Imprevisti d'amore

di Marguerite Tyreen
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Prologo: Un leprechaun che fischia, un anello e una telefonata ***
Capitolo 2: *** Cap.1 - Una mattina come le altre ***
Capitolo 3: *** Cap. 2 - Achille e la tartaruga ***
Capitolo 4: *** Cap.3 - Bello e impossibile ***
Capitolo 5: *** Cap. 4 - La cena per farli conoscere ***
Capitolo 6: *** Cap.5 - With or without you ***
Capitolo 7: *** Cap. 6 - Queequeg o strani compagni di letto ***
Capitolo 8: *** Cap. 7 - Di donne, costumi e torte ***
Capitolo 9: *** Cap. 8 - Dubliners per caso (Non è Francesca) ***
Capitolo 10: *** Cap. 9 - Un giro di Reel ed uno di Guinness ***
Capitolo 11: *** Cap 10 - Aria di famiglia e odore caldo di whisky ***
Capitolo 12: *** Cap. 11 - Ritratti in seppia ***
Capitolo 13: *** Cap. 12 - Il tempo della ragione ***
Capitolo 14: *** Cap. 13 - If you must leave my life (Scene da un matrimonio) ***
Capitolo 15: *** Cap.14 - I don't wanna miss a thing (Fino all'inganno dell'Aurora) ***
Capitolo 16: *** Cap. 15 - Una torta sotto la pioggia ***
Capitolo 17: *** Cap. 16 - Slides ***
Capitolo 18: *** Epilogo - Un leprechaun che fischia, James Joyce e qualche certezza ***



Capitolo 1
*** Prologo: Un leprechaun che fischia, un anello e una telefonata ***


Miei cari,
questo è il mio secondo tentativo di scrivere una storia romantica in chiave brillante, in genere a chi è capitato di leggermi, sa che sforno certi melodrammi… Ecco, detto così vi avrò spaventati e sarete già scappati tutti. Se non lo foste – bontà vostra – vi auguro buona lettura e vi ringrazio per il tempo che mi dedicherete. Se volete anche lasciarmi due parole per sapere se vale la pena continuare, un altro grazie di cuore.
Un saluto,
Marguerite

 Alle Irlandomani di EFP
 

Imprevisti d'amore
Editor fotografico online

Immagine by PIEMME  

Prologo: Un leprechaun che fischia, un anello e una telefonata

 
 

Padova, 29 maggio 2010
 
C’erano solo due certezze nella vita di Francesca Fortini e, francamente, lei non ne voleva altre.
Amava troppo prendere la vita come veniva, senza essere sempre costretta a pianificare ogni istante, perdendo nella prevedibilità tutto il brivido dell’imprevisto.
Aveva impiegato trentadue anni per arrivare a sentenziarlo, ma ce l’aveva fatta.
Due certezze. La prima era che il leprechaun di ceramica, appollaiato sul bancone del “James Joyce Irish Pub”, fischiava all’ingresso e all’uscita di ogni cliente.
La seconda gliel’aveva rivelata il proprietario del suddetto leprechaun nonché del suddetto pub, in una sera di particolare tristezza e dopo una Guinness in più del dovuto. Quello che non si può curare con il burro o con il whisky allora non si può curare affatto.
Cominciava a credere che fosse vero, Francesca.
Per quanto si potesse tentare di applicare del burro sulle ferite del cuore, come se fossero state bruciature della pelle, non c’era verso di curarle. Eppoi aveva anche letto da poco su una rivista che il burro sulle ustioni non andava affatto bene, contrariamente a quello che aveva sempre pensato.
E, neanche a dirlo, lei non beveva mai whisky. Anzi beveva pochissimo, a essere sinceri, nonostante frequentasse assiduamente il “James Joyce” da anni. Ma c’era qualcosa, in quel luogo, che sapeva di magico, di casa, più di quanto non lo fossero le due stanze in affitto che poteva permettersi da insegnante in trasferta.
Poi, ormai, conosceva talmente bene il gestore e gli avventori, che nessuno si meravigliava più di vederla correggere i compiti seduta a tavolino, centellinandosi un caffé.
Le sembrava meno noioso, a lei che viveva sola, sfregiare con litri d’inchiostro rosso le composizioni e le aspettative dei suoi studenti.
- Cos’abbiamo, questa volta,  professoressa? – le chiese Sean da dietro il bancone, strofinando pigramente i bicchieri col canovaccio.
- Yeats! – rise lei -  Un tuo connazionale. Ma ai ragazzi sembra non essere piaciuto molto – e piegò nuovamente la testa sui fogli.
- Cosa vuoi, l’Irlanda va vista, altrimenti non ha la stessa magia.
Già, la magia. Dell’Irlanda sapeva solo quello che aveva letto sui libri o visto attraverso gli occhi degli autori che aveva studiato. Di Sean O’Brien sapeva ancora meno, nonostante frequentasse il “James Joyce” da quasi tre anni. E dire che non era un tipo taciturno, lui. Ma del perché avesse lasciato il suo paese e si fosse stabilito in quella città italiana del nord est che aveva ben poco da spartire con i verdi prati e i castelli di Erin, nessuno era mai stato certo. Si vociferava per una donna, di cui però null’altro si conosceva, se non che non era più assieme a lui, dato che lamentava frequentemente la sua solitaria vita da single. Gli lanciò un’occhiata furtiva.
Doveva avere qualche anno più di lei, i capelli di un biondo rame che denotavano la sua provenienza senza lasciare troppi dubbi e, a farlo apparire più giovane, una spruzzata di lentiggini sul naso. Ma quello che aveva di particolare erano gli occhi, che non si sarebbero detti verdi, se non a qualche specifica angolazione di luce. Non sapeva dire se fosse o meno un bell’uomo. A dire il vero, non ci aveva mai nemmeno pensato. Era il personaggio ideale per un racconto, quello sì, uno si quei racconti che scriveva poi teneva nascosti in un cassetto per paura che finissero nelle mani di qualcuno.
Chissà chi era la donna in questione: sarebbe stata una notevole fonte di ispirazione.
O l’intero “James Joyce”, i suoi frequentatori, i suoi studenti del liceo che incontrava al sabato sera, la pioggia che batteva insistente erano un’inesauribile fonte di ispirazione, se non fosse stato per quei compiti su Yeats da correggere.
La pioggia. La pioggia che cadeva incessantemente da quel pomeriggio, dando un umido benvenuto a giugno che avanzava. Sì, perché si era già al 29 di maggio. Il 29 di maggio!
Avesse potuto cancellarla quella data in cui, tre anni prima, Enrico l’aveva scaricata.
Enrico, se l’avesse incontrato adesso gli avrebbe cavato gli occhi con gli stuzzicadenti che i suoi studenti, nel tavolo di fronte, avevano scartato dalle olive.
È inutile che sprechi del fiato e della bile, si disse, tanto se te lo trovassi qui, in questo momento, gli stenderesti il tappeto rosso, gli getteresti le braccia al collo e gli diresti che lo ami. Perché è vero, scema, lo ami ancora. Nonostante tutto, lo ami ancora.
Mandò giù un’altra sorsata di Irish coffee e deturpò con un tratto deciso un periodo ipotetico che non sarebbe stato su nemmeno con un’impalcatura di sostegno.
Lo sai, Francesca Fortini, sei davvero la più stupida e degna protagonista del peggior romanzetto rosa che si possa scrivere. Nemmeno Moccia sarebbe riuscito tanto bene nell’impresa.
La 5^D, quasi al completo, festeggiava i diciannove anni della Rossini, una delle sue allieve più appassionate, che sapeva Shakespeare a memoria e conosceva The rime of the ancient mariner meglio di lei. Le sarebbe dispiaciuto lasciarli, dopo l’esame di stato.
La penna infierì spietata questa volta su un’ardita invenzione del passato del verbo “to think”, e lei si sentiva sempre più stupida. Anche se aveva lasciato Bologna, in cui era nata e vissuta, mettendoci quanti più chilometri era riuscita a farsi concedere col trasferimento, le cose non erano tanto cambiate. Tecum fugis. Seneca era tornato a tormentarla. Ma più che con se stessa era fuggita col fantasma di un vecchio amore.
E quello, per quanto Sean non ne sapesse niente, non si curava né col burro né col whisky. Ma non c’era giornata nera che almeno quel caffé non sapesse rischiarare.
Il leprechaun fischiò come al solito. Una risata argentina avvolse il locale, il fracasso di una borsa di pelle di dimensioni spropositate che urtava una delle sedie attirò l’attenzione della metà dei clienti.
Una valanga di fogli e libri che si rovesciava sul pavimento con inquietante scroscio.
- Oh, cielo, li avevo anche tutti corretti! E pensare che è l’unico compito in cui la metà della classe ha preso la sufficienza.
Emma. Fu il suo primo pensiero. Nessun altro sarebbe stato capace di portare un simile macello in quella manciata di minuti.
Appunto: Emma, un terremoto compresso nel corpo di una donna, che sembrava volersi esprimere nella massa riccia e informe dei suoi capelli biondi.
- Guarda che casino! – fece lei, appoggiandosi al suo tavolo.
- Vedi di non mischiarli, che poi lunedì consegno dei polinomi o delle frazioni, al posto di Yeats.
- Bambina, qui non stiamo mica a pettinare le bambole! Altro che polinomi, viaggiamo già con la trigonometria.
Francesca si finse sorpresa, agitando a mezz’aria la mano.
- Ma tu, non hai di meglio da fare che stare alle nove di sabato a correggere i compiti in un pub? – Emma ricacciò i compiti nella borsa.
- Sì, avrei da insegnare al leprechaun a dire “Erin go bragh”, ma non ne vuole sapere.
- Ma quanto sei matta? No, a parte gli scherzi, Fran, io sono preoccupata. Ma con Parenti, quello di filosofia, com’è andata? Non siete usciti un paio di volte?
- Tre, per l’esattezza. Una ad un convegno sulla metempsicosi nella filosofia di Giordano Bruno. La seconda a vedere un film strappalacrime, con lui straconvinto che  tutte le donne amano notoriamente piangere, altrimenti non apprezzano la pellicola. E l’ultima ad una rassegna sul cinema muto russo.
- Senti, sembra una barzelletta, Fran: l’ultima scelta è di un romanticismo sconcertante anche per me che sono un’arida donna dei numeri. Hai fatto bene a lasciarlo perdere, accidenti che noia. Non credevo, sai, altrimenti mica ti avrei convinta.
- E’ stata mia, la decisione, volevo scoraggiarlo.
- Così ci sei riuscita di sicuro. Ma perché, Fran? Dopotutto, tre anni di lutto per una storia finita male sono più che sufficienti.
- Lo so, a livello razionale lo so. Ma è che Enrico è, come dire?, lui è…
- Uno stronzo?
- Ti dirò: non era questa la parola che cercavo ma…
- Ci sono andata vicino.
Scoppiarono a ridere: c’era sempre stata sintonia tra di loro.
- Ma tu, piuttosto, non dovresti essere con Giulia, stasera?
- Giulia è a Milano, a un convegno di chirurgia. Da quando è primario, la vedo sempre meno. Ma è il suo lavoro – il volto di Emma si illuminò di tenerezza – e io la amo troppo per farglielo pesare.
- Almeno voi state bene insieme… - sospirò.
- E la Rossetti si fa suora! - cantilenò il gruppo, nel pieno, certamente, di uno scherzo organizzato ai danni della festeggiata.
- No che non mi faccio suora!
- Non l’abbiamo mica stabilito noi. È colpa di James Joyce, tu dovresti saperlo bene!
Francesca rise di quella predizione improvvisata, come quella che James Joyce aveva raccontato in Dubliners, dove al candidato a cui doveva essere letto il futuro venivano disposti davanti vari piattini fra i quali, egli, bendato, doveva sceglierne uno.
Il contenuto del piattino indicato avrebbe simboleggiato l’avvenire della persona in questione.
E c’era proprio tutto, constatò avvicinandosi, persino il breviario che avrebbe predetto la vita di monastero alla Rossetti.
- Ne sapete una più del diavolo! – rise, rivolta ai suoi ragazzi, scrollando benevolmente la testa.
- Alla Chiara, visto che ama tanto quel mattone di Joyce, dovevamo farglielo sto scherzo. Siamo anche nel posto giusto.
- Prof, vuole provare?
- No, no, per carità: divertitevi voi.
- Via, cosa le costa?
I suoi modi alla mano avevano suscitato da subito simpatia nelle sue classi.
- Va bene, proviamo pure… - si arrese. Chiuse gli occhi e poi: - Scelgo questo.
Fu sommersa dalle congratulazioni.
- L’anello, l’anello! Si sposa entro l’anno, prof!
Sorrise anche lei, nascondendo l’amarezza. La sua presenza sembrava suscitare in loro tutt’altro che soggezione, ma tornò comunque al suo tavolo.
Il cellulare prese a squillare, inaspettatamente.
Le mancò il fiato, nel leggere il nome sul display.
Enrico.
Lasciò che suonasse. Una, due, tre volte.
Poi spinse il tasto verde e, fredda: - Adesso non posso, ti richiamo io.- prima ancora di lasciarlo parlare.
Adesso non posso.
No, non sarebbe stata abbastanza lucida.

 

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Capitolo 2
*** Cap.1 - Una mattina come le altre ***


Mie care,
eccoci giunte al primo capitolo! Spero davvero che vi piaccia, anche perché i primi servono sempre per inquadrare meglio i protagonisti e potrebbero risultare un po’ noiosi, ma mi auguro di no ;)

Prima di lasciarvi alla lettura, però, voglio dire grazie di cuore per la cara accoglienza che avete riservato alla mia storia, ai lettori “di passaggio”, a chi ha recensito (manymany, namina89, piemme, Isyde) e a chi l’ha inserita tra le seguite (Chelsea88, Isyde, manymany, wilma), ricordate (sister82, sophia90, vic94) e preferite (piemme, namina89). Accipicchia, me ne date di fiducia! XD
Un bacione e buona lettura!
Vostra

Marguerite

 
 
Imprevisti d'amore
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Capitolo 1: Una mattina come le altre
 
 
Un sogno confuso, come un vortice, come un ouroboro verde che ruotava su se stesso nel nero dei suoi occhi chiusi. E un suono, un suono lontano, come di…
Come di una sveglia. La sua perfida, maledetta sveglia, quella del cellulare, che provava dolcemente a ricordarle che era lunedì, attraverso un patetico concertino di uccellini e artificiali suoni del bosco.
Francesca odiava il lunedì. O, meglio, una volta lo odiava solo perché doveva separarsi da Enrico, dopo un fine settimana passato assieme. Adesso lo odiava perché doveva alzarsi presto, litigare coi suoi capelli, armeggiare con la moka e attendere la telefonata di sua madre che, puntualmente, arrivava quando aveva già un piede nella doccia.
Odiava il lunedì perché non c’era lui e continuava a trascinare le sue mattine dentro un pigiama rosa con gli elefanti, come avesse avuto quindici anni.
Colpì il tasto rosso del cellulare alla cieca, con un grugnito.
Aveva dormito poco. O, forse, non aveva dormito affatto. Chiamare Enrico alle otto di domenica sera equivaleva ad una notte insonne e ad un risveglio schifoso. Un mezzo suicidio, insomma.
Per il resto tutto normale, a parte la moka che ribolliva furiosamente perché aveva continuato ad ignorarla, seguendo il gomitolo dei suoi pensieri.
Rantolò qualcosa di poco sensato a sua madre, con la scusa di essere ancora per metà nelle braccia di Morfeo. Non che la signora Fortini fosse sufficientemente ingenua da crederlo, semplicemente conosceva sua figlia quel tanto che bastava da sapere che non avrebbe mai parlato nemmeno sotto tortura. Sospirò, a chilometri di distanza, nella speranza che prima o poi le avrebbe rivelato cosa la turbava, anche se non era difficile immaginarlo.
- Non si tratta ancora di Enrico, vero?
- No, mamma, cosa vai a pensare!
- Se torna a farsi vivo mandalo a…
- A quel paese, lo so. – la fermò prima che si lanciasse in qualche espressione più colorita alle sette meno un quarto del mattino -  Ma stai tranquilla, sono solo un po’stanca.
- Tanto la scuola è quasi finita e, quando torni, ti faccio trovare una fornitura di tortellini per tutto il prossimo anno.
- Non so nemmeno quando finirò, fra gli esami e tutto il resto. Dipende se sono o meno in qualche commissione. Da un lato spero mi mandino a fare il commissario esterno: lavorerò, ma almeno cambierò un po’aria.
- Hai sempre avuto questa mania di cambiare aria, quando le cose ti stavano strette. C’è qualcosa che non va, non è vero?
- Macchè, figurati! Ho solo voglia di vedere posti nuovi, tutto qui. Anzi, se ho l’estate libera, ho messo da parte dei soldi per quel viaggio a Parigi di cui ti parlavo. O Parigi o Berlino, non ho ancora deciso. Una settimana di relax, arte e cultura e nient’altro.
- Da sola?
- No, con Emma e Giulia.
- Tre donne? Sveglia, Fran, ti serve un uomo.
No, mamma, non mi serve un uomo. Mi serve Enrico. Ma non lo disse.
Bofonchiò qualcos’altro di generico, il tempo, i suoi ragazzi, qualche consiglio per conservare il basilico in terrazza. Chiese di suo padre e di suo fratello che, puntuale come la morte, le torturava l’anima ogni venerdì perché voleva piantare il suo lavoro di impiegato e aprire un bar a Rio de Janeiro, per servire il mojito ai turisti. Chiuse la comunicazione e si infilò nella doccia.
Non le disse nulla della conversazione che aveva avuto col suo ex, il vero motivo della sua prostrazione, quella mattina. Altro che il lunedì!
- Sono io – le aveva detto la sera precedente.
Era stata lei a chiamarlo, era ovvio che sapesse perfettamente chi aspettarsi dall’altra parte, ma pronunciare il pronome “io”, per Enrico, era sempre stata una tentazione irresistibile.
- Erano due anni che non ti facevi vivo. – aveva cercato di mantenere un certo controllo, evitando di ricordarsi del suo sorriso e dei suoi occhi, color di notte, che avrebbero fatto tremare le ginocchia a chiunque.
- Sono stato impegnato, sai. – lo immaginò mentre tracciava geroglifici con la penna su qualunque pezzo di carta gli fosse capitato a tiro, come sempre, quando era al telefono. Un abitudine che gli aveva contribuito a conferirgli, nel tempo, un’aura di distratta e pigra sensualità.
- Oh, non ne dubito.
- No, davvero, credimi. Ho fatto più di un anno a Bruxelles, una magnifica esperienza.
- A migliorare il tuo francese? – chiese, sarcastica.
- No, mia cara: a organizzare l’esposizione di un nuovo museo d'arte tardo antica.
La cornetta venne attraversata dal fischio di Francesca, un modo come un altro di esprimere la sua finta ammirazione. Non sapeva ben dire perché, ma lui aveva sempre tratto un piacere incomprensibilmente sottile dall’essere un gradino più in alto di lei.
Non che non l’avesse amata: c’erano stati momenti della loro vita in cui lei si era sentita davvero importante, davvero felice. Ma forse era il carattere di Enrico, forse era sempre stato amato troppo, e non solo da Francesca.
- E a te come vanno le cose, in quel di Padova?
- Sempre le stesse. – non ebbe bisogno di mentire, tanto lui l’avrebbe scoperta. Lui sapeva e vedeva sempre tutto. O era lei ad essere un libro aperto, anche troppo?
- Intendi dire adolescenti brufolosi in piena crisi ormonale, letteratura, consigli di classe, surgelati, sigarette e televisione?
- Più o meno.
- Più o meno. – ripeté lui, e non le piacque quel suo modo di arrotolare le parole alla lingua, con fare serpentino – Scrivi ancora?
- Solo per me. – avrebbe voluto aggiungere: solo per te, ma non le parve dignitoso per il suo ego – Lo sai che non l’ho mai fatto per il successo.
- Ma come diavolo fai, Francesca? A vivere in questa sciatteria, intendo.
- Questa sciatteria è la mia vita e mi sembra che tu non ne faccia più parte da un po’. Ma già, dimenticavo che adesso Enrico Sacrati è sui circuiti internazionali e organizza mostre per i più grandi musei di Europa.
- Piantala di sfottere, Fran. Non hai nessun motivo per portarmi rancore.
- Quello lascialo stabilire a me.
 – Mi dispiace. Sinceramente, Fran. Sono stato uno stronzo, un bastardo, merito qualsiasi epiteto tu mi possa affibbiare.
Era la prima volta che sentiva dalle sue labbra quello sproloquio di scuse e la cosa cominciò a puzzare di bruciato. No, non era il ragù che si era attaccato alla pentola. O meglio, era anche quello, perché l’antiaderente aveva cominciato a consumarsi. Ma quella, chiarissima e prevedibile, era la puzza della fregatura. Se avesse avuto un paio di antenne per captare il pericolo, avrebbe fatto bene ad alzarle.
- Ma, allegra, Francesca, ci saranno grandi novità.
- Se mi hai chiamato per dirmi che ho vinto alla lotteria, non c’è bisogno di farla poi tanto lunga.
- Meglio. Ho deciso di tornare da te. Ho avuto modo di pensare a lungo.
- Tu che pensi? Questa sì che è una bella notizia!
- Non importa che tu nasconda dietro all’ironia l’emozione di rivedermi.
Razza di presuntuoso!
Stava per riversargli addosso tutti gli improperi che la sua memoria era riuscita a ripescare, quando lui la interruppe, con quella sua voce, maledettamente suadente: - Ho capito che ti amo ancora, Francesca.
Tutti i suoi buoni propositi crollarono come un castello di carte.
- Ah…
- Io ti dico che ti amo e tu rispondi con un verso inarticolato?
- Già… senti, Enrico, ho la cena sul fuoco. Devo lasciarti.
- La cena sul fuoco… Sabato prossimo vengo a Padova. Fatti trovare, abbiamo molte cose di cui discutere.
Con un ricordo del genere la mattina cominciava proprio a meraviglia!
Si era tormentata tutta la sera, anche mentre, stravaccata sul divano, guardava alla televisione uno di quegli orribili film gialli in cui capisci chi è l’assassino dai titoli di testa.
E la notte, rigirandosi nel letto, senza riuscire a prendere sonno. E il mattino, mentre sognava il dannatissimo ouroboro verde che roteava nella sua mente ottenebrata dalla stanchezza.
Anche adesso si chiedeva cosa diavolo volesse, intanto che usava violenza sul suo carré riccio nel tentativo di dargli almeno una parvenza liscia. Le ciocche color mogano, che non avrebbe saputo stabilire con certezza da chi l’aveva ereditato, si ribellavano ostinatamente al calore della piastra.
Era il momento della preparazione che le sottraeva più tempo in assoluto. Poi, per il resto, si vestiva piuttosto rapidamente, afferrando nell’armadio il primo paio di jeans e la prima camicia che si abbinava al suo umore. Una riga veloce di matita sugli occhi e poteva dirsi a posto.
Non era una donna trascurata, al contrario. Amava prendersi cura di se stessa, anche se non in maniera maniacale, portava con grazia i cappotti e gli spolverini e, d’inverno, anche i cappelli con una certa giocosa eleganza. Poteva esibire un bel viso, un’espressione dolce, illuminata da occhi castani e acuti, belle mani che accompagnavano con adorabile naturalezza i suoi discorsi.
Non era il tipo da far fuggire gli uomini, ad essere sinceri.
Non si piaceva, non del tutto almeno, ma aveva imparato a convivere bene con i propri difetti. Se Enrico l’aveva lasciata, non attribuiva la colpa solo al fatto che le mancasse qualche centimetro d’altezza per ben figurare anche senza tacchi o alla sua immagine lievemente appesantita da forme troppo mediterranee.
C’era dell’altro e lo sapeva. Sapeva che Enrico no, quello non sarebbe cambiato. Anzi, la sorprendeva l’averlo sentito chiedere scusa dopo tanto tempo.
Avrebbe voluto essere più fredda, più distaccata, forse anche più cattiva con lui, ma la vendetta, per quanto fosse un piano facile da accarezzare con la mente, risultava essere l’esatto contrario proprio nel momento in cui tentava di metterla in atto.
Ti amo. Era bastato questo per ricascarci.
Ti amo. E poteva benissimo non essere nemmeno vero.
Sei proprio una stupida, Francesca. Pensò, mentre indossava gli orecchini.
Dal portagioie un vecchio ciondolo la occhieggiava con insistenza.
No, si disse. No.
Rimase un istante a rimirarselo tra le dita.
No.
L’appoggiò alla scollatura della camicia. La chiusura della catenina scattò e, per il resto della giornata, la tartaruga d’argento sarebbe rimasta a impreziosire il suo decoltè.
Sì, Francesca, non ci sono più dubbi: sei proprio una stupida.
 
 
«Gallia est omnis divisa in partes tres, quarum unam incolunt Belgae, aliam Aquitani, tertiam qui ipsorum lingua Celtae, nostra Galli appellantur. Hi omnes lingua, institutis, legibus inter se differunt. Gallos ab Aquitanis Garumna flumen, a Belgis Matrona et Sequana dividit. »
Il testo di Cesare davanti, gli occhiali per leggere da vicino sul naso e la versione della studentessa alla quale dava ripetizioni di latino a tempo perso sotto mano, Sean cercava di capire come cavolo fosse possibile confondere un passivo con un verbo attivo, facendo saltar fuori una frase che sembrava essere stata scritta dopo un paio di giri di Guinness di troppo.
Ma almeno andasse a naso! Insomma, non le era richiesto di metterci entusiasmo nella traduzione, ma se non altro un po’ di buon senso.
A volte si chiedeva anche il perché lo facesse. Non certo per denaro, evidentemente, dato che il “Joyce” era ben avviato, dopo anni di onorata attività.
Per passione, probabilmente. La stessa passione per le belle lettere che l’aveva trattenuto in Italia. A dire il vero, non sapeva ben dire perché avesse scelto proprio quel paese in cui vivere e non la Grecia, magari, tra le sue antiche rovine. Forse perché era più vicina all’Irlanda, ma sempre abbastanza lontana. Forse perché faceva meno caldo o, più semplicemente, perché il suo non era un Grand Tour alla Goethe.
Aveva pensato di farne il suo lavoro, di quella attitudine alle “lingue morte”, come spesso le sentiva chiamare. Poi le cose non erano andate esattamente come desiderava. Ed ora si ritrovava a fare ripetizioni di latino per sentire la voce degli antichi risuonare ancora. Forse era stata colpa del caso. Forse delle sue capacità. O di molte altre cose messe assieme.
Fatto stava che, ora, si ritrovava al bancone di un pub, anziché in qualche università a tenere conferenze o nel suo studio a tradurre con invidiabile perizia i testi classici.
Nel libro di letteratura latina aveva schiacciato, ormai dimenticandosene, un trifoglio, prima di partire. Si era illuso che potesse essere sufficiente per ricordarsi della sua terra. Invece gli mancava, l’Irlanda, e, quando per gioco i clienti lo salutavano in gaelico, era sempre una stretta al cuore.
Sollevò il trifoglio con le lunghe dita sottili ma, improvvisamente, la piantina si sgretolò, inaspettatamente.
Forse dovrei tornare. Si disse. In fondo, sono passati quasi dodici anni. Calcolò rapidamente, ne aveva ventiquattro quando aveva lasciato la sua patria ed ora andava per i trentasei.
Dodici anni. Sospirò. Sì, è ora di tornare.
Non sapeva che ne avrebbe avuto occasione molto presto.
 
 
- Giorgia! Sai che non va usato il cellulare in classe! – richiamò la sua studentessa che aveva visto troppo interessata al ripiano sottostante il banco che alla sua lezione su Lawrence. E, come darle torto, dato che Lady Chatterley sembrava affascinare più i suoi compagni maschi?
- Scusi, prof, ma sono uscite le materie d’esame sul sito del ministero.
Silenzioso come un branco di gnu, il resto della classe fece capannello attorno al banco di Laura per sbirciare in anteprima di che morte sarebbero dovuti perire.
- Porca vacca, prof!
- Giacomo! Avanti, dite, su, che sono curiosa anch’io.
- Greco, matematica e inglese esterni.
- Lei allora non sarà con noi!
- Prof, ci dispiace, la volevamo in commissione.
- Già… dispiace anche a me, ragazzi, ma vediamo di non immalinconirci troppo prima del tempo.
 
- Fran! Ehi, Fran! Allora? Non mi hai più detto niente! – Emma la fermò mentre passava davanti alle macchinette del caffé, durante l’intervallo.
- Esterno.
- Cosa?
- Inglese esterno.
- Beh, anche matematica, se per questo. Ma io intendevo la chiamata di Enrico.
- Strana. Anzi, incasinata: sabato prossimo viene qui. Dice che ha capito di amarmi.
Per poco Emma non si strozzò col latte macchiato che stava bevendo: - Che cosa?
- Mi ama, dice lui.
- Sempre meglio che un dito in un occhio…  
- Ho tutta l’estate davanti per pensarci adesso, credo. Non sono in nessuna commissione, quest’anno.
- Io sì, a Rovigo. Che due palle, speravo di scamparmela.
- Anch’io.
- Ma magari le cose non andranno tanto male, con lui. Non vuoi sentire quello che ha da dire?
- Vorrei riuscire a farne a meno.
- Sai che io proprio non ti capisco, Fran. L’uomo che continui ad amare da anni torna da te strisciando e tu fai quella faccia?
- No, è che conosco Enrico e non mi fido.
- Ma che cavolo ti ha fatto? Io so solo quello che mi hai detto tu, cioè poco e niente, nonostante ci conosciamo da un bel pezzo. Io e te dobbiamo parlare. Cioccolata calda da me?
Sorrise, immaginandosi la cioccolata fumante di Emma, con quel caldo che cominciava a farsi sensibilmente umido.
- Cioccolata da te. – sospirò, in tono di resa.

 

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Capitolo 3
*** Cap. 2 - Achille e la tartaruga ***


 Mie carissime,
 
sono tornata! Con un po’ di ritardo sulla mia tabella di marcia, ma il capitolo si è rivelato lungo quasi il doppio del precedente e mi dispiaceva di doverlo dividere in due, lasciandovi la vicenda in sospeso.
Vi ringrazio tutte di cuore  per la gentilezza e l’attenzione che avete riservato a questa storia. Quindi un sentitissimo grazie ai lettori “di passaggio”, a chi ha recensito (manymany, namina89, piemme, Isyde) e a chi l’ha inserita tra le seguite (Chelsea88, Isyde, manymany, wilma, Kicici, valespx78), ricordate (sister82, sophia90, vic94) e preferite (piemme, namina89).
Adesso mi ritiro a meditare l’entrata in scena di Enrico, che vedrete nel prossimo capitolo, direi… adesso è qui che mi tortura per avere un ingresso da star degno di lui e non so come fare per sbarazzarmene! XD A proposito c’è nessuna che lo voglia, questo antipatico e noiosissimo personaggio? Immagino di no, nemmeno se lo mettessi all’asta partendo da un centesimo! XD
Un bacione e buona lettura!
Sempre vostra,
 
Marguerite

 
 
 
 Imprevisti d'amore
Editor fotografico online

“Le mie amiche sono amare
se si parla un po’ d’amore”
(Fiorella Mannoia, Io posso dire la mia sugli uomini)

 


Capitolo 2: Achille e la tartaruga
 

 
Alla fine, un po’ per l’ora tarda, un po’ per la solita pigrizia di Emma, la famosa cioccolata si era risolta con un panino dei distributori automatici sbocconcellato lungo la strada che portava al “Joyce”. Si erano ripromesse di non far parola di Enrico fino a quando non sarebbero state sedute a tavolino, davanti al famoso caffé di Sean.
Il “Joyce” era ancora deserto, non essendo che le sei di pomeriggio. Ma avevano trascorso tutta la giornata fra consigli di classe e ultimi corsi pomeridiani extrascolastici che non vedevano altro se non il miraggio di mettersi finalmente comode.
Giulia, da quanto Fran sapeva, era ancora al convegno milanese di chirurgia ed Emma si sarebbe ritrovata comunque da sola anche per quella sera. Si vedeva che, nonostante la sua immancabile allegria, quando lei era lontana anche solo per qualche giorno, aveva una tenera nostalgia negli occhi. Sorrise con bonaria invidia del sentimento che le legava ormai da parecchi anni, a dispetto dei pregiudizi che avevano affrontato. Emma ammetteva, stringendosi appena nelle spalle, di non essere forse la persona migliore per parlare di uomini. Ma non avrebbe lasciato sola Fran per nessuna ragione. Qualcosa si sarebbero inventate, anche quella volta.
Il leprechaun fischiò, come al solito.
- Erin go bragh – scherzò Francesca, passandogli davanti.
- No, è inutile, non ne vuole sapere.
La voce di Sean le raggiunse dalla saletta annessa al locale, dove stava apparecchiando i tavoli per la sera.
- Sono di qua! Siete in anticipo, ragazze. – tornò al bancone – Ma siete sempre le benvenute. Cosa vi preparo?
- Due caffé. – rispose Emma - All’irlandese, però.
- No, per carità, senza whisky. Almeno per me. – le fece eco Francesca, ancora appoggiata al bancone a fissare il curioso leprechaun di ceramica.
- Lo sai che quello che non si può curare col whisky e col burro…
- Non si cura affatto, lo so, Sean. A proposito! – gli fece cenno di tacere allargando platealmente le mani – Dia is Muire duit! – lo salutò in gaelico, con una pronuncia che suscitò, inevitabilmente, la sua ilarità.
- Ammetto di apprezzare l’impegno. – sorrise lui. Aveva un sorriso affascinante, questo Francesca non aveva mai potuto negarlo, che riusciva a far brillare gli occhi di quell’insolito ed intensissimo verde. Si sapeva che diverse delle sue ora abituali clienti avevano cambiato luoghi e frequentazioni pur di rintanarsi più spesso nella calda atmosfera del “Joyce”, ma non certo solo per quello.
Nonostante non fosse una bellezza convenzionale, era un uomo attraente, bisognava essere sinceri.
Aveva bei lineamenti decisi e un’espressione ironica che, talvolta, passava veloce sul suo viso come le nuvole nel cielo della sua Irlanda. Francesca lo stava notando solo ora, mentre lui si scostava una ciocca di capelli ramati dalla fronte. Se poi si voleva aggiungere anche il fascino forestiero, aveva tutte le carte in regola per quel ruolo da seduttore col quale talvolta giocava ma che, più spesso, sembrava andargli stretto.
- Beh, farai bene ad apprezzare perché ho impiegato una settimana per impararlo. Tu, piuttosto, parli un italiano perfetto che farebbe invidia a una decina di miei studenti madrelingua, altrochè!
Infatti, c’era solo un lieve accento che evocava paesi lontani, nascosto nelle pieghe delle sue frasi.
- Ma io parlo italiano da dodici anni, tu parli gaelico da dodici giorni.
- E’ da molto che sei qui, allora.
Lui annuì distrattamente, intento a rimboccare meglio le maniche della camicia azzurra, che cadeva elegante sulle spalle.
Francesca temporeggiava, cercando di trovare il bandolo di quella matassa complicata che era stata la sua relazione con Enrico.
- E come sei finito nel nord est italiano dall’Irlanda, tu?
- Una lunga storia – sorrise di nuovo e, quando lo faceva, lei non capiva mai se dietro si celava una misteriosa soddisfazione per il proprio coraggio di emigrante o un’antica malinconia da esule, fatta di lontani suoni di cetra e del verde dei trifogli.
- Una lunga storia e nemmeno poi tanto interessante. – si sporse leggermente verso di lei – Non almeno quanto quella che Emma si aspetta di sentire da te.
- E tu come…
- Intuito. – rispose, versando la panna sui caffé, dopo averle rivolto una fugace strizzata d’occhio.
- Insomma, Fran, vuoi metterti a sedere? – il suono di un messaggio arrivò ad interrompere la ramanzina di Emma. Bastò un suo sguardo per capire quale notizia avesse ricevuto.
- Alle sette arriva Giulia in stazione, dunque sbrigati, prima che il caffé si freddi. Dimmi tutto.
Aspettò con discrezione che Sean si allontanasse. Tormentò prima le mani, poi i capelli e per qualche lungo istante il ciondolo che portava al collo. Infine, in un sussurro rivolto più a se stessa:
- Da dove comincio?
- Dall’inizio. Credimi, spesso funziona.
Rimase a guardare per diverso tempo il contenuto della tazza. Nel nero della bevanda, sempre più nero della sua ottima memoria, affiorò un’immagine di lei ed Enrico ancora bambini che, tuttavia, pensava di aver dimenticato.
- Dall’inizio. Già, buona idea.
 
 
- Ehi, Enrico. Secondo te cosa sono le nuvole?
Seduti l’uno accanto all’altra nel cortile della scuola elementare bolognese che aveva visto la loro infanzia, Francesca si interrogava su quei fagotti bianchi in cielo, mentre attendevano entrambi di essere riammessi al gioco dal quale erano stati eliminati.
A poca distanza la voce di Alice, quella che era e sarebbe rimasta la sua migliore amica per buona parte della sua esistenza, gridava “tana”, a mano a mano che sorprendeva il nascondiglio dei suoi compagni.
- Le nuvole, Fran? Cosa vuoi che siano, ammassi di particelle d’acqua, come dice il libro di scienze.- Enrico era sempre stato razionale anche a dieci anni e andava orgoglioso di ciò che aveva appreso alla lezione della maestra.
Lei fece appena una smorfia poco convinta: - Sai, io preferisco pensare che siano i sogni che facciamo la notte, che poi alla mattina scompaiono andando su in alto, fino in cielo, restandosene lassù sospesi.
- E’la storia più strampalata che abbia mai sentito, Fran.
- Però è carina, di’la verità. Sempre più carina che quella spiegazione sull’acqua e la pioggia.
Enrico rise per la fantasia dell’amica: - Un giorno scriverai favole, Fran. Quando sarai famosa mica dimenticarti di me!
- Vuoi che mi dimentichi proprio del mio migliore amico? Ti dedicherò il primo libro.
- Enrico, Fran! Tana libera a tutti! Venite a giocare ancora!
- Bambini! La ricreazione è finita! – la maestra li richiamò in classe.
Francesca tornò al suo banco, quello accanto a Enrico. Erano andati subito d’accordo, fin dal primo giorno di scuola, quando le era capitato vicino quell’adorabile muso furbo.
Francesca andava indietro con la memoria e ogni momento che riaffiorava dal tempo portava con sé l’inevitabile traccia della presenza di Enrico Sacrati.
Alice era importante. Era stata molto importante, ma non avrebbe in nessun modo potuto eguagliare, con la sua vicinanza discreta, la chiassosa alchimia che cresceva giorno per giorno tra quei due. Forse, per lungo tempo, si era sentita messa in disparte. Poi, con gli anni, aveva capito che non ci sarebbe stata alcuna possibilità di contare per Francesca quanto contava lui e le era rimasta accanto, paziente come sempre, buona come sempre. Per tutti gli anni delle scuole, dalle elementari fino alla fine del liceo. Avevano scelto tutti e tre il classico, sapendo che con l’università le strade poi si sarebbero inevitabilmente divise.
Tutto ciò che Francesca aveva fatto, tutto ciò che aveva fatto per la prima volta, almeno, l’aveva fatto con Enrico. Il senso dell’amicizia l’aveva compreso con lui. E così quello dell’amore.
Gli aveva voluto bene, dapprima come ad un fratello, poi si era accorta di esserne gelosa, ma non più da amica. Avevano quindici anni quando aveva compreso che, qualunque cosa fosse accaduta, lei era nata per amare Enrico Sacrati, con quella testarda assolutezza che accompagna gli amori dei ragazzi.
Ed essendo sempre stata una persona prudente, non si era lasciata prendere la mano dall’ebbrezza di quel sentimento in erba, ma aveva atteso. Atteso in silenzio e non senza una certa sofferenza che egli guardasse le altre, che di altre si infatuasse per poi tornare, quand'era deluso, sempre da lei.
Aveva atteso di essere sicura che non fosse solo un momento passeggero, un bisogno di stare con qualcuno che le volesse bene per quello che era, perché per nessuna ragione avrebbe voluto perdere la sua amicizia per pochi mesi di un’illusione d’amore. Attese tre anni, in cui quello che provava non si sopì, anzi aumentò, per quanto possibile, tormentandosi nel dubbio che parlargli fosse giusto o meno.
Ed Enrico, intanto, al quale non mancava certo la sensibilità per comprendere le ragazze, dalle quali era perennemente attorniato, aveva capito. E taceva, augurandosi che tutto si sarebbe disciolto nel nulla, scomparso nel vento, come le nuvole che amavano guardare da bambini.
Tanto, chi più chi meno, tutte le ragazze della compagnia avevano perso la testa per lui e, con la stessa rapidità, avevano col tempo, cambiato obiettivo.
Anche ad Alice doveva essere successo, nonostante non avesse mai trovato il coraggio di confessarglielo.
 
- E tu? – Emma s’intenerì davanti ai ricordi dolcemente nostalgici di Francesca – Quando glielo hai detto?
- Dopo l’esame di stato. – Francesca si scostò dagli occhi una ciocca di capelli, portandola all’indietro, come sempre, quando cercava le parole – Glielo dissi con un gran discorso, sai. Allora giocavamo un po’entrambi a fare gli intellettuali. Me lo ricordo come fosse ieri. L’ho amato tanto, sai. Lo so che sembra assurdo riuscire a legarsi ad una persona per così tanto tempo, soprattutto quando si è così giovani. Ma se tu riuscissi a immaginare, Emma, il senso di perfezione, di completezza che ho provato per i nove anni che siamo stati insieme, allora capiresti.
È stato un grande amore, il nostro, nonostante tutto. Qualcosa che deve avermi fatta crescere e maturare, forse troppo in fretta, ma per lui ho rinunciato a tante cose, ad altri ragazzi, nelle braccia dei quali mi sarebbe venuto facile buttarmi. E, invece, niente: l’ho atteso finché non l’ho avuto, con l’unico sostegno di quella stupida convinzione che il mio era un sentimento troppo puro e troppo bello per non meritare, un giorno, di essere ricambiato. Ma allora era tutto bello, tutto puro e tutto assoluto. Sono cambiate molte cose, Emma.
- E lui cosa rispose? Di sì, immagino, dal momento che poi vi siete messi insieme.
- Sbagli, invece. L’ho aspettato ancora, per altri due anni.
 
- Io… io ci ho pensato molto, Enrico, prima di dirtelo. – la voce le tremava, mentre stava per confessargli il perché di quella strana telefonata che aveva portato entrambi a sedersi nella piazza senza riuscire ad arrivare al punto.
- Fran, tu mi hai sempre detto ogni cosa, dovrebbe venirti facile, adesso. Che c’è? Sei incinta? Hai problemi con l’alcol o cose del genere? Sai che io ti capirei.
- Ma quanto sei scemo? Io non ho problemi d’alcol! – perché diavolo non gli riusciva mai di essere serio?
- E allora parla, no? Non staremo mica qui a contare i turisti che escono da San Petronio?
- Io mi sono innamorata di te, Enrico. Lo so che ti sembrerà stupido, che ci conosciamo da quando eravamo bambini e tutto il resto… ma sono quattro anni, ormai, che non faccio che pensare a te, che non riesco a pensare a nessun altro perché tu arrivi e ti prendi tutto: le ore di studio, quelle di sonno, quelle di veglia, persino i miei sogni, Enrico. Hai occupato il posto più importante nel mio cuore e non ho alcuna intenzione di lasciarti andare. Mi sono innamorata come non credevo fosse possibile innamorarsi per la prima volta. E sono felice solo quando sono con te, solo quando so che potrò vederti. Preparo il cuore in funzione delle volte che posso incontrarti e conto i giorni, le ore, i minuti che mi separano da te e…
Il cenno freddo di lui l’interruppe: - Cos’è questa ballata che mi stai recitando?
L’avevo capito, sai, Fran, e per tutto questo tempo ho sperato che non fosse così, perché tu sei come una sorella per me e non una donna, la bella ragazza che sei diventata. E, ti dirò, io non provo per te nulla di simile a ciò che mi descrivi.
Una lacrima scese, silenziosa, a rigarle il viso.
- Ti voglio bene, forse anche qualcosa di più, ma vale davvero la pena di mettere a rischio la nostra amicizia per questo passo che dovremmo compiere?
- Io credo che non si possa più parlare di amicizia, almeno per me.
Qual è il problema, Enrico? Sii chiaro, per favore, come lo sei sempre stato.
- Non so come dirtelo, perché in ogni caso soffriresti. Perché so che l’unica risposta che potrei darti per renderti felice è che anch’io sono innamorato di te. Il che non è del tutto falso. E’ che sono indeciso, Francesca: indeciso tra te e Alice.
Francesca abbandonò le mani tra le ginocchia, abbassando lo sguardo. Sospirò profondamente. Non l’aveva messo in conto. O forse sì, intuitivamente l’aveva capito e proprio per questo aveva deciso di mettere le cose in chiaro prima che la situazione evolvesse.
Certo che poteva fare a meno di dirglielo, che era proprio lei la sua seconda opzione. Proprio lei, la sua migliore amica.
Le mancò il respiro all’idea di mettersi in competizione con lei, di ferirla, di perderla, dopo tutti quegli anni di affetto silenzioso ma sincero.
- Mi dispiace, Fran.
Mi dispiace. La frittata era fatta e l’unica cosa che gli veniva in mente era “mi dispiace”. E lo disse con lo stesso tono di chi direbbe: mi dispiace ma non è colpa mia se sono troppo affascinante e non mi manca un ventaglio di pretendenti tra le quali compiere graziosamente la mia scelta.
Mi dispiace.
Ebbe la netta sensazione che stesse giocando coi suoi sentimenti, che si sentisse lusingato dall’essere al centro dell’attenzione, che il suo ego, adesso, si sentisse autorizzato a prendersi tutto quello che lei aveva da offrirgli senza nemmeno ringraziare, perché tanto l’amava e avrebbe sopportato tutto.
Lo aveva già capito, ma si limitò a rispondere: - Pensaci, Enrico, decidi tu. Io ti aspetto, dovessi aspettare tutta la vita, perché ti voglio troppo bene per pensare di stare senza di te. E, se dovessi scegliere lei, sappi che non interferirò. Sei troppo importante e la tua felicità viene prima di tutto, anche della mia.
La tua felicità viene prima della mia. Quella frase era ciò che l’aveva condannata a due anni di limbo e a vivere in attesa della sua decisione. Due anni di solitudine e di aridità sentimentale, se non fosse stato per l’amore che provava per lui.
Aveva cominciato l’università. Alla fine aveva scelto lingue, mentre Enrico si era dedicato all’archeologia e all’arte che erano sempre state le sue autentiche passioni.
Anche dopo, durante la loro relazione, Francesca aveva continuato a sospettare che il suo amore per quegli aridi pezzetti di vasi o ceramiche superasse quello per gli esseri umani.
Entrambi ancora di stanza a Bologna, continuavano a frequentarsi, assieme alla vecchia compagnia del liceo, a frequentarsi con sufficiente regolarità per tenere sempre aperta la piaga del dubbio.
Si struggeva, Francesca, tra i comportamenti straordinariamente affettuosi di Enrico che, inaspettatamente, lasciavano poi il posto ad un’imbarazzante freddezza.
E si logorava tra il tenere a freno la gelosia nei confronti di Alice che, mai, per nessun motivo, avrebbe dovuto sorgere e la consapevolezza che si stava umiliando e sacrificando per uno che non lo meritava.
Perché si divertiva, Enrico, lui che era sempre stato troppo amato da tutte le donne che in qualche modo avevano fatto parte della sua vita, in quella situazione. Teneva in sospeso l’affetto sincero delle due amiche, ne approfittava per entrare e uscire dalle loro vite, ingigantiva il suo orgoglio nel sapere che entrambe avrebbero potuto gioire o piangere con un suo solo sì.
Poi era tornato, dopo quasi due anni, con la sua scelta, quando gli era sembrato che continuare a tirare la corda l’avrebbe portato a perderle entrambe.
Con la sua scelta e una scatolina di velluto blu.
Dentro vi era quel ciondolo a forma di tartaruga ed un biglietto, scritto con la sua grafia precisa e minuta. “ Una tartaruga perché il nostro amore è nato lentamente, ma con tenacia è arrivato alla meta” era stata la spiegazione.
Mentre le agganciava la catenina attorno al collo, si era lasciato stordire un lungo istante dal profumo fresco e buono di Francesca. Era dolce e presente, un porto sicuro nelle tempeste della giovinezza. Dopotutto, perché non poterla amare, lei che gli sarebbe rimasta accanto qualsiasi cosa fosse successa, lei, l’unica su cui sapeva di poter incondizionatamente contare.
L’aveva baciata e, in quel momento, a Francesca era parso di trovare un senso alla sua lunga attesa, un senso a tutti i mesi passati a sospirare e a scrivere per lui. Le sembrò che le parti più vere del loro essere si stessero librando in aria, libere dalla gravezza dei loro corpi, per fluttuare verso un turbinio d’indaco, un passo più vicine all’infinito.
 
- Ma l’idillio non è durato molto. Solo pochi mesi, forse un anno, anche perché tra l’università e tutto il resto non ci vedevamo molto di frequente. – Francesca cercava ancora i ricordi nel nero del caffé, ritrovandovi anche qualche lacrima versata per Enrico – Quando ci incontravamo, avevo la netta sensazione di non essere l’unica nella sua vita, ma è sempre rimasto solo un sospetto.
Di sicuro lui si stava mettendo in luce come uno studente brillante. Quello che tutti credevano solo un appassionato medievalista, in realtà, aveva la strada spianata per una carriera rapida, come mi risulta che abbia fatto. Io, invece, ero pressoché come adesso, solo un po’meno disillusa, con piccoli sogni per la testa e tanto amore per le cose quotidiane.
Restavo a lungo seduta sulle panchine del parco a immaginare la vita delle persone e a trarne racconti che nessuno apprezzava fino in fondo. Enrico per primo non ha mai sostenuto le mie capacità: al contrario, faceva di tutto per essere lui ad apparire sotto i riflettori.
Non ho mai fatto nulla per impedirglielo, ma quando mi sottoponeva a lunghe ed estenuanti cene con questo o quell’esperto d’arte conosciuto chissà come e dove, ci metteva del suo per convincere tutta la tavolata che io ero decisamente fuori luogo.
Mi ha anche amata, comunque. C’erano giorni in cui sentivo che il mondo, tutto il suo mondo, era affidato alle mie mani, alle mie cure e all’affetto che gli dispensavo. Mi sono sentita importante, protetta, amata. E tanto. Mi bastava, me lo facevo bastare.
Lo so, avrebbe meritato una ragazza più brillante e, dopo, una donna più mondana di me, per il suo lavoro in giro per il mondo, per il suo carattere anche. Francamente non so dirti dove abbia trovato la forza per continuare ad amarlo, ma quando adesso penso alla nostra relazione mi accorgo che era fatta solo di lunghi, immensi silenzi.
 
- Fran, ti sembra il modo di comportarti ad una cena simile? – la paternale arrivava puntuale ogni volta che uscivano insieme, sorretta da quel suo tono fintamente tollerante.
- Non vedo cosa ci sia stato di sbagliato nel mio comportamento. – lei aveva riavvolto la pellicola di quella serata per capire dove avesse messo il piede in fallo.
- Nulla. Ma è che non brilli, amore. Né di bellezza né di arguzia.
- Ti sembra che debba mettermi a fare del cabaret per sembrarti brillante e arguta? E che cos’ha il mio aspetto che non va? Mi sembrava il rinfresco per un’esposizione di gioielleria longobarda, non la passerella di Chanel.
- Appunto. Guardati come sei vestita: quanto l’hai pagato quell’abito? Cinque euro al mercato del lunedì?
- Se ti fa tanto schifo il mio vestito, potresti fare a meno di portarmi a questi tuoi pallosissimi eventi mondani. Ti assicuro che io starei molto meglio e che il mio vestito sarebbe perfetto per andare al cinema.
- Non sono io a volerlo. Sto costruendo la mia carriera pezzo per pezzo, ho degli obblighi. Lo sto facendo anche per noi, Fran, possibile che tu non lo capisca.
Per noi. Sospirò a quelle parole. Il noi era la solita scusa per mettere a tacere ogni tentativo di ribellione della ragazza. Si rigirò tra le dita la tartaruga d’argento che portava sempre al collo.
Per noi: abbassò lo sguardo.
- Fran, lo sai che ti amo.
- Anch’io, Enrico. È che siamo sempre tanto distanti.
- Mica poi tanto, solo un paio di chilometri.
- Non intendevo questo…
- Lo so, sciocchina, era per non vederti con quella faccia triste. Su, sorridi, che diventi più bella.
A proposito, tieni.- le passò un biglietto da visita – E’ l’indirizzo del parrucchiere da cui va una mia amica in facoltà. Continuo a pensare che staresti meglio con i capelli corti. Lisci, già che ci sei.
 
- E io, invece, continuo a credere che non sia stato l’uomo adatto a te, Fran. E più prosegui il tuo racconto più me ne convinco. – Emma aveva teso la mano sul tavolino per incontrare quella dell’amica – Ho come l’impressione che ti abbia soggiogata e consumata per nove anni, sai?
- Forse… - cercò di guardare lontano, finendo per incrociare l’andirivieni di Sean, che le sorrise con gentile discrezione – O, forse, si è approfittato del mio affetto. Aveva bisogno di un campo base al quale tornare, di sapere che ci sarebbe stata sempre qualcuna ad attenderlo. O è stato amato troppo, da me, da Alice e da tutte le mille ragazze che gli sono sempre ruotate intorno come satelliti.  Ma magari è cambiato.
- Magari è cambiato. – replicò l’altra, senza crederci veramente.
- Ma non è stato solo questo suo comportamento sempre sprezzante e sempre egoista a portarci al capolinea, dopo più di nove anni che siamo stati insieme.
- Com’è finita allora? Per un’altra?
- Per Alice. È arrivato, un giorno, all’improvviso e mi ha detto di scegliere se preferissi vederlo andarsene con la mia migliore amica o continuare a vederlo infelice accanto a me, accanto ad una donna con cui non aveva più nulla da spartire. Stava partendo per Londra, per un ciclo di conferenze che avrebbe dovuto tenere. Al ritorno si aspettava una risposta.
- Il bastardo! Nemmeno si è preso la responsabilità di decidere! Ma che razza di schifoso… Scusami, Fran, ma come diavolo fai ad amarlo ancora?
- Non lo so. Non lo so, Emma, e dire che me lo sono chiesta a lungo.
All’aeroporto, quando l’accompagnai gli dissi soltanto: sii felice e lasciai Bologna il prima possibile. Non so com’è andata, con Alice. Non so se si frequentassero anche prima, mentre era ancora con me. Ho fatto semplicemente marcia indietro. Non ho lottato e, l’ammetto, è stata una mossa vigliacca.
- Non valeva la pena lottare per tenersi un tipo del genere, Fran. Dammi retta. Anzi, se dovevi fare proprio un dispetto alla tua amica, dovevi recapitaglielo davanti alla porta, infiocchettato e imballato, con pacco celere 3. Possibilmente non tracciabile.
Non riuscì a trattenere un sorriso: - E, invece, non volevo che Alice soffrisse della competizione con me. Non aveva colpa lei, dopotutto.
- Certo, lasciarle Enrico alle costole mi sembra sia stata una vendetta più che sufficiente.
- Lei era tutto quello che io non ero e che non avrei voluto diventare, nemmeno per lui. Perché un conto è cambiare pettinatura, un altro è cambiare se stessi e lì lui non ce la fatta.
- Ti ha tolto la possibilità di risorgere, però. Non mi pare poco, se ancora lo aspetti.
- Io sono nata per lui.
- Smetti di fare della telenovela, Fran. Nessuno è nato per nessuno.
- Sono stata con lui nove anni.
- Appunto. Adesso sarebbe ora di gettarlo a mare. Sono due anni e mezzo che se n’è andato con un’altra.
- Che io l’ho lasciato andare, Emma.
- Non cambia poi tanto.
- Eccome se cambia. Non mi ha dato modo di odiarlo e di superare il trauma. Se fosse scappato lui, l’avrei detestato e, a poco a poco, mi sarei ripresa. Così, invece, è come se si fosse mangiato il mio cuore come una pesca e avesse sputato solo il nocciolo arido. Ecco cosa mi resta, di questa storia.
- O cosa ti vuoi tenere. Fran, non voglio essere brusca, ho solo paura che tu soffra. Lo sai che tengo a te.
- Grazie. Farò attenzione. Non ci ricasco, se è quello di cui hai paura. Terrò gli occhi ben aperti, questa volta.
- Lo spero. – le fece Emma da stare sulla porta – Mi raccomando, Fran.
- Vai. Vai tranquilla, ti ho annoiato fin troppo. E salutami Giulia!
- Ci vediamo a scuola.
Annuì: - Emma?
- Sì?
- Grazie.
 
Finì il suo caffé, restandosene seduta ancora a tavolino, tanto il “Joyce” era ancora deserto.
Si smarrì nei corridoi dei suoi pensieri, finché una voce non la interruppe.
- Posso, Francesca? – Sean aveva occupato la sedia che Emma aveva lasciato libera. Tuttavia quella richiesta di permesso non sembrava rivolta al fatto di sedersi con lei, ma piuttosto ad intromettersi in quella faccenda.
- Oh, sì, certo. – si affrettò a fargli spazio, con un lieve imbarazzo.
- Sai, non avrei voluto per nessun motivo ascoltare la vostra conversazione, ma come vedi il locale non è certo una metropoli e…
Francesca annuì: - Figurati, non c’è poi nulla da tenere nascosto.
- Posso permettermi di darti un mio parere?
- Se… se vuoi… Cioè, voglio dire, se non ti annoia parlare di queste cose…
- Affatto. Io non ti conosco bene, Francesca. O meglio, so che insegni inglese, che i tuoi ragazzi ti vogliono bene, che parli un pessimo gaelico e ti piace questa variante eretica dell’Irish Coffee senza whisky. Ma non mi sembra poi sufficiente. Il fatto è che per quasi tre anni ti ho vista venire qui, scrivere a tavolino, ti ho osservata e allora, sì, mi sembra di conoscerti molto meglio di quanto non creda, perché ci sono cose che solo il silenzio può comunicare.
La fine di un amore è come un lutto, Francesca, va elaborato. Bisogna passare attraverso ogni sua fase: l’incredulità, la sofferenza, la rabbia, la malinconia e l’accettazione, altrimenti non si supera.
È inutile nascondere la rabbia, anche per troppo amore. Bisogna lasciare che emerga, se serve a guarire.
- Ma non hai detto tu che quello che il burro e il whisky non possono curare, allora non si cura affatto?
- Sì, ma non ho mai detto che sia il tuo caso. Io ti auguro che sia cambiato, che sia tornato perché ti ama. Ma nel caso non fosse così, arrabbiati, infuriati o, come dite voi, mandalo a quel paese: prima o poi lo dimenticherai.
- E’ difficile.
- Bíonn gach tosach lag.
- Prego?
- Ogni inizio è difficile. – tacque per un momento, restando a guardare il ciondolo che aveva ancora al collo – Conosci il paradosso di Achille e la tartaruga? Achille deve raggiungere la tartaruga. Achille corre dieci volte più veloce della tartaruga e le concede dieci metri di vantaggio. Achille corre quei dieci metri e la tartaruga percorre un metro; Achille percorre quel metro, la tartaruga percorre un decimetro; Achille percorre quel decimetro, la tartaruga percorre un centimetro; Achille percorre quel centimetro, la tartaruga percorre un millimetro; Achille percorre quel millimetro, la tartaruga percorre un decimo di millimetro, e così all’infinito. Achille può correre per sempre senza raggiungerla, perché la tartaruga ha quel minuscolo vantaggio, anche se sembra inutile. Tu, intanto, prenditi quel piccolo vantaggio, quella piccola distanza che ti separa dal passato e vedrai che esso smetterà prima o poi di inseguirti e di tormentarti.
- Sean O’Brien, tu sei un uomo saggio, lo sai?
- Mia cara, io sono irlandese.
- E dunque?
- Non sono solo saggio, sono assolutamente perfetto.
- Aggiungi anche modesto e l’hai fatta completa.
- Ho chiamato gente che fa musica dal vivo, stasera. Vuoi restare?
- Magari un’altra volta. Ho un po’ di noie da sbrigare, adesso che sta finendo l’anno. Comunque, grazie.
- E di cosa? Quando vuoi, il “Joyce” è casa tua. – sorrise – Slàn leat, Francesca.
- Ci vediamo, Sean.
Il leprechaun fischiò, mentre si chiudeva la porta alle spalle.

