And I leave behind this hurricane of fuckin' lies

di Guitarist_Inside
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** And I leave behind this hurricane of fuckin’ lies / Introduction. Or something like that… ***
Capitolo 2: *** Welcome to the East Bay… ***
Capitolo 3: *** Some call it slum, some call it nice ***
Capitolo 4: *** I wanna find something I've wanted all along… Somewhere I belong ***
Capitolo 5: *** East Bay Night ***
Capitolo 6: *** Memories I wish I didn’t have / It’s easier to run, replacing this pain with something numb… ***
Capitolo 7: *** My weakness is that I care too much ***



Capitolo 1
*** And I leave behind this hurricane of fuckin’ lies / Introduction. Or something like that… ***


Ehm… Hi everybody! :)
Che ci faccio qui? Beh, me lo sto chiedendo anch’io. Più precisamente, mi sto chiedendo per quale ragione, con una long-fic (o meglio “Sclero Mentale Formato Famiglia”) non ancora terminata né tantomeno in fase finale, dati i miei tempi d’aggiornamento non proprio “brevi” dovuti a 2571586 cause (tra cui la mancanza d’ispirazione, il torchio sotto cui la sQQuola ci tiene quasi costantemente, il mio “caaaaro” PC mattoide che spesso e volentieri finisce per impallarsi, la mia fottuta pigrizia, e altre 1039 varie ed eventuali), mi sto accingendo a postare un’altra fic – Sclero Mentale Formato Famiglia…
Il motivo principale è che quest’idea mi ronzava in testa da fin troppo tempo, chiedendo sempre più insistentemente di essere sviluppata e messa per iscritto… E alla fine, su “consiglio” della cara ShopaHolic, ho ceduto (xD). So, here I am.
Detto ciò, mi auguro (come mio solito) di non stare per pubblicare una Boiata con la B maiuscola, o qualcosa di troppo scontato/stereotipato, o cose così… (And, obviously, I hope you like it…)
Fatemi sapere che ne pensate ;)




Soundtrack: Jesus of Suburbia (Green Day)

CAPITOLO 1
And I leave behind this hurricane of fuckin’ lies /
Introduction. Or something like that…


Eccomi.
Here I am.
Finalmente, potrei aggiungere.
Finalmente posso lasciarmi alle spalle un uragano di fottutissime bugie a cui non appartengo.
Finalmente posso prendere in mano la mia vita.

Ho percorso quella stramaledetta strada un milione ed una fottutissima volta, ma ora basta, questa volta non sarà più così.
Ho vissuto senza respirare per troppo tempo, e non ho intenzione di continuare a farlo, in una tragica situazione di morte mascherata da vita.
E quindi, beh, eccomi. Eccomi qui, che fuggo da quel mondo di cazzate ed ipocrisia, che vuol farti credere solo e soltanto ciò che più aggrada un dannatissimo Sistema, che tutto ciò che vuole da te è sfruttarti e renderti incapace di pensare con la tua testa. Un Sistema per il quale se osi ribellarti ad esso diventi una minaccia, o qualcosa del genere, e di conseguenza vieni quindi isolato da quella massa di pecoroni che lo seguono senza porsi troppe domande e tentano di farti credere che sei tu quello sbagliato.
E quindi, eccomi qui, che non ne posso più, e che cerco di lasciarmi alle spalle tutto ciò, questa terra di false credenze che non crede in me ed in cui nemmeno io credo. Anzi, me ne frego altamente, o almeno così tento di fare.
Eccomi qui, dunque, che cerco di scappare da tutto questo, diventato fin troppo opprimente, per provare a trovare quello in cui IO credo.

Direte che ho fatto una scelta fin troppo drastica, che ho esagerato, che sono pazza, o altre cazzate del genere. Ma voi non siete me. Voi non abitate nei contorti meandri della mia mente. Voi non avete vissuto quello che ho vissuto io. Voi non potete capire assolutamente niente di tutto ciò, quindi non fate i finti saccenti che si prodigano a dire le solite, ennesime, boiate.
Ah, ma ora è finita. Ora si cambia.
Ora decido io quel che voglio fare oppure no, non lascerò più che qualcosa mi venga imposto.
E questo è il primo passo.

Vedo che alcuni qui mi guardano in modo strano. Vedo che molti tengono gli occhi puntati su di me, su quella che vedono come una ragazza strana, incomprensibile, per loro.
Già, perché certo loro non possono comprendere una diciottenne stufa marcia di una società completamente basata sull’ipocrisia, sull’apparire, sul “vita mea morte tua”, sull’adattarsi ad un fottutissimo Sistema, come tanti pecoroni senza cervello che si bevono ogni cosa che il Potente e i mass media vogliono far loro credere.
Non possono comprendere una diciottenne che s’è rotta definitivamente di dover sopportare una situazione familiare, perfettamente adeguata a questo sistema, che non sente come sua (e a guardar bene neanche lo è…) e che cerca di imporle ciò che deve e non deve fare.
Non possono comprendere una diciottenne che non può più sopportare di essere guardata dall’alto in basso o giudicata solo per il suo anticonformismo, solo perché ha il coraggio di usare il proprio cervello, di dire ciò che realmente pensa, di non omologarsi al Sistema, ai pregiudizi e a tutto il resto. Non che di questo me ne freghi più di tanto, ormai ho imparato ad essere me stessa nonostante quello che possa dire o pensare la fottutissima Maggioranza. Ma, paradossalmente, tutto ciò mi irrita assai. Mi irrita essere sempre la unica e sola pecora nera, e mi irrita come tutti gli altri si ritengano dannatamente superiori. Cosa che, tra l’altro, non sono affatto, a mio parere.
Non possono comprendere come mai la Maggioranza mi isoli, chi per ribrezzo, chi per paura, chi per vattelappesca cosa. E non possono comprendere come a me della loro falsa compagnia non possa fregarmene di meno.
Non possono comprendere la frustrazione, la rabbia che alberga in me.
Non possono comprendere nemmeno l’amore che talvolta fa capolino nella mia mente, a fianco della rabbia. Già, amore e rabbia, la storia della mia vita potrebbe essere completamente ricollegata a queste due parole…
Ma ora non devo dilungarmi su questo, se no finirei di scrivere domattina data l’immensità di cose che potrei dire su questo argomento… ma domattina certamente non sarò ancora qui, mi auguro!
No, non devo perdere, come al solito, il filo del discorso.
Dunque, tornando a ciò che stavo dicendo prima, non possono certamente comprendere come una tale diciottenne, coi capelli spettinati neri e blu, una maglia della sua band preferita, un paio di jeans strappati (per il tanto utilizzo), un paio di Converse consumate e scribacchiate con frasi tratte da canzoni che riescono a comprenderla più di molte altre persone, un paio di cuffie nelle orecchie, una matassa di sogni infranti e non, tanta rabbia repressa, e un milione di altre cose, possa avere così tante cose da scrivere su questo benedetto/maledetto quadernetto.
Non possono comprendere come mai questa diciottenne, sola, con un paio di valigie, uno zainetto ed una chitarra elettrica, abbia deciso di prendere un last minute diretto a San Francisco.
In sintesi, non possono capire un benemerito nulla.
Ma, a detta loro, non sono LORO quelli che non possono capire, no. Sono IO quella pazza, quella anormale. Sono IO il problema. Oh, sì, è molto più semplice attribuire il problema ad un singolo individuo che si ribella al Sistema, piuttosto che al Sistema stesso. È più facile, più irresistibilmente comodo, riversare la “colpa” su una singola persona che non si omologa, rispetto che all’intera massa comandata a bacchetta da mode, tendenze e “pacchetti di vita preconfezionati”, che vende il proprio cervello, sopprime i propri gusti e le proprie idee per adeguarsi al gregge, da cui altrimenti non verrebbe accettato…
Fottuti ipocriti.

***


Amy lasciò cadere la penna tra le pagine e chiuse il quadernetto che aveva eletto a suo personale diario.
Era da parecchi anni che non ne teneva uno, e si stava chiedendo perché diavolo avesse deciso di ricominciare proprio in quel momento, su quell’aereo.
Forse perché era ad un punto di svolta radicale nella sua vita.
Forse perché aveva bisogno di sfogare, scrivendo su un quaderno oltremodo personale, ciò che le attraversava la mente, ciò che la turbava, ciò che desiderava, e molte altre cose, per non far esplodere il suo cervello affollato.
Forse perché voleva far chiarezza tra i suoi pensieri.
Forse perché aveva bisogno di confidare queste cose, ma non voleva o poteva farlo con un amico fidato.
Un amico fidato, già.
Amy, con la sua indipendenza, la sua trasgressività, la sua rabbia, i suoi ideali, le sue fantasie, la sua brillante intelligenza mischiata ad uno stravagante senso d’originalità e rifiuto verso ogni forma d’ipocrisia e di autoritarismo, il suo inconfutabile rifiuto ad omologarsi al Sistema, il suo carattere particolare che quasi nessuno sapeva prendere per il cosiddetto verso giusto, e mille altre qualità abbinate ad altrettanti difetti, era quello che poteva essere definito un tipo solitario.
Saul, l’unico vero amico che Amy si era fatta, conosciuto quando avevano entrambi 11 anni, anch’egli una sorta di pecora nera, con cui la ragazza avrebbe quindi potuto confidarsi e psicanalizzare i suoi pensieri, i suoi ricordi e i suoi progetti, purtroppo tre anni prima aveva dovuto trasferirsi con la famiglia in Australia, dall’altra parte del globo, da dove proveniva la madre e dove il ragazzo aveva vissuto i primi anni della sua infanzia. Inutile dire quanto entrambi avevano sofferto e ancora soffrivano per questo distacco, e nonostante avessero continuato a sentirsi frequentemente tramite Internet, avvertivano molto la mancanza del “contatto” fisico.
Ad ogni modo, Amy doveva moltissimo ad Internet. Perché era grazie al suo computer e alla sua connessione, entrambi autofinanziati dalla ragazza, che questa poteva comunicare, ridere e sfogarsi con persone che potessero capirla. E, per lei, queste persone rappresentavano davvero molto. E tra queste, quelle a cui era più legata, quelle con cui aveva stabilito una relazione di intendimento reciproco, erano, appunto, Saul, e Alexander (Alex). Quest’ultimo, l’aveva conosciuto quasi per caso due anni addietro, grazie ad un forum in lingua Inglese-Americana (altra passione della ragazza, dovuta forse anche a parte delle sue origini) che trattava di musica, in particolar modo di Rock, Punk, Metal e derivati vari; generi molto amati da Amy. Lì, la ragazza aveva iniziato a “parlare” (o meglio, scrivere) con Alex, un ragazzo americano di tre anni più grande di lei che le era sembrato condividere con lei svariate passioni. Le sue impressioni si erano rivelate esatte, e i due si erano scoperti veramente simili. Pian piano, avevano iniziato a confrontarsi su argomenti sempre più personali, fino ad arrivare ad una situazione di estrema fiducia e disponibilità, di straordinaria comprensione reciproca, in cui i due parlavano senza problemi di ogni cosa.
E così, Alex era diventato come una specie di fratello maggiore per Amy.
Un giorno, qualche mese prima della partenza della ragazza, Alex le aveva detto che, se lei non fosse più riuscita a sopportare la situazione in cui si trovava suo malgrado immersa, le avrebbe potuto offrire “asilo politico” (come lo aveva definito, scherzando) a casa sua. Amy era rimasta un attimo stupita da così tanta e gratuita disponibilità, e aveva iniziato a chiedergli ripetutamente se non fosse un disturbo, un problema, per lui, se non lei fosse stata d’impiccio, eccetera, perché non voleva approfittarne né nulla di simile. Il ragazzo allora si era fatto serio, confutando ogni suo dubbio, terminando il discorso con uno scherzoso obbligo con cui chiedeva ad Amy di fuggire da tutto ciò che la opprimeva e trasferirsi lì da lui.
Alex era residente a Berkeley, nella East Bay di San Francisco, in California. Ed era lì, appunto, che Amy era diretta.

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Capitolo 2
*** Welcome to the East Bay… ***


Hey!
Duuuunque, per prima cosa un grandissimo grazie a voi che avete letto e, in particolar modo a voi che avete recensito (ShopaHolic e m i n o r i t y *__*). Riguardo a quest’ultime, direi che con questa “nuova” fic – S.M.F.F. (Sclero Mentale Formato Famiglia) inizierò ad usare quella bell’invenzione che è il form per la risposta alle recensioni, senza intasare come al mio solito con un angolo di idiozie e ringraziamenti questo spazio sopra al capitolo, non appena il mio PC me lo permetterà… :)
Premesso che mi fa molto ma molto piacere che, almeno dalle impressioni ricevute, l’idea non sia male, il primo capitolo vi è piaciuto, e ne vale la pena di continuare a scrivere questa fic… Ho continuato :D.
Mi spiace se è passato un bel po’ di tempo prima che riuscissi ad aggiornare, ormai è diventata una consuetudine che non riesco ad eliminare… Tra una cosa e l’altra, prima il torchio della scuola fino a metà giugno, poi balle varie, oltre alla mia troppa non-convinzione, mi hanno impedito di postare prima…
Sumimasen (I’m sorry).
Per “non-convinzione” intendo dire che questo second capitolo è stato un po’ difficile, nel senso che non mi convince appieno. Voglio dire, sembra un po’ uno di quei brevi capitoli dall’apparenza inutile, che poi, però, rivelano anche la loro utilità, quindi non potevo eliminarlo perché sarebbe parso che mancasse un pezzo, una parte della storia… Un po’ come (perdonatemi il paragone ma al momento non me ne vengono altri), nell’ambito di anime e manga, i cosiddetti
filler: certo, se uno vuole può saltarli e la comprensione generale della storia non ne rimane intaccata in particolar modo, però, magari oltre che divertire, proprio quei capitoli “filler” aiutano a comprendere meglio un particolare, oppure integrano alcuni aspetti della vicenda permettendo di capire meglio come si è arrivati a qualcosa (una situazione, un comportamento, eccetera), perché un determinato personaggio è in quel posto in quel momento a fare quelle cose, etc…
Ok, mi sono dilungata troppo, pardon ^^”. Ad ogni modo, anche se non mi convinceva appieno, proprio per questi motive sopra citati, oltre al fatto che se avessi cancellato tutto forse non avrei fatto in tempo a postare prima di partire a fine mese… Eccomi qui a postare anche questo secondo capitolo!
An, un’ultima cosa poi vi lascio (finalmente… lo so, ancora una volta mi sono persa e ho scritto un papiro) al capitolo… Ho già scritto, in momenti di ispirazione, metà del terzo capitolo (in realtà sarebbe stato un quarto, ma per motivi di tempo ho deciso di dividerlo in due parti – che probabilmente saranno intervallate da un quarto capitolo di cui ho già, anche per “lui”, un bel po’ di appunti scritti – , in modo da riuscire, magari, a postare ancora prima di settembre – sarò a casa, dotata di connessione ad Internet, qualche giorno a fine luglio… e
magari potrei postare qualcosa…)

Ok, ora, come promesso, vi lascio al capitolo (siate clementi! ^^” LOL), sperando che neanche ‘sta volta sia una totale Boiata e possa piacervi almeno un po’… Fatemi sapere cosa ne pensate! Lasciare una recensione, della lunghezza che volete, per dirmi che ci siete, farmi sapere la vostra idea e darmi eventuali consigli, non mi pare che abbia mai ucciso nessuno! LOL (voce-fuori-campo: “Non postarla invece, costituirà motivo per essere azzannati a morte…”; just kidding, just kidding XD ..Ad ogni modo, mi farebbe sempre molto piacere!)
Well, see ya soon!






CAPITOLO 2
Welcome to the East Bay…


Mi guardai intorno, in mezzo a tutta quella gente che andava e veniva, in quella confusione che sembrava seguire una sorta d’ordinata frenesia.
Ero riuscita a riottenere le mie valige, che avevo preso pochi minuti prima dal nastro trasportatore, e che ora giacevano quiete al mio fianco, una in corrispondenza ciascuna mano, accompagnate dal mio “piccolo-ma-non-troppo” amplificatore. Mi ero messa lo zaino in spalla, ma nonostante ciò ero riuscita a portare sulla schiena anche la custodia morbida contenente la mia amata chitarra, facendo una magistrale attenzione a non rovinarla. Diciamo che me la cavavo ad arrangiarmi… Comunque, dato che mi ero fermata, decisi fosse cosa più saggia appoggiarla a terra, anch’essa accanto a me, più precisamente tra il mio fianco destro, il mio braccio e la valigia che giaceva da quella parte. A completare il quadro, le cuffie appollaiate sulla mia spalla destra, il cui filo spariva nella tasca dei jeans, dove avevo riposto il mio iPod ormai scarico.
Mi guardai di nuovo intorno, scrutando la folla, alla ricerca di Alex.
Gettai una veloce occhiata all’orologio: per una frazione di secondo rimasi di stucco, leggendo l’ora sul quadrante che mi pareva quanto mai improbabile confrontata al tramonto che tingeva il cielo, per poi darmi della stupida ricordando che lo strumento era ancora sintonizzato sull’orario italiano. Quindi, fatto un rapido calcolo del fuso orario, regolai di conseguenza l’orologio nove ore indietro, per evitare altri equivoci.
Non passarono due secondi che alzai nuovamente il polso, per ricontrollare l’orario: i troppi pensieri che vagavano e si aggrovigliavano nella mia mente avevano già sopraffatto quell’informazione.
19:43. Diciassette minuti alle 8 di sera.
L’appuntamento che avevamo concordato il giorno precedente era lì, alle 8 meno 20.
Beh, poco male, pensai: Alex sarebbe arrivato di lì a poco, non era mai troppo in ritardo.
Aguzzai nuovamente la vista, esaminando la gente che passava.
Poi, ad un tratto, sentii qualcuno chiamare il mio nome, alle mie spalle.
Sobbalzai sensibilmente, ma non saprei spiegarne esattamente il motivo.
Per un attimo mi sembrò come se fosse la prima volta che sentissi quel nome, il mio nome. E mi parve finalmente detto con la sua giusta, autentica, pronuncia, e con il giusto tono che gli si addiceva.
Per un attimo mi parve di cogliere l’essenza di quel nome. Per un attimo.
Non feci in tempo a voltarmi che una mano si poggiò, non proprio delicatamente, sulla mia spalla sinistra.
Non potei fare a meno di ridacchiare, scuotendo debolmente la testa.
Sapevo già a chi apparteneva, e girandomi ottenni la conferma, trovando, a pochi centimetri dal mio viso, il suo, su cui spiccava un sorriso smagliante, sincero, ed al tempo stesso beffardo, mentre due occhi di quel colore così peculiare erano intenti a fissarmi.
Nel frattempo, con la mano libera, scostò, con un gesto veloce, un ciuffo ribelle che il vento gli aveva gettato poco gentilmente davanti alla faccia, coprendogli parte del campo visivo. Poi alzò suddetta mano, in cenno di saluto.
Sì, era proprio lui.
Ancora stentavo a crederci, era tutto dannatamente troppo bello per essere vero…
– Hey Alex! –
Se non avessi avuto chitarra, zaino e valige che dipendevano dalla mia posizione, probabilmente l’avrei abbracciato, forse anche di slancio, come si vede fare in quei film dove due si ritrovano dopo tanto tempo ad una stazione o che-so-io. Nonostante tutto ciò non fosse nelle mie consuetudini, forse l’avrei anche fatto, dati la felicità, l’entusiasmo del momento, e quell’aria di libertà che arrivava inebriante ai miei polmoni…
– Hey Amy! – rispose lui, continuando a sfoderare il suo sorriso a trentadue denti – Welcome to the East Bay!
Poi raccolse da terra le mie due valige e, prima che potessi ringraziarlo, mi fece cenno di seguirlo.
Raccolsi la mia chitarra, l’amplificatore, e lo raggiunsi.
– Hey, grazie… Di tutto, volgio dire… – gli dissi non appena fui nuovamente al suo fianco.
Lui, in risposta, alzò semplicemente le spalle, pronunciando a mezza voce un “no probs”, per poi cambiare argomento.
– Beh, che te ne pare? – fece poi, mentre uscivamo dall’aeroporto.
– Che me ne pare… di cosa? –
– Di tutto… Voglio dire, del viaggio, di San Francisco, della East Bay, dell’aria che tira qui, della tua nuova vita che ti aspetta, eccetera… –
– Domandina semplice semplice, eh? – risi io, ironica.
– Più o meno – rispose lui, cogliendo la palla al balzo, con finta indifferenza ed un ghigno velato.
– Beh, una cosa è certa: il viaggio poteva andare peggio, San Francisco e la Bay Area le sto vedendo dal vivo ora per la prima volta, ma nonostante tutto si prospettano fottutamente un’assoluta figata; l’aria che tira qui mi sembra più libera e leggera di quella che mi soffocava prima in Italia, e per la nuova vita… beh, boh. Ci sono tante aspettative, un intrico che non ti immagini di sogni, ed un altro di timori, e un altro ancora di ogni sorta di sentimenti che provo o potrei provare che si mischiano in una matassa così complessa e intricata che ora non ho voglia di mettermi qui a srotolare per tentare di capirci qualcosa… Insomma, ho già troppi problemi di mio, un cervello pazzoide affaticato dal viaggio e tutto il resto, e dobbiamo arrivare da te prima di notte fonda, no? Quindi mi sa che per ora non ho il tempo di analizzare tutto ciò. – feci una pausa e ridacchiai – Che te ne pare, come risposta? Può andare? –
Dopo avermi ascoltato con quell’attenzione che lo distingueva da tutti gli altri, rimase in silenzio un’altra manciata di secondi, continuando a camminare accanto a me, e assumendo un’aria quasi pensierosa.
– Uhm… Sì, per ora potrebbe andare… – disse poi, con finta aria di sufficienza, per poi scoppiare a ridere due secondi dopo, non riuscendo più a trattenersi – Sei forte, ragazza! Te l’ho già detto, sì? Beh, chissenefotte, te lo dico ancora: sei fottutamente forte! – ribadì, battendomi una pacca sulla spalla.

