I Figli dei sogni

di Onigiri
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Merin ***
Capitolo 2: *** pocce e patate ***
Capitolo 3: *** Stella Stellina ***



Capitolo 1
*** Merin ***


I Figli Dei Sogni

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I







Merin adorava quei rimasugli di neve che, in quel periodo dell'anno, si ostinavano a non sciogliersi negli angoli più ombrosi delle strade: li adorava perché, per lei, erano la testimonianza più evidente che l'inverno fosse già quasi giunto al suo termine, e che presto la primavera si sarebbe spalancata in tutti i suoi profumatissimi colori. Sarebbero finite quelle gelide escursioni alla ricerca di legna per accendere il fuoco, il lavoro troppo faticoso nei campi dalla terra dura come il ghiaccio, e le razioni ridotte di cibo durante le tormente più dure. Per una cittadina come Luhne composta per metà da agricoltori l'inverno poteva essere un vero problema, soprattutto per chi abitava nei punti più vicini alla montagna  -proprio come Merin e suo padre: la consapevolezza che presto, forse anche solo tra qualche settimana, l'inverno se ne sarebbe andato non poteva non renderla entusiasta. In quei grumi di neve rimasti nei vicoli, ultima traccia rimasta delle bufere che avevano agguantato la città per interi mesi senza sole, lei vedeva già la montagna tingersi di verde e profumarsi di caldo, i fiori sbucare fuori tra le rocce, e il cielo ridere e spalancarsi nel suo azzurro più incantevole. Per questo si concesse di osservare per qualche altro momento il cumulo di neve rimasto all'ombra del viottolo tra la casa del signor Ruduf e la panetteria gestita dalla moglie. Pensò che presto il sole avrebbe raggiunto anche quel punto e che di quella collinetta bianca non sarebbe rimasto che sporca acqua grumosa. Quando un altro passante le dette per sbaglio l'ennesima, fastidiosa spallata, decise di lasciare la strada e raggiungere l'ingresso della panetteria.

Un familiare DlinDlan accompagnò il movimento della porta insieme ad un intenso odore di farina che le grattò piacevolmente il naso.  Si affacciò senza entrare, guardandosi attorno nella penombra solo per scoprire che dentro non c'era nessuno.
<<Lan?>> chiamò, ma a risponderle fu solo il rantolo lontano della stufa. S'intrufolò dentro lasciando la porta socchiusa, ritrovandosi al centro della stanza in meno di tre passi. La panetteria della signora Nita aveva una forma esagonale che dall'esterno non si notava mai bene quanto all'interno, e un pavimento lucidissimo su cui scivolarci e finire a terra non era mai troppo difficile per nessuno, soprattutto per i bambini e i vecchietti: ma la cosa che più di tutte attirava l'attenzione erano sempre stati quegli eccentrici disegni di foglie gialle e rosa sulla parete color prugna. Quando si chiedeva alla signora il perché di quella bizzarra tappezzeria, lei rispondeva sempre con un sorriso candido: 'L'avete detto, proprio perché è bizzarra!'
Merin aggirò il bancone di vetro con esposte le ciambelle e le trecce di pane, e si rivolse alla rampa di scale. <<Lan?>>  si spinse fin sul primo gradino e si affacciò al corrimano di pietra fissando il buio troppo spesso del piano superiore. <<Sei qui? Ehi Lan, ci sei?!>>
<<Merin!>>

La voce alle sue spalle la sorprese tanto che, prima di voltarsi, non riuscì a trattenere un sussulto così forte da farle tremare le spalle. Quando scoprì chi era stato a chiamarla, sorrise e non si stupì della propria reazione: la signora Nita aveva sempre avuto quel modo di avvicinarsi agli altri di soppiatto, senza far scoprire la sua presenza prima d'aver aperto bocca e spaventato qualcuno, come fosse un fantasma. Eppure a guardarla, con quella corporatura grossa, il passo apparentemente pesante e la voce molto potente per una donna, chiunque non la conoscesse non lo avrebbe mai indovinato.
Merin le si avvicinò velocemente con l'intento di abbracciarla, ma rinunciò quando si accorse che stava reggendo un vassoio pesante tra le mani ancora sporche d'impasto. Così le si fermò di fronte e ricambiò il suo sorriso  <<Ciao!>> la salutò, osservando affascinata i suoi riccioli non più scuri ondeggiare come molle ad ogni suo movimento del capo.  
<<Buongiorno cara>> la signora Nita le lanciò uno sguardo docile prima di superarla e raggiungere in fretta il bancone: ci appoggiò sopra il vassoio e poi iniziò a sistemare i panini ancora caldi dietro la vetrina  <<Sei qui per prendere qualcosa? Ho delle ciabatte bianche ancora in forno, se aspetti un poco te le faccio assaggiare.>>  
<<
No, no grazie>>  Merin le si avvicinò intrecciando le mani dietro la schiena e studiando attentamente il suo lavoro, ipnotizzata dai gesti costanti e morbidi della donna. Quando si accorse di star perdendo tempo scosse il capo dandosi della sciocca   <<In realtà stavo cercando Lan. Dov'è? In cucina?>>   <<...chi, Lanis?>> la signora Nita fermò il suo lavoro per poterla guardare meglio negli occhi. Fu solo un attimo, prima che riabbassasse il capo e riprendesse le sue faccende da dove le aveva interrotte   <<No, no tesoro, Lanis non è qui>>
<<Ma Ruduf ha dett-!>>
<<Lanis è venuto in panetteria di mattina presto, però poi l'ho mandato dal Nonnino perché da qualche giorno mi stava dicendo d'aver bisogno di aiuto per gli alberi di pocce. Credo siano già da raccogliere, lui però non riesce più a muoversi bene e per questo aveva bisogno di una mano. E' uscito da molto, ma deve essere ancora a casa sua.>>
Una delle poche cose che la signora Nita aveva in comune col figlio adottivo era quel sorriso sempre dolce, sempre caldo come una torcia che Merin adorava con tutta sé stessa e che si soffermò a contemplare mentre ascoltava la sua spiegazione. Quando finì di parlare, Merin annuì senza accorgersene, si fiondò verso la porta accennando un <<Grazie, a dopo!>> e il secondo DlinDlan della giornata accompagno la sua veloce uscita dalla panetteria.

Il freddo mattutino le punse le guance come una carezza di spine, un fremito la colse alle mani e se le portò subito alla bocca per riscaldarle col suo fiato. Poi riprese a correre, anche perché se fosse rimasta ancora ferma sulla strada probabilmente sarebbe stata la folla a trascinarla via senza che lei muovesse un piede. Il sole era sorto da poco, ma tutta Luhne era già sveglia da un pezzo: le strade erano strette e si riempivano sempre di gente a quell'ora del giorno, di contadini un po' ritardatari che andavano a lavoro o pescatori che cercavano un angolo libero per vendere pesci il doppio più lunghi di loro. Molte vecchiette si erano sedute sugli usci delle case per cucire stoffe o spellare verdure, e visto che a tutte piaceva sempre sporgere un po' i piedi fuori dall'uscio mentre stavano sedute c'era il rischio di inciamparci sopra se non si faceva attenzione. Poi a quelle vecchiette avrebbero presto fatto compagnia donne più giovani con i figli piccoli a seguito, e alla calca di gente si sarebbero aggiunti anche bambini alla ricerca di qualche sasso da usare come giocattolo.
Merin evitò la folla schivando e spingendo come poteva, a volte aggrappandosi di nascosto insieme ad altri ragazzini a qualche carretto diretto verso la piazza del mercato  -in uno c'erano galline cerule coi loro pulcini arancioni , e tutte quelle piume svolazzanti le provocarono una tale raffica di starnuti da convincerla presto a mollare la presa. Gli odori erano fortissimi, umidi e pungenti, gradevoli o meno a seconda delle sfumature: in diciotto anni passati respirando quegli odori Merin non era ancora riuscita ad abituarsene del tutto.

