Yami no Hikari

di baka_the_genius_mind
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Prologo ***
Capitolo 2: *** Why don't you get out of my life? ***
Capitolo 3: *** It sounds selfish, but I still need you. ***
Capitolo 4: *** I can't see. Did you forget it? ***
Capitolo 5: *** How can I help you? ***
Capitolo 6: *** AVVISO ***



Capitolo 1
*** Prologo ***




Prologo •





- Uruha -




La vista di quel volto fu come una lenta e pacata sinfonia che comincia con deboli strumenti a fiato, timidi pizzicati di violini, un appena accennato borbottio di contrabbasso.

Il volume di quella sinfonia crebbe pian piano; le labbra furono l'introdursi vivace dei flauti traversi, gli zigomi alti un deciso cambio di carattere nelle viole e nei violini, la prorompente cascata dei suoi folti capelli neri l'entrata delle percussioni.

Il cosiddetto colpo di grazia si presentò a me come il paio d'occhi più magnetici in cui fossi incappato nella mia esistenza.

Un prorompente attacco di trombe e tromboni, violini impazziti, flauti rapiti dal ritmo serrato delle percussioni, i tamburi rombanti, m'era perfino sembrato di sentire delle chitarre acustiche che mi riempivano la mente delle loro pentatoniche, le loro doriche e aeloie.

L'ultima nota aveva vibrato nell'aria, incidendo il silenzio con la sua densa e grave corposità.




«Mi perdoni, non l'ho vista.»

In realtà l'avevo visto fin troppo bene. Era decisamente...complicato non vederlo, anche se faceva di tutto per passare inosservato. Nel delicato paesaggio color pastello di Kyoto lui spiccava come un'oasi in mezzo al deserto: vestito di nero da capo a piedi, se ne stava immobile come una statua, mentre il mondo girava attorno a lui. Era troppo incredibile per non essere notato.

Quando lo urtai barcollò leggermente, e quegli occhioni guizzarono rapidi come saette in mille direzioni.

Non avevo mai visto occhi del genere.

Le sue iridi erano di un azzurro stupefacente; un azzurro-grigio quasi trasparente, che si piegavano al volere di un paio di pupille color inchiostro, grandi ed ingenue.

Mi sembrò di vedere in quegl'occhi un cielo piovoso d'autunno.

«Oh, non si preoccupi. Neanche io avevo visto visto lei.»


La sua voce fu un imprevedibile colpo di grazia.


Mi parlò con voce tranquilla e pacata.

L'inquietudine di quegl'occhi s'era placata e ora essi erano vuoti e spenti, come scollegati dalla spina che li aveva resi tanto fulgidi pochi attimi prima.

«Sì, mh, okay. Beh, mi scusi ancora.»

Lui mi fece un grazioso cenno col volto, lo sguardo incollato alla mia spalla.

Perché non mi guardi in volto angelo?

Cercai rapidamente qualche scusa che mi costringesse a rivolgergli nuovamente la parola, nella speranza di vedere il suo sguardo nel mio. Avrei potuto chiedergli se si fosse male, quando il suo improvviso cambio d'espressione mi bloccò le parole in gola.

Mi allontanai in fretta da quella creatura, quasi spaventato da tanta bellezza.




Mi ero svegliato col mal di testa quella mattina: il dolore sordo mi pulsava nelle tempie, martellando come la grancassa di una batteria.

Ultimamente capitava molto spesso. La notte sognavo Maiko, sognavo quello sguardo da bambina, sognavo le sue labbra carnose e il suo corpo magro e la mattina mi svegliavo con il cranio attraversato da milioni di schegge gelide.

Maiko.

La mia Maiko se n'era andata, mi aveva lasciato indietro e solo, e io dovevo ancora rendermene conto.

Mi infilai sotto una doccia gelida senza neanche togliermi il pigiama e quello mi si incollò alla pelle. Il lento martellare crebbe d'intensità, fino a raggiungere livelli insopportabili, prima di scemare veloce com'era aumentato.

Quando entrai in cucina avvolto da un accappatoio bianco, il telefono accanto al frigo lampeggiava.

«Kouyou, sono Yasuko, chiamami.»

«Sono Kawada. Chiamami quando puoi.»

«Kouyou, sono io...» una pausa lunga un sospiro inframmezzò il terzo messaggio in segreteria «...tuo padre chiede tue notizie. E le tue sorelle...» altra pausa «...chiamaci. Ti prego, Kouyou, chiamaci

«Shunsuke. Manoscritto.»

Ridacchiai. Il mio manager era sempre molto avaro di parole, in particolar modo al telefono: a taluni poteva sembrare un essere viscido e mellifluo, ma era un uomo eccezionale, professionale e totalmente dedito al suo lavoro, che svolgeva con impeccabile precisione.

Era stato l'unico, e di questo non avrei mai smesso di ringraziarlo, ad ignorare la mia perdita. Semplicemente mi aveva inondato di una così gravosa mole di lavoro che non avevo quasi avuto tempo di pensarci.

E ciò mi era stato di fondamentale importanza.

Sommerse il mio vile piano -di cui molto probabilmente aveva sentito il fetido odore solo a guardarmi in faccia la prima volta che mi aveva visto dopo la Sua scomparsa- con interviste, apparizioni in tv e alla radio locale; sapeva che non mi sarei mai permesso di fare brutta figura in pubblico e sfruttò questa mia vanità per togliermi dalla testa quel tarlo maledetto.

Il suo successo fu palese.

La prima ed unica volta che ripensai al suicido, dopo quella folle settimana, rimasi talmente spaventato che ingollai tanti calmanti da rimanerne quasi stordito, riuscendo quasi a raggiungere l'obiettivo che mi ero prefissato giorni prima e che solo quella sera avevo totalmente abiurato.

Solo Shunsuke aveva capito che il reale motivo di quel mio gesto era stato dettato dal bisogno di spegnere il mio cervello e smettere di pensare almeno per qualche ora, e non dalla voglia di togliermi la vita.

Ciononostante bastò rivedere il Suo volto in una foto, una domenica mattina in cui, preso dall'impeto dell'ispirazione, cercavo dei fogli bianchi in un cassetto, perchè mi accorgessi realmente di averla persa per sempre.

E così era cominciata quell'atroce serie di incubi, quelle emicranie da flebo, i pomeriggi prigioniero delle violente fitte che sembravano squarciarmi il cervello in due, rannicchiato sul mio letto in lacrime, le apatiche giornate passate a camminare silenzioso e cupo come un'ombra nel mio appartamento.

Il cielo era nuvoloso quella mattina.

Lo osservai con indolenza dalla finestra della cucina, prima di rendermi conto che erano giorni che non facevo la spesa e che gli spuntini della rosticceria sotto casa che Shunsuke mi portava quotidianamente non sarebbero bastati a lungo.

La carcassa del mio ultimo pranzo rendeva ancora più desolante la mia cucina.

Con una flemma che io stesso trovavo snervante mi spogliai dell'accappatoio e indossai degli abiti puliti, sciacquandomi poi accuratamente il volto e pettinando con indolenza i mie lunghi capelli scuri.

A Maiko erano sempre piaciuti corti.

Io li avevo fatti crescere dopo la sua partenza.

Febbraio quell'anno era freddissimo.

Mi infagottai in un'ingombrante serie di magliette e maglioni, che coprivano a stento il mio corpo magro e uscii nel gelido abbraccio invernale.

Sulla via del ritorno capitai nel parco.

Quel posto non aveva mai rappresentato altro per me, se non un semplice giardino pubblico, verde e pulito come lo erano migliaia di altri luoghi del genere.

Tuttavia ne conoscevo a memoria la sommità della grande fontana che troneggiava nel mezzo di quei folti ciliegi. Si vedeva così nitidamente dalla finestra del mio salotto, anche nei giorni di nebbia, che avevo perso pomeriggi interi a guardare l'acqua che ne sgorgava incessantemente; il resto della struttura era coperto dalle fronde degli alberi, ma la cima era impressa a fuoco nella mia mente.

Mi prese l'incredibile voglia di vedere la base di quella sorgente; abbandonai la spesa in mezzo al marciapiede e mi diressi ad ampie falcate verso l'interno del parco, con la gioia malcelata di un bambino a Natale.

L'interezza della fontana era così semplice e sobria da lasciarmi senza fiato.

Feci qualche piccolo passo indietro, quasi folgorato da quella comune visione e inciampai nella svolta decisiva della mia esistenza.








- Aoi -




Ebbi un attimo di folle smarrimento, quando mi venne addosso.

Abituato com'ero a camminare costantemente sul filo del rasoio, anche il minimo colpo di vento mi faceva trasalire, come fossi una timida fogliolina ancora tenacemente attaccata al suo ramo ma destinata a venir sopraffatta dal mondo.

«Mi perdoni, non l'ho vista.»


La sua voce fu il calore dolcissimo di un fraterno abbraccio.


Cercai di voltarmi verso dove avevo sentito provenire quella dolce e roca melodia. Non era sempre molto semplice questo trucchetto per nascondere la mia natura, ma per qualche istante di convenevoli bastava largamente. Bastava fingessi di essere distratto, o freddo, o indifferente, o un cinico bastardo che se ne frega di chi ha appena urtato e il contatto visivo veniva a mancare. A mio vantaggio.

Perchè ora non funzionava?

L'avrei pregato di continuare a parlare finché non avessi indovinato l'esatta collocazione dei suoi occhi.

Erano vent'anni che sfioravo timidamente il mio corpo con lo scopo di costruirmi un mentale modello di essere umano (avevo continuato a toccarmi timorosamente anche quando mi ero messo con Ryo e lui mi aveva lasciato libero di servirsi di lui per i miei esperimenti) e sapevo approssimativamente dove stavano le cosiddette porte dell'anima.

Ryo diceva che i miei occhi erano impenetrabili lastre di ghiaccio, gelose guardiane della mia anima.

«Oh, non si preoccupi. Neanche io avevo visto visto lei.»

Riusciva, quell'affascinante e misterioso sconosciuto a cogliere l'ironia nella mia voce?

Stetti in ascolto per qualche secondo, pregando gli dei affinché lo facessero parlare ancora.

«Sì, mh, okay. Beh, mi scusi ancora.»

Feci un debole cenno col capo, imponendomi di placare il mio interesse.

Non si poteva restare affascinati da una voce, non in quel mondo meschino e corrotto. L'essere umano era una razza ancora troppo violenta ed egoista perchè ci si potesse fidare ciecamente del prossimo.

Ero arrivato a questa conclusione per esperienza, e l'ultima cosa che volevo era infatuarmi di una voce come uno sciocco adolescente.

Lo sconosciuto non mi interessava, per quanto la sua voce fosse...particolare, graffiata e roca, non me ne importava niente di lui.

Allora perchè sentire i suoi passi sulla ghiaia rigare la calma piatta del parco mi fece così male?




Il mondo quel giorno era buio.

Di un buio denso e corposo, come una guaina sigillata che chiudesse al suo interno ogni cosa.

Il vento mi sferzava il viso, freddo come l'aria che mi penetrava nelle ossa. Sentivo i capelli sul volto.

Ryo mi aveva detto milioni di volte che i miei capelli avevano il colore dell'inchiostro e la stessa densa consistenza. Dell'inchiostro io sapevo solamente che era liquido come l'acqua e che aveva lo stesso colore delle tenebre.

Colore, anche questo concetto mi era piuttosto astratto.

Ryo diceva che il nero era il colore del buio.

Avevo i capelli dello stesso colore del buio in cui ero avvolto? O Ryo stava minimizzando? Conosceva veramente Il Buio? Quello che lui chiamava “buio”, quando il suo Sole tramontava, era lo stesso in cui la luce non era mai e mai sarebbe arrivata? Era la stessa campana di piombo che mi avvolgeva da ormai ventotto anni?

Avevo smesso da mesi, ormai, di fidarmi di lui.

Per quanto la cosa mi rendesse partecipe del mio triste, doloroso e completo isolamento, non potevo, non riuscivo a fidarmi di lui.

Sentire la sua voce distorta in quella maniera dopo un anno mi aveva semplicemente annientato.

Fu l'unica volta in tutta la mia vita che ringraziai gli dei di avermi fatto nascere cieco. Sarei morto di dolore se li avessi visti abbracciati. Morivo ogni giorno a sentire le loro mani intrecciarsi, le loro pelli sfregarsi; non so quante volte avevo pregato di tornare indietro nel tempo, di tornare al giorno in cui avevo timidamente chiesto a Ryo di accompagnarmi in clinica per rimediare al mio errore: non gli avrei chiesto di accompagnarmi e l'avrei lasciato prima di entrare nei melmosi acquitrini di sofferenza in cui ero invischiato da circa due anni.

Sentirli sospirare l'uno nelle labbra dell'altro, sentirli gemere l'uno il nome dell'altro...mi stupivo io stesso di non essere svenuto dal dolore.




Appena fuori casa, tirai un respiro profondo. Tesi la mano verso sinistra, dove sapevo -sapevo, non vedevo- esserci lo steccato e lo afferrai, gioendo nel sentire le schegge in rilievo solleticarmi il palmo.

Una serie di fortunate coincidenze mi condusse al parco quella mattina.

Il semplice afferrare lo steccato alla mia sinistra non fu così banale come si può supporre: sarebbe bastato non trovarlo perchè tutta la sicurezza che provavo si accartocciasse sotto il peso del terrore che provavo verso il buio che popolava la mia vita fin da quando avevo memoria.

Un particolare modo di aver paura che avrebbe cancellato in un sol colpo tutta l'angoscia che mi opprimeva; non ci avrei messo niente a tirarmi indietro, appoggiare la schiena alla porta e aspettare al buio che qualcuno si accorgesse della mia mancanza.

Era la prima volta che uscivo di casa senza qualcuno. La prima in ventotto anni.

Beh, certo, se non si contava quella volta in cui avevo raggiunto il parco assieme ad Aiko.

Scesi gli scalini con una lentezza che chiunque avrebbe definito esasperante, ma che nessuno avrebbe mai riconosciuto come panico.

Mi sforzai infine di richiamare alla memoria l'esatta collocazione delle strade, la sequenza di destra-sinistra-dritto che avevo percorso assieme ad Aiko quasi undici anni prima. Non mi era molto difficile. Non avendo la mente ingombra di milioni e milioni di immagini giornaliere, potevo vantare un ottima memoria anche per i dettagli più insignificanti, che conservavo gelosamente fino all'ultimo.

Riconobbi immediatamente il parco dove avevo incontrato Ryo la prima volta.

L'odore di ciliegi era quello e ricordavo alla perfezione lo scrosciare dell'acqua della piccola e muschiata fontanella.

Sorrisi.

Undici anni che non mettevo piede in quel luogo e mi sembrava di averlo visto solo il giorno prima. Chissà come mai io e Ryo non ci eravamo più tornati dopo quel giorno.


«Hai davvero un bellissimo cane!»


Ryo, perchè mi hai abbandonato?


«Cos'hanno i tuoi occhi?»


Io mi fidavo.

Eri l'unica persona alla quale potevo chiedere aiuto senza temere che questa mi ingannasse. Neanche della mia famiglia mi fidavo tanto.


«Lascia che sia la tua luce.»


Ricordavo la presenza di alcune panchine nel parco, e quando avvertii il loro corpo metallico sotto alle dita quasi piansi dalla commozione.

Le circumnavigai con attenzione, una mano tesa nel vuoto: non avevo paura, ero certo che ci avrei trovato la nostra casa. Il nostro albero era lì, la sua corteccia ruvida e dura non aveva ceduto alle lusinghe del tempo.

Avevo diciannove anni quando Ryo ci aveva scritto sopra i nostri nomi, prendendomi una mano e facendomi sentire coi polpastrelli l'intaglio nei nostri ideogrammi.

Gli unici che avevo mai imparato in tutta la mia vita.

Se mi avessero dato in mano una penna, avrei tracciato al buio i nostri nomi come lui li aveva incisi sulla corteccia di quel vecchio albero.

Posai le dita su quella ferita d'amore.

Poi gli voltai caparbiamente le spalle, aggirai la panchina e venni travolto in pieno dalla svolta decisiva della mia esistenza.


Continua...


















Note di Mya:


Due paroline su questa nuova creaturina le devo assolutamente spendere.


Innanzitutto devo scusarmi con BlackAngel.

Non so se lo sapete, ma aveva (...ha? Sta? °-°) scritto una fic con una tematica molto simile (si chiama “Taste - Il suo sapore” e la trovo semplicemente meravigliosa); personalmente la considero una scrittrice come poche, semplicemente eccezionale, perciò mi sentivo quasi in colpa a scrivere questa fic.

Anyway, voglio sperare che nessuno consideri questa Fiction un plagio. È stata partorita dalla mia mente, non ho fregato idee a nessuno, solamente gli argomenti sono simili a quella scritta da BlackAngel. Le avevo anche scritto una mail per avvertirla/chiederle il permesso, ma forse non l'ha ricevuta. O forse la leggerà dopo. Sarebbe stato più corretto attendere una sua risposta, ma non stavo più nella pelle, spero mi perdonerai anche questo ^^

Ad ogni modo, spero che non la infastidisca: la considero una fra le migliori scrittrici del fandom (e non sono tante le persone iscritte all'albo delle eccellenze, qua dentro) e non vorrei mai che la prendesse come un'offesa.

Anche perchè, rileggendo quell'unico e doloroso capitolo, non credo di essere capace di raggiungere un livello simile e quindi veramente competere con quella meraviglia.


In secondo luogo, la dedica.

Bene, questa long è e sarà, dalla prima all'ultima virgola, di proprietà di Aelite.

Ma andiamo con ordine. Ricordate vero, quella piccola meraviglia di “Snow Scene”?

Questa è la sua controparte.

Dal momento che se aspettiamo la shot Aoi-Uruha che mi aveva chiesto lei stiamo freschi come surgelati, le offro in ringraziamento (come se davvero sperassi di poterla far bastare) quest'idea che è lì da mesi e che prima era destinata ad un altro fandom e che poi, dopo aver adottato questo fandom come secondo famiglia, avevo associata ad un gazepairing diverso. Insomma, l'idea c'era, il resto l'ho costruito attorno ad Aelite, tenendo conto dei suoi gusti e delle sue preferenze.

Per quanto sia convinta che si scriverà praticamente da sola, visto che è quasi un anno che sogno di scriverla, non prometto nulla riguardo le tempistiche di aggiornamento. Al contrario di qualcuno a caso che scrive come un fulmine, io già sono lenta di mio, figuriamoci con la catastrofica situazione scolastica che mi si para davanti al naso. Quindi, in ultima analisi, abbiate pazienza.

Un'ultima cosa.

Io considero Uruha una persona inscrittibile. Aelite sa di cosa parlo.

Non sono capace, niente da fare. Ogni volta che devo scrivere di lui o dal suo punto di vista mi viene il panico, al contrario di Ruki che ormai ho adottato come protagonista-tipo delle mie fics (infatti era lui l'iniziale protagonista di questa long).

E ci sta che me le vado pure a cercare, dal momento che in questa Fiction gli ho affibbiato un carattere a dir poco contorto.

Devo ancora capire cosa esattamente in quell'uomo mi crei tanta difficoltà, ma prometto di cercare di rimediarci. Nel frattempo, abbiate pazienza (e due).


Il titolo, Yami no Hikari, significa letteralmente “La Luce dei Buio”.

Ringrazio affettuosamente Jo-hime per l'aiuto *strizza*


Un'ultima, microbica cosina.

Se andate a vedere (magari utilizzando un documento di testo e non contando ogni singola parolina come stavo facendo io prima che chichi mi illuminasse sui miracoli di OpenOffice) vi accorgerete che in questo prologo ci sono 1180 parole per Uruha e 1180 parole per Aoi.

Non c'è nessun significato particolare, era solo uno sfizio che volevo togliermi e che mi impegnerò per tramandare anche ai capitoli successivi, per i quali prevedo la stessa divisione in due PoV.


Non dico altro, altrimenti finisco con lo svelare metà della trama: mi conosco anche fin troppo bene u.u

Fatemi sapere che ne pensate.

Un bacio,

Mya

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Capitolo 2
*** Why don't you get out of my life? ***





Capitolo Uno •

Why don't you get out of my life?




- Aoi -




Ryo era, come al solito, silenzioso come una tomba.

Non che fosse una persona particolarmente fredda e scontrosa; chi lo conosceva bene -e io potevo vantarmi di ciò- sapeva perfettamente che aveva un cuore immenso, il più grande che un essere umano potesse vantare.

Ma aveva questa insopportabile preponderanza al silenzio.

Io odiavo il silenzio.

«Dimmi perchè l'hai fatto.»

La sua voce mi colpì con la forza di uno schiaffo.

La suoneria del mio cellulare aveva cominciato a suonare nell'esatto momento in cui i passi dello sconosciuto sulla ghiaia si erano fatti così deboli da sfuggire anche al mio udito finissimo.

Quando avevo risposto, Ryo era rimasto in silenzio per una lunga manciata di minuti.

«Dimmelo, Yuu. Esigo sapere perchè l'hai fatto.»

Non avrei saputo dire quanto tempo era passato prima del suo arrivo, ma a me erano parse ore.

Il freddo aveva cominciato ad aggredirmi non appena mi aveva chiuso la chiamata in faccia, congelando tutto ciò che aveva trovato fino al midollo. La sua rabbia mi aveva mortificato a tal punto che le gambe avevano cominciato a tremarmi ed ero stato costretto a sedermi.

La sua improvvisa morsa al mio gomito e la sua voce furiosa che mi aveva intimato di muovermi avevano avuto su di me il potere di una doccia calda.

«Yuu.»

Sospirai, chiudendo gli occhi. Nel corso degli anni mi ero accorto di un impercettibile cambio di sfumatura dal buio che avvolgeva la mia vista normalmente alle tenebre in cui mi chiudevo serrando le palpebre. Un piccolissimo grado di scuro, un'infinitesimale tonalità più opprimente.

Il mio rifugio era chiudere quegli occhi ch'erano stati fin dalla nascita la mia dannazione.

Mi sembrava che niente potesse scalfirmi se li chiudevo.

«Vi ho sentiti.»

Se ebbe una qualsivoglia reazione, non fui così accorto da registrarla.

«Tu e Yutaka stavate facendo l'amore.»

L'auto inchiodò improvvisamente. Lo sentii uscire sbattendo la portiera e pochi istanti dopo mi trascinò giù dalla vettura molto rudemente. Era furioso.

Credetti che mi rifilasse anche uno schiaffo (e io, in fin dei conti, l'avrei accettato senza fiatare), ma tutto ciò che sentii furono le sue braccia, chiudersi una attorno alla mia vita e l'altra cingermi le spalle.

«Sei uno stupido, Yuu.»

Accennai un sorriso contro la sua spalla.

Non era arrabbiato con me.

Risposi al suo abbraccio, sollevato.

