Il segreto e il sospetto

di hikarufly
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Incontri e scontri ***
Capitolo 2: *** Strani amori ***
Capitolo 3: *** L'inganno ***
Capitolo 4: *** La chiave ***
Capitolo 5: *** Il furto ***
Capitolo 6: *** Il viaggio ***
Capitolo 7: *** La rivelazione ***
Capitolo 8: *** L'agguato ***
Capitolo 9: *** Un intervento provvidenziale ***
Capitolo 10: *** Uno, nessuno, centomila ***
Capitolo 11: *** Il segreto - epilogo ***



Capitolo 1
*** Incontri e scontri ***


La strada sembrava più affollata del solito, quel giovedì mattina di primavera. John Watson camminava tranquillo lungo Kensington Gore, dopo aver fatto un giro per i Kensington Gardens. Era andato a trovare Sherlock, con il quale non viveva più da un bel po', e lui e Mary erano finalmente intenzionati a sposarsi. Mrs Hudson, gentile come sempre, dovette riferire a John che il suo amico era uscito molto presto quella mattina, senza dire di preciso quanto sarebbe stato via.

«In effetti, dottor Watson, inizia un po' a preoccuparmi. Lo so, lui fa così, sparisce senza dare spiegazioni perché è troppo occupato con il suo lavoro... però c'è qualcosa di diverso, me lo sento! Forse gli manca lei, dottore» concluse, con un sorriso. John ringraziò ma le assicurò che si sentivano spesso e che ancora più spesso lo coinvolgeva nei casi, anche se mentre spiegava si rese conto che accadeva sempre con meno frequenza.

Dopo aver salutato la landlady, aveva preso un taxi fino a Bayswater Road, per poi decidere di fare un giro lungo il parco, rispondendo ai suoi dubbi con la scusa che ormai non vivevano più insieme, e ripensò anche al fatto che, fortunatamente, Mary aveva instaurato un rapporto migliore con Sherlock (probabilmente anche per la minor intrusione di quell'uomo nella sua vita sentimentale).

Quando imboccò Kensington Gore, poco dopo la Royal Albert Hall, si ricordò che era lì che Irene Norton era andata a vivere, dopo essere tornata dalla tournée teatrale che le aveva fatto raccogliere elogi dalla stampa e dagli specialisti. Da allora era passato più di un anno, quasi due per la verità, ed era diventata una donna di successo. Continuava a fare l'attrice nei teatri, evitando di tornare alla tv o al cinema. A sua detta, era una scelta che le permetteva di vivere una vita serena facendo ciò che amava, e in qualche modo rispettava anche i desideri di Godfrey Norton, l'uomo che aveva sposato e che era stato assassinato più di due anni prima. John ebbe quasi l'idea di andarla a salutare, nel condominio in cui viveva, curioso di scambiare una chiacchiera con il suo portiere, il gentilissimo Nigel. Stava proprio per attraversare la strada quando vide una figura familiare. Si fermò dov'era, dietro una grossa auto e un albero che ornava il marciapiede. Quello che stava entrando era indubbiamente il suo vecchio amico Sherlock Holmes. Lo vide sparire oltre le porte dell'ingresso, e d'istinto lanciò un'occhiata alle finestre dell'appartamento di Irene: erano grandi e ampie, ma non fu in grado di vedere lei o lui, se lì era diretto, ma soltanto il gatto grigio della ragazza, il compiaciuto e sornione Mr A, che sembrò accorgersi di lui, socchiudendo gli occhi, sospettoso.

John, un po' dubbioso, attese. Si sarebbe aspettato di restare lì di più, ma Sherlock uscì, esattamente come era entrato, recando in più una busta formato documento. Watson si sentì un po' stupido ad aver pensato... di sicuro era lì per un caso, e per quanto ne sapeva, Sherlock e Irene non si parlavano o vedevano da quando lui si era occupato della morte del marito. Per fortuna, Holmes non si accorse dell'amico, che cambiò strada per raggiungere la clinica in cui aveva continuato a lavorare, perdendosi l'uscita di Irene, circa venti minuti dopo, mentre portava uno scocciatissimo Mr A dal veterinario.

 

Quando sentiva il tono di avviso di un nuovo messaggio, John Watson buttava gli occhi al cielo e si chiedeva perché non aveva ancora cambiato numero da quando si era trasferito.

Bart's college, subito. SH” diceva il touch screen del suo iPhone. Sospirò, e osservò l'orologio: turno finito, e Sherlock lo sapeva. Sbuffò, salutò la segretaria dello studio e gli disse che probabilmente sarebbe stato difficile reperirlo per qualche ora, ma di insistere a chiamare se fosse stato urgente.

Si diresse di corsa alla sua vecchia scuola, prendendo un taxi. Appena scese, finì con l'urtare qualcuno. Vide girare il mondo per un secondo e quando si rese conto di essere ancora in piedi tentò di scusarsi con la persona in questione. Si sorprese di scoprire che era la sua amica Irene Norton.

«John!» esclamò questa, massaggiandosi la spalla, contro la quale lui si era scontrato «scusami, non ti avevo proprio visto!»

Il medico sorrise e fece cenno di diniego.

«Scusa tu, ero io a dover guardare dove andavo...» commentò il medico, per poi aggrottare la fronte e guardarla un po' sospettoso «come mai sei qui?»

Irene non parve confusa e dopo un secondo, sorrise.

«La mia amica Molly lavora qui... devo chiederle un favore» spiegò, facendogli cenno di entrare con lei. John si tenne al suo fianco, chiedendosi se una coincidenza del genere fosse possibile. All'ingresso del laboratorio, una sorridente Molly Hooper in camice salutò calorosamente l'amica e il dottor Watson.

«Vieni, Irene. Andiamo nel mio studio...» disse la ricercatrice «Sherlock è al piano di sopra» apostrofò poi John. Il medico salutò in maniera sfuggente Irene, restando fermo, mentre le due se ne andavano e sentendo qualcosa, nella conversazione delle due ragazze, sul fatto che Irene dovesse assentarsi per un po', e se Molly poteva occuparsi di Mr A. Quando le due girarono l'angolo, si diresse alle scale e raggiunse l'ex coinquilino nell'esatto punto in cui l'aveva conosciuto. Chino sul microscopio, parve non accorgersi neanche del suo ingresso, finché non si allontanò dallo strumento e si alzò. John si tolse la giacca e la mise sullo schienale di una sedia, per non stropicciarla, e si portò di fronte a Sherlock.

«Qual era l'emergenza?» domandò Watson, incrociando le braccia. Sherlock girò intorno al banco, passando dietro la sua giacca.

«Mrs Hudson mi ha detto che mi hai cercato» disse con il suo solito tono neutro e voce baritonale, rigirandosi tra le mani qualcosa che John non riuscì a vedere «dimenticato qualcosa nella tua vecchia camera? È ancora sfitta»

John incrociò le braccia.

«Tra me e Mary va tutto benissimo, Sherlock. E non venirmi a dire che mi hai chiamato qui solo per chiedermi cosa ho lasciato a Baker Street, perché non ho lasciato proprio niente» replicò un po' inacidito Watson. Sherlock mise su un sorrisetto ironico, e gli lanciò il plico di fogli che il medico gli aveva visto in mano quando era uscito dal condominio di Irene.

«Pronto a tornare sul campo?» chiese Holmes.

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Capitolo 2
*** Strani amori ***


Mary osservò i fogli, stranita. Non riusciva a capirci nulla, tra quelle fitte righe scritte in corsivo.

«Non sembra antica, ma è una calligrafia un po' strana... oh!» esclamò, prendendo il cellulare che aveva appena emesso un timido squillo.

«È Irene» disse, avvicinandosi al fidanzato, e lasciandosi cingere le spalle da lui. John sentì quasi una scintilla nella sua testa, come se qualcuno avesse tentato di far partire un accendino a gas dietro i suoi occhi.

«Non ti è sembrata strana, ultimamente?» domandò d'istinto lui «Irene, intendo»

Mary aggrottò la fronte, in un modo che il suo fidanzato trovava estremamente dolce, bloccando la tastiera del telefonino e appoggiandolo accanto a sé.

«No... si tiene occupata. Da quando è tornata dalla sua tournée, dopo la morte di Godfrey, si è data un ritmo di lavoro e l'ha mantenuto. Ti ricordi dei quadri rubati? Con il risarcimento si è presa quel bellissimo cottage su nella regione dei laghi e mi ha anche raccontato di quel centro culturale per giovani talenti che ha fondato»

John ci pensò un po' su.

«Però anche se ci ha invitati al centro culturale, non abbiamo mai visto il cottage, e non sappiamo che cosa ci vada a fare ad intervalli così irregolari. Ci è stata già due volte il mese scorso, e poi più niente per cinque settimane» spiegò il medico.

«Mi ha scritto ora che ci vuole andare tra otto giorni... secondo me sei troppo influenzato da Sherlock Holmes. So che ti piace aiutarlo, ma non dovresti farti coinvolgere troppo» replicò Mary, accarezzandogli i capelli. Lui non trattenne un piccolo sorriso, per poi riprendere.

«Eppure... l'ho visto entrare nel condominio di Irene, e uscirne con questi documenti. E poi a quanto pare lei è molto amica di Molly Hooper, la ricercatrice che aiuta Sherlock con i casi. Non ti sembrano... delle strane coincidenze, un po' sospettose?» domandò John, iniziando a chiedersi se stava diventando matto. Mary sembrò pensarci su.

«Mi aveva parlato di Molly. L'ha incontrata dal veterinario, il giorno che ha trovato il povero Mr A semi-svenuto in un cassonetto. Era stata molto carina e gentile e così hanno fatto amicizia. Ma... tu pensi che tra Irene e Sherlock...?» iniziò, lasciando la frase in sospeso, sorpresa.

«No, io non... lui non credo sia... interessato alle donne. O agli uomini, o a qualsiasi rapporto umano. Credo che le uniche persone con cui interagisca siamo io, Mrs Hudson e a volte l'ispettore Lestrade. Irene ti ha detto qualcosa... non so, qualche...» continuò John, imbarazzato dalla piega che aveva preso la conversazione e dai suoi stessi sospetti.

«In realtà... credo che abbia trovato qualcuno. Non te lo so dire con precisione, credo non si voglia confidare perché è ancora tutto un po' nuovo e complicato. Amava così tanto Godfrey. Forse ha trovato un buon amico o una buona amica, e cerca di tenerlo per sé per evitare di sciuparlo. A me è successo» spiegò Mary, rannicchiandosi un po' di più tra le braccia di lui. John sembrò calmarsi come un micio a cui si grattano le orecchie.

«Ah sì?» chiese, fintamente sorpreso «questo ha a che fare con il fatto che tutte le tue amiche, esclusa Irene, mi hanno trattato come una specie di orsacchiotto quando me le hai presentate? E potrebbe essere collegato al fatto che mi hanno riempito la testa con frasi come “oh, John, finalmente ti conosciamo...” e “dove ti teneva nascosto?”» concluse, imitando le amiche di Mary con una vocina acuta e canzonatoria. Lei gli diede un pizzicotto, ma lui non smise di ridere.

 

Sherlock era seduto alla sua poltrona, e armeggiava con una vecchia pipa quando John entrò nella stanza.

«Ricominciato a fumare?» chiese, con il tono critico tipico del medico.

«Hai dato un'occhiata alle carte?» replicò il detective, alzando gli occhi dal piccolo oggetto, che finì per essere aggraziatamente appoggiato a fianco del teschio sulla mensola del camino, quando lui si alzò.

«Sì, ma non ho affatto trovato un nesso. Sembrano lettere d'amore mischiate ad altre di affari, e...» spiegò, ma Sherlock sbuffò spazientito.

«E qual è il dettaglio principale?» chiese, incrociando le braccia e appoggiandosi con la schiena al camino.

«Beh...» iniziò John, sentendosi sotto esame «beh, sono... fotocopie, non originali»

L'amico sospirò profondamente.

«Grazie al cielo... esatto, tutte copie. Copie raccolte da tutte le persone diciamo pure importanti che si sono viste sparire documenti autografi, fotografie e lettere compromettenti» spiegò, spostandosi verso la sua poltrona e appoggiando le mani sullo schienale, restandone dietro.

«E da quando ti occupi di persone importanti? Credevo ti interessassero i casi, e basta» ribattè John, rimettendo in ordine le carte.

«Ancora una volta guardi ma non osservi. Mi chiedo se sia troppo difficile da fare o non ti interessi affatto... il punto è che c'è un ricattatore che è in grado di metterli tutti nel sacco, qualcuno più furbo di ognuno di loro. E poi non tutte queste vittime si meritano ciò che lui ha fatto o che potrebbe fargli»

«Sta minacciando qualcuno in particolare, ora? E chi è questo ricattatore?» chiese John, curioso. Per quanto a volte Sherlock lo irritasse con i suoi modi da essere superiore, la sua logica e il brivido dell'avventura lo spingevano sempre a voler sapere di più.

«Il ricattatore è l'esimio direttore della rivista scandalistica più in voga in tutta Londra, ovviamente, il signor Charles A. Milverton. Donne, soldi, forse anche droga... può permettersi ogni cosa, ma non lo fa alla luce del sole. Ciò che la città sa di lui è quel poco che racconta di se stesso. Per il resto, solo qualche indiscrezione e testimonianza mi hanno portato a lui. Ad ogni modo, il giovane Stuart Mudsen mi ha dato un motivo per dimostrare che c'è qualcuno di più intelligente di Milverton. Il giovane Mudsen si è visto recapitare la copia di alcuni documenti e fotografie che dimostrerebbero che offriva favori e prendeva mazzette per degli appalti pubblici. Niente di più falso, ma Milverton ha dei buoni scagnozzi. Sconfiggere una mente brillante è sempre un buon passatempo» concluse, allontanandosi e prendendo il suo cappotto, ancora da indossare nel gelo di quell'inizio primavera, abbandonato sul divano.

