L'Eternità Di Un Attimo.

di Rossy_89
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** La linea sottile. ***
Capitolo 2: *** Fuori controllo. ***
Capitolo 3: *** Insieme. ***



Capitolo 1
*** La linea sottile. ***


 
 
 
 
 
Il primo rumore che sentii fu lo sgocciolio della soluzione fisiologica che dalla flebo lentamente penetrava nel mio braccio attraverso l’ago.
Il cloruro di sodio ardeva lungo le mie vene.
Un odore forte, simile a quello dell’alcol,mi avvolse; tossii, tramortita.
Poi un forte pizzicore, diffuso su tutto il corpo.
Una sensazione di torpore mi affliggeva i piedi, le caviglie, e arrivava su, su, fino alle ginocchia.
Provai a sollevarmi. Anche se avvertivo la testa appoggiata sul cuscino, mi sentii cadere nel vuoto. Niente sosteneva il mio corpo. Nessun muscolo sembrava rispondere ai miei comandi.
Spaventata, sussultai e sbarrai gli occhi. Un respiro mi si bloccò in gola. 
Gomitoli di colore intrisi di ragnatele opache dall’oscurità si dipanavano lungo il mio campo visivo. 
Come ovattata in una nuvola di cotone, piano piano iniziai a mettere a fuoco l’ambiente che mi circondava.
Dovunque spostassi il mio sguardo vedevo solo un candore accecante.
Tende bianche, lenzuola bianche, muri bianchi.
Un barlume  lattiginoso mi frangeva gli occhi entrando  attraverso una finestra dagli stipiti anch’essi immacolati.
 
Riuscii a malapena a distinguere il profilo di una sedia, un attaccapanni accanto una porta; su di essa, un cartellino con il numero 189.
Avvertii un fruscio in lontananza, poi la penombra. Un limbo grigiastro cedette il posto al bagliore sfavillante: probabilmente qualcuno aveva tirato le tendine.
 
Mi rigirai spasmodicamente nel letto,  inconsapevole di dove mi trovassi.
“Marzio…”
Mi sforzai di urlarlo quel nome, ma dalla bocca fuoriuscì solo un flebile sussurro, un soffio di vento.
Una mano amica mi accarezzò il viso, sussurrandomi: “Dormi, Bunny, dormi. Non avere paura, ci sono io con te.”
Carpii una scia di profumo a me conosciuto sfiorarmi la guancia.
Poi il dolce, lieve schiocco di un bacio.
È stata una lunga nottata, devi ancora smaltire l’anestesia.. Dormi, tesoro..”
Con una sensazione di capogiro sempre più opprimente alla testa, emisi un debole lamento. Poi, quasi contro la mia volontà, mi lasciai avvolgere dalla voluttà del Buio.
 
 
 
 
Sei mesi prima, Luglio 2009
 
“Papà.. prendi tu i bagagli per favore? Sono troppo pesanti e io sono troppo stanca. Dio, non vedo l’ora di entrare nell’idromassaggio e starci minimo per tre ore..”
“Non ti preoccupare, B, ci penso io alle valigie.”
Con uno sforzo notevole mio padre sollevò i due trolley rosa confetto ancora incellofanati, e li depose sul marciapiede.
Sbuffando, scesi dal taxi che dall’aeroporto mi aveva portato a casa.
 
Appena scesi dalla macchina, la calura estiva mi aggredì, insorgendo violentemente dall’asfalto. Mi spostai con una mano una ciocca di capelli che con il sudore mi si era incollata alla fronte e mi avviai verso casa.
 
Mi chiamo Bunny, ho 21 anni, e vivo a Miami, a due passi dall’oceano. Quel giorno ero appena tornata da due settimane da sogno a Los Angeles, la favolosa Città Degli Angeli, con le mie migliori amiche, Amy, Rea, Marta e Morea.
Neanche scese dall’aereo che già ricordavamo quella volta in quella città lontana, con in mano il telo da mare,  una cartina e la borsa di paglia, con un piede fuori dal finestrino della macchina, con lo smalto tutto rovinato, con i capelli intrisi di salsedine lasciati asciugare al vento, con un le fragole  sulle gambe e l’i-pod che riproduceva sempre la stessa canzone. 
Ricordavamo non solo i luoghi, ma anche le risate, i suoni, i profumi, i sapori dei tragitti percorsi sulle strade scoscese della California in una vecchia macchina da safari; ad ogni curva sballottavamo dappertutto,  ridendo a più non posso. Perché, diceva qualcuno, l’importante non è la meta, ma il viaggio.
 
Ma ora la vista di casa mia mi ricordò che era tutto finito.
Ero ritornata alla triste realtà.
Prima che  il portellone del Boing si chiudesse, avevo gettato un ultimo sguardo sull’immensa vallata di LA, che costeggiava dolcemente l’oceano disegnandone il contorno. Volevo imprimere al massimo quell’immagine nella mia mente, come su una pellicola fotografica.
Ma ora mi sembrava tutto così lontano..
Come se fosse successo in un’altra dimensione, in un altro mondo.
In un’altra vita.
 
Pigramente mi trascinai verso il vialetto alberato. Una leggera brezza scuoteva impercettibilmente le palme e gli arbusti disposti ai lati. Nella salita, cercai refrigerio nell’ombra delle piante. 
Un’ondata di afa aveva ottenebrato la East Coast in quelle settimane, facendo salire la colonnina di mercurio a livelli inauditi.
 
Raccomandandomi di sistemare la valigia e di non lasciare tutto sottosopra come al mio solito, mio padre trasportò i bagagli fino all’ingresso e  mi salutò con un bacio sulla guancia, diretto al lavoro.
Quel giorno lo aspettava il turno di notte.
Salii le scale a due a due, impaziente di arrivare in camera.
Non appena i miei occhi si posarono sui bagagli straripanti di indumenti, mi caddero le braccia.
Non ne avevo affatto voglia, così chiusi la porta e mi buttai a pesce sul letto.
Mia madre non era ancora tornata, e mio fratello Sam era agli allenamenti della squadra di calcio della scuola.
“Meglio così”, pensai. Non avevo voglia di parlare.
 
Un leggero velo di apatia si era impadronito di me. 
Ancora quel pensiero che mi violentava la mente, senza pietà.
Afferrai di getto la macchina fotografica digitale (anch’essa rigorosamente rosa, pendant con le valigie), e iniziai a scorrere una per una tutte le foto che avevo scattato i giorni prima, nel tentativo di arginare quella sensazione di insofferenza.
Magari sarei riuscita a non pensare a lui. A quello che mi aveva rivelato.
Invano.
 
Mi alzai di scatto sgualcendo la leggera coperta a cuori rosa e rossi che ricopriva il letto e mi diressi verso la finestra, appoggiandomi al muro. Appena tornata, già sentivo il bisogno di uscire, magari di fare un bagno al mare.
Composi il numero della mia amica Amy.
“Bunny?”
Riuscii a percepire la sua sorpresa dal tono di voce  con il quale mi aveva risposto.
Amy era la mia migliore amica, e solo avere la consapevolezza di averla accanto, di saperla sempre disponibile ad ascoltarmi e a parlare, riusciva sempre a risollevarmi. Era una ragazza straordinariamente responsabile, e mi infondeva un profondo senso di sicurezza.
Sorrisi, un po’ nervosa.
 “Ciao Amy! Lo so che è strano e che ci siamo viste mezz’ora fa, ma c’è una cosa di cui vorrei parlarti. Non l’ho detto nemmeno alle altre perché mi ero imposta di non pensarci durante la vacanza. ”
Silenzio.
“Riguarda la persona che penso?”
“Ecco.. Più o meno.. Sì, Amy. E’ inutile nasconderlo.”
“Bunny!!!”
“Lo so, lo so, Amy! Sono una stupida. Ma ti prego, questa volta non è un mio solito viaggio mentale da ex adolescente repressa. Ma posso  parlartene a voce? ”
“Va bene, Bunny cara. Ho appena finito di disfare il bagaglio, e stare sola a casa mi intristisce. Ci vediamo alla Crystal Beach fra mezz’ora, ok?”
 La Crystal Beach era un’area balneare dedicata alle attività sportive, con campi da beach volley, tennis e attrezzature per il surf e le immersioni, a un quarto d’ora circa da casa mia.
“Perfetto! Grazie Amy. E’ che è una cosa che mi porto dentro da un po’.”
“Immaginavo.”
“Immaginavi?”
“Sì. E anche le altre. Non eri la stessa a  L.A. Non sei più la stessa da quando siamo partite. ”
Sorrisi di nuovo.
“Voi mi conoscete troppo bene.”
“Esatto. Dai, adesso ne parliamo. A dopo! E mi raccomando… Puntuale, Bunny!”
 
Finalmente stavo per condividere con qualcuno il greve peso che portavo dentro di me da circa due settimane.
Come uno spettro si reca a fare visita a colui che l’aveva perseguitato in vita, di notte quell’ombra veniva a trovarmi. E la paura mi assaliva di getto.
 
Rincuorata da quella telefonata, infilai di corsa il bikini, un copricostume hawaiano e i miei immancabili infradito.
Andai in camera di Sam e di nascosto presi un cappellino da baseball dei Lakers, la sua squadra preferita.
Se solo l’avesse saputo mi avrebbe uccisa, ne ero sicura.
 
