La Casa Stornella di Trick (/viewuser.php?uid=21078)
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Prologo ***
Capitolo 2: *** Ninna nanna ***
Capitolo 3: *** Acqua, baci e sapone ***
Capitolo 4: *** Moccoluffin e vestiti alla rovescia ***
Capitolo 5: *** Un tricheco serpentino ***
Capitolo 6: *** C'era una volta una storia vecchia ***
Capitolo 7: *** Cene di famiglia ***
Capitolo 8: *** Cene di lavoro ***
Capitolo 1 *** Prologo ***
Note
dell'Autrice
– sempre discutibilmente utili:
Prima
che iniziate a
leggere, ci terrei a fare una comunicazione speciale a tutti coloro
che stanno seguendo – o rantolando nel tentativo di seguire,
piuttosto – la long-fic Diario
di un lupo in un branco di lupi.
Prima che qualcuno gridi al massacro, sappiate che non
ho la minima intenzione di lasciarla incompiuta. È la prima
vera
storia con la quale ho iniziato a scrivere ed è proprio
quella
grazie alla quale ho migliorato la mia scrittura amatoriale. Quindi,
no, non ho assolutamente voglia di metterla in un angolino e
dimenticarmene. Purtroppo, però, la mia momentanea
ispirazione
sembra rigurgitare tanto lei quanto tutte le altre storie di genere
drammatico e angst del mio hard-disk. Non so cosa stia capitando al
mio folle e spasmodico amore per il melodramma e il sangue, ma ho il
cervello costantemente in modalità love&fluff
e questo è tutto.
Qualcuno
potrebbe dire: «Eh, no, scusa. Sono anni che porti avanti il Diario.
Prima
di iniziare
qualcos'altro, sei moralmente obbligata a terminarla».
Ma
anche no. Sono una libera scrittrice amatoriale in preda ad una crisi
d'identità che – vergogna – ha voglia di
coccole, et
voilà!
Tutto
questo sproloquio potenzialmente letale e discutibilmente utile mi
è
servito solo a rassicurare i lettori del Diario
che, no, non ho intenzione di morire prima di concluderlo.
Non
ho finito di
tediarvi, quindi tornate qua. Ci sono un paio di cose che devo
aggiungere su questa long-fic qui sotto.
È
una What-If
dalla
prima all'ultima parola. Anzi, no. È il mio
grandissimo
What-If,
quello che strugge e distrugge tutti i cuori delle Wotcher Wolfie
dall'uscita dei Doni della Morte, ovvero “e
se Remus e Tonks fossero sopravvissuti alla Battaglia di
Hogwarts”?
Quindi,
me ne duole,
ma tant'è che questa è la situazione. Io vi ho
avvisati. :)
*
La
Casa Stornella
Prologo
Casa
Stornella era una solida costruzione tipicamente inglese che sorgeva
nell'assoluta tranquillità delle colline del Derbyshire, a
poche
miglia di distanza dal villaggio di Matlock. Nonostante la vicinanza
con il tram-tram della vita cittadina, l'atmosfera che aleggiava
attorno alla proprietà era prodigiosamente disarmante. La si
scorgeva appena, così immersa nella morsa degli alberi e
degli alti
cespugli, solo dopo aver superato una ripida altura incolta.
Possedeva un ampio giardino circondato da alte e verdeggianti siepi,
che abbracciavano il perimetro della casa, alti comignoli di mattoni
rossi e una grande porta di legno antico dai battenti d'ottone a
forma di testa di volpe.
Chi
aveva avuto modo di giudicarla, a Matlock, diceva che sarebbe stata
davvero una gran bella casa, se non fosse stato per quel fastidioso e
continuo odore di uova marce che infestava da anni la zona. Nessuno
era stato in grado di trovare una soluzione a quel disgustoso fetore
– nemmeno i più competenti esperti di edilizia e
idraulica
britannica – così Casa Stornella era rimasta
disabitata per oltre
vent'anni, abbandonata all'edera e alle sterpaglie.
Poi,
improvvisamente, era comparsa quella buffa coppia di stranieri. La
giovane moglie dovette aver lasciato il cuore in quella graziosa
villetta dimenticata, perché il marito – che gli
abitanti
supposero l'avesse sposata ben da poco, vista la rapidità
con la
quale ancora accontentava ogni sua richiesta –
s'affrettò presto a
ultimare l'acquisto. A nulla erano valsi gli avvertimenti sul
nauseante puzzo: quando la moglie aveva scoperto che la casa veniva
chiamata Stornella poiché in primavera il boschetto attorno
si
riempiva di cardellini e usignoli cinguettanti, non aveva
più voluto
sentire ragione.
Da
allora, ben di rado gli abitanti di Matlock li avevano incrociati
passeggiare per le vie della cittadina: il postino disse di non aver
mai recapitato loro una sola lettera, mentre il macellaio e il
fruttivendolo di non aver mai visto la signora fare la spesa nelle
loro botteghe. Assurdamente, poi, tutti erano certi di non averli mai
visti scendere da lassù a bordo di un'automobile.
Come
riuscissero a sopravvivere in quella totale emarginazione era un
mistero tale per cui l'intera cittadina, per timore e per
rassegnazione, smise di parlare di loro e di tutte quelle stramberie.
In
realtà, per Remus e Tonks vivere a Casa Stornella era cosa
più che
semplice.
Potevano
vantare una dimora grande e spaziosa – forse un po' troppo,
si
dicevano a volte – e i loro bambini avevano sconfinate
distese di
erba nella quale correre, rotolare e farsi del male. L'insopportabile
tanfo che tanto faceva storcere il naso ai Babbani di Matlock non era
che un vecchio demone d'acqua che aveva infestato il sistema
fognario. Liberarsene, per Remus, fu un gioco da ragazzi; fu molto
più difficile convincere la moglie a lasciarglielo tenere a
scopo
accademico da qualche parte del giardino. Remus non riuscì a
spuntarla in alcun modo e fu costretto a portare il demone a
Hogwarts, dove aveva ripreso a insegnare Difesa Contro Le Arti Oscure
– e dove convinse Hagrid a nascondere l'orribile creature
dagli
occhi severi della Preside McGranitt.
Con
notevole serenità di Tonks, poi, il piccolo Teddy si era
adattato
rapidamente all'aria fresca del Derbyshire e aveva iniziato a
crescere forte e robusto, inciampando e ruzzolando su ogni radice del
grande giardino. Avevano da poco deciso di prendere un animale
domestico, quando Tonks aveva scoperto di aspettare un secondo
bambino.
Per
non remare contro la neonata tradizione di dare nomi importanti alla
propria discendenza, chiamarono il secondogenito Alastor Kingsley e
rimandarono l'idea di comprare un labrador ai mesi successivi. Poco
più di un anno dopo, in loro si rinnovò
quell'iniziale voglia di
possedere un cucciolo, a cui si unirono i vivaci capricci di Teddy.
Di nuovo, eccoli discutere a tavola se fosse più conveniente
acquistare un Crup o un Diricawl e, di nuovo, ecco la signora Lupin
restare incinta per terza volta.
Pareva
essere una sorta di buffa maledizione – o di un sarcastico
scherzo
del destino, magari – ma ogniqualvolta decidevano di
allargare la
famiglia con un bel gatto o con un Kneazle, ecco spuntare un altro
figlio.
Così,
alle soglie del 2008, i coniugi Lupin potevano ben dire di avere
quattro figli, ma nessun cane.
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Capitolo 2 *** Ninna nanna ***
Note
dell'Autrice – sempre discutibilmente utili:
Non
abituatevi al fatto
che aggiornerò sempre a distanza di... uhm, quanto? Uno, due
giorni?
Ecco, per l'appunto. Ho deciso di postare oggi solo perché:
a) il
primo capitolo era già pronto da quando ho scritto il
prologo; b)
non riesco a dormire e mi annoio – stupida caffeinomania;
c)
basta. È stato il mio dito a cliccare da solo.
Come
vi avevo accennato
– non l'ho fatto? Uhm, beh, non so che farci, mi spiace
– in
questo capitolo compaiono i prodi eredi di Remus e Tonks, di cui uno
è nato con tre occhi, una con l'alluce al posto del naso e
l'altra
con il superpotere di lanciare raggi gamma dalle orecchie.
...nessuno
di voi mi ha
preso sul serio, vero? Se tu che stai leggendo mi hai preso sul
serio, sappi che potresti avere qualche problema di tipo
riflessivo-cognitivo. :)
No,
okay. Seriamente.
Questo è il primo capitolo di una long-fic che, confesso,
non so
esattamente dove mi porterà. Poco professionale, voi dite?
Chissenefrega, vi ripeto che ho bisogno di fluffosità
– e
il primo che allude al fatto che presto sarà San Valentino
verrà
mutilato via fax, poiché la sottoscritta odia
candidamente
San Valentino.
Le
uniche note
veramente utili (ma in realtà non lo sono affatto) che devo
sottolineare sono: a) la filastrocca finale, che io sappia,
è un
made in mia nonna, ma tradotta in italiano da un ben
più
volgare e barbaro dialetto; b) tutti i nomi di Creature Magiche che
compaiono sono stati spudoratamente letti sulla sempre fedele Wiki;
c) i personaggi e i luoghi di questa fan fiction non appartengono a
me, ma a J.K. Rowling – cosa che sapete perfettamente e
che... no,
un attimo. Tre di questi personaggi mi
appartengono eccome,
invece. Oh, chissenefrega. Piantatela di leggere le mie note inutili,
così la mia incurabile logorrea può lasciarvi al
capitolo.
Buona
lettura, baldo
popolo di Efp! :)
*
La
Casa Stornella
Capitolo
Uno
Ninna
Nanna
Remus
non ricordava da quanto tempo non rincasasse a quella tarda ora della
sera – anni, probabilmente. Quando si
Smaterializzò nel cortile di
Casa Stornella, il suo orologio da taschino segnava le nove e
quarantacinque minuti. Non si concesse neppure il tempo di lisciare
il risvolto del lungo soprabito nero che indossava: era un'abitudine
che aveva sempre avuto dacché aveva superato l'Esame per la
Materializzazione. Salì con urgenza i gradini di pietra e
sfiorò
con un polpastrello il battente a forma di volpe. Pochi istanti dopo,
questa aprì pigramente un occhio e fece un grande sbadiglio.
«Bentornato,
professore...» biascicò appena, con la voce
gracchiante un po'
impastata.
Si
udì un secco rumore metallico, prima che la porta s'aprisse
sull'ampio salone di ingresso.
Se
l'esterno di Casa Stornella si presentava come una confortevole e
tradizionale dimora inglese, l'interno era indiscutibilmente una
confortevole e tradizionale dimora magica.
Mentre
l'attaccapanni si piegava su se stesso per aiutarlo a sfilare il
soprabito dalle spalle, Remus allungò il collo verso la
porta della
cucina, da cui arrivava il sordo fruscio delle stoviglie che si
lavavano e delle ramazze che spazzavano il pavimento.
«Mastro
Lupin, ardito e nobile signore! Indomito condottiero di mille e mille
sventure!» eruppe una voce da un quadro alla sua destra.
«Mi pare
siate in ritardo, quest'oggi: cosa vi ha trattenuto lungo la
travagliata via del ritorno? Troll? Orchi? Draghi?».
«Magari
si fosse trattato di un Drago, Sir Cadogan»
scherzò con tono
gentile Remus. «Riunione del Consiglio Scolastico
nell'Ufficio della
Preside McGranitt».
Il
vecchio cavaliere dipinto fece una smorfia di disgusto.
«Per
la buon anima del mio Crinedoro, qui... quella strega v'ha realmente
trattenuto fino a questa tarda ora?».
«Sì,
a breve le intenterò sicuramente causa presso il Ministero.
Avete
visto mia moglie?».
«Naturale,
Mastro Lupin! Naturale! I miei occhi sono occhi di falco! Le mie
braccia sono braccia di orso! Il mio cuore è cuore
di Dra--».
«E
le mie orecchie sono davvero stanche, temo» lo prese
bonariamente
in giro. «Dov'è mia moglie, Sir
Cadogan?».
«Ha
detto di doversi ristorare nelle stanze da bagno, vista l'immane
tortura che oggi s'è rivelata essere addormentare i vostri
bambini.
Mi sono apparsi assai troppo vivaci, sì. E la vostra
più piccola,
quella canaglia, ha tentato di disegnarmi un grosso paio di baffi,
Mastro Lupin! Proprio qui, sotto il mio eroico naso! È tutto
il
giorno che se ne va in giro a fare dei danni! Oh, povera, povera la
vostra dolce moglie! Una così delicata creatura costretta a
inseguire un demonio per ogni dove della casa».
«Che
Godric mi aiuti ad accasarla in fretta...» mormorò
Remus,
passandosi una mano sul viso con aria esasperata.
«Vedrò di fare
due chiacchiere con lei, Sir Cadogan. Credo di poterla convincere a
non recarvi disturbo... o di farlo a giorni alterni,
perlomeno».
Si
avviò velocemente verso la larga scalinata che portava al
piano
superiore, fingendo di non sentire l'aulico brontolare del quadro per
non essere nuovamente bloccato dalle sue folli fantasie e dai suoi
sconsiderati consigli. Talvolta, si chiedeva cosa gli fosse passato
per la testa per portare Sir Cadogan a casa sua. Sapeva solo che
quando aveva scoperto che il poveretto era stato portato in un
vecchio ripostiglio del quarto piano di Hogwarts, solo e dimenticato,
aveva avvertito il dovere morale di aiutare quel quadro squilibrato.
Fortuna che sua moglie fosse squilibrata quanto lui e Sir Cadogan, o
quello sarebbe affondato nel fiume con tutta la sua cornice dorata
–
e Remus con lui per aver avanzato l'insana proposta di appenderlo
nell'ingresso, probabilmente.
Sebbene
fosse molto allettato dall'idea di immergersi in una vasca bollente
al più presto, Remus avvertì il bisogno di
controllare che tutti e
quattro i suoi figli stessero effettivamente dormendo. Non si sarebbe
affatto stupito se gli avesse trovati tutti nascosti sotto le coperte
in una delle loro stanze, illuminati solo dalla torcia a pile che
Arthur aveva loro regalato. Due mattine prima, lui e Tonks li avevano
trovati addormentati sul pavimento di legno della stanza di Teddy e
Alastor, ingarbugliati gli uni con le altre e con un grossissimo
libro di leggende irlandesi aperto lì accanto.
Quatto
quatto, si avvicinò alla cameretta delle bambine,
abbassò con
estrema delicatezza la maniglia d'ottone e aprì la porta di
qualche
centimetro. La luce s'insinuò nella stanza buia, illuminando
un
piedino scoperto. Remus sorrise ed entrò con cautela,
avanzando in
punta di piedi verso il lettino di Andromeda. Prestando attenzione ad
ogni movimento, afferrò il bordo della trapunta turchese e
le
rimboccò amorevolmente le coperte. Andromeda emise un
incomprensibile borbottio e Remus alzò il capo per guardarla
in
viso.
Come
Alastor, Andromeda aveva ereditato i capelli chiari del padre, ma, al
contrario, non possedeva niente del buffo contegno assennato del
fratello. Era una bambina dall'indole calma, dallo spirito generoso e
dall'innocente ingenuità: fra i quattro, era
indiscutibilmente la
meno capricciosa e la più avvezza alle coccole.
Era
anche estremamente timida, tant'è che aveva il vizio di
nascondere
il volto dagli sguardi degli adulti che cercavano di conversare con
lei e di nascondersi dietro alle spalle dei genitori. Sebbene Tonks
cercasse di incitarla a parlare, sembrava proprio che in pubblico
Andromeda non riuscisse a spiccicare più di qualche
stringata
formula di cortesia. E dire che in casa, di norma, chiacchierava
esattamente quanto gli altri.
Ciò
che più di ogni altra cosa aveva sempre destato l'interesse
dei loro
conoscenti era la limpida tonalità azzurra dei suoi occhi.
Quelli di
Tonks – quelli naturali, perlomeno – erano scuri e
brillanti;
quelli di Remus, invece, erano di una calda tonalità
ambrata. Quando
avevano scoperto che gli occhi di Andromeda sarebbero rimasti
celesti, Tonks e sua madre avevano drammaticamente annunciato un
ritorno in voga dei geni Black. Remus aveva avuto l'incauto ardimento
di domandare loro chi, in quella famiglia di pazzi sconsiderati,
avesse posseduto due occhi tanto belli e lucenti. Andromeda Tonks
aveva assottigliato pericolosamente le palpebre e aveva sibilato un
gelido “Narcissa”.
Remus
le aveva liquidate sostenendo quanto fossero irrimediabilmente
svitate, perché non c'era proprio nulla – nulla
– nei suoi figli
che potesse ricondurre ai Black. Quando era nata Minerva, tuttavia,
aveva dovuto ricredersi.
I
suoi capelli erano dritti come dei fusi, neri e lucenti – e i
suoi
occhi lo erano altrettanto. A differenza di Tonks, tuttavia, la cui
forma conferiva al volto qualcosa di naturalmente simpatico, gli
occhi di Minerva erano stretti e allungati, come quelli di un
predatore ad un balzo dalla preda.
Dopo
qualche mese dalla sua nascita, Andromeda si era dichiarata sconvolta
dalla somiglianza che correva fra lei e la defunta Bellatrix Black.
Quel paragone aveva fatto infuriare Tonks e la questione era
rapidamente degenerata in una violenta discussione fra madre e
figlia.
All'età
di cinque anni, Minerva era più bassa delle sue coetanee di
almeno
una spanna. Dominique Weasley, che aveva solo pochi mesi in
più di
lei, la superava già dell'intera testa. Era così
piccola e minuta
che tutti quanti, un po' per vezzeggiarla e un po' per divertirsi,
l'avevano soprannominata Minima - e pareva proprio che quell'assurdo
nomignolo avesse ormai sostituito il suo nome di battesimo. Minima,
d'altro canto, di piccolo e minuto aveva solo la corporatura.
Era
una bambina particolarmente sveglia e curiosa, dal temperamento
impetuoso, testardo e impaziente. Era nata con la lingua lunga e la
mente acuta: Remus aveva capito fin da subito che crescere Minima
sarebbe stata un'epica crociata. Sembrava avere una visione del mondo
in bianco e nero, senza compromessi o vie di mezzo, ed era
ostinatamente convinta che ad ogni battaglia persa ne conseguisse
un'altra più feroce. Anche il rispetto, nella sua infantile
concezione della vita, era fatto di estremi. Nonostante fosse ancora
così piccola, sembrava già capace di distinguere
le persone a cui
concedere la propria attenzione da quelle con le quali non valeva la
pena confrontarsi. A differenza dei fratelli e di tutti gli altri
bambini, pareva avvertire la differenza di meriti e pregi che
differenziava un adulto da un altro e, in base al suo insindacabile
giudizio, si comportava di conseguenza.
Il
mese prima, durante la cena, Tonks stava raccontando a Remus di aver
litigato con l'Auror Dawlish per un affare di carattere burocratico.
Teddy stava cercando di nascondere i fagioli in un angolo del piatto,
mentre ascoltava Alastor raccontare ad Andromeda la storia –
letta
in chissà quale enciclopedia della loro biblioteca - di come
l'usanza delle forchette fosse arrivata in Gran Bretagna. Minima,
seduta accanto alla madre, aveva alzato improvvisamente la testa
dalla bistecca che stava sbocconcellando e aveva domandato
candidamente:
«L'Auror
Dawlish è il signore altissimo e con i capelli cortissimi,
mamma? È
quello che quando parla tiene tutta la pancia in fuori?».
Tonks
aveva interrotto la conversazione con il marito e aveva guardato la
figlia con aria di puro divertimento.
«Sì,
tesoro, ma non è la pancia. È il petto».
«Sì,
Minima» aveva incalzato d'un tratto Teddy, sporgendosi verso
la
sorellina e annuendo vigorosamente. «Si chiama
“petto”, quello
dell'Auror Dawlish. Ha un sacco di muscoli, lui! Deve essere
fortissimo!».
«Perché?»
aveva protestato Andromeda. «Papà non ha i
muscoli, ma è
fortissimo anche lui. Vero, papà, che tu sei
fortissimo?».
«Assolutamente
sì» aveva assicurato Remus. «E bada,
Ted, che i muscoli non sono
sempre indice di forza».
«Come
Re Davide e il gigante Golia nei Libri delle Cronache» si era
intromesso Alastor.
«Precisamente».
«Ma
con te non vale. A te non servono i muscoli, papà. Sei un
professore» aveva concluso con ovvietà Teddy.
«I professori non
hanno mica i muscoli come gli Auror».
Tonks
stava per aprire la bocca, quando Minima aveva sentenziato con
estrema semplicità:
«L'Auror
Dawlish è un idiota».
L'avevano
fissata tutti per un lungo istante di silenzio. Era stata Tonks la
prima a parlare e la sua voce aveva una nota minacciosa.
«Minima,
se ti sento ripetere la parola “idiota”, ti annodo
la lingua al
palato per i prossimi sei mesi».
«Ma
lo è, mamma» aveva ripetuto lei con decisione.
«Se ne gira con la
pancia in fuori e il naso in su, e dice di essere una persona forte
anche quando non serve che lo dica. Quando l'abbiamo visto a Diagon
Alley, l'altra volta, aveva attaccato al suo mantello rosso un
distintivo uguale a quello che tu porti in tasca. Se lo puliva sempre
con la manica e quando girava si vedeva che voleva che tutti lo
guardavamo. Io dico che è un idiota».
L'irritazione
di Tonks per aver sentito Minima pronunciare la parola
“idiota”
si era presto trasformata in sbigottita ilarità. La
vanità e
l'estenuante contegno di Dawlish non era certo un segreto per la
comunità magica, ma scoprire che Minima era stata in grado
di trarne
una descrizione così accurata aveva un che di
preoccupantemente
comico.
«Ciao,
papà».
Remus
trasalì impercettibilmente e si voltò verso il
letto della sua
bambina più piccola.
«Minima»
le disse in un sussurro, avvicinandosi con estrema delicatezza e
sedendosi sul bordo. «Perché sei ancora
sveglia?».
«Non
lo so».
«Non
lo sai?».
«Non
lo so» ripeté con voce convinta Minima.
