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Lista capitoli: Capitolo 1: *** PROLOGO: Tuffo nella Memoria [parte 1] *** Capitolo 2: *** PROLOGO: Tuffo nella Memoria [parte 2] *** Capitolo 3: *** PROLOGO: Tuffo nella Memoria [parte 3] *** Capitolo 4: *** CAPITOLO 1: Le fiamme dell'Oscurità *** Capitolo 5: *** CAPITOLO 2: L'alba del nuovo Futuro *** Capitolo 6: *** CAPITOLO 3: Il mio Migliore Amico *** Capitolo 7: *** CAPITOLO 4: Riflessi d'un Ricordo negato ***
Capitolo 1 *** PROLOGO: Tuffo nella Memoria [parte 1] ***
Inizio col salutarvi
tutti e ringraziarvi enormemente per aver seguito il prequel di questa storia.
Per chi non lo conoscesse, il titolo è “GOLD IN THE BLUE”, probabilmente
conviene leggere prima quella, tanto per rimanere un attimo a passo con il
racconto, ma questa è una decisione vostra.
Sono tornata alcuni
mesi più tardi dalla conclusione della mia prima storia sperando con tutto il
cuore di riuscire a coinvolgervi e a emozionarvi con le mie parole, nelle quali
ho messo tutto l’impegno possibile.
Bene, inizio col
spiegare alcune cose. “Timeless Light”, ossia questa mia nuova fanfiction, è
strutturata in modo diverso da quella precedente, ora mi spiego meglio. La
trama è, come dire, intrecciata, passato e presente si mescolano con giochi di
flashback e frammenti di ricordo, così da creare una specie di continui lampi
di luce, idee improvvise o ricordi offuscati. Inoltre, appaiono alcuni nuovi personaggi,
che conosceremo capitolo per capitolo.
Se riesco – cosa assai
improbabile – posterò un capitolo alla settimana, molto probabilmente il lunedì
attorno alle 18.00.
Ringrazio tutti
nuovamente e vi lasco alla mia nuova storia. Un bacio!
Timeless Light
PROLOGO: TUFFO NELLA MEMORIA (PARTE 1)
Bianco. Candore, purezza, gelo. Così, con
quest’atmosfera così insolita, si presentava la piccola cittadina di Resembool,
persa tra le campagne, la sera del 12 gennaio 1923. La neve polare aveva imbiancato
ogni più misero centimetro del paesello, come se ogni debole filo d’erba fosse
stato imprigionato in una fredda morsa dai chiari toni.
Era così strano che a Resembool nevicasse, data la
posizione geografica e l’aria mite che aleggiava tra campi e vasti prati.
Eppure, quella sera, tutto sembrava essersi fermato, per lasciar spazio alla
prima inaspettata nevicata degli ultimi quattro anni.
Edward posò una mano sul vetro ghiacciato della
finestra, lasciando come traccia moltissime minuscole goccioline di condensa.
Batté le palpebre, seguendo con estrema attenzione la danza delicata di un
piccolo fiocco di neve, che volteggiava appena al di fuori di quella sottile
barriera di vetro. Rimase incantato da tanta purezza, rilasciata da un così
minuto oggetto.
Si allontanò di pochi passi dal vetro, dando un
ultimo fugace sguardo al calendario e seguendo con gli occhi d’oro la grande
scritta sul primo foglio, impressa con un inchiostro nero.
Sorrise, schiudendo le labbra sottili, incorniciate
appena da qualche accenno di barba, che doveva aver rasato da poco.
Quant’era mutata la sua vita, nel corso di quegli
anni. Ad Amestris regnava la pace, salvo qualche rara e fievole insurrezione ai
confini, causata dagli attacchi esterni. Eppure, il passato continuava a infierire
nella sua mente, chissà per quale motivo.
Si strinse, rabbrividendo, nella vecchia palandrana
rossa – ultima traccia delle sue memorie – chiedendosi per quale ragione non
avesse ancora gettato quel panno logoro e malandato. Si colpì la fronte con
leggerezza, dandosi mentalmente dell’idiota, per aver pensato anche un solo
secondo di sbarazzarsi della sua amata compagna di mille avventure.
Scosse la lucente massa di capelli aurei, che
crescevano sempre più. Cominciavano a essere leggermente fastidiosi, ma sapeva
che, se mai li avesse tagliati, avrebbe dovuto subire le violente ire di una
meccanica in particolare. A dire il vero, si era anche concesso qualche
spuntatina – rigorosamente di nascosto – altrimenti, in quel momento, avrebbe
dovuto far attenzione a non inciamparvi sopra. Ok, forse stava un tantinello
esagerando. I ciuffi color del grano gli arrivavano a metà schiena e a Winry
ciò sembrava bastare, per fortuna.
Si avvicinò a passi lenti al caminetto, gettandovi
all’interno alcuni ceppi di legno secco. Al contatto con il fuoco, il legname
produsse un crepitio secco e non faticò affatto ad incendiarsi.
Edward allungò le mani verso quella luminosità,
riscaldandole beatamente. Le ritirò improvvisamente, riconoscendo in quelle
fiamme e in quella luce un pensiero che lo infastidì parecchio.
Roy Mustang e l’alchimia, due presenze fisse nel
suo passato.
Due presenze che, alla luce di quello che sarebbe
successo in futuro, avrebbe fatto meglio a non dimenticare.
Seguì il movimento danzante delle lingue di fuoco,
osservando ogni più misero gioco di luci e di ombre che riusciva a plasmare
quella piccola e luminescente forma di calore. Lo scoppiettare allegro del
fuoco era l’unico rumore che animava la stanza e la sua mente, facendolo
scivolare nell’oblio dei ricordi del passato.
Gli occhi dorati, luminosi, riflettevano quel
tiepido lume, parendo ancor più preziosi del semplice anello d’oro che ornava
da ormai più di due anni il suo anulare sinistro. L’osservò, rigirandolo sotto
lo sguardo.
Sorrise dolcemente, sospirando appena e spostandosi
con naturalezza un ciuffo di capelli all’indietro. Ancora, da quel giorno ormai
lontano, nella sua mente vibrava un quesito, e lui ancora non era certo
d’averne trovato la risposta.
Che fosse
tutto un sogno?
Tese le orecchie, udendo un altro debole suono
farsi sempre più vicino. Il cuore dell’ex alchimista d’acciaio aumentò il
battito, riconoscendo in quel soffice rumore la risposta a ogni suo più piccolo
dubbio. Sorrise, di nuovo, socchiudendo le palpebre, e godendosi quello
scalpiccio tenero e infantile, che rievocava alla sua mente preziose immagini
dai contorni dorati.
Si chinò lentamente e accolse tra le braccia forti
quella piccola creatura, che aveva teso le manine insicure verso di lui.
Affondò il naso nei soffici filamenti che imperlavano la testina bionda,
percependo in essi un rincuorante profumo di famiglia.
Allontanò il viso, scostandosi appena, ma sempre
tenendo ben saldo il piccolo con le mani. Incontrò gli occhi puri e innocenti
del suo bambino, così preziosi e rilucenti d’oro splendente che non poté non
riconoscere nei suoi.
Strinse al petto il piccolo, cullandolo appena,
senza mostrare però troppa enfasi. Se qualcuno l’avesse visto in quel momento,
così preso e totalmente dipendente da quel bambino, gli avrebbe di sicuro
appioppato il termine “sentimentalone” – appellativo comunque per nulla
appropriato al suo modo di fare, a detta sua – e lui si sarebbe ovviamente
offeso, scatenando un putiferio.
Eppure, non sapeva perché, né come, ma ogni volta
che incontrava quel piccolo sguardo – era anche il suo, quello di Al, quello di
loro padre – qualcosa si muoveva dentro di lui. Era una sensazione diversa,
sconosciuta, ma incredibilmente piacevole.
Era come se, da due anni a quella parte, quel
bambino, suo figlio, fosse
improvvisamente diventato il centro di tutti i suoi pensieri, la stella più
luminosa di tutto il suo piccolo mondo.
Deglutì, tentando di calmare il palpito insistente
del suo cuore, veloce e ritmato come il battito delle ali di un colibrì.
Inspirò nuovamente il profumo che emanava quella creatura, talmente piccola e
fragile da non sembrare nemmeno reale, ma solamente una luminosa allucinazione
derivata da anni di profonde ferite nel cuore.
Il piccolo stirò le braccine, assonnato,
giocherellando con i ciuffi ribelli che già solleticavano la fronte di suo
padre.
-Papà.
Sussurrò il bambino, tra uno sbadiglio e l’altro.
Edward, con un sorriso colmo d’emozione, abbassò lo sguardo, fino a trovare quello
del figlio. Un rivolo d’aria sfuggì dalle sue labbra, rendendosi conto di non
essere affatto sorpreso della sensazione che lo aveva abbracciato, quando aveva
incontrato quegli occhi vispi. Quel bambino, sembrava riflettere la sua figura
come la superficie lucida di uno specchio. Era lui. Un lui ovviamente più
piccolo, che ancora non riusciva a parlare correttamente, ma pur sempre lui.
Si era soffermato molto su quel particolare,
osservando le foto che lo ritraevano da bambino, quelle che la zia Pinako
custodiva sulla bacheca della sua casa.
-Che cosa c’è, Daniel?
Rispose l’ex alchimista, un po’ titubante. Si
sedette a terra, reggendo comunque tra le braccia il bambino, che nel frattempo
aveva afferrato con la manina un lembo della vecchia palandrana rossa.
-La mamma.
-La mamma? Che cos’ha combinato la mamma?
Chiese Edward, canzonatorio, scompigliando
giocosamente i capelli del figlio. Nonostante tutto, si guardò intorno, facendo
scattare lo sguardo da un lato all’altro della stanza, ma della moglie non vi
era traccia. S’incupì un po’, forse leggermente preoccupato. Deglutì e scosse
la testa, cercando di spazzare via dalla sua mente le immagini della prima
gravidanza di Winry.
Non che fosse successo qualcosa di grave, ma il
ricordo del travaglio e dopo del parto – e soprattutto delle urla della povera
ragazza – risuonò nella mente dell’ex alchimista come l’assordante e monotona
sirena di un allarme, agitandolo non poco.
-Winry?
La chiamò, allarmato, cercandola nuovamente con gli
occhi. Vide una scia color miele spuntare da dietro il muro che dava sulle
scale. Chiuse gli occhi e sospirò, rassicurato dal volto divertito della moglie
dagli occhi color del cielo.
-La mamma sta bene.
Si limitò a dire lei, raggiungendoli e sedendosi
sul divano a pochi passi da loro. Socchiuse le palpebre inviando dolci occhiate
al pancione rotondo che portava ormai da otto mesi. Lentamente, vi passò sopra
la mano destra, accarezzandolo, raggiunta poi dalla sinistra, che compì lo
stesso gesto.
L’ex alchimista arrossì di botto, meravigliato da
quella scena. Sorrise beatamente, mentre la sua attenzione tornava a
concentrarsi sul biondino che teneva in braccio, il quale sembrava essere
veramente interessato a quel panno ormai antico color vermiglio acceso.
-Dani?
Lo chiamò, squadrandolo con aria truce. Il bambino
alzò lo sguardo d’oro, per poi sorridere in modo fin troppo innocente al padre,
che già aveva alzato un sopracciglio, confuso.
-Sì?
-Che cosa volevi dire prima della mamma?
Daniel alzò un attimo lo sguardo, come a recuperare
un pensiero ormai accantonato in un angolo della sua mente. Posò le mani a
terra, scendendo dalle gambe di Edward, che seguiva ogni suo movimento
incuriosendosi sempre più. Gattonò per alcuni metri, per poi alzarsi in piedi e
proseguire con qualche difficoltà verso l’altro lato della stanza, dove si
trovava una delle sue “ceste dei giochi”.
Winry voltò la testa, assicurandosi che suo figlio
non combinasse qualche marachella. Il biondino, per nulla infastidito dagli
sguardi inquisitori dei genitori, si chinò ad aprire la cesta, estraendone un
pallone di cuoio dall’aspetto trasandato, forse consumato dall’estate passata a
rotolare tra le colline del paese.
Lo trattenne tra le mani a fatica, tentando di fare
qualche passo, ma trovò l’impresa troppo ardua da portare a termine. Con un
leggero sbuffo, posò il pallone a terra, spingendolo un po’ con le mani, un po’
con i piedi, fino a raggiungere nuovamente l’ex alchimista. Edward l’osservò,
inclinando la testa.
-Ecco.
Sbuffò il bambino, sedendosi a terra accanto al suo
giocattolo, producendo in piccolo tonfo. Guardò suo padre per qualche istante,
poi tornò a concentrarsi sulla sua palla. Era un regalo di compleanno che lo
zio Alphonse gli aveva porto qualche mese prima, invitandolo a non farsi male,
mentre ci giocava. Lo ricordava distintamente. Eppure, in quel momento, quel
pallone gli pareva tutt’altro rispetto a un gioco potenzialmente pericoloso.
-Papà?
Lo richiamò, tirandogli un ciuffo di capelli.
Edward grugnì sommessamente, alzando gli occhi al cielo, per poi sorridere,
pronto ad ascoltare le parole del figlio.
Winry lo incenerì con lo sguardo, mormorando
qualcosa sulla “calma verso i figli”. Lui era calmo. Perfettamente. Non avrebbe
avuto alcun motivo per essere agitato, in fondo, Daniel non lo aveva ancora
chiamato nano. Deglutì, dandosi mentalmente dell’idiota. Winry ridacchiò,
avendo intuito i pensieri contorti del marito. Schiuse le labbra in un sorriso
colmo di serenità, sussurrando una piccola parola. “Fagiolino”.
Eh no, adesso basta. Lui non era basso. O almeno,
non lo era più.
“Prendi e incassa, Winry. Questa me la paghi.”
-Papà??
Lo chiamò ancora il piccolo, strattonando – questa
volta – la palandrana, con una forza e una determinazione che un altro qualsiasi
bambino della sua età avrebbe solamente potuto sognarsi. L’ex alchimista si
vide costretto ad assecondare i desideri del figlio ed ad ascoltare ciò che
aveva da dire.
-Sì?
-La mamma.
Disse Daniel, indicando la madre con l’indice della
mano destra. Winry inclinò la testa, incuriosita. Pochi istanti dopo, il
bambino additò invece il pallone. Sul volto di Edward apparvero i primi segni
di una risata rinchiusa e poi ingoiata, trattenuta al limite dello sforzo.
-Perché la mamma ha mangiato una palla?
Edward si lasciò scappare una risata sguaiata,
scompigliando con una mano i capelli del figlio, come a premiarlo per
quell’affermazione. Daniel, perplesso, sbatté un paio di volte le palpebre.
Sentendosi preso in giro, il piccolo si rattristò e sulle estremità dei suoi
occhi d’oro puro comparvero grappoli di lacrime cristalline.
Winry, dapprima divertita dall’accaduto, si alzò
dal divano con uno scatto felino non appena vide il pianto farsi strada nello
sguardo del biondino. Afferrò la chiave inglese, che si trovava da chissà
quanto tempo posata sul tavolino di legno intarsiato accanto al divano e la
lanciò senza tanti complimenti sulla testa del povero ex alchimista, che
stroncò la sua risata e si afflosciò a terra apparentemente privo di sensi.
-Sei un idiota!
Lo ammonì Winry, correndo a soccorrere Daniel, che
si sfregava gli occhi umidi con le manine strette a pugno. Edward si alzò
dolorante, massaggiandosi con la mano destra il grosso bernoccolo che quel
dannato arnese gli aveva provocato.
-Winry, sei impazzita per caso?
Sbraitò, tornato improvvisamente in salute,
voltando la testa da un altro lato con fare stizzito. Winry, con in braccio il
piccolo, gli si avvicinò pericolosamente. L’ex alchimista indietreggiò poco sul
pavimento.
-Sei un insensibile, Ed.
-Che cosa? Perché?
-Ma non hai visto? L’hai fatto piangere!
-Ma che dici?
-Potevi non metterti a ridere così! Poverino, ci
è rimasto male!
-Ma hai sentito che ha detto!
-Certo! Ti ricordo che ha due anni, Ed. Non può
sapere come...
-... Oh, già. Hai ragione.
Ammise Edward, alzandosi da terra e raggiungendo il
piccolo tra le braccia della mamma. Portò una mano verso una lacrimuccia, che
si apprestava a scendere dalla guancia paonazza del bambino e l’asciugò. Daniel
tirò su con il naso, facendo vibrare le labbra.
-Scusami, piccolo.
Sussurrò Ed, sfiorando la punta del naso del figlio
con quella del suo. Daniel smise di piangere e posò una manina sulla guancia
del suo papà. Edward fu scosso da miliardi di brividi ed emozioni diverse.
-Avevi ragione. La mamma sembra proprio un pallone.
-Edward!
-Hey, non contestare le sagge parole di tuo
figlio.
-Umph. Sei impossibile.
-Lo so.
Disse l’ex alchimista, avvicinandosi questa volta
al viso della sua meccanica di fiducia. Arrivò a pochi millimetri dalle sue labbra,
socchiudendo gli occhi. Winry sospirò, colta da un’ondata di sensazioni che le
fecero battere il cuore.
Con il suo respiro sulle labbra, Edward concluse il
suo discorso, abbozzando un sorrisetto compiaciuto.
-Ed è per questo che sei innamorata di me.
Mormorò, prima di azzerare la già inesistente
distanza che li divideva con un bacio dolce, uno di quei baci che le riservava
solo in alcuni momenti, quando erano soli, quando aveva bisogno veramente di
averla tutta per sé.
-Continuo a chiedermi come tu riesca a zittirmi
ogni maledetta volta.
Edward sogghignò dolcemente, rubando il figlio
dalle braccia della moglie. Lo strinse un po’ al petto, sedendosi sul divano.
Winry lo imitò ritrovandosi nuovamente accanto a lui. Daniel si arrampicò sulle
braccia di Ed, raggiungendo il pancione della madre.
-Ma...
Cominciò, mordicchiandosi le labbra.
-Io posso giocare anche con questo pallone?
Winry si lasciò sfuggire un risolino dolce,
intenerita dalla pura ingenuità di quel bambino così meravigliosamente simile
al suo papà.
-No, piccolo.
Gli disse semplicemente, accarezzandogli la
testolina bionda. Il bambino assunse un’espressione dapprima pensosa,
successivamente sempre più abbattuta.
-Perché?
-Perché questo non è un pallone. Qui dentro c’è
la tua sorellina.
Gli occhi di Daniel sembrava stessero per uscire,
tant’era rimasto sconvolto da quella rivelazione. Posò titubante una manina sul
ventre rigonfio della madre, tastando qua e la nel vano tentativo di
riconoscervi una figura umana. Sconsolato, posò un orecchio sul pancione ed
attese.
Improvvisamente, saltò dalla sua posizione per
rifugiarsi tra le braccia di Edward.
-Mamma! Mamma!
Piagnucolò il bambino, terrorizzato.
-La sorellina si è mossa!
-Oh, tesoro!
Disse Winry, con le lacrime agli occhi, riprendendo
Daniel, che tornò di buon grado tra le sue braccia. Il bambino appoggiò
nuovamente la mano sul “pallone”, invitato dalla mano esperta di sua madre.
Tocchettò curioso quella superficie liscia e rigida, eppure morbida e setosa,
ricoperta da uno spesso e candido maglioncino di lana.
-Ciao. Come ti chiami?
Sussurrò Daniel, abbastanza timoroso, rivolgendosi
al pancione. Winry scoppiò in un pianto liberatorio, di cui ogni lacrima era
pregna di felicità e commozione. Edward le passò una mano sulle spalle,
stringendola a sé, mentre l’altra raggiungeva quella del figlio sul giusto
luogo, quel ventre rotondo che simboleggiava una nuova parte del loro futuro.
-Vi amo, più di ogni altra cosa.
-Anche noi, vero Daniel?
-Certo papà! Ma perché non mi risponde?
-Perché ancora non sa parlare. È troppo piccola.
S’intromise Winry, posando la testa su quella del
marito. Il fresco profumo d’erba bagnata la travolse, inebriandole i sensi più
di quanto non lo fossero già.
-E quando uscirà da lì?
-Oh, prima di quanto immagini, piccolo.
Mormorò, abbassando poi lo sguardo al pancione. Un
nuovo sorriso si fece strada sul suo volto, già rigato da calde lacrime di
gioia. Sentì il sapore salato sulla lingua, passata a inumidire le labbra
secche.
-Arriverai presto da noi.
Sussurrò, a voce bassa, rivolgendosi a lei. Volse lo sguardo alla lontana
finestra, scorgendo ancora qualche fiocco di neve imperlare la nottata. Strinse
forte la mano di Edward, che la ringraziò con un tenero bacio sul collo.
Nella loro mente, già si formava l’immagine del
loro nuovo mattino. Un mattino pieno di sole e di aria tranquilla.
-Aspetta... ancora per poco.
Un mattino incorniciato dal profumo delle rose
bianche, lontano dal freddo di quel vento che ha trascinato lontano ogni
traccia di tristezza. Il loro nuovo mattino senza pioggia.
-Sarai la nostra luce, Rosalie.
SPAZIO AUTRICE ^W^
Ed ecco la prima parte (ce ne
saranno tre) del prologo di questa fanfiction. Dunque, che ne pensate? Lasciate
qualche recensione, così che io possa sapere come avete trovato l’inizio di
Timeless Light!
Capitolo 2 *** PROLOGO: Tuffo nella Memoria [parte 2] ***
Eccomi qua,
nuovamente, dopo una settimana, come promesso!^^ *si alzano fischi di disappunto*
Bene, a parte tutto sono felice del risultato che ha ottenuto il primo prologo.
Ringrazio tantissimo le tre persone che mi hanno lasciato una recensione, oltre
naturalmente a tutte quelle che l’hanno solo letto J.
Con questa seconda
parte del prologo (non so neanche se è possibile chiamarlo così) noterete che
le due parti non sono collegate tra di loro, soprattutto perché tra le due
insiste un lasso di tempo piuttosto consistente, ossia quattro anni. Ho deciso
di utilizzare un prologo spezzato in tre parti perché avevo bisogno di uno
stratagemma per far correre in fretta il tempo, soffermandomi su punti cruciali
della vita dei nostri protagonisti.
Ora basta parlare,
vi sarete anche stancati della solita noiosa tiritera! Come al solito vi auguro
buona lettura e vi chiedo una piccola recensione! ^^
PROLOGO: TUFFO NELLA MEMORIA (2)
-Perché quell’idiota sparisce sempre a quest’ora?
Si lamentò Winry, premendo con violenza la spugna
ruvida sul piatto ormai lindo che stava lavando, immaginando di trovarsi tra le
mani non un semplice oggetto di ceramica qual era, ma l’espressione
strafottente del marito.
-Ah, ma certo. Scappa quando ci sono da fare i
lavori di casa!
Continuò a borbottare, risciacquando l’ennesimo
bicchiere e posandolo forse con troppo intensamente sul piano della cucina lì
accanto. Sbuffò insoddisfatta, maledicendo il fatto di possedere così tanta
pazienza e di aver promesso al medico di famiglia di non lanciare mai più
chiavi inglesi dirette alla testa del povero ex alchimista.
-Vero, Ed?!
Nessuna risposta, come sospettava. Si mordicchiò le
labbra, irritata, mentre toglieva il tappo dal lavandino e lasciava fluire
l’acqua, che scomparve in pochi istanti in un piccolo vortice.
Si asciugò lesta le mani su un panno morbido, che
poi ripiegò impeccabilmente e appoggiò sopra il lavandino, senza però darci
troppa importanza. Si avvicinò alla finestra e scostò gentilmente la tenda con
le dita della mano destra, così da poter osservare il delicato paesaggio
primaverile che fioriva al di fuori, come quei deliziosi petali colorati che
tinteggiavano qua e là i vasti spazi d’erba odorosa.