Ci mise un po' di tempo ad attraversare tutto quel tratto di città ed arrivare a sud, verso il mare e la sua spumosa aria salata. Quella zona di Luhne comprendeva molte piccole spiagge, tutte o quasi dalla forma di falce e circondate da alti cumuli di roccia che le tenevano riparate dal vento. Merin scese dal carretto di verdura che le aveva dato l'ultimo passaggio e proseguì a piedi, fino a superare i margini della città e raggiungere il terreno sabbioso che l'avrebbe condotta a quelle spiagge.
La casa del Nonnino era una delle tante collocate vicino al mare, sparse e isolate tra loro come a non volersi disturbare a vicenda. Non che Nonnino fosse il suo vero nome, e non che lui avesse davvero dei nipoti in tutta Luhne, ma era così che la gente lo conosceva e lo chiamava quasi con affetto. Merin aveva sentito diverse strane dicerie su di lui: che in realtà fosse un naufrago, che prima di arrivare lì fosse un cacciatore di troll per venderne le minuscole corna d'oro che sporgevano poco sopra le orecchie, e che a renderlo un po' pazzo erano state le sirene che una notte lo avevano trascinato in fondo al mare succhiandogli via tutto il senno con i loro baci velenosi. Merin non aveva mai indagato su quelle storie (anche se dubitava che la maggior parte non fossero stati inventati da qualche buontempone): avrebbe potuto chiedere direttamente a lui, se non fosse stato che, sirene-succhia-senno o meno, il Nonnino un po' matto lo era sul serio.
Il sentiero che conduceva a casa sua era deserto, così si mise a correre e non si fermò a riprendere fiato fino a quando non ne scorse il tetto bianco in lontananza. Invece di aprirlo, scavalcò il cancelletto di legno con un balzo e attraversò in fretta tutto il giardino sabbioso, lasciando che qualche guscio secco di granchio le scricchiolasse sotto le scarpe quando ci passava sopra. La porta non era chiusa a chiave  così entrò in casa senza premurarsi di bussare  -tanto era inutile, sordo com'era non si sarebbe accorto di nulla neanche se avesse fatto esplodere una bomba sull'uscio. 
L'interno era caldo, ancor più caldo e confortevole della panetteria, e Merin, soffermandosi un attimo sul tappeto ruvido dell'ingresso, se ne beò con un sospiro di piacere. Si staccò un po' di malavoglia dalla porta e seguì il tragitto del corridoio guardandosi attorno. La casa del Nonnino aveva un solo piano, ma rimaneva lo stesso più alta rispetto a tutte le altre case delle vicinanze. Aveva persino un suono, quella casa, ed era la voce delle conchiglie quando accostate a un orecchio cantano la voce sussurrata del mare. Ogni visita a quella casa le dava l'impressione di essere finita dentro la pancia di un mostro: o meglio ancora, che ogni oggetto, ogni crepa, ogni scricchiolio del pavimento fossero lucchetti socchiusi di forzieri pieni di tesori e di segreti impronunciabili. Ogni volta che pensava certe cose, un brivido di piacere le accarezzava la schiena come le fusa di un gatto.
Quando poi raggiunse il salotto dall'accecante color limone, trovò il Nonnino seduto su una poltrona incredibilmente più grande di lui, circondato da tanti di quei cuscini che sembrava pronto a sparirci dentro da un momento all'altro. Appesi su una parete Merin riconobbe quei disegni infantili fatti col fango che un tempo gli aveva regalato, e che lui, pur non indovinando mai cosa raffigurassero aveva appeso in bella mostra come fossero stati preziosi dipinti d'autore.
 <<Nonno, ciao!>>  Merin si portò davanti alla poltrona e sfiorò le gambe ossute del vecchio nascoste sotto una coperta a scacchi. Il vecchio, che sembrava impegnato a scacciar via una mosca dal naso a forza di smorfie, quando si accorse di lei spalancò gli occhi grigissimi e fece tremare le mani sui braccioli della poltrona. Rimase un attimo in silenzio prima di riuscire a riconoscere la sua figura e tornare a rilassare le spalle.
<<Oh... Oh!>> la bocca gli si aprì in un bel sorriso di tre denti al massimo, le iridi acquose si fecero lucide come biglie d'argento <<Bambina, che bello, sei venuta a farmi visita? E' per dirmi che stai leggendo il bianco? Come sta tuo padre?>>
Merin accettò una carezza della sua mano rugosa e osservò come i riflessi rossi del fuoco del camino gli bagnavano i fili chiari della barba e dei capelli. Una cosa che col tempo aveva imparato a fare era non scomporsi più di fronte alle sue domande bizzarre  <<No>> ammise paziente  <<Sono venuta per Lan, è ancora qui?>>
<<..come?>> chiese lui, lo sguardo fattosi improvvisamente smarrito  <<Che cosa è qui?>>
<<LANIS, Nonno!>> gli urlò in un orecchio, così forte che la mosca sul suo naso volò via con un ronzio spaventato <<Sai.Se.Lanis.E'.Ancora.Qui?!>>

Il Nonnino sbatté le palpebre con aria confusa, gli occhiali quasi gli scivolarono via ma Merin riuscì a recuperarli prima ancora che raggiungessero il mento.  <<La... nis?>>
Annuì con foga  <<Esatto Nonno! Dov'è?>> chiese di nuovo, ma lui ci mise ancora un po' di tempo per darle una risposta  -tempo che in gran parte perse osservando le macchie del soffitto. <<Lanis... Lanis...>> cantilenò pensieroso.
<<
...Lanis... Aaahh!>> rise e tossicchiò portandosi di riflesso una mano davanti alla bocca  <<E' un bravo ragazzo, proprio un bravo ragazzo... lo sai che mi sta aiutando a raccogliere le pocce? Sono maturate presto quest'anno. Gliene regalerò qualcuna. Quante volte sogni al giorno, bambina mia?>>  
<<Grazie Nonno, allora io lo raggiungo, va bene?>>  
Merin saltò subito in piedi e corse verso la cucina senza aggiungere altro: sorpassò il tavolo colmo di pentole vuote e saltò per superarne una caduta sul pavimento, fino a raggiungere la porta a vetri che conduceva direttamente all'orto.

L'odore del mare la investì in pieno non appena mise il naso fuori di casa. Rabbrividendo e stringendosi nel suo giubbotto di pelle attraversò il pontine di legno fino a raggiungere le tre piccole barche legate al palo, guardandole dondolare seguendo la direzione delle crepe dell'acqua. Il sole freddo alle sue spalle rendeva l'acqua brillante come un immenso tappeto di diamante, tanto forte da pruderle gli occhi, ma fece finta di nulla.

Merin slegò la barca che più di tutte somigliava a un guscio di nocciola, ci salì sopra e brandendo l'unico remo si diresse dove si trovavano gli alberi di pocce.
Nonostante le acque tranquille delle spiagge di Luhne fossero l'ambiente ideale per alberi del genere, quelli del Nonnino erano i soli che si potevano trovare in tutte le spiagge di tutta la costa: sicuramente per questo motivo il Nonnino se la cavava benissimo con la vendita delle pocce, forse nche meglio di quanto Merin e suo padre ricavassero con la loro coltivazione di patate rosse.
Erano alberi particolari: più per il fatto che dovevano essere piantati sott'acqua e non davano frutti fino a quando non crescevano abbastanza da oltrepassare la superficie, lo erano per i fiori rossi, simili a stelle marine, conosciuti per il solo soprannome di "Urlatori". Li chiamavano così perché gridavano, letteralmente, con un verso stridulo e acuto che non c'era verso di far smettere per giorni e notti intere, fino a quando i petali non scoppiavano e al loro posto non cresceva il frutto. Solo un vecchietto mezzo sordo come il Nonnino avrebbe potuto sopportare tanto bene un numero simile di alberi di pocce nella loro piena fioritura.
Merin, remando, si fece largo tra i rami spinosi e le folte foglie color alghe, guardandosi attorno con attenzione e ormai profonda impazienza. <<Lan!>>  sbuffò, rompendo il silenzio pacifico dell'orto e ignorando con rabbia le foglie più sporgenti che la trattenevano per le trecce bionde e le scompigliavano i capelli.Dopo un altro poco girovagare, ormai scocciata, tirò fuori il remo dall'acqua gelata e se lo sbatté forte sulle ginocchia, portandosi le mani a coppa sui lati della bocca.
Poi urlò.
<<LAN! EHI, LAAAAAAAAANNN!>>
<<Merin!>>
E Lanis comparve.