«A te succede di non
sapere le cose, papà?».
Remus
strinse fra loro le labbra e si massaggiò stancamente
l'attaccatura
fra le sopracciglia e il naso. Fra le incontrollabili
particolarità
di Minima, la peggiore era sicuramente la sua capacità di
fare
sempre domande che finivano per mettere gli adulti in imbarazzante
difficoltà.
«Sì,
tesoro» le rispose dopo un attimo di riflessione.
«È normale non
sapere tutto quanto. Ciò che non è normale
è non sapere per quale
motivo si è svegli... soprattutto quando chi dovrebbe
dormire ha già
superato da un bel pezzo l'ora della ritirata. Dico bene,
signorina?».
«Sì,
lo dice pure l'orologio. L'ho sentito fare due cucù,
prima».
«Per
l'appunto. Povero orologio, mai nessuno in questa casa che gli dia
ascolto» scherzò piano Remus, cercando nella
penombra il bordo
della trapunta per rimboccare le coperte per la seconda volta nel
giro di due minuti.
«Dovrebbe
arrabbiarsi» aggiunse Minima. «Se ero io,
l'orologio, mi
arrabbiavo».
«Oh,
questo lo so perfettamente» ridacchiò Remus,
insaccandola fino al
mento e controllando che fosse ben coperta. «A proposito di
cose che
si arrabbiano... vuoi provare a indovinare chi era molto arrabbiato,
quando sono rientrato questa sera?».
Lei
scosse vigorosamente il capo.
«No,
papà. Non voglio indovinare».
«Beh,
temo che dovrò ugualmente dirtelo. Posso sapere cos'hai
combinato,
oggi, a quel poveretto di Sir Cadogan?».
«Niente»
affermò con voce innocente.
«Minima...»
la avvisò Remus con un mezzo sorriso.
«Giuro
solennemente, papà».
Diviso
dal desiderio di ridere e quello di compiere i suoi doveri di
genitore, Remus fece un sospiro stremato.
«Sir
Cadogan non è dello stesso parere».
«Forse
dobbiamo disegnarci un paio di occhiali».
A
questa affermazione, Remus dovette appellare tutta la propria
volontà
per non scoppiare in una fragorosa risata.
«Forse
qualcuno dovrebbe smetterla di usarlo come un album da disegno, non
ti pare? Cosa faresti se domani mattina ti svegliassi con tutta la
faccia scarabocchiata?».
Minima
sembrò soppesare mentalmente la questione.
«Butto
Teddy nel fiume, perché sicuramente Alastor e Dromeda non
sono
stati, a scarabocchiarmi la faccia».
«Ne
deduco che in questa sporca faccenda c'entri anche Ted.
Com'è
possibile che voi due andiate d'accordo solo quando si tratta di fare
dei pasticci?» mormorò piano Remus, prima di
alzarsi dal letto. «Si
è fatto davvero tardi, Minima. Se la mamma dovesse scoprire
che non
ti ho obbligato immediatamente a dormire, mi Trasfigurerebbe in un
calzino».
Lei
ridacchiò fra le coperte, mentre Remus le baciava appena la
fronte
liscia. Avviandosi verso la porta, gettò uno sguardo ad
Andromeda.
Per sua fortuna, era ancora profondamente addormentata. Si
fermò
sull'uscio e si voltò verso Minima.
«Giuri
di metterti subito a dormire?» le domandò con un
sorriso
affettuoso.
«Solennemente,
papà».
*
Nell'istante
in cui apriva la porta della stanza dei due figli più
grandi, Remus
sapeva già che li avrebbe trovati svegli. Aveva appena
infilato la
testa nella stanza quando aveva sentito un sordo tonfo provenire dal
letto più vicino alla finestra. Fece un sospiro rassegnato e
accese
le luci con un movimento pigro della bacchetta.
Alastor
giaceva di schiena ai piedi del proprio letto, con le gambe
ingarbugliate nelle lenzuola e gli occhiali storti sul naso. Quando
ebbe riconosciuto la figura del padre, si mordicchiò
nervosamente il
labbro inferiore e gli rivolse un sorriso innocente.
Remus
inarcò un sopracciglio e si voltò verso la
trapunta sotto la quale
si era nascosto Teddy. A giudicare dal ritmato tremolio, stava
ridendo con il viso sepolto nel cuscino. Si avvicinò e gli
tolse la
coperta tutto d'un colpo. Teddy si girò rapidamente sulla
schiena e
scoppiò in una risata cristallina.
«Sei
cascato da solo!» rise, mentre i capelli si tingevano del
colore dei
mirtilli. «Sei davvero
cascato da solo!».
Alastor
fece forza sulle piccole mani, si mise a sedere e si grattò
timidamente una guancia, arrossendo appena. Remus lo osservò
con
espressione interrogativa.
«Non
l'ho fatto apposta».
Se
c'era qualcosa di cui l'intera comunità magica era
totalmente
d'accordo, era che il giovane Alastor Lupin era indiscutibilmente
figlio di suo padre – e non solo per l'incredibile
somiglianza
fisica. Aveva compiuto otto anni lo scorso settembre e ne aveva
già
trascorsi cinque con la testa immersa nei libri. Sembrava avere una
particolare predisposizione allo studio ed era dotato di una memoria
sconcertante. All'età di sei anni, Remus lo aveva trovato
seduto
davanti al caminetto della biblioteca, mentre fissava con aria
perplessa un vecchio poema gnomico scritto in Rune Antiche.
Appoggiato acconto ai suoi piedi, Remus aveva riconosciuto il suo
vecchio Compendio per la Lettura Semplificate delle Rune.
Remus
si era avvicinato con un mezzo sorriso divertito, si era accomodato
sulla proprio poltrona e aveva intrecciato fra loro le dita, in
attesa. Fu solo in quel momento che Alastor aveva sollevato il viso
dal pesante libro e aveva detto:
«C'è
un passaggio che non capisco, papà».
Remus
si era trattenuto con forza dal ridere, ma si era limitato a
spronarlo silenziosamente con un movimento della mano. Com'era
possibile che un bambino di sei anni, per quanto sveglio, potesse
capire la sottile arte delle Rune Antiche?
«“Gefinn
Óð ni, sjalfur sjalfum mér, à
þeim meiði er manngi veit”»
aveva recitato a gran voce Alastor, muovendo gli occhi davanti a
sé
come se stesse leggendo le parole nell'aria. «“Vlð
hlefi mik sæ ldu né við hornigi.
Ný sta ek niðr, nam ek upp
rùnar, æpandi nam, fell ek aftr
þaðan”».
Remus
era rimasto in silenzio per diversi istanti, sconcertato. Aveva letto
talmente tante volte quel poema gnomico da conoscerlo a memoria e
sapeva che il figlio, contro ogni più logico giudizio, aveva
appena
ripetuto alla perfezione l'intera strofa della morte di Odino. Aveva
sbattuto un paio di volte le palpebre, cercando una spiegazione a
quell'inverosimile comportamento.
«Alastor»
gli aveva detto con voce calma. «Come sei riuscito a
impararlo a
memoria?».
Il
bambino lo aveva guardato con aria confusa e aveva alzato le spalle.
«L'ho
letto, papà».
«Quante
volte?».
«Una
sola, prima che entrassi tu».
Quando
lo aveva raccontato a Tonks, lei si era particolarmente agitata e
aveva insistito per portare Alastor al San Mungo il giorno seguente.
Remus non era molto entusiasta all'idea – aveva sempre
detestato
qualunque genere di ospedale o di infermeria – ed era
oltremodo
convinto che la reazione della moglie fosse assolutamente esagerata.
Alla fine, tuttavia, aveva acconsentito.
Il
Medimago specializzato in Magia Infantile, Eliphas Sheehan, aveva
ascoltato il resoconto di Remus con grande interesse, lisciandosi
pensieroso i lunghi baffi bianchi e annuendo con solenni grugniti.
Aveva sottoposto Alastor a qualche quesito di logica, al quale il
bambino aveva risposto con vivace acume. Poi, gli aveva fatto leggere
una filastrocca lunga una ventina di righe e gli aveva chiesto se
fosse in grado di ripetergliela. Alastor si era comportato
esattamente come nella biblioteca di Casa Stornella: i suoi occhi
sembravano scorrere lungo parole invisibili tracciate a mezz'aria.
Il
responso del Mediamago Sheenan fu che Alastor era dotato di una
sottile memoria eidetica che gli permetteva di visualizzare nella
mente le immagini viste con limpidissima precisione. Aveva aggiunto
che molti bambini possedevano quel particolare tipo di memoria e che,
di norma, tendevano a perderla con il passare degli anni. Tuttavia,
erano ormai trascorsi due anni, da allora, e la memoria di Alastor
pareva incrementarsi anziché diminuire.
«Sei
arrivato tardissimo, papà» affermò
Teddy, gettandosi di pancia sul
materasso e appoggiando il mento alle mani.
«Dov'eri?».
Remus
si avvicinò al letto di Teddy, lo afferrò per una
caviglia, lo
ribaltò sulla schiena e lo infilò di forza sotto
le coperte.
«A
Hogwarts per una riunione con il Consiglio. Quei vecchi brontoloni
non volevano più tornarsene a casa».
«Dovevate
liberare i ragni, allora» sentenziò lui con piglio
deciso.
«Ragni?
Quali ragni?».
«Non
sono ragni, Teddy» lo corresse piano Alastor, rigirandosi
nelle
coperte. «Sono Acromantule».
«Beh,
fa lo stesso. Hanno tante zampe, tanti occhi e tante tenaglie. Quei
vecchi che non lasciavano tornare papà a casa sarebbero
scappati
come dei Fuochi Forsennati!».
«Non
si può. Il Ministero della Magia ha inserito le Acromantule
fra le
Creature Ammazzamaghi».
«E
allora devono liberarle anche con quelli del Ministero»
ribatté con
decisione Teddy. «A me piacciono».
Remus
alzò gli occhi al cielo. Se c'era un'abitudine del suo
primogenito
che lo preoccupava davvero, quella era la sfrenata passione per
qualunque cosa potesse essere definita anche solo remotamente
imprudente. Non credeva che un bambino di nove anni potesse
dimostrare un simile sprezzo del pericolo – lui, perlomeno,
non lo
aveva mai avuto. Eppure, Teddy era sempre pronto a tuffarsi da
improbabili trampolini, a saltare rovinosi ostacoli, a familiarizzare
con animali selvatici potenzialmente letali e a proporre ai fratelli
più piccoli qualsivoglia genere di gioco rischioso.
L'anno
prima, incurante delle più ovvie regole di sopravvivenza,
aveva
legato il capo di una corda al ramo di un grosso faggio che si ergeva
dietro Casa Stornella. Poi, tenendo saldamente stretto l'altro capo,
si era arrampicato sulla grondaia, aveva raggiunto il tetto e si era
lanciato, convinto che avrebbe dondolato. Invece, si era rotto il
polso destro e la gamba sinistra.
Il
sesto senso di Remus gli diceva che il Cappello Parlante lo avrebbe
Smistato a Grifondoro. Non poteva che essere così: era
troppo
sconsiderato e irrequieto per una qualsiasi delle altre Case. Non che
per Remus fosse motivo di vergogna, naturalmente: era il Direttore di
Grifondoro dacché Minerva McGranitt era diventata Preside,
ma
sospettava che la spontanea irruenza di Ted dovesse ancora
raggiungere il culmine. Per allora, Remus prevedeva guai seri.
«Posso
tenere un cucciolo di Acromantula, papà?»
domandò con innocenza
Teddy.
«Non
abbiamo già avuto una conversazione simile la settimana
scorsa, noi
due?» ribatté Remus, costringendolo a infilarsi
sotto le coperte.
Alzò
la mano destra verso Alastor, schioccò con eloquenza le dita
e
indicò con decisione il letto. Il ragazzino si
sfilò gli occhiali
dal naso, li ripiegò con cura, li mise su un grosso libro di
fiabe
appoggiato al comodino e si gettò addosso le lenzuola.
«Avevamo
parlato di un Camuflone, ma hai detto che è troppo grosso e
perde un
sacco di pelo» continuò Teddy.
«Però, papà, lo sai che i draghi
peruviani non superano mai i cinque metri di lunghezza?».
«La
nostra porta d'ingresso non è abbastanza grande».
«E
un Fiammagranchio? Sono piccolissimi, quelli!».
«Sputano
fiamme dal posteriore, il che li rende veramente poco
signorili».
Teddy
soffocò una risatina alla parola
“posteriore” e Remus sfruttò
la sua distrazione per coprirlo fino al naso e avvicinarsi al letto
di Alastor.
«Un
Runespoor? Ha tre teste, papà, lo sapevi?» riprese
imperterrito
Teddy.
«Sì,
e nessuna di loro varcherà la soglia di questa casa
finché io sarò
in vita».
«Un
Tebo?».
«Diventerebbe
invisibile e qualcuno finirebbe per inciamparvi sopra».
«Allora
uno Yeti!».
Mentre
rimboccava le coperte di Alastor, Remus si finse pensieroso.
«Quello
è perfetto».
«Davvero!?»
esclamarono in coro i due bambini.
«Ma,
papà, gli Yeti sono creature native del Tibet»
recitò Alastor con
il tono tranquillo di chi sta leggendo a voce alta. «Possono
raggiungere l'altezza massima di quattro metri e mezzo e divorano
qualunque creatura incontrino sul loro cammino. La loro
voracità è
risaputa e temuta, tant'è che nessun Mago o Strega si
è mai
avvicinato abbastanza per verificare se lo Yeti sia imparentato con i
Troll».
Teddy
annuì con solenne enfasi.
«Già.
Non è fantastico? Avrò uno Yeti tutto
mio!».
«Se
sarò fortunato, potrebbe mangiarvi tutti»
commentò con estrema
semplicità Remus. «Così, finalmente, io
e vostra madre avremmo un
attimo di serenità».
Mentre
Teddy iniziava a protestare e Alastor ridacchiava fra le mani, Remus
si avvicinò alla porta e spense le luci. Sull'uscio, si
voltò per
rivolgere ai figli un ultimo sguardo severo.
«Papà?»
lo chiamò improvvisamente la voce di Teddy.
«No,
Teddy. Non ho realmente intenzione di comprarti uno Yeti».
«Sì,
lo avevo capito... volevo chiederti se domani possiamo andare a fare
un giro a Diagon Alley».
«Oh,
sì!» esclamò la voce entusiasta di
Alastor. «Possiamo, papà?».
«Vedremo»
disse Remus con un mezzo sorriso. «Prima, voglio sapere da
vostra
madre quante ne avete combinate, oggi».
«Siamo
stati bravissimi, papà» rimbeccò Teddy.
«Bravissimissimi».
«Come
un branco di Chimere impazzite, di sicuro» concluse con
divertito
Remus. «Dormite, adesso. È tardissimo. Sogni
di burro, sogni di
miele...».
«...hanno
già spento le candele».
«Sogni
di latte, sogni di panna...».
«...chiudi
gli occhi e fai la nanna».
Remus
fece un movimento compiaciuto del capo.
«Buona
notte» mormorò, richiudendo piano la porta della
camera.
|
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Capitolo 3 *** Acqua, baci e sapone ***
Note
dell'Autrice – sempre discutibilmente utili:
Prima
di essere accusata di fare satira gratuita sulla saga di Twilight,
vorrei precisare che sì,
in questo capitolo c'è uno scambio di battute palesemente
riferito
al suddetto libro
e sì,
trovo che sia molto divertente da prendere in giro.
Niente di cattivo, niente di volgare e niente di personale; non
è il
caso di dare il via ad un massacro di massa – soprattutto se
il
target in questione è la sottoscritta.
Buona
lettura, gente!
(:
*
La
Casa Stornella
Capitolo
Due
Acqua,
baci e sapone
Fra
tutte le assurde previsioni di vita coniugale che aveva sopportato
dacché si era sposato, undici anni prima, il più
irragionevole
rimaneva quella secondo la quale sua moglie avrebbe presto perduto
ogni caratteristica attraente e si sarebbe rapidamente trasformata
–
testuali parole – da una graziosa fata dei boschi a una
Banshee
delle brughiere.
Remus
era fiero di rispondere a tutte quelle insinuazioni dicendo che non
soltanto riteneva sua moglie bella quanto il primo giorno in cui
l'aveva incontrata, ma che, essendo diventata la madre dei propri
figli, la sua opinione su di lei era andata osannandosi nel tempo.
E
come avrebbe potuto non essere così, dopotutto? Come avrebbe
potuto
smettere di amarla? Se lei non fosse entrata nella sua vita, lui
sarebbe probabilmente morto in qualche taverna di periferia del mondo
magico, riverso su un pavimento lercio e bagnato, con la barba
incolta e l'alito impregnato di Whisky Incendiario contraffatto.
Lei
storceva ancora il naso nauseata, quando le faceva notare la
naturalezza con la quale si sarebbe potuto compiere quel destino
parallelo.
«Perché
ti è così difficile crederlo?» le aveva
domandato una volta,
mentre lui cercava di convincerla che, senza di lei, sarebbe perfino
potuto morire in una rissa fra Troll in qualche angolo sperduto della
Gran Bretagna.
Lei
lo aveva fissato per un lunghissimo istante di silenzio, prima che
l'angolo sinistro delle labbra si arricciasse in un vago sogghigno.
«Beh,
perdonami se non ho ancora iniziato a trovare allettante l'idea della
vedovanza».
Nonostante
gli anni e nonostante i loro quattro figli, lei era sempre la stessa.
I suoi occhi erano ancora brillanti e spavaldi e, sebbene avesse
deciso di togliere uno di quei buffi anellini di ferro che portava al
capo del sopracciglio sinistro, le sue orecchie contavano ancora
almeno una decina di orecchini. Preferiva ancora sfoggiare
un'acconciatura corta, ma sembrava aver rivalutato l'impatto del rosa
sulla propria immagine. Sebbene continuasse a cambiare la
tonalità
dei propri capelli con la medesima frequenza di prima, aveva trovato
nel cremisi un degno sostituto all'accecante colore dei suoi primi
vent'anni. Perfino Remus aveva dovuto ammettere che, per quanto la
ritenesse strepitosa con i capelli rosa, quella buffa sfumatura fra
carminio, cremisi e lampone – mai una volta che i suoi colori
fossero facilmente riconoscibili – era indiscutibilmente
inimitabile.
Anche
il suo guardaroba, nel corso della maternità, aveva subito
qualche
restauro. Accanto alle sue T-shirt delle Sorelle Stravagarie
–
poiché se c'era qualcosa di immutabile, quella era la sua
passione
per la loro musica – erano andati via via comparendo delle
belle
vesti da strega, qualche completo classico per le riunioni al
Quartier Generale degli Auror e, con immane stupore di Remus, qualche
abito da sera di raso che compariva per le occasioni ufficiali e
spariva non appena mettevano a letto i bambini.
Aveva
ancora quell'umorismo un po' scanzonato e un po' volgare che l'aveva
fatto innamorare di lei, la sua risata era ancora acuta e cristallina
ed era ancora la stessa goffa e disordinata strega che inciampava nel
corridoio e scendeva a colazione con i calzini spaiati.
Arrivato
alla porta del bagno, Remus bussò delicatamente tre volte.
Attese
qualche secondo, ma non sentì alcun rumore provenire
dall'interno.
Fece un secondo tentativo senza migliori risultati e tentò
di
abbassare la maniglia. La porta non era aperta che di pochi
centimetri, quando le sue orecchie furono raggiunte dalle assordanti
percussioni delle Sorelle Stravagarie. Entrò nella stanza e
si
richiuse velocemente la porta alle spalle, pregando in cuor suo che i
bambini non si fossero svegliati.
Quando
l'aroma dolciastro dei sali da bagno gli arrivò sotto il
naso, fece
un grande respiro sereno. Erano davvero mesi che non arrivava a casa
così stanco.
Le
stanze da bagno di Casa Stornella – come la maggior parte
degli
altri locali – erano, per indiscutibile volere di Tonks,
soleggiate
e spaziose. La donna non aveva voluto sentire ragioni: aveva
trascorso la prima parte della sua vita d'adulta in uno scomodo e
umido monolocale di Gerrart Street e non aveva la minima intenzione
di trascorrerne il resto in una scatola con il tetto.
Se
non fosse stato per il Ministero della Magia, tuttavia, non avrebbero
mai potuto permettersi un'abitazione come Casa Stornella.
Non
erano trascorsi che cinque mesi da quando Harry aveva sconfitto Lord
Voldemort e ognuno di loro stava ancora cercando di riprendere in
mano le redini delle proprie vite. Non era affatto un periodo facile
e la pace appena conquistata non aveva ancora il sapore della
vittoria.
La
perdita di Fred aveva stravolto l'intero clan Weasley e i loro
sorrisi e i loro abbracci avevano l'affettato slancio di chi finge di
non attraversare alcun lutto. Si stringevano l'uno con l'altro,
trascorrevano ogni giorno insieme e, per quanto tutti si sentissero
impotenti dinanzi a quell'ingiustizia, si doveva solo aspettare che
il tempo raschiasse il dolore per permettere loro di vivere un'altra
volta.
Sebbene
la nascita del nipotino le avesse dato un motivo per reagire, poi,
Andromeda Tonks non riusciva ancora a superare la perdita del marito
– e, sicuramente, non l'avrebbe mai superata. Per quanto gli
sforzi
di Tonks di trattenere le lacrime davanti alla madre fossero
encomiabili, anche il suo animo era ancora appesantito dalla
gravità
di tutte le perdite che avevano subito. A questo, si era poi aggiunto
il rinnovato rancore verso i Malfoy che, alle soglie del loro
processo, erano riusciti per la seconda volta ad evitare Azkaban.
Remus aveva tentato inutilmente di placare la furia di Andromeda, il
giorno in cui la notizia era stata pubblicata sulla Gazzetta
del
Profeta, ma la donna sembrava fuori di sé.
«Perché
sono liberi!? Perché!?»
strillava rabbiosa, muovendosi per
il soggiorno come una feroce belva rinchiusa in gabba.
«Questa è
giustizia!? È questa!? È questa!?».