Si mordicchiò il labbro inferiore, spostandosi una
ciocca di capelli biondi e luminosi dietro l’orecchio. Sospirò, alzando gli
occhi al cielo.
Chissà dove si era rifugiato quello scansafatiche
di suo marito.
Tornò sui propri passi, quasi danzando sulle punte
dei piedi, alla ricerca di qualcosa – qualsiasi cosa – che le fosse da
suggerimento per intercettarlo. Eppure, tutt’intorno non vi era altro che
silenzio, salvo qualche acuto cinguettio dei passerotti, che giungeva fino alle
sue orecchie dalla finestra aperta.
Nemmeno il vociare giocoso di Daniel e Rosalie
spezzava quel silenzio così innaturale e diverso da ciò a cui era ormai
abituata. Che fine avevano fatto i suoi figli?
Per un attimo, pensò d’essere finita in un mondo
parallelo, di cui lei era l’unica abitante. O forse, forse stava sognando.
Probabilmente stava volteggiando in una fantasia notturna, silenziosa e
ovattata, così estranea al suo attuale modo di vivere. Perfetto. Era un momento
assolutamente perfetto.
-Mamma! Mamma!
Ma dovette ricredersi.
Due vispi occhi dorati, luminosi e limpidi come la
voce, acuta e pura, liberata da due labbra sottili. Dolce sapore di caramelle
rubacchiate dalla ciotola dei dolci in cucina. Passi vivaci, forse troppo
ritmati, come se qualcuno stesse sbattendo i piedi sul pavimento. Uno sbuffo.
-L’ha fatto di nuovo!
Un sorrisetto fiero, malizioso. Eppure, nello
sguardo un vago senso di colpa ombreggiava le iridi preziose. Batté i piedi a
terra, un’altra volta, come se quegli stivaletti neri - così piccoli, ma
dall’aspetto così teneramente familiare – fossero portatori di un potere
speciale, capace di attirare magicamente l’attenzione degli altri.
-Rose! Rosalie ha disegnato di nuovo per terra!
Si lamentò, piagnucolando, quasi a voler
sottolineare la cosa. Allungò la manina tiepida, porgendo un paio di sottili e
polverosi gessetti bianchi, probabilmente appena trafugati alla sorellina, così
da avere la prova inconfutabile della realtà del delitto annunciato.
-È tutta colpa di quel libro!
Sbottò, dopo aver consegnato i gessetti alla madre,
che si era chinata davanti a lui per poterlo guardare meglio in viso. Il
bambino incrociò le braccia al petto, irremovibile.
-Quale libro?
Chiese Winry, inclinando la testa e accarezzandogli
dolcemente la chioma folta di capelli dorati, in un gesto amorevole. Il bambino
arricciò le labbra, spazientito.
-Quello che ha visto a casa dello zio!
-Alphonse...
Sussurrò la meccanica, facendo qualche breve
calcolo mentale. Improvvisamente, s’illuminò, alzando lo sguardo verso quello
di Daniel, che si stava dondolando sui piedi, sbuffando, forse attendendo una
qualsiasi forma d’interessamento o, quantomeno, d’attenzione.
Winry allargò le braccia, così che il bambino
potesse facilmente trovare un comodo rifugio al suo petto.
-Oh, Daniel. E, questa volta, cos’ha disegnato?
-Come sempre, mamma. Tanti cerchi con dentro
delle forme strane. E poi, li ha fatti male! Sono tutti pieni di punte,
sembrano quadrati!
Lei rise, socchiudendo gli occhi azzurri e
luminosi, tersi come il cielo in un soleggiato pomeriggio d’estate. Daniel
appoggiò la testolina bionda al seno della madre, chiudendo gli occhi.
Nonostante avesse da poco superato i sei anni di età, considerava ancora un
giaciglio confortante quel soffice e tiepido rifugio.
Tenendo il bambino tra le braccia, la donna, ormai
splendida ventott’enne, attraversò il corridoio e salì lentamente le scale,
trovandosi di fronte a una porta lignea spessa, lasciata semiaperta.
Posò il figlio a terra e premette una mano sulla
superficie dell’uscio, spingendo leggermente. In pochi istanti, la stanza
interna si rivelò ai suoi occhi. Accanto a lei, Daniel borbottava saccente, in
attesa dell’ammonimento che sarebbe presto giunto all’orecchio della sorellina.
Quando Winry entrò a piccoli passi nella stanza, la
bambina non giaceva più a terra, come invece aveva precedentemente immaginato.
I gessetti, spezzettati, si trovavano poco distanti
da lei, abbandonati sul pavimento in una nuvoletta di polvere biancastra.
-Rosalie?
La chiamò la donna, con dolcezza. La bambina
arricciò le labbra rosee, sorridendo con delicatezza. Sbatté un paio di volte
le palpebre, nascondendo i grandi occhi color del cielo e rimase per qualche
istante ad osservare la madre, poi tornò con grande disinteresse ad occuparsi
dei fatti suoi.
Andando a tentoni con le mani, si accoccolò alla
bell’e meglio sulle gambe incrociate del ragazzo – ormai uomo, a dire la verità
– che le accarezzava con estrema tenerezza i capelli biondi, color miele
luminoso.
Nella mano destra, l’uomo teneva con destrezza un
gessetto bianco, colpevole d’aver segnato il lucido pavimento di legno con un
cerchio alchemico dai lineamenti più che perfetti.
L’ex alchimista volse lo sguardo verso la porta,
scorgendo lo sguardo adirato e furente di una meccanica di automail in
particolare.
-Edward!
Sbottò la bionda, riferita al marito che le rispose
con un enorme sorriso a trentadue denti. Daniel, sogghignando, si appostò
dietro le gambe della madre, attendendo che la furia si spostasse da Edward
alla piccola Rosalie.
Notando che, sfortunatamente, il suo falsissimo
sorriso innocente non era bastato per placare la moglie, sospirò, scuotendo la
lunga coda di capelli dorati e posò a terra la piccola, che si lasciò scappare
un lamento di disappunto.
Si avvicinò cautamente a lei, sorridendo questa
volta maliziosamente. Prese il suo viso tra le mani, accarezzandone le guance
soffici con i pollici. Diminuì la distanza che li divideva, pronto a donarle un
bacio.
-Eh no.
Protestò però Winry, posando entrambe le mani sul
petto dell’alchimista e spingendo lievemente, in modo che lui facesse un passo
indietro. Ed roteò gli occhi, contrariato dal fatto che il suo stratagemma,
ideato per fuggire da quella situazione, fosse tragicamente fallito.
-Perché?
Chiese lui, incrociando le braccia al petto
solamente dopo aver accarezzato con dolcezza quasi provocante i fianchi morbidi
di Winry, forse leggermente arrotondati dalla maternità. La meccanica arrossì
visibilmente a quel tocco e, per un attimo, si perse nelle iridi preziose del
marito. Subito, però, la sua parte razionale tornò a farle una visitina e prese
il sopravvento sulle sue azioni. Così, Winry si ritrovò ad abbassare lo sguardo
e a ripulire con un gesto stizzito il tessuto del grembiule blu notte che
indossava, imbrattato da una bianca scia di gesso.
-Perché no, Ed. E poi le domande, adesso, te le
faccio io!
-Ah, fa’ pure.
Winry percepì una grossa vena pulsarle in fronte,
sentendosi parecchio irritata dal tono arrogante con cui l’uomo si rivolgeva a
qualsiasi persona – lei compresa – eccezion fatta solamente per le due piccole
pesti che si facevano le boccacce sul pavimento della stanza.
-Ora mi puoi spiegare cosa diavolo stavi facendo?
-Che cosa ti sembra? Disegnavo con nostra figlia!
-E... sul pavimento?
-Non fare tante storie, Win. È gesso, andrà via
in un attimo.
-Oh, certo che andrà via in un attimo. Perché
sarai tu che dovrai pulire.
-Io?
-Certo, tu.
-Umph.
-Senti, Ed. Ho davvero, davvero bisogno di
parlarti.
-E che abbiamo fatto fino ad ora?
-Mmmh! Vieni!
Così dicendo, scomparvero, lasciando un piccolo
Daniel confuso fermo sulla porta, che
ancora malediceva il fatto che la sua cara sorellina non avesse ricevuto
nemmeno una piccola sgridata. Per tutta risposta, Rosalie gli mostrò la lingua,
tornando ad impegnarsi nelle sue opere d’arte.
Intanto, Winry, trascinato Edward per un braccio
fin dentro la loro camera, chiuse bene la porta e dette un giro di chiave, per
essere sicura che i bambini non ascoltassero un solo suono di quella
conversazione. Si fermò un istante, preoccupandosi per la figlia minore. “no,
c’è Dani con lei, la terrà sott’occhio” pensò, girandosi con le spalle alla
porta.
-Bene.
Sentenziò, schiarendosi la voce.
-“Bene”.
Le fece il verso l’ex alchimista, sfregando le mani
per eliminare le ultime fastidiose tracce di gesso. Winry alzò le sopracciglia,
passando sopra all’ennesima mancanza di rispetto del marito, tant’era ormai
abituata. Si sedette sul letto e lui fece lo stesso.
-Ora tu, Ed, mi spieghi una cosa.
-Cosa?
-Che cosa stavi... insegnando... a Rose?
-Insegnando? Cosa avrei potuto insegnarle?
Stavamo solamente disegnando...
-Oh, Ed. Non sono una stupida. E non ho nemmeno
una memoria corta. Ho passato troppo tempo insieme a te e a tuo fratello,
quand’eravamo piccoli. Davvero pensavi che io non mi fossi accorta del fatto
che... ah, veniamo al punto. Io non sono arrabbiata perché tu la stai
incoraggiando a scarabocchiare per terra.
-Non erano scarabocchi!
Si tradì Edward, mordendosi il labbro inferiore,
quasi a volersi rimangiare la verità appena sgusciata fuori dalla sua bocca.
Winry prese un gran respiro e inclinò la testa di lato, con un’espressione che
urlava: “Visto? Te l’avevo detto che io so tutto”. Edward roteò gli occhi,
posando il mento sul dorso della mano.
-Ed, so benissimo che quelli erano cerchi
alchemici.
L’ex alchimista deglutì, abbassando gli occhi e
fissando insistentemente l’automail alla gamba sinistra, per metà scoperto dai
pantaloncini di cotone azzurri.
-Edward.
Lo chiamò Winry, assumendo un tono più serio. Ed
alzò lo sguardo, prestando alla moglie quanta più attenzione fosse possibile.
Lei sospirò, gettando indietro una ciocca di capelli biondi e torturandosi la
manica sinistra della camicia rosa pallido. Dischiuse le labbra per parlare, ma
Edward la precedette.
-So cosa stai per chiedermi e no, non è così.
-No, assolutamente, non le stavi insegnando
l’alchimia.
Lo canzonò la donna, rivolgendosi anche al tono che
aveva utilizzato prima con lei. Ed strinse i pugni.
-Devi credermi, Win.
-Cielo, Ed. Lo so che ne senti terribilmente la
mancanza. Ne sono certa, perché ti conosco da sempre. Però, so anche dove ti ha portato l’alchimia, so a
quali errori ti ha condotto. Quando nacque Daniel, anche allora abbiamo avuto
una discussione simile, ricordi? Abbiamo deciso insieme che avremmo tenuto loro
nascosto tutto ciò che è accaduto. Il nostro passato, quello tuo e di Al, tutto
ciò che è capitato in questo paese... al di fuori del normale. Capisci cosa intendo?
Gli homunculus e tutto ciò che è stato collegato a loro. Ma soprattutto, ci
siamo promessi di tenerli lontani da tutto ciò che riguarda l’alchimia e la
trasmutazione per riportare in vita tua mamma. Sai che è per il loro bene. Per
questo abbiamo detto loro che hai perso la tua gamba sinistra a causa di una
malattia. Ti prego, Ed, non complicare le cose.
-Winry io so tutti questi fatti. E non
complicherò niente, perché sono d’accordo con te. È solamente che... Rose poco
fa è corsa a chiedermi cosa fossero quei disegni sul libro di Al e così, non lo
so, mi ha fatto tenerezza. Quand’ero piccolo, a volte spiavo mio padre mentre
studiava, da dietro la porta, e ho sempre desiderato chiedergli cosa ci fosse
scritto in quei libri che leggeva con così tanto interesse, ma non ne ho mai
avuto il coraggio. Chissà, se fossi stato meno codardo, magari mi avrebbe
avvertito di più sui pericoli che avrei potuto correre e ora non avrei
quest’automail, non avrei mai fatto passare quelle terribili sensazioni ad Al
e... tutto sarebbe stato molto più semplice. E lo sarebbe anche ora...
probabilmente avrei ancora la mia alchimia e noi non saremmo detentori di un
segreto che un giorno dovremo rivelare ai nostri figli. Perché dovremo farlo, e
tu lo sai.
Edward finì il suo discorso, lasciandosi cadere
all’indietro e sprofondando sulla morbidezza del materasso. Si distese e chiuse
gli occhi, confuso, quasi volesse estraniarsi per un istante dalla verità del
mondo che lo circondava. Winry si sdraiò accanto a lui e lo confortò con un
dolce bacio sulla guancia. L’ex alchimista aprì un occhio, osservando la moglie
che si apprestava a porgergli una nuova domanda.
-Non le hai detto niente?
-Assolutamente no, anche se avrei tanto voluto
fare il contrario.
Winry annuì e posò il mento sulla sua spalla,
respirando a fondo l’intenso aroma che proveniva dal collo scoperto dell’uomo,
appena solleticato da alcuni ciuffi aurei. Sospirò, sentendo il proprio alito
infrangersi a pochi centimetri dalle su labbra. Posò una mano sul suo petto,
accarezzandolo attraverso lo strato sottile della maglietta bianca.
-Era così... bella.
Winry alzò lo sguardo, socchiudendo appena le
labbra in un respiro mozzato, confusa dall’affermazione del marito. Si
accigliò, osservandolo con curiosità.
-Rosalie era stupenda. Mentre teneva in mano quel
gessetto, mentre tentava di disegnare i cerchi alchemici...
-Ed...
-Mi dispiace, Winry. Ho sbagliato, lo so, però mi
sentivo talmente felice in quel momento. Mi è sembrato d’esser tornato bambino.
Per un attimo, ho quasi creduto di essere nuovamente capace di trasmutare. Ma
in un attimo, è scomparso tutto, e io sono tornato alla realtà. Mi sono
solamente concesso una piccola fantasia, tutto qui.
Mormorò, alzando le braccia davanti al viso e
concentrandosi sulle sue mani, impotenti ormai da quasi dodici anni. Abbassò le
palpebre, perdendosi nel vortice pungente dei ricordi.
-Non sei più felice senza l’alchimia?
-Cosa? Oh, Winry. Certo che lo sono. Io sono
felice ora come non lo sono mai stato. Ho te, una famiglia, Al è tornato nel
suo corpo, i problemi qui sono finiti. Non potrei mai desiderare di più.
La meccanica sorrise, stringendosi forte al braccio
di Edward, che le aveva posato un delicato bacio tra i capelli biondi. Winry
alzò il volto, incontrando lo sguardo d’oro colato dell’uomo, ancora
concentrato su di lei. Si alzò, forzando sul braccio sinistro, per poi
sdraiarsi nuovamente appena sopra Edward, che le scoccò un sorriso soddisfatto.
Avvicinò lentamente il viso a quello di lui,
posando le labbra tra quelle dell’ex alchimista e la sua guancia. Lo sentì
irrigidirsi.
-Winry...
Farfugliò Ed, reso meno lucido dai baci provocanti
che la meccanica lasciava bollenti in ogni angolo del suo viso, del suo collo,
delle sue spalle appena scoperte. Lei mugugnò, spostandosi verso l’orecchio sinistro
e mordicchiandolo un po’ con gli incisivi.
-I bambini.
Disse lei, ad un tratto, indirizzando quella
sottospecie di ammonimento più a se stessa che all’ex alchimista. Lui le
accarezzò una guancia soffice, socchiudendo gli occhi con un sorriso estremamente
dolce.
-Hey, stai tranquilla. Sono a pochi metri da qui.
-Ma la porta è chiusa a chiave.
-Vuoi mandare all’aria l’unico momento che
abbiamo per stare un po’ insieme?
-No, certo che no. Ma...
Lui ammiccò, prendendola tra le braccia e
ribaltando la situazione. Raggiunse le labbra della bionda, prima che questa
potesse aggiungere altro.
-Ed...
Un debole mormorio tra le labbra, rinchiuso e poi
rilasciato, continuamente. Non sapeva cosa l’avesse spinta a pronunciare il suo
nome, in quel momenti, eppure il suo petto lo reclamava, chiamandolo a gran
voce. Lo voleva avere vicino, molto più vicino.
Lentamente, Winry sciolse l’elastico che teneva
legata la chioma dorata del marito, così che i ciuffi preziosi scivolassero
leggeri sulle sue spalle, rendendolo ancora più attraente ai suoi occhi di
quanto non lo fosse già. Si allontanò da lui appena qualche centimetro, per
poterlo ammirare anche solo per pochi secondi e convincersi – nuovamente – che
sì, era tutto vero.
Un attimo dopo, i loro corpi erano di nuovo allacciati,
uniti in un bacio tenero e passionale, intimo, che li stava avvolgendo sempre
di più in un abbraccio di contorni sfumati. Winry affondò la mano tra i fili
lucenti che scendevano sulle spalle dell’ex alchimista, scossa da profondi
brividi che le animavano la schiena, accarezzata a e stretta avidamente da un
braccio di Edward. Lesto, slacciò il fastidioso grembiule e lo gettò lontano,
facendo poi scorrere una mano sotto la maglietta della meccanica, incontrando
la sua pelle, calda e morbida. Winry sussultò, aderendo – se possibile – ancora
di più al corpo di quell’uomo che l’aveva sempre fatta impazzire, desiderosa di
avere di più.
Con uno scatto, il maggiore degli Elric estrasse la
mano e, in pochi istanti, la maglietta leggera di Winry si ritrovò appesa allo
schienale della sedia davanti alla scrivania. Poco più tardi, la maglietta
candida dell’ex alchimista volò a farle compagnia.
Winry spostò le mani sul petto nudo del marito,
seguendo il profilo sinuoso dei pettorali con la punta delle dita, soffermandosi
più volte in carezze profonde e dolci, seppur provocanti e maliziose.
Sorrise, osservando i suoi occhi velati di
desiderio. Fece scivolare nuovamente le mani, portandole verso l’inguine di
Edward, proseguendo le sue carezze brucianti. Stampò un bacio di fuoco alla
base del collo del marito e lo mordicchiò appena quando arrivò a sfiorare il
bordo superiore dei pantaloncini.
Si morse un labbro, gemendo, mentre le mani di
Edward si appropriavano sempre di più del suo corpo, sfiorando con carezze sensuali
ogni punto più sensibile della sua pelle accaldata. Lei addentrò la mano
nell’intimo dell’ex alchimista, rabbrividendo ancora una volta al tocco delle
sue mani fresche, che, impazienti, le avevano strattonato via la gonna in modo
non troppo gentile.
-Winry.
Tese le orecchie, sentendolo mormorare il suo nome
a pochi millimetri dal suo orecchio. Incrociò il suo sguardo alterato,
percependo il respiro già irregolare farsi sempre più veloce.
-Ti voglio.
Gracchiò lui, con voce bassa. Milioni di emozioni
si accavallarono dentro di loro, rendendoli schiavi si quella passione e di
quegli ultimi scampoli di imbarazzo che caratterizzavano la loro relazione.
-Anche io... ma...
-Ti prego. Impazzirò se non ti ho adesso. È
troppo tempo che non stiamo un po’... da soli. Ho bisogno di sentirti parte di
me.
Sibilò Edward, cercando di entrare ancora più in
confidenza con il suo corpo, respirando affannosamente. All’improvviso, un
rumore estraneo li fece sobbalzare. Dalla porta chiusa provenivano urla e
schiamazzi, accompagnati da alcuni colpi battuti sulla superficie lignea.
Se Ed ne fosse stato capace, avrebbe volentieri
incenerito quella rumorosa fonte di distrazione. Arretrò subito il pensiero,
disgustato dall’essersi messo alla pari di quel bastardo del comandante Mustang.
Si alzò a forza dal letto, raccattando la maglietta
e riinfilandosela svogliatamente. Aprì la porta dopo aver girato la chiave,
cogliendo i figli l’uno con le mani nei capelli dell’altra. Si ritirarono
subito ognuno da un lato della porta, squadrandosi in cagnesco.
-Ha cominciato lui!
-No, è stata lei!
Gridarono Rosalie e Daniel, indicandosi a vicenda.
Edward si batté una mano sulla fronte e, dopo un fugace sguardo a Winry – che
si era coperta con un cuscino -si
accucciò di fronte a loro, passando una mano tra i morbidi capelli di entrambi.
Sogghignò nel vederli scambiarsi una linguaccia. Oh, quanto quell’immagine lo
faceva tornare ai vecchi tempi! I loro visi così ingenui e innocenti gli fecero
battere il cuore ad una velocità di cui si stupì.
Winry aveva ragione. Non era giusto privarli della
loro infanzia, macchiando le loro anime e i loro ricordi con taglienti
frammenti di passato, dei quali sicuramente avrebbero fatto volentieri a meno.
Eppure, gli si strinse il cuore quando la
consapevolezza di dover perdere davvero per sempre ogni ricordo dell’alchimia
si fu annidata alla perfezione nella sua mente. Però sapeva, dentro di lui, che
quella luce azzurra, che tanto lo spediva in un tumulto di memorie, non sarebbe
mai scomparsa totalmente dalla sua vita.
Ascoltò distrattamente le lamentele di Rosalie e
Daniel e cercò di calmarli, raccontando di quando lui e Alphonse litigavano per
ogni stupida cosa. Raccontò loro anche di quando avevano discusso su chi
avrebbe sposato Winry.
Risero, facendo pace. Dopo un breve bacio sulla
guancia del padre, corsero via, mano nella mano, felici di aver sotterrato –
almeno per il momento – l’ascia di guerra.
Edward, scuotendo la testa, si chiuse alle spalle
la porta, e con essa anche i piccoli attimi di passato che aveva rivissuto.
Vide la moglie ancora distesa sul letto, il viso deliziato da un meraviglioso
sorriso che profumava tanto d’amore.
Si rese conto che quella luce non era mai scomparsa
in lui. Era solo mutata, trasformandosi nel desiderio che aveva nutrito per anni.
Era lei, la sua famiglia, la donna che avrebbe amato per sempre, la sua nuova
luce dai riflessi del cielo.
Avanzò di qualche passo, con il cuore a mille,
fermamente deciso di riprendere il loro “discorso” da dove l’avevano
interrotto.
Ed eccoci nuovamente qui, alla
fine di questo ritaglio di storia. Edward e Winry hanno comunque bisogno di
piccoli momenti di intimità, nonostante ora abbiano dei bellissimi figli a cui
badare, giusto? In questo capitolo, comincia a riaffiorare una questione che
sembrava essere stata sotterrata per molto tempo, ossia l’alchimia. L’alchimia
giocherà un ruolo importante in Timeless Light, soprattutto per uno dei nuovi
personaggi. Andando avanti con la storia, capirete perché.
Ora vi lascio, ringraziandovi
ancora una volta per la vostra buona volontà nel leggermi e per la vostra
attenzione nelle recensioni.
Capitolo 3 *** PROLOGO: Tuffo nella Memoria [parte 3] ***
Heilà, salve a
tutti! Mi scuso per aver aggiornato con un giorno di ritardo, ma ho la febbre
abbastanza alta e ieri davvero non riuscivo nemmeno ad alzare la testa dal
cuscino. Ringrazio di cuore ogni persona che ha lasciato una recensione! :D
Ora, dato che sto
crollando sulla tastiera –ho ancora quella stramaledetta febbre >.< - i
lascio all’ultima parte del prologo di questa storia.
