The Grief of [Rising] Phoenix

di Seiko
(/viewuser.php?uid=1811)

Disclaimer: Questo testo proprietà del suo autore e degli aventi diritto. La stampa o il salvataggio del testo dà diritto ad un usufrutto personale a scopo di lettura ed esclude ogni forma di sfruttamento commerciale o altri usi improri.


Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Creatures of Habit ***
Capitolo 2: *** Scent of Cinnamon ***



Capitolo 1
*** Creatures of Habit ***


Creatures of  Habit

 

 

Vivendo a bordo della Moby Dick come parte della famiglia, Ace aveva notato delle sottigliezze che nei primi tempi gli erano sfuggite, nonostante le avesse sotto gli occhi ogni giorno. Aveva le sue ragioni del resto.

Ora, invece, placidamente seduto a tavola aveva modo di osservare i suoi nuovi compagni, i suoi nuovi fratelli. Erano tutti assolutamente unici a modo loro, tutti così diversi tra loro, eppure, così legati. Forse era proprio quella strana sensazione di familiarità, quella particolare intimità tra così tante persone, un’unione che nemmeno i legami di sangue poteva comparare che l’aveva spinto ad entrare in quella ciurma.

Voleva appartenere anche lui a quel mondo così diverso dagli altri.

Così, mentre il suo sguardo osservava svogliatamente i pirati che lo circondavano, notava che ogni persona su quella nave aveva le sue particolari abitudini.

C’era chi si presentava a colazione con uno spazzolino ancora stretto fra i denti, chi non si svegliava senza quel sano goccio di rhum nel latte, chi puntualmente aveva un brusco incontro tra la propria fronte e la porta ancora chiusa, chi mangiava prima degli altri e per quell’ora era già sul ponte a svolgere le mansioni quotidiane, chi invece, nonostante il piatto vuoto, continuava a perdere tempo chiacchierando. Insomma l’originalità non mancava a nessuno, ma solo un’abitudine l’aveva incuriosito decisamente più delle altre.

Il suo sguardo sorvolò le varie figure nella stanza, trasformandole temporaneamente in ombre indistinte, mentre cercava la persona soggetto attuale dei suoi pensieri. Del resto la sua testa si riconosceva facilmente, si limitò a constatare mentre un ghigno divertito gli piegava le labbra.

Ed eccolo là infatti, un ananas che troneggiava fra un paio di teste dai tratti più anonimi.

Marco la fenice, il capitano della prima divisione, il braccio destro di Barbabianca, un titolo dietro l’altro a rimarcare quanto fosse uno degli uomini più temuti a questo mondo. Un pirata di prima classe volendo tirare le somme.
La prima volta che l’aveva incontrato non aveva fatto molto caso a lui, la sua mente era decisamente impegnata altrove e Marco non appariva nulla di più rispetto a molti altri pirati. Era ben mescolato nella ciurma, anche se poi, porgendo più attenzione era stato impossibile non notare quello strano senso di potere che emanava, una forza lasciata a riposo.

A tutti gli effetti la prima volta che aveva, davvero, notato la sua presenza era stata la sera di quella festa, quando, in mezzo al caos, si era chinato su di lui porgendogli una ciotola di minestra.
Gli aveva parlato con tono posato, in grado però di trasmettere per vie secondarie lo strano calore che c’era in quella famiglia, il tenue pallore di una felicità che allora si ostinava ad osservare da fuori. Quel sorriso, non l’aveva dimenticato.

Ma tornando alla questione principale; le abitudini. Anche il più influente fra gli uomini di Barbabianca ne aveva una, ed Ace l’aveva scoperta per puro caso.
La prima volta era accaduto in modo accidentale, un bisogno impellente l’aveva colto poco prima dell’alba e per i corridoi aveva incrociato Marco, con una mano sul viso a trattenere uno sbadiglio, mentre si avviava pacifico verso il ponte della nave.

Non ci aveva affatto dato peso inizialmente, anzi si era ritrovato a pensare quasi logicamente che si era addormentato ubriaco in qualche corridoio la sera prima e svegliatosi al mattino cercava soltanto di tornare alla sua stanza. Il pensiero cambiò quando cominciò a vederlo praticamente ogni giorno alla stessa ora.

La vera e propria conferma la ebbe un mattino, durante uno dei turni di guardia...

 

 

Quella mattina soffiava nell’aria una brezza leggera, che portava con sé l’odore salmastro dell’oceano quel tanto che basta da arrivare a pizzicare il naso. Ace dal canto suo, fuori ormai da qualche ora, si era ormai largamente abituato a quel profumo vagamente pungente.

Il panorama era piuttosto piatto, nessuna strana onda a minacciare la nave, nessun nuvolone ad annunciare un bel temporale e tanto meno la possibilità di un imminente ciclone. Il mare era piatto, mosso solo in un tenue oscillare sospinto dal vento.

Trattenne l’ennesimo sbadiglio in una smorfia a denti stretti, mentre una mano si allungava a stropicciare gli occhi nell’inutile tentativo di tenerli aperti. Mai un attacco di narcolessia quando aveva l’assoluto bisogno di una valida scusa.

Fu in quel momento che, con ancora in bocca l’acre sapore di un sonno interrotto, sentì nell’aria un aroma diverso. Un vago mix di alcool e carta. Probabilmente fu a causa di quello strano accostamento che decise di sporgersi, sapendo già chi avrebbe trovato a passeggiare sul ponte a quell’ora.

Non fu difficile distinguere il ciuffo biondo di Marco che, a passi, lenti si dirigeva verso la polena. Non si avvicinò quel giorno limitandosi a seguire i suoi movimenti con lo sguardo.

Probabilmente il vicecapitano l’aveva notato, non era certamente uno sprovveduto, ma, in ogni caso, non lo diede a vedere continuando per la sua strada.