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Capitolo 4
*** Cap.3 - Bello e impossibile ***


 Mie carissime,
 
capitolo nuovo in tempi brevi! Ho fatto del mio meglio per aggiornare piuttosto rapidamente.
Ma allora mi avete lasciato Enrico sul groppone e nessuna se l’è comprata all’asta XD Pazienza, e allora eccovelo nella sua entrata da star, come promesso. Questa puntata lascia ancora aperti diverse questioni sulla sua relazione con Fran: ma nella prossima scioglierò qualche nodo, promesso ;)
In compenso, oggi farete anche la conoscenza di altri due personaggi, che spero vi piacciano: il fratello e la (futura) cognata di Sean.
 
Come sempre ringrazio di cuore le mie “recensore” (namina89, piemme, manymany, Isyde) , per l’attenzione e la partecipazione. Un grazie sincero anche a chi l’ha inserita tra le seguite (Chelsea88, Isyde, manymany, wilma, Kicici, valespx78, bren, Cohava), ricordate (sister82, sophia90, vic94) e preferite (piemme, namina89).
 
A proposito, i credits: la canzone citata nel testo è “Bello e impossibile” di G. Nannini.
 
Ovviamente, ogni tipo di commento è ben accetto :) Un bacione e buona lettura!
Slàn, mo chairde (come direbbe Sean. E cioè: arrivederci, amiche mie)!!!
 
Marguerite

 



Imprevisti d'amore
Editor fotografico online

 
 
Capitolo 3: Bello e impossibile
 

 
- No, no, no! Che diavolo state facendo? Questi non vanno qui! Ma vi sembra possibile che questo possa essere il posto giusto per i tavolini? Sicuramente gli invitati balleranno e abbiamo bisogno di spazio per i musicisti!
- Michael, tesoro, va tutto bene?
- Non preoccuparti, amore, è tutto sotto controllo. Il nostro matrimonio sarà perfetto, vedrai.
Michael O’Brien guardò con un sospiro gli operai che stavano tentando di trasformare il giardino della loro casa di Galway nello scenario indimenticabile, se così si poteva dire, del loro ricevimento.
Si chiese se davvero ne fosse valsa la pena di rivolgersi a quella ditta di wedding planners, quando in realtà avrebbero potuto benissimo fare tutto da soli, dal momento che sarebbero stati più propensi a una festa più semplice ed intima di quella specie di evento mondano.
E cominciava a nutrire dei dubbi anche sul buon gusto di quell’allestimento, fra trifogli finti ed arpe di gesso sparpagliati nel giardino, nonché sui costumi tradizionali che lui e la moglie avrebbero dovuto indossare per il gran giorno.
Sarà tutto meraviglioso, continuava a garantire quel demonio di wedding planner, correndo avanti e indietro per dare le direttive e finendo per creare più caos di quanto già non ci fosse.
Sarà. Commentava ogni volta Michael. Sarà.
Per carità, l’idea di festeggiare nella loro casa sulla Galway Bay, col sole che tramontava e tutto il resto, doveva avere un suo fascino per gli ospiti ed essere, oltretutto, una buona occasione per inaugurarla. Peccato però che, all’interno, mancasse ancora la metà dei mobili e diverse stanze dovessero essere imbiancate, fra le quali quella del bambino. Era una vecchia villa bianca, con un romantico portico che guardava la baia. A Sinead era piaciuta subito: pensava a quando, in primavera, si sarebbero seduti sulle sedie a dondolo ad ammirare il sole che si tuffava nell’acqua e a leggere storie al piccolo. Poi, la posizione era piuttosto favorevole, sufficientemente vicina alla distilleria degli O’Brien, e abbastanza lontana dall’occhio apprensivo dei genitori di Michael.
- Sinead, ma tu sei proprio sicura?
- Di cosa? Di sposarti? Oh, Michael, di quello non lo sarò mai, mio caro. – scherzò lei, sfiorandosi la pancia, solo appena percettibile, sotto la camicetta bianca.
- Beh, se per questo neanch’io. – scoppiarono a ridere -  No, intendevo di tutto questo sfarzo.
- Tua madre ha insistito per prendere in mano le cose. Tu sei incinta e non vorrai affaticare l’erede degli O’Brien prima ancora che nasca, vero? Ti ricordi cos’ha detto. Poi non capisco perché siano tutti convinti che sia maschio.
- Per via della pancia, no? Se è a punta è maschio, non dicono così?
- Ma guardati la tua di pancia, la mia appena si vede! Mangi più tu di me, ma siamo noi ad essere in due.
- A proposito di mangiare… chi ha pensato al menù?
- Ma non doveva far tutto il pinguino laggiù? Penso a tutto io, ha garantito.
- Scusi! – Michael diede voce al “pinguino”, ossia il wedding planner che continuava ad arrabattarsi avanti e indietro per il giardino sgualcendo il prato all’inglese che lui stesso aveva imposto di tagliare – Scusi, come procede il menù?
- Il menù? Quale menù? – si era bloccato con una di quelle sue improponibili arpe di gesso dorato in mano – Tieni questa, va messa sul tavolo degli sposi e ricordati di mettere un drappo di tulle verde.
- Mister wedding planner, mi duole contraddirla, ma col tulle si mangia poco. Avete già predisposto il menù della cena, no?
- La cena! – rovesciò pateticamente una mano sulla fronte, con aria teatrale – Signor O’Brien, me ne sono dimenticato.
- Ma il suo motto non era: “La risposta ad ogni esigenza per un matrimonio d’eccellenza”? Qua mi sembra un gran spreco di carta e di ornamenti da chiesa, quando mancano le vettovaglie, che mi sembrano la cosa più importante.
- Le vettovaglie, che volgarità! Come se i suoi ospiti fossero una guarnigione unna! Il menù, il menù. – rimase ad ascoltare l’eco della sua raffinata pronuncia francese prima di sbottare: - Ornamenti da chiesa? Queste arpe in gesso sono prodotte a mano da un artigiano specializzato in…
- In tombe e loculi? – Michael alzò scettico il sopracciglio – Eppoi, questa verdura di plastica…
- Trifogli, signor O’Brien, trifogli! Un matrimonio moderno, ma di stampo tradizionale.
- Semplice ma lussuoso, spensierato ma chic, costoso ma in fondo economico. – il futuro sposo sbobinò la frase che aveva sentito ripetere da quando il pinguino gli era approdato in casa.
Adorava prenderlo in giro e fargli perdere quell’aplomb da finto parigino.
- Scusi, ma perché si è rivolto a me, allora?
- Ma su, stia allo scherzo! Un po’ d’ironia, perbacco.
- Un matrimonio è una cosa seria.
- Mica è lei a sposarsi. Dovrei essere io quello nervoso.
Tornò da Sinead ridendo: - Ha scordato il menù.
- Nel senso che l’ha scordato in ufficio o che l’ha scordato – scordato, nel vero senso della parola?
- L’ultima.
Lei sbuffò appena dall’angolo della bocca.
- Ma tranquilla, rimedierà.
- Mancano solo due settimane al matrimonio, Mik. Oh, lo sapevo che sarebbe stato più affidabile rivolgersi alla ditta che prepara il catering aziendale per la fine dell’anno.
- Ma sarebbe stato meno romantico: non noti l’eleganza di questi raffinatissimi decori?
- E come no! Forse sarebbe stato meglio che ci pensasse tuo fratello. Non gestiva un bar, in Italia?
- Mio fratello! – Michael si batté la mano sulla fronte, ma meno leziosamente del pinguino – Cavolo, Sinead, non abbiamo avvisato Sean!
- Amore, tranquillo. Respira: come negli esercizi pre parto. Non abbiamo ancora avvisato nessuno.
- Ma perché non riusciamo a fare le cose come si deve, noi due?
- Perché siamo due casinisti? Beh, speriamo che nostro figlio non abbia preso da noi, eh Mik?
Ma Michael era già sparito, a recuperare in casa il numero del “James Joyce”.
 
 
Entrando al “James Joyce”, che fosse o meno l’ora di punta, la prima cosa che si notava era, inevitabilmente, il gradevole caos. Soprattutto alle pareti, dove si affastellavano quadri, specchi e stampe che Sean aveva fatto arrivare dall’Irlanda, insieme agli arredi.
Quasi dodici anni prima, quando aveva aperto, gli si sarebbe potuto rimproverare tutto fuorché di essersi imbarcato in un investimento non redditizio.
Le cose non andavano male, a conti fatti, neanche dopo tanto tempo. La clientela c’era, pressoché sempre la stessa, ma affezionata. Poi capitava che con qualche serata organizzata come si doveva, come quella di lunedì, un certo guadagno extra si poteva anche realizzare.
Certo, avrebbe dovuto cambiare le lampade che, per carità, così gialline contribuivano all’atmosfera retrò, ma la gente cominciava a preoccuparsi di vedere cosa stesse bevendo.
La pensava più o meno in quei termini, Sean, mentre, come ogni sabato mattina, s’improvvisava contabile, tracciando il bilancio della settimana.
Ripensò con un sospiro alla storia di Francesca, senza la certezza di essere riuscito ad aiutarla veramente. Dopotutto non era che uno sconosciuto, ma c’era qualcosa in lei, una tristezza lontana ma ancora viva, che gliela rendeva vicina.
Lui non aveva mai sofferto troppo per amore. O, meglio, aveva avuto gli alti e bassi che la sorte riserva pressoché a chiunque. Poteva tranquillamente dire la sua sulle donne, irlandesi o italiane che fossero, e il conteggio, bene o male, era sempre in attivo. Con qualcuna era stato bene, qualche altra era stata proprio sbagliata, ma, nonostante continuasse a lamentarsi della propria solitudine, sentiva di non avere fretta di trovarsi una fidanzata.
O, meglio, credeva di non avere fretta, finché non giunse, puntuale, per contraddirlo, la telefonata di suo fratello Michael.
- Pronto? – aveva alzato il ricevitore con aria distratta.
- Sean, vecchio scemo, sono io, Mik.
- Chi vuoi che sia a rompere le palle di prima mattina, se non te?
- Ah, è questa l’accoglienza che riservi al tuo fratellone preferito, dopo mesi che non lo senti?
- A dire il vero sei l’unico fratello di cui abbia notizia, almeno per ora. E i mesi trascorsi dall’ultima telefonata sono appena due giorni e mezzo. Chiamo la mamma ogni sera e faccio il bravo, cos’altro dovrebbe preoccuparti?
- Magari che sono dodici anni che non metti piede in terra irlandese e che tutte le volte che volevamo vederti siamo stati noi a scendere in massa da te? È da Natale che non ci vediamo, quindi esattamente da…
- Cinque mesi e mezzo. Viva la matematica, Mik, e meno male che sei tu il contabile di casa.
- Scherza pure, tu… Ma cosa sei, in esilio, santo cielo, o l’Eire ti è venuta talmente a noia da non sopportare più il verde dei suoi prati?
- Cos’hai mangiato, stamattina? Un libro di Oscar Wilde? O è l’effetto collaterale di qualche pinta di troppo, dato che ieri era venerdì?
- Credo la seconda ipotesi. È stato il mio addio al celibato.
- Con trent’anni d’anticipo?
- Senti, fratello, ti ho chiamato per invitarti al mio matrimonio.
Dall’altra parte gli arrivò solo una risata ironica.
- Non ti sto prendendo per il naso, Sean! Io e Sinead ci sposiamo tra due settimane: sabato 19 giugno, per l’esattezza! Veramente, non è una fregatura per farti tornare.
- Io sapevo che Sinead era completamente matta, fin dalla prima volta che me l’hai portata qui. Ma non credevo fosse uscita di senno al punto da sposare un tipo come te. – non riusciva a smettere di ridere, tanto la notizia gli risultava assolutamente incredibile.
- Ti giuro che è così. Cioè, abbiamo deciso dieci giorni fa, ormai sai come siamo fatti e ancora non lo abbiamo detto a nessuno. In compenso c’è un pazzo che si spaccia per organizzatore di matrimoni, che mi sta riempiendo il giardino con arpe e trifogli di plastica. Quindi se vieni vestito da leprechaun mi fai anche un piacere. Per essere seri, Sean, vieni questa volta, vero? Insomma, la vedo dura caricare tutta sta roba in aereo e fare la cerimonia in Italia.
- Certo. Certo che verrò. Anzi, comincio a pensare che sia ora di tornare in patria più spesso, dopotutto sono passati dodici anni.
- Dodici anni da cosa? Sai che non ho ancora capito perché te ne sei andato e non sei mai più voluto tornare.
- Lo sai, per la mia fidanzata. – mentì.
- Ed è talmente possessiva che non ti lascia partire? Sai che in dodici anni non l’ho mai vista, quella donna. Comincio a pensare che non esista.
- Ma ci mancherebbe! Sono fidanzato alla donna invisibile! Lo sai che è molto impegnata, col lavoro che fa… - inventò la prima scusa che gli passò per la testa.
- Ah, ma questa volta non avrai scuse: perché è invitata anche lei al matrimonio. Anzi, sarete i miei testimoni.
- I tuoi che? No, no, Mik, io sarò il tuo testimone, perché verrò da solo. Non credo, sai, che lei abbia tempo.
- Sean, se mi fai una cosa del genere tutta la stirpe degli O’Brien si avventerà su di te come le menadi su Orfeo per sbranarti. Erede compreso, quando nascerà.
- A proposito, sapete già cos’è? Avrò un nipotino o una nipotina?
- Sinead non vuole saperlo. Sta cercando di fare un dispetto a nostra madre. Ma non tergiversare. Voi verrete e con una settimana d’anticipo, così ci date anche una mano.
- Razza di sfruttatore! Come vuoi, Mik. Mi mancate tutti.
- Anche tu mi manchi, vecchio scemo. E non dimenticare la tua dama.
- Già… non mancherò. Bacia Sinead e l’erede per me. Saremo lì venerdì 11.
Ripose il ricevitore con un sospiro.
Mancavano solo sei giorni a venerdì 11. Dove diavolo avrebbe trovato una fidanzata in sei giorni?
O, meglio, una finta fidanzata, disposta a recitarne la parte – rigorosamente in inglese – per una settimana, davanti a perfetti sconosciuti in terra irlandese.
Sei giorni. Sé lá! Ripeté in gaelico, in quello che, evidentemente, non fu solo un sussurro, se riuscì a far trasalire un paio di placidi clienti.
Certo, avrebbe potuto dire che era appena stato lasciato, ma poi li avrebbe fatti solo insospettire di più. Senza contare che avrebbe dato una gran bella soddisfazione a sua madre che, con imperterrito tradizionalismo, ogni sera gli ripeteva la variante irlandese del detto “moglie e buoi dei paesi tuoi” e pronosticava che la sua relazione non sarebbe durata tanto cosicché, presto, sarebbe tornato a casa.
Non poteva certo dire che erano dodici anni che nessuna donna gli era rimasta nel cuore per più di un paio di mesi. Quattordici, quella che l’aveva sopportato di più. Come non poteva dire che no, non stava in Italia per qualche ragione sentimentale, l’unico motivo che poteva giustificare la sua ostinata lontananza.
Sei in un casino, Sean. Un grande, grossissimo casino.
 
 
C’era una canzone di parecchi anni prima, che le aveva sempre ricordato Enrico, ogni volta che la sentiva. Una canzone che aveva inteso pochi minuti prima attraverso l’i pod di due delle sue ragazze durante la ricreazione. E ora quel paio di versi continuava a rimbombarle in testa, anche mentre fingeva di ascoltare i propositi della classe su vacanze e università, secondo il rito dell’ultimo giorno di scuola delle quinte.
Adorava i suoi ragazzi e, in genere, era sempre interessata a quello che le raccontavano, anzi rimpiangeva di avere poco tempo e troppe formalità da rivolgere loro e a quell’età ancora complicata. Ma quel giorno proprio non ce la faceva. Era sabato, era arrivato, e quasi l’odiava quanto il lunedì. Era arrivato e si sarebbe portato dietro anche il ritorno di Enrico.
“Bello e impossibile / con gli occhi neri ed il tuo gioco micidiale”
Ancora quei versi della canzone.
Ancora Enrico. E non sapeva dire se lo voleva o no, nonostante l’avesse fin troppo desiderato.
- Prof, ma ci sta ascoltando?
- Come? Sì, sì certo.
Ma, anche se volle abbracciarli tutti, firmare le foto ed augurare loro il suo più sincero in bocca al lupo, alla faccia del protocollo, Francesca non li aveva ascoltati e se ne dolse per tutto il tragitto che la riportava a casa.
Mi raccomando, tornate a trovarmi e scrivetemi durante l’estate al mio indirizzo e mail. Aveva detto, dopo il suono dell’ultima campanella dell’anno.
Tre mesi di solitudine, notti passate a scrivere e giorni a leggere pessima narrativa rosa.
Sospirò, girando la chiave nella serratura del portone.
 
Dall’altra parte della strada, il saluto di un clacson premuto con volgare insistenza, la fece sussultare. Si voltò, istintivamente, quel tanto che bastava da vedere un’automobile sportiva, di un bel rosso brillante, parcheggiata poco distante.
Dal lato del guidatore, rivolto verso di lei, scese un uomo.
La prima cosa che notò fu il paio di impeccabili mocassini scamosciati, di un elegante color nocciola. Un pantalone beige che si sarebbe detto appena stirato. Una camicia a righe sottilissime, bianche e marroni, a maniche rimboccate. Infine un maglione bianco, appoggiato con morbida noncuranza sulle spalle, quelle spalle che avrebbe riconosciuto dovunque. Come quel viso, il suo, sempre abbronzato. Una bellezza che toglieva il fiato, quella di Enrico Sacrati, equamente divisa tra il corpo perfetto, i lineamenti marcati e gli occhi scuri come una notte di luna nuova.
- Fran! – sentì chiamare. L’uomo aveva atteso un istante di essere riconosciuto eppoi, dato che lei non aggiungeva nulla, si era tolto gli occhiali da sole che nascondevano il volto a metà, passando a respingere dalla fronte una ciocca di capelli castani.
- Ehi Fran! Non mi riconosci più?
- E…Enrico – balbettò appena, senza sapere esattamente cosa le convenisse fare.
Enrico attraversò la strada, infischiandosene di far inchiodare, per evitarlo, la macchina che arrivava in senso opposto.
- Ciao.
- Ciao. – si sporse per baciarla sulle guance, ma lei si ritrasse prontamente, sostituendo all’amicale saluto una più formale stretta di mano. Egli si tolse i guanti che portava per guidare, prima di stringergliela.
Di famiglia assolutamente ordinaria, aveva sempre amato vivere al di sopra delle proprie possibilità ed ora, finalmente, poteva farlo, tra quei lussi che a Francesca continuavano a parere sempre così incomprensibili o, per lo meno, superflui. Sono un self made man, diceva con una punta di neanche troppo velato orgoglio nella voce, quando gli capitava di doverlo raccontare.
- Come stai? Ti trovo bene.
- Benone, grazie. Hai visto il bolide?
Non amava le automobili, lei: se avesse potuto sarebbe andata in bicicletta anche con la neve.
- Sì, sì, interessante…E’ nuova?
- Acquistata la settimana scorsa. Una piccola gratificazione, sai com’è. Sono cambiate molte cose.
- Tu non sei affatto cambiato.
- Nel senso che non invecchio o che sono lo stronzo di sempre? Perché, per la seconda ipotesi, saresti in errore. Ma non stiamo a parlare dei nostri interessi in mezzo alla strada. È questa casa tua?
Annuì, facendogli cenno di salire.
 
Aveva lasciato Enrico in salotto, mentre era sparita nella propria stanza a cambiarsi. Non voleva certo che lui pensasse che teneva i tacchi e la camicia solo per rendere onore alla sua raffinata tenuta, eppoi ormai era stato abituato a vederla anche in situazioni ben peggiori che col paio di fuseaux e la maglietta del canile municipale lunga fino alle ginocchia.
Lo sentiva, di là, che armeggiava tra le proprie cose, le suppellettili della credenza e i registri abbandonati sul divano, con la sua solita indiscrezione. La cosa non le piacque per niente, dato che erano pezzi della sua vita che non gli appartenevano, che erano venuti dopo della loro storia, per dare un senso a tutto quel vuoto.
- Dì un po’, Fran, ma davvero col tuo stipendio puoi permetterti solo questo?
- Sono un’insegnante, io, mica una famosa esperta d’arte come te. E devo solo ringraziare il patrono dei professori, se c’è, che il posto ce l’ho fisso.
- Nemmeno tu sei cambiata, Fran. Vivi ancora di accenti, di piccole cose, di felicità semplici. Ma come diavolo fai? Non fraintendermi, a volte ti ammiro per essere tanto…
- Mediocre? Oh, smettila, Enrico: non mi hai mai ammirata, hai sempre creduto che io non sapessi vivere veramente. Che la vita, quella reale, è la tua, fatta di soldi, auto di lusso e abiti di ottima fattura. E donne, tante donne che non sai nemmeno tu dove metterle.
- Perché, non credi sia giusto?
- Per te, forse. Ma è troppo lontana dal mio essere.
- Ma come fai a vivere solo per quello che sei, Fran?
- Ma come fai a vivere solo per quello che vuoi, Enrico? Cosa vuoi ancora da me, dopo tutto questo tempo? Non pensi di avermi fatto già soffrire abbastanza?
- Voglio rifonderti i danni per tutta quella sofferenza, Fran. Ho pensato molto a te.
- Ah, sì? E cos’hai capito?
- Che non riesco a starci senza di te, che ho bisogno di averti vicino per ridere, per piangere, per respirare. Per vedere il mondo coi tuoi occhi, Francesca, perché sono ancora idealisti e sinceri. Per vivere.
- Il problema, Enrico, è che sono io a non volerlo.
- Parli così solo perché sei ancora furiosa. E ti capisco, sai.
- Ma cosa vuoi capire, tu? Torni qui e pensi che con un paio di belle parole si possa aggiustare tutto, vero? Che c’è? Alice ti ha mollato o dopo tanto ramingare per il mondo hai bisogno di un campo base, come ai vecchi tempi?
- Fran, ti fai solo del male. Te l’ho detto, voglio farti felice.
- E come?
- Sposami.
Rise, con uno stridio sarcastico, per non fargli capire che le ginocchia le tremavano e che, rabbia a parte, avrebbe già esposto le pubblicazioni di nozze, fosse stato per lei.
Ma, quella volta, l’orgoglio fu più forte di tutto.
- Cosa ti fa credere che io lo voglia?
- Il fatto che tu sia ancora qui ad aspettarmi?
Francesca si prese un lungo istante per valutare se valesse davvero la pena di mettere in atto il piano folle che le era appena balenato in mente.
- Dici? Sei tu a sbagliare, adesso. Sono fidanzata, Enrico. Da alcuni mesi.
- Prego?
- Non sono libera. Ho il cuore impegnato, se preferisci.
- Cioè, tu… tu…
- Sì.
- Storia seria?
- Abbastanza.
Abbastanza. Ecco, Fran, sei abbastanza in un casino. Macchè abbastanza, sei in un casino, Fran.
Un grande, grossissimo casino.

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Capitolo 5
*** Cap. 4 - La cena per farli conoscere ***


 Mie carissime !
 
Su grande richiesta, ecco qui il quarto capitolo, postato nel più breve tempo possibile.
Siete tutte quante così carine che mi date un sacco di entusiasmo e di spunti per scrivere, anche se ahimé il tempo è quello che è e spesso mi tocca di farvi penare con gli aggiornamenti.
Come sempre, un grazie a tutte di cuore. Alle mie “recensore”( namina89, piemme, manymany)
A chi ha inserito la storia tra le seguite(Chelsea88, Isyde, manymany, wilma, Kicici, valespx78, bren, Cohava, Aletta92, Davan, lullaby3), ricordate (sister82, sophia90, vic94, Davan, Polvere) e preferite (piemme, namina89). Speriamo di non aver dimenticato nessuno. In tal caso, non lo si è fatto apposta ^^
Ad un certo punto nel testo salterà fuori anche un anonimo avvocato: è stato un momento di autoironia, spero che non vi annoi... se fosse così, almeno vi consoli il fatto che non è fondamentale e non comparirà più ;)
Chiedo anticipatamente scusa se fra domani e domenica non sarò presente a rispondervi e a scrivere, perché no, non scappo con Sean in Irlanda, anche se un pensierino... no, sarò solo in visita a Firenze. Ma vi prometto di meditare molto sul prossimo capitolo durante questo fine settimana e di aggiornare quanto prima!
Buon weekend! Un bacione, sempre vostra
 
Marguerite.
Imprevisti d'amore
Editor fotografico online

 

Pourtant moi, j’avais du talent
Avant ta peau
(Dalida, Je suis malade)

 



 
Capitolo 4: La cena per farli conoscere


 
 
Non sapeva dire perché si fosse lasciata andare ad un simile azzardo.
In genere non era da lei. Soprattutto quando poi non sapeva come far fronte ai guai che lei stessa aveva creato. La verità era che non voleva dargli quella soddisfazione, quella di dire che era rimasta ad attenderlo senza nessuno accanto. Non che avesse davvero fatto vita di monastero, in quei due anni, ma da un’avventura al sentimento vero, di acqua ce ne passava.
Cosa avrebbe dovuto fare, del resto: mostrarsi a lui in tutta la sua fragilità, in tutta la sua debolezza? Dirgli, forse, che il suo letto e il suo cuore non conoscevano un uomo da troppo tempo e che davvero la sua vita si consumava fra compiti, sigarette e film alla televisione? Per confessarglielo sarebbero bastati i suoi pessimi racconti. Era peggiorato il suo stile. Ma probabilmente non si trattava dello stile, del tema, piuttosto. Sempre quello, sempre troppo autobiografico. Sempre troppo legato a lui, che muoveva anche la sua ispirazione più profonda. E dire che aveva avuto anche del talento, prima di conoscere la sua pelle.
Ma si era portato via tutto, Enrico, e Francesca non aveva ancora capito cosa diavolo se ne fosse fatto per tutti quegli anni dei pezzi della sua vita, collezionati come quei cocci da museo che gli piacevano tanto.
Forse Fran aveva sentito il bisogno di fargliela pagare, con una di quelle vendette ormai fredde da donna umiliata e ferita. Forse avrebbe voluto fargli capire la sofferenza dell’attesa.
Camminava nervosamente nella stanza, lui, senza spiegarsi come fosse potuto succedere. Enrico Sacrati, bello, colto e di successo, rimpiazzato da neanche sapeva chi.
- Chi è?
- Chi?
- Il tuo fidanzato. Quello che mi ha sostituito.
- Per favore, non dire “sostituito” come se le persone fossero pezzi di un’automobile. Poi se anche ti dicessi chi è, non lo conosci. Punto.
- Voglio saperlo lo stesso. Voglio sapere se è giusto per te e se non ti farà soffrire.
- Mai quanto te. Lascia che sia io a deciderlo, Enrico.
- Insomma, cos’è, un delitto, chiedere di conoscere la persona che frequenti?
- Oh porca vacca, ma cosa ti interessa?
- Prima che il tuo ex, sono il tuo migliore amico.
- Di’la verità: non ci credi. Tu pensi che io ti stia inventando una balla colossale.
- Tu l’hai detto, Fran, non io. È una bugia? Se fosse così saresti proprio caduta in basso…
- Ah, io sono caduta in basso? E tu, allora, che vuoi conoscerlo solo per avere un assaggio della concorrenza? Perché non sali sulla tua bella macchina sportiva e te ne torni da dove sei venuto lasciandomi vivere la mia vita in pace? Dov’è Alice?
- Alice se n’è andata quattro mesi fa, senza nemmeno una parola. Lo sai com’è fatta: la vita a due le sta stretta, specie quando si tratta di convivere e limitare la sua libertà.
- Ecco, lei è una intelligente. Io sono stata una cretina. Ah, ma non ci ricasco, sai? Solo perché lei ti ha piantato in asso tu torni qui, da me, dopo due anni e mezzo di silenzio, solo per non startene da solo… complimenti, devi avere una gran considerazione della vecchia Francesca che ti ha umilmente aspettato e seguito per nove anni.
- Tu mi ami ancora, Fran, lo so.
- Il mondo non gira solo attorno a te, Enrico. Fattene una ragione.
Cos’hai in mente, avanti, dillo e facciamola finita.
Trasse dalla tasca una scatolina di velluto. Blu, come quella di tanti anni prima.
L’aperse, rivelandole l’anello che vi era contenuto. Bello ma pacchiano. Constatò lei, alzando il sopracciglio. Ma, soprattutto, era un anello: quello pronosticato da James Joyce, quella sera al pub.
La profezia era giusta. Ma vacca miseria, Joyce, proprio con me ci dovevi azzeccare?
- Sposami – le ripeté – Lascialo perdere, quell’altro, e sposami. Saremo felici, questa volta, lo prometto. Te lo meriti, Fran, di essere felice.
- Io non merito proprio nulla, tranne quello che ho. Lascia stare, Enrico, non si tratta di meriti.
Si tratta di sentimenti, per quanto ti risulti difficile capirlo.
- Riflettici, mettici a confronto, pensa con chi davvero vuoi vivere. Scegli, Francesca. Io sarò a Padova per due settimane. Fammi sapere.
Fece per uscire, bloccandosi un istante sulla porta: -A proposito, domani sera…
- Domani sera cosa?
- La cena col tuo cavaliere. Scegli tu dove, voglio proprio conoscerlo.
- Ma va a …
- Non accetto deroghe.
Si chiuse la porta alle spalle.
Che casino! Che gran casino, solo per orgoglio. Dove caspita l’avrebbe trovato un uomo disposto a fingersi il suo fidanzato per una sera e a tenere anche la bocca chiusa dopo?
Con i suoi colleghi neanche a parlarne! Se l’avesse proposto al povero professor Parenti, come minimo le avrebbe sputato in un occhio, se avesse avuto la garanzia di avere lo sputo avvelenato. Dopo il modo con cui l’aveva scaricato, poveretto, non gliene dava tutti i torti.
Gli amici di vecchia data erano anche amici di Enrico.
Passò in rassegna tutte le sue conoscenze maschili e anche quelle femminili, nel caso avessero fratelli o cugini da prestarle, ma niente. Ormai si era convinta di dover pagare un gigolò.
Certo, se poi le capitava uno come Richard Gere, come avrebbe potuto farla franca? Per essere credibile doveva essere semplicemente un tipo presentabile di aspetto, educato di modi e abbastanza colto da presupporre che passassero anche lungo tempo a discutere di letteratura. Conoscendola, Enrico sapeva che non avrebbe mai sopportato di stare con un uomo capace di articolare una frase che vertesse solo su calcio donne e motori.
Ecco, dove lo trovo uno così?
Un’idea le balenò in testa. Ma no, Fran, andiamo? Ti sei rimbecillita? Cosa fai, entri al "Joyce" e: ciao, Sean, scusa ma avrei bisogno di un finto fidanzato. Questo ti prende per matta!
Certo che Sean sarebbe stato davvero il tipo giusto. Nel senso di credibile, ovviamente. Si corresse. È un bell’uomo, gentile, sensibile: uno di cui sarebbe normale innamorarsi anche dopo nove anni di relazione alle spalle.
Ormai la frittata l’ho fatta, tanto vale che provi. Al massimo mi manda a quel paese.
Varcò la soglia sentendo il freddo del pavimento sotto i piedi.
Caz… cavoletti di Bruxelles, le scarpe! Fossero state solo le scarpe, era vestita in modo spaventoso.
Cercò di restaurarsi a tempo di record. Afferrò la bicicletta e frenò solo quando fu davanti al “Joyce”, con la saracinesca già abbassata.
- Sean! Sean, stai chiudendo?
Ignorò bellamente il povero leprechaun.
- Starei chiudendo, se l’avvocato si decidesse a togliere le tende. Tutte le volte che perde una causa, si mette lì al tavolo a leggersi il giornale ed è capace di starsene col muso lungo tutta la giornata. – le indicò un tale tarchiato e baffuto seduto a poca distanza.
Fran si appoggiò pesantemente al bancone: - Ho combinato un casino, Sean. Mi serve qualcosa di forte: una Guinness.
- Fran, sono le due del pomeriggio. E una Guinness non è qualcosa di forte, cara.
Avanti, cos’hai combinato? Dimmi tutto.
- Un guaio enorme, colossale, gigantesco e incommensurabile, Sean.
- Se si tratta di rubinetti che perdono, lampadine che esplodono o maglioni infeltriti credo di poter darti una mano. Più in là non posso andare, temo.
- Se ha bisogno di un legale, signorina… - l’avvocato alzò il naso dal quotidiano.
- Civilista o penalista?
- Civilista.
- Allora no . Mi mandi un suo collega per quando avrò ammazzato il mio ex.
- Ancora Enrico?
- Già. Mi ha chiesto di sposarlo.
- Non è un bene? Hai aspettato due anni e mezzo che tornasse…
- No che non lo è! Mi sono inventata che non posso sposarlo perché ho un altro. Ma non è vero che ho un altro, io sono ancora innamorata di lui!
- E allora sposalo!
- No, cioè non subito.
- Francesca, io non ci ho ancora capito niente. Aspetta un attimo. Con calma.- alzò le mani in segno di resa -  Piacere io sono Sean, tu sei Francesca e fin qui ci sono. Vuoi sposare quell’uomo, Fran?
- Sì. – rispose lei con decisione – Ma non voglio finire subito ai suoi piedi come se niente fosse. Per questo mi sono inventata di avere un fidanzato. Per vendicarmi. Deve capire cosa significa aspettare e dipendere dalla decisione di qualcun altro. Io gli faccio credere che ci devo pensare, lui aspetta diverse settimane, un paio di mesi magari, e poi gli faccio sapere. Magari lo sposo o magari no .
- Mi sembra un piano quanto meno curioso, ma potrebbe funzionare. Solo una cosa mi sfugge: io cosa c’entro?
- Enrico vuole conoscere il suddetto uomo, ma io non ho un fidanzato, ricordi? Ho bisogno di un favore.
Il tale seduto a tavolino riemerse di nuovo dalla Gazzetta: - Signor O’Brien, la signorina vuole che lei gli faccia da fidanzato.
- Grazie, avvocato.
Ma una sporta di affari suoi, no? Eh, no, è un avvocato.
- Aspetta un attimo: io devo far credere a Enrico che stiamo insieme?
- Esattamente.
- Fran è un’idea…
- Del cavolo, lo so. Ma sarebbe solo per una sera.
- Fran è un’idea geniale! Di metterci insieme, intendo. Cioè, per finta. Ma per gli altri per davvero.
- Tu non mi prendi per pazza?
- Assolutamente: tu sei la donna più pazza che conosca, ma a volte la pazzia è l'anticamera della genialità. Ho bisogno anch’io di una fidanzata in prestito, da presentare alla mia famiglia.
- Fantastico.
- Andata? – le porse la mano.
- Andata.
- Avvocato, c’è lei testimone della conclusione del contratto tra le parti. – fece Sean, mentre l’avventore annuiva – Vede che lei non è inutile, avvocato: un civilista serve sempre.
- Lei ha dato senso alla mia giornata, signor O’Brien.
- Perché uno entra al “Joyce” e trova sempre un senso alla propria giornata? – Francesca era rimasta ancora con la mano in quella di lui e cominciava a capire che quella stretta cominciava a durare un po’ troppo.
- Scusa – fece Sean sorridendo, prima di lasciare la presa – A proposito, quand’è la cena?
- Domani sera. A casa mia?
- Ci mancherebbe! Ti immagini la scena: “amore, vado un attimo in bagno” e magari infilo la porta d’ingresso. Meglio qui.
- Qui? Enrico detesta i pub.
- Se detesta anche gli irlandesi siamo a cavallo. Digli che entri con uno scafandro da palombaro, se crede. Ma la cena si fa al “Joyce”. L’hai detto tu: qui dentro si trova sempre un senso alla propria giornata.
- Speriamo bene… Quando arrivano i tuoi?
- Arrivare? Fran, siamo noi a dover andare.
- Noi? Cioè io e te? In Irlanda?
- Esattamente. Andremo al matrimonio di mio fratello. Niente domande, ti spiegherò tutto a suo tempo. Si parte venerdì prossimo e si torna la domenica.
- Beh, tre giorni.
- Intendevo venerdì 11, con ritorno domenica 20. Nove giorni.
- Nove che? Io credevo fosse per una cena, un giorno al massimo! Sean O’Brien, come cavolo pensi che io possa fingere così bene per nove giorni? Lo sapevo che non dovevo fidarmi di te!
- Alternative?
- Oltre a quella di strozzarti? No, nessuna. – sbuffò di insofferenza – Ma posso sempre tirarmi indietro.
- Eh no, sarebbe inadempimento del contratto, vero, avvocato?
L’avvocato annuì.
- Sì, ma in questo contratto ci sono vizi occulti. Che è un modo carino per dire che mi hai fregato, O’Brien!
- Garantisco la buona fede del mio assistito, signorina.
- Nove giorni… posso fare un commento?
- Prego.
- Vacca miseria.
 
 
Da quanto siete insieme? Un anno, due mesi e diciassette giorni.
Come vi siete conosciuti? Qui, al “Joyce”.
Chi si è dichiarato per primo? Io. Con tanto di proposta in gaelico, che lei ha prontamente accettato.
L’anello! Perché non porta l’anello di fidanzamento? Perché è ancora in viaggio dall’Irlanda. Dopo un anno? Beh, non ci farà caso nessuno.
Sean ripassava il copione, accuratamente scritto e inviato via mail quella mattina stessa da Francesca. La tavola era pronta, il “Joyce” era chiuso e a loro completa disposizione. L’avvocato aveva tolto le tende la sera precedente, come sperato.
Che motivo aveva di preoccuparsi, in fondo? La cena non poteva durare che un paio d’ore. Meno di una recita scolastica. Ma anche allora, per lui, era sempre stato difficile tenere a memoria le battute e non incespicare nei costumi di scena.
Guarda cosa mi tocca fare. Disse rivolto al leprechaun. Amico mio, comportati bene.
 
 
- Si può sapere dove mi stai portando, Fran? – Enrico aveva storto il naso quando aveva dovuto lasciare la sua automobile davanti al condominio in cui abitava Francesca perché non avrebbe trovato parcheggio.
- Ma è sicura la tua zona? No, perché, se mi rubano la macchina… - continuava a voltare la testa all’indietro per riuscire a scorgerla con la coda dell’occhio.
- Ma sta bene, la tua macchina! Santa pazienza, vuoi camminare un po’più veloce? Siamo in ritardo. Sean ci aspettava già dieci minuti fa.
- Chi è Sean, adesso?
- Il mio fidanzato, non ti avevo detto il nome?
- No. Inglese?
- Irlandese. E, per favore, cerca di non fare gaffe di questo genere in sua presenza.
- Vabbè, cosa vuoi che sia…Irlandesi, inglesi, sempre straniero è.
- Non dirmi che sei ancora della mentalità moglie e buoi dei paesi tuoi?
- Scusa, ma non è che si è messo con te per ottenere il permesso di soggiorno? Come in quel film, com’è che si chiamava? Beh, non importa…
- Come sei venale.
- Realista, mia cara, realista. Non mi fido di questi baldi giovanotti irlandesi che se ne vanno in giro a conquistare per interesse fragili fanciulle col cuore infranto.
- Ti sembro una fragile fanciulla col cuore infranto? Per tua informazione, Sean sta in Italia da dodici anni.
- E cosa fa per vivere? Tosa pecore?
- Santo cielo, Enrico, hai un umorismo davvero pessimo. Gestisce il “James Joyce Irish Pub”. – fece lei, indicandogli l’ingresso con gesto scenografico – A tua disposizione per l’occasione, in via esclusiva. Da fuori non è un granché, ma all’interno cambierai idea.
- Dove accidenti mi hai portato, Fran?  In una catacomba?
- Sì, lo so, le luci sono da sostituire. – Sean comparve da dietro il bancone, asciugandosi le mani in un canovaccio. Cavolo, ma perché si era messo proprio quella camicia a scacchi rossi che sembrava quella di un boscaiolo o la tovaglia di un picnic. Enrico, tirato a lucido in un completo di lino beige, avrebbe avuto subito la netta sensazione di avere gioco facile, nella conquista di una donna.
A dire il vero, tovaglia a parte, era sempre molto carino. Le sorrise brevemente, prima di tendere la mano verso Enrico.
- Sean O’Brien. Il fidanzato di Fran, ovviamente.
- Enrico Sacrati. Diciamo, un amico d’infanzia.
- Ho sentito molto parlare di te, Enrico. – “be friendly and easy going” continuava a ripetersi, nonostante lo sguardo di disappunto dell’altro, vestito come dovesse andare a cena in un ristorante di lusso – Ma accomodati.
Enrico, con studiata galanteria, scostò la sedia di Fran, prima della propria, fingendo poi di ignorare lo sguardo con cui lei l’aveva fulminato.
- Inglese?
Fran si contenne dal tirargli un calcio da sotto il tavolo.
- Irlandese, di Galway. – possibile che non lo sapesse? E certo che lo sapeva, ma qui Enrico stava volontariamente mettendo le basi per una cena disastrosa.
- Ecco, mi pareva di sentire uno strano accento. Mi meraviglia scoprire che parla la nostra lingua, pur essendo ingl… ehm, irlandese. Ma tanto non fa nessuna differenza, è sempre quella zona.
- Già. – tagliò corto – Se si esclude che gli inglesi ci hanno occupato per quasi ottocento anni.
- Eh, cosa vuoi che siano ottocento anni nell’infinità della storia.
Che non si mettesse anche a fare l’intellettuale, adesso. Fran aveva la netta sensazione che le cose potessero degenerare anche prima del previsto.
Sean era tornato con una serie di piatti tradizionali. Aveva cucinato lui, la cosa era sottintesa.
- Cara, ti ho preparato il tuo piatto preferito, il Drisheens.
- Certo, il Drisheens. – fece lei, senza avere una mezza idea di cosa stesse per mangiare. Buono era buono. I cinesi dicono che tutto quello che da vivo si muove si può mangiare, non farti troppe domande.
- Posso chiedere a base di che cos’è questa ricetta? – fece Enrico, muovendo la forchetta nel piatto con circospezione – Pecora?
- Esattamente. Pecora.
- Beh, da voi ci sono solo pecore. Non è difficile indovinare.
- Mai stato in Irlanda? – gli chiese Sean, quando l’altro ebbe deciso ad inghiottire la famosa pecora.
- No.
- Ecco, appunto. Per l’esattezza, è salsiccia di pecora al sangue, quella che stai mangiando.
- E… quali parti della pecora si usano?
- Tutte.
- Tutte nel senso di tutte – tutte?
- Tutte. – lo guardò respingere il piatto con la scusa di sentirsi lievemente indisposto – L’Irlanda è sempre stata un paese povero, che non si poteva permettere di sprecare risorse.
Fran si sentiva di troppo, come lo sceriffo in un duello di pistoleri. Aveva la netta impressione di essere finita per sbaglio sul set di “C’era una volta il West” e, prima o poi, qualcuno avrebbe sparato.
Certo, Enrico si stava comportando da vero ottuso.
Sean, doveva dargliene merito, aveva tentato di recuperare tutta la – scarsa – pazienza di cui era dotato il suo carattere irlandese, ma c’era un limite a tutto. Aveva immaginato che avrebbe fatto di tutto per farlo ingelosire, credendo che stessero insieme, e la cosa avrebbe dovuto lasciarlo del tutto indifferente, per quanto fosse entrato bene nella parte. Ma così, la questione stava diventando un po’ troppo personale.
- Bene – fece lei, facendo poco signorilmente scarpetta col pane nei resti del Drisheens – Perché non ci racconti, Enrico, della tua esperienza in Belgio?
Mettilo a parlare di lui ed Enrico dimentica tutto il resto. Almeno spero.
- Splendida, assolutamente splendida. Ho creato il più grandioso allestimento che il museo archeologico abbia mai visto. Un magnifico percorso storico e sensoriale all’interno dell’arte romana. Immaginate! All’ingresso un enorme pannello nero a caratteri bianchi illuminato da due faretti e il passo di Tacito dagli Annales. “Sed incorruptam fidem professis neque amore quisquam et sine odio dicendus est”.  « Ma chi professa una fedeltà incorrotta al vero, deve parlare di tutti senza amore di parte né odio » . E’ questo che per me deve fare l’archeologia.
- Senza entrare nel merito delle tue opinioni, ma quello che tu citi non è un brano degli Annales, ma delle Historiae. Libro primo. Gli Annales cominciano con “Urbem Romam a principio reges habuere”, ricordi? – gli fece presente Sean
- Scusa ma io ho studiato latino per dieci anni. Le so queste cose e se dico che sono gli Annales, parlo con cognizione di causa.
- Anch’io ho studiato dieci anni latino. – ribatté Sean – Non era per offenderti, era solo una precisazione. Meglio sbagliare qui tra amici che ad una conferenza stampa. – sorrise, accomodante.
- E la prossima tappa? – chiese di nuovo Francesca.
- Berlino.
- Berlino? Magnifica città, Berlino. Ci sono stata con una delle mie classi. L’ho trovata troppo vuota, ancora, ma magnifica. Mi sono sentita a casa.
- Gente magnifica i berlinesi, soprattutto – precisò Enrico – Almeno non spendono in Guinness tutta la paga della settimana.
Ormai, qualunque cosa dicessero, Enrico sarebbe uscito con una delle sue cafonerie. Tanto valeva tacere e prendere al volo il primo pretesto per disgregare l’allegra, si fa per dire, compagnia.
Se credeva di far colpo su di lei con quei modi da spaccone, aveva proprio sbagliato tattica.
Le dispiaceva, soprattutto per Sean. Se l’avesse saputo, avrebbe preferito fare la figura della fragile e stupida fanciulla col cuore infranto, piuttosto che metterlo in quella situazione.
- Preparo il caffé.
- Aspetta, vengo ad aiutarti . – gli rispose, per aver l’occasione di toglierselo davanti.
- Non state a disturbarvi. Ho un po’ di premura. Sean, Fran, è stata una magnifica serata. A proposito, non riesco proprio a immaginare dove puoi aver nascosto il fucile.
- Fucile? Quale fucile?
- Ma voi altri irlandesi non siete sempre impegnati a spararvi addosso, fin dai tempi dell’Ira?
- Già. Peccato che tu non abbia portato il mandolino, così avremmo dato vita ad una bella fiera dei luoghi comuni. – Sean si era lasciato cadere pesantemente sulla sedia non appena Enrico ebbe varcato la soglia, con una di quelle sue solite uscite ad effetto, da divo consumato.
- Mi dispiace tanto, Sean. Se avessi saputo che razza di maleducato è diventato, mai nella vita ti avrei trascinato in questa storia. Ha davvero passato il limite. Poi domani mi sente. – gli posò le mani sulle spalle, con distrazione – Scusami.
- No, non scusarti, non fa nulla. Mi dispiace per te, piuttosto. Fran, ma come fai a essere legata a lui? Cosa c’è che vi unisce? Voglio dire tu sei una ragazza semplice, carina, gentile, come fai ad amare un uomo del genere? Scusa, non è affar mio.
- Non lo so. Ho l’innata attitudine a innamorarmi degli uomini sbagliati. Ma lui non era poi tanto male, prima che lo perdessi di vista. In questi tre anni è peggiorato molto.
- Sarà… Su, Fran, non fare quella faccia triste, tra cinque giorni io e te ce ne andremo nella verde Irlanda e per un po’ non dovrai pensare a lui. Saranno nove giorni di full immersion nella pace e nella magia della Galway Bay. – scherzò – Oddio, sulla pace, a dire il vero, non posso garantire nulla. Verrai sequestrata dai miei che insisteranno per mostrarti l’azienda di famiglia. Da mio fratello che non vede l’ora di conoscerti e da mia cognata che avrà certamente bisogno di tremila consigli sul vestito. Ma sulla magia di Erin ci metto la mano sul fuoco.
Le sorrise, talmente affettuosamente che la costrinse a fare altrettanto.
- Sai, mi ha sorpreso sentirti parlare latino con tanta disinvoltura.
- Vecchie passioni di gioventù. – rispose evasivo e a Fran non parve opportuno chiedere altro.
- A proposito, tu quanto ne sai dell’Irlanda?
- Vediamo: conosco i leprechaun, l’Irish coffee, la Guinness, anche se non fa molto chic. Parlo due parole di gaelico in modo pessimo, a tuo dire, ma a me pare perfetto. Ah, ho visto quattro anni fa al cinema “Il vento che accarezza l’erba”, ma solo perché mi piacciono i film di Ken Loach, non specificamente per il tema.
Lui rise: - Temo che non basterà.
- Oh, temo anch’io. Ma non preoccuparti: per l’esame di maturità ho cominciato a studiare otto giorni prima. Cinque saranno più che sufficienti per diventare un’irlandofila perfetta.
Ti farò fare un’ottima figura.
- Non lo dubito. – si alzò per sfiorarle le guance con le proprie, in un saluto appena troppo convenzionale – Non stare in pena per quello che è successo. Per quanto mi riguarda ho già dimenticato.
Le aprì la porta del “Joyce”.
Lei si trattenne il tempo sufficiente per aggiungere: - Sean O’Brien tu sei…
Il leprechaun fischiò.
- Ma non si scaricano mai le batterie?
- No, è solo offeso perché lo ignori da due giorni. – scherzò lui per stemperare le tensioni della serata.
- Erin go bragh! Contento? – stette al gioco e salutò quel diabolico souvenir d’Irlanda che interrompeva sempre i momenti migliori – Stavo dicendo… e taci! Dicevo: Sean O’Brien, sei l’uomo più caro che abbia mai conosciuto. E, contratto o no, con te ci sarei venuta comunque volentieri in Irlanda.
Sean annuì: - Aspetta di finire in mezzo alla preparazione di un perfetto matrimonio irlandese con tanto di balli tradizionali e poi mi farai sapere.  Oíche mhaith, Francesca.
- Buona notte, Sean.

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Capitolo 6
*** Cap.5 - With or without you ***


 Mie carissime,
 
sono tornata anche se in ritardo, ma come avevo preannunciato la toccata e fuga in terra fiorentina, con foto, resoconti di viaggio e annessi e connessi mi ha sottratto più tempo del previsto. Ma non credete che non vi abbia pensato. Difatti, mentre costringevo tutta la compagnia ad una sosta di quindici minuti davanti alla tomba di Foscolo in Santa Croce ricordando i Sepolcri, la musa ha pensato bene di ispirarmi un paio di scene. Così il capitolo è stato scritto in tempi quasi decenti.
Come sempre, passo ai ringraziamenti. Innanzitutto un grazie speciale a Piemme, autrice della bellissima immagine che fa da copertina al capitolo e che appena avrò un attimo inserirò anche in quelli precedenti. Eppoi, un grazie a tutte di cuore. Alle mie “recensore”( namina89, piemme, manymany). A chi ha inserito la storia tra le seguite(Chelsea88, Isyde, manymany, wilma, Kicici, valespx78, bren, Cohava, Aletta92, Davan, lullaby3, beate, fefasdt23, Mary02), ricordate (sister82, sophia90, vic94, Davan, lunadargento, Neverwas) e preferite (piemme, namina89). Speriamo di non aver dimenticato nessuna ^^ 
Chiedo perdono per l’imperdonabile ritardo. Sean si scusa con me e manda un bacio affettuoso a tutte XD
Un caro saluto ed un abbraccio, sempre vostra
 
Marguerite
 

Imprevisti d'amore
Editor fotografico online


 

 
 
Capitolo 5: With or without you  
 

 
- Parto, Enrico. – la sua telefonata era stata lapidaria. Non aveva molta voglia di stare a discutere con lui, dopo quella pessima figura alla cena.
La chiamata era arrivata il lunedì sera sul tardi, mentre Enrico si crogiolava nella schiuma e nell’acqua della vasca da bagno.
- Cosa significa che parti? – per poco il cellulare, dalla sorpresa, non aveva fatto un tuffo.
- Beh, non credo che il verbo partire abbia molti significati. Vado in Irlanda.
- Per sempre?
- No, purtroppo. Una settimana soltanto. Devo accompagnare Sean al matrimonio di suo fratello.
- Cioè vai a presentarti alla famiglia. Io non ci ho ancora capito niente di voi due, Fran. Alla cena non sembravate così appassionatamente innamorati e ora ti porta a casa? Quanto è seria la vostra storia? Perché se è molto seria faresti bene a non giocare con me e dirmelo chiaramente che posso andarmene.
- Sono io che non ci capisco più un accidente, Enrico, e mi sembra di avere le mie buone ragioni per essere in confusione.
- Bene, allora rendiamo le cose il più chiaro possibile: o me o lui, Fran.
- O te o lui, come pensavo. Come mi avevi detto già. Ma fra due settimane.
- Fra due settimane?
- Il tempo di tornare da Galway.
- Vuoi farmela pagare? Beh, un po’ me lo merito.  – atteggiò la voce come un attore consumato, come la pessima copia di un Alain Delon da sagra – Sei troppo bella, Francesca, perché non ti si possa aspettare.
La sentì ridere di nervosismo dall’altro capo della linea: - Certo, come no?
- Lo sai, Fran, questa cosa potrebbe offendermi. Intendo il fatto che fai le prove con un altro, per decidere o meno quanto valgo io per te.
- Oh, per carità! Sei proprio il tipo da offenderti, tu, per questi affronti! Hai sempre avuto una faccia tosta che tutto ti è scivolato addosso come l’acqua sulle piume di un’anatra. Figurarsi le mie parole che peso possono avere, mio caro.
- Non è colpa mia, sono fatto così. Penso che la vita sia già abbastanza breve per sprecarla a combattere e a indignarsi per non sappiamo neanche cosa. Io non sogno, Francesca, i sogni sono tempo perso. E l’amore non è che un diversivo piacevole dalla noia che altrimenti appiattirebbe tutto.
- Smetti di parlarmi come fossi uno degli studenti che affollano le tue conferenze. Fare l’intellettuale può servirti a conquistare qualche nuova fiamma. Ma, purtroppo per te, le frasi barocche e arzigogolate di cui mi copri, su di me non fanno più colpo.
Rise, anche lui, ma di scherno: - Vuoi davvero farmi credere che quando mi hai rivisto, due giorni fa, non hai sentito un tuffo al cuore, Fran? Che non ti saresti gettata tra le mie braccia, se non fosse stato per il tuo orgoglio? Che non avresti mandato al diavolo quel Paddy insipido e avresti fatto l’amore con me anche subito?
- Non mi sembra il modo migliore di parlare di Sean. Non in mia presenza, almeno.
Lui non mi ha detto di scegliere tra la mia e la sua felicità, prima di lasciarmi sola come un sedano. Ti ricorda qualcosa, questo?
- Oh Dio, di nuovo il melodramma! Fran, quando fai così proprio non ti sopporto! Cosa vuoi che faccia di più per farmi perdonare? Che torni da te strisciando come i pellegrini che vanno a Compostela?  Mi sembra che il mio anello dica tutto, Fran. Se fai tutto questo per tenermi sulla corda e farmi rimpiangere l’attesa a cui ti ho costretta a suo tempo, posso anche capire. Ma se davvero sei convinta di quello che stai facendo e davvero hai perso la testa per quella specie di esaltato nazionalista irlandese allora comincio a preoccuparmi.
- Esaltato che? Sean è solo uno che nutre un naturale affetto per la sua patria. Non mi sembra da mettere al muro solo per questo. La verità è che sei geloso. Che hai avuto la dimostrazione di quello che la concorrenza mette sul mercato e cominci a preoccuparti di non reggere il paragone.
- Io? Ma andiamo! Cioè, dico, ma l’hai visto?
- Parlo così proprio perché l’ho visto bene. E perché lo conosco. E qualunque scelta dovessi compiere non dipenderebbe certo da una mancanza sua.
Si meravigliò di star difendendo Sean tanto a spada tratta e non solo perché il ruolo glielo imponesse.
- Due settimane, Francesca. Attenderò due settimane solo: a tirare troppo si spezza anche la corda più resistente, ricordatelo. Pensaci bene, ma tra due lunedì voglio quella risposta.
- Non essere sicuro di avere già vinto. – si sforzò di tenerlo sulle spine come potè.
- Ma io ho già vinto. Perché siamo fatti l’uno per l’altra, perché quando sei nata qualche buona stella ha deciso che sei nata per me. Perché non puoi vivere senza di me, Fran.
- Perché invece non potrebbe essere il contrario? Forse non posso vivere con te.
- E pensi di poter invece vivere bene con l’irlandese.
- Perché ti riesce tanto difficile pensarlo?
La prese alla sprovvista: - Cosa stai facendo, Fran? Sì, sì, nel momento prima di chiamare me, cosa stavi facendo?
- Guardando un vecchio film su Michael Collins, sbuffando davanti a un paio di sequenze insopportabilmente biografiche e tirando degli accidenti al mio portatile che continua ad incepparsi.
- Un film su Michael chi? Ed hai pensato di chiamare me durante uno di questi momenti di black out, scommetto?
- Esatto. E se la nostra conversazione sarà sufficientemente breve, forse faccio anche in tempo a lavare i piatti della cena, a gettare la spazzatura e a buttare giù un paio di righe.
- Ecco perché mi riesce difficile credere che tu possa stare bene con lui. Tu hai bisogno di me per essere felice, Fran.
- Beh, pensala come vuoi. Stammi bene, in questi giorni. Ah, e non cercarmi: tanto avrei da fare.
- Come vuoi. Fai buon viaggio e… salutami il signor “nutro- un – naturale – affetto – per – la – mia- patria”.
Si trattenne dal mandarlo a quel paese o, forse, di rivolgergli anche un invito più colorito e tornò alle traversie del suo povero portatile, ormai con un piede nella spazzatura e dall’altro zoppo.
 