– Senti… Ho dietro qualche soldo… Prendiamo un taxi, ok? Così arriviamo in un tempo decente, e poi se non sei troppo stanca molliamo giù la tua roba e ti porto in giro a vedere un po’ la zona, ti va? – propose Alex.
Yeah, it would be great… – sorrisi – Però… – aggiunsi due secondi dopo, più seria, riflettendo – Voglio dire, non è così tardi, possiamo andare anche coi mezzi e… –
– Mica vado in miseria per un taxi! – esclamò lui, quasi ferito in quello che si suole chiamare orgoglio, prima ancora che potessi terminare la frase – E poi, dobbiamo festeggiare, no? – terminò, mutando espressione in un sorriso allegro.
Scossi debolmente la testa, mentre le mie labbra tornavano a piegarsi all’insù.
Se quel ragazzo si metteva in testa una cosa, era difficile fargli cambiare idea. Avrei dovuto averlo imparato, ormai.
D’altra parte, anch’io avevo un bel caratterino, e quando mi impuntavo era difficile distogliermi dal mio obiettivo: sarebbe stata dura prevedere chi l’avrebbe spuntata tra noi due se avessimo insistito. Ma in quel momento non avevo voglia di ostinarmi: insomma, se riteneva di poter prendere un taxi senza problemi, perché dovevo rifiutare una gentilezza e litigare per una cazzata? Certamente ci sarebbe rimasto male, magari si sarebbe anche sentito davvero ferito in quel suo fottutissimo orgoglio, e le prime avvisaglie stavano già in quell’esclamazione fin troppo celere con cui aveva interrotto la mia obiezione… Nah, non valeva assolutamente la pena litigare per una cazzata del genere, anche se poi ci sarebbe passata velocemente e tutto.
E quel suo sorriso mi faceva propendere per la sua proposta. In fondo, aveva ragione: dovevamo festeggiare.
– Ok, allora… – acconsentii – Se per te non è un problema… –
– Ma figurati! Let’s go! – rispose lui, prima ancora di lasciarmi terminare.
Poco più di cinque minuti dopo eravamo seduti su un taxi ad attraversare il Golden Gate.
Dio, era davvero fantastico!
Il ponte era veramente lunghissimo, sembrava non finire mai, ma la vista, dorata ed imbrunita dagli ultimi raggi del sole, che trapassavano l’aria di quella calda ma piacevole giornata di inizio estate che stava giungendo a termine, per poi specchiarsi sull’acqua e rischiarare le terre sotto di noi, la rendevano davvero magnifica… E il fatto che per me quel ponte rappresentasse una specie di passaggio simbolico e fondamentale della mia vita, un punto di svolta vitale che mi portava verso nuovi orizzonti che si prospettavano misteriosi ma, in qualche modo, comunque interessanti e freschi di libertà… beh, non faceva altro che renderla ancor più speciale.
Perché quella giornata, una qualsiasi giornata di un qualsiasi mese di un qualsiasi anno, una giornata che si sussegue ad un’altra, quella giornata dall’apparenza innocente e “normale”, beh, quella giornata, per me, non era una giornata qualsiasi, ma una giornata speciale, sostanziale nel percorso della mia vita, che speravo veramente cambiasse in meglio.

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Capitolo 3
*** Some call it slum, some call it nice ***


Hey!
Lo so, lo so, anche questa volta mi ritrovo a postare con enooooorme ritardo. I’m sorry, again. Avevo sperato di riuscire ad aggiornare molto prima, almeno questa volta, ma anche se metà capitolo era già grossomodo pronto, il mio computer e il torchio scolastico che a settembre è ripreso mi hanno rallentato assai…
Del capitolo successivo ho già scritto una buona metà, ma questa volta non mi azzardo a promettere un aggiornamento veloce perché non so se poi potrò mantenere la promessa, anche se spero di poter avere presto il tempo e l’ispirazione per continuare e postarlo ;).
Anyway… Prima di postare questo tanto atteso (?) capitolo, voglio ringraziare davvero di cuore coloro che seguono questo mio Sclero Mentale Formato Famiglia TM aka fanfic, ed in particolar modo coloro che mi lasciano una recensione **… Davvero, apprezzo moltissimo sapere la vostra opinione, e vedere aumentare il numerino delle recensioni accanto al titolo della fic mi provoca sempre un sorriso soddisfatto, perché ciò significa che qualcuno ha dedicato del tempo a leggere ciò che ho scritto e a comunicarmi la sua idea, le sue impressioni, eventuali consigli, etc…
E ancora un grazie a ShopaHolic per la recensione (ora vado subito a rispondere, sweetheart) e l’incoraggiamento costante :)
Okay, questa volta sono riuscita a dilungarmi meno del solito nell’introduzione, yeah! xD. Quindi, per non dover cancellare quest’ultima frase, vi lascio al capitolo! Inutile dire che anche questa volta spero sia di vostro gradimento (o che almeno non vi faccia schifo XD), e che sarei contenta se lasciaste una recensione…
See ya! :)






Soundtrack: Welcome To Paradise (Green Day)

“Pay attention to the cracked street and the broken home,
Some call it slum, some call it nice…”
“Dear mother, can you hear me laughing?
It’s been six whole months since I have left your home.
It makes me wonder why I’m still here…
For some strange reasons it’s now feeling like my home,
and I’m never gonna go…”
[ Welcome To Paradise – Green Day ]


CAPITOLO 3
Some call it slum, some call it nice


Scesa dal taxi, raccolsi buona parte del mio bagaglio, chitarra inclusa, cercando con lo sguardo i particolari che avevo visto varie volte nelle foto che mi aveva mostrato Alex, e che ora avrebbero fatto parte della mia nuova casa. Ne osservai anche altri, e cercai di imprimerli nella mia memoria, accanto ai precedenti, cercando di costruirmi in testa una specie di quadro generale della zona.
Non era un quartiere di lusso, anzi, tutt’altro.
Non era una casa di lusso, anzi, tutt’altro.
Ma, onestamente, non me ne poteva fregare di meno.
Ma non perché “a caval donato non si guarda in bocca”, figurati.
Il motivo era perché… Non sapevo neanch’io bene come dirlo. Però, quell’atmosfera, la Baia, quel cielo vespertino, quelle colline e quei grattacieli che si potevano scorgere in lontananza tra gli edifici, quelle strade periferiche di Berkeley, quelle vie dissestate, quelle case rovinate dalle intemperie e dal tempo a cui tuttavia resistevano tenacemente, quegli alberi al lato del viale che avevo di fronte e quel prato selvaggio accanto ad essi, quella panchina solitaria piena di scritte e con un’asse rotta al bordo del marciapiede, quella fermata del bus sconosciuta ai più che si reggeva poco distante, quelle poche auto parcheggiate ai bordi delle strade e quelle che ogni tanto vedevo sfrecciare, quel semaforo in fondo alla via vicino all’incrocio, quel cartello indicante il senso unico, quell’altro indicante Gilman Street (che non distava poi molto da dove mi trovavo), quei lampioni e quei fili elettrici, perfino quel gatto che cercava qualcosa in un bidone rovesciato… insomma, tutto, qui, mi pareva in un certo senso familiare, anche se non sarei riuscita a spiegarne razionalmente il perché.
Tutto questo, alcuni (anzi, probabilmente molti) lo chiamano semplicemente schifezza, squallore; lo vedono solamente, superficialmente, come dei bassifondi dai quali si guarderebbero bene a stare. Altri, invece, riescono a chiamarlo carino, a modo suo affascinante. E questi ultimi hanno i loro motivi per dirlo. Perché, per qualche strana ragione, riconoscono qui quella che chiamano casa, o almeno qualcosa che può assomigliarle.
Ecco, io sentivo di appartenere a questa seconda categoria.
Perché in quel paradiso infernale, beh, mi sentivo molto più a casa che in ogni altro luogo dove ero stata fino ad allora.
Perché riuscivo a assaporare la freschezza della libertà.
Perché riuscivo a riconoscere l’amicizia, quella vera, così rara, autentica ed indissolubile, che ora era al mio fianco, nel senso proprio della parola.
Perché, in quei sobborghi periferici, riuscivo a riconoscere la mia rabbia ed il mio amore, quelli che costituivano la storia della mia vita.
Perché… Perché avrei potuto trovare altri mille “perché”.
I miei pensieri correvano, mentre un leggero vento mi arruffava i capelli più di quanto già non lo fossero, e rinfrescava l’aria di quel tardo pomeriggio estivo che stava per cedere il posto alla sera.
A un tratto, iniziai a ridere, felice.
Nonostante tutto, quel posto mi piaceva, aveva qualcosa di particolare.
Sarei rimasta lì, sì. Non me ne sarei andata, a meno che Alex mi avesse buttato fuori, ma l’ipotesi era alquanto improbabile.
Chissà se quelli che si definivano i miei “genitori” riuscivano a sentirla, quella risata liberatoria.
E, nel caso, chissà se gliene sarebbe fregato qualcosa…
Chissà cosa avevano fatto e pensato constatando l’effettiva veridicità della mia partenza.
Chissà come avevano reagito vedendo che li avevo anticipati: me n’ero andata io, prima ancora che potessero mettere in atto la loro promessa di buttarmi fuori dalla loro casa quando fossi stata maggiorenne, dato che non ero la ragazza modello senza cervello che avrebbero desiderato e non ne potevano più di me (come io non ne potevo più di loro).
Già, chissà

Il corso dei miei pensieri fu interrotto dal rumore del taxi che si rimetteva in moto, passandomi davanti e sparendo in fondo al viale.
– Hey, ci sei? – la voce di Alex fu l’ultimo ingrediente che mi riportò alla realtà.
Annuii.
– Beh, è quello che è… – disse, alzando le spalle, riferendosi al posto – Però, nonostante tutto, può anche piacerti, se lo sai apprezzare…
Alex mosse lo sguardo su ciò che avevo osservato fino a qualche secondo prima, tra le mie elucubrazioni. E sorrise.
– Ma sono sicuro che tu hai tutte le carte in regola per saperlo fare. –
Ci guardammo, e sorrisi anch’io.
Some call it slum, some call it nice… – affermai.
– E tu in quale di questi gruppi ti collocheresti? –
– Nel secondo. –
Non ci fu neanche bisogno di pensarci molto, a come rispondere, perché ci avevo giusto riflettuto poco prima. E Alex, dalla prontezza della mia risposta, lo capì.
Poi, dopo un attimo di silenzio in cui parlarono solamente i nostri sguardi, raccolse la restante parte dei miei bagagli, e si avviò, facendomi cenno di seguirlo.
– Andiamo a casa a lasciar giù le cose, così ti faccio vedere la mia umile dimora e vediamo come possiamo sistemarti… Il resto, la zona e tutto ciò che concerne, te lo presento bene poi! – mi fece.

Arrivammo davanti ad una palazzina disposta su tre livelli, in una condizione non proprio impeccabile. L’appartamento dove viveva Alex si trovava al secondo piano.
– Te l’avevo fatta vedere in una foto un po’ di tempo fa, mi pare… – disse, con un tono che forse tradiva un po’ di imbarazzo.
Confermai.
– Hey, tranquillo, va benissimo! – aggiunsi poi, notando l’intonazione con cui aveva parlato poco prima.
Mi sorrise, e mi fece cenno di seguirlo all’interno del portone, e poi su per le scale.
Nessuno dei due proferì parola finché giungemmo al pianerottolo; notai ancora un certo nervosismo nei suoi movimenti, mentre cercava le chiavi ed apriva la serratura.
– Guarda che dico sul serio! E poi, voglio dire, è grazie a te che ho un posto dove stare… Ogni volta che ci penso non so come ringraziarti, non so davvero come avrei fatto se non avessi conosciuto te… E poi, io non voglio un hotel a 5 stelle, no; mi va benissimo qui, con te. Sul serio, bro. –
Finalmente, l’espressione sul suo viso si rilassò. E non feci in tempo a sorridergli, che mi ritrovai stretta tra le sue braccia.
E in quella stretta trovai il suo modo di dirmi grazie, il suo modo di darmi il benvenuto, nonché la felicità di poter finalmente essere l’uno accanto all’altra.
Soffocai una risata sulla sua spalla e lo abbracciai di rimando.
E rimanemmo così, soltanto noi due, in un frammento d’eternità, nel mezzo di quel piccolo pianerottolo, davanti alla porta socchiusa, con ancora le chiavi inserite nella toppa, del suo appartamento. O meglio, di quello che da ora era il nostro appartamento.
Casa.

– Beh, entra. – mi sussurrò all’orecchio, prima di lasciarmi andare, facendomi cenno di varcare la soglia dell’appartamento.
Non me lo feci ripetere e mi accinsi a raccogliere i miei bagagli. Poi, decisi di lasciarli ancora un attimo sul pavimento: avevo una cosa più urgente da fare.
– Grazie. Grazie davvero. – dissi, alzando la testa nella sua direzione.
– E di che? – rispose lui di rimando, alzando le spalle e ridendo.
Sorrisi, e mi chinai per raccogliere i bagagli che avevo lasciato in attesa, ma una mano mi precedette.
– Hey! – protestai – Riesco a portarli dentro anch’io! –
– Ma guarda te, uno vuol farti una gentilezza e tu a momenti gli mordi la mano! – ribatté Alex.
– Scusa. – mormorai – Non volevo offenderti. È che sono abituata a dovermela cavare sempre da sola e… –
Don’t worry. – mi interruppe lui – Non mi sono mica offeso, figurati… Penso di poter dire di conoscerti bene, e ti capisco… Ma ora non sei più sola. Non mi permetto certo di dirti cosa fare oppure no, ma voglio solo che tu sappia che non devi per forza cavartela da sola, ora meno che mai. Voglio che tu sappia che, quando ne hai bisogno, o semplicemente quando vuoi, basta che tu mi chiami, e io sarò lì al tuo fianco. –
Lo ascoltai in silenzio, ero quasi commossa da quelle parole. Sapevo che era così, era sempre stato così, ma sentirmelo dire di persona, e sapere che ora quelle parole avevano un senso più fisico e reale di quanto l’avessero mai avuto prima, a mezzo globo di distanza, era qualcosa che non saprei spiegare a parole. Ma era indubbiamente fantastico. E pensando che già a nove fottutissimi fusi orari di distanza la sua presenza per me era così forte, la sua vicinanza emotiva era qualcosa di veramente impressionante che mi aveva aiutato innumerevoli volte a rialzarmi, non riuscivo a immaginare come avrebbe potuto diventare ora, che anche la distanza fisica era scomparsa.
– Sarò monotona ma… grazie. Grazie, bro. Ti voglio bene. Ma un bene veramente enorme. – dissi, sincera, ricacciando indietro una lacrima che iniziava a solleticarmi l’occhio – E voglio che tu sappia che lo stesso vale per me, sempre. –
– Grazie a te, sis. – mi mise un braccio attorno alle spalle, gentilmente. – Che dici, le portiamo dentro metà per uno? – disse poi, riferendosi alle valigie ai nostri piedi, per alleggerire quell’atmosfera fin troppo commovente che ci avvolgeva.
Gli fui grata per questo, e, annuendo, iniziai a portare la mia parte di bagagli all’interno dell’appartamento.