Mancava ormai poco all’alba, il cielo si stava già schiarendo all’orizzonte quando lo vide sedersi a prua con lo sguardo rivolto all’oceano. Stava aspettando.

Ace l’aveva intuito dalla calma che emanava in quel momento, era particolare, diversa dalla solita,una quiete d’animo che sembrava dedicare solo a quell’unico istante.

Una strana stasi impregnava l’aria, come se l’immobilità del biondo stesse influenzando anche l’ambiente circostante, l’acqua era inerte e le nuvole avevano fermato il loro placido muoversi. Per quanto si sforzasse non riusciva a distogliere lo sguardo da quella scena.

Chissà perché l’aveva visto sorridere al di là di quelle spalle.

Il tempo tornò come un flusso, una clessidra rotta che disperde in un attimo tutti gli istanti che aveva arrogantemente cercato di trattenere. Erano i primi raggi del sole che si frammentavano in un abbagliante contrasto con l’acqua.

Non era uno spettacolo nuovo per chi è abituato a vivere per mare, eppure Marco restava lì, catturando con lo sguardo quella luce che, sollevandosi verso l’alto, appariva sempre più eterea.

Fu solo quando il sole si era ormai issato in cielo che lo vide alzarsi. Si stiracchiò quel mattino, come se avesse passato la notte fra le carte nautiche e si ritrovasse ad andare a dormire solo allora. Lo scoprì soltanto più tardi, ma il più delle volte era proprio quello che succedeva.

Nel percorrere il ponte verso le camerate il vice sollevò lo sguardo, lasciando Ace in vedetta con un ultimo ghigno divertito. Una semplice conferma del fatto che aveva notato la presenza del moro fin dall’inizio.

Si lasciarono così quel giorno, senza un perché o una spiegazione, con l’unica certezza che avevano fatto un passo avanti nel mondo dell’altro; le sicurezze e i pregiudizi crollavano lentamente, lasciando a spazio a dubbi e domande ancora senza risposta.

 

 

A riportarlo alla realtà fu una mano che veniva sventolata allegramente davanti al suo sguardo.

- Finirai per consumarlo se continui a fissarlo in quel modo. –

La conosceva bene quella voce. Oh se la conosceva. Nel breve tempo trascorso sulla Moby Dick non aveva ancora avuto l’occasione di non sentirla e godersi un po’ di silenzio.

Satch, il comandate della quarta flotta, e per quello che aveva avuto modo di capire, fino a quel momento, uno dei pirati più logorroici e indiscreti in cui aveva avuto la sfortuna di imbattersi.

- Tranquillo, te lo consegno come nuovo per il tuo turno. – ghignò in risposta.

Sapeva per abitudine che esitando nella risposta ad una simile affermazione sarebbero facilmente nate voci rosa confetto pronte a fare il giro delle orecchie di tutta la ciurma.

La risata non lo colse impreparato, segnale inequivocabile che il suo nome non sarebbe finito tra le labbra dei pettegoli che si raccontavano l’ultimo succulento gossip della nave.

- Hai pure la lingua di fuoco tu, eh? – rispose l’altro ancora ridacchiando.

Satch non gli dispiaceva come persona, per quanto a volte avrebbe veramente voluto staccargli via la lingua, quel suo carattere gioviale rallegrava l’atmosfera. Vicino a lui provava davvero quella strana sensazione dell’essere in famiglia.

- Allora, come mai te ne stai qui da solo, osservando da lontano Marco con lo sguardo languido da innamorato? -
Era chiaramente una provocazione.
- Perché sono follemente innamorato di lui, mi pare ovvio. – ridacchiò in risposta. – Ma so perfettamente di non avere alcuna chance, del resto la vostra relazione è fondata su solide basi. –

- Non dirmelo. – disse l’altro, parlando a stento fra le risa. – Ti sei addormentato un’altra volta mentre mangiavi. –

Ottima scusa. E dopo aver messo su una faccia da “Non ti si può nascondere nulla”, Ace ebbe la certezza che le malizie, almeno per oggi, si sarebbero concluse lì.

- Allora, come mai qui Satch? – chiese assumendo un tono vagamente serio. – Non ti sarai preso il disturbo di venire fino a questo tavolo solo per svegliarmi. –

Satch voltò lo sguardo, osservandolo con minuziosa attenzione mentre si portava l’ultimo boccone alle labbra. Attendeva il momento giusto per parlare, aveva la bizzarra premura di evitare i discorsi seri mentre si mangiava.

Quando il piatto fu finalmente vuoto le sue labbra si mossero in modo quasi impercettibile.

- Incontreremo presto una nave della marina; a quanto pare i pezzi grossi hanno mandato qualche pesciolino nelle nostre acque per salvaguardarsi la faccia. – sembrava quasi divertito a raccontarlo. – Il babbo vuole che la seconda flotta si schieri in prima linea, e vuole che sia tu a rappresentarli temporaneamente. –

Ci fu un momento di silenzio, nel quale Ace ebbe pure il tempo di stupirsi nel vedere l’altro tenere la bocca chiusa.

- Vuole che sia il comandante della seconda flotta? –

Aveva cercato di trattenere la sorpresa nella voce, ma a giudicare dall’accenno di risata sulle labbra del rosso non gli era riuscito granché bene.

- Temporaneamente. – sottolineò riassumendo il tono vagamente formale di prima. – Come ben sai la flotta di cui fai parte è, attualmente, senza un comandante e il babbo è curioso di vederti all’opera. –

- Mi pare giusto, affidarmi un’intera flotta solo per “provarmi”. – sbottò in risposta.

La risata questa volta si sentì ben chiara.

- Non essere ridicolo, non avrai una simile responsabilità al tuo primo lavoro serio. – il tono faticava a restare posato mentre parlava. – Non è nostra abitudine sottovalutare gli avversari, gli altri comandanti con le rispettive flotte saranno pronti ad intervenire in qualunque momento, il tuo compito è solo quello di guidare il primo attacco. –

Annuì vagamente a quelle parole, non era affatto male come idea. Sarebbe finalmente entrato in azione come un pirata di Barbabianca, e non più come capitano dei pirati di Picche.

