Disclaimer: Questo testo proprietà del suo autore e degli aventi diritto. La stampa o il salvataggio del testo dà diritto ad un usufrutto personale a scopo di lettura ed esclude ogni forma di sfruttamento commerciale o altri usi improri.
Lista capitoli: Capitolo 1: *** Introduzione-Presentazione *** Capitolo 2: *** 00 - Prologo - DANNY *** Capitolo 3: *** 01 - KUMALS *** Capitolo 4: *** 02 - SERATA DI GALA *** Capitolo 5: *** 03 - CHE SUCCEDE GIU' IN CITTA'? *** Capitolo 6: *** 04 - SPETTACOLO AL PORTO *** Capitolo 7: *** 05 - UTHER *** Capitolo 8: *** 06 - RAMO *** Capitolo 9: *** 07 - QUATTRO PICCHE E UN FUNERALE *** Capitolo 10: *** 08 - TROPICANA YE! *** Capitolo 11: *** 09 - DUE LETTI, DUE BICCHIERI *** Capitolo 12: *** 10 - SVEGLIA SVEGLIA *** Capitolo 13: *** 11 - COME DIVENTARE UN PASSABILE ZOMBIE *** Capitolo 14: *** 12 - ALMENO UN QUATTRO DI PICCHE *** Capitolo 15: *** 13 - SWING WITH HARRY DARRY *** Capitolo 16: *** 14 - BARRICADES! *** Capitolo 17: *** 15 - QUADRO PARLANTE...E ALTRI TRUCCHI *** Capitolo 18: *** 16 - ANDREA *** Capitolo 19: *** 17 - ANDREA NOCHMALS *** Capitolo 20: *** 18 - FLAVOURS AND FAVOURS *** Capitolo 21: *** 19 - LEI CAMMINA NELLA NOTTE ... parte I *** Capitolo 22: *** 20 - LEI CAMMINA NELLA NOTTE ... parte II *** Capitolo 23: *** 21 - LEI CAMMINA NELLA NOTTE...parte III *** Capitolo 24: *** 22 - IL BUCO NERO DELLA SITUAZIONE...I *** Capitolo 25: *** 23 - IL BUCO NERO DELLA SITUAZIONE...II *** Capitolo 26: *** 24 - I'M ALL LOST IN A SUPERMARKET *** Capitolo 27: *** 25 - SARA' QUEL CHE SARA' *** Capitolo 28: *** 26 - IL COLPEVOLE E' SEMPRE... *** Capitolo 29: *** 27 - ...IL MAGGIORDOMO *** Capitolo 30: *** 28 - INTASCATO *** Capitolo 31: *** 29 - IL SOGNO DEL LEONE MARINO *** Capitolo 32: *** 30 - SENZA BIGLIETTO *** Capitolo 33: *** 31 - DI CARNE E DI SANGUE, INFINE *** Capitolo 34: *** 32 - EPPURE I SUOI OCCHI *** Capitolo 35: *** 33 - UN CICCHETTO PER I TUOI PENSIERI *** Capitolo 36: *** 34 - PARTITA A CARTE *** Capitolo 37: *** 35 - MAMA NON MAMA *** Capitolo 38: *** 36 - MESSAGE IN A STONE *** Capitolo 39: *** 37 - E ALLORA... *** Capitolo 40: *** 38 - ...FESTA! *** Capitolo 41: *** 39 - FALO' MORENTI E RISVEGLI MATTUTINI *** Capitolo 42: *** 40 - SABBIA E CAVALLI *** Capitolo 43: *** 41 - I LUPI NON SPUTANO *** Capitolo 44: *** 42 - GIUSTO IN TEMPO *** Capitolo 45: *** 43 - SILENZIO RADIO *** Capitolo 46: *** 44 - MOON IN THE NIGHT, NIGHT IN THE WOOD *** Capitolo 47: *** 45 - TAKE IT EASY... IF YOU CAN! *** Capitolo 48: *** 46 - SE MI RICONOSCERAI *** Capitolo 49: *** 47 - SECONDO I PIANI *** Capitolo 50: *** 48 - TESSUTO ROSSO *** Capitolo 51: *** 49 - PIUME DI RAPACE *** Capitolo 52: *** 50 - ATTENZIONE A RADICI E CECCHINI *** Capitolo 53: *** 51 - TEMPESTA NELLA STANZA DEI BOTTONI - I parte *** Capitolo 54: *** 52 - TEMPESTA NELLA STANZA DEI BOTTONI - II parte *** Capitolo 55: *** 53 - L'ULTIMA VOLTA CHE HO VISTO... *** Capitolo 56: *** 54 - ...UN LUPO CADERE *** Capitolo 57: *** 55 - RISVEGLIO E SONNO *** Capitolo 58: *** 56 - DI MORTI MANCATE *** Capitolo 59: *** 57 - L'INCANTATORE DI LUPI *** Capitolo 60: *** 58 - HOME IS... *** Capitolo 61: *** 59 - INCONTRI RAVVICINATI DI STRANO TIPO *** Capitolo 62: *** 60 - L'ULTIMA RAGIONE *** Capitolo 63: *** 61 - UNA CUCINA *** Capitolo 64: *** 62 - CHE SIA VETRO CHE SIA LUNA *** Capitolo 65: *** 63 - A CARTE SCOPERTE - parte I *** Capitolo 66: *** 64 - A CARTE SCOPERTE - parte II *** Capitolo 67: *** 65 - THANK YOU *** Capitolo 68: *** 66 - A CARTE SCOPERTE - parte III *** Capitolo 69: *** 67 - A PROPOSITO DI KUMALS *** Capitolo 70: *** 68 - UN'ULTIMA CANZONE *** Capitolo 71: *** 69 - NIENTEPIU' NIENTEMENO *** Capitolo 72: *** 70 - Epilogo - FLAMES ON THE HORIZON *** Capitolo 73: *** Note finali... the END? ***
Eccoci qua,
cercherò di fare un’introduzione passabile, se non ci riesco non me ne vogliate
troppo, sono incapace nelle introduzioni. Stavolta tenterò un metodo
schematico, anche per non perdermi troppo in giri di parole di discutibile
interesse.
Genere: direi prima di
tutto demenzial-horror-avventura-azione. Non
mancheranno varie schermaglie amorose e di vario genere. Principalmente, la
storia ruota attorno ad alcuni personaggi centrali (vedere: ‘personaggi’) che
si trovano a dover avere a che fare con qualche manifestazione
(apparentemente?) paranormale, che per inciso darà loro non poco filo da
torcere. L’ironia e soprattutto l’autoironia saranno all’ordine del capitolo. Tuttavia
questa storia non ha un’anima solo ‘scherzosa’ e ‘assurda’, tutt’altro, in un
tutt’uno ben stretto, comprende anche parti più gravi/riflessive che verranno
alla luce man mano che ci si addentra nella trama. Si potrebbe dire che i
personaggi stessi, vero nerbo vitale di questa storia, hanno molte cose in loro
(e nelle loro vite) che sono tutt’altro che ‘leggerezze’, ma per la loro
vitalità estrosa hanno l’inguaribile volontà di lasciar perdere per la maggior
parte del tempo le parti in ombra di sé e del loro passato, per dedicarsi alla
libera scemenza.
Personaggi: Sono ispirati
principalmente a persone realmente esistenti. Questo non li renderà
automaticamente simpatici, gradevoli e quant’altro. Sicuramente ben poco
eroici. E l’ironia, basandomi su persone realmente esistenti, è praticamente
d’obbligo. Tuttavia, i personaggi si sono distaccati col tempo da chi li aveva
ispirati, quindi sono ormai cosa a sé. Persino alcuni dei fatti potrebbero
essere ‘verosimili’, diciamo…
Stile: il tutto è in uno
stile “sperimentale” in un certo senso. Penso lo troverete molto leggero e
scorrevole. Fino a questo momento mi è sembrato lo stile migliore per questo
genere di racconto. Se qualcuno conosce l’altro racconto che sto pubblicando on
line (‘Sol Se Desto Son Sogno’),
troverà insomma uno stile molto diverso.
Altre avvertenze da leggersi prima
dell’uso (questa parte è importante, leggetevi almeno questa, grazie):
» questo racconto,
tra il resto, è queer
(categoria che comprende ‘transessualismo’, ‘travestitismo’,
‘omosessuali&lesbiche&bisessuali’…, o, che dir si voglia, ‘LGBTQ’(rspquvz…)). Confido nel buonsenso di tutt*,
e quindi, se sapete che non vi va a genio, nisba. Grazie, e prego.
» lo stile gotico-barocco,
benché presente, non rimarrà esente dall’ironia generale, essendo lo stile
generale direi piuttosto kitch, e qualche volta proprio trash.
» questo racconto
ha una sua “colonna sonora”. Per la
maggior parte le canzoni verranno citate senza che sia importante il loro
testo, e ove lo sarà, espliciterò il testo (ed eventualmente sommaria
traduzione). E finché ci sono, la canzone di apertura qui è ‘Borntobealive’ [Village People].
» chi ha problemi
con l’horror non dovrebbe averne con
questo racconto, essendo il genere horror assai impallidito dall’ironia e
comunque in genere debole.
Se a qualcuno vien
voglia di lasciare commenti, in genere non mi offendo :)
Buona lettura.
p.s.: L’immagine che
userei per lo stacco dei capitoli (se riuscissi a farla apparire nel capitolo):
è questa àhttps://imageshack.com/i/ip4HqM6Fj
* i
diritti dell’immagine, presa da internet sono questi:
Danny si trovava nella
situazione in cui qualsiasi ragazzo giovane e in salute non dovrebbe essere al
sabato sera. Per la precisione sotto un albero,miagolando ai rami, nel bel mezzo di un acquazzone.
Il meglio che si potesse dire di lui in quel momento è che ormai
era bagnato fino al midollo, vale a dire molto al di sotto dei jeans, degli
scalcagnati scarponcini da ginnastica, delle calze imbevute d’acqua, della
maglietta e giubbotto che indossava e dei capelli appiccicati sul cranio dalla
pioggia.
Il peggio che si potessedire
è che era sobrio marcio. Il che non poteva spiegare perché stesse miagolando ad
un albero cercando di non dare troppo nell’occhio, benché, a parte qualche
macchina occasionale di passaggio, non ci fosse un altro essere umano in giro a
quell’ora e con quel tempo.
Il che la diceva lunga su di lui. Oppure no.
La sua giustificazione, in quel momento, si trovava qualche metro
sopra la sua testa, raggomitolata su qualche ramo in un imprecisato punto in
mezzo alla chioma dell’arbusto. Un
sempreverde. Uno dei pochi che sul finire di dicembre non era quindi del tutto
privo di foglie.
La cosa più arguta che si potesse dire di Danny: non era una
persona molto fortunata, per non dire di peggio.
E una cosa molto umana da dire al suo riguardo è che, tra un
miagolio e l’altro, infilava tali imprecazioni che, se il gatto di cui andava
in caccia le avesse comprese, non si sarebbe mai sognato di scendere finché lui
sarebbestato lì sotto ad
aspettarlo. Quel gatto, tuttavia, non era particolarmente intelligente. Questo
si poteva intuire dal fatto che si fosse arrampicato per metri e metri prima di
rammentarsi che, in genere, quando si sale sarebbe meglio essere sicuri di
essere in grado di poter ridiscendere.
Danny sospirò, una variazione singolare rispetto a tutte le
bestemmie che aveva lanciato al nulla fino a quel momento. Si portò una mano al
collo e si grattò appena, in un gesto distratto e un po’ impacciato.
«Va bene, vediamo cosa fai ora.» mormorò.
Andò a chinarsi vicino allo zainetto malconcio che aveva
appoggiato alla base del tronco, in mezzo al fango, e vi frugò dentro, finché
non trovò una piccola scatoletta di latta. L’aprì con l’apposita linguetta e ne
annusò il contenuto, prima di fare una smorfia di vago disgusto.
«Spero che io e te non abbiamo gli stessi gusti.»osservò.
Si allontanò di nuovo di qualche passo, studiando a naso in su i
rami, come se ciò potesse aiutarlo a trovare una buona posizione. Si chinò e,
in mancanza di meglio, usò un dito per scavare il contenuto della scatoletta di
cibo per gatti, e per rovesciarlo in un mucchietto approssimativo sul terreno.
Non c’era molta differenza di colore rispetto al fango, col quale in compenso
la pioggia l’avrebbe presto mescolato, ma al momento Danny non aveva idee
migliori.
Quando ebbe svuotato la scatoletta, ed ebbe riflettuto sul fatto
che tutto sommato forse era meglio lasciare il cibo al suo interno, si pulì il
dito sull’erba fradicia di pioggia e si rialzò in piedi; lanciò una breve
occhiata verso l’alto e ghignò in modo poco raccomandabile.
Si allontanò con aria ostentatamente indifferente e, cercando di
non farsi notare, girò l’angolo, appostandosi dietro la casa nel giardino della
quale si trovava il sempreverde.
Per molto tempo non accadde proprio niente. Anche se non osava
fare rumore, Danny continuava a ripetersi mentalmente diverse imprecazioni.
Dopo almeno un quarto d’ora sembrò che ci fosse un movimento tra i
rami. O forse era stato il vento. Poi qualcosa iniziò lentamente a muoversi di
ramo in ramo, con piccoli balzi sgraziati.
“Ho idea che, se si spiaccicherà nell’arrivare a terra, non sarà
considerato un lavoro valido.” pensò tra sé e sé Danny, con preoccupazione.
Alla fine intravide qualcosa, proprio sui rami più bassi, che si
muoveva goffamente.
Perfetto. Stava funzionando davvero, realizzò, iniziando a
congratularsi con se stesso.
E in quel mentre,quella
che sembrava una palla di pelo rossastro caracollò giù lungo il tronco
semi-precipitando. Si abbatté al suolo con poca eleganza, salvo poi balzare
subito ritto sulle quattro zampe con aria minacciosa, come se stesse cercando
il responsabile della sua caduta. Non trovandolo, parve tranquillizzarsi.
Lentamente, con aria molto più circospetta del necessario, il gatto si avvicinò
al cibo, che ormai aveva l’aspetto di un intruglio fangoso.
Tra sé e sé, senza muovere un muscolo, Danny lo osservava quasi
maniacalmente, esclamando incitazioni poco gentili nella sua testa.
All’improvviso nell’aria eruppe una musichetta stupida, rompendo
l’incanto.
La palla di pelo rosso ebbe un sussulto violento, fece un balzo
che lo staccò da terra di mezzo metro, si voltò e in una sola mossa rapida
risalìsu per il tronco, così
velocemente da far sembrare che per lui camminare in orizzontale o in verticale
fosse la stessa cosa, con solo qualche leggera variazione sul tema.
A Danny non valse nulla spiccare la corsa e precipitarsi fino sotto
l’albero. Quando raggiunse il tronco, il felino era bello che sparito di nuovo
tra le fronde.
«No! No! No! Così non vale!» strepitò il ragazzo, prima di
ricordarsi che era nel bel mezzo di un quartiere residenziale considerato
rispettabile, abbastanza rispettabile perché uno che urla in piena notte non sia
considerato degno di stare lì.
Lanciando sguardi di odio alle fronde tornate immobili, Danny si
portò una mano rabbiosa alla tasca del giubbotto di jeans, ed estrasse un
cellulare che, nonostante l’età e le fradice condizioni, sembrava essere ancora
in grado di funzionare miracolosamente.
«Chi è?» gridò con ira, nel rispondere alla chiamata.
«Hey… hey, amico, calma…» disse una voce dall’altra parte della
comunicazione. «Mi hai assordato.».
«Oh, questo è niente…» ringhiò Danny.
«Come scusa?» chiese l’interlocutore, con sinceri stupore e
incomprensione.
Danny sospirò, e si calmò abbastanza da assumere un tono più
“civile”.
«Che c’è?» tagliò corto.
«Ah, beh… cioè, ma dove sei finito?».
Danny dovette ricominciare da capo nel calmarsi i nervi, prima di
riuscire a rispondere.
«Sto lavorando. Cosa c’è?»
ribatté, sillabando tra i denti l’ultima frase.
«Ecco… qui abbiamo un problema.».
Silenzio.
«Ovvero?» chiese Danny, in tono generosamente esasperato.
«Il bagnoschiuma è finito. Cioè, no, è sparito. Cioè, Conte dice
che ce n’era ancora, secondo lui. Tu l’hai visto da qualche parte, cioè, l’hai
preso tu…?».
Danny staccò il telefonino dall’orecchio e lo fissò per un lungo
momento, considerando la possibilità di interrompere la comunicazione e
spegnerlo. D’altra parte avrebbe dovuto, e avrebbe voluto, farlo molto prima.
Sospirò per l’ennesima volta e lo riattaccò all’orecchio.
«Prova a guardare sul mio comodino. E, per favore, non chiamatemi più finché non torno!».
«Ah, sul comodino hai detto… ha detto sul comodino, sì, sul suo…»
disse, l’altro, parlando a qualcuno che si trovava con lui, e poi, rivolgendosi
di nuovo a Danny «Non è che potresti aspettare per vedere se lo troviamo?».
«No.» rispose seccatamente e cupamente Danny «Se non è lì, non ho
idea di dove sia. Ora devo andare.» e senza aspettare risposta chiuse la
comunicazione, spegnendo poi il telefono.
Tornò a fissare i rami dell’albero con aria torva.
«E va bene… hai avuto fortuna stavolta. Ma sai una cosa? Mi sono
proprio strarotto le palle.» disse, col tono di chi fa una dichiarazione di
guerra.
Si avvicinò al tronco, si sfilò la cintura e la passò attorno ad
esso, impugnandola saldamente alle estremità.
«A noi due.» mormorò, con un ghigno di sfida.
E iniziò ad arrampicarsi, cercando di scivolare il meno possibile
sulla corteccia bagnata e friabile.
Il campanello della porta
squillò una seconda volta, con maggiore insistenza, nel silenzio notturno della
casa. Una donna corpulenta si alzò dal letto, muovendosi con tanta grazia da
svegliare quasi del tutto il marito, che fino ad un attimo prima stava dormendo
molto sodo.
«Che succede?» chiese l’uomo, assonnato e poco interessato.
«Come diavolo faccio a saperlo? Potresti andare a vedere tu, se
sei proprio così curioso!» gli rinfacciò immediatamente la moglie, come se non
avesse aspettato altro per aggredirlo verbalmente.
«Chiamami se c’è bisogno.» rispose il coniuge, per nulla turbato,
girandosi dall’altra parte.
La donna emise un verso di dispregio a cui sembrava molto avvezza
e, dopo essersi infilata le ciabatte e una vestaglia, marciò fino alla porta
con aria battagliera.
Guardò attraverso lo spioncino, molto sospettosa, mentre chiedeva
allo stesso momento «Chi è?» con il tono più minaccioso e astioso possibile.
«Sono io… signora.» giunse la pacata risposta dall’esterno.
Lei fissò per diversi secondi l’immagine dall’altro lato della
porta, incredula. Quindi, con movimenti velocizzati dal nervosismo, armeggiò
con i diversi catenacci multipli per aprire, lasciando comunque la catenella di
sicurezza.
Attraverso il piccolo spazio consentito dalla catena spiò fuori,
con espressione truce.
«Che diavolo ci fa qui a quest’ora?» sibilò acida, studiando il
tizio fermo sulla sua soglia, il quale aveva un atteggiamento assai misero,
tipico di chi è fisicamente provato.
Era un ragazzo intorno ai vent’anni, mediamente alto, con un corpo
in cui, nonostante una certa magrezza, spiccava una muscolatura essenziale ben delineata;
faceva pensare che, benché non molto ben piantato, fosse dotato di una non
comune agilità. Tra i lineamenti sottili e quasi androgini, coperti dalla pelle
piuttosto pallida, spiccava lo sguardo intenso di due occhi blu molto scuro,
semi-celati da una frangia di capelli tinti di biondo acceso, con tracce del
suo castano naturale, di solito scompigliati e semiritti in testa, ora
completamente appesantiti dal loro fradiciume di pioggia. L’orecchio destro aveva
il padiglione percorso da una serie di piercing ad anello, e laddove ne mancava
uno, la carne portava la cicatrice di uno strappo, come se l’anello mancante
gli fosse stato tirato via con la forza. Indossava inoltre un doppio giro di
una catenella di ferro al collo, con appeso un qualcosa che rimaneva celato
sotto il bordo della maglietta. Per finire, vestiva, si muoveva e parlava come
una specie di ex-punk appena uscito da una dura terapia di riabilitazione, che
cerca di passare per una persona più comune, forse per qualche suo scopo, senza
peraltro riuscire a ingannare bene nessuno.
Indossava i vestiti più consumati e fradici che la donna avesse
mai visto.
«Beh, ehm, se potesse aprirmi un momento, dovrei consegnarle una
cosa. Cioè: ci sono riuscito.».
La donna considerò con circospezionele sue parole per qualche minuto, mentre continuava a osservarlo
da capo a piedi, in cerca di ciò che il ragazzo avrebbe dovuto portarle e non
trovandolo; poi sembrò capire qualcosa, e disse: «Va bene, aspetta un
momento.».
Tornò a chiudere la porta, andò in cucina, prese un paio di trancia
pollo da un cassetto e le nascose sotto la vestaglia, infilandole nei pantaloni
del pigiama. Quindi tornò alla porta, tolse la catenella e aprì, piazzandosi
sulla soglia con tutta la sua larghezza e le mani puntellate sui fianchi.
«Allora?» esordì, cercando di esplicitare il più possibile quanto
si aspettasse che il ragazzo avesse una buona giustificazione per presentarsi a
disturbare a quell’ora, e pretendere persino che lei gli aprisse.
Forse lui stava iniziando a prendere troppa confidenza, visto che
l’aveva assunto e aveva cercato di chiudere un occhio sulla sua
impresentabilità, e ora era lì per cercare di propinarle qualcuno dei suoi
problemi, o magari per chiedere dei soldi per la droga.
«Beh, può anche andare a prendere il portafogli…» esordì Danny,
con un sorrisetto.
“Ecco, appunto…” pensò la donna, convinta di trovare conferma ai
suoi sospetti.
«Perché qui c’è qualcuno che vorrebbe rivederla.» disse ancora lui,
aprendo abbastanza il giubbottoche
indossava per rivelare una palla di pelo rossastro, bagnata, miagolante, e con
le unghie profondamente conficcate nel petto del ragazzo attraverso la
maglietta.
«Oddio!» esclamò la donna, portandosi una mano al seno come se
stesse per avere un mancamento «Adameo! Adameo caro, come sei conciato!».
A sentirla, sembrava che stesse implicitamente considerando Danny
responsabile delle condizioni del ‘suo’ Adameo.
Allungò le braccia per prenderlo, con adorazione, e sembrò non
dare peso al fatto che occorse strattonare parecchio per staccarlo dal petto
del ragazzo. Questi trattenne un gemito quando le unghie gli vennero strappate
via dalla pelle,per andarsi poi a
piantare nel generoso petto della sua cliente, la quale abbracciò il felino con
trasporto materno.
Danny rimase fermo sulla soglia, immobile, ad aspettare, come un
componente dell’arredamento che peraltro fatica a stare in piedi, mentre i due
si scambiavano una serie di complimenti affettuosi, ignorandolo completamente.
Alla fine, la donna sembrò ricordarsi della sua presenza, se non
altro prima di chiudergli la porta in faccia, e dopo avergli lanciato
un’occhiata, come se si stesse chiedendo per un momento che ci faceva ancora
lì, disse, con tono totalmente diverso da quello riservato all’amato Amedeo…
«Ah, sì, bene. Allora vado a prendere i soldi.».
Quando fece per muoversi, qualcosa di pesante cadde fuori
dall’orlo inferiore dei suoi pantaloni, sbattendo rumorosamente sul pavimento.
Danny e la donna fissarono per un momento in completo silenzio il trancia
pollo. Poi il ragazzo si chinò, lo raccolse e lo porse alla signora.
«Stavo giusto… stavo giusto mettendo un po’ d’ordine in cucina…»
cercò di giustificarsi debolmente lei, riprendendolo.
«Allora, i soldi. Vado.» disse poi sbrigativamente, e ritornò
dentro, avendo cura di richiudere la porta con Danny fuori.
Il ragazzo fece appena in tempo a fare una linguaccia generosa
agli occhietti gialli e maligni del felino, che lo fissavano da sopra la spalla
della padrona. Poi si dispose ad aspettare, con pazienza, la sua meritatissima
ricompensa.
L’edificio era quel che rimaneva di una villetta gotica e un po’
barocca, isolata in cima ad una collinetta poco alta, appena fuori dalla
periferia della piccola cittadina.
Sembrava che fosse stata utilizzata almeno per un film horror,
qualche decina di anni prima, uno di quei film di serie C che quasi nessuno
guarda, se non gli amanti del genere che vanno a caccia di rarità. Perché la
distribuzione di quel film doveva essere
stata una rarità.
Ad ogni modo, ora la villetta era ancora più dimessa. Nessuno ci
aveva fatto seri lavori di ristrutturazione, pulizia o conservazione da molti,
molti anni, e questo si poteva dedurlo fin dalla prima occhiata. In compenso il
tempo e agenti atmosferici di ogni sorta si erano dati parecchio da fare.
C’era da chiedersi perché non si vedesse da nessuna parte uno di
quei cartelli che vietano di avvicinarsi per il pericolo di crollo imminente.
Tuttavia, c’era una ragione ben precisa. Ovvero che, in realtà, nonostante
l’aspetto lugubre, cupo e assai malmesso, la struttura fondamentale della
costruzione era ancora solidissima. I nostalgici dei famosi “tempi andati” o in
generale “delle cose di una volta”, quel genere di persone che potrebbero
giurare che quando loro erano giovani pioveva al massimo due o tre volte
l’anno, che la neve era meno fredda e tutto, assolutamente tutto era
inimmaginabilmente migliore, sarebbero stati felici di additarla come esempio
di come ‘una volta costruissero case più solide e capaci di durare più a lungo’.
Disgraziatamente, nel caso della vecchia stamberga in questione i
nostalgici avrebbero avuto ragione.
Ad avvicinarcisi abbastanza, ci si poteva anche rendere conto che
l’architettura e le varie decorazioni non erano tutte banale paccottiglia
gotic-horror, ma comprendevano buone ed equilibrate trovate di questo genere, piuttosto
originali e nient’affatto scontate. Persino eleganti, per coloro che considerano
un tocco di classe provvedere i davanzali esterni delle finestre di una cornice
di piccoli artigli intagliati e serpenti somiglianti a draghi orientali,
contorti come se fossero sospesi nell’aria. Persino gli occasionali gargoyle di
pietra, posti qui e là senza preciso ordine, avevano atteggiamenti originali,
nemmeno fosse stata presa ispirazione da soggetti veramente esistenti. Il
preferito di Danny era quello sull’angolo sinistro, al terzo piano, sopra la
porta d’ingresso principale; se si guardava bene si poteva notare che, tra gli
artigli di una delle zampe anteriori, appoggiata sul bordo della cornice,
stringeva una bottiglia.
Dopo la nottata che aveva appena passato, tuttavia, Danny non era
proprio dell’umore adatto per cogliere gli aspetti migliori della casa che già
ben conosceva, mentre vi si dirigeva a passi pesanti e strascicati, nel
grigiore dell’alba che si avvicinava.
Naturalmente aveva smesso di piovere qualche minuto prima, giusto
in tempo perché lui raggiungesse un posto riparato. Ma non aveva più nemmeno
l’energia per rammaricarsi della sua sfortuna nera.
Percorse lentamente la lieve salita lungo la strada sterrata,
camminandovi a lato per evitare la fanghiglia e le pozze d’acqua melmosa, finché
finalmente raggiunse l’ingresso della villa.
Salì la breve e piccola scalinata dell’ingresso e si fermò davanti
alla porta chiusa. La spinse, e quella si aprì semplicemente, cigolando appena.
Prima o poi avrebbero dovuto pensare a dargli un po’ d’olio. Chissà se poteva
funzionare con quello d’oliva…
Si chiuse la porta alle spalle e si inoltrò nell’ingresso.
Una volta che ci si abituava all’ambiente polveroso, con qui e là qualche
ampia ragnatela cosparsa di mummie d’insetti, l’arredamento antiquato e la
penombra che vi regnava quasi perennemente risultavano perfettamente normali.
Anzi, affascinanti. Abituandosi ancora di più, diventavano solo noiosi e
trascurabili.
Danny vi passò in mezzo senza degnare niente di uno sguardo, e
svoltò quasi subito, attraversando la cornice d’ingresso all’ala sinistra della
casa. Superò il breve e stretto corridoio ed aprì la pesante porta di legno,
che qualcuno aveva accostato per nessun motivo apparente.
Entrò nella spaziosa cucina, ed esitò un momento sulla soglia,
prima di dirigersi ai fornelli in cerca di qualche avanzo. Trovò un po’ di tè,
naturalmente gelido, e un pentolino con un coperchio; ne esplorò il contenuto:
pasta e pomodoro.
Accese il fuoco sotto entrambi i contenitori, e con un paio di
passi raggiunse il solido tavolo di legno e si abbatté su una delle sedie.
Dopo un po’ disse: «Allora, hai trovato il bagnoschiuma?».
Una sagoma scura uscì dall’ombra di un angolo della cucina,
alzandosi da una sedia, e senza emettere un suono si avvicinò al tavolo, come
se fluttuasse sul pavimento, i piedi quasi nascosti dal lungo abito nero che
indossava.
Un viso pallido, dal naso pronunciato e aquilino, insieme ai
lineamenti sbiancati e smorti, erano ciò che più risaltava nella persona del
resto tutta in nero, dai capelli ondulati e lunghi poco oltre le spalle,
passando per gli abiti, fino alle unghie dipinte con smalto nero.
«Sì.» disse solo, con voce bassa e piuttosto cupa.
«Bene.» grugnì Danny, e si appoggiò allo schienale della sedia con
aria esausta, allungando le gambe sotto al tavolo.
L’altro lo fissò, congiunse le dita delle mani all’altezza dello
stomaco, in una posa che sembrava essergli abituale, e notò: «Sei completamente
fradicio.».
«Oh, già.» gli concesse Danny, distrattamente.
«Non dev’essere stata una buona notte.» dedusse.
«No, infatti. Ma almeno ci sono riuscito. Ho recuperato quel
maledetto gatto, e mi hanno pagato. Come minimo. Se non mi dava quanto
accordato, non sarei più stato responsabile delle mie azioni…» riassunse il
ragazzo.
Un lieve sorriso si disegnò sul viso terreo del suo interlocutore,
in un’espressione di composto divertimento.
«Suvvia, non dire così… in fondo sappiamo bene che non avresti mai
torto un pelo al felino…».
«Beh, no, a lui no.» rispose Danny, come se fosse una cosa ovvia
che non era al gatto che stava pensando.
«Ma tu non dovresti andare a letto ormai? Sono quasi le sei e
mezza.» osservò Danny.
«Sì, infatti stavo per andare, ma ti ho visto dalla finestra e ho
pensato di aspettarti. Ha telefonato qualcuno che ti cercava ieri sera, non
molto tempo dopo che eri uscito.».
«Sì?» chiese Danny stupito, corrugando la fronte «E chi era?».
«Non ho risposto io, ma Justin.» spiegò tranquillamente l’altro.
«E dov’è Justin?»
«E’ andato a letto un paio d’ore fa.» disse ancora, calmo.
«Mm. Va beh, glielo chiederò domani.» si rassegnò Danny, un po’
deluso.
«… Mi sembra avesse nome Klumans, o qualche simile epiteto…» disse
pensieroso l’uomo in nero.
Danny rifletté un attimo, poi sussultò e il viso riprese vita di
colpo, colto da un’espressione vivacemente stupita e interessata.
«Non era per caso ‘Kumals’?» chiese, scandendo il nome mentre si
rizzava sulla sedia e guardava molto attentamente l’altro.
Questi ci ripensòun
momento.
«Potrebbe essere… sì, forse era Kumals.».
«Ah!» esclamò Danny, quasi incredulo.
Si passò una mano sulla fronte, staccando un po’ i capelli fradici
che vi erano appiccicati, e fissò il piano del tavolo, come sopraffatto da
qualche pensiero.
«Incredibile…» mormorò.
«Se posso intromettermi… di chi si tratta?» chiese, con
atteggiamento di composta curiosità, il Conte.
Riprendendosi, Danny lo guardò, e sorrise in modo inaspettatamente
affettuoso, ma non rivolto a lui.
«Beh… è un vecchio amico.» disse solamente, e continuò a sorridere
rivolto al piano del tavolo come se gli venissero alla mente vecchi scherzi, in
quel modo in cui non ci si rende precisamente conto di che espressione abbia la
propria faccia.
Il Conte continuò a osservarlo per un po’, colpito. Da quando lo
conosceva, non ricordava di aver mai visto Danny tanto vicino all’allegria.
* i diritti dell’immagine,
presa da internet, che uso come stacco tra alcune parti della storia, sono
questi:
Danny sentì confusamente un rumore.
Lo ignorò. Il rumore si ripeté, fastidiosamente insistente. Seguito da un suono
diverso, e da quello di passi. L’udito di Danny era particolarmente sviluppato.
In certe occasioni ciò era molto prezioso; in altre si rivelava sgradevolmente
inopportuno. Quella situazione apparteneva indubbiamente alla seconda
categoria.
Mentre iniziava a riemergere suo
malgrado dal profondo sonno, trascinato senza tanti complimenti dalla crescente
allerta istintiva dei suoi sensibili sensi, anche l’olfatto gli mandò un
segnale inequivocabile, perché familiare. Era l’odore di Justin. Questo gli
instillò maggiore fastidio, e uno spontaneo sospiro di pazienza accumulata a
stento.
«Che c’è?» mugugnò, rivolto più al
cuscino che ad altro.
«Ah, sei sveglio allora…»
osservò piuttosto stupidamente Justin, che doveva essere in piedi da qualche
parte nella stanza.
«Adesso
lo sono. O quasi. Faccio ancora in tempo a non esserlo?» disse per tutta risposta
Danny.
Sì, sentiva chiaramente che avrebbe
anche potuto riaddormentarsi praticamente immediatamente. Specialmente se
Justin non trovava nessun’altro argomento con cui tenerlo sveglio che non
fossero le sue inutili osservazioni. Cosa di cui dubitava molto.
«Ah, hem, mi
dispiace disturbarti… c’è di nuovo quel tipo al
telefono che ti cerca. Ha detto che potevo svegliarti.».
Suo malgrado Danny sorrise, ancora ad
occhi chiusi. Solo una persona che conosceva bene poteva avere tanta voluta
mancanza di tatto. Il che andava in genere di pari passo con questioni
abbastanza urgenti. Aprì gli occhi, che si guardò bene dal rivolgere su Justin,
per evitare che fosse la prima cosa da vedere al risveglio, e si lasciò invece
quasi cullare dalla bella sensazione del risentire dopo tanto tempo, anche se
per comunicazione indiretta, parole tipiche di chi lo stava cercando.
«Va bene. Arrivo subito.» disse mentre
si alzava, stiracchiando distrattamente le articolazioni un po’ irrigiditesi
durante il sonno.
«Ah, ok, allora vado a dirgli che…» iniziò Justin.
«Lascia stare, vado a rispondergli io.»
lo interruppe Danny, ancora sorridendo vagamente.
Come se non gli venisse in mente niente
di meglio da fare, Justin, un ragazzo non molto alto, con la sua corta barba
del mattino e ancora vestito con gli abiti con cui dormiva, restò a guardarlo
senza interesse, mentre si alzava e pescava dai vari indumenti, sparsi
confusamente per la stanza, qualcosa da indossare contro il freddo tagliente,
che come al solito regnava in casa, solo di pochi gradi superiore alla
temperatura esterna. Justin si limitò a spostarsi per farlo passare quando uscì
dalla stanza, e rimase ancora lì a guardarlo mentre si allontanava. Danny
percorse un paio di corridoi del primo piano e raggiunse il telefono, appoggiato
sul pavimento e collegato a una delle scarse prese per telefono della casa, o
forse l’unica. Il ricevitore del vecchio apparecchio era appoggiato a lato del
telefono. Danny lo raccolse e si mise a sedere per terra, appoggiando
comodamente la schiena al muro e riassaporando per un momento l’attesa subito
prima di rispondere.
«Yo.» disse.
Silenzio.
Danny iniziò a pensare che dall’altra
parte avessero interrotto la comunicazione, e il suo entusiasmo si stava già
sgonfiando, quando sentì la voce.
«Sono quasi le cinque del pomeriggio.»
«Lo so.» disse Danny, ancora sorridendo
nel risentire la vecchia voce, e un po’ perplesso per lo strano modo di
salutarlo.
«E tu stavi dormendo…
O non hai veramente niente da fare, oppure hai i soliti orari.»
«Un po’ di tutti e due.» rispose Danny
con sincerità.
«Non c’è nemmeno stata la luna piena
stanotte.» osservò la voce, con tono di disapprovazione che lasciava trapelare
solo appena una vena di scherzo. Solamente chi conosceva abbastanza bene chi
parlava avrebbe potuto coglierla senza ombra di dubbio, e certe volte darla
anche per scontata pur senza sentirla.
«Allora, tu perché mi chiami alle quasi
cinque del pomeriggio? Non hai niente di meglio da fare?» ribatté divertito
Danny.
«Eccome se ho di meglio da fare!» rispose
subito l’altro. «E si da il caso che ciò mi abbia portato dalle tue parti. CastleMac’Hearty,
giusto?».
Danny trasecolò «Come…
? Vuoi dire che sei qui!?».
«Beh, io non so dove sia tu esattamente.
Io sto chiamando da una cabina telefonica di CastleMac’Hearty.».
«E che aspetti? Dai, passa di qua. Ti
spiego la strada.» disse Danny, con pronta disponibilità.
«Frena i cavalli. Adesso devo prima
sbrigare un affare, ma più tardi potrei fare un salto. Per la verità volevo
chiederti, se è possibile, se posso passare qualche giorno da te. Ho alcuni
affari qui, e sinceramente preferirei evitare di prendere una stanza in
affitto, visto che posso approfittare di te.» spiegò la voce, con sincerità
burbera e diretta sempre appena velata dall’ironia.
«Certo! Passa quando vuoi. Puoi restare,
c’è un sacco di spazio qui. È la casa che c’è in cima alla collinetta in fondo
a via del Cimitero Vecchio.».
Silenzio.
«Sì.» disse Danny, stancamente,
interpretando l’assenza di replica dell’altro«Si chiama davvero così. E, lo anticipo per quando vedrai la casa, ci
vivo davvero qui. La porta è aperta. Dai un urlo quando arrivi.».
«Chissà, dopo queste premesse magari il
mio sarà un urlo sincero.» commentò la voce dall’altra parte della cornetta,
sardonica e non particolarmente sorpresa.
«See, va bene.
Allora a più tardi…» iniziò a salutarlo Danny.
«Già, così pare, se non mi viene in
mente niente di meglio nel frattempo.» e la comunicazione si interruppe.
Danny mise giù il telefono con un
sorrisetto dipinto in volto. «E chi l’avrebbe detto! Cosa ci farà qui…?» si chiese tra sé e sé.
«Chi?».
Danny, che pensava di essere solo, si
voltò fulmineo, trovandosi a guardare Justin, il quale lo stava fissando dal
fondo del corridoio con curiosità. Solo allora sembrò ricordarsi di non essere
in effetti il solo a vivere lì. E questo smorzò un poco la sua contentezza.
«Un vecchio amico. Viene a stare qui per
qualche giorno. Come è messa la stanza di fianco alla mia?» gli rispose Danny,
volutamente evasivo.
«Mmmh… ma
l’hai chiesto al Conte?» chiese Justin, poco convinto.
«Tsk.» Danny
liquidò la domanda con un gesto della mano.
«Al Conte non darà fastidio.» affermò,
con la sicurezza dell’abitudine, mentre si rialzava in piedi. «Allora… Sarà meglio dare un occhiata a quella stanza.».
Justin lo seguì lungo il corridoio con
le mani in tasca e la solita aria annoiata spazzata via da un’evidente
curiosità.
«Sì, ma chi è questo…Kulmens?» domandò ancora, con incertezza nel
pronunciare il nome.
«Kumals.» lo corresse
Danny.
«Te l’ho detto, un vecchio amico. Lo
conoscerai di persona, comunque, entro stasera.» spiegò distrattamente Danny,
mentre raggiungeva la stanza di fianco alla sua.
Aprì la porta e rimase di sasso per un
momento. La stanza era un caos di polvere, oggetti di ogni genere, un letto
malmesso appena intravedibile nella confusione e provvisto solo di materasso, e
qualche altro molto svogliato accenno di arredamento da stanza da letto.
«Dannazione, è anche peggio di quel che ricordavo…» mormorò, mentre le spalle gli si afflosciavano
per lo sconforto. «Qui ci sarà da lavorare parecchio.» e si voltò a
occhieggiare Justin. «Non è che mi daresti una mano? Se non hai altri impegni…».
Justin diede una lieve alzata di spalle
e riassunse la sua aria svogliata. «Ok.».
«Grande. Bene…
da dove iniziamo… ? Cristo, che casino!» borbottò,
mentre scostava col piede gli oggetti sparsi sul pavimento per raggiungere il
letto e guardarsi meglio attorno nell’ambiente non molto ampio di per sé, ma
reso ancora più angusto dalle cose che vi erano ammassate.
Justin lo guardava dalla soglia senza
muovere un muscolo, finché le sue sopracciglia si aggrottarono un poco.
«Sì, ma… chi è
esattamente Kumals?».
Il Conte, come al suo solito pallidissimo
e vestito completamente in nero, sedeva sulla sua grossa e pesante sedia,
rassomigliante a un trono di modeste dimensioni: faceva parte dell’arredamento
antico, vagamente goticheggiante o baroccheggiante e
comunque semimarcio e scrostato che aveva trovato già nella casa quando vi si
era trasferito, diversi anni addietro. Tra le mani dalle dita sottili, quasi
scheletriche, e con le unghie molto lunghe dipinte di nero, stringeva con
eleganza mal celatamente studiata una tazza laccata di nero, contenente un
liquido denso e rosso cupo. Allungò una mano sul davanzale della finestra della
cucina, presso la quale sedeva d’abitudine, e prese dal piattino abbinato alla
tazza un cucchiaino di foggia antica, di simil-argento,
inverosimilmente sottile, dal manico decorato con arabescature
semplici, e con esso mescolò un poco il contenuto, prima di riappoggiarlo sul
piattino senza emettere nemmeno un debole tintinnio. Lentamente si portò la
tazza alle labbra, sorbì un piccolo sorso, la riabbassò appoggiandosela in
grembo e con la mano, sempre la sinistra, decorata con due dei cinque anelli
dall’aspetto antico che portava sempre, prese un fazzoletto di pizzo,
naturalmente nero, da una tasca invisibile del mantello che indossava, e si
deterse con piccoli colpi leggeri le labbra pulite, prima di riporlo
nuovamente. I suoi gesti sempre composti, lenti e calcolati al millimetro
sembravano provenire dall’aristocrazia del XVIII o XIX secolo.
Poi, lentamente, alzò lo sguardo, che
fino a quel momento aveva tenuto basso, sugli altri due occupanti della stanza.
«Se garantisci tu per lui, Danny, non
c’è niente che mi turbi nell’avere un ospite.» disse con calma.
Per quanto potesse sembrare che stesse
aggiungendo una battuta a una conversazione in corso, in effetti stava rompendo
un silenzio che durava già da diversi minuti. Danny infatti, che nelle ultime
ore sembrava avere la testa altrove più del suo solito, impiegò qualche secondo
per registrare le sue parole. Quindi si voltò a metà, senza abbandonare la
presa sul cucchiaio di legno e sul manico della padella sul fuoco, nella quale
si stava scaldando un sughetto di pomodoro, olive e capperi, e lo guardò.
«Certo, garantisco io per lui. È una
situazione insolita… Di solito era il contrario.»
rispose.
«Cioè?» fece curioso Justin,
distraendosi dal fumetto che stava leggendo, sedendo al massiccio tavolo antico
di legno di noce, che ingombrava gran parte dello spazio della cucina.
«Ovvero…»
spiegò Danny, svogliatamente, mentre riprendeva a occuparsi pienamente del
cucinare «… di solito era lui a garantire per me.».
«Per quanto ciò corrisponda
indubbiamente a verità, dovresti considerare che è passato molto tempo. Certe
cose nel tempo cambiano, certe altre rimangono immutabili.» sentenziò il Conte,
la schiena ritta contro lo schienale del suo scranno preferito e la postura
elegante e solenne di un oracolo cimiteriale.
Justin lo fissò con aria confusa e fece
per dire qualcosa, poi sembrò ripensarci e tacque.
«Già…» mormorò
d’accordo Danny, rivolgendo uno sguardo di affettuosa nostalgia al sugo che
stava mescolando.
Ritornò il silenzio, nel quale si udiva
solo il rumore della pioggia fine che cadeva fuori, ticchettando appena sulle
decrepite tegole e sui pavimenti e parapetti dei piccoli terrazzi della casa,
lo sfrigolare leggero della padella con il sugo e, occasionalmente, una pagina
di fumetto che veniva girata.
Dopo poco Justin si distrasse di nuovo
dalla lettura e rivolse uno sguardo pensieroso alle spalle di Danny, che stava
spegnendo il fuoco sotto la padella e si stava preparando a trasferirne il
contenuto nella grossa pentola piena di pasta già cotta e in procinto di
raffreddarsi.
«A che ora ha detto che arrivava?»
chiese, alzandosi dalla sedia e avvicinandosi ai fornelli per guardare da
vicino la pasta che veniva mescolata, con aria particolarmente interessata,
annusando appena.
Danny si trattenne dal sospirare
spazientito.
«Non ha detto un orario preciso. Doveva
fare alcune cose, e presumo non sapesse a che ora avrebbe finito…»
rispose, laconico.
«Ah.» fu l’unico commento di Justin.
Continuò a fissare la pasta.
«Cavolo, ce n’è per un reggimento!».
«Ne ho fatta anche per lui, nel caso non
avesse mangiato. Tutt’al più ce la mangeremo domani. Per colazione.» esplicitò
Danny.
Justin fece una smorfia poco convinta,
che l’altro non notò.
«Prendi i piatti.» gli chiese Danny.
Justin eseguì, andando a prelevare due
piatti dalla pila di stoviglie lavate impilate di fianco al lavandino, e li
sorresse mentre Danny ci schiaffava dentro abbondanti quantità di pasta.
«Andiamo a mangiare davanti alla
televisione?» propose Justin.
«Perché, c’è qualcosa di interessante?»
ribatté Danny poco convinto. Non amava molto la televisione.
«Pensavo di proiettare una vecchia
pellicola sui vampiri.» interloquì il Conte.
Danny sbuffò appena. «Vabbhe.» si arrese.
I tre si trasferirono nella sala sempre
al pianterreno, nella quale si era fatto abbastanza spazio per piazzare due
divani, una faraonica poltrona antica e sdrucita che era un altro dei posti
preferiti del Conte, che vi si assise appena entrato, e una televisione
malandata, recupero di fortuna, appoggiata in un vano di un’antica credenza,
con la quale stava come l’incarnazione del divario tra il (molto) antico e il
para-moderno (la televisione risaliva probabilmente agli inizi degli anni ’90).
Dopo aver appoggiato il suo piatto sullo
sporco tavolino basso davanti ai due divani, Justin trasse da un’anta della
massiccia credenza polverosa e un po’ tarlata una videocassetta, e la inserì
nel videoregistratore appoggiato sulla televisione, armeggiò un poco e, mentre
i titoli di inizio del film apparivano in bianco e nero sullo schermo, si
lasciò cadere sul divano sul quale non si era già stravaccato Danny e
riagguantò il suo piatto.
Justin sbadigliò generosamente per
l’ennesima volta e si decise a spegnere la televisione. Si alzò faticosamente
dal divano e si voltò verso la poltrona, trovandola vuota. Si rammentò che il
Conte aveva loro augurato pomposamente la buonanotte qualche tempo prima,
ritirandosi in qualche altra stanza della casa, probabilmente nella biblioteca
dove avrebbe passato la notte, come faceva di solito. Allora si voltò verso
Danny.
«Io vado a letto. Vuoi che ti lasci la
televisione accesa?».
Dal ragazzo sdraiato sul divano, coperto
da una vecchia coperta di lana, non provenne alcun segno di vita né tantomeno
di risposta.
«Stai dormendo?».
Ancora niente.
Justin alzò le spalle appena e se ne
andò a dormire. Nella stanza c’era ancora il confortevole tepore dato dalle
braci, baluginanti nel camino integrato nella parete opposta a quella quasi
interamente occupata dalla mastodontica credenza. L’odore di legno bruciato e
di sugo di pasta si mescolava con il respiro pesante di Danny, ancora pregno
dell’aroma della birra che aveva bevuto poco prima di addormentarsi e di quello
della sigaretta che l’aveva accompagnata.
Per il resto, nella casa regnava il
silenzio. Fuori non pioveva più.
Il fine udito di Danny captò alcuni
rumori lontani, ma abbastanza distinti. Qualcuno camminava, avvicinandosi. Il
ragazzo si riscosse e si alzò a sedere. Nel breve tempo che impiegò a
riprendere piena lucidità, contemplò la stanza vuota e si impensierì. Senza
fare quasi rumore, scivolò fuori dalla coperta e si alzò in piedi.
Istintivamente annusò l’aria, ma della miriade di odori che gli giungevano
nessuno gli segnalava qualcosa che non andasse. D’altra parte i rumori
provenivano dall’esterno della stanza, anzi, dall’esterno della casa.
Muovendosi con perizia nel buio,
evitando tutti i mobili e qualsiasi altro oggetto contro cui poter urtare, uscì
dalla sala e si avvicinò all’ingresso principale della casa, seguendo
l’intensità crescente dei rumori, segno che stava accorciando le distanze
appropriatamente.
A passi felpati si appressò a una delle
due strette finestre che affiancavano la porta, come facendole da sentinella,
e, prestando attenzione al fatto che la sua sagoma non fosse visibile
dall’esterno, cercò di spiare fuori, nonostante i vetri abbondantemente sporchi
e impolverati, che insieme al buio non potevano offrire una grande vista
sull’esterno.
In effetti non ottenne niente per
qualche istante, ma poi individuò nettamente un movimento: una figura sulla
porta, che stava indugiando ai piedi dei gradini dell’ingresso. Anche se non
aveva mai visto quel profilo familiare con una postura così malmessa, come se
faticasse a stare in piedi, Danny lo riconobbe, alla fine. Allora si rilassò.
Mentre si avvicinava alla porta e la
apriva, gettò una rapida occhiata all’orologio. Erano da poco passate le tre di
notte.
Aprì la porta e si profilò sulla soglia,
fissando la sagoma ai piedi dei gradini e trattenendo un sorriso spontaneo.
«È questa l’ora di presentarsi?» esordì
scherzosamente, incrociando le braccia sul petto per recitare meglio la parte
dell’indignato.
«Ciao Danny. Guarda…
non è proprio il momento…» gli giunse la risposta,
con un tono di stanca franchezza.
Danny divenne rapidamente serio udendo
quell’intonazione, e scese i gradini andando incontro a Kumals.
«Che è successo?» chiese, quando fu
abbastanza vicino da vederlo bene.
L’altro lasciò che nella sua espressione
consumata spaziasse un leggero ma sentito sorriso. Danny lo ricambiò e alzò la
mano per scambiare una stretta di mano, in segno di saluto amichevole. Kumals emise un breve sbuffo divertito e lo trasse più
vicino. Si abbracciarono per un momento, scambiandosi brevi pacche sulle
schiene.
«Avresti una sigaretta?» domandò Kumals. «Credo di aver lasciato il tabacco là…maledizione…».
«Sì. Sono dentro. Vieni dentro anche tu.
Per quanto tu possa essere impresentabile, ti assicuro che qui…»
iniziò Danny.
«Oh sì, ho visto.» lo interruppe Kumals, accennando con gli occhi e un gesto della testa
alla casa che li sovrastava «Posticino carino. Ci sei ancora dentro fino al
collo, eh Danny?» chiese con complicità.
«Ah, non esattamente.» si schernì il
ragazzo, tuttavia piacevolmente divertito dall’osservazione. «E’ tutta
scenografia, nient’altro…».
«Va bene, allora entriamo e vediamo che
succede.» commentò sarcastico Kumals.
«Ma… sei
ferito?» chiese preoccupato Danny, mentre affiancati salivano le scale,
occhieggiando l’incedere un po’ zoppicante e dolorante dell’amico.
«Niente più che qualche livido e qualche
taglietto… niente di serio comunque. Lasciami mettere
seduto e bere qualcosa di caldo e ti dirò…» aggiunse,
come per prevenire altre domande.
«Sì, certo…»
acconsentì Danny, con aria però sempre più preoccupata.
Ma Kumals si
fermò all’improvviso, con un piede sullo scalino successivo, si irrigidì e il
suo sguardo si assottigliò. Danny alzò la testa ad osservare la sagoma scura e
immobile che li attendeva sulla soglia della porta.
«Mi era parso di udire delle voci…» disse il Conte.
«Ah, hem… beh,
visto che ci siamo... Conte, questo è Kumals. Kumals: il Conte.» fece le presentazioni Danny, impacciato,
portandosi una mano a sfregarsi il collo.
I due si osservarono per qualche lungo
momento in silenzio. Il Conte studiò con accorta pacatezza l’uomo che doveva
avere poco più di trent’anni, che poteva sembrare più giovane per via del
fisico alto e in forma, in gran parte celato da un lungo e pesante cappotto
dall’aria frusta, e per via dei lunghi capelli rasta raccolti in un groviglio
accennante a una coda di cavallo bassa, ma i cui occhi e l’espressione dura e
attenta tradivano un invecchiamento precoce e impegnativo.
«Immagino di dover ringraziare
principalmente lei per l’ospitalità.» disse Kumals,
ancora senza muoversi, e ancora con lo sguardo di chi studia attentamente, pur
senza rendere troppo palese l’indagine in atto e la natura d’essa, né tantomeno
le eventuali conclusioni a cui giunge.
«Abolisca pure le formalità. Sono io che
sono lusingato di poterle dare ospitalità. Danny mi ha parlato molto di lei.»
ribatté il Conte, sempre con pacata cortesia.
«Ah sì?» chiese Kumals,
rivolgendo a Danny un cipiglio poco contento, ma velato di ironia.
«Beh, non così tanto poi…»
si difese Danny, con un sorrisetto.
«Venite dentro. Dev’esserci
molto freddo.» li invitò il Conte, come se lui non subisse in alcun modo gli
effetti della temperatura. Chiunque avrebbe potuto trovarlo un invito ben poco
rassicurante. Ma Kumals e Danny salirono la scala e
seguirono il Conte all’interno della casa con aria tranquilla.
* i diritti
dell’immagine, presa da internet, che uso come stacco tra alcune parti della
storia, sono questi:
Danny
spense il fuoco sotto alla padella e travasò in un piatto pulito una generosa
montagnola di pasta al sugo appena riscaldata. Mentre si dirigeva verso
l’ingresso della cucina, portando un pezzo di legno grezzo a mo’ di vassoio, prese
con sé anche il monocolo con la candela che usava per farsi luce, e tornò nel
salotto, illuminato da altre tre candele.
« Ecco qua, uno spuntino.» annunciò
allegramente« E il tuo the. » e porse
la tazza a Kumals, il quale aveva poco prima dichiarato
che non aveva fame, essendo reduce da un’abbondante cena.
Danny si sedette sul divano libero e
attaccò il piatto di pasta che aveva preso per sé.
« E tu, stai cenando? » domandò Kumals, guardandolo.
« Beh no… ma
ho fame. » ribatté Danny, tranquillamente.
« Non che questo mi stupisca…
» commentò Kumals
con un lieve sorriso ironico, e distolse lo sguardo dalle indaffarate mandibole
di Danny per rivolgerlo alla poltrona in cui la scura figura del Conte sedeva
elegantemente, le braccia e le mani distese appoggiate sui braccioli, e
l’abbondanza di stoffa del mantello cupo che ricadeva in un regolare
drappeggio.
« Mi stava dicendo, quindi, che lei
preferisce dormire di giorno. » disse Kumals.
A ben guardare, si sarebbe potuto notare
che la presenza del Conte lo disturbava un po’, in quel momento.
« Oh sì. Trovo il sole eccessivamente
aggressivo, persino in questa rigida stagione invernale. » spiegò il Conte « Inoltre, i miei flussi
mentali di notte sono al loro massimo splendore. Questo mi è molto di aiuto per
i miei studi. »
« I suoi studi…?
Danny mi ha accennato qualcosa tempo fa… ».
« Sì, per la verità questo mi mette in
un certo imbarazzo… Vede, la mia si può dire
un’attività ancora alle prime armi… Non posso certo
ancora definirmi un esperto. Tuttavia sono certo che se nei prossimi giorni,
durante la sua permanenza, volesse dare un’occhiata agli scritti che ho
raccolto nella biblioteca, li troverebbe assai interessanti. Specialmente una
persona come lei, Kumals, che, da quanto mi è stato
accennato dal nostro comune amico, deve avere le competenze necessarie per
poter apprezzare appieno la pur relativamente modesta prestigiosità dei
documenti che conservo. » disse il Conte.
Masticando, Danny gli rivolse
un’occhiata stupita. Non lo sentiva pronunciare una frase così lunga e appena
vibrante di una pallida ombra di entusiasmo umano da diverso tempo.
« Se lei ritiene di potermi consigliare
qualcosa di particolare da cui iniziare, sarei lieto di darci un’occhiata. E
vista l’occasione in cui ci troviamo entrambi qui, se vuole andare a prendere
qualcosa dalla biblioteca e portarla qui mi farebbe molto piacere…
» rispose gentilmente Kumals.
Danny lo fissò sospettosamente, ma dal
viso impenetrabile, e assai abituato a mostrarsi tale, non ricavò nulla.
« Ma certamente. Allora, credo che andrò
a prendere alcune delle cose che ritengo più interessanti, niente al confronto
di altre opere che posseggo, dal momento che dovrei consigliarle troppi
elementi in una sola volta se volessi fare una cernita che potesse dirsi
basilarmente completa… ma prenderò un assaggio
leggero. » disse il Conte, mostrando appena, come dettava la sua personale
etichetta, la contentezza che doveva starlo pervadendo.
Si mosse senza fretta, alzandosi dalla
poltrona, voltando con un circolare e composto gesto del braccio il mantello
alle sue spalle, e uscendo col suo passo invisibile e inudibile dalla stanza.
Dal momento che non era possibile udire
i suoi passi, Kumals aspettò qualche momento, per
essere sicuro che si fosse allontanato, prima di rivolgersi a Danny.
« Così quello è il Conte? »
« Sì. » bofonchiò Danny a bocca piena.
« Mh… e usate
sempre le candele di notte? A proposito. Lui non ne ha presa una con sé… »
« Così risparmiamo sull’elettricità.
Inoltre, Conte dice che le luci elettriche sono ‘disgustose’. E sostiene di
vederci benissimo al buio…. Beh, comunque sia, se mai
va a sbattere contro qualcosa riesce a farlo senza far rumore. »
« Questa tua sistemazione richiederebbe
commenti tali che penso me li preparerò con calma nelle prossime ore. Per ora,
mentre siamo soli, vorrei parlarti di quello che mi è successo prima… » Kumals divenne molto più
serio, e Danny si fece attento, al punto da appoggiare il piatto e interrompere
il suo spuntino notturno.
« Vai. » disse solo.
Kumals
gli gettò un’occhiata poco convinta, e scosse appena la testa, si appoggiò con
la schiena all’indietro sul divano, e interrompendosi solo per mandare giù un
sorso di the bollente ogni tanto, prese a parlare in tono calmo e riflessivo;
gli occhi erano un nugolo di pensieri inespressi, segno che mentre raccontava
andava in cerca di nuovi indizi, setacciando la sua stessa memoria.
« Come sai, da un po’ di tempo ho una
piccola attività di investigazioni privata, e l’altro giorno un uomo mi ha
chiamato in ufficio. Ha chiesto l’intervento dei ‘4 di picche’.
»
Danny si sporse in avanti, interessato.
« Naturalmente io gli ho spiegato che
non esiste più il gruppo… ma dal momento che lui
insisteva sulla gravità della situazione, gli ho promesso che sarei almeno
venuto io a parlargli. Infatti non voleva assolutamente spiegarmi al telefono
di che si trattava. Sembrava molto spaventato, sensazione che mi ha rinnovato
il vederlo quando sono arrivato qui. Per la precisione, sembrava in preda a
manie di persecuzione non da poco. Comunque… forse ti
ricorderai di lui: il signor Benton. Ti dice nulla? »
« No… non mi pare… » mormorò Danny, concentrato.
« Hum, beh, in
effetti forse quando abbiamo svolto un altro incarico da queste parti noi non
ci conoscevamo ancora… Ad ogni modo, quest’uomo,
oltre a pagarmi il viaggio e il disturbo con un generoso anticipo, mi ha dato
appuntamento alla cabina telefonica, la stessa da cui ti ho chiamato oggi.
Quando sono arrivato, per telefono mi ha detto che ci saremmo dovuti parlare
senza dare minimamente nell’occhio, e io avrei dovuto quindi fingermi uno degli
invitati alla sontuosa festa di capodanno che ha dato stasera nella sua villa.
»
« Festa di capodanno? » si stupì Danny.
Kumals
inclinò appena un sopracciglio « Beh, da circa tre o quattro ore siamo nell’anno
nuovo. Buon anno. » disse, ironicamente.
« Ah, sì? Vai avanti. » lo incitò Danny,
senza mostrare particolare interesse per la festività.
« Bene… »
sogghignò Kumals « stavo dicendo, mi sono dovuto
affittare un abito da sera, sempre a spese del signor Benton, e sono andato a
questa fatidica festa sfarzosa. C’erano montagne di cibo e di bevande di ogni genere… ti sarebbe piaciuta. »
Danny gli lanciò un’occhiata storta.« Vai avanti. » ripeté, un po’ più
ruvidamente.
« Vedi, il signor Benton è sempre stato
un tantino originale… sai, un arcistramiliardario
che è venuto ad abitare in un villone in un paesino
di campagna, e si è appassionato all’occultismo qualche anno fa… un po’ come il Conte… anche
se lui la… ‘viveva’ in modo diverso. Diciamo che il
suo era propriamente solo un hobby per passare il tempo. Durante la festa, dopo
che ha dovuto salutare e fermarsi con tutti gli altri invitati o quasi, ha
infine trovato il tempo di venirmi a parlare, così abbiamo fatto finta di fare
una discussione del tutto innocua e mondana, accanto al punch. Non avevo mai
visto il signor Benton così. Era dimagrito, impallidito, e sembrava malaticcio,
e soprattutto aveva i nervi a fior di pelle. Ad ogni buon conto…
quello che diceva era da delirio. Mi ha detto che ci sarebbe un tizio, di cui
aveva troppa paura di farmi il nome, che un paio di anni fa ha preso una villa
sulle colline, qua vicino da qualche parte. Questo signore sarebbe uno
scienziato che stava per raggiungere la fama mondiale, ma per qualche dissidio
con superiori e colleghi riguardo agli esperimenti che stava conducendo è stato
praticamente estromesso dai “giochi dei grandi”. Allora si è rifugiato qui in
isolamento, ma non ha smesso di lavorare ai suoi progetti, anzi, ha continuato
libero da ogni vincolo. Secondo il signor Benton, quest’uomo sarebbe venuto a
parlargli qualche settimana fa, proclamando di aver fatto una scoperta
sensazionale, e voleva cercare di convincere il signor Benton a finanziarlo per
perfezionarla. Anche di quale invenzione si trattasse, Benton non ha voluto
dirmi praticamente nulla… sembrava ossessionato
dall’idea che qualcosa o qualcuno lo spiasse di continuo da sopra la spalla
praticamente; insomma, sembrava fuori di testa, nemmeno avesse preso un acido… che sarebbe poi esattamente quello che avrei
sospettato, se non conoscessi abbastanza il signor Benton per pensarlo incapace
di voler anche solo prendersi la briga di procurarsi dell’acido. Tutto quello
che mi ha detto è che questo sedicente scienziato avrebbe ideato una macchina
tremenda, che va oltre ogni sensibilità ed etica umana, una ‘cosa mostruosa’… e
che voleva metterla presto in funzione, testarne gli effetti. »
Kumals
si interruppe per riaccendersi la sigaretta che si era spenta.
Danny lo guardava attentamente.
« Sembrerebbe che questo Benton ti abbia
più taciuto che detto qualcosa di utile… » osservò,
serio.
« Sì. Infatti. Ma credo che avrei potuto
convincerlo e rassicurarlo abbastanza perché mi desse informazioni più utili
per svolgere il lavoro, qualsiasi incarico egli volesse affibbiarmi, se non
fossimo stati interrotti… » l’espressione di Kumals si incupì notevolmente.
« Uh? Da cosa? »
« Beh… mi è
difficile dirlo con esattezza… per la verità, io
stesso sono ancora indeciso riguardo al credere a ciò a cui ho assistito… d’altra parte, sono abbastanza contuso da averne
le prove fisiche addosso. »
« A proposito, hai bisogno di bende,
cerotti, qualcosa del genere…? No, perché dovremmo
avere qualcosa come una cassetta del pronto soccorso da qualche parte, qui dentro… » offrì Danny.
« Lascia stare, non è niente di serio,
ci penserò dopo. Adesso lasciami finire di dirti tutto…
perché visto che sei di queste parti, magari mi saprai dire se è normale che
una banda di una trentina di motociclisti faccia irruzione alla festa di un riccone
in una villa e devasti tutto… »
Danny lo guardò, spalancando un po’ gli
occhi.
« … come? » chiese incerto, cercando sul
viso di Kumals traccia di scherzo. E, suo malgrado,
non trovandola.
« Già, che tu ci creda o meno, questo è
proprio quello che è successo. All’improvviso si è sentito all’esterno della
villa un rumore infernale di motori di moto di grossa stazza, e truccate
sicuramente, più le urla di questo branco di centauri, tutti galvanizzati per
qualche motivo. Forse non ho ancora detto che la festa si svolgeva in un salone
al pianterreno che ha gran parte delle pareti costituite da vetrate. Bene, per
cominciare uno o due di questi tizi si sono gettati dentro attraverso la
vetrata con le motociclette e tutto… insomma,
immaginati, un secondo ed è scoppiato il panico generale tra gli invitati, che
ovviamente erano tutti in abito da sera, perfettamente a loro agio, e i quali
finoa un attimo prima non si
aspettavano di dover affrontare niente di più che una leggera sbronza da punch
e una lieve indigestione per l’abbuffata… Quindi sono
entrati anche gli altri, attraverso le vetrate rotte, e hanno iniziato il
solito copione del genere. Per la verità in effetti sembravano comparse di
terzo ordine… come se qualcuno li avesse assoldati… Comunque, il signor Benton era terrorizzato, ma
non così tanto come se non se lo aspettasse. In pochi minuti quel branco di
gentiluomini tutti vestiti in pelle, ferro e pelo al vento è riuscito a
devastare tutti i tavoli, i bicchieri, la stoviglieria varia, a mangiarsi o spiaccicarsi
addosso o per terra cibo e bevande, a spaventare gli invitati rincorrendoli a
bordo delle moto, percuotendoli occasionalmente con catene o spranghe, e cose
del genere… »
Danny era senza parole. Era ormai sicuro
che Kumals non stesse scherzando. A uno sguardo
inesperto, per la verità, Kumals sarebbe apparso
piuttosto grottesco, per il suo modo di raccontare l’accaduto e di mostrare
totale disinteresse per quello che era successo. Ma agli occhi attenti di
Danny, che aveva imparato in anni di pratica a leggere i minuti segnali che
poteva trasmettere la ben nascosta emotività dell’amico, era chiaro che Kumals era particolarmente stanco, stupito, amareggiato e
impensierito.
« E quindi cosa hai fatto? » chiese infine,
e capì immediatamente l’errore della sua domanda quando vide Kumals accigliarsi un poco.
« Cosa pensi che avrei fatto? Ho fatto
di tutto per non farmi notare dagli invitati imprevisti e mi sono lasciato alle
spalle quel delirio il prima possibile. Nel farlo ho preso qualche cinghiata di
striscio occasionale, ma niente di serio. E mi sono trascinato dietro il signor
Benton, perché era chiaro che era così basito e spaventato che da solo non
avrebbe mosso un muscolo, anche se chiaramente l’indimenticabilità
della festa era ormai garantita… »
« Quindi sei riuscito a portarlo via di là… ma dov’è ora? »
« Ci sto arrivando…
» disse Kumals, un poco spazientito « Vedi, prima che
riuscissi a portarlo via si è preso diverse botte, più di me senza dubbio,
anche perché sembrava non avesse nemmeno la forza o la volontà di cercare di
evitare i colpi. Aveva l’aspetto di uno che è perfettamente convinto e affatto
sorpreso di dover sicuramente morire di lì a poco. Comunque, l’ho trascinato in
questa direzione. Eravamo sì e no a cento metri da questa…
‘casa’… quando è crollato per terra. Penso sia stato un infarto o qualcosa del genere… perché non era gravemente ferito. »
« Stai dicendo…
» Danny si interruppe, scosse un momento la testa come per riprendere lucidità,
e riprovò «Vuoi dire che c’è il cadavere di Benton lungo la strada che porta
qui??! »
« Beh… sì. In
effetti, sì. »
« Tu…ma… ma perché diavolo non l’hai detto prima? » si infervorò
Danny, alzandosi in piedi di colpo.
« Sai, dopo tanto che non ci vediamo, e
visto che sono ospite, non mi sembrava il caso… »
obbiettò Kumals, con infastidito sarcasmo « Danny,
ragiona! Lui è già morto ormai. Ma se quei signori ci hanno seguito ho pensato
che fosse più logico venire ad avvertirvi! »
« Va bene… va bene… » ripetè Danny, come per
calmarsi« Dobbiamo toglierlo di là per
prima cosa. Dobbiamo metterlo da qualche parte... »
« Sì. Se mi dai una mano in due
riusciremo a trascinarlo. » fu d’accordo Kumals, e si
alzò anche lui in piedi.
« Ma prima di tornare fuori, sarà meglio
essere un po’ più preparati. Hai ancora le tue armi, vero? »
« Ma certo! » disse Danny, quasi
indignato per la domanda.
« Bene, valle a prendere, ti aspetto
all’ingresso. » terminò Kumals, mentre entrambi
uscivano dalla sala.
Danny prese le scale quasi di corsa,
raggiunse la sua stanza al primo piano e si chinò subito sulle ginocchia,
accanto al letto. Con mosse attente, sollevò il materasso ed estrasse da sotto
di esso una valigia rigida e consunta, con l’apertura chiusa da tre giri di
catena e un grosso lucchetto. L’appoggiò per terra, si portò le mani al collo e
si slacciò la catenina che vi portava, alla quale era appeso un anello con una
chiavetta, che di solito non era visibile perché penzolava al di sotto della
sua maglia. Con quella chiave aprì il lucchetto, se la riallacciò al collo, e,
dopo un breve momento di esitazione, aprì la valigia lentamente.
All’interno, avvolte in un panno,
c’erano due pistole di foggia diversa. Danny ne prese una, richiuse la valigia
e la re-infilò sotto al materasso. Si alzò in piedi e si sistemò la pistola tra
la schiena e la cintura dei pantaloni, per poi coprirla con la maglia. Quindi,
muovendosi rapidamente, uscì dalla stanza dirigendosi alle scale, ma prima di
scendere notò una luce che lo precedeva scendendo i gradini.
Justin si voltò con aria assonnata, reggendo
la candela, e chiese lievemente allarmato « Che succede? »
« Niente….
torna a letto Justin. » gli consigliò Danny.
« E’ arrivato il tuo amico? » continuò
imperterrito Justin, seguendolo giù dalle scale.
« Torna a letto » ripeté Danny, a un
passo dall’esasperazione, mentre continuava a scendere velocemente.
Ma sentì Justin che lo seguiva, a passo
sostenuto.
« Ma cosa succede? »
In fondo alle scale li aspettava lo
sguardo accigliato di Kumals, in piedi presso la
porta.
« Oh! Ciao. Io sono Justin. » disse
Justin, vedendolo.
Kumals
lo fissò per un lungo momento in silenzio, prima di rispondere « Scusami, ma
questo è un momento un po’ delicato. Se non ti dispiace rimanderei la nostra
conoscenza a domattina. »
« Sì, esatto. Ci vediamo domattina,
Justin. » ripeté Danny, lanciandogli uno sguardo significativo.
Il ragazzo continuò a spostare lo
sguardo dall’uno all’altro « Ah, ma allora sta succedendo qualcosa!»
« Parrebbe di sì, Justin. » disse una
voce, e suo malgrado anche Danny sussultò stavolta.
Il Conte emerse dall’ombra del
sottoscala, col suo serio sguardo pallido imperturbabile, tra le mani una pila
di cinque libri tenuti in perfetto equilibrio.
« Penso che loro due abbiano qualcosa di
urgente di cui occuparsi. Sarà meglio che noi gli evitiamo la nostra
interferenza per il momento. » continuò.
Sembrava vagamente offeso.
Danny esitò e fissò Kumals
« Beh… dopotutto, insomma, non vedo che male possa
fare se anche loro… cioè, dopotutto è sulla strada
che porta alla casa… e qui ci vivono anche loro… » accennò, senza grande convinzione.
Kumals
gli rivolse uno sguardo attento e affatto persuaso, e dopo un po’ disse «
Lascio a te la valutazione se è il caso… intanto sarà
meglio che io mi avvii… » e detto ciò si voltò, aprì
la porta e uscì, lasciandola aperta.
Kumals
scese i gradini d’ingresso e iniziò a camminare, scendendo la discesa lungo la
strada immersa nel buio.
Alle sue spalle, dopo un rapido
parlottio di Danny, risuonò all’improvviso un mezzo urlo che aveva la voce di
Justin.
« Un cadavere?!! ».
Kumals
scosse la testa e proseguì, con aria particolarmente accigliata.
*
***
*
Kumals
aveva fatto pochi passi lontano dai gradini dell’ingresso, quando qualcosa lo
indusse a fermarsi di colpo, e a rimanere rigido, fissando l’oscurità. Un
rumore strascicato si avvicinava, molto lentamente. Kumals
continuò a fissare insistentemente il buio. Poco dopo il rumore fu coperto
dalle voci dei tre ragazzi alle sue spalle, tra le quali spiccava quella di
Justin.
« Ma quindi com’è successo? Cosa significa
che ce lo spieghi dopo?? Non è possibile che… »
« Zitto! » ordinò imperioso Danny, e Kumals capì con soddisfazione che si erano tutti
immobilizzati e zittiti.
Anche Danny l’aveva sentito. Il rumore
continuava ad avvicinarsi, strascicando nel buio.
« Ma… non era
morto? » sussurrò la voce alterata dalla paura di Justin.
« Certo che è morto, non può essere lui.
» gli rispose Kumals, che aveva fatto qualche passo
indietro, raggiungendo di nuovo gli scalini, dove almeno la luce della candela impugnata
da Justin gettava una certa luce, piuttosto tremolante, all’intorno.
Danny scese le scale a metà, e si fermò
di nuovo, anche lui protendendo la sua attenzione verso l’ancora invisibile
fonte del rumore. Le sue membra sembravano pronte a un rapido scatto, benché la
posizione di difesa-reazione fosse appena accennata.
Dall’oscurità emerse lentamente una
sagoma, che si trascinava zoppicando verso di loro, seguendo la strada, le
braccia penzoloni lungo il corpo. Nel buio spiccarono i bianchi polsini e
colletto di un vestito da sera, e poi anche la faccia dell’uomo divenne
abbastanza visibile, finché Kumals lo riconobbe.
« E’ Benton… »
mormorò, incredulo.
« Ma avevi detto che era morto! »
osservò Danny, in un’esclamazione tesa.
« Ne ero sicuro…
» disse Kumals, piuttosto confuso.
« Beh, a quanto pare ti sbagliavi. » commentò
Danny, scendendo le scale per andare incontro all’uomo, che era evidentemente
in difficoltà.
Ma quando passò accanto a Kumals, egli gli calò pesantemente una mano sulla spalla e
lo fermò. Danny lo guardò interrogativamente.
« Non è che in realtà volevi ucciderlo?
» gli domandò, ironico.
« Ascolta: non senti niente? Intendo,
come odore… » gli domandò seriamente Kumals.
Danny lo guardò lievemente stupito « No,
non sento niente di strano… a parte odore di punch e
di sudore e di fanghiglia e neve. »
« Mhm. » annuì
Kumals, poco convinto. E tolse la mano dalla spalla
di Danny, avanzando di qualche passo incontro all’uomo barcollante, che ormai distava
da loro di pochi passi.
« Signor Benton? » lo chiamò Kumals, mentre gli si avvicinava. Gli occhi dell’uomo
ebbero un lieve baluginio, ed egli allungò le braccia verso Kumals.
« Beh, signor Benton, sono spiacente. Se
avessi sospettato che era ancora vivo non l’avrei certamente lasciata là… Su, coraggio, ormai il peggio è passato. » gli disse Kumals, lasciando che l’uomo gli posasse le mani sulle
spalle e prendendolo per i gomiti per sorreggerlo, dal momento che Benton si
stava appoggiando in avanti a lui, come se stesse per cadere da un momento
all’altro.
Osservandone la faccia pallida e
sconvolta e gli occhi quasi vitrei, Danny fece una lieve smorfia. «Qui sarà
meglio chiamare un’ambulanza, prima che gli prenda un altro colpo. » osservò,
senza preoccuparsi del tatto.
« Esatto Benton, ora chiamiamo un’ambulanza
e tutto andrà megl… » prima che Kumals
potesse finire di parlare, Benton, che stava gradualmente scivolando verso il
terreno, lasciandosi andare pesantemente e con una lentezza quasi surreale
addosso a Kumals, abbassò la testa e gli addentò un
polso.
« Ma che diavolo! » gridò Kumals, ritirando in fretta le braccia. L’uomo cadde lungo
riverso per terra di faccia, senza fare niente per proteggersi dalla caduta.
« Che è successo? Cosa è successo? »
chiese istericamente Justin dalla soglia.
« Presto, allontanatevi da lui! » disse
invece il Conte, che aveva spalancato gli occhi come se si trovasse davanti a
uno dei suoi peggiori incubi; afferrò la candela dalle mani quasi tremanti di
Justin e, immerso nel vivace svolazzo dei suoi lunghi abiti neri, discese gli
scalini appressandosi agli altri . Kumals e Danny lo
ignorarono e fissarono la sagoma dell’uomo lunga distesa per terra, immobile.
« Dai, aiutami a girarlo. » sospirò Kumals, e in due riuscirono a voltare l’uomo sulla schiena,
scoprendo che i suoi occhi erano immobili, spalancati sul nulla.
Danny gli avvicinò una mano alla bocca
semiaperta per sentire se c’era respirazione, mentre Kumals
gli prendeva un polso tastando in cerca del battito cardiaco. Poco dopo
entrambi ritirarono le mani e fissarono in silenzio il corpo con aria sconfitta.
« Beh… » disse
lentamente Danny « stavolta mi sembra che sia morto veramente…
»
« Certo che è morto! » esclamò vicina la
voce del Conte. Dalla loro posizione accucciata per terra, i due alzarono il
viso a guardarlo. Li aveva raggiunti e li sovrastava, il viso pallido in modo
quasi malsano illuminato dal basso verso l’alto dal debole bagliore della
candela che aveva tolto di mano a Justin, il quale restava ancora immobilizzato
sulla soglia con aria decisamente spaventata.
« Ma era morto anche prima. » sentenziò
cupamente il Conte.
Kumals
e Danny gli lanciarono sguardi accigliati e confusi.
« Certamente. » proseguì con calma
convinzione « Lei ne è sicuro signor Kumals, vero?
Ebbene, è chiaro. Non sembrava affatto in sé. E l’ha morsa, e non ha detto una
parola. Ci sono tutti i sintomi! »
« Che cosa sta dicendo? » chiese Kumals a Danny. Questi scosse la testa e alzò le spalle con
aria afflitta.
« Sto dicendo…
» rispose il Conte in tono grave «che si trattava di uno zombie. »
Dalla soglia della casa si alzò la
risata di scherno nervoso, praticamente isterico, di Justin. Il Conte si voltò
a lanciargli un’occhiata pungente, infastidita e colma di sostenuto rimprovero.
« Senti… »
iniziò Danny « ne abbiamo già parlato. Esistono una serie di cose che definire
paranormali è poco… ma gli zombie non esistono. »
« Ragazzo, tu hai sempre disdegnato di
leggere i documenti in mio possesso con sufficiente apertura mentale e abilità
di fare collegamenti e riflessioni accurate… » disse
con aria severa il Conte « ma se lo avessi fatto ora sapresti che… »
« Mi dispiace interrompere, ma qui
dobbiamo decidere cosa farne del corpo. » disse Kumals,
con tono seriamente infastidito.
« Per prima cosa dovremmo piantargli una
pallottola in testa. Se poi vogliamo essere meticolosi e del tutto sicuri di
non doverci aspettare brutte sorprese, dovremmo bruciarlo integralmente. O
perlomeno decapitarlo. Mi stupisce che lei non lo sappia signor Kumals… » disse il Conte, con il tono di chi è ben felice
di essere d’aiuto, e ignorando lo sguardo sempre più offuscato dal malumore che
gli rivolgeva l’altro.
« Sarà meglio seppellirlo suppongo… » sospirò Danny « oppure…
non lo so. Non ne ho idea. Per il momento sarà meglio metterlo in una cassa, se
Conte può prestarcene una della sua collezione. Poi domani andremo a
denunciarne la morte da qualche parte… ci sarà un
ufficio del tipo ‘ritrovamento cadaveri’ o cose del genere…
o anzi, magari lo staranno cercando visto quello che è successo alla villa, no?
»
« Già » disse Kumals
« Sarà meglio chiamare e avvisare di quanto è accaduto. Magari omettendo la
parte in cui avevo creduto che fosse già morto. Non so bene, ma credo proprio
che potrebbe risultare come ‘omissione di soccorso’. »
« Va bene. Allora portiamolo dentro.
Conte ha diverse casse vuote… » decise Danny « E il
polso come va? »
« Oh, niente di serio. Niente più che
una leggera morsicatura… chissà che diavolo gli ha
preso... » rispose Kumals, massaggiandosi
pensierosamente il polso.
« Forse aveva un principio di attacco
cardiaco e il dolore l’ha fatto impazzire, o ha battuto la testa, qualcosa del genere… » tentò Danny, poco interessato. Per quanto gli
concerneva, ormai era morto.
Si accorse che Justin aveva finalmente
deciso che non c’era pericolo e li aveva raggiunti. Con le mani in tasca,
osservava già da un po’ il cadavere, pensosamente.
Infine, col tono di chi commenta un film
sgradevole, osservò « Certo che ha proprio una brutta cera.»
Capitolo 5 *** 03 - CHE SUCCEDE GIU' IN CITTA'? ***
Capitolo 3
(Che succede giù in
città?)
Danny si svegliò
lentamente, e si sentì subito molto stanco. C’era qualcosa che gli si piantava
un po’ nella schiena, su metà della quale era sdraiato sbilencamente.
Non era una sensazione sconosciuta, ma non la provava da molto tempo. Sorrise
appena e si portò una mano alla schiena, la infilò sotto alla maglia e si sfilò
dalla cintura dei pantaloni la pistola. La mise sotto al cuscino e si alzò,
stiracchiandosi e sbadigliando profondamente. Grattandosi la testa senza
rendersene conto, si guardò intorno senza scopo, ritrovando il consueto caos
della sua camera da letto, mentre cercava di riordinare le idee.
Le
braccia stanche gli ricordavano nettamente il lavoro pesante della sera prima,
quando lui e Kumals avevano dovuto trascinare il
cadavere del signor Benton fin sul retro della casa. Un rimasuglio di
esasperazione paziente gli ricordava come lui avesse dovuto persuadere il Conte
che, anche se Benton fosse stato uno zombie, inchiodarlo in una cassa da morto
sarebbe stato più che sufficiente, e quindi chiedere a Justin di aiutarlo a
trascinare fuori una delle casse da morto del Conte, nonché sopportare il
profondo stato di prostrata sofferenza che aveva colto quest’ultimo nel vedere
usata in tal modo uno dei suoi pezzi da collezione. Dopo lunghi ripensamenti e
dolorose scelte, il Conte aveva concesso loro di utilizzare la cassa che, di
quelle che possedeva, era meno probabilmente appartenuta a un vampiro “vero”, o
in ogni caso a un vampiro poco rilevante nella storia del vampirismo, come si
era premurato di raccontare profusamente a Kumals,
facendo loro da sottofondo non richiesto mentre sistemavano il cadavere nella
cassa e la inchiodavano.
Danny
aveva iniziato a smaltire in fretta la nostalgia che aveva provato per Kumals, dal momento che questi non aveva fatto altro che
osservare il suo discutere e barcamenarsi con i suoi due coinquilini senza
battere ciglio, ma con il suo silenzio fitto di commenti pungenti.
Danny
sospirò appena, prese fiato e si alzò dal letto definitivamente. Non aveva idea
di che ora fosse, ma sembrava che il pallido e fumoso sole invernale fosse al
suo culmine, da quello che poteva intuire dalla luce che entrava dalla finestra
gotica della sua stanza.
Stiracchiandosi
ancora, si avventurò fuori dalla camera, e stava per scendere al piano di
sotto, quando un rumore attirò la sua attenzione. Sembrava che qualcuno avesse
appena rimesso giù piuttosto bruscamente la cornetta del vecchio telefono,
sbattendola.
Danny
girò l’angolo del corridoio e vide Kumals seduto per
terra, accanto al telefono, con aria cupa e nervosa. Di fianco a lui c’era una
malandata cassetta del pronto soccorso aperta, con qualche pezzo di benda e
qualche cerotto che ne fuoriusciva. Indossava ancora il suo cappotto lungo e
logoro, ma sotto di esso non aveva più il vestito da serata di gala con cui era
arrivato la sera prima, ma il solito anonimo paio di pantaloni marroni che
gridavano all’ordine e alla pulizia minimalisti ma essenziali, nonché il suo
solito paio di grossi scarponi; una camicia e un maglione ampio completavano il
tutto.
Mentre
Danny gli si avvicinava, Kumals alzò la testa verso
di lui e sorrise appena, accennando a un vago saluto con la testa.
«Macché!»
disse un po’ irritato Kumals, con una stizzita alzata
di spalle «Sembra che non ci sia nessuno da nessuna parte, o che in questa
dannata città non sappiano cosa sia un telefono! Non risponde nessuno. In certi
casi non suona nemmeno, come se la linea non funzionasse proprio. Beh, riguardo
alla linea della villa di Benton potrei anche aspettarmelo, visto lo spettacolo
di ieri sera… ma possibile che non si trovi nessuno?:
polizia, pompieri, pompe funebri, cimitero, ospedale…
ho chiamato ogni ufficio, servizio d’emergenza e che diavolo altro fino al
servizio spazzini ma niente!»
Danny
corrugò la fronte «Che sia per il capodanno…?»
Kumals gli lanciò
un’occhiata in tralice «Pensavo infatti che vivere con quei due non ti facesse bene… Come fanno ad annullare i servizi d’emergenza
essenziali perché è capodanno?!»
«Hum, beh sì… è che non mi viene
in mente nient’altro…» si scusò Danny, portandosi una
mano a sfregarsi la nuca «A proposito, dove sono gli altri?»
Kumals fece una
leggera smorfia e allungò una mano, che Danny afferrò per aiutarlo a rialzarsi
in piedi.
«Il
Conte è andato a letto qualche ora fa. Quell’altro l’ha sostituito a fare la
guardia a Benton.»
«Vuoi
dire che è resuscitato di nuovo?!» chiese Danny, sobbalzando.
«No.»
chiarì tetramente Kumals, guardandolo in cagnesco «E’
ancora normalmente e perfettamente morto stecchito. Ma sai, lui è sicuro che
sia uno zombie. Tu che ne pensi? Se gli sparassimo un colpo in fronte si
tranquillizzerebbe?»
«Al
Conte o a Benton?» chiese Danny, sorridendo maliziosamente.
«Che
ne pensi di entrambi?» propose Kumals con un lieve
sorriso, che sottolineò la stanchezza sul suo viso.
«Sei
riuscito a dormire?»
«Qualcosa
del genere.» liquidò Kumals «Ora, vista la
situazione, forse sarebbe il caso di andare di persona a cercare qualcuno che
ci spieghi dove seppellire Benton, ammesso che qualcuno ci tenga. Perché sto
iniziando a pensare che se lo seppellissimo sulle colline nessuno ci
chiederebbe niente.»
«Mhm… io mangerei qualcosa prima.»
«Buona
idea.» commentò Kumals, seguendolo giù per le scale.
«Mhm.» mugugnò con tono dubbioso Danny, a bocca piena.
«Che
c’è?» chiese Kumals, alzando appena la testa dal suo
piatto.
«Non
mi sembra molto…rispettoso…»
osservò Danny, guardando la cassa da morto di Benton che stavano usando come
tavola.
«Beh,
non credo che lui se ne avrà a male. Poi stiamo facendo esattamente quello che
voleva il Conte, il che è preoccupante in effetti. Ci stiamo accertando che sia
davvero morto. Io penso che se non lo fosse, a quest’ora si sarebbe già sentito
abbastanza risentito da protestare.»
«Sarà…» commentò poco convinto Danny, continuando a mangiare
Qualche
minuto dopo Kumals appoggiò sulla cassa il suo piatto
vuoto, si pulì le labbra con il tovagliolo e sorseggiò il vino che Danny aveva
aperto per l’occasione, che ora non sapeva più bene quale fosse visto tutto
quello che era accaduto.
Osservò
per un po’ l’ambiente in cui si trovavano.
L’ingresso
sul retro della casa non lo usavano praticamente mai, perciò aveva un aspetto
molto peggiore, oltre che del resto della casa, anche rispetto alla cantina
abbandonata di qualche maniero antico. La cosa strana era che non aveva ancora
visto un topo. Ma non dubitava che se avesse osservato meglio la cassa avrebbe
potuto trovarci qualche rosicchiatura agli angoli. Il che avrebbe certamente
mandato in bestia il Conte, dal momento che gli avevano garantito che
l’avrebbero solo presa in prestito e che, una volta trovata una sistemazione
più adeguata per il morto, avrebbero provveduto a restituirgliela pienamente
intatta.
«Meno
male che c’è così freddo. Altrimenti avrebbe già iniziato a puzzare.» osservò
distrattamente Kumals, riferendosi al cadavere.
Danny fece una
smorfia «Ah, risparmiami per favore…»
«Senti…» continuò Kumals, dopo un
po’ «…ti sembra ancora una buona idea aver mandato
quel tipo…Dustin… »
« Justin »
«Sì,
lui… a cercare qualcuno in città? Voglio dire, c’è
qualche possibilità che ritorni di qui a domani e che concluda qualcosa di
utile?»
Danny
alzò le spalle e continuò a mangiare.
«Voglio
dire, non che non apprezzi la sua assenza… ma forse a
quest’ora sarà già riuscito a farsi arrestare per omicidio, o qualcosa del genere… »
Stavolta
Danny gli lanciò un’occhiata preoccupata. Aprì la bocca come per dire qualcosa,
la richiuse senza aver pronunciato verbo. Ci ripensò, riaprì la bocca e di
nuovo non disse niente. Scosse la testa e gli si abbassarono le spalle nello
sconforto.
«Va
bene… diciamo che, se tra un paio d’ore non è di
ritorno, andremo a vedere dove si è cacciato…»
propose Kumals, collaborativamente.
Kumals sedeva al
tavolone della cucina sfogliando distrattamente i libri che il Conte gli aveva
portato dalla biblioteca la sera prima, mentre Danny lavava i piatti con aria
distratta.
Ad
una certa, alzando gli occhi sulla finestra che aveva di fronte, Danny
intravide qualcosa.
«Eccolo.»
disse, spegnendo l’acqua corrente e asciugandosi sbrigativamente le mani sui
jeans.
Entrambi
uscirono dalla cucina e dall’ingresso principale, fermandosi sulle scale ad
aspettare che Justin, che arrivava correndo, li raggiungesse.
«Forse
è inseguito dalla polizia.» ipotizzò Kumals, con il
tono vagamente annoiato di chi commenta uno show televisivo particolarmente
banale. Danny non disse niente.
Correndo
con moderata velocità, come se stesse correndo già da un po’, Justin continuava
ad avvicinarsi lungo la salita nella fredda aria grigiastra del primo
pomeriggio dell’anno nuovo.
«Mi
correggo…» aggiunse Kumals
«Se fosse stato inseguito lo avrebbero già preso da parecchio.»
Finalmente
Justin li vide, accelerò un poco e li raggiunse. Cercò di dire qualcosa con
urgenza, il viso alterato da un forte entusiasmo, ma tutto ciò che gli uscì
furono una serie di mozziconi di parole incomprensibili, amputate dal respiro
affannoso, e il ragazzo finì per chinarsi appoggiando le mani sulle ginocchia e
cercando di respirare più normalmente. Danny e Kumals
attesero pazientemente.
«Sono… in giro… mai visti… ma loro…sono… come dire… io non so…» farfugliò ancora Justin.
«Calmati.
Respira. E poi parla.» consigliò Danny. Kumals aveva
di nuovo un’aria accigliata.
Justin
si sedette su uno scalino e continuò ad affannare, cercando di riprendere a
respirare più normalmente. Si sentì un fruscio e un lieve tramestio: Kumals tirò fuori da una tasca del suo pastrano la busta di
tabacco prestatagli da Danny e prese ad arrotolarsi una sigaretta con tutta
calma. Fece a tempo a finirla, a rifinirla, ad accenderla e a fare un paio di
tiri con calma, prima che Justin riprendesse a parlare più comprensibilmente.
«È
incredibile. Sta succedendo qualcosa giù in città. Qualcosa di strano. Non si
vede quasi nessuno in giro, è tutto deserto, e c’è silenzio. Dappertutto. E poi
ho visto… ho visto qualcosa, cioè, beh non so bene
come spiegare, cioè c’era… c’erano alcune persone. Ma
erano strane strane. Si muovevano assurdamente, tipo
un po’ rigidi. Avevano lo sguardo fisso ed erano tutti muti…
tipo ipnotizzati… sì, sì, ecco! Sembravano
ipnotizzati.»
«Hum…» borbottò Danny, cercando di valutare la credibilità
da concedere alle parole sconnesse di Justin«E che facevano?»
«Beh,
niente… non facevano assolutamente niente! Cioè,
camminavano tutte insieme, tipo branco, tutti in mucchio, e non si guardavano
tra loro, e, beh, non sembrava stessero andando da nessuna parte! La strada è
deserta. Non si sente rumore di alcuna macchina e così quelli camminano in
mezzo alla strada e boh, non so, non mi sembra normale…cioè… »
«Ok,
abbiamo capito.» lo interruppe Kumals.
«Cosa?»
chiese Justin.
«Eh?»
ribatté Kumals, guardandolo stranito.
«Cosa
avete capito?» incalzò Justin ansioso, pendendo dalle loro labbra.
Kumals lanciò
un’occhiata significativa a Danny a riguardo di quello che pensava di Justin, e
quindi rispose «Non intendevo che abbiamo capito cosa sta succedendo…
abbiamo capito cosa stai dicendo, cosa hai visto.»
«Ah.»
disse deluso Justin.
Kumals ebbe un breve
gesto di stizza e si rivolse a Danny «Forse sarebbe meglio andare a dare
un’occhiata.»
«Sì.»
confermò Danny, serio.
«Magari
c’era solo qualcosa di andato a male nel menù del cenone.» ipotizzò, con scarsa
convinzione, Kumals.
«Già.»
mormorò distrattamente e gravemente Danny.
«Adesso?
Andare adesso?» chiese Justin «Ma tra poco farà buio.»
«E’
vero.» osservò Kumals, alzando un breve sguardo sul
cielo «Ma cercheremo di sfruttarlo a nostro vantaggio.»
Tornò
a guardare Danny «Sarà meglio portarci con noi…»
esitò, spiando Justin di sottecchi «…lenostre cose. Per ogni evenienza.» aggiunse in
fretta, per sdrammatizzare. Ma l’espressione di Danny rimase cupa, e lui si
limitò ad annuire.
«Quali
cose?» intervenne Justin, curioso.
«Dopo
le vedrai.» disse Danny, in fretta. Guardò Kumals
«Non possiamo lasciarli qui da soli… Per ogni evenienza.»
ripeté, in tono poco rassicurante.
«No
certo, vengo anch’io, voglio vedere che succede!» disse subito Justin.
Kumals sospirò,
passandosi una mano sulla faccia. «Va bene…» disse
lentamente, dopo un momento, riacquistando padronanza della sua quasi totale
imperturbabilità.
«D’accordo…» continuò Danny «Justin, per favore, vai a
svegliare il Conte.»
«Come?»
domandò Justin, perdendo tutto il suo entusiasmo «Il Conte? Ma non si può
svegliare il Conte… è giorno!»
«Questo
lo so anch’io!» ribattè irritato Danny «Ma tu
spiegagli che la situazione è critica. Che è meglio che ci muoviamo tutti
insieme e… e non dirgli cosa hai visto, per il
momento.»
«Perché?»
«Perché
- sì.» telegrafò Danny, seriamente.
Justin
osservò per un po’ la sua espressione, quindi lentamente si alzò dal gradino e,
al ritmo della sua solita indolenza, ulteriormente rallentato dalla stanchezza
della corsa e dalla sua esitazione nell’andare a svegliare il Conte, entrò pian
piano in casa.
I
quattro procedevano a passo spedito giù per la discesa della collinetta sulla
quale sorgeva la casa. Danny e Kumals avanzavano ad
ampie falcate, mentre Justin li seguiva con aria svagata, accesa
occasionalmente dalla curiosità; dietro di loro, il Conte procedeva con aria
cupa. Indossava un paio di guanti neri. Per ripararsi non dal freddo ma dalla
la luce si era alzato il largo cappuccio sulla testa, celandosi completamente
anche il viso, e apparendo vagamente simile a una bizzarra caricatura del
Tristo Mietitore**, se non fosse stato per il grosso ombrello nero aperto che
portava al posto della falce, sempre per proteggersi dal sole. Il fatto che
tutto quello che si poteva chiamare ‘sole’, con un certo sforzo di fantasia,
fossero i contorni imprecisi di un pallido tondo giallastro che andava calando
rapidamente, non sembrava essergli degno di nota.
«Voi
cosa pensate che possa essere?» interloquì Justin, non per la prima volta da
quando si erano incamminati.
«Non
lo so. Come potrei saperlo?» rispose, piuttosto stizzito, Danny.
«Beh,
ma avete un’aria tutta… come dire…»
«Professionale.»
specificò il Conte, in tono cupo ma vagamente deliziato.
Kumals alzò appena un
sopracciglio, ma non disse niente.
«
‘Professionale’?» si stupì Justin «No, non è quello che volevo dire…»
«Oh, questo
perché tu non ti puoi rendere ancora pienamente conto di ciò a cui assisteremo…» disse il Conte, con aria misteriosa.
«E sarebbe?»
domandò Justin, scettico.
«Non
capisci, Justin, non puoi capire… ma io sì. Oh… non credevo proprio che avrei potuto assistere di
persona allo spettacolo di professionisti all’opera.» continuò compostamente e
romanticamente emozionato il Conte.
«Professionisti
di cosa?» insisté Justin.
«Ma
è lampante… ci troviamo di fronte, caro Justin, al
fior fiore di… beh, lo dico in maniera assai grezza e
spero che per stavolta loro mi perdoneranno, essendo mia premura cercare di
esserti più comprensibile… ci troviamo di fronte ad
eccellenti cacciatori di… »
«Ascoltate.»
interruppe prontamente Kumals «Da qui in poi sarà
meglio procedere in silenzio. Potremmo sentire qualche rumore, o qualcuno
potrebbe sentirci. Sarà meglio essere molto prudenti. Cercate di non far rumore
se potete… e siate pronti a nascondervi se lo
riterremo necessario… »
«Oh,
sì, naturalmente. Perdoni la mia mancanza di attenzione, signor Kumals, da questo momento starò particolarmente attento a
non intralciare in nessun modo la vostra opera.» promise il Conte,
affettatamente.
Per
qualche minuto procedettero in assoluto silenzio, eccetto per il rumore dei
loro passi sulla terra battuta. Ma all’orecchio fino di Danny e all’udito
attento di Kumals non sfuggì un lieve sussurro.
«Professionisti
di che?» mormorò Justin a bassa voce all’orecchio del Conte.
* i diritti
dell’immagine, presa da internet, che uso come stacco tra alcune parti della
storia, sono questi:
Da
ormai un’ora e mezzo passeggiavano per la città, rasentando i muri e muovendosi
con accorta prudenza, girando gli angoli mantenendo aderenza ad essi e uno alla
volta, sempre davanti Danny o Kumals. Nonostante
tutto, tanto il Conte quanto Justin mantenevano un religioso silenzio. Spesso
Danny annusava l’aria, ma non trovava niente da riferire. Né Kumals aveva ancora fatto qualche osservazione riguardo
quali pensieri gli stessero passando per la testa.
Il
fatto è che non c’era niente da notare. Anzi, non c’era proprio niente di
niente.
La
città pareva abbandonata. Non si vedevano persone, non si sentivano voci né
rumori né altro, e tutto giaceva immobile come se si fosse congelato nella
posizione in cui si trovava quando qualcosa aveva interrotto tutto. Persino
spiando attraverso le finestre all’interno di qualche casa si trovavano a
guardare solo stanze vuote e immobili.
Alla
fine si fermarono lungo la strada principale, che attraversava quella sorta di
città fantasma. Danny si grattò pensosamente la testa per l’ennesima volta,
confuso. Kumals si accese una sigaretta, con aria
innervosita. Justin strusciò un piede per terra con aria annoiata. Ma gli occhi
del Conte, che li fissava tutti attentamente, erano già da un po’ densi di
sinistri luccichii dovuti ad un entusiasmo a stento trattenuto.
«Qui
c’è qualcosa di strano.» esordì infine Danny.
«Lieto
che tu lo dica.» disse Kumals «Mi aspettavo di
trovare un mortorio il primo dell’anno in una città così piccola, ma qui si
esagera un po’…»
«Che
noia.» fu il laconico contributo di Justin.
Seguì
una pausa di silenzio inutile. Anche Danny si arrotolò una sigaretta e se la
accese.
Il
Conte si schiarì la voce significativamente. Kumals e
Danny lo fissarono, mentre Justin continuava a guardare il terreno e a
strusciare il piede con le mani in tasca.
«Cosa?»
incalzò Danny, dal momento che il Conte taceva, ma aveva assunto la tipica posa
di quando stava per fare un discorso.
«Oh?»
domandò il Conte, fingendosi stupito della loro attenzione su di lui «Ebbene,
non vorrei sembrare scortese… non vorrei interferire…»
«Ovvero?»
insisté Danny.
«Vedete,
stavo pensando… beh, forse vi sembrerà una cosa sciocca… da novellino per così dire…»
tacque di nuovo.
«E
se andassimo alla villa del morto?» si intromise Justin, desideroso di
movimentare un po’ la situazione. Kumals sembrò
considerare seriamente la proposta, dopo essersi sorpreso di stare considerando
seriamente qualcosa che aveva pronunciato Justin.
«Caro
Justin, dovresti lasciare spazio a chi se ne intende, a coloro che hanno un
ricco e assortito bagaglio di esperienza alle loro spalle, così eviteresti di
dire troppe sciocchezze…» lo rimproverò pacatamente
il Conte.
«Cosa
stavi per dire?» insistè Danny spazientito, rivolto
al Conte.
«Ah,
ecco… in effetti stavo pensando che il signor Benton
deve aver contratto da qualcuno la contaminazione, che lo ha reso purtroppo uno
zombie…»
Mentre
diceva così, Danny ricordò con spiacevolezza che il Conte aveva insistito
perché legassero con una pesante catena tutta la cassa dove si trovava il
cadavere di Benton, nel caso tentasse di uscire, come paventava il Conte.
«Per
questo stavo pensando, basandomi anche su quanto riportato dal nostro Justin
qui nella sua precedente visita odierna in città, e mi duole dover esprimere
questo terribile dubbio ad alta voce, anche se sono certo che anche voi siate
giunti alle stesse conclusioni, che l’intera città, o almeno un’ampia porzione
dei suoi residenti, potrebbe essere stata parimenti contagiata. Se è questo il
caso, resta la domanda di dove siano andate, una volta decedute e mutate in
zombie, queste persone. In base alle mie letture e conoscenze in proposito,
fino a poco fa non avevo rammentato niente che ci potesse procurare un valido
indizio. Ma riflettendo oltre, ho notato che c’è un luogo che non abbiamo ancora
avuto cura di verificare.»
«E
quale?» domandò ancora Danny, mentre Kumals si faceva
più attento.
«Il
porto.»
Calò
un assorto silenzio.
«Scusa…» disse Danny «ma cosa pensi che potrebbero fare
tutti quanti al porto di sera? Tutta la città?!»
«Danny
Danny…» lo rimbeccò amabilmente il Conte «Sono
contento che tu voglia mettermi alla prova. Ma ti assicuro che non tiro a
indovinare, e che la mia deduzione è frutto delle accurate riflessioni che tu
stesso, e naturalmente anche il signor Kumals, avete
padroneggiato certamente molto più appropriatamente di quanto abbia potuto fare
io. E’ inappuntabile che gli zombie camminino sempre dritto davanti a loro,
specialmente se sono del tipo più antico, ovvero feticci creati da stregoni
probabilmente originari della profonda Africa nera.* Dal momento che essi non
hanno cognizione dell’ambiente dove si muovono, né possono patire le comuni
sofferenze umane, come la mancanza di ossigeno, potrebbero essere facilmente
giunti al porto e proseguendo sempre davanti a sé potrebbero ormai essere
ridotti a camminare sul fondo del mare senza soffrirne.»
Scese un altro
silenzio.
«Il porto è
l’unico posto di questa città dove non abbiamo ancora guardato?» chiese Kumals a Danny.
«Sì… ma francamente…» iniziò a
ribattere Danny, ma Kumals alzò una mano per
interromperlo.
Danny
sospirò «D’accordo… andiamo a vedere al porto.»
Il
Conte sorrise, quasi gongolando, e li seguì mentre riprendevano a camminare in
direzione del porto.
Dopo
un po’, Justin allungò il passo per affiancarsi a Danny e domandò «Ma allora
non andiamo alla villa del morto?»
*
***
*
Il
porto era, come del resto sempre a quell’ora di sera nei giorni festivi,
deserto, piuttosto buio e decisamente umido e salmastro. A parte ciò, Danny
camminava con maggiore circospezione, e Kumals, che
lo seguiva da vicino, spiava di tanto in tanto la sua espressione concentrata.
«Sembra
che ci sia davvero qualcuno da queste parti…» mormorò
piano Danny, pensosamente.
«Magari
qualcheduno che…» iniziò Justin, ma si interruppe
nell’andare a sbattere contro il braccio che Kumals,
immobilizzandosi all’improvviso, aveva proteso di fianco a sé.
«Hey…» iniziò a protestare Justin, massaggiandosi il costato
con aria offesa.
«Zitti!» sibilò
frettolosamente Danny.
Allora
Justin si protese sulla punta dei piedi per spiare oltre le spalle di Danny e Kumals, e anche lui si trovò a fissare la singolare scena
che li aveva fatti fermare.
C’erano
una trentina di persone sulla banchina, riunite in un gruppo molto eterogeneo,
costituito da persone di ogni età, vestiario e qualsivoglia altra
caratteristica visiva. Benché fosse piuttosto strano trovare tutte quelle
persone riunite in piedi sulla banchina a quell’ora e a quel giorno, tra i
quali quasi nessuno aveva l’aria di qualcuno che frequenta abitualmente il
porto, ancora più bizzarro era il loro comportamento. Tutti immobili, fissavano
qualcosa appeso a un muro dei magazzini del porto, con aria assente eppure
insistente.
«Ma
che diavolo…?» iniziò a dire Danny, dal momento che
nessuno degli improvvisati visitatori del porto li stava degnando in alcun
modo. Ma si interruppe da solo, non trovando altro modo più eloquente di
esprimere il suo confuso stupore interrogativo.
«Ma
che gli piglia?» domandò curioso Justin «Comunque ecco, è proprio così che li
ho visti prima… secondo me sono strafatti.»
«Ci
sono dei bambini. E degli anziani. E persone che non credo che…
a guardarle così…» obbiettò debolmente Danny.
«Proviamo
ad avvicinarci. Piano. E vediamo cosa stanno guardando con tanto interesse…» disse Kumals. E dopo
che lui si fu avviato anche gli altri lo seguirono, a passi lenti e con lo
sguardo attento e circospetto.
D’altra
parte, per quanto piano potessero avanzare, tutte quelle persone non diedero
alcun segno di potersi interessare in alcun modo a loro. Mentre si avvicinavano,
da parte loro, notavano altri particolari curiosi.
Un
uomo del gruppo indossava, lì in quel freddo dicembrino, solo una canottiera e
un paio di boxer e uno di ciabatte, e in effetti aveva la pelle con una insana sfumatura
bluastra livida. Le bocche di diversi erano semiaperte, come se fossero in
trance o stessero dormendo ad occhi aperti, e gli occhi di tutti erano vitrei e
inespressivi, come se fossero incantati e del tutto incoscienti.
Mentre
registravano questi dati, qualcosa di ancora più sospetto iniziava a
intravedersi.
Quando
infine si fermarono a pochi metri dal gruppo, senza che nessuno avesse ancora
avuto la gentilezza di notare la loro presenza, si resero conto che
indubbiamente il muro che tutti fissavano incantati era…
vuoto. Beh, perlomeno non era altro che un muro, di mattoni. Non c’era niente
appeso, disegnato, scritto o in qualche altra maniera segnato sopra.
Nient’altro che mattoni.
Danny
allungò automaticamente una mano a strofinarsi la nuca con aria perplessa. Per
diversi momenti non dissero né fecero assolutamente niente, mentre il loro
disagio cresceva saturando chiaramente e preoccupantemente
l’aria loro attorno.
Infine,
con esitazione e sforzo, Danny si voltò a guardare Kumals.
«D’accordo…» iniziò Kumals,
lentamente «iniziamo a valutare qualche ipotesi che sia, diciamo, credibile…»
«Perché,
a te sembra credibile questo?» obbiettò Danny piuttosto nervosamente «Voglio
dire, tu pensi che se lo raccontassimo qualcuno ci crederebbe?»
«Quel
che intendevo, era chiedere se qualcuno ha qualche idea di cosa diamine stia
accadendo. Dopotutto sei tu… siete voi che vivete in
questa città. Che sapete quali strani ed insulse usanze abbiano quaggiù… perché io proprio non avrei idea di che altro fare
a questo punto, se non chiamare la neuro. Ammesso che rispondano. E che non
siano anche là tutti intenti a fissare un muro!» replicò Kumals.
Mentre
discutevano, Danny aveva sentito che il Conte si stava agitando, in quella
maniera impercettibile in cui si agitava il Conte, ovvero perdendo una parte
della sua solita imperturbabilità. Aveva iniziato a spostare il peso da un
piede all’altro, e il suo sguardo saettava in giro con aria tesa. Finché il suo
nervosismo giunse al culmine e gli diede persino voce con un «Hem…» esitante e davvero poco eloquente, e quasi volgare
rispetto al suo consueto modo d’esprimersi.
«Cosa
c’è?» chiese Danny, voltandosi repentinamente a fissarlo, irritato dall’essere
distratto dalla sua discussione con Kumals, e allo
stesso tempo propenso ad accettare nuovi soggetti su cui scaricare la propria
tensione.
Il
Conte, di nuovo stranamente, sembrò non trovare le parole. Ma allungò un
braccio, e dalla larga manica lunga e nera del suo manto di velluto spuntò un
lungo dito guantato di nero, col quale indicò
qualcosa. Danny e Kumals si voltarono a guardare cosa
indicava. E rimasero di sasso, proprio mentre Justin, che mentre loro parlavano
si era avvicinato al gruppo di persone immobili e si era affiancato con
nonchalance ad un uomo di grossa stazza, chiedeva ad alta e vivida voce
«Ma
insomma, cosa state guardando?»
Fu
questione di un attimo.
Mentre
Kumals e Danny guardavano la scena, come
pietrificati, gli occhi vitrei dell’omone si distolsero dal muro, e con lenta
ottusità si voltarono a fissare Justin, che in tutta la sua altezza non gli
arrivava nemmeno alla spalla. Mentre Danny apriva la bocca senza che ne uscisse
suono, l’uomo allungò, sempre molto lentamente, una manona
grande due volte una di Justin, lo prese per il bavero della giacca e iniziò a
tirare verso l’alto, sempre senza fretta.
«Maledizione!»
imprecò Kumals, e lui e Danny spiccarono la corsa
quasi nel medesimo istante, lanciandosi verso Justin, i piedi del quale si
stavano staccando da terra inesorabilmente, mentre l’uomo lo sollevava senza
particolare sforzo, fissandolo sempre con quello sguardo vuoto.
«Hey! Hey, che diavolo fai? Heyhey, no, no! Aiuto. Aiuto!»
iniziò a strillare Justin, agitandosi e stringendo invano con le mani il
braccio e la mano dell’omone, agitando freneticamente le gambe che ormai
penzolavano nell’aria.
Mentre
Kumals e Danny stavano per raggiungerlo, qualcosa
cambiò all’interno del gruppo di persone.
I
loro occhi, più insensibili di quelli di un pesce morto, si spostarono prima su
Justin, poi, mano a mano che Kumals e Danny
spingevano, urtavano e tiravano spallate per passare attraverso quei corpi che
parevano colonne incementate per terra, anche su loro
due.
Prima
che Danny o Kumals potessero arrivare abbastanza
vicino a Justin, una serie di mani si allungarono su di loro, afferrando
confusamente e disordinatamente i loro abiti, capelli, braccia, spalle,
aggrappandosi senza fare violenza, ma opponendo di fatto al loro procedere una
marea di insistenti mani. Una specie di equivalente, insomma, di un turista che
cerca di passare attraverso una folla di mendicanti indiani inebetiti
dall’inedia e rafforzati dalla disperazione della fame.
Mentre
lottava contro le braccia e le mani che da ogni lato gli si aggrappavano
addosso e gli toccavano la faccia infastidendolo continuamente, a Danny parve
di udire un sommesso parlottio di orrore da parte del Conte, in gran parte
sovrastato dalle nevrasteniche urla di Justin. Poi sentì Kumals
chiamarlo da qualche parte in mezzo a quel groviglio di corpi lenti, pesanti e
stupidi che lo zavorravano da ogni lato, ma non riusciva più a vederlo. In
quella marea di idiota umanità rimbambita, lui e Kumals
erano stati separati e non erano più così vicino. A Danny non rimase da far
altro che chiamare a sua volta Kumals, e Justin,
cercando di vederli, mentre gradualmente la folla di arti e mani lo sommergeva,
togliendogli il fiato e accrescendogli esponenzialmente il panico, che gli
tamburellava nel cuore prepotentemente.
Si
sentì perduto, e tra sé e sé maledì Justin, mentre con tutte le sue forze
continuava a strapparsi di dosso una mano, mentre altre cinque o dieci gli si
aggrappavano, e cercava di fare forza con tutto il suo peso contro i corpi che
lo circondavano, nel tentativo vano di spostarli abbastanza da sgusciare tra
loro. Odiò i vestiti che offrivano un facile appiglio e che lo trattenevano
come una rete, e trattenne a denti stretti i gemiti di dolore dati dalle mani
che afferravano, come alla cieca, lembi di pelle, col risultato di tirargliela,
che minacciavano di finirgli negli occhi e in bocca e nelle narici e nelle
orecchie, e che talvolta gli afferravano ciocche di capelli.
Mentre
la sua furia cresceva, perse ogni scrupolo, e iniziò a mordere a fondo ogni
mano o braccio che gli capitasse sotto tiro, a graffiare, tirare spallate e
gomitate e pugni e calci, lottando strenuamente. Ma, con sua grande sorpresa e
inquietudine, si rese conto che quelle persone non reagivano in maniera
normale. Non davano segno di provare alcun dolore o fastidio, nemmeno quei
minimi segni involontari e immediati di dolorabilità
che qualsiasi essere vivente dotato di sistema nervoso dovrebbe possedere.
Questa nuova constatazione iniziò a erodere efficacemente la sua
determinazione, spingendolo sempre più verso la resa, nonostante fosse ancora
deciso a lottare con ogni mezzo, fino a che non avesse completamente esaurito
le forze.
Doveva
essere un incubo, doveva esserlo!
Poi,
di colpo, all’improvviso, uno sparo tagliò ogni rumore, risuonando netto
nell’aria, e raggelando tutto per un momento, mentre riecheggiava sugli edifici
del porto.
Danny
si immobilizzò, se non altro perché anche tutti gli altri corpi intorno a lui
si erano immobilizzati nella posizione in cui si trovavano, come se avessero
perso ogni volontà e capacità di muoversi. Danny era abbastanza certo di non
essere stato lui a sparare, ma si sentì stupido per non averlo fatto prima,
purché fosse riuscito a raggiungere la fondina della pistola che aveva
allacciata sotto alla giacca contro il petto, o la pistola che teneva infilata
nella cintura contro la schiena, sotto la maglia. In ogni caso, qualcuno aveva
sparato.
Per
un po’ non si udì nient’altro, tutto e tutti giacquero perfettamente immobili.
Poi
si udì un fischio d’amplificatore, qualche rumore, come se cercassero di far
funzionare un microfono, anzi, un megafono. Danny udì la voce del Conte,
singolarmente amplificata, alzarsi esitante nell’aria immobile, evidentemente
venata di panico.
«Che
cosa dovrei dir…? Oh…ah… beh, se la mette in questi termini penso…
oh, sì, certo d’accordo…hemhem… Dunque, signori e signori, bambini e maturi,
prestatemi tutti la vostra gentile attenzione! Da questa parte signori, da
questa parte signore. Sì, ecco io… io devo fare un
importante annuncio. Sì…dunque…
come? Ah, d’accordo… Allora, venite, venite, da questa
parte, sta per iniziare un favoloso spettacolo! Qualcosa di straordinario, che lorsignori e signore non hanno mai avuto il privilegio di
ammirare in tutta la loro vita, che dico, nemmeno i loro avi hanno mai potuto
ambire ad ammirarlo. La meraviglia delle meraviglie…
»
Ascoltando
incredulo, a Danny parve evidente che il Conte doveva aver perso d’un sol colpo
tutto il senno. E, vista la situazione drammatica in cui si trovavano, non era
nemmeno qualcosa di cui stupirsi eccessivamente. Quello che gli sfuggiva era
come il Conte si fosse potuto procurare dal nulla, nella sua follia, un
megafono.
In
compenso, parve funzionare.
La
folla iniziò a muoversi, per la maggior parte staccandogli le mani di dosso e
mollando la presa, o non opponendo alcuna resistenza se egli stesso, con
cautela, staccava le mani dai suoi vestiti. Tutti gli occhi si erano distolti
da lui, e puntavano nella direzione dalla quale provenivano le sconclusionate
parole del Conte.
«Da
questa parte signori e signore, sì, lo spettacolo è qui!» continuava il Conte,
e lentamente le persone si mossero, a passi pesanti e barcollanti, sempre col
loro fare assolutamente inebetito, allontanandosi da Danny, il quale si vide
affiancato poco dopo da Kumals, che si muoveva piano,
cercando di seguire il flusso delle persone senza urtare nessuno.
«Credevo
che fossi stato tu a sparare.» gli disse pianissimo Kumals,
chinandosi un po’ verso di lui.
Entrambi
fissavano nella direzione in cui gli uomini si stavano dirigendo. Ora che la
folla si era diradata i due potevano distinguere due sagome, in piedi sulla
banchina. Una era distintamente quella del Conte, il quale impugnava il
megafono dentro il quale parlava, con aria molto incerta, lanciando
continuamente sguardi smarriti all’altra sagoma, quella di un maschio non molto
alto e dal corpo un po’ minuto, che si muoveva con agilità con un fucile a
tracolla sulla schiena, sistemando per terra quelli che sembravano scatole di
fuochi artificiali.
«No…» rispose Danny, come se ce ne fosse bisogno «E non ho
idea di cosa stia succedendo ora.»
«Faranno
meglio a saperlo loro…» iniziò a dire Kumals, osservando con preoccupazione la distanza scemante tra
la piccola folla stordita e il Conte e lo sconosciuto; ma entrambi furono
distratti dal rumore di qualcosa che veniva trascinato pesantemente.
Prima
che potessero capire di che si trattasse, un omone passò loro di fianco,
dirigendosi come tutti gli altri verso il Conte e il loro anonimo soccorritore.
La differenza era che questo si trascinava dietro, appeso in fondo a un braccio
abbandonato lungo il fianco, Justin. Il ragazzo, boccheggiante e con l’aria
stralunata e impanicata, era ancora tenuto per il
collo della giacca, e per quanto ancora si agitasse debolmente, era
evidentemente in principio di una seria apnea.
Muovendosi
quasi sincronicamente, Danny e Kumals
si misero a seguire l’omone e, con attenzione, cercarono di sciogliere le sue
dita dalla stretta sulla giacca di Justin, mentre questi li intralciava
aggrappandosi loro addosso con le mani nel tentativo di fermare il suo
trascinamento. Così, mentre Danny afferrava le braccia di Justin bloccando le
sue mosse convulse, Kumals riuscì a districare il
ragazzo dalla presa dell’omone, con l’attenzione che si dedicherebbe al disinnescamento di una carica esplosiva, senza che il
massiccio individuo desse segno di accorgersene, preso com’era dalla voce
amplificata del Conte. Justin sbatté per terra rovinosamente, e Danny lo fece
alzare in piedi senza troppe cerimonie, sorreggendolo con forza.
Tutti
e tre si trovarono a guardare il misterioso individuo, che rapidamente accese
la miccia dei fuochi artificiali che aveva sistemato, e in una veloce e sciolta
sequenza di mosse afferrò per una spalla il Conte, gli disse qualcosa, ed
entrambi svicolarono lateralmente senza fretta, mentre la massa di persone che
avanzavano era ormai a pochi metri da loro. Pochi istanti dopo, mentre i due
aggiravano la folla da una certa distanza, l’aria fu lacerata da sibili e
scoppi, e i fuochi artificiali iniziarono a esplodere in un tripudio di luci
colorate saettanti verso l’alto. La folla di persone si immobilizzò di nuovo, e
i loro larghi occhi vitrei e le loro bocche semiaperte, e in certi casi un po’
sbavanti, si focalizzarono verso lo spettacolo pirotecnico.
«Oh,
state tutti bene, per fortuna!» esordì a mezza voce il Conte, raggiungendoli;
ma Danny e Kumals lo notarono appena. Entrambi
fissavano l’altro individuo.
Questi
indossava un giacchetto sdrucito sopra una vecchia felpa, il cappuccio della
quale portava calato sulla testa, così che il suo viso non era chiaramente
visibile, anche a causa della penombra del porto.
«Sarà
meglio allontanarci ora.» osservò il tizio, con tono basso e quasi arrochito «Quelli
li terranno occupati per un po’… ma prima o poi finiranno.»
«Sono
d’accordo» annuì con serietà Kumals, continuando ad
osservare attentamente l’altro.
Justin
tossì pesantemente «Mi stava soffocando, mi stava uccidendo, non riuscivo più a
respirare!» prese ad esclamare attonito, mentre si incamminava con gli altri,
massaggiandosi insistentemente il collo e la gola, come se fosse preda di un
tic nervoso.
Camminando
a passo sostenuto, i cinque si allontanarono lungo la banchina.
* in diverse culture africane esiste il
fenomeno di zombie, persone trasformate in uno stato catatonico-passivo da
stregoni e sciamani vari. In alcuni casi sono state trovate spiegazioni
para-scientifiche dei trucchi stregoneschi, come la somministrazione di una
polverina a base di tetrodotossina, sostanza tossica
estraibile dal veleno di alcuni pesci, come il ‘pesce palla’… ma non mi
dilungo. Comunque nelle regioni profonde dell’Africa non è così difficile
imbattersi a livello culturale in fenomeni di zombismo.
A differenza dello zombie convenzionale della filmografia e bibliografia horror
occidentale, comunque, per quel che ne so il classico ‘zombie’ della cultura
africana è solo un individuo privo di propria volontà, ai comandi dello
stregone che l’ha trasformato, che può dargli semplici ordini; vive in uno
stato di catalessi che lo rende al livello di un’ameba, e pertanto se lasciato
a se stesso è una creatura totalmente passiva, inquietante proprio nel suo
essere paragonabile a un essere umano che sembra più morto che vivo. Questa
tipologia di zombie, da che ne so, non presenta alcun tipo di aggressività o
desiderio di nutrirsi di altri viventi, semplicemente se ne sta abbandonata nella
nullafacenza totale, oppure semplicemente cammina
sempre dritto avanti a sé, ignorando tutto ciò che gli sta intorno, che pesta,
che attraversa.
Nel
porto deserto spiccava la presenza solitaria di un gruppetto di cinque persone,
che sostavano sul bordo della banchina, al di sopra dell’acqua scura che sciabordava
ritmicamente contro l’alto scalino in muratura. Il mare era calmo quella notte.
Kumals fumava una
sigaretta, in piedi, i rasta raccolti nella bassa coda di cavallo che aveva
poco prima risistemato, dopo la sgradevole avventura, che ricadevano sulla
schiena coperta dal lungo pastrano consunto.
Il
Conte, ritto e immobile, si appoggiava all’ombrello chiuso, come un signore
aristocratico potrebbe appoggiarsi al suo pregiato bastone da passeggio, e si
era tirato giù l’ampio cappuccio nero, e si era tolto i guanti, scoprendo le
pallide mani scarne; dopotutto il proto-sole invernale era tramontato da
parecchio, ammesso che fosse mai sorto nel vero senso della parola.
Justin,
seduto per terra, continuava a massaggiarsi il collo e la gola con aria molto
afflitta, fissando il terreno, borbottando di tanto in tanto qualche lamentela
in tono vittimistico. Nessuno si sarebbe sorpreso se di lì a poco avesse
iniziato a dondolarsi ritmicamente come sotto shock.
Quanto
a Danny, seduto a terra all’indiana**, stava a braccia incrociate sul petto,
fissando attentamente la quinta persona, il personaggio misterioso a cui
dovevano il recente mantenimento di loro tutti in buona salute.
Questi,
che si era seduto su un blocco di cemento a cui venivano legate occasionalmente
le barche in ormeggio, ostentava un’aria molto tranquilla, nonostante il suo
viso fosse ancora celato dal cappuccio della felpa. Si era tolto il fucile da
tracolla e, appoggiatolo a terra col calcio, teneva la canna stretta con
entrambe le mani, in una posa rilassata che sembrava essergli usuale.
«Penso
di poterti ringraziare a nome di tutti, qui… » esordì
Kumals infine, fissando lo straniero «Se non fosse
stato per il tuo intervento, sinceramente non so come ne saremmo usciti. Sei stato… provvidenziale.»
Benché
fosse sincero, era chiaro, almeno alle orecchie di Danny, che il suo tono aveva
intenti diplomatici e fini secondari ben precisi. Che d’altro canto Kumals non esitò ad esprimere chiaramente subito dopo,
quando l’altro, con una lieve alzata di spalle, rispose solo «Non c’è di che.»,
con un tono vagamente ironico.
«Spero che non
ti sembri maleducato se ti chiedo chi sei.» disse Kumals.
«Tu
sei maleducato Kumals.
Anche se in maniera molto abile.» rispose l’altro, facendo immediatamente
apparire un’espressione di vivo stupore sul viso di Kumals
e di Danny, e risvegliando l’attenzione del Conte.
«Tu…» iniziò Kumals. «Ah!» esclamò
sardonicamente «Ma guarda un po’… è da parecchio che non ci si vede. Di certo
non mi aspettavo di trovarti da queste parti.» e un lieve sorriso amichevole
gli rilassò i tratti del viso. Anche l’altro sembrò emettere un breve sbuffo
divertito, e quando Kumals si avvicinò si scambiarono
un breve saluto, stringendosi calorosamente la mano.
«Hey!» eruppe Danny, alzandosi in piedi con aria scontenta
«Ma allora lo conosci! E chi è?»
Kumals lo guardò, con
divertita sorpresa, e alzò un sopracciglio «Ma come Danny, non lo riconosci,
proprio tu?»
Danny
esitò, confuso, studiando l’espressione di Kumals.
«Ma
certo. Una persona così abile non poteva che essere una vostra conoscenza.»
disse il Conte, con tono ammirato. Mentre parlava, Danny aveva preso a fissare
intensamente lo sconosciuto, come se cercasse di vedere al di sotto del
cappuccio della felpa, e fece cautamente un passo avanti.
«Il
suo intervento è stato eccezionale, magistrale nella sua essenziale efficacia e
nella sua mirata pertinenza… » continuò il Conte.
Sul
viso di Danny passavano emozioni veloci, confusione, incertezza e dubbio,
speranza e impellente curiosità. Lentamente, mosse altri passi verso lo
sconosciuto. Ad un occhio attento non sarebbero sfuggite le sue narici, che si
dilatavano e restringevano a ritmo serrato, mentre annusava l’aria, in cerca di
un preciso odore.
«Sono
stato particolarmente colpito dalla rapidità con cui ha immediatamente colto il
significato di ciò che stava accadendo, e come ha fulmineamente agito nel modo
più appropriato…» continuava imperterrito il Conte,
assorto nella declamazione in tono altisonante e formale.
Kumals stava guardando
la faccia di Danny, il quale avanzava lentamente, e un sorriso affettuoso e
ironico ad un tempo gli ringiovanì il volto.
«D’altro
canto, io ho sempre avuto la mia personale opinione riguardo le ammirevoli
persone che, pur portando con sé un’arma, riescono ad usarla in modo risolutivo
senza nel contempo provocare gravose ferite a qualcuna delle persone coinvolte.
Si tratta indubbiamente di persone dotate di un’eccellente abilità e tempismo,
di una arguta intelligenza che travalica le sordide e banali azioni di comune violenza
di basso livello che oggigiorno ci troviamo purtroppo sempre più spesso di
fronte e…» proseguiva il Conte
Lo
sconosciuto alzò una mano all’orlo del cappuccio, e lo scostò all’indietro,
scoprendo un viso da ragazzo, dai tratti piuttosto sottili, invecchiato da una
stanchezza profonda sulla quale sbocciava però, tra il mento e le guance
coperte da una corta barbetta biondastra, al di sotto di due occhi azzurro
ghiaccio dallo sguardo vivacemente sveglio e impertinente e dei capelli medio-corti biondi e mossi in un accenno di riccioli, un
sorriso apertamente felice e un po’ complicemente
ironico, che gli increspò le labbra carnose screpolate dal freddo.
«Quindi,
in summa, non posso che esprimere piena e sincera ammirazione per ciò che lei è
riuscito a mettere in atto in modo così notevolmente…»
il Conte si interruppe, suo malgrado, nel bel mezzo del discorso.
Danny
aveva emesso un’esclamazione soffocata e si era gettato ad abbracciare l’altro
ragazzo, per poco non travolgendolo. Il fucile quasi gli sfuggì di mano,
rischiando di cadere a terra, mentre Kumals
sogghignava, godendosi con aria soddisfatta la scena.
Justin
si voltò con aria tesa e offesa, come se qualcosa avesse disturbato le sue
rimostranze borbottate, e guardò accigliato i due.
«E
adesso che succede?» domandò, in tono lamentoso.
*
***
*
Nella
notte buia, cinque figure arrancavano senza fretta su per la collina, seguendo
la strada sterrata in direzione della vecchia casa goticheggiante,
abbandonata sulla collina come un relitto di tempi andati.
«Quindi…» disse il Conte nel silenzio, dopo essersi
schiarito la voce con educata moderazione «il suo nome è…?»
«Uther» rispose subito Danny, per conto dell’altro.
Uther lanciò una
breve occhiata ironicamente stupita al Conte «Puoi darmi del tu.» disse.
«Oh,
se lo dice lei… va bene. La rin…
Ti ringrazio.»
Uther lo guardò di
nuovo incuriosito, ma non disse niente.
«Fa
un freddo cane.» lamentò Justin, stringendosi di più le braccia addosso; si
sentiva il moderato rumore dei suoi denti che battevano. Camminava come se
fosse reduce da una dura battaglia.
«Io
sono Conte.» continuò il Conte, dopo essersi nuovamente schiarito la voce.
Camminava appoggiandosi discretamente all’ombrello. «E questo è Justin.»
aggiunse, con un breve elegante gesto della mano in direzione del ragazzo
nominato.
Uther annuì.
«E
quella che vede lassù è la mia umile dimora, dove lei…
tu sei naturalmente benvenuto.» terminò Conte, indicando la costruzione
decrepita verso la quale stavano dirigendo il loro cammino, seguendo ubbidientemente
la strada.
«Grazie.»
bofonchiò un po’ imbarazzato Uther, con indecisione.
«Non
è così terribile come sembra.» disse Danny, con l’aria di voler essere
rincuorante.
«Oh,
io credo che lui sia abituato a molto peggio.» commentò Kumals.
Uther gli lanciò uno sguardo ammonitore, che Kumals ignorò in grande scioltezza.
Danny
sorrise appena. «Vuoi che ti porti lo zaino?» chiese a Uther,
il quale, oltre il fucile, si trascinava appresso sulla schiena una grossa
sacca da viaggio dall’aspetto molto provato.
«No… grazie.» disse solo Uther.
Per
qualche momento ridiscese il silenzio.
«Quindi,
tu cosa fai?» chiese Justin, temporaneamente distratto dalle sue sofferenze.
«Come?»
replicò Uther, con aria poco amichevole.
«Ma
Justin, è chiaro, lui è un collega di Danny e Kumals.»
disse il Conte, quasi scandalizzato.
«Ex
colleghi» precisò distrattamente Kumals.
«Collega?
Collega di che?» insisté Justin.
«Credo
che ora ci sia altro di cui parlare.» intervenne precipitosamente Danny, a
disagio.
«Già.
Per esempio, dove te li sei procurati quei fuochi artificiali?» chiese Kumals a Uther.
«Mhm…» mugugnò vagamente Uhter.
«Magari
aspettiamo di arrivare, e parleremo con calma…» disse
di nuovo Danny.
«Ma
quanto manca?» si lagnò ancora Justin.
*
***
*
Il
Conte si era ritirato nella biblioteca, per svolgere importanti indagini tra i
suoi documenti, nel tentativo di scoprire qualche indizio di ciò che stava
accadendo, a suo dire. Justin si era trascinato su per le scale verso la sua
camera da letto, con aria malconcia, arreso al fatto che nessuno sembrava voler
dar credito al suo essere stato vittima indifesa e a rischio della vita. Kumals si era messo ai fornelli di cucina per fare da
mangiare, mentre Danny e Uther lo fissavano.
«C’è
qualcosa da bere?» chiese Uther.
«Mi domandavo
quando lo avresti chiesto.» commentò di spalle Kumals.
«Solo
birra.» disse Danny, alzandosi e andando ad aprire uno sportello della cucina,
mettendo allo scoperto una cassa di bottiglie di birra. Ne prese due e tornò al
tavolo, passandone una a Uther. Questi la guardò per
un po’ e poi gli si illuminò lo sguardo.
«Ah,
dimenticavo…» disse.
Si
alzò, andò a frugare nella sacca da viaggio che aveva abbandonato in un angolo
insieme al fucile, e, sotto lo sguardo curioso di Danny e Kumals,
tornò al tavolo reggendo una bottiglia di grappa.
Kumals la guardò per
un po’, mentre Uther la apriva contento e Danny
procurava tre bicchieri.
«Dove
l’hai trovata? Ha persino l’etichetta… non l’avrai comprata…?» chiese incredulo Kumals.
Uther aspettò di mandare
giù un sorso e di gustarne il sapore con aria critica, prima di voltarsi a
rispondere. «Beh, non c’era nessuno in giro in città…
nemmeno per i negozi.» spiegò.
Kumals espresse un
verso ironico, mentre Danny ridacchiava.
«Già.
Non ci avevo ancora pensato.» disse Kumals «A
proposito, che ci fai da queste parti?»
«Stavo
andando a trovare Yuta e Zoal
su alla casa, ma passando di qua ho notato questa situazione e ho pensato di
fermarmi a vedere cosa succedeva.»
Danny,
che stava porgendo un bicchiere mezzo pieno a Kumals,
si voltò stupito «Yuta e Zoal?
Ma perché, abitano qua vicino?»
«Non
lo sapevi?» si sorprese Uther «Sì, casa loro è sulle
colline, a un’ora e qualcosa di auto da qui.»
«No,
non lo sapevo!» confermò Danny incredulo.
«Perché
questo non mi stupisce…?» commentò Kumals.
«Qualcuno
poteva anche dirmelo!» continuò Danny.
«Dirti
cosa?»
I
tre si voltarono a guardare Justin, che indossava una maglia e dei pantaloni
puliti, e li guardava dalla soglia della cucina.
«Pensavo
fossi andato a dormire.» disse Danny
«Sì
ma… sto morendo di fame.» borbottò Justin, entrando e
sedendosi anche lui al tavolo. «Hey, che cos’è?»
chiese subito dopo, accennando alla bottiglia.
«Grappa.»
rispose Danny.
«Posso
assaggiare?» domandò retoricamente Justin, come se la risposta non lo
interessasse poi tanto.
Danny
si alzò svogliatamente e gli portò un bicchiere davanti, versandogli poi una
moderata quantità nel bicchiere. Mentre Justin guardava sospettosamente il contenuto
del bicchiere e lo annusava e lo rigirava, Danny distolse lo sguardo per
rivolgerlo di nuovo a Uther.
«E
come ci hai trovato?» gli domandò, curioso.
«Beh… stavo andando in giro per i fatti miei, quando ho
sentito qualcuno che strillava come una gallina che sta per essere spennata.»
Justin,
che aveva assaggiato un sorso, prese a tossire pesantemente. Dopo avergli
rivolto un breve sguardo infastidito, Danny disse solo «Già.»
«Allora
mi sono avvicinato…» continuò Uther
«e ho visto un cretino appeso alla mano di un colosso. Poi ho visto voialtri,
che vi buttavate in mezzo, e quell’altro tizio che stava a guardare senza
sapere che pesci pigliare.»
«Io…non…sono…un…cretino…» balbettò
Justin, ancora scosso dalla tosse per l’alcool.
Danny
e Kumals avevano abbassato lo sguardo, rivivendo la
scena dal punto di vista di chi aveva assistito alla loro disastrosa azione con
aria un po’ vergognosa.
«E
ho pensato di fare uno spettacolo pirotecnico. Ecco qua. Fine della storia.»
terminò Uther, prendendo un'altra sorsata di grappa.
«Anche
i fuochi provengono dai… negozi locali.» osservò Kumals, senza proprio domandarlo.
«Sì.»
«Io
non strillavo come una gallina.» protestò ancora Justin, allontandosi
il bicchiere e trattenendo a stento altri colpi di tosse.
Danny
prese il suo bicchiere e ne travasò il contenuto nel proprio senza battere
ciglio.
Uther sorrise appena.
*
***
*
Danny
finì di lavare l’ultimo piatto e lo ripose a scolare l’acqua con gli altri. Si
asciugò le mani in un vecchio strofinaccio e si voltò a guardare la cucina
deserta.
Raggiunse
la soglia e spiò fuori, finchè non intravide
nell’oscurità la sagoma famigliare di Uther, in piedi
con una bottiglia di birra aperta in mano, che guardava qualcosa nell’ingresso
posteriore. Danny lo raggiunse e gli si affiancò. Uther,
reduce da un giretto d’esplorazione della casa, chiese senza voltarsi «Cosa c’è
lì?» e indicò la cassa da morto inchiodata e incatenata con una spessa catena
di ferro.
«E’
una storia piuttosto lunga… e forse sarebbe meglio
che te la raccontasse Kumals.» rispose dubbioso
Danny, ripensando con preoccupazione ai recenti eventi.
«Ah…» disse solo Uther. Prese un
sorso di birra. «Ma… » disse ancora, con un
sorrisetto «Avevate paura che scappasse?»
«Lascia
perdere…» commentò con scarso entusiasmo Danny. «Piuttosto… dove ti metto a dormire?»
«Beh… non sono così sbronzo da non riuscire a mettermi a
letto.» obbiettò piuttosto divertito Uther.
«Ah,
intendevo… » mormorò Danny, imbarazzato «Volevo dire
in quale camera puoi dormire… ce ne sono tante, ma
sono in condizioni spaventose… cioè, in modo
assolutamente non interessante.»
«Credo
andrò sul divano.»
«Il divano?»
«Ce ne sono ben
due in quella specie di sala, no?»
«Ah, sì. Ma su
ci sono anche dei letti…»
«Andrà bene,
grazie. Ah, un’altra cosa…»
«Sì?»
«Qui state
sempre con la porta aperta?»
«Sì…»
«Per stasera,
vista la situazione, forse sarebbe meglio chiuderla.»
«Ah,
già. L’aveva detto anche Kumals. Ma qui non abbiamo
chiavi o cose come serrature funzionanti.»
«Humm… ci sono assi di legno e chiodi?»
«Vuoi
inchiodarle?!»
«Bhe, se non c’è altra soluzione…
» disse Uther, con un’alzata di spalle.
«Va bene… vado a prendere tutto.» acconsentì un po’ esitante
Danny, e andò al piano di sopra.
Uther si guardò
intorno ancora un po’, attentamente. «Che posto…»
mormorò piano tra sé e sé. Sorrise e mandò giù un altro sorso di birra.
Quando
Danny terminò di radunare vicino alla porta principale assi e chiodi raccolti
in giro per la casa, i due presero a lavorare con calma, inchiodando asse dopo
asse.
Dopo
diversi minuti che lavoravano in silenzio, eccetto per il forte rumore delle
martellata che scuotevano il silenzio della casa naturalmente, Uther disse distrattamente «C’è un cimitero, qui accanto.»
«Sì.»
confermò Danny «E’ un vecchio cimitero abbandonato. Una volta li seppellivano
qui, sulla collina.»
«Dormono,
dormono sulla collina… *» canticchiò Uther.
«Già…» sorrise Danny «Qualcosa del genere.»
«Potremmo
seppellire qui il signor Benton, no? Cioè, quando saremo sicuri che non possa
scappare dalla bara.» osservò, con chiara ironia.
«Va
bene, allora, ora ti dico…» sospirò Danny, e mentre
lavoravano iniziò a raccontare cos’era accaduto a Kumals
e Benton, mentre Uther, che ascoltava attentamente,
si faceva sempre più serio e pensieroso, mano a mano che la storia proseguiva.
Note:
*
‘Dormono sulla collina’ è il titolo di una canzone di De André, il cui tema è
stato tratto a sua volta da ‘Spoon River Anthology’
(Antologia di Spoon River), raccolta di poesie del
poeta americano Edgar Lee Masters, tradotta per la
prima volta in Italia nel 1941 da Fernanda Pivano.
** io lo sentivo
dire, soprattutto tempo fa, il modo di sedersi “all’indiano” (nel senso di
nativo americano), cioè, semplicemente, a gambe incrociate per terra. Tutto
questo perché dovevo evitare una ripetizione…
a Lucretia:
vedo ora la seconda recensione, grazie mille intanto :)
Hai uno sguardo acuto nel leggere... per un momento ho avuto l'impressione che li capissi meglio te di me i personaggi (cosa che non è da escludersi). Comunque sì, Justin e il Conte sono un po' delle 'palle al piede' come personaggi, ma qualcosa di buono ogni tanto sanno tirarlo fuori... credo, forse. In quanto a Danny e Kumals, in effetti sono e restano un po' chiusi. Bisognerà faticare prima di avere l'impressione di conoscerli un po' meglio... Per non parlare di chi salterà fuori poi... Ecco un altro capitolo, visto che sono fino al collo in una follia scribacchiante che mi fa procedere a ritmo di due o 3 capitoli al giorno, ultimamente... di norma ho ritmi più "umani". Ma intanto, da qui al capitolo oltre il 22 o giù di lì li ho già in saccoccia.
N.B.: l'immagine che uso di stacco devo ancora capire come riuscire a farla comparire. Di solito ci salto fuori abbastanza bene anche con l'html, ma qui non sono abituato ancora a gestirmi bene. Per ora mi accontento di esser riuscito a mettere l'immagine della copertina-traduzione...
Danny
si sentì chiamare con insistenza e scuotere per una spalla e si svegliò di
soprassalto, trovandosi a fissare Kumals, chinato su
di lui con un martello in mano.
«Ehu!» gridò Danny, allarmato, saltando da sdraiato più
lontano da Kumals, e finendo a sbattere contro il
muro contro il quale era sistemato il suo letto.
Kumals aggrottò la
fronte. «Che razza di modo di svegliarsi…» poi notò
lo sguardo di Danny, e guardò il martello che reggeva. «Ah, no. Non ho
intenzione di spaccarti il cranio a martellate, per il momento…»
spiegò, con calma. «Questo è per te.» e gli allungò il martello.
Danny
lo prese con riluttanza, alzandosi a sedere e guardando Kumals,
confuso.
«E
cosa ci dovrei fare?» chiese, con un broncio sospettoso.
«Beh,
vedi, qualche genio del male ha passato la notte a fare ristrutturazioni,
tenendomi sveglio peraltro, e inchiodando praticamente ogni via di ingresso e
uscita. Adesso dobbiamo aprire qualcosa da cui possiamo far entrare Ramo.»
«Co… cosa? Ramo?? Che cosa… è
qui??»
«Sì,
sì. Ha chiamato per chiedere se avevamo visto Uther,
visto che anche lui è andato a trovare Yuta e Zoal, e loro gli hanno detto che Uther
non si era ancora visto. Allora si sono preoccupati e hanno chiamato il tuo
numero, visto che Ramo ce l’aveva. Quando hanno saputo la situazione, Ramo ha
pensato di venire a dare un occhio personalmente ed è arrivato qui. Ma
qualcuno, come ti dicevo, ha inchiodato tutto…» Kumals lasciò in sospeso, lanciandogli occhiate molto
significative.
«Ma
era per non far entrare qualche cosa…qualcuno… insomma, qualcheduna di quelle persone che si
aggirano come mortadelle impazzite in città, o i centauri che hai visto tu!
L’avevi detto anche tu che bisognava chiudere!»
«Io
mi illudevo che fosse scontato che dovevate chiudere usando cose meno
drastiche, come chiavi, serrature, imposte…»
«Ma
le serrature sono rotte, quando ci sono. Le chiavi non sappiamo dove siano, e
se esistono. Le persiane sono tutte marce…» iniziò ad
elencare Danny.
«Va
bene, va bene.» lo interruppe Kumals, alzando le mani
in segno di resa. «Le spiegazioni a dopo, ora andiamo ad aprire a Ramo per
favore. Ha già cercato di arrampicarsi e gli è rimasto un pezzo di cornicione
in mano.»
«Eh?!
Si è fatto male?»
«Era
a malapena ad un metro da terra…» disse Kumals, guardandolo scetticamente.
«Ah… beh, meno male…» si rilassò
Danny. «Ok, arrivo…» e appoggiò il martello,
scostando poi le coperte per alzarsi.
«Spero
ci sia una doccia in questa casa…» disse Kumals, mentre usciva dalla stanza per tornare al piano di
sotto. «Hai l’aroma di uno scaricatore di porto.»
«Ieri
siamo stati al porto. C’eri anche tu.» precisò Danny.
«Ma
tu puzzi anche di birra e di grappa.» aggiunse Kumals
attraverso il corridoio; aveva già raggiunto le scale.
Danny
si vestì in fretta e scese anche lui. Un buon odore di caffè caldo saliva lungo
le scale, dandogli un bel buongiorno, insieme alla voce di Uther,
alquanto scocciata, che diceva a Justin «Senti, per favore, lascia perdere.»
Danny
vide Justin che cercava di staccare un’asse dalla porta dell’ingresso
principale, tirando con tutte le sue forze con le dita, ma smise con riluttanza
udendo il tono di Uther, e poi si voltò verso Danny.
«Ah, ecco dov’era il martello.»
Danny
comprese immediatamente perché Kumals glielo aveva
portato. Non era solo per dargli un adeguato risveglio, ma anche per sottrarlo
alle mani di Justin.
«Sì…» disse a Justin, mentre Uther
si voltava a guardarlo con un velo di irritata esasperazione che gli oscurava
il volto; probabilmente anche lui era reduce da un brusco risveglio. «Ma ci
penso io… Dov’è Kumals?»
chiese.
«In
cucina.» informò Justin, lieto di mostrarsi utile.
«Perché
non vai a dare una mano a lui… ? Dopotutto abbiamo un
solo martello. E Kumals è un’ospite, non è il massimo
fare cucinare sempre solo lui.» propose Danny.
«Ah,
giusto, sì.» e Justin andò in cucina.
Affiancandoglisi per aiutare con
lo schiodamento delle assi, Danny notò un sorrisetto
sulle labbra di Uther.
«Questo
è veramente un colpo basso per Kumals…» mormorò Uther, divertito.
«Credevo
stessi per crocifiggerlo.» ribatté Danny, riferendosi indubbiamente a Justin.
«Era
una delle idee…» ammise Uther,
con una lieve alzata di spalle.
Da
fuori si udì il rumore di qualcosa che scivolava lungo una parete,
probabilmente staccandone anche un po’ di vernice sgretolata.
«Tutto
bene Ramo?» urlò Danny.
«Ah,
ciao Danny! Sì, tutto ok.» disse una voce contenta da fuori.
«Tra
poco ci siamo.» annunciò Danny, togliendo un altro chiodo.
«Quindi
puoi smetterla di tentare la scalata!» aggiunse Uther,
sogghignando largamente.
«E’
un altro vostro amico?» chiese Justin alle loro spalle.
Uther lo ignorò,
Danny si voltò appena a guardarlo.
«Non
stavi aiutando Kumals…?»
«Ha
detto che lui ormai ha finito. Dice che avrete certamente più bisogno voi.»
Uther schiodò una
parte di asse con un solo grosso strattone nervoso, facendo sussultare un po’
Danny.
«Uao, forte!» esclamò entusiasta Justin, come se avesse
appena assistito ad un gioco di prestigio.
Uther lanciò uno
sguardo significativo a Danny, il quale però non ebbe l’ardire di guardarlo
direttamente.
«Ahm… Justin, mi faresti un favore?»
«Cioè?»
«Ho lasciato…. Er… le sigarette su in
camera. Potresti andarmele a prendere?» domandò Danny.
«Ok, dove sono?»
«Non ricordo bene… prova a guardare un po’ in giro…»
«Vabbhé. Torno subito.» salutò Justin, e salì quasi correndo
le scale.
«Guarda che non
funzionerà a lungo…» notò Uther,
cupamente.
«Nh… » mugugnò Danny distrattamente, mentre finiva di
togliere un chiodo e toglieva un’altra asse facendo leva con un piede
appoggiato contro la porta.
Kumals si fece sulla
soglia della cucina, con in mano una tazza di caffè fumante, e rimase ad
osservare per un po’ il loro affaccendarsi, sorseggiando il caffè. Dopo un poco
chiese a Danny «Hai una sigaretta?»
Danny
tirò fuori il pacchetto con il tabacco e le cartine dalla tasca dei jeans e
glieli lanciò. Uther prese a sbuffare ridacchiando.
«Che
c’è?» chiese Kumals.
«Niente…» disse Danny, sorridendo divertito.
«Mhm.» mugugnò Kumals,
arrotolandosi una sigaretta «E Justin dov’è finito?»
Uther riprese a
ridere nel suo modo di sommessi sbuffi trattenuti.
*
***
*
Quando
finalmente riuscirono a togliere l’ultima asse e ad aprire la porta,
sull’ingresso apparve un ragazzo sui venticinque anni, molto alto e dalle
spalle larghe e le braccia piuttosto muscolose, con i corti capelli neri
spettinati, un viso giovanile e sincero dalla pelle scurita dal sole in cui
spiccavano due occhi nerissimi, trasparenti ai sentimenti, ed un sorriso
amichevole insieme al quale, nella luce scialba del mattino invernale,
rilucevano debolmente diversi piercings: uno al
sopracciglio, uno al labbro inferiore ed alcuni alle orecchie. Vestito
sobriamente con una maglia, pantaloni e un giaccone neri, con le mani in tasca
e un’aria vagamente imbarazzata, guardò quasi stupito gli altri, tre che gli
apparvero all’improvviso quando la porta fu aperta.
Il
suo sorriso si accentuò visibilmente.
«Ciao
Ramo.» lo salutò Kumals, mentre egli scambiava saluti
e pacche sulla schiena con Danny e Uther, e poi lo
guardava.
«Kumals.» disse il nuovo arrivato, con uno scherzoso accenno
di formalità, prima che si stringessero le mani e si scambiassero un rapido
abbraccio.
«Cavoli,
ci siete proprio tutti!» esclamò ridendo contento Ramo.
«Eh
sì, mancavi solo tu!» gli rispose calorosamente Danny «Che fine avevi fatto?»
«Sempre
a far finta di lavorare, eh?» ironizzò Kumals,
amichevolmente.
«Senti
chi parla, l’ispettore Clusoe!» rise Ramo.
«Ah,
detto dal veterinario della mutua…» ribatté Kumals.
«E
la sua mazza.» aggiunse Uther, occhieggiando la
massiccia mazza di legno grezzo, che una volta doveva essere stata una mazza da
baseball, che Ramo si portava appresso.
«Ah,
beh, avete detto che da queste parti la situazione è…hum…sospetta…» spiegò
Ramo, vagamente imbarazzato, cercando di spiegare perché se ne andava in giro
armato in quel singolare modo.
«Hai
la macchina!» notò Danny, spiando alle sue spalle una vecchia macchina
malconcia, di medie dimensioni, con la vernice blu intaccata da diverse chiazze
di fango secco, parcheggiata davanti alla casa.
«Eh
sì. Credevi che fossi venuto a piedi?» chiese Ramo, piacevolmente divertito.
«Si
vede che è tanto tempo che non ci vediamo…» scherzò Kumals, sardonico «Lui è Danny, ricordi?»
Danny assestò un
pugno volutamente debole alla spalla di Kumals.
«Dai, vieni
dentro, c’è del caffè.» invitò Kumals, ed entrarono
in casa; ma si fermarono, notando Justin ai piedi delle scale, che fissava Ramo
con curiosità.
«Ciao.» disse.
«Hem, ciao.» rispose Ramo, con cordiale perplessità.
«Lui è Justin.»
lo presentò Danny, svogliatamente.
«Ramo.» si
presentò lui, andando incontro a Justin e stringendogli la mano con aperta
amichevolezza. Poi guardò le grosse assi di legno appena schiodate, appoggiate alla
rinfusa per terra nell’ingresso. «Mamma mia… ma la
situazione è così grave?»
«Lo è ogni volta
che questi due si trovano nello stesso posto…»
commentò Kumals, accennando a Danny e Uther.
«Sì, va bene,
poi me lo spieghi come altro avremmo dovuto fare…» ribatté
seccato Uther.
«Oh, non fraintendermi… ma scusa se non posso ammirare il vostro
lavoro, sarà la stanchezza, visto che ho passato buona parte della notte tenuto
sveglio da martellate e risate da ubriachi.» osservò Kumals,
piuttosto acidamente.
«Io ho bisogno
di caffè.» intervenne Danny, andando in cucina, seguito subito da Ramo e poi
dagli altri.
«Abiti qui
davvero?» chiese Ramo guardandosi intorno, mentre Danny versava del caffè in un
paio di tazze.
«Ci abito
anch’io.» si intromise Justin.
«Solo voi due?»
chiese Ramo, giusto per fare conversazione, ma tutto sommato piuttosto curioso.
«Eh no, ce n’è
anche un altro.» disse Uther, con un tono
inconfondibilmente sarcastico, che a Justin sfuggì completamente, ma non a
Ramo, che gli lanciò uno sguardo di perplessa curiosità.
«Sì, ma lui di
giorno dorme, e sta sveglio di notte.» aggiunse Kumals,
anche lui in tono eloquente.
«Ah…» disse solo vagamente Ramo, un po’ in imbarazzo.
«Allora, cos’è successo in città?»
«Be’, vediamo,
c’è tutta la popolazione che sembra preda di uno stato allucinogeno o qualcosa
del genere… Vanno in giro come un branco di manzi
instupiditi dagli antibiotici e che sono stati ripetutamente colpiti alla
testa, e all’occasione ti afferrano e ti si aggrappano addosso o si radunano a
fissare muri di mattoni nel bel mezzo della notte giù al porto.» riassunse Kumals.
Ramo
lo guardò, cercando di interpretare lo scherzo.
Ma
Danny disse «Sì, è vero. Pressappoco.»
«Ah,
già, e poi la sera di capodanno un branco di motociclisti che sembravano pesantemente
fatti di anfetamine hanno devastato la festa di gala del signor Benton (te lo
ricordi, vero?), e lui è morto, probabilmente un infarto, per shock. Abbiamo
qui il suo cadavere, anche perché non abbiamo trovato nessuno in città ancora
in possesso di qualche facoltà mentale che volesse venirselo a ritirare. Prima
di morire il signor Benton mi aveva chiamato per un incarico, ma non ha fatto
in tempo a spiegarmi di che si trattava, anche se mi ha raccontato una storia
assurda riguardo un certo scienziato pazzo con un laboratorio segreto da
qualche parte sulle colline che stava per iniziare a fare qualche esperimento
da pazzoide per distruggere la razza umana. E questa è la cosa più
inverosimile, visto che non capisco che bisogno ci sia di dare una mano, mi
sembra che la razza umana stia già facendo un ottimo lavoro da sola per
distruggersi.» terminò Kumals, e diede un tiro alla
sigaretta in tutta calma.
Ramo
lo fissava con un’espressione piuttosto incredula. Infine, si appoggiò
pesantemente allo schienale della sedia e respirò profondamente. «Uho… beh, direi che ce n’è abbastanza…»
commentò impressionato.
«E
Yuta e Zoal come stanno? E Valentine e Tirch?» chiese Kumals, tranquillamente.
«Eh?»
disse Ramo, ancora stordito dal racconto, ma si riprese abbastanza in fretta
«Ah, bene… bene. Ci stanno aspettando su a casa loro…Zoal tornerà presto. Valentine è rimasta là con Tirch,
così in macchina c’è abbastanza spazio per tutti, se ci stringiamo.»
«Come?
Per andare dove?» si stupì Danny.
«Beh…» iniziò Kumals, alquanto
esitante «Vista la situazione non mi sembra il caso di rimanere qui… ho pensato che potremmo andare da loro per un po’…»
«Ma
qui c’è da fare qualcosa! Non possiamo lasciare tutta quella gente là che vaga
stravolta!» lo interruppe animosamente Danny.
«Calma.»
disse Kumals, alzando una mano. «Nonho detto che ce ne strafeghiamo.
Però adesso qui non possiamo fare niente, e anzi potremmo finire sotto tiro di
quelle mandrie stupide… Invece credo che Yuta e Zoal potrebbero saperne
qualcosa in più, che potrebbe aiutarci a capire cosa sta succedendo.»
«Sì.»
intervenne Ramo «Yuta dice che Zoal,
che era andata via per occuparsi di certi affari, sta tornando a casa perché ha
sentito qualcosa… e pare che Zoal
abbia sentito parlare di qualcosa del genere…
qualcosa che potrebbe avere causato questa roba alle persone…
Insomma, non sembra del tutto sorpresa di quello che sta succedendo.»
«Ma
quindi tu lo sapevi già?»
«Be’,
non esattamente… Ma l’altro giorno Uther ha chiamato Yuta da una
cabina telefonica e le ha raccontato a grandi linee cosa aveva visto qui in città…» spiegò Ramo.
Danny
guardò Uther, appoggiato all’indietro al lavandino e
a braccia incrociate, il quale annuì in conferma.
«Ok,
allora…forse… Non sarebbe
meglio se qualcuno rimanesse qui a vedere cosa succede?» tentennò dubbiosamente
Danny.
«Non
credo sia molto prudente. Se per qualche motivo succede qualcosa alla linea
telefonica, se non c’è più nessuno qui che se ne occupa, rimaniamo separati.
Non siamo comunque in molti. Io credo sia meglio rimanere uniti.» disse Kumals.
«Sono
d’accordo…» mormorò piano Uther,
pensosamente.
«Hey! E io? E il Conte?» chiese Justin precipitosamente, con
aria ansiosa.
Tutti
lo guardarono per un momento in silenzio; si erano praticamente dimenticati
della sua presenza.
«A
dire il vero…» iniziò Danny, incerto «Chiaramente
dovreste venire anche voi…»
«Hum… questo non piacerà affatto al Conte.» commentò Justin,
dubbioso.
«Figurati
a me…» mormorò Uther, così
piano che solo il fine udito di Danny captò e comprese le parole.
Il
ragazzo però si ricompose abbastanza in fretta da replicare, pur se con scarsa
convinzione «Sono certo che il Conte sarà abbastanza ragionevole da capire che
si tratta di cause di forza maggiore…»
«Sempre
che tu riesca a convincerlo a non portarsi dietro le bare e tutta la biblioteca…» gli fece notare Kumals,
lasciando intendere che quell’onerosità spettava tutta a Danny.
Questi sospirò.
«Va bene… quando partiamo?»
«Il
prima possibile, direi. La strada è ancora sgombra, ma se è come dite voi,
potremmo trovarci da un momento all’altro un gruppo di quelle persone in mezzo
alla carreggiata…» osservò acutamente Ramo.
Uther annuì in
silenzio, con aria seria.
«Va
bene…» ripeté Danny «Allora…
penso che andrò a svegliare il Conte…» annunciò
esitante. Ma rimase seduto.
Uther aprì lo
sportello della cucina dove c’era la birra e gliene porse una bottiglia, che
Danny prese con un pallido sorriso di gratitudine. Kumals
scosse la testa, mentre Ramo chiedeva se ce n’era una anche per lui e afferrava
al volo quella che gli lanciava Uther.
«Justin,
perché non vai a fare le valigie?» disse Kumals,
rivolgendo all’altro un tono punzecchiante.
«Ah,
sì vero…» concordò Justin, apparentemente senza
notare la provocazione, e uscì dalla cucina.
«Ma…» indagò dopo un po’ Ramo «Com’è che lo hai conosciuto?»
accennando al posto lasciato vuoto da Justin.
«E’
venuto qui una sera a chiedere ospitalità al Conte. Era una sua vecchia
conoscenza. Non so altro.» disse Danny con un alzata di spalle, prendendo una
generosa sorsata di birra.
«Aspetta
di vedere l’altro.» commentò Kumals.
«Dai,
Kumals…» lo rimproverò pacatamente Ramo, con aria
imbarazzata.
Danny
si alzò in piedi con aria grave e si incamminò per uscire dalla cucina, ma
sulla soglia esitò e si voltò a guardare gli altri tre con aria riflessiva.
«Ah,
nella credenza ci dovrebbero essere delle fette biscottate, della marmellata… cose così… mangiate
pure tutto quello che volete, anche perché visto che dobbiamo andare via tanto
vale finire il più possibile quello che c’è.»
«Questo
è parlare!» esclamò Uther, e con la nonchalance di
chi è pratico del posto prese ad aprire cassetti e sportelli, uno alla volta,
indagando il contenuto con calma e critica attenzione.
Note…
Presto il
prossimo capitolo.
a Lucretia: secondo me le
tue preoccupazioni riguardo alla qualità delle tue recensioni sono infondate.
Perlomeno, secondo me recensisci molto bene. Oltre al fatto che permane la
sensazione che tu abbia un occhio più acuto del mio nei confronti dei
personaggi... Alcune cose, come la ridondanza del Conte o il puntuale 'essere
fuori luogo' di Justin, sono volute, nel rispecchiare le persone reali che li
hanno ispirati, ma calcando un po’ su certi tratti, lo ammetto.
Uther prende non a caso ispirazione da un amico che, evidentemente
anche nel tramite cartaceo di un personaggio che in parte gli somiglia,
mantiene una certa capacità di sedurre a colpo d'occhio. Non che il suo fascino
possa trarre in inganno chi lo conosce bene... ma rimane il fatto che è un
fascino del tutto privo di calcolo! O, se c'è una tecnica, la nasconde molto
bene ;)
In quanto a
Danny... io non gli avrei attribuito tutta questa debolezza, inizialmente, ma è
anche vero che rispetto a tutti gli altri suoi colleghi ha qualcosa di diverso,
che si paleserà più avanti, che gli ha fatto vivere esperienze diverse... e vabbhé, si vedrà poi.
Nell'immediata
continuazione di questa storia, come hai visto, l'arrivare di nuovi personaggi
potrebbe rimandare per un altro pochino lo svelarsi di quale genere di collaborazione
abbia in passato reso colleghi alcuni dei personaggi, ma verrà fuori, e anche
molto molto presto... ;)
Riguardo al...
[cit.]'credo
che in quasi tutti i personaggi si possa vedere un aspetto di quello che si è,
o di quello che si cerca, che qualche volta coincide con qualcosa che l'autore
aveva scritto a livello forse inconscio...'[cit.],
sono fondamentalmente molto d'accordo, o almeno lo ritengo parecchio
verosimile; nel caso di questa storia, comunque, quasi tutti i personaggi mi
sono stati ispirati da persone che conosco, e quindi per me non hanno
palesemente questo significato, semmai un continuo rimando d'affetto e, per
alcuni, di solidale rispetto... o qualcosa del genere. E specialmente verso
coloro che, per motivi assolutamente non dipendenti dalla nostra volontà anzi repressivamente contrari ad essa, al momento non posso
vedere né sentire di persona... ma questa è un'altra storia (come amava dire M.
Ende).
Sperando tu
gradisca anche questo capitolo... alla prossima :)
n.b.: i miei
ritmi 'disumani' vanno a periodo, ma quando ci sono ne approfitto pienamente!
Capitolo 9 *** 07 - QUATTRO PICCHE E UN FUNERALE ***
Capitolo 7
(Quattro picche e un
funerale)
Danny
si avvicinò esitante alla porta che dava accesso agli “appartamenti” del Conte.
A
differenza di lui e Justin, infatti, il Conte occupava come suoi luoghi
riservati tre stanze, praticamente come un piccolo appartamento, che aveva
avuto cura di allestire nei sotterranei della casa, che per la verità non erano
altro che un piano semi interrato.
Lì
sotto, le stanze non erano originariamente molto rifinite o arredate, e si
aprivano su un unico lungo corridoio, che il Conte aveva fatto pavimentare con
lucide mattonelle nere e ricoprire da un lungo, regale tappeto color viola e
blu cupo, con alcuni elaborati arabeschi argentei. Non che, nel buio che
regnava solitamente lì sotto, si potessero ammirare visivamente bene le
modifiche del Conte.
Lungo
le pareti del corridoio, che erano state a intervalli regolari, c’erano dei
piccoli candelieri a due corte piccole braccia, tutti provvisti di candele
nuove e pressoché inutilizzate. Infatti il Conte si muoveva sempre al buio, e
quindi non le accendeva mai, ma sosteneva che sarebbero state utili in caso di
ospiti. Ad ogni buon conto, quando a Danny capitava di scendere, il che
avveniva raramente, si portava dietro una candela o, come in quel caso, una
torcia elettrica.
Il
peggio che poteva capitare era di inciampare in qualche topo, che
occasionalmente si rifugiava lì sotto, occupando tutte le altre stanze non
occupate dal Conte. Queste avevano l’aspetto di essere state ex-cantine e
magazzini e dispense, ma ciò che non avevano rosicchiato o fatto cadere per
terra e rotto i topi e qualche eventuale altro animale, aveva di sicuro ormai
superato da un bel pezzo la data di scadenza.
Per
evitare che i topi rosicchiassero il tappeto del corridoio, e forse anche per
evitare di consumarlo nel camminarci direttamente sopra, il Conte aveva pensato
bene di farlo ricoprire da una lastra di vetro trasparente, che non era
particolarmente scivolosa solo perché in quell’ambiente si era già insudiciata
abbastanza da diventare appicicaticcia.
Danny
guardò ancora per un po’ la massiccia porta degli appartamenti del Conte, un
grosso pannello in legno con una
fantasia squadrata e severa di figure geometriche intagliate, e una prolissa e
arabescata scritta in latino che Danny non si era mai preoccupato di tradurre
oltre il ‘qui riposa…’.
Fissò
la maniglia dorata, ma non la toccò. Sapeva che quella porta era sempre
meticolosamente chiusa a chiave. Era l’unica serratura funzionante in tutta la
casa.
Invece
allungò una mano a una cordicella attaccata a un minuto ed elegante meccanismo
a rotella. La corda spariva attraverso un’apposita piccola fessura semicircolare
nella parte superiore della porta, e in fondo ad essa, lì all’esterno, era
appeso un ciondolo dorato a forma di goccia, con un collo costituito da una
fascetta di pietra color rosso rubino cupo.
Danny
tirò piano la cordicella, avendo cura di evitare di toccare direttamente il
luccichio sinistramente intonso del ciondolo, e dall’interno degli appartamenti
udì provenire in contemporanea un lieve scampanellio.