Da dietro il tronco di due alberi una barca simile alla sua puntò la prua nella sua direzione, mentre la persona a bordo un po' alzava il braccio e lo agitava per farsi vedere, un po' cercava goffamente di remare con una mano sola. Merin si voltò a guardarlo e quando lo riconobbe, senza riuscire a trattenersi, sorrise di riflesso: poi ci ripensò, decidendo invece che doveva mostrarsi arrabbiata, e allora incrociò le braccia al petto e attese che la raggiungesse. Con un cipiglio irritato osservò la sua figura farsi velocemente sempre più nitida, sempre più grande. Lanis non smise un attimo di remare in quel modo ridicolo fino a quando le loro due barche non si scontrarono appena allontanandosi un poco in direzioni opposte. Sorrise, tra il contento e il sorpreso, i capelli rossicci spettinati dal vento e buffamente colmi di foglioline marroni, il viso da ragazzo colorato dal freddo e dal sole.
<<Ehi!>>
<<Ehi.>>
<<Cosa ci fai qui? ...ah, no, non dirmelo!>> la zittì alzando un dito prima ancora che lei potesse aprir bocca.  <<Il Nonnino ha incastrato anche te con questa storia delle pocce, vero? Be', almeno in due finiamo presto, e poi mi annoiavo a stare solo: lo hai già un cesto?>>  Lanis si girò col busto afferrando un cestino ancora vuoto incastrato tra due già quasi pieni di frutti azzurrognoli.
Lo porse a Merin, ma lei non lo prese  <<No, Lan. Non sono qui per il Nonnino, stavo solo cercando te.>>  si spinse in avanti e tese un braccio per  afferrare il bordo della sua barca e cercare di avvicinarla alla propria. Lanis l'aiutò.
<<Me?!>> chiese poi, alzando gli occhi dal mare per poter incontrare i suoi. Le iridi di Lanis avevano un colore particolare, sul dorato, che cambiava spesso sfumature a seconda della luce: quella mattina erano scuri, quasi metallici, come due luminose schegge di ferro.  <<E' successo qualcosa? Mio padre...?>>
<<No no, tranquillo: l'ho visto stamattina a casa tua e stava meglio del mio. Ti cercavo perché dovevo solo dirti una cosa. Sono andata alla panetteria e tua madre ha detto che eri qui, per questo sono venuta.>>
<<Be'... eccomi>>  Lanis allargò le braccia in un gesto teatrale che le fece scappare un sorriso  <<Cosa volevi dirmi di tanto importante?>>
<<E' papa!>> esclamò Merin aggiungendo una tale improvvisa forza nel suo tono di voce che Lanis quasi se ne spaventò <<Stanotte ha trovato... è tornato a casa con una cosa che...>> gli occhi le brillarono e il discorso s'interruppe a metà mentre Lanis la osservaa assumere un'espressione lontana, come fosse presa da chissà quale pensiero. Non era una novità che Merin si lasciasse distrarre dal suo mondo di sogni, ma il non sapere di cosa stesse parlando iniziò a metterlo in agitazione. <<Cosa?>>
<<Oddio Lan! Lo devi vedere, lo devi assolutamente vedere! E'... è così... così...!>>
<<Ma cosa è così?!>>.
Merin trattenne un sorriso mordendosi le labbra e lo fissò a lungo senza dir nulla, con le mani congiunte sulle gambe e il busto proteso verso di lui. Sembrava indecisa se continuare a parlare o meno.
Lanis la osservò alzando tanto un sopraciglio da farlo scomparire sotto la frangia disordinata dei capelli.  <<Allora!?>> la incoraggiò, impaziente.
Ma Merin scosse il capo  <<Lo devi vedere e basta, Lan. Se te lo dico prima non sarà la stessa cosa dopo che te lo avrò mostrato.>>
<<Ma io devo fare questo lavoro, e mi ci vorrà un sacco di tempo>> protestò lui, con un tono quasi piagnucoloso, alzando una mano per invitarla a guardarsi attorno tra gli alberi ancora carichi di frutta. Merin però non seguì quel gesto, né sembrò scoraggiarsi dalle sue parole <<Se ti aiuto e finiamo presto, poi puoi venire a casa mia?>>
<<Sì, certo, m-!>>
<<Allora zitto e dammi il cesto. Muoviti!>>

Lanis guardò stranito la piccola mano tesa verso di lui. Poi, con un mezzo sbuffo, si arrese e l'accontentò.  <<Non vuoi proprio dirmi niente? Neanche un indizio? Ora sono curioso!>>
<<No. Tu prima dove ti trovavi?>>
<<Da quella parte. Sei sicura? Sicura sicura sicura sicura sicura!?>>
<<Allora io andrò da quell'altra. E>>  Merin guardò Lanis con un'espressione molto eloquente sul viso, mal celando un sorriso che sapeva di dispettoso  <<Lan, no!>>

<<No non ne sei sicura?>>
<<No non ti dico un accidente!>>


Il verso acutissimo di un gabbiano attirò la loro attenzione facendogli alzare lo sguardo sul cielo color glicine. L'uccello sfrecciò verso terra senza considerarli affatto, e Merin e Lanis ne seguirono distrattamente la direzione, guardandolo sorvolare la casa del Nonnino, quasi sparire quando raggiunse i bordi bianchi della città, e poi volare ancora, sempre più lontano, sempre più diretto verso il centro dell'isola.
L'isola di Luhne.
La montagna in mezzo all'oceano.





 






continua...




°°°
Buondì.
Pubblico una mia nuova storia *schiva il primo pomodoro che le viene lanciato*  sperimentando uno stile diverso dal mio solito, per vedere cosa succede ^^.

A dispetto di quel che può far sembrare questo noiosissimo primo capitolo, la trama presenta molte scene d'azione e qualcuna un po' cruda.
Detto ciò... grazie infinite a chi è arrivato fin qui >//>.

au revoir!




 


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Capitolo 2
*** pocce e patate ***


I Figli Dei Sogni

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II







Le navi che giungevano dal continente non erano mai state una novità a Luhne.
Ad arrivare dal mare erano visitatori, commercianti, gente del luogo che tornava dalla famiglia come il figlio di Hog il fabbro, che faceva lo studioso e teneva  conferenze oltreoceano tornando a casa solo una volta all'anno.
Luhne però era soprattutto una tappa transitoria per chi doveva spostarsi da un lato del continente all'altro, quando il tragitto via mare si rivelava più facile da affrontare rispetto a un viaggio sulla terra  -molti marinai, quando si fermavano a parlare con gli abitanti dell'isola da dietro un boccale di liquore, raccontavano spesso di picchi invalicabili di roccia e ghiaccio, di campi enormi di paludi velenose, o semplicemente di tasse sul transito troppo salate per le tasche di fin troppe persone. Dicevano tutti che da lontano Luhne sembrava una grande nuvola, e non c'era da stupirsi di questa considerazione: le case e le strade erano interamente costruite con la pietra bianca raccolta nei giacimenti nel retro della montagna, e quando arrivava la neve, o meglio, quando d'autunno tutta l'isola veniva avvolta da certi anelli di nebbia spessi come cuoio, gli stessi abitanti avevano l'impressione di galleggiare in una coltre di nubi biancastre.
 Le navi, per arrivare a Luhne, partivano tutte dal porto di Sciarodenzi e affrontavano un viaggio che non durava mai meno di sei o sette giorni, ma visto che non di rado si rischiava di incappare nei turbolenti cavalloni del mare in tempesta, capitava spesso che ce ne volessero anche dieci. E visto che per la gente del luogo l'arrivo di una nave era sia la scusa per pensare meno al proprio lavoro, sia al contrario l'occasione per buttarcisi a capofitto e fare affari più fruttuosi del solito, si teneva sempre bene a mente il tempo che i visitatori  impiegavano a restare sull'isola e ad andare via, e quanto ne passasse generalmente da un transito di navi all'altro. Secondo i calcoli di tutti quei mercanti che aspettavano impazientemente l'arrivo degli stranieri, la prossima nave sarebbe dovuta arrivare in due giorni.
Probabilmente anche meno.


<<La prossima nave arriverà in ritardo>>
<<Gilbo ha detto che sono tutti morti!>>
<<Non è vero! Dice solo che arrivano tardi stavolta.>>
<<E perché?>>
Reno e Nils, con addosso solo i loro vecchi pantaloncini, si aggrapparono ala barca di Merin facendola inclinare di più nella loro direzione. Vederli così puliti per via dell'acqua marina, invece che con la solita faccia nera di sporcizia, le faceva quasi venir da ridere tanto la cosa era insolita.
Erano due bambini pestiferi che avevano perso i genitori solo qualche anno prima, durante una frana sul lato ovest della montagna, mentre pescavano nei pressi della costa.
Merin era presente, anche se nascosta con Lanis dietro la porta della panetteria, quando si era tenuta la riunione degli abitanti di Luhne per decidere a chi i bambini dovessero essere affidati. La cosa che stupì tutti fu che invece quelli, piuttosto che finire nelle grinfie di qualche tutore, si erano immediatamente abituati a vivere per conto loro, e mai una volta si erano lasciati acciuffare da chiunque cercasse di tirarli fuori dalla strada. Finì abbastanza presto che la gente si rassegnò a lasciarli stare dove più preferivano, e ad allungargli ogni tanto un biscotto o una vecchia maglietta quando li vedevano passare. Erano dei veri monelli, sempre a fare dispetti, sempre a inventarsi storie da raccontare in giro e a correre sui tetti agili come gatti per tirare verdura marcia sulla testa dei passanti: non raramente questi giochi avevano scatenato l'ira di qualcuno, come quella volta che Hot (il padre dello studioso) aveva perso la pazienza e li aveva rincorsi con un ferro incandescente in mano fino a quando non si era calmato. Eppure tutti a Luhne provavano un certo affetto nei loro confronti, come se senza di loro e quelle corse a perdifiato sui tetti la città non sarebbe più stata la stessa.
Che adorassero le pocce e ogni tanto nuotassero nell'orto del Nonnino per rubacchiarne qualcuna non era un mistero per nessuno, se non forse per il Nonnino stesso.