Sulla porta di casa incrociai mia madre, con in mano due borse della spesa, le chiavi della macchina e una cartellina straripante di documenti e fogli svolazzanti dell’ufficio legale in cui lavorava.
Alla mia vista spalancò gli occhi, sorpresa.
“Bunny! Sei tornata? E vai già via? Amore, non sei stanca?”
Celai la preoccupazione sul mio volto cercando di sembrare molto occupata.
“Non preoccuparti mamma… Non sono stanca, è solo che ho voglia di farmi una partita a beach. Mi vedo alla spiaggia con Amy e le altre.”
Avevo già un piede fuori di casa.
“Ma com’è andato il viaggio tesoro? Non mi dici nulla?”
“Bene, mamma, bene..”
“E cos’avete fatto tutto ieri? Ti sei dimenticata persino di telefonare, io e tuo padre eravamo così in pensiero..”
“Niente mamma.. Non abbiamo fatto niente di particolare.. Le valigie, l’ultimo giro sul Rodeo Drive e cose così. Ah, ho preso un sacco di vestiti carini, sono in valigia.. Ah, e dato che ci sei, potresti disfarmela tu? Così dopo potrai dirmi se ti piacciono!”
Sfoderai un sorriso angelico.
 
Mia madre sospirò.
“Ciao, io esco! Tornerò per cena, non preoccuparti!”
 Borbottando, mia madre appoggiò la borsa sul tavolo.
“E va bene.. Va bene.. Sei la più grande rigiratrice di frittate che conosca.. Tutta suo padre..”
Continuando a rimuginare si diresse verso le scale.
“Sì, mamma…” bofonchiai, frugando nel borsone di tela per controllare di avere preso il pallone.
Non avevo sentito quello che mi aveva appena detto, ma in ogni caso “Sì, mamma” era una risposta universalmente corretta per qualsiasi quesito.
 
 
Una volta arrivata alla Crystal Beach, stesi il mio asciugamano in attesa di Amy.
Inforcai gli occhiali da sole, e dopo essermi applicata un’abbondante dose di olio abbronzante, mi misi a leggere il mio libro preferito. “I Passi Dell’Amore”, di Nicholas Sparks.
 
Era proprio una bella giornata, ed io mi stavo proprio rilassando. La calura soffocante del primo pomeriggio aveva lasciato spazio ad una brezza rinfrescante. 
Il cielo era tersissimo, con solo qualche sprazzo di foschia all’orizznte. La superficie cristallina del mare veniva appena increspata da qualche  flutto spumoso in qua e in là.
Un po’ più lontano, un gruppo di ragazzi sulla battigia stava indossando le mute subacquee, pronti per l’immersione nell’Oceano.
Spaparanzata a pancia in giù, sentivo il sole irradiarmi le guance, che mi induceva a lasciarmi andare nelle braccia di Morfeo.
Inspirai profondamente la brezza salmastra, assaporando la sensazione di sollievo dal calore della sabbia, che bruciava alla pari di tizzoni ardenti.
Abbassai le palpebre, che stavano diventando pesanti come mattoni.
 
“Chissà dov’è Moran..” pensai.
Sapevo che non avrei dovuto pensarci, ma più me lo imponevo, più ottenevo l’effetto contrario. Ritornava nella mia mente  come un boomerang.
Forse avrei dovuto farmi sentire in quelle due settimane in cui ero stata via. Forse sarei dovuta passare a salutarlo, prima di andare alla spiaggia.
Con gli occhi chiusi, un vortice di pensieri sconnessi mi inondò la mente.
Visualizzai Moran che mi salutava all’aeroporto prima che io partissi per L.A.
Ogni dettaglio di quella giornata era scolpito nella mia memoria. Ricordavo tutto anche della discussione che avevamo avuto mentre aspettavamo insieme le mie amiche all’imbarco .
 
Mi aveva accompagnato con la sorella, Ursula, che era rimasta in disparte per permetterci un momento di privacy.
Già, Ursula.. Sì, stimavo molto anche lei. Lei non sapeva.
Simile a Moran nell’aspetto e nei modi, era una bellezza acqua e sapone, colta e rispettosa: mi sarebbe piaciuto avere l’occasione di conoscerla meglio.
“Non posso non dirlo a nessuno” pensai. “Non ce la faccio. Per il bene di Moran, qualcuno deve saperlo. Non voglio che corra un minimo rischio. Se necessario, lo dirò anche a  papà.. D’altronde, è quello di cui si occupa ogni giorno. Lui saprà trovare una soluzione.”
 
Quel leggero senso di inquietudine provato mezz’ora prima si riaffacciò violentemente a me.
“Amy è una persona affidabile. Lo dirò a lei e basta, le altre le terrò fuori. Non oso pensare cosa succederebbe se..”
 
“Bunny! Sei tornata! Come stai?!”
 
Un paio di mani gelide mi afferrarono la vita.
Lanciai un urlo, spaventata a morte.
“Moran! Mi hai fatto prendere un colpo!”
Ero scattata in piedi come una molla, con il cuore che palpitava all’impazzata.
“Tu non desideri che io arrivi ai 22 anni, vero?”
Quel simpaticone aveva le lacrime agli occhi dalle risate.
Togliendosi per metà la muta subacquea,  si mise seduto a fianco a me, grondante d’acqua.
 
Moran era il mio migliore amico. Ma anche il ragazzo di cui ero perdutamente innamorata da quasi due anni.
Alto e slanciato, con una cascata di capelli dorati che incorniciava due occhioni nocciola da cerbiatto e un viso dai lineamenti dolci e delicati, era tutto quello che potessi desiderare.
 
Feci la sua conoscenza al college. Io ero al primo anno del corso di Biologia, lui al terzo di Fisica Astronomica.
Quel giorno ero in corridoio in attesa che Mrs. Smith facesse il mio nome per il colloquio orale di Genetica, il mio primo esame, ed ero in una vera e propria crisi d’ansia.
Camminavo avanti e indietro come un condannato al patibolo, con il respiro affannoso e la salivazione azzerata. La trepidazione mi attanagliava il petto.
Più il mio turno si avvicinava, più ero consapevole di non ricordarmi una sola parola di quello che avevo studiato. Sfogliando il libro, nessun concetto mi risultava familiare.
Il Nulla.
Il Vuoto.
Poi il panico allo stato puro.
Non riuscendo a frenare i miei sentimenti, da brava ragazza piagnucolona sull’orlo di una crisi di nervi scoppiai in un pianto dirotto, davanti a tutti.
 
E a quel punto Moran si fermò davanti a me.
Stava passando per caso in corridoio con un paio di amici in attesa che iniziasse la sua lezione, e aveva assistito a tutta la scenata.
Io lo guardavo imbambolata, con il trucco sbavato e gli occhi gonfi di lacrime, singhiozzando a più non posso, mentre si sedeva di fianco a me. Ponendomi un fazzolettino, iniziò ad elencarmi una serie di situazioni estremamente imbarazzanti nelle quali anche Mrs. Smith, in quanto umana, avrebbe dovuto trovarsi nella vita di tutti giorni, strappandomi prima un sorrisi, poi una risata liberatoria.
Un principe azzurro sbucato fuori dalle pagine di Christian Andersen, per asciugarmi le lacrime e farmi coraggio, sdrammatizzando la situazione.
 
Gliene fui eternamente grata.
Da quel giorno nacque una bella amicizia che però, non potevo negarlo, speravo si trasformasse in qualcosa di più.
 
Tornando alla fantastica sorpresa che  mi aveva fatto quel giorno in spiaggia, tentai di essere il più spontanea possibile e di celare l’emozione dovuta a quell’incontro inaspettato.
Nascosi il libro sotto l’asciugamano. Sapevo che Sparks non rientrava nei gusti letterari di Moran, e socchiusi gli occhi maledicendo il fatto di essere uscita di casa senza neppure essermi pettinata.
 
Moran ridacchiò.
“Ho appena finito il corso di sub, quando ti ho visto qui, beatamente sdraiata con il sedere all’aria.. La tentazione è stata troppo forte!
Allora, cosa mi racconti di Los Angeles? ” , disse, passandomi un braccio sulle spalle, e con un bellissimo sorriso stampato sulle labbra.
Arrossii.
Non avrei mai fatto l’abitudine a tutti quei piccoli gesti di complicità che il mio migliore amico mi dedicava abitualmente.
 
“Bene, grazie.”
“Beh? Tutto qui? Nient’altro? Eri così felice di visitare la California..”
 
Non sapevo cosa dire. Mi aveva preso alla sprovvista.
 