«E ora dove vai?» chiese John, alzandosi a sua volta e facendo qualche passo avanti. La risposta lo fece restare lì sul posto, con la sensazione di aver perso la propria mascella, ormai staccatasi e caduta a terra dalla sorpresa.

«Che domande. Dalla mia fidanzata, si intende» disse, con un sorrisetto, e sparì oltre la porta.

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Capitolo 3
*** L'inganno ***


John non seppe quanto restò fermo lì, ma si disse che doveva essere molto poco, infatti Sherlock era rispuntato dall'uscio dal quale se n'era andato.

«Beh, non vieni?» domandò, come se fosse una cosa ovvia.

John scosse la testa come a riprendere il controllo di sé e si passò una mano sul viso, velocemente.

«Venire dove?» ribatté quello, ancora stordito. Sherlock mise di nuovo su il suo sorrisetto ironico e vagamente maligno.

«A conoscere la mia ragazza» disse, mentre John questa volta si decideva ad inseguirlo, raggiungendolo dopo qualche passo di vantaggio dell'ex coinquilino.

«Mi sembrava che... avessi detto che le donne non sono il tuo campo» disse, mentre entravano in un taxi.

«La piccola Agnes è la segretaria personale di Milverton. È perfetta per avere dettagli sul suo ufficio e su dove tiene tutte le sue cose. Mi ci è voluto un po' per acquistare la sua fiducia, e si è persino invaghita di me, cosa che risulta molto utile» spiegò Sherlock, mantenendo quell'aria divertita e un po' malevola.

«Sherlock! Non vorrai mica illudere questa povera ragazza solo per i tuoi scopi, vero?» protestò John, ancora vagamente in ansia per la rivelazione di poco prima, nonostante i suoi sospetti fossero stati smentiti. Era ancora dubbioso, però...

«John, mi considereranno un uomo senza cuore, ma non lo sono. Non del tutto. Hai detto anche tu che sto migliorando. Agnes non mi sembra proprio il tipo che si lasci buttare giù da una cotta andata male... e c'è una lunga fila! Già uno dei redattori mi ha preso in antipatia da quando la vado a salutare durante le pause...» spiegò Sherlock, mentre il taxi rallentava e accostava di fronte a un edificio vecchio stile, rimodernato. Non era la solita cattedrale di vetro e acciaio della city, ma l'aspetto vittoriano di sempre era stato spruzzato di segni del nuovo millennio.

John uscì dietro di lui, pagando il conducente con i soldi che l'amico gli aveva passato, ed entrambi entrarono nella casa editrice. Superarono alcune segretarie, e il medico restò ancora una volta di stucco nel vedere come l'atteggiamento dell'amico fosse completamente cambiato. Aveva il viso più aperto, gli occhi leggermente sfuggenti come li avrebbe avuti una persona in generale socievole ma timida quando aveva delle conoscenze superficiali. Tutti più o meno gli accennavano un saluto o uno sguardo amichevole, il che sembrò sempre più strano a John, finché un giovane stagista, intento a fare fiumi di fotocopie, non lo avvisò che Agnes era alla solita scrivania, in attesa di lui.

Una parte di John restò quasi delusa nel vedere Agnes, come se si aspettasse qualcun altro: era una ragazza molto carina, con il viso rotondo e un taglio di capelli corto, a caschetto, di un nero corvino intenso. Gli occhi chiari erano incorniciati dal trucco marcato ma non appariscente e da una montatura squadrata, nera, abbastanza sottile per non appesantirle il viso e abbastanza spessa per essere alla moda. Era vestita in modo semplice ma professionale: una camicetta con le maniche a palloncino bianca, gonna a vita alta nera e dritta fino appena sopra il ginocchio. Quando vide arrivare Sherlock si illuminò tutta, alzandosi e mostrando il favoloso tacco 12 e un plateau che la slanciavano in maniera vertiginosa, mentre circumnavigava la scrivania e giungeva di fronte al proprio “ragazzo”. John credette di sognare quando vide i due prendersi mani nelle mani e lo sguardo malizioso e un po' sognante di entrambi.

«Sei riuscito a venire allora... Mr Milverton non è in ufficio per un paio d'ore quindi...» iniziò lei, con una vocina squillante e vagamente nervosa, ma non per questo spiacevole da sentire.

«Non posso restare, purtroppo... volevo solo presentarti il mio amico John» replicò Sherlock, con il viso e il tono di chi preferirebbe morire che lasciarla lì con quel faccino deluso che aveva messo su.

«John... non mi hai mai parlato di un John...» disse Agnes, mentre Sherlock la prendeva per le braccia e la costringeva a voltarsi verso Watson, visibilmente imbarazzato. La ragazza sembrava in preda a un capriccio da bambina, ormai conscia che il suo caro fidanzato non le avrebbe fatto compagnia. John stava quasi per presentarsi da solo, ma vide che entrambi i suoi interlocutori trasformavano le loro espressioni in un sorriso.

«Certo che mi ha parlato di te, è un piacere conoscerti, John...» continuò Agnes, porgendogli la mano, dotata di unghie perfette, e lui la strinse.

«È che sono così triste...» spiegò, rimettendo il broncio e tornando a sedersi, sbuffando «proprio oggi che Mr Milverton è fuori per un po'...»

Sherlock si avvicinò a lei, facendo venire i brividi all'amico per la facilità con cui riusciva a fingere, e si appoggiò ai braccioli della sua sedia. I loro visi erano vicinissimi e i loro sorrisi erano egualmente maliziosi.

«Hai qualcosa da fare però per mitigare la mia assenza... o no?» le sussurrò. John si guardò intorno, e vide che non c'era nessuno. Agnes allargò il suo sorriso e gli occhi le si allargarono dalla sorpresa.

«Oh... certo... però poi mi aspetto una bella ricompensa» ribatté lei e per John fu troppo. Chiamò l'amico con il suo tono solitamente spazientito, ma l'investigatore non reagì con il solito sguardo infastidito. Sussurrò qualcosa alla ragazza e la salutò con quello che lei aveva deciso essere un bel bacio appassionato. John quasi si sentì le gambe cedere e non ebbe neppure il tempo di voltarsi che l'immagine gli era rimasta stampata nel cervello. Sherlock si allontanò dalla ragazza e fece cenno all'amico di muoversi e seguirlo. John si riprese poco dopo, salutando la ragazza che era ancora apparentemente nel mondo dei sogni.

 

Sherlock era steso sul divano, in contemplazione del soffitto, in attesa di notizie. John si chiedeva invece che cosa ci facesse lì e camminava avanti e indietro.

«Potresti evitare di fare così? Rovini il tappeto di Mrs Hudson» lo apostrofò, e l'amico finì con lo scoppiare.

«Ma ti rendi conto di quel che stai combinando?» sbottò, fermandosi sul posto. Sherlock sospirò.

«Certo. Sto per ricevere le planimetrie dell'ufficio di Milverton, e stasera potremo intrufolarci di nascosto là per rubargli tutti i documenti falsi e riservati, fotografie comprese, che ha sottratto illegalmente» spiegò, alzandosi con un balzo e andando alla finestra, contento come un bambino che ha ricevuto il suo giocattolo preferito per Natale.

«Non... aspetta hai detto intrufolarci?» ribatté, confuso «quel “ci” non mi piace»

Sherlock si voltò, come sempre dubbioso di fronte al fatto che John non capisse al volo quando era richiesta la sua presenza.

«Non posso andare da solo. Mi serve un complice. Anche se sono molto intelligente, almeno mi servirà un palo. O dovrei chiederlo alla bella Agnes?» concluse, con quel sorrisetto malizioso che a John sembrava tanto sospetto.

«Mi pare che tu ti stia approfittando un po' troppo di quella ragazza... la stai illudendo e per quanto tu possa essere convinto che abbia uno stuolo di pretendenti, mi sembrava piuttosto convinta di non doversene cercare uno per molto tempo... sarà stata una sceneggiata niente male per te, ma non credo sia solo questo per lei!» sbraitò John, poco incline ai comportamenti insensibili dell'amico. Sherlock si ricompose subito, e mise su la sua espressione seria.

«Ho i miei metodi, John, e questo è il più efficiente ed efficace. So che hai una certa opinione di me, ma dovresti conoscermi ormai» disse, la voce baritonale con un tono che non ammetteva repliche. Watson era sul punto di lasciarlo lì, o di strozzarlo, quando Mrs Hudson entrò nella stanza con un plico di documenti ben chiusi in una grossa busta, aperta.

«Una morettina mi ha appena consegnato questi per te, Sherlock... sembrava ansiosa di entrare ma mi avevi detto di far finta che non eri in casa. Sono quasi dell'idea che abbia una cotta per te, caro» concluse, lasciandogli il mazzo di fogli. Prima di andarsene, si rivolse a John:

«Povero tesoro, non sa certo che Sherlock ha ben altri gusti... peccato che fra voi due non abbia funzionato, era così migliorato quando vivevate insieme...»

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Capitolo 4
*** La chiave ***


John riuscì a ritagliarsi qualche ora, soprattutto per trovare il coraggio e una buona scusa da dare a Mary. Non poteva lasciare Sherlock da solo: nel caso della donna in rosa poco ci mancava che finiva in galera per aver trattenuto una valigia, figuriamoci un'effrazione; senza contare che si era quasi avvelenato da solo per puro orgoglio. Doveva aiutarlo, sia per questo sia per il fatto che in fondo... era suo amico, anche se questa storia di andare a derubare quel direttore lo agitava parecchio.

Stava camminando lungo una delle strade secondarie della grande Londra, lontano dalla City ma anche dai quartieri che sembrano ancora immersi nella seconda guerra mondiale. C'era un buon numero di persone che si spostavano a piedi, uomini d'affari con la valigetta in una mano e il telefonino all'orecchio, qualche turista che si era perso o aveva trovato una scorciatoia, qualche lavoratore che faceva delle commissioni, e tanti altri. John era ancora immerso nei suoi pensieri ma quando si guardò attorno, si accorse che non avrebbe avuto pace, neanche in quel momento. Dall'altra parte della strada rispetto a dove si trovava, c'era un piccolo locale, un pub vecchio stile non particolarmente signorile ma neppure una bettola. Il legno scuro incorniciava le vetrate e qualche tavolino era stato sistemato all'esterno, sormontato da qualche cestino pensile corredato di fiori colorati. John cercò di mescolarsi allo sfondo e osservò la coppia di avventori seduta al tavolo che dava direttamente sulla finestra. Riconobbe indubbiamente la sua amica Irene Norton, proprio di fronte all'ispettore Lestrade. I due non sembravano parlare di qualcosa di importante, ma nei loro modi c'era qualcosa di strano. Innanzitutto il dottor Watson si chiese che cosa avessero da dirsi: che ci fossero stati degli sviluppi sul processo all'omicida di Godfrey Norton? Eppure non aveva sentito dire nulla su un possibile appello. Che cos'altro potevano avere in comune un ispettore di polizia e un'attrice se non il caso di omicidio che li aveva fatti conoscere? Irene disse qualcosa, sorridendo in modo molto dolce e le labbra di Lestrade si arricciarono a loro volta, con lo sguardo basso un po' imbarazzato. Quando John vide le loro mani scivolare le une sulle altre, decise che aveva violato abbastanza la loro privacy. Che fosse lui l'uomo di cui Mary parlava? Non c'era che dire, Lestrade sembrava un uomo per bene, dedito al suo lavoro in maniera di certo più sana del suo amico Sherlock, ma in qualche modo non gli sembrava giusto che proprio lui... ma che stava pensando? Voleva trovare una fidanzata al suo ex coinquilino, forse? E proprio Irene? Al pensiero, si sentiva persino preoccupato per lei. Sempre più confuso, si diresse a casa, scuotendo la testa e stropicciandosi il viso.

 

Mary salutò il fidanzato subito un paio d'ore dopo cena, e non fu convinta dalle sue parole. Di sicuro, c'entrava Sherlock. Sperava solo che non fosse niente di (troppo) pericoloso. In effetti, come prevedibile, c'entrava proprio lui: Holmes aveva intercettato l'amico Watson a metà strada, proponendogli o per meglio dire forzandolo ad una tappa da Angelo per organizzare il piano d'azione. Inutile dire che John non protestò più di tanto, solo lo convinse a lasciarlo con Mary per qualche ora, e infatti si trovarono di fronte al locale alle 22 precise. Gli parve che il proprietario del ristorante volesse chiedere a Sherlock qualcosa, ma che non si arrischiasse a farlo di fronte a lui. L'amico spiegò a John che si sarebbero introdotti nell'ufficio di Milverton all'incirca alle 24, entrando da una uscita secondaria che nella ristrutturazione era stata praticamente ignorata, e risaliva alla fine del diciannovesimo secolo. Da lì avrebbero evitato i sistemi di sicurezza risalendo e introducendosi negli alloggi per la servitù, lasciati intonsi ma svuotati, e da una botola si sarebbero calati direttamente nelle stanze adiacenti allo studio, non allarmate perché lontane dalle finestre. Gli mostrò le planimetrie, il percorso, e la strada per non farsi notare da poliziotti o guardie civili impegnate in una ronda. John però aveva una domanda:

«Se dobbiamo entrare lì alle 24, perché mi hai requisito quasi due ore prima?» sbraitò John, mentre Sherlock riponeva le sue carte.

