Inverno contro la città.

di past_zonk
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** 1. ***
Capitolo 2: *** 2 ***
Capitolo 3: *** 3. ***



Capitolo 1
*** 1. ***


Dedicato a Francesco; chamiser.

 

 

 

Tutto di te, dal collo all’alluce, dalle scapole al menisco, urla aiuto.

AIUTO; aiuto. Un’eco, sei eco.

 

Ventisei Gennaio Duemilaundici.             Ore ventitré e quarantacinque.

 

Venne dentro me. Si svuotò completamente l’anima tra una spinta, un fioco commento e il mio nome sillabato.

Perché si usa il verbo ‘venire’ per gli amanti?

Dice  Francesco perché è come se lui divenisse, per un po’, coinquilino del mio corpo.

‘Sto venendo amore, aspettami.’

Dopo aver fatto l’amore, lui dice di essere spossato; dice che vuole fumare e dice di vestirmi o prendo freddo.

E fuma e apre la finestra e si infila la camicia e i suoi calzoni monotoni, che dicono ‘guarda la fantasia della camicia’. Fantasia giallo su viola: brrr.

Ed ora la mia penna puzza di umori e di Francesco.

Ed è ora che sono spossata.

Lui dice che sono ‘no profit’ ma solitamente, parla troppo.

Mi trema qualcosa fra l’utero e il clitoride.

Sarà la mia coscienza? Ho sempre pensato abitasse lì.

Francesco dice che ci sono bei rischi ad amare, dice che dopo un po’ ti potresti innamorare.

Dice che non va bene.

Dice anche “oh” e “c’mon” e “non scrivere di me”.

Dice tante cose per essere un maschio.     

-Sei maschio?- e risponde:- Non so, son vivo-

Ed io rido anche per lui.

Mi dice:-Non scrivere di me con la penna blu; scrivimi in nero.- dice –Così sei più descrittiva.-

Dice:-Studia. E –Dovresti andare.- e –Domani hai i corsi-

Ma non dice mai quanti anni ha; così un giorno gli ho sfilato di tasca il portafoglio similpelle dozzinale ed ho preso la carta d’identità con la sua foto e la sua espressione da coniglio pronto ad essere investito.

Da riccio che attraversa la strada coi figli.

Da solito uomo timoroso.

Ho letto la sua data di nascita ma m’annoiavo di fare i conti così ho approssimato la sua età ad una trentina.

-Non c’è spazio per i miei anni in questa stanza.- dice.

Così mi segno sull’etichetta del mio cardigan la sua data di nascita; per non dimenticare. Come le vittime in Vietnam. Le donne con amputazione genitale.

Come le catastrofi.

-Vorrei fare in modo che tu non debba ricordarmi, Silvia.- dice – Ma questo non è secondo copione.-

Ed io ho le unghie turchesi ed un completo intimo rosso corallo che striscia sulla pelle bianca.

E lui è nudo. E il suo petto dice ‘Silvia’ ovunque.

E le cicatrici d’amore sul suo collo urlano ‘Silvia’  e il mio clitoride mugugna ‘Francesco’.

Ed è questa danza di nomi che –mio dio metterebbe chiunque in imbarazzo.

 

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Capitolo 2
*** 2 ***


Ad Anna e a Q. e a Matthea.

E a te, lurido.


Ricordo il giorno in cui conobbi Francesco. Ricordo che mi chiese se poteva spogliarmi. Se poteva  baciarmi. Se era consono il suo comportamento. Mi sfilò un sommesso ‘sì’ dalle labbra e cominciò a farmi sua. Ricordo di non essermi mai sentita tanto debole nella mia vita, con quelle mani sui miei seni e quegli occhi sulle mie natiche.

 

Entro nella stanza dalle pareti indefinite, odore indefinito e tutto ciò che non noto oltre le cornee di Francesco.

Ti riprenderei in bianco e nero, dice. Così i tuoi occhi sembrano meno tristi, dice.

E mi mostra l’orlo dorato della sua camicia e mi dice : che pensi, io lo so che anche tu mi ucciderai.