 
La settimana che precedette il viaggio, Francesca e Sean non si erano mai visti.
Lei era stata diversi giorni con l’armadio aperto e la valigia sul letto per decidere cosa portare con sé. Le avevano detto che in Irlanda pioveva sempre, che c’era un’umidità terribile, ma da quanto ricordava anche a Bologna c’era umido, se per questo.
Aveva cercato delle fotografie su internet di Galway, finendo per esaltarsi fra la bellezza dei tramonti e il blu del cielo che si annegava nel mare, fra il grigiore delle scogliere e quel verde assoluto che sembrava sovrastare tutto.
La prospettiva del viaggio aveva cominciato ad elettrizzarla. A dire il vero, lo sapeva anche lei che era un progetto assolutamente strampalato, quello di partire con Sean, di fingersi la sua fidanzata e prendere tutti per il naso. Come non sapeva, poi, se fosse davvero tanto giusto.
Fin che si trattava di imbrogliare un po’ Enrico per tenerlo sulla corda, era un conto.
Ma quella adorabile e pacifica coppia di vecchietti irlandesi che colpa ne aveva se non quella di voler vedere entrambi i figli accasati e tenere i nipotini sulle ginocchia? E suo fratello, poveretto, si sarebbe trovato a fargli da testimone una finta quasi cognata che avrebbe levato le tende praticamente subito. E dopo cosa si sarebbero inventati? Non poteva certo fare la spola in Irlanda tutte le volte che Sean tornava a casa.
Beh, speriamo che da questa alla prossima visita faccia in tempo a trovarsi una compagna vera.
Ecco, appunto, speriamo.
Ma bando ai sensi di colpa! Promesso aveva promesso e mica si poteva tirare indietro proprio adesso che era venerdì. Sarebbe stata inadempienza, come le avrebbe detto quell’anonimo e petulante avvocato del “Joyce”.
In fondo non era un peccato tanto grave, quello che stava commettendo, no? Solo un piccolo favore a Sean, poi era sicura che, un giorno lui avrebbe spiegato ai suoi le cose con calma, quando avrebbe davvero messo su famiglia, e probabilmente tutto sarebbe finito con una gran risata e un pensiero a quella semisconosciuta di Francesca che, adesso, chissà dove sarà e cosa starà facendo.
Sarà meglio che mi metta a letto, si disse, dal momento che la sveglia sarebbe suonata all’alba. Ma sapeva che il sonno non sarebbe arrivato tanto presto.
Oddio, non riuscirò mai a essere credibile, farò fare a Sean una pessima figura! Io farò una pessima figura e il mio ricordo della verde terra d’Irlanda sarà indissolubilmente legato alla faccia di tutti gli invitati al matrimonio che mi prenderanno per pazza. Sean diventerà la pecora nera della famiglia e… porca miseria, in che casino mi sono messa!
Certo che l’Irlanda. Voglio dire: caspita, l’Irlanda! La terra di Joyce e di Yeats, tutti quei luoghi che prima erano solo nomi, adesso saranno davanti ai miei occhi!
E chi ci torna più in Irlanda? Senza contare la faccia che avrà fatto Enrico quando gli ho detto che partivo con Sean… Solo questo mi ripagherebbe di qualunque cosa.
Si cacciò a ridere da sola. Razza di spaccone, credeva di essere insostituibile, perché, certo: “tu hai bisogno di me per essere felice”. Ma chi pensava di essere?
Poi, improvvisamente, ebbe l’impressione di avere davvero oltrepassato i limiti. Perché davvero Enrico con lei vinceva sempre, se si ritrovava costretta a fingere di avere un uomo quando in realtà per due anni e mezzo non aveva filato nessuno, preferendo crogiolarsi nel rimpianto dei bei tempi andati. La sua soddisfazione era ben una cosa da poco, dato che era finta.
S’innervosì, scalciando il lenzuolo. Accese la lampada sul comodino e agguantò con aria ben poco accomodante il libro che vi giaceva accanto, per distrarsi.
Era una sorta di “Storia d’Irlanda dai Celti ai giorni nostri” di ottocentocinquanta pagine e anche lei si stupiva di come avesse fatto ad arrivare a due capitoli dalla fine.
Doveva darsene merito, ci aveva dato dentro con la cultura irlandese, in quei cinque giorni. Dopotutto, la fidanzata di un O’Brien avrebbe dovuto per forza avere un minimo di conoscenze sulla terra del proprio innamorato. E, infatti, a parte quel mattone preso a prestito dalla biblioteca, sul suddetto comodino si erano accumulati altri tomi, con “Le ceneri di Angela” in testa.
Aveva tolto le ragnatele all’”Ulisse” di Joyce e fatto in tempo anche a sbirciare un po’ tra le pagine di una biografia di Eamon De Valera, perdendosi in un’infinità di date e nomi.
Youtube mandava a ripetizioni musica tradizionale mentre lei cucinava qualche piatto tipico in maniera indecentemente disastrosa, ma giusto per prendere confidenza con gli ingredienti e non sobbalzare più di sorpresa davanti alle inaspettate salsicce di pecora. E, quando la casa non era invasa dalle canzoni degli U2, una registrazione dalla voce nasale e cantilenante le impartiva nozioni di pronuncia gaelica on line.
Quella specie di dinosauro del suo portatile aveva continuato ad incepparsi – rigorosamente sempre sul più bello – sulle scene de “L’uomo di Aran” e “The dead”.
Ma a lei pareva di essere finita per sbaglio in “Colazione da Tiffany”, nella sequenza in cui la protagonista cerca di destreggiarsi con usi e costumi latinoamericani per riuscire ad impalmare il miliardario brasiliano.
Poi, però, l’occhio cadeva nuovamente sulle immagini già viste del film di Loach e, questa volta, Fran si trovava a piangere senza ritegno e senza sapere nemmeno il perché.
Quando aveva saputo di tutta quella preparazione, nonché del loro assurdo progetto, Emma si era cacciata a ridere come una pazza.
- Tu mi stai dicendo che parti per l’Irlanda con Sean per fingere di essere la sua fidanzata? E che lui si è presentato a Enrico come… per la miseria, Fran, è la storia più incredibile che abbia mai sentito… sembra, sembra una commedia americana! E m’immagino la faccia del tuo ex, dopo la figura che ci ha fatto! Fran, bambina, sei una forza! Un genio, ecco.
- Smetti di ridere, Emma: è una faccenda seria.
- Se fosse così seria non avresti aspettato tutto questo tempo prima di dirgli di sì, a quel presuntuoso che crede che basti un anello per comprare il perdono. Forse lo ami meno di quello che credi.
- Già…
- Che dire? Buona fortuna, vecchia mia. Incrocio le dita per voi e chissà che la verde Isola non possa essere galeotta per te e il bel Sean.
- Ma che vai a pensare? È solo una copertura.
- Oh lo so, ma il cuore segue sempre strade che non t’immagini.
- Sei proprio fuori come un tabernacolo. Stammi bene, non infierire sui poveri esaminandi e, se senti i miei, sanno che sono partita con un viaggio organizzato. Emma: mi raccomando.
- Calati nella parte, mi raccomando! Buon viaggio.
Non si può dire che non mi ci sia calata, nella parte. Tentò di auto convincersi, mentre piegava nel tomo il foglio della genealogia di casa O’Brien, premurosamente mandatole via mail da Sean. Fortunatamente ha pochi parenti! Faccio fatica anche a ricordare i miei!
Ma cosa dovrebbe andare storto, in fondo? Preparata sono preparata. Mi basta solo che domani in aereo mettiamo in chiaro il colore dello spazzolino da denti, le intolleranze alimentari e inventiamo qualche passione in comune ed ecco che saremo pronti a rispondere a qualsiasi domanda.
Spense l’abatjour.
 
 
Anche Sean aveva fatto fatica a dormire, ma quella mattina alla stazione, mentre attendevano il treno per Milano da cui si sarebbero imbarcati per Galway, non lo avrebbe confessato a Francesca nemmeno sotto tortura.
Non aveva dubitato della riuscita di quella strana impresa nemmeno per un minuto, tuttavia camminava nervosamente sulla banchina che costeggiava il binario 7, con le mani dietro la schiena, intanto che l’aspettava. Non sapeva dire cosa, in verità, lo rendesse tanto nervoso: se l’aver lasciato il “Joyce” chiuso per ferie, se il tornare a Galway dopo anni d’assenza o cos’altro.
Si chiedeva, tanto per distogliere il pensiero dalla partenza, la reazione di Enrico alla notizia. Intanto doveva ancora scoprire se la loro messinscena aveva funzionato o se era stato tanto acuto da capire se fra i due che aveva davanti non c’era nulla se non una conoscenza per altro anche poco approfondita. Certo che se il suo comportamento spocchioso e sprezzante derivava dalla gelosia, con uno sforzo notevole poteva anche capire perché avesse perso tanto facilmente le staffe. Se invece era stato un tentativo per riconquistare lei, beh, da quel poco che la conosceva poteva stabilirne con certezza il fallimento. Di certo non l’avrebbe fatta capitolare con quella sua ottusità. E se al contrario quello era proprio il suo carattere, a quel punto davvero non comprendeva perché Francesca avesse gettato alle ortiche mille occasioni di rifarsi una vita e sprecato due anni ad aspettarlo. Ma si sa, l’amore segue strade imperscrutabili alla ragione. Rise della sua paludata poeticità.
Francesca gli arrivò alle spalle, spaventandolo scherzosamente. Aveva bevuto tanto di quel caffé per riprendersi dalla nottataccia insonne che si sentiva addosso abbastanza energia da poterci arrivare a piedi, a Galway.
- Che faccia, Sean! Non hai dormito bene?
- Non ho dormito affatto.
- Sensi di colpa, scommetto.
- Scommessa persa, colleen.
- Che hai detto? – gli chiese lei, piantandogli preventivamente un cipiglio deliziosamente serio.
- Colleen? – rise lui – E’ un modo di dire “ragazza”, in irlandese. Dovrai abituarti ai miei affettuosi soprannomi, se dobbiamo fare le cose per bene.
- Piuttosto, non eludere sempre le mie domande! Se non sono i sensi di colpa per le bugie che ti toccherà raccontare, cos’è che ti toglie il sonno, mio caro? – posò un accento di forzata sdolcinatezza sulle ultime parole, per prenderlo in giro.
Lui cercò per un lungo istante di incrociare il suo sguardo dietro agli occhiali scuri poi, non riuscendovi, glieli scostò leggermente verso la fronte, aggiungendo: - Quello che toglie il sonno anche a te, immagino.
- Accidenti, si vedono tanto? Le occhiaie, intendo.
- Credo che Frankenstein si riterrebbe un gran figo, guardandoti.
Lei gli tirò una lieve pacca sulla spalla: - Non sei per niente un cavaliere! Guarda che è colpa tua se ho gli occhi come un cane pechinese. Ho passato la notte a studiarmi la storia d’Irlanda. Mi sono guardata tutti i film che ho trovato e letto una pila di liberi alta come un cipresso, solo perché magari la nonna della vicina del fruttivendolo di fiducia del protagonista era per un quarto di Dublino. Se poi mi serviranno degli occhiali spessi come fondi di bottiglia dovrai risarcirmi i danni.
- Brava. Poi in aereo dovrai passare un test sulla tua “irlandesità”. – scherzò Sean, dandole un’occhiata furtiva. Occhiaie o no, era sempre carina e spontanea come sempre. E c’era in lei qualcosa di irresistibilmente adorabile quando fingeva di arrabbiarsi.
Si augurò solo che la sua famiglia non si affezionasse troppo a lei, il che sarebbe stato davvero difficile. Solo quello stupido di Enrico Sacrati non era in grado di accorgersi quanto ella l’amasse, quanto ella volesse bene alla gente e alla vita in generale.
Una donna che sta seduta al tavolino di un bar a scrivere racconti e ad amare chi l’ha fatta soffrire e a dire che la sua felicità continuava ad essere più importante della propria non poteva essere così male. Già, ma quello non capisce niente. E non solo per Francesca, ma anche per le salsicce di pecora, gli inglesi e tutto il resto.
- Io sono preparatissima: potrei ambire alla cittadinanza ad honorem. Mi sento irlandese anch’io, adesso. – si portò le mani al petto con un goffo gesto teatrale che lo fece ridere – Vuoi che ti dica qualche data? 1845: Grande carestia. 1916: Insurrezione di Pasqua. 1922: indi…
- Ok, ok, ti credo! Se continui così, penseranno che mi sono fidanzato con la reincarnazione di De Valera. Considero superato il test.
- Molto bene, perché in volo avremo da discutere dei dettagli: anni di fidanzamento, primo incontro, piatti preferiti, progetti futuri e tutte quelle cose che ai parenti piace tanto sentir raccontare. Le cose o si fanno bene o non si fanno, non sei d’accordo, Sean?
- D’accordissimo. – rispose, sollevando, oltre alla propria, anche la valigia di lei – Ma adesso andiamo, Eamon, quello è il nostro treno.
 
 
- Oh, santi numi, che emozione! – Fiona O’Brien squittiva nella camera da letto, mentre tentava di fissare con una forcina una ciocca canuta della fronte che proprio non voleva saperne di stare su –Ma ti rendi conto, Malachy, che dopo dodici anni il nostro Sean rimetterà piede a Galway. Oddio, che felicità!
Suo marito Malachy la guardava con la sua solita espressione flemmatica da starsene sotto le coperte.
- Torna il figliol prodigo, allora? Solo Mik poteva farcela a convincerlo. A questo punto datti da fare per ammazzare il vitello grasso.
- Caro, stai attento perché allora sei in pericolo.
- Ah ah, spiritosa!
- Scusa, ma non sei contento?
- E’ ovvio che sono contento! Ti sto solo prendendo in giro. L’aereo arriverà stasera e tu cominci a prepararti dalle sette di mattina. Va bene che ti ci vuole un restauro, alla tua età, ma questo anticipo mi pare proprio esagerato.
- Oh, caro, non sarà il giorno più perfettamente perfetto della nostra vita: Mik si sposa con una ragazza adorabile e presto avremo un nipotino, Sean torna con la sua fidanzata e chissà che anche loro non vogliano farci nonni, in futuro! È tutto così meravigliosamente meraviglioso! – giunse le mani con aria beata.
- Fiona, vorrei farti notare la poeticità dell’accostamento “perfettamente perfetto” e “meravigliosamente meraviglioso” nella medesima frase.
- Non pensi che dovremmo fare qualcosa anche noi per rendere indimenticabile questo giorno?
- Del tipo scatenarci in pista con una quadriglia come quando ci siamo conosciuti? Magari davanti alla cinepresa del fotografo? – si era deciso con sforzo immane di mettere giù le gambe e cercare con espressione pigra le pantofole.
- Io pensavo piuttosto a rinnovare la promessa.
- Cioè, vuoi farmi giurare di stare con te altri quarant’anni? Non ci pensare, ragazza: ci sei riuscita solo una volta . – scherzò lui. Fiona non sembrò offendersene: dopo tutto quel tempo sapeva bene che era il suo modo per dirle che accettava.
- Splendido! Comincerò a organizzare! Non sei felice, Malachy?
- Di doverti sopportare ancora? Scordatelo. – si avvicinò a sua moglie e le stampò un bacio sulla guancia – Ma dove vuoi che vada senza di te, rompiscatole?
 
 
- Com’è la tua famiglia? – le chiese all’improvviso Sean, rifiutando con un sorriso la rivista che l’hostess gli porgeva.
Francesca ci pensò un attimo: - Solida, direi. Voglio dire, una come tante: quattro persone, parecchio affetto, un paio di scaramucce. Non posso romanticamente vantare un’infanzia da genio incompreso né di ribellione a genitori troppo oppressivi. Comune, ecco. E la tua?
- Altrettanto comune. Mio padre è un piccolo produttore di whisky, come lo era suo padre e suo nonno, che aveva fatto fortuna in America. Abbiamo una distilleria appena fuori Galway. Sia lui che mia madre sono due tipi in gamba, non mancano di senso dell’ironia e passano tutto il tempo a punzecchiarsi. Ma che sappia io, in quarant’anni di matrimonio fra loro non c’è stato altro che amore. Sono carini.
- Lo credo davvero. Non vedo l’ora di conoscerli.
- Mia madre è un po’ troppo protettiva, forse, e incline al melodramma. Molto poco nordica, da questo punto di vista, ma ti piacerà. Mio fratello è un pazzo scatenato, uno sbadato cronico, ma c’è sempre stato un ottimo rapporto.
- Con una famiglia del genere non penso ci sia il bisogno di fuggire. Perché te ne sei andato?
- Infatti non è stato per loro.
- E nemmeno per una donna, anche se hai bisogno che loro lo pensino. Motivo per cui hai assunto me. Allora per cosa?
- Per l’Irlanda.
- Ti andava stretta?
- Sì, diciamo così. – rispose evasivo, guardando fuori dal finestrino dell’aereo. Sotto di loro le nuvole bianche arrivavano e sparivano come apparizioni misteriose e fugaci.
- Anche se non è la verità, giusto? Beh, non mi riguarda, a dire il vero, e prima che pensi che sia una rompipalle che s’impiccia degli affari tuoi, cambierei argomento. Come ci siamo conosciuti, allora?
- Proporrei il classico: amici di amici. Dodici anni fa io ero in Italia per una vacanza di studio, tu ci vivevi e, immagino, studiavi e ci hanno presentati. Molto semplice, così non rischiamo di combinare guai.
- Ma poco romantico.
- Ma molto plausibile. Cosa vuoi inventarti? Va benissimo così.
- Senti, voi altri Celti siete poco sentimentali. Visto che è un fidanzamento finto voglio inventarmi una bella e mielosa storia finta, ne avrò diritto?
- Beh, pensaci tu, visto che sei l’artista dei due.
- E’ un modo carino per dire arrangiati?
Sean sorrise, con quel suo sorriso da gatto che riduceva gli occhi verdissimi a due fessure: - Che fidanzata noiosa mi sono trovato! – scherzò ­-  A proposito, cos’ha detto Indiana Jones della partenza?
- Chi?
- L’archeologo. Enrico.
Fran non potè fare a meno di scrollare la testa, divertita.
- “Ti do due settimane per decidere. Non un’ora di più. A tirare troppo la corda si spezza: ricordatelo, Francesca.” – scimmiottò il tono impostato di lui, facendo soffocare a Sean una risata.
- E dopo cosa farai? Gli dirai di sì?
- Con tutto il rispetto, sarebbero anche …
- Interessi tuoi. Ma come tuo socio in affari e fidanzato per interesse credo di avere qualche diritto.
- Sean O’Brien, faresti perdere la pazienza anche a un santo!
- Va bene, smetto di tormentarti. – trasse dalla tasca un libro di cui ella non riuscì a vedere il titolo. Anche lei si era portata da leggere e pensò che fosse l’occasione di rivolgere la mente ad altro, dopo quella full immersion di cultura irlandese.
- Cos’è? – fece Sean, piegandosi per vedere il frontespizio – No, non ci posso credere! Le ultime lettere di Jacopo Ortis? Fran, Foscolo lo leggi solo se ti obbliga la prof di letteratura.
- Mi voglio male, dici? Sarò l’unica rimasta, ma a me Foscolo piace, anche se non è proprio all’ultima moda. Perché, tu cos’hai di meglio per le mani, uomo di mondo?
Le porse il proprio volume. Fran rise: - Dei Sepolcri? E rigorosamente non tradotto.
- Beh, non vantarti di essere l’unica estimatrice di queste cose. Con me siamo già in due, colleen.
A proposito, hai letto Il Maestro e Margherita? È il mio romanzo preferito.
- Ma no, ladro di romanzi che non sei altro! Quello è il mio preferito!Se abbiamo anche gli stessi gusti in fatto di cinema, potrei anche pensare di sposarti.
- Io rimanderei la conversazione in un altro momento: non vorrei essere partito con una fidanzata  per finta e tornare con una moglie per davvero. Comunque, se proprio ci tieni, apprezzo la spiritualità di Ingmar Bergman, i drammoni di Sam Peckinpah e le stramberie di Luc Besson. Ah, giusto: non disdegno Ken Loach.
- Accidenti, questo vuol dire che devo già contattare il parroco! Dimmi che ti piace anche Mozart e siamo a cavallo.
- Francesca O’Brien: non suona molto bene. Franny O’Brien, invece è carino. Dovresti cominciare a pensarci.
- Tu sei proprio matto, Sean!
Continuarono a discutere di arte e di vecchie passioni che credevano dimenticate fino all’atterraggio a Galway, sorprendendosi di avere fin troppe cose in comune per due estranei.
 
 
Le valigie passarono sul nastro trasportatore, accolte dai sospiri di sollievo dei rispettivi proprietari.
Cavallerescamente, Sean si offrì di portare la sua fino alla fermata dell’autobus, col quale dall’aeroporto giunsero in centro a Galway. Era stato un viaggio piuttosto lungo, fra il treno e il volo, tanto che ormai era pomeriggio inoltrato.
Francesca si meravigliò che non ci fosse nessuno ad attenderli, come si meravigliò del fatto che egli non sembrasse minimamente emozionato del ritorno.
- Voglio far loro una sorpresa. – spiegò scendendo dall’autobus – E non ho voluto avvisare che eravamo arrivati. Anche perché abbiamo una piccola cosuccia da sistemare, noi due.
- Devo preoccuparmi?
- No, se non ci siamo schiantati in mare con l’aereo, adesso andrà tutto liscio.
- Senti, levami una curiosità: ma non ti fa nessuna impressione essere qui?
- Considerato che per il momento abbiamo visto un gate e una pensilina del tram, francamente no…- s’interruppe, perché le sagome del Lynch Castle e della cattedrale avevano adombrato le vie d’attorno, gridandogli inequivocabilmente che era a Galway. Che era tornato.
- Dio mio, è tutto così… diverso. – aggiunse con un filo di voce – Eppure così uguale.
Depose un bacio sulla punta delle proprie dita e poi, inginocchiatosi, poggiò la mano sul suolo della sua città.
- Mi sei mancata, Erin.
Francesca era rimasta un passo indietro, commossa da tanta profondità in quel gesto lento, misurato, così apparentemente lontano nel tempo. Si sorprese di come ormai nessuno dicesse alla propria terra che gli era mancata.
- Ehi, Fran, vuoi restare lì tutto il giorno?
Si riscosse dai suoi pensieri e lo seguì, trascinandosi la valigia. No, no, arrivo, rispose, ma non gli disse a che proposito stesse riflettendo.
Fai la guardia alle valigie. Le aveva chiesto, prima di sparire in un negozietto.
Poi era ricomparso dopo pochi minuti dopo senza darle modo di capire cosa avesse comperato.
- Fa’ la mano. – le depose nel palmo un anello di forma curiosa – Spero che la misura sia giusta. Se dobbiamo spacciarci per fidanzati, prima o poi qualcuno si chiederà perché non portiamo gli anelli.
- E’ lo scambio degli anelli più romantico che mi sia mai capitato di vedere. – ribatté ironicamente.
- Se vuoi mi inginocchio.
- Per carità! Non vorrei mai che sporcassi i pantaloni. A proposito, cos’è questo strano oggetto?
- L’anello di fidanzamento tradizionale irlandese, il claddagh. Un cuore trattenuto da due mani e sormontato da una corona. Rispettivamente simbolo di amore, amicizia e lealtà: cioè tutto quello che serve ad una coppia per essere felice.
- Tu sei romantico come un film dell’Esorcista, ma il significato è davvero meraviglioso. – rispose indossandolo – Hai naso per queste cose: è perfetto.
- Oh, accidenti! Fran, ma l’hai indossato da vedova! No, no, no: se lo porti nella mano sinistra col cuore verso l’esterno significa che sei vedova! Va nella destra col cuore verso di te. – le mostrò il proprio, ma poi risolvette di dover spostare lui l’anello e, così facendo, trattenne per un momento la mano di Francesca nella sua.
- Fatto – sorrise con un certo imbarazzo, lasciando la presa.
Lei rimase qualche secondo con la mano a mezz’aria, a guardare il claddagh e a ripensare alla lieve scossa che le aveva procurato quel breve contatto. Poi scacciò tutto con una scrollata del capo.
- Senti, spero che tu li abbia presi a noleggio.
- A noleggio? No, sono quelle cose che fanno per i turisti. Tutta pura e autentica latta, ma se nessuno li vede da vicino, potrebbero sembrare anche d’oro. Speriamo solo che rimangano lucidi fino a domenica e non lascino il segno verde, altrimenti penseranno che sono diventato peggio di uno scozzese. E ora andiamo, abbiamo un po’ di strada da fare prima di arrivare alla Galway Bay.
Si avviò con passo deciso con Francesca sempre dietro, a trascinarsi un trolley più grande di lei, nel sole che cominciava a tramontare su Galway.

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Capitolo 7
*** Cap. 6 - Queequeg o strani compagni di letto ***


Mie carissime,

ben ritrovate!!!
Non sapete quanto mi dispiace per averci messo tanto prima di aggiornare, ma in questi giorni che precedono le vacanze, sembra che gli impegni si siano moltiplicati senza ritegno. In più ho avuto anche qualche problema col mio micio (il mio fratellino peloso ^^), che ha sottratto parecchio tempo alla scrittura. Non posso che scusarmi e ringraziarvi per la pazienza degna di Giobbe…nonché impegnarmi per velocizzare i miei tempi biblici.
Devo dire che questo è un capitolo di transizione, che serve per conoscere meglio la famiglia irlandese di Sean e riassettare un po’ il cambio di ambientazione, ma dalla prossima ricominceranno le avventure.
Come sempre, prima di lasciarvi alla lettura, voglio ringraziarvi con tutto il cuore: siete ormai numerose e il vostro entusiasmo dà entusiasmo a me per continuare la storia con gioia sempre nuova :)
Quindi un grazie a chi passa a leggere, a chi ha inserito la storia tra le seguite (Aletta92,araba89 , beate, bren,  Chelsea88, Cohava, Davan,fefasdt23, Isyde, Kicici, lullaby3, manymany,Mary___02, mau07 ,Selilaa, valespx78, wilma,Yuki_777, _Grumpy), ricordate ( lunadArgento, Neverwas, sister82, sophia90, vic94, _Miss_), preferite ( Davan, namina89, piemme). E alle mie care e sensibili “recensore” ( piemme, namina89, manymany).
Spero davvero di riuscire a postare un altro capitolo prima di domenica, nel caso non fosse possibile, tantissimi cari auguri di buona Pasqua!!!
Per il momento un bacione ed un abbraccio! (Sean, come sempre, si aggrega ai saluti XD)
Vostra
Marguerite



Imprevisti d'amore
Editor fotografico online




   La ventura costringe l'uomo a far la conoscenza
di ben strani compagni di letto.
(William Shakespeare, La tempesta)
  

 



Capitolo 6: Queequeg o strani compagni di letto
 
 
- Sean, ti arrabbi se ti faccio una domanda? – gli domandò Fran, posando la valigia con un sospiro.
- Basta che non sia quella che penso. – lui continuava a guardare i nomi delle vie, con gli occhiali da lettura sul naso, senza riuscire a raccapezzarvisi più – Certo, se mettessero il cartello anche su questa strada, di sicuro non andrebbero in rovina, tu che dici, Fran?
- Tu sei sicuro che stiamo andando nella direzione giusta? – si sedette stancamente sul trolley, in attesa che il suo “fidanzato” si decidesse a chiedere un’indicazione.
- Ecco, appunto, la domanda che mi aspettavo. E, adesso, non dire anche che avremmo fatto meglio a prendere un autobus, perché ci saremmo persi comunque.
- Io volevo solo proporre di domandare a qualcuno.
- Domandare! Io ci sono nato a Galway: queste strade le conosco a memoria!
- Ci sarai anche nato, ma qui sei tu ad esserti perso.
- Ci siamo persi. – sottolineò il “siamo” con una certa ostinazione.
- Io sono autorizzata a perdermi, mica conosco la città.
- Ma non è neanche colpa mia se uno si assenta per un decennio e qui gli cambiano tutto.
- Esisteranno pure i cellulari in Irlanda. Non sarebbe bene chiamare tuo fratello?
- Prima vagliamo tutte le possibilità, invece di arrendersi subito.
- Testardo come un mulo, eh? Beh, io non vedo poi tante possibilità: via a fondo chiuso, mare mare mare…
- E’la Galway Bay.
- Sempre acqua è. Via dalla quale siamo arrivati, mare mare mare, casa bianca. Potrebbe essere quella? Se vuoi vado a suonare.
- Fran, ma non dirai sul serio. Vai a suonare a casa di chissà chi e magari sbagli clamorosamente indirizzo.
- O tu telefoni o io suono.
- Per me sei tutta matta, colleen.
- Senti, al massimo valuto chi mi apre la porta poi scappo o chiedo scusa rigorosamente in gaelico. Intanto che ci pensi, io vado a suonare il campanello.
- Vai, ma solo una cosa: non scusarti in gaelico. Non si sa mai cosa potrebbero capire, con il tuo accento.
Fran gli rivolse un mezzo sorriso, prima di incamminarsi verso il cancello dell’unica villetta nei paraggi.
- Ehi, di casa? C’è nessuno?
Nel giardino, un tale che indossava un improponibile papillon rosa shocking su un completo antracite di taglio perfetto, tentava di districarsi i piedi da un groviglio di edera e trifogli visibilmente finti.
- Mi scusi! Sì, lei… esatto, proprio lei… Avrei bisogno di un’indicazione. Perché non mi ha risposto?
- Lei ha chiesto della gente di casa ed io non abito qui.
- E’ un modo di dire. Senta: io non ho la benché minima idea di dove mi trovo. Nel senso, non sono di qui e mi sono persa. Stavo cercando una via… ehi, Sean, come hai detto che si chiama? Sì, hai voglia ad aspettare, quello sta ancora al telefono. Insomma, quanto sarà grande la città? Cercavo Michael e Sinead O’Brien, li conosce?
- No, sinceramente no .
- Come no? Sta solo organizzando il loro matrimonio! – un uomo le era andato incontro lungo il vialetto di ghiaia bianca.
- Beh, che devo dire, che li conosco e che la casa è questa? La signorina, per quanto ne so, potrebbe avere le peggiori intenzioni. – aveva replicato il tizio dal cravattino orrendo.
- Certo, è Jack lo squartatore con la parrucca. Lo perdoni, signorina, è il nostro wedding planner. È un tipo strambo, ma in gamba. Anzi, se anche per il suo matrimonio vuole un giardino pieno di edera e trifogli di plastica ha trovato l’uomo giusto.
- Oh, no, grazie. – si schermì Francesca, divertita – Mi basta sapere qual è la casa degli O’Brien.
- Questa, ovviamente. – le tese la mano attraverso le inferiate del cancello – Michael O’Brien. E lei?
- Fran! Fran, ma dove diavolo…- Sean non vedendola tornare aveva deciso di cercarla. Si bloccò per lo stupore, quando riconobbe il fratello sul vialetto della villa. - Mik? Ma ti sembra il caso di prendere una casa in una via che non si sa nemmeno come si chiama? E dove cavolo lo tieni quel cellulare? Non distingui un telefono da un soprammobile.
- Comunque, ben ritrovato anche a te, fratello. – gli fece Mik in tono ironico.
- Colleen, questo è quel matto di mio fratello Michael. Mik, lei è Francesca. Francesca Fortini, la mia fidanzata.
- Cioè, tu vuoi dire che l’hai mandata in avanscoperta da sola, col rischio che le aprisse la porta un maniaco, un serial killer… Hai la stessa cavalleria di un tirannosauro, Sean. – gli ribatté l’altro aprendo loro il cancello – Cara Francesca, il caso ha voluto che ci incontrassimo comunque, alla faccia di quell’insensibile di mio fratello. Sinead, vieni a vedere chi c’è! Sinead!
- Arrivo, lo sai che mi ci vuole un po’ ad alzarmi… - appena li vide, cacciò un gridolino di stupore, improvvisando una corsetta – Oh, Sean!
- Sinead, per carità, pensa a mio nipote! – fu lui a precipitarsi ad abbracciarla.
- Ah sì, vai ad abbracciare mia moglie e tuo fratello no: questa me la segno, Sean. Vabbè, abbracciamoci anche noi altri, Francesca: benvenuta in Irlanda.
Il gridolino di Sinead invase di nuovo il giardino: - Via, spostati Mik, la voglio conoscere anch’io! Mamma mia, com’è bella. Perché ce l’hai tenuta nascosta per tanto tempo, disgraziato.
Dì la verità, avevi paura che quel dongiovanni di Mik te la soffiasse. – gli fece Sinead, dandogli di gomito.
Francesca rise, non aspettandosi quel cameratismo da parte di quella ragazza bella come una di quelle ninfe che si dice popolino l’Irlanda. Era davvero uno splendore, Sinead, flessuosa come un giunco, diafana, con lunghi ricci rossi che scendevano sulle spalle e un paio di luminosi occhi azzurri. Uno splendore semplice: un paio di jeans, scarpe basse ed una maglietta che evidenziava appena la gravidanza.
- Beh, c’è da essere gelosi quando si è il meno bello dei due fratelli. – sottolineò divertito Michael.
A dire il vero, non è che differissero tanto l’uno dall’altro. Si assomigliavano, se non per il fatto che Michael era di poco più alto e non aveva ereditato il biondo ramato dei capelli come Sean, ma piuttosto un morbido castano.
- Sebbene io sia il maggiore, le signore converranno con me che non si nota. Anzi, Sean, ti dirò che il più giovane dei due sembro io.
- Vorrei precisare che fra noi due ci sono un anno e dieci mesi di differenza. E, comunque, ti ringrazio per la gentile accoglienza.
- Ma sentilo, vorrebbe anche la gentile accoglienza !– scherzò Michael – L’ultima volta che sei venuto qui, fratello, il Post Office di Dublino fumava ancora…
- Cara, come sono contenta di conoscerti! – continuava a ripeterle Sinead, abbracciandosela – Adesso sì che finalmente potremmo farci quattro chiacchiere tra donne. Speriamo che anche lei sia femmina – aggiunse portandosi una mano al pancione – anche se qui tutti mi dicono che sarà maschio. Ma l’importante, poi, è che stia bene!
- In quanti mesi sei?
- Quasi quattro e mangio come un lupo, mi sa che se non facevamo le nozze in fretta, all’altare ci andavo rotolando.
- Ehi, Sinead, adesso non me la sequestrare. – le fece Sean, prendendo Francesca per mano. Lei trasalì per la naturalezza con cui aveva compiuto quel gesto, ricordandosi poi di non poter far trasparire troppa sorpresa, e acconsentì di intrecciare le dita a quelle di lui.
- Mamma e papà sono dentro? Vieni, mo ghra *, ti faccio conoscere i responsabili di aver procreato questa generazione di matti.
Una donna piccolina, esile e raffinata li aveva accolti nel corridoio. Un paio di ciocche che cominciavano a incanutirsi sulle tempie e il trucco perfetto le davano una parvenza senza tempo e senza età. Ma, dalla serie di vezzeggiativi in gaelico che aveva cominciato a sciorinare, gettandosi tra le braccia di Sean, Francesca non tardò a intuire che si trattava della madre.
- Mamma, è solo qualche mese che non ci vediamo…
- Sempre troppo! Ma guardati, come sei sciupato, ma ti danno da mangiare in Italia?
- Sì, non preoccuparti: mangio. – fece lui, districandosi dall’abbraccio – Mamma, questa è Francesca, la mia fidanzata.
Lo stesso trattamento, con tanto di informazioni sulle abitudini alimentari, venne riservato a lei e l’arrivo di Malachy O’Brien – il mio adorabile capofamiglia, come lo chiamava Fiona – si portò dietro un altro giro di saluti e affettuosità varie.
- Cara, benvenuta nella nostra famiglia e nella nostra casa. – aveva detto Malachy con un ampio gesto teatrale, tentando di assumere un’aria solenne, ma finendo per far scoppiare tutti in una bonaria quanto inevitabile risata.
Era un uomo asciutto e allampanato, con l’aria seria da filosofo stoico che contrastava notevolmente con il suo spiccato e talvolta inafferrabile senso dell’umorismo.
Sembravano averla immediatamente accolta con calore e altrettanto ne avevano ricevuto indietro.
Sean aveva sorriso con tenerezza, nel vedere la sua famiglia stringersi da subito attorno a Francesca, che credevano avrebbe fatto presto parte della dinastia, come amavano chiamarla. Ma, allo stesso tempo, eludendo le troppe domande che non gli erano mai piaciute, un poco gli si era stretto il cuore nel pensare che quella era tutta una finzione.
 
Allo stesso tempo, però, continuava a constatare come Francesca sapesse farsi amare con naturalezza, con spontaneità e sapesse ricambiare l’affetto in modo tanto gratuito. Con quel suo inglese appena un po’ troppo scolasticamente britannico, stava raccontando un paio di aneddoti sull’Italia suscitando l’ilarità di tutti, mentre sua madre portava in tavola la famosa torta alla Guinness, sua specialità per chiudere la cena.
Accantonato il pensiero di Enrico, almeno per il momento, era emersa quella parte nascosta di lei che Sean era sicuro si fosse sempre celata da qualche parte, sotto la cenere delle delusioni e dell’attesa. Ed era una parte fatta di ironia, qualche piccola arguzia e di intelligenza. Fatta di dolcezza, di adorabile calore umano e di ottima cordialità. Una parte che era stata sacrificata per molto tempo, forse troppo, in nome di qualcosa che Sean non avrebbe saputo definire con esattezza.
Qualcosa che Francesca si ostinava a chiamare amore, anche se lui non riusciva a crederlo perché –per quanto si fosse innamorato di rado – di norma l’amore dovrebbe tirare fuori il lato migliore delle persone e non lasciarle appassire come un fiore trascurato.
- Nessuno di voi due ci ha ancora raccontato la storia di come vi siete conosciuti. E lo sapete che io adoro questi romanticismi. – aveva detto Fiona, anche con un certo ritardo secondo quanto previsto, mentre distribuiva fette di torta appena troppo abbondanti.
- Vuoi raccontarlo tu, mo ghra? Sei sempre stata più brava di me. – Sean aveva appoggiato con finta noncuranza la propria mano su quella di lei, distrattamente abbandonata sul tavolo.
Sinead diede di gomito a Michael: - Sean sì che è un uomo romantico, che usa il gaelico con Fran. Sai, cara, per me il nostro gaelico è proprio la lingua del cuore, dei sentimenti. Non come questo insensibile del mio futuro marito, che non le capisce proprio queste cose. Oh, guarda che carini! Portano anche il claddagh… Anch’io lo voglio per il matrimonio! Mik, sei l’antiromantico per eccellenza. Dopo queste cose, anch’io sono curiosa di come vi siete incontrati.
- Su, su, ragazzi, raccontate.
- Se proprio insistete, vi annoieremo con questa storia. – Fran aveva rispolverato le sue vecchie doti da cantastorie per intavolare una perfetta narrazione romantica degna della letteratura romantica con cui usava distrarsi da Coleridge, Yeats, Shelley e tutti gli altri.
- Dovete sapere che undici anni e mezzo fa, quasi dodici, studiavo letteratura inglese all’università e dovevo assolutamente dare un esame su un corso monografico dedicato a Joyce e le innovazioni narrative del Novecento, flusso di coscienza, epifanie e tutte queste cose che saprete meglio di me. Ma, con tutto il bene che posso volere a quel brav’uomo di James Joyce, non c’era verso che mi entrasse in testa. È sempre stato così, per me, quando un autore mi piace da leggere, mi risulta piacevole, mi riesce altrettanto difficile studiarlo. Beh, insomma, le mie amiche continuavano a ridere e a prendermi in giro perché erano tre volte che rifiutavo di dare l’esame, sentendomi in soggezione davanti alla buon’anima di Joyce. E, alla fine, per il mio compleanno fecero una specie di rito scaramantico: mi fecero il gioco della profezia con i piattini, avete in mente come si svolge? Bendati, si tocca uno dei piattini sul tavolo e il contenuto predice il futuro, come in Dubliners. Per me, però, non è uscito il risultato dell’esame, ma l’anello, il famoso anello di fidanzamento o matrimonio, che dir si voglia.
- Scommetto che voleva indicare Sean! Oh, com’è romantico… Ma lui, lui quando l’hai conosciuto?
- Sinead, ma lasciala raccontare in pace. – l’aveva zittita Michael, preso dalla storia forse più delle donne.
- Una settimana dopo me ne stavo seduta su una panchina del parco cittadino coi famosi Dubliners in mano, ad imprecare contro tutta quella simbologia in cui non riuscivo a dipanarmi, quelle frasi in mezzo gaelico che ogni tanto spuntano nel testo e altri dettagli tipicamente irlandesi. Beh, devo essermela presa a voce troppo alta, perché un tale dall’altro lato della panchina mi fa, in inglese: “Signorina, non se la prenda a questo modo col povero Joyce!”. Mi mostra il frontespizio del libro che ha in mano ed è il mio stesso libro, accidenti.
Sean aveva perfettamente capito dove Francesca stava tentando di arrivare e aveva preso in mano il filo del racconto, per far vedere che, in fondo, di fantasia ne aveva pure lui: - Le dico: serve una mano? Sa, io sono irlandese e Joyce mi è sempre piaciuto. E in un pomeriggio, grazie a me, ha capito meglio la sua letteratura che in sei mesi di lezione.
- Modesto tuo figlio. – aveva commentato Malachy.
- Quando fa così è uguale a te. – aveva sorriso Fiona.
- Alla fine, Joyce a parte, mi sono accorta che questo ragazzo che mi spiegava la letteratura come niente fosse, era assolutamente gentile, carino, sensibile. Eppoi, sì insomma, come rimanere indifferente davanti a questi occhi? Ci siamo frequentati per tutta la durata del suo soggiorno e ci siamo innamorati.
- A tal punto che non sono più voluto ripartire.
- E ci credo.- Michael proruppe in un’uscita spontanea – Quindi dovete ringraziare Joyce. A proposito, l’hai passato l’esame?
- Certo! E quando mai dovessi incontrare Joyce, devo davvero ringraziarlo per avermi fatto incontrare Sean, che è la persona migliore che si possa volere a fianco. – gli rivolse un’occhiata abbastanza veloce da non far cadere entrambi in imbarazzo, ma sufficientemente affettuosa da non sembrare fredda – E voi, come vi siete conosciuti, Mik?
- Oh, la nostra storia non è romantica quanto la vostra. Io tengo la contabilità dell’azienda, Sinead è avvocato e si occupa di tutti gli aspetti legali dei contratti, forniture, cose di questo genere. Così, fra un whisky e l’altro, ci siamo conosciuti.
Sinead frappose la mano tra il proprio viso e Michael per fingere di non voler essere sentita: - Dovevo essere ubriaca quando ho accettato di sposarlo, sapete?
- Sinead, ho buone orecchie…
E così, fra scherzi e racconti, era passata la prima serata.


 I vecchi O’Brien erano già ripartiti, adducendo il pretesto che erano abituati ad andare a letto presto e ad alzarsi di buon’ora, quando Sinead e Michael avevano terminato di mostrare la casa agli ospiti.
Era stata una magnifica villa retrò e preannunciava di diventare, una volta restaurata, un’altrettanto splendida abitazione moderna.
- A dire il vero non sappiamo nemmeno noi quando termineranno i lavori. Certo, è una bella disdetta che vadano a rilento, proprio mentre noi siamo già dentro. È anche vero che è molto grande, forse anche più di quello che ci serviva, ma la posizione è talmente unica che mi ha fatto innamorare. – spiegava Sinead, indicando le camere complete e quelle ancora da sistemare.
- Tutto il terzo piano forse non lo useremo mai. La cosa migliore sarebbe che tu e Fran vi sposaste presto e veniste a vivere qui.
- Fran ed io non lasceremo l’Italia nemmeno una volta sposati: ci trattengono troppe cose.
- Capisco. Ma potrete venire a trovarci quando vorrete! Intanto, perché non vi godete la camera per gli ospiti che abbiamo preparato per voi? Qui sopra nessuno vi darà fastidio e, Fran, la biblioteca è stata la prima cosa che siamo riusciti ad ultimare: abbiamo un sacco di volumi di Joyce. – le fece Mik, con una strizzatina d’occhio.
Sinead aveva spalancato loro la porta di una stanza luminosa, annessa ad una toilette piastrellata con un delizioso motivo a mosaico, arredata solo da un letto e un paio di sedie. Sean si era aspettato che suo fratello commentasse maliziosamente che ad una giovane coppia non sarebbe servito molto altro, meravigliandosi, anzi, del suo silenzio. Ma l’occhiata che gli rivolse valse più di troppe parole.
- Bene. Vi lasciamo soli. – concluse Sinead, giungendo le mani, con un sorriso radioso prima di accomiatarsi – Fran, domani passeremo la nostra giornata tra donne, non vedo l’ora! Dormite bene.
Sean chiuse loro la porta alle spalle, un istante prima che Francesca si gettasse esausta sul letto.
 
 
- Cielo! La prima giornata è andata! Che dici, ci hanno creduto? – gli chiese lei, sbirciando da sotto la mano con cui si era scostata i capelli dalla fronte.
- Fran, ti adorano. Letteralmente. Non li ho mai visti tanto entusiasti, ti assicuro.
- Sono adorabili, Sean. Troppo carini, davvero.
- Aspetta solo di vederli all’opera per organizzare il matrimonio e cambierai idea. Ma potresti cambiarla già da adesso, non appena ti renderai conto che ci hanno messi nella stessa camera.
- Nella stessa che? – Fran era balzata a sedere sul letto, come se si fosse improvvisamente trasformato in un rovo – Tu vuoi dire… No, no, no, mi dispiace, ma io non ho mai dormito nello stesso letto di qualcuno che non conoscevo più che bene.
- Non dirmi che non sei mai andata in gita scolastica, Fran.
- Sì, ma erano mie compagne, quelle. O mie colleghe, dopo. Non sono mai stata nella stessa camera di colleghi maschi. E non dormirò con te, mi scuserai, ma sono una persona riservata, in questo genere di cose.
- Credo che l’alternativa sia o la sedia o il pavimento. E se ti aspetti che io faccia il cavaliere, cedendoti il materasso e prendendomi il tappeto, mi duole deluderti, principessa, ma non ci sono più gli uomini di una volta.
- Senti, io non ho intenzione di farmi vedere col mio improponibile pigiama.
- Tesoro, non ho mai detto che mi piacciono le donne perfette con la sottoveste di taffettà. Dopo dodici anni dovresti saperlo.
- Fosse solo questo, il problema!
- Hai mai letto Moby Dick? – le chiese lui, armeggiando nella valigia.
- Che c’entra adesso Moby Dick?
- Il civilissimo protagonista, prima di imbarcarsi sulla baleniera, trascorre una notte in una locanda più che discutibile, dividendo il letto con un selvaggio ramponiere di nome Queequeg.
- Guarda che l’ho letto anch’io e conosco quel capitolo.
- Allora saprai che egli non ha mai dormito tanto bene come con quello sconosciuto. Credi che io non sia altrettanto civile? – scherzò – Magari dormiremo perfettamente. Anzi, andrò prima io in bagno, così puoi sgattaiolare sotto le coperte anche al buio: attenzione agli spigoli, colleen.
- Spiritoso.
 
 
Francesca uscì dal bagno, decisa ad affrontare la luce tenue della abatjour armata di uno dei suoi soliti pigiami impresentabili. Questa volta non sapeva dire se il giallino che faceva da sfondo all’enorme gatto stampato fosse davvero meglio della sua tenuta rosa con gli elefanti che era rimasta a casa.
Che vergogna, accidenti a me. Colpa mia che ho la mania di questi pigiami da adolescente e non ho minimamente pensato che qualcuno potesse vedermi.
Di Sean, che si era preso il tempo di leggere qualche pagina prima di dormire, con la schiena appoggiata ai cuscini e alla spalliera, si intravedeva un ben più formale pigiama di seta blu. Per un interminabile attimo, si sentì ridicola, finché si decise a non pensarci.
Lui, del resto, sembrava non farci nemmeno caso. In realtà si era preso un istante di libertà per sbirciarla da sopra gli occhiali e non gli era parsa così impresentabile. Era una qualunque ragazza carina, semplice, che si accingeva a mettersi a letto.
Cercò di allontanarsi il più possibile verso il bordo per farle spazio e spense la luce.
Shakespeare diceva che la ventura costringe a far conoscenza con strani compagni di letto, pensò Fran. Ismaele ha dormito col ramponiere Queequeg, io potrò ben dividere la stanza con l’educato gestore del “Joyce”, almeno fino a quando sarà il mio “fidanzato”.
Aveva creduto di faticare a prendere sonno, ma la stanchezza e le emozioni della giornata avevano preso il sopravvento. Così, ritirandosi anch’ella quanto più potè nel suo lato, si addormentò profondamente, cullata dalle onde della Galway Bay e sognando i verdi prati d’Irlanda.
 
 
 
* mo ghra: gaelico, “amore mio”

 

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Capitolo 8
*** Cap. 7 - Di donne, costumi e torte ***


 Mie carissime!!!
 
Come sono andati questi giorni di festa? Spero davvero a meraviglia :)
Per me sono stati parecchio impegnativi, fra pranzi e parenti, tanto che – come avevo preannunciato – non ce l’ho fatta ad aggiornare prima di oggi. Ho fatto davvero il possibile per farvi attendere il minor tempo possibile ed eccoci qua con il nuovo capitolo molto “rosa”, poi capirete perché. Dopotutto, chi non vorrebbe passare una giornata tra abiti tradizionali, torte al cioccolato e meravigliosi panorami irlandesi, partendo all’avventura con una decappottabile, il vento tra i capelli, il sole, la musica e una amica alla “Thelma e Louise”?
 
State diventando davvero tantissime a seguire questa storia e non so proprio come ringraziarvi per il tempo che mi state dedicando. Ne sono parecchio sorpresa, perché di solito questo non è il mio genere e “Imprevisti d’amore” si può proprio definire un esperimento… Quindi, doppiamente grazie! A tutte voi che l’avete inserita tra le seguite/ricordate/preferite, a tutte le mie care “recensore”, a tutti coloro che passano solo a leggere. Mi scuserete se mi esento dallo scrivere tutti i nomi, perché comincerei a sottrarvi un’intera pagina ^^ ( Se però ci tenevate a questo saluto personalizzato non esitate a farmelo sapere e tornerò alla vecchia forma, mi raccomando!)
Ma mentalmente vi ringrazio e vi abbraccio una per una.
Un bacione affettuoso,
sempre vostra
 
Marguerite
 
P.S. La torta che ad un certo punto prepara Fran è la famosa (veramente non so quanto famosa XD) Torta Tenerina. È un dolce delle mie parti, un omaggio alla mia Ferrara, un attimo di sano campanilismo.
Anche qui non esitate a farmelo sapere se volete la ricetta ^^

 



 
Imprevisti d'amore
Editor fotografico online

Capitolo 7: Di donne, costumi e torte

 
 
Da come era terminata la serata precedente, con tanto di sproloqui forse nemmeno troppo lucidi riguardo a Moby Dick, ramponieri indigeni, pessimi pigiami e conoscenze del vivere civile, sembrava che sabato 12 giugno sulla Galway Bay non dovesse più venire giorno. Anzi sembrava proprio che il mondo dovesse finire solo perché Francesca Fortini, irreprensibile insegnante di letteratura inglese, aveva dormito nello stesso letto di Sean O’Brien, sconosciuto ma altrettanto irreprensibile gestore del “James Joyce Irish Pub”.
Invece il sole se n’era bellamente infischiato di quelle beghe dei comuni mortali e, puntuale come al solito, alle sei e dodici precise – sarà mica svizzero, il sole? – era tornato a rosseggiare su Galway e a illuminare il mare, striandolo di violetto.
Poi, impertinente come ogni astro che si rispetti, si era fatto strada tra le imposte socchiuse, andando a colpire con maleducazione il volto di Sean, tanto per svegliarlo prima del previsto.
Ma forse, a toglierlo dalle braccia di Morfeo non era stata la luce, quanto piuttosto il peso che da diverse ore gli stava intorpidendo la spalla.
- Ma che diavolo? – borbottò con la voce impastata di sonno.
Ma fu costretto ad abbassare immediatamente la voce, accorgendosi di Francesca placidamente addormentata col viso e gran parte del busto appoggiato al suo braccio sinistro e alla spalla suddetta.
Adesso quando si sveglia succede un macello. Sbuffò con apprensione, intanto che si scostava una ciocca ostinata da davanti agli occhi. Tante storie per un pigiama, neanche avesse dovuto venire a letto in babydoll, chissà cosa capita se si accorge di avermi dormito addosso per un paio d’ore buone, o magari per tutta la notte. E pensare che non la credevo tanto puritana… Per carità, sarà che si è dedicata anima e corpo a Indiana Jones, là, quell’Enrico o come accidenti si chiama e vede gli altri uomini come Superman vede la criptonite. Mi sa proprio che il loro non sia stato il grande amore che si ostinano a giurare e spergiurare.
Ma, sinceramente, io dovrei proprio infischiarmene. Sì, insomma, non sono affaracci miei: una donna avrà il diritto di scegliere come e quando rovinarsi la vita, no? E, dopotutto, chi mi garantisce che lui le rovinerà la vita? Magari la riempirà di amore, soldi, felicità, faranno un sacco di figli e vivranno felici e contenti con i cocci di lui, i libri di lei, Yeats, Foscolo e tutti gli altri.
Oh, adesso basta, Sean: fregatene. E guarda l’alba, piuttosto, che erano dodici anni che non la vedevi splendere sulla Galway Bay.
- Fran? Franny, vai un po’ più in là, cara… - prima cercò di togliersi di dosso quella specie di seconda coperta avviticchiata a lui e che non dimostrava alcuna intenzione di mollare la presa.
Lei brontolò qualcosa di incomprensibile.
- Che hai detto? – le chiese, credendola sveglia.
Un’altra serie di brontolii prodotti dalla sua mente annebbiata.
- Fran, è più facile decifrare gli interior monologues dell’Ulisse di Joyce. Forza, colleen, spostati.
- Enrico… - questo Sean lo comprese perfettamente – Enrico, da quanto tempo che non dormivamo assieme.
Ecco perché se ne stava lì, più ostinata di una pianta di edera, stava sognando il suo bell’Enrico.
- Brutte notizie, Fran: non sono Enrico.
- No? E allora chi… - si svegliò, come colpita da una scarica elettrica – Tu? Cosa ci fai abbracciato a me nel sonno?
- Con calma. – fece lui, con il suo solito aplomb, prima che Francesca cominciasse a emettere un altro di quegli ultrasuoni. In fin dei conti erano solo le sei e un quarto della mattina.
- A dire la verità sei tu che ti sei abbarbicata a me come un babbuino, colleen.
- Sì, certo, perché io abitualmente mi prendo sempre di queste confidenze, con gente che conosco appena.
- Guarda che non ci sarebbe niente di male: si chiama inconscio.
- Ah… Io, io sognavo, ecco tutto.
- Beh, su questo non ci sono dubbi.
- Senti: tu, piuttosto, cosa ci facevi sveglio a guardarmi?
- Io? A guardare te? Mi spiace deluderti, ma io avevo tutta l’intenzione di guardarmi il giorno nascere sulla Galway Bay, dopo dodici anni di assenza.
- Dunque, perché non sei andato?
- Secondo te? Perché avevo un braccio in una morsa.
- Dì la verità: stavi ridendo di me, del mio pigiama da adolescente e dei miei capelli.
Lui alzò le mani in segno di resa: - Ti assicuro che non ci ho nemmeno pensato ai tuoi capelli. E trovo che il tuo pigiama sia assolutamente perfetto. Intendo dire: ti rappresenta.
- Nel senso che sono adolescenziale?
- No, no, non pensare male! Nel senso che sei semplice, spontanea, ecco tutto. Voleva essere... beh, sì, un complimento. – sorrise e Fran si sorprese a constatare che avrebbe fatto tremare le ginocchia a qualunque donna, quando sorrideva. Ma non a lei, accidenti. C’era Enrico che l’aspettava a casa. Enrico e il futuro radioso che egli le aveva promesso e che ella avrebbe accettato, una volta portata a termine quella sua specie di vendetta.
- Gra… grazie – riuscì a balbettare.
- Senza contare che io adoro i gatti. Ne avevo uno, tempo fa, appena trasferitomi in Italia. Era rosso, più rosso di me, una bestiola adorabile. Quando è morto non ne ho più preso un altro, mi è dispiaciuto troppo.
- Come si chiamava? Il gatto, intendo. – gli chiese, prima che potesse sparire dietro la porta del bagno, con in mano i jeans del giorno avanti e una camicia pulita.
- Gatto. Come quello di Colazione da Tiffany: il mio povero amore senza nome.
- Sei anche tu uno di quelli convinti che dare un nome a qualcuno significa che ti appartiene?
- No, semplice mancanza di fantasia.
- Non scherzare, su.
- Non è questione di appartenenza. È che in fondo il nome non è che una convenzione. Conosci il nome di una persona e magari ti accorgi di non averla conosciuta mai. Scusami, faccio della filosofia spicciola già di prima mattina. Meglio che vada a guardarmi la Galway Bay. A proposito, vieni con me?
- Ho ancora otto albe da vedere, lascia che mi riposi.
- Come vuoi. – fece per uscire – A dopo, Fran.
Fu bloccato, letteralmente, sulla soglia da una Sinead sveglia e pimpante già di prima mattina. Aveva detto di fare l’avvocato, non il bersagliere: e allora cos’aveva in mente per correre lungo le scale, a quell’ora e nelle sue condizioni, andando a svegliare – finte – coppiette placidamente in intimità?
- Dove stai andando, Sean?
- Potrei farti la stessa domanda, cognata. Vado a vedere il sole sorgere sulla baia.
- Romantico… e Fran, non la porti con te?
- Fran è un po’stanca per il viaggio, sai com’è…
Lei gli lanciò un’occhiatina maliziosa, dandogli appena di gomito: - Immagino. Altro che viaggio: nottata impegnativa, eh?
- Sinead! – si accorse di essere visibilmente avvampato all’allusione, mentre l’immagine di Fran che si svegliava scandalizzata per il loro innocente contatto era sul punto di farlo scoppiare a ridere.
- Sinead, sei peggio di Mik o di quegli amici che ti chiamano la mattina dopo un appuntamento. Ma come diavolo ha fatto a ridursi così una soave fanciulla come te?
- Capirai, per così poco… Lo sai che ho quattro fratelli maschi: la mia soavità è tutta apparenza.
- Comincio ad esserne convinto. Non mi hai ancora detto che succede: stai male? Il bambino sta per nascere?
- Sì, fra quasi cinque mesi, puoi stare tranquillo, zione. Va tutto benissimo. Venivo a cercare proprio Fran. – gli rispose, bussando alla porta – Sei presentabile, sorella? Eppoi, presentabile o no, siamo tra donne.
Entrò senza tanti complimenti: - Vai, tu. Vai alla baia: noi passeremo una magnifica giornata tra ragazze. Buongiorno, Fran.
- Buongiorno, Sinead. – le fece lei da stare ancora sotto le coperte – Cosa fai in piedi a quest’ora?
- Oh, cara, non vedevo l’ora di cominciare la nostra mattinata tra donne, senza quei noiosi dei nostri fidanzati. Tu che ne dici?
- Mi sembra una bellissima idea. – fece, stiracchiandosi appena – Qual è il programma?
- Colazione, prima, che mi sembra doveroso: l’erede qui presente già reclama. Poi corsa in macchina fino in città, dalla mia sarta: vedrai il mio abito in anteprima.
Il volto di Francesca si aprì in un sorriso entusiasta: - Non vedo l’ora.
- Lo sai che ci sposiamo in abiti tradizionali, vero? Di sarte che ne cuciono ancora non sono rimaste in molte. A questo proposito, ti si prospetta una sorpresa, ma non posso svelarti niente.
Forza, preparati: ti attendo giù.
 
 
Sinead, occhiali da sole, capelli sciolti, un vestitino a fiori e una giacca di cotone bianca appoggiata sulle spalle, l’attendeva alla guida di una decappottabile, deliziosa ma, fortunatamente, molto meno appariscente di quella di Enrico. Quello che aveva sorpreso Francesca, piuttosto, era stato il colore: un improponibile rosa confetto che, a conti fatti, si addiceva davvero poco ad un serioso avvocato di un’azienda di whisky.
- Oh, sì, lo so: è parecchio strana questa macchina. Ma non è che io sia molto più normale! – scherzò Sinead – Sei pronta? Partiamo.
- Come Thelma e Louise. – rise Fran, eccitata dal vento tra i capelli, mentre recuperava dalla borsetta i suoi occhiali scuri.
- Hai proprio ragione: come Thelma e Louise! Io e te dovremmo proprio farcela una vacanza insieme, Fran, un giorno. Sai come ci divertiremmo?
Accese la radio. Trasmettevano una vecchissima Perhaps, perhaps, perhaps.
 