«Abbiamo bisogno delle chiavi: degli armadietti e della cassaforte. Agnes dice che li porta sempre con sé, evitando che se qualcuno si intrufoli cerchi di indovinare una qualche combinazione» spiegò il detective. Si alzò e si mise il cappotto, dato che l'aria era ancora piuttosto gelida. John lo guardò con la fronte aggrottata, in attesa.

«Ho qualcuno che ci sta lavorando, ma dobbiamo raggiungere un posto. Potrà anche risultare utile per il tuo addio al celibato...» concluse, con un sorrisetto. Angelo fece cenno ai due di andarsene pure, e John ringraziò con un cenno del capo, dubbioso.

«Ti devi essere bevuto il cervello... che ci facciamo qui?» esclamò John, con un leggero tono nervoso nella voce alterata, di fronte alla porta di un locale notturno.

«Recuperiamo le chiavi. Hai forse paura?» domandò l'amico, entrando prima di lui. John lo seguì dentro. Non era diverso da come se l'era aspettato: uno strip club di media grandezza, con una certa quantità di porte per lasciare un po' di privacy ad alcuni avventori e un paio di piste dotate di pali, una più grande, che somigliava quasi a un palco per sfilate, e una più piccola proprio dall'altra parte. Era già piuttosto affollato, ma era possibile, se ci si faceva caso, seguire i movimenti di qualcuno. Difficile però udire parole che non fossero schiamazzi:

«Eccola» disse Sherlock, allontanandosi dalla folla e sistemandosi in un angolo, non visto. John si voltò verso il punto in cui aveva guardato l'amico e si ritrovò praticamente solo. Fu trascinato da un paio di sconosciuti alticci intorno a uno dei pali più vicini e si accorse che l'intrattenimento stava arrivando. Una delle ragazze che lavorava nel club si stava avvicinando a loro, appena uscita da una saletta, e John restò di stucco. Era alta, ma non troppo, con i capelli castani lunghi fino alle spalle che avevano delle piccole onde vicino alle punte, e gli occhi nocciola. Portava quello che sembrava niente più di un completo intimo e negligé di colore verde chiaro. John ebbe un fugace momento in cui sentì la testa leggera e il sangue ribollirgli, quando lei lo superò e salì sulla plancia di fronte a lui. La musica non si era fermata da quando erano entrati e lo show iniziò. L'esimio dottor Watson non ebbe tempo di accorgersene, che lei l'aveva preso in considerazione come primo intrattenitore: era il più sobrio, cercare di incantarlo avrebbe portato più soldi al bar e più soldi a lei, una volta che avesse alzato un po' il gomito. John cercò di estraniarsi il più possibile, pensando a cosa gli avrebbe fatto Mary se l'avesse scoperto, ma non era affatto facile... dopo un paio di minuti che non sembravano finire mai, sentì chiaramente che le mani di lei non stavano tentando ancora una volta di farlo disinibire, ma avevano trovato una tasca e ci stava facendo scivolare... delle chiavi!

John, rincuorato, ringraziò il cielo quando la ragazza lo lasciò andare e raggiunse Sherlock che, nel frattempo, non sembrava essersi divertito quanto lui. Aveva un'espressione neutra, quasi cupa, finché non tirò fuori, di malagrazia, le chiavi dalla tasca dell'amico, e il suo viso guadagnò un bel sorriso compiaciuto. La ragazza fece finta di essere stata richiamata e Sherlock parve d'improvviso parecchio ubriaco, tanto che fece finta di caderle addosso: John si ritrovò distante, perché l'investigatore l'aveva quasi travolta, facendola muovere di qualche passo indietro rispetto al dottore. Watson vide che le diceva qualcosa all'orecchio e le prendeva la mano, nella quale rimase un sontuoso biglietto da 100 sterline. La ragazza mise su un sorriso e si allontanò, con il passo di una pantera, mentre Holmes riguadagnava la sua impeccabile indifferenza e si faceva strada tra la folla, con dietro un Watson ancora un po' stordito e rosso sulle guance.

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Capitolo 5
*** Il furto ***


Ancora si chiedeva perché non avessero il volto coperto, ma John era stato prontamente zittito. A parte che era convinto che il suo amico Sherlock Holmes fosse troppo orgoglioso per assomigliare ad Arsenio Lupin o a un qualsiasi fantoccio mascherato, ma lui stesso lo rassicurò sul fatto che Agnes, la segretaria, aveva truccato il sistema di sorveglianza: dalle 24 si sarebbe disconnesso e avrebbe mandato in onda, a ripetizione, i video di Lady Gaga.

«Lady Gaga?» chiese John, mentre si avvicinavano allo stabile. Era nervoso, spaventato, ma era stato un soldato e lo era ancora: non tremava e non batteva ciglio. Era pronto all'azione.

«Non gliel'ho mica suggerito io. Ha detto che sarebbe stato divertente» commentò Sherlock, mentre un sorrisetto sardonico gli si dipingeva in volto «mi dispiacerà lasciarla, era un elemento molto utile e creativo»

John stava alzando un dito per ricominciare con la sua ramanzina, ma Sherlock era riuscito ad aprire la porta di servizio sul retro. Erano le 00:01, erano al sicuro da occhi meccanici indiscreti... e da quelli umani? Strisciarono per corridoi di servizio e piccole scalette malconce. Per poco John non rimase incastrato in un gradino fasullo di una scala antica e pericolante. Riuscirono a raggiungere in fretta gli ex appartamenti della servitù: il dottor Watson riconobbe l'odore di chiuso da troppi anni, e l'odore della carta che non veniva sfogliata da decenni.

«Quanti capolavori stanno marcendo per l'ignoranza di un solo uomo? Probabilmente i proprietari di questo stabile avevano deciso di salvare il salvabile chiudendo i loro volumi qui... spero proprio che alla rovina di Milverton qualche uomo di cultura si prenda questo stabile» commentò Sherlock, e John si ritrovò a sperarlo a sua volta, mentre l'adrenalina iniziava a circolare sempre più veloce nelle sue vene.

Scesero attraverso una botola in una stanza buia, se non fosse stato per la grossa torcia di Sherlock, che lo aveva costretto a portarla, dato che lui aveva bisogno di avere le mani libere. Riuscirono ad entrare da un'unica porta nello studio di Milverton. John Watson ne fu sorpreso, anche per il fatto che l'amico non aveva intenzione di verificare che effettivamente fossero non visti e non sentiti. Immaginò poi che la povera e illusa Agnes si fosse occupata di tutto.

Sherlock Holmes e John Watson si guardarono intorno, nella penombra delle luci di sicurezza in stand-by: una parte di biblioteca vittoriana era stata adibita a studio. I libri sugli scaffali erano stati spostati solo nella ristrutturazione a giudicare dalla polvere che si era accumulata, e i due rabbrividirono nel vedere che una di quelle librerie antiche era stata del tutto scardinata per poter creare un muro di separazione con il ripostiglio dal quale erano entrati. La scrivania era antica ma maltenuta, con i documenti in ordine che però sovraccaricavano la struttura, cassetti nuovi, sostituiti per ragioni di sicurezza che avevano minato le guide originali, soluzioni troppo acide per pulire... finalmente posarono gli occhi su un quadro antico piuttosto pacchiano, di quelli che ai tempi degli impressionisti ricevevano gli elogi delle accademie a discapito dei capolavori di Manet: una Venere classicissima e lasciva.

«Banale, me ne rendo conto... ma per quanto Milverton sia intelligente, meglio controllare se qui sotto c'è...» iniziò, a voce bassa, ma si zittì subito e rimase fermo, allarmato, muovendo solo gli occhi «vieni!» intimò Holmes all'amico, trascinandolo dietro a una delle grosse tende damascate, anch'esse maltrattate.

La porta si era aperta e la luce della stanza si era accesa pochi istanti dopo che i due si erano nascosti: quello che sembrava un manutentore o una guardia notturna si guardava intorno piuttosto scocciato e borbottante. John lo vedeva con la coda dell'occhio da dietro la tenda, essendo nascosto per pochi centimetri di tenda. Si sentiva il cuore in gola per la paura, e non sapeva dire come si sentisse Sherlock, che non vedeva, pur essendo accanto a lui. Sperò che avesse tutto sotto controllo, e che osservasse dall'altro limite della stoffa.

Il nuovo venuto, un giovane alto e dinoccolato, dai capelli biondo sbiadito, non sembrava avere particolare interesse a scovare intrusi. Si mise a girare guardandosi intorno, camminando con tranquillità, e si sedette al posto di Milverton, accomodandosi per bene e appoggiando le scarpe sulla elegante scrivania.

«Un gran bastardo come te ha fin troppe cose... e noi onesti sgobbiamo per una paga misera. Spero proprio che ti vada di traverso il cocktail, dovunque tu sia!» esclamò, ironicamente, per poi rialzarsi con un balzo. Buttò un occhio in giro, frullando un po' la torcia e se ne uscì con un sorrisetto beffardo. John tirò un fin troppo sonoro sospiro di sollievo, e si beccò una spinta da parte di Sherlock.

«Se vuoi andare a richiamarlo, prego» sibilò, risentito, l'investigatore. Non ci mise più di qualche secondo a trovare l'archivio segreto dietro al quadro pacchiano: lettere, foto, pendrive, appunti presi da diverse mani e stampati da diverse stampanti a getto d'inchiostro, e persino un iPad. Gli occhi di Sherlock brillarono e non si fece scrupolo a caricare John come un mulo. Quest'ultimo, scampato il pericolo di perdere tempo a rovistare, sembrava parecchio propenso a fuggire via e a tornare da Mary il prima possibile, ma Sherlock non aveva finito. Le chiavi consegnategli dalla spogliarellista erano due, e una era stata usata per la cassaforte. Mancava qualcosa. Una delle librerie sembrava trattata meglio delle altre, e alcuni libri non avevano il consueto strato di polvere sopra e di fronte alla costina. Sherlock li rimosse e scoprì uno sportellino di legno pressoché invisibile. John non riuscì a capire di che documenti si trattasse, perché nonostante le luci di emergenza, dove stava l'amico era piuttosto buio e lui teneva la propria torcia talmente vicina che era un miracolo che riuscisse a leggere a sua volta. Sherlock prese i documenti per sé, con un evidente scontentezza e rabbia sul volto, che John non osò indagare sul momento, pensando che potevano essere carte che riguardassero l'investigatore che aveva di fronte.

Uscirono senza particolari problemi, rifacendo la stessa strada, e si ritrovarono sul retro dello stabile. John non sembrava ansioso di farglielo sapere, ma aveva tutta l'intenzione di lasciarlo tornare a Baker Street solo soletto... la serata era stata fin troppo movimentata per i gusti della sua ragazza. Parte del medico avrebbe voluto restare, ma non poteva fare questo a Mary.

«Condividiamo un taxi. Dallo strip club possiamo anche separarci, poi» sentenziò Sherlock, notando l'indecisione dell'amico.

«Dallo strip club? E che ci andiamo a fare?» esclamò sorpreso e allarmato John.

«Riportiamo le chiavi a Milverton. Sarà ancora svenuto nel privé, ed evitare che pensi che qualcuno l'ha derubato ci farà molto comodo. Prima che si risvegli, gliele riporremo dove le ha sempre avute e ci metterà di più a capire chi l'abbia rovinato del tutto» spiegò Sherlock, fermando un solitario taxi che gironzolava da quelle parti a tarda notte.

John sospirò, mentre infilava tutto (tranne ciò che aveva trafugato Sherlock) in una ventiquattrore che il tassista, stranamente familiare alla faccenda, gli porgeva.

«Tranquillo, Mr Holmes. Sa che si può fidare del vecchio Smithy» biascicò l'autista, con un grosso doppio mento. John Watson pensò che somigliava un po' a Churchill. Holmes fece un cenno di intesa all'autista, che partì subito dopo che i documenti furono nascosti.

John Watson non poté credere ai suoi occhi mentre risplendevano a intermittenza le luci blu e rosse della polizia fuori dallo strip club. Notò che Sherlock stava per dire a Smithy di non fermarsi, ma i suoi occhi caddero sulla sua complice, appena ammanettata dall'agente Donovan.

«Fermo, fermo. Risolviamo questa faccenda...» disse, sotto lo sguardo inorridito di John, mentre consegnava la ventiquattrore e scendeva, per andare dritto verso Lestrade, apparentemente molto infastidito di avere il turno di notte... e un cadavere in un locale equivoco.

«Spero che tu non c'entri niente con questo omicidio, Sherlock... anche se la signorina dice di conoscerti» disse, scocciato, l'ispettore. Sherlock mise su una faccia piuttosto offesa.

«Non ero qui, al momento dell'omicidio. A John non è piaciuto il locale e siamo dovuti andare via. Gli addii al celibato non sono il mio forte» ironizzò l'investigatore, mentre John evitava di squittire per il nervosismo.

«La signorina conferma che ve ne siete andati prima di mezzanotte... ma, visto che sei qui, cerchiamo di capire quali di queste... donzelle devo portare al commissariato per l'omicidio e quali per prostituzione»

«Chi è morto?» domandò John, beccandosi un'occhiata ammirata dell'amico. Sembrava più sorpreso che terrorizzato.

