano talmente di rado, che quasi non c’era differenza col
periodo durante il quale lui era stato ad Azkaban. Ora, però, le
cose stavano cambiando.
«Perché sei venuta?» domandò, gli occhi azzurri sul ventre della donna.
Era incinta di soli due mesi, il medimago si era raccomandato
più volte che stesse a riposo, che non compisse sforzi o venisse
coinvolta in situazioni troppo stressanti.
«Ho vissuto come una vedova per quindici anni, a causa di chi
è così cieco da non capire dov’è il bene
della nostra gente. Non ho intenzione di continuare a guardare le cose
senza fare nulla, Rabastan» disse, lasciandosi circondare da
quelle braccia forti di cui aveva potuto godere per troppo poco tempo.
«Dovevo venire. Forse da quello che so può dipendere la
vita di nostro figlio».
Poco dopo erano al cospetto dell’Oscuro Signore.
«Ebbene, Lady Lestrange? Perché tanto desiderio
d’incontrarmi? Non mi pare facciate parte delle nostre
schiere» osservò distrattamente Lord Voldemort, seduto
accanto al camino.
Le spire del suo serpente l’avvolgevano come una catena vivente.
«Questo è vero, mio Signore. Ma avete l’appoggio
della mia famiglia, per quanto sia ben misera cosa»
esordì, inchinandosi elegantemente.
Non era mai stato un mistero infatti che i Charlton, pur essendo dei
Purosangue, non vantassero una rete di contatti o delle sicurezze
finanziarie pari alle casate più antiche.
«Non avrei mai ardito disturbarvi, se non si fosse trattato di
qualcosa di estremamente importante. Vengo per avvertirvi, prima che
sia troppo tardi. C’è un traditore fra le vostre schiere,
mio Signore. Lo so per certo».
Il mago sembrò non ascoltarla. Rimase in silenzio, gli orribili
occhi scarlatti che parevano tingere le fiamme di sfumature
sanguinolente.
«E ditemi, di chi si tratterebbe?»
«Severus Piton».
I presenti si scambiarono occhiate scettiche e derisorie.
«Piton!» gridò sguaiata Bellatrix. «Lo sapevo!»
La strega non aveva mai fatto mistero della poca fiducia che nutriva nei confronti del discepolo prediletto del Maestro.
«Le vostre accuse sono gravi, Lady Lestrange. Severus Piton
è uno dei miei uomini più fidati» disse voltandosi.
Elanor abbassò per un attimo gli occhi, rialzandoli subito dopo.
Quell’uomo emanava potere anche senza una bacchetta in mano.
Paura e sgomento si spandevano nell’aria ad ogni suo cenno.
«Me ne rendo conto, Milord. Eppure sono certa di quel che ho
veduto e sentito. Disponete liberamente della mia mente, saprete che
sto dicendo la verità».
Rabastan, che fino a quel momento era rimasto immobile al suo fianco,
ebbe un brivido di timore, ma guardandola fare un passo in avanti per
ribadire la propria sicurezza, si sentì invadere
dall’ammirazione.
«Donna ardita tua moglie, Lestrange» sibilò mellifluo Lord Voldemort.
«È devota alla causa quanto me» replicò con orgoglio e timore.
«Me ne compiaccio» sogghignò alzandosi.
Le dita lunghe e pallide accarezzarono con gesti lenti la bacchetta, prima di pronunciare l’incantesimo.
«Legilimens».
Davanti a lui apparve l’interno di Magie Sinister, con il vecchio
Sinister appollaiato come un gufo malato sul suo sgabello, dietro al
bancone. Il negoziante stava terminando d’incartare una scatola
di pillole di milza di Opaleye, una costosa cura bandita dal Ministero
della Magia. All’improvviso, il ringhio sommesso di un cane,
accanto alla porta. La donna scopriva ciò che aveva allarmato il
suo levriero nello svolazzo inconfondibile di un manto nero che svaniva
rapido in una traversa.
Un istante dopo, erano le vetrine sporche e scheggiate di una bettola
di terz’ordine a dividere la donna dall’interno altrettanto
lurido della locanda. Dentro, il professore sedeva al tavolo con un
omuncolo dall’aria insulsa. L’espressione vacua di questo
la diceva lunga sul suo stato: era vittima di un incantesimo, forse un Imperius o una Maledizione
simile. I due conversavano a mezza voce, ma tra le crepe ed i pezzi
mancanti della finestra, Elanor riuscì ad ascoltare le
disposizioni che il nero servitore stava dando all’altro. Si
trattava di un metodo per depistare coloro i quali avrebbero preso
parte all’attacco previsto per il trasferimento di Potter.
La stanza riapparve, invasa dalle ombre del crepuscolo. Lady Lestrange
era sostenuta dal marito e dalla cognata, la quale le sorrideva con
un’espressione folle di trionfo.
«Selwynn, Travers» chiamò, levando una mano pallida e sottile.
I due emersero dall’ombra, rivelando solo in quel momento la loro presenza.
«Seguite le indicazioni che vi darà Lady Lestrange e
trovate l’uomo con cui parlava Severus. Scoprite se le cose sono
andate come lei crede d’aver visto e riferitemi».
I due Mangiamorte s’inchinarono e, dopo aver ricevuto le informazioni necessarie, si Smaterializzarono alla volta dei vicoli di Notturn Alley.
Nelle ore successive, la dimora fu percorsa da un continuo brusio. Tra
i Mangiamorte correvano gli interrogativi più disparati.
C’era chi era convinto dell’innocenza di Piton, chi lo
condannava a priori, chi invece sospettava un’implicazione di
Silente. Se l’ultima affermazione si fosse rivelata fondata,
ciò avrebbe significato che la copertura di quel buono a nulla
doveva essere saltata da un pezzo, rendendoli vulnerabili.
Quando gli inviati fecero ritorno, il salone era stipato di gente in fervida attesa.
«Madam dice il vero» esordì Travers, gettando qualcosa sul tavolo di marmo.
Era un medaglione che recava uno scudo quadripartito con simboli araldici legati da una “H”.
«Prima d’essere affatturato, quel ladruncolo da quattro
soldi ha sottratto questo al suo interlocutore. È di Piton, non
c’è alcun dubbio: questo amuleto viene dato al Preside di
Hogwarts alla sua entrata in servizio. E lui è il nuovo
Preside» rimarcò Selwyn a denti stretti.
Era schifato all’idea che sua figlia frequentasse il quarto anno di scuola sotto l’egida di un traditore.
«Carrow, lo confermi?»
Amycus strisciò via dal muro e strizzò gli occhi sulle cesellature.
«Sì, Signore, è di Piton» confermò.
Trascorsero altri lunghi minuti, durante i quali il mago tornò
accanto al camino, seguito dal fedele rettile. A molti sembrò
che i due discutessero in un linguaggio segreto, privo di suoni,
decidendo il da farsi.
D’un tratto, Lord Voldemort si rivolse nuovamente a Carrow.
«Prendilo e riportalo a Severus, dicendogli che l’ha
trovato un elfo della villa dopo il nostro ultimo incontro. E bada di
essere convincente. Non devi destare alcun sospetto»
l’ammonì, facendo ondeggiare elegantemente la bacchetta
sulla punta delle dita.
Il mago raggiunse una finestra, arrivando quasi a scomparire contro il
cielo notturno. Foschi pensieri di vendetta si agitavano nella sua
mente.
«Avevate ragione, Lady Lestrange. Le vostre si sono rivelate
informazioni estremamente preziose» sorrise, accarezzando il capo
di Nagini.
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Capitolo 2 *** I ***
I
I
3 agosto 2017
Camera padronale, Lestrange Hall, Cornovaglia
Era notte fonda quando Elanor aprì gli occhi sul letto vuoto. Si
mise a sedere, passando una mano sul cuscino del marito, impensierita.
Era da molto tempo che non le capitava di andare a dormire senza di
lui. L’ultima volta era stata alcuni mesi dopo la nascita del
loro bambino, la notte della Grande Battaglia di Hogwarts.
Ricordava bene quella notte, il silenzio denso che avvolgeva lei e suo
figlio, un cielo di velluto senza stelle, il respiro quieto dei cani
accucciati ai piedi del letto ed il russare sommesso di un elfo
domestico nell’armadio. Quella notte il piccino aveva dormito
beato, lamentandosi sommessamente al momento di reclamare la poppata
notturna, quasi intuisse la solennità del momento. O forse, era
stata l’attesa spasmodica di notizie che le aveva fatto vedere le
cose sotto un’ingannevole luce.
Udì il suono dell’acqua che si muoveva nella vasca. Fu
allora che scorse un debole baluginio filtrare dalla porta del bagno
padronale.
Trovò il marito che si stava spogliando della divisa nera,
assistito da un vecchio elfo domestico. Non aveva indossato la
maschera, come d’abitudine quando faceva da scorta al Grande
Lord.
Congedò l’elfo con un cenno del capo, decisa a prendersi
cura del suo sposo. Faceva sempre molto per lei e i ragazzi, per la
loro felicità. Coccolarlo dopo una lunga giornata al seguito del
loro Signore era il minimo che potesse fare per dimostrargli quanto
l’amasse ed apprezzasse la sua dedizione.
Rabastan restò immobile, osservando la moglie slacciare uno ad uno i bottoni della camicia.
«Perdonami. È molto tardi» disse, approfittando della vicinanza per baciarla.
«Perdonami tu, non ti ho sentito entrare. Sai che non mi piace
che gli elfi di casa si arroghino i miei diritti di consorte»
rispose, sorridendo dolcemente.
Rabastan terminò di svestirsi e s’immerse lentamente nella
vasca, i muscoli indolenziti dalle ore trascorse sull’attenti,
accanto al Maestro. Quel giorno erano stati nel luogo conosciuto come
lo Scrigno, dov’era
detenuto colui che aveva osato prendersi gioco dell’Oscuro
Signore: Severus Piton. Bellatrix aveva più volte avanzato la
pretesa di porre fine ai giorni di un essere tanto abbietto, ma aveva
ricevuto sempre netti rifiuti. Lui
desiderava che il più subdolo dei traditori restasse in vita a
lungo, per poter vedere coi propri occhi la totale disfatta dei piani
di Silente. Erano rare le volte in cui il Lord Voldemort rivolgeva la
parola al prigioniero e quando lo faceva, il suo tono di scherno si
faceva tagliente come una lama. Piton non replicava, chiuso in un
ostinato mutismo, oppure si lasciava andare a risposte sarcastiche, che
venivano immancabilmente ripagate con interminabili Cruciatus.