Remus
aveva avuto bisogno dell'intero pomeriggio e di tutta la sua
persuasione per calmarla. Non che ritenesse giusto il verdetto finale
del Wizengamot, tutt'altro: il fatto che Lucius Malfoy si fosse
salvato da Azkaban era un oltraggio per qualunque mago o
strega possedesse un minimo di onestà. Tuttavia, sapeva
anche che
Draco Malfoy, in fondo, non era nient'altro che un ragazzino
spaventato gettato fra le fauci di una guerra che non gli era mai
appartenuta e la gelida Narcissa, nonostante tutto, era semplicemente
una madre devota più di ogni altra cosa al suo unico figlio.
Remus
sperava che queste, perlomeno, fossero state le valutazioni che
avevano tenuto i Malfoy lontano da Azkaban, piuttosto che un immorale
giro di mazzette fra le mani dell'appena restaurato Ministero della
Magia.
In
questo clima di totale confusione fra ciò che è
giusto e ciò che è
sbagliato, fra passato e futuro e fra lacrime e sorrisi, Remus e
Tonks si erano lasciati convincere da Andromeda a tornare nel vecchio
monolocale di Gerrert Street. Entrambi sapevano perfettamente quanto
Andromeda detestasse quell'appartamento di periferia e quanto avesse
bisogno di compagnia, ma sapevano anche che era una donna tenace e
orgogliosa e non avrebbe mai impedito a Tonks di organizzare le
fondamenta di una famiglia che, in fin dei conti, era nata
così in
fretta da non aver lasciato loro nemmeno il tempo per esserne pronti.
Ed
era assolutamente vero, a conti fatti. Teddy era nato nel pieno della
guerra e i problemi sul dove avrebbe dormito o sul come lo avrebbero
cresciuto erano irrilevanti, dinanzi alla più temibile
possibilità
che venissero tutti sterminati dai Mangiamorte. Ora, invece, tutti
quei problemi erano tornati e Remus e Tonks, improvvisamente, si
erano resi conti di non avere la più pallida idea di cosa
fare.
L'appartamento
in Gerrert Street era troppo piccolo e malmesso per un bambino
dall'esuberanza di Teddy, ma non avevano ancora la
possibilità di
cercare una sistemazione più adatta. Con il Ministero della
Magia in
continuo ripristino, la maggior parte degli stipendi erano diminuiti,
così i Galeoni scarseggiavano un po' in tutte le tasche
magiche.
Remus, poi, che dopo la caduta di Lord Voldemort aveva promesso a se
stesso che non avrebbe mai più sostenuto un solo duello
magico,
trascorreva gran parte delle giornate nel gruppo di volontari che si
era offerto di sistemare i gravissimi danni a Hogwarts. Nonostante la
professoressa McGranitt, nominata recentemente Preside senza alcuna
obiezione da parte del Consiglio Scolastico, avesse già
reclamato
Remus come nuovo insegnante di Difesa Contro le Arti Oscure –
una
cattedra non più maledetta, fortunatamente – le
alte mura, i
pennacchi, le merlature e le colonne erano ancora distrutte. L'intera
ala ovest, inoltre, era da ricostruire completamente, e sarebbero
serviti diversi mesi prima che la scuola fosse nuovamente agibile.
Mancavano
poche settimane al Natale del 1998, quando il Ministero aveva
spedito loro quel gufo.
Era
una fredda domenica relativamente tranquilla e Remus e Tonks erano
stati svegliati dagli strilli scocciati di Teddy. Tonks aveva
sferrato al marito un violento calcio nel fianco, ricordandogli chi,
la mattina prima, avesse abbandonato le coperte per preparare loro la
colazione. Remus si era alzato con un grande sbadiglio, aveva
sollevato Teddy dal lettino e si era avviato verso la cucina,
strascicando ogni passo sul pavimento. Si era accorto del gufo
imperiale che stava dritto e impettito davanti alla finestra solo
dopo aver controllato che Teddy non sarebbe riuscito a scappare dal
seggiolone – un'abitudine fin troppo pericolosa che sperava
avrebbe
perduto crescendo.
Non
aveva riconosciuto immediatamente il gufo, ma lo stemma di cera
impresso sulla pergamena era inconfondibile. La lettera era intestata
soltanto a lui e Remus aveva aggrottato le sopracciglia, pensieroso.
Se fosse stata intestata a Tonks, non si sarebbe affatto preoccupato:
qualche collaboratore dei Mangiamorte era ancora in fuga e non era
affatto insolito che il Ministero contattasse personalmente gli
Auror. Quel “Remus Lupin” l'aveva lasciato
perplesso, così si
era affrettato a chiamare Tonks, pregando in cuor suo che non ci
fossero altri problemi ad attenderli.
Quando
Tonks l'aveva raggiunto, con gli occhi ancora socchiusi e una smorfia
infastidita sulla faccia, si era limitata a scuotere interrogativa il
capo e a preparare il latte per Teddy che, poverino, continuava a
dimenarsi in cerca di attenzioni.
«È
una lettera del Ministero» aveva detto Remus con voce piatta.
«È
domenica. Rispondigli che tua moglie di domenica diventa una pazza
isterica e che augura loro di essere investiti dal
Nottetempo».
Remus
si era limitato a fare un lieve sospiro rassegnato.
«La
apro?».
«No,
tienila chiusa. Credo che i pannolini di tuo figlio siano
finiti».
«D'accordo.
La apro».
«Sei
matto? È una lettera del Ministero.
Potrebbe perfino essere
un invito alla prossima stagione di caccia al licantropo».
«Non
ho mai partecipato alla caccia al licantropo» si era finto
interessato Remus, mentre apriva con cauta precisione la busta.
«Potrebbe essere divertente».
Mentre
Tonks prendeva in braccio Teddy e controllava che bevesse la giusta
dose di latte dal biberon, Remus aveva iniziato a leggere
mentalmente. All'inizio, non era riuscito a recepire appieno lo
straordinario contenuto della lettera.
«Non
sono sorda, Remus. Puoi evitare di parlare così
forte» aveva detto
lei con pesante ironia.
Remus
le aveva rivolto uno sguardo sconvolto che le aveva gelato il sorriso
sulle labbra.
«Che
diavolo è successo...?» gli
aveva chiesto in un sibilo.
«Mi...
mi vogliono... mi...».
«Io
li ammazzo, quei bastardi. Li ammazzo tutti quanti, se solo provano
a--».
«No.
Loro non... ecco, la situazione è... è... ci
danno dei soldi».
Tonks
si era bloccata a metà di un'imprecazione particolarmente
volgare e
lo aveva fissato in esterrefatto silenzio per qualche momento.
Confusa, aveva allontanato inconsciamente il biberon dalla bocca di
Teddy, che aveva iniziato a lamentarsi con ripetuti strilli.
«...cosa?».
«Ci
stanno offrendo dei soldi» aveva ripetuto Remus con enfasi,
passandosi sconcertato una mano fra i capelli. «E, per la
santa
spada di Godric Grifondoro, sono un mucchio di
soldi!».
«Mi
prendi in giro».
Remus
aveva scosso violentemente il capo, mentre sul viso gli compariva un
sorriso stordito.
«Affatto.
“Vi informiamo che l'Ufficio Regolazione e Controllo
delle
Creature Magiche, a seguito di recenti rettificazioni del passato
operato, ha ratificato un indennizzo verso tutti i registrati presso
la Divisione Animali, Esseri e Spiriti. Comprendiamo che tale
provvedimento non ha il potere di coprire le scorrette manovre mosse
verso di Voi negli anni trascorsi, ma speriamo che possiate essere in
grado di farne buon uso”» aveva letto
Remus tutto d'un fiato.
«Merlino, Ninfadora... guarda».
Quando
Tonks aveva visto la cifra, era sbiancata. Aveva affermato che quel
numero aveva più zeri dei fan delle Sorelle Stravagarie
presenti
all'ultimo concerto a Liverpool ed era scoppiata in una risata
incontrollata. Ad entrambi erano servite diverse ore, prima di
rendersi conto di cosa questo significasse per loro.
«Possiamo
comprarci una casa vera, Remus» aveva sentenziato quella
notte
Tonks, in preda all'euforia. «Per le sottogonne di Tosca,
possiamo
comprarci una casa! E un cane, magari. Che dici? Compriamo un
cane?».
Remus
l'aveva guardata con aria sognante e si era avvicinato per rubarle un
bacio a fior di labbra.
«Certo.
Compriamo un cane».
*
Tonks
era immersa nella vasca da bagno fumante fino al seno, con le braccia
distese sui bordi di ceramica e il capo appoggiato all'indietro.
Teneva gli occhi chiusi, mentre le labbra piene si muovevano
silenziose seguendo le parole di Can you dance like an
Hippogriff.
Cercando di sopravvivere al frastuono della musica che usciva dalla
radio, Remus la fissò con un mezzo sorriso; era
indiscutibilmente la
donna più attraente che avesse mai visto.
Sollevò
la bacchetta e la mosse svogliatamente a mezz'aria: la musica si
interruppe di colpo. L'unico movimento di Tonks fu un sogghigno
appena accennato.
«Hai
appena interrotto una delle più belle canzoni della
discografia
delle Sorelle Stravagarie, Remus» disse con voce grave, senza
aprire
gli occhi. «Pentiti dinanzi a cotale peccato o verrai
scaraventato
nella bolgia dei profani della musica e sarai costretto ad ascoltare
Celestina Warbeck per il resto dell'eternità».
«Poco
male» rispose indifferente lui, iniziando a sbottonare i
bottoni
dorati del proprio panciotto. «Credo di aver appena perso la
mia
sensibilità uditiva».
«Scocciatore»
sentenziò lei. Dischiuse le palpebre e gli rivolse uno
sguardo
serio. «Come mai sei arrivato così
tardi?».
«Ho
seguito un Bianconiglio che non conosceva la strada e ci siamo
perduti lungo la via del ritorno».
Tonks
emise un gemito divertito.
«Lo
dicevano tutti che avrei avuto un pessimo ascendente su di
te».
Dopo
aver ripiegato con cura il panciotto e averlo riposto nella ceste
degli abiti sporchi, Remus disfò il nodo della cravatta, la
arrotolò
con altrettanta precisione e iniziò a sbottonare la camicia.
Tonks
lo osservava con uno sguardo a metà fra l'esasperato e
l'affascinato.
«Non
credere che ti lascerò invadere il mio spazio
vitale» scherzò,
indicando con decisione la vasca da bagno. «I tuoi
figli mi
hanno distrutto, oggi».
«Siamo
sposati da undici anni e devo ancora capire per quale motivo siano
“i
miei figli” solo quando c'è qualcosa da
rimproverare loro».
«Io
sono sopravvissuta all'immane fatica della gravidanza e del parto,
Remus, quindi è a te che spettano le colpe del loro
pestifero
corredo genetico».
«La
trovo una conclusione scientificamente infondata»
ribatté lui,
mentre sfilava la cintura. «E pure un poco sessista,
se posso
permettermi».
«Sessista?
Io?» ripeté con
drammaticità lei. «Mi auguro tu stia
scherzando, uomo. E ora levati dalla mia vista e
fila in
cucina a farmi un panino».
Lui
scoppiò a ridere, la liquidò con un gesto veloce
della mano,
terminò di svestirsi e si immerse nell'altro lato della
vasca da
bagno.
«Seriamente,
Remus» disse Tonks non appena si fu seduto. «Che
accidenti volevano
quei bacchettoni del Consiglio per rapirti fino a quest'ora?».
Con
un leggero mormorio, Remus appoggiò il capo al bordo e si
passò
stancamente una mano sul viso.
«Francamente,
mia cara, non ne ho la più pallida idea. Ho smesso di
ascoltarli
dopo le prime due ore di riunione. Credo di aver sentito le parole
“parco”, “acqua” e
“lavori” diverse volte, quindi
suppongo sia possibile che vogliano costruire una piscina nei
giardini di Hogwarts».
Tonks
rise.
«Avrebbe
un'utilità indiscutibile» continuò
Remus con enfasi. «Pensa: mi
basterebbe aprire la finestra della mia aula per affogare gli
studenti che mi pongono delle domande troppo ridicole. Sai cosa mi ha
domandato, oggi, Crispin Crockford?».
«Il
figlio di Cyril Crockford dell'Ufficio per i Giochi e gli Sport
Magici?».
«Proprio
lui. Mi ha chiesto se è vero che i vampiri luccicano alla
luce del
sole» spiegò con tono tetro, scrutando con
espressione penetrante
la moglie. «“Luccicare al sole”, tesoro.
Ti rendi conto? Come
gli è potuta venire in mente un'idea tanto
balorda?».
«Mai
dire mai, Remus» ridacchiò lei. «Alla
prossima lezione, potresti
scoprire che i licantropi diventano più pelosi se i loro
capelli
sono lunghi».
Remus
soffocò una risata.
«Che
la buonanima di Mago Merlino mi aiuti».
Tonks
ritrasse le gambe, si arpionò con forza al bordo della vasca
e fece
per stringersi a lui, ma la mano sinistra scivolò sulla
ceramica
bagnata e avrebbe probabilmente sbattuto la testa all'indietro, se
Remus non l'avesse afferrata al volo.
«Dovrebbe
esserci un salvagente nello scantinato» la prese in giro,
inarcando
un sopracciglio.
Lei
lo inondò nuovamente di schizzi. Mentre lui alzava una mano
per
asciugare un poco il volto, Tonks si sporse verso di lui e gli
baciò
la punta del naso.
«Potresti
farti crescere un altro po' i capelli» commentò
con serietà. «I
bambini si divertirebbero un sacco a farti le treccine durante i
pleniluni».
«Vorrei
aspettare almeno i loro quindici anni, prima di veder svanire il
rispetto per la paternità che rappresento»
ribatté Remus,
sfiorandole con i polpastrelli le spalle bagnate e avvicinandosi alle
sue labbra.
Dopo
undici anniversari e quattro figli, i baci di Remus erano ancora come
lui: controllati, gentili e oltremodo galanti.
Sapere
che era realmente accanto a lei era una sensazione a cui Tonks non
avrebbe mai rinunciato. Nemmeno volendo, si diceva, ne sarebbe stata
capace: lui anticipava i suoi pensieri, prevedeva le sue mosse e
conosceva ogni suo timore, ogni suo segreto e ogni suo desiderio. Non
si erano mai posti alcun limite – qualcosa che entrambi
definivano
un'assurdità, oltretutto – e continuavano a
parlare per ore, a
confrontarsi, a discutere e ad essere vivi e in continua evoluzione.
Tonks
non poteva immaginare di trascorrere il resto dei propri giorni senza
di lui – proprio lei, che aveva sempre preferito una
radiocronaca
di Quidditch alle frasi romantiche dei cioccolatini!
«Teddy
vorrebbe andare a Diagon Alley, domani» la informò
con tono
indifferente lui, mentre tracciava una scia di baci lungo la linea
del suo collo.
«Mmh...»
mugugnò Tonks, gettando il capo indietro e passando le dita
bagnate
fra i suoi capelli lunghi. «Credo che abbia finito la scorta
personale di Fuochi Forsennati».
«Rimandiamo
a Natale, che ne pensi? Sono anni che in questa casa non trascorre
una sola settimana senza esplosioni di Detonazioni Deluxe».
«Non
è vero» lo corresse sarcastica Tonks,
carezzandogli la mandibola.
«Il mese scorso ha usato solo Spari Standard e qualche
Detonatore
Abbindolante».
Remus
si allontanò di qualche centimetro da lei e le rivolse
un'occhiata
pensierosa.
«Mi
chiedo se George e Ron siano a conoscenza dei vasti problemi
educativi che stanno generando in tutte le famiglie magiche della
Gran Bretagna».
«Ecco
ciò che accade quando una strega decide di sposare un
professore»
ridacchiò lei contro la sua spalla destra. «I suoi
figli non
saranno mai beneducati come la comunità magica vorrebbe.
Senza
contare che dovrà pure aspettare che emerga dal Ghirigoro
per
l'intera domenica pomeriggio...».
«È
solo per scopo didattico».
«Non
usare Alastor come scusa alle tue perversioni da
bibliotecario».
«Non
l'ho mai fatto».
«Lo
fai sempre. Tu e quel mangialibri di tuo figlio
siete la causa
principale del disboscamento del pianeta».
Remus
soffocò una risata, le scostò un ciuffo porpora
dalla fronte e la
fissò intensamente negli occhi con un sorriso d'estasi
appena
accennato.
«Ti
amo».
Lei
sbuffò teatralmente e inclinò il capo.
«Che
razza di cliché».
«Lascia
il cestino, Cappuccetto Rosso, e vieni a letto con me»
sussurrò
improvvisamente Remus, mentre le labbra si piegavano in un ghigno
malandrino.
Tonks
scoppiò a ridere.
«Che
occhi grandi hai» gli diede corda, mordicchiandosi l'interno
della
guancia e appoggiando le mani sull'incavo delle sue spalle.
«Mi
servono per guardarti meglio...».
Erano
anni che ripetevano quel vivace scambio di battute nei momenti
d'intimità e, nonostante l'incredibile numero di volte in
cui
l'avevano recitato, nessuno dei due sembrava ancora intenzionato a
giudicarlo ripetitivo. Per Tonks, quell'ironica buffonata significava
che i bambini erano definitivamente nel mondo dei sogni e che Casa
Stornella, dopo un'intera giornata di schermaglie fra piccoli Maghi
Oscuri ammantati dalle coperte di pile e minuscoli Draghi con i visi
impiastricciati di tempera rossa, era solo per loro.
«Che
orecchie grandi hai».
«Mi
servono per sentirti meglio...».
«Che
mani grandi hai».
«Mi
servono per toccarti meglio...».
Remus
si riavvicinò nuovamente al suo collo e iniziò a
baciare la linea
della gola di Tonks, che gettò il capo all'indietro con un
mormorio
soddisfatto.
«Che
bocca grande hai».
Lui
sollevò la testa e inarcò un sopracciglio con un
malizia che a
Tonks, più che un lupo, ricordò una volpe.
«Indovina
un po' perché, mia cara».
|
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Capitolo 4 *** Moccoluffin e vestiti alla rovescia ***
Note
dell'Autrice – sempre discutibilmente utili:
Mi
sono resa conto di aver commesso un imperdonabile errore con gli
anni. Cioè, no, un attimo. In realtà, non
è affatto un errore
imperdonabile, ma chissenefrega. Nel precedente capitolo, ho
stupidamente scritto che Remus e Tonks sono sposati da undici
anni, il che è impossibile, dal momento che questa fan
fiction è
ambientata alla fine del 2007, ergo Remus e Tonks sono sposati da
dieci
anni. La cosa importante che dovreste sapere, in realtà,
è che non
dovete assolutamente credere che gli aggiornamenti rimarranno
così
perfettamente rapidi e costanti.
Non sopravvalutatemi pure voi o mi verrà una crisi isterica
e morirò
in totale solitudine. Il che sarebbe triste sia per voi che non
potreste leggere la fine di Casa Stornella, sia perché sarei
morta.
Basta, ho finito di dire sciocchezze. Giuro solennemente che non
scriverò mai più delle note dell'autrice che non
siano realmente
utili ai fini della storia.
Buona
lettura, folks! :)
La
Casa Stornella
Capitolo
Tre
Moccoluffin
e vestiti alla rovescia
Tonks
fu svegliata da un violento rumore proveniente dal piano di sotto.
Nella penombra della stanza da letto, si allungò verso il
comodino e
si mise a cercare l'orologio a tentoni, ma rovesciò la
lampada, un
libro regalatole dalla madre e mai sfogliato (“Crescere
una
mezza dozzina di pestiferi fanciulli magici: oggi si
può”), la
tazza vuota
nella quale
aveva bevuto la cioccolata la sera prima e l'ultimo numero del
Settimanale
delle
Streghe.
Nonostante
l'improvviso
caos, Remus non si era mosso di un centimetro. Tonks si era ormai
rassegnata all'indolenza che il marito dimostrava al momento del
risveglio. Talvolta, si diceva che se qualche pazzo svitato avesse
bombardato Casa Stornella mentre dormiva, Remus si sarebbe svegliato
ore dopo con una coperta di tegole e calcinacci sulla testa.
Lei,
al contrario, era
sempre stata un tipo piuttosto mattutino e si era accollata l'ingrato
compito di svegliarlo con veemente insistenza dacché si
erano
sposati. Non che se ne lamentasse: capitava che Remus non avesse la
minima intenzione di abbandonare il letto e, a quel punto, lei si
sentiva autorizzata ad utilizzare il pugno duro degli Auror –
e,
spesso, era piuttosto terapeutico.
«Remus»
lo chiamò
con poca convinzione lei, scuotendolo per un braccio. «Remus,
ho
sentito un boato venire da giù, ho ribaltato il comodino e
non trovo
quel fottuto orologio».
Remus
si strinse ancora
di più nella trapunta, come se Tonks non avesse nemmeno
parlato. Lei
alzò gli occhi al soffitto con un profondo sospiro.
«Tosca,
scusa per la
mancanza di pazienza...» disse fra sé, prima di
colpire la spalla
del marito con un sonoro schiaffo.
«Oh!»
esclamò con
voce roca lui, stringendosi in una ridicola posizione fetale.
«Ebbepesto. Saoi?».
«Eh?».
«Presto»
sillabò
faticosamente Remus, girando sulla schiena e affondando la faccia nel
cuscino. «Cosa vuoi?».
«Credo
sia appena
scoppiato qualcosa al piano di sotto e...» s'interruppe di
colpo,
inarcando minacciosamente un sopracciglio. «Remus, non avrai
nascosto in giardino qualche altra sciocca Creatura Oscura, vero?».
«Non
di recente. Buona
notte. Ti amo».
«Remus!»
strillò
lei, colpendolo con più forza. «Giuro sulla mia
intera collezione
di dischi delle Sorelle Stravagarie che se non ti alzi
immediatamente, ti--».
Un
acuto rumore di
cocci infranti impedì a Remus di sapere cosa, esattamente,
la moglie
avesse intenzione di fargli. Meno di un istante dopo, Tonks era
già
in piedi e stava cercando di raggiungere la porta
nell'oscurità, ma,
non ricordando di aver rovesciato la lampada sul pavimento, vi
rovinò
sopra e finì per terra.
«Porco
di quel Troll
schifoso!» imprecò sonoramente.