Attese.
Non avvenne nulla per diversi minuti.
Danny
tirò di nuovo la cordicella, lasciandola subito andare come se si fosse
scottato. Stavolta, dopo qualche secondo, un piccolo campanellino attaccato
subito dietro la porta davanti alla quale si trovava scampanellò brevemente in
risposta, segno che il Conte lo aveva sentito e sarebbe arrivato ad aprire di
lì a poco.
Danny
si dispose ad aspettare, conoscendo gli elaborati preparativi che il Conte
doveva compiere prima di presentarsi alla porta, primo fra tutti aprire il pesante
coperchio e uscire dalla grossa bara nera e lucida in cui era solito dormire,
allungato un po’ rigidamente sul materasso di cuscini di raso bordò scuro.
Danny aveva appurato tutto ciò l’unica volta che il Conte, in un gesto di
confidenziale amicizia, gli aveva mostrato la sua stanza, orgoglioso
dell’arredamento e dei particolari squisitamente eleganti e ricercati, tutti
dello stesso preciso stile gotico-vampiresco, che
egli apprezzava con un’aria consumata e un po’ teatrale da grande e raffinato intenditore
del genere.
Anche
se non c’era nulla di propriamente kitsch, di certo diverse cose ci andavano
molto, molto vicino, secondo Danny.
Finalmente
il suo udito captò dei rumori leggerissimi, niente più che un delicato fruscio,
nella stanza subito oltre la porta presso la quale aspettava, che era
l’anticamera del Conte.
Il
Conte stesso aprì la serratura, un paio di giri completi, e schiuse la porta
con calma, guardando poi Danny con un’attenzione velata appena da un certo
risentito stupore per essere stato disturbato.
«Danny.»
constatò tuttavia in tono abbastanza amabile. «E’ forse accaduto qualcosa di
grave?»
«Beh,
non proprio, non ancora cioè…» esitò il ragazzo
imbarazzato, portandosi una mano alla nuca e scompigliandosi i capelli sul
collo senza motivo apparente.«Per la verità sarebbe una cosa, hem, un po’ difficile da spiegare così su due piedi…»
«Capisco.»
disse cortesemente il Conte «Prego, entra pure.» e si scostò per lasciarlo
entrare nell’anticamera, una stanzetta piccola dalla forma di esagono
irregolare, sulla quale davano altre due porte chiuse: una, adornata di velluto
rosso scuro, conduceva alla camera del Conte, l’altra, adornata di velluto
color ocra scuro, al suo bagno personale, che Danny non aveva mai visto.
Aveva
la sensazione che il Conte si vergognasse di cose come l’espletamento delle
basilari funzioni corporali umane, cosa della quale a Danny sfuggiva
completamente la comprensione, ma che trovava tutto sommato in armonia col
personaggio che il Conte rappresentava.
Nell’anticamera
il pavimento era tutto coperto da una morbida moquette verde cupo e le pareti
erano quasi interamente occupate da quadri di qualche personalità storica
famosa, tra cui spiccava quello grande e maestoso del conte Vlad
III di Valacchia, l’unico di cui Danny ricordasse il nome e le macabre
“imprese”, nonostante il Conte avesse passato qualche ora parlandogli di ognuno
dei singoli quadri durante la sua unica precedente visita ai suoi ‘appartamenti’,
come egli amava definirli.
Il
Conte vestiva con le sue vesti da camera, e cioè una lunga e ampia vestaglia
che differiva dal suo mantello usuale principalmente per il colore, non nero ma
di un blu molto cupo che ci rassomigliava, e che uguagliava il mantello per la
fattura generosa in stoffa, che la rendeva forse paragonabile alla vela di un
vascello. Nonostante ciò, il Conte, così come con il suo mantello, riusciva a
padroneggiarla e indossarla con grande ordine ed eleganza, come se fosse un
prolungamento naturale del suo corpo; così come nessuno si aspetterebbe insomma
di vedere un uccello che inciampa nella sua stessa coda, nemmeno se si tratta
di un pavone maschio.
Veleggiando
con la sua abituale grazia silenziosa, si sedette al piccolo tavolinetto
accostato al lato di muro frapposto tra le due porte, fornito di due sedie, e
invitò Danny a sedere sull’altra. Il ragazzo si accomodò, appoggiandosi con
gomiti e mani sul tavolo e facendo attenzione a non urtare il prezioso centro-tavola:
una sorta di basso vaso in qualche materiale metallico che riluceva come bronzo
dorato, decorato da una serie di pietruzze di vari colori, il tutto appoggiato
su un panno di stoffa ricamata dall’aria ugualmente antica, o se non altro
lasciato ad impolverarsi ad arte.
«Perdonami
la sollecitudine, Danny, ma come sai per me il riposo è molto importante, e
particolarmente nelle ore diurne. Sono ciononostante più che certo che, se tu
hai sentito la necessità di venire a colloquiare con me in un’ora come questa,
ci devono essere importanti questioni, a proposito delle quali il tuo buonsenso
suggerisce sia urgente farne parola col sottoscritto al più presto.» esordì il
Conte.
Per
Danny era l’equivalente di un fenomeno paranormale come una persona appena
svegliatasi in quella che per lui coincideva con il bel mezzo della notte fosse
in grado di mostrarsi così equilibrata nei movimenti e abbastanza lucida da
pronunciare frasi tanto lunghe ed elaborate, senza sbagliare nemmeno la
pronuncia di una sillaba o il tono. Ma si concentrò rapidamente di nuovo su
quello che doveva dire. E non gli parve più facile di prima, anzi.
Tuttavia,
lentamente e con cautela, cercò di spiegare al Conte come lui e gli altri
fossero giunti alla conclusione che era meglio lasciare temporaneamente la casa
per riparare presso l’abitazione delle loro amiche, aggiungendo il racconto del
recente arrivo di Ramo con una macchina utile allo scopo. Man mano che parlava
si rendeva conto sempre di più, con suo crescente nervosismo, come il viso del
Conte diventasse via via sempre più impassibile; il che
significava che quello che stava udendo non lo trovava affatto d’accordo.
Alla
fine, quando la voce di Danny, che ormai arrancava nelle ripetizioni
scoordinate o nella vaghezza più totale, si spense lentamente, il Conte si
schiarì la voce.
«Comprendo
perfettamente la logica delle vostre considerazioni, e non posso che
condividerle pienamente. Tanto più che la conoscenza del vostro valore nelle
situazioni di simile calibro quale questa che si sta verificando in queste
vicinanze, mi fa ritenere di poter riporre in voi completa fiducia. Perciò sono
d’accordo sul fatto che voi agiate nel modo che ritenete più opportuno. Avete
senz’altro tutta la mia approvazione. Ti ringrazio enormemente per non aver
trascurato di preoccuparti della mia incolumità. Tuttavia, Danny, io rimarrò
qui.» terminò, con la placida decisione di chi annuncia un fatto ineluttabile.
*
***
*
Uther rientrò nella
casa, lasciando Ramo e Kumals a parlare di fianco
all’auto e Justin che li guardava con aria annoiata.
Andò
in cucina, aprì lo sportello e, afferratala saldamente con entrambe le mani,
trasse fuori la cassa quasi piena di bottiglie di birra. La portò fino
all’ingresso, ma qui qualcosa lo distrasse.
Danny,
appena risalito dalle scale che scendevano dall’ingresso posteriore della casa
e che portavano al piano seminterrato, veniva verso di lui con lo sguardo al
pavimento e l’aria afflitta.
Uther appoggiò la
cassa sul pavimento e Danny notò la sua presenza.
«Dunque?»
chiese Uther, interessato.
«Mhm?» Danny lo guardò distrattamente.
«Viene
anche l’altro?»
«Sì… sta arrivando.»
«Ah.»
si stupì Uther «Dopotutto ci sei riuscito.»
«Sì.»
ammise Danny con aria scontenta «Ma ho dovuto promettergli che si potrà portare
dietro il minimo necessario.»
«Ovvero?»
chiese severamente Kumals, che si era fatto sulla
soglia e aveva appena finito di lanciare significativi sguardi di ironico
rimprovero alla cassa di birra e a Uther.
«Beh… un paio di libri fondamentali…»
iniziò Danny, e vide l’espressione di Kumals
rabbuiarsi. «Hey, ha accettato di lasciare qui le
casse da morto e gli arredamenti, e anche le candele e le sue videocassette… e diverse altre cose. È stata una lunga trattativa.
Non guardarmi così!» protestò vivacemente Danny.
«Ah,
fosse per me…» ribatté Kumals,
non in tono comprensivo ma disinteressato «Ma, a meno che qualcuno non ci segua
a piedi, sulla macchina non ci sta molta roba oltre a noi, per non dire quasi
niente. E con questo mi riferisco anche a te.» specificò, guardando Uther e la cassa di birra.
«Ma
questa è per il viaggio.» provò l’altro in rimando, con un ironico sorrisetto
candido.
«Ma
non siamo in sei?» chiese Uther, sempre con ironico
candore.
«Il
Conte non beve birra. Beh, veramente si nutre solo di sangue.» spiegò Danny.
Kumals e Uther smisero di rivaleggiarsi
con lo sguardo e si voltarono a fissare Danny, straniti.
«Sangue
di manzo, o di cavallo, o di gallinacei… lo prende
dal macellaio. Cioè, ci manda Justin.» aggiunse in fretta Danny.
Uther tornò a
guardare Kumals con serietà. «Prendiamone sei lo stesso.
Una si potrebbe rompere.»
«Sì,
e ho anche idea di come.» ribatté Kumals, con aria piuttosto
ironicamente minacciosa.
«Allora,
siamo pronti?» li interruppe Ramo, affacciandosi sulla porta, con Justin alle
spalle.
«Quasi.»
disse Uther.
Ramo
fissò la cassa di birra e sorrise complicemente.
«Che
ha detto il Conte?» chiese Justin a Danny.
«Viene
anche lui.»
«Ah,
davvero?» si stupì genuinamente Justin.
Danny
udì Uther mormorare qualcosa all’orecchio di Ramo che
poteva suonare come «Se lasciamo giù lui ci sta tutta la cassa di birra, vero?»
mentre accennava con un vago cenno della testa a Justin.
Ma
poi Danny fu distratto da qualcos’altro.
Un
lieve spostamento d’aria alle sue spalle e gli occhi di tutti che si erano
concentrati dietro di lui gli segnalarono l’arrivo del Conte.
Tutti
lo guardarono silenziosi, ed egli, con un’aria che aveva un che di signorile
sofferenza romantica, li fissò a sua volta con fare semi-tragico, degno di
qualche dramma epico da romanzo ottocentesco. Aveva con sé una piccola valigia
nera, che appoggiò a terra, chinandosi impercettibilmente.
«Vado
a prendere l’essenziale dei miei documenti. Poi, per quanto mi riguarda,
possiamo partire.» disse in tono molto grave, ma a testa orgogliosamente alta,
come in spregio della sofferenza che lo attanagliava.
«Le
garantisco che niente di quello che rimarrà qui sarà esposto a qualche pericolo… Danny e Uther hanno
inchiodato tutto l’inchiodabile, e riguardo alla porta principale la
sigilleremo dall’esterno.» disse Kumals.
«Anzi,
inchioderemo anche l’ingresso del seminterrato.» aggiunse Danny,
premurosamente.
«Sì,
mi pare un’idea eccellente.» concesse il Conte, senza entusiasmo «Dopotutto
gran parte della mia collezione di oggetti rari si trova nei sotterranei.»
«Se
non le dispiace verrò con lei ad aiutarla a prendere i documenti.» si offrì Kumals.
Danny
comprese immediatamente che il suo scopo originale era quello di velocizzare la
scelta del Conte e assicurarsi che non prendesse con sé più di quanto l’auto
poteva contenere, ma i suoi modi erano così volenterosamente garbati che il
Conte li apprezzò come se fosse una sincera offerta di aiuto, e annuì grato.
«La
ringrazio, signor Kumals. Mi segua dunque. Sono molto
felice che lei possa vedere la mia biblioteca prima che io debba lasciare
questa casa…» e così dicendo fece strada a Kumals su per le scale.
«Così
quello è il Conte?» chiese curioso Ramo, quando le loro voci furono abbastanza
lontane su in alto.
«Sì.
Se non fosse così sconvolto per la partenza e per il fatto che è giorno ti
avrebbe notato e si sarebbe presentato subito…» lo
scusò Danny.
Uther si stiracchiò,
alzando le braccia sopra alla testa. «Allora, cos’è che dobbiamo inchiodare
ancora?»
«Hem, a parte l’inchiodare la porta…
ci sarebbe un altro particolare in sospeso…» disse
Danny.
Uther, Ramo e Justin
lo guardarono interrogativamente. Danny allungò un dito, indicando l’ingresso
posteriore della casa, dove giaceva la grossa cassa da morto incatenata.
«Cos’è?»
chiese incuriosito Ramo.
«Il
signor Benton.» disse Uther, in tono stanco per
l’ennesimo lavoro che si presentava da fare.
Ramo
rimase di sasso per un momento. «Oh…» riuscì poi solo
a dire, tristemente.
*
***
*
Il
Conte, in piedi sull’ingresso posteriore e protetto dalla debole luce solare
dal suo solito apparato di mantello, guanti, cappuccio e ampio ombrello nero,
guardava con compassata compostezza il vecchio cimitero abbandonato che si
stendeva accanto alla casa. Un luogo assai mesto e malinconico, oltre che molto
melmoso.
In
uno spazio di terreno vuoto oltre i limiti delle ultime tombe, adornate e
appesantite da lapidi e grosse croci di pietra inclinate, rovinate dalle
intemperie e in parte ricoperte di muschi e licheni, tre figure lavoravano con
le pale per gettare le ultime manciate di terra sulla tomba fresca. Le altre due
stavano a guardare in attesa, anche se, come si notava dallo stato dei loro
abiti, avevano cessato da poco loro stesse di lavorare con le pale nella terra.
«Hey, Uther.» chiamò Kumals, tra una boccata di fumo e l’altra dalla sua sigaretta.
Uther si interruppe
con la pala a mezz’aria e lo guardò.
«Non
ti ricorda qualcosa?»
Imprecando
a mezza voce, Uther riprese a lavorare, sotto le vaghe
occhiate incuriosite di Ramo, Danny e Justin.
Quando
anche l’ultima palata di terreno fu al suo posto sul piccolo cumulo di terra
smossa, e i tre appoggiarono le pale guardando il loro lavoro, il Conte si
mosse.
Scese
i gradini dell’ingresso posteriore della casa e si avvicinò a loro lentamente,
apparentemente riuscendo in quale modo ad evitare che il lungo orlo del suo
mantello si infangasse, mentre slalomava con perizia
data dall’abitudine tra le varie tombe antiche: una sagoma scura e immantellata, come se la morte in persona venisse a
controllare che fosse stato fatto un adeguato lavoro.
Si
fermò accanto agli altri. Scese un pesante silenzio.
«Dopotutto
non era uno zombie.» osservò il Conte, con un certo rammarico.
«La
ringrazio per essersi offerto volontario per l’elogio funebre…
In effetti stavo proprio per chiederglielo, dal momento che lei mi sembra il
più adatto a dire qualche buona parola.» disse Kumals,
ignorando lo sguardo molto preoccupato di Danny, il quale cercava di fargli
capire quanto fosse un errore affidare ad un logorroico un elogio funebre,
soprattutto visto che nessuno di loro, lì, al momento, pareva particolarmente
interessato ad inscenare un funerale.
Uther si guardava
intorno furtivamente, cercando di capire quando sarebbe stato il momento
migliore per sgusciare via.
«Mi
auguro che qui nessuno creda nella vita dell’aldilà!» disse invece in tono
fieramente antireligioso Ramo.
«Ne
sarei felice…» iniziò a dire il Conte, rispondendo a Kumals «…ma devo declinare questo
gravoso compito. Dopotutto il signore non era tra le mie conoscenze. Tutto
quello che posso dire è che mi dispiace aver paventato che fosse uno zombie… senza nemmeno conoscerlo.»
«Oh,
non credo che lui se ne sia avuto a male.» mormorò molto piano Uther.
Danny
riuscì a trattenersi dal ridere in qualche modo, ma poi si accorse che Kumals lo stava guardando. «Hey,
nemmeno io lo conoscevo!»
«Vabbe’, ma insomma basta dire le solite cose…
che siamo tutti dispiaciuti che sia morto e cose così…
no?» disse Justin, guardandosi intorno senza capire le tante complicazioni che
si stavano facendo.
«Ecco
fatto.» commentò Uther con infastidita ironia, e
diede qualche colpo di pala per pianeggiare il terreno, con aria sbrigativa.
«Va
bene, sentite, a parte gli scherzi…» disse Ramo «Se
vogliamo dire qualcosa diciamola e via…»
«Amen.»
disse ancora Uther, sempre ironicamente, beccandosi un’occhiata
poco convinta da parte di Ramo.
«Tu
sei esente dall’elogio Uther, grazie per il
contributo comunque. Nessuno vorrebbe che tu facessi il suo elogio funebre.»
notò Kumals, sarcastico.
«Questo
sembrava un complimento…» scherzò Ramo.
«Sentite.»
li richiamò Danny «Qui nessuno di noi riuscirebbe a rimanere serio abbastanza a
lungo per fare un elogio come si deve, e nessuno di noi saprebbe da che parte cominciare… quindi almeno evitiamo di buffoneggiare sulla
tomba di questo poveraccio.»
«Sono
d’accordo.» disse Uther, il quale evidentemente
avrebbe concordato con quasi qualsiasi cosa che prevedesse di andarsene e
passare ad altro.
«Dopotutto,
però, tu dovresti essere quello tra di noi che ha sentito più elogi funebri…» disse Kumals
pensosamente, osservando Uther. L’altro lo guardò per
un momento, nero di malumore, e infine si incamminò verso la casa,
allontanandosi.
«Hem… io vado a caricare la macchina…»
disse Ramo con un certo imbarazzo, e visto che nessuno ebbe niente da
obbiettare anche lui si allontanò, dopo aver gettato una breve occhiate
esitante alla tomba.
«Le
auguro un buon riposo, signor Benton.» disse compostamente il Conte, e anche
lui si allontanò.
Justin
esitò un momento, fissando alternativamente la tomba e il Conte, quindi anche
lui svicolò via.
Kumals e Danny
rimasero accanto alla tomba in silenzio per un po’. Alla fine Danny guardò Kumals e chiese con aria mesta «Non ti viene in mente
proprio niente da dire… ? Dopotutto lo conoscevi… beh, almeno un po’… Voglio dire, nessuno di noi
crede nell’importanza di queste cose, ma forse lui ci credeva…»
«Se
potesse sentirmi avrei parecchie cose da dirgli, e soprattutto da chiedergli,
ma così…» commentò pungente Kumals,
ma il tono ironico gli morì in gola, e ricadde il denso silenzio.
«Mi
dispiace di non essere riuscito ad aiutarla Benton…» mormorò
molto piano Kumals, infine.
Poi,
muovendosi lentamente, mise un braccio attorno alle spalle di Danny, e con una
lieve pressione se lo portò dietro mentre si allontanava, lasciandosi alle
spalle il vecchio cimitero silenzioso e deserto.
*
***
*
Dopo
lunghi e complessi lavori di mediazione e intricate manovre di incastro, Ramo
riuscì a suddividere lo scarso spazio della macchina tra le cianfrusaglie di
Justin, alcune bottiglie di birra, la sacca e il fucile di Uther,
le poche cose che si portava dietro Kumals, qualche
ricambio di vestiti e qualche altra essenzialità di Danny, e i libri e i
documenti del Conte.
Alla
fine riuscirono perfino a starci tutti loro, anche se parecchio stretti.
Davanti
Ramo, alla guida, era quello che stava più largo. Accanto a lui, Uther condivideva il sedile del passeggero e lo spazio per
le gambe e i piedi e buona parte della superficie del cruscotto con le sue
cose, le bottiglie di birra e altro. Dietro, Danny, Kumals,
Justin e il Conte stavano stipati tra loro e le altre cose che strabordavano dal baule posteriore.
Nonostante
l’aria molto sofferta e a disagio del Conte, e l’occasionale parlare di Justin,
Danny si sentiva quasi a suo agio. Prima di tutto, pochi minuti dopo la partenza,
riuscì ad allungare un braccio e a toccare appena la spalla di Uther, il quale non ebbe bisogno di voltarsi a guardarlo
per capire; raccolse una bottiglia di birra, la aprì, ne prese un paio di sorsi
e la passò a Danny.
«Voi
sareste capaci di bere in qualunque situazione, vero?» chiese retoricamente Kumals.
«Beh,
solo nelle migliori o nelle peggiori, o nelle noiose.» tentò di giustificarsi
debolmente Danny.
«Avete
sigillato anche la porta che da accesso ai sotterranei?» chiese il Conte, con
voce estremamente grave.
«Sì.»
rispose pazientemente Danny.
«Quanto
pensate che staremo via?» chiese Justin, inaugurando così la serie di infinite
e disparate domande che avrebbe posto per il resto del viaggio.
«Non
possiamo saperlo.» rispose Danny, in tono atono e rassegnato.
«Ah…» commentò deluso Justin.
A
Danny pareva di sentire gli ingranaggi del cervello del suo coinquilino
lavorare alacremente in cerca di un’altra domanda, e non restò deluso.
«Quindi
voi siete colleghi di cosa?» chiese Justin.
«Ex
colleghi.» precisarono Kumals e Uther
distrattamente, quasi all’unisono.
«Justin,
non essere sgarbato…» trovò la forza di dire il Conte,
nonostante il suo lutto sofferto «Sono certo che Danny e i suoi…
ex-colleghi troveranno il tempo di raccontarci più avanti, con la dovuta calma
e precisione di cronaca, riguardo alla loro pregevole attività di esperti
cacciatori di presenze maligne.»
«Eh?
Cosa? Ma davvero?»
E
così Justin iniziò una lunga serie di esclamazioni incredule, mentre Danny si
faceva piccolo piccolo e cercava di scomparire nel
sedile, Kumals osservava con concentrata ostinazione
fuori dal finestrino, Ramo si faceva estremamente assorto nella guida e Uther fingeva di essere preda di un colpo di sonno
improvviso.
Note dello scribacchiatore:
Per chi
ipotizzava che Danny, Kumals, Uther
e Ramo fossero stati ballerini spogliarellisti, stile ‘Full Monty’,
mi spiace avervi deluso. Non che la loro “ex-attività” non possa rivelarsi meno
risibile, per certi aspetti, anzi… Comunque, presto
giungerà il prossimo capitolo.
Soundtrack:
(Don’t fear) The reaper –
dei ‘BlueOyster Cult’
A Lucretia: per chi sta
leggendo e gradisce la ridondanza pressoché ridicola del Conte, e quindi anche
per te, spero la prima parte di questo capitolo sia stata particolarmente
gradita :) Era già stata scritta tempo fa, ma viste le preferenze del pubblico
di questa storia… (a giudicare dalle recensioni
composto da una sola persona, ma chissà, forse altri sono in attesa di vedere
dove diavolo andrò a parare! E se anche non comparirà nessun’altro, io sono
della scuola ‘molto meglio pochi e rari, ma ottimi’, e quindi così per me è
super-ok)… dovrebbe risultare alla fine una buona cosa, forse. Io avevo pure
pensato di toglierla perché mi sembrava rallentare troppo la trama. Ma ha il
suo fascino dopotutto…
Inoltre, io vedo
un certo stridore tra il fatto che Danny sia molto meno spaventato dagli strani
eventi di quanto lo sia dalla prospettiva di svegliare il Conte in pieno giorno
per chiedergli di lasciare la sua casa e tutte le sue cose. Una cosa, forse, un
po’ l’ho capita di Danny… (a scrivere sono parecchi
capitoli più avanti di questo)…ed è che credo finisca
per dare – volutamente o meno – messaggi in sottofondo, tramite il suo
comportamento spontaneo. Forse, quindi, in questa occasione intende dire che a
farci paura è ciò a cui diamo il potere di spaventarci, e non sempre è
necessariamente qualcosa che costituisce una reale minaccia per noi.
Su Ramo,
concordo con te che sia il meno esuberante e il più ‘solido’ sia fisicamente
che di carattere del gruppo (che carattere e aspetto fisico coincidano lo noto
ora…). Proprio per la sua pacata e amichevole tranquillità, sarà probabilmente
più difficile intuirne i tratti distintivi, se non a frammenti, almeno finché
ci saranno tanto gli altri personaggi ad occupare quasi interamente la scena.
Ebbene sì,
presto arriverà la controparte femminile… non al gran
completo, ma quasi. Il fatto che tu sia “una-donna-fiera-dell’esser-donna”
credo sia un buon punto per farti considerare i futuri personaggi femminili da
un punto di vista privilegiato ;)
Ramo fermò l’auto alla fine della
stretta strada sterrata che avevano percorso, serpeggiando tra i boschi delle
colline, fino a quel momento.
Tutti si guardarono intorno, senza
vedere nient’altro a parte la boscaglia, senza udire niente a parte cinguettii
di uccelli e qualche fruscio nel sottobosco.
«Be’?» esordì Justin, impaziente
«Dov’è la casa?»
«E’ qualche centinaio di metri
più in là… ma la strada non ci arriva proprio davanti…» spiegò Ramo.
«Un bel posto.» aggiunse Uther, con aria soddisfatta.
Kumals gli lanciò
un’occhiata critica, come se ritenesse che fosse colpa sua.
«Quindi, gambe in spalla, ognuno
prenda le sue cose, eccetera…» disse allegramente
Ramo, aprendo lo sportello e uscendo, presto imitato da Uther.
Agli altriquattro, stretti sul sedile
posteriore, servì qualche momento in più per riuscire a tirarsi fuori
dall’abitacolo.
Per prima cosa, appena sceso il
Conte aprì il grosso ombrello nero sopra la testa, anche se lì nel bosco c’era
una sempiterna ombra tratteggiata qui e là da strisce di luce di sole. Nel
pieno inverno, comunque, con la maggior parte degli alberi quasi completamente
spogli e il sole pallido, era più che altro una continua penombra grigiastra,
allietata però dal sottobosco e dall’odore di terra, di alberi, di corteccia e
così via.
Danny restò qualche momento a
dare profondi respiri golosi, annusando e godendosi l’aroma dell’aria, gli
occhi socchiusi per il piacere. Probabilmente, se avesse avuto una coda in quel
momento avrebbe scodinzolato.
Uther lo spiò e
sorrise, profondamente e furtivamente.
«Ma quanto è lontano?» chiese
Justin, preoccupato «Io ho tutte le mie cose da portarmi dietro.»
«A dire la verità, credo che sia
più onerosa la situazione di Conte…» notò Kumals, soffermandosi in particolare a guardare il letto
del Conte, la lunga bara nera e lucida che avevano legato sopra il tettuccio
della macchina e coperto con una tela cerata per proteggerla.
«Che ne dite se andiamo intanto a
salutare le altre e portiamo solo qualcosa? Torneremo a prendere il resto dopo… Non è lontano.» propose Ramo.
«Ma sì, andiamo.» disse Kumals. «O prima vuoi scavare un po’ in giro, Danny?»
chiese all’altro, che stava ancora inspirando a pieni polmoni, e si guardava
intorno come se stesse contemplando un piccolo paradiso terreno.
Il ragazzo si distolse dal suo
apprezzamento e lo guardò un attimo disorientato. «Eh? Ah, no, no, andiamo.»
disse, senza preoccuparsi di prendersela per la provocazione. Sembrava troppo
di buonumore per potersela prendere per qualsiasi cosa al momento. Non smise di
guardarsi intorno con un sorrisetto contento nemmeno mentre scaricavano alcune
cose dall’auto né lo distrasse il discutere degli altri.
«Uther,
le bottiglie possiamo prenderle dopo.» consigliò Kumals,
con occhio fino, cogliendo i movimenti con cui il ragazzo stava cercando di
infilare le bottiglie nella sua sacca senza farsi troppo notare. In compenso,
una volta scoperto, continuò come se non avesse affatto cercato di passare inosservato.
«Finché ci siamo, tanto vale
intanto portarle…» rispose solo.
Kumals guardò Ramo in
cerca di comprensione, e quegli sorrise con una piccola alzata di spalle, come
a consigliargli pazienza.
Il Conte si muoveva lì intorno,
guardando un po’ schifato e un po’ critico ogni particolare, come se
aumentassero quelli che lui riteneva fastidiosi; pareva l’incarnazione di una
donzella nobile che fosse stata gettata all’improvviso dalle sfarzose e lindissime stanze di palazzo nel bel mezzo della giungla. Dopo
un po’trasse fuori da una delle tasche interne del mantello un fazzoletto di
pizzo nero e se lo portò al viso.
«Temo di essere allergico a qualcosa…» spiegò con voce attutita a Kumals,
che lo guardava perplesso.
Uther disse qualcosa
in tedesco a mo’ di commento, e benché nessun’altro di loro conoscesse la
lingua, il suo tono da solo era palesemente ironico e provocatorio.
Alla fine i sei si avviarono sui
passi di Ramo, che camminava con sicurezza, come se trovasse qualche misterioso
segno di orientamento nella boscaglia non tracciata da nessun sentiero. Slalomò attorno ai cespugli più grandi e agli alberi,
seguendo un percorso facile che non appesantisse ulteriormente il loro passo
già carico dei bagagli che trasportavano.
Di tanto in tanto si udiva il
lieve tintinnio di due bottiglie che cozzavano appena tra di loro nella sacca
di Uther.
In quanto a Danny, era così
assorto nella contemplazione che incespicava spesso, talvolta persino nei suoi
stessi piedi, provocando rumori brevi e frenetici di foglie secche e arbusti
smossi, ai quali dopo un po’ tutti gli altri smisero di fare caso. Solo Ramo o Uther, di tanto in tanto, all’udire quei trambusti si
gettavano brevi occhiate istintive dietro le spalle, per accertarsi che il
ragazzo non fosse franato a terra.
Justin sembrava invece avere una
particolare propensione per impigliarsi ovunque, e in generale camminava con
una nonchalance che si assocerebbe più facilmente a qualcuno che stia facendo
una passeggiata in centro città, col risultato che da solo riusciva a produrre
più rumore di tutti loro messi insieme.
Il Conte, in qualche misterioso
modo, riusciva ad evitare persino lì di far troppo rumore o di impigliarsi,
nonostante i sontuosi abiti certamente inadatti a ogni sorta di scampagnata.
Effettivamente, bastarono un paio
di minuti di camminata prima che tra gli alberi scorgessero il graduale
apparire di una casetta di bosco, a due piani, non molto ampia. Un albero,
crescendo, aveva infilato uno dei suoi rami principali dentro a una finestra, e
sul tetto, in corrispondenza, si vedevano filtrare verso l’alto alcuni rametti
più sottili, che si facevano strada tra le tegole.
Un rampicante frondoso occupava
tutta una parete, e di certo lo spettacolo in una stagione più fertile doveva
essere notevole, ma in inverno si riduceva a un intrico di radici che
serpeggiavano sul muro.
Non c’erano vialetti né un
cortile, nient’altro come segno di abitazione umana intorno alla casa eccetto
per alcuni strumenti utili per animali, come una mangiatoia con del fieno,
alcune casette di legno per volatili con relative mangiatoie, e una grossa
vasca da bagno vecchia e piena d’acqua che sembrava essere stata riciclata come
abbeveratoio.
Infine, da una parete laterale
della casa partiva una grossa tettoia fatta tutta in tronchi di legno e strati
di paglia, sotto alla quale il terreno era battuto.
La prima cosa che tutti notarono
in modo particolare, comunque, fu che tutta le pareti, costituite da spesse
pietretipiche delle costruzioni
contadine delle zone collinari e montagnose, erano tinte di un deciso lilla che
richiamava il colore del glicine***. Eccetto per le porte, pitturate in una
zebratura bianca e nera, e per le imposte delle finestre in legno, colorate di
argento od oro lievemente imbrillantinato.
Invece di avvicinarsi
all’ingresso principale, Ramo deviò verso la tettoia, sotto alla quale si
aprivano una porta e una finestra, con il davanzale quasi pieno di ciotole per
animali.
Dalla finestra, semiaperta e
riparata solo da un accenno di tenda costituito da un pezzo di vecchia coperta
la cui fantasia patchwork era ancora ben visibile, proveniva della musica.
Quando si avvicinarono
ulteriormente, riconobbero le parole della canzone:
Brucia
nella notte la citta' di San Jose
Radio Cuba urlava fuori da un cafe'
La lava incandescente gremava gli hulahop
l'uragano travolgeva i bungalow
Noi stavamo lì, dimmi dimmi
non ti senti come al cinema?
E stavamo lì, dimmi dimmi
come dentro a un film
E stavamo lì, dimmi dimmi
non ti senti come al cinema?
E stavamo lì, dimmi dimmi
come dentro a un film*
Kumals e Danny si
scambiarono una breve occhiata divertita.
«Sembra che siamo capitati nel
posto giusto.» osservò Kumals, mentre appoggiavano
sul terreno le loro cose e Uther si sporgeva a spiare
dalla finestra l’interno della casa.
Anche se in gran parte sovrastato
dalla musica a tutto volume, si sentiva un chiacchiericcio allegro in
sottofondo, alternato ad un canticchiare la canzone.
Ramo fece per entrare, ma Kumals lo fermò mettendogli una mano sulla spalla, e
scambiò un breve sguardo di intesa con Danny.
Mentre
la tivu' diceva
mentre la tivu'cantava*
Kumals e Danny presero
fiato…
Bevila
perche' è tropicanaje!*
urlarono all’unisono con la
musica.
Da dentro le voci si
interruppero, e si sentirono rumori che si avvicinavano inequivocabilmente alla
porta, la quale poco dopo si aprì. Ne uscì di slancio un piccolo cagnetto nero
e marroncino, che in pochi balzi fu da Ramo e iniziò a fargli feste
entusiastiche.
«Ciao Tirch.
Sono qui, son tornato.» disse affettuosamente il ragazzo, carezzandolo, e poi
gli indicò Danny. «Chi c’è?» chiese, in tono vivace, per entusiasmare il
cagnetto, che in effetti, non appena individuò Danny, corse a fare le feste
anche a lui, facendo ridere di contentezza il ragazzo.
Frattanto dalla porta erano
uscite anche due ragazze.
La prima, una giovane ragazza
alta e slanciata. Aveva gli occhi dal taglio allungato lievemente truccati, che
vivacizzavano il bel viso da sotto una corta frangetta dritta, e una cascata di
capelli tra cui facevano capolino treccine e rasta colorati, che le ricadevano
da un’alta coda di cavallo sulla schiena. Indossava una maglia a fantasia
leopardata e un paio di pantaloni quasi attillati neri, che terminavano in
piedi calzanti scarponcini da montagna.
Guardò tutti con sorpresa
contenta, e abbracciò Uther, che le si era
avvicinato.
L’altra ragazza, un po’ meno
giovane ma dall’entusiasmo altrettanto vivace e anzi anche più appariscente,
era quasi altrettanto alta, ma con un fisico con curve femminili più accentuate
e in parte sottolineate dal lungo vestito nero dark, non particolarmente
elaborato ma sobriamente elegante, che indossava. Il suo viso, più truccato e
incorniciato da lunghi e fluenti capelli rilucenti di nero, si focalizzò prima
brevemente su Ramo e poi su Danny, che salutò calorosamente, esclamando di
gioia.
Ben presto ne nacque una danza di
scambievoli saluti, abbracci, esclamazioni e risate, e tra le gambe di tutti
saltellava il cagnetto Tirch, cercando attenzione in
particolare da Ramo, Danny e le due ragazze, e lanciando di tanto in tanto
latrati entusiastici di richiamo quando gli pareva di non essere
sufficientemente notato.
Da quel tripudio amichevole e un
po’ caotico rimasero esclusi solo Justin e il Conte, che, ai margini della
folla degli altri, li fissavano, e in particolare studiavano le due ragazze con
espressioni molto diverse. Justin aveva assunto uno sguardo felino, mentre il
Conte, che pure si era soffermato per qualche minuto a notare i particolari del
vestito dark di una di loro, ora appariva lievemente infastidito e a disagio.
Quando l’improvvisato ballo dei
saluti iniziò a scemare, benché sembrassero quasi tutti ansiosi di iniziarne
uno di chiacchiere intense e fitto di domande reciproche, Danny si voltò verso
Justin e il Conte.
«Ah, loro sono i miei coinquilini… vi presento il Conte e Justin.» li introdusse
gentilmente. Sembrava così contento da aver dimenticato ogni sorta di
risentimento verso i due.
Le ragazze si avvicinarono a
salutarli, come se fossero pronte ad accordare loro piena amicizia per il solo
fatto di essere amici di Danny.
«Io sono Yuta.»
si presentò la ragazza dalle lunghe gambe affusolate e coi capelli castani
intricati con treccine e rasta colorati, facendosi loro di fronte con un’aria
amichevole, venata tuttavia da un accenno di incuriosita analisi dei due
ragazzi.
L’altra, la ragazza vestita in
stile dark, fu molto più calorosa; scambiò un accenno di abbraccio con Justin
mentre diceva «Ciao! Valentine, piacere!» e fece per
fare lo stesso anche con il Conte, il quale tuttavia la precedette, porgendo in
avanti quasi precipitosamente una mano. La ragazza di nome Valentine
fissò per un attimo la mano, presa in contropiede, ma subito la strinse con
energia.
«Allora, che fate? Entrate pure.
Fate come se fosse casa vostra. Insomma, prendete esempio da Uther.» esclamò con vivace sarcasmo Yuta,
e tutti notarono che in effetti Uther era già sparito
all’interno della casa con le sue cose.
Entrarono nella piccola ma
accogliente cucina, stipata di cassette di frutta e verdure, di sacchetti di
cereali e di erbe di ogni genere, di cestelli pensili, attaccati tramite
cordicelle a ganci affissi nel soffitto, e contenenti le più svariate cose, da
cibarie a oggettistica disparata che sembrava provenire da un ufficio di
smarrimento oggetti. L’ambiente era colmo di odori di spezie e del calore
proveniente principalmente da una grossa pentola, che bolliva sui fornelli.
Uther stava già
curiosando il contenuto della pentola, con aria attenta.
«Allora, com’è andato il
viaggio?» esordì Valentine con allegra vivacità,
prendendo sottobraccio Ramo.
«Bene, tutto sommato.» le rispose
lui, mentre Tirch saltellava loro attorno
scodinzolando.
«Credevo fosse successo qualcosa…» disse dubbiosamente Yuta.
«Loro due sono coperti di fango.» e accennò a Uther,
che stava scegliendo dagli strumenti appesi sopra ai fornelli un mestolo per
assaggiare il contenuto della pentola, e a Danny, che si stava guardando
intorno contento.
In effetti i due erano sporchi di
fango semi-incrostato, dai capelli fino alla punta delle scarpe.
«Oh, niente di che, si sono
rotolati un po’ nel fango per divertimento.» spiegò Kumals.
«Non è vero!» protestò subito
Danny, per poi calmarsi e rivolgersi alle due ragazze. «La macchina si è
piantata ad un certo punto, e abbiamo dovuto spingerla.»
«Ma come, voi due da soli?»
chiese Yuta, guardando con un accenno di rimprovero Kumals.
«No, abbiamo spinto quasi
tutti...» disse Ramo.
«Ma solo loro due sono caduti nel
fango.» aggiunse Kumals, cercando di non far
trasparire troppo divertimento dalla sua espressione fintanto che Yuta continuava a guardarlo.
«Io ci metterei un po’ più di
cipolla.» disse Uther, che stava assaggiando una
mestolata della zuppa.
«Sei appena arrivato e già
critichi?» chiese Yuta, con evidente contentezza.
Prese una cipolla da una delle cassette e si avvicinò al banco di cucina, su
cui c’erano un paio di coltelli, un tagliere di legno e alcune bucce di varie
verdure.
«Che cosa state facendo?» chiese
Ramo, curioso.
«Zuppa.» rispose Valentine. «L’abbiamo inventata adesso.» aggiunse «Con
quello che c’era.»
«Ah no!» esclamò Yuta, rivolta a Uther, il quale
si apprestava ad affettare la cipolla. «Va bene tutto, ma almeno togliti un po’
di fango di dosso prima di toccare qualcosa da mangiare, che dobbiamo mangiare
anche noi soprattutto.»
Il ragazzo fece per dire
qualcosa, ma si guardò le mani e le maniche infangate, e finì per annuire.
«Che cos’ha lui?»
Tutti si voltarono a guardare
Justin, che stava indicando il cagnetto Tirch. Quindi
tutti guardarono il cane, il quale in quel momento era tranquillamente seduto
sul pavimento vicino ai piedi di Ramo, e scodinzolava ancora, guardandosi
intorno, il muso aperto come se sorridesse.
Per un po’ nessuno sembrò capire
cosa intendesse dire Justin, poi Danny ebbe un’intuizione. «Ah, intendi la
zampa?»
Tirch era tripode,
cioè provvisto di sole tre zampe. Gli mancava la zampa anteriore destra.
«Lo hanno investito prima che lo
adottassimo.» spiegò Ramo «E gli hanno dovuto amputare la zampa.»
«Poverino.» disse solo Justin.
«Beh, tanto poverino non mi
sembra.» disse Yuta «Se la cava alla grande, vero Tirchetto?» domandò retoricamente, chinandosi a fare i
complimenti al cagnetto, e lasciando che l’altro le leccasse il mento
scodinzolando.
Il Conte fece una breve smorfia,
mentre Justin si chinava anche lui per fare i complimenti al cane, che lo
considerò con maggiore timidezza, non conoscendolo altrettanto bene.
«D’accordo!» esordì Yuta con fare pratico, rialzandosi. «Voi due, andate a
darvi una ripulita almeno sommaria, che fra poco si mangia!» annunciò, rivolta
a Danny e Uther.
«La metto io la cipolla, fidati.»
disse Ramo a Uther.
«Bene.» sorrise Uther, e, ripresa in mano la sua sacca, fece per uscire
dalla cucina, quando Yuta lo richiamò.
«E porta questo coso da qualche
altra parte.» disse, porgendogli il fucile. Uther le
lanciò un breve sguardo sarcastico e glielo prese dalle mani.
Il Conte si accostò a Ramo con
aria discreta e disse, con una certa affettata vergogna «Scusi, se non le dispiace… non ho potuto fare a meno di notare che non
abbiamo ancora avuto occasione di presentarci, una mancanza imperdonabile da
parte del sottoscritto…»
«Ah, no, beh tranquillo. Non c’è
problema. Io sono Ramo. Puoi darmi del tu.» disse il ragazzo, tranquillamente
anche se un po’ imbarazzato dai modi formali dell’altro.
Gli altri fissavano il Conte, con
aria stranita per quanto riguardava Valentine e Yuta, con aria sorniona da parte di Kumals,
e Justin, che si era già seduto su uno degli zoppicanti sgabelli in legno e
paglia presso il bancone di cucina, era troppo occupato a guardarsi intorno con
aria semi incredula. Kumals tentò di dare di gomito a
Yuta senza farsi notare, per provocare qualche suo
esplicito commento riguardo al Conte, ma lei si rifiutò di dargli corda,
fingendosi più infastidita dal suo comportamento di quanto non fosse realmente.
*
***
*
Danny, che era uscito dalla
cucina qualche secondo dopo Uther, e che si era
soffermato a guardarsi intorno nell’ambiente del piccolo salotto che contingeva
con la cucina, si rese conto troppo tardi che l’altro, dopo aver rapidamente
lasciato il fucile in un angolo un po’ nascosto del salotto, era già sparito
alla vista su per le scale. Anche Danny salì, scorgendo vari oggetti appoggiati
persino sugli scalini, e quando arrivò al primo piano si trovò davanti solo una
serie di porte semiaperte o chiuse, senza sapere dove dirigersi.
Stava per considerare l’idea di
tornare in cucina a chiedere esattamente a Yuta dove
fosse il bagno, quando sentì un rumore provenire da una delle stanze con la
porta chiusa, e vi si diresse. Senza pensarci socchiuse la porta, trovandosi
davanti una camera da letto nella quale si aggiravano, giocavano o dormivano
diversi gatti, tutti diversi l’uno dall’altro. Danny stava per fare
dietrofront, anche se si sarebbe soffermato volentieri a fare la conoscenza dei
felini, quando sentì una voce.
«Chiudi la porta, credo non
debbano uscire.»
Allora entrò abbastanza nella
stanza per vedere Uther, seduto su uno dei due letti
che occupavano la stanza, intento a guardare dentro un baule aperto. Danny
entrò, si chiuse la porta alle spalle appena in tempo prima che alcuni gatti
riuscissero a infilare la fessura per uscire, e si appressò a Uther, fermandosi di tanto in tanto ad accarezzare alcuni
gatti che gli si avvicinavano incuriositi.
«Hem…
tu sai dove sia il bagno?» chiese Danny.
«Sì, terza porta sulla sinistra.»
disse Uther.
«Ah…
quindi ci sei già stato qui.»
«Ogni tanto passo a trovarle.»
Uther gli voltava le
spalle, chino sul baule, perciò Danny non si sentì immediatamente desideroso di
togliersi dalla faccia l’espressione di delusione che vi si era dipinta
spontaneamente. Visto che lui abitava relativamente vicino a Yuta e Zoal, Uther
avrebbe potuto teoricamente passare a trovare anche lui quando veniva lì…
Uther si voltò verso
di lui con un mezzo sorriso. «Gliel’hanno fatta** di nuovo.»
«Eh?» chiese Danny, spaesato.
«Vieni a vedere.» lo invitò Uther, e anche Danny si sporse sul baule aperto.
Dentro di esso c’era un
mucchietto di pelo, in cui Danny riuscì a contare cinque gattini raggomitolati
e profondamente addormentati su un mucchio di pezzi di stoffa di vario genere.
«Ma guarda…»
disse estasiato Danny. «Cosa intendi che gliel’hanno fatta di nuovo?» aggiunse
a Uther.
Questi si rialzò del tutto in piedi
e Danny notò solo in quel momento che era già a petto nudo.
«Yuta e
Zoal cercano sempre di evitare che figlino,
altrimenti finiranno per straripare di gatti… ma non
è che riesca loro molto bene.» sogghignò Uther.
Danny ridacchiò e si guardò
intorno nella stanza. «Ma perché li avranno chiusi tutti qui?»
«Probabilmente per Tirch, finché non si abituano.» disse Uther,
con una lieve alzata di spalle.
«Ah già…»
Danny si interruppe, udendo un rumore sulle scale.
Poco dopo si aprì la porta della
stanza, e fece capolino Kumals.
«Che cosa fate qui?» chiese Kumals, guardandoli con aria ironica e sospettosa.
Per qualche motivo Uther si era messo a guardarlo in cagnesco, perciò fu Danny
ad annunciargli «Ci sono dei nuovi gattini.»
«Ah sì? Andiamo bene.» commentò Kumals burberamente, tuttavia anch’egli si avvicinò al
baule e vi guardò dentro interessato.
«Ah, la porta…
i gatti…» disse Danny un po’ allarmato, notando che
alcuni gatti stavano uscendo alla chetichella dalla porta lasciata aperta da Kumals.
«Mi hanno detto di venire su ad
aprirgli.» lo tranquillizzò Kumals. «E di controllare
che sapeste come usare un bagno civilmente.» aggiunse.
«Sì, come no!» commentò Danny.
«Io vado a lavarmi.» comunicò Uther, e sparì dalla stanza.
Danny e Kumals
continuarono a guardare i gattini per un po’, in silenzio.
«Il Conte ha persuaso Ramo a
tornare alla macchina per prendere un po’ del sangue che si è portato dietro.
Abbiamo dovuto spiegare a Valentine e Yuta che lui si nutre di quello.» disse, come se stesse
suggerendo che si era assunto una responsabilità che sarebbe dovuta spettare a
Danny.
«Hum…»
mugugnò distrattamente questo.
«E credo che Justin ci stia
provando con Yuta.» continuò Kumals,
ma in tono molto diverso, piuttosto irritato.
«Ah!» disse stavolta Danny,
girandosi a guardarlo. «Hem…beh…»
balbettò imbarazzato «Quindi…» e tacque, senza sapere
più che dire.
Kumals diede un’alzata
di spalle e si sedette per terra, appoggiandosi con la schiena al letto come se
non gli importasse. E Danny cercò davvero di capire se era realmente così, ma
l’altro non disse più niente, e prese ad accarezzare un grosso gatto color
cannella che gli si era acciambellato in grembo quasi immediatamente dopo che
si era accomodato.
«Anche tu vieni spesso a
trovarle?» chiese Danny.
«Qui? No, non vengo da parecchio
tempo. C’ero stato solo una volta, quando si sono trasferite qui.»
«Ah…»
disse Danny, quasi distrattamente.
«Perché?»
«No, niente!» tagliò corto in
fretta Danny, ma suo malgrado arrossì un po’, e Kumals
restò a studiarlo con un sopracciglio alzato per qualche lungo secondo.
Pochi minuti dopo Uther rifece capolino sulla porta, stavolta sia a petto che
a piedi nudi, e li guardò con un’aria vagamente corrucciata. «Credo che non ci
sia acqua calda oggi.»
Danny lo guardò, finché non fu
del tutto sicuro che diceva sul serio, e allora gli sfuggì dalle labbra un
sommesso gemito di sconforto.
* parole tratte dal testo della
canzone ‘Tropicana’
di ‘Gruppo Italiano’, tutti i diritti e i meriti riservati etceteraetcetera.
**non so se sia una forma dialettale
in uso ovunque in italia, perciò specifico che ‘gliel’hanno fatta’ significa ‘le hanno
ingannate, fregate, etc…’
***il glicine (Wisteriafloribunda)
è un arbusto rampicante e rustico, originario della Cina e del Giappone – ma
ormai diffuso a scopo ornamentale anche in Italia – che in primavera fiorisce
con grossi grappoli pendenti di fiorellini color azzurro-violetto, che mandano
un profumo dolce. Il titolo originale di questo capitolo era, non per niente,
‘la casa di lillà’ (che richiamava la canzone della ‘casetta in canadà’… embé, il trash è trash,
gente). Per me è un omaggio ad alcune delle persone che hanno ispirato alcuni
personaggi di questa storia.
Note dello scribacchiatore:
Questo
capitolo potrebbe sembrare piuttosto dispersivo… ma
credo fosse importante concedere il giusto spazio alla conoscenza dei nuovi
personaggi, e al delinearsi dei rapporti interpersonali tra di loro, o almeno
accennarvi a tratti. Aldilà dei fatti straordinari e allarmanti che sono
l’elemento scatenante di questa storia, c’è anche in essa, non secondariamente,
una dimensione più tranquilla in cui vivono e si intrecciano le singole
esperienze dei personaggi. In ogni caso, cercherò di accelerare un po’ la
pubblicazione dei prossimi capitoli (che sono già scritti), in modo da non
tardare troppo il ritorno di un po’ di vera e propria azione.
a
Lucretia: il tuo seguire
la storia passo passo (o meglio ‘capitolo capitolo’) mi piace molto. La puntualità (non nel senso
temporale ma nel senso di contenuto) delle tue recensioni mi aiuta molto a
tenere il polso di come appare il racconto al lettore, dal momento che per me,
visto anche il richiamo continuo alle persone reali che hanno ispirato i
personaggi, non è così facile prendervi le giuste distanze per osservare il
tutto più obbiettivamente. Anche stavolta, sono rimasto colpito dall’acume con
cui riesci a intuire piccoli ma significativamente fondamentali aspetti di
ognuno di questi personaggi. Il tuo sguardo preciso non lascia da parte nemmeno
gli ambienti, il loro significato per e rispetto ai personaggi, e il clima
generale che anima in modo particolare alcune situazioni. Per questo, le tue
recensioni rimangono sempre molto affascinanti per me.
p.s.:
fai bene a farti distrarre dal sole :D Condivido in pieno, visto che anche qui
ci sono stati giorni proprio estivi; una pacchia!
Quando Danny ritornò al piano
terra, ancora rabbrividendo per la doccia gelida che si era fatto, trovò il
Conte solo, seduto sul divano del salotto, accanto al camino acceso e scoppiettante.
Aveva appoggiato un fazzoletto, sempre nero ma grande come un foulard, sul
divano, prima di sedervicisi sopra, e stringeva tra le mani una tazza, nera,
che si era portato da casa, sicuramente piena di sangue.
Alzò lo sguardo su Danny e disse
«Gli altri sono nella stanza attigua, ovverosia nella cucina.»
Danny accennò un sorriso. Non
avrebbe comunque avuto bisogno di quell’indicazione, dal momento che dalla
cucina provenivano risa, parole quasi urlate, e lo stereo emetteva
Cuccuruccucù
Paloma
Ahi
ahi ahi ahi ahi cantava*
«E tu perché sei qui?» chiese
Danny, con tatto.
Il Conte lo guardò placidamente.
«Ho bisogno di riflettere su alcuni degli ultimi eventi occorsi.» disse solo.
Benché fosse assai tentato di
unirsi agli altri in cucina, e le chiacchiere festanti che ne provenivano lo
attiravano come una calamita, Danny si auto costrinse a sedersi sul divano
accanto al Conte.
«So che tutto questo ti sembrerà
un po’ troppo… hum… caotico… Ma dopotutto, non appena avremo risolto la
situazione, potremo tornare a casa.» disse, comprensivo. E ignorò il fatto che
pensare alla parola ‘casa’ gli rimandava più l’attuale luogo in cui si trovava,
piuttosto che quello dove aveva vissuto negli ultimi due anni con Justin e il
Conte.
«Sì, certamente.» concordò in
tono pacato il Conte «Ma non preoccuparti per me, Danny. Io qui mi troverò
bene, per il tempo necessario. Inoltre, conoscendo la vostra abilità e la
vostra professionalità, sono certo che riuscirete a risolvere brillantemente la
situazione quanto prima.»
Danny trovò quelle parole molto
eloquenti. E gli sembrò di capire che il Conte si stava sforzando di accostare
la sua idea di professionalità a quella casa, quelle persone e il loro
spensierato comportamento.
«Hem… sì… Beh, il contributo di
Yuta e Zoal sarà fondamentale. Anche loro erano nostre colleghe quando eravamo,
er.., nell’attività… E senza il loro prezioso aiuto non ce la saremmo sempre
cavata così bene.» spiegò Danny.
«Non l’avrei mai creduto. Ma dal
momento che lo sento dire proprio dalla tua bocca vi pongo fiducia.» disse il
Conte.
«In che senso…? Perché non
l’avresti mai creduto?» chiese curioso Danny, senza capire.
«Beh, Danny, d’altro canto loro
sono donne.»
Danny trasecolò, e sentì il
bisogno di voltarsi a metà per guardare molto più direttamente il Conte.
«E con questo?» chiese perplesso,
cercando di interpretare cosa volesse dire l’altro; perché gli pareva che
all’improvviso stessero parlando due lingue diverse.
«Naturalmente, Danny, l’uomo e la
donna sono due creature profondamente diverse per molte cose. E di norma i
lavori impegnativi sono affidati alla ragionevole, equilibrata, e allo stesso
tempo cospicua forza maschile.»
Danny aggrottò la fronte,
piuttosto infastidito. «Lavori impegnativi? Intendi l’aver a che fare con il
paranormale? Ebbene, non so che donne conosci tu… ma quelle che conosco io sono
sempre state indispensabili, e per niente secondarie a noi, anzi!»
Il Conte lo guardò,
apparentemente stupito dal fatto di non trovarlo perfettamente d’accordo.
«Inoltre, in questa casa non ci
sono ‘donne’. Ci sono Yuta e Valentine e ci sarà Zoal. E qualsiasi cosa siano,
non sono quello che dici tu.» continuò più ombrosamente, ma con tranquilla ed
insieme energica decisione Danny.
«Oh, non era mia intenzione
offenderle…» specificò il Conte, un po’ offeso a sua volta.
«Lo spero bene. Perché non se lo
meritano affatto.» disse Danny, e si alzò in piedi. Proprio in quel momento udì
il suo nome provenire dalla cucina.
«Ma dov’è Danny?» chiese Yuta.
«Già. Si sta ancora facendo la doccia?»
aggiunse Valentine.
«Danny! È pronto!» urlò in tono
generosamente alto Kumals.
Si udì il rumore di una sedia che
veniva spostata e poco dopo comparve sulla soglia della cucina Uther, che si
guardò intorno nel salotto e si soffermò infine a fissare Danny.
«Ah sei qui. Se non vieni credo
che non ci rimarrà molto… vedo già Ramo che sta puntando quel che è rimasto…»
aggiunse, con un sorrisetto, voltandosi a guardare dentro la cucina.
«Ah, senti chi parla!» ribatté
ironico Kumals.
«E anche Kumals sta puntando.»
rincarò Uther.
«Ti è venuto a chiamare solo
perché aspetta di vedere cosa prendi prima di gettarsi sul resto.» rise Ramo
dalla cucina.
«Sì, eccomi…» disse Danny, con un
sorriso gradevolmente imbarazzato. Mentre rispondeva si era alzato e aveva diretto
i suoi passi verso la cucina, nella quale si era già riprecipitato Uther, con
l’aria di aver intenzione di fare esattamente quello che aveva pronosticato
Ramo.
Quando stava per raggiungere la
porta, Danny esitò, e si voltò di nuovo verso il Conte.
«Vieni di là anche tu? C’è
spazio.» disse solo.
«Ti ringrazio.» disse
compostamente il Conte, senza muoversi.
Danny si voltò per entrare in
cucina, fece un passo oltre la soglia e si ritrovò lo sguardo di Uther addosso,
che lo fissava interrogativamente, avendo evidentemente udito le sue parole
rivolte al Conte. Danny fece un breve cenno di diniego, a dirgli di lasciare
perdere, e subito si ritrovò Yuta che gli veniva incontro con la pentola ed un
cucchiaio.
«To’. Che qui mi sembra di essere
in mezzo a un branco di affamati.» gli disse, porgendogli pentola e cucchiaio.
Uther cercò di spiare l’interno
della pentola e Yuta gli agitò vicino alla faccia il cucchiaio in modo
scherzosamente minaccioso, facendolo prima un po’ imbronciare e poi sorridere.
*
***
*
Danny guardava Ramo pulire il suo
piatto usando il dito, e Uther che faceva lo stesso con un cucchiaio nella
pentola ormai vuota.
«Dai, Ramo…» lo rimproverò
debolmente Valentine, che invece era realmente un po’ imbarazzata. Dal suo
grembo Tirch si guardava intorno col suo sorriso canino.
«Se volete ci sono altri piatti
da lavare.» commentò invece Yuta, ironica. Poi sembrò le venisse in mente
qualcos’altro. «A proposito, ma voi dove avete messo la vostra roba?» chiese a
Danny e Uther.
«Nella stanza dove c’erano i
gatti…» iniziò a dire Danny.
«Nella tua stanza.» specificò
Kumals, e si dispose come per assistere a una scena violenta.
Invece Yuta rivolse a lui uno
sguardo critico. «E tu non gli hai detto che era la mia stanza, immagino.»
«Me ne sono guardato bene.»
scherzò Kumals, composto e tranquillo.
«Mi dispiace… non sapevo che…»
iniziò Danny.
«Ma no, mica è un problema.» lo
interruppe Yuta «Però per dormire lì non c’è posto. L’altro letto è per gli ospiti,
e adesso ci dorme Valentine.» spiegò.
«Quindi, noi non siamo quel che
si direbbe ospiti?» chiese candidamente Kumals, per provocarla. Yuta fece un
vago cenno con la mano come per zittirlo, anche se le sfuggì un sorriso.
«Io posso dormire sul divano.»
disse Danny.
«Beh, veramente, siccome voi
quattro già vi conoscete… e voglio dire sopportate… abbastanza bene, pensavo di
mettervi nell’altra camera da letto, quella per gli ospiti.» propose Yuta,
accennando un significativo sguardo al cipiglio ancora ironico di Kumals. «Poi,
per te…» e guardò Justin «…possiamo mettere una branda in salotto, se ti va
bene. E per… com’è che si chiama?»
«Il Conte.» disse subito Kumals,
fingendo di venirle in aiuto, ma con la precisa intenzione di cercare di farla
sentire in imbarazzo per averlo dimenticato.
«Sì, per lui potremmo…»
«No, lui ha la sua bara.» disse
Danny.
Yuta si interruppe e lo fissò
confusa, così come Valentine.
«Sì, va bene, lui dorme in una
bara, e ce l’abbiamo sulla macchina. La metteremo da qualche parte.» tagliò
corto Kumals, precedendo le delucidazioni da parte di Danny, e continuò, più
interessato «Ma nella camera degli ospiti non ci sono solo due letti?»
«Io ho anche un sacco a pelo con
me.» disse Ramo.
«E con questo rimane comunque un
posto in meno.» osservò Kumals.
«C’è anche il divano, no?» fece
presente Danny, chiedendosi come mai stesse diventando così complesso
organizzare dove dormire per tutti.
«Oppure la camera di Zoal. Visto
che lei non c’è.» disse Kumals.
«Ma no, la sua camera no.»
obbiettò subito Yuta. «Sai com’è… è sempre chiusa quando lei non c’è, e in ogni
caso può entrarci solo lei. Ma scusate, non potete dormire in due in un letto?»
Kumals sembrò rifletterci su per
un momento, si alzò in piedi e si aggirò per la cucina pensierosamente. Uther
lo teneva d’occhio con aria sospettosa.
«Beh, quindi…» iniziò Kumals
lentamente, avvicinandosi alla soglia. «Chi arriva ultimo dorme per terra!»
esclamò di botto, così in fretta da accavallare le parole, mentre già stava
schizzando una corsa rapida fuori dalla cucina e su per le scale.
Uther gli corse subito dietro e
Justin balzò in piedi.
Danny lo guardò torvamente.
«Justin, tu hai già la tua branda.»
«Ah, va bene.» disse Justin,
tornando a sedersi.
Danny notò che Ramo lo guardava
come se si tenesse pronto a scattare. Sospirò divertito «Vai pure. Io non ho
intenzione di correre.» disse, con un breve ghigno. E Ramo si rilassò, restando
seduto, con una lieve ombra di imbarazzato senso di colpa.
«Ecco, bravi, anche perché se
qualcun altro si mette a correre qui dentro a quel modo lo ammazzo.» disse
Yuta.
Danny e Ramo la guardarono,
stupiti. Lei ricambiò il loro sguardo, e parve ripensarci. «Anzi, no… lo lascio
a digiuno.» si corresse.
«Guardo che sappiamo cucinare
anche noi.» notò divertito Ramo.
«Sì, ma la materia prima è mia.»
sentenziò Yuta, e quando vide che il ragazzo non trovava niente da replicare
sorrise vittoriosamente.
«Ma non potete dormire in un
letto in due come ha detto lei?» chiese ragionevolmente Valentine.
«Beh, immagino di sì…» disse debolmente
Ramo, non particolarmente persuaso.
«Fa lo stesso, dormo per terra.»
disse Danny, con calma scarsità di interesse per il presunto problema.
«No, tu non dormi per terra.»
disse decisa Yuta. Lui la guardò e sorrise.
«Piuttosto, perché non ci dormite
voi in due in un letto?» azzardò Ramo, con un tono vagamente da vittima di
ingiustizia, guardando le due ragazze.
«Eddai!» protestò Valentine, come
se la risposta fosse implicita.
«Non credo ci fosse un intento
erotico, diceva sul serio.» disse Danny maliziosamente, facendo imbarazzare
Ramo, ma poi sembrò venirgli in mente qualcosa, e si chiese perché non
potessero piuttosto dormirci Valentine e Ramo, con tanto del loro essere
fidanzati, nello stesso letto. Ma non ebbe bisogno di chiederlo, quando ricordò
l’avversione di Valentine per praticamente ogni cosa che prevedeva lo stare
scomodi, principalmente a causa dei suoi dolori alla schiena. E a proposito di
dolori alla schiena, si rammentò quelli che si era procurato lui le ultime
volte che aveva dormito da sobrio su un pavimento, e il suo sguardo si
rammaricò.
«Perché lei ha bisogno di un
letto intero per la sua schiena, e perché io vorrei il mio letto tutto per me,
grazie.» stava frattanto rispondendo Yuta ad un Ramo piuttosto imbronciato.
«Allora Tirch te lo prendi a
dormire con te.» disse Ramo a Valentine, col tono di chi fa un dispetto.
«Ma perché, dove pensi abbia
dormito stanotte?» ribatté prontamente Valentine. «E comunque, lui sì che non
avrebbe problemi a dormire per terra.»
«Ma no, ma Tirch, senti cosa
dice…» disse Ramo, mettendosi a parlare col cane. Questi agitò immediatamente
la coda sentendosi rivolgere la parola, e sporse il muso per leccare
allegramente le mani di Ramo.
Yuta si alzò in piedi e fece
segno a Danny di seguirla, mentre gli altri due continuavano a confrontarsi
verbalmente, con l’aria di esserci avvezzi e di provarci gusto al battibecco di
scherzosa sfida reciproca. Quando furono sulla soglia della cucina, però, Yuta
e Danny si accorsero che Justin era ancora seduto che fissava il vuoto con aria
annoiata.
«Justin.» lo chiamò pazientemente
Danny, e il ragazzo alzò su di lui uno sguardo interrogativo.
«Vieni che ti do la branda.»
disse Yuta collaborativamente, e Danny la ringraziò mentalmente, per essere
riuscita a ottenere che Justin si alzasse e li seguisse, lasciando spazio
all’appassionato confronto tra Ramo e Valentine.
«Andiamo a vedere cosa cavolo
stanno facendo quei due.» disse baldanzosamente Yuta, dirigendosi alle scale,
seguita dagli altri; ma prima di iniziare i gradini si fermò, e disse a Justin
«Ah, aspetta pure qui in salotto, te la porto qui la branda. Tu fai spazio
intanto…»
«Ok.» disse Justin, rivolgendole
un sorriso di eccessiva gratitudine, e sedendosi poi accanto al Conte, il quale
si limitava a sorseggiare il sangue dalla sua tazza e sembrava deciso a
ignorare ogni cosa che gli avveniva intorno.
Mentre salivano le scale, Danny
disse a Yuta «Ti starai chiedendo da dove saltano fuori quei due…»
«Io non ho detto niente.»
obbiettò Yuta, e voltò la testa per fargli un complice occhiolino. Danny le
sorrise, grato.
Entrando nella cosiddetta camera
degli ospiti, trovarono Kumals sdraiato sulla schiena che fumava e Uther che
frugava nella sua sacca, a gambe incrociate sull’altro letto.
Quest’ultimo alzò gli occhi
vedendoli entrare, e chiese «E Ramo?»
«La validità della vostra gara è
stata annullata e si è deciso a maggioranza che dormirete in due in un letto.»
annunciò Yuta.
«Da quando in qua in questa casa
si fa uso della democrazia?» chiese provocatoriamente Uther, sogghignando.
«Oh, no, questa non è affatto una
democrazia. È una tirannia. E io sono il tiranno e così ho deciso.» disse Yuta,
con un sorrisetto piuttosto sadico.
«Ti si addice molto.» commentò
Kumals dal letto.
«Hai anche deciso chi deve
dormire insieme?» chiese Uther distrattamente, mentre trovava finalmente ciò
che stava cercando con tanto impegno nella sua sacca: estrasse la bottiglia di
grappa. La agitò con aria critica e un po’ contrariata, vedendo che ne erano
rimaste solo quattro dita, come se agitarla avesse potuto moltiplicare la
quantità del liquido.
Per qualche motivo, quando Uther
aveva parlato Kumals si era alzato su un gomito, perdendo la sua aria
rilassata, e aveva iniziato a lanciargli una serie di sguardi
significativamente allusivi a qualcosa. Uther lo ignorò deliberatamente, ma
parve pentirsi seriamente di aver parlato.
«Mhm… no, perché in fondo sono
magnanima almeno un po’.» disse Yuta «Questo sceglietelo voi. Estraendo a
sorte, tipo. Non correndo in giro a sfasciare la casa o facendo a gara a chi
piscia più lontano qui fuori.» intimò.
«Io dormo da solo.» disse subito
Kumals.
«Ah, e perché proprio tu?» chiese
con pesante sarcasmo Uther.
«Se me lo chiedi tu non
rispondo…**» canticchiò Kumals. Gli occhi di Uther iniziarono a realizzare uno
sguardo piuttosto seriamente alterato.
«E non decidete solo voi due, ma
tutti e quattro!» disse ancora Yuta, scegliendo di ignorare, pur avendolo
chiaramente colto, lo scambio di messaggi codificati tra i due. Quindi si
rivolse a Danny «Vieni a darmi una mano con la branda per favore?»
«Quale branda?» indagò Uther.
«C’è una branda, ci dormirà
Justin.» disse Danny.
«Si potrebbe dormire in due nella
branda…» disse Kumals, cercando di infastidire qualcuno. Uther gli rivolse
un’altra occhiata di fuoco.
«Ma cosa stanno dicendo?» chiese
Yuta, mentre già lei e Danny erano tornati nel corridoio.
«Non ne ho idea.» rispose Danny,
scuotendo la testa con un sorrisetto d’abitudine «Quando scherzano tra loro non
si è quasi mai capito niente, lo sai…»
«Sì. Vero.» disse Yuta con
sicurezza.
«Però…» iniziò Danny, ed esitò.
Yuta lo guardò, come invitandolo
a proseguire.
«Però erano bei tempi, no?» disse
quasi timidamente il ragazzo, spiando di sottecchi la reazione di Yuta.
La ragazza sorrise leggermente,
assumendo un’aria un po’ assente, riflettendo sul passato.
«Sì, tutto sommato… sì.» rispose
solo, con un sorriso rivolto ai ricordi.
*
***
*
Era scesa la notte da diverse
ore, ormai. Nella cucina, Uther, Danny e Ramo sedevano intorno al banco,
giocando a carte e bevendo birra.
«Tadaan.» eruppe Danny, buttando
tutte le carte che aveva in mano sul tavolo, con un sorriso vincente.
Ramo lo guardò, per un attimo
stupito, e poi si sporse a guardare le carte che già Uther, appoggiatosi su un
gomito e chino in avanti, stava analizzando da vicino. Dopo un po’, Uther si
tirò indietro, guardando Danny con una smorfia tra il divertito e
l’arrendevole, e dopo poco anche Ramo si raddrizzò di nuovo e gettò le sue
carte sul tavolo con aria esasperata.
«Ma non si può!» protestò Ramo «Sai
a malapena giocare, ma hai una fortuna sfacciata!»
Danny gli rivolse uno smagliante
sorriso da smargiasso. «Oppure siete voi ad essere sfortunati… Comunque,
potresti semplicemente ammettere di aver perso.»
«Adesso vedremo…» disse Uther,
raccogliendo le carte e rimescolandole con deciso impegno, desideroso di
rivincita come se ne andasse del suo onore.
«Ah… beh, penso che io lascio
qui. Vado a letto…» annunciò Ramo, alzando le braccia sopra la testa,
stirandosi e sbadigliando generosamente.
«Ma come!» protestò con una certa
delusione Uther.
«E dai…» aggiunse Danny, cercando
di essere persuasivo.
«No, davvero… avevo detto che era
l’ultima almeno cinque partite fa!» ricordò loro Ramo.
«Guarda che ormai Valentine starà
dormendo…» disse maliziosamente Danny.
«Guarda che siamo in due stanze
diverse.» gli ricordò un po’ cupamente Ramo.
«Ah, è vero… ma allora qual è la
scusa?!»
«Che sono stanco, ad esempio?»
ribatté Ramo, sarcastico.
«Banale…» commentò Danny.
«Ma va là, và!» disse Ramo, rifilando
una breve pacca sulla spalla di Danny mentre si alzava.
«Beh, buonanotte a tutti.»
aggiunse.
«‘notte.» disse Uther, alzando
solo per un momento lo sguardo amichevole dalle carte che aveva già ripreso a
distribuire tra lui e Danny.
Ramo si soffermò a guardarli con
aria dubbiosa. «Continuate fino a domattina?» si informò.
«Non credo proprio.» gli sorrise
Danny.
Ramo annuì con aria assonnata,
rivolse un breve cenno di saluto a Danny ed Uther e lasciò la cucina, avendo
cura di richiudere la porta alle sue spalle.
«Perché non ci spostiamo di là?»
chiese Uther.
«Ci sta dormendo Justin.» gli
rammentò Danny.
«Ah, sì.» disse solo Uther, con
una lieve smorfia.
Danny sorrise appena, prese la
sua birra per portasela alle labbra e si accorse che era ormai vuota.
«Accidenti…» si lamentò debolmente.
Uther, già intento a sistemare le
sue carte, gli lanciò un’occhiata per accertarsi di cosa stava facendo, capì, e
riappoggiò le carte. Si alzò in piedi e prese a girare per la cucina, aprendo e
chiudendo sportelli a casaccio.
«Che fai?» chiese confuso Danny.
«Ci deve pur essere qualcosa da
bere, da qualche parte…»
«Gli abbiamo già bevuto un sacco
di birra!» notò Danny.
«Vabbeh… ma solo qualcosina per
bagnarsi le labbra…»
Danny rivolse un sorrisetto
sardonico alla schiena di Uther, impegnato a frugare in giro.
Dopo un po’ il ragazzo si fermò e
disse «Ah, ecco…», e Danny tornò a guardarlo, proprio mentre lui si rialzava
dall’accuccio davanti a uno sportello, e si voltava per mostrargli con
soddisfazione una bottiglia di vodka.
Danny si illuminò per un momento,
ma poi tornò dubbioso «Ma io non credo che…»
Uther alzò le spalle, e richiuse
lo sportello dietro di lui con un piede, tornando poi a sedersi, appoggiando la
bottiglia sul tavolo. In men che non si dica l’aveva già aperta, svitando con
rapida abilità il tappo. «Ce ne sono delle altre, tranquillo.» disse,
rivolgendogli un sorrisetto contento e ammiccante.
«Beh… allora immagino che…»
iniziò Danny, guardandolo prendere un sorso e gustarselo facendo un paio di
schiocchi di gradimento con la lingua.
Uther gli porse la bottiglia,
mandandogli al naso una deliziosa zaffata di vodka al limone fatta in casa.
Danny la prese, infine, mentre Uther tornava a sedersi con aria soddisfatta e
riprendeva in mano le carte.
Dopo un po’ che giocavano e
bevevano in silenzio, Danny riprese la parola con più sicurezza. «Ma poi dov’è
che dovrei dormire io?»
«Non ne ho idea.» disse
distrattamente Uther, continuando a studiare le sue carte.
Il fatto era che quel pomeriggio
avevano tutti avuto da fare.
Il Conte si era ritirato a
studiare le carte che si era portato dietro – o forse a dormire –, chiudendosi
nella buia e muffosa soffitta dove avevano spostato faticosamente la sua bara;
Danny non si sarebbe stupito eccessivamente se di lì a poco avesse iniziato a
riferirsi al sottotetto, che già apprezzava per la sua aria di ragnateloso
semi-abbandono, come i suoi ‘appartamenti’. Da un piano semi-interrato alla
soffitta, il passo non era forse così ampio come la distanza materiale faceva
supporre. Non per il Conte almeno. C’era da chiedersi se avesse già iniziato a
progettare con quale sontuoso arredamento decadente si poteva arredare.
Difficilmente questa sarebbe parsa una buona idea a Yuta e Zoal: il loro stile
era decisamente diverso. E comunque, per Danny era ancora un mistero come
Kumals fosse riuscito a convincere il Conte ad abbandonare il famoso dipinto
del voivoda*** Vlad III di Valacchia.
Valentine e Ramo si erano
eclissati nel primo pomeriggio per dedicarsi a una lunga passeggiata nel bosco con
Tirch. Erano partiti ancora discutendo tra di loro, in scherzosa e singolar
tenzone, con le loro frasi di schermaglia che echeggiavano tra i tronchi e i
cespugli del bosco, tra i quali il cagnetto tripode saltellava vivace ed
entusiasta come un leprotto ad aprile. Quando erano tornati, parlavano tra di
loro più o meno sommessamente, si tenevano per mano, e si rivolgevano sorrisi
alternati a baci e a qualche breve frase in tono confidenziale che, a giudicare
dalle loro espressioni, poteva essere scherzosa, o seria, o romantica, o anche
completamente senza senso. Del resto, avevano passato quasi il resto della
giornata e della serata a tubare tra di loro in quel modo piuttosto riservato,
ma eloquentemente tradito dalla natura dei loro sguardi. Persino gli sguardi
sornioni e ammiccanti di Kumals venivano ignorati con una invidiante
naturalezza un po’ assente da Ramo.
Uther aveva passato quasi tutto
il pomeriggio con Yuta, aiutandola a rifornire le mangiatoie per animali, a
disporre le ciotole col cibo per gatti, e infine a cucinare qualcosa da cena.
Per il loro chiacchiericcio divertito, e a tratti quasi cospiratorio, non era
immediatamente chiaro di chi fosse stata originariamente l’idea di aggiungere
del vino rosso per aromatizzare la portata principale della serata. Come che
fosse, il piano era riuscito: dopo averli seguiti ed essere stato loro nei
piedi per la maggior parte del tempo, chiedendo continuamente cosa poteva fare
per essere d’aiuto salvo poi annoiarsi dell’incarico e abbandonarlo a metà o
svolgerlo accuratamente male, Justin era stato preso da un’acuta sonnolenza,
dopo aver cenato, ed era andato a coricarsi nella sua brandina molto presto.
Yuta ed Uther avevano continuato a mostrarsi estranei alla vicenda conplacidissima nonchalance. Sulle labbra di
Uther e negli occhi di Yuta, tuttavia, faceva capolino a tratti, furtivamente,
un certo divertimento soddisfatto.
Quanto a Kumals, si era fatto i
fatti suoi così bene che era difficile stabilire esattamente cosa avesse
combinato delle ore tra il pranzo e l’andare a letto. Danny, che aveva passato
le sopraddette ore ad aggirarsi per il bosco e per la casa, accompagnandosi di
tanto in tanto a Yuta ed Uther per essere d’aiuto nei lavori che svolgevano o
soffermandosi a occhieggiare i libri sparsi per le stanze – che andavano dai
romanzi di ottocento e novecento fino a libri semi-specialistici sulle cure
fitoterapeutiche e omeopatiche per umani ed altri animali, passando per libri
di cucina e guide alle piante selvatiche commestibili e/o curative –, senza
trascuraredi trovare tempo anche per
sostare semplicemente sdraiato a prendere un po’ del pallido sole, avrebbe
potuto giurare di aver intravisto Kumals almeno una volta: seduto su una delle
poltrone del salotto, fumava distrattamente, lo sguardo assorto in densi
pensieri, e un libro aperto appoggiato sulle ginocchia. Danny aveva capito al
volo che non era il caso di distrarlo dai suoi rimuginamenti.
Della sistemazione per la notte,
insomma, nessuno aveva avuto il pensiero o la voglia di riparlarne. Ma Danny
aveva ottimi motivi per sospettare che Kumals avesse comunque già preso
possesso di un letto, e fosse estremamente riluttante, per non dire fermamente
convinto a non condividerlo. Pena venire spinti per terra durante la notte, con
tanto di finzione di averlo fatto nel sonno senza accorgersene da parte di
Kumals.
«Mi sa che questo giro è mio.»
disse Uther, lasciando trapelare un’espressione di quasi boriosa vittoria nel
posare le sue carte scoperte sul tavolo.
Danny lo guardò, colto di
sorpresa.
E capì che la vodka, deliziosa,
doveva aver già iniziato a fare loro un certo effetto. Non tanto quanto perché
lui aveva perso, quanto perché ora giocavano entrambi con maggiore abilità.
* forse non ci sarebbe bisogno di
dirlo perché penso che quasi nessuno non la conosca… comunque queste parole
sono tratte dal testo della canzone ‘Cuccuruccù Paloma’ di Franco Battiato, con
tutti i diritti e i meriti riservati.
** questa invece è una frase
storpiata dalla canzone ‘Mare Nero’ di Lucio Battisti
***voivoda: termine slavo che in origine designa il comandante
militare, ma anche regnante di territori, o ‘principe ereditario’… etc. Almeno,
questo apprendo da wikipedia.
Note dello scribacchiatore:
L’azione
stenta un po’ a tornare. Mi sembrava appropriato concedere altro spazio per
presentare un po’ meglio i nuovi personaggi, e chiarire ulteriormente, con
qualche spaccato quotidiano, i rapporti tra i vari personaggi, e i loro modi di
fare, tipici peraltro di questa nuova ambientazione :) Già dal prossimo
capitolo, comunque, ricominceremo ad occuparci delle questioni centrali
dell’avventura di questa storia…
Dimenticavo,
cosa che avrei già dovuto scrivere nel precedente capitolo in effetti…: il nome
‘Valentine’ è previsto per essere pronunciato all’inglese, ovvero ‘valentain’,
ma se preferite la pronuncia letterale fate pure :)
a
Lucretia: argh! Scusa
per la svista sul nome! Evidentemente l’allergia mi rincretinisce peggio di
quel che pensavo... Comunque, appena letto la tua recensione sono volato a
correggere.
Oltre
a farmi molto piacere che ti sia piaciuto il capitolo precedente – e spero che
anche questo ti risulti gradevole -, resto colpito molto positivamente dalla
sensibilità e perspicacia che puntualmente salta fuori nelle tue recensioni,
tanto riguardo alle ambientazioni quanto – e specialmente – ai personaggi! Sono
quasi per consigliare la lettura delle tue recensioni come ‘guida’ a questo
racconto… E comunque, questa volta sono particolarmente contento perché dalle
tue parole mi sembra di potermi ritenere abbastanza soddisfatto: sembra che io
sia riuscito a rendere abbastanza come volevo certi particolari, atmosfere, e
delineamenti di personaggi e loro relazioni interpersonali. Oppure sono le tue
recensioni che risaltano tutto in positivo? ;)
Le
persone reali da cui prendono ispirazione i personaggi che animano il racconto
a partire dal capitolo scorso – Yuta e Valentine, ma manca Zoal, come hai
notato, però non posso anticipare nulla su di lei… ^^; - sono effettivamente
così: spensieratamente e naturalmente e tremendamente ‘a modo loro’ (in maniera
non studiata e calcolata, come potrebbe essere invece la natura dei modi di
altri… vero, Conte?), così come il luogo che ha ispirato la casa lilla… Benché
abbia modificato, e continui a farlo, diversi particolari specifici, quel che
mi preme è trasmetterne il nucleo fondamentale nel racconto… non voglio tradire
gli originali, in questo :)
Ah
ah ah, no, credimi, non è per fare il prezioso (o il sadico?) che non svelo
subito determinati aspetti di relazioni interpersonali, aspetti del passato, o
altro, ma perché per alcune cose mi serve spazio a livello di trama – e qui ci
sono troppe persone e cose in ballo (letteralmente, quasi) – e vorrei per il/la
lettore/trice prima far conoscere ancora meglio e un po’ più da vicino certi
personaggi, certa parte del loro passato, certe sfumature che non saltano
all’occhio così facilmente, anche perché col tempo e l’esperienza si può
diventare non poco abili a travisare o dissimulare certi aspetti di sé.
Non
ho idea se lo scorso sia il primo capitolo che non inizia con la parola
‘Danny’… e non vado a ricontrollare nemmeno io perché poi le coincidenze
casualmente significative mi intimidiscono :p In ogni caso, se è così non era
voluto :)
Deh,
capisco il rammarico per questi giorni che le stagioni sembrano tornare
all’indietro verso l’inverno… Non so com’è da quelle parti, ma qui capita
spesso che aprile faccia di queste finte. Una volta è pure venuta una
nevicatina ad aprile inoltrato, qualche anno fa. Ma poi passa sempre. Mese con
un certo senso dell’umorismo, si diverte a fare qualche tiro mancino, ma poi
deve pur cedere il passo al tempo seriamente caldo e soleggiato!
Alla
prossima, con furore (vista l’animazione di certi personaggi… )
Danny era solito essere svegliato
facilmente da ogni minimo rumore abbastanza vicino e che gli risultasse diverso
dai suoni di sottofondo che considerava non allarmanti, in quanto tipici del
luogo in cui si trovava a dormire. Quella notte, ad esempio, non di rado aveva
sentito rumori provocati da qualche gatto che si aggirava per la stanza, o
l’occasionale russare di Kumals e di Ramo.
Ma quando sentì delle voci vicine
a lui, non riuscì a riprendere abbastanza lucidità da svegliarsi del tutto,
stranamente, nonostante riuscisse persino a capire le parole, benché solo da
sveglio, più tardi, avrebbe potuto comprenderne esattamente il significato
compiuto.
«Ma guarda qui…»
sembrava la voce di Kumals, e il suo tipico tono
critico.
«Hem…
sei sicuro che sia una buona idea? Voglio dire, se io stessi dormendo non mi
piacerebbe essere svegliato in questo modo, e anzi potrei reagire piuttosto male…» era decisamente la voce di Ramo, esitante.
«Al
diavolo.» concluse Kumals, con una sfumatura decisa
di menefreghismo risolutorio.
Un attimo dopo qualcosa di freddo
precipitò addosso a Danny dall’alto, rifilandogli un brusco schiaffo scrosciante
su buona parte del corpo.
Il ragazzo si svegliò di botto, e
solo per poco non balzò subito a sedere, ancora boccheggiante per la sorpresa.
Ma gli occorse poco per capire di essere stato aggredito nient’altro che da
dell’acqua, a giudicare dalla vivida sensazione di bagnato sulla pelle e sui
vestiti inzuppati.
Qualcosa, o forse qualcuno, di
fianco a lui, e che fino a un momento prima era stato appoggiato alla sua
schiena e immobile nel sonno, si svegliò molto più bruscamente.
Danny si voltò sulla schiena,
ancora intontito dal sonno, e fu colpito dall’odore in cui era avvolto come in
un bozzolo piuttosto appiccicoso, anche se tutto sommato gradevole. Odore di
alcool, di vodka precisamente. Vodka trasudata attraverso il corpo con l’alito
e con il sudore, e che il più anonimo odore dell’acqua che gli era precipitata
addosso non valeva ad intimidire. Aprì gli occhi, e la vista gli si snebbiò
rapidamente, permettendogli di riconoscere Uthersemisdraiato di fianco a lui, e con un’espressione talmente
furente che il suo sguardo avrebbe idealmente potuto far evaporare tutta
l’acqua che avevano loro gettato addosso.
Poi distinse bene due figure che
li fissavano, in piedi di fianco al letto.
Kumals lo guardò,
evitando volutamente lo sguardo penetrante di Uther,
e abbassò le braccia con cui ancora reggeva il secchio che aveva loro vuotato
addosso. Sorrise sornione. «Ma buongiorno!» li salutò ironico.
Ramo, di fianco a lui, sembrava
avesse molta voglia di essere ovunque tranne che lì, e chiaramente temeva la
reazione di Uther, il quale, sgocciolando acqua dai
capelli, continuava a guardarli fisso.
Alla fine Ramo si schiarì la voce
e riuscì a dire «Abbiamo provato a chiamarvi, prima, e abbiamo anche aspettato
che vi svegliaste, ma visto che non c’era verso… beh,
in ogni caso è un’idea di Kumals. Io non ero del
tutto d’accordo.»
Uther si passò una
mano sulla faccia, per togliersi un po’ d’acqua o forse per svegliarsi meglio,
e allo stesso tempo poteva essere un gesto per tentare di recuperare la calma e
di non abbandonarsi né alla rabbia né all’esasperazione.
«Comunque puzzate di alcool. Una
lavata vi può solo fare bene.» puntualizzò Kumals,
che non sembrava minimamente pentito del suo gesto.
Danny continuava a cercare di
riordinare le idee.
Evidentemente si trovavano nella
cosiddetta stanza degli ospiti di Yuta e Zoal. E dal momento che non riusciva a ricordare per niente
come ci era arrivato la sera prima, e per la verità non ricordava niente oltre
il punto in cui lui e Uther avevano iniziato a
sbronzarsi seriamente e a sbagliare continuamente le carte nel gioco che
stavano facendo, qualsiasi fosse stato, optò per la ragionevole supposizione
che in qualche modo dovevano essere riusciti entrambi a raggiungere l’ultimo
letto rimasto libero e a dormirci.
Concludendo che non c’era niente
di allarmante che potesse indurlo a stare ancora sveglio molto a lungo, e visto
che tutto ciò che il suo corpo e la sua testa appesantita gli chiedevano a viva
voce era di continuare a dormire, si appoggiò un braccio sugli occhi e si
rilassò di nuovo per dormire, con un sospiro.
«Mi dispiace.» ammise infine Ramo,
nel silenzio.
«Sono le undici e tutto va male.
Quindi datevi una mossa per favore, che è richiesta la vostra presenza.» disse
invece Kumals, con piglio piuttosto seccato.
Uther bestemmiò,
chiaramente rivolto in modo particolare all’indirizzo di Kumals,
e si alzò dal letto con mosse nervose, uscendo poi dalla stanza.
«Di mattina è quasi sempre di
cattivo umore.» disse Kumals, come per
tranquillizzare Ramo.
«Particolarmente quando viene
svegliato a secchiate d’acqua, immagino.» mormorò Danny da sotto il braccio che
proteggeva gli occhi chiusi dalla fin troppo aggressiva luce che illuminava la
stanza.
«A proposito … te ne serve un’altra
o pensi di poterti alzare?» chiese Kumals. Dal suo
tono era palese che non gli sarebbe affatto dispiaciuto tornare a riempire il
secchio.
Danny sospirò di nuovo e si
decise a togliere il braccio dal viso per guardarli. «Ma che succede, si può
sapere?» chiese astioso.
«Te alzati e ve lo spieghiamo.»
disse solo Kumals, e, secchio alla mano, uscì anche
lui dalla stanza.
Rimase Ramo, a guardarlo ancora
con aria dispiaciuta, mentre Danny cercava di ricordare, sforzandosi, se la
sera prima lui ed Uther avevano fatto qualche guaio
alla casa prima di andare a dormire. Sembrò che Ramo interpretasse il suo
sguardo pensieroso, perché sorrise debolmente, divertito.
«Niente di particolarmente grave
… ma ci sono delle novità.» gli disse, mettendo a nudo per un momento un
brillio vivace negli occhi scuri «Siamo già tutti in cucina…
Beh … ti aspetto giù …». E quando Danny annuì, il ragazzo sorrise appena di
nuovo e anche lui uscì.
Danny si rimise il braccio sugli
occhi, e con la scusa che in ogni caso c’era un solo bagno, in quel momento
occupato certamente da Uther, si lasciò ricadere
mollemente verso il sonno.
Non molto dopo, tuttavia, sentì i
rumori di qualcuno che si muoveva per la stanza. E ancora pochi momenti dopo
sentì una voce bassa chiamarlo con una certa delicatezza.
«Danny.»
L’interpellato si sforzò di
riprendere ancora coscienza, trattenendo un lamento di fastidio assonnato, e
alzò il braccio per vedere. Uther, vicino al suo
letto, mani in tasca, lo guardava in paziente attesa. Per qualche motivo Danny
si sentì in imbarazzo, e riuscì pertanto ad alzarsi a sedere, guardando l’altro
interrogativamente.
«Sarà meglio che andiamo a sentire…» disse solo Uther,
serio.
«Hum …
sì, d’accordo.» rispose Danny, e, benché ancora intontito e confuso dal sonno,
si alzò dal letto e si avviò in bagno. Prima di chiudere la porta sentì la voce
di Uther già sulle scale.
«Io intanto scendo.» gli comunicò
familiarmente.
«Sì, arrivo subito…»
disse Danny, impacciato.
Aveva la sensazione che ci fosse
qualcosa di strano, che gli era parso di intuire appena: qualche indizio che
poteva afferrare se solo avesse saputo che cosa stava cercando. In ogni caso,
non ne aveva idea.
*
***
*
Scendendo al pianterreno Danny udì
per prima cosa un animato discutere collettivo dalla cucina. Quando entrò però
si azzittirono tutti, e si voltarono a guardarlo, mettendolo piuttosto a
disagio.
«Beh
… Su, non guardatemi così.» disse, con un mezzo sorriso «Che succede?»
«Buongiorno!» lo salutò
amichevolmente Valentine. «Qui c’è del caffè se
vuoi.» disse premurosamente, allungandogli una tazza.
«Non riesce a berlo nessuno
quello … L’ha corretto Uther.» lo avvertì Yuta, lanciando un breve sguardo sarcastico al nominato,
che non la degnò.
Danny prese la tazza e annusò,
riconoscendo subito un forte odore di sambuca, misto a quello del caffè.
«C’è una novità.» annunciò Ramo,
con un tono da aggiornamento, mentre Danny assaggiava con un piccolo sorso il
caffè corretto, trovandolo in effetti molto forte, e riposava la tazza sul
bancone cercando di non farsi troppo notare.
«Yuta
dice che c’è una scuola d’arte, un istituto privato, un edificio isolato nei boschi
a qualche miglio da qui.» proseguì Ramo «E riteniamo che molto probabilmente là
non sappiano ancora nulla di quello che sta succedendo in città. Oppure …»
esitò, e Danny lo guardò interrogativamente.
«Oppure lo sanno già più che bene
e si trovano nei guai.» concluse Kumals con
praticità.
«Allora dobbiamo andare là!»
esclamò subito Danny, con sicurezza.
«E’ appunto di questo che stavamo
discutendo… » accennò Yuta,
guardandosi intorno per studiare le espressioni degli altri.
«Cioè?» chiese confuso Danny «Cosa
c’è da discutere precisamente?»
«Non
siamo tutti d’accordo sul fatto di andare subito là.» spiegò Kumals, senza guardarlo.
«E
perché?» chiese quasi animatamente Danny, fissandolo.
Ma fu Uther
a schiarirsi discretamente la voce. «Non sappiamo cosa troveremo. Siamo solo in
quattro. In quella scuola ci sono molte più persone, e se sono già state tutte
prese da quel … quell’”atteggiamento” … saremo in netto svantaggio numerico,
per cominciare.»
Danny gli rivolse una breve
occhiata dubbiosa, poi chiese a Yuta «E provare a
telefonare, intanto?»
«Ci
abbiamo già provato. Non risponde nessuno.» disse Ramo.
«Nessuna possibilità che quel
posto sia chiuso?» indagò Danny «Dopotutto dovrebbero essere le vacanze di
Natale in questo periodo, o qualcosa del genere…»
«Sì, ci sono le vacanze.» ammise Yuta «Ma anche nei periodi di vacanza ci sono sempre degli
studenti che rimangono là, perché molti vengono da molto lontano, anche
dall’estero … In ogni caso ci dovrebbe essere almeno un custode. Il telefono
suona a vuoto. Non c’è nemmeno la solita segreteria telefonica attiva.»
«Come
sai tutte queste cose?» si incuriosì Danny.
«Qualche tempo fa un gruppetto di
studenti c’erano venute a trovare, credevano fossimo una specie di agriturismo,
o qualcosa di aperto al pubblico. Abbiamo chiacchierato un po’ e ci hanno detto
queste cose, suppergiù…» spiegò Yuta.
«Allora
è chiaro che c’è qualcosa che non va.» disse Danny «No?» insisté, nel silenzio
generale.
«Se ci fosse qualcuno ancora in
possesso di qualche facoltà mentale avrebbe risposto al telefono.» fece notare Uther.
Danny lo guardò con maggiore
attenzione, anche se il ragazzo manteneva lo sguardo abbassato sul tavolo,
neanche stesse parlando con esso. «Sempre che il telefono sia raggiungibile per
chi è rimasto.» ribatté in risposta.
«Esatto.»
commentò Kumals, guardando anche lui Uther.
Evidentemente Danny stava
replicando osservazioni che erano già state fatte. Si rammaricò che avessero
iniziato a discutere senza di lui, ma cercò di mandare giù in fretta la sua
delusione per concentrarsi su quello che stavano dicendo.
«Non capisco che problema ci
sia.» disse ancora «Abbiamo i nostri strumenti, ci siamo quasi tutti, sappiamo
dov’è il posto e che ci potrebbero essere seri problemi là…
cosa ci trattiene?»
«Ma noi non siamo una squadra di
recupero e salvataggio.» obbiettò Uther «E se anche
ci trovassimo di fronte a una situazione come quella che c’è in città, cosa
potremmo fare ora come ora? Non abbiamo idea di cosa stia succedendo
esattamente.»
«La maggior parte delle volte non
avevamo idea di che cosa stava succedendo prima di intervenire.» gli ricordò
Danny.
«Un po’ di strategia non
guasterebbe comunque.» insisté Uther «Se aspettiamo
l’arrivo di Zoal, che dice di avere diverse
informazioni a riguardo, potremmo poi intervenire più utilmente, invece di
buttarci alla cieca.»
Danny lo guardò più attentamente.
Non riusciva quasi a credere che Uther stesse
parlando in quel modo.
«Quando arriva Zoal?» chiese allora a Yuta, come
per evitare un confronto diretto con Uther, cosa che
sentiva comunque come imminente, e non gli piaceva.
«Probabilmente
stasera, forse domani.» disse la ragazza «Se non trova problemi lungo la
strada.»
«Siamo già d’accordo che le
andremo incontro se ci avverte quando sta arrivando.» aggiunse Ramo «Anche se,
ad ogni buon conto, sa già di dover girare il più possibile alla larga dalla città…»
«E’ molto tempo.» osservò Danny «Se
là in questa scuola c’è qualcuno nei guai potrebbe essere davvero troppo
tempo.»
Kumals annuì di nuovo,
con le braccia incrociate, concordando in silenzio. Lui e Uther
evitavano accuratamente di guardarsi, e la maggior parte della tensione che
aleggiava nell’atmosfera sembrava concentrata nello spazio d’aria che li
divideva, notò Danny.
«Sono praticamente isolati. Se
non andiamo noi non credo potranno contare su nessun’altro…»
disse Ramo, quasi in tono sommesso.
«Poco ma sicuro! Dobbiamo
andare.» aggiunse Danny. E tornò a guardare Uther in
attesa di una replica, che però non venne. Allora Danny continuò, rivolto
direttamente a lui, con calmo e serio interesse «Cosa non ti persuade?»
«E’ un’improvvisata!» sbottò Uther, infastidito per essere stato interpellato in quel
modo «E’ vero, ne abbiamo fatte di uscite nel genere in passato, ma non è che
le cose siano sempre riuscite bene, tanto per cominciare. Inoltre erano sempre
casi isolati e di breve raggio. Qui c’è tutta una città con la gente impazzita,
e se addirittura questo è arrivato anche là deve avere un raggio molto più
ampio di quello che non temevamo! A questo punto anche il tragitto da qui fino
alla scuola e il ritorno potrebbe essere da solo un serio problema. E ancora non
sappiamo come affrontare la cosa. Che facciamo se veniamo assaliti di nuovo?
Apriamo il fuoco? Se quelle persone possono essere riportate a quello che erano
precedentemente ucciderle nel frattempo non sarà loro certo d’aiuto!»
E Danny finalmente comprese. Non
era esitazione o paura ciò che frenava Uther. O non
sarebbe stato lui. Bensì il timore di non sapere come regolarsi con quel genere
di “nemico” che si trovavano di fronte. Qualcosa che non si poteva uccidere,
ferire o danneggiare in alcun modo, benché quelle persone preda di una sorta di
trance potessero nuocere eccome, pur inconsapevolmente. Ed era sommariamente
vero quello che diceva. Loro non avevano alcuna reale formazione riguardante la
diplomazia. In genere, quando erano ancora nell’”attività”, fondavano la loro
azione sull’attacco e la difesa, l’indagine tutt’al più, ma pur sempre
finalizzata a risolvere problemi che in genere necessitavano dell’eliminazione
o perlomeno dell’allontanamento o del rendere innocuo il loro “obbiettivo”. Semmai
era risultato utile contrattare, in genere non si era trattato di negoziati, ma
di chiacchierate burbere dopo che loro e i loro avversari se l’erano date per
un po’ di santa ragione, giusto per dimostrarsi reciprocamente con chi avevano
a che fare. Adesso erano di fronte a qualcosa da tenere loro lontano senza
praticamente toccarlo.
Danny si sentì stupido per non
aver considerato anche lui quelle implicazioni, e tutto il suo spirito
adrenalinico, già pronto all’azione, si sgonfiò rapidamente.
«Lo so…»
disse debolmente «Ma che altra scelta abbiamo… ?
Aspettare sarebbe ancora peggio per quelli che ancora non sono ridotti in
quello stato…»
«Sempre
che ce ne sia qualcuno là in quella scuola.» lo interruppe Uther,
mestamente.
«Questo non possiamo saperlo se
non andiamo a vederlo noi stessi.» ribatté Danny «Ma non possiamo correre il rischio…»
«Ma se aspettassimo…»
insistette ancora Uther «…anche
se quelle persone che ancora non sono state contagiate finissero a vegetare
come le altre, una volta che sappiamo come riportarle alla normalità potremo
riportare anche loro al loro stato originale.»
«Sempre che questo si possa fare… cosa di cui ancora non abbiamo alcuna certezza…» notò cupamente Danny.
Uther lo guardò. Per
un attimo gli si dilatarono gli occhi, che poi riabbassò sul tavolo con aria
afflitta. Danny si rese conto in ritardo che le sue parole, esprimenti un
dubbio che fino a quel momento nessuno aveva osato pronunciare ad alta voce,
avevano avuto un duro contraccolpo su tutti.
Nella cucina calò un pesante
silenzio, ma lui non poteva più rimangiarsi ciò che aveva detto.
Alla fine, Kumals
riprese la parola con pacata determinazione. «E’ inutile fasciarsi la testa
prima di averla rotta. Ma in ogni caso, qui non si tratta solo di “contagio”.
Quelle persone che sono già … “contagiate” … possono fare del male a chi ancora
non lo è, come abbiamo visto noi stessi l’altra sera al porto. Anche o forse
soprattutto per questo, se c’è qualcuno in quell’istituto ancora in possesso
delle sue facoltà mentali rischia grosso. Io preferirei non avere nessun’altro
sulla coscienza. Allora, andiamo?»
Tutti lo guardarono, dopo averlo
ascoltato attentamente.
Un pallido sorriso si disegnò sul
volto di Danny, che studiò quasi furtivamente le espressioni degli altri,
specialmente quelle di Ramo e di Uther.
Quest’ultimo, ancora molto
pensieroso, chiese «E che cosa dovremmo portarci dietro?»
«Vediamo…
di questo discuteremo meglio…ma…
hai ancora dei fuochi d’artificio?» gli chiese Kumals,
col sorrisetto di chi trama qualcosa.
Uther sembrò sul punto
di chiedergli maggiore chiarezza, ma un attimo dopo sembrò capire, e annuì.
«Sì.»
«E’ già un ottimo punto di partenza
…» sogghignò ancora Kumals.
«Fuochi
d’artificio?» chiese Ramo, perplesso.
«E’ una lunga storia. Te la
racconteremo strada facendo.» gli disse Danny, che aveva decisamente recuperato
gran parte del suo buonumore. Non poteva fare a meno di sentirsi molto
elettrizzato da tutto ciò. La vecchia squadra al completo stava per rientrare
in azione! Se qualcuno glielo avesse preannunciato si sarebbe offeso, pensando
a una presa in giro dolorosa. Per la verità, ancora stentava a crederci sul
serio.
Anche Yuta
sembrava in preda a forti emozioni, perché iniziò a rimettere in ordine e
pulire un po’ la cucina, azioni piuttosto insolite per lei.
«Ti do una mano.» disse Valentine, affiancandolesi.
Quello che voleva nascondere lei, era invece un’espressione preoccupata e
contrariata. Pur notandolo, Ramo non disse né fece nulla, anche se il suo viso
si rattristò e impensierì.
«Ma dove sono Justin e il Conte?»
chiese Danny, accorgendosi in quel momento della loro assenza.
«Justin sta ancora dormendo sulla
branda.» lo informò Yuta, senza voltarsi. «Il Conte
non l’ho ancora visto. Suppongo sia ancora nel suo let
… nella sua bar … nel suo giacigl … su in soffitta
insomma.»
«Ma
lui di giorno dorme, no?» osservò Ramo.
«Sì, certo.» rispose Danny «Ma
credo che andrò comunque a vedere se va tutto bene, e se è sveglio a dirgli che
andiamo via … »
«Guarda
che qui rimaniamo io, Valentine e Justin.» disse Yuta per tranquillizzarlo.
«Lascialo andare, altrimenti
toccherà a voi andare a vedere se è ancora vivo … o ancora morto.» suggerì Kumals.
«Dopo torni giù? Che dobbiamo
organizzarci.» gli consigliò Uther, alzandosi dal
tavolo e sfregandosi le mani.
Sembrava aver ripreso vivacità
anche lui, il che fece sorridere Danny, prima di uscire dalla cucina e, dopo
aver lanciato una breve occhiata alla sagoma di Justin avvolta nella coperta
sulla branda, dirigersi su per le scale, alla volta della soffitta.
Poco dopo dalla cucina sentirono
Danny ridiscendere le scale precipitosamente, e lo videro affacciarsi alla
cucina con aria ansiosa. Lo guardarono perplessi.
«Non
c’è!» disse Danny, quasi agitato «In soffitta non c’è. La bara è aperta. Dove
può essere?»
Ma tutto ciò che ebbe per risposta
fu una gamma di espressioni confuse.
Soundtrack: Underdog
(ImagineDragons)
Note dello scribacchiatore:
E
con questo, ecco qualche chiarimento riguardo alle prossime “iniziative” dei ‘4
di picche’; riguardo al nome e a qualche cos’altro,
ci saranno presto chiarimenti... Il Conte? Mah, forse è solo andato a cogliere
margherite. Sono tentato di pubblicare uno dietro l’altro due o tre capitoli,
perché in questi in particolare la narrazione mi sembra piuttosto piatta… o forse è l’effetto che da rileggerla per
l’ennesima volta a caccia di errori… Mah. Comunque
sia, non farò attendere molto per il prossimo capitolo.
Il
titolo è un omaggio ad una breve ma bella avventura avuta con certe mie
complici conoscenze, alcune delle quali hanno ispirato alcuni personaggi di
questo racconto. Il ricordo mi fa sempre sorridere... È stato un azzardo niente
male, tempo fa…
Capitolo 13 *** 11 - COME DIVENTARE UN PASSABILE ZOMBIE ***
Capitolo 11
(Come diventare un passabile zombie)
«Come sarebbe che non c’è più?»
chiese Yuta, un po’ spazientita, riferendosi al
Conte.
Lo chiese quasi retoricamente,
mentre lei e gli altri seguivano Danny che, a passo di marcia, passava dalla
cucina al salotto, per fermarsi a sovrastare la brandina in cui Justin dormiva
beatamente. Si abbassò ad abbrancarlo per una spalla e prese a scuoterlo senza
particolare scrupolo. Justin si svegliò di soprassalto.
«Il Conte…
» ripeté l’altro, ancora assonnato e confuso. «Ah, ma sarà a dormire… nelle sue stanze…»
«Avanti Justin, fai mente
locale!» lo incalzò Danny. «Siamo a casa di Yuta e Zoal, ricordi? Il Conte dormiva in soffitta, ma sono appena
andato a vedere e non c’è, è sparito. Sai dove possa essere, ti ha detto
qualcosa, qual è l’ultima volta che l’hai visto?»
Justin sbatté diverse volte le
palpebre sugli occhi cisposi, con un’espressione ancora molto lontana da quella
di chi è in possesso di tutte le sue facoltà mentali.
«Eh?
E io che ne so?» disse infine, per tutta replica alla raffica di domande.
«Ascolta…» disse Uther con calma,
rivolto a Danny «Sarà in un’altra stanza.»
«Giusto,
hai guardato in giro per la casa?» suggerì Valentine,
collaborativamente.
Danny li guardò perplesso. «Beh,
no. Ma adesso dovrebbe stare dormendo. Voglio dire, è giorno! E comunque mi
sembra strano che se ne sia andato in giro da solo senza chiedere niente a nessuno…»
«Va bene, andiamo semplicemente a
vedere nelle altre stanze.» risolse Kumals, e
precedette tutti gli altri su per le scale.
Solo Justin rimase semi-sdraiato
sulla branda, guardandoli ancora piuttosto confuso.
Di lì a poco tutti si divisero,
cercando nelle varie stanze del piano superiore.
Finché Danny non aprì una porta,
e scoprì una stanzetta ingombra di oggetti, che gli ricordò le stanze della
casa in cui aveva vissuto ultimamente; vide una televisione accesa, il cui
schermo mandava però solo un disturbo di ricezione in frizzanti righe grigie,
nere e bianche, il tutto accompagnato dal tipico rumore sfrigolante di
sottofondo.
Ma a catturare l’attenzione del
ragazzo in modo particolare fu il fatto che davanti alla televisione era
sistemata una poltrona: nonostante la vedesse dal lato dello schienale,
riconobbe alcuni sprazzi della figura del Conte, e in particolare del suo nero
mantello ridondante, assiso su di essa. Il Conte non diede alcun segno di
averlo udito.
Danny tirò un grosso sospiro di
sollievo ed esclamò «Ma sei qui!»
«L’ho
trovato! È qui!» urlò per avvertire gli altri, mentre si avvicinava alla
poltrona.
«Hey, sei sveglio?» chiese ancora, visto che l’altro non si
muoveva.
Lo raggiunse e gli appoggiò una
mano sulla spalla. «Allora, si può sapere cosa stai … ?»
Ma si bloccò. C’era qualcosa di
strano. Il corpo del Conte era singolarmente rigido, eppure egli, lentamente,
si mosse.
Ora che Danny iniziava a vederlo
meglio, comprese che c’era davvero qualcosa che non andava, e istintivamente
ritrasse la mano e fece qualche passo indietro.
Il Conte, con movimenti rigidi e
molto lenti, si alzò, e si voltò molto gradualmente verso di lui. I suoi occhi
erano vuoti e inespressivi, come ciechi, e la sua faccia era una maschera di
insensibilità immobile.
«Oh,
no… Maledizione!» si sentì mormorare Danny, prima di
rendersi conto di aver parlato.
Il Conte gli stava venendo
incontro, con passi pesanti e irrigiditi, così inusuali per lui, dal momento
che producevano persino rumore, e continuava a incespicare nell’orlo del
mantello. La bocca era semi aperta, come se stesse dormendo, o se fosse in
trance.
Allungò le mani verso Danny, il
quale continuò ad arretrare verso la porta aperta alle sue spalle, senza saper
meglio cosa altro fare, e sconvolto dalla scoperta. L’altro tuttavia accelerò
quasi bruscamente, le mani tese e le dita contorte come ad artiglio. La sua
espressione iniziò a cambiare lentamente, innaturalmente, come se qualcosa
dall’esterno la modificasse con violenza, modellandola come una maschera di
cera. I suoi lineamenti si corrugarono, e la sua bocca si piegò in una smorfia
di rabbia ebete ma travolgente, mentre gli occhi rimanevano imperturbabili.
Danny, ancora ipnotizzato
dall’orrore per ciò che stava accadendo al Conte, raggiunse la soglia della
porta nell’istante in cui il Conte raggiungeva lui, afferrandolo alla gola con
le mani, in un gesto che era più un aggrapparsi che altro. Danny perse
l’equilibrio all’indietro, inciampando nella soglia lievemente rialzata, e il
Conte inciampò nel contempo nel proprio mantello sbilanciandosi pesantemente in
avanti.
Entrambi crollarono in mezzo al
corridoio, e allora Danny iniziò a sentire che le mani attorno alla sua gola
iniziavano inequivocabilmente, anche se molto lentamente, a stringere la presa.
Sentì le unghie lunghe e laccate di nero del Conte che incominciavano a
perforargli la pelle, ed egli lo afferrò precipitosamente per gli abiti,
cercando di scrollarselo di dosso.
Ma nel corridoio c’erano ancora
tutti gli altri. Qualcuno emise un breve gemito soffocato di sorpresa, ma Uther scattò in avanti, fulmineo, e si gettò di peso
addosso al Conte, come se lo dovesse placcare. Danny sentì le mani del Conte
perdere la presa sul suo collo, mentre lui e Uther rotolavano
un paio di volte sul pavimento, lontano da lui.
Danny si rimise seduto,
massaggiandosi il collo, e spalmandosi addosso inconsapevolmente il suo stesso
sangue, quella quantità minima prodotta dai graffi delle unghie del Conte.
«Non
fargli male!» urlò alle due figure, impegnate in una specie di strana
colluttazione.
«A chi ti riferisci?» chiese
rabbiosamente Uther, e sganciò un pugno in piena
faccia al Conte, il quale non fece una piega.
Mentre Uther
colluttava nel vero senso del termine, cercando di immobilizzare l’altro, con
movimenti scattanti e alterati dalla rabbia della lotta, il Conte si muoveva
con esasperante lentezza, e con azioni illogiche, come afferrare i vestiti
dell’altro o cercare di aggrapparsi al suo naso, ai suoi capelli e così via; ma
allo stesso tempo sembrava non sentire alcun dolore, e la sua forza sembrava
persino superiore a quella di Uther, cosa assurda
considerando che invece la sua muscolatura era esile e del tutto fuori
esercizio rispetto a quella del suo avversario.
«Stai bene?» chiedeva intanto
ansiosamente Valentine, chinandosi di fianco a Danny
e appoggiandogli una mano sulla spalla.
«Ma sì, non mi ha fatto niente… è del tutto innocuo, Uther
non metterci tutta la forza o…» ma esitò, notando che
non era il Conte quello più in difficoltà al momento.
«E allora! Se non devo nemmeno
fargli male! Datemi una mano!» esclamò a denti stretti Uther,
che aveva optato per afferrare il Conte per i polsi, ma aveva serie difficoltà
a mantenere le mani e il viso dell’altro lontani da sé.
Al suo richiamo Kumals e Ramo, che fino a quel momento erano rimasti stupiti
a guardare la scena, si riscossero e si mossero rapidamente, raggiungendo i due
e aiutando Uther a bloccare i movimenti del Conte.
Occorse la piena collaborazione di tutti e tre per ottenere un buon risultato.
«Ma … anche lui … ?» iniziò a
chiedere timorosamente Yuta, guardando incredula il
Conte, immobilizzato dagli altri tre.
«A quanto pare.» rispose solo Kumals, il tono alterato dallo sforzo, mentre Danny
abbassava la testa, in silenzio.
«Hey!» lo richiamò Ramo, osservandolo «Stai sanguinando.»
«Non
è niente, mi ha solo graffiato …» rispose cupamente Danny a testa china.
*
***
*
Il Conte stava ritto in piedi,
immobile e impassibile, dietro la porta della stallo per cavalli dentro cui
l’avevano chiuso. La parte inferiore del suo corpo era nascosta dalla parte
inferiore della porta, costituita da uno spesso pannello di legno grezzo,
mentre quella superiore era visibile attraverso lo sportello superiore in
sbarre metalliche.
«Quindi … starà qui …» disse
Danny lentamente, con incertezza, guardando il Conte, che sembrava di nuovo
cieco e immoto.
«Non
vedo altra soluzione al momento.» notò con praticità Kumals.
«Mi
dispiace…» disse piano Yuta
a Danny.
Calò un denso silenzio. Infine
Danny sospirò, si avvicinò alle sbarre e si rivolse al Conte.
«Ti prometto che sarà solo finché
non troveremo una solu…» ma fu interrotto bruscamente
da due gesti quasi simultanei.
Uno fu quello del Conte, che
allungò all’improvviso le braccia in avanti attraverso le sbarre, verso di lui,
per afferrarlo. L’altro fu quello di Uther, alle
spalle di Danny, che lo agguantò per il giacchetto e lo tirò all’indietro senza
tanti complimenti, fuori dalla portata del Conte.
«Io
credo che questo sia il posto migliore.» commentò Uther
tra i denti.
Come ricordandosi di qualcosa,
Danny distolse lo sguardo molto triste dal Conte e voltò la testa a guardare Uther.
«Ti
ha fatto male, prima?»
«Tsk.»
si schernì Uther, lasciandogli andare il giacchetto.
«No, per niente.» rispose, con una breve alzata di spalle.
«Questo perché non è capace o non
sa come si tira un pugno…» notò Ramo «Altrimenti
avrebbe steso chiunque di noi … Ha una forza incredibile … E non sente dolore,
a quanto sembra, anche se gli si fa del male.»
«Però non è esente dal subire
danni.» aggiunse Kumals, guardando la faccia
impassibile del Conte «Si vede già l’ombra di un livido dove Uther lo ha colpito.»
«Cercavo di fargli solo perdere i
sensi per non dovergli fare più male.» spiegò Uther,
senza particolare rammarico.
«Ma questo non funziona…» disse pensierosamente Kumals.
«In fondo avevi ragione…» ammise, rivolto ad Uther «Sarebbe molto difficile ingaggiare un vero e proprio
combattimento con loro senza fargli seriamente del male…»
«Ma
come può essere successo?» chiese angosciosamente Valentine.
«Questo è veramente strano
infatti.» le fece eco Yuta «Insomma, cosa ha fatto
lui che noi non abbiamo fatto, per cui potrebbe essere stato contagiato?»
«Beh … lui è astemio …» disse Uther, saggiando il terreno con la prima cosa che gli era
venuta in mente.
«Se è per questo neanche Justin
ha bevuto niente ieri.» gli fece notare Ramo, con sguardo divertito.
«Stavo solo cercando di dire che
non ha bevuto e mangiato quello che abbiamo mangiato tutti noi.» specificò Uther. «In effetti ha mangiato … cioè bevuto … solo quel sangue.
Forse è quello che era contaminato. Lo prende dal macellaio giusto? Forse c’era
qualcosa nella carne, un virus, tipo BSE*…»
«Non credo…»
lo interruppe Danny «Lui il sangue lo va a prendere in grandi quantità una
volta ogni tanto, e poi lo conserva. Quello doveva essere di almeno una
settimana fa. Non avrebbe senso, considerato che tutte le persone in città
hanno iniziato a manifestare l’altro ieri, circa, e lui con il sangue di una
settimana fa appena lo ha bevuto … e poi tutti in una volta quelli della città
… non ha senso …»
«Dev’esserci qualcos’altro che ha fatto solo lui.» disse
Ramo.
«Ah, beh, se è per questo ci sono
un mucchio di cose che quasi nessun’altro farebbe!» commentò con sarcasmo Kumals «Tipo dormire in una bara, dormire solo di giorno,
andare in giro con un lungo mantello nero, e …»
«La televisione!!» gridò Danny,
facendo sobbalzare tutti, che poi lo guardarono con espressioni stupite.
«La
televisione … ?» ripeté Ramo, incerto.
«E’ vero!» disse Yuta come se avesse avuto una rivelazione «E’ l’unico che
siè messo a guardarla prima, e tutto da
solo. Però … non funzionava nemmeno …»
«Questo è difficile da dire.»
ribatté Danny «Potrebbe aver schiacciato pulsanti a caso sul telecomando quando
ha iniziato a cadere in questa specie di trance, e aver selezionato un canale
che non prende … ma … in ogni caso! È l’unica cosa che ha veramente fatto che
nessun’altro di noi … Insomma, io non guardo la televisione da parecchio.
L’altra sera abbiamo visto solo una videocassetta.»
«Aspetta solo un momento, stai veramente
dicendo che …» iniziò ad opporsi ragionevolmente Kumals.
«Qualcuno di voi ha guardato la
televisione di recente?» lo interruppe con urgenza Danny.
Tutti scossero la testa o dissero
di no.
Alla fine anche Kumals sospirò e ammise «No. Ma questo non vuol
necessariamente dire che…» continuò a tentare di controribattere.
«Comunque, per sicurezza da
questo momento non la guarderemo più.» lo interruppe nuovamente Danny, con
decisione.
«Va bene, non credo comunque che
nessuno di noi qui si sarebbe messo a guardare la televisione, già non lo
facciamo praticamente mai, figuriamoci in questo frangente.» osservò Yuta.
«Tranne
che … dov’è Justin?» chiese Danny, aggrottando la fronte.
«No,
eh? Non di nuovo.» incominciò a protestare Kumals.
«L’ultima volta che l’ho visto, e
che gli ho spiegato cos’era successo…» lo informò Valentine «…era su nel corridoio…»
La ragazza fece appena in tempo a
finire di parlare che gli altri, dopo essersi lanciati brevi occhiate
reciprocamente, si erano lanciati di corsa fuori dalla stalla e dentro casa,
quasi incastrandosi nelle porte nella foga.
Corsero su per le scale, e poi
verso la stanza dove avevano trovato il Conte.
Il primo a precipitarsi dentro,
che aveva distanziato di qualche metro gli altri, fu Danny, e si lanciò subito
quasi addosso a Justin, il quale stava girando i canali col telecomando
cercandone uno che prendesse la ricezione. Danny gli strappò di mano il
telecomando, individuò frettolosamente il tasto di spegnimento e lo pigiò con
forza. La televisione si spense.
«Hey!» protestò Justin, indignato «Ma che ti piglia?»
Tra gli altri che erano
caracollati dentro la stanza avanzò Ramo, a grandi passi. Raggiunse la
televisione, alzò sopra la testa la mazza che impugnava e la abbatté sullo
schermo dell’apparecchio, che si incrinò. Il ragazzo ripeté l’operazione altre
due o tre volte, finché non mandò in frantumi lo schermo. Subito dopo si
accorse del silenzio che lo circondava, e si voltò a guardare le facce attonite
degli altri, mentre riprendeva fiato.
Cogliendo i loro sguardi sorpresi
si imbarazzò, tornò a guardare lo schermo rotto e abbassò lentamente le braccia
con la mazza lungo i fianchi.
«Hem … scusate … credo di essermi lasciato un po’ prendere…»
«Sì,
credo anch’io.» non gli fu d’aiuto Kumals.
«Forse
bastava spegnerla.» sogghignò divertito e ammirato Uther.
«In
ogni caso non la guardavamo mai…» disse Yuta, accennando un’intenzione di conforto.
«Maledizione!» si sfogò Danny,
lanciando per terra con forza il telecomando che aveva ancora in mano, giusto
per sfogare il suo nervosismo e la sua frustrazione.
Justin continuava a spostare lo
sguardo perplesso e spaventato dall’uno all’altro.
«Ma … siete tutti impazziti?»
chiese infine debolmente.
Dopodiché, si ritrovò a
considerare con esitante preoccupazione la folla di sguardi irritati e
corrucciati che si erano fissati su di lui con una certa insistenza. Deglutì.
«Mi sono perso qualcosa…?»
Con sua sorpresa, questo non
migliorò affatto la natura delle occhiate eloquenti che gli erano rivolte.
* meglio conosciuto come ‘morbo della mucca pazza’
Soundtrack: ‘The sunalwaysshine on T.V.’ (Milk.Inc.)
Note dello scribacchiatore:
Ebbene, uno in meno…. No, intendevo di capitoli, uno in meno da pubblicare
online…Al
prossimo forse sapremo qualcosa in più sui ‘4 di picche’.
Se non altro, un po’ d’azione vera e propria è tornata, direi, proprio prima
che mi venisse la tentazione di picchiettare discretamente sulla spalla di
qualche personaggio per ricordargli cosa ha creato il contesto per le loro
allegre reunions. Bien, al
prossimo capitolo.
A Lucretia: oilà! :) Dunque, mi dispiace
per quel ‘te-soggetto’… il fatto è che Kumals non
poteva esprimersi diversamente senza perdere efficacia, direi. Quel ‘te’ è
espressivamente burbero e diretto, almeno per come lo si sente usare da queste
parti. La storia della sensazione di inferiorità nella lingua italiana da parte
di qualcuno che vive/è nat* più a sud delle zone dove
vivo non mi è nuova, anche se è una triste faccenda…
In compenso, qui si prova un certo fastidio verso i dialetti ancora più a nord.
Io, ad esempio, mal sopporto l’articolo per i nomi propri (la Francesca, lo
Stefano) tipicamente milanese, e trovo sgradevole il dialetto bergamasco,
almeno in alcune accentazioni… però, tanté, in fondo a forza di condividerseli con gente da
tutta Italia o giù di lì, questo multilinguismo è particolarmente bello secondo
me, almeno, a me piace assai ;) E’ vero anche che da noi c’è il processo
inverso: che si perdono tantissimo i dialetti locali…
sai com’è, i miei nonni lo sanno bene il dialetto, i miei genitori abbastanza
da parlarlo come lingua parallela, io lo capisco bene, ma se devo parlarlo non
vado oltre qualche breve espressione basilare. Insomma, mi sembra triste anche questo… Personalmente, mi piacerebbe essere bilingue e
sapere anche il dialetto abbastanza bene…e in realtà ormai parlo una specie di mischione tra vari dialetti/accenti e modi di dire di varie
zone ^^
Riguardo alle
osservazioni sui personaggi, le trovo molto azzeccate, almeno in base a quello
che si è saputo e che è trasparso di loro fino ad ora ;) Il fatto è che,
comunque, i componenti dei ‘4 di picche’ sono ancora
un po’ arrugginiti, mi sa. E mentre da parte di qualcuno la ricostituzione del
gruppo può essere prima di tutto qualcosa di piacevole, altri forse sono meno
convinti. Beh, ognuno avrà i suoi motivi personali e generali e le sue impressioni… si vedrà. :)
Capitolo 14 *** 12 - ALMENO UN QUATTRO DI PICCHE ***
Capitolo 12
(Almeno un quattro di picche)
Nel salotto risuonava la musica
di un’audiocassetta, spandendo ‘Ready to go’ dei Banana Republic.
«Mah, ma chi l’ha messa su
questa?» chiese Danny, a nessuno in particolare, piuttosto criticamente. Mentre
lo diceva finiva di inserire l’ultimo proiettile nella sua seconda pistola, con
una mossa rapida e scattante chiudeva il caricatore, e se la sistemava
nell’apposita custodia che teneva legata alla
cintura.
Gli altri presenti erano troppo
occupati in qualcosa per rispondere.
Ramo agitava in aria la sua mazza
di legno grezzo, facendola roteare e riprendendola al volo, apparentemente
senza motivo, ma provando qualche mossa come per riprendervi confidenza.
Kumals si stava arrotolando una
sigaretta.
Justin, seduto sul divano, li
guardava con curiosa attenzione. «Quindi io non vengo?» chiese, un po’
dispiaciuto.
«Cielo,
no!» rispose d’impulso Kumals.
«Hem… meglio di no, Justin.»
spiegò, più diplomaticamente, Danny «Noi ci abbiamo già avuto a che fare con
questo genere di… cose…»
«Hum…»
mugugnò indeciso Justin «Ma davvero voi… cioè, davate la caccia agli spettri?»
Kumals lo spiò con la coda
dell’occhio per un momento, infastidito.
«Beh… sì… non proprio ‘davamo la
caccia agli spettri’ ma… una specie…» rispose Danny, evasivo e piuttosto
imbarazzato.
«Ah…» disse solo Justin, ma si
vedeva che era immerso in sue riflessioni assorte. «Come i Ghostbusters?»
«Quello
era un film!» sbottò Kumals, mentre Ramo ridacchiava.
«Lasciamo
perdere.» tagliò corto Danny.
«Ma
avrete un sacco di cose da raccontare!» protestò Justin.
«Forse. Non adesso comunque.»
cercò di placarlo Danny, guardando con preoccupazione gli occhi sfavillanti di
interesse dell’altro.
Proprio in quel momento,
fortuitamente, Yuta e Uther scesero le scale, reggendo in due un grosso
scatolone.
«Beh?» disse Kumals, guardando lo
scatolone e le espressioni dei due, quella di Yuta maliziosa e quella di Uther
ammiccante.
«Avreste dimenticato una cosa
importante.» esordì Yuta, mentre appoggiavano per terra lo scatolone. Nonostante
la viva impazienza sul suo volto, Uther lasciò che fosse la ragazza a chinarsi
di fianco allo scatolone, ad aprirlo e a trarvi fuori uno per uno tre
indumenti.
«Oh,
no…» protestò con debole imbarazzo Kumals, trattenendo però a stento un
sorriso.
«Oh sì! Eccome.» ribatté Yuta,
contenta «Ricordate? Questi fanno parte dell’equipaggiamento basilarmente
necessario.»
«Cosa
sono?» chiese Justin, curioso.
Nessuno prese in considerazione
di rispondergli, ma Danny e Ramo si erano avvicinati allo scatolone, e loro due
e Uther presero ognuno uno degli indumenti, alzandoli nella luce, rigirandoli,
studiandoli.
Danny scosse un paio di volte il
suo, per liberarlo dalla polvere, e Justin si trovò a fissare un giacchetto
sportivo corto, di jeans nero. Sulla schiena era stata cucita una grossa toppa:
sullo sfondo bianco spiccava in grande il nero simbolo delle picche delle carte
da gioco.
Come Danny, anche gli altri
tolsero un po’ di polvere dai loro, una sorta di bomber quello di Uther, e una
giacca in tessuto grezzo dai bordi sfilacciati e senza maniche quella di Ramo.
Anche su queste due spiccava un’identica toppa sulla schiena.
«Non vorrete metterle davvero?»
disse Kumals, fingendo indifferenza. Ma si era dimenticato di accendere la sua
sigaretta, e continuava a guardarli con un certo interesse, quasi
d’aspettativa.
Gli altri tre lo fissarono con
diverse espressioni esitanti. Poi, lentamente ma esplicitamente, Danny sorrise,
un sorriso contento di sfida, e indossò il suo giacchetto, muovendo le spalle
per assaggiarne l’elasticità, e trovando che gli andava ancora a pennello come
misura. Uther e Ramo sorrisero anch’essi, e indossarono i loro.
«Bene…» disse Kumals, con un tono
di semplice constatazione, e si accese la sigaretta, ostentando ancora una
forzata indifferenza.
Dalle labbra di Yuta eruppe una
breve risata, cristallina e vivace.
«Perché
il simbolo delle picche?» chiese Justin.
«Ah, sì. Dunque…» disse Yuta,
come se avesse aspettato l’occasione di spiegarlo a qualcuno «Non ricordo bene
com’è nata… ma una sera si scherzava dicendo che non valevano un due di picche.
Ma siccome sono in quattro, in fondo sono almeno un quattro di picche.»
«Et
voilà.» terminò Kumals, sarcastico.
«E
tu non ne hai uno?» chiese Justin, guardandolo.
Kumals gli lanciò una breve
occhiata irritata. «No.» rispose lapidario.
«Avanti
Kumals, alzati in piedi.» lo spronò Danny, ghignando.
«Se
succede lo sentirò.» obiettò Kumals.
«Ma
non ci dirai niente.» lo criticò Ramo, deluso.
«Può
darsi.» concluse Kumals, pacifico.
Mentre lui fumava la sua sigaretta,
Yuta, Ramo, Danny e Uther si scambiarono in silenzio alcuni sguardi d’intesa.
Quindi, rapidamente, si gettarono tutti e quattro in avanti, quasi all’unisono,
afferrando Kumals per le braccia.
«Hey, fermi!» fece appena in
tempo a protestare lui, ma ormai la loro forza era stata sufficiente per
tirarlo in piedi di peso. Dopo di che, mentre Ramo e Uther lo tenevano fermo,
Danny e Yuta gli girarono intorno e presero a osservare attentamente la schiena
del suo grosso e lungo pastrano.
«Allora?»
chiese Ramo.
«No,
ancora niente…» scosse la testa Yuta, delusa.
«Ma
che succede?» chiese confuso Justin.
«Ah, no, aspettate!» esclamò
all’improvviso Danny con entusiasmo, e Ramo e Uther tornarono a rinsaldare la
presa sulle braccia di Kumals, che aveva un’espressione assai irritata, ma
aveva smesso di dibattersi, mostrando una rassegnazione un po’ sdegnosamente
paziente.
«Sì!
Sì, eccolo qua!» gridò Yuta.
Justin, scontento dell’assenza di
qualcuno che gli spiegasse cosa accadeva, si affiancò a Danny e Yuta e spiò il
cappotto tra le loro spalle avvicinate. Rimase di stucco. Il tessuto si stava
muovendo da solo!
Come se avessero preso vita, in
una delimitata zona sulla schiena del cappotto i fili si muovevano, scorrendo
serpentini attraverso il loro intreccio reciproco, e cambiando gradualmente
colore. Alcuni si fecero di un bianco sporco, grigiastro, altri di un nero cupo
e marroncino, difficilmente distinguibile dal colore originale dell’intero
cappotto. Finché, lentamente, comparve un accenno di disegno su tessuto, come
un tatuaggio un po’ rovinato dal tempo sulla simil-pelle consunta
dell’indumento: una carta da gioco, il simbolo delle picche.
«Sì, c’è.» disse piano, quasi
riverenzialmente, Danny.
Soddisfatti, Ramo e Uther
mollarono le braccia di Kumals e anch’essi gli girarono attorno per guardare il
simbolo comparso dal nulla, scostando senza troppi complimenti un Justin
rimasto attonito e quasi boccheggiante.
Non appena riprese la parola
eruppe in un sonoro «Grande! Incredibile! È un trucco?»
Kumals si voltò per guardarlo
male, e per sottrarre lo spettacolo dagli occhi degli altri.
«Va
bene. E adesso possiamo andare?» domandò piuttosto severamente.
*
***
*
Quando uscirono dalla casa,
trovarono Valentine e Tirch. La ragazza lanciava un bastoncino che il cagnetto
si divertiva un mondo a correre a recuperare, anche se poi non gli era del
tutto chiaro che era necessario che lo restituisse a lei perché potesse
lanciarglielo di nuovo.
Udendoli, Valentine si voltò
verso di loro e li guardò con un’espressione seria, anche se si sforzò di
sembrare amichevole.
«Allora
siete pronti?» domandò.
«Sì…» disse Danny esitante,
spiando di sottecchi l’espressione della ragazza e quella di Ramo, divenuta
altrettanto seria.
«Se ci dai le chiavi noi intanto
andiamo alla macchina a caricare le nostre cose intanto.» aggiunse quasi
precipitosamente, rivolto a Ramo.
Questi, senza quasi distogliere
lo sguardo da Valentine, annuì, si tolse le chiavi della macchina dalla tasca e
le lanciò a Danny, che le afferrò al volo. Un momento dopo Kumals gliele prese
dalle mani. Danny lo guardò interrogativamente.
«Se
le tieni tu saresti capace di perderle da qui alla macchina.» gli spiegò
Kumals.
«Addirittura!» protestò Danny, ma
poi notò che Kumals era riuscito a far sorridere brevemente tutti, Ramo e
Valentine compresi.
«Va
bene, credo che io rimarrò qui…» disse Yuta, significativamente.
Kumals si voltò a guardarla
intensamente, le si avvicinò e le diede un bacio sulla guancia, quasi senza
toccarla.
«Grazie.» mormorò, così piano che
probabilmente lo udì solo Danny, a parte la stessa Yuta.
Uther, fucile in spalla, si avviò
verso la macchina, seguito da vicino da Danny e Kumals. Ramo rimase indietro, e
raggiunse Valentine, che aveva ripreso a giocare con Tirch come nulla fosse.
«Ho visto che hai preso le pistole.»
disse Uther dopo un po’ a Danny «Ero rimasto che dobbiamo cercare di non ferire
nessuno… »
«Sono
proiettili adatti.» spiegò Danny «Tu piuttosto! Il fucile?»
«Mica ci sparo solo con questo.»
ammiccò Uther, e si sistemò meglio in mano il piccolo scatolone con i fuochi
artificiali che trasportava. «Ma… Valentine non mi sembra molto contenta. La
solita storia… ?»
«Già…»
rispose brevemente Danny, con aria abbastanza angustiata.
Poco dopo, mentre gli altri tre
già si stavano sistemando nell’auto, arrivò anche Ramo. Senza dire niente,
anche se la sua espressione chiusa e molto seria era più che eloquente, si
sedette al posto di guida.
Mentre la macchina partiva,
sobbalzando sulle irregolarità della strada sterrata, poco più che un sentiero,
Danny passò a Kumals, seduto al posto del passeggero, un’audiocassetta,
facendogli segno di metterla su. Kumals gli lanciò una breve occhiata dubbiosa,
ma inserì la cassetta e fece partire l’autoradio. Ramo spiò la sua mossa e
guardò Danny attraverso lo specchietto retrovisore.
«Che
cos’è?» chiese.
«Un
po’ di musica.» rispose solo Danny.
«Grazie mille, l’avevo capito,
dai volevo dire…»
Ma fu interrotto dall’inizio di
‘Timebomb’ dei Rancid.
«Musica
di Danny.» specificò Kumals, sardonico.
Ramo sospirò brevemente,
sorridendo, e passò un foglietto di carta a Kumals. «Tieni, vedi se ci capisci qualcosa.»
«Cos’è?»
domandò Kumals, ancora prima di dispiegarlo e iniziare
a leggerlo.
«Yuta
ci ha disegnato una piantina per arrivare a quella scuola.»
«Bene.»
commentò solo Kumals.
Poco dopo, nell’abitacolo
dell’auto risuonò chiaramente il rumore frizzante di una lattina che veniva
aperta. Kumals non ebbe bisogno di spiare nello specchietto retrovisore per
vedere Uther iniziare a generose sorsate una lattina di birra, e passarla poi a
un felice Danny.
«E’ davvero crudele bere mentre
qualcuno sta guidando, e non può quindi unirsi.» osservò scherzoso Ramo.
«Nah, avanti, mica troveremo la
polizia qui in mezzo.» lo invitò Danny allegramente, allungandogli la lattina.
*
***
*
«Sembra tranquillo.» osservò
pensosamente Ramo, visto che da un bel pezzo nessuno diceva più niente.
Abbandonata la macchina a una
certa distanza, per non palesare immediatamente la loro presenza, avevano poi
dovuto camminare per qualche centinaio di metri, nel bosco, prima di trovarsi
ai margini di una piazzola asfaltata. Una strada asfaltata, che a quanto pare
loro avevano mancato, terminava lì, precisamente davanti a un cancello
puramente ornamentale, sulla cui parte superiore le sbarre che lo costituivano
si articolavano a formare la scritta variopinta di diverse vernici chiazzate a
libero casaccio: ‘Welcome’.
Se non fossero stati piuttosto
tesi e impegnati nel cercare di sondare tutto il sondabile dell’ambiente,
rimanendo ancora precauzionalmente celati negli ultimi sprazzi di vegetazione
boschiva al bordo della piazzole in cui sorgeva la costruzione, probabilmente
sarebbero già volate diverse battute scorrette riguardo alle manie degli
artistoidi o sedicenti tali.
«Anche troppo tranquillo.»
precisò Kumals in tono sommesso, gli occhi fissi, come quelli degli altri,
sull’edificio semplice della scuola.
Per contenere tutto il genio
creativo che proclamava nelle sue intenzioni, l’edificio era piuttosto banale.
Di nuova fattura, non era altro che un grosso parallelepipedo con finestre e
una sola grossa porta centrale, almeno per quanto riguardava la facciata
principale, che ora stavano fissando, al riparo dalla vista grazie alla
boscaglia che premeva agli orli dello spiazzo, al di fuori della quale non si
erano ancora avventurati.
«Probabilmente
ci sono altri ingressi.» osservò Uther.
«Sicuramente.»
lo corresse Kumals.
«L’importante
è che abbia quattro lati.» disse Danny.
Gli altri si voltarono a
guardarlo piuttosto perplessi e interrogativi.
«Beh,
uno a testa, no?»
Uther e Ramo gli sorrisero
appena, piuttosto divertiti, ma trattenuti dalla tensione della situazione.
«D’accordo… quindi hai già
un’idea su come procedere?» gli domandò Kumals, guardandolo come se lo stesse
mettendo alla prova.
«Le due alternative sono
andarcene tutti dentro alla meno peggio dalla porta principale… e se c’è
qualche intoppo oltre di essa, ci finiremo tutti dentro in un sol colpo.
Piuttosto che rischiare lo scacco matto così… sarei per prenderci un lato a
testa, entrare dai diversi lati... e poi il primo che ha problemi chiama i
rinforzi.» ragionò Danny, osservando l’edificio con uno sguardo da cacciatore
impaziente.
Gli altri, che gli conoscevano
quello sguardo addosso molto bene, non batterono ciglio. Ma si poteva rimanere
piuttosto inquietati, se si notava per la prima volta sul suo viso, dalle
espressioni spesso vivaci e quasi naif, quello scintillio da predatore che gli
rendeva lo sguardo tagliente, colmo di un primordiale istinto feroce.
«Non abbiamo mezzi per mantenerci
in contatto. Cioè, niente walkie-talkie o roba del genere.» gli ricordò Kumals.
«E’ vero…» borbottò Danny,
riassumendo un’espressione delusa, quasi infantile, come se gli si fosse
rovinato tutto il divertimento.
«Però
questa è una scuola, tra l’altro di recente costruzione pare…» continuò Kumals.
Fu il suo turno di essere
guardato interrogativamente dagli altri, attenti.
«Ritengo quasi sicuro che sia
perciò zeppa di sistemi d’allarme… rivelazione fumo per gli incendi… o anche
solo quelle levette da muro da tirare in caso di emergenza.»
«Di cui potremmo servirci.»
completò Ramo «Però così non possiamo segnalarci reciprocamente la nostra
posizione all’interno dell’edificio…»
«Già. Ma una volta che qualcuno
ha messo in funzione l’allarme, è chiaro che è nei guai. E a quel punto gli
altri devono mollare tutto e andare a cercarlo per dargli manforte. Se non sono
già nei guai per conto loro…» prospettò cupamente Kumals.
«Io
pensavo di non entrare.» disse Uther.
Lo guardarono.
«Ecco, se qualcuno viene fuori,
tanto vale che io veda che succede da qui. Inoltre pensavo che, prima che
entriate, sarebbe bene organizzare un piccolo spettacolo pirotecnico. Se c’è
qualcuno che è già mammaluccato, sarà tutto impegnato a guardare i fuochi,
piuttosto che darvi noia mentre fate un giretto dentro.» spiegò.
«Questa
mi piace!» concordò Danny, recuperando un certo ottimismo.
«Se vengono tutti addosso a te,
qui, però, saresti da solo.» osservò Kumals, guardandolo seriamente.
«Beh, ma io mica sto ad aspettare
che mi vengano a prendere.» disse Uther, l’espressione ammiccante «Quelli sono
di una lentezza spaventosa, in fondo.»
«Ora che ci penso…» mormorò
Danny, e prese a frugare nelle tasche del giubbetto e dei pantaloni, finché non
ne cavò alcuni proiettili di grossa foggia e dal colore vivacemente rosso.
Avevano un aspetto troppo singolare per assomigliare in alcun caso a
convenzionali proiettili d’arma da fuoco. Ma le sue pistole, in particolare una
di esse, era modificata per poterli utilizzare a meraviglia.
Li mostrò agli altri con un
sorrisetto trionfante.
«Sono ‘da segnalazione’. Sparano
una sorta di piccolo razzo che sale verso l’alto e fa un piccolo fuoco… niente
di serio per la verità… ma nel caso uno si trovi in grossi guai, può sempre
spararne uno contro una finestra, rompendola. Se non c’è troppo altro rumore,
quello del vetro rotto ci segnalerà all’incirca la sua posizione.»
«Per
usarli però servono le pistole…» osservò Ramo, abbacchiato.
Danny alzò brevemente le spalle.
Tirò fuori una delle pistole, aprì il caricatore, e sostituì uno dei proiettili
con quelli speciali che aveva appena illustrato. Richiuse il caricatore, e
guardando gli altri la alzò un po’ in alto.
«Chi
la vuole?» domandò, sorridendo.
«Credevo servissero a te.» disse
retoricamente Kumals, alzando appena un sopracciglio e guardandolo poco convinto.
Danny alzò di nuovo le spalle.
«Me la cavo benissimo con una.
Mica sono la mia unica risorsa.» ricordò agli altri, ammiccando. «E comunque,
purché me la trattiate bene, s’intende… se me la perdete là dentro dovrete
tornare a cercarla.» annunciò.
Vedendo che faceva sul serio,
Uther parlò per primo, per dargli maggiore credito.
«Io
sono a posto.» disse, dando una piccola pacca al calcio del fucile che teneva a
tracolla.
«Io
non la voglio, grazie. Non ci andrei d’accordo.» si risolse a dire Kumals.
Rimase Ramo, a fissare incerto la
pistola e il viso di Danny. «Beh, hem… ma… sei sicuro?» domandò, titubante.
«Assolutamente.»
sorrise Danny, allungandogliela.
Ramo trafficò per sistemarsi la
pistola nella cintola dei pantaloni, dopo che Danny gli aveva brevemente
spiegato il minimo indispensabile su come togliere e mettere la sicura, e su
come mirare appena a nord-est del bersaglio per correggere il tiro un po’
mancino della sua pistola, gli altri tornarono a fissare l’edificio.
«Ci
sono ben cinque macchine parcheggiate qui.» osservò ancora Kumals.
«Questo significa,
sostanzialmente, che dovrebbero esserci almeno in cinque là dentro…» mormorò
Danny, scontatamente.
«Bene.» disse semplicemente Ramo,
che era riuscito a sistemarsi la pistola e sembrava piuttosto soddisfatto.
Calò un breve silenzio.
«Certo che… era da parecchio che
non vedevo una scuola da così vicino…» osservò Danny, quasi riflettendo ad alta
voce.
«Già.»
sottoscrisse Ramo.
«Le scuole sono solo una specie
di prigione alternativa.» commentò Uther con un’alzata di spalle, come se la
cosa non lo riguardasse affatto.
«Bene… e ora che abbiamo tutti
espresso le nostre opinioni a proposito del sistema scolastico… che ne direste
di darci da fare?» disse Kumals, piuttosto burberamente.
«Pienamente
d’accordo.» disse Uther, e si chinò a raccogliere la sua scatola di fuochi
artificiali.
Stava già per filare via per
guadagnare la sua posizione, quando Danny lo fermò mettendogli una mano sulla
spalla. Uther si voltò a guardarlo interrogativamente, un po’ deluso per essere
stato interrotto sul più bello, quando l’adrenalina iniziava a scorrere
frizzante, subito prima dell’azione.
«Rimango a coprirti le spalle
finché non avrai sistemato tutti gli accidenti.» gli disse Danny «Li devi
mettere in campo aperto, no? Dove possano vederli per essere attirati…»
«E anche per evitare di appiccare
il fuoco al bosco.» fece notare Uther, sorridendo piuttosto divertito.
«D’accordo.» s’intromise Kumals,
con un lieve velo d’irritazione nel trovarsi escluso dalla pianificazione «Ma
poi non metterci una vita a raggiungere la tua posizione… A proposito: che lato
vuoi?»
Soundtrack: Blitzkrieg Bop
(Ramones)
Note dello scribacchiatore:
Lo
scribacchiatore è al momento semi assente. Sta tornando indietro con la memoria
a quella volta che un gruppo di studenti tedeschi vennero in visita, ospiti di
qualcuno di quei programmi di scambio tra classi scolastiche, e alcuni di loro
si fermarono qualche ora a seguire una nostrana lezione di tedesco. Dal momento
che si chiacchierava furtivamente d’altro, lezione natural-durante, uno di loro
osservava come la nostra classe sembrasse una prigione (l’edificio ha o almeno
aveva delle inferriate di quelle vecchie, spesse e di ferro, ad alcune finestre
del piano semi-interrato, forse rimasuglio del vecchio convento che è stato
prima di diventare una scuola con una mentalità generale ancora praticamente da
convento). E lo scribacchiatore pensava che il tizio stesse citando, tra l’altro,
i ‘Sex Pistols’. Morale: se si ha un problema con le citazioni, non è detto che
la persona con cui state parlando abbia lo stesso problema. A quel punto,
comunque, lo scribacchiatore aveva già iniziato a canticchiare tra sé e sé la
canzone, mentre spiegava in inglese al tedesco impressionato che, oltre che
assomigliare ad una prigione, quella scuola assomigliava anche ad un convento.
Tutto questo è collegato nel sostenere il sospetto che lo scribacchiatore
avesse l’abitudine di prendersi qualche cicchetto o caffè corretto fin dalla
tenera mattinata, in via preventiva, prima di mettere piede –se proprio – nelle
celle (nel multiplo senso di celle da monastero e di celle di galera) della
cosiddetta scuola.
Ah,
comunque, al prossimo capitolo. Con i fuochi artificiali. ;)
Fissando intensamente la porta,
come non aveva mai smesso di fare negli ultimi istanti, Danny prese un respiro
profondo, caricò i muscoli che gli occorrevano, e si tenne pronto, cercando di
evitare che la tensione che gli teneva tesi i nervi iniziasse anche a
logorarglieli troppo rapidamente.
Ancora qualche istante, e l’aria
silenziosa fu lacerata da un fischio penetrante. Ancora prima che fosse seguito
da uno scoppiettio festoso di fuoco d’artificio, al quale si sovrappose quasi
subito un altro fischio acuto prodotto dai fuochi successivi, Danny si era
mosso con un fulmineo scatto.
Aveva già provato prima, molto
piano e silenziosamente, la maniglia della porta laterale dell’edificio,
scoprendo, senza troppa sorpresa, che era chiusa. Quindi ora non perse tempo, e
le rifilò direttamente un forte calcio. Gliene occorse solo un altro, un po’
più forte, per farla spalancare, tra il rumore della serratura che andava in
pezzi.
Immediatamente scattò un forte
rumore lamentoso, quasi assordandolo, e facendolo sussultare.
Un allarme.
Probabilmente si trattava di una
porta di sicurezza in caso di emergenza, con annesso allarme. Non ci voleva.
Danny masticò un’imprecazione tra sé e sé, ed entrò nel corridoio, sprofondando
in una densa e silenziosa penombra. Mentre vi si inoltrava, rapido e
silenzioso, ma con il corpo teso a percepire qualsiasi segno di altrui
presenza, maledisse una seconda volta l’allarme, che gli riempiva il fine
udito, impedendogli di ascoltare se c’erano altri rumori. Perciò si affidò alla
vista e al fiuto.
La prima non gli disse niente di
che. Si trovava semplicemente in un lungo corridoio, su un pavimento coperto da
un tappeto decorato con stampe di quadri che non si soffermò nemmeno per un
istante ad osservare, stretto tra due pareti color pesca, piene di quadri e
disegni, alcuni veri e propri murales dalla vernice vivace e lucida. Sul
soffitto, notò brevemente, erano attaccate luci al neon, tutte spente.
L’odore gli disse qualcosa di
più, ma di altrettanto generico: un sentore di qualche detersivo aromatico,
sopra al quale spiccava odore di persone, di vernice, acquerelli, solventi
chimici, fumo di sigaretta, ed altro che non riuscì a distinguere con
precisione. Ma, sopra a tutto questo, l’aria era in parte satura di un sentore
di polvere, come se il luogo non fosse frequentato da almeno qualche giorno.
Non era sicuro se questo fosse o meno un brutto segno.
Avanzò di qualche rapido passo,
tenendo accuratamente d’occhio specialmente le porte laterali, quasi tutte
chiuse. Poi si fermò di botto, incerto.
C’erano delle sagome lungo il
corridoio, più avanti. Quelle degli estintori affissi alle pareti le aveva
riconosciute subito, e lasciate da parte rispetto alla sua concentrata
attenzione; ma quelle più avanti, calate pesantemente nella penombra, avevano
forme più dubbie. Immobile, le studiò attentamente, stringendo più forte il
pugno attorno all’unica pistola che aveva tenuto con sé, al momento armata di
proiettili di gomma.
Dopo qualche lento secondo, mano
a mano che la sua vista si abituava alla penombra, distinse meglio quelle
sagome, e i suoi nervi si distesero un poco. Erano statue e sculture,
disseminate qui e là appresso alle pareti. Questo, tuttavia, lo portò a fare
uno schiocco di fastidio con la lingua. Un altro elemento di disturbo non da
poco, che si assommava all’insistente lamento dell’allarme che si era lasciato
alle spalle. Si arrischiò a rivolgere parzialmente la schiena al corridoio che
gli stava davanti, per fissare accigliato l’aggeggio che continuava a suonare.
Eccolo lì, un affare metallico
poco al di sopra del vano della porta. Volendo avrebbe potuto romperlo in un
istante. Tuttavia, un’altra idea lo colse. Se le persone che erano già state
colpite da quella specie di “ammattimento collettivo” mostravano, tra gli altri
sintomi, un notevole interesse per ogni cosa luminosa/colorata e/o rumorosa,
quell’allarme avrebbe potuto attirarli come una calamita. Tornò a concentrare
immediatamente tutta la sua attenzione sul corridoio deserto che aveva davanti.
Gli era parso di sentire un piccolo rumore, al di sotto di quello dell’allarme.
Ascoltò per qualche istante, ma non udì più niente.
Pur senza tornare a voltarsi,
riprese il filo del ragionamento. Se quell’allarme avesse attirato lì in quel
punto la gente già preda di quell’”ammattimento” sopra detto, lui poteva o
metterlo subito fuori uso, oppure rivolgere il tutto a proprio vantaggio.
Occhieggiò pensosamente una delle porte lungo il corridoio. Se si fosse
infilato in una di quelle stanze, nascondendosi, avrebbe potuto attendere che i
suoi avversari rispondessero all’esca, accorrendo presso l’allarme, e quindi,
una volta che fossero tutti stati ammassati lì, liberando della loro presenza
il resto dell’edificio, sarebbe stato molto più facile, una volta aggiratili senza farsi vedere o sentire, andare in cerca di
qualcuno rimasto incolume.
Portò una mano alla nuca,
grattandosi senza motivo, nervoso. In ogni caso, l’allarme stava spargendo
intorno il suo lamentoso rumore già da un po’, non potevano non averlo sentito.
Quindi, probabilmente ciò li aveva già fatti muovere e messi in allarme,
qualunque fossero le loro condizioni. Neutralizzarlo adesso, avrebbe voluto
dire lasciarli tutti a vagare disordinatamente e vivacemente per l’edificio.
Aggrottò le sopracciglia un
momento. Bene, era deciso. Tutto quel che aveva da fare ora era trovarsi una
stanza in cui aspettare tranquillamente.
Un cigolio risuonò netto lungo il
corridoio. Istintivamente, Danny si schiacciò contro una parete, e puntò la
pistola verso la porta a pochi passi da lui, che si andava aprendo. Ne spuntò
una sagoma, che lo fissò con occhi spalancati, sussultò e schizzò le mani verso
l’alto.
«Oddio! No, la prego! Non mi
faccia del male!» gridò un uomo relativamente giovane, sbattendo con la schiena
contro la parete, lo sguardo terrorizzato.
Danny lo considerò per un altro
istante, quindi abbassò l’arma.
«Non si preoccupi…
non ho intenzione di spararla.» esordì, nel tono più tranquillizzante che
riuscì a trovare.
«Ma… »
mormorò incerto l’altro, senza abbassare le mani, né staccare gli occhi dalla
pistola ora adesa a una gamba dei jeans di Danny. «Ma…» ripeté, appena meno esitante, senza comunque riuscire
ad andare oltre.
Intanto, Danny lo studiava con
una certa curiosità.
Si trattava di un uomo intorno
alla trentina, con i capelli ritti in testa per il gel, ma piuttosto
disordinati e spettinati, in maniera non calcolata cioè. Indossava abiti modaioli,
con una maglietta da cui esordiva l’immagine in colori vividi di un qualche
gruppo musicale, e un paio di jeans studiatamente strappati in alcuni punti. Aveva
un fisico atletico, uno sguardo di occhi castani, e l’aria tremendamente
spaurita di chi non si è mai permesso di trovarsi in una situazione a lui in
qualche modo sfavorevole, o che non saprebbe sfruttare a proprio vantaggio.
«Sei uno studente di questa
scuola?» chiese Danny, anche per incoraggiarlo a parlare.
L’altro, invece, si accigliò.
Alzò lo sguardo dalla pistola alla faccia di Danny, con un’aria da orgoglio
ferito.
«Sono un insegnante riconosciuto,
nonché famoso. Ha mai sentito parlare di Harry Derry?»
«Per la verità…
no.» rispose sinceramente stupito Danny. Se non altro, considerò tra sé, il
tizio sembrava essersi ripreso dallo spavento. A dirla tutta, ora sembrava
anche piuttosto irritato.
«Evidentemente lei non ha alcuna
dimestichezza con gli ambienti artistici.» commentò l’uomo, passandosi
nervosamente una mano tra i capelli, gesto che sembrava essergli abituale e
meccanico.
«No, infatt…»
iniziò a dire Danny, ma fu repentinamente interrotto.
«E questo mi porta a chiederle
che cosa ci faccia lei qui. Con chi ho il… piacere di
parlare, se non le dispiace?» disse con energia, facendoglisi
incontro con una mano tesa con decisione.
Danny fissò la mano muscolosa,
dalle dita curate e le unghie limate e della stessa lunghezza, la pelle artificialmente
abbronzata e i modi decisi. «Hum… » mugugnò
dubbiosamente, mentre storceva appena il naso per la zaffata di profumo stantio
che lo aveva investito in seguito all’appressarsi dell’altro.
«Per la verità…»
disse, tornando a fissarlo negli occhi «Non credo che questo sia un buon
momento per le presentazioni. Sono venuto a vedere se qui ci sono stati dei…hem… problemi di qualche genere…beh… come dire… qualcosa a che vedere con…
gente che… si comporta in modo…
bizzarro. Cioè!» si affrettò a correggersi, vedendo l’aria accigliata
dell’altro «In modo più bizzarro del solito.». Lo sguardo dell’altro non
migliorò affatto.
«Quindi lei è della polizia?»
domandò l’uomo, abbassando finalmente la mano che non era stata stretta. Emise
un verso di vivo sarcasmo, senza aspettare risposta «Ah! Ma bene, vedo che ve
la siete presa comoda eh? Qui dentro è stato un inferno! Un vero i-n-f-e-r-n-o!».
Quell’individuo stava assumendo
un atteggiamento fin troppo teatrale e drammatico per i gusti di Danny, ma il
ragazzo tentò di spazzare via dal volto l’aria scettica, per concentrarsi su un
tono comprensivo; evitando accuratamente di negare il suo appartenere alle
forze dell’ordine (anche se quel fraintendimento non lo avrebbe mandato giù
tanto facilmente, in situazioni meno urgenti), propose «Certo, posso capire.
Ora, mi può dire dove pensa che…? ».
Si interruppe immediatamente. E
prima ancora che l’altro potesse averlo udito, si voltò repentinamente verso la
parte di corridoio che li separava dalla porta, per vedere che cosa aveva
prodotto il rumore che aveva sentito. Al di sopra della porta trillava ancora
il persistente allarme. Il vano era sgombro, ma alcuni rumori trascinati si
udivano da oltre l’uscio, all’esterno. Danny, la pistola già puntata in quella
direzione, assottigliò lo sguardo, pronto a cogliere ogni minimo movimento.
«Oddio! Dio, dio, dio… » iniziò invece a strepitare l’uomo, e si precipitò
dentro la stanza dalla quale era appena uscito, cercando di chiudersi la porta alle
spalle. Danny fece appena in tempo a frapporci in mezzo una gamba, sulla quale
l’uscio picchiò dolorosamente, strappandogli un’imprecazione che, a nota di
cronaca, conteneva lo stesso epiteto invocato dall’altro, ma in vece tutt’altro
che lusinghiera.
«Che diavolo fa?! È pazzo? Si
tolga di mezzo!» gridò l’uomo, non appena appurò cosa impediva alla porta di
chiudersi. Danny non gli prestò grande attenzione, il suo sguardo era ancora
concentrato sulla porta in fondo al corridoio, quella che dava sull’esterno.
Ora vedeva distintamente, confuse nel controluce, alcune sagome umane profilarcisi in mezzo, con movimenti goffi e piuttosto
lenti.
«Non vede che stanno arrivando?!»
strepitò ancora il sedicente Harry Darry, cercando di
forzare la porta contro la sua gamba ben piantata a terra «Se lei vuole morire
faccia pure! Ma si tolga immediatamente di qua!»
Danny rinunciò a tenere
sott’occhio l’ingresso, si voltò e mollò un forte pugno contro la porta, che
fece esitare l’altro, o se non altro lo colse di sorpresa.
«Non dica cazzate!» lo richiamò
alla calma Danny «Non può tornare a chiudersi qua dentro a marcire. Venga con
me, usciamo!»
«E da dove?» ribatté l’altro,
sull’orlo di una crisi isterica «Grazie al suo aver fatto scattare
quell’allarme ora sull’uscita ci stanno quei cosi!»
«Dettagli…»
disse Danny, tra i denti.
Harry Darry
considerò con preoccupazione gli occhi dello strano ragazzo. Il suo sguardo,
fisso sugli uomini e le donne che stavano entrando ciondoloni dalla porta di
fondo del corridoio, sbatacchiando un po’ disordinatamente tra di loro e contro
le pareti, faticando a comprendere che potevano passare solo uno alla volta
dall’ingresso, era mutato rapido come nuvole sospinte da un forte vento d’alta
quota. I suoi occhi trasudavano uno sguardo ferino e divertito, si sarebbe
detto quasi feroce. Doveva essere pazzo.
Harry fece per tentare nuovamente
di chiudere la porta, ma con mosse rapide e stranamente dotate di più forza di
quello che ci si sarebbe aspettati dopo aver notato la sua muscolatura non
tanto prominente, il ragazzo diede un’altra botta alla porta, spalancandola del
tutto e facendola sbattere violentemente contro il muro del corridoio.
Gli uomini e le donne dagli occhi
spenti fissi su di loro erano a pochi passi; alcuni si erano in effetti incantati
sotto l’allarme, protendendo le braccia in alto verso di esso, vanamente, ma
gli altri avevano sentito i movimenti, i rumori e le voci di Harry e Danny, e
si andavano avvicinando. Le mani dei primi si stavano già protendendo verso di
loro, colme di quella che si sarebbe detta un’innocente curiosità famelica,
quando Danny afferrò saldamente Harry per un braccio e prese a trascinarlo a
forza lungo il corridoio, verso l’interno dell’edificio.
«Che…diavolo… ?» ansimava l’uomo, cercando di tenergli il passo,
correndo e incespicando lungo il corridoio.
«Dove?» ringhiò Danny, con
urgenza.
«Cosa?»
«Dove devo andare? Ci serve
un’altra uscita! Ci sono altri come lei qui dentro? Intendo non ancora
“influenzati”.»
«Non ne ho idea. E se non la
smette di andare così veloce… non riesco nemmeno a ragionare…» tentò di protestare debolmente Harry.
Danny occhieggiò brevemente alle
loro spalle. «Non è il caso di rallentare.» lo informò telegraficamente. «Si
concentri!» lo apostrofò ancora, con rinnovata urgenza «Dove possiamo andare?
Tra poco siamo alla fine del corridoio. Avanti, dica!»
Harry riuscì a guardare davanti,
per accertare sommariamente dove si stavano dirigendo. Effettivamente il
corridoio si stava per aprire in una sala più grande, che aveva tutta l’aria di
essere una hall di ingresso. «Io non… » balbettò.
Danny sperò ardentemente che alla
hall corrispondesse almeno uno degli altri ingressi, o perlomeno di incrociare
Ramo o Kumals. Dietro di loro sentiva lo scalpicciare
del gruppetto che li inseguiva. Ne aveva adocchiati almeno sei. E benché non
fossero rapidissimi e i loro movimenti avessero un che di scoordinato, da
quando avevano iniziato a seguirli si erano dati un certo ordine, e solo se
continuavano a correre potevano tenerli a una buona distanza.
Quando giunsero al bordo della
hall, Danny si fermò quasi di scatto, ed Harry gli avrebbe sbattuto addosso
pesantemente, se con unica mossa di strattone il ragazzo non lo avesse anche
spostato di lato, togliendolo dalla traiettoria della sua pistola, già puntata
all’indietro nel corridoio che avevano appena percorso.
Mentre incespicava, quasi cadendo
a terra, Harry vide il ragazzo prendere la mira e sparare. Il colpo suonò
netto, rimbombando nella hall deserta e nel corridoio, dove fu seguito da altri
rumori concitati. Harry si arrischiò a dare un’occhiata, distinguendo un
intrico di membra cadute in un mucchio centrale nel corridoio, che si agitavano
cercando di rimettersi in piedi e districarsi le une dalle altre.
Benché Harry non fosse nelle
condizioni di appurarlo, Danny aveva la pistola armata di proiettili di gomma
particolarmente grossi e duri, e aveva avuto cura di mirare ai piedi del primo
del gruppetto che li inseguiva, riuscendo a farlo incespicare e cadere. Ora si
stava già guardando intorno nella hall con attenzione rapida.
Non c’era traccia di altri
ingressi, notò subito. Nella stanza bianca, dal pavimento lucido e le pareti
coperte di decorazioni varie che non si curò di degnare di attenzione, c’erano
solo altri corridoi che partivano in altre direzioni, vari divani e poltrone,
due ampie finestre sbarrate dal vetro, dalle serrande e da inferriate di ferro,
e due scalinate che salivano verso l’alto. Nella penombra cadeva pigramente una
pioggerella di pulviscolo, tradita da luccichii risvegliati dalle lame di luce
che penetravano dalle sottili fessure delle serrande abbassate delle finestre.
Trascinandosi dietro l’uomo
ancora insicuro, Danny continuò a guardarsi intorno con attenzione. Poi tornò a
rivolgersi con decisione ad Harry.
«Da che parte? Un’uscita!»
stringò.
«Sì… va
bene, va bene…dunque…
credo che… di là.» indicò infine, ancora ansimando,
l’altro.
Danny non disse niente, si limitò
a riprendere la corsa verso il corridoio indicato dall’uomo, ma in quella si
udì un rumore, al di sopra delle loro teste. I loro sguardi schizzarono verso
l’alto, in tempo per vedere un corpo umano che cadeva pesantemente, finendo a
schiantarsi per terra, a pochi passi da loro. La testa si spappolò nell’impatto,
le membra si agitarono disordinatamente nel contraccolpo, e si udì un suono
difficilmente mal interpretabile di ossa rotte, accompagnato dal tonfo come di
sacco pesante.
Per un istante tutto precipitò
nel silenzio. Poi Harry lanciò uno strillo eccezionalmente alto e disperato.
Danny non se ne curò, limitandosi
a mantenere salda la presa sul suo braccio. I suoi occhi erano già fissi sulla
balaustra sporgente sul vuoto, sulla quale terminavano le due rampe di scale
che occupavano buona parte dello spazio della hall. Sul soffitto un grosso
lampadario di vetro colorato e decorato da risvolti decorativi artistici
dondolava lentamente, emettendo un debole tintinnio. Dalla balaustra diverse
mani e braccia si protendevano incantate verso di esso, sporgendo da un
assembramento di persone prive delle loro solite capacità mentali. Ma alcuni
degli sguardi privi d’espressione, vacui e assenti, si erano fissati su Danny
ed Harry, in seguito all’urlo di quest’ultimo.
Prima di poter assistere alla
loro decisione se prendersi il disturbo di scendere per venire loro incontro, e
sentendo dal corridoio che si erano appena lasciati alle spalle
l’inconfondibile rumore di passi che si avvicinavano, Danny riprese a correre,
strattonando un Harry che si era nascosto la faccia sotto le mani, orripilato dalla vista del cadavere sul pavimento.
«Avanti!» lo spronò Danny,
imboccando l’altro corridoio. L’uscita non poteva essere molto lontana, si
disse, ammesso che Harry Darry non avesse preso un
completo fiasco riguardo la planimetria dell’edificio, e concesso che non li
aspettassero altre sorprese.
Quel corridoio sembrava deserto e
muto. Perfetto, dal punto di vista di Danny. Ma, tuttavia, si auto-corresse,
anche perfetto per un agguato. Non si sbagliò. Di lì a poco notò alcune ombre
che si muovevano lungo il corridoio, procedendo nella loro direzione.
Danny si fermò immediatamente, e
Harry gli sbatté addosso, emettendo un debole lamento stordito. Il ragazzo si
voltò, guardando indietro, e appurando con costernazione che il gruppo dei loro
inseguitori stava già imboccando l’altra entrata del corridoio.
«Maledizione!» esclamò, e la sua
voce rimbombò per il lungo spazio stretto tra le pareti. Ciò sembrò non sortire
altro effetto che quello di eccitare maggiormente gli umani ambulanti che
avanzano verso di loro da entrambe le parti.
Oh, davvero ‘perfetto’, sì. Erano
in trappola.
«D’accordo…
se la mettiamo così… » ringhiò Danny, occhieggiando
prima l’uno e poi l’altro dei gruppi che si avvicinavano loro da entrambi i
lati, rivolgendosi a nessuno in particolare, visto che Harry sembrava troppo
sconvolto per realizzare bene la situazione in cui si trovavano. Danny scelse
una porta a caso tra quelle che si allineavano lungo i muri, quella che ad
occhio gli parve più robusta. Raccolse un rapido respiro, si diede la spinta
prendendo per lo slancio tutto lo spazio concesso in larghezza dal corridoio, e
si gettò contro quella porta.
Era a pochi centimetri dal
plastico rivestimento giallo limoncello della porta, quando questa iniziò ad
aprirsi, e lui ne travolse l’apertura e chiunque la stesse aprendo con
circospetta lentezza. Rotolò dall’altra parte, mentre una ragazza che intravide
appena si spostava appena in tempo per evitare di venire investita, emettendo
un piccolo verso allarmato di sorpresa. Aveva appena terminato la sua
semi-rotolante caduta sul pavimento della stanza, quando qualcuno gli abbatté
addosso una sedia, strappandogli un lamento di dolore.