- Ti interessa allora? –

Satch lo stava ormai squadrando da un pezzo in attesa di risposta; le labbra erano piegate in un sorriso divertito.

Un ghigno si dipinse sul volto del moro.

- Puoi scommetterci. –

 

 

- Marco, ti ricordi la mia prima battaglia contro la marina? –

- Un disastro.-

Un sorriso indulgente comparve sulle labbra del biondo alla bianca luce dell’alba.

 

 

Era ormai tardo pomeriggio quando le navi della marina iniziarono ad apparire all’orizzonte.

Si disponevano per intrappolarli sotto l’aspra luce del tramonto, mentre nell’aria risuonava la risata di loro padre.

Ace era agitato, seduto su una delle balaustre era intento a fissare le imbarcazioni all’orizzonte, mentre sottili lingue di fuoco si contorcevano lungo la pelle. Era uno strano effetto collaterale che ancora non riusciva a controllare, come se il suo stesso corpo cercasse di dar sfogo alle pressioni interne materializzandole in una forma visibile.

Aveva avuto l’intera giornata per organizzarsi con i “suoi uomini”, eppure quello che riuscì a cavare fuori fu soltanto una tremenda ansia da prestazione. Si sentiva messo su un banco di prova, ma a cosa avrebbe portato un eventuale fallimento?

Aveva pensato ad ogni eventualità, anche il venir cacciato dalla nave, e per qualche ragione al solo pensiero sentiva lo stomaco chiudersi in una morsa. Ora che aveva trovato una famiglia, era terrorizzato all’idea di perderla.

Abbandonato nei propri pensieri non aveva fatto caso alla fenice che si era posata al suo fianco, per cui nel momento in cui, in una combinazione di fiamme blu , aveva visto apparire Marco per poco non finì in acqua. Questo ovviamente suscitò la risata divertita del compagno.

- Troppi pensieri, eh? – disse voltando lo sguardo verso il moro.

Aveva ragione, e non ebbe bisogno di dirglielo a parole, sapeva che l’altro l’aveva già capito.

Se c’era qualcosa che l’aveva colpito di lui, fin dal primo momento, era sicuramente quella muta capacità di comprendere le persone con uno sguardo, si relazionava direttamente con le emozioni degli altri, sapendo quali limiti non superare e cosa invece gli era concesso.

- Ace. – era un richiamo all’attenzione. – La difficoltà nell’essere comandate di una flotta non sta nell’ottenere la fiducia dei propri uomini; quello che rende difficile questo ruolo è riuscire a fidarsi di loro. –

Ripercorse più volte quel viso con lo sguardo, studiandone l’espressione autorevole tipica di chi parla per propria esperienza. Sapeva che quelle parole gli sarebbero servite nella missione che stava per affrontare.

- La ciurma di Barbabianca è una famiglia e nessuno diffiderà mai di una scelta presa da nostro padre, perché la sua persona è alla base della coesione che esiste fra tutti noi, il nostro punto in comune. Loro hanno fiducia in te, sta a te ora fidarti di loro. –

E l’avrebbe ascoltato ancora, fremeva dal bisogno di sapere cosa lo aspettava una volta iniziata la battaglia, ma Marco non sembrava intenzionato a continuare oltre quel discorso. Si era sollevato in piedi sulla balaustra, quasi fosse pronto a prendere il volo da un momento all’altro, mentre il suo sguardo scrutava l’orizzonte ormai buio.

Le navi della marina stavano accendendo i primi fuochi, mentre sul mare si disperdeva l’ultimo rosso raggio di sole.

- Sta per iniziare. –

Avrebbe voluto dirgli molte cose in quel momento, fargli domande su cosa lo attendeva e su come avrebbe dovuto comportarsi, ma sapeva di aver esaurito il tempo a sua disposizione.

Solo una parola, sapeva di dovergliela nonostante tutto.

- Grazie. –

Sorrise.

- Buona fortuna. –

La fenice prese il volo fra le fiamme blu raggiungendo la propria postazione. Ace seguì quella strana luce con lo sguardo, concedendosi un ultimo attimo di leggerezza, un attimo in cui era soltanto un pirata, senza alcuna responsabilità.

Fu solo quando i piedi del vicecapitano si posarono a terra che si alzò camminando con passo sicuro verso la sua flotta. Una sicurezza che voleva mostrare, i suoi uomini non dovevano vedere quel torbido vortice di preoccupazioni che gli attanagliava il fiato in gola.

Chiuse gli occhi, ripetendo ad ogni passo la stessa nenia. “Sono soltanto marine.”

Quando fu di fronte agli altri sorrise, poteva farcela, doveva sentirlo e doveva crederci, per loro.

Alzò gli occhi verso l’orizzonte; le fiammelle che illuminavano biecamente le navi della marina creavano una sorta di atmosfera lugubre, nessuno si sarebbe stupito se proprio in quel momento la nebbia avesse deciso che era ora di alzarsi. Sentì un brivido gelido lungo la schiena.

Sono soltanto marine.

Eppure, in quella strana quiete che precede le tempeste, quelle parole sembravano altisonanti, troppo lontane per poterlo anche solo sfiorare. Le fiamme che  serpeggiavano fra le dita non erano che la conferma.

Il fischio del primo cannone lo riportò alla realtà, il tempo dei pensieri era finito, dovevano agire.

Una mano si sollevò verso l’alto, le dita si piegarono in un gesto secco.

L’avanzata era appena iniziata.

 

 

 

 

 

Note d’autrice:

... ehm... ciao... bella giornata vero?