Ed io esplodo. I miei capelli s’intersecano ad uccidermi. Le dita con smalto rosso di chissà quante altre sue amanti che mi strangolano. Piccole catastrofi.

Poi le sue cosce nude.

-Posso spogliarti, ora?-

-Posso baciarti, ora?-

-Sono consono alla situazione?-

E un sì che non sto qui a descrivervi scavalcò le mia labbra e scoppio nell’aria viziata della camera.

E lui che si riempie di libido e dice di Paolo & Francesca, e dice che di Lancillotto noi mai leggeremo. E che io lo ucciderò. Come la donna dell’autobus, dice.

Francesco mi provoca un orgasmo mentre parla; con le sillabe mi stimola il clitoride e mi lecca ovunque con rime e parole candide; che poi fin troppo candide non sono.

Lui che ansima a bassa voce sul mio collo e mi recita qualche verso sciolto. E che il sesso non conta e che è tutto invece e che con me prende il trip e che farà piano e che ha quella voce che fa piangere e il sorriso che non sorge.

È la nostra prima volta, so che la seconda e la terza saranno meglio. Ma poi, vivendo, non sarà così.

E Francesco che non sapeva la mia età e il mio cognome ma già poteva descrivere ogni millimetro del mio corpo.

E la tua voglia sul fianco sinistro, direbbe.

 

Io & lui non ci conoscevamo da molto. Insomma, un paio d’ore sono bastate. Ci siamo conosciuti in piazza, alla luce della fontana. Davanti ai suoi calzoni demodé e il suo viso scolpito nei ricordi.

M’ha detto che ha fatto un provino per un film a Cinecittà e che poi l’hanno preso per un film erotico e che è scappato dal set.

Pensava di morire fra le cosce di quella donna.

Io non lo conoscevo, studiavo per l’esame a gambe incrociate sul bordo della scalinata ed ecco questo paio d’occhiali dandy che mi fissano e quella bocca che parla piano e che mi dice queste cose. A me, una perfetta sconosciuta.

E poi, dopo un caffè qualche sua chiacchiera e lo ‘scambio’ di nomi, l’ho portato a casa mia.

Col rischio di morire, di finire accoltellata a cosce aperte sul letto, d’essere violentata.

Non mi sono mai fidata di Francesco e dei suoi miseri giochi da puttaniere. Mai.

Eppure se mi chiedesse solo una notte in più per far scendere l’amaro, per baciarlo e dirgli che va bene, beh, io sarei lì.

Perché è bello baciare una persona che ha dell’amaro in gola, è bello succhiargli il veleno direttamente dalle vene e non voler dormire per continuare a filosofeggiare.

Mi sento completamente invasata dallo spirito di Francesco mentre facciamo sesso, mi sento la fronte umida e sudata come se stessi per essere operata. E lui che mi dice che domani è lontano.

Per tutto. Ed io, la scrittrice insensibile che prende come cavia i sentimenti di tutti ma che non sa descrivere quelli di Francesco che muore fra i fiori e me.

Ed io non lo amo, sia chiaro.

 

Il giorno dopo mi portò a mare e gli chiesi il cognome e lui mi disse che non aveva importanza ma che lo avrei saputo.

E poi lui che sulla sabbia col costume e il petto glabro e povero e smilzo che bianco riluce di segni e succhiotti.

Francesco che si lascia affogare fra l’acqua del mare mentre io lo riporto a galla e bacio quelle labbra lerce e bagnate e grondanti.

E lui accenna un sorriso ed è la prima volta che lo vedo ridere e mi sento Dio.

 

Ed ecco come l’ho conosciuto e la motivazione di questa unione; ovvero l’egoismo. Egoismo che guida tutto, le nostre vite.