<<
Per la tempesta>> spiegò Reno, il più grande, agitando forte le gambe per riuscire a tenersi a galla nell'acqua ghiacciata  <<A largo il mare si è fatto grosso e allora la nave che doveva venire forse arriva in ritardo.>>

<<Ma non ha fatto brutto tempo.>> protestò Lanis non appena riuscì a sbucare fuori da dietro un albero di pocce. Si avvicinò a loro con la barca frenandola col remo prima che potesse colpire i bambini in testa   <<Non ha piovuto, non c'è stato mare agitato, e nemmeno un vento più forte del solito. Come fate ad esserne sicuri?>>
<<Ce l'ha detto Gilbo!>>
<<Non l'ha detto a noi: lo abbiamo sentito parlare con degli amici che stanotte non sono potuti andare a pescare a largo con lui>>
Il fatto che sulla cinta dei loro pantaloni fossero attaccati due pesciolini con ancora l'amo in bocca doveva spiegare il perché quella mattina fossero andati da Gilbo il pescatore ben attenti a non farsi vedere da quest'ultimo.
Merin e Lanis si lanciarono un'occhiata interrogativa, probabilmente chiedendosi entrambi se credere o no alle parole dei due fratellini.
<<Oh, be'>> fu Lanis, con un'alzata di spalle, a parlare per primo  <<se anche arrivano un po' in ritardo pazienza, che problema c'è?>>
<<Non sarà davvero morto qualcuno, Lan?>>
<<Ma no, stai tranquilla: ti ricordi  quella volta che siamo andati a vedere una nave da vicino? Quando volevamo salire a bordo e ci hanno beccati?>>.  
Merin ci pensò su un momento, e quando ricordò si lasciò andare in una grossa risata  <<Ci siamo messi a piangere perché dicevano di volerci buttare in mare!>>
<<Sì, infatti. Comunque ho parlato un po' con i marinai e mi hanno detto che le burrasche non gli fanno nulla, se non ballare un poco, e che proprio in caso di emergenza hanno anche le scialuppe di salvataggio. Lo sapevi che hanno anche i cannoni?>>
<<Davvero?!>> chiese subito Nils con sguardo rapito, avvicinandosi a Lanis seguito a ruota dal fratello maggiore. Tirò fuori una mano dall'acqua e l'alzò per poggiarsi al bordo della sua barca, facendo scintillare al sole quel braccialetto d'argento che aveva sempre legato al polso. La signora Nita raccontava spesso di essere stata presente quanto il padre dei bambini lo aveva regalato alla loro madre prima di chiederle di sposarlo.
<<E li sparano i cannoni? Eh?>>
<<Mi hanno detto che di solito non li usano, però che di pirati in giro ce ne possono essere lo stesso e che non si sa mai>>  al sentirsi parlare di pirati i due fratellini lanciarono un coro di "Ooohh!" carico d'ammirazione.
Lanis li ignorò. <<Quello che non mi convince è la tempesta.>>
Merin lo guardò grattarsi il collo con aria pensierosa, come faceva sempre quando c'era un dubbio che lo tormentava. <<Perché non ti convince?>> gli chiese.
<<Perché se c'è stata davvero doveva essere molto lontana da qui, o qualcosa l'avremmo sentito, no? Tipo, il vento: ha fatto calma piatta in questi giorni, a  malapena mi ricordo com'è fatto. Ma se c'era una burrasca molto lontano da qui, non credo che anche Gilbo sia riuscito a vederla, no?>>
<<Invece l'ha vista, noi lo abbiamo sentit-!>>
Prima che Reno finisse di parlare, Lanis aveva già afferrato una poccia dal suo cesto e l'aveva lasciata cadere in mare, guardandola sparire velocemente come fosse stata un grosso sasso.  I due bambini, di fronte a quel gesto, si zittirono all'istante, e sempre all'istante si tuffarono per recuperarla lasciando dietro di loro una lunga traccia di scoppiettanti bollicine.
Merin guardò prima la scena, poi Lanis  <<Perché l'hai fatto?>>
<<Almeno ce ne liberiamo. Ci rimane ancora qualche albero: finiamo? Voglio andare a casa tua.>>
Prima che Merin potesse rispondere Lanis voltò la barca e remò rapidamente nella direzione opposta alla sua. Lei scosse appena la testa e lo seguì, dirigendosi verso un altro albero non molto distante.

Quando i due fratellini tornarono a galla il più piccolo aveva il frutto sorretto tra le dita bagnate e se lo stava già mangiando con gusto. Reno glielo strappò subito di mano e gli diede un grosso morso, poi glielo restituì.  
<<Merin! Merin!>>  con ancora la bocca piena, il maggiore agitò un braccio verso le due barche ormai lontane  <<Se ti diciamo un altro segreto possiamo prendere altre pocce?>>
<<Perché non le chiedete al Nonnino?>> rispose lei, alzando la voce per farsi sentire e allungando una mano verso il ramo più vicino   <<Ve le darebbe volentieri senza che voi le dobbiate rubare, lo sapete?>>
Ma già alla parola Nonnino i due bambini si erano come impietriti d'un tratto.
Nils masticò lentamente il suo boccone con metà faccia ancora nascosta nell'acqua, e quando finì d'ingoiare si girò su sé stesso e nuoto in fretta verso la riva, senza dir nulla. Merin lo guardò andarsene con un'espressione stupita sul volto.
<<Lui non ci piace>>  spiegò Reno, lasciando che il fratello se ne andasse senza di lui. La sua voce infantile era un misto di serietà e angoscia che le mise i brividi al solo ascoltarla  <<Dice sempre che le ombre cercano i bambini come noi e se li portano via, e che se anche ci nascondiamo quelle ci trovano lo stesso. Ci fa paura>>
<<Ma non è colpa sua>> protestò lei da lontano  <<E' un po' matto, questo sì, ma non è mica cattivo.>>
<<E' matto però ci fa paura lo stesso. Ciao!>>
Come il fratello più piccolo, Reno nuotò in fretta nella direzione opposta alla lora e se ne andò senza aggiungere altro. Merin osservò le loro figure raggiungere insieme la riva e poi correre sulla sabbia verso dove dovevano aver lasciato i loro vestiti, fino a quando non sparirono dalla sua vista.
<<Ma dicevano la verità?>> domandò, forse più a sé stessa che a Lanis, prima di tornare a raccogliere le pocce con aria pensierosa. Sentì l'amico lasciare un sospiro.
<<Se anche è vero, che t'importa? Non succede nulla se la nave arriva in ritardo.>>
<<...io però mi riferivo al Nonnino.>>


Alla fine, quel lavoro che avrebbe richiesto almeno tre ore di tempo, riuscirono a finirlo in poco più di una soltanto.
Le barche erano così cariche di frutta che trascinarle fino a riva si rivelò molto più faticoso del previsto, e dovettero usare i remi con tutta la loro forza per riuscire a muoversi anche di poco. Lanis, per sdrammatizzare la situazione, propose una gara a chi arrivava per primo, ma quando vinse tutto ciò che ci ricavò fu una brutta smorfia arrabbiata schioccatagli da Merin che lì per lì quasi lo spaventò.
Legarono le barche sul palo del pontile e iniziarono a scaricarle, facendo attenzione a non lasciar cadere le pocce in mare: contarono nove cesti in tutto, uno più pesante dell'altro.
Quando riuscirono a trascinare i primi due dentro casa, ad accoglierli in cucina ci fu il vapore fischiettante del bollitore sulla stufa. Seduto su una sedia, a dar loro le spalle, c'era il Nonnino con una tazza vuota tra le mani: dal modo in cui lo videro dondolare il capo doveva essere mezzo intontito dal sonno.
Merin poggiò in fretta la sua cesta sul tavolo e gli si portò di fronte. <<Nonno!>>

