Arcane profezie di Mel Winchester (/viewuser.php?uid=122622)
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Capitolo 1. ***
Capitolo 2: *** Capitolo 2. ***
Capitolo 3: *** Capitolo 3. Fine. ***
Capitolo 1 *** Capitolo 1. ***
Capitolo 1.
Guardai le lancette, del mio orologio da polso, che segnavano le 17
passate.
Ero in piedi alla fermata del tram da non so quanto tempo, stanca e
piuttosto infastidita da quello sguardo che sentivo su di me.
Ma che avrà
mai da guardare? – mi chiesi cercando di non
far vedere il mio disappunto mentre osservavo di sottecchi il ragazzo
appoggiato al lampione ormai illuminato.
Bene! si sta facendo
anche buio, io sono in ritardo e in più
c’è questa specie di psicopatico che mi osserva da
più di un’ora! – ero
proprio esasperata, ma tutte a me capitavano!?
Mi ritrovai a battere nervosamente un piede per terra quando il mio
sinistro compagno mi rivolse la parola… – se continui a picchiettare in
quel modo finirai per fare un buco sul marciapiede – disse
ironico con un mezzo sorriso.
Osservandolo meglio notai che era piuttosto affascinante, alto, con un
ciuffo castano scuro che gli scivolava da sotto il cappuccio della
felpa, sfiorandogli la fronte, occhi verdi, profondi ma con qualcosa di
cupo, come una velata tristezza, un’ombra di dolore.
Ancora ammutolita da quelle sue parole mi ritrovai a fissare il suo
sguardo che adesso non sembrava più amichevole ma piuttosto
inquietante.
Osservai lui, osservai il mio piede, che con un gesto automatico smise
di battere, e poi sentii la mia voce bisbigliare delle scuse.
Lui si costrinse a sorridere e tirò un po’
più giù il cappuccio cercando di ripararsi da
quella timida pioggerella che stava cominciando a bagnare
l’asfalto.
Rimasi così, a fissare il vuoto, cercando di non fare troppo
caso alla sua presenza, di cui però non sentivo
più lo sguardo addosso.
Dopo poco, un leggero trillo annunciò l’arrivo del
tram.
Saint Mary –
comunicò la voce elettronica della vettura.
Mi apprestai a scendere, mi sentivo sollevata, stavo per raggiungere il
mio appartamento.
Appena fuori dal tram, una ventata di aria gelida mi
investì, facendomi rabbrividire e stringere nel mio piumino
bianco.
Mi avvolsi intorno la spessa sciarpa e mi incamminai verso casa.
Ma un rumore mi fece trasalire.
C’era qualcuno
alle mie spalle?
No, ero solo io quella sera a essere particolarmente ansiosa...
Così, imponendo me stessa di non guardare indietro,
continuai a camminare…
Ma stavolta con un passo leggermente più frettoloso.
E poi di nuovo quel rumore.
Sembravano passi…
Mi voltai lentamente appena in tempo per intravedere un’ombra
nascondersi in una stradina secondaria posta a lato del marciapiede.
Così, inconsciamente, mi girai e cominciai a correre...
Correre come mai avevo fatto in vita mia.
Pochi minuti dopo ero davanti al portone di casa.
Con mani tremanti infilai la chiave nella serratura, e entrai nel mio
appartamento.
Sono una stupida –
dissi appoggiando la fronte contro il freddo legno della porta.
Quella sera mi infilai sotto le coperte con uno strano presentimento.
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Capitolo 2 *** Capitolo 2. ***
Capitolo 2.
Anya smettila di dire
sciocchezze, è solo la tua ansia che parla
– disse tranquillamente mia nonna, sorseggiando il suo
thè, dopo aver ascoltato con attenzione il mio racconto
della sera prima.
Cercava di rassicurarmi, è ovvio, però io non ero
convinta che il tutto era dovuto al semplice stress o a quella
maledetta ansia che mi caratterizzava fin da piccola.
Ok, Adrienne,
cercherò di non pensarci – dissi
stizzita, tenendo tra le mani la mia tazza fumante, un po’
per riscaldarmi, un po’ perché non avevo tanta
voglia di thè e biscotti quel pomeriggio.
L’avevo chiamata col suo nome di battesimo, e questo avveniva
solo per due motivi: o perché ero triste, o
perché non ero d’accordo con ciò che
affermava la mia amata nonna materna.
Adrienne mi osservò, con i suoi occhi color ghiaccio, da
dietro gli occhiali dalle spesse lenti, che portava.
Era una donna minuta, dai lunghi capelli grigio piombo raccolti in un
morbido chignon e dalle mani rugose e ben curate, sembrava fragile, ma
non lo era affatto.
Il terribile conflitto avvenuto nel 1961 tra le due fazioni nemiche di
Salem, aveva portato via mio nonno, e lei, ancora così
giovane, aveva cresciuto tutta da sola mia madre di appena un anno.
Era una donna forte, e ancora estremamente bella nonostante
l’età.
E adesso badava anche a me, non che avessi bisogno di una balia a
vent’anni, però era un conforto abitare
nell’appartamento accanto a quello della mia adorata nonna,
ed evitare due ore di treno al giorno.