«Charles Milverton, il direttore di una rivista di gossip. A quanto pare la vostra amica l'ha intrattenuto in un privé, e lo hanno trovato pochi minuti fa nello stesso posto, morto. Il medico legale mi deve far sapere l'ora del decesso ma è quasi evidente che sia stato ucciso meno di un ora fa... con qualcosa che gli ha colorato le vene di un bel viola intenso» concluse, mentre Sherlock si faceva strada da solo. La sua complice nel furto delle chiavi sorrise, mentre le altre lo salutavano con un pochino più di veemenza.

«La terza da sinistra» disse, tornando indietro, all'ispettore. Era la ragazza accanto alla loro complice.

«Oh, bene, ora lo capisci senza neanche avvicinarti?» sbuffò Lestrade.

«Non c'è bisogno che io la strucchi per vedere che sotto quel travestimento si cela la figlia di un noto lord vicino alla famiglia reale, smascherata l'anno scorso dalla vittima in uno scottante servizio fotografico sulla liaison con il figlio del giardiniere... interessante che in questo nuovo millennio queste cose siano ancora motivo di rancore, non trovi?» spiegò Sherlock, mentre la ragazza metteva su un cipiglio a dir poco reale e allungava le mani in segno di resa, dichiarando di andare fiera del suo gesto.

«Beh, milady, è gentile da parte sua confessare di fronte a dei testimoni... mi risparmierà parecchia fatica. Non sempre gli do ascolto, ma a questo punto dovrei farlo più spesso» sentenziò Lestrade. John voleva già scapparsene in fretta, mentre Donovan si occupava del proprietario dello strip club, intento a difendere le sue “ragazze” e a dichiarare quanto era stato ingannato dalla assassina. L'ispettore, però, doveva chiedere qualcosa a Sherlock, e sembrava doverlo fare in privato. Inizialmente, Holmes era come sempre propenso a lasciare che Watson ascoltasse, ma uno sguardo eloquente del suo interlocutore lo convinse a una chiacchierata più confidenziale. John non era bravo a leggere le labbra, ma intuì dai modi e dalle loro espressioni che stavano quasi litigando, come se Lestrade gli stesse facendo una ramanzina, e poi lo stesso ispettore sembrò scusarsi di qualcosa, dopo una frase piuttosto arrabbiata e risentita di Sherlock. Calò il silenzio tra di loro, e Lestrade sembrò salvare la situazione, perché Holmes rimase serio ma non sembrava più così arrabbiato.

Quest'ultimo raggiunse John, che dopotutto si offrì di accompagnare l'amico a Baker Street, ma quello lo lasciò solo nel tragitto verso casa, e il dottor Watson, ancora perso nei suoi dubbi, si dimenticò persino di inventarsi una buona scusa per la sua Mary, che si limitò a considerare che era ancora vivo e senza un graffio, e ne doveva essere ben contenta.

John Watson credeva che il tutto si fosse risolto, quella notte, ma sperava non fosse così perché la sua mente era piena di domande. E le risposte erano proprio dietro l'angolo, in attesa che lui le scoprisse.

 

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Capitolo 6
*** Il viaggio ***


Arrivò il giorno in cui Irene partì per la regione dei laghi. Aveva un piccolo cottage appena fuori dalla città di Windermere, e Mary si era offerta di accompagnarla a prendere il treno, dato che partiva sola. John e lei l'avevano portata in stazione più di una volta, eppure Mary si era accorta che il suo futuro sposo era sempre più pensieroso.

«Non hai più avuto notizie di Mr Holmes?» chiese, mentre lui era intento a guidare la sua auto.

«Non l'ho rivisto, in questi giorni, dopo l'assassinio di Milverton. Ma Mrs Hudson mi ha fatto sapere che è partito ieri, ed è un po' preoccupata. È sparito lasciandole soltanto detto di ritirare la posta per lui, nient'altro. Credo abbia un caso fuori Londra, di solito non lascia la città per altri motivi» replicò, con un tono piuttosto strano. Mary tornò a guardare la strada.

«Non dovresti essere così ansioso, John. Forse non aveva bisogno del tuo aiuto, per una volta. Hai detto anche tu che è un genio» buttò lì Mary, probabilmente centrando parte del problema. John restò silenzioso, ma si comportò come niente fosse quando si fermarono di fronte a casa di Irene e la fecero salire, valigia compresa. Durante il viaggio Mary e Irene parlarono un po' del più e del meno, mentre John ascoltava, la fronte aggrottata per la concentrazione di guidare, e non solo.

Una volta trovato un parcheggio, non ci misero molto ad arrivare al binario. Si fermarono lì, in attesa che il treno si fermasse perché lei potesse salire. Irene sembrava distratta, quasi tesa, finché il motivo della sua ansia non si manifestò nella presenza dell'ispettore Lestrade che, a distanza, le chiese di raggiungerlo. Mary guardò il suo dottore con apprensione, ma quello restò con gli occhi puntati sui due. Non vide i modi affettuosi e gli sguardi di alcuni giorni prima, ma era indubbio che lui fosse molto preoccupato per lei e che lei stessa sembrasse pendere dalle sue labbra. Irene buttò gli occhi a terra come se si vergognasse di qualcosa, con un sorriso amaro e lui la imitò, per poi chiederle qualcosa, o forse per farle una raccomandazione. Lei sorrise, gli prese le mani e le baciò, per poi tornare dai suoi amici, con un sorriso da perfetta attrice.

«Tutto a posto?» chiese John, lo sguardo indagatore. Per un attimo, lei parve guardarlo con delusione e sospetto, ma fu una frazione di secondo.

«Sì, sì. Non ci sono problemi» replicò, senza riuscire a guardarlo negli occhi.

Mary le ricordò che il treno doveva partire, e non l'avrebbe aspettata. Le due ragazze si abbracciarono, e Irene fece lo stesso con John, per poi separarsi da lui e salire sul treno, portando su per primo il suo bagaglio.

Mary si voltò verso di lui, mentre Irene prendeva posto, e vide che il suo compagno era fermo immobile, le labbra schiuse, come se avesse avuto una rivelazione. Si sarebbe preoccupata, se lui non fosse tornato subito in sé e non avesse salutato insieme a lei la loro amica, che si distrasse solo un attimo dalla sua lettura. Mary si avviò poi verso l'uscita e John fece lo stesso, ma solo per qualche passo. Quando i segnali degli altoparlanti annunciarono la partenza imminente del treno, lui la fermò, prendendola per un braccio e facendola voltare. Il medico la guardo per un istante, per poi baciarla come probabilmente non l'aveva mai baciata prima. Mary perse la cognizione del tempo e dello spazio, finché lui non la lasciò andare.

«Perdonami» le disse, in un soffio.

«P-perdonarti per cosa?» domandò lei, ancora confusa. John sorrise, e schizzò via verso il treno, ormai in movimento. Si lanciò verso una porta e la aprì di volata, beccandosi l'insulto di un controllore che gli chiese subito il suo titolo di viaggio, una volta che la porta fu chiusa. Mary corse verso la coda del mezzo, ma riuscì solo a distinguere il suo futuro marito che tirava fuori un biglietto ferroviario.

 

John non si era del tutto nascosto, anzi, era rimasto sul treno come un qualsiasi passeggero, sapendo perfettamente che Irene si sarebbe fermata a Windermere. La ragazza era qualche scompartimento più vicina alla testa del mezzo, e per quanto ne sapeva non si era accorta affatto di lui. Era vero, l'aveva premeditato, ma il giorno prima il puzzle di idee nella sua testa stava iniziando a riordinarsi, e il tassello centrale era sempre quello, Irene. Si era detto che probabilmente era una follia, che non l'avrebbe seguita. Ma quel dettaglio... come ignorarlo!

Stava quasi per perdere le speranze di arrivare, dopo 6 ore di treno attraverso la campagna inglese, ma finalmente il treno sembrò essere arrivato a destinazione: era ormai finito il pomeriggio, e il cielo iniziava a tingersi di rosso.

Irene era già scesa, ma John aspettò di essere lontano da occhi indiscreti, e riuscì a toccare terra mentre la ragazza andava a salutare la persona che la stava aspettando. Al contrario dei sospetti di lui, si trattava di una donna più o meno della sua età, un tipo piuttosto in carne e campagnolo, ma dal viso gentile. Le due si abbracciarono con dei sorrisi allegri e la amica si offrì di portare la valigia ad Irene. Quella rifiutò e anzi la prese con convinzione, cercando l'uscita della stazione insieme a lei. John era un medico, ma era pur sempre stato un soldato e aveva la capacità di passare inosservato, e non solo per il suo aspetto ordinario. Seguì le due, a debita distanza, finché queste non si fermarono di fronte all'auto della amica di Irene e non caricarono le valige di Irene nel bagagliaio. Il medico si trovò spiazzato, chissà perché, nella foga del momento, non ci aveva pensato! Raggiunse il primo taxi disponibile e ci salì sopra.

«So che le sembrerà assurdo ma le assicuro che non sono pazzo, e non sono ubriaco. E soprattutto, non ho brutte intenzioni... può seguire quell'auto?» domandò, piuttosto imbarazzato, al conducente. Quello osservò lui, con la fronte aggrottata e un sopracciglio sollevato, e poi le due donne nell'auto e, dopo una piccola alzata di spalle, mise in moto e partì.

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Capitolo 7
*** La rivelazione ***


Il taxi restò a distanza rispetto all'auto in cui si stava muovendo Irene. John si congratulò mentalmente con l'autista, che gli era sembrato un po' stordito, perché riusciva a sparire dalla vista della donna inseguita ad ogni curva o macchietta di alberi e arbusti. Guidarono per non più di una decina di minuti e, senza preavviso ma lentamente, il tassista accostò. John si avvicinò ai sedili davanti, sedendosi sul ciglio del suo, per protestare, ma il suo interlocutore lo precedette. Questi si voltò e abbracciò lo schienale del passeggero davanti, come se dovesse fare retromarcia. Non si era accorto che probabilmente era anche un po' più giovane di lui, un ragazzotto semplice ma dal viso simpatico.

«Senta, per quanto ho capito lei deve essere il dottor John Watson. So chi stavamo inseguendo, è stata Miss Adler a parlarmi di lei. Miss Adler vive in quel cottage con il tetto più scuro e le pareti bianche, laggiù. Se ha intenzione di andarla a salutare faccia pure ma io non la porto più in là di qui, mi dispiace» spiegò, con un sorrisetto annoiato, sotto gli occhi increduli e la bocca semiaperta di John «con questa storia degli stalker siamo stati molto attenti, e Miss Adler ci ha raccontato tutto. Non si preoccupi, so che non ha brutte intenzioni, ma qualcuno potrebbe e bisogna tenere gli occhi aperti» concluse.

John annuì debolmente, e allungò del denaro.

«Oh, no, no. Offre la casa» concluse, con un occhiolino «Miss Adler si arrabbierebbe con me se la facessi pagare, e non voglio che sia in collera, la adoriamo tutti qui. Un po' meno il suo...» iniziò, ma si fermò di colpo, come se avesse detto troppo.

«Il suo...?» lo incoraggiò, ma l'autista sembrava terrorizzato.

«Non mi metta in brutte situazioni, dottor Watson... vada dove vuole, ma mi lasci tornare in città» concluse, e John decise di ringraziarlo e di scendere dal taxi.

Non si era sorpreso di sentire il cognome da nubile di Irene: lo usava ancora a teatro, e lo aveva usato anche nel periodo in cui era sposata con Godfrey, prima che lo stalker lo uccidesse. Ma chi poteva essere “il suo”? Lestrade li aveva lasciati alla stazione e anche percorrendo lo stesso tragitto in auto non poteva essere già lì... si avviò lungo la strada che gli sembrava più nascosta per raggiungere il piccolo cottage e gli ci vollero pochissimi minuti per giungere sul retro, nascosto dalle fronde di alcuni alberelli e da alcuni arbusti dell'ampio giardino dei vicini. Si sentiva una sorta di spia, e la cosa gli dava due sensazioni completamente diverse eppure coesistenti: rimorso per voler a tutti i costi confermare le sue teorie e entusiasmo per la scoperta che stava per fare. Riusciva a vedere distintamente l'interno di un soggiorno ben arredato e giustamente luminoso, ma di persone nessuna traccia. Sentì frenare un'auto e vide scendere Irene da essa, forzatamente tranquilla. L'amica la aiutò a togliere la valigia dal bagagliaio e le vide parlare un po' concitatamente. Irene sembrò rassicurarla quando le posò una mano sulla spalla e stiracchiò un sorriso nervoso, e così l'amica, dopo aver annuito in maniera impercettibile, risalì in macchina e si allontanò lentamente. Irene si guardò un secondo intorno e trascinò il suo trolley su per qualche scalino e aprì la porta con un minuto mazzo di chiavi. John sentì una strana preoccupazione alla bocca dello stomaco: perché era così agitata? Non sembrava emozionata per un imminente incontro, ma preoccupata, e cercava di nasconderlo. Per quanto brava fosse come attrice, ora il suo aspetto era più vulnerabile del solito. Non vide dove aveva lasciato la valigia, ma la ragazza si diresse subito verso il salottino, portandosi una mano tra i capelli, gesto che John le aveva visto fare tante volte quando era nervosa, soprattutto nel periodo in cui Sherlock si era occupato del caso di suo marito, e...