You won't admit you love me
And so how am I ever to know
You always tell me
Perhaps, perhaps, perhaps



- Sembra di stare in un film anni cinquanta. – fece Fran – Scusami, ma una volta nella vita devo farlo. - Si mise in testa il foulard che teneva al collo, legandolo sotto la gola, come una vecchia diva del bianco e nero.
- Fran, sembri Audrey Hapbourn. – Sinead non riusciva a non ridere, guardandola – Stai benissimo. Devi proprio aver sbagliato epoca, tu.
 
If you can't make your mind up
We'll never get started
And I don't wanna wind up
Being parted, broken-hearted


- Le sai le parole?
- Sinead, io canto malissimo.
- E perchè, io no? “So if you really love me say yes, but if you don't dear, confess”
- “And please don't tell me : perhaps, perhaps, perhaps”
Perhaps, perhaps, perhaps . Scoppiarono entrambe a ridere.
 
L’automobile frenò davanti ad un negozio di sartoria, con un paio di vetrine che esponevano abiti che Fran, di certo, non avrebbe mai avuto il coraggio di indossare. Si immaginò di poter apparire come un leprechaun venuto male, con uno di quelli addosso.
- La mia sarta preferita! – Sinead emise un gridolino di entusiasmo, nel vedere la vecchia modista comparire sulla soglia.
- La mia modella preferita, cara signora O’Brien.
- La mia quasi cognata Francesca – la presentò – La signora McGlinn, l’artista che crea queste meravigliose opere d’arte.
Francesca si perse in mezzo alle stoffe, ai broccati e alle creazioni appese agli appendiabiti.
- Vacca miseria – l’esclamazione, rigorosamente in italiano, non era proprio riuscita a trattenerla – Volevo dire, sono bellissimi. Non ho mai visto nulla di simile. Lei è davvero un’artista!
- Oh, grazie cara. – sorridendo, attorno agli occhi della signora McGlinn si formava un reticolo di rughe che rendeva adorabile il suo anziano viso gioviale – Qui a Galway, lei non lo saprà perché è straniera, me l’ha detto la signora O’Brien… Dicevo, qui a Galway abbiamo un teatro in cui si recita ancora ed esclusivamente in gaelico. Mi è capitato di fornire loro i costumi, qualche volta. Ma soprattutto li noleggio per eventi come questi, matrimoni e occasioni speciali. E sono certa di avere qualcosa di perfetto per lei. Aspetti solo che do un’occhiatina alla signora O’Brien e torno subito.
Allora, come vanno quelle modifiche?
- Stupendamente, grazie. Fran, preparati, che sto per uscire. Come ti sembra?
- Sinead, se posso permettermi, sei abbagliante.
L’abito era davvero magnifico, lungo e bianchissimo, ricamato con nodi, trifogli e simboli tradizionali in filo argentato. Lo scollo a barchetta metteva in risalto la carnagione lattea della futura sposa e il velo di pizzo lasciava intravedere il fiammeggiare della chioma.
Ma quello che colpì Francesca furono le maniche, di taglio quasi rinascimentale, lunghe fino a terra.
- Non è bellissima? Sembra una ninfa dei boschi. – la modista giunse le mani con aria sognante – E non si preoccupi, Sinead, le modifiche sono tutte reversibili, non le costeranno molto di più del prezzo del noleggio stabilito all’inizio.
- Effettivamente, comprare un abito da sposa e tenerlo tutta la vita nell’armadio non mi sembrava così conveniente – fece Sinead, rientrando nel camerino – Signora, può occuparsi di Francesca? Come testimone di mio marito dev’essere bellissima.
- In effetti sono un po’cresciuta come bambina che sparge i petali di rosa. Ma temo che non farò figurare così  bene quanto Sinead i suoi vestiti.
- Oh, cara, lascia che sia io a giudicarlo.
Le diede una rapida occhiata, per stabilire la taglia e tornò con le braccia cariche dei suoi modelli: - Su, su, forza, in camerino. Provi questo e questo e… anche quest’altro: ma secondo me quello verde le starà d’incanto.
- Non ci conti, sarò orribile.
Sinead e la signora McGlinn erano rimaste in attesa per un buon quarto d’ora, mentre Francesca armeggiava con gli abiti in attesa di decidere con quale uscire.
- Fran, sei viva?
- Credo… credo di sì.
- Coraggio, fatti vedere. Avanti, non vorrai… - s’interruppe a metà della frase – Sorella, ricordami di procurare un defibrillatore per il giorno del matrimonio, perché farai venire un attacco cardiaco a metà degli invitati, ma solo perché l’altra metà sono donne. Fatti guardare! Girati… Guardi, signora McGlinn, non sembra un adorabile leprechaun?
- Io mi sento… - avrebbe voluto dire “strana” – poco a mio agio, veramente.
- Si guardi allo specchio, Francesca.
Rimase un lungo istante ad ammirarsi: non era poi male, constatò.
Non è affatto male.
Era davvero un bell’abito di un verde profondo e morbido, con inserti di velluto dello stesso colore nella gonna lunga fino alle ginocchia, che alleggeriva la sua figura, e maniche di pizzo bianco.
Ruotò su se stessa davanti allo specchio, come una bambina vanitosa.
- Poi lo deve immaginare con le calze e le scarpe giuste, ovviamente. Io direi solo di riprenderlo appena sopra le spalle, poi sarà perfetto. – segnò alcuni punti con degli spilli – Vedrete che sarà tutto pronto per sabato prossimo. Mi vanto, alla veneranda età di settantadue anni, di lavorare ancora coi ritmi di quando ne avevo trenta.
- Lei è un tesoro, signora McGlinn.
- Anche voi, ragazze. E, Sinead, si ricordi di mandarmi suo marito oggi pomeriggio.
- Verrà con mio cognato, ricorda?
- Come dimenticarmene. A proposito, il fratello del signor O’Brien è un bel giovanotto come lui? – chiese, facendole scoppiare a ridere, mentre già uscivano dal negozio.
 
 
- Cielo, Sinead, la signora McGlinn è assolutamente mitica!
- E anche questa è fatta. – rispose l’altra, mettendo in moto quella specie di confetto con le ruote.
- Impegni per il resto della mattinata?
- Nessuno.
- Proposte?
- Cibo!
- Sinead, non sono nemmeno le undici… Mi porteresti a vedere il centro di Galway?
- Ti porto a fare shopping nel centro di Galway. Insomma, a vedere le vetrine, altrimenti dovrai pagare il doppio per i bagagli, quando tornerai. Ma dopo si mangia, eh? Perché qui, il piccolo O’Brien continua a protestare. E, per il resto della giornata, ci faremo condurre dal vento, dalla macchina e dall’ispirazione.
 
 
- Uomini, siamo a casa! – gridò Sinead dal piano di sotto – Mi sa che qui non c’è nessuno… Sono scappati prima del matrimonio. Beh, in effetti se uno deve scappare è meglio che scappi prima.
- No, tranquilla, non sono fuggiti molto lontano. – Fran sventolò un biglietto appoggiato sul tavolo della sala da pranzo – “Siamo a provare i vestiti dalla signora McGlinn. Torneremo per cena. Mik e Sean”.
- Per cena? Ma che ore sono?
- Poco più delle sei.
- Sorella, l’abbiamo fatta lunga. Annuncio che ce ne siamo andate in giro per quasi undici ore.
- Si può dire che non ci siamo annoiate. Bene, ti do una mano con la cena. Dammi solo il tempo di cambiarmi.
- Ehi, Fran, ti devo chiedere una cosa importante. Ma davvero, davvero importante – il tono si era fatto insolitamente cupo.
- Qualunque cosa: dimmi tutto.
Sinead tornò a sorridere: - Tu sai come si prepara quella torta bassa col cioccolato, quella che mi capitò di mangiare una volta in Italia? Eravamo venuti a trovare Sean, poi siamo scesi in Emilia Romagna, fra Ferrara e Bologna… scuserai la mia pessima pronuncia… Insomma, in quella zona: tanti castelli, tanta architettura medievale e tanti piatti meravigliosi.
- Ma quella è la mia zona! La Torta Tenerina, come dimenticarsene? Ce l’hai il cioccolato in casa, vero? Fruste, teglia, burro, uova, fantastico, c’è tutto.
- Tranne la mia capacità di cucinare: se lo scopre Fiona! Non gli darai abbastanza da mangiare, al mio povero Mik!
- Non preoccuparti. Tu mi hai fatto fare questa full immersion nella sartoria irlandese, io te ne farò fare una nella cucina italiana.
Si divertirono come matte. A dire il vero, Sinead era piena di farina e zucchero fin sopra i capelli, ma la torta uscì dal forno, con tanto di trifogli disegnati nello zucchero a velo, con qualche stencil improvvisato. E non fu nemmeno il disastro che si aspettavano.
- Cosa staranno combinando quei due cicloni in cucina? – aveva chiesto Michael al fratello, sentendo continui scoppi di risa, una volta rientrati a casa.
- Non lo so e non lo voglio sapere – aveva scherzato Sean – Di sicuro, non sono da lasciare da sole per troppo tempo..
La cena era passata altrettanto piacevolmente, anche se le sorprese non erano ancora finite.
- Domani è domenica… - aveva detto Michael con tono allusivo.
- Mi sembra del tutto normale, dato che oggi è sabato. – Sean non si era scomposto minimamente davanti a quella che per l’altra coppia sembrava una novità di portata straordinaria.
- Scusalo, Fran: mio fratello ha lo stesso romanticismo di un caprone. Intendevo dire: cosa si fa, di solito, nelle belle domeniche primaverili, con il sole?
- Le scampagnate?
- Non esattamente: abbiamo in programma una bella gita per voi a Dublino. – Mik aveva sventolato davanti ai loro sguardi perplessi due biglietti del treno.
- Posso chiedere perché proprio Dublino?
- Beh – fece Sinead come fosse stata la cosa più naturale del mondo – siete voi ad esservi innamorati con James Joyce! Ci è sembrata una cosa così romantica mandarvi sulle tracce di Dubliners…
 
 
- Sei contenta della nostra gita di domani, Fran? – le aveva chiesto lui, prima che la ragazza si fosse infilata sotto le coperte del letto che si erano rassegnati a dividere.
- Certo. Sono venuta per vedere l’Irlanda, dopotutto. – rispose, prendendosi il suo lato con meno imbarazzo della sera precedente.
- Com’è andata la tua prima giornata, a proposito?
- Fantastica: Galway è una città adorabile. Perché è tutto magico, qui da voi? E Sinead è un amore.
- Avete fatto subito amicizia, a giudicare dalle risate e dal disastro in cucina. Prima di dimenticarmi: la torta era deliziosa. Bene, sono contento che ti abbiano accolto tanto calorosamente e che tu ti trovi a tuo agio. Ma, del resto, non dev’essere difficile volerti bene, Francesca. – si lasciò sfuggire a voce alta quello che sarebbe dovuto essere solo un pensiero.
La vide arrossire appena.
– E tu? Com’era l’alba sulla Galway Bay? – si affrettò a chiedergli, per cambiare argomento.
Le fu grato della sua prontezza di spirito, perché già non sapeva cosa aggiungere per non far morire la conversazione nell’imbarazzo.
- Meravigliosa. Davvero: da togliere il fiato. Non me la ricordavo tanto bella. Mi è mancata, la mia Erin, sai? – spense l’abatjour prima che lei potesse accorgersi della nostalgia nel suo sguardo, anche se la voce lo tradiva più che sufficientemente.
- Sean?
- Sì?
Il buio le diede coraggio: - Non ho mai conosciuto un uomo come te, capace di commuoversi davanti al giorno che nasce. Sono contenta di essere stata io ad accompagnarti in questo tuo ritorno a casa.
Sentì la mano di Sean posarsi con delicatezza sulla propria: - E io sono felice che tu abbia accettato. Se posso permettermi, Fran, ti avrei portato qui volentieri, indipendentemente dal nostro patto.
- Io… ecco, io ti ringrazio, Sean.
Lui le strinse la mano appena un po’ più forte.
Chi non ti ama non ti merita, Fran. Le disse nella propria testa. Poi aggiunse, questa volta davvero: - Ora dormi, Fran. E non sconfinare troppo.
Rise appena, ritirandosi verso il bordo: - Farò il possibile. Buonanotte Sean.
 
 

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Capitolo 9
*** Cap. 8 - Dubliners per caso (Non è Francesca) ***


 Mie carissime!!!
 
Sono tornata in tempi recenti e decenti – o quasi – questa volta!
Dunque, ecco il nuovo capitolo con gita a Dublino e maggiore interazione tra i Nostri, come promesso. A proposito di Dublino, io sinceramente non l’ho mai vista, ma se Salgari ha descritto la Malesia senza essersi mai mosso da Verona, perché non provarci? xD
Se ho commesso errori indecenti, vi chiedo perdono e di considerarli come… beh, ecco: licenze poetiche ^^
Un’ ultima cosa: lo sapevate che la sindrome di Stendhal prende il nome ehm, da Stendhal ovviamente, che ne fu colpito prima a Milano e poi all’uscita di Santa Croce? ^^ Io no, l’ho scoperto documentandomi sulla mia gita a Firenze. Direte: che c’entra? C’entra solo perché mi è capitato di nominarlo, ad un certo punto.
Basta, non vi annoio più. Vi ringrazio, invece, tutte quante, dalle mie care recensore alle mie gentili lettrici. E vi abbraccio una per una!
Un bacione, buon weekend e buon primo maggio!!!
Sempre vostra,
 
Marguerite.

 

Imprevisti d'amore
Editor fotografico online

 
Se c'era un uomo poi,
no, non può essere lei.
Francesca non ha mai chiesto di più,
chi sta sbagliando son certo sei tu.
Francesca non ha mai chiesto di più
perché lei vive per me.

( Lucio Battisti, Non è Francesca)



 
Capitolo 8: Dubliners per caso (Non è Francesca)

 
 
La sveglia del cellulare di Fran suonò, impertinente come sempre, come ai tempi della scuola, diffondendo nell’oscurità della stanza le note zen degli uccelletti metallici e dei finti rumori del bosco.
- Non voglio fare lezione, stamattina… Lasciatemi a letto.
- Fran… - borbottò Sean – Fran, cos’è questo casino? È entrato un piccione?
- No, è la sveglia.
Fran? Ma allora non era a Padova. Ma no, che stupida! Era a Galway, con uno ormai neanche più sconosciuto nel letto. Domenica! Gridò nella sua testa. Dublino!
- Sean, Dublino! Si va a Dublino!
- Sì, sì, lo so che si va a Dublino. Ma spara a quelle bestie, ti prego.
La scavalcò con il braccio, con inverecondia di sposo, per afferrare il cellulare e porre fine a quel patetico concertino.
- Ehi, che stai facendo? Tocchi? – scherzò lei, cacciandosi a ridere.
- Ma ci mancherebbe. Cioè, non mi permetterei mai. Stavo solo spegnendo quell’affare demoniaco. Ma come fai a svegliarti tutte le mattine a quel modo?
- Non lo so, sono abituata. Eppoi non tergiversare, impudente di un irlandese!
Ma guarda un po’ con chi sono finita a dividere il letto. – lo punzecchiò.
- Beh, se ti avessi detto che ero un pericolosissimo maniaco, di certo non saresti partita con me.
- Perché, tu pensi che io sia partita per te? Io sono partita per vedere l’Irlanda.
- Splendido! Quindi, sella il cavallo, cowboy, Dublino ci aspetta.
- Sean O’Brien, lei pensa di cavarsela così, con poco? Dopo che le sue amabili zampe sono finite sulla mia, di me, pancia nel curioso tentativo di spegnere la sveglia!
- Io sono innocente! Cosa dovresti…
Non fece in tempo a finire la frase che il cuscino di Fran lo colpì in pieno.
- Questo è sleale! Mi costringerai ad agire di conseguenza.
- Eh no, io sono una signora. – e lo disse con lo stesso tono con cui se ne sarebbe fatta vanto la gatta bianca degli Aristogatti, mentre stava per sparire in bagno.
- Ma quale signora! – le lanciò scherzosamente il proprio cuscino che lei, pronta, parò con l’anta della porta.
- Fregato! – rise come una bambina.
- Questa me la paghi, Francesca Fortini. – non potè fare a meno di lasciarsi contagiare dal buon umore della ragazza.
- Un’altra volta, adesso siamo in ritardo per il treno.
 
 
Il treno correva veloce verso Dublino.
Sean, seduto di fronte a Francesca, consultava l’itinerario migliore per la giornata, una volta arrivati a destinazione. Talvolta alzava gli occhi verso la sua compagna di viaggio che, silenziosamente, frugava tra le pagine di Dubliners tutti i nomi di luoghi che riusciva a ricordarsi.
Non gli sfuggì la dolcezza con cui lei accomodò una ciocca di capelli dietro l’orecchio e nemmeno quella vaga tenerezza infantile nelle sue labbra appena socchiuse.
La sera precedente, quando le aveva stretto la mano, non aveva tremato al contatto e quelle parole che gli aveva rivolto, quel curioso complimento a modo suo, lo avevano tenuto sveglio per gran parte della notte. E dire che di anni ne aveva trentaquattro suonati, non era certo il tipo che doveva sentirsi la tachicardia solo per aver sfiorato la mano di una ragazza. Non siamo mica nel Settecento, e che cavolo! Ma che diavolo gli stava succedendo? Eh no, Sean, niente sentimenti: questo è stato un contratto, un affare. Tu per una cena e lei per una settimana eppoi chi si è visto si è visto.
Ognuno per la sua strada. Dopotutto, lei ha già Indiana Jones, la sua vita è abbastanza complicata senza che cominci a provare tenerezza. Oh, insomma, alla fine la tenerezza puoi anche provarla, ma morta lì. Amicizia, affetto, niente di più.
Rise coscienziosamente di se stesso.
- Hai proprio intenzione di rileggertelo tutto?
- Come? – fece Fran, distratta.
- I Dubliners, intendo.
- Ah, questo? No, no, ci mancherebbe. Scusami, torno a farti compagnia. Sai, stavo pensando.
- Posso chiedere a cosa?
- Ai miei ragazzi. Hanno l’esame di stato, erano fuori di testa, l’ultimo giorno. Poverini, li capisco. È un’età strana, quella. Piena di contraddizioni: non si riesce mai a capire quello che si sarà o quello che davvero si vuole essere. Ci si dibatte tra il senso di ribellione e il senso di responsabilità. E il vero problema è che noi adulti siamo talmente pieni di stereotipi riguardo i nostri ragazzi che sembra che abbiamo dimenticato quando avevamo noi i loro anni. Sempre pronti ad affermare: io te l’avevo detto e sempre, nel modo più assoluto, incapaci di comprenderli. E pensare che hanno un mondo dentro e così poca attenzione attorno. Tanto che spesso prevale, per desiderio di accettazione, la troppa responsabilità e non è giusto nemmeno così.
- Ti piace il tuo lavoro, non è vero?
- Non lo cambierei per nessuna ragione. Amo insegnare, amo le persone. Nonostante i compiti da correggere, le supplenze, classi di scalmanati che se ne infischiano, anche giustamente, di me e di Shelley e di tutti gli altri. Enrico dice che vivo nella mediocrità, ma a me pare di star benissimo.
- Fregatene di quello che ti dice Enrico. Vuoi che conosca la tua vita meglio di te? Scusa, non volevo…
- Non fa nulla. Hai ragione tu, sai. Ogni tanto mi fa bene sentirmelo dire senza troppi fronzoli.
Una volta – rise appena, perdendosi a inseguire il filo dei ricordi – una volta avevo trovato un posto da interprete, per delle conferenze, dei dibattiti, non mi ricordo nemmeno io per cosa. Beh, rifiutai, per continuare ad insegnare. Credo fosse un buon lavoro, pagato bene, ma niente. Ci fu una gran discussione con Enrico, sembrava dovesse finire il mondo.
- Rimpianti?
- Neanche l’ombra. Dissi: no, grazie. Non ho voglia di esprimermi con le parole di qualcun altro. Voglio dire la mia. Scrivevo molto, allora. Giocavo a fare l’intellettuale, di quelle con la sciarpa lunga gettata sulla spalla, alla Pavese. Non lo sono mai stata. Non lo sarò mai, credo.
- Scrivevi? Cosa? – le chiese Sean, particolarmente interessato, intrecciando le dita sotto il mento – Non ho mai conosciuto una ragazza che scrive.
- Di tutto: racconti, poesie, saggi, recensioni. Su qualunque pezzo di carta mi capitasse a tiro, persino sui margini dei volantini. Grafomane, come tutti i principianti. Adesso, pur essendo ancora una principiante, scrivo molto meno. Ma è solo colpa della mancanza di tempo e di ispirazione. Di una ispirazione in particolare, forse.
- Pubblicazioni, ne hai avute?
- Non per vie ufficiali, non per editoria, diciamo. Ma lettori sì, un discreto numero, che è quello che mi interessa davvero. Non scrivo per denaro, anzi: tento di tenere le passioni il più lontane possibile dai soldi. Sento di non essere arrivata alla mia maturità, per fare quello che si intende davvero per “pubblicare”. Quando lo sarò, però sarà anche il momento in cui smetterò di scrivere.
Sean, mi stai ascoltando?
Lui continuava a fissarla, come se si fosse smarrito nel ritmo cadenzato delle sue parole.
Si accorse improvvisamente della sconvenienza e della comicità della sua espressione che doveva, in quel momento, stare a metà tra quella di un topo del pifferaio di Hamelin e quella di Stendhal all’uscita di Santa Croce.
- Non vorrei annoiarti. Prima di cadere in catalessi fammi un fischio.
- No, è che sei così coinvolgente, quando racconti.
Francesca ripose il libro nella borsa, per sfuggire al complimento.
- Mi piacerebbe leggere qualcosa di tuo, se non è chiedere troppo.
- Davvero? Tu vuoi farti del male, O’Brien. Sei il mio primo fidanzato che se ne interessa. A questo punto, peccato che lo sei solo per finta. Oh, ecco, finisco per parlare solo io. E tu?
- Io cosa?
- Interessi, studi, passioni varie…
- Te lo racconterò una volta scesi dal treno. – le indicò dal finestrino il profilo ancora nebuloso di una città. Dublino, finalmente.
 
 
- Signor O’Brien! Signor O’Brien!
La voce del wedding planner, quella specie di irlandese impastato di un pessimo e forzato francese, aveva annunciato il suo arrivo mentre era ancora sul furgone.
Michael posò la tazza del tè sul relativo piattino, con un sospiro d’insofferenza.
- Ancora qui? Ma non è possibile! Cosa deve aggiungere di più in questo giardino che ormai scoppia?
Le sette e cinquantuno. Precise. Il tizio non arrivava mai a orari decenti e questo, con notevole sforzo, Michael l’avrebbe potuto anche sopportare, dal momento che l’altro continuava a dichiararsi oberato di lavoro. Ma, a parte questo, aveva una mania veramente bizzarra: non arrivare mai a orari per così dire “tondi”. Mai ai dieci, ai venti, ai cinquanta e così via. Mai quando la lancetta si posava sui numeri dell’orologio. Sempre, puntuale come la morte, un minuto dopo.
- Signor McNamara, io faccio i cinquanta. Come la mettiamo?
- I cinquanta? Impossibile, impossibile. Il mio orologio segna i cinquantuno e quarantasette secondi. Ed è più che perfetto, sincronizzato col meridiano di Greenwich.
- Allora… - Mik agitò una mano a mezz’aria, non visto, finendo per far soffocare una risatina a Sinead. O per farla soffocare col tè, a dirla tutta. – E lei che si va a fidare di quegli inglesi, mah!
- Signor O’Brien, sembra quasi che a lei il suo matrimonio non le interessi. Su, signora, almeno lei che mi sembra una donna raffinata e di buon gusto, glielo dica che spesso la forma è importante quanto la sostanza.
- Fosse stato per me, mi sarei sposata in jeans. – Sinead non aveva neanche alzato la testa, concentrata com’era a rincorrere col cucchiaino il biscotto scivolato nella tazza.
- Oh, santi numi, che eresia! Che eresia che mi dice, signora! – sembrò diventare più rosso della cravatta che indossava.
Credo di non aver mai visto niente di più improponibile. Disse Mik fra sé, constatando che – vistosissimo rosso fragola a parte – sulla cravatta era stampato un gatto con in bocca il mouse di un computer. Manca solo la scritta: questo me lo pappo io e tu non lo vedi più, che l’abbiamo fatta completa.
- Grazie al cielo che la signora Fiona mi capisce! Cara, cara signora Fiona, che donna elegante, chic, very very trendy
- Sta cercando di sposarsi mia madre?
- Ma, signor O’Brien, non dica queste cose: mi mette in imbarazzo…
- Bene, allora ci mostri cos’ha portato oggi. – fece Sinead alzando un sopracciglio.
- I leprechaun! – il wedding planner fece un cenno ai suoi operai che, prontamente, cominciarono a scaricare dal furgone una serie di leprechaun in gesso delle dimensioni di un bambino di quattro anni.
- Oh, cavolo, e Biancaneve dov’è?
- Prego, signora?
- Voglio dire: che accidenti sono questi? Nani da giardino? Io non li voglio. Eh no, Mik, questi sono davvero indecenti. Passi per i trifogli, per le arpe dorate, ma i leprechaun di plastica…
- Gesso, mia cara signora, pregiatissimo gesso.
- Ma sarà pure gesso però a me fanno orrore. No, no e no: se li riporti via!
- Ma che scherza? Lei mi rovina la composizione, l’equilibrio…
- E faccia quel diavolo che vuole, basta che mi lascia mangiare in pace, che ho una fame, guardi, che mi sbranerei anche lei vestito.
- Sinead, è una proposta indecente al nostro wedding planner?
- Lascia perdere, Mik. Io non la volevo una cerimonia del genere. Cosa dici, potremmo scappare subito dopo le nozze assieme a Sean e Fran e andare a ballare e scatenarci tutta la notte, altro che il reel e le quadriglie tradizionali. Lo sai, che tuo fratello fosse adorabile me n’ero già accorta, ma la sua ragazza è proprio un amore.
- Tu dici? Anche a me sembrano perfetti insieme. Improvvisamente capisco perché non ha mai voluto fare ritorno a Galway. Dev’essere proprio il genere di donna di cui si sente subito la nostalgia.
- Secondo te si sposeranno anche loro? Sarebbe un sogno se si trasferissero qui, dopotutto la casa è troppo grande per noi.
- Se conosco abbastanza Sean non è il tipo da sposarsi. E sembrano stare bene così, dopotutto. Però, ti confesso, non mi dispiacerebbe diventare zio molto presto. Sono dodici anni che stanno insieme, e che diamine!
 
 
- Guarda! Guarda Sean! – Francesca l’aveva strattonato per la manica della camicia, entusiasta come una bambina – Questa è Henrietta Street, dove Joyce ha ambientato “Eveline”.
Qui la fotografia è d’obbligo – prese ad armeggiare con una digitale compatta.
- Oh, mio Dio! Fran, cos’è quell’affare?
- Non dirmi che non hai mai visto una macchina fotografica?
- Quella non è una macchina fotografica. Ma come si può pensare che, adesso, la gente non si prende nemmeno il tempo per trovare il momento giusto per scattare. Si prendono centinaia di immagini, si eliminano quelle sbagliate e si esibiscono le altre come trofeo ai parenti. Cose da turisti, non da viaggiatori.
- E da quando tu ti intendi di fotografia?
- Fin da ragazzo. – ammise lui, cacciandosi le mani in tasca – Tu hai sempre avuto la scrittura, io la fotografia, oltre che il greco e il latino. Inconciliabili, no?
Ho passato parecchi anni a cercare lo scatto giusto, la luce giusta. Ero ossessionato dalla luce, più di qualsiasi altra cosa. Pensavo che se fossi riuscito a catturare un soggetto nella sua naturalezza, nella sua realtà ma allo stesso tempo filtrato dalla mia emozione allora avrei trovato l’immagine perfetta.
- E l’hai trovata?
Scrollò la testa: - No, credo di no, ma sono sempre alla ricerca. Ma c’è un vecchio apparecchio a casa dei miei, che funziona ancora con le pellicole in bianco e nero. Un giorno ti mostrerò cosa significa davvero andare a caccia di immagini: quando tu mi farai leggere qualcosa di tuo, s’intende. – prese un lungo momento di silenzio, guardandola scattare un paio di foto con una certa titubanza causata dal suo discorso.
- Sai, Fran, quando hai detto quella cosa prima, in treno, riguardo allo smettere di scrivere, è quello che ho sempre pensato anch’io, solo che non sono mai riuscito a formularlo tanto bene. Quando troverò l’immagine giusta, anch’io smetterò di fotografare.
Lei si voltò, come scossa da una illuminazione improvvisa. Un’epifania, si sarebbe potuto dire, con un po’ di ironia, dato il luogo. Lo guardò a lungo, come per imprimersi esattamente nella mente il suo sguardo: - Sean O’ Brien, ho l’impressione che tu sia un uomo molto più complicato e intellettualmente inquieto di quanto tu non voglia farti passare e di quanto non tendano a descriverti.
Sean sorrise appena, non senza una certa visibile soddisfazione, mentre se la prendeva sottobraccio.
- E tu, Francesca Fortini, mi conosci molto meglio di quanto non sia concesso ad un’estranea, per quanto continui a definirti tale. Vogliamo andare? – un lampo di dolcezza gli attraversò quegli occhi smeraldini – Dublino è grande: voglio mostrarti le cattedrali, il museo di Joyce, ma soprattutto farti respirare la vera atmosfera dublinese.
 
 
La parte medievale della città la conquistò in un arabesco di guglie, mura e fortificazioni. Il rosato imponente della Christ Church Cathedral si mescolò nella sua mente con il biancheggiare imperfetto del Dublin Castle, popolando la fantasia di immagini, colori e profumi di un’epoca scomparsa eppure così vicina, palpabile, presente tra quelle pietre.
Permise a se stessa di smarrirsi, pur guidata sapientemente da Sean, di stordirsi nelle grandi vie dello shopping e del turismo, attorno a Grafton Street, e in quelle strette, fitte, intricate viuzze fatte apposta per i viaggiatori o per i poeti. Rise di qualche antico, curioso aneddoto che lui le raccontava a proposito della Guinness o a qualche altra faccenda che non ricordava. Risero, e molto. Con spontaneità, con naturalezza, senza bisogno di nascondersi dietro a finte semplicità, dietro vecchi fantasmi.
Enrico era rimasto a Padova, quel giorno, nel modo più assoluto.
Sean se ne accorgeva dalla serenità di lei, al punto che forse avrebbe potuto anche rispondergli: Enrico, chi? ad una sua ipotetica domanda.
Doveva aver proprio bisogno di cambiare aria, finalmente. Di scacciare un po’ di vecchi fantasmi e lasciare il posto a emozioni nuove.
In cuor suo, Sean aveva capito che, forse, Francesca aveva bisogno di innamorarsi, di portare ossigeno nuovo al cuore, ma di certo non poteva permettersi di suggerirglielo. Si accontentava di guardarla contemplare serena il corso del fiume Liffey, da sopra il ponte di Ha’Penny, con i capelli appena smossi dal vento. C’era un che di poetico in lei e nella tenerezza con cui accarezzava con lo sguardo il profilo delle case e la loro copia riflessa nello specchio d’acqua. Il Liffey aveva catturato Francesca con la sua corrente, trasportando i suoi pensieri ed i suoi sogni con sé e lasciandole netta sulla pelle la consapevolezza che non si sarebbe liberata da Dublino tanto in fretta.
Sean decise di interrompere la perfezione di quell’immagine di lei persa nella magia di Dublino prima che potesse tornare a tormentarlo la notte più di quanto non avrebbe voluto.
- Lo sai perché questo ponte si chiama così? Perché una volta, per passare da una parte all’altra della città, bisognava pagare mezzo penny.
- Davvero? – fece lei, riscuotendosi da tanta bellezza – E come mai tu sei pratico di Dublino?
- Vi appartengo per metà. Da quanto ne so, tutto il mio ramo materno è di Dublino. Mia bisnonna, mia nonna, mia madre. Solo che poi lei ha sposato mio padre, che è di Galway, e noi siamo nati lì.
Vi sono venuto in visita almeno una volta l’anno, fin da quando ero bambino.
- E da mezzo dubliner quale sei, cosa proponi, adesso?
- Sosta nel verde.
- Ma come “sosta nel verde”? Io volevo vedere il Post Office.
- Lo dicevo, io, che mi sono fidanzato con De Valera. Non scappa, il Post Office, stai tranquilla. Adesso vieni con me, ti porto in un angolo incantevole. Ti fidi?
- Certo che no, ma non ho alternative. Posso? – senza attendere risposta, passò il braccio sotto quello di Sean, che sorrise, senza aggiungere nulla.
Alla fine, non aveva sbagliato a lasciarsi condurre da lui. Il parco di San Stephen era di un verde assoluto e mozzafiato e la luce di giugno, calda e azimutale nell’ora di pranzo, creava suggestivi giochi d’ombra tra le foglie degli alberi.
Francesca, sdraiata sull’erba scribacchiava appunti su un taccuino, con espressione assorta, mentre Sean raccoglieva quel poco che ne restava del loro improvvisato picnic. Poi, era tornato a sedersi anch’egli sul prato, per godersi il calore del sole. Stranamente non pioveva, dovevano approfittarne il più possibile di quel cielo terso e placido sopra di loro.
Tra una nota di viaggio e l’altra, Fran si era persa a seguire il profilo di lui, affascinata dal gioco di riflessi che la luce e l’ombra creavano sul rame dei suoi capelli, sulla sua carnagione chiara, sull’adorabile e appena accennata spruzzata di efelidi.
In un altro momento si sarebbe sentita alquanto stupida, mentre mordicchiava la penna con lo sguardo perso e, se quella volta non lo aveva fatto, era solo perché non si era resa conto che stava pensando a Sean O’Brien e scrivendo di lui in quel suo “diario di bordo”.
- Un soldino per i tuoi pensieri, Fran. – le disse affettuosamente, guardandola con la coda dell’occhio anche se, formalmente, doveva essere concentrato su un gruppo di bambini che giocavano spensierati attorno alla statua del signor Guinness, alcuni studenti che si scambiavano impressioni poco convinte circa l’esame di chimica e qualche impiegato in pausa pranzo che sbocconcellava un panino di fretta.
- Pensavo a questa città. È semplicemente bellissima: ricordami di ringraziare Mik e Sinead, stasera.
- A dire il vero, a me non sembra di far parte della città. – aggiunse, con una nota di deliziosa malizia.
- Cosa vuoi dire? – non aveva potuto fare a meno di sorridere, davanti a quella espressione.
- Che mi sentivo piuttosto osservato.
- Beh, sono appunti di viaggio, è normale che rientra anche un accenno ai propri compagni d’avventura, no? 
- Sarà…
- Sai cosa pensavo? Che Dublino è nata per essere percorsa a piedi e questo fatto ti porta ad avere un contatto immediato, diretto con la città, sotto ogni suo punto di vista. La sua atmosfera ti entra dentro, nelle ossa, nell’animo, parlando con la gente, respirando quest’aria.
- Sei poetica, Fran. – fece lui, sottovoce, per non interrompere l’ispirazione, mentre si sdraiava al suo fianco, sull’erba.
- Che fai? Ti riposi ancora? Dobbiamo vedere il Post Office. Guarda che non me ne vado da Dublino, senza averlo visto.
- Ma che noiosa di una fidanzata intellettuale mi sono trovato! Aspetta, aspetta, non ti rialzare: guarda che bella nuvola, quella che sta passando. – le indicò con entusiasmo un nembo bianco e soffice che aveva offuscato per un momento il sole.
- Che meraviglia! Che ti piaccia o meno la mia macchina fotografica, adesso devo proprio usarla.
- Anche tu un’appassionata di nuvole?
- Da quando ero bambina. – esitò per un momento prima di aggiungere quella domanda, nel timore di apparire sciocca o infantile: -Sean, secondo te cosa sono le nuvole?
Lui rise appena.
Ecco, penserà che sono una perfetta imbecille e mi darà una di quelle definizioni da manuale.
E invece: - Le nuvole? Secondo me sono le nostre occasioni mancate: le persone che non abbiamo conosciuto, le azioni che non abbiamo portato a termine, i desideri non realizzati. O i sogni che non ricordiamo più al mattino.
- Un attimo, cos’hai detto? – si alzò a sedere, con espressione sorpresa.
- Per carità, è già abbastanza imbarazzante senza doverlo ripetere…
- Davvero tu credi che siano i nostri sogni e non un ammasso informe di pioggia, smog e particelle? Oh, Sean, io pensavo di essere l’unica a vederla così! Una volta lo dissi ad una persona… a Enrico, e… feci la parte della stupida sognatrice.
- Fran – la guardò con serietà – Tu non sei una stupida sognatrice. Non permettere a nessuno di interferire con i tuoi sogni: tu e tu sola puoi decidere se abbatterli o conservarli. Tu e nessun altro.
 
 
Emma, dopo una settimana passata da pendolare tra Padova e Rovigo, aveva finalmente deciso di fare una visitina all’appartamento di Francesca.
Ma beata lei che adesso è in Irlanda a spassarsela, lontana da equazioni, studenti, verbali, crisi esistenziali nemmeno fossimo in un pessimo remake veneto di “Notte prima degli esami”.
Sbuffò stancamente, avviandosi per le scale.
Dopotutto, il ficus benjamin, allevato con amore materno e unico coinquilino vegetale della prof d’inglese, mica l’aveva chiesto lui di essere abbandonato al suo destino e all’afa di giugno.
Raccolse la posta nella buchetta. Niente di che: bollette – strano – il depliant degli sconti dell’ipermercato, la cartolina di un’amica da Rimini che mandava tanti cari saluti.
Sì, sì, brava: salutamela, la vecchia Fran! Sarà persa nei verdi prati, tra fiumi di Guinness e i leprechaun che le fanno ciao, manco fosse Heidi. Che poi, mi son sempre chiesta, ma cosa si fumava Heidi per vedere i monti che sorridono e le capre che ti danno il buongiorno, mah?
A dire il vero se c’è una che deve darsi una svegliata e smettere di assuefarsi dell’odore di quella carogna di Enrico, quella è proprio Fran. Insomma, a me non interessa, ma oggettivamente parlando, ha visto con che pezzo di uomo è partita? Ma porca miseria, sei in Irlanda con uno così e pensi ancora al cretino che ti ha fatto passare le pene dell’inferno prima di piantarti sola come un gambo di sedano? Eh no, Fran, è ora che cambi obiettivo, ragazza mia. E Sean – parola dell’Emma – non mi sembra un cattivo partito. Basta! Trafficò nella borsa alla ricerca delle chiavi che l’amica le aveva lasciato già da parecchi mesi. Basta: io fondo il Sean Fan Club, ho deciso!
Un rumore di passi alle sue spalle la fece sussultare.
Oh, se è un ladro o un maniaco, un bel calcio dove non batte il sole e un urlo da duecento decibel.
- Scusi, lei è Emma, immagino. – fece una voce suadente, cadenzata da un lieve accento emiliano.
Il ladro di sicuro non l’avrebbe chiamata per nome. Allora chi era? Un venditore di aspirapolvere, il postino con la raccomandata? I postini sanno sempre tutto.
- Sì? – si voltò, sfoderando il suo sorriso migliore.
- Finalmente! Sono due giorni che mi apposto qui contando che qualcuno venga a innaffiare le piante di Francesca.
Ah, ecco chi doveva essere: uno del WWF!
- In due giorni non muoiono mica le piante, stia tranquillo. Poi io ho il pollice verde.
- Sì, ma muoio io… – si avvicinò appena al suo orecchio, con quel modo da attore un po’ retrò – Muoio io, di gelosia, Emma.
- Ah ah, lei è Enrico, allora.
E chi poteva essere, del resto, quel damerino lampadato, vestito di tutto punto di blu, con la camicia sapientemente sbottonata nel modo giusto, con finta casualità, per farsi guardare e i guanti – i famosi guanti che usava per guidare – di cui uno indossato e l’altro stretto nella destra, come fosse stato un ufficialetto dell’esercito prussiano.
- Eh, brava, proprio Enrico. Io ci ho preso subito, perché sapevo che le chiavi le aveva solo lei. Ma per quanto riguarda me, allora Fran deve avergliene parlato molto…
- No, non molto. Cioè, sì, i primi tempi. Poi, da quando ha conosciuto Sean, neanche una parola. Adesso nei suoi discorsi c’è solo Sean: è diventata noiosa. Noiosa come tutte le donne innamorate.
Fece seguire una risatina, per nascondere che la stava coprendo, mentre si congratulava con se stessa per la presenza di spirito.
- Sempre e solo Sean, dice? Ma allora è vero! Ha un altro! E… e io? Ma è proprio sicura che non dice niente di me? Che mi ama ancora? No? Niente, niente?
- Oh, senta, è inutile che mi fa quegli occhi da Gatto con gli stivali di Shrek. Le ho detto di no .
- Ma io le ho chiesto di sposarmi e lei mi ha risposto che ci avrebbe pensato.
- Appunto, le lasci il tempo di pensarci. Tanto adesso è in Irlanda, lo sa, nevvero?
- Lo so, lo so, lasci perdere. Io, Emma, mi sto rotolando in terra dalla gelosia, al solo pensiero che lei è là, in terra straniera con un altro. Mentre io, qui, da solo, mi struggo mi consumo, dall’amore per lei.
- In terra straniera! Ammazzala: cos’è? Pocahontas e John Smith?
- Non faccia del sarcasmo, la prego. La gelosia mi soffoca, mi opprime, mi distrugge. È come se avessi, se avessi… - si indicò il petto con aria sofferente.
- Un cinghiale sullo stomaco?
- Veramente pensavo a qualcosa di più intellettuale. L’incubo di Fussli, magari. Quel dipinto col nano che opprime il seno della bella dormiente. Comunque, sì, è una sensazione come…
- Di non aver digerito. Oh, come la capisco, poverino! Lo vuole un digestivo, della magnesia? – gli disse, quando in realtà non gli avrebbe creduto nemmeno prendendolo con le pinze.
Come no, come no: l’immagino come soffri! Sto str… Guarda, è meglio che non dica nulla, non farmi dire nulla, altrimenti mi devono censurare, va’!
Guardalo, guardalo lì, geloso marcio, ma mica perché gli interessa Fran: no, perché non sopporta che uno come lui possa essere dimenticato. Che fa adesso? Si specchia, si liscia i capelli… So’ bello solo io, so’ figo solo io… Senti un po’, John Wayne, è così che si soffre, adesso?
Pensò, intanto che si divideva tra l’annaffiare il ficus benjamin e il guardare quel tale che le ricordava quel personaggio di Lady Oscar, l’amante della regina, ma sì, dai, lo svedese figo, com’è che si chiamava? Ma sì, quello snob che faceva soffrire sempre la povera Oscar e non si accorgeva mai che era innamorata di lui. Vabbè, poco importa.
- Senta, non è che ci può mettere lei una buona parola con Fran? Per dirle che io sono sincero nei miei sentimenti.
Ah, ecco perché era venuto. Una buona parola? Seh, aspetta e spera!
- Mi scusi, non è che si può convincere una persona a sposarsi con un’altra se non vuole.
Insomma, sono affari vostri, non per essere scortese. Eppoi io trovo che lei e Sean siano una coppia splendida, davvero.
- Ma quella che mi descrive lei non è Francesca. Io non ci posso credere che lei stia con un altro, che abbia dimenticato uno come me. Ma dico: mi ha visto bene? Ecco, mi dia lei un parere femminile. Tra me e l’irlandese ce ne passa…
- Parere femminile? Guardi: io convivo da otto anni con una donna, faccia lei.
- Si sta sbagliando chi ha visto non è Francesca.
- “Francesca è a casa che aspetta me, non è Francesca. Se era abbracciata poi, no, non può essere lei.” Via, via, Battisti lo conosciamo tutti.
- Che?
- Lasci perdere, va’. Senta, l’unica cosa che posso fare è offrirle la cena. La domenica Giulia fa uno spezzatino con le patate che farebbe resuscitare anche Luigi XVI. Vuole unirsi a noi e affogare – o affogarsi? – i suoi dolori nel sugo?
- No, no, grazie, non si disturbi. Se proprio non può fare altro per me…
- L’offerta della magnesia è sempre valida. No? Ci vediamo, allora. E faccia attenzione a quel cinghiale: la mia compagna è medico e dice sempre che certi sintomi non vanno trascurati. In gamba, eh!
Si tirò dietro la porta.
 
 
- Quello è il General Post Office, di cui tanto chiedevi. – le annunciò Sean, mostrandole l’edificio in pietra chiara che per un attimo le tolse il respiro.
- Que… quello è il famoso… oh, accidenti, Sean, non ci posso credere. Sean? Sean? Che diavolo stai facendo?
Lui, poco distante, ascoltava la spiegazione in inglese di una guida o forse di un insegnante di non si sapeva bene quale nazionalità. Nel nervosismo che gli aveva teso i lineamenti per un brevissimo istante e nello scintillio di smeraldo degli occhi, Fran non aveva tardato a riconoscere quello spirito inquieto e di ribellione intellettuale che doveva davvero averlo caratterizzato da ragazzo. Uno spirito che con forza di volontà ora teneva docilmente a freno, come un cavallo che, un tempo, era stato selvaggio.
- Che hai? Va tutto bene?
- Oh, sì, sì certo. È che ci resto sempre male quando mi accorgo che alcuni non conoscono la storia e stravolgono gli eventi dell’insurrezione di Pasqua, oltraggiando la memoria di quelli che vi sono caduti. Un tempo, Fran, avrei voluto fare il professore e giuravo a me stesso che non avrei mai stravolto la realtà dei fatti. Un tempo, poi le cose sono andate diversamente.
- Beh, pensiamo ad altro, prima che ti salti in mente di spaccare il muso a quel tale. – Fran sorrise, rassicurante – Posso chiederti una cosa?
- Quello che vuoi.
- Come mai tanto legame con l’insurrezione di Pasqua? Famiglia patriottica?
- Di parte materna abbastanza. Mia bisnonna Kathleen, la nonna di mia madre, era qui, nel ’16, ad occupare il Post Office assieme agli altri. Assieme all’uomo che, da quanto ne so, amava e da cui nacque mia nonna Saòirse.
- Tuo bisnonno?
- Non esattamente. – rise – Non quello che sposò, almeno, e che riconobbe la bambina. Abbiamo una storia parecchio curiosa, ma che non sarò io a raccontarti. Mia madre ti ha già prenotato per mercoledì: visita all’azienda di famiglia e aneddoti vari. Armati di pazienza e di caffeina.
- Scherzi? Io adoro i vecchi aneddoti. È solo che…
- E’ solo che?
- Che non ne ho il diritto. – si strinse nelle spalle – Che lo meriterebbe la tua fidanzata, non io.
- Cara, dove la trovo un’altra con questa pazienza? Vieni, su, c’è un’ultima cosa che dobbiamo vedere prima di ripartire.
- Sean, ma non perderemo il treno?
- Prenderemo quello dopo. Il Liffey al tramonto non lo possiamo proprio perdere.
Camminarono incontro al rosseggiare del tramonto, verso il sole che sprofondava nel fiume.
Lentamente, senza quasi che se ne accorgessero, la mano di Fran scivolò lungo il braccio di lui, fino a sfiorargli le dita. Intenerito da quel timido contatto, Sean non potè fare altro che stringerla nella propria.
- Scusami. – fece lei in un sussurro – Volevo solo ringraziarti per questa giornata, per quello che stai facendo per me.
- Fran, ma io non sto facendo nulla.
- No, al contrario. Non sai quanto mi faccia bene essere lontana da casa, da lui, adesso. Sto bene in tua compagnia, Sean, davvero.
- Mai bene come ci sto io con te. Erin getterà i presupposti per una nostra buona amicizia?
- Sono certa di sì. Anzi, credo ci siano già.
Le strinse la mano appena un po’ più forte, ignorando il lieve imbarazzo di lei: - Qui in Irlanda, mo chara *, tutto è possibile.
 
 
Già, qui davvero è tutto possibile. Sorrise Francesca, con lo sguardo che correva libero nei prati verdi che si stavano lasciando alle spalle. Il treno la portava via veloce da Dublino, da quella incantevole giornata in cui Enrico le era sembrato più lontano del Liffey, di cui ormai si intravedeva solo l’ultima ansa. Lontano, distante, fisicamente e nel pensiero, anche in quel momento, mentre scriveva le ultime note e impressioni sul taccuino. Lontano, perché finalmente, con Sean non aveva avuto bisogno di nascondersi, di fingere, ritrovando l’intesa e la complicità che fin da ragazza aveva riservato solo a Enrico, centro, fulcro delle sue amicizie, di ogni suo interesse.
Una buona amicizia, già. Non è difficile nemmeno andare d’accordo con te, Sean.
Lo guardò di sottecchi, addormentato sul sedile a fianco. Con gesto quasi materno, gli aggiustò quella ciocca ribelle che scendeva sulla fronte, ostinata.
Rise fra sé, ripensando a quella frase sulle nuvole. Incredibile che qualcuno continuasse a nutrire – per gioco o veramente – quella sua stessa strampalata convinzione. Quello stesso qualcuno che aveva ascoltato senza schernirla le sue riflessioni sui suoi ragazzi, sulla scrittura, su troppe cose per le quali non si era mai sentita sufficientemente compresa.
Quel qualcuno che, ora, dormiva placidamente cullato dal rumore del treno. Sean, di cui – a suo dire – per prima era riuscita a raggiungere i moti più segreti dell’animo.
Scrollò la testa all’idea che avrebbe davvero potuto mettersi a discutere con quel tale che sbagliava, forse volutamente, a riportare i fatti dell’insurrezione di Pasqua.
Eh, no, Sean O’Brien, in te c’è davvero tanta più complessità, tanta più poesia e forse anche follia di quanta non credevo possibile. No, non sei il tranquillo, quasi monotono, gestore del “Joyce” che pensavo. O, forse, ero talmente concentrata su Enrico, sul suo egocentrismo, da perdere di vista il mondo meraviglioso che c’è in ogni persona? Sì, dev’essere così. Dev’essere stato per paura di accorgermi della chimera di cui sono innamorata. Perché lo amo, Enrico. Già, lo amo. Ma sono felice, davvero, di potermi ricredere su di te, sul mondo. Mi sembra quasi di non aver vissuto, respirato, in questi anni. E il merito credo sia tuo, Sean. E di Erin.
Forse a Padova tornerà una Francesca diversa: ma Enrico sarà disposto ad amarla ancora, questa nuova me? È giusto cambiare, ma come costa… che confusione, Fran, come sempre.
Si assestò meglio sul sedile, sperando di dormire fino a Galway. Morfeo cominciava ad esigere il suo tributo e a chiamarla con insistenza tra le sue braccia.
Che casino! Comincio a non capirci più niente. Borbottò tra sé, con un occhio aperto e uno chiuso.
Vacca miseria!

 
 
* mo chara: amica mia

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Capitolo 10
*** Cap. 9 - Un giro di Reel ed uno di Guinness ***


Mie carissime,
 
non so proprio come scusarmi per questo terribile ritardo: forse in gaelico, in ostrogoto o in longobardo potrebbe servire a qualcosa? Anche farvi l’elenco dei motivi che mi hanno tenuto lontano da voi per tanti giorni servirebbe ben a poco, ad ogni modo fra esami, noie varie, impegni, altre storie che attendevano un aggiornamento da secoli gridando vendetta, davvero ho fatto il possibile. Mettiamoci pure che Milady Ispirazione,la mia Musa che dir si voglia, va e viene come vuole, offesa per essere stata trascurata, capricciosa come poche. Ora che si è fatta viva, sfruttiamo l’onda, prima che riparta ^^
Vi ringrazio tutte, una per una, mie care, anche per la pazienza.
E se non ci sono modi per farmi perdonare, forse l’unico è lasciarvi al capitolo quanto prima, dileguandomi senza tante parole.
Buona lettura, un bacione!!!
Sempre vostra,
 

Marguerite
 

Imprevisti d'amore
Editor fotografico online

 
 Un sorso di birra per le verdi brughiere
e un altro ai mocciosi coperti di fango,
e un brindisi anche agli gnomi a alle fate,

ai folletti che corrono sulle tue strade
( Modena City Ramblers, In un giorno di pioggia)

     
   
Capitolo 9: Un giro di Reel e uno di Guinness
 
 
Francesca, il lunedì mattina si era alzata presto dopo una notte praticamente insonne. Si era detta, con una scrollata di spalle, che almeno avrebbe preparato la colazione per tutti, nel tentativo di ripagare l’affettuosa ospitalità rendendosi utile.
Un’occhiata a Sean, che dormiva tranquillo, le fece tendere le labbra in un sorriso più affettuoso di quanto non avrebbe creduto, o voluto.
Era andato tutto così bene, il giorno avanti, così maledettamente bene, troppo per due che si vedevano da quasi tre anni soltanto al “Joyce” qualche sera a settimana.
E, per carità, non che le fosse impedito da nessuno prendersi un po’ di confidenza con lui, passare del tempo a conoscersi, solo che non vi era abituata.
Forse, per troppo tempo, la sua vita aveva davvero ruotato soltanto attorno ad Enrico.
O, forse, c’era qualcosa in Sean, qualcosa di adorabilmente attraente, che Fran non sapeva come gestire. Qualcosa che, all’improvviso, nell’assurdo, breve spazio di qualche settimana – da quella cena a tre – aveva demolito buona parte delle sue certezze. E dire che aveva sempre creduto di non desiderare troppe certezze, se si esclude il leprechaun che fischia e la questione del whisky e del burro, s’intende. Ma, probabilmente, si era sempre illusa di poter vivere alla giornata molto più di quanto non avesse continuato a fare, finendo per non catalogare come certezze quelle che, a conti fatti, invece lo erano.
Scrollò la testa, togliendo il bollitore dal fuoco. Era inutile stare a fare troppi intellettualismi e troppi giri di parole: la verità era che con Sean ci stava bene, forse non era mai stata tanto bene in compagnia di un uomo da molto prima di lasciarsi con Enrico. Ma da lì a dire che prima o poi ci avrebbe perduto testa, sonno e appetito, doveva passarne di acqua sotto i ponti, no?
No? Attese la risposta da parte di chissà chi, mentre la superficie ambrata del te nella tazza la occhieggiava con insistenza.
E va bene, poteva anche ammettere che cominciava ad attrarla, forse. A piacerle, un po’. E sottolineò nella sua testa quel “un po’” prima che il cuore cominciasse a farsi viaggi intercontinentali nella vaga speranza di non si sa bene cosa. Ma da piacere a innamorarsi c’è il suo bel cavolo di differenza.
Poi ci sono tanti motivi per cui una persona ti può piacere: può essere un buon amico, un simpatico conversatore, un valido aiuto… un valido aiuto, mica è un idraulico! Ah, Fran, Fran, ricordati che c’è Enrico. Ricordati che state mettendo in piedi una finzione e che tra nemmeno una settimana tutto questo sarà finito e ti aspetterà a casa un bel matrimonio, autentico, questa volta. Il tuo matrimonio, nonostante quel orribile e pacchiano zaffiro montato su un’impalcatura degna del Gattopardo, che sarà il tuo anello di fidanzamento.
Lo sguardo le cadde sul claddagh di latta per turisti che portava al dito. No, no, no: hai proprio sbagliato i tuoi calcoli, Fran.
Lui è tornato, dopo due anni e mezzo, sconfitto, con la coda tra le gambe e tu non vuoi nemmeno prenderti la soddisfazione di vedere che la tua attesa è servita a qualcosa? Sì, certo, ma le soddisfazioni non possono portare a compiere scelte tanto drastiche e permanenti come un matrimonio. Eppure lo amo, Enrico, non ho mai smesso di farlo. Lo amo da sempre e non è giusto, adesso, mollare tutto, tutti quelli che sono stati i miei sogni fin da quando ero adolescente per … per cosa poi? Nulla: una lieve, leggera e passeggera tenerezza per un uomo di cui, in fin dei conti, conosco poco e nulla.
Mescolò il tè, con minuziosa attenzione.
Passerà, come sono passati tutti gli altri e resterà Enrico, come sempre, lui soltanto.
Passerà, spero. Ma sì, cosa vado a pensare? Fantasie mattutine su Sean, ci mancava solo questo.
Sei in confusione, ragazza, è normale. Ma una volta a casa tornerà tutto come prima. Lascia solo passare il tempo e nemmeno ti ricorderai di questi pensieri: cerca di goderti la vacanza senza troppe paranoie, per una buona volta. Te lo meriti.
- Che fai, Fran? Parli da sola? – Sean era comparso alle sue spalle, ravviandosi i capelli con aria pigra.
- No, col tè.
- Questo non è che sia meno grave. – commentò a mezza voce, prendendosi una tazza – Seriamente, Fran, qualcosa non va?
- Oh, no, va tutto benone.
- Guardami – le ordinò dolcemente, posandole due dita sotto il mento e costringendola ad incontrare i suoi occhi – Non è che questa situazione ti pesa? Fran, se fingere ti costa anche soltanto un po’, non ti fare scrupolo a dirmelo e io mando all’aria tutto, ok?
Annuì: - No, nessun problema, Sean. Ti ringrazio.
- Sarà: e io che speravo che la mia vicinanza ti avesse messo in testa qualche dubbio… - rise, rendendosi conto di starla ancora sfiorando e senza nessuna intenzione di togliere la mano.
- Ma tu sei tutto matto, mo chara. – rise anche lei, per scacciare i pensieri.
- Ops! Scusate, non ho interrotto qualcosa vero? – la voce di Sinead riempì la cucina.
- Sì, Sinead, gli hai rotto le scatole, ma non te lo diranno mai perché sono troppo gentili. – la prese in giro Mik, arrivato troppo tardi per trattenerla.
- No, niente: stavamo, cioè …Fran ha preparato la colazione.
Francesca trattenne per un attimo la mano all’altezza delle proprie labbra, baciandogliela in un gesto un po’ retrò. Effettivamente prima o poi i due cognati si sarebbero chiesti perché non era mai capitato di sorprenderli in atteggiamenti più che amichevoli e, in qualche modo, dovevano pur prevenire gli eventuali dubbi. Ma quella era stata un’avventatezza talmente improvvisa da far quasi avvampare entrambi. Sean cercò di darsi un contegno, appoggiando quella stessa mano sulla spalla di lei, con noncuranza.
- Eh, no, cercate di non mangiare troppo, stamattina! – strano a dirsi, per una come Sinead.
- Dieta prematrimoniale? – sorrise Francesca.
- No: lezione di ballo tradizionale.  – Mik mostrò con orgoglio le scarpe – Coraggio, ragazzi, solo un paio di passi base tanto per aprire le danze, non dobbiamo mica diventare professionisti.
- Vorrei ben vedere. Ma dobbiamo farci vedere da tutta una classe di ballo?
- No, no, tranquilla, Fran: è un mio vecchio amico che ci farà lezione. Saremo solo noi quattro. Forza, ci aspettano un bel po’ di giri di Reel. Andiamo!
 