Si perché, ormai da un anno, lavoravo nella libreria di
South Salem, però la mia casa natale era a 200 chilometri di
distanza,a North Salem!
Perciò avevo lasciato i boschi e le montagne
dov’ero cresciuta, trasferendomi tra spiagge e baie dove era
nata mia madre.
Tesoro
– disse piano, levandosi gli occhiali – non puoi essere sicura di
ciò che hai visto. Potrebbe essere stata la stanchezza che
ti ha giocato un brutto scherzo o semplicemente l’ombra di un
passante che ritornava a casa come stavi facendo tu.
Mi guardava con estrema dolcezza e aspettava pazientemente la mia
risposta, che però non arrivava.
Non sapevo cosa dire, le parole di mia nonna erano ragionevoli, e
poteva essere stata davvero solo la mia immaginazione.
Perciò era inutile continuare ad insistere su un argomento
che non aveva senso.
Si hai ragione, nonna –
bisbigliai, posando la tazza ancora piena sul tavolino che stava ai
miei piedi – adesso
è meglio che vada se non voglio fare tardi a lavoro –
detto questo, diedi un buffetto sulla guancia di Adrienne e
uscì nell’aria gelida di quel pomeriggio
invernale.
Dopo aver preso la mia auto dal meccanico, sollevata dal fatto di non
dover prendere più il tram la sera tardi, parcheggiai sotto
l’insegna che riportava scritto “Books&Books”.
Ero arrivata a lavoro.
Salve Tim –
dissi sorridendo al mio capo, un uomo alto, di
mezz’età, con i baffi e l’aria buffa.
Anya, eccoti!-
esclamò tutto eccitato, ricambiando il sorriso – è arrivato questo per
te – disse infine tendendo un pacco nella mia
direzione.
Era uno scatolo di cartone di medie dimensioni, quelli usati
tipicamente dalle poste cittadine.
Sul lato superiore un’elegante scrittura informava che era
indirizzato a me.
Solo Anastasia Moore.
Niente di più.
Non
c’è il mittente, chi l’ha portato?
– chiesi, osservando confusa Tim, che mi sorrideva affabile.
Non lo so cara, ho
sentito bussare alla porta sul retro e quando ho aperto, sul tappetino,
c’ho trovato questo – rispose
lui- Ma che
fai, non lo apri? – mi chiese infine.
La curiosità stava prendendo il sopravvento anche su di me,
così accantonai la mia confusione e alla fine mi decisi ad
aprire lo scatolone.
Mi ritrovai davanti agli occhi tanto, tantissimo cotone e dopo aver
affondato le mani all’interno, alla ricerca di qualcosa,
sentii sotto la pelle una superficie fredda e liscia, sembrava avere la
consistenza del marmo.
Con trepidazione tirai fuori ciò che il cotone nascondeva, e
mi ritrovai tra le mani un enorme libro dalla copertina viola scuro.
Accarezzai leggermente la superficie gelida, pareva fatta di pietra.
Ma mi resi presto conto che non era semplice roccia, quel colore mi
ricordava la gemma preziosa incastonata nel medaglione regalatomi da
mia nonna il giorno del mio diciottesimo compleanno.
Si, la copertina era
fatta di ametista!
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Capitolo 3 *** Capitolo 3. Fine. ***
Capitolo 3.
Ametista, ametista di quelle più scure.
Con mani tremanti aprii delicatamente il pesante volume e cominciai a
sfogliare le pagine che sembravano ingiallite dal tempo.
C’erano numerose scritte, specie di sonetti che non riuscivo
a capire.
Erano scritti in una lingua piuttosto antica, sembrava celtico.
Dopo aver scorso numerose pagine incomprensibili, una scritta
richiamò la mia attenzione.
Era una delle pagine più rovinate dal tempo, dove
lateralmente c’era disegnata una rosa viola, quel viola
intenso della copertina e del mio medaglione.
Accanto al disegno un elegante calligrafia riportava scritto il mio
nome, e poi una specie di avvertimento: “Anastasia,
è tutto buio intorno a te. Trova la luce.
Trovala!”.
Spaventata da quelle parole mi apprestai a chiudere il libro, quando un
incessante e fastidioso suono mi entrò in testa…
“Bip, bip, bip”
la sveglia posta sul comodino continuava a suonare ininterrottamente.
Diedi una manata spazientita sull’apparecchio elettronico, e
calò di nuovo il silenzio.
Possibile che era stato
solo uno strano incubo?
L’unica cosa che ricordavo era che, dopo quello spavento
preso alla fermata del tram, ero arrivata col cuore in gola a casa e
dopo una lunga doccia calda, mi ero gettata stancamente sul letto.
E adesso eccomi qui, tra le lenzuola stropicciate e con la sveglia che
segnava le sette del mattino.
Perciò la discussione con la nonna, quel pomeriggio al
lavoro e il grande libro misterioso erano tutto un sogno?
Forse si.
Ancora dubbiosa, ma anche un po’ sollevata mi tirai su, a
sedere sul letto, scostai le lenzuola e misi un piede per terra.
In quel momento una fitta di dolore mi percorse.
Avevo messo il piede su qualcosa di appuntito.
Guardai il pavimento, una goccia di sangue, il mio, aveva bagnato la
spina di una rosa.
Una rosa viola scuro...
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