«Fermi!» disse una voce. E la
sedia, che si era rialzata in aria per essere calata di nuovo addosso a lui, si
interruppe a metà, chiaramente esitando indecisa.
«Sì, fermi, maledizione!» fece
eco Danny, sentitamente, cercando di pararsi la testa con le mani e di
realizzare nel contempo la scena che aveva attorno.
A lato della porta c’era la
ragazza che aveva quasi investito. Una tipa piuttosto alta, dalla pelle scura e
grandi e attenti occhi marroni che lo fissavano stupiti e allarmati. Fluenti
rasta le incorniciavano il bel viso, che svettava su un collo flessuoso. Prima
di appurare altro di lei, Danny guardò la sedia ancora sospesa sopra di lui, e
chi la teneva in mano. Un signore di mezza età, con un paio di occhiali sul
naso grosso, e i capelli bianchi e viola brillantinati
e ritti in testa, lo guardava con astio minaccioso, le labbra sporte in fuori
in un inespresso grugnito di sforzo bellico.
«Hey,
metta giù la sedia!» strepitò Danny. «Non su di me!» chiarì precipitosamente.
«Sì, Lian,
la metta giù. Questo sembra a posto.» disse un’altra voce «E lì fuori c’è Harry.»
aggiunse.
Danny sapeva che non era stata la
ragazza con i rasta a parlare, ma quelle parole gli ricordarono immediatamente
cosa stava succedendo fuori da quella stanza.
«La porta!» gridò, balzando a
sedere, e poi in piedi, evitando di sbattere contro la sedia ancora tenuta
sospesa a mezz’aria dall’uomo con i capelli bianchi e viola. Ma la ragazza con
i rasta, fortunatamente, aveva buoni riflessi. La vide tirare dentro Harry
afferrandolo per la maglia, chiudere la porta e dare tre giri di chiave.
Harry tirò fiato, o più
precisamente si lasciò scivolare seduto a terra, con la schiena contro la
porta, mentre la ragazza con i rasta, dopo averlo considerato per un momento
con espressione sorpresa, si chinava di fianco a lui con aria preoccupata.
Danny si rese conto di una serie
di sguardi puntati su di lui. Qualcuno gli si parò davanti, con aria decisa.
Mise a fuoco la figura. Era una ragazza di media altezza, con i capelli corti e
sbarazzini che le formavano una sorta di piccola criniera color bluette, in
totale disaccordo con gli occhi di un morbido nocciola, ma ben assecondando
l’arcobaleno indaco-viola-blu-azzurro delle perline che
le decoravano la punta di una tozza treccina, che partendo dalla nuca, poco
dietro l’orecchio destro, le ricadeva pigramente sulla spalla. Questa ragazza,
dal fisico ben proporzionato e dall’aria forte e decisa, lo stava studiando con
espressione indagatrice e corrucciata, facendolo sentire come se si fosse
appena rimediato una ramanzina con i fiocchi.
Ma, dopo averlo fissato con
attenzione quasi minacciosa, specialmente e quasi esclusivamente negli occhi,
la sua espressione si rilassò; le spuntò l’ombra di un sorriso sagace sulle
labbra sottili e ben delineate, racchiuse in un viso quasi a forma di cuore, in
cui spiccavano acuminati i lineamenti sottili, eleganti. Eleganza decisamente
dissimulata dalla sua espressione risoluta e quasi divertita.
«Sembra che tu te la sia vista
brutta là fuori… » gli disse, con un che di
amichevolmente comprensivo nel tono.
Prima di accorgersene, era lui
che si era imbronciato. E non era tanto per la questione della sedia che gli
era stata abbattuta addosso mentre ancora finiva di rotolare all’interno della
stanza, quanto per il fatto che in quella situazione lui avrebbe dovuto essere
quello che portava soccorso, e tante grazie anche. Ed invece, quella ragazza
pensava di averlo appena tolto dai guai.
Stava per replicare qualcosa,
quando un pesante tonfo sordo si abbatté dall’altra parte della porta,
facendoli sussultare tutti.
Harry schizzò via dalla porta
alla quale era appoggiato, con un gridolino che poteva riassumere il definitivo
cedere di nervi già messi duramente alla prova. Corse direttamente dall’altra
parte della stanza, dove si rannicchiò in posizione fetale.
La ragazza con i rasta era stata
più lesta, e si era rizzata in piedi e discostata un po’ dalla porta chiusa,
afferrando nel contempo una scopa appoggiata al muro lì accanto a lei, in modo
battagliero. Danny la considerò per un momento, dubbiosamente. E solo in quella
si ricordò della sua pistola, che teneva ancora saldamente in mano. Non sapendo
bene che altro fare, la puntò verso la porta.
Si udirono altri colpi e tonfi
aldilà, ma nessuno nemmeno lontanamente abbastanza significativo da costituire
un pericolo per la resistenza del saldo pannello.
Dal momento che i colpi
continuavano, senza aumentare di intensità, nella stanza tornò a delinearsi un
certo calo di tensione. E Danny si sentì apostrofare duramente, di nuovo dalla
ragazza con i capelli bluette.
«E quella cosa sarebbe?»
La guardò, per determinare dalla
direzione del suo sguardo a che cosa si stava riferendo.
«Una pistola.» rispose, piuttosto
ovviamente. Non aveva ancora compreso la natura della domanda, sapeva solo che
lei ora aveva un atteggiamento decisamente ostile.
«Bene, mettila giù.» gli disse,
con calma a stento utile a mascherare la sua rabbia.
«Sì, e poi apriamo anche la porta,
visto che stanno bussando.» obbiettò lui, con vivo sarcasmo.
«La porta terrà, e nel frattempo
quella pistola è solo pericolosa qui.» insistette fermamente la ragazza. La
cosa ancora più curiosa, secondo Danny, è che gli si stava rivolgendo in modo
ragionevole, assolutamente convinta di avere ragione.
«Ascolta…
» iniziò. Ma poi rifletté un momento di più. Non aveva ancora nemmeno dato
un’occhiata per bene a dove e con chi si trovava ora, e sospettava che una
seconda sediata potesse calargli alle spalle da un
momento all’altro. Se continuava a perdere tempo con quella ragazza
dall’assurdo colore di capelli non avrebbe concluso niente. Scrollò le spalle e
sospirò.
«D’accordo, la metto via.» disse,
e se la infilò alla cintola.
«Ha detto che devi metterla giù
per terra.» lo apostrofò duramente qualcuno alle sue spalle, dalla voce nasale
e sgraziata.
Danny si voltò, trovandosi di
fronte l’uomo di mezza età dai capelli mezzi bianchi e mezzi viola, con
brillantini. Anche se aveva appoggiato la sedia a terra, ne teneva ancora
saldamente stretta la spalliera, come si notava dalla pelle sbiancata sulle
nocche che la stringevano. E lo fissava con sguardo torvo e diffidente.
Danny si sforzò di mantenere la
calma e decise di prendere tempo. Si passò una mano sulla nuca, e mentre
occhieggiava attorno nella stanza, cercando di non farsi troppo notare,
interloquì con tono piatto e che sperava potesse suonare in qualche modo
conciliante.
«Bene, ascoltate un attimo.
Cerchiamo di ragionare. Là fuori c’è un’orda di…cosi… che sembrano anche parecchio minacciosi. E questo
dovreste saperlo bene, visto che siete tutti barricati qui dentro con i nervi a
fior di pelle… »
Mentre parlava, lasciò vagare
intorno lo sguardo con maggior nonchalance. Nella stanza c’erano poco meno di una
decina di persone, compreso lui, Harry che piagnucolava dall’altra parte della
stanza, la ragazza coi rasta, l’uomo appassionato alle sedie e la ragazza dai
capelli buette. Gli altri erano: una donna ritta
rigidamente in piedi come se fosse sul punto di buttarsi da un momento
all’altro in una scena isterica, e due ragazzi, uno particolarmente giovane e
spaurito e l’altro un po’ più in possesso del suo autocontrollo, almeno
apparentemente.
«Quindi, ricapitolando, si direbbe
che la nostra unica arma degna di questo nome…» e qui
Danny lanciò una breve occhiata significativa alla sedia che l’uomo stringeva
ancora saldamente, e poi alla scopa impugnata dalla ragazza con i rasta «… sia
la mia pistola. Si da il caso che io sappia anche usarla. E che sia caricata
con proiettili di gomma.» specificò
con tono acre, tornando a voltarsi per fissare la ragazza dai capelli bluette,
che lo guardava a braccia incrociate, dando l’impressione di non sentirsi molto
colpita.
«Se non vi dispiace, dunque,
visto che nessuno qui rischia di farsi seriamente male, almeno, non a causa
della pistola… » e qui indicò con un eloquente cenno
della testa la porta, ancora bersagliata dai deboli tonfi e colpi dall’esterno
«… preferirei tenermela. Peraltro, è mia. E direi che il discorso finisce qui.
Parlando di cose più urgenti… avete un piano di
qualche tipo per uscire di qui abbastanza illesi?»
«Oh, no. Aspettavamo te per
essere tutti salvati, bellino mio.» commentò pungente la ragazza con i rasta,
appoggiandosi alla scopa, anca in fuori e aria particolarmente accigliata.
«D’accordo. E avete fatto bene.»
le rispose a tono Danny, lanciandole un sorrisetto ammiccante «Tra poco
arriveranno anche gli altri e allora… » lasciò la
frase volutamente in sospeso, compiacendosi della sua capacità di creare una
certa suspance.
«E allora non potranno entrare
qui, a meno che non intendano scavalcare tutti quelli assembrati là fuori.» gli
fece notare con aria scettica la ragazza dai capelli bluette.
Danny la guardò, cercando di
apparire il meno in difficoltà possibile.
«Quelli che tu hai ammassato qui fuori, trascinandoteli dietro fin qua, a
quanto pare, e facendo prendere un colpo ad Harry.» precisò la ragazza con i
rasta.
«Bene, non avete tutti i torti.
In effetti, il piano era un tantino diverso. Ma non è che si potesse fare molto
altro, vista la situazione. Comunque, tra poco arriveranno gli altri. Non sono
gente stupida o inabituata a queste situazioni. Se la
caveranno benissimo, e ci tireranno tutti fuori di qui al più presto.» cercò di
recuperare Danny. E gli parve di esserci riuscito abbastanza bene, visto che il
suo tono era spontaneamente divenuto fiducioso nel pensare a Ramo, Kumals ed Uther. Sicuramente
stavano già escogitando o mettendo in atto qualcosa di ingegnoso per aiutarli.
In quella alcuni colpi
risuonarono più forti sulla porta, facendo sussultare tutti. Per un momento,
Danny osò arrischiare tra sé e sé la pallida e nervosa ipotesi che potesse già
trattarsi dei loro rinforzi. Ma a giudicare dal modo in cui procedeva il
piovere di colpi, che era continuato ininterrotto fin da quando la porta era
stata chiusa, andando intensificandosi, non sembrava che quella speranza
potesse rivelarsi altro che una ridicola illusione.
La ragazza coi rasta aveva
rafforzato la stretta attorno al manico della scopa, e aveva fatto un passo
indietro rispetto alla porta, quasi involontariamente, guardandola con
preoccupazione.
La ragazza dai capelli bluette si
appressò un poco a lui, con gli occhi ugualmente incollati alla porta, e
mormorò piano «Quant’è che dovrebbero impiegarci… i
tuoi amici?»
A Danny occorse qualche istante
per riuscire a rispondere.
«A momenti.... a momenti!»
affermò, irritato dal suono arrochito della sua voce.
Soundtrack: High schoolneverends
(Bowling for soup)
Danny finì di sistemare una sedia
nell’ammasso generale di mobilio eretto contro la porta. Tornò ad alzarsi ritto
in piedi e si stiracchiò la schiena, contemplando con attenzione critica la
barricata.
Fu distratto per un momento dai
movimenti con cui la magra e nervosa donna castana, che aveva appreso chiamarsi
Bethan, stava sistemando un quadro, ingombrante e dal
peso trascurabile, sul mucchio, aiutata da uno dei ragazzi, che se non si
sbagliava si chiamava Thomas. D’accordo, quel quadro non avrebbe fatto
nessunissima differenza, ma qualsiasi cosa potesse tenerli occupati e distrarli
dalla tensione che si andava accumulando nella stanza, di pari passo con
l’intensificarsi dei colpi sull’esterno della porta, poteva rivelarsi fondamentalmente
benefico dopotutto.
Quindi occhieggiò brevemente la
ragazza con i capelli bluette e quella con i rasta, che aveva scoperto
chiamarsi rispettivamente Andrea e Janine, che
parlottavano animatamente tra loro, discoste dagli altri. Vide l’altro ragazzo,
Gavin, avvicinarsi a loro con aria interessata. La
ragazza coi rasta indicò Danny con fervore mentre parlava, con aria chiaramente
alterata dalla rabbia, e lui sentì che era meglio rivolgere lo sguardo altrove.
Il tizio che aveva sottratto alle
grinfie dei sub-umani che imperversavano con pugni e tonfi contro la porta,
dall’assurdo nome di Harry Darry, era ancora
rannicchiato contro la parete. Aveva smesso di gemere, dondolarsi e tenersi
convulsamente rannicchiato come se stesse per crollargli addosso l’intero
edificio. In compenso, tutte le pazienti moine consolatorie della ragazza con i
rasta non erano valse a persuaderlo ad aiutarli con la costruzione della
barricata mobilizia. Ora se ne stava semplicemente
seduto nell’angolo, le braccia strette intorno alle ginocchia ripiegate contro
il petto, lo sguardo vacuo perso nel nulla. Sussultava violentemente ad ognuno
dei singoli colpi che percuotevano la porta; il che implicava che non faceva
altro che tremare e saltellare sul posto, come se fosse preda di una leggera
crisi di convulsioni.
Infine, l’occhio di Danny cadde
sull’ultimo occupante dell’angusta stanza. L’uomo di mezza età, con i capelli
bianchi e mezzo tinti di viola ed un estroso paio di occhiali con catenella
appoggiato sul grosso naso a patata, di costituzione tracagnotta e vestiti
abbacinanti di colori e frappe di tessuto: nientemeno che LianDartax, come si era presentato poco prima; si
asciugava il sudore dalla fronte con un fazzoletto preso da qualche taschino
del giacchettino che gli fasciava l’ampio addome. Danny notò, con una certa
sorpresa irritazione che si teneva saldamente appoggiato allo schienale della
sedia. Quella stessa che, come il suo corpo ricordava chiaramente, gli era
stata sbattuta addosso nemmeno dieci minuti prima.
Si avvicinò a passi misurati a LianDartax, e accennò alla
sedia, dicendo, in tono tranquillo «Sarà meglio che la aggiungiamo al mucchio,
questa.»
Con un gesto brusco, l’uomo
intensificò la stretta sulla sedia e se la trascinò più vicino, lanciandogli
uno sguardo accigliato.
«Ragazzo. Questa sedia sta
benissimo dove sta.» gli intimò.
Danny alzò le mani con aria di fredda
pacificazione «Bene. Era un consiglio. Come preferisce.»
Gli voltò le spalle e tornò verso
la barricata, con cipiglio scuro. Conosceva ormai abbastanza bene la forza e la
resistenza stolida e insensibile del tipo di “uomini”
come quelli che erano assembrati fuori dalla porta; e sapeva che una sedia
datagli addosso non sarebbe servita nemmeno a rallentarli più di tanto. Ma non
aveva alcuna voglia di iniziare una simile discussione, specie con il signor LianDartax.
Mentre stava fingendo di
interessarsi alla struttura precaria della barricata, sotto lo sguardo nervoso
di Bethan e Thomas, che sembravano aspettarsi qualche
giudizio sul loro lavoro, Danny si rese conto che Andrea e Janine
gli si stavano avvicinando con aria piuttosto battagliera.
‘Ci siamo, altre grane.’ pensò,
con un certo fastidio. Avrebbe voluto esser lasciato in pace almeno per un po’.
Il tempo sufficiente per pensare decentemente cosa si potesse fare, che non
fosse lo star lì ad aspettare che accadesse loro addosso qualcosa.
Prima di tutto, Kumals e gli altri ci stavano mettendo un certo tempo;
preoccupante. Probabilmente erano stati coinvolti in qualche scaramuccia da
qualche altra parte dell’edificio. E questo non faceva che aumentare la sua
ansia per il loro destino. Non che non si fidasse di loro…
ma la situazione era evidentemente critica. Era pur vero che non aveva sentito
niente che indicasse che Ramo avesse avuto bisogno di sparare un colpo
d’allarme con la pistola che gli aveva affidato. D’altra parte, i fuochi
artificiali non si udivano più da un pezzo. O erano semplicemente finiti,
oppure anche Uther aveva avuto il suo daffare là
fuori. Nemmeno di Kumals nessun segno.
Per continuare, in seguito a una
breve indagine di pocanzi aveva scoperto di essersi andato a cacciare nella
stanza più sfigata del mondo. Veniva usata, normalmente, per le ‘attività
musicali’ dell’istituto artistico,e quindi le finestre erano state murate e le
pareti inspessite e acusticamente isolate. Si poteva capitare in posto
peggiore? Danny si trattenne a stento dal tirare un calcio di frustrazione alla
già pericolante pila di mobilio ritta di fronte a lui. Va bene, l’importante
era mantenere il sangue freddo.
E in questo non lo stavano certo
aiutando le due ragazze che si erano appena fermate di fianco a lui con aria
decisa.
Si voltò in parte verso di loro,
occhieggiando distrattamente alle loro spalle, e ignorando il fatto che anche Gavin, il ragazzo, e pure LianDartax, stavano assistendo alla scena con insistente
interesse. Prese un respiro profondo, senza darlo a vedere, e attese.
«Ci stavamo chiedendo…»
iniziò la ragazza con i capelli bluette, nonché Andrea. Ma si interruppe e
socchiuse per un momento gli occhi, come per un ripensamento. Ricominciò, con
tono più conciliante e diretto «Insomma… chi sei?»
Lui la guardò, fingendo un certo
stupore. L’importante era prendere tempo.
«Ah, mi sembrava di avervelo già detto… mi chiamo Danny.»
La ragazza con i rasta, Janine, sbuffò e si piantò saldamente le mani sui fianchi,
ma Andrea la precedette rapidamente. «Volevo dire…
sì, ecco, come mai sei qui? Che intenzioni avevi?»
Bene, qui veniva la parte un po’
più complessa. Ignorando cocciutamente gli sguardi di tutti che gli erano
puntati addosso, Danny le rivolse un’occhiata penetrante, che intaccò
brevemente la sicurezza della ragazza. Ritenendosi soddisfatto, riprese a far
vagare lo sguardo sulla loro barricata improvvisata, trattenendosi dalla
tentazione di volgere direttamente loro le spalle e riprendere a saggiarne la
resistenza.
«Ho visto cosa sta succedendo giù
in paese. Vivo là. Ci sono persone come queste qua fuori.» indicò brevemente e
svogliatamente la porta, ancora bersagliata dai colpi che crescevano lentamente,
gradualmente ma risolutamente di intensità. «Se ne vanno in giro per la città
tutti imbambolati, pressappoco come questi. E ho già avuto occasione di avere a
che fare con la loro… aggressività. Per la precisione… » esitò brevemente, e lanciò un sguardo incerto
agli occhi attenti di Andrea «Anche un mio amico è stato…
“colpito”. Abbiamo dovuto chiuderlo da una parte, per evitare di farci e di
fargli male. Comunque, dei nostri amici ci hanno detto di questa scuola
isolata. E abbiamo pensato che fosse opportuno venire a vedere se avevate
bisogno di una mano. A quanto pare non sbagliavamo.» concluse, asciutto.
«Intanto…
» riprese quasi subito, per evitare il frapporsi di loro commenti di sorta «Mi
potreste raccontare come è venuto a verificarsi qui il…fenomeno… » propose.
« Vuoi dire intanto che
aspettiamo che buttino giù del tutto la porta?» domandò Janine,
in tono aspro.
Lui alzò le spalle, ostentando
una calma che non era più certo di padroneggiare molto bene.
«Questa cosa reggerà per un po’.
» disse, appoggiando una mano sulla barricata, e ritirandola subito, avendola
sentita chiaramente tremare in modo pericolante sotto le dita «Giusto il tempo
per dare modoagli altri di venire a
darci man forte.»
«E chi sono gli altri?» domandò Gavin. Benché rimanesse accuratamente dietro le spalle
delle due ragazze, sembrava avesse deciso di assumere anche lui un
atteggiamento di supponente critica e dubbio. Danny alzò uno sguardo ammonitore
su di lui.
«Quando saranno qui vedrai di
cosa sono capaci.» gli preannunziò elusivamente, e in modo che sperava
sembrasse abbastanza minaccioso anche nei confronti del ragazzo stesso. Questo,
però, parve avere l’unico effetto di esasperare l’espressione accigliata di Gavin e di Janine; e tuttavia non
osarono replicare nulla, inconsapevolmente moderati dalla sua occhiata. Quanto
ad Andrea, sembrava vivacemente curiosa. Parlò di nuovo lei.
«Intanto cos’altro potremmo
fare?» si guardò intorno, fissando tutti uno per uno. «Qualche idea?»
Danny notò, con un certo fastidio,
che LianDartax stava
prendendo la parola, e lo precedette frettolosamente.
«Siamo proprio sicuri che questa
stanza sia completamente sigillata?»
Si ritrovò fissato da una serie
di sguardi poco elogianti. D’accordo, aveva detto una castronata
totale. Ma non poteva essere tanto peggiore di quella che stava sicuramente per
dire LianDartax, no?
Dopo un compatto silenzio, Andrea
accennò un movimento, e guardò pensosamente verso le finestre murate.
«Forse…
» iniziò, con un tono in cui Danny riconobbe con sollievo una nota
collaborativa «Potremmo accertarcene meglio.» terminò la ragazza.
L’entusiasmo di Danny si
inabissò, ma considerò quella come, se non altro, un’ulteriore possibilità di
distrarre tutti, oltre che dalla porta e dai colpi preoccupantemente
forti che vi si abbattevano contro, anche da se stesso.
Era stanco, e non aveva altre
idee, ma solo una sensazione di soffocamento. Non aveva mai amato
particolarmente i luoghi chiusi, e non faceva parte dei suoi desideri riguardo
la propria morte dover tirare le cuoia proprio lì dentro. Per un momento,
un’immagine confusa, in cui c’entravano montagne boscose e innevate e un cielo
scuro di notte, si intrufolò tra i suoi pensieri. Rapida com’era comparsa riaffondò, e lui non provò nemmeno a trattenerla per un
istante.
Sotto gli sguardi scettici, amereggiati o sconfitti degli altri, Andrea si era
avvicinata alla parete che dava sull’esterno, toccando con mano esitante il
muro. Danny sospirò appena, e andò ad affiancarlesi.
Qualsiasi cosa, pur di non rimaner fermi ad aspettare passivamente la fine; non
faceva per lui.
Prima di allontanarsi dagli
altri, scoccò un breve sguardo a Bethan e Thomas, che
gli sembravano i meno ostili in quel momento, e propose loro, quasi in tono di
chi chiede un favore «Torno subito… Voi intanto potreste
cercare di sistemare meglio la barricata… se vi
sembra che in qualche punto possa essere più debole…
».
La donna di nome Bethan, pallida e dallo sguardo spiritato, fece un vago
movimento con la testa, Thomas annuì un po’ più energicamente, indi si voltò
con entusiasmo e per poco non urtò uno spigolo di quel quadro inutile che
avevano sistemato poco prima, rischiando pertanto di demolire con una sola
mossa gran parte del pericolante ammasso.
Danny trattenne un sospiro di
scoramento e procedette verso la parete che Andrea stava tastando e saggiando
con attenzione. Mentre cercava di capire, senza troppa convinzione, cosa
esattamente si proponesse di combinare la ragazza con quel fare impegnato, i
suoi pensieri corsero di nuovo agli altri suoi “colleghi”.
Decisamente ci stavano mettendo
troppo. Cosa poteva essere successo? Se solo avesse potuto chiamarli inviando
un qualche segnale di richiesta di aiuto… Ma anche
ammesso che avessero avuto a loro disposizione un qualche pertugio atto allo
scopo, non aveva con sé niente di rumoroso che potesse attirare l’attenzione. E
semmai l’avesse avuto, produrre qualche rumore avrebbe esasperato molto
rapidamente i colpi contro la porta, e tutto si sarebbe giocato sul filo del
rasoio: avrebbero fatto prima gli altri a individuarli ed accorrere e tirarli
fuori di lì o gli umanoidi là fuori a tirar giù la porta?
Danny rabbrividì per un momento,
e ingoiò un significativo grumo di saliva; quel nervosismo lo irritava. Ma vide
che la ragazza dai capelli bluette lo stava ora fissando. Effettivamente, si
era limitato ad affiancarlesi senza fare niente,
assistendo con stupida immobilità al suo tastare la parete; non doveva aver
dato un’immagine di sé troppo intelligente negli ultimi istanti.
Si schiarì la gola, e le si
rivolse in tono calmo, cercando di darsi un contegno: «Hem,
trovato qualcosa di interessante?»
Fu allora che lei sorrise, un
sorriso particolare. Danny ci rimase un poco basito. Sorrideva con aria di
furba e complice soddisfazione, come se le fosse riuscito un trucchetto di non poca abilità, del quale però non si
sentiva eccessivamente meritevole. Un sorriso che gli ricordava vagamente
qualcuno. Quando recuperò un po’ di raziocinio, Danny si chiese se quello non
fosse da ascriversi come sintomo di follia incipiente: forse alla ragazza erano
crollati i nervi? Questo avrebbe potuto spiegare perché ora gli stava
mostrando, con aria piena d’aspettativa, la parete, mentre la picchiettava in
punti diversi con le nocche.
Ma, un momento…
Il fine udito di Danny vibrò. E, allora, anche lui sorrise, lentamente e
significativamente, un sorriso da Grinch che ha
trovato le caramelle da rubare a qualche moccioso; un luccichio di immediata
comprensione gli sfavillò a lampo nello sguardo. Il sorriso della ragazza si
accentuò, e sembrò quasi che stesse per scoppiare a ridere. Invece, si voltò
verso la parete che aveva picchiettato fino a quel momento, e iniziò a cercare
di stracciare la carta da parati con le unghie.
Danny si mise una mano nella
tasca del giubbetto, estrasse un coltello a serramanico e glielo porse, così
Andrea poté continuare il lavoro con più risultato. Intanto, lui studiava e
tastava con brevi pugni la consistenza della finestra murata.
Dal rumore prodotto dal
picchiettarci sopra le nocche, era chiaro che in quel punto, dove una volta
doveva esserci stata una finestra che era poi stata murata, la parete aveva una
consistenza e uno spessore diverso.
Il ragazzo occhieggiò il lavoro
di Andrea: da sotto la carta da parati stava rivelando uno strato di intonaco.
Dietro di loro si erano assiepati
alcuni degli altri. Si udì la voce di LianDartax.
«Che diavolo stanno facendo?»
Ma il tono sbrigativo e pratico
di Janine, la ragazza con i rasta, sovrastò quasi
subito la voce dell’uomo «Andrea, che avete trovato? Ditemi che dobbiamo fare.»
«State indietro, per ora.»
rispose semplicemente la ragazza dai capelli bluette.
«Lascia perdere la carta da
parati, ora, vedi se riesci a piantare il coltellino nel muro.» le consigliò
Danny, poi si girò verso gli altri «Abbiamo un qualche oggetto contundente
abbastanza pesante? Un martello, un estintore, qualcosa del genere…?»
Gli altri si guardarono tra loro,
esitanti, ma Janine annuì in fretta, afferrò Gavin per un lembo della giacca e se lo trascinò dietro.
«Cerchiamolo!» stabilì con tono deciso, avvicinandosi alla barricata, tenuta a
bada in qualche modo da Bethan e Thomas.
In quella si udì un sonoro rumore
di qualcosa di notevole resistenza che si spacca. Tutti raggelarono,
immobilizzandosi laddove si trovavano, realizzando immediatamente cos’era
successo: il primo colpo della folla radunata dietro la porta che riusciva a
spezzare il pannello. Benché la porta non fosse visibile da dietro la loro
barricata improvvisata, o forse proprio per questo, Thomas, Bethan
e Gavin indietreggiarono di diversi passi, mentre Janine assumeva d’istinto una posizione da difesa tipica di
qualche disciplina orientale da combattimento. Danny si morse le labbra e tirò
un’imprecazione particolarmente vivace tra sé e sé, mentre Andrea tratteneva a
malapena il coltellino che aveva rischiato di caderle di mano per la violenza
del suo sussulto di sorpresa. LianDartax corse precipitosamente alla sua solita sedia e la
afferrò, alzandola sopra la testa e rimanendo in attesa. Ma non accadde niente.
A giudicare dal rumore, dovevano
essere riusciti solo a farsi una piccola breccia, poco più grande dello
spessore di un braccio. E, se Danny aveva compreso bene le loro facoltà
mentali, probabilmente avrebbero impiegato qualche momento a capire che il
cercare di infilarsi tutti contemporaneamente dentro quella breccia troppo
piccola non avrebbe prodotto grandi progressi nella loro avanzata.
«Va bene. » disse, con voce roca
«Abbiamo ancora un po’ di tempo, avanti!»
Si voltò verso Andrea e le
mormorò «Spostati, usiamo un altro metodo.»
La ragazza lo guardò confusa, ma
si scostò da lui e dalla parete, come richiesto.
Intanto Janine
gestiva gli altri, intimando a Bethan di zittire
Harry Darry, che aveva preso a lanciare piccoli gridi
di panico dalla sua posizione rannicchiata nell’angolo della stanza più lontano
dalla porta, e spronava Thomas, Gavin e LianDartax ad aiutarla a cercare
qualche oggetto pesante.
Andrea guardò con sorpresa il
ragazzo puntare per un momento con precisione lo sguardo sul punto del muro
messo a nudo da lei col coltello; indi, prima che lei potesse sorprendersene
eccessivamente, Danny si era un po’ allontanato dalla parete, aveva caricato i
muscoli e aveva rifilato un forte calcio al volo contro la parete. Nonostante
la fulmineità dell’azione, la ragazza notò che il colpo veniva dato con una
mossa tale che tutto il peso e la forza del corpo del ragazzo era concentrato e
impresso in quel calcio. Probabilmente fu per questo che vide quasi subito il
suo volto deformarsi in una smorfia di dolore. Capì chiaramente che doveva star
trattenendo parecchie imprecazioni o semplici urla di dolore, mentre,
zoppicando sul piede sano, cercava di recuperare l’equilibrio. Lei tornò a
guardare la parete, chiedendosi quale problema avesse quel tizio con il mondo
della realtà possibile, ma furono le sue certezze a incrinarsi, e trattenne il
fiato, stupita.
Nel punto colpito da Danny il
muro era seriamente incrinato.
‘Possibile che questa parete sia
così sottile?’ si chiese incredula la ragazza. Quindi tornò ad osservare Danny,
che pure stava rimirando il risultato con un sorrisetto un po’ critico. ‘Niente
male, ma si può far di meglio’ gli lesse nell’espressione. Senza avvedersene, Andrea
fece un piccolo ulteriore passo indietro, e rabbrividì appena al pensiero di
come lo avevano provocato fino a qualche momento prima. Lo sguardo feroce che
gli balenava negli occhi ora non lasciava presagire nulla di buono, e c’era
qualcosa di selvatico nel suo viso, concentrato sul muro come lo sguardo di un
cacciatore si concentra sulla preda prima di spiccare il balzo dell’agguato o di
dare il colpo mortale alla gola.
Danny spiccò un altro balzo,
stavolta prendendo un po’ più di rincorsa; e nonostante la sua rincorsa fosse
stata un poco zoppicante, anche il secondo calcio al volo, inferto con l’altro
piede, andò a segno nello stesso punto. Il muro si incrinò di nuovo
notevolmente, pezzi di intonaco schizzarono in giro come scintille polverose.
Mentre Danny di nuovo saltellava sul posto cercando di recuperare l’equilibrio,
e con una più accentuata smorfia di dolore a incrinargli i tratti del viso, il
suo sguardo e quello di Andrea si concentrarono nel punto che aveva colpito.
Poi si guardarono brevemente tra di loro, Andrea con una certa apprensione.
Lui le sorrise appena, in un modo
che sperava tranquillizzante, nonostante il dolore che gli rendeva difficili
certe espressioni, e le indicò con un cenno della testa il muro rotto. «Prova a
dar qualche colpo col coltellino, ora… Solo che recuperi un po’ la sensibilità
del piede e ci riprovo… »
Lei annuì, piuttosto rigidamente
e meccanicamente, si chinò verso il punto del muro messo a dura prova dai calci
di Danny e prese a dare qualche botta col coltello chiuso.
«Hey,
come diavolo… ?!»
Danny ed Andrea si voltarono,
incontrando lo sguardo incredulo di Janine, che era
dietro di loro, e fissava stupita il muro rotto e Andrea, alternativamente. «Ma
come ci sei riuscita?» domandò, incredula.
Andrea rivolse un breve sguardo
piuttosto furtivo a Danny, notando che lui glielo stava ricambiando in modo
impacciato. Allora lei alzò le spalle, come a liquidare una questione senza
rilevanza, e si rivolse a Janine. «Piuttosto, che hai
lì?» le domandò.
Janine si riscosse dal
suo stupore, e parve ricordarsi di ciò che stava trasportando tra le braccia.
Lo sollevò un poco, mostrandolo ad entrambi. Sembrava una scultura astratta, in
metallo lucido, ed evidentemente in parte cava; aveva una forma vagamente oblunga… Danny alzò appena un sopracciglio: in effetti, la
scultura rappresentava una sorta di fallo. Bene, o male. In ogni caso, non
afferrava perché Janine avesse scelto quel momento
per mostrarla loro…
«E’… una tua…hum… creazione? » le chiese, con tono esitante e
insolitamente delicato.
Lei lo fissò come se fosse
convinta della sua totale stupidità. «No. Che importa? Ci serve qualcosa per
buttare giù questo cavolo di muro, giusto?»
«Oh! Ah, sì, certo certo… Bene, allora, provo io…»
cercò di recuperare in fretta Danny, prendendo dalle mani della ragazza la
pesante scultura, e agitandola un po’ nell’aria come se saggiasse una mazza da
baseball prima di battere il colpo decisivo della partita. In un certo senso,
era proprio quello che doveva fare: un colpo decisivo.
Un altro schianto, più cospicuo e
lamentoso, di plastica e legno spezzati.
«Cazzo, sbrighiamoci!» imprecò Janine. Per la prima volta Danny fu pienamente d’accordo
con lei.
Si voltò su se stesso, e prese a
somministrare generosi colpi con la scultura contro il muro, concentrandoli
sempre nel punto prima bersagliato dai suoi calci. Con sorpresa di tutti e tre,
occorsero un paio di colpi prima che il muro andasse in pezzi. Danny esultò tra
sé e sé: ottimo, la parete era ancora più sottile di quello che aveva pensato.
Ma c’era qualcosa di strano… non si vedeva alcuno
spicchio di luce esterna filtrare dal buco, anzi si ritrovò a fissare un buio
ancora più fitto.
Danny era abbastanza sicuro che
non fosse possibile che la notte fosse già calata.
Andrea si inginocchiò rapidamente
di fronte al buco e vi spiò attraverso, emettendo quasi subito un verso di
irritata delusione. Alzò lo sguardo su Janine e
Danny, che aspettavano impazientemente il responso.
«C’è un altro muro, più in là… hanno lasciato dentro tra le due neo-pareti un po’
dello spazio della vecchia finestra…»
«Va bene, non drammatizziamo!
Servirà solo qualche altro colpo, ora scostati… »
iniziò a dire Danny. Fu quasi interrotto da un nuovo schianto, più poderoso dei
precedenti. Vide Janine e Andrea voltare gli sguardi
allarmati verso la porta, ma lui si rifiutò di imitarle. Poggiò una mano sulla
spalla di Andrea e la scostò piuttosto bruscamente, con urgenza, e riprese a
bersagliare il muro di colpi. Non avevano quasi più tempo, lo sapeva bene, e
stare ad assistere alla scena gli avrebbe solo fatto perdere più preziosi
secondi.
Mentre alle sue spalle
imperversavano i rumori della porta che andava distrutta poco a poco e della
loro barricata che tremava e iniziava a cadere, si limitò a continuare a tirar
colpi al muro. Con la coda dell’occhio intravide Janine
e Andrea scostarsi dalla parete per dirigersi alla barricata.
«Via di lì!» urlò Janine a qualcuno.
«No, proviamo a tenere la
barricata ancora un po’! Non ci vorrà ancora molto!» la contraddisse Andrea.
Poi, mentre Danny ancora menava
colpi alla parete, ignorando le sempre più dolorose ripercussioni dei contraccolpi
che gli scuotevano le braccia fino all’osso e gli rintronavano in tutto il
resto del corpo, furioso principalmente con se stesso oltre che con quella
dannata parete, gli parve di udire qualcos’altro.
Sembrava una voce. E non veniva
da dietro di lui, ma da davanti. Oltre la parete… ?
«Danny?» domandò la voce, con una
certa perplessa sorpresa.
E allora lui si accorse di aver già
aperto uno squarcio grosso come un pugno, abbastanza grande da permettere a due
occhi di spiare dentro, vedendolo. Erano occhi azzurrissimi.
«Danny…
» ripeté la voce, stavolta con un tono di meno dubbiosa constatazione.
«Hu…Uther!» esclamò Danny, per un momento preso dal sollievo, e
subito dopo da una nuova urgenza. «Qui siamo nei guai! Siamo tutti chiusi
dentro e hanno ormai sfasciato la porta, ci sono altre persone, non ci sono
altre uscite!» riassunse rapidamente.
Gli occhi azzurri si spalancarono
per un momento per la sorpresa, poi le sopracciglia si aggrottarono gravemente,
e Danny avrebbe quasi potuto giurare di aver udito un’imprecazione
particolarmente blasfema attraverso la parete.
«Dove sono gli altri?!» domandò
ancora Danny.
«Stanno arrivando. Sono ancora
dentro. Ma tu sei messo male e non c’è tempo…
Ascolta. Forse ho un’idea… »
«Ok, dimmi!» lo interruppe
vivacemente Danny. Ma prima di dedicare la sua completa attenzione alla voce di
Uther, ovattata dalla parete, decise di arrischiarsi
a sbirciare cosa stava succedendo alle sue spalle.
Trattenne un istante il fiato,
poi, prendendo coraggio, si voltò a guardare cosa restava della barricata e
degli altri occupanti della stanza.
*BARRICADES = BARRICATE (in
inglese). Non è che ci sia altro motivo per cui ho messo la parola in inglese
che questo: mi è rimasto in mente il termine, devo averlo sentito in qualche
film/canzone/scritto da cui mi è rimasto impresso…
Sul significato di ‘barricata’ non mi sembra necessario esprimermi, visto che
basta anche solo una puntatina sulla wikipedia :)
Capitolo 17 *** 15 - QUADRO PARLANTE...E ALTRI TRUCCHI ***
Capitolo 15
(Quadro parlante… e altri trucchi)
La
stanza sembrava completamente immersa in una cocciuta immobilità. Come il resto
dell’edificio, peraltro.
Un’aria
da ‘calma dopo la tempesta’, o, a meglio vedere, più una ‘calma da occhio del
ciclone’ aleggiava su una nutrita distesa di vari detriti, che una volta erano
stati l’arredamento della stanza, poi, nell’ultima parte della loro vita,
qualcosa che avrebbe voluto assomigliare a una barricata di fortuna. La porta
non aveva decisamente più l’aspetto di una porta, se non in minima e vaga
parte; più che altro era ridotta a un cumulo di pezzi rotti, spezzati,
strappati, alcuni pendenti dallo stipite.
Un
tripudio di schegge di varie dimensioni, di pezzi di plastica e di altri
materiali, si stendeva fitto sul pavimento, come una sorta di originale tappeto
in stile ‘the dayaftertomorrow’.
Si
era nelle prime ore di un pigro pomeriggio invernale. Fuori il sole gettava una
luce pallida, malsana, su una tranquillità sinistramente desolata, e l’aria
fredda e immobile aveva un che di fumoso. Ma nulla di tutto questo penetrava
minimamente nella stanza, che era stata sigillata, murate le vecchie finestre.
Un
mucchio di esseri umani di svariate corporature, vestiario, età, genere
sessuale e condizioni fisiche erano radunati nella stanza; tutti perfettamente
immobili, ritti in piedi e con le braccia abbandonate lungo i fianchi,
assolutamente muti, guardavano, con aria incantata eppure sguardo assente e
vacuo, la parete di fondo, presso la quale si erano tutti ammassati, come per
assistere ad un eccezionale spettacolo.
Appoggiato
alla parete c’era un vecchio quadro di tela, con la cornice grossa e pesante un
po’ rovinata agli angoli. Rappresentava una scena dal forte impatto visivo,
nonostante la semplicità di ciò che era effettivamente dipinto. Lo stile era
uno di quei pasticci moderni sperimentali e, in un generale abbozzo
impressionistico di linee e schizzi di colore apparentemente casuali, si poteva
distinguere la fitta vegetazione da foresta amazzonica. Come se il punto di
vista di chi apprezzava l’opera fosse stato quello di qualcuno che, nascosto
tra la iper-rigogliosa vegetazione, spiava cautamente
attraverso di essa, tra il verde delle foglie si apriva appena un piccolo
scorcio, un po’ forzatamente, come se le spostasse una mano però invisibile. E
in quello scorcio si vedeva in lontananza, come se l’osservatore si trovasse
sull’orlo di una grande conca nel terreno, delle dimensioni di una piccola
valle.
Al
centro della valle si ergeva, sempre nello stile schizzato e con un che di psicologico-impressionista, la parte superiore di una
costruzione immensa, una sorta di piramide a gradoni. I gradoni erano tutti
avvolti fittamente da rampicanti, e da tutto ciò di arboreo che aveva potuto
arrampicare il grosso edificio sacro e immobile, vestigia di popolazioni più
antiche.
Ma
sulla cima della grossa piramide ormai quasi inghiottita dalla vegetazione,
troneggiava un totem d’oro, rappresentante una strana creatura dal corpo di un
essere umano nano, rannicchiato in una posa seduta sui talloni. La testa
assomigliava a quella di un dragone incrociato con qualche altro animale
mitologico; dalle fauci aperte sfuggivano piccole lingue di fuoco dorate. Anche
alla distanza dalla quale osservava l’osservatore immaginario del quadro, gli
occhi di quel totem, pulito e luccicante d’oro in una luce la cui fonte il
pittore non rendeva nota, avevano un che di vivo e smagliante, uno sguardo
penetrante che solcava senza alcuna difficoltà ogni distanza, osservando tutto,
e posandosi con implacabile precisione sull’osservatore che lo spiava di tanto
lontano, come se l’avesse visto subito, immediatamente colto sul fatto.
Nel
silenzio opprimente della stanza, il totem del dipinto parlò con voce chiara.
«
Ma bene, che bel branco di stupidi c’è qui. Certo che è proprio una vera
soddisfazione parlare con voi. » declamò in tono evidentemente ironico.
Dal
gruppo di persone tutte ammassate lì davanti, con gli sguardi vacui fissi sulla
bocca del totem nel dipinto, non provenne alcun segno di reazione. Cionondimeno,
sembravano convinti che non ci fosse niente di maggiormente interessante e
assoluto nella vita che stare ad ascoltare la voce, guardando il quadro
parlante con quella che si sarebbe detta, a voler penetrare con la fantasia la
cortina di indifferenza vacua dei loro sguardi, una venerazione stolida e inconsapevole.
Dalla
bocca dipinta del totem provenne un debole sospiro.
«
Giurerei quasi che non state capendo un accidenti di quello che dico, sbaglio?
Bé, non state a rispondermi, era una domanda retorica comunque. » continuò la
voce con solerzia, come se ormai avesse ben compreso che non avrebbe ricevuto
alcuna risposta, e fosse decisa ad impegnarsi per impedire al silenzio di
inserirsi troppo significativamente tra le sue parole, che cadevano con precisione
netta, quasi ipnotica, tradendo solo leggermente un accento straniero; in ogni
caso, aveva cura di usare un tono da rivelazione apocalittica.
«
Comunque, cosa stavo dicendo? Ah, sì. Bene, vedete, è proprio una storia
completamente assurda. Questo tizio, il taxista, voleva farmi pagare il
sovrappiù! Dico, l’unica volta che prendo un taxi, a causa di un’emergenza, e
vado a beccarmi un maledetto strozzino largo come un armadio e più puzzolente
di una macelleria abbandonata sporca da tre anni. Beh, o quasi. Forse c’hanno
addosso qualche loro istinto del mestiere, e ti sentono l’odore quando sei
nuovo, cioè che non hai mai preso un taxi in vita tua. Come che sia, io gli
dico così, sentite bene: ‘Wé, nano, ma stiamo
scherzando? Ragioniamo un attimo. Se tu non avessi fatto il possibile per
infilarti nelle strade e nei quartieri più trafficati della zona, a quest’ora
sai dove si sarebbe? Prova un po’ a immaginarlo!’. E allora, questo bestione mi
fa… »
Un
piccolo lieve rumore, assomigliante a un gemito, si insinuò tra le parole del
totem. La voce tossicchiò brevemente, con aria irritata, e lasciò perdere la
piccola pausa ad effetto per riprendere a parlare in tono ostinatamente più
alto e proclamante, come se stesse recitando in un teatro grande ed affollato,
e come se fosse giunto a un punto di altissimo pathos narrativo.
Da
qualche parte nella stanza, alle spalle del gruppo immerso in una trance
assorta ed immemore di sé che pendeva dalle labbra del quadro parlante, il
piccolo gemito era stato prontamente azzittito. E fu seguito di nuovo da un
composto ma sospeso silenzio.
Diverse
paia di occhi ben più vivaci e attenti di quelli degli astanti il quadro, anzi,
piuttosto strabuzzati in una suspense densa di tensione, rimasero incollati
ancora qualche lungo secondo alle spalle e schiene dell’immobile schiera che
occupava il fondo della stanza. Poi, finalmente, tornarono a rilassarsi,
concedendosi un sospiro mentale di sollievo.
Facendo
bene attenzione a non provocare alcun rumore col suo gesto, e continuando a mantenere
tutta la sua persona intimamente incollata alla parete alle sue spalle, contro
la quale già da qualche minuto andava strisciando lentamente e silenziosamente,
in direzione del vano che era stato occupato dalla porta ormai in pezzi, Danny
osò muovere la testa. Percorse con lo sguardo la parete lungo la quale andava
spostandosi, senza soffermarsi su nessuno degli altri, ugualmente impegnati nel
suo stesso furtivo spostamento, e si fermò a fissare Harry Darry,
corrugando la fronte nel medesimo istante.
Il
giovane uomo, ancora troppo sconvolto dagli ultimi avvenimenti, che avevano
definitivamente demolito i suoi nervi, era immobile come tutti gli altri, ma
aveva la muscolatura inflaccidita, come se stesse per
lasciarsi cadere a terra da un momento all’altro. Per scongiurare questo, era pesantemente
sorretto ai lati dal robusto Gavin e da Janine; la mano di quest’ultima era risolutamente premuta
sulla sua bocca.
Janine guardò Danny
con aria penetrante e vagamente minacciosa, raggelandolo nel mentre del suo
scuotere appena la testa con disapprovazione. Piuttosto irritato, il ragazzo si
limitò a farle un cenno con la testa, indicandole di continuare a proseguire
verso il vano della porta. La ragazza alzò appena le spalle, con aria
infastidita, e senza rispondergli riprese a muoversi a piccoli passi cauti;
Danny osservò comunque con approvazione il fatto che lei decise di mantenere la
mano schiacciata sulla bocca di Harry Darry, mentre
con l’altro braccio lo sosteneva. Era evidente che l’uomo era sostenuto quasi
solo dalla presa sua e da quella di Gavin, il quale
assecondò prontamente la ripresa del movimento.
Dietro
di loro venivano Bethan e Thomas; questi, pallido e
concentrato, teneva per mano la donna con fare consolatorio. Era poi la volta
di LianDartax, tutto impegnato
nel suo essere calato nella parte di ‘furtivo’, al punto che le labbra carnose
gli sporgevano un po’ in fuori, in maniera quasi bizzarramente comica, e
dall’attaccatura sulla fronte dei capelli mezzo bianchi e mezzo tinti di viola
una sottile patina di sudore gli scendeva sul faccione un po’ rubizzo per lo
sforzo.
Danny
lo seguiva con passi attenti, studiando di volta in volta come muovere i piedi
senza urtare alcuno dei detriti sparsi per terra. Nella mano stringeva la sua
pistola, pronta, e probabilmente inutile. Andrea, che lo seguiva da vicino,
lasciò andare la manica della sua giacca, che aveva afferrato in un rapido
gesto di spavento quando il gemito di Harry Darry
aveva spezzato il loro accorto silenzio.
Danny
se ne dispiacque per un momento. Preferiva sentire il tocco di lei, a conferma
che lo stava seguendo, piuttosto che doversi voltare di tanto in tanto a
lanciarle un’occhiata. Lo fece anche in quel momento, sentendo che lo lasciava
andare. La ragazza, evidentemente tesa e nervosa, aveva però l’espressione
decisa, con le labbra strette; gli rivolse un brevissimo cenno d’assenso, come
per confermargli che andava tutto bene.
Continuarono
tutti a strisciare contro la parete.
Finalmente,
dopo qualche altro minuto, scandito dalla voce del quadro, che intratteneva il
gruppo dei suoi singolari accoliti con racconti sempre più strampalati e
improbabili, ma sempre con tono di solenne declamazione, il gruppetto
costituito da Janine, Harry Darry
e Gavin giunse alla porta.
Janine si voltò, e con
uno sguardo d’intesa lasciò che il peso di Harry Darry
gravasse solo su Gavin e sulla parete.
La
ragazza si allontanò dagli altri due, scavalcò con attenzione i resti della
porta, alzando e muovendo con lenta perizia le lunghe gambe, e sparì oltre la
soglia.
Il
lento sollievo che Danny iniziava a pregustare gli rimase incastrato in gola,
non appena si udì l’allarmata esclamazione di Janine
che andava a sbattere contro qualcuno.
Quasi
subito si udì un’altra voce, maschile, calma anche se sorpresa, che in tono
accortamente cortese le disse «Tutto bene. Sono qui per aiutarti. Hai visto per
caso qui in giro uno strano ragazzo biondo ed evidentemente stupido che… »
Ma
Danny non ebbe quasi il tempo di riconoscere con sollievo la voce di Kumals.
Nonostante
la voce del totem nel quadro avesse alzato il tono e si fosse lanciata in una
serie di vive esclamazioni, cercando di mantenere concentrata su di sé
l’attenzione del gruppo delle persone in trance, alcune di queste ultime,
udendo la voce di Janine e di Kumals,
si erano distratte. Lentamente si erano voltate verso il resto della stanza e
il suo ingresso, e iniziavano a muoversi, a passi pesanti, alzando le braccia
verso i fuggitivi.
«Fuori!
Fuori!» gridò imperiosamente e urgentemente Danny, spingendo verso la porta LianDartax, che era davanti a
lui, e afferrando in un sol gesto e alla cieca un braccio di Andrea che lo
seguiva.
Con
suo grande sollievo, a Kumals occorsero pochi istanti
per realizzare la situazione, e aiutò subito Gavin a
sostenere Harry Darry, mentre tutti si precipitavano
fuori dalla stanza e nel corridoio, dove iniziavano a correre più o meno forte,
ognuno a seconda delle sue immediate capacità.
«Di
qua!» li scortò Kumals, in testa al gruppo.
Danny,
con un gesto rapido, tirò Andrea davanti a sé, mettendosi in coda al gruppo, e
si voltò indietro, prendendo la mira rapidamente e sparando, in tempo per
assestare un proiettile di gomma nel ginocchio del primo dei loro inseguitori,
che stava giusto uscendo dalla stanza al corridoio. Questo, più per la sorpresa
e l’eccessiva lentezza in ogni reazione, piuttosto che per il danno effettivo,
incespicò, cadendo riverso proprio davanti alla soglia. I due che lo seguivano
gli inciamparono subito addosso, cadendo rovinosamente, e abbastanza
precisamente da ostruire agli altri la soglia della stanza.
Danny,
con un sorrisetto soddisfatto, si voltò, andando a sbattere contro Andrea.
«Sei
impazzito?!» gli gridò in faccia lei, afferrandolo per la maglia.
Lui
si strappò una delle sue mani di dosso e la sospinse per farle riprendere la
corsa della fuga, mentre rispondeva precipitosamente. «Sono di gomma!»
«Non
è vero! Anche se sono ridotti in quello stato, possono farsi male comunque…» iniziò a replicare lei.
«I
proiettili, perdio!» specificò lui.
Tuttavia,
nonostante tutto, Andrea aveva già ripreso a correre un po’ davanti e un po’ di
fianco a lui. Si limitò a dare uno strattone per liberarsi della presa con cui
il ragazzo la sospingeva, come per recuperare con cocciuta decisione la sua
completa autonomia di movimenti, e tornò a rivolgere la sua espressione
irritata davanti a sé, lungo il corridoio.
*
***
*
Uther, appiccicato
alla parete esterna dell’edificio, spiò attraverso il buco che trapassava il
muro e il quadro l’effetto dell’arrivo di Kumals e la
fuga precipitosa di tutti. Quando anche la nuca di Danny scomparve nel vano
della porta, abbastanza prima che il gruppo degli individui che aveva
intrattenuto fino a quel momento raggiungesse lo stesso punto, si concesse un
sospiro di sollievo, e staccò l’occhio dal buco.
Fece
qualche passo indietro dal muro, e si sistemò meglio il fucile a tracolla;
quindi si voltò di mezzo giro e si immobilizzò.
Ramo
lo guardava, con aria alquanto confusa.
«Eccoti.»
disse Uther, con un sorriso.
Ramo
rimase in silenzio qualche istante, prima di chiedere, con esitazione «Ma… che diavolo stavi facendo?»
Uther rimase un
momento immerso nell’imbarazzo suscitatogli dal tono dell’altro, prima di alzare
le spalle «Lungo da spiegare ora. Piuttosto, dovremmo dare una mano a… »
In
quella si udì un notevole rumore di diversi passi in corsa sul cemento della
spianata che circondava l’edificio. Ramo si voltò in una posizione allarmata di
difesa verso l’angolo dell’istituto, da cui comparve repentinamente un nutrito
gruppo.
Per
prima apparve una ragazza alta e snella, con i lunghi rasta che le si agitavano
intorno come una nuvola poco più scura della sua pelle e poco meno dei suoi
occhi, mentre lei un po’ correva e un po’ saltellava accanto a Kumals che, insieme ad un altro ragazzo, sostenevano e
quasi trascinavano un tizio biondo dall’aria distrutta.
«Che
diavolo…?» iniziò Ramo, ma subito andò incontro a Kumals, come già stava facendo Uther.
Dietro
di loro c’erano un altro ragazzo, una donna spaventata, e un signore con i
capelli bianchi e viola.
«Kumals…» iniziò a dire Ramo.
«Ci
serve una macchina o due per caricare questa gente.» lo interruppe in tono
pratico e urgente il nominato, scaricando senza tante cerimonie parte del suo
fardello sulla spalla di Ramo. «E in particolare per trasportare questo.» aggiunse,
mentre con un breve sbuffo si liberava del peso di Harry Darry,
con la stessa grazia con cui ci si scarica dalle spalle un pacco pesante.
«E
dobbiamo darci una mossa, perché quei cosi saranno qui da un momento
all’altro!» chiarì.
Si
voltò verso Janine «Abbiamo delle chiavi, qualcuno sa
guidare e se ne sente in grado?»
«Voi
non avete neanche un’auto?» domandò, con tono acutamente critico, la ragazza.
«Ma
dov’è Danny?» si intromise Uther, precedendo di poco
la stessa domanda che stava cercando di fare Ramo.
Kumals indicò con un
gesto infastidito alle sue spalle, e voltandosi i due videro Danny girare
l’angolo. Aveva un’espressione a dir poco contrariata, simile a quella che
occupava il viso della ragazza dai capelli bluette che gli scarpinava accanto
con aria intimidatoriamente decisa.
Ramo
ed Uther aggrottarono le sopracciglia.
«Vediamo
di concentrarci! Noi abbiamo già un’auto, che può trasportare noi e al massimo
un’altra persona. Ce ne serve almeno un'altra con abbastanza spazio. E qualcuno
che sia in grado di guidare.» riprese Kumals, con
decisione.
«Siamo
sicuri…» tornò tuttavia a interrompere Uther, il quale continuava a spiare di sottecchi Danny e il
suo cipiglio innervosito, come stava facendo in parte anche Ramo «… che dentro
non ci sia più nessuno?»
«Nessuno
che non sia già stato inebetito.» rispose Janine,
incrociando le braccia con sicurezza.
«Io
so guidare… » disse debolmente Bethan.
«Non
importa, Bethan, guiderò io.» affermò ancora Janine, dopo averle lanciato uno sguardo piuttosto
preoccupato «Ma non abbiamo le chiavi nemmeno di una sola auto con noi…credo… »
«Questo
non è un problema.» le comunicò Uther.
«Bene,
basta chiacchiere, andiamo alle macchine.» concluse sbrigativamente Kumals. Aveva già notato che Danny, che stava sorvegliando
se arrivava qualcuno dalla casa, si stava un po’ agitando.
Infatti
il ragazzo si voltò. «E facciamo in fretta.» disse.
Quando
il gruppetto ebbe raggiunto le auto parcheggiate, Uther
si fece indicare da Janine la prescelta, un grosso
fuoristrada nuovo, dalla carrozzeria luccicante dello smalto della vernice
verde scuro e argentea.
«Danny.»
disse solo Uther, mentre frugava nelle sue tasche.
Il
ragazzo, che già stava armeggiando da un po’ con la sua pistola, la puntò sul
finestrino del guidatore e fece fuoco. Stavolta era un proiettile vero e
proprio, del caricatore che aveva giustappunto appena inserito per lo scopo,
quello che mandò in frantumi il finestrino. Si era curato di mettere il
silenziatore, ma nell’aria il rumore dei vetri che si infrangevano sembrò comunque
a tutti troppo forte per i loro gusti.
«Stanno
arrivando.» avvertì nervosamente Thomas, che guardava verso l’edificio.
Anche
Kumals, che guardava in quella direzione, fece
sentire la sua voce «Abbiamo altri due minuti, forse. Diamoci una mossa.» comunicò
ai suoi “colleghi”, i quali comunque erano già indaffarati.
In
una sequenza fluida e abitudinaria di movimenti, gli altri osservarono Danny
chinarsi accanto allo sportello, permettendo a Uther
di salirgli sulla schiena, usandola come scalino per entrare meglio nell’auto
attraverso il finestrino. Una volta dentro, si infilò subito sotto al volante,
e iniziò ad armeggiare con i fili che metteva a nudo.
Nel
giro di pochi momenti riuscì a provocare l’effetto di un giro di chiavi,
facendo accendere la centralina elettrica della macchina. Prontamente Danny
inserì il braccio attraverso lo spazio lasciato dal finestrino rotto,
sporgendosi a cliccare il pulsante sul quadrante accanto al volante, facendo
scattare l’apertura automatica degli sportelli.
«Avanti,
tutti dentro, a parte chi è già con noi sull’auto, forza!» incoraggiò
energicamente Kumals.
Ramo
e Gavin, che già aspettavano di fianco a uno degli
sportelli posteriori, lo aprirono e ci caricarono sopra il semi-incapace Harry Darry, mentre anche Bethan e Thomas
si arrampicavano sui sedili posteriori, aiutando a tirar su il corpo dell’uomo.
Mentre
anche Gavin saliva sull’auto, Uther
strisciò fuori da sotto il volante, poco dopo che il rumore del motore si era
fatto sentire, rombando.
«Non
farla spegnere per i primi kilometri almeno, o siete fregati.» raccomandò a Janine, la quale annuì con decisione mentre lo sostituiva
al posto di guida.
«E’
meglio che sali anche tu con loro, per sicurezza.» gli suggerì Kumals.
Uther lo guardò «Non
ci stiamo tutti.»
«Questa
ragazza può venire con noi per ora, vero?» propose ancora l’altro, indicando
Andrea.
Janine guardò Andrea
con intenzione, e la ragazza la contraccambiò con decisione. «Benissimo.»
affermò.
«Non
abbiamo più tempo!» avvertì Ramo, che teneva d’occhio con preoccupazione il
gruppo di persone ciondolanti, ormai a pochi metri dall’auto.
«Vai!»
urlò Uther a Janine,
saltando in fretta sul sedile davanti, scostando abbastanza bruscamente Gavin.
Mentre
la grossa auto partiva, con le enormi ruote che sgommavano sollevando un po’ di
polvere di cemento nella partenza, gli altri che erano rimasti a terra si
allontanarono rapidamente per lasciarle sgombro il passaggio, e per
allontanarsi dal gruppo di persone che arrivavano con solerte velocità
crescente.
«Ramo!»
chiamò Danny «La pistola.»
L’interpellato
ebbe buona prontezza di riflessi, estraendosi la pistola dalla cintola e
lanciandola a Danny, che la afferrò al volo.
Andrea
fece per aggrapparsi al braccio armato di Danny, ma Kumals,
benché confuso sui propositi della ragazza, l’afferrò per un gomito,
rallentandola per gli istanti che servirono a Danny per alzare la canna
dell’arma al cielo e premere il grilletto.
Con
un sibilo penetrante ne schizzò fuori il proiettile, che salì verso l’alto di
alcuni metri ed esplose in un debole razzo di segnalazione. Gran parte degli
uomini e delle donne che si andavano avvicinando loro si soffermò a guardare
verso l’alto, abbastanza interessati dallo spettacolo rossastro e sprizzante un
poco di scintille per dimenticarsi almeno temporaneamente di chi stavano
inseguendo.
Ma
loro non rimasero a guardare l’effetto prodotto dallo sparo di Danny. Questi,
in una sola rapida mossa, si era girato su se stesso, aveva afferrato Andrea
per il braccio e si era dato alla fuga nella boscaglia, subito imitato e
seguito da Kumals e Ramo. Quest’ultimo si tirava
appresso LianDartax,
ansante e pesante, che non era stato abbastanza lesto da salire sul fuoristrada
prima che partisse.
La
luce rossastra di un rapido tramonto invernale inondava l’aria, facendola
apparire ingannevolmente più calda. Ma, come testimoniavano le chiazze di neve sparse
sul terreno e su parte delle chiome degli alberi del bosco, unitamente alla
temperatura piuttosto rigida che andava abbassandosi con l’avvicinarsi della
notte, era comunque inverno.
Uther rabbrividì
appena, e si tirò più su la cerniera del giubbotto, prima di tornare ad
appoggiarsi di schiena all’auto ferma, a braccia conserte. Di fianco a lui
brillò una piccola fiamma; Kumals aspirò, accendendo
la sigaretta, poi allungò l’accendino a Danny, che fece altrettanto.
Tutti
e tre tornarono a fissare l’altra auto, il grosso fuoristrada, fermo a pochi
metri dalla loro, nel bel mezzo dell’incrocio delle strade che si facevano
moderatamente largo solcando serpentinamente la
boscaglia.
Quasi
tutti gli sportelli della grossa macchina verde e argento erano aperti,
mostrando diverse scene.
Sui
sedili posteriori era coricato per il lungo, supino, Harry Darry.
Sembrava che dormisse, un sonno agitato, la testa poggiata sulle gambe di Janine. La ragazza era intenta a vegliarne il riposo con
pazienza, carezzandogli il viso con delicatezza, attentissima ad ogni suo
minimo segno di vita.
Con
aria mal celatamente esausta, seduto sul sedile del guidatore ma voltato verso
i sedili posteriori, Gavin si limitava a guardarli,
come se non riuscisse a farsi venire in mente proprio niente di meglio da fare.
LianDartax, con il panciotto color verde acido un po’
allentato, si avvicinò a Danny, agitando in aria con fare plateale un sigaro
che aveva intenzione di accendersi. Il ragazzo si ricavò l’accendino di tasca
e, benché l’uomo si fosse già infilato il sigaro tra le labbra e si stesse
sporgendo un poco verso di lui, invece di accendergli gli porse l’accendino
perché lo prendesse e si accendesse da solo.
LianDartax gli scoccò uno sguardo corrucciato, ma prese
l’accendino, si accese il sigaro, glielo restituì, e tornò verso il fuoristrada
con passo studiatamente offeso; si assise sul sedile del passeggero, tirando
ampie boccate di fumo azzurrognolo, con fare sostenuto. Nonostante il suo
atteggiamento, era evidente che era molto stanco anche lui.
Danny
fu il primo a girare la testa in direzione della boscaglia, mostrandosi
particolarmente attento. Kumals ed Uther seguirono immediatamente il suo sguardo e attesero.
Poco dopo, una serie di piccoli rumori di passi segnalò che qualcuno si stava
avvicinando.
Dalla vegetazione comparvero, nell’ordine, una
ragazza dai capelli bluette, affiancata da una donna dall’aria molto provata,
un ragazzino magro e pallido e ugualmente stanco, e quindi Ramo con la sua
mazza di legno appoggiata su una spalla.
LianDartax si alzò in piedi e andò loro incontro. Prese tra le
mani quelle gelide di Bethan, e le chiese con
ostentata preoccupazione come si sentisse, chiamandola col nome di
‘professoressa Forrester’.
«B… bene» balbettò la donna, impegnandosi poi in uno
stentoreo sorriso.
Andrea
si era avvicinata a Janine, e le aveva appoggiato una
mano sulla spalla, osservando anche lei in silenzio il viso addormentato di
Harry Darry. Thomas rimase semplicemente fermo in
piedi accanto a Bethan. Sembrava poco propenso ad
allontanarsi troppo da lei.
Ramo
si avvicinò agli altri. «Tutto bene.» disse, come facendo rapporto di fronte
agli sguardi vagamente interrogativi di Uther e
Danny, e sotto quello attento e calmo di Kumals.
Appoggiò la mazza di legno per terra e alla fiancata dell’auto, e si guardò un
po’ intorno, fissando una ad una le persone ivi riunite, con aria un po’
impacciata.
«E
qui come va?» chiese, infilandosi le mani in tasca e stringendosi nelle spalle,
tremando un poco nell’aria fredda.
«Niente.
Vi abbiamo aspettato.» disse solo Uther.
«Come
sta quello?» domandò ancora Ramo, accennando con la testa ad Harry Darry.
«Dorme.»
disse Kumals, lanciandogli un’occhiata appena
interessata «Penso che si riprenderà.»
«Hum… » mugugnò pensosamente Ramo. Indi, avvicinandosi più
strettamente agli altri tre, mormorò piano «Ma… li
portiamo tutti su a casa di Yuta e Zoal?»
«Sarebbe
meglio se raggiungessero tutti al più presto un ospedale.» interloquì Kumals. «Secondo quel ragazzo» e indicò Gavin
«e quell’altro là» e accennò a LianDartax «ce n’è uno a Saint Vikam.
È un paesino non molto lontano da CastleMac’Hearty, dall’altra parte
delle colline, di là.» indicò vagamente una direzione.
«Ma
se anche là… ?» iniziò Ramo, dubbioso ed esitante.
«Qui
i telefoni prendono. La ragazza, Janine mi pare, ha
dato un colpo di telefono. Li stanno già aspettando. Se partono ora, in capo ad
un paio d’ore al massimo dovrebbero essere là. Abbiamo trasferito un po’ della
benzina dalla tua macchina alla loro…» Kumals lo guardò, come per chiedergli approvazione.
Ramo
annuì «Sì, certo, avete fatto bene.»
Si
zittirono.
Andrea
e Janine si stavano loro avvicinando, accompagnate da
un poco energico Gavin e da un LianDartax dall’aria ufficiosa e altisonante. Il sonno di
Harry Darry era stato lasciato alle cure di Bethan e Thomas.
«Allora,
siete in partenza a quanto pare… » disse loro Ramo,
in tono amichevole.
«Sì…Janine ci ha detto.» disse
Andrea. Aveva un’aria poco persuasa, stranamente, come se qualcosa le fosse
rimasto sullo stomaco. I suoi occhi vagano sui quattro ragazzi, indecisi.
«Se
dio vuole!» esclamò invece LianDartax,
piuttosto teatralmente.
«Comunque… » disse Janine,
fissandoli ad uno ad uno con sguardo fiero e deciso «Grazie.» concluse, con
seria sincerità e gratitudine, dopo aver chiaramente deciso di rimangiarsi
qualcos’altro.
Kumals annuì appena,
e, in tono di commiato, le rispose «Non ce di che. Buon viaggio, allora.»
Janine lo guardò
direttamente ed annuì anche lei.
«E
buona fortuna con… lui.» disse ancora Kumals, accennando con il capo ad Harry Darry
«Sono certo che si riprenderà. Ha bisogno di riposare.»
Per
un momento gli occhi di Janine si allargarono,
tradendo la grande preoccupazione che la pervadeva; ma fu solo per un istante
passeggero.
«Certo.»
confermò.
«Allora
noi…» iniziò Kumals.
«Aspettate
un momento.»
Tutti
si voltarono a guardare Andrea, la quale aveva parlato con una certa energia,
ma aveva lo sguardo corrucciato fisso sul terreno, come se non osasse incontrare
gli occhi di nessuno. Di quelle che la stavano fissando, l’occhiata di Janine era certamente la più sorpresa.
«Cosa
succede?» le domandò per primo Gavin.
Andrea
alzò finalmente la testa, guardandolo, ma distrattamente, immersa in altri
pensieri.
«Janine…» disse infine, lentamente «Posso…
potrei parlarti un momento? Cioè, se a voi non dispiace aspettare un attimo…» aggiunse, distogliendo gli occhi da Janine, come se non ardisse guardarla troppo a lungo, per
fissare Kumals e Ramo.
Ramo
alzò le spalle, e occhieggiò gli altri «No, non credo ci siano problemi…»
«Il
sole calerà tra non molto. Dopo potrebbe essere peggio, guidare e il resto.»
intervenne Uther.
«Solo
per un momento. Un paio di minuti.» disse ancora Andrea, prendendo per un
braccio con tocco gentile Janine, che la fissava con
curiosa incomprensione, e invitandola ad accompagnarla mentre si allontanava da
entrambe le macchine. A qualche metro da tutti gli altri, guadagnato un certo
spazio di riservatezza, si vide che la ragazza dai capelli bluette iniziava in
tono esitante e ad occhi bassi e imbarazzati un discorso a Janine,
la quale ascoltava con viva attenzione.
Kumals guardò Gavin, e interruppe il silenzio di disagio che si era
creato tra loro chiedendogli «Uther ti ha spiegato
bene, quindi, come riavviare il motore, nel caso occorra?»
Il
ragazzo annuì «Sì, non è difficile, non sarà un problema.»
«Molto
bene.» commentò Kumals.
Ricadde
un denso silenzio, interrotto dal fitto mormorio incomprensibile di Andrea, e
da brevi parole in tono aspro di Janine.
«Magari
intanto potremmo salire in macchina.» propose Gavin.
«Eh
sì, sarà il caso.» fu d’accordo LianDartax.
«Bene,
allora… grazie ancora di tutto…
» si congedò Gavin, allungando in avanti una mano.
Ramo la strinse, e, un po’ meno prontamente, anche Kumals,
Danny e Uther fecero altrettanto a turno, per poi
ripetere il gesto con LianDartax.
«Buona
fortuna.» stava giusto dicendo Danny, quando un mezzo urlo li fece sobbalzare.
«Dico,
tu stai scherzando!» strillò Janine.
Tutti
si voltarono a guardarla, compresi Bethan e Thomas.
La
ragazza si era piazzata le mani sui fianchi con aria battagliera, e ascoltava
con cipiglio severamente contrariato Andrea, che parlottava ancora a bassa
voce.
Danny
aveva l’impressione di avere, in quel momento, un pensiero non troppo dissimile
da quello che doveva star circolando nella testa dei suoi tre amici: perché mai
le due ragazze avevano scelto proprio quella situazione per farsi chissà quali
strette e urgenti confidenze private?
«Magari
intanto salgo in macchina anch’io.» si risolse a dire Kumals,
e lo fece, chiudendosi dietro lo sportello, dopo essersi accomodato sul sedile
del passeggero.
Gavin e LianDartax rivolsero qualche
ultimo cenno di saluto a Ramo, Danny ed Uther, e
anche loro andarono a sistemarsi sui sedili del fuoristrada.
Fu
il turno di Thomas di avvicinarsi a loro tre. Il ragazzo li guardò, piuttosto
intimidito, e disse che li ringraziava, sia da parte sua sia da parte di Bethan. Quando occhieggiarono nella sua direzione, videro
la donna fare loro un cenno di saluto, che ricambiarono. Anche con Thomas
furono scambiate strette di mano etconsimilia.
Ramo
stava appunto scambiando per ultimo con Thomas una stretta di mano ricca di un
certo imbarazzo da formalità, quando si resero conto che le due ragazze avevano
finito di parlare. Per la precisione, Andrea stava marciando risolutamente
verso di loro, mentre Janine la seguiva scuotendo la
testa e borbottando tra sé e sé.
La
ragazza dai capelli bluette si fermò di fronte a loro, le gambe un po’ larghe
per consentirle una posizione decisa, le mani a pugno sui fianchi, e
un’espressione che, da risoluta, si addolcì un poco in un accenno di sorriso
nel guardarli; sembrava decisa anche ad ignorare le espressioni stupite e un
po’ confuse con cui la stavano considerando.
Kumals era lentamente
sceso dalla macchina, avendo assistito allo strano comportamento della ragazza
attraverso i finestrini, e, appoggiatosi con un braccio al tettuccio, la
guardava con scarsa pazienza, ma comunque anche con una certa pigra curiosità.
Janine si fermò a
pochi passi da lei, vicino al fuoristrada, incrociò le braccia sul petto e
rimase a guardarla, come se la mettesse alla prova tra sé e sé.
«Io
vengo con voi.» disse Andrea.
Danny
non avrebbe saputo dire se era stato più il significato semplice e diretto
delle sue parole, o più la sua aria risoluta, animata da una fondamentale
sicurezza, ma messa appena in dubbio dal suo lieve sorriso un po’ autoironico e
un po’ dolcemente dubbioso, a fargliela apparire maggiormente folle. Folle in
modo carino, e con un che di eroicamente drammatico, d’accordo, era da
concederglielo; ma pur sempre folle. E, fatto ancor più curioso, quella follia
aveva un che di assolutamente naturale e benevolo.
Mentre
ancora lui accusava l’estraneità di quella sensazione, udì la voce placidamente
calma e gentile di Kumals, alle sue spalle.
«Sì?»
chiese, con tono apparentemente innocente. Chi lo conosceva, l’avrebbe però
trovato sinistramente minaccioso. Era chiaro che Kumals
si andava spazientendo, e parecchio anche.
Spiazzata
da quella semplice domanda, e forse intuendo che c’era qualcosa che non andava
in una risposta così tranquilla, Andrea tacque, ed allargò un po’ gli occhi,
stupita. Non doveva essere quella la reazione che si era aspettata.
«Io
ho provato a dissuaderla.» disse Janine «Ma questa ha
una testa dura che non vi dico. E quando decide qualcosa…
ah, beh, allora è un’impresa.». Nonostante il suo tono riprovevole, Danny ebbe
l’impressione che la ragazza stesse rivolgendo all’amica una specie di commento
che faceva di tutto per non sembrare generosamente pregno di meritorio
rispetto.
«Mhmmhm, capisco.» disse ancora Kumals, mostrandosi falsamente comprensivo. Di nuovo, il
suo tono fece un po’ rabbrividire Danny.
«E
come mai vorresti venire con noi?» chiese ancora Kumals,
in tono pressoché amabile.
Sul
viso di Andrea comparve una lieve esitazione. Ma, se era stata messa in
evidente difficoltà, si riprese in fretta, e rispose in tono ancora più saldo
«Per darvi una mano.»
Kumals sospirò.
«Sei
molto gentile…» iniziò «…e
molto coraggiosa.» puntualizzò, con obbiettività «Ma il fatto è che…»
«So
di non potervi essere di molto aiuto. Non sono stupida.» lo interruppe Andrea,
facendo sussultare Danny. Difficilmente qualcuno di loro si sarebbe azzardato
ad interrompere così direttamente Kumals, quando
assumeva quel tono. Anche Ramo, accanto a lui, era ugualmente impressionato.
Sul viso di Uther, invece, andava facendosi strada
un’ombra di sorriso, segno che ammirava l’audacia dell’azione; ma i suoi occhi
erano attenti e molto seri.
«Non
così stupida, almeno.» proseguì imperterrita Andrea «Mi sono resa conto che
avete capacità… non comuni.» e qui il suo sguardo si
soffermò per un momento su Danny.
Il
ragazzo ebbe lo sgradevole sentore degli occhi di Kumals
che gli perforavano la nuca insistentemente, ma evitò di voltarsi, benché
sentisse sudore freddo iniziare a inumidirgli il collo.
«Però,
sono certa che a qualcosa potrò pur riuscire ad essere utile. Sempre meglio,
insomma, che non fare niente, e mettermi solo in salvo. Non potrei tollerarlo.
Sta succedendo qualcosa, a tutte quelle persone. E se qualcos’altro può essere
fatto, per aiutarle, per farle tornare come prima, ho intenzione di fare la mia
parte in questa direzione.»
I
suoi occhi, nocciola dorato, esalavano uno sguardo di ferrea determinazione, ed
erano fissi in quelli di Kumals, come se avesse
intuito che in quel momento era lui il suo maggior detrattore, anche se prima
avevano vagato ad incrociare gli sguardi degli altri tre.
Calò
un profondo silenzio, saturo di tensione.
Thomas,
rimasto sorpreso da tutta quella scena mentre, lasciata andare la mano di Ramo,
si apprestava a tornare verso il fuoristrada, era rimasto bloccato sul posto
vicino al gruppetto costituito dai tre ragazzi, e non aveva più osato muoversi.
Impacciato, assisteva alla scena con aria grottescamente comica, lanciando
sguardi rapidi da Andrea a Kumals e viceversa. Danny
non invidiava affatto la sua posizione; lui non avrebbe osato guardare Kumals negli occhi, in quel frangente.
«Degno
di lode, da parte tua.» replicò Kumals. Stavolta il
suo tono aveva una notevole freddezza impersonale, tagliente e netta «Tuttavia,
in gran parte per i motivi che tu hai già detto, questo è fuori discussione.»
«Bene.»
ribatté Andrea. Questo sembrò sorprendere lo stesso Kumals,
che non avrebbe avuto difficoltà a fronteggiare risolutamente ulteriori
insistenze, per quanto fantasiose o studiate o piene di suppliche o di che
altro.
«Certamente
voi non avete il monopolio del contrasto di questa cosa che si sta
impossessando delle persone.» disse Andrea, calma e decisa.
«E
non sono qui a chiedervi il permesso di fare qualcosa.» proseguì, chiara.
Danny
sentì un brivido gelido di allarme percorrergli la schiena.
«Vi
sto chiedendo solo di venire con voi. Se non mi volete, andrò per mio conto.»
Qui
Uther intervenne quasi frettolosamente, chiaramente
nel tentativo di smorzare il confronto di sfida diretta che si era creato tra
Andrea e Kumals. Danny gliene fu profondamente grato.
«E
dove andresti, di preciso, se posso chiederlo?» le domandò.
Andrea
lo guardò, e alzò le spalle «Penso che tornerò a prendermi un’auto alla scuola,
per iniziare. E cercherò di procurarmi anche qualcosa da mangiare.»
«Non
puoi dire sul serio.» obbiettò con calma ragionevolezza Ramo; ma il suo tono un
tantino più acuto del solito tradiva una certa semi-disperata incredulità.
Andrea
lo guardò «Starò attenta. Da sola sarà più facile non farmi prendere.»
«E
farti ammazzare in buon ordine senza che nessuno ne sappia niente.» mormorò
pianissimo Kumals, tra i denti. Danny lo udì
distintamente, ma era chiaro che solo lui, Ramo, Uther
e forse Thomas erano abbastanza vicini da averlo inteso.
Danny
si schiarì la voce, e si rivolse alla ragazza, cercando un tono calmo.
«Ascolta,
potrebbe essere inutile tornare là, ora. Magari potresti venire con noi, a casa
delle nostre amiche. Là intanto potresti riposare e mangiare qualcosa. E
ripensarci meglio.» concluse. Sapeva che prima o poi avrebbe dovuto voltarsi
per fare i conti con l’espressione che doveva star concentrando Kumals sulle sue spalle in quel momento, ma ingoiò saliva e
focalizzò sul volto della ragazza, per vedere l’effetto prodotto dalle sue
parole.
Andrea
lo stava fissando come per accertarsi delle sue intenzioni.
«Se
non è un problema, potrebbe andare bene anche così, per il momento.» disse
infine, tornando a guardare Kumals.
Prendendo
il coraggio a quattro mani, anche Danny si voltò a fissare Kumals,
sentendo che anche Ramo si voltava un po’ a spiarlo, cercando di non farsi
notare. Non così Uther, che continuò a dargli le
spalle, aspettando semplicemente con attenzione di udire la sua risposta
verbale.
Lo
sguardo di Kumals era gelido. Lanciò una lunga
occhiata a Danny, che lo intese benissimo. Gli stava comunicando che ora la
responsabilità era tutta sua, perché lui, Kumals, a
quel punto aveva intenzione di lavarsene le mani di quanto poteva riuscire a
cacciarsi nei guai la ragazza.
Era
già meno peggio di quanto si era aspettato Danny, come reazione.
In
ogni caso, sapevano tutti benissimo che Kumals non
sarebbe mai riuscito a disinteressarsi di qualcuno fino a quel punto, a meno
che non avesse ottimi motivi per odiarlo. Piuttosto, invece, era chiaro per chi
ben lo conosceva che l’uomo stava combattendo contro la spontanea ammirazione
che il carattere deciso, benché sconsiderato , di Andrea iniziava a
solleticargli. Danny lo capiva, perché provava qualcosa di simile, al momento.
«Come
hai detto tu, puoi fare quello che ti pare. Se vuoi venire a mangiare e dormire
da Yuta e Zoal, lo
chiederai a loro. Non è casa mia, quella. Se vuoi un passaggio, chiedi a Ramo,
la macchina è sua. Come vedi, non hai nulla da chiedere a me.» e così
concludendo, Kumals si ritirò nuovamente in macchina,
chiudendosi di nuovo lo sportello dietro, e sbattendolo più forte del
necessario.
Quel
rumore suonò per Danny come quello del martelletto di un giudice rabbioso che
cala dopo la sentenza. Tirò un profondo sospiro di sollievo mentale, e si
ritrovò a guardare l’espressione incredula ma sollevata di Ramo.
Andrea
era rimasta non meno sorpresa, quasi stordita, come se avesse appena ottenuto
una vittoria che le sembrava troppo facile. Dopo una lieve smorfia di indecisa
diffidenza, si rivolse a Ramo. «Quindi, me lo dai un passaggio?» domandò, con
un pizzico di forzata allegria.
Uther emise un lieve
sbuffo divertito, in cui Danny riconobbe un segno di tacita approvazione.
a Lucretia:
eccoci qui, anche se non mi dispiace la faccenda di poter rispondere
direttamente alla recensione con l’apposito pulsante, preferisco rispondere nel
capitolo successivo, in fondo :)
Ebbene sì, all’inizio dello scorso ho
proprio voluto piazzare, per ispirazione del momento, un momento di defocalizzazione dai nostri protagonisti, per creare
spaesamento e far rimanere un momento sbigottiti di fronte a un quadro
parlante. Inizialmente uno pensa di essersi perso qualche pezzo…
E invece, poi, mettendo insieme i pezzi, dovrebbe diventare chiaro che il tutto
è un trucco di Uther, ma dal tuo commento non ho
capito se hai capito l’aspetto tecnico, indi vado a spiegarlo per esteso
(bisogna unire vari elementi disseminati per intuirlo questo trucco, e forse ho
orchestrato male la cosa, sig): Danny ha appoggiato
alla parete un comune quadro (quello che Bethan e
Thomas tentavano di far stare in equilibrio sulla catasta di oggetti che
formavano la barricata),proprio davanti al buco che lui e Andrea erano riusciti
a creare nella parete;parlando attraverso quel buco, e rimanendo celato dal
quadro, Uther riesce a far credere ai contagiati (che
come abbiamo visto non brillano per acume) di trovarsi di fronte a un oggetto
inanimato purtuttavia in grado di parlare, riuscendo
così a intrattenerli. Ebbene, è una cosa particolare da notare…
questi soggetti contagiati sembrano riuscire comunque a percepire la differenza
tra un oggetto inanimato capace di far qualcosa per intrattenerli (come un
quadro parlante) e un qualche individuo animato (che invece di solito si
apprestano ad inseguire).
Per finire, nel titolo si suggeriva un parallelo
tra il trucco del quadro parlante e quello di poter far partire un’auto senza
avere le chiavi(a nota di cronaca devo dire che quella era un po’ una
forzatura, perché o il fuoristrada era un modello piuttosto vecchio, o penso
che non sarebbe stato così facile… i modelli più
moderni non sono così immediati da avviare col gioco dei fili…).
Insomma, direi che i quattro di picche conoscono qualche trucchetto
utile per cavarsela con poco a disposizione ma in maniera sufficiente a salvare
la pelle a loro ed eventuali altri… purché la fortuna
collabori forse… ^^
Comunque, come si sarà confermato anche in
questo capitolo credo, ebbene sì, mi sa che la popolazione femminile di questo
racconto ha una certa grinta… ma non tutte tutte (Bethan fa eccezione, anche
se a breve comparsa)… ecco, diciamo che due (Yuta e Zoal) sono due personaggi che sono così ad ispirazione di
personaggi reali, e almeno di primo acchito sono come sono :)Riguardo alle altre, c’è stata un po’ di
“selezione naturale”, nel senso che per sfuggire a ciò che è accaduto di punto
in bianco nella scuola ci voleva una certa decisione, prontezza di riflessi, o
essere già dentro/vicino a una stanza che si potesse chiudere, o a qualcuno che
avesse abbastanza fegato e fortuna per entrambi^^ Comunque, all’appello delle protagoniste manca ancora Zoal… tra non molto, tra non molto :)
L’auto
procedeva sobbalzando su una strada sterrata. Sui sedili posteriori, Andrea,
seduta tra Uther e Danny, cercava di mantenersi
composta senza rischiare di sbilanciarsi e cadere in qualche direzione;
faccenda oltremodo difficile, con tutti quei sobbalzi. Un po’ l’aiutava
l’aggrapparsi saldamente al poggiatesta dei due sedili davanti.
Per
tutto il viaggio, che durava ormai da una mezzoretta, nell’abitacolo era
regnato il più assoluto silenzio. Lei si sentiva semplicemente ignorata.
Provava
una grande mancanza dell’abbraccio stretto con cui si era salutata con Janine. Le aveva mormorato in fretta parole incoraggianti
riguardo le future condizioni di Harry Darry.
L’amica, invece, aveva avuto molte più cose da dirle, e sicuramente non era
riuscita a dirgliele tutte. Per la maggior parte si trattava di raccomandazioni
perentorie sul non fidarsi di quello scalcagnato gruppo di sconosciuti, sullo
stare attenta e in guardia, sull’avere cura di sé; e sul tenersi sempre a
portata di mano lo spray anti-aggressione al peperoncino che le aveva passato,
di nascosto da tutti gli altri.
Tutto
questo non aveva sortito altro effetto che far accrescere l’inquietudine che
Andrea già provava nei confronti di tutti quelli con cui condivideva ora
l’auto.
Non
che le sembrassero particolarmente pericolosi o minacciosi. No, non poteva
arrivare a pensare tanto. Di certo, però, non si sarebbe sentita tranquilla ad
affidare la sua vita nelle loro mani nella maggior parte delle situazioni, non
dopo aver visto la loro rocambolesca e confusionaria “azione di salvataggio”
alla scuola. Eppure, anche se non le piaceva pensarci troppo, sembrava che loro
si fossero trovati in una situazione che non gli era così estranea. Sicuramente
avevano qualcosa fuori dal comune.
Andrea
li spiò uno per uno, cercando di non farsi notare. Cosa che non le risultò
troppo difficile, dal momento che continuavano ad ignorare ostinatamente la sua
presenza.
Al
volante c’era quello che sembrava il meno bizzarro dei quattro; a parte il suo
nome. ‘Ramo’. D’accordo, forse era solo un soprannome. Niente di
particolarmente strano da notare a suo riguardo. Anzi, sembrava gentile,
tranquillo, e amichevole. Ciò non spiegava cosa ci facesse in compagnia degli
altri.
Kumals, seduto accanto
a lui nel posto del passeggero, sembrava circondato da un’aura di malumore, al
momento. Era comunque meno inquietante e minaccioso di quando aveva discusso
con lei, poco prima. Nonostante i suoi modi apparentemente calmi, persino
piuttosto freddi e scostanti, era chiaro che sapeva dosare abilmente una velata
autorità perpetua in sottofondo; allo stesso tempo, sembrava cercasse di
nascondere ostinatamente un carattere ben più accorato di quello che non
apparisse immediatamente di lui. Per non parlare poi di quell’orrendo cappottone che si portava addosso; non si capiva di che
materiale fosse fatto, ma aveva un aspetto particolarmente sinistro, e sembrava
fatto di pelle di qualche essere vivente che non era stato ammazzato del tutto
prima di essere conciato.
Andrea
rabbrividì. Ebbe l’impressione, per un momento, che un paio di sguardi
l’avessero spiata fugacemente, prima di tornare a voltarsi repentinamente
ognuno sul proprio finestrino.
Accanto
a lei poteva “contare” sulla presenza di altri due tipi mica poco strambi.
Uno,
quello biondastro, non molto alto, con gli occhi azzurrissimi, un’incolta barba
corta, e una faccia che aveva tutto il fascino di quella di un ladro di
bestiame da far west raffazzonato alla belle’e’meglio, se l’effetto non fosse
stato rovinato da un’espressività particolarmente viva e sensibile, aveva nome Uther. Emanava un certo odore di birra, mischiato a quello
di sapone grezzo e di polvere da sparo. E si portava sempre appresso un fucile,
come se lo considerasse un compagno inseparabile.
Andrea
odiava le armi. E, nonostante ciò, aveva la curiosa impressione che quel tipo
non fosse solito usare molto il suo fucile. Non l’aveva mai visto nemmeno
accennare la mossa di imbracciarlo.
La
stessa cosa non si poteva purtroppo affermare a riguardo dell’altro. Andrea si
trattenne dallo spiare di sottecchi quello che si chiamava Danny. Anche lui
odorava un po’ di birra, e di un sudore che sembrava derivare dall’essersi
rotolato nella terra di bosco, qualcosa di muschiato che non si poteva
associare a qualche prodotto che si potesse acquistare. Al momento sapeva anche
della polvere di intonaco che gli era rimasta un po’ impigliata nei capelli e
negli abiti. Con quei capelli colorati di biondo giallo da tintura, quegli
orecchini ad anella all’orecchio, i vestiti costituiti da jeans scuri un po’
strappati, da una maglietta dai bordi sfrangiati dall’uso e con qualche piccolo
buco qui e là, oltre al giubbotto, non si poteva dire che sarebbe passato inosservato
molto facilmente.
Forse
non sembrava il più bizzarro dei quattro, ma aveva quell’aria da giovane punk
stagionato, e uno strano miscuglio di spensierata sconsideratezza giovanile e
di amaro cinismo stantio che gli rendeva l’espressione e i gesti mobili e molto
diversi tra loro, in un’ampia gamma di carattere pressoché lunatico e sempre in
rapido cambiamento. Difficile stargli dietro. E ciò lo faceva apparire fin
troppo imprevedibile. Senza contare che, con il suo azzardato modo di fare, li
aveva messi tutti nei guai, prima, nella stanza, e aveva ridotto male i nervi
di Harry Darry. Poi, continuava a usare quelle
pistole ad ogni piè sospinto, con quella stupida aria spavalda eppure molto
seria e attenta, quasi indecifrabile. Infine, ma era la cosa più importante al
momento per lei, Andrea ricordava molto bene come lo aveva visto rompere un
pezzo di muro a suon di calci e pugni dalla forza stranamente eccessiva. A
ripensarci, le sembrava impossibile, troppo inverosimile; e dannatamente
sinistro.
Rabbrividì
di nuovo, prima di rendersene conto.
Di
nuovo i due ragazzi seduti di fianco a lei la spiarono appena di sottecchi. Le
parve che si scambiassero poi una furtiva occhiata tra di loro. Infine, Danny
si schiarì debolmente e nervosamente la voce.
«Hai
freddo?» le domandò.
«No.»
rispose lei, il più tranquillamente e anonimamente possibile. Poi ci ripensò.
«Grazie.» gracchiò debolmente.
Danny
non parve convinto, perché continuò ad osservarla per qualche istante, quindi
alzò le spalle con l’aria di disinteressarsi del tutto, e riprese a guardare
fuori dal finestrino.
Andrea
si morse le labbra di sfuggita. Certo che era proprio irritante.
Pochi
minuti più tardi, l’auto rallentò e si fermò.
Lei
spiò fuori dai finestrini. Erano ancora nel bel mezzo della boscaglia, ma la
strada sterrata finiva lì. Istintivamente infilò una mano in tasca, stringendo
forte le dita attorno al tubetto dello spray anti-aggressione.
Come
se le avesse letto nel pensiero, Ramo si voltò indietro, dopo aver spento il
motore, e le spiegò che la strada non arrivava fino alla casa, ma dovevano fare
un piccolo tratto a piedi.
Andrea
annuì, ma tra sé e sé si sentì il morale sprofondare sotto le scarpe. Si
sentiva parecchio stanca.
«Non
è molta strada.» le comunicò Uther, come a voler
essere rincuorante.
«Ok.»
gli rispose lei, rivolgendogli un piccolo sorriso grato.
Kumals e Danny erano
già scesi dall’auto, e sembravano decisi a far di tutto per ignorarsi anche tra
di loro. Era chiaro che avevano qualcosa in sospeso di cui parlare. Ed
effettivamente, mentre gli altri tre camminavano nel bosco verso la casa, che
dopo poco iniziò a intravedersi tra la vegetazione, loro due rimasero un po’
più indietro, parlottando fittamente tra di loro.
Di
tanto in tanto, Andrea sentiva il tono di Danny alzarsi un po’ di volume, preso
dall’animazione del discorso, ma subito tornava ad abbassarsi, probabilmente
ammonito da un gesto o un’occhiata di Kumals.
Nonostante fosse molto curiosa di capire cosa si stessero dicendo, Andrea
sapeva con sicurezza che non erano fatti suoi, e che non la riguardavano
abbastanza direttamente. O almeno lo sperava.
In
ogni caso, di lì a poco si trovò occupata a studiare la casa davanti a cui si
erano fermati. Prima che potesse esaminarla sufficientemente, comunque, la
porta si spalancò, quando loro erano a pochi passi da essa, e corsero fuori
alcune persone.
Una
ragazza, alta e con una corporatura massiccia da amazzone impreziosita da un
vestito dark, corse verso di loro, mostrando una certa agilità possente,
nonostante i grossi e pesanti anfibi borchiati che le appesantivano i piedi, e
ignorando gli altri volò con impeto tra le braccia di Ramo. Andrea fece in
tempo a spiare sul volto di lei un’espressione di ansioso sollievo, prima che
seppellisse il viso contro la spalla del ragazzo, che ricambiò strettamente
l’abbraccio, semicelando un sorriso nel collo di lei.
Un
piccolo cagnolino dallo sparuto pelo nero con screziature grigio cupo,
abbaiante e scodinzolante, zoppicò agilmente su tre zampe contro le gambe di
Ramo, iniziando gioiosi festeggiamenti di benvenuto. Non si diede pace finché
Ramo non si sciolse parzialmente dall’abbraccio della ragazza, per dedicargli
la sua attenzione contenta. Solo dopo il cagnetto passò con soddisfazione a
dare il benvenuto agli altri, soffermandosi a ballare giocosamente intorno a un
allegro Danny.
C’era
un’altra ragazza, alta e dalla bellezza con un che di etnico, col fisico
flessuoso che ricordò immediatamente ad Andrea quello di Janine,
facendole provare una vena di mancanza. Il suo carattere però sembrava molto
diverso. Con un sorriso brillante che gli illuminava gli occhi dalla forma un
po’ allungata e obliqua, scambiò abbracci affettuosi con tutti i ragazzi,
mostrandosi un po’ meno spontanea solo nei confronti di Kumals,
al quale rivolse alcune parole in tono ironico, in uno scherzoso saluto che
Andrea non intese completamente. Aveva qualcosa a che fare, in maniera
derisoria e parodica, con l’eroismo di lui.
Andrea si trovò di colpo davanti un ragazzo, e
sussultò sorpresa.
«Ciao»
le disse questi. Nonostante il suo aspetto assolutamente comune e
insignificante, oppure proprio per quello, non le diede una buona sensazione,
così sul momento.
Lei
ricambiò esitante il saluto.
«Io
sono Justin. Tu?» disse ancora il ragazzo, con le mani in tasca ed un’aria
svagata ma interessata.
«Andrea»
disse solo.
Lui
la guardò improvvisamente stupito e incredulo, e scoppiò in una breve risatina
irritante, come se volesse mostrarsi gentile nei confronti di uno scherzo mal
riuscito.
«No,
sul serio dai, come ti chiami?» insisté.
Lei
lo guardò male. «Te l’ho appena detto.» gli rispose, in tono ormai piuttosto
scontroso.
Il
ragazzo strabuzzò gli occhi, e il risolino che aveva stampato in faccia
continuò ad accrescersi, divenendo perpetuo. «Dai, mi stai prendendo in giro. È
un nome da maschio.»
«No.
È un nome da femmina, di origine tedesca, probabilmente.»
Andrea
sussultò. A parlare, in tono calmo ma velato di minaccia, era stato Uther, comparso come dal nulla di fianco a lei. Questo la
irritò: non aveva certo bisogno di essere difesa.
«Sì,
come stavo per dirti.» affermò Andrea, tornando a fissare Justin, che ora
pareva confuso, anche se ancora non gli era sparita dalla faccia l’espressione
piuttosto derisoria. Sembrava stesse cercando di smascherare un scherzo
collettivo di cui era convinto di essere vittima, e non voleva sembrare
stupido. Cosa che era un peccato, perché sembrava riuscirgli benissimo,
constatò Andrea tra sé e sé. Ne aveva già abbastanza. Perché diavolo era voluta
venire lì?! Forse era lei la più stupida.
«Ma
no dai…» stava insistendo Justin, con una smorfietta divertita «Mi prendete in giro…
E poi vuoi dire che in Germania chiamano le femmine con nomi da maschio? Mica
sarà una cosa normale che…»
«Justin.»
a chiamarlo, interrompendolo con voce flautata, era stata Yuta,
che si era avvicinata a loro. «Potresti andare a controllare la pentola sul
fuoco?» domandò, rivolgendogli uno sguardo appena ammiccante, sbattendo un paio
di volte in più del necessario le lunghe ciglia.
Il
ragazzo le sorrise con aria sorniona, e tuttavia chiese «Quale pentola?»
Ad
Andrea fu chiaro che Yuta si stava trattenendo dal
reagire in maniera ben meno amichevole, ma il suo tono suonò ancora quasi
amorevole. «Quella che abbiamo messo sul fornello prima. È la nostra cena.
Dovresti dare un paio di mescolate, controllare che non stia bollendo troppo
forte, e in quel caso abbassare un po’ la fiamma. Poi magari aggiungici un paio
di pizzichi di origano, e una manciatina di quell’aglio che ho schiacciato
prima, e rimescola bene il tutto. Se ti sembra, aggiungi anche un po’ di sale.
Le spezie sono sulla mensola sopra ai fornelli, sai no?»
«Sì,
certo certo. Ormai sono di casa.» concordò Justin.
Tornò a guardare Andrea. «Beh, dopo me lo spieghi meglio allora questa cosa del
nome.» e le fece l’occhiolino.
«Contaci.»
mentì spudoratamente Andrea, senza nascondere troppo un accenno di ironia che
fece ammiccare sulle labbra di Uther un leggero
sorrisetto, e accese un brillio divertito negli occhi di Yuta.
Justin
entrò in casa, e non appena fu sparito dalla loro vista, Yuta
emise un generoso sbuffo d’esasperazione e, in tono completamente diverso da
prima, si voltò verso Danny, che li aveva raggiunti.
«Parola
mia, quello è impossibile. Non so proprio come hai fatto a viverci insieme fino
ad ora.»
«A
ben pensarci, non lo so più nemmeno io.» rispose Danny, sincero.
«Allora,
è veramente triste che abbiamo permesso che ti desse lui il benvenuto.» disse Yuta, rivolgendosi ad Andrea con aria complice «Comunque,
non farti scrupoli. Puoi maltrattarlo quanto ti pare, finché sarà valido a
tenertelo alla larga. O, se vuoi il mio parere, potrebbe essere anche più utile
ignorarlo. In qualsiasi modo lo tratterai, per buona parte del tempo sarà
convinto di piacerti, e si sentirà in dovere di annoiarti e infastidirti in
ogni maniera possibile.»
Andrea
la guardò, sbigottita dalla sua parlantina vivace e magistralmente accompagnata
da un tono ironico che metteva a nudo un’acuta intelligenza, e infine, senza
quasi accorgersene, scoppiò a ridere.
Un
lento sollievo un po’ stupito si fece strada sui volti di Danny ed Uther, nell’udire la sua risata cristallina, e fece
sorridere Yuta, che disse ancora «Bene, ci siamo
intese. Io sono Yuta. Benvenuta. Puoi fare come se
fossi a casa tua, ma non prendere esempio da questi qua per favore…»
e indicò brevemente Danny e Uther «Anzi, cerca di non
farti troppo coinvolgere. Sono dei disastri umani. Senza offesa, Danny.» e
ammiccò nella direzione del ragazzo, il quale provava all’improvviso anche lui
una gran voglia di ridere, ma sentendo quest’ultimo commento arrossì appena.
«Ecco,
a proposito di ‘disastri umani’… hai detto benissimo.» si fece udire la voce di
Kumals, che li aveva raggiunti in tempo per udire
l’ultima parte della frase.
«Perché,
cos’è successo?» domandò Yuta, incrociando le braccia
e lanciandogli un’occhiata del tipo ‘non mi lascio abbindolare dalle tue solite
esagerazioni’.
«Beh,
è stato un completo disastro.» disse Kumals,
occhieggiando Danny, che si sentì in dovere di rispondere con energia.
«Hey, come facevo a sapere che su quella maledetta porta
c’era un allarme?»
«Danny,
un edificio di super-ricconi estrosi, moderno, immerso in un bosco, senza
allarme per gli intrusi? Avanti, non ci vuole tutta questa immaginazione.»
replicò Kumals, alzando appena un sopracciglio
eloquente.
Di
fronte allo sguardo offeso e corrucciato del ragazzo, Andrea si ritrovò a
ridacchiare appena, di nuovo. Quando Danny si voltò a guardarla, con aria
sorpresa e contrariata, lei si ritrovò a dire, piano «Scusa…»
Il
che fece arrossire Danny, di rimando.
«Comunque… io sono Andrea.» disse lei, rivolgendosi a Yuta con un sorriso.
«Io
mi chiamo Valentine» si presentò anche la ragazza
dark, che li aveva raggiunti insieme a Ramo e al cagnetto, che subito dopo
indicò ad Andrea, giusto mentre il piccolo tripode le si avvicinava annusandole
le scarpe e scodinzolando amichevolmente. «E lui è Tirch.»
lo presentò, con fare allegro.
Intanto,
Kumals lanciava un’occhiata densa di allusioni al
rossore che colorava ancora le guance di Danny, e gli assestava una debole
gomitata complice da dietro. Ma Danny, il cui sguardo e pensiero era evidentemente
ancora concentrato altrove, perse quasi l’equilibrio per quel gesto, e Ramo lo
afferrò per un braccio per evitargli di cadere.
Riprendendo
l’equilibrio, Danny si assicurò che nessun’altro avesse notato la sua penosa
performance, quindi si accorse che Uther lo stava
guardando. Fece a malapena in tempo a cogliere l’accenno di un’espressione
singolare e sconosciuta, ma l’altro aveva già distolto lo sguardo in fretta,
dirigendolo altrove, e celando repentinamente qualsiasi espressione avesse
portato fino ad un istante prima.
**è tedesco. Se ho
azzeccato la traduzione, visto che il tedesco lo mastico ma non con tutta
questa sicurezza, dovrebbe significare ‘Andrea, di nuovo’. Se ho sbagliato, e
andava invece usato ‘wieder’ o ‘wiederum’,
o qualcos’altro, e qualcuno lo sa, me lo segnali se passa di qua e ne ha
voglia, grazie.
a Lucretia: è sempre bello leggere qualche recensione, le
tue mi piacciono particolarmente, ma in via generale è pur vero che qualcuno
che recensisce da l’idea che quello che si sta scrivendo possa aver fatto
passare qualche minuto di piacevole svago a qualcuno :)Non avrei detto che Andrea sembrasse così
intrigante, ma in effetti non sembra stupida o impulsiva…
e quindi potrebbe pur avere qualche suo programma. Beh, spero che tu abbia
gradito anche questo capitolo… Indubbiamente quando
scrivo vado “ad alti e bassi”, o almeno questa è la mia impressione, e se
qualche volta mi pare di piazzare qualche passaggio più interessante, altre ho
l’impressione di buttare giù delle righe che, sebbene abbiano la loro “utilità”
nella storia in un certo senso, alla fine risultano meno coinvolgenti o
comunque mi lasciano una sensazione di ‘superfluo’. Comunque, spero che siano
sopportabili anche i passaggi un po’ più laschi ^^ (ad esempio a questo punto
del racconto si focalizza più su Andrea, e si rivede un po’ il gruppo di gente
che già conosciamo attraverso il suo sguardo, e se questo può risultare forse
interessante per capire un po’ di più il personaggio di Andrea, attraverso le
sue impressioni, e forse fornire un appoggio un po’ più “da persona comune” per
chi sta cercando di venire a patti con il totale ‘sopra le righe’ di certe
situazioni e personaggi, d’altro canto potrebbe risultare una specie di noiosa ripetizione… Non è stata cosa calcolata, in un certo senso
il personaggio di Andrea mi s’è imposto così nello scrivere, e d’altra parte
già l’ho detto che io i personaggi non li so “tenere al loro posto” :) )
Andrea
sembrava non riuscire più a smettere di guardarsi intorno per la casa, anche se
cercava di mascherare il suo interesse nascondendo spesso l’espressione dietro la
grossa tazza di tisana – o di dissimularlo mangiando a grandi morsi le fette di
pane e marmellata – che Yuta le aveva prontamente
procurato; il fatto che anche gli altri avessero voluto approfittare dello
spuntino fuori programma, qualcuno con un’irruenza a stento trattenuta, aveva
creato qualche momento di confusione ilare generale, prima che Yuta ripristinasse l’ordine a suon di battute sagacemente
pungenti e minacce più o meno serie.
La
nuova arrivata assisteva alle schermaglie con timida curiosità, e di tanto in
tanto Yuta le si rivolgeva come se da tempo fosse
abituata a lamentarsi con lei del comportamento incivile degli altri. In ogni
caso, a turno provvedevano a tenerle abbastanza lontano il fastidioso Justin.
«Non
è per te, sai. È per lui. So bene che dopo poco si inizia a desiderare
seriamente la sua morte.» le aveva mormorato a un orecchio Yuta,
ammiccandole e roteando poi gli occhi con esasperazione auto-ironica. Poco dopo
era impegnata a intimare a gran voce a Danny di smetterla di spargere marmellata
ovunque e senza avere nemmeno la pena di accorgersene.
Improvvisamente,
nella confusione generale, che sembrava poter degenerare da un momento
all’altro in una vera e propria festa improvvisata, clima fomentato anche da un
sottofondo musicale che mischiava SquishySquid, Honey Bane**, e un po’ di
punk vario, Andrea notò che Yuta si era soffermata a
parlare con serietà con Danny. I due avevano un’espressione particolarmente
grave, Yuta molto dispiaciuta,Danny si era proprio adombrato. Di lì a poco,
i due lasciarono la stanza, parlottando ancora tra di loro.
Andrea
si sistemò meglio sullo sgabello su cui era seduta, e continuò a sorseggiare la
tisana.
La
sua corporatura di media altezza, e generalmente piuttosto piccola, navigava
ampiamente nei vestiti di ricambio che gli aveva prestato Yuta:
la larga maglia e il maglione le coprivano giusto la curva delle spalle,
lasciandole nuda la pelle fin quasi a mezza spanna dalla base del collo – cosa
a cui avevano rimediato con una grossa sciarpa, che avrebbe potuto farle quasi
da poncho se indossata distesa –, mentre i laschi pantaloni da tuta, indossati
sopra a una calzamaglia, avevano dovuto essere rimboccati in fondo e mezzo
infilati dentro i larghi scarponi da montagna, che le stavano fermi ai piedi solo
in guisa dello spessore di due paia di calzettoni e della calzamaglia. Del
resto, stava calda.
Notò
che Justin si stava avvicinando a lei, e si rese conto di aver fatto l’errore
di non trovare qualcosa che la facesse sembrare estremamente occupata. Poco prima
che il ragazzo, che tentava di dare l’impressione di starsi avvicinando
casualmente, arrivasse al tavolo, Valentine le si
affiancò e sbatté molto rumorosamente e perentoriamente la tazza fumante che
aveva in mano sul tavolo. Andrea sussultò, mentre un po’ della tisana di Valentine si rovesciava sul piano di formica***. Nonostante
la ragazza non lo stesse guardando direttamente, il gesto dovette sembrare
abbastanza eloquente anche per Justin, il quale deviò abilmente i suoi passi,
terminando senza scopo apparente a fissare fuori da una finestra.
Valentine si sedette con
soddisfazione su una sedia, e si rivolse ad Andrea come se non fosse successo
nulla, niente degno di nota comunque, avviando una chiacchierata sulle attività
che si svolgevano all’istituto d’arte da cui Andrea proveniva. Ramo si sedette
accanto a loro, ascoltando incuriosito.
Kumals e Uther, intanto, abbandonavano la cucina. Dopo averli visti
attraversare lo spazio davanti alla casa ed entrare nelle stalle, Justin prese
coraggio e decise di andare a curiosare in quella direzione.
*
***
*
Justin
occhieggiò dentro la penombra della stalla, per accertarsi della situazione
prima di entrare. Si ritrovò a fissare un gruppetto di schiene, braccia
incrociate, in un’aria concentrata e critica: per sua fortuna e sollievo non
erano rivolte a lui.
Lentamente,
cercando di non produrre rumore e di non far niente che potesse denotare la sua
presenza, si avvicinò a Yuta, Danny, Kumals ed Uther, rimanendo
comunque in disparte, e limitandosi ad ascolta re con attenzione.
Tutti
e quattro stavano fissando la parte superiore della porta dello stallo; quella
parte, cioè, che essendo costituita da una serie di robuste sbarre metalliche,
permetteva di scorgere, chiusa nel box, la faccia smorta e assente del Conte. Egli
fissava davanti a sé con occhi vitrei, senza mostrare alcun cenno di vitalità o
di capacità di percezione di ciò che lo circondava.
«Come
vedi… » disse piano Yuta a
Danny «…sembra anche meno presente di prima. Ora
anche se qualcuno entra od esce, o a parlare a voce alta, o provocando forti rumori… Niente pare più riscuoterlo. Forse si va
indebolendo. Potrebbe avere bisogno di mangiare e bere, nonostante il suo
stato, ma non essere in grado di gestirsi da solo in questo…»
Danny
sospirò profondamente.
«Forse
dovremmo dargli da mangiare noi, a questo punto.» osservò Kumals.
Danny
gli rivolse un’occhiata attenta, riflettendo tra sé e sé.
«Sempre
che sia capace di deglutire senza strangolarsi.» avvertì Uther,
dubbioso.
«Considerando
che mangia solo sangue… potrebbe essere l’ultimo dei
problemi.» disse lentamente, quasi distrattamente Danny, osservando tristemente
il Conte e lo stato in cui si trovava.
«Come
è possibile che possa sopravvivere solo bevendo sangue?» mise in dubbio Kumals, quasi spazientito «Avanti, sarà il caso di dargli
qualcosa di più sostanzioso. Basterà frullarlo per renderlo in forma di purea,
così non rischierà di strangolarsi. E del resto…
probabilmente mangiava di nascosto.»
«E’
possibile…» ammise Danny, aggrottando appena le
sopracciglia.
«Allora… » accennò Yuta, in tono
pratico «Dovremmo alimentarlo forzatamente…? O
qualcosa del genere?»
Danny
la guardò «Precisamente: o qualcosa del genere.»
Lei
annuì, in maniera comprensiva «Va bene. Non gli faremo male.»
Danny
alzò le spalle con aria malinconica, lanciando un breve sguardo agli occhi
vitrei del Conte, a disagio «Difficile peggiorare la situazione.»
Calò
un assorto silenzio. E di colpo fu rotto da una voce incuriosita.
«E
come fa ad andare in bagno da solo?»
Yuta sussultò con
allarme, sorpresa, lanciò uno sguardo con cui riconobbe la presenza di Justin,
e si portò una mano alla fronte, con aria esasperata, concentrandosi per
trattenere una mala-reazione.
«Questo
è un buon punto. Vuol dire che gli occorrerà anche un pannolone.» disse Kumals, ignorando da chi proveniva l’osservazione.
«In
ogni caso, se non altro non se ne accorgerà.» disse Danny, a mo’ di pallida
consolazione.
«Per
fortuna…» mormorò piano Uther.
*
***
*
«Quindi…» disse Andrea, con voce piena di tatto «…gli darete da mangiare con la forza…?»
«O
se non altro, ci proveremo.» riadattò Yuta, che stava
preparando una purea di verdure, legumi e cereali cotti, con aria concentrata.
Finì di rimestarla, la assaggiò con aria da critico culinario, indi posò il
cucchiaio e assunse un’espressione soddisfatta e un po’ più ottimista.
Guardò
Andrea, con un sorriso. «Mi dai un secondo parere?» le domandò.
Andrea
annuì. «Certo…» mormorò, prendendo il cucchiaio e
assaggiando a sua volta. Yuta attendeva pazientemente
il responso.
«Un
altro po’ di sale, secondo me.» disse infine.
«Posso
assaggiare anch’io?» domandò Uther.
«No.»
rispose con grande calma Yuta.
«Questa
è discriminazione.» osservò Ramo, in tono da litigio scherzoso.
«Sì…? Convincimene.» rispose ancora calma Yuta.
«In
ogni caso, anche se fosse terribile, non potrà lamentarsene.» osservò Kumals.
Yuta sbatté con più
violenza del necessario il coperchio sulla pentola, si voltò verso gli altri,
incrociò le braccia all’altezza del petto, ed assunse un cipiglio ironico.
«Qual è il vostro piano, quindi?»
Uther sollevò alcune
spesse funi di corda, mostrandogliele. Yuta le guardò
per un po’, indi studiò le espressioni di tutti e tre, uno alla volta,
lentamente e accuratamente. «Non è divertente.»
«Sono
d’accordo.» disse Kumals, pure lui a braccia
incrociate, una sigaretta accesa tra le dita, e un’aria pacificamente paziente
«D’altra parte, non è nemmeno uno scherzo.»
«D’accordo.»
riformulò con decisione Yuta «Farete meglio a trovare
qualcosa di molto meglio, prima che torni Danny.»
«Dov’è
andato?» domandò Andrea. Guardava Yuta, e non si
accorse degli sguardi in vari modi allusivi o interessati che gli venivano
rivolti da alcuni degli altri.
«A
cercare qualcosa con cui distrarre Justin, in modo che non stia nei piedi. Per
quanto mi riguarda, può anche legarlo mani e piedi e chiuderlo in qualche
stanza, debitamente imbavagliato.» rispose Yuta,
sorseggiando a lenti sorsi un po’ di vino rosso.
«Danny
non aveva idee migliori.» puntualizzò Kumals,
riferendosi al Conte.
Yuta lo guardò con
serietà. «Vuoi dire che è d’accordo?»
Kumals alzò le spalle.
«Sempre che Justin non gli stia dando geniali suggerimenti risolutori.»
ironizzò, senza ombra di reale divertimento. Spiò Uther
di sottecchi «Magari potresti andare ad accertarti che non lo stia ammazzando.»
Uther gli scoccò
un’occhiata indecifrabile. «Danny se la caverà. Senza ucciderlo.» disse, con
una certa durezza nel tono.
«Perdio,
no, non ti chiederemmo mai una cosa del genere.» esclamò Yuta,
rivolgendole un’occhiata sinceramente impressionata «E non ci sarà bisogno di
tanto.»
«Non
so quale parte della tua frase suonasse più preoccupante.» rincarò la dose Kumals, fissando Andrea.
«Il
fatto è che… non so, mi sento piuttosto inutile, al
momento.» disse Andrea, un po’ timidamente, abbassando lo sguardo sul pavimento
«E mi dispiace per il vostro amico…»
«E’
amico di Danny» chiarì Kumals. «Sembrerebbe che la
tua sia una vocazione, quella di aiutare.» osservò ancora, guardandola con una
domanda inespressa negli occhi. Era chiaro che cercava di capire qualcosa che
riteneva gli stesse sfuggendo. Lei non riuscì a sostenere a lungo il suo
sguardo, ma appena prima che si trovasse costretta a distoglierlo, nella stanza
entrò Valentine.
La
ragazza, reduce da una doccia, era accompagnata da una nuvola di leggero
profumo aromatico. Li guardò tutti, uno per uno, dopo essersi fermata accanto a
Ramo ed avergli passato un braccio da dietro attorno al busto, gesto ricambiato
dal suo appoggiargli il braccio sulle spalle, circondandole la cascata di
capelli nerissimi, lunghi, quasi completamente lisci, e ancora un po’ umidi.
«Siete già andati?»
«No,
non ancora.» le rispose Ramo «Stiamo aspettando Danny, e poi andiamo… »
«Valentine, ti dispiace tener d’occhio la nostra cena?»
domandò Yuta.
«Nient’affatto.»
rispose la ragazza, mentre si scioglieva dall’abbraccio di Ramo per andarsi a
sedere sullo sgabello più vicino ai fornelli, su cui borbottavano altre due
pentole, oltre quella che conteneva il pastone per il Conte. Tirò fuori da una
tasca del vestito nero e lungo che indossava un pettine robusto, con cui
attaccò battaglia con gli ultimi nodi rimastegli a impigliare qui e là i
capelli.
In
quella, Danny entrò in cucina, con aria davvero molto poco entusiasta.
«Fatto?»
domandò Yuta.
La
guardò, come se riemergesse a fatica da qualche sgradevole pensiero, e il suo
sguardo si schiarì un poco «L’ho messo a spolverare alcuni vasi di conserva, in
soffitta.»
«I
vasi di conserva, Danny?!» trasecolò Yuta.
Il
ragazzo non riuscì a ricavare dalla propria espressione sufficiente vitalità da
mostrare rimorso. «Mi dispiace… lo so. Comunque,
abbiamo steso un paio di materassi vecchi sotto alla zona dove sta lavorando.
Dovrebbe poter evitare il peggio… E’ la cosa meno
pericolosa che mi è venuta in mente e che potesse occuparlo per un po’ di tempo…»
«Come
minimo, non riuscirà in nessun modo a rompersi la testa accidentalmente. Ma
sento che quei vasi sono in serio pericolo… » mormorò
Kumals.
«Va
bene, in effetti, non mi è venuto in mente nient’altro nemmeno a me… » sospirò Yuta, e notò che lo
sguardo di Danny si era concentrato sulle funi tenute in mano da Uther. Si voltò e spense il fuoco da sotto la pentola con
il cibo per il Conte, trattenendo un altro sospiro. Poi guardò Andrea,
pensierosa, per qualche momento.
«Potresti
reggerci la luce, mentre lo nutriamo…?» le chiese.
*
***
*
Non
riusciva a dormire. Continuava a rigirarsi nel letto già da molti minuti. Non era
questione di scomodità. Dopotutto, le avevano assegnato un intero materasso in
buone condizioni, e abbondanti coperte, oltre ad un cuscino in piena regola.
E
si sentiva esausta e indolenzita. Specialmente le braccia, che aveva dovuto
tener a lungo in alto, tenendo sospesa la luce, mentre gli altri placcavano il
Conte e, senza tante cerimonie, lo nutrivano e lo provvedevano di un pannolino,
dopo averlo sommariamente lavato ove necessario. In ogni caso, lui non aveva
espresso molta volontà o convinzione nei pallidi tentativi di resistenza. Anche
gli altri se ne erano accorti, e, dopo aver iniziato le operazioni con forza e
determinazione, come se dovessero scaravoltare sulla
schiena un bisonte scalciante, avevano moderato la loro forza. Danny, da
allora, si era fatto particolarmente cupo e silenzioso.
Ma
lei, ora, non trovava pace, e non poteva fare a meno di continuare a rigirarsi
silenziosamente, un fianco o l’altro, pancia o schiena: inutile.
Già
da un po’ i respiri di Valentine e Yuta, regolari e talvolta pesanti e rumorosi nel russare,
avvolgevano la stanza in un’atmosfera calda e tranquilla. C’erano nell’aria
diversi odori. Odore di profumo, trucco e shampo, che
aleggiava principalmente dalle parti del letto dove riposava Valentine. Del resto, la stanza sapeva di legno, di
sandalo, di spezie da cucina, e di vari altri odori aromatici e per nulla
sintetici. Era un odore che assomigliava a quello che aveva addosso Yuta.
Ma
tutto questo non riusciva a ispirarle il sonno, anche se la faceva sentire
molto rilassata.
Aspettò
ancora; infine, esasperata dalla sua incapacità di dormire, si alzò piano a
sedere. Facendo attenzione a non produrre nessun rumore non estremamente
necessario, scivolò fuori dalle coperte, si alzò in piedi, raccolse gli
scarponi da montagna prestatigli da Yuta, attraversò
piano la stanza a tentoni, e uscì. Si chiuse piano la porta alle spalle,
ascoltando il silenzio in cui era immerso il corridoio del primo e unico piano
rialzato della casa. Si infilò e allacciò gli scarponi, e quindi scese le
scale.
Magari
fare una passeggiata in cucina, a prendere un bicchiere d’acqua, le avrebbe
ispirato qualcosa di più riguardo al suo assoluto bisogno di dormire e
riposare. Se solo avesse potuto togliersi per un momento dalla testa ciò che la
tormentava senza posa… come un tarlo che rodeva poco
a poco, a piccoli morsi persistentemente fastidiosi, la sua coscienza.
Si
fermò nel bel mezzo della sala/salotto, notando che dalla porta chiusa della
cucina filtrava un po’ di luce, e giungevano alcuni rumori pacati. Esitò,
tentata di ritornare indietro, ma un rumore molto più vicino la fece
sussultare.
Con
un moto di acuta sorpresa, udì un cigolio di molle, e intravide nel buio una
brandina, e una sagoma sopra che si girava sull’altro fianco. Realizzò che si
trattava di Justin. Se il ragazzo si fosse accorto che lei era lì in piena
notte, probabilmente ciò gli avrebbe provocato una serie di romanzate e
arzigogolate teorie, che l’avrebbero portato a diventare ancora più fastidioso
di quanto già non fosse.
Andrea
scelse la strada più breve, ed entrò in cucina, chiudendosi la porta alle
spalle. Si voltò, e si trovò a fissare due paia di occhi che la guardavano
sorpresi.
Lei
studiò per qualche momento la partita di carte in atto, le tre bottiglie di
birra vuote, i bicchierini di vetro mezzi pieni di un liquido verde
chiaro,e infine tornò a fissare i due
in viso, cercando di non mostrarsi più imbarazzata e stranita di quanto
effettivamente si sentisse.
Si
schiarì la voce. «Sono venuta a prendere un bicchiere d’acqua.» li informò,
sentendosi anche abbastanza stupida.
Uther annuì. Danny
esitò qualche momento, e infine chiese «Fai fatica a dormire?»
Lei
lo guardò, comunicandogli abbastanza eloquentemente con lo sguardo che non
aveva voglia di rispondere ad una simile domanda. Non sapeva se il ragazzo
avesse compreso il messaggio silenzioso, ma gli fu ugualmente piuttosto grata
quando lo vide raccogliere uno dei bicchierini dal ripiano del tavolo, e
porgerglielo, dicendo, con una certa cauta gentilezza «Se vuoi, questo potrebbe
essere un buon rimedio…»
«Cos’è?»
domandò, mentre già prendeva il bicchierino in mano.
«Un
liquore al finocchietto che fanno Yuta e Zoal.»
Ne
assaggiò un piccolo sorso, trovandolo sorprendentemente buono. «E’ buono…molto… Ma lo fanno proprio
in casa?»
«Sì.»
disse Danny, e dopo un po’aggiunse «Zoal è la sorella
di Yuta. Dovrebbe arrivare qui domani.»
Lei
annuì, e fece per restituirgli il bicchiere, ma il ragazzo le fece segno di
continuare pure a bere.
Uther appoggiò le
carte che aveva in mano sul tavolo e si stiracchiò un poco, quindi si voltò a
guardarla. «Vuoi fare una partita?»
Lei
ci pensò su per qualche momento, infine, inclinando appena la testa di lato e
dando una piccola alzata di spalle, rispose «Perché no?»
Si
accomodò anche lei su uno sgabello al lungo bancone della cucina, e rimase a
guardare per un po’ Uther che mescolava e rimescolava
le carte, mentre Danny si alzava, andando a prendere un terzo bicchierino dallo
scolapiatti.
Dopo
una serie di almeno tre o quattro partite abbastanza impegnate e qualche altro
sorso di finocchietto, Andrea ebbe una strana sensazione. E, prima di pensarci
troppo, anche se da molto, quasi inconsapevolmente, studiava le espressioni
concentrate e allo stesso tempo svagate dei due ragazzi, prese una decisione tra
sé e sé.
Mentre
Danny raccoglieva le carte dopo la fine di un’altra partita, e le rimescolava,
la ragazza si schiarì la voce, appoggiò il bicchierino che aveva vuotato con un
sorso deciso, e li guardò attentamente.
«Io… avrei un favore… da chiedervi… » mormorò, così piano che dubitò che potessero
aver inteso il senso delle sue parole.
Eppure,
a giudicare dalle espressioni curiose e stupite con cui la fissavano con aria
semi-incredula, e da come si erano congelati in ciò che stavano facendo, l’uno
con le carte in mano e l’altro mentre stava per prendere tra le dita il suo
bicchierino, sembrava avessero capito benissimo.
**ho recentemente eletto SquishySquid e HoneyBane
come colonna sonora ufficiale del personaggio di Andrea.
*** non è formìca, l’insetto, ma fòrmica, un materiale di poco pregio ma resistente,
utilizzato, tra il resto, per i ripiani dei tavoli.
**** il gioco di parole, piuttosto orrendo, sarebbe tra due
termini somiglianti. Uno è quello inglese di ‘flavours’,
che sta per ‘sapori, fragranze’. L’altro (‘favours’)
sta per ‘favori’.
Capitolo 21 *** 19 - LEI CAMMINA NELLA NOTTE ... parte I ***
Capitolo 19
(Lei cammina
nella notte – I parte**)
La
notte era scesa densa nella boscaglia. C’era un freddo cane. C’erano in giro
solo animali di bosco.
Ebbene,
un osservatore distratto sarebbe stato a questo punto costretto a correggersi,
per parlare di tre animali non di bosco, che percorrevano in silenzio la strada
sterrata, scarpinando.
Lo
sparuto gruppetto di ventura comprendeva tre individui, che camminavano
affiancati, cercando di accordare reciprocamente il ritmo del loro passo.
Uno
di loro, quello un po’ più alto, dai capelli tinti di biondo acceso, teneva lo
sguardo corrucciato e pensieroso sul terreno, e sembrava continuamente sul
punto di sbottare a dire qualcosa; ma all’ultimo riusciva sempre a trattenersi.
Un altro, biondastro naturale, di corporatura dai muscoli snelli, un fucile a
tracolla e l’espressione altrettanto pensierosa e preoccupata, guardava davanti
a sé, procedendo pieno di dubbi. Tra di loro c’era la figura di poco più minuta
di una ragazza, dai corti capelli bluette che facevano a pugni con il colore
castano-dorato degli occhi, segnati da generose occhiaie di stanchezza, ma
dall’espressione sveglia e accorta; tuttavia, a fare ancora più attenzione, si
sarebbe potuto sentire odore di rimorso e tormento intorno a lei.
«Tu
sei completamente matta.» esordì infine, con tono di semplice constatazione, ma
tenendo tra i denti una certa contrarietà, il ragazzo un po’ più alto. La
ragazza di fianco a lui lo spiò appena, e cercò di evitare che uno dei suoi
sopraccigli si prendesse la libertà di alzarsi eccessivamente rispetto
all’altro.
«E
noi lo siamo ancora di più!» disse ancora lo stesso ragazzo, con l’aria di chi afferma
un dato certo e risaputo.
«Hai
intenzione di andare avanti così per tutta la strada?» domandò lei, vagamente
risentita.
«Beh… » finse di pensarci su lui, anche se il suo tono si
era un poco ridimensionato «Perché no? Abbiamo davanti a noi almeno un’altra
ora e qualcosa di camminata. Potrebbe essere un modo interessante di occupare
il tempo.»
«Facciamo
ancora in tempo a tornare indietro.» gli ricordò lei.
Il
ragazzo si immusonì ulteriormente. Sapeva benissimo che era vero, e che nessuno
aveva puntato un’arma alla testa né a lui né ad Uther,
per costringerli ad assecondarla. Questo rendeva il tutto ancora più
preoccupante, folle, assurdo, e folle (valeva la pena di ripeterlo per
sottolineare il concetto).
«Tsk! Lo so!» replicò stizzito «E non è escluso che tra un
po’ non mi decida a farlo…» la avvertì. Bleffava, lo
sapeva lui, e probabilmente lo intuiva abbastanza bene anche lei. Di sicuro
l’aveva capito Uther, che gli lanciò un’occhiata
divertita, rapida e furtiva, cercando di non farsi scoprire da Andrea. Ma lei,
evidentemente, era immersa in altri pensieri.
«Ah,
avanti, ora non fare l’offesa, per favore…» la pregò
piccato Danny, dopo qualche minuto che procedevano nel completo silenzio.
«Qui
sei tu quello che sembra offeso.» notò lei.
Danny
spiò il modo in cui lei teneva la testa alta, camminando, e lo trovò inutile e
fastidioso; specialmente quando lui incespicò tra i suoi stessi piedi, e
recuperò l’equilibrio a stento.
«Dovremmo
impiegarci qualcosa come un paio d’ore al massimo, complessivamente…
» disse Uther.
«Poi
mi rispiegherete perché non abbiamo preso la macchina.» commentò Andrea,
lanciando una breve occhiata ad Uther. «C’ero anch’io
quando avete aperto e messo in moto quel fuoristrada come niente fosse.»
«Non
è cosa così facile da farsi.» le fece presente Uther,
tranquillamente. «E comunque, avremmo dovuto conciare male l’auto di Ramo. E
rubargliela senza permesso. Inoltre, se ci avessero sentito andarcene, si
sarebbero preoccupati molto… oltre a cercare di
fermarci in ogni modo possibile.»
Danny
immaginò per un momento quale sarebbe stata la reazione di Kumals,
quando avrebbe saputo ciò che stavano andando a combinare. Rabbrividì, e
preferì concentrare in fretta i pensieri su altro. Non incontrò fatica in
questo, dal momento che i suoi sensi all’erta furono colpiti dalla traccia di
qualcosa di strano.
Si
immobilizzò, tendendo automaticamente un braccio accanto a sé per segnalare
anche agli altri di fermarsi; Andrea ci sbatté praticamente contro, e gli
lanciò subito un’occhiata storta. Ma l’espressione della ragazza cangiò
rapidamente, quando notò quella tesa e in allerta di Danny. Uther
non disse niente, così fu lei, dopo qualche momento in cui non accadde niente,
a sussurrare «Che c’è?».
Danny
non sembrò volerla degnare di attenzione per qualche istante, ma poi voltò
repentinamente verso di loro la testa. «Arriva qualcuno, lungo il sentiero. Ci
viene incontro.» annunciò rapidamente, mormorando appena a filo di labbra.
«Nascondiamoci
tra i cespugli, e vedremo di che si tratta.» propose Uther.
Danny
confermò con un rapido cenno d’assenso, e fece per prendere per un braccio
Andrea, ma la ragazza si sottrasse preventivamente alla sua stretta; nonostante
il cuore avesse preso a martellarle in petto per l’inquietudine, e
improvvisamente si trovasse immersa nella trafelata ricerca di un nascondiglio
tra la vegetazione più bassa della boscaglia, trovò il tempo di lanciargli
un’occhiata con cui gli comunicava perentoriamente che preferiva ed era
benissimo in grado di badare a se stessa da sola.
Nell’arco
di pochi istanti, tutti e tre erano scomparsi come se non fossero mai stati lì,
a parte il loro odore, che aleggiava ancora chiaramente nell’aria, per chi
aveva le capacità sufficienti per percepirlo e distinguerlo da tutti gli altri.
Danny
notò che tanto Uther quanto Andrea avevano scelto il
lato opposto del sentiero rispetto al suo, per nascondersi; e, tuttavia, quella
ragazza aveva voluto andarsi a nascondere da sola. Se da un punto di vista
strettamente strategico l’essere sparsi, piuttosto che tutti ammassati in un
unico punto, poteva risultare un’ottima cosa a loro vantaggio, d’altro canto
ciò rendeva Danny inquieto. Si mosse un poco, come se fosse scomodo, ma si
immobilizzò di nuovo in fretta, benché il suo movimento, compiuto con cautela,
non avesse prodotto alcun rumore facilmente percepibile per chi non avesse
ottimo orecchio e non si trovasse al contempo nelle immediatissime
vicinanze del suo nascondiglio.
Ma
lungo il sentiero si iniziavano ad udire i primi rumori di qualcuno che si
avvicinava.
Per
primo, da oltre una lieve curva della strada, comparve un cane. Danny rimase ad
osservarlo sbigottito per diversi istanti, mentre il quadrupede, un cane di
taglia medio piccola, dal musetto puntuto, gli occhi vispi, l’aria spensierata,
piccole orecchiette un po’ pendenti in avanti, e il pelo a chiazze bianche e marroncine, trotterellava lungo la strada curioso, salvo
poi fermarsi di botto quando il suo fiuto incontrò il loro odore. Il cagnetto
si immobilizzò e prese a sniffare la strada, esplorando le loro tracce odorose,
accompagnato dalla sua coda un po’ arricciata all’indietro sulla schiena.
Intanto,
sulla strada si udiva un altro scalpiccio.
Di
lì a poco sul sentiero comparve un secondo cane, una femmina di taglia media,
dai buoni muscoli da molossoide meticcio che si
profilavano chiaramente sotto il pelo raso color rosso mattone e tigreggiato di nero; anche lei, che avanzava a zigzagannusando in giro, notò che il piccoletto che
la precedeva era impegnato in un’analisi odorosa accurata, e tosto vi si unì
con entusiasmo giocoso.
Benché
Danny si fosse fatto a lungo distrarre dalla scena, sapeva che quei due non
erano gli unici soggetti che avevano destato i suoi sensi poco prima. Si
sentiva un altro passo, di natura ben diversa da quello canino, che arrivava
lungo il sentiero. Questo era il passo di due gambe umane.
Da
dietro la curva comparve gradualmente una sagoma scura. Chiunque fosse,
indossava una grossa cappa, un mantello da viaggio di spesso e pesante tessuto
verde cupo, con un ampio cappuccio calato a celare completamente il volto.
La
figura avanzava di buon ritmo, senza incertezze, se non per un rallentamento
dovuto a quella che sembrava stanchezza; si appoggiava un poco a un lungo
bastone, che a giudicare dalle dimensioni e dalle molteplici naturali nodosità
e bernoccoli e venature, doveva essere stato intagliato sommariamente
direttamente da un grosso ramo. Verso la sommità del bastone, dove la
fisionomia si inspessiva notevolmente, erano appesi, per mezzo di alcune
cordicelle di caucciù, un paio di piccole zucchette dai vivaci colori naturali:
arancione l’una, verde vivace l’altra, entrambe rigate di irregolari bande bianco-giallo
pallido. Dovevano fungere da contenitori, poiché, al loro muoversi al ritmo del
passo della figura, emettevano un sommesso rumore, come se contenessero qualche
polvere sabbiosa e qualche piccolo detrito di consistenza un po’ più grossa.
Quando
la sagoma umana giunse nei pressi del nascondiglio di Danny – laddove i cani
stavano annusando la strada con particolare interesse, percorrendone pochi
metri per il lungo e il largo, spesso tornando indietro o girando in tondo – rallentò
il passo, e in tutta calma si fermò. Si sbilanciò un poco in avanti,
appoggiandosi con le mani a coppa rovesciata al bastone, in una posa di
nonchalance rilassata e vagamente partecipe. Osservò per qualche istante l’indaffararsi dei cani, infine emise un piccolo schiocco,
probabilmente con la lingua, in segno di lieve disappunto.
«Certamente,
se dovessi basarmi sulla vostra capacità di seguire le tracce…»
mormorò con voce cupa, ma si azzittì, piuttosto stancamente, come se ritenesse
superfluo finire la frase. La sua testa coperta dal grosso cappuccio emise un
breve movimento bilaterale, come se la stesse scuotendo, o come se si stesse
guardando appena un po’ intorno; difficile distinguere in quel gesto ambiguo un
fine ben preciso.
«In
quanto a voi… mi piacerebbe proprio sapere a che cosa
pensate di tendere un agguato, piuttosto di venire a farvi vedere.» disse
ancora la voce cupa.
Danny
vide un movimento tra le frasche, dall’altra parte della strada, e di lì a poco
Uther uscì allo scoperto, andando incontro alla
figura. Si fermò a pochi passi da essa, e sorrise ampiamente, allargando poi le
braccia in un gesto di benvenuto e in un accenno di abbraccio. La sagoma
incappucciata solcò il resto della distanza che li separava con un paio di
passi e, reggendo sempre il bastone con una mano, con il braccio libero cinse
le spalle di Uther in un leggero abbraccio.
Danny
attese ancora un poco, che i due si sciogliessero dall’abbraccio amichevole,
prima di uscire a sua volta allo scoperto. La figura non si voltò subito verso
di lui, rimanendo a guardare ancora per un poco il volto di Uther,
al quale stava rivolgendo evidentemente un sommario studio. Ma poi il cappuccio
si rivolse verso Danny.
«Danny.
Ciao. Non ci si vede da diverso tempo.»
«Eccome!
Fin troppo!» esclamò contento il ragazzo, ricambiandole l’abbraccio, poi si
staccò, e si guardò in giro. I due cani che avevano preceduto l’arrivo della
sagoma avvolta nel mantello da viaggio stavano ora scodinzolando e annusando
curiosamente gambe e piedi suoi e di Uther,
producendosi occasionalmente in qualche mugolio a mo’ di commento.
Danny
sorrise, e si volse all’apertura del cappuccio «E Mama
dov’è?»
La
figura agitò appena la sommità del bastone, facendo dondolare le zucche che vi
erano appese, in modo da voler significare qualcosa che aveva a che fare con un
velo di indignazione. «Mama arriva sempre.» disse «E
non vedo perché dovrebbe farsi fretta.»
I
tre si voltarono verso il sentiero; da dietro la curva si avvicinava un altro
passo, pesante e un po’ strascicato.
*
***
*
Andrea
ne aveva abbastanza.
Prima
erano comparsi quei cani. Lei non odiava né amava i cani a priori, beninteso,
dipendeva strettamente da come il suo carattere si accordava al loro e
viceversa, di volta in volta. Però, dal momento che in quel caso si era trovata
nascosta tra le frasche, cercando di non farsi scoprire, le era stato
immediatamente chiaro che il fiuto dei cani avrebbe potuto stanarla in unbatter d’occhio.
Poi
era apparsa quella figura tutta ammantata, con quel bastone e quelle zucche
che, con il loro rumore sabbioso e un po’ sassoso, ne ritmavano il passo in
modo sinistro. Per finire, quel ‘chiunque fosse’ aveva immediatamente capito
non solo che i cani avevano fiutato l’odore di qualcuno, ma che quel qualcuno
era nascosto proprio lì vicino; e come se non bastasse, sapeva già che era
qualcuno che conosceva.
D’accordo,
dal modo in cui Danny ed Uther erano usciti allo
scoperto, e da come si erano comportati con esso, non sembrava che il nuovo
arrivo potesse costituire una qualche minaccia; anzi. Quindi, che diamine
aspettavano a dirle che poteva uscire allo scoperto anche lei? Non era sicura,
ancora, che l’intenzione dei due non fosse per caso quella di lasciare coperta
la sua presenza, per impedire al nuovo arrivato di scoprire i loro propositi.
Per
finire, ecco che si sentiva arrivare qualcos’altro, strascicando sinistramente
e pesantemente. Doveva essere qualcuno di massiccio, che trasportava qualcosa
di impegnativo, anzi lo trascinava; e nonostante ciò si avvicinava rapidamente.
Andrea
non dovette aspettare a lungo, per il sollievo dei suoi nervi.
Ben
presto dalla curva del sentiero comparve un’altra sagoma, incredibilmente
grande, ma relativamente troppo bassa per essere umana. Decisamente aveva tre
zampe, e gliene mancava una quarta, costringendo la creatura ad avanzare in
maniera impari e un po’ difficoltosa. Aveva una testa enorme, orecchie pendenti
grandi come strofinacci, una lunga coda affusolata che sbatteva per terra nel
suo incedere zoppicante, e una muscolatura notevole, che riluceva nettamente
nel bagliore lunare notturno, per via del pelo corto completamente e
lucidamente nero.
L’enorme
cane, che dopo un po’ Andrea decise dopotutto non trattarsi piuttosto di un
leone o di Cerbero in persona, si fermò, fissando le tre figure che la
aspettavano sulla strada. Lanciò quindi un boante
latrato, prima di avanzare verso di loro, con impeto deciso. Solo quando,
giunta di fianco alla figura incappucciata, il grosso alano femmina privo di
una zampa posteriore ebbe scoperto che la situazione era tranquilla, e solo
dopo aver annusato e riconosciuto le persone di Danny ed Uther,
trasformò il suo atteggiamento potenzialmente minaccioso e severamente indagatorio in un saluto affettuoso nei confronti dei
ragazzi.
«Ciao
Mama!» esclamò ridendo Danny, mentre lui ed Uther la carezzavano affettuosamente.
«E’
inutile che ora fate così. Mama lo sa, in fondo, che
avete pensato che sia lenta.» li ammonì con una leggera nota di scherzo nella
voce la figura incappucciata.
«Ah,
andiamo! Non si diceva mica sul serio… » si schernì Danny,
rispondendo allo scherzo.
«Va
bene, va bene… per stavolta forse Mama
vi darà credito. Lei è molto paziente.» interloquì ancora la persona celata dal
pesante mantello. «Piuttosto…» continuò,
pensierosamente, con tono nuovamente serio «…non
sarebbe l’ora che mi presentaste anche la vostra nuova amica?».
Andrea
vide allora la figura alzare un braccio. Il dito dalla pelle scurita dal sole
che spuntò dall’orlo della larga manica del mantello mirava precisamente al
punto in cui lei si trovava nascosta, nonostante la figura non avesse nemmeno
la testa girata nella sua direzione.
Fu
scossa da un lungo brivido, e si alzò in piedi, ancora prima di udire la voce
di Uther dire «Ah, sì…
vieni pure fuori, Andrea.»
La
ragazza uscì allo scoperto, e fu quasi immediatamente raggiunta dai primi due
cani che aveva visto, mentre la grossa alano nera dal nome di Mama rimase al fianco della figura incappucciata. Entrambe
la fissavano con molta attenzione, ma rimasero l’una a fianco dell’altra,
immobili e pazienti, finché lei non li raggiunse.
Solo
allora, quando si fermò di fronte a loro, mentre già l’alano sporgeva il muso –
grosso da solo più delle sue due mani insieme – ad annusarla a filo di abiti,
la figura alzò un braccio all’orlo del cappuccio, e se lo calò dietro la testa.
Andrea
guardò spuntare dall’ombra del pesante tessuto verde scuro un viso dal profilo
bello ed elegante, ed indubbiamente femminile. Una donna relativamente giovane,
non più longeva di una trentina d’anni, la guardò con occhi verdi dallo sguardo
particolarmente penetrante, come se la vedesse per più di ciò che appariva, e
oltre ciò che lei stessa sapeva a proposito di sé. Investita da quell’occhiata,
Andrea si irrigidì un po’, notando appena la folta e abbondante chioma della
donna: capelli ondulati come un tripudio marino, ma color castano-rosso scuro,
in parte domati in un’acconciatura senza ordine preciso, che un po’ li
raccoglieva sulla sommità alta dietro la nuca, e in parte li lasciava ricadere
intorno al viso e dietro il collo, in varie ciocche senza particolare
somiglianza da condividere tra loro.
La
sconosciuta si appoggiò ancora un po’ in avanti al suo bastone, e allungò una
mano dalle lunga dita affusolate verso Andrea, piegando le carnose labbra ben
disegnate in un accenno sincero e moderato di sorriso; e, celando
meravigliosamente ogni segno di sorpresa o curiosità, disse semplicemente «Zoal.»
Solo
allora Andrea notò una vaga somiglianza, nei tratti del viso, con quella forma
ovale, dagli zigomi un po’ sporgenti, e con gli occhi di forma un po’
allungata, quasi felina, con Yuta.
«Andrea»
disse, abbastanza prontamente, ricambiando la stretta di mano, che scoprì
essere calda e accogliente, anche se un po’ inquisitoria forse, e breve. Vide
gli occhi della donna indugiare sulla sua mano, come se cercasse di leggervi
qualcosa, ma alla fine alzò di nuovo lo sguardo su di lei, con un accenno di
scusa, come se si rendesse conto di essere stata invadente.
Aveva
uno sguardo quasi ipnotico, che sembrava avere il potere di dire moltissimo in
un battito di ciglia: non messaggi rapidi, evidenti e di conclamata volontà.
Piuttosto, sembrava di immergersi in quello stesso sguardo che fissava, in un
flusso denso di pensieri ed emozioni strette le une alle altre in una mistura
complessa e profonda. Quando se ne riemergeva, non si era certi di dove si fosse
stati, né per quanto tempo; neppure si sarebbe potuto giurare di aver visto
davvero qualcosa, se si trattasse di ciò che quello sguardo conteneva, o se,
piuttosto, ci si era involontariamente lasciati affascinare da un raffinato
gioco di specchi, in cui si era vista un’illusione che aveva qualche cosa di se
stessi e qualcosa che non esisteva nemmeno con certezza.
Andrea
scosse un po’ la testa, perplessa a proposito di quelle sue osservazioni, come
se stentasse a riconoscerle come proprie. E sospettò che fosse stato lo sguardo
di quegli occhi a suscitargliele, oppure a inculcargliele.
Ma
la donna stava già guardando di nuovo Danny e Uther.
Con una mano appoggiata ancora sul suo bastone, e l’altra, quella con cui aveva
stretto la mano di Andrea, ora poggiata con significativa cura sul testone
dell’alano nero che era ancora ferma al suo fianco, li guardò per un momento in
silenzio. Infine, un lento sorriso sibillino le piegò appena le labbra in
un’espressione di pacato divertimento, come se fosse appena giunta ad una sua
personale e accurata conclusione.
E
con la sua profonda voce, densa di chissà quali significati reconditi, domandò
con aria auto-ironicamente innocente «Bene, quindi, non mi volete raccontare
dove pensate di andare a scampagnare in piena notte?
Come fuga d’amore mi sembra mal riuscita, a meno che non siate appositamente in
tre.»
Andrea
avrebbe quasi giurato di vedere la palpebra dell’occhio sinistro della donna
tremolare, come in un accenno di complice occhiolino. Poi, vide chiaramente la
fugace occhiata nervosa che si scambiarono Danny e Uther
tra di loro, prima di voltarsi entrambi a guardare lei; un perfetto, sincronico
gesto da ‘scarica barile’ di prim’ordine.
Tuttavia,
la donna di nome Zoal continuò a guardare
attentamente loro due. Nell’impacciato silenzio che seguì le sue parole, si
prese la libertà di chinarsi un po’ più in avanti, per appoggiare il mento sul
dorso della mano che teneva sulla sommità del suo bastone. Sbatté le palpebre
un paio di volte, con languida e perfetta calma, e rimase in attesa di una
risposta, come se avesse a sua disposizione tutto il tempo del mondo, e
trovasse la cosa piuttosto comicamente noiosa.
Soundtrack:
Baby, I don’t care (Transvision Vamp)
(…perché mi veniva troppo in mente Andrea che dopo essere
stata buttata in un cespuglio con una spinta e poi uscita fuori dopo essere
stata brevemente dimenticata per l’arrivo di Zoal, e
quindi ripescata giusto per essere messa davanti alla non-comune Zoal, finisse per dire ‘no, tranquilli, non importa’… huhu, certe volte credo di avere
un po’ una certa verve maligna “alla Kumals”… questo spiegherebbe
perché adoro prendermi gioco dei miei stessi personaggi, forse…)
Note
per la comprensione:
**
qui inizia una serie di capitoli (tre in tutto), che portano lo stesso titolo
di ‘Lei cammina nella notte’, per questo li distinguo, oltre che con la numerazione,
anche con ‘I, II, III parte’.
Capitolo 22 *** 20 - LEI CAMMINA NELLA NOTTE ... parte II ***
Capitolo 20
(Lei cammina
nella notte – II parte)
Forse
era impazzita davvero, ecco tutto. Senza accorgersene; semmai questo potesse
risultare in qualche modo utile a una sua parziale giustificazione. In ogni caso,
la follia incipiente avrebbe potuto spiegare almeno in parte come le fosse
passato per l’anticamera del cervello di rivolgersi a Danny ed Uther, due persone che a malapena conosceva, e che per
svariati motivi non le davano proprio tutto questo gran senso di affidabilità.
Magari
poteva anche spiegare perché ora fosse accucciata per terra nella boscaglia,
celata come meglio possibile nella vegetazione, e stesse fissando con cipiglio
concentrato e battagliero una costruzione che le era ben nota.
L’edificio
da cui era scappata precipitosamente solo poche ore prima,l’istituto d’arte, svettava nello spiazzo di
cemento come al solito. Ma era completamente buio, silenzioso, immobile, come
morto o abbandonato.
Andrea
sentì un rumore da qualche parte nella boscaglia, e sussultò, benché avesse già
intuito, dai movimenti furtivi e rapidi, di chi si trattasse.
Lentamente, di fianco a lei apparve Uther, che si accucciò in una posizione di riposo, ma
mantenne lo sguardo concentrato nella sua stessa direzione, sull’edificio
immoto.
«Danny
è già in posizione.» disse.
Andrea
tacque, ma alle sue spalle ci fu un lieve fruscio appena udibile, seguito poco
dopo dalla voce profonda che ormai conosceva bene.
«D’accordo.
Allora, suppongo che tocchi a noi.» disse Zoal, con
perfetta calma.
«Sei
sicura di sapere dove trovare questa… ‘cosa
importantissima’?» domandò Uther ad Andrea.
Lei
cercò di non innervosirsi troppo per il semplice fatto che, tra lui e Danny,
era l’ennesima volta che le veniva rivolta quella domanda. «Sì, certissima.
Potrei arrivarci ad occhi chiusi.»
«Sconsigliabile.»
commentò Uther, e poi si pentì della battuta, quando
si ritrovò addosso un’occhiataccia di Andrea.
«Uther.» lo chiamò la voce di Zoal
alle loro spalle, ritta in piedi contro il tronco di un albero, difficilmente
visibile nell’ombra. Persino i tre cani che la accompagnavano, l’enorme Mama compresa, si erano ben celati, accucciandosi tra le
frasche intorno ai suoi piedi; muti e in attesa apparentemente inconsapevole,
si facevano udire solo per il rumore del loro respiro, e per qualche lieve
fruscio di tanto in tanto.
«E’
come pensavate, quindi?» domandò Zoal.
«Sì.»
confermò Uther, voltandosi un po’ verso di lei
«Sembra che siano un bel po’, direi una quindicina, ma sono tutti fermi sotto
all’allarme che suona ancora, quello che ha attivato Danny stamattina
involontariamente. Sta squillando da parecchie ore. A meno che non ci sia
qualcos’altro di molto più interessante qui nei paraggi, suppongo che ormai si
saranno tutti raccolti lì. Io e Andrea entreremo dall’ingresso dalla parte
opposta, e se tutto va come ci s’è detti, non faremo abbastanza rumore da
segnalare loro la nostra presenza. Dentro non ci dovrebbe essere nessuno. In
ogni caso, Danny è andato in avanscoperta, se c’è qualcosa che non va ce lo dirà
subito. Per il resto, ci affidiamo a te, Zoal. Nonché
a Mama, Danza e Duca.» concluse Uther,
rivolgendo uno sguardo a dove intravedeva le sagome dei tre cani accucciati.
«E
comunque, lasci il fucile qui, no?» si intromise Andrea.
Uther le lanciò un’occhiata
in tralice «Non l’ho mai detto né pensato. Perché dovrei?»
«Non
avrai anche tu proiettili di gomma…?» domandò
scettica Andrea, studiandone l’espressione per cercarvi traccia di menzogna.
Uther corrugò la
fronte, perplesso. «No, sono veri.» spiegò.
«Andrea.»
mormorò Zoal, facendola sussultare «Conosco Uther da molto tempo. Non farebbe male a nessuno se non
fosse necessario.»
«E’
proprio sul cosa sia questa necessità, che non ho le idee ben chiare.» ardì
rispondere Andrea.
Dopo
un certo silenzio, Uther disse «Lo userò solo come
oggetto contundente. D’accordo?»
«Va
bene… Quindi, puoi lasciare qui i proiettili,
giusto?» domandò con finto candore Andrea.
«Senti
bene…» iniziò Uther, con
tono già molto meno diplomatico.
«Basta.»
calò la voce di Zoal «E’ meglio muoversi. Stiamo
facendo aspettare Danny, e prima ci muoviamo meglio è. Sono stanca, e mi
piacerebbe finire in fretta questo gioco. Abbiamo molte cose di cui occuparci,
nei prossimi giorni. E non sarà facile.»
Nonostante
avesse parlato in tono conciliante, benché deciso e serio, la voce di Zoal aveva una sfumatura di autorità profonda e naturale,
che le conferiva una saggezza dal sapore di giustizia antica. O forse, sospettò
per un fugace momento Andrea, era solo una capacità illusionistica molto ben
esercitata. In ogni caso, rimase un poco risentita per la definizione di
‘gioco’, nonostante la parola non avesse avuto niente di lontanamente
dispregiativo o diminutivo in sé.
Come che fosse, udì Uther
sbuffare appena. «Bene, andiamo allora.»
Nonostante
il ragazzo avesse parlato così, come da accordi furono solo Zoal
e i suoi tre cani a muoversi per primi. Non appena si mosse lei, i tre erano in
piedi al fianco delle sue caviglie, e tutti e quattro insieme trotterellarono
attraverso la boscaglia, fino a spuntare allo scoperto nello spazio di cemento.
Una volta lì, si fermarono, immobili nel buio appena rischiarato dalla luna,
immobili nel silenzio.
Ad
Andrea, che stava altrettanto immobile e col fiato trattenuto, parve di udire
il rumore impalpabile di Zoal che prendeva fiato, in
un tutt’uno con i tre cani che la accompagnavano. Quindi, esplosero tutti
insieme, chi latrando, chi cantando a piena voce, producendo un rumore
impressionante nel silenzio in cui era immerso il luogo, rotto solo in
lontananza dal trillare continuo e petulante dell’allarme sulla porta
dell’ingresso laterale.
Andrea
quasi sussultò, distratta all’improvviso da un tocco leggero di Uther sulla spalla. «Andiamo.» le mormorò. E lei si ritrovò
a seguirlo, furtivi attraverso la vegetazione.
Si
spostarono lungo il margine del piazzale di cemento, tenendosi sempre ben al
riparo tra il sottobosco, prima di fermarsi, di fronte al lato dell’edificio da
cui dovevano entrare. La porta era socchiusa e immobile.
Uther iniziò
lentamente a uscire dalla boscaglia, mettendo piede con accorta attenzione sul
cemento del piazzale, ponendosi lentamente e circospettamente
allo scoperto. Quasi subito, la porta si schiuse un po’ di più; attraverso la
fessura buia, si intravide appena un movimento, nell’ombra.
«E’
il via libera di Danny. Andiamo. Lui continuerà a controllare che la strada che
dobbiamo fare sia sgombra. Facciamo in modo di essere rapidi e silenziosi…»
«Sì.»
troncò la conversazione Andrea, uscendo anche lei allo scoperto, e affiancando Uther in una piccola corsa con cui raggiunsero in pochi
secondi l’ingresso dell’edificio.
Uther si infilò
all’interno, affondando nel buio, subito seguito da Andrea.
Una
volta dentro, la ragazza si sentì per un momento invadere dal panico. Ricordava
bene la sensazione del corridoio piuttosto stretto, l’odore polveroso e stantio
delle stanze abbandonate, colme della loro paura e ansia, fino alla loro fuga
finale. Era come se il suo corpo si aspettasse di dover spiccare la corsa di
nuovo, frettolosamente e affannosamente, sentendosi soffocare dalle pareti del
corridoio, e nervoso per la timorosa aspettativa di trovarsi da un momento
all’altra in trappola.
Sentì le gambe tremarle un po’, come se non
sapessero spiegarsi come mai non stava ancora correndo.
Cercò
di fare un respiro profondo, e di dominarsi il più possibile, ripetendosi che
ora erano più organizzati, era abbastanza al sicuro, e in ogni caso sarebbero
loro occorsi una manciata di secondi per farsi strada fino alla sua ex stanza
da letto. Avrebbe preso ciò che doveva, e poi se ne sarebbero andati tutti di
nuovo, ben lontani da quel luogo.
Fuori,
sentiva Zoal cantare e i cani abbaiare. Non era
sicura che fossero proprio nell’esatta posizione in cui erano stati prima,
all’inizio. Forse si stavano già spostando, attirando con sé lontano
dall’edificio le persone instupidite che seguivano con aria rapace e amebica
qualsiasi suono o rumore o colore vivace.
Davanti
a lei si accese all’improvviso una piccola luce. Uther,
impugnando una torcia, si voltò a guardarla. «Sempre dritto per ora, vero?» le
domandò.
Lei
trovò chissà come la forza di annuire con decisione, ignorando
spregiudicatamente il tremare incontrollato di parte della sua muscolatura.
«Andiamo
allora.» disse il ragazzo, iniziando con passi rapidi e silenziosi a percorrere
il corridoio.
Andrea
sapeva bene che non era poca la strada che avevano davanti. Dovevano arrivare
fino alla hall, dove c’erano le scale, salirle, e affrontare l’incognita del
corridoio del primo piano, fino a raggiungere la sua stanza da letto, entrare,
prendere ciò che doveva assolutamente avere con sé, quindi rifare tutta la
strada per uscire.
«Andrea»
disse piano Uther, quando si fermarono sull’orlo
della stanza della hall, buia e deserta come il resto dell’edificio «Danny è
davanti a noi, ha già controllato tutto il percorso. Se ci fossero problemi ci
avrebbe già avvertito. Ci avvertirà anche nel caso qualcosa si muova qui
dentro. E quando sentiremo il suo avvertimento, dovremo solo fare dietro-front
e uscire immediatamente. Noi siamo al sicuro. Ci penserà lui.»
«D’accordo.»
mormorò piano lei «Però… io non posso uscire senza
aver preso…»
«Bene,
sì, lo sappiamo.» la interruppe con calma pazienza Uther
«Ma se ci toccherà fare una ritirata, significherà solo che dovremo
riorganizzarci meglio al prossimo tentativo. Adesso, andiamo. Meno rimaniamo
qua dentro, meglio è.»
Entrambi
fecero qualche passo all’interno della hall, e qui si bloccarono, raggelando.
C’era un corpo lungo disteso sul pavimento, quasi al centro della grossa
stanza. A ben guardare, c’erano altri corpi in giro, tutti lunghi distesi per
terra.
«Che
diavolaccio…?» iniziò Uther
tra i denti, ma poi si accorse di qualcosa che riluceva all’imboccatura di un
altro corridoio, dalla parte opposta della hall rispetto a dove si trovavano
loro. Un segnale luminoso.
Uther cercò la mano
di Andrea al suo fianco, e quando la trovò la strinse con forza per un momento,
per richiamare la sua attenzione dall’osservazione paralizzata dei cadaveri che
disseminavano il pavimento della hall.
«Andiamo
avanti.» le disse «Danny ci da il via libera. Questi devono essere tutti morti… »
Andrea
riuscì a soffocare piuttosto bene il debole gemito che le chiuse per un momento
la gola, e quando si sentì tirare da Uther proseguì
con lui.
Attraversarono
la hall, immobile, silenziosa, slalomando tra i
cadaveri. Il solito pesante lampadario di vetro che Andrea ben conosceva
dondolava lentamente, tintinnando molto piano nel silenzio spettrale.
*
***
*
Come
Uther aveva promesso, trovarono tutto sgombro. Salire
le scale, trovare la stanza di Andrea ed entrarvi non costò loro più di qualche
concitato istante.
Mentre
Uther rimaneva sulla soglia a sorvegliare il silenzio
assoluto del corridoio, Andrea si mosse a tentoni tra le sue cose abbandonate,
mischiate in parte a quelle di una ragazza che era stata sua compagna di
stanza. Non aveva idea di che fine avesse fatto, ma ricordare ora i corpi morti
intravisti nella hall le fece venire la nausea.
Dinuovo riuscì a dominarsi, e a concentrarsi su
ciò che doveva fare. Si chinò accanto al letto, e ci si infilò sotto a metà. Lì
frugò in un grosso scatolone, finché le sue mani non toccarono la superficie
familiare di ciò che cercava. La estrasse, se la strinse al petto, si rialzò in
piedi e raggiunse di nuovo Uther sulla soglia.
«L’hai
preso?» sussurrò pianissimo il ragazzo, dandole appena il tempo di arrivargli
di fianco.
«Sì»
disse lei, ricordandosi giusto in tempo che annuire era inutile, visto che lui
non la stava guardando, ma vigilava sul corridoio vuoto con occhio attento e
orecchie tese.
«Bene,
il più è fatto. Danny mi ha dato un attimo fa segno di via libera. Usciamo.»
Senza
aspettare risposta, Uther si riavviò per il
corridoio, e lei lo seguì da vicino. Il ragazzo impugnava il fucile a due mani,
senza che ciò lo ostacolasse nel procedere silenzioso e rapido, ma non come se
dovesse sparare, piuttosto come se dovesse usarlo come un bastone contundente.
In
un attimo rifurono sulle scale, e scesero precipitosamente i gradini.
Erano
appena balzati giù dall’ultimo gradino, e stavano di nuovo slalomando
tra i cadaveri, quando avvenne.
Un
sibilo appena percettibile tagliò l’aria, e quindi una delle vetrate delle
finestre molto in alto nella hall andò fragorosamente in frantumi.
Andrea
fece per buttarsi a terra, avendo riconosciuto in tutto quello il probabile
intervento di un proiettile, ma Uther la afferrò
saldamente per un braccio, impedendole di toccare terra; la sostenne con forza,
mentre con l’altra mano già impugnava il fucile, come se fosse pronto a
sparare. Il suo viso, notò però fugacemente Andrea, era rivolto verso l’alto.
Lei lo imitò istintivamente, e si ritrovò a fissare il fondo del lampadario,
che dondolava, forse un po’ più rapidamente di prima.
Un
altro veloce sibilo, e un’altra finestra troppo in alto nella hall che andava
in frantumi.
Uther stava già
spiccando la corsa verso il corridoio che dovevano imboccare per uscire,
trascinandosela dietro di peso, mentre ancora lei fissava con orrore l’enorme
lampadario di vetro, che decisamente ora ondeggiava molto forte.
Andrea
udì un ringhio basso, gutturale, prodotto da qualcosa che non c’entrava con
loro, e che risuonò un po’ amplificato nell’eco dall’ampiezza della sala.
Ma
stava avvenendo già tutto troppo in fretta, e confusamente lei intravide
qualcosa, una sagoma rapida, che si lanciava nel corridoio molto prima che loro
stessi lo imboccassero, e veniva inghiottito dal buio prima che lei vi avesse
riconosciuto una qualsiasi somiglianza con qualcosa che già conosceva.
Alle
sue spalle sentì un grosso spostamento d’aria, e poi lo schianto, quando
avevano appena infilato il corridoio. Il rumore fu enorme e lacerante, pesante.
Anche se già lo aspettava, sentì il tamburo dell’orecchio interno ferito dallo
scoppio improvviso di un’enorme massa di vetro che precipitava sul pavimento
qualche metro dietro le loro spalle, infrangedovisi
duramente. Una serie di schegge di vetro o di pezzi piuttosto grossi esplosero
in una nuvola scintillante che in parte li investì da dietro.
Se
non ci fosse stato Uther a tirarla fermamente in
avanti, forse sarebbe caduta quando una pioggia di pezzettini taglienti le si
conficcò nella pelle della schiena, del collo e del retro delle gambe, per
fortuna in gran parte ostacolata dai diversi strati di vestiti pesanti che
indossava; un tripudio di pezzi di vetro di svariate dimensioni li precedette
lungo il corridoio, saettando più rapidi di loro sul pavimento, infilandosi tra
i loro piedi, facendoli scivolare in parte, e circondando ogni loro passo del
rumore crocchiante di vetro infranto, di lì per parecchi altri metri di
corridoio. Nonostante tutto, continuarono a correre.
E
alla fine, ecco la porta davanti a loro. Era spalancata sulla notte. E ora
Andrea non sapeva più se aveva più paura di rimanere dentro o di uscire. Uther sembrò invece farsi bastare la vista del vano della
porta sgombro per decidere di gettarvicisi
attraverso. Furono fuori. Solo allora lei si accorse che, chissà come, si
stringeva ancora convulsamente al petto ciò che aveva recuperato poc’anzi dalla
sua ex-stanza da letto.
Uther la teneva
ancora per mano quando si fermarono, ansando per lo spavento e la corsa. Andrea
si sentiva il cuore picchiarle forte nel petto, come se dovesse esplodere da un
momento all’altro. Eppure, di colpo raggelò, vedendo ciò che li fronteggiava.
C’era
una piccola folla di quelle persone, e tutti i loro occhi vitrei erano fissi su
di loro. Era evidente che già si stavano muovendo nella direzione della porta
quando loro erano usciti, attirati quasi sicuramente dal forte rumore prodotto
dal lampadario precipitato ed esploso nella hall. E vedendoli uscire, vedendo
qualcosa che con il semplice muoversi rapidamente e respirare affannosamente
poteva attirare la loro attenzione, stavano accelerando per precipitarsi su di
loro.
Uther reagì in
fretta. Con sgomento di lei, lasciò precipitosamente andare la mano di Andrea,
si scostò da lei con un rapido movimento laterale, armò il fucile e di lì a
pochi istanti sparò un colpo verso l’alto. L’attenzione degli addormentati
ambulanti che avanzavano si concentrò maggiormente su di lui.
«Ebbene
sì, nientemeno che il fuoco e il tuono insieme! Avanti, venite a dare
un’occhiata.» sbraitò lui, in loro direzione, continuando a muoversi
rapidamente per tenersi loro un po’ alla larga, mentre ricaricava il fucile.
Lanciò solo una breve occhiata ancora nella direzione della ragazza,
sillabandole a labbra mute: ‘Vai!’.
Andrea
esitò un attimo solo, ma valutò, dal modo in cui si comportava il ragazzo, che
lui avrebbe saputo cavarsela molto bene anche da solo.
Gli
voltò quindi le spalle, sperando di non doversene poi pentire, e corse nella
direzione che le sembrava la più valida per il suo proposito di aggirare il
gruppetto che già si stava facendo convincere da Uther
a dedicarsi interamente a lui. Subito dopo si sarebbe tuffata nella vegetazione
del sottobosco. Poi, non aveva idea di che avrebbe fatto. Non udiva più il
canto di Zoal o l’abbaiare dei cani. Era tornato a
calare quell’allarmante silenzio, interrotto solo dal rumore che riusciva a
produrre Uther.
Capitolo 23 *** 21 - LEI CAMMINA NELLA NOTTE...parte III ***
Capitolo 21
(Lei cammina
nella notte – III parte)
Se
fosse stata meno sconvolta dalla serie rapida di eventi che era appena
successa, probabilmente Andrea avrebbe scelto più accuratamente la direzione e la
traiettoria della sua fuga. Invece, si ritrovò ben presto tra due fuochi.