 
- No, no, no! Non ci siamo! – e meno male che l’insegnante di danza doveva essere un vecchio amico di Sinead, altrimenti anziché riprenderli ad ogni passo avrebbe usato anche la frusta.
- Sinead, imbranata eri e imbranata sei rimasto. E tu cosa diavolo fai? Non stai conducendo una carriola, ma una dama, una delicata dama. Quello ti sembra il modo di tenerla?
- Senti, tu mi hai detto: prendila sotto braccio e io l’ho presa sottobraccio. Cos’altro devo fare?
- Avere grazia. Il ballo è grazia, eleganza, poesia. – stoppò la musica con aria rassegnata – Questo passo, il promenade, è fondamentale per avanzare. Ma dovete avanzare in quattro tempi, non come cavolo vi pare e con la grazia di due cammelli nel deserto! – riavviò la musica, nella speranza che qualcosa avessero capito. Attese l’esecuzione dei suoi ballerini, lasciando cadere le braccia lungo i fianchi: - Va bene, va bene, facciamo finta che abbiate imparato i passi base. Avanti voi: spero ve la caviate meglio di questi due scellerati. Ma siete sicuri di essere irlandesi, voialtri?
- Oh, non contate su di me, non scorre una sola goccia di sangue irlandese nelle mie vene. – Fran rise, ricordandosi di sua madre che tentava di insegnarle i passi del liscio, credendo che prima o poi sarebbe andata in qualche balera col fidanzato a farsi un paio di giri di mazurca. Peccato che Enrico non amasse ballare, perché tutto sommato lei non era nemmeno un tronco di legno.
- Ma tu figlia mia ti vuoi proprio male! Cosa salta in testa a un’italiana di imparare le danze tradizionali?
- Cosa vuoi, mi hanno obbligata…
- Benissimo. Uno di fronte all’altra e passo fondamentale: lo step. Il tallone schiaccia l’altro tallone. Piede destro avanti. Molto bene, Sean. Ma tu hai già ballato?
- Mai mosso un passo in vita mia.
- Allora è stile, a differenza di tuo fratello. Anche tu, cara, non sei malaccio. Adesso il passo laterale: side step. No, non trascinate i piedi. Movimenti fluidi, mi raccomando.
Dopo un’ora buona di esercizio, il maestro di ballo, ormai sconfitto in tutti i suoi buoni propositi di ottenere un’esecuzione perfetta, decise che forse era ora di mettere insieme una coreografia, se al matrimonio non volevano esibirsi solo in una sfilza di step e side step ben poco significativi.
Da quanto Fran aveva capito, si trattava di un Virginia Reel. Ma in qualunque modo si chiamasse ringraziò più volte nella sua testa la tradizione irlandese che portava i ballerini a sfiorarsi appena e a mantenere una certa distanza tra i corpi. In caso contrario, temeva si sarebbe notato che fra lei e Sean non c’era mai stato nessun altro contatto tranne una passeggiata sottobraccio per Dublino.
- Uomini da un lato, donne dall’altro. Signori, i saluti. Molto bene, tre passi avanti col piede destro. Battete i piedi sul posto e tre passi indietro col sinistro. – il maestro teneva il tempo battendo le mani, mentre dava loro le indicazioni – Giro di mano destra: lasciate e tornate a posto. Giro di mano sinistra: lasciate e tornate a posto. Giro con entrambe le mani…
- Lasciate e tornate a posto. – le disse Sean sottovoce, facendola ridere per quella monotona cantilena.
- Concentrazione, gente! Ora il Dos –à – dos: dovete sfiorarvi, prima di spalla destra poi di spalla sinistra e poi cavalcata, su, su, veloci.
Fran e Sinead si lasciarono scivolare sulla panca, alla fine del reel. Tutti e quattro si guardarono ridendo per l’improponibile performance a cui dovevano aver dato vita.
Il telefono della scuola trillò, sovrastando la musica di un lento partito per sbaglio.
- Beh, passatevi il tempo, mentre io vado a rispondere.
- Per carità: a me fanno già male i piedi, quindi cara la mia Sinead...
- La verità è che non sei affatto sentimentale, Mik.
- Mi concederesti questo ballo? – Sean sorrise a Francesca tendendole la mano con galanteria.
- Volentieri. – era rimasta un attimo interdetta, prima di ricordarsi di dover accettare. Ma ciò che era strano è che non aveva pensato di dover accettare, ma di voler accettare.
Sean, sempre sorridendo accomodante, si affrettò ad aggiungere in un sussurro: - Dobbiamo fare qualcosa di romantico, non trovi, dopo quella freddissima quadriglia.
Le passò una mano dietro la schiena; Fran si meravigliò di quanto il suo tocco fosse tiepido e piacevolmente saldo, mentre posava la propria sulla sua spalla. Da quanto tempo non ballava un lento? Forse dai tempi memorabili del liceo.
- Era un reel – lo corresse lei, tanto per rompere un po’ quella strana atmosfera.
- Come? – fece lui, distratto dall’odore buono, familiare dei capelli di Fran.
- Il ballo, era un reel.
- Sì, non sia mai che li confondiamo. Fran, scusa per stamattina.
- Per cosa?
- Per averti detto che la mia vicinanza poteva farti sorgere strani dubbi. Non lo pensavo, sai, stavo solo scherzando, per sdrammatizzare.
- Oh, figurati. Poi anch’io devo chiederti scusa per averti baciato a tradimento.
- Era una cosa innocente, Fran. – la rassicurò, prima di appoggiare la guancia alla sua tempia, con un affetto appena un po’troppo sincero per uno che stava fingendo.
Evitò di concentrarsi troppo su suo fratello che esultava alzando i pollici, come fossero stati adolescenti alla festa di fine anno. In effetti, si stavano comportando come due ragazzini, senza sapere bene come gestire quella situazione. È impegnata, si ripeté Sean, cioè, lo sarà molto presto.
Non hai alcun diritto di sconvolgerle la vita, accidenti.
Fran trattenne il respiro, sentendo il viso di lui tanto vicino, poi decise che forse sarebbe stato meglio rilassarsi.
- Ti sto mettendo in imbarazzo?
- No, Sean, no… sto benissimo. – confessò in un soffio, stringendosi appena un po’ di più tra le sue braccia. Chiuse gli occhi: la musica raccontava di un mondo perduto dietro una parete di magia e fango invernale, un mondo fatto di verdi brughiere, profumo di pioggia e lontani suoni di cetra, non troppo dissimile da quello che la circondava.
Si sentì a casa, come se quel detto, secondo cui esiste una patria del sangue e una del cuore, fosse vero e tremò all’idea che fosse merito di Sean, del suo abbraccio caldo, dello stordimento dovuto al reel e al suo profumo di vento dell’ovest.
Con Enrico non si era mai sentita a casa nemmeno quando lo era; al contrario, egli non aveva fatto che acuire il suo spirito di nomade, facendole desiderare troppe volte di prendere il primo treno senza nemmeno sapere la destinazione.
La presa di Sean si era allentata, la musica era finita e non c’era più ragione per stare ancora stretta a lui. Approfittò degli ultimi istanti, prima di incontrare lo sguardo intenerito di Sinead.
Era meglio riprendere gli esercizi di danza, prima che i pensieri ritornassero a farsi troppo confusi.
 
 
- Ehi vecchia mia, come vanno le cose nella verde Erin? – Emma si era decisa a telefonarle, visto che Fran sembrava essere troppo impegnata per farlo lei – Evidentemente troppo bene, dato che nemmeno ti degni di farti viva.
- Bene, va tutto bene, grazie.
- Cosa significa: “va tutto bene, grazie”? Non stai compilando un modulo per un’agenzia turistica. Senti, puoi parlare liberamente o c’è gente in giro?
- No, sono libera, sono nella nostra… cioè nella mia camera.
- Aspetta un attimo: hai detto nostra? No, no, no: fammi capire! Tu hai detto nostra? Dividi la camera con Sean, allora? Complimenti, vecchia ragazza, lo sapevo che non potevi essere tanto scellerata da lasciarti scappare l’occasione! – un paio di squittii gioiosi le perforarono il timpano anche a chilometri di distanza.
- Emma, che viaggi ti stai facendo? Io volevo dire che siamo obbligati a dividere la stessa stanza, non che siamo insieme.
- Ah… - la delusione si era fatta palpabile – E io che credevo fosse arrivato il momento buono di liberarti di John Wayne.
- E chi è adesso John Wayne?
- Il tuo amico – sono – figo – solo – io. L’ho incontrato, sai, mentre andavo ad innaffiare il tuo cavolo di ficus benjamin. Era lì coi suoi guanti bianchi, il suo completo di lino blu a tirarsela e a fare la pista a me per carpirmi informazioni su tuo conto.
- Vorrei sperare che tu abbia retto il gioco.
- Non è neanche da chiedere! Avresti dovuto vedere la sua faccia. Sue testuali parole: soffriva come uno a cui è rimasto un cinghiale sullo stomaco. Nemmeno la magnesia è servita a dargli sollievo.
- Non scherzare, Emma. A me dispiace, un po’.
- Ti dispiace? Un calcio nel sedere dovevi dargli, altrochè! Quello soffre per essere stato messo da parte, credi a me, mica perché tiene a te. Oddio, un pochino ci terrà, non dico di no, ma sempre meno che a se stesso.
- Non sarò stata un po’stronza?
- Macchè! Ha la pelle dura, quello! Che c’è, Fran? Sei pentita di essere partita? Eri tanto soddisfatta della tua vendetta, prima… Non ti starai facendo degli scrupoli per uno così, vero?
Francesca prese un lungo respiro: - No, non è come credi. Si tratta di Sean.
- Ah ah… Hai perso la testa? Lo sapevo, io! Lo sa-pe-vo! Sarebbe anche ora.
- Perso la testa è una parola grossa. Diciamo che mi sento un po’strana, quando c’è lui, come se… come se mi…
- Stessi innamorando? Guarda che i sintomi sono inequivocabili: Giulia non sbaglierebbe una diagnosi, se tutte le malattie fossero così chiare da individuare.
- Giulia non sbaglia una diagnosi comunque.
- Piantala di tergiversare! Strana, hai detto? Strana quanto? Da saltargli addosso su due piedi o…
- Emma! – la richiamò, fingendosi scandalizzata – Strana, non lo so come. Come se avessi trovato il mio posto, la mia casa e non volessi andarmene da qui. E dire che non è molto diverso che da noi.
- No, tranquilla: solo qualche leprechaun di troppo.
- Voglio dire: una famiglia amorevole ce l’ho anch’io, la pioggia e la nebbia pure, e allora cosa c’è di più qui, che mi fa sentire meglio che a Padova?
- Fammi indovinare? Sean e tutto quello che gli ruota attorno?
- Ma Sean c’è anche a Padova, possibile che non l’abbia mai notato prima?
- L’amour est enfant de Bohème il n’a jamais, jamais connu de loi…* - canticchiò l’aria della Carmen in un pessimo francese
- Se lo dici tu… a me sembra di essere in un gran casino, Emma.
 – Forse non eri pronta, forse non ci hai mai fatto caso. Forse lì c’è la sua infanzia, tutto quello che lui è stato prima di partire.
- Cosa c’entra questo?
- Mah, io sono un’arida donna dei numeri, l’artista sei tu: quindi conoscerai un poeta che diceva che quando ci si innamora lo si capisce perché si sarebbe voluto vivere l’infanzia dell’altro.
- Neruda? Già, Neruda… - sospirò pesantemente – Il fatto è che io amo Enrico. Credo di amare Enrico.
- Lo ami?
- Ecco, appunto, lo amo?
- Brutto segno, quando si comincia a chiederselo. Se si ama non passa nemmeno per la testa di domandarselo, sai.
- Ma non è vero! Avanti, sono frasi da cioccolatini. Sii razionale: è giusto che me lo chieda. Sì, io amo Enrico Sacrati: l’ho aspettato per quasi tre anni e adesso che è tornato, vacca miseria, me lo sposo!
- Brava! Cioè, no, non sei brava per niente, ma l’importante è essere convinti e prendere con sicurezza la propria decisione. Io, se vuoi un consiglio spassionato, preferisco sempre Sean.
- Sì, ma sono io che ci dovrò convivere da qui all’eternità, fin che morte non ci separi.
Fran, io spero solo che tu ti sia scolata almeno dieci pinte di Guinness, mentre mi dici queste cose.
Stava per risponderle qualcosa di questo tipo e invece si limitò ad un semplice: pensaci bene.
Pensaci bene, sorrise Fran chiudendo la comunicazione, è una parola per lei, non deve mica dividere il letto lei con Sean.
“Strana, quanto? Da saltargli addosso su due piedi?” ma come le venivano in mente certe cose?
Sean era entrato nella stanza senza nemmeno bussare: tre giorni che convivevano e già si prendevano di queste libertà. Non che le dispiacesse, beninteso.
Lo guardò qualche istante prepararsi per la notte. Da saltargli addosso su due piedi, per il momento no, non sono il tipo. Rise fra sé. Da dormire tra le sue braccia, ecco, forse sì.
Ma via, Fran, cosa accidenti vai a pensare?
 
 
Il martedì mattina era scivolato via pigramente, tra una colazione in tarda mattinata, la solita visita del wedding planner e i mille impegni che circondano la preparazione di un matrimonio, che sia intimo o in grande stile.
Il pomeriggio, invece, aveva piovuto insistentemente fino dal mezzogiorno. Del resto, era strano che Erin non avesse ancora dato loro la sua umida accoglienza dopo tutti quei giorni dal loro arrivo.
Pioggia o no, Michael e Sinead avevano dovuto lasciarli soli per sbrigare, Fran non aveva capito bene quale faccenda, alla distilleria, prima di partire per il viaggio di nozze.
Lei era andata a riposarsi un po’, dopo pranzo, finendo poi per addormentarsi un paio d’ore cullata dal rumore dell’acqua sui vetri e dal cielo plumbeo che aveva avvolto la Galway Bay di mille striature di grigio. Forse aveva fatto male a dormire, pensò nel tentare di sistemarsi, adesso si sentiva la testa piuttosto pesante, non vi era più abituata.
E Sean, nel frattempo, dove si era cacciato? Si chiese, riaprendo le imposte. Aveva smesso di piovere e adesso i resti di un arcobaleno attraversavano un cielo terso tendente al verde, o forse era solo il riflesso dei campi attorno che vi si specchiavano.
- Sean? – provò a chiamare.
- Sono di qua, in biblioteca.
Cercò di seguire la voce, arrivando in una stanza angusta e male illuminata da una lampada a piantana, con le pareti coperte da scaffali zeppi di libri. Qualcosa le diceva che ancora non era stata sistemata a dovere, ma il caos che ne risultava era piacevole. Intellettualmente stimolante, si disse, ridendo poi di quella definizione.
Lui se ne stava raggomitolato su una poltrona di pelle dallo schienale alto, con un libro sulle ginocchia, gli occhiali sul naso e un altro paio di volumi ai suoi piedi.
- Che stai facendo qui?
- Leggo: è una biblioteca. – rispose come fosse stata la cosa più ovvia del mondo – Tu sei sparita e così dovevo pure passarmi il tempo.
- Ho dormito, credo. – cercò di aggiustarsi i capelli.
- Beh, lo credo anch’io. Sono le cinque e mezzo.
- Ecco perché mi sento completamente rincitrullita. Posso restare qui con te oppure…
- No, non dirlo nemmeno: tu non disturbi, Fran.
Francesca si sedette sul pavimento, ai suoi piedi, in mezzo ai libri.
Sean rimase a guardare per un attimo come tutto in lei sembrasse un elogio alle piccole cose, ai piaceri semplici.
- Non vuoi una sedia?
- Non importa, fosse per me, me ne starei sempre seduta sui tappeti e senza scarpe.
- Con l’umidità che c’è da queste parti, temo non potresti farlo spesso. – rifletté un momento prima di aggiungere: -Come vanno le cose, a casa? Con Enrico, intendo. Sempre se posso chiederlo.
Lei prese a tormentarsi le mani: - Emma ha detto che è fuori di sé dalla gelosia, che soffre credendosi stato rimpiazzato. Più ci penso più lo trovo diverso, come se fosse cambiato. Come se non fosse più l’amico d’infanzia, il compagno, il confidente che amavo. O forse sono io ad essere cambiata, non so. Ho tanta confusione in testa.
- Spero non dovuta al fatto di essere qui.
- Qui o a Padova, i dubbi li avrei avuti comunque. Anzi, qui sto meglio. Si dice che si fugge sempre con se stessi, ma a volte prendere il primo volo per chissà dove può aiutare anche a ritrovarti.
No, non è per causa tua, Sean. – mentì per rassicurarlo o per rassicurarsi. Poi, appoggiato il braccio alle ginocchia di lui: - E’ che non so se accettare o meno quella proposta.
È per orgoglio che non ho voluto che sapesse quanto l’ho aspettato e sarà per orgoglio che lo sposerò, temo. Per dimostrare a me stessa che alla fine ce l’ho fatta, che ho avuto l’uomo impossibile, quello che tutte hanno sempre corteggiato e che io sognavo fin da ragazzina.
- Francesca, non ci si sposa per orgoglio.
- Non solo per quello. Lo ammetto: lo amo, anche.
- Anche? L’amore dev’essere la causa primaria. Ti rendi conto che è la tua vita quella che stai per legare a lui per gli anni a venire?
- Lo so, hai perfettamente ragione. Comincio a non capirci più nulla…
- Eri così convinta, prima. Torno e lo sposo, hai detto. Ma dammi retta, Fran: qualunque cosa sia sopravvenuta a insinuarti il dubbio, mi sembra un segnale più che chiaro. Io non la sottovaluterei.
Ti ha già fatto soffrire abbastanza in questi anni. Io voglio solo che tu non sia infelice: comincio ad avere dell’affetto per te. È un consiglio che darei a mia sorella, alla mia migliore amica, a Sinead se non avesse trovato mio fratello.
- Sei molto caro, Sean. – appoggiò la testa sulle sue ginocchia – Ma se non fossi pronta a riaccoglierlo, che senso avrebbe avuto l’attesa? Perché l’avrei aspettato?
- Non sempre c’è una spiegazione a tutto. La maggior parte delle volte è esattamente il contrario. – le passò la mano tra i capelli, affettuosamente – Magari hai atteso un’immagine troppo idealizzata e perfetta di lui e non quello che era davvero. Voglio dire, negli anni che l’hai atteso hai  smontato e rimontato il copione della vostra vita insieme più secondo quello che avresti voluto fosse il suo ritorno che secondo la realtà.
- Se fosse così avrei gettato quasi tre anni al vento. E mi sentirei stupida.
- Che spesso non si riesca a dare spiegazione alle cose è vero, ma ciò non significa che accadono senza una ragione.
- Cosa vuoi dire? Non credo alla sorte, Sean.
- Non intendevo quello – mentì, pensando che forse davvero era stato il caso a portarla da lui – Dicevo semplicemente che magari tutto serve.
- Sarà…
- Dai, Fran, non fare quella faccia! Non ti ho mica fatta restare per intristirti. Anzi, invece di stare a deprimerci in questa polverosa biblioteca, preparati: ti porto a visitare il centro di Galway.
 
 
Aveva ripreso a diluviare. Sean, abituato com’era alla primavera italiana, aveva pensato bene di fidarsi del clima e lasciare a casa l’ombrello, finendo per costringere entrambi ad una corsa sotto la pioggia fino al primo pub.
- La macchina è talmente lontana. Entriamo qui?
Fran accettò di buon grado, dato che fino all’istante prima aveva cercato di ripararsi i capelli con la borsetta, con scarsi risultati.
- Ne approfitteremo per una cena e per un giro di Guinness, finalmente in loco e non nel “Joyce”. – le aveva aperto galantemente la porta del locale.
Fuori la temperatura si era notevolmente abbassata, ma all’interno un caldo odore di quiete, di buono e di cibo ben condito, misto a quello della Guinness, l’aveva piacevolmente abbracciata.
Sean scostò per lei uno degli sgabelli al bancone, prima di sedersi nel posto accanto.
La serata trascorse in modo più che gradevole, fra chiacchiere, birra e la musica di una band amatoriale. C’era fra loro un tacito accordo di non riparlare di Enrico, in quelle ore che erano assieme, infatti risero, rasserenati reciprocamente dal loro buon umore, cullati dal rumore dell’acquazzone che si infrangeva sulle vetrate del pub.
- Fran, brindiamo – Sean aveva alzato solennemente il boccale della Guinness.
- A cosa?
- Io direi al nostro viaggio: alla tua conoscenza con Erin e al mio ritorno.
- Alle verdi brughiere, al sole che sorge sulla baia di Galway, ai leprechaun e alle fate. – aggiunse lei accostando al suo il proprio bicchiere.
- All’amore di Mik e Sinead.
- E alla nostra amicizia, Sean.
- Sono perfettamente d’accordo con te. Allora ai due sentimenti più antichi e nobili del mondo. – con la mano libera cercò quella di Francesca, appoggiata al bancone, che sorrise dolcemente, questa volta senza imbarazzo.
- Possiamo dedicare una canzone a questa bella coppia? – aveva chiesto il musicista, fra un pezzo e l’altro. Non attese nemmeno una risposta che già nell’aria cominciarono a diffondersi le note di The ground beneath her feet . Si erano guardati sorridendo. Sean le aveva rivolto una strizzatina d’occhi accennando ad alzare il suo bicchiere, finendo poi per farle scrollare bonariamente la testa.
Avevano atteso che spiovesse, tanto che ormai si era fatta la mezzanotte passata. I clienti, lentamente, avevano deciso di sfidare il tempo, e se n’erano andati. In un angolo i musicisti smontavano gli strumenti, il gestore ripuliva i tavoli ed un anziano signore finiva in pace la sua consumazione, incurante del finimondo all’esterno.
- Fran, che facciamo? Torniamo?
- Se continua così, qui si fa mattina.
- Può dirlo davvero, figliola. – il vecchietto aveva alzato la testa dalla sua Guinness e dal giornale – Ragazzi, siete davvero una splendida coppia: mi ricordate tanto me e mia moglie quando eravamo giovani. Sapete, siamo stati tanto felici assieme, per cinquantotto anni. Siete sposati?
- No… cioè non ancora. – si corresse Sean, pensando che sarebbe stato un peccato togliergli una così bella illusione.
- E allora vi auguro di esserlo presto e di conservare per sempre la serenità che avete negli occhi stasera. E quanto a lei, giovanotto, ricordi: Is folamh, fuar teach gan bean.
- Me ne ricorderò. Buona serata.
- Che ti ha detto? – gli chiese Fran, una volta usciti.
- La casa senza una donna è fredda e vuota.
Corsero per le vie di Galway verso il parcheggio in cui era rimasta l’automobile, sotto la pioggia battente, che non accennava a smettere.
-Hai freddo, Fran? – le chiese lui. Poi, togliendosi l’impermeabile, glielo appoggiò sulle spalle, prima di prendersela accanto, contro di sé per scaldarla.
Nonostante fossero entrambi grondanti d’acqua erano felici. La pioggia scivolava sulla pelle, incollava addosso i vestiti, ma erano felici, come aveva compreso e augurato loro l’anziano signore nel pub.
Le aprì lo sportello ma, prima che potesse salire, la trattenne un istante di fronte a sé per guardarla, per guardare i suoi occhi scuri, che brillavano alla luce giallastra dei lampioni.
Passò le dita tra i suoi capelli che, bagnati, erano tornati ricci. Quei capelli che lei lisciava solo perché a Enrico piacevano così.
Desiderò baciarla, in quel momento. Sarebbe stata questione di un attimo eppoi avrebbe sentito sulle proprie le labbra morbide di Fran, che dovevano avere un sapore buono quella sera, di Guinness, di ricordi lontani e di spontanea gioia di vivere.
Ma non lo fece, per non rovinare quell’incanto, lottando razionalmente contro l’impulso.
Non posso confonderla di più.
Lei sorrise: - Ricci… - disse, tormentandosi una ciocca.
Sean fece scivolare la mano dai capelli alla guancia, asciugandogliela.
- Sei bellis… - si morse le labbra – Voglio dire, dovresti lasciarli così, sarebbero più naturali.
Ti rassomigliano di più.
Lei annuì senza aggiungere nulla.
- Andiamo adesso. – si riscosse – Altrimenti rischiamo un malanno.



* Trad. "L'amore è figlio di zingari e non ha mai conosciuto leggi" (Bizet, Carmen)

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Capitolo 11
*** Cap 10 - Aria di famiglia e odore caldo di whisky ***


Carissime!
 
Sono tornata, anche se in terribile ritardo, ma qui si avvicina la sessione estiva degli esami e la scrittura procede a rilento. Poi, conoscendomi, non vi sottoporrei mai un capitolo approssimativo e che non mi soddisfa affatto. Quindi preferisco andare con calma, piuttosto che rovinare la storia e le vostre aspettative.
Ad ogni modo, prima di questa puntata volevo fare una precisazione. Come vi sarete accorte, “Imprevisti d’amore” è una storia indipendente, pur essendo inserita in una serie. Ecco, in questo capitolo, ad un certo punto Fiona parla di sua madre e di sua nonna – protagoniste rispettivamente di una storia che non ho scritto ancora e di una che invece ha già visto la luce – ma non spaventatevi! Sono solo poche righe che ho reso comprensibili a tutte. Diciamo che è stato per un mio divertimento di inserire un racconto nel racconto e per chiudere un cerchio di mie storie. Nient’altro. Ora mi dileguo e mi scuso per il ritardo e se in questo fine settimana forse non sarò presente a rispondervi. Vado in gita a Padova, la città d’adozione di Fran e Sean, quando si dice coincidenza, eh? ^.^
Mando un grazie di cuore, soprattutto per la pazienza, a tutte voi, una per una!!!
Un bacione, sempre vostra
 
Marguerite
 
P.S. @ Piemme: Carissima, questo capitolo è soprattutto per te! Indovinerai mai di chi è pronipote il nostro Sean?



 Imprevisti d'amore



Quella foto, in cui tu
sorridevi e non guardavi
(F. De Gregori, Rimmel)


 

 


Capitolo 10: Aria di famiglia e odore caldo di whisky
 
 
Il mattino del mercoledì, nella sua alba tinta di un sereno viola, non portava alcun segno del temporale della sera precedente. L’unica tempesta che invece persisteva era quella che continuava ad agitarsi nel cuore del povero Sean.
Ieri sera sono stato sul punto di rovinare tutto. Sbuffò nervosamente, mettendosi a sedere sul letto.
Non era il tipo d’uomo che si ostinava a non perdere mai il controllo ma, conoscendo la propria impulsività, sapeva bene di doverla tenere a bada, soprattutto le rare volte che riusciva a intravedere le conseguenze dietro a un improvviso eccesso di istinto.
Perché l’istinto, se non si fosse messo a fare a pugni con la ragione, davvero l’avrebbe spinto a stringere Fran tra le braccia e baciarla. Non riusciva ad ignorare il brivido caldo che l’aveva percorso mentre la teneva accanto a sé per ripararla dalla pioggia e cominciava a non essergli più nemmeno indifferente il fatto che lei dormisse al suo fianco nello stesso letto.
Basterebbe solo allungare appena la mano e potrei carezzarla. Fece per compiere il gesto, trattenendosi immediatamente. È così vicina, così vicina…
Oh, tutto questo è semplicemente assurdo, Sean! Si mise a fare il calcolo dei giorni che avrebbero ancora dovuto trascorrere a Galway: cinque!  Cinque giorni e quattro notti! Quattro notti, soprattutto: erano quelle che lo preoccupavano di più. Quattro notti per addormentarsi col respiro regolare di Fran, per sentire il suo tepore scaldare il letto e le sue mani scivolare sulle sue spalle, come ormai continuava a fare imperterrita, nel sonno.
Sì, ma davvero credi di poter dormire? Qui finisce come quei santi che dormivano assieme ad una donna con un crocifisso nel mezzo per provare la forza della loro fede. Ma io non sono mica un monaco, e che diamine!
Enrico. Si ripeté. Pensa a Indiana Jones, pensa che lei ama lui e tu non puoi assolutamente rompere l’idillio. Insomma, rompere le palle, ecco. Ma una donna come Fran assieme ad un… ad uno… beh, uno che l’ha già fatta soffrire, usata e gettata come uno straccio vecchio, ecco.
Non riesco a pensare che ci starà male ancora. E tu, Sean, come un moderno San Giorgio, vorresti arrivare a cavallo e salvare la bella principessa dal drago cattivo? Come no! Peccato che la principessa ha scelto da sola di darsi in pasto al drago. Masochista, la principessa!
Ma cosa c’entri tu? C’entro, eccome se c’entro.
Finisce per riguardarti la sorte di una che hai visto con un pigiama del genere, appena alzata, fradicia di pioggia o impegnata in un ridicolo reel. Sono cose che ti fanno sentire vicina una persona, no? Non al punto di preoccuparti se sarà felice o meno con un altro, di solito. Poi, presuntuoso di un irlandese, pensi davvero di poter essere un partito migliore per lei?
Il fatto è che mi sto innamorando di te, Fran, e non so come farmela passare. Era l’unica cosa che non doveva succedere, nel nostro accordo. A dire il vero non l’avevamo nemmeno stabilito, forse perché non era nemmeno previsto che potesse accadere.
Ah, al diavolo tutto! Imigh sa diabhal!
Si chinò su di lei, indeciso se permettersi davvero di sfiorarle la tempia con un bacio, con una carezza, almeno.
- Sean O’Brien, hai deciso se reprimere o meno i tuoi impulsi? – la voce di lei, lievemente ironica, non gli lasciò il tempo per nessuna delle due cose.
- Sei sveglia, Fran?
- Da un po’. – rispose, voltandosi per guardarlo.
- E da quando ti sei messa a spiarmi?
- Da quando tu approfitti delle leggiadre fanciulle dormienti. – scherzò.
- Dunque non ti fidi di me? – fece lui nello stesso tono.
- Neanche un po’. – gli sfiorò con l’indice la punta del naso, lasciandolo per un attimo esterrefatto.
Rimasero in silenzio, avendo qualcosa da dire ma non trovandone il coraggio.
Lo sapeva bene, Fran, quali parole dovevano pesargli sul cuore, perché per lei erano le stesse.
Sean O’Brien, non era previsto che mi innamorassi di te. Proprio io che ho sempre pensato che le cose non previste fossero le più belle, quelle che arrivano a illuminarti la vita come il sole inatteso in una giornata grigia. Invece, in questo momento, era l’unico inconveniente che non doveva arrivare. L’unico che avrebbe turbato la sua relativa quiete e quella che sarebbe dovuta essere la sua ultima vacanza di libertà, prima del matrimonio. Piuttosto insolito, come viaggio di addio al nubilato, partire con un uomo. Ma, dopotutto, non avrebbe mai creduto che Sean fosse così… così… adorabile. Ecco, non le venivano in mente altri aggettivi. Tutto in lui era assolutamente adorabile, dalla premura che le rivolgeva al suo romanticismo, dalla vivace ironia a quei suoi momenti di silenzio in cui emergeva una natura altra, ben più sensibile e profonda, di quella che aveva sempre creduto caratterizzarlo.
Vacca miseria, si disse, rigorosamente in italiano, comincia a esserci attrazione di testa e non è affatto un bene, sono le cotte peggiori da farsi passare.
Non si era sentita affascinata da un uomo da… beh, forse da quel suo collega di filosofia, solo che lì era stato molto più facile smorzare gli entusiasmi con una full immersion nel cinema muto polacco.
Con Sean, ormai ne era sicura, sarebbe stato parecchio più difficile. Si fosse trattato solo dell’indugiare un po’ troppo ad osservare i movimenti fra il pigro e il sensuale del suo corpo, forse tutto si sarebbe esaurito con una notte di passione, anche se lei non era certo il tipo.
Invece così, l’unica cosa che avrebbe dovuto fare era mantenere le distanze il più possibile e fare in modo che quella curiosa amicizia nata fin troppo in fretta, valicasse il punto di non ritorno. Poi era certa, Enrico era quello giusto, quello che valeva la pena di amare, quello che si poteva aspettare per anni con la devozione di una Penelope, mentre lui vagava in giro per il mondo ad esaurire la sua sete di conoscenza. O di fama.
C’era da dire, però, che lei non aveva avuto uno stuolo di proci ad assediarla, ma quei pochi che c’erano stati li aveva proprio scoraggiati tutti, poveretti. L’unico che stava lì, imperterrito, a proteggerla col proprio impermeabile sotto la pioggia, a sfiorarle i capelli e guardarla come se, improvvisamente, lei fosse stata la persona più importante che avesse messo piede a Galway, era proprio quello per cui lei stava cominciando a perdere il lume della ragione.
Ecco, quando si comincia a perderlo in due, quello è un bel casino.
Ma poi, Fran, chi ti assicura che lui sia interessato a te. Seriamente, almeno. Magari cerca solo l’avventura. Era cominciato il solito dialogo tra Francesca e la Professoressa Fortini, due facce della stessa medaglia che avrebbero volentieri voluto strozzarsi a vicenda.
Ma no, non sembra proprio quel genere di uomo.
Magari ti usa, ti pianta, e tu per l’avventura che dura il tempo di una vacanza avresti mandato a monte il matrimonio con l’uomo della tua vita.
E tu cosa ne sai che Enrico è l’uomo della mia vita? A conti fatti mi sembra che ultimamente arrivi solo come scusa per tenermi lontana da Sean.
Ah, Fran, ma a trent’anni non hai ancora imparato niente? Magari è solo amicizia: lui cerca di darti una mano, di nutrire per te un po’ di fraterno affetto e tu subito fraintendi, peggio delle tue studentesse!
Guardarmi come ieri sera, con quegli occhi verdi e quel suo mezzo sorriso che sarebbe da dichiarare illegale, non è darmi una mano! È incasinarmi le idee! E va bene, va bene, farò come dici: distanza, tanta distanza e distacco.
Sospirò.
- Sean, volevo dirti… ecco, volevo ringraziarti per ieri: è stata una magnifica visita a Galway.
- Figurati, l’ho fatto volentieri. Avevi un’aria così triste, in biblioteca. Stai bene, Francesca?
- Ma sì, solo un po’ di malinconia. Immagino sia normale: c’è stato del trambusto in questi giorni. Non mi aspettavo certo che tornasse così all’improvviso.
- Francesca, era vero quello che dicevi? Che lo sposeresti solo per dare un senso all’attesa?
- Ma no, cosa vai a pensare? Ci sono altri mille motivi, non è solo per quello. Stai tranquillo, non andrò a finire poi così male come pensi.
- Fran, qualunque cosa dovesse succedere, se non dovessi essere felice, sai che puoi sempre scappare al “Joyce”, che è casa tua.
Annuì: - Sì, ma non dirmelo così a tradimento: mi fai commuovere.
Prima che potesse aggiungere altro, l’abbracciò, traendola a sé. Fran si ritrovò mezza distesa su di lui e non era certo quello che avrebbe potuto definire “distanza e distacco”.
Cercò di puntellarsi coi gomiti, per non aderire completamente al corpo di Sean, ma un brivido le attraversò la schiena, quando lui le accarezzò le spalle, facendovi scorrere piano le mani.
- Sean, non credo che noi… - la sua voce era stata un soffio appena un po’ roco.
- Io non… - un trambusto di sotto lo interruppe - Credo siano arrivati i miei. Ricordi? La visita alle distillerie… ti sequestreranno per tutto il giorno.
- E tu? Non ti farai sequestrare con me?
Sean non riuscì a ignorare l’inconsapevole carica di malizia che quella frase si portava dietro.
E meno male che erano arrivati Fiona e Malachy, altrimenti, con lei nelle sue braccia, così vicina, forse non si sarebbe fermato e sarebbe riuscito a rubarle quel bacio non dato che gli bruciava ancora sulle labbra dalla sera prima.
Sarebbe stato meglio per lui, e per dare anche un po’ di pace ai suoi sensi, declinare l’invito per la visita a quella distilleria che conosceva come le sue tasche e starsene seduto a sentire della musica in biblioteca, oppure farsi un tuffo nelle acque fredde della Galway Bay, se questo poteva significare placare un po’ i bollenti spiriti.
Certo che anche Fran ci stava mettendo involontariamente del suo, continuando a starsene sdraiata tra le sue braccia e non dando il minimo segno di volersi spostare.
Ormai cominciava a leggerle negli occhi i segni del suo stesso interesse, e la cosa non era affatto un bene, dato che avrebbe solo alimentato altre fantasie, altre illusioni.
- No… io pensavo di rimanere qui, se non ti dispiace.
- Mi vuoi abbandonare? Sean O’Brien, non sei affatto un cavaliere. Io non so un accidente di whisky e cose varie, e i tuoi si domanderanno dove diavolo sei finito, no? Eppoi sì, mi dispiace.
- Francesca, noi due dobbiamo parlare.
- A proposito del whisky?
- A proposito di me. – la guardò in un modo stranamente serio.
- Certo, va… va bene. Quando vuoi. – si ricordò di essere ancora mezza sdraiata sul suo petto e che la posizione non era certo consona a due che stavano solo fingendo. Fece per scostarsi, quando lui la trattenne.
- Fran, tu cominci a non essermi più indifferente. Cioè, non che mi fossi indifferente prima. È solo che ti vedevo come un’amica, una che conoscevo, tutto qui. Dio, che casino… insomma, hai capito cosa intendo, no?
Lei annuì appena, prima o poi avrebbe dovuto prevedere un discorso di quel genere: - Ho capito. Cominci a non essermi più indifferente nemmeno tu, Sean. Ed è un problema.
- Appunto. Non posso farmi aspettative, ecco perché vorrei starti il più lontano possibile.
- Fuggire non risolve la questione. Se c’è una cosa che devo ad Enrico è aver compreso questa verità.
Beh, la fai facile, Fran: prova a dirlo al mio cuore. Avrebbe voluto risponderle e, invece: - Fran, mi dispiace, non era previsto complicare così le cose.
- Non è colpa tua, insomma, sono complicazioni che non si possono certo mettere in conto. Ecco, chi sarebbe andato a pensare che io… che tu…
- Certo che tenerti così vicina non aiuta di sicuro. – lasciò la presa.
Lei si mise a sedere sul letto, di malavoglia, poi, senza guardarlo: - Il fatto è che io non vorrei allontanarmi da te, quando ti sono vicina. Ed è un problema, Sean, un enorme problema, perché io sono impegnata.
- Tu non sei ancora impegnata, Fran.
- Il mio cuore non è mai stato libero. L’ho sempre tenuto occupato per lui.
- E se fosse un errore? Voglio dire, se adesso tu cominci ad avere… dell’interesse, per me, non credi forse che potresti non esserne più così sicura?
Francesca scrollò la testa con convinzione: - Facciamo finta di niente, Sean. È una bella amicizia, la nostra, non roviniamola adesso che è appena nata per un sentimento che forse, rientrati a casa, non sentiremo più.
- Ad ogni modo, io ti vorrò sempre bene, Fran.
Annuì: - Anch’io. E adesso preparati, non vorrai lasciarmi sola in mezzo a tutto quel whisky? Poi ti torno ubriaca fradicia… - scherzò.
 
 
Per tutto il resto della giornata, Sean non aveva potuto far altro che ripensare a quella mattina.
Ecco, stavano giocando a carte scoperte entrambi, come avevano sempre fatto da quando si erano conosciuti. Se c’era qualcosa che non si poteva imputare loro, era la mancanza di sincerità e di spontaneità nel loro rapporto.
Anzi, quasi gli veniva da sorridere, all’idea di come se l’erano confessati. Lui incasinandosi con le parole, come sempre, quando una questione gli stava a cuore. Lei con un giro di metafore, da vera scrittrice, e quella sua aria un po’smarrita e un po’ indifesa, che nascondeva invece una forza venuta chissà da dove. Perfettamente nel loro stile.
E adesso Fran era lì, al braccio di suo padre, che con la sua solita galanteria vintage, le spiegava il processo di distillazione, la composizione del legno delle botti, le percentuali di alcool e mille cose che ad un altro avrebbero fatto venire come minimo un mal di testa o un attacco improvviso di narcolessia.
Fran, invece, deliziosa in un vestitino verde petrolio a fiorellini minutissimi e bianchi, che metteva in risalto il colore dei suoi capelli, ascoltava con interesse e con quei suoi occhi grandi, spalancati sul mondo e curiosi di tutto. Gli occhi di una bambina, a conti fatti, che non ha mai perso l’entusiasmo verso le piccole cose della vita. Gli occhi di una donna, quella di cui si stava innamorando.
Sua madre, di pochi passi davanti a loro, continuava a guardare la scena compiaciuta, con un sorriso deliziosamente felice sulle labbra e le mani giunte, come stesse assistendo al miracolo di San Patrizio. Finalmente entrambi quei due scapestrati dei suoi figli si erano decisi a metter su casa con due ragazze adorabili, per renderla nonna, alla buon’ora!
Era ormai la quarta volta che Malachy raccontava a Francesca di come suo bisnonno avesse deciso di acquistare quella distilleria, quando Sean dovette trattenere uno sbadiglio. Il vecchio O’Brien teneva nell’ufficio del direttore, il suo, i ritratti degli “antenati” che lo avevano preceduto nell’azienda e adesso, con la cura meticolosa di una guida da museo, le narrava vita morte e miracoli – ammesso che ne avessero compiuti – di ognuno di loro.
- E questo era mio padre, che ha visto la seconda guerra mondiale, vi ha preso parte ed è pure tornato a prendersi il suo posto alla distilleria. Era uno con del coraggio, nonno O’Brien, vero Sean?
Ha fatto prosperare la O’Brien Distillery, più di quanto non avesse fatto suo padre e il padre di suo padre. E un giorno, non troppo lontano, quando io sarò in pensione, in giro per il mondo con la mia Fiona, il mio posto lo prenderanno Mik e Sean, vero ragazzo?
- Papà, farò in tempo ad essere io da pensione, prima che ti salti in mente di abbandonare la nave! – aveva ribattuto lui, continuando a camminare per l’ufficio e ad accarezzare con lo sguardo quegli oggetti che gli erano mancati, quei ricordi che lo accompagnavano da quando era bambino.
Anche l’odore caldo di whisky, che copriva l’intera fabbrica, era lo stesso della sua infanzia, di quando veniva a fare visita a Malachy, di quando giocava a nascondersi fra le botti assieme a suo fratello. Sì, l’aria di famiglia gli era mancata, se ne accorgeva solo adesso che vi aveva fatto ritorno.
E assieme a Fran, sembrava essersi fatta ancora più calorosa e avvolgente, quell’aria, esattamente come quel profumo.
Desiderò, all’improvviso, che quel momento potesse durare per sempre, nonostante le noiose storie della dinastia e il pensiero tediante che presto tutta la finzione sarebbe finita, che Francesca sarebbe stata sua soltanto per una settimana e non un giorno di più.
Sorrise, dolcemente, a quel misto di ricordi e fantasie, tanto da sorprendere persino sua madre, che non seguiva più da parecchio le divagazioni del marito.
- Ehi, tesoro, sei con noi? – gli sussurrò Fiona, non vista dagli altri due, tutti intenti a discutere della differenza tra il whisky scozzese e quello irlandese.
- Certo, mamma, perché?
- Perché hai una faccia più serena di quanto non mi ricordassi d’averti mai visto.
- Parli tu, che sembri una bambina davanti ai regali di Natale.
- Amore, se Fran ti fa quest’effetto, siamo a cavallo! È adorabile, Sean, più adorabile di un leprechaun! Se te la lasci scappare, anche se sei figlio mio, devo dirti proprio che hai il tatto di uno stoccafisso del Baltico. Guarda, se mi fai una cosa del genere, divento uomo e me la sposo io!
- Mamma, siamo insieme da dodici anni ormai. Siamo una coppia rodata, cosa ti viene in mente?
- Ma no, ti dico che se assaggi i due tipi, ti accorgi della differenza. Fidati! – Malachy continuava, convinto, l’esposizione della sua teoria.
- Ma io mi fido! – si arrendeva Fran – Non distinguo una Guinness da un’altra birra.
- Oh, Cielo! Bambina, ma ti rendi conto di che eresia mi stai dicendo? Ma qui ti serve un corso accelerato… altro che lezioni di ballo!
- Malachy, ma lasciala in pace, povera figlia! – lo richiamò bonariamente sua moglie -  Dopo che si è sorbita tutta la storia di questo posto, credo che le verrà la nausea a forza di sentir parlare di alcool. Tesoro, vieni con me, su. Oggi siete a pranzo da noi e non sognatevi nemmeno di rifiutare.
Andiamo a mettere in pancia qualcosa di più sostanzioso dell’odore di questa roba, su!
Ma cara, come sei bella! Non posso certo dire che non hanno avuto gusto, i miei figli!
 
 
Come Fran aveva sospettato, Fiona li aveva costretti a ingozzarsi come tacchini e, fosse stato per lei, avrebbe continuato a portare pietanze in tavola, anche se ce n’erano a sufficienza per un reggimento. Sean ringraziò il buon senso di Malachy, che gliel’aveva impedito, guardando con occhio critico le proporzioni dell’arrosto amorevolmente e abbondantemente servito nei piatti
Poi, il pomeriggio era trascorso nel salotto elegante, vagamente retrò, di casa O’Brien, con un sottofondo gradevolmente lieve di un disco in vinile che suonava al grammofono.
Francesca era rimasta conquistata dagli arredi vintage, dalle suppellettili che sapevano di antico, ma non quell’antico anonimo, acquistato dagli antiquari per ostentazione, piuttosto quello affettivo, di ricordi lontani eppure cari.
In particolare la colpì una fotografia in bianco e nero sopra un mobile, che ritraeva una donna splendida, col viso delicato di una musa, incorniciato di capelli probabilmente biondi. Aveva gli occhi più profondi che avesse mai visto. Occhi di velluto.
Nel ritratto non guardava l’obiettivo, ma sorrideva rivolta a qualcuno, fuori campo. Chissà a chi.
Era fatta così, Francesca, sapeva cogliere le sfumature dell’animo, sapeva inventare storie dal niente, constatò Sean, sorridendo intenerito, dal divano dietro di lei.
- Ti piace quella foto? – le chiese dolcemente Fiona, arrivandole alle spalle.
Lei sussultò appena, in piedi, davanti al mobile, con la cornice tra le mani: - Mi dispiace, non volevo essere invadente. È solo che questa donna… è bellissima.
- Oh, cara, questa è casa tua. Sei di famiglia, ricordatelo. – Fiona chinò appena il capo di lato – Era mia nonna. Si chiamava Kathleen O’Connor. Dicono fosse una donna coraggiosa, indipendente, oltre ad essere tanto affascinante. Fu patriota e filosofo, e scelse sempre per se stessa.
Occupò il General Post Office, nel ‘16, durante la guerra di Indipendenza. Amò due uomini contemporaneamente, che scandalo per l’epoca!
- Eppoi? Voglio dire, se non sono troppo curiosa…
- E io che credevo di starti annoiando! Aspetta un momento.
Fiona tornò dopo un attimo con una scatola di latta tra le mani, colma di fotografie, fogli e un vecchio diario.
Si mise anche lei a sedere, accanto al tavolino di vetro su cui aveva posato tutto.
- Due uomini contemporaneamente?
- Erano molto legati, mio nonno Liam e il suo amico Shannon, praticamente fratelli. In breve, combatterono per anni per la libertà dell’Irlanda, tutti e tre assieme.
Eppoi mia nonna finì per scegliere Liam, con cui fece una figlia, cioè mia madre senza essere sposati. Poi degenerò in tragedia: lui, ricercato dagli Inglesi, dovette fuggire in Messico, prese parte alla rivoluzione e vi trovò la morte. Lei, per non dare ulteriori scandali a suo padre, un famoso professore, sposò un uomo che non amava, quello che divenne formalmente mio nonno. Un matrimonio di interesse, tanto rispetto e poco amore. Nonna Kathleen continuò ad amare Liam fino a che ebbe vita, fino all’ultimo respiro.
Francesca scacciò una lacrima che stava scendendo, impertinente: - E’… è una storia davvero commovente. Triste, ma bellissima… Io non so come ringraziarla, per avermene messo al corrente, Fiona.
- Cara! Ringraziarmi? E di cosa?
- Di avermi regalato questi ricordi.
- Ecco, finisce che mi metto a piangere anch’io, per quello che mi dici. Sean, ma davvero esistono ancora ragazze così? Ma dove l’hai trovata?
- Beh, donne, non vorrete mica che vi porti anche i fazzoletti prima che sia finito il racconto. – scherzò Sean – Devi sapere, Fran, che anche mia nonna Saoirse, la figlia di Liam e Kathleen, non ebbe una vita tranquilla. Nonna Kathleen e suo marito erano alquanto benestanti e avevano una governante, come usava allora. Beh, questa signora aveva un nipote, di cui Saoirse si era perdutamente innamorata, da adolescente. Ma suo padre non voleva assolutamente che sposasse un ragazzo senza avvenire e li ostacolò in tutti i modi. Poi lui partì per l’America per cercare fortuna e Saoirse, disperata dalla sua partenza ebbe il colpo di grazia ritrovando il diario di sua madre, in cui rivelava che quello che credeva suo padre non lo era. Finì che Saoirse si imbarcò per la Spagna come infermiera volontaria durante la guerra civile. Era il 1936 e lei aveva si e no vent’anni.
- Però, che coraggio!
- Lì ebbe una relazione con un combattente spagnolo, che poi morì, non ricordo bene come.
In breve, ritornò in patria a guerra finita. Intanto mio nonno era tornato dall’America, dopo una mezza odissea, e finalmente poterono ricongiungersi.
- E nacqui io! – squittì Fiona, con un sorrisone – Certo che non è stato facile, per me, che sono sempre stata un’adolescente tranquilla e normale, convivere con due donne che avevano alle spalle una storia simile. Sono scappata da Dublino appena ho potuto e ammetto candidamente che fu perché non riuscivo a reggere il confronto. Sarei cresciuta come minimo complessata! Venni a studiare a Galway, conobbi Malachy e… siamo ancora insieme. – arrossì adorabilmente, cominciando a togliere fotografie dalla scatola di latta, per dare a Fran anche un volto a quei ricordi.
Da pomeriggio si fece sera, tra quei ricordi di famiglia, d’Irlanda e una vecchia macchina fotografica che Sean insistette per portarsi via e mostrare l’indomani a Fran cosa significasse davvero rubare immagini al mondo.
 
 
- Fran! Fran, dove sei? – quella sera, all’ora solita in cui andavano a letto, Sean non era riuscito a trovarla nella loro stanza.
- Fran? – si affacciò sulla soglia della biblioteca, ma era vuota – Ma dove diavolo si è cacciata?
Un’ombra intravista attraverso la portafinestra del balcone della biblioteca, gli suggerì dove poteva essere.
Francesca, con le braccia incrociate sulla ringhiera di marmo, guardava lontano la luna specchiarsi nella baia, fin dove riusciva a spingersi con lo sguardo nel buio.
Lui le mise affettuosamente un braccio attorno alle spalle: - Fran, ma cosa fai qui da sola? Prendi freddo, vieni dentro.
Notò la lacrima che le rigava il viso e gliela asciugò prontamente con la punta delle dita: - Cos’hai, tesoro? – era la prima volta che non aveva messo forzature in quella parola.
- Sean, ho sbagliato a venire qui…
- Ma che dici? Va tutto benissimo.
- Benissimo? Sto ingannando tutti! Sinead e Michael, che mi hanno accolto come una vecchia amica. Tuo padre, con la sua antica cavalleria, che mi tratta da figlia. Tua madre che mi ha regalato in due ore tutta la sua vita, tutto il suo passato, pur non avendomi mai vista prima. Io mi sento davvero odiosa per questo. Stiamo fingendo con loro, per cosa, poi? – aveva la voce alterata e spezzata di pianto.
- Fran, abbassa la voce! Vuoi che ci sentano?
- E che ci sentano, almeno smetterei di comportarmi così! Scusami, Sean, avevamo detto niente domande e niente coinvolgimenti. Scusami.
- Fran, cosa diavolo è successo per farti vedere le cose in questo modo?
- Ma non lo so… forse quello che mi ha raccontato Fiona. Mi ha fatto sentire parte della famiglia anche se non ho nessun titolo per esserlo. Mi ha fatto scattare qualcosa dentro. E anche la questione di stamattina, mi ha messo in confusione…
- Confusione, eh? Sapessi quanta ne ho in testa io. Non è che mia madre è solo una scusa? – appoggiò la fronte alla tempia di lei, trovandosi troppo vicino al suo viso.
Quel contatto sembrò calmarla per un istante, ma poi: - Sean, sto fingendo anche con te, perché quando tutto questo sarà finito, ognuno andrà per la sua strada e …
- E, cosa, Fran? Dillo, buon Dio! Ammettilo con te stessa, una buona volta!
Uno scoppio di pianto precedette la frase: - E non ti rivedrò più! Non così! Sarò una donna sposata e non potrò permettermi di…
- Francesca, potrebbe essere tutto così semplice, se tu… se noi… Accidenti, Fran! – la prese con dolce decisione per le spalle, fino a trovarsela perfettamente di fronte. Poi non ci furono altre parole, perché Sean posò le proprie labbra su quelle di lei. Un bacio lievissimo, appena accennato, quasi timoroso.
Francesca rimase un attimo a combattere fra la sensazione di starsi sciogliendo alla quale avrebbe voluto abbandonarsi e la sua razionalità. Evidentemente la seconda prevalse, dal momento che, prima di poter approfondire quel bacio, si trovò a colpire Sean con uno schiaffetto leggero, che fece più male al proprio orgoglio che alla sua guancia.
- Oddio, che ho fatto? -  si coprì il viso con le mani – Sean! Sean, stai bene? No, no, non parlare, vado subito a prendere del ghiaccio. Oh, cavolo, ti ho fatto male? Sì, vero? Oh, Sean, non sai quanto mi dispiace. Scusami, scusami. Che stupida!
- Fran…
- Non muoverti, vado a prendere il ghiaccio e torno. Che figura, anche prenderti a schiaffi, dovevo?
- Fran! – questa volta la trattenne per una mano, prima che partisse a razzo verso la cucina – Fran, stai facendo tutto da sola. Si può dire che non me ne sia neanche accorto. Tu quello lo chiami schiaffo?
- Eh, come lo vuoi chiamare? Davvero non ti ho fatto male?
- Francesca…
- Oh, non sai che sollievo. Io non ho mai dato uno schiaffo a nessuno, prima d’ora.
- E si vede.
- Ma sei sicuro che non ti serve il ghiaccio?
- Francesca, mi dispiace. Non dovevo permettermi. Mi sono comportato da idiota. Spero di non aver rovinato niente.
- No, no… non hai rovinato niente. – lo rassicurò, carezzandogli la guancia “colpita” – Che cavolo di situazione. Se non ci fossimo in mezzo, potrei scriverci un racconto.
- Se non ci fossimo in mezzo, mi verrebbe da ridere. Dimentichiamo, Fran. Siamo entrambi stanchi e confusi, andiamo a letto.
- Certo che dormire vicina a te non aiuta a chiarirsi le idee, Sean.
- Hai ragione anche tu, ma domani mattina vedremo le cose più chiaramente, stai tranquilla.
Quella notte, Francesca, nel sonno, aveva a poco a poco guadagnato terreno fino a ritrovarsi praticamente tra le sue braccia. E, a giudicare dall’espressione, questa volta no, non sognava di Enrico.
Già, vedremo le cose chiaramente. Ma ciò non doveva necessariamente significare che all’improvviso lei sarebbe tornata ad essergli completamente indifferente, o no?

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Capitolo 12
*** Cap. 11 - Ritratti in seppia ***


Carissime!!!

È terribile, sono stata lontana undici giorni! Imperdonabile, imperdonabile da parte mia, anche se vi facessi mandare un bacio a ciascuna da Sean ( non è che qualcuna preferisce Enrico, vero? ^___^ ) o supplicassi il wedding planner di riservarvi un posto in prima fila per il matrimonio di Mik e Sinead. Ma, davvero, in queste due settimane non ho avuto il tempo nemmeno di respirare.
Vabbè, cercherò di farmi perdonare col nuovo capitolo…
Buon 2 giugno (o quello che ne resta). Grazie a tutte, per la pazienza, per l’affetto, per tutto. Vi adoro!!! Un bacione e un abbraccio ad ognuna.
Sempre vostra

Marguerite



Imprevisti d'amore
 
 
Capitolo 11: Ritratti in seppia
 
 
 Se le cose continuano ad andare così, ne uscirò pazza. Fu il primo pensiero di Fran, la mattina del giovedì, vedendo che Sean si era alzato di buon’ora e il posto del letto a fianco a lei era vuoto e freddo. Questo prima mi bacia, poi scappa, prima scappa, poi mi bacia. Io non ci sto capendo un accidente. E io mi sto comportando da scema: prima lo voglio baciare, me lo abbraccio di notte, ci dormo vicina come fossimo una vecchia coppia di sposi. Poi lo prendo a schiaffi, gli dico che voglio ripartire, che devo tenermi impegnata per Enrico.
Ma porca vacca, mica è colpa mia se per tre anni rimango abbonata al club della zitellona felice eppoi all’improvviso mi si presentano due tipi del genere a chiedere la mia mano uno per davvero e l’altro per finta. Il problema è che non so più chi me lo stia chiedendo per davvero e chi per finta. E sfido io a non diventare pazzi in una situazione del genere.
Di giorno Enrico rompe le palle, telefona a orari improponibili, si apposta davanti a casa mia, fa gli occhi dolci a Emma per saperne di più, mentre Sean, adorabile come al solito, comincia a farti credere che i principi azzurri esistono, facendoti uscire di senno come Orlando, quando ti bacia all’improvviso, su una terrazza al chiaro di luna davanti alla Galway Bay.
Di notte, Enrico va e viene nei sogni, e sono sempre sogni incasinati. E quando va, c’è Sean. Per la miseria, non posso fare sogni del genere su Sean. Dovrebbero mettere la censura, il rating rosso come nelle fanfiction vietate ai minori, roba degna dei peggiori Harmony che leggo in spiaggia. E va bene che a volte, quando meno ce lo si aspetta, l’ormone fa il coglione, ma proprio adesso no! Non è il momento. Io amo Enrico.
Si alzò diretta allo specchio. Guardandosi, provò il desiderio improvviso di non uscire da quella camera se non con un sacchetto in testa. Aveva i capelli arruffati peggio di un cespuglio, due borse dell’ipermercato sotto gli occhi vista la nottataccia, il solito pigiama ridicolo e l’espressione di chi davvero non ci si raccapezzava più. Sembro un maglione infeltrito uscito dalla centrifuga.
Ma, nonostante lo spettacolo della propria magnifica immagine, si fissò a lungo eppoi: io, Francesca Fortini, quasi in Sacrati, sposerò Enrico costi quello che costi.
Due colpi alla porta.
- Avanti… no indietro… cioè, un attimo!
- Fran, ma che fai? Parli da sola? Non so come si risponde da voi quando uno bussa, ma non certo indietro. – senza aspettare il permesso, Sinead aprì la porta e varcò la soglia – Va tutto bene, Fran?
- Benone, sì… bene, va tutto a gonfie vele, perché?
Sinead inarcò il sopracciglio, studiandola con l’aria di un Perry Mason in gonnella: - Mah, non lo so, così… una sensazione. Giurerei di avervi sentiti discutere, ieri sera. Non è per farmi gli affari vostri, Fran, ma mi dispiacerebbe davvero se qualcosa non stesse andando per il verso giusto.
- Discutere? No, no… cioè sì, un piccolo scambio di opinioni, una cosina da niente. Abbiamo chiarito subito.
L’altra diede un’occhiata al disordine del suo aspetto, al letto, alla camera. Se Sean non aveva dormito sul pavimento e non aveva fatto le valigie, allora evidentemente l’allarme era rientrato. Sorrise: - Beh, immagino. Quando le cose stanno così, non hai più bisogno dell’avvocato. Voglio dire, il fatto che sembri reduce da un campo di battaglia, spiega molte cose…
- Già. – Fran tirò un mentale sospiro di sollievo – Dopotutto, tu e Mik non litigate mai?
- Eh, sapessi. Ma l’amore dev’essere… movimentato! A proposito, se cerchi il tuo cavaliere, è sulla Galway Bay a fare fotografie.
- A quest’ora?
- A quest’ora. Ha detto che voleva rientrare prima che ti svegliassi.
- Gli faccio una sorpresa e lo raggiungo, allora.
- Uff, meno male: non siete arrabbiati!
- No, Sinead, stai tranquilla.
Sapessi quello che c’è in giro, povera Sinead. Si rabbuiò pensando alla grande messinscena che avevano creato. Aveva sottovalutato la propria emotività e quella capacità che aveva di affezionarsi immediatamente alle persone. E, quando si deve fingere, sono punti e punti di svantaggio.
L’abbracciò forte: - Grazie.
- Che ti prende, Fran? Certo che sei proprio strana.
- Niente, è solo che la mia migliore amica… beh, il mio ex, prima di Sean, mi ha messo le corna con la migliore amica e da allora non ho avuto molte confidenti.
- Capisco, ma che carogna la tua amica! E che carogna lui, soprattutto! Ragazza mia, voglio sperare che tu non abbia sofferto troppo!
- Sofferto? Macchè! Con uno come Sean che arriva dopo pochi mesi, sarebbe davvero sconsiderato soffrire per il mio ex, non trovi!
- Già, già. Bene, mia cara Fran, sbrigati, se vuoi raggiungere il tuo principe.
Si dileguò, com’era arrivata.
Sofferto, macchè! Ma che ipocrita, che ipocrita, Fran! Accidenti a te! Imprecò, aggiustandosi i capelli. Lisci non ci volevano stare e, a dire il vero, forse aveva ragione lui: lasciò che mantenessero le loro onde naturali, mentre scendeva le scale di corsa.
 
