IMPORTANTE = Questa
ff tranne per la storia del passato fra Seth e Kisara è totalmente di mia
invenzione, così come il personaggio di Sara. Che altro dire? Buona lettura a
tutti…
Sogni di cristallo
Un passato da dimenticare…
Il sole non era ancora tramontato. Sara Mcgouver, una
ragazza di appena sedici anni, se ne stava sola, immersa nei suoi pensieri. Se
ne stava immobile, sul suo volto un’espressione gelida, la sua vita e i suoi
sogni d’adolescente spazzati via da un tragico scherzo del destino. Si sentiva
vuota, incapace di provare qualcosa. Osservava il terrapieno davanti a sé. Un
lungo respiro, e scese a portare un mazzolino di fiori nel luogo in cui la
Mercedes era stata tamponata e i suoi genitori erano morti.
Scese, perché oramai era passato
un anno da quel tragico evento.
Scese, perché era la cosa giusta
da fare.
Scese, perché voleva salutargli
un’ultima volta, prima di lasciare la sua città natia, cambiare la sua vita e
dimenticare il passato.
Percorse il sentiero stretto ed
erboso. Scese con cautela: il clima torrido, aveva reso il terreno franoso.
Camminava con passo lento ma
deciso. Un silenzio profondo incombeva su tutta la zona. Una zona desolata, che
descriveva alla perfezione l’animo di quella ragazza ormai cresciuta troppo in
fretta…
Dopo diversi metri, finalmente,
trovò la lastra di pietra che indicava il punto in cui i suoi genitori avevano
perso la vita. Si lasciò cadere sulle ginocchia. Era passato un anno, un intero
anno e quella, era la prima volta che si recava in quel luogo. Un luogo, che
non avrebbe mai voluto rivedere. Si, perché anche lei, un anno fa, era in
quella Mercedes. Ricordava chiaramente la dinamica dell’incidente.
Lei e la sua famiglia, dopo aver
passato un weekend nella loro baita di montagna, stavano ritornando a casa. Suo
padre era alla guida mentre sua madre parlava al cellulare con una collega di
lavoro. Lei, invece, era seduta sui sedili posteriori del veicolo, mentre
ascoltava della musica. Ad un tratto due fari accecanti, una macchina comparsa
improvvisamente da una curva, un rumore assordante… poi, il buio e il silenzio.
Quando aveva riaperto gli occhi era in ospedale. Aveva tubi ovunque. Le avevano
detto che i suoi genitori erano morti e che lei aveva passato più di otto mesi
in coma, a lottare fra la vita e la morte. Le avevano detto che era un miracolo
se si era salvata! Miracolo… quale miracolo? Riaprire gli occhi e scoprire di
aver perso le persone più care del mondo… Era questo, per tutti, il miracolo?
Quante volte aveva sperato di fare la stessa fine dei suoi genitori…
Una lacrima le bagnò il volto.
Sara l’asciugò prontamente. Non aveva pianto quando le avevano detto che era
rimasta sola e non voleva farlo ora. Piangere, non sarebbe servito a nulla, non
le avrebbe ridato la spensieratezza e la felicità dei suoi sedici anni. “Solo i
deboli piangono ed io non lo sono!” continuava a ripetersi. Ma era davvero
forte come credeva d’essere?
Si portò la mano al collo
stringendo fra le dita un ciondolino. Rappresentava il dio Horus con le ali
spiegate e al centro uno strano occhio che sembrava riflettere i raggi del
sole.
Le venne in mente quando era
ancora in ospedale e aveva chiesto all’infermiera come mai quel monile era in
suo possesso…
“Quando arrivò l’ambulanza sul
luogo dell’incidente, tuo padre era già morto e anche per tua madre, ormai, non
c’era niente da fare. Con le ultime forze però, mi consegnò il ciondolo dicendo
di dartelo, perché ti avrebbe portato fortuna…”
E così che Jennifer,
un’infermiera, le aveva risposto.
Sara sorrise. Sua madre faceva
l’egittologa. Aveva trovato quel ciondolo per caso e così s’era convinta che
portasse fortuna…
“La fortuna aiuta i deboli!” si
disse depositando i fiori “E io non ne ho bisogno” concluse alzandosi.