Alle
sue spalle c’erano alcuni componenti del gruppo che, nonostante la buona
performance che stava conducendo Uther, avevano
preferito tallonare lei. Davanti a lei, trovò un altro gruppetto di quegli
individui come inebetiti, che le sbarravano il cammino per raggiungere il
riparo del bosco. Riparo di cui ora dubitava. Non era più sicura che la
boscaglia fosse sgombra dalla presenza di quelle persone. Erano troppi, molti
di più di quante persone la scuola avesse mai ospitato. Quindi, verosimilmente
provenivano proprio dalla boscaglia, e si andavano radunando intorno
all’edificio.
Impedendo
a se stessa con fermezza di farsi rallentare dal panico che le cresceva dentro,
Andrea deviò rapidamente la propria corsa, svoltando ad angolo retto per
sfuggire alla morsa dei due gruppi, uno alle sue spalle e uno davanti a lei, e
trovò finalmente la strada sgombra.
Doveva
solo raggiungere la boscaglia. Almeno lì, probabilmente, avrebbe potuto sfuggire
loro più abilmente. Anche solo potersi nascondere in qualche macchia arborea, o
arrampicare un albero, e mettersi al sicuro per un momento, in modo da prendere
fiato e recuperare lucidità, le sembrava qualcosa di molto prezioso. Cosa
affatto secondaria, doveva continuare a correre, per impedire che i due
gruppetti, compattatisi ora in un'unica piccola folla alle sue spalle, la
raggiungessero.
Con
suo crescente sollievo, corse senza trovare ostacolo fino a pochi metri dal
riparo del bosco.
Ma
di colpo qualcosa balzò rapido fuori dalla boscaglia, e si fermò di fronte e a
pochi metri da lei, facendola bloccare sul posto per lo spavento e la sorpresa.
Per
un fugace momento aveva creduto che si trattasse di uno dei cani di Zoal. Ma ora che lo vedeva bene, era chiaro che non era né Mama né Danza né il piccolo Duca. Quello che si ergeva di
fronte a lei su quattro zampe lunghe e agili, il muso lungo puntato verso di
lei, così come la parte interna degli alti triangoli acuti delle orecchie,
fissandola attentamente, aveva sì la forma di un canide. Ma la folta pelliccia
grigio, nera e bianca, e il resto del suo aspetto lasciavano pochi dubbi. Era
un lupo.
Si
fissarono per lunghi istanti, mentre lei sentiva gli uomini e le donne dagli
occhi vitrei avvicinarsi alle sue spalle. Per un attimo dimentica del pericolo
incalzante che la inseguiva, insensibile al suo essersi fermata, si ritrovò a
fissare un paio di attenti occhi. Qualcosa, nel loro colore blu scuro intenso,
e nel suo sguardo particolarmente intelligente, la confuse profondamente.
Poi,
prima che lei potesse riaversi abbastanza dalla sorpresa, il lupo sorto dal
nulla balzò avanti in corsa. Lei rimase perfettamente immobile, aspettando il
colpo finale. Il lupo era troppo veloce, e alle sue spalle premeva ormai da
vicino il gruppo di persone che le stava dando la caccia come un inebetito
esercito amebico.
Il
lupo la raggiunse, lasciandole solo il tempo di alzare le braccia davanti a sé,
in un debole tentativo puramente istintivo di difesa. E la superò.
Si
voltò, attonita, seguendolo con lo sguardo.
L’animale,
la coda tesa dietro di sé nella corsa, utile ad equilibrarlo nei rapidi cambi
di direzione, si frappose tra lei e il gruppo alle sue spalle, esattamente a
metà strada tra di loro. Qui si fermò di nuovo, con prontezza di riflessi
muscolari. Fissò per un brevissimo e raggelante istante le persone che
avanzavano, i cui sguardi vitrei e come ipnotizzati erano ora concentrati su di
lui. Alzò di getto il muso al cielo, scaravoltando
all’indietro di scatto il capo e appiattendo un poco le orecchie sul cranio;
dalla sua gola eruppe senza preavviso in un lungo ululato, rabbioso eppure
lamentoso, che ebbe il potere di calamitare completamente l’attenzione del
gruppo di persone su di sé.
Il
tutto durò pochi attimi. L’ululato si spense in fretta, pur se ne rimase come
un potente eco sospeso nell’aria. Ma il lupo era già scattato di nuovo in
avanti.
Sotto
lo sguardo assorto ed incredulo di Andrea, l’animale si gettò di corsa dritto
nel mucchio di persone. Con indomita agilità prese a slalomare
tra le loro gambe e braccia protese, sfiorandoli appena, muovendosi senza posa,
troppo fulmineo per permettere a chicchesia di loro
di afferrarlo, anche se molti ci arrivavano parecchio vicini. Andrea ebbe
l’impressione fugace di alcune paia di occhi vitrei che iniziavano ad esultare,
convinti di averlo afferrato, ma il lupo era già un poco più distante,
proseguendo nei suoi scatti rapidissimi e perfettamente calcolati al
millimetro.
Prima
che una qualsiasi di quelle mani rapaci avesse potuto riuscire nel proposito di
rallentarne anche solo la corsa, aveva solcato tutto il gruppo, facendoli
voltare come un’onda scomposta di stupore su loro stessi, impotenti. Una volta
che fu dietro di loro, guadagnò pochi metri di distanza, e di nuovo si fermò,
frenando bruscamente e senza eccessivo sforzo apparente.
Di
nuovo piegò la testa, mostrando la gola coperta di fitto pelame al cielo, e
lanciò un altro potente e breve ululato.
Ormai
tutti i componenti del gruppo erano concentrati su di lui, e si rimisero in
marcia, ansiosamente, col proposito di afferrarlo.
L’animale
permise loro di guadagnare qualche metro di vantaggio, poi, quando le mani dei
primi erano lì lì per afferrargli il pelo, scattò di
nuovo, con uno spasmo muscolare come se il suo corpo fosse stato percorso da
una potente scarica elettrica, e di nuovo si allontanò di qualche metro, solo
per fermarsi di nuovo, e di nuovo scagliare un ululato.
Il
gruppo accelerava sempre più, scoordinato, incespicando confusionariamente
ognuno nei propri piedi o in quelli dei vicini di folla, tutti appesi all’unico
impellente e irresistibile desiderio di afferrare il lupo, il quale si limitava
a tenerli d’occhio attentamente, ripetendo il suo giochetto volta dopo volta,
sempre uguale, se non per un graduale aumento della distanza che guadagnava
ogni volta prima di fermarsi; lo sguardo allibito, ma suo malgrado affascinato,
di Andrea registrò bene il fatto che l’intelligente animale calcolava quelle
distanze in base alla velocità crescente con cui il gruppone
gli stava alle calcagna. Ciò, tuttavia, non sembrava allarmarlo
particolarmente.
E
ancora, in lontananza, risuonavano i colpi di fucile e la voce berciante di Uther.
E
all’improvviso, un singolare paragone tra i due colpì la capacità
d’osservazione della ragazza, subito tallonato dalla memoria di quello sguardo
di occhi blu scuro, attenti e intelligenti, con cui l’animale l’aveva osservata
poco prima.
Andrea
realizzò troppo tardi il rumore alle sue spalle. Prima di potersi voltare, si
trovò avvolta le spalle in uno stretto abbraccio fermo e forte, e una mano
gelida le calò sulla bocca, impedendole di emettere qualsiasi suono. Si
aggrappò ansiosamente a quelle braccia, tentando invano di strapparsele di
dosso. Era ad un passo dal panico più totale, quando udì una profonda voce
femminile mormorarle all’orecchio «Sono io: Zoal. Non
urlare, o rovinerai il loro lavoro.»
Subito
dopo, Andrea fu liberata dalla presa delle forti braccia, e poté voltarsi, per
trovarsi di fronte alla giovane donna. Accanto a lei c’erano i tre cani: Danza,
Duca e Mama, tutti e tre con gli occhi e le orecchie
concentrate verso il lupo e la massa di persone stordite che stava
“ammaestrando”.
«Mi
dispiace. Non volevo spaventarti.» si scusò Zoal «Ora
andiamo, però. In fretta.»
Andrea
riuscì a ritrovare la voce «Dove?»
«Nel
bosco. Là saremo abbastanza al sicuro, e potremo aspettare gli altri.»
«Ma
Uther… e Danny…» iniziò a
replicare debolmente Andrea.
Zoal le sorrise,
dolce e misteriosamente allusiva ad un tempo. «Non ti preoccupare. Se la stanno
cavando benissimo. Sanno quel che fanno. Ma lo stanno facendo per permetterci
di fuggire. Tanto più in fretta ci allontaniamo, tanto prima potranno seminare
quelle persone e raggiungerci.»
Solo
in parte tranquillizzata da quelle parole, Andrea costrinse le sue gambe, ormai
poco propense ad ubbidirle con prontezza, a seguire rapidamente Zoal, fin dentro la boscaglia.
Quando
furono al riparo degli alberi e del sottobosco, mentre continuavano a camminare
rapidamente, Andrea riuscì a parlare di nuovo.
«Ma
come ci troveranno? E dove stiamo andando? Credo ci siano di quelle persone
anche qui in mezzo…» mormorò piano, timorosamente,
guardandosi nervosamente intorno, diffidando profondamente di tutte quelle
ombre più o meno fitte, e di quei profili neri che si stendevano ovunque
intorno a loro.
«Tranquilla.
Loro ci guideranno bene.» disse Zoal, alludendo ai
tre cani che le accompagnavano. Andrea notò che, effettivamente, i tre animali
le seguivano da vicino, disposti intorno a loro come una scorta, l’aria attenta
ed estremamente vigile, il passo rapido ed agile, persino quello su sole tre
zampe di Mama. Sembrava che le stessero scortando e
guidando ad un tempo. Il loro atteggiamento calmo e attento, pieno di cura,
ebbe il potere di calmarla un po’.
Allora,
mano a mano che si inoltravano nella boscaglia, lasciandosi alle spalle i
rumori di colpi di fucile, urla e ululati, e che la vegetazione si richiudeva
attorno a loro protettiva, la ragazza sentì l’adrenalina iniziare a scemare.
Dietro di sé, lasciava una scia di profonda prostrazione fisica e mentale, un
lascito di stanchezza estrema e di nervi che si sfacevano, dopo aver
miracolosamente resistito alla forte tensione. Provò una gran voglia di
piangere, ma trattenne il groppo di improvvisa commozione chiuso in gola. Le
gambe minacciavano continuamente di cederle, ma tutto sommato reggevano e
continuavano a portarla avanti, se solo non concedeva loro troppa attenzione.
Le braccia strette quasi convulsamente attorno al grosso libro che stringeva al
petto, strinse i denti, per evitare alle dolorose punture delle schegge di
vetro che le avevano raggiunto la pelle su schiena, gambe e collo di strapparle
anche solo il più piccolo gemito.
«Ormai,
ce l’abbiamo fatta.» udì che diceva la propria voce, con fermezza atta a
convincere, prima di tutto, se stessa.
Zoal la spiò per un
momento da sopra una spalla, con sulle labbra un accenno di qualcosa che poteva
assomigliare a un poco di sorpresa.
«Proprio
così.» disse solo, con calma convinzione.
*
***
*
La
luce tenue di un’alba rosata si faceva strada a fatica, strisciante, tra i
tronchi e la vegetazione del sottobosco, senza alcuna fretta.
Andrea
faticava a tenere gli occhi aperti, e soprattutto a impedire che lacrimassero
più di quanto già non stessero facendo.
Sdraiata
a pancia in giù su una coperta, e a sua volta semi-coperta dal pesante mantello
verde scuro e odoroso di strane fragranze che aveva visto indosso a Zoal fin da quando l’aveva veduta per la prima volta,
cercava di sopportare il doloroso fastidio delle mani della giovane donna che
le toccavano piano la schiena.
Dopo
qualche altro minuto di accorta ispezione, parve che Zoal
si ritenesse soddisfatta, perché le riabbassò i vestiti sulla schiena, tornando
a coprirgliela. Andrea si tirò in piedi. Stare seduta, al momento, era troppo
doloroso. Si rimise a posto i vestiti, muovendosi molto piano. Nonostante la
sua cura, sentiva continuamente la puntura come di tanti piccoli aghi.
Fastidiose, ma non gravi, almeno a giudicare dalle parole di Zoal.
«Niente
di pericoloso.» stava infatti dicendo la donna, mentre recuperava il proprio
mantello, e lo reindossava. «Ti ho tolto la maggior
parte delle schegge dall’interno dei vestiti, così la situazione non dovrebbe
peggiorare troppo, fintanto che arriviamo a casa. Una volta lì, ti ripuliremo
per bene. Dev’essere terribilmente fastidioso… Ma certamente nessuna scheggia era abbastanza
grossa o viaggiava abbastanza veloce da esser potuta penetrare molto in
profondità.» spiegò.
Uther, seduto poco
lontano, sospirò appena. «In ogni caso, ce la siamo cavata bene, insomma.»
Andrea
li guardò bene entrambi, e alla fine annuì. «Grazie…»
disse, debolmente.
«Quando
Danny tornerà potremmo…» continuò Uther,
come se non l’avesse sentita.
In
quel momento, Mama, che fino ad allora se ne era
rimasta tranquillamente accucciata vicino a Zoal,
come se dormisse, si alzò rapidamente sulle tre massicce zampe. Subito Danza e
Duca la imitarono, rizzando come lei le rispettive orecchie, in ascolto.
«Dev’essere qui, ormai.» notò Zoal.
In
effetti, poco dopo si iniziò ad udire il rumore di qualcuno che camminava nel
sottobosco, avvicinandosi.
Nonostante
la loro tranquillità di fondo, i tre cani rimasero attenti e ritti in piedi,
finché, quando il rumore si trovava a pochi metri da loro, risuonò la voce di Danny,
in tono cupo ma chiaro.
«Sono
io.» disse solo. E poco dopo spuntava tra gli alberi.
Andrea
gli rivolse una lunga occhiata. Era evidentemente stanco, ma sembrava il solito
ragazzo che aveva sempre visto fino a quel momento. Pur tuttavia, i suoi occhi erano…
«Bene,
possiamo andare allora.» disse la bassa voce di Zoal
«Oppure intendevi riposarti un po’, prima?» aggiunse, rivolta a Danny.
Egli
la guardò e sorrise debolmente «Non sono molto stanco. Per me va bene così, se
andiamo.». Ma poi, come colto da un ripensamento, si voltò a guardare prima Uther, poi Andrea. «A meno che voi…»
ma la sua voce si spense, e la sua espressione si rabbuiò. Aveva colto il
sussulto mal trattenuto della ragazza, quando l’aveva guardata direttamente.
«Per
me possiamo andare.» disse Uther, facendo per
rimettersi a tracolla il fucile. Ma si fermò in tempo, ricordando lo stato
scheggiato della sua schiena, e si limitò a tenerlo in mano, risolvendosi a
trasportarlo in quel modo.
Zoal guardò Andrea,
che annuì.
Allora,
i quattro fecero per riprendere il cammino. Ma, di punto in bianco, Andrea si
fermò. «Aspettate…» mormorò.
Si
fermarono e si voltarono a guardarla, in attesa.
Non
osando incontrare i loro sguardi, la ragazza tenne il suo rivolto a terra, ma
parlò in tono molto aperto.
«Io… penso che… dopo quello che
avete fatto per me…Vorrei…
Insomma, mi sembra giusto che sappiate che cosa dovevo assolutamente tornare a prendere… »
Zoal dissimulò
abbastanza beneil sorriso che le sorse
alle labbra, e che l’avrebbe detta lunga a proposito di ciò che stava pensando
in quel momento. Ma tacque, e lanciò un’occhiata a Uther,
il quale si stava esprimendo in un fin troppo sincero «Beh, effettivamente…».
Il ragazzo si zittì. E, dal momento che Andrea li stava guardando, in
trepidante attesa, annuì. «Va bene.»
Andrea
sciolse lentamente l’abbraccio in cui teneva ancora stretto il grosso librone,
dalla copertina robusta un poco malconcia. Si chinò, e lo appoggiò per terra,
per aprirlo con maggiore libertà.
Gli
altri rimasero fermi, senza avvicinarsi o spiare troppo, eccetto per la viva
curiosità che faceva un po’ allungare il collo a Danny ed Uther.
Ma i due, in presenza di Zoal, parevano aver
acquisito più tatto e sensibile cautela di quanta potessero intendere fosse
meglio adottare.
Lentamente,
Andrea sfogliò alcune pagine, maneggiandole tra le dita con grande delicatezza.
Era ormai evidente che il suo tesoro consisteva in un album di fotografie.
Lei
scelse una pagina, la guardò per qualche momento. La sua espressione,notarono tutti, si era fatta decisamente più
accorata, come se stesse guardando un tempo lontano, altre giornate, altre ore,
un altro intero mondo.
Alla
fine, il suo sguardo ritornò al presente. Si riscosse appena, e voltò l’album,
girandolo verso di loro. I tre si sporsero appena sulla pagina, chinandosi o
accucciandosi davanti al librone aperto, osservando con attenzione composta e
concentrata. I tre cani, bastò un gesto perentorio della mano di Zoal per tenerli a sufficiente distanza, affinché non
rischiassero di pestare accidentalmente il libro.
Danny
si trovò a fissare tre foto. Erano tutte in bianco e nero. Ritratti, da cui
trasudava una strana atmosfera, data dalla perizia quasi poetica con cui erano
state scattate, e dalla particolare atmosfera in cui dovevano trovarsi immerse
quelle persone quando erano state fissate sul rullino.
Su
una sola pagina erano due foto. Una rappresentava una coppia, un uomo e una
donna di una certa età. L’uomo rideva o stava esclamando qualcosa di
divertente. La donna, che gli era seduta in ginocchio, lo guardava con aria che
voleva essere paziente e sostenuta, ma si stemperava in un sorriso estremamente
dolce e affettuoso, che tradiva un sentimento particolarmente esclusivo.
Nessuno dei due fissava l’obbiettivo o cercava di sorridere forzatamente.
Nell’altra
foto sulla stessa pagina era ritratto un ragazzino in pantaloncini corti e
maglietta, immerso nel sole di un pomeriggio estivo, che guardava attentamente
qualcosa che era rimasto fuori dal campo d’azione della macchina fotografica.
Aveva un ghiacciolo in mano, che si andava sciogliendo, e al quale aveva
dimenticato di dedicare attenzione. Doveva essere qualcosa di molto
interessante ciò che l’aveva distratto, sembrava suggerire la foto.
Infine,
c’era l’altra pagina. A differenza della precedente, conteneva un’unica foto,
incollata al centro. Tutt’intorno, la pagina era solcata di minute scritte e
scarabocchi vari. La foto rappresentava una ragazza piuttosto carina, dal viso
magro, e gli occhi colmi di una luce d’entusiasmo straboccante. Sembrava che la
ragazza stesse per dire qualcosa, e il suo sguardo era eccezionalmente vivace,
ma un poco adombrato da una consapevolezza un po’ triste, in parte disabilitata
da un sorrisetto sardonico che metteva allo scoperto, tra labbra molto sottili,
denti dai canini piccoli e puntuti; ciò rendeva il suo sorriso particolarmente
pungente e sagace. I capelli lisci e chiari che le incorniciavano il volto
magro e appuntito, terminando poco al di sotto delle spalle, erano piuttosto
spettinati. Era troppo presa da qualche cosa, per curarsi di qualcuno che le
scattava una foto.
Qualcosa
calamitava l’attenzione in particolare su quell’ultima foto. L’impressione di
Danny sembrò confermata da un singolare gesto di Zoal.
La giovane donna, dopo aver osservato molto a lungo e con particolare
attenzione quella foto, allungò una mano, come assorta in riflessioni profonde,
e fece per toccare la foto. Ma si fermò un attimo prima, e finì per deviare il
suo tocco sulla carta accanto ad essa, come in una fugace carezza della pagina
piena di scritte.
Infine,
Zoal, senza staccare gli occhi dalla foto, mormorò,
in tono basso e carico di significato «Lei, ora, cammina nella notte.»
Alzò
poi lo sguardo, un po’ meno addensato, su Andrea, e annuì, come se avesse
compreso con sicurezza qualcosa. Si rialzò in piedi, appoggiandosi al suo
bastone. Quasi simultaneamente, Andrea richiuse l’album, con un leggero sorriso
triste sulle labbra.
Solo
diversi minuti dopo, mentre camminavano in silenzio, dirigendosi verso casa,
solcando la boscaglia immersa nell’alba che andava schiarendosi nel primo
mattino, in un’atmosfera quasi fatata di rosa e tenue dorato, Danny comprese.
Rammentò
cosa significava quella frase. E capì che quella ragazza, quella mostrata nella
foto, era morta diverso tempo prima.
Risposte e note varie dello scribacchiatore:
a Lucretia: oilà! Mi fa piacere risentirti! :) Per non dire che avevo
proprio sentito la mancanza delle tue recensioni. E anche in questa non ti
smentisci.
Partiamo col
dire una cosa… visto che ci tengo particolarmente ad
argomentare alcuni punti della storia che hai toccato, e che già ti devo
rispondere ad un altro messaggio, parte della risposta alla tua recensione la
metto qui, mentre altre cose te le scrivo in messaggio personale. Una forma di
vendetta verso chi non commenta? Un tentativo di creare una specie di “zona
riservata” per chi commenta? Ma no! Aspetta…ah… sì. :pNo,
scherzi a parte, in realtà trovo gradevole l’assenza di molti commenti: ti
lascia spazio per quel cantuccio ovattato in cui puoi fumarti fulmicotone
mentale, creandoti l’immagine che siano tutti rimasti senza parole (per la
meraviglia o per lo schifo, a seconda del mio umore del momento).
Torniamo alla
storia, diamine! Ebbene, hai colto con poche ma efficaci parole l’aspetto
fondamentale di Zoal (o almeno nel modo in cui si
presenta di primo acchito): una sorta di misteriosa ambiguità. Mi astengo dal
confessare se è ispirata a qualcuno che conosco nel reale perché in particolari
casi, ti dirò, si può diventare piuttosto timorosi delle vendette…
Comunque, fintanto che Zoal non sia un fantasma o
qualche altra creatura soprannaturale (nel senso proprio del termine, perché in
effetti forse in senso lato…haem!),
deve pur avere anche un lato umano: basta trovarlo…hum… Il fatto è che, dopotutto, Andrea la incontra per la
prima volta, e rimane subito irretita in quella sorta di impressione che non è
facile comprendere se sia un’illusione molto ben fatta o il sentore di qualcosa
di realmente soprannaturale. Zoal potrebbe apparire
in effetti come una specie di concentrato dell’ambiguità di fondo di questi
personaggi e situazioni: non è sempre ben chiaro cosa sia frutto di
un’illusione, di un trucco, o di un vero e proprio fenomeno paranormale o
situazione/creatura soprannaturale.
Riguardo ad Andrea… il suo sguardo di personaggio distaccato e molto
ordinario (aspetto che cogli appieno, ma che ritengo sia molto amplificato
dalla comparazione con gli altri), è dopotutto quanto di meglio per poter
permettere non solo a Zoal di sguazzare
nell’ambiguità (con una certa soddisfazione anche, direi), ma anche ad altre
cose di non risultare immediatamente chiare, anche se in certi casi facilmente intuibili… Se ho scritto bene, infatti, in questo capitolo
l’ambiguità si amplierà ancora davanti ad Andrea. Comunque, per chi è stanco di
Andrea come protagonista di capitoli, questo qua è l’ultimo in cui la farà da
padrona in assoluto, ma rimane un personaggio che potrebbe avere una certa
importanza, e il suo ‘percorso’ non si interrompe qui…
In ogni caso, consiglio di non sottovalutare questo personaggio, considerando
una cosa: per essere così ordinaria e abituata a una vita ‘più tranquilla e
comune’, sta reagendo con una certa energica prontezza alle situazioni che si
trova davanti. Mi sembra un tipo che non tralascia mai di mettersi alla prova;
cosa che potrebbe avere anche il nome di ‘pura testardaggine’ in effetti.In questo senso, il suo è un piano ben
diverso rispetto agli altri, ai ‘4 di picche’, che
possono contare oltre che sull’esperienza anche forse su un certo ironico
cinismo di fondo, almeno per alcuni di loro.
Ebbene sì, devo
dire che la mancanza di Danny si sente. In fondo metterlo un po’ da parte non
sembrava una cosa così significativa, per via del fatto che, dopotutto, è
dall’inizio della storia che c’è, immancabilmente e spesso in primo piano.
Soprattutto, non pensavo potesse mancare così tanto al lettore. Comunque, dal
prossimo capitolo si rifocalizza sul gruppo e, di qui
a poco, anche su alcuni suoi componenti che, a giudicare dalle tue osservazioni,
sono quelli che più hanno colpito nel segno (com’è che non senti la mancanza di
Kumals? Hehehe ;) ).
Riguardo ai
misteri che si infittiscono… qui s’è scoperto cosa
doveva recuperare Andrea, e penso che presto sapremo meglio perché ha tutta
questa importanza per lei. Riguardo ad altri particolari, or ora arriverà
(finalmente!) un po’ di ‘punto della situazione’… o meglio…
beh, vedrai nel prossimo titolo ;)
Bien, del resto ti scrivo qualcosa di più in messaggio
personale :)
a tutt* le/gli altr* che leggono: al prossimo capitolo gente! Ah, visto come stanno
le cose, diciamo che ufficializzo che gli aggiornamenti dei capitoli cadranno a
ritmo regolare: ogni 5-9 giorni, salvo problemi particolari. Infatti ci sono
molti capitoli già belle che pronti, e la trama è già definita fino alla fine,
quindi posso procedere tranquillo, ove rallenterò sarà a causa di problemi
pratici di tempo nella pubblicazione, che cercherò di evitare. Hastaluego!
Capitolo 24 *** 22 - IL BUCO NERO DELLA SITUAZIONE...I ***
Capitolo 22
(Il buco nero
della situazione – parte I)
Nella
cucina, avvolta nella luce di un pomeriggio inoltrato soleggiato, regnava da un
po’ un concentrato silenzio, rotto di tanto in tanto solo da qualche rumore.
Come quello di Ramo, che rimestava nelle pentole, preparando qualcosa di lenta
cottura da mangiarsi per cena.
Uther, seduto su un
grosso cuscino sistemato su una poltrona leggera, da giardino, malconcia come
se provenisse da una discarica, sistemata vicino alla stufa, sorseggiava
distrattamente una birra, facendo correre lo sguardo sul soffitto, con caparbia
concentrazione. Insomma, faceva di tutto per evitare di incrociare lo sguardo
di chicchesia.
Dalla
grossa stufa vecchia, accesa, proveniva un intenso calore; tuttavia, di tanto
in tanto gli sfuggiva qualche brivido. Indossando solo una leggera camicia sul
torso nudo e un paio di larghi boxer, era per il resto avvolto qua e là, ad
altezza di collo, busto e braccia, da una candida bendeggiatura,
cosparsa di una strana sostanza di consistenza pastosa e dal preoccupante
colore marrone-verdognolo. Era appunto per fare
asciugare bene l’intruglio che gli era stato spalmato addosso, che il ragazzo
permaneva seminudo nei pressi della stufa, cercando tutto sommato di darsi
comunque un contegno, mentre nell’aria della cucina si spandeva un odore
intenso di fanghiglia ed erbe di svariata tipologia, che riusciva a coprire
tranquillamente l’odore del cibo che cuoceva sui fornelli.
Dall’altra
parte della stufa, anche lei seduta su un grosso cuscino, anche lei bendata e
seminuda, anche se meglio celata da una coperta di lana che si teneva sulle
spalle, sedeva Andrea.
Presso
il bancone di cucina, o sparsi su altre sedie nella stanza, sedevano Valentine, Yuta e Zoal. Accanto a quest’ultima, era sdraiata e profondamente
addormentata la grossa Mama. Sulle ginocchia di Zoal, beandosi delle lente carezze della donna, era
accucciato il piccolo Duca. In simile posizione, Tirch
dormiva in grembo a Valentine. Quanto a Danza, aveva
preferito addormentarsi semisdraiata sulle gambe incrociate di Danny, che
sedeva per terra, la schiena appoggiata al muro, non molto lontano dalla sedia
di Uther.
Kumals, in piedi,
appoggiato al muro, braccia conserte e viso abbassato, aveva un aspetto poco
fraintendibile. Chiuso in un deciso silenzio, degno di uno in sciopero della
parola, stava fumando l’ennesima sigaretta. Benché nessuno osasse spiargli
troppo insistentemente l’espressione, doveva avere una faccia parecchio
oscurata dalla collera trattenuta.
Dopo
aver passato la maggior parte del tempo a passare cautamente lo sguardo da Kumals ai tre vicino alla stufa, alternativamente, Yuta, soffermando lo sguardo su Andrea ed Uther, sospirò brevemente.
«Sembrate
due mummie.» disse, riferendosi al loro bendaggio.
Uther le lanciò uno
sguardo un po’ corrucciato, ma poi abbassò il viso, nel tentativo di celare
almeno in parte il sorriso divertito che l’aveva colto. Andrea si limitò a
sistemarsi un po’ meglio sul suo cuscino, piuttosto a disagio, e tuttavia
riconobbe tra sé e sé con sollievo il tentativo di Yuta
di stemperare l’aria di tensione che aleggiava nella stanza.
Poco
dopo, Kumals alzò lo sguardo, lanciando anche lui
un’occhiata verso la stufa, con espressione di marmo. «E’ vero.» osservò «Ma è
ancor più vero che siete dei totali idioti.»
Un
lento sollievo si fece strada nella stanza.
Ramo
e Danny si mossero quasi simultaneamente, come se ora osassero farlo. L’uno
smise di mescolare ormai inutilmente il contenuto sobbollente della pentola, e
si voltò finalmente verso il resto della stanza, appoggiandosi un po’ all’indietro
al banco dei fornelli, osando persino un pacato accenno di sorriso verso Kumals. L’altro si alzò da terra, scostandosi piano Danza
di dosso, e si chinò di nuovo, presso la stufa, aprendo lo sportelletto
apposito e prendendo a muovere i pezzi di legno e ad aggiungerne qualcuno, per
rinfoltire le fiamme. Poco dopo ripose di nuovo l’attizzatoio, appendendolo al
suo apposito gancio, e ritornò a sedersi dove si trovava prima. Con
tranquillità, Danza gli si riappoggiò addosso, emise un sospiro compassato, e
riprese a sonnecchiare con soddisfazione.
«Comunque…» disse piano Danny, a testa bassa «…è andato tutto bene…»
Un
compatto gelo calò nella stanza.
«Fino
ad ora.» minacciò sordamente Kumals.
Danny
lo guardò. «D’accordo, abbiamo commesso una sciocchezza…»
«Tu
ti sottovaluti, Danny.» lo interruppe, sempre in tono cupo, Kumals,
guardandolo fisso.
«Ma
era importante.» terminò Danny, con salda e calma convinzione.
Andrea
lo spiò appena. Ripensò al suo album di fotografie, ora al sicuro sotto il
materasso su cui dormiva, nella stanza di Yuta.
Ingoiò saliva e prese fiato. «E’ stata colpa mia… mi dispiace…» disse, seriamente contrita.
Un
sopracciglio di Kumals ebbe un rapido guizzo di
disappunto. «Il tuo contributo non è in discussione.» confermò «Ma se questi
due non ti avessero appoggiato prontamente…
Probabilmente non saresti andata molto lontana. Avevi tutto questo in mente fin
dall’inizio, no?»
Un’espressione
contrariata corrugò i tratti del viso della ragazza, che lo guardò, arrossendo
un poco per l’indignazione. «Non è solo per questo. Dicevo sul serio, quando ho
detto che volevo cercare di dare una mano in tutto questo…».
Si zittì, abbassando di nuovo il suo sguardo amareggiato, puntandolo senza
scopo sulle mani abbandonate in grembo, con una piccola smorfia di dolore.
Le
piccole ferite bruciavano un po’, quasi senza sosta, da quando le erano state
curate. Le avevano tolto una per una tutte le minute schegge dalla pelle,
operazione fastidiosa che aveva richiesto lunghi ed elaborati minuti. E anche
se quella strana pasta curativa che Zoal e Yuta avevano preparato e spalmato nelle bende iniziava a
darle un leggero sollievo, il tutto era ancora particolarmente fastidioso. Non
aveva affatto voglia di sorbirsi, esausta come si sentiva, una ramanzina; anche
se sapeva che Kumals aveva tutte le ragioni del caso
per propinarla loro, e gli riconosceva una profonda e sincera preoccupazione,
adombrata da un risentimento palpabile.
«C’ero
anch’io.» disse la voce bassa di Zoal.
Kumals occhieggiò nella
sua direzione «Sì. Immagino avrai capito subito che era inutile tentare di
dissuaderli.»
La
giovane donna alzò uno sguardo penetrante, nonostante le palpebre a mezz’asta
in un’espressione di intensa stanchezza ma viva concentrazione, su di lui,
scrutandolo significativamente. «Proprio così.» disse solo, eloquentemente «Per
questo sono andata con loro.»
Kumals, che aveva
assorbito in pieno quello sguardo, la ricambiò con un’espressione testarda. «Se
ce lo avessero permesso, anche noi avremmo potuto dare una mano.»
«Avresti
fatto di tutto per dissuaderci.» lo contraddisse Danny.
«E
voi non avreste avuto nessun valido motivo per sostenere la vostra…
“causa”.» completò Kumals.
Calò
un denso silenzio. Infine, Yuta parlò di nuovo per
prima. «Ad ogni buon conto, ciò che è fatto è fatto. Loro se la sono cavata, in
qualche modo… » esitò, scoccando un’occhiata alle
fasciature di Andrea ed Uther «…e
questo è l’importante. Supponendo che, come spero, qui nessuno abbia più motivo
di dover tornare a quella scuola, ci sono altre cose di cui dovremmo parlare. E
potremmo iniziare proprio da ciò che è successo stanotte.»
La
ragazza concentrò il suo sguardo su Danny ed Uther
«Non c’erano solo quelle persone come ipnotizzate, là, non è vero?»
«No… » disse lentamente Danny «C’era qualcuno, nascosto
nella boscaglia. Che ha sparato.»
«Con
l’evidente intenzione di cercare di spiaccicarci sotto il lampadario.» aggiunse
Uther.
«Danny,
hai provato ad inseguirlo, non è vero?» domandò Zoal,
fissando attentamente il ragazzo, che la ricambiò con espressione seria,
annuendo.
«Sì.
Ma chiunque fosse, oltre ad avere una buona mira e chiare intenzioni, aveva
anche ottime qualità per scomparire. Non sono riuscito a rintracciarlo. Non ho
potuto mettermi seriamente sulle sue tracce. Ho dovuto…
tornare indietro… ». Il suo tono si era fatto
esitante. «Ma per quello che ho potuto accertare, chiunque fosse si è curato di
non lasciare tracce evidenti.»
«Riassumendo…» intervenne Ramo, serio «Oltre ad una banda
sparsa di varie persone che sembrano aver perso la testa, in un modo autolesivo ed aggressivo nel contempo, abbiamo un cecchino
che ha intenzione di farci fuori.»
Andrea
rabbrividì, e lanciò sguardi preoccupati alle finestre. «Cosa ci dice che non
possa cercare di venirci a colpire anche qui…?» chiese.
«Se
è stato tanto accorto da impedire a Danny di individuarlo, e da preferire
scomparire dopo aver effettuato un attacco a distanza di sicurezza, difficile
che osi avvicinarsi qui, dove ci siamo tutti.» osservò Yuta,
in tono tranquillizzante, ma preoccupato. «In ogni caso, loro lo sentirebbero
per tempo.» e così dicendo accennò con la testa ai cani.
«Abbiamo
alcuni sistemi di allarme, per così dire, qui intorno.» terminò, con sicurezza.
«Andrea»
la interpellò Zoal «Tu hai notato qualcos’altro alla
scuola, rispetto a prima. Qualcosa di diverso, no?»
«Beh,
c’erano troppe di quelle persone… Voglio dire, molte
di più di quante ce ne siano mai state a scuola. E solo alcune le ho
riconosciute come frequentatrici abitudinarie o residenti all’istituto. Poi… » rabbrividì e non riuscì a continuare subito.
«Diversi
di loro erano morti.» le venne in aiuto Danny. «Probabilmente, sono precipitati
uno dopo l’altro dalla balaustra delle scale, mentre si sporgevano per cercare
di afferrare il lampadario. Doveva essere un’attrazione molto forte per loro.»
«A
proposito di attrazioni…» aggiunse pensierosamente Zoal «Qualcuno, poco dopo che io, Uther
ed Andrea ci siamo separati, ha disinnescato l’allarme della porta che aveva
accidentalmente attivato Danny. Suppongo che anche questo sia da attribuire al
cecchino. Ma potrebbe significare anche che lei o lui aveva una singolare
capacità di muoversi rapidamente, per poter raggiungere prima la porta e
disinnescare l’allarme e poi trovare un buon punto nella boscaglia da cui
tirare al lampadario; oppure erano in più di una sola persona.»
Danny
corrugò le sopracciglia. «Non saprei dire se fossero in più di uno. Ma se era
lo stesso, potrebbe aver semplicemente fatto saltare l’allarme con un
proiettile, agendo sempre dalla posizione da cui ha poi mirato al lampadario.
Se aveva un silenziatore, potremmo non esser riusciti a sentire il colpo
concui ha zittito l’allarme.» e rivolse
un’occhiata di richiesta di un’opinione ad Uther.
«Sì…» disse quest’ultimo «…è
abbastanza plausibile. Ma sarebbe stato molto difficile riuscire a trovare una
posizione da cui beccare sia l’allarme che poi il lampadario.»
«Ma,
cosa più importante, come faceva a sapere che vi avrebbe trovati là, e che
sareste passati sotto il lampadario?» domandò Yuta.
«Potremmo
supporre che fosse già là. E che, una volta che ci ha individuati, pur se
abbastanza da lontano e nascostamente da non farsi sentire né da Zoal né da me né da loro…» e
Danny accennò brevemente a Danza, abbandonata e rilassata sulle sue gambe «…ha deciso di conseguenza di sabotarci e cercare di farci
fuori.»
«Il
passaggio sotto il lampadario è quasi d’obbligo, sia per passare da un
corridoio ad un altro del piano terra, sia per salire al piano di sopra. La
hall è il nucleo centrale e passaggio pressoché obbligato, per come è fatto
l’edificio.» aggiunse Andrea.
«Inoltre,
era l’unico serio mezzo con cui avrebbe potuto attaccarci a distanza…
» riflettèUther «Se avesse
cercato di freddarci a distanza, uno ad uno, avrebbe dovuto calcolare che, una
volta abbattuta una persona o due, gli altri avrebbero cercato riparo, e
sarebbero stati allerta.»
«O
forse era un avvertimento.»
Tutti
si voltarono a guardare Zoal. Lei ricambiò le
occhiate con calma. «In ogni caso, per il fatto che abbia scelto di agire in
lontananza, e che abbia puntato per primi e in modo particolare Andrea ed Uther, piuttosto che me, che ero molto più allo scoperto là
nel piazzale… e contando che è riuscito – o riuscita
– a scomparire in fretta, come se avesse calcolato che Danny si sarebbe
lanciato alla sua ricerca rapidamente… e l’esser
riuscito a seminarlo, e a spiarci da lontano senza che nessuno di noi avesse
sentore della sua presenza… Tutte queste cose mi
fanno supporre che sapesse, in qualche modo, con chi aveva a che fare. Ci ha dedicato
una notevole cura di particolari, troppa per essere un cecchino disinformato al
nostro riguardo. Tuttavia, non era così preparato da agire in maniera
impeccabile. In summa, ritengo probabile che si trovasse là per suoi motivi, e
che sia stato sorpreso dal nostro arrivo, ma che sapesse qualcosa a proposito
di noi. O non era nelle sue capacità ucciderci, o era nelle sue intenzioni
darci solo un cospicuo avvertimento, di mantenerci fuori dalla faccenda.»
«Sono
d’accordo.» commentò Kumals. «E ciò ci porta a
comprendere anche un’altra cosa importante. Non abbiamo a che fare con qualcosa
di completamente fuori dal controllo di tutti. Qualcuno sta seguendo la
faccenda da vicino, oltre a noi, e probabilmente con più dimestichezza di noi.
Forse sa cosa sta succedendo, in qualche modo.»
«Se
ha ragione Danny, a riguardo del fatto che la fonte di quello stato sia la televisione…» iniziò Uther.
«La
televisione?!» si stupì Andrea, con sguardo poco convinto.
Uther si voltò a
fissarla «Tu hai l’abitudine di guardarla?»
«Beh,
no… » disse Andrea «Però, mi sembra eccessivo
sospettare addirittura una cosa del genere.»
«Il
Conte ha sviluppato quel comportamento dopo aver guardato la televisione.
Inoltre, nessuno di noi qui presenti, che siamo rimasti immuni, è solito
guardare la televisione.» spiegò Danny.
«Questo
è il nostro unico indizio.» disse Kumals, guardando
con comprensione l’espressione perplessa di Andrea «E’ penoso, e parecchio
discutibile, ma è pur sempre un indizio. Per iniziare…»
«Cosa
stavi dicendo?» chiese Yuta ad Uther.
«Che
se è vero che è la televisione, a causare questo stato, deve aver a che fare
con le trasmissioni e via dicendo. Potrebbe trattarsi di un messaggio induttivo
trasmesso via schermo… no?»
«E’
un’idea interessante.» commentò Kumals.
«Oltre
che parecchio inquietante.» aggiunse Ramo «Ma, Andrea, tu sapresti dirci se in
qualche modo potrebbero essere veramente collegate le due cose? Non per minare
la tua idea, Danny…» parve quasi scusarsi, rivolto al
ragazzo «… però potremmo stare prendendo un abbaglio. Il Conte avrebbe potuto
avere già in sé qualcosa che poi ha fatto uscire fuori quel comportamento, e
potrebbe essere un caso che quando è iniziato stesse guardando la televisione.»
«Detto
da chi ha sfasciato lo schermo a mazzate… è
notevole.» sogghignò Kumals.
Ramo
arrossì un poco.
«Comunque
la domanda è molto pertinente. C’erano delle televisioni, immagino, là nella
scuola.» disse Kumals, guardando Andrea.
«Sì,
certo…» disse lei, ancora non particolarmente
persuasa «Ma non è che io stessi a controllare chi e quando e quanto la
guardava. Non sono sicura di riuscire a ricordare bene. So che io e Janine non la guardavamo praticamente mai, se non di
sfuggita se eravamo in una stanza dove l’avevano accesa. C’erano diverse
televisioni. Alcune in qualcuna delle sale comuni, e qualchedun’altra privata
che la gente aveva in camera sua. Sarebbe impossibile sapere con certezza chi
se l’è guardata e quando, ora come ora…»
«Insomma,
non abbiamo modo di chiarire questo indizio. Ma in ogni caso, qui non ci sono
televisioni, specialmente dopo quello che è successo con il Conte.» osservò Yuta «E non ci mancheranno. Un’altra possibilità potrebbe
essere il fatto che in realtà l’induzione del comportamento venga effettuata in
qualche altro modo, e che poi il tutto venga attivato guardando la televisione… E’ una tecnica usata già in ambiti di
condizionamento psicologico…»
«Giusto.
Interessante.» disse Uther.
«E
questo ci riporta in ogni caso a qualcosa di artificialmente indotto.» concluse
Kumals. «Zoal.» disse poi
«Tu hai detto che avevi qualcosa da dirci… alcune novità… »
Zoal alzò la testa,
e percorse la stanza con una lunga occhiata riflessiva. «Sì.» disse, in tono
grave «Qualche cosa l’ho sentita. E non mi è sembrato nulla di buono, fin
dall’inizio. Per questo sono tornata subito qui.»
Capitolo 25 *** 23 - IL BUCO NERO DELLA SITUAZIONE...II ***
Capitolo 23
(Il buco nero
della situazione – parte II)
Nella
cucina quasi silenziosa, Zoal, abbigliata con una
serie di stracci in tonalità cupe che le davano un’aria da mistica zingara
elegante, accavallò le gambe, mettendosi un po’ più comoda. Con un gesto
distratto della mano si scostò alcune sottili ciocche di capelli dal viso.
Indi, tornò a guardare gli altri e le altre occupanti della stanza, che
attendevano le sue parole con una certa curiosità.
«Tralasciando
le mie personali sensazioni, che mi hanno indotta a pensare che qui stesse
succedendo qualcosa di cospicuo, penso sia più importante dire ciò che so. Kumals mi ha già parlato di ciò che è accaduto con il
signor Benton.» informò gli altri, lanciando un breve sguardo al nominato, che
annuì.
«Ma
credo che non sia stato quello il centro scatenante di ciò che sta avvenendo
qui. Non conosco l’uomo di cui Benton accennava a Kumals,
anche se so, da alcune voci, che probabilmente Benton sapeva di cosa stava
parlando. Il fatto che fosse molto intimorito, non ci è di molto aiuto; aveva
una personalità facilmente suggestionabile. Tuttavia, potremmo considerare
potenzialmente utile quanto ha accennato a Kumals.
Penso che potremmo concentrare la nostra attenzione su un punto in particolare:
l’ampiezza del “fenomeno”. Si è diffuso, molto rapidamente, tra una grande
quantità di persone, ma in una zona ben precisa. Questo potrebbe indicare che
si tratta di qualcosa che procede in maniera geograficamente circoscritta. Ma
questo non spiegherebbe per quale motivo noi ne siamo rimasti immuni. La teoria
della televisione potrebbe avere qualche elemento di consistenza interessante.
Per questo, penso che sarebbe opportuno andare a fare una visita alla stazione
ferroviaria di Foelm.»
La
giovane donna si interruppe, prese qualche sorso d’acqua da un bicchiere
appoggiato sul bancone vicino a lei, quindi, poggiandosi il bicchiere in
grembo, riprese con voce calma e precisa.
«C’è
una zona tra i binari, relativamente vicino all’attuale stazione, in cui ci
sono alcuni edifici abbandonati, appartenenti al complesso della vecchia
stazione. Per un certo tempo, sono stati anche la sede di alcune antenne molto
potenti. So che queste antenne non sono mai state disattivate del tutto, anche
se giacciono da anni perlopiù inutilizzate. Venendo qui, in treno, ho evitato
la zona. Già a Traum, che dista qualche chilometro da
Foelm, la situazione era piuttosto allarmante. La
stazione era in un discreto caos, visto che alcune persone, che accusavano i
sintomi che avete già avuto modo di riscontrare qui massivamente,
mettevano in difficoltà il normale traffico dei treni, ostacolandone anche il
transito. Inoltre, ho presentito che più avanti, in una zona relativamente
circoscritta, ed entro la quale CastleMac’Hearty e noi stessi qui ci
troviamo immersi in pieno, la situazione era ben più massiccia. Ho dovuto
arrabattarmi chiedendo passaggi in auto, e facendo molta strada a piedi. In
qualche caso sono stata abbastanza fortunata da rinvenire auto abbandonate, che
ho preso in prestito per cercare di fare prima.
Per
tornare alla stazione di Foelm… Non credo che
corrisponda in qualche modo ad un eventuale epicentro della zona colpita in cui
ci troviamo. Tuttavia, pensandoci bene, potrebbe essere un luogo dove, chi si
stesse eventualmente servendo di sistemi di diffusione ad onda, di quelli usati
di norma nelle telecomunicazioni, potrebbe aver approfittato di quegli edifici
e di quegli apparecchi a suo vantaggio.»
«Sembra
che tu possa aver visto giusto.» osservò Kumals.
«Ma…» accennò Ramo, riflessivo «Se comunque alcune persone
hanno seminato il panico in quel modo nella stazione di Traum,
ciò vuol dire che le persone non colpite, e specialmente le forze dell’ordine,
sono ben a conoscenza della situazione. E che interverranno. Staranno già
facendo qualcosa. Se incappassimo in qualche loro squadra, potrebbe essere un
problema.»
«Io
ho qualche riflessione che al momento potrebbe suonarvi strana o improbabile,
in proposito. Per questo preferirei tacerla, per ora.» gli rispose Zoal «Ma potremmo avere modo di verificarla. Un modo
peraltro doppiamente utile.». La donna tacque, e si volse a guardare la
sorella.
Yuta intervenne,
accettando l’invito a parlare. «Il fatto è, gente, che qui i viveri iniziano a
scarseggiare. A questo ha contribuito anche Justin, peraltro, riuscendo a
demolire parte delle nostre conserve. L’ho chiuso a chiave in una stanza.
Sennò, sarebbe stato peggio. Per lui.» annunciò, e guardò Danny, il quale ebbe
il buonsenso di non replicare nulla, anche se il suo sguardo si era un po’
allargato in un’espressione colpita.
«Quindi,
parlando con Zoal, si pensava che domani potremmo
andare a fare un salto giù in città, a CastleMac’Hearty. A fare spesa. In ogni
caso, i negozi saranno lasciati a se stessi.» disse ancora Yuta.
«Sempre
che, come diceva Ramo, non siano arrivati i rinforzi.» notò Uther,
con una certa preoccupazione.
«In
quel caso, eviteremo saggiamente di farci vedere in giro, e in generale di
mettere piede per le strade di CastleMac’Hearty.» disse Zoal «Ma un giro là potrebbe esserci utile per chiarire
alcune altre cose. Ad esempio, sospetto che alcune delle persone che abbiamo
avuto il dispiacere di incrociare nei pressi della scuola, provenissero proprio
da là.»
Danny
si fece più attento «Vuoi dire che vagano per la boscaglia?»
«No,
Danny. Non credo che vaghino. Credo che qualcuno li stia inducendo a spostarsi,
in una precisa direzione, che dovremo individuare con più esattezza prima o
poi. Anche per questo, se ci imbattessimo fortuitamente in qualche persona
ridotta in quello stato, giù a CastleMac’Hearty, potrebbe essere utile
farle un regalo.» e così dicendo, affondò la mano tra i vestiti, estraendone
poco dopo una piccola scatolina chiusa.
«E’
un aggeggio per il tracciamento di posizione?» domandò Uther,
senza particolare sorpresa.
«Precisamente.»
confermò Zoal. Una sua palpebra tremolò appena, come
in un accenno di ammiccamento.
«Come
ve lo siete procurato?» chiese Andrea, sorpresa.
Zoal la guardò,
sorrise, e non rispose.
«Se
è vero che qualcuno li sta spostando, se riusciamo a piazzare quello addosso a
uno di quei soggetti, potremmo sapere quindi dove li stanno spostando. E magari
ciò ci condurrebbe da chi li sta manovrando...» continuò a ragionare Danny.
«Ottimo.» e sorrise complicemente.
«Quindi,
domani si va al saccheggio.» ricapitolò Ramo, con un sorriso impaziente.
«Non
c’è bisogno che andiamo tutti.» disse Kumals.
Ramo
lo guardò interrogativamente. «Che intendi?»
«Che
alcuni di noi potrebbero fare nel frattempo un salto alla villa del signor Benton.
Magari possiamo trovare qualche indizio. Al quadro generale che abbiamo
delineato, manca un aspetto che non mi torna. Ovvero: chi erano e da dove
venivano quelli di quel branco di motociclisti che ha devastato la festa, e
soprattutto che scopo avevano. Non penso sia in alcun modo probabile che si sia
trattato di un gesto casuale.»
«Sono
d’accordo con te.» annuì Zoal. «Per quanto ne
sappiamo, è facile immaginare che siano stati inviati da qualcuno.»
«Non
mi suona bene.» intervenne Danny «Dividerci intendo. Potremmo incappare tutte e
due in grossi guai, sia alla villa di Benton che giù a CastleMac’Hearty. Saremmo in meno
persone, e non potremmo darci una mano a vicenda, se succede qualcosa, oltre al
fatto che non abbiamo niente che ci permetta di comunicare tra di noi.»
«Non
è proprio esatto.» lo contraddisse con un’ombra di divertita contentezza Zoal.
Il
ragazzo la guardò, confuso, ma fu Kumals a parlare.
«Zoal si è procurata un paio di radio portatili, di raggio
abbastanza ampio da comprendere la distanza tra la villa e CastleMac’Hearty. In ogni caso,
Danny, visto anche il fatto che sembra stiano spostando le persone dalla città,
non penso che troveremo troppi problemi in nessuno dei due posti. Io credo che
valga la pena rischiare. Invece, sarà poi opportuno che andiamo tutti in forze
a dare un’occhiata a quella antenne, meglio se già dopodomani.»
Uther si stiracchiò
piano, cercando di non farsi male alle piccole ferite. Per un po’ toccò con
aria distratta i suoi bendaggi, per indagare sul fatto se l’impiastro di erbe
si fosse sufficientemente asciugato.
«Insomma,
abbiamo già una bella tabella di marcia.» osservò, quasi allegramente. «Bene,
mi sembra che possa andare.»
Non
fu chiaro se si riferiva alla tabella di marcia o allo stato della pasta
fitoterapica che aveva indosso. Come per fugare ogni dubbio, lanciò un ghignetto divertito in direzione di Kumals,
Yuta e Zoal. «Io ci sto.»
Uno
dopo l’altro, anche gli altri si dissero d’accordo.
«Bene!»
esordì infine Yuta, puntandosi le mani sui fianchi
con aria decisa, e lasciando trapelare i denti tra le labbra socchiuse in un
sorrisetto soddisfatto «Abbiamo fatto proprio un bel punto della situazione,
finalmente.»
«Più
che il punto della situazione, a me sembra che ci troviamo nel buco nero della
situazione.» commentò Danny, con cipiglio pessimista.
Uther gli lanciò una
breve occhiata, sorridendo.
*
***
*
Si
presentava come il felice inizio di una giornata soleggiata. L’astro splendeva
nel cielo terso, e sebbene l’assenza delle nuvole rendesse più fredda l’aria, i
raggi abbastanza tiepidi spandevano un dolce calore nella mattina.
Nel
sottobosco regnava una calma vitale: vari rumori più o meno furtivi di frasche
spostate e terriccio calpestato da qualche scalpiccio venivano quasi del tutto
coperti dal canto di svariate specie di piccoli volatili chiacchieroni, la cui
vista rimaneva celata dalle chiome da cui decantavano i loro messaggi.
Alcuni
di questi suoni si interrompevano, o si smorzavano comunque di molto, quando si
udiva un altro genere di rumore: passi pesanti e sgraziati scendevano lungo il
sentiero. Chi eventualmente si fosse disposto a guardare, avrebbe visto
comparire per primi due ragazzi.
Una
era una giovane dai capelli corti color bluette, un corpo non molto alto ma ben
proporzionato che navigava in ampi abiti da montagna, facendola quasi
rassomigliare ad una bambina, se non fosse stato per un nonsoché
nel suo aspetto e nei suoi modi, pur se in qualche modo naturali e quasi
spensierati, di matura femminilità. Avanzava decisa, molleggiando le gambe per
accordare il passo alla discesa che stava affrontando.
Accanto
a lei, con l’aria di starla tallonando sia con i passi ben meno accordati sia
con una serie di chiacchiere forzatamente simpatiche, procedeva un ragazzo non
molto alto, che tentava di tenere sempre le mani in tasca e di ostentare
un’aria rilassata e sicura di sé, in perfetta noncuranza del fatto che non era
provvisto di un buon equilibrio o abitudine nel camminare lungo sentieri
pendenti di montagna.
Pochi
metri più indietro li seguivano altri due ragazzi. Loro avevano sì un’aria
concentrata, ma non sul camminare seguendo il sentiero inclinato, cosa che
risultava loro scioltamente abitudinaria; bensì, apparivano immersi in qualche
loro profonda riflessione.
Ad
un certo momento, uno dei due, quello biondo naturale e che indossava un fucile
a tracolla, aprì un po’ le braccia in un breve stiracchiamento, e disse «C’è un
bel sole, oggi.»
L’altro
lo guardò, con un accenno di incuriosito divertimento sul volto. Se lo
conosceva abbastanza bene, e così era, il suo amico non era affatto solito
parlare giusto per fare qualche commento sul tempo, anche se, in effetti, di
solito mostrava con aperta contentezza quanto fosse piacevole potersi godere
una giornata soleggiata passeggiando in mezzo ad un bosco.
Danny
osservò meglio Uther, notando tra sé e sé come molte
delle sue caratteristiche fisionomiche apparissero tipiche di qualcuno abituato
a vivere tra le montagne: la pelle non troppo pallida, e protetta dalla peluria
bionda e non molto fitta, sembrava l’ideale per accogliere sprazzi di ore di
sole intenso, tra una tirata e l’altra di vento freddo, annuvolamento, e
generale abbassamento repentino della temperatura. Gli occhi molto chiari,
erano protetti da ciglia abbastanza lunghe e fitte, e sempre bionde, così come
dal ciuffo di capelli molto mossi che protendeva un po’ in fuori dalla fronte.
Uther si voltò a
guardarlo, rendendosi conto, o forse sapendo fin dall’inizio, che la sua
inutile e banale osservazione era stata smascherata come un pretesto per
attaccare conversazione. Danny sostenne il suo sguardo, rimanendo in attesa
delle altre sue parole, con tranquilla e spontanea calma.
Tuttavia,
con l’evidente intento di non andare ancora a toccare il motivo che più
propriamente l’aveva spinto a parlare, Uther distolse
lo sguardo, fissandolo sui due che camminavano davanti a loro. Ogni loro
silenzio era punteggiato dal chiacchierare di Justin, il quale sembrava non
volersi proprio sentire in alcun modo incoraggiato a tacere dalle brevi
risposte lapidarie di Andrea.
«Non
le darà tregua per tutto il giorno.» osservò Uther.
«Già.
Sembra che l’essere chiuso in una stanza e la sfuriata di Yuta
non gli abbiano suggerito altro che di cambiar bersaglio…»
notò Danny, ostentando un cocciuto disinteresse distratto.
Ma
il fine occhio di Uther non era disposto a farsi
ingannare da così poco.
«Forse
dovremmo dirgli qualche cosa… cercare di distrarlo un
po’.» propose, studiando la reazione di Danny senza darlo a vedere.
Una
dubbiosità auto-infastidita da sé medesima incrinò per un momento netto la
faccia di Danny, che riprese però rapidamente padronanza della sua
espressività, tornando ad irrigidirla in una maschera di noncuranza, mentre
ribatteva «Credo che lei sia ben capace di cavarsela da sola. Semmai, le
basterebbe fargli lo sgambetto e mandarlo a rotolare per un po’ giù per il
sentiero. Probabilmente così arriverebbe prima, e non avrebbe più occasione di
lamentarsi in maniera così ripetitiva e inutile sulla fatica di camminare.»
Uther sogghignò con
comprensione. «Mi pare che tu lo sopporti di meno ora rispetto a quando ci
vivevi insieme…»
Danny
lo spiò brevemente, colpito dalla sua osservazione, e alzò le spalle. «E’
sempre stato così. Ma là alla casa del Conte io ero fuori quasi tutto il
giorno, e lui stava in casa quasi tutto il giorno. Avevamo meno occasione, per
fortuna, di dover passare tanto tempo entro lo stesso perimetro di qualche
chilometro.»
«A
proposito di distanze… La radio funziona?» domandò Uther.
«Perfettamente.»
sorrise Danny. «Se vuoi possiamo passarci il tempo infastidendo Kumals finché non arriviamo in città…»
propose con divertita malignità.
«Perché
no?» commentò Uther «Ma sarebbe meglio aspettare
ancora un po’, quando ci annoieremo di più… Perché se
iniziamo fin da ora inizierà a non risponderci più.»
«Qui
viene il bello: non può permetterselo.Se fossimo nei guai veramente e non rispondesse per evitare uno scherzo… non oserebbe.»
«Tu
dici?» dubitò Uther scherzosamente, alzando un
sopracciglio «Mai sentita la storia di ‘Al lupo, al lupo!’?»
«Certo
che l’ho sentita, come tutte le altre storie sull’argomento…»
rispose Danny, strizzandogli brevemente l’occhio.
Uther emise una breve
risata sommessa.
Danny
notò che Andrea accennava una fugace sbirciatina dietro le sue spalle, mentre
continuava ad ignorare quasi completamente l’affaccendarsi discorsivo di
Justin.
«Comunque…» continuò Uther,
attirando di nuovo la sua attenzione «Prima, quando siamo partiti da casa, mi
sembra che Valentine fosse di pessimo umore…»
«Già…» confermò Danny, annuendo appena con aria rattristata.
«Si
tratta sempre del solito discorso, no…?» domandò
ancora Uther, con un’incerta timidezza dettata dal
tatto.
«Credo
proprio di sì.» sospirò brevemente Danny, con aria abbastanza rassegnata.«Ormai
sa bene in che genere di situazioni si ritrova coinvolto Ramo, specie quando ci
siamo di mezzo anche noi… e tutto questo non le è mai
andato giù. Odia che lui sia così a repentaglio…
Credo che sia per questo che Ramo è stato assegnato al gruppo che sta andando
alla villa, piuttosto che al nostro. Gli sarà dispiaciuto…
saccheggiare è uno dei suoi passatempi preferiti. O skippare**. Cioè, doveva
esserlo, prima che Valentine disapprovasse.»
«Non
è una situazione facile…» disse cautamente Uther.
«No,
infatti…Però… » Danny si
interruppe, lo sguardo concentrato su una sua riflessione personale «Tutto
questo, alla fin fine, tiene Ramo come legato, limitato nella sua libertà.
D’accordo, nessuno lo costringe, e non credo che Valentine
sia mai arrivata al punto di imporgli ultimatum o cose del genere, che lui non
avrebbe mai accettato. Ma anche senza ultimatum…
rimane comunque un ricatto, anzi per questo ancora più sottile. E quindi, lo
tiene invischiato, bene o male.»
«Oppure… » mormorò Uther, con voce
profondamente seria «Lo induce anche ad avere più cura di se stesso.»
Danny
si voltò a dare una lunga occhiata a Uther, colpito
dalle sue parole. Questo, era effettivamente un lato della situazione che difficilmente
avrebbe consideratoo scorto con buona
chiarezza, se non gli fosse stato fatto notare.
Dal
modo in cui lo aveva detto, sembrava che Uther avesse
avuto a che fare con qualcosa del genere, o che comunque l’argomento lo
toccasse profondamente. Nonostante ciò, Danny non riusciva a immaginare in che
maniera questo fosse possibile; per quanto conoscesse bene Uther,
non sapeva proprio tutto di lui. E d’altra parte, entrambi avevano trascorso la
maggior parte della loro vita senza conoscersi o sapere dell’esistenza l’uno
dell’altro. Nonostante Danny l’avesse sempre saputo, a volte la familiarità
fraterna che si creava con immediata spontaneità tra di loro glielo faceva come
dimenticare. Era pur anche vero, che nessuno dei due era solito lasciarsi andare
a chissà quali confidenze personali nel parlare con l’altro. E tuttavia quel
tono aveva risvegliato in Danny una speciale attenzione, che riecheggiava di
una sorda preoccupazione. Persino per lui quell’argomento aveva un’importanza vitale… ma non lo avrebbe ammesso, come aveva fatto Uther; non ci sarebbe riuscito con tanta pur coraggiosa
nettezza di parole.
Danny,
che ora fissava davanti a sé, colse un movimento che lo distrasse, calamitando
la sua attenzione. Poco più avanti di loro, Justin aveva allungato con
nonchalance una mano, mentre parlava vicino all’orecchio di lei, come per
sfiorare il braccio di Andrea. La ragazza scostò il braccio con scatto
irritato, e lo tenne per un po’ sollevato, come se indecisa se abbatterlo sul
ragazzo. I suoi occhi castano mielato si schiarirono in un guizzo lampeggiante
di dorato ma intenso astio, fissandosi su Justin con stilettante segno
d’aggressività a stento repressa.
Danny
riconobbe prontamente in quell’occhiata il segnale che la pazienza di Andrea
era giunta al termine. Accelerò bruscamente il passo e subito chiamò a gran
voce «Justin!»
Interrotti
dal suo intervento, sia Andrea che Justin si voltarono a guardarlo, benché con
espressioni molto diverse.
Ignorando
l’offesa disapprovazione che Andrea gli rivolgeva con i suoi occhi ancora
accesi da una vivace espressività, il ragazzo raggiunse Justin, che invece si
era fermato ad aspettarlo con nient’altro che pura curiosità.
«Senti
Justin, hai con te la lista della spesa che ti ho dato prima?» domandò Danny.
«Sì,
certo…» collaborò l’altro, prendendo a frugarsi
laboriosamente in tutte le tasche di cui disponevano gli abiti che indossava.
Andrea
scoccò un’ultima occhiata per niente grata a Danny, quindi riprese a camminare.
Il ragazzo fissò per un momento la sua schiena, eloquentemente indispettita, e
tirò un lievissimo sospiro. Uther li sorpassò,
lanciandogli un breve sguardo d’intesa, e andò ad accodarsi con prudenza ad
Andrea.
Justin
si stava ancora frugando nelle tasche.
Danny
trattenne un altro sospiro di esasperata rassegnazione solo perché Justin
riuscì infine ad estrarre di tasca il giusto foglio ripiegato, vergato dalla
scritta di Valentine e di Yuta.
«Eccola!»
esclamò vittoriosamente «A che ti serve?»
«Vorrei
controllare che non abbiamo dimenticato niente, mi puoi dare una mano?»
«Certo.»
si arrese Justin, dopo aver lanciato un’occhiata di deluso rimpianto ad Andrea
che si allontanava.
Danny
represse a stento il proposito di affibbiargli una manata sulla nuca, riprese
il controllo di sé con un generoso sforzo, e disse «Bene, intanto camminiamo, o
non arriveremo più.»
Justin
annuì, e si rimise al passo di fianco a lui.
«Quanto
manca ancora?» domandò dopo pochi passi.
Danny
risolse, semplicemente, di ignorarlo, e prese ad elencare cosa dovevano
procurarsi nella spesa, costringendo Justin ad immergersi in un controllo
incrociato. Gli attenti occhi di Danny, tuttavia, rimasero concentrati sulle
spalle di Uther ed Andrea, che si erano messi a
parlare.
«Non
ho bisogno di guardie del corpo.» puntualizzò Andrea con Uther.
«Lo
sappiamo. Il nostro proposito era di impedirti di ferirlo seriamente…»
«Forse
qualche sberla di tanto in tanto potrebbe essergli utile per calibrare meglio
le sue azioni.» suggerì Andrea, chiaramente irritata.
«O
forse gli farebbe pensare, come dice Yuta, che sei
disposta a concedergli più attenzioni di quante ne speri già per proprio
conto.»
Andrea
gli lanciò una breve occhiata. «In questo caso, anch’io ho qualcosa da
imparare. Ma se voi continuate a frapporvi, mi sarà difficile.»
«Ti
prometto che, non appena sarà finita questa faccenda, ti lasceremo liberissima
di perdere tutto il tempo che vuoi con Justin.»
«Hum… » borbottò Andrea, poco persuasa.
Dopo
qualche minuto che procedevano in silenzio, la ragazza parlò di nuovo,
esitante.
«Senti,
hem, Uther… »
Lui
la guardò per un momento, invitandola a proseguire nel parlare.
«Ma
Danny… » la ragazza si interruppe bruscamente. Non
era sicura, all’improvviso, che il nominato, che pure distava da loro di quattro
o cinque metri buoni, non potesse udirla.
«Danny
cosa?» le venne in aiuto Uther.
«Come
ha fatto a sopportare Justin?» rimediò in fretta lei, sostituendo la domanda
che si era originariamente proposta di fare «Erano coinquilini, no?»
Il
sopracciglio di Uther ebbe un accenno di tremolio. Se
il ragazzo aveva inteso il suo cambiar discorso repentino, non lo esplicitò in
altro modo, invece sogghignò appena e disse «Si direbbe che oggi siamo tutti
molto interessati ai fatti di Justin…»
Da
come lo disse, Andrea ebbe l’impressione che potesse capirla molto bene su quel
punto.
**SKIPPARE:
dall’inglese, in un certo gergale italiano (e direi anche in quello inglese)
viene utilizzato per ‘rubacchiare’.
Note dello scribacchiatore:
ecco qua, visto che
sarò via tre-quattro giorni aggiorno oggi.
So che c’è una
certa ripetitività quando vengono fatti discorsi sulla situazione “zombismo” e strategie varie; mi pare che la cosa rispecchi
il bisogno dei personaggi di ricapitolare tutto per cercare di rimediare una
visione il più onnicomprensiva possibile, per tracciare il più chiaramente
possibile i potenziali collegamenti tra gli eventi, alla ricerca di indizi. E
spero che possa essere anche utile a chi legge per ricapitolare un po’ questi
eventi appunto, sciogliendoli dal miscuglio con le cose più personali dei
personaggi e/o dai momenti più “di svago”.
I prossimi tre
capitoli sono quelli che mi è piaciuto di più scrivere e rileggere…
non vedo l’ora di pubblicarli :)
Capitolo 26 *** 24 - I'M ALL LOST IN A SUPERMARKET ***
Capitolo 24
(I’m all lost in a supermarket***)
C’era
uno sconfortante, profondo silenzio, sia da una parte che dall’altra delle
grosse vetrate, sia all’interno della zona casse, sia all’esterno, in strada.
Il
sole cadeva in modo tale da percorrere per il lungo la strada, in cui
spadroneggiava sovrano, lasciando in ombra gli edifici a lato di essa, tra cui
le vetrate e l’interno del supermercato. Sembrava una scena di altri tempi e
altri luoghi, qualcosa a che vedere con quei film western, in cui nella polverosa
strada deserta e soleggiata sta per accadere qualcosa, magari un duello.
Lui,
come in accordo con questa fugace idea, aprì il caricatore della pistola, lo
fece rullare a vuoto con un colpo del dito, e con una mossa del polso la
richiuse di colpo, producendo un secco scatto metallico che rimbombò nel
silenzio. Sogghignò appena tra sé e sé.
Proprio
così, mancavano giusto delle rotolanti palle secche di arbusti, e qualche altro
chilo di polvere, e più vento a sollevarla e a far rotolare le palle di rami
lungo la strada, magari un caldo cocente e un sole impietoso, e sarebbe stata
una perfetta scena western.
Le
casse del supermercato si allineavano con distinta precisione, in modo da poter
permettere un ordinato e rapido defluire dei clienti; ora che erano
inutilizzate, e che non c’era alcun cliente, la cosa poteva apparire singolare.
Una ripetitività meccanica e vuota fine a se stessa, degna dell’arte pop, con
un tocco di post-apocalittico.
A
spezzare la monotonia era solo la figura seduta su una delle casse, sul bordo
dello slargo dal levigato piano metallico in cui terminava lo scivolo dedicato
a quella merce già passata sotto all’infrarosso che legge il codice a barre
delle etichette.
I
registratori di cassa erano chiusi, tutto taceva, e ogni fonte di illuminazione
era spenta; doveva essere rimasto tutto così immobile dalla chiusura che
risaliva all’ultimo dell’anno. Tutto quanto era rimasto ad attendere il giorno
di riapertura, invano.
Leggermente
annoiato, il ragazzo seduto sulla cassa, che continuava imperterrito a guardare
attraverso le vetrate il paesaggio da ‘città fantasma’, prese a far oscillare
un po’ le gambe penzoloni.
«I’m all lost in
the supermarket… I can no longer shop happily… I came in here for that special
offer… A
guaranteedpersonality… ***»
canticchiò piano, cercando di evitare che la sua voce si disperdesse troppo
ampiamente nello spazio deserto, per non dover udire il rimbombo d’essa che,
dopo aver sbattuto contro tutte quelle superfici linde e vuote, gli tornava
indietro, circondandolo.
L’aria
che entrava dal pannello di vetrata che avevano dovuto rompere per entrare, dal
momento che le porte automatiche non avevano degnato loro di alcuna attenzione,
rimanendo stolidamente immobili e chiuse, gli solleticò la pelle. Era calda di
sole, piacevole.
Senza
staccare lo sguardo dalla strada, che continuava a tener attentamente
sott’occhio, anche se ormai dubitava profondamente che ci potesse essere mai
qualcosa di interessante da vedervi, si trasse dalla tasca dei pantaloni il
pacchetto di tabacco. Appoggiò la pistola sul piano accanto a sé, e prese ad
arrotolarsi una sigaretta. Mentre se la accendeva, sentì alle sue spalle un
rumore di passi rimbombare tra le corsie vuote dell’esercizio commerciale.
Senza
darsi alcuna pena di voltarsi subito, finì di accendersi la sigaretta, ripose
via l’accendino, e solo allora, mentre se la sfilava dalle labbra dopo aver
dato il primo generoso tiro di fumo, voltò il capo per guardare chi arrivava.
Uther camminava un
po’ frettolosamente, forse per via del peso del mucchio di svariate confezioni
che reggeva tra le braccia. Muovendosi con tranquilla agilità si infilò nello
stretto spazio tra la sbarra metallica e provvista di cartello che sbarrava il
passo alla cassa e la cassa successiva, raggiungendo il banco su cui era seduto
Danny. Appoggiò ciò che portava su quel piano, accanto a lui, e alzò su Danny uno
sguardo vagamente corrucciato.
«Mi
sa che hanno finito la WorseHell*.»
annunciò, riferendosi ad una marca di birra.
«Semmai
da queste parti l’hanno mai vista, vuoi dire.» commentò Danny, sorridendo.
«In
effetti… comunque, ho adocchiato valide sostitute.»
completò Uther, con una certa soddisfazione.
«Bene.» disse solo Danny.
Uther si appoggiò
all’indietro al bancone, afferrandone i bordi con le mani, e tirò un lieve
respiro di rilassamento post-fatica, guardando anche lui la strada attraverso
le vetrate.
«Calma
piatta.» osservò Danny.
«Già… non l’avrei detto.»
«Probabilmente
è questo che Zoal sospettava.» notò Danny.
Uther lo guardò. «Sì,
l’ho pensato anch’io. Ora non ci resta che aspettare di sentire la sua teoria,
perché io non ne ho molte di verosimili, ora come ora.»
Danny
annuì, fece per dire qualcosa, ma si zittì quasi sussultando quando un cospicuo
rumore spezzò il silenzio. Entrambi si voltarono praticamente di scatto, poiché
la fonte del frastuono era alle loro spalle. E rimasero a guardare la scena.
Andrea
scivolava lungo una corsia del supermercato diretta verso di loro, in piedi a
bordo di un carrello colmo di cose. Ogni qual volta rallentava o aveva bisogno
di riassestare la rotta per evitare di sbattere contro gli scaffali laterali,
poggiava a terra con decisione un piede, mantenendo l’altro sul carrello, al
quale era anche saldamente aggrappata con le mani, e si dava la spinta,
correggendo appropriatamente la direzione.
Dietro
di lei, rimanendo chiaramente indietro, arrivava Justin. Spiccava una piccola
corsa per tentare di starle al passo, ma i sussulti violenti scomponevano la
massa eccessiva di oggetti che portava a braccia, facendogliene perdere
qualcuno, e costringendolo a tornare qualche passo indietro a recuperarlo.
Sequenza che si ripeté almeno un paio di volte mentre Danny e Uther stavano a guardare.
«Beh…» disse Uther, divertito « Kumals e Ramo avranno anche dovuto rinunciare ad unirsi a
noi, ma quella lì è una valida sostituta, e sembra sapere il fatto suo…»
Danny
sorrise.
Seminato
definitivamente Justin, Andrea approdò con il carrello contro l’inizio del
rullo mobile della cassa, frenando con il piede sulla ruota abbastanza da
smorzare l’impatto. Scese dal carrello, e si affiancò a loro, guardandoli
contenta.
«Direi
che c’è tutto.» riferì «Non appena arriveranno le ultime cose…
» aggiunse, lanciando uno sguardo di malcelata soddisfazione a Justin, che cercava
di non farsi cadere le altre cose mentre ne raccoglieva alcune delle ultime che
aveva perso per strada.
«Quasi
tutto.» la corresse Uther, a braccia incrociate.
Andrea
lo guardò, chiedendo spiegazioni con uno sguardo piuttosto divertito.
«Manca
la birra. Il companatico, insomma.» le disse Danny.
«Ah… ok.» stava rispondendo Andrea, ma il suono della sua
voce fu quasi interamente coperto dal frastuono con cui Justin si liberò del
peso degli oggetti, lasciandoli cadere sul rullo mobile della cassa, e appoggiandovisi
poi lui stesso, con aria consumata dalla fatica. Prese ad ansimare
pesantemente.
«Urca!» esclamò tra un ansito e l’altro «Che faticaccia,
eh?»
Gli
altri tre lo fissarono per qualche istante, con l’aria di chi sta cercando di scoprire
da che parte bisogna voltare’un immagine per capirla.
«Io
vado a prendere la birra.» disse Uther,
riscuotendosi. Frugò sotto il banco della cassa, cavandone una sporta di
tessuto. Scavalcò con un salto la sbarra, appoggiandosi ad essa con una mano, e
scarpinò con moderata fretta verso la corsia delle bevande alcoliche, sotto lo
sguardo sorridente di Danny.
«Tanto
vale mettere tutto nelle sporte, intanto…» osservò
Andrea.
«Sì.»
convenne Danny, ed entrambi si misero a trasferire l’abbondante spesa nelle
sporte di stoffa, cercando di suddividerla intelligentemente in base a peso e
fragilità.
Pochi
minuti dopo, a lavoro quasi ultimato, udirono il rumore di passi e di
tintinnare di vetro che annunciava il ritorno di Uther.
Il ragazzo, che si portava appresso la sporta colma e appesantita, li raggiunse
con passo di ritmo più moderato di prima, e poggiò il fardello tintinnante per
terra con cauta gentilezza, fermandosi poi ad osservarli mentre mettevano le
ultime cose nelle sporte.
Danny
soppesò l’ultima sporta che avevano riempito. «Bene, direi che possiamo andare.
Justin, potresti…? Justin?»
Tutti
e tre notarono che il ragazzo giaceva immobile, come imbambolato, fissando
intensamente le vetrate. Scacciando di getto dalla mente lo spiacevole dejà-vou che quello stato di inebetimento
gli suscitò immediatamente, Danny gli si affiancò rapido, impugnando la pistola
che aveva appena afferrato al volo dal banco dove l’aveva lasciata appoggiata.
«Hai
visto qualcosa?» gli chiese subito, appena gli fu a fianco, indagando
attentamente la strada con le pupille saettanti.
«Eh?»
si stupì Justin.
«Perché
stai fissando fuori così? Cosa hai visto?» ripeté Danny. Lui non riusciva
ancora a scorgere nulla di strano, rispetto all’immobilità e assenza di vita che
c’era anche prima.
«Ah… » si riprese Justin «Stavo pensando…
Avete presente quella scena di quel film in cui i tipi sono chiusi nel
supermercato, e fuori c’è l’orda di zombie, e stanno tutti spiaccicati contro
le vetrate, con le loro facce e mani tutte sanguinolente…?**»
Danny
abbassò la pistola, guardandolo con intenzione.
Andrea
iniziò a borbottare tra i denti qualcosa di particolarmente poco gentile nei
confronti di Justin.
Questi
riprese a guardare le vetrate, con aria assente. «Fa proprio impressione, brrr…» rabbrividì.
Danny
si stava già reinfilando la pistola alla cintola. «Cerchiamo
di dividerci abbastanza equamente il peso delle sporte…
E stavo pensando che…»
«Hey!» esclamò Justin.
Di
nuovo si fermarono e si voltarono a guardarlo, almeno per quanto riguardò Uther e Danny. Andrea era occupata a ignorarlo
ostinatamente, e si stava concentrando sul calcolo del peso che poteva riuscire
a trasportare senza rischiare di far cadere nulla.
Justin
stava indicando il registratore di cassa. «Devono esserci dei soldi lì dentro,
no?»
«Non
credo.» si prese la briga di rispondere Danny «In genere a chiusura li portano
nell’ufficio, direi…»
«Allora
saranno in ufficio i soldi.» disse ancora Justin.
Danny
si voltò a guardarlo con irritazione. «Sì, è quello che ho appena detto. Dove
vuoi arrivare?»
«Beh… potremmo prenderli, no? Tanto qui cosa ci stanno a
fare? Non c’è più nessuno…» propose Justin, come se
fosse una cosa ovvia.
Probabilmente
avrebbe potuto esserlo. Tuttavia, gli altri tre lo considerarono finalmente con
attenzione, esplicitando così che questo pensiero non li aveva ancora sfiorati.
«In
effetti… potremmo dare giusto un’occhiata…
per curiosità.» disse Uther, esitante.
Danny
lo guardò. «Va bene. In ogni caso, non abbiamo fretta.» acconsentì, con una
breve alzata di spalle.
I
tre uscirono dal corridoio tra le casse, carichi di sporte, e si diressero
verso la scatola di muro che racchiudeva gli uffici, giù in angolo. Quando giunsero
davanti alla porta chiusa si fermarono, appoggiando per terra la spesa.
Uther si chinò con il
viso all’altezza della serratura e la studiò per un po’. Infine, alzando lo
sguardo verso gli altri, annunciò «Ci serve una forcina.»
Istintivamente
gli sguardi degli altri si concentrarono su Andrea.
«Non
ho forcine. Non le uso.» li informò, con l’aria di chi la ritiene una cosa
evidente.
Uther si rialzò in
piedi. «Potrei fare un salto a cercarle, dovranno pur avercele qui da qualche parte… no?»
Danny
sospirò appena, con aria svogliata. «Usiamo il piano B, per stavolta.» disse.
E
prima che Andrea o Justin potessero chiedere in che cosa consisteva il piano B,
il ragazzo si scostò dalla porta, prese lo slancio brevemente e le scagliò un
pesante calcio, facendola cedere di qualche centimetro rispetto alla sua
cornice. Un altro paio di calci fu sufficiente a farla aprire.
«Uao! Hai fatto arti marziali?» domandò Justin.
«No.»
rispose solo Danny.
Andrea
lo fissava attentamente, cercando di non farsi notare, ma tradendo una certa
soggezione.
Uther aprì la porta
ed entrò per primo nell’ambiente in penombra.
Non
occorse loro più di qualche minuto per individuare la solida cassaforte. La
ignorarono. Ma Uther, utilizzando un righello
metallico e il suo coltellino, riuscì in qualche modo ad aprire uno dei
cassetti chiusi a chiave della scrivania. Dentro una cassetta portamonete, che
venne ugualmente forzata, trovarono un’accurata pila di banconote, e una serie
di monete divise in base al tipo in una serie di cilindri di carta con scritto
sopra il valore corrispondente.
Gli
altri fissavano il contenuto con aria indecisa, forsecercando di prendere ad occhio le misure della
somma alla quale si trovavano effettivamente di fronte.
Dopo
qualche momento di silenziosa immobilità, Danny rialzò la testa. Uther lo guardò, serio. Danny gli rivolse un sorriso
tranquillo; quindi si voltò e uscì. Si soffermò a prendere alcune delle sporte
che avevano lasciato fuori dall’ufficio, e si diresse verso la vetrata sfondata
da cui erano entrati.
Uther emise un lieve
sbuffo divertito, scosse lentamente la testa tra sé e sé; lanciò un’ultima
occhiata vaga ai soldi, quindi anch’egli uscì, imitando le mosse di Danny nel
prendere le sporte che gli spettavano e dirigersi alla loro via d’uscita.
«Ma
che diamine fanno? Devono essere pazzi… vuole dire
che li devo trasportare io per tutti?» eruppe Justin, perplesso e contrariato.
Andrea
lo guardò, anche se i suoi pensieri parevano concentrati su qualcos’altro. «No,
non credo che loro ne vogliano.»
«Eh?!
Ma perché, scusa? Voglio dire, sono qui, proprio qui. Non dobbiamo far altro
che prenderli. Non c’è nessuno e quindi non credo che serviranno più a
qualcuno.»
«Nemmeno
a noi servono…» mormorò Andrea, ancora intenta nelle
sue riflessioni. «Abbiamo preso da mangiare, e ora andremo a prenderci il
resto. I soldi servono per comprare cose, ma noi le stiamo già prendendo, e
gratis. Quindi, a che altro possono servire?»
«Oh,
ma sei scema? Dai, non fare la stupida. Lo sai anche tu! Qui possiamo prendere
tutto gratis, ma altrove le cose funzionano ancora così, che si usano i soldi,
mica che prendi e vai come niente fosse! Io non li prendo per qui, li prendo
per quando saremo in un posto dove avremo bisogno di comprare.»
Di
colpo lo sguardo di Andrea si schiarì, divenendo lucido. Lo fissò sui soldi.
«Non si è mai per forza costretti a comprare. Non credo che loro due stiano
approfittando solo di questa situazione. Si vede che sono abituati a fare cose
simili anche in ‘contesti normalmente funzionanti’… E in ogni caso… » il suo sguardo si incupì «Se qualcuno non riesce a
fare qualcosa per riportare quelle persone alla normalità, forse un giorno sarà
così dappertutto. E non ci sarà più bisogno di soldi, da nessuna parte.»
«Ohé, stai delirando?» disse Justin, agitandole una mano
davanti agli occhi come se dovesse sottrarla ad un ipnotismo.
Andrea
scostò la sua mano con un improvviso gesto brusco, scoccandogli un’occhiata
furiosa. Mentre il ragazzo la guardava sorpreso, lei ebbe un improvviso moto
rapido. Si chinò sul cassetto, afferrò ai bordi la scatola che conteneva i
soldi, e la sollevò e scaravoltò con violenza,
mandandone il contenuto monetario a ricadere in giro per la stanza. Tra le
banconote che svolazzarono con un verde fruscio cartaceo, planando a terra come
foglie finte, e le monetine che, rottisi i loro contenitori di carta,
tintinnavano e rotolavano in una pesante pioggia irregolare sul pavimento, Justin
vide Andrea rivolgergli uno sguardo forte, di cui lui non intese bene il senso.
La
ragazza riappoggiò la scatola quasi vuota nel cassetto, proprio com’era prima.
Mentre
usciva, chinandosi anch’essa a raccogliere le sue sporte, comunicò a Justin,
che ancora spostava lo sguardo perplesso tra lei e il denaro sparso per la
stanza, cercando di interpretare: «Ti aspettiamo fuori. Sbrigati.»
*
nome che ho totalmente inventato, anche se ha un significato in inglese.
**scena
che devo aver visto in qualche film di cui non so rintracciare precisamente il
titolo, comunque dovrebbe essere o uno di quelli di Romero oppure ‘L’alba dei morti
viventi’ di ZackSnyder.
***
omaggio alla canzone ‘Lost in the supermarket’ dei Clash, sia nel titolo che nella prima parte, dove Danny
appunto canticchia questa canzone. Non penso che la scelta sia casuale, perciò
inserisco anche il testo, con sommaria traduzione…
Lost in the supermarket - (Joe Strummer e Mick Jones)
- the Clash
I’m all lost in
a supermarket
I can no longer
shop happily
I came in here
for that special offer
A guaranteed
personality
I wasn’t born so
much as i fell out
Nobody seemed to
notice me
We had a hedge
back home in the suburbs
Over which i never could see
I heard the
people who live on the ceiling
Scream and fight
most scarily
Hearing that
noise was my first ever feeling
That’s how it’s
been all around me
I’m all tuned
in, I see all the programmes
I save coupons
from packets of tea
I’ve got my
giant hit discotheque album
I empty a bottle
i feel a bit free
The kids in the
halls and the pipes in the walls
Make me noises
for company
Long distance
callers make long distance calls
And the silence
makes me lonely
And it’s no hear
it disappear
traduzione: Perso
nel supermercato
Mi
sono completamente perso in un supermercato
Non
riesco più a fare la spesa felicemente
Sono
entrato qui per quell’offerta speciale
Una
personalità garantita
Più
che nato sono capitato
Nessuno
sembrava accorgersi di me
Avevamo
una siepe dietro casa in periferia
Oltre
la quale non riuscivo a vedere
Sentivo
la gente del piano di sopra
Urlare
e picchiarsi nei modi più terribili
Sentendo
quel rumore provai la mia prima emozione
Questo
è quello che avevo intorno a me
Sono
sempre sintonizzato, vedo tutti i programmi
Conservo
i punti dei pacchetti di tè
Ho
comprato il mio grande album di hits da discoteca
Svuoto
una bottiglia e mi sento un po’ libero
I
ragazzi nelle stanze e le tubature nei muri
Fanno
rumori che mi tengono compagnia
I
visitatori da lontano fanno delle chiamate interurbane
E
il silenzio mi lascia solo
E
non lo sento
scompare
Note dello scribacchiatore
La scena in cui
viene chiesta una forcina per aprire la porta, è auto-ironica…
nel senso che difficilmente molte porte al giorno d’oggi possono aprirsi con
delle forcine. Vabbhé che CastleMac’Hearty è un piccolo
paesino sperduto… ma siamo sempre in un supermercato.
E, seppure magari quando l’hanno costruito non immaginavano che qualcuno
credesse che una porta al giorno d’oggi potesse essere aperta con una forcina… ok, basta così (e avanza pure).
Questo capitolo
per qualche motivo mi piace particolarmente come m’è venuto fuori (a livello di
scene perlomeno, su come sono riuscito a scriverlo sono meno convinto ^^).
Quindi non accetto critiche :pNo,
scherzo, dite quel che vi pare :)
Nel
pomeriggio, la giornata sembrava ancora decisa a mantenersi su un’ottima
avances estiva, piuttosto che assomigliare al tempo più consono all’inverno.
Il
sole riempiva l’aria di luce giallo pallido e di un gradevole calore, pur senza
mai avvicinarsi ad una vera e propria calura, dal momento che la temperatura si
manteneva comunque non oltre i quindici o sedici gradi; riluceva mandando
bagliori metallici anche sulle pompe di benzina di un piccolo distributore,
sito nella periferia di CastleMac’Hearty.
Una
piccola figura femminile uscì dal negozietto di generi di prima necessità
annesso al distributore, lanciando una vaga occhiata alla serratura forzata
della porta che stava attraversando. Mentre si fermava, infilandosi nel
contempo con aria distratta un piccolo oggetto in tasca, si guardò intorno,
cercando qualcosa con lo sguardo.
Dopo
un po’, Andrea riuscì a intravedere due figure, due ragazzi, che si aggiravano
all’interno di una zona recintata, un piccolo deposito di pezzi di macchina da
rottamare. Benché fosse all’ombra della grande e alta tettoia del distributore,
la ragazza si portò una mano stesa all’altezza delle sopracciglia, per
ripararsi gli occhi dal riflesso metallico dei raggi rimandati dai piccoli
cumuli disseminati nel deposito a cielo aperto, e si concentrò brevemente sui
tratti caratteristici delle due figure, per appurarne l’identità.
Quando
vi riuscì, riabbassò il braccio lungo il fianco, ma non smise di guardarsi
attorno, in cerca di qualcun altro.
Infine,
mentre con lo sguardo percorreva una zona di prato verde, che si apriva subito
accanto al distributore, scorse un elemento variante: un’altra persona, seduta
nell’erba, a una cinquantina di metri dal termine del cemento della zona del
distributore, aveva tutta l’aria di starsi pacificamente facendo i fatti suoi.
Di tanto in tanto alzava un braccio, per portarsi alla bocca il collo di una
bottiglia di birra, o una sigaretta accesa.
Andrea
decise di avviarsi nella direzione di quest’ultima figura.
Con
calmi passi misurati, attraversò prima lo spazio cementato del distributore,
passando solitaria in mezzo ai marciapiedi dotati di pompe, tutto completamente
deserto. Il prato, invece, con l’erba vecchia che per ora resisteva
all’inverno, arrivandole quasi al ginocchio, stancamente lussureggiante, non
era affatto desolante nel suo essere spopolato di figure umane, a parte quella
verso la quale lei si stava dirigendo. Avvicinandosi ad essa, la ragazza le
gettò un lungo sguardo piuttosto assorto.
Danny
sedeva sul prato, semi affondato nell’erba, ed aveva un’espressione quasi
pigra, anche se, da un certo variare della parte più profonda dei tratti del
suo viso, si poteva intuire che stava conducendo tra sé e sé qualche
riflessione.
Aveva
le spalle rilassate, avvolte, come il resto del busto, da un maglione non molto
spesso, color blu cupo, che gli ricadeva indosso un po’ largo, rivelando
parzialmente, specie all’altezza della base del collo, il colore nero della
maglietta che portava sotto. Si era arrotolato le maniche fin sopra il gomito,
lasciando scoperta la pelle un po’ scurita da un leggero principio di
abbronzatura, che faceva appena contrasto con la peluria color castano molto
chiaro; lo stesso colore che si intravedeva alla base di alcune ciocche dei
capelli. Questi, del resto tinti di un biondo intensamente giallo, erano
vivacemente spettinati, formando ciuffetti che ricadevano poco al di sopra
degli occhi, solleticavano il padiglione delle orecchie, come minacciando di
artigliare i piercings ad anello che ne traforavano
uno, e spiovevano disordinatamente sulla nuca. La sua muscolatura, non
particolarmente rilevata, ma evidente nella corporatura snella, dava l’idea che
potesse abitualmente contare su una decisiva agilità nelle mosse.
Seduto
a gambe incrociate, con i suoi jeans abbastanza forti da aver resistito alla
consunzione del tempo e dell’uso, come dimostrava il colore originariamente
scuro un po’ sbiadito qui e là, con accanto la bottiglia di birra appoggiata a
terra, e una sigaretta tra le dita, sembrava quasi in contemplazione di
qualcosa. Era pur vero che, essendo il prato un po’ in pendenza, in salita, a
precedere il terreno delle colline che iniziavano un po’ più oltre,da quel punto si poteva vedere quasi
dall’alto una parte degli edifici di CastleMac’Hearty.
Andrea
si soffermò anche lei a gettare uno sguardo alle strade vuote, avvolte da un
grande silenzio, che lì nel prato era invece scalfito da un tenue formicolare
della brezza che scendeva dalle colline, che faceva mormorare l’erba in una
flebile litania, e smorzava il frinire di qualche raro insetto. Non era
stagione favorevole per gli insetti che non erano soliti sopravvivere durante
l’inverno; ma il sole sembrava aver attirato fuori quei pochi che erano rimasti
dall’estate. La cittadina, invece, sembrava morta. O, perlomeno, completamente
abbandonata.
«Sembrerebbe
un’impresa mica da poco quella di fare spostare una massa simile di persone,
tutte quelle che vivono a CastleMac’Hearty.» mormorò Danny, come se parlasse più che altro a se
stesso.
Questa
sensazione fu acuita dal fatto che, quando voltò la testa verso di lui, Andrea
notò che il suo sguardo era ancora assorto sul panorama della cittadina.
Tuttavia, i suoi occhi erano…
Danny
si voltò a guardarla, sottraendola piuttosto bruscamente ai suoi pensieri. Le
sorrise, un sorriso pacato ma estremamente sereno.
Nonostante
le sue parole, sembrava essere in pace col mondo intero in quel momento, forse
per il solo fatto che c’era il sole, e aveva una birra e una sigaretta e un
intero prato in cui sbracarsi.
«Hai
trovato quello che cercavi?» le domandò.
«Sì.»
annuì lei, tirando fuori dalla tasca la scatola di cartone e plastica,
vivacemente colorata. Si avvicinò, e si sedette accanto a lui, mentre studiava
con occhio critico le istruzioni stampate sulla confezione, aggrottando appena
le sopracciglia.
Il
ragazzo non aggiunse altro, e tornò a fissare lo sguardo sulla cittadina
deserta, con aria tuttavia piacevolmente distratta, ora.
Dopo
qualche istante, lei si appoggiò la scatola in grembo e diede un piccolo
sospiro.
«Beh,
non sarà proprio una cosa da reportage… tutt’altro.
Ma per ora può andare più che bene.»
Danny
voltò appena la testa e la guardò.
«E’
pur sempre una macchina fotografica usa&getta… difficile pretendere troppo
da quei cosi.»
Lei
gli lanciò uno sguardo significativo, inclinando appena un sopracciglio. «Con
questi cosi ho fatto gran parte della mia “gavetta”, sai?» gli raccontò,
piuttosto divertita.
Danny
non si fece intimidire dalla consapevolezza della sua gaffe, anzi, sembrò
pensar bene di peggiorarla. «Per finire in quell’istituto, tra pregiati artisti
come Harry Darry e LianDartax… Se fossi in te, avrei un certo rancore ora verso
queste macchinette.» disse, sogghignando appena.
«Vuoi
dire che hai già un opinione sulla loro arte, senza nemmeno aver mai visto
nessuna delle loro opere…?» gli rispose Andrea,
alzando entrambe le sopracciglia e chinandosi un po’ all’indietro, per
guardarlo meglio, con l’espressione divertita di chi la sa lunga e si ritiene
abbastanza sicura di colpire nel segno. «E da che cosa l’hai capito che sono
pessimi artisti? Dal loro vestiario, o dalla loro pettinatura…?»
«No,
in base a quelle mi sono fatto ben altre idee riguardo a loro, che esulano
dalle loro opere. Quello che “producono” è meglio?» ribatté lui, stando allo
scherzo.
La
ragazza voltò il viso verso le case viste dall’alto di CastleMac’Hearty, come per
interrompere il confronto, ma poi, mentre il ragazzo continuava a fissarla,
rivolse verso di lui solo uno sguardo furtivo, e come facendogli una
confidenza, scherzosamente, mormorò «No. Per niente.»
Danny
sorrise, e si schiarì la gola, per mascherare una risatina.
Per
un po’ scese di nuovo il silenzio. Poi , Andrea riprese la parola .
«Pensi
che Justin abbia preso dei soldi dal supermercato, prima?»
Danny
la guardò, sorpreso «Non saprei. Perché?»
«Così…» disse Andrea, alzando le spalle, quasi infastidita
dal dover fornire una motivazione per quella domanda, o, piuttosto,
imbarazzata. «Tu non te lo chiedi?»
«Hum…» rifletté Danny, prendendo un sorso di birra dalla
bottiglia. «No.» disse infine «Non è qualcosa che mi incuriosisce.»
Senza
accorgersene, Andrea, nell’udire questa risposta sincera e disinteressata, si
era soffermata a studiargli l’espressione, alla spontanea ricerca di qualche
crepa di auto-contraddizione; così, si accorse con qualche istante di ritardo
che il ragazzo le stava sporgendo la bottiglia di birra. Cercò di non
affrettarsi troppo nel prenderla, per non dare a vedere della sua distrazione,
ma quando ne mandò giù una sorsata troppo grande tutto d’un fiato, per poco non
si mandò la bevanda di traverso. Sentendola tossicchiare, Danny tornò a
guardarla.
«Ora
non vorrai farmi credere che sei astemia…» commentò,
ironico.
«Cosa
che per te risulterebbe quasi incredibile, non è vero?» scherzò lei a sua
volta, dopo essersi ripresa dal momento di defiance
della sua epiglottide*.
«Questa
suonava come un’uscita tipica di Kumals…» si
imbronciò un po’ Danny.
«Te
la sei voluta.» osservò tranquillamente Andrea.
«Va
bene, mi arrendo… per stavolta.» disse lui, con un
mezzo sorriso, mentre prendeva la bottiglia di birra che lei gli ridava.
«Senza
rancore.» disse ancora, alzando la bottiglia come a brindare, prima di trangugiarne
un generoso sorso.
«Già… senza rancore.» mormorò lei, già assorta in altri
pensieri, che portarono il suo sguardo a dare l’impressione che stesse mirando
qualcosa di molto più lontano del panorama.
Danny
lasciò cadere il silenzio per qualche momento, prima di schiarirsi la gola, e
osservare «Così… la tua specialità è la fotografia…»
«’Specialità’…»
ripeté lei, come se assaggiasse la parola. «Sì, così si può dire.»
«Beh… sembri cavartela molto bene.»
«Tu
dici? In base a cosa…?» chiese lei, di rimando.
«Mah.
Direi… Ecco, quella foto è molto…
molto ‘non so cosa’.» concluse Danny, rinunciando al
proposito di trovare un’espressione più esplicita che fosse sufficientemente
adeguata.
«Quale
foto?»
«Quella
che ritrae quella ragazza…»
Andrea
restò in silenzio per qualche momento, nonostante la sua espressione fosse
divenuta molto greve. «Sarah.» disse infine.
«Come?»
«Sarah.
Si chiama così. Si chiamava, cioè…»
«Hum… forse, non è il caso di chiederti chi era…» osservò Danny, con delicato tatto.
«No… non importa. Posso parlarne. È molto tempo che non lo
faccio.» rivelò Andrea, assortamente, senza guardarlo.
«Era
la tua ragazza?» chiese allora lui.
«La
miamigliore…
una cara amica. Per me.»
«Ah… capisco.» concluse Danny, senza osare dire altro.
Il
ragazzo finì la sigaretta un paio di minuti dopo. Spense le ultime braci contro
una suola delle scarpe, e ripose il filtro consumato nel pacchetto stesso del
tabacco che si portava appresso. Dopo che se lo ebbe rimesso in tasca, si
riaccomodò, distendendo le gambe e appoggiandosi con le braccia all’indietro.
Tornò il silenzio, rotto solo dai rumori che avevano intorno. Da CastleMac’Hearty
il silenzio pareva estendersi, esalando verso dove si trovavano loro, verso le
colline alle loro spalle, in un flusso singolarmente contrario alla brezza che
ne scendeva.
«Stasera
tornerà il freddo…» notò banalmente Danny. Il tenue
respiro di vento faceva danzare lentamente le ciocche dei suoi capelli, più
lentamente della lieve agitazione dell’erba tutt’intorno a loro.
«Abbiamo
passato tanti anni insieme.» iniziò di punto in bianco Andrea.
Benché
stupito dal suo tono calmo e denso di ricordi, Danny si dispose ad ascoltare,
appoggiandosi a braccia conserte in avanti, sulle ginocchia un po’ piegate. E
non disse nulla, giacché altrimenti avrebbe avuto la netta sensazione di starla
interrompendo.
«Lei
aveva un anno più di me, ma era stata bocciata in qualche anno di scuola, o
qualcosa del genere. Quando doveva dare qualche spiegazione più o meno
burocratica, si incasinava spesso, e finiva per riderci su. Amava molto
l’auto-ironia, quando la faceva a riguardo di se stessa. Se era qualcun altro a
dire qualche cosa di scherzoso sul suo conto, invece, lo guardava attentamente,
come sondando le sue intenzioni più vere. Per questo difficilmente qualcuno
faceva qualche commento che la riguardava più o meno direttamente. Io facevo
eccezione. Potevo dire qualsiasi cosa con lei che la riguardava, e lei
ascoltava con molta attenzione, come se le stessi predicendo il futuro. O il
passato. Tranne la prima volta. La prima volta che avanzai una critica a
riguardo di qualcosa che aveva fatto, mi diede un pugno, dritto sul naso.»
Danny
sorrise appena.
«Non
so perché, mi venne da ridere.» continuò Andrea, con un piccolo dolce sorriso
rivolto ai suoi ricordi «Ma da allora, ogni volta che le dicevo qualcosa che la
riguardava, ero sempre seria.»
Andrea
sporse una mano, raccolse la bottiglia di birra e diede un sorso, come a
rimpastare meglio le parole. Poi riprese a parlare, con la birra in mano, come
se l’avesse dimenticata completamente.
«Comunque… non durò tanto, la sua permanenza a scuola. Non
molto tempo dopo che ci conoscemmo e diventammo amiche, la sua vita iniziò a
incasinarsi di brutto. Lei diceva proprio così, parlava come se la sua vita
fosse un serpente bizzoso, che non riusciva ad ammaestrare in nessun modo. La
maggior parte del tempo, mi diceva, se ne stava lì calmo, questo serpente, come
se non esistesse. Ed era quella la parte più pericolosa: si dimenticava della
sua esistenza, e così si stupiva, veniva colta di sorpresa, quando esso si
rivoltava e la mordeva, senza nessun preavviso. Più avanti sosteneva che aveva
imparato a cogliere qualche segno di preavviso. Dopo tutto c’era qualche
campanello d’allarme, disse. Ma all’inizio era totalmente sorda rispetto ad
essi. Come che sia… lei procedeva con le mani
decisamente pigiate sugli occhi, allora. Prima di tutto, non voleva sapere che
direzione stava prendendo, di preciso. Le interessava che il treno corresse, e
ben forte, anche se poi fosse andato a schiantarsi contro un muro. In qualche
modo sapeva che c’erano, questi muri, ma se li avesse visti prima, le avrebbero
rovinato tutto il gusto del viaggio.»
Andrea
si interruppe, e il suo sguardo si schiarì, come se tornasse d’improvviso alla
coscienza di dove si trovava, e del fatto che stava parlando. Guardò Danny,
piuttosto perplessa verso se stessa.
«Continua…» mormorò lui.
Andrea
annuì, cogliendo l’invito con gradita spontaneità.
«Aveva
un problema con l’alcol, secondo gli altri. Secondo lei, l’alcol era l’ultimo
dei suoi problemi, anzi, era la medicina per i suoi problemi. L’alcol si poteva
risolvere, certo, ma gli altri sarebbero rimasti. ‘E allora a che pro’?’
diceva. Così, quando iniziò ad allontanarsi dal bere, prese a drogarsi. Poi
incontrò Sonny. E si misero insieme. E si drogavano
insieme, naturalmente. Allora, le cose andarono avanti per un po’. Dopo iniziò
la trafila dei ‘recuperi mancati’, come li definiva lei.
Amava
cantare, tantissimo. Quando non riuscì più a farlo come e quando voleva, quando
si ritrovò a cantare per sé e per gli altri e le altre dei centri di recupero,
iniziò anche a fuggire dai questi centri. Quasi sempre lei e Sonny finivano nello stesso posto, e quasi sempre ne
fuggivano insieme. E quando diverse persone iniziarono a dirle che insieme non
ce la potevano fare, lei lasciò tutti gli altri. La sua famiglia, comunque,
aspettava l’ultimo valido pretesto per scaricarla. Per quanto li detestasse,
lei mi diceva che non erano loro che non sopportava, ma qualcosa che li possedeva.
Parecchi
erano estremamente convinti che le sue ‘nevrosi’, ‘ossessioni’, ‘allucinazioni’
e via dicendo fossero parte degli effetti collaterali di alcol e/o droga. Ma
lei sapeva che c’erano anche prima, se le ricordava bene, molto bene. Anzi,
quando beveva o si faceva, si attenuavano, diventavano in qualche modo più
affrontabili, anche se allo stesso tempo ne diveniva preda. Ma formavano una
realtà con cui le era più naturale avere a che fare. Così mi diceva; sapevo,
sentivo che aveva più ragione di qualsiasi altro a proposito di se stessa. Di
più: la sua vista diventava tremendamente chiara e spietatamente netta quando
focalizzava su di sé.
In
breve, lei e Sonny scapparono dall’ennesimo centro di
disintossicazione, e da quel momento non la vidi più. Mi scriveva molto spesso,
a volte cartoline dei posti dove vagabondava, a volte lunghe lettere. Le ho
ancora tutte. Risponderle era un casino. Spesso ciò che le scrivevo arrivava
troppo tardi, e loro erano già da qualche altra parte. Mi ero abituata a tenere
una copia di tutto quello che le mandavo, in modo da rispedirlo se mi
comunicava un nuovo indirizzo e sapevamo che non poteva più ricevere
l’originale che le avevo mandato. Comunque, ci tenemmo sempre in contatto.
Un
giorno mi tornò indietro una lettera per lei, accompagnata da una di Sonny. Lui diceva che avevano litigato più duramente del
solito, poi si erano riappacificati, o almeno così credeva, ma quando era
tornato nel posto dove stavano, lei era sparita con tutta la sua roba. La
cercai disperatamente, ed ero lì lì per mollare tutto
e partire alla sua ricerca, quando ricevetti sue notizie. La rividi un giorno
di maggio. Era parecchio provata, ma non l’avevo mai vista così serena. Disse
che aveva mollato Sonny. Le loro direzioni erano
troppo diverse, ormai. A lui andava bene continuare così, lei aveva bisogno di
cambiare, anche se non sapeva ancora come.
Per
qualche tempo provò a riprendere la vita che aveva prima: viveva in una casa
sua, aveva riallacciato le vecchie conoscenze, andava a trovare ogni tanto i
suoi genitori, in ‘visite di cortesia’ come di diceva lei, lavorava e seguiva
delle lezioni serali. Non la vedevo affatto convinta, e lei stessa penso
sentisse che si stava solo riposando. Ma da lì non riusciva a cercare un
orizzonte, diceva. Agli inizi d’autunno scomparve di nuovo, praticamente senza
preavviso. Mi venne a salutare e partì di nuovo. Nonostante si dicesse che era
solo un viaggetto per ‘staccare un po’ dalla quotidianità’, era esattamente
l’opposto. Quel vagabondare era la sua più vera quotidianità, e lei lo sapeva,
anche se non le piaceva dirlo.
Per
tutto l’inverno ci tenemmo in contatto, ancora, tramite lettere. I suoi
spostamenti erano in effetti meno rapidi, ora; si prendeva più tempo per vivere
i luoghi in cui passava. Ma non riusciva mai a fermarsi. Aveva bisogno di
prendere il largo di nuovo, dopo massimo qualche decina di giorni. Stare ferma
la soffocava, in un certo senso. Però, mi disse, non si sentiva più inseguita.
Si era raggiunta. In quel periodo, amava finire le sue lettere spesso con
l’espressione ‘Sarà quel che Sarà’, un giochetto col suo nome che le sembrava
divertente. Non c’era più alcuna amarezza nel suo scherzare. Pensavo davvero
che poteva andare meglio. Lo pensava anche lei, credo.
Una
notte, siccome era uscita di casa senza soldi, e aveva scarpinato così tanto,
finendo per trovarsi senza sigarette, e volendole assolutamente comprare, tentò
di rubarne un pacchetto. Ma vide che il gestore del piccolo drugstore dove si
era fermata trattava con durezza un vecchio un po’ sbronzo che gli chiedeva
cosa ne pensasse di qualche squadra di calcio. Voleva fare due parole, il tipo,
ma il gestore lo trattò male, lo cacciò dal negozio. Lei si arrabbiò. Allora
prese ad infilarsi in tasca e nella sacca molte cose, come se volesse portargli
via tutto il negozio. Così, quando fece per uscire, il gestore se ne accorse,
che stava rubando. Litigò con lui, e alla fine lo spinse via e uscì comunque
con tutto ciò che aveva preso, salutandolo a male parole. Quell’uomo si
arrabbiò moltissimo. Non si sa cosa gli avesse detto, esattamente. Aveva una
pistola sotto al bancone, regolarmente registrata e tutto. Un paio di testimoni
dissero che lo videro uscire dal negozio con foga, alzare il braccio con la
pistola, verso di lei. Era di spalle, non si accorse di niente. Quali parole
valgono due spari alla schiena? Secondo i rapporti, secondo i documenti, era
già morta quando arrivarono in ospedale con l’ambulanza.»
Gli
occhi di Andrea eranoimmoti, fissi
sulla cittadina poco in lontananza. Qualsiasi cosa stesse passando tra i suoi
pensieri, la tenne gelosamente e strettamente custodita dietro quello sguardo
indifferente in superficie. Danny rimase in accorto silenzio.
«Il
fatto è che… dicono che era cosciente, mentre
aspettavano l’ambulanza. Era sdraiata per terra, sul marciapiede. E intorno
cercavano di capire cosa fare, cercavano di parlarle, di tenerla sveglia. Ma
dicono che lei sorridesse, anche se aveva una smorfia e lacrimava per il
dolore. Dicono che tenne la bocca chiusa, che non disse proprio nulla, non
rispose a nessuna domanda, anche se dalla sua espressione era chiaro che capiva
e intendeva cosa le dicevano. Non disse niente. E mi chiedo che cosa mai abbia
pensato. Se il pensiero di finire così… su un marciapiede… colpita alle spalle, a tradimento…
Se fossi stata lì, con me avrebbe detto qualcosa? Aveva qualche cosa che voleva
dire per ultima? Io credo che… credo che sapesse che
non ce l’avrebbe fatta. Sennò non avrebbe sorriso a quel modo, e non sarebbe
stata così zitta… » mormorò Andrea.
Nonostante
il tono suonasse spezzato, non c’era traccia di lacrime nei suoi occhi, ancora
rivolti lontano.
Danny
prese fiato, piano, quasi con cautela. E osò mormorare, molto piano «Credo che
lei lo sapesse. Di stare morendo libera. Dagli altri e…
cosa più difficile… da se stessa.»
Andrea
si voltò, allora. Il suo sguardo tornò presente, distogliendosi dalla
contemplazione di cose più lontane, e guardò Danny dritto negli occhi, come
assorbendo anche con essi le sue parole.
Infine,
con lentezza estrema, ma con movimenti completamente abbandonati, come di chi
cade mentre dorme, gli appoggiò la testa sulla spalla, quasi nell’incavo del
collo. Le braccia abbandonate lungo i fianchi, e le labbra tirate come a
contrastare un’ondata di dolore fisico quasi stordente, si abbandonò con tutto
il suo peso contro di lui.
Senza
fare una piega, Danny cambiò appena posizione, per sostenere il peso di lei
senza cadere all’indietro. Le appoggiò un braccio intorno alle spalle,
esercitando una morbida ma decisa presa, e piegò la testa, appoggiando appena
il mento sul capo di lei.
Sebbene
si accorse che Andrea piangeva, silenziosamente, semplicemente lasciando che le
lacrime le scorressero sulla faccia, dal suo fare tranquillo e calmo, seppur
partecipe, non si sarebbe detto che si fosse accorto di nulla, tranne forse che
della brezza che scorreva intorno a loro, muovendo l’erba come un mormorante
mare verde stanco.
*con ‘defiance’ (termine francese) s’intende ‘momento di
difficoltà, mancanza di riuscire a fare qualcosa, errore…
etc.’. Quindi per esteso parlo di ‘fallimento/momento di difficoltà
dell’epiglottide’. L’epiglottide è una sorta di “seconda lingua” che l’essere
umano ha dentro al collo; quando deglutiamo qualcosa (che sia saliva o cibo o
altro), essa ‘tappa’ l’ingresso della laringe (vie respiratorie), in modo da
impedire che ciò che si sta ingerendo finisca nei polmoni. Quando qualcosa ‘va
di traverso’, si tratta in genere di un
malfunzionamento temporaneo dell’epiglottide (che viene azionata da un riflesso
a livello del sistema nervoso) che non riesce a tappare bene la laringe,
facendo finire un poco di quello che stiamo ingerendo nel “condotto sbagliato”.
L’effetto di tosse corrisponde al tentativo – che scatta sempre per riflesso –
di ributtare fuori dalla laringe ciò che c’è entrato erroneamente. Tant’è, chi
non ha capito nulla, può comunque trovare info in internet, oppure lasciare
perdere, tanto non è necessario alla comprensione della storia.
Note dello scribacchiatore
Non è stato un
capitolo semplice da scrivere, per qualche motivo. Forse non sono sicuro del
risultato rispetto alle mie aspettative sul clima che volevo rendere tramite le
immagini e le parole dei personaggi. Di nuovo, vediamo un certo incentrarsi sul
personaggio di Andrea. Forse ciò può apparire strano…
ed in effetti anch’io sono ancora un po’ stranito da come questo personaggio
finisca per concentrare su di sé tanta attenzione, nonostante sia circondata da
protagonisti che avrebbero sì le capacità per occupare molto più ampiamente di
lei la scena. Il fatto è che gli altri e le altre, specialmente i/le componenti
del gruppo ‘4 di picche’, sono personalità un po’ più
sfuggenti, e, a differenza di Andrea, poco disponibili a farsi leggere chiaramente… e lo scribacchiatore
qui presente deve adattarsi a questo stato di cose ^^ (almeno per il momento…huhu…
ma la vedremo!)
Mi sembra di
aver notato, anzi, che dalla comparsa di Andrea alcuni personaggi, come Danny
ed Uther, sembrano approfittarsi della spontanea
apertura di questa ragazza per nascondersi dietro di lei in un certo senso… Ma credo che sia anche perché ognuno di loro cova i
suoi personali pensieri ed impressioni… Si potrebbero
fare parecchie speculazioni in proposito, ma credo che ci vorrà ancora un po’
prima che si mettano ad agire in una maniera che permetta di intuire meglio ciò
che stanno attraversando. Inoltre, dopotutto la storia inizia da un punto in
cui certi determinanti trascorsi sono già passati oltre…
e qui, prima di poterli rivangare passerà un poco… ma
qualcosa verrà fuori, chi avrà pazienza vedrà ;)
Qualcosa mi dice
che nei prossimi due capitoli ci sarà qualche sviluppo riguardo alla situazione
dello zombismo… quindi, se vi va di saperne di più,
stay tuned:)E se vi dovesse sovvenire
anche qualche osservazione fatevi pure avanti, s’intende. Alla prossima!
Capitolo 28 *** 26 - IL COLPEVOLE E' SEMPRE... ***
Capitolo
26
(Il
colpevole è sempre…)
La
stanza per i ricevimenti, ampia e con un’intera parete costituita da pannelli
di vetri doppi, doveva avere avuto un aspetto sobriamente regale, prima che una
ventina di motociclisti la devastassero spensieratamente da cima a fondo.
Si
trovava nel lato nord-ovest della villa del fu signor Benton, quasi a
strapiombo sul ciglio del ripido fianco della collina su cui sorgeva. Per
questo dalle vetrate, ora ridotte in un caos diffuso di schegge dalla vasta
gamma di dimensioni e forme sparse su tutto il pavimento e fuori sul prato, si
poteva spaziare la vista sul panorama di colline boscose.
Nella
luce soffusa del sole invernale, quattro figure comparvero come dal nulla.
Crocchiando sulle schegge di vetro, un paio di piedi avvolti in pesanti
scarponi da montagna e undici zampe calzate in appositi scarponcini
anti-ferita, evidentemente fatti in casa, entrarono a passo calmo nel salone,
passando direttamente attraverso le nude cornici che una volta avevano
sostenuto le vetrate.
Tre
cani di varia dimensione camminavano intorno alla figura umana, come facendole
da scorta. Per primo veniva un piccolo cagnetto dall’aria accorta e vispa, poi
la donna, quindi, in scia a lei, uno più sulla sinistra e uno a destra,
venivano una grossa alano nera a tre zampe e una cagna dal pelo raso rossiccio
tigrato di nero.
Giunta
nel centro della stanza, la donna si fermò. Lo stesso fecero i tre cani che la
accompagnavano. Mentre Duca si accosciava a sedere per terra, rivolgendo
intorno a scatti il musetto da piccola volpe, Mama si
sdraiava, la testa alta, maestosa come un leone, e Danza si aggirava impaziente
rigorosamente entro un perimetro di circa tre metri quadrati, la donna si
abbassò l’ampio cappuccio di spessa stoffa verde cupo che le aveva celato
completamente il viso fino a quel momento.
Il
viso dall’espressione di sfinge di Zoal rivolse
intorno per tutto l’ampio ambiente della sala da ricevimenti un lento sguardo
imperscrutabile. Quindi, muovendosi con molta compita calma, avanzò davanti a
sé il braccio sinistro con cui impugnava il grosso bastone di legno d’albero
che si portava appresso. Le zucchette svuotate che erano legate con cordicella
sottile alla sommità del bastone dondolarono e sbatterono leggermente contro il
legno, producendo un rumore di sabbia smossa e un tintinnio di piccoli oggetti
più consistenti. Zoal impugnò con entrambe le mani il
bastone, con salda fermezza, e tenendolo dritto, perfettamente perpendicolare
al pavimento, ne appoggiò la punta per terra, con delicatezza.
Nel
silenzio, rotto appena dal ticchettare delle zampe di Danza, che continuava a
muoversi con una certa vivace impazienza, Zoal
allontanò lentamente le mani dal bastone, con aria concentrata, tra le palpebre
a mezz’asta lo sguardo lontano e chiuso, eppure denso, come se stesse guardando
qualcosa che non apparteneva al mondo in cui si trovava, o come se fosse caduta
in una profonda trance. Il bastone, privo di ogni sostegno, rimase fermo, in
impossibile equilibrio perfetto sulla punta che, in effetti, era tutto tranne
che piatta.
Perqualche istante, in un’atmosfera irreale,
come sospesa nel tempo, il bastone rimase immobile. Zoal,
lo sguardo fisso in un altrove di dubbia definizione, era altrettanto immobile.
Persino Danza si era infine fermata, fissando attenta il bastone, in attesa.
Le
mani di Zoal, dalle lunghe dita che si muovevano
appena, in movimenti lenti e arabescati, come se fossero dotate di vita
propria, si allontanavano con esasperante lentezza dal bastone lasciato in
equilibrio irreale; un movimento che sembrava un rallenty
artificialmente prodotto, fuori dal tempo, per l’innaturale velocità a cui
avveniva.
Di
colpo le mani di Zoal ebbero uno scatto molto rapido:
in una fulminea successione di movimenti si chiusero a pugno, compirono qualche
mulinello, e schizzarono lontano dal bastone in direzione opposta, con mossa
rapida e precisa, come se stesse spezzando un filo invisibile che passava
attraverso la verga sospesa. Non appena ebbe compiuto quest’ultima sorta di
strappo, il bastone si mosse. Perse l’equilibrio, e sembrò oscillare
leggermente nell’aria, come un perno infisso nel pavimento indeciso da che
parte cadere. Infine prese una decisione, si mosse inesorabilmente verso terra,
e cadde sul pavimento.
Il
rumore del legno che cocciava sulle mattonelle causò
un netto rumore, che echeggiò lungo il pavimento e nell’aria, dall’epicentro
fino in fondo, terminando contro le pareti lontane e di largo perimetro della
stanza, e da lì rimbalzando indietro disordinatamente in tutto lo spazio
disponibile.
Le
quattro figure al centro della sala rimasero perfettamente immobili, Zoal con ancora le mani strette a pugno a mezz’aria, con le
braccia aperte e stese. Finché l’eco del rumore, calato gradualmente di
intensità, si spense definitivamente.
Allora
sul viso di Zoal si verificò un cambiamento. Gli
occhi tornarono del tutto presenti e attenti, vivi e brillanti di un’ilare e
sibillina intelligenza color verde, con sfumature grigio scuro, somiglianti a
quelle di una pietra estratta dal ventre della montagna dal paziente lavoro di
agenti atmosferici, che si ritrovi esposta alla luce esterna dopo secoli di
immersione nel buio della roccia.
Un
lento sorriso si disegnò sulle sue labbra. Sembrava soddisfatta. Quanto un
topolino che sta spingendo la trappola a molla verso la coda del gatto che
dorme.
Zoal si chinò piano
a raccogliere il bastone, quindi, voltatasi verso le cornici vuote delle
ex-vetrate, picchiò tre volte sul pavimento la punta della verga, con decisa
fermezza.
Pochi
istanti dopo, due figure spuntarono da dietro la piega del terreno discendente
che iniziava pochi metri dopo le vetrate, alzandosi dalla posizione acquattata
che avevano mantenuto fino a quel momento, e avanzarono con calma verso di lei,
affiancate.
A
larghi passi Kumals e Ramo scavalcarono le cornici
vuote ed entrarono anch’essi nel salone deserto e devastato. Lanciavano
occhiate in giro, esaminando con attenzione i resti delle tavolate che avevano
sorretto i piatti e le ciotole e le bottiglie colme del rinfresco: una notevole
gamma di cibi e bevande e decorazioni giacevano sparse in un confuso
guazzabuglio d’attorno. Ghirlande che pendevano semi-strappate dal soffito, cocci di ogni materiale, colore e dimensione,
tovaglie strappate, tovaglioli gettati in giro con nonchalance, scarpe col
tacco da signora abbandonate e via dicendo giacevano tutt’intorno. Uno scenario
abbastanza apocalittico, tutto sommato.
Mentre
Ramo contemplava il tutto con le sopracciglia aggrottate in una truce espressione
di preoccupazione, Kumals mostrava un interesse
puramente analitico, o almeno questo era tutto ciò che lasciava trapelare dalla
sua espressione compassata, e dal modo con cui camminava, le mani in tasca e
l’aria di chi sta facendo una passeggiata incuriosita, turista nel disastro.
Tenendo
la sua mazza di legno appoggiata sulla spalla e saldamente impugnata con una
mano, Ramo si fermò infine vicino a Zoal, senza
smettere di lanciare sguardi piuttosto nervosi tutt’attorno. Quest’ultima
sospirò appena, e si piegò un po’ in avanti, appoggiandosi con le mani sul suo
bastone e appoggiando su di esse il mento, con aria pensierosa. Fissava con
attenzione il viso di Kumals.
«Se
non altro, sembra non ci siano state vittime.» notò infine Kumals,
mentre traeva fuori da una tasca il tabacco, e prendeva ad arrotolarsi una
sigaretta.
«A
parte il signor Benton...» osservò con placida calma Zoal,
continuando a studiare l’espressione del giovane uomo.
Se
le sue intenzioni erano di cercare di provocare una qualche espressione più
vivace sul volto di Kumals, trovarono esito in niente
più che un’incrinarsi momentaneo di un suo sopracciglio, che tornò poco dopo ad
una posa rilassata.
«Pensate
che stessero cercando qualcuno o qualcosa?» domandò Ramo, continuando a
lanciarsi intorno lunghe occhiate. Per un momento lo distrasse il fatto che
Duca e Danza stessero trotterellando tutt’attorno per la sala, annusando i
resti di cibo con un certo interesse, ed azzardando qua e là una leccatina
d’assaggio. Mama invece, con aria tranquilla ma
vigile, era ancora sdraiata a terra, imponente, a testa alta.
«Voglio
dire… » proseguì Ramo, cercando di non farsi
eccessivamente intimidire dall’accurata occhiata che gli stava lanciando Zoal «Hanno fatto un casino incredibile. Sembra che sia
passato un esercito… E, insomma, voi pensate che
volessero solo divertirsi?»
«Se
proprio un gruppo di centauri di una certa età decidesse la notte di capodanno
di prendersi tanto disturbo, sarebbe poco credibile che scegliessero come obbiettivo
proprio una villa sperduta in un paesino ancora più sperduto, con una festa di
moderate dimensioni, senza peraltro soffermarsi nemmeno più di tanto… O rubare nulla.» Kumals
emise un respiro di fumo dalle narici e accennò con un dito verso un oggetto
per terra. Sembrava trattarsi di una collana di perle, rotta e perduta durante
la fuga precipitosa della proprietaria evidentemente.
Ramo
corrugò ulteriormente la fronte; andò a raccogliere la collana e la soppesò nel
palmo della mano, mentre alcune perle scivolavano via dal filo, rimbalzavano
per terra e rotolavano via sul pavimento liscio; per un po’ Danza trovò
divertente rincorrerne una, ma quando provò a masticarla e si rese conto che
non era abbordabile come alimento, perse interesse.
«Sembrano vere… »
disse infine Ramo, voltandosi di nuovo verso gli altri due. Non mostrarono
particolare sorpresa o altre emozioni più forti di una semplice, vaga aria di
constatazione.
«Quindi…» continuò Ramo, un po’ spaesato dalla mancanza di
vivo interesse negli altri «Pensate che cercassero qualcosa? E che l’abbiano
trovato?»
Finalmente
negli occhi di Kumals brillò un piccolo luccichio di
curiosità «Bene, è quel che siamo qui a cercare di scoprire, no?». E sorrise
appena, come un gatto che sta facendo finta di dormire affinché il topo si
avvicini abbastanza da poterlo afferrare.
*
***
*
Dopo
un’accurata ispezione del piano terra dell’edificio, costituito nello specifico
dalle cucine, un ampio corridoio di ingresso, una sala da pranzo e un salotto,
oltre al salone da ricevimento dal quale erano entrati, Zoal,
Ramo e Kumals potevano concludere di aver trovato:
assolutamente niente di niente.
Ramo,
le cui spalle si abbassavano man mano che passava il tempo, e che impugnava la
mazza sempre meno minacciosamente, si trovò a lanciare sguardi piuttosto delusi
ai suoi cinque compagni di ispezione. I più vivaci erano certamente Duca e
Danza, che raramente avevano interrotto il loro scorazzare curioso nelle varie
stanze; Mama approfittava di ogni loro sosta in
qualche stanza per accosciarsi, talvolta esibendo le enormi fauci in qualche
lascivo sbadiglio.
L’irritazione crescente di Kumals
si esprimeva nel suo fumare una sigaretta dopo l’altra, e in un po’ di
nervosismo che permeava ormai i suoi movimenti, oltre che le sopracciglia
piegate in una smorfia di scontento auto-sarcastico sempre più eloquente. I
ticchettii del bastone di Zoal si perdevano nel
silenzio delle stanze, mentre i suoi occhi scrutavano con indomita attenzione
precisa, baluginando a volte su qualche punto in particolare, per spegnersi
poco dopo nella consueta calma ermetica, quando non trovavano nulla che potesse
destare il loro interesse.
Sembrava
che la banda di motociclisti avesse dedicato la sua attenzione quasi
esclusivamente al salone dei ricevimenti, limitandosi a una rapida e disattenta
scorreria nelle altre stanze, neanche avessero percepito come doveroso dare
perlomeno una controllata in ogni angolo, senza molta persuasione.
Infine,
si trovarono di fronte alle scale che portavano al piano superiore. Duca si era
seduto ai piedi degli scalini, e il suo corpicino tremava di nervosismo a
stento represso. Danza, le orecchie ritte e un sordo mugolio che faceva di
tanto in tanto capolino entro la sua gola, teneva lo sguardo fisso verso il
piano superiore. Anche l’attenzione di Mama sembrava
essersi risvegliata: l’alano puntava il muso verso l’alto, su per le scale,
teneva la coda dritta, parallela al suolo, e un leggero fremito le faceva
tremolare le grandi labbra del muso.
Zoal osservò i cani
con attenzione, così come stava facendo Kumals, e sul
suo sguardo passò una cupa perturbazione. «Sembra che al piano di sopra ci sia
qualcosa di interessante…» mormorò, alzando lo
sguardo adombrato verso le scale, e impugnando un po’ più saldamente il suo
bastone. Anche Ramo tornò a rinforzare allora la presa sulla sua mazza,
togliendola dall’appoggio alla spalla e tenendola alta di fronte a sé.
«Allora
saliamo.» concluse Kumals, con imperiosa risoluzione.
PrecendendoZoal di pochi scalini, Duca e Danza si misero alla testa
del gruppo. Mentre Duca procedeva con più attenta prudenza, Danza sembrava
impaziente di avanzare di rapido impulso. Ma pareva che la presenza di Zoal e Mama la dissuadessa dall’azzardare qualsiasi cosa. Guadagnatasi
senza mezzi termini la posizione subito dietro Zoal,
che saliva tenendo con una mano il bastone e con l’altra alzando un po’ una
delle lunghe gonne sovrapposte e un po’ stracciate che indossava, la grande
alano s’inerpicava pesantemente su per gli scalini, forzando con impegno le sue
tre zampe; con le poderose spalle del cinto anteriore*
che pompavano con impeto su per gli scalini, rappresentava una figura da
temere, come un cerbero che si reca ad accertarsi di cosa non vada, pronto a
scagliarsi con ferocia su qualsiasi cosa riconosca come minaccia nemica.
Dietro
di lei avanzavano Kumals e Ramo, affiancati, e con
espressioni concentrate di chi è pronto a fronteggiare ogni evenienza.
Furono
gli occhi di Zoal, scrutanti nel semibuio della casa,
a scorgere per primi la sagoma riversa sull’ultimo gradino, al termine delle
scale. Il corpo occupava parte del pianerottolo del primo piano. Fin dalla posa
innaturale delle membra, oltre che dall’odore di marcio che emanava
generosamente, si riconosceva nella figura un cadavere riverso.
Zoal si fermò, e con
un gesto imperioso intimò ai cani di mantenersi a buona distanza dal corpo.
Essi le ubbidirono, pur continuando ad annusare a pieni polmoni, con interesse.
Ramo
storse il naso, pur guardando con pietà l’uomo morto. Indossava una divisa
sommaria ma elegante, un abito scuro su una camicia bianco-rosata. La sfumatura
rosea doveva esser data dal sangue della ferita che lo aveva ucciso. Era ben
visibile: una contusione sanguinolenta alla base della nuca, rivolta
impietosamente verso il soffitto. Il viso, celato dalla posizione a pancia
sotto, era attaccato alla moquette del pavimento del primo piano.
Kumals si chinò
abbastanza vicino al corpo, tenendosi una manica pigiata contro il naso,
osservando da vicino.
«Morto
sul colpo.» disse in tono basso «Dev’essere il
maggiordomo del signor Benton.»
«Ma…! » eruppe Ramo, in tono iroso pregno di un urticante
senso di ingiustizia. Gli morì la voce in gola per un momento, ma riprese
praticamente subito. «Che bisogno c’era di ucciderlo?»
«Bisogno?»
Kumals si rialzò in piedi, scuotendo appena il capo
«Forse si è trovato nel posto sbagliato al momento sbagliato.»
«O
avrà tentato di fermarli…?» azzardò Ramo.
Kumals, lo sguardo
fisso sul corpo, assunse un’espressione particolarmente corrucciata. «Non ho
mai avuto occasione di conoscerlo bene di persona… Ma
da quel poco che so, non mi è parso un uomo stupido.»
«Beh,
tecnicamente non c’è bisogno di essere stupidi…»
tentò Ramo «Magari non sopportava di vedere quello che stavano facendo i
motociclisti alla casa…»
Kumals lo guardò,
serio. «Questa sarebbe stata una cosa relativamente stupida. Sapeva di non
poterli fermare. Anche se forse non si aspettava di essere ucciso. Ma… non mi sembra una cosa sensata. Piuttosto…
nota il fatto che sia caduto proprio in cima alle scale. Forse stava cercando
di fuggire al piano terra.»
«Lo
hanno colpito alle spalle.» disse Zoal, con voce
profonda «Loro erano già al piano superiore. E non li stava fronteggiando.
Propendo per pensare più verosimile ciò che dice Kumals.»
Per
qualche istante rimasero ancora fermi ad osservare il corpo, in silenzio, come
riuniti in un sommario gesto di rispettoso lutto.
Alfine,
Zoal si mosse. Si voltò, e prese a percorrere il
corridoio del primo piano, diretta all’ultima stanza. Lentamente, anche Kumals e Ramo si allontanarono dal maggiordomo defunto,
seguendola.
I
cani, che si erano rianimati appena Zoal si era
mossa, la stavano già precedendo dentro la camera da letto del signor Benton.
*vale a dire le
spalle delle zampe davanti, praticamente.
Note dello scribacchiatore:
No, non ho
dimenticato un pezzo di titolo… l’ho appositamente
diviso in due parti, e la seconda sta a titolo del capitolo successivo. A
questo proposito, siccome sarò via qualche giorno prossimamente, credo proprio che
pubblicherò il capitolo seguente lunedì (dopodomani) , perché preferisco non
far passare tanto tempo tra questo cap e il
successivo visto chesono direttamente
connessi; se non fosse per rispettare la lunghezza base sarebbero un unico
capitolo.
Spero che chi
segue gradisca come procede la storia per ora… Alla prossima!
Si trovavano nella camera da
letto del signor Benton. Vi erano tornati dopo aver cessato l’ispezione delle
altre stanze del primo e più alto piano della villa. A mani vuote.
Kumals, che aveva
parlato, lanciò in giro per la stanza uno sguardo ormai evidentemente irritato.
Sembrava scontento e insoddisfatto, e Ramo lo notò.
«Abbiamo guardato dappertutto.»
esplicitò «Forse non c’è niente da trovare. Forse hanno trovato loro ciò che
cercavano, e se lo sono portato via…»
«Già…
forse è così.» rispose Kumals, in tono tutt’altro che
pago.
Zoal si aggirava
intorno al grande letto a baldacchino che occupava buona parte dell’ambiente.
Solide colonne in legno scuro reggevano il cospicuo peso del baldacchino, dal
quale pendeva un tendaggio bordò in ordinati e polverosi ripiegamenti di
stoffa.
Kumals si lasciò
cadere nella poltrona in un angolo della stanza, con aria scontenta. «C’è
qualcosa che non mi torna, in tutto questo.»
«E cioè?» domandò Ramo, attento.
Kumals lo guardò,
accigliato. «Se lo sapessi, non starei a farci tanti giri di parole, lo direi e
basta.» fece presente, in tono praticamente astioso.
«Se avessero trovato ciò che cercavano…» mormorò Zoal
distrattamente, mentre continuava a passare le mani sulle colonne del
baldacchino, seguendone le forme floreali intagliatevi a bassorilievo con
sguardo assorto «…avrebbero interrotto le ricerche.».
Tacque, apparentemente persa nel seguire le forme armoniose di una ninfa
intagliata con perizia.
«E…
quindi?» azzardò Ramo, timidamente.
Zoal interruppe le
divagazioni della sua mano, pur lasciandola appoggiata laddove si trovava, e
voltò un poco la testa verso di loro, guardandoli. «Avrebbero smesso di buttare
tutto all’aria. Non abbiamo invece trovato grandi differenze nel nostro giro.
La devastazione è omogeneamente distribuita.»
«In effetti…»
riconobbe Ramo. Si voltò a guardare Kumals. «E’
questo che non ti convinceva?»
Kumals, le mani giunte
e la schiena curva, gli indici alzati e appoggiati davanti alle labbra, alzò
gli occhi verso di lui, a fronte aggrottata. «Forse. Non so.»
Ramo sospirò pesantemente.
«Insomma, cos’altro possiamo fare? Abbiamo guardato dappertutto, e in certi
punti, tipo nello studio di Benton, almeno un paio di volte. E nonostante
questo non…Hey!» si interruppe
bruscamente, sorpreso. «Cos’ha Mama?»
Zoal e Kumals seguirono il suo sguardo. L’alano era in piedi,
immobile, irrigidita, e teneva il muso spiaccicato sul pavimento in un preciso
punto, con testarda convinzione. Tuttavia, non stava annusando.
Come avendo notato che
l’attenzione degli altri si era concentrata su di lei, Duca le trotterellò
vicino, e fece per avvicinare il musetto al punto in cui Mama
teneva fisse le sue grosse narici. Ma dalla gola della cerbero si udì un cupo
brontolio di minaccia. Duca risolse di non immischiarsi, e trotterellò ad
annusare altrove.
Zoal, i cui occhi
sfavillavano di curiosità, si avvicinò.
«Mama…»
la chiamò, con sommessa dolcezza. «Cosa c’è di interessante?» le chiese, con
rispettosa serietà, chinandosi accanto a lei.
Mama si mosse, e si
sedette dritta dritta sul punto su cui aveva tenuto
incollato il naso, trovandosi così con la grossa testa sullo stesso livello del
viso di Zoal. La guardò con compitezza orgogliosa,
per quanto poteva esprimerla uno sguardo canino.
«Avanti Mama…
non posso proprio darci un’occhiata?» la blandì Zoal,
con un sorriso incoraggiante e allo stesso tempo divertito «Non ho certo
intenzione di soffiarti la scoperta. È chiaro: l’hai trovato tu.»
«Qualsiasi cosa sia.» commentò la
voce di Kumals.
«Non puoi farla semplicemente spostare…?» domandò Ramo. Tanto Kumals
quanto Zoal gli rivolsero una breve occhiata di
scarsa considerazione, e il ragazzo ebbe l’impressione di aver detto una pura
sciocchezza.
Per qualche momento Zoal e Mama continuarono a fronteggiarsi
con lo sguardo, come se stessero svolgendo un qualche colloquio riservato tra
loro. A Ramo non rimase che osservare la scena silenziosamente, come stava
facendo Kumals, anche se più pazientemente.
Infine Mama
spezzò la sua ferrea immobilità. Prima mosse un po’ le spalle e le zampe
anteriori, come combattuta, oscillando il testone con aria quasi infastidita.
Infine si alzò in piedi, emettendo un sonoro sbuffo di compassata pazienza, e
lasciò libero il tratto di pavimento che aveva protetto con tanta
cocciutaggine, andando a sdraiarsi in un altro punto della stanza, senza
trascurare l’ostentazione di un altero disinteresse.
Ramo e Kumals
si avvicinarono al punto su cui era già chinata Zoal.
Apparentemente non c’era proprio
nulla. Quel tratto di pavimento appariva in tutto e per tutto assolutamente
identico a qualsiasi altro punto del resto del pavimento in assicelle levigate
di legno del resto della stanza. E, nonostante tre paia di occhi lo stessero
osservando con viva attenzione interrogatoria, rimase tale.
Zoal passò
lentamente una mano sulla superficie liscia, sotto lo sguardo attento di Kumals; Ramo tratteneva il respiro. La donna sorrise
appena, chiuse le affusolate dita a pugno, e picchiettò con attenzione sul
pavimento. Suonò vuoto. Ramo buttò fuori l’aria tutta in una volta, insieme ad
un’esclamazione vivace.
«C’è qualcosa!»
«Già…
forse un ammanco da parte dei costruttori.» osservò più scetticamente Kumals.
Zoal gli scoccò
un’occhiata vagamente divertita, e si rialzò in piedi. «Oppure…»
mormorò «…un nascondiglio segreto.»
Tornò verso il baldacchino, ridedicando tutta la sua attenzione al bassorilievo che
rappresentava un’affascinante ninfa dei boschi.
«Se c’è, è davvero ben nascosto.»
disse Kumals, passando a sua volta le dita sul
pavimento «Nemmeno un’imperfezione.»
«Potremmo sfondarlo
direttamente.» propose Ramo, con praticità, facendo oscillare esplicitamente la
mazza che impugnava.
«Forse non sarà necessario.»
disse Zoal.
Ramo guardò la schiena della
donna interrogativamente, ma fu Kumals a chiedere in
tono ammiccante «Ah, no?»
Zoal sorrise appena.
«Ho detto ‘forse’…» chiarì argutamente.
«Non trovate anche voi che questo
punto sia particolarmente levigato…?» domandò
allusivamente, sfiorando la spalla sinistra della ninfa intagliata.
Mentre un sorrisetto si dipingeva
sul viso di Kumals, e l’espressione di Ramo si
schiariva in un lento accenno di comprensione, Zoal
si decise, e pigiò con delicata fermezza il braccio della ninfa, che affondò di
qualche scarso centimetro nel resto della struttura da cui sporgeva.
Si udì un piccolo scatto morbido
ma netto, e contemporaneamente il tratto di pavimento davanti a cui erano
chinati Ramo e Kumals ebbe un fremito e si mosse di
colpo: alcune delle assicelle di legno schizzarono verso l’alto, rivelando una
sorta di cassetto nascosto.
Sempre sorridendo, Kumals afferrò i bordi del pezzo di pavimento che si era
alzato, e lo tirò piano verso l’alto, estraendo un ligneo piccolo cassetto.
Zoal tornò di fianco
a loro, e tutti e tre guardarono all’interno del nascondiglio. Mama li osservava con aria distrattamente interessata dal
suo angolo della stanza.
«E’ vuoto!» disse subito Ramo,
con cocente delusione, esplicitando ciò che tutti e tre stavano effettivamente
constatando con i loro occhi.
«Un altro buco nell’acqua! O nel
legno, direi.» osservò con stizza Kumals, ripigiando il cassetto al suo posto con irritazione.
«Eppure…»
mormorò Ramo, affranto. Ma non trovò nulla con cui completare la frase.
«Lo era fin dall’inizio,
probabilmente.» osservò pensierosamente Zoal, e
concentrò poi il suo sguardo su Kumals «A meno che
Benton non avesse qualcosa addosso… Avete
controllato?»
Kumals alzò le spalle,
mentre si rialzava in piedi «Sì, non c’era nulla di strano. Portafogli, qualche
gingillo, niente di che.»
«Ma allora…
insomma, stavano cercando qualcosa che non c’era?» insistette pervicacemente
Ramo, riferendosi ai centauri devastatori di ville.
«O lo hanno già trovato, anche se
per ultimo, dopo aver messo sottosopra il resto della villa. O forse Benton,
aspettandosi che qualcuno sarebbe venuto a cercarlo, lo ha tolto da qui e messo
da qualche altra parte.» disse Zoal.
«Va bene. Possiamo anche
andarcene. Ormai è chiaro che abbiamo fatto un giro inutile.» disse Kumals, avviandosi per uscire dalla stanza. Gli altri lo
seguirono nel corridoio.
Scavalcarono con attenzione il
corpo del maggiordomo riverso in cima agli scalini, e presero a scendere. Ma Kumals si accorse che qualcuno si era fermato, alle sue
spalle. Si fermò a sua volta, e si voltò, trovando che Ramo si era bloccato a
metà delle scale, guardando dietro di sé.
«Ebbene? Che succede?» lo
richiamò Kumals, frustrato.
«Lo… lo
lasciamo lì?» domandò Ramo, guardandoli con esitazione, accennando al corpo
senza vita.
«Non abbiamo il tempo di metterci
a seppellire tutti i morti che troviamo in giro. È più urgente occuparsi dei
vivi, ora come ora.» ribatté Kumals, forzando una
decisione militaresca che non sentiva affatto come propria, ma che riteneva
quantomeno necessaria, al momento.
«Ce ne occuperemo non appena
avremmo risolto le cose più urgenti.» mormorò Zoal,
più accondiscendente, con rispetto.
«Sì ma…»
iniziò Ramo. Però si interruppe, e corrugò la fronte.
«Cosa?» lo incoraggiò Kumals, con rinnovata pazienza.
Ramo non rispose, invece riprese
a salire gli scalini, tornando verso il corpo.
Kumals fece per dire
qualcosa, ma Zoal alzò un braccio davanti a lui,
chiedendogli silenzio. L’uomo la esaudì, rivolgendo uno sguardo più attento
alle mosse di Ramo.
Il ragazzo arrivò a pochi passi
dal corpo e si fermò. Per qualche momento ristette a guardarlo immobile, poi
tornò a parlare, lentamente.
«Non pensate…»
iniziò, volgendosi poi a guardarli «…che sia veramente
strano…?»
«Che cosa?» chiese Zoal, con attenta calma.
«Beh…
quei tizi devono aver perso un sacco di tempo giù al piano di sotto, con gli
invitati della festa e tutto il resto. E devono aver fatto un rumore d’inferno,
fin da quando sono entrati sfondando le vetrate… Dai
racconti di Kumals, non sembra che si siano
precipitati subito al primo piano…Quindi… questo tizio deve averli certamente uditi
benissimo. Teoricamente, se iniziava a fuggire appena li ha sentiti arrivare,
aveva tutto il tempo di raggiungere perlomeno il pianterreno…
E allora… perché lo hanno sorpreso che era ancora in
cima alle scale…? Come se…»
la voce di Ramo si spense, esitante.
Gli occhi di Zoal
brillavano di vivace attenzione. Lentamente la donna risalì anche lei le scale,
e come incoraggiato da ciò Ramo tornò accanto al cadavere, presto affiancato da
lei.
«Come se si fosse attardato in
qualcosa.» completò Zoal.
Kumals emise uno
sbuffo cinico «Forse voleva portarsi via qualche cosa per sé, che ne so,
qualche prezioso.». Tuttavia, avendo notato il particolare interesse di Zoal, anche lui risalì le scale, avvicinandosi loro,
studiando le loro espressioni.
«O meglio…»
disse Zoal «…qualcosa di
prezioso.»
Kumals li guardò bene
in viso, uno dopo l’altro, e si ritrovò contraccambiato dallo sguardo in cerca
di complice comprensione di Ramo.
«Volete dire…?»
cominciò, ma non completò la frase. Invece, muovendosi piano, come temendo di
spezzare un’illusione, si piegò di fianco al corpo riverso, e con il dovuto
rispetto infilò le mani tra gli abiti del morto, cercando, frugando, sotto gli
sguardi di sospesa aspettativa di Ramo e Zoal.
Infine, estrasse da una tasca
interna della giacca della livrea da maggiordomo un involto di fogli.
Li aprì piano, e li guardò con
attenzione, leggendo le righe.
Un lieve sorriso si disegnò sulle
sue labbra, e Ramo emise una breve esclamazione di vittoria, mentre anche Zoal accennava un pacato sorriso.
*
***
*
Il sole si avviava al rapido
tramonto invernale, rendendo la luce del giorno grigio fumosa, e accompagnando il
frettoloso ritiro delle ore tiepide della giornata, quando l’auto di Ramo si
fermò nello spazio deserto di un distributore di benzina alla periferia di CastleMac’Hearty.
Le portiere si aprirono una dopo
l’altra, sospinte dai passeggeri che discendevano: Kumals,
Ramo e Zoal posarono i piedi sul cemento compatto
della stazione di servizio, e si guardarono intorno, mentre i tre cani
scorazzavano, annusando incuriositi.
Di lì a poco Danza spiccava la
corsa in una direzione precisa. Ramo, che aveva già visto le figure che
correvano nella distesa di prato in discesa accanto al distributore, sorrise.
«Passa!» gridò Uther, ed Andrea calciò con forza verso di lui il pallone
da calcio nuovo di zecca, appena sottratto dal reparto giocattoli del negozio
del distributore di benzina. La palla rimbalzò debolmente sul prato, e rotolò
verso il ragazzo, notevolmente intralciata dall’erba alta morente. Prima che Uther potesse intercettarla, però, un latrato lo distrasse,
e un momento dopo un cane rossiccio e nero si abbatteva come un fulmine sulla
palla, addentandola come se fosse una preda ambita.
Uther si fermò,
guardando con cipiglio un po’ contrariato ma tutto sommato rassegnato Danza,
che trotterellava via contenta con la palla tra i denti.
Pochi momenti dopo però il cane
si ritrovava costretto ad accelerare, per tentare di evitare che un rapido
Danny gettatosi al suo inseguimento potesse sottrargli il trofeo. Ma Danza se
n’era accorta troppo tardi, e di lì a poco i due si ritrovavano a rotolare
avvinghiati nel prato, contendendosi testardamente la palla.
Un acuto fischio risuonò sul
campo erboso. «Rigore!» gridò ironicamente Kumals,
mentre Ramo si traeva dalle labbra le dita con cui aveva fischiato, e salutava
brevemente con la mano il gruppetto disperso nella penombra del sole calante.
«Heylà!»
li accolse di rimando Uther, distogliendo lo sguardo
dallo spettacolo di giocoso litigio che stavano offrendo Danny e Danza. Duca,
che li aveva raggiunti, li osservava con attenzione, aspettando il migliore
momento per intromettersi e soffiare loro il pallone con una rapida incursione.
Forse era per la filosofia ‘tra i due litiganti il terzo gode’.
«Ma dai, stavamo giocando!»
protestò Justin, sudato e spettinato almeno quanto gli altri, guardando con
preoccupazione la palla contesa. «Così lo rompete, dai, smettetela.»
Danny lo ignorava beatamente,
ridendo e strattonando giocosamente la palla tenuta dalla presa della mascella
di Danza.
«Allora vi siete dati al calcio?»
domandò Ramo, fermandosi accanto ad Andrea.
«Qualcosa del genere…»
sorrise la ragazza.
Ramo notò che aveva qualcosa di
strano nell’espressione, una specie di pallida ombra, ma non ebbe l’ardire di
interrogarla ulteriormente.
«La spesa?» chiedeva frattanto Kumals ad Uther.
«Eseguito!» rispose Uther, accennando un’ironica parodia di un militare. «E
voi?»
«Ah, è una faccenda un po’ complicata…» rispose Ramo, senza troppa convinzione.
«Cioè?» indagò Uther, serio.
«Prima richiamiamo quell’altro
là, và, che non ho voglia di ripetere il riassunto dieci volte.» disse Kumals, guardando Danny, ancora soddisfacemente
impegnato nella contesa della palla con Danza.
Ramo si ricacciò le dita in bocca
ed emise un altro acuto fischio. La colluttazione scherzosa si interruppe, e le
due facce di Danza e Danny si fissarono su di loro, immobili, l’una con le
orecchie rizzate, e l’altro mostrando una curiosa analogia con la canina
attenzione.
Ramo fece segno a Danny di
raggiungerli. Videro il ragazzo abbandonare a malincuore la presa sulla palla,
alzarsi e incamminarsi per raggiungerli, togliendosi sommariamente qualche filo
d’erba dai capelli arruffati.
Dopo aver lanciato sguardi
scontenti a Danza che si allontanava trotterellando con la palla ormai
semi-sgonfia tra le fauci, agitando la coda con ostentata soddisfazione, anche
Justin si risolse a dirigersi verso di loro.
Zoal si accomodò
seduta a gambe incrociate sul prato, ordinando le gonne attorno a sé,come una
regina dei gitani. Mama terminò la sua passeggiata
nei dintorni e si sdraiò poco discosta da lei, appoggiando la grossa testa
sulle zampe distese. Duca si sistemò seduto in grembo a Zoal,
guardandosi attorno come un signorotto assiso.
«Allora?» chiese Danny con
aspettativa, non appena li ebbe raggiunti.
«’Allora’ un accidenti.» lo
rimbrottò in amichevole scherzo Kumals. «Mentre voi
stavate qui a giocare, abbiamo dovuto rimettere a soqquadro la villa di Benton,
prima di trovare qualcosa.»
«Ramo l’ha trovata.» chiarì Zoal, quasi distrattamente, carezzando Duca.
«C’è bisogno di tutta questa suspance?» domandò Uther, con un
piccolo sorriso d’incoraggiamento.
Kumals gli scoccò
un’occhiata ironica, segno che l’osservazione lo aveva punto sul vivo,
distruggendo con abile mossa la sua costruzione un po’ teatrale. Si infilò una
mano in una delle ampie tasche dei pantaloni, ed estrasse un plico di fogli
ripiegato e piuttosto spiegazzato. Lo dispose, lo aprì, vi passò sopra le mani
per distenderlo, con ostentazione di importanza, sotto lo sguardo sempre più
criticamente divertito di Ramo, Andrea, Danny ed Uther.
Kumals, in apparenza
soddisfatto, si schiarì la voce, e smise di pettinare i fogli.
«Ecco qui. Il maggiordomo del
signor Benton è morto nel tentativo di portare in salvo questi preziosi documenti…» iniziò a spiegare. Passò un attento sguardo sui
volti impazienti degli astanti, esclusi naturalmente Ramo e Zoal,
e si schiarì di nuovo significativamente la voce. «E dopo attento esame posso
affermare senza ombra di dubbio…» proseguì «…che noi non sapremo mai cosa vogliono dire.»
Un pesante disappunto serpeggiò
tra tutti, mentre Ramo scuoteva la testa e Zoal
continuava tranquillamente ad accarezzare Duca.
«Come sarebbe a dire?» domandò un
po’ spazientito Danny, allungando una mano per prendere le carte.
Kumals tirò indietro
le braccia, sottraendo i fogli dalla sua portata. «Giù le zampe…»
disse con tranquilla sicurezza. Poi alzò i fogli in modo che tutti potessero
vederli.
Uther, Andrea e Danny
si sporsero in avanti, e si ritrovarono a guardare una serie di fitte righe.
Era perlopiù una successione di cifre, interrotta qua e là da una serie di
lettere a proposito delle quali tutto quello che si sarebbe potuto affermare
con sicurezza era che non appartenevano a nessun alfabeto che fosse loro
famigliare; il tutto tracciato dall’impeccabile segno netto di una stampante in
inchiostro nero sul bianco dei fogli.
«E che cosa mi dovrebbe rappresentare…?» commentò accigliato Uther.
«Per l’appunto, niente che noi
possiamo capire….» concluse Kumals,
prendendo a ripiegare i fogli.
«Sembrerebbe un codice binario, o
qualcosa del genere.» intervenne più appropriatamente Ramo.
«’Binario’… già, e noi dobbiamo
andare ad una stazione domani, no?»
Si voltarono a guardare Justin.
Lui li osservò a sua volta, e sghignazzò con l’aria di chi la sa lunga.
«E’ un gioco di parole, non
l’avete capito? ‘Binario’, ‘binari’…. Chiaro, no?» delucidò, ridacchiando tra
sé e sé.
Calò un corposo silenzio.
«E’ inutile che mi guardi a quel
modo.» disse Uther, in risposta all’espressione di Kumals «Noi è da stamattina che ce lo portiamo dietro,
vorrei ricordarti.»
«Ma insomma!» sbottò Justin, con
una nota di acuta irritazione della voce che fece sussultare un po’ gli altri.
«La volete smettere? Mi trattate sempre come uno scemo!» protestò.
Uther si voltò
completamente verso di lui, entrambe le sopracciglia parecchio inarcate, come
sfidandolo con lo sguardo a contraddire questa definizione.
«Siete solo dei…cosi… pieni di sé, ecco!» disse ancora Justin,
mettendo su il broncio.
«Senti, Justin…»
iniziò Danny bonariamente, trattenendo un sospiro, ma con tono abbastanza
comprensivo.
Le sopracciglia di Kumals ed Uther si piegarono
ulteriormente verso l’alto, e i due si scambiarono tra di loro un’occhiata che
non aveva bisogno di interpretazioni.
Justin si sedette sul prato con
aria seccata, e prese in mano un filo d’erba, iniziandolo ad annodarlo e
piegarlo senza preciso scopo, giocherellando e borbottando cose
incomprensibili.
Danny continuò a guardarlo per
qualche istante, poi si rivolse a Kumals «Ad ogni
modo, penso che…»
«Comunque io lo so leggere il
codice binario…» si udì borbottare Justin tra sé e
sé, in tono scontroso.
Danny si zittì. Lentamente
tornarono tutti a concentrare lo sguardo su Justin, che continuava a borbottare
tra sé e sé in tono sommesso ed incomprensibile.
Dopo essersi scambiati una lenta
occhiata tra loro, fu Kumals a schiarirsi la voce con
circospezione. «Come hai detto, Justin…?»
Il ragazzo interruppe i suoi
borbottii e rivolse loro uno sguardo assente. «Eh?»
«Dicevi…
a proposito del codice binario…?» riprovò Kumals, con aria tranquilla e disponibile.
«Oh dicevo che…
ah!» e Justin comprese improvvisamente. Allora un sorriso felino gli disegnò la
bocca, accompagnando un’espressione calcolatrice. «Certo…
tra una cosa e l’altra… io me ne intendo dei codici
di programmazione.» ammise, con l’evidente proposito di darsi importanza.
«Davvero…?»
insisté Kumals, con una certa cauta incredulità.
«Oh, eccome!» confermò Justin,
prima di riconcentrarsi sul filo d’erba che stava annodando casualmente,
mantenendo tuttavia la sua espressione studiatamente distratta.
Kumals si rivolse a
Danny. «Davvero?» chiese più direttamente.
Danny esitò «Bhe,
effettivamente… da che so ha lavoricchiato come informatico… e insomma, direi che ne sa abbastanza, sì.»
«Oh, bene. Che fortuna, Justin!»
esclamò allora amabilmente Kumals. «Quindi potrai
aiutarci a tradurre questi fogli.» disse con forzato entusiasmo, tornando a
dispiegare i sopraddetti fogli, agitandoli a mezz’aria con fare invitante.
Justin li degnò a malapena di
un’occhiata annoiata. «Sì, forse. Potrei.»
Kumals smise di
agitare i fogli, comprendendo il suo fallimento, e guardò gli altri, in cerca
di ispirazione o collaborazione. Danny corrucciò la fronte, Uther
alzò le spalle con aria irritata, e Ramo scosse la testa a mo’ di caustico
commento verso i modi e le intenzioni di Kumals,
mentre Zoal continuava ad accarezzare Duca con aria
assente, anche se qualche fremito delle sue sopracciglia segnalava che stava
seguendo l’avvicendarsi delle battute.
«Oh, secondo me non ne è in
grado.» A parlare era stata Andrea.
Kumals e gli altri le
rivolsero un’occhiata perplessa, ma l’attenzione di Justin sembrò risvegliarsi
di punto in bianco.
«Cosa vuoi dire?» chiese,
piccato.
«Bhe…
non che io ne sappia molto, ma so che ci sono codici diversi, e molti livelli
di programmazione informatica. Quindi, non è detto che tu sia in grado di
tradurre proprio questo codice. Sembra parecchio complicato, questo.» osservò
la ragazza con nonchalance.
Lo sguardo di Justin si adombrò,
e il ragazzo non poté impedire che un’espressione piuttosto offesa facesse
capolino sul suo viso. «Sembra un commento pretenzioso questo, visto che tu non
ne sai niente di informatica.»
«Già. Ma io ho la modestia di
ammetterlo, almeno.»
Justin la fissò per un po’,
corrucciato. Poi si alzò in piedi, senza smettere di guardarla con diretto
astio. «Bene, lo vedremo!» annunciò, con orgoglio ferito. «Allora?» si rivolse
poi a Kumals «Vediamo un po’ se sono capace o no!» e
gli prese i fogli di mano con furiosa determinazione.
Mentre gli altri si sforzavano di
mantenere impassibili le loro espressioni, Danny, che era alle spalle di Justin
ora, lasciò trapelare verso Andrea uno sguardo di ammirata sorpresa, contento e
grato. La ragazza, che fino a quel momento era stata impegnata a celare dietro
la scettica indifferenza rivolta a Justin un sorrisetto di vittoria, sul
momento gli rivolse un occhiolino, ma poi si sentì arrossire, e distolse lo sguardo
rapidamente.
Note dello scribacchiatore:
i
lettori più accorti avranno ormai capito che non bisognerebbe mai darmi retta
al cento per cento ^^ Dunque, ecco l’aggiornamento, quello che doveva uscire
lunedì scorso, ma dopotutto tra brighe varie esce oggi, del resto in tempo per
il ‘periodo medio di aggiornamento regolare’ che ho dichiarato qualche capitolo
fa. E anche il prossimo capitolo non farà eccezione, ci si risente tra sette-nove giorni!
Uther e Zoal camminavano tranquillamente nel sottobosco.
Intorno a loro, avvicinandosi,
allontanandosi, e in generale scorazzando liberamente, Mama,
Duca e Danza curiosavano e trotterellavano d’attorno, si soffermavano ad
annusare, esplorando, piazzavano qui e là qualche pisciatina
o qualche escremento, e ripartivano. Tirch si teneva
un po’ più d’appresso alle due figure che camminavano più avanti, quella di
Ramo e quella di Valentine, senza trascurare le sue
incursioni tra i cespugli, con spirito di cocente curiosità velato da una certa
prudente esitazione.
Le zucchette appese al bastone di
Zoal sbatacchiavano tra di loro e contro il legno
della verga, col loro sordo e crepitante rumore di sabbia, bacche secche e
rametti.
Fino a quel momento Zoal ed Uther avevano continuato
a camminare in silenzio, ascoltando distrattamente l’eco del chiacchiericcio
fitto e incomprensibile che svolgevano Valentine e
Ramo tra di loro, poco più avanti.
«Mi sembra di essere stata via
per anni, invece che solo per alcune settimane.» disse Zoal,
a calma e bassa voce, mormorando come rivolta al bosco, piuttosto che ad altri.
Uther annuì, con un
lieve sorriso di comprensione.«Ne avrai sentito la mancanza…»
commentò.
«Sì, devi aver ragione.» concordò
Zoal, senza porvi tutta la sua fiducia.
Tra il frusciare delle fronde
scostate dal loro procedere, Uther si schiarì la
voce, ma tacque.
Zoal disse «E’ un déjà-vunotevole… Di nuovo tutti insieme… Non siamo mai stati tutti riuniti qui così.
Allora, quando eravamo abituati a vivere insieme, vivevamo ancora in città, giù
a Razel. Ricordi, non è vero?» domandò, con dolcezza,
rivolgendo uno sguardo affettuoso ad Uther.
Egli sorrise, lo sguardo assorto in
qualche ricordo, ed annuì.
«Talvolta sembra che non siano
passati che pochi giorni… Talvolta sembrano anni,
secoli.» parlò ancora Zoal, con voce bassa ed
assorta.
«Già… »
asserì Uther, poco loquace.
Zoal lo guardò
ancora, intenta. «E Julie?» chiese.
Come colto di sorpresa,
l’espressione di Uther si riscosse, ed egli esitò,
stupendosene peraltro.
«Ci siamo lasciati. Circa sei
mesi fa.»
«Oh.» disse solo Zoal, lasciando poi che un rispettoso silenzio tornasse a
calare tra loro.
Ma Uther,
poco dopo, si sentì di dire di più. «Stavolta definitivamente, direi.»
«Mhmmhm.» annuì semplicemente Zoal.
«Di comune accordo, più o meno.»
disse ancora Uther.
«Capisco.»
Il ragazzo lanciò a Zoal una breve occhiata appena divertita, cercando di
capire se la donna fosse interessata a saperne di più. Ma la sue espressione
rimase ermetica. Allora lui sospirò brevemente, e scosse appena la testa, tra
sé e sé. «Te ne sei accorta, non è vero?»
Zoal si fermò, e lo
guardò con maggiore intenzione. «Non ci vedo nulla di male, Uther.»
gli disse, con calma sicurezza.
«Ah, tu no?» ironizzò lui, con
una certa amarezza.
Zoal comprese cosa
intendeva. «Non vorrai farmi dire banalità… Non
vorrai sentirle, no? Non ci crederesti, tu.»
«No.» concordò Uther «Quelle lasciamole pure a Kumals…
» e si impegnò a tirare fuori un sorrisetto, che risultò tuttavia tirato in una
sorta di smorfia piuttosto dolente.
Zoal sorrise, benché
egli ora guardasse altrove. Alzò un braccio, e gli appoggiò una mano su una
spalla, carezzandolo con gentilezza. «Ho capito che hai fatto una scelta
precisa. E so bene che per questo non sarà più facile. Ma nessuno di noi ti
porta rancore, o si è pentito. Anche se tu avevi le tue motivazioni, ognuno di
noi aveva le proprie, ricordalo. Per un caso fortunato, esse andavano nella
stessa direzione, in fondo.» C’era un che di dubbioso nel modo in cui aveva
pronunciato la parola ‘fortunato’.
Uther scosse un po’
la testa. «Questo discorso non vale per tutti…»
osservò.
«Vero. Ma se non ci sono state
nette obiezioni, da parte degli altri, c’è un motivo, o più di uno.»
Uther la guardò
attentamente, e Zoal gli tenne testa con sguardo
deciso, seppure addolcito da una profonda e solidale comprensione.
«Non si può sempre evitare tutte
le contraddizioni di una scelta. E so che tu non sei così, non è quello che
cerchi di fare, solitamente. Ma proprio per questo…
non posso fare a meno di preoccupar…»
«Io sto bene.» chiarì Uther, in tono di profonda affermazione, guardandola dritta
negli occhi.
«Tu sei forte.» Zoal gli afferrò la spalla in una presa decisa «Ma non
pretendere di essere sempre illeso. O ti trascinerai più a fondo.». Lo guardò
con più attenzione, come scrutandogli dentro gli occhi azzurri.
Uther fronteggiò per
qualche momento la sua occhiata, senza ostacolarla, e infine alzò brevemente le
spalle, e abbassò lo sguardo, con un sorrisetto. «Grazie, Zoal.»
Lo sguardo penetrante della donna
si stemperò di nuovo in un moto di affetto. «E di cosa?» mormorò con
tranquillità, lasciandogli andare la spalla.
Ripresero a camminare nel
sottobosco, sulla scia dei rumori dei cani e di Valentine
e Ramo.
«Solo un’altra cosa…» disse Zoal.
Uther la occhieggiò
appena, dandole segno di stare ascoltando attentamente.
«Per quanto possa essere… volutamente fraintendibile…Kumals di solito ha buone intenzioni. E credo le
abbia ancora. Più di quel che vorrebbe mai dare a vedere.»
Uther sorrise tra sé
e sé. «Lo so…» disse, come se fosse cosa risaputa,
che comprendeva benissimo, in fondo.
*
***
*
Nella cucina della casa di Yuta e Zoal, Danny e Yuta si erano impegnati in una partita a dama.
«Certo che si potrebbe farla con
i cicchetti…» mormorò Danny, mangiando una pedina di Yuta.
«Sono ancora le sette, Danny.»
osservò Yuta, mangiando una pedina di Danny.
«Hum…»
mugugnò il ragazzo, scontento della perdita. Fece una mossa e poi rivolse a Yuta un sorriso curioso «Da quando questo è un problema?»
«Da quando si è deciso che
domattina ci si alza presto per andare a Foelm.»
rispose Yuta, studiando la sua prossima mossa, il
viso appoggiato sulle dita intrecciate, i gomiti appoggiati al tavolo, accanto
ad una tazza fumante di tisana; i capelli, sciolti dalla coda di cavallo, le
ricadevano morbidamente intorno al viso: tra le ciocche castane facevano
capolino le treccine e i rasta colorati.
Andrea, che si era
auto-incaricata di collaborare alla cena, entrò nella stanza e si appressò ai
fornelli per dare una mescolata nel pentolone. Lanciò poi un’occhiata alla
partita, mentre si sedeva al bancone. Quindi guardò Justin. Il ragazzo si era
immerso in uno studio attento del codice binario che avevano trovato alla villa
di Benton, e questo aveva creato una gradevole assenza dell’eco della sua voce
nella casa.
«Come procede?» gli chiese.
Justin alzò la testa. «E’
abbastanza chiaro. Si direbbe un codice per installare un programma. Ma è bello
complicato… » sembrò avere un ripensamento «Niente
che io non possa tradurre comunque!» precisò, guardandola con sfida.
«Ah, ok.» replicò la ragazza,
fingendo una certa indifferenza, e prendendo a sbocconcellare il pezzo di pane
con olio piccante che si erano preparati come antipasto.
«Kumals
sta ancora studiando i libri del Conte?» domandò Danny, a nessuno in
particolare, assorbito dallo svolgimento della partita.
«Sì.» rispose Andrea. «Ma non gli
ho chiesto a che punto era…»
«Meglio così.» commentò Yuta.
Andrea la guardò
interrogativamente.