 

John se lo sarebbe dovuto aspettare, in qualche modo. Parte di lui l'aveva sempre sospettato: come diceva Oscar Wilde, l'uomo può credere nell'impossibile ma non crederà mai nell'improbabile, ed era troppo improbabile per crederci davvero. Eppure stava accadendo, proprio sotto i suoi occhi. Irene era più o meno nel centro della stanza e affondava il viso nell'incavo della spalla dell'uomo alto e slanciato che la stava aspettando, e con le braccia circondava la sua schiena, stringendo con le dita la stoffa sottile della sua camicia di sartoria. Lui le stringeva la vita con un braccio e il busto e le spalle con l'altro, con il viso immerso dei suoi capelli rossi. Impossibile non riconoscerlo: il suo amico ed ex coinquilino, l'unico consulente investigatore di tutto il mondo... Mr Sherlock Holmes.

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Capitolo 8
*** L'agguato ***


Nonostante si sentisse un po' colpevole, John non poté fare a meno di osservarli. Rimasero abbracciati per pochi secondi, ma non gli sembrò che per questo fosse meno intenso. Non si separarono del tutto e si guardarono negli occhi per qualche istante. La distanza non era breve tra lui e la casa, ma John si rese conto che raramente aveva visto in Sherlock quello sguardo, e ricordava anche bene quando gliel'aveva visto: su quel palco abbandonato, quando Irene era stata resa una fata in fin di vita. L'amico era inorridito, quel giorno, al pensiero di saperla ormai morta, al pensiero di perderla. Pareva che fosse terrorizzato a quell'idea anche in quel momento, quando i loro visi si avvicinarono e le loro labbra si sfiorarono. John arrossì e si voltò, conscio di essere forse andato troppo in là, e la sua testa tornò ad affollarsi di domande.

Ciò che non vide fu che Sherlock fu il primo a separarsi da lei, chiudendo gli occhi come a reprimere il desiderio di non lasciarla più andare. Lei cercò di mantenere quel contatto, impedendogli di allontanarsi più di qualche passo, trattenendo le mani nelle sue. Quando riaprì gli occhi, Sherlock cercò di mantenersi risoluto. Odiava quella sensazione, eppure lo faceva sentire anche bene, come non si era mai sentito.

«John ti ha seguito» spiegò, e Irene trattenne per un secondo il respiro, pronta a un sospiro di sollievo, ma lui continuò «ma c'è qualcosa che mi sfugge... non può essere solo, ci sono troppe tracce e lui non le avrebbe lasciate, su quel taxi. C'è qualcun altro...»

La sua frase fu interrotta da un rumore di vetri infranti. Corsero nella stanza accanto, ancora sotto gli occhi attenti di John Watson. Si era voltato, cercando di capire da dove venisse il colpo che aveva provocato quell'incidente, ma non ne fu in grado. Si era nascosto molto bene, per fortuna, perché si disse che chiunque fosse stato non l'avrebbe lasciato lì a fare da spettatore.

Sherlock tenne Irene a distanza, all'ingresso della stanza e si chinò a prendere il peso che aveva sfondato la finestra. Era una comune pietra, ma vi era legato un messaggio. Lo lesse in fretta e scagliò fuori il sasso talmente violentemente da mancare Watson per un soffio.

Irene si accostò a lui, ma Sherlock la allontanò.

«Ti prego...» iniziò lei, ma lui stava già raggiungendo la porta. Si voltò, e la guardò sentendo di nuovo quell'orribile sensazione di essere intrappolato e di non riuscire a respirare. Aveva le braccia protese verso di lui, il viso spaventato ma gli occhi attenti e risoluti. Lui tornò vicino a lei, incontrando il suo sguardo, e le prese una mano tra le sue.

«Ti aiuterà, ma stai pronta» le sussurrò, baciandole la mano e sparendo come fosse stato uno spirito dei venti. Irene si portò quella mano al petto, e dopo un respiro profondo corse di nuovo nel salottino, sotto gli occhi attenti del dottor Watson, e tirò fuori, da un angolo nascosto della libreria, una rivoltella.

 

Il cottage era una bella casa di due piani, con due salottini da una parte, sala da pranzo e ampia cucina dall'altra, divisi da una scala che portava al piano di sopra, provvisto di tre camere accoglienti e due bagni. Era stato ristrutturato poco più di cinque anni prima che Irene Norton, nata Adler, la acquistasse. Il vecchio proprietario non era mai stato a Londra, e di conseguenza non l'aveva mai vista, ma la cosa non turbò affatto la nuova proprietaria, anzi. Sapersi al sicuro dalle indiscrezioni dei fan o della stampa era una vampata d'aria fresca, soprattutto per come le cose si stavano mettendo.

Irene restò nel salottino in cui John l'aveva vista con Sherlock: inutile rifugiarsi nel corridoio delle scale: sarebbe stata in trappola, mentre dal salotto poteva controllare una grossa fetta del giardino laterale. John si mosse sempre sottovento, attento a non farsi vedere e decise di restare fuori per capire se un aggressore poteva entrare di soppiatto. Era preoccupato per lei: raramente l'aveva vista così spaventata, forse solo con il suo stalker, e lo sguardo del suo amico non l'aveva convinto. Pensò che la sua mente sempre così fredda e calcolatrice fosse ora messa a dura prova.

John vide frusciare delle piante, ed anche Irene si mise subito in allarme. Una figura esile ma aggraziata si avvicinò alla casa, sotto gli occhi attenti di John: non lo aveva visto. Era una ragazza giovane, ma con il volto già incattivito e smaliziato. Quella strisciò lungo il perimetro del cottage e giunse alla porta sul retro: chiusa a chiave. Forse la credeva più stupida, ma non si fece fermare. Si avvolse il braccio con una specie di asciugamano perso da una borsa che aveva con sé e spaccò il vetro della porta con un pugno. John sentì come uno strano fastidio al suo di braccio, ma si mosse senza dare nell'occhio e fu subito dietro di lei. La donna si liberò della protezione e aprì la porta. Irene era ancora nel salottino, lontana dalle finestre ma non con le spalle al muro. Aveva sentito il rumore dei vetri e aspettava che il suo aggressore si avvicinasse, la rivoltella puntata già verso l'unica porta che dava sul retro della casa. L'aggressore si avvicinò con passo felpato, tirando fuori la sua arma, cercando di captare dei rumori. John Watson le arrivò alle spalle ma fece un passo falso: l'asse del pavimento ebbe uno scricchiolio quasi impercettibile. La donna si voltò e stava per sparargli, ma il medico fu più veloce: con una delle tante mosse di combattimento corpo a corpo che aveva purtroppo sperimentato in guerra, la disarmò. Quella non parve intenzionata a lasciar perdere: portando la borsa dietro di sé, dove non la impicciava, iniziò il contrattacco a mani nude.

«Ferma!» gridò la voce di Irene, dietro di loro, con una voce appena isterica. La donna si voltò e John la bloccò per le braccia.

«Chi ti ha mandato?» domandò la padrona di casa, con la rivoltella ancora puntata all'intrusa.

«Oh non è un suo fan, Miss Adler. Stavamo cercando dei documenti e a quanto pare Sherlock Holmes li ha lasciati qui. Forse doveva lasciarli al dottor Watson... mi pare più preparato di lei» replicò la donna, con una smorfia di dolore quando John le strinse ancora di più le braccia in una morsa. Irene mantenne il viso con un'espressione fredda ed era difficile notare il suo leggero tremore.

Senza preavviso, la ragazza riuscì a disarmare Irene slanciando le gambe in avanti e in alto. Sfuggì alla presa di John e fu lei a tenere Irene per le braccia.

«Ora, dottor Watson, se non vuole che la sua “amica” si faccia male, mi faccia avere i documenti» spiegò, ma non appena finì la frase Irene buttò indietro la testa, assestando un colpo direttamente sulla fronte della ragazza, che barcollò indietro e venne stesa definitivamente dall'urto contro la libreria alle sue spalle, causato dal contraccolpo della testata.

Irene si massaggiò la nuca e, anche lei un po' stordita barcollò fino a John, che la prese al volo.

«Aveva la testa veramente dura...» bisbigliò, prima di svenire.

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Capitolo 9
*** Un intervento provvidenziale ***


Sherlock si allontanò dal cottage come se stesse facendo una semplice passeggiata, ma si sentiva strano e nervoso. Aveva un peso sul cuore che non era abituato a portare, e giunse in poco tempo nel luogo in cui era stato invitato a presentarsi dal bigliettino lanciatogli nel salotto di Irene. Non era lontano, e con la coda dell'occhio Holmes poteva osservare la casa che aveva appena lasciato. Di fronte a lui, il suo interlocutore di avvicinò, disarmato. Era un uomo sulla quarantina, ben vestito e di bell'aspetto. Sherlock si ricordò di lui: il principale concorrente di Milverton, Mr Bradshaw, che più volte gli aveva soffiato qualche scoop.

«Mr Holmes...» disse, come a salutarlo, con un cenno del capo. Sherlock stiracchiò un sorriso beffardo.

«Ha agito bene, signore. Non mi sono accorto di lei. Immagino voglia le foto che ho trafugato dall'ufficio del suo rivale, mentre veniva ucciso» ipotizzò l'investigatore.

«Voglio le foto della Adler con quell'ispettore di polizia, quelle che aveva Milverton. Anche se, viste le circostanze, mi chiedo come sia possibile che non si trovino foto di voi due, insieme» commentò Bradshaw, provocando un piccolo, impercettibile, ringhio di Sherlock «ma immagino siate molto discreti, con ciò che è successo a lei con quello stalker e la sua professione, Mr Holmes» concluse, in fretta. Sherlock si disse che era inutile far finta che non fosse vero ma non commentò.

«Mi consegni quelle foto e la sua sicurezza, come quella della signorina Adler, sarà al sicuro» disse Bradshaw, come se fosse ovvio. Sherlock sogghignò.

«Sono già distrutte» replicò. Bradshaw sospirò.

«Impossibile... o forse sì, secondo me lei è un uomo molto geloso. Come un bambino con i suoi giocattoli. Non vuole che glieli si tocchi... la mia collaboratrice sta verificando la sua tesi, se le interessa» spiegò il giornalista. Sherlock schiuse le labbra, ma non si lasciò andare a confusione: tirò fuori con nonchalance una pistola dotata di silenziatore e la puntò al suo interlocutore.

«Falla uscire, il prima possibile» disse, con un tono che non ammetteva repliche. Bradshaw abbassò la testa, con un sorriso sghembo.

«Non credo che lo farò solo perché me lo chiede, Mr Holmes» rispose.

«Forse dovrei farle un buco in testa. Chissà che non riesca a pensare meglio» disse Sherlock, ormai irritato per la sfacciataggine di quell'uomo. Odiava sentirsi così, era quello che odiava di più: farsi condizionare dai suoi sentimenti verso Irene.

«Oh, Mr Holmes, credo che occultare i cadaveri sia il suo forte, ma questo è un paese piccolo, la gente mormora. Non credo la polizia di Londra la coprirebbe per un omicidio, figuriamoci qui, la città in cui tutti la considerano strano e troppo lugubre per una donna come Irene Adler» spiegò Bradshaw. Sherlock restò imperturbabile.

«Vero, ma non posso rischiare che finisca in prigione, Mr Bradshaw. Ho troppi nemici, lì. Ma ho un fratello amorevole, per una volta potrebbe essermi utile» concluse, allungando il braccio e facendo fuoco, con il silenziatore.

L'uomo cadde a terra, con un grido, portandosi una mano alla spalla sanguinante. Sherlock abbassò la pistola e alzò lo sguardo... come previsto. Da alcuni alberi uscì suo fratello Mycroft, particolarmente scocciato dall'aver evidentemente camminato ma sollevato nel vedere che lui stava bene. Alcuni uomini dotati di giacca, cravatta e auricolare, con un giubbotto antiproiettile, si abbassarono su Bradshaw e lo tirarono su come se fosse fatto di carta.

«Sei stato indiscreto. Quella ragazza deve averti fatto impazzire del tutto» commentò lui, ironico ma con una punta di rimprovero. Sherlock non parve prenderla come una battuta.

«Che ne farai di lui?» domandò. Mycroft alzò gli occhi e aggrottò la fronte.

«Evasione fiscale, per ora, poi faremo dei controlli alla sua rivista. Immagino giocasse sporco come Milverton... quando ne uscirà, se non verrà condannato all'ergastolo, lo terrò sotto controllo» spiegò, come se parlasse del modo in cui si cambia una lampadina.

I due si voltarono verso il cottage quando sentirono la sirena di un'ambulanza. Sherlock stava per scattare, ma la presa di Mycroft sulla sua spalla lo fermò.

«Le ho parlato, Sherlock, e credo sia la cosa migliore che ti sia capitata, dopo il dottor Watson» spiegò, e lui si fermò sul posto.

«Che significa che le hai parlato?» chiese, inacidito.

«Diciamo che... le ho dato la mia benedizione, se così possiamo dire. Mi ha riconosciuto subito, devi averla istruita bene, o forse ne ha parlato John. In ogni caso, mi ha riferito che non credeva fosse una buona idea parlare con me e mi ha lasciato lì sul posto. Una donna eccezionale, non avevo dubbi. Dovresti presentarla a mamma» concluse, girandosi e tornando sui suoi passi, mentre Sherlock scattava di corsa verso il cottage, presso il quale due auto della polizia e una ambulanza si erano appena fermate.