Remus
allungò un
braccio, accese la luce e le rivolse un'occhiata insonnolita. Tonks
si ritrovò combattuta fra il desiderio di soffocarlo con il
cuscino
e quello di saltargli addosso – possibile che quell'uomo
potesse
essere affascinante anche con tutti i capelli scompigliati davanti
alla fronte?
«Buongiorno,
tesoro».
«Oh,
buongiorno, mia
Bella Addormentata!» esclamò con pesante sarcasmo
lei, mettendosi
in piedi e massaggiandosi dolorante un fianco. «Ho
attraversato un
bosco buio e schifoso, ammazzato un puzzolente Drago e scalato a mani
nude 'sto castello sperduto nel Kirghizistan orientale. Vi
dispiacerebbe farmi la cortesia di alzarvi da quel dannato
letto
prima che vi cavi un occhio con il vostro stupido fuso?».
Remus
chiuse le
palpebre, si grattò pensieroso la nuca e rimase in silenzio
qualche
istante.
«Conosci
realmente
la collocazione geografica del Kirghizistan?».
«Va'
a mangiare
Vermicoli!» gli gridò Tonks, cercando di
trattenere una risata
mentre afferrava una ciabatta e gliela scagliava contro. «I
bambini
sono svegli e sono di sotto da soli»
aggiunse con particolare
enfasi.
Il
volto di Remus si
contrasse in un'espressione drammaticamente inquieta.
«Di'
“buongiorno”,
mia cara».
*
«No,
Teddy. È
sbagliato!».
«È
giustissimo,
invece! C'è scritto lì! Diglielo, Alastor, che
c'è scritto come
dico io, che sono anche il più grande!».
La
cucina di Casa
Stornella era un ampio locale al pianterreno, dalle grandi finestre
che davano sul giardino e dal soffitto di rustiche travi lignee. Le
pareti – che un tempo erano state di un beige slavato e
ricoperto
dalle macchie di umidità – era state recentemente
tinteggiate di
un allegro giallo pastello. La mobilia era fatta di raffinato
ciliegio e le credenze e i cassetti erano decorate da simpatiche
incisioni raffiguranti le più gloriose gesta degli epici
condottieri
magici, da Merlino ai quattro Fondatori di Hogwarts. Era
probabilmente il regalo più costoso che i coniugi Lupin
avessero mai
ricevuto dai vecchi membri dell'Ordine della Fenice, pochi giorni
dopo la notizia del loro trasloco da Gerrert Street.
Tonks
ripeteva sempre
quanto fosse un peccato essere una cuoca talmente pessima,
perché
adorava quella cucina così soleggiata e
spaziosa. Remus,
d'altro canto, le ricordava in continuazione che se lei avesse
cercato di cuocere qualcosa di più complicato di un uovo
strapazzato, probabilmente l'intera stanza sarebbe esplosa. Era una
fortuna, in effetti, che Remus sapesse cucinare – ancora di
più,
inoltre, lo era il fatto che la piccola Andromeda non sembrava aver
ereditato le doti culinarie delle madre e s'affrettava sempre ad
aiutare il padre con zuppe, arrosti e crostate d'ogni genere.
In
quel momento,
tuttavia, la bella cucina di Casa Stornella sembrava essere avvolta
da una bianca e impalpabile polvere candida.
Seduto
al suo abituale
posto, Alastor si sorreggeva la testa con le mani mentre scrutava con
un cipiglio confuso una vecchia copia del Settimanale delle
Streghe che Tonks aveva dimenticato in soggiorno. Non che
avesse
ancora bisogno di rileggere il contenuto dell'inserto gastronomico
–
sapeva già quante uova e quanta farina fossero necessari per
creare
dei gustosi muffin – ma non riusciva a capire per quale
motivo
all'interno della ciotola che Teddy aveva recuperato dalla credenza
ci fosse solo una strana poltiglia giallognola.
«Non
lo so» decretò
infine, scuotendo sconsolato il capo.
In
bilico sulla
seggiola di fronte e con il pugno saldamente stretto attorno a un
cucchiaio di legno sporco fino alla punta del manico, Teddy lo
scrutò
bieco.
«Che
vuol dire “non
lo so”? Le leggi tu, le cose che ci dobbiamo
mettere!».
«Papà
dice sempre che
non importa soltanto quello che ci metti dentro, perché devi
anche
mischiarlo bene» disse Andromeda, grattandosi una guancia e
sporcandosi di farina senza rendersene conto.
Minima
si alzò sulle
punte dei piedi e scrutò con una smorfia disgustata il
contenuto
della ciotola.
«Io
dico che se lo
mangiamo, poi moriamo».
«Non
puoi morire
mangiando dei muffin!» replicò con veemenza Teddy.
«Sì,
se ne ingoi un
pezzo troppo grosso» s'aggiunse Alastor con voce seria.
«Ti si
incastra in gola e soffochi».
«Ma
pensi che è un muffin, questo?» riprese Minima,
indicando la
brodaglia con la mano destra. «È soltanto un...
un...
Moccoluffin!».
Gli
altri tre la
fissarono in silenzio per qualche secondo.
«Che
cos'è un
Moccoluffin?» s'informò candidamente Andromeda.
«Niente»
rispose con
durezza Teddy. «Non esiste, un Moccoluffin».
«Esiste,
invece!»
protestò Minima. «È questo, un
Moccoluffin! Un po' moccolo e un
po' muffin!».
Al
suono della parola
“moccolo”, la faccia indignata di Teddy si
trasformò in
un'espressione di vivace divertimento. Quasi contemporaneamente, i
quattro bambini iniziarono a ridacchiare fra di loro.
«Moccoluffin...»
ripeté Teddy fra le risate. «Che
scemenza».
«Mi
fa piacere che
abbiate iniziato allegramente la mattinata» proruppe una voce
ilare
alle loro spalle. «Così, non mi verranno i sensi
di colpa quando vi
appenderò per il naso al filo del bucato».
«Mamma!».
Tonks
si appoggiò allo
stipite della porta con la spalla sinistra e incrociò le
braccia al
petto con un cipiglio di pigra severità. Dietro di lei,
Remus fece
un rapido calcolo dei danni e disse:
«Con
tutta la farina
che c'è sul pavimento si potrebbe giocare a palle di neve
fino a
maggio».
«Sì!»
strillò
eccitato Teddy, saltando con un guizzo dalla sedia e iniziando a
saltellare in mezzo alla cucina. Ad ogni balzo, sotto i suoi piedini
nudi si alzavano leggere nuvolette candide. «Lo facciamo
davvero,
papà? Lo facciamo?».
«Certo
che no»
replicò con assoluta fermezza Remus. «Tonks,
tesoro, il tuo
primogenito ha dei problemi con la sottile arte dell'ironia. Ieri
sera, credeva volessi comprargli uno Yeti».
«Non
vuoi?» commento
Tonks con espressione teatralmente sorpresa. «Che padre
degenere. E
a proposito di cose che degenerano... che vi è saltato in
mente?»
aggiunse con tono pericoloso, scrutando ad uno a uno i propri figli.
Teddy
le stava
sorridendo con fare birbante, dondolandosi sulle punte dei piedi con
aria beata; Alastor aveva riabbassato gli occhi sulla rivista
impiastricciata di crema, ma Tonks sapeva perfettamente che non la
stava leggendo; Andromeda si stava grattando una guancia con
espressione timida, fissando insistentemente la farina che ricopriva
sul pavimento; Minima, immobile accanto alla sorella, guardava con
indifferenza dritto dinanzi a sé, sbattendo innocentemente
le
palpebre.
«Volevamo
fare dei
muffin» spiegò semplicemente Teddy, sollevando le
spalle e
sorridendo ancora di più. «Ma ci sono venuti dei
Moccoluffin».
Remus
e Tonks si
scambiarono un'occhiata perplessa.
«Moccoluffin,
Teddy?».
«Sì»
rispose al suo
posto Alastor, annuendo compito. «Un po' muffin e un po'
moccolo».
Tonks
si passò
esasperata una mano sul volto, ma con la coda dell'occhio Remus la
vide trattenere un sorriso. Stringendo a sua volta le labbra per non
farsi scappare una risata poco opportuna, incrociò le
braccia al
petto e fissò ognuno dei propri figli con la fronte
aggrottata. Poi,
si avvicinò alla tavola, afferrò il cucchiaio con
la punta
dell'indice e del pollice ed esaminò con raccapriccio la
sostanza
appiccicosa contenuta nella ciotola.
«Che
Godric ci
aiuti...» mormorò. «Credo che abbiano
appena inventato una
sostanza illegale».
«Mmh»
mugugnò Tonks.
«Vedrò di far partire una squadra di Auror a
caccia di Moccoluffin
Oscuri non appena possibile».
«Davvero,
mamma?».
«No,
Teddy» replicò
con enfasi, indirizzando un'occhiata eloquente al bambino.
«Cosa
preferisci, Remus? Cuochi o cucina?».
«Assolutamente
cucina»
rispose con prontezza lui, sfilando il Settimanale delle
Streghe
dalle mani di Alastor e iniziando a leggerlo con
curiosità.
«Perlomeno, lei sta ferma».
Tonks
fece un sogghigno
divertito e schioccò le dita a mezz'aria.
«Avanti,
chef
dell'Apocalisse» ordinò con tono incontestabile.
«Tutti in bagno,
così vi affogo nella vasca».
*
«Non
volevamo fare un
pasticcio, mamma» disse a bassa voce Andromeda, mentre Tonks
la
aiutava a sbucare dal vestitino azzurro. «Volevamo solo fare
i
muffin buoni per te e papà».
«Lo
so, tesoro» le
sorrise Tonks con dolcezza. «Però, la prossima
volta, preferirei
che chiamaste la cavalleria prima di fare esplodere la cucina.
Avreste potuto farvi del male».
«Come
hai fatto tu
quando hai cotto l'arrosto tutto nero?» domandò
genuinamente
Minima, cercando di girare nel verso giusto un calzino già
infilato
per metà. «Che ti sei fatta malissimo e
papà ha chiamato la nonna
Andromeda?».
Tonks
cercò di
camuffare il proprio imbarazzo con un leggero colpo di tosse.
«Mmh...
sì, più o
meno» la liquidò rapidamente. «Teddy, ti
stai mettendo la
maglietta al contrario».
«Lo
so, mamma»
rispose lui. «Voglio mettere dall'altra parte anche le
scarpe».
«E
perché mai
dovresti fare una cosa tanto stupida?» s'informò
divertita lei,
mentre sistemava la gonna di Andromeda.
«Perché
è
stupido, mamma» disse prontamente Minima, alzando il naso dal
calzino. «Il più stupido di tutti gli
stupidi».
«Minima,
finiscila»
la rimproverò con estrema severità Tonks.
«Se ti sento parlare di
nuovo in questa maniera, giuro che non vedrai nient'altro che le
pareti della tua stanza per i prossimi dieci anni».
Teddy
fece una sonora
pernacchia all'indirizzo della sorellina più piccola.
«E
tu non fare smorfie
a tua sorella o ti mozzo la lingua» aggiunse Tonks.
«Morgana,
perché ti stai infilando le scarpe al
contrario, Teddy?».
Alastor
e Andromeda
iniziarono a ridacchiare, mentre Minima – palesemente
risentita dal
rimbrotto della madre – finse di non sentirli e
continuò
imperterrita a rigirarsi il calzino.
«Voglio
vedere se a
Diagon Alley capiscono dove ho messo la testa»
spiegò con un
sorriso scanzonato. «Se mi metto anche il berretto al
contrario,
tutti quanti diranno: “Ehi, guarda! Teddy Lupin non ha la
testa!”».
Tonks
non fu più in
grado di trattenersi e scoppiò in una fragorosa risata, a
cui si
aggiunsero quelle dei figli – e perfino Minima, nonostante
tutto,
sembrò ridacchiare un poco.
«Certo
che capiranno
dove hai la testa. A casa, dentro un armadio, insieme al senno dei
genitori che non ti hanno insegnato a vestirti» disse Tonks,
allungandosi per arruffargli i capelli turchesi. «Alastor,
metti a
posto il risvolto dei pantaloni: siamo nel Derbyshire, non in una
palude».
«Sarebbe
fantastico
vivere in una palude!» esclamò entusiasta Teddy.
«Ci sarebbero un
sacco di Marciotti!».
«Ma
le paludi puzzano
e i Marciotti ti confondono le idee» replicò piano
Andromeda. «Non
sarebbe bello viverci. Proprio no».
«Io
preferisco il
Derbyshire» annuì solennemente Alastor.
«Ma
tu non ci sei mai
stato in una palude» replicò con
vivacità Teddy, sbracciando le
mani. «Come fai a dire che non preferivi una palude gigante,
come
una Palude Portatile dei Tiri Vispi Weasley?».
Tonks
finì di
aggiustare il fiocchetto verde fra i riccioli chiari di Andromeda e
alzò gli occhi al cielo.
«Dovrò
fare quattro
chiacchiere con George Weasley, non appena lo vedo. Sta seriamente
minando alle strategie educative mie e di vostro padre»
commentò
con un sorriso storto. «Sei perfetta, tesoro».
«Grazie,
mamma»
pigolò Andromeda.
«Io
sono prontissimo!
Andiamo?» eruppe con entusiasmo Teddy, infilandosi il
berretto delle
Holyheads Harpies di traverso.
«Tua
sorella non è
ancora pronta» gli rispose tranquillamente Tonks,
appoggiandosi con
le mani al lavandino e scrutando con un sogghigno i vani tentativi di
Minima di infilarsi il vestito da sola. «Perché
non scendi a
controllare che tuo padre non abbia portato in casa altre strane
Creature Oscure? Se lo ha fatto, digli che questa sera mangeremo il
suo fegato arrosto».
«Forte!»
esclamò
focosamente Teddy. «Andiamo, Alastor!».
Alastor
annuì appena,
saltò giù dalla cassapanca sulla quale si era
seduto per allacciare
le scarpe e corse di buona lena dietro al fratello. Tonks scosse
appena la testa, prima di guardare le proprie figlie. Andromeda si
era arrampicata sul bordo della vasca da bagno e osservava
silenziosamente Minima, ancora tutta presa dal suo vestito.
«Minima,
posso
aiutarti?» le domandò Tonks.
«No,
grazie» rispose
stringata lei, mentre cercava di far sbucare il braccio sinistro
dalla manica destra. «Ce la faccio».
«La
mamma è brava con
i vestiti difficili» disse Andromeda con un sorriso gentile,
appoggiando i gomiti sulle ginocchia per sostenere la testa.
«E
questi sono vestiti difficili. Vero, mamma?».
«Sì.
Vostra nonna non
sembra capace di comprarvi qualcosa di facilmente indossabile. Non
pensa mai che io e vostro padre, poi, dobbiamo tribolare per infilare
le gambe nel posto giusto. Pensa un po', Minima, se ti stessi
sbagliando e ti stessi infilando il vestito al contrario... ci
toccherebbe girare per Diagon Alley con due piedi che
parlano».
«E
con Teddy senza
testa!» aggiunse divertita Andromeda.
«Già!»
le diede
corda Tonks, ridacchiando. «Immagina un po' la scena: tutti i
maghi
e le streghe di Diagon Alley che bisbigliano l'uno con l'altro:
“Guarda un po' i Lupin! Sono così
poveri che non possono
nemmeno permettersi le teste dei figli!”».
Era
evidente quanto
Minima si stesse tenacemente sforzando di non ridere, ma il suo
giovanissimo orgoglio non poté nulla contro
l'assurdità di quanto
la madre le aveva appena detto. Fece un vago soffio, si
mordicchiò
le labbra e iniziò a ridere senza controllo. La risata della
sorella
contagiò rapidamente anche Andromeda.
«Sei
ancora arrabbiata
con me?» domandò Tonks, chinandosi dinanzi a lei e
aggiustandole un
ciuffo scuro dietro all'orecchio sinistro.
«Perché, se dovessi
ancora esserlo, sarei parecchio triste e i miei capelli
diventerebbero come il pelo dei topi».
«Bleah!»
disse
Andromeda, mostrando la lingua.
Minima
sollevò gli
occhi verso il viso della madre e, molto lentamente, scosse il capo.
«Non
sono arrabbiata».
«Sai
perché ti ho
sgridata, vero?» le chiese quasi con casualità,
iniziando a
vestirla con gesti meccanici.
«Perché
ho detto che
Teddy è stupido – il più
stupido» rispose velocemente lei.
«Però, mamma... si mette la maglietta girata
perché pensa che così
la gente non gli vede la testa; e si gira pure le scarpe,
così cade
e si rompe tutta la faccia. A me sembra stupido».
«Non
è comunque una
cosa carina da dire a tuo fratello. Non è una cosa carina da
dire a
nessuno, veramente».
«Ma
la signorina
Hermione dice sempre al signor Ron che è stupido»
commentò con
espressione confusa Andromeda. «Perché glielo
dice, se non è una
cosa carina da dire?».
«È
vero!» confermò
Minima, voltandosi di nuovo verso la madre. «E gli tira pure
le cose
in testa! Perché gliele tira, mamma?».
«Forse
non gli vuole
bene» propose timidamente Andromeda. «Io non tiro
niente addosso a
chi voglio bene».
Tonks
si bloccò con la
spazzola salda nella mano e fissò a lungo entrambe le
figlie.
«Certo
che Hermione
vuole bene a Ron. Non dite sciocchezze».
«Se
gli vuole bene,
perché alla festa di Halloween gli ha tirato il porridge
sulla
faccia?».
Tonks
emise un sospiro
fra il divertito e l'esasperato.
«Un
giorno, bambine,
vi sposerete e capirete che anche i grandi che si vogliono bene
litigano in maniera molto, molto, molto stupida, e
finiscono
per dire e fare qualcosa di altrettanto stupido di
cui si
pentiranno per molto, molto, molto tempo».
«E
si lanciano il
porridge?» domandò perplessa Andromeda.
Sorridendo
fra i baffi,
Tonks pensò fosse meglio evitare di raccontare che lei aveva
ricoperto di caffè la testa del loro padre, che aveva
incantato i
cucchiai in modo che lo inseguissero per tutto l'appartamento di
Gerrart Street con il compito di sfondargli il cranio e che lo aveva
chiuso fuori dalla portafinestra del balcone, solo l'inverno prima,
con nient'altro che un paio di mutande addosso.
«Beh,
può succedere»
rispose con poca convinzione Tonks, mordicchiandosi l'interno della
guancia. «Però, ecco... di norma, se ne pentono in
fretta.
Allungami il piede sinistro, Minima».
«Ma
perché si fa
così, mamma?» chiese lei, appoggiando le mani a
terra e stendendo
una gamba per aria.
Tonks
le infilò la
scarpina di vernice e iniziò a stringere rapidamente la
piccola
cinghia.
«Anche
voi litigate
spesso, vi lanciate gli oggetti e vi tirate i capelli» disse
con
ovvietà. «Eppure, vi volete bene. No?».
«Non
lo so» rispose
in fretta Minima, guadagnandosi un'occhiata in tralice da parte della
madre. «A volte, Teddy mi fa moltissimo arrabbiare».
«A
me mi aveva detto
che c'era una Chimera chiusa in bagno» raccontò in
un mormorio
Andromeda, chinando il capo e fissandosi imbarazzata i piedi.
«Avevo
paura che se entravo per fare la pipì, quella mi mangiava,
ma mi
scappava davvero tantissimo e me la sono fatta addosso...».
«Cosa?»
domandò Tonks con voce allegra, sgranando gli occhi a quella
rivelazione. «È questo il motivo per cui ti sei
fatta la pipì
addosso lo scorso mese?».
Lentamente
e senza
alzare lo sguardo, Andromeda fece un cenno affermativo con la testa.
«Oh,
per tutte le
sottogonne di Tosca!» rise Tonks, passandosi una mano fra i
capelli
purpurei. «Dromeda, tesoro, perché non lo hai
detto a me o a
papà?».
«Mi
vergogno»
confessò debolmente. «Non ci aveva creduto
nessuno; io, invece,
sì».
Tonks
si avvicinò a
lei, le scostò un ricciolo sfuggito al nastro dietro la
schiena e le
scoccò un bacio sulla fronte. La bambina le gettò
le braccia al
collo e Tonks, con un lieve sospiro rassegnato, la prese in braccio.
«Su,
Minima» disse
all'altra figlia. «Non volevi che papà ti
accompagnasse a fare un
giro all'Apoteca?».
«Sì!»
esclamò
eccitata, sgusciando velocemente alle spalle della madre e svanendo
oltre la porta.
«Parola
mia, quando
tua sorella andrà a Hogwarts e verrà Smistata a
Serpeverde, a tuo
padre partirà un embolo».
«Davvero?»
domandò
preoccupata Andromeda, scrutando la madre con gli occhi spalancati.
«E lo si mangia, quest'embolo?».
Tonks
la fissò
intensamente per qualche istante e scoppiò a ridere.
|
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Capitolo 5 *** Un tricheco serpentino ***
Note
dell'Autrice – sempre discutibilmente utili:
Non
sono molto convinta di questo capitolo, ma tenerlo non
cambierà la
situazione. Alla vostra, gente!
La
Casa Stornella
Capitolo
Quattro
Un
tricheco serpentino
La
Bisbetica Chiacchierina era un adorabile
caffè che si faceva
spazio fra il negozio di abiti per ogni occasione di Madama McClan e
la Gringott.
Confrontato
con l'imponente banca, la Bisbetica sembrava realmente un posto
minuscolo, e a nulla serviva lo spazio dinanzi alla porta ricoperto
di ampi ombrelloni dai colori sgargianti e decine di tavolini
Autocamminanti che si spostavano da una parte all'altra –
costringendo spesso i clienti a inseguirli per l'intera strada.
Durante la stagione invernale, i gestori del caffè
circondavano la
proprietà con ottimi Incantesimi Riscaldanti,
cosicché i propri
avventori potessero sedere all'aperto nonostante la neve e il gelo.