– Mi spiace, non è molto grande – la sua voce mi giunse alle spalle – ed è anche alquanto incasinato e… –
– Non devi assolutamente scusarti, Alex. – lo bloccai – Va bene così, grazie. –
– Sicura? – chiese ancora.
Quel ragazzo si stava preoccupando troppo e si stava ponendo problemi inutili. Sapevo che stava facendo il massimo per aiutarmi, e non potevo essergli più grata di così. In fin dei conti, gli ero piombata in casa, ma lui anziché farmelo pesare, pareva felice di ciò, e addirittura sembrava imbarazzato di non potermi offrire qualcosa ritenuto “meglio” dai più.
A me, però, più che la formalità interessava la sostanza, e la sostanza c’era eccome.
E non avrei cambiato quel suo appartamento scalcinato nemmeno con una villa di lusso.
Se per lui non era un peso avere in casa un’altra persona, e mi aveva assicurato millemila volte che ospitare la sua “sis” non lo era affatto, sarei stata assolutamente felice di vivere lì con lui.
Quella strafottuta maggioranza di gente ritenuta perbene avrebbe storto il naso, ma a me andava bene così. Anzi, più che bene, benissimo.
– Certo, pensavo di avertelo già detto prima, no? –
– Già, è vero. Scusami… – farfugliò – Posso appoggiarlo qui lo zaino? – chiese poi, spostando un borsone con un piede.
– Sì, certo, lascialo pure dove vuoi… C’è qualche problema se appoggio qui chitarra ed ampli? – domandai, accennando ad un angolo lasciato sgombro.
– No, figurati, fa come se fossi a casa tua… ora lo è. – rispose lui, ridendo.
– Casa nostra, vorrai dire – lo corressi, con la felicità che traboccava da ogni mio poro.
– Esatto, casa nostra. –

Finito di sistemare i miei bagagli, qualche minuto dopo, ci fermammo un attimo, pochi centimetri l’uno dall’altra, e ci guardammo negli occhi ancora una volta.
Quante cose riuscivo a scorgere, nei riflessi e nelle ombre dei suoi occhi, in quelle sfumature profonde, in quelle iridi così particolari, che sotto quella luce assumevano una tonalità intensa di colore grigio, solcato da striature verdi ed acquamarina, con qualche venatura più scura di cui non riuscivo a definire con esattezza il colore.
Avevo sempre pensato che quegli occhi fossero stupendi. Non solo per il loro colore, ma per l’espressività che riuscivano a comunicare. Quegli occhi che, quando il loro proprietario decideva di chiudersi in sé e non far trapelare nulla, diventavano vitrei ed impenetrabili; ma che con il suo consenso potevano però sciogliersi e diventare lo specchio di tutto ciò che passava per la testa di Alex, i suoi pensieri, le sue emozioni. E allora diventavano veramente stupendi. Tuttavia, il privilegio di poterli vedere in tali condizioni non era riservato a molte persone, e mi ritenevo fortunata a essere annoverata nell’esiguo numero di quelle a cui Alex consentiva di vedere attraverso il suo sguardo così vivo, e a cui permetteva di infiltrarsi nella sua anima e nella sua mente… Così come io facevo con lui. Perché pian piano, approfondendo la nostra conoscenza, entrambi avevamo valutato che valesse davvero la pena di rischiare con e per l’altro, entrambi avevamo deciso di fidarci e di abbandonare la corazza che ci eravamo costruiti negli anni, di esporci, di aprire il nostro mondo all’altro, di rivelare la nostra vera essenza… E quindi anche di permettere all’altro di leggerci negli occhi.

– Ehm… – disse ad un tratto, con voce un po’ imbarazzata, riscuotendomi dal flusso di pensieri e ricordi e riportandomi al presente.
Lo guardai, interrogativa. Cosa c’era, adesso, per essere imbarazzato?
Mi chiedevo cosa stesse per dire.
– Purtroppo ho solo un divano-letto… – iniziò, mentre mi chiedevo dove volesse arrivare a parare – Mi spiace, non ho fatto in tempo a procurarmi un altro materasso… Però, finché non troviamo qualcos’altro, posso lasciarti il divano-letto… Se vuoi io posso dormire lì vicino per terra, sul tappeto, per me non c’è problema… –
Rimasi qualche secondo in silenzio, attonita da tanta ospitalità.
Lui però interpretò il mio silenzio in qualche altro modo: forse pensò che fossi perplessa, contrariata, insicura, o non so cosa, perché ciò che disse dopo mi lasciò ancor più stupita.
– Se no posso anche mettermi di là, che ne so, vicino al tavolo, se preferisci… Oppure… –
Ad un tratto scoppiai a ridere.
Questa volta fu lui che mi guardò sbalordito, e confuso.
– Perché ridi, scusa? – mi chiese, sempre titubante.
– Perché stai esagerando! – risposi, tra le risate. – Voglio dire, è casa tua, e tu vorresti dormire per terra? –
– Beh, dove dovrei mettermi altrimenti? Non vedo molti altri posti… –
– No, assolutamente no, non lo posso permettere. Al massimo dovrei essere io quella che deve dormire per terra, dato che ti sono piombata in casa e… –
– Questo non posso permetterlo io, invece. – mi bloccò, risoluto – Sei mia ospite. –
Gli sorrisi.
– Beh, vuol dire che allora nessuno dei due dormirà per terra. – conclusi.
– E come facciamo, allora? – mi chiese, col tono di uno che non riesce a capire se ha intuito quello che intendi o è completamente fuori strada.
– Beh, se non vedo male quel divano-letto è di una piazza e mezza abbondante, no? –
Annuì.
– Perfetto, allora. – conclusi – Dovremmo starci entrambi. –
Mi guardò un attimo spaesato, senza sapere cosa dire. Poi fu il suo turno di scoppiare a ridere.
– Sicura che per te non sia un problema? – mi chiese poi, un po’ più serio – Cioè, pensavo che… –
– Don’t worry. – lo interruppi, con tono deciso e rassicurante – Se mi assicuri che non mi salterai addosso né mi farai qualche altro brutto scherzo… Per me non ci sono problemi a dormire assieme. –
– Tu mi sorprendi sempre, sis! – esclamò.
Sorrisi, stringendomi nelle spalle.
– Allora me lo prometti? – gli chiesi.
– Prometto. – affermò, portandosi una mano sul cuore – Non ti dico che te lo prometto su ciò a cui tengo di più, perché non mi pare corretto promettere su di te. – aggiunse poi, sorridendomi.
Mi sentii arrossire.
Non ero abituata a tanta dolcezza.
Né ero avvezza a tanta considerazione, a tanta disponibilità, a tanta sincerità, a tanta schiettezza, a tanto amore fraterno, caldo, autentico, leale.
– Non dire queste cose, bro. – sbuffai, divertita – Altrimenti mi fai sentire troppo importante. –
– Lo sei. – mi sussurrò, abbracciandomi, mentre un brivido mi percorreva la schiena.
Lo abbracciai anch’io, ancora una volta, respirando il suo odore, quel profumo agrodolce, per me così rassicurante, che avevo subito imparato a riconoscere, appoggiando la testa nell’incavo del suo collo e asciugandomi fugacemente una lacrima, prima che lui potesse scorgerla.
Ero felice.
Finalmente riuscivo a riassaporare il significato del termine “felicità”, che da molto tempo mi pareva ormai soltanto una parola così vuota, priva di qualsiasi riscontro, sfuggevole, lontana anni luce da me, che avevo quasi dimenticato il suo vero e profondo significato, la sua essenza.
Finalmente, ora, ero felice.

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Capitolo 4
*** I wanna find something I've wanted all along… Somewhere I belong ***


Hey!
Tutto bene?
Sono consapevole che anche questa volta ho deluso le aspettative (se ancora sono sopravvissute) di poter postare il capitolo in tempi decenti… Scuola, tempo, salute, PC e ispirazione non mi sono stati favorevoli neanche questa volta, sebbene gran parte del capitolo fosse già stata scritta tempo fa… Poi, aggiungiamoci anche il fatto che la mia ispirazione se ne va in vacanza troppo spesso e la motivazione, se non vede almeno una recensione, è troppo pigra per richiamarla…
Anyway, eccomi qui.
Come sempre ringrazio chi continua a seguire questo mio Sclero Mentale Formato Famiglia TM aka fanfic, ed in particolar modo ShopaHolic, per sostenermi sempre e per recensire puntualmente (?) (vabbè, dato che anch’io sono sempre ritardataria non ho molta voce in capitolo sotto questo punto di vista, mi sa xD) *__*
Okay, vi lascio all’atteso (?) capitolo ora.
Onestamente, ci sono alcuni punti che non mi convincevano troppo (che novità, eh?), ma dato che ero già in enooooorme ritardo alla fine ho deciso di portarlo comunque. Spero di non aver commesso un errore! xD
Fatemi sapere cosa ne pensate! (Se vi fa schifo -spero di no-, se vi piace, se avete consigli, se volete semplicemente dire la vostra, etc…).
See ya! :)






Soundtrack: Somewhere I Belong (Linkin Park)

“I wanna heal, I wanna feel what I thought was never real.
I wanna let go of the pain I've held so long.
(Erase all the pain ‘til it's gone.)
I wanna heal, I wanna feel like I'm close to something real.
I wanna find something I've wanted all along,
somewhere I belong.”
[ Somewhere I Belong– Linkin Park ]


CAPITOLO 4
I wanna find something I've wanted all along…
Somewhere I belong


Come una barca trascinata alla deriva da correnti impetuose, così io vagavo per le vie periferiche di Berkeley, in balìa di mille pensieri indefiniti che si intrecciavano tra loro, senza badare alla destinazione.
A dir la verità, neanche l’avevo, una meta.
Ero uscito da quell’edificio che dovrei chiamare casa, perché mi mancava l’aria: tutt’a un tratto, tra quelle quattro mura, mi ero sentito soffocare, senza un preciso motivo, e così avevo deciso di alzare le chiappe dal mio amato e sgangherato divano e di portarle fuori a fare un giro.
Il sole stava tramontando, ed una leggera brezza rendeva alquanto gradevole l’atmosfera… Perfetto.
Sovrappensiero, imboccai un vicolo, uno di quelli non molto frequentati, ma tuttavia molto utile per evitare un bel tratto di traffico stradale. Non avevo alcuna voglia di vedere gente, in quel momento. Volevo soltanto starmene solo con i miei pensieri, e magari cercare di capirci qualcosa.
Le mie gambe seguivano un tragitto tutto loro, imboccando uno dopo l’altro vie, vicoli e viali, mentre pensavo a tutto, o forse a niente, o forse al tutto e al nulla allo stesso tempo… chi può dirlo con esattezza?
Tuttavia, non lasciavo trasparire alcunché dei contorti discorsi che popolavano la mia mente o della confusione che regnava in me, e camminavo ostentando una sicurezza che, forse, anzi quasi sicuramente, nemmeno avevo.

Tornai, per così dire, sulla Terra, solo quando realizzai di essere giunto al termine di un vicolo cieco: davanti a me vi era soltanto un’anonima palazzina di periferia che si ergeva dubitante al termine di quella strada sconosciuta. Sbuffai e, tirando un calcio ad un sasso che si era casualmente ritrovato davanti alla punta del mio piede, feci dietrofront, seguendo distrattamente i rimbalzi di quella piccola pietra; questa finì la sua corsa con un rumore sordo e metallico, scontrandosi contro un bidone, dal quale corse via miagolando un gattino dall’aria spaurita, che riuscì a strapparmi un involontario, piccolo, sorriso.
– Hey, micio. – bisbigliai sovrappensiero.
Il piccolo felino tentennò qualche secondo, per poi voltarsi verso di me, tentando di nascondere le titubanze e mostrare uno sguardo fiero, scrutandomi.
Sorrisi di nuovo. Da un lato quel gatto mi provocava una sorta di sentimento di compassione, ma dall’altra si era guadagnato la mia attenzione e il mio rispetto. Già, perché pur essendo piccolo e spaesato, aveva fegato. Sapeva affrontare la vita, sapeva rialzarsi dopo essere caduto, combatteva con le difficoltà quotidiane, basandosi solamente sulle proprie forze. Mi fece venire in mente qualcuno, quel gatto. Forse me stesso…
Fissai quegli occhietti acuti ancora per qualche secondo, e per un attimo mi parve di vedere riflesso il verde delle mie iridi in quello delle sue.
Osservai quel riflesso come se volessi trovarvi una qualche risposta ai mille punti di domanda che albergavano in me, ma tutto ciò che ricevetti in risposta fu un miagolio altrettanto interrogativo.
Sembrava che mi stesse chiedendo cosa stessi cercando, perché lo stessi cercando, perché mi ostinavo in quella ricerca così difficile.
Distolsi lo sguardo, alzando impercettibilmente le spalle. La verità era che nemmeno io sapevo darmi delle risposte chiare.
Rimasi lì ancora qualche istante, prima di continuare per la mia strada.
Inoltre, riflettendo tra me e me, constatai che quel gatto, che dopo un altro miagolio posto a mo’ di saluto s’era voltato e si era diretto nuovamente, con passo sicuro, verso il bidone per procacciarsi la cena, meritava certamente più stima di molta fottutissima gente che, credendosi chissà chi, gironzolava stupidamente per le strade del mondo. Gente che magari pretendeva anche, per sentirsi importante o vattelappesca per cosa, di creare qualsivoglia difficoltà da poter porre nel bel mezzo del tuo già difficile percorso; e quindi, per poter superare tali impedimenti, ti trovavi obbligato ad affrontare il dolore, a dover sopportare innumerevoli ferite, che talvolta parevano non guarire mai completamente. Ferite che, però, per quanto dolorose, dovevi trovare la forza di affrontare, per non rimanerne vittima per sempre; e potevi esplodere, fuggire, lasciarti tutto alle spalle e poi rielaborarlo quando sapevi di averne la capacità, per poter ritrovare te stesso, per poter sentire ancora ciò che ti circondava, per poter trovare un posto a cui sentivi di appartenere.
Ecco, forse quella poteva avvicinarsi, almeno vagamente, alla risposta che stavo cercando una manciata di secondi prima.

Perso in tali riflessioni, dopo 100 o 200 metri, o forse anche 300 (non potrei dirlo con precisione in quanto non avevo certo intenzione di perder tempo a misurare la distanza che avevo percorso mentre pensavo ad altro), mi imbattei in una fermata dell’autobus. O forse sarebbe più corretto dire che questa si imbatté in me, in quanto ci andai praticamente a sbattere contro.
Imprecai, maledicendo chi avesse deciso di piazzare proprio lì quel palo, e al contempo anche me stesso ed il mio cervello che non era riuscito a interrompere per un attimo il corso travolgente dei miei pensieri per farmela notare in tempo.
Mentre stavo per riavviarmi, però, la mia attenzione fu attirata dallo stridore con cui, proprio a quella dannata fermata, si arrestò un bus, uno di quelli vecchi che relegano alle zone più periferiche. Lo squadrai un attimo, notando che era anche uno di quelli che portano alla Baia, vicino al mare, insomma. Feci un rapido calcolo, prima di decidere di salire anch’io: in fondo, non mi sarebbe affatto dispiaciuto andare da quelle parti…
Con un acuto cigolio le porte si chiusero e un altro stridio annunciò la partenza dell’autobus, che iniziò a barcamenarsi tra vicoli che non ricordavo di aver percorso.
Alla prima fermata, per la fortuna dei miei nervi, scese una donna trascinata dal proprio cane che aveva cominciato ad abbaiare insopportabilmente per tutto il tragitto mettendo a dura prova il mio self-control. Tuttavia, in cambio salirono quattro ragazzi appartenenti alla categoria di quei gradassi che ti fanno prudere le mani soltanto alla loro vista o dopo aver udito un paio di loro parole sputacchiate.
Tentai di far finta di nulla, concentrandomi su un punto imprecisato oltre l’orizzonte; poi presi le cuffie, le indossai e alzai il volume al massimo possibile, scegliendo un brano a caso.
Non avevo voglia di litigare, quel giorno avevo voglia di un po’ di quella tranquillità che da tempo non riuscivo più a trovare. Ma anche quel giorno, a confermare la consuetudine, qualcosa doveva riportarmi alla realtà caotica e burrascosa che mi circondava, mi assediava, in una morsa continua ed opprimente.
Quella volta, furono proprio quei teppistelli da quattro soldi a dare a quel qualcosa il pretesto.
Non so per quale sventurato motivo scelsero me come obiettivo delle loro stupide provocazioni, ma quello che so è che fu una scelta completamente sbagliata.
Non stuzzicare il drago che dorme.
Loro, però, decisero di stuzzicarlo.
Uno di loro, spintonando la folla, mi urtò, tutt’altro che senza farlo apposta. Contai mentalmente fino a 10, rimettendomi nella posizione iniziale e continuando a fissare fuori dal finestrino.
Nel frattempo, un altro compare pensò bene di mettere nuovamente a prova i miei nervi avvicinandosi a me, con un mozzicone ancora acceso, dicendo chissà quali insulti e porcherie (che la musica che usciva urlando dalle mie cuffie contrastò egregiamente), per fare il gradasso e credersi fottutamente figo, probabilmente. Ovviamente lo ignorai bellamente, ancora una volta.
Ad un certo punto, però, l’autobus si arrestò di colpo con una frenata a dir poco brusca, e questo gran pezzo di idiota mi precipitò letteralmente addosso, facendo cadere me e le mie cuffie, mentre quel suo maledettissimo mozzicone andò a finire proprio sulla mia dannatissima mano; intanto gli altri tre deficienti ridevano a crepapelle. Un’occhiataccia ben piazzata riuscì però a fargli congelare il sorriso sguaiato dalle labbra.

Dopo anni di esperienza, e dopo troppe ferite subìte dalla mia anima (alcune cicatrizzate, altre non ancora), avevo imparato come trattare con certa gente, come farmi valere, come paralizzare vari tipi di persone, senza cadere vittima delle loro trappole.
Inoltre, anche se guardandomi dall’apparenza nessuno l’avrebbe mai detto, all’occorrenza avevo imparato a padroneggiare e utilizzare abbastanza bene alcune arti marziali, e, soprattutto, i miei amati tonfa…
Benedetto il giorno in cui tre anni e mezzo prima, durante il mio periodo di vita in Giappone, mi ci imbattei quasi per caso, cercando di diventare più forte per sconfiggere il dolore che sanguinava dalla mia anima. E benedetto il giorno in cui mi ci appassionai e decisi di imparare tale disciplina. Non era stato affatto semplice, avevo dovuto affrontare grandi fatiche, e l’allenamento del mio Sensei, il mio Maestro, era alquanto rigido: non potevo permettermi distrazioni, né tentennamenti, né tantomeno di eseguire qualche mossa in modo approssimativo.
Inizialmente ero restio, ma poi compresi che se volevo veramente fare qualcosa, dovevo farla veramente bene, altrimenti potevo anche lasciar perdere direttamente, il Sensei aveva ragione. Nelle arti marziali come nella vita. Anzi, soprattutto nella vita.
E tutto questo aveva fatto sì che imparassi tante cose, più di quanto avessi potuto immaginare.
Avevo imparato ad essere meno dannatamente impulsivo.
Avevo imparato a non cedere e a non crollare così facilmente sotto il peso di mille cicatrici causatemi da vari fantasmi del passato.
Avevo imparato a sopportare il dolore e la rabbia.
Avevo imparato come concentrare la mia energia interna, come guidarla, localizzarla, usarla, combinarla con quella esterna.
Avevo imparato ad osservare, riflettere, valutare chi mi stava davanti, scoprirne i punti deboli ed pensare a come usarli a mio favore.
Avevo imparato a gestire le mie emozioni, o almeno provare a farlo.
Avevo imparato a non far trasparire i miei sentimenti ed i miei pensieri, qualora l’avessi voluto.
Avevo imparato cosa significasse avere il cosiddetto sangue freddo, e a tentare di mantenerlo.
Avevo imparato, in varie situazioni, a non farmi prendere dal panico.
Avevo imparato a concentrarmi davvero.
Avevo imparato il significato del termine risolutezza.
Avevo imparato a unire l’intelligenza teorica a quella pratica.
Avevo imparato a riflettere, concentrarmi e gestire ciò che avevo dentro.
Avevo imparato ottime tecniche di attacco e difesa.
E avevo anche imparato un ottimo modo per scaricare la tensione.
Già, perché oltre che risorsa di combattimento, per me era anche un valido sistema per sfogarmi, per liberarmi di tutte le millemila tensioni accumulate durante la giornata (se non durante la mia intera vita), per dare sfogo al rancore e alla sofferenza che tentavano in ogni modo di corrodermi, che altrimenti mi avrebbero portato ad esplodere, o far esplodere qualcuno, o ad entrambe le cose, chi può dirlo.
Dopo la musica e il mio adorato basso, infatti, i tonfa per me rappresentavano il mezzo per poter trovare qualche attimo di quella tranquillità così fottutamente agognata, trasformando le mie collere e ogni mio dannato sentimento in qualcosa che potevo considerare positivo.