Buona lettura! ^^
PROLOGO: TUFFO NELLA MEMORIA (PARTE 3)
Un fruscio ormai scomparso, in una casa avvolta in
un velo di ricordi nascosti, accompagnato da quell’essenza polverosa che
aleggiava nelle memorie più profonde e gettava, a grandi manciate, sale sulle
vecchie ferite che il passato aveva inflitto senza pietà al suo cuore.
Eppure, per quanto segreto e rinchiuso in antiche
immagini, ecco che un lume dai riflessi saettanti torna a fare capolino nella
mente, ultimo breve ma bruciante graffio a un cuore ormai dolorante.
E una luce, un sole che più non esiste, torna a
splendere, come se non si fosse mai estinto. Ed ecco piombare su di lui, e sul
suo respiro pesante e saggio, temprato da mille avventure, una pioggia battente
colma di rimorsi e parole ormai spente,illuminati da un barlume che pareva troppo lontano per essere raggiunto,
ma allo stesso tempo così vicino da poterlo sfiorare, allungando un braccio al
cielo, come a tentare di catturare una stella.
Una luce senza tempo.
Era da un po’ di tempo, settimane, forse mesi, che
in quella casetta, persa tra le campagne di Resembool e incorniciata da campi
dal vago odore familiare, vibrava una strana atmosfera, come se un ulteriore
segreto si fosse legato alla catena di bugie che aveva attanagliato Edward a
una verità irrivelabile, verità chepremeva
sulla sua gola, e alla bocca dello stomaco, come se tentasse di sfuggire al suo
controllo.
Sulla sua lingua, indecisa, pronta a rivelare tutto
a quella famiglia che aveva sempre desiderato, s’impastava un vago sapore
vissuto, come se già sentisse tra i suoi denti il ferroso gusto del sangue, che
già troppe volte aveva visto scorrere in passato, forse – anzi, quasi
sicuramente – per colpa di ciò che stava tenendo nascosto ai suoi figli.
Per proteggerli, così si ripeteva sempre. Eppure,
l’immagine di quella luce ormai lontana, di tutti i sacrifici che aveva dovuto
tollerare, continuava a trafiggergli l’anima, mostrandogli scene inesistenti,
frutto della sua fantasia, e che forse – forse – in qualche modo, avrebbe
potuto attribuire alla realtà.
Ed ancora, un mare di dubbi, nel veder trasparire
da quella porta chiusa, a quell’ora tarda della notte, uno spiraglio di luce
caldo e tremolante, come la fiammella d’una candela, o una lanterna ad olio.
Una diversa fitta al cuore che Edward, forse, non avrebbe mai dovuto ignorare.
E così passavano i giorni, e quella luce, che tanto
lo faceva viaggiare indietro nel tempo, rendendolo nuovamente bambino, quando
con Alphonse studiava l’alchimia, continuava rimanere accesa, tanto che, ad un
tratto, l’ex alchimista dovette auto convincersi che, probabilmente, non stava
accadendo niente, e che quella luce – così ben definita, reale – non fosse
altro che una proiezione della sua mente, indebolita da quei pensieri.
Però, nel suo cuore, sapeva fin troppo bene che
qualcosa, prima o poi, sarebbe cambiato, spezzando quella luminosa felicità che
sembrava tanto falsa ai suoi occhi.
-“La pietra divina che distrusse Xerxes in una
sola notte”.
Citò la biondissima Rosalie, sfiorando con
ammirazione ed estrema attenzione la pagina ruvida di quel libro sgualcito,
probabilmente ancora più vecchio e malandato dell’amatissima palandrana rossa
di suo padre.
Daniel, sdraiato sul letto e intento a rimirare il
soffitto, voltò il viso verso la sorella, aggrottando un sopracciglio. Rosale
non se ne accorse, continuando ad osservare il libro, affascinata.
-La pietra divina...
Biascicò, con gli occhi che brillavano
dall’emozione e dalla curiosità.
-La “pietra divina” te la darà in testa papà se
scopre che hai rubato quel libro dal cassetto segreto della libreria dello zio.
-Non l’ho rubato.
Sbottò la biondina, irritata da una simile
affermazione, sebbene non fosse esattamente infondata. Esibì un sorrisetto
arrogante al fratello, che, scuotendo il capo, si chiese se davvero potesse
essere così tremendamente fastidioso il modo di fare di una bambina di dieci
anni come Rosalie.
-L’ho soltanto preso in prestito.
-Senza chiedere?
-Santo cielo, come sei noioso! Lo zio capirà.
-Oh, certo. E capirà sicuramente anche perché sei
andata a mettere il naso nella “zona proibita”.
-È solo un cassetto, Dan. Uno stupido cassetto.
-Ma uno stupido cassetto proibito.
-Proibito. Non era nemmeno chiuso a chiave.
-Sì che lo era, ma tu lo hai aperto.
-Dettagli, dettagli.
-Rose, ascoltami! Ti conviene riportare quel
libro dove l’hai trovato.
-Insomma, Dan. Sei sempre più noioso. Solo perché
hai due anni più di me ti senti così potente da pensare di potermi impartire
ordini?
-Era un consiglio, non un ordine, sorellina.
-Beh, un consiglio che non ho intenzione di
seguire.
-Però dovrai farlo, non discutere.
-Vedi? Avevo ragione, era un ordine. Ti tradisci
da solo, fratellone.
Daniel si alzò di scatto dal letto, afferrando
l’orologio d’argento che suo padre gli aveva donato quand’era piccolo. Lo portò
proprio davanti allo sguardo, seguendo le lancette che ticchettavano
infinitamente, liberate dalla copertura superiore. Avvicinò di più il viso,
perdendosi in quei riflessi metallici, accorgendosi che quell’argento era
talmente lucido da potercisi specchiare.
Sentì un fruscio lieve, e si accorse che la sorella stava ancora sfogliando
l’antico volume con enorme disinteresse per il discorso appena concluso. Daniel
sbuffò, esasperato.
-Senti.
Grugnì, il viso nascosto tra i ciuffi di capelli
dorati che, dispettosi, giocavano sulla sua fronte, sulle sue guance, creando
un gioco di ombre che ritoccava il suo sguardo intenso con una pennellata di
serietà. Notando l’indifferenza di Rosalie, si allontanò di lei, grattandosi il
capo con fare stizzito.
-Fa’ un po’ come vuoi.
-È ovvio.
Acconsentì lei, con un tono che superava di gran
lunga la soglia dell’arroganza.
-Crescerai mai o sei fermamente decisa a
comportarti per sempre da bambina? Penso che a dieci anni tu possa evitare di
rispondere così.
-Ma senti un po’, e tu quanti anni hai, quaranta?
-Piantala, Rosalie.
-“Piantala, Rosalie.”
-Sei davvero una bambina! Ora se papà dovesse...
-Ma sentilo, che uomo. Mi ha appena dato della
bambina e vuole subito correre a fare la spia a paparino. Oh, ma che paura!
Mimò, scuotendo le mani. Il dodicenne sentì il
sangue ribollirgli nelle vene. Istintivamente, strinse i pugni, quasi a fermare
se stesso dal gettarsi sulla sorella e ucciderla a suon di calci e pugni. Tremò
dall’esasperazione.
-Io non ho detto che farò la spia.
-Sarà, comunque, io sì. È questo che conta, no?
-Egocentrica fino alla morte, eh?
-Umph. Idiota.
-Dimmi.
-Che cosa?
-Che cos’è questa “pietra divina”?
-Perché dovrei risponderti. Tutto ciò non t’è mai
interessato, giusto?
-Sbagliato. Dio, Rose. Quanto sei scorbutica.
-E tu noioso.
-Lo sei anche tu, dato che l’hai ripetuto già tre
volte. Avanti, di cosa parla quel libro?
Rosalie incollò nuovamente gli occhi sulla pagina,
accantonando la domanda del fratello. Si mordicchiò il labbro inferiore un paio
di volte, leggendo di volata ogni più flebile parola che sfilava sotto il suo
sguardo di zaffiro. Daniel seguì i suoi movimenti, aspettando una risposta.
-Dan, mamma e papà ci nascondono qualcosa.
-Eh?!
-Anche lo zio Al, la zia May. E forse anche la
nonna!
-Tu... tu sei fuori di testa! Che cosa stai
dicendo? E cosa centrano loro con quel libro?
-Ma tu non ascolti mai i loro discorsi?
-Che cosa? Certo che no!
-Umph. Sei davvero sicuro di essere mio fratello?
-Ah, senti un po’. Mi hai letto nel pensiero.
-Idiota.
-Allora, Rose. Vuoi dirmi una volta per tutte di
cosa parla quel libro?
-È una cosa che, per qualche motivo, ci stanno
nascondendo...
-Che cosa? Rose, guarda che ti ho fatto una
domanda!
-...Avevo già sentito questa parola, ma non
pensavo che fosse...
-La vuoi piantare di dire frasi prive di
qualunque tipo di logica?
-... Quei cerchi sul pavimento...
-Non dirmi che li disegni ancora!
-... papà!
-Papà?! Insomma, Rosalie, mi stai ascoltando?
-Daniel...
-A quanto pare no.
-Hai mai sentito parlare...
Si fermò, assottigliando gli occhi celesti e
osservando lo spazio circostante per assicurarsi che nessuno stesse origliando.
Daniel, dal canto suo, la osservò, confuso.
-... dell’alchimia?
Per un lungo istante, il silenzio invase la stanza.
Solo il respiro dei due spezzava quella quiete quasi irreale. Improvvisamente,
Daniel espulse l’aria che teneva nei polmoni in un lungo sospiro, accompagnato
da un gemito scocciato.
-Sei senza speranza.
-Cosa?!
-Rosalie, smettila. Riporta quel libro dove l’hai
trovato.
-Daniel, non...
-Piantala. Ti stai immischiando in affari che non
ti riguardano, perciò ti conviene liberarti di questa “alchimia”, o quello che
è.
-Ok, ok. Riporterò il libro al suo posto appena
dopo mangiato.
-Promesso?
-Certo... promesso.
-Bene.
-Bene.
Rosalie roteò gli occhi azzurri, richiudendo
irritata il libro e picchiando la mano sulla copertina rigida e ricoperta da un
velo di polvere. Arricciò le labbra, non appena udì la squillante voce della
madre chiamarli entrambi in cucina. Poté udire in seguito anche un rumore
metallico e la voce adirata di Winry avventarsi con violenza sulla testa
sanguinante del marito che aveva osato negare alla meccanica l’ordine di
apparecchiare la tavola.
-Arrivo.
Disse, alzando la voce, all’ennesimo richiamo di
Winry. Suo fratello era già sparito, così fece per alzarsi dal letto, quando il
libro, in bilico sul bordo del letto, non cadde a terra, producendo una
nuvoletta polverosa. La bambina allungò un braccio per afferrarlo, svogliata,
quando si accorse che, nel precipitare, il volume si era aperto all’incirca
sulla metà.
Si guardò intorno, accigliata, mentre l’ultimo
richiamo della madre giungeva alle sue orecchie. Ma lo ignorò, concentrandosi
sul debole raggio di sole estivo che illuminava appena il titolo del capitolo
che si trovava davanti ai suoi occhi. Con un gesto veloce, strappò la pagina,
nascondendo poi il libro sotto il letto.
Osservò con rapidità la pagina rovinata, gettandola
poi con noncuranza nella tasca dei corti pantaloncini neri.
-“Trasmutazione Umana”.
Mormorò, prima di sparire nell’ombra del corridoio
al di fuori di quella stanza che, da quel momento, custodiva un segreto
importante, anche se ancora lei non lo considerava tale. Il ricordo di una
pagina strappata che, di sicuro, avrebbe cambiato per sempre la sua vita.
@#@#@#@#@#@#@#@#@
Era passata ormai quasi una settimana da quando
Rosalie aveva strappato furtivamente la pagina di quel libro, che al momento si
trovava al sicuro nella libreria di Alphonse. Nessuno poteva essersi reso conto
di nulla, nonostante lei si estraniasse sempre più spesso dalla vita familiare,
per concentrarsi su quel vecchio pezzo di carta.
Rosalie si passò incurante una mano tra i
biondissimi capelli, traendo un lungo respiro. Seduta all’ombra di una quercia,
con le spalle appoggiate al tronco robusto, infilò la mano destra nella tasca e
ne estrasse il foglio “proibito”, stropicciato, che ormai si portava dietro ad
ogni suo movimento.
Aveva letto quelle righe per lei incomprensibili
più e più volte, ma l’unica cosa che era riuscita a capire di quel lungo
argomento era che la trasmutazione umana era una faccenda assolutamente
impossibile e proibita.
Distese le gambe sull’erba umida di rugiada,
ripiegando malamente la pagina e ficcandola in tasca con un movimento brusco.
Con uno sbuffo, si lasciò ricadere completamente sull’erba, arrancando fino al
limite soleggiato che divideva la luce diurna dall’oscurità dell’ombra del
grande albero.
Strinse forte le palpebre, finché due lacrime
appena pronunciate non bagnarono le sue ciglia esili, aiutandola ad abituarsi
alla prepotenza luminosa del sole estivo. Poco più tardi, il suo sguardo
precipitò insieme al volto, solleticato lievemente sulla guancia destra da
teneri ciuffi d’erba.
Era molto tempo che se n’era resa conto. Edward
aveva lo stesso fresco aroma di quei prati che raccontavano la sua vita. Che
fosse stata l’unica ad essersi accorta che il suo papà profumava così?
Quand’era piccola – più piccola – Rose era solita
uscire con il padre e correre insieme a lui tra le campagne del loro paesello,
perdendosi in giochi e risate fino a tarda sera.
Ricordò di quando lui l’aveva svegliata nel cuore
della notte, alcuni anni prima, per caricarla sulle spalle e sgattaiolare fuori
senza che Winry – insieme alle sue chiavi inglesi – potesse accorgersene.
Quella volta, avevano trascorso la nottata all’aperto, sotto il cielo scuro,
trafitto da una pioggia di luminose stelle cadenti.
Aveva un così bel rapporto con suo padre, a quel
tempo.Si sentiva quasi un parte di lui,
e Edward era più che certo di non poter vivere senza la sua piccola rosellina
dagli occhi azzurri.
Eppure, qualcosa stava cambiando tra di loro, come
se, in qualche modo, qualcosa di impercettibile li stesse allontanando. Che
fosse proprio il silenzio celato dietro quella pagina segreta che custodiva
così segretamente?
-Rosalie!
Una voce più che familiare la distolse dai suoi
pensieri, catapultandola al di fuori della sinuosa spirale dei ricordi. Si
rialzò, svogliata, sfregando le mani sulla canottiera nera e sistemandosi alla
bell’e meglio la gonnellina di jeans.
-Dan?
Lo chiamò, schermando la forza dei raggi del sole
con le mani, cercando di riconoscere in quella sagoma che le era sempre più
vicina il conosciuto volto del fratello maggiore. Strinse le palpebre e fece un
passo indietro, quasi inciampando sulle radici dell’enorme quercia, quando si
accorse che l’ombra che correva verso di lei faceva svolazzare una chioma cupa
e nera, invece ce dorata e preziosa.
-Ma chi...?
Si chiese, indietreggiando ancora, così da
nascondere tra il fogliame la fonte di disturbo delle sue iridi dalla tinta
celeste. Non passò molto tempo prima che, sul suo viso,l’espressione confusa lasciasse posto ad un
sorriso sincero, proveniente dal profondo del suo cuore.
-Hiroki!
-Dio, Rosalie! Finalmente mi hai riconosciuto!
-Sono così felice che tu sia qui!
-Oh, anche io, anche se preferisco Central City a
queste vecchie campagne.
-Tu ne parli sempre così Bene, Hiro. Vorrei tanto
vederla!
-Un giorno verrai tu a trovarmi! Passerete voi
l’estate da noi, invece del contrario, cosa che accade ormai da anni.
-Oh, lo vorrei tanto, credimi. Ma dubito che papà
accetterà, parla sempre male del tuo. Il comandante di qua, il comandante di
là. È sempre una tortura per lui, ogni volta che arrivate per passare l’estate
a Resembool. Scommetto che stanno già litigando.
-Hai fatto centro anche questa volta, come
sempre, Rose.
-Non ci vuole un genio per arrivarci.
-Oh, non ci vuole un genio nemmeno per rendersi
conto che stai diventando proprio una bella bambina.
-Smettila di prendermi in giro, ho dieci anni,
stupido adulatore!
-E io tredici, che problema c’è?
Rosalie incrociò le braccia al petto, sbuffando
indispettito dall’arroganza del ragazzino di fronte a lei. Alzò un
sopracciglio, sporgendo un po’ il mento. Hiroki ammiccò.
-Io te ne darei almeno dodici.
-Ti dovrei ringraziare?
-Fa’ un po’ come vuoi.
Rose ridacchiò, sfoderando un tenerissimo sorriso
infantile. Hiroki le mostrò la lingua, girandosi di spalle a lei e
incamminandosi verso casa Elric.
-Hey.
Disse il moro, fermandosi. Rosalie tese le
orecchie.
-Tanto per dire, Rose. Potrai essere carina
quanto vuoi, ma rimarrai sempre una bambina terribilmente sgraziata e
arrogante.
-Cosa? Vieni qui, idiota, che ti distruggo!
Così, ridendo e inseguendosi,presero la strada del
ritorno, rinfrescata qua e la da qualche agguato tra l’erba, o un abbraccio
tenero e nascosto. Pochi minuti più tardi, delle voci piuttosto animate
giunsero alle loro orecchie. Sospirarono entrambi, nel trovarsi davanti agli
occhi l’identica situazione che si erano precedentemente immaginati.
Edward e Roy stavano poco distante dalla veranda
esterna alla casa, battibeccando a voce alta come ai vecchi tempi. A lato,
sedute sul dondolo di legno, Riza e Winry sorseggiavano una tazza di thè,
chiacchierando come due amiche di vecchia data.
Improvvisamente, Rosalie scorse la mano destra del
comandante supremo compiere un semicerchio nell’aria e fermarsi a pochi
centimetri dal viso, le dita pronte a schioccare. Ad osservare meglio, le parve
quasi – se non fosse stato impossibile – alcune saette dai riflessi celesti
liberarsidalla pelle tesa intorno alle
unghie.
Fu un attimo. I riflessi pronti di Edward l’avevano
spinto ad abbassare la mano di Roy con un gesto repentino, non appena ebbe
intravisto la figura della figlia avvicinarsi rapidamente, e lo sguardo
sorpreso di Mustang che, nell’attimo di un risolino divertito, aveva accusato
l’ex alchimista di essere un fifone, sostenendo che no, questa volta non avrebbe dato fuoco a mezza Resembool.
Rose vide suo padre premere sulla bocca di Roy la
mano destra e spingerlo inconsapevolmente all’indietro, probabilmente per
zittirlo.
Ma... perché?
La scena davanti ai suoi occhi cobalto continuò,
come al rallentatore, vedendo come protagonista Roy che si era chinato a terra
per raccogliere qualcosa – un orologio? – e rinfilarselo in tasca, per poi
inveire contro il biondo che si trovava di fronte.
Cos’era successo? Di cosa stavano parlando? Perché,
vedendola, suo padre aveva reagito così? E quel... che cos’era? Quell’orologio,
dove le pareva d’averlo già visto? L’oro degli occhi dell’ex alchimista si posò
sulla sua figura esile, trafitta da un velo di preoccupazione.
-Rosalie...
La chiamò Hiroki, ma lei sembrò non accorgersene.
Fece slittare lo sguardo avanti e indietro, ma un turbine di pensieri ed
emozioni le aveva annebbiato la vista. Ora ne era più che certa: suo padre le
nascondeva qualcosa.
-Rosalie?
E, probabilmente, dato che persino Roy ne era a
conoscenza, lo doveva sapere anche Hiroki. Era sicura che fosse così.
Spaventata, indignata, e con l’anima colma di questi irrisolti, placò il
respiro, mordendosi convulsamente il labbro inferiore. Cosa poteva essere successo
di così importante nel passato dei suoi genitori da nascondere in quel modo?
-Rose!
Disse nuovamente il ragazzino accanto a lei,
strattonando senza troppa violenza la maglietta dell’amica. Rosalie si destò,
intuendo i suoi pensieri infrangersi all’espressione accigliata – e forse
velatamente preoccupata – di Hiroki.
Scosse i capelli biondi, facendoli volteggiare al
vento tiepido che soffiava da est. Vide Edward avvicinarsi a lei, scoccandole
un sorriso talmente innocente da risultare, sul suo viso così sincero, fin
troppo finto.
-Oh, eccoti qui.
La sua voce era calma, eppure c’era una punta
d’insicurezza nella sua voce. Sorrise, e in quell’istante i raggi del sole
parvero illuminarsi di un alone ancora più prezioso.
-Dove sei stata?
-Un po’ in giro. Papà... che sta succedendo qui?
-Oh. Niente, niente.
Farfugliò l’ex alchimista, agitando una mano, quasi
volesse allontanare dal suo corpo quella domanda fastidiosa. La biondina portò
una mano al petto, sentendosi ferita. Perché suo padre non voleva rivelarle il
suo segreto?
Che centrasse qualcosa con quella pagina strappata
che custodiva nella tasca? Ovviamente, non poteva essere altrimenti, ne era più
che certa. La trasmutazione umana, l’alchimia, la pietra divina. Tutto troppo
complicato per una mente sola.
-Hiro.
Lo chiamò, senza mostrare alcuna espressione. Il
moro la osservò per un istante, rendendosi conto che, quella bambina,
dimostrava ben più che dieci anni. si mise scherzosamente sull’attenti,
sostenuto da una divertita occhiata di approvazione del padre e da uno sguardo
sconsolato della povera Riza.
-Sissignora!
-Idiota.
-Hah.Proprio come suo padre!
Si aggiunse Edward, ridacchiando e già
immaginandosi lo sguardo fiammeggiante dell’ex colonnello puntato sulla sua
schiena. Roy, infatti, sibilò qualcosa tra i denti, indispettito, prima di
voltarsi, – ignorando completamente il biondo ex alchimista – raggiungere la
moglie e sedendosi sul dondolo accanto a lei e Winry.
Edward scosse la testa e si chinò verso la figlia.
-Stai attenta, ok?
-A cosa?
-Il nome “Mustang” è un sigillo di garanzia. E
anche piuttosto scadente, oserei dire.
-Sì, sì. Sempre la solita storia. Forza, vieni,
Hiro!
-Uhm. Va bene.
Edward osservò Rosalie sparire nuovamente con
Hiroki – il quale gli aveva appena lanciato uno sguardo omicida vero e proprio –
e li seguì per un po’ con lo sguardo, vedendoli dirigersi verso la casa della
sua infanzia. Seguì con lo sguardo la loro corsa, i loro giochi, i loro
battibecchi, e non poté fare a meno di commuoversi riconoscendo in quelle due
sagome lui e Winry, in una corsa estiva di tanti anni prima, quando ancora non
conosceva arroganti colonnelli, orridi mostri o dolori intensi provenienti da
tutte quelle vite che aveva visto spegnersi davanti ai suoi occhi.
E mentre i bambini sparivano all’orizzonte, Edward
si ritrovò a invidiare loro l’innocenza e l’inconsapevolezza di quello che era
stato il loro vero mondo al di fuori di quella bolla di falsità, plasmata prima
della loro nascita.
Ancora prima che si formasse quella sporca tela
tessuta di ricordi, segreti e bugie.
@#@#@#@#@#@#@#@#@
-Heilà, nanetto!
-Senti chi parla!
Hiroki era fermo davanti a Daniel, e gli aveva
scompigliato giocosamente i capelli d’oro, facendoli luccicare ai colori caldi
del crepuscolo. Il piccolo Elric incrociò le braccia al petto, fingendo di
ignorare le parole scherzose del suo migliore amico.