“Non ti sei fatta sentire quand’eri via..”
“Lo so.. mi dispiace, Moran.”
Moran si fece scuro in volto.
“Sei arrabbiata con me, vero?”
“No, no. Moran, ascoltami. Io ci ho pensato molto a L.A., a quello che mi hai detto prima che partissi. Secondo me non stai facendo la cosa giusta, dovresti dirlo a qualcuno.”
“Non se ne parla.” . Sbottò. “Pensavo di essere stato chiaro.”
Poi l’amarezza si dipinse sul suo volto.
“Credevo che tu fossi la mia migliore amica.”
“Lo sono, infatti! Moran…”
“Pensavo avessi capito la mia situazione, che non mi avessi giudicato. Pensavo che con te avessi potuto parlare apertamente.”
“Moran, di me ti puoi fidare, lo sai. E’ solo che io non voglio che tu parta.. Moran, io..”
Mi feci coraggio. Forse, se gli avessi rivelato i miei sentimenti, avrebbe capito il perché delle mie parole.
Ma non me ne diede il tempo.
“No, Bunny, lascia stare. Se hai il coraggio di dire questo,  allora non hai capito niente. Di me, della circostanza in cui mi trovo. Evidentemente sei arrabbiata perché non farò quello che vuoi tu, per una volta.”
Si mise gli occhiali da sole.
“Questa può  essere una delle ultime volte in cui possiamo vederci. E invece di starmi vicino, inizi a sputare sentenze su come dovrei comportarmi. Io non ho più niente da dirti, la tua reazione è stata più che eloquente. Ci vediamo.”
Moran si alzò e fece per andarsene.
“Moran, aspetta! Non è come pensi, non sono arrabbiata e non ti sto affatto giudicando.. Credimi..”
Si voltò e mi guardò.
“E allora com’è? Com’è che non riusciamo più ad avere un dialogo? Com’è che non riesci più a guardarmi negli occhi quando ti parlo? Com’è?”
Mi sentii profondamente in colpa. Abbassai la testa.
Non gli avrei detto niente di quello che provavo per lui.
Gli avrei provocato solo altro dolore.
 
“Lo vedi?”
Altra pugnalata al cuore.
 
A quel punto, la figura di Amy fece capolino dall’entrata della spiaggia. Moran si affrettò a levare le tende, rendendosi conto che la situazione sarebbe diventata ingestibile di lì a poco.
 
“Ciao, Bunny.”
Mi salutò, freddo come un pezzo di ghiaccio.
Quel giorno, il mio Principe Azzurro si era trasformato nel lupo cattivo.
Ma non potevo attribuirgli una colpa per questo.
Esiste una linea sottile fra Amicizia e Amore.  E io l’avevo superata.

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Capitolo 2
*** Fuori controllo. ***


CAPITOLO  2
 
 
FUORI CONTROLLO.
 
 
 
“Una brava confidente dà sempre buoni consigli, suggerimenti imparziali non influenzati da un benché minimo presupposto di benevolenza.
Lei sveste i propri panni per indossare quelli dell’amico, calandosi nella questione in prima persona per valutare ciò che è meglio per il suo alleato.”
                                                                                                (Jane Austen)
 
 
Già nel 1800, la mia cara Jane aveva descritto perfettamente quello che da sempre rappresentavo per Moran.
Questo ero sempre stata, questo avevo sempre fatto con lui.
Anche a costo di fuggire l’idea di considerarlo “mio” solo per un attimo, perché QUELL’ attimo, per me, sarebbe durato un’eternità.
Quell’attimo l’avrei custodito delicatamente nello scrigno dei ricordi più dolci. Laggiù, dove il Tempo arresta la sua corsa. Laggiù, dove fa più caldo.
 
L’avevo sempre fatto anche a costo di calpestare la mia anima.
La percuotevo, la strattonavo, la laceravo, per poi scaraventarla giù, nelle segrete nascoste della Memoria.
Per non sentire più quel monito silenzioso che rimbombava nel petto.
 
“Diglielo.. ”
 
“Parlagli, prima che sia troppo tardi..”
 
Ma io ero sorda al suo richiamo.
 
Perché?
Perché non si accorgeva di quello che provavo per lui?
Possibile che fosse così cieco?
Ma forse, quella dallo sguardo bendato ero io.
Era così evidente. Io non rischiavo affatto di perderlo, ora che stava per partire.
Io non l’avevo mai avuto.
 
Questo stavo pensando, quando lui mi lasciò sola, in ginocchio sull’asciugamano.
Lui aveva già fatto la sua scelta. Aveva preferito lei.
 
Al solo pensiero un moto di rabbia mi pervase.
Scagliai di getto il libro nella sabbia, stizzita.
 
Amy arrivò tutta trafelata, con un grande cappello di paglia svolazzante.
“Sbaglio, o quello seduto vicino a te era Moran?”
“Non sbagli.”
La voce mi si incrinò.
“Abbiamo appena avuto un mezzo litigio.”
Un lampo di tristezza percorse lo sguardo della mia amica.
“Vieni qui, Bunny.”
Mi abbracciò.
La mia dolce Amy.
“Proprio non riesci a levartelo dalla testa, vero?”
Scossi la testa. Se avessi detto una sola parola non sarei riuscita a trattenere le lacrime.
Cercai comunque di abbozzare un sorriso, inspirando a fondo.
“Gliel’hai detto?”
“No. Non ci sono riuscita. Ma forse è meglio così.”
Amy incrociò le gambe, con un’espressione dubbiosa in volto.
“E’ successo qualcos’altro di cui io non sono al corrente?”
“Purtroppo sì. E’ proprio di questo che volevo parlarti.”
Un cumulonembo color cenere offuscò il sole, spinto da una pungente
aurea boreale.
Rabbrividii. Si stava facendo freddo.
 
“Il giorno che siamo partite, Moran si è offerto di accompagnarmi all’aeroporto con Ursula. Mi ha aiutato con i bagagli e poi vi abbiamo aspettato all’entrata dell’imbarco.”
Uno sbuffo di vento di vento scompigliò la chioma sbarazzina della mia amica.
Abbassai la voce.
“Sai, mi sento così in colpa ora. Avevo promesso a Moran che non l’avrei rivelato a nessuno.. Lui ha paura.. Ma io non ce la faccio.. ”
Amy mi prese la mano.
“Ti prometto che quello che mi dirai rimarrà fra noi due.”
Disse la verità.
Lo percepii dalla serietà dai suoi occhi.
Dal modo in cui teneva le braccia conserte, dal calore del suo abbraccio.
Le stava molto a cuore il mio migliore amico.
D’altronde, a Amy stava a cuore ogni essere umano.
Dotata di una infinita pazienza e magnanimità, determinata nel raggiungimento dei suoi obiettivi, anteponeva il prossimo persino a se stessa.
E io la ammiravo per questo.
Sarebbe diventata la Dottoressa più brava del mondo.
 
 
Così, per l’ennesima volta in quelle due settimane, rievocai alla mente quel giorno.  Focalizzai l’eco assordante delle altoparlanti, il monotono saliscendi delle scale mobili, la sagoma del Boing 787 che mi aspettava oltre la vetrata, lucente nel sole mattutino; la calca ai duty-free, il sollievo dell’aria condizionata sulle guance.  
Il profilo di Moran,
 
“Bunny, prima che tu parta, è necessario che tu sappia una cosa.
So che non è il momento non è dei migliori, ma in questo modo avrai tempo per pensarci su quando sarai a L.A., e al tuo ritorno tutto sarà più facile.
 
Noi due non possiamo più vederci come abbiamo fatto finora.”
 
Rimasi così sbalordita che non riuscii a pronunciare mezza parola.
Con aria afflitta, il mio amico spostò lo sguardo nel vuoto.
Non riusciva a sorreggere il mio.
 
“Ti prego, non guardarmi così. Lo faccio per la tua sicurezza. Se dovesse succederti qualcosa non mi perdonerei per il resto della vita.. Ti voglio bene, e lo sai.”
Ad un tratto un fiume di parole sfociò dalla mia bocca.
“E’ per lei, vero? Non vuole che io ti veda. Ma sai anche tu che questo non è giusto. Non potrà tenerti in gabbia in eterno. Non puoi rinunciare alla tua vita! E’ un tuo diritto!  Moran, per favore, non..”
“No, Bunny. Milena  non c’entra. Non in questo modo. Non è stata lei ad impormi questa decisione.”
Una lacrima mi morì sulle labbra. Potevo avvertire il suo gusto salato.
 
“Milena è in guai seri. E ora anche io.”
Da quattro mesi a questa parte fa uso di droghe.
E’ riuscita a tenermi all’oscuro di tutto fino alla scorsa settimana, quando mi è successa una cosa molto brutta.
Sgranai gli occhi, mentre il mio migliore amico mi descriveva l’esperienza più terrificante della sua vita.
 
 
Quella sera Moran si sentiva stranamente inquieto, mentre sulla sua BMW saettava nel buio da Key West a Miami.
L’ oscura presenza dell’Oceano si estendeva impetuosa sotto la Overseas HighWay, e per un istante sembrò sopraffarlo.
Il sublime Gigante Blu ruggì in un’effervescenza di spuma; esso giaceva supino in tutta la sua maestosità, togliendogli il fiato.
Infinito, titanico, terribile.
Nessuno poteva sfuggire alle sue leggi. Un attimo, e avrebbe potuto ingoiarlo negli abissi.
Con un tuffo al cuore, Moran premette sull’ acceleratore.
Nell’attraversare quei 202 chilometri sospesi in aria, in rettilineo, senza nessun limite o costrizione, la macchina rintuonò di euforia ai suoi comandi. 
L’urlo nero del motore si fece più forte, il vento gli sferzò violentemente il volto.
L’inchiostro scuro della notte  si fece  tutt’uno con le profondità verde smeraldo delle barriere coralline, lapislazzuli illuminati dal bagliore della costa.
 
Finalmente erano giunti sul Continente, lasciandosi Key West alle spalle.
Di fianco a lui, Milena sbadigliò, stiracchiandosi sul sedile.
Oltrepassando le luci ammiccanti di South Beach, si diressero verso Collins Avenue, dove Milena abitava.
 