Era
ad uno di questi bei tavoli di legno di quercia che la famiglia dei
Lupin si era accomodata al suo arrivo a Diagon Alley. Sebbene a Remus
fosse bastato un pigro colpo della bacchetta per ripulire la cucina
dal burrascoso passaggio dei figli, nessuno di loro pareva aver
voglia di mettersi ai fornelli. A loro giustificazione, c'era
sicuramente da aggiungere la rinomata bontà dei muffin al
cioccolato
di Miranda Pilliwickle – la rotonda consorte di Haverlock
Pilliwickle, settimo di una lunga tradizione di Pilliwickle alla
gestione della storica Bisbetica.
«Che
fame!» brontolò Teddy con uno
sbuffo irrequieto. «Ho così
fame che mi mangerei pure un Orclumpo gigante!».
Alastor
abbassò la lista della vivande che stava leggendo
– a modo suo,
s'intende – e assottigliò le palpebre con
espressione concentrata.
«Un
Orclumpo è un fungo rosa ricoperto di setole nere»
recitò
improvvisamente, scuotendo il capo. «E si nutre di vermi.
Vuoi
mangiare qualcosa che si nutre di vermi?».
«Ho
tanta fame».
«Sposta
il braccio dalla portata di mascella di tuo fratello,
Alastor»
scherzò Tonks. «Né io né tuo
padre abbiamo intenzione di portarti
al San Mungo perché Teddy ti ha azzannato una
mano».
Con
un sogghigno birbante sulla faccia, Teddy gonfiò il petto e
imitò
il suono di un acuto ululato, facendo ridere tutti e attirando su di
sé lo sguardo allarmato di un mago dal naso rubizzo seduto
al tavolo
accanto.
«Devi
avere proprio una fame da lupo, tesoro» commentò
la voce gentile
della signora Pilliwickle, avanzando verso di loro con la bacchetta
puntata verso l'alto e un grande vassoio che le galleggiava sulla
testa. «Non dirmi che queste cinque tazze di Cioccolatte
Scoppiettante sono tutte per te».
«No!»
protestò rapidamente Minima, allungando il collo per
scrutare con
aria torva la strega. «Anch'io ho tanta fame!».
«Sì,
ma è meglio che mangi prima Teddy» aggiunse
Alastor. «O mi morderà
una mano».
Ridacchiando
divertita, la signora Pilliwickle fece Levitare con precisione le
tazze fumanti davanti ad ognuno dei bambini, sorridendo loro con fare
intenerito.
«Badate
di berla immediatamente, così vi scotterete tutto lo
stomaco» li
avvertì in fretta Remus.
«Ahi!»
esclamò Teddy, tirando la lingua in fuori, mentre i suoi
capelli
viravano ad un acceso rosso peperone.
«Per
l'appunto» concluse Remus, allungando una mano sul tavolo per
prendere l'ultima tazza rimasta.
«Immagino
che il Caffè Risvegliante sia suo, signora Lupin»
riprese la
signora Pilliwickle, muovendo sapientemente la bacchetta.
«Per
la barba di Merlino, certo che sì»
scherzò con un sopracciglio
inarcato Tonks, portandosi un polpastrello sotto l'occhio sinistro.
«Il miglior anti-occhiaie mai inventato».
Remus
estrasse dal mantello un paio di Galeoni dorati e li porse alla
strega. Lei aveva appena infilato le mani nella tasca del grembiule
alla ricerca delle Falci per il resto, quando Remus la fermò
con un
gesto galante del capo.
«Non
dica sciocchezze, signora Pilliwickle. Avete il servizio più
veloce
dell'intera Gran Bretagna».
«E
i muffin più buoni del mondo!» aggiunse con
entusiasmo Teddy,
gettandosene in bocca uno con fare famelico.
La
signora Pilliwickle arrossì compiaciuta, li
salutò con sincera
riconoscenza e svanì nuovamente all'interno della Bisbetica.
«Teddy,
non sei un Troll. Da' a quel muffin dei morsi quanto più
umani
possibile» disse Tonks, mentre soffiava sul proprio
caffè.
«Papà,
andiamo all'Apoteca?» s'intromise Minima, occhieggiando
speranzosa
verso il padre. «Mamma me l'ha promesso».
«No,
non l'ho fatto» replicò con un eloquente sorriso
Tonks. «Ho detto
che tu avevi intenzione di andarci».
«Posso
lo stesso?».
Remus
abbassò cautamente la tazza di Cioccolatte Scoppiettante
–
l'ultima volta che ne aveva bevuta in fretta una aveva sputato fumo
dalle orecchie per un'ora – e fissò intensamente
la sua
ultimogenita.
«Cosa
c'è di così bello in quell'Apoteca,
Minima?» s'informò
curiosamente. «Sono solo scaffali impolverati ricoperti di
nauseanti
ingredienti per pozioni».
«Mi
piacciono» commentò semplicemente lei.
«Quando sarò grande, ne
farò un sacco».
«Già,
quando finirai sottoterra con i Serpeverde...»
le fece il
verso Teddy, ondeggiando beffardamente la testa.
«Teddy,
non fare lo sciocco» lo rimbrottò duramente Tonks.
«Serpeverde è
un'ottima Casa, ora, e non si trova sottoterra, ma
nei
Sotterranei di Hogwarts».
«I
Sotterranei stanno sottoterra, mamma»
spiegò Alastor, mentre
staccava le praline di cioccolato del proprio muffin e le portava una
ad una alla bocca.
«Fa
lo stesso» proruppe gelidamente Minima, arricciando scontrosa
il
naso. «Io non ci vado a
Serpeverde».
«Sì,
invece» continuò testardo Teddy, annuendo con
foga. «Perché hai
la lingua come quella dei serpenti... sssssssssh!».
«Ted»
lo intimò con serietà Remus, sollevando l'indice
a monito.
Rimasero
in silenzio qualche minuto, a sorseggiare Cioccolatte e a masticare
muffin. Dopo il tacito rimprovero del padre, Teddy teneva la testa
china sulla propria colazione, muto e immobile; Alastor continuava a
mangiare le praline e a leccarsi le labbra; Andromeda, come di
consueto, aveva smesso di parlare da quando erano arrivati al Paiolo
Magico e continuava a sbocconcellare lentamente; Minima giocava con
un angolo del proprio tovagliolo, fissando il cucchiaio con aria
distratta. Remus e Tonks si scambiarono un'occhiata in tralice, ma
prima che qualcuno dei due potesse dire qualcosa, la vocina di Minima
si levò dal tavolo.
«Io
non ci vado a Serpeverde» proclamò con piglio
combattivo. «Ci
vanno solo le persone cattive che fanno del male. Non ci vado, io».
*
Avevano
appena deciso che il primo negozio in cui si sarebbero recati sarebbe
stato la cancelleria Scribbulus, a pochi passi dalla Bisbetica,
poiché Remus aveva bisogno di un paio di nuove Piume Rosse
Autoinchiostranti.
Prima
che George Weasley ne vendesse i diritti alla cancelleria –
insieme
alle Piume a Risposta Pronta e alle Piume Autocorreggenti –
Remus
era solito usarle come scuse per visitare i Tiri Vispi senza la
riprovevole presenza dei figli. Ben pochi, infatti, erano a
conoscenza degli arguti consigli che Remus aveva gentilmente dato a
George in merito alle sue più recenti invenzioni, come il
Celataccuino, una particolare agenda incantata per mostrare il
proprio contenuto solo agli occhi di chi avesse pronunciato la parola
d'ordine scelta dal proprietario – e Remus, in campo di
parole
d'ordine e marachelle, era sicuramente uno dei maggiori esperti in
circolazione. Lungi da lui permettere alla notizia di spargersi fra
le lingue lunghe della comunità magica: aveva una
reputazione di
rispettabile professore di Hogwarts e una suocera che lo avrebbe
probabilmente strangolato con il filo del bucato, se solo avesse
scoperto che le innovazioni apportate da George alle Caccabombe erano
state una sua idea.
Si
stavano incamminando allegramente verso Scribbulus, ridendo fra loro
e completamente dimentichi della tensione creatasi durante la
colazione. Fortunatamente per la loro mattinata domenicale, Tonks
aveva trovato il modo di distrarre tutti loro con un'improvvisata
sfida con Teddy a “chi riesce a trasformare il proprio naso
in più
nasi”, e i musi lunghi erano diventati presto fragorose
risate.
Non
erano che a pochi passi dalla porta della cancelleria, quando udirono
una voce squillante levarsi distintamente fra il chiacchiericcio
generale della gente.
«Remus,
vecchio mio! Quale stupefacente e inaspettato piacere trovarti
qui!».
Né
Tonks né Remus ebbero alcun bisogno di voltarsi indietro per
riconoscerne il proprietario. Tonks lanciò un'occhiata di
traverso
al marito e quasi scoppiò a ridere, vedendo l'espressione di
puro
sconforto che gli aleggiava sul volto.
«Oh,
Godric...» mormorò fra i denti
Remus, massaggiandosi
nervosamente l'attaccatura del naso. «Dimmi che non
è davvero lui.
Non l'ho salutato che da tredici ore...».
«Fingerò
di essere lo Spirito del Natale Presente, allora» rispose lei
con un
sorriso divertito. «Ma poi non lamentarti se lo chiamo signor
Scrooge e mi prende per matta».
Mentre
i bambini scrutavano con famelica curiosità il mago che
avanzava
verso di loro – eccezion fatta per Andromeda, che si era
lestamente
nascosta dietro le lunghe gambe del padre – Remus e Tonks si
voltarono con il più educato dei sorrisi.
«Buongiorno,
Horace» salutò disinvolto Remus, inclinando appena
il capo.
«Salutate il professor Lumacorno, ragazzi».
«Buongiorno,
professor Lumacorno» recitarono in coro loro.
In
quegli ultimi nove anni, l'unica cosa di Horace Lumacorno ad essere
cambiata era stata la sua pancia: i ricchi e appaganti pranzi di
Hogwarts avevano notevolmente inciso sul suo girovita già
sufficientemente largo. Sfoggiava ancora quegli strani baffi che lo
facevano tanto assomigliare a un tricheco e il suo sarto era ancora
lo stesso da cui si rivolgeva quando andavano di moda le ghette e le
redingote. Come il suo appetito, poi, la sua implacabile dedizione
per la ricerca di giovani talenti era ancora insaziabile.
«Per
le mutande di Merlino, non posso credere alla mia fortuna!»
disse
con un gigantesco sorriso Lumacorno, tendendo le mani verso di loro
come se volesse abbracciarli tutti. «Non speravo proprio di
trovarvi
qui, tutti insieme! Mia cara Ninfadora, come stai?».
Tonks
arricciò il naso con tanta rapidità da farlo
apparire un tic
nervoso.
«Egregiamente,
professore. Ma il mio nome è Tonks,
nubile o sposata che
sia».
«Oh,
come mi sarebbe piaciuto averti fra le mie studentesse!»
rise.
«Peccato che tu abbia frequentato Hogwarts durante il mio
periodo di
pensionamento... un peccato, davvero. Oh, beh, perlomeno, posso dire
di aver avuto tuo marito e, sicuramente, potrò dire di aver
avuto
anche i vostri bambini, un giorno!».
«Dove
ci vuole avere, signor professore?» domandò con
incertezza Teddy,
scrutando dubbioso verso l'alto.
Lumacorno
scoppiò nuovamente a ridere, e si sarebbe sicuramente
chinato verso
Teddy per scompigliargli i capelli turchesi, se solo la sua imponente
pancia non fosse stata tanto pronunciata.
«Tu
devi essere il giovane Ted! Tuo padre ripete sempre che sei molto
sveglio. Splendido, splendido, ragazzo mio! E tu...»
continuò con
uno sgargiante sorriso, ammiccando in direzione di Alastor.
«Immagino
che tu sia Alastor, non è vero? Oh, mio caro, mio caro!
Porti il
nome del migliore Auror che abbia mai varcato la
porta del
Ministero della Magia! Eravamo grandi amici, sai, io e il vecchio
Moody? Grandissimi, davvero, chiedi pure a tuo padre!».
Alastor
lanciò al padre un'occhiata interrogativa e Remus,
trattenendo a sua
volta una risata, annuì un paio di volte.
«E
questa adorabile signorina deve essere... Andromeda, vero?»
continuò
Lumacorno, fissando Minima con intensa serietà.
Lei
scosse prontamente il capo e alzò con fierezza il piccolo
mento,
scrutandolo senza la minima traccia di un sorriso. Remus
pregò
mentalmente che non dicesse nulla di inappropriato, perché
aveva già
capito che l'opinione che la bambina si era fatta dell'anziano
professore non era decisamente fra le migliori.
«No»
negò lei con durezza. «Io sono Minima».
«Minima?»
ripeté confuso Lumacorno, inarcando le folte sopracciglia.
«Non
sapevo che-- oh, ma certo!» proruppe d'un
tratto. «Sei
Minerva, non è
così?».
«No»
rispose gelidamente. «Sono Minima».
Tonks
sentì Remus emettere un impercettibile grugnito di
disappunto e si
sentì in dovere di salvare la situazione.
«Lei
è Andromeda, professor Lumacorno» s'intromise in
fretta, indicando
con l'indice la testa riccioluta della bambina. «Proprio qui,
dietro
le gambe di mio marito. Coraggio, Dromeda» la
incitò con serena
allegria. «Staccati dai pantaloni di
papà».
Remus
sapeva perfettamente – e di certo lo sapeva anche Tonks
– che
Andromeda avrebbe cercato di svanire ancora di più dietro
alla
figura del padre. Non erano mai riusciti ad aiutarla a superare
quell'insormontabile timidezza che si portava dietro dacché
aveva
iniziato a parlare, e qualunque loro tentativo si era rivelato
totalmente vano. La loro ultima speranza era stata riposta sullo
scorrere del tempo e su Hogwarts.
«Perdonala,
Horace. È molto timida» spiegò
pacatamente Remus, mentre avvertiva
la sensazione delle piccole dita di Andromeda stringersi con forza
attorno alla stoffa dei propri pantaloni. Allungò indietro
il
braccio destro e le posò la mano sulla testa, carezzandole
dolcemente i capelli chiari.
«D'altronde,
Remus, nemmeno tu eri un bambino di molte parole! Se la memoria non
m'inganna, mi pare che iniziasti a parlare un po' di più
solo
attorno al tuo quinto anno!» rise di gusto Lumacorno.
«Era davvero
un brillante ragazzino, vostro padre! Oh, eccome, eccome! Uno dei
miei migliori studenti a cui abbia mai avuto l'onore di insegnare,
non c'è dubbio!».
Remus
evitò di ricordare a Lumacorno quanto profonda e disastrosa
fosse la
sua applicazione nell'arte delle Pozioni.
Nel
corso dei sette anni trascorsi a Hogwarts, aveva perfino perso il
conto del numero di calderoni fusi, esplosi o svaniti nel nulla a
causa della sua inettitudine. Non che non si fosse mai impegnato
abbastanza, al contrario: Remus conosceva perfettamente il contenuto
di Pozioni Avanzate e i suoi temi erano, di norma, impeccabili.
Inspiegabilmente, non era mai riuscito a distillare un solo elisir
senza bruciarsi le sopracciglia o attentare alla salute della classe
intera.
Come
se non bastasse la sua naturale avversione alle Pozioni, il suo
particolare olfatto riusciva a captare ogni aroma degli ingredienti
con atroce sensibilità, provocandogli continui giramenti di
testa.
Oltretutto, il forte odore delle foglie di Aconito lo faceva svenire
in continuazione – non c'era da stupirsi che fosse
così altamente
pericoloso per i licantropi.
In
molti, tuttavia, continuarono a domandarsi come fosse possibile che
il Prefetto Lupin, tanto preciso e diligente, avesse ottenuto ben
nove G.U.F.O. non inferiori a Eccezionale e un
clamoroso Troll
in Pozioni che era passato alla storia.
«Mi
dispiace veramente molto non aver potuto insegnare anche a te, mia
cara» riprese con gaiezza Lumacorno, rivolgendosi a Tonks con
un
affettuoso sorriso. «Mi hanno detto che i tuoi voti in
Pozioni erano
esemplari – e, che Merlino lo porti in
pace, il caro Severus
non era certo famoso per le larghe maniche del suo mantello!».
«Me
la cavavo» rispose con educato riserbo Tonks.
«Oh,
suvvia, cara! Non essere modesta! Minerva mi ha confidato che sei
stata l'unica del tuo anno a conseguire un M.A.G.O. Eccezionale
in
Pozioni».
«Beh,
sì» confessò Tonks con un mezzo sorriso
imbarazzato. «Dovevo,
professore, o non avrei avuto alcuna possibilità di
diventare
un'Auror».
«Naturale,
naturale!» esclamò a gran voce Lumacorno,
lisciandosi con una mano
rotonda una piega della sgargiante veste che indossava. «E
voi, miei
giovani ragazzi? Pensate di seguire le nobili orme dei vostri prodi
genitori?» domandò ai bambini, con una luce
ambiziosa negli occhi
che avrebbe turbato chiunque non lo conoscesse abbastanza. In fin dei
conti, era un uomo del tutto innocuo.
«Io
voglio prendere i Draghi!» affermò immediatamente
Teddy, sfoggiando
un gigantesco sorriso. «Oppure una Chimera! O un Grifone,
anche!».
Lumacorno
fissò per qualche istante Teddy, poi scoppiò in
una bassa e
spensierata risata.
«Che
Salazar mi porti! Abbiamo un temerario, qui! Lasciati dire, tuttavia,
mio caro ragazzo, che le Creature Magiche rischierebbero di portarti
verso un inglorioso destino! Il consiglio che, di norma, tendo a dare
ai giovanotti ardimentosi come te è di dedicarsi ad
attività più
elevate e fruttuose... nessuno di voi ha interesse per la nobile arte
delle pozioni, magari?».
Teddy
e Alastor si voltarono come un unico corpo verso Minima, che non
aveva ancora accennato ad un solo misero cenno di apprezzamento nei
confronti di Lumacorno. Tonks guardò Remus con aria incerta
e lui,
altrettanto dubbioso, si limitò ad alzare impercettibilmente
le
spalle. Perfino Andromeda parve sporgersi un poco oltre le gambe del
padre, sebbene tenesse ancora il capo stoicamente chino verso le
proprie scarpe e non sembrasse intenzionata a dire una sola parola.
Lumacorno interpretò correttamente l'eloquente scambio di
sguardi
dei due fratellini.
«Oh,
forse tu, signorina?» eruppe con voce
carezzevole,
lisciandosi il baffo sinistro. «Eccezionale, eccezionale!
Questa sì,
che è un'inclinazione pregevole – e in una
streghetta così
giovane, poi! Dimmi, dimmi, mia cara – e senza timore! - per
quale
motivo ti piacciono tanto le pozioni, uhm?».
Minima
sbatté un paio di volte le palpebre con aria estremamente
calcolatrice. Sembrava realmente un piccolo gatto in procinto di
attaccare.
«Io
non l'ho detto».
Preso
alla sprovvista, Lumacorno sollevò la testa in direzione di
Remus,
che arrischiò un imbarazzato sorriso di scuse.
«Minima
è solo molto affascinata dall'Apoteca, professore»
sviò Tonks. «Ha
soltanto cinque anni ed è molto curiosa. Lo sono un po'
tutti.
Pensi: Alastor sembra avere la passione per la Storia della
Magia!»
continuò, allungando una mano per colpire appena la testa
del
proprio secondogenito. «Incredibile, non trova? Ha otto anni
e trova
piacevole leggere libri su cui io mi addormentavo a
diciassette!».
Lumacorno
parve riprendersi dallo smarrimento causato dal minaccioso
comportamento di Minima con incredibile rapidità e rivolse
ad
Alastor un'occhiata carica di interesse.
«Singolare.
Molto singolare» sentenziò infine.
«È indizio di notevole
ingegno. E di una appassionata predilezione per l'ignoto,
naturalmente... non vorrei calpestare la carica che tuo padre ricopre
a Hogwarts – lungi da me essere irrispettoso verso la nobile
casa
di Grifondoro! - ma credo che la casa di Serpeverde, per tuo conto,
potrebbe realmente aiutarti nella via del
successo,
senz'altro».
«Suvvia,
Horace» lo schernì con un'educata risata Remus.
«Se lo Smistamento
dipendesse da te, ci sarebbero soltanto Serpeverde».
«Comprendo
la tua riluttanza, amico mio, ma non puoi dire che Serpeverde non
offra ai suoi giovani protetti la chiave della gloria».
«Serpeverde
fa diventare cattive le persone» commentò di punto
in bianco
Minima, stringendo con rabbia i piccoli pugni. «E io non ci
vado».
Tirò
su con il naso, si mordicchiò il labbro inferiore e
aggrottò la
fronte in un'espressione capricciosa. Per la prima volta dopo un paio
anni, Tonks ebbe l'impressione che fosse sull'orlo del pianto. Prima
che qualcuno di loro potesse dire qualsiasi altra cosa, Minima
voltò
rapidamente sui tacchi e corse verso l'entrata di Scribbulus,
fingendo di non sentire la voce della madre che la richiamava
indietro.
«Mi
scusi, professore» si congedò con urgenza Tonks,
sfrecciando
rapidamente lungo la scia di Minima.
Andromeda
si staccò dal padre e la seguì con altrettanta
prontezza. Remus
fece un sospiro rassegnato e si rivolse ai figli più grandi.
«Andate
con loro, per favore. Io vi raggiungo subito».
«Okay»
annuì Teddy. «Arrivederci, signor
professore».
Alastor
abbozzò un cortese inchino che, nonostante tutto, fece
arricciare le
labbra del padre.
«Arrivederci,
professor Lumacorno. È stato un grandissimo
piacere» recitò
compito, prima di girare sui tacchi e affrettarsi a raggiungere il
fratello.
Dopo
essersi assicurato che tutti loro avessero raggiunto Tonks, Remus
rivolse a Lumacorno un'occhiata di profonde scuse.
«Devi
perdonarla, Horace. Ho l'impressione che stia bollendo qualcosa
nel calderone, ma devo ancora capire cosa».
Lumacorno
alzò la mano in un gesto indifferente.
«Non
preoccuparti, Remus. Non sono ancora abbastanza vecchio per tradurre
in ingiuria le parole di una bambina, per quanto spiacevoli possano
sembrare».