<<Cosa?!>>  nel vederla apparire all'improvviso il Nonnino fu subito scosso da un possente brivido di spavento, tanto che la tazza gli scivolò di mano e gli sarebbe caduta sul pavimento se Merin non l'avesse presa al volo -per fortuna, constatò lei, era ancora vuota. <<Nonno, sono io>> Merin gli accarezzò una mano per tranquillizzarlo, cercando di frenare il tremito che lo stava ancora scuotendo come uno straccio impolverato  <<Mi dispiace, ti ho spaventto? Non volevo.>>
<<Ci sono!>>  la interruppe lui, fissandola negli occhi con un'espressione quasi sconvolta.
<<...come!? Cosa ci sono?>>
<<Gli scorpioni! In mare in questi giorni ci sono gli scorpioni velenosi che pungono i pesci!>>

A quelle parole Lanis, dietro di lui, alzò bonariamente gli occhi al soffitto e tornò ad occuparsi delle ceste ancora lasciate fuori. Merin lo vide chiaramente trattenere una risata sotto i baffi, e se avesse potuto gli avrebbe lanciato un'occhiataccia di rimprovero. Continuò ad accarezzare le dita callose del Nonnino, sperando di calmarlo e senza commentare nulla di ciò che aveva appena detto. Poi lo lasciò, si diresse verso il bollitore per toglierlo dal fuoco e aprì il cassetto dove sapeva che avrebbe trovato i fiori di camomilla.
<<Abbiamo raccolto le pocce>>  spiegò, immergendo le foglie e i petali nell'acqua bollente e mescolando il tutto con il dorso di una forchetta   <<però ho sentito che forse la prossima nave arriverà in ritardo, quindi dovresti aspettare ancora qualche giorno per venderle>>  gli riempì la tazza di camomilla profumata fin quasi all'orlo, poi la poggiò sul tavolo e gliela avvicinò   <<Stai attento: scotta!>>
Il Nonnino rimase ancora un po' agitato fino a quando non iniziò a soffiare sulla camomilla bollente: rivolse a Merin un sorriso tranquillo e lei lo lasciò a sorseggiare la sua bevanda per aiutare Lanis con le altre ceste.

Quando finirono, con le braccia doloranti per la fatica, ricevettero ciascuno una carezza rugosa sulla testa e tre pocce tra le più mature come ricompensa. Merin non ne fu molto entusiasta: era frutta dal sapore troppo dolce per i suoi gusti, e non era mai riuscita a darne più di un morso senza poi avere la nausea. Ma accettò lo stesso il regalo perché sapeva che suo padre, invece, ne sarebbe stato contento.
<<Grazie, Nonnino>>  Lanis infilò a fatica due pocce nelle tasche troppo strette dei pantaloni e rimise la terza in un cesto, per farsi perdonare d'averne data una a Reno e Nils senza permesso;  poi gli si avvicinò per dargli una pazza sulla spalla, e
lui ridacchiò contento prima di tornare a sorseggiare la sua camomilla  <<Vi piacciono le mie pocce? Sono maturate presto quest'anno.>>
<<Molto>>  mentì Merin, che non vedeva l'ora di disfarsi di quelle che stava reggendo tra le braccia   <<le adoriamo.>>
<<Però ora noi dobbiamo andare, Nonnino.>>
<<Oh...>>  la sua barba argentata seguì un improvviso tremolio del mento mentre alzava lo sguardo  <<Non andare verso il fuoco, Lanis, o rischi di bruciare qualcuno.>>
<<Sì sì, agli ordini!>>  Lanis spinse Merin verso la porta afferrandola per le spalle e costringendola ad affrettarsi.
Lei salutò verso la cucina con un ultimo gesto della mano  <<Ci vediamo, Nonno!>>




***




"La schiena del Drago", nome pittoresco tracciato su un vecchio cartello legnoso col solo intento di impressionare i turisti, per gli abitanti dell'isola era semplicemente La scala.
La scala, dal sentiero che conduceva alle spiagge fino a quella parte della città che più confinava con la montagna, contava in tutto millesettecentoventiquattro grossi gradini scavati nella roccia della scogliera.
Un po' perché era troppo vista come un'attrazione turistica piuttosto che come qualcosa di utile, e un po' perché abbastanza raramente gli abitanti di Luhne dovevano percorrere quel tragitto, la Scala non era molto frequentata: di solito, a quella si preferiva affrontare le strade in salita e i viottoli labirintici della cittadina, decisamente più riparati dal vento e dal sole  -ma soprattutto perché un passaggio su un carro o su un mulo non era mai difficile da trovare.
Merin, al contrario, percorreva spessissimo la Schiena del Drago in cui tanto gli stranieri (e forse solo loro) amavano avventurarsi, visto che l'orto dietro casa sua confinava proprio con il seicentoquarantatreesimo gradino.
La scala andava a zigzag, e tutte quelle curve non rendevano la salita meno faticosa di quanto già non fosse: la cosa forse più apprezzabile di quel percorso era la vista, innegabilmente mozzafiato, perché oltre a mostrare tutta l'isola ad ogni gradino superato dava anche quella frenetica, vertiginosa sensazione che si potesse spiccare il volo da un momento all'altro.

Quando Merin e Lanis arrivarono avevano entrambi il fiato corto, ma non per questo si fermarono: scavalcarono il recinto di legno come già tante altre volte avevano fatto, atterrarono dalla parte opposta e si diressero velocemente verso la casa davanti a loro. Anche se vivevano un po' in disparte, non era molto diversa da quelle costruite in città, se non per il tetto visibilmente più alto e più a punta: tetti troppo piatti sono per chi non ha paura che il peso della neve glielo faccia crollare!, diceva il padre di Merin, che come lei non aveva mai apprezzato nulla che riguardasse una stagione fredda come l'inverno.
Il terreno che circondava la casa era molliccio e ci si affondavano i piedi ad ogni passo: a Merin non importava, ma Lanis già poteva vedere la faccia di sua madre quando lo avrebbe visto tornare con le scarpe così sporche di fango.
<<Papà?>> chiamò lei, prima ancora di fiondarsi verso la porta e aprirla con un colpo della mano.
Lanis, alle sue spalle, ne approfittò per poggiarsi sulle ginocchia e riprendere un po' di respiro, la faccia sudata fastidiosamente a contatto con l'aria di quella fredda mattina.
Quando rialzò lo sguardo, la figura robusta del padre di Merin era sulla soglia, i baffi neri spettinati e una mano tra i capelli biondissimi della figlia che aveva già nascosto la faccia contro il suo petto. Nonostante quel gesto affettuoso non lo desse a vedere, dall'occhiata che le scoccò d'un tratto si capì al volo quanto doveva essere arrabbiato.
<<Ehi!>> esclamò, con un tono di voce così duro rispetto al solito che Merin si affrettò a sciogliere l'abbraccio per guardarlo.   <<Avevi detto che tornavi subito con Lanis, o mi sbaglio? Quante volte ti devo dire che le patate non ci salteranno mai in mano da sole, eh?!>>
<<E' colpa mia!>> tentò subito Lanis mettendosi in difesa dell'amica, ma lei lo interruppe quasi immediatamente.
<<Aiutavamo il Nonnino con le pocce, papà. Te ne manda qualcuna, vedi?>> alzò le braccia quel che bastava per mostrargli la frutta che stava sorreggendo  <<Sono andata prima a casa sua e poi in panetteria, e Nita ha detto che il Nonno aveva bisogno d'aiuto per raccoglierle e... siccome sono maturate in fretta... Lanis era lì... io...>>  ma la voce di Merin si fece sempre più pigolante sotto il peso  cuocente di quello sguardo così severo.
Konoru era un pezzo di pane, ma sul lavoro e i suoi tempi era davvero irremovibile: se diceva che bisognava finire di seminare le patate prima del tramonto, allora era meglio riuscirci entro mezzogiorno.  Altrimenti, di solito, erano guai seri.
Lo sguardo di Marn si fece basso e arrendevole <<...scusami, papà.>>
<<Va bene>>  tagliò corto lui, rubandole una poccia dalle braccia e portandosela nervosamente alla bocca. Quel loro sapore succoso dovette averlo rimesso di buon umore, perché già dopo il secondo morso il suo sguardo iniziò a raddolcirsi un poco. <<Allora>> borbottò, con ancora la bocca mezza piena <<non volevi mostrare qualcosa a Lan?>>

Merin sorrise, capendo d'averla scampata almeno per quella volta  <<Oh, sì!>> esclamò, alzandosi in punta di piedi per guardare l'interno della casa da sopra la spalla di Konoru. Poi si voltò verso Lanis:  <<Chiudi gli occhi!>> ordinò.
Lui alzò entrambe le sopraciglia in un'espressione dubbiosa <<Perché?>>
<<Dai Lan, fidati e chiudi gli occhi! E aspettaci qui.>>
Lanis obbedì, sebbene un poco di malavoglia, coprendosi le palpebre con una mano e iniziando a dondolare sui suoi piedi. Sbirciando tra due dita si accorse che Merin e suo padre erano entrati in casa.