La ragazza fece roteare le chiavi del portone intorno all’indice; le guardò con aria contrita, avvicinandole agli occhi.
“Mmmh..”
Di punto in bianco scoppiò a ridere sguaiatamente.
“Amore, forse questa sera ho un pochino esagerato con quel Long Island..”
“Con il Long Island, la tequila, il rum..”
Moran sospirò, aprendo l’uscio.
“Non dovrei assecondarti così tanto. Ti fa male e lo sai.”
Con un altro risolino beffardo, Milena gli schioccò un bacio sulla guancia.
“Ma io ti amo proprio per questo. Mi fai sempre fare tutto quello che voglio.”
Sghignazzò di gusto.
Moran si sentì ferito. Accusava una vena di verità nella battuta che aveva appena sentito.
Incurante del suo silenzio, la ragazza aprì il frigorifero.
“Amore, stasera voglio farti provare una cosa nuova..”
Con in mano due bicchieri e una bottiglia di vodka,si mosse verso le scale, ondeggiando vistosamente.
 
La camera di Milena era molto spaziosa, con delle pareti color pesca e un letto a baldacchino al centro. Di fronte, un’ampia terrazza con vista sul litorale.
Un aroma intenso di candele profumate scaldava l’atmosfera.
“Miley, tesoro, ora basta bere, però..”
Moran le sfilò di mano il drink sfruttando i suoi riflessi allentati dai fumi dell’alcol.
Milena brontolò.
“Noo.. Aspetta.. Questa ci serve! Ho una sorpresa per te..”
Afferrò un orsacchiotto appoggiato alla testiera del letto, e dalla fodera del peluche estrasse un sacchetto di plastica trasparente, sigillato accuratamente.
“Guarda un po’!”
All’interno, una decina di pasticche granulose color gesso.
Con uno scatto, Moran si allontanò da lei, allarmato.
 “Milena, cos’è quella roba? Dove l’hai presa?”
“Devi scioglierla nella vodka, altrimenti non fa effetto. Guarda, così.”
Lasciò cadere nei bicchieri le due compresse, che si dissolsero con uno sfrigolio gassoso. Notò una lattina di aranciata sul comodino. La aprì e ripetè il gesto, questa volta raddoppiando le dosi.
In caso una sola non facesse effetto.
Moran non vide l’accaduto.
Era voltato verso la finestra per cercare di mantenere l’autocontrollo, messo a dura prova da ciò che stava accadendo.
Si voltò con l’intenzione di approcciare una discussione  fra persone civili, quando Milena vuotò il bicchiere in un sorso.
“Ma..Cosa..?”
L’aveva mandata giù come un’aspirina. Come un banale antidolorifico.
Il suo gesto era stato  troppo rapido, e Moran era troppo distante per impedirle di fare qualsiasi cosa.
Milena gli porse il calice.
“Ecco. Ora tocca a te!”
A quel punto Moran perse ogni tipo di freno inibitorio.
Incredulo, prese a scuoterla per le spalle.
 “Milena!!! Cosa accidenti ti è preso? Sputala! Sputala immediatamente!”
“E dai.. amoree.. ”
Si divincolò dalla sua presa.
 
“Voglio sapere cos’è questa roba!” tuonò.
“Stai calmo.. che mi scoppia la testa.. Non è niente di che..  Me l’ha data un amico di Seiya alla festa.”
Si lasciò scivolare la leggera camicetta di seta sulle braccia.
“Lui la usa sempre con la sua ragazza. Ha detto che fa miracoli.. Ed è vero. Io l’ho già provata”.
Barcollando, gli  cinse in un abbraccio il torace.
“Fa spalancare le porte della Percezione..*”
Con le labbra gli sfiorò appena la nuca, percependo la sua muscolatura contrarsi al contatto con la sua pelle.
“In un batter d’occhio… Ti ritroverai in un altro mondo.. Con me, ovviamente.”
Gli infilò la mano sotto la maglietta.
 
“Non se ne parla.”
Moran si ritrasse dall’abbraccio, contrariato.
“Tu sei ubriaca. E ora anche drogata. Totalmente fuori di te..”
Si passò una mano fra i capelli.
“Davvero, non voglio credere che tu mi stia veramente dicendo queste cose.
Non posso credere che la mia ragazza faccia uso di questo schifo.”
Prese a camminare avanti e indietro, massaggiandosi il collo.
Cercò di ragionare sul da farsi.
“Dovrei portarti al Pronto Soccorso. Avresti bisogno di una lavanda gastrica o qualcosa di simile. Sì, farò così. Andiamo.”
“Non serve, stai tranquillo.”
Milena lo fissava gelidamente. Con Moran sulle difensive, replicare sarebbe stato inutile. Il mio migliore amico era fermo come un generale sulle sue decisioni.
“L’effetto è breve. E una a me non basta. Di solito ne prendo un paio alla volta.”
“Addirittura? Allora significa che è da molto tempo che ti fai.. I miei complimenti. Devo dire che non mi ero accorto di niente. Da quanto tempo va avanti questa storia?”
“Da quando ti ho conosciuto, Moran.”
Quelle parole ebbero l’effetto di una scarica di proiettili su di lui.
“Dio, sei così.. Così.. dannatamente perfetto e prevedibile. Le tue giornate sono scandite al millesimo di secondo, sai già cosa mangerai a colazione e cosa a cena, quale cravatta indosserai e quali calzini ci abbinerai, a che ora prenderai la metropolitana, che voto prenderai al prossimo esame e dove passerai i prossimi undici Natali e Giorni del Ringraziamento. Al college c’è già un ufficio con il tuo nome pronto ad aspettarti. Passi giornate intere a pianificare la tua vita. Tutto, dico tutto, deve rientrare perfettamente nelle righe di quella tua stramaledettissima agenda!! Dillo che stai con me solo perché io ti faccio pietà!!”
“Cerco solo di costruirmi un futuro stabile. Ognuno di noi dovrebbe farlo.
Non è colpa mia se non hai la minima idea di cosa fare della tua vita, oltre a sbronzarti il sabato sera.”
“Con me come fidanzata puoi svolgere benissimo il tuo ruolo da buon samaritano vero? Solo perché ho scelto di vivere alla giornata non significa che non sappia quello che voglio. Se dovessi morire domani, avrei la consapevolezza di avere goduto fino all’ultima goccia della mia esistenza! ”
“O avresti il rimpianto di non avere coltivato dei sogni? Di essere stata soltanto una stupida ragazza viziata e materialista?”
Silenzio.
“Cosa vuoi dalla tua vita?”
Milena si strinse in un abbraccio.
 “Quindi è colpa mia se hai iniziato. Se è così, il problema non esiste. Da questa sera, io e te non abbiamo più niente a che spartire.”
 
Questa era la  rottura definitiva. Milena se lo sentiva.
Ma conosceva anche il suo carattere. Così estremamente razionale, avrebbe sicuramente ripreso l’argomento il giorno dopo. Con calma. E magari sarebbe ritornato sui suoi passi.
Così spogliò in silenzio, mettendosi sotto le coperte. .
 
Moran gettò uno sguardo di disprezzo alla vodka sul tavolo.
“Questo schifo lo butto direttamente nel cesso.”
Ancora incredulo, cestinò la bottiglia e sciacquò i bicchieri.
 Poi tornò in camera, non sapendo bene il perché. Le parole di Milena lo avevano scosso.
Notò la lattina di aranciata.
Con un forte senso di arsura alla gola, bevve a lunghi sorsi ,scolandola
Fino all’ultima goccia.
 
 
Si avviò in salotto e accese distrattamente la televisione, con lo sguardo assente a fissare il monitor.
Le immagini si susseguivano sullo schermo senza  un senso compiuto ai suoi occhi.
Moran non aveva mai vissuto una circostanza di quel genere.
Si era sempre limitato a giudicare freddamente dall’esterno.
Drogarsi era illegale. Quindi non andava fatto. Punto.
La sua mente era stata edificata con schemi mentali rigorosi, dovuti anche alla spiccata religiosità della sua famiglia.
Ma ora, tutti i suoi punti di riferimento erano crollati.
Davvero era stata colpa sua?
Cosa le aveva fatto mancare, in quei sei mesi di fidanzamento?
Era stata la prima volta in cui si era sentito additato come  la causa della rovina della persona che amava.   
E da chi se l’era procurata? Conosceva Seiya, ed era risaputo frequentasse un giro losco, nei quartieri bui di Miami.
Ma come aveva fatto a non accorgersene prima?
Moran non riusciva a capire.
 
 
Perso in questi torbidi pensieri, fu destato dal rintocco dell’orologio a pendolo.
Le quattro del mattino.
Non riuscendo a venire a capo della situazione, decise, come aveva predetto Milena,di riparlarne dopo una bella dormita. Avrebbe trovato una soluzione.
0ra infatti la stanchezza bruciava furente nei suoi occhi, impedendogli di pensare.
Lentamente ripercorse le scale e si trascinò a letto,
Ad occhi chiusi, si lasciò scivolare sotto il lenzuolo.
Quella notte non sarebbe riuscito a chiudere occhio. Se lo sentiva nelle ossa.
 
Al buio iniziò ad osservare Milena. Lei gli dava le spalle, stesa su un fianco.
Il suo dorso si alzava e si abbassava con un ritmo profondo, regolare.
Ma Moran sapeva che non stava affatto dormendo.
La sentiva deglutire a fatica.
 
Preso dall’ansia, cercò di trovare una posizione che gli permettesse almeno di riposarsi.
Un forte senso di oppressione alle tempie lo pervase, seguito da un improvviso spasmo alle gambe.
Moran si rigirò nel letto, avvampando di calore. 
Aspannò nell’aria alla ricerca di ossigeno.
Il cuore iniziò a pulsare più forte.
Poteva percepire il sangue ribollire nelle arterie.
 