S’intestardiva a voler credere in un mondo che non sarebbe mai
esistito, se non nelle vuote parole di un vecchio ormai polvere.
«Che succede, mio buon signore? Non è da voi lasciarmi
sola con Morfeo» scherzò, accarezzandogli i capelli.
La permanenza ad Azkaban li aveva ingrigiti, ma da quando era tornato
da lei, dopo quella fuga rocambolesca, il tempo pareva essersi fermato.
Non un solo filo d’argento era più ricomparso fra le
ciocche bionde. Molti malignavano che i Lestrange possedessero una
sorta di Elisir dell’Eterna Giovinezza,
che sgravava il loro aspetto dei segni del tempo. In effetti nessuno
avrebbe mai detto che l’indomani Rabastan avrebbe compiuto
sessant’anni.
L’uomo non rispose, lasciandosi scivolare un poco sul fondo della
vasca, fino a che i suoi occhi furono alla stessa altezza di quelli
della moglie, accosciata sul pavimento. I suoi gesti gentili e la
tenerezza con cui lo trattava erano preziosi e potenti quanto un raro
balsamo orientale, capace di scacciare la stanchezza e i pensieri
più tetri.
«Rabastan?» chiamò sottovoce.
Sapeva che quando suo marito taceva tanto a lungo, significava che
c’erano notizie difficili da narrare. Lasciò che meditasse
sulle parole, prendendo a massaggiare il torace massiccio con una
spugna. Nell’aria si diffuse profumo di mirto e noce moscata, che
seguivano il lento muoversi della mano tra la pelle e l’acqua
calda che l’avvolgeva.
«C’è stato un attacco. Vitalij è morto» rispose infine lui.
La spugna cadde con un tonfo molle nella vasca.
«Cielo… il… nipote del dottor Dolohov?»
Elanor doveva molto a quel mago, che le aveva indicato la cura con la
milza di Opaleye quale soluzione alla sua cronica debolezza. Cura che
si era rivelata fondamentale per la sua guarigione e la nascita dei
loro figli.
«Sì. Non c’è stato nulla da fare».
«È stato… Griffinheart?» domandò titubante la donna.
Quel nome le dava i brividi pronunciare. Era a causa di
quell’uomo se il paese non viveva in tranquillità. Lui e
la sua banda di rinnegati, di delinquenti, si opponevano al governo di
Lord Voldemort ed alle sue mire espansionistiche. Proclamavano la
libertà delle unioni miste e l’assurdità secondo
cui i NatiBabbani erano maghi come gli altri. Chiamavano il Grande
Signore Colui-che-non-vincerà.
«No, alcuni dei suoi. Lui non era presente a quanto ne so».
«E Cesar?» chiese ansiosa.
Immaginare che il maggiore dei loro figli fosse rimasto coinvolto in
qualche modo la spaventava a morte. Aveva sperato che non seguisse le
orme paterne, nel timore che potesse accadergli qualcosa. I nemici si
facevano più agguerriti e gli scontri cruenti. L’idea di
perderlo, dopo averlo tanto atteso, la terrorizzava. Sarebbe corsa
fuori dalla stanza se la calma olimpica del marito non le avesse
suggerito che le sue erano preoccupazioni inutili.
«Sta bene, ma è molto agitato. Ora è in camera sua,
ce l’ho portato poco fa. Per stanotte ha visto abbastanza»
mormorò Rabastan.
La prima notte di servizio tra i Mangiamorte era stata ben lontana da
ciò che aveva immaginato per suo figlio. Una battaglia tanto
aspra era toccata a pochi e gli inesperti difficilmente tornavano a
casa sani e salvi. I feriti tra le giovani leve erano frequenti. Ma al
suo arrivo sul luogo della disgrazia, nonostante la paura e
l’angoscia che aveva scorto negli occhi di Cesar, si era sentito
orgoglioso. Era stato felice di sapere che grazie alla sua disperazione
per la perdita del mentore si era riusciti a catturare alcuni
pericolosi latitanti, tra cui George Weasley, spedito per direttissima
ad Azkaban. Là avrebbe ritrovato quel sovversivo di suo padre
che, insieme ad Amos Diggory, aveva tentato di sottrarre la Bacchetta
di Sambuco alcuni anni addietro. Cesar si era buttato nella mischia,
cieco e sordo a quanto accadeva attorno, deciso solo a far trionfare la
giustizia, in nome di Vitalij Dolohov. Era molto più di quanto
ci si attendesse da un giovane adepto.
Persino troppo. Doveva ammetterlo: in veste di Mangiamorte era fiero
dello slancio guerriero del ragazzo, ma da genitore, percepiva un forte
senso di disagio. Per cosa aveva combattuto? Non l’aveva fatto
perché i suoi figli non fossero costretti a metter mano alla
bacchetta per difendersi? Non l’aveva fatto per impedire che
tante giovani vite venissero spezzate?
«Quando finirà, Rabastan? Quando ci lasceranno in pace?» fece Elanor, quasi indovinasse i suoi pensieri.
Sentì le dita umide dell’uomo sfiorarle il mento, facendole sollevare il viso.
«Finirà quando l’ultimo di loro sarà morto» la rassicurò.
Un grido riecheggiò nelle stanze.
«Cesar…» chiamò Elanor a fior di labbra, spaventata dal dolore che aveva percepito nell’urlo.
Fece per alzarsi, ma il marito la trattenne. Non disse nulla.
***
3 agosto 2017
Camera di Cesar, Lestrange Hall, Cornovaglia
Il giovane era steso fra le lenzuola disfatte. I capelli biondi erano
scomposti quanto gli abiti che indossava. Un braccio era piegato dietro
la testa mentre l’altro terminava con dita che tamburellavano
nervose sul ventre. Tentava di dormire, seguendo il consiglio paterno,
ma non c’era niente da fare. L’orrore cui aveva assistito
era vivo nella sua mente, indelebile.
«Come ci riesci?» domandò al genitore. «Come
fai a riposare senza pensieri, senza domande? Non riesco ad essere
tranquillo come te, papà».
Si girò sul fianco, puntando lo sguardo nella serenità
notturna oltre la finestra spalancata. Dal giardino arrivava lo
stormire delle foglie e il profumo pungente delle siepi potate di
fresco.
Foschi pensieri gli rosicchiavano la mente, impedendogli
d’assopirsi. Dubbi, ansie, paure. E l’odore del sangue e
della polvere appiccicato addosso, nonostante si fosse lavato
più volte.
«Cesar?» chiamò una voce.
Spiò alle sue spalle, scoprendo una figura sulla porta, illuminata dalla tenue luce di un Lumos. Una ragazza, dai lunghi capelli bruni, sporgeva il capo nella camera.
«Dovresti essere a letto, Portia» le disse.
La sedicenne sbuffò, roteando gli occhi azzurri.
«Vuoi farmi ramanzine anche tu? Non bastano mamma e
papà?» chiese, saltando sul letto del fratello maggiore.
«Che ti è successo, Mangiamorte? Prima ti ho sentito
gridare. Mi hai spaventata».
Il giovane rivolse un’occhiata fugace alla divisa, ammonticchiata in un fagotto deforme.
«Cesar?» insisté lei, notando il suo estraniarsi.
Tornò a coricarsi, lo sguardo sui cassettoni del soffitto,
dov’erano intarsiati una rosa e un serpente intrecciati. Lo
stemma dei Lestrange.
«Vitalij è morto».
Lei trasalì, nascondendo la bocca spalancata per l’orrore dietro ad un cuscino.
«Il… signor Dolohov? Il padre di Ruslan?»
«Sì» gemette. «Non riesco a crederci, Portia. Vitalij. Morto! Davanti a me!»
Chiuse gli occhi, rivivendo attimo per attimo l’accaduto. Una donnina minuta e dagli enormi occhi acquosi scagliava uno Stupeficium.
Il lampo superava la spalla di Vitalij, puntando verso il basso. La
saetta s’infrangeva su un vecchio palazzo. Vetri piovevano come
scintille. Un suono cupo, di ossa sbriciolate, legni spezzati, pietre
che stridevano. La facciata si gonfiava. Polvere e schegge ruscellavano
nell’aria. Tutto cedeva con un fragore inaudito. Ogni cosa veniva
cancellata dalla mano pallida dei calcinacci. Compreso Vitalij, che gli
stava gridando d’allontanarsi.
«Non doveva succedere» fece Cesar, non riuscendo a trattenere un singhiozzo.
Aveva imparato fin da bambino a mascherare i suoi sentimenti, seguendo
gli insegnamenti di suo padre, ma ora il dolore era troppo grande per
essere taciuto.
«Sono certa che il Grande Lord gli darà una medaglia e gli onori che merita» commentò Portia.
Dopo la Grande Battaglia di Hogwarts era capitato raramente che un
Mangiamorte subisse tale sorte. In genere, erano le vite degli
oppositori ad essere mietute.
«Che se ne fa un morto di una medaglia?» sbottò
Cesar. «Una medaglia non risusciterà Vitalij, non
potrà farmi sentire di nuovo i suoi consigli, i suoi
insegnamenti! Ai morti non servono le onorificenze» concluse
irritato.
Vitalij Dolohov era stato istitutore del giovane Lestrange, prima di
assumere la cattedra di Arti Oscure. Mai però aveva abbandonato
il servizio nei Mangiamorte, allo stesso modo di suo padre e suo nonno,
il celebre Antonin.
«Ne parlano già come se fosse un martire, ma la
verità è che la sua è solo una morte accidentale.
E ingiusta» riprese seccato Cesar, celando l’indecoroso
lusso di una lacrima dietro al braccio.
«Lui diceva che è grazie a questi sacrifici, se il potere
di Milord è integro e si accresce giorno dopo giorno»
sentenziò la sorella.
Anche Portia aveva avuto Vitalij come docente, conosceva i suoi
insegnamenti sulla superiorità dei Purosangue e sul male portato
dai NatiBabbani e dalle unioni miste. Era a causa di quegli abomini se
la magia aveva rischiato di scomparire.
«Le persone come Vitalij non dovrebbero morire per queste
cose» rimbrottò il giovane Mangiamorte. «Chi amiamo
non dovrebbe mai abbandonarci. Le persone sagge e coraggiose dovrebbero
sempre rimanere con noi, per guidarci».