Non riesco a sfangarla così vero? *sospira e si siede da brava bimba*

Ed eccoci qua alla fin fine, la mia prima Marco/Ace, non ho resistito alla tentazione di provare questi due sull’onda della passione (e così fa tanto telefilm alla beautiful;

Prossimamente sui vostri schermi Sull’onda della passione, riuscirà Ace a farsi una vita?

Traffy: No.).

Ok... sto decisamente delirando, lasciatemi perdere.

 

C’è veramente poco da dire su questo capitolo, voglio solo anticipare che in questa storia non mancherà l’angst anche se siamo partiti piuttosto tranquilli.

La storia in sé si basa su un ragionamento che ho fatto nei riguardi di Marco e del suo potere, unendoci le informazioni che sono riuscita a raccogliere sulla leggenda della fenice, beh avrete questa storia. Nei capitoli successivi poi spiegherò man mano le citazioni della leggenda che farò.

Spero davvero di non essere finita OOC, ho aver sbagliato qualcosa, essendo la prima volta che tratto questi personaggi, ho seriamente paura di aver combinato qualche disastro.

 

Bene direi che le note d’autrice si concludono qui per vostra fortuna. Ci tengo davvero a ringraziare chiunque leggerà questa storia o passerà da queste parti anche solo per sbaglio.

Grazie davvero a tutti i miei lettori e commentatori, vi voglio un sacco di bene, oso dire che continuo a scrivere solo grazie a voi, ragion per cui tutti i miei più sentiti ringraziamenti.

Kis~

Seiko

Ritorna all'indice


Capitolo 2
*** Scent of Cinnamon ***


Scent of  Cinnamon

 

 

Non era la prima volta che Ace combatteva con i pirati di Barbabianca, eppure, ancora prima che la battaglia iniziasse, si era reso conto dell’enorme differenza che c’era nel combattere in nome di un altro avendo sotto il proprio comando i suoi uomini. L’aria era greve di responsabilità.

Sul ponte della nave le urla si confondevano, i suoni della battaglia avvolgevano quel tratto di oceano come una bolla. L’acqua risuonava con le vibrazioni della battaglia e chissà quali luoghi lontani avrebbero raggiunto.

La seconda divisione resisteva, gli uomini combattevano seguendo i suoi ordini, uniti sotto il nome del loro capitano. Eppure non riusciva a mantenere la quiete d’animo, come se sapesse che qualcosa sarebbe inevitabilmente andato storto.
Le fiamme serpeggiavano impazzite lungo il suo corpo, il fremito della battaglia le alimentava. Un colpo, e ancora un altro, azioni ormai meccaniche per svuotare la mente dai pensieri, come a liberarsi dai pesi delle responsabilità che sentiva. Tutto pur di non portare la mente a quel momento.

In lontananza sentiva i loro compagni avvicinarsi, iniziare la loro avanzata pronti a sostenerli nell’ultimo atto di quella battaglia. Fu come un soffio di vento leggero a rinfrescare la pelle bruciante di tensione.
Nell’aria era ormai forte l’odore di sangue, ad ogni respiro sembrava quasi di assaporarne il sapore metallico lungo la gola. Il rosso rendeva ormai chiaro il suo dominio, impregnando ogni superficie intorno a lui, poteva vederlo sulle sue stesse mani, da dove si alzava quel vago sentore di sangue arso.

Furono delle urla a riscuoterlo dall’alienazione dei suoi movimenti meccanici, che lo guidavano in una lotta impari contro i marine fin dal primo colpo. Urla diverse, le urla di un ferito soffocate dall’esultare dei marinai.

Volse lo sguardo intorno, correndo in preda ad un freddo turbamento, al vago terrore di aver appena messo a rischio i suoi compagni. Non passò molto prima di vedere la figura corpulenta apparsa da poco.
Il marine a capo della nave, un comandante di vascello probabilmente, la persona che, da dietro le quinte, aveva guidato l’attacco dei loro avversari fino a quel momento era finalmente scesa in prima linea, in soccorso dei suoi uomini.

Aveva già visto quel volto da qualche parte, ricordava vagamente un giornale parlare di un ufficiale promosso recentemente dopo aver catturato dei pericolosi ricercati. La fama momentanea doveva avergli probabilmente dato alla testa se credeva veramente di sconfiggere Barbabianca e i suoi.

Nell’istante in cui vide l’uomo alzare una pesante mazza pronto a dare quello che, probabilmente, sarebbe stato il colpo di grazia al suo compagno, la vista gli si fece improvvisamente bianca. Blackout. Vuoto assoluto dei momenti in cui i suoi piedi avevano sfiorato il legno della nave percorrendo velocemente la poca distanza che lo divideva dai suoi.

Sentì vagamente il contraccolpo dovuto al contatto con il ferro già sporco di sangue. Aveva coperto il compagno, evitando volontariamente di trasformarsi in fuoco per poter difendere l’altro con il suo corpo. Evidentemente, era più resistente di quanto pensasse.

La preoccupazione per gli uomini che gli erano stati affidati aveva ormai preso il sopravvento sul buon senso che dovrebbe sempre guidare ogni buon capitano. Le fiamme divamparono alle sue spalle in una muraglia costringendo i suoi ad una rapida ritirata; era rimasto solo, pronto ad affrontare tutti i marine superstiti sulla nave.

Ci fu un moto di esultanza generale fra i suoi nemici, probabilmente dovuto al ghigno strafottente del loro capitano, o al classico discorso preimpostato su quanto ormai la sua ora fosse chiaramente arrivata, evidentemente credevano di aver appena ottenuto l’opportunità per una facile vittoria. Soffocò una cristallina risata fra i denti, era sempre divertente venire sottovalutati.

Con pochi, facili, colpi si liberò dei primi uomini che provarono ad attaccarlo sulla cresta del fervore di avere soltanto un nemico di fronte. Ne caddero altri cinque prima che si rendessero conto che per avere anche solo uno straccio di possibilità contro di lui avrebbero dovuto organizzarsi almeno un po’. Fu il “capo” a prendere l’iniziativa, fece arretrare i suoi uomini sfidandolo apertamente in quello che sembrava un leale duello uno contro uno.