 

Sherlock Holmes arrivò quasi volando, con il cappotto che svolazzava intorno alle gambe. John Watson stava discutendo con la polizia, mentre Irene, ormai ripresa, era assistita da un infermiere che le stava misurando la pressione. Aveva una coperta arancione sulle spalle, probabilmente per lo shock dell'aggressione e un sacchettino di ghiaccio tenuto sulla testa, dietro, doveva aveva sbattuto contro la fronte dell'aggressore.

John si sentì molto colpevole quando lo vide arrivare e cercò di dargli voce, per scusarsi, ma Sherlock passò a qualche metro da lui senza rivolgergli né uno sguardo né una parola. Puntò dritto all'ambulanza e l'amico non poté fare a meno di sentire, così vicino. L'infermiere si congedò da Irene, dicendole che la pressione era a posto, e raggiunse la polizia, per controllare che la prigioniera, con un po' di ghiaccio a sua volta, stesse altrettanto bene. Sherlock rimase per un attimo fermo a guardarla, mentre lei si stringeva nella coperta, come si era stretta nel cappotto quel giorno a casa sua, l'unica volta che era stata a Baker Street, con gli occhi imploranti e spaventati. L'espressione di Sherlock si ammorbidì e si chinò per portare la linea del suo sguardo in quella della donna. Lei cercò subito le sue mani.

«Non è successo niente di grave. Sto bene, John mi ha aiutato e sono stata io a metterla fuori combattimento» spiegò in tutta fretta, saettando gli occhi a destra e a sinistra, quasi supplicante.

«Sei svenuta» replicò Sherlock, come a dirle di non raccontare bugie.

«Sì, ma ora sto bene, benissimo...» continuò, intrecciando le dita con le sue, come se questo potesse tenerlo ancora più vicino. Sherlock la osservò, dapprima come se soffrisse, poi con la sua espressione più risoluta.

«Abbiamo rischiato troppo. Io non mi sono accorto subito di loro, e se John non avesse avuto qualche sospetto su di te, a quest'ora potresti essere ferita o i documenti sarebbero in mano di quella ladra. Non possiamo andare avanti così» concluse, lasciandole le mani e allontanandosi verso la casa, dandole le spalle. John si voltò verso di lui, sconvolto. Che cosa...?

Irene si alzò di scatto e lasciò cadere la coperta, seguendolo e affiancandolo.

«Non puoi farmi questo, Sherlock» disse, la voce tremante, afferrandolo per un braccio e fermandolo. I suoi capelli rossi oscillavano al leggero vento che li circondava «non puoi semplicemente decidere che è finita...»

«Ne abbiamo parlato centinaia di volte, Irene, e sai che ho ragione, come sai che questa volta non lascerò che tu mi convinca a continuare questa... relazione. È finita, e questo è quanto» affermò, scostandosi da lei, con una fitta al petto, e, per orgoglio, senza aggiungere quanto questo lo facesse star male.

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Capitolo 10
*** Uno, nessuno, centomila ***


John venne trattenuto per alcuni minuti dalla polizia e dai paramedici: vollero sapere più volte che cosa era successo, e il povero Watson venne interrogato da tre ufficiali di polizia diversi e da due infermieri. Riuscendo finalmente a svincolarsi, andò immediatamente in casa, in cerca di Irene. Ora che aveva finalmente compreso cosa c'era tra Sherlock e Irene, aveva assistito alla fine di una storia di cui lui non sapeva nemmeno l'esistenza fino a mezz'ora prima. Trovò la ragazza seduta sul divano della sala da pranzo, adiacente alla cucina, con una tazza di tè fumante tra le mani, il viso bagnato di lacrime e gli occhi gonfi, ma era quieta e fissava il vuoto. John entrò con aria colpevole, ma Irene stiracchiò un sorriso nel vederlo entrare. Si sfregò il viso con una mano e gli fece cenno di avvicinarsi. John si sedette a distanza di sicurezza, su un divano lì accanto ma perpendicolare, in modo che formassero un angolo.

«Visto che mi hai seguito, volevo chiedertelo... da cosa l'hai capito?» domandò Irene, la voce gravata dal pianto e bassa di volume.

«Le tue mani. Quando mi hai abbracciato alla stazione ho riconosciuto il tocco della ragazza del locale di strip» spiegò lui, arrossendo un poco. Irene si passò una mano tra i capelli, sbuffando un po' mentre gli angoli degli occhi tornavano a riempirsi.

«E di Agnes che mi dici?» chiese poi lei, stropicciandosi gli occhi.

«Agnes?» replicò John, sentendosi un po' in imbarazzo «beh, credo che se non sarà già delusa, avrà presto una brutta botta...»

Irene restò qualche secondo interdetta, e John si maledisse nel pensare che le aveva appena fatto scoprire un tradimento, ma la reazione successiva di lei lo spiazzò. Ridacchiò un secondo e sospirò. Appoggiò la tazza sul tavolino e andò a prendere qualcosa da un cassetto. Quando tornò, si legò i capelli e si mise una parrucca e un paio di occhiali: ecco Agnes, esattamente come se la ricordava, come l'aveva conosciuta. Irene mise su lo stesso broncio che aveva avuto la segretaria e disse, nella stessa vocina:

«È che sono così triste...proprio oggi che Mr Milverton è fuori per un po'...»

John restò a bocca aperta, mentre lei si toglieva il travestimento.

«Cos'altro mi sono perso?» domandò, quasi più a se stesso. Irene riprese la sua tazza e sorseggiò il tè.

«Il giorno che ti sono venuta a sbattere contro... Sherlock mi aveva detto che lo avevi spiato mentre entrava a casa mia, quella mattina. Gli avevo consegnato io tutti i documenti, e voleva la tua consulenza, ma dovevo fargli avere anche qualcos'altro, una pennetta usb. Quando ci siamo scontrati, te l'ho messa in tasca» spiegò lei. John ricordò di aver visto Sherlock maneggiare qualcosa, dopo aver girato intorno alla sua giacca, ma non ci aveva fatto troppo caso sul momento.

«Allora andava davvero dalla sua fidanzata...» borbottò tra sé John «e Lestrade?»

Irene rialzò gli occhi dalla tazza.

«Ha voluto sapere del mio lavoro di copertura e si è incaricato responsabile della mia sicurezza. Io gli ho anche chiesto di fingere che c'era qualcosa tra noi, in modo da sviare eventuali paparazzi... a quanto pare avevano abboccato» spiegò Irene. John aggrottò la fronte.

«Angelo, il proprietario del ristorante italiano, sembrava voler chiedere qualcosa a Sherlock l'ultima volta che ci siamo stati, prima dello strip club... si trattava di te, non è così?» domandò ancora. Irene sospirò, ma sorrise.

«La prima volta che io e Sherlock siamo stati lì insieme ero appena tornata dalla tournée teatrale, più di sei mesi dopo la morte di Godfrey. Mi aveva guardato come se fossi impossibile... ricordo di aver fatto notare a Sherlock che a quanto pare tutti lo credevano gay. Non mi rispose, ma mi fissò con uno sguardo che non dimenticherò mai...» disse, lasciando cadere la frase. Si ripassò le dita tra i capelli, evitando gli occhi dell'amico.

Calò il silenzio per qualche tempo, finché lo sguardo di John si fece troppo curioso per ignorarlo. Irene sorrise di quell'espressione stiracchiata e dolente.

«Immagino tu ti chieda mille cose, ma non abbia il coraggio di chiedermi nulla, non è così?» domandò, bevendo un poco del suo tè. John sospirò una confessione.

«La mia curiosità non... ti ho seguita e non ne avevo alcun diritto» sussurrò, senza guardarla. Si sentì sfiorare: Irene gli aveva posato una mano sulla spalla, e lui si voltò.

«Siamo stati noi ad averti nascosto tutto. Pensavamo fosse meglio per la sicurezza di tutti, ma se tu non mi avessi seguito, a quest'ora forse non sarei qui» ammise, e John sorrise a sua volta. Irene sentì qualcosa incrinarsi e allontanò la mano, appoggiando la tazza e chiudendosi in se stessa, coprendosi il volto. John sia alzò di scatto e si andò a sedere accanto a lei, cingendole le spalle.

«Quando Sherlock ha visto da Milverton le foto di te e Lestrade aveva uno sguardo di fuoco... spero non mi veda ora, o mi ucciderà» buttò lì lui, per sollevare un po' l'atmosfera. Mentre finiva di parlare si maledisse, perché probabilmente ora che le cose erano finite tra loro, battute del genere erano solo deleterie. In realtà, Irene fece una piccola risata e si asciugò ancora gli angoli degli occhi.

«Probabile, sì... può dire qualsiasi cosa, ma non può negare neppure a se stesso che...» lasciò cadere la frase e dopo un sospiro si fece di nuovo cadere sul divano «ti sorprenderesti nel sapere da quanto tempo sospettavo che lui provasse qualcosa di simile all'affetto per me. Credo di averlo affascinato all'inizio e in qualche modo quel sentimento è cresciuto... io ci sono caduta molto dopo, lo ammetto»

John volle rassicurarla che non voleva nessun tipo di spiegazione, ma lei lo implorò di lasciarla parlare: spiegarsi l'avrebbe fatta sentire un po' più leggera.

«Ricordi il giorno che venne mio padre? Erano passati appena tre mesi dalla morte di Godfrey» iniziò a raccontare Irene, e John annuì.

«Avevi anche chiesto a Sherlock di venire, ma non si era presentato» aggiunse. Irene mise su un'espressione un po' colpevole.

«In realtà, è arrivato prima di voi ed è sparito poco dopo. Lo ringraziai per quel che aveva fatto e gli chiesi che cosa potevo fare per ricompensarlo. Mi rispose che avrei dovuto aspettare la fine della tournée per saperlo»

John aggrottò la fronte: decisamente non da lui, ma anche l'amico si era reso conto che Sherlock si era sempre comportato in modo strano in presenza di quella donna, l'unica del suo sesso che l'avesse battuto.

«Non dovetti aspettare così a lungo per vederlo, però» continuò a raccontare «Era la terza sera, lo ricordo bene. Avevamo appena finito le preview, ed era il primo spettacolo vero e proprio della stagione. Quando uscimmo per i saluti, gli inchini e gli applausi, mi era sembrato di vederlo, nelle prime file. Spesso voi spettatori vi dimenticate che anche noi attori abbiamo occhi per guardare, soprattutto a fine serata. In seguito mi confermò che era lui, ma sul momento rimasi interdetta. Mi aveva colpito, quel pomeriggio all'afternoon tea, non so dirti neppure io come o perché... ma sai meglio di me che uomo eccezionale sia»

John annuì, in attesa di ascoltare ancora.

«Lo vidi di nuovo qualche giorno dopo, e poi dopo più di una settimana, e mi accorsi che quella sera era anche tra il pubblico che aspettava all'uscita di noi attori. Pensai e ripensai di fargli un cenno, di chiedergli perché era lì... ma lui sparì prima che decidessi cosa fare. Quando ricomparve, più di dieci giorni dopo, non lo lasciai andare via senza neppure salutarmi. Chiamai il suo nome ad alta voce... puoi immaginare che sguardo mi lanciò» raccontò, con un sorrisetto. John la imitò, annuendo con la testa.

«Ma a parte quello, fu molto gentile. Gli chiesi se voleva cenare con me: aveva tutta l'aria di uno che non mangiava da giorni. Parlammo poco, sai che non è un uomo di compagnia, ma... fu una conversazione intensa» raccontò, immersa nel ricordo.

John se li immaginò perfettamente, nei loro incontri successivi, mentre lei vi accennava: il suo amico coperto dal suo cappotto lungo e Irene avvolta nel suo tre quarti elegante rosso che le aveva visto tante volte all'uscita dal teatro. Lei usciva sempre chiacchierando con i colleghi, uomini o donne, con un sorriso cordiale, e quando era fuori faceva scorrere gli occhi sulla folla, dapprima sommariamente e in modo quasi indifferente, per poi posarsi su Sherlock, il quale, con le mani in tasca, sorrideva compiaciuto e persino un po' malizioso. La ragazza salutava e si scusava con gli amici e lo raggiungeva. Niente inchini, niente baciamano, niente mani nelle mani o a braccetto, ma i due camminavano a pochissima distanza, sereni della reciproca compagnia. Una cena, magari, o semplicemente una passeggiata nella tranquillità della notte della città di turno nella quale Irene era stata portata dalla sua tournée. Parlavano poco, e se parlavano lo facevano di cose legate alla professione di lui o di lei. Era un gioco di sguardi, di sorrisi, di ironia e suggestione. Poche parole potevano voler dire mille e mille cose, ed entrambi cercavano di sfruttare al meglio le proprie carte.

«Ricordi la sera che tu e Mary siete venuti a Bath a vedermi?» chiese lei. John sgranò gli occhi e mise su un'espressione quasi indignata.

«C'era anche Sherlock?» domandò, sconvolto. Irene, suo malgrado, quasi rise.

«So che gli avevate chiesto se voleva venire con voi, e aveva rifiutato. Siete rimasti al mio albergo, quella notte, e... io non sono andata a dormire. Sherlock si è presentato nella hall poco dopo che siete saliti voi. Abbiamo passato l'intera notte a parlare, davanti al bancone del bar deserto. Per questo quella mattina vi ho detto che non avevo dormito bene, e ci siamo salutati un po' in fretta» precisò lei.

John scosse la testa, sfregandosi la fronte. Irene, dopo qualche altro attimo di allegria, tornò un po' grave e malinconica.