«Meglio lasciarlo stare, quando è
così impegnato, o si irrita per un nonnulla.» spiegò Yuta
tranquillamente, mangiando un’altra pedina di Danny, e sorridendo lievemente
nel notare il corrucciarsi del ragazzo.
«Aha!»
gridò Justin. Gli altri tre sussultarono, e si voltarono a guardarlo con
espressioni dalla varia gamma di disappunto infastidito.
Justin alzò lo sguardo verso di
loro, con il fare fiduciosamente ottimistico di chi ha appena avuto
un’importante illuminazione rivelatoria. «Ecco perché
non capivo questo pezzo! Manca un foglio!»
Gli sguardi degli altri si
incupirono e scoraggiarono. Danny in particolare pensava alla reazione di Kumals quando avrebbe appreso questa novità. «Ne sei
proprio sicuro?» domandò, in un ultimo debole tentativo di indurre Justin a
ricredersi.
Il ragazzo stava sfogliando tutti
i fogli, ricontrollando «Sì sì, qui manca un foglio. E per ora. Non ho ancora
codificato tutto, può darsi che avanti ne manchino degli altri.»
«E questo quanto è grave? Voglio
dire, senza quel foglio quel codice è inutilizzabile?» indagò Yuta.
«Non saprei…
» rispose Justin «Sono ancora alla prima lettura, ne serviranno almeno altre
due per arrivare a capire bene questo tipo di programmazione. È complicata e
arzigogolata, mica roba tipo per la grafica di un sito…
Piuttosto tipo programmazione per qualche sistema di macchina industriale, o
anche roba missilistica…Hey,
mica esagero!» esclamò, accorgendosi degli sguardi un po’ scettici degli altri.
«Insomma, dici che quello sarebbe
il codice per far partire un razzo?» chiese Andrea, in tono chiaramente poco
persuaso.
«Non ho detto proprio un razzo!»
si schernì Justin «Ma qualcosa di complicato lo è. Inoltre, si basa su un
codice strano… sembra roba runica, in certi punti… voglio dire, lo schema è quello basilare, anche se
molto complicato in specifici particolari, di un programma di installazione; ma
prevede anche molti punti in cui si fa uso di altri linguaggi, come per
comunicare messaggi particolari a chi utilizza il programma…
e questi altri linguaggi non li conosco. Sembra roba da intellettualoidi, o
studiosi di roba antica, archeologia insomma… E’ ben
strano, sì.»
«Mhmm…
forse Zoal potrebbe contattare qualcuna delle nostre conoscenze… se è un linguaggio del tipo runico, forse
conosciamo qualcuno che potrebbe interpretarlo…»
accennò Yuta.
«Sì? Bhe,
tanto meglio, perché io di quella roba non ci capisco nulla.» commentò Justin.
«Comunque questa pagina mancante è proprio irritante, sì!»
«Che vuoi farci…
magari ne sapremo qualcosa di più domani.» ribatté Yuta,
con un’alzata di spalle. Non vedeva alcun motivo di insistere suun particolare fastidioso, sul quale al
momento non potevano farci niente. Perciò, detto ciò, continuò a concentrarsi
sulla partita. La sua mossa, con la quale giunse a fare damone,
riattirò rapidamente sulla scacchiera anche
l’attenzione di Danny. Andrea sospirò appena, silenziosamente, e tornò ad
alternare il seguire la partita di dama, al rimescolare il minestrone, al
curiosare le pagine di un libro per riconoscere le erbe selvatiche curative,
che aveva trovato lì in casa.
Per questo, quando Justin decise
di scivolare giù dallo sgabello, tenendo i fogli in mano e mormorando tra sé e
sé, nessuno gli rivolse particolare attenzione. Quei giorni di convivenza
avevano insegnato a tutti loro che dedicare una qualche attenzione alle azioni
di Justin si sarebbe immancabilmente rivelato perlomeno noioso e quasi sempre
irritante; quindi, ormai, per pura abitudine lo ignoravano.
Il ragazzo, borbottando tra sé e
sé, si aggirò per un po’ a larghi passi per la stanza, col viso concentrato sui
fogli; non riusciva proprio a darsi pace per la mancanza di quella pagina. Fino
a quel momento aveva svolto un lavoro piuttosto buono, era riuscito a capire la
maggior parte del significato del codice di installazione e, di conseguenza,
anche qualche cosa di ciò che implicava lo svolgimento del programma di cui il
codice parlava. Poi, ecco che scopriva la mancanza di quella pagina.
Fastidioso.
All’improvviso nell’irritazione
di Justin spuntò una speranzosa idea, nel mentre che il suo sguardo, alzatosi
dai fogli, incappava casualmente nel grosso pastrano di Kumals,
lasciato abbandonato sopra a una pila di cassette di frutta e verdura, in un
angolo della cucina. Forse quella pagina non era proprio mancante…
forse, piuttosto, era andata perduta nel trasporto del plico, rimanendo a
vagare in una delle tasche del cappotto.
Mentre così pensava, Justin si
avvicinò all’indumento.
«Ma forse è rimasta in una di
queste tasche!» esclamò a bassa voce, infilando una mano in una delle tascone più grandi del cappotto provato dall’usura.
Gli occhi di Yuta
e Danny si allargarono di colpo, nel mentre che i due realizzavano il senso
delle parole di Justin, già pochi secondi di ritardo rispetto a quando erano
state pronunciate.
«No!» «Fermo!» esclamarono
precipitosamente, voltandosi verso di lui, e facendo voltare allarmata anche
Andrea. Ma era troppo tardi.
Di fronte ai tre sguardi, Justin
sparì, risucchiato all’interno della grossa tasca.
Andrea emise un breve urlo di
sorpresa, balzando in piedi, spaventata, mentre Danny, che aveva spiccato un
salto dallo sgabello su cui era seduto verso il cappotto, si ritrovò accanto ad
esso, nello spazio vuoto lasciato da Justin.
Fu come se l’atmosfera nella
stanza si fosse congelata. I tre rimasero immobili, impotenti, guardando con
costernazione, paura, sorpresa e amarezza il giaccone, e constatando la
scomparsa effettiva di Justin.
«Cosa…?»
mormorò Andrea, in tono di lamentoso spavento, senza ricevere risposta,
nonostante fosse evidentemente confusa, in piedi accanto al bancone della
cucina, irrigidita e incerta sul da farsi, mentre tentava invano di dare un
senso compiuto a ciò che era appena accaduto.
Quando pochi momenti dopo Kumals entrò nella cucina, la scena irrigidita era ancora
la stessa. Ma l’uomo, impegnato in sue speculazioni, avanzò con un librone
antico in mano verso di loro, e iniziò a dire «Penso di aver trovato qualcosa.
In questi giorni ho consultato un po’ i libri del Conte, che non sono tutta
paccottiglia dalla mentalità ciecamente superstiziosa e fantasiosa dopotutto,
anche se non mancano diversi viaggi puramente immaginativi, ma…».
E qui Kumals, finalmente, realizzò lo strano clima
concentrato nella stanza, e si interruppe, mostrando un’attenzione un po’
irritata, perché realizzava che in effetti tutto quel silenzio colmo di
tensione non era rivolto alle sue parole.
«Cosa succede?» chiese infine,
nel trovarsi vistosamente ignorato.
Tutto ciò che ebbe per risposta,
inizialmente, fu l’alzarsi di un braccio un po’ tremante di Andrea, che puntava
un dito verso qualcosa. Ne seguì la direzione, e si trovò a guardare il suo
pastrano, appoggiato tranquillamente sulla pila di cassette su cui appunto
l’aveva lasciato. Notò che era in effetti quello che stava calamitando anche
l’attenzione di Danny e Yuta. Ma tutto questo formava
un indizio insufficiente, per lui.
«Allora?» insisté, in tono più
deciso, cercando di capire nel frattempo perché Danny si trovasse vicino al suo
cappotto, e lo fissasse come se stesse meditando come attaccarlo.
Yuta, finalmente, si
volse a guardarlo, con aria sospesa tra un addolorato rammarico e una
grottescamente incredula constatazione. «Credo che il tuo cappotto si sia
mangiato Justin…»
Kumals la fissò,
cercando qualche traccia di scherzo nella sua espressione. Non trovandolo,
aggrottò le sopracciglia, appoggiò sul bancone il libro che aveva in mano,
ostentando una calma forzata nei suoi gesti, e disse, con composta serietà,
velata da una notevole contrarietà «E come sarebbe successo, di preciso?»
Anche Danny si voltò a guardarlo,
pallido «E’ stata colpa nostra… Non abbiamo fatto in
tempo ad avvertirlo… Chi si sarebbe immaginato che…? Insomma, un momento prima era qui, e poi ha infilato
una mano nella tasca e…». La sua voce già tremolante
si spense.
«Ma com’è possibile?» gridò,
quasi istericamente, Andrea, guardandoli uno per uno, risultandole impossibile
assimilare tanta mancanza di vera e propria sorpresa.
Kumals stava
considerando con cupo cipiglio il suo stesso pastrano. «E come diavolo gli è
venuto in mente di mettersi a frugare nelle mie tasche?» domandò severamente.
«Cercava una pagina.» spiegò Yuta, distogliendo lo sguardo guidato dalla volontà di
calmarla dal viso di Andrea. «Sembra manchi una pagina dai fogli che avete
trovato alla villa.»
«Pensava che fosse rimasta nel
tuo cappotto…» completò amaramente Danny, continuando
a guardare l’indumento con sguardo rancoroso.
Kumals si portò le
dita alla fronte e sospirò lungamente. «D’accordo…bene… » commentò, con tono evidentemente irritato. «Quello
stupido, stupido! Che diavolo, avremmo dovuto legarlo!»
«Non…
non è la prima volta che quel coso… » ed Andrea
alluse con un cauto accenno della testa al cappotto «…facosì…?» e il suo tono si spense in una nota molto
vicina a quella di un gemito.
Kumals passò di fianco
a Danny e raccolse il suo pastrano, infilandoselo addosso, sotto gli occhi
stupiti e spaventati di Andrea. «No.» le rispose «Non con chi gli infila le
mani in tasca, se non sono io. E d’altra parte, non vedo proprio perché una
persona con un minimo di cervello dovrebbe farlo, piuttosto che venire a
chiedere a me!» aggiunse, stizzito.
«Ma…»
tentò ancora Andrea, mentre ancora il sangue stentava a ricolorarle le
pallidissime guance «…tu puoi farglielo…hem… risputare? Cioè, dove è finito…?
Non può essere dentro la tasca… non ci sta! È troppo
grande!»
Kumals la guardò,
serio, ma ora animato anche da un certo desiderio di voler essere rassicurante.
«Questo non è proprio un cappotto comune. Ha alcune…
eccezionali proprietà. Io stesso non le conosco appieno, anche se questo
scherzetto gliel’ho già visto fare. In un certo senso…
si potrebbe dire che ha vita propria, e una propria volontà. Posso venirci a
patti, c’è una specie di tregua tra noi. Ma questo non implica che io gli possa
ordinare alcunché. Non posso perciò indurlo a ‘risputare’ – e qui hai scelto
una parola appropriata – quel cretino patentato. Però, non credo che gli
interessi fare del male a Justin. Semplicemente, ha reagito alla sua azione
invasiva e sconsiderata. E probabilmente ora Justin si trova nella tasca, ecco
tutto.»
«Ma forse c’è un modo per farglielo…hum… ‘risputare
fuori’…» insisté Danny, ancora immusonito e amareggiato.
«Se c’è, non lo conosco.» ribatté
Kumals.
«Non…
non potresti… chiederglielo?» suggerì con voce
stentorea Andrea.
Kumals la guardò, con
un lievissimo accenno di triste sorriso. «Purtroppo le cose non sono così
semplici. Comunque, gliene parlerò.»
«Vuoi dire che ci parli?!» chiese
incredula la ragazza.
«Non proprio…»
obbiettò Kumals «Cioè, forse capisce ciò che dico, mi
sente quando parlo ecco. Ma non è che mi risponda. A volte, ove gli sembra
opportuno, prende seriamente in considerazione la mia opinione, e talvolta, se
gli sembra giusta, la mette in pratica in qualche modo. Ma intrusioni come
questa lo infastidiscono particolarmente. Ora come ora sarebbe difficile che
accettasse di discutere della cosa. Credo che per lui ora Justin meriti di
stare confinato nella tasca che ardiva tanto esplorare.»
Andrea li guardò uno ad uno,
lentamente, ancora incredula e notevolmente spaventata. Infine si mosse; a
grandi passi uscì dalla stanza, quasi rifilando una spallata a Danny, che si
spostò appena in tempo, e girando alla larga da Kumals
e dal cappotto che indossava. Se fosse stata più padrona di sé, in quel
momento, probabilmente avrebbe sbattuto la porta della cucina con rabbia,
uscendo.
Danny si chiese se seguirla,
mentre Kumals guardava la porta dalla quale era
uscita con un sopracciglio alzato. «Non credevo che ci tenesse così tanto a
Justin.» commentò.
«Oh, non fare il solito!» si
indispettì Yuta, alzandosi a sua volta «A nessuno
piace vedere un cappotto che si pappa una persona così, come se niente fosse.».
«Vado a parlarle in maniera più
normale. Ma non so se saprò darle una buona motivazione per non andarsene
immediatamente da qui.» chiarì Yuta, uscendo dalla
stanza.
Danny cancellò da sé con sollievo
l’idea di doversi incaricare di seguire lui Andrea per parlarle. In effetti,
stavolta non avrebbe saputo esattamente cosa dirle, per quanto ci tenesse a non
lasciarla da sola a confrontarsi con ciò che aveva appena visto. Questo suo
sussiego, inoltre, lo lasciava perplesso. Non era la prima volta che qualcuno
che non era abituato a ciò assisteva a qualche “performance” del genere… e tuttavia lui non si era mai sentito in dovere di
occuparsi in qualche modo del fatto che le certezze materiali di quella persona
erano state messe brutalmente in crisi. Semmai, in qualche caso era stato
divertente. Ad ogni modo, comunque, quella faccenda gli rimordeva
particolarmente, specialmente per Justin. Per questo si ritrovò a voltarsi
verso Kumals, con nervosismo.
«Ma dovevi proprio lasciarlo in
giro il cappotto?»
Kumals lo guardò.
«Sarebbe a dire:doveva proprio mettersi a frugare nelle mie tasche?»
«Avanti.» ribadì seccatamente Danny, cercando di indurre nell’altro più
onestà di giudizio «Non ti sembrerà paragonabile il fatto che Justin, che sai
benissimo essere fatto così al naturale e non per propositi maligni, ti abbia
infilato una mano in tasca, tra l’altro per la ragionevole motivazione di
cercare la pagina mancante, e il fatto che quel “coso” l’abbia ingoiato!»
Kumals sembrò
rifletterci per qualche momento, ma alla fine disse «Non dipende certo dal mio
giudizio. È stato lui a decidere. Intendo lui…» e
toccò il pastrano che indossava «…non Justin. Anche
se, da un certo punto di vista, in effetti è stato Justin a cacciarsi in questa
situazione, e quindi ad aver scelto…»
«Kumals,
dici stronzate, e lo sai.» disse Danny, guardandolo con decisione e una certa
rabbia.
Lo sguardo dell’altro si adombrò
per un momento, ma infine, accettando lo stato alterato di Danny,e comunque comprendendolo, alzò le spalle.
«Magari lo risputerà fuori. Di solito non è proprio così severo.»
«Intendi che ha risputato fuori
anche gli altri che ha ingoiato prima?» domandò Danny, interessato.
Kumals rimase in
silenzio per qualche momento, infine domandò, col chiaro proposito di cambiare
discorso «Quindi mancava una pagina da quei fogli?»
Il morale di Danny scese molto al
di sotto del livello del terreno.
«Beh, magari possiamo comunque
tradurre il resto… mi pare che Zoal
accennasse al fatto che forse conosce qualcun altro che potrebbe…»
«Anche le pagine sono finite
nella tasca. Justin le aveva in mano.» lo interruppe con voce cupa Danny.
Kumals lo guardò, come
per accertarsi che dicesse il vero. «Oh.» commentò, corrucciato.
Danny gli rivolse un’occhiata di
fuoco, e infine uscì anch’egli dalla stanza, con passo irato.
Nella sua marciafrustrata, per poco non sbatté addosso ad Uther, che rientrava in quel momento in casa, ignorò i
tentativi di fargli le feste di Tirch e Danza, e
l’amichevole scodinzolare di Duca, tagliò sgarbatamente la strada a Mama, non degnò di uno sguardo Zoal,
né l’aria interrogativa di Valentine o l’inizio di
saluto che gli stava rivolgendo Ramo, e uscì fuori.
Uther, Valentine, Zoal e Ramo rimasero a
fissare per un po’ la figura dell’amico, che attraversava il breve spiazzo
attorno alla casa e spariva nel bosco, trasudando una profonda rabbia.
Uther entrò in cucina
e concentrò il suo sguardo su Kumals, che sedeva al
bancone, sfogliando le pagine di un librone consunto di quelli che il Conte si
era portato appresso.
Kumals non alzò lo
sguardo per un po’, ma quando si decise ad affrontare l’espressione
interrogativa e accusatoria di Uther, e quelle in
attesa di spiegazione degli altri che lo avevano seguito entrando nella stanza,
disse «Credo di aver trovato qualcosa di interessante, su questi libri.»
Il viso di Uther
si ombreggiò decisamente.
Si conoscevano troppo bene perché
Kumals potesse eludere in quel modo l’ostinata
attenzione che l’ex-collega gli stava rivolgendo con cocciutaggine quasi
feroce.
Kumals si riscoprì
spinto a prepararsi, tra sé e sé, un’improvvisazione di difesa, e questo lo
indispettì ulteriormente, ma non lo indusse a parlare subito, per raccontare
quanto accaduto.
Note dello scribacchiatore:
e
fuori un altro. Sempre di capitoli intendo, naturalmente :p
Capitolo 31 *** 29 - IL SOGNO DEL LEONE MARINO ***
Capitolo 29
(IL SOGNO DEL LEONE MARINO)
Erano le prime ore della mattina
quando Andrea, terminato da poco di fare colazione, uscì dalla casa dalle
pareti lilla dispersa in mezzo alle boscose colline intorno a CastleMac’Hearty.
Abbigliata alla bell’e’meglio con i soliti strati di vestiti prestatigli dalle
ragazze della casa, che le andavano un po’ larghi, e la facevano sembrare
ancora più piccola, uscì nell’aria pungentemente
fredda del mattino, trattenendo appena il fiato nel passare dal tepore della casa
alla rigida temperatura invernale.
La prima cosa che vide, dal
momento che si aspettava di trovare il piccolo piazzale di terra battuta che
circondava la casa ancora deserto, furono le due figure che invece lo
occupavano. Una era quella di un cavallo dal manto rosso scuro, quasi marrone.
La ragazza si fermò dove si trovava, tentennante.
L’animale se ne stava fermo,
lasciando tranquillamente che Yuta gli carezzasse
ruvidamente il muso vellutato, parlandogli con familiarità confidenziale. Ma
sentendo uscire qualcuno il cavallo aveva alzato testa, orecchie e sguardo
verso Andrea, e ve li teneva tutt’ora puntati. Yuta
le sorrise gentilmente.
«Buongiorno.» la salutò, e,
notando il suo sguardo, aggiunse «Ti presento Artax.»
«Come il cavallo de ‘La storia infinita’…» disse quasi di getto Andrea, risposta
istintiva.
«Sì!» disse Yuta,
mostrandosi contenta che l’altra avesse subito riconosciuto l’origine del nome.
Il cavallo, invece, emise un
sonoro sbuffo, agitò un po’ la testa nervosamente, sottraendosi ad un tentativo
di carezza di Yuta, e si mosse. Senza particolare
fretta si girò e si allontanò, sparendo ben presto nel bosco.
Andrea guardò Yuta,
piuttosto confusa. «Ma… se ne sta andando…»
notò, come se non fosse ovvio. La sua interlocutrice tuttavia sembrò comprendere
cosa voleva dire, e annuì con aria tranquillizzante.
«Sì, sono abituati a girovagare
per i fatti loro nel bosco. Quando hanno fame o vogliono ripararsi al calduccio
vengono qui…» e indicò la tettoia, chiusa su tre
lati, e in parte ingombra di balle di fieno, che occupava una parte del piccolo
piazzale, poco discosta dalla casa.
«Cioè sono…
selvatici?» chiese ancora Andrea, non proprio sicura di aver capito.
«No no, li abbiamo portati noi
qui, e ci conoscono. Siamo in buoni rapporti, per così dire. Ma se la passano
meglio nel girare qui nei dintorni, curiosare, correre, cose così.»
«Quindi ce ne sono degli altri.»
«Tre in tutto.» le rispose Yuta, con un sorriso contento. Poi si portò le mani sulle
braccia e si sfregò un po’ i palmi sulla giacca che indossava. «Brrr!» rabbrividì, battendo un paio di volte gli scarponi
da montagna sul terreno. «Oggi fa freddo sul serio…
Speriamo che non nevichi.» concluse, lanciando uno sguardo scrutatore al cielo
semi-oscurato da una lenta migrazione di nuvole grigie.
La ragazza, già alta per natura e
dotata di lunghe gambe flessuose, aveva un abbigliamento più sportivo del
solito. Al di sotto della giacca da montagna, un vecchio modello color terra
scura che le terminava poco al di sotto delle anche, spuntava un paio di pantaloni
di stoffa pesante, e a giudicare dal volume dovevano essere solo il paio di
pantaloni più esterni. I capelli castano chiaro, mossi e intricati di treccine
e rasta colorati, se li era legati più strettamente del solito nell’alta coda
di cavallo. Aveva le guance un po’ arrossate dal freddo, sopra alle quali gli
occhi dal taglio allungato, ambiguo per natura, rilucevano vivaci.
Andrea andò verso di lei, e notò
allora che, vicino ai piedi di Yuta, erano poggiati
due singolari oggetti. Di dimensioni abbastanza cospicue, cioè grandi
pressappoco come una coscia del cavallo che aveva appena incrociato, erano
ognuno a forma di cerchio un po’ schiacciato da una parte; entrambi celati da
un involto di panni di tessuto resistente, legato dall’attorcigliarsi di sottili
corde da arrampicata, rivelavano ciascuno una sorta di stringa, che usciva
dall’involto e serpeggiava sul terreno. Questa “stringa” sembrava fatta di
crine di cavallo, pitturato, decorato con perline, intrecciato a costituire un
unico filamento dall’aria resistente.
Yuta aveva
intercettato lo sguardo curioso di Andrea, e sorrise appena tra sé e sé.
«Questi?» disse, senza aspettare la domanda «Sono i miei “oggetti utili”.»
E sotto lo sguardo di Andrea si
chinò su di essi, e prese a privarne uno dall’involto, con calma. «Te li faccio
vedere.» offrì.
«Ok…»
mormorò Andrea, emettendo una nuvoletta di respiro condensato nell’aria fredda.
Le mani in tasca, stringendosi un
po’ nelle spalle, indagò con sguardo vivacemente curioso ogni particolare
dell’oggetto che si andava rivelando poco a poco. Quando alfine Yuta tolse del tutto il tessuto “da imballaggio”, e tornò a
rialzarsi in piedi, Andrea vide che impugnava una specie di cerchio di
materiale duro, forse un qualche tipo di osso, rivestito da uno strato metallico
simile all’ottone e di colore rameico, che si interrompeva per un tratto
centrale un po’ più sottile, rivestito da una spessa fasciatura fatta con una
striscia di quello che sembrava caucciù. Questo per quanto riguardava
l’impugnatura, che consisteva in poco meno di metà del cerchio, quella parte
più dritta. Il circolo era completato da una lama ricurva, che scintillava
vividamente e freddamente nella pur relativamente scarsa luce della mattina
invernale. Sembrava il sinistro sorriso di un’affilata falce di luna.
«Che…
cos’è?» chiese Andrea, soffermandosi ancora a guardare l’oggetto.
Yuta sorrideva
ancora, orgogliosamente quasi. «Un’arma.» esplicitò, soppesandola in mano con
fare abituato. Per come la impugnava, stringendo saldamente la mano intorno alla
parte avvolta nel caucciù e tenendo la lama rivolta all’esterno, la stringa di
crine pendeva a mezz’aria, verso il terreno. Andrea stentava ad immaginare come
i vari particolari dell’oggetto potessero collaborare nella realizzazione di un
qualche specifico uso, ma l’espressione fiduciosa della ragazza valeva a
convincerla che lei sapesse come utilizzare quella singolare arma al meglio.
«Le ho costruite io.» raccontò Yuta, mentre continuava a soppesare lo strano cerchio, come
prendendo confidenza con qualcuno che non si rivede da qualche tempo,
purtroppo. «Sembra passato tanto tempo… E’ solo che… » continuò, con aria quasi intimidita da un vago senso
di colpa «…da quando non esiste più il gruppo dei ‘4
di picche’… Beh, non ho avuto molte occasioni in cui mi
sarebbe stato utile usarli. Tutto sommato, però, credo di saperci ancora fare
discretamente bene.». Yuta ammiccò, con un fare
volutamente quasi caricaturiale, che indusse Andrea
al sorriso.
«Va bene, sarà il caso che le
metta via… Credo di essermi pavoneggiata abbastanza.»
concluse ironica Yuta, chinandosi e tornando ad
avvolgere l’oggetto nei pezzi di tessuto dalla cui protezione l’aveva
sottratto.
Guardandola, Andrea rifletteva
tra sé e sé. Di momento in momento saltava fuori qualche particolare nuovo e
sempre più inverosimile, lì in quel gruppo di persone. Eppure, tutti loro si
muovevano tra e convivevano con quelle molteplici stravaganze, talvolta
sinistre, talvolta inquietanti, talvolta pericolose…
- e qui Justin le ritornò significativamente alla memoria – e tal’altra volta
semplicemente bizzarramente curiose, come se trovassero il tutto perfettamente
comune.
Andrea ancora aspettava il
momento in cui semplicemente non ce l’avrebbe fatta più: il momento in cui
l’estraniamento, l’accumulo di violenta e a volte allarmata sorpresa, lo
spaesamento e l’incredulità le sarebbero alfine piombati addosso tutti insieme,
forti dell’abbondante scorta con cui li aveva collezionati su di sé in quelle
ultime ore. A tratti si era per così dire quasi sdraiata ad aspettarli,
convinta che erano lì lì per arrivare, o che erano
già arrivati e si stavano consultando tra di loro per trovare un comune accordo
sul preciso istante in cui aggredirla. E lei era convinta di essere inerme nei
loro confronti, su questo non si faceva illusioni.
Eppure eccola ancora lì. Ogni
volta che si era arresa, aspettando di crollare sotto quell’attacco fenomenale,
ogni volta, dopo un’inutile attesa, si era rialzata, andando incontro al prossimo
avvenimento paradossale con una sorta di irreale rassegnazione; e quell’evento
era sempre immancabilmente giunto, ancora più o meno fuori dal normale rispetto
a quello che lo aveva preceduto.
Eppure, in quel modo
fastidiosamente insistente e scorrevole, eccola ancora lì, indenne.
Fino a quel momento aveva pensato
di essere sospesa su un filo sottile, andando avanti con la pretesa di potersi
mantenere in equilibrio dopotutto, anche se perfettamente consapevole che da un
momento all’altro avrebbe messo un piede in fallo. Invece ora iniziava a
sospettare, un poco e senza osare confessarlo a se stessa, di essersi ormai
abituata a quel camminare sospeso. Da qualche parte, in qualche punto, doveva
aver sorpassato il limite delle cose alle quali era disposta a credere come
effettivamente esistenti, e non se n’era accorta. “Facile” come varcare le
soglie da un mondo all’altro. E dopotutto il suo “mondo” era cambiato
parimenti, volgendosi a una quotidianità in cui le persone avevano lasciato
deserte le città per vagare in gruppi di umani preda di una sorta di decisa demenza
collettiva; tutto con la placida naturalezza con cui un leone marino si
volterebbe sull’altro fianco, sdraiato sulla banchina ghiacciata a prendere un
po’ di sole, sprofondato in un semi-inconscio sonno soddisfatto.
E ora Andrea non era al punto di desiderare
disperatamente di chiudere gli occhi, di rifugiarsi in un angolo aspettando che
la tempesta passasse, concentrando tutta la sua energia residua sul
basilarmente istintivo desiderio di rimanere incolume, decisa ad abbandonare il
suo rifugio nel rifiuto solo quando tutte le cose spaventose fossero ormai
passate oltre, lasciando quel che lasciavano dopo il loro passaggio. Era dentro
la tempesta, e il desiderio profondamente radicato di ricorrere a quel rifugio
era stato spazzato via dalla tempesta stessa, o indebolito; poteva rammentare
giusto di averne sentito ancora la tentazione, vacua come il ricordo di un
sogno confuso al secco risveglio, tempo prima, non avrebbe saputo dire quanto
tempo. E poi più niente; non aveva idea di come l’aveva perso, quel desiderio,
anche se si ritrovava a volte a provarne una malinconica mancanza.
«Tutto bene?» le chiese Yuta, sfiorandole una spalla con la mano. Il suo tono non
aveva niente di commiserante, anche se Andrea non avrebbe saputo immaginare un
tono di tipo diverso abbinato a quella frase, se non l’avesse sentita
pronunciare proprio in quell’indefinibile modo.
«Sì.» disse, annuendo «Stavo solo
ripensando… cercando di rimettere un po’ in ordine le
idee, insomma.» ammise, con un sorriso in cerca di comprensione. La trovò negli
occhi franchi di Yuta.
«Sei sicura di voler venire anche
tu?» le domandò.
«Sì, davvero…
» rispose Andrea, con calma determinazione.
Yuta la guardò in
silenzio per qualche istante, e infine annuì, come se stesse rispondendo anche
a qualcosa che si era chiesta fra sé e sé. «Bene. Allora, scusami se ti parlo
in questo modo… Ma vedi, gli altri li conosco. E
questo mi permette di conoscere all’incirca la misura della loro abilità nel
cavarsela nelle situazioni. Te non ti conosco abbastanza. Quindi perdonami se
dico una sciocchezza. Ad ogni modo, volevo dirti: nel caso ti trovassi in
difficoltà, o se anche solo ti senti minacciata, resta abbastanza vicino a
qualcuno di noi. Sapremo coprirti le spalle.»
Andrea rimase per un momento in
balia dell’occhiata densa di sicura affermazione di Yuta,
e dell’eco delle sue parole, pronunciate con eloquente serietà di intenti. Si
sentì invasa da un commosso sollievo, e riuscì solo ad annuire, ricambiandole
lo sguardo con gratitudine.
La pelle agli angoli degli occhi
dalla forma sinuosa di Yuta si arrugò,
rivelando l’impronta netta di un sorriso sincero.
Andrea, piuttosto intimidita
dall’aperta e generosa lealtà della ragazza, ritrovò la voce e il filo dei
pensieri, e si ritrovò a domandare «A questo proposito…Voi… sembrate così… come
dire? ‘Abituati’. Non sembrate mai molto sorpresi…
Anche se succedono cose molto strane qui. E quindi…
insomma, mi chiedevo, cosa sarebbe esattamente questo gruppo…
questo ‘quattro di picche’?»
L’espressione di Yuta tornò seria, ed Andrea vi lesse un accenno di indecisa
esitazione. Ma infine la ragazza si decise a parlare. «Sarebbe difficile da
dire in due parole… Comunque, proverò a dirti
qualcosa.». Ciò detto, Yuta si accomodò meglio,
infilandosi le mani in tasca e lasciando vagare lo sguardo in lontananza mentre
parlava, come a caccia di ricordi e di parole accortamente misurate.
«Io, Zoal,
Kumals, Ramo, Danny ed Uther
ci siamo incontrati in modi diversi, in situazioni diverse e in momenti
diversi. Ed alla fine solo tutti insieme eravamo i ‘4 di picche’.
Il nome l’abbiamo tirato fuori una sera, ridendo e scherzando, perché era un
periodo in cui Ramo, Danny, Uther e Kumals si davano da fare con un certo successo;
guadagnavamo abbastanza bene, nessuno di noi si era messo eccessivamente nei
guai nell’ultimo periodo, ed eravamo ebbri di fiducia nel nostro progetto. Che
si trattava, sostanzialmente, di cercare di risolvere varie situazioni diciamo
“paranormali”. E intendo ciò che la maggior parte della gente intende per
“paranormale”, non quando, credendosi di appartenere a tutto un sistema di
realtà perfettamente organizzata, calcolata e dotata di confini che definiscono
il concetto di ‘normale’, decide di ergersi a giudice delle varianti che
giudica inaccettabili, squalificandole con il semplice rilegarle fuori dai
confini in cui pretende di auto-rinchiudersi. No, ecco, io mi riferisco a quei
fenomeni che per qualche motivo sembrano ‘inspiegabili’, e in genere
‘inquietanti’ o ‘spaventosi’. Banalizzando, e facendo riferimento al genere horror,
potrei dirti ‘fantasmi’ e ‘demoni’ o chennesò… Ma a
dir la verità, niente di quello che abbiamo incontrato era mai esattamente ciò
che si potrebbe definire in una sola parola, o in una serie di sinonimi. Beh… la varietà di ciò che “esiste” è sempre molto più
vasta e varia di quanto potrebbe essere racchiuso in qualsiasi codice
interpretativo, o anche in un immenso archivio di testimonianze. In un certo
senso, credo che sia per questo che tra di noi ci trovavamo così bene. Nessuno
di noi ha mai provato a cercare di dare un senso conciso e preciso, di
interpretare nettamente, di codificare, tradurre in maniera finita, di trovare
schemi comuni a tutto ciò di cui abbiamo avuto esperienza nella nostra… “attività”. Insomma, tu non mi sembri stupida, e
vorrei essere sincera. Anche qualche gioco di campo magnetico potrebbe creare
senza troppo disturbo qualche fenomeno sorprendente. Per non parlare di tutto
ciò di cui non abbiamo ancora, e forse non avremo mai, una spiegazione
razionale. Noi semplicemente intervenivamo per cercare di risolvere situazioni
problematiche. E ci facevamo ricompensare per questo. Certamente non siamo mai
stati armati di qualche proposito tipo ‘portare soccorso e salvezza’, non in
maniera disinteressata. C’era chi era disposto a ricompensarci, e ci chiamava
appositamente. E non sai in quante occasioni questo rapporto di scambio, e
qualche ostentazione di ‘professionalità’, possa mettere a loro agio chi ha
bisogno di aiuto. Comunque… devo dire che, se hai mai
sentito qualche accenno a ‘stregoni’ e compagnia bella, puoi immaginare quanta
parte del cosiddetto ‘paranormale’ consista in “trucchetti”,
che sanno sfruttare risorse illusionistiche, e magari mescolarle con reazioni
inspiegabili e non calcolabili fin dall’inizio. Noi stessi ci muovevamo sempre
in quest’ottica, e all’occorrenza sapevamo tirar fuori qualche “trucco”. In
certi casi, si poteva anche cercare di trovare accordo con qualche “presenza”…
e qui la gamma è disparata e immensa. Ho visto individui riuscire in cose che
avrei detto impossibili, mescolando suggestione e auto-suggestione,
illusionismo o ‘magia’ che dir si voglia… E il nostro
proposito di non cercare mai confini che distinguessero e limitassero questi
aspetti si è rivelato sempre tutto sommato l’approccio migliore, almeno in base
al mio giudizio a posteriori… Direi che eravamo
“bravi” insomma, in quel che facevamo.»
Yuta, con il
duraturo sorriso mezzo ironico e mezzo affettuoso, riabbassò lo sguardo. «Dico
bene?»
Con sorpresa Andrea realizzò che
il suo sguardo non si rivolgeva su di lei, ma alle sue spalle. Si voltò, e vide
Ramo, in piedi una decina di passi dietro di lei, le mani in tasca, e
l’espressione assorta che smascherava immediatamente il suo aver ascoltato con
attenzione.
Il ragazzo abbassò lentamente lo
sguardo sul terreno, con un sorriso di quasi timida dolcezza, e annuì.
«Benissimo.» mormorò.
Andrea notò che Ramo non portava
nemmeno una giacca, sopra alla pesante felpa nera, e che gli anfibi che
indossava non erano stati allacciati con la consueta stretta accuratezza.
«Tu non vieni…?»
gli domandò Andrea, stupita.
Ramo alzò la testa a guardarla. «Ah,
no… Io e Valentine restiamo qui.»
«Mi sembra un’ottima idea.»
approvò Yuta. «Non che non ti vorrei con noi, Ramo.
Ma è bene che Valentine non rimanga da sola, visto
che dobbiamo tenere in conto anche un probabile cecchino, oltre alla torma di
persone instupidite che vagano. Se non ti dispiace, oggi è il mio turno…» la ragazza gli rivolse una smorfia scherzosa,
mentre gli andava incontro e gli metteva un braccio sulle spalle «Fin’ora tutto
il divertimento ve lo siete preso solo voi, non è tanto giusto.». Il suo tono
era evidentemente sarcastico.
«Direi anche non tanto
democratico.» la assecondò Ramo, con anche maggiore ironia.
«Vedo che il tenore della
conversazione sta degenerando.» s’intromise Kumals,
uscendo dalla casa vestito di tutto punto, compreso il suo solito pesante
pastrano: quello che si era “ingoiato” Justin. «Quindi sarà il caso di andare.»
«Tutti pronti?» domandò Yuta, raccogliendo da terra le sue singolari armi, ben
impacchettate, e mettendosele a tracolla sulle spalle con tranquilla abitudine.
«Sì, gli altri stanno arrivando.»
confermò Kumals, che poi concentrò il suo sguardo su
Andrea. «Indi vieni anche tu?»
Andrea lo guardò direttamente.
«Sì.» disse, con calma.
Kumals la fissò ancora
per qualche pensieroso istante, poi annuì. «Bene. Ramo? Le chiavi dell’auto.»
L’interpellato sfilò una mano
dalla tasca, mostrando un paio di chiavi, e le lanciò a Yuta,
che le afferrò al volo.
«Prometto solennemente di non
mettere in pericolo il tuo automezzo.» scherzò la ragazza.
«Se farete del vostro meglio in
questo senso, mi considererò soddisfatto.» le rispose a tono Ramo, strappandole
un sorriso.
«D’accordo…
Allora, direi che intanto possiamo andare in auto, noialtri.» osservò Kumals. «Ramo.» salutò, con una breve stretta delle dita
sull’avambraccio del ragazzo a mo’ di congedo. «Fai il bravo, mi raccomando.»
ironizzò.
Ramo lo considerò con un
sopracciglio divertito lievemente alzato. «Ahan. E
voi vedete di tornare presto… Non sono sicuro di
riuscire a mandare avanti questa casa senza il vostro prezioso apporto.
Specialmente il tuo, naturalmente.»
Fingendo di non notare l’accento
di scherno dell’altro, Kumals annuì con piena
comprensione. «Certo, certo. Tranquillo, saremo qui a breve.»
In quella Uther
fece capolino sulla soglia della casa, e si soffermò brevemente a guardarli
tutti. «Ci siamo?»
«Ancora no. Aspettiamo qualcun
altro che chieda se stiamo partendo, siccome non è abbastanza evidente.»
ribatté Kumals, in tono sarcastico.
Uther scosse la
testa, sbuffando appena, e si incamminò verso il punto in cui avevano lasciato
l’automobile, il fucile in spalla. Kumals batté
un’ultima volta la mano sulla spalla di Ramo e si accodò ad Uther,
così come già stavano facendo Yuta ed Andrea.
Per ultimi li raggiunsero Danny e
Zoal, stringendosi a fatica nella macchina già molto
affollata, cosa che spinse gli altri a riorganizzarsi, facendo sedere Andrea
sulle ginocchia di Yuta. Danny, stretto tra Zoal e lo sportello, riuscì in qualche modo ad estrarsi di
tasca un’audiocassetta, e la passò ad Uther, seduto
al posto del passeggero davanti; l’altro la infilò nel mangianastri dell’auto
senza battere ciglio, mentre Kumals, alla guida,
emetteva un breve verso di sarcasmo. Di lì a poco nell’abitacolo esplosero le
note di ‘Underground’ dei Broder Daniel, poi seguite da
‘It’s my life’ dei Talk Talk.
L’auto si mosse lentamente,
procedendo sulla stradina sterrata nel bosco. Non accelerò mai particolarmente,
come se non ci fosse nessuna fretta; in effetti, faceva in modo di permettere a
Danza di poterli seguire trotterellando a buon ritmo. Duca, invece, sembrava il
più comodo di tutti, seduto con aria viziata in grembo a Zoal.
Andrea, immersa nella naturale
vivacità del gruppo, colma di una decisione spontanea e con un che di
autoironico, che sentiva permearli, ebbe la fugace visione di quel leone marino
di cui si diceva sopra.
Il sole andava calando sulla
banchina ghiacciata, e il leone marino si svegliava dal suo dormiveglia
popolato di sogni; solo per scivolare, con una sola leggera spinta delle grosse
pinne, giù dal regno di ghiaccio galleggiante su cui si era assopito,
infilandosi quasi senza scombussolarne la superficie nella densa acqua
ghiacciata, come se il tremendo mordente del freddo non potesse niente contro
la sua pelle inspessita di grasso.
Note dello scribacchiatore:
Gente,
novità di pubblicazione: ho deciso di stringere un po’ le pause tra un
capitolo e l’altro, perciò da ora in poi li metterò online ogni 5-7 giorni. In
parte perché ormai sono a scrivere i capitoli finali (saranno in tutto una
settantina al massimo direi), e in parte perché ho bisogno di dedicarmi ad
altre storie, tra quelle già presenti su EFP e quelle che sto scrivendo senza
ancora metterle on-line… quindi, provo un’acceleratina, sperando di non rendere scomodo lo starmi dietro… se ci sono obiezioni, fatevi avanti :)
Parlando
di questo capitolo… forse sembrerà piuttosto “inutile”,
ma io ci vedo un suo senso… anche se non saprei
spiegarlo ^^;Può darsi che a me sembri
una specie di stacco, e allo stesso tempo di introduzione rispetto alla parte –
che comprende i prossimi capitoli – che verterà sul viaggio dei nostri a Foelm.
In
questi giorni sto scrivendo alcuni dei capitoli decisivi, che spiegano molte
cose, e che preludono ai capitoli finali… Sono quindi
all’anticamera del mio “addio” a questa storia, e fa un certo effetto… mi ci sarò affezionato più di quel che credevo
all’inizio, forse.
Comunque…
qualcosa mi dice che in ogni caso la fine di questa storia non rappresenterà
anche la fine delle avventure di questi personaggi…
;)
«D’accordo…
provate a rispiegarmi tutto…» propose Danny, con aria
ben poco persuasa.
Kumals sbuffò
sonoramente. «Se hai migliori alternative illustracele pure…»
Danny gli lanciò un’occhiata
corrucciata, però non ribatté nulla. Ma non era solo perché non aveva al
momento altre alternative in mente.
Si trovavano nella stazione
deserta di Umak, nonché la prima stazione ferroviaria
più vicina a CastleMac’Hearty. Le notizie non erano buone.
Mentre scendevano in auto da casa
di Yuta e Zoal, avevano
fatto un giro strategico, guidati da Zoal, che li aveva
portati a percorrere percorsi delle colline che permettevano di spaziare la
vista su parte dei tratti pianeggianti che si stendevano nell’intramezzo dei
boscosi rilievi. Molti dei loro timori avevano trovato conferma: utilizzando un
binocolo di sufficiente potenza, avevano visto masse di persone “contagiate”
vagare in gruppi non organizzati, alla rinfusa, per buona parte dei panorami su
cui avevano potuto stendere lo sguardo. Tutte le strade percorribili in auto
che potevano congiungerli alla loro destinazione, la città di Foelm, erano ingombre del vagare disordinato di queste
persone. E non avevano visto ombra di squadre di intervento, che fossero di
polizia o di soccorso sanitario: niente.
Zoal non si era
stupita, e Kumals si era messo a rimuginare ancora
più impegnativamente tra sé e sé, ma entrambi si erano astenuti dal condividere
con gli altri le loro riflessioni. ‘Non ancora’ aveva detto Zoal,
in risposta alla cauta richiesta di Andrea in proposito alla possibilità di
essere messi a parte della sua prospettiva sull’intera faccenda. Danny, Yuta e Uther, che conoscevano bene
l’ostinazione dell’ermetismo in cui erano capaci di chiudersi Zoal e Kumals, specialmente
quando non avevano ancora trovato tutti i tasselli mancanti per completare
qualche loro idea complessiva su una situazione, non avevano insistito, ed
Andrea aveva seguito il loro esempio.
A portare Danny ad avanzare un
evidente scetticismo, era stato il fatto che solo ora, dopo che Zoal aveva indicato loro una certa strada senza rivelare la
loro meta, i due avevano esplicitato la loro migliore idea: raggiungere Foelm tramite via ferrata, usando qualcuno dei treni
abbandonati.
«Non capisco…»
intervenne Andrea, con rispettosa esitazione. Era ormai entrata completamente
nello stato mentale in cui ogni cosa andava messa in dubbio, non per criticare
qualche uscita apparentemente insensata o qualche fatto incredibile, ma per
comprenderne meglio la natura. «Come facciamo a…
rubare un treno? Qualcuno di voi lo sa guidare?»
Zoal, seduta su una
delle panchine allineate contro il muro del basso edificio della stazione,
parlò con la sua placida calma accorta. «Uther è
proprio andato a vedere se c’è qualcosa che fa al caso nostro.»
Andrea si accorse solo in quel
momento che il ragazzo nominato non era più lì con loro. Doveva essersi
inoltrato dentro la stazione e sui binari; sembrava avere un’innata dote per
sgusciare via inosservato in qualsiasi momento. Zoal,
invece, era maestra nel rispondere girando le domande in base a ciò che era
disposta a rivelare.
Yuta si mosse un
po’, come a disagio, e si sistemò meglio sulla spalla i due grossi cerchi che
erano le sue armi. «Speriamo di riuscire a partire presto. Per ora qui non c’è
nessuna di quelle persone… Ma niente ci garantisce
che non potrebbero arrivare da un momento all’altro…
Giusto?» terminò, rivolgendo un’eloquente sguardo a Kumals
e alla sorella, cercando di far loro pesare il silenzio sulle loro intuizioni.
Kumals alzò appena un
sopracciglio e si accese una sigaretta. «Siamo stati fortunati.»
«C’è qualcosa che non mi torna.»
eruppe Danny, accigliato. «Avevamo ipotizzato che qualcuno stesse richiamando
tutte le persone “contagiate” verso un punto… Ma ce
ne sono moltissimi in giro che vagano senz’ordine. Quindi la nostra ipotesi era
sbagliata?»
Kumals gli si rivolse,
con un’ironia quasi divertita. «L’unica ipotesi alla quale stento ancora a
credere è che si possa esercitare una sorta di ipnosi di massa utilizzando la
televisione. E con questo bypassarei il fatto che sì,
questo viene in effetti fatto sempre, ma con fini precisi, come farsi eleggere,
vendere qualcosa, distrarre da altre tematiche, instupidire e basta… Ma non credo che persone ridotte in questo stato
possano essere utili a qualsivoglia cosa, tranne quella di distribuire
generosamente scompiglio gratuito. L’ipotesi che qualcuno stia cercando di
richiamarli, di concentrarli in un solo punto, non la vedo così messa in
dubbio. Si potrebbe supporre che lo strumento col quale vengono richiamati sia
a raggio ristretto, ad esempio, e che abbia agito quindi solo sugli abitanti di
CastleMac’Hearty… fino ad ora almeno.»
Danny sembrò imbronciarsi un
poco. «Perché ti vanno bene tutte le ipotesi tranne le mie? Hai dei pregiudizi
nei miei confronti.»
«Può darsi.» replicò
pacificamente Kumals.
«Hey…»
Tutti si voltarono al debole
richiamo mormorato da Uther, comparso sulla soglia
dell’edificio della stazione. Gli dedicarono tutta la loro attenzione, e il
ragazzo, dopo una pausa, prese a riassumere l’esito della sua perlustrazione.
«Ci sono diversi treni. La maggior parte sono troppo moderni e automatizzati,
ma ce n’è uno che penso possiamo riuscire a far funzionare, un modello vecchiotto… Dovremo sganciare alcuni binari. È troppo
lungo, non ci serve tutto quello spazio, e ci rallenterebbe.»
«Benissimo.» annuì Kumals. «Andiamo.»
Zoal si alzò, prese
le chiavi dell’auto che le porgeva Yuta ed andò ad
aprire le portiere. Duca e Danza scesero con aria vivace e iniziarono a
scorazzare intorno, incuriositi. Ma con pochi cenni di Zoal,
il loro comportamento si adattò abbastanza prontamente alla gravità della
situazione. Si fecero rapidi, silenziosi ed efficienti; dedicando solo qualche
annusata in giro e qualche breve azzardo di allontanamento dal resto del
gruppo, accompagnarono tutti nel loro cammino attraverso il piccolo edificio
della stazione, e poi tra i binari incassati nel ghiaione di pietre.
Guidati da Uther,
solcarono gli spazi della stazione, che così deserti sembravano più vasti e
desolati del consueto. Passavano da un binario all’altro senza preoccuparsi di
controllare che arrivassero dei treni; era chiaro che il servizio della
stazione abbandonata era sospeso. Un debole vento freddo faceva frusciare
foglie morte, cartacce e altra spazzatura sule mattonelle dei pavimenti
deserti, sotto le pensiline e tra i binari. Tutti gli oggetti regnavano
incontrastati nell’ambiente non frequentato da umani né da alcuna loro azione.
C’erano tre o quattro treni fermi
ad altrettanti binari, ma Uther si diresse risolutamente
verso quello più piccolo e d’aspetto più malmesso. Danny considerò con ampie
occhiate interessate il corpo del serpentone metallico, con le ruote
intravedibili sotto i parallelepipedi dei vagoni passeggeri, i finestrini vuoti
e perlopiù chiusi; l’interno era invisibile: la scarsa luce della giornata
nuvolosa lo lasciava nell’ombra del tetto dei vagoni. La locomotiva aveva
un’aria superata, vecchia e un po’ malconcia, ma con quel qualcosa di solido
che spesso hanno gli oggetti antichi che resistono con tranquilla abilità
misteriosa al passare del tempo, continuando a svolgere la loro funzione con
imperturbabile pazienza.
Senza soffermarsi nemmeno un
momento, Uther si arrampicò agilmente sui gradini
della locomotiva e al suo interno, attraverso il portellone metallico aperto.
La vernice un po’ scrostata, color grigio cupo e dagli scintillii metallici,
distribuita solo in alcuni punti della locomotiva, dava al tutto un’aria ancora
più consumata.
Kumals valutò per un
momento con occhio critico la decina di vagoni attaccati alla locomotiva; gettò
la sigaretta in terra, la schiacciò con uno degli scarponi che calzava, e
guardò Danny ed Andrea, mentre si rimboccava le maniche del cappottone
e della maglia fin poco sotto i gomiti delle lunghe, solide braccia, rivelando
una peluria scura. «Stacchiamo i vagoni che non ci servono.»
Mentre Zoal
raccoglieva le sue gonne e si arrampicava sulla locomotiva, che già risuonava
degli armeggi di Uther, presto seguita da Danza, che
salì a bordo con un balzo impegnato, Yuta si chinò a
prendere Duca in braccio. Allungò il cagnetto alle braccia sporte della
sorella, che lo prese all’interno della locomotiva.
Yuta, Andrea e Danny
seguirono quindi Kumals, percorrendo i vagoni
dall’esterno. Le porte erano tutte aperte, ma loro le ignorarono. Kumals studiava uno per uno con occhio attento gli agganci
che collegavano i vagoni gli uni agli altri. Dopo aver superato tre vagoni si
fermò davanti al collegamento tra il terzo e il quarto vagone.
«Ci servono degli strumenti… Non credo che potremmo riuscirci a mani nude.»
osservò Yuta.
Kumals si voltò a
guardarla con un mezzo sorriso. «A mani nude no… Ma
forse abbiamo già qualcosa che potrebbe aiutare.» e stava guardando
significativamente i due cerchi dotati di lama che pendevano dalla spalla della
ragazza.
Yuta gli rivolse uno
sguardo piuttosto scettico. «Non possono tagliare il metallo. Non così spesso.
Non senza rovinarsi.» puntualizzò.
«Non useremo solo quelle…» chiarì Kumals. «Danny?
Puoi andare a chiedere ad Uther se c’è una cassetta
degli attrezzi là sulla locomotiva? Altrimenti ci toccherà andare a cercare il
deposito degli attrezzi nella stazione… Solo,
cerchiamo di non perdere troppo tempo.»
*
***
*
Era passata un’oretta da quando
lo sparuto gruppetto era arrivato davanti alla stazione ferroviaria di Umak; ora un treno, composto da una vecchia locomotiva che
si trascinava dietro tre vagoni, scivolando con pesante sferragliare sui
binari, abbandonava la stazione lungo la linea ferroviaria che collegava la
cittadina a quella più grande di Foelm e, più avanti,
al centro abitato ancora più cospicuo di Traum.
Nello spazio piuttosto angusto
della locomotiva, Uther e Kumals
lavoravano senza sosta per mantenere in moto il tutto senza provocare danni.
Dalla soglia del passaggio che collegava la locomotiva al primo vagone, Zoal osservava i loro sforzi, esibendosi di tanto in tanto
la sua voce pacata in qualche osservazione o consiglio che riteneva potessero
risultare utili. Ogni tanto si voltava, increspando appena la sua tranquilla
posa appoggiata allo stipite con le braccia incrociate sul petto, per rivolgere
sguardi vagamente ammonitori a Duca o Danza, i quali percorrevano avanti e
indietro i corridoi di tutti e tre i vagoni, annusando ovunque, famelicamente
curiosi.
In un silenzio assorto, Yuta, Danny ed Andrea sedevano nello spazio di quattro
sedili disposti di fronte a due a due, nella prima metà del primo vagone.
Yuta passò i primi
dieci minuti del lento viaggio esaminando minuziosamente le lame delle sue
armi, controllando le loro condizioni, anche se tutti avevano visto coi loro
occhi o saputo indirettamente che avevano tagliato senza problemi alcuni grossi
cavi che costituivano parte del collegamento tra il terzo ed il quarto vagone.
Danny alternava una pigra e
compatta contemplazione del paesaggio attraverso il finestrino ad un più
attento seguire le frasi di argomento tecnico che si scambiavano Uther, Kumals e Zoal. Quando il treno si fermava, Danny si alzava in piedi,
ed insieme a Kumals scendeva sui binari, per aiutare
col sistema manuale di cambio, che consentiva loro di aggiustare di volta in
volta la traiettoria del percorso del treno in direzione di Foelm.
In condizioni normali il viaggio
tra Umak e Foelm non
avrebbe richiesto più di venticinque minuti circa; ma, rallentati da queste
fermate e in generale dalla cauta velocità di marcia su cui mantenevano il
convoglio, il percorso si preannunciava più lungo. Si doveva anche mettere in
conto che, talvolta, il passaggio per punti in cui molti binari si incrociavano
confusamente richiedeva più di un’operazione di cambio manuale, o in
alternativa una perlustrazione appiedata di avanscoperta che stabilisse i punti
più giusti in cui fare cambiare binario al treno per consentirgli di procedere
nella corretta direzione.
Fortunatamente, Zoal sembrava avere un ottimo occhio nell’orientarsi, e
talvolta si serviva di una piccola bussola che portava appesa in qualche punto
imprecisato sotto ai diversi strati di abiti che indossava.
Andrea si limitava a cercare di
capire dove poteva dare una mano, ma fino a quel momento l’incarico più
cospicuo che le era stato affidato consisteva nel tenere a bada Duca e Danza,
trattenendoli a bordo del treno ogni qual volta Zoal
si avventurava sui binari insieme a Kumals e Danny, e
talvolta Yuta, per stabilire quale cambio aggiustare,
e come. Compito che condivideva con i cani stessi, in un certo senso, visto che
Zoal raccomandava ai due di restare con lei. Di
fatto, insomma, la ragazza e i due cani si facevano la guardia a vicenda, in
piedi sul bordo della portiera aperta del primo vagone, seguendo con lo sguardo
gli spostamenti degli altri lungo i binari. Talvolta Kumals
rimaneva a bordo, e si univa a loro, approfittandone per fumarsi una sigaretta.
E tutti insieme si occupavano anche di fare da sentinella, avvalendosi della
posizione sopraelevata a bordo del vagone per controllare a vista che nessuna
figura di umano instupidito e ciondolante si avvicinasse all’improvviso sui
binari, minacciando in tal modo il gruppetto andato ad accordare i cambi. Fino
a quel momento, comunque, non avevano mai dovuto avvertire gli altri di qualche
imminente pericolo. Ma ogni nuova fermata, a causa di questo rischio che
rimaneva sospeso nell’aria senza mai concretizzarsi e perciò assumendo di volta
in volta sembianze anche più indefinitamente minacciose, rappresentava un
momento di tensione.
Andrea si sentiva già abbastanza
stanca, e non vedeva l’ora che quella giornata finisse, di potersi di nuovo
rannicchiare al caldo sul materasso appoggiato sul pavimento della stanza di Yuta, e di potersi addormentare tra i respiri di Yuta e Valentine che dormivano.
Allo stesso tempo, provava un vivo senso di irrealtà per quella casa tra i
boschi sulle colline, come se le bastasse esservi lontana per dubitare nella
sua concretezza. Così, nelle pause tra una fermata e l’altra, mentre osservava
il paesaggio deserto dal finestrino del corto treno in movimento, i suoi
pensieri ritmati dal rumore un po’ stridente e freddamente metallico delle
ruote sui binari prendevano un corso di ormai irrimandabile realizzazione della
sua precaria situazione.
Questa precarietà era di volta in
volta rinvigorita dal semplice condividere quei lenti minuti con la presenza
degli altri. Tutti loro, dall’imperturbabile Zoal
fino al nervosismo ferramente tenuto a bada di Danny, emanavano una capacità di
auto-controllo stupefacente ai suoi occhi. Sembrava davvero, nonostante li
avesse sentiti ironizzarci sopra la sera prima, che godessero di una certa
abitudine un po’ annoiata nei confronti delle situazioni sui generis: questo
pareva essere ciò che permetteva loro di mantenere, anche nei casi più
minacciosi, almeno un debole strato di distacco di protezione rispetto alla
bruta immediatezza delle circostanze. Come lei camminavano sul filo; ma
diversamente da lei lo facevano forse da molto più tempo, e così quella era per
loro niente più che una passeggiata un po’ più impegnativa di quelle condotte
su terreno saldamente compatto.
A volte, però, osava spiare di
sottecchi l’espressione di Danny, la quale, mentre il ragazzo guardava fuori
dal finestrino con l’aria di essere assorbito in un qualche tipo di rimuginare
che lo distraeva da sé medesimo, si scioglieva lentamente in modi più diretti e
molto spontanei. Allora le sembrava di leggervi che, aldilà dell’abitudine,
negli occhi del ragazzo albergava una certa indifferenza amara, che faceva
appena capolino, stonando rozzamente con l’animata vitalità che era il fulcro
naturale di quello sguardo. A quel punto, sembrandole di stare spiando troppo
direttamente qualcosa di riservato e intimo, Andrea imponeva una brusca
interruzione al suo scrutare di nascosto quei lineamenti dalla sincerità
candida eppure sinistra, e rivolgeva subitaneamente gli occhi a qualsiasi altra
cosa le capitasse a portata, pur se un leggero sentore di senso di colpa
continuava ad accompagnarla per qualche istante ancora, incollandosi
furtivamente all’angolo dei suoi pensieri. Eppure i suoi occhi…
Stavano ormai procedendo a quel
modo da forse una ventina di minuti, rassegnati alla lentezza del loro viaggio,
quando qualcosa sembrò risvegliare l’attenzione di Danny. Inizialmente il
ragazzo rimase immobile, pur se il suo sguardo, da assorto sul paesaggio che
scorreva fuori dal finestrino, si era fatto di colpo presente e attento, e
concentrato su qualcosa che non era ciò che gli correva davanti agli occhi.
Qualche istante dopo, stava voltando la testa, volgendola molto lentamente
indietro, lungo il corridoio che si stendeva in mezzo alle file di sedili
vuoti.
Yuta stava
discorrendo a parole mormorate con Zoal, Duca rilassato
tra le sue braccia, e gli altri erano perlopiù concentrati sulla strumentazione
di guida del treno; ma Andrea notò quasi subito il movimento di Danny, e si
concentrò su di lui, semplicemente guardandolo attentamente. Era sul punto di
chiedere qualcosa, ma fu il ragazzo a parlare, senza staccare lo sguardo dalla
porta che collegava il binario in cui si trovavano a quello successivo.
«Dov’è Danza?» chiese
semplicemente. Ad Andrea parve che il suo tono avesse una serietà e una
scorrevolezza particolarmente curate, ma non era certa di potervi leggere molto
di più. Tuttavia, sentì il nervosismo tenderle i nervi, e si irrigidì nella sua
posizione seduta.
«Non so, sarà negli altri
vagoni.» rispose piuttosto distrattamente Yuta, ma
nel voltarsi verso di lui parve coglierne l’atteggiamento, perché quasi subito
aggiunse «Perché?» con urgenza malcelata. Anche gli smeraldini occhi di Zoal ora scrutavano attentamente il ragazzo.
Danny si alzò in piedi, e avanzò
con un solo passo posizionandosi nel centro del corridoio, completamente
rivolto verso la porta che già da qualche minuto stava osservando con
insistenza, come mirando a qualcosa.
«Cosa c’è?» chiese ancora Yuta, stavolta con più vivido nervosismo, portando piano
una mano ai due cerchi con lama che teneva a tracolla sulla spalla.
«Non ne sono sicuro…»
mormorò in tono basso il ragazzo, come se non fosse disposto a prestarle molta
attenzione.
«Di cosa non sei sicuro?» insistette Yuta,
stringendo le dita attorno ad uno dei suoi cerchi.
«Danza?» chiamò con una certa
autorità Zoal, in tono piuttosto alto.
«Che succede?» domandò Kumals dalla cabina di comando.
Ma Danny si stava già avviando ad
ampi passi verso il secondo vagone, e ad Andrea sembrò opportuno alzarsi in
piedi anche lei, mentre Yuta si avviava dietro Danny,
chiedendogli ancora, stavolta quasi sussurrando «Cosa hai sentito?» con una
nota quasi acuta di nervosismo crescente.
«Allora?» Andrea sentì insistere
la voce di Kumals, ora fattosi sulla soglia della
cabina della locomotiva, con sguardo aggrottato dalla preoccupazione, e
piuttosto irritato dal fatto che nessuno rispondeva alla sua domanda.
«Forse Danny ha sentito qualcosa…» gli rispose Andrea, insicura, dal momento che
anche Zoal si stava accodando a Yuta
e Danny, seguendoli verso il secondo vagone.
Kumals fece per dire
qualcosa, ma in quella si sentì il rumore di qualcuno che correva, provenendo
dal secondo vagone. Danny aveva quasi raggiunto la soglia di collegamento tra i
due vagoni, e ormai il suo passo era guidato da una fretta decisa, quando Danza
irruppe nello scompartimento in cui si trovavano, galoppando a ritmo sostenuto,
un leggero uggiolio intrappolato a stento in gola. Precipitò su Danny,
alzandosi sulle zampe posteriori per poggiargli le anteriori sull’addome, come
se fosse estremamente contenta di vederlo. Ma il ragazzo si limitò ad
osservarla per un momento, concedendole una distratta carezza con la mano sul
capo, prima di scostarla per passare oltre. Andrea fece in tempo a vedere che
si stava sfilando dalla parte posteriore della cinta dei pantaloni una delle
sue pistole, prima che scomparisse all’interno del secondo vagone.
Allora, mentre Danza precipitava
tra le gambe di Zoal e, poi, ritornava alle calcagna
di Danny, il suo uggiolio allarmato sostituito da un cupo brontolio che culminava
a tratti in un vero e proprio ringhiare, Andrea si mosse per seguirli, con
risolutezza, come dimentica di trovarsi sguarnita di armi e qualsiasi altro
oggetto da offesa o difesa. Si accodò rapidamente alle gonne di Zoal, la quale impugnava saldamente il suo grosso ligneo
bastone, mentre Kumals obbiettava un abbastanza
incerto «Aspettate…hey!»
Gli occhi di Danny, fermamente
puntati sempre avanti, scoprirono il secondo vagone vuoto, ma lui procedette
verso il successivo e ultimo, senza rallentare. La pistola in pugno, e i
muscoli caricati in procinto di spiccare quasi la corsa, mantenne tuttavia un
deciso ampio passo, attraversando il vagone, quasi di fretta.
«Danny.» lo richiamò con
autorevolezza Zoal, mentre Yuta
afferrava saldamente per il collare l’inquieta Danza «Cosa hai sentito?». Yuta lasciò cadere di peso Duca su un sedile vuoto mentre
passava, e Zoal, che la seguiva, indirizzò al cane un
rapido gesto, che l’animale parve intendere, ed eseguì, tornando senza
convinzione indietro, verso il primo vagone. Andrea era abbastanza sicura di
sentire qualche metro dietro di sé i passi di Kumals
che arrivava, ma tutto si stava svolgendo troppo rapidamente perché potesse
stare dietro ad ogni particolare. Per questo, mentre Danny ancora non
rispondeva, capì che stava accadendo qualcosa non tanto perché li vide subito,
essendole la vista notevolmente ostruita dalle spalle, schiene e teste dei tre
che la precedevano, ma lo intuì dal mutare del ritmo dei passi del ragazzo.
Danny rallentò, e si fermò,
mentre un rumore chiarissimo indicava che qualcuno procedeva in senso contrario
al loro dal vagone di fondo, affondato nella penombra combinata dalla mancanza
di illuminazione all’interno dei vagoni e dalla giornata nuvolosa; il rumore
veniva loro incontro abbastanza rapidamente.
I tre davanti a lei si
arrestarono quasi di colpo, ed Andrea intravide due sagome umane dall’altra
parte del secondo vagone, che ne solcavano la soglia, diretti verso di loro.
Poi tutti si voltarono, ed Andrea per metà ebbe la prontezza di indovinare il
cambio di programma, per metà fu sospinta da Zoal, e
si ritrovò a tornare indietro abbastanza precipitosamente lungo il corridoio.
All’inizio del secondo vagone
incrociarono Kumals che li stava raggiungendo, e che
si fermò e prese ad arretrare, rivolgendo rapidamente a Zoal
la domanda «Quanti sono?»
«Due, per ora.» rispose
rapidamente la donna, continuando a sospingere con ferma gentilezza Andrea,
quasi fino a sbattere addosso a Kumals.
Di lì a poco Andrea si ritrovò compressata nell’angusto spazio tra i corridoi tra tutti
quanti, tranne Duca, ritornato nel primo vagone, ed Uther,
rimasto nella cabina di manovra.
Fu la voce di Danny ad imporsi
con rapida urgenza. «Dite ad Uther di non fermarsi.
Li buttiamo giù dal treno in corsa. Fatti dare il suo fucile, Kumals, mi serve. Due vadano dentro questo bagno, qui
davanti resto io. Vanno piano, sembrano provati. Li blocco, dal bagno aprite la
porta: li spingiamo giù dalla portiera aperta.»
«Veloci, arrivano!» avvertì Yuta, in un mormorio concitato. Ma tutti si stavano già
muovendo con estremo e rapido ordine di mosse. Kumals
corse verso la cabina di guida, chiamando Uther senza
alzare troppo la voce; Zoal afferrò saldamente Danza
e la trascinò fuori dai piedi, dentro il primo vagone; Yuta
afferrò Andrea e la tirò dentro il piccolo bagno sito all’immediato inizio del
secondo vagone, richiudendo la porta, lasciando appena una sottile fessura,
attraverso la quale videro Danny porsi dritto in mezzo al corridoio, il volto
mutato in un’espressione che stupì Andrea enormemente.
I suoi occhi, di solito
relativamente calmi pur se attenti e vitali, erano ora adombrati da uno sguardo
che faceva rabbrividire, in cui scintillava con un che di preoccupante una
sottile scintilla di ferocia battagliera. La stessa che gli tirava i lineamenti
del volto in una smorfia di divertimento malsano e minaccioso; le labbra
leggermente arricciate in corrispondenza dei canini mettevano allo scoperto un
leggero intramezzo del bianco-giallino dei denti. Eppure i suoi occhi…
Fu in un solo breve istante che
Andrea riuscì ad incamerare quell’impressione complessiva, e già poco dopo
tutta la sua attenzione fu presa dal timore con cui udì i passi dei due in
avvicinamento che si appropinquavano alla porta dietro la quale lei e Yuta aspettavano immobili. Sentì le labbra della ragazza
solleticarle una tempia, mentre le sussurrava molto piano: «Appena te lo dico,
spingi con tutta la tua forza.»
Allora smise di chiedersi
qualsiasi cosa, la sua testa si annebbiò, e una specie di concentrazione
puramente istintiva la portò a imitare la posizione di Yuta,
che, le braccia stese e i palmi aperti appiccicati alla porta, teneva una gamba
piegata in avanti per stare in equilibrio e l’altra stesa all’indietro, il
tallone sollevato e la punta del piede saldamente puntato a terra, pronta a
gettarsi con tutta forza contro la porta.
Non ci fu il tempo di pensare ad
altro, né quasi quello per vedere due corpi precipitare contro a Danny – solo
allora Andrea si rese conto che il fucile di Uther,
lanciato attraverso lo spazio del primo vagone da un tiro di Zoal o di Kumals, era appena
atterrato nelle mani del ragazzo, e con quello stretto in orizzontale davanti a
sé, Danny ostacolò con tutta la forza che riuscì a sviscerare dalle sue membra
l’assalto delle due persone “contagiate” che gli arrivavano addosso.
«Ora!» gridò contemporaneamente Yuta, e le due ragazze si buttarono con tutto il loro peso
contro la porta, di getto improvviso. All’inizio la porta cozzò semplicemente
contro le masse dei due corpi dall’altra parte, ma grazie anche all’intervento
di Danny e a quello di Kumals che gli era finalmente
giunto alle spalle per tentare di dargli man forte, i due che li stavano
aggredendo persero l’equilibrio sul loro fianco sinistro, e slittarono verso la
porta aperta che ivi li aspettava, sospinti con testardo e violento sforzo
dalla forza concentrata di tutti loro quattro.
«Dai! Forza!» incitò a denti
stretti Kumals, ed Andrea, mentre Yuta
continuava a pressare contro la porta, prese invece a fare la spola tra il muro
di fondo del piccolo bagno e la porta, dandosi ogni volta slancio per arrivare
con colpi di spalla, ginocchia e fianco più forti che riusciva contro la porta.
Il tutto non durò che pochi
istanti, poi la porta cedette, spalancandosi di colpo. Yuta
cadde in ginocchio, ma Andrea, che aveva appunto appena terminato uno dei suoi
slanci violenti, cedette in avanti insieme alla porta che si spalancava e,
girando sui suoi cardini, si toglieva framezzo alla ragazza e a chi stava
dall’altra parte. Scivolando sul pavimento lurido del vagone, Andrea si trovò a
cozzare duramente contro le gambe di uno degli uomini “posseduti” contro cui
stavano colluttando, collaborando in pratica all’ultima spinta necessaria per
spingerlo giù dal vagone.
Nello spazio di un battito di
ciglia, il vago e inatteso principio di sollievo nel non stare capitando dritta
nella rapace preda di quell’uomo che andava cadendo dal treno fu crudamente
sostituito da ben altra sensazione. Come un pugno nello stomaco, vide il corpo
di Danny troppo sporto fuori dalla porta spalancata del vagone scivolare verso
l’esterno. Allungò di getto la mano, mirando ad afferrarlo, e per un
infinitesimo di istante credette di riuscirvi, ma la
sua presa mancò di parecchi centimetri l’obbiettivo, e le sue mani si chiusero
sul vuoto, mentre anche il tentativo di Kumals di
afferrare in extremis il ragazzo falliva molto similmente.
I due loro aggressori caddero
oltre il bordo rialzato della soglia del treno, urtando un po’ di rimbalzo
contro i gradini per la salita dei passeggeri che sporgevano subito oltre, e
sparirono nel vuoto; così come Danny e il fucile di Uther.
Soundtrack: I liketrains (ASDF Movie)
Note dello scribacchiatore:
spiacente
di non avervelo detto prima, forse sarebbe stato opportuno, nel caso
qualcheduno non provasse tutta questa lealtà nei confronti di questa storia da
essere determinat* a seguirla anche nei suoi momenti
più … hum, “difficili”, ecco, questi capitoli, questa
“gita a Foelm” non sarà proprio tutta zucchero e
stelle filanti. Ciò è reso in effetti da un insieme di cose, non solo dagli
eventi ma anche dall’atteggiamento dei personaggi, dal clima che in generale si
sta creando nel gruppo, e per conseguenza nel modo – un po’ più corposo e
gravoso – con cui m’è venuto di articolare e scrivere questi capitoli.Quel che intendo sarà più chiaro
probabilmente dal prossimo capitolo. Io mi affido alla mia fiducia nei
personaggi!
Se
la dinamica di quello che succede in questi tre vagoni non è chiarissima ne
chiedo perdono, ho cercato di fare del mio meglio, ma la scena da descrivere mi
si presentava piuttosto intricata… se avete qualche
osservazione in proposito o a sproposito, fatevi pure sentire. Per il resto… al prossimo capitolo!
Capitolo 33 *** 31 - DI CARNE E DI SANGUE, INFINE ***
Capitolo 31
(DI CARNE E DI SANGUE, INFINE)
Cadere da un treno in corsa non
rappresentava la peggiore batosta che Danny avesse preso in vita sua.
Garantito.
Il fatto che il treno andasse
molto piano, poi, certo aveva collaborato. Ma c’erano anche fattori che avevano
sicuramente aiutato a rendere il suo incontro con il terreno, costituito dalle
pietrone che circondavano i binari, particolarmente doloroso: come il fatto
che, di fatto, era stato trascinato giù e appesantito nella caduta da uno dei
suoi avversari di colluttazione che gli era aggrappato addosso, e al quale
fortunatamente l’impatto del salto aveva prontamente fatto perdere la presa sui
suoi vestiti. Un’altra faccenda poco edificante e procuratrice di notevoli
sballottamenti e futuri lividi, era il fatto che dopo il duro atterraggio Danny
era incappato, così come i due caduti dal treno con lui, in un incontrollato
rotolamento franante giù dal pendio del terrapieno su cui correvano i binari.
Ad ogni modo, era ben altro che
ora appesantiva l’animo del ragazzo, mentre, fucile imbracciato in spalla e
pistole al sicuro (una al solito incastrata tra la sua schiena e la cintola dei
pantaloni, sotto la maglietta, e l’altra infilata in una custodia che portava
allacciata attorno agli snelli fianchi ammaccati), scarpinava sui binari, dopo
essersi riarrampicato sul terrapieno. E non era il
fatto che i due uomini che aveva scaravoltato giù dal
treno - volendo per un attimo omettere lo sgradevole lato della faccenda in cui
ciò facendo era ruzzolato giù pure lui - lo stavano seguendo, a una certa
distanza.
I due non apparivano meno
malconci di lui, e uno zoppicava vistosamente. Avevano il solito sguardo
insensibile, come appannato, e la bocca rilassata in smorfie di demenza
platealmente ebete, i vestiti stracciati e impolverati per la caduta e forse
per qualche disavventura in cui erano incappati prima di trovarsi sbattuti giù
da un treno in corsa. Che fosse stata quell’ultima esperienza, o il probabile
dato di fatto che da giorni vagassero senza toccare cibo e acqua né riposarsi,
fatto stava che il loro incedere, per quanto determinato, risultava lento e faticoso,
piuttosto trascinante in summa; per questo Danny non aveva alcuna difficoltà,
mantenendo un buon passo, a lasciarli procedere solo a diversi metri dietro di
sé, ignorandoli. Nel complesso la scena aveva un che di grottescamente comico,
forse.
Inoltre, il ragazzo aveva deciso
di rimandare a migliori situazioni il chiedersi com’era possibile che non si
fossero accorti di avere a bordo con loro due passeggeri imprevisti, i quali
peraltro si erano guardati bene dal comparire sulla scena prima di una ventina
di minuti di tranquillo viaggio indisturbato. E d’altra parte bastava guardarli
in faccia per un momento, e considerare le misere condizioni materiali in cui
si trovavano, per trovare un pronto e deciso dissenso a qualsiasi supposizione
su una loro ben celata capacità intellettiva. Che Danny e compagnia, invece,
teoricamente dovevano poter esercitare ampiamente…
Che fossero riusciti a salire nell’ultimo vagone durante una delle loro soste
per aggiustare i cambi dei binari, o che fossero stati chiusi in uno dei bagni
del treno o imbambolati a fissare qualcosa, accorgendosi della loro presenza
solo con parecchio ritardo, o che si fossero incastrati in due in mezzo al
corridoio tra i sedili riuscendo a liberarsi dall’ingarbuglio solo all’ultimo,
magari eccitati dalla vista di Danza, la prima a scoprirli…
insomma,qualsiasi cosa fosse successa di preciso, ora non costituiva per Danny
qualcosa di così importante o interessante.
No, ad angustiare maggiormente
Danny, mentre avanzava, doloroso passo dopo l’altro, verso un orizzonte lontano
e reso un po’nebuloso dall’umidità della grigia giornata invernale, era il
fatto che non ci fosse alcun treno composto da una vecchia caffettiera (o, a
voler essere generosi, ‘locomotiva’) e da tre vagoni in vista. Il treno, dopo
la loro caduta, non si era fermato. Anzi, doveva aver proseguito per una certa
distanza, visto che quando era riuscito a terminare la sua arrampicata sul terrapieno
per spaziare la sua vista in quella direzione, lo aveva intravisto per pochi
minuti sparire in lontananza. Insomma: perché diavolo non si erano fermati?!
Danny sospirò pesantemente, si
sistemò meglio a tracolla il fucile di Uther, e
lanciò l’ennesimo sguardo distratto alle sue spalle. I suoi testardi e malmessi
inseguitori procedevano diversi metri più indietro, e sembravano persino ingenuamente
convinti di poterlo raggiungere. Il ragazzo distolse lo sguardo dal patetico
spettacolo, con una lieve smorfia di vaga pena, sospirò ancora, e continuò a
camminare con una certa generosa pazienza. Comunque fosse, sperava di non dover
arrivare a piedi fino a Foelm, perché doveva trovarsi
ancora a diversi chilometri dalla cittadina, a giudicare dai suoi calcoli
assemblati in base a vaghi ricordi ed impressioni.
Da quando aveva preso ad abitare
alla casa con Justin ed il Conte, non si era allontanato che rare volte, e per
periodi molto brevi, da CastleMac’Hearty. Non che il piccolo assembramento urbano, con le sue
noiose e ripetitive ritualità quotidiane, o la casa del Conte, con le sue mire
di ambiente gotic-horror, avessero mai esercitato su
di lui tutta questa attrattiva. Se si fosse concesso per un momento abbastanza
lungo di ripensare apertamente e onestamente a quella sistemazione, avrebbe
finito per ammettere a se stesso che si era trattato solo di un ripiego,
dettato da cose come pigrizia e sfiducia. Riteneva che fosse abbastanza
chiaramente sottinteso senza il bisogno di dirlo proprio così com’era; non se la
sentiva di iniziare qualcosa come un impegnativo confronto, una sorta di
tedioso processo alla sua coscienza. Perlomeno, non ora che andava camminando
su binari deserti, trascinandosi involontariamente dietro due individui
sconosciuti privati delle più basilari facoltà mentali, ridotti a corpi
ambulanti dalla pervicace e indistinta volontà di afferrarlo. Per farne cosa,
poi, forse non lo sapevano nemmeno loro. Se avesse avuto a che fare con
sensibilità minimamente capaci di distinguere la natura di uno sguardo, Danny
si sarebbe probabilmente abbandonato all’istintivo proposito di voltarsi a
fronteggiarli. Anche se non ne andava del tutto consapevole, la sua esperienza
aveva incamerato chiaramente l’informazione che la maggior parte degli umani
che aveva incrociato fino a quel momento erano stati indotti, da una delle sue
occhiate più concentrate, a rifare qualche volta i loro calcoli con una certa meticolosità,
per vedere se era proprio necessario e irrimediabile il dover avere a che fare
con lui.
Danny aveva mantenuto, in
compenso, un atteggiamento di distaccata cortesia di convenienza con i numerosi
componenti la sua clientela come ‘acchiappa animali’. E col tempo, col passare
delle ore, dei giorni, delle settimane e poi di mesi ed anni, si era impersonato
abbastanza bene in quel ruolo. Non che lo tenesse sempre coscienziosamente
presente, il fatto che il suo non era altro che un ruolo di formale interesse
immediato. Aveva avuto bisogno di soldi, e si era dedicato alla caccia di
animali domestici perduti, scomparsi, in difficoltà momentanea; le sue abilità
si accordavano molto bene ad un lavoro come quello. Così come le sue
considerazioni riguardo ai rapporti formali tra i componenti di una società
civile di umani si erano accordate bene al suo fingere un compassato distacco
professionale quando doveva trattare su incarico e compenso con chi lo mandava
alla ricerca di un animale perduto. A volte pensava che il suo genere di
‘caccia’ era molto mutato, e scopriva di non essersi accorto del parallelo
singolare abbastanza bene, tranne quando faceva un raffronto aperto e chiaro
tra sé e sé; e allora ne rideva, in un modo che non gradiva. Non amava la
natura del divertimento in cui si era trovato ad incappare nell’ultimo periodo.
E non era tanto per il sarcasmo amaro, marcio, che costituiva gran parte della
natura di quella specie di considerazioni auto-ironiche sulle sue attività
attuali. Era qualcosa di diverso, che aveva a che fare con il principio
dell’adattabilità, un’adattabilità nemmeno forzata, e per questo quindi più
colpevole forse; adattabilità che sembrava trovarsi spinta ad esercitarsi solo
sotto l’egemone governo di una pigra incapacità di fare qualcos’altro.
Sorpreso da un sentore leggero di
nausea, Danny raccolse un po’ di saliva in bocca e sputò per terra. Scorse
l’ombra rossastra di un filo di sangue nel suo sputo, mentre lo superava nel
continuare a camminare. Si passò una mano sulla bocca, e trovò un’altra leggera
macchia di sangue, scoprendo insieme una certa dolorabilità
di un tratto del labbro superiore. Doveva esserglisi
un po’ rotto nella caduta. Non se ne curò particolarmente; sapeva che sarebbe
guarito presto.
Rialzando lo sguardo davanti a sé
verso l’orizzonte, però, qualcosa attirò la sua attenzione immediatamente. Sul
piatto dell’orizzonte, verso cui spariva il terrapieno costellato
dall’intelaiatura spessa e metallica dei binari, qualcosa si muoveva. Danny
ricordò a se stesso che era meglio disubbidire nettamente all’istinto di
rallentare il passo, dal momento che doveva fare i conti con i suoi mal
assortiti ma testardi inseguitori, e invece assottigliò gli occhi, concentrando
lo sguardo sulle sagome che si definivano man mano che si avvicinavano.
Riconobbe due persone che
camminavano come lui sui binari, venendogli incontro. L’allarme e la speranza
si battagliavano dentro di lui, ognuno deciso a non cedere di un millimetro,
per continuare a frapporsi senza arretrare al tentativo dell’altro di
guadagnarsi un po’ di vantaggio. Nessuno l’ebbe vinta per diversi minuti,
mentre ancora il ragazzo cercava di distinguere meglio i particolari che
definivano le due sagome. Poi, la relativa scarsa altezza delle due figure, e
il loro passo convinto e ben coordinato, insieme ad una sensazione di
familiarità che accompagnava il loro modo di muoversi, diedero definitivamente
vantaggio alla speranza, che spazzò via in pochi colpi il timore. Infine, un biondo
e un bluette di capelli eclissarono ogni dubbio, e Danny sorrise, con sempre
maggior convinzione liberatoria.
Ben prima che i loro odori
arrivassero alle narici di Danny, per essere riconosciuti e dare la finale
conferma, lui aveva riconosciuto i tratti di Andrea ed Uther.
E loro avevano visto lui. E poi, mano a mano che si avvicinavano, i loro
sorrisi impallidivano, e i loro sguardi si facevano più preoccupati. Dovevano
aver visto anche le due sagome che seguivano Danny, ora, considerò il ragazzo.
Alzò una mano, in un gesto di
saluto a cui impresse anche un segno di rassicurazione, per segnalare loro che
non c’era pericolo; in fondo era sufficiente che continuassero a camminare
tenendoli a distanza. Piuttosto, c’era da chiedersi che fine avesse fatto il
treno con il resto del gruppo. Ma la viva preoccupazione di Uther
ed Andrea sembrava essere rivolta solo a lui e ai suoi inseguitori, segno che
probabilmente gli altri aspettavano più avanti, treno compreso, senza
particolari problemi.
Danny constatò con stupore che Uther, quando ormai mancava solo un paio di centinaia di
metri a separarli, allargava gli occhi in un’espressione particolarmente
allarmata, ed Andrea iniziava a gridare qualcosa. Uther
prese a fare segni confusi con le braccia, affannosamente, ed uno dopo l’altra
iniziarono a correre verso di lui.
Il ragazzo arricciò appena il
naso, perplesso. Dovevano aver frainteso la pericolosità dei due soggetti che
lo seguivano. Per confermarsi ciò, lui voltò appena il capo per spiare dietro
le sue spalle. E vide due braccia calargli addosso, mentre veniva investito dal
peso morto di un corpo.
Non fece in tempo a formulare una
risposta fisica sufficiente, e si ritrovò addosso prima uno, poi anche l’altro
dei due individui. Il peso confusamente scoordinato che gli gravò
all’improvviso sulle spalle, unitamente a un piede o due di troppo framezzo ai
suoi ancora impegnati a camminare, gli fecero perdere l’equilibrio, e si
ritrovò a cadere malamente di traverso, inciampando nel contempo sui binari.
Con i due corpi addosso, di nuovo si trovò a franare giù dal terrapieno, in un
aggroviglio confuso di braccia, gambe e addomi che rotolavano giù,
trascinandosi dietro lastre superficiali di terreno, travolgendo cespugli e
arbusti.
Proprio su un arbusto più
resistente degli altri lo slittamento a peso morto di Danny si arrestò
passivamente, e lui si ritrovò addosso solo uno dei due corpi. Sentiva
confusamente le urla di Andrea che si avvicinava correndo.
Per prima cosa, non senza un
nervosismo infastidito ad appesantirgli le mani, Danny recuperò abbastanza le
coordinate sul sotto e il sopra del mondo per puntellarsi su un ginocchio,
raddrizzare il busto e assestare un forte pugno all’uomo che gli pesava
addosso, e che stava confusamente cercando di esercitare presa su di lui, con
l’unico risultato di sbattergli addosso senz’ordine manate frenetiche.
Danny ebbe la giusta intuizione:
prima che il tizio potesse riuscire ad aggrapparsi abbastanza saldamente a
qualsiasi cosa che riguardasse la sua persona, abiti compresi, riuscì a fare
leva con le gambe, in modo da far scaravoltare il
corpo dell’uomo sopra un suo ginocchio, facendogli perdere l’equilibrio ed
indirizzando la sua caduta verso il fondo del terrapieno. Funzionò, e di lì a
poco Danny si ritrovò a contemplare il corpo dell’avversario che rotolava giù
per il resto del terrapieno, senza riuscire ad opporre una qualsiasi azione
sensata lontanamente utile ad arrestarsi.
Un urlo acuto eruppe vicino.
Danny si voltò fulmineamente verso la cima del terrapieno, e vide che Andrea
era incappata nell’altro uomo. Probabilmente nell’affrettarsi giù per la ripida
discesa era caduta. E l’uomo, che doveva aver perso la presa su Danny nel loro
precedente rotolare, aveva avuto sufficiente tempo per accorgersi di lei e
muoversi per raggiungerla. Uther non era molto
distante, ma per evitare di cadere aveva dovuto optare per una corsa più lenta
giù per il pendio, e si era inoltre attardato a raccogliere il suo fucile, che
doveva essere sfuggito a Danny mentre rotolava. Uther
aveva compreso in fretta il suo errore di valutazione, e si stava già
precipitando verso Andrea. Ma Danny era più vicino, e trovandosi davanti la
vista dell’uomo instupidito dallo stato privo di consapevolezza in cui si
trovava che un po’ cadeva un po’ arrivava volutamente addosso ad Andrea, scattò
fulmineo.
In rapidi balzi alternati ad una
veloce corsa solcò i pochi metri che lo separavano dai due, e si immischiò
prontamente nella colluttazione appena iniziata. Con notevole sforzo riuscì
quasi subito a togliere di dosso da Andrea, semi-rannichiata
in un’istintiva posizione di difesa, gran parte del corpo dell’uomo. Ma allora
si rese conto, anche a causa di un lamento doloroso della ragazza, che l’uomo
aveva trovato il tempo di afferrarla abbastanza saldamente. Con una mano le
stringeva il polso, ma quello che preoccupò maggiormente Danny fu quella con
cui stringeva una fenomenale presa dritta sulla testa della ragazza. La statura
mingherlina di Andrea e quella invece di notevoli dimensioni dell’uomo,
permetteva a quest’ultimo di esercitare una stretta salda, a mano aperta, sul
cranio della ragazza.
Lei ora urlava di dolore vivo, e
a giudicare dalle vene in rilievo sul palmo e il polso delle sue mani, l’uomo
stava esercitando tutta la sua forza su quelle prese. Che lo avesse sentito
davvero oppure no, nelle orecchie di Danny parve risuonare un eco di ossa che
si incrinano.
Uther, che arrivava
precipitosamente, ormai correndo, scivolando e continuando anche in scivolata a
procedere, tutto pur di raggiungere gli altri e aiutare, vide la scena
evolversi con rapidità. Mentre Andrea gridava, tirando pugni e calci a caso,
guidata dall’accecante necessità di eliminare il dolore, e colpendo pertanto
tanto il suo aggressore quanto, inavvertitamente, Danny stesso, quest’ultimo
mutò il suo atteggiamento. Se prima la sua azione era stata pronta e
determinata, guidata dalla forza e dalla necessità, di colpo metamorfosò in
fulminea volontà feroce.
Dopo il vano tentativo di staccare
le mani dell’uomo da Andrea facendo appello a tutta la propria forza, Uther vide Danny concentrarsi sul colpire lui. Uther sapeva, o presumeva molto fortemente, che il
proposito di Danny era quello di indurre l’uomo a mollare la presa; e sapeva
anche che l’uomo non era in condizioni di scegliere tra il proprio dolore e
quello che stava esercitando sulla ragazza. Ricordava vagamente, ma abbastanza
distintamente, di aver assistito ad un episodio del genere, diversi anni addietro,
la cui dinamica, per qualche motivo, gli ricordava la scena presente.
Ricordava un cane, di una qualche
razza mastina; era dedito ad abbaiare furiosamente a
qualsiasi cosa si muovesse davanti a lui, e la sua panoramica era sempre
comunque piuttosto ristretta, dal momento che il padrone lo teneva perennemente
legato ad una corta catena, sul giardino sul retro della sua abitazione.
Probabilmente per i proprietari il cane aveva l’unico scopo di fare la guardia,
e l’unica necessità di bere e mangiare a sufficienza; il fatto che mostrasse
folli propositi omicidi verso qualunque cosa osasse muoversi davanti al suo
sguardo, eccetto che il padrone in persona, probabilmente rappresentava per
questi la conferma che l’animale assecondava meravigliosamente il suo scopo. Un
giorno, poiché in tutte questo genere di storie ‘quel giorno’ arriva sempre,
prima o poi, un uomo in bici col cane che gli correva appresso erano passati di
fronte al giardino dove giaceva il mastinoide legato.
Questi, vedendo tale inaudita cosa, e soprattutto constatando che il cancello
del cortile in quel momento era aperto, perché il padrone era sul marciapiede
che parlava con un conoscente, si era precipitato fuori. Nell’arco di pochi
istanti era riuscito a divelgere il chiodo che teneva
la catena infissa nel muro, e trascinandosela dietro aveva superato il cancello
aperto, saettando tra le gambe di padrone e conoscente, nessuno dei quali aveva
fatto in tempo ad accorgersi di cosa stava accadendo per poter intervenire. Il
cane aveva terminato la sua corsa dritto sull’altro, e aveva iniziato
immediatamente la sua opera demolitrice, semplicemente azzannando il suo
consimile eppure dissimile dritto alle interiora. Uther,
che allora lavorava al porto, stava tornando a casa, camminando sulla banchina.
Ricordava bene che c’era un sole rosso, un tramonto primaverile dall’aria
dolce. E il cane, sotto la presa formidabile delle zanne del mastino, aveva
prima tentato ogni cosa a sua disposizione, e di concerto il suo padrone:
avevano blandito, gridato e guaito, morso, picchiato, tirato, strattonato,
preso a calci e a colpi di zampa, ripetutamente e sempre più violentemente. Ma
il mastino non voleva staccarsi, e il padrone di esso, che assisteva alla scena
senza sapere che fare, osava a malapena lanciare rauchi gridi di protesta. Uther aveva visto il cane azzannato cadere pian piano a
terra, gocciolando sangue, e l’altro ancora non mollava, anzi piuttosto si
lasciava morire anche lui sotto i colpi infertigli a suon di pugni e calci dal
padrone del cane aggredito; morire, pur di non mollare la presa sulla sua
vittima. Aveva poi sentito dire che in qualche fortuito modo i due cani erano
entrambi sopravvissuti, anche se con brutte ferite e una lunga degenza; il cane
che aveva aggredito, giudicato pericoloso, era stato condannato all’abbattimento,
ma pochi giorni prima della data prefissata il proprietario aveva dichiarato
che il cane era scappato; c’era da aspettarsi, logicamente, che lo avesse fatto
sparire per evitargli la morte.
Ora, mentre si affrettava per gli
ultimi metri che lo separavano dai tre, Uther vedeva
Danny sferrare colpi sempre più potenti all’uomo, colpendo a caso e in ogni
punto che gli capitasse a portata, mentre Andrea, ormai lamentandosi a stento,
aveva ripreso abbastanza coscienza da cercare di staccare da sé le mani che la
stringevano. Lei aveva smesso di colpire l’uomo, ma Danny continuò,
imperterrito, guidato da una testardaggine in cui la disperazione si mescolava
troppo strettamente con l’aggressività perché si potessero distinguere ancora
l’una dall’altra. Pochi istanti prima che Uther si
fermasse accanto a loro, l’uomo era crollato esanime a terra, e Andrea era
riuscita a togliersi di dosso almeno la mano che le aveva tenuto stretto il
cranio. Quella che la teneva per il polso era ancora salda al suo posto, ma la
ragazza aveva temporaneamente perso interesse per il dolore derivante da ciò,
perché ora anche lei stava realizzando cos’era accaduto.
Con dolorosa comprensione, Uther vide lo sguardo di Danny schiarirsi, tornare
pienamente consapevole, e realizzare con sgomento e terrore l’immagine del
corpo dell’uomo riverso a terra, la ridda di contusioni che gli aveva inferto,
spezzando ossa e spappolando gli organi più esposti, spaccandogli i lineamenti
fino a trasformagli la faccia in un pestato avanzo sanguinante di ciò che era
stato il viso.
Uther si chinò, prese
la mano dell’uomo ancora stretta attorno al polso di Andrea, e cercò di aprire
le dita, ma non vi riuscì, nonostante esercitasse tutta la sua forza, senza
timore di infliggere alcun danno al corpo ormai maciullato dell’uomo. Andrea
agitò un po’ il braccio, inizialmente, tentando di liberarsi, e poi restò
immobile, per facilitare l’opera del ragazzo; ma Uther
non riuscì ad aprire le dita. Allora si voltò a guardare Danny. Il ragazzo, in
ginocchio sul terreno, aveva le braccia abbandonate lungo i fianchi, come se
fossero semplicemente appese alle sue spalle e prive di vita. Aveva le mani e
le scarpe sporche di sangue, che gli era schizzato addosso in sottili spruzzi
anche sugli abiti. I suoi occhi erano persi nel vuoto, anche se apparentemente
fissi sul corpo dell’uomo che giaceva davanti a lui.
Uther si alzò, e
caricò il fucile che aveva in mano. Quindi guardò Andrea, e aspettò
pazientemente che lei capisse. Quando la ragazza realizzò le sue intenzioni,
sembrò sul punto di protestare, scosse la testa, come volendo respingere da sé
qualcosa, ma poi seguì il cenno della testa con cui Uther
gli indicava l’uomo abbandonato a terra. Respirava a fatica, e irregolarmente;
e nonostante ciò era ancora assente, nel tipico atteggiamento che avevano
assunto tutte le persone contagiate. Tuttavia, c’era ora un ulteriore velo ad
appannargli lo sguardo.
Andrea ebbe un moto di orrore e
rifiuto più violento. «No… no!» disse, con voce roca
e stentorea. Ma Uther scosse la testa, dandole segno
che non era disposto a scendere a patti. Però le concesse ancora tempo, mentre
lentamente puntava la canna del fucile verso la testa dell’uomo; gli appoggiò
la bocca del tubo metallico dritta sul cranio già sanguinante. Finalmente Andrea
girò il capo dall’altra parte, chiudendo gli occhi e non trattenendo un forte
singhiozzo angosciato, che sembrò sul punto di mozzarle il respiro in gola.
Uther guardò un
ultima volta Danny in viso, ma non trovò alcun segno di presenza nei suoi
occhi. Attese ancora, poi, dal momento che il tempo scorreva, allungò un piede
e assestò un debole calcio contro un braccio del ragazzo, richiedendo con più
fermezza la sua partecipazione.
Danny reagì. Alzò lo sguardo su Uther, benché la sua espressione di totale smarrimento orrorificato fosse intatta; mosse a malapena la testa, in
un impercettibile cenno d’assenso. Uther se lo fece
bastare.
Lo sparo riecheggiò con violenza,
assordando in parte Danny ed Andrea, che vi erano meno abituati.
Andrea attese qualche istante, e
fece per girarsi, ma le mani di Danny si posarono sulle sue spalle, e il
ragazzo, che le si era affiancato quasi senza rumore, la persuase con il suo
semplice frapporsi tra lei e il resto ad evitare di guardare direttamente lo
spettacolo che doveva aver lasciato dietro di sé il colpo di fucile.
Uther si era chinato
di nuovo, dopo essersi rimesso il fucile a tracolla. Andrea sentì le sue mani
che, con calma gentilezza, le toglievano di dosso le dita dell’uomo, rimaste
strette attorno al suo polso. Lei si portò allora la mano liberata contro le
clavicole, avvolgendolo nella stretta dell’altra mano, come se ciò valesse ad
alleviare il dolore, che esplodeva particolarmente se osava commettere il più
piccolo movimento con il polso contuso. Ebbe un impulso improvviso, e con la
mano sana spinse Danny lentamente ma con fermezza, allontanandolo da sé, e si
voltò a guardare.
La scena truculenta dei resti del
suo aggressore non le sembrò più impressionante del disgustoso odore in cui era
ormai immersa, ma si sentì molto triste. Fu tentata di rivolgere una rabbia
furiosa all’indirizzo di Uther, che stava
ricomponendo sommariamente il cadavere, allineando le gambe e disponendo le
braccia sul torace, come se cercasse qualcosa da fare; ma sapeva, non poteva
fingere di ignorare, che il ragazzo si era limitato a dare il colpo di grazia,
un gesto puramente dettato dalla pietà e dalla volontà di evitare peggiori e
più lunghe sofferenze.
Si volse allora verso Danny, come
in cerca di un migliore bersaglio. Ma tutta la sua furia si spense con la
subitaneità di un fiammifero acceso che viene immerso nell’acqua.
Danny giaceva seduto sul terreno,
le gambe come abbandonate, così come le braccia, la schiena e le spalle curve,
e il capo chino sul petto, come se fosse stato privato di ogni scintilla
vitale. Il viso abbassato, quasi invisibile, sembrava privo di ogni cenno di
volontà, smorto e pallido, come perduto nella contemplazione di qualcosa che
toglieva ogni desiderio di vita, lasciando soli di fronte ad un grande orrore.
Andrea si voltò a guardare Uther, il quale, come comprendendo la natura del suo
scoramento, rispose con un’espressione triste, e scosse appena la testa. «Ti fa
male…?» le domandò, in un sussurro, indicando col cenno
di un dito il suo polso, che ora teneva abbandonato in grembo. Lei fece segno
di no con la testa, anche se non era vero, ed entrambi lo sapevano.
Tornò a guardare Danny. E gli
parve di vedere un fantasma che non si è accorto di essere morto. Fu percorsa
da un forte tremito incontrollato, inquietata da questa sua stessa metafora, ma
riuscì infine a muoversi, anche se si sentiva dolorante, e anche lei vinta,
impotente, senza forze di alcun tipo.
Strisciò vicino al ragazzo, e gli
si inginocchiò di fronte. Dal momento che lui non reagiva in alcun modo,
allungò lentamente il braccio del polso sano, ignorando come meglio poteva il
dolore dell’altro, che andava strisciandole fin sulla punta delle dita e fino
alla spalla sinistra. Passò la mano tra la spalla e la nuca di Danny, e gli
girò lentamente il braccio intorno al collo, senza curarsi di strisciare la
pelle sul collo e sull’orecchio di lui nel gesto; il calcolo dei suoi movimenti
era faticoso, e appariva superfluo, in quel momento. La lentezza dei suoi gesti
era dovuta unicamente al proposito di non spaventare né Danny né se stessa. Si
sporse ad abbracciarlo meglio, con quell’unico braccio, rimanendo abbastanza
discosta da non risultare invadente, e appoggiò la guancia sul lato della sua
testa, sui capelli arruffati, mischiati di polvere e odorosi di sangue.
L’odore del sangue riempiva tutta
l’aria attorno a loro, e le dava una pesante sensazione di soffocamento. Forse
per questo il suo intero corpo fu percorso da un altro paio di tremiti
incontrollati, e quasi le sfuggì dalle labbra un lamento singhiozzante. Poco
dopo, Danny si mosse; con gesto sospeso, come in un sogno di melassa ostile,
portò un braccio a ricambiare l’abbraccio, debole e assente.
Uther distolse lo
sguardo, per rivolgerlo al fondo del terrapieno. Là vedeva l’altro uomo, quello
di cui si era liberato Danny prima, rialzarsi ed iniziare ad arrampicarsi, e
continuare a ricadere a ripetizione. Aveva una gamba rotta, che gli impediva di
riuscire a camminare senza crollare di nuovo al suolo. Nonostante ciò,
continuava a rialzarsi e a fare qualche passo, prima di ricadere e rotolare di
nuovo fino all’incirca nel punto dal quale era partito.
Uther aveva un forte
desiderio di urlare, ma restò zitto.
Note dello scribacchiatore:
Questo capitolo
è venuto fuori così saturo di drammaticità sanguinaria, che mi sento quasi in
soggezione nello scrivervi una nota al termine; ma sento questa necessità.
Confesso che questa storia, sebbene prevedesse momenti più seri e drammatici,
non comprendeva inizialmente un passaggio così ‘duro’ come questo capitolo.
Tuttavia da sempre quando scrivo non ho il completo controllo della direzione
degli eventi: essi sono guidati anche dal libero arbitrio dei personaggi
(d’accordo, libero arbitrio fino ad un certo punto, dopotutto sono mie
creazioni ^^). Ma questo capitolo va oltre la volontà dei personaggi stessi, e
difatti, come viene sostanzialmente affermato nei ricordi di Uther, a volte la situazione si rivolge in modo tale che
sembra di non poter fare altrimenti, di non poter trovare altre vie, sebbene
quelle che si prendono ripugnino profondamente, fino a portare ad aver
repulsione per le proprie azioni e, attraverso esse, per se stessi. Questo,
credo, è ciò che capita a Danny. E da qui sorge il titolo, che richiama all’impotenza
e a un terreno basilare comune su cui a volte possono precipitare le cose,
finendo per terminare solo in questione di carne e di sangue.
La scena
ricordata da Uther, mi duole dirlo, è ispirata al
racconto di una scena verificatasi nella realtà, e accaduta ad un amico e al
suo cane. Anche nella realtà, per fortuna, entrambi i cani se la sono cavata,
anche se quello aggredito per poco.
Yuta, Kumals e Zoal abbandonarono
infine temporaneamente il treno di cui si erano impossessati sui binari, e,
Duca e Danza al seguito, si incamminarono a piedi, tornando indietro verso Umak, alla ricerca degli altri, il cui ritardo nel tornare
non faceva presagire nulla di molto positivo.
Quando alfine li trovarono, in
effetti la scena che si presentò loro era abbastanza tragica.
Aveva iniziato a cadere una
sottile pioggerellina fredda, che andava infradiciandoli con snervante
lentezza.
Mentre Kumals
e Yuta scendevano fino al fondo del terrapieno,
accompagnando Uther ad occuparsi dell’uomo
“contagiato” che continuava ad alzarsi, fare qualche passo, e ricadere a causa
della gamba rotta, Zoal si fermò presso il corpo
senza vita dell’altro uomo.
Danny non aveva ancora dato altro
segno di vita; si limitava a restare abbandonato seduto sul terreno, come senza
forza, stringendo debolmente un braccio attorno ad Andrea. Lei alzò lo sguardo
su Zoal, che le aveva chiesto se era ferita. Annuì
debolmente, ma non accennò alcun movimento, rimanendo semi abbracciata al
ragazzo, come paventando di poter trovare un equilibrio in altro modo; il
braccio dolorante, col polso ferito su cui si andava scurendo una contusione
rossastra e livida, se lo teneva appoggiato in grembo, non osando muoverlo.
Zoal si chinò,
inginocchiandosi a fianco del cadavere che Uther
aveva sommariamente ricomposto. Gettò un breve sguardo giù lungo il pendio,
accertando che Duca e Danza stavano accompagnando gli altri appresso all’uomo
con la gamba rotta. Poi chinò di nuovo lo sguardo sul corpo che giaceva davanti
a lei.
Andrea la vide allungare piano
una mano, e posarla sul viso del corpo. Cominciò poi a mormorare una sorta di
cantilenante serie di parole, in un idioma che Andrea non aveva mai sentito. Ma
dal tono usato dalla donna, le parve di poterne comprendere il senso. Zoal diceva qualcosa come ‘dormi bene, il resto è passato,
riposa tranquillo ora, sei a casa, e va tutto bene.’.
Solo allora Andrea si sentì
iniziare a singhiozzare piano. Danny ebbe un tremito, nell’udirla, e si mosse.
Si scostò un po’ da lei, guardandola spaventato, e si allontanò ulteriormente,
salvo riprendere poi la sua posa abbandonata e infinitamente contrita, a capo
abbassato e spalle chine, come appesantito da un eccessivo carico.
Zoal terminò la sua
specie di cantilenante ninna nanna funebre, e poi si alzò, facendosi appresso
ad Andrea. Le avvolse intorno alle spalle uno dei suoi lunghi bracci adombri di
vestiti, e stringendola per le spalle si limitò a tenerla stretta contro di sé,
mentre con cauti modi iniziava a toccarle il polso con le lunghe dita piuttosto
fredde, saggiando il danno con cura paziente e in silenzio.
*
***
*
Riuscire a tenere abbastanza
fermo l’uomo privo di coscienza di sé, per potergli steccare alla bell’e’meglio
la gamba rotta, e guidarlo poi al treno con loro, su cui lo caricarono, fu
un’operazione impegnativa e necessitante di molta pazienza, in cui si
cimentarono in silenzio Kumals, Yuta
ed Uther. Solo quest’ultimo mostrava di tanto in
tanto il suo evidente fastidio verso i movimenti insensati e ostruenti che
l’uomo opponeva loro, senza rendersi conto di ciò che faceva.
Mentre viaggiavano, il treno
rimesso in moto sui binari, Zoal e Yuta si occuparono tanto delle contusioni di Andrea quanto
della gamba dell’uomo. Utilizzando pezzi recuperati dal treno stesso, come il legno
di una porta che ruppero, unitamente a gommapiuma e stoffa che presero dall’imbottitura
di un paio di sedili, riuscirono ad arrabattare sia una fasciatura per il polso
della ragazza che una sommaria steccatura per la gamba del tizio inebetito.
Dopodiché dovettero legarlo ad un sedile con le cinture di Kumals,
Danny e Yuta, e con la cinghia che Uther utilizzava per tenere il fucile a tracolla,
impedendogli di continuare ad infastidirli, tentare di aggrapparsi a loro o di
aggredirli in svariati e assurdi modi.
Continuarono il viaggio, e poteva
quasi sembrare che non fosse avvenuto nulla di importante nel framezzo, se non
fosse stato per l’uomo che continuava ad agitarsi tentando vanamente di
liberarsi dal suo sedile, o per l’atteggiamento atono di Danny, o per il
pesante silenzio che tutti mantenevano ora.
Il mattino stava ormai sfumando
in un pomeriggio ancora più incupito da pesanti nuvole, anche se la pioggerellina
era cessata quasi del tutto, quando il treno giunse nelle vicinanze della
stazione di Foelm, avanzando al suo lento passo di
marcia.
Mentre Uther
guidava il loro breve convoglio, Andrea, il braccio appeso al collo con una
fascia che Zoal abitualmente portava legata in vita,
vide che superavano lentamente la stazione deserta e desolata di Foelm, e subito dopo iniziavano a rallentare e a frenare,
con sonoro stridio delle ruote sui binari. Quando avevano dovuto fermarsi per
tornare indietro in cerca di Danny, frenare era risultato molto più
difficoltoso; ma anche stavolta non fu uno scherzo da poco. Infatti raggiunsero
e oltrepassarono di qualche metro il loro obbiettivo, prima che il breve
convoglio si arrestasse definitivamente. Così la ragazza, che manteneva lo
sguardo incollato al finestrino, così come gli altri che non erano occupati
nella guida, riuscì a vedere bene ciò a cui miravano.
Si trattava di un complesso di
edifici, un paio in totale, grandi, tutti in cemento: due pezzi grigi che svettavano
un po’ sinistramente nel plumbeo della giornata in penombra, con la parte
superiore protesa in orizzontale sopra e perpendicolarmente ai binari, mentre
l’inferiore era costituita da lunghe zampe di cemento, che scavalcavano i
binari, trovando a stento posto tra il loro serpentino distendersi. Parevano i
resti di due colossi di cemento che, nell’attraversare i binari col passo e la
mole epidermici, si fossero bloccati lì per sempre. Nelle compatte parenti di
cemento si aprivano numerose piccole finestre, di una forma perpendicolare
quasi quadrata; la maggior parte erano rotte, e il frastagliato delle schegge
di vetro rimaste attaccate alle cornici contornava il buio che sembrava regnare
all’interno delle costruzioni, come zanne irregolari sul vuoto.
Andrea rabbrividì a quella vista,
e il suo sguardo studiò a lungo quelle strutture, come cercando di cavarne un
aspetto meno sinistro, ma invano. Di nuovo spiò Danny; benché gli occhi del
ragazzo fossero intenti nello studio degli edifici e dell’ambiente circostante,
il suo volto appariva come pietrificato in un’espressione assente, e le sue
membra avevano un che di abbandonato, come preda di una profonda mancanza di
volontà, difficile a definirsi e ancor di più ad ostacolarsi. Andrea provò
l’impulso di sporgere cautamente una mano a sfiorarlo, come per provare a sé ed
a lui che era ancora vivo, dopotutto, ed ancora in grado di recuperare, di
riaversi dallo stato di prostrazione in cui pareva stare affondando lentamente
e inesorabilmente. Aveva ancora i vestiti e i capelli schizzati di sangue
rappreso, anche se l’odore ora era meno penetrante. Ed anche verso di questo
mostrava un apparente disinteresse assente, anche se, a ben percepire, questo
faceva pienamente parte di ciò che lo stava trascinando a fondo.
Prima che Andrea trovasse il necessario
coraggio per ardire rivolgergli qualche gesto o parola, il treno si fermò,
troncando a metà l’ultimo proposito di slancio in avanti che aveva animato la
sua corsa. La ragazza si trovò proiettata contro lo schienale del sedile,
mentre Yuta e Zoal
incespicavano appena, recuperando prontamente l’equilibrio; Danny, il corpo
come abbandonato agli eventi, rimbalzò un poco contro il suo sedile, e il suo
sguardo rimase indifferente, ancora rivolto sul paesaggio esterno al finestrino.
Kumals ed Uther uscirono nel corridoio del vagone, abbandonando la
cabina di guida, e tutti si ritrovarono a fissarsi tra di loro per qualche
momento, fintanto che gli sguardi furono calamitati verso gli edifici che
rappresentavano il loro obbiettivo. Il silenzio era di tanto in tanto
intervallato dai versi di sforzo emessi dall’uomo contagiato che tentava di
liberarsi dal suo essere legato al sedile. Ma già da diversi minuti avevano
tutti imparato ad ignorarlo abbastanza bene.
*
***
*
«Allora, fammi vedere di che sei capace…»
Andrea guardò Kumals
e si concentrò intensamente, assumendo un’espressione estremamente seria;
allargò un po’ le gambe, per essere maggiormente stabile sul terreno, ovvero la
sassaiola grezza e grossa su cui si stendevano i binari. Aggrottò appena la
fronte. Di colpo puntò il braccio dritto davanti a sé, in mano una pistola di
Danny saldamente impugnata, e gridò in un sussurro molto deciso e minaccioso
«Altolà! Non fare un passo o sei morto.»
Kumals, le braccia
incrociate sul petto e l’aria di un critico animato più da razionale cinismo
che da disponibilità a farsi sorprendere, studiò la ragazza da capo a piedi.
«Niente male…
» concesse «Certamente senza quel braccio fasciato al collo potresti rendere
anche di più… Ma credo sarà sufficiente. Se non
fermerai qualcuno per timore, se non altro vi riuscirai suscitandogli una
notevole perplessità…»
Andrea riabbassò il braccio sano
che impugnava la pistola scarica lungo il fianco, con un accenno di smorfia
delusa.
«Non ascoltarlo.» lo contraddisse
Yuta, che era accanto a Kumals.
«Andava più che bene.»
Zoal, Uther e Danny, così come Danza e Duca, erano sparsi sul
resto del terreno che circondava gli edifici. Continuavano a camminare intorno
senza precisa meta, come avevano fatto fin da subito dopo essere scesi dal
treno; ma dal loro scrutare attento e dalle espressioni tese si poteva intuire
che si stavano impegnando in un approfondito esame del tutto.
Dopo un sommario confronto
verbale si era deciso che la cosa più ovvia da fare probabilmente coincideva
con le loro migliori possibilità. Sarebbero penetrati all’interno degli
edifici, prima uno poi l’altro, esaminandone le stanze interne, andando ad
appurare cosa e/o chi contenevano. Le loro speranze sul ‘chi’ si potevano
riassumere in ‘nessuno’, mentre quelle sul ‘cosa’ in ‘qualche utile indizio’.
Ad Andrea e Zoal
era affidato il compito di rimanere invece fuori, tanto per controllare che non
giungessero imprevisti dall’esterno, quanto per poter essere pronti ad
accorrere come ‘rinforzi’ in caso di bisogno in favore a chi entrava; ed
infine, non in ultimo, per tagliare la via di fuga a chi eventualmente nascosto
all’interno degli edifici avesse tentato di sottrarsi alla loro esplorazione.
In quest’ultima ottica, si prevedeva che Andrea avrebbe sorpreso con un accenno
di minaccia improvvisata i fuggitivi, mentre al resto avrebbe pensato Zoal, in un modo che ad Andrea non era tutt’ora
completamente chiaro; non le era molto chiaro nemmeno perché, nonostante queste
lacune di informazioni ben definite, si sentisse comunque tranquilla nel
riporre la sua incolumità fisica nelle loro mani. Il braccio che le pendeva dal
collo e il dolore della contusione sulla testa avrebbero dovuto raccomandarle
altrimenti, e tuttavia rimanevano in silenzio di fronte a quell’improbabile
eppure salda fiducia negli altri. Intuiva che nemmeno se si fosse trovata
circondata da un esercito, stile americano (armi di qualsiasi potenziale medio-alto generosamente dispiegate e atteggiamento da ‘rambo in missione’), avrebbe potuto sentirsi più al sicuro
di quanto si sentiva ora. Era cosciente dell’assurdità di questa sensazione, ma
sapeva di non avere tempo, ora come ora, per cercare di meglio comprenderne il
senso.
«Bene…
» mormorò Kumals, continuando a prestare attenzione al
mantenere un tono relativamente basso, per non mettere in allarme eventuali
presenze all’interno degli edifici ai piedi dei quali sostavano. «Direi che
possiamo entrare. Ci siamo?». Si voltò con sguardo attento verso gli altri. Uno
dopo l’altro, Danny con la pistola in pugno, Uther
col fucile in mano e Yuta con i suoi cerchi dotati di
lama stretti nei pugni, annuirono.
Zoal andò a disporsi
accanto alla soglia dell’edificio sotto cui si trovavano, lateralmente, per
poter cogliere alle spalle chi fosse eventualmente corso fuori; i cani fecero
altrettanto, andando a posizionarsi vicino alle sue gambe, volenterosi di
collaborare, almeno in apparenza. Andrea si posizionò a diversi metri
dall’ingresso, ma dritta di fronte ad esso. Allargò dinuovo le gambe per rendere più salda la sua
posizione, e mosse le dita sull’impugnatura della pistola, alternando lo
stringere e l’allentare della sua presa, cercando di stemperare la tensione, e
per fare impallidire la convinzione che quella fosse un’altra azione arrabattata
alla meno peggio, pertanto ricca di un abbondante margine di rischio e di
imprevisto.
Kumals, Yuta, Uther e Danny si
scambiarono un ultimo incrocio di sguardi reciproci, già appresso la soglia.
Poi, Kumals si chinò, due ferretti sottili estratti
dalle tasche dei pantaloni, e con quelli lavorò per pochi minuti sul lucchetto
che chiudeva la catena con cui era stata sbarrata la porta dell’edificio. Di lì
a poco si udì un secco scatto metallico, e Kumals
poté sfilare con tranquillità il lucchetto, aprendo la spessa catena. Prima di
procedere oltre, Kumals si rigirò un paio di volte in
mano il lucchetto, e infine lo sporse verso gli altri, per far loro notare
l’interessante particolare: mentre la catena e tutto il resto degli edifici
risultavano più che stravecchi, il lucchetto era lucido e quasi per nulla
rovinato, vale a dire praticamente nuovo.
Poi aprirono uno spazio nella
porta sufficiente a fare entrare una persona alla volta. Danny, lo sguardo già
profondamente attento, anche se in qualche modo ancora assente,le narici frementi e i nervi tesi, con alcune
vene in tenue rilievo all’altezza delle tempie, si inoltrò per primo nel buio
dell’interno dell’edificio.
*
***
*
A parte un profluvio di
ragnatele, abitate da ragni e pregne di insetti intrappolati e inbozzolati, un gufo spaventato che abbandonò con sonore
proteste il suo rifugio in un angolo di una delle poche ampie e nude stanze,
una multiforme e furtiva popolazione di scarafaggi e centopiedi, una nottola
profondamente addormentata appesa contro un angolo tra muro e soffitto, e
qualche falena discretamente mimetizzata ed appiattita nel sonno contro le
pareti, non trovarono nessun’altro in entrambi gli edifici. Questo dato di
fatto sembrava avere indotto in tutti loro una specie di delusa perplessità, piuttosto
che un deciso sollievo.
Ma le cose interessanti non
mancavano.
Le stanze risultavano abbandonate
da molto tempo, perlopiù; e a giudicare da qualche segno di falò improvvisato,
qualche detrito di varia natura e in sostanza un po’ di spazzatura umana,
dovevano aver fornito rifugio a qualche senza dimora. Ma una delle stanze degli
edifici era in gran parte occupata da strumentazione tecnologica. Per quanto
l’apparecchiatura di vecchi strumenti perlopiù radiofonici e in generale per la
comunicazione a medio-lunga distanza risultassero
datati, un aspetto lampante era subito risultato chiaro a tutti. Su gran parte
dei quadranti, delle leve, dei pulsanti e così via, a differenza che sul resto
degli oggetti abbandonati e dispersi nelle stanze, non c’era quasi polvere né
traccia di ragnatela. Erano, quindi, stati utilizzati abbastanza recentemente.
Anzi, alcune cose facevano
pensare che lì avesse sostato per un certo tempo qualcuno che li aveva
utilizzati. C’era un bicchiere di plastica semipieno di the, freddo e andato a
male, proprio su uno dei piani di lavoro dei vecchi apparecchi. Le grosse
scatole metalliche, ricche di quadranti e pulsantiere, risultavano però mute,
nel complesso, a tutti loro.
«Ah…»
sospirò Kumals «Non avrei mai creduto di trovarmi a dirlo… Ma sento la mancanza di Justin; visto come stanno le
cose, forse lui ci avrebbe potuto cavare qualcosa…»
Si erano anche loro attrezzati
per bivaccare. Stesa qualche sommaria coperta o direttamente i cappotti sul
lordo pavimento nudo di cemento, e tirati fuori gli alimenti e l’acqua che si
erano portati dietro, avevano improvvisato un pasto valido per tutta la
giornata. Prevedevano di riavviarsi per il ritorno non prima del mattino dopo.
Ormai il sole andava calando sull’orizzonte, nella grigia umidità del
pomeriggio inoltrato; a nessuno di loro arrideva particolarmente l’idea di
doversi ritrovare allo scoperto senza nemmeno l’ausilio della pur debole luce
diurna, e in tal senso persino la parziale copertura fornita dal progetto di
arroccarsi in quegli edifici appariva migliore del rimettersi in viaggio prima
sui binari e poi in auto.
Danny, che non aveva mangiato
quasi niente, si era seduto in un angolo della stanza, lontano da tutti gli
altri; da lì il suo atteggiamento assente e atono tuttavia sembrava riecheggiare
più pesantemente su tutti loro. Spesso lo sguardo di almeno uno di loro vagava
nella sua direzione, come in cerca di segno della sua effettiva presenza, e si
distoglieva prontamente dopo pochi istanti, senza osare soffermarsi troppo.
Solo Zoal non lo guardava mai.
Uther, che era da
poco riuscito a far scoccare una scintilla nel falò improvvisato con detriti
più o meno infiammabili trovati in giro (tra cui, fortunosamente, una piccola
scorta di legna da ardere accumulata, con tutta probabilità, da qualche altro
accampato di passaggio), e che stava iniziando a grandi morsi il suo panino,
interruppe il suo masticare e scoccò uno sguardo adirato in direzione di Kumals. Ma questo era niente in confronto a quel che
emanava la figura di Danny. Benché il suo atteggiamento fosse ancora assente e
apparentemente indifferente, sembrava che il suo corpo avesse il potere di
diffondere nella stanza un’emozione di profondo risentimento. Non disse nulla,
ma si alzò e uscì dalla stanza.
Uther, dopo aver
lanciato un breve sguardo verso Danny che usciva, tornò a concentrarsi su Kumals, intento ad estrarre una piccola nuvola di fumo
dalla sua sigaretta. «Certe uscite potresti risparmiartele.» gli disse, in tono
ombroso.
Kumals lo guardò
significativamente, come ad ammonirlo o sfidarlo, e dopo qualche momento di
silenzio disse «E’ ciò di più vivace che gli ho visto fare nelle ultime cinque
o sei ore, quello di alzarsi e uscire di sua iniziativa. È già qualcosa. Sta
iniziando ad assomigliare fin troppo al nostro amico laggiù.».
Accennò brevemente con un
movimento della testa in un altro angolo della stanza. Lì, impacchettato in un
groviglio di pezzi di stoffa di sedile, cinture e corde di fortuna, giaceva
l’uomo dalla gamba rotta, che avevano opportunamente trasferito dal treno.
Nonostante mostrasse ancora, con ostinazione infinita, qualche accenno di
ribellione al suo essere legato, sembrava che la sua assurda testardaggine
iniziasse a scemare, probabilmente per il semplice fatto che le sue forze
andavano indebolendosi.
Yuta scosse la testa
tra sé e sé. «Smettetela.» mormorò, in tono stanco. Si alzò in piedi, un pezzo
di pane e una bottiglia di acqua in mano, e andò a chinarsi accanto all’uomo
privo di coscienza di sé, ignorando il suo convulso animarsi minaccioso e
apprestandosi a cercare di nutrirlo e dissetarlo con la forza. Kumals prese un’ultima aspirata dalla sua sigaretta, buttò
l’avanzo nel piccolo falò e si alzò per andare ad aiutarla.
Uther, senza curarsi
di celare il suo essere parecchio angustiato, iniziò ad aprire e distendere i sacchi
a pelo di cui disponevano, con gesti scattanti per il nervosismo.
Andrea guardò Zoal,
come in inconsapevole ricerca di ispirazione. Ma la donna, che accarezzava con
una mano il piccolo Duca, acciambellatolesi in grembo
come suo solito, e con l’altra mano Danza, distesa accanto a lei e
addormentata, fissava il fuoco, immersa in qualche sua riflessione.
Non era certa che gli altri
quindi lo notarono quando si alzò in piedi, ed uscì dalla stanza, senza
voltarsi indietro. Nemmeno lei era proprio certa delle sue intenzioni, e si
limitò a farsi guidare dai suoi indefiniti propositi nella pesante penombra
desolata del corridoio che univa le uniche due grosse stanze dell’edificio,
collegandole nel contempo alla scala a chiocciola in ferro che le connetteva al
terreno, qualche decina di metri più in basso.
Di primo acchito, entrando
nell’altra stanza, credette di trovarla vuota. Ma si
accorse poi della presenza della figura solitaria, che voltava le spalle
all’ingresso, in piedi di fronte ad una delle finestre dal vetro rotto,
attraverso cui entrava nuda e cruda la fredda aria invernale.
Per diversi istanti, mentre
Andrea si fermava più o meno al centro della stanza, incerta, Danny rimase
immobile in quella posizione. Poi, lentamente, si voltò appena, per guardare
chi era, anche se lei aveva la viva impressione che lui lo sapesse già. Non
doveva forse ormai ammettere a se stessa che, a quanto pareva, quel ben strano
ragazzo era in grado di padroneggiare il fiuto e l’udito con una finezza
particolare, di norma estranea alla specie umana?
Danny non disse nulla, ma in
qualche modo Andrea evinse dal suo sguardo calmo e piatto che era disposto a
concederle una certa basilare attenzione, o che perlomeno stava attestando la
sua presenza e la possibilità che lei lo avesse raggiunto per interagire con
lui. Solamente che, a conti fatti, lei ora non aveva idea di che cosa volesse
dire o fare. Comunque, pensò bene che avvicinarsi a lui fosse un buon inizio,
anche se qualcosa nella figura del ragazzo la disarmava: sentiva che,
nonostante il superficiale sentore di passivo distacco, qualcosa di muoveva
dietro quello sguardo, trapelando una profonda forza, che restava al momento
quasi acquattata dietro le parvenze di indifferenza, come se raccogliesse le energie
per qualcosa di decisivo.
Se c’era una minaccia da
cogliere, Andrea la ignorò. I suoi passi risuonarono uno dopo l’altro,
nettamente, nel vuoto della stanza, e si azzittirono solo quando lei si ritrovò
vicino a lui.
Danny la guardava con un silenzio
che sembrava un pacato invito a parlare, dettato da pura e un po’ formale
pazienza gentile.
Andrea gli fissava attentamente
lo sguardo, studiando gli occhi. Eppure… già,
indubbiamente: i suoi occhi erano blu scuro.
La ragazza ingoiò saliva e
ritrovò la voce, che uscì comunque in un roco sforzo azzardato.
«Blu scuro.» mormorò.
Dopo qualche istante, come se le
parole avessero avuto bisogno di un po’ di tempo per penetrare
nell’indifferenza del ragazzo, solcando la distanza che egli aveva disposto
senza mezzi termini tra se stesso e tutto il resto, la sua fronte si aggrottò
in un accenno di incomprensione.
«Cosa?» domandò.
Andrea si sentì piuttosto in
difficoltà, ma rimase concentrata. «I tuoi occhi…»
estrapolò dalle sue riflessioni «Sono blu scuro.»
Danny non disse più niente, ma
continuò a guardarla come invitandola a parlare ancora, a spiegarsi meglio.
«Ti devo la vita; per due volte.»
disse Andrea, con calma certezza.
Ora sul viso del ragazzo si animò
un fastidio istintivo. Scostò lo sguardo da lei, socchiudendo gli occhi, e
mosse appena le spalle, come per allontanare da sé qualcosa. «Non mi devi
niente.» chiarì. Puntò di nuovo la sua attenzione sul paesaggio intravedibile
dalla finestra, ma la ragazza intuì che era ancora concentrato su di lei. Per
questo ritrovò ancora la voce, e parlò con maggiore chiarezza.
«Credo di aver capito… Non ero sicura che… No,
non me lo posso ancora spiegare.»
Danny la spiò, spostando
solamente le pupille. E quando vide una mano tendersi verso di lui si irrigidì,
mentre un accenno di sorpresa rompeva la sua indifferenza.
Andrea gli sfiorò il viso con le
dita, lasciandole infine poggiate contro la sua guancia.
Dopo qualche altro momento, Danny
voltò un po’ di più la faccia verso di lei, guardandola più direttamente. Era
arduo intuire cosa veramente stesse passando dietro i suoi occhi, ma dal modo
in cui la fissava, quasi di sfida, ad Andrea risultò chiaro che se si fosse
sottratta in quel momento non avrebbe più potuto recuperare l’attenzione di cui
era oggetto.
«Non ho paura di te. Anche se so che… » esitò per un breve istante, ma la sua decisione non
vacillava più. «Sei un lupo…»
Un breve luccichio illuminò gli
occhi blu scuro, come un lampo, troppo rapido per evincerne il significato, che
fosse di minaccia o di comprensione, o di entrambe le cose insieme.
Infine, le labbra di Danny si
piegarono in un accenno di sorriso tagliente ed ironico; abbassò lo sguardo ed
emise un lieve suono gutturale, simile a una risata trattenuta, dal gusto
profondamente amaro.
Gli occhi blu scuro tornarono a
fissarsi su di lei, ora con maggiore padronanza, ma senza riuscire a celare
completamente un vivido accenno di stupore quasi disarmato.
«Hai detto ‘lupo’… Sei la prima
persona che non dice anche ‘mannaro’..,.» mormorò il ragazzo. Nonostante il suo
tono di semplice constatazione, c’era una curiosità indubbia ora.
Andrea ci pensò per un po’. «Non
avevo pensato a questo. Ho visto un lupo, ecco quanto. E mi ha salvato la vita.
E penso che eri tu, che sei tu, anche se non mi so spiegare…Beh… non ha importanza, dopotutto.» disse, con piena
sincerità.
Ora lo sguardo del ragazzo
palesava uno studio accurato di lei, come se cercasse di prevaricare ogni sorta
di apparenza per frugarle dietro gli occhi. «Hai ragione…»
rispose infine «Non hai idea…»
Angustiata da quella presa di
distanza scostante, Andrea sentì l’impulso di dire qualcos’altro, e leparole le uscirono senza riflettere. «Non ho
paura di te.» disse, in tono cristallino. «Non ci riesco.» aggiunse, mentre
capiva che era vero, soprattutto ora che lo diceva.
Ma nell’udirla, Danny ebbe un
fremito nervoso. Si allontanò di un passo, sottraendo al tocco delle sue dita
il sentore della pelle della guancia, su cui faceva capolino un accenno di
barba, e distolse da lei lo sguardo, con movimenti quasi scattanti, come se
qualcosa lo avesse spaventato.
Tornò a guardarla, dal basso
all’alto, gli occhi semicelati dalle sopracciglia e
dai ciuffi biondastri, ora che manteneva il capo un po’ abbassato, come a spiarla
cautamente e con sforzo infastidito. «Appunto. Non hai idea.» scandì in tono
duro, che non ammette repliche. Subito dopo si stava già voltando. Abbandonò la
stanza, senza fretta, anche se in qualche modo sembrava gli fosse urgente
spostarsi, o perlomeno sottrarsi alla sua presenza.
Andrea udì il rumore dei suoi
passi che rimbombavano sulla scala a chiocciola che conduceva in basso. La mano
ancora semiprotesa, le dita che si andavano raffreddando, riadattandosi alla
bassa temperatura che regnava all’esterno e all’interno della stanza, rimase a
fissare la soglia priva di porta, come stretta in una morsa di spietata
indifferenza che troncava ogni proposito sul nascere, soffocandolo senza
appello, senza reale interesse né qualsivoglia motivo.
Capitolo 35 *** 33 - UN CICCHETTO PER I TUOI PENSIERI ***
Capitolo 33
(UN CICCHETTO PER I TUOI PENSIERI)
Uther, in piedi sul
terreno, immerso nel buio incalzante della giovane serata invernale, si
guardava intorno senza apparente scopo, il fucile a tracolla, e le mani
infilate saldamente in tasca. Il suo sguardo spaziava sul desolante panorama
dei binari deserti; la figura del treno isolato che avevano utilizzato, con i
suoi soli tre vagoni, sembrava incombere con la sua ombra scura su
quell’ambiente inanimato, come un rimasuglio di passato. Il ragazzo, solo e immerso
nei suoi solitari pensieri, aveva un che di malinconicamente saldo, come se
qualcosa in lui resistesse a ciò che quella vista trasmetteva, e il resto vi si
accompagnasse con completa sincronia.
Per questo, quando Uther udì il rumore chiaro di piccoli passi che spezzavano
il silenzio, gli parve quasi una sorta di allucinazione uditiva. Ma sapeva di
non starsi sbagliando. Occhieggiò alle sue spalle, vedendo la sagoma minuta e
femminile dai capelli bluette di Andrea, che si era soffermata sulla soglia dell’edificio
in cui erano accampati, e lo fissava, con incerta esitazione.
Poco dopo la udì venirgli
incontro, ma egli restò girato di spalle, lasciando che lei si fermasse di poco
più indietro rispetto a lui, intuendo a ragione che le stava prestando una gentile
ma riservata attenzione.
Andrea rimase per diversi minuti
in silenzio, accordandosi alla solitaria contemplazione del paesaggio in cui si
stava già cimentando Uther; ma in lei si agitavano
più intensamente diverse emozioni, le bruciavano sotto le piante dei piedi. A
lungo andare, perciò, quel silenzioso abbandono alla desolazione della vecchia
stazione sembrava renderle quelle braci non abbastanza tiepide, bensì sempre
più fastidiose e pungenti.
E di colpo, mentre fissava le
spalle di Uther, le sorse in mente un’idea
improvvisa, urgente quanto azzardata.
«Senti, Uther…»
lo chiamò.
Senza voltarsi, lui girò un po’
il viso al di sopra della spalla, dandole segno che l’ascoltava.
Andrea si schiarì la voce,
esitante, ma parlò con sicurezza «Ti andrebbe di dormire insieme, stanotte?»
Se la domanda lo aveva colto di
sorpresa, il ragazzo non lo diede a vedere, se non per un immobilizzarsi
leggero delle sue membra, come irrigiditosi per un attimo. Tornò a voltare la
testa in avanti, rivolgendole la nuca bionda, e diede qualche debole calcio
distratto al terreno di fronte a sé, in atteggiamento riflessivo. Infine
rispose «Sì, perché no?»
Andrea trattenne il fiato per
qualche istante, infine lo ributtò fuori, senza rumore, e rispose un composto
«Bene. D’accordo…»
«Solo una cosa…
» disse Uther, in tono fermo e chiaro. Si voltò
completamente verso di lei, guardandola. «Prima ci terrei a saperlo. A chi
dobbiamo fare dispetto?»
Andrea rimase di stucco. Lo fissò
attentamente. Lo sguardo gentile ma allo stesso tempo denso di piena
consapevolezza del ragazzo si stemperò in un lieve sorriso di complice
comprensione. Di fronte a quell’espressione, le spalle di Andrea crollarono in
segno di sconfitta.
«Va bene…
lascia perdere… » mormorò, arrendendosi. «Scusami… » disse ancora, con sincera apprensione.
Uther sorrise con
maggior rilassatezza, scuotendo appena il capo, come a dissipare la sua
preoccupazione. «Niente.» disse. «La proposta, comunque, era allettante.»
chiarì, con rispetto.
Stavolta fu la ragazza a
sorridere, anche se più tristemente «Okay… grazie, Uther.»
Lui diede una leggera alzata di
spalle, a significare che non c’era problema. Ma subito dopo il suo sguardo si
animò maggiormente, mentre fissava un punto alle spalle di Andrea. La ragazza
si voltò, e notò Kumals, in piedi sulla soglia che
lei stessa aveva varcato poco prima, una sigaretta accesa tra le labbra, le
mani in tasca, e appoggiato con una spalla allo stipite.
Li guardava come se non stesse
fissando niente di particolare, ma in lui c’era qualcosa di inquisitorio che
mise Andrea a disagio.
«Penso che…
tornerò un po’ dentro, a scaldarmi, accanto al fuoco. E ad aiutare Yuta…» disse Andrea, e si girò a informare Uther. «Ha deciso di cercare di stampare tutti i dati
recenti che compaiono sugli schermi di quei macchinari. Forse possono essere significativi… Semmai troveremo qualcuno in grado di
comprenderli, cioè.» spiegò.
Uther annuì con aria
grave. «Sì, mi sembra una buona idea.» commentò.
«Bene…
a più tardi, allora…» concluse Andrea, avviandosi poi
per tornare su per la ripida e stretta scala a chiocciola.
Quando attraversò la soglia, Kumals si scostò appena per lasciarla passare, lo sguardo
rivolto al terreno, e la sigaretta sottratta momentaneamente alle labbra per
favorire l’espulsione di una piccola nuvola di fumo; agitando appena la cicca
con le mani, per far cadere la cenere della piccola brace, rimase chiuso nel
suo candido disinteresse apparente. Nonostante ciò, Andrea aveva la curiosa impressione
che la stesse fissando intensamente, anche se i suoi occhi erano rivolti
altrove. Gli passò accanto, cercando di non mettere troppa ansiosa fretta in
questa azione, e sparì su per le scale buie, ogni rumore di passo sugli scalini
di ferro che sembrava accrescere ulteriormente il suo disagio.
Uther era rimasto semplicemente
a guardare Kumals. L’altro, tuttavia, gli lanciò
appena un’occhiata perfettamente distratta e tranquilla, continuando a fumare,
prima di rivolgere uno sguardo di freddamente pacifica contemplazione sui
binari vuoti tutt’attorno.
Uther emise uno
sbuffo di abbastanza infastidita constatazione tra sé e sé, e gli si incamminò
poi incontro, senza alcuna fretta. Gli si fermò accanto, si dispose anche lui
sulla soglia, e imitò malamente il suo distribuire all’intorno occhiate di calma
zen. Aveva in volto una vaga smorfia insoddisfatta e un po’ amareggiata, come
di chi soffre di mal di testa, nausea e bruciori di stomaco nel contempo, ma è
profondamente persuaso di voler mantenere un’espressione quasi impassibile o
addirittura compassata.
«Credi ancora che io abbia
esagerato, con Danny?» mormorò dopo qualche momento Kumals,
col tono di chi vuole semplicemente fare conversazione, dissimulando alla
perfezione ogni eventuale interesse da coinvolgimento personale.
Uther considerò per
un po’ la domanda in silenzio, infine alzò appena le spalle; socchiuse un poco
gli occhi, fissi sull’orizzonte, in cui un tramonto rosso pallido si mischiava
torbidamente con un minestrone di nuvole grigio-ghiaia, mandando deboli
riverberi di fiamma spenta sull’azzurro molto chiaro delle sue pupille, come
per imitare il gioco rosso-grigio su un azzurro diverso da quello del cielo.
«E’ abituato alla tua intenzionale mancanza di tatto, ormai.» constatò.
Un leggero sorriso di contentezza
a malapena trattenuta disegnò un’espressione più umana sul viso dell’altro,
facendo risaltare l’ombra di qualche piccola ruga, e perciò rendendo più palese
la reale portata di quel sorriso. «Ne sono sicuro.» disse.
Per qualche momento tornò a
scendere un silenzio ora di natura completamente diversa, più rilassata. Kumals spiò il viso di Uther, e
il suo lieve sorriso divenne un po’ più scorrettamente ironico, mentre uno dei
suoi sopraccigli si alzava un poco, dandogli un’aria da critico intenditore. «Qualcosa
ti preoccupa?»
Uther lo spiò a sua
volta di rimando, con un rapido guizzo azzurro, e anch’egli sogghignò, dando
segno di essere deciso a reggere il confronto. «Niente che debba preoccupare
anche te.»
«Allora…»
replicò Kumals, con calma «Come si suoldire… ‘un cicchetto per i
tuoi pensieri’.»
Stavolta Uther
lo guardò più direttamente, accigliato. «Non abbiamo niente da bere con noi.»
«Oh…
Accidenti, non ci sei cascato.» rispose ironicamente Kumals.
L’espressione di Uther si adombrò, mentre tornava a concentrarla
sull’orizzonte. «No, infatti no…»
Kumals capì
perfettamente che quelle parole avevano suscitato alla mente di Uther altri argomenti. Cercò di approfittarne. «Hmm… Non mi diresti mai di cosa avete parlato poc’anzi tu
ed Andrea, vero?»
Uther gli sorrise, in
modo amichevolmente e furbamente affettato. «Esatto.»
«Già…
Lo sospettavo…» risolse Kumals
con un simile sorriso, lasciando cadere il mozzicone a terra e spegnendolo con
la suola di uno dei suoi scarponi.
*
***
*
«Temo che non riuscirò a tenerlo
acceso ancora per molto.»
Risvegliata da un inizio di
torpore - tipico del sonno inquieto - dalle poche parole pronunciate con la
voce profonda che ormai sapeva riconoscere, Andrea alzò gli occhi su Zoal, seduta a gambe incrociate vicino al piccolo falò, ed
impegnata a cercare di riattizzarne un po’ la fiamma, smuovendo con un
bastoncino i rimasugli di oggetti che avevano destinato all’uso di
combustibile: per loro fortuna la maggior parte era di legno.
Riconoscendo che una delle sue
gambe si era addormentata, e che aveva la schiena e la spalla corrispondente al
polso ferito particolarmente indolenzite, Andrea si mosse un po’, stringendosi
di più addosso una delle coperte che si erano portati dietro, e che si teneva
calata sulle spalle e sulle gambe incrociate. Sotto di lei il tessuto del sacco
a pelo in cui avrebbe dormito per quella notte emise il tipico rumore di
tessuto sintetico e un po’ imbottito che fruscia. Nel muoversi si accorse che
Duca aveva deciso di acciambellarsi su parte del sacco a pelo, e non si prese
il disturbo di dare segno di aver percepito il suo movimento.
Zoal appoggiò a
terra il bastoncino, e la guardò con i suoi occhi dalle sfumature verdi
difficilmente afferrabili. Persino nel semibuio della stanza le sue pupille
riuscivano a rilucere come se sorridessero, divertite di qualcosa pur senza
intenzione di prendersene gioco. Andrea sapeva, ormai, che quella specie di sorriso
panteresco non era rivolto maggiormente a cosa quegli
occhi stavano fissando piuttosto che a tutto quanto.
«Come vanno la fronte e il
polso?» le domandò Zoal.
«Hum…
credo bene… » rispose, riservandosi il beneficio del
dubbio.
Andrea fece per portarsi una mano
alla fronte, ma si fermò in tempo, ricordando che poco prima Zoal le aveva impiastricciato le contusioni con quella
specie di pomata di erbe che già le era stata propinata in occasione delle
ferite da schegge di vetro. Non erano ancora guarite completamente, quelle,
anche se per la loro scarsa profondità ormai non le dolevano più, e già ecco
pronte pronte altre ammaccature. Le schegge che
l’avevano trafitta erano le stesse che, al tempo in cui erano state a
ciondolare dal soffitto della hall della scuola d’arte, parte del grande
lampadario, avevano attirato in trappola mortale diverse persone inebetite, e
poi avevano quasi schiacciato a morte lei ed Uther. E
ancora, anche quelle nuove ferite corrispondevano ad una nuova morte, e in un
certo senso ne erano state la causa scatenante.
Prima che potesse fermarli, alcuni
flash confusi della scena violenta e truculenta a cui aveva assistito durante
la giornata le ricomparvero alla memoria. Com’era possibile che quelle persone
le avessero vissute così spesso? Ora aveva la risposta…
loro non le subivano. Affatto. Loro erano in grado di combinare altrettanto… E rivide Danny, sporco di sangue non suo,
eppure devastato dal rendersi conto di ciò che aveva fatto. ‘Tu non sai.’ le aveva detto. Sottinteso ‘…di
cosa sono capace’? Rabbrividì più fortemente, e poi si accorse che Zoal la fissava ancora.
Se possibile gli occhi della
donna avevano riflessi anche più vivaci, come se stessero seguendo con famelico
interesse i suoi pensieri, leggendoglieli. Per un istante breve ma fulminante,
Andrea ebbe l’impressione ingannevole che persino Zoal,
con quegli occhi diamantini, potesse diventare pericolosa, come un basilisco.
«Devi essere molto stanca…» mormorò Zoal, e il suo
tono mise in fuga ogni possibile fraintendimento. La sua voce calda e gentile
lasciava trapelare il sincero proposito di consolarla e farle sentire una
qualche vicinanza, un sentore d’appoggio; se c’era qualcosa di meno gradevole,
in quella voce, era la non sorpresa di fronte alla constatazione che Andrea era
esausta, e profondamente abbattuta e rintronata da ciò a cui aveva assistito in
quel giorno. Gli occhi smeraldini sembravano quelli di una pantera che
considera con affettuosa attenzione un cucciolo, tenendo presente che a
separarli c’è una decisiva disparità di
esperienza nei confronti di certe cose.
«Volevo tenere acceso il fuoco
almeno finché non ci fossimo addormentati più o meno tutti…
Ma qui… O questi sacchi a pelo sono tremendamente
scomodi, oppure non so perché tutti si stiano rifiutando così nettamente di
provare a riposarsi… ». Ora nel tono di Zoal c’era una nota di divertimento che tentava di celare
la preoccupazione.
Andrea osservò il resto della
stanza. Nonostante i sacchi a pelo disposti a terra, al momento non si vedevano
né Kumals, né Uther, né
Danny. L’uomo che avevano catturato aveva apparentemente rinunciato a muoversi
con propositi di ribellione alle corde di fortuna che lo mantenevano innocuo,
probabilmente a causa del fatto che tutta la sua attenzione era spasmodicamente
concentrata nello sguardo che dedicava agli schermi accesi dei vecchi
macchinari. Seduta di fronte ad essi su una sedia molto consunta, Yuta era impegnata a cercare di capire come ottenere
collaborazione da un’antiquata stampante, per poter tracciare su carta e portarsi
poi con loro le informazioni contenute negli apparecchi, senza dover ricorrere
allo spostamento di quei chili e chili di aggeggi grossi come armadi.
All’improvviso nel silenzio della
stanza risuonò come uno scoppio la voce di Yuta. «Ti
venisse uno stramaledetto accidenti!» gridò imbestialita, rifilando un pugno
sul bancale dei comandi, evitando per un pelo di pigiare qualche pulsante,
mentre digrignava i denti verso gli schermi. «A te e a chi ti ha progettato!»
aggiunse, assestando un calcio alle macchine. «Ed anche a me che cerco pure di
farti funzionare!» terminò.
L’uomo legato, nell’assistere a
quella sfuriata di rumori e vociare, si rianimò, cercando di slegarsi con
agitazione.
«E tu stai zitto!» gli intimò Yuta con ostilità, lanciandogli un’occhiata di fuoco, prima
di tornare a voltarsi verso gli schermi. Si abbandonò per un momento contro lo
schienale della pericolante vecchia sedia, allungando le gambe avanti e
affondandosi le dita nei capelli. «Cazzo, che odio!» mormorò ancora, come tra
sé e sé. Dopo qualche istante di immobilità, la ragazza esalò un pesante
sospiro, rilassando un po’ le membra caricate di tensione. Di punto in bianco
tornò a muoversi, appoggiando con risolutorio colpo le mani aperte sul pianale
davanti a lei, evitando più consapevolmente e attentamente di urtare qualche
pulsante, mentre diceva, con rinnovata pazienza «Va bene, ricominciamo da capo
allora, maledetto arnese.»
Zoal, che si era
girata a guardare la sorella, tornò a fissare Andrea, e scoprì sul viso della
ragazza un’espressione un po’ più rilassata. Perfino un debole sorriso. Quando
Andrea spostò lo sguardo su di lei, Zoal abbassò il
suo e scosse la testa un paio di volte, con autoironica rassegnazione. «Fa
tanta scena, ma credo che alla fine ci riuscirà.» confidò.
Andrea tentò di accentuare il suo
sorriso, riuscendovi piuttosto malamente.
«Ad ogni modo…»
riprese Zoal, sistemandosi con gesto vago e distratto
le numerose gonne che indossava «Se mi permetti un consiglio…
tu che puoi faresti bene a considerare seriamente l’idea di fare una buona
dormita.»
Andrea ci pensò su per un
momento, infine scrollò le spalle, piuttosto miserevolmente. «Sì, ma… non so… penso che farei
fatica a dormire… Mi sento troppo stanca persino per dormire… o qualcosa del genere… »
provò a spiegarsi.
Zoal la guardava con
attenzione. «Capisco… Però una buona dormita può fare
tanto, più di quello che immaginiamo, a volte. È stata una giornata pesante,
soprattutto per te, credo.»
Andrea corrugò appena le
sopracciglia, trovando fastidiosamente ragionevoli e azzeccate quelle parole.
«Sì, io… » ammise, con circospetto tentativo di
autoanalisi «Forse è che…Bhe,
non sono ancora abituata a… questo genere di… cose. Ma mi ci abituerò… col
tempo.»
«Oh, bhe…
spero di no.» replicò Zoal.
Andrea comprese cosa intendeva, e
si ritrovò a guardarla con curiosità. «Tu le avrai viste molte volte, ormai,
scene del genere…» azzardò.
Sul viso di Zoal,
rischiarato e ombreggiato insieme dalla luce del piccolo fuoco, si disegnò
un’espressione profondamente trattenuta. «E’ sempre bene non parlare di cose
che non si vorrebbero sentire.» rispose.
Andrea arrossì e abbassò il capo.
«Ah! Sì, certo io intendevo… No, cioè, scusami… A volte dico delle sciocchezze.»
Zoal la guardò con
maggiore attenzione. «Non è questo. Tutti noi commettiamo degli errori, quando
non ci rendiamo ben conto di cosa le nostre parole possano risvegliare.»
Andrea rialzò il viso di colpo,
gli occhi lievemente allargati.
«Come forse ho appena fatto io…» disse ancora Zoal, studiando
l’espressione un po’ sconvolta dell’altra.
«Oh, è solo che…
» mormorò piano Andrea, lentamente, tornando a riabbassare lo sguardo sul
terreno. Aveva ora un atteggiamento profondamente contrito. «Credo di aver
parlato a sproposito anche prima…» esitò a lungo,
prima di terminare la frase. «…conDanny…»
L’interesse che brillava ora
negli occhi di Zoal non sembrava particolarmente
sorpreso. «Qualsiasi cosa ti abbia detto, devi considerare che non sempre
abbiamo il completo possesso della nostra volontà, riguardo alle parole. Non
sempre riusciamo ad ammaestrarle come vorremmo, o come davvero riteniamo che
sarebbe il caso.»
Andrea la guardò, con un leggero
cipiglio di disappunto. «No… credo di essere stata io
a…» la sua voce si smorzò nel silenzio. Dopo un po’,
riuscì a sussurrare. «E’ un lupo. Non è vero? Era lui che ci ha… che mi ha salvato, l’altra notte, alla scuola… Se non fosse stato per lui…
Ma non sembrava fiero di ciò che aveva fatto… Ed è
stato come se avessi sbagliato a mostrarmi grata…
Dopotutto però mi ha salvato la pelle… e con oggi
fanno due volte…»
Zoal si era fatta
più seria del solito, persino il solito lieve sorriso apparentemente distratto
che le disegnava appena le labbra in un accenno di smorfia (auto)ironica si era
nascosto meglio. Quando parlò, ad Andrea parve che la sua voce si fosse fatta
più profonda.
«Se hai detto qualcosa che gli è
risultato sgradevole, e se ciò non era affatto nelle tue intenzioni, sono certa
che lui l’ha capito. Ma a volte è molto arduo frenare solo con questa
consapevolezza ciò che le parole possono suscitarci.»
Si interruppe, fissando Andrea
con gentilezza.
«Sì, ma…
aldilà delle mie intenzioni, devo comunque avergli fatto del male in qualche modo… questo è il fatto, dopotutto…»
mormorò Andrea, abbattuta. Dopo un momento si arrischiò a rialzare lo sguardo
su Zoal, in cerca di altre parole.
«Non posso parlare a nome di
Danny, e non desidero farlo. Perciò parlerò per me.» disse la donna, con
maggiormente aperta decisione. «E quel che ti dico è che credo che per lui oggi
sia stata dura. L’abitudine non può tutto, non per tutti, anzi…
a volte determina chiaramente la natura diversa delle persone…
».
Zoal riprese in mano
il pezzetto di legno e smosse un poco i detriti che bruciavano nel piccolo
falò; il fuoco faceva giochi di luce ed ombra sul suo lieve sorriso, triste e
affettuoso. Con una mano carezzò distrattamente Danza, sdraiata e addormentata
vicino a lei. Riprese a parlare fissando intensamente le fiamme danzanti. Aveva
un tono singolare, ora, come se stesse leggendo nel fuoco ciò che diceva, come
se andasse cavando predizioni e delucidazioni fumose.
«Il sangue nei suoi occhi è come
una nuvola sul suo cuore, e non lo lascia respirare.» mormorò «Ma non
preoccuparti, bambina… Non gli è mai andato di
traverso al punto da strangolarlo… Benché mandarlo
giù gli bruci le interiora, ogni volta. Ma non è sempre stato così come è ora,
per lui. È cambiato molto da allora… Ed è curioso,
come vedendo una cosa con occhi nuovi, si possa trovare intollerabile ciò di
cui prima si viveva giorno dopo giorno, tranquillamente. C’è chi piuttosto si
cava gli occhi. Ma lui ha vomitato ciò che aveva ingoiato fino ad allora, e non
ha dovuto rivoltarsi poco lo stomaco, no… non poco.
Forse non ha ancora terminato. Tuttavia… ho fiducia
in lui. Metterei una mano sul fuoco. E non sono completamente certa in una sua
riuscita più di quanto lo sono che sacrificherei volentieri una mano per lui.»
Come se fosse rimasta incantata
dall’osservare le fiamme, mosse le palpebre, e le sbatté un paio di volte. Il
suo sguardo si schiarì, e quando lo rivolse di nuovo su Andrea aveva rinnovato
il suo solito sorriso un po’ sardonico e un po’ malinconicamente gentile.
«Dormi ora. Domani sarà un’altra cosa…»
La donna si tirò in piedi con
calma, e si allontanò dal piccolo falò, andando ad affiancarsi a Yuta. Le posò una mano sulla spalla, guardando al di sopra
della ragazza seduta le righe che scorrevano sugli schermi; quando Yuta alzò brevemente gli occhi su di lei, le sorrise, e le
porse la tazza che aveva in mano. Dalla tisana si levava una leggera spira di
fumo.
Fu questa l’ultima cosa che
rimase nella memoria di Andrea, che, sdraiatasi nel sacco a pelo dopo aver
scostato praticamente di peso un sospirante Duca, sentì appena le membra del
suo corpo, più appesantite dalla stanchezza di quanto avesse immaginato, rilassarsi
completamente; e si addormentò senza accorgersene.
Nella luce dell’alba, colorata di
un pallido rosa, e ancora impegolata con le diradanti ombre livide della parte
morente della notte, i binari si stendevano deserti, serpeggiando su chilometri
e chilometri privi di traccia umana.
Quasi increduli di tanto spazio a
loro disposizione, una svariata gamma di creature girovagava, con un’aria
svagata e distratta, che sembrava un atteggiamento assonnato. I piccoli
roditori, qualche lepre, due o tre razze diverse di bisce, la volpe e qualche
gatto che si aggiravano ognuno per i fatti loro, tuttavia, dovevano essere ben
più accorti di quanto apparivano, perché quando un piccolo rapace notturno
passò, a volo abbastanza basso e poco interessato, il loro brulichio divenne
all’improvviso invisibile: si acquattarono, infrattarono,
nascosero e celarono tutti all’unisono, sfruttando le più impensabili occasioni
di nascondiglio che si potevano scovare e inventare sul momento, dai radi
cespugli selvatici fino alla più a malapena sufficiente frattura del terreno
semi-ghiacciato e spaccato.
Poco dopo, quando ormai le ali
dell’uccello erano abbastanza lontane, iniziarono a far di nuovo capolino dai
loro rifugi temporanei, e la maggior parte di loro sembrò prendere con
determinazione la via della tana, o comunque migrò verso luoghi più riparati dalla
svelante luce diurna, disertando poco a poco i binari per dirigersi verso i
terreni più ricchi di vegetazione selvatica che bordavano il terrapieno
rialzato. Forse erano tutti però ben consapevoli di essere esposti a una
minaccia potenziale; si trattava più precisamente di una sagoma che si
delineava chiaramente contro il cielo, appollaiata immobile su uno dei grossi
piloni che svettavano sui binari a intervalli più o meno regolari.
Il fatto che quella sagoma fosse
rimasta lassù immobile per tutta la notte, senza degnarli di attenzione in
qualche modo minacciosa, non sembrava comunque costituire per loro una
rassicurazione sufficiente; i più erano ben avvezzi al comportamento tipico del
predatore paziente, capace di restare immobile per ore ed ore, imitando con
perfezione un assoluto disinteresse, salvo approfittare di una loro minima
svista, neanche la prima, ma quella che, dopo la terza o la quarta, è abbastanza flagrante da poter concedere una
buona probabilità di riuscita all’agguato.
Inoltre, il fatto che la sagoma
avesse sembianze chiaramente umane non valeva a rassicurarli sulle scarse
capacità di cacciatore disarmato del soggetto; l’aria un po’ ventosa che aveva
perdurato per tutta la notte e solo ora, sul far del primo giorno, iniziava a
infiacchirsi, aveva portato alle narici di tutti gli animali della zona un
odore più somigliante a quello di un cacciatore non umano, non completamente
almeno.
Per questo quando la figura si
mosse, si ripeté la scena di quando era passato in volo il rapace; tutte le
sagome che si muovevano furtivamente si infrattarono
con la rapidità di mezzo battito di ciglia, aspettando, col cuore che batteva
forte, che l’attacco passasse. Ma non ci fu nessun agguato. La sagoma umana si
limitò a stiracchiarsi e muoversi un poco, come a riaccomodare meglio la sua
posizione seduta su uno dei bracci del grosso pilone metallico. Lo fece con
estrema scioltezza, come se non avesse nulla da temere rispetto alla caduta di
qualche decina di metri a cui una perdita di equilibrio l’avrebbe
immancabilmente destinata. Poi tornò immobile. Nonostante ciò, quando parecchi
minuti dopo alcune delle creature - fin troppo consapevoli di poter essere
considerate valide prede da parecchi altri animali - osarono avventurarsi fuori
dai loro rifugi di fortuna, si muovevano in modo leggermente diverso, più
prudente, e tenendo sotto stretto controllo la figura appollaiata in alto.
La maggior parte degli animali
vaganti aveva ormai abbandonato il terrapieno, quando i rimanenti dovettero far
fronte ad un’altra minacciosa presenza. Anche questa aveva sembianze umane, ma
nel suo caso l’odore che emanava lo confermava anche in pieno. Provenendo da
uno dei due grossi edifici di cemento della vecchia stazione di Foelm, questo umano-indubbio camminò con calma, come
passeggiando, fino a fermarsi sotto all’alto pilone su cui era appollaiata
l’altra figura.
Alzò gli occhi per un momento a
guardare in su, quindi, sempre con molta tranquillità, si apprestò ad
arrampicare il pilone, salendo per la scalettina di
ferro battuto annessagli appositamente dai costruttori, ad uso degli operai per
eventuali riparazioni ai fili elettrici.
Quando Kumals
giunse in cima al pilone, muovendosi con attenta precauzione, ma con una
scioltezza non priva di un certo composto stile, si sistemò seduto, non osando
però appressarsi troppo alla posizione dove si trovava l’altro. Per quanto lo
riguardava, Kumals preferiva poter contare anche sul
tenersi stretto circondando con un braccio la punta del pilone, senza spingersi
più in fuori sul braccio orizzontale della costruzione, dove avrebbe potuto
contare solo sull’equilibrio della posizione seduta per evitare di cadere.
Una volta che si fu accomodato in
maniera soddisfacente, restò qualche minuto a contemplare il paesaggio scarno
che si vedeva da lassù. L’unica nota abbastanza addolcente sul terreno semi-ghiacciato
e spaccato, percorso dai binari deserti, vagamente brulicanti di animali
vaganti, e sul terrapieno che sorgeva dalle distese incolte popolate di
vegetazione selvatica come il dorso appiattito di un serpente semischiacciato, era la luce morbida dell’alba inoltrata.
Kumals si accese una
sigaretta, che aveva precedentemente arrotolato, prima di trovarsi appollaiato
là in cima, e rimase ancora in silenzio per qualche momento. Poi, con una certa
insoddisfazione, si voltò a guardare l’altra figura seduta immobile, con lo
sguardo perso sul paesaggio come se non lo notasse un granché, e che sembrava
non aver voluto notare un granché nemmeno il fatto di non essere più da sola.
«Buongiorno.» esordì Kumals, con affabilità chiaramente ironica e amichevole
«Dormito bene?»
Finalmente l’altro gli gettò
un’occhiata obliqua, come se lo notasse solo ora, senza nemmeno voltare la
testa. «Buondì, Kumals.» disse solo.
Kumals sospirò appena,
e gli porse una sigaretta, dopo averla accesa con la sua, sporgendosi quel
tanto che osava fare, senza sognarsi di abbandonare nemmeno per un istante la
presa dell’altro braccio attorno al pilone.
Danny la prese, sporgendo il
braccio a sua volta, con aria distratta che distolse solo per un momento, di
nuovo, dalla contemplazione assente del panorama.
Kumals lo guardò
pensierosamente fumare per qualche minuto, in silenzio, infine si schiarì la
voce. «Hai fatto bene a far la guardia, stanotte. Ma saremmo stati felici di
darti il cambio. Più felici, insomma, che saperti qui insonne tutto il tempo.»
«Insonne?» ribatté Danny,
mostrando una lieve sorpresa.
Kumals aggrottò le
sopracciglia. Non amava essere preso in giro in quel modo distratto, non da chi
non mostra mai un simile modo di fare con tanta naturalezza scontata.
«Non mi vorrai dire che hai
dormito qui… Sei capace di stare in equilibrio come
un canarino sul trespolo?»
Danny fece una leggera smorfia,
un tipo di smorfia che poteva risultare singolare sul volto di una persona,
perché si presentava come un piccolo arricciamento delle labbra e la punta
della lingua che faceva capolino tra i denti, e durava solo per un paio di
secondi, sembrando quasi inconscia. Kumals la notò,
non perché la vedesse per la prima volta sul suo viso, ma perché non ve la
vedeva da molto tempo*. Ora Danny contemplava la
sigaretta che stava fumando, con aria assente.
«Comunque…»
riprese Kumals «Notato niente di interessante? O
meglio, qualcosa di ‘sospetto’?»
Ora Danny rivolse lo sguardo
verso di lui, tornando a trattare la sigaretta come se non fosse niente più che
una sigaretta. Se quest’ultimo gesto avrebbe potuto instillare in Kumals un po’ di sollievo, il fatto invece che l’occhiata
del ragazzo risultasse così carica di profonda serietà e intenzione lo distolse
da ogni genere di rilassamento, e continuò invece ad alimentare una sua
interna, personale e testardamente irrivelabile preoccupazione.
«Abbiamo qualcuno alle costole.»
lo informò Danny «Forse lo stesso che abbiamo incrociato alla scuola, la
seconda volta.»
Kumals non ne parve
eccessivamente turbato. Danny ne rimase sorpreso e vagamente deluso, come se si
fosse aspettato di esercitare un potere scenico ben maggiore. Notandolo, Kumals si sentì meglio, e il sogghigno che voleva imprimere
alle sue parole si rivelò più che altro un sorriso quasi sollevato.
«Sì, lo immaginavo. Per la
precisione, ci hanno fatto una soffiata.»
«Una soffiata?» Danny aggrottò
maggiormente la fronte «E chi?»
«Ha chiamato Ramo, ieri sera.
Dice che poco dopo che siamo partiti lui, Tirch e Mama hanno fatto una saggia passeggiata intorno alla casa,
e Tirch ha annusato qualche traccia, mentre Mama era di pessimo umore, anzi, proprio incavolata nera.
Probabilmente quel tipo ci ha seguito fin dall’inizio. Mantenendosi a una più
che valida distanza…»
L’espressione di Danny si era
incupita, ma ora il suo viso mostrava in ogni caso ben più capacità di
sentimento rispetto a pochi minuti prima, e Kumals
nascondeva a meraviglia dietro i suoi modi il grande sollievo che provava. Si
limitava ad abbracciare il palo con maggiormente grata gentilezza.
«Oh.» commentò inizialmente
Danny. «Ma io ne ho sentito qualche traccia solo stanotte…
Prima non ne ho sentito l’odore. Non avevo alcun sospetto che…
e non è che non avessi pensato a questa possibilità e non ci stessi
costantemente attento, anzi… è proprio vero il
contrario!»
«Avevamo già calcolato la
possibilità che questa persona sia sufficientemente abile da non farsi sentire,
Danny, nemmeno da te.» osservò Kumals con l’aria di
volerlo rassicurare. «Probabilmente si è limitato a mantenersi a grande
distanza, e a tenersi sempre sottovento.»
«Allora perché rivelarsi
stanotte? Sicuramente poteva vedere benissimo che ero di guardia. Mi sono messo
quassù proprio per evidenziarlo…»
«Oh, credevo fosse una posa scenico-melanconica…» interruppe Kumals,
con aria bonariamente punzecchiante.
«…e per
cercare di spingerlo a venire allo scoperto e tentare di attaccarmi. In quel
caso, avrei potuto finalmente rispondere come si deve ai suoi attacchi.» Danny
mostrò i denti appena un po’ più del necessario, mentre parlava, e un bagliore
sinistro, un preludio di ferocia aggressiva, fece una fugace comparsa nelle
profondità delle sue pupille.
«Il fatto è che probabilmente aveva
la mezza idea di avvicinarsi, ma vedendoti ha solo tentato di studiare se
poteva giocare in qualche modo la tua guardia, e non c’è riuscito. Forse ha
aiutato il fatto che io ed Uther ci siamo dati il
cambio a fare la guardia col fucile da una delle finestre dalla parte opposta
di questa rispetto agli edifici…» buttò lì
distrattamente Kumals.
Danny lo guardò in tralice. «Ma
lo avrei sentito anche se si avvicinava dall’altra parte! Mi sono messo
appositamente da questa parte perché la direzione del vento mi avrebbe portato
il suo odore o perlomeno il rumore e…»
«Sì, sì, lo so, e poi ci sono
Duca e Danza che si sarebbero svegliati con un nonnulla, oltre ai trabocchetti
che Zoal ha disposto qui d’attorno…
Ma ci siamo sentiti più tranquilli in questo modo…»
spiegò Kumals «Anche perché Yuta
ha passato buona parte della notte litigando con quel computer.»
«Ah, già…»
mormorò Danny «E ci è riuscita?»
Kumals lo guardò con
aria critica, rivolta in realtà ad altro. «Ci ha svegliato circa un quarto
d’ora fa lanciando grida di vittoria degne di un esercito bellicoso, perché è
riuscita ad avviare la stampa…»
«Sì…
capisco cosa erano quelle grida… Pensavo fosse
qualcuno nel sonno… Avendo sentito che non erano
grida di aiuto o di allarme non mi sono preoccupato di venire a controllare…» si giustificò Danny, mentre un pallido
sorriso cercava di venire a capo della rigidità del suo volto, come contratto e
poco dedito al mostrare troppo spontaneamente qualche espressione
particolarmente vivace. Kumals, però, sapeva che non
era così, di solito.
«Però…»
continuò Danny, con aria pensierosa «Continuo a non capire cosa diavolo abbia
in testa questo cecchino… Se voleva spiarci e basta,
non si sarebbe rivelato. Se voleva attaccarci…be’, perché non l’ha fatto? Non ci ha nemmeno provato…»
«Perché sapeva che avrebbe
fallito, in questo caso.» disse Kumals «Credo che
abbiamo a che fare con una persona particolarmente opportunista. Ha un
carattere da mercenario, a mio parere, e forse lo è. I suoi ordini non sono
stati dati con precisione, o non in maniera molto vincolante…
oppure è uno abbastanza esperto da saperli reinterpretare a seconda delle
circostanze. Ci tiene più ad evitare di finire dentro a una completa disfatta
che metta a repentaglio la sua vita piuttosto che ad eseguire a puntino i
comandi. Non ha nessun particolare vincolo morale, ideologico o che altro. Un
mercenario perfetto, oltre che un abile cecchino, come avete potuto constatare
alla scuola… Inoltre, conosce le tue capacità, sa
come trattarle in modo che non gli siano fatali, e sa che non siamo sprovveduti
abbastanza da permettergli di attaccarci senza fargli rischiare grosso, troppo
grosso.»