Tum, tum, tum.
 
Sentiva sorgere dentro di sé un’ onda di energia devastante, irrefrenabile, che doveva erompere su qualcosa. O qualcuno.
 
Tum, tum, tum.
 
Si mise a sedere di scatto, madido di sudore, portandosi le mani alle tempie.
Quell’idea si faceva largo dentro di lui lentamente, ma inesorabilmente.
Come l’acqua erode la roccia, quel pensiero delineava un incavo senza fondo nella sua mente.
Lui La voleva. Subito.
 
Tum, tum, tum.
 
D’istinto afferrò la ragazza e si sdraiò sopra di lei, stringendola in una morsa serrata, ed iniziò a baciarla appassionatamente sulla nuca.
Milena sussultò, ignara del fatto che Moran avesse in corpo una quantità di LSD che gli sarebbe potuta essere letale.
 
Non era mai stato così aggressivo. Milena lo conosceva. Intuì che qualcosa non stesse andando per il verso giusto. Cercò di liberarsi dalla sua presa d’acciaio, ma invano.
Moran non  rispondeva più di sé. L’adrenalina pompava il suo cuore a mille, rendendo ogni sua azione sempre più irruenta.
Ben presto il letto non fu più in grado di arginare l’esplosione di forza che si stava incanalando in lui.
Afferrò Milena e la sbattè contro il muro. Aumentò la pressione del suo corpo contro il suo, per impedirle ogni mossa. Le bloccò le mani, che gli impedivano di esplorare ogni centimetro del suo corpo, ansimando.
Gocce di sudore freddo caddero sul pavimento.
Un violentissimo uragano di impulsi si stava agitando di lui.
La stanza iniziò a brillare di una luce nuova, intensa.
“Voleva il suo cuore. Voleva la sua anima.
Tum, tum, tum.
Moran.. Mi fai male così.. Aspetta..”
La voce di Milena sembrava provenire da un punto remoto, al di là del muro.
Onde di colore rosso gli perforarono timpani, come una scarica elettrica.
“Moran, smettila! Basta! Basta!”
Il colore era così assordante, così denso all’olfatto da soffocarlo.
Raggi ad intermittenza gli avvolsero le mani, le braccia, le gambe, i piedi.
Una nuvola blu elettrico lo travolse.
Stava annegando in un mare di luce psichedelica, allucinante.
Basta! Basta! Basta!
 
La candela accesa sul tavolino parve incendiare l’aria con una scia di profumo sgargiante. Era troppo. Troppo.
Scaraventò di getto Milena contro il tavolo. La ragazza picchiò forte la testa contro il pavimento.
“Aaaah…”
 
Doveva fuggire da lì, doveva scappare, e subito.
Doveva uscire da quella prigione che si stava rivelando il suo corpo.
Il vero Moran era rintanato in un angolo di se stesso, totalmente sovrastato dal suo Es, l’Istinto Primordiale.
Milena emise un gemito soffocato, tendendo il braccio verso di lui.
Ma Moran non vide tutto ciò. Una giungla di sibili sgargianti, agglomerati informi di colore come scheletri lo tiravano verso il pavimento, fino ad inghiottirlo nelle viscere della Terra.
La porta sembrava distare chilometri.
Quando di getto riuscì ad aprirla, lanciò un urlo agghiacciante.
Fino a dove una mezz’ora prima si erano trovate le scale, ora al loro posto c’era un precipizio scosceso, del quale Moran non scorgeva la fine.
Un respiro gli si bloccò in gola. Il terreno sembrò franare sotto i suoi piedi.
Spaventato, cercò disperatamente di uscire dalla finestra.
Terrorizzato, sempre più soffocato dalle spirali luminosi che si stagliavano di fronte ai suoi occhi, diresse la sua violenza contro ciò che lo circondava.
Con un pugno distrusse lo specchio che sbriciolò come polistirolo.
Sfasciò a calci la porta, le sedie, il tavolo.
Roteando in aria una gamba della scrivania, sventrò l’armadio, distrusse i quadri alle pareti.
Ma Moran non percepiva dolore.
Tum, tum, tum.
 
Poi, all’improvviso, tutto iniziò a sfumare.
Moran crollò in ginocchio al centro della stanza.
Non ricordava niente delle sue ultime dieci ore.
 
 
 
 
“Io non ho parole.. Bunny.. Io.. Tutto questo è assurdo..”
Amy mi fissava inorridita.
“Moran ha rischiato grosso. Milena l’ha portato all’ospedale. I medici  hanno detto che una di quelle pasticche era stata tagliata male. Per fortuna i suoi genitori a NY non hanno saputo nulla.”
“Ma..Bunny..Perchè scappare a NY ora?”
“Milena si è resa conto che avrebbe potuto quasi uccidere Moran. Così disse di avere intenzione di confessare tutto alla polizia, i nomi e i cognomi di chi le aveva dato quella roba. Ed è così che sono arrivati a minacciarla.”
“Che cosa? Chi? Seiya?”
“Seiya è l’ultimo anello della catena. Sono entrati un brutto, bruttissimo giro, Amy. Moran dice che quello stronzo fa parte di un’organizzazione che si occupa dello smercio di sostanze stupefacenti da Orlando a Miami.
Visto che Milena era fermamente convinta di esporre una denuncia, per invitarla a desistere quei mafiosi hanno pensato bene di accarezzare la schiena del suo ragazzo con un manganello. Al mio Moran…”
Il nodo che mi attanagliava il petto si sciolse in un groviglio di lacrime.
 “Oh, Bunny.. Io..”
Ora anche la mia amica condivideva tutta la mia agitazione.
L’ansia iniziò a ribollire dentro di me come lava in un vulcano pronto ad eruttare.  
“Amy, io sono veramente spaventata. Moran mi ha detto che lui e Milena andranno a NY, dai suoi genitori, per stare dalla parte del sicuro. Spera di far perdere le loro tracce. Non sa nemmeno lui per quanto tempo staranno via. Un mese? Due?”
 
Ora la mia amica era in grado di intuire perché il mio amico non volesse frequentarmi più, almeno per il momento.
“Ha paura che arrivino anche a te, vero? Teme per quello che potrebbero farti. Se anche lui ormai è coinvolto perché ha protetto la sua ragazza, di conseguenza potrebbero colpire le persone a lui vicine.”
“Già. Per questo ha scelto di dirmi tutto all’aeroporto. Perché era un luogo affollato dove non davamo nell’occhio. Oggi è passato alla spiaggia perché aveva il corso di sub. Ma non si è trattenuto più di cinque minuti.“
 
Il vento gelido a contatto con la pelle infuocata prima dal sole, poi dall’angoscia, cristallizzò le lacrime che solcavano le mie guance.
Davanti a me, una mamma avvolta nel suo ampio caffettano viola corse verso la riva, richiamando i suoi bimbi che stavano giocando con un materassino nell’acqua bassa. Era ora di tornare a casa.
 
Sentii una goccia di pioggia sulla spalla, poi un’altra sulla fronte.
 “Vuole vedere il meno possibile anche te, Rea, Marta e Morea. Non vuole che ci succeda qualcosa di brutto. Ma..
“E se lo trovassero persino a NY? Se gli facessero ancora del male? E se si trasferisse per sempre là? Io non riuscirei a vederlo più.. Non voglio che vada via, Amy!  ”
Mi lasciai andare ad un pianto dirotto fra le braccia della mia amica.
“Io non voglio, Amy!”
E piansi.
Piansi ininterrottamente. Sotto la pioggia.
Mi sentivo persa, allo sbando, come una foglia nella tempesta.
Ma ben presto, un raggio di sole sarebbe entrato nella mia vita.
Proprio quando meno me l’aspettavo.
 

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Capitolo 3
*** Insieme. ***


Capitolo 3.
 
Insieme.

 
 
 
 
“…Nonostante la recente identificazione di molecole di RNA con proprietà catalitiche, i ribozimi, per definizione un enzima è una proteina dotata di proprietà di innesco, dovute alla capacità di specifica attivazione.”
Il professor Tomoe si alzò dalla cattedra, facendo veleggiare l’ampio camice da laboratorio.
La punta di diamante del nostro college era un uomo sulla sessantina, molto attraente, capace di catalizzare l’attenzione della classe (almeno, della componente femminile) soltanto modulando la sua voce pacata, sicura, estremamente accattivante.
 Il suo Curriculum Vitae avrebbe fatto impallidire qualsiasi giovane ricercatore di buone speranze: più di novanta pubblicazioni su riviste nazionali come l’American Chemical Journal e il Carbohydrate Reserch, innumerevoli convegni per la Ivax Corporation e i Laboratori Romark, era appena stato nominato Presidente del Corso di laurea in Biologia della mia università.
“Bene. Ora passiamo ai diagrammi di reazione.”
 