«Nonostante il grado di... chiamiamola intimità che avevamo raggiunto, non potevo che considerarlo un buon amico, o meglio una conoscenza particolare. Né io né lui eravamo pronti ad ammettere che cosa stava succedendo, io perché mi sentivo in colpa nei confronti di Godfrey e lui perché questo significava indugiare in quegli argomenti che non sono altro che un fastidio e una distrazione dal suo lavoro» continuò a raccontare lei «il giorno che tornai a Londra me lo vidi piombare alla stazione con un taxi pronto ad aspettarmi. Cenammo da Angelo e arrivò il momento di sentire con cosa potevo ricompensarlo per il suo aiuto nel caso della morte di Godfrey»

John si chiese se avrebbe ascoltato particolari imbarazzanti, ma niente di tutto questo.

«Un giorno» aveva detto Sherlock, di fronte al piatto vuoto.

«Un giorno?» ripeté Irene, confusa ma sorridente, sorseggiando il caffè.

«Un giorno intero, in tua compagnia, senza niente o nessuno che possano interferire» precisò Sherlock, come se stesse spiegando le condizioni di un prestito.

«Non ti chiederò il perché, solo... sei sicuro che sia abbastanza?» fu la replica di lei. Sherlock sorrise a sua volta, unendo le punte delle dita e appoggiandosi allo schienale, come usava spesso fare.

«Mi sembra un prezzo ragionevole» spiegò, con uno sguardo che fece scorrere un brivido lungo la schiena di Irene.

«Mi disse che il giorno doveva essere un giorno particolare, e che avrei saputo con il massimo preavviso possibile quando sarebbe stato. Passò spesso a trovarmi, a casa mia, e per poco non incontrò Molly, una volta, che era venuta da me per una serata tra ragazze. Poteva arrivare a qualsiasi ora del giorno o della notte, mai ad intervalli regolari e sempre stanco e in disperato bisogno di una dormita e un pasto. Non ero più in grado ormai di rendermi conto di quanto questo fosse strano. L'unica cosa che mi importava era rivederlo, nient'altro. Poi, è successo. Mi arrivò un sms con la data, di lì ad una settimana. Cercai di sistemare tutte le cose che avevo da fare e quando il giorno arrivò, Sherlock non si presentò alla mia porta. Lasciò un biglietto al mio portiere, dicendo di vederci di fronte al National Theatre»

Irene era arrivata di fronte al grosso blocco di cemento che era quel teatro, una delle meraviglie di Londra secondo il loro merchandising, ansiosa di sapere che cosa la attendeva in quelle ore che stavano venendo. Sherlock non tardò di un minuto, e lei lo vide arrivare dalla strada che costeggiava il fiume, le mani in tasca e la giacca leggermente mossa dal vento leggero primaverile.

«Perché il teatro?» domandò lei, sottintendendo un saluto.

«Sembrava appropriato» ribatté lui, con un cenno del capo «Vorrei mostrarti qualcosa»

Irene era sorpresa e curiosa, e lo seguì senza fare discussioni. Camminarono lungo il Tamigi, finché Sherlock non chiamò un taxi.

«Passammo tutto il giorno tra Hyde Park e Kensington Gardens» dichiarò, senza approfondire. John si disse che era già tanto che si stesse confidando, per cui non insistette. Ricordò i discorsi di Mary sulla segretezza e sul voler tenere le cose miglior per se stessi.

«Mangiammo qualcosa al volo e mi riaccompagnò a casa, uscendo da Kensington Gardens proprio di fronte alla Royal Albert Hall. Era ormai sera, e il suo tempo, almeno così io credevo, stava per scadere. Ci eravamo incontrati alle 9 del mattino, ed erano ormai le 9 della sera. Non volevo che se ne andasse, e lui lo percepì. Restammo qualche minuto senza dire nulla, in piedi nel centro del mio salotto. Poi, ebbi una folgorazione» raccontò Irene.

«Lo spettacolo della tournée?» fu il commento di Sherlock.

«Un teatro ci ha chiesto di replicarlo per qualche settimana, qui a Londra. In realtà sono un po' arrugginita, ma me lo ricordo bene... dopo tutti quei mesi! Mi aiuteresti?» spiegò lei, passandogli un insieme di fogli serrati insieme due cordini, un po' logori per l'uso.

«Non ne ho bisogno» confessò lui, mentre prendeva il copione e lo riponeva su un tavolo. Lei dapprima restò stranita, poi sorrise e si diresse verso la finestra, in attesa che lui iniziasse, dove preferiva. Lo sentì fare tre passi e sempre dandogli le spalle voltò la testa guardando a terra: lui poteva scorgere solo il suo profilo.

«Vedo che avete già fatto le valigie, Miss» disse lui, già in personaggio. Irene sentì un brivido lungo la schiena: aveva riconosciuto la scena, e sentire la sua voce invece di quella del suo collega le fece perdere il filo per un momento.

«Che ragione avrei avuto per restare ancora, Mr Rowan?» chiese a questo punto lei, voltandosi del tutto e appoggiandosi alla finestra «il contratto è stato firmato, presto lascerò il vostro locale per esibirmi in un grande music hall. Non rimpiango gli anni in cui ho lavorato qui, vostro padre è stato sempre gentile con me. Non vi preoccupate, come avete sempre detto, non avrete difficoltà a trovare un'altra cantante, magari persino più talentuosa di me. Ne è piena la città, questa era la vostra opinione»

Era passata da un tono neutro e cortese a uno leggermente più rancoroso. Sherlock parve molto ferito da quelle parole, ma fu un attimo. Mise su un'espressione seria e il più dura possibile.

«È passato del tempo da allora. Potrei non avere ancora questa opinione» precisò, orgoglioso.

«Oh, certo, ora che c'è qualcun altro che si interessa al mio talento, che riconosce ciò di cui sono capace, avete aperto gli occhi...» spiegò lei, canzonatoria, facendo qual che passo verso di lui. Sherlock le prese il polso sinistro con sua destra, stringendoglielo.

«Voi donne non vi sforzate mai di comprendere le parole e i sentimenti degli uomini!» disse lui, in un sussurro iroso. Irene si districò dalla sua presa con un movimento brusco, massaggiandosi il polso arrossato.

«E voi uomini non avete altra maniera di esprimervi se non con la violenza! Sono stanca di essere circondata da creature come voi, signore, il cui unico scopo nella vita è adulare gli altri quando li stanno per perdere e maltrattarli quando sono alle loro dipendenze, solo per essere temuti e non abbandonati!» esclama, spostandosi di nuovo da lui, ma Sherlock la braccò stretta. Era talmente vicino da sfiorarle l'orecchio con il suo respiro: i loro corpi erano quasi a contatto tra loro, e Irene sentì i battiti del cuore accelerare.

«Come tanti del mio sesso sono stato indotto a seguire il mio istinto e le mie pulsioni, e non mi è perciò concesso di farvi rivalutare l'opinione così bassa che avete di me?» esclamò lui, con voce emozionata eppure con un fondo di rabbia. Il collega di Irene non era mai stato a quei livelli di intensità o talento «Forse non mi sbagliavo, allora, considerandovi capace solo di sorridere e cantare»

Irene si voltò, ora anche lei rabbiosa, con gli occhi nei suoi.

«Signore, davvero, non sono io a farvi un torto, ma voi stesso a lasciare le vostre opinioni in mano al mio capriccio! Dunque, se vi darò la possibilità di raccontarmi quanto siete stato sciocco a considerarmi un'ochetta senza cervello e senza talento, allora penserete bene di me? E se non vi lascerò spiegare, resterò la stupida ragazzina che faceva le moine solo perché questo le era stato insegnato?» esclamò, a metà tra l'ironia e l'ira, allargando le braccia e facendo un passo indietro. Sherlock restò qualche secondo interdetto, mentre lei riabbassava le braccia.

«Io credevo di conoscervi, signore. E speravo davvero di sbagliarmi. Speravo che prima o poi avreste capito che giudicare gli altri per il lavoro che fanno o il modo in cui si comportano con gli altri non vuol dire essere nella ragione. Mi è stato sempre spiegato che per attirare l'attenzione su un palco bisognava essere frivole, ammiccanti, sciocche e vanesie, perché gli uomini non cercano un cervello in una donna, soltanto tutto il resto. Da ragazzo, sembravate diverso da tutti quelli e io ho creduto possibile che la mia opinione fosse sbagliata, che ci fosse qualcosa di più negli uomini. Ho provato a essere me stessa, a mandare avanti le mie capacità e non le mie ciglia o le mie gambe, e ora il mio sogno si è avverato» spiegò, con la voce delusa e accorata «Ditemi quello che mi voglio sentir dire!» concluse, implorante. Lui non parve prenderla bene.

«Non ne sono capace, Miss, non lo sono mai stato. Come pretendete di strapparmi di bocca tutto l'amore che ho per voi? Con quale egoismo? Io dovrei parlare? A che pro dovrei esprimere con parole aride, inadeguate e banali quello che mi è nato nel cuore al pensiero di non potervi incontrare di nuovo ogni sera?» chiese, come se la volesse tempestare di domande. Irene si rese conto che il personaggio che aveva scelto di interpretare e la scena che aveva deciso di recitare erano quelle che forse esprimevano meglio ciò che sentiva, e aveva come la sensazione che lui non se ne fosse reso conto, non consciamente almeno.

«L'amore è egoismo, signore. L'egoismo di qualcuno che vuole possedere l'oggetto del suo amore» rispose lei, con la voce appena rotta dall'emozione, come se non volesse credere a quello che diceva, come aveva fatto sera dopo sera, sul palco.

«Oh, no, non lo pensate davvero» si riavvicinò e le prese di nuovo i polsi, questa volta entrambi «Prima pensavo che possedervi sarebbe stato impossibile, perché ai miei occhi eravate come una farfalla: bella e frivola, che se rinchiusa in una gabbia, sarebbe morta. Ora capisco che nessuno potrà mai possedervi perché non glielo permettereste...» continuò, implorante ed intenso «non ho intenzione di possedervi, io voglio solo amarvi, a qualsiasi costo e condizione»

«Lasciatemi!» esclamò lei, abbassando il viso. Sherlock la costrinse a rialzarlo, sempre tenendola per i polsi.

«Ditemi voi quello che voglio sentirmi dire... perché è anche ciò che voi volete dirmi» disse lui,

«Io... non voglio perdervi» sussurrò, e in quel momento la scena era finita: ma non c'era una tenda rossa che avrebbe calato il sipario. Erano ancora lì, imprigionati in quell'istante, lui ancora fermo a tenerle i polsi, forse in attesa di una parola. Lei lo osservava con gli occhi sgranati e imploranti, dentro i suoi, e si avvicinò lentamente, chiudendo gli occhi con lentezza. Lui ebbe l'istinto improvviso di andarsene ma lo combatté, per una volta. Era in grado di sentire il polso accelerato di lei sotto le sue dita e si stupì di sentire che anche il suo cuore correva veloce, come gli era successo solo qualche istante prima di vederla, ogni volta. Anche lui abbassò le palpebre, in preda ormai a una forza che in quel momento non riusciva a combattere e le loro labbra si sfiorarono. Irene si sentì improvvisamente leggera, come se tutte le sue preoccupazioni, paure e angosce fossero scomparse. Lui le lasciò i polsi e la strinse a sé mentre lei faceva lo stesso, con la pelle arrossata dove lui l'aveva stretta con forza. Si separarono dopo quelle che sembrarono ore ad entrambi, il loro respiro era affannato e in cerca di ossigeno, e le loro fronti si appoggiavano l'una con l'altra.

«Il mio giorno... è finito?» chiese lui, senza il coraggio di riaprire gli occhi. Lei portò le mani sul suo viso e spostò uno dei suoi ricci con le dita, e venne inondata dal verde delle sue iridi chiare.

«Non lo lasceremo finire, se vuoi» sussurrò Irene, con uno dei sorrisi più luminosi e sereni che lui le avesse mai visto. Lui abbassò lo sguardo, spostando le sue mani dalla schiena alle sue spalle e passando le dita tra il suo maglioncino e la sottile t-shirt che aveva sotto. Irene incontrò i suoi occhi quando lui li rialzò, e la sua espressione fece cadere un peso che da troppo tempo inquinava il suo cuore. Irene allungò le dita verso la camicia di sartoria di Sherlock, aprendo il primo bottone con delicatezza, tanto che lui quasi non la sentì. Lui fece scivolare il maglioncino dalle sue spalle, e lei liberò le braccia dalle maniche, prima di aprire anche gli altri bottoni, coprendone il petto bianco e pallido. Gli sfiorò la pelle e lo baciò sul collo, e lui si sentì avvampare e arrossire. Lo prese per mano e lo portò dal salotto al breve corridoio e da lì alla sua camera.

Clinging on for life

«La mattina dopo era scomparso. Non c'era traccia di lui in tutta la casa, era come se nell'esatto istante in cui abbiamo dimenticato noi stessi per recitare quella scena, il tempo fosse semplicemente stato accorciato ad un istante. Eppure io mi ero svegliata nel mio letto, al mattino, per la prima volta in più di un anno, senza l'immagine di Godfrey morto accanto a me, senza che il mio primo respiro fosse strozzato dalla paura. Avevo aperto gli occhi e mi ero sentita bene, per poi crollare immediatamente capendo che ero sola» i suoi occhi si fecero lucidi ma non cedette al suo nodo in gola «cercai di fare finta che non fosse successo niente, ma ne ero troppo felice e scoppiai in lacrime. Ti sembrerà una cosa assurda, ma preferivo sfogarmi in quel momento che dimenticare. Nigel, il portiere, mi chiamò al citofono»

«So, Mrs Norton, che se si tratta di Mr Holmes non devo chiederle il permesso di farlo salire, ma mi ha chiesto di verificare con lei questa volta» sentì Irene dal ricevitore.