Lei rimase in silenzio, scrutando il fratello. Vederlo così
sconfortato era qualcosa che le faceva male. Cesar era come loro padre:
forte, deciso, nobile. Non poteva vederlo in quello stato.
Prese a dondolare con forza le gambe, come faceva da bambina.
«Sai, Silver è stato qui» disse distrattamente.
L’espediente funzionò. Gli occhi turchesi del fratello riapparvero da sotto il braccio.
«Silver Greyback?»
Dalla morte del padre, era lui a guidare il branco dei Licantropi di
Londra. Dalla Seconda Guerra Magica il loro numero era andato
incrementandosi considerevolmente, includendo i Babbani che si erano
uniti a maghi o streghe, o che li avevano generati. Era una delle
punizioni che spettava loro per aver insozzato e frantumato la Magia
Primigenia.
Portia annuì, fissando con attenzione la pantofola che teneva in bilico sulla punta del piede.
«C’era anche la sua compagna. Non l’avevo mai vista
prima, è molto graziosa. Bionda, occhi azzurri, ben
proporzionata, cammina eretta. Un po’ melanconica forse. È
aggraziata nei movimenti e molto docile. Pensa che si è lasciata
accarezzare! Addirittura mi ha sorriso e mi ha salutata! Se fosse
Babbana direi che è ben educata. Ha persino un nome delizioso:
Lavanda!» trillò.
«Perché sembra che tu stia scartando i regali di Natale?»
«Oh, non saprei…» cantilenò divertita.
«Portia?»
La fanciulla rise, raggomitolandosi vicino alla sua spalla.
«Silver ha detto di sì» gli bisbigliò all’orecchio.
«E papà lo sa? O è come l’ultima volta,
quando tu hai deciso e nessuno ti aveva dato il permesso?» la
canzonò.
Portia gli schiacciò il cuscino sulla faccia.
«Questa volta papà ha detto che ci penserà»
sospirò soddisfatta. «Ti rendi conto, Cesar? Avrò
un mannaro tutto mio! Un cucciolo da addestrare, coccolare, portare a
spasso…»
«Piano, non ti ha detto di sì»
l’ammonì, proseguendo dopo averla sentita sbuffare.
«Sono animali in forma umana. Ci vuole polso con loro, o
diventano come la bestiaccia della zia»
«Blue è stato trasformato quando aveva tredici anni, era
troppo grande per essere educato a dovere. Il mio non sarà
così, perché nato Licantropo. Lo addestrerò ad
essere obbediente, garbato, rispettoso,…»
«Pretendi troppo da un animale» bofonchiò, ricevendo una gomitata nelle costole.
«Lavanda ha partorito diversi cuccioli in questi anni. Silver ha
detto che hanno un maschio di cinque anni e una femmina di sei.
Papà mi porterà a vederli, vuole accertarsi che siano
sani. Sto già pensando al nome da dargli».
In realtà non le importava molto d’avere un piccolo
Licantropo: desiderava solo che suo fratello si riprendesse e mettere
di mezzo quel suo capriccio era un ottimo stratagemma.
«Se proprio devi, prendi il maschio» consigliò
Cesar. «Le femmine s’innervosiscono quando sono mestruate e
non possono essere addestrate alla caccia».
«Ma io voglio un mannaro da compagnia!» protestò.
«Io vorrei sapervi a dormire entrambi» li interruppe una voce.
Elanor, avvolta in una lunga vestaglia damascata, rimproverò i
figli con lo sguardo e i due si limitarono a fissarla, colpevoli.
«Tuo fratello è stanco, lascialo riposare».
Dopo aver dato un bacio al fratello e alla madre, la ragazza tornò nella sua camera.
La donna attese di sentire la porta chiudersi, prima
d’avvicinarsi al primogenito. Le pareva ancora molto turbato,
nonostante le frivolezze della sorella l’avessero distratto.
«Come ti senti?» domandò preoccupata, sedendogli accanto.
Lui fece spallucce, abbracciando le ginocchia.
«Papà dice che passerà, imparerò a
conviverci e mi renderà migliore» sospirò abbattuto.
«Tuo padre ha ragione, Cesar. A volte il dolore è
l’unica via per crescere» lo consolò, abbracciandolo.
«Perché Vitalij è dovuto morire, mamma?» chiese, con una vena di disgusto nella voce.
«Per renderti più forte» rispose con dolcezza.
So di essere un po' in anticipo sui miei soliti invii, ma tengo troppo
a questa storia per resistere e non pubblicarla tutta in tempi brevi.
Vorrei ringraziare che ha recensito lo scorso capitolo e chi mi ha messo tra le storie da seguire/preferite: Ariel_Malfoy, Nocticula_Nott, Alicia84, darklady2012, eleonora96 e Malika. Ovviamente attendo i vostri commenti!
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Capitolo 3 *** II ***
II
II
4 agosto 2017
Diagon Alley, Londra
Camminava svelto, il volto basso ed il bavero della giacca tirato sul
viso, nonostante la temperatura mite di quel mattino. Per strada
c’erano ancora poche persone, non molti erano mattinieri quanto
lui. Nella brezza leggera si mescolavano i profumi del pane e delle
grandi ceste di fiori incantati posate accanto alla porta di ciuscun
negozio. Da ragazzo aveva adorato passeggiare in quella strada con i
suoi amici, i suoi fratelli, la sua famiglia. Ora preferiva sbrigare i
suoi affari – o meglio, quelli del suo padrone – nella
maniera più celere possibile. Non era mai stato bravo a
reprimere le sue emozioni.
«Ehi! Ma guarda un po’ chi c’è
lì» ghignò una voce stridula, subito seguita da
altre.
Non gli servì alzare gli occhi dal selciato, per capire chi
stessero additando. Chinò il capo e rallentò il passo,
sperando l’avrebbero ignorato, lasciandolo in pace. Purtroppo non
fu così fortunato e si sentì sbattere contro i corsi di
mattoni di un muro. Due mani unte gli stringevano il colletto,
impedendogli di respirare.
«Pensi di potertene andare in giro così allegramente, tu?
Lurido traditore?» berciò la voce, punteggiata di briciole.
Attraverso le palpebre abbassate, intravide una faccia tonda e
malevola. Quella di un ragazzotto che non doveva avere più di
sedici anni.
«Bah, Mark, non toccarlo!» sbraitò un altro, tirando
indietro l’amico. «È ancora infetto dopo essersi
palpato quella schifosa NataBabbana!»
Uno scoppio di risa accompagnò il respiro che tornava. Era
accerchiato da una torma di studenti in vacanza, tutti con scope e
sacche da viaggio in spalla, su cui spiccava orgogliosa l’insegna
di Hogwarts. Non si trattava più della stessa Hogwarts che aveva
frequentato anni addietro. Ormai era una scuola riservata ai Purosangue
e i pochi Mezzosangue che venivano ammessi dovevano vantare non
più di un trentaduesimo di sangue Babbano, ben certificato.
«Giusto, Al, ma non possiamo lasciare che un Purosangue giri
tutto sporco, no? Aiutiamolo!» e gli sputò in faccia,
imitato dagli amici che lo strattonavano da un lato all’altro per
poter prendere meglio la mira.
Avrebbe dovuto sommergerli di Tagliuzzanti, Levicorpus, forse persino di Orcovolanti.
Invece rimase immobile, a subire quell’oltraggio in silenzio,
come se non fosse lì. Il Segno che portava addosso
gl’impediva di ribellarsi. Doveva sostenere quell’ennesima
umiliazione, accettarla, domandandosi quando si sarebbe abituato. Dopo
quasi vent’anni ancora non ci riusciva.
«Allora? Allora?» lo sbeffeggiò una ragazzina
smunta. «Cosa si dice a chi ti dà una mano, eh? Non si
dice “grazie”? Eh, stupido figlio d’una zucca marcia?»
«Figlio di zucca marcia! Questa è buona, Jenny!» fece eco qualcuno.
Pur di essere lasciato in pace e poter proseguire, l’uomo si
piegò a quell’assurda pretesa, ringraziandoli con quanto
rispetto riuscì a spremere dalle proprie labbra.
Stanco del casuale passatempo, il gruppetto si allontanò facendo
chiasso e prendendo a colpi d’incantesimo uno stormo di piccioni.
Attese di vederli scomparire in una traversa prima di ripulirsi. Non
avrebbe potuto sopportare un secondo assalto. Prese un fazzoletto di
seta dalla tasca e si asciugò il volto, sentendo sotto le dita
lo spessore del Segno, che lo indicava come traditore del proprio sangue.
Proseguì, mesto e ripiegato su sé stesso, raggiungendo
una lussuosa vetrina, chiusa alla vista del pubblico da pesanti tende
di velluto color ciclamino.
Una minuscola creaturina, che faceva le veci del campanello e pareva
intessuta di fili di vetro, intonò un gioioso motivetto.
L’uomo ebbe l’impressione che, ad ogni nota, da ciascun
gioiello esposto si levasse un brillio.
«Monsieur Duby?» chiamò.
Il gioielliere apparve da dietro un’altissima vetrina, squadrandolo schifato.
«Oh, solve. Non l’aspettavò tonto
prestò» disse sbrigativo, col suo pesante accento francese
che i più ritenevano fasullo.
«Il padrone mi manda a ritirare l’ordine».
Servo. Ecco cos’era stato costretto a diventare: il servitore
reietto di un nobile e altolocato Purosangue. Il peggiore in
circolazione, per quanto lo riguardava, ma non poteva dirlo
apertamente. Avrebbe rischiato il Bacio senza arrivare ad Azkaban.
Duby annuì altero e con un cenno l’invitò a seguirlo nel retro.
«Ospetate ici» sbottò, indicando il ripostiglio delle scope.
Senza replicare, il servitore girò il vistoso pomello in
cristallo e si apprestò ad entrare, quando una bacchetta emerse
dall’oscurità.
«Ottimo lavoro, Paul. Ora, per favore, va’ a lucidare l’argenteria» ordinò una voce.
Il gioielliere s’inchinò e sparì nel locale attiguo, mentre una figura emergeva dallo sgabuzzino.
Aveva il capo rasato a zero, segnato da una vecchia ustione.
«Neville!» esclamò l’altro, fissandolo sbigottito.
«Buon giorno, Ron. So che detesti le improvvisate, ma avevo
bisogno di vederti» rispose Paciock, invitandolo a sedere tra le
vetrine cariche di preziosi. «Credo sia già stato Imperiato
parecchie volte dalla moglie… è troppo
disinvolto…» commentò tra sé, tenendo
d’occhio il gioielliere.