Il suo sguardo, enigmatico per natura, era reso ancora più indecifrabile da uno spesso paio di occhiali, che, per una mania quasi ossessiva, era solito pulire in un panno di velluto rosso almeno una ventina di volte in un’ora.
Un ghigno beffardo gli storceva il labbro inferiore ogni volta che al suo colloquio si fosse presentato  uno studente impreparato o particolarmente emotivo. Puntualmente si ravviava la chioma brizzolata, fissando la vittima con aria di sfida. Se non avesse ottenuto la risposta desiderata, proruppeva in una risata sguaiata, causando una paresi mentale immediata al malcapitato di turno. 
Infierire gli piaceva,e per questo tutti scorgevano una profonda vena di sadismo e cattiveria in lui.
Lo squadrai rapidamente.
Qualcosa mi faceva pensare che dietro il suo comportamento si nascondesse invece un quieto malessere, un desiderio di vendicarsi della vita.
Tutti i giorni, finite le lezioni, attraversava il Tamiami Park, percorreva la 112esima strada per poi immettersi in Coral Way, dove abitava.
La sua ombra allungata dal sole del tramonto sul selciato era l’unica confidente; le palme aggraziate che costeggiavano il sentiero, le sue guardiane silenziose. 
Ad aspettarlo, nel suo appartamento, c’erano solo una rigida tavola in legno d’acero non apparecchiata e una inespressiva poltrona ancora nuova, perfetta, senza una sgualcitura.
Su di essa nessuna macchia di caffè, nessuna sbaffatura di colori a spirito; nessun giocattolo appoggiato contro lo schienale imperioso.
Perché su quel divanetto color tortora non vi si era mai seduto  nessuno.
 
Il professor Tomoe non amava rilassarsi lì, di fronte alla finestra; preferiva piuttosto rintanarsi nel suo laboratorio privato.
 Così poteva non pensare a sé, alla sua non-vita, al fatto che tutto in questa dannata esistenza abbia un prezzo.
E lui il successo l’aveva pagato caro: poiché aveva incanalato  tutte le sue forze nel raggiungimento delle più alte onorificenze sulla carriera, non era riuscito a costruirsi una famiglia.
Quello che aveva guadagnato come ricercatore, lo aveva perso come essere umano.
 
Rimuginandoci sopra, era giunto alla conclusione che vivere implicava fare delle scelte continue, drastiche; da uomo di scienza, non credeva al fatto che a guidarlo fosse una Mano Superiore, ma piuttosto la sua volontà.
Aveva disegnato lui stesso il suo destino, e quando era giunto il momento di tracciare il volto di una moglie e, perché no, di un figlio, si era accorto che l’inchiostro nella penna era terminato. Non aveva fatto in tempo.
 
Allora al professor Tomoe  faceva comodo pensare che in fondo, nessuno di noi poteva avere la vita che voleva. Chissà, magari il giornalaio da cui acquistava quotidianamente lo USA Today avrebbe voluto diventare un bravo avvocato e aggirarsi per la città fiero della sua borsa in pelle marrone da professionista.
Magari, la ragazza dall’aria sempre triste che prendeva sempre la sua metropolitana avrebbe desiderato affermarsi come pittrice, e non come una segretaria d’azienda. (Era sicuro fosse un’impiegata perché aveva sbirciato alcuni documenti che le fuoriuscivano dalla borsa).
 
“Forse un giorno  qualcosa sarebbe mutato per lui”, pensai, ritornando con la mente da dov’ero partita, all’aula C5.
Tomoe non avrebbe preso le briglie del suo Destino, questa volta. Avrebbe posato la penna, lasciando che il Caso giocasse le sue carte.
Se si fosse presentata un’occasione, una svolta, lui l’avrebbe colta. Non avrebbe fatto più rinunce, non si sarebbe più sacrificato come in passato. Mai più.
 
Scossi la testa, come per risvegliarmi da un sogno ad occhi aperti.
“Bunny, basta perdersi in questi viaggi mentali senza capo né coda. Che ore sono?”
 
Quel giorno tutta l’avvenenza del docente e le fantasticherie sul suo conto non bastavano a farmi interessare alla catalisi enzimatica;
ogni tre minuti guardavo l’orologio, sperando che una forza miracolosa avesse trascinato le lancette in avanti di qualche tacca in più.
Quando sarebbero arrivate le quattro?
 
L’insegnante tirò le tendine e spense la luce. Voleva mostrarci alcune proiezioni al computer.
Mi sforzai di fissare lo scienziato, tentando di rimanere attenta per almeno l’ultima parte dell’ora, ma la mia mente volò via ancora una volta, oltre i muri del Dipartimento di Biochimica, oltre i cancelli della Miami University.
Ben presto infatti il suo volto divenne un alone opalescente, dello stesso colore del pavimento.
Ora, quasi al buio, la piccola aula dalle pareti giallo canarino parve ingrandirsi, assumendo le sembianze di una sala cinematografica.
Nella penombra, le parole del docente risuonavano nella mia testa come echi deformati, rumori di sottofondo.
“Enzimi”, “acetilcolina”, “sintesi proteica.”
 
Sul proiettore si susseguivano filmati tridimensionali in cui lunghe molecole ramificate si legavano l’una con l’altra in un caotico valzer roteante.  
Atomi di carbonio, di idrogeno e azoto si rincorrevano da una parte all’altra dello schermo come biglie impazzite su un tavolo da biliardo, formando mulinelli confusi .
Notai la sagoma di Amy  china sul suo block notes, indaffaratissima nella foga di trascrivere ogni virgola dettata dal docente. La sua penna ondeggiava a destra e a sinistra, tracciando frenetici fiumi d’inchiostro sulla pagina.
Sprofondai sulla punta della sedia.
Di solito ero sempre seduta in prima fila; sulle ginocchia un librone dalle dimensioni enciclopediche, armata di carta, penna ed evidenziatore, i capelli raccolti a lato in una crocchia spettinata.
Quel giorno invece avevo scelto un posto in fondo, il più vicino possibile alla porta, in modo tale da sgattaiolare via il prima possibile senza farmi notare; magari avrei potuto approfittare del buio.
 
Inutile dirlo, mi sentivo in colpa per avere trascurato le lezioni, in quell’ultima settimana.
La Bunny Intransigentestava rimproverando fortemente la Bunny Ribelle per non aver compiuto il suo dovere, verso se stessa e, soprattutto, verso gli altri.
Ma avevo cose più importanti da fare. Dovevo aiutare Moran.
 
Spostai lo sguardo da Tomoe al vuoto. Il fascio luminoso proveniente dal riflettore mi ferì gli occhi, rivelando uno spesso strato di pulviscolo atmosferico.
Il professore si schiarì la voce, bevendo un sorso d’acqua. Poi riprese a parlare.
 
All’improvviso qualcosa vibrò sul banco. Un sms. Un suo sms. Il cuore iniziò a scalpitarmi nel petto.
“Ho avuto un imprevisto, posticipiamo di un’oretta. Ci vediamo alle cinque e mezza al parco. Di fronte al lago.”

Sospirai profondamente. Avrei dovuto aspettare altre due ore.
Oscillavo fra il sollievo per l’avvicinarsi del momento tanto atteso e il nervosismo nato dalla consapevolezza dell’importanza di quell’ appuntamento.
 
Avevo confidato ad Amy la mia volontà di confrontarmi con il mittente del messaggio una settimana prima, alla spiaggia. La mia amica non pensava fosse la mossa giusta scendere a compromessi con un tipo come lui.  
Avrei rischiato di rimanere invischiata  in una faccenda più grande di me.
 
Ma in fondo io c’ero già dentro fino al collo, mi dissi.
Una smania affannosa mi impediva di restare con le mani in mano: i problemi di Moran erano i miei.
Non potevo lasciarlo andare via così, a più di  1700 chilometri in linea d’aria, senza nemmeno tentare di trovare una soluzione alternativa alla sua partenza.
Forse non sarebbe stata la cosa più giusta da fare, forse non si sarebbe trattata della soluzione più corretta, ma era l’unico espediente che mi fosse venuto in mente.
Mi sarei addossata tutto ciò che la mia decisione comportava.
 
Insomma, dovevo fare qualcosa per Moran, e subito.
Se c’era una cosa, dico una, che detestavo più di me stessa era l’impotenza, quell’intorpidimento interiore che ti tiene le mani legate da un filo invisibile di rassegnazione. Che ti porta a vedere la tua vita scorrere, pulsare, attraverso una lastra di vetro.
Ma io, da brava paladina della legge, avrei spezzato quelle catene.  Avrei frantumato in mille pezzi quello specchio irrisorio.  
Avrei salvato Moran, e lui sarebbe stato fiero di me.
“Quanto sono melodrammatica”, mi dissi.
 
 Se il mio stratagemma non avesse funzionato, allora avrei parlato con mio padre.
In questo caso però non mi sarei trovata davanti al genitore comprensivo e disponibile di sempre, ma di fronte al Commissario George Tsuckino.
Lui non avrebbe fatto sconti a nessuno, neanche al migliore  amico di sua figlia.
 Si sarebbe agito secondo la prassi: deposta la denuncia per aggressione, la Polizia avrebbe indagato sull’eventuale rapporto che intercorreva fra Moran e i pusher responsabili dell’agguato.
E inevitabilmente, con Milena, sarebbero stati accusati di detenzione di stupefacenti, con tutte le conseguenze del caso.
Conoscevo la legge, e conoscevo  mio padre;
questa consapevolezza rafforzò la mia decisione: sarei ricorsa a questo piano solo in condizioni estreme.
 
Finalmente, il professore guardò il grande orologio a muro appeso alla parete. Le quattro in punto.
“E con questo concludo. Domani la lezione si svolgerà in aula D1, dalle dieci alle quattordici. Arrivederci.”
Scattai dalla sedia e uscii per prima dalla classe.
 Non volevo che Amy mi vedesse.
 