«Fallo salire, certo» sussurrò lei, cercando di mascherare la voce impastata.

«Ha pianto, signora? Sta bene?» domandò subito il portiere. Il volto di Sherlock si fece ancora più colpevole e mortificato.

«Ora che è qui, sì, starò bene» replicò, chiudendo il citofono e attendendo quei familiari passi sulle scale.

Sherlock ci mise meno del solito a salire e Irene lo fece entrare cercando di evitare il suo sguardo. Lui fece il suo ingresso e raggiunse il soggiorno, in cui il gatto di Irene fece un balzo e uscì, forse capendo che dovevano risolvere la faccenda da soli.

«Non dovevo andarmene così. Mi dispiace di averti causato del dolore per questo» spiegò lui, con tono nervoso «ma avevo bisogno di trovare le risposte, ed erano tutte chiuse nella mia testa da troppo tempo. Avevo bisogno di uscire, di allontanarmi»

Irene annuì, e si avvicinò a lui, restando a distanza di sicurezza. Sherlock la contemplò qualche secondo: la vestaglia chiara, i capelli rossi accesi che vi ricadevano sopra, gli occhi cerchiati di rosso e il viso bagnato.

«Se fossi al di fuori di questa situazione, certamente mi burlerei di me stesso. Da quanto tempo sei partita per la tournée? Venticinque mesi e due giorni. In tutto questo tempo mi sono comportato in maniera del tutto irrazionale, con il solo scopo di vederti e stare in tua compagnia, senza comprenderne la ragione ma sentendone la necessità. Non ho ammesso nulla con me stesso perché... perché tutto questo rallenta il mio lavoro, come lo farebbe della sabbia negli ingranaggi delicati di un orologio» spiegò con il suo modo razionale e preciso, Sherlock.

Irene annuì, ormai lo comprendeva a pieno.

«Ieri sera ho perso completamente il controllo, e questa mattina mi sono ritrovato di fronte all'evidenza. Ero innamorato di te, lo sono. Ti amo, e non potevo accettarlo. Così ho cercato un modo per confermare che non era vero, ma ogni indizio e ogni deduzione portano a questa conclusione»

Irene non si sottrasse ad un sorriso.

«Sei tornato per chiedermi come risolvere questa situazione? Perché credimi io non ne conosco il rimedio» concluse, ormai al culmine della commozione, abbracciandolo. Lui, reo confesso, si era messo in una posizione per cui non poteva che ricambiarla

«Non credo vi sia rimedio, se non quello di accettarlo ed evitare che diventi un peso» concluse, diplomaticamente. Irene si separò quel tanto che bastava per poterlo guardare negli occhi. Gli prese il viso tra le mani e allargò il suo sorriso.

«Anche tu ti meriti qualcuno che ti voglia bene, che non sia John o tuo fratello, e soprattutto non pretenda di cambiarti o condizionarti, ma ti accetti e ti ami per come sei. Potrai dimenticarti di me mentre lavori, ma non sentirti “difettoso” se ti ritroverai a pensare a me. Che cosa deduci da quello che ti ho detto e dal fatto che sembro uno straccio perché ho pianto per ore, eppure ora sto sorridendo?» concluse, appoggiando la fronte contro la sua.

«Che mi ami anche tu, ovviamente» disse Sherlock, prima di baciarla.

John si ritrovò a sentirsi vuoto. Dopo tutto quello che aveva sentito, dopo la trepidazione e l'aspettativa di conoscere ciò che era successo, dopo aver sentito finalmente che era stata una scelta sofferta ma che entrambi i suoi amici erano stati felici di quella strana unione, sapere che tutto era appena finito per colpa di un piccolo, minuscolo errore, se così si voleva classificarlo, lo faceva stare male, quasi gli dava il voltastomaco.

«Vi vedevate spesso?» chiese John.

«Solo quando non lavorava. Abbiamo ritardato il nostro arrivo qui al cottage per via di Milverton. Tecnicamente, ci vediamo sì e no tre volte al mese, e mai per più di 32 o 48 ore» rispose Irene, passandosi le dita tra i capelli.

«Non... dobbiamo trovare un modo per sistemare questa situazione» dichiarò John, muovendo qualcosa all'altezza dello stomaco di Irene, che allungò la mano e strinse quella dell'amico. D'improvviso gli occhi di lei si sgranarono.

«Ma certo!» esclamò, alzandosi in modo fluido ma veloce e facendo alzare anche l'amico, che ancora teneva per mano. Lo lasciò andare e si diresse verso l'altro salotto, nel quale Sherlock stava, in piedi e con le mani sui fianchi. Sembrava aver camminato avanti e indietro, torturandosi i capelli in preda al nervosismo, ed era parecchio scocciato.

«Io ho un segreto. Qualcosa che non sa nessuno, nemmeno tu» dichiarò lei, con la voce appena spezzata dall'emozione. John sentì che era risoluta ma alla vista di lui non poteva restare imperturbabile e indifferente. Sherlock parve subito interessato: era interdetto, sorpreso di non sapere tutto di lei, potendo dedurre le cose più stravaganti dal colletto di una camicia.

«Ti lancio una sfida: scoprire qual è questo segreto, in un'ora» continuò Irene.

«Qual è la posta?» si intromise Sherlock, minacciando di far cedere le gambe alla ragazza, che aveva passato fin troppo tempo a ricordarlo senza poter sentire la sua voce.

«Se non riuscirai a capire di cosa si tratta, dovrai dimenticarti di questa stupidaggine sul non vedermi mai più: staremo ognuno nella propria casa e manterremo il nostro lavoro, e quando entrambi ne avremo il desiderio, ci vedremo, come abbiamo sempre fatto» disse lei.

«E se lo capirò?» replicò lui, irritato all'idea di non essere all'altezza di scoprire un segreto.

«Allora potrai decidere definitivamente se lasciarmi o restare con me» rispose Irene, con un sospiro.

John fissò mentalmente l'orario, e vide la ragazza uscire, chiudendo la porta dietro di sé.

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Capitolo 11
*** Il segreto - epilogo ***


Un segreto, un segreto... ma che segreto? Queste erano le parole che risuonavano nella mente di John Watson, mentre sotto i suoi occhi Sherlock Holmes si stendeva sul divano, occhi chiusi, senza scarpe e con le mani giunte sotto il mento e si preparava a sondare il mistero.

«Come...?» iniziò John, ma Sherlock lo zittì subito.

«Come ho potuto nasconderti di Irene? Oh, semplice, non erano affari tuoi tanto per cominciare, ed era rischioso tanto per volermi giustificare senza motivo» sbottò lui, con una nota infastidita nella solita voce neutra «oltretutto, se te l'avessi detto, non saresti corso qui con la curiosità di scoprire cosa stava succedendo, e nessuno sarebbe rimasto qui con lei»

«E tu dove te ne sei andato?» domandò subito John, anche lui scocciato. Sherlock sembrò restar male di quel tono.

«Il rivale di Milverton mi aveva mandato un messaggio, dalla finestra. Voleva incontrarmi» spiegò.

«E non potevi portarti Irene, invece di lasciarla qui sola?» incalzò John.

«Certo che no. Avremmo dovuto prendere i documenti, portarli via o distruggerli. E poi non potevo lavorare con lei vicino. Non posso... concentrarmi, se devo pensare a proteggere lei» precisò Sherlock, imbarazzato dalla sua stessa ammissione. Non gradì affatto, quindi, il sorrisetto sul viso di John, che si sedette su una poltrona.

«Sai, non devi sistematicamente pensare di lasciarla... per quanto ho capito vi vedete talmente raramente che...» ricominciò Watson, ma l'amico lo interruppe un'altra volta con un piccolo ringhio di impazienza.

«Anche se la vedo raramente, quelle rare volte sono abbastanza perché uno dei criminali a cui do sempre la caccia possa sfruttare la mia... distrazione per farle del male. È molto più semplice che...» sbottò Holmes, ma John non era intenzionato a sentire queste scuse.

«Molto più semplice che cosa? Che soffriate entrambi di solitudine? Tu hai solo paura di dimostrare che sei umano!» sbraitò, alzandosi in piedi. Sherlock si sedette sul divano e poi si alzò: il medico sembrò un po' spaventato, come se l'uomo che aveva di fronte volesse prenderlo a pugni.

«Non ho intenzione di discutere con te, ho un mistero da svelare, e intendo farlo» disse, con voce bassa e risoluta, Sherlock, dirigendosi al suo portatile e iniziando a scandagliare siti web e blog.

«Oh, certo, farsi sconfiggere di nuovo da Irene sarebbe troppo umiliante per te!» continuò John, la cui ira si stava trasformando nella solita, scomoda, sensazione di delusione.

«Ti avevo già detto di non trasformarmi in un eroe, John, e soprattutto non in un eroe romantico» buttò lì Holmes, e Watson in qualche modo si disse che quel periodo con Irene gli aveva fatto bene: se non altro riconosceva qualche emozione umana.

Restarono in silenzio per un po', l'uno impegnato nella ricerca febbrile di informazioni, l'altro seduto sul sofà, incapace di tornare da Irene, di cui non immaginava lo stato.

Dopo circa quarantacinque minuti, Sherlock si alzò dalla sedia, con il volto illuminato dalla soddisfazione. John si aspettava di sentirlo decantare la propria intelligenza, sciorinare le sue capacità deduttive e infine rivelare il famoso segreto, ma così non accadde. L'espressione trionfante dell'amico si trasformò ben presto in una maschera di dubbio e poi in un sorrisetto malizioso.

«Me l'ha fatta un'altra volta...» disse, per poi scattare in direzione dell'altro salotto. Superò il divano con un balzo, mentre John per poco non inciampava nei suoi stessi piedi per seguirlo in più in fretta possibile. Entrarono nell'altro salottino, nel quale trovarono una Irene perfettamente tranquilla, anzi, quasi contenta, che prendeva un tè in compagnia di nientepopodimeno che Mycroft Holmes.

«E tu che ci fai qui?» domandò, parecchio infastidito, Sherlock.

«La mia... squadra se n'è andata in paese e la mia auto non sarà qui prima di un paio d'ore» rispose il fratello. Sherlock lo guardò con un po' di fastidio.

«Immagino che una passeggiata di circa mezzora fosse troppo per te... la dieta non va tanto bene, mi pare» butta lì. Irene mise giù la sua tazza, mentre Mycroft aggrottava la fronte, scocciato, e si avvicinò a Sherlock.

«Il tuo tempo sta per scadere... se sei qui vuol dire che hai scoperto il mio segreto» disse, a qualche passo da lui, con un tono molto più sereno e quasi contento di quello che John si sarebbe aspettato.

«Certo. Credevi non ne fossi in grado?» replicò lui, con la fronte aggrottata, ma un sorriso compiaciuto.

«Se ti avessi dato mezz'ora, ci avresti messo venti minuti... allora, ora che sai il mio segreto la scelta è tua. Come vuoi che si evolva questa nostra... cosa? Sparirai dalla mia vita?» ribatté lei, con un'espressione sempre più contenta e impaziente.

«Oh, non essere ridicola. Date le circostanze, come potrei?» rispose Sherlock, con lo stesso sorriso malizioso che John gli aveva visto in faccia poco più di una settimana prima, quando gli aveva parlato di Agnes. Irene lo abbracciò di slancio, mentre lui la ricambiava, per poi porgerle il braccio. Mentre i due uscivano dalla stanza, John, basito per quella strana conversazione, si voltò verso Mycroft, ora in piedi e intento a segnare qualcosa nel suo taccuino. La domanda restò sulle labbra del medico, e il misterioso fratello del suo amico ripose il tutto nella giacca.

«Oh, è incinta, naturalmente. Penso che non fosse così difficile scoprirlo. È stata così emotiva, ultimamente, e anche se è stata discreta, ha parlato con una ginecologa poche settimane fa. Dottor Watson, credo che la mia auto sia in anticipo... ci rivedremo a Londra, magari per un tè: è sempre molto elegante, non trova?»

John Watson osservò Mycroft Holmes lasciare la stanza e si ritrovò solo, in mezzo alla campagna della Cumbria, nell'Inghilterra settentrionale, a ridere, non sapeva neppure lui se per sorpresa, felicità o per non piangere.

 

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Ed eccoci giunti ad un'altra fine di un'altra storia... devo dire che a questo punto non mi resta che fare i dovutissimi ringraziamenti!!! Mi sono ripromessa di farlo questa volta, ed eccoci!

 

Special Thanks to:

AntonellaGt – come sempre, la correttrice di bozze, la critica giusta e quasi imparziale, la canonica sherlocckiana che ha dovuto sedare se stessa, indiscutibile esperta e colei che ha quasi sempre l'ultima parola!

Irene Adler – che già il nome è un programma, per i consigli teatral-sentimentali e la assoluta e assidua fedeltà!

KillerQueen86 – la Whovian d'eccellenza, di cui mi scuso ancora per essere indietro con la lettura, anche lei con il viso quasi incollato allo schermo!!!

Per chi volesse poi farsi una "discografia" di questa storia, consiglio caldamente "A trick to life" de The Hoosiers, in particolare "Goodbye Mr A", "Cops and Robbers" (brano Sherlockiano per eccellenza) e "Clinging on to life" già citato nel capitolo precedente :)

Alla prossima!!!!!!

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