Puntualmente quando mi dava dello stupido era incazzato con se stesso con la forza di un vulcano in eruzione. Oramai ci avevo fatto il callo.

«Non volevo farti preoccupare, Ryo.»

«E io non volevo ferirti. Maledetto il giorno in cui ti sei innamorato di uno stronzo come me.»

Maledetto il giorno in cui ti ho fatto conoscere Yutaka.

Mi tenni i miei pensieri per me, ma fui certo che li avessi indovinati. Lo sentii sospirare e poi allontanarmi lentamente da sé.

Da quando ci eravamo lasciati, Ryo mi teneva lontano come fossi una bestia repellente.

Fin dal primo, goffo bacio che ci eravamo scambiati, nessuno dei due era stato capace di allontanarsi dall'altro per più di qualche minuto; mio fratello ci prendeva spesso in giro perchè ci sfioravamo con ogni più piccolo pretesto. E quando realmente non esisteva una scusa plausibile o non, ci toccavamo per il semplice gusto di sentire l'altro vicino.

Il fatto che lui cercasse sempre un contatto, che fosse sempre preoccupato di farmi sentire la sua presenza, mi sembrò all'epoca la cosa più gentile che qualcuno avesse mai fatto per me.

Poi ci eravamo lasciati e avevamo interrotto quel delicato ingranaggio fatto di carezze e sfioramenti.

Rettifico.

Poi io l'avevo lasciato e lui aveva semplicemente smesso di toccarmi, anche solo per passarmi un bicchiere d'acqua.

Certo, se mai avessi avuto bisogno lui sarebbe sempre stato più che pronto a tendermi una mano (avevamo condiviso troppo perchè non fosse così), ma i bei giorni in cui mi vedevo costretto a chiedergli gentilmente, e con un certo divertimento, di lasciarmi per poter andare in bagno erano finiti e di loro non rimaneva che uno splendido ma opaco ricordo.

Sentirlo nuovamente così vicino mi diede un'effimera sensazione d'appagamento.

Ma non ero assolutamente pronto a ciò che fece dopo.

Le sue labbra mi aggredirono rudemente, catturandomi in un bacio improvviso quanto desiderato.


«Sì! ...mnh, sì, Yutaka...»


Lo scostai da me bruscamente, respirando a pieni polmoni come se mi avessero tenuto la testa sott'acqua fino a quel momento. Cercò di riavvicinarsi a me, afferrandomi il gomito, tirandomi verso di lui.

Mi divincolai con la forza di una bestia in gabbia, ringhiando quasi, brancolando nel mio buio.

«Lasciami, Ryo, lasciami!» sussurrai, improvvisamente terrorizzato dalla sua presenza. Il suo corpo perse istantaneamente il suo dolce calore e diventò freddo come un pezzo di ghiaccio.

Mi afferrò entrambe le spalle con le mani, scuotendomi come una bambola di pezza.

«Perchè non vuoi uscire dalla mia vita, Yuu? Perchè

No, no, no!

Diedi un forte strattone urtando col collo del piede il primo degli scalini che portavano al nostro appartamento, terminando così la mia folle corsa a terra. Non vidi certo a cosa andavo incontro, ma mi sentii scivolare dentro un folle oblio e non feci nulla per evitarlo.

Non cercai neanche di gettare le mani avanti per proteggermi; mi lasciai cadere sulla scalinata, colpendo con violenza il fianco contro lo spigolo del gradino e graffiandomi le mani e la guancia. Avevo la testa colma di milioni di fischi e scoppi, la mente invasa da rumori indefiniti, i sensi offuscati da un leggero tremore che aveva soggiogato ogni singolo muscolo di cui disponevo. Compreso il cuore.

Perchè non vuoi uscire dalla mia vita, Yuu?

La padronanza dell'udito che mi permetteva di orientarmi in quel mondo buio mi abbandonò all'improvviso lasciandomi solo nel mio confusionario terrore. Credetti di morire.

«Yuu?»

La voce di Yutaka fu la scarica di amore che riportò ordine nel mio cervello. Il ronzio andò quietandosi, il dolore al fianco affievolendosi. In compenso, una densa cascata di lacrime bollenti mi rigò le guance, sommandosi alla pazza vergogna che mi aveva invaso quando ero inciampato.

«Yutaka...»

Quasi piansi il suo nome, pregando gli dei meschini di portarlo da me.

Sentii le sue dita fra i capelli, leggere come la prima volta che mi avevano accarezzato, quel maledetto giorno di anni e anni prima. Scivolò lentamente al mio fianco, avvolgendomi con le sua braccia. Mi abbandonai al suo calore singhiozzando.

Il suo profumo.

Quel profumo delicato e umano non l'avrei mai dimenticato.

Avevo dimenticato l'odore acre della lacca di mia madre, quello dolce delle canne di mio fratello; avevo dimenticato l'odore delle lasagne, quello dell'abbraccio di mia sorella. Avevo dimenticato l'odore dello sgabuzzino dove, da ragazzo, mi nascondevo a piangere lacrime amare dai miei orrendi occhi vuoti.

Col tempo avrei dimenticato anche il profumo di Ryo.

Ma quello di Yutaka era una guida, come una guida era la sua voce, le sue mani, la sua esistenza.

Era la mia bussola, il mio Nord, il mio Sole e la mia Luna e nulla avrebbe cambiato ciò.

Neanche il fatto che si fosse innamorato, ricambiato, dell'uomo che amavo.




«Quando ti deciderai a parlare?»

Sospirai.

Yutaka stava cercando di disinfettarmi i polsi che ero in ogni modo riuscito a sbucciarmi.

Il lungo graffio che sentivo rigarmi la guancia pulsava fastidiosamente.

Ryo era entrato in salotto silenzioso come un'ombra, aveva poggiato sul divano l'occorrente per la mia medicazione e se ne era andato senza un fiato.

Io odiavo il silenzio.

«Non c'è nulla da dire.»

«Ti adora, Yuu. Stravede per te. Voglio sapere cosa l'ha fatto infuriare a tal punto.»

Aveva senso dirgli che li avevo sentiti amarsi appassionatamente? Che Ryo era venuto a prendermi e che aveva tentato di baciarmi? Che mi aveva supplicato di uscire dalla sua vita?

«Niente.»

Il suo sospiro mi sfiorò la fronte.

Ero appoggiato di schiena al suo torace, il cuore mi batteva lento e rassicurante contro la colonna vertebrale. Se prestavo sufficiente attenzione riuscivo a cogliere il flemmatico tu-tum che scandiva la sua vita.

«Dove sei stato?» mormorò dolcemente al mio orecchio.

Dei maledetti, perchè avete creato il più acerrimo dei miei nemici così incredibilmente angelico e amabile?

Mi ero sentito dire di tutto in clinica.

Mi era stato detto che in pochi anni il disturbo si sarebbe evoluto fino a togliermi anche udito e olfatto.

Mi era stato detto di rassegnarmi (da persone che, ovviamente, vedevano ogni giorno il Sole nascere).

Mi era stato detto che la cecità da incidente era mille volte peggio e che dovevo ritenermi fortunato.


Fortunato.


Yutaka aveva solo venticinque anni quando era rimasto cieco da entrambi gli occhi.

Anche per lui, come per me, qualsiasi complesso e delicato intervento sarebbe stato inutile. I suoi nervi ottici erano fasci di fibre morte, come morta era tutta una zona del suo cervello che fino a quel maledetto giorno aveva lavorato instancabilmente per garantirgli la vista.

Mi era stato detto che coloro che rimanevano ciechi dopo aver visto le meraviglie del mondo di dividevano in due categorie.

Coloro che non ne sarebbero usciti. Coloro che avrebbero rifiutato ogni aiuto, tagliato i ponti col mondo e deciso che la vita senza vista non valeva la pena di esser vissuta. Il più alto numero di suicidi fra i malati cronici si concentrava, allora, su questa grande percentuale di persone che avrebbero, prima o poi, smesso di desiderare la vita.

Il secondo gruppo era un infimo numero di persone la cui forza interiore avrebbe potuto scuotere la Terra dalle fondamenta con un fragore tale da far sobbalzare gli dei nel cielo.

Yutaka apparteneva a quest'ultimo gruppo.

L'incidente aveva come spazzato via ogni più piccolo difetto di cui -dubitavo anche a crederci- doveva essere stato dotato anche lui.

Yutaka era perfetto.

«Da nessuna parte.»

Fece passare le mani sul mio ventre, intrecciandole l'una con l'altra.

«Yuu.» soffiò piano.

«Yutaka mi prometti una cosa?»

Cercai faticosamente di voltarmi nel suo abbraccio, prestando un'immensa attenzione al corpo che sentivo vivere sotto di me.

Neanche una settimana prima Yutaka era caduto nuovamente dalle scale. Il fianco sinistro gli era molto dolorante e cercavo di evitargli ogni più piccolo fastidio. Soprattutto perchè comprendevo come fosse stato mio l'avvilimento che doveva aver provato.

«Cosa?.»

Nascosi il volto nell'incavo del suo collo, riempendomi le narici del suo profumo.

«Non sentirti mai in colpa per me. Non ne vale la pena.»

«Dimmi tutto, Yuu. Ma non tollererò che tu ripeta una seconda volta una cosa del genere.»

Talvolta, molto spesso durante quel limbo di pensieri che confusi che rappresentava il mio riemergere dal sonno, mi ero ritrovato a chiedermi cosa sarebbe successo se non avessi mai conosciuto Yutaka.

«E tu me lo fai un favore, Yuu?»

Un sorriso sciolse la tristezza del mio volto; con le dita sfiorai il suo braccio nudo, percorsi con lenta calma il polso e il gomito, scivolando sulla sua spalla. Raggiunsi il suo viso e mi fermai a accarezzargli la guancia con l'indice.

«Qualsiasi cosa, Yutaka. Lo sai che tirerei giù il cielo per te.»

Sentii il suo sorriso, le fossette che gli solcavano dolcemente le guance solleticarmi i polpastrelli.

«Mi suoni il piano?»

Quasi piansi dalla gioia.

Scattai in piedi, cercando alla ceca le sue mani, stringendole tanto che pensai per un attimo di avergli fatto male.

«Anche il cielo per te...» mormorai rapidamente.

Dovetti proprio impormi di fare con calma per evitare qualsiasi colluttazione e quando sentii sotto alle dita il sellino ridacchiai sottovoce. Quei tasti lisci era al loro posto, fedeli al loro padrone. Li sfiorai come una madre avrebbe sfiorato il volto del suo bambino.

Poi tesi una mano fino ad incontrare la marca incisa nell'ebano. Sfiorai le lettere che componevano quel nome: giusto sotto quell'intricato intreccio di segni che Ryo mi aveva spiegato essere una a occidentale, sapevo di trovarci il do centrale.

Improvvisamente, una malvagia serie di voci mi sconvolse l'udito e ritrassi le mani dal piano come se questo scottasse.

«Perchè non vuoi uscire dalla mia vita, Yuu?»

Suonai quasi per sbaglio un'unica e desolante nota, che riconobbi all'istante come la più malinconica di tutta la scala.

«Yuu?»

«Perdonami se puoi, Yuu. Altrimenti dimenticami.»

Come se pensasse davvero che sarei stato in grado di dimenticarlo.

«Mi odio, Yuu.»

Non ci avevo mai creduto. Nessuno avrebbe mai potuto odiare un angelo come Yutaka, nemmeno lui stesso.

«Vivi, Yuu. Ti supplico, fallo per me.»

Trattenni un muto singhiozzo, lasciando che solo una lacrima (l'ennesima, stanca e vuota lacrima che avevo versato da quel maledetto giorno) scivolasse sulla mia pelle per cadere poi nel buio che mi avvolgeva.


Perchè non vuoi uscire dalla mia vita, Yuu?








- Uruha -




Takanori era seduto sull'ultimo scalino della gradinata che portava al mio attico.

Stava sgranocchiando qualcosa, molto assorto nella lettura di non so che giallo americano. Gli occhiali continuavano a scivolargli sul naso e lui se li risistemava con flemma, quasi con indifferenza.

Mi piantai davanti a lui, qualche scalino sotto quello su cui era seduto. Sospirò lentamente, rimettendo il libro e quello che riconobbi come un sacchetto di noccioline nella tracolla. Si tolse poi gli occhiali, rivelando così un paio d'occhi per il quali, fino a qualche minuto prima, avrei invertito l'ordine delle stagioni.

Non riuscivo a togliermi dalla mente quelle iridi color temporale.

Possibile che un minuto scarso d'incontro fosse riuscito a spodestare quelli che in assoluto ritenevo gli occhi più splendenti della mia esistenza?

«Ti fai desiderare, eh, Kou?.»

Un blocco di granito gelidamente vischioso mi piombò nello stomaco.

«Vieni qui.»

Si alzò con una malinconica lentezza.

L'avevo escluso dalla mia vita per l'ennesima volta e lui ne soffriva enormemente. Avrebbe voluto che gli confidassi ogni più intimo pensiero come facevo al tempo del liceo, quando io e Maiko ci eravamo appena conosciuti e lui non era ancora incappato nella sua anima gemella.

Sorridevo molto in quel periodo.

La scrittura non mi aveva ancora possessivamente rapito il cuore e ancora non l'aveva fatto neanche Maiko.

Si alzò con lentezza, e i suoi occhi grandi mi sfiorarono da lontano con la dolcezza di un bacio d'amore.

Strinsi quel piccolo corpo fra le braccia, accogliendo con gioia il famigliare solletico dei suoi capelli sul mio collo.

La prima mattina in cui mi ero svegliato senza Maiko, Takanori era lì.

Quando avevo scoperto di non essere capace di esternare il mio dolore, lui l'aveva fatto al mio posto.

Avevamo passato una notte intera abbracciati, io muto come una tomba, lo sguardo vuoto, il corpo anestetizzato, lui tremante, scosso da singhiozzi che avevano proseguito per ore prima di sfociare in un flebile lamento e poi in un sonno tormentato.

Il suo silenzio era stato il balsamo che aveva fermato l'urgente emorragia; ma se i danni permanenti non si erano manifestati immediatamente, l'avevano fatto non appena Takanori aveva messo piede fuori dal mio appartamento. Le ferite che mai sarebbero guarite avevano vanificato il suo sforzo con disprezzo ed indifferenza.

Ci aveva messo l'anima nell'intento di esorcizzare i miei ricordi, ma mi rincresce dire che aveva fallito miseramente.

«Perchè non chiami sciagurato?»

Non gli risposi, stringendolo con più forza al mio torace.

Non avrebbe avuto senso dirgli che le ultime due settimane non avevo rivolto parola ad anima viva. Non avrebbe avuto senso raccontargli la pena assoluta del mio ultimo attacco, il buio totale che mi era calato addosso come una maschera. Non avrebbe avuto senso raccontargli che avevo passato un pomeriggio intero a fissare la scatola dei tranquillanti come se contenesse la risposta ad ogni mio problema.

E forse era così...

Ma la codardia mi aveva impedito di porre fine a tutta quella sofferenza.

Non ricordavo neanche la causa scatenante di quell'opprimente strazio.

Forse qualcosa nelle parole che mi ero azzardato a scrivere dopo mesi di ispirazione zero mi aveva ricordato la sua presenza, la sua voce, i suoi occhi.

I suoi occhi che in quel momento mi parvero insignificanti se confrontati alle iridi dello sconosciuto del parco.

Quante volte avevo cercato le parole giuste per descrivere una particolare sfumatura del cielo di settembre? E quante volte avevo rinunciato, limitandomi a rappresentarlo come un banale azzurro-grigio? Quante volte ci avevo provato, mentre gli occhi di quel ragazzo avrebbero rappresentato l'essenza, la sostanza, la natura di quel colore così malinconico?

Avrei fissato quegli occhi per ore in cerca delle giuste parole per scrivere di quel tripudio di cenere e celeste e se queste fossero state troppo in alto per poter essere raggiunte da un diavolo peccatore come me, mi sarebbe comunque rimasta la gioia di aver assaporato per qualche attimo l'angelico tormento nascosto da quel pezzo di cielo autunnale.

Mi sforzai di distogliere i miei pensieri da quella creatura.

Il fatto che gli occhi fossero solamente l'apice di una serie perfetta di incastri e lineamenti meravigliosi...preferii non considerarlo nemmeno.

«Mi manchi sempre da morire quando scompari così.»

«Avevo bisogno di silenzio.»

Si scostò appena da me, il suo volto da ragazzino costretto a crescere troppo in fretta mi apparve in tutta la sua canzonatoria bellezza. Il Ruki del mio primo romanzo portava il suo volto, i suoi occhi fulgidi e brillanti, la sua voce, la sua storia e la sua forte personalità.

«Rispetto il tuo dolore, ma non essere egoista. Lo sai che vivo per lenire le tue sofferenze e che starei ore accanto a te anche in silenzio.»

Chi altri avrebbe avuto il coraggio di rinfacciarmi i miei sbagli?

Tutti oramai mi consideravano come una pericolosa pentola a pressione costantemente sull'orlo dell'esplosione; perfino mia madre aveva paura a parlare in mia presenza. Avrei potuto esigere la Luna che chiunque si sarebbe fatto in quattro per farmela trovare sul tavolo della cucina: le mie reazioni erano considerate imprevedibili come le azioni di un folle.

«Volevo rimanere solo.»

«Finchè avrò anche solo un respiro in gola non sarai mai solo. Te lo prometto.»

Quando Takanori Matsumoto apriva il suo cuore, il mondo intero si fermava ad ascoltare le poesie della sua anima.

Mi afferrò improvvisamente per il colletto del maglioncino, tirandomi all'altezza del suo volto.

«Mi hai promesso di non morire, Kouyou. Vedi di rispettare le tue promesse.»

Uccidermi per perdere così anche l'ultimo affetto che mi teneva in vita? No, grazie.

«Cosa ci fai a Kyoto?» gli domandai facendolo entrare.

«Hanno ingaggiato Shiro-chan in teatro. Siamo momentaneamente dai suoi.»

Shiroganè.

Attuale, unica e -prevedevo- eterna detentrice del cuore di Takanori.

Non esageravo quando pensavo che lui aveva votato se stesso a quella meravigliosa creatura.

Se in un primo momento il fatto che il mio migliore amico passasse con lei buona parte del tempo che solitamente passava con me mi aveva irritato alquanto, attualmente consideravo quel gingillino di donna dal cuore leonino come una sorella minore.

«Ti saluta tanto.»

«Mh.»

Avevo imparato ad amare il silenzio.

Quando si rifiuta ogni genere di contatto col mondo esterno, egli diventa la tua ombra, il tuo braccio destro e il tuo migliore amico. Potevo stare ore steso anche per terra, le orecchie e la mente vuote, per poi accorgermi di aver perso cinque ore della mia vita in quelli che a me erano sembrati cinque minuti.

«Hai preso le medicine?»

Silenzio.

«Non mi servono le medicine. Io non sono malato.»

Takanori mi guardò con quei suoi occhioni enormi. Sapevo cosa sarebbe accaduto. Avrebbe regalato al mondo una delle sue solite perle, fermando il tempo per qualche istante e riducendo ad un amorfo mucchietto di avvilimento e vergogna il mio orgoglio.

«Prima ti renderai conto che hai un grave problema, Kou, prima il tuo mondo ricomincerà a girare nel verso giusto. Fino ad allora ti posso giurare che troverò anche il più spregevole metodo per farti prendere quelle pastiglie.»

Il suo sguardo era affilato come la mala di una sciabola.

La sua rabbia era simile all'onda d'urto prodotta da una bomba all'idrogeno. Distruttiva.

Ingollai le due compresse che mi aveva passato senza emettere un fiato.

Io non ero malato.

Takanori sospirò.

Ci eravamo conosciuti al liceo; era bastato che passassi per caso davanti all'aula dove si teneva un piccolo corso di canto perchè mi accorgessi di lui; in mezzo ad una ventina di voci perfettamente in sincronia, la sua spiccava come un diamante in mezzo al carbone.

Quando ancora non era caduto in quella spirale di depressione e folli pensieri, chiedergli di cantare per me era quasi quotidiano e le poche volte in cui metteva da parte la timidezza per intonare una qualsiasi canzone, il mio cuore danzava a festa sul ritmo di quella voce portentosa.

«Kouyou?»

«Cosa?»

«Vivi, Kou, vivi.»

Abbassò lo sguardo al pavimento, improvvisamente avvilito.

«Ti prego.»




Un desiderio innocente si fece all'improvviso spazio a gomitate dentro la mia mente, mentre sorseggiavamo in silenzio i nostri tea.

Balzai in piedi come una molla e raggiunsi l'enorme vetrata del salotto con una fretta che non avrei potuto mascherare neanche con tutta la buona volontà di questo mondo: sembrava mi avessero punto con uno spillo.

L'acqua sgorgava incessantemente, scivolando vivacemente sul marmo chiaro della fontana; cercai con lo sguardo la panchina davanti la quale avevo investito quel ragazzo.

Perchè non riuscivo a togliermelo dalla testa?

Mi chiesi che effetto facesse scrivere di uno tale umano splendore, mi chiesi se mai sarei riuscito a rendere la bellezza triste e straziante di quel viso a parole, se mai sarei riuscito a rappresentare il colore di quegli occhi angelici.

I contorni delicati di quel volto meraviglioso si tramutarono immediatamente in centinaia di lettere, lettere sparse e confuse che viaggiavano dentro di me con la potenza di un tuono.

Si aggregavano per pochi attimi, formando parole la cui banalità mi colpiva come uno schiaffo, per poi disgregarsi come fumo: avrei potuto tentare di afferrarle, di sottometterle, di domarle al mio volere, di afferrarle con le dita e di piegarle in forme che avrebbero delineato l'essenza di quell'...angelo.

Angelo.

«Kouyou, ti senti bene?»

Takanori aveva delle iridi molto particolari per un giapponese. Un verde-azzurro molto scuro, che pareva quasi illuminarsi quando il proprietario di quegli occhi era preso da forti emozioni: luccicavano quando questi era felice, sfolgoravano quando l'ira se ne impossessava.

Il pianto tramutava i suoi occhi in distese di mare calmo, buio ed avvolgente.

L'antitesi di ciò che erano le iridi dello sconosciuto, fredde, chiare, delle iridi stronze e sprezzanti.

Aoi.

«Kou?»

Gli presi lentamente il volto fra le mani, portandolo a pochi millimetri dal mio.

Amavo alla follia quegli occhi, avrei portato sulla Terra la stella più luminosa del cielo solo per vederli brillare di una luce più sfavillante.

Perchè allora mi parevano così...inadeguati?

Non erano ciò che cercavo.

Ma quando non si ha nulla da cercare, ogni cosa va bene.

Lo sconosciuto non c'era più. Era scomparso e si era portato dietro il cielo d'autunno dei suoi occhi.




Quando Takanori se ne andò mi misi davanti alla macchina da scrivere.