Chiusi la porta e mi diressi a passo spedito al Tamiami Park, un angolo verde nel grande campus di Coral Gable.
Adoravo quel posto; nel fine settimana ero solita  fare una passeggiata lungo il sentiero ghiaioso color perla che dall’entrata conduceva ad un delizioso laghetto contornato da un basso steccato.
Lasciata alle spalle Coral Way, svoltai a destra, e varcai i cancelli del parco.
Mi inoltrai nella brughiera. Attraversando una collinetta erbosa, pervasa da un intenso profumo di glicini e oleandri, si presentarono a me le nobili betulle che ingentilivano abitualmente il paesaggio con i loro delicati fusti longilinei. Da quel punto iniziai a scorgere lo scintillio della luce del sole, riflessa sulle acque limpide del laghetto.
 
Nella brezza del pomeriggio inoltrato, rumori di risatine e grida divertite popolarono l’aria di una nota di allegria.
Quel parco era la meta preferita anche di molti bambini, che dopo la scuola amavano lanciarsi a gran velocità sugli scivoli e sulle altalene, con grande apprensione delle mamme.
Tamiami Park aveva la capacità di farmi sentire protetta, in un’oasi di pace. Avrei potuto trascorrere giorni interi  su quel ponticello in legno coperto da un tettuccio rosso mattone, che si ergeva sopra il laghetto.
Riccioli d’edera e margherite di campo incorniciavano gli arbusti che immergevano le radici nelle acque cristalline dello stagno.
Sorrisi. Da piccola chiamavo quella piccola costruzione “la casetta sul lago”. Forse erano i miei ricordi a rendere così speciale Tamiami Park..   
 
Presa da queste memorie d’infanzia, mi sedetti su una panchina subito accanto al parco giochi. Mi piaceva osservare i bimbi scorrazzare da un albero all’altro, piangere per un nonnulla, litigare per fare pace un attimo dopo.
 
Guardai l’orologio.
 Lui sarebbe arrivato fra tre quarti d’ora.
Distesi le gambe. Ero un po’ nervosa.
Tirai fuori dalla borsa “I Passi dell’Amore”; ero arrivata all’incontro fra Landon e Jamie, al corso di teatro.
Riscontravo molte analogie fra me e la protagonista, ma allo stesso tempo avvertivo una profonda linea di demarcazione fra quello che era il mio carattere, impulsivo e senza fronzoli, e la riflessività, l’essere mistico di Jamie, che la vedeva spesso immersa nella lettura della Bibbia.
 
Gli eventi narrati nelle pagine del libro presero corpo davanti ai miei occhi, sul palcoscenico della mia mente.
 
Non so dire per quanto tempo rimasi lì, seduta sulla panchina. Totalmente rapita dalla trama, d’un tratto mi accorsi che con l’imbrunire il parco giochi era ormai deserto.
Dei ragazzini di poco tempo prima erano rimaste solo le impronte sulla sabbia e un cappellino celeste dimenticato su un ramo vicino allo scivolo.
Un’altalena ondeggiava cigolando, lentamente, avanti e indietro.
Mi ci sedetti sopra, pensosa.
Dovevo riflettere su come affrontare l’argomento quando lui sarebbe arrivato.
 Andare subito al sodo? Prendere tempo, giungendo al punto con circospezione?
La cosa non si stava rivelando così facile come avevo pensato.
“Dai, Bunny, pensa. Sforzati, su!”
Quel giorno non ero particolarmente ispirata.
Sbuffai rumorosamente. Non riuscivo né a farmi uno schema mentale per un discorso, né a  trovare le parole adatte.
 
All’ improvviso, un gemito sommesso, simile ad uno squittio, catturò la mia attenzione.  Proveniva da dietro.
Feci leva sulle punte e fermai l’altalena, dirigendomi verso alcune casette in miniatura di plastica leggera, alte circa un metro e sessanta, dal tettuccio rosso scarlatto.
Mi inginocchiai davanti ad una di esse.
Rumore di pianto.
“Papà…“
La vocina proruppe in un singulto disperato.
“Voglio il mio papà..”
Aprii delicatamente la porticina.
“Ciao, piccolina..”
Un frugoletto  di circa tre anni giaceva in un angolo, rannicchiata, con le ginocchia al petto.
“Come ti chiami?”
La bimba mi rivolse gli occhi rossi di pianto.
Per un momento rimase interdetta; evidentemente non sapeva se avesse potuto fidarsi di me.
 Affondò le scarpine rosse nella sabbia.
“Chibiusa.”
Doveva essere molto spaventata.
“Che bel nome! Chibiusa, dimmi, perchè piangi? Dove sono la tua mamma e il tuo papà?”
A queste parole la piccola iniziò a singhiozzare più forte.
“Non lo so!! Il mio papà.. Non lo trovo più!”
Evidentemente si era smarrita nel parco.
Presi un fazzolettino dalla borsa e le asciugai le guance intrise di lacrime, ravviandole la frangetta castana.
“Non ti preoccupare, stellina. Adesso ci sono io con te. Lo cercheremo insieme; vedrai che lo troveremo.”
Presi Chibiusa in braccio e la tirai fuori dalla casetta.
La piccola si aggrappò a me con tutta se stessa, affondando le sue guanciotte rosee nella mia spalla.
 Ebbi un tuffo al cuore.
 Quanta forza, quanto bisogno d’amore in quell’abbraccio.
Deja-vù.
Restai disorientata per una manciata di secondi.  Mi sembrava di averla già tenuta stretta stretta nel mio abbraccio, per un attimo, un’eternità di tempo prima.
Ignorando quella sensazione, cercai di capire dove Chibiusa si trovasse prima di smarrire suo padre.
“Dimmi, piccolina.. Cosa stavi facendo prima di perderti?”
La bimba aggrottò la fronte. Qualcosa sembrava sfuggirle.
“Io.. stavo giocando a nascondino con Victoria. Mi sono nascosta dentro la casetta. Quando sono uscita.. Papi non c’era più! E neanche Victoria!” Gli occhi le si riempirono di nuovo di lacrime.
Era ancora scossa, così decisi di tranquillizzarla, di metterla a suo agio.
E niente avrebbe funzionato meglio di un dolcetto.
“Facciamo così.” Sorrisi. “Tuo papa ti starà sicuramente cercando nei paraggi, quindi è meglio non allontanarsi troppo dalla zona. Noi daremo un’occhiata qui intorno. Cosa ne dici, intanto che aspettiamo,  ti va un bel cono?”
Un sorriso fece capolino sulle sue labbra.
“Sì, sì! Però tutto al cioccolato!”
“Perfetto! Andiamo, allora!”
Con la mia nuova amica in braccio, mi avviai verso il carretto dei gelati.
 
Un minuto dopo, eravamo sedute sulla panchina fianco a fianco, con in mano un cono gigantesco.
Approfittai dell’occasione per osservarla meglio. Indossava una salopette di jeans  e una maglietta rossa, in tinta con le scarpine.
I suoi capelli erano raccolti con due elastici a forma di coniglietto in due lunghi codini castani. Il suo non era un abbigliamento ricercato, ma notai comunque una grande cura nella scelta degli abitini e degli elastici colorati. I suoi genitori dovevano volerle molto bene.
Ad un tratto, la bimba si rese conto di non avere recepito un’informazione fondamentale.
Mi guardò curiosa, con due baffi di cacao agli angoli della bocca.
“E tu come ti chiami?”
“Mi chiamo Bunny.”
“Anche tu hai un bel nome. Invece il mio papà si chiama Marzio. E’ un poliziotto.”
Che coincidenza.
“Sai, Chibiusa..  Anche mio padre è un poliziotto. Fa il commissario della questura di Miami.”
“Il mio papi è proprio bravo. Ha due pistole. Fa così ai delinquenti: bum, bum, bum!!”
Imitò il gesto di uno sparo con la mano sinistra.
Le pulii le labbra color cioccolato. Era proprio adorabile.
“Bunny..?”
“Sì?”
“Che cosa vuol dire “delinquenti”? ”
Scoppiai a ridere.
“I delinquenti sono delle persone cattive, che non rispettano la legge. E tuo papà li porta in prigione.”
La capacità di sintesi era sempre stata una mia dote.
La bimba rimase un po’ perplessa; forse non le era ben chiaro il concetto di “rispettare la legge”.
Decise di cambiare argomento.
“E tu quanti anni hai, Bunny? Io ne ho..”
Fece un rapido conto con le dita.
“Tre!” esclamò, trionfante.
Non mi ero sbagliata di molto.
“Io ne ho ventuno.”
Stavo per chiederle di sua madre, visto che non ne aveva ancora fatto parola, quando la piccola si alzò di scatto.
“Papà!! Papà!! Che bello, è arrivato papà!!”
Attraversò a razzo il sentiero di assi in legno, incespicando per  due volte.
“Bunny, corri!! Mio papà è quello laggiù!!”
 
 
Focalizzai due figure maschili a cinquanta metri di distanza. Uno di loro era un po’ brizzolato, sui sessant’anni; più in lontananza invece scorsi un ragazzo moro,  ma non gli prestai attenzione.
Un po’ intimidita, seguii Chibiusa  verso l’entrata del parco.
Le persone adulte mi mettevano sempre un po’ in soggezione, così, mentre procedevo, cercai di assumere un atteggiamento da ragazza responsabile. Dopotutto dovevo giustificare  la mia presenza con la bambina.
 