-Erano ben due anni che non ti facevi vivo, qui a
Resembool!
-Eh, sai... ho avuto davvero molte ragazze di cui
occuparmi...
-Sì, sì, certo!
Scherzò, uscendo definitivamente dalla porta della
casa di Pinako, seguito timidamente da una bambina di circa dieci anni, ce
teneva la sguardo basso.
I liscissimi capelli corvini le arrivavano fluidi a
metà della schiena e la leggera frangetta sulla fronte nascondeva appena due
luminosissimi occhi aurei, più preziosi dell’oro più splendente.
-Ah, ciao, Yumi.
Sorrise Hiroki, inclinando la testa in segno di
saluto.
Yumi era la figlia di May e Alphonse, cuginetta di
Rosalie e Daniel. Era una bambina molto dolce e timida, con un carattere
paziente ed altruista. Reggeva tra le mani un grosso libro di narrativa,segno
che, dal padre, aveva ereditato il grande amore per la lettura, oltre ai tratti
del carattere.
Era stata con la madre a Xing per qualche tempo,
per andare a trovare i parenti di May e assicurarsi che il regno di Ling Yao,
diventato imperatore da pochi anni, stesse procedendo bene.
-Ciao, Hiroki!
Esordì, con unenorme sorriso. Dan si morse le labbra, senza saperne il motivo. Il moro
rispose a Yumi strizzandole l’occhio, facendola arrossire.
-Sono appena tornata di Xing.
-Com’è lì?
-È tutto diverso, è davvero molto bello.
-Mi piacerebbe davvero molto visitarlo, un
giorno. Insieme a te, magari.
Yumi sì imporporò nuovamente, avanzando di qualche
passo e affondando i piedi nudi tra l’erba umida. Raccolse un fiore colorato da
terra, portandolo al naso e traendone un lungo respiro.
-Certo che non è male la cuginetta, eh Dan? Sono
sicuro che appena sarà un po’ più grande, diventerà una vera delizia per gli
occhi!
Sussurrò Hiroki all’orecchio del suo migliore
amico. Daniel s’irrigidì, sputando un rivolo d’aria troppo fastidioso, tant’era
amaro. Cosa diavolo era quella sensazione?
-Mmh.
Rispose il biondo, senza pensarci troppo. Dopo un
ultimo sguardo d’intesa, il gruppo si mosse verso i prati fioriti. Circa un’ora
più tardi, dopo un tramonto trascorso acorrere nelle campagne, le forze li avevano abbandonati, così avevano
deciso di fare una pausa. Ai piedi di un grande albero, Daniel e Yumi si erano
addormentati, l’una con la testa appoggiata sulla spalla dell’altro, il libro
aperto sulle ginocchia.
Sul ramo più robusto dell’albero, Hiroki raggiunse
Rosalie, che si era appostata a rimirare gli ultimi rossastri scampoli della
giornata.
-Si sono addormentati.
-Lo immaginavo. E tu? Hai sonno?
-No. te?
-Nemmeno io. Sai, quando ci sei tu, non ho motivo
di dormire, mi perderei del tempo prezioso. Tutto, quando sei qui, sembra più
bello.
-È così anche per me. Mi siete mancati, davvero.
-Tornerai l’estate prossima?
-Certo che lo farò.
-Promesso?
-Promesso.
-Hiro?
-Sì?
-Resteremo sempre amici noi, vero?
-Sì, per sempre. Dan sarà il mio migliore amico
per tutta la vita, come tu la mia “sorellina”. Non ci separeremo mai. E anche
Yumi, sarà sempre con noi.
-Hiro... ti voglio bene.
-Anche io, Rose.
Si avvicinò a lei, che decise di appoggiare la
testa al tronco dell’albero. Pochi istanti più tardi, spostò la testa sulla
spalla del moro, sospirando. Rimasero così per un po’, finché Rose non infilò
una mano in tasca e ne estrasse una logora pagina strappata.
-Hiroki.
Sussurrò, con un filo di voce. Il suo viso,
illuminato dagli ultimi raggi porpora del sole, appariva come avvolto da un
velo di incantato mistero.Hiroki la
guardò curioso, osservando i suoi luminosi occhi azzurri, troppo interessati a
quel foglio stropicciato. Lei prese un gran respiro, prima di formulare una
domanda che avrebbe frantumato ogni più piccolo dubbio della sua esistenza.
-Tu la conosci, l’alchimia?
Ecco quei, il prologo si è
concluso. In quest’ultima parte qualcosa è cominciato ad essere più chiaro,
giusto? Spero che anche questo capitolo vi sia piaciuto, aspetto le vostre
recensioni!
Capitolo 4 *** CAPITOLO 1: Le fiamme dell'Oscurità ***
Salve salve salve a
tutti! Finalmente, oggi non ho più febbre, ma dato che ancora non sto bene, mi
tocca stare a casa... così ho deciso di mettermi al lavoro prima, ed ecco il
nuovo capitolo pronto qualche ora in anticipo!
Ci troviamo nel vero lasso di tempo in cui è ambientata la storia, ossia
nell’estate del 1938. Rosalie ha quindici anni, Daniel diciassette e le cose
sono cambiate. C’è stato un evento, nel passato, che ha cambiato completamente
le relazioni di alcuni dei personaggi. In questo capitolo, ci introduciamo un
po’ anche nel passato, grazia a un flash-back di Rose.
Ok, a questo punto vi lascio al
capitolo, che spero sia di vostro gradimento. Lasciatemi una recensione, mi
raccomando! ^^
CAP. 1:LE FIAMME DELL’OSCURITA’
Un
leggero alito di vento, talmente debole da risultare quasi dolce all’olfatto,
forse perché portatore di ricordi lontani, misti al profumo dei fiori
dell’ormai tramontata primavera. Quell’alba chiara, delicata, riflessa nel
fiume limpido che serpeggiava quieto tra le campagne, l’aria intrisa di ogni
sensazione che riportava alla mente immagini definite di frammenti di passato,
luminosi, ben lontani da quel tempo in cui la guerra aveva avvolto il paesaggio
nell’oscurità.
E
tra le foglie degli alberi, quel fruscio lieve, che ricopriva la pelle di
brividi piacevoli, portando con sé la consapevolezza che rendeva certi d’essere
veramente a casa.
Sospirò,
il suo fiato si sciolse nell’aria frizzante di quella mattina, rischiarata da
un alone di riflessi rosati. Tra il cinguettio dei passerotti,
seduta sul ramo ruvido di quell’albero accanto al quale era cresciuta, Rosalie
scrutava l’orizzonte, inseguendo un punto lontano che, probabilmente, nemmeno
lei era certa di conoscere. La brezza le mosse appena i biondissimi capelli,
facendoli volteggiare tra le foglie.
Sorrise,
accarezzando con una mano il tronco rugoso, rendendosi conto che l’estate, a
Resembool, non era mai stata così bella. Eppure, eppure, eppure, mancava
qualcosa.
Rosalie
adorava svegliarsi presto per gustarsi in pace il sorgere del sole, senza
essere costantemente disturbata dai borbottii del padre, che ancora si
rifiutava di far colazione con i cereali perché andavano immersi nel latte,
condizione che a lui proprio non andava giù.
Certe
volte, Rose avrebbe scommesso sul fatto che chiunque, vedendoli insieme,
avrebbe giudicato lei più matura, nonostante non contasse più di quindici
anni.. Probabilmente, sarebbero persino arrivati a pensare che Edward fosse il
suo sconsiderato e infantile fratello maggiore, ma sicuramente non suo padre.
Sembrava così giovane.
-Rose!
Si
voltò, un ciuffo di capelli le sfiorò il viso, accarezzando le sue labbra piene
e rosee, insinuandosi tra loro. Lo scostò con un gesto della mano, e i capelli
miele tornarono a posarsi sulla canotta viola, ricamata con una fascia in pizzo
sulla scollatura.
Assottigliano
gli occhi, riconobbe tra le foglie dell’albero la figura del fratello, che
avanzava lentamente verso di lei, con le mai affondate nelle tasche e stampata
in viso un’espressione pressoché annoiata.
-Sapevo di trovarti qui.
-Immaginavo che saresti arrivato.
-Cosa pensavi che avrei fatto quando non ti
ho trovata nel letto?
-Non lo so, una festa?
La
sua voce toccò una nota d’ironia un po’ troppo aggressiva. Daniel le rispose
con un mugugno.
-Mmh.
-Perché sei entrato in camera mia?
-Perché rispondi a una mia domanda con
un’altra domanda?
-Lo hai appena fatto anche tu, no?
-Umph.
-Forza, rispondimi.
-Eri troppo silenziosa, così sono venuto a
controllare se qualcosa non andava, avevo paura che stessi male. Ma appena sono
entrato, ho notato che la stanza era vuota, il letto rifatto.
-Sorpresa!
-Hai dormito fuori, di nuovo, Rose?
-È importante?
-Può darsi. Perché sei così scontrosa
stamattina?
Rosalie
sospirò, saltando giù dal ramo e atterrando con i piedi nudi sull’erba umida.
Gli occhi color del cielo si posarono su quelli oro del fratello,
successivamente tornarono all’orizzonte, dove ormai il sole era sorto
completamente.
-Perché mi hai disturbata.
-Sempre più acida, eh?
-Scusa, Dan. Sono solo un po’ nervosa. È
solo che... lui ha sempre da ridire su ogni cosa.
-Lui? lui chi?
-Lui, papà.
Daniel
alzò gli occhi al cielo, avanzando di un paio di passi e spostando con la mano
un ramo dispettoso che avrebbe altrimenti ostacolato il suo cammino.
-Dannazione, Rosalie. Avete litigato
ancora?
-Può darsi.
-Che hai fatto stavolta?
-Perché dovrei essere stata io a iniziare?
-Ah, chissà. Forse perché è sempre così?
-Taci, stupido. Tu eri da Yumi, - come al
solito - cosa ne vuoi sapere?
-Che c’entra nostra cugina, adesso?
-Ha. Hahaha.
Rise
la ragazza, seria, gettando i capelli di lato. Daniel la fissò irritato,
afferrando tra le mani l’orologio d’argento, tenuto fino a quel momento
affondato nella tasca posteriore dei pantaloni.
-Cugina.
Sussurrò
Rosalie, chiaramente allusiva, quasi volesse inserire tra virgolette quella
semplice parola. Il ragazzo dagli occhi d’oro finse di non capire, rimanendo
muto alla debole affermazione della sorella. Rosalie, dal canto suo, tamburellò
le dita sottili sulla coscia, ricoperta appena dai pantaloncini neri,
cortissimi. Fissò l’orologio tra le mani del fratello e si mordicchiò un
labbro, inseguendo nella sua mente le parole giuste da rivolgere. Ad
un tratto, Daniel riprese la parola.
-Perché avete litigato?
-La solita storia, Dan. La solita storia.
Daniel
abbassò il capo, gettando nuovamente in tasca l’orologio e stringendo i pugni,
sibilando tra i denti qualcosa che la ragazza non capì. Si lasciò
improvvisamente cadere a terra, atterrando sull’erba ruvida che graffiò i suoi
polsi scoperti.
La
ragazza, accigliata, lo raggiunse. Seduta accanto al fratello, lo osservava,
seguendo i lineamenti ombrosi del viso tesi in un’espressione mista tra il
rimorso e la rabbia. Istintivamente, l’abbracciò, posando il mento chiaro sulla
sua spalla, coperta da uno strato di cotone rosso.
-Che c’è?
Sbottò
Daniel, facendo slittare lo sguardo alle mani della sorellina, intrecciate al
suo collo e posate sulla spalla opposta a quella dove giaceva il suo viso.
-Scusa. Per come mi sono comportata. Mi
dispiace, sono un’idiota.
-Spiace anche a me che tu sia un’idiota.
-Sei sempre molto simpatico, sai?
Scherzò
Rosalie, sedendosi tra le sue gambe, precedentemente incrociate. Posò la
schiena al suo petto, scuotendo appena la testa per scostare alcune ciocche di
capelli dal viso. Daniel le accarezzò i fili mielati, sospirando appena e
sorridendo affettuosamente.
-Comunque, sicuramente più di te.
Ammise,
spostando il viso di lato, per poter ammirare l’orizzonte.
Rosalie
chiuse gli occhi, i quali avevano assunto la stessa fresca tonalità del cielo.
Un tepore dolciastro s’impadronì di lei, facendola sprofondare in un’oscurità
dai riflessi rosati. Stava talmente bene in quella posizione e sapeva che, tra
le braccia del suo fratellone, tutti i mali del mondo sembravano essersi
dissolti nel nulla.
Eppure,
c’era ancora qualcosa che si muoveva dentro di lei, qualcosa di graffiante, che
lasciava dei piccoli tagli nel suo cuore. Era una battaglia fastidiosa,
infinita, sentiva come se, dentro di lei, due combattenti si
battessero per uno stesso valore, ma nessuno fosse disposto a soccombere per
permettere all’altro di prendere il sopravvento, e vincere. Così, le lame dei
due guerrieri s’erano incrociate, squarciando ciò che di ingenuo restava nella
sua anima, lasciandola a bocca asciutta.
E
quella maledette voglia che l’attanagliava, il voler sapere tutto, sapere di
più, la stava divorando lentamente, a piccoli morsi amari, mentre delle fiamme
ardenti facevano razzia dei suoi pensieri.
Fuoco,
fuoco, fuoco.
Quelle
splendide fiamme che illuminavano la sua notte, l’ultimo ricordo che
s’inceneriva nella sua mente, un vento pungente che spezzava ogni scampolo di
memoria.
Eppure,
quelle fiamme erano ancora vive nella sua testa, così luminose e dorate che
nulla avrebbe mai potuto eguagliarle. Nemmeno la luce del sole riusciva a
riscaldarla come le memorie di quella sera, il suo cuore che galoppava verso un
futuro diverso, lontana da tutte quelle bugie che – ne era certa – erano legate
al passato.
Ma
la verità – dannata – era tornata, insospettabile, e l’orrore negli
occhi fluidi di Edward si era impossessato anche di lei, quasi obbligandola a
dimenticare quelle care fiamme, e la pagina di quel libro strappata anni prima.
“La
verità è davvero crudele” aveva ripetuto più volte suo padre, fin da quand’era
piccola, ma lei non era mai riuscita a cogliere il vero significato di
quell’affermazione. Incontrava sempre gli occhi di Edward, persi in un turbine
di ricordi – lo erano sempre, i suoi. E non l’avrebbe mai scordato, lo sguardo
vissuto di suo padre – che pareva così doloroso, o il sorriso di Winry, di una
dolcezza mista ad apprensione, o quasi... commozione? E così, la meccanica si
perdeva, osservando l’automail del marito.
Ecco
un altro quesito che, tra i suoi dubbi, non aveva trovato risposta.
Le
avevano più volte raccontato che quella gamba sinistra Edward l’aveva persa a
causa di una malattia, ma la cosa le puzzava terribilmente.
Il
dolore e il dispiacere con i quali suo padre osservava quella protesi era
troppo evidente per passare inosservato. O almeno, così era per lei. Si era
sempre chiesta se suo fratello, così riluttante com’era verso i suoi pensieri,
fosse davvero tanto ottuso da non accorgersi di nulla, o se sapesse invece
qualcosa di più, magari la verità che legava il passato della sua famiglia con
il mistero dell’alchimia.
-Dan, fratellone.
-Sì?
Bisbigliò
lui, scostando alcuni capelli della sorella che, fastidiosi, si erano posati
sulle sue labbra.
-Ti va di parlare?
-Parlare? Parlare di cosa?
-Uhm. Per prima cosa, promettimi che non
farai storie.
-Ok, Rose. Ok. Ma ora dimmi, te ne prego.
-Tu ricordi... quella faccenda legata...
all’alchimia, vero?
Daniel
arricciò le labbra, assottigliando le palpebre e distogliendo lo sguardo
dall’orizzonte, posandolo in un punto non ben definito nel cielo. Strappò
alcuni fili d’erba, lasciandoli poi liberi nell’aria, osservandoli sparire
lontano in una macchi verdeggiante.
-Certo.
fu
la sua debole risposta, la voce rotta dal risentimento.
-È per l’alchimia, che è iniziato tutto
questo.
-Già.
-Già.
-Sai, continuo a sospettare che papà ci
nasconda qualcosa.
-Lo pensavi anche quando avevi dieci anni.
-Lo so benissimo, sapientone.
-A quel tempo, andava tutto bene,
nonostante i tuoi dubbi.
-No, non è affatto così.
-Sì, invece. È andato tutto bene finché non
è tornato quello, ad è accaduto l’irreparabile
-Hey, non fargliene una colpa! Lui non ha
fatto proprio niente!
-Che cosa? ma non ricordi che...?
-Certo che me ne ricordo, che cosa credi,
idiota? Diamine, Daniel! Hiroki è...
-Uno stronzo. Un vero stronzo che non ah
neanche motivo di stare al mondo.
-No, non lo è, non lo è affatto!
-È stato lui a rovinare il tuo rapporto con
papà, se non ricordo male.
-Stava tentando di consolarmi!
-In quel modo?
-Per me è stato meraviglioso! Non puoi
entrare nella mia mente, Daniel!
-Sì, s’, certo. Solamente perché avevi una
cotta per lui.
Rosalie
premette le mani a terra, forzando abbastanza per darsi la spinta ed alzarsi in
piedi, così da allontanarsi dalla tenera presa del fratello, che in quel
momento risultava essere solamente un impedimento.
Daniel
scattò in piedi e afferrò saldamente il polso della biondina, che stava già
tentando la fuga attraverso i prati fioriti. La strattonò forse troppo
sgarbatamente verso di lui, così da poterla guardare negli occhi.
Solo
allora si accorse che le iridi cobalto erano solcate da grosse lacrime,
trattenute con forza, ma pronte a sciogliersi da un momento all’altro. Avvertì
una fitta al cuore.
-Rosalie...
-Che vuoi? Perché non mi lasci andare?!
-Perché stai piangendo, stupida?
-Non sto piangendo! E ora lasciami!
Gridò,
scoppiando in lacrime e abbandonandosi tra le braccia di Daniel, che l’accolse,
sorpreso. Posò il mento sulla cima della sua testa, stringendola forte al
petto.
-Shh.
-Avevi detto che non saresti più tornato
sull’argomento. Lui non mi piace.
-Non l’ho fatto. Perché piangi?
-Ti ho detto che non sto piangendo!
Singhiozzò,
il ragazzo roteò gli occhi.
-Ok, Rose. Allora, perché “non stai
piangendo”?
-Idiota.
-E siamo a due oggi.
-Idiota.
-Tre.
-Devo continuare?
-No, no ho capito. Sono un idiota.
Rosalie
sorrise, e fu come se un raggio di sole le avesse illuminato il viso, facendo
risplendere le sue lacrime. Daniel spostò una leggera ciocca di capelli della
sorellina dietro l’orecchio, lasciando che un orecchino luccicasse sul suo lobo
destro.
-Perché non capisce?
-È per il tuo bene.
-Ma lui...
-Rose. Papà ha deciso tempo fa tutto ciò. E
scusami, ma condivido pienamente la sua scelta. Non giudicarmi male, ma non ho
alcuna voglia di rivedere quel bastardo di Hiroki. Né ora, né mai.
La
ragazza si sciolse dall’abbraccio e indietreggiò di qualche passo, posando le
mani a terra e rotolando sull’erba umida. L’ultima lacrima si perse tra le
gocce di rugiada. Sorrise, crogiolandosi al tiepido sole mattutino. Daniel,
scombussolato dagli improvvisi sbalzi d’umore della sorella, tornò a sedersi al
suolo.
-Tu, ragazza, mi devi spiegare un paio di
cose.
-Stavo per chiederti la stessa cosa.
-Rispondi prima a me, d’accordo?
-Ok, ok.
-Cos’è successo quella sera, due anni fa?
-Non lo so, dimmelo tu. Sei tu quello che
sa tutto.
-Rosalie.
-Ok,ti racconterò.
Affermò,
sedendosi accanto a lui. Sospirò, viaggiando con la mente fino a raggiungere
l’ultimo sbiadito – e bruciante – ricordo di quella notte di luna piena.
Rosalie
camminò per la via sterrata, saltando, di tanto in tanto, le piccole
pozzanghere grigiastre, ultime tracce dell’acquazzone estivo che aveva da poco
inondato con le sue forti piogge l’intera regione dell’est.
Con
le lacrime che premevano sugli occhi, intrisi di rabbia, s’avviò per le
stradine che contornavano la sua casa, fermamente decisa a trovare la sua
quercia preferita, salire su uno dei rami più alti e appollaiarsi lì, finche qualcuno –
del quale lei conosceva pienamente il volto – la raggiungesse e si scusasse in
ginocchio ai piedi dell’albero.
Certo,
era più che sicura che Edward non si sarebbe mai scomodato per andare a
raccattarla, né tantomeno per scusarsi. Molto più probabilmente, qualora si
fosse stancato di stare ad aspettarla, l’avrebbe raggiunta sul ramo, caricata
sulle spalle e trascinata a forza fino alla porta di casa.
E
forse – forse – anche fino in camera sua, dove sicuramente avrebbe mandato
Winry a parlarle e a cercare di calmarla, mentre lui sarebbe tornato ad
allenarsi – chissà poi per quale motivo un uomo come lui dovesse allenarsi
nelle arti marziali – tirando calci a destra e a manca, puntando alla semplice
aria pura, talvolta uscendo sene con dei sonori “muaahhhhh!”.
Ma
sinceramente tutto ciò a lei non importava, perché si sarebbe aggrappata
saldamente a quel ramo e non sarebbe più scesa senza prima aver ricevuto delle
scuse sincere, a costo di rimanere lì anche per tutta la notte.
Dopotutto,
non sarebbe stata nemmeno la prima volta che dormiva fuori casa. L’aveva fatto
persino la notte precedente, e la cosa, a Edward, sembrava non essere affatto
andata a genio.
Avevano
litigato di brutto per tutto il giorno, poi, all’improvviso, Rosalie aveva
afferrato la mantellina, si era girata di spalle e aveva annunciato,
spalancando la porta: << Adesso basta, mi hai stufata. Non sai quando è veramente ora di finirla!>> E così Edward, ferito
nell’orgoglio, le aveva sbattuto la porta alle spalle, concludendo con un
falsamente disinteressato: << Certo, certo, vai
pure! E non tornare! >>.
A
quel punto era fuggita via, pestando i piedi nell’erba secca dal sole,
dirigendosi a passo spedito verso il suo piccolo angolo di paradiso.
E
fu allora che, tra le foglie e i fiori colorati, notò una macchia dorata
saettare via e, un secondo dopo, la schiena di suo fratello sparire tra le
sterpaglie.
-Che cosa?
Chiese
Daniel, stupito, riferendosi al racconto della sorella. Rosalie sbuffò,
spazientita, odiava essere interrotta. Lanciò uno sguardo indecifrabile al
ragazzo, il quale, però, le pose un’ulteriore domanda.
-Tu eri lì?
-Sono arrivata in quel momento, ma non ho
visto né sentito nulla. Quando mi accorsi che quella sagoma era la tua, tu eri
già lontano.
-Umph. E poi?
-E poi... quello che successe dopo non l’ho
mai dimenticato. Dietro quell’erba alta, nascosto dalla semi-oscurita del
tramonto, c’era Hiroki.
Si
voltò nuovamente, chiedendosi per quale motivo Dan stesse ancora correndo a
quel modo, con lo sguardo basso, come era solito fare quand’era adirato, o
peggio, deluso. Scosse la testa, superando l’ombra sottile e grigiastra della
quercia, rendendosi conto che, per quanto egoista potesse sembrare, di suo
fratello, in quel frangente, non le importava proprio niente.
Si
aggrappò alla corteccia ruvida e scagliata, saltellando un paio di volte finché
non riuscì a puntare anche i piedi, pronta così a salire. Si arrampicò
abilmente e con un colpo di reni si ritrovò seduta sul ramo più spesso e
robusto della pianta.