Se anche per un attimo aveva pensato che avrebbero “giocato” correttamente, dovette ricredersi nel sentirsi improvvisamente afferrare dai marine che avevano ormai formato un cerchio intorno a loro. Fu un semplice gioco di forza spintonarli lontano liberandosi, non ebbe nemmeno bisogno di ricorre alle fiamme, ecco perché si accorse delle manette al suo polso solo quando l’arma dell’altro lo colpì con violenza al volto facendolo volare contro la balaustra poco lontana. Sentì il legno incrinarsi nell’impatto, mentre il sapore acre del sangue si insinuava tra le labbra.

Oltre il muro di fuoco che aveva creato sentiva i suoi compagni chiamare qualcuno, mentre altri cercavano di placare le fiamme per raggiungerlo, senza però ottenere molti risultati.

Il suo sguardo volò rapido al polso stretto a delle dannate manette di agalmatolite per poi tornare al suo avversario che se ne stava ritto di fronte a lui a sghignazzare. Si rialzò cancellando con il piede le tracce rosse lasciate dalla sua caduta, non sarebbero state delle stupide manette a fermarlo, non era uno sprovveduto come tanti, e non sarebbe stato quel dannato ciccione a metterlo a tappeto, quella non era una giornata in cui poteva permettersi di perdere.

Con la mano destra bloccò l’arma già calata nell’intento di colpirlo, mentre con una leggera spinta si sollevò il necessario per colpirlo poco al di sotto dello sterno con un calcio. Sentì chiaramente il tremore del contraccolpo sul corpo dell’altro, non trattene il ghigno nel vedere l’altro indietreggiare di un passo per riprendere fiato. Illusi se pensavano bastasse privarlo del fuoco per renderlo innocuo.

Era pronto a colpirlo nuovamente quando il rumore di uno sparo tagliò l’aria circostante. Un perforante dolore alla spalla lo costrinse in ginocchio mentre la mano accorreva veloce a tamponare l’origine del dolore.

Sangue, scivolava lungo il braccio nonostante cercasse di arginarlo fra le dita. Il proiettile era passato oltre la spalla, doveva sbrigarsi a concludere se non voleva perdere i sensi in mano ai suoi nemici. Le fitte erano violente, e peggioravano ad ogni tentativo di muoversi. I bastardi intorno a lui ridevano mentre il loro capitano si avvicinava a lui con la stessa andatura di un boia.

Lo guardò sprezzante, trasudando con lo sguardo un orgoglio duro a morire. Era un pirata, era forte abbastanza da sopravvivere anche ad una situazione del genere, non l’avrebbe sconfitto.

Il braccio si sollevò solenne, preparando quello che, probabilmente, considerava il colpo di grazia. L’uomo ghignò nel guardarlo a terra, ferito, mentre cercava di, a suo dire, incenerirlo con lo sguardo; agli occhi del marine non era altro che un animale ormai chiuso in gabbia.

Vide l’arma calare su di lui, diretta alla sua spalla, al suo attuale punto debole, sentì l’aria mutare trasportata con violenza nella sua direzione. Sentiva ormai il colpo su di sé quando  un movimento nel vento arrivo fino a lui, il debole suono di un frusciare di piume, coperto infine dal pesante suono di uno scontro. Non sentì il dolore che aveva immaginato, non sentì nulla, solo il pallido calore di una fiamma blu.

Sgranò appena lo sguardo nel rendersi conto di cosa era appena successo; Marco era lì, di fronte a lui e sorrideva mentre il suo braccio bruciava in una fredda fiamma azzurra. Si era fatto colpire al suo posto, e non sembrava minimamente risentirne.

Piegò le labbra in un debole sorriso, mentre assaporava quella lieve sensazione di sollievo che scivolava come una carezza sulla pelle dolorante. Non gli era ancora ben chiaro se il peso che provava fino a poco prima si fosse dissolto per l’arrivo di Marco in suo soccorso, o perché proprio grazie all’arrivo del capitano della prima divisione ora sapeva per certo che i compagni a lui affidati sarebbero stati al sicuro. La risposta non importava, non in quel momento. I suoi sensi erano impegnati a seguire la figura di Marco mentre combatteva, intorpiditi dall’intenso odore di cannella che accompagnava il biondo in ogni battaglia.

Pungente cannella, l’odore di sangue ne usciva sempre sconfitto.

 

 

Una vera ingiustizia. Quella era una vera e propria ingiustizia. Ace ne era certo, una di quelle convinzioni da promozione pubblicitaria, con probabilità di riuscita del centodieci per cento. Come era possibile dargli torto?

Certo, ammetteva le sue colpe, non era di certo un innocente finito casualmente sul patibolo, assolutamente no. Era un pirata disgraziato, insomma, la classica persona con pregi, difetti e una taglia di milioni di berry sulla capoccia. Eppure non era stato un tale delinquente da meritarsi una punizione così infima, una pena così crudele e degradante.

Tirò su sonoramente col naso per l’ennesima volta quel giorno, mentre con il dorso della mano, ancora miracolosamente asciutto cercava di pulire gli occhi dalle lacrime che uscivano ormai a fiumi. Le risate delle persone attorno a lui non sembrarono più soffocate come le prime quarantanove volte di quel, ormai poco, originale spettacolo.

Quando si ritenne soddisfatto del risultato, o almeno quando la visuale sembrava farsi leggermente più nitida e chiara per il suo sguardo ormai acquoso, calò nuovamente la mano verso il tagliere riafferrando il coltello abbandonato poco prima per bisogni decisamente più urgenti.