 
Sean, quasi sdraiato sull’erba, aspettava l’istante perfetto per scattare, augurandosi che quel cavalletto d’epoca immemorabile reggesse ancora il peso della macchina fotografica.
La sua modella, graziosamente appoggiata tra i fiori, sembrava essere particolarmente ben disposta a lasciarsi immortalare, quella mattina.
Un rumore appena percettibile di passi alle sue spalle lo fece sussultare, mettendo in fuga l’elegante farfalla gialla e nera.
- Ecco, accidenti, un’inquadratura rovinata! Mik è mai possibile che… ah, sei tu, Fran. Dia duit! – cercò di togliersi qualche filo d’erba dai jeans o di togliersi d’impaccio, piuttosto.
- Mi spiace di averti rovinato la fotografia. Ero… sono venuta per chiederti scusa, per ieri sera, intendo.
- No, Fran, sono io a doverti chiedere scusa. Insomma, con tutto che sapevo cosa c’è dietro, ti ho baciata lo stesso, mettendoti più in confusione di prima. È stata una vigliaccata.
- No, è stato un gran bel bacio… Oddio, non volevo dirlo, mi è proprio sfuggito.
Lui sorrise, accomodante: - Non fa nulla. È quello che penso anch’io. Non farci caso, sto dicendo un sacco di fesserie. Quando sono con te, faccio davvero una pessima impressione: meglio che torni a fare fotografie, va’.
- Non avevi detto che mi avresti insegnato a non scattare più come una turista?
- L’avevo detto, ma forse è meglio di no, adesso.
- Stai cercando di scapparmi, Sean O’Brien? – lo guardò, piegando appena la testa di lato.
- No, no… cioè, sì. Sto cercando di starti lontano, Francesca. Se non posso avere nessuna speranza con te, non voglio avere nemmeno nessuna illusione.
- Capisco – abbassò gli occhi  - e me ne dispiaccio. Voglio dire, sarebbe stata una bella amicizia, la nostra, avremmo passato una splendida settimana se solo…
- Se solo non avessimo cominciato ad innamorarci? Già, ma sono cose che non si possono prevedere, no? – fece lui, ostentando un certo controllo che non aveva.
- Pertanto hai deciso di evitarmi. Giusto. Vorrà dire che lo farò anch’io. Peccato, perché devo starti lontana e non vorrei. E l’unica ragione che mi tiene lontana da te è proprio Enrico.
- Identificato il problema, si fa anche presto a toglierlo di mezzo. Metaforicamente, eh!
- Il punto è che io…
- Non vuoi toglierlo di mezzo. Hai le tue ragioni anche tu. Certo che noi due, Fran, siamo proprio un disastro. Io scappo, tu ti nascondi dietro di lui. Concluderemo ben poco.
- Io sto solo cercando un modo per capirci qualcosa.
- Fran, continuando a dire che ami uno che non ami, non risolverai niente. “Ami uno che non ami”? Beh, hai capito, no?
- E tu cosa pensi di risolvere, facendo l’eremita e scattando fotografie?
- Non mi sembra di vedere opzioni migliori.- si addolcì -  E, fidati, non sai quanto vorrei non doverti stare lontano e quanto mi riesca difficile darti a vedere che non mi importa niente di te.
Fran non aggiunse nulla, limitandosi a guardare in lontananza il mare verde smeraldo che si infrangeva contro le rocce, con un antico, eterno, immobile sciabordio.
- E, dimmi, hai trovato lo scatto giusto, Sean?
Un paio di click che si susseguirono eppoi: - Giusto forse no, ma molto buono sì.
Lei si voltò, sorpresa: - Ma stai fotografando me? No, no, per carità! Stamattina faccio spavento.
- Ma che dici? Eri bellissima, mentre guardavi il mare. Poi dovresti farmi da modella, visto che hai fatto scappare la mia.
Rise: - Beh, non hai fatto un gran cambio.
- Guardami, Fran. Sorridi…
- No, non vengo mai bene.
- Evidentemente non hai un buon fotografo. Vuoi forse mettere in dubbio le mie capacità? Su, guardami, un po’ più di tre quarti. Perfetto. – scattò – Questa macchina funziona ancora con le pellicole in bianco e nero. Si impazzisce a trovarle ma ne vale la pena. Vedi, il color seppia ha un fascino particolare che non riesci ad ottenere con le nuove tecnologie. Non allo stesso modo.
- Sean… - lo interruppe.
- Scusami, ti sto annoiando con questi dettagli tecnici.
- No, non volevo dire quello. Sei in imbarazzo, Sean? Forse sarebbe stato meglio che fossi tornata a casa, il fatto è che a casa ci sono Mik e Sinead e non vorrei mai che sospettassero che noi… Ecco, adesso sono io ad essere in imbarazzo… Mi riesce facile capirlo, perché tutti e due cominciamo a parlare a macchinetta di cose che non c’entrano un tubo. Seriamente, Sean, dobbiamo trovare una soluzione a questo casino.
- Una soluzione, già. Fran, io l’avrei la soluzione. – le prese il viso tra le mani – Se solo tu avessi il coraggio di lasciare tutto, di lasciarti Enrico alle spalle… Ma so di non potertelo chiedere.
Lei cercò di sfuggire il suo sguardo. Improvvisamente fu come se i suoi occhi avessero preso lo stesso colore insostenibile, indescrivibile del mare della Galway Bay.
- Infatti. Non chiedermelo: non faresti che peggiorare le cose. Lo amo da quando eravamo bambini.
- Non è che ami più l’immagine che hai di lui che la sua versione in carne ed ossa? Hai mai provato a rifletterci.
- Miliardi di volte, se per questo. Arrivando sempre alla stessa conclusione. – con dolce fermezza gli scostò le mani dal proprio viso – Sean, tu sei un uomo meraviglioso. Troverai presto la persona giusta. Io sono troppo impegnata e troppo incasinata, fidati.
- E se non mi importasse? Voglio dire: se fossi tu quella giusta? Francesca…
Era così vicino che le aveva soffiato il suo nome sulle labbra. Fran si sentì la testa girare, girare più di quanto non fosse lecito, più di quanto non le fosse successo con nessuno prima di quel momento. Era una sensazione strana, un desiderio inspiegabile di stringersi a lui, consapevolmente, questa volta, non accusando semplicemente l’inconscio come accadeva la notte. Un desiderio di rotolarsi sull’erba della baia, di lasciarsi baciare, di baciarlo, finalmente liberi da tutto, fino a sentirsi mancare il fiato, fino a sentirsi stremati dalla felicità. La felicità. La sua felicità avrebbe dovuto essere a Bologna con Enrico, o almeno così aveva sempre creduto. Come avrebbe potuto abbandonare tutte le sue certezze per inseguire una storia che nemmeno aveva mai previsto? E se Sean fosse stato soltanto un inaffidabile seduttore, magari tutto sarebbe stato molto più semplice: una settimana di passione e follie eppoi di nuovo alla vita di tutti i giorni. Ma lui non era un dongiovanni qualunque: c’era troppa sincerità in quei suoi occhi verdi dannatamente limpidi, troppa dolcezza nelle sue parole, quando diceva di starsi innamorando di lei.
- A che pensi, Fran?
Al diavolo tutto, anche Enrico che stava a mille chilometri di distanza. Soprattutto perché stava a mille chilometri di distanza.
- Come? – gli chiese, scrollandosi di dosso i pensieri.
- Ti ho chiesto solo a che pensi, se va tutto bene?
- A te. Pensavo a te, Sean.
Adesso basta, lo bacio. Disse a se stessa, ma prima ancora di aver formulato la frase, le labbra di lui erano già sulle proprie. Carezzavano, avvolgevano le proprie.
E questa volta non lo avrebbe respinto, anzi. Gli passò le braccia attorno al collo, prendendo a scompigliargli dolcemente i capelli sulla nuca con le dita. Aveva la netta sensazione che Sean O’Brien fosse riuscito a far fuori anche le sue ultime difese.
Lui mosse piano le mani sulle sue spalle, carezzandola, e Fran si smarrì nel calore, nel senso di protezione di quell’abbraccio.
- Fran, è come se ti conoscessi da sempre. Come se ti avessi cercata da sempre. – le sussurrò all’orecchio.
Lei non seppe dire se fosse lo stordimento di quell’attimo, ma le parve che la natura stesse suonando una misteriosa e sconosciuta armonia solo per loro. Ma qualcosa stava davvero suonando, una musica come di… di cellulare.
- Scusami, è il mio…
- Non rispondi? – le chiese Sean, allontanandosi appena, di malavoglia.
- Ma no, lascia che squilli.
- Magari è importante.
No, dal numero che apparve sul display non poteva essere importante: ma ormai l’incanto era rotto.
- Ciao, Enrico.
 
 
Enrico, ecco, in qualunque momento, anche quelli migliori, lui si sarebbe messo in mezzo. Ci sarebbe stato, come un vecchio fantasma, una zavorra inutile, ma di cui è impossibile liberarsi.
E tu, Sean, dovresti saperlo. Dovresti accettare l’idea che ella gli appartiene, che non ha la minima intenzione di mandarlo a quel paese. Eppure, come uno stupido, continui a illuderti di avere qualche possibilità. E qualche possibilità devi pure averla. Era un bacio, quello di prima, un bacio vero, non come il malriuscito siparietto comico di ieri sera.
Dovresti starle lontano, accidenti. Rassegnarti.
Enrico, Enrico, sempre Enrico! E basta con questo Enrico! Ma perché non vince un bel biglietto aereo solo andata per l’Isola di Tonga, cosicché possa rimanere là, disperso nel Pacifico a godersi i suoi soldi, a bere cocktail e a ballare l’hula hula?
E che diamine! Proprio adesso doveva chiamare? Si può dire tutto di quell’uomo tranne che non abbia un ottimo tempismo. O un sesto senso per rovinare sempre la festa a tutti.
Sean spiccò un filo d’erba e prese a tormentarlo, avvolgendoselo attorno alle dita.
Sbuffò, imprecando in gaelico contro le doti di Indiana Jones, mentre si stendeva sul prato, con le braccia dietro la testa.
Chiuse gli occhi: attorno a lui c’era solo la pace della baia ancora deserta, lo scrosciare ritmico delle onde che si infrangevano sugli scogli e la voce, un poco deformata dal vento, di Fran che parlava al telefono.
 
 
- No, Enrico. Ti ho detto che non sono arrivata ad una decisione, ancora. Non è mica una scelta facile, cosa pensi?
Lui aveva riso, con quel suo modo studiato. Non le riusciva difficile immaginarsi la sua espressione sorniona, da gatto, mentre lo faceva.
- Avanti, Fran. Non è mica un disonore cedere all’amore prima che sia scaduta la settimana. Prendi il primo volo e torna a Padova, io sono qui ad aspettarti.
- Cerca di capire, io a Sean voglio bene. E questi giorni, mentre sto considerando che potrei non rivederlo più, mi hanno portato a capire che gliene voglio molto di più di quanto non credessi.
- Non essere melodrammatica. Il tuo paddy sopravvivrà benissimo anche senza di te. E per quanto bene tu possa volergli non sarà mai la passione e l’amore che ci ha legati e che ci lega.
- E’ diverso.
- Cioè inferiore.  – puntualizzò lui.
- No, diverso. Il che non significa necessariamente inferiore. E dire che il letterato saresti tu.
- Eh no, io sono l’archeologo, ricordi?
- Ad ogni modo non è colpa mia se non riesci ad afferrarne la differenza.
- Sei diventata caustica, tesoro.
- Sai com’è, le necessità della vita, le fregature…
Ci fu un lungo istante di silenzio, in cui lei sentì solo il rumore della biro dell’altro che graffiava un foglio, come d’abitudine. Enrico aggiunse solo un modesto “touché” e la conversazione tornò a languire.
- Fran, tu mi ami? Voglio dire mi ami ancora? Mi hai sempre amato?
Lei sospirò pesantemente. Guardò Sean, che osservava il cielo di Galway mutare di colore. Ripensò al loro bacio di prima. Un errore. Un bellissimo, piacevole, meraviglioso errore.
Doveva fermare le sue certezze, prima di sprofondare di nuovo nello sbaglio, prima di perdere quella sua assurda, stupida chimera ma alla quale continuava ad attaccarsi per anni.
A mezza voce rispose forse, prima di chiudere la comunicazione.
Si cacciò in tasca il cellulare con rabbia.
Ma che stronza, che stronza. Sei peggio di lui, Fran. Guardati! Prima tanto romanticismo con Sean, baci, abbracci vari eppoi non hai il coraggio di deciderti. Sei proprio una bambina, Francesca!
Raccolse dal cavalletto la macchina fotografica di Sean e scattò.
- Preso! – rise, mentre lui ad occhi chiusi continuava a respirare piano il profumo del mare, senza scomporsi. Le sorrise di rimando, ma non senza una certa amarezza.
Gli si sedette accanto, osservando il suo profilo, soffermandosi sulle belle labbra che prima aveva sentito sulle sue.
- Era lui?
- Già. Che disastro, vero? – si chinò su di lui e gli depose un bacio lieve sulla fronte. Lentamente, poi, cominciò a scendere con le labbra sulle sue tempie, sulle gote, sulla sua bocca, di nuovo.
- Anche questo è un gran bel disastro. – la imprigionò nel suo abbraccio, facendola aderire contro di sé, sentendo il suo respiro tremare appena contro il suo petto, come i cavalloni della baia contro gli scogli. Aveva lo stesso profumo del mare, Fran, quando prese a baciarla sul collo.
- Fran, quando dicevo che non aveva senso illudermi – le sussurrò tra un bacio e l’altro – non dicevo davvero. Abbiamo ancora quattro giorni, poi torneremo alle nostre vite di sempre. Permettimi di volerti bene, Fran, solo per questi giorni, non uno di più. Permettimi di innamorarmi di te, di illudermi di poter avere qualche speranza. Poi non interferirò più: tu andrai a Bologna con Enrico, tornerai a casa, come hai sempre aspettato di fare, se vorrai. Ma oggi rimani con me, ce ne andiamo da soli a Galway o dove vuoi. Mi basta solo averti vicino. Vuoi?
- Io non voglio che tu abbia a soffrire per me, Sean.
- Starti lontano sarebbe soffrire comunque. Tanto vale posticipare. – la fece sorridere – Poi, qui in Irlanda, non manca né il burro né il whisky.
- Possibile che devi sempre scherzare, tu?
- Di tempo per star male ce n’è sempre.
- Ottima filosofia. Senti, Sean… - si rimise in piedi – io voglio venire con te a Galway, starti vicino, ma non così… intendo, smettiamo di baciarci, di carezzarci, o tu mi farai perdere anche quella poca lucidità che mi è rimasta. Io non voglio andare oltre, capisci. Non mi sembra di essere del tutto onesta nemmeno così, né con te né con lui.
Si fece improvvisamente serio: - Hai ragione, Fran. Saremo solo buoni amici.
Già, buoni amici.
 
Quella sera, Francesca ricevette una curiosa telefonata, una che non si sarebbe mai aspettata, non di giovedì. Suo fratello Paolo – e a qualcuno scappava sempre da ridere quando si presentavano in coppia, Paolo e Francesca, credendo che i genitori l’avessero fatto apposta a chiamarli così. Il che era anche probabile – suo fratello Paolo chiamava sempre il venerdì sera. Ogni venerdì alle otto e trenta precise, lamentandosi che era stato il suo impiego all’ufficio postale a renderlo tanto metodico. Beh, quella sera, con grande stupore di tutti, chiamò alle dieci e tredici di un giovedì, cosa che fece trasalire sua sorella e pure Sean, anche se non ne sapeva nulla, ma solo così, per solidarietà.
La scena alla: Oh mio Dio, Paolo, cos’è successo? Stanno male a casa? Ti sei schiantato contro un platano? venne interrotta subito dal tono gioviale del più giovane di casa Fortini.
- Secondo te, sorella, se mi schiantavo contro un platano, adesso ero qui a telefonarti? No, non è successo niente, se non che ho mollato tutto e vado a Rio.
- Cosa cavolo significa che hai mollato tutto e vai a Rio?
- Rio de Janeiro, baby. Adios alle poste, alla città, allo smog. Solo mohito e salsa sulla spiaggia. Brazil… na na na na na na… Braziiil !!!
- Ma tu sei tutto matto! Stai davvero partendo così senza salutarmi per mettere in pratica quella tua scellerata idea del bar?!
- Idea scellerata?! Questa sarà vita, finalmente. E il non averti salutato è solo un pretesto per costringerti a venirmi a trovare. E dammi retta, baby, dovresti farlo anche tu!
- Cosa? Venire in Brasile?
- Ma no! Inseguire un sogno, osare, Frafra! Fidati, è una bellissima sensazione, quando riesci a raggiungere quello che hai sempre sognato. Basta liberarsi del passato e delle paure e della gente che non ci merita. Oh, hanno già chiamato il mio volo. Ci sentiamo. E pensaci a quello che ti ho detto! Braziiiiilll…
 
- Inseguire i sogni… la fa facile, lui.- rise Fran, mentre riguardava le fotografie che nel pomeriggio avevano portato a sviluppare, ricordo di una piacevole passeggiata a Galway, durante la quale avevano finto di essere quello che in realtà avrebbero dovuto essere: amici.
- O magari ha perfettamente ragione, tuo fratello. Chissà.
- E tu hai del talento. – gli rispose lei. Erano davvero splendide, quelle foto, da tanto Fran non si vedeva così bella, così luminosa. O era lui particolarmente bravo come fotografo o particolarmente bravo a farla sentire bene, a farla sentire serena.
- Oppure ho un’ottima musa. Vieni qui, Fran. – le fece cenno di sedersi sul letto, vicino a lui – Senti, non abbiamo fatto niente di male. Dopotutto, siamo entrambi liberi, fino a prova contraria.
Annuì con decisione, prima di accoccolarsi contro il suo petto.
- E quando questi giorni saranno finiti? Se tu sapessi quanto non vorrei dover scegliere, Sean.
Le passò le dita tra i capelli, impigliandosi nei ricci: - Non pensarci. Ci sono ancora tre giorni davanti a noi e in tre giorni possono accadere molte cose. E se non dovessero accadere, beh, non si può certo dire che avrò il rimorso di non avertelo detto.
Fran respirò forte il suo profumo, tranquillizzandosi. Sul cassettone erano rimasti quei ritratti in seppia che, per una strana magia, più che la propria immagine sembravano aver immortalato luoghi del cuore che ancora le erano sconosciuti.

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Capitolo 13
*** Cap. 12 - Il tempo della ragione ***


Mie carissime!!!

Finalmente sono tornata… penso sia inutile scusarmi per il ritardo, perché non c’è scusa che tenga per il mancato aggiornamento di quasi un mese e mezzo.
Ma è doveroso ringraziarvi per avermi aspettato e perché vi ritrovo ancora tutte qui: è una cosa che mi scalda il cuore più di queste temperature estive :) Vi voglio bene, sinceramente!
La sessione esami è finalmente finita e posso tornare a respirare e, soprattutto, a scrivere. Mi è mancato molto non farlo, mi siete mancate voi e questa storia che stiamo vivendo assieme… Adesso  credo davvero di riuscire a ritagliarmi più tempo e, piano piano, aggiornare tutte le storie, rispondere e recensire a tutto quello che è rimasto in arretrato!
Un grazie di cuore, davvero, a tutte e a ciascuna di voi.
Un bacione,
sempre vostra

Marguerite


Imprevisti d'amore
 

Capitolo 12: Il tempo della ragione
 
 
Fran si era svegliata tardi, quella mattina. Aveva passato una nottataccia delle sue, a rimuginare sui problemi senza cavarne un ragno dal buco, col risultato di peggiorare solo il groviglio di pensieri che aveva in testa.
Quel gatto irlandese di Sean, al contrario, sembrava avere l’innata capacità di addormentarsi comunque e ovunque e fino all’alba lei aveva continuato ad invidiarlo e ad ammirare, allo stesso tempo, il suo profilo illuminato dal bagliore tenue della luna.
È bello, pensò, bello da togliere il fiato ed io questa mattina l’ho avuto tra le mie braccia, ho sentito le sue labbra sulle mie… che pazzia, Fran, che pazzia! E adesso come riuscirai a liberarti di lui, quando tutto questo sarà finito? Perché tutto questo dovrà necessariamente finire.
Guardò la sveglia: era già venerdì. Avrebbero avuto meno di tre giorni eppoi quel claddagh di latta che portava al dito sarebbe rimasto soltanto il souvenir agrodolce di quella vacanza in Irlanda.
Quando finalmente all’alba era riuscita a trovare il sonno, quell’accidenti di ouroboro verdastro era tornato a roteare nei suoi sogni. A ruotare, ruotare finché non dovette alzarsi, perché era talmente nervosa da non sopportare più di starsene a guardare il soffitto, senza dormire.
Sean, evidentemente, era già sceso, ragion per cui Francesca sopportava ancora meno l’idea di rimanere a fissare il soffitto, per di più da sola.
Dalla cucina arrivò l’odore caldo del caffé.
- Buongiorno, Fran. – lui era seduto al tavolo, la tazza da un lato, il giornale dall’altro e gli occhiali sul naso. L’aveva salutata con la stessa confidenza di una rodata coppia di sposi, il che non faceva che peggiorare la situazione.
- Buongiorno, Sean. Gli altri?- aveva chiesto, tanto per stemperare.
- Sono a fare le ultime prove degli abiti: domani è il gran giorno. – si tolse gli occhiali e le rivolse uno di quei suoi sguardi limpidissimi in tutta la sua luminosità.
- Già: sono felice per loro. – si stropicciò le mani, girando attorno al tavolo della cucina.
- Caffé?
- Si, credo proprio di averne bisogno.
- Hai dormito male?
- Ho dormito poco. Ho pensato, Sean, forse troppo. – si riempì una tazza, prima di sedersi di fronte a lui.
Sean esitò un istante, poi, presale una mano nella sua, si mise a giocherellare con l’anello che Fran portava al dito, con noncuranza.
- Ancora due giorni e mezzo, prima di perderti, Fran…
Lei tolse la mano improvvisamente, come colpita da una scarica elettrica: - Vacca miseria, Sean, se continui a dire così, mi spieghi come accidenti faremo a non soffrire? E domani, domani cosa farai? Conterai le ore? E domenica? Conterai i minuti che ci separano dalle nostre vite di sempre? Stiamo perdendo di vista la realtà, stiamo perdendo il controllo di noi stessi…
- A volte bisogna lasciare spazio alle nostre passioni, lasciare che siano le nostre vite coi loro desideri a guidarci e non viceversa.
- Abbiamo delle responsabilità. Io ho delle responsabilità. – replicò lei, guardando l’abisso scuro del caffé.
- Nei confronti di chi, Fran? Di Enrico? Di quello che lui, la tua famiglia, i tuoi amici, la gente si aspettano da te?
- Anche!
- Non ha senso, Fran, vivere per quello che gli altri si aspettano da noi.
- Ma non ne ha nemmeno vivere solo per quello che vogliamo!
- Perché no? Hai delle responsabilità anche nei confronti di te stessa, allora! E sono le più importanti. Cosa farai quando fra qualche anno ti chiederai perché non hai seguito chi amavi, quello che desideravi, perché hai tradito te stessa nascondendoti dietro una finta sicurezza per la paura di ricominciare, di lasciarti andare?
Sean alzò lo sguardo su di lei e si accorse che piangeva. Silenziosamente, sommessamente, ma le lacrime scorrevano sulle sue guance senza che Fran avesse avuto il potere di arrestarle.
Si alzò, lentamente, come avesse paura di spaventarla. Le si avvicinò e, da dietro, le cinse le spalle con le braccia.
- Mi dispiace, Francesca. Non volevo farti soffrire, è solo che anch’io, tempo fa ho rinunciato a tante cose e so che non si sta bene, quando si devono fare i conti con le proprie scelte. Ma io non avevo alternative, la storia era parecchio diversa. Ma tu, tu sei ancora in tempo a scegliere per te. Non ho la pretesa di essere meglio di lui, non credo che potrei renderti più felice. Dico solo che spetta a te decidere, fosse anche l’andare con lui. L’importante è solo che a decidere non siano il tuo passato, i tuoi ricordi, i tuoi timori.
Lei annuì silenziosamente, abbandonando la testa contro il petto di Sean: - Non è colpa tua, sono io che… che ho tante cose che non vanno.
Sean si abbassò fino ad avere gli occhi di Fran all’altezza dei propri: - Fran, non c’è proprio nulla che non va in te, ricordatelo, qualunque cosa tentino di farti credere. – le asciugò le lacrime con la punta delle dita. Poi, avvicinando piano il viso a quello della ragazza, le depose un bacio sulla guancia. Il profumo della pelle di Fran gli ricordò la giornata passata assieme, la mattina sulla Galway Bay, il sapore dolce dei suoi baci. Le sue labbra erano così vicine che fu un attimo scivolare di nuovo sulla sua bocca.
- Vieni qui, Fran… - le sussurrò appena tra un bacio e l’altro – Stammi vicina, non voglio vederti così triste.
Lei si staccò appena da Sean, dolcemente, per nascondere il viso contro la sua spalla: - Forse non dovremmo… o forse sì… non ci capisco più niente…
- Forse dovremmo chiedere a Joyce, dato che è stato lui a farci incontrare. – scherzò Sean, riuscendo a strapparle un sorriso – James, mandaci un segno: su, da bravo.
All’improvviso, il campanello trillò con insistenza.
- Sarà Joyce? – chiese Fran, ridendo appena, mentre si asciugava le lacrime.
- Vado a vedere.
 
 
- Desidera? – chiese Sean, ritrovandosi davanti al cancello un furgoncino con una scritta colorata.
- Sono della Rainbow: pittura e vernici - spiegò il tale aggiustandosi la visiera del berrettino – La signora Sinead O’Brien aveva ordinato da noi due settimane fa dieci fustini di vernice color azzurro-cielo-di-luglio, tre di color rosa -perlato, due di verde- prato- rugiadoso e due di giallo- canarino- felice. Glieli ho portati.
- La signora non c’è, purtroppo. È appena uscita, l’ha mancata di mezzora, sì e no .
- Senta, posso lasciarla a lei, la vernice? Guardi, è già tutto pagato. – senza aspettare risposta, aveva già cominciato a scaricare le latte dal veicolo – Mi raccomando, non la tenga in un posto troppo caldo e mi saluti la signora Sinead.
Era ripartito a tutta velocità, dopo avergli riempito il giardino con diciassette chili di tintura. Ma che diavolo doveva farci, sua cognata, con tutta quella roba? Dipingere mezza Galway?
- Fran, vieni ad aiutarmi. – almeno avrebbero avuto un diversivo.
- E questa vernice? Hai intenzione di cambiare mestiere, Sean?
- Spiritosa! Aiutami a farla sparire, piuttosto, che se arriva quello schizofrenico di wedding planner comincia a strepitare che gli schiacciamo il prato e gli roviniamo la grazia e la perfezione estetica del suo orrendo allestimento.
- E dove ce la mettiamo?
- Bella domanda… ma adesso che mi ci fai pensare, c’è una stanza vuota al secondo piano, che nessuno usa: la metteremo lì.
- A che piano, scusa?
- Al secondo. Ma cosa vuoi che siano, un paio di rampe di scale? Così ci rimettiamo in forma per domani.
- O ci rimettiamo la pelle, prima di domani.
 
 
Fran si era stropicciata le mani, dopo il lavoraccio, ed era rimasta a guardare la stanza in disuso invasa dagli ultimi acquisti di Sinead. Barattoli di vernice a parte, l’unico pezzo di arredamento era un vecchio tavolo di noce, più un piano di appoggio improvvisato che altro, sul quale erano rimasti un paio di fogli arrotolati.
In un gesto automatico, li aveva spiegati e stesi davanti a lei, senza che passasse troppo tempo prima di capire che si trattava di un progetto per la camera del bambino.
Tutti quei chili di vernice azzurra avrebbero dovuto simulare il cielo, riempito di palloncini rosa e gialli, un bel sole e foglie svolazzanti. Poi, certamente, sarebbe arrivata la culla, il fasciatoio e le mille cianfrusaglie che spesso nemmeno servono, ma che rendono una casa finalmente viva e intimamente propria.
Si guardò attorno, immaginando l’anonimato delle pareti bianche colorarsi di allegria. Ruotò su se stessa, ricercando l’ispirazione giusta nella sua creatività d’artista e infine:
- Sean, vieni un attimo qui.
- Dimmi, cara. – oramai c’era talmente tanta dolce spontaneità in quell’appellativo che nessuno dei due ci faceva più caso.
- Sai che questa diventerà la stanza del bambino di Mik e Sinead? Guarda un po’… - lo trascinò fino al tavolo con i progetti.
- Che idea carina: adesso si spiega la vernice, i colori e tutto il resto.
- Sean, mi stavo chiedendo a che ora…
- Mik e Sinead non torneranno prima di sera, se ci diamo da fare…
- Ma tu come hai capito che mi era venuto in mente di far loro una sorpresa?
- Ho imparato a conoscerti, no? Vado in cantina a cercare i pennelli. – sorrise e le rivolse una rapida strizzata d’occhio, prima di sparire al piano di sotto.
 
 
Fran era un’artista. Sean ne aveva sempre avuto il sospetto, da quando l’aveva vista, fin dalle prime volte, scrivere a mano i suoi racconti su un quadernetto. Ora aveva la certezza che non era solo una creativa, ma un’artista, che aveva il bisogno quasi fisico di realizzare, sognare, rompere la monotonia, la materialità e la praticità della vita con la brezza lieve dell’arte.
Esattamente come lui. E capiva, sempre più chiaramente, che Enrico aveva per anni represso, e avrebbe continuato a farlo, il talento della sua fidanzata con la durezza della sua prosaicità.
Sorrideva, guardandola dipingere palloncini rosa sulla parete opposta a quella che lui stava tinteggiando. E, al di là dell’affetto platonico che si era ormai sviluppato senza che potessero impedirlo, si faceva strada nel suo cuore anche la dolce malizia suscitata dalla linea morbida del collo, intravista fra i capelli raccolti, dal tessuto dei jeans che si tendeva, lasciando intuire la sinuosità delle sue gambe.
Fran depose il pennello e, appoggiatasi di schiena al tavolo, si passò l’avambraccio sulla fronte, ammirando l’effetto complessivo del loro lavoro.
- Non c’è male, direi. Non trovi, Sean? Credi che a Sinead piacerà?
- Sinead sarà felicissima, ne sono sicuro. Non mi avevi detto che sapevi disegnare così bene: sta diventando un piccolo capolavoro. Ricordami di chiamarti, se mai volessi riempire i muri del “Joyce” di trifogli e leprechaun.
- Non sarebbe una cattiva idea, ma dovrai pagarmi molto bene. È una faticaccia.
- E se ti ripagassi così? – accostò le labbra alle sue, lasciando che entrambi venissero travolti dal sapore romantico del loro bacio.
Fran sentì le proprie mani vagare lungo la schiena di Sean, esplorare quel corpo che da diverse notti riposava contro il suo, le spalle, le braccia nelle quali aveva cercato più o meno consciamente rifugio.
Egli la sollevò delicatamente, fino a metterla seduta sopra il tavolo.
La mente di Fran vagava lontano, persa nella purezza dello sguardo di lui, nei mille momenti in cui ricordava erano stati felici: la loro gita a Dublino, la pioggia che li aveva sorpresi a Galway, le chiacchiere, le risate, le confidenze. La sua mente vagava lontano, ma non era mai stata tanto vicina. Vicina a lui.
Sean scivolò con le labbra lungo il collo di lei, le mani seguirono la stessa via, carezzandole dapprima il viso, poi la gola, infine le spalle, insinuandosi nello spazio che separava la sua pelle dalla camicetta.
Avrebbe voluto fare l’amore, anche lei lo voleva: se n’era accorto da una luce diversa che fiammeggiava nei suoi occhi scuri. E l’avrebbero fatto, se solo fossero riusciti a dimenticarsi della loro razionalità, o almeno a mandarla al diavolo, anche su quel tavolo, spettinati, macchiati di vernice, perché l’uno non era mai parso tanto attraente agli occhi dell’altra.
Le depose un altro bacio nell’incavo del collo, prima di cominciare ad armeggiare con i bottoni della sua camicia. Voleva sentire la sua pelle contro la propria, il suo calore, il suo profumo, se era tutto quanto gli sarebbe stato dato di conservare di lei.
Fran si lasciò trasportare dai suoi gesti lenti, discreti ma sicuri. Era come precipitare piacevolmente nel mare di Galway dei suoi occhi e nel fiume vellutato del suo abbraccio.
Respirò profondamente, per trattenere dentro di sé il più a lungo possibile quella sensazione. Ma poi: - No, Sean, non posso… - gli sussurrò all’orecchio, respingendolo gentilmente. Frappose tra le loro bocche la mano per impedire di scivolare di nuovo in quella tiepida tentazione.
- Scusami, Fran, ma a volte è come se non riuscissi a farne a meno.
- Neppure io. – scese dal tavolo per riprendere in mano il pennello – Magari è meglio se finisco da sola.
- Forse sì. Perdonami. – uscendo, le posò una mano sulla spalla.
Lei gli carezzò la guancia: - Non è colpa tua, Sean. Ti raggiungo dopo.
Annuì e lasciò la stanza con un velo di amarezza.
 
 
Non le aveva detto dove sarebbe andato, ma Fran sapeva esattamente dove trovarlo.
Il sole stava tramontando sulla Galway Bay ed arrossava, assieme al mare e alle rocce, anche il profilo perfetto di Sean, che ammirava, seduto con le ginocchia strette al petto, l’orizzonte.
Arrivando alle sue spalle, lei gli passò affettuosamente le dita tra i capelli: - L’opera è completa.
- Bene… - rispose, evasivo, non riuscendo a togliere gli occhi dalle onde.
- E’ bellissimo qui.
- Già… - cercò la sua mano e la invitò a sedersi accanto a lui. Aveva uno sguardo diverso, turbato forse, ma non per i tormenti del cuore. Si accorse subito che doveva esserci dell’altro e si sedette, con aria seria, quasi senza sorridere se non per rassicurarlo.
 – Mi è mancato questo posto, la mia terra. Fran, adesso che l’ho rivista, ho paura di non sopportare ancora una volta il distacco.
- Vuoi tornare, Sean?
- Quando tutto questo sarà finito, quando non dovrò più reggere il gioco di un finto fidanzamento, quando troverò il coraggio di ammettere con me stesso e con i miei il motivo per cui ho lasciato Erin, tornerò.
Fran respirò l’odore di salsedine, senza sapere cosa aggiungere, per non essere invadente.
- Ci sono delle cose che non sai, che non ho mai raccontato a nessuno e che vorrei dirti, Fran. Posso?
- Non mi devi nessuna spiegazione, Sean. Al contrario, se…
- Io voglio raccontarti questa storia. – le prese le mani nelle sue – Davvero.
Seguì un lungo momento di silenzio, in cui lui sembrò cercare ricordi lontani e parole adatte per descriverli.
- Vedi, Fran, una volta qualcuno ha detto: “non sarò in pace finché Erin non sarà libera e unita”. Da ragazzo, ai tempi del liceo, anch’io ci credevo, profondamente, ardentemente. Forse fin troppo.
Sapevo a grandi linee dei trascorsi di Kathleen e Liam. Ero quasi ossessionato dalla loro storia, dalla storia d’Irlanda, dell’occupazione del Post Office e di tutto il resto. Pensavo, assieme ad altri miei compagni che condividevano questa idea, che si potesse realizzare qualcosa di simile per liberare il nord.
Ma le idee sono idee e, se non si evolvono, non possono creare troppi danni. Ma mi conoscevo, sapevo che a forzare troppo la mano, prima o poi avrei rischiato di passare alla pratica.
Successe che, durante gli anni dell’università, mia nonna Saoirse morì e, tra le cose che mi aveva lasciato, trovai i diari di Kathleen. Lessi fino in fondo la sua storia, la loro storia, le loro vite distrutte dalla violenza ed ebbi paura di me. Della violenza che può nascondersi in potenza dentro ognuno di noi. Presi al volo l’occasione di un soggiorno di studio in Italia e inventai questa storia del fidanzamento per non mettere più piede in Irlanda. Mandai al diavolo la mia carriera di letterato, di studioso di testi antichi e aprii il “Joyce”. Non volevo dire nulla alla mia famiglia: con i precedenti che c’erano nella dinastia di mia madre sarebbe successo un disastro. Non volevo che, dopo tutti i sacrifici, l’educazione ricevuta dai miei genitori, essi dovessero fronteggiare la mia disfatta e il loro fallimento. Ma, soprattutto, ho giurato a me stesso che non sarei più tornato ad Erin se non quando avessi imparato ad amarla in modo più sano, più giusto, come meritava.
E adesso, in tutta sincerità, è passato così tanto tempo che mi sento pronto a combattere, almeno dentro di me, i vecchi fantasmi. O, a dire il vero, i fantasmi sono già stati sconfitti: me ne sono accorto da quando siamo atterrati. E' arrivato, per me, il tempo della ragione. La lontananza, per quanto dolorosa, è stata necessaria per riflettere.
Sean prese una lunga pausa, prima di aggiungere: – Adesso sai ogni cosa, Fran. Non so quale idea ti fossi fatta di me, della mia fuga da Galway, di questa finzione e di tutto il resto. Spero solo che tu possa non giudicarmi troppo male, non disprezzarmi.
- Non potrei, nemmeno volendo, Sean. – rispose lei, cercando i suoi occhi. Ora, improvvisamente, si spiegava quella sorta di rabbia contenuta, quelle fiamme del suo carattere che aveva imparato a trattenere e contrastare – Ti sei fermato in tempo, quando le idee erano solo idee. Prima che le cose potessero degenerare e, credimi, non è da tutti. Eppoi, l’ho capito, sai…
- Che hai capito, Fran?
- Che non sarebbe successo quello che è accaduto a Liam. Che sarebbe andata diversamente, perché tu sei profondamente buono, Sean e non si può cercare di diventare ciò che non si è.
Lo abbracciò di slancio, tenendolo stretto forte a sé. Sentì che piangeva in silenzio, per il troppo tempo trascorso a tenere per sé la sua storia.
- Grazie, Fran. – le soffiò appena percettibilmente – Sono felice di averlo raccontato a te, non avrei potuto chiedere di meglio. E, da quando ti ho portata qui, ho smesso di detestare il mio passato e il mio esilio forzato, perché in caso contrario non ti avrei conosciuta, non avrei potuto innamorarmi di te. Ti voglio bene, mo chara, mo ghra.
Fran trattenne le lacrime, per asciugare quelle di Sean: - Anch’io ti voglio bene. E se tu scegliessi di restare, beh, sentirò molto la tua mancanza…
- Ma quando io mi deciderò a tornare, tu sarai una donna sposata, con un marito che di certo non vedrebbe di buon occhio un’amicizia di vecchia data con il tuo “ex”. – appoggiò la fronte contro quella di Fran e rimase a lungo a guardare la profondità dei suoi occhi, finché dalla casa una serie di gridolini acutissimi di gioia richiamò la loro attenzione.
Mik e Sinead erano rientrati e, di certo avevano scoperto la piccola sorpresa.
- Oh mio Dio! Fran, Sean, ma è meravigliosa! – Sinead li stava chiamando a gran voce dal balcone – Ma avete fatto tutto voi? Cielo, venite qui subito, devo assolutamente abbracciarvi!
- Che dici, sarà meglio che andiamo? – Sean la guardò con complicità.
- Penso proprio di sì. – fece Fran e accettò di buon grado il braccio che egli, cavallerescamente, le offriva, mentre il sole ormai naufragava nel verde del mare di Galway.
 

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Capitolo 14
*** Cap. 13 - If you must leave my life (Scene da un matrimonio) ***


Ciao a tutte!!!
Ecco il nuovo capitolo, ponderato durante la mia ultima vacanza tra Siena e Firenze. "Li magni spiriti" in Santa Croce portano sempre buone ispirazioni ;) Alla fine ce l’ho fatta a partire per qualche giorno... sì, lo so che sembra che abbia l'abbonamento con Firenze, ma per me e le mie amiche è un po' la patria del cuore... basta! altrimenti vi racconto tutta la mia vita, quando c'è una storia più interessante di cui parlare! E voi? Mi auguro che le vacanze stiano andando benone :)
Oh, come sono emozionata: è giunto il giorno del matrimonio tra Mik e Sinead!!! Vi immaginate il nostro Sean in kilt tradizionale?? ^.^ (Ebbene, da varie ricerche ho scoperto che portano il kilt anche in Irlanda.)
Bene, non vi trattengo oltre. Aggiungo solo che ho appena creato una pagina facebook, se volete aggiungervi, per chiacchiere, aggiornamenti, immagini dei personaggi come li immagino io e come li vedete voi e altri sproloqui. Ancora sono un po’ work in progress, ma sto facendo il possibile per renderla accogliente. L’indirizzo è questo:
http://www.facebook.com/profile.php?id=100002736214599&sk=wall
Come sempre, grazie a tutte e un grosso bacione <3
Sempre vostra,
Marguerite.

 
 Imprevisti d'amore

But girl, if you must leave my life
You
leave me alone
And baby, long before you leave my life
Be sure you have your own


(R. Harris – If you must leave my life)

 
Capitolo 13: If you must leave my life (Scene da un matrimonio)
 
 
- Qualcosa di nuovo, qualcosa di vecchio, qualcosa di blu, qualcosa in prestito… Oddio, Fran, sto diventando pazza! Ci sarà tutto? Il wedding planner sara'all’altezza? Non è che si scorda le posate, i fiori, le candele?
- Sinead, respira, per favore. Stai facendo uscire di senno anche me. – Francesca andava avanti e indietro per la stanza, carica di abiti, veli, scarpe e tutto quello che serviva alla sposa, mentre Sinead litigava con la giarrettiera che, secondo tradizione sarebbe stata ovviamente blu.
- Figurati in che stato posso essere io! Non capita mica tutti i giorni di sposarsi. Eppoi di fare le cose così in pompa magna. Gliel’avevo detto io, a Fiona, che un simile allestimento non avrebbe fatto che peggiorare le cose.
- Sinead, sei un avvocato, avrai affrontato cause difficilissime. Un matrimonio è una cosa da niente, in confronto.
- Tu dici? – fece lei, bloccandosi con la seconda giarrettiera in mano, la gamba a mezz’aria e cacciando indietro i capelli dal viso con uno sbuffo che la fece apparire una sorta di cane bobtail un po’arruffato.
Fran posò quello che aveva fra le mani sul letto su cui era seduta Sinead. L’abbracciò e con convinzione, aggiunse: - Ne sono sicura. E tu sarai bellissima, Sinead. Bellissima e perfetta.
La sposa annuì prima che, all’improvviso, la giarrettiera partisse per sbaglio come una fionda da una parte all’altra della camera.
- Beh, quasi perfetta.
 
 
Il gran giorno era arrivato, alla fine.
Sean, dalla finestra della stanza che divideva con Fran, poteva assistere all’andirivieni di formiche che continuava a susseguirsi nel giardino.
Il wedding planner, oramai, era alle prese con gli ultimi ritocchi e con qualche piccolo problema di sicurezza. Una delle enormi arpe in gesso, infatti, aveva quasi tramortito una delle sbadate damigelle che si aggiravano con aria sognante nel giardino, il che non dava proprio l’idea di stabilità all’insieme della composizione.
La ditta del catering aziendale, interpellata all’ultimo, dopo che l’organizzatore si era bellamente dimenticato del buffet, aveva cominciato a scaricare scatoloni pieni di ogni bendiddio, con una formalità più indicata ad un meeting di uomini d’affari che all’ “eleganza” di un matrimonio. E, per carità, che nessuno si sognasse di aprire le finestre, altrimenti le grida del wedding planner che criticava ogni singola portata avrebbero distrutto i timpani a tutti prima ancora dei gridolini di scoiattolo di sua madre Fiona.
Ringraziò il cielo che al “Joyce” nessuno era venuto a domandargli la preparazione di un rinfresco di nozze, anche perché sospettava che la Guinness non fosse poi tanto indicata.
Sul letto, perfettamente inamidato, l’abito tradizionale che avrebbe dovuto indossare l’occhieggiava con insistenza. A dire il vero non è che facesse i salti di gioia all’idea di doversi agghindare con un kilt. Il pensiero che poi, entrate a buon diritto nell’album di famiglia, le fotografie avrebbero fatto il giro dei parenti per i secoli a venire, accompagnate dagli entusiastici commenti di mamma che decantava a tutti le bellezze dei suoi figli, non agevolava certo l’operazione.
Piuttosto era curioso di vedere la morbida bellezza mediterranea di Fran contrastare con la rigidità dei costumi e venire esaltata dal colore verde, come aveva avuto modo di apprezzare durante la loro visita alla distilleria. Lo ricordava con esattezza di miniatore quel vestito verde petrolio a piccolissimi fiori bianchi. Ricordava le pieghe morbide della gonna, che ondeggiava ad ogni passo, il tessuto che veniva dolcemente teso dalla linea del seno, la cintura che circondava quei fianchi che egli avrebbe voluto abbracciare.
Aveva voglia di rivederla, nonostante non fossero passate nemmeno due ore da quando era sparita nella stanza di Sinead per aiutarla. Aveva voglia di rivederla e basta, non riusciva a starle lontano.
Da basso i musicisti dell’orchestra ingaggiata per il ricevimento avevano cominciato a montare gli strumenti e qualche nota ancora scordata di un improvvisato reel arrivò fin nella sua stanza, ricordandogli che solo due giorni li avrebbero uniti eppoi tutto sarebbe tornato come prima.
La vita avrebbe ripreso a scorrere, monotona e provinciale, in solitudine, fra le care ma ormai banali mansioni del “Joyce”, lontano da Galway e dal sogno di quei meraviglioso giorni.
Avrebbe dovuto pensarci seriamente. Avrebbe dovuto ritornare. Non sapeva ancora cosa avrebbe fatto della sua esistenza, come avrebbe affrontato dodici anni di passato rimasto in sospeso che, prima o poi, sarebbe venuto a presentargli il conto. Da un lato si sentiva troppo vecchio per ricominciare. Lo aveva già fatto una volta, ma con l’entusiasmo dei vent’anni e senza nulla da perdere. Ad ogni modo, adesso avrebbe perso Fran, il che significava che non gli restavano altre ragioni per rimanere in Italia.
L’aver tolto di mezzo, definitivamente, i fantasmi, parlandone con lei, era stata la consacrazione definitiva di quella decisione.
Guardò il kilt sul letto con aria un poco più benevola. Era il momento di indossarlo. O magari no: Mik doveva trovarsi parecchio in impaccio e alquanto nervoso.
Sarà meglio che vada a dare un’occhiata.
 
 
Era un sabato estivo e piacevolmente soleggiato anche in quel di Padova, quando Enrico aprì le imposte della sua lussuosa camera d’albergo, al risveglio.
E, dal momento che l’idea di restare in città ad aspettare una donna che non sarebbe tornata prima della sera successiva non l’allettava particolarmente, fu un attimo saltare a bordo della sua decappottabile sportiva e dirigerne il muso aerodinamico verso la riviera.
Milano Marittima era un forno, come al solito, quando arrivò un paio d’ore dopo. Un forno di afa romagnola, orde di turisti avvolti in pessimi costumi – come ebbe modo di constatare in spiaggia -, sabbia sollevata dai giocatori di beach volley e bambini ruzzolanti che facevano lo slalom fra gli ombrelloni, palestrati pieni di brillantina e olio seduti ai tavolini di un bar che bevevano long drink già all’ora di pranzo e bellezze truccate che incastravano i tacchi a spillo dodici centimetri nelle fessure della passerella.
Si domandò perché diavolo l’umanità dovesse essere tanto varia e tanto tamarra.
Alcune delle suddette bellezze, quando fece il suo ingresso in uno degli stabilimenti più in, si voltarono a guardare il nuovo arrivato, elegantemente avvolto in un completo bianco di lino, lo sguardo ombreggiato dal panama immacolato, i guanti che facevano capolino dalla tasca dei pantaloni e un fazzoletto da quella della giacca. Gli occhiali scuri, da soli, la dicevano lunga sul prezzo complessivo della sua tenuta.
Si accese una sigaretta che, ad ogni modo non avrebbe fumato, prima di mettersi seduto, rigorosamente all’ombra, sulla sdraio. All’abbronzatura avrebbe provveduto, in modo più uniforme, il suo centro estetico di fiducia.
Con l’aria di chi si riteneva la più grandiosa opera d’arte dopo la Gioconda, estrasse dalla tracolla in pelle un saggio sulle tecniche di cesellatura dell’oro durante il regno di Carlo Magno, peraltro scritto da lui e con un occhio al libro e l’altro alla fauna che lo circondava, cominciò ad attendere che qualche compagnia femminile venisse a rendergli più piacevole la giornata.
La caccia era aperta.
 
 
La marcia nuziale annunciò l’ingresso, o meglio, l’uscita dello sposo.
Michael O’Brien, al braccio di una Fiona raggiante, fasciata con grazia in uno splendido costume lungo quasi ai piedi, di un blu profondo e con ampie maniche di pizzo bianco, avanzò dall’ingresso della villa lungo un tappeto rosso che conduceva al gazebo nel giardino.
Quell’irlandese dai modi spicci, troppo allampanato come suo padre per poter affermare che avesse un elegante portamento, faceva quasi tenerezza nel kilt a scacchi e con le reel shoes che sarebbero servite per aprire le danze, di un numero in meno perchè secondo tradizione devono calzare ben strette.
E sua madre appariva ancora più piccolina e aggraziata, impeccabile come al solito.
Nella prima fila di sedie, Malachy non riusciva a non raccontare anche quel giorno alla mamma della sposa le origini della dinastia O’Brien, strappandole un mezzo sbadiglio proprio mentre il fotografo stava catturando le pose spontanee degli invitati.
Il fratello di Sinead con la moglie sarebbero stati i testimoni della sposa e la loro sfilata sul tappeto fino a prendere posto di fianco a Mik annunciò a Sean e Fran che il momento di uscire allo scoperto, fra il pubblico e con loro stessi era giunto.
Lui l’attendeva da basso, per vederla scendere le scale.
Splendida, come aveva immaginato. I soffici ricci castani le carezzavano le gote di un rosa soffuso che non aveva mai scorto in nessun’altra, dolce come il colore di una tela di Hayez. Gli occhi scuri brillavano di una luce vellutata, morbida come il tessuto verde, d’un verde assoluto della sua gonna.
Gli tese la mano, quando Fran fu sull’ultimo gradino e troppo preso ad ammirarla non si accorse che lei tratteneva il fiato quasi fino a tremare, davanti a lui.
Aveva stentato a riconoscerlo e aveva sentito di doversi reggere al corrimano perché non era sicura che le ginocchia fossero abbastanza forti.
Sean non le era mai sembrato così bello come con quel kilt, con la camicia bianca, ornata da nappe ai polsi e attorno ai bottoni, e una giacca dello stesso verde del proprio vestito, ricamata a motivi celtici e corta al punto da lasciare scoperta la fusciacca annodata in vita.
Appoggiò la propria mano su quella che lui le tendeva. Sean l’attirò accanto a sé, troppo vicino forse, per sperare di mantenere le distanze. Le posò un bacio sulla gota, senza osare sfiorarle le labbra.
- Mi sciuperai il trucco. – sorrise, per respingerlo gentilmente, senza convinzione.
- Sei bellissima, Fran.
- Anche tu… - si affrettò ad aggiungere – stai molto bene.
- Credo sia ora di andare.
Sottobraccio a Sean, presero posto alla destra dello sposo sotto il gazebo. La cerimonia si sarebbe tenuta nel giardino e il prete già preparava la funzione, mentre aspettavano la sposa.
Le damigelle, tre amiche di Sinead, ognuna con un piccolo cesto di vimini, giunsero spargendo petali di fiori e preannunciando l’arrivo di lei, luminosa come una visione.
Sinead, nel suo abito candido, ricamato in filigrana dalle maniche lunghe fino a terra, con il ventre appena pronunciato sembrava brillare di luce propria, come una piccola ancestrale dea della fertilità. Il viso incorniciato dai ricci di fiamma emanava brevi bagliori attraverso gli specchi limpidi degli occhi.
- Fratello non svenire. Non in questo momento. – scherzò Sean all’indirizzo di Mik.
 
 
La cerimonia cattolica fu piuttosto lunga. O forse tutti aspettavano con tanta trepidazione il tradizionale rito celtico delle mani e le danze che si sarebbero seguite tutta la sera che i tempi apparvero più dilatati.
Ma un brivido percorse ognuno dei presenti, quando il prete dichiarò che gli sposi erano ufficialmente uniti in matrimonio e che potevano scambiarsi il fatidico bacio.
Dietro di loro, le madri piangevano, copiosamente e senza ritegno, costringendo un sempre ironico Malachy a offrire a entrambe due scatole di kleenex comprate per l’occasione. Tuttavia, nonostante il suo consueto aspetto da filosofo stoico, anche il vecchio O’Brien si era commosso, ma senza darlo troppo a vedere. Lo sapeva bene Sean, nonostante gli anni d’assenza. Al contrario lui aveva preferito seguire l’esempio di Fiona e, anche se con un po’ di discrezione in più, si asciugava una lacrima che non era riuscito a trattenere.
Fran, dal canto suo, si era voltata a rubare uno dei fazzoletti, dal momento che anche su di lei il momento aveva prodotto un certo effetto.
Poi, le mani degli sposi vennero annodate in una benda rossa e, dopo le formule antichissime che si tramandavano dalle generazioni di Celti che avevano popolato quella terra incantata, anch’essi si scambiarono i claddagh.
- Vi auguro che il nodo che vi ha unito non si sciolga mai. – sussurrò Fran all’orecchio di Sinead mentre l’abbracciava.
- Non ci posso credere che parti domani, Fran. E che non sarai più con noi.
- Non pensiamoci adesso, dobbiamo festeggiare, no?
- Penso che prima ci sia un altro matrimonio.
- Un altro che?
- Fiona e Malachy: devono rinnovarsi la promessa.
Quasi si commossero di più a vedere i vecchi O’Brien scambiarsi il sì con l’entusiasmo e l’affetto dei vent’anni che a vedere i due giovani. Senza dimenticare il passionale bacio con cui avevano suggellato il patto di amarsi per almeno ancora il doppio degli anni passati assieme.
- Insomma, mamma e papà rubano la scena, come sempre. – aveva commentato Mik, con un certo bonario disappunto.
- Beh, era da immaginarlo. Ma tutto sommato li trovo carini. – gli rispose Sean, non riuscendo però a togliere gli occhi di dosso a Fran, che non ce la faceva più a liberarsi degli abbracci di Fiona e delle chiacchiere di Malachy, dopo essere andata a congratularsi con loro.
- Basta che mamma adesso non voglia fare il lancio della giarrettiera alla sua età.
 
 
Ma, nonostante le silenziose preghiere dei due eredi di casa O’Brien, nessuno era riuscito a sfuggire al doppio lancio della giarrettiera. E, in un angolo, il wedding planner - libro del Galateo alla mano - si sarebbe messo le mani nei capelli, se solo li avesse avuti, già davanti alla “mancanza di tatto” di Sinead. La gamba della sposina era biancheggiata sotto il lungo strascico dell’abito, lasciando scivolare a terra la giarrettiera blu. L’oggetto di pizzo, poi, aveva attraversato il gazebo da una parte all’altra, finendo tra le mani di uno dei fratelli scapoli di Sinead, con gran giubilo dei parenti che finalmente l’avrebbero visto sistemato. O almeno quello era il presagio.
Nel frattempo, la Guinness aveva continuato a scorrere abbondantemente nei boccali, al punto che Fran non era più tanto sicura di star memorizzando bene ogni dettaglio da raccontare una volta a casa o immortalare in un racconto.
A seguire le due cerimonie, era stato un turbinio di carta da regalo e nastri luccicanti che avevano rivelato i doni più disparati e più inutili, non ultimo un bastone da passeggio in stile ottocentesco con una testa di lupo intagliata nel manico oppure una terribile tela astratta tre metri per due, di cui nessuno -  né quella sera né quelle successive – riuscì a capire il soggetto.
Giusto per riprendersi da un simile imbarazzo, Fiona aveva gridato: - E adesso il secondo lancio! – mentre i figli si auguravano che fosse davvero solo quello del bouquet. E, invece, una seconda giarrettiera, soltanto di un diverso tono di blu, era sfrecciata nell’aria serale, finendo dritta nelle mani di Sean.
- Tesoro! – sua madre gli porse uno dei bicchieri di whisky, generosamente patrocinato dalla ditta di famiglia – E’ di buon auspicio!
- Sarà…
- E che sarà mai: ho ancora delle belle gambe. Eppoi non si è visto niente. E a te è giunto l’augurio di sposare presto la tua Fran.
Si sforzò di sorridere: - Sicuro. Ci sposeremo presto.
- Non vedo l’ora! – rise e prima di raggiungere il suo Malachy, gli stampò sulla guancia un bacio con il rossetto.
Quando tutte le mansioni di rito furono svolte, a un cenno degli sposi, qualcuno cominciò a spostare i tavoli e le sedie, nonché le terribili arpe in stucco dorato, liberando il centro del giardino.
L’orchestra, dal suo palco, attaccò un reel e non fu difficile immaginare che era giunto il momento delle danze.
Sinead, con la leggerezza di una ninfa, aveva trascinato in pista un Mik sempre più impacciato nel suo kilt e in quei passi che non aveva mai imparato.
- Credo che sia il caso di raggiungerli. – le aveva sorriso Sean e Fran, dolcemente, fece scivolare la mano nella sua, con la netta sensazione che, se gliel’avesse chiesto con quel tono, l’avrebbe potuto seguire ovunque.
 