Ad ogni modo, in quel momento la musica non bastava più a tenere a freno la mia irritazione.
Già facevo fatica ad imbrigliare la rabbia che derivava da certi miei pensieri e da certi miei ricordi. Quei ragazzi erano stati la cosiddetta goccia che fa traboccare il vaso.
Quei quattro idioti dovevano solo ringraziare che non mi fossi portato dietro anche i tonfa, se no avrebbero seriamente fatto una brutta fine. Tuttavia, non avevo intenzione di “picchiarli a morte”, per così dire. Non ne sarebbe certo valsa la pena, e poi non è che io fossi un fottuto violento, sadico, o che so io.
Ero soltanto un dannatissimo ragazzo incazzato, la cui incazzatura era stata ulteriormente provocata.
Comunque, non è che feci granché: bastò poco per far capire loro che non conveniva continuare oltre e farli battere in ritirata.
Una parte di me quasi se ne dispiacque: era da parecchio tempo che non facevo un scontro come si deve. Era da molto che non trovavo qualcuno abbastanza degno da mettermi in difficoltà, da farmi pensare a qualche mossa più complessa, più potente, più ragionata; non sapevo bene neanch’io come spiegarlo, ma sapevo riconoscerlo da quello che mi faceva sentire dentro di me… ed era passato molto tempo da quando qualcuno mi aveva spinto a fare qualcosa che mi facesse provare sensazioni simili.
Con questo non è che fossi una sottospecie di snob, quelli non li sopportavo neanch’io: come diceva saggiamente anche il Sensei, chi si atteggia troppo alla fine non vale un emerito nulla.
Soltanto mi disgustava tutta quella gente che si serviva solo della forza bruta, per infidi scopi per di più, senza usare ragionamento e tecnica.
Quei quattro gradassi facevano appunto parte di quella categoria, ed era stato relativamente facile avere la meglio su di loro. Inoltre erano anche della specie di quegli idioti che fanno gruppo credendosi fighi e forti, quando in realtà sono solo deboli, rozze e codarde pecore che mettono fuori uso il proprio cervello e che hanno bisogno di unirsi in branco per far valere la propria forza, a discapito soprattutto di gente che loro ritengono più debole.
Avevo sempre odiato quel tipo di stronzi.

Mentre quei quattro idioti scendevano dall’autobus la fermata seguente, mi risistemai le cuffie e, ostentando un’aria quanto più impassibile riuscissi a creare, scelsi una canzone dal ritmo incalzante e dalla voce graffiante, un brano che mi rispecchiava. Mi lasciai travolgere dal ritmo e dalle parole, ritrovandomi in esse e sentendomi finalmente compreso, guardando fuori dal finestrino mentre il mezzo riprendeva la sua dissestata corsa.
Una quindicina di minuti dopo scesi anch’io, dirigendomi verso quel punto della Baia dove ero solito recarmi in solitudine a pensare. Era come un mio rifugio dove isolarmi dal caos e riflettere, seduto su uno scoglio o qualcosa e fissando l’orizzonte, il cielo, il mare e le luci in lontananza, che rappresentavano il resto del mondo alla giusta distanza per sembrare incantevole. In poche parole, era uno dei pochi luoghi a cui sentivo di appartenere.

Percorsi una strada silenziosa illuminata appena da tiepidi raggi del sole, che di lì a poco sarebbe sparito dietro l’orizzonte. Un sorriso impercettibile si disegnò sulle mie labbra.
Sorriso che, però, ebbe una brave durata, in quanto svanì non appena notai, in lontananza, un piccolo fottuto mucchio di persone sedute proprio accanto al posto dove solevo andare io.
I miei passi si fecero più veloci e pesanti, mentre la mia espressione assumeva una sfumatura ostile.
Avvicinandomi, constatai che si trattava di due ragazzi e una ragazza, con addosso alcuni di quei vestiti alla moda firmati che costano ognuno un fottuto occhio della testa. Ai loro piedi avevano qualche bottiglia di qualche costoso vino che avevano preso in qualche fottutissimo e costosissimo posto. Il vento portò alle mie orecchie degli stralci dei loro discorsi e la loro voce dal tono presuntuoso.
Perfetto, ci mancavano soltanto delle pecore conformate al sistema che si atteggiavano credendosi chissà chi, dei fighetti figli di papà, che pensavano di fare i finti trasgressivi sparando boiate, facendo cazzate, fantasticando su qualche porcata da fare sbronzi (dato che da sobri probabilmente non ne avrebbero mai avuto il coraggio) e ubriacandosi con vini dai prezzi assurdi, imboscandosi e profanando un luogo isolato e quasi sconosciuto ai più, il mio luogo, che mi chiedevo come diavolo avessero trovato!
Indubbiamente, erano le persone sbagliate nel momento e nel posto sbagliato.
Mi avvicinai ulteriormente, e bastò un’occhiata gelida per far capire a quel piccolo gruppetto che forse sarebbe stato meglio per loro cercarsi un altro posto per continuare. Con un ghigno soddisfatto, li vidi alzarsi ed andarsene, fin quando non sparirono dietro alla prima curva; quindi, mi avviai verso la riva, sedendomi poi dove mi mettevo solitamente, ovvero su uno scoglio solitario che trovavo particolarmente comodo e ben posizionato rispetto al paesaggio e all’acqua.
Eccolo.
Il mio posto.
Il posto che rappresentava ciò che cercavo da una vita, un posto a cui sentivo di appartenere.
Il posto in cui mi sentivo in pace. Soltanto io, il crepuscolo, il mare, il mondo in lontananza.
Il posto in cui, tuttavia, mi sentivo meno solo, meno isolato, meno vuoto di quanto mi sentissi prima.
Il posto in cui riuscivo a estraniarmi, almeno per un momento, dall’incalzante, caotica e tempestosa realtà che mi assediava.
Il posto in cui riuscivo a concentrarmi, a pensare, a riflettere sulla mia vita (o almeno per quanto ne fossi in grado).
Il posto in cui potevo affrontare i demoni del mio passato e del mio presente.
Il posto in cui riuscivo a sfogarmi liberamente.
Il posto in cui avvertivo la speranza di poter guarire da quelle mille ferite che stentavano a cicatrizzare definitivamente.
Il posto dove sentivo di poter almeno tentare di scacciare tutto il dolore che avevo provato così a lungo.
Il posto in cui riuscivo a sentirmi vicino a qualcosa di reale, ma allo stesso tempo avvertivo un’atmosfera quasi irreale, azzarderei dire mistica.
Respirai profondamente e a lungo la brezza marina, chiudendo gli occhi, cercando un po’ di tranquillità. Poi li riaprii e fissai il Golden Gate, in lontananza sulla mia sinistra, perdendomi tra i miei ricordi.

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Capitolo 5
*** East Bay Night ***


Ehm… Saaaalve! *sbircia timidamente affacciandosi all’uscio, per controllare se sono in vista piatti od oggetti volanti*
Vi ricordate ancora di me, vero?
Lo so, sono in ritardo, in abnorme ritardo, ancora una volta. E questa volta è un ritardo peggiore di tutte le altre.
È da otto mesi che non aggiorno, diamine! Sono la prima che si scaverebbe la fossa da sola (vi risparmio anche la fatica, contente/i? xD)
Inutile dirvi che i buoni propositi per aggiornare c’erano, ma come al solito qualcosa non ha voluto che ciò accadesse: gli impegni scolastici, vari motivi personali, il tempo scarso, l’ispirazione che non si faceva vedere neanche a pagarla quando mi serviva ed avrei avuto un po’ di tempo prezioso da dedicarle, il mio caaaaro PC, eccetera eccetera… Spero potrete capirmi/perdonarmi! Pleeeease :3 !
Anyway… Il capitolo è finalmente(?) terminato (da qualche giorno, a dire il vero… solo che dovevo trovare il coraggio per ripresentarmi a postarlo qui! xD).
Non è un capitolo particolarmente movimentato, ma nonostante tutto ci ho messo un bel po’ a scriverlo, sia perché molte volte scrivevo qualche riga per poi cancellarla dato che non mi convinceva affatto, sia per appunto i momenti in cui l’ispirazione si prendeva una vacanza non autorizzata a fan…ehm, okay, avete capito che intendo dire xD
Come sempre, un sentito ringraziamento a coloro che hanno la pazienza di seguire questa storia (nonostante i miei tempi di aggiornamento ç_ç) con costanza, ed un grazie particolare alle care ShopaHolic e Sadako Kurokawa, per le recensioni, per il supporto, nonché per riuscire a strapparmi sempre almeno un sorriso :D
Okay, non mi dilungo oltre, vi lascio al tanto atteso (?) capitolo, sperando possa piacervi almeno un po’…
Fatemi sapere che ne pensate!
See ya :D






Soundtrack: East Bay Night (Rancid)

“When the sun goes down
and the night come around
and the fog come a rollin’ in,
When you cast a line
to go dance one time,
and an old friend invites you in,
hear a punk rock song
and we sing along…
Everything’s gonna be alright…
Another East Bay Night…”
[ East Bay Night – Rancid ]

“It’s not where it goes,
It’s where it can lead you to”
[ Robot Boy (Text Mix, Optional Vocal Take) – Linkin Park ]


CAPITOLO 5
East Bay Night


Non avrei saputo dire con precisione da quanto tempo stavamo camminando. Il sole ormai era calato da un pezzo; la luce dei lampioni e quella che fuoriusciva dalle finestre degli edifici illuminavano il nostro cammino, aiutate dalla luna che risplendeva nel cielo buio, leggermente offuscata da qualche nuvola di passaggio.
Un debole venticello aveva cominciato a soffiare, fischiando tra i ciuffi ribelli dei miei capelli, divertendosi a scompigliarli così come faceva con quelli di Alex.
Il ragazzo tentava invano di liberarsi il volto dai capelli che insistentemente gli si attaccavano sopra, cosa alla quale io avevo ormai rinunciato, sia perché le ciocche che mi si appiccicavano contro la fronte, il naso e gli occhi erano assai meno numerose di quelle che tormentavano il mio amico (trattandosi solo di un ciuffo, per me, e non di un’intera capigliatura, come nel suo caso), sia perché ogni due secondi, altrimenti, avrei dovuto ripetere l’operazione, neanche fossi un tergicristalli.
– Dovresti provare a camminare all’indietro… – scherzai ad un tratto.
– Sai che forse non è una cattiva idea? – fece lui, mettendomisi di fronte e cominciando a procedere a ritroso – Anche se così è un po’ difficile capire la strada… Che dici, fai un po’ tu da guida? – rise.
– Uhm… Ok. No problem. – Affermai, ostentando un’aria che voleva essere seria ed una sicurezza che in realtà non sapevo bene da dove prendere.
– Perfetto. Io seguo te allora. – concluse, con bonaria aria di scherno – Where do we go now?
– Dove andiamo ora? Uhm, vediamo… tra 200 metri gira a sinistra, cioè a destra per te… – tentai.
Lui non disse nulla, quindi non potevo sapere se avessi azzeccato la strada o se invece stessi sbagliando in pieno. Che stronzo!
Si limitò invece a seguire le mie indicazioni, con aria divertita.
– Almeno però potresti dirmi se ho preso la strada giusta per dove stavamo andando, no? –
– Non c’è bisogno. – fece lui, continuando a guardarmi tranquillo – Da qualche parte arriviamo di sicuro. Mi fido di te. E poi non è importante dove va la strada, ma dove ci porta…
Rimasi in silenzio per qualche secondo, colpita da quella frase.
Aveva un che di filosofico, davvero, che si intrufolò nei meandri della mia mente e mi costrinse a ragionarci sopra.
Oltre a quel “mi fido di te”, che benché non l’avessi dato a vedere mi aveva colpita dritta dritta al cuore facendomelo sciogliere, la seconda parte della frase mi aveva spiazzato.
Mi aveva spiazzato per la sua schiettezza, per la sua profondità, per la sua inusuale verità.
Solitamente, la gente è abituata a porsi una meta, un obiettivo, e l’unica cosa che considera allora è appunto come raggiungere quel fottuto obiettivo. Non pensa a come arrivarci, pensa semplicemente ad arrivarci punto.
Invece, riflettendoci, è qui che si sbaglia, in una superficiale ignoranza.
Perché il fine non giustifica sempre i mezzi. Anzi, spesso questa si può rivelare una delle fottute teorie più sbagliate al mondo, che causa solo miliardi di danni e che magari tira in ballo la vita di persone innocenti solo per il capriccio di qualche fottuto potente.
E anche perché è importante andare a fondo nelle cose, non fermandosi alle apparenze. Lo sapevo bene, questo.
Pensando alla mia vita, alle mie esperienze, alle mie riflessioni, non potevo far altro che concordare: la cosa più importante non è dove va la strada, ma dove ti può condurre.
Perché, se la strada può essere la stessa per molte persone, è indubbio che ognuno vivrà il percorso a modo suo, e la stessa meta avrà quindi un significato diverso e personale, a seconda del tragitto che ti ha portato a raggiungerla, a seconda di ciò che tu hai fatto per raggiungerla, di ciò che hai passato, di ciò che hai provato sulla tua pelle, di ciò che hai detto o pensato, delle gioie e delle sofferenze che hai dovuto sopportare, insomma, di tutto quel percorso interiore che hai affrontato dalla partenza all’arrivo. Solo allora, puoi valutare veramente cos’è la tua meta. E la tua meta non è banalmente dove arriva la strada, ma dove il tuo percorso ti ha portato o ti può ancora portare.
Tuttavia, queste riflessioni rimasero, non so perché, momentaneamente custodite nella mia mente e nella mia anima.
– Ora ti diverti a fare l’enigmatico? – mi limitai invece a soffiare, trattenendo una risata.
Per tutta risposta, si strinse nelle spalle, sorridendo.
Dal suo sguardo, che non aveva smesso un attimo di fissare il mio, tuttavia intuii che lui aveva compreso il mio ragionamento, ed era per quello, che ora stava sorridendo.
Già, il suo sguardo era l’unico che riusciva ad intrufolarsi nei miei pensieri, aggirando la barriera che da anni avevo innalzato attorno a me, comprendendoli. Era una delle poche persone al mondo che riuscisse davvero a capirmi, a dir la verità. Così come una delle pochissime, se non l’unica, di cui mi fidassi veramente, a cui avessi dato libero accesso alla mia anima, e con cui avrei condiviso volentieri il mio percorso.
– Bella frase, comunque. – commentai poi, semplicemente, ancora un po’ assorta nelle mie riflessioni –Quella che hai detto prima, intendo. Enigmatica, ma bella. Significativa. E davvero profonda, devo dire. – sorrisi.
Non era necessario dire altro, sapevo che i nostri sguardi avevano già scambiato un discorso sufficientemente eloquente.
Thank you! – rise, leggermente imbarazzato.
Era bellissimo quando rideva. Ma soprattutto, era bellissimo ridere assieme, vagando per una strada sconosciuta, respirando quel vento fresco di libertà.
Aveva pienamente ragione, non era così importante il dove andare, ma il come andarci, il dove poteva condurci, soprattutto in senso metaforico.