«Non
riesco a capire da dove provenga la repulsione di Minima»
scosse il
capo lui, incrociando fra loro le braccia. «Nessuno di noi
due ha
mai parlato dei trascorsi di Serpeverde, né abbiamo mai
parlato in
loro presenza di Mangiamorte e Lord Voldemort». Lumacorno
trasalì,
ma Remus parve non accorgersene. «Per loro, la guerra
è fatta di
favole e leggende. Che Godric mi aiuti, non sanno nemmeno di essere
imparentati con... beh, lo sai».
L'anziano
professore
annuì con solennità.
«Non
è facile
spiegare a un bambino come funziona il mondo».
«Non
è facile
spiegare ai tuoi figli che la loro prozia era una pazza assassina,
piuttosto».
«Le
assomiglia»
commentò schiettamente Lumacorno. «E qualcuno
glielo farà notare,
prima o poi».
Remus
emise un vago
sbuffo e fece un sorriso un po' storto.
«Già»
rispose.
«Sembra quasi che la nobile e antichissima casata dei Black
non
voglia accettare l'estinzione».
Lumacorno
rimase in
silenzio qualche secondo. Quando parlò, la sua voce era
carica di
amarezza.
«È
qualcosa che
dovrete dire loro, Remus. Questa comunità ha sofferto troppo
a causa
dei Mangiamorte per poterli dimenticare dall'oggi al domani, ed io lo
so bene – oh, se lo so bene! Quanti errori commessi, ragazzo
mio,
quanti errori...».
«Horace,
non--».
«No,
Remus. Il mio rammarico non può svanire con qualche parola
di
conforto, per quanto buona e onesta» lo interruppe con un
sorriso
tirato. «Tanti sono gli anni passati fra i giovani Serpeverde
e
tanti, tanti sono coloro che ho visto farsi inghiottire da quel
mostro. Erano così talentuosi, Remus... così
capaci.
Non sai per quanto tempo mi sono ripetuto: “Horace, Horace...
avresti potuto fare molto di più”. Ma non l'ho
fatto... non
l'ho fatto».
«Hai
fatto quello che
hai potuto» replicò con profonda
sincerità Remus, appoggiandogli
una mano sulla spalla. «È stata una triste
combinazione di scelte
sbagliate da parte di noi tutti, Horace, e ognuno di noi deve
accettare di vivere con il cruccio di non aver compiuto quelle
giuste, ma non dovresti addossarti anche la colpa di quelle altrui.
Non ne vale la pena».
Mestamente,
Lumacorno
fece un lieve cenno di assenso con il capo.
«Hai
ragione, naturalmente. Ma è così difficile,
Remus...».
«Non
credo di aver
detto che fosse facile» replicò lui con un mezzo
sorriso.
«Cambiando argomento, Horace... avrei bisogno di--».
«Una
supplenza per il
prossimo martedì mattina, certo» lo
anticipò lui, cercando di
apparire allegro e gioviale nonostante lo sguardo fosco.
«Minerva mi
ha già avvertito. Fra l'altro... hai bisogno di Pozione
Antilupo,
questo mese, o...?».
«Ti
ringrazio davvero
di cuore, ma mia moglie s'ingelosirebbe se sapesse che preferisco la
tua» scherzò Remus.
«Lo
dicevo, io, che
quella ragazza è un portento con le pozioni! Beh, Remus,
credo
proprio che i tuoi doveri di padre di famiglia ti stiano aspettando,
no?» disse, tendendo la mano rotonda verso il collega.
Remus
la strinse con un
sorriso.
«Assolutamente,
o
rischio che Ninfadora mi avveleni con la prima dose di
Pozione».
«E,
detto fra me e te...» aggiunse con fare cospiratore
Lumacorno. «Temo
che la tua figlia più piccola finirà nella mia
Casa.
Tu e Godric
Grifondoro dovrete farvene una ragione, amico mio».
|
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Capitolo 6 *** C'era una volta una storia vecchia ***
Note
dell'Autrice – sempre discutibilmente utili:
Mi
dispiace, mi dispiace, mi dispiace e mi stra-dispiace! È
tipo da...
uhm, febbraio, sì, che non aggiorno. Lo so, sono
un'inguaribile
fan-writer poco professionale, non abbiatene. Questo capitolo aveva
la stessa fretta di uscire di un bradipo stitico. Cioè,
dico, avete
letto questa metafora? Dovrebbe farvi pensare: «Oh, cavolo,
la
poverina è completamente in botta! Evitiamo di
sovraccaricarla di
problemi e non linciamola
pubblicamente». Sarebbe
effettivamente carino se non lo faceste.
Ehm...
c'erano un paio di cosette che mi ero appuntata di scrivere in queste
note, ma non trovo più il post-it. No, un attimo. Okay, dal
mio
cervello è partito un fiducioso segnale. Ah, ecco! Un sacco
di voi
altri mi ha chiesto quanti anni hanno i pargoli dei coniugi Lupin.
Di
Teddy sappiamo che è nato più o meno i primi
giorni dell'aprile del
1998 – di conseguenza ha nove anni. Io ho scelto il 3 di
aprile,
così, a stra-casaccio.
Alastor
è nato il 18 settembre del 1999, quindi di anni ne ha otto.
Andromeda è nata il 9 luglio del 2001, mentre Minima il 13
novembre
del 2002 e, se la matematica non è un'opinione, la prima ha
sei anni
e la seconda cinque.
Un'altra
cosa buffa/inutile/interessante/inutile/cretina/decisamente inutile che
un'amica mi ha domandato dopo aver letto i primi capitoli è
stata:
«Ehi, ma 'sti bambini ce l'hanno, una faccia?».
«Ma
che cavolo di domanda è?» le ho detto.
Cioè, scusate un attimo...
hanno la faccia che immaginate voi, come in tutte le cose che si
leggono, grazie al cielo. Invece no, questa
insisteva,
insisteva, insisteva ed io mi sono ritrovata a cercare per il web
quattro ragazzini che potessero anche solo lontanamente assomigliare
ai miei immaginari giovani Lupin... che adesso vi sbatto pure qui
sotto, mica crediate!
Teddy
→ VAI
QUI
Andromeda
e Alastor →
ANCORA QUI
Minima→
E
DI NUOVO QUI
Non so chi siano questi bambini, ma - giuro! - non li ho rapiti. Non so
nemmeno se siano remotamente famosi. Erano lì, su Gugol Images, e li
ho presi su. Il che, forse, significa che li ho rapiti, non so... se
qualcuno li conosce, dite ai genitori che li ho trovati io, grazie.
E basta con 'ste boiate, va'.
La
Casa Stornella
Capitolo Cinque
C'era una volta una storia vecchia
Come
tutti i figli di maghi e streghe che avevano vissuto la cruda
atrocità della guerra contro Lord Voldemort, anche i piccoli
Lupin
avevano tratto la conclusione che ciò che era accaduto, in
sostanza,
non fosse altro che un'avvincente fiaba – a tratti un po'
triste,
certo, ma con un bel lieto fine. Nelle loro menti, non esistevano
brutalità come il sangue e le lacrime: c'erano solo gli eroi
vittoriosi che sconfiggevano le forze Oscure, e tanto bastava ad
alimentare la loro fervida immaginazione. Forse, se avessero potuto
vedere realmente quanto curva e debole apparisse
allora la
figura di Harry – il paladino, il valoroso, il Prescelto
– si
sarebbero fatti fin da subito un'idea ben più diversa e
matura di
cosa, essenzialmente, tutto quello era costato loro;
ma non
erano che bambini, e certi aspetti della vita sarebbero rimasti un
mistero ancora qualche anno.
Nelle
centinaia di racconti che avevano sentito raccontare davanti al fuoco
– o attorno alla lunghissima tavola della Tana, spesso
– non
c'era spazio per il grigiore delle battaglie e per il fiato pesante
della morte. Non c'erano cattivi un po' meno cattivi, né
buoni un
po' meno buoni: c'erano solo parole fatte di coraggio, di onore e di
giustizia.
In
virtù della rinnovata pace, Remus e Tonks avevano omesso
loro
qualsiasi dettaglio potesse essere troppo sinistro e spietato per la
loro età spensierata. Indiscutibilmente, le rispettive
infanzie di
entrambi – l'una distrutta dalla licantropia e l'altra dalla
prima
guerra contro Lord Voldemort – avevano notevolmente inciso su
quella ferrea e insindacabile decisione. Non era ancora giunto il
momento, si ripetevano.
Nessuno
dei loro figli sapeva chi fossero i Malfoy – nessuno li
nominava
mai, a Casa Stornella. Non che ce ne fosse bisogno, in effetti:
Lucius Malfoy era ormai sprofondato oltre i cancelli della sua
maestosa villa e, sebbene di tanto si vedessero ancora per Diagon
Alley, né la moglie né il figlio sembravano
intenzionati a far
sentire la voce nella chiassosa ripresa della vita normale. Non
sapevano di essere i più giovani discendenti di una delle
più
antiche e crudeli casate di Purosangue mai esistite; non sapevano che
il corpo del nonno di cui Teddy portava il nome era stato ritrovato
settimane dopo la morte, abbandonato ai rapaci e ai ratti nella buia
foresta di Dean; non sapevano chi fosse stata e cosa avesse
rappresentato per l'intera Gran Bretagna Bellatrix Lestrange.
Erano
parte della prima generazione nata con la speranza di un futuro
migliore, dopo secoli di guerre, scontri e lutti, e nessuno –
nessuno – avrebbe avuto il coraggio di sporcare
quell'innocenza che
tanta fatica e sacrificio aveva richiesto.
Men
che meno, fra l'altro, erano venuti a conoscenza della malaugurata
fama di Serpeverde – un'idea di Remus, per lo più,
poiché
capitava ancora che Tonks si lasciasse sfuggire qualche velata
allusione alla loro storica perfidia. Gli avevano raccontato di
Hogwarts, gli avevano spiegato come avvenisse lo Smistamento, gli
avevano descritto la magnificenza dei giardini e della Sala Grande e
la straordinaria propensione che le scale del castello avevano per i
cambiamenti inaspettati. Conoscevano la casa di Grifondoro,
naturalmente, e con essa il coraggio, la nobiltà d'animo e
la
generosità; allo stesso modo, di Tassorosso conoscevano la
lealtà,
la determinazione e il sacrificio; di Corvonero, poi, conoscevano la
saggezza, l'intelligenza e la perspicacia; infine, c'era Serpeverde,
con la sua astuzia, la sua ambizione e la sua intraprendenza.
A
Hogwarts non esistevano buoni e cattivi, e tanto bastava.
*
Se
c'era qualcosa che proprio non si sarebbe potuto dire sul conto di
Minima, era che fosse una bambina suscettibile – permalosa,
magari,
ma non suscettibile. Pareva non condividere le tipiche paure che
accomunavano fra loro i bambini, ed era qualcosa che tanto Remus
quanto Tonks avevano sempre trovato un po' preoccupante. Perfino
Teddy, nonostante il carattere esuberante, spericolato e imprudente,
covava di nascosto un paio di irragionevoli timori – era
terrorizzato da quei buffi pagliacci a molla che scattavano fuori
dalle scatole, ad esempio.
Al
contrario dei fratelli, Minima sembrava immune alla paura.
Poi,
l'anno prima, Andromeda aveva scoperto i resti di un piccolo
cardellino nel retro del giardino. Il triste avvenimento aveva
portato con sé una valanga di impietose domande sulla morte
e sulla
vita, e Remus, incredibilmente, si era ritrovato a pregare che gli
domandassero come nascessero i bambini.
Si
erano riuniti nell'accogliente salotto di Casa Stornella. Teddy era
coricato a pancia in giù sul tappetto e si sorreggeva la
testa con
le mani, mentre dondolava nervosamente le gambe. Accanto al caminetto
sfrigolante e ben più composto – come sempre
– era seduto
Alastor, mentre Andromeda aveva trovato posto fra le gambe di Tonks,
che aveva iniziato ad accarezzarle distrattamente i bei riccioli
chiari. Minima si era acciambellata ai piedi della poltrona di Remus,
immobile e attenta.
«È
come andare a dormire?» aveva domandato Alastor.
«Non
proprio» aveva risposto alla fine Remus, grattandosi
pensieroso la
tempia destra. «Quando si muore, non si può
tornare indietro – a
meno che non si voglia diventare un fantasma, certo».
«E
se diventi un fantasma, vuol dire che non muori mai
più?» aveva
chiesto Andromeda, perplessa.
«Si
è già morti»
l'aveva corretta Tonks con un sorriso storto.
«Non puoi mica morire tutte le volte che ti pare».
«Non
è una cosa bella. Perché l'hanno fatta, se non
è una cosa bella?».
Remus
e Tonks si erano scambiati un'occhiata eloquente.
«Così,
noi tutti avremmo imparato quanto è importante la
vita» aveva detto
pacatamente Remus.
«A
me, questa cosa della morte mi pare una fregatura» aveva
commentato
con decisione Teddy, scuotendo il capo verdognolo. «Se non
sei più
qui, dove vai?».
«Non
lo sa nessuno di preciso. In qualche posto divertente,
immagino».
«Come
un parco giochi?».
Remus
aveva alzato le spalle.
«Forse.
Non lo so».
«Ma
tu sai sempre tutto!» aveva protesto con un sbuffo Teddy,
fissando
il padre con veemenza. «Non è giusto che non sai
dove bisogna
andare quando sei morto!».
«Questa
è una cosa che non sa proprio nessuno».
«Perché?».
«Perché
si muore una volta sola» ripeté Tonks.
«E nessuno si è mai preso
la briga di tornare indietro per farci sapere come va la morte,
dall'altra parte».
«Non
mi piace» aveva commentato titubante Minima, giocherellando
nervosamente con i bottoni del pigiama. «Non voglio
morire».
Remus
si era umettato le labbra, riflettendo rapidamente su quale fosse la
risposta da dare alla propria ultimogenita. Negli occhi di Minima
c'era un luce timorosa del tutto nuova.
«La
morte non è nulla di cui si debba avere paura»
aveva spiegato
lentamente, scrutando in tralice la moglie. Lei aveva annuito con un
sorriso di incoraggiamento. «Se così fosse,
dovremmo avere paura
anche della vita».
«Non
è vero» aveva ribattuto Minima con una vocina
lamentosa. «Non sai
nemmeno dove vai».
«È
questo, tesoro, ciò che si teme. Non la morte, ma
l'ignoto».
«Che
cos'è l'ignoto?» si era informata Andromeda,
voltando il capo per
guardare la madre.
«Ignoto»
ripeté automaticamente Alastor, bloccandosi qualche istante
e
chiudendo le palpebre con espressione concentrata. «Aggettivo
riferito a ciò di cui non si ha alcuna conoscenza o
esperienza; non
identificato o non identificabile. Può indicare anche una
persona
sconosciuta o di cui non si è riusciti a stabilire
l'identità.
Espresso solo singolarmente, denota ciò che non si conosce e
che ha
quindi carattere di mistero».
Remus
gli rivolse un sorriso gentile.
«Non
avrei saputo dirlo meglio».
Minima
parve aver perso interesse per l'argomento, poiché si era
chiusa in
un impenetrabile silenzio e non aveva più detto una parola.
Né
Remus né Tonks erano intenzionati a forzarla,
così l'argomento era
stato presto sostituito da qualcosa dai contenuti più
allegri.
Dopo
quella sera, Minima non aveva più parlato della morte, ma
entrambi,
tuttavia, sapevano che la questione fremeva ancora nella sua mente.
Come Tonks ripeteva in continuazione, Minima aveva ereditato il
brutto vizio del padre di tenere per sé i problemi; fin
quando non
avesse voluto lei, non se ne sarebbe più discusso.
Tonks
dubitava che ci fosse questa sua delicata paura alla base della sua
repulsione per Serpeverde, ma era più che intenzionata ad
arrivare a
capo della faccenda prima dell'ora di pranzo.
Quando
raggiunse l'entrata di Scribbulus, trovò Minima accucciata
in un
angolino, con le gambe saldamente strette al petto e il busto scosso
da violenti singhiozzi. Fece un respiro profondo –
poiché quello
era indiscutibilmente un pessimo presagio – e si sedette
accanto a
lei, accavallando un piede sull'altro.
«Che
succede?».
Minima
non diede nemmeno segno di averla udita. Tonks intrecciò le
dita e
si accorse che Teddy, Alastor e Andromeda erano in piedi accanto a
lei, in silenziosa attesa. Si domandò per quale motivo Remus
non li
avesse tenuti con sé, quando sapeva perfettamente che Minima
avrebbe
difficilmente aperto bocca in loro presenza. Ne dedusse che la
conversazione con il professor Lumacorno stava sviando verso un
argomento ancora più delicato e fece un sospiro affranto.
«Perché
non andate a dare un'occhiata alla vetrina del Serraglio
Stregato?»
propose loro con un sorriso un po' storto, indicando il negozio
all'altro capo della strada con un cenno del capo.
«Sì!»
esclamò entusiasta Teddy, lanciandosi rapidamente verso
l'emporio di
animali.
«Ho
detto la vetrina, Teddy, non l'intero magazzino!» gli
ricordò a
gran voce Tonks, passandosi una mano fra i capelli. «State
lì, dove
posso vedervi» si rivolse agli altri due. «E se
Teddy muove un solo
piede fuori dal mio campo visivo, avete il permesso di atterrarlo e
prenderlo a calci nel didietro».
Alastor
e Andromeda ridacchiarono fra loro e si affrettarono a seguire il
fratello, che già saltellava davanti al Serraglio Stregato
in preda
all'euforia. Rimasta finalmente sola con Minima, Tonks cercò
di
riprendere la conversazione.
«Cos'è
successo?».
La
bambina scosse con ferrea decisione il capo e Tonks, con un lieve
sospiro, appoggiò la nuca all'ingresso di Scribbulus e
iniziò a
scrutare distrattamente le tegole del tetto dell'edificio di fronte.
«Posso
raccontarti una storia da grandi, Minerva?»
domandò d'un tratto,
intrecciando fra loro le dita e arricciando il naso pensierosa.
Al
suono del proprio nome di battesimo, Minima sollevò la testa
con
aria circospetta: era oltremodo insolito che qualcuno la chiamasse
Minerva. Perfino Andromeda Tonks, che si era sempre dichiarata
contraria a sciocchezze come i nomignoli, aveva preso l'abitudine di
chiamarla semplicemente Minima. Alcuni dei loro conoscenti,
oltretutto, dovevano faticare non poco prima di ricordare quale
fosse, effettivamente, il vero nome della bambina.
«Molto
da grandi, intendo» riprese Tonks, scrutandola in
tralice.
Minima
annuì una volta e si asciugò rapidamente il naso
con la manica del
vestito.
«È
una storia che inizia molto tempo fa, quando nessuno di voi era
ancora nato. Nemmeno io ero ancora nata, in effetti»
iniziò a
raccontare. «Tanti anni fa, c'era una famiglia Purosangue
molto
ricca, potente e temuta».
«Purosangue?».
Tonks
si mordicchiò pensierosa il labbro inferiore, chiedendosi se
esistesse realmente il modo di trasformare una storia ricca di orrore
in una favola per bambini.
«È
una parola un po' vecchia. Un Purosangue è qualcuno che non
ha
nessun parente Babbano. Ormai, non ce ne sono molti».
«Noi
lo siamo?».
«No.
I miei nonni erano Babbani» spiegò semplicemente
Tonks. «E c'è
stato un tempo in cui certi Purosangue credevano che i Babbani
fossero... beh, che non fossero alla loro altezza e che non
meritassero la magia».
«Ed
è vero?».
«Certo
che no. È una sciocchezza. Ma alcuni lo credevano al punto
da odiare
ogni Babbano, ogni figlio di Babbano e chiunque non condividesse il
loro pensiero».
Minima
aggrottò pensierosamente la fronte.
«Odiare
non è una bella cosa» commentò placida.
«Anche questa famiglia
fortissima odiava così tanta gente?».
«Oh,
sì... eccome».
«E
perché li odiavano? I Babbani gli avevano fatto delle cose
brutte?».
Tonks
fece un profondo respiro.
«Niente
di brutto. Li odiavano perché erano tutti pazzi. E cattivi.
Molto,
molto cattivi» rispose.
«Ed
erano Serpeverde?».
Tonks
annuì appena.
«Lo
sapevo!» strillò infervorata Minima, picchiando i
piedi per terra e
guardando la madre come se questa l'avesse appena tradita.
«Lo
sapevo! Lo sapevo! Lo sapevo!».
«Ehi,
uragano Minima, fammi finire!» la interruppe con un mezzo
sorriso
Tonks, afferrandole scherzosamente un orecchio e muovendole appena la
testa. «C'era anche una ragazza. Una bella, giovane strega
che
faceva parte di quella famiglia di pazzi. E pure lei era una
Serpeverde».
«Era
cattiva, allora».
«No,
non lo era. Era buona e gentile, e quando divenne più
grande,
s'innamorò perdutamente di un NatoBabbano – uno
con i genitori
Babbani. Quando la scoprirono, i suoi genitori andarono su tutte le
furie».
Minima
aggrottò confusa le sopracciglia.
«Perché?».
«Perché
non volevano che lei lo sposasse».
«Perché?».
«Perché
lui era un Babbano».
«Oh»
commentò semplicemente Minima, grattandosi una guancia.
«E poi?».
«La
costrinsero a scegliere. Se avesse rinunciato a quel ragazzo, avrebbe
vissuto nello sfarzo e nel lusso per tutto il resto della propria
vita, circondata da oro, gioielli e bei vestiti. Sarebbe stata
ricchissima».
«E
se non lo faceva?».
«Se
non avesse rinunciato a lui, avrebbe perso ogni cosa».
«Cos'ha
fatto?».
Tonks
fece un sorriso sghembo.
«Rinunciò
alle montagne di Galeoni, ai ricchi manieri e agli abiti ricamati.
Scelse di stare con il giovane di cui era innamorata e di affrontare
ogni difficoltà della vita con le proprie forze. Sapeva a
cosa
sarebbe andata in contro: lui era uno squattrinato e lei non aveva
più nulla, ma a nessuno di loro importava qualcosa. Rimasero
poveri
in canna fino alla fine, ma non smisero mai di amarsi».
«E
lei era una Serpeverde?» domandò circospetta
Minima, inclinando la
testa. «Non ci credo».
«Potrai
domandarglielo di persona, se vorrai» rispose divertita
Tonks.