Posò
la schiena al tronco, incrociando le braccia al petto, finché le ultime luci
del tramonto non scomparvero definitivamente all’orizzonte. Esalò un sospiro
tiepido, che si sciolse nell’aria mite dinnanzi a lei. Perché doveva essere
tutto così difficile? In fondo aveva solamente optato per una nottata
all’aperto. Certo, aveva passato la notte a chiacchierare con Hiroki del più e
del meno, ma la cosa non le era sembrata poi così grave. D’altra parte, quello
che con il tempo era diventato il suo migliore amico – o quello che era – aveva
ormai quindici anni, ed era abbastanza maturo e indipendente per prendersi le
proprie responsabilità e proteggerla da qualunque imprevisto.
Sicuramente,
come se a Resembool ci fossero tutti questi pericoli.
Forse,
però, era stato proprio quello il problema, magari suo padre aveva pensato che
lei e Hiro... no, assolutamente! Che idiozia! Arrossì al solo pensiero.
-Hahahahaha!
La
risata sguaiata di Daniel aveva spezzato il freddo silenzio che si era creato
dopo quell’affermazione, e Rosalie s’era imporporata nuovamente. Il ragazzo
dagli occhi dorati s’era avvicinato al suo viso e l’aveva squadrato
curiosamente.
-Rose... ma sul serio, ti piaceva
quell’idiota?
-No, santo cielo! Non mi piace e non mi è
mai piaciuto!
-Sei credibile quanto papà che dice d’aver
bevuto il latte.
-Hahaha! Ottimo paragone, fratellone.
Ridacchiò
serena, socchiudendo gli occhi.
-Grazie.
-Ora, se la pianti di interrompermi – e di
ridere – continuerò.
-D’accordo, d’accordo. Ma sbrigati, Rose.
Comincio ad avere fame.
Strappò
una foglia e la piazzò davanti al viso, così da poterne ammirare le venature,
per poi gettarla al vento, e vederla volteggiare lontano dal suo sguardo.
Ad
un tratto, sentì un lieve fruscio e un rumore secco, poi improvvisamente Hiroki
comparve davanti a lei, agile e leggero come un gatto. Rosalie, colta di
sorpresa, sussultò e ondeggiò, rischiando di cadere dal ramo.
Con
uno scatto, Hiroki l’aveva afferrata per la schiena e l’aveva stretta a sé,
comprimendola contro il suo petto.
Alla
tredicenne mancò un battito. S’imporporò violentemente, mentre un calore fin
troppo intenso invadeva ogni centimetro del suo corpo e un fresco aroma
maschile prendeva fieramente possesso delle sue narici. Una forza a lei
sconosciuta premeva sulla sua testa, come se volesse farle scoppiare le
orecchie. Le mancò anche il fiato, per un istante.
Solo
per un istante.
In
un attimo, si ritrovò nuovamente appoggiata al tronco, la nebbia nello sguardo
s’era dissolta, il cuore aveva ricominciato a battere, il respiro era tornato
regolare. Nascose il viso arrossato tra i capelli luminosi come raggi di sole,
boccheggiando. Cosa diavolo le era successo?
-Hey? Terra chiama Rosalie!
Aveva
esclamato Hiroki, vedendo l’amica persa nei meandri dei pensieri. Alzò lo
sguardo vitreo, incontrando quello di lui, del colore dolce del cioccolato e
tentennò a parlare, tentando di non arrossire nuovamente. Non era da lei essere
così intimidita.
-Rose?
La
chiamò nuovamente, sventolandole una mano davanti al viso. Lei si riscosse,
trovandosi faccia a faccia con Hiroki e i suoi capelli color della notte. Si
morse un labbro, rendendosi conto di non aver mai amato la notte quanto in quel
momento.
-Ahm, sì. Ci sono.
-Stai bene?
-Oh, sì. Sì. Sto benone.
Si
asciugò velocemente una lacrima che aveva rigato il suo volto qualche minuto
prima, ma fu bloccata dal ragazzo che fermò la sua mano e asciugò la goccia
lucente con una tenera carezza. Hiroki sorrise, specchiandosi negli occhi
celesti di lei.
-La cosa si fa sempre più interessante!
Scherzò
nuovamente Daniel, cercando però di allontanare il fastidioso ricordo del
ragazzo. Vide il volto di Rosalie farsi sempre più serio e indietreggiò
meccanicamente, colto da un’infondata paura che gli faceva immaginare la
sorella brandire pericolosamente una delle pesanti chiavi inglesi di Winry.
-Ok, ok.
Si
rassegnò, portando le braccia sopra la testa in segno di resa, sotto lo sguardo
fiammeggiante della biondina.
-Vai avanti, Rosalie. Non t’interromperò
più.
Rosalie
indietreggiò appena sul ramo, aderendo perfettamente con la schiena al tronco
solido, spinta da una forza a lei estranea, che la attirava senza pietà verso
Hiroki, ma allo stesso tempo la spingeva lontano contro la sua volontà, come
una calamita che incontra una sua simile allo stesso polo.
Trovava
tremendamente assurda quella situazione, così come lo era anche la complessità
dissolta nei suoi pensieri. Diamine, era solo Hiroki.
-Hey, Rose? Rose! Che ti prende?
-Oh, oh, niente, niente. Mi hai solo colta
di sorpresa. Non me l’aspettavo!
-Fifona!
-Hey, non iniziare una battaglia di
insulti che non puoi portare a termine. Hai per caso visto mio fratello?
Hiroki
si rabbuiò, improvvisamente. Distolse lo sguardo da lei, concentrandolo in quel
primo lontano bagliore lunare che stava spuntando da una nuvola. Rosalie
inclinò la testa di lato, studiando profondamente l’espressione – per lei
indecifrabile – dell’amico d’infanzia.
Perché
Hiroki non le rispondeva più? Aveva perso quel sorriso arrogante – eppure così
dolce, così affascinante – ed era diventato come più... distaccato. Che avesse
detto qualcosa di sbagliato?
-No.
Disse
lui, ad un tratto, con voce talmente ferma e decisa da far rabbrividire la
ragazza.
-Non l’ho visto.
Si
affrettò ad aggiungere, inghiottendo un boccone che doveva essere davvero
amaro, a giudicare dall’espressione enigmatica del suo viso. Velocemente,
Hiroki saltò giù dal ramo, atterrando perfettamente in piedi. Allungò una mano
verso Rosalie, che l’osservò senza capire.
-Forza.
La
rassicurò lui, recuperando il buon umore.
-Vieni giù e spiegami cosa ti è successo.
-...cosa?
-Fidati di me, Rosalie. Poi, ti mostrerò
una cosa che adorerai sicuramente.
Rosalie
afferrò la mano che il ragazzo le tendeva e si lasciò trascinare giù. Si
sedettero a terra, una di fronte all’altro, mentre la luce lattea della luna
piena, ormai completamente libera, delineava i loro profili, regalando loro
magici riflessi argentei. La bionda raccontò tutto all’amico, a partire dalle
parole di suo padre, delle scenate che erano seguite e della sua fuga.
Inspiegabilmente, Hiroki parve divertito dal discorso.
-Sono così ridicola?
-No, no. ma tuo padre è assurdamente
geloso.
-...eh? C-cosa?
Balbettò
la ragazza, arrossendo.
-No, non... voglio dire, non ce ne
sarebbe motivo!
-Tu dici?
-Ehm... sì, Hiro.
-Umph, come vuoi. Va meglio adesso?
-Insomma. Tu che volevi mostrarmi?
-Oh, ora vedrai. Ti piacerà, sicuramente!
Il
ragazzo dai capelli corvini si alzò dal suolo facendo forza sulle braccia e
girovagò nelle vicinanze, lo sguardo puntato sul prato ombroso. Ad un tratto si
chinò, raccogliendo qualcosa con facilità. Velocemente, corse di nuovo verso
Rosalie.
-Un fiore?
Domandò
lei, accigliata. Hiroki ridacchiò.
-Sì, Rose. È un fiore.
-E che dovrei farmene? È carino ma... a
me i fiori non piacciono molto.
-Tu tienilo lo stesso. Ecco, così, un po’
distante dal viso.
-Ok, come vuoi.
Biascicò,
diffidente. Inclinò la testa, scorgendo Hiroki infilarsi un paio di guanti
bianchi, aderenti, segnati sul dorso da uno strano simbolo. Non l’aveva mai
visto prima di quel momento, eppure quello strano cerchio le ricordava
terribilmente qualcosa. Il ragazzo sorrise, tirando il guanto destro e
facendolo schioccare sul polso.
-Sei pronta, Rosalie?
Lei
annuì. Un solo schiocco di dita, debole, seppur pronunciato, e dal guanto
destro si liberò una piccola scossa dai riflessi celesti. I petali del fiore
s’accesero improvvisamente, mentre una fiammella danzava languidamente tra le
mani della ragazza, che spalancò gli occhi, incredula, trattenendo il fiato.
Non era possibile, no, era impensabile. Eppure, quel fuoco sembrava così vero,
così caldo. Che fosse... che fosse magia?
No,
non lo era.
Tutto
tornò di botto alla sua mente, come un’implacabile onda che s’infrange sullo
scoglio più appuntito dell’oceano. Si rese conto, in quel momento, di conoscere
perfettamente la natura di quel calore che stava scemando piano piano,
gettando rossastre lingue fiammanti nell’oscurità.
-Ma questa è... è alchimia!
Nuovamente,
siamo alla conclusione del capitolo. Che ne pensate, allora? Qualcosa comincia
a incastrarsi, e la verità sull’alchimia comincia a venire a galla.
Ringrazio
tutte le persone che seguono la mia fanfiction e tutte quelle che hanno
recensito. Siete voi che mi date l’ispirazione! Grazieee!!
:D
Capitolo 5 *** CAPITOLO 2: L'alba del nuovo Futuro ***
CAP. 2:L’ALBA DEL NUOVO
FUTURO
L’alba era ormai alta, quel mattino, e il sole
estivo, ospite ormai abituale della piccola cittadina di Resembool, filtrava
senza impedimento alcuno nella camera semibuia, silenziosa e tranquilla.
La porta era socchiusa, segno che qualcuno, quella
notte, era uscito e rientrato, forse per sgranchirsi le gambe, o dare una boccata
alla pura aria notturna della campagna. Appoggiato alla maniglia, vi era un
panno bianco, macchiato all’angolo da un fluido giallognolo, forse olio da
lavoro.
Appena sotto alla finestra, sul tavolo di legno
scuro, luccicavano al sole i vari metalli di automail di ogni genere, forma e
dimensione, accanto a chiavi inglesi, viti e bulloni.
Nella parete opposta alla grande finestra, era
posizionato un imponente armadio in stile antico, che occupava quasi tutta la
larghezza del muro, luminoso e riflettente per gli specchi che occupavano ogni
anta. Il riflesso lucido mostrava un letto dalla superficie disfatta, un
lenzuolo bianco, spiegazzato.
Edward prese un gran respiro, beandosi dell’aria
tiepida e profumata che aveva inondato il suo petto. Stringendo le palpebre per
ripararsi dalla luce fastidiosa, mugugnò, posando il mento tra i capelli di
Winry, stringendo forte a sé il suo corpo.
Il contatto con la sua pelle nuda, morbida e calda,
lo fece rabbrividire dal piacere e dalla dolcezza, in ogni angolo del corpo.
Tenne le palpebre serrate, sospirando al ricordo di
quella notte d’amore. Rimembrò il viso della moglie, teso in un’espressione che
solo lui – o almeno, così sperava – aveva avuto l’occasione di vedere, ricordò
il suo corpo, connesso al suo, che si muoveva con una grazia eccezionale, una
grazia che contrastava con il suo modo di essere, così – a volte – violento.
Fece scorrere un dito sul fianco di Winry,
sentendola fremere e mugugnare qualcosa nel sonno. L’ex alchimista sorrise,
chiedendosi, per l’ennesima volta, chiedendosi come potesse essere possibile
tutto ciò.
Il ricordo della guerra civile, della lotta contro
gli homunculus, di tutte le sofferenze che aveva patito, sembrava così lontano,
in quel pacifico momento.
Il calore e la luce che gli erano tanto mancati in
quegli anni, erano tornati ad avvolgerlo, donandogli molto più di ciò che aveva
sempre sognato. E, per quanto scontato potesse sembrare – lo era anche per lui,
e forse un po’ si vergognava di quel pensiero – anche sentire la morbidezza
scottante del seno di sua moglie sulla pelle, era un’esperienza che non avrebbe
mai voluto perdersi, e che lo rendeva estremamente felice. Arrossì,
nascondendosi tra le pieghe del lenzuolo.
Aprì e richiuse gli occhi, un paio di volte,
riflettendo. Era sposato – e con Winry! - , aveva due splendidi figli –
nonostante Rosalie fosse sempre stata una vera peste - , tutte cose che, nella
sua vita passata, non avrebbe nemmeno potuto immaginare.
Mugugnando, prese tra le labbra il lobo
dell’orecchio della donna accanto a lui, giocherellando con gli orecchini
argentei che lei, da quando lui stesso glieli aveva riportati, non aveva più
smesso di indossare. Addolcì lo sguardo, al ricordo di lui stesso e del suo
fratellino – che avevano all’epoca 13 e 12 anni – regalare a Winry il suo primo
paio di orecchini.
Lei mormorò qualcosa che a Edward sfuggì,
accomodandosi meglio su di lui.
Abbracciati da un’atmosfera dolce e impalpabile,
chiusa in un silenzio di respiri deboli, ritmati dal battito di due cuori in
accelerazione, esitavano a proferir parola. Era tutto troppo bello, e perfetto,
per essere spezzato. Winry aveva aperto lievemente gli occhi, liberando i suoi
due oceani turchini. Batté le ciglia lentamente, riparandosi dai raggi del sole
che, prepotenti, ferivano le sue iridi liquide.
Schiuse le labbra in un leggero sorriso,
socchiudendo nuovamente gli occhi.
-Buongiorno, Ed.
Sussurrò, addolcendo la voce nell’ultima sillaba.
L’ex alchimista ricambiò il sorriso, accarezzandole con grazia i capelli
mielati scompigliati sul cuscino. Avvicinò il viso al suo, cercando le sue
labbra calde; le trovò subito, con grande sollievo. La baciò lentamente,
accarezzandole la spalla destra, appena scoperta. La sentì fremere al suo
tocco, e sorridere contro i suoi denti, colta da milioni di brividi piacevoli.
Con l’ultimo spasimo di respiro, si allontanò di
pochi millimetri per poi gettarsi nuovamente su di lei, catturandola in un
bacio a cui non seppe resistere, uno di quelli che riservava per i momenti
speciali.
Winry incrociò le braccia dietro al collo di lui,
affondando le dita sottili tra i capelli sciolti e dorati più del grano. Il
profumo d’erba bagnata – quell’aroma che l’aveva fatta impazzire già dal primo
istante – entrò in lei, confondendo ogni immagine e ogni emozione.
Intrecciò dolcemente la lingua con quella di
Edward, che invece cercava di muoversi sempre più velocemente tra le sue labbra
dischiuse.
-E...Edward.
Balbettò. Seguendo il profilo del mento del marito
con baci e morsi bollenti. Si allontanò poi da lui svogliatamente, tornando a
distendersi sul letto. Edward sorrise, soddisfatto.
-Buongiorno anche a te, Winry.
-Che ottimo risveglio!
Ed scoppiò a ridere, scoccando uno sguardo allusivo
alla donna, che arrossì un po’. Il cuore dell’ex alchimista ebbe un tuffo. Si
morse il labbro inferiore, procurandosi dei brividi che corsero lungo tutta la
spina dorsale. Dio, quanto l’amava quand’era imbarazzata!
Non avrebbe mai ammesso ad altri – nemmeno ad Al – di quanto fosse felice in quel momento, perché
nessuno sarebbe realmente mai stato in grado di capire il vero significato di
ciò che stava provando. Lui era un uomo guerriero, l’amore non avrebbe mai
fatto per lui. O almeno, così pensava molti anni prima.
Si alzò dal letto, facendo l’ultima carezza a
Winry, per poi raccattare i vestiti sparsi a terra e gettarli in un angolo del
muro. La moglie sospirò, scendendo anch’essa e avvolgendosi il corpo esile in
un soffice accappatoio bianco.
-Vai a fare la doccia.
Consigliò a Edward con un sorriso, superandolo e
appoggiandosi allo stipite della porta. Lui la fissò interrogativo.
-Se vuoi, ti preparo una bella torta di mele per
colazione! Ci vorrà un po’, ma sarà ottima, vedrai!
Cinguettò, mandandogli un bacio e saltellando per
le scale. Raggiunse la cucina, udendo lo scroscio dell’acqua risuonare nel
silenzio.
Arricciò le labbra, nel svelare in quel silenzio
qualcosa di... insolito? Erano le sette e...quanto? Le sette e mezza, e nella
casetta non volava una mosca. Nonostante il sole fosse appena sorto, si ritrovò
stupita dal fatto di non udire il quotidiano trambusto che era solita fare
Rosalie, dato che s’alzava la mattina presto.
Afferrò la cesta delle uova dal ripiano fresco,
posandola poi sulla credenza. Le aveva comprate al mercato il pomeriggio
precedente, ed erano davvero belle e grosse, segno che la vecchia contadina che
abitava al di là del campo aveva svolto un ottimo lavoro, con le sue galline.
Batté un paio di volte il guscio rigido sulla
ciotola che si trovava lì accanto, facendovi scendere tre tuorli pieni e rossi.
Con estrema calma, aggiunse anche la farina, lo zucchero e il burro, che aveva
fatto intenerire.
Mescolò distrattamente con un cucchiaio di legno,
accorgendosi che il suono lontano dell’acqua s’era ormai arrestato. Lasciò la
scodella sul ripiano, prendendo tra le mani alcune mele rosse e iniziando a
sbucciarle con impegno, un sorrisino divertito comparve sulle sue labbra,
quando udì Edward imprecare a voce alta, irritato dal fatto che l’automail alla
gamba si fosse impigliato nell’asciugamano che si era probabilmente avvolto
intorno ai fianchi.
Ridacchiò silenziosamente, mentre con un colpo
deciso tagliava a metà il frutto succoso. Non si accorse però che l’indice
della sua mano sinistra si trovava in traiettoria.
-Ahia!
Piagnucolò, portando immediatamente il dito alle
iridi cobalto. Dall’apice della scala comparve Edward, vestito con la solita
canottiera nera e dei pantaloni morbidi del medesimo colore.
-Cos’è successo?
Chiese, avvicinandosi alla moglie, afferrandole con
velocità la mano e portandola a pochi centimetri dal viso. Winry ritrasse la
mano, portandola verso il lavandino.
-Niente.
Borbottò. Una gocciolina scarlatta di sangue
scivolò lenta sul pavimento ligneo, macchiandolo appena. Edward aggrottò un
sopracciglio.
-Mi sono tagliata.
-Lo vedo. Ma come? Sbucciando le mele?
-Uhm, sì.
L’ex alchimista nascose un risolino, gonfiando
appena le guance. Poco dopo, avendo ricevuto un’occhiataccia di fuoco dalla
donna, la raggiunse, stringendola da dietro e posando il mento sulla sua spalla
sinistra.
-Non ti sei fatto la barba stamattina?
Commentò Winry, accorgendosi della carezza pungente
della guancia del marito.
-Stai per caso tentando di somigliare a tuo
padre, Ed?
Edward svanì come un’ombra su per le scale, senza
proferire parola, i passi coperti dalla risata di Winry, che nel frattempo
aveva applicato velocemente un cerotto sulla ferita ed aveva ripreso il suo
lavoro.
Alcuni minuti più tardi, la meccanica stava
sistemando le ultime fettine di mela sulla pastella morbida, quando un Edward
alquanto infastidito attraversò la stanza, lasciandosi cadere, con un notevole
chiasso di ferraglia, sul divano imbottito poco distante.
Winry infornò la teglia, chiudendo lo sportello
caldo con un colpo secco.
-Hey, Win.
La chiamò il marito, appoggiando la testa sullo
schienale del divano, e inclinandola leggermente all’indietro. Lei si girò,
cercandolo con gli occhi.
-Mmmh?
-Rose... e Dani, dove sono?
Chiese, massaggiandosi il mento rasato, forse
appena solcato da qualche ciuffetto di barba biondiccia, sfuggito alla sua
vista per via della fretta. Winryalzò
gli occhi al cielo, ormai del tutto convinta che quel sospettoso silenzio, che
fin da quand’era sveglia aveva avvertito, nascondeva realmente qualcosa di
sbagliato.
Attraversò la cucina a passo spedito, fermandosi
poi proprio davanti a Edward, ch la osservava di sottecchi. Sospirò,
abbandonandosi accanto a lui.
-Lo sapevo.
Si lasciò sfuggire, affondando testa e schiena sui
cuscini morbidi. Edward le si avvicinò, accarezzandole i capelli biondi. La
donna abbassò lo sguardo, compiacendosi di quelle piccole attenzioni.
-Daniel? Non... non c’è nemmeno lui?
-È un deserto, lì sopra.
-Quando potrebbero essere usciti?
-Molto presto, direi. Rosalie, per come stanno le
cose, potrebbe anche aver dormito fuori. Il letto era rifatto, e lei non si
prende mai la briga di sistemarlo, la mattina. Dopotutto, non sarebbe nemmeno
la prima volta.
-Io... non ci posso credere, Ed.
-A cosa?
-Insomma, lei è... come dire? Mi ricorda tanto
te, quando avevi la sua età. Non eri mia a casa, se non quando facevi qualcosa
d sbagliato e facevi a pezzi i miei
automail.
-Quando io
avevo quindici anni, io non ero mai a casa non solo perché ormai una casa non
ce l’avevo più, ma anche perché avevo una missione da compiere, e tu lo sai
bene.
-Ed, non è questo il punto. Tu hai sempre
desiderato viaggiare, muoverti, scoprire cose nuove. La vita sedentaria non ha
mai fatto per te. Ed io, che rimanevo qui a Resembool, ero sempre più
preoccupata. Avevi quindici anni, la mia età, e benché non mi avessi mai voluto
rivelare cosa tu e tuo fratello combinavate a quel tempo, ho sempre sospettato
che si trattasse di qualcosa di estremamente pericoloso, a giudicare da com’eri
conciato le poche volte che riuscivo ad incontrarti. Avevo già perso troppe
persone importanti, e il solo pensiero di veder sparire anche voi, mi lacerava
il cuore. Però, tu volevi continuare il tuo viaggio, e per quanto io
desiderassi tenerti stretto, ti ho lasciato andare, perché sapevo che,
altrimenti, la tua anima non sarebbe mai stata in pace con se stessa.
-Ma Rose è...
-Esattamente come te! Ha sempre amato vivere
fuori da queste quattro mura, e non ci sarebbe da sorprendersi se un giorno
decidesse di prendere e partire per un viaggio simile al tuo.
-Ma Winry, perché devi sempre parlarmi sopra?!
-Perché sapevo che avresti detto qualcosa di
insensato, come al tuo solito!
-Come insensato?! Winry, nostra figlia è scappata
di casa stanotte!
-Ancora non ne siamo sicuri! E anche se fosse?
Abitiamo in un paesino di campagna, lo conosce meglio di qualsiasi altra cosa!
Tu invece te ne sei andato per anni in posti completamente diversi, senza mai
degnarti di fare una telefonata, o mandare una lettera!
-Vuoi litigare, Winry?!
-Qui l’unico che vuole litigare sei tu, nanetto!
-Come mi ha chiamato?! Sono più alto di te,
idiota!
-Idiota a me?!
-Smettila di urlare!
-Smettila tu! Non sarebbe successo niente se tu
non avessi cominciato a rispondere così!
-Hai detto che sapevi che avrei ammesso qualcosa
di insensato!