– Uhm… vediamo dove ci hai portati. – disse ad un tratto, voltandosi.
Ci fermammo qualche secondo. Alex si guardò intorno, pensieroso.
– Sai una cosa? – proruppe ad un tratto.
Mi voltai verso di lui, ma non feci in tempo a chiedergli “cosa?” che lui riprese a parlare.
– È buffo, credo di non essere mai stato in questa via… –
– Cosa?! – riuscii a pronunciare questa volta, con la voce un po’ troppo acuta che mal celava una certa preoccupazione e sorpresa.
– Voglio dire, vivo qui da sempre, ma questa strada non la conoscevo... O almeno, non la ricordavo. – sorrise – Non preoccuparti comunque, ho capito dove siamo. E dalla leggera nebbia che vedo qui e che diventa più fitta da quella parte, dico che di là si arriva sulla baia. – continuò, indicando un punto leggermente alla nostra destra.
– Dunque, – riprese poi, indicando un’altra direzione – andando per di là dovremmo raggiungere il Gilman in un quarto d’ora o poco più, ti va vero? –
Accettai entusiasta la sua proposta, e riprendemmo a camminare in quella direzione, parlando e scherzando di tutto.
Era strano come, seppur fossi appena arrivata, mi sentissi meno straniera qui che nel mio vecchio Paese, dove avevo trascorso i primi tristi 18 anni di vita.
Era come se una parte di me già avesse appartenuto a quel luogo da prima ed ora si ritrovasse finalmente a casa, felice.
Mi tornavano alla mente i racconti e le foto che mi aveva inviato Alex, così come le informazioni e le immagini che avevo ricercato sul web, o ancora le notizie riguardanti quei luoghi e la loro relazione con varie band che ascoltavo… E mi pareva al tempo stesso surreale e familiare che anch’io fossi lì. Era una sensazione stranissima, davvero, non saprei bene neanch’io come descriverla.
Percorsi quelle strade al fianco di Alex, riflettendo su tutto ciò, pensando alla mia nuova vita che stava cominciando proprio quel giorno.
Camminavamo, fianco a fianco, parlando e scherzando di noi come due buoni amici, come due che si conoscono da una vita, come se fossimo abituati a passeggiare assieme e non fossimo vissuti fino al giorno prima da due parti opposte del pianeta, come se fosse naturale che tutto ciò fosse così, semplicemente. E tutto ciò non faceva altro che aumentare quel senso di familiarità che mi avvolgeva, abbracciandomi ma non imprigionandomi, lasciandomi anzi più libera di quanto mi fossi mai sentita prima.
Era semplicemente fantastico.
Senza quasi renderci conto dello scorrere del tempo continuammo a mettere un piede dietro l’altro con lo sguardo e la voce che esternavano la nostra felicità. Così, dopo quello che l’orologio decretò essere circa un quarto d’ora, come previsto da Alex, arrivammo in prossimità del Gilman.
La prima cosa che ci annunciò la sua presenza, ancora velata dalla leggera nebbia che pervadeva le strade, fu una canzone punk-rock che raggiunse le nostre orecchie facendoci sorridere, prima ancora che i nostri occhi potessero vedere il piccolo edificio in mattoni al 924 di Gilman Street, dove si trovava il locale.
Dopo le prime note, entrambi riconoscemmo la canzone e iniziammo a cantarla, ridendo ed allungando il passo.
Mi sentivo veramente leggera e felice. Era come se, in quel momento, qualcosa mi dicesse che tutto d’ora in poi sarebbe andato bene, o comunque meglio di prima. Era come se la mia nuova vita mi stesse dando ancora il benvenuto, accogliendomi a braccia aperte.
Non potei fare a meno di sorridere.
A pochi metri dall’entrata del locale, abbracciai Alex, all’improvviso, senza sapere neppure io esattamente il motivo.
Lo strinsi con forza e calore, immersa nelle mie riflessioni, ringraziandolo per l’ennesima volta di tutto.
Il mio amico ridacchiò, soffiando sulla mia nuca e scompigliandomi i corti capelli con una mano, mentre con l’altra ricambiava la stretta.
Poi, così com’era cominciato dal nulla, ci sciogliemmo dall’abbraccio, sorridendoci a vicenda.
– Entriamo? – mi chiese, prendendomi per mano e cominciando a trascinarmi in quella direzione prima ancora di sentire la mia ovvia risposta.
– Certo! – risposi, alzando la voce per farmi sentire in mezzo alla musica sempre più forte che ci avvolgeva, correndo per avanzare quel poco che bastava per essere io a trascinare lui.
Rise, superandomi di nuovo, per essere poi nuovamente superato, finché non varcammo l’entrata insieme, ancora ridendo.
Ci fermammo un momento, guardandoci negli occhi e sorridendo ancora una volta.
Subito dopo, mi fece strada verso il bancone bar.
– Cosa prendi? – mi chiese, mentre ci avvicinavamo – Ah, ti ricordo che non puoi rispondermi birra, dato che oltre a “no drugs, no racism, no homophobia, no violence” eccetera, c’è anche “no alcohol” tra le regole del Gilman! Oltre al fatto che, in ogni caso, tu non hai ancora 21 anni e non avresti potuto comunque ordinare nulla di alcolico! – rise.
– Amen! – risposi, ridendo anch’io – Questa volta prenderò una bibita... No problem! –
Poco dopo, Alex mi passò una coca cola, per poi ritirarne un’altra e pagare, impedendomi in ogni modo di pagare la mia parte. Sbuffai, divertita. Era davvero cocciuto, il ragazzo!
– Okay, hai vinto! – mi arresi, ridendo – Ma la prossima volta offro io, e non voglio storie, ok? –
Si limitò a ridere, alzando le spalle, per poi prendermi per mano e trascinarmi verso il palco, dove da lì a poco si sarebbe esibita una band emergente.
They kick asses! – urlò allegro nella mia direzione, mentre ci avvicinavamo.
Nell’attesa mi raccontò anche che li aveva conosciuti qualche tempo prima dopo un loro concerto, che li aveva incontrati ancora un’altra sera sempre lì al Gilman e avevano parlato un po’ di tutto, che erano simpaticissimi, che era la terza volta che si esibivano in questo locale e che erano davvero bravi.
Una manciata di minuti dopo salirono sul palco quattro ragazzi, tra i 18 e i 21 anni circa. Il più giovane pareva il batterista, un ragazzo dai capelli scuri e corti sparati in aria, una faccia divertente e divertita, che si sedette alla batteria e non smise quasi mai di fare espressioni buffe. Il cantante e secondo chitarrista era anche lui abbastanza giovane, aveva meno di un anno più del batterista, anche lui capelli corti e sparati ma tinti quasi completamente di biondo; sul viso aveva un’espressione indefinita, mentre scrutava il pubblico con occhi vivaci ma allo stesso tempo profondi e misteriosi. L’altro chitarrista aveva circa 20 anni, capelli castani e ricci di media lunghezza che gli nascondevano in parte il viso, che riuscii a vedere completamente solo per un attimo, quando, mentre saltava sul palco, i capelli del ragazzo si sollevarono. Infine, il più grande del gruppo era il bassista, un ragazzo ventunenne dalla cresta rossa.
Si presentarono velocemente, per poi iniziare subito a suonare. Il batterista dettò un ritmo serrato, a cui si aggiunsero subito le due chitarre dal suono distorto, il basso dalla linea potente e poco dopo anche la voce graffiante del cantante.
Alex aveva ragione, erano bravi e avevano grinta da vendere! Testi non scontati, musica altrettanto potente e incisiva, voce graffiante e adatta a ciò di cui stavano parlando, ed un’enorme energia.
Mentre la band suonava e saltava da un lato all’altro del palco, ben presto anche il pubblico si caricò di energia ed iniziò a saltare, a pogare, a ballare, a cantare, ad incitare i musicisti e a divertirsi.
Tra una canzone e l’altra ogni tanto un membro del gruppo raccontava un aneddoto divertente o diceva due parole riguardo a ciò che stavano per suonare, oppure semplicemente cercavano di coinvolgere il pubblico, ottenendo ottimi risultati. Altre volte, invece, un brano incalzava l’altro senza neppure un attimo di pausa, in un vortice di note e urla che avvolgeva tutti.
Guardai Alex e notai che anche lui aveva voltato la testa verso di me in quel momento. Ci sorridemmo, con sguardo complice e divertito, per poi continuare a saltare e cantare frasi ascoltate una volta e ripetute poi in un ritornello successivo.
Eravamo fradici di sudore, prendevamo aria solamente tra un salto e l’altro; probabilmente qualche inevitabile livido ed un buon mal di gola ci sarebbero rimasti come ricordo il giorno seguente… Ma in quel momento tutto ciò che ci importava era la musica, era essere insieme, era divertirci insieme saltando e cantando a squarciagola canzoni sconosciute fino al secondo prima facendoci coinvolgere dall’atmosfera.
Nonostante potessi respirare solo a scatti tra un salto ed un altro e benché l’aria fosse impregnata dell’acre odore di sudore, respiravo a pieni polmoni quell’essenza carica di musica, felicità, libertà.

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Capitolo 6
*** Memories I wish I didn’t have / It’s easier to run, replacing this pain with something numb… ***


Hey folks!
Heilà, gente(?)! xD
Tutto bene?
Stupite/i di vedermi “già” qui? ;)
Già, questa volta finalmente sono riuscita ad aggiornare dopo poco più di un mese, che per i miei ultimi standard (ç__ç) è un record di puntualità,
ha! *me saltella felice e soddisfatta hahaha*
Bene, non mi dilungo troppo nell’introduzione, vi dico soltanto che questo capitolo (che ho finito di scrivere poco fa) come al solito ha subito varie modifiche, a seconda delle idee che si affacciavano alla mia mente, varie cancellature e riscritture e cose così, ma alla fine è stato “partorito” in un tempo si può dire decente! Yay! :D
Anyway…
In questo capitolo dai toni molto allegri(?) (si fa per dire… quando inizierete la lettura capirete l’ironia…), il protagonista che narrerà i fatti sarà di nuovo colui che ha fatto il suo ingresso nella storia nel quarto capitolo, dove lo abbiamo lasciato sul “suo” scoglio… E di cui ancora non è svelato il nome, ed è questo il motivo per cui ho fatto quel giro di parole per riferirmi a lui… *muahah*.
Okay, non dico nient’altro se no finisco a spoilerare qualcosa e a rovinarvi la lettura, quindi… Ciao :3
Ah, un’ultima cosa prima di lasciarvi al capitolo
[ancora?]...
Come al solito, voglio esprimere un sentito grazie a tutte/i coloro che seguono questa storia, ed in particolar modo a chi spende qualche minuto della propria vita per lasciarmi una recensione e farmi sapere che ne pensa, uscendo dall’ombra (xD).
Ed in particolare, un enorme grazie alla cara Sadako Kurokawa, per le recensioni puntuali, l’entusiasmo, il supporto, l’allegria e mille altre cose che non c’è bisogno che io scriva qui, dato che le sa :3
Okay, ora mi azzittisco sul serio e vi lascio al capitolo… Fatemi sapere che ne pensate! :D
Alla prossima, see ya! :D






Soundtrack: Easier To Run (Linkin Park)

“Wounds so deep they never show, they never go away
Like moving pictures in my head, for years and years they've played”

“It's easier to run
Replacing this pain with something numb.
It's so much easier to go
Than face all this pain here all alone…
Sometimes I remember the darkness of my past
Bringing back these memories I wish I didn't have.
Sometimes I think of letting go and never looking back
And never moving forward so there'd never be a past…”
[ Easier To Run – Linkin Park ]

“And our scars remind us that the past is real…”
[Scars – Papa Roach]


CAPITOLO 6
Memories I wish I didn’t have /
It’s easier to run, replacing this pain with something numb…


Un urlo squarciò il silenzio della notte.
Un urlo agghiacciante, un urlo di rabbia e disperazione, fu quello che si liberò dalle mie corde vocali per scontrarsi con l’aria esterna, così mite, rompendone per qualche secondo la quiete, frantumando il silenzio in mille scaglie appuntite nel cui eco si persero la mia anima e la mia mente, affogando sempre più nello sconforto dei ricordi.
Era come se, con quell’urlo, avessi condiviso con quel luogo, il mio luogo, quello a cui sentivo di appartenere, una parte del peso che da fin troppo tempo opprimeva la mia anima.
E tuttavia, il peso era ancora lì, prepotente, doloroso. Più tentavo di sbarazzarmene, più mi sembrava impossibile liberarmi di quei dannati demoni del mio passato che si divertivano a rabbuiarmi l’esistenza.
Era tutto inutile: che lo volessi o meno, quei ricordi, che avrei desiderato con tutto me stesso poter non avere, erano sempre pronti a tornare indietro, vivi come non mai.
Ah… Perché?
Perché non potevo trovare un po’ di quiete?
Perché continuavano a perseguitarmi?
Guardai il cielo stellato, in cerca di una risposta.
Sospirai, chiudendo gli occhi e ricacciando indietro quella sensazione di umida sfocatura che cominciava a velarmi lo sguardo. Odiavo piangere, e non avrei certo lasciato che quelle lacrime bastarde si impadronissero di me, rendendomi loro debole schiavo.
Serrai gli occhi e strinsi le mani a pugno, conficcando le unghie sempre più a fondo nella carne, come se il dolore fisico avesse potuto cancellare, o almeno annebbiare, quello che mi corrodeva l’anima e la mente.
Inspirai a lungo e cacciai un altro urlo, se possibile ancora più profondo e agghiacciante del precedente.
– Nooooooooooooo! – l’aria venne squarciata nuovamente da quella specie di ruggito, condividendo con me, per qualche attimo, quella frustrazione, del dolore lancinante che mi opprimeva il petto.
Poi, tutto tornò immerso nel silenzio più totale. La città dall’altra parte della Baia pareva sempre più lontana, le sue luci erano sempre più sfocate. Ma anche ciò che mi circondava, che fisicamente si trovava attorno a me, aveva ormai contorni sempre più indefiniti: riuscivo a mettere a fuoco a malapena lo scoglio sul quale ero seduto e le onde che s’infrangevano a pochi passi da me.
Nessuno ormai girava per quelle zone, peraltro sconosciute ai più; ero solo, c’eravamo solo io e quelle onde, così diversi e così simili tra noi.
Quelle onde continuamente infrante contro la dura roccia degli scogli mi ricordavano incredibilmente me stesso, o meglio i frammenti di me stesso, spezzati in mille cocci, frantumati e schiacciati senza pietà da esperienze che avevano impresso marchi indelebili nella mia anima: marchi di rabbia, di dolore profondo, di frustrazione, di diffidenza e sfiducia generale in tutto ciò che mi circondava. Cicatrici che il tempo ancora non era riuscito a guarire e che mi ricordavano fin troppo spesso quanto il passato fosse reale e sempre presente nella mia vita.
Fissai il mio sguardo in quel blu profondo tendente al nero spumeggiante di quei frammenti di mare.
Sospirai.
Ancora una volta ero completamente solo.
Solo, con i cocci di me stesso.
Solo, con l’unica compagnia di quei demoni che risiedevano in me; compagnia di cui, se avessi potuto, avrei volentieri fatto a meno.
Purtroppo, però, quelle ferite erano troppo profonde per essere cancellate. Non se ne sarebbero mai andate, avrebbero continuato a opprimermi, come stavano facendo in quel preciso momento.
Avrei potuto rinchiuderle nei più reconditi angoli della mia mente, imprigionarle in un armadio polveroso a cui applicare un grosso lucchetto e gettar via la chiave, ma sapevo benissimo che quegli scheletri avrebbero trovato un modo per uscire di nuovo dalla loro prigionia, tornando in vita, facendo sanguinare nuovamente tutte le cicatrici impresse sulla mia anima.
Nonostante lo desiderassi con tutto me stesso, non avrei mai potuto liberarmi completamente di quelle voci, di quelle immagini fin troppo vive che da anni continuavano a tormentare la mia mente giorno e notte.
L’unica cosa che potevo fare era nasconderle al resto del mondo, ma non sarei mai riuscito a nasconderle anche a me stesso.
A volte avevo pensato di potermi lasciare alle spalle quei ricordi, di poter ricominciare da capo, senza più voltarmi indietro, senza più essere vittima di quelle memorie oscure e dolorose.
Avevo pensato di rimanere immobile. Sì, immobile: se non mi fossi più mosso in avanti, non ci sarebbe più stato un passato. E se non ci fosse stato un passato, non ne sarei rimasto vittima ancora una volta.
Tuttavia, era impossibile.
Era impossibile lasciarmi veramente alle spalle quei demoni del mio passato. Quelle ferite erano appunto troppo profonde per poter essere completamente ignorate; ogni volta che avessi provato ad ucciderle o imprigionarle, quelle voci e quelle immagini sarebbero sfuggite al mio controllo, sarebbero rinate facendosi strada nella mia testa altre mille volte… Era solo una vana utopia, una speranza senza un solido fondamento, quella che a volte mi portava a pensare che avrei potuto vivere lasciandomi tutto ciò definitivamente alle spalle.
Ed era impossibile anche rimanere immobile.
La vita stessa presupponeva scelte, movimento.
Non potevo fermare il tempo, estraniarmi da esso. Ci sarebbe sempre stato qualcosa che mi avrebbe costretto ad abbandonare quell’immobilità, creando il passato, il presente e il futuro.
Ed io avrei dovuto continuare a vivere, in qualche modo, sebbene l’idea di farla finita con questa esistenza si fosse affacciata alla mia mente, nei miei momenti più bui: tuttavia, l’istinto di sopravvivenza era sempre riuscito, per qualche ragione che non ero mai riuscito a spiegarmi chiaramente, a prevalere, non permettendo che il dolore mi accecasse completamente facendomi fare quella cazzata. Perché, oltretutto, suicidandomi non avrei fatto altro che dare ragione a quei demoni, cadendone definitivamente vittima. Ed io non volevo certo darla vinta al mio passato, né avrei permesso che quelle profonde ferite potessero espandersi senza controllo portandomi con loro ad un triste epilogo. No, non avrei permesso a me stesso di arrendersi così facilmente: avrei continuato a combattere.
E per combattere, avrei continuato a vivere e ad affrontare quei fottuti demoni, quegli oscuri scheletri che parevano non voler morire per nessuna ragione.
Ma era dannatamente difficile affrontarli.
Ero solo, mentre quell’esercito di bastardi si divertiva a sconvolgermi l’anima e la mente, gettandomi nello sconforto più totale.
Il silenzio attorno a me era sempre più assordante, sembrava volesse inghiottirmi da un momento all’altro, inglobarmi nella sua indifferenza, mentre quelle voci tacitamente urlavano nella mia testa con sempre più vigore, facendomi impazzire.
Tremavo, probabilmente a causa di tutta quella rabbia e quella disperazione che pervadevano ogni fibra del mio corpo.
– Perché?! – urlai, ancora, con tutta l’aria che avevo in corpo, rompendo ancora una volta quel dannato silenzio, mentre conficcavo le unghie sempre più a fondo nella carne.
– Perché?! – ripetei qualche secondo dopo, non appena l’eco dell’urlo precedente si perse nel leggero vento che aveva preso a soffiare; questa volta però era poco più che un sussurro desolato.
Sentii l’aria mancarmi nei polmoni, cercai di respirare più profondamente che potevo, ma era come se non potessi mai esserne sazio.
La gola mi bruciava terribilmente, così come gli occhi e come ogni parte di me in quel momento.
Mi alzai; la vista sempre più appannata da quelle lacrime bastarde che si opponevano al mio volere. Fissai ancora una volta le stelle, o meglio, quei puntini sfocati e lontani che riuscivo a vedere.
Tutto, era lontano.
Lontano da me.
Ero completamente solo.
Lo sconforto e la desolazione si fecero strada in me sempre più. Il dolore era sempre più insopportabile, sempre più buio, e ben presto si trasformò alimentando un’ira cieca che iniziò a scorrere in me sempre più rapidamente.
Mi voltai, e, senza una ragione precisa, iniziai a correre.
Correvo a perdifiato, come se, allontanandomi dal posto in cui avevo ricordato quelle ferite, avessi potuto scappare da esse, lasciandomele alle spalle assieme a quei frammenti di onde troppo simili a quelli della mia anima.
Dannazione a me, che mi ero lasciato trasportare da quei ricordi ancora una volta, illudendomi che fosse la volta buona, quella in cui sarei riuscito a vincerli.
Illuso, ecco cos’ero: un fottuto illuso.
Continuavo a correre senza meta, cercando invano di cacciare quei pensieri da me, cercando invano di non pensare a nulla.
Volevo dimenticare, non importava come.
L’unica cosa che sapevo in quel momento era che non ce l’avrei fatta a sopportare il peso del passato, che quella sera era più opprimente che mai.
Avrei dato chissà cosa pur di azzittire quelle voci che urlavano sempre più forte nella mia testa, assordandomi.
Volevo correre, volevo dimenticare, volevo sostituire il dolore con qualcosa di inebriante, qualsiasi cosa purché mi intontisse, impedendomi di sentire tutta quella desolazione e quella disperazione che aizzavano la gran quantità di rabbia che invano tentavo di reprimere, e che però si era ormai impossessata di me.
Perché era più facile correre, era più facile inebetirmi, che dover affrontare, ancora una volta, quell’enorme quantità di dolore, da solo.