Era una fedele compagna, un'amante che non mi avrebbe mai tradito, che tuttavia trascuravo senza pietà.

Sedetti davanti a lei, accarezzandone lentamente ogni tasto.

Me l'aveva regalata la mia nee-san, Aya. In dieci anni non ci avevo scritto mezza pagina (prediligevo i più tradizionali pennello ed inchiostro), ma ormai quel gingillino occidentale era divenuto parte di me.

Sospirai gravemente, preparando con cura il foglio. Lo feci passare nel rullo, prestando una maniacale attenzione affinché fosse perfettamente diritto. L'avevo fatto un milione di volte, per poi lanciarmi in quelli che Takanori definiva come “sfoghi alfabetici ”: premevo con lentezza ogni singolo tasto, partendo da destra, e la velocità cresceva a dismisura fino a diventare un maniacale pigiar di tasti; riempivo un intero foglio di lettere che per me non avevano alcun significato.

Quando finivo lo spazio, preso da un euforia quasi malata, ciò che il mio piccolo amico chiamava “schizofrenia linguistica”, mettevo da parte la macchina, arraffavo un qualsiasi foglio e il mio fedele inchiostro e lo riempivo esattamente come il suo predecessore.

Così nascevano e si sviluppavano i miei romanzi.

Sospirai, improvvisamente svuotato da ogni volontà.

Le dita sospese sopra la tastiera, mi chiesi cosa avessi voglia di scrivere.

Volevo scrivere di una vita; volevo scrivere di un cammino tortuoso che alla fine aveva visto la sua luce; volevo scrivere di dolore, di morte, di sofferenza; volevo scrivere di speranza, di gioia, di vita.

Aoi.

Non avevo mai imparato a padroneggiare del tutto le lettere dell'alfabeto occidentale, ma quell'unico, denso nome si stampò sulla carta quasi da solo.

Non capivo cosa mi stesse succedendo.

Mi sembrava che ogni singola frammento di anima si tendesse verso l'esterno, alla ricerca di quel colore.

Abbandonai la mia fedele amica all'improvviso e senza l'ombra di un risentimento.

Maiko mi aveva promesso che non mi avrebbe lasciato solo.

Me l'aveva promesso alla fine di quella penosa settimana che aveva sancito definitivamente la mia appartenenza a quella orrida cerchia di malati cronici che i medici chiamavano psicolabili e la gente schizofrenici.

Ma se nei primi mesi mi era stata accanto fedele e devota, perdonando con indulgenza la mia apatia, coinvolgendomi in qualsiasi attività che mi risvegliasse da quella torbida e costante indolenza, c'era stato un momento, doveva esserci stato un momento, in cui aveva deciso di non essere in grado di mantenere la sua promessa.

Mi aveva mentito. E mi aveva abbandonato.

Finchè avrò anche solo un respiro in gola non sarai mai solo. Te lo prometto.

Anche tu mentivi, Takanori?


Continua...


















Note di Mya:


2100 parole per Aoi, 2100 parole per Uruha.


Ebbene sì, ormai quasi al tramonto del Primo Capitolo mi sono decisa ad informarmi un po' sulle disgrazie che avevo deciso di affibbiare a quelle due povere anime in pena....accorgendomi così che ciò che avevo in mente di scrivere è, in poche parole, scientificamente impossibile.

Ciò ha portato all'intera -o quasi- ristesura del capitolo.

Per fortuna sono circondata da persone i cui talenti si dimostrano anche nel rimediare ai miei errori e sono quindi riuscita a dare un'aggiustata generale alla trama, che porterà come diretta conseguenza un bel po' di capitoli in più °-° (e c'è qualcuno che osa definirsi più masochista di me).

Ad ogni modo, qualche velocissima informazione.


La malattia di cui soffre Uruha si chiama depressione maggiore e tendenzialmente comporta:


  • Un persistente umore triste o irritabile,

  • Importanti variazioni nelle abitudini del dormire, dell'appetito e del movimento,

  • Difficoltà nel pensare, della concentrazione, e della memoria,

  • Lentezza dei movimenti o agitazione,

  • Mancanza di interesse o piacere nelle attività che invece prima interessavano,

  • Sensazione di colpevolezza, di inutilità, mancanza di speranze e senso di vuoto,

  • Pensieri ricorrenti di morte o di suicidio,

  • Sintomi fisici persistenti che non rispondono alle cure come mal di testa, problemi di digestione, dolori persistenti.


(http://www.consumerstar.org/resources/pdf/Resources%20in%20other%20Languages/Italian/LaDepressioneMaggiore(Italian).pdf)


Per quanto riguarda Aoi invece, la cecità dalla nascita può verificarsi semplicemente per una malformazione del nervo ottico o dell'encefalo. Non ho trovato nulla di particolarmente specifico; se avrò bisogno di altre informazioni ve le riferirò.


Sperando di aver attinto alle giuste fonti -e soprattutto di averle adoperate nella maniera più idonea-, concludo dicendo che qualora qualcosa non quadrasse mi affiderò a quella bella cosina chiamata licenza poetica e senza la quale io non avrei mai neanche cominciato a pensare di produrre una fic. Giusto per dire.

Dopotutto il mio scopo non è di scrivere un trattato scientifico, ma solo di tormentarmi l'anima e dedicare le mie parole ad Aelite, quindi...


Parlando del bannerinò lassù...non sarà sto granchè, ma io ne sono orridamente fiera.

Sono in assoluto quanto di più lontano ci sia dall'essere un esperta di grafica, infatti per mettere assieme due immagini a sfondo bianco ci ho messo come minimo un pomeriggio intero, escluse le rifiniture, ma ci ho messo del mio.

Poi la proprietaria di questa long ha gentilmente espresso il suo voto a favore e mi ha altrettanto gentilmente fatto capire che se comincio con le seghe mentali mi sbrana quindi...cercherò di limitare le lamentele ammazza-autostima.



Jo, piccola Hime innamorata, grazie mille volte sia per avermi insegnato a mettere le immagini, sia per avermi aiutato col titolo del capitolo, sia per essere sempre così...così Hime.

Grazie.


Aelite, anima mia, tutto ciò che dovresti sapere lo sai.

Vorrei poter trovare le parole giuste per ingraziarti, ma sai che io e Salvatore non ci riteniamo così in gamba.

Sappi solo che ti ringrazio, di tutto.

Grazie, Angelo.




Recensioni:


Jo: Che tu abbia definito ciò che scrivo arte e motivo di gran vanto da parte mia.

E che io ti adori semplicemente ormai lo sanno anche i muri.

Mi fa piacere che ti piaccia l'inizio, la metafora con la musica, l'ho curata particolarmente quel pezzo.

E...non ti preoccupare. Anche se la trascuro, io amo alla follia la tua nipotina, non la abbandonerei mai, per tutto l'oro di questo mondo.

Grazie.


Aelite: Se credi che riuscirò a trovare altre parole per esprimerti tutto il bene che voglio, sappi che caschi male. Non sono abbastanza fantasiosa per trovarne altre.

Ti chiedo solo una cosa, Aelite...non lasciare mai la Terra, ti prego.


Grace: *abbraccia* La tua shot arriverà...non disperare, arriverà u.u

Nel frattempo, ti ringrazio infinitamente per i complimenti.

Grazie mille.


Haha Deneb: Haha un abbraccio fortissimo. Arigatou.


Guren: Io sto ancora aspettando la shot GactkxKai...e anche la long ReitaxKai °-° ...non vorrai far aspettare la tua povera e vecchia mamma in eterno *labbro tremulo*, vero? °-°


Yoake: cuor (mi hai contagiato!)

Per me Uruha è...assurdo, povero! Ma mi risulta proprio complicato! °-°

Un abbraccio, carissima!



Perdona la...come dire, povertà dei ringraziamenti, ma vado proprio di fretta *china la testina*

Gente, vi adoro,

Arigatou.

Mya

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Capitolo 3
*** It sounds selfish, but I still need you. ***






Capitolo Due •

It sounds selfish, but I still need you.




- Uruha -




Improvvisamente spalancai gli occhi, trovandomi sveglio e lucido.

Il soffitto della mia camera, fedele e devoto compagno delle mie crisi, era debolmente illuminato dalla luce che penetrava dalle veneziane. Doveva essere appena sorto il sole, e l'alba filtrava attraverso le stecche in sfacciati raggi rosa e rossi.

Mi alzai lentamente a sedere, portandomi una mano alla fronte.

Nulla.

Emicrania zero, zero dolori articolari. Niente labbra secche, niente bruciori alle palpebre, niente complessiva stanchezza che mi intorpidiva i muscoli. Poi mi accorsi della totale assenza dell'unica cosa di cui veramente odiavo l'esistenza, e la sorpresa fu tale da esigere come minimo una sgranata d'occhi degna di un bambino a Natale e...dei, non lo facevo da quanto?, un sorriso.

Ero...sereno.

Il fatto che Maiko mi avesse abbandonato al mio destino, il fatto che Aya fosse morta e che io dovessi ancora rendermene conto, il fatto che ormai non ricordassi nemmeno il volto delle mie oi, il fatto che Takanori si fosse trasferito fuori città...tutto questo improvvisamente non mi sembrò poi così catastrofico.

Neanche la consapevolezza che la mia malattia mi avesse pian piano isolato dal mondo mi pesava così tanto; sembrava che la morsa allo stomaco che solitamente provavo nel vedere quel dannato flaconcino di pastiglie si fosse sciolta.

Pochi minuti più tardi avrei gioito come un bimbo nel vederlo cadere con un tonfo pregno di pathos dentro al cestino.

Il mio sorriso lievitò come il pane.

Balzai in piedi, arzillo come non lo ero almeno da qualche settimana.

Dopo una doccia veloce, mi infilai rapidamente dei vestiti puliti e mi preparai ad uscire.

La cupa immagine riflessa allo specchio mi fece rabbrividire.

Evidentemente non mi ero reso conto di quanto poco stessi mangiando durante l'ultimo periodo di buio.

Avevo le guance scavate, gli zigomi sporgenti e la fronte aggrottata; me la spianai con le dita e azzardai un sorriso, che forse sarebbe anche risultato convincente senza quelle occhiaie violacee sotto agli occhi.

Pensai con amarezza che era quel grottesco e spaventoso viso che avevo visto Maiko uscendo da casa mia.

Era stata lì, immobile nell'ingresso per parecchi minuti, fissando il mio volto vuoto e freddo; avevo letto indecisione nei suoi occhi, ma a quel tempo non avevo mosso un muscolo per fermarla.

Non mi interessava, decisamente.

Sarebbe solo stato un ulteriore, doloroso tassello da aggiungere all'ordinato e desolante quadro che componeva la mia vita.

Solo quando avevo ripreso coscienza di me, abbastanza giorni dopo perchè Maiko fosse già arrivata a Sapporo dai suoi, la realtà mi era balzata agli occhi, accecandomi. Una mattina mi svegliai...e al posto di Maiko c'era il volto da bambino di Takanori, ancora rigato dalle lacrime.

Tracciai i contorni di quel viso così estraneo, scivolando coi polpastrelli sulla fredda superficie dello specchio.

Sorrisi, questa volta con un po' più di decisione. Ero tornato al mondo.

Kyoto era immersa in una calma surreale: deserte erano le strade, eccezion fatta per qualche anima sperduta e solitaria che vagava in cerca del nulla. Più che altro nervosi lavoratori in viaggio verso una massacrante giornata, o donne stanche di ritorno dal turno nel piccolo policlinico vicino al mio appartamento.

Sembravo l'unico follemente entusiasta della vita, in quella fredda ma solare mattinata.

Non avevo meta, ma non aveva importanza.

Quando non sai dove vuoi andare, qualsiasi luogo va bene.

Aya me lo ripeteva spesso quando era più piccolo.

Quando, ogni mercoledì, i nostri genitori andavano al cinema e Ruriko ne approfittava per uscire col fidanzato, Aya mi prendeva sulle ginocchia e mi parlava. Cominciava col raccontarmi la sua settimana, per poi passare a commentare tutto ciò che accadeva nel mondo e ogni mercoledì sera mi dava la buonanotte sempre troppo presto.

Ogni settimana aspettavo con ansia il mercoledì sera e anche quando raggiunsi un età in cui mi era diventato impossibile sedermi sulle sue esili ginocchia, continuai a stare ore ad ascoltarla parlare. Pian piano quei momenti di mero e entusiastico ascolto si tramutarono nei dialoghi che mi sarei portato dentro in eterno.

Quando non sai dove vuoi andare, qualsiasi luogo va bene.

Ma io sapevo dove volevo andare.




«Kouyou?»

Feci un passo dentro all'appartamento, sollevandola di peso e facendola volteggiare.

«Dei del cielo, Kouyou, mettimi giù!» strillò lei, ridendo e aggrappandosi alle mie spalle.

«Buongiorno nee-chan!» sorrisi, baciandole la fronte. Avevo cominciato ad affibbiarle quel nomignolo fino dalla prima volta in cui avevo visto il suo sguardo timido. L'avevo immediatamente adottata.

L'ingresso era, come al solito, caotico come la camera di un adolescente. Il disordine di Takanori era veramente complicato da arginare...se lo trascinava dietro come un morbo: se entrava in una stanza, puntualmente quella assumeva una parvenza di caos. Anche se lui non spostava gli oggetti che conteneva.

Ne deducevo che i genitori di Shiroganè non fossero proprio entusiasti di avere la coppia in casa.

«Non avrò mica svegliato i tuoi?»

Shiroganè sorrise, passandomi una mano sulla guancia.

«Gli appartamenti non hanno lo stesso citofono, non ti preoccupare.»

La abbracciai di nuovo e lei quasi affogò nel mio torace; sentii le sue manine piccole e curate afferrare la stoffa del maglione.

«Dei del cielo, sei tornato.»

«Perdonami, nee-chan. Perdonami, se puoi.»

Si allontanò con me e in quello vidi il suo volto rigato da una lacrima cristallina. Gliel'asciugai col pollice.

Temevo la furia di Takanori. Nessuno poteva far piangere la sua bimba, nemmeno di commozione.

Shiroganè era una persona forte.

Quando si era messa assieme a Takanori, avevo visto in lei la candidata ideale.

Avevo passato molti anni addossandomi almeno parte di quel dolore sordo che le piccole spalle del mio amico non erano più fisicamente in grado di sopportare. Ero, per grazia degli dei, arrivato in tempo perchè esse non si spezzassero sotto a quel gravoso macigno.

Avevo aiutato Takanori a rialzarsi e l'avevo tenuto per mano finché quegl'occhi verdastri si erano posati su di lei.

Come un amorevole padre che consegna la figlia nelle mani dello sposo, avevo affidato il suo fragile cuore nelle mani di quella graziosa ragazza, la quale si era immediatamente dedicata alla cura di quell'anima tormentata.

Il dolore è più sopportabile, se si porta in due.

«Takachan dorme.»

Shiroganè era piccolina per i suoi quasi trentaquattro anni. Una cascata di capelli neri e mossi e due occhi color nocciola, sopra un sorriso caldo come il fuoco stesso.

«Non si è svegliato?» domandai perplesso.

Inarcò eloquentemente un sopracciglio. «Dovrai scardinare il campanello dal muro, la prossima volta, se vuoi svegliarlo, Kouchan.»

Sorrisi.

Avevo dormito con Takanori abbastanza per sapere perfettamente di cosa stesse parlando.

Sarebbe potuta scoppiare la Terza Guerra Mondiale, che lui non se ne sarebbe accorto. O al limite si sarebbe svegliato sbraitando di fare silenzio, azzittendo di colpo le truppe di tutte le nazioni coinvolte; avrebbe borbottato, prima di rimettersi a dormire come se niente fosse.

Mi condusse nella loro camera. Mi sentii un po' in colpa, quando vidi che indossava ancora la camicia da notte.

«Shiroganè?»

Non usavo mai abbreviativi o suffissi dietro al suo nome. Amavo pronunciarlo per intero e sentirne il suono scivolarmi sulla lingua. Mi rispose con un cenno del mento.

«Che ore sono?»

«Neanche le sei.»

Incassai il volto nelle spalle, ma lei mi posò una manina aggraziata sul braccio. Sembrava una bambina, accanto al mio corpo alto e ben piantato. «Anche alle due di notte, Kou. Quella porta sarà sempre aperta per te.»

La stanza era avvolta nella penombra.

Takanori dormiva spalmato sul letto e occupava -non mi chiesi come facesse con quel corpicino microscopico- entrambe le piazze. Ridacchiammo sottovoce.

«Mi ruba sempre le lenzuola. Facciamo di quelle baruffe la notte.»

Ecco, per me Shiroganè e Takanori rappresentavano la coppia perfetta. Ero convinto che avrebbe continuato ad amarsi con la stessa imponente intensità fino alla fine dei loro giorni.

Senza pensare, mi sedetti sul lato sinistro, accanto al suo volto addormentato.

«Taka?»

Mugugno. Risolino di Shiroganè dalla porta.

Gli afferrai dolcemente una spalla, scuotendolo delicatamente.

«Taka? Takanori?»

Si protrasse in un lungo mugolio, strizzando le palpebre e cercando -nel sonno- di scacciare la mia mano.

«Ora capisci a che teatrino devo assistere io ogni mattina.» bisbigliò ironicamente Shiroganè.

La guardai con un sorriso.

Mi era mancato tutto ciò. Lei, Takanori, quella calda sensazione di famiglia che mi aveva avvolto quando aveva chiuso le sue braccia sottili attorno al mio collo.

Famiglia. Amore.

«Takanori?»

Mi rispose con una sorta di indignato “gnnhh”, prima di voltarsi, attorcigliarsi nelle lenzuola e sbuffare quasi contemporaneamente.

Poggiai un gomito accanto al suo fianco, sporgendomi sul suo corpo. Poi cominciai a soffiargli piano sulle palpebre.

Quasi istantaneamente cominciò a pigolare come un pulcino, accartocciandosi su se stesso.

«Taka, svegliati.»

Socchiuse gli occhi borbottando, sicuramente irritato dal risveglio. Gli ci vollero parecchi istanti per mettere a fuoco la mia persona. Gli sorrisi.

Poi mi chinai, afferrandolo per le spalle e lo feci quasi scomparire in un abbraccio. I suoi capelli deformati dal sonno, come al solito, mi fecero solletico al collo.

«Arigato, Taka. Arigato per tutto quel che hai fatto. Arigato per esserci, arigato per esistere.» gli mormorai rapidamente con voce roca. Temevo avrei perso il coraggio di dirglielo, se avessi aspettato troppo.

Timidamente fece scivolare le mani sulla mia schiena, afferrando quasi convulsamente il mio maglioncino.

Quando parlò, la sua voce era spaventosamente vicina ad un flebile gemito, a metà fra un sussurro rotto dal dolore e un grido di speranza.

«Sei tornato, Kouyou.»




Takanori e Shiroganè erano quanto di più inconcepibile e contrapposto potesse mai venire in mente di mettere assieme.

Tanto lei era tranquilla e silenziosa, tanto lui era iperattivo e chiassoso, lei era timida, lui irriverente, lei ordinata, lui il caos fatto a persona. E l'elenco potrebbe continuare per molto.

Le uniche cose che condividevano erano il loro amore, una preponderanza all'apprensione degna di una mamma chioccia, un terrore quasi ridicolo per la mia moto e la statura.

«Caffè Kou?»

«Senza zucchero, arigato.»

Lei mangiava appena un cracker senza sale la mattina, lui sembrava cercare di infrangere il record di più fette di pane fradicie di marmellata in bocca. Contemporaneamente.

Li adoravo. Senza nessuna riserva.

«Quando potremo leggere qualche altra tua opera?»

Avevo tessuta la trama del mio primo romanzo attorno a Takanori. Mi aveva fornito lui stesso l'idea.

Una notte, noi due soli, ci eravamo infiltrati fugacemente nel complesso dell'università di Tokyo. Lui frequentava la facoltà di Ingegneria Aeronautica, io un corso di Scrittura Creativa. Eravamo ancora due scapoli d'oro, legati da un'amicizia che a molti sembrava quasi insana, sereni, pieni di sogni ed ambizioni.

Avevamo corso a perdifiato come due idioti nei corridoi deserti, ridendo per nessun motivo in particolare. Avevamo poi raggiunto il tetto dell'edifico e ci eravamo messi a guardare il cielo. Non c'erano stelle -troppo inquinamento luminoso- ma quell'enorme tappeto di oscurità ci aveva lasciato senza fiato.

All'improvviso Takanori mi aveva afferrato una mano.

«Scrivi su di me.»

Non avevo capito bene cosa mi stava chiedendo.

«Scrivi un libro su di me. Sulla mia storia.»

E così avevo fatto.

Il mio romanzo era uscito solo un anno dopo. Non aveva scalato le classifiche, ma aveva ottenuto un discreto successo fra il pubblico e la critica letteraria.

Ne ha di strada da fare, ma sa scrivere e le sue idee sono impetuose.

Ero diventato uno scrittore moderatamente famoso e lo dovevo tutto a Takanori.

«Appena mi verrà un briciolo di ispirazione. Fra poco vedrò Shunsuke rincorrermi con una baionetta.»

Ridacchiarono.

«E se scrivessi su di me?»

Lo guardai con un sorriso.

«Ho scritto tutto ciò che c'era da scrivere su di te, Taka.»

Esibì un broncio sorridente.

Sicuramente le parole più soddisfacenti, i complimenti che mi avevano reso più orgoglioso di me e del mio operato, erano state quelle di Takanori.

Quel libro sono io. Aveva mormorato dopo aver letto l'ultima parola, con due occhi immensi e liquidi.

«Che fate oggi?»

Avevo voglia di passare del tempo con loro. Volevo sperare ancora di non aver distrutto con la mia apatia quanto di meraviglioso avevamo condiviso noi tre.

Il mio migliore amico, compagno di mille notti tormentose, fedele alleato e feroce guardiano della mia salute e serenità, mi guardò e quegli occhi si imposero con prepotenza sullo sguardo color cielo dello sconosciuto. Di Aoi.

Furono pochi istanti.

Quegli occhi verdastri che tante volte mi avevano convinto ad amare la vita, mi promisero il loro appoggio e il loro amore fino alla fine dei miei giorni e io li ringraziai con il sorriso più luminoso che fossi capace di fare.

Pochi istanti, e poi quelle iridi autunnali spinsero da parte quelle del mio amico, si affermarono nuovamente -e con pochi sforzi- sullo sguardo da bambino di Takanori.

Il mio sorriso tentennò.

«Porto Shiroganè in teatro e poi sono tutto per te.»

Chissà dov'erano adesso quegl'occhi, chissà su cosa -o su chi- erano puntati come fari in mezzo all'oceano notturno.




Takanori mi afferrò improvvisamente la mano e io ebbi la reminiscenza di quella notte di quasi dieci anni prima, della sua voce e del cielo notturno che ci copriva come un manto di buio.