<<Aah, che caldo che c'è qui!>> la sentì parlare da oltre la porta socchiusa <<Le pocce le metto qua sopra, va bene? Non farle guastare come l'altra volta: lo sai che io non le mangio!>>
<<Sì, sì, sì...>>

<<Ne abbiamo raccolte un sacco! A un certo punto sono sbucati fuori anche Reno e Nils. Ne volevano rubacchiarne qualcuna>>
<<Come al solito.>>
<<...allora, dov'è? Dove l'hai messo?>>
<<Tranquilla, è proprio lì, sul tavol-  Dov'è finito?!>>
<<Patata!>>
La voce di Merin giunse all'orecchio di Lanis alta quasi quanto un grido. Ebbe quasi l'impulso di entrare in casa e chiedere cosa fosse successo, ma si trattenne.

<<Patata! Dannazione, dov'è Patata?>>
<<Ehi!>> Lanis continuò a coprirsi gli occhi con la mano, ma non riuscì a trattenersi dal parlare.

<<Non mi avrai mica portato di corsa fin qui per farmi vedere una delle vostre stupide pat-?  AAAAAHHH!>>.










continua...








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Capitolo 3
*** Stella Stellina ***


I Figli Dei Sogni

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III








Fondamentalmente, erano tre le cose che Lanis temeva più di ogni altra al mondo.
Il fuoco, innanzitutto: quando Merin vedeva la signora Nita accendere il camino o il forno del pane aveva sempre notato come lui rimanesse ad una debita distanza da quelle fiammelle appena nate, e non ci si avvicinasse mai se non quando era costretto a farlo. Se si conosceva la storia di Lanis e delle cicatrici disegnate sulle sue mani, non era affatto difficile intuirne il motivo.
Poi c’erano le valanghe, ma quella era una fobia comune a tutta Luhne: ancor più del vento o del mare troppo forti, nulla atterriva gli abitanti dell’isola come l’idea di sentire il ruggito infernale della montagna e di svegliarsi sepolti vivi in una tomba di neve. Non era strano che molti genitori approfittassero di questa paura per sgridare i bambini e tenerseli buoni. “Se non la piantate di far chiasso vi porto tutte e due in alto, scavo una buca e vi getto dentro!”: il padre di Lanis aveva avuto innumerevoli occasioni di dire quelle parole quando lui e Merin, da piccoli, combinavano qualche guaio. Ogni volta loro si guardavano negli occhi, si prendevano per mano come per farsi coraggio e imploravano subito perdono piangendo disperati.
La terza paura di Lanis, non meno forte delle precedenti due, erano i serpenti: lo erano da quando se ne era ritrovato uno velenoso nel letto, attorcigliato alla sua gamba con la lingua biforcuta che gli solleticava tutta la curva del ginocchio. Il terrore che potesse morderlo lo aveva congelato sul posto impedendogli persino di chiedere aiuto, ed era rimasto perfettamente immobile sul materasso fino a quando suo padre, furioso perché non si era ancora presentato alla panetteria, non era andato in camera sua e lo aveva liberato da quello sgradevole intruso. 

La sensazione che Lanis provò in quel momento fu molto simile all’esperienza del serpente dentro il letto: qualcosa che gli afferrava la gamba, che strusciava contro la stoffa dei suoi pantaloni, emettendo un verso che gli ricordò quello di un sibilo agghiacciante. Quando poi la cosa, veloce come un razzo, si mosse sulla sua schiena e gli sfiorò il collo con denti appuntiti come spilli, il panico più puro lo investì  in pieno come un tornado. 

<<Lanis, no, stai fermo!>>
<<AAAAH! TOGLIMELO! TOGLIMELO!>>
<<Lan, sta calmo! Così non…>>
<<TOGLIETEMELO! TOGLIETEMELO SUBITO!>>

 Lanis non smise di agitarsi o urlare fino a quando Konoru riuscì a fargli capire che non aveva più niente attaccato alla spalla. A quel punto si lasciò cadere a terra, sudato e pallido, cercando di respirare di nuovo e grattandosi la schiena come per accertarsi di non avere davvero più il serpente addosso.
Solo dopo aver recuperato molto del suo fiato perso si accorse che Merin si era inginocchiata davanti a lui.  
<<Lan, ehi. Come ti senti?>>
Lanis annuì per far intendere che era tutto apposto. Si coprì la faccia con una mano e se la spalmò velocemente sulla fronte per togliere il sudore che gli stava bagnando i capelli della frangia. Il serpente non c’è più, Il serpente non c’è più: se lo ripeté fino a quando non fu certo di essersi calmato. Ma gli bastò alzare appena lo sguardo verso Merin per capire che, in realtà, il serpente non c’era mai stato: quando si accorse della cosa pelosa seduta sulle gambe dell’amica, la paura si sostituì allo stupore e un sopraciglio schizzò subito verso il punto più alto della fronte.
<<…che cos’è questo?!>>
<<E’ Patata!>> spiegò lei, come se stesse dicendo qualcosa di ovvio.

In realtà quel “è Patata” non esprimeva affatto l’idea di cosa fosse: dalla figura sembrava un orso in miniatura, col pelo color lillà, tre unghie appuntite per zampa e il naso nero e così grosso da riempirgli quasi tutto il muso. Completamente disinteressato a Lanis e Merin o al fatto che stessero parlando di lui, agitava felicemente la coda da barboncino  mentre tra i dentini quasi invisibili rosicchiava una delle foglie di pocce che erano rimaste impigliate tra i capelli di Lanis.
<<Tranquillo, non morde>>  Konoru gli si avvicinò e lo afferrò per un braccio per aiutarlo ad alzarsi e a recuperare le pocce che gli erano cadute. Lui non sembrò ascoltarlo tanto il suo interesse si era catapultato verso quello stranissimo animale tutto naso e pelliccia. Merin si mise in piedi a sua volta e abbracciò Patata con più forza, tanto che quello ingoiò velocemente il suo pasto e agitò le zampe felice di quelle attenzioni. <<Oh, Lan, non è un amore?>>
No!, avrebbe voluto rispondere lui, ma si trattenne, limitandosi a studiare quello strano animaletto senza dir nulla. Anche Patata, a un certo punto, puntò il muso nella sua direzione, e per un attimo sembrò quasi una gara a chi reggesse di più lo sguardo. Gli occhi dell’animale erano tondi, simili a biglie scure, così acquosi come quelli di un rospo da mettergli i brividi. Alla vista sembrava avere un pelo ruvido come carta vetrata, e avrebbe voluto avvicinare una mano per accarezzarlo ed accertarsene, se il timore che gli azzannasse un dito come aveva fatto prima con la foglia non lo avesse trattenuto. No, decisamente, quel mostriciattolo non gli piaceva affatto, e da come Patata lo guardava dalle braccia di Merin sembrava che l’antipatia fosse altamente ricambiata. 
<<Che cosa diavolo è?>>

<<Un VinHu>>   Konoru si mise di fianco alla figlia e iniziò a grattare la testa riccioluta di Patata: lui socchiuse gli occhi e commentò con un “Piùù!” soddisfatto, muovendo in modo buffo le orecchie a forma di bottone. 
<<Ne ho visti parecchi quando ero ragazzo. C’è stato un periodo in cui Luhne era una meta molto alla moda, e veniva a visitarla un sacco di gente ricca. C’erano tantissime  nobildonne che portavano dei VinHu al guinzaglio, ma erano molto più grandi di questo. Per i bambini era uno spettacolo perché erano tutti di colori diversi e ci piaceva fare a gara a chi riusciva ad accarezzarli senza essere visto dalla padrona.>> Konoru rise, evidentemente immerso in chissà quale buffo ricordo della sua infanzia. Poi tornò ad accarezzare Patata ricevendo in risposta un’altra serie di soddisfattissimi “Piùù!”. A quelle coccole improvvisate  si aggiunse anche Merin e l’animaletto iniziò ad agitarsi soddisfattissimo tra le sue braccia.
Quella scena fece sentire Lanis spiacevolmente escluso.
<<Ma qui come c’è arrivato?>> domandò in fretta, aspettando che l’attenzione generale tornasse su di lui  <<Se sono anni che non ne vedi uno questo da dove è saltato fuori?>>
<<Lo abbiamo trovato>> rispose subito Merin.
<<Era questa la cosa che ti volevo far vedere. Stanotte ci siamo svegliati perché c’erano dei rumori al piano di sotto, e abbiamo trovato Patata che cercava da mangiare nella credenza.>>
<<…e tuo padre non l’ha strangolato?>>