Una ragnatela di rughe gli copriva il volto, facendolo sembrare
più vecchio dei suoi trentasei anni. Aveva l’aria stanca e
gli abiti sdruciti la dicevano lunga sulla scarsa frequentazione dei
negozi d’abbigliamento. Vedendolo in quelle condizioni, Ron
ripensò a sé stesso ai tempi della scuola.
«Come sapevi che sarei venuto?»
«La festa dai Lestrange. Poteva quel lecchino di Malfoy non
mandarti a prendere un regalo adeguato per il capo della Polizia
Segreta? Quanto all’ora e al posto... abbiamo i nostri
informatori» aggiunse ammiccando.
Parlava di Susan Bones, che, per redimere il proprio status, aveva
rinnegato ogni cosa per lavorare al Ministero della Magia. In
realtà, la donna era rimasta fedele all’Esercito di
Silente ed alla lotta contro Voldemort. La sua abilità
nell’ottenere le informazioni più disparate e passarle
all’Ordine era quasi leggendaria.
«Come sta Ginny?» chiese Ron, fissandosi le dita.
Erano almeno due anni che non la vedeva, da quando il mandato di
cattura internazionale era stato gravato di ulteriori accuse. Le stesse
che pendevano sul capo di Neville, di Remus Lupin e molti altri.
«L’hanno ferita il mese scorso e stenta a
riprendersi» ammise amaro, attendendo la sceneggiata del
fratello, che però non giunse. «Deve riposare e smetterla
di fuggire per un po’. Ma da quando mia nonna è morta
abbiamo perso un valido appoggio. Aberforth ha chiuso il locale, il
signor Lovegood è sempre sull’orlo di una crisi isterica,
la professoressa McGranitt in tribunale a verificare il suo stato di
sangue e Andromeda sotto sorveglianza…» elencò
abbattuto.
«Lasciala fuori da questa storia. Quella donna ha già
abbastanza problemi senza che l’Ordine la carichi dei suoi»
fece Ron. «Quanto a Ginny, sai com’è fatta. È
più forte di quel che sembra. Si riprenderà come
dopo…»
S’interruppe. Entrambi sapevano a cosa stava pensando: la morte
di Harry, durante la Battaglia di Hogwarts. Hagrid aveva raccontato
loro del raggiro operato da Narcissa Malfoy, al solo scopo di estorcere
informazioni sul figlio disperso. Raggiro che aveva rivelato
l’inefficacia del primo Avada Kedavra, consentendo a Voldemort di uccidere Potter con un secondo Anatema.
Ginny aveva trascorso mesi svegliandosi nel cuore della notte, gridando
il nome di Harry, prima di sparire nel nulla per affiancare Neville
nella sua crociata, dando vita al Terzo Ordine della Fenice.
«Perché volevi vedermi?»
Paciock passò una mano dove erano stati i capelli biondi.
«So che Malfoy andrà alla festa organizzata dai Lestrange
per oggi pomeriggio. Dimmi quello che sai del ricevimento».
«Che intenzioni hai?» chiese perplesso.
Neville non era stato chiamato Griffinheart solo per aver fatto parte
della casa di Godric. I suoi assalti erano come quelli della belva di
cui portava il nome, almeno per come li dipingeva la stampa di regime
«Tranquillo, non mi presenterò senza invito. Ho
un’altra visita di cortesia da fare e non vorrei avere sorprese
sul più bello».
***
4 agosto 2017
Camera di Portia, Lestrange Hall, Cornovaglia
«Dov’è la mia cuginetta preferita, che oggi si fa
mettere il cappio al suo bel collo di gallina?» gracchiò
una voce.
Portia rise, voltandosi con voluta lentezza verso la porta per far ammirare il proprio abito alla cugina.
«Mab sei sempre la…»
Le parole le morirono in gola, attonita, mentre squadrava inorridita l’altra.
«Ma come ti sei vestita?!» urlò, sgranando gli occhi.
«Ti piace?» domandò sarcastica Mabel Lestrange, ancheggiando nella stanza.
La ragazza, alta e magrissima, indossava una cosa che non poteva essere
definita vestito. Sembrava avesse infilato una serie d’informi
tuniche d’organza, decorate con enormi fiori variopinti,
coprendosi le spalle con una giacca insensatamente corta. Un goffo
cappello a tesa larga, pieno di ridicoli fiori e coccarde di stoffa, le
premeva sull’acconciatura sfatta. Era così…
Babbana! Assomigliava a quelle pazze senza magia che si radunavano ad
Ascot, solo per dar sfoggio di quanto riuscissero a rendersi ridicole.
«Sei orribile!» strillò Portia. «Come ti
è venuto in mente di conciarti a questa maniera indecente!?
Oggi!»
«E perché non posso?»
«Oggi mi fidanzo ufficialmente e mio padre…»
S’interruppe bruscamente, accigliandosi.
«È una delle tue solite prese in giro, vero?»
Mabel sfilò la bacchetta da una tasca nascosta, facendo evanescere
l’accozzaglia di stoffe e ammennicoli che portava addosso,
rivelando un secondo abito, più elegante e in linea con i
dettami della moda stregonesca di quell’anno.
«Mi farai morire» sospirò Portia sollevata, lasciandosi cadere sul pouf della toeletta.
«No, voglio farti fuori il giorno delle nozze»
ammiccò divertita, sedendo sul letto e mostrandole degli
stivaletti dall’aria estremamente scomoda.
«Spiritosa. Stai cercando di litigare con la zia?»
«Chiaro» replicò, scompigliando i capelli bruni.
«Tu non litigherai mai con tua madre, finché fai la brava
bambina».
Elanor non aveva faticato nell’insegnare alla figlia il rispetto
delle tradizioni e dell’etichetta, cosa che invece Bellatrix
trovava più complessa che uccidere un Nundu a mani nude. Lei e
Mabel avevano caratteri troppo simili e focosi per non scontrarsi su
ogni maledettissima quisquilia.
«Hai visto Ruslan?»
«No, quel cafone si è dato alla macchia. Sono stata costretta a Smaterializzarmi con mamma e papà. Una noia!» sibilò.
Ruslan non usava la Smaterializzazione
o la Metropolvere: preferiva i suoi Thestral, con cui compiva acrobazie
folli. Mabel adorava cavalcare con lui appena poteva; il fatto che si
vociferasse che tra loro ci fosse del tenero era secondario e,
probabilmente, privo di fondamento.
«Ha appena perso suo padre!»
«E allora? Fa tanto il gradasso, “guarda quando sono forte,
che Mangiamorte indomito, niente mi ferma, Griffinheart trema al vedere
la mia ombra” e poi tutte queste scene? Dovrebbe essere felice.
Erediterà le ricchezze di famiglia, potrà fare quel che
gli pare, sarà il solo Dolohov a contare. Dovrebbe farsi vedere
in giro, rifiutare le condoglianze che gli vengono porte.
Smidollato!»
«Mab, a te manca qualche corda nel cuore» sospirò Portia.
Lei capiva Ruslan. Una sera di alcuni anni addietro, quando era
bambina, suo padre non era rientrato a casa. Alla notizia di un attacco
di Griffnheart, avevano temuto il peggio. Per diverse ore, l’idea
di aver perduto suo padre, il suo eroe, l’aveva terrorizzata fino
alle lacrime. Vederlo ricomparire, anche se ferito e stanco, non aveva
cancellato le paure di quella notte. Dopo tanto tempo le capitava
ancora di svegliarsi di soprassalto, preda dello stesso incubo: lei
bambina che correva per casa, tentando di sfuggire al mostro che aveva
portato via il genitore.
Perché sua cugina non capiva quanto dolore stesse provando
Ruslan? Anche i suoi genitori erano finiti spesso in guai seri per
colpa dei detrattori del Grande Lord, se l’erano vista brutta un
sacco di volte, avevano danzato spesso con la Nera Dama. Eppure a Mabel
non importava. A volte sembrava incapace d’amare la sua famiglia.
«Abbiamo portato Blue. Andiamo a giocarci?» suggerì Mabel.
In realtà, quando diceva “giocare” intendeva
“tormentare”. Il Licantropo di casa Lestrange-Black era
noto alla comunità magica per essere uno degli esempi più
fulgidi di quanto i Purosangue sapessero essere magnanimi. La versione
ufficiale voleva che il Ministro e sua moglie l’avessero accolto
in casa per salvarlo dalla vita da derelitto impostagli dal padre - un
pericoloso mannaro dissidente -. In realtà, il ragazzo era stato
catturato e trasformato successivamente in una Creatura Oscura per
punire il genitore. Blue, così era stato chiamato, veniva
mostrato durante le occasioni mondane, agghindato come un perfetto
valletto.
«Papà mi ha permesso di Cruciarlo, quando ha cominciato a protestare» sogghignò divertita.
«Perché protestava?» chiese Portia, specchiandosi.
«Perché non ha un briciolo di gusto. La divisa da paggio
è verde oliva e lui si ostinava a mantenere i capelli di
quell’orrendo turchese!» sbottò, scendendo con un
balzo dal letto e affacciandosi alla finestra in cerca del suo
passatempo preferito.
«Io li trovo adorabili» commentò la cugina, valutando l’effetto di un paio d’orecchini.
«Lo dici perché ti fa dei gran sorrisi quando ti vede. Era
inguardabile!» borbottò risentita, mettendosi
pericolosamente in bilico sul davanzale. «Gli ho detto che o se
li faceva verdi o di un colore normale, o avrebbe perso anche
l’altro occhio. Alla fine si è arreso e li ha cambiati in
un castano chiaro appena decente, anche se mamma ha storto il naso e li
voleva biondi. Guardalo» disse, indicandolo dalla finestra.
Blue era in giardino, in piedi accanto alla padrona, con un vassoio
carico di bicchieri vuoti e dolcetti addentati una volta e abbandonati.
Per tenerlo buono in quelle situazioni veniva affatturato con un Submissio, così che non si mettesse a far di testa propria.