-È vero, scusami, Ed... ma tu...
-Ah, mi hai stufato!
Grugnì, alzandosi con uno scatto dal divano e
dirigendosi a passo svelto verso la porta d’ingresso. Lesta, Winry lo
raggiunse, e cercò di fermarlo, afferrandogli il polso del braccio destro.
-No, Ed, aspetta!
-Lasciami. Li vado a cercare.
-No, Ed! Torna qui!
Si girò verso di lei mostrandole un sorrisetto
strafottente.
-No, mi dispiace. Non sono il tuo cagnolino.
-Ma che diavolo stai dicendo?
Lui si voltò, senza rispondere e riprese a
camminare. Winry tentò di seguirlo, incespicando con i piedi nudi tra l’erba
ruvida. Fece per riafferrare il suo polso, ma lui lo strattonò con un gesto
violento, aumentando il ritmo dei passi.
-Edward.
Lo chiamò, in un sussurro, fermandosi nel punto in
cui era arrivata. Si lasciò cadere con le ginocchia a terra, graffiandosi
appena la pelle con i ciuffi secchi. Si aggrappò a quei fili d’erba sentendo le
lacrime premere con forza sui suoi occhi già liquidi.
-Edward!
Gridò, il volto ormai solcato dalle gocce
cristalline. Per Edward fu un colpo al cuore. Si voltò, e corse verso di lei,
gettando all’aria calda di luglio i suoi stupidi propositi di rabbia e
orgoglio.
<< Idiota >> si disse, mentalmente.
Idiota, idiota, idiota. Ecco cos’era. Solo un
emerito idiota. Come aveva potuto farla piangere ancora? In quel momento,
avrebbe tanto voluto farsi trapassare da uno dei tentacoli di Pride, o farsi
cogliere improvvisamente dalle fiamme di Roy. Avrebbero sicuramente entrambi
bruciato molto meno sulla sua pelle delle lacrime di Winry, che scivolavano
inesorabili sul suo braccio destro.
Idiota, idiota, idiota. Come poteva permettersi di
stringerla al petto, scossa com’era da singhiozzi rumorosi, che lei tentava,
invano, di trattenere? Se in quell’istante ci fosse stato Al, certamente
l’avrebbe riempito di rimproveri.
-Winry, Winry, io...
Balbettò, non conoscendo realmente le parole giuste
da pronunciare. Era completamente inutile ricominciare a darsi dell’idiota, in
quel momento, perché, nonostante fosse una verità accertata, non avrebbe di
certo risolto la situazione.
-Hey, Win... scusa
Perché continuava a piangere? Si sedette accanto a
lei, lasciando che il viso scendesse verso il suolo. Aveva quasi quarant’anni e
ancora non aveva capito come comportarsi con lei. Non era più un bambino, ormai
avrebbe dovuto cominciare a capire come andavano le cose.
-Ok, scusami. Sono un vero idiota.
-Sì, sì lo sei! Lo sei sempre stato e non mi
stupisce affatto che tu non sia cambiato. Si può sapere perché diavolo t’è
saltato in testa di comportarti così?
Sbraitò, negli occhi fiamme accese che
sbriciolarono anche gli ultimi residui delle lacrime, ormai asciutte anche
sulle guance arrossate. Sbuffò, cercando di alzarsi in piedi ma questa volta fu
la calda mano di Edward ad afferrarle il polso e a pregarla di restare. Alzando
gli occhi al cielo, si sedette di nuovo sull’erba e si sorprese quando vide
l’oro dei capelli dell’ex alchimista posarsi tra le sue gambe incrociate.
Sorrise, percependo il cuore iniziare a battere
furiosamente nel suo petto.
-Ti prego, stai qui.
Sussurrò, mentre il sole faceva risplendere la sua
testa di una luce aurea. Una strana sensazione pervase il corpo di Winry, che
si ritrovò a pensare un’unica cosa davanti a quello spettacolo.
-...Bellissimo.
-Che cosa?
-Oh, no. Niente.
-Hey, dimmi. Bellissimo cosa?
-Ah... uhm, tu.
Edward alzò lo sguardo, incontrando quello fluido
di lei. Le sorrise, facendola rabbrividire dalla meraviglia.
-Sei... bellissima anche tu.
Mormorò, arrossendo terribilmente. Era bastato così
poco per fare pace? Si fece sfuggire un rivolo d’aria dalle labbra, che bastò
per smuovere poco i capelli biondi della moglie, sciolti e lisci come seta.
-Abbiamo... fatto pace?
Chiese lei, socchiudendo le palpebre.
-Vuoi anche il giuramento con il mignolo?
-Spiritoso. Non sono più una bambina, sai?
-Ha. Tu dici?
Ridacchiando, si alzò da lei, lasciandole
un’improvvisa e spiacevole sensazione di vuoto. La spinse leggermente,
facendola cadere tra l’erba e si allontanò spedito, mentre lei, boccheggiando,
tentava di rendersi conto di quella ridicola situazione.
-Forza, prendimi!
-Cosa?!
Esordì, sconcertata.
-Cosa c’è? hai forse paura di perdere?
-Hai quarant’anni e vuoi... giocare?
-Certo, che problema c’è?
-Ah, io non lo so. Che problema c’è?
-Sei splendida.
Le sussurrò, tornando verso di lei e prendendole il
viso tra le mani per regalarle un bacio carico di dolcezza. Per loro, era come
se il tempo non fosse mai passato. Erano ancora bambini, non erano mai
cresciuti. O almeno, tentavano di rimanere aggrappati a quell’idea di infanzia,
forse per recuperare, a poco a poco, la vita che era stata loro rubata.
Winry si gettò su di lui, facendolo rotolare a
terra. Si fermarono dopo qualche istante e rivolsero lo sguardo al cielo.
Edward la strinse a sé, sospirando.
-Sai che Daniel è più maturo di te, vero?
-Umph.
-Sai una cosa? Mi ricorda davvero molto Al, come
modo di pensare. È così... responsabile,razionale. Cioè, lo guardi e ti viene
da pensare: “è impossibile, questo ragazzo non ha diciassette anni”. anche io,
ad esempio, ho sempre pensato che Alphonse sembrasse più grande di te. Non solo
per l’altezza, intendiamoci, però davvero qualcuno potrebbe pensare che sia lui
il maggiore. E Daniel, beh, lui gli è così simile.
Edward ascoltò in silenzio. Trattenne il respiro,
corrugando il viso in un’espressione che dava l’idea di una riflessione
profonda. La donna l’osservo incuriosita, assottigliando gli occhi sotto i
raggi del sole.
-Winry.
Disse l’ex alchimista, ad un tratto, con voce
seria. La meccanica tese le orecchie.
-Uh... Daniel... è figlio mio?
-... eh?!
-Cioè, voglio dire, non è che poi vengo a
scoprire che tu e Al...
Non fece in tempo a completare la frase, che una
pesante chiave inglese lo colpì dritto in testa, lasciandolo tramortito al
suolo. Da dove sua moglie avesse estratto quell’arma mortale non gli era dato
saperlo, e preferì l’ipotesi di una eventuale grande tasca nell’accappatoio piuttosto
di quella in cui Winry aveva segretamente imparato le trasmutazioni alchemiche.
Per un momento, tenne a mente che la meccanica
potesse essere una strega, ma si vide costretto a scacciare il pensiero,
vedendo l’espressione severa che gli si presentava davanti.
-Sei davvero un idiota. Come puoi pensarlo?
Edward si risedette e tornò a fissare il suolo,
senza rispondere. Winry scoppiò a ridere, sedendoglisi accanto. Si arrese, ben
sapendo che lui non avrebbe mai abbandonato il suo orgoglio per risponderle.
-Ok, Ed. lasciamo stare. Però, ti devo chiedere
una cosa.
-Mh?
-Mi vuoi spiegare perché ti sei arrabbiato così
prima?
-Beh, così.
-No, Ed. Non “beh, così”.
-Umph. Certo che sei sempre la solita...
-Ok, ascoltami. So benissimo che Rosalie ha
quindici anni e tu la vedi ancora come una bambina, ma...
-Winry, è proprio questo il punto!
-Scusa?
-Insomma, io... avevo la sua età, anzi, avevo
dodici anni quando me ne sono andato. Ho percorso molte avventure, alcune
pericolose e ora... ora ho paura.
-Paura?
-Sì, Win. Paura. Ho un’immensa paura che tutto si
ripeta, perché lei non è più una bambina. Sarò anche debole per questo, ma ho
davvero paura di perderla.
Winry trattenne il respiro, accarezzando con i
polpastrelli i fili d’erba ruvida solcata da qualche rilucente goccia di
rugiada. Sentì il cuore addolcire il battito, come se ogni parte del suo corpo
si fosse tutt’un tratto trasformata in tessuto soffice e impalpabile, qualcosa
che lei non riuscì a riconoscere.
Quell’estrema dolcezza che aveva ritrovato nella
voce di Edward, nel momento in cui le labbra avevano pronunciato quel “paura di
perderla”, nascosta a una punta d’acidità che lo caratterizzava, la fece
sorridere inconsciamente, mentre una grossa lacrima – soltanto una, non aveva
intenzione di piangere, non ancora – premeva sugli occhi luminosi.
Istintivamente, lo abbracciò, posando il mento
sulla sua spalla destra e sfiorando con le mani, attraverso la stoffa della
canottiera, le grosse e profonde cicatrici che quell’antico ricordo – l’automail
che lei stessa aveva costruito, quel braccio che gli aveva donato – avevano lasciato
sulla sua pelle altrimenti liscia e pura.
Edward la strinse forte, lasciando che i capelli
chiari gli solleticassero il naso. Le baciò il collo, accompagnando il gesto
con una carezza sulla schiena. Si allontanarono quanto bastava perché l’ex
alchimista riuscisse a leggere negli occhi della moglie una luce diversa,
tremolante che sussurrò qualcosa che il suo cuore intuì subito.
“Non succederà mai.”
“Mai”. Quella parola gli suonava tanto come “impossibile”
e lui aveva imparato, a sue spese, che tutto poteva essere possibile. Annuì,
poco convinto, mentre un pensiero spietato cominciava ad agitarsi nel suo
petto, graffiandogli il cuore, sopra ferite non del tutto risanate.
Afferrò la mano che Winry gli tendeva e si diresse
nuovamente verso la loro casa, quel piccolo angolo in cui tutto il passato
doveva essere lasciato alle spalle. eppure tutto, in quelle campagne – la casa
della zia, di Al, May e Yumi, quella stradina che portava all’orizzonte, verso
un mondo così diverso da quel minuscolo paradiso, quei resti della casa dei
suoi ricordi, e l’albero, l’altalena che non potrà volare più – lo incatenavano
sempre di più ai ricordi dolorosi, così difficili da cancellare, timorosi di
essere vissuti.
-Vieni dentro.
Lo intimò Winry, aprendo la porta. Un profumo
delizioso lo avvolse, scaldandogli il cuore martoriato.
-Sbrigati, o la torta si brucia.
Sentì quelle parole sbiadite, come musica in
sottofondo. Lanciò un ultimo sguardo all’esterno, rivelando in controluce le
sagome dei figli accanto ad un albero lontano, poco distante dal cimitero in
cui erano sepolti suo padre e sua madre.
Lasciò la porta socchiusa, entrando, spiegando alla
moglie – o forse era solo un modo di ingannare se stesso – che Rosalie e Daniel
sarebbero tornati presto. La verità era che – e lui lo sapeva più che bene –
quello spiraglio sulla porta non era altro che un ultimo bagliore che scemava
sempre più nel suo cuore.
Una debole luce che, però, non avrebbe mai potuto
serrare al di fuori di sé.
SPAZIO AUTRICE ^___^
Saaaaalve a tutti.
Scusate. Scusate, scusate, scusate. Dovreste appendermi
a testa in giù sulla cima di un vulcano per questo. Miiiiiiiiiiiiiiiiiiiii dispiace
tanto! Non so come scusarmi, sono stata malata, ho avuto le gare di danza e la
fine della scuola, ma non sono validi motivi per abbandonarvi!
Sono terribile D: *si deprime
in un angolino*
Ma... ora sono tornata! Diciamo che il problema è stato
più che altro ricopiare il testo al computer, perché, come capitoli scritti a
mano, sono arrivata al numero sei ^w^ *esce dall’ombra* Per cui.. ora vi prometto di impegnarmi a non essere
più così ritardataria! :D
Vi lascio al capitolo numero due, buona lettura! ^___^
Capitolo 6 *** CAPITOLO 3: Il mio Migliore Amico ***
Eccoci qua, un’altra
volta. Devo dire che ricopiare pagine e pagine scritte a mano sta diventando
meno estenuante, ora che la scuola è finita xD Ma accantoniamo l’argomento, mi
scuso per il ritardo. Non riuscirò più a postare una volta alla settimana, spero
solo che l’irregolarità degli aggiornamenti non crei troppi problemi. Oggi ho
risposto a tutte le vostre recensioni: i vostri complimenti mi lasciano sempre
senza parole, grazie!
Nello scorso
capitolo abbiamo lasciato Edward in balia dei suoi ricordi, Winry alle prese
con la torta di mele e i ragazzi che tornavano dal luogo della loro
chiaccherata. In questo capitolo, verrà svelato qualcosa che, piano piano,vi aiuterà a
rimettere insieme i pezzi della storia.
Buona lettura! :)
CAP. 3: IL MIO MIGLIORE AMICO
Era quando calava la sera che Edward s’accorgeva
veramente di quanto la sua Rosalie si stesse estraniando da tutto ciò che
riguardava la famiglia. La vedeva sempre uscire, in silenzio, avvolta ogni
notte da un abito scuro, che risultava essere una sorta di camicia da notte,
del color della notte, che tanto faceva confondere il suo corpo nell’oscurità.
Ma i capelli biondi, argentei sotto la luce della
luna, si smuovevano appena dalle sue spalle, ritmati dal calmo ansito del suo
respiro regolare, illuminandole il viso – e la pelle chiara, gli occhi luminosi
colore del mare – fino a farla sembrare un angelo delle tenebre.
L’ex alchimista serrò i vetri della finestra dalla
quale osservava la figlia, seduta in silenzio sui gradini della veranda all’ingresso,
i piedi nudi tra l’erba e lo sguardo volto al cielo stellato.
Gettò uno sguardo a Winry, che era china sul tavolo
da lavoro, alla luce della lampada che gli stava vicino, e trafficava con vari
attrezzi che Edward già conosceva, tante erano le volte che avevano fatto
visita alla sua gamba sinistra. Le scoccò un sorriso tenero che lei ricambiò,
infilandosi gli occhiali con le lenti graduate e tornando ad occuparsi
dell’automail che stava assemblando, molto probabilmente per un cliente.
Edward raccattò un elastico sul comodino e se lo
portò alle labbra, mentre le mani raccoglievano i lunghi capelli dorati sulla
nuca. Prese poi tra le dita l’elastico e lo annodò tra i capelli, sbuffando
indispettito ad alcuni ciuffi che erano sfuggiti al suo controllo.
-Ed? Dove vai?
Chiese Winry a mezza voce, liberando gli occhi
azzurri dai grossi occhiali e osservando il marito stringere la maniglia tra le
dita, pronto ad abbassarla. Il biondo si voltò, facendo ondeggiare la coda
appena fatta.
-Da nessuna parte.
Disse, guardando altrove, con falsa indifferenza.
La meccanica si portò le mani ai fianchi, sbuffando.
-Ti conosco da quarant’anni, pensi che non
riconosca quando qualche idea ti frulla per la testa?
-No, ma...
-Avanti.
-Ah, Winry...
Sospirò passandosi una mano sul viso.
-Voglio parlare con Rose.
Winry gettò un breve sguardo alla finestra, senza
però riuscire a scorgere altro che il buio della notte. Posò il cacciavite che
teneva nella mano destra e si pulì le dita con uno straccio asciutto, per
eliminare tutto l’olio che aveva utilizzato nelle giunture. Si alzò dalla sedia
con un sospiro e si avvicinò a lui, accarezzandogli una spalla.
-Cerca di non combinare disastri.
-Perché dovrei? Quando mai io...
Scherzò, giocherellando con la coda dorata e
facendo un passo attraverso la porta. La donna preferì non rispondere e
indietreggiò nella direzione opposta a quella del marito, portandosi una mano
al cuore, in segno di sconfitta.
-Fai attenzione.
Sussurrò, accarezzando con delicatezza la
superficie lucida e gelida degli automail che si trovavano sul tavolo,
distogliendo per un istante lo sguardo dall’ex alchimista. Edward sbuffò
divertito e la salutò con un gesto della mano, uscendo definitivamente dalla
porta e scendendo le scale con velocità. Attraversò rapidamente il salotto –
dove Daniel era impegnato a bere u bicchiere di latte fresco – per dirigersi
all’ingresso. Lanciò uno sguardo disgustato alla bevanda orribilmente
conosciuta che stava sorseggiando il maggiore dei suoi figli, per poi fermarsi
sullo stipite della porta.
Rosalie era seduta sul gradino lì fuori, e scrutava
il cielo con lo sguardo perso nel vuoto. Udendo il rumore di ferraglia che
l’automail del padre produceva contro il pavimento solido, s’irrigidì, pronta a
balzare lontano da lui se le cose avessero cominciato a prendere una brutta
piega.
Edward la raggiunse e si sedette accanto a lei,
rimanendo muto. Rose abbassò l sguardo, trovando improvvisamente molto
interessante la composizione del prato sotto ai suoi piedi. L’ex alchimista
stette in silenzio, imitando la ragazza e spostando lo sguardo a terra.
Il canto dei grilli s’insinuò nelle loro menti,
rendendo ancora più imbarazzante quel lungo silenzio che appariva senza uscita.
La ragazza percepì il proprio corpo andare a fuoco quando la voce di suo padre
ruppe quella barriera che aveva costruito a poco a poco, quasi
inconsapevolmente.
-Rosalie.
La voce gli uscì in un sussurro quasi gracchiante,
come se il suo cuore avesse paura di affrontare un discorso con quella ragazza
dagli occhi di un azzurro penetrante, esattamente identici a quelli di sua
madre.
Si chiese per quale motivo, quando Rosalie aveva
voltato il viso per guardarlo negli occhi, una scarica elettrica aveva
attraversato la sua schiena, quasi fosse un’intimidazione ad allontanarsi.
-Papà.
rispose lei, seria, boccheggiando. Gli lanciò uno
sguardo indecifrabile, spostandosi distrattamente una ciocca di capelli dietro
l’orecchio.
-Scusa.
Sussurrarono, all’unisono. Si sorpresero entrambi,
scivolando appena all’indietro sullo scalino. Un sorrisetto compiaciuto
comparve sulle labbra sottili di Edward, seguito da una risatina divertita.
Rosalie alzò un sopracciglio.
-Che c’è?
-Oh, niente, Rose. Niente.
-E perché ridi, dunque?
-Perché mi hai sorpreso. Sei così orgogliosa,
credevo che non ti saresti mai scusata. La mamma ha ragione, sai? Sei proprio come me.
-Umph.
Eppure, anche tu ti sei scusato.
-Hai ragione.
-Perché l’hai fatto?
-Non c’è una ragione per ogni cosa. Da quando
ragioni in modo così matematico?
-Oh, oh. Senti chi parla.
Borbottò, digrignando i denti. L’ex alchimista alzò
gli occhi al cielo, riconoscendo nella voce della figlia quella nota
d’arroganza e superiorità che tutti avevano sempre riscontrato in lui.
-E non mi guardare così, come se tu avessi mai
avuto una mente creativa. Tutto ha una spiegazione, tutto ha inizio da
qualcosa. Uno è tutto, e tutto è uno. Me lo ripetevi sempre, quand’ero piccola,
ed io non era mai riuscita a coglierne il significato.
-E così, te ne ricordi ancora.
-Certo che me ne ricordo. E tu, tu te ne ricordi?
Edward si lasciò sfuggire un sorriso che non
lasciava spazio a dubbi. “Ovvio, con chi credi di parlare?” sembrava urlare
quello sguardo, prezioso e splendente come l’oro. Rosalie si avvicinò
impercettibilmente, posando lo sguardo proprio sulle iridi auree. Edward se ne
accorse.
-A cosa stai pensando?
-Oh, niente. Solamente vecchi ricordi.
-Hai quindici anni e pensi a vecchi ricordi.
-Hai quarant’anni ma dentro hai ancora la mia
età.
-Direi che siamo pari. La mia è stata
un’esistenza piena, Rose. È come se la mia infanzia e la mia adolescenza, mi
fossero state strappate via, per farmi crescere interiormente troppo in fretta.
-Già, già. La malattia alla gamba, le guerre ai
confini...
Elencò, con l’aria di chi la sa lunga, ma cerca di
mascherare quella conoscenza segreta con l’indifferenza. L’ex alchimista
avvertì una pungente sfumatura d’ironia nella sua voce pulita, e per un attimo
si chiese se non fosse stato solamente frutto della sua immaginazione.
-Esatto.
Esalò, scostando lo sguardo da lei per evitare che
notasse quel guizzo di menzogna nei suoi occhi profondi. Ci fu un nuovo momento
di silenzio estremamente teso, saturato solo da due respiri lenti, irregolari.
-Papà, non è stata una malattia il vero problema
per la tua gamba, vero?
-Che cosa...?
-Pensi... pensi che non me ne sia mai accorta?
Ogni volta che osservi il tuo automail, il tuo sguardo è talmente carico di
disprezzo, di rammarico, di colpevolezza, che mi viene totalmente impossibile
credere che hai perso la tua gamba sinistra a causa di una malattia. C’è
qualcos’altro, qualcosa che ci tieni nascosto, non è forse così? E poi, la tua
spalla destra, quelle cicatrici, sono certa che non sono un segno casuale.
Dimmi la verità, papà. Quella giusta.
Edward ammutolì, rimanendo paralizzato dalle fredde
parole della figlia. Si maledisse mentalmente, insultandosi, perché in fondo
sapeva che, prima o poi, la verità sarebbe venuta a galla. La verità, la
verità. Digrignò i denti, ad un altro doloroso ricordo.
-La verità, eh? È questo che vuoi?
-Sì, sì esatto. La verità.
L’ex alchimista si alzò, spolverandosi i pantaloni
con le mani. Accarezzò dolcemente i capelli di Rosalie e le diede le spalle,
sospirando.
-“Dà agli uomini giusta disperazione cosicchè non
diventino troppo vanitosi. Questa è l’essenza stessa di ciò che chiamate con il
nome di divinità. Questa, è la verità.”
Citò, in un sussurro, prima di riprendere a
camminare e svanire, a poco a poco, nell’oscurità dinnanzi a lui. rosalie
rimase senza parole.
-Che cosa?! Papà? Papà! Che cosa significa?
Nessuna risposta arrivò al suo orecchio, se non un
lontano uggiolio di un cane, o di un lupo, perso tra i boschi bui della notte.
Rosalie si alzò da terra, ondeggiando per via dell’equilibrio che le era venuto
a mancare. Si aggrappò alla staccionata che circondava la veranda, cercando con
gli occhi suo padre nell’oscurità. Un rumore che non s’aspettava la fece
sussultare, costringendola a voltarsi verso la porta che stava alle sue spalle.
-Daniel?
-Ciao sorellina. Parlavi con papà?
-Più o meno. È come scomparso. Ha detto qualcosa
a proposito della “verità che dà giusta disperazione” e poi è sparito nel buio.
È venuto qui a chiedermi a cosa stessi pensandoed è uscito questo discorso. Credo che papà volesse farmi capire
qualcosa, Dan, qualcosa che non può rivelare, che deve tenere nascosto.
Qualcosa di importante.
-Hei, Rose. Rose! Pensaci un attimo, tu hai
sempre creduto in quest’idea.
-Sì, su questa hai assolutamente ragione, però...
-Però niente. A che stavi pensando?
-Vecchi... vecchi ricordi.
-Hiroki.