E allora io giuro di non amare Francesco e giuro che la mia nuca urla sempre il suo nome e che ora sono l’una e che dormo. E che dormo. E che DORMO…

 

 

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Capitolo 3
*** 3. ***


Se gli carezzi le scapole è totalmente tuo, ti dirà, vedrai. Come il miglior puttaniere che puoi trovare in giro, come il più romantico degli occasionali, come il brivido clitorideo o la lingua scura d’amarene mangiate sul divano.
Guardo Francesco far fumare una sigaretta fra le sue labbra, lo vedo, mentre doma il dolore e scavalca un deserto di false speranze e futuri vani. Il sapore della menta fra i suoi denti di chewinggum, l’acre odore di bisogno che permea le lenzuola, la morte nelle sue pupille, il titillare delle mie cosce.
“Lo strano rumore che fanno le nostri pelli a contatto” dice “lo hai a mente?”
Prende il mio mento fra due dita e indirizza il mio cranio prima verso l’alto poi, gentilmente, verso il basso, in un “sì” guidato dalla sua mano lunga e bella per la mia bocca.
“Ecco. Quel rumore mi fa venire i brividi”.
Si concede a me, muta zitta donna soprammobile, in una maniera da esteta che mi lascia interdetta. Si lascia pettinare i capelli quasi fosse un atto d’erotico slancio. Quando i capelli di un’altra persona sono vicini abbastanza da coglierne la sporcizia o la sfumatura più datata, devi agire. Devi prendere violentemente la bocca dell’altro nella tua e filare un destino. Lasciarsi portare è per i deboli. Quando una lacrima che abbraccia l’iride da uomo rimane ferma nell’occhio e non si scioglie sulla sua guancia, quando scrivi versi nuda sul pavimento d’un appartamento al terzo piano della seconda scala, una porta modesta ed un quadro nudo anch’esso all’entrata che fa quasi l’eco. Quando sai toccargli con pudico orgoglio il pomo d’adamo e poi il naso ascendendo alla fronte divina su cui poggiarci la tua, o Silvia, vorresti dir di no sempre, vero? Dir di no per cadere con più pathos fra le sue braccia.
Tastarne lo sterno debole e fragile, sbattere la mano contro una costola stoicamente percepibile. Moribondo tra le tue zinne, l’uomo, Francesco, il poeta viaggiatore, lo chamiser, quello che gioca allo bohemien, lui.
“Ti amo, Francesco” dico con gli occhi sgranati di un’attrice alla Polanski. Con le calze stracciate, da bambina riformatorio o forse oratorio, con la fronte rossa di baci e la mani irte a sfiorare un orecchio. La noia con la quale recitiamo questo canovaccio solito è quasi paurosa. L’apatia con la quale m’afferra le natiche e m’è dentro. Il roco tono di voce bisognoso di certezze. I miei seni piccoli che sembro una vergine.
Santa vergine mia protettrice. Croce fra i miei seni, croce d’oro profanata fra le labbra di Francesco e fra le sue labbra nient’altro che oggettistica, la mia croce, il mio credo, la mia dignità. Fluidi i fumi che, finissimi, filano via dai suoi polmoni; fiori fioriti su una camicia fresco lino che dà forma alla sedia, gettata lì con gelido distacco.
Questo duetto fra i nostri desideri solidi e palpabili come l’acqua, sogni che non stanno in un palmo per più di tre secondi ben scanditi. Quel tipo di bacio in cui sento i suoi denti strisciare contro le rosse pareti della mia bocca, in cui quell’osso di bianco smalto graffia la mia callosa, polposa lingua sanguinante: il nostro modo di sussurrarci frasi d’amore a metà, lasciandole al vento o forse alla notte. Il cuore che palpita di tristezza e trabocca crudeltà ed egoismo. Lo sciabordio della vasca sporca di bagno in cui ci stiamo noi due, scheletrici e sporchi di polvere, di motel, di necessità emotive.
Ricamata come una stella in cielo, quella goccia di sudore sul suo collo. Il mio innaturale bisogno di sentirmi parlare, di giustificarmi quel che ormai sono. Francesco s’addormenta con la mano stropicciata come un lattante; scroscia via il suo ego dalla mia angosciosa pelle bianca, lo sento svanire come l’alba mattutina. Osservo le sue palpebre tremare e le sue dita muoversi ancora. Gli prendo una mano e recito.
“Non ti lascerò mai”.
E magari è vero.
Che non lo lascerò mai. Mai per davvero, s’intende.

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