Continuai a correre finché non mi mancò completamente il fiato. Allora, cominciai a camminare, sempre senza una meta, boccheggiando per la fatica e per tutta la sofferenza che continuava a gravare su di me.
Alzai il volto, sollevando lo sguardo che tenevo fisso sull’asfalto delle strade che avevo percorso, e mi guardai intorno per capire dove mi trovassi. Non che mi fregasse veramente qualcosa del luogo in cui ero giunto, semplicemente compii uno di quei gesti automatici che si fanno per capire dove andare poi.
Non fu facile orientarmi, perché senza rendermene conto mi ero allontanato dalla Baia più di quanto avessi potuto immaginare, ma soprattutto perché la mia vista era sempre più appannata.
Non ce la facevo più a contenere quelle lacrime bastarde: sentivo che da un momento all’altro avrebbero vinto, travolgendo gli argini che avevo tentato di imporre loro.
Mi asciugai velocemente gli occhi con il dorso della mano, per l’ennesima volta, illudendomi di poter resistere ancora.
Poi, una volta realizzato l’isolato in cui ero giunto, imboccai una vietta secondaria poco conosciuta, arrivando davanti all’insegna sgangherata di un piccolo bar alquanto scalcinato. Non era certamente uno dei locali “in” della zona, frequentato da gente perbene; lo si capiva ancor prima di entrare, solamente lanciando un’occhiata al vicolo in cui si trovava, all’insegna rozza che ne annunciava la presenza altrimenti confondibile con uno qualunque degli appartamenti di quel quartiere, oppure a ciò che si scorgeva attraverso la porta dai vetri appannati o alle urla che da lì uscivano, accompagnate da un forte olezzo di alcool e fumo.
Mi pulii un’altra volta il viso, respirai a fondo, assumendo un’espressione impenetrabile, da cosiddetto duro, e spinsi con violenza la porta che si aprì cigolando.
I presenti si voltarono, squadrandomi per una frazione di secondo, per poi tornare ai loro discorsi, alle loro risate, alle loro battute sporche, alle loro bottiglie di alcolici, alle loro slot-machine a cui stavano sperperando i risparmi di una vita nella futile illusione di poter mai vincere qualcosa o a chissà cos’altro, di cui onestamente me ne fregava meno di zero.
Ostentando la solita finta sicurezza che ormai avevo imparato a giostrare a mio vantaggio, mi avvicinai al bancone in un paio di falcate. Quindi, mi rivolsi al barista, che ormai conoscevo di vista, ordinando due bottiglie di birra.
L’uomo, senza batter ciglio e senza chiedermi l’età né tantomeno i documenti, mi porse ciò che gli avevo chiesto, prendendo in cambio la banconota che gli tesi e lasciandomi sul bancone il resto, composto da un mare di monetine.
Rimasi interdetto per qualche secondo, mentre si faceva strada nel mio cervello l’idea di aggiungere anche qualcosa di più pesante a quelle due semplici bottiglie, qualcosa tipo alcolici molto più forti, o droga. Solo così avrei avuto la certezza di inebetirmi e annullarmi completamente.
Ma, ancora una volta, un orgoglioso senso d’amor proprio, sbucato da chissà dove, mi fermò in tempo.
Mi ero ripromesso, tempo prima, di non tradire ancora i miei princìpi, i princìpi che avevo con cura cercato di coltivare in me e che il Sensei mi aveva aiutato a far crescere.
Non avrei lasciato che quegli insulsi scheletri viventi mi facessero cadere di nuovo, intrappolandomi in un circolo vizioso da cui ero riuscito a sfuggire faticosamente.
Non avrei permesso che mi condizionassero al punto da mandare a puttane la vita che stavo faticosamente cercando di ricostruirmi.
Volevo non pensare, volevo non sentire, certo, ma non volevo annullarmi davvero completamente.
L’idea di farla finita con la vita e con il mondo, sebbene in alcuni momenti si fosse fatta strada sempre più vivida in me, era sempre stata respinta dalla parte razionale del mio cervello, che riaffiorava stentatamente dall’oceano desolato in cui rischiava di affogare, richiamandomi alla realtà, evitandomi di compiere le peggiori cazzate che avrei potuto commettere… No, non avrei rotto quell’abitudine.
L’avevo ripetuto a me stesso più di una volta: avrei continuato a lottare, non avrei permesso al passato di vittimizzarmi più di quanto già non fossi, non avrei lasciato questo fottuto mondo da perdente.
E finire nel circolo della droga, che già mi aveva fatto soffrire le pene dell’inferno direttamente ed indirettamente in passato, era comportarmi da coglione e da perdente.
Feci un sospiro impercettibile, scuotendo appena la testa. Avrei fatto in modo da farmi bastare quella birra.
Raccolsi gli spiccioli, ficcandomeli velocemente in tasca, per poi afferrare le due bottiglie di vetro verde, una per mano, ed uscire in fretta dal locale, il cui affollamento di insulsi e volgari soggetti cominciava a darmi la nausea.
Approdato nuovamente sul marciapiede, respirai a fondo l’aria relativamente pura che ora mi circondava nuovamente, per poi incamminarmi procedendo a ritroso lungo la vietta che avevo percorso poco prima.
Continuai a trascinare un piede dietro l’altro, nuovamente perso nei miei pensieri e nei miei ricordi, con gli occhi sempre più lucidi e lo sguardo fisso a terra, fino a giungere in un parchetto silenzioso: uno di quelli dove di giorno i bambini giocano spensierati alla luce del sole, e di notte è popolato solamente dalla tristezza di qualche disgraziato che cerca, per motivi suoi, un luogo appartato dove stare.
Ecco, in quel momento, quel triste disgraziato potevo benissimo essere io.
A lunghi passi raggiunsi una panchina, situata ai piedi di un albero, su cui mi lasciai cadere esausto, appoggiando le bottiglie ai miei piedi.
Mi rannicchiai, portandomi le ginocchia al petto, posandoci la testa, sempre più pesante, oppressa da quei fottuti demoni che si divertivano a vedermi ridotto ad uno straccio perso nella morsa gelida della disperazione.
Un sospiro irregolare fu il segno che ormai la mia resistenza era giunta al limite. Alzai lo sguardo al cielo, fissando le stelle attraverso le fronde di quell’albero, cercando invano di non pensare a nulla e di ricacciare indietro le lacrime.
Tirai su col naso: chi credevo di ingannare? Sapevo benissimo che era tutto inutile.
Raccolsi la prima bottiglia e la aprii, usando come perno un portachiavi che avevo eletto a mio apribottiglie personale, e bevvi una grossa sorsata, tentando di affogare nell’alcool tutto quel dolore che ormai non riuscivo più a fronteggiare da solo.
Non so per quanto tempo me ne rimasi lì, abbandonato su quella panchina, a piangere e urlare in silenzio, svuotando a gran sorsate le due bottiglie.
Terminato l’ultimo goccio, mi pentii di aver preso solamente quelle due bottiglie di birra: erano finite fin troppo in fretta, ed ero ancora fin troppo sobrio per poter evitare di pensare, ritrovandomi completamente inebetito in un universo parallelo composto di nulla.
Ma non avevo voglia di tornare indietro e prendermi qualcos’altro: quel dannato locale era abbastanza distante da quel dannato parchetto, e non avevo la forza né la voglia di tornare in quel posto.
Così, rimasi lì seduto ancora un po’, congelato dal freddo vento che ormai aveva iniziato a sferzare la notte (ero certo che il sole fosse tramontato da un bel pezzo, anche se non avrei saputo dire da quante ore, e certamente sarebbe stato più corretto dire notte, piuttosto che sera) e dalla disperazione che mi logorava sempre più le membra e l’anima.
Poi, ad un tratto, quel posto e quello star lì seduto inerme a lasciarmi congelare mi fece schifo, provocandomi un senso di vomito. Mi alzai di scatto, facendo cadere a terra le due bottiglie vuote che si frantumarono in schegge e frammenti di vetro verde, che rimasero lì, simbolicamente, a segnare il passaggio della mia anima distrutta e dei cocci di me stesso.
Una volta in piedi, imprecai tra i denti e rimasi fermo qualche secondo, cercando di recuperare almeno un po’ di senso dell’orientamento e far smettere la testa di girare, dato che mi ero alzato troppo repentinamente, come uno scemo, visto che sapevo per esperienza l’effetto che ciò avrebbe provocato.
Mi appoggiai un attimo alla corteccia dell’albero accanto a me; poi, recuperato l’equilibrio, mi incamminai.
Trascinai le mie stanche membra per strade solitarie, in direzione del Gilman, sperando che la musica, almeno lei, potesse darmi un po’ di conforto.
Dopo non so quanto tempo iniziai a udire note dal tono potente, rabbioso ma in un certo senso confortante quasi come se fosse allegro: sorrisi mestamente, scordando per una frazione di secondo i pensieri e le immagini che continuavano ad opprimermi la mente, e allungai il passo.
La musica era sempre più vicina, e dal volume del brano e del vociare allegro e amichevole di gruppi di ragazzi e ragazze, senza nemmeno alzare lo sguardo dall’asfalto, dedussi che ormai l’entrata del locale doveva essere a pochi metri da me…
Proseguii in quella direzione, cercando invano di scacciare ogni cosa dalla mia testa e concentrarmi solamente sulla musica, quando… Quando, ad un tratto, mi ritrovai a terra.
La prima cosa che mi fece rendere conto della mia caduta fu un forte dolore alle braccia, che erano subito corse a riparare la testa, evitando a quest’ultima un poco dolce impatto col duro catrame sottostante. La seconda, fu il repentino cambiamento di panorama: dal nero della strada, rischiarato a chiazze dalla luce dei lampioni, ad una distanza di quasi un metro e ottanta, a quello stesso asfalto, ora però a pochi fottuti centimetri dalla mia faccia. Infine, la terza fu il fatto che avvertii un corpo estraneo sotto di me.
Prima ancora di verificare a chi appartenesse quest’ultimo, mi rialzai velocemente, pronto a levarmi subito dalle palle ed entrare al più presto nel locale, sperando che il volume a millemila decibel della musica potesse azzittire le voci che avevo in testa da fin troppo tempo.
– Ma guarda dove vai, idiota! – mi urlò una voce femminile, alquanto incazzata ed infastidita, prima ancora che potessi dirigermi verso la soglia del Gilman.
– Ma guarda tu dove cazzo vai! Idiota, fino a prova contraria sei tu quella che s’è fermata di colpo in mezzo alla strada, mica io! – le gridai di rimando, con una voce gutturale che quasi mi stupì, prima ancora di voltarmi per guardare chi diamine fosse quella scema che osava urlarmi in faccia, in un momento del genere poi!
Se le mie intenzioni, fino ad un secondo prima, erano quelle di far finta di nulla, non avendo voglia di ulteriori casini (quelli interiori mi bastavano e avanzavano, cazzo!), a quella provocazione i miei nervi, già oltremodo sotto pressione, scattarono come due fottute molle impazzite che, nelle mie condizioni, non avevo più la forza di controllare.
– Ciò non toglie che tu non hai guardato dove diavolo mettevi quei tuoi dannatissimi piedi! – ribatté lei, per niente scoraggiata né intimidita dal mio grido minaccioso, cupo e gutturale, che ricordava vagamente un misto tra uno scream ed un growl.
– Senti, non ho voglia di perdere tempo con ste cazzate, ok? Non sono dell’umore. È stata colpa tua, finiamola qua e tanti saluti. – tentai di tagliar corto, questa volta senza alzare il tono di voce, ma soffiando scocciato le parole.
– Colpa mia un cazzo! Quello che m’è caduto addosso sei tu, e se invece di guardare chissà dove, avessi fissato gli occhi davanti a te, te ne saresti certamente accorto... – rispose lei ancora una volta, questa volta con un’odiosa sfumatura ironica nella voce che mi fece alterare più di quanto già non fossi.
– Uno può avere cose molto più importanti a cui pensare, rispetto a quella di fissare gli occhi davanti a sé perché qualche fottuta idiota si ferma improvvisamente in mezzo alla cazzo di strada, non trovi?! – scattai, irato ed offeso.
– Senti, smettila di darmi dell’idiota o finisce male. – sbottò.
Se non fossi stato in preda all’ira e soprattutto al disperato dolore che cercavo di mascherare sfogandolo appunto in rabbia, probabilmente mi sarei messo a ridere di gusto: osava forse minacciarmi? Lei? Okay, probabilmente non aveva la più pallida idea di con chi avesse a che fare. Non ero certo il tipo che si lascia intimorire permettendo a qualcuno di minacciarlo. No, non ero più quel genere di persona da tempo, ormai.
Ridacchiai comunque tra me, seppur amaramente.
– Idem per te, stupida. – ribattei, con un ghigno beffardo.
– Io ti ho avvertito, brutto pezzo di merda, dillo un’altra volte e ti pentirai di aver messo piede fuori di casa stasera. – soffiò lei, alquanto alterata.
Continuava con le minacce, eh?
Proprio non aveva capito un cazzo, povera illusa.
Risi ancora, questa volta più forte, in modo che potesse sentire anche lei.
– Le tue minacce non mi fanno paura, affatto. Anzi, mi fanno solo ridere. – feci una brevissima pausa – E comunque ho detto stupida, non idiota. Cos’è, adesso non capisci più neanche la fottutissima lingua inglese? –
E quest’ultima frase da dove m’era uscita?
Anzi no, da dove, purtroppo, ne ero fin troppo bene a conoscenza. La vera domanda era perché mi era uscita.
Non sapevo per quale fottutissimo motivo stessi dicendo quelle cose. Sapevo solo che, senza che potessi arrestarne il corso, stavo scagliando fuori con rabbia parte di quei demoni di quel mio fottuto doloroso passato fin troppo presente per essere definito veramente tale.
E sapevo anche che, ormai, ero fuori controllo e non riuscivo più ad arrestare il corso delle parole che stavo sputando con disprezzo verso di lei.
– O magari sei una di quelle bastarde che si atteggiano tanto ma poi non capiscono un cazzo… – continuai, sempre più velenoso, sempre più fuori di me – O una di quelle stronze che si credono tanto intelligenti e fighe, ma che in realtà sono solo delle stupide puttane, oppure delle insulse bastarde che cercano invano di nascondere chissà quale origin… –
– Adesso basta, cazzo! – urlò, anche lei ora veramente fuori di sé, trapanandomi i timpani e interrompendo il flusso di insulti che sgorgava dalla mia bocca, esente ormai dal controllo del mio cervello, ma comandato solamente da quei sentimenti di pura rabbia, indignazione, dolore, sofferenza e simili che avevano preso pieno possesso di me.
– Mangiatele quelle tue parole di merda, strozzatici pure se vuoi, ma non osare rivolgerle a me! – continuò ad urlarmi, dopo una brevissima pausa in cui probabilmente aveva ripreso fiato, fissandomi con occhi di fuoco.
Non riuscivo a capire che le era preso, tutt’ad un tratto.
A quanto pareva, avevo colpito in pieno il suo orgoglio, la sua dignità, ma non riuscii a rallegrarmene.
Probabilmente perché intravidi qualcosa, in quegli occhi…
Qualcosa che mi parve un deja-vu; qualcosa che mi fece ricordare ancor di più le sofferenze del mio passato.
Qualcosa che, infine, se fossi stato sobrio, mi avrebbe fatto pentire di ciò che avevo appena detto, facendomi desiderare piuttosto di sparire all’istante, di sotterrarmi a mille metri di profondità.
Impressionante, stranamente impressionante: erano davvero rare le volte che ciò mi capitava…
Tuttavia, purtroppo, non ero affatto sobrio. Non che fossi ciucco1 marcio, ci sarebbe voluto molto di più, ma comunque ero sufficientemente sbronzo da non riuscire a connettere in tempo il cervello alla mia dannatissima lingua.
Inoltre, tutto quel mix di sentimenti bui che mi soggiogava di certo non aiutava il mio autocontrollo a riaffermarsi in me!
Però, per un momento fu come se fossi riuscito a tornare completamente sobrio, liberandomi dall’ebbrezza che alimentava quelle belve imbizzarrite che scuotevano la mia anima e la mia mente. Si trattò solo di un secondo, ma fu sufficiente per farmi rendere conto di come diavolo mi ero ridotto ancora una volta, e per farmi guardare la situazione senza l’accecamento dell’ira e della sofferenza che invano cercavo di reprimere.
Nel frattempo, mentre io ero rimasto in silenzio, tra i miei pensieri, quella ragazza mi rivolse un ultimo sguardo, gelido e bruciante allo stesso tempo, che colsi di sfuggita, prima di voltarsi ed entrare nel locale.
Rimasi ancora lì, fermo, per un lasso di tempo indeterminato che poteva variare tra una manciata di secondi e una di minuti, con lo sguardo fisso nel punto in cui la strada lasciava il posto alla porta del Gilman in cui era sparita poco prima quella strana tipa. A dir la verità, però, anche se il mio sguardo fissava quel punto, ciò che vedevo nella mia mente non erano affatto le immagini che gli occhi inviavano al mio cervello, perso nelle sue riflessioni e nei suoi fottutissimi ricordi.
Sapevo benissimo che ognuno di noi ha ferite che nessuno dovrebbe mai riaprire; le mie cicatrici mai guarite completamente potevano testimoniarlo, anche e soprattutto in quel momento.
E qualcosa, dentro di me, mi diceva che ne avevo appena toccata una delle sue.
Quel poco di parte razionale rimasta in me mi fece notare che il vero idiota, in quel momento, ero io.


Note:
1. Ciucco = sbronzo

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Capitolo 7
*** My weakness is that I care too much ***


Salve gente! *fa ciao ciao con la manina, affacciandosi per vedere com’è la situazione*
Uhm, sembrerebbe che in giro non ci siano forconi, tonfa o altri attrezzi per pestarmi… uhm, bene! *sospira sollevata*
Scusatemi davvero, non sono riuscita a tenere lo standard decente di aggiornamento che ero riuscita ad avere per lo scorso capitolo… anche se, beh, di sicuro è meglio di quelli passati! *fa un sorriso a trenta-e-quanti-denti-ha*
In ogni caso, dato che non aggiorno da circa un paio di mesi (chezz, sono volati! Anche se allo stesso tempo sembravano non passare mai, dannata sQQuola ç_ç), mi accingo a rimediare ^^”
Rimediare nel senso che questo capitolo è una specie di doppio capitolo! Così “recupero” il tempo perduto, no? xD
A dir la verità, all’inizio la prima parte non c’era. Poi però l’ispirazione si è fatta strada nella mia mente, urlando nel mio cervello finché non ho deciso di lasciar perdere il mattone di scienze e di latino che dovevo studiare per darle retta… e, invece di due righe, già solo quella parte avrebbe la lunghezza sufficiente per essere considerata un capitolo a sé. Però… Però mi sono detta: è da due mesi che non aggiorno, per di più siamo sotto Natale e tutti sono più buoni (o almeno così dicono… *muahahah* però, no, dai, per questa volta non costituirò io l’eccezione, non in questo caso almeno)… quindi, perché non fare una specie di regalo (?) e pubblicare un capitolo con entrambe le parti?
Anche perché, altrimenti, se avessi terminato il capitolo solo dopo la prima parte, una certa Sadako Kurokawa mi avrebbe gentilmente ucciso, dopo i bellissimi spoiler che le avevo fatto (chiedendole pure un parere per vedere se potessero starci certe cose oppure no), se avesse scoperto che tali parti in realtà non erano più in questo settimo capitolo ma avrebbero costituito l’ottavo (ovvero, altro tempo da aspettare…)! X’D Quindi beh, ringraziate pure lei per questa mia decisione ;)

Ma ora passiamo al capitolo.
Alcuni pezzi della seconda parte (che poi fino a pochi giorni fa era il nucleo unico ed essenziale del capitolo) erano già pronti nella mia mente da moltissimo tempo, così come erano già anche abbozzate su Word xD Però, erano solo abbozzate, appunto.
Ci ho lavorato su soprattutto durante il mese di Novembre, ed essendo io oltremodo esaltata per il concerto dei Papa Roach a cui sarei andata il 26 Novembre (e sul quale ho anche scritto una fic-tributo, se a qualcuno interessasse ^^) (aaaaawwww…26Novembre2012 adsjuefwudgf *___* okay, mi riprendo, perdonate il momento di sclero xD), è inutile dire che la colonna sonora del capitolo non potesse che essere loro!
La canzone principale che accompagna il capitolo è Scars (dei PRoach, appunto), ma qua e là sono disseminate parti, frasi e riflessioni, che mi sono state ispirate sia da altre canzoni dei Papa Roach (che sono stati la colonna sonora predominante di Novembre -e anche Dicembre-, per ovvi motivi xD), sia dei Linkin Park (grande amore della mia vita *-* xD), e anche qualcosina dei Green Day. Okay, chiudiamo la parentesi colonna sonora, che non so neppure perché ho aperto. Ah, sì, forse per via del concerto (*W*) x’D
Successivamente, ho voluto aggiungere un’altra parte, prima di ciò che avevo già scritto. Come ho già accennato, l’idea era di scrivere una paginetta, ma alla fine, prima che potessi rendermene conto le paginette erano già diventate ben 5 intere! X’D
L’idea è nata soprattutto per mettere a confronto i risvegli e le riflessioni dei due eroi(?), Amy e il “Demone Oscuro” (prendo in prestito il soprannome che gli ha dato sempre la cara Sadako) -di cui finalmente(?) verrà svelato il nome-.
Okay, vi avviso in anticipo che questa prima parte, dal punto di vista del “Demone Oscuro”(?), non adotta un linguaggio proprio fine e pulito. Al contrario, è immediato, quasi rude, non fa giri di parole e non si scandalizza certo nel mettere una quantità impressionante di parolacce per rafforzare quello che dice o pensa. Diciamo che il ragazzo si è svegliato un po’ di merda e ciò non fa altro che aumentare il suo vocabolario già stracolmo di termini per lui “caratteristici”, come “fottuto”, “cazzo” e cose così. No, non è il re della finezza x’D
Alla fine, diciamo che il linguaggio va anche di pari passo con come si sentono i personaggi narranti!
La seconda parte invece adotterà il punto di vista di Amy e… va beh, non voglio fare spoiler.
È la prima volta che inserisco in questa storia un capitolo diviso in due parti e col punto di vista alternato… Fatemi sapere se anche per voi è una buona idea o è meglio separarle, in futuro, in due capitoli diversi.
In ogni caso, il capitolo è soprattutto riflessivo, sia nella prima che nella seconda parte, anche se qualcosa accade x’D
Okay, ho già scritto troppo, sorry ^^”
Ringrazio ancora sentitamente tutte(/i?) coloro che seguono questa storia e soprattutto chi prenderà il tempo per recensire e farmi sapere che ne pensa!
E un caro grazie a Sadako Kurokawa, come sempre, per le recensioni, il suo compito di correttrice di bozze, l’aiuto, il sostegno, le risate e le nostre belle chiacchierate :3 Spero tu sia contenta di questo doppio capitolo e che valga il tempo dell’attesa! xD
Okay, la smetto di blaterare (dato che ho già scritto una pagina di cazzate varie o.O) e vi lascio al capitolo vero e proprio che è meglio.
Alla prossima, see ya! :D