 
- Uff, non sembra, ma i vostri sono balli faticosi e queste scarpe fanno un male terribile.
Dopo parecchi giri di pista, Francesca era andata a sedersi allo stesso tavolo di Fiona con Sean che, seguendola a ruota, continuava a chiedersi perché mai doveva proprio stare così vicino a sua madre, con la conseguenza di sforzarsi il doppio per fingere che tutto andasse a meraviglia.
Ma forse non c’era bisogno di fingere così tanto: la luce che egli aveva negli occhi era davvero diversa, era davvero sincera. L’amava. Non c’era più alcun dubbio. Amava lei e tutte le cose che la caratterizzavano e che lo avrebbero portato alla deriva tra i ricordi, una volta che fosse partita.
- Ma tu sei bellissima, mia cara. – aveva sorriso Fiona da sotto il cappello – E hai imparato benone. Poi, guarda come ti sta bene questo vestito: sembri una vera irlandese.
Istintivamente, Sean prese tra le sue la mano che Fran aveva abbandonato sul tavolo.
- Su, su, tornate a ballare. Non vorrete stare qui, a tenere compagnia a questa vecchia signora.
- Il tempo di riprendere fiato, mamma.
- Questa vi rimetterà a posto. – riempì i loro boccali di birra – Come ho sempre detto a Sean, non c’è niente che non possa essere curato col burro o col whisky.
- Sì, ma questa è birra. E parecchia. – protestò Fran.
- Appunto, bambina mia. Tanto meglio.
- Ma papà che fine ha fatto?
- Non ne ho idea. Ha detto che andava a chiedere ai musicisti di suonare qualche pezzo più ballabile anche per noi antiquati.
Il gracchiare di un microfono li interruppe: - Ehm, ehm, scusate… - Malachy aveva cominciato a schiarirsi la voce e la cosa non era affatto rassicurante.
- Oh, bontà divina! Ragazzi miei, cosa si è messo in testa mio marito? Basta che non inizi uno dei suoi discorsi sulla distilleria, adesso, altrimenti ballerete tra due giorni.
- Scusate, gentili ospiti, la tradizione vorrebbe che il padre dello sposo tenesse un discorso sulla felicità, la prosperità e la gioia che dovranno accompagnare questi giovani per tutta la vita, ma…
- Ci risiamo. – Fiona vuotò il boccale con una rapidità sorprendente.
- Mi ero preparato una riflessione molto interessante, ma vuoi per l’età, vuoi per la Guinness che comincia a fare effetto, non mi ricordo più nulla. E, soprattutto, essendo anch’io praticamente un novello sposo, oggi, ho voglia di divertirmi. Allora ho deciso di dedicare una canzone alla mia dolce metà: la prima che abbiamo ballato assieme. E inviterei sulla pista i miei due figli e le loro adorabili compagne, con l’augurio che possano essere sempre felici come lo siamo stati io e Fiona.
- Un invito così non possiamo rifiutarlo. – Fran si alzò e tese entrambe le mani a Sean – Andiamo.
 
Standing in my eyes
You'll always be the reason
But I knew I couldn't keep you for good
And I'm not even sure that I should

 
Mentre la voce quieta ma un poco aspra di Malachy intonava le note di una vecchia canzone dei primi anni sessanta, Fran si era ritrovata di nuovo tra le braccia di Sean.
E non era un reel o una quadriglia, questa volta, con i suoi rari incontri di sguardi e tocchi di cortesia. Era un vecchio lento, di quelli che si ballano allacciati, che danno il tempo di respirare il profumo dell’altro, di sentire il battito del proprio cuore contro un petto diverso.
 
But girl, if you must leave my life
You leave me alone
And baby, long before you leave my life
Be sure you have your own

 
If you must leave my life. Se devi lasciare la mia vita.
Quella frase le aveva rimbombato nella testa troppo a lungo. E no, non era colpa della troppa Guinness. Era perché lui era così vicino, così vicino da ricordare chiaramente il loro bacio sulla Galway Bay, le loro tenerezze su quel tavolo che sarebbero diventate presto qualcosa di più, se solo non si fossero fermati in tempo.
 
Somewhere in my mouth
There'll always be the taste of you
Forever is so very long
I don't want your life to go wrong

 
Da qualche parte, sulle sue labbra sarebbe rimasto il sapore di quei baci. Lo sapeva ed era inutile continuare a negarlo. Sarebbe rimasto il sapore di Sean ed aveva paura che quello di Enrico non sarebbe bastato a coprirlo.
Ma vacca miseria, con tante canzoni che esistono al mondo, perché proprio quella?
Perché un testo così dannatamente simile a quello delle loro vite?
O forse era lei che stava distorcendo tutto. C’erano ancora tante cose che non volevano saperne di quadrare. E c’era la sua testa che girava, adesso, girava.
Ci mancava anche la Guinness.
Sean fece scorrere le mani sulla sua schiena, lievi come la più dolce delle carezze, prima di posare la guancia contro la sua tempia.
Aveva l’orecchio di lei all’altezza delle sue labbra, perfetto per sussurrarle, all’improvviso: - Ti amo, Francesca Fortini. Non l’ho mai detto a nessun’altra con questa sincerità.
- Io… io credo che tu non sia molto lucido, Sean O’Brien.
Rise, sottovoce: - Nemmeno tu, Fran, sei del tutto sobria. E scommetto che non ti succede dai tempi del liceo, di trovarti in questo stato. E scommetto anche che è da allora che non commetti una pazzia.
- E tu come diavolo lo sai?
- Perché è più o meno così anche per me. Non pensi sia arrivato il momento di farla, quella pazzia?
- Quale pazzia? Di che cosa stai parlando?
- Voglio fare l’amore con te, Fran.
- La Guinness ti ha fatto male. – protestò lei, senza però riuscire ad allontanarsi. Non se ne sarebbe andata da quell’abbraccio caldo per nessun motivo, nemmeno se nella loro galassia fosse esploso il sole con tutti i pianeti. Nemmeno se su Galway fosse scoppiata la tempesta del secolo. Non se ne sarebbe andata, non quella notte.
Domani sarebbe tornato tutto uguale, ma quella notte…
- Ti desidero, Fran. Non lasciarmi, questa sera. Non lasciare la mia vita. Illudimi che non lascerai la mia vita, ti prego.
Come accidenti facevano a pensare che tutto, dopo aver fatto l’amore, sarebbe tornato uguale? Dovevano proprio aver bevuto troppo. Troppo per riuscire a formulare quelle considerazioni.
Fran sentì che parlavano, piuttosto, il suo impulso e il suo corpo. E il suo corpo chiamava a gran voce, insistentemente, quello di Sean.
Nessuno badava a loro, erano tutti troppo impegnati a ballare, a complimentarsi con Malachy e a brindare agli sposi.
Scivolarono dentro casa, fino al piano di sopra, fino a quella camera che avevano diviso per tutti quei giorni. Il loro letto era lì, pronto ad accoglierli.
- Ti amo, Fran, ti amo… - Sean tremava di un desiderio troppo a lungo trattenuto.
Se ne accorse, lei, dalle labbra appena frementi, mentre si abbandonava al bacio . Dolce, soffice e caldo, il bacio di lui, più di quanto non fossero stati quei maldestri tentativi che l’avevano preceduto. Un bacio, un bacio vero, questa volta.
Sean insinuò le sue dita sottili tra i capelli di lei, ritrovando in quella matassa di ricci un profumo rassicurante di fiori e di semplicità. Si lasciò percorrere dal brivido di averla così vicina. Così vicina come non era stata neppure il giorno avanti, tenuta lontana dai mille pensieri. Come non era stata nemmeno sulla baia di Galway, riscaldata dalla tenerezza di quel sentimento. Quel sentimento che era nato all’improvviso, senza alcun sospetto ed era cresciuto giorno per giorno senza che potessero impedirlo. Era cresciuto e si era preso tutto di lui, a tal punto che ora non riusciva a immaginare di starla per perdere, eppure non poteva fare a meno che abbandonarsi alla forza di quell’amore.
A tal punto da sentire l’urgenza di lasciar scivolare le sue mani, disegnando le sue forme e perdendosi nelle mille storie che lei sapeva raccontare anche solo con i suoi occhi, con i suoi silenzi.
- Sean – sussurrò lei, non riuscendo ad aggiungere altro e, sempre più audace, continuando ad incolpare la Guinness, fece scorrere le dita sul petto di lui e si soffermò a sentire come batteva il suo cuore sotto il tessuto ruvido del giacchino.
 – Sean, ma che diavolo stiamo facendo? -  gli disse, soffiandogli dolcemente le parole sulle labbra
- Non so se davvero dovremmo…
- Sì che dobbiamo, Fran. È troppo bello quello che ci lega per permettere che svanisca così. Che si perda, lasciandoci soli a chiederci se davvero ci siamo sfiorati almeno una volta.
Oh, basta con questi dubbi, Fran. – riuscì a slacciare i bottoni del suo vestito, scoprendole la schiena ed ora riusciva a percepire il fremito della sua pelle al tocco leggero delle sue mani.- Io non ne ho.
- E domani?
- Non lo so, ma adesso siamo insieme.
Il vestito di Fran scivolò sul pavimento. No, non aveva senso continuare ad opporsi a sé stessa.
Prese a tormentargli diligentemente il collo, aspirando forte il suo profumo, del mare di Galway e di vecchi libri, di luoghi lontani e di desiderio, ora, di desiderio per lei.
Si abbandonò alle sue carezze non riuscendo ad ignorare le piccole scariche elettriche di piacere che riuscivano a provocarle quelle dita affusolate.
Aveva delle belle mani calde, lui; si strinse un po’più forte, sentendosi protetta e amata.
Era troppo tempo che non provava quella sensazione. Forse con Enrico non l’aveva mai provata, anche se non l’avrebbe ammesso.
Amava Sean, era inutile che tentasse di nasconderlo. L’amava, al di là di ogni pensiero razionale, quando riusciva a dimenticarsi del buon senso, delle aspettative, dell’orgoglio.
E glielo disse, quella sera. Forse sotto l’effetto di quella Guinness. Ma l’importante fu che glielo disse: - Ti amo anch’io, Sean.
Lui si allontanò appena dalla sua bocca, quella bocca che, col suo sapore riusciva a fargli dimenticare qualsiasi cosa. La bocca di lei, sulla quale aveva sussurrato tutta la sua esistenza, ogni suo segreto. Lei, che era riuscita a prendersi tutto e, allo stesso tempo dargli così tanto.
Sorrise, con liberazione.
Rimase a guardarla, un lungo istante, e pensò che, per quanto potesse cercare nel mondo, nel fondo di libri troppo intellettuali e troppo lontani dalla realtà oppure nella sua modesta vita al “Joyce” non avrebbe mai trovato nulla di altrettanto bello. Forse nemmeno nello stesso legame con Erin.
La tenne stretta a sé, con un brivido, un lungo brivido che si dibatté nel suo petto tra l’incredulità e la dolce urgenza di ciò che li stava unendo.
- Sean… - avrebbe voluto dire molte più cose, confessare molte più cose. Ma forse, in quel momento, le parole sarebbero soltanto state di troppo.
- Hai paura? – le chiese in un soffio.
- No – sorrise – Hai chiuso la porta?
- Sì…
Fran sorrise e stringendolo a sé, lasciò che scivolassero entrambi sul letto, abbracciati.
Se avesse dovuto lasciare la sua vita, l’avrebbe fatto con, sulla pelle, il sapore di Sean, di quella notte, di loro due, di un sogno cullato dalle onde della Galway Bay.

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Capitolo 15
*** Cap.14 - I don't wanna miss a thing (Fino all'inganno dell'Aurora) ***


Carissime!!!
Siete tornate dalle vacanze oppure vi state ancora rosolando al sole? ^^
Io, in questo caldo cittadino, ne ho approfittato per sfornare il nuovo capitolo. Con un po’ di malinconia, perché abbiamo dovuto lasciare Galway, come previsto.
Per il resto, ho pensato bene di gironzolare per internet alla ricerca delle facce giuste per mostrarvi come immagino i miei protagonisti. Lo so che siamo praticamente alla fine (annuncio ufficialmente che mancano tre capitoli), ma come si dice: meglio tardi che mai.
E, siccome le ho postate già nella mia pagina facebook, ho pensato di metterle anche qui, nel caso aveste piacere di vederle.
 
*Rullo di tamburi* Ecco dunque a voi:
 
* Enrico (per primo, altrimenti si offende xD)
* Emma 
* Giulia
* Fiona
* Malachy
* Sinead
* Mik
* Fran 
* Il nostro Sean <3
 
Cosa ne dite? Bene, non vi trattengo oltre e vi lascio al capitolo.
Grazie, come sempre, a tutte. Un bacione <3
Vostra
Marguerite

 
 
Imprevisti d'amore  
 
 

I could stay awake just to hear you breathing
Watch you smile while you are sleeping
While you're far away and dreaming
I could spend my life in this sweet surrender
I could stay lost in this moment forever
Every moment spent with you is a moment I treasure

 
(Aerosmith, I don’t wanna miss a thing)

 
 
Capitolo 14: I don’t wanna miss a thing (Fino all’inganno dell’Aurora)
 
 
Enrico si stiracchiò nel letto, stropicciando le coperte coi piedi.
Da fuori, i rumori della strada e dei bagnanti che tornavano dalla spiaggia per il pranzo, gli ricordarono che no, non era a Padova, prima ancora che lo facesse l’arredamento sconosciuto di quella camera. Ma allora, dove diavolo aveva dormito? E, soprattutto, che accidenti di ore erano?
Tastò con una mano la superficie del comodino alla ricerca dell’orologio, mentre con l’altra si schermava gli occhi dalla luce. Aveva anche scordato la mascherina nera con cui era solito ripararsi.
Si creò una fessura tra un dito e l’altro e realizzò: le tredici e quarantotto minuti.
Ma quanto cazzo ho dormito?
Un mugolio nel posto a fianco gli fece tornare tutto perfettamente alla memoria. La caccia era andata a buon fine ed era riuscito, alla fine, ad adescare una sirena in bikini con la quale doveva aver ballato alla festa in spiaggia fino all’alba con in corpo talmente tanti drink che, dopo, avrebbe dovuto stare attento ad accendersi la sigaretta.
E c’era finito a letto, non c’era dubbio. Anche se, il viaggio dallo stabilimento balneare all’albergo, rigorosamente a piedi ed evidentemente reggendosi o a vicenda o per miracolo – per non parlare di quello che era capitato dopo -  era solo una fotografia sfuocata.
Le diede un’occhiata furtiva. Alla luce diretta del sole di giugno, senza trucco e senza ninnoli, con i capelli arruffati ed una di quelle terribili pose che assumono tutti i comuni mortali nel sonno, non era nemmeno così bella. Chissà perché ci era finito insieme.
Fran, invece, faceva piacere incontrarla anche appena alzata, con la sua grazia naturale di ragazza semplice, perché non era poi tanto dissimile da come l’avrebbe vista dopo la sua seduta mattutina di toeletta. Fran…
Cazzo, Fran sta per tornare! Il pensiero gli attraversò la testa rimbambita alla velocità di un missile.
Io mi devo sposare con Fran e sono a letto con un’altra. Va bene, poco male, diciamo che è stato il mio personale regalo di addio al celibato. Fran capirà: ha sempre capito. Dopotutto, anche lei è via con uno, no? Con quell’inglese, no, irlandese, insomma di qualunque parte del mondo sia.
La mia piccola Fran… alla fine, per quanto non sia mai riuscito ad esserle fedele, sono sempre tornato da lei.
Si infilò i pantaloni e cercò i mocassini che chissà dov’erano finiti.
La sirena si svegliò con un mugolio: - Ehi, dove stai andando? Avevi detto che eri qui in vacanza…
- Tesoro, mi sono ricordato di avere una cosa importante da fare.
- Molto importante?
- Più di quanto non creda. Potrei perdere l’occasione della mia vita.
- Anche più importante di me? Ma chi è questa persona?
- La mia fidanzata… ehm, quasi moglie. – raccolse la tracolla in pelle che, piena di libri, pesava come un macigno. Accidenti anche al peso della cultura, imprecò, cosa non si farebbe per riuscire a impressionare una donna.
- Quasi moglie? – ringhiò la semisconosciuta con un’espressione che, in un istante, vanificò definitivamente la bellezza del giorno avanti. Un oggetto acuminato, che Enrico comprese essere un sandalo con tacco a spillo, fendette l’aria della stanza a velocità sproporzionata, schiantandosi contro la porta che lui si era già chiuso alle spalle.
- Stronzo!
 
 
- Ehi, Giù, sveglia!
Il risveglio del primario era stato quasi traumatico quanto quello di Enrico, con Emma che le aveva praticamente urlato nelle orecchie alle sei e mezzo del mattino.
- Che succede? Un’emergenza? Ha suonato il cercapersone?! Prepara la macchina, Emma, sarò pronta in un minuto. – saltò a sedere sul letto.
- Tesoro, tranquilla. Non c’è nessuna emergenza. – Emma rise, controllando comunque per scrupolo il cellulare della compagna – E’ solo che oggi torna Fran.
Giulia sbadigliò pigramente, coprendosi gli occhi col cuscino: - Fran chi? – chiese con voce impastata.
- Come “Fran chi”? Francesca. Fran, la nostra Fran.
- Ah, Fran… 
Emma sbuffò, cercando di ignorare il suo stato di catalessi: - Noto con piacere che sei lucida già dalla mattina.
- Non è mattina, Emma: è l’alba.
- Macchè alba! Dobbiamo andare a prenderla, farci raccontare tutto.
- A che ora arriveranno?
- Credo circa alle due di questo pomeriggio.
- Vorrei sottolineare che ne mancano ancora almeno otto.
- Sì, ma dobbiamo preparare lo spezzatino, nel frattempo.
- Alla faccia dello spezzatino! Ne faremo per tutta Padova, in questo tempo. Eppoi per chi sarebbe lo spezzatino? Io non ne ho voglia, con ‘sto caldo.
- Ma per Fran! L’andiamo ad accogliere. Poi la invitiamo a cena, lei e il suo Sean. Oh, Giù, non vedo l’ora di sapere se l’Irlanda è riuscita a farli innamorare davvero e…
- Frena il cavallo, cowgirl. Non pensi nemmeno lontanamente che, se lei è ancora cotta di Enrico, forse non ha perso improvvisamente la testa per questa specie di sconosciuto?
- No, no, no: lei deve essersi innamorata di Sean. Enrico è uno stronzo, non la merita. Invece Sean sembra così gentile, carino, perbene…
- Le cose non funzionano sempre per automatismi. Ma, già, sto parlando con una mente matematica.
- Ma come sei di ottimo umore, stamattina…
- Solo perché mi hai svegliato all’improvviso.
- Seriamente, Giù: tu pensi che davvero tra quei due non sia successo proprio nulla?
- Per quel poco che conosco Fran, temo di no .
Emma si stropicciò le mani: - Il punto è che lo credo anch’io e la conosco meglio di te.
- Su, non fare quella faccia. Cosa ne sappiamo? Magari in questo momento sono nello stesso letto, abbracciati, dopo una notte di amore e passione. Com’è che si dice? Al cuore non si comanda.
- Neanche al fegato e al pancreas, se per questo.
Giulia si voltò, fintamente indignata: - Insensibile!
 
 
Francesca, quella mattina, l’ultima che avrebbe visto sorgere su Galway, si svegliò parecchio prima che suonasse la sveglia.
Sean dormiva ancora ma, questa volta, accanto a lei. L’aveva abbracciata ai fianchi e si era rifugiato contro il suo corpo, con il viso abbandonato sulla sua spalla.
Coperto fino a metà dal lenzuolo, Fran non aveva resistito a cingergli le spalle e a sentire sotto le dita il tepore della sua pelle. Ancora qualche ora eppoi lui non sarebbe più stato lì, nello stesso letto, non avrebbe potuto più stringerlo, spiare la netta perfezione del suo profilo, la dolcezza delle sue palpebre socchiuse con la consapevolezza che anche l’indomani quella scena si sarebbe ripetuta. Invece no, di Erin e della magia di quei giorni sarebbe rimasto solo il ricordo e la paura di finire, col tempo, per rimpiangerli.
Anche durante il sonno Sean sembrava saperlo, mentre cercava il suo contatto. Pareva non voler perdersi nemmeno uno degli istanti che rimanevano da passare insieme.
E, pure se si ostinava a non ammetterlo, anche lei si era svegliata per sentirlo respirare, per non perdersi la memoria di un solo bacio, di un solo sorriso, per imprimersi sul cuore la delicatezza di quei momenti di resa. Per non lasciarli svanire nel tempo e fare tesoro di quegli attimi in cui tutto sembrava sospeso e maledettamente perfetto.
Le sarebbero mancati. Le sarebbe mancato ogni cosa di lui, di loro: le risate, le discussioni, le inibizioni eppoi l’abbandono, finalmente.
Quella notte era stata la più bella di quelle che aveva vissuto, e l’aveva vissuta con lui. Bella, talmente bella da esserne quasi spaventata. Ma, forse, ne aveva più paura adesso.
Come farò, una volta a casa, ad amare ancora i miei giorni, la mia routine, dopo quello che ho provato? Sean, come farò a dimenticarmi di te? Gli chiese nella sua testa. Sean, come posso fare?
Ho paura, paura di essere felice, paura di lasciare tutto, paura di lasciarmi andare. Paura di scoprire, all’improvviso, di aver atteso per questi anni un amore che in realtà era un’illusione. Paura di confessare a me stessa che ho sprecato il mio tempo, anche se questo tempo era finalizzato unicamente a portarmi qui, da te.
Sean scivolò dolcemente al suo fianco e Fran ebbe modo di osservarlo meglio. Senza trovare il coraggio di sfiorarlo, tracciò con la punta del dito la linea del suo profilo, scoprendosi a sorridere da sola.
È stato meraviglioso, Sean O’Brien. È stato meraviglioso finché è durato. È stato meraviglioso fare l’amore con te. Un sogno, un bellissimo sogno. Ma adesso devo tornare alla realtà, non c’è scampo. Dobbiamo riprendere possesso delle nostre vite per quello che erano prima. Dobbiamo tenere nel cuore il segreto di questi giorni per fare in modo che siano il nostro sostegno quando crederemo d’aver sbagliato tutto, anche se saranno essi stessi a darci quest’impressione. E non dobbiamo disprezzare così tanto la banalità, perché è quanto ci permette di distinguere le cose ordinarie da quelle speciali.
- Buongiorno. – sorrise lui, aprendo piano quegli occhi colore del mare di Galway.
Fran si sforzò di sorridere di rimando: - E’ presto. Torna a dormire.
- Cosa fai già sveglia?
- Niente, mi ha svegliato la luce. – mentì. Adesso comincerà il gioco di fingere che non sia successo niente, rifletté con amarezza.
- Fran, mi dispiace.
- Per cosa?
- Per stanotte. Non volevo trascinarti in una situazione scomoda. Voglio dire: non volevo darti modo di fare qualcosa di cui adesso potresti pentirti.
- Daremo la colpa alla Guinness. – scherzò, senza convinzione. Poi ritornò improvvisamente seria, accorgendosi che nel fondo dello sguardo di lui non vi era nessuna ilarità.
- Eravamo piuttosto ubriachi, ma non al punto da non capire cosa stavamo facendo. Fran, non mi sarei mai approfittato di…
- Non intendevo certo dire questo. Sapevo bene cosa stavo facendo, Sean. Ho voluto fare l’amore con te. Forse… - aggiunse guardando altrove – forse mi sarei pentita di più se non lo avessimo fatto.
Lui si era rivestito e, adesso, continuava ad armeggiare per chiudere la valigia.
- Cosa provi per me, Francesca?
- Non riesco a capirlo. A volte mi sembra tutto così confuso. Altre volte il cuore mi grida che…
Avrebbe voluto alzarsi per abbracciarlo, poi si ricordò di essere ancora svestita e sprofondò ancora di più nelle coperte. Sean, che aveva notato l’intenzione con la coda dell’occhio, le si avvicinò lentamente, sedendosi sul bordo del letto.
- Cosa ti dice il cuore, mo ghra? – le asciugò la lacrima che aveva cominciato a rigarle la guancia.
Fran si premette il dorso della mano sulle labbra, scrollando la testa: - Non vorrei che quello che provo per te sia solo passeggero. Che sia solo un modo di togliermi di dosso il grigiore di aver atteso un uomo che adesso è tornato da me pentito. Non posso permettermi di perdere lui e allo stesso tempo di perdere te. E, se fosse solo una cotta, Sean, ti avrei unicamente fatto del male e non voglio. Capisci? Non voglio, perché tengo troppo a te… - si coprì il viso, per nascondergli le lacrime.
- Vieni qui, Fran. Vieni qui, stringimi. – la baciò sulla fronte, tenendola abbracciata.
Non seppe dire, lei, quanto durò quell’istante, ma, quando terminò, si sentì sprofondare in un gran freddo.
Sean aveva aperto la porta, con la valigia in mano: - Fran, voglio dirtelo ora, per non dover affrontare il discorso in viaggio. Non avere dubbi. Vai da lui. E non lo faccio per compiacermi della mia magnanimità, ma perché voglio che tu sia felice. Vai da lui, se è quello che desideri. Non pensare a me. Quando si ama qualcuno bisogna lasciarlo libero. Ma se dovessi avere bisogno di qualunque cosa, cercami. Sii felice, colleen.
Poi fu solo il rumore lieve della porta che si chiudeva alle sue spalle.
 
 
- Va tutto bene, fratello? – Mik arrivò alle sue spalle, mentre Sean beveva il caffé in cucina.
- Benone, sì. Perché?
- Perché è strano vederti in piedi a quest’ora.
- Potrei dire lo stesso di te.
Mik si sedette sul tavolo, continuando ad osservarlo con gli occhi socchiusi: - Sarò l’uomo più distratto di Galway, sarà che non ti vedo da dodici anni, ma siamo cresciuti insieme e ti conosco quasi meglio di nostra madre. Mi accorgo se c’è qualcosa che non va, accidenti, anche se tu sostieni il contrario.
- Ma sto bene, ti dico. – rise, nervosamente.
- Faccio finta di crederti. Si tratta di Fran? Non vanno bene le cose tra di voi?
Sean si morse le labbra: - No, si tratta di Erin. –mentì. Ma era meglio che sapesse dei suoi vecchi fantasmi patriottici che di lei.
- Di Erin? Ma per favore, Sean!
- Di Erin, sicuro. Soffrirò la sua lontananza, proprio adesso che credevo di esserne guarito. Non ridere, ma mi ha tenuto distante una questione seria. La sua indipendenza.
- Io proprio fatico a comprenderti. Ma ho capito benissimo che non hai piacere a parlarne. Lo farai quando e se ne avrai voglia. Da ragazzi abbiamo condiviso tutto, ma alla nostra età è giusto che ognuno di noi abbia i suoi segreti.
Sean si alzò per abbracciarlo con franchezza: - Non dimenticarti di chiamare, Mik.
- Anche tu. E torna, qualche volta.
 
 
Sinead era scesa trascinandosi un trolley dal piano di sopra, tanto che nell’ingresso di casa O’Brien si erano accumulati i bagagli di entrambe le coppie, dando ulteriormente l’impressione di un distacco ancor più definivo.
- Sarà caldo a Parigi?- chiese lei, alzando un sopracciglio.
- Sempre più che qui. – sorrise Sean, stringendosi nel maglione – Ma non cambierei Galway con nessun altro posto al mondo.
- Ma perché tu e Fran non pensate di partire con noi?
- No, Sinead, il “Joyce” è rimasto chiuso fin troppo a lungo.
- A proposito dov’è Fran? – chiese Mik, notando che c’era la valigia ma mancava lei.
- Non ne ho la minima idea. Sarà qui in giro. Basta che torni in tempo per l’aereo. – sospirò Sean.
- Io ho come l’impressione che voglia perderlo, quell’aereo. – Fiona era entrata con il suo solito sorriso, velato appena dalla malinconia dei saluti.
- Se voi due restaste qui, io rinuncerei anche al viaggio di nozze, che ne dici Mik?
- Assolutamente.
- Tanto più che adesso anche Fran è diventata una perfetta figlia adottiva di Erin.
- Cosa ti da questa impressione, mamma?
- Perché, arrivando con la macchina, l’abbiamo incontrata che si riempiva gli occhi del mare della Galway Bay e che annotava le ultime impressioni su un taccuino. Non sapevo che quella figliola scrivesse anche.
- Sì, per passione.
- Beh, le ho lasciato Malachy, prima che potesse intristirsi troppo.
 
 
- Bella giornata, bambina, non è vero? – il vecchio O’Brien si sedette accanto a lei, sull’erba.
- Splendida. Un peccato dover partire. – rispose con dolcezza.
- Sean?
- E’ rimasto ad aiutare Michael e Sinead con i bagagli. – ripose il taccuino in tasca, perdendosi ad inseguire le onde con lo sguardo.
- Sei triste, Francesca?
- No, affatto…
- Oh, sì, invece. Da ieri sera, da quando avete ballato tu e Sean. Eppoi, all’improvviso, siete spariti.
Non è per farmi gli affari vostri, al contrario, è naturale che due giovani vogliano stare da soli. Lo sono stato anch’io, giovane, intendo. Ma non è affatto naturale che poi li si ritrovi la mattina dopo con questa espressione.
- Veramente, io…
- Posso permettermi? È da tanto che volevo dirti una cosa, da quando sei stata a casa nostra. Perché vivi tutto come se fosse… precario? Voglio dire, come se dovesse finire?
Francesca deglutì a vuoto, portandosi poi le ginocchia al petto, come in un gesto di difesa. Possibile che non avesse funzionato? Che quel diavolo d’uomo che sembrava assentarsi dalla stanza pur quando era presente e che attaccava lunghi sproloqui solo se si parlava di whisky, fosse l’unico ad aver davvero capito tutto?
- Attitudine, penso. Ho sempre avuto la paura che le cose belle potessero finire, fin da bambina. Temo sia parte del mio carattere.
Lui annuì, con discreta convinzione. Forse mi sono salvata in corner.
- Perdonami. – sorrise.
- E, per la malinconia, sarà l’idea di tornare a casa.
-Is milis dá ól é ach is searbh dá íoc é. – rise, sbuffando, mentre si alzava.
Si ricordò, improvvisamente, che Francesca non capiva una sola parola di gaelico.
- E’ un vecchio proverbio. Significa: “Il bere è dolce, ma il pagare è amaro”.
Trasalì. Che cosa stava cercando di dirle? Era da quando aveva scelto quella canzone, al matrimonio, che aveva la strana sensazione… Ma no! Cosa andava a pensare?
È il tuo cervello che inizia a fondere, Francesca.
Decise che avrebbe fatto meglio ad alzarsi e a seguire Malachy in casa, prima di fare ritardo.
- Sa, Malachy, questi giorni sono stati tra i più belli della mia vita. Dico davvero.
Ed era sincera, come non lo era mai stata. Non era solo il dovere di sembrare un’ospite cortese.
- E tutto grazie a voi. Mi sono sentita davvero a casa. Mi avete fatto sentire a casa.
- Oh, cara… - scrollatosi di dosso l’aplomb di filosofo, Malachy abbracciò la ragazza – Tu sei una di famiglia.
 
 
Fu solo il primo di una lunga serie di abbracci, scambiatisi con le lacrime agli occhi e di “tornate presto”, detti con voce incrinata.
- A Natale verremo da voi o anche prima, se il piccoletto dovesse avere fretta. – Sean baciò Sinead sulle guance – Riguardati, vecchia mia.
- Contaci. E tu abbi cura di Fran.
- Fran, cara, di qualunque cosa tu abbia bisogno, in qualunque momento tu abbia voglia di telefonare a questa vecchia signora, sai dove trovarmi. Chiamami quando desideri: chiacchiereremo di nonna Kathleen e di altre cose da donne.
- E se dovesse servirvi una cassa di whisky, la distilleria O’Brien sarà lieta di fornirvela.
Mik diede di gomito a suo padre che si affrettò ad aggiungere: - A prezzi modici, naturalmente.
- Non mancheremo. – rise Sean, mentre Fran si asciugava gli occhi.
- Grazie, grazie a tutti. – Fran dispensava baci con le mani, commossa – Grazie, di questi momenti meravigliosi.
- Tesoro, conterò i giorni che ci separano. – Sinead sembrava non volersi separare da lei fino all’ultimo.
Fu con la morte nel cuore che le rispose: - Anch’io conterò i giorni. Anch’io, Sinead.
- Fate buon viaggio, ragazzi.
- Anche voi! Mandateci una cartolina da Parigi
 
 
Il viaggio di ritorno era stato il momento peggiore di tutti quei nove giorni. Non già perché ogni nuvola che si lasciavano alle spalle, ogni chilometro che li separava da Galway, ogni tratto di ferrovia che li conduceva verso Padova era anche una nuvola, un chilometro, un tratto in meno a tenerli legati. Piuttosto perché non avevano fatto che tacere, Fran persa a inseguire il senso della sua ultima, strana, conversazione con Malachy e Sean che fingeva di essersi smarrito nelle pagine dei Sepolcri.
Anche se entrambi stavano combattendo il desiderio di scivolare di nuovo l’uno nelle braccia dell’altra e assaporare gli sgoccioli di quella loro avventura, guardando insieme nella stessa direzione per l’ultima volta, continuavano a temere che le parole e persino i gesti non avrebbero fatto che peggiorare la situazione.
È stata una follia credere che tutto potesse rimanere uguale, dopo questa notte.
Pensava Sean, cullato dal rumore ritmico delle rotaie.
Eppure non cambierei quelle ore con nient’altro al mondo.
Fran, adesso guardi fuori dal finestrino e chissà cosa pensi. Ma io ho visto il tuo viso in quel momento, ho sentito il tuo corpo e la tua anima sfiorare il mio corpo e la mia anima. Il tuo viso, Fran, lo conserverò nella memoria finché mi sarà possibile. Quello che ci ha unito e che non riesco a pensare che debba finire sarà impresso per sempre dentro di me. Mi hai compreso, ti ho compresa, mi hai raggiunto nei percorsi più tortuosi, nei pensieri più segreti del cuore. Sono occasioni che capitano una sola volta nella vita. E se ora devo ammettere che… Fran, sii felice, amore mio. Mo chara, mo ghra, mo rùn. Sii felice, segui quello che senti di dover fare. Io mi farò bastare quello che abbiamo avuto.
Il fischio insensibile del treno li strappò dalle loro riflessioni.
- Siamo arrivati. – annunciò lei, spezzando all’improvviso il silenzio nello scompartimento vuoto.
- Già.
Sean le porse la mano per aiutarla a scendere dal predellino.
- Allora è proprio tutto finito, Fran.
- Pare di sì.
- Fran, io… Beh, grazie di tutto. – si sentì ridicolo per quella frase, ma se non era riuscito a formulare niente di decente in una mezza giornata di viaggio, non ce l’avrebbe fatta nemmeno ora, con le lacrime che insistevano per scorrere liberamente e mille cose in testa che si affollavano senza senso né ordine.
- Grazie a te, Sean. Hai… hai una splendida famiglia, davvero. Non dimenticarlo mai, quando dovessi essere troppo triste. – gli porse la mano. Slanciarsi per abbracciarlo, per baciarlo un’ultima volta, le pareva una ostentazione inutile, oltre che un’ulteriore complicazione. Dopo un ritorno simile aveva bisogno di vedere tutto il più chiaramente possibile.
- E mi saluti così, come fossimo ancora al “Joyce”?
- Cosa vuoi che faccia? Che ti getti le braccia al collo? Che ti sussurri un’altra volta di restare insieme questa sera e che domani tutto sarà di nuovo uguale?
- Allora hai deciso, torni da lui. Ne sei certa.
Annuì, con fermezza: - L’ho aspettato così tanto tempo, Sean… Ho il diritto di tenermelo stretto, adesso che è tornato.
- Il diritto, Francesca! Sulle persone non si hanno diritti, ma solo sentimenti. Se dici questo, allora non sei poi tanto diversa da lui.
- Io lo amo. – guardò lontano, mentre lo disse.
- Tu ami me. Lo hai detto questa notte, me lo hai confessato, prima di fare l’amore.
- Questa notte è stata questa notte. E adesso è adesso. Non eravamo nemmeno lucidi e…
- Non eravamo lucidi, eh? Già, la Guinness, il whisky e tutto il resto. Ma certe cose non è necessario essere sobri per capirle.
- E cosa avresti capito?
- Che torni da lui solo come premio della tua attesa. Francesca, vorrei solo che tu ti rendessi conto… che una donna non fa l’amore a quel modo, se non è innamorata. Non può essere stato soltanto sesso o la conseguenza folle di una sbornia. Ho paura che tu stia andando verso l’infelicità solo per timore di cambiare il corso delle cose.
- Credi davvero che tu possa essere migliore di lui, Sean?
- No, non lo credo. Ma so quello che provo e vorrei che solo una volta anche tu ammettessi con te stessa quello che senti.
Lei si passò nervosamente le mani tra i capelli: - Ma che cosa vuoi ancora da me?
- Sapere se mi ami. Solo questo. Per l’amor di Dio, potrò desiderare di saperlo, per trovare un senso a quello che ci è successo? Fran, guardami!
- No, non ti amo. È stato bello, siamo stati bene. Ma no, non è quello che credevo. Ammetto di avere avuto dei dubbi, ma adesso sono svaniti. Sposerò Enrico Sacrati e non sarà solo il premio per averlo atteso.
- Come vuoi, come vuoi… - sospirò, nascondendo gli occhi arrossati dietro gli occhiali da sole.
Francesca si tolse il claddagh e glielo porse.
- Tienilo. In mio ricordo. – le disse con voce incrinata – Così, fra tanti anni, quando lo ritroverai nel fondo di un cassetto, magari sorriderai e penserai a me. – si sfilò il proprio, con estrema lentezza, lo portò alle labbra per baciarlo e lo rimise al dito – Anch’io lo terrò per ricordo.
- Non soffrire troppo per me, Sean. – cercò di sembrare fredda ma, a vederlo piangere, le lacrime avevano preso a scivolare copiose, senza che riuscisse a controllarle – E non temere, amo Enrico. Non è una stupida ripicca.
- Qualunque cosa accada, sai dove trovarmi. Sai che ti voglio bene. Non farti scrupoli a venirmi a cercare. E ricordati quello che ti dico, nonostante qualcuno nella vita possa sempre tentare di farti credere il contrario. Tu sei una donna straordinaria, Fran, che merita di essere felice. Avrei voluto essere io a farlo, ma ti auguro davvero che lui possa riuscirvi meglio di me.
Francesca si morse appena il labbro inferiore: - Grazie… Abbi cura di te. Ti voglio bene, Sean.
Annuì e rimase a guardarla mentre si allontanava, trascinandosi la sua valigia.
Non aveva fatto che pochi metri quando la rincorse: - Fran! Fran!
-Fran… - soffiò appena, quando l’ebbe raggiunta.
Rimasero un lungo istante a guardarsi.
Poi Sean la afferrò dolcemente alle spalle: - A questo però non ci rinuncio.
Le sue labbra di nuovo sulle proprie in un bacio. L’ultimo, malinconico, amaro bacio.
Francesca si abbandonò nelle sue braccia, sentendo improvvisamente ogni sua volontà fuggire via.
I viaggiatori, i treni, il viavai della stazione scomparve e rimasero soli al mondo.
Non avrebbe voluto lasciarla andare. Non avrebbe voluto e, invece, le sussurrò all’orecchio: - Ti amo, Fran. Tá grá agam duit. – prima di allentare la presa -Tá grá agam duit.
La sagoma di Fran si disperse nella folla, fino a venirne completamente inghiottita.
Il sogno era finito.
 
 
Aveva girato la chiave nella toppa e la prima cosa che aveva notato, aperta la porta, era stato che il ficus benjamin non era morto. Emma si era presa cura di lui.
Doveva mettersi nell’ordine delle idee che era ora di tornare a pensare alla vita di tutti i giorni, alle piante, alla scuola, ai libri, alle sigarette e ai pigiami da adolescente. Solo che adesso, le telefonate a casa, la pasta mangiata da sola e i film con cui era solita riempire le sue giornate avrebbero avuto un senso diverso. Tutto sarebbe stato diverso.
Sean mi ha cambiata. Non posso negarlo.
Si asciugò le lacrime, mentre riponeva nel frigo la spesa.
Si asciugò le lacrime, mentre riavvolgeva nella pellicola i resti di una cena che non le andava di consumare.
Emma e Giulia avevano chiamato per sapere dove diavolo fosse finita, che loro erano rimaste ore ad attenderla alla stazione.
Grazie, ma no, sono molto stanca. Non me la sarei nemmeno sentita di venire da voi. Faccio un bagno e mi metto a letto.
Lì per lì, aveva evitato di piangere per non farle impensierire troppo, ma nella doccia invece aveva dato libero sfogo ai singhiozzi, illudendosi di nasconderli persino a se stessa e di confonderli con l’acqua.
E aveva continuato anche durante la proiezione alla tv di Caprice, una commedia anni sessanta a metà fra il romantico e lo spionaggio, che di spunti per le lacrime ne dava veramente pochi.
Sul tavolo del soggiorno aveva posato il claddagh che, ora, brillava imprudente alla luce del televisore.
Si alzò – al diavolo se non avrebbe capito se il tizio dell’Interpol si sarebbe davvero innamorato della spia – e andò a recuperare l’anello di Enrico, quell’arnese pacchiano e di gusto piuttosto cupo.
Lo tolse dalla scatolina e lo mise al dito: avrebbe dovuto farci l’abitudine. La signora Sacrati.
Ripose nell’astuccio di velluto il claddagh e lo adagiò nel baule in cui, fin da bambina, conservava le cose più care.
Già, adesso il sogno era davvero finito.

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Capitolo 16
*** Cap. 15 - Una torta sotto la pioggia ***


Mie Carissime!!!
Eccoci al quindicesimo capitolo: è uno dei più lunghi, quindi siete autorizzate a tirarmi insulti e anatemi in gaelico se dovesse essere noioso, ma almeno è arrivato in tempi brevi. Questa volta Milady Ispirazione è stata benevola e non mi ha mai abbandonata. Sarà che ne manca solo un altro oltre all’epilogo per concludere la storia e ormai non mi resta che riportare la volontà dei miei personaggi e seguire i filo degli eventi, che scorrono da soli. ^^
Mi mancherà, una volta finita… comincio a sentire anch’io la stessa malinconia di Fran. Ma non intristiamoci con tutto questo anticipo!
Vi lascio alla puntata di oggi e vi ringrazio tutte, di cuore, dalla prima all’ultima!!!
Vi abbraccio collettivamente e vi mando un bacione <3
sempre vostra
Marguerite

 

Imprevisti d'amore


Someone left the cake out in the rain
I don’t think that I can take it
‘Cause it took so long to bake it
And I’ll never had that recipe again.
 
(J. Webb, MacArthur Park)

 
 
Capitolo 15: Una torta sotto la pioggia

 
 
- Fran! Fran, sei in casa?
Enrico era andato da lei non appena ebbe decretato di apparire presentabile. La sbornia del sabato era smaltita, il ricordo della sirena – che tanto lucido non era mai stato – si era affievolito fino a sparire e, oltretutto, con un’ulteriore notte in mezzo, non rischiava nemmeno di passare per il pretendente famelico che ardeva per una risposta.
- Sono in cucina. Sempre dritto poi a destra. – la risposta della ragazza parve più la formale indicazione che si riceverebbe ad una portineria aziendale.
- Che stai facendo?
- Cucino, no? Sono le sette e trentasei di lunedì sera, mi sembra normale.
- E io che avevo pensato di invitarti a cena fuori…
- Non mi va di uscire, abbi pazienza. – continuò a tagliare i pomodori senza nemmeno voltarsi a guardarlo.
- Ma si può sapere che hai, Fran? Non mi hai nemmeno salutato.
- Hai ragione. Scusami… - si asciugò le mani in un canovaccio e, con un certo imbarazzo, lo baciò su entrambe le guance: - Ciao, Enrico.
Lui le prese le braccia e delicatamente se le portò attorno al collo, infischiandosene se, per quella volta, correva il rischio di lasciare tracce di pomodori sulla camicia immacolata.
- Mi sei mancata, sai. Ti ho pensato spesso. – la strinse un po’ di più, cingendole la vita.
- Anch’io ho avuto modo di pensare tanto. – evitò di incontrare il suo sguardo. Quel contatto la metteva stranamente a disagio. E dire che era ciò che aveva continuato a desiderare per anni.
- Non sembri arrivata ad una conclusione. Hai la faccia di una che è passata in un bel trambusto, Fran.
- Non è stato facile… Voglio dire, non è stato facile dire a Sean che tra noi era finito tutto. Io… io l’ho amato molto, credimi.
Enrico si fece stranamente serio. Annuì: - Vuoi sposarmi, Francesca? – le passò le dita tra i capelli – Vuoi sposarmi, amore mio? Ti renderò felice, te lo prometto. Quello che è successo tra noi, prima, non conta più nulla adesso. Cancelliamo tutto e ricominciamo daccapo. Questa volta non sbaglierò: non ti darò neppure un solo motivo per piangere.
Lasciò scivolare le mani sul petto di lui, in un gesto più di abbandono che di seduzione.
Attese un istante, un istante lunghissimo, sufficiente per rivedersi scorrere davanti agli occhi le immagini di quei nove giorni. Ora doveva tracciare senza esitazioni una linea netta tra quello che era il passato e quello che sarebbe stato il futuro.
E Sean… Sean ormai doveva appartenere soltanto al passato. Un meraviglioso, malinconico passato.
Enrico era quello che aveva sempre desiderato, fin da adolescente. Il suo amore testardo, la sua perseveranza, alla fine, avevano vinto. Lo aveva dimostrato a lui, perso a inseguire troppe donne, a se stessa, nella quale aveva perso la fiducia, e a tutti coloro che non avrebbero mai scommesso sul loro rapporto e ne avevano accolto la fine con una serie di “te l’avevamo detto”.
Aveva ottenuto il suo traguardo. Aveva ottenuto l’uomo che voleva accanto.
Eppure, perché adesso non era felice?
- Francesca… ti ho fatto una domanda. Posso sperare di avere una tua risposta?
Sarebbero stati bene insieme.
Sì, staremo bene. Io, Enrico, i nostri libri, i nostri sogni, i nostri ricordi e la nostra vita. La nostra vita…
Se solo riuscissi a mettere a tacere il cuore, a negare che Sean, in nove giorni, mi ha regalato un’esistenza intera, molto più di quanto non abbia fatto Enrico in ventisei anni di amicizia, prima, e di fidanzamento, poi. Se solo riuscissi…
- Io… Enrico, io…
- Non avere paura, Fran. – le carezzò la schiena, sorridendo – La mia piccola Fran, sempre così spaventata…
- Accetto. – quella parola le scivolò sulle labbra, lasciandola esausta.
Prima che riuscisse a considerare le conseguenze di ciò che aveva fatto, la bocca di Enrico era già sulla sua. Aveva un sapore diverso. I suoi baci non erano quelli che ricordava. Non erano più il suo dolce ideale di quando era ragazza. Forse erano cresciuti entrambi. Forse, nel frattempo c’erano state altri baci, troppi baci.
I suoi baci, quelli di Sean.
Rabbrividì al pensiero che, mentre si abbandonava alle carezze di Sean, non aveva pensato a Enrico nemmeno per un momento. E che, al contrario, tra le braccia dell’uomo che sarebbe stato presto suo marito, la sua mente vagava altrove.
- Amore mio, stai tremando. Va tutto bene, Fran?
- Ho aspettato questo momento per troppo tempo. Mi sembra così strano, riaverti qui. Ho l’impressione che tutto possa finire di nuovo, all’improvviso.
- E’ tutto a posto, Fran. Non me ne vado, questa volta. – le sussurrò all’orecchio – Sono stato un’idiota a non accorgermi prima di quello che avevo perso. Lasciati andare, Fran. Lascia a me tutte le preoccupazioni, tutti i dubbi, tutte le paure. Ci sono io, adesso.
Lentamente la condusse verso la camera da letto.
- I pomodori, Enrico!
- Certo che il freddo dell’Irlanda ha fatto male al tuo romanticismo! Mandali al quel paese, i pomodori…
Già, doveva aver perso il romanticismo, per parlare di ortaggi quando lui aveva voglia di fare l’amore. E anche lei lo aveva aspettato, quel momento, per più di due anni. Avrebbe dovuto sognare di passare con Enrico quanto più tempo possibile, di recuperare, di dimenticare.
Aveva vagheggiato per notti e notti di perdersi di nuovo nella passione dei loro incontri. Ma, adesso, pur sentendo ancora quell’antico desiderio, pur sentendo che la chiamava verso il corpo di lui, non era come aveva immaginato. Era diverso. Lei era diversa.
Prese l’iniziativa, anche se le parve, improvvisamente, di aggiungere sale sulle ferite di Sean. Questa volta non sapeva se il burro o il whisky sarebbero bastati a sanarle.
Ma doveva curare le proprie, ora.
Aderì al petto di Enrico, baciandolo con foga.
Dimenticherò. Dimenticherò tutto assieme a lui. Tutti i miei tormenti.
Forse non era il modo giusto per curarli, però. Al contrario, sentiva il dolore aumentare ad ogni bacio, ad ogni carezza.
Non posso. Non posso fare l’amore con lui e pensare a Sean. Non devo pensare.
Chiuse gli occhi e si lasciò guidare solo dal richiamo sensuale della pelle.
Non devo pensare.
 
 
- Signor O’Brien! Signor O’Brien! – bussarono con insistenza sulla serranda mezza abbassata.
Chi diavolo poteva essere, all’ora di chiusura? Sean si affacciò sulla porta.
Non ci voleva! Ci mancava solo l’avvocato! Sicuramente aveva perso un’altra causa e dimostrava tutta l’intenzione di volersi istallare lì ad ingozzarsi di irish coffee.
- Veramente sto chiudendo. Ho già spento tutto e…
- Signor O’Brien, avrà almeno la compiacenza di spiegarmi cosa significa quel cartello lì fuori.
Mi faccia entrare, su.
- Avvocato, è tardi. È lunedì sera. Io sono stanco e voglio tornare a casa.
- Solo un minuto. È tardi anche per me e ho perso un’altra causa. Sono depresso e a casa non ho nessuno ad aspettarmi. Ma, francamente, lei non sembra stare molto meglio di me.
- Lei ha perso una causa, io la donna che amo. Non per fare la classifica dei dolori della gente, ma trovare un altro incarico è più facile che trovare la persona giusta.
L’avvocato si sedette al bancone, pesantemente: - E cosa c’entra questo col “Joyce”? Mi spiega perché l’ha messo in vendita?
- Deve guidare, avvocato? – gli chiese Sean, cambiando argomento.
- No, sono a piedi.
- Molto bene. – spillò due boccali di Guinness e si sedette anch’egli – Lascio Padova e torno in Irlanda. Non posso occuparmi del “Joyce” a così tanta distanza. Mi mancherà. Mi mancherà la gente, la vita che ho condotto per questi anni, ma devo farlo.
- Posso chiedergliene il motivo?
- Questioni personali. Ci aggiunga pure che voglio mettere più miglia e mare possibile fra me e una certa ragazza e avrà la risposta.
- Figliolo… come ha detto che si chiama?
- Sean.
- Mario. – si presentò, così almeno avrebbe smesso di ricordargli che era un avvocato – Caro Sean, e lei pensa davvero di smettere di soffrire, fuggendo?
- Non sto fuggendo. Sto cambiando vita.
- Se preferisce vederla sotto questo aspetto. Mi faccia indovinare: si tratta della professoressa, vero? Quella carina, che si è finta la sua fidanzata. Come si chiama? Francesca?
- Già. Proprio lei.
- Mai mischiare il lavoro con i sentimenti.
- L’ho imparato a mie spese. Ma vede, Mario, amo la mia terra. È la cosa che amo di più dopo Francesca e la mia famiglia. Spero che Erin possa bastare a consolarmi.
- Glielo auguro. Sentirò la sua assenza, Sean.
- Anch’io, temo. Anch’io.
 
 
Il cellulare di Fran squillò verso le sette, svegliandola di soprassalto.
Ci mise un attimo a realizzare di trovarsi a casa e, soprattutto, di sentirsi chiusa nell’abbraccio – o meglio nella morsa – di una specie di anaconda che risultava essere Enrico.
- Fran, chi accidenti è?
- Se ti sposti magari vado a vedere.
Scendendo dal letto a piedi nudi, recuperò il telefono sul comò e lesse il nome sul display.
Sean.
Rimase un poco a valutare se rispondere o meno.
Se doveva davvero mettere un punto e ricominciare la sua nuova vita con Enrico, avrebbe fatto meglio a rimanere il più distante possibile da Sean, da quello che le avrebbe riportato alla mente i giorni a Galway e, in particolare, dai suoi sentimenti.
Potrebbe trattarsi di qualcosa di serio. Dopotutto, con la famiglia così distante…
Potrebbe trattarsi di Sinead. Il bambino! E se è accaduto qualcosa al bambino? O al vecchio Malachy? Se Sean adesso stesse soffrendo e io…
- Insomma, Fran, vuoi rispondere o no? – Enrico aveva cominciato a spazientirsi.
Premette il tasto rosso per rifiutare la chiamata e tornò a letto.
- Chi era?
- Emma. Sono due giorni che cerca di invitarmi a pranzo. Ma non mi va di rispondere in questo momento. Voglio stare con te.
Si strinse un po’di più accanto ad Enrico.
- E’ stato bello, questa notte, Fran.
- Già… - si dispiacque che la finestra fosse chiusa, altrimenti avrebbe avuto una direzione in cui guardare, mentre lo diceva.
- Non vedo l’ora che tu sia mia moglie. Svegliarmi ogni mattina così, addormentarmi ogni sera sulle tue spalle… - si accomodò meglio.
- Sei diventato poetico in questi anni. – si sforzò di sorridere – Da quando in qua?
- Ci sono tante cose che non sai di me, Fran. – bisbigliò, ricadendo nel sonno.
E tante cose che so, invece, Enrico.
Come so che non avevo immaginato così la notte che saremmo tornati a fare l’amore.
Come so che vorrei essere altrove, adesso. Che vorrei baciare altre labbra.
Vacca miseria, perché deve essere tutto così dannatamente incasinato?
Il telefono riprese a squillare.
- Fran… spegni quel coso.
- Senti, tu continua a dormire, io le rispondo, altrimenti mi tortura all’infinito. – gli depose un bacio sulla guancia – Vado di là.
 Si chiuse nel soggiorno, con la scusa di non disturbarlo.
Il numero di Sean continuava a lampeggiare sullo schermo e lei premette il tasto con le mani che le tremavano: - Pronto?
- Fran, sono io. – la voce dall’altro lato sembrava altrettanto titubante – Sono io: Sean…
- Lo so… scusami se non ti ho risposto subito. È che non sono sola.
- Ho capito. – aggiunse lui, sottovoce, prima che la conversazione morisse in un lungo silenzio.
- Era qualcosa di importante? Ho pensato subito a Sinead e al bambino e…
- No, non si tratta di Sinead. A casa stanno tutti bene. Grazie per esserti preoccupata di loro. Ma si tratta di me.
- Dimmi.
- In realtà volevo invitarti a colazione e parlarti di una decisione, ma dal momento che non sei sola, significa che… beh, che fra di voi le cose stanno tornando a posto e non voglio essere io a sconvolgere la situazione. Dunque te lo dirò al telefono.
- Sì, penso sia meglio così. Lui è qui e non saprei nemmeno cosa inventarmi per uscire. – si sedette sul divano, presa dall’improvvisa sensazione che stesse per comunicarle qualcosa di particolarmente importante.
- Parto, Fran. Torno a Galway. – non ebbe alcun riscontro e, se non fosse stato per il rumore di fondo, avrebbe certo pensato che fosse caduta la linea – Fran, mi hai sentito?
- Parti? Sean, no! Cioè, volevo dire… non me l’aspettavo. Forse, forse è meglio che ci vediamo. Che mi dici tutto a voce, perché io non ci sto capendo più nulla.
- Certo. Al “Joyce”? O dove vuoi tu.
- Al “Joyce” è meglio di no, credimi. Senti, tra un’ora davanti a Palazzo della Ragione.
 
 
Palazzo della Ragione, che segnava la partizione tra Piazza delle Erbe e Piazza dei Frutti, biancheggiava abbagliante sotto il sole di fine giugno.
Da quando era arrivata a Padova, Francesca si era innamorata subito di quell’edificio a doppio loggiato. Innamorata al punto di dolersi – nella sua fantasia di scrittrice – che nulla di speciale le fosse accaduto in quel luogo, cosicché alla domanda sul perché fosse il suo angolo preferito, si ritrovava sempre a rispondere soltanto che le piaceva, molto semplicemente.
E, se c’era un motivo per cui non aveva voluto incontrarlo al “Joyce”, dovuto al fatto che lì era cominciato tutto, ce n’era anche uno per aver stabilito a Palazzo della Ragione il posto dell’appuntamento.
Sean sarebbe partito e lei sentiva di avere disperatamente bisogno di trovare un punto di riferimento, più vicino di Galway, che glielo ricordasse e in cui poter rifugiarsi nei mesi a venire.
Ti stai comportando come una stupida, Fran. Perché mai dovresti sentirne la necessità?
Ma, stupida o no, stava regalando Palazzo della Ragione a Sean. Dal suo luogo sarebbe diventato il loro luogo. Lui non l’avrebbe mai saputo, ma non era un dono da poco.
Era arrivata in anticipo. In quella mattinata feriale, la piazza era quasi vuota.
Salì lo scalone a passo lento per dominare le vie d’attorno. In un film, una volta, aveva sentito dire che le cose viste dall’alto fanno meno paura. Poteva rendersene conto lei stessa.
Spirava una lieve brezza che riusciva a farle trovare un po’di ristoro dal troppo caldo e le scompigliava i capelli.
Finalmente, in basso, riconobbe una figura familiare. Scese.
S’incrociarono a mezza via, sul terzultimo gradino.
- Sei già arrivata… - sorrise lui – Credevo di essere in anticipo e stavo venendo a dare un’occhiata al panorama. È bello, qui.
- Sì, è bello. – Fran torturava con le dita la cinghia della borsetta.
- Come stai? – le chiese, con una certa formalità.
- Bene. Tu?
- Anch’io. Ma non perdiamoci in convenevoli. Volevo salutarti, prima di tornare a Galway.
- Senti, Sean, se è per colpa mia, io con l’inizio dell’anno scolastico cercherò di tornare a Bologna, da Enrico. Non c’è bisogno che te ne vada tu, per non vedermi.
- No, no, non è per questo. È che ho capito che non posso continuare a fuggire da Erin. La amo, in modo giusto e naturale, adesso. Non sono più il ragazzo impulsivo e irragionevole che ero. Non corro rischi, non in quel senso, capisci? Qui non ci stavo per il “Joyce”, per la storia e i monumenti o per altro. Ci stavo per paura. Paura di farle del male. Paura di aggiungere dolore ad altro dolore. Ma i miei fantasmi li ho vinti. Me ne accorgo, me ne sono accorto mentre eravamo là. È tempo che torni.
- Quando le cose stanno così, sarebbe ingiusto trattenerti. Cosa farai, con la tua famiglia? Scusa, non sono affari miei.
- Dirò loro la verità. Ho mentito per troppo tempo. Loro capiscono e perdonano molte cose: ormai li conosci bene anche tu.
Fran avvicinò la mano, con timidezza, fino ad incontrare la sua. La strinse: - Spero che tu riesca a trovare la tua serenità, a casa.
Si accorse che lui portava ancora il claddagh, il che la fece sentire a disagio.
- Grazie. Spero che anche tu riesca a tornare a Bologna e ad essere felice. – si portò la sua mano alle labbra e la sfiorò con un bacio.
- Quando parti?
- Non appena avrò venduto il “Joyce”. Ho dato notizia ieri e si sono presentati già due possibili acquirenti. Devo valutare alcune cose. E non si tratta solo del prezzo. Ci sono dodici anni della mia vita, là dentro: è pur sempre una parte di me. Chissà se la mia attività nella distilleria sarà altrettanto positiva come quella di gestore di un irish pub. – rise appena.
- Fammi sapere quando lascerai Padova. Se lo vorrai, è ovvio.
- Non potrei andarmene senza dirti nulla. Posso abbracciarti, Francesca?
Il cellulare squillò di nuovo. Al diavolo!
- E’ Enrico… sarà meglio che risponda: sono uscita senza dire nulla.
- Fran, dove sei? Mi sono svegliato e tu non eri più a casa? – si sentì chiedere.
- Hai ragione, hai ragione. Amore, scusami. Era Emma: non doveva invitarmi a pranzo, ma era successo un mezzo casino tra lei e Giulia. Era in lacrime, povera, e mi sono dovuta precipitare. Adesso l’allarme è rientrato ma pensa che…
- Sì, sì, mi racconterai. Senti, ti ho chiamato per dirti che sono in viaggio verso Ferrara.
- A fare che, a Ferrara?
- Sai quella mostra temporanea che dovevo curare? Quella sulla vita quotidiana nel rinascimento? Bene, mi hanno chiamato che è arrivato un pezzo nuovo: un’autentica cotta di maglia di fine ‘500. Ma tu sai, vero, quanto sono rare le cotte di maglia? Non potevo non andare ad esaminarla e a cambiare l’allestimento per darle più risalto.
- Certo, capisco. Beh, la cotta di maglia è una gran cosa. È straordinario, Enrico: sono davvero contenta per te.
- Starò via un bel po’, diciamo due settimane. Sarò di ritorno sabato 3 luglio. Devo pensare alle modifiche del catalogo, correggere la bozza che ho scritto e, se fossi con te, so già che non lavorerei: mi distrai troppo. Ce la farai a resistere in mia assenza?
- Ci proverò.
- Ciao, Fran, ciao. Ti amo.
- Ti amo anch’io. – si pentì di quella frase, che suonò come una sterile ostentazione.
Chiuse la comunicazione con un sospiro. La cotta di maglia…
- Dove eravamo rimasti?
- Che volevo abbracciarti, Francesca. – la trasse a sé senza darle il tempo di rendersene conto. Un istante per realizzare di averla ancora così vicina e prese a coprirle la fronte, le gote, il viso di baci, senza osare sfiorarle le labbra. Si allontanò appena, per avere modo di guardarla. Cercò di imprimersi nella mente il suo profumo, il colore dei suoi capelli, i suoi lineamenti, la forma dei suoi occhi, il suono della sua voce. Troppe cose e tutte insieme.
Aveva capito che Enrico era partito. Avrebbe voluto dirle di andare a casa sua, di passare insieme un’ultima giornata, un’ultima ora d’amore, ma non avrebbe avuto senso. Razionalmente non avrebbe avuto nessun senso. Era già stata costretta a mentirgli, solo per quell’incontro innocente.
Tornò ad osservare Fran, in tempo per accorgersi che piangeva.
- Ehi, colleen! – la strinse un po’ più forte, come si fa per consolare i bambini – Colleen, cosa sono queste lacrime? Finirai per far commuovere anche me.
- Scusami, non riesco a farne a meno. – sorrise, con amarezza – Adesso il mio pessimo gaelico mi suggerirebbe di dirti: Slàn leat, mo chara.
- In realtà, sarebbe più corretto: - Slánafhágáil, moghrá. Significa: addio, amore mio.
- Irlandese melodrammatico che non sei altro. – ironizzò tra le lacrime – Non sopporto gli addii.
- Come vuoi. Allora, slàn leat, Francesca.
 