Kumals guardò con
contrarietà la sigaretta ormai quasi finita. «In altre parole, finché siamo
accorti non dovremo temere da lui – o lei – niente di grave come un attacco diretto… Ma sembra deciso a farci da angelo custode. Se
siamo bravi, non ci faremo saltare i nervi solo per questo, offrendogli la
possibilità di un nostro errore per poterci danneggiare.» L’uomo rivolse a
Danny un’occhiata significativa. «E noi siamo abbastanza bravi per questo.»
affermò con calma, e l’ombra di un ghigno convinto di sé.
Danny rifletté qualche momento
sulle sue parole, e infine scosse le spalle con scontento. «A me tutta questa
cosa irrita maledettamente.» chiarì «Perché non andiamo a stanarlo e ce lo
togliamo di torno? Inoltre, se lo prendiamo e riusciamo a farlo parlare, ci
potrebbe dire un sacco di cose interessanti, secondo me!»
Kumals lo guardò
direttamente. «Credo che saprebbe sfruttare meravigliosamente questa
opportunità per farci perdere tempo e fiaccarci i nervi. È riuscito a sfuggirti
già una volta. E se sa di te, probabilmente sa anche qualcosa delle nostre
capacità. Se è uno che sa fare bene il suo lavoro, come credo che sia, si sarà
adeguatamente informato sulle nostre capacità.»
«E allora qual è il piano? Ce lo
portiamo dietro a tempo indeterminato?» domandò Danny, piuttosto astiosamente
«E comunque ci sta pur sempre spiando. Riferirà delle nostre mosse. Qualsiasi
cosa tentiamo di fare, o qualsiasi informazione cerchiamo o troviamo, lui la
saprà, e potrà comunicarla ai suoi superiori, che forse sono gli stessi che
hanno scatenato questo casino di gente rimbecillita.»
Kumals aveva ora
un’espressione felina. «Danny, quando si ha a che fare con gente dotata di tale
professionalità, bisogna sedersi al tavolo e iniziare una bella partita. Se
sappiamo giocare bene, faremo in modo di rivolgere a nostro favore qualsiasi
mano capiti, e non metteremo mai in mostra tutte le nostre carte, anzi, faremo
di tutto per depistare l’avversario…»
Danny si voltò a mezzo busto
verso Kumals. «E noi che carte stiamo nascondendo?»
L’altro stava studiando un modo
per riuscire ad arrotolarsi un’altra sigaretta senza nel contempo abbandonare
la presa del braccio attorno al pilone. Danny strisciò col sedere sul palo su
cui era appollaiato, avvicinandoglisi, e gli
sottrasse la sigaretta dalle mani sbrigativamente, per arrotolarla lui stesso.
«Dai qua. Pensa a parlare.»
Kumals lo guardò con
aria di avvertimento ammonitorio per un momento, cosa che d’altra parte fu
ignorata da Danny. «Se questo tipo è abbastanza bravo come sembra, non dubito
che possa anche intercettare le nostre conversazioni. È meglio che non stiamo
qui a parlare delle nostre carte così allo scoperto…
Volevo solo rassicurarti sul fatto che ho già preso certe contromisure. Ne
parleremo più avanti.»
Lo sguardo che Danny gli stava
rivolgendo era particolarmente ombroso.
«Posso avere la mia sigaretta,
ora?» domandò Kumals, significativamente.
Danny ci pensò su per un momento,
infine si infilò la sigaretta dietro un orecchio, sospirando con fare
pazientemente arreso. «Dammi del tabacco, ne faccio su un’altra.»
Kumals gli passò tabacco
e cartina, e si mosse un poco con precauzione, cercando invano una posizione un
po’ più comoda, e chiedendosi come diavolo avesse fatto Danny a restare lassù
tutta la notte mantenendo la sensibilità delle gambe nel contempo.
«Comunque…
ci sono anche dei lati più positivi.» disse ancora Kumals.
Danny alzò per un momento lo
sguardo dalla seconda sigaretta che stava arrotolando. «Ah sì?» domandò
scettico.
«Per iniziare…»
Kumals si interruppe momentaneamente per prendere la
sigaretta e accendersela. «Per iniziare…» riprese, in
tono più sereno «comincio ormai a pensare che chi ha ordito questa faccenda sia
drammaticamente a corto di personale. Sembra che abbia affidato la custodia dei
nostri movimenti a una sola persona. Questo è un buon segno. Anche se la
qualità, a quanto sembra, è ben sufficiente per rimediare alla scarsità. Però
rimane il fatto che noi siamo in di più, al momento, e questo, tecnicamente
parlando, può essere meravigliosamente sfruttato come un vantaggio.»
L’espressione di Danny, che era
tornata distratta, si rifocalizzò di colpo, nel
mentre che le parole di Kumals gli rivelavano più di
quanto esprimevano chiaramente. Gli andò di traverso una boccata di sigaretta,
e si ritrovò a tossire faticosamente.
Kumals si sporse
gentilmente, e sempre molto cautamente, per battergli qualche colpo d’aiuto
sulla schiena con una mano. Danny però riuscì a dominare abbastanza la tosse da
spostare con un gesto lento ma determinato il suo braccio, e lo guardò con
intenzione.
Sotto quello sguardo, Kumals tentò di dominare l’imbarazzato senso di colpa che
gli suscitava. «Ti assicuro che non…» iniziò a dire.
«Kumals.»
disse Danny, con ira gelida «Fammi un favore. Evita di rassicurarmi su
qualsiasi cosa…»
«Mhm…
d’accordo… Però vorrei che ti fosse chiaro che era
necessario sfruttare ciò che era a nostra disposizione, e per come vanno le
cose al momento non vedevo come altro avremmo potuto fare per…»
Kumals esitò, l’occhiata gelida dell’altro ancora
fissa su di lui, perentoriamente.
«Ci ho pensato molto, prima, ho
valutato tutte le altre nostre opportunità e…»
Danny continuava a guardarlo
fisso, con netto rimprovero.
Kumals distolse lo
sguardo, piuttosto a disagio, e diede un profondo sospiro, risolvendosi infine
ad un più appropriato silenzio. Dopo diversi minuti, Danny distolse quello
sguardo glaciale dall’uomo, ma la sua espressione adirata non mutò affatto.
«Comunque…»
si arrischiò a dire Kumals, dopo diversi minuti
«Questo giro qui a Foelm è stata un’ottima cosa, in
fondo.»
Danny gli ributtò gli occhi
addosso, con un’espressione di fuoco.
«Scusa, mi sono espresso male…» cercò di rimediare Kumals
«Quel che intendevo, è che abbiamo rimediato dati preziosi in più… Quelli che Yuta sta
stampando. Credo che abbiano molto a che fare con ciò che sta accadendo. E se
riusciremo ad usarli, potrebbero diventare parte della soluzione. In effetti,
il fatto che il nostro “angelo custode” fosse impaziente di tentare un attacco,
stanotte, al punto di azzardare qualche tentativo di avvicinamento che ha
rivelato la sua presenza in modo tanto grossolanamente evidente…
mi fa supporre che il fatto che siamo riusciti a trovare quei dati gli risulti
particolarmente irritante. È un buon segno.»
Danny tornò a guardare il
paesaggio, con aria riflessiva e dubbiosa. «Spero di scoprire che hai ragione…» mormorò, senza molto entusiasmo.
Kumals gli rivolse
un’occhiata quasi affettuosa. «Danny…» lo richiamò
con voce pacata.
Il ragazzo lo guardò, senza
cambiare la sua espressione contrariata nemmeno quando incontrò gli occhi
gentili dell’altro.
«Se non fosse per la tua
presenza, saremmo tutti molto più innervositi in questa specie di partita a carte… e giocheremmo molto meno bene.»
Il ragazzo annuì appena,
accettando quello che sembrava un incoraggiante riconoscimento della sua
collaborazione. Ma il suo sguardo si era rifatto distante e ben poco orgoglioso
di sé quando lo distolse, tornandolo a fissare sui binari che si perdevano
lontano sull’orizzonte, ormai abbastanza generosamente illuminato dalla luce
mattutina.
* la smorfia
fatta qui da Danny (cioè l’arricciare un po’ le labbra sui denti e far sporgere
la lingua tra di essi) è parte tipica della mimica dei lupi, e corrisponde, a
quanto se ne sa, a una sensazione di nervosismo e rabbia.
Note dello scribacchiatore:
ed
ecco qua, ho dovuto attardarmi in certe faccende e così sono un po’ in ritardo
nella pubblicazione. Stavolta aggiungo nota solo per dire che l’ultima parte
della chiacchierata tra Kumals e Danny risulta
effettivamente criptica perché le parole accennate da Kumals
hanno fatto capire a Danny cosa sia stato ordito; il tutto diventerà chiaro a
chi legge nel prossimo capitolo. E a proposito di questo, il prossimo capitolo
lo pubblicherò anche tra meno di 5 giorni magari, visto che sono stato un po’
in ritardo ultimamente. Alla prossima!
Era mattina anche sulle colline
boscose intorno alla zona di CastleMac’Hearty. Una mattina
soleggiata del pallido sole invernale.
Il respiro di Mama
si tramutava in ampi sbuffi di aria condensata, in nuvolette più piccole e a
stento visibili quello di Tirch, che le trotterellava
vicino. Entrambi si mantenevano a una distanza di sicurezza - carica di un
evidente dubbio - rispetto al gruppetto umano che procedeva nel sottobosco poco
avanti a loro. Di tanto in tanto Tirch accennava il
proposito di volersi avvicinare di più a Ramo e a Valentine,
ma i movimenti convulsi con cui si ribellava la figura che i due tenevano
stretta tra loro, trascinandola a forza e quasi di peso, lo facevano desistere
quasi immediatamente; con aria afflitta il cagnetto si riportava un po’ più
indietro, e i modi orgogliosi di Mama, che
partecipava al tutto con aria critica, non valevano a rassicurarlo nemmeno un
po’.
Valentine inciampò per
l’ennesima volta in qualche insidioso ramo di felce, si mantenne in piedi con
prontezza di riflessi e strinse più fortemente la presa per sicurezza sulla
figura che lei e Ramo stavano trascinando. «Maledizione! Stramaledette piante!»
esclamò in tono relativamente basso. Nonostante la sua premura, il suono della
sua voce provocò per un momento un agitarsi più animato di chi tenevano stretto
tra loro. Ma la solida presa di Ramo si rafforzò con energia, trattenendo i
tentativi di liberarsi del loro prigioniero.
«Ci siamo quasi…»
sibilò il ragazzo, a mo’ di conforto.
«E meno male, diavolo!» sussurrò Valentine con sentimento.
Qualche decina di metri più
avanti, Ramo rallentò, mentre il ritmo dei passi di Valentine
si accordava automaticamente al suo, e quello del trascinamento obbligato a cui
era sottoposta la persona tra di loro si adeguava forzatamente. Il gruppetto
infine si fermò; anche Mama e Tirch,
dietro di loro, si arrestarono bruscamente.
Respirando piuttosto
affannosamente, Ramo e Valentine ristettero qualche
momento immobili. In mezzo a loro la terza persona tentava di tanto in tanto
qualche movimento stanco per liberarsi. Da dietro lo spesso strato di stoffa
con cui era imbavagliata si udivano quasi costantemente versi mugolanti di
sforzo, e la benda che invece le copriva gli occhi si era allentata abbastanza
da iniziare un lento scivolamento sul naso piuttosto pronunciato.
Valentine scoccò uno
sguardo irritato per controllare le corde con cui il loro prigioniero era stato
saldamente legato, e infine guardò Ramo. «Allora…
come facciamo adesso?»
«Prima di tutto controlla che
funzioni davvero.» propose Ramo, in tono di ragionevole praticità.
«Abbiamo già controllato.»
obbiettò Valentine, ma estrasse un apparecchio
elettronico, ne spinse un pulsante per accenderlo, e attese pazientemente che
lo schermo si illuminasse. Intanto Ramo si guardava attorno, studiando
l’ambiente.
«Sì, tutto a posto.» disse dopo
qualche minuto Valentine, sempre parlando a voce
molto bassa. Nonostante ciò, ogni loro minimo movimento o suono provocava un
rinvigorimento nel dimenarsi della terza persona, che si divincolava con forza
nella loro presa.
«Certamente è indebolito.
Altrimenti non saremmo riusciti a tenerlo solo in due…»
osservò Ramo, con evidente nota di sollievo nella voce.
«Anche questo avevamo già provato
prima, appositamente.» fece notare Valentine, mentre
spegneva l’apparecchio e se lo rinfilava in una delle tasche del lungo cappotto
nero in finta pelle che indossava, e che la stava facendo sudare fin troppo per
i suoi gusti, a causa dello sforzo compiuto per trascinare fino a lì il corpo
che ancora insisteva ad agitarsi, come se fosse completamente incapace di
intuire che i suoi sforzi non sarebbero valsi a nulla. «Ripeto: qual è il piano
ora?» insisté.
«Effettivamente questa è l’unica
cosa che non abbiamo pianificato in anticipo…» mormorò
Ramo, cercando di mantenere un tono ottimistico.
Valentine allargò gli
occhi, con aria di incredulo e molto critico stupore.
«Ma basterà l’ispirazione del
momento, è molto meglio in questo caso…» si affrettò
a dire Ramo, come per impedirle di parlare. «Quindi, vediamo, vedi quel grosso
ramo lì…? Sì, proprio quello. Stavo pensando che
potremmo legare la corda lì, e l’altro capo alla sua vita. Poi tagliamo una
frazione nello spessore della corda, e poi ce la filiamo. Probabilmente ci
metterà un po’ a rompersi, e noi saremo abbastanza lontani. Non è certamente in
grado di seguirci basandosi su cose come le nostre tracce, quindi rimarrà qui a
vagare, e quindi come da piano…»
«Sì, sì, ho capito!» lo
interruppe con una certa irritazione Valentine. «Non
ho mai sentito una cosa fatta in maniera più raffazzonata alla meno peggio, ma
la cosa più sorprendente è che potrebbe anche funzionare!»
«Hem…già… » riuscì a borbottare Ramo, con un certo imbarazzo. «A
me sembra un buon piano…» tentò di protestare
debolmente.
«D’accordo, in ogni caso non mi
viene in mente niente di meglio, dovendoci pensare così all’ultimo momento.»
puntualizzò Valentine. «Facciamo come hai detto.»
Una quindicina di minuti dopo
elaborati e difficoltosi preparativi, il loro prigioniero giaceva legato per la
vita alla corda, che serpeggiava brevemente sul terreno, e poi saliva quasi
verticalmente per circa un metro, terminando annodata intorno al grosso ramo di
un pino.
«Bene, vai.» disse Ramo, il quale
teneva inchiodato il dimenante imbavagliato a terra, usando tutto il suo peso,
tenendogli premute le ginocchia con decisione sul petto, ignorando le
occasionali ginocchiate alla schiena, e mantenendogli una mano spiaccicata
sulla faccia. Mentre così diceva, con la mano libera lanciò un coltellino a serramanico
a Valentine.
Presolo al volo, la ragazza lo
fece scattare, denudandone la lama, e prese a tagliare la corda.
«Quanta ne lascio?» domandò
mentre lavorava con rapida precisione.
Ramo ci pensò su un istante.
«Tagliane tra i due terzi e i tre quarti.» suggerì.
Valentine gli lanciò una
breve occhiataccia. «Non ho un righello. Andrò ad occhio.»
«E’ quello che intendevo…» rispose Ramo, mentre schiacciava la testa del
tizio adesa al terreno con tutta la forza di cui
disponeva in un braccio, mentre guardava le corde che ancora gli tenevano
legate le braccia, chiedendosi se fosse opportuno tentare di toglierle
all’ultimo momento. Decise di scartare l’idea, era al di sopra delle sue
capacità. E in ogni caso non gli avrebbe impedito di camminare. Forse avrebbe incontrato
qualche difficoltà ad alzarsi in piedi, inizialmente, ma in fondo…
«Fatto!» annunciò Valentine, interrompendo il corso dei suoi pensieri. Ramo
la vide chiudere il coltellino e allontanarsi dalla corda.
«Bene, vai tu intanto.»
«Ma se qualcosa va storto dovrai
averci a che fare da solo!» protestò Valentine.
«Nel caso ti richiamerò indietro.
Ora vai.» insisté Ramo.
Valentine gli gettò
un’occhiata lunga ed esitante, ma alla fine si decise a muoversi. Correndo si
allontanò rapidamente, sparendo alla vista nella boscaglia. Ramo attese finché
non sentì quasi più il rumore della vegetazione smossa dalla corsa della
ragazza, in lontananza, e fino a che le braccia e le gambe impegnate a
contenere il prigioniero non presero a dolergli sul serio per lo sforzo. Allora
gonfiò i muscoli, preparandoli allo scatto.
Ramo balzò su e subito corse via
in rapidi e ampi balzi, allontanandosi dal tizio, che, una volta libero, prese
ad agitarsi maniacalmente per tentare di rialzarsi in
piedi.
«Tirch,
andiamo!» urlò Ramo, mentre correva via. Il cagnetto gli si accodò
immediatamente, con la coda tra le gambe.
«Mama,
che fai?! Vieni!» gridò ancora Ramo, mentre le sue urla facevano agitare ancora
più fortemente la sagoma a terra, che sembrava iniziare a riuscire a dirigere i
suoi movimenti abbastanza da sfruttare le braccia legate come appoggio e il
trucco di rigirarsi su un fianco per potersi alzare in piedi.
Ma, con costernazione di Ramo, la
grossa Mama rimase seduta immobile lì dove si
trovava. Si limitò a rivolgergli un’occhiata imperscrutabile.
«Mama!»
chiamò ancora Ramo, con urgenza. Ma la poderosa cagna si limitò a distogliere
muso e occhi da lui, volgendo il testone verso la figura che si stava alzando.
Ramo ci rinunciò, e con
riluttanza riprese a correre, con Tirch alle
calcagna, contando con disperata convinzione sul fatto che Mama
sapesse ciò che stava facendo, e al contempo pensando con apprensione a cosa ne
sarebbe stato di lui se non avessero più visto Mama,
e lui si sarebbe trovato a spiegare agli altri, ed in particolare a Zoal, cosa era successo.
Quando infine il giovane uomo, o
quello che sembrava essere, riuscì ad alzarsi in piedi e a muovere passi colmi
di una disordinata fretta nella direzione in cui erano scomparsi Ramo e Tirch, i due erano ormai lontani. La corda si tese, lo tirò
per la vita e lo fece cadere dritto per terra, come un sacco di patate, e
dopotutto mostrava una simile padronanza di movimenti.
Incurante del fatto di essere
precipitato a faccia a terra, il tizio si rialzò, dopo diversi elaborati tentativi,
al termine dei quali riuscì nuovamente più per fortuna che per comprensione a
recuperare l’ordine esatto di movimenti che gli occorrevano per poter passare
dalla posizione orizzontale a quella verticale pur avendo le mani legate.
Appena ci riuscì, riprese a tirare nella stessa direzione di prima, facendo
forza contro la costrizione della corda, con una cocciutaggine che sarebbe
totalmente offensivo tentare di paragonare a quella che potrebbe dimostrare un
mulo.
Si udì un cortese sbuffo, simile
a un sommesso accenno di abbaio. Immediatamente l’uomo legato si voltò verso la
fonte del rumore, e, senza degnare la grossa Mama,
compostamente seduta sulla sua unica zampa posteriore, di più di una semplice
occhiata di constatazione, attraverso uno sguardo vacuo e vuoto da pesce morto,
iniziò a tirare nella sua direzione.
La grossa Mama
si alzò pigramente in piedi, guardando con aria annoiata gli sforzi dell’uomo
che puntavano verso di lei. Quindi prese a camminare, trotterellandogli
incontro con decisione. Nessuna ombra di dubbio o timore passò nello sguardo
dell’altro, né si distolse nemmeno per un momento dal suo ripetitivo impegno.
Il massiccio peso della cagna si
abbatté contro l’umano, e il suo testone cozzò con precisione dritto nel suo
busto, mandandolo a finire disteso lungo per terra, sulla quale strisciò anche
per quasi un metro per il colpo della carica. Immediatamente Mama prese quindi la corda tra i denti, nel punto in cui Valentine l’aveva incisa col coltello, ed iniziò a
masticarla con decisione tra i suoi mastodontici denti.
Non fu un’operazione lineare.
Ogni volta che il tipo legato riusciva a rialzarsi in piedi, Mama mollava con indolenza la presa sulla corda e lo
caricava di nuovo, mandandolo a terra, e quindi ritornava a masticare la corda in
quel punto, sfruttando il tempo impiegato dall’uomo per rialzarsi. Nonostante
il fatto che stesse dovendo ripetere quella mossa parecchie volte di fila,
infatti, sembrava che quel soggetto non fosse capace di acquisire l’esperienza
necessaria per fargli ricordare i semplici movimenti utili per rialzarsi senza
l’uso delle mani; averli compiuti nemmeno tre secondi prima con successo non
pareva suggerirgli niente.
Infine la corda si ruppe tra i
denti di Mama, e lei prese allora con calma ad
allontanarsi, nella direzione opposta rispetto a quella in cui erano corsi via Valentine, Ramo e Tirch. Dovette
per inciso fermarsi qualche istante, ad aspettare che l’uomo riuscisse
nuovamente ad alzarsi, e quindi si mettesse a seguirla con ostentazione di
un’aggressività totalmente idiota e priva di volontà precisa.
Mama trottò a
velocità crescente tra la vegetazione della boscaglia, finché, anche quando
sentì che il suo inseguitore inciampava per l’ennesima volta nei lunghi abiti
neri ed eleganti che indossava, ruzzolando a terra, non si fermò ad aspettarlo,
continuando semplicemente a correre, ora con l’evidente proposito di seminarlo.
Ben presto il Conte, trasfigurato
in uno stato difficilmente comparabile ad altro se non a quello di un uomo che
è stato sottoposto ad una lobotomia effettuata da un apprendista macellaio
cieco, si ritrovò a vagare a casaccio nella boscaglia, ignaro di qualsiasi
cosa, stolidamente dedito ad un camminare senza preciso scopo apparente.
Dopotutto Mama non era più in vista, e non c’era
quindi nessun bersaglio disponibile. Ma se vedeva volare qualche insetto
nell’aria si dedicava con cura all’inseguimento, fintanto che gli pareva di
riuscire a capirne la posizione. Questo lo portava di tanto in tanto a sbattere
contro un tronco, o a rotolare disordinatamente tra le felci dopo essere
capottato dritto sopra un cespuglio o aver inciampato nei suoi abiti.
Quando sembrava non esserci
niente che potesse inseguire, talvolta si fermava immobile. Altre volte si
girava di colpo su se stesso, persuaso per un momento che i rumori prodotti
dalle sue stesse vesti, ormai lacere e piuttosto strascicanti alle sue spalle,
avessero come fonte qualche altra creatura in grado di muoversi.
A diversi chilometri di distanza,
Ramo entrò in cucina, e si soffermò a guardare Valentine,
seduta a riposare su uno sgabello accanto al tavolo piuttosto alto.
«Allora?»
La ragazza distolse lo sguardo
dal video dell’apparecchio che stava osservando. «Funziona perfettamente.»
disse, con aperta soddisfazione. «Vedi, la tecnologia può essere molto utile, a
volte.»
Con sorpresa di Valentine, Ramo non colse la provocazione. Si sedette
pesantemente su uno sgabello, continuando a frizionarsi il collo bagnato dalla
recente doccia, e fissando con costernato malumore il tavolo disse «Abbiamo perduto
Mama…»
«’Abbiamo’?» ribatté Valentine «Sei tu che…» esitò e
tacque per un po’, guardando l’espressione molto abbattuta del ragazzo.
«Ascoltami, anche se non conosco bene Mama, è
chiaramente una pers… un cane molto in gamba. Non penso proprio che non avrebbe
voluto rimanere là appositamente, se non avesse avuto in testa qualcosa da
fare. Magari è partita poco dopo che sei andato via tu e…»
Un forte e imperioso latrato
risuonò fuori dalla casa.
Ramo e Valentine
si guardarono per un momento, increduli. Balzarono su dai rispettivi sgabelli e
si precipitarono alla porta, che spalancarono, Tirch
che scodinzolava e saltellava allegro tra le loro gambe.
Sulla soglia comparve Mama, seduta sullo zerbino, a testa alta e dignitosa in
attesa.
«Mama!»
gridò Ramo «Oh, meno male, stai bene… sono salvo…» esclamò Ramo, al colmo di un gioioso ed entusiasta
sollievo.
«Ecco qua, che ti dicevo? Lei è
perfettamente in grado di…» stava dicendo Valentine.
Mama accolse con
distratta gentilezza le carezze dei due, e rivolse un basso mormorio gutturale
a Tirch, che a quanto pareva le stava balzellando
intorno troppo fastidiosamente. Quindi si alzò, e avanzò con decisione, mentre
i tre si scostavano appena in tempo.
Entrò in casa, si diresse alla
ciotola e bevve con generosità, mandando a spandersi intorno grosse gocce
d’acqua. Infine passò in cucina.
Ramo e Valentine
si scambiarono un veloce sguardo, e la seguirono. Trovarono la grossa cagna
seduta sotto il piano dei fornelli, che aspettava con una pazienza lievemente
rimproverante.
«Credo che sia ora di pranzo, in effetti…» osservò Ramo, piuttosto intimidito dallo sguardo
dei grandi occhi canini.
«E’…. è davvero…
» mormorò Valentine, cercando le parole.
Ramo alzò le spalle, raggiungendo
i fornelli. «E’ Mama, sempre stata così da che la
conosco.» commentò, con un largo sorriso contento sulla faccia.
Pur sorridendo anch’essa, Valentine scosse appena la testa. Si riavvicinò al tavolo,
mentre Ramo iniziava a cucinare qualcosa, e riprese in mano il tracciatore di
posizione che sfruttava il sistema GPS. Si perse ad osservare con interesse il
puntino rosso che si muoveva attraverso lo schermo; ogni volta che spariva
oltre la capacità del video, l’immagine si ricomponeva adattandosi alle nuove
coordinate. Con gli appositi pulsanti, Valentine poteva
adattare l’inquadratura, regolando la frazione di planimetria compresa nello
schermo.
«Sembra che stia funzionando…» mormorò pensierosamente, mentre l’ansia di
cui era preda da diverse ore andava finalmente sciogliendosi. Si abbandonò
sulla sedia, continuando a tenere d’occhio il punto lampeggiante sullo schermo.
«Avanti, Conte, contiamo su di te**…» sussurrò.
«Che fai? Parli con quel coso?»
domandò Ramo, con intento chiaramente provocatore e divertito, che denotava il
suo ottimo umore.
* no, non è un grossolano errore di ortografia, ma un gioco
di parole col nome di ‘Mama’ e l’espressione ‘m’ama
non m’ama’. Se non sono titoli trash questi… ^^;
** e per questo gioco di parole…
dai, siamo comprensivi, non credo che Valentine
l’abbia fatto apposta…concediamogliela…
Il
treno composto dalla vecchia locomotiva e dai quattro vagoni procedeva a ritmo
abbastanza sostenuto, lungo i binari deserti.
Ora
potevano permettersi di farlo andare più forte. Di certo non c’era il pericolo
di incrociare altri convogli. E soprattutto i cambi che avevano sistemato
all’andata erano così già aperti e validi per il ritorno. Essendo partiti di
prima mattina, contavano sul fatto di poter arrivare a casa entro il
pomeriggio.
Nonostante
questo, Andrea non riusciva a sentirsi troppo sollevata.
Seduta
in un sedile, partecipava con svogliatezza alla chiacchierata in cui Yuta e Zoal cercavano di
coinvolgerla, chiedendole delle sue fotografie, e da dove veniva, qualsiasi
argomento abbastanza valido per una conversazione leggera, fino alle ricette
tipiche della Germania. Andrea aveva spiegato che in realtà lei c’era stata
solo qualche volta in Germania, non ci aveva mai vissuto per lunghi periodi.
Sua madre era venuta via da qualche anno dalla Germania quando lei era nata, e
ci andavano solo di tanto in tanto per far visita ai parenti rimasti a vivere
là. Questo non aveva rappresentato per Zoal e Yuta un disincentivo a continuare a chiacchierare.
Per
prima cosa, Andrea faticava a vedere in Zoal una
persona con cui svolgere una tranquilla chiacchierata, ed in effetti la donna
non mostrava di esservi molto portata; parlava poco, e il peso di trovare
qualche argomento di conversazione e mantenere la chiacchierata vitale era
quasi tutto sulle spalle di Yuta, che in compenso
sembrava entusiasta di impiegare il tempo così. Tuttavia aveva desistito già da
un pezzo dal cercare di coinvolgere anche Danny.
Il
ragazzo se ne stava qualche sedile più discosto da loro, e perlopiù sembrava
assente. Guardava fuori dal finestrino quasi tutto il tempo, distraendosene
solo per volgere lo sguardo occasionalmente verso la sala macchine, in cui
stavano Uther e Kumals.
Mentre il primo si occupava di tener sott’occhio gli strumenti che facevano
procedere il treno, l’altro stava cercando di far funzionare la radio di bordo,
anche se tutto quello che ne era uscito fino a quel momento erano disturbi di
ricezione in varie tonalità e sfumature, che si accendevano e spegnevano
bruscamente e senza alcun apparente senso preciso.
«La
vuoi smettere con quel coso?» disse Uther, con un
certo fastidio. «Non abbiamo fatto che parlare della possibilità che quella
cosa possa essere trasmessa via televisione o radio o che altro, e tu cerchi di
ascoltare la radio…»
«Uther…» rispose Kumals, con
piglio paziente ma convinto «Non che tu non abbia tutte le ragioni, ma credo
sia improbabile che per colpire il maggior numero di persone si punti ai
messaggi radio per i conduttori dei treni, più che sulle trasmissioni pubbliche… Altrimenti avrebbero colpito prima di tutto il
personale del treno, e quando i treni avrebbero iniziato ad andare a sbattere o
a deragliare e i passeggeri a chiamare chiedendo aiuto per treni fuori
controllo o persone che li aggredivano come zombie impazziti, penso che
qualcuno si sarebbe messo in allarme un po’ troppo presto. Se chi sta facendo
questo ha un minimo di cervello, certamente voleva evitare di mettere
sull’avviso tutti prima di aver contagiato un buon numero di persone, no…?»
Danny,
che aveva ascoltato la conversazione, si alzò in piedi e raggiunse la soglia
della cabina di comando. «A questo proposito… non mi
è ancora chiaro perché diavolo non siamo incappati nemmeno per sbaglio in
qualche forma di autorità schierata per l’emergenza…»
L’interesse
dell’argomento aveva indotto anche la chiacchierata, quasi un monologo di Yuta, ad interrompersi.
«Beh… ho un’idea in proposito.» annunciò Zoal.
«E
sarebbe?» chiese Uther, con sincero interesse.
«Potrebbero
semplicemente aver formato una specie di cordone di sicurezza attorno alla zona
colpita, forse pensando a qualche cosa di propagabile. E potrebbero star
studiando un piano d’azione, cercando di capire come stanno le cose con
un’osservazione a distanza, per intervenire poi nel modo più opportuno…» iniziò a dire Zoal,
in tono dubbioso.
«Ma la
cosa non ti convince.» completò Yuta.
«Però… non abbiamo nemmeno visto degli elicotteri…»
disse Andrea. «Se stessero monitorando la cosa, almeno dovremmo aver visto
elicotteri, qualcosa insomma che permetta loro di vedere come stanno le cose
senza invischiarsi nella faccenda.»
«Oh,
andiamo! Non avete mai visto un film sugli zombie?» sbottò Danny, con
impaziente irritazione. Lo guardarono con una certa stupita incomprensione.
«Insomma… » cercò di rimediare Danny «Il fatto è che… il Conte è un patito di film dell’orrore, e così se ne
vedeva parecchi là, e… sì, insomma, non c’era molto
altro da fare, era diventato una specie di rito guardarsi un film la sera… In realtà, perlopiù voleva vedere roba vecchissima,
in bianco e nero. Questo almeno è da riconoscerglielo, ha un gusto abbastanza
buono in fatto di film…»
«Danny… qual è il punto?» lo richiamò Kumals,
con pacata gentilezza. «Cosa c’è di rivelatorio nei
film sugli zombie? Non sei l’unico che ne ha visti, qui, ma sei l’unico a cui
siano venuti in mente in questo momento…» fece
notare, abbozzando una certa rispettosa disponibilità a dargli credito.
Danny
gli lanciò un’occhiattaccia. «Volevo dire che lì
intervengono subito, nel giro di ventiquattro o quarantott’ore,
mobilitano persino l’esercito in grande stile; e iniziano la strage.»
«Forse
vogliono evitare la strage…» mormorò Andrea.
«Forse
i film sono basati puramente sulla fantasia, e qui stiamo parlando di realtà.»
commentò Yuta, asciutta.
«Danny
non ha tutti i torti. Sono passati cinque giorni, e non s’è vista l’ombra di
una divisa.» disse Uther. «Anche ammesso che ci
voglia il loro tempo per schierarsi, qui si esagera. Non che non mi dispiaccia
la loro assenza, però… non la capisco.»
«D’accordo,
Zoal, qual è la vera teoria?» domandò Yuta alla sorella.
La
donna raccolse un momento le idee, come se ci tenesse ad esprimersi bene. «Si
tratta di un’idea azzardata, ma… Forse loro sanno già
cosa sta accadendo. E non vogliono intervenire.»
Calò un
assorto silenzio, per qualche secondo.
«E
perché non dovrebbero volerlo?» chiese dubbiosamente Danny «Voglio dire, qui
sta andando tutto a puttane… il commercio, il traffico… i treni persino.»
«E i
negozi sono abbandonati al saccheggio…» ghignò Kumals. Su di lui si concentrarono immediatamente
l’occhiata di rimprovero di Yuta e quella infastidita
di Danny, mentre Uther si voltava verso il quadro
comandi, fingendo di controllare gli strumenti, nascondendo così puntualmente
un sorrisetto divertito.
«E va
bene, in ogni caso, non si poteva sperare di meglio.» disse Kumals
«Siamo sinceri, non si è mai vista una situazione migliore. Nessuna evacuazione
forzata a cui fuggire, credito illimitato presso qualsiasi esercizio
commerciale, e non dobbiamo mai preoccuparci di scaramucce o dell’inventare
trucchi improbabili per poter fare cose come prendere un treno in prestito.»
Kumals
si voltò a guardare Danny ed Uther. «Avanti,
ammettiamolo no? Che ce la stiamo godendo.»
Uther
scosse appena la testa, anche se sorrideva, mentre Danny si limitò ad alzare un
sopracciglio. Non poteva dare torto a Kumals, ma
certo non si sentiva di poter definire esattamente come divertimento tutto
quello. «Oh certo. Anzi, sai cosa? Potremmo fregarcene e approfittarcene in
pieno. Lasciamo perdere la gente, che si è tolta dai piedi così, e viviamo di
rendita in città.» disse con pesante sarcasmo. Uther
tornò serio, e il sorriso di Kumals scomparve, mentre
un pesante clima di gelo calava tra di loro.
«Sai
benissimo che non intendevo in senso letterale…»
mormorò Kumals, in tono cupo. Danny rivolse uno
sguardo cocciutamente corrucciato altrove, incrociando le braccia sul petto con
espressione amareggiata.
Kumals
sospirò appena, e andò a sedersi nello scomparto dei passeggeri.
«Beh… non prenderla nel verso sbagliato…»
disse Yuta, voltandosi verso Andrea, che stava
guardando Danny con preoccupazione , sentendosi sgradevolmente impotente.
«Voglio dire, non è precisamente che noi… insomma,
abbiamo avuto qualche problema con le autorità, sì…comunque…»
«Quello
che Yuta sta cercando di non dire, è che noi non ci
andremmo d’accordo comunque, con le autorità.» disse Kumals,
con chiara assenza di qualsivoglia ricorso al tatto o alle mezze parole. «Il
fatto che abbiamo condotto per la maggior parte del tempo un’attività che si
potrebbe definire una truffa belle e buona, cosa che in certi casi è proprio
stata, non ha aiutato a farci vedere di buon occhio, né viceversa.»
«Mhm, lo immagino. Ma non è che questo cambi la mia
considerazione di voi…» rispose Andrea, con sincerità
che non riuscì a mediare in alcun modo. Forse prima o poi si sarebbe chiesta da
quando non provava più l’istinto di ponderare con attenzione ciò che diceva,
che combaciava sempre più scioltamente con ciò che pensava, nell’ultimo
periodo.
Kumals
le sorrise «Spero non sia così brutta, la tua considerazione…»
Andrea
diede un’alzata di spalle un po’ pensierosa. «Non saprei, è difficile prendervi
in un un’unica maniera.»
Yuta,
Zoal e Kumals sorrisero,
cercando di non farsi troppo notare.
«Ad
ogni modo, visto che non sappiamo da che parte del gioco stiano adesso le autorità…» rifletté Kumals ad
alta voce «…è una fortuna che non siamo così
facilmente rintracciabili…»
«Che
intendi?» chiese Andrea, con curiosità.
«Beh,
volevo dire che…hem… » Kumals esitò, scoccando occhiate incerte a Zoal e Yuta.
«La
nostra casa non è registrata come abitazione, e non sanno che ci viviamo.»
disse Zoal, tranquillamente, guardando direttamente
Andrea.
«Non
c’era nessuno, e ci siamo andate a vivere.» spiegò meglio Yuta.
Andrea
studiò per un momento le loro espressioni. «Non lo dirò a nessuno, davvero.»
«Ah
beh, se anche ne avessi la tentazione, potrebbero sempre scambiarli per i
vaneggiamenti di una persona rimasta scioccata dall’essere rimasta coinvolta in
questo casino.» commentò Kumals spensieratamente.
«Ci
fidiamo.» puntualizzò Yuta, lanciando uno sguardo in
tralice a Kumals.
Zoal
annuì. Ed Andrea arrossì un poco.
Dopo
aver udito quello scambio di battute, Danny si avvicinò alla porta della cabina
di comando, chiudendola quasi. Si lasciò quindi ricadere seduto per terra, con
la schiena appoggiata alla parete, e un’espressione piuttosto scoraggiata.
Uther
lo spiò appena, e tornò con lo sguardo sui comandi. Dopo qualche momento, come
se ci avesse riflettuto sopra, chiese «Potresti prendere il mio zaino? È
appoggiato lì vicino a te…»
Danny
si sorprese un momento, poiché era raro, se non inverosimile, che Uther chiedesse un favore a qualcuno, tantomeno quando si
trattava di qualcosa che poteva fare da solo, il che era quasi qualsiasi cosa
gli interessasse fare, di norma. Tuttavia Danny si allungò a prendere lo zaino,
e fece per allungarglielo.
«C’è
una birra dentro.» mormorò Uther, con naturalezza
piuttosto distratta.
Danny
rimase stupito, e infine sorrise. Frugò nello zaino, trovando la bottiglia da
66 cl. Usando un accendino fece saltare il tappo di latta, bevve qualche sorso
e si rilassò. «Ci voleva.» disse, prima di passarla ad Uther,
il quale sorrise brevemente, senza staccare gli occhi dal quadro comandi.
Tornò a
calare un tranquillo silenzio.
Alla
fine Danny si rialzò in piedi, e diede un’occhiata alla radio con la quale
stava pasticciando Kumals fino a qualche momento
prima. La studiò per un po’, e iniziò ad armeggiarci lui stesso, la fronte
aggrottata per la concentrazione di capirci qualcosa.
«Non
credo ci siano davvero delle comunicazioni. Dopotutto ci siamo solo noi in
movimento su ferrovia, qui in zona…» gli disse Uther, senza troppa attenzione.
«No, infatti… Però se stanno comunicando qualcosa, come di
evitare la zona, potremmo sentirlo… Non so cosa
potremmo ricavarne, però… Beh, non ho di meglio da
fare, al momento.»
Uther
annuì con aria comprensiva.
In
quella si udì un forte schianto provenire dal vagone accanto, dove si trovavano
gli altri. Danny balzò verso la porta, la spalancò e si gettò nel vagone,
seguito a ruota da Uther. Ma si bloccarono tosto,
vedendo che tutti gli altri giacevano appiattiti sul pavimento, Danza e Duca
compresi. Anche Danny si abbassò a terra di slancio, traendo fuori le sue due
pistole, mentre Uther tornava sui suoi passi per
afferrare il fucile appoggiato a terra in sala comandi.
«Che
succede?» mormorò Danny, osservando intensamente la parte opposta del vagone,
la porta che lo collegava al vagone successivo, con una spiacevole e forte
sensazione di dejà vou.
«Un
sasso, si direbbe…» disse Kumals,
strisciando sul pavimento. Ma prima che lo raggiungesse, Zoal
allungò una mano e raccolse un pietrone, che giaceva sul pavimento dello
scompartimento. Mentre lo prendeva in mano, svolgendo con calma il pezzo di
carta appallottolatogli intorno, Uther e Danny
concentravano i loro sguardi su uno dei finestrini del treno, fitto di crepe, e
con un largo buco al centro, frastagliato delle punte del vetro rotto.
«E’
troppo spesso!» sibilò Danny «Come è possibile romperlo con un sasso lanciato…?»
«Ha
sparato, prima. Poi ha lanciato il sasso attraverso il buco…
Una notevole mira. Sì, è proprio il nostro “angelo custode”…» osservò Kumals, staccando gli occhi dal foglio che Zoal stava leggendo insieme ad Andrea, che le era vicino,
solo per lanciare un’occhiata analitica al vetro rotto.
«Va
bene, basta, stavolta lo prendo!» decise Danny, dirigendosi con risolutoria
ferocia alla porta di discesa dal vagone più vicina a lui. Ma Uther non si spostò da dove si trovava, ostruendogli la
strada per il tempo necessario che occorse a Kumals
per raggiungerlo, camminando a quattro zampe, ed afferrarlo per la spalla.
«Non
diciamo amenità!» gli disse con autorevolezza «Che facciamo, gli permettiamo di
farci perdere tempo? E mentre tu te ne vai a zonzo alla sua ricerca noi
dovremmo fermare il treno e stare qui ad aspettare che succeda qualcosa? Siamo
esposti già troppo, non rendiamogli le cose più facili!»
«Doveva
essere vicino per riuscire a lanciare il sasso con quella precisione!» ribatté
Danny tra i denti «Stavolta ha fatto un errore troppo grande, posso prenderlo,
non ha abbastanza vantaggio, lasciatemi andare!»
Yuta,
che stava spiando cautamente attraverso un finestrino, senza esporsi troppo alla
vista attraverso il vetro, osservò con praticità «Stiamo attraversando quel
boschetto che c’è vicino a Bonthern. Deve avere
aspettato nascosto qui. E per averci preceduto deve avere un mezzo di
spostamento rapido, una moto o una macchina…
Altrimenti non ce l’avrebbe fatta. Ti seminerebbe, Danny.» terminò, voltandosi
a guardare il ragazzo con fermezza.
Danny
smise di fare resistenza alla presa di Kumals, e la
sua determinazione si sgonfiò rapidamente, lasciandogli tuttavia a contrargli
il volto un’espressione di amaro scontento e irritazione per l’adrenalina
soppressa forzatamente.
«Cosa
c’è scritto?» chiese Kumals a Zoal.
La
donna alzò gli occhi dal foglio, e lo voltò per mostrarlo loro. Era stampato a
computer. Nessuna calligrafia.
«’Non
state tra i piedi. La faccenda si risolverà presto. Tutto tornerà come prima.
Non immischiatevi.’» citò in tono piatto.
Era
tutto abbastanza chiaro, tranne un punto cruciale.
«’Tutto
tornerà come prima’? E lui che diavolo ne sa?» obbiettò Uther.
«Lui è
quello che dovrebbe saperlo. Il fatto che ne sembri così certo, ammesso che non
si tratti di una patetica bugia, significa che sa anche molto bene che qualcuno
sta avendo il controllo della cosa…» rifletté Kumals. «Uther, sarà meglio che
tu torni ai comandi.» si voltò a dire all’altro. «Non sarebbe stato così
stupido da avvertirci prima se intendeva colpirci a tradimento. Probabilmente
sarà già lontano.» e così dicendo scoccò un’occhiata significativa a Danny.
Il
ragazzo si liberò con uno strattone della sua presa, e si avviò per tornare
nella cabina di comando.
«C’è
un’altra cosa…» disse Yuta.
Tutti tornarono a immobilizzarsi e a concentrarsi su di lei.
«Il
tipo di carattere da computer che ha usato…» disse la
ragazza, che aveva preso il foglio del messaggio dalle mani di Zoal «…è lo stesso degli altri
fogli. Sia quelli che avete trovato alla villa, sia quelli che ho stampato stanotte…»
«Ne sei
sicura?» indagò Kumals con serietà.
«Ho
passato buona parte della notte con quelle righe davanti alla faccia, ne sono
molto sicura.» chiarì Yuta.
«E non
è nemmeno uno di quei caratteri che si usano comunemente…»
aggiunse Andrea, spiando ancora il foglio da sopra una spalla di Yuta.
«Quindi
abbiamo un indizio fondamentale su quale tipo di carattere di scrittura preferisce
questa ignota persona. Splendido.» ironizzò pesantemente Danny.
«Senti
Danny, che diavolo c’è, si può sapere? Non hai preso la tua pastiglia mensile
per la filaria?» reagì bruscamente Kumals.
Danny
lo guardò con puro astio. Ma si trattenne dal rispondere, e tornò nella cabina
dei comandi, sbattendosi la porta alle spalle.
«E’
molto d’aiuto che tu collabori provocandolo, davvero Kumals.»
lo rimbeccò Yuta.
«E
dovremmo sopportare qualsiasi uscita solo perché sembra che gli sia andata di
traverso una palla di pelo?» ribatté Kumals «Oh, andiamo…Uther, a meno che tu non
sia assolutamente certo che Danny sappia pilotare un treno, potresti tornare ai
comandi?»
Uther
gli rivolse un’occhiata molto lunga, e infine tornò ai comandi.
«Porco
mondo, inizio a ricordarmi perché noi…» iniziò a dire
Kumals.
«Kumals.» lo interruppe Zoal, con
tono pacatamente – ma in qualche modo anche perentoriamente – deciso. Lui la
guardò con attenzione.
«Basta così… per oggi può bastare.» disse la donna, con la
certezza di chi comunica un dato di fatto.
Kumals
scrollò le spalle. «Immagino che tu abbia ragione, Zoal.
Maledettamente ragione…»
* ‘MESSAGE IN A
STONE’ vuole essere il solito stupido giochetto di parole; deriva da ‘message in a bottle’
opportunamente modificato allo scopo della situazione di questo capitolo. So
che letteralmente è un errore, per essere giusto dovrebbe essere ‘messagewith a stone’, semmai. Ma, hey, se mi
fosse venuto in mente un titolo migliore per questo capitolo ce lo avrei pur
messo, no…? :p
Note dello scribacchiatore
Ebbene, da dopo quelle parti più tragiche dei
capitoli precedenti, la situazione non accenna a distendersi per il momento,
semmai a peggiorare… Che vi devo dire…
odiatemi pure. Ma garantisco io per questi personaggi: hanno abbastanza verve
da poter superare anche i momenti più ardui. In ogni caso, qualcosa mi dice che
ci saranno presto momenti diversi. Dopotutto, la ‘gita a Foelm’
ormai è finita. Al prossimo capitolo!
«Siamo
sicuri che stia bene?» chiese Yuta, a voce
chiaramente alta «Saranno dieci minuti che non fa altro che fissare quello
schermo e dire ‘bene’. Se non altro, inizia a diventare una cosa molto noiosa.»
Kumals,
seduto su uno degli sgabelli nella cucina della casa di Yuta
e Zoal, distolse lo sguardo fisso con cui stava
seguendo incessantemente il puntino rosso lampeggiante sullo strumento di
intercettazione GPS, e cercò di darsi un contegno. «Stavo solo verificando che
tutto andasse bene.» chiarì, scoccando un’occhiata a Yuta.
Gli sorse sulle labbra un sorrisetto, con cui dava segno di apprezzare il tono
ironico della ragazza, dopotutto.
Lei
diede un’alzata di spalle, e tornò ad assaggiare la cena che stava cucinando
sui fornelli della cucina.
«E’
stato un piano riuscito.» notò Uther.
Nella
stanza entrò Zoal, l’unica che mancava all’appello in
cucina. «Sì. Una buona idea, Kumals.» intervenne.
«Comunque, credo che sia l’ora di fare il punto della situazione…
Presto potremo andare dritti al nucleo del problema, non appena il Conte si
fermerà, che vorrà dire che sarà arrivato nel punto dove si stanno riunendo le
persone colpite.»
«Ecco,
a questo proposito…» iniziò Ramo, in tono dubbioso e
piuttosto esitante «Forse mi sfugge qualcosa ma…
Voglio dire, abbiamo un abbozzo di piano…? Perché per
quanto ne so ancora non abbiamo idea di che cosa…
Insomma, non mi è chiaro se abbiamo una panoramica complessiva. Perché io vedo
solo elementi separati.»
«Sono
d’accordo.» disse Danny, seduto di fianco alla stufa, e apparentemente auto-incaricatosi
di alimentarla con nuovi pezzi di legna di tanto in tanto. «Abbiamo un tizio
alle calcagna, che presumibilmente prima o poi tenterà di fare qualcosa, oltre
allo spiarci di continuo e a lanciare messaggi sconclusionati. Poi abbiamo
fogli su fogli di roba che non sappiamo tradurre. L’unico che forse poteva
riuscirci è stato ingoiato dal suo cappotto…» e
accennò con aperto fastidio a Kumals «…il Conte è stato mandato incontro a chissà cosa…Dimentico
qualcosa?»
«Finché
c’è il nostro “angelo custode”, siamo sicuri che non ci verrà mandato incontro
nessun’altro.» spiegò Kumals, ignorando fermamente il
tono cinico del ragazzo.
«Ma
quando saprà che ci stiamo dirigendo là… al “nucleo”
di questa cosa… potrebbe pensare che sia l’ora di
tirare fuori tutte le sue risorse…» procrastinò
cupamente Yuta.
«Faremo
in modo di tenerne conto.» risolse tranquillamente Kumals.
Danny
rivolse gli rivolse una lunga occhiata poco persuasa. «Ovvero?»
Kumals
gli indirizzò di rimando uno sguardo serio. «Non abbiamo ancora scelto una via
precisa, ma se ci sono idee, bene, ecco qui, fate pure.» e così dicendo fece
strisciare un foglio bianco, con sopra una biro, sul bancone del tavolo,
allontanandolo da sé.
«Oh,
nel caso quello che ci sta tenendo d’occhio possa sentire ciò che diciamo…?» mormorò Valentine.
«Precisamente.»
confermò Kumals.
«E se
ci troviamo di fronte un’orda di quelle persone imbambolate…
?» domandò Uther, con aria angustiata, come era
evidente dal suo tenersi appoggiato a braccia incrociate allo stipite della
porta, con le sopracciglia aggrottate pensosamente.
Kumals
sospirò. «Da quando in qua vi aspettate tutte le soluzioni già pronte? La
verità è che vi siete impigriti…» sorrise stancamente.
«Come ho detto, ogni idea sarà ben accolta. Al resto provvederà la nostra
ispirazione del momento. Nonché il nostro spirito di sopravvivenza.»
Kumals
sorseggiò il the caldo dalla tazza che aveva davanti, evitando di rivolgere
anche solo la coda dell’occhio in una qualche direzione che passasse troppo
vicino al cipiglio scuro di Uther, all’aria abbattuta
di Ramo o alla faccia greve di malcontento di Danny.
«Bene,
tra poco è pronta la cena. E poi…» Yuta lasciò serpeggiare la sua voce carica di aspettativa
per tutta la stanza, insieme al suo sguardo sinistramente denso di progetti.
Solo quando gli occhi di tutti si ritrovarono concentrati su di lei prese
fiato, mentre appoggiava lentamente il cucchiaio sul bordo della pentola.
«E dopo
inizia la festa!» esclamò vivacemente, alzando le braccia in aria con danzante movimento
celebrativo.
«Festa?
Quale festa?» domandò Danny, trasecolando e cercare di capire se si stavano
usando parole per indicare cose che non c’entravano col loro senso più
letterale.
«Dopo
cena, stasera, facciamo una festa. Ultimamente sembriamo tutti cani rabbiosi, e
comunque è un sacco di tempo che non facciamo una festa, no?» spiegò Yuta, con animata naturalezza.
Danny
la guardò attentamente. «Una festa…» ripeté, cercando
di capacitarsi o di ottenere qualche sprazzo di buon senso dalla ragazza.
«Una
festa!» ribadì lei tra i denti, imperiosa, agitando il cucchiaio in aria come
se lo stesse soppesando in attesa dell’occasione propizia per utilizzarlo come
arma impropria.
Danny
distolse lo sguardo, e Yuta sorrise vittoriosa tra sé
e sé. «D’accordo. Allora, fatevi belli, mi raccomando.»
«Una
festa in costume?» chiese con una punta di ironia Uther.
«Una
generale riassestata prima è accettabile come sufficiente.» chiarì Yuta, guardandolo da capo a piedi con intenzione.
Anche Uther si guardò da capo a piedi, senza ricavarne niente di
interessante, ma la ragazza si stava già rivolgendo a Valentine.
«Se vuoi qualche vestito, io e Zoal abbiamo qualche
cosa in più. In realtà, abbiamo un sacco di cose molto carine.»
«Beh,
grazie, ma un vestito buono dovrei avercelo con me…»
rispose Valentine, mascherando un leggero disagio per
l’atteggiamento marzialmente interessato ai preparativi che stava mostrando Yuta; questa udì appena la fine della risposta, e già stava
guardando Andrea.
«Naturalmente
tu vieni a vestirti nella mia stanza. Ho un sacco di cose, non preoccuparti,
troviamo qualcosa che ti vada bene sicuramente!»
«Ah… d’accordo…» disse Andrea, con
l’aria di chi non avrebbe osato contraddirla per nulla al mondo, con quel
genere di gentile cautela che potrebbe venir spontaneo mostrare di fronte a una
tigre che ci si è trovati in giardino mentre si usciva di casa un giorno come
un altro.
«E
naturalmente, Danny e Uther consideratevi arruolati
per provvedere alle bevande.» terminò Yuta.
Questo
fece sentire molto meglio i due, i quali le sorrisero con gratitudine complice.
«E io?»
chiese Kumals, abbastanza sicuro che non ci fosse più
niente da assegnare.
Yuta
lo guardò. «Tu e Ramo potete accendere il falò.»
«Il
falò?» si stupì Ramo, sentendosi chiamato in causa a tradimento.
«Certo!
Qui è troppo stretto, facciamo una festa all’aperto!» dichiarò Yuta, come se fosse una delle cose più ovvie del mondo dopo
la forza di gravità.
«Yuta… fuori ci saranno quasi zero gradi…»
mormorò Ramo, inquieto.
«Ma per
questo serve il falò.» disse lei, facendogli l’occhiolino.
Ramo si
guardò in giro per la stanza furtivamente, in cerca di appoggio. Non
trovandolo, si trovò a rispondere un flebile «Giusto…»
in tono malfermo.
«E il
cecchino?» sibilò Uther in uno degli orecchi di Kumals, senza farsi notare da Yuta.
Zoal
si sporse con nonchalance all’orecchio di Uther. «Mama, Danza e Duca faranno pattugliamento intorno alla
casa. E ci sono i soliti sistemi di sicurezza…
Basteranno.» lo tranquillizzò.
Uther
si voltò a lanciarle uno sguardo incerto e vagamente imbarazzato. «Oh, sì, esatto… Bene, tutto a posto, allora.» disse, imitando il
tono di chi pensa di essersi posto una preoccupazione stupidamente superflua;
il suo sguardo tuttavia sembrava piuttosto in cerca di qualche spunto di aiuto.
Se
avesse guardato nella direzione di Andrea, avrebbe però ricavato in ricambio
un’occhiata di totale spaesamento. La ragazza cercava tra sé e sé di
capacitarsi del fatto che, in una situazione come quella, a qualcuno potesse
venire in mente di fare una festa. Non trovò alcuna valida spiegazione al
fenomeno, e così finì per alzare le spalle, rinunciando alla ricerca. Subito
dopo si chiese che diavolo le stesse prendendo. Ma anche quella sembrava una domanda
destinata a rimanere senza indizio di risposta.
*
***
*
«Beh,
forse poteva andare peggio.» azzardò Uther,
sorseggiando dalla lattina di birra, la pelle del viso arrossata dal calore
intenso, e i capelli e l’accenno di barba biondastri rilucenti per il riflesso
delle guizzanti fiamme del grande fuoco acceso a mezzo metro scarso da lui.
Danny
si stiracchiò meglio, allungando le gambe davanti a sé e appoggiandosi con le
braccia all’indietro, con fare pigro. «Sì?» domandò con un sorrisetto
d’aspettativa. «E come?»
«Hum… poteva essere una festa in maschera. O poteva decidere
di costruire una piscina su due piedi…» tentò Uther.
«Ahhh, andiamo… Non esageriamo
adesso.» rise piano Danny, terminando con un ultimo sorso la sua seconda
lattina di birra. Si sentiva di umore molto più passabile, ora, anche se non se
ne accorgeva a sufficienza da poter pensare che fosse inappropriato alla
situazione.
Uther
gli lanciò un’occhiata, distogliendo il viso per un momento dal falò. «Una
volta se l’è messo in testa veramente. La piscina intendo. Era la fine di
novembre.»
Danny
lo guardò, cercando di capire se diceva sul serio. «E allora l’avete
costruita?»
«Naah. Abbiamo scavato nella terra finché non siamo stati
abbastanza stanchi. Poi è venuto a piovere. Allora Yuta
ha risolto di fare piuttosto una battaglia a palle di fango.»
Sogghignando,
Danny aprì un’altra lattina di birra, prendendola da una delle due casse piene
che aveva accanto.
Si
avvicinò Kumals, carico di una bracciata di ciocchi
di legno, che scaricò presso il falò, abbastanza lontano perché non fosse
raggiunta dalle occasionali scintille di brace che ne schizzavano di tanto in
tanto, accompagnate da rumorosi schiocchi. Rialzandosi, si appoggiò le mani
sulla parte bassa della schiena, e fissò gli altri due. «Mi raccomando, non
disturbatevi a dare una mano.»
«Non ne
avevamo nessuna intenzione.» lo rassicurò Danny con un sorrisetto.
«Noi
eravamo incaricati del bere.» specificò Uther, a mo’
di scusa scherzosa.
«Vedo, vedo…» concesse Kumals in tono
ironicamente contemplativo, guardando le casse di birra e le bottiglie di vino
radunate vicino al fuoco, insieme ad una cassa di bottiglie piene di liquidi
semiviscosi di vari colori, che costituivano buona parte della scorta dei
liquori autoprodotti che Yuta e Zoal
avevano in casa. «Ed eravate incaricati anche di berla, poi?» domandò con aria
arguta.
«Stiamo
solo controllando che sia una buona annata.» rassicurò Danny in scherno, dal
momento che stavano bevendo birra.
Kumals
alzò un sopracciglio e sorrise appena, ma subito dopo fu distratto
dall’esclamazione entusiastica che annunciava l’arrivo di Yuta.
Uther e Danny voltarono un po’ la testa dietro le
loro spalle, in tempo per vedere la ragazza emergere con aria festosa dalla
casa.
Yuta
ostentava la pancia scoperta, tra un paio di pantaloncini corti neri, di sotto
ai quali spuntava un paio di aderenti pantacollant fucsia, e un corpetto
morbido dalla fantasia di finto pelo di tigre con una sola spallina, indossato
sopra ad un corto dolcevita viola prugna. Il tutto era completato da un
collarino leopardato e da un’acconciatura che era più che altro una crocchia
annodata in alto sulla nuca, tenuta ferma da un intricato nodo dal quale
spuntavano in alto due bacchette decorate da una fantasia cinese dorata e nera,
e sotto il resto della sua chioma in una coda di cavallo che era un nugolo
confuso di capelli sciolti e delle sue solite treccine e rasta colorati.
«Olàààà!» gridò entusiasticamente, camminando a grandi passi
e agitando un po’ una bottiglia semi-piena di liquore fatto in casa. Raggiunse
rapidamente il falò e si gettò per terra, accovacciandosi tra Uther e Danny e circondando le spalle di ognuno con un
braccio.
«Eccovi
qua! Che bello!» annunciò al mondo con entusiasmo, mentre si sporgeva a
stampare un bacio sulla guancia di Danny, ed Uther le
toglieva gentilmente di mano la bottiglia prima che facesse una fine peggiore.
Kumals
adocchiò il fatto che la bottiglia era vuota per due terzi. «In casa la festa è
già iniziata?» si informò, con divertita ironia.
«Non
fare il prete.» ribatté Yuta. «Abbiamo bevuto
qualcosa mentre ci preparavamo. Ma Ramo dov’è? Dove sono gli altri?»
«Ramo
sta spaccando altra legna per il falò. Le altre saranno ancora in casa, sono
certo che se ci pensi bene scoprirai che lo sapevi già.»
Yuta
si rialzò, riprendendo la bottiglia in mano da Uther,
che non osò opporre resistenza. «Ma quale legna e legna…
Basta legna!» disse, passando di fianco a Kumals e
colpendolo con una spallata scherzosa. «Raaaamoooo!»
chiamò, sparendo dietro l’angolo della casa con fare baldanzoso, diretta alla
legnaia.
«Spero
che prima di tutto Ramo abbia la prontezza di appoggiare l’accetta, prima che
qualcuno si faccia male…» commentò Kumals, mentre ancora fissavano il punto in cui era
scomparsa Yuta. «Perché non credo che lei…».
Kumals
si interruppe, distratto da un rumore. Si voltò verso l’ingresso della casa di
nuovo, e vide uscirne Andrea. Anche Danny ed Uther si
erano girati.
Andrea
uscì e si avvicinò al falò e a loro, cercando di ignorare al meglio possibile i
loro sguardi contemplativi. Aveva un paio di pantacollant viola scuro, una
corta gonna nera e piuttosto larga che le fasciava appena i fianchi, con tutta
l’aria di essere un pezzo di un vestito che era stato tagliato per ricavarne
una gonna, come rivelavano gli sfilacciamenti del bordo, una maglia arancione a
maniche lunghe e una maglietta senza maniche rossa e nera che le terminava
all’altezza delle ultime costole. Al collo portava un collarino blu elettrico
di qualcosa di simile a un morbido tessuto peluccoso,
con brillantini argentati. Se non altro i soliti scarponi da montagna che le
andavano bene solo con l’ausilio della somma di due pesanti paia di calze le
permettevano di camminare con il suo solito passo misurato. Il fatto curioso,
comunque, era che si sentiva persino a suo agio vestita così. E non avrebbe
saputo da che parte cominciare per provare a spiegarselo.
«Qualcuno
è stato vittima delle idee di vestiario di Yuta,
qui.» commentò Kumals «Oppure ha avuto una complicata
colluttazione dentro ad un armadio.»
«Non
farci caso, è solo che è geloso.» disse Uther.
«Perché
lui starebbe malissimo se si vestisse così.» aggiunse Danny.
Kumals
li fissò. «Voi due siete pessimi cantinieri.»
«Comincio
a pentirmi di aver dissuaso Yuta dal cercare di fare
indossa a tutti qualcosa di luccicante…» disse Andrea con calma, come parlando a se
stessa, mentre si chinava a prendere una lattina di birra e celava
appositamente in malo modo un sorrisetto.
Kumals
le porse con esagerata prontezza e interessamento l’accendino per aprire la
bottiglia. «Oh, e ci sei riuscita?» domandò, fingendo un tono da disinteressata
conversazione.
«Hum… beh, ha deciso di aspettare che siate più propensi ad
essere convinti…» rispose evasivamente Andrea.
«Grazie
dell’avvertimento.» ammise Kumals.
«Quale
avvertimento?» finse di stupirsi Andrea, indirizzandogli uno sguardo allusivo.
«Non lo
so.» rispose Kumals, con perfettamente simulato
atteggiamento di incomprensione.
Di
colpo partì la musica ad alto volume dalla casa. Si voltarono a guardare le
finestre che venivano solertemente aperte una alla volta da Valentine
dall’interno, mentre dalle casse schizzava ‘Balla’ di Umberto Balsamo.
«Cattive
notizie.» annunciò con tono esperto Kumals.
«Cosa?»
chiese Andrea, un po’ allarmata.
«Questa
che mette su la musica dev’essere Zoal.»
disse Uther con tono da spiegazione, mentre
sorseggiava la sua birra.
«E
nessuno come Zoal conosce la musica preferita da Yuta…» terminò Danny.
Andrea
sorrise.
«Danny,
passami una birra per favore, credo che ne avrò bisogno…»
domandò Kumals.
Sogghignando,
Danny gli lanciò una lattina.
* non preoccupatevi, non mi sono dimenticato
un pezzo di titolo, è che l’altra parte si trova a titolo del prossimo
capitolo.
Andrea
continuava a stupirsi, e non riusciva davvero a farne a meno. E non era per il
fatto che non aveva mai sentito prima una tale sfilza di canzoni, perlopiù
trash. Di certo aveva partecipato prima ad alte feste. Ma si trattava dopotutto
di accozzaglie di persone che bevevano, chiacchieravano, ascoltavano musica,
ballavano, magari qualche gruppo dal vivo, e qualche sbronza con spiacevoli
conseguenze di indisposizione.
Invece
quelli facevano sul serio.
Sebbene
all’inizio sembrava che Yuta imperversasse da una
parte all’altra, cogliendo impunemente sul fatto chi stava osando mostrare
troppo poco entusiasmo, e coinvolgendolo puntualmente in qualche ballo, ben
presto aveva potuto smettere di sentirsi incaricata di costringere tutti su un
livello per lei accettabile di partecipazione, come quei giocolieri che tentano
di mantenere una serie di piatti a ruotare in equilibrio su una sfilza di
bastoncini. Nonostante ciò, ad un certo punto lei e Danny avevano fornito una
dimostrazione di come si poteva ballare sulle note di ‘Walkof life’ dei Dire Straits
che sfiorava l’acrobatico, e che superava ampiamente la capacità di
immaginazione di Andrea riguardo alle capacità danzanti e d’improvvisazione
casuale di due persone che avessero bevuto tanto quanto quei due.
Anche
se Kumals ed Uther
continuavano a cercare di sottrarsi furtivamente alle danze generali per fare
da bordopista con sollievo, Valentine
e Zoal erano riuscite saltuariamente a coinvolgerli, tanto
quanto Ramo e Danny. Valentine in particolare, da un
certo numero di bicchieri e bottiglie in poi, non faceva che volteggiare nel
suo modo misteriosamente agile ed elegante, con la lunga gonna del suo nero
vestito dark che le volava attorno in onde da capogiro, e i capelli solo in
parte legati in una piccola coroncina su un lato della nuca le spiovevano
attorno come una specie di vessillo nero. Ramo, che ballava con lei per la
maggior parte del tempo, non trovò obiezione quando lei lo lasciò per
improvvisare con una solidale Yuta una gara a chi scaravoltava in avanti i capelli più vigorosamente sui
ritmi di una canzone dall’incalzante ritmo rock-metal (occasione che Valentine ritenne più che valida come motivazione per
sciogliere completamente la sua acconciatura).
Per
quanto fosse stata abituata in altre occasioni a bere con tranquilla
abbondanza, Andrea era ormai immersa in una nuvola di frizzante allegria
spensierata, oltre che un poco in balia di una generale difficoltà a mantenere
non ondeggiante la sua visuale; a questo comunque contribuiva il fatto che
fosse impegnata per la maggior parte del tempo da Zoal,
che aveva un complicato modo di ballare, con il corpo e persino i larghi abiti
zingareschi che si muovevano in volute dal disegno apparentemente semplice e
spontaneo, eppure disorientantemente quasi ipnotico.
Se un serpente avesse potuto alzarsi in verticale e ballare, probabilmente si
sarebbe mosso a quel modo. Nonostante questo, Zoal la
guidava anche in un modo tale che Andrea aveva la profonda per quanto irreale
sensazione di potersi abbandonare ad ogni azzardo di movimento oltre le sue
attuali cognizioni spaziali ed equilibratorie senza
alcun timore di cadere, come se si trovasse in assenza di gravità.
Ben
presto perse l’ordine della situazione, dal momento che si trovarono a ballare
tutti in gruppo unito, anche se Valentine continuava
a preferire Ramo o al più Danny, salvo impegnarsi momentaneamente in una specie
di sfida a chi poteva ballare in maniera più ipnotica confrontandosi con Zoal, ed evidenziando così semplicemente il fatto che lo
stile dell’una era più misterico quanto quello dell’altra più provocatoriamente
sensuale.
Kumals
riuscì a dissuadere abbastanza prontamente Yuta dal
piazzare da qualche parte, che non esisteva davvero, un bastone di bambù
recuperato chissà dove in casa, convincendo in qualche modo la ragazza che per
iniziare una gara di limbo come si deve non disponevano della musica adatta; e
quando Yuta si rivolse a Zoal
per chiedere conferma del fatto che invece erano in possesso di un intero cd
con musica apposita, la sorella affermò che era andato buttato via dopo che
Danza lo aveva masticato. Nessuno comprese se era sincera, ma tanto valse a
distogliere Yuta, la quale in compenso prese allora Kumals in contropiede trascinandolo a ballare. Uther, d’altra parte, aveva già bevuto abbastanza per
accettare di accompagnare Zoal nel ballo.
Yuta
raccomandò con aria molto seria a Ramo e Valentine di
assicurarsi che Kumals continuasse a ballare, e
quindi improvvisò con Danny una selvatica sorta di ballo, che prevedeva un sacco
di giravolte e di improvvisazione, al punto che, dopo la terza canzone di fila,
Andrea iniziò a sospettare che i due stettero in realtà facendo un’impegnata
sfida per determinare chi si sarebbe sfinito per primo, o piuttosto quei
complicati passi fossero un tentativo di farsi lo sgambetto a vicenda, e le
giravolte reciproche e a rigido turno scambievole celassero la loro vera
natura, simile a quella di quei giochetti con le mani in cui perde chi sbaglia
l’ordine esatto delle mosse. E sembravano entrambi molto determinati a vincere,
ma mai quanto a darsi prova di essere reciprocamente l’uno all’altezza
dell’altra in quella specie di gioco.
Finché Kumals, apparentemente annoiatosi della scena, decise di
iniziare a boicottarli. Iniziò con l’afferrare Uther
a tradimento e lanciarlo contro i due, che riuscirono ad evitarlo appena in
tempo, allontanandosi per un momento perfettamente sincronizzato, nel quale Yuta trovò il tempo di rivolgere a Kumals
una linguaccia eloquentemente vittoriosa; Uther restò
in piedi a stento, e rivolse un’occhiata a Kumals che
minacciava una futura vendetta quando meno se lo sarebbe aspettato. Ramo, che
stava ballando con Valentine, si sottrasse agilmente
al tentativo di Kumals di destinarlo allo stesso scopo
e gli rivolse una smorfia di motteggio; Valentine gli
assestò una spinta lei per prima, mostrandogli che era pronta a reagire a
dovere. Andrea si stava divertendo troppo come semplice spettatrice per
rendersi conto del pericolo, e quando fu il suo turno, non riuscì a fronteggiare
con sufficiente energia l’attacco di Kumals. E
d’altra parte non si aspettava certo di essere afferrata per la vita, sollevata
a mezz’aria di peso e lanciata al volo verso Yuta e
Danny. Per quanto i due stessero già da un po’ tenendo d’occhio le mosse di Kumals, furono stupiti da questa iniziativa, e Danny non
riuscì a trattenersi dall’impulso di cercare di afferrare Andrea al volo.
Andrea si ritrovò buttata a terra mezzo sopra a Danny, mentre Kumals si spazzava le mani con l’aria soddisfatta di chi si
è tolto un peso, e Yuta lo guardava con l’espressione
sconfitta di chi vorrebbe essere rimasta molto meno colta di sorpresa.
Ma
intanto Valentine,apparentemente spronata dall’inizio
di una nuova canzone, aveva deciso di tentare di divelgere
dal terreno una spiga di pianta selvatica. Quando Ramo le chiese cosa voleva
farci, lei manifestò la convinta sicurezza che fosse sufficiente che lo sapesse
lei. Il ragazzo si rassegnò ad estrarre il coltellino ed aiutare i suoi
maldestri tentativi tagliando la piccola felce. Con aria professionale Valentine si drizzò, si discose
dal viso alcune ciocche di capelli, e quindi prese una mano di Ramo, con
l’altra si mise la felce tra i denti di traverso, e iniziò con determinazione
un passo di tango senza che il ragazzo trovasse abbastanza motivi per non
seguirla con piena partecipazione.
Nemmeno
fossero state le organizzatrici della coreografia, Yuta
e Zoal iniziarono una specie di quadriglia che
prevedeva di tanto in tanto, e in momenti scelti casualmente, di alzare le
braccia in alto, le mani unite, formando un arco sotto al quale Valentine e Ramo si chinavano per passare, cercando di
mantenere nel tutto il ritmo da tango che stava degenerando in quadriglia. E
prima di poter recuperare esattamente il come, Andrea si ritrovò a incrociare
le mani in alto con quelle di Yuta o di Uther o di Danny o di Zoal o di Kumals, affiancando gli altri ugualmente disposti per
formare di tanto in tanto quell’arco, mentre per il resto del tempo doveva
cercare di rispettare gli schemi, peraltro totalmente improvvisati, della
disordinata quadriglia collettiva.
Questo
durò finché una serie di canzoni più punk convinsero alla velocità di pochi
secondi Danny, Ramo, Uther e Valentine
che c’era assoluto bisogno di un ritmo ben più incalzante. Approfittando del
ritmo più rapido, Uther, Danny e Ramo riuscirono ad
un tratto a cogliere Kumals di sorpresa, sollevarlo
di peso, e correndo gettarlo dentro le balle di fieno ammucchiate nella stalla.
Ma prima di essere lasciato andare di getto Kumals
era riuscito a coinvolgere col collo del piede una caviglia di Ramo, che non
poté evitare di cadere anche lui in parte nel fieno. Mentre i due tentavano di
affondarsi reciprocamente nella paglia, ed Uther e
Danny davano supporto od ostacolavano ora l’uno ora l’altro senza preciso obbiettivo,
Yuta irruppe nella stalla protestando che stavano
facendo sfacelo della paglia. Uther si voltò di getto
e le tirò addosso una bracciata di paglia. Yuta lo
fissò per qualche istante, quindi lo inseguì mentre il ragazzo scappava sulla
montagna di fieno, semi travolgendo nella corsa Kumals
e Ramo. Quest’ultimo, vedendo che ora Danny si stava limitando ad assistere
allo spettacolo, scambiò un rapido sguardo d’intesa con Kumals,
e i due si trovarono coalizzati nel tirare di peso il ragazzo dentro fino al
collo nella paglia.
Andrea
stava giusto contemplando le schermaglie in una pioggia e lancio incrociato di
pagliuzze dorate, quando una decisa spinta la fece finire a sua volta nel
mucchio. Lei si ritrovò semisdraiata e semisprofondata
nel fieno, a guardare con aria incredula Zoal, che le
fece l’occhiolino con aria candida. L’istante successivo Uther,
giunto alle spalle della donna di soppiatto, le rovesciava una montagna di
paglia addosso, e subito dopo i due conducevano una specie di giocosa zuffa in
cui cercavano di spingersi vicendevolmente per terra. Andrea si era distratta
di nuovo, e proprio quando si stava rendendo conto dell’errore ecco che Valentine e Yuta la prendevano
per le braccia e le gambe di peso ed ignorando i suoi tentativi di resistenza si
dedicavano a farla dondolare e quindi a lanciarla in pieno dentro il mucchio di
paglia, facendola atterrare malamente nel mezzo della zuffa che stava tenendo
occupati Kumals, Danny e Ramo. Quest’ultimo decise di
vendicarsi raggiungendo rapidamente Valentine e scaravoltandola nel mucchio di fieno, nel quale però non
riuscì di nuovo ad evitare di essere trascinato a sua volta.
E di
punto in bianco, sparito Kumals in qualche modo, Valentine e Ramo ancora impegnati a cercare di infilarsi
reciprocamente paglia nei vestiti, e Yuta e Zoalintente a cercare di
sollevare di peso un dimenantesiUther
per fargli fare il suo volo nella paglia, Andrea si accorse che si stava
azzuffando solo con Danny. Di colpo la cosa smise di essere solo divertente, e
quasi in perfetta sincronia anche Danny si bloccò. Senza preciso senso, si
ritrovarono con il fiato affaticato per la colluttazione a guardarsi dritti
negli occhi, l’espressione dei quali stava mutando in un modo di cui Andrea non
riusciva a delineare il percorso o la direzione.
«No, Kumals, quello no.» disse Uther
con fermezza.
Danny
ed Andrea riuscirono in qualche modo, stranamente impegnativo, a rompere il
contatto visivo per voltarsi verso l’ingresso della stalla, che Kumals aveva appena varcato imbracciando una bottiglione di
vino rosso con aria determinata. Scoccò uno sguardo ad Uther,
che gli si era avvicinato con fare da moderatore, e fece il gesto rapido di
lanciargli addosso un getto di vino, facendolo balzare d’istinto più lontano.
Subito
dopo Kumals si era messo all’inseguimento di Ramo, il
quale però si era prontamente alzato in piedi e a larghe falcate
semi-affondanti nella paglia stava compiendo un lungo giro intorno al perimetro
della stalla per cercare di aggirare Kumals e fuggire
fuori. Danny fu invece troppo lento, e non sospettava che Kumals,
vedendo sfumata per il momento la possibilità di acchiappare Ramo, si
soffermasse su di lui. Mentre Andrea rotolava via frettolosamente, Kumals si gettò di peso sul ragazzo, rovesciandogli addosso
una generosa doccia di vino. Solo quando Danny aveva già tutta la testa, le
spalle e parte del costato zuppi Kumals si ritenne
abbastanza soddisfatto per decidere di abbandonare la sua vittima e ridedicarsi all’inseguimento di Ramo fuori dalla stalla,
ignorando Uther che si era per precauzione rifugiato
nell’angolo più lontano.
Con
aria di vendetta Danny lo inseguì, tallonato ben presto dalle ragazze e da Uther. Appena usciti dalla stalla videro che Ramo,
scappando rapidamente da Kumals, si ritrovava
all’improvviso di fronte al falò.
«N….!» iniziò Valentine. E Ramo
spiccò il salto più alto e lungo che poté e riuscì a superare il falò.
«…o…» terminò Valentine, stupita.
Kumals
si era fermato di fronte al falò con aria riflessiva. «Tutto qui?» disse
infine, affatto colpito. Si chinò ad appoggiare la bottiglia di vino a terra,
con calma; si rizzò, e camminò incontro alle fiamme crepitanti. Sotto lo
sguardo incredulo di Andrea, abbastanza propensa a pensare di aver bevuto
troppo per potersi affidare con fiducia ai suoi stessi occhi, l’uomo camminò
tranquillo attraverso il falò, mentre una specie di flusso d’aria invisibile,
del quale si poteva sospettare come artefice il pastrano che indossava, gli
apriva intorno le fiamme, lasciandolo illeso.
Danny
sogghignò, e corse verso il falò. Superò le fiamme con un balzo ben più alto di
quello di Ramo, e decisamente troppo poco umano, esibendosi perfino in un salto
carpiato.
«Tsk, esibizionista…» commentò
sardonico Kumals, mentre Ramo e Danny si
posizionavano accanto al falò. Uther spiccò la corsa,
usò le schiene di Danny e Ramo chinatisi come due scalini di altezza crescente,
e superò a sua volta il falò in salto, terminando con un paio di rotolate per
terra dall’altra parte, e rialzandosi in piedi nel finale dell’ultima rotolata.
Quindi prese la bottiglia di vino abbandonata poco prima da Kumals,
bevve un sorso, ingoiò e accennò un inchino assolutamente e volutamente
inelegante.
In
quella partì la canzone ‘Eatenby
the monsterof love’ degli Sparks. Di lì a poco Andrea si ritrovò a guardare Valentine impegnata a cercare di coinvolgere Danny in una
sorta di balletto, che prevedeva di tenersi un braccio sulle spalle,
affiancati, e di gettare ritmicamente una gamba una volta da una parte e una
volta dall’altra, il tutto ad un ritmo saltellante sincronizzato con quello
della canzone. Fin dall’inizio era stato evidente che il ragazzo era
profondamente incapace di prendere il ritmo, e che continuava pertanto a
sbagliare quale gamba alzare e/o da che parte scalciare; anche il fatto che a
turno Uther o Ramo lo affiancassero dall’altra parte,
cercando di fargli prendere il ritmo giusto, si rivelò inspiegabilmente
insufficiente. Nonostante ciò Valentine si era
intestardita nel continuare fintanto che Danny non avesse imparato, e pretese,
con quel tipo di ostinazione molto determinata di chi s’è fatto prendere da un
cocktail di alcol ed entusiasmo, che la canzone fosse rimessa dall’inizio
almeno una mezza dozzina di volte. Danny a quel punto era talmente concentrato,
stanco e alticcio da finire per inciampare nei suoi stessi piedi e cadere, in
maniera sospetta che assomigliava ad un tentativo di ammutinamento. Valentine però se ne accorse, e cercò di tirarlo in piedi
di peso per un braccio, opponendosi energicamente ai suoi tentativi di resistenza,
finché Ramo ed Uther non riuscirono a dissuaderla e a
persuaderla a terminare la canzone avvalendosi piuttosto di loro due come
compagni di ballo.
Di lì a
poco Ramo riuscì anche a convincerla a lasciare la festa e ad accettare, non
troppo scopertamente, che non era più capace di mettere insieme un’azione
migliore di quella di andare a dormire su un vero e proprio letto, piuttosto
che crollare a terra senza rendersene ben conto. Mentre Ramo era così intento a
sostenere una Valentine piuttosto convinta di poter
ancora ballare e a dirigerla con accorta nonchalance verso la casa, non fece in
tempo ad accorgersi del rapido appropinquarsi di Kumals,
che riuscì infine a vuotargli il contenuto di vino rimasto nel bottiglione
dritto in testa. Ramo strappò di mano la birra che aveva in mano Valentine e gliela lanciò in faccia di getto, prendendolo
in contropiede, e facendolo rimanere lì, sgocciolante e stupito, mentre Andrea
si univa alle scroscianti risa di Yuta. Subito dopo Uther, che era riuscito a sgusciare in casa e a tornarne
reggendo una brocca piena d’acqua, accorse e la rovesciò totalmente addosso a Kumals, guardandolo poi con l’aria soddisfatta di chi
ritiene di aver fatto il suo dovere fino in fondo.
Kumals
era troppo sorpreso per trovare di meglio da fare, così sul momento, che trarsi
fuori dalla tasca il pacchetto del tabacco, salvo scoprire che era andato
completamente infradiciato anche quello. Alzò lo sguardo sull’aumentato
sogghigno di Uther, gli strappò di mano la brocca
vuota e marciò con decisione dentro la casa. Uther
fissò per un momento la sua scomparsa, quindi si diresse a passo sostenuto
dietro l’angolo della casa, con l’evidente proposito di scovare al più presto
un accettabile nascondiglio.
Quando,
ancora più tardi, ad Andrea parve di vedere Kumals
ballare con il suo cappotto vuoto eppure animato come se fosse indosso ad una
persona invisibile, preferì rassicurare se stessa sul fatto che doveva essere
soggetta ad allucinazioni.
Yuta, seduta in
terra a gambe incrociate, lanciò un cupo sguardo di sfida a Kumals,
seduto in modo non troppo dissimile e di fronte a lei. Il fuoco le baluginava
sui capelli spettinati, e sul viso chiuso in un’espressione molto battagliera.
Senza staccare lo sguardo dall’altro,
sollevò il bicchierino colmo fino all’orlo di liquore autoprodotto, tenendolo
con adoperata maestria solo con la punta delle dita. Nonostante il leggero
tremore della sua mano, fu misteriosamente in grado di farlo arrivare fino
all’altezza del suo mento senza farne strabordare il
contenuto. Fissò per un ultimo istante decisivo Kumals,
quindi scaravoltò la testa all’indietro e sincronicamente si versò tutto il contenuto del bicchierino
in bocca. Buttò giù subito per l’esofago il liquore, sbatté il bicchierino sul
terreno davanti a lei con fare perentorio, ed esclamò, con vivace ottimismo:
«Nove!».
Kumals sorrise appena.
«Vorrai dire ‘otto’.»
Lo sguardo di Yuta
tornò severo. «No. Voglio dire ‘nove’. Perché questo è il nono.» affermò con
sicurezza.
«Oh, già, è vero. Devo aver perso
il conto…» commentò Kumals
con compassata indifferenza, mentre prendeva la bottiglia e tornava a riempire
il bicchierino fino all’orlo.
Yuta sorrise
furbamente. «Patetico trucco, Kumals.»
Kumals fece finta di
non essere deluso, mentre la guardava con un sogghigno sottile al di sopra del
bicchierino che teneva alzato davanti alla bocca. Lo vuotò d’un sorso netto,
buttò giù, e riappoggiò con calma il bicchierino a terra. «Nove.» dichiarò
formalmente a sua volta.
«Sicuro che non sia ‘dieci’?» lo
prese in giro Yuta.
Zoal passò loro di
fianco a passo strascicato. «’Notte…» mugugnò con
voce stanca, ma scandendo ogni lettera con una precisione e una limpidezza di
voce che sarebbe improbabile aspettarsi da qualcuno reduce da una festa
generosa in bevute.
«Buonanotte…
Ah, Zoal. Ricordati che Uther
dorme nella…» la rincorse Yuta
con le parole, mentre Kumals riempiva di nuovo il
bicchierino.
«Sì, certo.» rispose con calma Zoal, poco prima di sparire all’interno della casa.
«Un giorno scoprirò come fa…» borbottò tra sé e sé Yuta.
«Non credo che quei due si siano
accorti che la festa è finita…» commentò Kumals. Yuta seguì con curiosità
la linea del suo sguardo, terminandolo su due figure che ancora si trattenevano
vicino al falò, ballando tra loro in una maniera che aveva un che di scherzoso
e un che di qualcos’altro. In effetti la musica proveniente dalle casse si
spandeva ancora vividamente nell’aria silenziosa dello spiazzo attorno alla
casa.
«Resta concentrato!» lo richiamò Yuta con severità. Soppesò il bicchierino per un momento, e
lo vuotò. «Dieci.» concluse, sbattendolo sul terreno, e ricordandosi stavolta
di rovesciarlo, come prevede l’etichetta in questi casi.
Kumals alzò un
sopracciglio, raccolse il bicchierino e con le dita tentò di ripulirne il
bordo, sul quale si era attaccata la terra usando come collante il rimasuglio appicicaticcio di liquore.
«Ah… »
sospirò lamentosamente Yuta, senza apparentemente
accorgersi di ciò che stava facendo il suo sfidante, che ora aveva dovuto
pescare un fazzoletto abbastanza pulito da una tasca, per usarlo per staccare
il terriccio dal vetro. «E’ durata troppo poco, questa festa!»
«Hmm…
dici?» domandò distrattamente Kumals.
«Ma sì!» insisté la ragazza. «Che
ore sono?»
Kumals riappoggiò per
terra la bottiglia che stava per inclinare sopra al bicchiere, dopo averle
lanciato uno sguardo eloquente. Si alzò un po’ la manica del cappotto, mettendo
allo scoperto il polso sguarnito; lo studiò per qualche momento fingendo di
consultare un orologio, ed infine sancì «Esattamente le ‘è abbastanza tardi’ in
punto.»
Yuta fece un verso
sprezzante, prese la bottiglia e riempì lei il bicchierino. «Potevamo anche
farla durare un po’ di più.»
«Beh, considerando che avevamo tra
noi Uther e Danny direi che…»
«Non la bottiglia, intendevo la
festa.» interruppe lei il malinteso con decisione, guardandolo con aria
vagamente di rimprovero.
«Gli altri sono già a letto.
Quasi tutti, almeno.» disse Kumals, e nel vuotare il
bicchierino lanciò un’occhiata in direzione del falò.
«Potremmo dare fuoco alla casa.
Così dovrebbero tornare fuori.» rimuginò Yuta.
Kumals si fece andare
di traverso il liquore e prese a tossire.
Yuta sorrise maliziosamente.
«Che c’è? Vuoi arrenderti?» domandò senza nascondere la sua contentezza, mentre
si sporgeva a picchiargli la mano chiusa a pugno sulla schiena.
Kumals scosse la
testa, mentre finiva di tossire.
«Guarda che stavo scherzando… a proposito di bruciare la casa…
» puntualizzò Yuta, pensando che l’uomo si fosse
fatto cogliere di sorpresa dalla sua affermazione. Ma poi si rese conto che lo
sguardo di lui era rivolto altrove. Di nuovo voltò la testa in direzione del
falò, e oltre esso.
Gli ultimi due ancora in piedi avevano
effettivamente smesso di ballare, alla fine. Ora stavano abbracciati. Andrea si
era un po’ alzata in punta di piedi, le braccia attorno al collo di Danny, che
stava ricambiando il suo bacio.
«Chi l’avrebbe mai detto…» commentò divertito Kumals,
la voce semi-strozzata per il non essersi ancora ripreso dal quasi soffocamento.
Yuta tornò a
voltarsi e lo guardò in tralice. «Ma te sei proprio cieco.» constatò.
Kumals alzò un
sopracciglio. «Curioso detto da chi stava impiegando dieci minuti minuti per prendere la mira sul bicchiere col collo della
bottiglia, neanche cinque minuti fa.»
«Io sono sbronza. La tua scusa
qual è?*» ribatté Yuta.
«Tu non sei sbronza, sei solo
convinta di esserlo.» la corresse Kumals.
«Cosa sarebbe questa, una terapia
basata sull’effetto placebo?» ironizzò Yuta
scetticamente.
«Non saprei nemmeno farmi venire
in mente il significato di ‘psicologia inversa’ in questo momento…»
ridimensionò Kumals.
Yuta lo fissò con
gli occhi socchiusi, e un sorriso appena accennato. «Non me la fai, Kumals.»
L’altro le alzò il bicchierino
davanti al viso. «Tocca a te, vero?» domandò, senza volerlo veramente chiedere.
Yuta sorrise un po’
di più e un po’ più argutamente; gli prese il bicchierino dalle dita con
delicata sicurezza e lo vuotò, ingoiò, e glielo restituì scoccandogli uno
sguardo che mandava bagliori forse solo in parte creati dalla luce del falò.
«Undici.» sussurrò, con autoironico tono cospiratorio.
*
***
*
Yuta emerse con
notevolissime difficoltà da un sonno molto pesante, accorgendosi che tutto ciò
che stava cercando molto fastidiosamente di svegliarla era un qualcosa che le
punzecchiava il fianco o la schiena a intervalli irregolari, ma con crescente
pressione.
Lei mugugnò qualcosa, e si rigirò
un po’ sulla schiena, per assestare una manata dietro di sé, ad occhi chiusi,
col confuso proposito di eliminare la fonte del fastidio. In effetti le
punzecchiature si interruppero. Lei era già tornata a rigirarsi sul fianco,
nella posizione semi-rannicchiata sotto le coperte, senza alcuna intenzione
cosciente, cosa che non serve quando tutto ciò che si sta facendo è riprendere
a dormire saporitamente.
Le punzecchiature ripresero, con
un po’ più di cautela, ma anche più intense.
Stavolta Yuta
si girò del tutto e si alzò un po’ col busto, puntellandosi con un gomito.
Attraverso uno sguardo inizialmente appannato dalla difficoltà che impiegava il
messaggio visivo ad arrivarle al cervello, vide Kumals
in piedi di fianco al letto. Aveva in mano un tergicristallo.
«Cosa?!» disse Yuta, con tono decisamente alterato.
Yuta gli lanciò uno
sguardo minaccioso, e quindi si guardò un po’ intorno. Si trovava su un letto
nella stanza degli ospiti. Non vedeva nulla di male nel dormire su un letto per
smaltire una sbronza, e pertanto non riusciva a trovare nessun motivo valido
per cui qualcuno dovesse svegliarla. Sicuramente aveva bisogno di essere più in
forze per iniziare a rimediare i ricordi delle ultime cose che erano successe
nottetempo, e al momento non ne aveva nessuna voglia. Nonostante ciò, qualcosa attirò
insensatamente la sua attenzione.
«Perché hai un tergicristallo in
mano?»
Kumals alzò le spalle
«L’ho trovato nell’altro letto, quello dove ho dormito, stamattina. Credo
l’abbia sputato fuori il cappotto. Strano, no? Voglio dire, in genere non lo
fa. Credo si trovasse qui da quando…»
«Bene. Buonanotte.» lo interruppe
Yuta, tornò a girarsi nella precedente posizione e
trovò che non aveva alcun problema a ricadere rapidamente nel sonno. Si sentì
di nuovo punzecchiare il fianco.
«Che c’è?» gridò imbestialita,
tornando a girarsi e a fronteggiare Kumals con uno
sguardo di fuoco.
«Beh…
c’è da dar da mangiare ai gatti, rompere l’acqua congelata nell’abbeveratoio
dei cavalli, riassestare le balle di fieno che abbiamo scombinato ieri sera
durante la festa… E tutti gli altri dormono. Almeno
credo. Non si sente volare una mosca. Inoltre, ieri sera Uther
è sparito ad una certa, e insomma, stavo pensando che potremmo cercarlo e
vedere se è ancora vivo, tipo.»
Yuta rifletté con
impegno su tutte queste informazioni. Alla fine domandò «E Zoal?»
«Dorme sul divano.»
«Perché non sono nella mia
camera?» chiese ancora Yuta.
«Perché ci sono andati a dormire
Ramo e Valentine, e mi sembrava appropriato lasciarli
per conto loro. Ah, a proposito, non ho visto in giro nemmeno Danny e Andrea.»
e sogghignò significativamente.
«Mhm…
bene.» concluse Yuta. Tornò a girarsi sul fianco e ad
appoggiare la testa sul cuscino.
Le punzecchiature non ripresero,
e lo trovò molto soddisfacente. Anche tutta la capacità importunante di Kumals doveva pure avere una fine. E non poteva essere
superiore alla sua determinazione a dormire ancora, era sicuro!
In quella si accorse che qualcuno
stava entrando nel letto di fianco a lei, infilandosi sotto le coperte, e
iniziando a spingerla lentamente per farsi posto. Yuta
balzò a sedere e in un tutt’uno spinse energicamente Kumals,
già mezzo sdraiato, fuori dal letto. Si ritrovò a fissarlo mentre, seduto sul
pavimento dov’era caduto non troppo rovinosamente, la guardava.
«Senti, Kumals…»
iniziò a dire lei, tentennante, con serietà dispiaciuta ma convinta.
«Beh, se non ti svegliava questo,
mi sarei arreso davvero.» le comunicò lui, con un sorrisetto ambiguo.
Lei lo fissò in tralice per
qualche secondo, quindi si rese conto che effettivamente ora era sveglissima.
Con un ampio sbuffare scostò di getto le coperte e scese dal letto, senza
curarsi di camminare sopra a Kumals stesso, che
replicò solo con qualche lamento più volto al vittimismo che all’espressione di
dolore.
Borbottando mozziconi di frasi
imprecanti, Yuta si trascinò con passo malfermo fino
alla porta, la aprì e fece per uscire; ma si bloccò sulla soglia, e tornò a guardare
l’altro, che si era alzato e si stava spazzando distrattamente polvere e
terriccio raccolti dal pavimento sugli abiti.
«Hai detto che in camera mia ci
sono Ramo e Valentine?»
«Sì.»
«Beh…
ma io ho bisogno di vestiti di ricambio! Busserò.» decise Yuta,
parlando più che altro a se stessa, ed uscì.
Kumals sorrise
brevemente tra sé e sé, quindi anche lui uscì nel corridoio, diretto al bagno.
Entrò e prese a lavarsi la faccia al lavandino con acqua rigorosamente fredda. Gli
sorse l’idea che avrebbe potuto farsi una doccia veloce. Ma prima era meglio
accertarsi a quale livello di sporcizia sommaria fosse giunta la vasca. Così si
voltò e tirò le tende chiuse della vasca da bagno. Sussultò violentemente, per
quella sorpresa totalmente inaspettata che allarma in maniera puramente
istintiva.
La persona che invece giaceva sdraiata
nella vasca vuota, avvolta in un paio di coperte, seppure altrettanto colta di
sorpresa stava riemergendo da un sonno pesante, perciò si limitò a guardarlo
con occhi cisposi ed espressione di irritato disturbo.
«Oh. Scusa.» disse meccanicamente
Kumals, guardando Uther.
Ora che lo aveva riconosciuto e che era certo che fosse vivo, il tutto non gli
sembrava affatto strano.
Uther mugugnò
qualcosa di incomprensibile, che a giudicare dal tono assomigliava
all’espressione di chi è a malapena disposto a scusare qualcuno, a patto che
scompaia con la stessa prontezza con cui è apparso.
Tuttavia, Kumals
stava notando che accanto alla vasca, appoggiati per terra, c’erano una bacinella
vuota, una bottiglia d’acqua e una pagnotta.
«Chi ti ha portato la colazione a
letto? Cioè, volevo dire la colazione ‘in vasca’…» domandò Kumals,
curioso ed ironico.
Uther ci pensò un
momento, ma la curiosità fu infine più forte dei postumi da sbronza. Si alzò
faticosamente a mezzo busto, sporgendosi oltre il bordo della vasca per
guardare gli oggetti che avevano attirato l’attenzione di Kumals.
«Non ne ho idea.» commentò.
«Dev’essere
stata Zoal.» concluse Kumals.
«Questo potrebbe voler dire che si è anche già occupata di tutto quello che
c’era da fare, prima di tornare a dormire sul divano. Credo che Yuta non la prenderà bene.»
«Mhm.»
emise Uther, mettendosi a sedere a fatica dentro la
vasca, tenendosi saldamente sulle spalle le coperte, evidentemente ben poco
interessato a ciò che stava dicendo l’altro.
«E tu come stai?» domandò con
aria arzilla Kumals.
Uther lo guardò con
un cipiglio ben poco amichevole.
«Stavo pensando di farmi una doccia… Ma posso anche passare più tardi.» disse ancora Kumals.
Uther emise un
grugnito d’assenso.
«A dir la verità non mi sembrava
che avessi bevuto molto più del solito, stanotte…. »
osservò Kumals. Ora nel suo tono c’era, a malapena
distinguibile, un accenno di indagine più propria.
Uther lo notò, gli
scoccò uno sguardo in cagnesco, e disse «M’è sembrato che hai detto che saresti
ripassato più tardi.»
Kumals si arrese alla
chiusura del ragazzo. Tra sé e sé, in ogni caso, si era già dato molte
risposte, osservando quell’espressione di profondo malumore, mischiato a
qualcosa che poteva sembrare un buon inizio di abbattimento che sconfinava con
la depressione.
«L’ho detto…»
ammise quindi, dopo aver rivalutato con più obbiettività le probabilità che ad Uther potesse giovare anche solo la sua muta presenza. «Va
bene, a più tardi allora.»
Mentre Kumals
usciva, Uther occhieggiò il telefono della doccia,
che era disposto quasi precisamente sulla sua testa. Si liberò delle coperte e
le buttò fuori dalla vasca, sul pavimento; tornò a riabbassare la faccia,
mentre allungava una mano sul pomello che accendeva l’acqua, e lo girava.
Kumals udì l’acqua
della doccia iniziare a scrosciare di colpo. Si voltò appena, senza
interrompere la sua azione di uscire, e prima di chiudersi la porta alle spalle
intravide chiaramente Uther, ancora seduto dentro la
vasca, a spalle abbandonate, gambe incrociate e sguardo vacuo perso sul nulla,
che lasciava che l’acqua gli piovesse addosso, bagnandolo completamente,
vestito com’era.
* Questa battuta originariamente non
è mia, anche se l’ho leggermente modificata per adattarla al contesto. Però non
mi ricordo dove l’ho sentita… mah.
Appena uscito dal bagno, Kumals si ritrovò di fronte Ramo.
Il ragazzo gli rivolse uno
sguardo ancora piuttosto intontito e assonnato, e con voce impastata domandò
«Ma il bagno è occupato…?»
Kumals ci rifletté
sopra per un momento. «Diciamo che Uther si sta
facendo la doccia.»
Notando il tono dubbioso, Ramo
smise di sfregarsi la testa per cercare di risvegliarsi, e lo guardò con uno
sguardo più concentrato. «Che significa ‘diciamo’…?»
«Beh, se devi solo pisciare credo
che tu possa procedere tranquillo.» recuperò Kumals
«Se devi fare una doccia, ci sono prima io.»
«Hum…»
borbottò Ramo, poco convinto. «Dipenderà da chi arriva primo. Ma…Uther è già sveglio?»
«Non ne sono sicuro.» commentò Kumals, con riserbo.
«Ha dormito nella vasca, eh?»
«Già. Di solito dice ch’è perché il
letto si muove troppo dopo che ha bevuto. Così, suona strano che non ci dorma
praticamente sempre nella vasca.» notò Kumals.
«Va bene…
tenterò dopo.» risolse Ramo, con un ampio sbadiglio, e si ridiresse verso la
stanza di Yuta.
«Hai per caso visto Yuta?» gli chiese Kumals.
«Sì…»
rispose Ramo, con sforzo di concentrazione. «E’ venuta a prendere dei vestiti, prima… Credo che sia scesa, dopo.»
«D’accordo, grazie.» concluse Kumals, superando l’altro mentre rientrava nella stanza, e scendendo
le scale.
Attraversò il salotto ed entrò in
cucina, dove trovò le due sorelle.
Zoal stava
rimestando un pastone per i cani in una pentola sopra ai fornelli, mentre
vicino ai suoi piedi Mama, seduta, aspettava con una
vaga aria di pazienza, e Danza cercava di coinvolgere Duca in una lotta
giocosa, agitandogli addosso un pezzo di legno, a proposito del quale sembrava
convinta valesse la pena di iniziare una contesa.
«Buongiorno Zoal.»
salutò Kumals, mentre occhieggiava Yuta, seduta al bancone con un’aria molto provata; sentendo
la sua voce la ragazza si distrasse dal fissare con eccessivo interesse la
tazza di caffè caldo poggiata davanti a lei, e gli scoccò uno sguardo
corrucciato, come se cercasse il motivo preciso per cui doveva avercela con
lui.
«Buongiorno.» rispose Zoal.
«Che ore sono?» si informò Kumals.
«L’una.» rispose la donna.
«Hum… E
sei stata tu a portare la colazione ad Uther, immagino…»
«Ahan.»
confermò Zoal, mentre schiacciava alcuni grumi nel
pastone col cucchiaio.
«Era nella vasca?» si udì la voce
di Yuta uscire faticosamente; aveva l’aria di essersi
svegliata da poco da un coma profondo. Kumals sperò
intensamente che non riuscisse a ricordarsi che l’aveva svegliata con la
motivazione di faccende a cui doveva aver già provveduto Zoal.
«Mh-mh.»
rispose affermativamente Zoal.
«Speriamo che non ci anneghi…» commentò Kumals, come
tra sé e sé.
«Eh?» fece Yuta,
in cerca del proposito per attaccare briga, e chiedendosi se il fatto che
l’uomo non si stesse esprimendo in maniera sufficientemente chiara fosse adatto
allo scopo.
«Niente, niente…
». E Kumals si sedette al bancone, dopo aver
recuperato qualcosa da mangiare da alcuni stipetti; prese a spalmare della
marmellata su un pezzo di pane piuttosto vecchio, cercando di opporre allo
sguardo penetrante di Yuta un’espressione
innocentemente distratta.
Zoal spense uno dei
fornelli. «Altro caffè è pronto.» annunciò.
«Ottimo, caffè…»
mormorò Kumals, alzandosi e andandosene a versare una
tazza. Mentre zuccherava il suo caffè, sentì il rumore di una sedia che veniva
spostata con brusca urgenza dietro le sue spalle. Si voltò subito, pronto a
fronteggiare un’aggressione. Ma dietro di lui non c’era nessuno in procinto di sferrargli
un attacco.
Kumals si ritrovò a
guardare la schiena, il sedere e le gambe di Yuta,
riversa con la parte superiore del corpo fuori dalla finestra aperta della
cucina. I rumori di chi sta rimettendo erano inequivocabili.
«Quando gli altri si saranno
alzati, dovremmo parlare un po’…» disse con calma Zoal,
porgendogli un lega capelli che di solito usava la sorella.
«Sì.» concordò Kumals, prendendo il lega capelli e andando ad accostarsi a
Yuta da dietro. Con naturalezza si sporse dalla
finestra di fianco a lei, chinandosi a raccoglierle i capelli con le mani,
ciocca per ciocca, allontanandoglieli dal volto, e glieli legò in una coda di
cavallo sommaria dietro la schiena.
«Grazie…»
bofonchiò Yuta, con tono irritato.
Kumals le porse uno
strofinaccio che aveva pocanzi un po’ bagnato d’acqua sotto il lavandino, senza
dire nulla. Iniziò a canticchiare.
«Her name is Rio and she dances on the sand…*»
*
***
*
Andrea fu richiamata senza tanti
complimenti dal sonno profondo per via di qualcosa di umido e vellutato che le
urtava la guancia. Spalancò gli occhi, voltandosi, e si ritrovò a fissare
l’impressionante primo piano di un grosso muso equino; dalle grosse narici
eruppe uno sbuffo che le soffiò un’alitata di aria calda su tutta la faccia.
«Ah!» esclamò stupita la ragazza,
scostandosi di fretta per mettere un po’ più distanza tra la sua faccia e quella
del cavallo. L’azione non fu così facile, perché quel qualcosa su cui era
sdraiata slittava sotto di lei, con un crepitio secco, e si sentì graffiare un
po’ la pelle da un minuto accozzaglia di punte rigide. Si rese così conto di
essere sulla paglia.
Guardandosi intorno, realizzò di
trovarsi nella stalla. Di fronte a lei, un cavallo non molto grosso, dal pelo
bianco-grigiastro, ruminava tranquillamente. Mentre lei lo guardava, ingollò
l’ultima parte del boccone, e sporse il muso di fianco a lei, scostando un po’
i vestiti nei quali era mezzo avvoltolata, per raggiungere la paglia: dai
grossi labbroni, appositamente ritratti, baluginò il bianco-giallastro di
grossi denti piatti, coi quali afferrò un po’ di paglia, che si portò in bocca,
riprendendo tosto a ruminare, pacificamente.
Andrea sentì un movimento di
fianco a lei, e la paglia si mosse un altro po’, accompagnata da un mugugno tra
lo stanco e il pigro. Voltò lo sguardo sul ragazzo disteso accanto a lei, come
lei nudo e sommariamente avvolto in un mucchio disordinato di vestiti.
Da sotto alcuni scompigliati
ciuffi bianco-gialli spuntò uno sguardo blu scuro, che si aprì su di lei. Danny
parve non avere alcuna esitazione nel riconoscerla; nella sua espressione
ancora mezzo preda del sonno occhieggiò un sorriso tenue. In qualche modo, lei
rapì prontamente quell’immagine, e la sprofondò con cura in sé, per l’immediato
desiderio di custodirvela a lungo.
Poi Danny si accorse del cavallo
che ruminava con lenta pazienza vicino a loro.
«Oh…Raj.» disse, a mo’ di constatazione e di saluto. Il cavallo
non sembrò curarsene. Nonostante ciò, Danny sporse il braccio, per appoggiare
le dita sul muso bianco-rosato, sul quale assestò un grattino.
«Si chiama Raj.»
disse Andrea, abbozzando vagamente il tono interrogativo.
Danny tornò a guardarla, ancora
con quell’espressione di dolce abbandono. «Sì.» sussurrò in risposta. Poi,
mentre ancora considerava la ragazza, qualcosa mutò nel suo sguardo. Come se si
stesse svegliando appieno solo in quel momento, la sua espressione si fece di
colpo lucida, e subito dopo piuttosto concentrata nell’evitare di fare
trasparire un certo imbarazzo.
Andrea sorrise, mentre si
raccoglieva meglio intorno gli abiti, più che altro per ripararsi meglio
dall’aria fredda, ma anche per un inatteso senso di pudore. Intanto non poteva
fare a meno di interrogarsi su costa stesse passando per la testa del ragazzo,
con una certa ansietà; ma si guardò bene dall’osare studiarne direttamente il
viso.
Danny si guardò attorno,
rilevando dove si trovavano, e anche alcuni dettagli che lasciavano assai
scarso spazio per equivocare. Il sottile sospetto di aver combinato un disastro
gli si insinuò addosso prima che potesse realizzarne meglio il significato;
poi, sempre non troppo chiaramente, intuì che aveva qualcosa a che vedere con
l’avere accelerato troppo bruscamente qualcosa.
«Scusa ma…scusa…» riuscì a dire.
Andrea lo guardò, con un’aria
vagamente divertita. «’Scusa’ di cosa?»
Danny aggrottò le sopracciglia.
«Non ne sono sicuro…»
Andrea ridacchiò, e improvvisamente
le venne naturale allungargli le braccia intorno al collo, con fare affettuoso.
Anche a Danny venne da sorridere, piuttosto stupidamente, e senza che riuscisse
a capirne compiutamente il motivo. Ma quando si ritrovò a guardare il sorriso
di lei, e a toccarle le labbra con un bacio, smise di sentire il bisogno di
parecchie cose che avevano a che fare con il mondo dei motivi.
Il muso del cavallo urtò con una
certa indulgente ma pressante insistenza le loro gambe, per raggiungere il
fieno; Andrea si staccò dal bacio per guardare con aria perplessa l’animale,
mentre Danny, staccatosi anch’egli con riluttanza, gli rivolgeva un’aria
abbastanza infastidita.
«Senti, Raj,
devi proprio mangiare qui e adesso?» domandò in tono eloquente.
La piccola risatina brillante di
Andrea lo distolse repentinamente dai suoi propositi di rimbrotto.
«Forse per lei è ora di
colazione.» azzardò la ragazza, come cercando di scusarla.
«Non me ne importa niente… C’è un sacco di spazio qui da dove mangiare…» ribatté Danny, mentre con fare scherzosamente
dispettoso appoggiava una pianta del piede sul muso del cavallo, spingendolo
piano per allontanarlo. L’animale mosse la testa per liberarsi del gesto, e
nitrì piano a bocca piena, come in protesta.
«Non fare il prepotente…»
lo rimbeccò con tono tutt’altro che di rimprovero Andrea. Le ultime parole
gliele mormorò sorridendo, a filo di labbra.
Di lì a poco, quando Raj tentò nuovamente di trovare un boccone di paglia, che
stava cercando di scegliere dal mucchio su cui avevano dormito i due, perché si
trattava di bocconi più caldi, trovò la cosa più difficile, perché ora doveva
spostare due corpi come se fossero un unico mucchio, piuttosto che uno solo.
Emise qualche sbuffo frustrato,
ma dopo che una serie di spinte rifilategli con gesto distratto ma deciso da
una mano di Danny le ebbero scostato il muso diverse volte, si risolse a
spostarsi.
Vagò un po’ nello spazio della
stalla, provando qualche assaggio da alcuni dei vari mucchi di paglia, molto
più disordinati del solito, e continuò il suo spuntino non senza un velo di
irritazione.
*
***
*
«Non ci sarebbe da spaccare
l’acqua per i cavalli?» domandò Yuta, ancora mezzo
sporta fuori dalla finestra, ma con già il fare di chi è in energica ripresa.
«Già fatto.» disse Zoal che stava distribuendo il cibo per i cani nelle
ciotole, sotto lo sguardo e i musi puntati e sbavanti dei destinatari.
«Mhm.»
mugugnò con aria scontenta Yuta.
«Potresti almeno aspettare di
aver finito di rimettere per iniziare a… »
«Non sto parlando con te.» chiarì
Yuta in tono scontroso, lanciando un’occhiata
perentoria a Kumals, che, appoggiato alla cornice
della finestra di fianco a lei, stava fumando una sigaretta e bevendo il suo
caffè, con aria rilassata.
«E hai anche già risistemato la
paglia nella stalla?» domandò ancora Yuta.
«Quello no.» rispose
tranquillamente Zoal, mentre appoggiava per terra, in
diversi punti della cucina, le ciotole piene, sulle quali si precipitavano con
entusiasmo, nell’ordine, Mama, Duca e Danza.
«Ah, bene.» disse Yuta.
Kumals aggrottò un po’
la fronte, e trattenne appena un sorrisetto divertito, avendo riconosciuto nel
tono della ragazza una sfumatura di vittoria, non tanto dissimile da quella di
un bambino che, dopo aver messo testardamente in discussione qualcosa, riesce
alla fine a far ammettere al suo avversario di aver ragione.
«Allora tra poco vado io.»
comunicò ancora Yuta.
«Quando hai finito di rivoltarti
lo stomaco…» accennò Kumals.
«E’ ovvio!» commentò piccata la
ragazza.
«Credo sarebbe meglio aspettare.»
intervenne inaspettatamente Zoal.
Kumals la guardò con
aria incuriosita.
«Perché?» esplicitò Yuta.
Zoal sembrò
combattuta per qualche momento. «Mah. È meglio aspettare ancora un po’.»
ripeté.
Tutta questa vaghezza stava
mettendo Kumals di buon umore, come accadeva spesso
quando si presentava un mistero che aveva a che fare con qualcosa che qualcuno
stava accuratamente evitando di dire.
In quella, però, fu distratto dal
fatto che Yuta si fosse rialzata dalla sua posizione,
e stesse guardando dritto fuori dalla finestra, evidentemente fissando qualcosa
in particolare.
«Che c’è?» domandò Kumals, voltandosi subito per guardare anche lui fuori.
Dopotutto, non era da dimenticare che avevano il loro “angelo custode” che si
stava probabilmente aggirando intorno alla casa, a debita distanza di sicurezza
dalle trappole di Zoal. E che orde di persone
instupidite e potenzialmente aggressive vagavano disperse per le colline.
Ma dovette ridimensionare e
scacciare in fretta il suo allarmismo, quando si ritrovò a fissare ben altra
scena di quella che aveva temuto.
Danny ed Andrea stavano uscendo
dalla stalla per dirigersi verso la casa. Parlavano tra loro, con una
confidenza affettuosa, e sorridendo in maniera stupida; di tanto in tanto l’uno
sporgeva una mano sull’altra o viceversa, per togliersi reciprocamente dai
capelli o dagli abiti qualche filo di paglia.
«Guarda guarda…»
considerò Kumals, con aria ghiotta.
Yuta gli scoccò uno
sguardo di rimprovero. «Oohh! Non inizierai subito ad
infastidirli, eh?»
Kumals le rivolse un
sorriso falsamente candido. «Hai già finito di rimettere?»
«Fanculo.»
lo fronteggiò lei, con un simile sorriso di fintamente cortese minaccia.
«Adesso chi vuole può anche
andare a risistemare la paglia.» osservò Zoal
tranquillamente, mentre, seduta al bancone con l’aria di essersi messa in
pausa, sorseggiava la sua tazza di caffè.
*(ATTENZIONE: parte di questa nota contiene uno spoiler sulla seconda
parte del capitolo, quindi finite di leggerlo prima di leggere questa nota.)
parole dal testo della canzone ‘Rio’ dei Duran Duran.
L’ho abbinata a Yuta su due piedi, o l’ha fatto Kumals. Questo si è mischiato nella scelta del titolo: il
modo in cui Danny e Andrea se ne stanno sulla paglia mi ha richiamato un po’
l’idea di come si potrebbe stare spaparanzati su una spiaggia (sabbia, da cui
il richiamo alla canzone ‘Rio’). Fine dei viaggi insensati dello scribacchiatore; per ora…
Note
dello scribacchiatore: et voilà, tra un paio di
capitoli si ritorna a fare sul serio rispetto ai problemucci
di zombie-simili che si aggirano per le colline, e in generale con i piani dei
4-di-picche & co. Anche se non mancherà qualche
altra uscita da “compagnia spensierata”. E poi, adesso che Kumals
ha materiale di gossip per fare il fastidioso… chi lo
ferma più…
Yuta marciò
sovrappensiero fino alla porta socchiusa del bagno e la spalancò.
«Ah, scusa, credevo non ci fosse
nessuno.» disse poi, trovandosi a guardare Valentine,
che, in piedi davanti al lavandino, si stava pettinando i lunghi capelli neri.
Fece per uscire.
«No, vieni pure, ho praticamente finito…» la invitò Valentine.
«In questo caso…»
tentò gentilmente Yuta, tornando a infilarsi nel
bagno «…se non ti dispiace intanto farei una doccia.»
«Certo, certo, vai pure. Se vuoi comunque
esco…»
«No, non importa, grazie.» disse Yuta con un sospiro, mentre lasciava cadere sopra un
mobile, che in origine era un basso tavolinetto da salotto, il mucchio di
vestiti puliti che aveva in mano.
Attraverso il riflesso dello
specchio, Valentine la vide guardare con sospetto la
tenda tirata della doccia; si voltò proprio mentre Yuta
la scostava di colpo, con uno strattone deciso e fulmineo. «Qualcosa non va…?» chiese incerta, mentre Yuta
esaminava con cipiglio indagatorio la vasca.
«Hum…no… Non c’era nessuno qui, quando sei entrata?»
«Beh, Ramo ha fatto la doccia con
me, poi è uscito qualche minuto fa…. E’ forse rimasto
qualche capello? Li raccolgo sempre ma ogni tanto qualcuno mi sfugge…» spiegò Valentine.
Yuta scosse la
testa. «No, niente.». Entrò nella vasca, tornò a chiudere la tenda e prese a
spogliarsi, impiegando così il tempo d’attesa che occorreva al getto d’acqua,
che aveva già acceso e fuori dalla portata del quale si mantenne, per produrre
arrivare ad una temperatura sufficientemente calda. «Ho pensato che Uther potesse essere ancora qui.» disse dopo un po’,
pensando che Valentine meritasse qualche
delucidazione.
«Ah…sì… Ramo mi ha detto che a volte dorme nella vasca.»
osservò Valentine comprensiva, mentre riprendeva a
pettinarsi più rasserenata.
«Già…
quando è sbronzo… e depresso…»
mormorò tra sé e sé Yuta, pensierosamente. L’acqua
che scorreva coprì le sue parole.
«Come?» chiese Valentine ad alta voce, attraverso lo scroscio vivace della
doccia.
«Dicevo…
Quando abbiamo finito siamo d’accordo che ci vediamo tutti in cucina per
parlare del da farsi.» mentì Yuta.
«Oh, sì.» asserì Valentine, sforzando la voce in un tono neutrale. Ma lo
specchio le rimandava la sua immagine, rabbuiatasi in un’espressione gravemente
seria. «Quando pensi che inizieremo…?»
La risposta si fece attendere per
qualche minuto.
«Questa sera.»
E ad entrambe fu improvvisamente
chiaro che il tempo delle feste era davvero finito.
*
***
*
«Quindi…
se io vedessi un lupo… come farei a riconoscerti?»
domandò con voce esitante Andrea, accomodandosi meglio sul divano.
Seduto a gambe incrociate sul
pavimento, vicino alle sue gambe, Danny sembrò un po’ a disagio. «Hem…beh…»
«Potresti provare a
chiederglielo.» suggerì Uther, in un tono serio che
nascondeva bene lo scherzo.
Ramo, appoggiato a braccia
incrociate al muro, lo guardò con aria poco persuasa. «Questa era proprio
brutta.» commentò con un sorrisetto.
«Va bene, stronzate a parte…» riprese Danny.
«Senti me.» lo interruppe Kumals, rivolgendosi ad Andrea «Se il lupo inciampa…»
«Come…?»
chiese la ragazza, confusa.
«Sì, insomma, Danny è capace di
inciampare dappertutto, certe volte. Perciò se il lupo inciampa deve trattarsi
certamente di lui.» continuò Kumals, sotto lo sguardo
sempre meno convinto di lei.
«Ah ah ah!» Danny finse una
risata, con puro sarcasmo «Molto divertente…»
«In effetti, forse un modo ci sarebbe…» iniziò a dire Ramo, con circospezione.
«Ci stiamo tutti squagliando
dalle risate!» continuò Danny in direzione di Kumals.
«Mi sembra di avergli fatto una
foto, una volta che era in forma di lupo, quindi se…
» cercò di proseguire Ramo.
«Aiuto, non respiro più dal ridere…» insistette col sarcasmo Danny, trafiggendo con occhiatacce
decise Kumals.
Ramo alzò le spalle. «Sennò puoi
mettergli una pinta di birra davanti e…»
«Hey,
ti ci metti anche tu?» lo fulminò Danny.
«No, la birra non vale, anzi, è
pericoloso.» osservò Kumals, in tono discorsivo.
«Beh, sì, d’accordo…
Tecnicamente fare bere dell’alcool ad un lupo non credo che…»
ammise Ramo.
«No, non intendevo quello.» lo
corresse Kumals, serio. «Ti ricordi quella volta che
ci abbiamo provato, e Uther e Danny si sono azzuffati
per prenderla?»
«Eh già.» ironizzò Uther, per smascherare la burla «Che vergogna, Kumals, raccontare le bugie alla tua età…»
Kumals lo guardò. «Sì
sì, fai pure finta di niente…»
Danny si voltò a guardare Andrea.
«Comunque non è vero.» puntualizzò, con fare rassicurante.
Kumals lo guardò in
modo sussiegoso. «Oh, ma tu non te ne ricordi perché eri in forma di lupo…»
Mentre Danny rispondeva
energicamente a Kumals, Andrea spiò Zoal, seduta di fianco a lei. «Ma fanno sempre così…?» le mormorò, in modo che la sentisse solo lei.
«Non sempre. Spesso.» rispose Zoal, con sincerità priva di tentativo di rincuorarla. «Comunque…» aggiunse, voltandosi a guardarla. «Questa è una
cosa importante. Non sempre Danny può ricordarsi di tutto quello che ha fatto
quando era in forma di lupo. Questo dipende dal grado di memoria e
consapevolezza umana che mantiene nella sua forma-lupo. E questo a sua volta dipende
strettamente, anche se non esclusivamente, dalle fasi lunari. Ci sono fasi
lunari in cui Danny mantiene molto chiaramente i suoi ricordi e la sua
consapevolezza umana anche quando è lupo, mentre in altre fasi più critiche
questo non è così scontato. Nelle notti in cui non c’è luna, invece, non è in
grado di assumere la forma di lupo. Nel resto del tempo può assumere la forma
di lupo sia nelle ore diurne che in quelle notturne, anche se solo in presenza
di luna ben visibile la mutazione gli risulta più facile e meno dolorosa, oltre
al poter restare in forma di lupo per più tempo. Ci sono insomma situazioni
molto diverse tra loro, a seconda della fase lunare. E anche da qualcosa che,
semplificando, potremmo definire ‘il suo stato d’animo’.»
Andrea, che stava ascoltando
molto attentamente, si accorse di punto in bianco che Zoal
aveva smesso di parlare perché la zuffa verbale tra Danny e Kumals,
con alcuni interventi di Ramo, stava scemando. Ebbe anche la sensazione di un
penetrante sguardo concentrato su di lei; si voltò, e realizzò che quello
sguardo consisteva in due occhi di un azzurro chiaro e, forse, persino
freddamente attento in quel momento. Ma quando lei voltò la testa, Uther distolse rapidamente lo sguardo, come se l’avesse
osservata solo distrattamente. Però l’impressione che le rimase addosso era
tutt’altra.
«Quindi, per fare un esempio…» le si rivolse Kumals,
che aveva l’aria di essere riuscito a seguire abbastanza bene il discorso di Zoal, anche mentre era impegnato a discutere con Danny e
Ramo «Se quando è in forma di lupo Danny ti sputasse nel bicchiere, non
dovresti prendertela troppo perché…»
«Ma che razza di esempio è?!»
intervenne il citato, con fare infervorato «Non le sputerei mai nel bicchiere!
E come potrei farlo in forma di lupo, poi?»
Ramo ridacchiò, accorgendosi
troppo tardi di poter essere sentito molto bene dal fine udito dell’amico.
«Cosa?!» lo interpellò
astiosamente Danny.
«Beh…
tenderesti piuttosto a bertelo, il bicchiere…»
sogghignò Ramo.
«O se ti sputa nel bicchiere da
umano, poi quando è lupo potrebbe non ricordarsene affatto…»
continuò a fare esempi Kumals, rivolgendosi con fare
volenteroso ad Andrea.
«Io non vado in giro a sputare
nei bicchieri alla gente!» protestò Danny.
«Guarda che una volta l’hai
fatto.» obbiettò tranquillamente Kumals. «Hai sputato
nel bicchiere di Uther per convincerlo a lasciarlo
bere a te.»
Uther tornò
improvvisamente partecipe, e lanciò lunghi sguardi tra Kumals
e Danny.
«Guarda…
Non è vero.» chiarì quest’ultimo.
Kumals si rivolse ad Uther con candido stupore. «Ah, non te ne eri accorto?»
Danny si voltò a guardarlo con
uno scatto della testa «Ma non l’ho mai fatto!»
«Comunque è vero: non può sputare
quando è in forma di lupo. Al massimo sbava.» constatò Uther.
«Mi avete rotto.» concluse Danny,
alzandosi e abbandonando la stanza, mentre gli altri tre sogghignavano,
guardandolo.
«Gli passerà.» pronosticò Ramo.
«Sì… ma
nel frattempo potrebbe sputare nei nostri bicchieri per vendicarsi.» fece
notare Kumals, senza riuscire a rendere abbastanza
passabile per serio il suo sorrisetto.
«Ma…così… non rischieremmo tutti di diventare lupi mannari?»
domandò Andrea. Solo dopo averlo detto si rese conto di quanto quella domanda suonasse
stupida.
Kumals indicò
vagamente Uther. «Beh, lui non lo è diventato, quindi… No, comunque non è infettivo così. Però la
licantropia è contagiosa, sì.» Guardò Andrea direttamente, con serietà,
sporgendosi un po’ dalla poltrona verso di lei. E non si accorse così che, alle
sue spalle, nella stanza stava entrando Yuta.
«E’ come una malattia venerea… » continuò Kumals, con
aria grave. Ma fu interrotto dall’urto di una scatola che gli fu scaraventata
addosso, colpendolo alle scapole, mentre una serie di oggetti si rovesciavano
intorno e in grembo, frusciando. L’uomo guardò per un momento le numerose e
ampie mappe che gli erano precipitate addosso, mentre Yuta
gli si affiancava con le mani puntate sui fianchi.
«La smettiamo?!» gli disse.
«Yuta…
Stavamo tutti scherzando. Andrea lo sa.» tentò di giustificarsi Kumals senza troppo impegno, mentre raccoglieva le piantine
mezzo aperte cadutegli addosso, e si metteva a studiarle con interesse.
Yuta lo guardò con
aria di consapevole rimprovero.
«No, d’accordo, stavo scherzando…» ridimensionò Kumals,
anche se ancora fingeva di non essere stato toccato dai modi della ragazza.
«Però in effetti io non ho le idee tutte chiare su questo punto. Insomma, a voi
ha mai presentato una ragazza che non si trasformasse in lupo?»
Yuta raccolse una
delle mappe, la arrotolò rapidamente e la usò per affibbiare un colpo sulla
spalla all’uomo, il quale non permise che il suo contegno si incrinasse troppo
tramite l’ostinato mostrarsi indifferente.
«A te non ha mai presentato una
ragazza, perché sa benissimo che non gli avresti dato tregua!» specificò Yuta.
«Credo che andrò a farmi una
doccia.» disse Andrea, che osservava quel singolare tipo di battibecco con un
lieve sorriso. Si alzò e uscì dalla stanza.
«Ce la stai mettendo tutta per
farla scappare, vero?» osservò Ramo, fissando Kumals.
«Secondo me la doccia è una
scusa: dev’essere andata a fare le valigie.» rincarò Uther.
Ma si ritrovò oggetto di un
singolare sguardo da parte di Kumals. «Da te non
accetto critiche in questo senso…» gli mormorò.
Ramo occhieggiò la strana
atmosfera che si stava creando tra i due, sotto forma di una sorta di scambio
di sguardi di sfida, e dopo un po’ osò dire. «Cosa…?».
Quella non l’aveva proprio capita, se era una battuta.
«Niente.» disse Uther tra i denti, mentre si alzava dalla sedia che aveva
occupato fino a quel momento, e se ne andava in cucina.
Ramo si sentì in dovere di
distogliere lo sguardo da lui, dopo che fu sparito, ma si ritrovò a guardare Kumals.
L’uomo sembrò riflettere su
qualcosa per un po’, ma alfine tornò ad appoggiarsi allo schienale della
poltrona, e il suo sguardo ridivenne calmo; lo abbassò sul sacchetto di tabacco
che si era estratto dalla tasca.
«Niente.» mormorò, mentre si
arrotolava una sigaretta, con un’espressione quasi triste, ma insondabilmente chiusa.
Yuta, che insieme a Zoal stava aprendo le piantine, stendendole sul pavimento,
ma che aveva seguito con particolare attenzione gli ultimi scambi, scosse piano
la testa tra sé e sé, con fare disapprovante.
*
***
*
Andrea finì di indossare i
vestiti puliti provenienti dall’armadio di Yuta ed
aprì la finestra del bagno, per far uscire un po’ il vapore generato dall’acqua
calda, che annebbiava la stanza. Finché c’era, guardò un po’ fuori. E notò una
sagoma, in piedi in mezzo allo spiazzo davanti alla casa, che fumava,
riflettendo tra sé e sé.
La ragazza si appoggiò per un po’
al davanzale, e si accorse solo dopo che si era semplicemente persa a guardare
la figura solitaria per qualche istante.
«Hey.»
lanciò piano il richiamo nell’aria fredda.
Danny si voltò e alzò la testa,
vedendola. «Hey…» ricambiò.
Si guardarono per un po’, in
silenzio.
«Aspetta…
vengo giù…» disse poi lei. Danny sorrise e annuì, e
Andrea si scostò per chiudere la finestra.
Scese le scale quasi di fretta, e
si fermò solo alla fine d’esse, per infilarsi rapidamente il grosso cappotto
che le era stato prestato, che giaceva appeso all’attaccapanni accanto alla
porta. Prima che qualcuno di quelli che erano ancora radunati nel salotto
potesse aver notato la sua presenza, si affrettò ad uscire dalla casa.
Danny era di spalle, e lei capì
che non si era voltato perché, forse, già l’aveva riconosciuta dall’odore.
Scostò da sé con calma fermezza le domande che sembravano volerla porre di
fronte al fatto che si fosse già abituata così scioltamente a comprendere
l’universo sensitivo del ragazzo, come se già in parte le appartenesse.
Lo considerò bene, mentre gli si
avvicinava, a suon di piccoli passi che scricchiolavano appena sul terreno
congelato dal freddo delle gelide notti invernali. Si soffermò in particolare
su quel giubbotto di jeans, sul cui dorso spiccava la toppa: una carta da
gioco, un asso di picche. Anche quello le appariva ora come un particolare
familiare.
Si fermò accanto a lui,
appoggiando la spalla e il braccio contro ai suoi. Danny ricambiò il contatto
appoggiandosi anche lui un po’ contro di lei; sembrava gradire quella
vicinanza, anche se non si sarebbe detto che ci fosse abituato. C’era un
sottofondo di esitante impaccio nei suoi gesti, talvolta, che faceva pensare
che non fosse solito condividere i suoi spazi con qualcuno, non così
confidenzialmente.
Il ragazzo chinò un po’ la testa
verso di lei, e Andrea pensò che ne stava assorbendo l’odore. Le piacque quel
gesto.
Tra sé e sé, però, continuava la
riflessione che già aveva iniziato mentre si faceva una doccia, nella gradevole
solitudine che le aveva finalmente concesso poc’anzi il bagno. Nonostante quel
loro modo familiare e molto piacevole, doveva pur sempre fare i conti col fatto
che a far cadere tra loro le ultime barriere era stata una festa e una certa
ubriachezza. Non sapeva ancora bene cosa ciò avrebbe implicato, ma lo temeva.
Non sarebbe stato meglio se
avessero superato quelle ultime distanze confrontandosi più apertamente? Certo,
poteva ancora esserci lo spazio per farlo. O invece avevano fatto un passo
troppo lungo della gamba, e ora quella distanza era più difficile da
affrontare? Ricordava con chiarezza il loro confronto, agli edifici abbandonati
della stazione di Foelm. Aveva bene in mente quegli
sguardi raggelanti che le aveva rivolto, con l’evidente volontà di allontanarla
da sé. Faticava a riallacciare ora quegli sguardi al fiducioso abbandono
affettuoso che le stava rivolgendo fin dalla fine della festa.
E finiva per rimproverarsi di non
riuscire a prendere più spontaneamente le cose così come venivano, tra loro.
Danny fece un respiro più
pesante, quasi un sospiro. «Cosa c’è?» le domandò, in un sussurro gentile.
«Davvero mi vuoi con te?» si
trovò a dire Andrea, quasi d’impulso. Dopo averla udita, fu terrorizzata dalla
perentorietà della sua stessa domanda.
Danny scostò la testa dalla sua,
per guardarla bene negli occhi. Sembrava aver capito immediatamente il senso
completo della sua domanda, fin nelle implicazioni più lontane. E non sembrava
trovarla inappropriata. Non a giudicare dal modo in cui la guardava, con
profonda serietà. Forse lo stava chiedendo molto attentamente anche a se
stesso.
Andrea rabbrividì, e cercò di
prepararsi all’idea che di lì a poco il ragazzo si sarebbe scostato, e avrebbe
cercato parole adatte a chiederle una maggiore distanza, o almeno per proporre
che potevano fare qualche passo indietro, ritornare su alcuni punti. Ma non
riusciva a prepararsi in alcun modo, e sentiva in anticipazione la paura del
dolore, con la stessa nettezza con cui, dopo aver deciso di farsi del male, si
teme la sofferenza.
Danny la guardò molto a lungo, in
silenzio. Infine, si chinò a baciarla. Dopo qualche istante si scostò appena, e
la guardò di nuovo, gli occhi fissi nei suoi, il volto a breve distanza dal
suo, e una chiarezza così intensa che lei se ne sentì immediatamente preda, e
capì di non potersi più riparare in alcun modo da questo.
«Sì.» sussurrò Danny in tono
basso.
Andrea sondò il suo sguardo, fin
dove riuscì ad arrivare, e non vi vide traccia di dissenso o dubbio interno.
Avrebbe voluto trovare qualche appiglio per cercare di metterlo in dubbio,
nonostante tutto.
«Ma non sarà semplice.» mormorò
ancora lui, col fermo proposito di essere chiaro fino in fondo.
Lei capì che non stava più
cercando di spaventarla o allontanarla; sembrava aver lasciato da parte
quell’idea. Invece, stava cercando di fare quello che aveva appena tentato lei:
era in cerca di dubbi e di esitazioni. Lei li aveva. Fu profondamente tentata
di nasconderglieli, ma cedette alla richiesta muta che le stava porgendo con
gli occhi: quella di dire fino in fondo la verità anche lei; ad entrambi.
«Va bene.» disse.
Danny ne intese il senso, ma
appoggiando la fronte alla sua, sospirò di nuovo. «Per favore…
Non affidarti più alla sicurezza che troverai un modo. Non prima di aver saputo
con cosa hai a che fare…»
Lei rifletté attentamente sul
senso di quelle parole. «D’accordo…» rispose infine.
«Prima, ascolterò tutto ciò che vorrai dirmi.»
Danny tornò a guardarla, con un
mesto sorriso. «Alcune cose posso dirle. Altre ti saranno chiare solo col
tempo, temo…» accennò, incerto.
Andrea alzò le braccia e gli
prese il volto tra le mani. «Bene così…» ribadì, con
maggiore decisione. «Allora… mi farò insegnare dal
tempo con te.»
L’espressione di Danny virò
decisamente in un aperto stupore colpito. Poi sembrò che quell’affermazione avesse
il potere di cavargli un lento sorriso, straordinariamente privo di tristezza o
amarezza. Con quello in volto, socchiuse gli occhi alle carezze delle mani di
lei, e si sporse di nuovo per andare incontro alle sue labbra.
«D’accordo…»
sospirò Kumals con aria indaffarata, lasciandosi
cadere quasi di peso sul divano; Mama, completamente
sdraiata ad occupare il restante spazio, emise un basso ringhio gutturale di
protesta.
«Oh, scusa Mama…»
mormorò Kumals distrattamente, mentre portava una
mano a cercare qualcosa su cui si era seduto sopra.
«Ti sei seduto sulla sua coda?»
gli domandò Yuta, con aria critica.
«Non sembra una…coda…» rispose distrattamente Kumals,
continuando a cercare. Estrasse la mano, e tutti gli altri, radunati nel
salotto della casa, si ritrovarono a fissare con una certa perplessità un
piccolo tostapane, con tanto di spina elettrica, ma senza piastre metalliche. Kumals non sembrava meno stupito di loro.
«Hum…
sono abbastanza certa che… non abbiamo mai avuto un
tostapane qui…» iniziò a dire Yuta,
con precauzione, mentre cercava tra sé e sé di darsi una valida e plausibile
spiegazione.
Kumals la guardò. «Ah,
no, dev’essere uscito dalle mie tasche.»
«Mhm…
già.» commentò Uther, con un leggero sogghigno.
Kumals gli lanciò
un’occhiata. «Ah, ecco, ora ricordo. È quello che mi ero infilato in tasca
quando io e te siamo stati ospiti di quella cliente…Dev’essere stato tre anni fa. Curioso.»
«’Cliente’?» domandò Andrea,
mentre Danny cercava di comunicare a Kumals, tramite
il solo uso di sguardi eloquenti al di sopra della spalla di Andrea, di dire qualsiasi
cosa tranne la verità; venne bellamente ignorato.
«Sì, era convinta di avere un
fantasma in casa. Non c’era nessun fantasma, a dirla tutta, ma fare qualche
rito a caso l’ha resa molto più tranquilla. E mentre Zoal
e Yuta fingevano qualche rito, io ed Uther abbiamo notato questo bel tostapane…»
spiegò Kumals; ma qualcosa, nello sguardo abbastanza
deluso di Andrea, lo fece esitare.
«Ne aveva due, di tostapane.
Questo era il più vecchio. Coperto di polvere, secondo me non lo usava mai. Poi
era una piena di soldi. Sicuramente se ne sarebbe potuta permettere cinque al
mese, di tostapane. E il rito che hanno fatto Yuta e Zoal le ha profumato la sala da tè per gli ospiti di
mughetto e lavanda per qualche mese, sicuramente. Sono certo che i suoi ospiti
l’avranno gradito.» puntualizzò Kumals.
Gli altri lo guardarono stupiti.
Da che lo conoscevano, era la prima volta che lo vedevano sentirsi in dovere di
fornire giustificazioni così dettagliate. Andrea annuì, e lo sguardo di pacato
rimprovero scomparve dalla sua faccia.
«Però è strano…
secondo me quando l’abbiamo preso c’erano anche le piastre.» osservò Uther.
«Anch’io me la ricordavo così.»
concordò Kumals. «Ma la cosa che più mi preoccupa è
che è da stamattina che il cappotto continua a buttare fuori oggetti di tanto
in tanto…Hum… è come se
avesse fatto indigestione, tipo…»
Danny sbuffò sonoramente.
«Potremmo tornare a occuparci di cose serie?»
«Ecco, infatti.» fu d’accordo Yuta, e rivolse un’occhiata a Zoal.
La donna, seduta a gambe
incrociate su un grosso cuscino che giaceva a terra, assunse una posizione più
partecipativa, e si schiarì leggermente la gola. Alzò una mano, nella quale
reggeva lo strumento di rilevamento di posizione a tecnologia GPS, e a voce ben
chiara annunciò «Poche ore fa si è fermato. Dovrebbe significare che il Conte è
giunto nel punto dove stanno raccogliendo tutti i “contagiati”.»
«Grande!» esclamò Ramo, ma subito
dopo la sua espressione ridivenne grave e seria «E dove si trova?»
Yuta, che sedeva per
terra con le gambe ripiegate di lato, allungò un braccio al di sopra di una
delle grandi cartine che lei e Zoal avevano dispiegato
a ricoprire praticamente tutto il pavimento che si stendeva tra loro,
dispostisi sommariamente in cerchio: il suo dito indice indugiò per qualche
istante nel sorvolare una zona, poi cadde a puntare con precisione.
Gli altri si sporsero, chi
camminando in piedi e poi chinandosi, chi gattonando sulla distesa di cartine,
stringendosi intorno al punto indicato da Yuta. Solo Zoal e Kumals rimasero dove si
trovavano, avendo già visto di cosa si trattava.
Dopo aver osservato il punto
indicato da Yuta, Danny si voltò verso loro due, con
aria particolarmente seria, e studiò brevemente le loro espressioni. Poi,
sorridendo con aria complice, disse «Qualcosa mi dice che non è quello che sembra… cioè un punto qualsiasi in mezzo alla boscaglia
delle colline… C’è dell’altro, vero?»
Anche gli altri rivolsero i loro
sguardi verso Zoal e Kumals,
in curiosa attesa. Zoal stava sorridendo pacatamente,
apparentemente compiaciuta dell’intuizione di Danny, mentre Kumals,
trattenendo un sogghigno, fingeva di essere particolarmente impegnato a fumare
e ad accarezzare con le dita dell’altra mano il tostapane.
«Quando io e Yuta
stavamo cercando un posto adatto per venirci ad abitare, su queste colline…» iniziò Zoal «…abbiamo indagato un po’ la zona…
E in particolare gli edifici, eventualmente abbandonati o in vendita, che
c’erano. Abbiamo sempre avuto una buona memoria, ma per maggiore praticità
segnammo anche i posti in qualche modo interessanti o curiosi che trovammo.»
Zoal si interruppe
per voltarsi di lato, scegliendo una piantina lasciata arrotolata per terra di
fianco al cuscino su cui sedeva. La raccolse, e la aprì con calma, per poi
alzarla in modo che tutti la vedessero. Kumals,
appoggiatosi il tostapane in grembo, utilizzò il tergicristallo d’auto - quello
che era stata la prima cosa che il suo cappotto aveva sputato quella mattina, e
che si portava dietro da allora senza nessuno scopo apparente - a mo’ di
bacchetta da lezione per indicare un punto preciso sulla piantina, che era
solcata da scritte, frecce e punti tracciati a biro. Il punto che indicò
mostrava un cerchio a biro, e alcune parole scritte troppo in piccolo per poter
essere ben viste.
«Pare che il signor Benton avesse
ragione, dopotutto.» commentò Kumals. «C’è una specie
di magazzino, qui, o comunque un edificio di notevoli dimensioni. Secondo Zoal e Yuta, sempre rispetto alle
informazioni che raccolsero quando cercavano casa da queste parti, l’edificio
risulta di proprietà statale, disabitato e completamente inutilizzato.»
«Però quando andammo a darci
un’occhiata notammo subito che non era affatto vero.» proseguì Yuta. «Era frequentato sì, anzi, proprio abitato. La notte
era illuminato, solo pochissime stanze alla volta, quindi probabilmente da una
sola o poche persone. Nonostante io e Zoal lo abbiamo
studiato per qualche tempo, non abbiamo mai visto nessuno entrare o uscire da
lì. Sempre dai vetri delle finestre, di notte, si vedevano riverberi colorati:
forse una televisione, o forse… »
«Forse un computer.» intervenne Uther, di punto in bianco.
«Più di uno, a giudicare
dall’intensità del bagliore.» corresse Zoal.
«Computer con cui forse stavano
programmando il messaggio subliminale che ha ridotto le persone a quel modo!»
quasi gridò Valentine, con entusiasmo.
Kumals annuì con aria
soddisfatta. «Mi hai tolto le parole di bocca.» constatò.
«Bene!» esclamò Danny «Quindi non
ci resta che andare là e tirare giù tutto e spiegare un paio di cose a chi ha
avuto questa brillante idea!». E, nel completare questo suo personale piano,
lasciò baluginare tra le labbra un sorriso di denti che aveva qualcosa di
sinistramente pregno di impaziente aspettativa.
«Sì, giusto, ma…
» si inserì Ramo, con tono di affranto scoramento «E quel cecchino che ci tiene
d’occhio? Poi, se là hanno tutte quelle persone imbambolate…
Tutta la città di Mac’Hearty,
e forse pure altre da centri abitati qui vicino? Insomma, un esercito di quei tizi… Noi siamo in…hum… otto persone? Non mi sembra una passeggiata…
Per non dire impossibile… »
«Il fatto che siano imbambolate… » iniziò a dire Danny.
«Sempre che lo siano ancora.» lo
interruppe Andrea. Si voltarono tutti a guardarla, incuriositi.
Nell’osservarla, e nell’udire le sue parole, nelle pupille di Zoal passò un fugace lampo di comprensione.
«Voglio dire…»
continuò Andrea, accomodandosi meglio nella sua posizione, seduta tra le gambe
di Danny e leggermente appoggiata con la schiena al suo petto «Se qualcuno ha
voluto imbambolare tutte quelle persone, e poi radunarle tutte in un punto
preciso, cioè praticamente a casa sua… che scopo può
avere? Quelle persone, fintanto che non si rendono conto di quello che fanno,
sono pericolose, perché aggrediscono qualsiasi cosa sia capace di muoversi e/o
di emettere rumori, a quanto pare. Quindi, a meno che chi ha organizzato tutto
questo non avesse un piano abbastanza preciso, non le avrebbe fatte tutte
quante arrivare dritte dritte al suo rifugio. Forse
ha un modo per controllarle, per dirigere le loro azioni. Questo significa che
una volta là potremmo ritrovarci di fronte a una specie di esercito
telecomandato. E naturalmente, visto che forse sa anche ormai fin troppo bene
cosa stiamo cercando di fare, a causa della sua spia-cecchino, appena arriviamo
ce li rivolgerà contro.»
«E visto quanto sono resistenti
ridotte in quello stato… non è che possiamo semplicemente
metterle fuori gioco… O le riduciamo in poltiglia, il
che sarebbe mal augurabile visto che non si rendono nemmeno conto di quello che
stanno facendo, oppure ci facciamo ridurre in poltiglia.» commentò con umore
tetro Ramo.
Per qualche lungo minuto, nella
stanza avvolta in una penombra di pomeriggio semi-buio, calò il silenzio, nel
quale si udiva distintamente il sottile ticchettare della pioggerellina che
cadeva fuori.
«Beh!» esordì Kumals,
affabilmente «Forse dovremmo dare una rivisitatina ai
nostri “principi morali” e considerare l’idea di sacrificare qualcuno degli
imbambolati per riuscire a saltarci fuori.»
«Cerchiamo di restare seri, per
favore!» si stizzì Yuta, nervosamente.
«Ammesso e concesso che riusciamo
a superare quell’orda di bravi cittadini col cervello in pappa e a raggiungere
chi sta gestendo tutto questo casino…» ragionò Uther.
«Mi è sempre piaciuto il tuo
ottimismo, Uther.» commentò Kumals
di passaggio.
Uther lo ignorò
deliberatamente «… ancora non sappiamo come funzioni il sistema di intordimento* diffuso. E ancora non sappiamo quindi né come
rimanerne immuni noi né come disinnescarlo per far ritornare alla loro
benedetta normalità gli altri.»
«A’ha! Su questo forse abbiamo
qualcosa!» disse Kumals, con aria contenta. Sotto le
occhiate in vario modo scettiche e interessate degli altri, l’uomo si chinò a
raccogliere qualcosa da sotto il divano; estrasse un grosso librone, dalla
copertina dall’aria antica impolverata di tutta la sporcizia che aveva potuto
raccogliere lì dove era stata riposta, se lo appoggiò in grembo e iniziò a
sfogliarlo dandosi un’aria di composta importanza. Sembrava un attore teatrale
molto poco propenso alla modestia che avesse finalmente trovato il modo di far
risaltare il suo personaggio al di sopra degli altri, cogliendo un punto
decisivo dell’opera.
«Quello è uno dei libri del
Conte?» disse Danny.
«Certamente.» confermò Kumals, continuando a sfogliare le pagine incartapecorite.
«Per inciso, è già da un pezzo che ho notato che il Conte, dopotutto, ha avuto
una bella idea: siè portato dietro
quasi solo libri riguardanti il fenomeno dello zombismo.
Ma quando stavo per dirvelo è successo quello spiacevole inconveniente con
Justin, e così…»
«’Spiacevole inconveniente’?!»
ruggì Danny, facendo per alzarsi in piedi; ma realizzò all’improvviso il tocco
di una mano di Andrea, che gli aveva somministrato una leggera stretta su un ginocchio.
Si soffermò a guardarla, e comprese che gli stava chiedendo, se possibile, di
rimandare gli scontri animati a un momento che non fosse tanto importante;
soprattutto considerando quanto Kumals fosse propenso
a lasciarsi coinvolgere negli attacchi diretti alla sua persona. Danny sembrò
considerare con rammarico la possibilità di lasciar perdere la replica
donchisciottesca che aveva a malapena iniziato, ma alla fine, seppure con
malcontento, parve decidere di accettare il consiglio, perché si riabbandonò
nella posizione seduta, lasciando andare l’angolo del tavolinetto a cui si era
aggrappato per aiutarsi a balzare in piedi, e borbottando qualcosa tra sé e sé
con rancoroso cipiglio tornò a placarsi forzatamente.
Andrea lasciò andare la presa
significativa sul suo ginocchio, e si riappoggiò un po’ con la schiena a lui;
mentre così faceva, realizzò improvvisamente la sensazione di due occhi che la
fissavano, penetranti. Ma quando alzò lo sguardo sugli altri occupanti della
stanza, li ritrovò tutti ancora intenti a fissare Kumals,
che continuava a sfogliare le pagine con convinto impegno e una certa
soddisfazione per il suo essere al centro dell’attenzione. Eppure, Andrea
avrebbe giurato che lo sguardo che si era concentrato su di lei fino a un
istante prima appartenesse a due occhi azzurro chiaro.
«Ecco!» disse Kumals,
smettendo di sfogliare le pagine. Nel punto in cui si era fermato, c’era un
fumetto piuttosto sottile infilato dentro al libro. Lui lo raccolse, e richiuse
poi il librone con un sonoro tonfo.
«Credevo fosse nel libro ciò che
avevi trovato d’interessante.» disse Ramo, piuttosto perplesso, e un po’
incerto sul se quello non fosse una specie di scherzo fuori luogo.
«Oh, beh, ci sono delle cose
interessanti anche in questo libro, certo. Ma, mi comprenderai se dico che la
sua pubblicazione risale a qualcosa come un secolo e mezzo fa. Tratta perlopiù
del fenomeno dello zombismo nelle zone africane e
nelle isole tropicali e negli arcipelaghi asiatici. Molto affascinante,
specialmente considerando che questo è uno dei dieci volumi dell’edizione
completa. Ma io mi riferivo in particolare a questo fumetto.» disse, alzandolo
di fronte agli altri per farlo meglio vedere. Era un fumetto disegnato in stile
tipicamente americano, probabilmente risalente agli anni ’70 od ’80, e, a
giudicare dalla figura splatter che mostrava uno zombie che rosicchiava un
collo privo di testa di qualche malcapitata vittima, l’argomento era abbastanza
scontato.
«Kumals…
» iniziò a dire Yuta, con aria tra il rassegnato e il
propenso a scoppiare in una scenata coi fiocchi.
«Zitta un momento, lasciami
finire.» disse l’interpellato, e, ignorando al meglio possibile lo sguardo
incredulo e furioso che gli stava rivolgendo la ragazza, continuò in fretta «In
questa storia gli zombie sono sì i classici contagiati da virus misteriosi o
forse risvegliati da riti da stregone decrepito del caso…
non so, questa parte non l’ho letta bene… ma il punto
è che ad una certa si scopre che un tizio, utilizzando un sistema combinato di
onde radio e riti occulti, è riuscito a comandarli, pilotandone le azioni,
proprio come un esercito ben organizzato.»
Yuta lo guardò con
decisione. «Kumals, si tratta di un fumetto.»
L’uomo la guardò, e allargò le
braccia in un gesto che sembrava voler indicare tutto quello che li circondava
«Hey, dico, siamo nel bel mezzo dell’incredibile.
Centinaia di persone ridotte tipo in stato di ipnosi generale, radunate in un
luogo da quello che, stando a Benton, sarebbe una specie di scienziato
pazzoide, e niente autorità che abbiano ancora fatto vedere anche solo la punta
del naso… Io penso che sia l’ora di iniziare a
valutare anche le ipotesi più improbabili.»
«Il fatto è che abbiamo solo ipotesi improbabili.» notò Uther, con una certa cauta criticità.
«Più sono improbabili, meglio si sposano
a una situazione improbabile.» disse Kumals,
facendogli l’occhiolino e alzando un dito per raccomandargli con fare
accattivante quel suo motto appena coniato. L’espressione di Uther si fece, se possibile, ancora più scetticamente
angustiata.
«Bene. Quindi abbiamo ipotesi
improbabili e una missione impossibile. Ottimo. Quando cominciamo?» commentò
Danny con sarcasmo.
«Insomma…
siamo a un punto morto?» domandò Ramo, in tono abbattuto.
«Ma…
quei dati che hai stampato alla stazione di Foelm?»
chiese Andrea a Yuta.
«Beh…
li ho sfogliati, ma è tutto linguaggio di programmazione…
non ci capisco granché…» ammise Yuta.
«Tu li hai guardati?» domandò
Ramo, rivolgendosi a Valentine, ben conoscendo la sua
abitudine di passare gran parte delle sue giornate davanti ad uno schermo con
tastiera.
«Sì. Riesco a capire che si
tratta di un programma, ma è molto complesso ed articolato…
Inoltre ci sono un sacco di quei caratteri strani…
sembra aramaico o roba del genere… Non riesco a
decifrare il contenuto. Ci vorrebbe un esperto di lingue morte, o un esperto
nella traduzione di codici segreti…» confessò Valentine , profondamente dispiaciuta.
Danny fece un verso di pura
irritazione. «Se solo il tuo cappotto non avesse ingoiato Justin…
» recriminò, rivolgendosi a Kumals con astio.
Questi ricambiò lo sguardo con
serietà. «Ebbene, hai ragione, è stata una vera sfortuna. Ma ogni cosa ha i
suoi lati positivi e i suoi lati negativi. Devi ammettere che, da quando non è
più in giro, abbiamo dovuto perdere molto meno tempo per stargli dietro…»
«Il tuo cappotto se l’è inglobato
proprio quando aveva appena dimostrato di poter essere veramente utile in
questa situazione!» urlò Danny con esasperazione. Stavolta Andrea non stava
nemmeno provando a calmarlo.
«Hem…Zoal… non è che potresti cercare di fargli vomitare Justin… o qualcosa del genere?» domandò Ramo.
La donna scosse appena la testa,
scontenta. «Purtroppo, quel cappotto ha una sua peculiare individualità…
Sebbene possa sembrare a tutti gli effetti solo un oggetto…
se io provassi a imporgli qualcosa, si ribellerebbe; è comprensibile.»
«Certo che è comprensibile. Il
fatto stesso che abbia fatto quello che ha fatto a Justin era seriamente
motivato dal fatto che quello stupido si è messo a frugargli in tasca.» fece
notare Kumals.
«Oh, ma ovvio! Chi non dovrebbe
sapere subito, semplicemente guardandolo, che quello è un affare stregato che
ti si mangia vivo se provi a toccarlo?» ribatté Danny.
«Se qualcuno avesse semplicemente
imparato i principi fondamentali, tra cui quello di non frugare nelle tasche altrui…» iniziò Kumals.
«Curioso, detto da chi ha appena
raccontato di quando s’è fregato un tostapane.» lo interruppe piccatamente Danny.
«Ma andiamo, è completamente
diverso!» si irritò Kumals, e si ricacciò il
tostapane che ancora teneva in grembo in una delle tasche del cappotto motivo
della contesa verbale.
Il tostapane era appena sparito
nella tasca, che nel cappotto ci fu una sorta di movimento improvviso; gli
altri se ne accorsero principalmente perché videro Kumals
sussultare e assumere un’espressione tra lo stupito e il preoccupato, mentre Mama, che fino ad un istante prima dormicchiava
saporitamente, balzò a sedere sul divano con un ringhio minaccioso rivolto al
cappotto.
«Che succede?» domandò Uther, lo sguardo attento e pronto ad ogni evenienza.
«Credo che…
ci sia un problema…» mormorò Kumals
con aria tesa, e di lì a poco, mentre gli altri ancora finivano di assumere le
sue parole con viva preoccupazione, balzò in piedi, imprecando.
Mentre Mama
iniziava ad abbaiare con rabbia verso il cappotto, Kumals
prese concitatamente a sfilarselo di dosso; si vedeva un grosso rigonfiamento
interno che andava aumentando rapidamente di volume su un lato dell’indumento.
Il tostapane schizzò fuori dalla
tasca dov’era stato infilato pochi istanti prima, e si schiantò sul muro,
qualche metro al di sopra della testa di Ramo e Valentine.
La ragazza gridò per lo spavento, mentre pezzi di tostapane ricadevano intorno.
«Kumals,
dannazione!» urlò Yuta, dicendogli implicitamente di
fare qualcosa.
Ma l’uomo si stava limitando a
sfilarsi il cappotto più rapidamente che poteva.
Un grosso orologio da parete schizzò
fuori dalla stessa tasca, e volò dritto attraverso una delle finestre,
fracassando il vetro e continuando il suo volo all’esterno della casa; presto
fu seguito da un trapano elettrico, che andò ad atterrare dentro al camino
spento con uno schianto che lasciava poco da sperare sulla sua futura capacità
di funzionare; subito dopo balzò fuori dalla tasca un piccolo ventilatore
portatile, che finì a sbattere contro il muro, travolgendo nel mentre un
portacenere che si scaravoltò a terra.
Mentre questi e altri oggetti
uscivano dalla tasca, volando per la stanza a velocità notevole e andando a
schiantarsi in giro, gli altri avevano cercato di reagire in qualche modo. Ramo
aveva afferrato per un braccio Valentine e se n’erano
andati rapidamente in cucina. Uther, riparatosi sotto
un tavolo e facendosi scudo con un ombrello aperto, continuava a cercare di
capire che succedeva, più incuriosito che allarmato. Yuta
aveva afferrato Mama per il grosso collare e cercava
di arretrare verso la porta che dava all’esterno, tirandosi dietro la grossa
alano, che ancora continuava ad abbaiare aggressivamente verso il cappotto,
ignorando la pioggia di oggetti dai quali invece la ragazza cercava di non
farsi colpire, parandosi la faccia e la testa con il braccio libero. Danny
aveva abbracciato Andrea e cercava di farle da scudo tenendola il più possibile
compresa tra il muro e se stesso, dal momento che, anche se qualche oggetto lo colpiva
di tanto in tanto, grazie alla sua maggiore resistenza e alla maggiore rapidità
dei suoi riflessi da mezzo-lupo riusciva a intercettarne la maggior parte e a
deviarne il volo con un repentino scatto del braccio quando la loro traiettoria
terminava su di lui. Zoal era invece rimasta seduta
composta al suo posto, con aria piuttosto incuriosita; una pompa per gonfiare
le ruote di bicicletta, eruttata dalla tasca, si diresse verso di lei, ma,
sebbene sembrasse che avrebbe finito per colpirla alla spalla, le passò a pochi
millimetri tra la mascella e la spalla senza sfiorarla. Se qualcuno avesse
notato questo particolare, avrebbe potuto avere la curiosa impressione che la
traiettoria dell’oggetto fosse stata leggermente deviata, quel tanto necessario
a impedirgli di colpire la donna. E, in ogni caso, Zoal
non aveva affatto l’espressione di chi si stia sentendo in colpa nel sovvertire
qualche legge fisica, semmai lo stava facendo.
Finalmente, dopo aver avuto il
suo daffare col fatto di essere rimasto impigliato col braccio in una delle
larghe maniche, Kumals riuscì a sfilarsi il cappotto,
la cui forma era ormai evidentemente dilatata da qualcosa che gli si gonfiava
all’interno; l’uomo lasciò ricadere l’indumento verso terra, mentre si
allontanava rapidamente da esso.
Il cappotto non aveva ancora
toccato terra completamente che qualcosa di forma non ben definita saltò fuori
dalla solita tasca; gli altri che stavano guardando non avrebbero saputo dire,
basandosi semplicemente sulle loro capacità ottiche, di cosa si trattasse, ma
solo che un grumo di qualche cosa tracciò una parabola in aria, nel percorrere
la quale divenne man mano più consistente, più grande e di contorni meglio
definiti. Qualsiasi cosa fosse, terminò il suo volo proprio contro Andrea e
Danny.
Quest’ultimo, sbalzato via
dall’impatto con il grosso ‘qualcosa’, sbatté di schiena contro il muro, e
quando riaprì gli occhi, socchiusi d’istinto, li spalancò per la sorpresa.
Justin si riebbe lentamente dalla
brutta caduta, e constatò che era atterrato su qualcosa di relativamente
morbido. Fece leva sulle braccia, sollevando abbastanza il busto per guardare
meglio su che cosa si trovava, e, non appena lo realizzò, sul suo viso, coperto
da una barba lunga di qualche giorno, si aprì un sorrisetto sornione che voleva
essere accattivante. «Ah…, ciao…
Andrea.»
Un momento dopo due mani,
appartenenti per inciso a Danny, lo afferravano saldamente per una spalla e lo
spingevano via con decisa forza, combinandosi con lo slancio delle gambe con
cui la ragazza, colpendolo alla pancia, lo stava spostando con violenza da sé.
Justin si ritrovò a rotolare un
paio di volte di lato sul pavimento, finendo a sbattere contro le gambe di
qualcuno in piedi. Di nuovo riaprì gli occhi, e guardò chi lo sovrastava.
Mentre finiva di spolverare con
qualche colpo della mano il cappotto che aveva raccolto da terra, Kumals abbassò lo sguardo verso i propri piedi, e gli dedicò
un’occhiata vaga. «Oh, Justin… Giusto in tempo: capiti
proprio a fagiolo.» gli disse, con fare casuale e perfettamente tranquillo.
* mi scuso per questa pura gergalità locale, ma ce la vedevo troppo bene detta da Uther. Per chi non la capisse, ‘essere un tordo’ qui e là
in queste zone significa essere stupidi, quindi ‘intordimento’
sta per instupidimento. In realtà, per come viene
usata, credo che Uther volesse insinuare che comunque
queste persone potevano essere ben stupide anche prima di essere coinvolte in
tutto questo.
Scusate tutti per il mega-ritardo di aggiornamento, ma in questi giorni è un delirio, diciamo così (no, le feste non c'entrano un cavolo marcio, perché me ne impippo, ma ho altre cose da brigare), e non ho ancora avuto occasione di avere la corrispondenza necessaria: mio pc + linea internet. Quindi il capitolo successivo, che giace pronto da molte settimane orsono, ha solo bisogno di trovare la giusta via cibernetica. In base ai miei calcoli riuscirò per questo sabato o domenica. Ancora qualche scusa -> saluto -> scomparsa rapida
«E’ stato proprio strano…» disse Justin, che aveva occupato gli ultimi minuti
a stiracchiarsi diffusamente, come se stesse facendo un check-up generale a
tutti i suoi muscoli.
Gli altri non poterono fare a
meno di guardarlo, incuriositi. Il ragazzo se ne rese conto, ma non sembrò che
questo avesse il potere di fargli aggiungere altro.
«Com’era…
là dentro?» si convinse infine a domandare Valentine,
esprimendo ad alta voce la viva curiosità di tutti gli altri. Justin
rappresentava in quel momento l’unico soggetto vivo che fosse entrato ed uscito
dal cappotto di Kumals, per giunta in condizioni che
gli permettessero di raccontarlo.
Il ragazzo si voltò verso di lei,
e rimuginò un po’. «Hum… è stretto. Poco spazio. Ci
sono un sacco di cose, si fa fatica a muoversi.» e come a sottolineare il
concetto stirò con forza un braccio, massaggiandosi la spalla con l’altra mano.
Danny scosse la testa; sembrava
particolarmente di malumore da quando aveva dovuto spingere via Justin da
Andrea. Da quel momento pareva essersi sintonizzato sull’atteggiamento di
generale insofferenza che la maggior parte degli altri già riservavano verso il
ragazzo.
«E qui cos’è successo, nel
frattempo?» si informò Justin, con incuriosita tranquillità.
Yuta, che stava spazzando
con una scopa i detriti dei vari oggetti che il cappotto di Kumals
aveva violentemente risputato prima di Justin, emise un pacato verso di
infastidito sarcasmo.
«Molte cose.» disse Kumals, tornato a sedersi sulla poltrona con aria compita.
«A questo proposito… visto che non avrai avuto altro
da fare dentro le mie tasche, suppongo, avrai avuto tempo per studiare meglio
quei fogli che avevamo trovato alla villa di Benton. Non li hai lasciati dentro
il cappotto, vero?» domandò, con un velo di minaccia nel tono.
«Ah, già!» si ricordò Justin. Si
infilò una mano nella tasca dei pantaloni ed estrasse un grosso pacco di carta
più volte ripiegata su se stessa e parecchio spiegazzata. «Sì, è vero…» rivolse a tutti gli altri uno sguardo di artificiosa
superiorità solenne, come se cercasse di darsi un cospicuo contegno. «Ebbene,
ho capito tutto. O quasi.»
Qualsiasi cosa gli altri stessero
facendo, tra il rimettere un po’ a posto la stanza ed altro, si fermarono a
guardarlo in un’attesa piena di tensione attenta. Justin ne sembrò intimidito,
specialmente dallo sguardo intento, profondamente serio e in qualche modo
ambiguo che gli teneva puntato addosso Zoal.
«E’ un programma molto
complesso.» proseguì Justin, cercando di mantenere salda la sua aria di
importanza «Ma ora so come disinstallarlo. Più o meno. Credo.»
Yuta abbandonò
improvvisamente la scopa, che cadde a terra rumorosamente, e prese ad
attraversare la stanza ad ampie falcate. Istintivamente Justin arretrò di un
passo, con volto terreo, ma la ragazza passò oltre e sparì in cucina.
Kumals tornò a
guardare Justin «Credo di non aver capito bene l’ultima parte, quella dove
parli in termini di incertezza.». Ci pensò su un secondo. «Ma forse preferisco
non capirla.» si arrese con un sospiro, abbandonandosi contro lo schienale
della poltrona.
Yuta ritornò nel
salotto con aria battagliera, e stavolta puntò decisamente su Justin, il quale
prese ad arretrare in un modo tanto poco notabile da fare invidia ad un uomo
invisibile; lei si fermò di fronte a lui e gli allungò un pugno verso la
faccia. Justin serrò gli occhi. Ma non avvenne niente. Con cauta timidezza il
ragazzo riaprì piano gli occhi, giusto uno spiffero tra le palpebre, che poco a
poco allargò. Così si rese conto che la ragazza teneva la mano davanti al suo
naso, porgendogli con gesto quanto mai perentorio un pacco di fogli.
Justin studiò per qualche istante
la situazione. «Oh no… non sarà mica un altro
programma, vero?» domandò con afflizione.
Yuta gli sbatté i
fogli sul petto, per costringerlo a prenderli in mano, mentre ribatteva seccata
«Lo è; o lo sembra molto credibilmente. Lo abbiamo trovato ad una vecchia
postazione radio, che probabilmente devono avere utilizzato per diffondere
questa cosa… Non sappiamo ancora bene che tipo di
trasmissione abbiano usato, ma a giudicare dalla potenza degli strumenti che
c’erano lì, e da come erano stati modificati e arricchiti all’uopo, potrebbero
essere stati in grado di infiltrarsi con i loro messaggi su trasmissioni radio
e televisive. Hanno abbandonato il posto, ma non si sono preoccupati di
cancellare le tracce. Questo, in effetti, è strano. Comunque, ho stampato
tutto. Sarà meglio che dai un’occhiata anche a questo; se non altro non è prettamente
in codice binario, stavolta.»
«Eh…
come no… è anche peggio… »
brontolò Justin in tono lamentoso, sfogliando le carte. «Che razza di scrittura
è? Aramaico?»
«In effetti…
c’era un’altra cosa che volevo dirvi.» intervenne Kumals.
«Sui libri di quello là… del Conte…
ci sono anche alcuni esempi di scritture… quelle
delle culture che avevano tra le loro storie gli ‘zombie’. Sembrerebbe un
antico dialetto africano, mischiato con germi arabi; pare abbia avuto vita
breve e molto circoscritta. E prima ho dato anch’io un’occhiata a quei fogli.
Non che sui libri del Conte ci sia una qualche traduzione, si limitano a citare
qualche parola scritta di cui non si sa la traduzione, o perlomeno non la
sapevano nell’ottocento, cioè più o meno quando è uscita questa enciclopedia
delle leggende da giungla nera… Comunque, diversi
vocaboli combaciano, almeno per come sono scritti.»
«Vuoi dire che…
» iniziò a mormorare Andrea, con timorosa preoccupazione «Qualcuno ha messo
insieme questa specie di lingua morta africana e relative leggende con il
linguaggio informatico… e ne ha ricavato un messaggio
trasmissibile su diverse frequenze che è in grado di ipnotizzare la gente… convincendola di essere degli zombie?»