Soundtrack: Scars (Papa Roach)

“I tear my heart open, I sew myself shut
My weakness is that I care too much
And our scars remind us that the past is real
I tear my heart open just to feel.
I tried to help you once
Against my own advice
I saw you going down
But you never realized
That you're drowning in the water
So I offered you my hand
Compassion’s in my nature…”
[ Scars – Papa Roach ]


CAPITOLO 7
My weakness is that I care too much


Una luce fottutamente fastidiosa mi investì in pieno volto, risvegliandomi in un tiepido tepore che ben poco rispecchiava come mi sentivo.
Mi sentivo esattamente di merda, ecco come mi sentivo.
Avevo mal di schiena; anzi, no, avevo male in ogni fottutissima parte del mio corpo, senza contare il fatto che sentissi la testa così pesante, ma allo stesso tempo così leggera.
E questo era solo come mi sentivo fisicamente, perché dentro di me stavo mille volte peggio.
Borbottai parole senza senso, sperando di poter ricacciare indietro quella dannata luce, ma, cazzo, non se ne voleva proprio andare.
Con un ringhio soffocato, mi decisi ad aprire gli occhi, che appena vennero a contatto con la luce del giorno bruciarono da maledetti.
Ecco qua, un’altra bellissima giornata che per me non sarebbe stata altro che un’altra bellissima giornata di merda.
E che altro poteva essere?
C’erano già tutte le fottute premesse perché fosse uno schifo.
Mi alzai e mi guardai intorno, per cercare almeno di capire dove cazzo mi trovavo.
Strizzai gli occhi, cercando di mettere a fuoco le immagini attorno a me, e soprattutto di sopportare quella luce che certo non aiutava a concentrarmi. Anzi, non faceva altro che accecarmi e aumentare quel fottuto mal di testa e quel senso di nausea che avevo.
Okay, a quanto pareva mi ero addormentato per terra, ai piedi di un albero, che però non mi aveva neppure fatto il favore di ripararmi a sufficienza dalla fottuta luce solare. Anche l’ombra mi schifava, probabilmente.
In ogni caso, ieri sera, o notte che fosse, dovevo essere stato proprio messo male, per non trovare neppure la forza di tornare in quelle quattro mura che osavo chiamare casa.
Che diavolo era successo di così sconvolgente?
Cercai di mettere a fuoco qualche ricordo sfocato e disperso nei meandri della mia mente.
Ero uscito verso il tramonto, di questo ero certo. Così come ero certo di essere andato alla Baia, sul mio scoglio, nel mio posto.
Sì, ero andato lì, avevo fatto sloggiare quei fottuti fighetti di merda che osavano profanarlo e deturparlo, e poi mi ero perso ancora una volta nei miei pensieri.
Dannazione a me, che non riuscivo a fare a meno di cercare un posto tranquillo e appartato per pensare alla mia vita. Non potevo semplicemente non pensare? Perché dovevo sempre complicarmi ulteriormente l’esistenza? Cazzo, tutte quelle riflessioni mi avevano sempre portato, in qualche modo, sofferenza. Sempre e solo fottuta sofferenza, fin quando ricordavo.
E non sempre, nonostante tutto, ero pronto ad affrontarla.
Non volevo ammetterlo, volevo illudermi di essere forte, illudermi di non essere più vittima del mio passato, illudermi che non me ne fregasse più di nulla… ma in realtà, sotto quella dura corazza che mi ero costruito, ero sempre me stesso, sempre quel dannato ragazzo che non riesce a fregarsene come si deve.
Mi ero illuso più volte di aver imparato a contrastare i miei demoni e non cadere più vittima sotto il peso di quegli scheletri mai morti. Mi ero addirittura illuso di poter cancellarli, se avessi voluto.
Ma sotto quella fottuta corazza, le cicatrici c’erano sempre, vive, a farmi presente il mio fottuto passato e la merda che mi circondava.
Mi diedi una sberla. Non so perché lo feci, ma sentii l’impulso di farlo.
Coglione.
Sì, mi sentivo decisamente un coglione.
Cercai di sforzare la memoria, per ricordare cosa era successo dopo.
Avevo cercato ancora una volta di affrontare i demoni del mio passato. Mi tornarono alla mente squarci di dolorosi pensieri e ricordi.
Ancora una volta avevo cercato di combatterli, ma ancora una volta alla fine ne ero stato vittima.
Nonostante i miei propositi, le mie convinzioni, ancora una volta ero crollato, mi ero ritrovato in pezzi, e non ero stato capace di trovare la forza necessaria per ricomporre la mia anima.
E non avevo neppure il mio basso o i miei tonfa con me, per poter sfogare quell’energia distruttrice e quella disperata sofferenza che si erano fatte strada in me sempre più a fondo, rompendo il mio spirito.
Sospirai, chiudendo gli occhi e stringendomi le tempie tra le mani, cercando invano di contenere quel dolore pulsante, dovuto al fottuto dopo-sbornia e alimentato ulteriormente da quei fottuti ricordi.
Pensare era sempre più difficile, ma volevo capire perché diavolo mi trovassi lì, perché diavolo mi fossi risvegliato in quel cazzo di parchetto dimenticato da Dio.
Sì, ieri sera ero stato sopraffatto per l’ennesima volta da quegli scheletri che parevano così fottutamente immortali; poi, ero scappato. Mi ero messo a correre, come se fuggendo da quel luogo con cui avevo condiviso quei ricordi, avessi anche potuto fuggire da me stesso. Come se ciò fosse possibile.
Abbozzai un sorriso amaramente ironico, dandomi dell’idiota.
Ero il mio peggior fottuto nemico, e non c’era via di scampo.
Un giorno, forse, avrei saputo gestire tutto ciò. Un giorno, forse, tutto ciò mi avrebbe fatto diventare me stesso.
Ma per ora tutto ciò non faceva altro che spingermi e farmi affondare sempre più nella merda.
E così, ieri sera ancora una volta avevo provato a scappare. Avevo pensato che correre fosse più semplice che affrontare ancora quel dolore; avevo pensato che inebetendomi avrei potuto annullarmi almeno in parte, sostituendo il dolore con un’ovattata nuvola di nulla.
Ma, alla fine, ancora una volta quei demoni erano maledettamente forti. Troppo forti.
E così, come un’idiota, mi ero rifugiato nell’alcool.
Beh, almeno non ero stato così scemo da cedere nuovamente alla tentazione della droga. Con quella merda avevo chiuso definitivamente, ormai. Dopo certe cose, dopo quello che aveva fatto a me e a… No, non volevo neppure ricordare, in quel momento non mi avrebbe certo aiutato. In ogni caso, dopo tutto ciò che era successo, non potevo essere così coglione da finirci dentro ancora.
Continuai a sforzare le mie povere meningi, che chiedevano inutilmente tregua.
Aumentando lo sforzo, vidi un’immagine di me stesso su una panchina di un altro fottutissimo parchetto desolato, attorniato dai cocci di qualche bottiglia di birra che avevo ormai scolato, ma che non mi avevano aiutato più di tanto a sentirmi meglio, o anzi, a non sentirmi più.
Mi ero alzato per andare da qualche parte… ma dove?
Uhm, conoscendomi, escludendo la Baia, dato che ero scappato proprio da lì, avrei potuto sentire il bisogno della musica. Sì, era molto probabile. Quindi, facendo due più due, con molta probabilità ero andato al Gilman.
Premetti la mano sulla testa, cercando qualche ricordo che potesse confermare ciò. Non dovevo essere così ubriaco da permettere a quel fottuto alcool di cancellarmi la memoria, non ancora!
E infatti, dopo un po’, eccole, quelle immagini che arrivavano alla spicciolata.
Ma, a differenza di ciò che mi aspettavo, questa volta non erano suoni e immagini di un concerto, di gente che suona, gente che canta, gente che salta, urla e balla in un mare di sudore, mentre il volume della musica riusciva a coprire quello dei miei fottuti pensieri.
No. Quelle che il cervello mi mostrò erano immagini di una ragazza.
Ma chi cazzo era? E che cazzo c’entrava con me?
Cazzo, era sempre più difficile ricordare. Fanculo.
Cercai di concentrarmi meglio, ma era così fottutamente difficile, con la testa che non collaborava affatto.
Dopo un po’, però, iniziai a ricordare qualcosa.
Le ero caduto addosso, o qualcosa del genere. Sì, ricordo l’asfalto così dannatamente vicino alla mia faccia.
Lei si era incazzata, probabilmente. Sì, era così. Mi aveva urlato contro qualcosa, e io le avevo gridato qualcos’altro. E… cazzo, era tutto così annebbiato.
Dopo un po’ se ne era andata incazzata come una iena, se non la memoria non mi ingannava pur di accontentarmi e farmi smettere di tormentarla.
Dal suo volto, non sembrava solo incazzata per la caduta. No, era qualcosa di più. Sembrava piuttosto ferita. Sì, ecco, ferita. Avevo detto qualcosa, qualcosa a proposito delle origini… Oh cazzo. Allora ricordai.
Ricordai come, accecato dall’alcool ma soprattutto dal dolore e dalla rabbia, non avessi potuto impedire ai fottuti demoni del mio passato di impadronirsi della mia lingua.
Ricordai la sua reazione.
Ricordai come vidi nel suo sguardo furioso il mio, come mi fece tornare alla mente ancora una volta le mie fottute cicatrici, e come mi sentii un idiota.
Era una cosa stranissima, ma era successa.
Così strana che se me l’avesse raccontata qualcun altro, avrei giurato che fosse solo una fottuta balla colossale. Io che mi sento quasi colpevole per far soffrire qualcuno? Mi veniva quasi da ridere.
Dopo tutto quello che questo mondo di stronzi mi aveva fatto, dopo quanto gli altri mi avevano fatto soffrire, era davvero raro e oltremodo strano che io potessi sentirmi un coglione per aver fatto soffrire qualcun altro.
Ad ogni azione ne corrisponde una uguale e contraria, è una legge fisica.
Così, io ero diventato il frutto di ciò che mi era stato fatto. Quindi, a tutto il dolore che mi era stato inflitto, corrispondeva da parte mia una facciata da stronzo che se ne fotte di come possono stare gli altri.
Eppure mi era capitato, mi ero sentito un idiota per avere riaperto ferite del suo passato e averla fatta soffrire. Certo, lei mica me l’aveva detto, ma ormai avevo il fottuto callo per queste cose. Le capivo, non c’era mica bisogno di dirmelo. C’ero passato anch’io per quella merda, c’ero ancora dentro, quindi lo capivo quando qualcuno tirava fuori rabbia per nascondere dolore.
In ogni caso, avevo quasi riacquistato lucidità per un dannato secondo, con la consapevolezza che, seppure fosse fottutamente strano, mi fossi sentito un idiota a causa sua, che per una volta qualcosa avesse vinto sulla mia generale indifferenza nei confronti altrui.
Ma perché me ne era importato?
Riflettendoci (seppure fosse così maledettamente difficile, in quello stato di merda in cui mi ritrovavo), avevo anche capito cosa fosse quel qualcosa che non mi aveva permesso di fregarmene: era quella cazzo di sfumatura che avevo visto nel suo sguardo, che mi aveva fatto ricordare fin troppo bene alcuni tra i momenti più bui della mia fottuta vita.
Probabilmente mi era successo solo perché stavo fottutamente male e avevo proiettato le mie sofferenze su di lei; per quello mi ero sentito una merda.
Poi, probabilmente, aveva influito anche il fatto che non ero riuscito a controllarmi e a essere padrone dei miei pensieri, ma avevo invece agito, ancora una volta, in maniera impulsiva, nonostante tutti i miei sforzi e le mie convinzioni sul mio self-control, che invece era andato a puttane. Questo mi aveva fatto sentire debole. E sentendomi debole, avevo perso ancor di più il controllo, sotto l’aiuto dell’alcool e dei miei fottuti demoni.
Ecco quindi spiegato perché avessi reagito in quel modo, perché avessi ancora una volta attaccato per difendermi. E il fatto che avessi sputato quelle cose con odio non era dovuto ad altro che al fatto che stavo sprofondando sempre più nel baratro del dolore causatomi dai miei ricordi di merda.
Ovviamente non potevo sapere che quelle parole avrebbero avuto quell’effetto su di lei; non potevo certo aspettarmi che nascondesse anche lei cicatrici, e soprattutto cicatrici che potessero essere riaperte proprio da quelle parole. Perché non era semplice risentimento quello con cui mi aveva fulminato; la sua non era stata una semplice risposta a un insulto. Non me l’aspettavo, cazzo. Mi aveva sconvolto.
In quel modo avevo capito, avevo visto il dolore e il rancore nel suo sguardo e mi ero sentito una merda pensando al mio dolore, al mio rancore.
Non riuscivo a trovare altra spiegazione. Più che altro, dovrei dire che, trovata quella, che mi sembrava parecchio verosimile, mi rifiutai di cercarne un’altra, non volendo affaticare invano la mia mente già provata.
Ah, che fottuto mal di testa. Più pensavo e più aumentava… Beh, che cazzo mi aspettavo? Che diminuisse?
Sospirai.
In ogni caso, quel mal di testa mi spinse a pensare ancora (tanto ormai era già a livelli indecenti, un po’ più o meno male non mi avrebbe cambiato la vita).
Di certo non potevo trovarmi vittima di quel fottuto dopo-sbornia di merda solo per due cazzo di birre. E allora, che diamine avevo fatto dopo?
Le immagini e i ricordi erano sempre più confusi, annebbiati.
Pur sforzandomi, non riuscii a recuperare più di qualche flash qua e là.
Per qualche strana ragione, avevo rinunciato ad andare al Gilman, e, sempre più preda di quei fottuti demoni, sentendomi veramente di merda, me ne ero tornato indietro, camminando alla deriva.
Poi in qualche modo mi ero procurato altri alcolici, della vodka credo. Probabilmente avevo ritenuto che la birra fosse troppo leggera.
I ricordi erano sempre più vaghi, confusi, era come se girassero a velocità impressionante su una cazzo di giostra immersa nella nebbia; era sempre più difficile capirci qualcosa.
Dopo aver camminato e camminato senza una cazzo di meta, mi ero ritrovato in quello squallido parchetto, con un senso di nausea assurdo, la testa e lo stomaco sconvolti come se si trovassero sulle fottute montagne russe. Avevo vomitato, poi mi ero spostato di una decina di metri, o qualcosa del genere. In fondo, quella macchia schifosa non troppo lontana da me poteva confermarlo.
Mi ero lasciato cadere ai piedi di quell’albero, e dopo aver bevuto qualche altro sorso dalla bottiglia, probabilmente ero finalmente crollato, dimenticando ogni cosa e annullandomi in un sonno profondo senza sogni né incubi.
Che cosa deprimente.
Non potevo andare avanti a ridurmi così, cazzo.
Mi voltai e notai che accanto a me c’era ancora una bottiglia di vodka non finita; a dir la verità, conteneva ancora un buon terzo di liquido alcolico.
La raccolsi, con l’alibi che sarebbe stato uno spreco lasciarla lì.
Poi la guardai. Mi stava tornando la depressione, pensando a ieri sera, o notte o quel cazzo che fosse… e quel goccio di alcool magari poteva affogarla sul nascere, quella merda di depressione, bruciandola assieme alla mia gola per poi mischiarsi al mio fottuto sangue, annebbiando di nuovo ogni cosa.
No, non potevo alzarmi vittima di un dopo-sbronza e subito bere ancora, era indecente, cazzo.
Dovevo darmi un contegno.
Però tanto ormai stavo già di merda, cosa avrebbe cambiato un po’ d’alcool in più o un po’ in meno?
Continuai a fissare il liquido dentro alla bottiglia trasparente.
No, cazzo, già facevo fatica a guardarmi intorno in quello stato, non potevo bere ancora. Avrei dovuto smaltire un po’, prima di finire quella bottiglia.
Dovevo farmi forza.
E soprattutto non potevo fuggire ancora da me, non potevo fuggire in eterno.
Non ero un fottuto coniglio.
No, non ero un codardo, altrimenti l’avrei già fatta finita in qualche modo, buttandomi giù da un palazzo o cose così.
Rimasi ancora un po’ seduto, lì ai piedi di quell’albero, intorpidito, con un mal di testa indecente e un maledetto senso di nausea e vuoto allo stesso tempo, pensando a tutto e a nulla allo stesso tempo.
Non mi resi conto di quanto tempo passai così; di sicuro un bel po’.
Rimasi lì finché la testa iniziò ad essere più sopportabile e la nausea era quasi sparita, tanto non avevo nient’altro di meglio da fare.
A giudicare dalla posizione assunta dal sole, doveva essere ormai quasi mezzogiorno quando infine mi decisi a farmi forza, alzare il culo da lì e dirigere qualche passo verso un posto qualsiasi. Non avevo idea di dove andare, non me ne fregava poi tanto; l’importante era alzare il culo e muovermi da lì.