 
Era ritornato al “Joyce”, a passo lento, respirando profondamente l’aria di quella città che, presto, non sarebbe più stata la sua.
Nella mente si affollavano le parole di sua bisnonna Kathleen, che aveva avuto modo di leggere nei diari tramandatigli da sua nonna Saoirse. Come in un film della propria fantasia, vedeva le immagini della sua storia d’amore con Liam. Vedeva il loro addio come se lo avesse vissuto. Erano altri anni, quelli in cui a Dublino bruciava il Post Office. Erano altri tempi che si trascinavano altre necessità, più tragiche e più gravi delle loro piccole vite. Eppure, all’improvviso, comprendeva la sofferenza di quell’uomo che non aveva mai conosciuto, nel lasciare Kathleen che tanto amava.
- Eh, vecchio Liam, capisco cosa devi aver provato, dicendole addio.
- Scusi? È lei Sean O’Brien?
Accampata davanti alla serranda chiusa del bar, c’era una ragazza dall’aria curiosa, con un libro in una mano e una carota nell’altra.
Non ebbe molto tempo di riflettere sul perché questa bizzarra sconosciuta con i capelli simili alla schiena di un porcospino e gli occhi grandi color nocciola stava leggendo Yeats sgranocchiando carote davanti al suo locale: - Sì, sono io. Sean O’Brien, piacere. – le porse la mano.
- Ci avrei scommesso. – infilò la carota nel taschino di un buffo gilet giallo, portato sopra una maglietta a righe bianche e nere che avrebbe ipnotizzato anche un serpente, prima di ricambiare il saluto  - Morgana. Morg, per gli amici.
- Posso fare niente per lei?
- Per te.  – lo corresse – Sono qui per comprare il “Joyce”.
- Il “Joyce”? – chiese, alzando la saracinesca e aprendo la porta – Ne sei sicura?
- Come no? Non è più in vendita?
- No, al contrario. È che ho ricevuto delle proposte e … - s’interruppe, perché, entrando, lei era rimasta come rapita dall’arredamento e dagli oggetti esposti alle pareti.
- Morgana? Morg? – agitò la mano davanti ai suoi occhi – Ci sei?
- Sticaz… ehm, volevo dire: accipicchia! Ma è un autentico pezzo d’Irlanda. È…è incredibile! È il posto che ho sempre sognato di gestire.
- Irlandofila?
- Ma scherzi? Irlandomane, sarebbe meglio. Io sono un’irlandese mancata. O lo ero nella mia vita precedente, non c’è altra spiegazione. Erin, la mia Erin! Cioè, sarebbe meglio dire, la tua Erin.
- Non preoccuparti, non sono geloso. – sorrise accomodante, appoggiandosi al bancone.
- Io scrivo su di lei, vi torno appena posso, ho studiato la sua storia… Ho persino tentato di imparare il gaelico, sai? Da autodidatta! - tuffò il naso fra le fotografie appese – Oh, guarda, il Liffey. E… e questa, invece, è la baia di Galway. E questo…
- Ho capito. Sei proprio informata, eh? Senti, toglimi una curiosità, quanti anni hai?
- Ventidue. Sì, non guardarmi male: non ho mai gestito un posto del genere. Ma ho cinque anni di sala bar alle spalle… Lo so, non ho esperienza. Ma pensa al lato positivo: se fossi vecchia non avrei le agevolazioni per le giovani donne imprenditrici e la banca non mi concederebbe nessun prestito per paura che ci lasciassi le penne prima. Prova a considerare anche questo!
- Sei determinata. Bene, è un punto a tuo favore. Ma, dimmi, dal momento che ho già ricevuto due proposte per trasformare il “Joyce” in un ristorante cinese e in un caffé letterario, perché dovrei accettare proprio la tua?
Lei continuò ad osservare, tutta assorta, il leprechaun di ceramica.
- Intendo dire: dammi una buona ragione per cui venderti il “Joyce”.
- Perché rimarrebbe tutto così com’è. Perché mi intendo d’Irlanda e non stravolgerei la sua storia. Perché lo amerei come l’hai amato tu. – rispose, seria, riponendo il soprammobile.
- Come diavolo fai a sapere che non vorrei che venisse stravolto, che l’ho amato e che… - Sean era rimasto spiazzato da quella risposta.
- Iomas. – gli disse in gaelico – Intuito. Puro e semplice intuito di irlandomane.
 
 
Era servita più di una settimana per sistemare le pratiche burocratiche. Durante il tempo che aveva trascorso con Morgana, Sean si era davvero convinto che non avrebbe potuto lasciare il “Joyce” in mani migliori.
Nel frattempo, nel suo buco di monolocale, avevano continuato ad ammassarsi gli scatoloni con dodici anni di vita al loro interno. La ditta di traslochi internazionali aveva giurato e spergiurato che tutta la sua roba era in ottime mani e che lui non avrebbe dovuto preoccuparsi di nulla, solo di godersi il meritato ritorno a casa.
A Galway, dal canto loro, erano rimasti talmente sorpresi da quell’improvviso ritorno che Mik e Sinead avevano anticipato il rientro dalla luna di miele, Fiona si era ammutolita per quattro ore di fila, segnando il proprio personalissimo record e Malachy aveva stappato una delle bottiglie di whisky della riserva, non si sa bene se per la gioia di riveder tornare il figlio o se per la preoccupazione che ci fosse nell’aria qualcosa di grosso.
Dapprima avevano sperato tutti che tornasse con Fran, per vivere insieme definitivamente, ma, quando avevano appreso che lui e Fran non stavano più insieme, nessuno si era fatto vivo per due giorni, dal momento che ognuno era ritirato nel proprio cantuccio a metabolizzare la notizia.
- Avevo ragione io, che c’era sotto qualcosa di grosso. – era stato il commento di Malachy – Erano troppo strani, in questi ultimi giorni, quei due ragazzi. – e aveva vuotato la bottiglia del whisky.
Quasi tutti i bagagli erano arrivati a destinazione, quando sua madre si era decisa, finalmente, a telefonargli.
- Tesoro, qui è tutto pronto. Manchi solo tu. Quando hai intenzione di prendere l’aereo?
- Salgo sul primo che trovo, mamma. Quando arrivo a Galway vi avverto. – aveva risposto in un soffio, con quel tono malinconico che, negli ultimi giorni, non si era riuscito a togliere di dosso.
- Preferirei saperlo prima, magari. Così ti faccio trovare la camera pronta.
- Non ne ho bisogno. Vado a stare da Mik. – no, non gli andava proprio di dover raccontare a sua madre l’ennesima invenzione sul perché Fran l’aveva lasciato. E, se possibile, contava anche di posticipare il momento in cui rivelare che, in realtà, quel fidanzamento non c’era mai stato.
A chilometri di distanza, Fiona non se l’era proprio sentita di stare a discutere. Non lo aveva mai visto – o meglio udito – di così pessimo umore, il che lasciava presupporre che la questione si fosse fatta davvero seria.
Sean aveva chiuso la comunicazione e si era rituffato negli orari della compagnia di volo che aveva avuto cura di stampare. Uno era previsto per giovedì, il primo di luglio, e non se lo sarebbe fatto scappare.
Giovedì è domani. Sospirò, finendo di impacchettare nel bagaglio a mano le poche cose che gli restavano, un paio di libri e, ben incartato nel giornale, il leprechaun di ceramica. Era tutto quanto del “Joyce” che aveva tenuto per sé, un po’perché di quel luogo era il simbolo, un po’ perché gli ricordava Francesca. Fran, che passandogli davanti, ripeteva sempre “Erin go bragh” in quel suo pessimo gaelico. Fran, che aveva amato e che continuava ad amare.
Al diavolo tutto! Imigh sa diabhal! Ricomincerò, ricomincerò daccapo, come ho già fatto. Anche se allora non avevo nulla da perdere. Anche se allora non c’era Fran…
Prese il cellulare e compose un messaggio.
“Domattina alle sei e quaranta partirà il mio treno. Dubito che ti troverò alla stazione a salutarmi e forse è meglio così. Abbi cura di te, sii felice. Ti bacio, Sean.”
Poche parole, non aveva bisogno di dirgli molto altro. Anzi, aveva bisogno di dirle mille cose che in uno stupido messaggio non avrebbero trovato posto. Aveva bisogno di stringerla e di baciarla davvero, non solo con il pensiero.
Cercò il numero di Fran nella rubrica e sospirò, prima di premere l’invio.
 
 
- Adesso mi spieghi che cavolo significa questa storia! – Emma aveva praticamente sfondato la porta dell’appartamento di Fran, fatica inutile, dal momento che era aperta.
Lei, Fran, era abbandonata sul divano, con una scatola di fazzoletti nuovi sul tavolino e alcuni usati, sparpagliati sul pavimento. Un disco o Youtube o qualcosa del genere continuava a emettere musica dal computer, nei rari momenti in cui non veniva sovrastata dalla ventola di raffreddamento o dai continui singhiozzi della ragazza.
- Quale storia? – replicò Fran, tirando su col naso.
- Da stamattina non rispondi al telefono, non ti fai viva e, scommetto, continui a piangere come una vite tagliata senza nemmeno degnarti di dirmi che accidenti ti sta succedendo.
- Sono triste, Emma. Tutto qui.
- E grazie, graziella e grazie al… ci sono arrivata da sola che non sei dell’umore giusto per dare un party!
- Se ne va. Fra tre ore se ne va.
- Ma chi? Dove? Vuoi spiegarti, porca miseria!
- Sean torna in Irlanda, tra tre ore. Io ho detto sì a Enrico e lui adesso se ne va via.
- Mi sembra il minimo, povero ragazzo. Ma si può sapere cos’è successo a Galway?
- Non puoi pretendere che alle tre di mattina mi metta a farti il resoconto del viaggio…
- Invece sì, per la miseria, non sopporto di vederti in questo stato. Piuttosto, Fran, tu chi ami dei due?
- Enrico, ovviamente.
- Ed è per questo che sei qui a piangere e struggerti perché un Sean O’Brien qualsiasi chiude il bar e ritorna a casa? Beh, complimenti, ragazza, per la coerenza.
- Ma insomma, Emma, si può sapere tu da che parte stai?
- Da quella dell’amore, Francesca. Perché so quello che costa guadagnarselo, quando tutto il mondo sembra esserti contro e perché so anche, per contro, quanta gioia può dare.
- Ma io non posso lasciare tutto, lasciare Enrico per…
- Per l’uomo che ami.
- Come fai a dirlo?
- Perché altrimenti adesso non saresti accasciata sul divano come Cleopatra dopo la morte di Antonio a sprecare fazzoletti e a sorbirti questa musica orrenda.
Nell’aria si diffondevano le note di “If you must leave my life”. Fran scattò come una molla: - Non è un’orrenda canzone! È quella che… che io e Sean abbiamo ballato al matrimonio.
- E scommetto che è solo un caso che ti stia provocando questo struggimento, non è vero? Dannazione, cambia musica, se davvero non ti importa nulla di lui! – premette senza troppo tatto il tasto che fece avanzare la playlist, anche se il brano che seguì non era certo dei più allegri.
Calò un istante di silenzio, scandito solo dalle note iniziali di “MacArthur Park”, prima che Fran si gettasse al collo dell’amica.
- Oh, Emma, Emma, sto tanto male… - strofinò la guancia contro la sua spalla, come un gatto. Già, a conti fatti, aveva proprio l’aria di un gatto bagnato e indifeso, pensò l’altra.
- Fran, bambina…
- Io amo Sean. Lo amo, capisci? La notte che abbiamo passato insieme è stato il momento più bello che mi potesse capitare. È solo che è tardi, troppo tardi. Le senti le parole di questa canzone? – si zittì un momento.
 
Someone left the cake out in the rain.
I don’t think then I can take it,
because it took to long to bake it.
And I’ll never had the recipe again.
 
- Avevo l’occasione di essere felice. La felicità è una torta. Quella era la mia torta. Ma l’ho lasciata a distruggersi sotto la pioggia e non posso certo pensare di rifarne una simile. La ricetta per la felicità è troppo rara e non la si può riavere così, su richiesta. L’ho sprecata, ho sprecato tutto, per superficialità, per una stupida chimera che inseguivo da quando ero adolescente. Per Enrico, che ormai era diventato una fissazione, un traguardo, una sfida e che adesso non amo più. Ho fatto l’amore con lui, l’altra sera, e non ho provato niente: ho soltanto continuato a pensare alle mani di Sean, alle labbra di Sean sul mio corpo…
- Risparmiami i dettagli privati, Fran.
- Sono stata felice quando mi ha chiamato per dirmi che se ne andava a Ferrara, che se ne stava lontano per due settimane. Sono stata felice perché pensavo che avrei potuto trascorrere qualche momento con Sean. Ma adesso? Adesso come faccio? Non posso inseguirlo fino alla stazione, gridargli che lo amo e chiedergli di perdonarmi! Ha sofferto per me, ha rinunciato al “Joyce”, ha scelto di fuggire di nuovo per dimenticarmi. Gli ho fatto troppo male. Ha capito che lo amavo, non l’ho respinto quando avrei dovuto farlo e non ho che peggiorato le cose. Sono un’idiota, Emma. Una completa, autentica idiota.
- Io lo inseguirei, fregandomene altamente di questi tuoi viaggi mentali. Seguirei il cuore, una buona volta. Chiama l’archeologo – sono – figo – solo - io e digli che fra di voi non può funzionare. Mandalo a quel paese e insegui Sean, accidenti! Dove lo trovi un altro così? Vivi, Francesca. Pensa a te stessa, finalmente.
- E’ tardi.
- Mancano due ore e mezza, non è tardi.
- Ma no! È tardi per noi… La torta…
- L’hai lasciata fuori alla pioggia. Fin qui ci sono. Senti, non so quanto tu sia pratica di questa specie di canzone melodrammatica, ma vorrei farti notare le seguenti strofe.
 
There will be another song for me
For I will sing it
There will be another dream for me
Someone will bring it
I will drink the wine until it is warm
And never let you catch me looking at the sun
And after all the loves of my life
After all the loves of my life
You'll still be the one

I will take my life into my hands and I will use it
I will win the worship in their eyes and I will lose it
I will have the things that I desire
And my passion flow like rivers through the sky
And after all the loves of my life
After all the loves of my life
I'll be thinking of you
And wondering why.

 
- Accidenti, Fran, ci deve essere un’altra occasione, per voi due. Anche perché non l’avete ancora vissuta. Ci deve essere un sogno: hai il diritto di difenderlo! Allora, cosa vuoi fare? Inseguirlo e prendere la vita nelle tue mani, essere tu a condurla? Oppure rimanere qui, a piangerti addosso, legata a un uomo che non ti è destinato solo per paura? Vuoi ottenere quello che desideri oppure finire a ottant’anni a chiederti perché? Perché non l’hai fermato in tempo, perché è ancora l’unico che ami, perché non sei con lui e perché continui a pensarvi… - Emma la strinse con decisione – Scusami, Fran, ma mi si spezza il cuore al pensiero che una persona come te non possa essere felice. Che starai con quell’Enrico verso cui ormai non provi più nulla, quando ami e sei riamata da Sean. Tesoro, sei tu a dover decidere. Io non posso nulla. Pensaci, Fran. Davvero: pensaci.
Le accarezzò i capelli, prima di lasciarla sola, con i suoi fazzoletti, la sua musica e le sue torte sotto la pioggia.
E adesso? Cosa devo fare, adesso? Sono davvero ancora in tempo per riprendere la mia vita nelle mie mani, per avere quello che desidero? Potrò ancora guardarmi allo specchio e dire: Francesca Fortini, tu hai seguito il tuo cuore e hai tentato disperatamente, finché hai potuto, di trovare la tua felicità? La felicità! Tutti pensano che prima o poi, per realizzarsi completamente, sia necessario diventare qualcuno, come Enrico, diventare ricchi e ammirati. E nessuno pensa più alla felicità, quando invece dovrebbe essere un diritto garantito dalle costituzioni.
La felicità: quella stramaledetta torta che, troppo spesso, si lascia sotto la pioggia a macerare…
No, questa volta non voglio ritrovarmi a ricordare il suo sorriso e le cose belle che ho avuto di lui, dopo averlo perso.
Lasciare Enrico o sposarlo? In fin dei conti ho avuto delle responsabilità anche nei suoi confronti.
Ma Sean, Sean è tutto quello che ho sempre cercato. Con Sean sono stata me stessa, come mai ero riuscita ad essere. Con Sean era tutto così limpido, così semplice, così bello. Lo amo, Dio, se lo amo! Altrimenti non sentirei questo senso di vuoto, adesso che parte, come qualcosa che si stacca da me. Come parte di me.
Non lo so, non so più niente. Ho bisogno di dormire, di non pensare. Un’ora soltanto, un’ora soltanto…
Era esausta e, piano, scivolò in un agitato torpore.
 
L’ouroboro che, sempre più spesso roteava nei suoi sogni, era tornato a trovarla anche durante quel dormiveglia. E, roteando sempre più forte, all’improvviso aveva perso la sua natura serpentina per trasformarsi in un claddagh.
Si svegliò di soprassalto.
Il claddagh! Ora era tutto chiaro: James Joyce aveva ragione! L’anello, quella improbabile profezia fattale dai suoi studenti al pub, ogni cosa la stava portando da Sean, anche se lei si ostinava a non ammetterlo.
Sean, Sean, mi manca l’aria al pensiero che te ne vai…
Pensò mentre recuperava la scatolina con l’anello.
Sean, cosa faccio senza di te?
Si tolse la pregiata scultura di zaffiro, pegno di Enrico e la depose con cautela nell’astuccio. Poi, con decisione, rimise al dito il claddagh di latta. In confronto all’altro era ben poca cosa. Ma, dopotutto, anche l’amore che aveva provato per Enrico era ben poca cosa, paragonato a quello per Sean. Persino i vent’anni trascorsi assieme, ad inseguirsi senza mai comprendersi, senza mai sfiorarsi, perdevano di senso davanti ai nove giorni in cui si era innamorata, aveva raggiunto, amato, capito Sean O’Brien.
Afferrò il telefono e compose il numero di Sean. La voce impersonale dell’operatore le ricordò che il cliente chiamato era al momento irraggiungibile: sapeva, sentiva, che non le avrebbe risposto. Perché farlo, dopotutto? Se era giunto il momento di procurare l’eutanasia al loro amore, era meglio farlo nella maniera meno dolorosa possibile.
Enrico, al contrario, prese immediatamente la comunicazione.
- Enrico, sono io. – annunciò convinta – Mi dispiace, ma ho sbagliato tutto. Noi non possiamo stare insieme.
- Fran, ma che significa? – lui, stranamente, non aveva trovato molte parole per replicare.
- Significa che io sono pazzamente, sinceramente, perdutamente innamorata di Sean e che lo devo fermare prima che salga su quel maledettissimo volo per Galway.
- E tu credi davvero che ti rivoglia dopo che l’hai piantato e che ti sei rimessa con me? Francesca, non illuderti: non sono l’unico a giocare con i sentimenti altrui, allora. Tu sei sulla buona strada.
- Forse ho imparato troppe cose da te, quando eravamo ragazzi.
- E credi anche che, nel caso lui non ti prenda, la mia porta sia ancora aperta?
- Non lo pretendo.
- Rimarrai sola, Francesca.
- Correrò il rischio. Per lui ne vale la pena. Ne vale sempre la pena, Enrico. Perdonami, per tutto.
- Cerca di non soffrire troppo, Francesca. – c’era un inedito misto di sarcasmo, malinconia e tenerezza in quel suo tono di solito così sardonico - E prenditi cura di te.
- Buona fortuna, Enrico. Tu fa’ lo stesso.
Guardò l’orologio: le sei e venti, forse era ancora in tempo.
 
 
Il binario tre. Dove diavolo è il binario tre? Il treno per Milano parte dal binario tre.
Scese le scale del sottopassaggio, risalì altre scale dello stesso sottopassaggio, che sembravano non finire mai.
Sean! Sean!
I viaggiatori erano pochi, ma si voltarono a guardare quella ragazza trafelata che chiamava a gran voce qualcuno che non rispondeva.
Un treno le sfrecciò davanti, crudele. Guardò l’orologio: le sei e quarantuno. Maledizione!
Sean…
Questa volta fu appena un soffio.
- Senta, scusi? Quello che è passato era il treno per Milano?
- No, signorina. – le fece un tale, ripiegando il quotidiano – Era quello per Venezia, delle sei e quaranta.
- E quello per Milano?
- Quello per Milano è partito alle sei e dodici.
- Ma mi avevano detto che…
Le sei e dodici! Se anche avesse deciso di venirlo a salutare, sarebbe comunque arrivata in ritardo, dato che lui le aveva detto alle sei e quaranta.
Non mi ha voluta rivedere! Sì, lo so che è più giusto così, ma al solo pensiero che lui ha fatto in modo di non rivedermi, io… io…
Si morse le labbra per non piangere.
Sei tanto in collera con me, Sean? O forse era un modo per soffrire meno?
Forse sei stanco delle mie indecisioni. Ti ho illuso che potesse esserci qualcosa fra di noi? Sì, sì, sarebbe possibile, adesso.
O magari no, perché tu sei voluto fuggire da me, da questa città, da tutto quanto.
Se solo sapessi quanto ti amo, quanto ti amo.
Ma se non mi vuoi più, allora è giusto che io non ti insegua. È giusto che vi abbia perduti entrambi, io che non ho saputo decidere.
- Mi avevano detto che… beh, ormai non ha più importanza.
- Senta, se vuole, tra un’ora e mezza ne passa un altro.
Un’ora e mezza? Tra un’ora e mezza lui sarà già in volo.
Dovrei prendere un aereo e corrergli dietro? Sentirmi dire che per noi non c’è più alcuna possibilità e tornare a casa, più sconfitta di prima? No, non avrebbe senso.
Eppure, l’ho detto io: per Sean varrebbe sempre la pena di tentare.
Ma lui non mi vuole più.
- No, non importa, grazie.
- Scusi se mi intrometto: ma c’era qualcosa di importante su quel treno?
- Sì, una delle persone più importanti, per me. Se non la più importante, al momento.
- Perdoni l’invadenza, signorina, ma lei, allora, se la lascia sfuggire così?
Sì, cioè no . Cioè non l’avrei permesso se avessi fatto in tempo. E se adesso seguissi il mio cuore prenderei il primo volo per Galway solo per dirgli che lo amo.
E, invece, lascerò che tutto mi passi davanti agli occhi come sempre, solo perché lui non mi vuole più. E perché io sono una vigliacca, che si è lasciata sfuggire l’uomo che ama solo per la sua viltà, per i suoi dubbi amletici e per le sue paure. Andasse a quel paese anche Amleto!
Ma lui forse non mi vuole più ed è l’unica cosa che mi fa soffrire, adesso.

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Capitolo 17
*** Cap. 16 - Slides ***


Mie Carissime!!!

Questo è l’ultimo capitolo prima dell’epilogo ç____ç 
Ma no, non immalinconiamoci già da adesso, altrimenti chissà alla fine!
Qualcosa mi dice di aver reso felici parecchie di voi, con la scena finale, date le vostre recensioni. Ad ogni modo, era il momento che anch’io – da donzella romantica – attendevo da tempo di scrivere. Spero davvero che vi piaccia ^^
Rimando i saluti “ufficiali” all’epilogo, dunque. Sto facendo di tutto per posticipare la conclusione, perché mi sono affezionata … Nel frattempo vi ringrazio tutte di cuore, come sempre, e vi abbraccio una per una!!!
Un bacione e a presto, sempre vostra

Marguerite



Imprevisti d'amore


 

                                                                                                                                                    
Sunset.
Another sunset.
I know it looks undistinguishable from the last  
but I remember the difference.


(R. Harris, Slides)

 
 
Capitolo 16: Slides
 
 
Mik leggeva il giornale sotto il portico, dopo cena.
Aveva ragione Sinead a dire che quella casa era davvero un luogo fortunato. Pochi potevano vantare lo stesso privilegio di vedere il sole affondare nel mare arancione della Baia.
Ma, adesso, aveva poco tempo di pensare al tramonto e, a dire il vero, anche alle notizie del quotidiano. Continuava a girovagare tra la cronaca di Limerick, dove tutti sembravano impegnati a cercare una collocazione ad una statua alla memoria di Richard Harris e quella di Dublino, dove un tale era stato multato per non aver condiviso la propria cena con un leprechaun, come stabilito dalla legge locale. Tuttavia la sua mente era ben lontana sia dalle beghe celebrative degli abitanti di Limerick, sia dalla improponibile vicenda del leprechaun dublinese.
Suo fratello era di ritorno: forse avrebbe fatto in tempo ad arrivare quella sera stessa. Questa volta senza Fran: se solo non fosse stato tanto riservato da nascondergli cosa diavolo era successo! Andava tutto bene, era andato tutto così perfettamente, dannatamente bene, fino a domenica mattina, quando aveva trovato Sean a dare la colpa della sua malinconia ad Erin e Fran a meditare sulla Galway Bay assieme a Malachy.
E dire che, per sopportare mio padre, bisogna essere proprio messi male con l’umore!
Darei quattro botti di whisky per sapere cosa diavolo è successo tra quei due. È  stata lei a lasciare lui. Ok, Sean non è uno facile con cui convivere: ha i suoi momenti, meglio i suoi secoli di silenzio, e i suoi lampi improvvisi d’incavolatura. Ma con lei è stato sempre gentile, fin troppo gentile. E che adesso non mi vengano a dire che per farsi amare dalle donne bisogna trattarle male e lasciarle aspettare sotto la pioggia, perché altrimenti se la devono vedere con Sinead.
E se lei l’ha lasciato con la solita scusa che lo amava troppo, veramente, io non so cosa dire… sarebbe la storia peggiore, più ridicola che io abbia sentito, ancora più ridicola dell’obbligo di servire la cena al leprechaun.
- Notizie interessanti? – gli chiese Sinead, appoggiandogli le mani sulle spalle.
- Non lo so…
- Stai pensando ancora a Sean, vero?
- Era distrutto, quando l’ho chiamato. Non stento a crederci: dev’essere davvero una questione seria per decidere di prendere in mano l’azienda. È dai tempi dell’università che non voleva nemmeno sentirne parlare. Poi, vendere il “Joyce” così, al primo venuto, senza nemmeno pensarci… Era un’attività redditizia, dopotutto.
- Non penso che a tuo fratello sia mai interessato molto il denaro. – sbuffò per ricacciarsi indietro una ciocca di capelli.
- Non lo capisco. Ti assicuro, sono anni che credevo di non capirlo, ma adesso ne ho la conferma.
- Oh, insomma, Mik! Quando due si lasciano, sono questioni loro. Voglio dire, come fai ad essere certo che tutto andasse bene? Non eri nella loro camera da letto, dopotutto. E, non fraintendermi, anch’io adoro Fran, profondamente. E sognavo di averli entrambi qui con noi, con i nostri e i loro bambini, un giorno. Però ci sono cose che non possiamo essere noi a comandare, che riguardano solo loro due. Le persone hanno un diritto ai segreti.
- Già… e Sean ne ha fin troppi, di segreti. Ci sono cose che non mi tornano. Dodici anni di fidanzamento senza mai incontrare questa misteriosa ragazza e senza mai mettere piede in Irlanda. Poi, all’improvviso, l’apparizione: loro due, insieme, a Galway. E noi che conosciamo lei, appena in tempo, prima che si dilegui…
- Oh, smettila, Mik: stai diventando come tuo padre! Fa tutto parte di quei segreti che ognuno si porta con sé. – sospirò.
- Che ragione può esserci per fuggire da Erin per così tanto tempo?
- Mik, santa pace! Ma non lo so, ci possono essere tante ragioni…
Dal portico videro una figura con una valigia avanzare lungo il viale.
- Sinead, credo sia Sean, quello.
- Penso anch’io. Fammi un favore: non tormentarlo, povero ragazzo. Davvero, non riempirlo di domande, se non vuole parlare. Vi lascio soli.
Era rientrata con passo lento, scrollando appena la testa fulva.
Sean aveva spinto con un attimo di esitazione il cancello aperto, trascinandosi la valigia.
- Ciao, Mik.
- Ciao, Sean. Sentivo che saresti arrivato. Ti aspettavo, sai. – si slanciò verso di lui, per abbracciarlo – Mi dispiace, davvero, per come è finita.
- Mik, fra me e Fran non è mai cominciata. – ammise, abbassando lo sguardo e posando a terra la valigia.
- Che significa: “non è mai cominciata”?
- Posso sedermi? – accennò alle poltrone di vimini sotto il portico.
- E’ naturale. Senti, vuoi mangiare qualcosa? Bere un tè, almeno. Sei in viaggio da stamani e…
- Lascia perdere, ho lo stomaco chiuso.
- Una Guinness! Quello che non si cura col whisky non si cura con niente, come dici sempre tu. Ci ubriachiamo e non ci pensi più.
- Sì, bravo! Così domani, oltre alle mie sofferenze, dovrò anche litigare col mal di testa. Poi non ci torno a bere birra a Galway, magari proprio dove ho portato Fran.
- Anche questo è vero. Se ci fosse qualcosa, qualsiasi cosa che potessi fare per non vederti in questo stato, giuro che la farei.
Sean guardò lontano, facendo qualche passo nel giardino. Tra le altre piante e l’erba c’era un piccolo cespuglio di trifogli. Ne spiccò uno e rimase a fissarlo lungamente.
- Siediti, Mik. Siedi e ascolta tutta la storia, com’è andata veramente. È l’unica cosa che puoi fare per me.
Attese che il fratello prendesse posto su una delle poltrone, prima di fare lo stesso. Posò con decisione il trifoglio sul tavolino.
- Guarda. Cosa vedi?
- Un trifoglio, Sean. Per favore, sii diretto e non parlare per metafore. Tu sei l’artista e in queste cose ci sguazzi, ma io non riesco mai a seguirti.
- Cosa vedi, Mik? – ripetè, con veemenza.
Forse sarebbe stato meglio tentare di comprenderlo, in un momento simile, si disse Michael.
- Un trifoglio, Sean.
- Erin. Quello che io vedo è Erin: la ragione per cui non sono riuscito a tornare, fino ad ora.
- Non riesco a collegare Francesca con Erin, per quanto mi stia sforzando.
- Ti racconterò tutto dall’inizio.
 
 
Sinead si era premurata di preparare per l’arrivo del cognato una delle stanza del terzo piano. Almeno sarebbe stato sufficientemente in solitudine quando non avesse sopportato la compagnia e abbastanza vicino a loro quando il silenzio gli avesse messo addosso troppa tristezza.
Aveva riempito la camera con le cose che egli aveva spedito e, tutto sommato, non pareva nemmeno una sistemazione tanto improvvisata. Qualche giorno e, forse, gli sarebbe sembrato di essere lì da una vita.
In giardino, i due uomini continuavano a discutere ma, attraverso i vetri chiusi, le voci non riuscivano ad arrivarle.
Chissà cosa si stavano dicendo…
Di sicuro, Sean stava soffrendo. Anzi, ad essere sincera, lo aveva trovato davvero giù, uno stato di prostrazione che non si sarebbe mai aspettata di vedere in un discendente degli O’Brien, di solito dotati di un’immancabile ironia anche nei momenti peggiori.
Doveva amarla proprio tanto. E Malachy ha il suo bel da dire che quei due stavano insieme per copertura. Per una copertura, mica piangi così!
Sean, di sotto, con i gomiti appoggiati al tavolino e la testa tra le mani, raccontava e piangeva. Forse piangeva di più di quanto raccontava.
Si spostò dalla finestra, facendo ricadere la tendina sui vetri, per una sorta di pudore.
Povero ragazzo. Sospirò, mordendosi appena il labbro. E povera Fran. Anche lei sta soffrendo.
Lo so, lo so che l’ha lasciato lei, ma me lo sento che sta male. Intuito femminile.
Sinead si asciugò una lacrima che aveva preso a scorrerle sulla guancia.
Mi mancherai, Fran. Mi mancherai tanto.
 
 
- Adesso avrai capito, Mik. Era tutta una finzione, fra noi due. E sarebbe andata bene, se solo io… non mi fossi innamorato come un ragazzino. – Sean rise di sé, tra le lacrime, col solito amaro sarcasmo degno di un vecchio irlandese.
- Non sono cose che si possono programmare, ragazzo mio.
- Grazie, fin qui c’ero arrivato da solo.
- E tutto questo solo per nasconderci che, da giovane, hai avuto qualche esaltazione patriottica? Mio Dio, Sean, smetterai mai di essere tanto melodrammatico? Quante sbornie pensi che io mi sia preso, a quell’età? E se mamma e papà lo sono venuti a sapere, amen.
- Mik, non si trattava di farsi una pinta in più o di aver marinato la scuola un paio di volte al mese. Io ho rischiato di sfiorare la sorte di nostro nonno Liam. – si alzò di scatto – Come puoi prendere tutto così alla leggera?
- Come fai a prendere tutto seriamente, allora? Troppo seriamente.
- Erin è stata una questione seria, allora. Anche adesso, ma in modo diverso. Avanti, dillo pure cosa stai pensando! Che se vi avessi detto tutto fin dal principio, non mi sarei trovato in questa situazione, a innamorarmi della donna che non potevo avere e che ho perso perché sta per sposare un altro.
- Sai che non lo direi mai.
- Invece lo pensi! Bene, sai cosa ti dico? Che sono felice di quello che ho fatto e non solo perché ho risparmiato a nostra madre un patema d’animo lungo dodici anni. Ma soprattutto perché se non me ne fossi andato in Italia, non avrei incontrato Fran.
- Bella consolazione! L’hai avuta solo per otto giorni.
- Gli otto giorni migliori della mia vita. Avrei potuto non incontrarla mai, ci pensi? Otto giorni con lei mi hanno ripagato di dodici anni lontano da Galway.
Mik… - lo abbracciò nuovamente – Che diavolo! Perdonami, Mik: tu sei qui ad ascoltarmi ed io ti tratto in questo modo. Sono un cretino.
- Lascia stare. Scusami tu, piuttosto. Mamma non saprà nulla, per l’amor di Dio: ha ancora in testa la storia dei suoi nonni e, sinceramente, so che passerebbe il resto della sua vita a temere che tu possa occupare il Post Office per la seconda volta. – sorrise.
- La amo, Mik. La amo tanto, anche se l’ho perduta.
- La dimenticherai, prima o poi. È brutto da dire, ma il tempo cura tante cose. Rimani con noi, almeno non sarai solo. Riuscirai a cambiare vita e a pensare a lei, un giorno, con più serenità. – gli diede un’affettuosa pacca sulla spalla – Vuoi che me ne vada?
- Senza offesa, Mik, ma sì. Ho bisogno di riflettere.
- Lo so, ti conosco. Rientra, tra un po’, ok?
Annuì.
- Un’altra cosa, Sean. Non lo pensavo davvero. Che prendi le cose troppo sul serio, intendo. Sei sempre stato quello più sensibile di noi due, fin da bambini. Quello che ha visto più lontano e che ha capito le cose più in profondità. Io… io sono troppo superficiale per intuire quello che hai passato, quanto ti è costato questo esilio. Ma sono contento che ne abbia parlato con me.
- Smettila, sai che non è vero. Is breá liom tú. Ti voglio bene, Michael.
 
 
- Sean, non vuoi rientrare? Si sta facendo freddo, qui fuori.
Sinead era uscita con una coperta e una tazza di tè.
- Fra un poco. Solo un momento, Sinead.
- Tieni. – posò il vassoio sul tavolino e la coperta sulle spalle di Sean.
- Sei un tesoro. – le disse, mentre lei spostava la poltroncina per sedersi di fianco a lui.
Ai suoi piedi c’era un album di fotografie, scattate nel corso degli anni. Tra le mani, ne stava scorrendo alcune.
- Sono stupende. Sei molto bravo, sai.
Sean annuì distrattamente. Il ritratto di Fran era capitato in cima alle altre immagini e vi era rimasto a lungo, senza che lui riuscisse ad evitare di guardarlo.
- E’ bella, non è vero, Sinead? E no, il merito non è nella mia abilità di fotografo. Ho la presunzione di credere che fosse davvero felice. È stata felice, in quei giorni.
- E’ bella, sì. Ma dovresti smettere di tormentarti.
- Mi manca. Vorrei tanto che fosse qui, adesso. Che prendesse un dannato aereo, corresse a Galway e mi dicesse che ha sbagliato tutto, che mi ama. Ma mi sto solo illudendo. – fece scivolare la foto di Fran sotto il plico.
- Ecco, fammi un po’ vedere... Wow, ma questa è la Galway Bay al tramonto.
- Già. – fece una rapida carrellata - Tramonto. Un altro tramonto. Lo so che sembra identico all’altro, ma io mi ricordo la differenza. A vedere quest’ultimo c’era anche Fran.
- Dear, dear, dear... – sussurrò lei, abbracciandolo.
- Sinead, non voglio che queste immagini siano tutto quello che mi rimane di lei. Non voglio ritrovarmi tra dieci, vent’anni a riguardarle, a rimpiangerla, a rimpiangere quello che non ho fatto per tenerla con me. – le confessò all’orecchio.
- E cosa potevi fare? Hai fatto tutto quello che hai potuto. Devi avere fiducia in lei, adesso, che si ravveda, sempre che la speranza non ti aggiunga altro dolore. O devi dimenticarla.
Per il momento, propongo di dormirci su. Hai avuto una giornata faticosa. – sorrise, con amarezza – No, non è la stessa camera, Sean.
- Grazie, Sinead.
 
 
Non aveva dormito, quella notte. Non vi era riuscito, nonostante la stanza non fosse quella che avevano diviso per una settimana. Tutto, in quella casa, gli parlava di Fran.
Ho fatto male a non andare dai miei, anche se avrei dovuto sottopormi al triplo di domande che mi sono state rivolte qui.
Aprì la stanza del bambino, quella che avevano dipinto assieme, e il fiume di ricordi si fece inarrestabile.
La camera da letto, invece, continuava a parlagli, impietosamente, del sabato notte in cui avevano fatto l’amore.
Chissà quanto riuscirò a durare qui. Se continuo così, dovrò cambiare aria entro tre giorni. Possibile che una settimana, una misera settimana, sia riuscita a ridurmi in questo stato.
Francesca… Francesca, dove sei adesso? Con lui, non è vero?
Dov’è la tua mente? Cosa darei per sapere se accanto a quell’Enrico o accanto a me, se mi hai seguito con il pensiero per tutto il viaggio oppure se non hai conservato di me nemmeno un’immagine sbiadita.
Si portò alle labbra il claddagh per baciarlo.
E sono soltanto le tre, Sean. Cosa farai nei prossimi giorni, nelle prossime sere? Speri che il dolore sia meno accentuato?
Si diresse nella biblioteca, ma anche lì non vi era alcuna possibilità di dare tregua al cuore. Aveva davanti ogni istante di quel pomeriggio in cui lui, seduto a leggere, l’aveva confortata tenendosela vicina, sulle sue ginocchia. E le ore seguenti erano state quelle della passeggiata a Galway, della sosta nel pub a bere Guinness e aspettare che spiovesse. L’aveva riparata con il proprio impermeabile e, al momento di salire in macchina, aveva desiderato per la prima volta di poterla baciare.
Mi stavo già innamorando. Mi ero già innamorato di lei.
Ti amo, Francesca. Ti amo e sono passate solo due settimane da quando eravamo qui, in questa casa, a confidarci le nostre vite, a confessarci i nostri sentimenti, le nostre paure, a fare l’amore, Francesca. Due settimane e mi manchi. Ed è un dolore sordo, continuo, quello della tua assenza.
E più mi manchi, più non riesco a smettere di amarti. Assurdo.
Due settimane! E dopo? Cosa verrà dopo?
Aprì il primo libro che trovò sugli scaffali, tanto sapeva che non sarebbe riuscito a leggere nulla.
Si sedette sulla poltrona e respirò profondamente.
Erin. Aveva lei, ora. La sua Erin. Anche per essa aveva sofferto la nostalgia. L’aveva amata e gli era mancata quanto Fran, a suo tempo, eppure era sopravvissuto.
Doveva trovare il modo di farsela bastare.
Dalle imposte socchiuse filtrava la luce della luna, penetrante come una lama.
Erin, mia dolce, verde Erin… Sono tornato per te.
 
 
Il campanello di casa O’Brien suonò alle sei e cinquantasette, quella mattina. Un orario che sarebbe rimasto, assieme alla data, nei ricordi di famiglia.
Sinead, mattiniera come sempre, aveva posato la caffettiera, prima di uscire a controllare chi fosse.
No, non può davvero essere…
E dire che la vista l’aveva sempre avuta buona.
- Sinead. No, non rimproverarmi, per favore. So che ho combinato un sacco di casini. – lei l’aveva guardata con aria supplice. In piedi, davanti al cancello, con l’aspetto scarmigliato di chi aveva affrontato un lungo viaggio piuttosto improvviso, il viso di chi non dormiva da parecchie ore, senza nemmeno una valigia: sarebbe stato impossibile rimproverarla, anche volendo.
- Fran, tesoro. Entra, per favore.
Francesca le si gettò tra le braccia: - Sinead, dimmi la verità: l’ho perso, vero? È furioso con me?
Sinead scrollò la testa: - Ti aspetta. Ti ama, Fran.
Vide i lineamenti dell’altra distendersi, improvvisamente.
- E’… è qui?
- Sì, è di sopra, in biblioteca. Ci ha passato la notte, sai? E ieri non ha fatto che parlare di te.
- Posso… posso andare?
Le carezzò lievemente i capelli: - E me lo chiedi? Vai, Fran. Questa volta non voltarti indietro. Segui il tuo cuore.
 
 
Due colpi leggeri alla porta della biblioteca giunsero a svegliarlo, dopo appena qualche ora di assopimento, anche piuttosto agitato.
L’odore di caffé gli chiuse lo stomaco.
- No, Sinead, ti prego, il caffé no . Non posso farcela.
Fran aprì piano la porta, entrando con la tazza: - Nemmeno se te lo porto io?
Sean sobbalzò sulla poltrona: - Francesca! Non sto sognando?
Sorrise: - No, non stai sognando. – gli passò la tazza del caffé che lui si affrettò a posare per terra, in modo da tenerle le mani nelle proprie.
- Quando sei arrivata?
- Adesso. Ho cercato di raggiungerti alla stazione, Sean, di fermarti, ma tu eri già partito. Perché non hai voluto rivedermi? No, non è un rimprovero, ci mancherebbe. Hai tutte le ragioni del mondo per essere arrabbiato con me, ti ho fatto tanto soffrire. – prese a parlare a raffica, come sempre, quand’era agitata. E avrebbe divincolato anche le mani, se non fossero state nella presa salda di Sean: - Ho preso il primo volo. Sono partita così, senza nemmeno una valigia. Guarda: l’unica cosa che mi sono portata appresso è la borsetta, proprio io che parto sempre con mille cose. Sono venuta qui appena ho potuto. Mi chiedevo, allora, se per caso tu… se noi… Che casino! Avevo in testa mille discorsi e non riesco a concluderne nemmeno uno. Voglio dire se tu mi amassi ancora, Sean… No, non dire niente! Vuoi che me ne vada? Hai il diritto di cacciarmi via, perché io mi sono comportata da stupida, ti ho illuso e…
- Francesca, per favore: respira.
- Sì.
- Fran, nessuno ti ha chiesto di andartene. – la trasse a sé, con ferma dolcezza.
- No? Davvero tu non sei in collera con me? – gli chiese, inginocchiandosi sul pavimento, ai suoi piedi.
- E come potrei? Francesca… - non riuscì a finire la frase, perché già stava cercando con le proprie labbra quelle di lei.
La sollevò dolcemente, facendo aderire il proprio petto al suo mentre la baciava. La sentì abbandonarsi alla dolce resa di quel contatto, venuto a ripagarli all’improvviso, inaspettatamente, di tutte le lacrime spese.
- Ti amo, Francesca. Ti stavo aspettando, mo ghra. – le sussurrò, passandole le mani sul viso.
- Anch’io e mi spiace averlo capito solo così tardi. Ma adesso non me ne vado. Non ci sarà nessuna ragione che riuscirà a separarmi da te. L’ho lasciato, Enrico. Lui e le mie assurde illusioni sono rimasti in Italia. Lontano, tanto lontano.
- Pensa che sarebbe potuto non accadere mai. – rise appena – Stai tremando: hai freddo, Fran? Come quella sera a Galway?
- No, non ho freddo. Sono felice, Sean. Tanto felice. – lo abbracciò, tenendolo stretto al seno – Felice di averti ritrovato.
- Non me ne sono mai andato, Fran. Anche qui, in Irlanda, pensavo a te.
Francesca respirò profondamente il suo profumo, misto all’odore dei libri e alla salsedine della baia: - Dicono che esista una patria del sangue e una patria dell’anima, Sean. Ma ho capito che la mia casa non è dov’è il mio cuore, bensì dov’è il tuo. Cercami nei luoghi in cui egli si rifugia e mi troverai lì. Sposami, Sean O’Brien. – trasse dalla tasca il claddagh che aveva portato con sé.
Sean fece scorrere le mani sulle sue spalle, guardandola a lungo, come per timore di avere dimenticato qualche particolare, qualche dettaglio del suo volto, in quei giorni.
Percorse i suoi lineamenti con la punta delle dita, le sfiorò le labbra prima di baciarla un’altra volta.
- Può essere una valida risposta? – le soffiò, mentre le infilava l’anello al dito.
- Decisamente no, mi serve una conferma. – replicò, riappropriandosi della sua bocca.
Sean si alzò e, sempre continuando a tenerla vicina e a baciarla, la condusse in camera da letto.
Chiuse la porta alle loro spalle.
- Non te ne andrai, questa volta? Non è vero, Fran?
- Non me ne andrò, Sean. Né questa volta né quelle che seguiranno.
Il leprechaun di ceramica fischiò, da sopra il comò.
- Anche lui ne è convinto.
- Dopotutto, Sean, ci sono poche certezze nella vita. Fra cui un leprechaun che fischia. Erin go bragh! – disse, rivolta al soprammobile.
- E a me? Non dici nulla nel tuo pessimo gaelico? – scherzò.
- Se ci tieni tanto a sentirtelo ripetere: Erin go bragh.
-  Sbagliato… Io preferisco: Tá grá agam duit. Ti amo, colleen.
- Tá grá agam duit, Sean. Tá grá agam duit. – sussurrò, dando un giro di chiave alla porta.

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Capitolo 18
*** Epilogo - Un leprechaun che fischia, James Joyce e qualche certezza ***


Mie carissime,
non ho voluto farvi aspettare troppo per l’epilogo, anche perché ormai come si sia conclusa la storia si è capito ^^
Non sapete quanto sia triste di essere arrivata alla fine di questa avventura, ma posso dire di essere stata davvero fortunata a trovare voi come compagne di viaggio. Vi ringrazio per tutte le volte che, privatamente o pubblicamente, mi avete fatto sapere la vostra, avete trattenuto il fiato oppure gioito, vi siete arrabbiate o immalinconite, assieme a questi personaggi. Ma vi ringrazio soprattutto per l’accoglienza calorosa e il costante affetto che avete rivolto a questo mio piccolo esperimento, nato per gioco. Senza di voi non penso sarebbe stato possibile, per me, arrivare dove siamo giunte e cioè al finale.
Mi scuso per i ritardi, per le volte che sembrava vi avessi abbandonate, per i passaggi noiosi: credetemi, non l’ho fatto apposta.
E, se per caso fossi riuscita a farvi passare qualche ora piacevole con le mie parole, sarebbe davvero la più bella delle soddisfazioni!
Vi abbraccio tutte quante, una per una, vi ringrazio e vi mando un bacione, assieme a Fran, Sean e tutti gli altri.
Grazie di tutto,
sempre vostra
Marguerite.
P.S. Ovviamente siete tutte invitate al matrimonio di Sean e Fran, come damigelle d'onore ;)




Imprevisti d'amore

 
EPILOGO: Un leprechaun che fischia, James Joyce e qualche certezza

 
 
“ Galway Bay, 12 gennaio 2010
 
Emma e Giulia adorate,
Come vanno le cose a Padova? È qualche settimana che non ci sentiamo, ma spero che nulla sia cambiato dall’ultima volta e che nemmeno il più modesto fastidio sia venuto a turbare la vostra quiete fatta di piccole gioie e di grande amore.
Qui tutto procede, al solito, magnificamente. Sono stati giorni un po’burrascosi per via del trasloco: ci siamo trasferiti definitivamente a casa di Mik e Sinead, perché alla fine siamo diventati tutti una grande famiglia e non riuscivamo a sopportare la distanza, seppure di qualche chilometro.
Vi manderò le foto della vista al tramonto dal nostro terrazzo, così vi innamorerete di Galway e verrete a trovarci presto.
Nel frattempo, il 4 dicembre è nato il bambino: è maschio, come perfettamente pronosticato da Fiona, e si chiama come nonno Malachy. Ma soprattutto, è in salute. Mangia come un vitellino, ma nessuno se ne stupisce: se ha preso da Sinead!
Lei è bellissima, la maternità le fa bene, anche se non vede l’ora di tornare al lavoro. Possibile che quella benedetta ragazza non riesca a star ferma un minuto?
A proposito, Sean ha preso il suo posto nell’azienda. Per quanto continui a negarlo, ha sempre avuto naso per il whisky ed era la persona che, alla produzione, cercavano da anni, dato che Mik si occupa soltanto della contabilità.
La sua vena patriottica è maturata, direi. Diciamo che ha fatto convergere il suo amore per Erin e quello dell’insegnamento, aprendo un centro per la promozione della cultura e della storia irlandese. Devi vederlo, ogni sabato pomeriggio, circondato dai bambini, mentre racconta leggende sui leprechaun!
Per quanto riguarda me, ho trovato anch’io un posto alla distilleria O’Brien: grazie alla conoscenza delle lingue intrattengo le pubbliche relazioni con l’estero, pensate un po’! Poi, nel tempo “libero” e visto che mi mancava l’insegnamento, abbiamo avuto l’idea di allestire un doposcuola per i figli dei dipendenti: così mi ritrovo ancora circondata di compiti, panico da interrogazioni del giorno dopo e di tutto il resto che ben sapete.
Non mi manca il tempo di scrivere: già, perché ho ripreso a scrivere, da quando sto con Sean. Ho in mente un romanzetto semi-biografico su noi due. Dite che la nostra storia non sia talmente stramba da essere raccontata? E un progetto più serio: raccogliere finalmente i ricordi di Fiona, di Liam e Kathleen, prima che vengano dispersi col tempo. E sì, anche una biografia della dinastia O’Brien, soffermandomi soprattutto su Malachy, che già si pavoneggia.
Emma, Giulia, non sapete quanto sia felice! Ci amiamo ed è la cosa più importante che vi scrivo in questa mail, al di là di tutte le chiacchiere che sono precedute.
Emma, senza di te penso davvero che quel giorno non sarei corsa alla stazione come una pazza, che non avrei acchiappato il primo aereo per Galway coi soli vestiti che avevo addosso, che adesso non sarei qui. E non finirò mai di ringraziarti per questo.
Un’ultima notizia, che vi darò con sufficiente anticipo: io e Sean ci sposiamo, il 28 settembre prossimo.
E voi – no, non protestate! – sarete le mie testimoni. E vi vestirete con abiti tradizionali irlandesi, saltellando come allegri leprechaun fra arpe di gesso e trifogli di plastica.
Sì, me le sto immaginando le vostre facce. Tu, Giulia, sempre così seria ed elegante. E tu, Emma, che ti lamenti di aver preso qualche chilo di troppo.
Ma non venite a settembre, venite prima, magari: per Pasqua o per San Patrizio.
Non vedo l’ora di riabbracciarvi!!!
Vi bacio, per adesso solo virtualmente, in attesa di poter fare di meglio.
La vostra Fran.”
 
Premette con la freccetta del mouse il tasto di invio, prima di scendere di sotto.
- Sean! Ecco, ho avvisato anche… Sean, dove sei?
Sinead, in salotto, cullava il piccolo Malachy jr., che proprio non voleva saperne di ascoltare la mamma e la nonna chiacchierare e si era messo a piangere come un demonio.
- Sean è andato alla baia, assieme a Mik e a loro padre.
- Con questo freddo?
Fiona rise: - Sai com’è, bambina, da quando hanno saputo che volete sposarvi, lo stanno assillando con mille raccomandazioni e consigli, povero Sean. I soliti discorsi da maschi… - scherzò, arricciando il naso.
- Vai, vai da zia Fran. – Sinead le passò il bambino – Ma si può sapere perché con te sta buono?
Il piccolo Malachy aveva preso a guardarsi le manine, con espressione beata.
- Non lo so. Ma che abbia fame?
- Ragazze, lo farete scoppiare, amore di nonna! Vieni, vieni da nonna Fiona… il mio piccolo passerotto bellino bellò! Il mio meravigliosamente meraviglioso piccolo leprechaun!
- Fiona, non è un gran complimento… - la punzecchiò affettuosamente Sinead.
- Quando sarò grande diventerò bello come il nonno. – gli disse Fran, facendogli il solletico sul pancino.
- Per carità, speriamo di no!
- Ma come, Fiona, dopo che l’hai sposato! Povero Malachy…
- A proposito di Malachy, Fran: fai un favore al tuo fidanzato. Salvalo da quei due, da mio marito, soprattutto, da già che sei in tempo.
- Vado. – s’infilò il cappotto e prese il viale che dalla villa portava alla Galway Bay.
 
 
- Cara Francesca, vuoi sfidare anche tu il pessimo clima irlandese, a quanto pare. – il vecchio O’Brien si aggiustò la sciarpa attorno al collo – Io non ho più l’età per queste passeggiate invernali. Mamma mia, le mie povere ossa… Improvvisamente mi è venuto un freddo! Non è vero, Mik?
- Beh, dai, papà: non si sta poi tanto male.
- Invece è freddissimo. Freddissimo! Avanti, muoviti, abbiamo molte cose di cui parlare.
- Quali…
- Molte cose, fidati. – prese il figlio sottobraccio e li lasciò soli.
Fran non riuscì a trattenere una risata: - Sean, lo sai che sono pazzamente innamorata di tuo padre, quando fa queste cose…
- Devo cominciare ad essere geloso?
- Oh, assolutamente!
- Mi cercavi, Fran?
- Sì, volevo dirti che ho avvisato le ragazze. Non abbiamo che da aspettare la loro risposta. Ma sei davvero sicuro che il nostro matrimonio debba davvero essere un’altra cerimonia tradizionale?
- Io no, ma conosci la mamma. Poi, francamente, Fran: io voglio sposare te e che ci sia attorno a noi il nulla più assoluto o tremila arpe alte sei metri, ecco, quello è tutto secondario.
Il claddagh deve esserci, però. E questa volta deve essere un claddagh serio.
Lei guardò quello che ancora portava al dito, ormai da mesi: - A questo ci sono affezionata: è stato l’inizio di tutto, da quella sera al “Joyce”, con i piattini e tutto il resto. Alla fine aveva ragione lui, come sempre.
- Lui chi?
- James Joyce, of course. I miei studenti mi avevano pronosticato che mi sarei sposata entro l’anno. Sforiamo di tre mesi, ma non mi sembra un grosso guaio.
- Dunque è un’altra certezza: James Joyce ha sempre ragione. Quindi sono diventate tre.
- Quattro. – precisò lei, con un sorriso.
- Come quattro? – prese a contare – Il burro e il whisky sono una cosa sola. Il leprechaun che fischia. E Joyce.
- Dimentichi un certo Sean O’Brien. Tu sei la mia certezza, quella più importante. – appoggiò la propria fronte alla sua, per guardarlo a lungo negli occhi, prima di sfiorargli le labbra con un bacio.
Lui le passò un braccio attorno alla vita, tenendola stretta, mentre guardavano il tramonto arrossare la distesa d’acqua: - E tu ed Erin siete le mie.
Francesca era partita dall’Italia con solo due certezze: che il leprechaun di ceramica fischiava ad ogni passaggio e che quello che non si cura col burro o col whisky non si cura affatto.
Ora era in Irlanda e, di certezze, ne aveva quattro, di cui una talmente tanto vicina da poter sentire il suo respiro fondersi col proprio.
Aveva trovato la propria casa, nel verde dei prati e nel blu del mare. Aveva trovato se stessa ed il suo cuore, nel fondo della baia.
Il suo cuore, che aveva donato a Sean O’Brien, il quale non glielo aveva ancora restituito. E, in tutta onestà, lei non aveva alcuna intenzione di riprenderselo, ora.
Ora, mentre il sole tramontava ancora una volta sulla Galway Bay.

 
 
Fine

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