Il giovane mannaro aveva perso la vista dall’occhio sinistro a
forza d’essere redarguito a suon di fatture, anche se era molto
abile a non farlo notare. Bellatrix aveva più volte minacciato
d’accecarlo e zittirlo per sempre, per via dei suoi sguardi
pungenti e del suo sarcasmo, ma il marito si era sempre opposto,
asserendo che sarebbe stato solo un enorme favore nei confronti di un
animale tanto ingrato ed ottuso. Senza contare che la sopravvivenza di
Blue era un potente strumento di propaganda politica: la sua foto
– da umano e trasformato – campeggiava accanto a quella del
Ministro e di Dolores Umbridge, per promuovere la campagna di
sottomissione dei Licantropi e le leggi volte ad impedire le unioni
miste.
«Allora, andiamo?» la incitò, agitando la bacchetta.
Portia scambiò una lunga occhiata con il suo riflesso, pensierosa. Poi, sorrise alla cugina.
«No. Non oggi».
«Come-come? Non sarà per caso che il tuo bello è
uno di quelli contrari alla caccia col mannaro e ti ha chiesto di
rinunciare al tuo desiderio?»
«Vincent adora la caccia col mannaro, ma ho deciso che non voglio
averne uno. Quando ci sposeremo e avremo dei figli dovrò pensare
alla loro sicurezza. Un licantropo che gira per casa è
sconsigliabile» spiegò.
Quando la sentiva parlare a quel modo, Mabel dubitava che avesse un
anno meno di lei. Le pareva una di venticinque anni, con prole al
seguito. Un’immagine che la disgustava: lei non voleva sposarsi
né avere figli, checché ne dicessero le convenzioni
sociali e i suoi rispettabili genitori.
«Oh!» la canzonò, sbattendo le ciglia e cullando un
cuscino. «Com’è premurosa la futura sposina a due
anni dalle nozze!»
«Se ne prendessi uno ora non riuscirei a lasciarlo qui. Vorrei
portarlo con me e non posso cadere in questi errori. Mamma e
papà hanno sempre pensato per tempo a cosa fosse meglio per me.
Devo fare altrettanto per i miei figli».
«Sì, mi pare giusto. E, dopotutto, hai già un bestione per fidanzato…» la punzecchiò.
«Mabel!»
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Capitolo 4 *** III ***
III
III
4 agosto 2017
Sala degli Arazzi, Lestrange Hall, Cornovaglia
«I nostri informatori dicono che Griffinheart è stato
visto un paio d’ore fa in un’apoteca a North Berwick. Ho
già provveduto a mandare una squadra in incognito».
Rabastan annuì. Quel giorno non aveva troppa voglia di discutere
di lavoro. Sua figlia si era appena fidanzata ufficialmente con uno dei
rampolli più promettenti della società magica e gli
invitati fremevano per i festeggiamenti del suo compleanno. Quando
però a muoversi era il nemico per eccellenza, sapeva di dover
mettere da parte l’uomo e le sue priorità, in favore della
sicurezza del suo mondo.
«Dovremmo avere notizie entro breve» specificò
Balmer, sorseggiando avidamente un calice di vino. «Forse questa
è la volta buona. Non è mai uscito tanto allo
scoperto».
«Si porta dietro la sua donna, quella traditrice filoBabbana coi
capelli rossi. L’abbiamo ferita e nessun ospedale o guaritore
l’ha accolta fino ad oggi. Le sue condizioni devono essere
peggiorate, spingendo Griffinheart a darsi da fare in prima persona.
Avrebbe dovuto lasciarla morire in qualche tugurio. È davvero un
idiota!» ghignò Yaxley.
«Ne convengo. Paciock non è mai stato un esempio
d’intelligenza. Dico bene, servo?» fece Draco Malfoy, il
volto sottile tirato in una smorfia arrogante.
Nascosto accanto alla pensante tenda di velluto, Ron aveva ascoltato
ogni sillaba senza fiatare. Sapeva che il Neville di North Berwick non
era quello vero. Si trattava di un membro dell’Ordine sotto Polisucco,
che aveva il compito di farsi seguire per depistare i Mangiamorte.
Neville aveva un altro programma e gli occorreva che lo sguardo
dell’Oscuro Signore e dei suoi tirapiedi fosse rivolto altrove.
«Assolutamente, padrone» assentì suo malgrado.
«E la sua compagna… un’autentica rovina, no? Lo sa
anche lui, per questo non l’ha sposata. Una mentecatta che si
prostituisce con traditori e NatiBabbani, per insozzare il mondo con i
loro bastardi. Non è così?» rincarò.
Ron tacque, stringendo i pugni dietro la schiena.
«Ho detto, non è così?» ripeté avvicinandosi.
«C-certo, padrone. È come dite voi. Solo una sgualdrina».
Quelle parole gli costarono uno sforzo sovrumano, che non riuscì
a nascondere. Gocce di sudore gl’inumidirono l’attaccatura
dei capelli, diradati dall’età e dai dispiaceri.
Draco si chinò in avanti, scrutandolo con cattiveria.
«Che ti prende, servo?» domandò, rimarcando sull’appellativo.
«S-sono nervoso, padrone» si giustificò.
«Sei nervoso» finse di stupirsi Malfoy, scambiando sorrisi
divertiti con i presenti. «E perché mai? Ti porti addosso
qualche indicibile segreto?»
Domanda sciocca: il Mors Mordre impresso a fuoco sulla parte sinistra
del suo volto indicava l’assoluzione dai suoi trascorsi di
ribelle. Il Segno era impossibile da nascondere, come qualunque altra
cosa lo riguardasse.
«N-no. Mi dispiace, padrone. Ma… la… mia
presenza… non vorrei mettervi in imbarazzo» si
schermì.
«Cosa che fai comunque» osservò sarcastico Malfoy.
Uno scroscio di risa riempì la stanza. Ron avrebbe voluto poter
colpire Draco con un incantesimo o con le proprie mani, per fargli
rimangiare quel che aveva detto. Insultare Ginny era solo un modo per
ferire lui, per rinfacciargli l’aver abiurato la sua amicizia con
Harry, il suo essere stato un avversario. Malfoy non faceva altro da
quando aveva preteso di averlo al suo servizio. Ed ogni volta, Ron
inghiottiva il rospo. Non lo faceva per salvarsi la pelle, bensì
per poter seguitare a mantenersi abbastanza vicino ai piani alti del
mondo magico, per aiutare l’Ordine a sopravvivere e,
chissà, a vincere. Un giorno.
«Ora smettetela, per favore» li zittì una voce
femminile. «State trattenendo oltre misura uno dei festeggiati di
oggi e gli ospiti lo reclamano».
Gli uomini s’inchinarono rispettosamente, levando i calici
all’indirizzo della padrona di casa e della donna che
l’accompagnava.
«Avete ragione, Lady Lestrange. E dubito che qualcuno oserebbe
contraddire una persona cui il nostro Signore deve molto» rispose
ossequioso Yaxley, riassumendo il pensiero di tutti.
Elanor, Bellatrix e Narcissa erano state più volte citate nei
discorsi di Lord Voldemort, come esempi per tutte le giovani streghe
Purosangue. La loro dedizione alla causa, seppur in modi differenti,
aveva condotto alla vittoria, permettendo di smascherare un traditore,
decimare le schiere nemiche e uccidere Potter.
«Perdonatemi, ma mio marito è reclamato altrove.
Quest’oggi i suoi doveri di festeggiato sono ben più
importanti di ogni vostro parlamentare».
«Veramente…» cominciò Rodolphus, deciso ad allontanarla dalla conversazione.
«Andiamo, Ministro» intervenne la strega accanto ad Elanor.
«Siate buono. Dopo tutto, è una giornata di festa».
L’uomo la squadrò, titubante. Era difficile non prestare
ascolto alla voce di Regina Borgia: la sua famiglia aveva appoggiato la
salita al potere di Lord Voldemort, muovendosi in Europa per scovare i
contatti di cui i Mangiamorte necessitavano per incrementare le schiere
dei propri sostenitori. Ignorarla, anche solo per una facezia, poteva
essere estremamente pericoloso e il Signore Oscuro non avrebbe
perdonato un incidente diplomatico di quel calibro.
Si fece da parte, allargando il braccio per permettere al fratello di
seguire la moglie. Alcuni dei presenti mascherarono sorrisi di scherno,
nel vedere il possente capo dei Mangiamorte vinto dalle frivole pretese
di una donna.
«Parleremo dopo. Griffinheart può attendere» mormorò Rabastan, passandogli accanto.
Scambiarono una rapida occhiata d’intesa, poi, il Capo della
Polizia Segreta uscì dalla stanza, seguito dagli altri
convenuti. Tra gli arazzi con scene eroiche dei maghi
dell’antichità rimasero solo Draco e Regina. Ron era stato
allontanato bruscamente, con la scusa di tener sotto controllo la
signora Malfoy e la sua insana passione per i dolci al rabarbaro, che
le stava costando la linea.
«Sei una persona orribile, Draco. Parlar male di tua moglie persino con un servitore» commentò aspra.
Lui fece una smorfia vaga, attirandola a sé.
«C’è molta gente» bisbigliò la donna,
cercando di allontanarlo dalle sue labbra senza troppa convinzione.
«E tu sei sola. Il tuo adorato maritino è rimasto a curare
gli interessi della magia italiana. Sarei scortese a non far compagnia
ad una cara amica» replicò baciandola e ritraendosi con un
sorriso perfido sul viso.
«Avevo detto così alla Parkinson, l’ultima volta che
l’ho vista» ridacchiò crudelmente Regina.
La relazione extraconiugale fra Draco e Regina andava avanti da tempo.
Lei, stanca di un marito assente, aveva riallacciato i rapporti con
l’amico d’infanzia, appena nominato Responsabile per i
Rapporti Internazionali. Lui, stanco di una moglie più
interessata alla vita mondana che al figlioletto, aveva accolto
quell’occasione come una liberazione. L’attrazione fra loro
si era palesata dopo pochi incontri, tuttavia erano stati abili a
mantenere la cosa sotto silenzio. Almeno finché Pansy Parkinson,
habitué di Villa Malfoy, non aveva cominciato a sospettare
qualcosa. Aveva tentato di ricattarli per risollevare le magre finanze,
disastrate da ingenti perdite alle corse dei Pixie ed ai Tarocchi
Maledetti. Regina era stata abile nel raggirarla con una scenata carica
di lacrime e pentimento, durante la quale aveva giurato sarebbe tornata
dal marito come la migliore delle consorti. Pansy, convinta dalla
contrizione e dalla promessa di una lauta donazione, aveva accettato di
prendere un the con lei. L’indomani era stata trovata in casa
propria, vittima - così dissero le autorità - dei seguaci
di Griffinheart. Le doti di creatori di veleni dei Borgia non avevano
pari, al punto che le tracce di alcuni loro elisir spesso venivano
scambiate con quelle di incantesimi da bacchetta.