Guardava fisso davanti a sé.

Shiroganè era appena scesa, lasciando una scia di profumo delicato, una carezza sulla mia guancia e un bacio sulle labbra di Takanori.

«Mi sei mancato da morire.»

Mi chiusi dentro al mio silenzio, arrossendo.

«Ti vedevo...come spento, come morto e non potevo farci niente.» abbassò lo sguardo sul volante, incupendosi «Non mi sono mai sentito così inutile.»

Gli posai una mano sul braccio.

Takanori era stato sfortunato.

Gli dei erano stati impietosi e spietati con lui e fin dal primo istante in cui avevo visto quelle iridi sul punto di spegnersi, avevo giurato che mai avrei permesso che nessuno anche solo cercasse di ferirlo.

Ne aveva passate abbastanza.

Crudele scherzo del destino, alla fin fine ero stato io la causa di ulteriori tormenti.

«Perdonami.»

Mi rispose con uno strano sorriso.

Eravamo stati in giro per tutto il giorno. Non ero in grado di spiegare la gioia che avevo provato nel capire che per lui non era cambiato niente, e che non sarebbe mai cambiato niente; avrebbe continuato a volermi quel bene che sfiorava l'amore anche se l'avessi ucciso con le mie mani.

Se tu mi uccidessi, morirei sorridendo e dicendoti che ti voglio bene.

A volte mi chiedevo cosa ci stava a fare in quell'ufficio, quando ogni volta che apriva bocca fermava il tempo.

«Non hai fatto nulla che meriti le tue scuse, perciò sorridi, Kou.»

Gli ubbidii.

Non lo meritavo, e lo sapevo perfettamente.

O forse era lui che meritava di meglio, chi lo sa.

Takanori era un miracolo, una stella un po' offuscata che aveva deciso di sprecare quella poca luce fioca per illuminare la mia vita. Io dal mio canto, demone peccatore ed avaro, non facevo altro che bearmi del calore di quella luce, esigendone sempre di più e dando per scontata la sua presenza.

L'inferno non era il regno delle fiamme, come tutti pensavano.

L'inferno era freddo, ventoso, una perenne burrasca, una costante tormenta di schegge di neve.

Mi riaccompagnò a casa mentre il sole cominciava pigramente a calare, assumendo quel colore rossiccio che tanto amavo.

«Mi prometti una cosa, Kou?»

Infilai nuovamente la testa dentro la macchina.

«Qualsiasi cosa.»

«Un messaggio, uno solo al giorno. Lo capisco se non vuoi parlare, ma ti chiedo un solo messaggio. Ti prego

Sorrisi, sedendomi nuovamente al sedile del passeggero; poi mi sporsi oltre il cambio, lo afferrai per una spalla e me lo strinsi al corpo.

«Mi stai strizzando come un orsacchiotto.»

Sghignazzai.

«Arigato, Taka. Te lo prometto.»




Kyoto era immersa nella flemma.

Era la fotocopia del patinato giorno prima e ogni dettaglio era al suo posto, identico al paesaggio color pastello che avevo fotografato meno di ventiquattrore prima.

C'era tutto.

Compreso lui.

Era seduto sulla panchina davanti alla quale l'avevo investito, vestito nuovamente di nero.

Mi prese un folle batticuore, che mi rimbombava nelle orecchie come un tamburo.

Erano lì.

Quegli occhi e l'intensa bellezza che li circondava erano lì, quasi splendenti nel rossiccio tramonto appena accennato.

Dei del cielo, l'avevo ritrovato. Avevo ritrovato Aoi.








- Aoi -




Non avevo sognato nulla quella notte.

Non che fosse strana la cosa. Io non sognavo mai. Percepivo delle presenze, dei sapori, dei suoni, degli intimi e caotici pensieri, ma non avrei mai potuto riprodurre a parole ciò che vedevo.

Avevo paura di svegliarmi, e ogni sera andavo a dormire con l'intima ansia di non riuscire ad alzarmi la mattina dopo. In fondo, come avrei potuto accorgermene? Come, se la vista del Sole e delle cose terrene mi era preclusa?

Avrei potuto credere di dormire per sempre...o di essere sempre sveglio. A parte un offuscamento generale della mia mente, che mi faceva confusamente capire che ero sprofondato in un oblio più scuro di qualsiasi buio che mi avesse mai avvolto, raramente riuscivo a carpire la sottile linea fra sonno e realtà.

Complice di ciò, il dolore che mi attanagliava sordo il petto, mi allietava come una terribile e suadente fiera.

A che pro svegliarsi ed affrontare la dolorosa consapevolezza di essere solo, quando potevo rimanere immerso nei miei sogni informi colmi di una piacevole quanto apparente pace?

«Yuu?»

Se ogni mattina Ryo non si fosse preoccupato di riportarmi al mondo, temevo che i contorni di tale linea si sarebbero pian piano offuscati, fino a perdere nitidezza. Spesso avevo il terrore che si dimenticasse semplicemente di venire a svegliarmi. Sarei rimasto ore in uno stato di veglia, sospeso in un limbo che non era né vero né fittizio, incapace di capire dove mi trovassi, finché piccole cose (uccellini che cinguettavano, macchine in strada che rombavano) si sarebbero affermate con arroganza nella mia mente, facendomi capire che c'ero.

«Yutaka?»

«Sei sveglio?»

«Hai.»

La porta cigolò famigliarmente e sentii i suoi passi leggeri sul parquet.

Si stese lentamente accanto a me, cercando il mio corpo con le mani. Mi accoccolai fra il calore delle sue braccia, appoggiando la fronte sotto al suo mento. Respirò piano fra i suoi capelli.

Gli dei erano stati crudeli con me.

Mi avevano fatto un dono raro e prezioso, ma nello stesso tempo mi avevano dotato dell'impossibilità di goderne.

Mi avevano concesso di poter vedere al di là del concreto, ma mi avevano anche corredato di un egoismo e di un'avidità senza pari.

Erano stati molto ingiusti con me.

«A cosa stai pensando?»

Odiare Yutaka mi era stato da subito impossibile.

Era impossibile non amarlo, impossibile non innamorarsi della sua voce calda e del sorriso che spesso e volentieri mi concedeva di tracciare con la punta delle dita. La forma di quel sorriso c'era sempre, quando ne avevo bisogno.

Non biasimavo Ryo se se ne era innamorato così sfrenatamente.

Ammetto che se non fossi stato già completamente votato ad un altro essere vivente avrei rischiato anche io di cadere in quella dolcemente vischiosa trappola; Yutaka si faceva amare anche stando in silenzio e fermo al suo posto.

Era qualcosa che sfiorava il paranormale, ma tutti si rendevano conto di avere a che fare con un Angelo, non appena gli passavano accanto.

«A niente in particolare.»

Non mi faceva mai pesare le mie bugie. Sapeva quando insistere e sapeva quando lasciare perdere.

Sapeva quando il silenzio diventava così opprimente da soffocarmi e quando era l'unico rifugio sicuro in cui potevo raccogliermi a leccare le mie ferite sanguinose. Ed era abilissimo, nel primo caso, a riempire quella cortina minacciosa con parole intrise di amore ed affetto e dolcissimo, nel secondo, a lasciarmi ai miei pensieri.

«Cosa fai oggi?» gli chiesi in un bisbiglio.

«Sono in clinica.»

«Mh.»

Avevo smesso di andare in clinica mesi prima. Oramai padroneggiavo perfettamente il Braille.

I fondatori dell'associazione mi avevano fornito dei contatti con varie aziende specialistiche che avrebbero potuto offrirmi un lavoro, che avrebbero potuto offrirmi la parvenza di una vita normale. Ma non ne avevo chiamato neanche uno.

Non sarei riuscito a lavorare neanche se l'avessi veramente voluto.

Nessuno aveva mai capito il motivo, ma, a differenza di quelle centinaia di individui cechi dalla nascita che semplicemente prima o poi trovavano il modo di convivere con quella mancanza, io non ci avevo mai, mai, fatto il callo. Non appena ero stato abbastanza grande (intorno ai sette anni) per capire che il buio che vedevo non era la normalità... Da lì era cominciata la mia fine. Ero diventato voglioso di sapere, di vedere ciò che mi era precluso.

Lo sapevo di essere avido, troppo avido. Volere tutto e subito non mi portava e non mi avrebbe portato da nessuna parte.

Ero conscio del fatto che la mia bramosia mi avrebbe condotto solo all'autodistruzione, ma era un ingranaggio fin troppo ben levigato per pretendere che smettesse di funzionare da un giorno all'altro.

Avrei dovuto essere determinato, volenteroso e coraggioso per lasciarmi alle spalle le convinzioni di anni e anni di dolore, ma era fin troppo facile arrendersi e pensare che se non fossi stato cieco Ryo sarebbe stato ancora mio.

«Yuu...?»

Trasalii. La voce di Ryo, di nuovo calda e avvolgente come lo era sempre stata e non furiosa e glaciale come la scarica che mi aveva ferito il giorno prima, mi accarezzò senza sfiorarmi.

«H-hai?»

Yutaka mi lasciò un bacio sulla guancia, prima di alzarsi lentamente. Lo sentii sussurrare qualche parola a Ryo (parole che mi guardai bene dall'origliare) e il rumore del bacio che si scambiarono mi diede la nausea.

Quando Yutaka si richiuse la porta alle spalle, mi alzai lentamente a sedere sul letto, tastando con indifferenza il mucchietto ordinato di lenzuola; gettai i piedi giù dal letto, sfiorando con le piante il parquet.

Ryo mi aveva spesso detto, scherzando e scompigliandomi i capelli con una risata sulle labbra, che quando dormivo sembravo un morto. Stavo immobile, se mi addormentavo in una posizione raramente mi svegliavo spostato anche solo di pochi centimetri. Con amarezza pensai che fino a pochi anni prima la mia immobilità scendeva a patti con la sua assoluta irrequietezza notturna: non ero capace di lasciarlo neanche quando dormivamo (e quindi quando lui ingaggiava quelle pseudo battaglie contro il suo cuscino) e mi spostavo attorno a lui come un satellite attorno al suo pianeta.

Si avvicinò con passi lenti e prese posto poco lontano da me, affossando leggermente il materasso.

«Hai...dormito bene?»

«Come al solito.»

Cadde il silenzio, un silenzio che, stranamente, mi rilassò. Sentivo il suo respiro accanto a me e se avessi teso una mano l'avrei trovato. Non era proprio ciò che volevo, ma avrei saputo accontentarmi.

«Ti devo delle scuse, Yuu, ma dubito di essere capace di trovare le parole adatte.»

Sorrisi amaramente. Non erano le sue scuse che volevo. Né la sua compassione.

Volevo solo che tornasse a toccarmi, a cercarmi, a farmi sentire la sua presenza.

Non era proprio ciò che volevo, ma avrei saputo accontentarmi.

«Preferisco una promessa.»

«Qualsiasi cosa, Yuu. Qualsiasi

«Sono due anni che mi eviti, Ryo. Giurami che non lo farai più.»

Rimase in silenzio per qualche istante. Quando finalmente parlò, la sua voce era timida.

«Ma io...» lasciò cadere la frase. Si potevano dare diverse interpretazioni a quel tono timoroso, e io scelsi accuratamente quella che avrebbe piegato la conversazione in modo da darmi finalmente l'occasione di sputar fuori ciò che anelavo di dirgli da almeno due anni.

«No. Ci siamo lasciati Ryo, non è l'amore quello che ti chiedo.»

Feci una pausa, accompagnandola con un gran sospiro.

C'era una possibilità di salvare il salvabile? O stavo portando i fragili resti di quel rapporto dritti verso la distruzione totale?

«Cosa desideri, Yuu?»

«Te... La tua amicizia.» aggiunsi in fretta, sentendo le guance avvampare «Tutto, tranne che l'indifferenza con cui mi hai trattato. Voglio che mi parli come facevi prima, voglio che scherzi con me, voglio sentirti ridere anche quando entro io in una stanza, voglio...voglio...» annaspai, improvvisamente in difficoltà «...ti prego, Ryo...» mormorai con la voce sottile.

Non dovevo piangere.

Volevo solo tornare a vivere una parvenza di vita normale e senza Ryo non avrei potuto compiere neanche un minimo tentativo.

Avevo bisogno di lui. Senza nessuna via d'uscita.

Il mio cuore cominciò a dare di matto non appena le sue braccia si chiusero protettive sulle mie spalle. Due abbracci in due giorni erano decisamente troppo per quell'informe globo di carne, per quell'inutile muscolo ormai putrefatto dal tempo e da lui che, nonostante tutto il dolore, assolutamente contro ciò che la ragione ordinava e contrastando ferocemente ciò che io volevo, continuava a considerare Ryo come l'unica cura, l'unico dio e l'unica ragione della sua vita.

Rimanemmo abbracciati per parecchi minuti.

Calore, finalmente. Sorrisi.

«...non ti azzardare ad uscire dalla mia vita, Yuu. Non lo fare mai. È egoista da dire, ma ho ancora bisogno di te.»

Non sei l'unico, Ryochan.

Il mio sorriso lievitò come il pane.

Non sarei stato capace di fargli del male neanche se avessi voluto.

«Te lo giuro, Ryo.»




«Vuoi che ti porti da qualche parte?»

Alzai il viso dalla mia tazza di caffè, smarrito.

Dove...?

«Sono qui.»

Ryo mi prese il volto con delicatezza, facendo una leggera pressione perchè mi voltassi. Potevo sentire il suo sguardo scavarmi l'anima ed arrossii impercettibilmente.

Mi ricordavo come se fosse stato il giorno prima quando, appena ventenne, gli avevo pregato di...indirizzare il mio viso verso il suo ogni qualvolta mi avesse parlato ed io avessi sbagliato orientamento. Mi sembrava di poter vedere i suoi occhi sottili e sensuali da pantera in caccia.

«Dove mi dovresti portare?»

Gli avevo poggiato una mano sulla spalla, l'altra me l'aveva presa lui, così lo sentii fare spallucce.

«Dovunque tu voglia.»

Sentii un risolino, evidentemente Yutaka era in ascolto.

«Dei, vi adoro.»

Solo Yutaka era capace di fermare il tempo così.

«Rimanete sempre così, vi prego.»

Stupido cuore.

Sentii Ryo sbuffare una risata. Non era mai stato così sereno, da quando avevo memoria di lui.

«Allora, vuoi andare da qualche parte? Porto Yutaka in clinica, poi vado a lavorare...ti passo a prendere più tardi dove vuoi, che ne dici?»

Avrei voluto fare visita a mio padre, a mio fratello Minoru, a mio sorella Shiroganè... Magari anche andare a posare qualche fiore sulla lapide di mia madre. Da quando era morta non c'ero andato una sola volta.

«Tieni conto che starò via fino alle diciotto.»

C'era un solo posto al mondo dove avrei potuto stare in pace e sereno per dieci ore, un posto dove avevo trovato la ragione della mia vita, che avevo desiderato poter risentire centinaia di volte, un unico posto dove mi sarei per sempre sentito a casa.

«Al parco.»




«Aspetta un attimo.»

Avevo già la mano sulla maniglia.

La sua voce aveva un nonsochè di...malinconico, quasi di colpevole.

«Cosa?»

Sentii le solite due dita sotto al mento girare il mio volto verso il suo. Ero stato capace di svicolare da un suo bacio (solo pochi mesi prima l'avrei giudicata una follia), ma niente avrebbe potuto darmi la facoltà di decidere di non seguire quell'invito.

Era capace di piegare la mia volontà con sole due dita.

«È per quello che ti ho detto stamattina.»

Inghiottii a vuoto.

D'un tratto sentii il frenetico bisogno di avere Yutaka accanto a me. A volte, scherzando noi due soli distesi mollemente l'uno sopra l'altro, gli dicevo che lui era il mio oppio.

Mi calmava i nervi, mi distendeva i muscoli e mi svuotava la mente; era capace, e l'avevo sempre ammirato per questo, di evitare abilmente tasti dolenti, come io cercavo di schivare un si stonato del piano, il cui martelletto era stato rovinato dal tempo e dal suo precedente padrone.

Non parlava mai di Ryo, come raggiravo quel si. E quando ne parlava faceva in modo che il dolore che mi tormentava la mente e il cuore fosse represso e lenito da una sua carezza. Esattamente come io soffocavo quel si dentro ad un accordo o ad un abbellimento.

Inutile dire che ad un ascoltatore attento come Yutaka era, quel si stonato e malvisto dai suoi compagni strideva come gesso su di una lavagna, nonostante tutti le giravolte musicali che compievo per sottometterlo.

«Volevo solo mettere in chiaro una cosa.»

Lo sapevo che era troppo bello per essere vero.

«Non ho di certo la presunzione di pretendere che tu mi perdoni in due minuti.»

Non capivo dove volesse arrivare; le sue dita scottavano quasi quando scivolarono leggere sulla mia guancia, in una carezza che pareva incendiarmi la pelle.

«Credevo che la cosa migliore per entrambe fosse uscire l'uno dalla vita dell'altro, ma mi accorgo che non è possibile.»

Mi baciò di nuovo, nell'arco di ventiquattrore. Le sue labbra furono pure fiamme sulle mie, bruciarono il mio respiro e conseguenzialmente ogni singola cellula del mio corpo.

«Perdonami se puoi, ti supplico. So che non è giusto nei confronti di Yutaka, sto solo scegliendo il male minore.»

Il male minore.

Essere trafitto da milioni di schegge di vetro gelide come le nevi perenni...era il male minore?

«Per chi? Per te?»

Lo sentii sospirare.

«Tu ami Yutaka...» mormorai incredulo.

Loro si amavano, si completavano e si appartenevano. Erano...erano loro, non più due entità diverse, erano una cosa sola.

«Sì, lo amo. Ma non posso lasciarti solo...»

Sbuffai una risatina amara. L'hai già fatto, Ryochan.

«Lo stai facendo per me? Non ho bisogno della tua compas-»

Mi chiuse le labbra con due dita. Sempre due, maledettissime dita.

«Yuu, io non sono una brava persona, non sono generoso, non sono altruista. Lo sto facendo per me

Sorrisi. Una coltellata di gelido dolore mi squarciò il torace.

«È egoista anche questo, Yuu...ti prego, cerca di capirmi.»

Non solo lo capivo, io lo capivo perfettamente.

Lui amava Yutaka.

E Yutaka amava lui, alla follia.

Lo sto facendo per me.

Dei del cielo, non ero arrabbiato con lui. Perchè cazzo non riesco a odiarlo?

Un secondo sospiro mi sfiorò le labbra.

«Se il prezzo per averti è» deglutii «ferire Yutaka...non ti voglio, Ryo.»

Ferire Yutaka.

Mi aveva dato la vita, aveva preso fra le mani il mio cuore malconcio e l'aveva curato con amore e dedizione, lenendo le sue ferite e aiutandolo a cicatrizzare.

Non si morde la mano che ti nutre.

Mi scostai da lui. Non riuscivo ad odiarlo.

Avrei voluto stare con lui più di qualsiasi altra cosa al mondo; questo desiderio era più intenso della bramosia di vedere, più potente del timido e surreale sogno di poter riabbracciare mia madre, più radicato dell'istinto di sopravvivenza.

Volevo lui oltre ogni limite possibile. E mentire mi feriva, ma non potevo fare altro.

Yutaka mi aveva tolto tutto.

Con le lacrime agli occhi, solidale al mio dolore e portatore di un senso di colpa nei miei confronti che mai nella sua vita l'avrebbe abbandonato, ma mi aveva tolto tutto.

Ciononostante ero del tutto incapace di rendergli il gesto.

«Non ti voglio.» mormorai con un sorriso d'amarezza, prima di afferrare la maniglia e scendere dalla vettura.




Col senno di poi, affievolitasi l'eccitazione, ripensai moltissimo a quell'incontro.

Quella voce roca e bassa mi confondeva, il rumore basso e pacato del suo respiro mi rendeva ostico concentrarmi su ciò che mi circondava.

Il mio mondo era fatto di voci, di suoni e rumori, ma lui mi faceva perdere il senso delle cose; ottenebrava il mio mondo e mi rendeva capace di ascoltare solo quel particolare vibrare di corde vocali.

Mi portai quasi inconsciamente una mano alla gola.

«Scusa...»

Già dal primo, fioco bisbiglio mi resi conto di averlo ritrovato.

Io non sognavo, ma quella voce aveva riempito la mia notte con il suo timbro basso e roco.

«Hai?»

«Mi chiedevo se...potessi sedermi.»

Aggrottai le sopracciglia.

Cosa...?

«Certo.»

Le suole delle sue scarpe scricchiolarono sulla ghiaia, mentre lui si abbandonava accanto a me con un profondo sospiro.

La sua voce.

Avrei potuto mettere una mano sul fuoco e giurare agli dei che quella era la sua voce. La notte prima mi ero addormentato colmo d'angoscia, perchè non ero riuscito a riportare alla mente il suono delle sue parole, ma non appena aveva aperto bocca mi ero reso conto che era lui.

Ma era...diversa. Più...fresca, più limpida, il sordo dolore che avevo sentito pulsare il giorno prima era scomparso.

Era lui.

Sorrisi.

Avevo ritrovato la voce dei miei sogni.


Continua...


















Note di Mya:


Buon compleanno, Aelite.

2660 parole per Uruha e 2660 parole per Aoi.


Questo capitolo...mi è costato tanto.

Ammetto di essermi sentita un po' spaesata quando mi sono resa conto di essermi lanciata in un progetto che mi tiene sul filo di un rasoio...questo, ovviamente, dopo aver già postato prologo e primo capitolo.

Ma questo è un altro paio di maniche. Piuttosto strette e fastidiose, ma decisamente altre maniche.


Parliamo di Ruki:

Aelite: Per me “imprevedibile”, associato a chiuso, taciturno e serio, è Takanori. Ruki invece è perversione e voce che fa tremare il sangue. E sanguinare il cuore.

Mya: Allora, Takanori è un bel mistero. Ruki è...pervertito fino al midollo, sensuale, con una voce che potrebbe spaccare il mondo in due. Takanori...è diffidente, asociale e assolutamente terrorizzato di perdere i GazettE. Se ci pensi, da quando i suoi l'hanno disconosciuto quei 4 sono la sua famiglia. Certe volte me lo immagino che si sveglia nel cuore della notte in un bagno di sudore, nel panico, pensando che tutto sia solo un sogno.


Una conversazione estremamente interessante direi.

Ed è venuta fuori giusto perchè io mi stavo lamentando di quanto Uruha sia inscrivibile e inscrittibile e Aelite ribattevo che è tanto spontaneo e umile, caro...

Dovrei scrivere tante cose, qui di seguito, ma aspetto il momento in cui ce le avrò chiare in testa, prima di esporle.

Di nuovo, mi accorgo che quelli che credevo divinità dalla vita perfetta sono, alla fin fine, umani.