-Non nominarlo in quel modo. E comunque no, signorino
“sotuttoio” , non stavo pensando a lui, affatto.
-No?
-No.
-E smettila, Rosalie. Non sei in grado di mentire
come si deve.
-Umph. Chissà da chi ho preso.
-Smettila, con queste allusioni. E poi, perché’
diavolo stavi pensando a lui?
-A te che importa?
-M’importa. M’importa perché sei mia sorella, e
mi preoccupo per te. E poi, hai visto? Alla fine hai ammesso che stavi pensando
a quello stronzo.
-Pff. Esagerato. Che mai ti avrà fatto?
-Oh, niente. Niente.
Daniel abbassò lo sguardo, sedendosi accanto a
Rosalie. Lei l’osservò confusa, volgendo poi lo sguardo nuovamente al cielo
stellato, buio e lontano come non l’aveva mia visto.
-No, non ci credo. Non può essere “niente”.
-Invece, lo è.
-Pensala come ti pare. Comunque sia, non potrò
più rivederlo.
-Non è altro che un bene.
-Dimmi cos’è successo, Daniel. Dimmelo adesso.
-Sei solo una stupida ficcanaso, nanetta. Taci.
-Oh, senti chi parla, l’altissimo signor “non mi
faccio i fatti miei” ora mi vuoi spiegare perché non ti fidi di me?
-Io mi fido di te, e poi sei tu che ti stai
facendo i fatti miei, non il contrario.
-Sta’ zitto. Forza, dimmi ciò che è successo.
-Non dovevo stare zitto?
Lo sguardo che ricevette lo intimò invece a
parlare. Si passò una mano sul viso, con fare sconsolato. Rose sbuffò
impaziente, tamburellando le dita sul legno ruvido del gradino. Daniel alzò lo
sguardo verso di lei, arrossendo nuovamente.
-Ok.
Si arrese, mordendosi nervosamente le labbra.
Rosalie si mise comoda e ascoltò, incuriosita dall’imbarazzo espresso dal suo
fratellone. Il ragazzo prese un grande respiro, e poi iniziò a raccontare.
-Due anni fa. È cominciato tutto... due anni fa.
Daniel era seduto sul tavolo della
cucina della casa degli zii, la dimora in cui suo padre, sua madre e Alphonse
avevano trascorso ciò che avevano vissuto della loro infanzia. Rigirava tra le
dita la tazza candida, colma di thè che la ormai vecchia Pinako gli aveva
versato pochi minuti prima.
-Che cosa succede?
La voce gracchiante della nonna –
BIS-nonna – sdraiata sul divano, lo fece tornare bruscamente alla realtà. Posò
la tazza sul piattino, producendo un rumore acuto che lo infastidì.
-Non è da te perderti così nei
pensieri. Qualcosa non va?
-Mmh, no. non è successo nulla,
nonna.
-Sarò anche ormai molto vecchia, ma
non stupida.
-Non è niente, davvero. Non ti
preoccupare.
Si alzò lentamente dalla sedia,
afferrando la tazza e posandola, ancora piena, nel lavandino della cucina.
Attraversò il salotto, dirigendosi verso la porta, ma quando fece per prendere
la maniglia, una voce conosciuta gli fece battere forte il cuore. Si voltò e
non fece in tempo a respirare che Yumi – e il suo vestito bianco, che le
fasciava morbido i fianchi appena accennati, e i suoi capelli, color della
notte, e il suo profumo, così dannatamente dolce – era già tra le sue braccia,
con un brillante sorriso dipinto sul volto.
Yumi alzò lo sguardo, dorato come
quello del cugino. A Daniel mancò il respiro, quando quel dolcissimo sorriso –
che lo fece rabbrividire dal piacere – venne di nuovo presentato ad illuminare
il suo volto.
-Daniel, ma tu...
-Basta.
Mormorò il ragazzo, nascondendo il viso imbarazzato
tra i capelli d’oro e sbuffando sonoramente. Rosalie ammutolì, storcendo le
labbra in una smorfia impaziente. Daniel la osservò per qualche istante, per
poi digrignare i denti e tornare a parlare.
-Stai un po’ zitta anche tu, per una volta, Rose.
-Ciao.
-Ciao.
Il silenziò calò nella stanza, e
Pinako tossicchiò contrariata, tentando di sciogliere l’imbarazzo celato nelle
guance del nipote. Daniel si riscosse dal suo stato di trance.
-Co-come stai?
-Bene, Dan! E tu?
Di nuovo quel sorriso. Quel dannato,
meraviglioso sorriso.
-Oh, bene, bene. Ti stavo aspettando.
Dai, sbrigati, che Rose e Hiro ci aspettano per il pic-nic!
-Certo, sono pronta! Ciao nonna!
Così dicendo, uscirono, chiudendosi
la porta alle spalle. Yumi saltellò sull’erba umida, stringendosi al petto un
oggetto che il ragazzo ancora non aveva notato. Daniel le si avvicinò,
sospirando nell’avvertire quel profumo paradisiaco, ancora troppo infantile.
Cercò di scacciare il pensiero, convincendosi del fatto che tutto ciò fosse
orribilmente sbagliato.
-Che cos’hai lì?
-È un libro che mi ha regalato papà.
Ho iniziato a leggerlo ieri sera. È molto bello.
-Di cosa parla?
La mora non fece in tempo a proferir
parola che Rosalie le saltò al collo, facendole perdere l’equilibrio e cadere
all’indietro. Hiroki ridacchiò, battendo una mano sulla spalla del biondo.
-Allora!
Cinguettò Rosalie sbattendo
velocemente le palpebre e facendo ondeggiare il cesto ricolmo di vivande che
Winry le aveva pazientemente preparato. Dan aiutò la cugina ad alzarsi,
allungando entrambe le mani verso di lei.
-Andiamo?
Si avviarono in gruppo, mentre
Rosalie e Hiroki continuavano a punzecchiarsi a vicenda, con battute e
frecciatine amichevoli. La giornata passò magnificamente, impreziosita da sguardi
nascosti e fugaci, colmi di una verità fin troppo sbagliata e irragionevole per
essere definita tale.
Era ormai tardo pomeriggio, Rosalie
e Yumi s’erano appartate all’ombra di un albero a ridacchiare e confabulare tra
di loro. Hiroki si avvicinò a Daniel sorridendo, e passò un braccio sulle sue
spalle.
-Senti un po’, piccoletto.
-Umph.
-Che cosa sta succedendo qui? E non
dirmi “niente”, perché so per certo che non è così.
-Perché tu e mia sorella non fondate
un club?
-Beh, ti dirò, tua sorella è
fantastica.
Il biondo gli lanciò uno sguardo
storto. Dove voleva andare a parare?
-Però...
Hiroki assottigliò gli occhi vispi,
abbassando la voce. Si avvicinò di più all’amico, trascinandolo, con poche
semplici parole che avrebbero influenzato la sua vita di lì in avanti, in un
baratro oscuro dal quale non sarebbe mai riuscito a risalire.
-Yumi è davvero molto carina.
La gelosia.
Il silenzio si era impadronito della situazione, e
il vento scivolava leggero tra le fessure dei rami, tremando nell’aria in un
sibilo acuto. Daniel aveva abbassato lo sguardo, di nuovo, e lo aveva
agganciato ai suoi piedi, ben fermi sul terreno, fingendo interesse.
Prese una profonda boccata d’aria, sospirando
amaramente. Rosalie seguì il suo sguardo nell’ombra, sopprimendo una dolorosa,
quanto sconosciuta fitta al cuore.
-A Hiro piaceva... Yumi?
La voce le uscì strozzata, come se, a pronunciare
quella frase innocente, la gola non avesse mai smesso di bruciarle. Eppure
deglutì, ignorando quelle sensazioni, cosi come quel dolore estraneo che aveva
attanagliato il suo petto qualche istante prima.
-Sì, sì. È così.
Era la voce di Daniel, quella accanto a lei, e in
quel momento la trovava più vicina che mai. Udì un nuovo sospiro infrangersi
sul suo collo, e davanti ai suoi occhi scivolarono fluidi i capelli dorati del
fratello, che aveva teneramente appoggiato la testa sulla sua spalla.
-E io...
Era di nuovo la voce del ragazzo, spezzata da un
sussulto silenzioso, nascosto tra le sue corde vocali. Respirava piano, il suo
fiato caldo si rompeva invisibile sul collo di Rose, mentre un brivido gli
percorreva il collo, le spalle, la schiena.
-Anche se lei aveva solo tredici anni, per me era
stupenda. I suoi occhi, i suoi capelli profumati e quel suo modi di essere,
così dolce, con il suo viso da bambina.
Trattenne il respiro, chiudendo gli occhi e
abbandonandosi al calore della sorellina. Boccheggiò, tentando di trovare le
parole giuste che, pochi istanti dopo, s’infransero nell’aria ventosa di quella
sera di mezza estate.
-Forse, forse... mi ero innamorato di lei.
In quel momento, fu come se tutto il
mondo, per lui, si fosse fermato, e quel silenzio che regnava intorno – il
vento che non soffiava più, la voce delle ragazze troppo lontana per essere
udita, e quell’improvviso mutismo che aveva avvolto tutto – pulsava sulla
fronte come il più assordante dei rumori, veloce e violento come lo scoppio di
un imprevisto temporale.
-Già. È una ragazzina molto bella,
mia cugina.
Quella parola, “cugina”, sfuggì
dalle sue labbra con uno sfrecciare improvviso, come se quelle poche lettere
pesassero enormemente sulla sua anima.
Hiroki si lasciò scappare un sorriso
amaro, allontanando per un istante lo sguardo, per poi tornare a posarlo sugli
occhi d’oro del suo migliore amico. Osservò la danza dei capelli di Yumi, e il
suo sorriso debole, innocente, ancora immaturo. Rosalie, accanto a lei, con
quella sua fierezza, quel suo sguardo tenebroso, misterioso, la faceva sembrare
tutt’altro che un’innocente tredicenne.
La forza con la quale si schiudeva
al mondo, la sua voglia di scovare la soluzione ad ogni mistero che osi
intralciare il suo cammino, la faceva apparire ancora più matura di quanto già
non fosse. Ed era proprio questo aspetto, che lo attirava in modo
impressionante.
Daniel, accanto a lui, aveva lo
sguardo basso, come se stesse combattendo contro un’idea che infestava la sua
mante come una fastidiosa ragnatela.
-Che cosa succede, Dan?
Sussurrò il moro, muovendo
lentamente le labbra. Daniel alzò a malapena lo sguardo, incrociando quello di
Hiroki, illuminato da un raggio di sole.
-Niente. Lascia perdere.
Daniel sciolse la presa dall’amico,
allontanandosi di qualche passo, verso il centro del campo. Hiroki lo seguì,
portando una mano sulla sua spalla.
-Dan?
-Ti ho detto che non ho nulla!
-Che cosa...? Ma che diavolo hai da
parlarmi così?!
-E a te che te ne frega di quello che
penso io?
-Che cosa me ne frega, mi chiedi?!
Sei il mio migliore amico!
-Migliore amico!
Il giovane Elric rise amaramente,
arrancando tra l’erba alta e alzando la voce, per delineare meglio le proprie
parole. Chiuse gli occhi al sole luminoso in fronte a lui, fermando il suo
tragitto in un punto ormai lontano da dove si erano appostati. Hiroki lo
strattonò con violenza, facendolo voltare verso di lui, al fine di poter
leggere nei suoi occhi il perché di quello strano comportamento.
-Sì, migliore amico!
-Che razza di migliore amico vuoi che
sia quello che non si rende conto che mi sono innamorato di lei?!
Hiroki ammutolì, indietreggiando di
un paio di passi, con la bocca aperta, gli occhi sbarrati. Subire lo sguardo
velenosi di Daniel, però, scacciò ogni traccia di sorpresa dal suo cuore,
lasciandogli l’amaro in bocca.
-Che cosa?!
-Che cosa, che cosa! Penso di essermi
spiegato più che bene!
-Ma... ha tredici anni!
-Lo so!
-Ed è... tua cugina!
-Lo so!
-Come puoi...?!
-È... è successo e basta, chiaro?!
-Toglietela dalla testa, idiota!
-E perché? Perché piace a te?
“No, certo che no!” sembrava urlare
lo sguardo tremolante seppur infuocato di Hiroki, che stringeva i pugni per
impedirsi di colpire sul naso il ragazzo che li stava davanti. “Stupido
idiota!” avrebbe voluto urlargli in faccia, scuotendolo per le spalle. come
poteva immaginare una cosa simile, lui, il suo migliore amico? Perché lui ne
era sicuro, assolutamente sicuro che Daniel sarebbe uscito male da quella storia.
Era perfettamente consapevole che tutto ciò – compreso quell’idiota, a sentir
le parole di suo padre, Roy, di Edward, e tutti i problemi che sarebbero sorti
di lì in avanti – l’avrebbe solamente portato sull’orlo di un baratro dal quale
non sarebbe mai riuscito a risalire.
“Che vuoi che me ne importi se mi
piace o no?” avrebbe desiderato urlare, prendendolo a schiaffi per sfogare lo
sdegno.
Ma quello sguardo oscuro,
combattuto, deluso, gli fece ribollire il sangue nelle vene. Sentì
improvvisamente il petto esplodere di calore e una voglia – dolorosa,
opprimente – soffocarlo, facendogli pizzicare le dita dal bisogno impellente di
incenerire qualcosa.
Mandò al diavolo tutti i suoi buoni
propositi, ricordandosi del fatto che Roy gli aveva insegnato che i veri uomini
non si mostrano deboli, né davanti agli altri, né a loro stessi, mai. Afferrò
Daniel per il colletto della maglia e lo portò a pochi centimetri dal suo viso,
fulminandolo con gli occhi.
-Proprio così, Elric.
Ringhiò, digrignando i denti, mentre
ciò che sentiva veramente veniva soffocato dall’orgoglio, e dal bisogno di
proteggere quello che, sempre, avrebbe considerato il suo migliore amico.
-Lei mi piace e sarà mia. Che tu lo
voglia, o no.
Così, raccontando, Daniel si era alzato di scatto,
fermandosi sullo stipite della porta con lo sguardo basso, carico di disprezzo.
Rosalie era scivolata all’angolo del gradino, e aveva seguito con gli occhi i
rapidi movimenti del fratello, stupefatta.
-E poi?
Aveva chiesto, con un filo di voce, tendendo un
braccio verso Daniel, negli occhi uno sguardo insicuro ma determinato.
-Quella stessa sera, tu eri rimasta fuori a
dormire con Hiroki nel granaio, perché aveva iniziato a piovere davvero forte,
e non avevi possibilità di tornare a casa, ricordi?
-Sì, e papà si è arrabbiato davvero molto quando
sono tornata, così sono scappata e mi sono rifugiata sull’albero. Ed è lì, che
ti ho visto correre via.
Il ragazzo si allontanò di un passo dalla bionda,
ritrovandosi immerso nella rassicurante atmosfera di casa.
-Poco prima che arrivassi tu, ho voluto parlare
con Hiroki. Lui era lì e... ha cominciato ad offendermi, a dire che non avrei
mai conquistato il cuore di Yumi, perché ormai era già suo. Rise, mi urlò di
averla abbracciata, di averla addirittura baciata, eppure mi sembrava che i
suoi occhi fossero lucidi, in quel momento.Si avventò su di me, urlandomi contro di non voltarmi indietro, che
avrei dovuto stare lontano da lei, d’ora in poi.Però, c’era qualcosa di diverso nella sua
voce, qualcosa che io non riuscii a decifrare. Fissai per un ultimo istante gli
occhi di quello che era stato il mio migliore amico, poi mi voltai e scappai
via. È stata l’ultima volta in cui l’ho visto. A Yumi io... non ho mai avuto il
coraggio di chiedere nulla, così... ho chiuso tutto dentro di me.
Rosalie si era alzata in piedi, ed aveva raggiunto
il fratello, abbracciandolo da dietro e posando una guancia sulla sua schiena.
-Hiroki per me... non esiste più.
Era un debole sussurro, la sua voce, pennellata da
una sfumatura di amarezza che proveniva dal profondo del suo cuore. Rosalie
socchiuse gli occhi.
-Non è più tornato, dopo quella sera.
-È vero.
-Ha lasciato quello che aveva fatto,ha lasciato tutto. È scappato, quel
vigliacco.
-No, non è stato così.
-Che fai, Rosalie?! Lo difendi ancora?
-Certo che no. Ma quella di andarsene, non è
stata una sua scelta. Quella sera, poco dopo, lui è venuto da me, già ti ho
raccontato cosa successe. Mi è stato vicino, mi ha mostrato la sua alchimia
e...
-E...?
-Ed è proprio in quel momento, che è arrivato
papà.
E così, è finito
anche questo capitolo. È stata una bella faticaccia, ma penso di avercela
fatta. Lasciatemi scritto ciò che pensate, ho sempre bisogno di nuovi consigli
e nuove critiche. Grazie mille per la vostra pazienza, davvero!
Capitolo 7 *** CAPITOLO 4: Riflessi d'un Ricordo negato ***
Ed
eccomi qua, dopo quasi un anno dall’ultima pubblicazione. Potrei iniziare
dicendo che mi dispiaceda morire, e che
sono imperdonabile. Ho avuto talmente tanto da fare che le cose mi sono
sfuggite di mano, e ho letteralmente abbandonato questa storia. Ma ora sono
tornata, più carica di prima, con questo nuovo capitolo. Ok, non è all’altezza
di altro che ho scritto, né di quelli che verranno dopo. Mi scuso anche di
questo. Comunque, se ancora tra voi c’è qualcuno che mi segue, questo capitolo
è per voi.
Grazie
a tutti, sono tornata :D buona lettura J
CAP. 4: RIFLESSI D’UN RICORDO NEGATO
-Ciao Rin! Atsushi! Ci vediamo domani!
Rosalie sventolò una mano al vento, sopra la
testolina bionda, saltellando fuori dal cancello ferroso della vecchia scuola
di Resembool con una borsa tra le mani. L’estate non si era ancora conclusa e i
raggi intensi del sole di mezzogiorno faceva risaltare l’oro dei capelli di
Daniel, che seguiva la sorella a passo lento, con la cartella posata su una
spalla. La scuola era finita presto, quel giorno, e i pochi ragazzi si erano
riversati per le vie della campagna già alle dieci del mattino.
Attraversarono il ponticello che sovrastava il
ruscello limpido, continuando per la stradina ghiaiosa che costeggiava il cimitero
nel quale loro padre era solito recarsi per portare dei fiori freschi sulla
tomba della nonna e... del nonno. Un nonno del quale, né Edward né Winry,
avevano mai parlato più di tanto.
-Dan!
Lo chiamò Rose, fermandosi a cogliere stizzita una
margherita che le ispirava mille ricordi. Il fratello la superò appena,
gettando la testa all’indietro con fare annoiato, tanto per dare alla sorellina
la soddisfazione di sentirsi ascoltata.
-Ah? Che vuoi?
Rispose, continuando a camminare. Rosalie lo
raggiunse con qualche balzo, lasciando che il fiore delicato che reggeva tra le
dita si posasse a terra silenzioso. La ragazza riflettè per un istante,
scordando la domanda che avrebbe dovuto porgere al ragazzo.
-Niente.
Si limitò a mormorare, schermando i raggi del sole
con le dita sottili. Daniel borbottò qualcosa di indecifrabile, aumentando il
ritmo dei passi per allontanarsi dalla sorella.
-Niente.
Ripetè il ragazzo, in un sospiro, come per
sottolineare l’inutilità del discorso troncato da Rosalie, la quale aveva rotto
la sua silenziosa pace mentale. Avanzarono, svoltando per la via ghiaiosa che
li avrebbe ricondotti a casa.
-<< Resembool! Stazione di Resembool!
>>
Gracchiò l’altoparlante della stazione, alcuni
metri alla loro destra, vuota e spenta come il cielo in un giorno di pioggia.
Un paio di vecchi contadini, che reggevano sulle spalle grossi sacchi di tela,
o trascinavano imponenti casse di legno, scesero faticosamente dal treno del
secondo binario. Rosalie proseguì per la sua strada, senza darvi troppa importanza,
finché, nell’aria mite dell’inizio di settembre, un altro suono disturbato non
giunse alle sue orecchie.
-<< Partenza del treno diretto per Central
City! >>
La ragazza si volò di scatto, tendendo le orecchie
nella speranza d’aver capito bene.
-<< Ultima chiamata per Central City!
>>
Un veloce sguardo al fratello maggiore, che non
fece in tempo a rendersi conto della situazione, che già Rosalie correva – con
i capelli al vento, e la leggera gonna nera che veleggiava nella stessa
direzione – verso la ferrovia, in cui venivano richiamati i pochi passeggeri.
-Rosalie!
Gridò il biondo, inseguendo la sorellina lungo la
via. Veloce, lei saltellò sulla banchina, pronta per salire sul treno. Con un
piccolo balzo, mise i piedi sulla carrozza e ricominciò a correre per i
corridoi del veicolo, con la mente annebbiata, seguita a ruota da Daniel.
-Fermati, stupida!
Urlava lui, scavalcando abilmente le grosse valigie
dei rari passeggeri seduti sulle poltrone scarlatte del vagone. Rose pareva non
sentirlo nemmeno, colta com’era da un istinto estraneo al suo corpo,
combattendo tra un sentimento di collera e qualcosa che non riusciva a definire
in alcun modo.
-Rose!
Strillò alla fine Daniel, afferrando saldamente il
polso della sorella e strattonandola verso di lui, in un vano tentativo di
riportarla alla realtà. La scosse violentemente un paio di volte, facendo
ondeggiare ritmicamente all’aria i suoi lunghi capelli color miele. Rosalie
chiuse gli occhi, abbandonandosi a quel movimento e lasciandosi poi cadere tre
le braccia del fratello.
-Che cosa diavolo cercavi di fare, me lo spieghi?
Grugnì il povero ragazzo, reggendola con le
braccia, mentre lei ancora ciondolava, con la testa bassa, appoggiata appena al
suo petto. Dan boccheggiò, cercando le parole giuste per esprimere tutto il suo
disappunto, ma decise di tacere per un istante.
Rosalie alzò o sguardo, nel quale sembrava
intravedersi il riflesso di una lacrima, e si ridestò dal suo stato di trance,
rendendosi conto solo in quel momento di ciò che stava accadendo.
-Daniel.
Sputò la parola a fatica, prendendogli la mano e
correndo verso la porta del treno più vicina, a un vagone di distanza. Il
ragazzo si lasciò trascinare, confuso e muto, ma non riuscì a trattenere un
grido strozzato quando la porta si richiuse con uno scatto, proprio davanti ai
suoi occhi – doveva essere stato il capotreno – e il mezzo cominciò a muoversi
con sempre maggiore velocità, ritmato dal rumore scattante dei freni e della
canna fumaria.
Rosalie si lasciò cadere a terra, i piedi posati
sul gradino rientrato della porta, rinfrescata da uno spiffero di vento che
proveniva dalle fessure dell’uscita. Daniel in piedi accanto a lei, posò una
mano sulla porta tremolante e si gonfiò il petto di un lungo respiro.
-Bene, perfetto.
Borbottò il diciassettenne, passandosi una mano tra
i capelli dorati. Sospirò, tendendo una mano alla sorellina. Lei lo fissò senza
capire; Daniel roteò gli occhi.
-Dai.
La intimò.
-Non sei arrabbiato con me?
-Ovvio che lo sono. Ma ora..
Gettò uno sguardo sconsolato al paesaggio che scorreva
sotto i suoi occhi, per poi tornare a quelli luminosi di Rosalie.
-Ora è inutile cominciare a litigare, ormai il
danno è fatto. È un treno diretto, figuriamoci se il conducente si sogna di
fare fermate intermedie. Per cui, conviene stare calmi. Non arriveremo a
Central City prima di sei o sette ore di viaggio. Perciò, dobbiamo rassegnarci.