Konoru rise di nuovo, probabilmente non rendendosi conto di quanto serie fossero state le parole di Lanis.
Il padre di Merin diventava una furia quando si trattava di qualsivoglia tipo di scrocconi: scacciava via le cornacchie dall’orto come fossero le figlie del demonio, e se coglieva in flagrante un bambino intento a prendergli una sola patata senza permesso, il suo volto si colorava di viola e quando lo acchiappava lo trascinava per un orecchio fino a casa dei genitori attirando l’attenzione di tutto i paese se lo riteneva necessario. Persino Reno e Nils, i ladruncoli più esperti dell’isola, dopo una sola volta che ci avevano provato non si erano più permessi di avvicinarsi alla casa di Konoru nemmeno col pensiero.
Il fatto che quel piccolo VinHu fosse ancora tutto intero, e che fosse addirittura abbracciato e  coccolato come un piccolo imperatore, per Lanis aveva davvero dell’incredibile.
<<Sì però>>  riprese, stizzito <<Da dove viene? Forse... credete che è arrivato con la scorsa nave e che lo abbiano lasciato qui? Allora forse i padroni lo stanno cercando.>>
<<Probabilmente è come dici tu>> concordò Konoru con calma, incrociando le braccia al petto  <<e se qualcuno dovesse venire a riprenderselo, non vedo perché non dobbiamo ridarglielo.>>
<<E se fosse…>>

Merin si morse il labbro e aspettò che l’attenzione ricadesse su di lei prima di continuare. Sorretto dalle sue braccia, Patata strusciò il muso vicino al suo collo e chiuse gli occhi come per voler dormire: nel percepire quel movimento lei lo accarezzò ancora, senza guardarlo.
<<…è che… c’erano Reno e Nils nell’orto del Nonnino e hanno detto ch->>
<<Ma dai!>>   la interruppe Lanis, alzando le braccia come se dovesse afferrare qualche mosca  <<sul serio credi a quei due? Hanno sicuramente capito male o ci stavano prendendo in giro!>>
Konoru fece dondolare lo sguardo da Merin a Lanis, senza capire affatto di cosa stessero parlando
<<Che state dicendo?>>
Patata quasi cadde dalle braccia di Merin  quando lei si girò velocemente verso suo padre
<<Ci hanno detto che Gilbo stanotte ha intravisto una nave mentre pescava, e che una specie di tempesta che è scoppiata a largo, e che quindi la nave probabilmente arriverà in ritardo. Papà, potrebbe essere caduto da quella nave e poi aver nuotato fin qui, no?>>
<<Ma è strano! Non può esserci stata una tempesta senza che ce ne accorgessimo, ha fatto bel tempo in questi giorni. Non è così, Konoru?
>>

I due ragazzi fissarono l’adulto in attesa di una sua opinione, che però si fece attendere: lui li studiò entrambi con lo sguardo, uno dopo l’altro, e si grattò prepotentemente il collo mentre rifletteva sul parere da dare. <<Non lo so>> ammise alla fine, scrollando le spalle. 
Merin non sembrò gradire la risposta
<<Papà!>>
<<Senti, qui c’è del lavoro da fare ed io posso permettermi di starmene ancora fermo ad ascoltare le vostre storie. Ora prendi una zappa e poi il sacco del concime.>>
<<Ma non sono…>>
<<Merin, la zappa!>>

Merin s’irrigidì, un’espressione tra il dispiaciuto e il contrariato sul volto. Poi chiuse gli occhi, e trattenendo uno sbuffo dentro la bocca marciò nervosa verso casa con ancora Patata in braccio. Lanis la guardò aprire la porta con una sola spinta della mano, lasciandosi sfuggire un sorriso divertito; quando poi vide la sua schiena sparire oltre la soglia, si grattò la testa e si rivolse a Konoru
<<E’ colpa mia se Merin ha fatto tardi…>>
<<Non preoccuparti>> lo interruppe lui con un sorriso un po’ tirato  <<E’ meglio se vai a casa piuttosto, come va la gamba di tuo padre?>>
<<Meglio>> mentì Lanis, mordendosi il labbro. 
In realtà Ruduf non faceva che lamentarsi, sbraitare contro la fasciatura che lo copriva dal ginocchio al polpaccio e contro il letto su cui era costretto a restare. Non era un uomo paziente, Ruduf: e da quando quell’albero gli era caduto addosso era diventato ancor più intrattabile del solito, ancor più incline alle parolacce che già da prima colorivano il suo linguaggio. Il non poter andare né a lavoro, né alla locanda, e nemmeno al bagno lo irritavano così tanto che solo la ferrea pazienza della moglie riusciva a sopportarlo più a lungo di qualche minuto. Per questo Lanis, quando qualcuno gli chiedeva notizie del suo padre adottivo, rispondeva sempre Sta meglio: era come un modo per convincersi che la gamba stava migliorando sul serio, e che presto sarebbero finiti quegli estenuanti giorni di tormento.

Konoru gli credette  <<Bene. Digli che passerò a trovarlo uno di questi giorni. Porterò una bella bottiglia di liquire, quindi avvisalo di mantenersi sobrio fino al mio arrivo>> accompagnò le sue parole con un veloce occhiolino,che però Lanis non vide neppure.
<<Mmm…>>  rispose vago, sporgendosi verso il punto in cui Merin era sparita e ancora non aveva fatto ritorno  <<Non avete bisogno di aiuto? Se avete una zappa in più posso darvi una mano.>>
<<No, ragazzo, torna a casa. Anche tua madre avrà bisogno di una mano>>.
Konoru gli dette una pacca sulla spalla e gli si avvicinò all’orecchio
<<Senti Lan, potresti tenere per te la faccenda di Patata almeno per qualche giorno?>>. 
Lanis si voltò a guardarlo, e l’odore della sua pelle lo investì in pieno come uno schiaffo di vento: un odore di sandalo, sudore, ma soprattutto di terra. Quello stesso aroma di terra di cui profumavano i capelli di Merin quando si scioglieva le trecce.
<<Certo, ma… perché?>>
<<Perché abbiamo davvero del lavoro in arretrato, e non voglio distrazioni. Se sapessero di Patata tutti verrebbero a vederlo e io starei ancora più indietro con l’orto. Capisci?>>

Lanis annuì quasi subito, perché la scena di tutta Luhne che saliva la montagna solo per guardare quella specie di orsacchiotto non gli sembrò affatto difficile da immaginare. Nell’isola si trovavano molte galline, muli e soprattutto pesci morti appesi sulle bancarelle del mercato, ma quasi nient’altro: gli animali che non aiutavano nel lavoro erano una vera rarità, come quel piccolo gabbiano che Slim il calzolaio aveva trovato sulla spiaggia, e che era stato una specie di mascotte per Luhne fino a quando non se ne era volato via, oltre il mare. Alla gente piaceva ancora dire Forse Gubby è tornato quando si vedeva uno stormo di gabbiani sorvolare l’isola o nuotare vicino alle reti dei pescatori. Persino Merin lo diceva, sebbene in realtà Gubby non l’avesse nemmeno mai visto in vita sua.
<<Ho capito, non lo dirò. Posso tornare più tardi per vedere se avete bisogno di qualcosa?>> 
<<Se tua madre te lo permette>> Konoru gli regalò un sorriso docile e un’altra pacca contro la schiena  <<Ma ora vai, ci vediamo dopo>>
Lanis fece in tempo a salutarlo con un “Ciao” veloce prima che anche il padre di Merin sparisse oltre la soglia di casa.