E la cosa non è sempre molto piacevole.


Per quanto riguarda Takanori credo che oramai sappiano tutti la sua storia.

E non credo di essere l'unica a credere che quell'uomo è terrorizzato dall'idea di perdere i GazettE.

Beh, dal momento che questa è una AU, trasportate questo concetto al solo Kouyou. Capirete almeno in parte ciò che lega quei due.


Per quanto riguarda, invece, Shiroganè...

Non so nemmeno se è realmente un nome femminile giapponese. L'ho letto da qualche parte su Internet, non ricordo neanche riguardo a cosa, e me ne sono subito innamorata. Ha un suono molto elegante e un pizzico occidentale, e mi piace molto.

Effettivamente non so se sia presente l'accento finale...ne dubito, perchè da che mi risulta la lingua giapponese con ha accenti grafici ma...boh. Prendetelo con le molle, quel nome.


Mi sono accorta che potrebbero sorgere delle incomprensioni al riguardo...Kouyou non è affetto da bipolarismo.

Il bipolarismo è molto più grave della depressione maggiore e si manifesta con sintomi molto più violenti.

Tuttavia, come il bipolarismo, anche la depressione maggiore colpisce in determinati periodi; si continua a condurre una vita normale, ma ci sono dei periodi più o meno lunghi in cui il malato presenta i sintomi elencati nel capitolo precedente.

Mi sono accorta che poteva risultare poco chiara la cosa.

Gli affetti da questa patologia assumono dei farmaci, alcuni con nomi anche molto complessi (la pagina che ho citato nel capitolo precedente ne spiega molto chiaramente l'uso e l'effetto), ma ho preferito parlarne molto generalmente.



Per quanto riguarda Aoi, invece, il Braille è quel codice di...non so come definirli senza risultare un'ignorante, puntini in rilievo.
Mi sarà utile nella stesura dei prossimi capitoli, quindi riferirò ogni notizia interessante.



Aelite, gioia mia, auguri.

E, cazzo, grazie, grazie mille volte.




Prossimi progetti, così mi faccio un po' di pubblicità:

Dunque! Postato questo terzo capitolo di Yami no Hikari, mi darò alla stesura della parte finale di una shot che aspetta di venire alla luce da...uhm, più o meno quando ho conosciuto Jo, quindi...luglio?

Di seguito alla shot cercherò di portare avanti le altre due figliuole in crescita, ovvero Sekai wa Mawaru e La Lista dei Desideri.

A poi c'è anche la piccolina etero che devo scrivere per Riot, e ultimamente una figliola a caso mi ha fatto venir voglia di scrivere una shot sporcella (Guren, è tutta colpa tua ndt).

Ah, poi...beh, c'è un mezzo progetto (una mezza verità...in realtà il progetto è intero e già completo, praticamente) per una raccolta che sarà legata a Miseinen (sempre detto che non sarei mai riuscita a staccarmene), una raccolta di spin off di quelle shots.

È qualcosa a cui tengo tantissimo, un progetto che vorrei riuscisse nel migliore dei modi, perciò ho deciso di dedicarmici quando avrò completato almeno due delle long.

Infine, ho in progetto un'altra raccolta, questa volta non a tema come Miseinen, ma che egualmente mi entusiasma molto.

Questo progetto potrebbe venire alla luce molto prima del suo gemello.




In realtà non ho molto altro da dire.

Strano, di solito le mie note finali si protraggono all'infinito, annoiando a morte gli sventurati lettori...ma per questo capitolo posso farne a meno.

Quindi passo subito ai ringraziamenti, magari mettendoci un po' più di cura dell'ultima volta (perdonatemi ero di fretta e di cattivo umore!):



Aelite:

Non odiare Reita, gioia mia, ti ho detto che si riscatterà...probabilmente dopo questo capitolo lo odierai il doppio, ma...non farlo.

Non se lo merita, povera stella. (Oh, io starò benissimo! -.-”)

Beh, che dire, il cinque le abbiamo passate tutte. Tutte.

Fra Cristoforo Colombo, i piccioni che sono molto molto Aoi, la matita che...che fine ha fatto la matitina?

Ad ogni modo.

Spero di riuscire...non so come dire, te lo devo dire su msn, che non trovo le parole.

Grazie per la recensione, per il supporto e per aprirmi sempre gli occhi, anche solo con una frase.


Guren:

Nooo, che tristezza...persa persa?

Io mi ricordo ancora quella telefonata fenomenale...mi hai fatto tanto ridere che non hai un'idea xD

Oh, a proposito...la tua ultima flash mi ha conquistato, sappilo. È una piccola meraviglia, la amo.

Ad ogni modo...la scena del volto di Aoi scomposto in lettere mi ha lasciata perplessa. Io che l'ho scritta *si spadella la testa*

Grazie per la recensione, grazie per tutta la dolcezza e tutte le risate che mi susciti.

Grazie piccolina <3


Ayachan:

Grazie per i bei complimenti, grazie davvero ^^

Sono contenta ti piaccia...spero che anche questo capitolo sia stato all'altezza,

un abbraccio!


Jo:

Dove sarei se non ci fossi tu? Dove sarei?

Dio, ti voglio così tanto bene. Ma così tanto.

Se non ci fossi tu non saprei cosa fare. Sul serio.

Aspetto con ansia quest'estate. Giuro sulla mia Angie che quest'estate vengo da te e ti abbraccio per venti minuti si seguito solo per cercare di ringraziarti per quella serata.

Grazie, mia piccola Hime, grazie.


Grace:

Madre, tu a volte dovresti essere censurata.

Ma dico davvero. A volte sei...assolutamente assurda.

Dei, ma mi fai così ridere! E ti voglio così tanto bene!

Con chi, se non con te, sarebbero venuti fuori i Gaze/Village People? Se non sono morta allì'immagine di Aoi indianon, non morirò più xD

Ma sai che, adesso che ci penso, io Kouyou operaio sporco e sudato l'ho già descritto in Bitches&Queen? Accontentati, per Diana!

Un giorno di questi vengo veramente giù a Bari ad abbracciarti...

Un bacio!


Narah:

Una luuuuunga fase di stallo * si nasconde*

Mi spiace. Sekkai...ha bisogno di una pausa. È stampata tutta in testa, ma ho bisogno di allontanarmene per un po'.

Beh, che dire, imprevedibile, mi piace. Dal momento che neanche io sono alla perfezione dove andrà a finire questa long (se non in linee molto generali)...sarò doppiamente imprevedibile.

Oh, non ti preoccupare...e non ti preoccupare di disturbare, assolutamente :)

Un abbraccio, felice di risentirti.


Yoake:

*cuor* xD

Non ti preoccupare per il ritardo, assolutamente!

E...beh, grazie per i complimenti. Da una che scrive come te, sicuramente mi rendono molto fiera!

Grazie *abbraccia* grazie mille!



E per finire, vi lascio con un consiglio spassionato.

Figliuoli, siate Aoi.

Mata ne.

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Capitolo 4
*** I can't see. Did you forget it? ***











Capitolo Tre •

I can't see. Did you forget it?




- Uruha -




Aoi scoppiò a ridere, di un riso cristallino e contenuto.

«Sono solito ricordarmi delle persone che mi investono.»

Arrossii, ma per fortuna lui guardava da un'altra parte. Dal momento in cui avevo preso posto accanto a lui, non mi aveva degnato di un solo sguardo. Aveva continuato a fissare il nulla davanti a sé, negandomi la vista di quegli stralci di cielo.

Chissà, forse era timido.

Anche Takanori era timido. Una timidezza quasi patologica, che prendeva la forma di una maschera di ghisa che appesantiva i suoi lineamenti da ragazzino rendendoli sciupati come un foglio stropicciato.

Gli osservatori meno attenti la scambiavano per superbia o alterigia.

Takanori era così timido ed insicuro che non appena si era reso conto della mia impulsiva ed irruenta curiosità nei suoi confronti, si era spaventato da morire, fuggendo come si trovasse di fronte al demonio.

Mi ci erano voluti anni di appostamenti clandestini e di pazienza per conquistare la fiducia di quel ragazzo che diffidava e disprezzava perfino la sua ombra, e quei continui attacchi di abulica indifferenza rischiavano ogni volta di farmela perdere.

«Mi chiamo Kouyou.»

«Yuu, molto piacere.»

Mi stupii che possedesse un nome così... terreno.

Non che fosse inadeguato. Dei, l'aveva pronunciato e subito mi era sembrato che non potesse chiamarsi in altra maniera e che qualsiasi diverso appellativo sarebbe risultato banale e sgradevole.

No, Yuu gli calzava a pennello.

Solo mi stupii stupidamente del fatto che ne possedesse uno umano.

Yuu e Aoi si sovrapposero all'interno della mia mente, formando un nome nuovo che aveva il suono di una nota, malinconica come l'azzurro dei suoi occhi. Ne conoscevo così poco di musica (quel poco che sapevo risaliva alle disastrose lezioni di piano che avevo preso a dodici anni) che non seppi neanche riconoscere vagamente di quale nota si trattasse.

Amavo la musica, di un passione sfrenata, ma se mi fossi fermato a cercare di afferrarne il senso, l'ordine in mezzo a quell'intreccio preciso di note e strumenti, mi sarei perso.

Non riuscivo a distinguere la linea del basso in una canzone, ma percepivo la mancanza preponderante di un sostegno sulla quale chitarre e voce potessero appoggiarsi, quando quella mancava; sapevo che c'erano delle regole alla base, ma non capivo come certe combinazioni di accordi mi dessero le lacrime agli occhi da quanto erano perfette, non capivo, semplicemente.

Mi abbandonavo al piacere, senza pensare.

Non mi tese la sua mano per stringerla, non fece neanche l'abbozzo di un cenno col mento.

Cominciai seriamente a pensare che la mia compagnia gli risultasse sgradevole.

Arrossii senza riuscire ad impedirmelo.

Nel periodo in cui mi ero messo in testa di pedinare Takanori anche in bagno, non mi era mai passato per la testa che il mio tormento potesse in qualche modo infastidirlo. C'ero io, c'era lui e in mezzo a noi una cinta di paura e timidezza, che io avevo cominciato ad abbattere, senza preoccuparmi che lui, dall'altra parte, potesse in qualche modo essere seccato o impaurito dalla mia esuberanza.

Lanciai una fugace occhiata a Yuu.

Non mi ricordavo una così perfetta armonia di lineamenti, dal giorno prima, forse perchè, nel mio stato di apatia, avevo notato solo gli occhi, che brillavano come due stelle in mezzo al petrolio.

Portava i capelli lunghi, lisci e scuri come sottili fili d'inchiostro; gli sfioravano leggeri gli zigomi alti, le guance magre e quelle labbra carnose e morbide. Non si poteva intravedere molto sotto allo spesso cappotto nero e alla sciarpa di lana grossa, ma aveva nell'insieme un fisico snello ed aggraziato.

La ciliegina sulla torta di quel corpo erano le mani; appoggiato pigramente in grembo erano affusolate, bianco latte, dalle dita lunghe e slanciate.

Mi ricordarono le mani piccole da pianista di Maiko.

Il suono del suo cellulare si fece sobbalzare entrambi contemporaneamente; accennai uno sguardo verso di lui, magari per incrociare i suoi occhi e sorridere divertito assieme a lui, ma non si voltò.

Si scusò con un breve cenno del capo.

«Moshi moshi?» rispose portandosi il cellulare all'orecchio, senza neanche controllare chi l'avesse chiamato.

Emise un flebile sospiro. Lo vidi socchiudere gli occhi per un attimo.

«Sono alla panchina.»

Fissandolo con la coda dell'occhio mi resi improvvisamente conto che sembrava seccato.

Pregai gli Dei che lo fosse nei confronti del suo interlocutore e non nei miei confronti.

«Quella panchina.» borbottò astiosamente.

La sua fronte si increspò in un'espressione irritata; chiuse il flip del cellulare con un sospiro.

«Mi dispiace tanto.» mormorò chinando lo sguardo a terra «Ma ora devo andare.»

Riuscii ad emettere sono un flebile e deluso “oh”.

Guardandomi intorno mi resi conto che effettivamente stava calando la sera e che il sole rossastro era quasi già sparito oltre l'orizzonte, ma mi trovai a sperare ardentemente che si fermasse ancora, anche solo per qualche minuto.

Non avrei comunque saputo cosa dirgli, ma la sua presenza mi dava la sensazione di essere in pace col mondo.

Non mi accorsi del suo arrivo se non quando si fermò davanti a noi.

Indossava un animino cappotto grigio, dei jeans scuri e scarpe da ginnastica.

Era indubbiamente un bell'uomo, ma tale bellezza era offuscata da un'espressione severa, quasi irritata; le labbra erano serrate e formavano un'austera linea, gli occhi socchiusi, diffidenti, scuri e ombrosi.

Mi salutò inarcando eloquentemente un sopracciglio e io gli resi il gesto con un secco movimento del mento.

Mi stava già, irrimediabilmente antipatico.

«Yuu.» mormorò, con voce atona.

Cadde un silenzio soffocante.

«Eccomi.» sussurrò il mio Aoi, un'espressione di incomprensibile colpevolezza in volto. Si alzò con lentezza, lisciandosi il cappotto sul corpo.

Non appena fu in piedi, il nuovo arrivato gli passò una mano attorno ai fianchi, stringendoselo addosso e guardandomi con un moto di sfida negli occhi. Sembrava mi stesse consigliando caldamente con lo sguardo di star lontano dalla sua proprietà privata.

Odiai intensamente quel modo possessivo di trattare Yuu.

Come si permetteva di trattare un angelo del suo calibro, una creatura del suo livello come fosse un lezioso cagnolino da compagnia?

Mi alzai con il disgusto negli occhi e nello stomaco.

«Mi dispiace aver interrotto la nostra conversazione, Kouyou. Passa una buona serata.»

Non riuscii a rispondere a quel flebile arrivederci che aveva lo stesso malinconico suono di un addio, mentre entrambi si voltavano e si allontanavano assieme.

Rimasi immobile ed inerte a fissare la ghiaia, con la pesante e tetra consapevolezza di star perdendo di nuovo quello stralcio di cielo settembrino.

Non potevo sopportare nuovamente una sua scomparsa.

La prima volta che l'avevo visto me ne ero andato prima di rendermi conto di aver trovato un tale miracolo e quel secondo incontro era stato una coincidenza straordinaria, me ne rendevo perfettamente conto.

Non potevo guardarlo sparire come se niente fosse.

Dannazione, mi aveva affascinato come la luce affascina le falene e mi stavo avvinando tanto da rischiare di fulminarmi.

Non potevo lasciarlo andare, non prima di trovare il modo di rivederlo.

«Scusa!» esclamai, risvegliandomi di scatto come se mi fosse piovuto in testa un secchio d'acqua gelida.

I due si fermarono quasi di botto e il biondo mi guardò come se fossi uno strano insetto. Non mi era piaciuto per niente il modo brusco con cui si era affiancato al mio angelo, ancora meno la possessività con cui gli aveva cinto la vita.

Ma più di tutto mi aveva ferito l'indolenza con cui Yuu gliel'aveva permesso.

Probabilmente stavo per fare la sciocchezza più monumentale della mia esistenza, in quanto quella gelosia negli occhi dell'uomo avrebbe dovuto farmi chiaramente intendere una relazione più che intima fra i due.

Ma il pensiero non mi sfiorò che parecchie ore dopo.

Avevo il torace agitato da un ingiustificato fiatone, il cuore in libera uscita, irrequieto e trafelato come non lo era mai stato, neanche con Maiko.

«Possiamo rivederci?»

Gli occhi scuri del biondo divennero due lame, così sottili da sembrare socchiusi.

Yuu si voltò con uno scatto e finalmente rividi quegli occhi che mi avevano tolto il sonno.

Erano fulgidi come me li ricordavo, forse di più. Più consistenti di quelle che io ricordavo come autentiche lastre di ghiaccio, avevano quell'azzurro macchiato di grigio chiaro che mi aveva tanto colpito il giorno prima.

Mi accorsi improvvisamente di essermi pian piano dimenticato le centinaia di sfumature che componevano quel colore; di tutto l'insieme di sfaccettature mi era rimasto impresso solo il fatto che rappresentassero quella particolare tonalità che spesso cercavo di descrivere ma che io stesso non avevo ben in mente.

Nel momento stesso in cui lui accennava un timido “hai” con un abbozzo di sorriso sulle labbra, mi resi conto di un dettaglio fondamentale che non avevo colto, di quegli occhi meravigliosi che mi fissavano senza vedermi.

Era cieco.

Un mattone gelido e vischioso mi cadde in mezzo allo stomaco, dandomi un forte senso di nausea.

«Oh, non si preoccupi. Neanche io avevo visto lei.»

Ogni singolo, stupido dettaglio del totale del tempo che avevamo passato assieme andò a collocarsi nel suo giusto spazio; ogni stupida domanda che mi ero posto adducendo a quella sfuggevolezza una timidezza accentuata, trovò la sua risposta in quello sguardo vacuo, perso e leggermente confuso.

«Domani mattina qui?» bisbigliai, mortificato e imbarazzato.

Ripercorsi con la mente tutti gli istanti passati accanto a lui e mi chiesi sgomento se la mia apparente indifferenza verso il suo difetto l'avesse in qualche modo ferito.

Non potevo credere di essere stato così superficiale.

«Domani mattina, qui.» rispose lui, arricciando l'angolo delle labbra in un sorrisetto che mi mandò sulla Luna in un viaggio di sola andata.

La sua mano si tese timorosamente in quella che lui doveva vedere come un'immensa distesa di buio.

Buio.

Mi ricordò la mano di un bambino, così timida, così incerta; gliela afferrai con dolcezza, cercando di dargli, in quella stretta, un senso di sicurezza, di solidità.

Non riuscivo neanche ad immaginare lo smarrimento che doveva provare quotidianamente nel muoversi costantemente sul filo di un rasoio.

Mi sentii quasi in colpa.

«Arrivederci, Yuu.» mormorai con un sorriso «A domani.»

«A domani, Kouyou.»




Ero chiuso nell'abitacolo della mia auto, i gomiti poggiati sul volante e la testa fra essi.

Non riuscivo ancora a scrollarmi di dosso le sensazioni di quell'incontro.

Avevo un appuntamento. Un appuntamento con quelle iridi da angelo.

Dopo che Aoi era sparito dietro la prima curva, avevo aspettato al parco ancora qualche minuto, forse sperando stupidamente di vederlo tornare correndo da me.

Mi ero poi diretto come un automa verso l'ingresso del mio palazzo, salutando con un cenno il portinaio e dirigendomi verso le scale. Davanti al bivio che si divideva fra la gradinata che portava agli appartamenti e quella che portava ai garages, avevo puntato alla seconda, salendo sulla mia Mercedes e stupendomi di trovarla intatta e funzionante dopo mesi che non la adoperavo.

Alzai il volto e poggiai il mento sulla sommità del volante, guardando il monotono paesaggio di periferia che mi si presentava di fronte agli occhi.

Non sapevo perchè ero lì.

All'idea di rimettere piede nel mio attico, solo, mi aveva preso un terrore selvaggio, indomabile.

Il condominio era esattamente come me lo ricordavo, coi muri esterni giallo spento e le aiuole sempre in fiore, vecchio ma ben tenuto. Quando coi miei romanzi avevo guadagnato una somma che le avrebbe permesso di vivere in un luogo più dignitoso, mia madre aveva rifiutato di lasciare la casa dove aveva partorito tre figli.

Sorrisi senza volerlo.

La targhetta era scolorita, ma qualcuno doveva aver ripassato recentemente il cognome Takashima con un pennarello. Una delle mie oi, a giudicare dal tratto incerto e traballante.

Mi aprì Ruriko.

Non portava quasi i segni di quei quindici anni, era rimasta la diciottenne che approfittava delle uscite dei genitori per incontrare quel fidanzato che poi l'aveva sposata: gli occhi erano sempre brillanti come gemme, i capelli sempre in ordine, il volto leggermente truccato così simile a quello di Aya che molti si erano chiesto se non fossero gemelle.

Rimase a guardarmi con le labbra socchiuse, fino a quando una piccola lacrima fece capolino dall'angolo del suo sguardo caramello, scendendo in picchiata sulla sua guancia e morendo sul colletto della camicetta.

«Kouyou...» esalò in un singhiozzo, prima di gettarmi le braccia al collo.

La abbracciai quasi sollevandola da terra.

«Gomen ne, piccolina. Perdonami se puoi.»

Non ero stato presente al suo matrimonio, nè alla nascita delle mie oi.

Dubitavo che le piccoline conoscessero il mio viso.

Tutto era cambiato in quella casa.

Mia madre si era fatta più piccola, meno sorridente e più malinconica; mio padre più silenzioso e cupo. Le pareti che io ricordavo essere piene dei quadretti a punto croce cui mia madre si era dedicata per una vita intera erano scomparsi.

Dai muri del corridoio mi sorrideva felicemente Aya.

Non mi ero reso conto fino in quel momento dell'effetto devastante che la sua morte doveva aver avuto sulla mia famiglia: in casa aleggiava una cappa densa e silenziosa.

«Ti assomigliava tanto Kouyou.»

Furono le prima parole che sentii mormorare da mia madre. Stavo guardando una foto di una Aya quindicenne, i capelli lunghi e castani le svolazzavano attorno al viso in un turbine vivace e lei rideva.

«Ci manca moltissimo.» bisbigliò con un sorriso e accarezzò il bordo della foto con la punta delle dita.

«Manca anche a me.» le risposi in un sussurro, cingendole le spalle con un braccio. Mi chinai poi fino a sfiorarle un orecchio con le labbra «Un giorno di questi andiamo a trovarla, mh?»

Lei mi guardò a lungo e quegli occhi uguali ai miei divennero liquidi come tazze di caffè d'orzo.




Mi sistemarono nella cameretta che occupavo quando ero adolescente.

I miei libri, i miei CD, i miei poster... Tutto era uguale al giorno in cui l'avevo lasciata, con uno zaino in spalla e la mente piena di sogni.

Anche la foto che Aya mi aveva regalato prima di partire per Sapporo con suo marito era lì.

Ci eravamo sentiti molto spesso per telefono, anche durante le mie crisi lei era l'unica persona alla quale rispondevo e con la quale mi sentivo a mio agio anche a stare due ore in silenzio.

Ma quando aveva lasciato Kyoto era stata l'ultima volta che l'avevo vista.

«Ti ricordi di Maiko?» mormorai una volta chiusa la luce e infilatomi sotto le coperte «Credo di averti mandato delle foto, ma non ne sono sicuro.»

Feci una pausa e riuscii ad immaginarmi il suo sorriso comprensivo incitarmi a continuare.

«Mi ha... lasciato. Una mattina mi sono alzato e lei era sulla soglia di casa con una valigia in mano. Chissà quando è riuscita a svuotare tutti gli armadi...»