Kumals aggrottò le
sopracciglia, corrucciato. «Non ci metterei la firma, su una simile ipotesi.»
chiarì scetticamente.
«Potrebbe anche essere un modo
per farlo credere a noi, che abbiano messo su un simile pasticcio…
Forse è tutto un depistaggio.» osservò Uther,
sospettoso «In fondo questo spiegherebbe come mai abbiamo trovato tanta roba in
giro. Prima quei fogli in tasca al maggiordomo morto, abbandonati là così. E
poi il programma lì bello pronto per essere stampato alla vecchia stazione di Foelm. Se sono stati così bravi da sviluppare un programma
del genere, non riesco a far coincidere questo con la stupidaggine di lasciare
tanti indizi in giro.»
«Forse non avevano previsto che
qualcuno non sarebbe stato preda del loro messaggio, però…
» ragionò Ramo «Se si aspettavano che nel raggio di qualche miglio nessuno
rimanesse abbastanza lucido da riuscire a mettere insieme un paio di azioni
coordinate tra loro, perché preoccuparsi di non lasciare in giro indizi?»
«Gli indizi potrebbero essere
trovati e raccolti da altri rimasti lucidi, però.» intervenne Valentine «Voglio dire, anche se stanno ancora trasmettendo
il messaggio, che sia che è trasmissibile direttamente tramite televisione e
radio, o che esse servano solo a trasmettere “l’innesco” dell’ipnosi… in ogni caso è logico aspettarsi che con una situazione
del genere intervenga l’esercito e via dicendo. E non credo che i soldati si
metterebbero a guardare la televisione, anche se… »
ma qui la ragazza si interruppe.
Nel silenzio, sembrò che tutti
comprendessero immediatamente.
«Cosa? ‘Anche se’
cosa?» domandò Justin.
«Le radio…
Qualsiasi truppa armata fa uso di onde radio per tenersi in comunicazione tra
squadre e quartieri generali… per coordinare le operazioni… » rifletté cupamente Danny ad alta voce. «Se
una squadra entrasse nel raggio d’azione del messaggio ipnotico che stanno
trasmettendo, probabilmente chi ha architettato il tutto sarebbe capace di
infiltrarsi nei loro messaggi di comunicazione tra squadre e comunicare il
messaggio o l’’innesco’…»
«Così…ecco… per questo non abbiamo mai incrociato in giro nessuna
squadra armata… Se ne hanno mandata qualcuna… si devono essere resi conto che gli uomini
cadevano in quello stato… » proseguì Andrea.
«Non sono sicura che questo sia
l’unico motivo.» si udì di colpo la profonda voce di Zoal.
Si voltarono tutti a guardarla.
Ma la donna ora taceva.
«In ogni caso, tornando a noi… Ci serve una strategia valida.» disse Kumals. L’uomo si alzò dalla poltrona per accomodarsi a
sedere per terra. Estrasse foglio e matita e li appoggiò con calma sul
pavimento, davanti a sé. «Quindi, se ora venite tutti qui, per cortesia,
vediamo di buttare giù qualche idea.» Tornò a sollevare lo sguardo sugli altri,
e nei suoi occhi passò un baluginio di intenso stato d’animo. «Stanotte si va.»
annunciò, in tono basso e deciso.
Poco dopo, nel silenzio pesante
che era sceso tra loro, sostituito solo dai rumori con cui tutti si sedettero a
terra, sistemandosi in cerchio sommario vicino a Kumals,
si udì la voce sogghignante di Uther mormorare «HeyJustin… ma mentre eri dentro
la tasca… dov’è che pisciavi?»
*
***
*
In tutta la casa regnava da ore
un diffuso silenzio. Nonostante avessero preparato la cena per loro e per i
cani, studiato e tracciato segni e confrontato idee e percorsi sulle piantine
in un generale fruscio cartaceo, e si fossero preparati con indumenti pesanti
e, chi le aveva, le rispettive armi, non si era parlato molto. Tutto il loro
piano d’azione era stato tracciato a suon di parole più o meno animate e
discorsive, dubbiose, azzardate, litiganti e via dicendo su carta: era stato un
processo lungo, e che, come aveva fatto notare Kumals,
ricordava quel gioco in cui ognuno scrive una frase a turno e la nasconde
ripiegando il foglio, tentando poi di cavarci una storia sensata.
Alla fine, anche se loro per
primi non ci avrebbero giurato, erano giunti a stabilire un’idea generale
condivisa all’unanimità, salvo qualche particolare su cui i disaccordi erano
stati sedati più dalla stanchezza del continuare a discuterne e dal poco tempo
rimasto a loro disposizione piuttosto che da una comunione di opinioni.
A mettere la parola fine al
confronto era stato Ramo, quando, dopo aver letto qualcosa scritto da Valentine, si era voltato verso di lei e aveva detto ad
alta voce, e con un tono un po’ più acuto del solito «Ma tu non vieni.»
Lei lo aveva fulminato con lo
sguardo, ed era diventata mortalmente seria. Di lì a poco ne era scaturita tra
i due una fitta diatriba, tanto concentrata da permettere agli altri di
sgusciare via uno ad uno senza farsi minimamente notare né dall’uno né
dall’altra.
Sparita Zoal
nella sua stanza al piano superiore, probabilmente dedita a rifornirsi di
alcune cose che riteneva necessario portarsi dietro, e sulla natura delle quali
i ‘4 di picche’ preferivano mantenersi a rispettosa e
un po’ grata distanza, gli altri si erano dispersi dopo aver condiviso una
rapida cena.
Nella cucina, sfruttando come
illuminazione praticamente solo i bagliori rossastri della stufa accesa accanto
alla quale era seduto per terra, Danny finì di controllare la tipologia delle
cartucce e dei proiettili speciali che si doveva portare dietro; giacevano
tutti infilati in una specie di apposita fascia con stringhe per singolo
proiettile, che egli si teneva normalmente legata in vita in doppio giro, e
seminascosta dal bordo della maglia. Ora, invece, si limitò ad appoggiarla per
terra di fianco a sé.
Si riaccomodò meglio, con la
schiena appoggiata contro il muro, cercando una posizione comoda tra Andrea,
seduta di fianco a lui e a lui semi-appoggiata, in quel momento intenta a
ripassare il foglio su cui avevano scritto il riassunto pratico e organizzato
del loro piano, e Danza, la quale si era sdraiata sulle gambe di entrambi a
peso morto, sonnecchiando con soddisfatto abbandono. Il tutto era reso se
possibile ancora più arduo dal fatto che tra Danza e le loro gambe era distesa
una coperta che continuava ad impigliarsi in ogni cosa.
Andrea rilesse di nuovo l’ultima
frase del foglio: ‘In ogni caso, dovremmo procedere senza mantenerci in
contatto. Silenzio radio.’. Con aria preoccupata si riappoggiò il foglio in
grembo, rimanendo qualche istante con lo sguardo fermo davanti a sé,
riflettendo.
Alla fine, però, l’armeggiare di
Danny attirò la sua attenzione: si voltò a guardare il ragazzo, che stava
cercando di sistemare un lembo di coperta, nonostante Danza non sembrasse
assolutamente intenzionata a collaborare, visto che ignorava totalmente i suoi sforzi
e si ostinava a fare da ostacolo col suo peso morto. Un lieve sorriso si
disegnò sul volto della ragazza, mentre si sporgeva, sollevando di peso una
zampa e parte del costato di Danza per permettere a Danny di riuscire
finalmente a finire di sistemare la coperta.
Danny rilasciò un sospiro, e si
rilassò contro il muro e contro di lei; alla fine la guardò, e poco dopo si
sporse per baciarla. Ma Andrea evitò gentilmente il suo approccio, per infilare
piuttosto le mani tra le loro anche appoggiate: dopo un po’ riuscì a sfilare
dalla cintura dei pantaloni di Danny una delle sue pistole. Lui fissò l’arma, e
poi lei, con aria un po’ imbarazzata. «Ah…hem, scusa. Sono così abituato a portarla che mi dimentico
di averla…»
Andrea sorrise, e si sporse per
appoggiare la pistola sul pavimento. «Com’era quella frase…?»
«’Hai una pistola in tasca o sei
solo contento di vedermi?’» intuì rapidamente Danny.
Lei lo guardò, sorpresa dalla
prontezza con cui aveva indovinato a cosa si stava riferendo. «Forse… » mormorò, allacciandogli lentamente le braccia
intorno al collo «…preferivo la seconda…»
Danny sorrise, ammiccante. «E chi
ha detto che non sussiste…?» le sussurrò contro la
bocca, provocatoriamente, facendola sorridere complicemente.
*
***
*
Kumals soffiò fuori
una boccata di fumo nell’aria fredda della notte; nel buio profondo dell’ombra
nerissima di uno dei grandi alberi più vicini all’ingresso della casa,
proiettata in grazia dell’argenta luce della grossa luna, il fumo biancastro si
disperse lentamente.
«Pessima notte…
» mormorò Kumals, come parlando tra sé e sé, mentre
guardava distrattamente il fumo dissiparsi in frammenti sfrangiati «Troppa
luce, e niente vento.»
«Guarda che…
» osservò Yuta, seduta poco distante da lui, e
occupata a rifinire con un’apposita pietra l’affilatura della lama di una delle
sue armi a forma di cerchio «…se anche ci fosse stato
un po’ di vento per aiutare il fiuto di Danny, quel tizio ha già dimostrato di
conoscere le sue capacità. Si sarebbe messo sopravento. E allora, meglio senza
vento. Così è più probabile per Danny riuscire a sentirlo…
e lui non potrà sfruttare il vento a proprio vantaggio.»
«In effetti…
» ammise Kumals «Ed inoltre…
conoscendo Danny, meglio che non lo senta. Nonostante tutto…
potrebbe sempre decidere di testa sua di partire al suo inseguimento.»
«Già. E penso che ci si
metterebbe tanto da finire per prenderlo. Per quanto possa riuscire a far
disperdere le sue tracce questo tizio è pur sempre umano. E Danny, in forma di lupo… specie con una luna così poi…
sicuramente può correre più veloce.» rafforzò Yuta.
Entrambi lasciarono ricadere il
silenzio. Il loro non era un discorso casuale. Se, come supponevano, il loro
“angelo custode” aveva qualche modo per riuscire a intercettare le loro parole
a distanza, questo era un messaggio indiretto per lui: che si tenesse a buona
distanza, o Danny l’avrebbe preso. Loro volevano farlo andare in una direzione
ben specifica, il loro “angelo custode”.
«Per non parlare dei cani… » riprese Yuta, con un tono
pregno di una perfetta naturalezza da conversazione. «Mama
non sarà velocissima, ma è formidabile per quanto riguarda fiuto e udito. Danza
è una corridora formidabile, e dopotutto, con quel
muso un po’ da mastino che si ritrova, non oso pensare come potrebbe ridurre il
tizio se lo prendesse. Quanto a Duca, quando vuole è imbattibile nel seguire le
tracce: deve avere un che da segugio nel sangue.»
«Se è per questo, consideriamo
quei tre in combinazione con Zoal. Sono sempre grato
di essere suo amico, e non suo nemico.» constatò Kumals.
«Eggià…
ma magari il tizio pensa di poter stabilire la ‘pericolosità’ che Zoal può rappresentare per lui in base alle trappole che ha
trovato intorno alla casa. Allora, finirà per sottovalutarla; quindi magari si
avvicinerà tanto da farsi scoprire da lei. Sì… penso
che magari sarà lei a beccarlo.»
«Sì, ho idea che quella di
stanotte sarà una caccia proficua…» mormorò Kumals, con soddisfazione minacciosa.
Lasciarono ricadere con calma il
silenzio. E benché i loro visi fossero impassibili, e le labbra ferme in una
posizione neutra, era come se sorridessero tra sé e sé: un sorriso di
inquietante soddisfazione feroce.
All’improvviso delle urla di
terrore risuonarono poco lontano; Yuta balzò in piedi
impugnando saldamente l’arma che stava affilando, così come Kumals
fu in piedi in un istante, in tempo per vedere una figura che correva fuori
dalla stalla. Li vide, e corse verso di loro con viso terreo.
Yuta, con aria ben
poco paziente, riabbassò il braccio con il cerchio provvisto di lama lungo
fianco, rilassandolo, mentre anche Kumals lasciava
perdere il suo atteggiamento pronto all’azione.
Justin si rivolse loro con gli
occhi spalancati e voce tremante. «E’ terribile! Sono andato a vedere come
stava il Conte e… si è trasformato! In un’altra
persona!»
Kumals notò con la
coda dell’occhio che Yuta, di fianco a lui, stava
stringendo un po’ troppo fortemente le dita attorno all’impugnatura della sua
arma; sospirò e si affrettò a dire, con diplomatico autocontrollo «Non c’è
niente di cui allarmarsi, Justin. In effetti quello non è il Conte perché…»
Ma fu interrotto da una
precipitosa esclamazione.
«Che succede?!» si informò Danny,
apparendo sulla soglia della porta di casa, una delle sue pistole alla mano,
evidentemente pronto a combattere; tranne per il fatto che era a petto nudo.
Kumals lo squadrò per
un po’, alzando lievemente un sopracciglio, e un sogghigno gli si disegnò in
volto. «Oh, nulla, tranquillo, le foto per il calendario le facciamo in un
altro momento.»
Danny si rilassò un poco, e gli
lanciò uno sguardo che voleva essere fermamente corrucciato, anche se un’ombra
di imbarazzo si era impossessata di buona parte del suo volto non appena la
frecciatina dell’amico gli aveva comunicato che Kumals
aveva capito benissimo il motivo della sua semi-nudità.
«Come stavo dicendo, Justin»
proseguì Kumals, tornando a rivolgersi al ragazzo
ancora preda dell’orrore «Il Conte non si trova qui, in questo momento. E’ in
missione. Sono certo che qualcuno avrà voglia di spiegarti meglio. Quello che
hai visto nella stalla è un altro tizio contagiato che abbiamo trovato nei
pressi di Foelm. Lo terremo qui e ce ne occuperemo
fintanto che non avremo compreso come poter eliminare i sintomi
dell’ipnotizzazione o di qualsiasi altra cosa sia.»
Frattanto anche Ramo e Valentine erano comparsi sulla soglia della porta, di
fianco a Danny. Ramo gettò al ragazzo una breve occhiata dubbiosa, realizzando
il suo essere a petto nudo. «Cosa succede? Chi ha gridato?»
«Niente…
era Justin… » rispose Danny, come se citare l’altro
bastasse a definire l’infondatezza dell’allarme.
«Ah… »
mormorò solo Ramo, per dare segno di aver compreso; anche se continuava ad
essere evidentemente perplesso per la semi-nudità di Danny, sembrò scegliere di
mantenere per sé eventuali domande, pressappoco la stessa cosa che aveva deciso
di fare Valentine. Cosa di cui Danny fu loro grato.
«Visto che ci siamo…
» aggiunse Kumals, guardando il gruppetto sulla porta
«Vieni anche tu con noi, stanotte, Valentine?»
La ragazza e Ramo si scambiarono
un lungo sguardo carico di significato. «Sì.» affermò infine lei, mentre Ramo,
sebbene combattuto, restava in un silenzio che assomigliava ad uno
stentatissimo consenso.
«D’accordo.» annuì Kumals, e, dopo aver scambiato un breve sguardo di accordo
con Yuta, si avvicinò loro, chiedendo a Justin di seguirlo.
Quando furono tutti riuniti in gruppo sommario sulla porta, Kumals
trasse di tasca un foglietto di carta con alcune scritte sopra, e lo mostrò
agli altri.
Di lì a poco si sentirono dei
passi per le scale, e anche Uther si unì agli altri
sulla porta. «Ho sentito gridare… » iniziò a dire, ma
si interruppe, vedendo tutti concentrati nella lettura del foglio. Si allungò
anche lui a leggere, non prima di aver scoccato una lunga occhiata
imperscrutabile a Danny, che, nonostante il freddo e il suo essere semi-nudo,
risultava praticamente quasi insensibile all’aria gelida.
«Sono già d’accordo con Yuta e Zoal. Ad Andrea lo dirai
tu, Danny.» disse Kumals, con tono insolitamente
serio per lui.
Le prime parole scritte sul
foglietto erano: ‘Questi sono i gruppi in cui ci divideremo…’
Capitolo 46 *** 44 - MOON IN THE NIGHT, NIGHT IN THE WOOD ***
Capitolo 44
(MOON IN THE NIGHT, NIGHT IN THE WOOD)
Nello spiazzo davanti alla casa
color lilla nel bosco, una sagoma ritta in piedi fumava e accarezzava i muri
con sguardo assorto; l’argenteo alone lunare giocava col lilla delle pareti, e
faceva luccicare l’oro e l’argento delle persiane. Poco prima Kumals aveva visto l’ultima delle finestre venir serrata,
con quel fare deciso e piuttosto brusco che gli aveva fatto riconoscere la mano
di Yuta.
Passarono pochi altri minuti, e
la ragazza uscì dalla porta, che giaceva aperta. Impugnava saldamente in una
mano i due cerchi semi-schiacciati provvisti di lama. Non erano avvolti dai
soliti panni legati con le sottili corde; per questo, mentre lei usciva
dall’ombra scura dell’interno della casa, il riflesso lunare baluginò sulle
lame, ricavandone un sinistro bagliore tagliente. La luce della luna tentò
anche di ricavare qualche risposta luminosa dagli occhi di Yuta,
ma dovette arrendersi, sbrindellata dalle fitte ciglia prima di poter intaccare
l’espressione sicura degli occhi castani.
La ragazza si fermò poco distante
dalla soglia, e considerò Kumals con sguardo
indecifrabile, prima di prodursi in uno dei consueti sorrisetti provocatori.
«Che fai?» domandò.
«Vi aspetto.» disse solo Kumals; la naturalezza del significato delle parole non si
accordava per nulla con il suo tono di voce, né con l’espressione seria eppure
lievemente sorridente del volto.
Yuta lesse bene in
quei modi, perché le erano profondamente familiari. Per un momento ebbe la
vivida sensazione che tra di loro fosse stata annullata di colpo la distanza
che avevano pazientemente costruito nel tempo. Stranamente, per la prima volta
dopo molto tempo, ciò non le suscitò l’immediato bisogno di riafferrare quella
distanza e gettarla risolutamente tra di loro, con una decisione che non
ammette repliche. Sorrise lentamente, e con una spontaneità leggera che quasi
non ricordava potesse appartenerle. Ma nemmeno per un istante questo ebbe il
potere di far impallidire l’intima forza che emanava da lei. Non era per le
armi che impugnava con calma abitudine, né per il suo essere pronta a gettarsi nella
loro notte di battaglia; semplicemente, quella forza era un tutt’uno con lei, o
almeno così sembrava. In ogni caso Kumals lo credeva,
senza aver bisogno di vederla comparire tanto chiaramente.
«Gli altri stanno arrivando… » mormorò Yuta,
apparentemente per puro scopo informativo. Ma Kumals
comprese che stava già riprendendo a recuperare la distanza che doveva
stendersi tra di loro. Annuì, e tirò un’altra boccata di fumo alla sua
sigaretta.
Yuta lo osservava
con una certa attenzione; per quanto ne sapeva, Kumals
fumava tanto specialmente in due situazioni.: quando era molto tranquillo e
rilassato, o quando era piuttosto nervoso. Non era certa di poter stabilire con
precisione di quale contesto si trattasse ora, e sospettava una stretta
combinazione tra i due.
Un fruscio di abiti, il ritmico e
sommesso battere di qualcosa per terra, e il zampettare di undici zampe li
avvertì dell’imminente arrivo di Zoal, Mama, Duca e Danza. Ed in effetti la donna e i tre cani
uscirono poco dopo dalla porta aperta, e si fermarono vicino a loro. Yuta abbassò quasi distrattamente una mano per accarezzare
la testa di Danza, mentre Mama si sedeva con la sua
solita composta aura autorevole accanto alle gambe di Zoal,
e Duca scorazzava un po’ d’attorno, annusando il terreno e l’aria, pregno di
un’impazienza che lo faceva tremolare quasi comicamente.
Restarono in silenzio,
attendendo. Fino a quando anche Uther, il fucile in
spalla, Ramo, impugnando la sua solida mazza di legno, Valentine,
per una volta priva dei suoi abiti con gonna lunga ma abbigliata più
praticamente con lunghi pantaloni neri e scarponi da montagna prestatigli dalle
due padrone di casa, arrivarono. Allungando lo sguardo, Kumals
colse il movimento di un’altra persona, rimasta semicelata dall’arrivo compatto
degli altri.
«Justin.» chiamò, con voce bassa
e seria «Mi raccomando, resta sempre vicino ad Uther…»
Quest’ultimo non trattenne un
accenno di smorfia, mentre l’altro annuiva generosamente, senza per questo
scomporre l’espressione abbastanza in preda al terrore che gli rendeva i tratti
facciali molli. Notando tale stato d’animo, e avendo osservato anche l’impegno
con cui Valentine sembrava decisa ad impedire che
ogni segno di incertezza o timore prendesse possesso del suo volto, Zoal parlò con voce calda e sicura.
«Potete starne certi. Non
permetteremo che vi accada niente. Semmai la situazione volgesse al peggio, i
vostri compagni di gruppo faranno in modo di mettervi al sicuro in ognicaso.»
Yuta annuì,
spostando il peso sull’altro fianco con aria determinata. Uther
indurì leggermente la mascella, e i suoi occhi incrociarono per un breve ma
intenso momento quelli di Zoal: la donna vi lesse
qualcosa, rapidamente, e poi il ragazzo rivolse altrove lo sguardo. Zoal parve soddisfatta, per qualche motivo che lasciò
giacere celato nelle profondità delle sue pupille verdi.Ma c’era da supporre che fosse uscita
vincitrice da un qualche tipo di breve confronto.
Un leggero rumore di movimenti
preannunciò l’approssimarsi di Danny e Andrea sulla soglia della porta. Mentre
tutti gli altri lanciavano almeno una sommaria occhiata nella loro direzione, Uther evitò di voltarsi; benché questo sembrasse niente di
più che uno dei suoi soliti gesti piuttosto goffamente burberi, Kumals rivolse particolare attenzione alla cosa.
«Andate?»domandò piano Danny, poco più che un sommesso
sussurro, e nessuna retorica nel tono.
Kumals rifletté per
qualche momento. «Qualche ultima raccomandazione mi sembra il minimo necessario…» annunciò.
Gli altri si voltarono a
guardarlo. Yuta, Danny e Ramo gli rivolsero, più precisamente,
quel cipiglio scetticamente vigile di chi si aspetta un’uscita inappropriatamente comica; anche Zoal
ed Uther, pur essendo ugualmente in grado di
riconoscere quel tipo di sfumatura nel tono di Kumals,
si disposero in attesa delle successive parole, ma preferendo mantenere
abbastanza nascosto il loro aver presagito l’arrivo di qualche motteggio.
«Non vorrei che succedesse come
quella volta… » disse ancora Kumals,
lasciando in sospeso la frase con studiata accortezza, e mostrandosi propenso
ad evitare di proseguire se qualcuno non avesse chiesto maggiori
specificazioni. Ma si ritrovò circondato dal silenzio. Gli altri non avevano
intenzione di rendergliela così facile. Persino Andrea, sebbene non ancora usa
a riconoscere il significato specifico delle infinitesime sfumature del tono
dell’uomo, aveva compreso la natura della situazione, tanto percependone il
clima quanto occhieggiando le espressioni degli altri.
«Quale volta?» giunse a domandare
la voce di Justin.
Kumals rivolse un
piccolo sorrisetto di vittoria al resto del gruppo dei ‘4 di picche’, rendendo manifesto che aveva calcolato di poter
contare su Justin per dargli corda. Qualcheduno di loro provò l’impulso di
tirare una sberla o di rivolgere un principio di leggero strangolamento sul
ragazzo, ma si trattennero tutti, mentre Kumals
proseguiva con una soddisfazione sospesa tra il borioso e il sadico.
«Beh, quella volta che ci siamo
divisi per esplorare quella casa abbandonata che ci era stata segnalata come
infestata da mostruose presenze. Dopo un po’ io e Ramo ci siamo ritrovati nel
punto in cui avevamo prestabilito di riunirci. Ma Danny ed Uther
non si vedevano. Così ci siamo messi a cercarli. Apro la porta della cantina,
che era una delle stanze che avevamo assegnato per la perlustrazione ad Uther, e trovo tutto buio pesto. Però qualcosa mi diceva
che c’era qualcuno… c’era una certa tensione
nell’aria, tipo. Allora accendo la luce, e chi vi vedo? Danny ed Uther erano nascosti in due punti opposti della cantina;
ognuno di loro si era accorto che c’era qualcun altro, e non essendosi
riconosciuti pensavano ciascuno di essere in presenza di un nemico, perciò si
tenevano reciprocamente nascosti, aspettando il momento migliore per
attaccare.» Kumals fece una pausa ad effetto, e
rivolse una lunga occhiata satura di auto-compiacimento sui due protagonisti
della sua storia. «Questione di fortuna che non vi siate piantati
reciprocamente qualche pallottola addosso.»concluse efficacemente.
Era calato un silenzio compatto. Yuta sbuffò sonoramente. Andrea, che cercava in ogni modo
di non lasciar trasparire un sorriso divertito sulla sua faccia, non riusciva
ad evitare di spiare appena i due protagonisti della vicenda, i quali si erano
come chiusi in se stessi, con un’aria tra il risentito e l’imbarazzato.
«Ma come può essere vera una
simile storia…?» obbiettò Valentine,
divertita «Voglio dire!» recuperò in fretta, di fronte all’occhiata offesa che
le indirizzò Danny «In quanto mezzo lupo, Danny avrebbe dovuto sentire l’odore
di Uther, e riconoscerlo, no?» spiegò, mostrando il
volenteroso desiderio di giungere in aiuto ai due ragazzi.
Danny tornò ad abbassare il viso
verso terra. Dopo qualche istante, borbottò «C’era molta polvere, in quella cantina…»
Valentine perse di colpo
il suo piglio da soccorso e, mentre Ramo distoglieva lo sguardo con un
imbarazzo mischiato al divertimento, mormorò un dispiaciuto e sorpreso «Oh…»
«E sarebbe meglio evitare anche
di fare come quell’altra volta… » riprese Kumals impietosamente, evitando di rivolgere attenzione
allo sguardo fulminante che gli puntava addosso Yuta
«…quando avete quasi ammazzato il nostro cliente.»
Ramo alzò un sopracciglio. «Ma le
pensi la notte?»
«Ah, andiamo, questa è sleale!»
obbiettò tuttavia vivacemente Danny, zittendo i dubbi di Ramo in proposito alla
sincerità del racconto.
«Sto solo facendo un generico
ripasso per evitare gli errori da cui dovremmo aver imparato ad agire con
prudenza.» chiarì Kumals, mentendo con candida
spudoratezza. Per un momento sembrò voler attendere di nuovo che fosse Justin a
dare avvio al seguente aneddoto, ma poi decise di dare adito alla sua
impazienza nel proseguire. «Sapete, una volta riceviamo questa chiamata
allarmata. Il fatto è che chi chiama, un uomo, sembra così terrorizzato da non
riuscire a spiegare bene la situazione. Parla genericamente di mostri, fantasmi
o roba del genere, e farfuglia chiaramente solo l’indirizzo. Così io, Uther e Danny andiamo a questo indirizzo, pronti a tutto. A
proposito, Ramo, ma tu dov’eri? Ti sei perso il meglio.»
«Stavo studiando per un esame… ero ancora all’università…
e comunque, me l’avrai raccontata decine di volte… »
rispose il ragazzo, tentando di venire in soccorso a Danny ed Uther.
Kumals aggirò però
immediatamente il tentativo. «Già. Ma Justin ed Andrea non l’hanno mai sentita.
Dunque, arriviamo in questo posto… nella periferia,
zona industriale. E ci troviamo effettivamente di fronte a un vecchio capannone
che sembra abbandonato. Entriamo e iniziamo a girarlo. Alla fine arriviamo
davanti alla porta chiusa degli uffici, bussiamo, e da dentro esplodono
all’improvviso urla agghiaccianti, come se qualcuno stesse venendo scuoiato
vivo praticamente. Cerchiamo di aprire la porta, ma era una di quelle porte
blindate, probabilmente per evitare furti di documenti o di soldi dagli uffici
quando la fabbrica era ancora aperta. Dunque, non riusciamo a tirar giù questa
maledetta porta, no? E prima che possiamo elaborare qualcosa di sensato, questi
due… » Kumals indicò con
gesto deliberatamente appena accennato Danny ed Uther
«… hanno uno dei loro colpi di genio. Non ho capito quello che volevano fare,
sul momento. Vedo solo che guardano verso l’alto, al soffitto, e mentre alzo
anch’io lo sguardo, e mi imbatto in una grossa tubatura sporgente, questi due
son già partiti per la tangente. Immaginatevi la scena…
quando riabbasso lo sguardo hanno già preso qualche metro di distanza in fondo
al corridoio, ed ecco che partono di corsa, saltano, si appendono alla tubatura
con le braccia e si danno la spinta così per slanciarsi di peso e coi piedi
tutte e due contro la porta. Era una scena notevole…
avreste dovuto vederla… due scimmie ammaestrate non
avrebbero saputo fare di meglio nemmeno se fossero state imbottite di caffeina
per una settimana.»
«E poi?» eruppe Justin, tutto
preso dalla suspance del racconto. Talmente preso da
passare indenne attraverso lo sguardo bruciante di rimprovero che gli
lanciarono alcuni degli altri, e che denunciava chiaramente il proposito di
saltargli alla gola.
«E la porta…
» Kumals prese tempo, creando una pausa teatrale a
puntino «…è venuta giù.»
«Ma allora hanno fatto bene, no?»
disse Andrea, prima di pentirsene, interpretando l’occhiata che le lanciò Danny
di sbieco, e che era decisamente una preghiera di non dare mai corda in nessun
modo a Kumals.
«Oh, sì, eccome se ha funzionato
per la porta.» concesse Kumals con sguardo felino «E
così porta e i nostri due eroi d’azione sono franati completamente dall’altra
parte, travolgendo dritto dritto il nostro cliente.».
Kumals fece un tiro dalla sigaretta, creando un’altra
pausa studiata. «Infatti…» proseguì quindi, con
crescente soddisfazione «…come abbiamo poi scoperto,
il tizio era il padrone dello stabilimento, che era andato in fallimento
completo qualche mese prima. Da allora aveva preso l’abitudine di andarci la
notte a guardarsi filmini, immagino porno, e a farsi di droga. Quella notte
aveva avuto l’infelice idea di abbinare ad un potente cocktail di anfetamine un
film horror… ed eccolo che aveva finito per
convincersi di essere intrappolato nella fabbrica insieme a delle presenze
maligne e mostruose. Preda delle sue allucinazioni aveva trovato sul telefono
il nostro numero, che gli aveva dato un suo amico. Amico completamente idiota o
che voleva fargli uno scherzo, suppongo. Comunque, quando siamo arrivati si
stava riprendendo, e stava appunto venendo ad aprire la porta avendoci sentito
tempestarla di pugni e tentare di sfondarla a spallate, quando porta e i due
gli sono finiti addosso, facendogli prendere un colpo. Credo non ci sia bisogno
di dire quanto sia pericoloso prendersi un simile spavento quando si è alterati
da sostanze psicotrope. Insomma, è quasi morto. Per fortuna siamo riusciti a
rianimarlo. E per ulteriore fortuna abbiamo raggiunto un soddisfacente accordo:
noi abbiamo promesso di mantenere il riserbo assoluto sulla sua avventura con
film horror e droga, e lui ha voluto solo una cifra simbolicamente cospicua
come risarcimento danni per averlo quasi fatto fuori. Niente male, no?»
concluse Kumals.
Era nuovamente sceso un denso
silenzio, nel quale tutti facevano in modo di rivolgere lo sguardo in qualsiasi
direzione, pur di non incappare per sbaglio in Danny o Uther;
tranne Kumals, che rimirava il loro atteggiamento
imbarazzato e corrucciato come se si gustasse pienamente il risultato delle sue
narrazioni.
«Beh… »
mormorò Andrea infine, sforzandosi «…era una
situazione difficile…»
Yuta si rivolse a Kumals con dimestichezza perentoria. «Se hai finito con le
tue stronzate, potremmo anche muoverci ora, no?»
Kumals gettò a terra
il mozzicone di sigaretta e stemperò un poco il suo sorrisetto. «Nulla in
contrario.» accettò.
«Bene…»
mormorò Zoal, e tra i suoi occhi passò un lampo.
«Andiamo, allora.» sancì.
Con movimenti ben calcolati,
rapidi ma non affrettati, il gruppetto si sciolse.
Kumals, Zoal, Danza e Mama si avviarono
in una direzione, sparendo nella boscaglia; Ramo, Yuta
e Valentine presero un’altra strada, anche loro
svanendo presto alla vista nell’immergersi nell’oscurità del bosco insieme a Duca;
Uther e Justin procedettero divisi dagli altri, ma
molto vicini dal momento che Justin sembrava determinato a rimanere incollato
alle caviglie del suo compagno di ventura, come se ne valesse della sua vita.
Anche loro due si sottrassero alla vista per ultimi tra la vegetazione fitta.
Danny ed Andrea li guardarono con
intensità, finché non furono più raggiungibili dal loro sguardo; e anche allora
rimasero immobili e concentrati sui rumori che si allontanavano, finché non
udirono più assolutamente nulla.
*
***
*
La notte ricadeva scura sulle
colline boscose intorno a CastleMac’Hearty; ma la luna, grande e bianco-argentata, risplendeva
con intensa luminosità, gettando nell’oscurità un chiarore deciso. Solo le
ombre degli alberi, all’interno del bosco, valevano a scurire abbastanza
profondamente il sottobosco.
Danny fissava la boscaglia,
intento.
Alla casa non c’era più nessuno,
tranne lui ed Andrea. Si sentiva inquieto; un disturbante nervosismo gli
artigliava lo stomaco, sgradevole come una nausea intensa e senza motivazioni
fisiche. Doveva impegnarsi con costanza per impedire che quella sorta di
angoscia tediosa gli caricasse i nervi, rendendoli tesi come corde di violino.
Lui invece sapeva molto bene che, nelle situazioni decisive, occorreva
mantenere sangue freddo e una buona elasticità di pensiero e movimenti. Se
avesse permesso alla paura, all’incertezza o al nervosismo di irrigidirlo e
rallentarlo, ogni sua scelta ed ogni suo scatto, ogni sua reazione, invece di
calibrarsi il più efficacemente possibile sulla situazione, avrebbero avuto il
potere di disequilibrarlo, zavorrarlo, sabotare la
sua capacità di precisione. Non poteva permetterselo. Non ora… perché non si trattava
solo di lui; non più.
Udì i movimenti di Andrea dietro
di lui, mentre usciva e si richiudeva la porta alle spalle, e ascoltò i giri di
chiave che la ragazza assestò nella serratura, con una lentezza che pareva
quasi solenne alle sue orecchie in quel momento: i rumori suonavano netti nel
silenzio.
Sentì che gli si affiancava, ma
ancora non spezzò la sua immobilità quasi rigida. Quando una mano gli sfiorò il
fianco e, trovata la sua, si infilò con le dita tra le sue, cingendola con
esitante premura in una stretta leggera, si accorse a stento che un brivido lo
aveva riscosso, prendendolo di sorpresa, al punto da farlo tremare un poco.
Abbassò allora gli occhi sulla
figura che gli si era fermata accanto, e quando incontrò lo sguardo fermo – e
in qualche maniera dolcemente calmo – delle pupille nocciola di Andrea, provò
la singolare sensazione di una sorta di tuffo alle interiora.
Per qualche momento la stretta di
angosciante tensione si intensificò, al punto da provocargli una specie di
pressante dolore quasi insopportabile; poi, inspiegabilmente e con esasperantemente lenta incertezza, prese a sciogliersi.
Riuscì a dare fiducia al fatto che si stava allentando solo quando trovò che i
suoi denti non erano più presi dallo spasmodico bisogno di stringersi, che la
sua mandibola non era più una morsa rivolta addosso a se stessa, e che la rete
ferrea in cui i nervi si erano stretti si era allargata, lasciandogli un poco
di spazio in più, quel tanto per non sentirsi pressato fino allo sfinimento.
Istintivamente e prima di
accorgersene, mosse il pollice in una carezza quasi distratta sulla mano che
Andrea aveva avvolto intorno alla sua, e continuò a guardarla, non più come se
stesse cercando di valutare qualcosa, o di anticipare la natura malevole o
benigna di ciò che li aspettava. In qualche modo, sentiva che il presente era
abbastanza, ora.
La maniera in cui Andrea lo stava
guardando lo indusse a parlare. «Sei sicura… di voler
venire anche tu?»
La ragazza inclinò lievemente la
testa, come se volesse guardarlo meglio in viso. «Sì…
» mormorò.
La semplicità racchiusa nella
naturalezza della risposta portò Danny, per qualche motivo, a distogliere lo
sguardo dalla sua espressione, rivolgendolo altrove, come se ne fosse
infastidito.
Andrea lo guardò ancora qualche
istante, in silenzio, e infine gli disse, in tono basso e calmo, come se
parlasse soprattutto a se stessa. «Non sono sicura di poter essere davvero di
aiuto; e nemmeno che magari non risulterò un fardello. Però…
Ci ho pensato. E anche se non saprei come spiegarlo…
Vedi, nonostante tutto quello che è successo… o forse
anche a causa di tutto quello che è successo… non mi
sono ancora pentita di aver preso la decisione di venire con voi, quella volta,
dopo che ci avete portato via dalla scuola.»
Gli occhi di Danny si allargarono
appena, vuotandosi dal fastidio e colmandosi di sorpresa curiosità mentre
tornava a rivolgerli sul viso di Andrea.
Lei si ritrovò a sorridere,
piano. «Sai una cosa?» sussurrò, in tono confidenziale.
Danny la osservava attentamente,
adesso. «Cosa?»
Andrea attese qualche momento,
come chiedendosi se c’era bisogno di valutare per bene le parole, piuttosto che
lasciarle uscire con tanta scioltezza. Ma quando le pronunciò, il modo in cui
suonarono alle sue stesse orecchie approfondì la serietà e la dolcezza del suo
sorriso.
«Non credo che me ne pentirò
mai.»
Poco dopo, le ultime due figure
rimaste nei pressi della casa si incamminarono vicine. Solo all’ultimo, prima
di immergersi nell’oscurità della boscaglia, sciolsero con esitante rammarico
la stretta delle loro mani unite.
Capitolo 47 *** 45 - TAKE IT EASY... IF YOU CAN! ***
Capitolo 45
(TAKE IT EASY… IF YOU CAN!*)
La notte gelida era una ridda di
sfumature che andavano dal nero al bianco latte, e framezzo una miriade di
gamme di grigio: in qualche modo, sembrava tutto quasi in bianco e nero, tra i
colori del cielo buio, in cui navigavano lente alcune sfrange
di nubi affilate dal perlato chiarore lunare, l’enorme numero di stelle ben
visibili in assenza di illuminazioni artificiali, e le varie gradazioni di nero
della boscaglia, in cui le ombre scure di alberi, fronde e cespugli si
profilavano nettamente, opposte al biancore delle chiazze di neve sparse sul
terreno.
Una simile prospettiva non era
affatto nuova agli occhi di Danny, uso alla visione in bianco e nero che aveva
a sua disposizione quando era in forma di lupo, e che gli era familiare come
quella a colori di cui disponeva ora che era in forma umana. Tuttavia, in quel
momento non tendeva per nulla a dedicarsi a queste considerazioni.
Spingendo i sensi al massimo
delle loro possibilità, che pur senza raggiungere quelle canine travalicavano
quelle umane, fiutava e ascoltava attentamente l’ambiente circostante, mentre
procedeva a ritmo spedito nel sottobosco. Parte della sua concentrazione
rimaneva sempre fissa su un unico elemento: l’odore e il rumore di Andrea, che
lo seguiva d’appresso.
«Se vuoi possiamo rallentare un
po’…» mormorò dopo un’ora che procedevano a quel modo; si rendeva ben conto che
i suoi muscoli, alterati dalla sua condizione di mezzo lupo, erano capaci di
sostenere sforzi maggiori di quelli che poteva sopportare un umano, senza per
questo sentirsi nemmeno affaticati. E gli premeva che Andrea non sfruttasse la
maggior parte delle energie nella prima parte della strada: erano ancora
piuttosto lontani dal loro obbiettivo… la casa nel
bosco dove, secondo la segnalazione del rilevatore di posizione nascosto
addosso al Conte, qualcuno stava radunando tutte le persone perdute in quello
stato amebico.
«No…»
rispose dopo qualche istante Andrea, in tono serio e determinato che non sfuggì
al ragazzo. «Non sono stanca.»
«Abbiamo ancora almeno un paio
d’ore di strada davanti a noi.» le ricordò Danny, trattenendosi dal proposito
di voltarsi a studiare la sua espressione, in cerca di segni di stanchezza.
«Lo so.» confermò Andrea, sempre
seria. «Se continuiamo a questa velocità, ce la farò benissimo.»
Danny ristette in silenzio
qualche momento, riflettendo. «D’accordo.» concluse.
Procedettero così per molti altri
lunghi minuti.
Quando, al termine di una salita
abbastanza inclinata, Danny raggiunse la cima di una collina, senza che per
questo potesse spaziare intorno la vista, a causa della boscaglia in cui era
immerso, rallentò e si fermò. Il suo respiro era a malapena accelerato, ma
negli ultimi metri aveva sentito quello di Andrea appesantirsi, segno che
quell’ultimo tratto le aveva richiesto maggiore impegno. Ora il ragazzo
riteneva che potessero fermarsi qualche momento per tirare fiato.
«Dovremmo essere in orario… Gli altri non devono essere molto più avanti di
noi.» considerò, mentre si voltava verso la ragazza «Perciò penso che ora
possiamo anche…». Ma la voce gli si interruppe
bruscamente in gola, mentre i suoi occhi stentavano a credere a ciò che
vedevano: non c’era nessuno dietro di lui.
Danny si riebbe in fretta
dall’assoluto stupore, ma non poté fare a meno di lasciarsi stringere nella
morsa di un principio di panico. Prima di tutto perché era sicurissimo di aver
sentito i rumori del respiro e dei passi di Andrea dietro di lui fino a pochi
istanti prima, proprio prima di fermarsi.
Mentre le sue pupille saettavano
tutt’attorno, in ansiosa ricerca della ragazza, chiamò il suo nome in un
sussurro roco, il tono evidentemente pregno di una nota di viva e ancora
incredula preoccupazione. Non ricevette risposta.
Scosse la testa e strinse i denti
con irritazione: qualcosa non gli tornava. Ora non riusciva più a sentire
nemmeno l’odore di lei… non così forte come se si
trovasse ancora nei paraggi. C’era solo una traccia leggera, come se Andrea
fosse stata lì ore prima. Ma questo era del tutto impossibile!
Il ragazzo prese una decisione,
ed iniziò a ridiscendere la collina a balzi rapidi, quasi correndo. Doveva
essersi fermata lungo la salita, per riposarsi un momento. O, forse, aveva
avuto bisogno di appartarsi per qualche bisogno puramente fisiologico.
Tuttavia, nessuna di queste valide ipotesi reggeva il confronto con la
credibilità, se si considerava che in questi casi la ragazza avrebbe dovuto
chiamarlo ed avvertirlo che si stava fermando o allontanando un momento. Andrea
non era così stupida da non pensare che avvertirlo fosse il minimo necessario:
prima di tutto per non lasciarlo preda della crescente preoccupazione che si
andava impossessando di lui, e in secondo luogo per evitare di perdersi, il che
sarebbe risultato in un ritardo rispetto alla tabella di marcia. Cosa che chiaramente
non potevano permettersi così alla leggera.
Un’altra possibilità abbastanza
realistica giunse in provvidenziale aiuto di Danny, sempre più dominato da un prepotente
nervosismo: forse era inciampata, e si era fatta male, rimanendo costretta là dov’era
caduta. Questo, però, non coincideva con ciò di cui lui era certo: aveva
continuato a percepire la presenza di lei proprio dietro di sé, almeno fin
quando non aveva deciso di fermarsi sulla sommità della collina.
Giunse alla fine della discesa,
suo malgrado: Andrea non si vedeva da nessuna parte. E, cosa ancora più
assurda, la traccia dell’odore di lei non era mai cresciuta d’intensità. Ciò
significava che Andrea doveva essere stata lì, ma non di recente, e che ora non
si trovava nemmeno in quei pressi. Confuso, e ora anche seriamente arrabbiato,
con se stesso e con tutta l’impossibilità di quella situazione, Danny non si
accorse del cedere del suo sangue freddo e degli ultimi barlumi di razionalità.
Nonostante il piano prevedesse
che lui e Andrea non permettessero a chicchesia di
individuare troppo facilmente la loro esatta posizione, il ragazzo prese a
chiamare il nome di lei a piena voce, crescendo il volume ad ogni nuovo
richiamo che rimaneva senza risposta. Rifece di nuovo la salita sulla cima della
collina, stavolta correndo a tutta la notevole velocità che poteva raggiungere,
e da lì ripartì dopo una brevissima pausa, prendendo a solcare tutti i fianchi
della collina, aggirandosi senza preciso ordine: il fiuto non gli era d’aiuto,
perché la traccia di Andrea rimaneva leggera, e presente solo nei dintorni del
percorso che lui stesso aveva fatto, convinto che lei gli fosse dietro.
Infine, pressato dal non trovare
nessuna traccia di lei, si concentrò per recuperare tutta la lucidità di cui
era capace: cercò allora le tracce della ragazza. Con sua sorpresa, trovò
quello che si aspettava, quello che doveva essere la cosa più logica. In base
alle tracce degli scarponi, leggermente impresse nel terreno, Andrea era
arrivata proprio in cima alla collina dove lui si era fermato. Ma lì le
impronte di lei si interrompevano. Come se fosse semplicemente svanita nel
nulla.
Danny mantenne la ridda di
imprecazioni e la paura abbastanza a distanza da lasciare spazio per un nuovo
ragionamento sensato, al quale aggrapparsi come ultima risorsa: ammesso che in
qualche improbabile modo Andrea avesse proseguito lungo la strada che era stata
loro assegnata, avrebbe potuto incrociarla lungo uno degli altri punti che,
come Yuta e Zoal avevano
loro indicato quando si erano spartiti i percorsi tra gruppi, doveva fungere da
riferimento lungo la strada. Andrea aveva con sé una delle piantine con il
percorso segnato, perciò, ammesso che non si perdesse, poteva raggiungere il
punto di riferimento successivo: una piccola radura a pochi chilometri da dove
si trovava ora Danny.
Il ragazzo riprese a correre a
tutta velocità verso quella radura, cercando di ignorare il fatto che l’odore
di Andrea non era mai percettibile lungo la strada che stava facendo. Ma non
poté evitare che un sinistro pensiero strisciante gli si insediasse in testa.
Riguardava quello che aveva detto loro Zoal, poco
prima che finissero di stabilire i percorsi che avrebbero seguito…
*
***
*
«…E
quindi mi sembra che sia l’idea migliore.» terminò il discorso Justin, con
l’autoreferenziale fiducia di chi ritiene di aver presentato motivazioni di una
logicità talmente pragmatica e inattaccabile da poter convincere chiunque.
Nonostante ciò, Uther, che camminava davanti a lui di
buon passo, almeno a giudicare dal suo silenzio e dal suo atteggiamento,
sembrava averlo semplicemente ignorato.
Un principio di broncio si
delineò sul viso di Justin. «Hey, mi hai sentito?»
domandò. Di nuovo, non ricevette segno di risposta. Allora si bloccò lì dove si
trovava, incrociando le braccia sul petto, manifestando il deciso proposito di
uno sciopero del camminare. «Hey!» chiamò più forte.
Uther si fermò
qualche passo più avanti, e si voltò a malapena, guardandolo con atteggiamento
distante e abbastanza spazientito. Non disse nulla, si limitò a fissarlo.
«Allora? Non hai niente da dire,
a riguardo?» incalzò Justin, ostinato.
Uther sembrò
riflettere sull’opportunità di evitare di rispondere, ma poi disse «Prima di
tutto, non abbiamo una corda.»
«Ah…
non c’è problema.» Justin si sfilò lo zainetto da trekking che si portava in
spalla, lo appoggiò per terra e prese a frugare tra il termos di caffè caldo,
un paio di scaldamuscoli, un ricambio di maglia, una piccola busta con alcuni
oggetti per il pronto soccorso, e altri ammennicoli.
Uther si risistemò un
po’ meglio il fucile a tracolla, e gli si rivolse in tono duro. «Non credo che
tu abbia afferrato la situazione in cui ti trovi. Dobbiamo sbrigarci, e
arrivare il prima possibile dove… dove dobbiamo
arrivare. Forse abbiamo un cecchino sulle nostre tracce. E se non arriviamo di
buon orario, la nostra assenza farà concentrare maggiori problemi sugli altri.
Non te ne frega nulla se per le tue maledette stronzate gli altri finiranno nei
guai?» terminò, scandendo con tremolante residuo di pazienza, già ricca di una
sorda minaccia.
«Eccola!» esclamò Justin
vivacemente, tirando fuori un pezzo di corda da scalata lunga un paio di metri.
Guardò in viso Uther con soddisfazione, ma quando
realizzò l’astio con cui l’altro lo fissava sembrò che il senso delle parole
dette poco prima lo raggiungesse finalmente. «Mi rendo conto benissimo della
gravità della situazione.» replicò, con solenne serietà. «E ho intenzione di
fare di tutto per mettere in salvo il Conte. E tutti gli altri, sì. Proprio per
questo, sto cercando di farci arrivare laggiù indenni, in modo da poter fare
quel che dobbiamo. Se rimaniamo preda del bosco in qualche punto, non
arriveremo mai, e allora sarà anche peggio, no?»
L’espressione di Uther si scurì ulteriormente, se mai era possibile. «Justin…» affermò, con lenta e cristallina sicurezza «Non ci
legheremo in cordata.»
Justin apparve nuovamente deluso.
«Ma insomma… perché no? Se fossimo legati non ci perderemmo… no? E in base a quello che ha detto Zoal…»
«Sì, so quel che ha detto Zoal.» lo interruppe Uther, di
malumore. Mentre il viso gli si irrigidiva nella preoccupazione scontrosa,
ripensò anch’egli alle parole della donna.
“Io e Yuta
viviamo qui da circa due anni. E abbiamo avuto modo di accorgerci che… non tutto è chiaramente definibile sotto il sole, in
questi luoghi. Questi boschi sono antichi, e non sono mai stati sottoposti ad
intense attività umane, se non in qualche piccola zona relativamente
circoscritta. La maggior parte delle volte, alcune cose molto antiche che hanno
vissuto in queste foreste dormono. Ma certe volte…
alcune di esse sono sveglie. Perciò, raccomando a tutti e a ciascuno di stare
molto attenti. Potreste incappare in… qualche
‘manifestazione’ singolare… Non c’è motivo di
preoccuparsene seriamente; le nostre priorità sono altre, e non vorrei che le
mie parole ve ne distogliessero, perché abbiamo bisogno di essere molto
concentrati. Quel che voglio dire, però, è di non girare per i boschi come se
stesse facendo una passeggiata: non sentitevi troppo al sicuro, e mantenete alta
la guardia. Al massimo vi imbatterete in qualche inganno che vi potrebbe
disorientare per un po’: cercate di non dare troppo adito alle cose strane che
potreste vedere o sentire, specie se sono voci che vi chiamano per nome, o quel
genere di cose concepite di solito come trappole. Ora, non è mai accaduto nulla
di serio, qui. Ciò che vive da queste parti si limita a giocare, di solito. Al
massimo cercherà di farvi perdere nel bosco, o di farvi lo sgambetto per farvi
cadere per terra, o farvi apparire per illusione ottica qualche collina
decisamente spostata rispetto a come dovrebbe essere, o vi solleticherà con
voci suadenti o terrificanti. Voi, semplicemente, ignoratele. O, nel caso gli
scherzi si facciano troppo pesanti…”
«…per
non parlare del fatto che io ho paura sul serio…». La
voce piagnucolante di Justin sottrasse Uther al
ricordo. Si ritrovò a fissarlo, conscio e contento di non aver nemmeno sentito
il resto di ciò che aveva detto.
«Andiamo. Abbiamo già perso fin
troppo tempo.» gli disse, conciso. Si voltò e riprese a camminare.
«Non mi stai nemmeno dando
retta!» protestò Justin, rivolto alla schiena che si allontanava. «Allora… io non mi muovo di qui finché non mi dici
esattamente perché non pensi che legarsi in cordata per non perdersi non sia
una valida idea!». Ostentando un’aria da significativa risoluzione presa,
Justin incrociò le braccia strettamente, e rimase fermo dove si trovava, a gambe
un po’ larghe, per dare alla sua posa un che di definitivo.
Uther si fermò di
nuovo, e lo spiò da sopra una spalla per qualche lungo istante. «Va bene.»
risolse infine, e mentre il volto di Justin già si illuminava, aggiunse «Rimani
pure qui.»
Justin rimase quasi a bocca
aperta, attonito, guardando Uther che riprendeva a
camminare. «Non puoi farlo! Mi hai sentito?» gli gridò dietro, mentre l’altro
proseguiva imperterrito e indifferente, allontanandosi tra gli alberi e
iniziando a sparire gradualmente alla vista.
«Gli altri non te lo
perdoneranno! Danny ti chiederà come hai potuto lasciarmi qui da solo!» tentò,
con voce incrinata dall’isterica indignazione, Justin.
Come se avesse detto qualcosa di
terribilmente profano, Uther si immobilizzò e si
voltò in una sola mossa, animata da una rapidità furente; il suo sguardo gelido
e alterato trapassò Justin da parte a parte, facendogli considerare per la
prima volta come ci si sente a sentirsi sul punto di partecipare come vittima
ad un omicidio colposo.
«Che diavolo pensi di saperne tu di…?» sibilò Uther, come privo di
controllo. Ma di colpo tacque, mentre i suoi occhi si concentravano in un punto
particolare, e le pupille si allargavano un poco per la sorpresa.
«Justin…»
riprese, in tono completamente diverso, mentre ritornava indietro verso di lui,
con passi lenti e misurati, come se qualcosa lo sgomentasse.
L’interpellato, ancora spaventato
dall’improvvisa aggressività mostrata in precedenza da Uther,
iniziò a dire frettolosamente «Senti… d’accordo… capisco se, insomma, per qualche motivo non sei
d’accordo col piano della corda… quindi, facciamo che
rispetto la tua opinione, anche se non coincide con la mia…e…»
«Justin!» lo interruppe Uther con decisione «Dove cazzo sono andati a finire i tuoi
piedi?»
Il ragazzo rimase sbigottito per
qualche istante, infine, realizzando che effettivamente Uther
stava fissando già da parecchio appunto i suoi piedi con intenzione, abbassò lo
sguardo: e realizzò che i suoi piedi erano scomparsi. Non era proprio come se
fossero diventati invisibili. Ma in effetti le sue gambe terminavano
all’altezza delle caviglie, che poggiavano direttamente sul terreno, come se
semplicemente lui fosse nato così: senza piedi.
Dopo essere stato sul punto di
svenire, Justin eruppe in un grido seriamente preda del panico più totale,
agitò le braccia e perse l’equilibrio: ma non cadde. Tornando ad abbassare lo
sguardo a terra, riscontrò che ora anche le sue caviglie erano scomparse.
«Stai…
stai affondando…?» mormorò Uther,
più incuriosito che allarmato, anche se gli era chiara la potenziale gravità
della situazione.
Guidato da questa scelta dei
termini, Justin osservò meglio. In effetti non era solo la parte terminale
delle sue gambe che era scomparsa. All’appello mancava anche il fondo del suo
zainetto da trekking, che aveva lasciato appoggiato al terreno di fianco alle
sue scarpe. E a guardare ancora meglio, nonostante il buio si poteva notare che
il terreno aveva un aspetto insolitamente semi-liquido, e che si raggrinzava
intorno alle sue gambe e allo zaino: sforzando la vista, Justin riuscì a
distinguere persino qualche bollicina che scoppiava.
Mentre lui evinceva tutte queste
cose, Uther, chegià le aveva notate, cercava di stabilire fino a che punto il terreno
fosse affidabile sotto i suoi stessi piedi. Poco a poco, scrutando con
attenzione e saggiando la consistenza della terra con la punta della scarpa
prima di avvicinarsi di ogni singolo ulteriore passo, realizzò che intorno a
Justin si stendeva una pozza ampia alcuni metri di quelle che, contro ogni
logica possibile, sembravano sabbie mobili.
«Che succede? Cosa mi sta
succedendo?!» prese a strillare Justin.
«Sabbie mobili…
sabbie mobili?» mormorava assorto Uther, ignorando le
grida spaventate dell’altro. Presa una frasca, si chinò sul ciglio della pozza
dove il terreno era diventato di una consistenza non molto più resistente di
quella di una pappa d’avena: rimescolando un po’ la poltiglia fangosa con il
ramo, Uther si grattò pensosamente il mento. «Com’è
possibile che ci siano sabbie mobili, qui? Non è mica una giungla…»
«Hey! Uther! Aiutami, sto affogando!» urlò Justin, in preda alla
disperazione.
Uther rialzò
rapidamente lo sguardo dai suoi studi, realizzando che Justin era affondato
fino alle ginocchia, già. Dello zainetto era ancora visibile solo la sommità.
«Non preoccuparti. Anche se non
capisco come sia possibile che ci siano sabbie mobili da queste parti… non affogherai. Tutte le cosiddette sabbie mobili si
creano solo in pozzanghere di limitata profondità; quindi toccherai il fondo
molto prima di finire in apnea. Piuttosto… sarà dura
tirarti fuori da…» Uther si
interruppe nel bel mezzo delle sue tranquillizzazioni,
che peraltro sembravano non stare funzionando molto per Justin. A mozzargli le
parole in bocca era stato il fatto che, col fare pigro e tranquillo di chi
vuole eseguire una dimostrazione il cui risultato dà per scontato, aveva
provato ad immergere nella melma la frasca, in verticale: ed era affondata
completamente. Quella frasca era più precisamente un ramo caduto, lungo
all’incirca un metro e ottanta. Justin era alto al massimo, e a voler essere
generosi, un metro e sessantacinque.
Justin rimase un istante con gli
occhi concentrati sul punto dove era scomparso il ramo. Quindi prese a
dimenarsi e a gridare aiuto come un tarantolato.
«Che diamine…»
si stupì Uther, di fronte alla sparizione del ramo, e
aggiunse qualche imprecazione che meglio esplicitasse la sua sorpresa. Poi
tornò a dedicarsi a Justin. «Non agitarti, idiota! Più ti muovi più affondi in
fretta!»
Gli venne in mente qualcos’altro.
«La corda!» gridò a Justin, che ora spuntava al di sopra della fanghiglia solo
dal bacino in su. «Quella maledetta corda che hai in mano! Lanciamene un capo,
dannazione!» gli ordinò.
Justin si riebbe un momento dalla
sua disperazione, quel tanto che gli bastò per realizzare la sensatezza delle
parole di Uther, e il fatto che effettivamente aveva
ancora il piccolo rotolo di corda da arrampicata in mano. Con mosse impacciate
la svolse, prese la mira nervosamente, e lanciò un capo di corda verso Uther. La corda atterrò completamente distesa sul terreno
risucchiante, senza che Uther avesse potuto
raggiungerla con le mani.
Mentre Justin veniva stordito dal
panico, Uther scattò a strappare dai cespugli una
fraschetta, con la quale, tornato repentinamente sul bordo della pozza, riuscì
ad avvicinare il capo di corda prima che affondasse abbastanza da rimanere
incollato nel punto dove si trovava. Afferrata saldamente la corda, raccomandò
con decisione a Justin di stare immobile, e mantenere i muscoli rilassati, come
a peso morto. Quindi prese a tirare con tutte le sue forze.
Se si fosse trattato del gioco di
tiro alla fune, il risultato avrebbe potuto rimanere incerto per qualche
momento, e alla fine volgersi molto probabilmente in favore di Uther. Anche se era poco più alto di Justin, e se il loro
peso doveva essere all’incirca lo stesso, lui aveva infatti dalla sua una
muscolatura un po’ più esercitata agli sforzi. Ma Uther
non doveva spostare solo il peso di Justin: contro di lui c’era il potente
risucchio del fango che continuava a inghiottire il corpo del ragazzo,
centimetro dopo centimetro. Dopo diversi momenti, in cui Uther
tirò a lungo, impiegando tutta la sua forza, fino al punto di sentire braccia e
spalle e altri muscoli trasformati in un unico dolore, allentò la presa. La
scusa era quella di riprendere un attimo di riposo, prima di riprendere lo
sforzo; ma di fatto, era anche una resa: doveva ammettere a se stesso che non
poteva farcela. Era riuscito solo a spostare Justin nella melma, ma se anche
aveva potuto tirarlo verso la superficie di qualche millimetro, non appena
aveva allentato la presa il fango si era ripreso non solo tutti quei millimetri
di vantaggio, ma aveva guadagnato un’altra buona parte del corpo di Justin, che
ora sporgeva solo da metà del petto in su. Uther
ritrovò rispecchiato il suo fallimento nello sguardo ormai in preda alla pura
disperazione di chi sta morendo, negli occhi di Justin.
Riprese a tirare con tutte le sue
forze, senza far caso al fatto che il fango stava invece riuscendo a tirare
anche lui dentro la pozza; ignorò il sentore dei suoi piedi che, dovendo cedere
un poco in avanti, finivano dentro la melma, dove cominciavano ad affondare.
Semplicemente lo sforzo di tirare Justin divenne un tutt’uno col cercare di
tirarsi indietro. E continuò testardamente a fare forza sulla corda da
arrampicata, rendendosi vagamente conto, con ironia amarissima, che quella
corda che aveva tanto dileggiato era l’unica cosa che ora gli permetteva di non
rimanere semplicemente a guardare impotente mentre Justin affondava. La melma
aveva raggiunto la base del collo di Justin, che oramai, persa la voce a forza
di gridare, si limitava a piangere, lo sguardo appannato dalla consapevolezza
che stava per scomparire sotto la superficie che lo stava inghiottendo, e che
lo avrebbe annegato.
E fu allora che, mentre Uther già sapeva tra sé e sé che erano entrambi spacciati,
come un lampo a ciel sereno gli tornarono alla mente le ultime parole di Zoal.
‘…O,
nel caso gli scherzi si facciano troppo pesanti…allora dovete annullare il valore del loro
divertimento. In tal modo, se non riusciranno più a tenervi in scacco come
pedine dei loro giochi, si annoieranno e disinteresseranno di voi. Che
significa che vi lasceranno andare.’
Uther smise di
tirare. Quella specie di sabbie mobili gli avevano inghiottito le gambe fino a
metà polpaccio, e Justin, accortosi del cessare dei suoi sforzi, avevo lo
sguardo immenso di un vitello che cammina nel corridoio del macello verso il
coltello.
Uther sogghignò,
sinistramente, e infine, ingoiata saliva, iniziò lentamente a ridacchiare.
Justin, che aveva la melma che gli solleticava il mento, rendendogli ormai
impossibile praticamente muovere la testa, si riprese dallo stato catatonico
per il terrore, e lo fissò allibito.
«Ridi, Justin, ridi! È tutto
maledettamente divertente… sì, lo è! Ridi!» gli gridò
Uther, scoppiando a ridere come se fosse
completamente impazzito. Justin era incredulo. «Ridi!» urlò di nuovo Uther, imperiosamente, pure se ormai stava scrosciando in
una risata incontrollabile, che quasi lo faceva piegare in due. La corda che li
univa, allentata, era completamente affondata nella sua parte più centrale. E
Justin, in qualche modo preda della perentorietà delle parole di Uther, prese a ridere, prima pallidamente, poi urlando,
ridendo e piangendo insieme.
Uther continuò a
ridere, come se non si fosse accorto proprio di niente: ma le sue gambe,
affondate nel terreno molle dal ginocchio in giù, ora potevano muoversi, come
se la densità della trappola mortale stesse mutando, diventando più acquosa.
Allora, senza cessare nemmeno per un momento di scompisciarsi dalle risate, Uther riprese lentamente a tirare la corda. Ora era tutto
più cedevole: il corpo di Justin, che ugualmente continuava a ridere, isterico
dal terrore, si muoveva sempre più facilmente, assecondando la corda. Così Uther proseguì, ridendo e tirando senza alcuna fretta,
mentre lentamente usciva dalla pozza, sempre più brodosa, e Justin riemergeva
poco a poco, completamente coperto di melma frammentata di muschi e pezzetti
decomposti di legno e altri detriti di bosco.
Qualche minuto dopo giacevano
entrambi sdraiati sul terreno, compatto come doveva esserlo sempre: Uther tirava fiato, e Justin lo riprendeva, aspettando che
il terrore lo sciogliesse dal suo dominio, riprendendo confidenza con l’idea di
essere ancora vivo.
Uther si ritrovò a
fissare le fronde degli alberi, in alto sulle loro teste. Allora rise di nuovo,
stavolta più piano, e di cuore. «Stramaledetto bosco…
» mormorò, con tono di vittoriosa minaccia.
Justin si alzò a sedere,
guardando in direzione della pozza di sabbie mobili: solo che ora al suo posto
c’era niente più che una piccola pozzanghera di neve sciolta, nemmeno
abbastanza grande per contenerlo se vi ci si fosse sdraiato dentro.
«Hey…Uther?» disse, dopo un po’, in tono ancora debole e
provato.
«Mhm?»
fece solo l’altro.
«Dove pensi che sia finito il mio
zaino…?»
Uther rise di nuovo,
brevemente. Una risata roca e quasi gutturale. «Non me ne importa un accidenti
di niente.» rispose con aperta sincerità, gustandosi quell’affermazione con
piena soddisfazione.
Note per la
comprensione:
* la traduzione del titolo è
pressappoco: ‘Prendila alla leggera, se ne sei capace…’.
‘Take it easy’ dovrebbe essere sdrammatizzante, ma il
‘se ne sei capace’ è minaccioso. Questo riassume il doppio taglio di quello che
accade nel capitolo…
Soundtrack: Eez-Eh (Kasabian)
Note dello scribacchiatore:
Ebbene
sì, a lungo andare m’è parso ingiusto trattare Justin solo come un personaggio secondario.
Per questo gli ho dato questa splendida opportunità di mettere in luce la sua
personalità nello sfiorare la morte rapida e tragica. No, scherzi a parte… mi dispiace, ma certi personaggi in questa storia
verranno trattati talvolta … talvolta…?... in modo
tale che vi potrebbe far venire seriamente voglia di chiamare la protezione
animali, o qualcosa del genere. Non preoccupatevi però, ci penserà Uther (e qui potete interpretare come meglio vi pare).
E
tutto questo in realtà era per dire che, in qualche maniera, questa scena solo
Justin & Uther è stata divertente da scrivere.
Come possa esserlo, con uno che sta affogando nelle sabbie mobili, è un mistero
in effetti; si suppone che io abbia una notevole vena da boia di tanto in
tanto, e che, dopotutto, Justin come personaggio è l’equivalente per me del
sacco da boxe, sapete, quella specie di persone che alla terza parola che vi
dicono dopo dieci secondi che le avete incontrate per la prima volta vi fanno
venire l’irresistibile voglia di iniziare a scrocchiarvi le nocche…?
Beh, che ci volete fare… vi basti sapere che la reale
persona che ha ispirato questo personaggio è assai meno gradevole di Justin
(non ha assolutamente la verve comica involontaria che io ho dato al
personaggio!).
Comunque,
dev’essere tutto questo bosco di notte, in questa
zona e in questa storia, che mi mettono addosso del surrealismo, a meno che non
sia umidità… ma, sinceramente, avete davvero idea del
potenziale di surrealismo che c’ha la nebbia? No? Sul serio? Evidentemente non
avete mai visto una notte nelle campagne basso-emiliane (o ‘Amarcord’
di Fellini).
(sì,
quando ho scritto queste note ero particolarmente in vena di straparlare)
Il cielo buio e il silenzio del
bosco di notte, solo a tratti brevemente traforato da qualche fruscio prodotto
da animali che si muovevano furtivi, furono le uniche cose che Danny trovò ad attenderlo
quando, lievemente ansante per il nervosismo più che per la rapidissima corsa
costante che aveva mantenuto nell’ultima mezz’ora, uscì allo scoperto della
vegetazione; con passo quasi esitante, entrò nello spazio della piccola radura,
dispiegata nel chiarore lunare.
E già sapeva quello che avrebbe
visto: nessuno. Andrea non era lì. E, a giudicare dal fatto che il suo odore
non l’aveva sentito nemmeno di sfuggita per tutto il percorso, non era più da
nessuna parte.
Pestando ad ogni passo con profonda
rabbia l’erba semi-congelata e il terreno, quasi volesse vendicarsi su di esso,
strinse i pugni con forza micidiale, e digrignò i denti, mentre si guardava
intorno col fare di chi è in cerca di qualcosa o qualcuno da eliminare sul
momento.
Come percependo il suo stato
d’animo, una lepre spiccò di colpo la corsa, abbandonando il nascondiglio
costituito da un folto di cespuglio, che forse le era improvvisamenteparso insufficiente. Il ragazzo seguì con lo
sguardo la corsa con cui l’animale si diede alla precipitosa fuga disperata.
Per un lungo momento fu tentato di inseguirla, raggiungerla e spezzarle il
collo; ma si riscosse prima di farlo, scuotendo la testa un paio di volte, come
per recuperare la ragione.
In compenso, accettare il fatto
che Andrea forse non era semplicemente scomparsa, ma le era anche accaduto
qualcosa di brutto, era ancora troppo oltre le sue capacità.
Se qualcuno avesse potuto vederlo
in quel momento, con la luna che cavava dal suo sguardo tetramente rabbuiato
uno scintillio di furia ancora priva di obbiettivo, anche senza poter
indovinare su quali risorse Danny potesse contare avrebbe probabilmente provato
l’istintivo impulso di fuggire, seguendo l’accorto esempio della lepre. Ma la
piccola radura era del tutto deserta.
Alla fine, come se la cospicua
rabbia si fosse bruciata su se stessa fino a ridursi in cenere, Danny,
sentendosi svuotato, si chinò lì dove si trovava, appoggiando un ginocchio a
terra pesantemente, e scagliando un poderoso pugno sul terreno. Lì, a testa
bassa, cercò di raccogliere la pista di qualche pensiero ragionevole e
potenzialmente utile.
Per diversi minuti riesaminò i
fatti con la maggior freddezza obbiettiva che riuscì ad ottenere dal suo stato
alterato, ed iniziò faticosamente ad elaborare nuovi progetti d’azione,
vagliandoli uno per uno e mettendoli a confronto: poteva tornare indietro alla
collina, e da lì riprendere un più attento esame delle zone circostanti,
chiamandola per nome; tornare ad esaminare le tracce, più e più volte,
cercandovi qualche recondito senso compiuto; poteva tornare alla casa di Yuta e Zoal, seguendo la traccia
di lui e Andrea a ritroso, nel caso che lei fosse semplicemente tornata
indietro per qualche motivo; poteva…
In quella, qualcosa colpì il suo
fiuto come uno schiaffo ben calibrato. Danny riconobbe immediatamente l’odore,
e rialzò la testa di scatto: subito i suoi occhi si allargarono per lo stupore
incredulo. C’era una sagoma, ferma sul limitare della radura praticamente
opposto rispetto a quello a cui lui si trovava più vicino. Impiegò molto meno
di un briciolo di secondo per riconoscere alla perfezione le fattezze femminili
e piuttosto minute, i corti capelli bluette con il dred
che scendeva su una delle spalle appoggiandovisi, gli occhi di un morbido
nocciola, e tutto il resto che le era proprio.
Balzò in piedi, continuando a
guardare, come sospettoso di un miraggio. Ma l’odore confermava, così come
l’espressione sollevata e un po’ intimidita con cui lei lo stava guardando.
«Andrea…»
gli sfuggì dalle labbra, poco più di un mormorio. Lei sorrise, ma rimase ferma,
lì in piedi dove si trovava. Solo allora lui notò che si teneva stretto un
braccio, e che nella sua espressione c’era un accenno di smorfia dolorosa.
Immediatamente corse verso di
lei: doveva essere ferita. Ma la cosa più importante in assoluto, ora, era che
lei non era più scomparsa, ma lì davanti a lui. A capire come e cosa era
successo ci avrebbe pensato in un molto successivo momento.
L’aveva quasi raggiunta, quando
la sua impazienza di poterla anche toccare, come per accertarsi della sua
tangibilità e del fatto che stesse abbastanza bene, fu spezzata di netto da un
forte grido.
«Non ti avvicinare a lei!» gridò
una voce, che, con suo immenso stupore, gli suonò sin troppo familiare. Si
bloccò lì dove si trovava, e voltò rapidamente lo sguardo nella direzione da
cui era provenuto l’urlo. C’era una sola cosa che in quel momento poteva
distoglierlo dal sincerarsi che Andrea stesse bene. E quella cosa era la
proprietaria della voce che aveva gridato.
Danny individuò quasi immediatamente
la fonte della voce. E la sua razionalità vacillò prepotentemente.
Andrea era ferma sul limitare
della radura, con capelli bluette, occhi nocciola, abiti troppo larghi, e un
braccio tenuto stretto come se le dolesse. Era indubbiamente lei, persino
nell’odore, e nella voce con cui aveva gridato. Ma il problema, essenzialmente,
era che c’erano due Andrea.
Danny esitò solo un momento, poi
tornò a guardare la prima Andrea comparsa: anche lei stava fissando con
incredulità la seconda versione di se stessa, poi iniziò a spostare lo sguardo
tra lui e la sua copia, come se cercasse spiegazioni che non trovava.
Il ragazzo fece qualche passo
indietro, istintivamente: certamente, qualcosa non andava bene.
Quell’Andrea comparsa per prima
considerò con stupore quel gesto, e un misto di timore e senso di tradimento le
comparve in volto. «Ascolta! Dev’essere una specie di… un qualcosa… un demone, non
so. Mi ha preso, prima. Credevo di essergli sfuggita ma…
Ha preso le mie sembianze…»
«Questo è vero!» affermò Andrea,
solo che ora era l’altra a parlare, verso la quale Danny si girò, in ascolto
«Ma è lei il demone! Non farti ingannare… usa il
fiuto! Non può avere imitato anche il mio odore…»
Danny lo stava già facendo da
parecchio il controllo incrociato: odore, voce, aspetto…
e ancora non aveva trovato niente. «Temo che invece ci sia riuscita molto bene…» ammise in tono cupo, spostando lo sguardo dall’una
all’altra, rivolgendosi a nessuna delle due in particolare e allo stesso tempo
ad entrambe.
«Zoal
lo aveva detto che questo posto è infestato… o
qualcosa del genere… » mormorò la prima Andrea
comparsa. Il suo tono usciva come affaticato, e Danny notò che si stringeva il
braccio più forte di colpo, come colta da uno spasmo.
Danny ebbe l’impulso di avvicinarlesi subito, ma la seconda Andrea gli gridò. «Non
avvicinarti! Non sono io quella… ti potrebbe far del male… oh, dannazione… » terminò,
imprecando.
Il ragazzo aggrottò la fronte, e
domandò con circospezione «La ferita… è grave?».
Ancora, si rivolgeva ad entrambe e a nessuna in specifico; in ogni caso,
sembravano entrambe soffrire per il braccio.
«No, non tanto, è solo una brutta
botta.» rispose con un sorriso tranquillizzante la prima Andrea comparsa,
sorridendogli appena.
«Hey,
stronza, sei tu che me l’hai fatta!» imprecò la seconda Andrea, con
irritazione.
La prima Andrea si stupì, e si
voltò verso l’altra con sguardo fulminante. «E’ inutile che tenti di depistarlo… cosa credi? Danny è molto più in gamba di quel
che non sembra.»
Le labbra del ragazzo si
piegarono in un accenno di imbarazzo per quell’osservazione, ma tra sé e sé
maledisse quella frase, perché aveva rivelato il suo nome: semmai era possibile
che la falsa Andrea non lo conoscesse, ora quell’appiglio era andato perduto.
Intanto, continuava a confrontare attentamente le due, col proposito di
distinguere l’originale dall’altra. Fino a che, finalmente, un’idea lo colse.
«Per quel che ne so… potreste anche essere entrambe delle copie… » disse con serietà. Si ritrovò puntati addosso di
colpo lo sguardo colpito di due paia di quegli occhi nocciola, che di solito
gli facevano un certo effetto, ma che in quel frangente, per fortuna, avevano
molto diminuito il loro ascendente su di lui, per via del fatto che erano in
duplice copia.
«Danny, senti…
» disse la seconda Andrea che era comparsa, facendosi improvvisamente molto
seria. «So che puoi riconoscermi…»
Lui rivolse ad entrambe un
sorriso il più distaccato possibile. «Esclusa tu, Andrea…
se sei veramente qui… » mormorò con chiarezza, senza
fissare nessuna delle due «Per voi altri, sappiate che se le avete fatto del
male, ve ne pentirete seriamente…». Se già il suo
tono non fosse suonato abbastanza degno di fiducia, a rendere più fondato il
senso delle parole vi fu il suo gesto: con calma spostò una mano, portandosela
alla cintola. Estrasse con lente mosse precise quella delle sue due pistole che
era in grado di sparare proiettili “modificati” appositamente dall’impegno
incrociato di Kumals, Uther
e Zoal.
Osservando quel gesto, sul viso
dell’Andrea comparsa per prima apparve un lento sorriso di sollievo. «Mi hai riconosciuta…quindi… » gli
disse, con calore.
Danny non le rivolse alcuna
attenzione, come se non l’avesse udita affatto. Sembrava esclusivamente
concentrato nei movimenti delle dita, con cui aprì il caricatore della pistola,
scelse accuratamente una tipologia dei proiettili, ordinatamente infilati nelle
fasce che portava legate in vita, e iniziò ad infilarli uno alla volta nella
pistola, come se avesse a sua disposizione tutto il tempo del mondo.
«Danny…
» mormorò la seconda Andrea, con tono intimorito; suonò come un richiamo
pacato, quasi privo di speranza.
Il ragazzo rialzò gli occhi, il
braccio scattò di getto, chiudendo il caricatore ed alzando la pistola in una
mira precisa nello stesso movimento fluido eppure rapidissimo; sembrò tutto
contemporaneo al rumore dello sparo che squarciò brutalmente il silenzio
notturno.
Gettata indietro dal colpo, la
seconda Andrea che era comparsa sbatté duramente contro un tronco alle sue
spalle, e si afflosciò strisciando sulla corteccia, la testa abbandonata col
mento contro il petto, e il viso in tal modo praticamente celato.
La prima Andrea che era comparsa,
che aveva sussultato ed era rimasta paralizzata dall’immediatezza dello
svolgersi dell’azione decisiva del ragazzo, sembrò riprendersi abbastanza in
fretta. Danny aveva riabbassato il braccio armato, e ora le rivolgeva un
sorriso tranquillo. La ragazza gli si appressò a lenti passi, guardandolo in
volto con uno sguardo colmo di fiducia, che lo colpì profondamente.
Quando lei gli fu davanti,
concentrò gli occhi sul suo braccio, e la sua espressione tornò a farsi grave.
«Ti fa male?» le domandò.
Andrea diede una leggera alzata
di spalle. «Tutto a posto… Te l’ho detto: è solo una
botta.»
Poi lo guardò meglio, piegando
leggermente la testa di lato, con un’aria interessata, come di chi ha trovato
qualcosa che era sicuro ci fosse. «Sapevo che mi avresti riconosciuto…»
mormorò.
Danny sorrise come se tutta la
tensione, finalmente, gli fosse scivolata via di dosso. Allungò il braccio con
cui non impugnava la pistola verso di lei, le cinse le spalle e la attrasse
contro di sé, abbracciandola strettamente.
«Credevo di averti perso…» le mormorò.
Andrea sorrise, il viso affondato
contro il suo petto, lasciandosi stringere. «Non avresti mai potuto.»
«Ero persino quasi arrabbiato con
te… Non so, pensavo che in qualche modo era come se
avessi voluto sparire.»
Andrea alzò il volto verso il
suo, piuttosto stupita. «In che senso?»
«Beh…
mah, no, niente. Lascia stare… » si corresse Danny,
con un’aria imbarazzata. «In ogni caso, ormai il peggio è passato.»
«Sì…»
fu d’accordo lei, e si sporse per baciarlo.
Le loro labbra si erano quasi
congiunte, quando all’improvviso Danny parlò di nuovo. «Adesso non esageriamo…» disse, con calma. Ma qualcosa nel suo tono
provocò nella ragazza uno stupito tremito di disappunto. Riaprì gli occhi, che
aveva socchiuso, e lo guardò.
«Cosa…?»
domandò, senza capire.
Sulla faccia di Danny comparve,
con esasperante lentezza, un sorriso sempre più inquietante. «Devo riconoscerlo… » disse «Sei brava. Ma non abbastanza.»
Andrea spalancò gli occhi, e
nello stesso tempo, mentre comprendeva il senso di quelle parole, si rese conto
che tra di loro c’era l’inequivocabile intromissione della pistola che Danny
ancora impugnava; ed era rivolta verso la sua pancia. Era stato troppo rapido,
e aveva appena finito di parlare che già partiva il colpo, trapassandola,
mentre in un tutt’uno di disperata urgenza la ragazza si strattonava via dal
suo abbraccio e si allontanava di qualche passo.
Danny mantenne il braccio piegato
e la pistola puntata su di lei, come incerto se sparare ancora. Guardò la
ragazza che, tenendosi le mani premute contro l’ampia ferita che lo sparo le
aveva aperto nella pancia, osservava prima il sangue che ne sgorgava
abbondante, macchiandole i vestiti e iniziando a colare giù verso terra, poi
lui. Lo fissò, col viso che era il dipinto di uno stupore amaro, profondo,
tradito e accusatore, ma prima di tutto ferito e orrorificato.
«Danny…
?» gli mormorò, con voce debole. «Che cosa hai fatto…?»
Il ragazzo le rivolse uno sguardo
duro e spietato. «Puoi anche smetterla di fare la commedia, ora.»
Per qualche momento Andrea rimase
a fissarlo, semplicemente sconvolta. Poi, mentre l’espressione rigida di Danny
non mutava di un millimetro, la sua divenne sempre meno colma di dolore; come
se tutti i sentimenti le scivolassero via di dosso lentamente, colando via
insieme al sangue che sgorgava dall’ampia ferita mortale, sul suo viso comparve
gradualmente qualcosa di diverso. Andrea sorrise, in principio, e gli occhi
nocciola cangiarono in astiosa ma divertita astuzia. Infine, scoppiò proprio a
ridere di gusto, o perlomeno emise un suono che assomigliava molto ad una
malsana risata.
Danny non si mosse, né disse
nulla, mentre lei rideva sempre più forte. Persino le pupille di lui si
muovevano solo molto lentamente, mentre rilevava, con nessuna apparente
sorpresa, che il sangue che scorreva dalla ferita che le aveva appena inferto
iniziava a diminuire, così come le sue membra andavano staccandosi dalla
contrazione dolorosa, per distendersi in una rilassatezza tronfia, finendo per
essere solo appena scosse dalle risate della sua proprietaria.
Quando finalmente finì di ridere,
Andrea lo guardò con nuovo interesse, e un ghigno ben poco promettente.
«Dopotutto non sei così male in arnese, lupacchiotto.» osservò.
«Me la cavo.» disse Danny, senza
tradire alcuna espressione, a parte un accenno di sorriso freddamente sicuro di
sé, che gli riuscì passabilmente.
«Bene bene bene…»
risolse quella che aveva le sembianze di Andrea, rizzandosi in tutta la modesta
altezza di cui disponeva, e appoggiandosi le mani a palmo aperto sui lombi,
dando l’impressione di ritenerla una posa di rilassata sicurezza. «Così te ne
sei accorto. Sono il meglio del meglio nel mio campo, e tu te ne sei accorto.
Potresti almeno fingere che sia stato un poco difficile, no? Oh, ma non credere
che sia stupida. Sono certa che ha funzionato, perlomeno per buona parte della
nostra conversazione.»
Danny si limitava a fissarla,
tacendo, come se semplicemente stesse aspettando che gli eventi proseguissero,
e a lui non fosse necessario preoccuparsene più di quanto uno spettatore non si
preoccupi di cosa avviene sullo schermo del cinema. Ma notando la rigidezza del
suo corpo, il fatto che teneva ancora la pistola puntata, e la preoccupazione a
stento celata nei suoi occhi, si sarebbe potuto capire che la faccenda gli
stava molto più a cuore di quanto non cercasse di far credere.
Piuttosto delusa dalla mancanza
di coinvolgimento che il ragazzo insisteva a mostrare, la creatura dalle
sembianze di Andrea domandò più direttamente «Allora? Avanti, come te ne sei
accorto?»
Di nuovo, Danny si rifiutò di
rispondere, e di dare qualsiasi altro segno di voler interagire.
Quella che sembrava Andrea in
tutto e per tutto sbuffò. «D’accordo. Proverò a indovinare. Non è che per caso
sei andato per esclusione… ?» gli chiese, sibillina
«Perché ho notato che hai sparato anche alla tua amata…
o forse non l’amavi così tanto, dopotutto eh?». E rise, grossolanamente e
apertamente, piegandosi leggermente all’indietro per meglio godersi il suo
divertimento.
Ma quando tornò a fissare Danny,
si rese conto che ora anche lui sembrava piuttosto divertito, almeno a
giudicare dallo sguardo con cui la considerava ora; i suoi occhi si erano come
affilati, e facevano rabbrividire. «Sempre che io abbia usato lo stesso tipo di
proiettili…» mormorò semplicemente.
Un pungente dubbio si insinuò
nella creatura, che subito riabbassò lo sguardo sulla ferita. Dal momento che
era indenne alle comuni ferite da proiettili, l’essere stata presa in pieno non
l’aveva preoccupata nemmeno per un momento. Ma qualcosa nella sicurezza del
ragazzo, e specialmente nel tono che aveva appena usato, le aveva dato l’impellente
bisogno di guardare il punto dove era stata colpita. E così vide che il buco
della ferita era anomalamente ampio: poteva passarci
attraverso il pugno di una mano molto grande. Era decisamente molto più ampio
di prima. Come se non bastasse, dai bordi esalava un leggero fumigare
biancastro, come se stessero bruciando i contorni di un buco aperto con una
sigaretta accesa in una foglia. Solo che era il corpo del demone che stava
iniziando a bruciare.
La creatura spalancò gli occhi
per la sorpresa, e quindi rialzò lo sguardo, pregna di una collera assassina.
Ma non trovò più Danny là dove era un momento prima. Il ragazzo stava correndo,
ad una velocità decisamente superiore a quella possibile per un essere umano.
Si era lanciato nella direzione in cui giaceva la ragazza originale, che ora,
come constatarono gli occhi del demone, si stava cercando di rimettere in piedi
faticosamente, illesa.
La falsa Andrea iniziava a
sentire la ferita bruciare, ad un intensità che cresceva a spaventevole ritmo,
e il buco al centro della pancia andava allargandosi rapidamente. Accecata dal
furore, si lanciò all’inseguimento del ragazzo, determinata ad eliminarlo in
una volta sola, senza perdere tempo in qualsivoglia maniera; un potente ruggito
disumano di pura collera emerse dalla sua gola.
Udendo quel suono, Andrea, che
era appena riuscita a rialzarsi in piedi, appoggiandosi pesantemente al tronco
contro cui il colpo di pistola l’aveva sbattuta, alzò lo sguardo con terrore:
la scena che le si presentò la lasciò senza fiato, e quasi le fece perdere un
battito al cuore. Danny correva verso di lei, e le sue ampie falcate l’avevano
quasi raggiunta. Dietro di lui solo di pochissimi metri, una massa confusa che
sembrava il corpo deformato di un mostro semi-umanoide si stendeva come
un’ombra scura e altissima su gran parte della radura; la parte più avanzata,
costituita da una specie di faccia dall’immensa bocca spalancata come in urlo
di Munch provvisto di zanne enormi, così come gli
artigli affilati che munivano le dita di un abbozzo di mani dilatate in
lunghezza, avevano quasi raggiunto le spalle e il collo scoperto di Danny.
Andrea gridò, con l’intenzione di
avvertire Danny, e la paura le impedì di articolare meglio le sue intenzioni,
ma un istante dopo, mentre ancora finiva l’urlo, il ragazzo le precipitò
addosso di slancio, senza aver nemmeno rallentato. Entrambi finirono a terra,
strisciando, e Andrea percepì a stento che, in una mossa agile e fulminea, lui
le aveva circondato il corpo con braccia e testa in modo tale da evitarle il
più possibile le contusioni con il terreno; allo stesso tempo, si era
decisamente frapposto fra lei e la creatura mostruosa che stava ricadendo su di
loro. Come avvoltala in un accenno di bozzolo protettivo costituito dal suo
stesso corpo, Danny le affondò il viso nei capelli, stringendola con forza, e
serrando prepotentemente gli occhi.
Nessuno dei due vide pertanto
quella che sembrava un’ombra immensa e tangibile calare su di loro; né poterono
accorgersi che, nonostante l’aspetto orribile del tutto, quell’ombra andava
anche bruciando come se fosse in preda ad una specie di autocombustione priva
di fiamma. E forse fu una fortuna che né Andrea né Danny potessero assistere al
come, proprio pochi centimetri prima di raggiungere con gli artigli o i denti i
loro corpi disperatamente avvinghiati, la massa scura della creatura sfumò,
bruciò, si accartocciò e si sfrangiò come gli ultimi brandelli carbonizzati di
carta buttata nel fuoco; e, così, disapparve nel
nulla.
Note
dello scribacchiatore: lo ammetto, è un
periodaccio e faccio una fatica del diavolo a trovare tempo anche solo di
rivedere i capitoli un’ultima volta come si deve prima di metterli online.
Questo dovrebbe essere a posto, a parte qualche svista. A dirla tutta certe
parti non mi soddisfano a livello di descrizione dinamica delle scene, ma visto
come son messo ho perduto le speranze di trovare il tempo di riscriverlo come
si deve. Gli altri capitoli a venire mi danno meno ripensamenti in generale su
come sono scritti, quindi, se tutto va bene, il prossimo esce regolarmente tra
5-7 giorni. Bye bye.
Passarono diversi minuti,
lentissimi. Poi, poco a poco, Danny allentò leggermente l’abbraccio intorno ad
Andrea, rilassò un po’ i muscoli, ed infine emise un leggero ma sincero
sospiro. Andrea aprì uno spillo di fessura in una palpebra, e traverso quella
spiò molto cautamente ciò che la circondava.
Non si sentiva più alcun rumore,
ruggito o altro; nessuna ombra scura o mostruosa in vista; e, specialmente,
niente che stesse per precipitare su di loro con propositi tutt’altro che
positivi.
La ragazza si azzardò ad aprire
un po’ di più gli occhi, ma già si stava rilassando anche lei, seppure non la
abbandonasse la sensazione che le cose si fossero risolte un po’ troppo
facilmente. Guardò Danny, gli occhi ancora chiusi, e un sorriso distratto sul
volto, come se dormisse e stesse facendo un sogno pieno di serenità. Vedere
questo la indusse, suo malgrado, ad assecondare maggiormente il senso di
rilassatezza che andava avvolgendola gentilmente; senza che quasi se ne
accorgesse sulle sue labbra spuntò un piccolo sorriso calmo. Allungò una mano e
gli accarezzò il volto, con gesto quasi inconsapevole.
«E’… tutto finito?» gli domandò,
senza fretta.
Danny sorrise un poco di più,
senza aprire gli occhi, come se si trattenesse nel cullarsi in quello che gli
suggerivano gli altri sensi. «Sì.» mormorò.
Un braccio del ragazzo si staccò
dal fianco di lei, e le sue dita andarono a toccare leggermente il punto, tra
la spalla e il collo, in cui l’aveva colpita il proiettile che le aveva
sparato. «Scusami…» mormorò.
Andrea annuì, benché lui avesse
ancora gli occhi chiusi. «Accidenti a te… » disse,
con tono affettuoso che solo a fatica riusciva ad avere anche un che di
rimproverante «Per un attimo ho davvero creduto che mi stessi ammazzando… »
Danny aprì un poco gli occhi, con
fare quasi pigro, e la guardò, come a volerle dedicare maggiore attenzione.
«Che razza di proiettile è? »
continuò Andrea, aprendo una mano che teneva chiusa a pugno, e mostrandogli il
proiettile in questione, racchiuso in una cartuccia azzurrina, o meglio, quel
che ne rimaneva dopo che era esploso nell’essere sparato. «Fa parecchio male
per essere una specie di trucco. Inoltre, ho dato una zuccata tremenda contro
quell’albero.»
«Sì… ho
visto. Confesso che non ci avevo pensato, che saresti finita contro l’albero.
Ho agito in fretta… Dovevo farle credere che ci fossi
cascato. Se avessi tentato di colpirla così, mentre era in allerta,
probabilmente non l’avrei presa. Per non parlare del fatto che avrebbe potuto
scagliarsi su di te…» disse Danny.
Andrea annuì. «Sì, l’avevo capito…» lo tranquillizzò. «L’ho capito quando mi sono
ripresa dalla botta e ho notato che il proiettile non mi aveva fatto niente più
che un colpo e una finta macchia di sangue addosso.» aggiunse, passandosi le
dita sulla macchia in questione, color rosso cupo, che le lordava la giacca nel
punto in cui era arrivato il proiettile. «Ma… a cosa
diavolo vi servono questi proiettili?»
Andrea non si aspettava che
quella domanda mettesse così in difficoltà il ragazzo; Danny sembrò colpito,
quindi si sforzò di impedire ad un certo imbarazzo di colorirgli troppo il
viso, anche se non riuscì a nascondere un certo senso di colpa. E lei capì che
prima aveva cercato di far cadere l’argomento.
«Hem…beh… vedi, praticamente… In
determinate situazioni… poteva essere utile far
credere di aver colpito qualcuno, quando in realtà non lo si era colpito davvero… » disse Danny, con più che evidente vaghezza.
Andrea inarcò un sopracciglio
pensosamente. «E’ un trucco che usavate per ingannare i clienti?» domandò, con
aperta chiarezza.
Danny la guardòcome se si sentisse per un momento vittima di
una sorta di maleducazione; poi, poco a poco, dopo aver viaggiato dall’offesa
al far finta di niente, la sua espressione si fece corrucciata, smascherando il
suo ritenere di essere stato colto in fallo. Distolse lo sguardo da lei per
rivolgerlo in nessun punto in particolare. «Qualcosa del genere…»
ammise, mettendo su il broncio.
Andrea cercò invano di trattenere
un sorrisetto divertito. «Siete davvero degli imbroglioni, vero?»
Danny, giacché nel frattempo si
erano alzati a sedere, tornò a girarsi verso di lei di scatto. «Hey, qualche volta c’era davvero del paranormale. E, per
dirla tutta, è proprio questo il punto. Non tutte le creature…hum… ‘non comuni’ sono così pericolose o crudeli;
anzi, ce ne sono alcune piuttosto simpatiche. A volte facevamo loro dei favori,
tipo avvertirle prima del nostro arrivo, o che la casa che stavano infestando
stava per essere tirata giù per costruirci altro lì…
Insomma, ci sono state tante situazioni, e abbiamo avuto un sacco di rapporti
diversi con queste… beh, sorte di ‘creature’. Così, a
volte, quando le chiamate scarseggiavano e noi avevamo bisogno di un po’ di denaro…quindi… come dire… poteva capitare che chiedessimo a qualcuna di loro,
che ci doveva un favore, di fare un po’ di scena, qualche comparsa ad effetto,
e poi noi intervenivamo fingendo tipo di ammazzarle o farle scomparire…
e così ci davano qualche compenso.»
Andrea lo guardava ancora con
intenzione, una specie di miscuglio tra il rimprovero divertito e la curiosità
sorpresa.
Danny distolse di nuovo lo
sguardo, sentendosi vagamente in colpa. «Dopotutto non si è mai fatto male nessuno… » borbottò.
Andrea si ritrovò a sorridere di
nuovo, comprensiva. «In un certo senso, stavolta sembra che i ruoli si siano invertiti.»
e, quando Danny la guardò senza capire, specificò «Stavolta è stato l’’umano’
della faccenda a dover far finta di essere stato steso, e la creatura
soprannaturale ad essere fregata.»
Danny espirò lungamente, come se
solo ora realizzasse completamente che, sì, in effetti l’avevano scampata
bella. «Accidenti, per un momento ho pensato che non ce l’avremmo fatta…».
Si pentì subito di quelle parole,
quando vide Andrea quasi strabuzzare gli occhi.
«Vuoi dire che…
nonostante tutte quelle arie che ti sei dato davanti a quel demone…
non avevi la situazione completamente sotto controllo?!» gli domandò, alzando
la voce in un acuto involontario.
Danny si corrucciò nuovamente.
«E’ un po’ difficile avere la situazione sotto controllo quando il tuo piano
prevede di far fuori un demone mentre lo stai abbracciando e fingendo di avervi
riconosciuto la propria… » e qui il ragazzo esitò, fu
preso da un singolare imbarazzo, cercò le parole, e infine vi rinunciò,
terminando con un frettoloso «Non ti pare?»
Andrea, apparentemente lasciando
perdere il suo momento di difficoltà, insisté caparbia. «Ma perché non le hai
sparato più colpi, tanto per cominciare?»
«Sai com’è, ero piuttosto
impegnato a darmela a gambe… Una volta che si era
accorta di essere stata colpita da un proiettile speciale, modificato apposta
per demoni e affini, era abbastanza inutile provare a continuare a colpirla. Mi
avrebbe staccato la pistola con tutto il braccio molto prima che riuscissi a
premere il grilletto. Onestamente, hai idea di quanto possano essere veloci?»
«Vuoi dire che ne avevi già visto
uno così prima d’ora?» si stupì Andrea, dimenticando per un momento di essere
irritata.
«Ma sì, ma sì…
il trucchetto di prendere le sembianze di qualcuno
che si conosce è vecchio come il mondo tra i demoni…
Anzi, alcuni lo considerano piuttosto patetico, perché denota scarsità
d’immaginazione, mi spiego?» riassunse Danny, con nonchalance. «Comunque, se tu
non ti fossi fatta rapire…?»
Andrea trasecolò. «Ah, certo!
Scusami tanto se non ho potuto evitare che quella ‘cosa’ mi depistasse con una
specie di illusione e mi facesse cadere dritta dritta
nelle sue braccia per poi tenermi in ostaggio…»
«D’accordo, non volevo proprio dire…»
«Sarà meglio!» puntualizzò
Andrea.
Danny le rivolse uno sguardo di
sbieco, con cautela. Nonostante stesse mostrando una tenace arrabbiatura,
Andrea appariva piuttosto provata. Per questo le si rivolse recuperando
prontamente e automaticamente un tono più disponibile e serio. «Come sono
andate esattamente le cose…?»
Andrea sembrò considerare se
rispondere o meno, e se mantenere in vigoroso stato la sua aria offesa; infine,
prese fiato lentamente, e si rilassò un poco. Era troppo stanca per continuare
a sostenere un battibecco così vivacemente campato sul nulla o quasi.
«Ero convinta di stare seguendo te… quando è calata una specie di nebbia…
ti vedevo a malapena, anche se ero sì e no due passi dietro di te. Poi, per
qualche momento sei addirittura scomparso, così sono corsa in avanti
chiamandoti, per dirti di fermarti e chiederti cos’era tutta quella nebbia; ti
sono finita praticamente a sbattere addosso. Ma quando ti sei girato… avevi uno sguardo strano…
e ho capito che non eri tu, anche se quando ho sentito cosa diceva è stato
chiaro. Si è rallegrata di avermi preso così facilmente, l’ha definito ‘un
giochetto facile facile’… Dopodiché mi ha buttato per
terra con forza, e per qualche motivo che non so ho perso i sensi. Mi sentivo
terribilmente idiota. E credevo avesse fatto qualcosa anche a te. Quando sono
rinvenuta, ero qui vicino, a terra, e ho sentito la tua voce…
e la “mia” anche! Così ho capito che, come poteva prendere le tue sembianze,
poteva prendere anche le mie. Ma non ho capito perché mi abbia lasciato lì così… libera di intervenire. Sarebbe stato più sensato che
si liberasse di me, anche solo lasciandomi là dove mi aveva preso, per poterti
ingannare meglio… No?»
Danny sorrise appena, amaramente.
«Credo volesse giocare con noi, o qualcosa del genere. Probabilmente non voleva
davvero eliminarci, cioè, non subito… Prima voleva
mandarci in confusione, spaventarci, e roba del genere. Bah. Sai com’è, certe
creature sono schifosamente crudeli, in modo morboso pure; come certi esseri
umani insomma.»
Andrea studiò per qualche momento
l’espressione del ragazzo. «Le hai sparato una sola volta perché volevi vedere
se bastava a metterla in fuga… vero?» gli chiese,
senza troppo nascondere l’acutezza dell’intuizione.
Danny le puntò addosso lo sguardo
con intensità, serio. «Non proprio. Ero quasi sicuro che un solo proiettile
sarebbe stato sufficiente per stenderla… Ma non si
può essere sempre sicuri di quale effetto abbiano… Ci
sono molte più tipologie di demoni che di insetti, forse, addirittura. Questi proiettili… e le polveri che contengono…
sono state elaborate da Zoal, Kumals
ed Uther sulla base delle tipologie di creature
soprannaturali che abbiamo incontrato, e a volte contiamo che possano avere un
effetto simile su quelle che ancora non abbiamo incontrato ma che assomigliano
abbastanza a quelle già “classificate”.» le spiegò.
Andrea annuì, dando l’impressione
di aver ascoltato con impegno. Danny tornò a concentrarsi sul corpo di lei.
«Come vanno il braccio e la spalla…?»
La ragazza provò a muovere un po’
l’arto, lentamente e con circospezione, ma a parte qualche smorfia di dolore
trovò il modo di dire con sicurezza «Abbastanza bene. Niente di grave… Anche se ho la sensazione di essermi procurata due
lividi enormi.»
Danny si sentì enormemente
sollevato, come se ora potesse guardare a qualsiasi cosa con pieno ottimismo; e
lei, occhieggiando la sua espressione, se ne accorse. Stava per sporgersi ad
abbracciarlo, quando il ragazzo si alzò in piedi, esclamando «Ah! Quasi dimenticavo!»
«Cosa…?»
domandò lei, mentre Danny ritornava fuori dal coperto degli alberi, nella
radura. Mentre camminava aveva riaperto il caricatore della sua pistola
appositamente modificata, e vi stava inserendo un proiettile accuratamente
scelto dalla sua scorta. Andrea lo seguì, incuriosita, finché lui non si fermò
e punto il braccio verso l’alto, mirando al cielo; quando premette il
grilletto, il proiettile balzò verso l’alto con spinta eccezionale, lasciandosi
persino dietro un accenno di traccia di fumo. Si alzò di diverse decine di
metri, ed esplose a mezz’aria, gettando un’intensa luce color blu tutt’intorno:
certamente era stato visibile per diverse miglia.
Danny riabbassò il braccio, con
aria pragmaticamente soddisfatta.
«Credevo che dovessimo cercare di
farci notare il meno possibile…» notò Andrea,
dubbiosa.
«Già. Ma ormai ho dovuto
esplodere ben due colpi di pistola, prima. Se il nostro “angelo custode”, come
lo chiama Kumals, non è un completo idiota deve aver
già individuato la nostra posizione. Questo potrebbe essere un bene. Nel mentre
che si sforza di raggiungere questo punto, noi saremo già lontani…»
disse Danny, con una sicurezza che incuriosì Andrea.
«Significa che dobbiamo metterci
in marcia subito…?» gli chiese.
Danny la fissò con un’espressione
particolarmente esitante e dubbiosa. «Avevo pensato che…
con tutta questa storia abbiamo accumulato un certo ritardo…
potremmo proseguire… in un altro modo…
più veloce… »
«Ovvero?» chiese Andrea
direttamente.
«Beh, hum…
è solo un’ipotesi ma… » Danny la stava considerando
da capo a piedi, come se le stesse prendendo le misure. Si portò una mano
dietro la nuca, e si grattò un po’ il collo, pensieroso e abbastanza nervoso.
«Quanto pesi?»
*
***
*
Un colpo d’arma da fuoco risuonò
nella foresta, attutito dalla distanza di diversi chilometri.
Valentine, Ramo e Yuta si fermarono, girandosi istintivamente nella direzione
da cui proveniva; Duca rizzò le orecchiette pendule e si irrigidì come se fosse
diventato un cane impagliato, concentrato, con massima attenzione quasi
spasmodica.
Per diversi secondi, mentre l’eco
dello sparo si perdeva tra le colline, rimasero congelati in quella posizione.
Infine, si ritrovarono a scambiarsi lunghe occhiate, cercando comprensione e
rassicurazione, senza riuscire a trovarle un granché.
«Era…
era Danny, vero?» domandò Valentine, nervosamente.
«Sì.» rispose Yuta,
rabbuiatasi.
«Che pensi…?
Il cecchino sarà da lui?» chiese Ramo, chiedendo un’opinione diversa dalla sua
alla ragazza.
Yuta ci pensò su
qualche istante. «No. Credo che il nostro piano stia funzionando. Deve avere
avuto altri problemi… Non stento a crederci, in un
bosco come questo. Comunque… credo sappia come
cavarsela.»
Questa osservazione parve non
convincere del tutto Ramo. «E se avesse bisogno d’aiuto…?
Come possiamo essere certi che non sia in guai seri?»
Yuta lo guardò con
una certa durezza nello sguardo. «Non possiamo. Ma Danny è in gamba, quando
vuole. Non credi che ci voglia un po’ di più di qualche scarto di ectoplasma o
qualche sciocco folletto con un senso dell’umorismo tutto suo per metterlo in
difficoltà?»
«Noi abbiamo incontrato solo
mezze calzette, fino ad ora, ma non è detto che ci siano solo quelle, qua in
giro.» ribatté Ramo.
Mentre i due continuavano a
discutere, Valentine si estraniò per un momento,
rivangando tra sé e sé alcune parti degli incontri che avevano avuto
precedentemente. Non solo non aveva mai visto nulla del genere, ma era
difficile che se lo potesse anche solo immaginare. Aveva un che di
particolarmente sgradevole…
Prima si erano imbattuti in una
voce che si era rivolta loro con una cortesia modesta e gentilissima, parlando
con un finto accento inglese calcato, chiamando ‘sir’ Ramo e ‘milady’ Valentine e Yuta. Aveva anche
fatto qualche osservazione sull’aria simpatica di Duca, il quale stava
annusando indaffaratamente la base di un tronco. A
quel punto la voce aveva chiesto se potevano richiamare il cagnolino, in modo
che non gli venisse l’idea di ‘urinare sui suoi piedi’. Yuta
si era rivolta all’albero in questione, da quel momento in poi, per rispondere
alla voce. Con molta più esitazione anche Ramo aveva finito per fare
altrettanto, mentre Valentine era semplicemente
troppo occupata a rimanere attonita. L’albero, del tutto uguale ad un qualsiasi
albero piuttosto antico e grande, del tipo dei quali ce n’erano a bizzeffe in
quei boschi, aveva continuato a dialogare cortesemente con loro, interessandosi
a cosa li aveva spinti a vagare per il bosco di notte, e raccontando che da
moltissimi anni non vedeva esseri umani da quelle parti. Yuta
aveva ben presto tagliato corto, dicendo che non potevano fermarsi a parlare; e
l’albero, pur rimastone offeso, aveva finito quasi per supplicarli di rimanere
a fargli ancora un poco di compagnia, mentre si allontanavano seguendo il passo
marziale di Yuta.
Poi era stata la volta di un
ectoplasma. Aveva tutte le carte in regola per essere un ectoplasma, ovvero la
sua aura pallidamente luminescente, la sua brava essenza lattiginosa, dalla
luce piuttosto malsana, con la forma solo abbozzata di un essere umano; almeno
finché non era incespicato con gli orli inferiori privi di gambe in alcuni
cespugli, finendo lungo disteso per terra. Mentre la paura che aveva preso Ramo
e Valentine veniva messa in crisi da questo, Yuta non era sembrata particolarmente sorpresa. Anzi, interpellando
lo spettro ‘Formaggino’ (cosa che lo aveva parecchio indispettito), gli aveva
comunicato che non avevano tempo per giocare, e quindi aveva proseguito oltre,
raccomandando a Ramo e Valentine di ignorare il fatto
che lo spiritello, ora provvisto di catene arrugginite, continuava ad agitarle,
urlando loro ‘Aspettate! Hey, guardate qua! Ho
persino le catene! Eh? Che ve ne pare, eh?’.
Insomma, quando poco prima una
figurina femminile provvista di lunghi e sinuosi capelli, di curve ben
distribuite e coperte solo un poco da un vestito di foglie, li aveva salutati
dalla sua posizione seduta su un grosso fungo del genere velenoso ‘Amanita muscaria’*, sbattendo graziosamente le ali da farfalla con
colori fiabeschi, Valentine era già molto oltre
l’impressionabilità. Tuttavia aveva colto chiaramente lo sguardo per un attimo
distratto che Ramo aveva rivolto alla fatina succintamente vestita, che aveva
sbattuto le ciglia in sua direzione in modo particolarmente lascivo, dopo che Yuta l’aveva già superata senza degnarla nemmeno di mezza
occhiata: agendo d’impulso Valentine aveva tirato
dritto. Udendo uno scrosciare di imprecazioni particolarmente scurrili gridate
da una vocina minuscola, Yuta si era gettata uno
sguardo dietro le spalle, osservando per un momento il fungo spiaccicato da un
pestone e, di fianco ad esso, la fatina che agitava il pugno e faceva gestacci
ad una Valentine che proseguiva ignorandola. Si era
limitata a chiedere a Valentine di non dare loro
troppa corda, perché non avevano tempo da perdere.
In quella, il rumore di un altro
sparo fece interrompere bruscamente la discussione tra Ramo e Yuta, e ridestò Valentine dai
ricordi recenti; dal musetto fremente di Duca eruppe un piccolo mugolio.
Cogliendo il secondo sparo come sostegno alla sua tesi che Danny poteva
trovarsi in seri guai, Ramo insisté nel sostenere che non potevano lasciare lui
e Andrea preda di qualsiasi cosa li stesse attaccando; Yuta,
però, benché era evidente che Ramo stava mettendo in crisi la sua fermezza,
insisteva nel sostenere che i piani prevedevano fin dall’inizio che ogni gruppo
dovesse contare esclusivamente su se stesso: dovevano mantenere il silenzio
radio, e gli altri non potevano mandare a monte tutto il piano per accorrere in
soccorso di qualcun altro… era un rischio forte, ma Zoal era abbastanza sicura che non ci fosse niente di
veramente serio da temere riguardo alle presenze in quei boschi. Inoltre, non
era possibile annullare il piano e rimandarlo ad un’altra notte: ormai il
cecchino che li seguiva doveva essersi accorto dove stavano puntando, e se gli
avessero dato tempo di avvertire i complici, e questi ultimi avessero optato per
agire in qualche maniera determinante, loro non avrebbero più potuto cogliere
l’occasione di agire in quel modo.
«Hey!»
gridò Valentine all’improvviso, interrompendoli.
Alzarono gli occhi, seguendo la linea indicata dal suo dito puntato verso
l’alto; parte del cielo era illuminata da un bagliore blu intenso.
«Ma…
che cos’è?» chiese Valentine, mentre l’alone
colorato, dopo essersi fatto vedere per un po’, iniziava ad impallidire e
svanire.
Ramo, diventato ancora più
nervoso, ingoiò saliva. «Danny dev’essere davvero in
grossi guai…»
«Ma no…
quello è uno dei suoi razzi di segnalazione…» disse
invece Yuta. «A quanto pare, è tutto a posto… »
«Come fai a saperlo?» si stupì
Ramo.
«E’ tipico di quei due… decidere di testa loro qualche tipo di segnale
particolare. Avanti, Ramo… quante volte Uther e Danny si sono fatti le loro aggiunte al piano
comune? Ogni volta che avevamo deciso il piano d’azione, quei due si riunivano
in concilio privato tra loro, analizzavano tutti i punti critici e via dicendo,
facevano le loro personali riaggiustatine…
sviluppavano una serie di piani B, C e forse anche D.»
«Ma perché lo fanno di nascosto
da voi?» si incuriosì Valentine.
«Non è proprio di nascosto… » osservò Ramo, sulla difensiva. «Più che altro
cercano di non farsi notare da Kumals… »
Valentine ci pensò su per
un po’. «Oh.» disse infine, in tono comprensivo. Il genere di comprensione che
poteva cogliere chiunque conoscesse abbastanza bene Kumals
da poterne valutare le capacità importunanti per il loro esatto peso.
«Il razzo blu significa ‘tutto
bene’. Danny deve aver risolto qualsiasi pasticcio in cui s’era cacciato.»
concluse Yuta, scoccando a Ramo un accenno di sguardo
della serie ‘te l’avevo detto’, mentre si risistemava
più comodamente uno dei suoi cerchi con lama, che portava a tracolla.
Il gruppetto si rimise in marcia.
Un certo nervosismo continuava comunque ad aleggiare tra loro già da prima di
udire il primo colpo di pistola. Come per diminuirlo un poco, Yuta voltò appena la testa per lanciare a Ramo e Valentine un’occhiata che poteva difficilmente essere mal
interpretabile: il loro piano stava riuscendo. Era da un po’ che si erano
accorti di essere seguiti, tramite l’atteggiamento di costante nervosismo
mantenuto da Duca, il quale, tuttavia, si guardava bene dal segnalare in altra
maniera di aver ben percepito qualcosa. Anche lui stava seguendo il piano…
* sono quelli dal gambo bianco medio-lungo con cappello tondeggiante più o meno appiattito
o a palloncino, i classici rossi a pois bianchi insomma…
dove di solito compaiono sopra i folletti, le fatine, dentro a cui abitano i
puffi e così via. Per inciso: velenosi.
Note dello scribacchiatore:
eccoci qua, se non altro sono stato puntuale a livello di aggiornamento. In quanto
a ‘chiarezza’… ammettiamolo, ho dubbi di stare facendo un buon lavoro, questi
sono capitoli un po’ complessi a livello di dinamica, e magari sto facendo un
paciugo. Solo che in questo periodo intricato e complicato ho necessità di
stare dietro a molte altre vicende, e con questo non intendo assolutamente che
questa storia per me ha perso di importanza… ma ho
proprio difficoltà materiali di tempo per rimettermi a rivalutare certi
passaggi; forse, a dirla tutta, mi sono anche affezionato al modo in cui ho
scritto questi capitoli, per quanto possa risultare un po’ confusionario... Ma chissenefrega di tutto questo? Quel che intendevo è che, se
pensate che qualcosa sia proprio incomprensibile o illeggibile, ditemelo pure!
Non mangio nessuno. Non prima di cena, che mi si rovina l’appetito. Per gli/le apprezzatori/trici di Justin e
per chi sta aspettando di vedere dove va a parare più o meno questa lunga notte
nella boscaglia intorno a CastleMac’Hearty, il prossimo capitolo sarà interessante, anche se
non conclusivo. Eh no… questa è proprio una lunga,
lunga, lunga notte (l’ho già detto ‘lunga’?).
Fin da dopo la fortunosa
conclusione della loro disavventura con le “sabbie mobili”, Uther era riuscito
a imporre definitivamente a Justin un regime di assoluto silenzio e severa
attenzione volta a produrre il minor rumore possibile. Nonostante questo,
solamente il fatto che Uther si girasse di tanto in tanto a rivolgergli
occhiate particolarmente perentorie e autoritarie aveva avuto il potere di
indurre il suo compagno di viaggio a contenere il terrore che lo aveva colto a
più riprese; così, ogni qual volta aveva udito voci spiritate sussurrare
paroline sinistramente dolci o lietamente minacciose stranamente vicino alle
sue orecchie, o lamenti lugubri riecheggiare tra i tronchi del bosco buio,
Justin era in qualche maniera riuscito a limitarsi a tremare quasi
convulsamente, a incespicare di continuo, ad essere talmente teso da faticare a
camminare, e a stringere forte le nocche in una stretta nervosa sui suoi stessi
abiti. Alla fine, il rimanere in forzato silenzio era passato dall’essere una
costrizione all’essere tutto ciò che aveva ancora la forza di fare, spossato e
annichilito com’era dal continuo sentirsi come una specie di vitellino
abbandonato legato in mezzo ad una radura, in piena vista, in piena notte, con
il bosco intorno pullulante di ogni sorta di sconosciuti predatori celati tra
le ombre.
Tutto ciò aveva quasi finito per
esaurire persino la straordinaria scorta di auto-commiserazione che Justin era
in grado di produrre; quasi. Aveva ancora parte dei suoi pensieri ostinatamente
impegnati nel tessere le sue ultime lamentazioni di vittima innocente sul punto
di soccombere a tremende – e sinistramente imprecisabili – minacce, quando andò
a sbattere contro Uther.
Prima ancora di realizzare che
ciò era dovuto al fatto che l’altro si era fermato di botto, fu afferrato per
una spalla e costretto di forza ad appiattirsi rapidamente sul terreno,
celandosi in mezzo alle frasche fitte del sottobosco. Stava già per cercare di
tradurre un lamento in una domanda abbastanza articolata, ma timorosa di una
qualsiasi risposta, a proposito di cosa stava accadendo, quando Uther si voltò
prontamente verso di lui facendogli segno di stare zitto.
Sempre a gesti, Uther gli fece
capire che da quel momento dovevano procedere praticamente strisciando, o al
più gattonando a basso ventre, tra il sottobosco. Come il ragazzo potesse
riuscire a procedere in quella scomoda maniera senza inciampare nel fucile, che
teneva a tracolla, e il cui calcio toccava terra, lasciando un piccolo solco
nel terreno mano a mano che procedeva, per Justin rappresentava solamente
l’ennesimo mistero. Stanco e abbacchiato, si risolse ad eseguire alla lettera i
nuovi ordini. Non era ancora molto sicuro del perché Uther lo avesse tratto in
salvo rischiando la sua stessa pelle; dopo che si era riscoperto ancora vivo,
si era accorto che, semmai avesse avuto abbastanza lucidità da riuscire a
considerare attentamente la situazione nel mentre che stava affondando nel
fango centimetro dopo centimetro, si sarebbe trovato a dubitare molto
nell’aiuto decisivo dell’altro. Per questo al momento il suo attaccamento ad
Uther ed il suo tenerci ad eseguire i suoi ordini aveva molto a che fare con
l’istintiva dedizione totale con cui un cucciolo orfano potrebbe affidarsi alla
prima cosa vivente che gli suscita anche solo un abbozzo di imprinting,
comprendendo al volo che ciò rappresenta la sua unica chance di sopravvivenza;
nemmeno minimamente garantita, come chance.
Quando Uther si fermò di nuovo,
Justin, che arrancava molto meno agevolmente di lui, non ebbe difficoltà
stavolta a non sbattergli addosso. Si fermò a riprendere fiato, mostrando
pressappoco la stessa vitalità di un sottaceto immerso nella sua salamoia in
barattolo; si limitava a galleggiare sommerso, insomma. Registrò distrattamente
il fatto che Uther si era concentrato in un’attenta analisi dell’ambiente
circostante, ascoltando e guardando con piena attenzione.
Justin si ritrovò di colpo a
rimpiangere di non essere stato accoppiato con Danny per quella missione:
dopotutto, chi poteva competere con un lupo mannaro? Questo avrebbe voluto dire
che sarebbe stato molto più al sicuro. Probabilmente Danny avrebbe potuto
trarlo fuori dalle sabbie mobili senza tanta fatica, grazie alla sua forza
sovrumana; e avrebbe potuto percepire i pericoli in avvicinamento con buon
anticipo grazie ai suoi sensi iper-sviluppati. Decisamente Andrea doveva essere
in una botte di ferro, al momento. Già. Mentre lui strisciava tra le frasche
come una specie di animale a quattro zampe, seguendo quello che non si
disturbava nemmeno ad impugnare il fucile, e che non era ancora sicuro se
poteva ricoprire il ruolo di suo difensore o di suo assassino. Possibile che,
sebbene il Conte fosse andato perduto, Danny non fosse preoccupato anche per la
sua salvezza ora? Tanto più dopo che era riemerso da un cappotto
ingoia-persona: a ben pensarci, la dinamica di quella faccenda non gli era
ancora del tutto chiara… Justin aveva il forte bisogno di parlarne con
qualcuno, ma aveva anche la sensazione che se avesse fiatato per dire qualsiasi
cosa Uther avrebbe potuto reagire molto, molto, molto male: e aveva la
sgradevole impressione che quest’ultima previsione fosse solo un eufemismo
rispetto alla realtà.
Uther si mosse, finalmente: sotto
lo sguardo opacamente interessato di Justin, si portò le mani alla bocca,
chiudendole a pugno e allineandole; soffiò attraverso di esse, muovendo le
nocche a modulare il suono, ed emise qualcosa di piuttosto simile al richiamo
di un uccello. Justin lo fissò come se gli fosse andato di volta il cervello; e
lo temeva seriamente. Ma ancora non osò chiedere spiegazioni. Non era sicuro se
un Uther fuori di testa fosse più o meno pericoloso del solito Uther.
Dopo qualche istante di silenzio,
risuonò un verso di risposta, pressoché identico a quello emesso da Uther.
Justin rimase pensoso qualche momento, cercando di spiegarsi perché il tizio a
cui era costretto ad affidare la sua sopravvivenza si fosse messo a comunicare
con i volatili del bosco: non ci riuscì.
All’improvviso si udì una serie
di rumori; erano sommessi, certo, furtivi. Piccoli scricchiolii e fruscii.
Forse non sarebbero risultati così allarmanti alle orecchie di Justin, se non
fosse stato che provenivano dai rami di un albero al di sopra delle teste sue e
di Uther. Quest’ultimo aveva alzato lo sguardo, ma non sembrava minimamente
sorpreso o spaventato: più precisamente, sembrava che stesse semplicemente
aspettando. Anche Justin, infine, osò alzare lo sguardo ai rami, e realizzò che
una sagoma scura e di cospicue dimensioni stava scendendo dall’albero,
calandosi di ramo in ramo con ritmo lento ma costante. Se proprio in quel
momento Uther non gli avesse abbassato pesantemente una mano sulla spalla,
insieme all’inequivocabile messaggio implicito che se avesse dato segno di
volersi muovere se ne sarebbe pentito amaramente, Justin avrebbe spiccato una
di quelle fughe che avrebbero potuto lasciare ben impressionato un campione di
corsa ad ostacoli.
La sagoma si dondolò per un
momento a mezz’aria, appesa per le braccia al ramo più vicino al suolo, e si
lasciò andare, atterrando agilmente anche se pesantemente sul terreno, sul
quale rimase chinata, evidentemente volendo seguire l’esempio dei due ragazzi
presso i quali era piombata: anch’essa ci teneva a rimanere nascosta. Justin
emise un gemito soffocato con le ultime forze, e si sentì mancare dal terrore.
Senza nemmeno accorgersene, si ritrovò a cadere semi-afflosciato come un sacco
quasi vuoto; le braccia di Uther accompagnarono gentilmente il suo crollo, per
impedirgli di fare troppo rumore, e lo lasciarono giacere sul terreno.
Quando Justin si riprese,
dovevano essere passati solo pochissimi minuti: non era stato un vero e proprio
svenimento, anche se c’era andato parecchio vicino. Le orecchie smisero
gradualmente di ronzargli in modo assordante, come se i suoi timpani si
stessero risintonizzando sui suoni che lo circondavano; sentì chiaramente il
sangue rifluirgli al viso e alle dita di piedi e mani con più vigore, e cessò
di provare quell’improvvisa ondata di freddo che lo aveva colto. Con un certo
impegno si concentrò per riaprire gli occhi. Udiva un sommesso borbottare, una
discussione a toni bassissimi, che si stava svolgendo vicino a lui. Tentò di
alzare la testa abbastanza da permettere alla sua visuale di comprendere chi
stava parlando, ma fu colto da un capogiro e ricadde con la nuca contro il
suolo, emettendo un lamento doloroso. «Ahi!»
Le voci che sussurravano vicino a
lui si zittirono immediatamente; quindi qualcuno o qualcosa si mosse, sempre
strisciando sul terreno, per avvicinarglisi. Una flebile luce gli venne puntata
in faccia, accecandolo per un momento; infastidito, si portò le mani davanti
agli occhi e aprì bocca per implorare di essere lasciato in pace, quando una
mano gli mozzò parole e respiro, abbassandosi esplicitamente sulla sua bocca.
La luce, comunque, fu puntata più lontana dal suo viso, permettendogli di
distinguere un po’ meglio le due sagome chine su di lui.
Una di esse, quelle che aveva i
rasta in testa, gli si rivolse a voce bassissima, ma tono eloquentemente
ironico, che gli risultò immediatamente famigliare. «Per favore, Justin; non
farmi preferire quando sei svenuto, e non indurmi a ricreare tale condizione
immediatamente.»
Benché espresso con voce amabile,
il concetto era chiarissimo.
«Stiamo cercando di non farci
sentire… e siamo molto vicini a chi potrebbe sentirci, al momento. Quindi, se
tu potessi evitare di emettere qualsiasi suono sarebbe ottima cosa. A meno che
tu non sia in punto di morte, s’intende. In quel caso, possiamo aiutarti ad
allontanarti per andare a morire più lontano da qui, se proprio devi farlo in
maniera rumorosa.»
In qualche modo ora il tono
lasciava intendere che il proprietario della voce conosceva almeno un paio di
validi espedienti con cui uccidere qualcuno senza produrre eccessivo rumore.
Justin ingoiò una generosa quantità di saliva, ma si riscosse abbastanza da
cercare di scostare la mano che gli veniva premuta sulla bocca. Era abbastanza
sicuro che non lo avrebbero ucciso sul serio, non finché sapevano che Danny si
sarebbe arrabbiato moltissimo con loro, per questo. Pur tuttavia, era più
potente come argomento il fatto che quella mano gli impediva di respirare
decentemente, e quindi rappresentava una minaccia di morte più urgente.
La stretta si intensificò,
vanificando i suoi tentativi di ribellione. La sagoma si chinò più vicino a
lui, e Justin potè distinguere fin troppo chiaramente per i suoi gusti i tratti
del viso di Kumals, impietriti in una serietà sinistramente gioviale. «Siamo intesi?»
gli domandò con voce profonda.
Justin si riabbandonò mollemente
sul suolo, emise un lungo e compassato sospiro di commiseranda resa, e annuì.
Quasi subito la mano si scostò, e lui riebbe la bocca libera, oltre che la
possibilità di alzarsi almeno a sedere.
«Possiamo smettere di perdere
tempo con lui?» domandò Uther, con una certa irritazione, sempre a voce molto
sommessa.
Kumals, che si stava ripulendo il
palmo della mano sui pantaloni, gli rivolse uno sguardo ora realmente serio e
grave; aggrottò le sopracciglia e disse «Cos’è che mi stavi dicendo… a
proposito del perché ci avete messo tanto ad arrivare?»
Uther sbuffò. «Non ne vale la
pena, lasciamo perdere.»
«Peccato…» osservò Kumals
«…sembrerebbe una storia interessante… specialmente se spiega perché siete
legati con una corda tra di voi…» commentò allusivamente.
Uther ebbe un moto di imbarazzato
fastidio, e provvide immediatamente a sciogliere il nodo che assicurava un capo
della corda alla sua vita; tese quindi il capo di corda a Kumals, dicendo «Ecco
qua. Tutto tuo. Vado a dare un’occhiata, allora…»
Kumals prese la corda in mano, e
iniziò a soppesarla come se considerasse qualche opzione particolarmente
interessante, mentre rispondeva, quasi distrattamente «Ahan. Molto meglio che
vedi coi tuoi occhi…»
Uther annuì rapidamente, quindi
iniziò ad arrampicarsi sull’albero che Kumals aveva disceso poco prima.
Justin si ritrovò a guardare
Kumals, che si accomodò seduto a gambe incrociate, la schiena poggiata al
tronco di quello stesso albero; appoggiò a terra la piccola torcia elettrica
portatile, il cui vetro era stato avvolto in un pezzo di stoffa per farne
defluire solo un bagliore pallido, poco visibile se non si era molto vicini;
estrasse da una tasca un pacchetto di tabacco e prese ad arrotolarsi una
sigaretta, con aria pensierosa e preoccupata. Poco dopo, accorgendosi dello
sguardo di Justin, gli si rivolse.
«Allora, me la racconti tu questa
storia sulla corda?» domandò, con tono quasi canzonatorio.
Justin ci pensò su un momento.
«Non puoi fumare.» affermò «Il fumo sarebbe visibile, e rivelerebbe il nostro
nascondiglio.»
Kumals si bloccò nell’atto di
leccare la parte adesiva della cartina, e gli lanciò uno sguardo tale, al di
sopra della sigaretta, che Justin dimenticò improvvisamente tutto lo spavento
che aveva provato fino ad allora, in occasione della scoperta di un nuovo tipo
di paura. Un momento dopo, tuttavia, l’espressione di Kumals era ritornata
pacificamente concentrata sulla sua sigaretta.
«Lo so. Mi limito ad arrotolarle.
È sempre utile averne una buona scorta.»
Nonostante questo, Justin
comprese, di punto in bianco, che l’uomo stava cercando di dissimulare un
profondo nervosismo e una tremenda tensione: per questo non si stupì molto
quando Kumals, poggiata a terra la sigaretta appena arrotolata, iniziò subito a
confezionarne un’altra. Se c’era qualcosa che aveva il potere di indurre Kumals
in quello stato, Justin era fortemente sicuro di non voler scoprire di cosa si
trattava.
*
***
*
Lasciatosi alle spalle con
sollievo le voci di Kumals e di Justin, diversi metri più sotto, Uther scalò
l’albero ramo per ramo, con paziente impegno, finché, giunto vicino alla cima,
iniziò a distinguere una sagoma più scura, appollaiata su uno spesso ramo. Si
diresse verso di essa, e quando fu abbastanza vicino a quel ramo, dalla sagoma
si sporse in fuori un braccio; dal mantello verde scuro che la avvolgeva spuntò
una mano, che lui afferrò, lasciandosi aiutare per issarsi sul ramo, sul quale
trovò un equilibrio abbastanza valido.
«Grazie.» mormorò molto piano.
Nell’oscurità gli parve di
intravedere un leggero sorriso sul viso di Zoal. Subito dopo, la donna sporse
di nuovo la mano, stavolta meno distesamente, per indicargli la direzione in
cui volgere lo sguardo. Uther guardò in quella direzione: tra i rami folti di
foglie dell’albero sempreverde su cui erano appollaiati, si intravedeva lo
spiazzo, l’edificio che vi sorgeva, e…
Uther trattenne il fiato e sbarrò
gli occhi, rimanendo definitivamente senza parole, commenti od osservazioni
valide per diversi minuti, mentre assorbiva la scena con lo sguardo, e cercava
di darle un senso.
La casa nel bosco, quel vecchio
edificio che si presumeva abbandonato tranne secondo l’opinione di Yuta e Zoal,
era molto affollato. Solo alcune delle finestre, perlopiù composte da grandi
vetrate in alcuni punti molto impolverate, rotte o incrinate, erano illuminate,
gettando intorno una penombra sufficiente a lasciar distinguere le numerose
sagome umane affollate intorno alle pareti dell’edificio, alto almeno tre
piani, e non molto largo.
Sembrava che le due sorelle
avessero visto giusto, e che il rilevatore affidato all’inconsapevole Conte
avesse avuto tutte le sue ragioni nel segnalare quella zona: intorno alla
struttura c’era una vera e propria moltitudine delle persone ridotte in stato
amebico. Ma c’era qualcosa di molto più strano del solito, ora, in esse. Non
erano intente a vagare a casaccio, o a incantarsi contro qualcosa. Invece,
ognuna di loro aveva un contegno marziale; ritte, immobili e irrigidite come
fantocci, stavano schierate in un mucchio che circondava tutta la casa. Sebbene
a poterle vedere in viso si potesse distinguere chiaramente l’espressione vuota
e come priva di vita, con gli occhi opachi e le bocche spesso semi-aperte e un
po’ sbavanti, parevano sospese nel bel mezzo di uno strano gioco che prevedeva
l’imitare il meglio possibile una statua di sale. Tutte rivolgevano la schiena
all’edificio, e il viso e la parte anteriore del corpo al bosco circostante;
sembravano essere state disposte a guardia. Uther fu brevemente colto dall’idea
che difficilmente si poteva trovare un sistema di guardia più efficiente:
qualsiasi persona dotata di un minimo di pensiero avrebbe trovato tutto il
tempo di annoiarsi e distrarsi, in riflessioni, chiacchiere, rimuginamenti
senza capo né coda, o anche in un principio di abbiocco. Ma quelle persone
ridotte in quella specie di stato vegetativo non sembravano capaci di produrre
altro che quella perfetta immobilità da stand-by totale e assoluto: tutto ciò
che poteva risvegliarle era, probabilmente, l’udire un rumore o vedere qualche
movimento. A quel punto sarebbero partite all’attacco della fonte che era stata
capace di suscitare la loro attenzione, con quell’aggressività caparbia, idiota
e pericolosa che gli era ormai fin troppo familiare, purtroppo.
Ma non era tanto questo ad aver
lasciato Uther senza riserve riguardo al farsi un’idea di tutta la situazione.
C’era un gruppo ben fornito - una cinquantina almeno - di quelle persone che
era stato disposto in maniera del tutto diversa. In corrispondenza
dell’ingresso ampio dell’edificio, un portone largo abbastanza da permettere il
passaggio ad un tir, non s’era fatto risparmio di illuminazione: due potenti
fari illuminavano la cinquantina di persone schierate in due gruppi, che
formavano due cordoni – ognuno dei quali composta a sua volta da tre file – che
partivano dall’ingresso e si stendevano verso il bosco, pur senza raggiungere i
primi alberi. Tra i due cordoni schierati come una nutrita equipe di servitù
domestica, si distendeva un lungo tappeto in tessuto rosso, largo pressappoco
un metro e lungo almeno una mezza dozzina. Un tappeto rosso, ovvero di
benvenuto.
A completare il grottesco della
scena era l’aspetto con cui si presentava quella sorta di comitato di
benvenuto: quelle persone giacevano da giorni in uno stato inconsapevole, che
aveva certamente impedito loro anche solo di preoccuparsi delle più basilari
norme di igiene e di cura di sé. Inoltre, avevano camminato da Castle
Mac’Hearty fino a lì, attraversando il bosco per chilometri. Tutti, insomma,
presentavano vestiti stracciati, consunti, macchiati di cose sulla cui natura
era meglio non indagare, anche se l’odore stantio di sudore e altri liquidi
corporali si poteva sentire bene; saturava l’aria tutt’intorno.
Uther giacque col volto
impietrito per diverso tempo, fissando quella scena fin nei minimi particolari.
Infine, una smorfia di disgusto e rabbia prese a disegnarli i tratti del volto:
l’azzurro chiaro degli occhi lampeggiò di gelida furia, e le labbra si
piegarono in un combattuto nervosismo, campo di battaglia tra il proposito di
un qualsiasi intervento utile a mettere fine a quella scena e la preoccupazione
per sé e per gli altri che si presumeva fossero giunti fin lì appunto per fare
qualcosa.
Per questo, quando udì la voce
sommessa di Zoal, che lo distolse da quel silenzio opprimente, ne provò un
pacato sollievo.
«A quanto pare il nostro arrivo
non sarà una sorpresa.» constatò la donna con voce profonda. Nonostante il tono
volesse alleggerire il tutto, Uther lo conosceva troppo bene per lasciarsi
ingannare a tal punto; anche lei covava da tempo una gravosa preoccupazione e
una rabbia feroce.
La spiò di sottecchi. Gli occhi
verdi erano completamente concentrati sull’ingresso, sul tappeto rosso,
sull’abbondanza di persone prive di coscienza di sé che erano stata radunate
tutte in quel luogo. C’era un bagliore strano che danzava sul lieve spuntare di
una visione dei denti stretti in un sorriso sinistro tra le labbra appena
socchiuse: al ragazzo ricordò qualcun altro, e ciò lo fece sentire molto più
nervoso e molto più tranquillo allo stesso tempo. Forse il contrasto era solo
apparente. Forse era semplicemente il fatto di starsi cacciando in una delle
più scomode e incerte situazioni in cui avesse mai inciampato nella sua intera
vita con le persone di cui più si fidava e per la sorte delle quali più temeva.
Non stava davvero riflettendo su quello, ora, ma era un motivo di sottofondo di
cui era in qualche modo consapevole.
«Una trappola?» domandò.
Zoal ricompose un poco la sua
espressione, e per un momento le sue pupille si spostarono verso di lui, prima
di concentrarsi di nuovo sulla scena che si preparava davanti a loro. «Non
credo. Troppo evidente, no? In qualche modo, credo sarebbe stato peggio se
avessimo trovato tutto tranquillo, come se stessimo davvero per fare un attacco
a sorpresa. Non mi aspettavo certo che non sapessero che stavamo venendo qui…
non dopo che per giorni non abbiamo fatto altro che girare attorno al punto
cruciale: eccolo qua.»
Uther ci rifletté su per un
istante. «Non saprei dire bene perché ma.. non mi hanno mai convinto
particolarmente i punti cruciali con tappeto rosso di benvenuto.»
Zoal sogghignò. «Vero.»
«Non sembri così sorpresa… persino
del tappeto rosso.» azzardò Uther, cercando di non dare a vedere l’attenzione
con cui cercava di sondare l’espressione della donna.
Lei sorrise appena, di nuovo, e
non rispose.
Uther attese qualche istante,
prima di dire «Ci sono diverse cose, diverse ipotesi, di cui tu e Kumals non ci
avete fatto cenno; non è vero?»
Stavolta Zoal voltò il viso verso
di lui, e lo guardò bene in faccia. «Ma tu e gli altri non vi siete sforzati
tanto di farci sputare il rospo.» constatò con tranquillità.
Uther sorrise obliquamente, con
complicità, e lasciò che questo bastasse ad esternare la sua risposta. Aveva a
che fare col fatto che, se Zoal e Kumals ritenevano che fosse meglio non
anticipare una loro ipotesi prima di averne saggiato le probabilità, loro non
si sentivano così obbligati ad indagarvi sopra.
Zoal tornò a rivolgere lo sguardo
sul loro obbiettivo. «Curioso… Mi ricorda il modo in cui tu e Danny siete
soliti decidere sempre quei colori.»
Per un momento Uther fu colto di
sorpresa, non capendo di cosa stesse parlando.
Zoal, che ne spiava
l’espressione, sorrise soddisfatta. «Sempre il blu per il ‘tutto bene’, e
sempre il rosso per ‘guai’.» disse.
Uther abbozzò un’espressione di
innocente superiorità. Lei fece un sorriso ammiccante.
Pochi istanti dopo, la donna si
mosse. «E’ ora di scendere. Abbiamo osservato abbastanza. E tutta questa
immobilità mi sta facendo venire i reumatismi.» ironizzò, mentre iniziava a
trovare gli appigli per calarsi giù dall’albero. Uthersorrise lievemente, e la seguì.
Quando toccarono terra, subito
abbassandosi in un accuccio sul terreno, per meglio celarsi, trovarono Kumals e
Justin silenziosi. «Com’era la vista?» domandò l’uomo, pretendendo una
tranquilla nonchalance, rivolto ad Uther.
«Non tanto male.» rispose
l’altro, mantenendo il doppio senso riguardo a quello che Kumals gli stava
realmente chiedendo: erano le loro chance di farcela a ‘non essere tanto male’,
più propriamente.
«Che si vede?» domandò Justin,
preso da una febbrile curiosità.
«Un parco giochi con le giostre.»
tagliò corto Kumals, per poi rivolgersi a Zoal. «Ancora di quell’idea?»
La donna annuì, con serietà.
«Quale id…?» iniziò Uther, ma fu
interrotto da un rumore. Il colpo di uno sparo rimbombò chiaramente nel bosco,
pur se a generosa distanza da lì; l’eco risuonò un paio di volte, prima di
spegnersi. L’espressione di Uther si rabbuiò di colpo.
«Ci siamo.» scandì Kumals, a
denti stretti.
Uther lo guardò, e poi rivolse un
lungo sguardo anche a Zoal. Justin non era capace di interpretarlo bene, ma
ebbe l’impressione che ci fosse un’accorata domanda in quell’occhiata. Come a
confermarlo, dopo qualche istante Zoal mosse la testa in un cenno d’assenso
grave. «Vai.» disse «Qui ce la caveremo.»
Kumals sembrava meno convinto, ma
non avanzò alcuna replica.
Uther annuì di rimando, e di
punto in bianco partì, tornando a inoltrarsi nel bosco; sebbene procedesse a
gambe piegate, chino, per rimanere protetto il più possibile dalla vegetazione
più bassa, Justin lo vide scomparire rapidamente, spedito. Fece giusto in tempo
a notare che il ragazzo, mentre se ne andava, si toglieva il fucile da
tracolla, tenendolo in mano, parallelo al suolo. Questo particolare fece
tornare a Justin un profondo senso di malessere.
«Hey.» lo richiamò Kumals,
schioccandogli le dita a due centimetri dal naso, senza fare rumore, ma con
evidente simbolismo. «Sveglia. Abbiamo da fare, qui.» gli ricordò con severità.
«Ma… non dovevo sempre rimanere
con Uther? Non era lui che doveva preoccuparsi della mia incolumità?» replicò
Justin preoccupato, guardando in faccia i due, che lo consideravano con una
pazienza poco interessata. «Voglio dire, chi penserà a me da ora in avanti?»
Per un momento gli rispose solo
il silenzio; poi, Kumals occhieggiò Zoal, con un sogghigno. «E’ la prima volta
che sento qualcuno ansioso di farsi accudire da un ex-becchino.»
«Mi ha tirato fuori dalle sabbie
mobili! In qualche modo, credo che potesse proteggermi.» spiegò Justin. Ora lo
guardavano come se stesse delirando.
Zoal gli parlò con grande calma,
la qual cosa, però, non sembrava poterlo tranquillizzare molto. «Resta vicino a
noi, ora. E non fare niente che non ti chiediamo di fare. Se vuoi che ti
aiutiamo a uscire vivo da qui, da ora in avanti, dovrai concederci la più
assoluta fiducia.»
La donna non si soffermò nemmeno
a vedere quale effetto avessero prodotto le sue parole su Justin; si stava già
rivolgendo a Kumals. «Andiamo, allora?»
L’uomo annuì.
«Hem… quale sarebbe il piano,
esattamente?» cercò di indagare Justin.
Il fatto che non gli rispondessero,
come se pensassero che fosse meglio che lui non lo sapesse in anticipo, gli
fece provare la sgradevole sensazione che quelle potessero essere le sue ultime
ore da vivo. Ancora più curiosamente, ciò sembrava rappresentare un controsenso
col fatto che già da diversi giorni sentiva come se fosse stato più probabile
se fosse morto prima, in una delle tante precedenti occasioni che lui o la
Morte non avevano colto. Se quello era una specie di gioco per tormentarlo,
stava riuscendo pienamente.
Guardò Zoal tirare fuori qualcosa
da qualche tasca nascosta tra le pieghe dei suoi abiti alla rinfusa: osservò
con attenzione praticamente spasmodica. E si ritrovò ad osservare un
campanellino, piccolo e ricoperto da una patina di finto oro, appeso a ciondolo
ad un collare da cani; con grande naturalezza Zoal si portò le dita dell’altra
mano alle labbra, le introdusse in bocca, e si estrasse dall’incastro tra due
denti, dove lo aveva conservato fino a quel momento, il pendaglio del
campanellino. Lo agganciò al campanellino, ma lo tenne fermo in modo che non
producesse rumore. Quindi, sempre con mosse lente e calme, quasi da rituale,
sbatté tre volte il palmo steso della mano sul suolo, emettendo un rumore molto
sommesso. In risposta ad esso, qualcosa si mosse furtivamente tra le frasche, a
pochi metri da loro. Justin sussultò violentemente, e stava già per farsi
prendere dal panico, quando riconobbe Danza nella figura che camminò vicino a
Zoal, accanto alla quale si accucciò ubbidientemente, anche se agitava un po’
la coda con aria giocosa.
Justin continuò a guardare,
mentre Zoal assicurava al collo del cane il collare, sempre tenendo fermo il
pendaglio per impedire al campanellino di produrre rumore. Ed ebbe la certezza
che, qualsiasi cosa stessero progettando di fare, doveva essere un piano
particolarmente azzardato. Perlomeno, questo avrebbe potuto spiegare perché
Kumals, pur seguendo le mosse della donna con attenzione, avesse ripreso ad
arrotolarsi sigarette che non avrebbe fumato per le prossime ore, o forse mai
più. Tale era il massimo ottimismo che Justin era al momento in grado di
spremere da sé.
Note dello scribacchiatore:
Il
‘tessuto rosso’ del titolo si riferisce al tappeto di benvenuto che si trovano
davanti Zoal, Kumals ed Uther.
Come
al solito accade in questo periodo, non ho avuto modo di ricontrollare il tutto
con la dovuta tranquillità e concentrazione, però varie occhiate gliele ho
date, quindi sì, se ci sono sviste od orrendumi non perfettamente voluti e
studiati vuol proprio dire che persiste la mia fondamentale vena di
scribacchiatore con una propensione ad inciampare laddove non ci dovrebbero
essere gradini.
Oh,
non preoccupatevi, non è che io abbia improvvisamente deciso di dedicare così
tanto spazio a Justin, però per qualche capitolo è stato divertente focalizzare
un po’ anche su di lui. Eh sì, immagino che magari ci sia chi preferirebbe
focalizzare su altri, a seconda delle preferenze, ma non dubitate, prima o poi
li prenderò al varco qui e là anche gli altri… a piccole dosi sparse o a sprazzi
chiarificatori!
Spero
questo capitolo vi prenda bene, per il resto, ci si sente al prossimo, bye!
Andrea era contenta, in fondo,
che al momento Danny non potesse esprimersi a parole; perché se le avesse
chiesto a cosa stava pensando, sarebbe stato imbarazzante da spiegare.
Stava pensando alla storia di
‘Cappuccetto Rosso’. Non le era mai piaciuto il finale, cioè quando il
cacciatore, nel ruolo di salvatore eroico, ammazza il lupo per salvare Cappuccetto
e nonna. Dopotutto, giacché il lupo era stato così abile da metterle nel sacco
– o meglio da mettersele in pancia – entrambe, era sleale che arrivasse
qualcuno e gliele sottraesse, per giunta sventrandolo. Era un po’ come la forza
bruta prevaricatrice contro l’astuzia. D’accordo, non le era mai riuscito di
provare eccessiva empatia per la sorte delle due divorate. Aldilà di queste
divagazioni, però, era la situazione in cui la ragazza si trovava al momento ad
averla indotta a ricordare quella storia.
‘Quanto pesi?’ le aveva chiesto
Danny. Certo, quando glielo aveva domandato non aveva assolutamente capito dove
volesse andare a parare. Ma ora che lo sapeva, le era difficile ignorare il
parallelo con lo scambio di battute tra il lupo travestito da nonna e
Cappuccetto Rosso: ‘che begli occhi grandi che hai…’
e via dicendo.
In quella, Danny dovette superare
un tratto di terreno particolarmente disagevole, e quasi incespicò, sebbene
stesse facendo il possibile per riuscire a procedere a ritmo sostenuto senza
cadere. Andrea non riusciva ad immaginare come si potesse coordinare così bene
il movimento di quattro zampe contemporaneamente; ma le era chiaro, anche se
non ci fosse dovuta arrivare con la logica, che per lui era assolutamente innaturale,
in forma di lupo, trasportare tanto peso sulla schiena. E lei ce la stava
mettendo tutta per cercare di pesare di meno, davvero, ma onestamente non
credeva che fosse qualcosa che poteva dipendere dal suo impegno, al momento.
Danny, o meglio il lupo che le era
ricomparso davanti da quando - dopo averle annunciato il suo piano - il ragazzo
era andato a celarsi in un folto di cespugli, per poi ritornare sotto quelle
sembianze e tenendo in bocca i propri vestiti, superò il momento di difficoltà
del terreno in pendenza e irto di radici grosse e nodose, e proseguì oltre. Lei
intensificò un poco la presa delle mani e delle gambe attorno al suo collo e aisuoi fianchi, e cercò di lasciare perdere le
divagazioni su Cappuccetto Rosso, per concentrarsi meglio sul rimanere in
equilibrio a cavalcioni e praticamente sdraiata sulla schiena del grosso lupo.
Però era difficile sottrarsi a quella riflessione: a quanto pareva, in quella
loro versione della storia Cappuccetto Rosso e il lupo si erano coalizzati per
andare a dare il benservito al cacciatore. Non le dispiaceva affatto, come
versione.
Già da diversi minuti procedevano
spediti, nonostante l’evidente affaticamento di Danny; i lupi, come lei aveva
fatto notare in guisa di obiezione alla sua idea, non avevano affatto la colonna
vertebrale adatta a trasportarci sopra un peso, a mo’ di cavallo. Lui aveva
ribadito che poteva sopportarlo per un po’: giusto il tempo di poter fare
qualche chilometro più velocemente, per cercare di recuperare il ritardo. Andrea
aveva il forte sospetto che, in realtà, il ragazzo volesse anche evitarle
ulteriore fatica. Si era accorta che era più preoccupato e immusonito di quanto
non desse a vedere, per il suo essere rimasta coinvolta e ammaccata dal
rapimento da parte del demone. Nonostante le sue migliori intenzioni, Andrea
non riusciva ancora a trovare tra sé e sé un modo efficace per togliere
dall’espressione di Danny quel’aleggiante senso di colpa, che lo intristiva.
Quello era il vero peso che stava costituendo per lui, al momento, e non tanto
il fatto che si stesse facendo trasportare.
Si strinse più forte al petto,
con la parte di braccio libera dal doversi mantenere stretta e praticamente
sdraiata sulla schiena del lupo, l’involto di vestiti di Danny, ripiegati e
ordinati in una specie di pacchetto da viaggio, cosa di cui si era occupata con
cura. Sentì anche la rigida consistenza delle due pistole e della cintura
pesante di cartucce e pallottole, il tutto racchiuso al centro del pacco di
abiti. E percepì un altro oggetto di consistenza più morbida, che le pendeva
attaccato al collo. Rimpianse di non avere una mano libera per poterlo toccare,
e cercarvi un poco di rassicurazione. Ma ritornò col pensiero a quando lo aveva
visto per la prima volta, non più di alcune ore prima.
…
… …
«Andrea.» chiamò Valentine piano. La ragazza si fermò. Era appena uscita dal
bagno, e il suono della voce quasi l’aveva spaventata, cogliendola di sorpresa.
Nella penombra del primo piano della casa di Yuta e Zoal, distinse la sagoma scura di Valentine;
diversamente dal solito abito elegante, in stile dark, indossava un pratico
paio di pantaloni lunghi, scarponi da montagna e un grosso e spesso maglione,
tutto comunque in colori scuri, che le permettevano di celarsi bene nella
scarsa luminosità, se non fosse stato per la pelle particolarmente chiara.
«Ah, ciao. Scusa se non ti ho vista… ero sovrappensiero.» rispose.
Valentine le rivolse un
sorriso gentile. «Non ti preoccupare. Sarei io a dovermi scusare. In realtà ti
ho teso una specie di agguato. Non volevo proprio entrare in cucina… visto che tu e Danny vi eravate sistemati vicino
alla stufa… così ho aspettato di beccarti qui in
giro.»
L’accenno di Valentine
per poco non la fece arrossire. L’’essersi sistemati’ doveva essere una specie
di gentile metafora; più che altro si erano disordinati, e molto volentieri.
«Il fatto è…»
proseguì Valentine «…cheYuta mi ha chiesto di chiamarti. Dice che Zoal ci aspetta nella sua stanza. Vorrebbe parlarci in
privato.»
Andrea se ne stupì, e sul momento
non riuscì a rispondere. Non solo sembrava strana quella sorta di
‘convocazione’ tramite parti terze, ma soprattutto era strano che fossero
appena state invitate nella stanza di Zoal. Da ciò
che aveva intuito a forza di stare nella casa, ed era un’impressione rinforzata
dagli accenni non troppo particolareggiati od espliciti di Danny, la stanza di Zoal era una sorta di tempio: nessuno a parte Zoal stessa ci metteva piede; la porta era sempre chiusa.
Era una specie di insieme di regole non dette, ma rispettate da tutti, con un
certo accenno di timoroso rispetto anche. Sembrava che un po’ tutti fossero ben
felici di non dover mettere piede nella stanza di Zoal.
«D…davvero?»
si risolse a dire Andrea, senza trovare di meglio.
«Già.» Valentine
non sembrava molto più persuasa di lei, anche se si sforzava di prendere la
cosa con pragmatica naturalezza. «Non so perché. Anche Yuta
non lo sapeva. Ma sembra che Zoal abbia qualcosa di
importante da dirci.»
«Ah. Sì, certo, bene.» concluse
Andrea. Avrebbe dovuto possedere molto più sangue freddo e molta più faccia
tosta per non mostrarsi nervosa in quel momento; perciò vi rinunciò, e si
limitò a seguire Valentine giù per il corridoio,
anche se l’altra non sembrava tanto ansiosa di fare strada. Ebbe la forte
tentazione di inventare una scusa per tornare in cucina e dirlo a Danny;
dopotutto lui Zoal la conosceva bene, per quanto
sembrasse fosse disposta a farsi conoscere bene Zoal,
e quindi avrebbe pur trovato qualcosa di rassicurante da dirle. Forse, però,
invece sarebbe apparso stupito quanto lei, e allora questo non l’avrebbe
aiutata particolarmente. In ogni caso, le parve stupido dover andare a chiedere
supporto a qualcuno, perciò ricacciò indietro la tentazione.
E di colpo erano di fronte alla
porta chiusa della stanza di Zoal, e nessuna delle
due osava tendere una mano per bussare. Tuttavia, era una porta normalissima,
uguale a quella di tutte le altre stanze della casa; eccetto forse per il forte
misto di odori che usciva appena attraverso di essa. Andrea cercò di
interpretarli, ma tutto ciò che ne cavò fu una bizzarra miscela tra fragranze
di tisane aromatizzate, spezie da cucina, piante esotiche, frutta secca, fumi
simili a quelli da incenso, pelo bagnato di cane, una specie di sentore che
ricordava la polvere di minerali, terra umida, e, volendo sorvolare su un nonsoché che ricordava il gusto metallico del sangue,
avrebbe giurato che ci fosse una punta di zolfo. Si disse che doveva essere
uovo marcio, e si decise a bussare; nonostante questo, entrambe le mani le
rimasero incollate lungo i fianchi, dove pensavano di stare molto meglio al
momento.
«Entrate pure.» disse Zoal, dall’interno, senza che nessuno ancora avesse
accennato a bussare.
Andrea e Valentine,
come di comune accordo, fecero di tutto per non scambiarsi uno sguardo. Poi Valentine allungò una mano sulla maniglia ed aprì la porta.
Andrea si stupì che non cigolasse in maniera sinistra, né che non comparisse
dall’apertura che si andava allargando una ridda di bagliori di malsano color
livido e acquamarina putrescente, insomma, roba tipica da ‘antro della strega’.
Entrarono e si richiusero la
porta alle spalle, come la voce di Zoal, sempre
profonda e calma, chiese loro di fare. Subito si stavano guardando intorno con
avida curiosità; ma rimasero piuttosto deluse. Benché la stanza sembrasse
grande, Zoal usava tenere appesi al soffitto ampi
drappi di colori varianti tra le gamme del viola e del blu, che facevano da
tende, tenendo l’ambiente separato in diverse zone. In quella dove si trovavano
loro, appena varcata la soglia, si poteva distinguere principalmente il
pavimento nudo, ma solcato da segni di bruciacchiature e scribacchiature
in gesso colorato, più volte cancellate e ripulite alla belle e meglio,
semi-coperte da briciole di fango secco sparse un po’ ovunque, e spesso
impresse da impronte canine.
Distesa su un divanetto lungo, di
foggia simile a quello utilizzato dagli antichi romani per i loro banchetti a
base di ingozzati-e-vomita-e-reingozzati*, Mama alzò
la testa dalle zampe allungate e riservò loro una lunga occhiata molto attenta.
Andrea notò ancora una piccola
scaffalatura in legno, che dava l’impressione di poter crollare da un momento
all’altro sotto il peso di un impressionante numero di libri, stretti l’uno
all’altro sulle mensole; purtroppo, il fatto che una sciarpa semi-trasparente
color viola, nero e indaco fosse stata appoggiata in modo da coprire i libri,
forse con l’intento di proteggerli un po’ dalla polvere, non le permise di sbirciare
i titoli. C’era un grosso e spesso tappeto, apparentemente di origine
sud-americana, che occupava una parte del pavimento, con aria polverosa e
pensosa. Dal piccolo lampadario di legno e cartapesta appeso al soffitto, con
arabescati disegni di sagome di animali leggendari, pendevano alcune conchiglie
di tenui colori bianco-rosati e sfumature più decisamente rosso-sanguigno,
legati a sottili fili di quello che sembrava caucciù, e lo scheletro
ricostruito di un uccello che Andrea non riuscì a identificare, ma del quale
non poté fare a meno di rimanere incantata, per via delle penne lunghe e molto
variopinte, più di quelle di un pavone sebbene meno appariscenti, che erano
state legate in alcuni punti strategici: sembrava insomma che fosse stato
ricostruito un accenno di quello che doveva essere stato quell’uccello in vita.
Mancavano le parti più organiche, ma c’era persino il becco, non
particolarmente lungo o appuntito, sul davanti del piccolo cranio
dall’apparenza fragile.
Una delle tende che celavano il
resto della stanza fu scostata con vigore, e Zoal
comparì davanti a loro, avanzando a lunghi passi. Andrea e Valentine
notarono immediatamente che recava in una mano un merlo sgozzato e sanguinante,
e furono seriamente sul punto di abbandonarsi al panico, specialmente per via
del fatto che gli occhi verdi della donna che avanzava con decisione brillavano
di rabbia.
Lei le notò, come se si
ricordasse di loro in quel momento, e la sua furia sfumò un poco. «Oh, sì,
giusto. Sono subito da voi…» disse. Poi si girò verso
la tenda da dietro la quale era comparsa e, con voce dura, esclamò
imperiosamente «Avanti, vieni qui!»
Si sentì un lieve tramestio, e
infine la tenda si spostò di nuovo, ma solo nella parte bassa: Danza venne
fuori con aria mesta ed esitante, e, dopo aver cercato per qualche momento di
tergiversare rivolgendo il muso e un accenno di scodinzolio a Valentine e Andrea, si arrese all’occhiata funesta che le
lanciava Zoal, e le si avvicinò. Si sedette vicino
alle sue gambe, con aria dispiaciuta ma non particolarmente pentita.
Zoal, che la fissava
impietosamente, sporse verso di lei l’uccello morto che impugnava. «Vorrei
proprio sapere cosa aveva fatto di tanto grave perché ci fosse il bisogno di
ucciderlo!» tuonò.
Il cane voltò un poco il muso
dall’altra parte, anche se il fremere delle sue narici indicava che era ancora
particolarmente interessata al piccolo cadavere.
«Questo è un brutto gioco.»
mormorò Zoal, con voce tanto bassa e minacciosa, che
Andrea e Valentine, ancora ferme in piedi ad
osservare la scena, si sentirono rabbrividire. Danza, invece, le rivolse uno
sguardo che tentava di essere implorante e compassionevole, le pupille larghe e
brillanti come in un accenno di commozione, e s’azzardò a muovere un poco la
coda.
Dopo qualche lungo minuto di
immobilità, Zoal sospirò, e scosse la testa. «Vai a
dormire, dunque, o dove meglio ti pare.» disse, con tono deluso e ancora
arrabbiato, ma in cui il cane sembrò riconoscere il segno che la ramanzina,
almeno per il momento, era finita. Si alzò di nuovo sulle quattro zampe, e dopo
aver tentato vagamente un approccio di leccata su una delle mani della donna,
salvo venir respinta con un gesto, si avviò alla porta della stanza con aria
più tranquilla e spensierata; sembrava fiduciosa in un perdono nel prossimo
futuro.
«Fatela pure uscire…»
disse Zoal, mentre tornava dietro la tenda.
Andrea aprì la porta e Danza
sgusciò fuori; per un momento la invidiò.
Quando poco dopo Zoal ricomparve, non aveva più in mano l’uccello sgozzato,
anche se stava finendo di pulirsi la mano dal sangue con uno straccio; ora
aveva con sé anche il solito bastone. Le guardò, mentre sfregava via le ultime
tracce di sangue, e sorrise appena.
«A volte le prende una sorta di
istinto da caccia, e mi porta le sue prede in regalo…»
spiegò. «A quanto pare non ha ancora capito bene che non mi fa affatto piacere
che uccida solo per questo.»
Sebbene la prima parte della
frase rientrasse nella norma, la seconda, in qualche modo, lasciò ad Andrea
l’ombra di uno sgradevole dubbio.
«Comunque…»
riprese Zoal, gettando lo straccio sul pavimento, un
po’ più in là «Se volete sedervi, fate pure. Volevo dirvi e darvi alcune cose…»
Seguendo il suo esempio, le due
ragazze si sedettero per terra, accomodandosi sullo spesso tappeto, di fronte
alla donna.
A gambe incrociate, col bastone
appoggiato in obliquo su una coscia, come ormai erano abituate a vederla, Zoal non sembrò avere fretta, come sembrava non averla mai.
La cura dei gesti e dei modi, per lei, pareva uscire indenne da qualsiasi tipo
di urgenza; non per un fatto di eleganza o di apparenza, beninteso, cosa che
d’altra parte avrebbe cozzato miseramente con il resto di lei e dei suoi modi.
Ricordava più che altro una specie di ritualità pagana.
Si prese così la sua pausa di
riflessione, come soppesando le parole, prima di parlare; e a loro due non
parve affatto fuori luogo, considerata la situazione.
«Stanotte andremo dritti al cuore
di ciò che sta accadendo, come sapete.» iniziò, seria ma calma «E so bene che
per voi questo genere di situazioni non rappresentano la norma. Forse - è ciò
che temo - nessuno di noialtri qui è ancora molto capace di tornare indietro
con la memoria abbastanza da immedesimarsi nel quanto ci si può sentire
disorientati, quando non si è già piuttosto… usi a
questo.»
Zoal le guardava con
attenzione, e Andrea si sentì di nuovo come la prima volta che l’aveva
incontrata. Le stava studiando, si sarebbe detto. Ma stavolta lei non voleva
cadere nel gioco di specchi illusori delle pupille verdi, e preferiva rimanere
a distanza di sicurezza dai disegni che pareva di poter vedere fluttuare in
quello sguardo, senza riuscire più a capire se si stava scorgendo solo il
riflesso della propria immagine o qualcosa di cui Zoal
voleva convincere, o ancora altro. Andrea evitò di fissarle direttamente lo
sguardo.
«In ogni caso, verrete con noi, è
questo che volete.» concluse Zoal.
«Valentine.»
disse ancora, guardando soprattutto l’interpellata «Per come abbiamo deciso di
procedere, potresti trovarti particolarmente esposta. Non mi perdonerei se ti
succedesse qualcosa. Per questo, ti affiderò un piccolo aiuto, se vuoi
accettarlo.»
Così dicendo, trasse fuori
qualcosa da una piega imprecisata dei suoi abiti, e tese la mano verso la
ragazza, a palmo aperto e verso l’alto: su di esso campeggiava un piccolo
anello semplice, color ebano molto scuro, con un bordino sottilissimo
d’argento.
Mentre Valentine
osservava il monile con un misto di curiosità e soggezione, Zoal
sorrise con aria un po’ sdrammatizzante, e lo fece saltellare un po’ sul palmo
aperto. «Non è quello della saga di Tolkien. Niente pasticci di dimensioni
epiche, qui. È solo un piccolo amuleto. Ti proteggerà un poco.»
Valentine si decise a
prenderlo, sorridendo appena per quelle parole. «Grazie…»
disse, con sincera gratitudine, infilandoselo al pollice con riverenziale
cautela.
Zoal annuì, come se
fosse soddisfatta. «In ogni caso, Yuta sarà con te.
Le affiderei la mia vita senza pensarci mezza volta. E averla al fianco vale
molto di più di qualsiasi amuleto. Di Ramo non dirò nulla, perché già lo
conosci bene.»
Valentine la guardò bene
in viso. «E’ proprio così.» concordò.
«Ora… se non ti spiace, vorrei
parlare solo con Andrea.» mormorò Zoal, dopo qualche
istante di silenzio.
«Sì, certo…»
e Valentine si rialzò in piedi. Mentre usciva, ripeté
«Grazie, Zoal. Davvero.»
La donna si limitò a rivolgerle
un pacato sorriso, mentre la porta si richiudeva alle spalle della ragazza.
Ora nella stanza c’erano solo Zoal e Andrea. Quest’ultima si concentrò sull’osservare Mama, la quale, dopo aver spalancato le cospicue fauci in
un pigro sbadiglio, si mise più comoda sul fianco, e riprese a dormire.
Alla fine, dal momento che Zoal non diceva niente, Andrea si decise a guardarla. La
donna sembrava riflettere su qualcosa, e la fissava meno intensamente ora.
«E quindi…
hai un amuleto anche per me?» si decise infine a domandare, dopo essersi
schiarita la voce.
Zoal sembrò stupita
per un momento. «Cosa ti fa pensare che abbia un amuleto per te?» domandò,
sinceramente curiosa, con un sorriso gentile.
Andrea aggrottò un po’ le
sopracciglia, suo malgrado colta di sorpresa.
«D’altra parte, tu non credi che
questi ‘amuleti’ abbiano qualche potere reale, vero?» osservò ancora Zoal; sebbene sembrasse sapere di aver colto nel segno, non
appariva per niente offesa o arrabbiata o divertita. La sua era una
constatazione che emanava persino un accenno di gradita considerazione. A
sguardo abbassato sul tappeto, si era messa a giocherellare con le dita con
alcuni sassolini tenuamente colorati che Andrea non aveva notato prima, e che
sospettò avesse tratto da qualche parte dei suoi abiti senza farsi notare.
Sebbene sentirglielo dire
l’avesse lasciata di gesso, cercò di ricomporsi in fretta. «No. Non sono sicura
né che ne abbiano né che non ne abbiano. Ho visto solo un anello. Come posso
sapere cosa può fare? Non ho mai visto gli anelli fare qualcosa di più che
cambiare colore, quelli che dovrebbero dire l’umore di chi li indossa in base
alla temperatura corporea, o qualcosa del genere…Ma… d’altra parte, fino a qualche giorno fa avrei pensato
di essere pazza ad immaginare che potessero accadere veramente cose come quelle
a cui mi sono ritrovata in mezzo. Perciò, al momento è veramente poco ciò di
cui posso sentirmi sicura.»
Zoal annuì
comprensivamente, e lei ebbe l’impressione che l’avesse ascoltata attentamente,
pure se continuava a giocherellare con i sassetti
dall’aria assolutamente e poveramente normale.
«Per esempio, magari ora con quei
sassolini stai leggendo il futuro, o stai controllando se sto parlando
sinceramente. O forse è solo quello che mi vuoi fare credere, per farmi
pressione psicologica.» aggiunse.
Zoal smise di
giocherellare e alzò su di lei uno sguardo singolarmente nudo per lo stupore.
«Uh? Oh… è solo che mi rilassa e mi aiuta a pensare… Scusami.» disse, e rifece sparire i sassolini
dentro una qualche tasca interna tra i vari pezzi di stoffa alla rinfusa che
componevano il suo vestiario.
Andrea, seduta a gambe incrociate
e con le mani puntellate sulle ginocchia, a schiena e braccia diritte, come una
specie di squaw-guerriera impegnata in un discorso di importanza determinante,
si sgonfiò visibilmente, e arrossì d’imbarazzo per la gaffe. Tuttavia, a farla
sentire ancora più a disagio era il fatto che Zoal
non sembrava affatto essersela presa; non c’era ombra di offesa o di fastidio
in lei, ma solo una comprensione un po’ ammirata. Andrea era abbastanza sicura
che fosse molto raro incontrare una persona che considerasse qualcuno che
dubitava in lei un soggetto del tutto rispettabile ed eventualmente da
ammirare.
«Ahem…comunque… pensavo che volessi farmi lo stesso discorso che
hai fatto a Valentine: sul fatto che ho deciso di
partecipare a tutto questo, anche se non è mia abitudine scorazzare in queste
situazioni, e sul particolare che sono specialmente vulnerabile, perché non ho capacità… ‘sui generis’…» riprese Andrea, cercando di
passare oltre il momento di silenzio, che Zoal aveva
occupato fissandola con interesse e con un accenno di sorriso gentile.
La donna accentuò il suo sorriso.
«Sarai insieme a Danny, Andrea. Non posseggo niente che possa essere più
protettivo di lui… specie nei tuoi confronti, credo.