Un colpo secco, preciso e, per carità, sta attento alle dita. Queste erano le sue indicazioni, nulla di più e nulla di meno; eppure per quanto seguisse alla lettera quegli ordini, la tortura sembrava praticamente infinita.
Certo, l’aveva già ammesso, si meritava una punizione per il “disastro” che aveva combinato contro quei marine,  la poca fiducia che aveva avuto nei suoi compagni e il rischio che aveva corso nel combattere da solo, ormai ricordava la ramanzina a memoria, ma proprio a sminuzzare cipolle dovevano metterlo? Era pura perfidia quella.

Afferrò la, probabilmente, centesima cipolla della giornata sentendo gli occhi bruciare in dissenso, ma in quanto uomo considerava disonorevole sottrarsi ai suoi doveri, anche se in quanto pirata era dal secondo, dannato, ortaggio che pensava a come svignarsela.

Finì di sminuzzare anche quella cipolla, e sfruttò l’occasione per guardarsi intorno, i cuochi erano tutti impegnati nella preparazione del pranzo, e poi suvvia chi si sarebbe accorto della sua fuga? Era quantomeno inutile il suo apporto di affettaverdure temporaneo.

- Fossi in te, non lo farei. -

Quelle parole arrivarono come una risata al suo orecchio. Non ebbe bisogno di voltarsi per riconoscere la voce, la sensazione di leggera irritazione che si propagava fra i suoi pensieri aveva già chiarito la persona con cui avrebbe avuto a che fare, probabilmente per il resto della giornata.

- Non sapevo fossi in grado di leggere il pensiero Satch. – gli lanciò quello che probabilmente in condizioni normali sarebbe stato uno sguardo di fuoco, ma che, in quel momento, era solo l’espressione di un uomo distrutto.

- Non ho bisogno di capacità telepatiche per riconoscere qualcuno che cerca di darsi alla fuga. – ghignò divertito dalla situazione mentre allungava al moro un’altra cipolla. - Sono stato in questa cucina molto più tempo di te. -

- Devo forse intuire che sei stato nei guai molto più spesso di me? -

- Questo è un colpo basso Ace-kun... - ed ecco che partiva lo spettacolo del Satch piagnucolante a cui nessuna persona sana di mente avrebbe mai e poi mai voluto assistere.

- Hai così poca stima delle mie capacità da credermi un disastro tale da venire continuamente punito? È questo che pensi davvero di me? Non provi nemmeno un briciolo di affetto per il tuo caro amico Satch? Non rispetti nemmeno un po’ il ruolo che mi sono faticosamente conquistato nella nostra famiglia? -
-Falla finita Satch se non vuoi finire a tagliar cipolle anche tu!-

Ace ringraziò il capo-chef dal profondo del cuore per averlo zittito. A prima vista probabilmente non sembrava nemmeno così tremendo, ma ascoltare la voce piagnucolante di Satch, mentre a macchinetta faceva domande accusatorie era qualcosa di veramente devastante, ringraziava le cipolle per averlo reso praticamente cieco e di conseguenza fisicamente impossibilitato a vedere i finti sguardi da cucciolo dell’altro. Niente, niente era peggio di Satch che cercava di imitare un cucciolo.

Prese fra le mani l’ultima cipolla, con il biondo che ancora gli mugugnava a fianco, quando finalmente sentì urlare le parole che ogni pirata nella sua situazione vorrebbe sentire: “Ora di pranzo!”. Sminuzzò l’ortaggio più in fretta di quanto avesse fatto con gli altri per poi correre al primo lavandino disponibile finalmente pronto a riacquistare la vista ignobilmente perduta.

Per la prima volta, da quando aveva mangiato il frutto del diavolo, l’acqua gli sembrò una vera benedizione. La sensazione dell’acqua sulla pelle non era mai stata così gradevole, gli occhi riprendevano lentamente un aspetto normale e l’irritante odore di cipolla si allontanava ad ogni bolla di sapone. Quando finì di lavarsi e asciugarsi si sentì incredibilmente sollevato nel riuscire nuovamente a vedere l’ambiente che lo circondava.

Non fece in tempo a voltarsi che si ritrovò una ciotola piena di zuppa fra le mani.

- La tua porzione. - le parole furono seguite da un sorriso allegro. - E poi prova a dirmi che non ti voglio bene. -

A quanto pare Satch aveva ritrovato il buon umore, per cui decise saggiamente di non provocarlo ma limitarsi a sedersi insieme a lui in un angolo della cucina, su quelli che erano quasi sicuramente sacchi di patate.

La compagnia dell’altro non gli dispiaceva  durante i pasti, erano quei pochi momenti in cui era silenzioso, e doveva ammetterlo con la bocca chiusa poteva apparire quasi simpatico.

Solo quando la zuppa era ormai finita, l’altro decise che poteva tornare a parlare.

- Così ti hanno spedito a tagliar cipolle dopo l’ultimo scontro con la marina eh? - aveva un tono comprensivo, come se stesse parlando con un compagno di disgrazie. - Come punizione è un classico ormai! -

- Ci sei finito anche tu? -

- Che scherzi? Io sono il pioniere di questa antica tradizione. -

Risero insieme, e non poteva negarlo, non era poi così male la sua compagnia.

- Come vanno le tue ferite? -
Si portò istintivamente una mano alla spalla a quelle parole; sentiva la fasciatura al di sotto della camicia, ma ormai poteva dire di essersi completamente rimesso, anche se aveva passato un intera giornata chiuso in infermeria.

- Bene. - lo sguardo temporeggiò per un istante sul grigio soffitto della cucina. - Se non ci fosse stato Marco sarebbero state decisamente peggiori. -

Satch sorrise, un sorriso diverso dal solito, quel sorriso che aveva visto anche in Marco quando gli aveva parlato della loro famiglia, quel sorriso caldo che gli dava sempre la sensazione di aver trovato una casa. Forse fu per questo che non si stupì quando l’altro non fece una delle sue solite battutine.