Forza, andiamo a cercare un posto a sedere e speriamo che non passi il
controllore. Per ora, non possiamo fare altro che aspettare.
Rosalie sorrise debolmente, pentitadel suo momento di follia, e afferrò la mano
di Daniel, percependone il calore. Lo seguì a piccoli passi attraverso il
vagone, sedendosi poi silenziosa sul sedile accanto a lui. Posò il braccio
sull’incavo del finestrino, accomodandosi, sopra la mano, con il mento. Lasciò
che la sua mente sciogliesse ogni pensiero, mentre le dolci colline dell’est
scivolavano veloci lontano da lei.
Dopo alcuni minuti, Daniel avvicinò il viso al suo,
richiamando la sua attenzione.
-Rose?
-Mmh?
-Mi puoi spiegare, per cortesia, che ti è saltato
in mente?
-Non lo so, semplicemente.
-Come sarebbe a dire “non lo so”? non puoi non
saperlo.
-È così.
Rimasero in silenzio per alcuni istanti, indecisi
sulle parole giuste da pronunciare. Daniel le si avvicinò ultreriormente,assottigliando lo sguardo.
-Hiroki.
Sussurrò, con una punta di acidità nella voce.
Rosalie non rispose. Rimase in silenzio, ancora una volta, spostandosi una
ciocca di capelli biondi dagli occhi. Sospirò, sentendo il cuore cominciare a
battere pesantemente, come se fosse oppresso da un peso dal quale non riusciva
a liberarsi, e avvertì gli occhi pizzicare un po’, ma alcuna lacrima luccicò
sulla sua guancia. Il passato tornò ad infierire nella sua mente, accompagnato
da un insistente rumore che pulsava alle sue orecchie.
Hiroki, Hiroki, Hiroki.
Come le pareva strano immaginare quel nome, e il
suo volto, chiedendosi quanto fosse cambiato nel tempo. Concepiva con la
fantasia i suoi capelli neri come la notte, più lunghi. Arrivavano a
solleticargli il collo, appena le spalle, a coprire leggeri gli occhi
conosciuti, colore del cioccolato al latte.
riuscì quasi a costruire un’immagine virtuale tra i suoi pensieri, un’immagine
alla quale, però, non riuscì ad assegnare una voce, o un nome.
In un attimo, con la stessa sorprendente rapidità
con la quale si era dipinto, quel volto scomparve, infrangendo i pochi cocci di
ricordo contro la lucentezza di una lacrima, intrappolata, senza apparente via
d’uscita, tra gli occhi azzurri della ragazza.
No, non poteva essere lui. Hiroki, il ragazzo con
il quale aveva, pochi anni prima, un legame talmente forte da sembrare
indistruttibile. Non era ovviamente più solido di quello che custodiva con
Daniel, era semplicemente ... diverso.
Era totalmente convinta che qualcosa di strano
fosse accaduto, quella sera. Qualcosa che aveva distrutto – a colpi calibrati
ma irregolari, quasi folli – tutto ciò che si era creato nel corso della loro
infanzia. Eppure, Hiroki non si era mai fatto sentire. Non una telefonata, non
una lettera. Soltanto una valanga di ormai antichi insulti contro suo fratello
e forse, inconsapevolmente, contro il suo cuore. Perché quel bacio, tra lui e
Yumi, aveva bruciato, con una sola terrificante fiammata, qualcosa che lei non
conosceva, ma era sicuro di custodire all’interno di sé.
Posò una mano sul finestrino, rendendosi conto di
quanto fosse stato stupido archiviare quell’accaduto e non andare fino in fondo
alla questione. C’era qualcosa che puzzava in quel ricordo e nell’improvviso
cambiamento d’umore di Hiroki, e della stessa cugina. Possibile che lei non
avesse mai sentito il bisogno di affrontare l’argomento? Che lei sapesse
qualcosa in più, riguardo a quella sera, qualcosa per cui avesse deciso di
nascondersi dietro al silenzio? Era tutto esageratamente oscuro, per i suoi gusti.
Avrebbe dovuto approfondire quella storia, il prima possibile. Non poteva
permettere che quella bugia, ossia quell’eterna amicizia che si erano promessi
all’ombra di quella grande quercia, rimanesse impressa nella loro storia come
una dolorosa verità. A pensarci, avrebbe anche dovuto fare qualcosa per suo
fratello, decifrare ogni avvenimento della sera incriminata.
Il sole scomparve dietro ad un monte dalla cima
nascosta dalla nebbia, e un cono d’ombra avvolse il viso chiaro di Rosalie,
facendola sorridere per un solo, minuto istante. Si sedette più comodamente
sulla poltroncina, facendo slittare lo sguardo sul fratello, per poi riposarlo
nuovamente al paesaggio veloce, decisa a tenere le sue riflessioni silenziose
ancora per un po’.
-No.
Si limitò a rispondere, arricciando le labbra in
un’espressione annoiata, fingendo disinteresse.
-Non stavo pensando a lui.
Concluse, facendo schioccare la lingua sul palato.
Daniel, la imitò, posando il mento sulla mano destra e lanciandole uno sguardo
ironico. Gli angoli delle sue labbra morbide si piegarono lievemente verso
l’alto, in un sorriso compiaciuto.
-No?
Domandò retoricamente, alzando un sopracciglio e
arricciando a sua volta le labbra, tentando di imitare la sorella, che si
spazientì all’istante. Scontenta, Rosalie sbuffò, stringendo al petto la borsa
che ancora conteneva i suoi libri di scuola. Si morse un labbro, assottigliando
le palpebre e osservando il fratello con aria di sfida.
-No.
Ammise, sicura, sbadigliando quando il sole
ricomparve ad illuminarle il viso. Gettò la testa all’indietro, accomodandosi
sullo schienale e socchiudendo gli occhi. Daniel roteò gli occhi, scostandosi
dalla fronte una fastidiosa ciocca di capelli dorati.
-Rosalie, che succede?
-Niente, Dan. Solo che non capisco perché.
-Perché?
-No, no. dimentica. Stavo pensando a voce alta.
-Tu sa di essere strana, non è così?
-Mh.
Annuì, senta tener realmente conto delle parole del
fratello. Daniel gettò uno sguardo al vagone, circospetto: c’erano solamente
dodici persone e il treno era parecchio silenzioso. Forzò sulle braccia,
alzandosi dal suo posto ed andando a sedersi a fianco della sorellina.
Sorprendendola, l’abbracciò, posando il mento sulla sua spalla. Rosalie
sospirò, chiedendosi l motivo di un così improvviso slancio d’affetto.
-Ricordi quand’eravamo piccolo, e tu ti cacciavi
sempre nei guai?
-Ma non..
-Rose!
-Si, ricordo. Ricordo.
-Abbiamo sempre affrontato i problemi insieme,
giusto?
-Giusto. E allora?
-E allora, anche questa volta, non ho intenzione
di abbandonarti.
Gli occhi della ragazza luccicarono, inteneriti.
Sorrise.
-Grazie, fratellone.
-Figurati. Ah, Rose! Senza di me saresti persa!
-Oh, questo è sicuro, Dan. Continua pure a
crederci. Illuso!
Risero insieme, scherzando su questo e su quello.
Mentre le colline verdeggianti cominciavano a sparire, lasciando spazio ad un
paesaggio ben più roccioso e austero. Alcune ore più tardi, il sole era ancora
alto e filtrava attraverso le poche grigie abitazioni della periferia,
spruzzate qua e là da una macchia verdastra, un albero, un cespuglio. Rosalie storse
le labbra, posando una mano sul finestrino. Accanto a lei, Daniel sonnecchiava
tranquillamente, con il cappuccio della felpa calato sul volto, i ciuffi che
uscivano in modo disordinato ai lati del viso. La ragazza l’osservò per un
istante, seguendone lentamente il profilo. Si mosse un po’, allungando la mano
verso la borsa e infilandovi una mano all’interno. Alzò un lembo dell’apertura,
scoprendo un foglio di carta antico e rovinato intrappolato tra le sue dita
sottili.
-Alchimia.
Sussurrò, assicurandosi che il fratello maggiore
non potesse sentirla. Lesta, estrasse la mano e posò la borsa sul sedile di
fronte a lei, tornando a guardare fuori dal finestrino.
-Central City.
Sibilò, tornando a puntare lo sguardo ai primi
palazzi smunti della capitale. Sorrise, alzando lo sguardo e assottigliando gli
occhi.
-È qui che troverò quello che sto cercando.
#@#@#@#@#@#@#@#@#@#
-Wow.
Sputò ironicamente Rosalie, con un marcato accenno
d acidità nella voce. Alzò gli occhi verso i palazzi dinnanzi a lei, contornati
da strade -grigie- che puzzavano di smog in una modo incredibile. Alcune auto
dai colori smunti le sfrecciarono davanti, con un borbottio roco. Tossicchiò un
paio di volte, comprendosi la bocca con una mano per non respirare il fumo
scuro che avevano liberato quegli aggeggi fin troppo rumorosi. Voltò lo sguardo
al cielo, grigio anche quello, constatando che, sebbene non fosse ancora del
tutto finita l’estate, del sole caldo a cui era abituata, non v’era l’ombra.
-Ma che meraviglia.
Sbuffò di nuovo, sventolando una mano davanti al
viso, come ad allontanare quel paesaggio austero dal suo sguardo. Daniel la
raggiunse, con stampato sul viso un sorrisetto che spaziava tra il nauseato e
il divertito, picchiettandole una mano sulla spalla.
-Central City.
Rise Daniel, con voce possente, posando le dita
agli angoli della sorella e tirando le labbra verso l’alto, forzandole un
sorriso. Rosalie ringhiò indispettita, allontanando le mai e fratello con un
gesto di stizza. Il biondo rise nuovamente.
-E dai, sorridi, Rose! Sei nella capitale, non è
questo che volevi?
-Ti conviene piantarla di fare l’idiota, Dan.
-Ma guardati in giro! Non vedi com’è bello?
-Ma piantala, non ti viene bene la parte del
sarcastico. Riesci a stento a trattenere le risate.
Daniel avanzò di qualche passo, prendendo per mano
Rosalie e trascinandola dall’altro lato della strada. A quel punto, lei si
liberò violentemente dalla presa, voltandosi dalla parte opposta e stringendo
forte la borsa a sé.
-Forza.
Disse lei, ad un tratto, cominciando a camminare
lungo il marciapiede dissestato. Il ragazzo la raggiunse velocemente,
affiancandola nel suo percorso.
-Dove pensi di andare?
-Non lo so. Sei tu il genio della situazione, non
io.
-E allora per quale assurdo motivo di sei
incamminata in questa direzione?
-Perché ne avevo voglia.
Daniel preferì non rispondere. Continuarono a
camminare seguendo la strada tra gli edifici fumosi, avvicinandosi sempre più a
quello che sembrava essere il centro della città. Rosalie saltò su un rialzo
del terreno, camminando in equilibrio sulla muretta biancastra. Daniel la
guardò storto, allontanandosi appena da le e scontrandosi con un uomo
sconosciuto, il quale indossava una divisa blu.
-Mi scusi!
Balbettò immediatamente il giovane Elric, aiutando
l’uomo a sistemarsi il cappello sulla corta chioma biondiccia, macchiata qua e
la da qualche accenno di capelli bianchi.
-Non c’è problema.
Ammise l’uomo, spolverando la spallina della
divisa, che si era sporcata con la cenere della sigaretta che teneva tra le
labbra. Daniel lo squadrò, notando le due stelline dorate cucite proprio sulla
spalla che l’uomo aveva toccato. Doveva essere un militare.
-Scusi comunque, ufficiale.
-Oh, davvero, davvero. Non è stato niente.
Il militare dette un tiro alla sigaretta,
osservando attentamente i tratti del viso del ragazzo, che nel frattempo aveva
liberato la testa dal cappuccio. L’uomo spalancò gli occhi, e la sigaretta
cadde a terra silenziosa, mentre le sue labbra si incurvarono in un’espressione
molto sorpresa.
-Non è possibile.
Mormorò l’ufficiale, ammirando l’oro degli occhi e
dei capelli del ragazzo, un oro che gli riportava alla mente milioni di
immagini e di ricordi.
-Acciaio!
Daniel sbatté un paio di volte le palpebre,
osservando l’espressione sbigottita di quell’uomo, che pareva riconoscerlonella figura di un altro. Acciaio. Che lo
stesse scambiando per una sua conoscenza?
-Che ci fai qui, ragazzo? Certo che non cresci
proprio mai eh! E poi hai tagliato i capelli, pensavo non t’avrei mai visto
senza l’amata treccia bionda!
Il militare rise, spettinando giocosamente i
capelli di Daniel, il quale era sempre più sgomento. Accortosi del silenzio e
soprattutto della confusione che animava il ragazzo, l’uomo si zittì,
accendendosi un’altra sigaretta.
-Andiamo, non mi dirai che non ti ricordi di me!
È vero, è passato un bel po’ di tempo, ma sono io, il tenente Havoc!
Daniel inclinò la testa di lato, raccattando
pensieri sconnessi. Era giunto alla conclusione che il tenente Havoc – aveva detto
di chiamarsi così? – doveva seriamente averlo scambiato per un’altra persona. Ma
chi? Chi mai poteva assomigliargli tanto da essere confuso per lui? cercò
Rosalie con lo sguardo, la quale li raggiunse con un paio di saltelli. Che avesse
sentito tutto?
-Acciaio? Acciaio! Che succede?
Chiese ancora il tenente, sventolandogli una mano
davanti al viso. Rosalie aggrottò la fronte, tirando la manica della divisa
dell’uomo, che voltò la testa verso di lei.
-Ho paura che lei abbia scambiato mio fratello
per qualcun altro, signor tenente.
La ragazza ricevette una gomitata sul fianco dal
fratello, il quale le lanciò successivamente uno sguardo duro, mimando con le
labbra qualcosa che avrebbe dovuto suonare come “signor tenente?!”. Rosalie alzò
le spalle, ignorando totalmente l’inquietudine del fratello e tornando a
concentrarsi sul viso dell’uomo.
-Tuo fratello? Ma Edward, tu ..
-Edward?!
Esclamarono all’unisono i ragazzi, strabuzzando gli
occhi, mentre Havoc fece un passo indietro, intimorito. Daniel s’illuminò. Perché
il tenente l’aveva scambiato per suo padre? E soprattutto, perché l’aveva
chiamato “Acciaio”? Aveva troppi dubbi irrisolti.
-Lei conosce nostro padre?
Continuò Rosalie, stringendo il bracco del
fratello. Havoc sussultò, finendo la sigaretta e gettandola a terra, per poi
pestarla distrattamente con lo stivale nero.
-Vostro padre? Aspettate, aspettate. Quel piccoletto
ha figli? Saranno vent’anni che non lo vedo! In effetti, sarebbe stato
impossibile ritrovarlo così giovane! Come vi chiamate, ragazzi?
-Siamo Rosalie e Daniel Elric, signore.
-Oh, per favore. Non sono più giovane come ai
tempi della guerra civile del ’14, ma non fatemi sentire così anziano! Sono il
tenente Jean Havoc, ma potete chiamarmi per nome, se preferite.
-Grazie, Jean!
Rispose subito Rosalie, scoccandogli un sorriso
smagliante. Daniel scosse la testa, arrendendosi al carattere fin troppo
estroverso e irrispettoso della sorellina. Jean però rispose al sorriso,
spostandosi il cappello.
-Che ci fate qui a Central City?
-Già, che ci facciamo qui a Central City?
Cantilenò il ragazzo allusivo, guardando Rosalie,
che gli mostrò la lingua.
-Nulla di che, tenente. Solamente, la ragazza qui
presente ha avuto un attacco di follia, alcune ore fa, e si è letteralmente
fiondata sul treno. Ed io, tentando di fermarla, come uno stupido, l’ho seguita
senza raggiungere il mio obiettivo. Così, ora, ci troviamo qui.
Rosalie borbottò qualcosa, scavando indifferente
nella borsa. Jean alzò un sopracciglio, sospirando. Doveva ammettere che quel
ragazzo era proprio identico a suo padre. Però, quel guizzo di sfida, di
disprezzo e determinazione che avevano lo sempre caratterizzato, l’aveva notato
riflesso negli occhi azzurri di Rosalie. Mise una mano sulla spalla ad
entrambi, osservandoli.
-Immagino che a casa nessuno sappia che siete
qui.
-Esattamente.
-Ah, era tipico di Edward non avvisare mai,
quando decideva di partire.
-Partire per dove? Chi avrebbe dovuto avvisare?
-La lunga storia dei fratelli Elric è molto
conosciuta nella regione, ma suppongo che l’abbiate sentita ripetere fino alla
nausea, non vi annoierò ulteriormente.
Rosalie prese una grande boccata d’aria,
spalancando gli occhi. Fece per schiudere nuovamente le labbra, quando un’occhiataccia
di Daniel la fece desistere dal chiedere ulteriori informazioni. “non
complicare le cose” sembrava averle sussurrato, mentre annuiva falsamente al
militare. La ragazza s’incupì, riflettendo a fondo e tentando di sopprimere
ogni quesito che nasceva nella sua mente affollata.
-Venite con me.
Disse ad un tratto Jean, facendo cenno di seguirlo.
I due si mossero, svoltando per una via appena più affollata.
-Dove siamo diretti, tenente?
-Al quartier generale, Daniel. Central City è un
posto pericoloso, specialmente per chi non la conosce. E qui, in periferia, il
problema è ancora più persistente. Dove andremo sarete al sicuro e potrete
tranquillamente telefonare a casa tramite la linea militare.
-D’accordo. Grazie mille, signore.
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Rosalie camminava per il corridoio deserto, con lo
sguardo puntato al pavimento lucido. Daniel, seduto comodamente su una
poltroncina, la seguiva con gli occhi, infastidito, scacciando una mosca
ronzante con la mano destra. Jean si avvicinò ad entrambi, dopo essere entrato
nell’ufficio di un suo superiore per comunicare il ritrovamento dei due ragazzi
-È tutto a posto, potete telefonare.
Rosalie voltò il capo verso Daniel, che scosse la
testa in segno di negazione. Si alzò dalla sua postazione e raggiunse la
sorellina, dandole un pizzicotto sul braccio sinistro. La ragazza tirò un urlo
esagerato per la situazione, poi si massaggiò il braccio con movimenti un po’
troppo violenti.
-Che ti prende, idiota?!
-Te lo meriti. E non pensare nemmeno che sia io a
telefonare a casa. Tu sei corsa sul
treno e tu affronterai papà.
-Ma...
-Niente “ma”, Rose. Muoviti. Comincia a
rinfrescare, lì fuori, e noi dobbiamo tornare in fretta in stazione.
Rosalie sbuffò, raccattando la cornetta. Compose il
numero con mano tremante, affiancata dal fratellone. Il telefono rimase muto
per alcuni istanti, finché, all’altro capo, non rispose una voce fin troppo
familiare.
-Pronto? Parla Edward Elric.
Il suo tono pareva lievemente più acuto del solito,
forse per la preoccupazione che vibrava tra le sue corde vocali. Rosalie
deglutì, pronta ad affrontare suo padre.
-Papà?
Balbettò Rosalie, con voce roca. Edward rimase
muto. Solo il suo respiro pesante giungeva all’orecchio della ragazza. Prese un
grande respiro, pronta – di nuovo – a parlare.
-Papà, sono io. Rosalie.
-Rosalie?! Cosa? Dove? Tu e tuo fratello, dove
siete?!
-Dan è qui con me, papà, e stiamo bene. Però ci
sarebbe un piccolo problema.
-Dimmi subito dove siete, dannazione!
-Ecco, appunto. È un po’ strano da dire però,
ecco, noi siamo a Central City.
Ed eccolo, di nuovo, quel temutissimo silenzio.
Rosalie sospirò, se l’aspettava. Era estremamente sicura del fatto che suo
padre sarebbe potuto spuntarle davanti da un momento all’altro, solamente per
fargliela pagare. Eppure, la cornetta continuava a rimanere muta.
-Papà?
Lo chiamò, tanto per assicurarsi che Edward non
fosse morto d’infarto. Niente, ancora non rispondeva. Premette di più il
telefono sull’orecchio, così da captare meglio i suoni, quando una bomba
scoppiò dall’altro capo del filo.
-A Central City?! Cosa diavolo ci fate a Central
City, razza di idioti?!
Rosalie fece un salto all’indietro, e il telefono
volò via dalle sue mani, per poi picchiare contro il muro e penzolare, retto
dal filo, verso il pavimento. Daniel la raggiunse, imprecando qualcosa di
sconnesso tra i denti, ed aiutandola ad alzarsi. Havoc, con uno scatto
atletico, raccolse la cornetta e la portò all’orecchio, cominciando a parlare
scherzosamente ad Edward per spiegargli la situazione.
Alcun minuti più tardi, il tenente chiuse la
conversazione con una strana espressione in volto. Era come se avesse un grosso
peso sullo stomaco e Rosalie se ne accorse.
-Ragazzi.
-Sì, tenente? Ci potrebbe riaccompagnare in
stazione? Immagino che nostro padre ci desideri a casa il prima possibile.
-Mi spiace deluderti, Daniel, ma temo che ciò non
si possibile. Non ci sarà un altro treno che potrà riportarvi a Resembool se
non tra tre giorni. Sarete costretti a fermarvi qui nella capitale, fino ad
allora.
Rosalie e Daniel si guardarono spaventati, non
sapendo che fare. Jean ridacchiò, prendendoli sotto braccio e attraversando
tutto il corridoio, per poi fermarsi davanti alla porta di un ufficio.
-Tranquilli, ho già provveduto io a trovare
qualcuno che vi potrà ospitare. E dato che siete i figli di Acc... Edward, vi
ho trovato una residenza a cinque stelle. Ora devo solamente trovare ... Oh,
eccolo!
Jean fece un paio di passi avanti, attirando l’attenzione
di una sagoma scura che stava varcando la soglia di una stanza non molto lontana
dalla loro posizione.
-Eccolo qui. Sarete ospiti della sua famiglia,
per questi giorni.
La sagoma s’avvicinò con una camminata annoiata e
dondolante. Era un ragazzo sui diciotto anni, con la pelle chiara, i capelli
color della notte. Sul mento, si poteva intravedere l’ombra di una barba scura,
in tono con i capelli. Indossava un paio di pantaloni neri e una maglietta
larga, color vermiglio acceso. Dalla tasca destra dei pantaloni pendeva una
catenella argentea, che andava a fissarsi sulle fasce della cintura. Nell’altra
tasca s’intravedevano appena dei guanti bianchi, stropicciati, cacciati in quello
spazio ristretto con poca grazia. Una sigaretta – ormai ridotta ad un mozzicone
– tra le dita, un enigmatico sorrisetto da teppista stampato sul volto.
-Lui è il figlio del comandante supremo Roy
Mustang.
Disse ancora Jean, mentre i due oceani turchi nidi Rosalie
entravano in contatto con le iridi cioccolato del ragazzo di fronte a lei. Fu come
se una saetta li avesse trafitti entrambi, in quel momento: l’espressione del
moro fu inequivocabile.
Rosalie indietreggiò di un passo, mentre il suo
cuore – e anche quello di suo fratello, era certa di sentirlo – cominciava a
battere all’impazzata, sempre più veloce. Si ritrovò incapace di calmarlo, di
tornare a respirare adeguatamente. Aprì la bocca, sentendo il sangue pulsarle
nelle vene, la gola chiusa in una stretta morsa. La voce scappò fuori roca,
come se fosse soffocata da una fune spinata, indistruttibile.
-Hiroki.
Così, è finito anche questo capitolo. Wow,
era davvero molto tempo che non aggiornavo Timeless Light, e averlo fatto mi ha
fatto ricominciare a sperare. Spero sia di vostro gradimento. Come sempre,
riferitemi ogni critica con un commento. Vi voglio bene J