«Stasera, a cena».
Minima
scosse il capo.
«Ma
stasera ceniamo dalla nonna».
Tonks
fece un sorriso storto e le scompigliò i capelli scuri.
«Lo
so».
*
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Capitolo 7 *** Cene di famiglia ***
Note
dell'Autrice – sempre discutibilmente utili:
La
mia visione di Andromeda Tonks è scriteriatamente mutata nel
corso
del tempo. All'inizio, credevo fosse adorabile, perché una
Black che
sposa un Nato Babbano non può che essere buona, gentile e adorabile.
Poi sono cresciuta e ho capito che no, se uno è un
bastardo,
rimane bastardo. Voglio dire, pure Sirius Black è un Black
atipico,
ma rimane comunque un maledetto infame. Fighissimo infame, okay, ma
sempre infame.
Nota
numero due, in questa storia Andromeda Tonks sarà sempre
definita
con l'appellativo di “signora
Tonks”,
perché a)
non voglio confonderla con quella in versione mignon e b) fa
più
figo, perché pure Molly Weasley è sempre e
soltanto “la
signora Weasley”.
La
Casa Stornella
Capitolo
Sei
Cene
di famiglia
È
un dato di fatto come maghi e streghe invecchino ben più
lentamente
dei Babbani. I loro capelli tendono a ingrigire e a cadere attorno
agli ottant'anni; le mani raggrinziscono, le ossa si piegano e i
muscoli si sgonfiano solo dopo parecchie decine di anni; i denti si
indeboliscono quando ormai si ha un secolo di vita alle spalle. Per
qualunque Babbano, un mago di settant'anni non potrebbe mai
dimostrarne più di una cinquantina – perfino una
quarantina, se il
mago in questione è particolarmente avvenente.
Andromeda
Tonks, oltre ad essere una strega, era anche una Black,
e
c'era poco da stupirsi che all'età di cinquantacinque anni
fosse
ancora una delle più affascinanti donne dell'intera
comunità
magica. Sebbene la perdita del marito continuasse ad essere una
profonda, profondissima ferita, la signora Tonks era stata in grado
di restare saldamente in piedi, aggrappandosi con quanta più
forza
disponesse a tutto ciò che le era rimasto: prima uno, poi
due, poi
tre, e infine quattro nipoti con due genitori a suo parere
inaffidabili si erano rivelati un motivo oltremodo sufficiente per
mantenere la testa sulle spalle.
Amava
sua figlia (e con il passare degli anni doveva ammettere di aver
iniziato a nutrire un certo attaccamento anche nei riguardi di
Remus), ma era troppo vivace e scalmanata. Ora che era diventata un
pezzo grosso all'interno del Quartier Generale degli Auror, qualcuno
già vociferava che ne sarebbe presto diventata il capo e
Andromeda
sapeva perfettamente quali sarebbero state le conseguenze: i suoi
nipoti sarebbero cresciuti con una madre perennemente rinchiusa in un
ufficio e un padre che rincasava alla sera tardi per poi sparire per
ore a correggere centinaia di pergamene.
In
realtà, la gestione del tempo e del lavoro a Casa Stornella
era
perfettamente equilibrata e sebbene la signora Tonks fosse
perennemente contrariata, sapevano tutti che amava tenere i bambini
quando la figlia e il genero erano entrambi impegnati con il lavoro.
Ma era una Black, e il melodramma, in qualche modo, le era rimasto
appiccicato come una Gomma Bolle Bollenti sotto la suola delle
raffinate scarpette.
«...e
mentre quella carogna di Catriona Chittock usciva dal negozio di
Marjorie con quelle sue guance gonfie rosse quanto due pomodori, si
è
incastrata nella porta d'ingresso» stava raccontando con tono
leggero la signora Tonks. «Una scena scandalosa, credetemi.
Un Troll
avrebbe causato meno imbarazzo».
Remus
e Tonks sollevarono le teste dalla cena e si scambiarono uno sguardo
eloquente. Sapevano entrambi che il contegnoso modo di raccontare
della signora Tonks era tutto una farsa: lei e Marjorie McClan
odiavano la signora Chittock dacché era ancora la signorina
Pennifold, e nessuno dei due si sarebbe stupito, se avessero scoperto
che tanto Andromeda quanto Madama McClan erano coinvolte
nell'umiliante episodio.
«Ci
sono i Troll a Diagon Alley?» domandò con stupore
Teddy, mentre i
suoi occhi vispi brillavano di curiosità.
«Perché non li ho mai
visti?».
«I
Troll non vivono in città» commentò
rapidamente Alastor. «Vivono
solo nei pressi dei fiumi, nelle foreste e sulle montagne».
«Lo
so!» ribatté l'altro indignato. «Ma,
magari, qualcuno poteva
averceli portati».
«Non
dire sciocchezze, Ted» lo ammonì con pratica
accondiscendenza la
signora Tonks. «Chi potrebbe mai essere tanto pazzo da
portare un
Troll a Diagon Alley?».
«Hagrid»
rispose d'impulso Remus, mentre infilzava con aria scettica un pezzo
agnello arrosto particolarmente bruciacchiato. «Lo scorso
mese ha
cercato di camuffare un Erkling da Gnomo. Non è una scelta
particolarmente saggia, portare in una scuola un animale che si nutre
di...» mosse la mano a mezz'aria con un gesto eloquente.
«Beh,
sapete entrambe di cosa si nutre».
«Di
bambini» rispose con innocente candore Minima, alzando di
colpo il
viso dal proprio piatto e attirando su di sé diversi sguardi
sconcertati.
«Che
forza!» commentò dopo un istante di silenzio
Teddy, con un bagliore
preoccupantemente eccitato negli occhi. «Papà,
possiamo...?».
«No,
non compreremo un Erkling».
*
«È
vero ciò che si dice sulla professoressa Sprite,
Remus?» domandò
con sincero interesse la signora Tonks, mentre sorseggiava un sorso
di té con il mignolo destro alzato con estrema
signorilità.
Remus
sollevò perplesso entrambe le sopracciglia e le rivolse un
sorriso
gentile.
«Cosa,
di preciso?».
«Ma
che andrà in pensione alla fine del prossimo anno
scolastico,
ovviamente».
«Ah»
disse lui. «No, in realtà, non ha ancora preso una
decisione
definitiva».
«Eppure,
si dice che lei e la Preside McGranitt abbiano già trovato
un
sostituto».
«Ehm...
beh, temo siano solo congetture, per il momento e...» si
fermò
improvvisamente, accigliato. Socchiuse gli occhi e scrutò la
signora
Tonks con profondo scetticismo. «Andromeda... da chi
l'hai
saputo?».
Lei
dovette trovare quella domanda piuttosto ridicola, perché
fece una
smorfia che pareva voler dire “io sono Andromeda
Tonks, santo
cielo!”.
«Dal
professor Lumacorno. Da chi altri, sennò? Tu non hai mai la
decenza
di informarmi su ciò che accade o non accade a Hogwarts. Non
che
Ninfadora dimostri un garbo maggiore, naturalmente, ma...».
«Oh,
che Tosca m'aiuti!» esclamò Tonks, comodamente
rannicchiata sul
piccolo divanetto del soggiorno e con la testa mollemente sostenuta
sul palmo della mano.
Remus
l'aveva intravista occhieggiare con palese insistenza verso il grande
orologio a pendolo dacché si erano accomodati per bere la
consueta
tazza di tè dopo la spaventosa cena. Aveva imparato a
riconoscere il
preludio ad una litigata “in stile Tonks”
da parecchi
anni, ormai, ed era più che pronto a trovare rapidamente una
scusa
per sfuggirne.
«Mamma,
non puoi pretendere che io e Remus ti snoccioliamo tutto quello che
succede a Hogwarts e al Ministero ogni dannata volta.
Qualcuno potrebbe pensare che sei stata assoldata da qualche
psicopatico terrorista».
«È
questione di buona
conversazione, Ninfadora. Non posso credere che...».
«Non
chiamarmi
Ninfadora!».
Remus
chiuse le
palpebre e appoggiò la nuca al cuscino della poltrona con un
sospiro
affranto. Forse, si disse, avrebbe potuto sgattaiolare al piano di
sopra prima di essere tirato in causa: avrebbe fatto qualunque cosa,
pur di evitare un simile pericolo. Dopo qualche minuto, la causa
della discussione originaria era già stata dimenticata, ma
ormai
erano stati riaperti troppi vecchi quesiti per poter sperare che le
acque si riappacificassero rapidamente. Remus considerò di
lasciar
loro almeno una dozzina di anni di tempo per sistemare la
conflittualità del loro rapporto; avrebbe potuto prendere
con sé i
bambini ed emigrare all'estero fino a quel meraviglioso giorno. Si
stava giusto crogiolando nella fantasia di un viaggio attraverso
l'Europa centrale, quando si sentì tirare con insistenza la
manica
della camicia.
«Papà,
la mamma e la
nonna litigano ancora?» pigolò tristemente
Andromeda.
«No,
no, no! Non
stanno litigando» mentì con un sorriso di
spudorata serenità lui,
aggiustandole un ricciolo biondo dietro all'orecchio sinistro.
«È
solo il loro modo di parlare l'una con l'altra, questo. Sai, quando
sono insieme, hanno così tante belle cose da raccontarsi che
vogliono essere certe che l'altra le senta bene».
«Ecco
perché urlano
sempre».
Remus
dovette
appellarsi a tutto il suo controllo per non scoppiare a ridere. In
quel preciso istante, alle sue spalle, la signora Tonks stava
gridando qualcosa a proposito di un vestito di pizzo che non era mai
stato sufficientemente apprezzato dalla figlia e quella, da gran
donna di classe qual era, lo aveva appena paragonato al deretano di
un Goblin – o qualcosa del genere.
«Papà?»
riprese con
più sicurezza Andromeda.
«Sì?».
«Non
riusciamo più a
trovare Minima».
*
«Che
significa “sparita”,
Alastor?» s'informò accoratamente la signora
Tonks. «Come può
Minerva essere “sparita”?».
Ritti
in mezzo al
corridoio del primo piano, i tre bambini si scambiarono uno sguardo
preoccupato.
«Non
vogliamo
sgridarvi» li rassicurò in fretta Remus, infilando
le mani nelle
tasche e appoggiandosi alla parete con aria tranquilla.
«Vogliamo
solo capire dove può essersi nascosta».
«Non
lo sappiamo!»
scosse la testa Alastor. «Prima stavamo giocando a nascondino
e poi
non l'abbiamo più vista! L'abbiamo cercata dappertutto, ma
è come
se fosse sparita nel nulla!».
«Beh,
direi che ha
proprio vinto, allora» commentò divertita Tonks.
«Che
sciocchezze»
commentò la signora Tonks. «E dove dovrebbe essere
andata? Nel
forno insieme al mio rognone?».
«Oh,
no! Alastor, Dromeda! Andiamo!» gridò allarmato
Teddy,
precipitandosi verso le scale e seguito a ruota libera dal fratello e
dalla sorella. «Dobbiamo salvarla prima che quello
se
la mangi!».
«“Quello”?»
ripeté oltraggiata la signora Tonks. «“Quello”
è il mio rognone!».
Tonks
ebbe la creanza
di attendere giusto un paio di istanti prima di scoppiare in una
sfrenata risata. Remus si portò una mano alla bocca per
trattenere
le risa, ma quando la signora Tonks lo fulminò con
un'occhiata, si
dimostrò molto accorto nell'assumere un'espressione
assolutamente
colpevole e pentita. Tonks, al contrario, continuò a ridere
sfrenatamente ed ebbe qualche problema ad informarli che sarebbe
scesa lei, in cucina, per controllare che i figli non combinassero
qualche guaio. Remus e la signora Tonks riuscirono a sentire la sua
risata fin quando non si fu richiusa la porta della cucina alle
spalle.
«Il
mio rognone è davvero
così
cattivo?»
domandò lei qualche secondo dopo, con un'espressione
talmente
affrante e delusa che Remus proprio non se la sentì di
assentire.
«Certo
che no» le
rispose con sfrontata sicurezza. «Coraggio, Campanellino,
dove
preferisci cercare la nostra Bimba Sperduta?».
La
signora Tonks
aggrottò torva le sopracciglia.
«Era
una battuta?».
«Ehm,
avrebbe dovuto
esserlo, sì».
«Una
battuta Babbana?».
«Sì.
Sì, temo di
sì...».
Lei
annuì un paio di
volte, mentre Remus si umettava imbarazzato le labbra.
«Era
ridicola»
commentò francamente la donna, avviandosi lungo il corridoio
con
passo pratico. «Da' un'occhiata nelle camere da letto, mentre
io
controllo in soffitta».
«Certo».
«Ah!
Remus! Un'ultima
cosa...» lo richiamò improvvisamente la signora
Tonks.
«Sì?».
Le
labbra della strega
si arricciarono in un sorriso di bieca soddisfazione.
«Bada
che io ho sempre
tifato per Capitan Uncino».
*
Erano
anni che la
signora Tonks non risaliva la piccola scala di legno che portava alla
soffitta della sua piccola e curata villetta. Erano così
tanti, in
effetti, che quasi aveva dimenticato quanto fosse scomoda, di che
colore fosse e quanto fosse poco illuminata. Mentre apriva la piccola
porticina chiara con un movimento sbrigativo della bacchetta, si rese
conto per l'ennesima volta di non averla mai dimenticata – di
non
averla mai richiusa.
Erano
trascorsi nove
anni dacché vi era salita, con Remus accanto a lei, le mani
saldamente strette attorno ai suoi fianchi e la voce roca che
sussurrava frasi confortanti di cui la signora Tonks non aveva mai
davvero ascoltato le parole. Ed era stato sempre Remus a incantare il
baule in cui avevano religiosamente riposto la maggior parte degli
oggetti che erano appartenuti a Ted in modo che librasse sopra le
loro testa, verso quella soffitta oscura in cui sarebbe rimasto per
sempre sepolto. Non era necessario che Andromeda seguisse quel grigio
corteo. Non era necessario che nessuno di loro lo seguisse, ma fu
naturale: era come una richiesta mai espressa, come un fatto di
ineluttabile concretezza – come qualcosa da cui non potevano
sfuggire.
C'era
Remus, accanto
alla signora Tonks, e c'era Tonks, subito dietro, con i capelli
scoloriti e il piccolo Teddy con la chioma variopinta fra le braccia.
E poi c'era l'altro Ted, quello dentro al baule
che guidava
tutti loro verso quell'ultimo congedo familiare.
Risalire
quelle scale,
per la signora Tonks, era una sfida che aveva continuato ad evitare
da quel giorno. Non sapeva dove avesse trovato la naturalezza di
lasciare a Remus il compito di stanare Minima nelle stanze da letto.
Una parte di sé, si rese improvvisamente conto, non aveva
nemmeno
pensato a cosa avesse sigillato nella soffitta.
Mentre
posava il piede
sul primo gradino, sorrise serenamente. Era certa che se lui fosse
stato ancora vivo, avrebbe perfino avuto la sfrontatezza di dirgli:
“Ce l'ho fatta, Ted. Ce l'ho proprio fatta”.
*
L'istinto
della signora
Tonks non la deluse affatto: Minima era proprio lì, dove
meno ci si
sarebbe aspettato di trovarla.
Era
piuttosto raro che
i suoi nipoti si inoltrassero nella soffitta. Non che mancassero di
spirito d'avventura (Teddy ne era così ricolmo che avrebbe
potuto
dividerlo con altri dieci bambini e sarebbero comunque stati tutti
troppo curiosi), ma avevano imparato che i loro pellegrinaggi in
quell'anfratto polveroso avevano sempre il potere di rattristarla, in
un modo o nell'altro. Poco importava che fosse a causa di una vecchia
pipa sbeccata o di una sciarpa gialla e nera di cui domandavano
insistentemente informazioni: la nonna diventava sempre malinconica e
silenziosa, mentre raccontava loro di quanto fumasse o di cosa
facesse a scuola il nonno. Come se avessero stretto fra loro un
tacito accorto, quei piccoli furti di passato si erano fatti via via
sempre meno frequenti.
«Minima?»
la chiamò
gentilmente la signora Tonks.
Minima
era seduta a
gambe incrociate sotto al lucernario al centro del tetto e
sembrò
fingere a tutti i costi di non aver sentito la voce della nonna.
«Minerva?»
ritentò con maggiore insistenza quella, avvicinandosi
lentamente a
lei. Ad ogni passo, leggere nuvolette di polvere si sollevavano
attorno a lei. «Minerva, cosa fai
quassù?».
«Volevo
vincere»
mormorò la bambina con aria distratta. «Qui non mi
cercava
nessuno».
«Non
stento a
crederlo. Non si riuscirebbe a trovare nemmeno un Gigante, con questo
buio».
Non
ottenendo nessuna
risposta, la signora Tonks iniziò ad avvertire un insolito
disagio
ed Appellò una vecchia poltrona che ammuffiva in un angolo
da
decenni.
«Gratta
e netta».
Riconobbe
ciò che
Minima stringeva fra le piccole mani solo dopo essersi seduta.
Sebbene fosse trascorsa una vita intera dal giorno in cui la Gazzetta
del Profeta aveva pubblicato quell'articolo, per lei sarebbe stato
impossibile dimenticarsene. Nulla di quanto giaceva in quella
soffitta poteva essere dimenticato.
«Dove
hai trovato quel
ritaglio di giornale?» le domandò subito,
accorgendosi troppo tardi
dell'involontario tono brusco.
«Qui»
rispose lei,
alzando appena il mento.
La
signora Tonks
imprecò mentalmente. Non sarebbe nemmeno riuscita a spiegare
per
quale diavolo di motivo avesse conservato quel diavolo di articolo
per tutti quegli anni. Risaliva all'inverno del 1981 e non le aveva
mai causato nient'altro che dolore; eppure, per qualche strano
motivo, non era riuscita a trattenersi dalla necessità di
conservarlo.
«Questa
sei tu,
nonna?».
Con
un profondo
respiro, la signora Tonks allungò una mano verso di lei e
afferrò
la vecchia stampa con la sensazione che si sarebbe sbriciolata fra le
sue dita. Venne attraversata da un brivido di freddo nell'incrociare
ancora una volta gli occhi scuri e alienati di Bellatrix.
Non
l'aveva mai temuta
– mai, nemmeno quando aveva tentato di
ucciderla dopo la sua
fuga – ma c'era sempre stato nel suo sguardo qualcosa di
tremendamente spaventoso. Era sempre stata sbagliata, Bellatrix, fin
da quando erano nate. Era sempre stata troppo spaventosa
e
sbagliata, perfino in una famiglia spaventosa e sbagliata come quella
dei Black. La sorella maggiore le rideva da quella fotografia con
arrogante presunzione, come se volesse rimarcare di aver vinto
qualcosa di quella maledetta guerra, nonostante tutto. Era
probabilmente un'idea malsana, ma la signora Tonks aveva davvero
l'impressione che Bellatrix fosse lì per ricordare soltanto
a lei,
ventisei anni dopo essere stata fotografata, che aveva perduto.
Bellatrix si era sbarazzata di Ted, alla fine dei giochi – e
in
qualche assurdo modo aveva vinto lei.
«No»
smentì in
fretta. «No, non sono io».
«E
chi è? Sembri
proprio te».
La
signora Tonks si
umettò nervosamente le labbra e appoggiò
stancamente il capo alla
poltrona.
«Nessuno»
mentì con
voce flebile. «È solo una donna che mi
assomigliava molto. Non ha
niente a che fare con noi».
A
parte il fatto che
ha ammazzato tuo nonno.
Se
Minima trovò quella
risposta poco esauriente, non lo diede a vedere. Si alzò con
calma
dal pavimento, si scrollò un po' di polvere dalle ginocchia
e mosse
qualche passo in direzione della nonna, accanto la quale rimase in
silenzio per qualche istante, fissando intensamente la vecchia
fotografia.
«È
bella, ma tu sei
più bella» commentò con innocente
schiettezza.
La
signora Tonks le
carezzò leggermente i capelli scuri con un lieve sorriso
sulle
labbra. Lei e la sorella maggiore si erano sempre assomigliate ben
più di quanto nessuna delle due avrebbe desiderato: i suoi
capelli
erano un poco più chiari, ma ricadevano con la stessa
composta
eleganza sulle spalle; i suoi occhi erano solo vagamente più
grandi,
ma brillavano della stessa energica determinazione; le loro labbra
avevano la stessa linea sottile, ma le sue sorridevano con maggiore
frequenza. E amavano entrambe nello stesso feroce modo, con la stessa
totale devozione – ma, alla fine, Bellatrix aveva scelto di
essere
fedele all'uomo sbagliato.
Minima
le assomigliava
più di quanto la signora Tonks non avesse immaginato e, allo
stesso
tempo, le assomigliava molto meno di quanto non avesse potuto
sperare. Ne aveva tragicamente ereditato l'aspetto (e talvolta aveva
quasi l'impressione di parlare con la stessa bambina che un tempo era
stata sua sorella), ma della casata dei Black non era rimasto niente
che potesse rigenerare in lei quella perversione e quell'insana
follia che Bellatrix aveva fomentato per tutta la vita. Minima era
Minerva Lupin, e tanto bastava a placare le chiacchiere insistenti
che si levavano da Diagon Alley. Era un caso, tutt'al più,
un buffo
scherzo della sorte.
“ I Black non si
vogliono proprio estinguere!” esclamava qualcuno
talvolta.
Un
parte della signora
Tonks, tuttavia, continuava a temere che un giorno quella malsana
somiglianza avrebbe potuto causarle dei problemi. Bellatrix faceva
parte di un passato troppo presente e drammatico per poter essere
dimenticata e Minima, per sua disgrazia, rischiava di venirne
intaccata. Come la signora Tonks, Minima sfoggiava impunemente tutti
i tratti riconducibili alla famiglia Black, e la signora Tonks era
perfettamente a conoscenza di quante difficoltà si trascinassero dietro.
«Nonna?».
«Sì?».
«Raccontami
la storia
della ragazza che si è innamorata ed è scappata
di casa».
La
signora Tonks
sorrise di nuovo. Ma, forse, pensò mentre aiutava Minima a
salirle sulle
gambe, Bellatrix non era riuscita a vincere proprio un accidente.