- Già. Lui è fatto così, arriva sempre quando ne hai bisogno. -

Si fermò un attimo a studiare l’espressione dell’altro, come per capire se lui avrebbe potuto chiarire la sua curiosità. A ben pensarci Satch conosceva Marco da molto più tempo di lui, erano compagni da chissà quanto tempo, doveva sapere molte cose sul biondo, per cui perché non chiederglielo?

- Senti Satch, perché alla fine di ogni battaglia Marco profuma di cannella? -

Le parole uscirono senza che ci pensasse troppo sopra, e quando a seguire la domanda fu il silenzio Ace pensò sinceramente di aver detto un’enorme scemenza. Ma la risposta non tardò poi tanto ad arrivare.

- Te ne sei accorto eh? - una domanda retorica mentre i suoi occhi lo studiavano, si sentiva osservato nei dettagli.

- Allora? -

L’altro rise per poi allungare una mano ad arruffargli i capelli in un gesto amichevole.

- Sei proprio un ficcanaso. - si alzò agitando la mano in segno di saluto. - Se ti interessa tanto, forse dovresti chiederlo al diretto interessato. -

Ne era certo, c’era una sottile vena di malizia nelle ultime parole di Satch. Perdere il pelo ma non il vizio, probabilmente, non era una norma che valeva solo per i lupi.
Sospirò. Chiederlo a Marco, come se fosse facile.

 

 

Il tempo sulla Moby Dick trascorreva placidamente, inserendosi in una routine che raramente si poteva trovare nella vita da pirata.  Ma la ciurma di Barbabianca non era una ciurma qualsiasi, la loro discreta fama li portava spesso negli stessi luoghi a controllare che nei territori sotto la loro protezione tutto procedesse per il meglio e ogni viaggio aveva incontri sempre nuovi, tra sprovveduti che cercavano di farsi un nome e marine che speravano in una promozione, ma erano così tanti che raramente avevano modo di combattere tutti insieme, a volte era sufficiente solo lo sbuffare irritato del babbo.

Dal suo incidente come capitano in prova erano ormai passate due settimane, aveva avuto tutto il tempo di riflettere su quanto aveva sbagliato, e su quanto invece doveva mantenere quando era al comando dei suoi compagni. Ora capiva il discorso di Marco prima della battaglia, non aveva avuto fiducia nei suoi compagni e ne aveva pagato le conseguenze.

Marco... Nonostante in quei giorni combattessero spesso insieme, non aveva ancora avuto l’occasione di parlarci da solo. La curiosità lo tormentava e Satch si rifiutava di chiarire i suoi dubbi continuando a rimandare la risposta al protagonista della questione.

Quel giorno sarebbe stato diverso, visto che il suo “amico” non parlava, avrebbe chiesto la risposta al diretto interessato, ed ecco perché si trovava lì, in un turno di guardia che non avrebbe dovuto svolgere ad attendere l’alba e la soluzione dei suoi interrogativi. Il biondo non avrebbe mancato all’appuntamento, ne era certo.

Lasciò la vedetta per scendere sul ponte e sdraiarsi sul legno della nave, mancavano pochi minuti al sorgere del sole e voleva essere sicuro di non perdere l’occasione di parlare con Marco. Chiuse gli occhi lasciandosi cullare dagli ondeggiamenti della nave che seguiva docilmente i movimenti del mare, e dall’odore salmastro che si alzava nel vento. Era una notte incredibilmente tranquilla.

A risvegliarlo da quel momento di calma fu il lieve rumore di passi che riecheggiava nel legno, non fu difficile riconoscere il proprietario. Aprì gli occhi vedendolo passare al suo fianco.

- Marco... -

Si alzò a sedere nel pronunciare il suo nome, pronto ad alzarsi.

L’altro si voltò con un dito poggiato sulle labbra in segno di silenzio, mentre prendeva il suo solito posto seduto a prua, pronto ad osservare l’alba in tutti i suoi dettagli.
Non si avvicinò quel giorno, si limitò ad osservare la scena seduto alle sue spalle, aspettando il momento giusto per poter parlare. La figura dell’altro si faceva più nitida mentre i primi raggi del sole ne delineavano i contorni, e come la prima volta provò quella strana sensazione di stasi, come se il tempo si fermasse per pochi secondi prima di tornare al suo flusso normale.

Solo quando il sole si era ormai alzato Marco si avvicinò nuovamente guardandolo con un’espressione curiosa.

- Vuoi farmi una domanda vero? -

Sorrideva, un sorriso di chi sapeva già tutto ma si divertiva a farselo ripetere dalla persona interessata. Satch aveva indubbiamente parlato anche con lui, del resto quando mai quell’uomo stava zitto?

- Si. - lo guardò negli occhi per un lungo attimo. - Risponderai? -
- Non si dice di no ad una domanda. -

E rimase fermo di fronte a lui, in attesa di quella domanda. Gli aveva promesso una risposta, avrebbe finalmente chiarito i suoi dubbi, l’unico problema ora era... come avrebbe dovuto chiederglielo?
“Ehi Marco, è un po’ che ti annuso, come mai odori di cannella?” “Oi collega! Come mai quando fai a botte profumi di cannella?”
Avrebbe fatto la figura del completo idiota. Gli avrebbe riso in faccia se lo sentiva! Maledizione a Satch e al suo neurone solitario incapace di rispondere alla sua curiosità! Anzi, ne era sicuro, aveva macchinato tutto alle sue spalle per metterlo in ridicolo, se lo sentiva!

- Allora? - ridacchiò Marco.

La voce dell’altro lo riportò alla realtà, sottraendolo da quel vortice di pensieri senza fine.  Lo guardava con un’espressione divertita, mentre aspettava pazientemente che l’altro elaborasse la sua domanda.  Le parole uscirono spontanee, senza che riuscisse a controllarle.