***


Per essere quasi l’una e mezza del primo pomeriggio di una giornata di metà giugno, dovevo ammettere che faceva abbastanza fresco. Cioè, non che facesse fresco in sé, ma rapportando il clima a quello cui ero abituata, dovevo ammettere che quel giorno era assai più mite del solito.
Da una buona mezz’ora il sole era velato a tratti da qualche candida nuvola il cui tragitto passava per qualche secondo davanti all’astro luminoso, per poi lasciare che i raggi potessero nuovamente irradiare il proprio calore sulla superficie terrestre, senza tuttavia arderla gettando su di essa una temperatura eccessiva.
Fortunatamente, infatti, non si moriva di caldo. Anzi, dovevo ammettere che stavo benissimo com’ero, in maglietta e jeans (seppure quest’ultimi erano corti e quindi, in ogni caso, non avrebbero tenuto chissà quale caldo). Era fantastico poter camminare tranquillamente, inspirando a pieni polmoni quell’aria di libertà, godendomi quei miti raggi, senza ritrovarmi due fottute chiazze di sudore sotto le ascelle, né tantomeno essere costretta a boccheggiare per l’afa.
Una gradevolissima brezza soffiava, alleggerendo ulteriormente il caldo estivo, insinuandosi in ogni via e accompagnando i miei passi.
Mi guardai intorno, cercando di ricordare quale fosse la strada che mi aveva indicato Alex la sera prima. Cazzo, di giorno certe vie avevano un aspetto completamente diverso!
Fortunatamente dopo un po’ riconobbi una panchina solitaria, posta sotto un albero accanto ad un incrocio; perfetto, ora mi ricordavo: dovevo girare a sinistra e poi andare dritto fino al terzo incrocio.
Continuai per la mia strada, sicura e serena, finché a un tratto vidi una figura che sostava imperterrita all’angolo di una via.
La cosa che mi colpì fu il fatto che non osava muovere un muscolo; stava semplicemente lì, come abbandonata su se stessa, senza sapere che fare o dove andare, fissando il nulla.
Non saprei dire perché, ma qualcosa non mi convinceva in quella persona che, ora che l’osservavo meglio, pareva un ragazzo.
Avvicinandomi aguzzai la vista, incuriosita.
E improvvisamente, mi parve di riconoscere quella capigliatura di quella colorazione peculiare.
Dov’è che avevo già visto quella chioma appuntita, sulla quale il blu notte e qualche ciuffo rosso nascondevano una colorazione corvina?
Feci un altro passo in avanti, osservandolo meglio.
Sì, era lui.
Lui, quello della sera prima fuori dal Gilman, quel dannatissimo… ragazzo, che inspiegabilmente non sapevo come definire.
Da una parte volevo odiarlo, dall’altra non riuscivo a farlo completamente.
Da una parte mi pareva distante anni luce da me, dall’altra mi pareva più vicino di quanto non potessi credere, nonostante non riuscissi a spiegarmi il motivo di tale sensazione.
Non avevo certamente dimenticato il modo in cui si era rivolto a me la sera prima, come aveva osato, con quell’atteggiamento strafottente che mi faceva prudere la mani al solo ricordo, riaprire cicatrici che nessuno avrebbe mai dovuto azzardarsi a far sanguinare ancora, ricordandomi quanto reale e dolorosamente vicino fosse il passato.
Eppure, qualcosa in me, una volta sbollito il furore che mi aveva provocato, nella calma più assoluta mi aveva portato a compiere ragionamenti che mi avevano stupito parecchio.
Quel dannato ragazzo si era intrufolato nei miei pensieri senza bussare né chiedermi il permesso, tormentando il mio sonno finché non acconsentii a lasciare che la mia mente tornasse su quei ricordi che lo vedevano coinvolto. Sarebbe stato inutile tentare di ignorare quei pensieri ulteriormente: non sarei comunque riuscita a condurre un sonno tranquillo.
E così, mi ero ritrovata a riflettere su quella figura, sulla disperazione celata da un fiume di rabbia, sul dolore profondo che a tratti riuscivo a percepire nel suo sguardo che per qualche secondo perdeva la sua imperscrutabilità, nei suoi occhi arrossati, o proprio nell’odiosa ira di quelle parole vomitate.
Era per colpa di quei particolari che non riuscivo ad odiarlo come avrei dovuto.
Che cazzo mi stava succedendo? Ah, dannazione alla mia compassione innata e mai completamente assopita, che mi portava a provare empatia per quel disgraziato.
Mi interessavo troppo, non riuscivo a fregarmene: quella era la mia debolezza.
Perché?
Perché non potevo ignorarlo come facevo sempre con il mondo che mi circondava ostile, o almeno con una buona parte di esso?
Che diamine c’era di diverso, questa volta?
Cosa diamine aveva di fottutamente diverso, quel ragazzo?
Tutto, tutto ciò che era successo e tutto ciò che aveva detto, nessuna parola esclusa, avrebbe dovuto portarmi a odiarlo con tutta me stessa, eppure… Eppure, provavo una sorta di compassione nei suoi confronti, non ostile disprezzo, non odio cieco, come sarebbe stato più ragionevole dedurre.
Forse tutto ciò era dovuto al fatto che mi era parso di intravedere, per un attimo, il suo sguardo velarsi di profonda sofferenza e pentimento, dopo aver pronunciato quelle dannate parole.
Ma bastava davvero così poco per scombussolare i miei pensieri e i miei sentimenti al punto da non riuscire a comprendere se lo odiassi o se volessi aiutarlo?
Da una parte qualcosa mi infastidiva e mi spingeva a repellerlo, ma dall’altra parte era come se qualcosa, incomprensibilmente, temerariamente, mi incuriosisse ed in un certo senso mi attraesse verso la mia disgrazia. Volevo comprendere. Non sapevo bene cosa, ma sentivo che c’era qualcosa da comprendere.
Ma che cazzo mi stava succedendo? Quel bastardo mi aveva ferita e io mi preoccupavo per lui? Non ero mai stata né scema né masochista; allora perché?
Stupida me; io, la mia mente contorta e la mia fottutissima compassione.

Non ne avevo parlato con Alex, stranamente, perché una volta rientrata nel Gilman la musica e l’atmosfera avevano preso il sopravvento, facendomi quasi dimenticare dell’incidente.
Poi, passato un certo lasso di tempo abbastanza lungo, avevo creduto che la faccenda non fosse così rilevante da doverne parlare.
Solamente la notte la vicenda mi era tornata alla mente, nelle sue mille sfaccettature, imponendomi di non fermarmi ad un superficiale guardare le cose, ma a vederle più in profondità… Del perché di tali riflessione, però, non avevo la benché minima idea. Perché non potevo fregarmene come sempre?
Forse era per colpa di quelle maledette cicatrici, di quei fottutissimi demoni del mio passato che aveva fatto tornare più vivi del solito. Tuttavia, ciò poteva spiegare solamente il motivo per cui quell’incidente avesse tormentato i miei sogni, o meglio, i miei incubi. Riguardo al motivo che mi spingeva a guardare come stessero le cose in realtà per cercare di capire qualcosa di più, facendomi provare quei sentimenti così contrastanti… beh, a quello non riuscivo a dare spiegazione, a parte quel mio fottutissimo senso di compassione, che aveva deciso di risvegliarsi proprio quel giorno.
Quella mattina, quando la sveglia di Alex ci aveva richiamato dal mondo onirico con una delle nostre canzoni preferite, la musica e il buffo volto assonnato del mio migliore amico accanto a me mi avevano fatto dimenticare di tutti quei maledetti pensieri.
Avevo focalizzato la mia attenzione solamente sul mio primo risveglio californiano, sul tiepido sole che filtrava dalla finestra illuminando un nuovo giorno, nonché sul sorriso che mi rivolgeva Alex, salutandomi affettuosamente e chiedendomi allo stesso tempo se avessi dormito bene, se fossi contenta del mio primo giorno della mia nuova vita lì e cosa volessi per colazione. Tutto questo non aveva potuto far altro se non suscitare un sincero sorriso che si era dipinto anche sul mio volto, donandomi una sensazione di pura felicità.
Mi ero guardata intorno con un’espressione quasi trasognata, spontaneamente felice di quel risveglio così diverso da quelli freddi che mi avevano aspettato così tante fottute volte nella vita che mi imprigionava prima.
Quando poi, non appena mi ero alzata mezza rincoglionita dal buonumore, Alex mi aveva abbracciato di slancio, facendoci cadere nuovamente sul materasso, ridendo, per restare lì ancora un po’ a fare i coglioni, ogni residuo di quei ricordi sgradevoli che avevano tormentato il mio sonno era magicamente sparito dalla mia mente.
Tutti quei pensieri intricati erano scomparsi, fino a pochi minuti prima, quando lo avevo rivisto.

Mi prese una sensazione strana. Un miscuglio di irritazione, turbamento, ma anche preoccupazione e interesse nei suoi confronti, che mi percepii come particolarmente strano e indefinibile.
Nel frattempo, quel dannatissimo ragazzo stava ancora lì, all’angolo della strada, a una decina di metri di distanza da me. Era fermo e, dato che mi dava le spalle, non riuscivo bene a capirne il motivo.
Mi parve di intravvedere qualcosa nella sua mano sinistra, che ciondolava abbandonata lungo il suo fianco; poteva trattarsi di una bottiglia, data la forma, che rifletteva la luce solare. Aguzzai per un attimo la vista, cercando di capire di cosa si trattasse, per poi darmi dell’idiota: che diamine me ne fregava? Erano cazzi suoi, era la sua fottuta vita, non la mia. Perché mi interessavo alla sua incolumità?
Forse perché quella figura, lì, sola, che pareva abbandonata perfino da se stessa, mi suscitava un irrazionale moto di compassione.
Forse perché quella figura sembrava emanare un muto urlo di disperazione, come quello di un naufrago in balia della tempesta che, con le ultime forze, cerca un cavo a cui aggrapparsi per non affogare e sprofondare nel buio di un oceano di dolore.
Forse perché pensare a tutto ciò mi riempiva di profonda tristezza e non potevo fare a meno di ammorbidirmi, nonostante tutto.
Nonostante le mie esperienze mi ammonissero, urlandomi a gran voce di fregarmene, voltare le spalle e lasciarlo lì solo nella sua disgraziata miseria, come avrebbe meritato, nonostante il mio cervello desse implicitamente ragione ai loro argomenti, qualcosa di oscuro mi spingeva a restare.
Qualcosa di misterioso, riconducibile probabilmente a quella mia dannata natura compassionevole mai completamente assopita, che ora stava emergendo, mi spingeva a porgergli la mia mano, per tentare di tirarlo fuori da quelle gelide acque in cui, prima che se ne potesse rendere conto, probabilmente sarebbe sprofondato completamente.
Contrariamente, qualcos’altro di più razionale, in me, mi spingeva a fregarmene o, anzi, quasi a rallegrarmi sadicamente della sua sofferenza: alla fine se la meritava, dopo quello che aveva osato dirmi, no?
Eppure, non riuscivo davvero a persuadermene.
Sì, la mia debolezza consisteva proprio nel fatto che mi interessavo troppo; nonostante tutto il dolore subìto, tutte le scottature che mi ero procurata, tutte le cicatrici lasciatemi dal passato, non riuscivo davvero a chiudere completamente il mio cuore e fregarmene.
Qualcosa in me rimaneva troppo buono per tutto ciò.
Certo, mi ero chiusa in me, avevo eretto muri attorno alla mia anima ed al mio cuore per proteggermi da tutto e da tutti, per sembrare impassibile, ma non potevo fare a meno di provare comunque qualcosa quando vedevo qualcuno, come quel ragazzo, che riuscisse a suscitare in me quella dannata compassione, probabilmente perché riusciva a ricordarmi me stessa a causa di qualche motivo che al momento era, per me, incomprensibile, dai contorni più che mai indefiniti.
L’amore e la rabbia avevano sempre pervaso la storia della mia vita, alternandosi e spesso mischiandosi in connubi indefinibili; quel momento, in cui in me continuavano ad alternarsi, lottando tra loro, odio e compassione, non era che un’ulteriore conferma di questa peculiare composizione della mia anima, che mi procurava soltanto confusione e dissidio interiore.
Così rimasi lì, immobile, fissando l’angolo di strada in cui quel demente si ostinava a stare senza muovere un muscolo.
Perché non se ne andava?
Non sarei più stata vittima di quell’indecisione, sarebbe stato tutto più semplice, se se ne fosse semplicemente andato.
Invece no, il bastardo se ne stava lì, immobile, come se non avesse neppure la forza per muovere un passo.
Perché?
Più lo guardavo e meno capivo.
Più lo fissavo e meno comprendevo ciò che dovevo o volevo fare.
Quello che avvertii con sicurezza, invece, fu la presenza di una robusta signora affacciata a un balcone del quarto piano del palazzo che incombeva sopra di lui, e il fatto che quella signora stesse trafficando molto goffamente con dei grossi vasi e della terra. Poi, notai con la coda dell’occhio un vaso pericolosamente sporgente, e la posizione della donna, che lo aveva alle spalle.
La mia mente fu attraversata da una visione rapida, ma al tempo stesso messa in scena nel mio cervello al rallentatore, su ciò che sarebbe potuto accadere di lì a pochi secondi. Come in un flash, vidi quella signora girarsi nuovamente, urtare e far precipitare il vaso, che si sarebbe schiantato esattamente sulla testa di quello stupido tipo che sostava proprio lì sotto, che ovviamente non si era accorto di nulla!
Non saprei dire perché, ma qualcosa di quel flash mi turbò, e mi spinse a fare quel che feci.
Qualcosa mi spinse a salvargli la vita; a non lasciare che affogasse, metaforicamente parlando.
Mentalmente, cercai di giustificare il fatto dicendomi che lo stavo facendo solo per non permettere ad uno stupido vaso di togliermi il gusto di potergliela spaccare io la faccia, tirandogli un bel calcio tra i denti.
Non ero troppo convinta di tale giustificazione, qualcosa mi diceva che per qualche strano motivo non l’avrei fatto, ma almeno avevo un alibi.

– Ma che cazz…?! – urlò, come risvegliato da una sottospecie di coma, cadendo.
Ma non fece in tempo a terminare la frase, che il vaso si schiantò a pochi centimetri dalla sua testa. Avevo visto bene: se non fossi intervenuta io, quell’oggetto avrebbe finito la sua corsa proprio sulla zucca di quel ragazzo, in un incontro ravvicinato non proprio piacevole.
Quando realizzò tutto ciò, spalancò gli occhi e mi fissò stupito.
Rimase così qualche secondo, senza fiatare. Forse perché non sapeva cosa dire, anche se non avrei potuto affermarlo con certezza, in quanto lui e quel suo dannatissimo sguardo continuavano ad avere qualcosa di misterioso ed imperscrutabile.
E questo mi lasciava perplessa. Da un lato mi infastidiva, ma dall’altro mi incuriosiva; potrei forse dire che, in un certo senso, continuava ad attrarmi come una fottuta calamita, facendomi desiderare di capire non so bene cosa, per quanto insensato tutto ciò potesse essere.
Forse era la prima volta che provavo qualcosa del genere, ma anche di questo non potevo essere certa.
Dannazione a me e al casino che in me albergava.
Mi sentivo un’idiota, nella cui mente ci sono non due, ma mille voci che litigano tra loro, dandosele di santa ragione e cercando di sovrastare in ogni modo le avversarie per farsi dar retta, senza arrivare mai a una conclusione, ma formando soltanto una mischia aggrovigliata.
Tutto a un tratto, la sua voce giunse a interrompere quei miei bizzarri dialoghi mentali.
– Beh… G-Grazie. – balbettò.
La sua voce suonò assolutamente diversa da quella scortese e velenosa della sera precedente: in quel momento pareva quasi timida, schiva ed insicura, poco più che un sussurro.
Dopo aver detto quelle poche parole, imitandomi, si alzò da terra, si pulì velocemente i jeans dalla polvere e mi guardò, con ancora una leggera nota di spaesamento negli occhi.
Io, per tutta risposta, mi limitai ad alzare le spalle, con finta non-chalance.
– Non volevo averti sulla coscienza, tutto qui. –
Ci guardammo, o meglio, ci squadrammo, per qualche secondo interminabile, senza dire più nulla.
Ray Shinobu, nice to meet you. – disse poi, rompendo nuovamente il silenzio che era calato tra noi, tendendo una mano nella mia direzione.
La voce con cui aveva parlato era ora più decisa; il tono, tuttavia, non lasciava trasparire alcun’emozione, parendo pressoché indecifrabile.
Lo scrutai; osservai la sua mano tesa, in un misto tra lo stupito e lo schifato, poi fissai ancora il suo volto, puntando il mio sguardo dritto nel suo, in una silenziosa sfida.
Soltanto dopo un po’ allungai la mano verso la sua, ancora tesa, e gliela strinsi, con una presa veloce e vigorosa.
– Amy. – dissi soltanto.
La voce ferma, risoluta.
Nemmeno io volevo far trasparire alcunché.
Anche perché non avrei saputo bene neanch’io che intonazione avrei dovuto dare altrimenti.
Restammo così qualche secondo, scrutandoci senza dire niente.
Fui io a rompere il silenzio, questa volta.
– Beh, – dissi – io devo andare. Ho già perso troppo tempo per salvarti la vita, e non ho intenzione di arrivare ulteriormente in ritardo per colpa tua. Bye.
Parlai con tono duro, distaccato.
Non erano rare le occasioni in cui mi capitava di assumere un tono simile, ma in quel momento qualcosa mi pareva differente: non sapevo dire, infatti, se il motivo per cui l’avessi fatto fosse una forma di attacco… o di difesa.
E, per la prima volta, mi sentivo quasi a disagio a usare quell’intonazione. Il perché, però, non riuscivo ancora a capirlo, in tutta quella confusione che avevo in testa.
Comunque, prima che lui potesse dire una parola, mi voltai e iniziai ad allontanarmi.
– Hey! – la sua voce mi raggiunse pochi istanti dopo – Aspetta! –
Mi fermai di scatto, voltandomi a guardarlo.
– Che c’è? – chiesi, bruscamente.
Il mio tono, freddo, lontano, secco, lo lasciò come attonito per una manciata di secondi.
Continuò a fissarmi, dritto negli occhi.
Lo sguardo fiero, forse leggermente sbigottito dal mio comportamento, che si rispecchiava nel mio.
Ci fissavamo, ci squadravamo, senza però riuscire apparentemente a cogliere alcunché che trasparisse dalle iridi dell’altro: un velo impenetrabile continuava a celare i nostri pensieri.
Continuammo a osservarci per un’altra manciata di secondi. Nessuno dei due sembrava intenzionato a cedere.
Poi, a un tratto, abbassò lo sguardo. Ma fu questione di un attimo, un istante così breve da farmi domandare se l’avesse fatto realmente o l’avessi soltanto immaginato.
– Niente. – rispose infine, con un tono di voce che mi parve sensibilmente più sommesso; sembrava quasi che provenisse dai meandri di qualche pensiero nascosto in profondità nella sua testa.
Mi voltai di nuovo, e ripresi ad allontanarmi, con passo fermo, deciso.
Ma, nonostante quella coltre d’imperturbabilità che mi avvolgeva e mi proteggeva, qualcosa continuava a ronzarmi nella testa.
Mi sentivo ancora il suo sguardo addosso.
Riuscivo quasi a vederli, quei due dannatissimi occhi, quel suo profondo sguardo imperscrutabile che pareva così distante ma così vicino a me. Mi pareva quasi di poter percepire ancora quella sorta di magnetismo che emanavano.
Tirai un calcio ad un sasso davanti a me, con rabbia.
Rabbia per non riuscire bene nemmeno a capire cosa provassi e pensassi esattamente.
Rabbia per non riuscire a cancellare dalla mente quel suo sguardo, così maledettamente irritante, misterioso, che, in un certo senso, forse, anche se non avrei mai voluto ammetterlo, continuava a suo modo ad incuriosirmi, attraendomi come un protone che esercita il suo influsso su un elettrone.
Sì, un protone e un elettrone, ugualmente opposti, similmente diversi, ma facenti entrambi parte di qualcosa di superiore che comprendesse tutti e due, unendoli in sé.
Sospirai, esasperata. Perché diavolo ora andavo perfino a cercare metafore fisiche?
Che cazzo mi stava prendendo?
La pietra finì la sua corsa, fermandosi, dopo qualche balzo dal rumore rotolante, a qualche metro da me.
Le lanciai uno sguardo veloce, per poi cercare nella tasca dei jeans iPod e cuffie, miei cari compagni di vita. Trovato ciò che desideravo, premetti il tasto Play e alzai il volume, sperando invano di riuscire a cancellare dalla mia mente quei due fottutissimi occhi verdi e dai tratti leggermente a mandorla, quasi un ossimoro vivente.

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