«Comprendi il valore di un’amicizia nel momento del bisogno
o quando questa viene a mancare» sentenziò Malfoy,
giocherellando con i ricci corvini dell’amante. «Ed io ho
sempre bisogno di te, amica mia» soggiunse a bassa voce,
carezzando eloquente i lacci del corsetto.
Alcuni passi nel corridoio li obbligarono a dividersi. Oltre i battenti
accostati passò Cesar, assorto nei propri pensieri.
«Io invece ho bisogno di un’Acquaviola»
ribatté la strega, fingendosi spazientita. «Tutti questi
vostri dolci inglesi mettono sete».
***
4 agosto 2017
Giardino, Lestrange Hall, Cornovaglia
La festa procedeva tra tappi di champagne che saltavano, fette di
torta, chiacchiere frivole ed elfi domestici puniti a ripetizione.
Stanchi d’essere tempestati di domande, auguri, pacche e abbracci
affettuosi, Portia e Vincent se n’erano andati a fare due passi
nel grande giardino della dimora. Era la prima volta che restavano soli
e la ragazza aveva fantasticato a lungo su quella passeggiata e su
ciò che avrebbe voluto far accadere.
«Vince?» chiamò timidamente. «Posso chiamarti Vince, vero?»
Lui annuì. Dal volto squadrato non traspariva alcuna particolare emozione.
«Ecco… ci frequentiamo solo da tre mesi e non so ancora
molto di te» disse, gli occhi bassi per l’imbarazzo.
«So che tuo padre è il primo editore del mondo magico e
che porti il nome di tuo zio, un eroe morto nella Stanza delle
Necessità per…»
«Balle» tagliò corto il giovane.
«Come?»
«Mio zio. Non è un eroe. Mio zio era un idiota, che ha
avuto la pessima idea di usare un incantesimo troppo potente e che non
era in grado di padroneggiare. Non sono fiero di portare il suo
nome».
«Ma… è morto per la causa!»
«Nessuno gliel’ha chiesto» fu il commento lapidario.
Vincent aveva imparato ad odiare la versione epica della storia.
Preferiva credere alle parole di sua madre, che ricordava il fratello
maggiore come “un Erumpent con i paraocchi, troppo concentrato a
cercare la gloria o i pasticcini, per curarsi delle cose davvero
importanti”. Suo padre non lo diceva chiaramente, ma era
d’accordo. Aveva voluto bene a suo zio, era stato il suo migliore
amico, ma non era servito a farlo desistere dal compiere una
sciocchezza.
Il giovane sedette su una panca di pietra e lei lo imitò. Dentro
di sé sperava che, lontano dalla ressa e da sguardi indiscreti,
Vincent l’avrebbe baciata. Moriva dalla voglia di veder
realizzato ciò che leggeva con le amiche nei romanzi
d’amore che giravano nel dormitorio di Serpeverde.
Qualcosa cadde nella fontana. Una volta. Due volte. Sassolini.
Un cane abbaiò poco lontano, attirando la loro attenzione e facendo sfumare il romantico sogno della fanciulla.
Accanto alla vasca di pietra c’era una ragazzino pallido e magro,
dai capelli biondo cenere. Se fosse calata d’improvviso la notte,
lo si sarebbe potuti scambiare per un fantasma, tanto era smunto. E gli
abiti chiari, insieme alla sua innata eleganza, gli conferivano un
aspetto ancor più etereo.
«Scorpius» disse Portia sottovoce.
«Quel piccoletto mi fa pena» fece Vincent.
«Anche a me. Quando viene qui, passa le ore a gironzolare in giardino con i cani. Non parla molto».
«Non parla per niente. Ed è sempre triste, come se gli mancasse un pezzo dell’anima».
Portia guardò stupita il fidanzato. Che Scorpius Malfoy fosse
croce e delizia dei suoi genitori era risaputo: intelligente e garbato,
ma anche apatico, sfuggente, distante. Arrivare ad una tale
affermazione era ben diverso dal riportare le comuni dicerie sul suo
conto, che lo volevano soggiogato da qualche complessa fattura
lanciatagli da Griffinheart in persona.
«Cosa vuoi dire?»
«Ho letto un libro di Divinazione Avanzata e…»
Si morse la lingua. Non aveva raccontato nemmeno al suo migliore amico
di questa sua passione per la Divinazione! Cosa gli era saltato in
mente di condividere quel segreto con lei? D’accordo, era la sua
fidanzata, ma sapeva che le ragazze avevano la tendenza a spifferare
certi dettagli, specie quando parlavano tra di loro. E con Mabel
Lestrange in giro, c’era poco da stare allegri.
«E…?» lo esortò Portia.
Ora che la guardava con attenzione però, Vincent si rese conto
che non era la richiesta di una pettegola ingolosita da una
rivelazione. Era interesse puro e semplice, sincero.
«Parlava di una teoria chiamata “Dei mondi paralleli o
alternativi”. Spiegava che può capitare che determinati
eventi modifichino il corso delle esistenze, a nostra insaputa, e si
creino infiniti nuovi mondi. A volte è un bene, altre volte
è un male. S’incontrano persone più o meno
importanti, possono accadere cose mai immaginate.
L’umanità può correre su un binario completamente
diverso da quello a noi noto. E questo influisce sulla nostra anima e
sulla nostra vita. Questo spiegherebbe alcuni malesseri a cui i
medimaghi non sanno porre rimedio, perché un’anima
spezzata – ce lo insegna il Grande Lord – non la risani con
un colpo di bacchetta. Se manca una parte di te stesso lo senti, te ne
accorgi. Il tuo aspetto muta e anche il carattere, gli atteggiamenti, i
gusti. E sono dettagli che si notano».
I due fidanzati tornarono a guardare il ragazzino, ora seduto
sull’orlo della fontana. Un levriero gli teneva il muso sulle
ginocchia, preso dalle distratte carezze che l’undicenne gli
riservava. Gli occhi grigi erano come ciechi, vuoti, senza luce e la
sua mano pareva muoversi seguendo un invisibile filo.
«Quindi, secondo te… Scorpius potrebbe essere vittima di
un evento di questo tipo? Credi che manchi qualcosa nella sua
vita?» azzardò lei.
«Chi lo sa. Non sono un Indovino professionista» ammise.
Era un sogno nel cassetto, che tale sarebbe rimasto. Quale unico erede
dei Goyle, a lui spettava di portare avanti l’impero editoriale
costruito da suo padre e da suo nonno. Dilettarsi con i fondi del the o
leggere i tarocchi non erano considerate occupazioni degne di un
così rispettabile membro dell’elite magica inglese.
Sarebbero rimasti semplici passatempi, taciuti a tutti. Tranne a
Portia, il cui sguardo luminoso declamava il suo voler esserne resa
partecipe.
«Perché mi guardi così?»
La risposta fu preceduta da un sorriso carico d’ammirazione e dolcezza.
«Per due motivi. Primo: non avevi mai parlato tanto a lungo e con
tanto fervore di qualcosa. Secondo: credo tu abbia ragione».
«Su Scorpius?»
«No. Sul fatto che capitano cose che incidono sulle nostre vite».
Con quelle poche parole riuscì a far scaturire un accenno di sorpresa nel giovane.
«Io sono stata fortunata: ho incontrato te» spiegò
arrossendo. «Non penso che potesse esserci qualcun altro nella
mia vita. Tu sei la persona giusta per me».
Vincent non si era mai visto in quella luce. Sapeva solo che Portia non
gli era mai stata indifferente, ed essere definito una specie di mago
del destino gli pareva troppo. Anche se, doveva ammetterlo, non era mai
riuscito ad immaginarsi con un’altra.
«Puoi anche non essere fiero di tuo zio, ma senza il suo
sacrificio, o senza quello di gente come Vitalij Dolohov… In che
mondo saremmo stati costretti a vivere? Se avessimo perso, forse sarei
stata costretta a sposare un NatoBabbano o peggio, un Babbano! Solo per
compiacere quei traditori e le loro leggi. Ti rendi conto di cosa avrei
dovuto sopportare? Quali umiliazioni? Che vita avrei potuto fare?
Lavorare in uno di quei negozi da due zellini? Partorire maghi indegni?
Essere infelice perché chi mi aveva chiesta in moglie odiava la
purezza del mio sangue?»
Le sfuggì un singhiozzo. Ripensò al signor Dolohov, a
quante volte le aveva detto di ringraziare Merlino, Morgana e Lord
Voldemort se aveva l’onore di vivere in quei tempi di rinascita.
Non riusciva a concepire un’esistenza diversa e il fatto che
Griffinheart tentasse di stravolgere quanto faticosamente conquistato
era spaventoso.
«Invece ho te, Vince. Il mio Vincent, che credevo essere un
silenzioso paladino come mio padre e che ho scoperto essere un erudito
in Divinazione, che sa leggere nel cuore delle persone»
sospirò rapita. «Sono davvero molto fortunata»
concluse, gettandogli le braccia al collo.
«Dici un sacco di stupidaggini, Portia» sbuffò,
fingendosi annoiato e ricambiando l’abbraccio. «Forse
è meglio che trovi il modo di farti stare zitta. Per quando
diventerai la signora Goyle» soggiunse cercando le sue labbra.
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Capitolo 5 *** IV ***
IV
IV
5 agosto 2017
Canile, Lestrange-Black Manor, Northumbria
Blue ripiegò accuratamente la divisa che tanti complimenti aveva
fruttato ai suoi padroni. L’appoggiò su un ripiano,
entrò nella gabbia e infilò i pochi stracci che aveva
gettato in un angolo prima del bagno e dell’uscita, sotto lo
sguardo assonnato della muta di cani lì accanto. Stava per
fasciarsi i piedi, quando gli venne ordinato di non farlo.
Obbedì. Infine allacciò il collare, segno della sua
detenzione presso i Lestrange-Black. Avvertì un formicolio alla
schiena mentre l’incantesimo di sottomissione cessava.
Sbatté le palpebre e scrollò il capo, facendo tornare
turchese la chioma.
«Ci diamo alle Arti Oscure?» domandò, scrutando alle spalle con la coda dell’occhio cieco.