- Perché la cannella? Da dove arriva il profumo? -

- Per la fenice. - rispose con tono pacato, quello che si userebbe per spiegare qualcosa ad un bambino, o nel loro caso all’ultimo arrivo della famiglia. - Conosci la leggenda? -

Ace scosse la testa con foga, forse un po’ troppa visto che provocò una risata divertita dell’altro.

- Si racconta che la fenice sia un uccello leggendario capace di vivere più di mille anni rigenerandosi tra le fiamme. - lo guardò come ad assicurarsi che lo stesse ascoltando. - Non so dirti se sia vero, ma il frutto che ho mangiato mi ha reso una fenice e in quella forma riesco a rigenerare le mie ferite. L’odore di cannella è emanato dalle fiamme che mi curano. -

Il moro ormai lo guardava come fosse il supereroe di un fumetto appena materializzato di fronte ai suoi occhi. Il leggero “wow” che uscì dalle labbra leggermente dischiuse non stupì il biondo, anzi, ebbe uno strano moto di tenerezza nel sentirlo.

Prima che potesse dire altro il viso del ragazzo si fece serio come se una nuova curiosità avesse deviato il corrente flusso di pensieri.

- Come mai vieni sempre a vedere l’alb- -

Sentì all’improvviso il dito sulle labbra ad interrompere la sua domanda sul nascere, sussultò sorpreso da quel contatto mentre Marco lo guardava con un sorriso.

- Avevamo detto solo una domanda. - ghignò divertito mentre a passi lenti si avviava verso la sua cabina. - Buonanotte Ace. -

Sorrise a quelle parole, tentato di rispondergli che il sole era ormai alto in cielo, ma sapeva perfettamente che dopo una notte passata svegli ritirandosi in camera per riposare era come prepararsi per una lunga nottata, fu per questo che rispose come chiunque altro, fra i loro compagni, avrebbe fatto.

- Buonanotte. -

 

 

- Sei in anticipo oggi. -

- Le abitudini cambiano. -

- Solo di pochi minuti. -

 

 

La solita noiosa battaglia, pesci piccoli che si credeno squali tentavano di attaccarli e tutto finiva con fatiche sprecate e fuochi d’artificio umani. Tutto sommato per chi, come il babbo, se ne stava seduto in lontananza ad osserva la scena, il complesso poteva sembrare anche un bello spettacolino, ma per lui e Marco, due sfigati presi in fallo dalla dea bendata, era solo una faticaccia inutile, un gioco per bambini.
Era colpa di Satch ne era più che certo, finire sorteggiato casualmente insieme a Marco per combattere quei piratuncoli, con quel chiacchierone a prendere personalmente i foglietti con i loro nomi dal sacco predisposto per il sorteggio, inutile dirlo la cosa puzzava di imbroglio, tanto più se sul volto del fortunato estrattore imperava un ghigno che andava da orecchio ad orecchio. Stupido Satch.

Tirò l’ultimo pugno della giornata finendo col bruciare anche parte della balaustra del vascello che li ospitava, con ilarità del suo compagno che sentiva ridacchiare alle sue spalle.

- Pronto a tornare alla base? -

Annuì energicamente come a sottolineare la poca voglia che aveva di restare lì a marcire fra pirati che difficilmente mettevano a segno qualche colpo, e anche quando ci riuscivano il suo potere impediva loro di ferirlo.

Vide l’altro trasformarsi in fenice in un flusso di fiamme azzurre; non passò molto prima che sentisse gli artigli afferrargli i vestiti e il vento soffiargli sul viso mentre si avviavano verso la Moby Dick. Eppure qualcosa non tornava, c’era qualcosa che stonava terribilmente in quel quadro all’apparenza quotidiano.

La realtà lo colpì improvvisamente, quando, posati i piedi sulla nave, il vento portò chiaramente l’odore di Marco fino a lui.

Era puzza di sangue.

 

 

 

 

 

Note d’autrice:

Ehm... salve! Come butta?

Da uno a dieci quanto rischio un linciaggio per il troppo tempo che è passato da quando ho aggiornato? Posso uscire di casa senza il casco protettivo?

*si inchina* ... chiedo umilmente perdono.

...

Ok, meglio che non divento melodrammatica altrimenti la mia sanità mentale ne risente e poi mi dimentico le cose importanti che devo dirvi. Si una nota d’autrice seria per una volta!
Riguarda la questione della cannella, che anche se può sembrare non è un profumo scelto a caso mentre vagavo fra le spezie da cucina.

Per quanto ne so, nella leggenda la fenice prima di morire, si crea un bel nido con spezie varie tra cui per l’appunto la cannella, per cui nel momento in cui si alzano le fiamme e la fenice muore e rinasce si sente questo odore di spezie, e visto che è presente anche la cannella io ho preferito prendere solo quella a simboleggiare il tutto.

 

Bene, le note serie sono finite quindi via con il delirio.

Avevo intenzione di aggiornare molto prima il capitolo, a luglio finita la tortura esami pensavo che me ne sarei stata tutto il giorno a scrivere visto la smania che avevo, ma vi giuro finito l’ultimo dannato esame l’ispirazione si è volatilizzata come la verginità di Sanji sull’isola di quei simpaticissimi Okama.

Chiaramente ora che mancano pochi giorni al mio prossimo esame sono qui a spezzarmi le dita sulla tastiera. Il mio cervello è proprio adorabile a volte.

Tutto questo in fondo per dirvi che farò il possibile per pubblicare il terzo capitolo al più presto ma non so davvero quando ci riuscirò. Grazie davvero se avete ancora la forza di sopportarmi!

Concludo con i ringraziamenti di rito, perché ve li meritate davvero, grazie a tutti coloro che leggono, commentano, seguono, preferiscono questa storia, siete adorabili e vi voglio un gran bene anche se sono una bastarda e non mi faccio mai sentire.

Grazie a tutti davvero.

Kis~

Seiko

 

Ritorna all'indice


Questa storia è archiviata su: EFP

/viewstory.php?sid=661757