Ma con mia enorme sorpresa, Chibiusa si diresse spedita verso il ragazzo.
Rimasi letteralmente di sasso.
“Papi!! Papi!!”
“Tesoro! Ti ho cercato dappertutto! Dove ti eri cacciata, piccola Chibi?”
Il ragazzo sollevò la bambina e la strinse forte, socchiudendo gli occhi.
 
“Era nel parco giochi, dentro una di quelle casette di plastica laggiù. Piacere, mi chiamo Bunny.”
Ancora un po’ sbalordita, gli porsi la mano per presentarmi.
Il ragazzo mi fissò  intontito, senza sciogliersi dall’abbraccio di quella che ormai avevo identificato come sua figlia.
“Papi.. Sta dicendo a te!”
“Oh, sì.. Certo.. Ciao. Piacere, Marzio.”
 
Un ragazzo come Marzio non sarebbe certo passato inosservato.
Il suo fisico asciutto, molto atletico, era messo in risalto da  una tuta da trekking su una canottiera aderente  dei Lakers.
Anche lui, come mio fratello, era un appassionato di baseball, dedussi.
Corti ciuffi color carbone gli scendevano leggermente sugli occhi, anch’essi profondi come la notte.
 
Avrei tanto voluto guardare quello che avevano scrutato quegli occhi così malinconici.
Immergendomi nel suo sguardo, vidi passare davanti a me troppo freddo, troppa pioggia, troppa sofferenza da poter spiegare.
Sarebbe stato in grado di distruggere qualsiasi corazza, con la sua espressione soave e magnetica allo stesso tempo; quando i miei occhi si persero nei suoi, mi sentii vibrare nel profondo, fino ai confini di me stessa.
L’ombra di tristezza che accompagnava anche il suo sorriso più dolce sparì però, quando abbracciò la piccola Chibi, come l’aveva chiamata lui. Nell’attimo in cui la strinse a sé tutta la desolazione in lui sembrò svanire, lasciando spazio ad una scintilla di luce nuova. Un attimo di serenità totale, completa.
Tutto quello di cui aveva bisogno si trovava fra le sue braccia.
 
Sentii il bisogno di rompere il silenzio che era seguìto alla presentazione.
“Ero seduta sulla panchina, quando l’ho sentita piangere dentro una casetta. Ho aperto il portoncino e l’ho trovata. ”
“Ho creduto fosse meglio non allontanarsi troppo dal parco giochi perché pensavo che tu avresti iniziato a cercarla proprio da lì, o almeno, nelle zone vicine. Così abbiamo preso un gelato e ti abbiamo aspettato qui.”
 
Marzio sorrise.
“Non so come ringraziarti, Bunny.
 Appena mi sono accorto che non era più con la sua amichetta, mi sono preso un bello spavento. Non so come mi si sia potuto distrarre.. Un attimo, e lei non c’era più.”
Intanto ci eravamo seduti sull’erba, sotto le fronde di una robusta quercia.
“ A volte capita anche a me. Soprattutto qui, al parco. Sarà l’atmosfera, sarà il fatto che sto attraversando un periodo un po’ burrascoso, ma.. spesso perdo la cognizione del tempo, mi alieno dalla realtà.”
Mi morsi la lingua. Perchè stavo raccontando i fatti miei ad uno sconosciuto? 
 Ma Marzio sembrò essere piacevolmente sorpreso da quella confidenza.   
“Questo è il posto che preferisco in tutta Miami. SouthBeachnon fa per me. Troppe luci, troppo  rumore.. non amo affatto la vita mondana.”
Posò lo sguardo su Chibiusa, ancora accoccolata fra le sue braccia.
“E poi il mio tesoro adora la natura. Vero, piccolina? ”
Chibiusa non rispose. Respirava profondamente, russando appena appena.
Marzio ridacchiò, abbassando il tono di voce..
“E’ già entrata nel sonno REM! Questa mattina si è svegliata molto presto.”
Le accarezzai la fronte.
“E’ una bimba adorabile, davvero. Siamo subito diventate amiche. E’ dolce e molto simpatica. Secondo me ti assomiglia tantissimo.”
“A dire la verità, più cresce, più assume i lineamenti di sua madre. E’ impressionante.”
“Deve essere una ragazza molto bella. Da quanto tempo state insieme?”
 
Per la prima volta quel giorno, lo vidi in difficoltà.
“Ecco.. non stiamo più insieme da due anni ormai. Ha abbandonato me e Chibiusa quando lei aveva appena tre mesi.”
Rimasi di stucco.
“Marzio, scusami.. Io.. io  non lo sapevo. Non volevo ricordarti un fatto così spiacevole. Fa’ come se non te lo avessi chiesto, ti prego.”
Ero profondamente dispiaciuta. Ora nei suoi occhi era ritornata la pioggia, il freddo, la sofferenza che l’abbraccio della piccola Chibi sembrava avesse spazzato via.
Marzio mi guardò con un sorriso triste.
“Sai, Bunny, io non ti conosco, ma mi sembra di sapere già tutto di te. Non fraintendere le mie parole, voglio solo dirti che qualcosa mi spinge a fidarmi di te. Vorrei rispondere alla tua domanda.”
Non lo interruppi.
“Ho conosciuto la madre di Chibiusa circa 4 anni fa, quando ancora vivevo a Key West.. Lei proveniva da una famiglia molto in vista della città, mentre io.. Beh, non ero quello che si sarebbe potuto definire un buon partito. I miei genitori si sono separati quando ancora ero molto piccolo, e hanno sempre fatto di tutto per togliermi di torno; né mia madre, né mio padre volevano prendermi con sé.  Così, a sedici anni ho deciso di andare a vivere da solo. Per mantenermi però ho dovuto fare cose di cui non vado affatto fiero. Ti dico solo che sono andato un paio di volte in riformatorio.”
Strinse ancora di più a sè Chibiusa.
“Poi ho incontrato Sydia. Il nostro non è mai stato un rapporto lineare. Vivevamo di alti e bassi, ma io sentivo di amarla. O almeno, di volerle molto bene. I suoi mi hanno reso la vita impossibile fin dall’inizio, Un giorno suo padre mi ha persino offerto trentamila dollari affinché la lasciassi. Io gli risposi che non era il denaro quello che mi interessava, e che i trentamila dollari poteva infilarseli gentilmente dove preferiva.
Poi tornai a casa, e trovai Sydia che piangeva sul letto
. Dopo un ritardo, aveva fatto il test di gravidanza, ed era risultato positivo. ”
 
Ero entrata in uno stato di trance. Non riuscivo a staccargli gli occhi di dosso.   
“Fui sconvolto dalla sua reazione”, proseguì. “Sapevo che non era il momento giusto per avere un bambino, sapevo che non sarebbe stato facile, ma in quel periodo ero uscito dal riformatorio, avevo abbandonato la vita che avevo condotto sino a quel momento.  Ero entrato in Polizia e le cose sembravano andare per il verso giusto. Ma non per lei e i suoi genitori. ”
“Un figlio avrebbe significato il mancato conseguimento della sua brillante carriera, l’avrebbe costretta a  rinunciare al futuro che i suoi avevano preparato per lei: sarebbero andati a monte gli studi  in Europa, gli stage, le feste esclusive per fare sfoggio della proprio successo. Sarebbe crollato il suo mondo.”
“Voleva abortire, Bunny.”
Silenzio.
“E tu.. tu come sei riuscito a farle cambiare idea?”
 
“Le dissi che come padre, avevo il diritto di decidere sulla vita della mia Chibi. Le dissi che dopo la gravidanza poteva anche andarsene se voleva. Non le avrei chiesto né soldi, né di partecipare all’educazione di sua figlia. Preferivo occuparmene da solo, anche se tutt’ora sono consapevole che a Chibiusa manca una figura femminile accanto a me.”
Avvampò di rabbia.
“ Ma, accidenti, che razza di insegnamento può dare una mamma ad una figlia che avrebbe preferito non venisse mai alla luce?”
 
Abbassai lo sguardo.
In quel momento Marzio mi sembrò più grande dei suoi 23 anni.
Anche se nei suoi occhi erano riemerse tutte le paure e preoccupazioni da ragazzo padre, vidi in lui tutta la sua umanità. Tutto il suo sacrificio. Tutta la sua infinita bontà.
Mi avvicinai al suo viso, prendendogli le mani.
“Essere genitori significa mettere il proprio figlio al centro dell’universo; significa mettere  da parte se stessi  per realizzare qualcosa di più grande.”
Guardai la piccola.
“E tu lo stai facendo meravigliosamente, Marzio. Chibiusa ti ammira moltissimo.  Non potrebbe avere un padre migliore di te.”
Ora anche Marzio mi guardava negli occhi. La distanza fra di noi si ridusse alla bimba che gli riposava in braccio.
 In un attimo, tutto era scomparso. La panchina, la quercia, il lago, Tamiami Park, Miami, la Florida, l’universo.
Eravamo io, Lui e la piccola Chibi.
Eravamo noi.
Insieme.
 
“Bunny, scusa per il ritardo. Ti avevo mandato un sms. Ah, ma vedo che hai trovato compagnia... Ciao, Marzio.”
Seiya ruppe la magia di quell’incantesimo, con l’odore acre della sigaretta che aveva in bocca.
Squadrò Marzio con aria di sfida. Il padre di Chibiusa si gelò all’istante.
“Ciao, Seiya. Da quanto tempo..”

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