Con un sospiro e un sacco di pensieri che gli vorticavano in testa come mosche, Lanis si avviò verso casa sua. Decise di non passare per la Schiena del Drago, ma di percorrere i sentieri arcuati che guizzavano tra i campi, scoprendoli appiccicosi e bagnati per via del ghiaccio che si stava sciogliendo al sole. Fu il rumore della terra scheggiata dalla forza delle zappe ad accompagnare i suoi passi, insieme a un vento freddo e tanto forte da farlo sbilanciare in tutte le direzioni. Camminando, con le mani nelle tasche del cappotto e il mento immerso nel colletto alla ricerca di calore, si chiese di nuovo da dove poteva essere sbucato fuori quell’orrendo animaletto; non credeva alla teoria di Merin su una nave bloccata da una tempesta, ma nemmeno riusciva a trovare una qualche altra spiegazione convincente; era sul’isola da molto tempo, e solo da poco aveva deciso di avvicinarsi agli uomini? Qualcuno nell’isola lo teneva nascosto, fino a quando il VinHu non era riuscito a scappare? 
Avrebbe voluto chiedere a suo padre, perché di certo avrebbe dato una spiegazione molto più valida di quelle che gli stavano venendo in mente; ma aveva promesso a Konoru di non parlarne con nessuno, e sapeva che per un po' di tempo avrebbe dovuto lasciare quelle domande senza una risposta.  Sbuffando scocciato, accelerò il passo ignorando il gelo che gli pizzicava le guance come una dolorosissima pinza.

 Se alzava appena il naso dalle sue scarpe, oltre la salita poteva scorgere da lontano la lingua azzurra del mare. Sembrava chiamarlo, con quel suo lontano dondolio ipnotico e i luccichii che il sole stendeva sulle sue onde: si era sempre chiesto cosa ci fosse oltre l’orizzonte, o da dove venissero tutte quelle persone che con le navi venivano e se ne andavano da Luhne in continuazione. C’erano altre isole? Altri profumi? Altri colori? Altre voci che non fossero quelle tra le quali era cresciuto? 
Ogni volta che Lanis si chiedeva queste cose, pensava sempre di volerlo scoprire. Voleva andare via, affacciarsi in un posto che non fosse sempre Luhne: voleva vedere di che forma fosse fatta l’isola che occupava tutto il resto del mondo.
Ma Merin non voleva, e questo lo bloccava. Lei era così innamorata della loro montagna e del loro mare da non desiderarne affatto vederne di nuovi. Credeva che fosse proprio lì, a Luhne, tutto il resto mondo: e per Lanis, era lei tutto il mondo. Come avrebbe fatto a prendere una nave, e lasciarsi indietro la persona che più ricordava vicina a lui fin dove lo portavano i suoi ricordi?
Lanis scosse il capo, decidendo che stava pensando troppo e che la testa iniziava a fargli male. Staccò gli occhi dalla gobba dell’oceano per portarlo verso le mura sempre più vicine della città. 
Riconobbe con un mezzo sorriso il fumo dritto e grigiastro che sbuffava dal forno della sua panetteria, e quello più scuro e ancor più dritto sbucare fuori da dove doveva esserci l’officina del fabbro. Riusciva persino a scorgere il tetto verde e altissimo della distilleria dei fratelli Acquasanta, e si raccomandò di prendere la strada che andava il più lontano possibile dalla loro locanda: i fratelli Acquasanta erano quattro, erano grossi ed erano gli unici che vendessero alcol nell’isola. Acquasanta non era il loro vero nome, ma tutti li chiamavano così per quel loro ottimo liquore di nocciole di cui tutti andavano ghiotti: il padre di Lanis andava spesso alla loro locanda e altrettanto spesso litigava con qualcuno finendo anche col rompere qualche sedia, e per questo a nessuno dei quattro fratelli faceva piacere avere tra i piedi né lui, e nemmeno i membri della sua famiglia. Ogni volta che Lanis li incrociava per strada, anche solo uno alla volta, non si scambiavano mai più di un saluto, ma gli sembrava che lo guardassero come fosse un moscerino da schiacciare. 
Per questo a un certo punto si fermò, e decise di prendere una strada più lunga e di aggirare la città per un tratto pur di non avvicinarsi troppo alla loro locanda.
Man mano che proseguiva, le voci delle madri che richiamavano i bambini  per il pranzo iniziarono a riempirli dolcemente le orecchie, e l’odore di un pasto caldo sbirciò da una finestra aperta della casa più vicina. Fu con lo stomaco pieno di fame e i piedi che avevano appena varcato il paese di Luhne, che Lanis, immerso in una vasca di tranquilli e tiepidi pensieri, sentì quella voce per la prima volta in vita sua.

<<Stella stellina, chi è questa bambina?>>

Lanis frenò il passo, come se una forza più grande di lui lo avesse appena bloccato per le spalle. Si guardò attorno, un po’ smarrito, cercando di capire cosa gli avesse messo addosso quella specie di brivido che aveva appena sentito sulle braccia. Ma non vide né sentì nulla di diverso dal solito: il sentiero di pietra, le case piene di persone indaffarate, qualcuno non molto lontano che batteva un martello su un chiodo. Provò anche a girarsi su sé stesso, ma non vide altro se non la campagna che aveva appena finito di attraversare, e la montagna che si alzava verso il cielo piastrellato di nuvole color latte.
Non c’era nulla di strano, non c’era nulla di minaccioso. Dandosi dello stupido per l’essersi spaventato inutilmente, ricominciò a camminare.

<<La luna balla e canta, poi piange tutta affranta>>

 Ma si rifermò, e stavolta fu certo di aver sentito qualcosa. Si guardò a destra, poi a sinistra: osservò con cura le mura delle case che lo circondavano per capire se la voce veniva da qualche finestra lasciata aperta. Di nuovo, però, non vide nulla di strano. 
<<Perché mi spavento?>> si chiese ad alta voce, scuotendo il capo subito dopo. E’ solo qualcuno che canta. E’ qualcuno che canta. continuò a dirsi col pensiero, scrollando le spalle per togliersi di dosso quella brutta, pesantissima sensazione. Sfregò le mani sulle braccia e pensò che se fosse rimasto fermo sarebbe congelato, ora che il vento si era fatto ancora più forte. Pensò al caldo che avrebbe trovato in panetteria, a sua madre che forse lo avrebbe sgridato per le scarpe così sporche, al pranzo che lo aspettava.
Pensava proprio al pranzo, con la fame che gli mordicchiava prepotentemente lo stomaco, quando si fermò di nuovo.
E la vide. 

<<Il lume del cerino, si spegne sul cammino>>

 Luhne non era una grande isola, e tutti si conoscevano sia di viso che di nome: forse i bambini erano i più difficili da riconoscere, perché crescendo cambiavano e se non li si vedeva per molto tempo si rischiava facilmente di scambiarli per qualcun altro. Ma quella bambina lì, nascosta dentro il vicolo mentre cantava, Lanis era assolutamente certo di non averla mai vista prima.
Pensò che forse, se non la riconosceva, era perché gli dava le spalle: giocava con un cumulo di neve mezzo sciolta sul terreno, riparata dalle mura di due case vicine mentre se ne stava in ginocchio e compattava la neve per farne una specie di montagnetta. Lanis, incuriosito, si avvicinò fino ad entrare nel vicolo, dove il sole non arrivava e la penombra lo avvolse in una tetra morsa ghiacciata. Aveva un vestito strano, quella bambina: un insieme di merletti e stoffa nera dall’aria pregiata, le calze di pizzo, le scarpe pulite e verniciate, e lunghi nastrini dall’aria soffice tra i curatissimi riccioli dei capelli. Un abbigliamento troppo vistoso e troppo elegante per un’isola modesta come Luhne. Per  un momento Lanis si ritrovò a studiarlo con cura, incuriosito dalle sue pieghe morbide e dai suoi fiocchi vistosi: poi scosse la testa e si concentrò sulla bambina che ancora stava cantando. 

<<E la neve di sera, diventa rossa e nera>>

 <<Ehi, scusami>>
Lanis si inginocchiò e le guardò le spalle irrigidirsi sotto il bel vestito nero, forse non aspettandosi la presenza di qualcuno dietro di lei. Si chiese come avesse fatto a spaventarsi di una ragazzina così piccola, o di una voce così dolce da sembrare la ninnananna di un cherubino, ma non si trovò risposta.
Aspettò che la bambina si voltasse per poterla vedere in viso, ma lei continuò a dargli le spalle senza muovere un muscolo, rigida come se fosse appena diventata di pietra: gli ricordò una di quelle infantili sculture di neve che faceva con Merin quando arrivava l’inverno. 
<<Chi sei? Perché sei qui da sola? Ti…>>  Lanis allungò il collo nel vano tentativo di riuscire a vederle il volto  <<Ti serve aiuto per caso?>>
Pensò di allungare una mano per accarezzarle i capelli, ma decise di non farlo: erano di un colore così chiaro, così immacolato, che ebbe quasi paura di sporcarlo con le sue dita ricoperte di terriccio. Si ricordò delle sue pocce e allora provò ad allungargliene una, chiedendole se le piacevano e senza ricevere una risposta.
Ma poi la bambina si voltò. 
E lo guardò.

Col suo unico occhio rosso.











continua...







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