Feci un sospiro, chiudendo gli occhi.

«Mi manca. Mi manca lei e mi manchi te.»

Assomigliavo ad Aya -e Ruriko con me- anche nella preponderanza a piangere faticosamente una sola lacrima alla volta.

Scivolò lentamente sulla mia tempia, perdendosi fra i capelli.

Aya era morta poco meno di un anno prima. Una leucemia non diagnosticata se l'era portata via in appena un mese.

Io non c'ero al suo funerale. Non avevo neanche realizzato che la mia oneesan non ci fosse più. Avevo recepito la notizia con gelida indifferenza.

«Un giorno di questo ti vengo a trovare con haha, così ti raccontiamo tutto. Ruriko ha avuto un'altra bambina, sai?» sorrisi, intenerito dal ricordo delle smorfiette che la mia oi più piccola mi aveva regalato «È un amore e ha i tuoi occhi.»

La guardai un'ultima volta, guardai quel volto sorridente e arrossato dal sole per poi posarlo sul comodino.

«Ti porterò delle rose. Bianche se le trovo. E se non le trovo le ordino.»

Mi sembrò di vedere quel volto minuto chinarsi in un piccolo inchino di ringraziamento.

«Oyasumi nasai, Aya.»

Mi voltai, nascondendo la rottura degli argini contro il cuscino. Piansi in silenzio tutte le lacrime bollenti che avevo in gola dalla partenza di Maiko, piansi per lei, per me, piansi per Aya.

Mi addormentai esausto dopo un bel po' e l'ultimo pensiero che volsi al mondo fu rivolto agli occhi color del cielo di Yuu.




- Aoi -




Che gli Dei mi fulminassero, se quella non era la voce più suadente che avessi mai ascoltato.

Sembrava scivolarmi sulla pelle, percorrendo le gambe, le braccia, il collo e dandomi tiepidi brividi che raggiungevano ogni singolo muscolo; si arrampicava poi dentro le orecchie, fluendomi direttamente dentro al cervello.

Fino a pochi mesi prima avrei giurato che non esisteva, per me, suono più dolce e appagante dei larghi e corposi sospiri di Ryo, o della sua risata o di qualsiasi forma prendesse la sua voce, e l'avrei giurato con sincerità.

Era una consapevolezza che avevo raggiunto dopo mesi, se non anni, passati assieme a lui, ogni giorno.

La voce di Ryo era l'unico pilastro, l'unico chiarore in mezzo al mio buio caotico e aveva ottenuto questo posto il giorno in cui mi si era avvicinato al parco, per lodare la bellezza di Aiko; l'unico problema è che me ne ero accorto solo quando la sua luce si era spenta, lasciandomi solo e al freddo.

Il destino era stato crudele con me e di un'ironia che ritenevo quasi sadica.

La voce di Kouyou non avrebbe mai potuto prendere il posto di quel faro, mai.

Somigliava piuttosto ad un intenso temporale, costellato da fulmini, da quelle scariche luminose che illuminavano la notte, come Minoru mi spiegava sempre durante le tempeste, tentando di placare una fobia innata per quel rumore assordante che mi è rimasta incollata allo stomaco fino alla fine dei miei giorni.

Erano brevi flash, lampi effimeri che mi davano fittizie sensazioni di calore, per poi svanire senza che io potessi afferrarli e trattenerli a me.

Non si era accorto che ero cieco.

La mia cecità spesso dava a intendere a chi non mi conoscesse una verità errata sul mio carattere; potendo leggere i pensieri delle poche persone con cui dialogavo che non fossero a conoscenza della mia infermità, non mi sarei stupito di trovarci un'idea del tutto sbagliata di me.

Credevano che fossi arrogante.

Presuntuoso.

Altero.

Superbo.

Tolleravo questa consapevolezza per un unico motivo.

Se avessi spiegato ad ogni persona in cui incappavo che se non la guardavo in volto era perchè non capivo dove fosse, questa avrebbe provato nei miei confronti un sentimento che mi era molto più ripugnante dell'antipatia: la compassione.

Ne avevo ricevuta così tanta in ventotto anni che sentirla nella voce di chi mi rivolgeva parola mi dava un voltastomaco fisico.

Si chiamava Kouyou.

Un nome semplice ed elegante, come il suo proprietario.

Si era seduto accanto a me, presentandosi con una tale dose d'innocenza da farmi sorridere: forse neanche se ne era accorto, ma il tono delle sue parole aveva lanciato segnali quantomeno palesi, concretamente traducibili con un certo interesse nei miei confronti.

Non capivo se mi desse più fastidio l'idea che mi reputasse uno stronzo patentato o che mi commiserasse.

L'idea che la gente mi ritenesse un altezzoso pallone gonfiato solitamente non mi irritava più di tanto, ma scoprii spiacevolmente che mi era intollerabile l'idea che lui mi considerasse tale.

Il suono del mio cellulare mi fece sobbalzare come se mi avessero punto con uno spillo.

Gli unici che avevano quel numero erano i miei coinquilini e la mia famiglia. Cinque persone in tutto.

Cercai a tatto il tasto per rispondere e mi portai il telefonino all'orecchio, dopo essermi scusato con Kouyou.

«Moshi moshi?»

«Dove sei?»

Ebbi un tuffo al cuore così repentino e violento che mi parve di sentire una scarica elettrica attraversarmi il torace.

Ryo. Doveva essere appena uscito dal lavoro.

«Sono fuori dal parco, dove ti ho lasciato questa mattina. Ma tu non ci sei.»

La sua apatica affermazione suonava anche troppo come un'accusa. Pretendeva forse che avessi passato otto ore fermo immobile dove mi aveva lasciato? Fedele come Hachiko che aspetta il suo padrone alla stazione?

Fui investito da un'onda di bruciante irritazione.

«Sono alla panchina.» sbottai seccato.

«Quale panchina?»

«Quella panchina.»

Lui rimase in silenzio, ma in sottofondo sentì lo scatto secco della portiera della sua auto. Mi chiuse il telefono in faccia senza alcuna esitazione e non capii se la cosa mi desse più fastidio o più dolore.

Riposi con un sospiro il cellulare nella tasca della giacca e mi sforzai di fare una sottospecie di sorriso.

«Mi dispiace tanto.» pregai perchè notasse la disperata sincerità nella mia voce «Ma ora devo andare.»

Calò un breve silenzio, interrotto da un flebile “oh”.

Lo stomaco mi si annodò su sé stesso, quando riconobbi nei passi pesanti sulla ghiaia la camminata secca e nervosa di Ryo.

Ryo non era sempre stato così scorbutico e chiuso.

Quando ci eravamo incontrati ero rimasto quasi accecato dalla sua esuberanza, dalle sue risate, da quel suo spasmodico e festoso amore per la vita. Viveva con l'intensità di una trottola dalle giravolte inarrestabili e mi aveva trascinato nelle sue piroette con una frase sola.

Spesso pensavo che senza di lui non avrei mai potuto aspirare ad una rinascita; ma mi rendevo anche conto che se mi fosse rimasto affianco, non sarei mai riuscito a raggiungere una parvenza di normalità nella mia vita.

Avevo bisogno di lui, e nello stesso tempo la sua vicinanza mi era insopportabile.

«Yuu.»

Cadde un silenzio soffocante.

«Eccomi.» sussurrai con voce fioca, intimidito e mi maledissi mentalmente per aver adoperato un tono così... remissivo, così docile, che avrebbe potuto concretizzarsi nello sguardo avvilito di un cane sgridato dal proprio padrone.

Mi alzai con lentezza e sentii Ryo cingermi possessivamente la vita con un braccio.

Chiusi lentamente le palpebre: avrei voluto appoggiarmi al suo torace e sfogare in lacrime tutta quella densa bolla di frustrazione mista a dolore che mi portavo dentro lo stomaco da almeno due anni.

Ma la sua mano sul fianco era simile ad un tizzone ardente in diretto contatto con la mia pelle; se mi fossi avvicinato maggiormente a lui mi sarei ustionato.

«Mi dispiace aver interrotto la nostra conversazione, Kouyou. Passa una buona serata.»

Non ricevetti risposta alcuna.

Mormorai un “arrivederci” che aveva il suono di un “addio” e mi incamminai con decisione nel buio, attendendo che il mio cammino venisse corretto con una piccola stretta alla vita o con una dolce spinta.

Sembravo destinato a perdere tutti coloro che amavo.

Aiko, mia madre, Ryo.

Ora anche quella voce di velluto, quell'intenso terremoto che aveva scosso la mia apatica vita, quel timbro basso e roco e i brividi che Kouyou riusciva a darmi solo chiedendomi timidamente se mi ricordassi di lui. Avrei voluto rispondergli che trovavo immensamente difficile anche solo desiderare di dimenticarlo.

Quello scontro accidentale con cui ci eravamo conosciuti aveva portato con sé la nascita di un desiderio spasmodico che non provavo ormai da quasi dieci anni, una voglia folle e sottile che mi correva eccitata sottopelle, rapida e irrequieta come un cavallo scalpitante.

Provavo l'irrefrenabile tentazione di tornare da lui e tendere una mano al buio, verso il suo viso, di accarezzarglielo con la punta delle dita, così lentamente e intensamente da stamparmene in mente ogni più piccolo ed insignificante particolare; volevo a tutti i costi conoscere i lineamenti che racchiudevano quella voce portentosa.

Nascosi mento e labbra dentro la sciarpa e infilai le mani in tasca.

Il volto di Ryo lo conoscevo a memoria ed ero certo che se mi avessero dato in mano una palla di plastilina sarei riuscito a riprodurne fedelmente il naso dritto, gli zigomi magri ed eleganti, la linea decisa della mascella e quelle labbra ironiche e carnose.

Avrei saputo raffigurare perfettamente i tendini nervosi tesi sul suo collo, le clavicole, il torace magro e asciutto, le spalle leggermente incurvate e quella miriade di muscoli guizzanti e vertebre che componevano la sua schiena.

Il viso di Yutaka era molto più morbido; le guance paffute, le piccole fossette, le labbra carnose, i capelli morbidi. E quel corpo magro, forse più magro di quello di Ryo, ma decisamente più accogliente e materno nei suoi abbracci.

Chinai il capo, improvvisamente triste.

«Scusa!»

Divenni di ghiaccio e Ryo mi imitò al mio fianco; lo sentii muoversi con uno scatto rabbioso e capii che si era voltato per incenerire Kouyou.

Lo odiai per quello, con tutte le mie forze.

«Possiamo rivederci?»

Era la stessa sensazione che avevo provato immergendomi in un bagno caldo dopo aver passato una giornata sotto la neve con Minoru: mi sentii improvvisamente in una teca di vetro, al riparo dal rancore frustrato di Ryo, al riparo da quelle dita bollenti e dal vento gelido di febbraio. Al sicuro, protetto.

Quella voce stava riuscendo dove quella di mia madre e dei fratelli, quella di Ryo e Yutaka avevano fallito.

La voce di Kouyou aveva il potere di farmi sentire come se avessi trovato il mio posto nel mondo.

Mi voltai, gli occhi spalancati nel buio.

Dovetti trattenermi per non tendere un braccio in sua direzione.

«Hai...» mormorai quasi sottovoce; temetti che non mi avesse sentito, ma non riuscii a ripetere neanche quella corta sillaba, quando sentii i suoi passi veloci fermarsi a mezzo metro da me.

Dei, era lì. Era vicino, sentivo il suo respiro. Avrei potuto protendere un braccio e probabilmente l'avrei urtato.

«Domani mattina qui?» propose e quasi sussultai quando mi resi conto che quella voce si era trasformata di un sussurro pieno di colpevolezza e amarezza.

Cos'era successo? Cos'aveva visto?

Mi si strinse il cuore in una morsa di collera.

Cosa gli avevano detto le iridi affilate di Ryo?

«Domani mattina, qui.» confermai.

Deglutii a vuoto, poi, e con l'audacia nel sangue tesi una mano in avanti, il cuore in subbuglio.

La prima cosa che pensai fu che era molto calda, ma di un calore non fastidioso, quando incredibilmente confortante.

La seconda che aveva la mano più grande della mia.

La terza che, di quel calore breve e momentaneo, avrei potuto viverci anni.

«Arrivederci, Yuu.» mormorò, con un tono che sembrò dirmi questo è un arrivederci «A domani.»

«A domani, Kouyou.»




«Chi è quello?»

Sbuffai mentalmente, serrando gli occhi.

Non ero in grado di sostenere fisicamente e mentalmente quegli stupidi attacchi di gelosia ingiustificata.

Avrei dovuto io essere geloso, io fargli scenate, invece di tenermi tutto dentro fino a farmi marcire il cuore, perchè non capiva? Perchè non cercava di venirmi incontro almeno da quel punto di vista?

«Perchè vuoi saperlo?»

Non aveva neanche messo in moto l'auto, segno inequivocabile del fatto che ero di fronte ad una conversazione che avrebbe preso inutilmente tanto tempo e i cui unici effetti sarebbero stati compiacere il suo egoismo e mortificarmi maggiormente.

«Non mi piace. Ti guarda come se ti volesse mangiare.»

«Davvero? Non l'ho notato.» ribattei ironico, incrociando le braccia al petto.

Si chiuse in un silenzio astioso. Riuscivo a sentire il suo respiro irritato e a carpire la sua collera come fosse una bolla densa e palpabile.

La rabbia di Ryo mi aveva sempre spaventato.

Forse perchè lo ritenevo l'unico, incrollabile punto di luce della mia esistenza, nonostante brillasse per un altro uomo, o forse perchè quand'era giovane era difficile offuscare o placare il suo entusiasmo bambinesco e io mi ero assuefatto a questo lato del suo carattere, anche se oramai erano due anni che mostrava al mondo solo il retro di quella medaglia luminosa.

O forse perchè la sua collera era devastante, dolorosa e avvilente come poche altre cose al mondo.

Improvvisamente sulle mie labbra bruciarono quei due ultimi baci selvaggi, con l'intensità di un incendio sopra la benzina.

Me le sfiorai con le dita, facendo forza sulla mia volontà per rimanere fermo nella mia convinzione di non aver fatto nulla di male e non lasciarmi influenzare dall'amore cocente che provavo per lui.

«Ti è bastato così poco?»

Socchiusi le labbra, non capendo a cosa si stesse riferendo.

«Ti son bastati due occhioni da cerbiatto per cadere ai suoi piedi?»

Ebbi la concreta sensazione di ricevere un pugno in pieno stomaco: chiusi gli occhi, accecato dall'arroganza delle sue parole.

Avrei voluto gridare, picchiarlo fino a farmi sanguinare le mani, gettargli in faccia tutto ciò che avevo provato fin dall'istante in cui aveva ammesso di essersi innamorata di Yutaka, ma mi limitai voltare il capo, nascondendomi da quello sguardo bruciante.

«Io non posso vedere i suoi occhi.» mormorai.

Lo sentii sussultare come se gli avessero dato la scossa.

«Io non vedo. L'hai dimenticato, Ryo?»

Sentivo il naso pizzicare fastidiosamente e dei singhiozzi in gola che non aspettavano altro che uscire all'aperto; non capivo dove trovassi il bisogno di piangere, quando le lacrime le avevo esaurite tempo prima.

Evidentemente mi sbagliavo.

Ne cadde una sola, silenziosa come una brezza estiva, calda, bollente.

«Io amo te, Ryo.» sussurrai con la voce ridotta ad un flebile bisbiglio che, non contenta della sua imbarazzante fragilità, pensò bene di spezzarsi in un singulto proprio sul suo nome.

Mi afferrò per il gomito, strattonandomi verso di lui, in una rudimentale quanto dolorosa imitazione di ciò che aveva fatto solo il giorno prima.

Bramavo il bacio che, lo sentivo da come mi stringeva, mi sarebbe piovuto sulle labbra come una diluvio di lava di lì a pochi istanti, lo desideravo. Dei, non volevo altro che incatenarmi a lui fino alla fine dei miei giorni e avrei accettato qualsiasi cosa, perfino l'umiliante ruolo di amante clandestino, di giochino con cui divertirsi, di bambolina da abbandonare all'alba e da trattare freddamente alla luce del Sole.

Da lui avrei accolto qualsiasi cosa, qualsiasi contatto, qualsiasi sentimento.

Ma non potevo.

Non potevo abbandonarmi a quel bacio e godermi il suo calore effimero, non potevo ricoprire la parte dell'altro, non potevo amarlo ancora dopo tutto il male che mi aveva fatto, non potevo decidere di essere egoista come lui.

Chinai il capo fino a sfiorarmi il torace col mento, cercando, terrorizzato dal buio e dai miei stessi desideri, una via che mi impedisse di distruggere la vita dell'unica persona di cui ricordassi senza alcun indugio il profumo.

Tentò di alzarmi il volto con quelle due dita maledette, ma si cristallizzò sul posto quando sentì la mia voce fioca pregarlo.

«Devi uscire dalla mia vita. Ti prego.»

Mi lasciò, allentando lentamente la stretta alle mie braccia; tentai di rintanarmi il più lontano da lui, accucciandomi quasi sul sedile del passeggero.

L'unico suono che emise fu una sottospecie di sospiro strozzato.




«Yutaka, come sono i temporali?»

Non capitava spesso che gli chiedessi notizie sul mondo reale.

Dal un lato perchè temevo di spolverare suoi vecchi ricordi dolorosi, dall'altro perchè le sue risposte, per quanto esaurienti e dettagliate fossero, mi lasciavano ancora più avido e assetato di prima.

Gli avevo sommariamente spiegato che io e Ryo avevamo avuto una discussione, ma non erano bastati i miei balbettii sconclusionati a placare la sua curiosità.

«I temporali?»

«Hai.»

Rimase in silenzio per qualche istante.

Una volta gli avevo chiesto come fossero le nuvole ed ero rimasto basito nel sentirmi rispondere che non se le ricordava; allora le sue lacrime di sconforto mi avevano tanto impressionato che avevo deciso di placare la mia sete di sapere, riducendola ad un silenzio quasi totale.

«I temporali sono... splendidi e terribili nello stesso tempo. Non biasimo la gente che ne è spaventata.»

Sentii la sua mano sfiorarmi delicatamente una spalla e mi lasciai avvolgere in un abbraccio, poggiando la schiena contro il suo torace. Yutaka diceva sempre che avere un contatto fisico con le persone era l'unico goffo ed impreciso strumento a sua disposizione per carpirne le reazioni.

«Il buio viene improvvisamente rischiarato da questi scoppi di luce, così forti che anche se sono lontani illuminano chilometri e chilometri.»

Affondò una mano fra i miei capelli, respirando piano sul mio collo.

«Siamo pieni di problemi che condizionano la nostra intera vita, ma che sono briciole di fronte a tanta imponenza. E ci si sente piccoli, insignificanti.»

Emise un sospiro un po' malinconico.

«Perdonami, non so spiegare molto bene...»

Voltai la testa fino a riuscire ad incastrarmi nell'incavo del suo collo.

«Non è vero.»

Avevo indovinato, allora, a descrivere la voce di Kouyou come un temporale.

In quello, il rombo lontano di un tuono mi fece rabbrividire.

«Arigato, Yutaka.»


Continua...


















Note di Mya:


2650 parole per Uruha, 2650 parole per Aoi.


Tanto per provare che la colonna sonora in una fan fiction è tutto...

L'intero capitolo, tolte forse quattro o cinque righe che avevo scritto settimane fa con l'intenzione di riprenderle quando l'ispirazione fosse tornata e le revisioni, è stato scritto di getto sulle note di Prisoner of love di Utada Hikaru, artista j-pop che sto rivalutando.

Diciamo che il pop non è decisamente il mio genere, ma lei e poche altre voci spettacolari come la sua fanne parte dell'eccezione.

Io personalmente ho lasciato il cuore in Simple and Clean la quale fa anche da sigla al videogioco Kingdom Hearts.


Jo-hime, mi ha fatto giustamente notare un paio di settimane fa, che Shiroganè non è un nome proprio di persona, quanto il nome di una stazione o anche un cognome. È come se avessi chiamato quella povera ragazza Trenitalia, per intenderci.

Mi spiace per l'errore, devo averlo letto come cognome da qualche parte, chissà.

Beh, rimane Shiroganè, perchè mi piace come suona.

Archiviata anche questa nel mio magazzino personale di licenze poetiche, che oramai vanta una quantità di nomi/concetti/situazioni invidiabile.


Recensioni:


Aelite:

Punto uno. Bene, così, meglio che ti stia indifferente piuttosto che me lo odio alla follia u.u (io sì, starò malissimo già lo so, insensibile che non sei altro!). Sì, la pagherà, la pagherà e si riscatterà u.u

Lo sapevo che ti avrebbe colpito quella frase, me lo sentivo.

Te l'ho già spiegato (o perlomeno, ci ho provato) quanto mi hai dato domenica. (L'uomo focaccina che vive nella farina! xD)

Ti voglio bene.

Faccio pena nel rispondere alle recensioni, ultimamente sto scendendo a patti con questo mio lato da fanwrtiter xD

Però sappi che è sentito e sincero.

Ti voglio bene


Shin:

Sorpresa è dir poco.

Ci stiamo perdendo, forse ci siamo già perse.

Già allora ci eravamo allontanate. Non stiamo decisamente passando un'estate come quella scorsa ^^

Quello che dovevo dirti te l'ho scritto nell'ultimo capitolo di Sekkai, non so se l'hai letto.

Ti voglio bene.


Jo:

Innanzitutto grazie ancora per la dritta sui titoli dei capitoli.

Ti voglio bene piccola.

Un bene, assurdo. Te lo dico ora così la chiudiamo: sei una delle persone più importanti della mia vita.

Grazie, grazie, grazie, la tua approvazione e i tuoi complimenti, soprattutto per questa fiction mi danno le lacrime agli occhi.

Grazie, piccola, t'amo e non sai neanche quanto ♥


Guren:

Tu. Tu, tu e ancora tu.

Grazie, piccolina. Significa molto che questa fiction finisca fra le scelte. *abbraccia*

E io sono una fan degli abbracci. Secondo me sono una delle più grandi dimostrazioni d'affetto che una persona può dare.

*strizza di abbracci*

Mi spiace risponderti a tutti questi complimenti con un semplice e banale “grazie”, ma sono un po' a corto di parole.

Tu mi lasci senza parole.

Grazie, piccolina, grazie, grazie, grazie, grazie.

Ti voglio bene, ti adoro ♥


Haha Deneb:

Haha adorata, spero che nel frattempo l'influenza ti sia passata *abbraccia*

Ma figurati se ti scarico, che cavolo, dove la trovo un'altra haha come te? Che toglie le maglietta a Kai durante i concerti? *sospiro*

Non ti scarico, haha, anche perchè non ho capito bene in che momento hai pensato “ah, ok, tanto sta con Kai” °-°

E da notare che io non ho la febbre, ma solo un fottutissimo ciclo che fra poco strozzo.