«Taci, o saranno guai» sibilò Mabel, accompagnata da
un fruscio nervoso e dallo sbatacchiare di minuscoli pugni su sbarre
altrettanto minute.
Lui inspirò profondamente, percependo i primi guizzi dei muscoli
e la tensione nelle ossa. La luna piena cominciava a far capolino fuori
e dentro il suo corpo.
«Bleah! Fata!» mugugnò, riconoscendo l’odore della creaturina prigioniera.
Mabel non se ne curò e gettò l’abito sul fieno,
accanto all’entrata del canile. Prese a spalmarsi addosso
dell’unguento, che alle narici di Blue ricordò giacinti
appassiti e carne in salamoia. In un altro momento avrebbe vomitato, ma
era digiuno dal mattino e il lupo cominciava ad agitarsi.
Si voltò a studiarla, svestita, mentre guardava il cielo.
«Sei ingrassata, Mab? Eri più secca, là sotto» sghignazzò.
«Cosa vorresti dire, bestiaccia? Che il mio didietro è
grosso?» urlò lei girandosi, affatto imbarazzata della
propria nudità.
«Si dice sedere. O chiappe» specificò, battendoci le
mani. «O culo. Dipende quanto vuoi essere volgare».
Blue cadde a terra, gemendo sguaiato sotto l’ennesimo Stupeficio. I mastini gli fecero eco.
«Era ora che ti facessi vedere, piagnone».
«Stà zitta, Mab» ruttò Ruslan, riattaccandosi alla bottiglia di whisky.
Ingollò lunghe sorsate, guardandosi bene dall’offrirne
alla ragazza. Ruslan aveva l’aria stravolta e la faccia arrossata
dalla lunga cavalcata.
«Tutti così i Riti Antichi? Tette al vento e gambe aperte?» commentò ironico.
L’affermazione gli costò un ceffone, che sembrò non sentire.
«Ora sta’ zitto tu, imbecille. Invocherò la Magia
d’Albione, per diventare la nuova favorita del Lord»
sbottò.
Avrebbe superato il Maestro e una volta avuto il potere, si sarebbe
liberata di quell’essere disgustoso, un Mezzosangue. La magia
doveva appartenere ai soli Purosangue. A lei.
«Albione?»
«L’antico nome della nostra Inghilterra. Merlino, Ruslan, quanto sei ignorante!»
«Sono ucraino, come tutta la mia famiglia! Questa non è casa mia» ma Mabel non l’ascoltava più.
Spezzò in due l’esile corpicino della Fata con un Diffindo
ed il sangue celeste le schizzò addosso come una spolverata di
piccolissime gemme. Tracciò nell’aria una serie di rune e
cerchi, che si disposero intorno a lei come le pareti di una stanza.
Pronunciò la formula, richiamando a sé i simboli con la
bacchetta. Il sangue di Fata cominciò a sprigionare un tenue
bagliore e ridisegnò gli elementi dell’incantesimo sulla
pelle della giovane, svanendo con un lampo.
«Mi sembri uguale» sogghignò Dolohov, scolando
l’ultima goccia di whisky e lanciando lontano la bottiglia.
«Va ripetuto più volte durante i pleniluni, con
creature sempre più potenti. E come sai, i pleniluni non
accadono tutti i giorni» spiegò stizzita, infilando
l’abito che le porgeva. «E adesso spicciati, ho voglia di
andarmene a Brinkburn a farmi una Burrobirra con lo sciroppo di
menta».
I due raggiunsero il Thestral legato poco lontano e s’involarono in direzione della cittadina.
Nel giardino e nel canile tornò la quiete. Da dietro un cumulo
di fieno emerse una figura sottile e malandata. Un altro mannaro si
aggirava libero fra le gabbie. Superò lentamente i recinti,
raggiungendo quello in cui era rinchiuso Blue. Sfregò il muso
segnato da cicatrici sulla rete d’argento, ritraendosi con un
guaito. Quel dannato metallo riusciva ad essere fastidioso anche se non
pungeva o feriva.
La creatura all’interno si sollevò, stiracchiando le zampe
intorpidite dalla trasformazione e dall’immobilità.
«Sono dei gran zucconi. Non hanno imparato che gli Schiantesimi non servono con noi» latrò.
«Lascia stare, papà. Carenze del sistema scolastico Voldemortiano!» guaì Blue, annusandosi la spalla. «Non sono neppure granché come duellanti. Pessima mira» aggiunse, scrollandosi vigorosamente.
Scoprì le zanne, in quello che avrebbe voluto essere un sorriso.
Aveva solo simulato di provare dolore quando era stato colpito: era
servito a coprire gli Alohomora lanciati dal padre.
«Basta chiacchierare, Teddy. Sembri tua madre quando cominci».
«E dì che ti dispiace…» fece, rotolandosi sulla schiena.
Lupin armeggiò con i lucchetti, graffiando e tirando
finché non caddero. Usare quelle zampe era un’impresa,
anche con la Pozione in corpo. La Pozione Antilupo
era stata perfezionata al punto che, durante la luna piena, i
Licantropi mantenevano quasi per intero una coscienza umana. Poco
importava che i maghi l’avessero fatto per tutelarsi da eventuali
morsi durante le battute di caccia al Babbano. Era riuscito a portarla
una settimana prima a Teddy, così che fosse pronto per quella
sera.
Si mossero lungo i muri, orecchie tese e naso attento a percepire ogni
presenza. Nel giardino, però, si aggiravano solo un gruppetto di
gnomi e dei conigli selvatici. Scivolarono tra i cespugli, avanzando
rapidi in direzione della brughiera. Corsero a perdifiato fra sentieri
lastricati e statue di illustri Mangiamorte, fino al confine del
giardino, dove cominciava una piatta distesa d’erba.
Un guaito altissimo inchiodò le zampe di Remus.
«Teddy!» ululò.
La creatura era a terra, scalciava e tentava d’afferrare il collare, fattosi improvvisamente più stretto. Un Cappio Invisibile gli impediva di allontanarsi dalla dimora dei padroni. Lunghe note acute si levarono intorno. Un allarme.
«Teddy, sta’ calmo!» ringhiò, tentando di aprire la fibbia.
Il cuoio era protetto da un Repulsivo e da borchie d’argento che
gli laceravano le zampe ad ogni tentativo. Remus morse quel demone che
minacciava suo figlio. Tirò con quanta forza aveva, strinse le
zanne, obbligandole ad affondare fin quasi a spezzarsi.
All’improvviso, Teddy si drizzò, trascinandosi asfissiato
fino al limitare della sua invisibile prigione, dove tornò a
respirare.
«Vattene. Vattene, papà» gli intimò, il capo nascosto fra gli anteriori.
«No! Tu… tu devi… resterò con te. Lascerò che mi catturino» uggiolò, strofinando il muso contro il fianco del figlio.
«Se rimani, non ti prenderanno vivo» sospirò. «Vattene, papà. Abbiamo perso la mamma, non voglio che… va’ via, ti prego. E salutami la nonna, se riesci» guaì, arretrando ancora.
«Teddy…»
Il mannaro levò il muso, poggiandolo su quello del padre.
I richiami d’allarme non si placavano. Presto sarebbe arrivato qualcuno a controllare.
«Ti voglio bene, papà».
«Ti voglio bene anch’io, figliolo. Tornerò e ti porterò via» promise.
In pochi istanti, il suo mantello si confuse con la notte. Teddy rimase
dov’era, finché sentì il suo odore affievolirsi nel
vento e l’ultimo richiamo perdersi fra le stelle.
«Lo so, papà» rispose, serrando le fauci per non ululare alla luna il suo sconforto.
Tornò alla gabbia, sognando di scoprire un passaggio segreto che lo conducesse da suo padre e dalla nonna.
Nel frattempo, Lupin aveva continuato a correre senza mai voltarsi
indietro. Sentiva le budella torcersi in preda alla frustrazione.
L’animale non accettava la sconfitta e premeva per tornare
indietro, uccidere i Lestrange e liberare il suo cucciolo, ma
l’umano doveva arrendersi lucidamente ai limiti della sua
condizione.
Una figura si sbracciava nella foschia mattutina.
«Professore, dov’è Teddy?»
Il Licantropo scosse il capo, sfinito dalla lunga corsa, lasciandosi
cadere dove l’erica era più fitta mentre Neville tesseva
una rete di incantesimi protettivi. Tra le piante c’erano acqua e
carne, ma Lupin non aveva fame. Guaiva scoraggiato dall’ennesimo
fallimento, per il timore di ciò che avrebbe passato suo figlio.
«Non temete, professore» lo rincuorò Neville. «Libereremo Teddy, ve lo prometto».
***
5 agosto 2017
Maramures, Romania
La sagoma dell’Opaleye si afflosciò a poco a poco. Il ruggito gutturale divenne un quieto brontolio, segno che la Pozione Soporifera aveva fatto effetto. Era come osservare una montagna di perle, il cui fianco si gonfiava e sgonfiava debolmente.
Charlie guardò di traverso Percy che, in tutta
tranquillità, seguiva le operazioni scribacchiando su un
imponente rotolo di pergamena. Come potevano avere lo stesso sangue?
Ricordava ancora il giorno in cui Hermione era stata torturata e uccisa
sulla piazza di Hogsmeade, di fronte agli studenti che affluivano ad
Hogwarts per il primo giorno di scuola. Lui, suo padre, George, Neville
e altri dell’Ordine avevano cercato invano di salvarla dalla
bacchetta della Lestrange. Sul palco, accanto al nuovo Ministro,
c’era Percy. Per un attimo aveva creduto di vederlo tremare,
inorridito da ciò che accadeva. Aveva sperato si ribellasse, che
chiedesse la grazia, adducendo cavilli legali che solo lui poteva
conoscere. Un ergastolo ad Azkaban sarebbe stato una buona soluzione,
senza contare che avrebbero potuto trovare il modo di far evadere
Hermione in tempi più o meno brevi. Ma quando l’aveva
visto balzare in piedi, applaudendo gioiosamente di fronte al povero
Ron, semisvenuto per il dolore della morte della ragazza, aveva capito
che quello non era più il petulante burocrate che aveva dormito
nella camera sotto la sua. Era un mostro peggiore dei Mangiamorte,
perché si era abbandonato all’obbedienza ossequiosa senza
porsi domande, come una foglia al vento. Aveva accettato di stare dalla
parte sbagliata per il proprio tornaconto personale.