Con una mano cercò di levare il
residuo del terriccio dai suoi jeans e risalì il vialetto. Si voltò un’ultima
volta…
“Mamma, papà ho deciso di andare
via. Restare qui è impossibile. Sono stanca della pietà e della commiserazione
della gente. Sono stanca dei loro “poverina ci dispiace” e “sappiamo cosa
provi”. Sono stanca di tutto: di loro, di me e della vita. Voglio andare via,
lontano, dove nessuno conosce la mia storia. Devo trovare la mia strada. Voglio
dare un senso alla mia esistenza. Voglio recuperare quel pezzo di vita che ho
perso… addio!” e prese la strada che il fato le aveva destinato…
Un anno più tardi…
Domino City:
“Non posso crederci Joey… ma come
sei riuscito a convincermi a marinare la scuola?
“Sai Tea, per farla breve diciamo che neanche a te
andava di farti interrogare dalla signorina Yoshimoto dato che, anche tu, eri
impreparata!” disse lui facendole un occhiolino. La brunetta sospirò prima di
accelerare il passo per raggiungere Yugi e Tristan, che camminavano poco più
avanti.
I quattro ragazzi, in alternativa
alla scuola, avevano preventivamente decisero di andare al “Domino Park”, un
piccolo parco giochi situato in periferia. Erano sicuri che non vi avrebbero
trovato nessuno (in fondo, tutti erano a scuola no?). Vi entrarono seguendo il
“percorso obbligatorio” del lungo vialetto fatto di terriccio e ghiaia. Era un
parco molto bello. Vi erano tantissimi alberi che, con i loro rami, facevano
ombra alle panchine sparse qua e là. Vi erano anche tantissime giostre, che
andavano dai cavalli a dondolo alle go cart.
Tristan e Joey, (in quanto
inguaribili diciassettenni afflitti dalla cosiddetta “sindrome di Peter Pan”)
corsero immediatamente verso le go cart, prendendosi scherzosamente a spintoni.
Con qualche difficoltà, (dovuta alla loro statura), riuscirono ad entrare nelle
macchinine cominciando così, la loro “sfida personale”. Tea si sedette su di
una vecchia panchina, seguita da Yugi.
Era davvero una giornata
splendida. Il sole risplendeva alto nel cielo. Oramai l’inverno, con le sue
piogge e il suo freddo pungente, era soltanto un lontano ricordo. Il piccolo
gruppetto d’amici si stese sulla fresca erbetta, all’ombra di due rigogliosi
abeti, lasciando che il leggero venticello accarezzasse loro il volto. C’era un
silenzio indescrivibile. Non auto che sfrecciavano fra le strade, non urla di
bambini, non chiacchiere vacue e prive di significato. Nulla. Solo il fruscio
degli alberi interrotto da rondini che annunciavano l’arrivo del caldo…
All’improvviso quel silenzio fu
interrotto da un cigolio. I ragazzi riaprirono gli occhi. Silenzio. Poco dopo
un altro cigolio, poi ancora un altro… Tutti s’alzarono e cercarono di capire
da dove provenisse quel rumore. Camminavano lenti, cercando di individuarne
l’esatta provenienza del suono. Fu così che la videro. Seduta su un’altalena
c’era lei: capelli argentei che le ricadevano morbidi lungo le spalle, piccole
mani appoggiate sulle corde della giostrina, testa bassa, mente rivolta altrove
ed entrambi i piedi che, appoggiati per terra, la spingevano dolcemente avanti
e indietro.
“Ciao!”
Era una voce maschile. Chi mai
poteva salutarla, se era appena giunta in quella città? Alzò la testa
lentamente per cercare di capire chi le avesse rivolto quel saluto. Davanti a
sé, scorse quattro ragazzi…
“E voi chi siete?” disse la
ragazza con una punta d’imbarazzo.
“Scusami se ti ho disturbato. Io
sono Joey. Joey Wheeler. Ti ho vista qui da sola così…!”
La ragazza lo guardò. Aveva dei
bellissimi occhi blu paragonabili al colore dell’oceano. Il biondino abbassò la
testa per evitare quello sguardo interrogativo.
La ragazza allungò una mano verso
il giovane:
“Sara. Mi chiamo Sara Mcgouver!”
I ragazzi si presentarono a
turno.
“Ti disturba se restiamo qui con
te?”
“Certo che no. Non c’è problema!”
disse Sara rivolgendosi a Joey.
Vi fu una pausa; quindi, tanto
per sciogliere il ghiaccio, Joey le parlò del più e del meno. Sara l’ascoltava
in silenzio. Per la prima volta, dopo tanto tempo, non si sentiva più sola.
Quello che lei non sapeva, era che il destino l’aveva portata a Domino per un
motivo: risolvere una situazione che affondava le radici in un passato di 5.000
anni fa…
Raga per favore lasciate un
commento…. Bax bax
Katie87