Ti voglio bene, haha


Grace:

Ahahahah, vedi che ti contagio con la mia mania di recensire il primo capitolo sempre e comunque? xD

Ti avevo spiegato no, tutti i punti non chiari, vero?

Scusa, eh, ma solo tu ti attizzi col maglioncino di Uruha xD E per la scena di nudo... Mmh, non lo so, ci devo pensare. E non sto scherzando, ma ci devo pensare veramente. Vedrò u.u

Awnh, ti voglio bene anche io mammina ♥ (e prima voi ci vengo veramente a Bbbbbbbbbari xD)


cucciola81:

Innanzitutto grazie per la recensione.

Anche io seguo in silenzio molte fictions *si piastra le mani* e spesso non trovo mai il tempo di recensire.

*abbraccia* Finalmente qualcuno che non mi odia Reita! *patta il povero bassista infascettato*

Siate fiduciose, ragazze, si riscatterà! u.u

Eeeeesatto, è la stessa Shiroganè u.u

Oooooh, ma che care *stampa bacioni in fronte alle sorelle*


Aya:

Sei omonima della sorella di Uruha, me ne rendo conto solo ora °-°

Spero nel frattempo ti sia passata la malinconia, mi avevi scritto che eri un po' giù *abbraccia* Stai su, ti prego, non riesco sapere delle persone tristi e non poter fare nulla.






Mata ne fandom,

siete sexy ♥

Mya


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Capitolo 5
*** How can I help you? ***















Capitolo Quattro •

How can I help you?




- Aoi -




«Portami là.»

La mia voce era ridotta al sibilo minaccioso di un serpente. Se avessi potuto reincarnarmi in tale bestia, avrei spalancato le fauci, facendo scattare nervosamente la coda, pronto a colpire a morte.

«No.»

Un tuono squarciò i miei pensieri e io trasalii violentemente.

«Me l'hai proposto tu. Tu. Non rimangiarti le tue parole per una stupida...» la parola gelosia mi si strozzò in mezzo alla gola. Yutaka ci stava ascoltando da quando Ryo si era voltato con uno scatto verso di me, urtando qualcosa di ceramica che era andato in frantumi contro il pavimento di marmo.

Io non potevo dirgli che l'avevamo tradito. Non potevo.

«Non ti lascio otto ore sotto al diluvio.»

«Ho un ombrello.»

Mi rispose con uno sbuffo ironico.

Dei del cielo, quanto odiavo l'accondiscendenza con cui mi trattava; la sensazione che mi dava era simile a quella scaturita dalla compassione che la gente comune provava nei miei confronti.

Proveniente da lui, poi...

Sembrava che si fosse improvvisamente dimenticato delle mie richieste.

Fin dai primi timidi giorni della nostra relazione, l'avevo supplicato affinché non provasse pena per me, l'avevo implorato perchè mi trattasse normalmente, l'avevo pregato di non considerarmi come una preziosa bambolina di cristallo, così fragile e delicata da rischiare di andare in frantumi con una carezza, ma come un uomo fatto di carne e sangue, del tutto uguale a lui

Mi aveva dato ascolto, si era sforzato di vedermi come un essere umano e non come una rosa pregiata da mettere sotto una teca di vetro. Ma tutti i suoi sforzi si erano esauriti e spenti nel giorno in cui aveva conosciuto Yutaka.

«No. Ed è la mia ultima risposta.»

A volte trovavo complicato comprendere le innumerevoli facce della bolla di sentimenti che mi esplodeva nel petto ogni qual volta mi azzardassi a rivolgergli un pensiero. Riconoscevo una devozione simile a quella di un fedele per il suo dio, l'amore sacro di una madre per i figlio, il desiderio carnale di una bestia in calore, l'amarezza, il dolore e la rabbia cieca di un tradimento.

Ma c'era qualcos'altro di intrinseco al pugno allo stomaco che mi raggiungeva ad ogni sua parola, un qualcos'altro che, nonostante tutto, non riuscivo a ricondurre a nulla di conosciuto. Come se non fosse abbastanza penoso amare follemente senza essere corrisposti.

«Bene!» ringhiai, così furiosamente che sentivo l'illusione di un fischio portare disordine nel precario equilibrio del mio udito.

Mi voltai camminando alla cieca, evitando per pochi millimetri i mobili dell'ingresso di cui conoscevo l'esatta posizione.

Avevo passato mesi, anni, in quella casa, una quantità infinita e spaventosa di occasioni per imparare a muovermi con la lenta e pacata scioltezza di un fluido. Yutaka abitava con noi da due anni, eppure quell'appartamento era per lui ancora un enigma di difficile soluzione. Casa sua, il suo nido, il luogo dove avrebbe dovuto proteggerlo e abbracciarlo gli si rivoltava contro con rabbia, ferendolo, umiliandolo.

«Bene!» ripetei, sempre più furibondo man mano che passavano i secondi.

Mi aggrappai allo stipite dell'arco che portava in corridoio e il rumore che feci sbattendo la spalla contro la mensola non riuscì a coprire neanche parte del sussurro di Yutaka che chiamava spaventato il mio nome.

«Ryo...» mormorò poi, chiamando in aiuto proprio la causa della mia ira.

Sentii i suoi passi pesanti raggiungermi e quasi sperai in un suo tocco, nella sua mano sul mio braccio, non importa se violenta e brutale. Ma fin dal primo passo che avevo compiuto scendendo dalla sua auto il giorno prima era stato palese che aveva preso seriamente le mie parole.

«Yuu, cosa stai facendo?»

Di nuovo quell'odioso pugno allo stomaco, quella disgustosa sensazione di paura. Ebbi improvvisamente voglia di sfogare la mia rabbia suonando.

«Ci vado da solo.»




- Uruha -




La pioggia mi cadeva affianco, scivolando sull'ombrello e sfiorandomi le scarpe.

Lui non era venuto.

Non era venuto e non sarebbe venuto. Stavo in piedi accanto a quella panchina da due ore, e per due ore non avevo fatto altro che aspettare, l'intestino arrotolato come una spirale, cercando scuse plausibili e illusorie che giustificassero la sua assenza.

«Domani mattina, qui.»

Me l'aveva detto lui, me l'aveva promesso.

Potrebbe non essere mattiniero come te, Kouyou, e magari aver pensato di venire più tardi.

Quella mattina mia madre aveva cercato di dissuadermi dal partire. Lo stesso, intenso desiderio di vicinanza con cui io avevo cercato di farla traslocare nelle nuove villette che avevano costruito accanto al mio condominio aveva fatto tremare la sua voce. Per rafforzare le sue richieste aveva addotto la partenza di Maiko -non riuscendo a pronunciare il suo nome senza intingerlo nel disprezzo-, le mie condizioni di salute. Mio padre ci aveva guardato bisticciare affettuosamente: i suoi occhi avevano fatto spola dal mio volto a quello della moglie lentamente; aveva elargito a me sguardi stanchi e sorridenti, quasi scusandosi per quella materna e apprensiva invadenza, e a lei sorrisi comprensivi e malinconici. Aveva chiuso il discorso dandomi una pacca sulla spalla e cingendo le spalle ricurve di mia madre.

Ero uscito dalla casa in cui ero nato con la promessa di rifletterci, ma con la convinzione di averle mentito.

Piove l'ira degli dei, Kouyou, non puoi pretendere che venga.

Takanori mi aveva chiamato, durante il tragitto di ritorno verso il centro di Kyoto. Con la voce sottile mi aveva avvisato della sua prossima partenza: il contratto di Shirogane era stato annullato, lo spettacolo teatrale che avrebbe dovuto costringerli a rimanere per almeno un mese cancellato. Sarebbero rimasti ancora per qualche giorno, nella flebile speranza di ottenere per lei un altro ingaggio, poi sarebbero ripartiti alla volta della camaleontica Tokyo, con la certezza di trovare là un parte.

Avevo cercato di mentire anche a lui, di tranquillizzarlo riguardo la mia salute, ma lui non aveva voluto sentire storie. La sua voce avvilita che si scusava per aver illuso entrambi di poter passare un mese assieme aveva dato i natali ad un nodo di disagio, nel mezzo del mio stomaco, duro e contratto.

Perchè dovrebbe fidarsi di un estraneo, Kouyou? Perchè dovrebbe voler incontrare nuovamente una persona con cui ha scambiato solo qualche parola?

Scossi l'ombrello solo per vedere una cupola di gocce d'acqua unirsi alla pioggia e cadere attorno alle mie scarpe; poi cambiai mano, infilando quella ghiacciata nella tasca del mio cappotto.

Gli ultimi chilometri li avevo percorsi col piede incollato all'acceleratore.

Dopo aver respirato nuovamente dopo mesi l'odore di famiglia -spaventosamente intriso e simile a quello di Aya-, dopo essermi strappato a forza dalle sue catene, dolci, rassicuranti, calde e amorevoli, ma pur sempre catene, dopo l'avvicinarsi rapido di un altro, involontario abbandono, tutto ciò che volevo era perdermi dentro l'oblio ghiacciato di quelle iridi, staccare la spina e spogliarmi della realtà per immergermi nelle inquiete acque gelide degli occhi di Aoi.

Perchè dovrebbe voler rivederti? Solo perchè tu ti sei scioccamente infatuato di quello sguardo glaciale e smarrito, credi sia lo stesso per lui?

A distanza di due giorni, ancora non riuscivo a capire cosa mi avesse tanto affascinato in lui. Era bello, indubbiamente, ma quell'aura angelica che la mia mente ottenebrata di buio gli aveva attribuito, era risultata essere circoscritta solo a quegli occhi miracolosi. Quelli di Takanori erano naturalmente più accesi, indubbiamente più vivi, ciononostante non riuscivo a comprendere il meccanismo secondo cui venivano costantemente surclassati a favore di quelli di Yuu.

Un goccia forzata dal vento si scontrò contro sul mio naso, scivolando fino alle labbra.

Ebbi improvvisamente voglia di sfogare la malinconia scrivendo.




- Aoi -




«Yuu...»

Se Ryo riusciva a piegarmi al suo volere con solo due dita, Yutaka ce la faceva con un sussurro. Gli dei solo sanno quanto avrei voluto essere così forte da non subire le persone che amavo.

«Yuu, ti prego...»

Finii di abbottonarmi i pantaloni, facendo poi scorrere le mani sulle gambe alla ricerca di una piega storta, di uno strappo o di qualsiasi cosa che potesse attirare l'attenzione e i pettegolezzi della gente; repressi il pensiero molesto che mi si era formato, ma quello scivolò sinuoso fra le mie barriere come l'acqua fra le dita.

Era Ryo che pensava a me.

Era Ryo che si preoccupava che fossi in ordine quando uscivo di casa, di avvertirmi che avevo una scarpa slacciata, era lui che mi sistemava i vestiti sul corpo, barattando queste piccole attenzioni con un bacio quando stavamo insieme, con un timido sorriso da quando non eravamo più una cosa sola.

Sospirai gravemente. Non trovando nulla di anormale in quei jeans, affondai le mani nel cassettone, afferrando a casaccio uno dei numerosi maglioncini neri che lo riempivano.

Shirogane in persona si era premurata di descrivermi con estrema dovizia ogni singolo capo d'abbigliamento che aveva varcato la soglia del mio armadio. Era lei che pensava al mio look, le avevo lasciato carta bianca.

L'unica condizione irremovibile che avevo posto era stata il colore.

«Yuu, mi ascolti?»

Emisi un secondo, profondo sospiro.

«Ti ascolto.»

Sentii i suoi passi felpati sul tappeto e poco dopo avvertii il calore della sua mano poggiarsi a metà schiena; il rumore della pioggia era fastidioso per me, ma col tempo avevo imparato ad isolarlo. Tuttavia i tuoni che squarciavano l'aria improvvisamente erano come fruste per la mia mente e dopo ventotto anni ancora non avevo trovato una maniera per placare il terrore folle che mi prendeva il cuore ogni volta che sentivo il cielo rombare in lontananza.

«Non ti ho mai chiesto nulla, Yuu. So di non averne il diritto.» la sua mano si mosse lentamente fino a raggiungere il gomito e da lì scivolò agilmente sul braccio «Ma... ti prego... ho bisogno di sapere cos'è successo fra te e Ryo. Ne ho bisogno.»

Credimi, Yutaka, non lo vuoi sapere.

«Niente.»

Lo sentii trattenere il respiro, frustrato, ma di una delusione appena accennata; diceva di non avere su di me nessuno diritto, nemmeno quelli che si sviluppano col nascere di una profonda amicizia. Avrei preferito che si arrogasse quei diritti, che fosse convinto della loro giustezza e che, in nome di quelli, mi prendesse per una spalla, mi scrollasse, mi costringesse a reagire, a parlare.

Volevo che mi desse il via libera per accusarlo di tutto il dolore che covavo nello stomaco; ero certo che l'avrebbe accolto tutto fino all'ultima goccia, sorridendo e invitandomi a continuare a sputargli addosso veleno, ma l'ironia del destino voleva che la persona che indirettamente mi aveva frantumato il cuore fosse anche quella che mi aveva salvato, ricucendo ogni piccola ferita, accarezzandola e baciandola per accelerarne la guarigione.

«Yuu, ti prego, ho bisogno di-»

«Vi ho sentiti, Yutaka.» capitolai interrompendolo, e lo feci con un sospiro stanco e con l'amaro in gola.

Le sue parole vennero inghiottite dalla mia frase dal tono rassegnato.

«Io... non capisco, Yuu...»

«Vi ho sentiti mentre facevate l'amore.»

Mi illusi di poter sentire la sua gola chiudersi, rifiutando il flusso d'aria ai polmoni.

Scostai con delicatezza la sua mano e, cercando a tatto l'etichetta, individuai il verso giusto del maglioncino per indossarlo; ne lisciai accuratamente ogni piega, tendendolo sopra il torace.

Sospirai.

«Yutaka, non è colpa tua.»

Quando trovò la forza di mormorare, la sua voce era flebile, il suo respiro spezzato.

«Sì, invece. Non avrei mai dovuto essere così... egoista.»

Sbuffai una risatina. «Ryo si era innamorato di te; anche se tu avessi compiuto una grandissima opera di altruismo e carità» sputai fuori questa parola velenosa con astio «ciò non sarebbe cambiato.»

Mi prese di nuovo il braccio, timorosamente, temendo quasi che potessi scrollarmelo via di dosso. Sorriso intenerito.

Credi davvero che riuscirei a starti lontano, Yutaka?

Sentii il suo volto posarsi sulla mia spalla e le lacrime bagnarmela.

«Perdonami...» bisbigliò fiocamente, stringendo la presa sulla mia pelle a tal punto che mi parve di sentirla bruciare sotto le sue dita «Io non... non avrei mai dovuto, mai... Lui ti ama, non dovevo intromettermi...»

Lo zittii, trovando le sue labbra dopo avergli accarezzato una guancia con la punta delle dita.

«Ha smesso di amarmi tempo fa, Yutaka. Ora come ora mi considera solamente un intralcio che non gli permette di-» mi interruppi prima di pronunciare delle parole dolorose che non avrei mai potuto rimangiarmi.

Respirai a fondo più volte, cercando un modo che mi impedisse di dare di matto. Sentivo la rabbia salirmi nel petto, montare e sciabordare come una marea.

«Yuu...»

«Lascia stare.»

Chiusi definitivamente il discorso, scrollandomi la sua mano -divenuta così calda e accogliente da farmi quasi male- e imboccando la porta. Sospirai di nuovo, facendo mente locale per ricordarmi dove avevo lasciato le scarpe il giorno prima.

«Cosa cerchi?»

Stronzo.

Maledetto stronzo.

«Niente.»

Sbuffò, seccato, come se avesse mille e più motivi per avercela con me, come se mi reputasse un bambino che fa i capricci. Cercai di ignorarlo, di ignorare la collera che solo il suo pensiero mi dava.

«Lo sai vero che non ti permetterò di uscire di casa?»

Troppo.

Era decisamente troppo.

Ripetei mentalmente come un mantra che non serviva a nessuno arrabbiarsi, che dovevo solo mantenere la calma e forse saremmo riusciti a risolvere la questione civilmente.

«Non ho dubbi sul modo con cui ci proveresti, Ryo, appurato come ti riesce facile alzare le mani su di me.»

Non mi importava più nulla, né di lui, né di Yutaka che molto probabilmente mi aveva seguito fino in corridoio, non mi importava neppure del sordo rombare dei tuoni. Volevo solo uscire da quel caldo soffocante e appiccicoso, tuffarmi nel gelido e piovoso febbraio e raggiungere Kouyou. Nutrivo l'infantile convinzione che lui avrebbe potuto trovare una soluzione a tutto.

Indossai le scarpe immerso in un silenzio bollente e fradicio.

Afferrai un ombrello a caso e uscii, sbattendomi la porta alle spalle e godendo dell'acqua ghiacciata sul mio viso.




- Uruha -




Apparve all'improvviso alla fine della strada; sotto la pioggia sembrava quasi avvolto da un aura luminosa, sembrava quasi essere immune da tutta quell'acqua. Camminava con una sorta di fretta prudente, lo sguardo chino a terra, la concentrazione sul suo volto visibile perfino a metri e metri di distanza.

Arrivato in prossimità della fontana sdrucciolò sulla ghiaia bagnata e nello sforzo di restare in piedi fece cadere l'ombrello.

Mi misi in moto prima ancora che questo toccasse il suolo. Gli corsi incontro per aiutarlo, ma all'ultimo mi ricordai di avvertirlo dolcemente della mia presenza.

«Yuu, sono... io.» mormorai sconclusionatamente, afferrandogli dolcemente un braccio e premurandomi di coprirlo. Le sue pupille guizzarono come lampi cercando di individuarmi.

«Kouyou?» sibilò, gli occhi accesi di timore.

«Sono io.» lo tranquillizzai, avvicinandomi ancora per ripararlo dalla pioggia. Arrossii nell'accorgermi della vicinanza fra i nostri visi, arrossii intensamente e senza riuscire a impedirmelo.

Si sciolse in un sospiro sollevato, mentre quelle iridi assumevano toni dolci, pastosi.

«Ciao...» bisbigliai senza fiato.

Il suo respiro si quietò lentamente, e con altrettanta flemma una fila di denti bianchi fece capolino fra le sue labbra per regalarmi un sorriso generoso, radioso. Mi assicurai che fosse in equilibrio, prima di chinarmi a raccogliere il suo ombrello; feci il tutto molto rapidamente, per perdere il meno possibile di quel sorriso.

«Sei... tutto bagnato.» mormorai dopo qualche istante, sovrastando a malapena lo scrosciare della pioggia.

Lui sbattè le palpebre per qualche istante, confuso, toccandosi il cappotto. Poi accennò un sorrisetto.

«Mi ha urtato qualcuno prima.» ebbi un violento ed infondato tuffo al cuore «Mi è caduto l'ombrello.»

«Hai freddo?»

Subito dopo avergli posto quella domanda mi stupii della scioltezza con cui riuscivo a parlargli, e arrossii ancora. Nelle ore precedenti all'incontro avevo pensato spesso a cosa avrei potuto dirgli, ma mi resi conto che mi riusciva facile conversare con lui, come altrettanto semplice mi riusciva preoccuparmi per la sua salute.

«Un po'.» quel sorrisetto finì inghiottito in un piccolo morso alle labbra «Ma non ti preoccupare.»

Mi chiesi per caso se fosse in possesso di uno strano potere capace di stringermi il cuore ogni due per tre.

Improvvisamente mi tornò in mente uno dei tanti problemi relativi al mio atteggiamento nei suoi confronti, di cui mi ero riempito la mente durante l'attesa.

Lui sembrò quasi notare il cambiamento del mio umore.

«C''è qualcosa che non va?»

Mi sembrava oltremodo surreale e nello stesso tempo intimo parlare sotto ad uno stesso ombrello, così vicini che riuscivo a sentire il suo respiro condensarsi sulle mie labbra, mentre attorno a noi imperversava il diluvio.

«Devo chiederti una cosa...»

«Sono tutto orecchi.»

Lo guardai, incuriosito e sorrisi inconsciamente. Pareva che tutta la sorda malinconia che la sua voce esprimeva il giorno prima fosse stata soppiantata da un sorriso spontaneo, fresco. Mi sembrava dovesse mettersi a ridere allegramente da un momento all'altro ed ero certo che l'avrei seguito di gusto.

«Ecco...» presi a balbettare, cercando nello stesso tempo di organizzare un discorso compiuto e di trovare delle parole che non l'avessero offeso «... ehm, io, volevo... sì, riguardo a... non voglio offenderti o ferirti in nessuna maniera ma...»

Il mio desiderio si avverò in una risata franca e rigogliosa. Durò pochi istanti, il tempo che gli occorse per portarsi una mano alle labbra e cercare di nascondere quello scoppio di ilarità.

«Perdonami se rido, Kouyou.» sussultai nel sentire il mio nome fluirgli in gola «Non avevo mai sentito nessuno usare tanti balbettii per porgermi il suo aiuto.»

Ridacchiò ancora, ma così genuinamente che la piccola presa in giro che mi centrò in pieno, ebbe il solo effetto di un leggero e piacevole solletichino al torace. Mi unii alla sua risatina, leggermente imbarazzato.

«E dire che con le parole dovrei saperci fare.»

«Sei uno scrittore?» chiese con una curiosità ardente negli occhi.

«Sì.»

Sorrise, raggiante.

«Un giorno dovrai leggermi qualche tuo libro.»

La richiesta così schietta e naturale mi fece sorridere.

«Senz'altro.»

I suoi occhi, che il giorno prima mi erano sembrati così statici e immobili, erano inquieti, ma di un inquietudine curiosa; volevano conoscere tutto, illudersi di poter vedere e assorbire tutto ciò che li circondava. Guizzavano sul mio volto, mentre parlavo, mi accarezzavano le labbra fuggendo via un battito di ciglia più tardi, sfioravano il mio sguardo -e la mia anima-, andandosene senza sapere di averlo trovato.

Il rumore di un tuono rese istantaneamente quelle iridi terrorizzate.

Lui si avvicinò impercettibilmente.

«Hai paura?»

Accennò un sorriso colpevole, per nulla toccato da quella che, subito dopo essere stata pronunciata, mi era parsa una domanda fin troppo indiscreta.

«Molta.»

Con un dito percorsi attentamente una piega del suo cappotto, fino sfiorargli la mano gelida.

«Come posso aiutarti?»

Chinò il capo, assumendo un'espressione ancora più colma di gratitudine dei sorrisi che mi aveva donato. Poteva risultare errato, ma mi sembrava di essere privilegiato e che non fosse da tutti riuscire a ricevere tanto da lui.