«Sbrigatevi» blaterò, sistemando sul naso i suoi
dannatissimi occhialetti cerchiati di corno. «Estraete la milza
alla svelta. Non vogliamo che questo coso ci crepi fra le mani!»
Era stato mandato dal Ministro della Magia in persona, per accertarsi
che la produzione di milza di Opaleye procedesse secondo quanto
stabilito. L’allevamento dei draghi era una lucrosa
attività dei Lestrange, che apportava considerevoli somme alle
casse dell’erario.
«Non è un coso, è un Opaleye degli Antipodi» corresse bruscamente Charlie.
Percy rispose con un’alzatina di spalle. Non gl’interessava
cosa fosse quella bestia, sapeva solo che aveva a che fare in qualche
modo con i suoi compiti di assistente e questo bastava.
Il Guardiadraghi represse a stento l’impulso d’afferrare la
bacchetta e colpirlo con quanta più forza avesse. Non si erano
mai intesi molto riguardo i propri interessi ed ora la cosa minacciava
di inasprirsi ulteriormente.
«Non dovrebbe stare qui. Non è il clima della Nuova Zelanda» disse a mezza voce.
«É un errore. È documentato dai bollettini
interministeriali che le valli interne della Nuova Zelanda presentano
fasce climatiche simili a quelle dell’est europeo»
rimbeccò l’altro, sventolando un dispaccio accuratamente
arrotolato e sigillato.
«Esistono una serie di condizioni a contorno che non si possono
replicare nemmeno con la magia. A questo ci arrivi o ti serve un
comunicato timbrato e firmato dai tuoi capi, per dirti che puoi
azzardarti a ragionare?» ringhiò, le braccia conserte e
l’aria di chi voleva attaccar briga.
Finalmente Percy tolse gli occhi dallo scritto e lo guardò, sdegnoso.
«Faccia ciò che le viene richiesto, se vuole ottenere le
sue misere sovvenzioni. Obbedisca e non obbietti… Weasley».
Lo chiamò per cognome, quasi fosse un insulto. E lo era, visto
che Percy, per dimostrare d’aver preso le distanze dagli elementi
sovversivi della sua famiglia d’origine, aveva scelto di cambiare
nome. Ora si faceva chiamare Hector Weatherby, con buona pace del
vecchio Crouch.
«Obbedire e non obbiettare?! Come fai tu?!»
«Badi a quel che dice. Potrei deferirla seduta stante al
Wizengamot. I suoi colleghi comincerebbero a domandarsi dove si trova
mentre il giudice cala il martelletto» disse, alludendo
velatamente alle accuse di collaborazionismo che pesavano sul suo capo.
A Charlie non importava granché di cosa quel damerino volesse
sottintendere. Certo era che, dietro alla gretta spavalderia, si
nascondesse ancora il leccapiedi codardo che non osava uscire dal
seminato preparato dai capi. Lo dimostrava il fatto che non riuscisse a
sostenere il suo sguardo. Di cosa aveva paura? Che lo prendesse a pugni
come meritava?
«Macnair? A che punto siamo?» chiamò Percy, approfittando del silenzio rabbioso del fratello per sfuggirgli.
«Lo stiamo aprendo. Qualche minuto e avremo fatto» rispose un uomo dai vistosi baffi neri.
«Se qui non servo, vado a fare due passi. O non ho il dovere di controllare i dintorni?»
L’assistente lo congedò con un cenno stizzito, per tornare
a concentrarsi sulla penna d’aquila e l’infinita scia
d’inchiostro che si lasciava dietro.
Rapido, Charlie raggiunse l’uomo che lo stava aspettando. Stefan
Grigore era stato responsabile della Riserva, ma l’età e
le ferite riportate durante la Guerra l’avevano costretto a farsi
da parte. Ora si occupava della gestione della sede e di tenere i
contatti con Bucarest.
«Arrabbiarsi non serve a nulla» l’ammonì,
affiancandolo. «Al contrario, potresti inguaiarci
tutti».
Sbuffò, irritato. Sapeva che Stefan aveva ragione.
Paradossalmente, dovevano ringraziare la delicatissima cognata del
Ministro se le ricerche sui draghi avevano avuto un deciso impulso in
quegli anni. Decine di esperti erano stati arruolati per scoprire le
proprietà medicamentose ancora non note delle varie razze e
miglia e miglia di pergamene erano state stese in favore della
salvaguardia e dell’incremento delle popolazioni esistenti.
Avrebbe dovuto essere felice, carico d’entusiasmo, ma non ci
riusciva.
«Cosa ci stanno facendo, Charlie?» domandò un vocione preoccupato.
Il Guardiadraghi scorse un’enorme sagoma nell’ombra della foresta.
«Hagrid, non dovresti stare qui. Sai che non puoi avvicinarti ai draghi».
Hagrid viveva da anni nei pressi della Riserva. Sperava di rivedere la
sua cara Norberta, cosa che però gli era stata interdetta e che
l’avviliva non poco. Di certo c’era lo zampino dei Malfoy.
«Non posso guardare che gli fanno male!» piagnucolò, soffiandosi rumorosamente il naso.
«Tranquillo, Hagrid. Starà bene e la milza
ricrescerà entro sei mesi. In tempo per la prossima
asportazione» sospirò disgustato, guardando in lontananza
la figura pallida in cui si apriva uno squarcio scarlatto.
«Stamattina è arrivata questa» fece Stefan, porgendogli una lettera.
Arrivava dal Canada ed era di Bill e Fleur. Come Hagrid - e la maggior parte di coloro il cui sangue era contaminato
dall’unione con altre creature -, erano stati costretti
all’esilio volontario. Bill avrebbe potuto restare in Inghilterra
accettando di diventare un Licantropo a tutti gli effetti e mettendosi
al servizio di qualche signorotto o del Ministero, ma aveva preferito
seguire la moglie altrove.
Nella lettera gli parlava della figlia maggiore:
Non hai idea di quanto Margaret
somigli alla nonna. Vorrebbe visitare la sua tomba. Come posso dirle
che non esiste? Come faccio a dire a Molly che la nonna di cui porta il
nome è rimasta a marcire sul prato di Hogwarts, dopo che la sua
assassina ha festeggiato la vittoria di Tu-sai-chi? Che non ci hanno
concesso di seppellirla come era giusto?
Era la stessa domanda che si poneva quando pensava a Ioan.
L’amico e collega l’aveva seguito ad Hogwarts, ma non aveva
più fatto ritorno in Romania dalla sua famiglia. Non aveva
esitato a sacrificare sé stesso nella speranza di un domani
migliore. Suo figlio Adrian, che pure aveva partecipato alla Battaglia,
aveva tentato invano di riavere il corpo. Era rimasta solo una lapide a
ricordarlo, nascosta nella boscaglia, lontano dai divieti del
Ministero. Una lapide senza tomba, né iscrizioni, né
corpo, bagnata dalle lacrime della moglie, del figlio e degli amici.
Tutti avevano creduto in quel sogno, alcuni speravano ancora, troppi erano morti.
Sua madre.
Fred.
Tonks.
Harry.
Hermione.
Tanti altri senza nome.
Ripiegò con cura la lettera e la mise in tasca, continuando a
camminare accompagnato dai singulti di Hagrid e dalla zoppia di Stefan.
«Mi dispiace, Bill. Non ho risposte per te».
Eccovi il giudizio del contest, per voce del giudice Trick.
Family Portrait di ely79
• Accuratezza del lessico, dell'ortografia, della punteggiatura e della grammatica: 8,5/10
La storia non presenta un numero
eccessivo di errori ortografici. Fra questi c'è da annoverare
due “và” scritti con l'accento e non con
l'apostrofo, la frase “le stesse che pendeva sul capo
di...” con una discordanza fra soggetto plurale e verbo
singolare, qualche refuso di tanto in tanto, un “ha”
scritto senza l'acca, qualche “d” eufonica di troppo,
punteggiatura alla fine dei discorsi diretti talvolta assenti, parole
“rowlinghiane” scritte scorrettamente
(“NatiBabbani” o “Notturn Alley”, ad esempio).
Il lessico scorrevole, inoltre, aiuta il lettore a divorare tutte le
venti pagine senza nemmeno rendersene conto.
• IC e caratterizzazione dei personaggi: 8,5/10
I personaggi che sono stata in grado
di valutare sono assolutamente IC. Con l'espressione “sono stata
in grado di valutare” mi riferisco a tutti quei personaggi che
sono effettivamente comparsi nei libri – e non sto parlando degli
OC. Sto parlando, ad esempio, di Rabastan Lestrange, Teddy Lupin e di
qualche altro Mangiamorte a cui J.K. Rowling non ha mai concesso
spazio. I personaggi “reali”, in particolari quelli a cui
l'autrice ha dato più righe - quali Ron Weasley, Neville Paciock
e Remus Lupin – sono decisamente IC.
Occorre dedicare una nota in
più per i tantissimi OC che l'autrice ha creato. Si è
rivelata una questione un po' spinosa, in effetti, ed io e SakiJune ne
abbiamo discusso a lungo. La mia conclusione, alla fine, è stata
più positiva che negativa. Li ho trovati interessanti e ben
caratterizzati, con tanti pregi quanti difetti.
•
Attinenza agli obblighi e al contesto angst, drammatico e di guerra
richiesto e originalità della trama: 9,5/10
Cosa, vi chiederete, mi ha portato ad
abbassare di un insignificante mezzo punto questa valutazione?
Innanzitutto, ci tengo a sottolineare che mi è servito parecchio
tempo per prendere quest'ostica decisione, perché i cinque
obblighi sono stati assolutamente rispettati. Harry è morto, ci
sono stati decisamente altri caduti, la loro morte è, in qualche
modo, dentro la storia stessa, almeno uno dei Weasley è morto e
la gamma di personaggi è ampia e “bipartitica”. Il
mezzo punto è scivolato proprio nell'aspetto drammatico della
fan fiction. Non che non sia carica di dramma e di angst, sia chiaro
– la condizione dei licantropi e il destino di Teddy Lupin mi
hanno fatto accapponare la pelle – ma manca quella briciola di
sadismo in più che avrebbe portato al 10/10.
→ SakiJune
ha detto: «Una prosa curata e quasi impeccabile, così come
le ambientazioni; personaggi vivi e convincenti. Peccato non sia
compiuta in sé e si riveli solo uno stralcio di una storia di
più ampio respiro».
Voto di media: 9,3
VALUTAZIONE FINALE → 8,95/10
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