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Capitolo 8 *** Cene di lavoro ***
Note
dell'Autrice – sempre discutibilmente utili:
Sono
desolata per l'incredibile ritardo, ma in questo periodo la mia
ispirazione ha toccato l'apice della depressione. Chiedo perdono.
In
questa long-fic, Harry non è
ancora Capo degli Auror. Harry ha sconfitto Lord V. con un culo fuori
da ogni logica, gente, e io non voglio rendermi colpevole di aver
messo la sicurezza magica della Gran Bretagna nelle mani del
Prescelto più fortunato che la letteratura abbia mai visto.
Senza
offesa, eh, Harry? Adoro i tuoi occhiali, ma con metà del
tuo
fondoschiena avrei già fatto trentasei
all'Enalotto.
La
Casa Stornella
Capitolo
Sette
Cene di lavoro
La
gente tendeva a
ricordare con parecchia chiarezza i grossi occhiali cerchiati di
Percy Weasley. Fin dagli anni di Hogwarts, avevano sempre avuto la
capacità di aumentare notevolmente l'impetto visivo del
giovane
mago, incrementando ogni visibile sfaccettatura del suo carattere
serio e puntiglioso. Erano occhiali particolarmente grossi e
antiquati, e il vizio di Percy di aggiustarseli in continuazione sul
lungo naso dritto non faceva che attirare maggiormente l'attenzione
su quanto fosse effettivamente ridicolo. A Percy, ovviamente, certi
dettagli del comune senso estetico erano completamenti sconosciuti e,
sebbene si vociferasse che una certa Audrey dell'Ufficio Passaporta
trovasse quegli occhiali particolarmente
affascinanti,
l'impressione che si era soliti avere circa il personaggio di Percy
Weasley era piuttosto gravosa.
Non
avendo mai avuto
modo di conoscere il terzogenito della famiglia Weasley prima della
Battaglia di Hogwarts, Tonks aveva imparato a combattere la sua
rigida pignoleria nel peggior campo di guerra: il Ministero della
Magia, patria della burocrazia più inutile e degli accumuli
di
scartoffie cartacee. Con il trascorrere degli anni, poteva ben dire
di aver raggiunto un buon livello di resistenza ai suoi micidiali
interventi, ma non aveva ancora la prontezza di reazione di George
Weasley e, talvolta, Percy continuava ancora ad averla vinta.
«...ed
il punto che vado specificatamente sottolineando, Auror Tonks,
è
dunque il seguente: laddove vengono a mostrarsi lacune, inefficienze
o mancanze di professionalità che difficilmente potrebbero
evitare
lo sguardo critico della delegazione francese di Monsieur Chevalier,
il Ministro Shacklebolt invita al repentino ripristino
dell'adeguatezza richiesta dalle norme vigenti, con particolare
attenzione, nel preciso, a questo
particolare
ripristino».
Senza
distogliere gli
occhi brillanti dall'espressione compita di Percy, Tonks si
umettò
leggermente le labbra e sbatté un paio di volte le palpebre,
senza
tentare minimamente di camuffare il suo desiderio di ridere.
«Mi
sono persa alla
parola “specificatamente”, Percy».
Lui
sollevò di scatto
la testa dalle centinaia di pergamene che stringeva fra le mani.
Aggiustò gli occhiali sul naso nervosamente, fece una
smorfia
stizzita e parve fremere con crescente agitazione.
«Ehi,
non prendertela» scherzò Tonks, portando
nuovamente alla labbra la
tazza da cui stava sorseggiando caffè. «Mi sono
distratta: è una
parola così bella. Credo sia appena diventata la mia parola
preferita del giorno».
«Non
mi prenda in
giro».
«Ti
sto solo specificatamente
chiedendo
di ripetere
quello che hai detto. E non c'è bisogno di darmi del lei,
ceniamo insieme almeno quattro o cinque volte al me--».
«Le
sto dicendo, Auror Tonks,
che attendiamo la delegazione di Monsieur Chevalier per il prossimo
martedì. Per quella data, il Ministro Shacklebolt le sarebbe
infinitamente grato se ricomponesse l'ordine in
quest'ufficio».
«Certo.
Dammi un
secondo che cerco l'indirizzo di Mary Poppins sulla mia
agenda...».
«Chi?»
domandò
perplesso Percy, inclinando appena il capo e sistemando ancora gli
occhiali. «Gradirei ricordarle, Auror Tonks, che il personale
non
addetto al Quartier Generale degli Auror deve essere approvato previo
consenso della Commissione Generale del--».
«Percy!»
strillò Tonks. «Stavo solo scherzando».
Lui
parve
particolarmente offeso.
«Io
prendo le mie
competenze con estrema serietà».
«E
dire che non se ne
accorge nessuno!» disse con pesante sarcasmo.
«Quanto talento
sprecato!».
Percy
mosse la mano a
mezz'aria come se la questione avesse perduto improvvisamente di
importanza, cercò con estrema rapidità fra i
plichi di pergamene
che aveva fra le braccia, ne estrasse uno considerevolmente spesso e
lo lasciò cadere sulla scrivania di Tonks.
«“Nuova
Normativa Regolamentare e Cavillosa per il Quartier Generale degli
Auror”»
lesse
attentamente lei, sollevando un sopracciglio.
«“Cavillosa”? Oh,
Tosca, chi è il perverso psicopatico che ha avuto l'idea di
chiamarlo “cavillosa”?».
Lui
assottigliò
pericolosamente gli occhi e, per la terza volta nel giro di pochi
minuti, spostò nervosamente gli occhiali.
«Io».
«Ah,
avrei dovuto
immaginarlo» disse Tonks, sollevando entrambe le mani in
segno di
resa. «Chi, se non il paladino degli idiomi perduti, poteva
chiamarlo “cavillosa”? Ora come ora, sono stupita
che tu non lo
abbia chiamato “specificatamente
cavillosa”».
Percy
ignorò il suo
commento per l'ennesima volta e Tonks si chiese quante di quelle
battute avesse dovuto sopportare l'allampanato giovane durante la sua
adolescenza. Era un Weasley piuttosto atipico, a conti fatti: Bill
aveva sempre camuffato accuratamente un animo piuttosto scanzonato e
irriverente, due caratteristiche che Charlie, al contrario, non si
era mai preoccupato di nascondere. Ginny si era rilevata, se
possibile, peggio di lui e perfino Ron, a modo suo, aveva ereditato
quel non-so-che tutto matto annidato nei geni Weasley. E poi c'erano
stati i gemelli – o quello che di loro era rimasto
– e molte
delle loro bravate erano già diventate leggendarie.
Al
pensiero di Fred
Weasley, Tonks s'incupì un poco e smise di ascoltare il
lontano
ronzio delle parole di Percy. Dalla Battaglia di Hogwarts e dalla
fine della guerra erano trascorsi quasi dieci anni, eppure c'erano
squarci e ferite da cui nessuno di loro sarebbe mai guarito.
«Tonks,
mi ha
sentito?».
Tonks
lo fissò con
sguardo ebete e una vocina dentro la sua testa bisbigliò
“certo,
come no”. Annuì con estrema lentezza, senza avere
la più pallida
idea di cosa Percy avesse appena blaterato.
«Non
voglio problemi con Monsieur Chevalier, Tonks» le
sibilò. «Sono
mesi
che
organizzo ogni singolo dettaglio. Legga
quelle pergamene e riorganizzi
le
sue squadre».
«Perché
io?»
chiese con voce lamentosa Tonks. «Perché non
Robards? È lui, il
capo!».
«Gawain
Robards è troppo impegnato per potersi dedicare anche
a
questo. Il Ministro ha
suggerito che se ne occupi lei».
«Kingsley
ti
ha suggerito... cosa?
Scherzi?
Quel
figlio di--».
«Auror!»
la ammonì con voce isterica Percy, raddrizzando ancora gli
occhiali.
«Non si rivolga al Ministro come--».
«Tua
madre ha invitato
anche lui, stasera?» lo interruppe lestamente Tonks,
incrociando
stizzita le braccia al petto.
«Tonks,
non... le
faccende familiari non--».
«Faccende
familiari? Faccende
familiari!?
La sola
faccenda familiare è che lo ammazzo prima della torta di
rabarbaro,
ecco qual è la faccenda familiare! Quel dannato!
È il padrino del
mio secondogenito e si permette di... di... di...»
ringhiò a pugni
stretti. «Io lo ammazzerò, Percy, quindi ti
consiglio
specificatamente
di
correre a cercare un nuovo Ministro della Magia».
Percy
si passò
stancamente una mano sulla fronte.
«Naturalmente,
naturalmente...» la liquidò in fretta.
«La lascio alle sue
scalmane, agente Tonks. Impari la Nuova Normativa
Regolamentare e
Cavillosa per il Quartier Generale degli Auror e prepari
l'ufficio per Monsieur Chevalier».
Con
un'ultima occhiata
sprezzante, Percy girò sui tacchi e uscì dal
cubicolo in cui
lavorava Tonks. Non appena lui e le sue ridondanti pergamene furono
spariti dalla sua vista, Tonks imprecò con estrema
volgarità. Le
facce arrossate di Charles Savage e Philibert Proudfoot fecero
improvvisamente capolino nel suo cubicolo. Agli occhi di Tonks, era
fin troppo chiaro che i due colleghi avevano sghignazzato sotto i
baffi per tutta la durata del suo colloquio con Percy (e molti altri
avevano sicuramente origliato ogni parola).
«Avete
poco da ridere,
bastardi» disse loro con aria depressa, sprofondando
nuovamente
nella poltrona e afferrando la tazza di caffè.
«Siete fregati
quanto me, voi due».
*
«Lui
dov'è?».
Presa
alla sprovvista,
Molly Weasley sbatté un paio di volte le palpebre con aria
confusa.
Asciugò le piccole mani tozze nel lungo grembiule che
indossava,
sfilò la bacchetta magica dalla tasca e spense la radio con
un
leggero colpetto.
Sebbene
la nascita dei
nipoti si fosse rivelata un balsamo per il vuoto lasciato dalla
tragica scomparsa di Fred, il suo carattere nervoso e protettivo si
era via via acuito con il trascorrere del tempo. I suoi costanti
preparativi di ricche e prelibate cene alle quali avrebbero
partecipato tutti i componenti del clan Weasley avevano qualcosa di
vagamente ossessivo. Pareva proprio che il rito della cena
settimanale alla Tana avesse assunto un connotato profondamente
terapeutico per la signora Weasley, come se le teste rosse che
tornavano a popolare la vecchia dimora potessero portare con loro un poco di
Fred. In realtà, pareva quasi che per ognuno di loro i
ritrovi alla
Tana possedessero il potere di lenire ogni ferita che la guerra aveva
lasciato squarciata.
Ognuno
di loro aveva
perso qualcosa e ognuno di loro aveva bisogno di ricordare che la
vita, in qualche modo ironico e perverso, doveva proseguire con la
stessa briosa serenità degli anni precedenti.
Il
grande giardino
della Tana veniva circondato da efficienti Incantesimi Riscaldanti
ogni venerdì sera dacché i più piccoli
avevano memoria e la casa
sembrava infiammarsi con decine di teste rosse, piccoli maghi e
streghe alle prese con le prime incontrollabili magie e coppie di
genitori che sfoggiavano sorrisi sfiniti.
Remus
aveva tentato
inutilmente di dissuadere Tonks dall'intento di generare un putiferio
quel venerdì sera: quando se l'era vista capitombolare nel
salotto
di Casa Stornella, poche ore prima, si era ritrovato piuttosto
impreparato dinanzi alla sua implacabile furia. Aveva parlato di
uccidere il Ministro della Magia, nonché loro grande amico e
padrino
di Alastor, come aveva gentilmente cercato di ricordarle, ma nulla di
quanto avesse detto sembrava aver funzionato.
Ed
ora era lì, dritto
e rassegnato alle spalle della moglie che aveva iniziato a sondare
ogni angolo della Tana alla ricerca del profilo alto e scuro di
Kingsley Shacklebolt con la minacciosa intenzione di Trasfigurarlo in
una teiera.
Vedendola
varcare la
soglia con la foga di un crociato, la signora Weasley aveva sbattuto
un paio di volte gli occhi e aveva rivolto a Remus uno sguardo
perplesso. Mentre cercava di contenere l'entusiasmo con cui Teddy
continuava a saltellarle attorno, disse:
«Per
tutti gli gnomi del Devonshire, chi
sta
cercando?».
«Kingsley»
rispose
brevemente Remus con un'alzata di spalle. «Temo
che...».
«Oh,
no!» urlò improvvisamente la signora Weasley.
«No, no, no! Niente
lavoro al venerdì sera!
Tonks!».
Remus
la guardò
svanire di corsa dietro la scia della moglie con più
rapidità di
una Materializzazione. Fece un sospiro affranto e alzò le
mani in
segno di resa.
«Bene,
ragazzi» disse ai figli. «Andiamo a cercare-- dov'è
Teddy?».
«Roxanne
ha dei nuovi
Fuochi d'Artificio Freddi» spiegò candidamente
Alastor.
Remus
sospirò di nuovo
e fissò il viso dei tre figli più piccoli
illuminarsi di infantile
speranza.
«Potete
andare».
I
bambini erano svaniti
prima ancora che potesse terminare la frase.
*
«Alla
buon'ora!»
gridò Bill Weasley quando Remus ebbe raggiunto il retro
della Tana.
Una
lunghissima
tavolata blu si estendeva per diversi metri – tutt'attorno
dovevano
esserci le soliti trenta sedie, in effetti – splendidamente
illuminata da decine di fluttuanti torce. Sebbene la primavera fosse
ancora piuttosto lontana, gli Incantesimi Riscaldanti generavano a
loro tutti la stessa placida sensazione di caldo di una serata
estiva.
Mentre
Bill si
avvicinava, Remus sfilò la giacca e se la ripiegò
delicatamente sul
braccio. Nonostante gli mancasse poco al traguardo dei quarant'anni,
Bill Weasley sfoggiava ancora un invidiabile prestanza fisica e una
brillante chioma rosso fuoco. Le insistenti pretese della signora
Weasley si erano rilevate sempre più vane: pareva che con
l'avanzare
dell'età la decisione del suo primogenito di portare i
capelli “come
un mendicante di Notturn Alley” si fosse ormai cementata.
Sembrava
ormai impossibile immaginare Bill Weasley con i capelli corti. Alle
sue spalle, George e Ron gli rivolsero un allegro sorriso.
L'affiatamento
fra i
due più giovani fratelli era notevolmente incrementato
dacché Ron
aveva deciso di aiutare George nell'impresa dei Tiri Vispi. Per
George, la perdita di Fred aveva causato la perdita di ogni altra
cosa; l'intero clan Weasley aveva dovuto riemergere con feroce
costanza dalle proprie ceneri e ognuno di loro avrebbe conservato in
eterno il segno della prematura scomparsa di Fred, ma George, fra
tutti, era quello precipitato più a fondo.
Recuperare
ciò che era
rimasto di George Weasley era stato talmente difficile da far
scivolare nella disperazione la maggior parte di loro. Era
incredibile che dopo aver resistito a Lord Voldemort e ai suoi
Mangiamorte quando nessun altro aveva conservato la speranza, i
Weasley si arrendessero davanti all'apatia dalla quale George aveva
scelto di farsi anestetizzare.
Ripensare
a quel
ragazzo pallido e distrutto e rivederlo in quel momento, con una
sgargiante maglietta verde su cui spiccava la scritta “miglior
papà del mondo” e il sorriso frizzante
stampato sul faccione
lentigginoso, avrebbe ridato la speranza all'uomo più
disgraziato
dell'intero pianeta.
«Ehi,
Remus» lo
salutò allegramente.
«Ragazzi»
ricambiò
lui. Lanciò un'occhiata penetrante in direzione di George e
inclinò
pensieroso il capo. «Quanti Fuochi d'Artificio Freddi ti sono
rimasti?».
«Almeno
una dozzina,
amico mio».
«Ti
offro il doppio
del loro valore per farli sparire dalla vista di Teddy per almeno un
paio di ore».
Mentre
George e Ron
scoppiavano a ridere, Bill gli assestò una sonora pacca
sulla
schiena e indicò brevemente con la testa il gruppetto di
bambini che
schiamazzavano accanto agli alberi che separavano le ampie campagne
di Ottery St. Catchpole dalla Tana.
«Tranquillo.
Ho pagato
Victoire per vigilare costantemente sul resto del branco».
«Pagato?».
«Una
Bacchetta di
Liquirizia prima di cena» gli confessò in
orecchio. «Ti offro il
doppio di quanto ho offerto a lei per non dirlo a Fleur».
«Remus!»
gridò
improvvisamente Harry, spuntando d'un colpo e facendo sobbalzare
entrambi.
Indossava
ancora la
veste d'ordinanza del Quartier Generale degli Auror e il profondo
sorriso che sfoggiava non riusciva a coprire appieno il velo di
stanchezza che appannava i suoi occhi verdi al di là degli
occhiali
rotondi. Talvolta, per Remus era difficile rendersi conto che Harry
era diventato un uomo (nonché marito e padre),
così come gli era
difficile per ognuno dei ragazzi che aveva visto sedere fra i banchi
dell'aula di Difesa Contro le Arti Oscure. Capitava che si lasciasse
trasportare dal ricordo del neonato che era stato un tempo, quando
Lily e James erano vivi e Sirius era più lontano da Azkaban
e dalla
morte di quanto non lo sarebbe mai più stato; dal ragazzino
con i
capelli scompigliati che aveva incontrato di nuovo sull'Hogwarts
Express, al quale aveva insegnato come evocare correttamente un
Incanto Patronus e al quale aveva riconsegnato la Mappa del
Malandrino senza il minimo morso della coscienza. E poi c'era Ron,
quel ragazzetto smilzo e magro come un allocco e con il naso lungo
ricoperto di lentiggini; Hermione, con i suoi capelli crespi e i
denti sporgenti; Ginny, con la folta zazzera danzante e il sorriso
impacciato da bambina; Neville, tutto sua madre, con il suo rospo
stretto fra le mani paffute.
Remus
si chiedeva
spesso se si sarebbe mai rassegnato a quella lieve nostalgia nel
rivedere tutti quei vecchi ragazzi diventare sempre più
adulti, ma
una grande parte della sua testa, con tutta franchezza, non sarebbe
mai stata pronta ad abbandonarla: il tempo che continuava a scorrere
era il lieto fine per cui ognuno di loro aveva deciso di combattere e
morire, dunque perché rattristarsene?
«Harry,
sembri
distrutto» commentò Bill con un cipiglio
preoccupato.
«Sì,
amico, bella
faccia» scherzò rapidamente Ron, porgendo due
bicchieri di Vino
Elfico verso lui e Remus.
«Ehi,
Ron, mostra un
po' di comprensione» continuò Bill. «Tua
sorella è pazza e
incinta».
«Non
è pazza...»
mormorò Harry, grattandosi la nuca. «È
solo... incinta».
«Ah,
Angelina mi ha
fatto impazzire tanto con Roxanne quanto con Freddie!» si
intromise
George, sollevando le mani in segno di resa. «Era così
pazza
che qualche volta avrei tanto voluto essere io, quello sul divano a
lamentarmi delle caviglie pesanti».
«Fleur
è uscita di
senno solo con Dominique e Louis. Si agitava in continuazione,
strepitava in francese, io non capivo un accidente di quello che
stava dicendo, sbagliavo immancabilmente ogni cosa e lei strepitava
ancora di più. Se non sono finito al San Mungo allora,
sarò immune
per il resto della mia vita».
«Beh,
di certo io
rimarrò immune ad avere altri bambini»
sentenziò con estrema
decisione Ron. «Rose è già
sufficientemente perfetta».
«Giusto»
annuì
seriamente George. «Non vale la pena rischiare che il
secondogenito
prenda dal padre».
Il
gruppetto scoppiò
in una nuova tiepida risatina. Senza aggiungere altro, i quattro
maghi più giovani si voltarono interessati verso Remus, che
era
rimasto ad ascoltare i brevi resoconti delle gravidanze delle
rispettive moglie con aria estranea. Lui sorseggiò un goccio
di vino
e alzò distrattamente le spalle.
«Non
guardate me:
Tonks è calma e ragionevole solo quando aspetta un
bambino... temo
sia il motivo principale per il quale ora sono padre di quattro
figli, in effetti» rispose loro, scatenando altre
risate.
«Ve
lo dicevo, io, che
licantropi e quasi licantropi non sono più fertili degli
umani!»
ridacchiò Bill, strizzando fugacemente un occhio verso
Remus. «Sono
soltanto impareggiabili nel--».
L'eco
vicino di una
donna che strillava impedì a tutti loro di conoscere in
quale campo,
secondo Bill Weasley, lui e Remus avrebbero dovuto essere
impareggiabili. Si voltarono tutti verso la porta della cucina che si
affacciava sul retro del giardino appena in tempo per vedere Tonks
agitare le braccia al vento con una sfolgorante chioma rosso
peperone, la signora Weasley sbuffare con le gote arrossate nel
tentativo di spingerla fuori dalla Tana, l'alta figura di Percy
seguirla con uno sguardo di boriosa rassegnazione e Kingsley
Shacklebolt, ultimo membro di quello strano corteo, appoggiarsi con
una spalla allo stipite di legno e ridacchiare con estremo
divertimento all'indirizzo di Tonks.
«Tu!
Maledetto
bastardo di un Ministro bastardo!»
strillò stizzita Tonks,
voltando la testa e cercando di incendiare Kingsley con uno sguardo
oltre le rotondette forme della signora Weasley.
«Tonks!»
la
rimproverò lestamente lei.
«Si
dà il caso che
tuo figlio e il tuo Ministro
della Magia stiano
cercando uccidermi! E ora spostati, Molly, o ti arresterò
per
resistenza a pubblico ufficiale!».
Remus
si sentì
improvvisamente fissato da svariate persone. Li guardò uno a
uno,
scosse la testa e terminò di bere il proprio bicchiere di
Vino
Elfico.
«A
costo di sembrare
ripetitivo, non guardate me» disse.
Harry
si sistemò gli
occhiali sul naso e ridacchiò:
«Beh,
Remus, direi che
puoi accantonare l'ipotesi di un quintogenito in arrivo».
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