Mi tornò in mente lo sguardo austero del biondo che me l'aveva portato via il giorno prima. Il solo ricordo della dolorosa pesantezza dei movimenti di Yuu in quella occasione mi fece incupire. Non potevo certo permettermi di chiedergli a bruciapelo quale e quanto intenso fosse il rapporto che li legava, ma la sottomissione dei suoi gesti mi faceva ipotizzare risposte che non volevo neanche lontanamente concepire.

Scacciai quei pensieri cupi e concentrai tutta la mia attenzione su quel viso.

«Guidami.» mormorò arrossendo appena. Tese una mano e si urtò delicatamente contro il mio braccio; ci si appoggiò con cieca sicurezza, continuando a sorridere «Avvertimi se ci sono ostacoli, gradini o cose così. Guidami nella strada giusta.»

Annuii, sorpreso e travolto dalla sua spontanea fiducia.

«Andiamo a casa mia? È qui vicino e...» feci una pausa, temendo di risultare scortese «...i tuoni si sentono di meno.»

Abbozzò una risata, spostandosi lentamente per mettersi al mio fianco.

«Sei sempre solito preoccuparti tanto per gli altri?»

«No, sei tu che mi fai quest'effetto.»

Rimasi così sconvolto dalle parole che erano echeggiate nell'aria come schiocchi di una frusta, che ci misi qualche istante per ricollegare tale dichiarazione alla mia persona. Arrossii furiosamente, chinando il capo.

Lui ridacchiò, appoggiandosi per qualche istante alla mia spalla.

«Onorato di essere l'unico.»




- Aoi -




«Non si sentono più molto, vero?»

Impiegai più di qualche istante per capire a cosa Kouyou si stesse riferendo.

«No, hai ragione. Arigato.»

Provai ad immaginarmi come potesse essere un suo sorriso. Quello di Ryo era secco, obliquo, disegnato dalla mano nervosa di un artista come una scattante linea diagonale. Quello di Yutaka invece era aperto, corposo, dolce in quelle fossette che gli solcavano le guance. Minoru sorrideva come se stesse sogghignando, tendendo le labbra fino a congiungersi le orecchie con un sorriso spropositato. Shirogane sorrideva sempre a bocca chiusa; mi aveva raccontato che aveva preso quest'abitudine nel periodo in cui aveva tenuto l'apparecchio ai denti e che non aveva mai smesso di sorridere in modo così composto e riservato.

«Ho sempre avuto paura dei tuoni.» ripresi qualche istante dopo, mentre cominciavamo l'ultima rampa di scalini; avrei potuto benissimo lasciar cadere il discorso nel vuoto, ma sentivo il bisogno di spiegare a qualcuno, di raccontare.

«La mia famiglia ha sempre fatto molto per cercare di tranquillizzarmi, ma senza troppi risultati. Anche quando sono cresciuto, morivo di paura durante i temporali, se non avevo nessuno accanto.»

Mi strinse impercettibilmente l'avambraccio, rimanendo in silenzio.

«Tutti hanno le loro fobie.» mormorò poco dopo, sciogliendo la stretta.

«Tu di cosa hai paura, Kouyou?» mi piaceva pronunciare il suo nome. Mi piaceva arrotolarmi le sue vocali alla lingua e poi lasciarle scivolare fuori.

«Della solitudine. E dei ragni.» aggiunse, ridacchiando.

Continuammo a salire lentamente le scale senza parlare.

«Gradino.» mormorò ad un tratto con finta noncuranza e rallentò visibilmente.

Questa sua totale e dedita concentrazione mi dava un senso di struggente tenerezza, oltre a dare vita, nel mio stomaco, ad una prorompente voglia di mettermi a ridere e a piangere assieme; più di una volta dovetti impormi non alzare una mano verso il suo viso e ringraziarlo con una carezza.

Superai l'ennesimo ostacolo facilmente.

Mi piaceva camminare accanto a lui. Era certo che se avessi provato a sfiorargli la pelle l'avrei trovata bollente; emanava un calore avvolgente e rassicurante anche attraverso il cappotto.

Quando entrammo nell'ingresso del suo condominio, mi stava spiegando di abitare in un attico all'ultimo piano. Scrollò entrambi gli ombrelli con una fretta malcelata che si ripercosse sul braccio su cui mi appoggiavo.

Mentre salivamo le scale -Kouyou aveva indovinato la mia avversione profonda verso gli ascensori- mi raccontò della sua famiglia, delle sue nipoti e della sua infanzia.

Parlava a macchinetta, lasciandomi appena il tempo per intercalare qualche commento o qualche frase che subito gli dava spunto per raccontarmi qualcos'altro. Sembrava che fossimo vecchi amici che si rincontrano dopo anni di lontananza e che lui stesse cercando in pochi minuti di raccontarmi ciò che mi ero perso.

«C'è un piccolo gradino, nell'ingresso.» mi informò con voce allegra.

Non c'era più imbarazzo nella sua voce, né esitazioni. I primi minuti i suoi avvertimenti erano risuonati cauti, timorosi di suonare presuntuosi o arroganti; l'avevo preso un po' in giro per questo e nel giro di qualche passo ci avevamo riso su come amici di vecchia data.

Io, che era timido e riservato perfino con la mia stessa famiglia, ero riuscito a intavolare una conversazione civile con un semi-sconosciuto. Certo, questo prima che mi sommergesse di dettagli sulla sua vita.

Arrivati al suo palazzo, in tutti non più di cinque minuti di andatura lenta, avevo già scoperto che era stato bocciato in giapponese al terzo anno del liceo e che quando aveva cinque anni aveva portato Man, la sua pesciolina rossa, a dormire nel suo letto, con tanto di boccia, acqua e alghe artificiali; era un miracolo, aveva detto in mezzo alle risate, che non gli si fosse rovesciata addosso e che la mattina dopo lui e Man dormissero tranquillamente l'una accanto all'altro.

Mi chinai a slacciarmi le scarpe e posai i piedi sul parquet tiepido dell'ingresso.

Ero dentro casa sua.

Rimasi inizialmente smarrito e atterrito da questa consapevolezza.

Ero in territori sconosciuti, estranei, forse ostili.

«Accomodati. Fa pure come se fossi a casa tua.»

A casa mia non dovrei stare attento perfino a come mi giro, Kouyou. Domo arigato ugualmente.

Mi affidai al mio udito per cercare di capirci qualcosa; dall'olfatto non mi aspettavo più nulla. Fin dal primo istante in cui ero entrato in casa sua, quello era stato catturato dal profumo che ci aleggiava. Il suo profumo.

Mi sfiorò una spalla col dorso della mano; mi appoggiai nuovamente al suo braccio, teso gentilmente in mio aiuto. Gli donai, in cambio di quel piccolo gesto di pura ed elegante cortesia, un sorriso quanto più genuino potessi mai dargli.

Mi guidò dentro ad una stanza profumata di incenso.

«Questa è la cucina.» mi prese delicatamente una mano e, come avevo previsto, sentii la sua pelle bruciare; la appoggiò delicatamente su una superficie dura e sottile «Siediti pure. Vado a prenderti qualcosa di caldo.»

Scostai la sedia da sotto al tavolo e mi ci sedetti con cautela, appoggiandomi allo schienale; con la punta delle dita sfiorai il cuscino morbido, mentre sentivo i suoi passi allontanarsi frettolosamente nel corridoio.

Non ebbi altro preavviso che il rumore felpato della sua camminata scalza e un allegro Eccomi qua!; sentii una stoffa calda e pesante sulle spalle e subito dopo venni investito dal suo profumo.

«Spero ti vada bene, forse è un po' grande...»

Ma io già non lo ascoltavo più. Con quanta più indifferenza riuscissi a mostrare, infilai le braccia nelle maniche del maglione, e nell'alzare annusai piano il tessuto a trame spesse.

Rimasi inebetito, il volto semi-affondato nel suo maglione e la mente piena di lui.




- Uruha -




Lo guardai entrare discretamente in casa mia, chiedendomi se al mondo esistesse qualcosa di più impalpabile ed etereo della timidezza con cui aveva penetrato il mio rifugio e la mia vita.

«Accomodati. Fa pure come se fossi a casa tua.»

Mi ringraziò con un debole sorriso; sembrava intimorito, spaurito in un ambiente che non gli era famigliare.

Non riuscivo neanche ad immaginare come dovesse sentirsi, costantemente sull'orlo del rasoio; la cosa più vicina al suo buio che potessi trovare nei miei ricordi era lo svegliarsi nel mezzo della notte a causa di un emicrania e trovarsi nella mia camera sigillata, nel buio più denso e corposo che ci sia.

Ma sentivo che le due cose non potevano essere neanche lontanamente comparate. Era ingiusto, triste, quasi paradossale che due occhi di tale incanto non potessero vedere.

Lo vidi accennare un passo incerto; il piede scivolò lentamente sul pavimento in cerca di ostacoli e il corpo lo seguì poco dopo, cauto, prudente, come se dovesse aspettarsi di cadere in una trappola da un momento all'altro.

Gli sfiorai la spalla col dorso della mano, piano, per attirare la sua attenzione; accettò l'aiuto che gli porsi assieme al mio braccio con un gran sorriso.

Il temporale era andato placandosi lentamente ed era rimasto solo il debole rimasuglio di qualche rombo in lontananza. Più di una volta avevo visto gli occhi di Yuu contorcersi atterriti in risposta al fragore di un tuono e mi ero sempre premurato di stringergli dolcemente un braccio, cercando di infondergli in qualche maniera un po' di sicurezza.

Mi seguì docilmente in cucina, gli occhi pacati e tranquilli di chi sa di trovarsi al sicuro.

Lo feci accomodare al tavolo, precipitandomi in corridoio per cercare qualcosa di caldo dentro cui avvolgerlo; il riscaldamento che avevo acceso appena entrati ci avrebbe messo qualche minuto per cominciare a scaldare tutte le stanze e quando gli avevo preso una mano per poggiarla sullo schienale della sedia, l'avevo sentita gelida sotto le mie dita.

Davanti al mio armadio mi presi qualche lezioso istante per decidere cosa volessi vedergli addosso di mio: fu un pensiero fulmineo, tanto allettante quando imbarazzante. Sentii le guance ardere di imbarazzo mentre l'immagine di Yuu che si chiudeva un mio paio di jeans addosso mi solleticava il torace.

Afferrai a casaccio uno dei tanti maglioni che Aya mi aveva fatto ai ferri e spedito da Sapporo, imponendomi di non pensare al fatto che l'avessi sempre considerato il mio preferito. Era stato il primo tentativo di mia sorella, era troppo lungo e un bottone era attaccato storto, ma non c'era abito che cui fossi più affezionato.

«Eccomi qua!»

Glielo sistemai sulle spalle con cura, riconoscendo in quei gesti l'affetto materno con cui mia madre mi sistemava la divisa scolastica ogni mattina; ogni giorno nell'indossarla volutamente trascuravo un bottone o allacciavo male la cravatta e ogni giorno lei mi abbottonava meglio la camicia, o rifaceva il nodo alla cravatta, costringendomi a piegare la schiena perchè lei ci arrivasse.

«Spero ti vada bene, forse è un po' grande...» mormorai per colmare quel silenzio.

«Va benissimo, Kouyou. Domo arigato.»

Mi chiesi come facesse, nonostante le ovvie difficoltà, a muoversi costantemente con scioltezza, con eleganza; nessuno mai avrebbe potuto pensare, guardandolo camminare, che rischiasse tanto ad ogni passo.

«Mi fai fare il giro della casa?»

Si appoggiò nuovamente al mio braccio, sulle labbra un sorriso appena accennato ma non per questo meno sincero.

Lo condussi per il corridoio, descrivendogli con cura ogni dettaglio del mio appartamento. Ebbi un violento tuffo al cuore quando, nel mio studio, riservò alla macchina da scrivere di Aya una leggera carezza. Riuscì ad individuare ogni centro nevralgico di quella casa, ogni oggetto al quale per un motivo o per l'altro ero particolarmente legato e ci si soffermò con noncuranza, sfiorandoli o porgendomi delle domande su di essi: le sue dita sfiorarono come piume il portacenere di mio padre, quello grande di cristallo, di cui io da bambino seguivo le venature con lo sguardo fino a perdermi nel loro intricato disegno, uno dei quadretti a punto croce di mia madre, la cornice d'argento decorata che racchiudeva una foto mia e di Takanori. Era come se ad una ad una avesse pizzicato con le dita ogni singola corda del mio cuore.

«Questo è il salotto...» mormorai quasi senza fiato, conducendolo all'interno del salone con attenzione. Era sempre stato molto caotico, vuoi perchè puntualmente lo adoperavo come pensatoio personale, vuoi perchè coincideva con la mia piccola biblioteca personale; c'erano libri dappertutto, sulla televisione -che ormai fungeva solo da ulteriore ripiano, dal momento che non la utilizzavo mai-, per terra, sul tavolino, sul pianoforte di Maiko.

«È un po' in disordine... Occhio al piano.» gli feci cambiare leggermente direzione, ma lui all'improvviso divenne rigido come una statua.

«Hai... hai un pianoforte?» bisbigliò, voltando il viso. Incrociai quelle iridi pazze di euforia, quelle labbra che a stento riuscivano a nascondere una risata di gioia. Pensai che fosse più bello che mai.

«Suoni?» sussurrai in risposta.

Annuì concitatamente, stringendomi una mano come se potesse trasmettermi mille e più ricordi.

Non aspettai neanche che mi ponesse la domanda che già vedevo affiorare sulle sue labbra.

Lo guidai verso lo sgabello, sgomberandolo degli innumerevoli libri impilati sopra; sedette lentamente, accarezzandone il rivestimento con i polpastrelli. Non ricordavo di aver mai visto quel pianoforte chiuso; non avrei neanche saputo come fare per aprirlo, molto probabilmente.

Accostò le dita al piano, e credetti di vederle tremare. Poi quelle affondarono nei tasti, dolcemente.


La sua musica fu un imprevedibile colpo di grazia.


Continua...


















Note di Mya:


Auguri Aelite.

Anche se dire auguri in un'occasione simile mi fa strano.


2570 parole per Uruha, 2570 parole per Aoi.


Ho terminato la stesura di questo capitolo (vedi, scritto interamente) con gli Acid Black Cherry e i Versailles nelle orecchie.

Ho deciso di spezzare i due canonici punti di vista di Aoi e Uruha per dare continuità alla storia e per procedere più velocemente. In parole povere, non mi andava che, terminato di descrivere l'incontro dal punto di vista di Aoi, ricominciasse da capo quello di Uruha; credo che tale “frammentazione” verrà portata anche nei prossimi capitoli.

Ho ragione di pensare (grazie tante, sono l'autrice) che nei prossimi capitoli potranno fare capolino anche altri punti di vista. In particolare ci terrei tantissimo ad inserire Kai e Reita in modo da spiegare meglio il loro rapporto e ho già appurato che per salvare un capitolo dallo sfracello più totale sarò “costretta”, per modo di dire, ad inserire anche Ruki e Shirogane.

Che dire, spero vivamente di non fare macelli. Già in questo capitolo ho dovuto farmi un post-it sullo schermo per ricordarmi dei dettagli *si sotterra*


Sono stata assente parecchio da EFP, e in generale dalla scrittura. Posso dire di aver passato un periodo non propriamente buono riguardo a ispirazione e fantasia, un periodo in cui persino pensare di buttare giù due righe mi dava fastidio.

Grazie a hide, persone meravigliose e buona musica fanno anche di questi miracoli.


Ho notato che ultimamente su questo sito c'è la possibilità di rispondere privatamente alle recensioni (e Aya è stata la mia “prima volta” xD). Probabilmente risponderò privatamente man mano che riceverò recensioni, da oggi in poi, visto che con i ritardi che faccio capita che debba rispondere a domande e questioni venute fuori mesi prima.

Però è anche vero che è molto piacevole rispondere alle recensioni prima di pubblicare... mah, vedremo.


Recensioni:



Aelite: con te parlo su msn, meglio. Ti adoro, sappilo ♥


Haha Deneb: dal mio modestissimo punto di vista, crepare Reita di botte, per un motivo o per l'altro, non è mai qualcosa di grave u.u Ma questi sono pensieri miei u.u

Vedi? Mi basta un tuo wow a darmi i brividi.

Arigato, e, ti prego, guarisci presto.


Guren: l'errore era mio, avevo fatto un copia-incolla di troppo xD

Uuugh, tu vuoi uccidermi. A dire il vero un sacco di gente vuole uccidermi ultimamente (chi di complimenti, chi di botte), ciò non va bene. Ti ho già detto che ti voglio un mondo di bene? E che ti sorregerò-stampellerò tutta la vita? E che sei una delle persone più buone e meravigliose che ho conosciuto in quest'ultimo anno?

Se non te l'avevo ancora detto, sappilo u.u


Shin: tu mi salti fuori ad intervalli casuali come un fungo xD Esempio massimo sta nell'incontro al cinema, dove hai dovuto gridare in mezzo al fiera per venti minuti prima che mi accorgessi che qualcuno stava nominandomi invano u.u

Dovresti conoscermi, cara e quindi sapere che non ho la più pallida idea di quanti capitoli avrà questa fic. Diciamo che per ora stiamo procedendo moooooolto a rilento (non so se do l'idea, ma sono passati solo tre giorni T___T) e che non ho la benchè minima idea né di quanto tempo passerà prima che le cose comincino a smuoversi, né quando e soprattutto come terminerà. Diciamo che potrei farti concorrenza ad Azzardo xD (a proposito, qui tutti attendono il ventesimo capitolo... io a maggior ragione, visto che mi hai raccontato che succede!)

Ci sentiamo itoshii, vedi di liberarti almeno per le vacanze di Natale ^^


Hime: uffa, ogni volta che arrivo a te, mi blocco. E sai perchè? Mh? Perchè mi togli le parole e la mia tanto vantata ars oratoria va a farsi un giretto perchè alla fine non riuscirebbe a concludere nulla. Quindi, se non riesco a spiccicare parola quando ci incontriamo a Lucca, se non riesco a rispondere con un minimo di decenza ai messaggi, alle telefonate e alle recensioni... diciamo che per un buon 80% è tutta e solamente colpa tua. Ilo restante 20% è solo colpa della mia timidezza, lo ammetto u.u

Aishiteru, Hime, aishiteru da morire


Cucciola_Suzuki: bo-hooooo, ero stata così brava a imparare chi fra voi due era chi ;____; Purtroppo ho la memoria di un cucchiaino arrugginito ;_____;

Ad ogni modo, tesoro mio, non sei assolutamente monotona, e ammesso e non concesso tu lo fossi, adoro la tua monotonia. Adoro te e le tue recensioni, e i tuoi complimenti. Mi fanno bene all'anima ♥

Un abbraccione!


Lain87: sei troppo gentile. Troppo, hai capito? E poi qualcuno si lamenta se mi inorgoglisco e se gongolo. Finchè continuate ad esseri così spaventosamente gentili ovvio che mi monto la testa u.u

Tu non sai che parto assurdo è stato Uruha in questo capitolo *picchia Urupon* Ovviamente sono strafelice che tale difficoltà non si noti nella lettura... ci mancherebbe solo che si notasse, accidenti a lui =_=

Per quanto riguarda i capitoli delle altre long, ehm, coff coff, prima o poi arriveranno. Prima o poi ò.o

Un bacione!


Cucciola81: che dici, sono migliorata, no? Ehm, dai, solo quattro mesi *si va a impiccare*

Dal mio punto di vista Reita ha tutte le colpe di questo mondo xD (e il bello è che lo descrivo bastardo e poi mi faccio impietosire xD), ma vedrai che si riscatterà anche lui, la smetterà di comportarsi come il cinico stronzo che effettivamente è e farà il buono u_u

Parola di autrice u_u (mai, MAI, fidarsi della promessa di una fanwriter, MAI! xD)

E io ogni volta che leggo una tua recensione mi viene voglia di pigliare un treno, una motocicletta, una zattera, un triciclo o i pattini a rotelle per venire a stritolare di abbracci te e tua sorella ;____;

Un abbraccione!


Mammina Grace: abbiamo già discusso (e lamentate) abbastanza dei nostri rispettivi seni su msn xD Quindi propongo di passare avanti xD

Ribadisco il concetto, mammina, tu mi fai M-O-R-I-R-E xD “altro che voce profonda come una tempesta...Yuu dovrebbe dare un'occhiata ai suoi piani bassi, e senti come ti sprofond-*la abbattono*” tu non hai idea di quanto riso a suo tempo e di quanto ho riso adesso rileggendola xD Per non parlare degli insulti a Reita *muore*

Sto cominciando anche io a pensare che la cose dello stesso numero di parole sia stata una grande stupidata, ma ormai che sono dentro non posso tirarmi indietro. Questo capitolo in particolare è stato un incubo xD

Ti adoro anch'io, Grace ♥


Papi: tu e le tue seghe mentali riguardo alle recensioni. Ma quanto volte dovrò ripeterti che va bene anche se mi dici che ti è piaciuto di volata su msn? Mh? Già il fatto che tu legga e apprezzi mi fa un piacere enorme, non ti angustiare riguardo alle recensioni.

Sei la prima che non odia Ryo... e devo dirti che anche a me fa pena, povero. Lo sto tartassando e martirizzando, però mi fa un'incredibile malinconia.

Grazie per la recensione, papi e per le uscite di testa al telefono xD

Un bacione!


Aya: ti ho già risposta privatamente, ma rinnovo i miei più sentiti ringraziamenti per la recensione!

Un bacione enorme, carissima ♥



Alla prossima.

Grazie a chiunque apprezzi questa ifc che procede a rilento, a chi paziente tanto per i sudatissimi capitoli. Vi voglio bene.

Mya

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Capitolo 6
*** AVVISO ***


AVVISO:


Porca troia (non c'è che dire, bell'inizio), sono due ore che cerco di buttare giù qualcosa.

Qualcuno dice che chi mi ama capirà ciò che voglio dire e non posso fare a meno di aggrapparmi a questo, visto che non ho la più pallida idea di come cominciare.


Ho deciso di spostarmi su un altro sito, precisamente un blog di mia creazione e contenente solo mie opere.

Dietro questa mia scelta ci stanno più di qualche mese di riflessioni, non mi sono svegliata questa mattina con quest'idea, perchè posso dire con estrema certezza di aver conosciuto persone che ora sono pilastri della mia vita qua dentro.

Non intendo, inoltre, abbandonare la stesura delle mie tre long; mi sto prendendo un attimo di pausa dai loro ritmi e dai loro limiti, ma non le abbandonerò.

Per chi volesse continuare a seguirmi, ecco il link al blog:


http://distortedmya.livejournal.com/


Per ora è ancora scarno (è stato creato qualche giorno fa), ma spero di riempirlo di tutte quelle fiction che ho in mente e che avevo automaticamente associato a questo sito.



Avrei voluto andarmene con qualcosa di meglio di queste quattro righe spelacchiate, ma preferisco non aggiungere altro.

Solo grazie infinite a tutte. Grazie, siete state la mia vita in questi ultimi due anni.

Mya

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