Inoltre, come tu stessa hai detto, saresti disposta a dubitare dall’inizio fino
alla fine nei poteri di qualsiasi oggetto che io possa affidarti; mentre di
lui, di Danny, non dubiteresti. Sbaglio di molto?»
Andrea rimase colpita, e rispose
stentatamente «Non… beh, sì…
è così… in fondo.» Mentre lo diceva, realizzò che era
perfettamente vero. Anche se non sapeva spiegarselo, e non avrebbe potuto
ipotizzare nemmeno lontanamente da che parte iniziare a cercare di darvi un
senso logico e compiuto.
«Tuttavia…
Danny ha anche una grande debolezza, al momento.» aggiunse Zoal,
con gravità.
Andrea tornò a focalizzare su di
lei con preoccupazione; non c’era bisogno che facesse ad alta voce la domanda
che stavano esprimendo con vivace timore i suoi occhi.
«E sei tu.» sentenziò la donna.
Andrea rimase come congelata.
Sebbene questa osservazione le risultasse come uno schiaffo, come sempre Zoal aveva un atteggiamento e un tono tutti suoi: non lo
diceva per farle male, o per attaccarla o accusarla. La sua era una
constatazione chirurgicamente precisa e sicura di sé. Glielo diceva con la
ferma e leale serietà di chi pronostica una prossima caduta, proprio perché
trova la forza di non fare finta che non vi sia quel rischio. Non per questo
faceva meno male.
«Forse, allora, non dovrei venire
con voi. Stai dicendo che la mia presenza potrebbe indurlo ad agire in modo
pericoloso per se stesso, giusto?» disse dopo un po’; l’amarezza le rendeva il
tono duro, ma la rabbia che provava, in fondo lo sapeva, era dovuta al fatto
che credeva che Zoal avesse colto nel segno, che
quegli occhi smeraldini avessero visto benissimo.
«No.» Zoal
scosse un poco la testa, in segno di calmo diniego «Non è questo che intendevo.
Al di là del fatto che è molto meglio che nessuno rimanga qui alla casa da
solo, per via di questo cecchino a piede libero che ci tiene sotto tiro… non voglio suggerire un modo diverso d’agire. Non
voglio indurti a pensare qualcosa. Altrimenti, avrei agito in altro modo.
Quello che mi premeva, è che tu sappia cosa ne penso. Perché se ho ragione, se
al momento tu sei il punto debole di Danny, potresti volerti prendere tutta la
responsabilità che ciò comporta.»
Di nuovo raggelata dalla serietà
delle parole, e dal modo in cui la donna la fissava, come se scandisse una cosa
sulla cui integrità si poteva fondare una colonna portante dell’universo,
Andrea si sentì terribilmente insignificante e impotente. Ma, dopotutto, capiva
cosa Zoal le stava dicendo. Nonostante i loro modi
spesso ben poco ortodossi, i componenti dei ‘4 di picche’
dovevano avere tra di loro un legame particolarmente forte; e quello che a Zoal premeva, era di assicurarsi che Andrea prendesse su di
sé con il dovuto rispetto e impegno il compito di vegliare su Danny. Curioso
che non avesse piuttosto scelto di fare il contrario; questo Andrea non era
sicura di capirlo: solitamente era da raccomandarsi al più forte e capace di
proteggere il più vulnerabile… non viceversa. E non
credeva affatto che Zoal la ritenesse più forte di
Danny; anzi, come le aveva detto, lei ne rappresentava al momento il punto
debole. Chiedere al punto debole di qualcuno di prendersene cura…
aveva una logica particolare, intricata, e forse inesistente. In quella logica Zoal credeva.
Andrea la guardò direttamente,
scacciando da sé al meglio possibile i brandelli degli ultimi dubbi; senza
rendersene conto drizzò ancora di più la schiena e alzò bene la testa, cosicché
il profilo del suo viso, mal illuminato dalla luce del piccolo lampadario di
cartapesta che spioveva dall’alto, assunse un taglio di chiaro-scuro
particolarmente netto. Alcune delle piume dai colori variopinti appesi a quello
stesso lampadario, attraversate dalla luce, giocavano riflessi violacei, blu e
rossastri intorno; e quando uno di questi riflessi toccava gli occhi di Zoal, spariva, come se venisse ingoiato. Gli occhi verdi
che ora erano completamente concentrati su Andrea.
«Non permetterò che gli… che ci accada niente.» si ritrovò a dire la ragazza,
con tono fermo e deciso. Pareva qualcosa in cui credesse senza requie,
piuttosto che una promessa. E non era davvero completamente consapevole di ciò
che sembrava emanare da lei in quel momento, dell’impressione che offriva con
quel tono, con quello sguardo testardamente fisso, e con quella posa da squaw
battagliera. Ma era un’immagine che gli occhi smeraldini che la guardavano
potevano cogliere appieno, e un po’ più oltre anche.
Zoal annuì,
abbassando lo sguardo, e sorrise tra sé e sé tenuemente; intanto aveva infilato
una mano di nuovo in qualche punto recondito dei suoi abiti. Quando la trasse nuovamente
allo scoperto, chiusa a pugno, Andrea per un momento pensò che stesse ritirando
fuori quei sassolini con cui giocherellava fino a poco prima. Ma poi la mano si
aprì di colpo, e lei sussultò quasi nel vedere un piccolo oggetto che ne cadeva
fuori, salvo fermarsi di botto a mezz’aria, rimanendo a ciondolare appeso alle
dita aperte di Zoal, sospeso tra loro due.
Andrea fissò il laccio sottile di
caucciù e la cosa che vi era appesa, per lunghi istanti, incuriosita. Il piccolo
cattura-sogni aveva un aspetto classico, quasi scontato nella sua semplicità,
ma c’era qualcosa nella fattura un po’ rozza e leggermente irregolare che dava
l’idea che fosse stato costruito molto artigianalmente. Un cerchio non
perfettamente circolare di canapa intrecciata, in mezzo al quale si stendeva
una tela estremamente fitta e sottile, semitrasparente – di qualsiasi materiale
fosse, non riuscì a riconoscerlo, dopo aver scartato con sicurezza il nylon – ;
al centro della tela, costruita con l’architettura di una rete di ragno, era
incastonata una perlina minutissima color indaco – anche in questo caso Andrea,
dopo aver scartato l’opzione plastica, non riuscì a distinguere se potesse
essere legno od osso o qualcos’altro, quello sotto il colore aggiunto a
pennellate – ; ed infine, su tre punti del cerchio, rispettivamente ai lati e
in basso, erano legati tre sparuti gruppetti di piume un po’ arruffate: il
colore di sfumature marroncine, con fascette bianche
maculate di marrone o di nero, fece pensare ad Andrea che fossero appartenute
originalmente a qualche rapace notturno.
«Così…
dopotutto qualcosa per me lo avevi…» disse dopo un
po’, con un sorriso.
Zoal la guardò con
una simpatia lievemente stupita, e un accenno di rimprovero scherzoso. «Non si
tratta di un amuleto.» specificò «E tu, comunque, non riesci a crederci del
tutto, negli amuleti. I pericoli dovrai affrontarli da sola, dunque. Questo ti
aiuterà a tenere lontani gli incubi; che sono più insidiosi, e sanno giocare
tiri più mancini, di solito.»
Andrea si decise ad allungare una
mano a palmo aperto verso l’alto. Zoal vi appoggiò
con delicatezza il ciondolo, lasciandovi serpeggiare sopra il caucciù. Parve
riflettere un momento su qualcos’altro. «Non ho ucciso nessuno, per quello.
Sarebbe un grave errore costruire una trappola per incubi gravida di orrore,
sarebbe esattamente l’opposto di ciò che ci si augura. Le piume sono state
smarrite; ma per molti notti hanno accompagnato la caccia dei loro proprietari,
e di giorno ne hanno cullato il sonno. I rapaci notturni, che dormono di
giorno, sognano solo alla luce del sole, mentre con gli incubi notturni ci
hanno a che fare con molta dimestichevolezza, visto
che sono ben svegli quando li incontrano, e per giunta in caccia.». Zoal sorrise, con amorevolezza «Così…
ritengo che abbia il suo valore.» concluse.
Andrea se lo legò al collo, lo
toccò brevemente, con delicatezza, e poi lo infilò sotto gli strati di
maglietta e maglione, celandolo. «Ne sono sicura.» disse, con un serio sorriso,
guardando dritto dritto negli occhi verdi, stavolta
per affermare lei qualcosa a loro.
Note
dello scribacchiatore: come spero si sia intuito, la seconda parte di
questo capitolo è un vero e proprio flash-back, anche se di poche ore. Nei
prossimi capitoli compariranno a volte alcuni flashbacks,
di periodi anche più lunghi. Dovrebbe sempre risultare intuibile (per via delle
scene descritte), quando si tratta di un flashback. E, dal momento che apprezzo
molto il rendersene conto leggendolo, non offrirò specifici simboli per
indicare che quello che sta iniziando è un flashback. Tranne qui (ho usato un segno
diverso per lo stacco tra le due parti), che mi sembrava logico specificarlo. Così,
vado a sentore. Spero non risulti problematico. Mi direte poi, eventualmente.
Capitolo 52 *** 50 - ATTENZIONE A RADICI E CECCHINI ***
Capitolo 50
(ATTENZIONE A RADICI E CECCHINI)
Un forte rumore lacerò di colpo i
ricordi di Andrea, risuonando prepotentemente nel bosco, in lontananza. Danny
frenò di botto, e la ragazza quasi perse l’equilibrio, rischiando di capriolare in avanti sopra la testa del lupo e di cadere
per terra. Ma l’improvvisa guardia alta suscitatale dal rumore dello sparo le
aveva subito allertato i riflessi, e riuscì in qualche modo a rimanere in
groppa al lupo; l’animale stava già fiutando l’aria e cercando di catturare suoni,
il muso fremente in alto e le orecchie ritte e mobili.
«Cosa…
cos’è stato?» domandò istintivamente Andrea, prima di ricordarsi che Danny,
nella forma in cui si trovava, non poteva certamente comunicare a parole.
Nonostante questo, comprese cosa voleva dirle quando accennò a sdraiarsi per
terra: era ora di scendere. Andrea scavalcò la sua schiena e con gratitudine si
ritrovò con i piedi per terra. Porse il pacco di vestiti al lupo, in modo tale
che potesse prenderlo tra i denti come un fagotto, senza perdere niente per
strada mentre trotterellava via trasportandolo.
Lei aspettò, con pazienza. Lo
sparo era lontano, e quindi non le faceva paura. E se qualche altro demone
fosse saltato fuori per attaccare, lei era certa che Danny fosse abbastanza
vicino per accorrere fulmineamente.
«Buonasera, signorina.»
Andrea si voltò di scatto, tutti
i peli del corpo ritti, elettrificati dalla paura: e non vide nessuno; iniziò
ad avere un brutto presentimento. Continuò a girarsi intorno a trecentosessanta
gradi, con una lentezza rigida di timore e precauzione, frugando con gli occhi:
ma ancora non vedeva anima viva.
«Oh, non si spaventi. Non ho
intenzione di farle alcun male. Certo, comprendo che forse la mia introduzione
è stata maleducata. Di questo mi scuso. Ad ogni buon conto: sono qui, proprio
di fianco a lei.»
Andrea guardò con fissità ottusa
un tronco. Cautamente, ci girò attorno, ma non trovò niente. «Qui… ‘qui’ dove…?» domandò,
esitante. Se solo fosse riuscita a temporeggiare finché non fosse tornato
Danny, allora…
«Beh…»
tentennò la voce «Mi ha appena fatto un giro completo intorno, signorina…» spiegò la voce, sentendosi in imbarazzo per
lei.
Andrea alzò di scatto la testa
verso l’alto, e si ritrovò a fissare niente più che la chioma dell’albero. «Sei
nascosto lassù?» chiese. «Allora, vieni fuori, no? È piuttosto stupido parlarmi
standotene nascosto.» Davvero, non aveva idea da che cosa le scaturisse tanta
faccia tosta; non era sicura di voler scoprire la sagoma, probabilmente
mostruosa, di chi le stava parlando, con quel tono così garbato che doveva
essere un tentativo di ingannarla. Ma vedere bene cosa stava per affrontare
probabilmente le sarebbe risultato meno inquietante che non vederlo. Almeno lo
sperava.
«Ma sono proprio davanti a lei,
signorina. Oh, capisco. Forse lei non è abituata a dialogare con gente come
noi. Non si preoccupi, allora… In ogni caso, le sarei
molto grato se potesse scendere dalla mia radice… sa
com’è… con l’umidità la corteccia diventa un po’
morbida, e rischiamo di sbucciarci più facilmente del solito…»
Andrea spiccò praticamente un
balzo, e si spostò in fretta e furia dalla radice su cui aveva un piede. Subito
dopo, si concesse di essere impazzita. Stava parlando con…
quello che sembrava… ma che non poteva essere…giusto…?
«Sei…
sei un albero?» riuscì a dire, con voce particolarmente stentorea, che le uscì
a fatica.
L’albero rise leggermente, con
quel fare piuttosto accondiscendente e un po’ formale che ci si potrebbe
aspettare da un anziano lord che trova potenzialmente divertente uno scherzo da
humor inglese, pronunciato con immotivato orgoglio al
di sopra di un tè delle cinque con pasticcini e abiti eleganti, in un salotto
con unche di nostalgicamente vittoriano
nell’arredamento.
«Oh, mia cara, per l’amor del
cielo, no.» le rispose l’albero. «La mia storia è un poco più complessa…»
«Allora, al massimo potresti fare
un riassunto veloce, perché abbiamo una fretta del diavolo.»
Andrea, che stava studiando la
corteccia del tronco e la chioma, cercando di capire dove fosse il trucco che
faceva apparire come se la voce uscisse proprio dalla pianta, si voltò
repentinamente udendo quel commento deciso, e si ritrovò a fissare Danny. Il
ragazzo, che tornava verso di lei camminandoad ampie falcate, si stava giusto finendo di infilare il giubbotto sulla
schiena del quale era cucita la toppa col simbolo delle picche; aveva già la
cintura con le cartucce assicurata saldamente alla vita, e una delle pistole
visibile, infilata nella custodia assicurata alla stessa cintura.
Lei si sentì estremamente
sollevata; forse Danny poteva spiegarle perché, contro tutte le possibilità del
mondo, quell’albero stesse parlando. E, per prima cosa, il fatto che avesse
risposto alla voce significava che non la stava sentendo solo lei: un gran bel
segno.
«Ohhh…
» mormorò l’albero, ammirato «Salve, lei è un lupo mannaro, vero? Molto
grazioso, sì. L’avevo notata prima. Spero solo che non appartenga a qualche
gang di balordi… Non se la prenda, sa? Ma con quel vestiario… è soprattutto per via della giacca con quella
toppa che l’ho pensato.»
«Senti, alberello, non è che hai
visto qualcosa di strano da queste parti, ultimamente, eh?» domandò Danny, con
aria accattivante e allo stesso tempo lievemente minacciosa.
«Oh.» l’albero sembrava esserci
rimasto male; mai quanto c’era rimasta male Andrea, nel rendersi conto che
stava diventando stranamente normale, ora, parlare con un albero. Iniziava a
considerare con preoccupazione il fatto che si trovassero immersi in un bosco
pieno di alberi. E se si fossero messi a parlare tutti insieme? O a cantare?
Potevano essere terribilmente stonati. Ok; forse stava iniziando a dare di
matto per lo shock.
«Come stavo spiegando alla sua
gentile signora, non sono certo un albero. Oh ohoh… » ridacchiò l’albero, con superiorità benevola «…certo che no. Altrimenti non potremmo stare avendo questa conversazione…»
«Giusto!» concordò energicamente
Andrea.
Danny le rivolse una fugace
occhiata incuriosita, poi tornò a rivolgersi alla voce dell’albero. «E allora
cosa sei? In breve!» ammonì.
«Vedete, la mia triste storia
inizia molti anni or sono. Più precisamente… »
trascorse qualche secondo di silenzioso rimuginare «…oh…
per dirindindina… non rimembro, ahimé.»
mormorò sconsolato l’albero.
«Sembra molto tempo, in ogni
caso.» osservò Danny, riferendosi allo stile delle espressioni linguistiche
usate dalla pianta «Ti ripeto, se non riassumi molto stringato, non perderemo
un attimo di più qui. Non abbiamo tempo!»
«Certamente, certamente. Vi
prego, non angustiatevi. Sarò breve.» si affrettò a promettere la voce «Dunque,
in breve… ero un gentiluomo che aveva tutto ciò che
un uomo può desiderare nella sua vita: una moglie devota, tre figli splendidi e
rispettosi, una casa in un tranquillo quartiere, un onesto lavoro all’ufficio
pubblico, e una vita per bene. Sapete, ‘l’angelo di Dio bacia in fronte gli
uomini savi e onesti, e li tiene in gran cura’.»
«Cos’è? La bibbia?» domandò
Danny, annoiato.
La voce apparve orrorificata. «Oh, no. Ma il nostro predicatore, padre O’Neill, che il Signore l’abbia in gloria, amava dire questa
frase accomiatandosi a fine messa.»
«Credevo di averti chiesto più
volte di essere breve.» ripeté Danny, il quale appariva sul punto di gettare la
spugna.
«Ebbene, come dicevo, tutto ciò
che un uomo possa desiderare nella propria vita, quello Dio me l’aveva donato.
Ma un giorno, accadde l’impensabile.»
«Iniziasti a pensare con la tua
testa? O ti sei accorto di essere un morto ambulante?» domandò Danny, poco
impressionato.
«No.» negò l’albero, senza
apparentemente cogliere il senso delle parole del ragazzo, immerso com’era
nella rievocazione della propria vicenda. «Un giorno, la sorella della mia
amata Elizabeth, che il Signore abbia cura di lei, venne a farci visita.»
«Perché il novanta per cento
delle donne inglesi nell’ottocento si chiamavano Elizabeth?» domandò Danny,
rivolgendosi ad Andrea. «Doveva essere un gran casino, specie nelle classi
scolastiche o nei luoghi pubblici.»
«Le donne non andavano a scuola. Elizabeth… ci sono state diverse regine che si sono
chiamate così…» tentò di spiegare Andrea, sebbene la
sua voce suonasse distratta, e lei continuasse a fissare l’albero parlante con
uno sguardo particolarmente spiritato.
«Oh, già.» commentò Danny,
considerando con preoccupazione l’espressione di lei. «Va tutto bene?»
«Sì. Forse. Non saprei. Gli
alberi parlano spesso da queste parti?» domandò la voce di Andrea, impegnata
nel non incrinarsi; le uscì comunque di gola fragile come cristallo.
«A dir la verità è la prima volta
che ne sento uno.» concesse Danny «Comunque, lui pensa di non essere un
albero.»
«Oh, beh…
pensa che io ero convinta che gli alberi non potessero parlare. In nessun caso.
Tranne agli schizofrenici forse.» osservò la ragazza, con correttezza.
«Ha-hem.»
si schiarì cortesemente la voce l’albero.
«Oh, sì, scusa. Dicevi? A
proposito di tua…tua… la
sorella di tua moglie, insomma?» e Danny si voltò di nuovo verso l’albero, pur
premurandosi di stringere una presa gentile con la mano intorno ad un braccio
di Andrea.
«La sorella di mia moglie era una
persona orribile. Ed era una strega.»
«Ahan.
E quindi?» sollecitò Danny, impaziente.
All’albero sembrò evidente che il
suo interlocutore non aveva colto per niente la pausa ad effetto che aveva
appena fatto. «No. Una vera strega, una vera e propria strega. Una con i poteri
magici, una sposa del Demonio, un’anima dannata, una donna che non solo non si
pentì del tremendo errore che Eva fece col serpente ma che proprio nella ripetizione
continua e disprezzante di quell’errore…»
«Hey!»
urlò Andrea. Danny sussultò e la guardò, e dal suo sguardo inviperito comprese
che stava per iniziare una diatriba infuocata sull’argomento ‘donne’. Vedeva
già dove avrebbe portato: da nessuna parte.
«E’ stata lei a trasformarti
così?» si affrettò quindi a chiedere Danny.
Sul viso di Andrea spuntò un
sorrisetto soddisfatto e vittorioso. Poi, sembrò realizzare qualcosa di punto
in bianco. «Aspetta un attimo! Quindi tu non sei un albero! Cioè, non un vero e
proprio albero. Se un uomo trasformato in albero!»
Danny pensò che se un albero
potesse avere delle sopracciglia, quelle del loro interlocutore in quel momento
sarebbero state molto incurvate verso l’alto.
«Proprio così, milady. Come vi ho
detto fin dall’inizio.»
«E perché ti ha trasformato in
quel modo?» domandò Andrea, incrociando le braccia sul petto e poggiando il
peso su una sola anca, con l’aria di chi si vuole godere qualcosa fino in fondo.
«Come dicevo!» interruppe Danny
ad alta voce «Noi abbiamo fretta! È risuonato uno sparo, poco fa, e…»
«Oh, dev’essere
stato quel tipo che è passato di qui un po’ di tempo fa.» disse l’albero.
Danny trasecolò. «Quale tipo?»
«Dunque…
doveva essere alto pressappoco un metro e settantuno. Forse un metro e
settantadue, a dirla tutta. Sapete, guardando le cose dall’alto è un po’ più
arduo riuscire a farsi un’idea di…»
«Sembrava un tizio furtivo, era
armato, e stava seguendo qualcuno?» domandò a raffica Danny.
«Hum…
sì, era furtivo. Non è buon costume sparlare così di qualcuno, certo, ma
vedete, devo proprio notificare che aveva un aspetto molto poco raccomandabile.
Sì, credo che stesse seguendo le tracce di quei signori che sono passati poco
prima di lui… avevano anche un cagnetto con loro… e avevo iniziato un’interessante conversazione, anche
se… »
Andrea smise di ascoltare
l’albero, mentre guardava l’espressione grave di Danny. Non sembrava
particolarmente sorpreso, e lei capì che non aveva proceduto casualmente fino a
quel momento. Aveva seguito una pista di odori. Ma sentire quello sparo doveva
averlo convinto a riprendere la sua forma umana alla svelta; ovvero, la forma
che gli permetteva di utilizzare le sue pistole.
«Comunque, anche voi sembrate
brave persone.» proseguì l’albero «Sapete, è un vero piacere poter scambiare
due parole con qualcuno. Non è un’occasione che mi capita di sovente, come
potete immaginare. Oh, con questo non voglio dire che questi alberi non siano
interessanti, a loro modo. È solo che ho impiegato molti, molti anni per poter
iniziare a comprendere un po’ del loro linguaggio, e molte cose ancora mi
sfuggono. Inoltre, temo di avere un pessimo accento, perché quando provo a dire
qualcosa non mi rispondono, come se non mi capissero affatto, o come se non mi
sentissero.»
Danny e Andrea pensarono bene di
non avanzare nessun commento a quest’ultima cosa.
«Ma voi sembrate delle persone
per bene, voglio dire, non ho mai visto un lupo mannaro prima d’ora, ma lei
sembra gentile, nonostante quel suo vestiario. La sua signora è molto graziosa.
Siete sposati, nevvero?»
«Assolutamente no!»
«Diavolo, no!»
Mentre l’albero inorridiva, Danny
e Andrea si scambiarono un breve sguardo, dopo aver esclamato la risposta nello
stesso momento. E si sorrisero, in una specie di dolce e reciproca comprensione.
«Ma…
volete dire…che… ?»
tentennò l’albero.
«Ora sarà meglio che andiamo.»
concluse Danny, incupendosi in volto.
Andrea annuì, e lo seguì
nell’addentrarsi tra gli alberi, verso la direzione da cui proveniva lo sparo.
«Oh, aspettate…
posso capire che dovete avere avuto delle difficoltà, figlioli, per via della
sua natura, signore, ma non per questo dovete arrendervi…
una fuga non è la soluzione, anzi, manderà in rovina voi e le vostre famiglie… Aspettate, potrei esservi d’aiuto in qualche
modo, e… » per un momento l’albero si rese conto di
che cosa stava effettivamente dicendo, ripassò sul fatto che al momento era
impedito a qualsiasi movimento a causa del suo essere a tutti gli effetti un
albero, e tentennò. «Almeno con un consiglio!» tentò disperatamente.
Fu l’ultima cosa che udirono i
due ragazzi, ormai lontani, mentre praticamente procedevano di corsa, sperando
vivamente di non essere lontani dalla fonte dello sparo.
*
***
*
‘Mantenere la calma’, ecco quello
che era diventato un ritornello quasi ossessivo nella mente di Valentine, mentre si teneva nascosta dietro il tronco di un
albero, ricontrollando ogni pochi secondi che nessuna parte del suo corpo
sporgesse fuori dal riparo. Allo stesso tempo, tentava di ascoltare
attentamente, nel caso fosse stata capace di percepire qualche rumore insolito.
E ogni due secondi lanciava occhiate ansiose agli alberi sparsi davanti e di
fianco a lei, per cogliere l’immagine di Ramo, nascosto dietro un altro tronco
a qualche metro di distanza.
Yuta non riusciva a
vederla, ma era certa che doveva essere nascosta da qualche parte nei dintorni.
Il piano si poteva dire riuscito,
persino troppo bene forse.
Valentine sapeva, fin da
quando era iniziata quella notte, quale era il ruolo suo, così come quello di Yuta e di Ramo: un’esca. Avevano pensato, mettendo insieme
idee, ragionamenti, timori, valutazioni e critiche varie, che il loro ‘angelo
custode’ doveva essere attirato allo scoperto, e che non potevano farlo nello
stesso posto e momento in cui si sarebbero trovati ad affrontare chi aveva
ordito tutto quello. Dovevano occuparsene su due piani diversi.
Quattro gruppi, e due diversi
obbiettivi. Kumals, Zoal,
Danza e Mama avrebbero puntato direttamente sulla
casa celata nella boscaglia che supponevano fosse il quartier generale di cosa
stava accadendo. Il cecchino li avrebbe lasciati perdere, considerando i due
cani in grado di poter rilevare il suo odore e di attaccare, oltre a due
persone che, se come supponevano aveva a disposizione abbastanza informazioni
su di loro, sapeva non essere sguarnite di capacità combattive affatto alle
prime armi come esperienza. Uther e Justin li
avrebbero raggiunti poco dopo, in supporto. Il cecchino li avrebbe lasciati
perdere perché, considerando il fucile di Uther, li
avrebbe considerati scomodi da attaccare, ma allo stesso tempo insignificanti.
Poi loro: Yuta,
Ramo, Duca e lei. Un cagnetto piccolo, una ragazza totalmente sguarnita di armi
e poteri vari, uno armato di una mazza di legno, e, forse l’unico lato dolente
– e tagliente – :Yuta con i suoi due cerchi da
utilizzare come arma. Scartando il gruppo costituito da Danny e Andrea, perché
un lupo mannaro era un po’ troppo, considerando specialmente che avrebbe dovuto
attaccarlo nel suo ambiente naturale - un bosco - tutti loro si aspettavano che
il loro ‘angelo custode’ avrebbe puntato sul gruppo capitaneggiato da Yuta. E non avevano avuto torto. Era in qualche modo strano
sperare nell’essere efficaci come esca, e Valentine
se ne rendeva conto ora come non mai. Strinse i denti e le labbra, nervosamente;
il cuore le correva rapido in gola, quasi rendendole faticoso respirare.
Quando la voce li aveva
apostrofati, intimando loro di fermarsi lì dove si trovavano, mentre erano sul
termine di una piccola radura che avevano appena attraversato con tensione
palpabile, sapevano già da un po’ di essere seguiti; a segnalarlo era stato
l’atteggiamento nervoso di Duca, che, pur avendo fiutato la traccia, aveva
ubbidito a Yuta, che gli ordinava di continuare a
camminare con loro. Il cecchino era così sicuro di sé che, seguendoli, non si
era nemmeno preoccupato di mettersi sotto-vento, per impedire che Duca lo
sentisse. Questo particolare aveva reso Valentine
molto vicina alla pura paura, ma Yuta sembrava così
decisa del fatto suo. E ora si chiedeva se non si fosse sforzata di apparire in
quel modo solo per impedire a lei e Ramo di innervosirsi ancora di più.
Però, era anche vero che, appena
avevano sentito la voce ordinare loro ‘Fermi dove siete.’, con freddezza
soddisfatta, Yuta aveva reagito con la prontezza e la
rapidità di un lampo. Aveva gridato loro di mettersi al riparo, nello stesso
istante in cui si voltava e scagliava con forza uno dei due cerchi con lama,
dopo aver preso la mira in un frammento di secondo. Frammento di secondo
insufficiente, era da ammettere. Il cerchio aveva vorticato nell’aria con la
precisione di un frisbee lanciato con perizia omicida, ma all’uomo fermo almeno
una cinquantina di metri dietro di loro era bastato spostarsi un poco di lato,
ed in ogni caso la traiettoria non era abbastanza precisa da colpirlo: il
cerchio si era andato a piantare in un tronco dietro di lui.
Anche se Valentine
- già rifugiatasi dietro il tronco dell’albero che occupava anche in questo
momento, dopo aver afferrato rapidamente Duca per portarlo con sé - non aveva potuto vederlo, il cecchino aveva
lanciato un lungo sguardo incuriosito a quel singolare tipo di arma. Aveva
considerato con ammirazione il fatto che la lama si fosse piantata nella
corteccia molto dura per due buoni terzi. Poi era tornato a guardare verso i
suoi obbiettivi, ben sapendo che già non erano più in vista, tutti nascosti da
qualche parte dietro i tronchi. E allora, con molta calma, aveva iniziato a
considerare quale di loro sarebbe stato meglio eliminare per primo, e poi chi
l’avrebbe seguito.
I suoi occhi videro
immediatamente, dopo molto minuti di completo silenzio e immobilità, un
movimento: avvenne in contemporanea al fatto che aveva iniziato a muovere lenti
passi verso il punto in cui riteneva più probabile si fossero nascosti. Alzò la
pistola, moderna, precisa, infallibile, che impugnava, e sparò proprio in quel
punto; era abbastanza sicuro di averlo mancato, e se ne sentì piuttosto
infastidito. Intanto l’oggetto che il braccio che si era sporto aveva lanciato
nella sua direzione stava cadendo verso il suolo: quando atterrò rimbalzò un
paio di volte, poi, quasi subito, iniziò a sibilare, e fu inghiottito da una
possente nuvola di fumo che eruttò fuori, spandendosi rapidamente. Non era un
fumogeno, considerò il cecchino, rinunciando al gesto con cui aveva accennato a
portarsi un lembo di tessuto che teneva al collo sulla parte posteriore del
viso; se fosse stato un fumogeno, aveva anche un paio di occhiali specifici in
tasca, ma non sarebbero stati necessari. Tutto quello che le sue vittime
potevano tirar fuori, a quanto pareva, era uno scarso effetto pirotecnico, una
piccola bomba che produceva una nebbia biancastra, non tanto ampia.
Il cecchino sorrise, divertito, e
iniziò a spostarsi ad ampi passi, quel tanto che gli sarebbe bastato per
evitare la nuvola ed avere la visuale comunque libera.
Ramo imprecò tra sé e sé: in
quell’imprecazione era contenuta l’irritazione nel constatare che il suo
piccolo stratagemma non sarebbe valso a molto, e il sollievo nello scoprire che
il colpo del cecchino gli aveva mancato il braccio, anche se di poco. Indagò
con le dita il tessuto lacerato della giacca che indossava, e si ritrovò in una
di quelle situazioni un po’ grottesche in cui ringraziare solo la fortuna
sembra stranamente un po’ insufficiente. Ma c’è sempre il caso: il prezioso
caso.
Fece un cenno in direzione di Valentine, che vedeva, nascosta non molto lontano, per
segnalarle che andava tutto bene, che non era ferito. La ragazza sembrò
particolarmente sollevata. Ramo si voltò dall’altra parte, cercando per
l’ennesima volta con lo sguardo Yuta; era quasi certo
di averla intravista nascondersi dietro un certo albero, ma non riusciva a vederla.
Si spostò un poco, e cercò di spiare appena oltre la curva del tronco
dell’albero, per individuare la posizione che aveva guadagnato il cecchino.
Se le sue supposizioni erano
esatte, Yuta si era nascosta in modo tale da cercare
di sorprenderlo, con un agguato abbastanza ravvicinato da impedirgli di
spararle, per ingaggiare subito uno scontro fisico, in cui lei, sebbene le
fosse rimasto solo uno dei suoi cerchi con lama, poteva avere indubbiamente la
meglio. Ma quel cecchino non era del tutto stupido. Sapendo di essere l’unico
ad avere delle armi da fuoco, si manteneva in mezzo alla piccola radura, allo
scoperto: per avvicinarglisi avrebbero dovuto uscire
allo scoperto degli alberi, e lui avrebbe potuto colpirli in maniera
ridicolmente facile. Tutto ciò che Ramo poteva fare, dunque, era continuare a
lanciare una ad una quelle piccole bombe di fumo che aveva con sé, e non erano
molte. Sperava di riuscire a produrre abbastanza fumo, se non da permettere a Yuta di avvicinarsi al cecchino senza essere colpita,
almeno per prendere tempo, impedendogli di avvicinarsi ai loro nascondigli,
costringendoli ad allontanarsi saltando da tronco a tronco, di riparo in
riparo: anche in quel caso avrebbero offerto un bersaglio abbastanza semplice.
Prendere tempo, ecco tutto quello
che occorreva loro. Danny doveva aver sentito lo sparo. E doveva essere sulle
loro tracce. Mentre loro tenevano occupato il cecchino in qualche maniera,
cercando come meglio possibile di non farsi colpire, Danny gli sarebbe piombato
alle spalle, e fine.
Forse potevano anche cercare di
congegnare un piano migliore… vero. Ma a nessuno di
loro era venuto in mente qualcosa di meglio.
Ramo prese un respiro profondo, e
di scatto si sporse dal tronco solo col braccio per lanciare un'altra di quelle
bombette. Anche se sperava di no, in effetti la pistola del cecchino era già
puntata quasi sul punto in cui lui era nascosto, con ancora un certo margine di
errore; ma dal momento che i suoi occhi erano intenti al minimo movimento, ora
individuarono con precisione l’albero dietro cui si nascondeva Ramo. Ignorando
la bombetta che iniziava a tracciare la parabola a mezz’aria, il cecchino stava
già premendo il grilletto, stavolta puntando con precisione sul braccio sporto,
ma qualcosa uscì dal folto di alberi a velocità incredibile, diretto verso di
lui. L’uomo dovette scansarsi abbastanza prontamente da evitare un altro
cerchio con lama rotante, che lo mancò di poco, e il colpo che aveva esploso, a
causa del suo scatto, mancò di una generosa distanza il braccio di Ramo.
Anche se doveva ammettere di
essere stato colto di sorpresa, a farlo era stata la stupidità delle sue
vittime, considerò il cecchino, mentre con alcuni passi si spostava dalla nuova
nuvola di innocuo fumo.
«Brutta mossa, signorina Yuta.» disse a voce alta, per farsi chiaramente udire.
«Temo proprio che lei abbia esaurito i suoi cerchi… »
E, soprattutto, considerò il
cecchino con un sorrisetto di commiserazione, la ragazza era rimasta senza armi
solo per salvaguardare un braccio del suo collega. Un braccio. Chissà che
avrebbe fatto se fosse stata a repentaglio l’intera vita dell’altro. Ad ogni
modo, si deliziò l’uomo tra sé e sé, ben presto lo avrebbe scoperto. E con
perfetta calma riprese ad avvicinarsi agli alberi dietro i quali, lo sapeva, si
nascondevano, da qualche parte, le sue prossime vittime. Uno, il nascondiglio
del ragazzo, era già stato individuato con precisione. Dunque, lui sarebbe
stato il primo. Si rammaricava di non aver potuto individuare con sufficiente
precisione anche il punto da cui era partito il cerchio con lama; ma questo
particolare non lo preoccupava eccessivamente.
Erano tutti lì davanti a lui, e
ben presto, uno alla volta, senza fretta, se li sarebbe lasciati dietro le
spalle. Poi si sarebbe dedicato anche agli altri. Certamente avevano rallentato
il suo lavoro, separandosi a quel modo. Ma, dopotutto, avevano anche diminuito
di molto la loro forza complessiva; al punto da ridursi a farlo semplicemente
giocare al tiro a segno, praticamente, com’era in quel caso.
Non aveva fretta; la notte era
ancora lunga.
Note dello scribacchiatore: lo so, sono in ritardo. Abbiate pazienza. Non
son riuscito prima.
Capitolo 53 *** 51 - TEMPESTA NELLA STANZA DEI BOTTONI - I parte ***
Capitolo 51
(TEMPESTA NELLA STANZA DEI BOTTONI –
parte I)
Intorno all’edificio immerso
nella boscaglia, lo schieramento delle persone prive di coscienza di sé pareva
una sorta di crociata di pezzenti che fosse rimasta incantata nella visione di
qualche specie d’apparizione celeste, e che tuttavia non se ne rendesse conto;
però l’appariscente lo notavano.
Quando un rumorino iniziò ad
udirsi tra gli alberi, l’attenzione di tutti si calamitò immediatamente in quel
punto; l’istante dopo, un cane dall’aria spensierata trotterellò fuori dal
folto della vegetazione, producendo un suono allegramente scampanellante. Ciò
era sicuramente dovuto al fatto che portava un campanellino dorato appeso al
collo. Ma l’esercito di persone ridotte in una sorta di coma vigile non si
soffermò nemmeno per un istante su questo particolare. Quasi tutti si gettarono
immediatamente in avanti, verso il canecol campanellino, con la prontezza di un meccanismo automatico che
scatta in risposta all’aver pigiato un bottone o piegato una leva dalla parte
giusta.
Danza schizzò immediatamente in
un trotterellare molto più sostenuto, e si lasciò inseguire da una schiera impressionantemente numerosa di persone che non
desideravano null’altro che metterle le mani addosso, apparentemente senza che
ciò la turbasse così tanto. Poco prima che si inoltrasse nel bosco, da un folto
di cespugli un secondo cane uscì allo scoperto. Mama
si erse in tutta la sua potenza muscolosa e di grandi dimensioni, troneggiando
sulle tre zampe, ed emise un potente latrato.
L’attenzionedi almeno due terzi del gruppone
scomposto si focalizzò su di lei, mentre Danza proseguiva tranquillamente sulla
sua strada, trotterellando dentro la boscaglia. La folta mandria di persone
inebetite si trovò così davanti ad un notevole dilemma: alla fine, parte di
loro decise di seguire lo scampanellio trotterellante di Danza, mentre i
restanti si misero alle costole di Mama, che aveva
preso ad allontanarsi di buona lena. Questo produsse un caos indescrivibile. Le
persone cozzarono le une contro le altre, si inciamparono addosso e in loro
stesse, caddero più volte, vennero mezze pestate, si rialzarono come se nulla
fosse accaduto e ripresero l’inseguimento dell’obbiettivo che avevano scelto, o
forse dell’altro, difficile stabilirlo. Dopo diversi minuti di quel ribollire
di persone prive di ogni senno eppure spinte in avanti da una volontà indomita,
cosa che le rendeva simili a una moltitudine di altri gruppi di persone che
avevano avuto parti più o meno determinanti nella Storia – e in una ben più
nutrita schiera di ‘storie’ senza alcuna maiuscola – prima di loro, il gruppone si divise pressappoco in due gruppi, che
inseguirono l’uno Mama e l’altro Danza; una parte si
inoltrò nella boscaglia con uno di questi stessi propositi, ma prendendo
direzioni completamente sbagliate.
Tra il fittume
della bassa vegetazione, in un punto diverso della boscaglia, si sarebbe potuto
sentire, se si fosse stati dotati di un udito molto sviluppato, un gemente
sospiro di sollievo parecchio auto-incredulo.
«Ha… ha
funzionato… » mormorò Justin; spiò il viso di Kumals, che aveva assistito alla scena nascosto di fianco a
lui, e vi trovò un’espressione ancora molto preoccupata. «Ha funzionato, no?»
«Troppo semplice…»
commentò l’uomo, con aria truce.
«A me non sembra affatto così semplice…» lamentò Justin, guardando ancora verso
l’edificio «Ci sono ancora tutti quelli lì.»
Non tutte le persone radunate là
fuori avevano seguito i due cani, in effetti. Una fila che si chiudeva a
perimetro protettivo intorno all’edificio, oltre a tutto il gruppo che
affiancava ordinatamente schierato il tappeto rosso di benvenuto, non si erano
mossi, non avevano battuto ciglio.
Justin udì la voce di Zoal, accanto all’altro suo fianco. «Loro non sono attirati
da suoni e rumori, a differenza di tutti gli altri che se ne sono andati.»
osservò. I suoi occhi si assottigliarono. «Sono stati diversificati. Il metodo
che stanno usando ha già almeno questa raffinazione; è in grado di impartire
loro una immobilità assoluta.»
«Questo vuol dire che non sono pericolosi…? Che non fanno altro che starsene lì immobili
come statue?» domandò speranzoso Justin.
«Non lo so.» ammise Zoal. «In ogni caso, lo scopriremo.» e così dicendo si alzò
in piedi, abbandonando la sua posizione nascosta.
Justin si sentì sul punto di
svenire di nuovo. «Cosa… cosa fai?» esclamò con voce
strozzata dal terrore. In quella si sentì afferrare da una presa micidiale al
collo della giacca e dei vestiti. Kumals si alzò in
piedi, come Zoal, e trascinò in piedi anche lui a
viva forza.
«Qual è il piano? Qual è?!»
domandò Justin con urgenza, mentre i due iniziavano a camminare allo scoperto
della boscaglia, verso l’ingresso dell’edificio, con Kumals
che se lo trascinava dietro impietosamente.
«Stacci vicino, Justin, e faremo
in modo che non ti accada niente di male.» affermò Zoal,
con il tono di chi non vuole e non pensa che avrà occasione di ripeterlo
ancora.
I tre si avvicinarono ancora
all’edificio, dirigendosi a grandi passi verso l’ingresso, adorno del lungo
tappeto rosso. Nessuno di quelli ancora schierati intorno all’edificio, o ai
lati del tappeto rosso, diede alcun segno di vita; non spostarono lo sguardo,
né li degnarono della benché minima attenzione, come se non esistessero.
«Fai una cosa, Justin…» sussurrò Kumals, senza
staccare lo sguardo fisso sull’ingresso, dando l’impressione di essere più
vigile, attento e in tensione che mai. Justin gli dedicò tutta la sua
attenzione, disperatamente. «Vedi se ti riesce di riconoscere il Conte, in
qualcuno di loro.»
Furono le ultime parole che si
sentì rivolgere, prima che entrambi i suoi compagni di (s)ventura
sprofondassero di nuovo in un completo silenzio, rotto solo dal ritmico battere
del bastone di Zoal, e dal rumore dei loro passi –
quelli di Justin molto forzati e praticamente strascicati, per via del fatto
che le sue gambe continuavano a tendere in direzione opposta rispetto a quella
in cui Kumals continuava a sospingerlo con forza
decisa.
Di lì a poco stavano camminando
sul tappeto rosso, che attutì di molto anche quei soli rumori rimasti;
procedettero in mezzo alle due file schierate delle persone immobili e
insensibili a qualsiasi stimolo. Era da notare che trovarsi circondati da
quelle file silenti e immote era come immergersi in acque profonde, con la
certezza che da qualche parte si muova un buon numero di squali.
Camminarono ancora, senza che
accadesse nulla, che niente si muovesse, avvicinandosi sempre più all’ingresso,
al grande portone spalancato, e così intensamente illuminato che era
impossibile distinguere bene cosa ci fosse al suo interno. Proprio allora una
sagoma si profilò poco a poco sulla soglia. Una sagoma umana, che si delineava
maggiormente mano a mano che si faceva loro incontro. Si fermò pochi passi
fuori dal portone, e lì rimase ad attenderli, con composta pazienza.
Nel vederla, però, Kumals e Zoal avevano rallentato,
e si erano infine fermati.
Anche Justin fissava la sagoma
con attenzione. Infine, con voce incerta, chiamò «Kumals…?»
«Sì?» rispose quello, degnandolo
solo di una parziale attenzione.
«… L’ho trovato…»
disse.
«Grazie, Justin.» rispose Kumals, meccanicamente, e senza ombra di gratitudine.
Come quelli di Zoal, i suoi occhi erano fissi sulla figura che li
aspettava; una figura abbastanza difficilmente mal riconoscibile, con quella
pelle pallidissima, il naso piuttosto adunco, le labbra sottili e serie, i
capelli neri e mossi quasi in boccoli che gli ricadevano pesantemente sulle
spalle, terminando poco oltre. Gli abiti, che erano stati molto eleganti,
scuri, lunghi e dallo stile ricercato eppure semplice, con un che da
cerimoniale dark, erano sbrindellati e malridotti come quelli delle persone
annichilite che li circondavano, disposte nelle loro rettilinee file accanto al
tappeto.
«Mi duole dirlo, ma credo che a
questo punto sarà difficile evitare uno scontro serio…»
mormorò Zoal.
«Non credo sarà necessario.»
osservò Kumals. Zoal lo
sbirciò appena, incuriosita.
All’uomo non era sfuggito quel
gesto: nel fermarsi dove si trovava ora, la sagoma aveva portato una mano a
sistemarsi meglio lo strascico semistracciato in cui
era ridotto l’abito lungo che indossava; inoltre, poco dopo, aveva mosso leggermente
il capo, per spostarsi un po’ i capelli da un lato del viso.
«Buonasera, Conte. Felice di
rivederla.» disse Kumals. Zoal
tornò a guardare meglio la sagoma, e allora anche lei capì. Gli occhi del Conte
erano immersi in uno sguardo impersonale e distante, certo; ma non erano
nemmeno lontanamente così imbambolati e vitrei come quelli delle persone che li
circondavano.
«Signor Kumals.»
rispose il Conte. «Anch’io sono considerevolmente felice di reincontrarla,
sebbene le tristi circostanze di questo incontro non siano proprio all’altezza
di ciò che mi auguravo.»
Kumals si voltò per un
momento verso Zoal. «Zoal,
il Conte.» Tornò a voltarsi verso il Conte. «Conte, Zoal.»
concluse le presentazioni.
«Sono lieto di fare la sua
conoscenza, signorina. Anche se, come accennavo poc’anzi, queste circostanze
sono infauste ad ogni buon proposito di poter condurre una conversazione…»
«Conte.» lo interruppe Kumals. «Sono abbastanza certo che tu sia arrivato qui in
condizioni molto diverse da come sei ora. Che cosa è successo da allora? E cosa
ci fai qui, con quel libro in mano?»
Il Conte fissò l’oggetto «Oh,
niente, questo è solo uno scritto di moderato interesse con cui mi stavo
intrattenendo in vostra attesa. Più precisamente, sembra che io sia stato
scelto per accogliervi in questa dimora, e introdurvi alla presenza del suo
proprietario.»
«Logico. Chissà come ho fatto a
non pensarci…» borbottò Kumals
tra i denti.
«La prego di non sospettare per
questo che io sia in qualche rapporto amichevole o complice con quell’uomo,
signor Kumals. Capisco che la situazione in cui mi
sono trovato mio malgrado coinvolto possa apparire odiosamente ingannevole. Ma,
vede, mi è stata fatta un’offerta che non ho potuto rifiutare, in cambio di
questi semplici servigi.»
«Ovvero?» domandò Kumals, in tono glaciale.
Il Conte si schiarì la gola,
portandosi educatamente una mano chiusa a pugno davanti alla bocca, denotando
così un certo pallido nervosismo. «Il mio mantenimento in vita.» spiegò.
Di colpo la rabbia e il senso di
tradimento abbandonarono Kumals. «Oh.». Davvero, per
essere un ostaggio il Conte manteneva una compostezza ammirevole, dovette
riconoscere tra sé e sé.
«Che cosa dovrebbe accadere,
ora?» domandò Zoal, mortalmente seria.
«Oh, per quanto mi riguarda, sono
stato fatto oggetto dell’incarico di venirvi semplicemente incontro,
accogliervi, e introdurvi all’interno della stanza che troverete qui, proprio
oltre questa soglia. Il padrone di questa dimora vi attende. Con una certa
impazienza, oserei dire.»
Justin rabbrividì fortemente;
aveva gli occhi lucidi per la commozione. «Conte! Sei tornato normale! Dobbiamo
andarcene subito da qui!»
Il Conte lo guardò. «Mi è gradito
di rivedere anche te, Justin. Spero che non ti sia occorso niente di
spiacevole, nel frattempo. A questo proposito, mi premeva di chiedere come sono
le condizioni e l’umore del nostro comune amico, nonché coinquilino, Danny.»
«Kumals!»
esclamò Justin, rivolgendoglisi con aria di urgente
supplica. «Lascia che io e il Conte ce la battiamo. Che altro possiamo fare,
qui? Ci faranno a pezzi, ci distruggeranno… » e la
sua voce diventò quasi piagnucolante «Noi non abbiamo nessun potere, niente di niente… la cosa più sensata è che ce ne andiamo subito,
no?»
Kumals lo ignorò
totalmente. Si limitò a scambiare uno sguardo denso di parole silenziose con Zoal. Questa lo ricambiò, poi tornò a rivolgersi al Conte.
«Allora, procediamo pure. Introducici dall’artefice di tutta questa situazione.
Ormai è da un po’ che rimandiamo questo incontro.»
Il Conte annuì compostamente.
«Venite pure, seguitemi, gentilmente.» li invitò, aprendo un braccio per
disegnare un gesto elegante di invito rivolto alle sue spalle, verso l’interno
dell’edificio ancora immerso nella luce intensa.
«D’accordo…
ora, se mi permette, Conte, non è affatto necessario che lei impieghi tanta
convinzione.» masticò Kumals, mentre, ignorando
ostinatamente le suppliche rivoltegli da Justin, procedeva ancora, a fianco di Zoal, trascinandosi dietro a viva forza il ragazzo, e passando
di fianco al Conte che, udendo quelle parole, aveva prontamente riabbassato il
braccio, con aria mortificata come se avesse mancato a qualche elemento
fondamentale di una rigorosa etichetta.
Per qualche momento, appena
entrati, Kumals, Zoal e
Justin ebbero la vista impedita dalla forte differenza di illuminazione,
passando dall’ombra del bosco alla generosa luce dell’interno dell’edificio.
Non appena i loro occhi si abituarono, si guardarono intorno attentamente.
Si trovavano in uno spazio ampio
e vuoto, una sorta di ambiente che ricordava un capannone in disuso. Ma, nelle
vicinanze di una delle pareti di fondo, di fronte all’ingresso e dalla parte
opposta rispetto a dove si trovavano, sorgeva una struttura particolare, che
spiccava nettamente, isolata com’era in tanto spazio completamente sgombro.
Nel fissarla con attenzione,
mentre, seguendo i passi del Conte, procedevano verso di essa, lo sguardo di Zoal si assottigliò, e la fronte di Kumals
si corrugò rapidamente.
Era una specie di costruzione
assemblata con ordinata geometria, e con materiali che ricordavano quelli utilizzati
per uno di quei centri-comando che possono ritrovarsi nei film stile ‘Stargate’, anche se con un che di più spartano. Piastre
metalliche circondavano quasi completamente una piattaforma rialzata rispetto
al livello del pavimento, alla quale si poteva accedere da un’apertura tra le
piastre, con gradini. La sommità delle piastre, piatta e rivestita di materiale
gommoso, faceva anche da parapetto a chi fosse salito su quella piattaforma,
ritrovandosi circondato da un semicerchio di grossi macchinari: computer,
schermi, macchine sordamente ronzanti; dalla boccha
stretta e lunga di una di esse scendeva una striscia di fogli sui quali veniva
costantemente e lentamente stampata, riga dopo riga, qualche sorta di dati
specifici. Non c’era bisogno di riconoscere che era lo stesso tipo di stampa
che avevano ritrovato nascosta nella livrea del maggiordomo del signor Benton.
Proprio come non c’era bisogno di mal interpretare l’atteggiamento della figura
solitaria che li attendeva, in piedi sulla cima degli scalini che conducevano
alla piattaforma, le mani raccolte dietro la schiena e una composta aria
impaziente e soddisfatta. Era decisamente felice di vederli arrivare,
ordinatamente felice, se così si può dire.
Kumals si sentì per un
momento davvero deluso dal modo in cui aveva finito per risolversi il loro
“attacco”. Ciò non lo distrasse, comunque, dallo studio visivo attento
dell’uomo che li stava aspettando.
Aveva un aspetto stolidamente
comune: un uomo di mezza età, circa, ma da cui emanava un’energia vitale,
giovanile. I suoi occhi, piccoli e grigi, che li scrutavano quasi famelicamente
da dietro un paio di occhialetti da vista dalla sottile montatura color
metallico, sprizzavano gioia nel seguirli. Non molto alto, e di corporatura
piuttosto minuta, era abbigliato con un camice bianco da laboratorio, sotto al
quale si intravedeva un paio di pantaloni di foggia comoda, color cachi, e un
paio di scarpe da ginnastica, oltre ad una semplice camicia e ad un pullover
marrone scuro. Dava l’impressione di qualcuno che avesse deciso all’ultimo
momento di rinunciare alla cravatta, per mettere più a loro agio i suoi ospiti.
«Benvenuti!» esordì, trattenendo
a stento l’entusiasmo. «Finalmente…» aggiunse,
sorridendo tra sé e sé. Ai nuovi arrivati parve quasi un sollievo poter
scorgere almeno un’ombra di malignità nel sogghigno sottile che fece per un
momento capolino sui tratti del viso, segnati da uno stadio avanzato di forte
sovreccitazione mischiata a stress da sforzo.
Justin occhieggiò i visi di Kumals e Zoal, trovandovi due
maschere rigide di serietà ostile. Non avrebbe voluto essere nei panni di
quell’uomo per nulla al mondo, e questo pensiero gli risollevò per un momento
il morale. Ne aveva un gran bisogno. Ora, visto che la cosa più minacciosa lì
dentro sembrava essere un po’ di sporco accumulatosi negli angoli tra parete e
pavimento, lungo il perimetro di quella specie di hangar dalle alte pareti, iniziava
a sentirsi decisamente meglio. Probabilmente avrebbe continuato a camminare
anche se non avesse ancora avuto la stretta di Kumals
sul collo dei vestiti.
Quando furono a pochi metri dalla
piattaforma, l’uomo che li attendeva sciolse l’allaccio delle mani dietro la
schiena, e aprì le braccia in largo, con un gesto più teatrale ed esplicito di
benvenuto particolarmente auto-celebrativo. «Benvenuti…»
ripeté, contento. Il luccichio che gli passò nello sguardo, occupato da un
misto tra eccitazione innaturale e un sospetto di frenesia già sul ciglio dell’iperattività
folle, s’intonò sinistramente con il riflesso metallico che riverberò sulla
pistola che impugnava con distratta naturalezza in una delle mani alzate a lato
nella sua posa di accoglienza magnificente.
Justin sudò freddo, e una serie
di domande nervose ripresero a battergli nella testa selvaggiamente: anche loro
avevano una pistola, giusto? Giusto?!
Spiò Kumals
e Zoal, al suo fianco, ma con suo disappunto non vide
estrarre alcuna arma da fuoco, né segno di sorpresa o timore sui loro volti.
Certo si erano accorti bene anche loro che quel tizio aveva una pistola in
mano, e soprattutto che la teneva come se per lui rappresentasse una sorta di
gadget comune e spesso utilizzato con leggerezza; tuttavia, i loro volti
rimasero impassibili, ancora fermi in quella severità glacialmente composta,
sotto alla quale si poteva sentire ribollire una rabbia forte, micidiale, ma
che rimaneva in sordina, come in attesa.
Il gruppetto si fermò ai piedi
degli scalini, gli sguardi rivolti in alto verso l’uomo, che ormai tornava a
riabbassare le braccia lungo i fianchi, e sembrava starsi riprendendo almeno in
parte dall’entusiasmo. C’era però ancora quel sorrisetto storto, ambiguamente
fragile eppure dall’aria perenne, che gli rimase incollato alle labbra; e i
suoi occhi avevano ancora quel lampante segno di schizofrenia drogata, e
altrettanto abituata. Justin pensò che doveva essere completamente pazzo. E
questo non lo tranquillizzò affatto, naturalmente: sembrava quel genere di
pazzia pericolosa.
«Il signor Kumals,
naturalmente.» disse l’uomo, sorprendendo Justin «E…Zoal. A lei non saprei con che titolo rivolgermi…
Ho già avuto modo di conoscere Conte. Ma proprio non…Rusty, forse?»
«Justin.» corresse
automaticamente e meccanicamente il ragazzo.
«Justin, giusto…
Coinquilino del Conte; e di Danny. In tutta onestà, avrei avuto molto piacere
di poter incontrare tutto il gruppo dei ‘4 di picche’
al completo… Sapete, il signor Benton parlava di voi
in termini lusinghieri. Ma il nostro buon Benton era così ingenuo, a volte… Forse il suo giudizio non si potrebbe definire
obbiettivo. Quindi, sarei stato curioso di conoscervi tutti. Disgraziatamente,
non credo che ne avrò più l’occasione… Ma, come si
dice, non si può sempre avere tutto ciò che si vuole, dico bene?»
Nessuno gli rispose, e si creò un
compatto silenzio in seguito al suo tacere. L’uomo ne parve appena un istante
deluso, ma si riprese repentinamente, e non sembrò sorpreso della mancata
risposta.
«Signor Conte, le domando un
ultimo favore: vorrebbe venire qui un attimo?»
Il Conte esitò un momento, poi,
sollevatosi un po’ l’orlo sciupato del vestito, salì i cinque gradini che lo
portarono alla piattaforma, andando incontro all’uomo. Non appena gli fu giunto
vicino, l’altro lo prese delicatamente per le spalle, guidandone i movimenti in
modo da farlo affiancare a sé; infine, gli avvolse un braccio attorno alle
spalle con calma. Era lo stesso braccio con cui impugnava la pistola, che
appoggiò alla tempia del Conte, con una tranquillità rilassata e quasi
annoiata.
Osservandone il contegno
imperscrutabile, Kumals si chiese se il Conte
possedesse una saldezza di nervi che non era nemmeno lontanamente vicino ad
immaginare, o se non fosse per caso completamente persuaso di poter morire solo
con un paletto di legno di frassino infilato nel cuore.
«Ecco fatto.» riprese l’uomo, con
tono pratico. «Ora, Justin, mi farebbe la cortesia di prendere il bastone e il
cappotto che Zoal e il signor Kumals,
ne sono certo, saranno disposti a cederle?»
Justin ingoiò un corposo grumo di
saliva, trovandosi comunque la gola molto secca, e occhieggiò nella direzione
degli altri due, aspettando di vedere quale sarebbe stata la prossima mossa.
Per lunghissimi momenti rimasero immobili e impassibili. Infine, Zoal emise un lieve rumore gutturale a mo’ di cinico
commento, sorrise con profonda amarezza, e, lentamente, mosse il braccio,
porgendo a Justin il suo bastone. Anche Kumals si
mosse, iniziando a sfilarsi con calma il lungo pastrano. Se prendere nelle
proprie mani il bastone di Zoal gli fece scorrere un
gelido brivido lungo la spina dorsale, trovare il fegato di lasciare che Kumals gli appoggiasse ordinatamente sul braccio teso il
cappotto richiese a Justin notevole sangue freddo, che lui non era certo di
possedere. Da quel momento non smise di considerare spesso l’indumento con
occhiate dense di timoroso sospetto, pronto a mollarlo per terra e a guadagnare
di corsa diversi metri di vantaggio se avesse avuto anche solo una vaga
impressione che si stesse muovendo da solo.
Mentre si sfilava il cappotto, Kumals parlò per la prima volta, rivolgendosi all’uomo con
una cortesia platealmente falsa e forzata. «Conosce i nostri nomi. Ma non ci ha
ancora detto il suo.»
L’altro accentuò appena il suo
perenne sorrisetto. «Lei ha ragione, signor Kumals.
Vede, ci sono nomi che, per circostanze storiche di indubbia importanza,
diventano noti a tutti, per decenni e secoli a seguire. Altri nomi, che
contribuiscono alla storia dell’umanità in modo forse ancora più
fondamentalmente determinante, rimangono nell’ombra per sempre: questo sarà uno
di quelli. Bryan Collins.»
L’espressione di Kumals rimase rigida, ma un leggerissimo movimento di un
sopracciglio sarebbe parso estremamente eloquente a chi lo avesse colto. «E il
suo contributo, deduco, sarà il potere di ridurre l’intera umanità in uno stato
di zombismo decerebrato?»
Stavolta l’uomo rise. Una risata
grande e lunga, che gli eruttò dal profondo della gola e lo scosse energicamente.
Nonostante questo, non c’era alcuna felicità in essa. «Signor Kumals, sono certo, per quello che so di lei, che non possa
essere davvero questo ciò che realmente pensa. L’umanità è già ridotta in
questo stato!» affermò, con amarezza divertita «E lei lo sa molto bene. Che sia
rivolta allo scopo di preferire certi prodotti piuttosto che altri, o che sia
inviata a combattere guerre sanguinarie per il guadagno di chi la abbindola in
modo così scrupolosamente e banalmente abile, questo è già quel che è diventata
tutta la brillantezza dell’umanità. Ma c’è chi fa eccezione, certamente. E io e
lei, Kumals, siamo fra questi.»
«Il fatto è, che abbindolare in
questo modo richiede tempo, impegno e soldi. Perché non aggirare tutto questo
con sistemi molto più immediati, come quello che le è stato commissionato di
portare avanti qui…?» disse allora Kumals.
L’uomo aumentò di nuovo per un
momento il suo sorrisetto. «Mi voglia scusare un momento…»
chiese educatamente. «Justin. Non le dispiace portare quegli oggetti là in
fondo, contro il muro opposto, vero? Poi le sarei grato se tornasse qui in nostra
compagnia, senza tentare di fuggire, cosa che purtroppo mi vedrebbe costretto
ad ordinare alle persone là fuori di occuparsi di lei.»
Justin, stavolta, si soffermò
nell’esitazione solo un momento, prima di eseguire l’ordine modulato in
ingannevole gentile richiesta. Con aria mesta, si incamminò per attraversare
l’enorme stanza, diretto verso il muro opposto. Né Kumals
né Zoal gli dedicarono la benché minima attenzione.
«Lo sapevo, signor Kumals, che lei non è affatto un uomo stupido!» riprese
l’uomo, contento, guardando l’altro con un brillio grigio nello sguardo. «Oh,
naturalmente, Zoal, lei non è stata certo da meno.
Non avrei pensato che giungesse al punto di mettere del sonnifero nella bevanda
di sua sorella, quella notte a Foelm, per studiare in
tutta calma i dati che vi ho lasciato là…»
La donna non lasciò che alcuna
emozione le emergesse allo scoperto sul viso.
«Lei ci teneva che avessimo
occasione di apprezzare il suo lavoro.» osservò apertamente Kumals.
«Certo, signor Kumals. Può tranquillamente interpretarla come una piccola
debolezza di vanagloria. Ma le assicuro che, se non avessi avuto a che fare con
persone del vostro calibro, non mi sarebbe passato nemmeno per l’anticamera del
cervello di espormi fino a questo punto.» Bryan Collins sogghignò appena.
«In ogni caso…
» si fece udire per la prima volta la voce profonda e un po’ roca di Zoal «…se avessimo tentato di
diffondere qualche informazione, l’esercito e i servizi segreti avrebbero
immediatamente provveduto a bloccarla prima che arrivasse fuori dal perimetro
chiuso che è stato creato intorno al territorio assegnato a questo
esperimento.»
Collins sembrò galvanizzarsi
improvvisamente. «Certamente! Un intero territorio, una stima di trentamila
anime ivi residenti… tutto riservato all’esperimento
del mio progetto! Quante altre persone prima hanno avuto a disposizione tanto?
Poche; davvero poche.»
«Chi, al giorno d’oggi, farebbe
completamente a meno di utilizzare la televisione e/o il computer e/o la radio
o i cellulari dotati di internet…?» commentò caustico
Kumals.
«Esatto, signor Kumals. Un mezzo di diffusione perfetto, pur se banale. Ma
è proprio questo il punto. Ormai, tutti questi canali potenziali vengono
utilizzati in modo così abitudinario; parte integrante della vita quotidiana di
tutti! Volendo, si potrebbero avvelenare milioni di persone semplicemente
attraverso la distribuzione di acqua potabile. Ma chi altro potrebbe farlo, se
non un terrorista fuori di testa?»
«Un apparato di collaborazione
tra servizi segreti e comandi di sicurezza, eserciti, e qualche potenziale
acquirente privato. Se qualcosa andasse storto, nell’esperimento, si potrebbe
semplicemente scaricare la colpa su un attentato terroristico.» intervenne
ancora Kumals, in tono piatto e incolore.
«Ma non ce ne sarà alcun bisogno,
in questo caso. Perché l’esperimento, come avete potuto vedere, è riuscito
perfettamente.» constatò Collins, emanando pura soddisfazione da tutti i pori.
E, così dicendo, appoggiò una mano sulla spalla del Conte, sempre tenuto sotto
tiro dalla pistola puntata alla tempia, come se fosse il suo animale da
esperimento prediletto, il suo successo incarnato. «Quando l’esperimento sarà
terminato, tutte queste persone torneranno alla normalità. E nessuno avrà idea
di che cosa sarà successo qui. Perché non ne troverà alcun segno.»
Lo sguardo dell’uomo si
assottigliò, con eloquenza. «Nessuno.» ripeté, con tono da epitaffio.
Ma quando tornò a rivolgersi a
Justin, che era tornato indietro dopo aver lasciato il bastone di Zoal e il cappotto di Kumals
dall’altra parte dello stanzone, aveva di nuovo riassunto un fare gioiosamente
sicuro di sé.
«Justin, ora, se non le dispiace,
potrebbe prendere quelle corde che ho lasciato là in quell’angolo. Sono certo
che non avrà difficoltà a legare in maniera efficace i suoi amici. Nel caso,
sarò qui pronto a suggerirle il modo migliore.»
Capitolo 54 *** 52 - TEMPESTA NELLA STANZA DEI BOTTONI - II parte ***
Capitolo 52
(Tempesta nella stanza dei bottoni –
parte II)
Di tanto in tanto uno sparo
riecheggiava in lontananza, nel bosco.
Bryan Collins, seduto comodamente
su una sedia girevole da ufficio, tra le grosse macchine disposte sulla
piattaforma, staccò un momento lo sguardo da uno della decina di monitor che
stava tenendo sotto controllo, e sorseggiò un po’ di te caldo dalla tazza che
aveva appoggiata davanti a sé.
«A quanto pare, non avrò davvero
l’occasione di conoscere il resto dei ‘4 di picche’.
Un vero peccato, davvero.» constatò, girando sulla sedia per rivolgersi verso Kumals, Zoal, Justin e il Conte.
Giacevano tutti seduti, uno di fianco all’altro, la schiena appoggiata alla
parte bassa di alcune macchine della piattaforma, mani e piedi saldamente legati.
E, con suo disappunto, con l’eccezione di Justin, che sembrava caduto in una
catatonica stasi da chi si prepara a morire da un momento all’altro, nessuno
degli altri diede segno di reazione a quelle parole.
Appoggiò la tazza sul piattino, e
si voltò maggiormente verso di loro, appoggiandosi con calma allo schienale
della sedia. «Ma sono certo che Johnson potrà dirmi
almeno come li ha trovati da vivi, prima che non sia più possibile riscontrarlo
in alcun modo.»
«Johnson…
» proseguì, portando avanti il suo monologo con la pervicace idea di ignorare
il mutismo in cui si erano chiusi i suoi prigionieri. «Certamente un nome
fittizio. Faccende da ‘top secret’; sembra che sia una morbosa fissazione per
loro. D’altra parte, mi è stata garantita la sua professionalità.»
Finalmente lo sguardo di Kumals riacquisì uno sprazzo di intenzione. Guardandolo,
disse «Penso che avrà modo di verificare di persona la sua professionalità, e
potrà farlo ancora da vivo, almeno in parte.»
Negli occhi grigi di Collins,
dietro le lenti da vista, si concentrò un certo interesse. «Cosa intende
esattamente, signor Kumals?»
«Come diceva lei…
nessuna traccia dell’esperimento. Anche lei è una traccia. Probabilmente
l’agenda del signor Johnson prevede, come ultimo
compito di questa missione, di eliminarla.» spiegò Kumals.
Collins sogghignò, ovvero
accentuò un poco il suo perenne sorrisetto. «Oh, beh…
è probabile. Sempre che sopravviva al vostro collega più pericoloso…
il lupo mannaro… Ma se anche così fosse, chiunque la
spunterà e, coi miei migliori auguri, riuscirà ad arrivare di corsa fino a qui,
sarà degnamente accolto dalle persone che avete visto schierate lì fuori.»
Kumals aggrottò appena
le sopracciglia, ma trattenne al meglio possibile qualsiasi altro sentimento
dietro un’espressione il più indifferente possibile.
Bryan Collins rise, nevroticamente. «Signor Kumals,
sono spiacente che lei continui a sottovalutarmi in questo modo. Ero convinto
che lei avrebbe compreso appieno l’importanza di quello che sta avvenendo qui.
Forse, speravo addirittura che sarebbe stato grato di prendervi parte, anche se
per così poco tempo purtroppo.»
«Quindi, sei riuscito a
perfezionare il programma di controllo. Non solo possono essere resi tutti
immemori e insensibili, alla stregua di “zombie”… Ma puoi anche dare loro
qualche ordine basilare. Come quello di aspettare immobili, o come quello di
attaccare a comando…» mormorò Zoal,
sembrando interessata.
Collins concentrò immediatamente
su di lei tutta la sua tronfia attenzione. «Precisamente. Sono lieto che almeno
lei abbia potuto cogliere questi non indifferenti progressi. Vede, quello che
lei descrive come uno stato pressoché catatonico, è solo il programma base, la
‘fase 0’, per così dire: una tabula rasa, sulla quale si può poi lavorare a
piacimento, purché si sia capaci di padroneggiare a sufficienza il programma
che ho elaborato. Non per vantarmi oltre i miei meriti obbiettivi, ma non posso
fare a meno di lodare questo gioiellino di programma. Ben presto, purché la
sperimentazione continui a buon ritmo, riuscirò a rendere la programmazione e i
suoi effetti sui soggetti molto più diretta, efficace ed immediata. Ammetto che
si tratta di un programma ancora molto complesso, e non sempre di sicura efficacia… ma sono già molto oltre le mie migliori
aspettative iniziali! Sì, continuando così, presto si potrà ordinare ai
soggetti di eseguire compiti che richiedono una sequenza di mosse tutt’altro
che banali, come… » i suoi occhi vagarono attorno,
alla ricerca di ispirazione, e si soffermarono sulla sua tazza di tè «Come
preparare un te e servirlo.» e rise leggermente.
«Non è proprio così…» notò Kumals, con placido
autocontrollo.
Collins lo fissò con interesse,
ma anche un leggero fastidio. «Cos’è che non la persuade, signor Kumals?»
L’uomo alzò un po’ meglio la schiena,
cercando di acquisire una posizione più dignitosa, nonostante la scomodità del
trovarsi seduto e strettamente legato. Alzò la testa al massimo delle sue
possibilità, e guardò l’altro con un pacato divertimento. «Se fosse riuscito a
perfezionare il programma in modo sufficientemente rapido, a quest’ora potrebbe
mantenere questo territorio come suo personale dominio. Quelle persone, i
“soggetti”, non sarebbero più semplicemente cavie, ma i componenti di un suo
esercito personale, col quale difendere questo luogo, farne la sua roccaforte.
Se vi fosse riuscito, come sperava, ora potrebbe trattare con gli uomini che le
hanno permesso di condurre questo esperimento a pari livello, senza più dovere
stare alle loro condizioni; anzi, forse avrebbe potuto essere lei a dettare
nuove condizioni. Ma non è riuscito a fare tanto in così poco tempo… e quegli uomini che le hanno dato questa
opportunità, sanno bene come strizzare fuori da qualcuno tutto ciò che può
essere loro utile, prima di liberarsene. Forse potrà evitare che quel cecchino,
che è stato messo a sua disposizione per occuparsi di qualche intoppo nei suoi
piani – e specialmente utilizzando la scusa della nostra presenza in queste
vicinanze -, ma che ha sempre seguito più che altro gli ordini di chi gliel’ha
fornito, riesca ad eliminarla. Ma sicuramente, non appena questo esperimento
giungerà a termine, e subito dopo che lei avrà spiegato a qualcuno dei suoi
finanziatori e facilitatori come utilizzare questo programma, si libereranno di
lei in un istante. Tant’è, dopotutto, per averla pescata così precisamente tra
la moltitudine dei suoi colleghi, cogliendo in lei quelle stesse sfumature che
denotano l’ambizione da onnipotenza, e che loro devono saper riconoscere a
colpo d’occhio poiché vi vivono immersi come nella merda, certamente devono
essersi informati per bene al suo riguardo: non solo sul piano professionale,
ma anche personale. Proprio come hanno potuto fornirle dettagliate informazioni
su di noi, dev’esserci nel loro archivio un profilo
completo anche su di lei; e in questo profilo, in qualche sua parte, sono
probabilmente state evidenziate le righe che la denotano come un uomo troppo
simile a loro nelle aspirazioni per poterle permettere di diventare un altro
centro di potere, con cui dover stabilire complicate relazioni di forza. Lei
non rappresenta niente di più che uno strumento, per loro: la “persona” che
vogliono realmente possedere è il suo programma. Per questo, dopo che lo
avranno e che sapranno usarlo, sapranno come darle la liquidazione che le
spetta. Se lei fosse ricattabile su qualche punto che non riguarda anche loro,
forse potrebbe vantare qualche moneta di scambio coatto nei loro confronti, ma
per come stanno le cose, una volta che non sapranno che farsene di lei, sarà
solo un elemento pericoloso, che potrebbe testimoniare il lavoro che ha svolto
per i loro desideri. Il suo destino è già scritto, ed è sicuro esattamente come
il fatto che quel tè finirà per raffreddarsi.»
Kumals tacque. Se
avesse avuto una sigaretta, in quel momento si sarebbe probabilmente preso il
tempo di tirarne una lunga aspirata. Ma si limitò a fare una pausa.
Collins si era irrigidito, e il
suo volto era diventato cupamente grigio, di un pallore sinistramente
minaccioso. Lentamente, si alzò in piedi, e si avvicinò ai suoi quattro
prigionieri, fissando freddamente Kumals dall’alto.
«Signor Kumals… sono spiacente di non trovare
contraccambiato l’ammirato riconoscimento dei meriti che provo nei suoi confronti… e sono ancora più spiacente di doverle ricordare
che lei, qui, è un ospite.»
Kumals emise un lieve
verso di sarcastica derisione. «Lei è in un vicolo cieco, o un uomo morto che
cammina, se preferisce. E su una cosa aveva perfettamente ragione: il suo nome
rimarrà per sempre nell’ombra. E persino quei gentiluomini per cui ha tanto
faticato, che hanno mostrato di comprendere le sue capacità eccezionali, non
sprecheranno un secondo di più a pensare a lei oltre quello che occorrerà loro
per far infilare il suo fascicolo nel mangiacarta da
qualche segretario. Sa… lo sa che il signor Johnson ci ha spedito un messaggio, chiedendoci di stare
alla larga da qui? Nonostante i suoi ordini, come immagino, fossero quelli di
tenerci sott’occhio, e di permetterci, alla fine, di giungere fino a lei; i
suoi superiori devono aver ritenuto che, checché le suggerissero i suoi
capricci anfitrionici, complicare ulteriormente la
situazione, con tutta la fatica che staranno facendo per mantenere in sordina e
isolato il perimetro entro cui si svolge l’esperimento, sarebbe stato un po’
eccessivo. Ma alla fine hanno pur lasciato che lei ci facesse arrivare fino a
qui. Per ammirare, sostanzialmente, quanto può essere pilotabile con
insignificante semplicità l’intera umanità, lei per primo…
basta trovare la raffinatezza costruita su misura per la singola persona. E su
di lei devono aver fatto un lavoro di sartoria eccellente.»
In una cosa Kumals
era certamente riuscito: il perenne sorrisetto storto era sparito dalla faccia
di Collins, lasciandovi emergere una spossatezza incerta e delusa. Sospirò, e
scosse lentamente la testa. «Evidentemente, mi sbagliavo su di lei. Qualsiasi
cosa mi succederà, il mio programma sopravviverà. Sarà
usato, avrà potere in sé, aldilà delle spregevoli persone che lo utilizzeranno.
Forse, un giorno, chissà, potrebbe addirittura finire nelle mani di persone
lodevoli, invece, che lo useranno per scopi positivi. Potrebbero rivolgerlo
contro coloro che oggi detengono il potere, e con esso schiacciano a loro
arbitrio tutti gli altri, il mondo intero, alla fine. Questo programma, dopotutto,
può essere utilizzato da chiunque ne conosca il funzionamento. Diversamente dal
potere, e dalla corruzione che porta in sé, questo è uno strumento: se nelle
mani giuste, potrà fare molto per l’umanità… chissà,
forse potrebbe persino riscattarla dalla miserabile condizione in cui è ridotta
ora. Non importa se nessuno conoscerà il mio nome: questo programma sarà
comunque il mio lascito a questo mondo.»
«Questo programma è potere.» lo contraddisse Kumals. «E non vedo come potrebbe mai essere usato “positivamente”
il ridurre in poltiglia il cervello altrui, e ordinargli di fare ciò che si
vuole. Questo è il succo della schiavitù. E chiunque possa usarlo, questo sarà
il potere che avrà, e il modo in cui potrà essere utilizzato il suo programma,
Collins: per schiavizzare. La chimera che uno strumento possa essere ‘buono’ o
‘cattivo’ a seconda di chi lo usa… è quanto serve a
coloro che posseggono quegli strumenti, che li conquistano, che li rubano, che
li costruiscono… per legittimare la loro esistenza, e
poter rivendicare, ognuno di loro, la loro ‘bontà’ d’intenti. Se un pezzente
soffiasse il posto del sovrano, saprebbe bene come condannare la corona e lo
scettro, mandandoli alle fiamme; e saprebbe come rendere oggetto di devozione i
vestiti stracciati; ma potrebbe anche tenersi la corona, e proclamare che è
stata semplicemente utilizzata da persone armate di cattive intenzioni.»
Collins rise, ancora più nevroticamente. «Signor Kumals,
lei parla di un’utopia ancora più grande e impossibile. Questo travalica la
natura umana stessa.»
«A dirle la verità, non so di
quale ‘umanità’ vada cianciando… poiché se lei stesso
è il primo a riconoscere di non essere ‘come tutti gli altri’, devono esserci
molti altri che non sono affatto come lei. Per qualche motivo, questo pensiero
ha rinforzato di colpo la mia fiducia nell’”umanità”.» ribatté Kumals, sorridendo leggermente, senza cattiveria, ma quasi
con serenità.
Bryan Collins tornò ad essere
tremendamente serio. «Lei è una persona assennata, signor Kumals,
ma credo che non sia capace – o forse non voglia – cogliere la bontà intrinseca
del progresso, dell’’andare avanti’, del migliorare. Cose che tutto questo
strumento rappresenta.»
«No, infatti, non la colgo
affatto.» rispose semplicemente Kumals.
In qualche modo, quelle ultime
parole avevano un che di conclusivo. Come a sottolinearlo, Collins spostò una
mano, e raccolse la pistola appoggiata nello spazio tra i comandi di uno
schermo e l’altro.
Sospirò, di nuovo, con fare
melanconicamente dispiaciuto, mentre toglieva la sicura. «In questo caso,
ritengo che sia meglio per tutti concludere la nostra conoscenza. Non la prenda
sul personale, signor Kumals. Persino se lei fosse
stato disposto ad ammettere la grandiosità del mio progetto, non avrei potuto
fare altrimenti. Ma non vi ho mai mentito su questo, dopotutto. Ritengo di aver
fatto il possibile per essere stato corretto, con voi.» e, così dicendo, alzò
con calma il braccio, delineando la traiettoria indicata dalla pistola, che
terminava all’incirca sulla nuca di Justin, il quale, peraltro, nemmeno se ne
accorse, dal momento che giaceva a testa china, come se non avesse più niente
al mondo che potesse valere qualcosa per lui.
Anche Zoal
aveva la testa chinata in consimile modo, come se si fosse assopita. Ma il
Conte, che invece guardava con un qual certo timore la pistola impugnata da
Collins, aveva la testa alta e lo sguardo ben attento. Di colpo il suo sguardo
si concentrò alle spalle di Collins, allargandosi leggermente nella sorpresa. «Oh…notevole…» mormorò, ammirato.
Collins lo considerò un maldestro
tentativo di distrarlo dal suo proposito, ma di colpo qualcosa gli suggerì che
la recitazione del Conte era fin troppo efficace; fece per voltarsi di scatto,
ma qualcosa gli si abbatté duramente sulla nuca, facendogli perdere
l’equilibrio per la violenza del colpo. Cadde di lato, e si appoggiò
pesantemente con braccia e busto sull’unico piano abbastanza rialzato che
circondava l’interno della piattaforma: uno dei quadri di comandi. Pigiò così
involontariamente una serie di bottoni, atterrandovi sopra, e gli schermi
reagirono, iniziando ad emettere lampi di colori, suoni, una corsa impazzita di
scritte a raffica e di segnali di errore, di pericolo, di avvertenza, di
richiesta di conferma di ordini tra loro contrastanti o puramente insensati.
Nonostante questo, l’uomo aveva mantenuto ben stretta la presa sulla pistola, e
rialzò la mano armata contemporaneamente allo sguardo, scoprendo cosa lo aveva
colpito.
Il bastone di Zoal
era ritto, sospeso a mezz’aria, davanti alla sua proprietaria, che giaceva
ancora a terra legata; ma aveva alzato il viso, e Collins rimase per un momento
affascinato dallo sguardo verde, che sembrava mandare lampi, ed essere
diventato impersonale, disumano, come se la donna fosse precipitata in una
sorta di trance profonda.
Subito dopo l’uomo puntò verso di
lei, e iniziò a premettere il grilletto. Fu allora che Kumals
si alzò di scatto, e gli si parò davanti. Istintivamente Collins rilasciò il
grilletto. «Signor Kumals…» sogghignò, ignorando il
sentore di sangue in bocca, dovuto all’aver sbattuto la faccia sul quadrante
per il colpo del bastone di Zoal. Mostrava ancora
grande sicurezza di sé: il bastone di Zoal era già
ricaduto a terra, e la donna appariva profondamente affaticata. Kumals, sebbene fosse riuscito ad alzarsi in piedi davanti
a lui, aveva ancora mani e piedi legati. «Non capisco proprio come abbiamo
potuto fraintenderci a tal punto…»
Kumals alzò
fulmineamente una mano da dietro la schiena, mentre le corde che gli legavano i
polsi cadevano a terra. In una sola mossa guidata da una rapidissima decisione
violenta, gli torse il polso, strappandogli di mano la pistola con l’altra mano
dopo che era partito un colpo troppo tardivo che lo mancò completamente, e gli
assestò un forte colpo dritto in faccia, un misto tra un pugno e un urto del
calcio dell’arma di cui si era appena impadronito. Collins però cadde più
malamente di quanto ci si poteva aspettare, perdendo l’equilibrio
nell’inciampare in un piede della sedia girevole da ufficio; mancò di poco la tazza
di tè, mentre sbatteva violentemente con la spalla e la testa, di nuovo sul
quadro comando, accendendo altri allarmi e segnali lampeggianti sugli schermi,
insensibili all’afflosciarsi a terra del corpo del loro creatore, come solo le
macchine e le architetture naturali sanno esserlo.
«Io sì…
» disse Kumals. Poi, accorgendosi di una notevole
scompostezza con cui giaceva il corpo dell’uomo, qualcosa lo impensierì. Si
chinò su di esso, e gli portò due mani alla giugolare,
cercando il battito cardiaco. Non lo trovò, e realizzò che il modo in cui aveva
sbattuto la tempia contro lo spigolo del piano comandi non gli aveva consentito
di sopravvivere.
Kumals si rialzò in
piedi, con aria gravemente seria. Poi, si voltò di nuovo verso gli altri. Il
Conte lo guardava, con un’ombra di sbigottimento che gli segnava i tratti del
volto, rompendo irreparabilmente la rigidezza della sua consueta compostezza
assoluta. Ma Kumals si inginocchiò, senza nemmeno
soffermarsi a sciogliersi le corde che ancora gli legavano le caviglie, davanti
a Zoal, la quale era ancora un po’ accovacciata su se
stessa, e che, vedendolo di fronte a sé, si sforzò di alzare almeno un po’ la
testa per guardarlo. Il suo sguardo aveva un che di interrogativamente curioso.
Vedendolo, Kumals sorrise appena, con affetto
spontaneo.
Allungò una mano laddove fino a
poco prima era anche lui giaciuto legato, e raccolse un piccolo oggetto piatto,
sottile, e metallico. Lo alzò tra il viso suo e quello di Zoal,
mostrando una lametta da barba, con fare illustrativamente
complice. «Mi è scivolata in mano da una delle maniche del cappotto, prima,
mentre me lo toglievo. Non ce l’ho mai messa una lametta nella manica del
cappotto.» spiegò, mentre il suo sorriso diventava un po’ più disarmato e
incerto, quasi infantile.
Zoal sorrise di
rimando, anche se sembrava particolarmente stanca.
«Avrei voluto dirtelo prima, ma
non sapevo come fartelo capire senza farmi troppo notare…
mi dispiace.» aggiunse Kumals. Zoal
annuì, comprensiva. L’uomo si sporse a darle un bacio sulla fronte.
Poi, impegnò la lametta sulle
corde che gli legavano le caviglie, liberandosele. Tagliò quindi le corde che
legavano Zoal, e le affidò la lametta affinché lei
potesse fare lo stesso col Conte.
Kumals si alzò in
piedi, recuperando un contegno deciso e pragmatico. «Conte.» chiamò.
«Signor Kumals?»
fece l’altro, con rispettosa attenzione.
Ma in quella, proprio sul
pronunciare qualche cosa, l’uomo si interruppe. I suoi occhi si concentrarono
sull’ingresso dell’hangar, dall’altra parte della nudità ampia dello stanzone.
E allora vide chiaramente la massa di persone prive di coscienza di sé, quelle
che erano fino ad allora rimaste a fare una guardia stolidamente immobile fuori
dall’edificio. Ora non erano più immobili. Tutt’altro.
Zoal raccolse il suo
bastone, e si affiancò a Kumals, studiando la
situazione con sguardo assottigliato. Scorse immediatamente il nutrito gruppo
di “zombie” mal assortiti, che si precipitavano verso la piattaforma dove si trovavano,
attirati dal rumore, dai suoni, e dalla loro presenza.
«Diamine.» si concesse di
strafare a mo’ di commento il Conte, giunto al loro fianco.
Kumals si voltò
rapidamente verso gli schermi che lampeggiavano e rumoreggiavano furiosamente,
come una tempesta elettronica in piena regola. «Conte. Lei riesce a leggere
quella specie di linguaggio che Collins ha usato nel programma, vero? Quella roba…»
«Dialetto che si ritiene essere
appartenuto alla perduta e dimenticata tribù degli Untuah,
e che consisteva nelle formule rituali utilizzate dai loro stregoni per risvegliare
zombie dai corpi morti.» fornì prontamente il Conte. «Sì.» concluse.
«Allora, cerchi di capire cosa
diavolo dicono quelle scritte sugli schermi, ora!» gli impartì Kumals, mentre anche lui fissava gli schermi, senza capirci
nulla.
Il Conte fece scorrere
pensosamente lo sguardo sulle scritte. «Sì. È tutto abbastanza semplice. Non
credo che il signor Collins avesse maturato una conoscenza così approfondita
della lingua. Desolato, però, di non poterle essere d’aiuto, purtroppo. Vede,
non ho mai posato mano su un computer in vita mia.»
«A tutto c’è una soluzione.»
disse Kumals, afferrando la tazzina di tè, ormai
freddo, rimasta appoggiata vicino al quadro comandi. Ne scaravoltò
il contenuto sulla testa di Justin.
Il ragazzo ebbe uno spasmo, si
risvegliò o riprese coscienza di soprassalto, e per prima cosa, colto di
sorpresa, cercò di prendere dentro i polmoni tutta l’aria che riusciva con
un’inspirazione radicale; si ritrovò a tossicchiare e sputacchiare tè freddo.
«Che diavolo…?!»
gridò, spaventato.
Kumals era già chino
su di lui, e lo aveva già liberato dalle corde con la lametta da rasoio.
«Niente di brutto Justin, è il tuo momento.»
«Cosa…?»
cercò di capire Justin, mentre l’uomo lo afferrava per un braccio, aiutandolo e
inducendolo allo stesso tempo a mettersi in piedi. Non appena vi riuscì, lo
sguardo di Justin, che ora poteva spaziare oltre il bordo rialzato della
piattaforma, individuò subito la maggiore fonte di pericolo, con il fiuto
infallibile di un animale da preda. «Oh no!» strillò, vedendo la massa delle
persone che si affrettavano verso di loro, attraversando come una marea
scalcagnata il pavimento nudo e ampio del magazzino.
«Lascia perdere ora…» iniziò a
rimbeccarlo Kumals, stringendo più saldamente la
presa su di lui. Ma si interruppe, mentre realizzava qualcos’altro, nel seguire
la direzione dello sguardo di Justin.
Zoal era scesa dalla
piattaforma, bastone in pugno. A lunghi passi muoveva incontro alla massa che
arrivava a spron battuto, rinvigorita dalla simile
vicinanza di qualcosa che si muoveva e dava tutta l’apparenza di essere vivo
proprio davanti ai loro avidi occhi e alle mani già protese per afferrare.
«Zoal!»
gridò con tutta la voce che aveva Kumals.
La donna lo ignorò. Si era
fermata, ora, e con mosse regolate da un equilibrio dinamico dei movimenti, più
veloci del solito, ma ancora pregni di quella sorta di grazia cerimoniale,
portò davanti a sé il bastone, in verticale, poggiandone con delicatezza la
punta inferiore sul pavimento. I primi componenti del gruppo che stava per travolgerla
distavano una dozzina di metri da lei.
Kumals distolse lo
sguardo, voltò le spalle alla torma di aggressori inconsapevoli e a Zoal, sola nel bel mezzo dello spazio vuoto dell’hangar.
Trascinò Justin davanti al pannello di controllo, di fianco al Conte, ancora
quasi completamente intento a leggere le scritte sugli schermi, ma anche a dare
un’occhiata incuriosita a quelle stampate sui fogli eruttati dalla stampante.
«Dovete disinstallare il
programma, subito. Se collaborate, ce la farete.» disse loro Kumals, piazzando Justin, fattosi molle come una
marionetta, accanto all’altro. «Tu ne sai di informatica. Tu sai tradurre quel linguaggio… qualsiasi cosa sia. Mettete insieme il tutto e
disattivate questo dannato programma.»
«E’ una pazzia!» strillò Justin,
ritrovando una certa energia, con la quale tentò di liberarsi della salda presa
di Kumals sulle spalle. «Scappiamo! Ci arriveranno
addosso!»
In quella, si udì uno strano
rumore crepitare nell’aria: era come se fosse iniziata senza preavviso una
danza selvaggia di energia statica, o qualcosa del genere. Correva, invisibile,
in flussi potenti, che si battagliavano scorrendo in tutte le direzioni,
colmando lo spazio dell’hangar, con un sibilo irreale, che non sembrava nemmeno
poter essere sentito con l’udito, ma con qualche altro senso non riconducibile
a quelli comunemente usati e conosciuti.
Si volsero, tutti e tre, a
guardare.
I loro occhi non vedevano niente
di strano, eppure, era come se potessero intuire che quelle scie di qualsiasi
cosa fosse trovavano nella figura di Zoal, immobile,
un punto d’attrazione e repulsione, un obbiettivo o qualcosa da cui fuggire, o
da sfiorare scherzosamente, o da tentare di scalfire con forza. Poi, Zoal emise un grido estremamente forte, lacerante:
impossibile dire se fosse di dolore, di rabbia, di gioia, una dichiarazione di
forza o di profondo terrore, perché in un certo senso sembrava essere tutto
questo, e al contempo al di sopra di tutto questo. Quel suono emise un
ulteriore sconvolgimento nei flussi di ‘qualcosa’ che volavano con furia in
tutte le direzioni, compressi tra le pareti dello stanzone. E alcuni di essi si
rivolsero contro il gruppo di persone ridotte allo stato di zombismo,
correndogli contro con pura violenza distruttiva: quando li colpirono,
l’impatto acquistò consistenza fisica. Quelli più avanti furono scagliati
all’indietro violentemente, investendo coloro che li seguivano, e così via in
successione: la folla fu compressa su se stessa e indietro, fin quasi a raccogliersi
disordinatamente contro la parete opposta dell’hangar, come foglie spostate da
un forte vento.
«Porca putt…»
iniziò Justin, ma non trovò nel suo repertorio alcuna esclamazione
sufficientemente adatta, e si zittì, mentre le correnti invisibili eppure
percepibili continuavano a impazzare dappertutto.
Gli occhi di Kumals,
invece, si erano concentrati sulla figura di Zoal. La
donna, dopo aver prodotto quell’effetto potente e guidato, sembrava essere
stata sul punto di cadere per terra. Si era aggrappata con forza al suo
bastone, poggiandovi contro la fronte anche, puntellandosi per rimanere in
piedi, nonostante fosse stato come se tutta la forza muscolare l’avesse
abbandonata per un lungo istante da capogiro. Mentre rimaneva così raccolta,
forzandosi a non cadere in ginocchio, Kumals percepì
con uno sguardo che non era della vista il moto convulso con cui,
all’improvviso, molti dei flussiinvisibili si erano gettati su di lei, come approfittando del suo
momento di forte debolezza.
Anche il Conte doveva essersi
accorto delle difficoltà della donna, perché il tono era dolente, sebbene Kumals non comprese subito cosa intendesse con «Se solo
avessimo un megafono…»
Un istante dopo, Kumals ricordò quella volta al porto, solo pochi giorni
prima, ma sembrava molto di più, quando Justin era stato preso da
quell’energumeno della stessa pasta di quelli che stavano per piombare loro
addosso ora. Ricordò il maldestro intervento suo e di Danny in suo aiuto, e
come Uther fosse arrivato con i fuochi artificiali,
impegnando il Conte nel collaborare con l’uso del megafono. Ora, Uther e Danny dovevano essere da qualche parte nel bosco,
come tutti gli altri, a lottare contro un cecchino che si era fatto le ossa e
tutta l’esperienza in qualche formidabile addestramento ultra-formativo di
qualche reparto speciale di esercito e/o servizi segreti, mentre Danza e Mama correvano tenendo a bada il resto delle persone
coinvolte in quell’”esperimento”. Rivolse uno sguardo al cadavere a terra di
Bryan Collins; e, mentalmente, lo scavalcò.
Kumals si voltò,
afferrando senza complimenti Justin e il Conte per un braccio, e riportando la
loro attenzione agli schermi disse«Zoal non potrà
resistere ancora per molto.Ditemi come
posso esservi d’aiuto, se posso. Ma, miseria nera, vedete di fare funzionare
questo dannato coso!» e sbatté un pugno con frustrazione sul bordo del ripiano,
fissando la distesa di pulsanti che per lui non avevano mai significato niente,
ma dai quali di punto in bianco si trovava a veder dipendere la salvezza di
diverse persone, quella di alcune delle quali gli premeva, forse, più di
qualsiasi altra cosa.
Soundtrack: Open youreyes (Guano Apes)
Note dello scribacchiatore: hem… sì! Mi tocca scusarmi
di nuovo per l’enorme ritardo! Varie cose urgenti e coinvolgenti m’hanno
trattenuto lontano dalla cura delle mie scribacchiature,
e come accade spesso ultimamente sono anche indiavolamente
incasinato al punto da non riuscire a riguardarle come meriterebbe chi se le
sorbisce, huhu… Però
abbiate fede, alla fine della storia ci arrivo, anche perché molti altri
capitoli son già belle che scritti, mi sa giusto che dovrò continuare per un
po’ a metterli online così senza riuscire a riguardarmeli per benino. Per cui
scusate anche eventuali strafalcioni o errori e consimili…
nel caso qualcuno abbia voglia di segnalarmeli faccia pure, naturalmente! (sì
sì, sto cercando di facilitarmi le cose, ebbene sì. Non funziona eh?). Orsù,
ditelo chi lo sta pensando: alzi la mano chi c’è rimasto/a male per l’apparente
mediocrità di cattivi e piani malefici in questa storia. Nulla da obbiettare.
Una vocina in fondo alla fila esclama fin troppo entusiasticamente: ‘ah sì,
certo! la banalità del male!’ In certi casi potrei essere d’accordo. Forse
anche in questo. In ogni caso, nelle prossime storie dei quattro di picche
s’avrà a che fare con malignità di tutt’altro spessore (qui la vincono di gran
lunga le cattiverie dei “nostri”, hehe… ammesso che stiate parteggiando per chi parteggio io,
beninteso ;) ). Sì, sì, sì… ok, la pianto qui. Alla prossima
per chi resiste! (e cercherò di sbrigarmi, lo prometto! Ha! Promesse da marinaio… o da gabbiano, non so). Spoiler da incontinenza
d’anticipazione (non è che sia tutto così semplice come sembra qui. Ne arrivano
altre di ardue…). Quasi dimenticavo…
i capitoli in questa parte si allungheranno un pochetto…
necessità da scribacchiatore, e che volete?! :p
Capitolo 55 *** 53 - L'ULTIMA VOLTA CHE HO VISTO... ***
Capitolo 53
(L’ULTIMA VOLTA CHE HO VISTO…)
Danny si rese conto
immediatamente dell’errore madornale; se ne rese conto non appena lui e Andrea,
arrivati di corsa, si ritrovarono di fronte all’improvviso l’aprirsi degli
alberi nella radura scoperta. Realizzò il tutto nello stesso istante in cui
vide una sagoma umana uscire a passo rapido da una morente nuvola di fumo non
molto denso, nel mezzo della radura, individuarli, e girare il braccio verso di
loro. E seppe cosa fare per prima cosa ancora prima di pensarlo.
Si gettò di lato con quasi tutto
il suo peso, dritto contro Andrea, in una deviazione improvvisa della corsa; la
ragazza fece un notevole volo, finendo a rotolare sul terreno, come toccò del
resto anche a lui. Ma era proprio quello di importanza vitale al momento:
togliersi dalla traiettoria. Il proiettile tagliò l’aria da qualche parte al di
sopra di loro, e spostato lateralmente.
Andrea non aveva ancora terminato
di collezionare la sequenza di mosse per cui ora si ritrovava per terra sul
terreno freddo e umido di neve e di foglie marce, che un paio di forti braccia
l’avevano afferrata. Prima di iniziare a divincolarsi violentemente riconobbe
Ramo, che la tirò con modi sgraziati per l’urgenza, facendola strisciare ancora
per terra fin dietro lo stesso tronco dietro cui si stava riparando il ragazzo
da un bel pezzo.
Ma la ragazza non degnò niente di
tutto questo di qualche importanza particolare, non prima di aver trovato con
lo sguardo Danny, che cercava febbrilmente.
«E’ dietro quell’altro albero,
tranquilla.» le disse Ramo, con tono gentile.
«Dove?» domandò con gratitudine
lei.
«Da qui non si vede, ma l’ho
visto schizzare là dietro appena ha visto che ti prendevo io.» spiegò.
Solo allora Andrea realizzò che,
nonostante la velocità con cui era avvenuto tutto quello, qualcuno aveva fatto
in tempo a sparare ben tre colpi, cercando di centrarli. «E’ l’’angelo
custode’… vero?» domandò, senza dubitarne.
«Già…»
confermò Ramo, con aria abbattuta «E ci sta tenendo a bada tutti quanti.»
Andrea ne studiò l’espressione
per un momento, trovandola parecchio giù di morale.
«Ci siamo fatti fregare tutti quanti…» disse ancora Ramo, sconsolato.
«Ma adesso c’è Danny. Lui ha le
pistole.» osservò Andrea.
«Oh, sì. Per questo ora quello starà
mirando solo al punto dove si è nascosto Danny; e, se gli vede mettere fuori
anche solo un capello, lo falcia.» pronosticò Ramo, tetramente.
Andrea rifletté per un momento.
«A meno che qualcuno non gli offra un altro bersaglio potenziale, che lo
distragga mentre Danny…»
«Non ci pensare nemmeno.» stabilì
Ramo.
Andrea lo fissò. «Ma… » tentò di ribattere, debolmente.
«Sai cosa mi fa Danny se ti
lascio fare da bersaglio mobile? Beh, non ne ho idea nemmeno io, ma non voglio
scoprirlo.» concluse, sicuro.
Andrea abbassò le spalle, ora
sconfortata anche lei. «Quindi…?»
«Sto pensando a qualcosa.» disse
Ramo, nervosamente.
Andrea si trattenne dal chiedere
che cosa avesse prodotto fino a quel momento tutto quel pensare. Il ragazzo
aveva scaltramente mantenuto la presa di una mano sul suo braccio, in modo da
impedirle davvero di poter realizzare qualsiasi tentativo di uscire allo
scoperto rispetto al riparo. Spiò sconsolatamente nella direzione in cui,
secondo Ramo, si era nascosto Danny: un altro tronco. Avrebbe dato chissà che
per sapere se al momento lui ora aveva qualche idea.
E
quello che cos’era?
Il
cuore gli batteva forte, come se avesse appena subito un lieve shock. Cosa
poteva essere stato? Era iniziato da quando il primo proiettile aveva tagliato
quella porzione d’aria in cui fino a poco prima si trovavano lui o Andrea, e
ancora non accennava a voler smettere.
Quando
mai aveva avuto paura di correre tra i proiettili saettanti? Quando mai aveva
avuto davvero tanta paura di morire? Poteva essere preoccupato di morire;
poteva essere seriamente preoccupato dell’esito di qualche azione
particolarmente avventata, in cui aveva un ruolo fondamentale la combinazione
tra caso e fortuna. Ma, sul serio, ora non si poteva spiegare perché avesse
avuto paura di quel proiettile, persino dopo che si era reso conto che li stava
mancando.
Il
battito del cuore non accennava a chetarsi. Si tolse la mano che si era
appoggiato sul petto, in sua corrispondenza, e la riportò per terra, come
abbandonata; non serviva a niente continuare ad ascoltarlo. Che corresse pure
quanto gli pareva, perché non gli importava di cosa decideva di fare il suo
cuore; dovevano avere idee diverse, al momento.
Per
un po’ si chiuse in quella convinzione, ma alla fine essa apparve ridicolmente
insufficiente. Dovette abbandonarla. E riprese a chiederselo.
Da
quando aveva effettivamente così tanta paura di morire? Da quando aveva paura
degli stupidi proiettili di un uomo in piedi in mezzo ad una radura, nel bel
mezzo di un bosco? Proprio nel bel mezzo di un bosco. Quella era, per
definizione, casa sua. E un uomo che sparava lo gettava nel panico? E aveva
paura di essere colpito da lui? Sul serio? Era da ridere.
Se
era veramente così, se ora temeva tutto quello, e non riusciva a fare
altrimenti, dovevano essere cambiate parecchie cose, in lui; senza che se ne
accorgesse. Si poteva mutare davvero così tanto, al punto da stentare a
riconoscersi? Lui poteva mutare talmente tanto? No, non era nella sua natura.
Mutare di forma, sì, drasticamente, e continuamente; ma non in altro. Questo lo
ricordava; una delle prime lezioni da quando era diventato ciò che era. E
ricordava chi glielo aveva insegnato; avrebbe riso fino a scaravoltarsi
per terra, se quella persona lo avesse visto ora: a nascondersi dietro un
albero per paura di morire. E lui avrebbe capito perfettamente cosa ci trovava
di così terribilmente ridicolo.
Una
lenta smorfia di divertita nausea gli increscpò le
labbra, e i suoi occhi bruciarono, come se stessero ardendo per il vedere
troppo chiaramente qualcosa, e della conseguente rabbia che ciò che vedeva gli
suscitava. Perciò li chiuse. D’altra parte, la vista non era che l’ultimo dei
suoi validi sensi, da quando era ciò che era.
Respirò
profondamente, e a lungo, inspirando l’odore del bosco tutt’intorno; l’odore di
neve, l’odore di corteccia, l’odore delle foglie e persino quello degli aghi
dei pini, l’odore del tappeto di foglie morte, terra umida e fanghiglia,
l’odore del cielo e dell’aria invernale notturna. Sì, le riconosceva come se
gli fossero sempre appartenute. Era, indiscutibilmente, inconfondibilmente,
casa sua. Dunque, non poteva essere cambiato così tanto; come si aspettava
d’altro canto: non era semplicemente possibile.
Il
cuore si era calmato, lentamente ma chiaramente. Non gli batteva più così
forte. Seppe così che quella paura se n’era andata. Forse, pensò fra sé e sé,
in realtà aveva avuto paura per altri, per gli altri. Certo, sentiva anche il
loro odore, erano lì, non molto lontano, anche loro nascosti dietro altri
tronchi, al riparo dai proiettili. La cosa bizzarra, in tutto quello, era che
anche lui fosse nascosto allo stesso modo.
Poi,
improvvisamente, capì. Una rivelazione lucida e quasi abbagliante, e riaprì gli
occhi di getto, nel coglierla.
Proprio
così, improvvisamente Danny comprese.
Fu
come se intorno a lui non ci fosse che uno sfondo, di cui tutto, dai sassi per
terra ad ogni persona umana o meno presente in quel momento, facevano parte; e
aveva solo se stesso messo ben a fuoco al centro di tutto il resto. Capì cosa
significava: aveva il completo controllo di se stesso. Gli venne quasi da
ridere. Cos'altro poteva servirgli?
Ma
certo, era così chiaro... era una cosa che lui già sapeva, la sapeva benissimo
quando vagava solo, ora dopo ora, per anni, lungo valli, colline, montagne,
neve e inverni e notti immense di stelle, lune e foreste o città addormentate,
solo lui e i suoi passi in sequenza rapida e regolare, al ritmo del suo cuore e
del suo respiro. E non c'era nient'altro. Certo, era sempre stato così.
La
paura di essere solo, come in effetti erano di tutti forse, doveva essere stata
quella a trarlo in inganno, a disorientarlo, a distoglierlo dalla realtà
definitiva che conosceva così bene. Certo che era solo, e aveva il potere
completo di se stesso: una cosa immensa. Come aveva potuto dimenticarlo?
Com'era stato sciocco. Ma ora lo sapeva di nuovo. E sapeva perfettamente cosa
doveva fare ora, meglio che mai.
Ogni
paura gli era scivolata di dosso come se si fosse sciolta, e il suo corpo e la
sua mente erano chiari e limpidi e liberi da ogni legame. Perché quelli che
erano intorno a lui, con la presenza dei quali si era per un po' cullato nella
splendida ma irreale illusione di non essere alfine solo, loro non erano liberi
come lo era lui, legati e invischiati nella paura reciproca per sé e per gli
altri.
Per
fortuna ora lui vedeva tutto con estrema chiarezza.
Loro
dovevano proprio restare così immobili, legati alla paura e al disorientamento
e ai dubbi morali ed etici e quant'altro, ma lui, lui che non era umano, o
perlomeno non solo e non principalmente umano... non era più legato: poteva
muoversi.
E lo fece con spavalda immediatezza.
Un
istante prima era immobile e prigioniero e il momento dopo stava facendo un
passo e poi un altro, camminando in avanti; la velocità dei gesti mutata, come
se la sua percezione fosse precipitata in uno stato alterato; così rapido, lo
sapeva, che solo il suo stesso pensiero poteva stargli al passo, mentre quelli
di tutti gli altri che facevano parte dello sfondo erano ancora impegnati a
ingranare faticosamente per realizzare cosa stava succedendo. Ma lui aveva un
ritmo diverso da loro, lui che non aveva più legami.
Lui
che aveva tanto amato la libertà pura, oh, che delizia, la ricordava ancora,
l'aveva riabbracciata immediatamente, come se non si fossero mai lasciati, il
tempo di un battito del suo cuore che ora scalpitava in quella che era una
corsa, se paragonata alla lentezza di tutte le cose false e zavorranti che gli
erano intorno e scorrevano via insignificanti mentre camminava, senza peso,
dritto nella freschezza della sua pura visione di libertà, le labbra piegate in
un sorriso inconsapevole, e gli occhi come lampi accecanti. Intuiva che gli
altri non avrebbero potuto cogliere quella purezza tagliente dei suoi occhi blu
e del suo sorriso divertito e fiducioso: era un'intuizione pura di libertà a
guidarlo, come un'ispirazione superiore.
«Se foste arrivati dalla parte
opposta, almeno, avreste potuto prenderlo alle spalle.» sbottò Ramo, dopo che
erano rimasti in silenzio fino ad allora. «O perlomeno gli avreste complicato
parecchio la vita, a dover tener d’occhio dei bersagli in direzioni opposte.»
Andrea trasecolò. «Oh, beh, non è
che abbiamo fatto apposta!»
«Meno male, altrimenti chissà
cosa ne sarebbe venuto fuori…» mormorò Ramo, come se
non potesse fare a meno di quel commento, ma allo stesso non si sentisse del
tutto nel giusto a darvi voce.
Andrea si indispettì. «Davvero,
se tu avessi idea di che cosa ci è successo fino ad ora non…»
ma si azzittì. C’era qualcosa che Ramo stava fissando con un’attenzione strana,
a metà tra l’incredulità e il terrore; aveva spalancato gli occhi di colpo.
La ragazza si voltò di getto, e
allora lo vide. Gelò, fin dentro il midollo di ogni singolo osso che aveva in
corpo, come se la temperatura fosse crollata di diversi gradi nello spazio di
un decimo di secondo.
Ora poteva vederlo, Danny. E
questo era perché il ragazzo stava abbandonando il suo riparo, tenendo tra le
punta delle dita di una delle due mani un fazzoletto da naso di colore chiaro
somigliante al bianco. Con le braccia in alto, e lo sguardo fisso sulla radura,
iniziò a camminare in direzione del cecchino.
«Danny! Porco mondo…
Danny! Che diavolo fai?!» sibilò Ramo, fuori di sé, chiamandolo, mentre il
ragazzo passava a tre metri da loro, continuandoa camminare.
Nemmeno per un momento il suo sguardo,
fisso sul cecchino, con un’espressione che Andrea non gli aveva mai visto in
volto, diede segno di volersi voltare verso di loro, né di considerarli degni
di alcuna attenzione.
Andrea tremò, e, a differenza di
Ramo, che continuò a chiamarlo a filo di voce, irato, mentre il ragazzo li
superava, lei non ci provò nemmeno. Era sicura che non l’avrebbe sentita,
proprio come non stava sentendo Ramo.
Dovette fare forza e ribellarsi
con cocciuta decisione per ostacolare Ramo, quando tentò di impedirle di sporgersi
un poco oltre il tronco, per continuare a seguire Danny con lo sguardo, per
vedere cosa sarebbe successo.
Quando realizzò che nessun colpo
sarebbe partito verso di loro, perché ora tutta l’attenzione e l’arma del
cecchino erano completamente concentrate su Danny, Ramo smise di opporre
resistenza. Invece, si sporse dall’altra parte del tronco, con circospezione,
per vedere anche lui Danny proseguire, entrando nella radura, a calmi passi.
Quello che non riusciva davvero a spiegarsi, nonostante ritenesse di conoscerlo
bene, era il tipo di lievissimo sorriso che incurvava le labbra dell’amico,
quando li aveva superati.
*
***
*
Il relativo silenzio invernale
del bosco di notte venne rotto di colpo. Una figura agile e veloce passò di
corsa, e continuò.
Tratto dopo tratto, metro dopo
metro, superando una moltitudine di alberi, che gli scorrevano intorno come uno
scenario sfocato e poco importante, il ragazzo correva al massimo delle sue
forze, piegando il corpo e tornando a rialzarlo, mano a mano che doveva
concentrare più forza sulle gambe per superare salite, discese e parti
pianeggianti.
Il fucile in mano, che correva
parallelamente a lui, e l’altro braccio più sporto in fuori per aiutarlo
nell’equilibrio. Semmai gli capitava di incespicare per un momento in qualche
radice o in qualche arbusto, o di scivolare sul misto di neve sciolta e foglie
morte, comunque recuperava l’equilibrio con testardo sforzo; e continuava a
correre.
Scivolò più gravemente in un
punto particolarmente denso di fanghiglia e in una discesa piuttosto acuta, e
questa volta, non riuscendo a mantenere l’equilibrio, cadde; ruzzolò due o tre
volte e strisciò sul fango, ma non si soffermò nemmeno allora. Approfittando
dello slancio stesso della caduta fece immediatamente forza sulle ginocchia e
si rialzò, continuando a correre in un balzo.
Di tanto in tanto, per tagliare
attraverso fittumi di vegetazione bassa, li saltava
semplicemente, talvolta impigliandosi nel mezzo d’essi, e sottraendosi a quelle
prese con decisi strattoni.
Era così che Uther,
nell’arco di minuti che scorrevano lenti, sebbene stesse correndo, si era già
allontanato di molto dall’edificio presso cui aveva lasciato Zoal, Kumals e Justin. E ad ampie
falcate si precipitava nella direzione da cui sentiva provenire, di tanto in
tanto, degli spari, spesso isolati.
Si aggrappava a questo
particolare, gli spari che continuavano. Lo avrebbero guidato. Ma, soprattutto,
significavano che la sparatoria era ancora in corso, e che non si era in alcun
modo giunti ad un momento decisivo.
Era abbastanza sicuro di non
poter ancora riconoscere in quegli spari l’intervento di armi di tipologia
diversa. Se era già arrivato, Danny non aveva ancora sparato un solo colpo.
Tipico di lui. Aspettava il momento migliore, e non era suo uso mandare in giro
pallottole senza avere un preciso obbiettivo e scopo, oltre ad una valida
probabilità di colpire efficacemente.
Dunque, Uther
era perfettamente convinto che non ci fosse veramente niente di cui
preoccuparsi. Danny non avrebbe fatto niente di stupido, ne era certo.
Note
dello scribacchiatore: il titolo, come altre volte, è diviso in due parti
continuative, quindi la seconda metà è a titolo del prossimo capitolo. Il
corsivo indica in questo caso una parte più “introspettiva” di uno specifico
personaggio, come avrete capito anche da soli leggendo. Bene, posto non succeda
nient’altro di particolarmente urgente/stravolgente/eccetera di mezzo il
prossimo capitolo non tarderà! Salud!
Zoal urlò di nuovo,
in quel modo indefinibile; di nuovo, eppure nella sua voce si sentiva
un’incrinatura pesante di sfinimento. Di nuovo alcuni, veramente pochi per la
verità, di quei flussi di qualcosa di impalpabile si gettarono incontro alla
folla di persone che procedevano verso di lei, disordinatamente, gli occhi
vuoti come quelli di pesci morti, e gli arti protesi verso di lei, per
afferrarla prima possibile. Di nuovo furono scagliati indietro da quelle forze
non percettibili dalla comune vista, e si sparpagliarono in un mucchio confuso
verso il muro opposto del capannone, come travolti da una piena di moderata ma
decisa forza.
E di nuovo, un numero cospicuo
degli altri flussi, che vorticavano e si scagliavano in ogni direzione per
l’ampio spazio del magazzino quasi completamente vuoto, si gettarono sulla
figura isolata di Zoal, come per inghiottirla in un
sol boccone.
Sotto gli occhi ansiosi di Kumals, ancora ritto in piedi sulla piattaforma a seguire
la scena, la donna barcollò pesantemente, e stavolta crollò verso terra; per un
lungo momento egli credette che si sarebbe
afflosciata completamente. Ma all’ultimo, Zoal riuscì
a puntellare un ginocchio sul pavimento; e lì rimase, piegata, la testa
abbassata sul petto come se avesse perso coscienza, e le mani in alto strette
convulsamente al bastone ancora ritto in verticale di fronte a lei, le braccia
tese e tremanti come se si stesse tenendo stretta sull’orlo di un precipizio
vertiginoso.
Rimase così, violentemente scossa
da un tremore incontrollabile, mentre i flussi continuavano a lanciarsi su di
lei, creando qualche metro sopra la sua testa un vortice ferocemente ingordo,
che andava aumentando di dimensioni. Kumals osservò
il suo corpo, che pareva sul punto di cedere; osservò come alcune ciocche di
capelli le si fossero sbiancate in un grigio fumoso, da vecchia; e soprattutto
non riuscì a staccare gli occhi dal modo in cui giaceva abbandonata la gamba
con la quale non era puntellata per non cadere del tutto, e il modo in cui le
mani le tremavano così fortemente che non aveva idea di come potesse ancora
riuscire a tenere stretto il bastone. L’ultima delle due zucchette rimasta
appesa alla sommità della verga esplose, come l’altra che l’aveva preceduta
qualche momento prima; il contenuto di vegetali secchi macerati in polvere, di
sabbia e terra, piccole bacche dal colore vivace e pezzetti di corteccia si
sparse attorno come una nuvola che implodeva, cospargendo Zoal
e il pavimento intorno.
E Kumals
pensò che non si sarebbe più rialzata.
Tuttavia, dopo lunghi istanti,
come risvegliata dalla rottura improvvisa della zucchetta, Zoal
si mosse. Mentre il tremore che la scuoteva si attenuava un poco, sicuramente
solo per lo sforzo faticoso di lei di riprendere il controllo saldo dei suoi
movimenti, la donna fece forza sulla presa sul bastone, tirandosi verso l’alto,
e sul ginocchio puntellato a terra, spingendosi dal basso. Riuscì a rialzarsi,
molto lentamente e faticosamente, dando l’idea che quell’azione le risultasse
particolarmente elaborata. Si rialzò in piedi, a gambe un po’ allargate per
mantenersi in equilibrio nonostante tutto; di nuovo ritta, da sola, dietro il
suo bastone, che sembrava ben più saldo di lei.
Kumals distolse lo
sguardo, rivolgendolo rapidamente verso gli schermi del centro di controllo e
comando che occupava la piattaforma; i video non lampeggiavano né si
lamentavano più, come impazziti. Righe che non riusciva a leggere scorrevano su
di essi. Solo su uno di essi l’immagine era lenta, e spesso ferma. Era lo schermo
davanti al quale erano impegnati le due figure, che leggevano riga per riga, o
la scorrevano velocemente, scrivevano, battendo sulla tastiera, parlottavano
tra loro, quasi discutendo animatamente talvolta.
L’uomo avanzò a passi decisi, e
si fermò alle loro spalle. «Justin, Conte, a che stramaledetto punto siamo?»
tuonò al di sopra delle loro teste, minaccioso.
Justin sussultò con evidenza, e
urtò inavvertitamente un mucchio di fogli impilato di fianco a lui. Il mucchio
si inclinò rapidamente e cadde verso terra, mentre le pagine turbinavano
ovunque.
Kumals fissò il
ragazzo con sguardo decisamente omicida.
«Non… Sono
numerate!» si difese Justin, spaventato da quell’occhiata.
«Non si preoccupi, signor Kumals; in ogni caso, quelli erano i fogli che abbiamo già
sistemato.» rassicurò il Conte, con voce fredda, a quanto pareva senza
distogliersi minimamente dalla contemplazione del video. «Qui.» indicò un punto
dello schermo col dito, poggiando la punta dell’unghia laccata di smalto nero
rovinato su una parola che Kumals non era neanche
sicuro fosse scritta nello stesso alfabeto che conosceva lui. «Cancella questa.
E scrivi…» e il Conte prese a sillabare in dettato
una sequenza di lettere ben precisa, mentre Justin le pigiava una ad una sulla
tastiera, con le mani piuttosto tremanti. Quando pigiò il tasto di invio, altre
parole sullo schermo mutarono di conseguenza, in automatico. Il Conte diede
loro una rapida occhiata. «Perfetto.» concluse.
«Allora, adesso possiamo lanciare
quella… cosa?» domandò Kumals
con impazienza.
«Ancora qualche attimo di
pazienza, signor Kumals, e potremo dare avvio
all’antidoto.» spiegò il Conte.
«Programma di disinstallazione.»
corresse Justin, automaticamente.
Kumals lanciò uno
sguardo attento alla faccia contratta dalla paura, estremamente pallida e
nervosa, del ragazzo, e per l’ennesima volta maledisse il fatto di trovarsi
nella situazione di dover riporre il buon esito della vicenda nelle mani di
qualcuno che aveva quell’espressione.
«In fretta. Zoal
non ce la fa più.» si limitò a scandire in tono cupo. E si voltò di nuovo, per
tornare al limite della piattaforma, dietro ai parapetti in lamiera; per
guardare Zoal.
La donna era in attesa, si
sarebbe detto. I suoi occhi, anche se gli voltava le spalle, dovevano essere
rivolti con attenzione alla mandria di persone, che si stavano rialzando.
Sembravano stordite e confuse, ma rapidamente riprendevano ciò che avevano
interrotto: dirigersi cocciutamente verso di lei, e verso la piattaforma che
svettava qualche metro dietro le sue spalle. Segno evidente che non erano
affatto tornati in possesso delle loro consuete facoltà mentali.
Kumals, però, vedeva
che nel modo di Zoal di aspettare c’era anche il
tentativo di riprendersi abbastanza da poter lanciare un altro moto di flussi
contro il gruppo. Ricordò molto bene le parole che la donna aveva pronunciato
molto tempo prima; non ricordava esattamente la situazione in cui le aveva
dette, il contesto, e non era mai stato sicuro di aver compreso di che cosa
stesse parlando. Ma c’era qualcosa, ora che guardava cosa stava facendo, che
gli aveva fatto rammentare di quelle parole.
‘E’ sempre più facile
distruggere, piuttosto che rendere innocuo; uccidere, piuttosto che disarmare.
Più facile, tecnicamente parlando. E più sicuro, almeno sul momento…’
Di colpo, quelle parole
ricordarono a Kumals anche le preoccupazioni espresse
da Uther, diversi giorni prima, quando il ragazzo non
era sicuro di voler intervenire in una situazione in cui avrebbero potuto
trovarsi a fronteggiarsi quelle persone ridotte in stato amebico. Aveva parlato
lucidamente a proposito del fatto di non poter fare loro del male, ma che si
sarebbe rivelato praticamente impossibile, considerato il loro atteggiamento.
Solo ora Kumals realizzò nettamente quanto avesse
avuto una lungimirante, totale ragione. Per un istante gli si affacciò alla
mente tutto quel sangue sparso per terra, dopo che Danny aveva ucciso quel
tizio che stava aggredendo Andrea. Tutt’ora non avevano idea di chi si
trattasse. E, Kumals se lo ripromise fermamente, nel
caso fosse riuscito a uscirne vivo avrebbe fatto di tutto perché Danny non lo
scoprisse mai. Ed era evidente il modo in cui quella ipnotizzazione collettiva
era stata progettata: per creare carne da macello. Il fatto che loro non
fossero stati disposti a trattarla come tale, fin’ora sembrava semplicemente
avere il potere di scaravoltare la situazione:
rendere loro carne da macello.
Zoal si preparò a
lanciare un altro flusso potente per respingere la folla che iniziava a
camminare rapidamente verso di lei. Kumals pensò che
stavolta sarebbe caduta. Lui non aveva idea di come proteggerla da quella sorta
di “cose” che tempestavano per tutta la stanza, e che le sarebbero di nuovo
rovinate addosso; in primo luogo… non sapeva nemmeno
che cos’erano!
Fu allora che risuonò un rumore
inequivocabile.
Il rumore salì nell’aria, al di
sopra del rumore di passi strascicati della folla che avanzava, facendosi udire
chiaramente. Era un latrato; e fu seguito da uno scampanellio piuttosto
allegro, che apparve stupidamente fuori luogo.
Kumals e Zoal compresero immediatamente, mentre diverse delle
persone che componevano il gruppo che si stava precipitando su Zoal rallentarono, o si fermarono proprio, voltandosi su se
stesse, per cercare la fonte del rumore.
Danza, ferma in piedi sull’ingresso
spalancato dell’hangar, abbaiò di nuovo, con decisione.
Una generosa parte delle persone
che la fissavano si gettò allora verso di lei, cambiando repentinamente
obbiettivo; e il cane attese, paziente, finché non furono abbastanza vicine,
prima di iniziare ad allontanarsi trotterellando. Così uscì dal capannone,
quasi scodinzolando soddisfatta, e scampanellando col suo pendaglio appeso al
collare, si lasciò seguire di buon grado dai suoi aspiranti aggressori.
Una trentina forse di persone,
rimaste nell’hangar, si crogiolavano nell’indecisione. E Kumals
scattò. Scese a precipizio gli scalini, abbandonando la piattaforma, e prese ad
attraversare l’hangar di corsa, dirigendosi verso il suo cappotto, che Justin,
costretto dagli ordini di Collins, aveva lasciato prima abbandonato in un
angolo. Decise di ignorare costantemente e il più possibile il fatto che la
trentina di persone, notando il suo movimento, si stessero gettando entusiaste
su di lui.
Zoal gridò un verso
di allarme, roco e debole, e lui ignorò anche quello.
Appena raggiunto il cappotto, si
chinò e lo raccolse in tutta fretta; lo indossò fulmineamente, e si voltò per
affrontare a viso aperto le persone che stavano arrivando su di lui.
Fu allora che una musica classica
iniziò a spandersi per tutto l’ambiente dell’hangar, lasciando attoniti tanto
lui quanto Zoal. Ma, ancora più stranamente, e
fortuitamente, fece fermare lì dove si trovavano anche tutti i corpi immemori
che gli stavano correndo addosso.
*
***
*
Sì, era vero: Johnson
non era il suo vero nome, ma solo uno dei tanti che aveva usato di volta in
volta come copertura; una parola come un’altra, che potesse servire, a chi ne
aveva bisogno in quella missione, per rivolgersi a lui. Ne aveva indossati così
tanti di quei nomi casuali, che ormai non rappresentavano niente più che
qualcosa come un paio di calzini usa e getta per lui. Ne aveva cambiati così
tanti, che nemmeno lui pensava a se stesso con qualche nome in particolare.
Adattarsi al meglio ad ogni aspetto specifico del suo mestiere faceva parte
della sua professionalità, era una delle sue migliori quotazioni come cecchino
e assassino, una versione di agente segreto raffinata dalla precisione netta
nell’esecuzione suoi compiti e dal fatto che essi fossero sempre sgombri,
puliti da ogni residuo di emozione troppo forte, di riscontro morale od etico,
di empatia, di quella che qualcheduno si ostinava a chiamare e rivendicare come
umanità”; come se non si potesse più appartenere al genere umano, pur facendo
a meno dell’indefinibile, imprecisato concetto di “umanità”. Tutt’altro: per
certi versi diventava molto più facile.
Qualcosa, tuttavia, vibrò
all’interno dell’uomo, quando si sentì apostrofare a quel modo.
«Mercenario….»
scandì il ragazzo che gli era di fronte, pochi metri a separarli. Sebbene se ne
stesse con le braccia alzate in segno di resa, e un fazzoletto da naso usato e
di un colore grigiastro tenuto a penzoloni dalle dita di una mano, quel ragazzo
non dava segno di essere disposto a mostrare uno sguardo cedevole o
arrendevole; a dirla tutta, non sembrava nemmeno preoccupato o tutt’al’più
intimidito. Al contrario, aveva un sorrisetto tagliente, convinto, furbo. Una
scintilla di forza fiduciosa gli saettava per lo sguardo, puntando dritta su di
lui, come se quel ragazzo fosse convinto di essere lui a starlo tenendo sotto
tiro.
Johnson aveva visto
altre volte quel comportamento, perciò non ne era sorpreso. Nella lista dei
suoi passati obbiettivi – che, per la precisione, non aveva mai mancato –
figuravano alcuni soggetti come quelli: forse si sarebbe potuto dirli ‘pazzi’, semplificando,
o meglio insensibili al fatto di stare per morire. Nulla di ciò, dunque, lo
sorprendeva. Piuttosto, c’era qualcosa che lo incuriosiva. Doveva trattarsi del
fatto che era la prima volta che il suo obbiettivo era un lupo mannaro.
Quella parola, però,
‘mercenario’, ebbe il potere di fargli provare qualcosa, per un momento. Una
sensazione fuori dal suo controllo, e perciò bruciante, perché da tempo non vi era
più avvezzo. Era una parola, una definizione, che suonava sgradevolmente grezza
rispetto alla sua pulita professionalità; aveva un sapore di retrò medioevale,
di rozzità. Non era certo un energumeno che andava a spaccare il cranio alla
gente con un martello da fabbro, lui. Affatto, e tutt’altro. Aveva un corpo
snello e muscoloso, scolpito dagli addestramenti e allenamenti, che lui
continuava a fare in proprio, per mantenersi uno dei più rispettati e ricercati
killer a pagamento. Anche la sua testa e la sua mira erano, inutile dirlo,
perfettamente allenati, in splendida e massima forma.
Sparare un colpo subito e
freddare quella specie di mostruosità semi-umana, quindi, al momento gli
sembrava un gioco ridicolmente semplice. Il tanto decantato fatto che quel
tizio fosse un ‘lupo mannaro’, ovvero secondo i suoi superiori un obbiettivo da
non sottovalutare e da tenere in più alta considerazione rispetto ad una
vittima umana, in quel momento sfumò definitivamente per Johnson.
Ma era curioso di sapere, tutto sommato, cosa passasse per la testa del lupo
mannaro, cosa lo avesse convinto ad esporsi così, a venirgli incontro come se
volesse parlargli. Non considerava che avrebbe potuto dirgli nulla di
interessante; dopo un po’, tutte le lamentazioni, gli scongiuri, le minacce, le
promesse, le blandizie delle vittime diventavano un disco rotto, mortalmente
noiose, tutte simili tra loro in fondo. Già da tempo Johnson
non permetteva nemmeno ai suoi obbiettivi di iniziare quelle inutili manfrine
spregevoli e tediose; li freddava prima. Ma, dopotutto, forse si trattava
dell’unica volta in vita sua che avrebbe avuto occasione di sopprimere un lupo
mannaro; sì, c’era indubbiamente una curiosità un po’ turistica e da
collezionista, a proposito di come un lupo mannaro poteva esprimersi
diversamente da un essere umano. E poi, scegliere proprio il termine
‘mercenario’ non era cosa così scontata.
Ma c’era quel particolare
fastidioso in più, innanzi a tutto il resto: indubbiamente, era riuscito a
infastidirlo.
«Lupo mannaro.» disse di rimando
«Per te posso anche essere chiamato ‘morte’.»
Un sogghigno, singolarmente sia
divertito che triste, sopraggiunse sul volto del ragazzo. «’Mercenario’…»
spiegò, con calma «…perché hai fatto diversi errori
grossolani. E forse è solo perché ti sei montato la testa, in fondo…»
Forse, alla resa dei conti, ciò
che rendeva un lupo mannaro diverso da un essere umano non era niente più che
la capacità di parlare a vuoto, ma riuscendo ad essere nel contempo
particolarmente irritante, considerò Johnson tra sé e
sé, accarezzato dalla tentazione di far partire immediatamente il colpo dalla
sua pistola moderna ed efficiente, puntata con precisione cecchina
– per l’appunto – sul petto del ragazzo, in corrispondenza del cuore.
«Davvero?» si ritrovò a dire, suo
malgrado; nel disegno rapido della sua testa, mappato fin nei minimi dettagli,
i piani erano lievemente cambiati. Preferiva farlo iniziare a parlare,
lasciargli l’illusione di poter recitare completamente la sua straziante o
penosa commedia d’addio; quando fosse stato ad un punto saliente della stessa,
però, lui vi avrebbe messo bruscamente fine, senza alcun preavviso,
semplicemente premendo il grilletto. Era l’equivalente di far scendere il
sipario a tradimento proprio mentre il protagonista sta esprimendo con tutta la
sua passione il monologo più importante e commovente di tutta l’opera. Lo
deliziava.
«Non hai fatto che tenerti a
distanza di sicurezza, in questi giorni… come se
avessi paura. Era di me che avevi paura?» domandò Danny, sempre con molta
calma.
Questo non rientrava nei piani;
il ragazzo – o meglio, il lupo mannaro – non stava procedendo col suo copione.
Invece di elencare i presunti errori che aveva riscontrato nel suo agire, come
a volerla avere vinta su di lui in quel modo anche se sapeva che sarebbe morto
comunque, stava esitando, come se una banale curiosità l’avesse colto di
sorpresa. Ma quella specie di psicologia pre-morte che Johnson
aveva sviluppato in tutti i suoi anni di onorata carriera gli permetteva di
capire anche questo; improvvisamente alla sua vittima sembrava insufficiente
averla vinta in un solo modo, e dunque voleva averla vinta doppiamente, non
solo enumerando i suoi errori, ma anche facendogli ammettere di aver paura di
lui. Scarso tentativo. Quel lupo mannaro gli sembrava sempre più alla stregua
di una qualsiasi delle sue vittime umane. Per poco non gli veniva da avanzare
qualche rimostranza in proposito. Invece rispose.
«In effetti no. Certo, se avessi
saputo che ti saresti limitato ad arrenderti così, forse ci avrei fatto un
pensiero prima. Lo ammetto, non avevo mai incontrato un lupo mannaro. Tutto
quello che volevo evitare era che mi rintracciaste, e acceleraste un po’ i
piani del mio attuale diretto superiore.»
Si riferiva a Collins,
naturalmente, quella specie di scienziato megalomane da strapazzo, col suo
assurdo capriccio di incontrare almeno uno o due dei membri di quel ridicolo
gruppetto di “scaccia-spettri”. In base alle accurate informazioni diligentemente
fornite a Johnson – il quale prima di ogni missione
ci teneva ad avere un quadro quanto più preciso e pulito possibile del campo
dove stava andando ad operare – i componenti del gruppo non erano che una
accozzaglia di imbroglioni di basso grado, degni di un circo. Per un momento fu
tentato di dirlo, al ragazzo; dirgli qualcosa di pungente, come accennare al
fatto che, dopo averlo steso, gli avrebbe preso la testa per appenderla ad una
parete di casa sua. Sotto ci avrebbe scritto ‘lupo’, e si sarebbe divertito del
fatto che i suoi ospiti l’avrebbero scambiato per un macabro scherzo, vedendo
una testa umana. Naturalmente avrebbe mentito, perché lui non aveva una cosa
come una casa fissa, né ‘ospiti’ di quel tipo che si divertono agli scherzi
goliardici come quello. Però valeva la pena di provare a scardinare quel ghigno
dal viso della sua vittima, e farla scaldare un po’, per vedere qualche effetto
speciale da ‘lupo mannaro’, prima di ucciderlo.
«Hai tentato di far fuori Andrea
ed Uther, sotto quel lampadario.» disse quello che
gli stava di fronte, e che in base alle informazioni si faceva chiamare
‘Danny’.
La trovò una cosa stupida da fare
presente, perché lui lo sapeva benissimo che cosa aveva tentato di fare. Il
punto era che non aveva ‘tentato’… era stato un modo per cercare di
spaventarli, di rimetterli al loro posto, di indurli a disinteressarsi della
faccenda. I suoi superiori non la pensavano come Collins, non erano cioè
particolarmente affascinati da quei ‘4 di picche’; e
lui poteva ben capirlo. Quello che non capiva era perché non gli avessero
ordinato di abbatterli tutti, per toglierseli dai piedi in fretta. Invece,
erano stati stranamente più “diplomatici”: lo avevano incaricato di cercare di
allontanarli, e di fare intanto credere a Collins di stare seguendo il suo
piano di farli arrivare, alla fine di una catena di indizi, alla casa dove
stava conducendo l’esperimento. Voleva mostrarlo loro, e in particolare ad uno
di loro, aveva detto Collins. Per quanto gliene importava di Collins, avrebbe
potuto freddare anche lui senza battere ciglio; e non era escluso che prima o
poi gli sarebbe stato ordinato anche quello. Anzi, forse un po’ ci sperava.
Quell’uomo gli dava ai nervi, specie per il suo trattarlo come ‘bassa
manovalanza’. Ma Johnson pensava che fosse solo un
esaltato allucinato dalle proprie stesse manie di grandezza; uno di quelli che,
quando già esistono modi sicuri ed infallibili per uccidere, come una pistola,
si metteva a progettare un astruso sistema complicato e intricato per girare
intorno al punto fondamentale: prima o poi tutti avrebbero dovuto aver a che
fare con la morte. La posizione di Johnson, per quanto
lo riguardava, poteva essere considerata in maniera un po’ diversa,
significativamente; lui era una specie di alleato della morte, una delle sue
tante mani. Una mano particolarmente pulita, efficiente, sicura.
«Ebbene?» chiese al lupo mannaro.
Per un momento gli parve di scorgere un rapido intensificarsi di un baluginare
sommerso negli occhi di quel ragazzo.
«Questo è stato uno degli
errori.» gli comunicò, sempre così convinto del fatto suo da apparirgli sempre
più ridicolo «Poi, ce ne sono altri tre.»
Ora sogghignava anche Johnson, sebbene a malapena. Non era sua abitudine perdere
tanto tempo a giocare, o almeno, era da anni che non ci si soffermava così
tanto. «Ti assicuro che non è mia abitudine fare errori; e questo caso non fa
eccezione.» chiarì risolutamente.
Non aveva idea di a che cosa si
riferisse quella sua vittima; era certo come che il cielo sta sopra la terra
che lui non aveva commesso alcun errore. Alcuni dei cosiddetti ‘4 di picche’ dovevano già essere arrivati al laboratorio di quel
degenerato di Collins, e gli altri erano tutti lì con lui: tutto ciò che doveva
farli era ucciderli uno dopo l’altro. Sapeva che solo tre di loro erano armati.
Uno, quello di origine tedesca,
era da Collins: gli aveva assicurato che ci avrebbe pensato lui, e con tutto
quell’esercito di persone inebetite non era difficile immaginare come. Quel
tizio avrebbe finito le cartucce molto prima di aver potuto stendere tutte
quelle persone.
L’altra era la ragazza, quella
che viveva in quella casa nel bosco; e le sue due armi bizzarre a forma di
cerchio lo avevano mancato ed erano una infissa in qualche tronco alle sue
spalle, e l’altra chissà dove tra gli alberi, a buona distanza.
Infine, il terzo e ultimo armato
era davanti a lui; non aveva alcuna arma in mano, e se solo avesse accennato al
proposito di impugnarne una, lui avrebbe saputo esattamente cosa fare, ed
avrebbe agito immediatamente.
E tutti gli altri componenti di
quella combriccola da operetta giacevano nascosti dietro qualche tronco poco
più avanti. Per ora li stava monitorando solo con la coda dell’occhio, e vedeva
almeno un paio di loro sporgersi da dietro l’albero per assister a cosa stava
facendo il loro stupido amico; quelli sarebbero stati i prossimi.
Se qualcuno di loro avesse
cercato di approfittare della sua attuale concentrazione sul lupo mannaro per
uscire allo scoperto, si sarebbe liberato di lui immediatamente con un solo
colpo, e poi avrebbe colpito anche loro. La sua mira era infallibile, la sua
rapidità nel prenderla eccezionale: nessuno con sale in zucca si sarebbe
sognato di assoldare un cecchino che non fosse perlomeno oltre ogni migliore
aspettativa quando si trattava di fare del tiro al bersaglio. I bersagli
mobili, in particolare, rendevano la faccenda più interessante; almeno lo avrebbero
fatto divertire un po’ di più di quanto non stava facendo quel deludente lupo
mannaro.
«Primo:…» lo sentì dire,
continuando il suo discorso.
Sospirò, e si decise. Era proprio
l’ora di finirla.
«… non hai proiettili d’argento
nel caricatore.» disse Danny, ancora sogghignando. E mentre lo diceva una delle
sue mani scattò: abbandonando il fazzoletto che aveva stretto tra le dita in
segno di resa, si portò la mano al fianco ed estrasse in un lampo la pistola
dalla custodia appesa alla cintura. Era già carica, e la stava già per puntare
su Johnson. Ma l’altro sparò.
Il proiettile lo prese in pieno,
dritto sulla spalla del braccio con cui Danny impugnava la pistola, che gli
cadde di mano; a causa del movimento che stava compiendo per puntarla addosso
all’altro, l’arma atterrò sul terreno ad almeno un metro da lui, come se
l’avesse lanciata. Ma aveva altro di cui preoccuparsi, che lo volesse o meno.
Danny dovette stringere i denti
molto forte per trattenere il forte gemito di dolore che lo colse, mandandogli una
scarica frantumante a riverberare per tutto il corpo. Cadde su un ginocchio, quello
della gamba corrispondente al braccio ferito, e rimase con l’altro ginocchio
piegato, come se fosse inginocchiato. Il sangue sgorgò generosamente dal buco
apertogli nella spalla; il proiettile l’aveva trapassata da parte a parte, e il
dolore lancinante gli oscurò la testa per un momento. Quando iniziò a recuperare
un poco di lucidità, vide l’assassino che avanzava verso di lui a lenti passi
tranquilli, come se stesse facendo una passeggiata; si fermò dinuovo, ancora a qualche metro da lui, la
pistola sempre puntata, stavolta alla sua testa. Sembrava divertito e di ottimo
umore.
«Converrai con me che, se ben
assestato, anche il proiettile più infimamente comune può essere adatto allo
scopo.» gli disse, col tono di chi fa un’osservazione puramente accademica.
Danny sentì l’aria impregnarsi
dell’odore del suo sangue, che già gli stava bagnando i vestiti, aprendosi a
macchia intorno alla cospicua ferita, allargandosi velocemente. Gli parve di
udire il rumore sottile, quasi inesistente, del gocciolare del plasma sullo
scarso strato di neve davanti a lui. Ma rimase cogli occhi fissi sul cecchino.
Sembrava stesse aspettando qualcosa.
Gli parve di sentire delle urla,
ed ebbe timore che dietro di lui, da qualche parte, Andrea fosse uscita allo
scoperto dal suo riparo, probabilmente per correre verso di lui; non aveva più
molto tempo, in ogni caso.
«Secondo:…» disse, sforzandosi di
scandire la parola in modo comprensibile.
Il cecchino premette il
grilletto.
Andrea gridò così forte, dietro
di lui, che gli sembrò potesse mandare in pezzi tutto quanto li circondava,
davvero; sembrò che avesse il potere di negare al proiettile di compiere il
tragitto fino a lui, di farlo tornare indietro, fin dentro la canna della
pistola che gli era puntata addosso.
In effetti, però, non c’era
nessun proiettile.
L’urlo che aveva fatto Andrea
riecheggiò tra gli alberi, il cielo e la neve, e parve un eco stupito,
incredulo; gli occhi dell’assassino erano uno spettacolo del tutto diverso. E
la performance migliorò, agli occhi di Danny, quando lo vide premere il
grilletto una seconda e una terza volta in rapida successione, testardamente e
con irritazione; vanamente.
«… quello era l’ultimo colpo di
quel caricatore.» annunciò Danny. Se il dolore alla spalla non gli fosse stato
così dannatamente pressante, avrebbe cercato di mostrargli almeno un sogghigno,
ma non riuscì a fare altro che fissarlo con serietà, mentre l’altro realizzava
che forse lui lo sapeva già; forse aveva contato i colpi, dopo aver
riconosciuto a vista e udito il tipo di arma che stava usando, e sapeva quanti
colpi contenevano i caricatori che vi erano abbinati. Danny non lo avrebbe
soddisfatto rivelandogli se la sua era stata fortuna o intelligenza. C’era
un’altra cosa che gli premeva dire, al momento.
«Terzo:…» mormorò, sentendosi già
molto debole per il sangue che continuava a correre fuori dalla ferita,
iniziando a innestargli un bruciante formicolio anche per il fianco, oltre che in
tutto il braccio. Si soffermò per un momento a osservare le mosse estremamente
rapide, ma allo stesso tempo guidate da una fredda determinazione e precisione,
con cui il cecchino estraeva dalla tasca un caricatore ed iniziava ad
immetterlo nella sua pistola infallibile.
In una sola fluida e rapidissima
mossa, giacché dopotutto lui, in quanto lupo mannaro, poteva permettersi di
essere più veloce di qualsiasi pistolero umano, Danny si portò il braccio sano,
il sinistro, dietro la schiena; le sue dita trovarono senza bisogno di cercare
o esitare l’impugnatura della seconda pistola, quella che portava sempre tra la
schiena e la cintura, sotto la maglia. Con movimento altrettanto fluido del
braccio sano la portò davanti a sé, alzando la canna verso Johnson,
il quale aveva appena finito di inserire il caricatore, ma iniziava anche già a
rendersi conto fin troppo chiaramente di che cosa stava accadendo.
Il colpo di Danny gli trapassò la
gola di netto; il sangue dell’assassino che aveva portato come ultimo il nome ‘Johnson’ schizzò la neve mentre il suo corpo atterrava
pesantemente all’indietro sulla schiena. Risuonò un altro sparo, perché
dopotutto aveva fatto in tempo a stringere il grilletto, solo che il suo era
stato un gesto già perso in partenza, perché l’aveva fatto nel momento in cui
stava già cadendo; il proiettile si disperse tra gli alberi, finendo chissà
dove.
«… io porto sempre due pistole.»
terminò Danny, con voce fioca, a fatica.
Dopo, si sentì precipitare. Cadde
in avanti, afflosciandosi un po’ su se stesso nel contempo, e vide il terreno
venirgli incontro molto velocemente, prima di chiudere gli occhi d’istinto.
Certo.
Era proprio così che funzionava. La libertà si paga, molto duramente. E spesso
ogni gesto di quel tipo è l'ultimo quando è ancora il primo. Non c'era alcuna
amarezza o arrendevolezza o recriminazione, nessun sentore di giustizia, era
così che funzionava. E capì che lo sapeva, o lo immaginava, perché ricordava
anche quello, che funzionava così.
E
mentre cadeva come se fosse privo di peso, comprese anche che sapeva perché lo
aveva fatto. Dietro di lui gli altri sarebbero rimasti indenni, lo sapeva, oh,
lo sapeva così chiaramente.
Sentì
il suo corpo cadere, afflosciarsi, e di già non gli sembrava nemmeno più il suo
corpo, già non gli apparteneva, come una vecchia pelle che si lasciava oltre;
avrebbe preferito guizzarne fuori spensieratamente, e invece essa gli bruciava
attorno, senza garanzia di lasciarlo intatto. E lui non aveva ancora una nuova
pelle in cui infilarsi.
Il
lieve sentore di un senso di pace che lo pervadeva, qualcosa che non aveva mai
provato ma che subito gli parve infinitamente meraviglioso.
E
poi quel suono squarciò la sua visione, come un pugno su una superficie d'acqua
intatta. Più precisamente, due suoni orribili in rapida successione, mentre il
suo corpo senza più coscienza cadeva, e lui non sentiva nemmeno l'impatto col
terreno, ma solo il senso di precipitare da un'altezza maggiore verso il centro
della terra. Due rumori orrendi che gli trapassarono le orecchie e gli bucarono
l'anima. Un grido soffocato e debole, una sorta di gemito, vinto dal dolore che
porta prima di poter raggiungere intensità sufficiente da farsi sentire.
Era
Andrea. Proprio lei. Anche lei si era lasciato alle spalle per la libertà? Ma
aveva conosciuto la libertà molto prima di conoscere Andrea, questo lo
ricordava. E anche molto meglio. Lui apparteneva alla libertà, ed essa, almeno
per qualche istante, gli era appartenuta, completamente. Eppure... Andrea, lei
non avrebbe capito. Non avrebbe capito quello che anche lui aveva rischiato di
non cogliere. L'avevano entrambi creduta una spavalderia la sua, un gesto
libertino, sconsiderato e completamente, pazzamente irresponsabile,
un'ostentazione di eroismo apparentemente grandiosa e in realtà orribilmente
leggera. Ma non lo era, lui l'aveva capito, sì, proprio un istante prima dello
squarcio del tuono che aveva rimbombato dentro il tubo di metallo. Non l'aveva
fatto per sè, per sembrarsi
migliore. Si era sentito stupendo, sì, ma quella meravigliosa ispirazione, quella
chiarezza folgorante era partita dal desiderio di loro incolumi. Lo sapeva, in
fondo, anche se avrebbe preferito non ammetterlo. Ed era sollevato in fondo che
lei non l'avesse capito.
Poi
l'altro suono, non meno tremendo, un grido che gli mandò in pezzi ciò che
restava del suo cuore, irrimediabilmente. Il grido di dolore puro, puro come la
sua libertà, e altrettanto radicale e istintivo, altrettanto potente; per
questo gli fece così male, quasi più della ferita che finiva di bruciargli il
cervello e il corpo. Ed era Uther, come lui ora
sciolto da ogni paura, ogni remora, ogni esitazione, come lui preso da un unico
senso puro e totalizzante, posseduto da esso, mentre tutto il resto si
annullava pallidamente ai margini. Ma tanto era stato bello il suo senso, la
libertà, così era pesante e orribile come il guizzo di una lama nel profondo il
senso di Uther: dolore e disperazione senza fondo,
senza fine, senza fondo... Liberato delle sue redini lui aveva volato, davvero,
si era alzato in volo per un momento infinito. Uther
invece precipitava, e il suo urlo non era un richiamo di salvezza o il
tentativo di non cadere per sempre, ma semplicemente espressione del suo
precipitare senza fondo.
Comprese,
di nuovo e meglio. Uther aveva capito. Uther aveva capito con intuizione immediata che lui non lo
aveva fatto per sé, ma per loro, primariamente, anche se gli era piaciuto così
tanto che si era illuso per la maggior parte del tempo di averlo fatto per sé e
basta. Ma Uther aveva capito, forse quasi prima di
lui. E non glielo avrebbe mai perdonato. Mai.
I suoi
occhi erano già ciechi, anche se non riusciva a capire se li aveva aperti o
chiusi. Eppure, era come se iniziassero a vedere un’altra scena. Non era
possibile, no?
Ma
ecco il dolore che arrivava, un'onda nera bruciante e orribile, troppo
spaventosa per tollerarne la vista. E il piccolo lupo sul ciglio del burrone
sapeva che non poteva sfuggirgli altrimenti che in un unico disperato e ultimo
modo: così spiccò un balzo. Prima in alto, per qualche prezioso frammento di
metro, e poi giù, dritto nel dirupo nero e informe.
'Addio',
si accorse di pensare.
Ma
non capì a chi si stesse rivolgendo, perché lui era solo là.
Note dello scribacchiatore:
se
avete seguito fino a qui, nel bene e nel male del mio scribacchiare tentando di
rendere al meglio delle mie attuali possibilità questa storia, vi chiedo di non
abbandonarla ancora. Lasciatemi qualche altro capitolo, perché in effetti ce ne
sono diversi altri (non temete, la lunghezza vista in questi è un’eccezione, la
gran parte degli altri torneranno della lunghezza più limitata perlopiù
mantenuta fin’ora).
E
non temete per Danny; in fondo, sono in qualche modo fiducioso che egli sappia
come cavarsela in pressoché qualsiasi situazione, anche se a modo suo…
mi
trovo in un certo luogo che potrebbe esservi famigliare, e mi stavo chiedendo
se questo potrebbe interessarvi, perché sto per farvi una proposta.’
Justin interruppe la digitazione
sulla tastiera, e si voltò a guardare Kumals. «Non
vuoi mandargliela davvero, no?» chiese, cercando rassicurazione.
L’uomo lo guardò, al di sopra
della sua tazza di tè terribilmente freddo, e alzò lentamente prima un
sopracciglio, poi anche l’altro. «Oh, no, Justin, certo che no!» rispose, e il
ragazzo sembrò riprendersi.
«Ti sto dettando una mieil solo perché così, sul momento, mi annoiavo, e sai,
volevo vedere come stai nei panni di una brava dattilografa.» continuò Kumals, il tono trasudante un sarcasmo piuttosto alterato.
Justin impallidì di nuovo,
boccheggiò per emettere qualche cosa, ma Kumals alzò
una mano davanti a lui, facendogli segno di aspettare prima di dire qualsiasi
cosa volesse esprimere. Justin si interruppe, effettivamente, e guardò Kumals voltarsi per lanciare uno sguardo interessato in un
altro punto della piattaforma.
Zoal giaceva
sdraiata per terra, il capo appoggiato sulla larga schiena di Mama; pareva profondamente addormentata.
«Come sta?» domandò Kumals al Conte, seduto di fianco a lei.
«Oh, per quanto io non possa
contare su valide conoscenze mediche, azzarderei che le sue condizioni siano
stabili e buone. Giace immersa in un profondo sonno.» rispose quegli,
distraendosi per un momento dalla conversazione che stava intrattenendo con cinque
persone.
I cinque rivolsero uno sguardo
risentito e sospettoso a Kumals, il quale non li
degnò minimamente. Il fatto che quelli fossero gli auto-incaricatisi nuovi
leader di tutte le persone che erano ritornate alla normalità una mezz’ora
prima circa, udendo il suono della musica classica che, per qualche motivo,
Collins aveva abbinato al programma di ‘risveglio’ che Justin e il Conte erano
riusciti a perfezionare e riattivare, non sembrava sfiorarlo particolarmente.
Sorbì un lungo sorso di tè dalla
tazza, e lo ingoiò a fatica, gelido com’era. Seduto sul bordo di una delle
pulsantiere enormi e squadrate che occupavano buona parte dello spazio
orizzontale della piattaforma, dondolava con nonchalance i piedi al di sopra
del corpo riverso di Collins. Erano dopotutto diverse le cose che sembravano
non tangerlo più di tanto in quel momento.
«Allora, questa mieil.» disse, ritornando a dedicarsi a Justin.
«’E-mail’. Si dice ‘e-mail’…»
rispose quello, con voce quasi incorporea.
«Esatto, dove eravamo arrivati?»
ma senza aspettare risposta si sporse a leggere nello schermo, quindi, riprese
a dettare. Justin, dopo un lungo momento di esitazione, riportò le dita alla
tastiera.
‘Si da il caso che io abbia trovato questo riferimento nella rubrica
personale del signor Collins, grazie alla brillante operazione di hackeraggio di uno dei miei attuali soci.’
«’Socio’? Davvero?» domandò
Justin, improvvisamente entusiasta. Poi, però, si rabbuiò di colpo, e le sue
spalle si abbassarono insieme al morale. «Questo mi rende anche tuo complice…?»
Kumals agitò una mano
per aria con noncuranza. «E’ solo retorica. Scrivi, vorrei togliermi questo
sasso dalla scarpa al più presto.» raccomandò.
‘E
si da anche il caso che il signor Collins giaccia al momento morto qui ai miei
piedi. Prima di morire, però, è mia premura farvelo sapere, ha cantato meglio
di un usignolo ad un concerto canoro; tutto ciò che non mi ha detto, comunque,
è ordinatamente contenuto in questo computer, che il mio socio non ha avuto
problemi ad esplorare da cima a fondo.’
«Beh, questo non è vero…» osservò Justin con onestà d’intenti. «Mi hai solo
detto di fare un back-up su cd, sostanzialmente, ma non è che io abbia proprio
indagato tutto quello che…»
Kumals lo fulminò con
lo sguardo. «E’ sempre retorica, come ti ho detto. E ti sarei grato se ti
astenessi da ogni altro commento. Un po’ di professionalità, per favore.»
‘Così,
voi capirete che se ancora mi sfuggiva qualcosa, a proposito degli eventi che
si sono verificati qui a CastleMac’Hearty e dintorni, ora ne ho un quadro più che completo.
Non solo: ora dispongo del materiale sufficiente per poter tenere, se questo
dovesse essere un giorno di mio interesse, una serie di presentazioni in tour
per il mondo intero.
Voi
sapete bene, signori, che non è mio costume dirvi tutto questo per vantarmi. In
passato, alcuni di voi potranno ricordare di aver concluso interessanti accordi
con il sottoscritto. E costoro sanno bene che mi sono sempre premurato di non
parlare mai male di loro, o in generale dei loro affari.
Quindi
ritengo che io goda presso di voi di sufficienti referenze per poter avanzare
le seguenti richieste, in cambio di una mia totale amnesia che presto potrebbe
incorrermi riguardo ai nomi coinvolti in questa vicenda.’
«E come vi stavo riportando con
la massima esattezza ora consentitami dalle circostanze, è stato a quel punto
che io e Justin, quel giovane che vedete laggiù, siamo riusciti nel periglioso
intento di dare voce al programma, che vi ha riportati sani e salvi alle
condizioni normali in cui vi trovate in questo preciso momento.» terminò di
narrare il Conte.
Gli sguardi che si ritrovò
addosso, tuttavia, erano tutt’altro che grati; ciò lo sorprese sgradevolmente,
e gli fece sorgere il sospetto di non stare avendo a che fare con quelli che si
potrebbero definire gentiluomini.
In quella, sentì Kumals che gli si affiancava. Tutto il suo pubblico dei
cinque rappresentanti temporanei delle persone risvegliatesi dal programma di
Collins si concentrò su di lui, con in sottofondo ancora la musica classica che
si spandeva per tutto l’hangar dagli altoparlanti fissati sulla parte più alta
della piattaforma.
«Allora, vi è piaciuta la
storia?» domandò Kumals.
Un uomo corpulento e dallo
sguardo sanguigno gli si rivolse in tono duro e deciso. «Volete spiegarci ora
perché ci avete lasciato a parlare con questo pagliaccio, a sentire queste
panzane?» domandò.
Se fosse stato possibile, il
Conte sarebbe impallidito; ma si limitò a stirare il volto in un’espressione di
profonda offesa, mentre si portava una mano al petto, incredulo nell’udire
tanta mancanza di un minimo di decenza.
Kumals incrociò le
braccia sul petto. «Quindi non credete ad una parola di quello che vi ha
detto?»
L’uomo fece un passo avanti,
piuttosto minacciosamente, ed esclamò. «E’ pura fantascienza! Se pensate di prenderci
per il culo, beh, avete sbagliato persone! E ora, vorrei proprio sentire come è
possibile che ci troviamo qui, nel bel mezzo del nulla, e ridotti in questo
stato!»
Kumals sospirò
pesantemente. Mentre guardava per un momento le altre persone ripresesi dallo
stato catatonico, solo per entrare in una condizione di shock, nel ritrovarsi
sperdute in una casa semi-abbandonata nel bosco, con i vestiti stracciati e
luridi, affamate e assetate e molto dimesse, si infilò una mano in una tasca
dei pantaloni. Estrasse una cartina più volte ripiegata, la distese e iniziò a
studiarla con lo sguardo.
Il Conte notò con una certa apprensione
che l’uomo con cui stavano dialogando, ma anche un po’ le altre quattro
persone, le uniche che sembrassero avere ancora energia e determinazione
sufficiente per cercare perentoriamente di capire cos’era accaduto, stavano
valutando il proposito di strappare di mano la cartina a Kumals;
ma, come altre volte, c’era qualcosa in quell’uomo, qualcosa di indefinibile,
che le faceva esitare e temporeggiare.
Kumals porse loro la
cartina dispiegata. «Su questa pianta è segnato il punto in cui vi trovate ora.
Seguendola, potrete ritornare a CastleMac’Hearty. Dovrete attraversare
il bosco, naturalmente. Personalmente, vi consiglierei di aspettare almeno fino
a domattina prima di partire. Nel frattempo, potrete trovare al piano di sopra
qualche benda, cerotto, disinfettante, cose da bere e da mangiare; mi sono
assicurato io personalmente che ci siano.»
Mentre alcuni di loro studiavano
attentamente la cartina, emettendo mugolii di sconforto nel notare la distanza
tra lì e CastleMac’Hearty, una donna domandò «E di chi è questo posto? Sarà
mica di quell’uomo là per terra…quello…
quello morto… ?»
Kumals annuì. «Sì.»
«E cosa gli è successo? Chi l’ha
ucciso?» domandò un altro.
Kumals rispose molto
tranquillamente. «E’ caduto male.»
La risposta aleggiò pesantemente
su tutti gli altri, e li ridusse all’improvviso in un compatto silenzio. Il
Conte non riuscì a stabilire se Kumals avesse
precisamente voluto ottenere quell’effetto, anche perché l’uomo, dopo aver
constatato che non c’erano altre obiezioni, era tornato accanto a Justin.
«Hai finito di copiare quei
dati?»
«Fatto! Tutto su questi cd.»
rispose il ragazzo, mostrandogli una pila di almeno venti dischetti tondi,
bucati al centro, con sfumature iridescenti su un lato. «Questi computer sono
una meraviglia, iper veloci, iper…»
ma il suo tono entusiasta si smorzò, nel cogliere l’espressione del suo
interlocutore.
«Bene. Allora, sarà ora che
andiamo.» disse Kumals.
Justin apparve incerto. «E dove?
Lei è svenuta…» osservò, accennando a Zoal «…e quelli non ci lasceranno
andare via così facilmente, no…?» chiese con
preoccupazione, occhieggiando i cinque ‘rappresentanti’. Anche Kumals guardò verso di loro, scoprendoli a mormorare in uno
stretto capannello, dal quale partivano di tanto in tanto occhiate intimorite e
nervose nella sua direzione.
«Oh, non credo sarà un problema.»
commentò semplicemente. Poi, si avvicinò a Zoal;
inginocchiatosi di fianco a lei, le sussurrò qualcosa all’orecchio. La donna,
sempre ad occhi chiusi, annuì.
Kumals le passò un
braccio dietro la schiena, e la sostenne mentre si alzava in piedi, lentamente.
Anche Mama si alzò.
Il Conte porse con reverenza il
bastone alla donna, che lo prese mormorando un ringraziamento. Kumals, intanto, si era cacciato le dita in bocca, per
emettere un fischio acuto. Di lì a poco si udì un allegro scampanellare, e
Danza scese dalle scale che portavano al piano di sopra, finendo di masticare
qualche cosa e di leccarsi il muso con soddisfazione.
Tutti quelli che si erano
accaniti seguendo Danza erano stati risvegliati dall’ipnosi mentre ancora
seguivano il cane, che, stanca di scorazzare per il bosco, si stava limitando a
farli girare in tondo intorno al capannone, quando Justin e il Conte erano
venuti a capo del programma di disinstallazione.
«Justin.» disse Kumals «Abbi cura di quei cd come se fossero la cosa più
preziosa che tu abbia mai posseduto. Sei sicuro che l’imiel,
o comunque si chiami, sia partita e arrivata a destinazione, vero?»
«Certissimo.» asserì Justin.
«Conte?»
«Signor Kumals?»
«Abbi cura che Danza non
infastidisca nessuno, e che nessuno infastidisca Mama,
mentre passiamo in mezzo a queste persone, per favore.»
«La consideri cosa già fatta.»
«Zoal?»
La donna lo fissò, interrogativa.
Sul viso di Kumals
si aprì d’improvviso, lentamente, un aperto e dolce sorriso pienamente sincero.
«Ben fatto.»
«Capitano mio capitano, la tua
nave è di carta fradicia...» mormorò lei, ironica.
«Oh, lo so. Ma non dirlo a questi
qua… non prima che ce ne siamo andati perlomeno…» disse Kumals, in tono
così basso da farsi sentire solo da lei, alludendo ai cinque rappresentanti
improvvisati che ancora parlottavano tra loro, guardandolo con dubbio e timore.
«Sono sicura che prima o poi
troveranno un capro espiatorio all’altezza delle colpe che intendono
affibbiare.» commentò Zoal, altrettanto piano.
In quella si udì un rumore
sommesso, come una voce lontana che chiamava. Kumals,
Zoal e Justin si voltarono verso il Conte, il quale,
non meno perplesso, stava fissando i suoi abiti, in particolare all’altezza del
suo petto.
«Zoal…?»
iniziò Kumals «C’era per caso compreso un qualche
sistema di comunicazione, in quell’apparecchio per individuare la posizione che
abbiamo messo addosso al Conte?»
«Se ne è occupata soprattutto Valentine, non saprei dire. Tuttavia, sembra proprio che
sia così.» rispose lei.
Kumals ordinò a Justin
di aiutare il Conte a recuperare l’apparecchio che aveva legato al petto, sotto
agli abiti. Quando vi riuscirono, Justin accese la comunicazione, in qualche
modo che Kumals, naturalmente, non comprese molto
bene. Però riconobbe subito la voce; era Valentine. E
sembrava sull’orlo del pianto.
Quando ebbe finito di parlare con
lei, e chiuse la comunicazione, il viso di Kumals era
impietrito in una gravità enorme. Zoal lo fissò; e
tutto ciò che disse fu «Chi?»
*
***
*
Ramo terminò la sua corsa
disperata di slancio, atterrando di peso sul terreno con le ginocchia, accanto
al corpo riverso; senza fermarsi nemmeno un istante, e senza esitare, lo
afferrò saldamente per la spalla intonsa e lo girò a faccia in alto,
disponendolo disteso di schiena.
Di fianco a lui iniziarono ad
arrivare, in rapida successione, Yuta, Andrea, Uther, Valentine e Duca. Ma non
li guardò nemmeno. Invece, strappò gli abiti zuppi di sangue sulla spalla,
macchiandosi immediatamente le mani egli stesso, ed esaminò rapidamente con uno
sguardo la ferita.
«L’ha trapassato. È aperta su
entrambi i lati. Non basta tamponare, dobbiamo fasciarla stretta, e subito!
Qualcosa di pesante e spesso, deve poter assorbire il sangue, ma soprattutto
cercare di bloccarlo il più possibile.» scandì, come se si stesse rivolgendo ad
un’equipe da sala operatoria.
Nel giro di qualche istante gli
furono porti una grossa sciarpa e un intero cappotto. Ma scosse brevemente la
testa. C’era qualcos’altro da fare prima; era una specie di formalità, perché
lui non poteva immaginare di ricevere da quei gesti una risposta diversa da
quella che sperava con tutto se stesso. Se si fosse permesso di immaginarlo,
non avrebbe potuto continuare con tanta prontezza.
Cercò il battito cardiaco di
Danny, premendogli le dita di una mano sulla carotide, e tastandogli con
l’altra il polso. L’istante in cui aspettava di sentirlo sembrò congelarsi e protrarsi
all’infinito, al punto da fargli pensare che persino il suo cuore si fosse
fermato ad aspettare il responso. C’era battito. Certo che c’era, doveva
esserci!
Ramo si riscosse, afferrò la
sciarpa che gli veniva porta e iniziò a fasciare la ferita, chiedendo agli
altri di dividere in pezzi più piccoli il cappotto. Non osò nemmeno per un
momento spiare le loro espressioni; lo avrebbero minato troppo profondamente,
al momento.
«Dev’essere
portato subito da qualche parte dove… a casa, a casa
vostra. Là ho le altre cose, gli strumenti. Più di così qua non posso fare.»
ammise, frustrato.
Quello che non aveva detto, che
ancora non trovava il modo di dire, erano gli altri rilevamenti che poteva già
fare, per i quali non gli servivano altri strumenti: la ferita era grande, era
vicino al cuore, e aveva già perso molto sangue, e molto altro ancora ne
avrebbe perso nel tempo che avrebbero impiegato per trasportarlo in qualche
modo fino alla casa di Yuta e Zoal.
E a lui veniva quasi da piangere o spaccare qualcosa, o fare entrambe le cose,
già da subito.
*
***
*
Il
lupo correva rapidamente; non era proprio disperato, o realmente così
spaventato. Ma l’istinto, più forte dell’esperienza in quel momento, gli faceva
volare le zampe come se dovesse mettersi in salvo.
Il
suo pelo, di solito elasticamente adattabile ai suoi movimenti, nonostante lo
spessore notevole e stratificato in saggio modo da renderlo quasi completamente
impermeabile, e allo stesso tempo molto caldo, era un po’ più rigido in
corrispondenza del muso e della gola; il sangue rappreso e il freddo lo avevano
diviso in ciocche rosseggianti. C’era persino una penna bianca di gallina che
gli era rimasta incollata col sangue sul petto, quasi in mezzo alle zampe
davanti, che ora mulinavano rapide.
I
cuscinetti morbidi e resistenti delle zampe e le unghie che facevano capolino
tra il pelo quasi non producevano rumore, sulle pietre che lastricavano gran
parte delle strade del vecchio villaggio; un villaggio prettamente contadino e
rurale, che sembrava essere rimasto un po’affondato in altri tempi. Non c’era
molto cemento da quelle parti, non c’erano molte macchine, poche luci soffuse
accese durante la notte, odore di bestiame, di segatura, di cibo conservato in
cantina, di bottega artigianale, di vino e formaggio che fermentavano e
invecchiavano nelle loro botti e scansie, di fieno imballato a seccare e
asciugare nei fienili, di sterco di cavallo e di pelle conciata aleggiavano
nell’aria, mischiandosi al sentore di umano.
C’erano
molti umani in giro, quella notte; molti più del solito. Ed erano tutti
occupati ad urlarsi l’un l’altro, per galvanizzarsi tra loro o anche solo per
scambiare di finestra in finestra, di casa in casa, di porta in porta che
veniva spalancata al sentire tutta quella confusione per strada, l’informazione
che stavolta lo avrebbero preso e ammazzato.
Forse
era quello che lo aveva attirato e poi spinto a soffermarsi a rifornirsi di
cibo da quelle parti, considerò il lupo tra sé e sé: no, non il rischio di
essere preso e ammazzato, ma quella sorta di tuffo in un passato un po’ più
calloso, lento, scorbutico e campagnolo. Subito dopo si stupì di averlo
pensato, perché lui non pensava molto, non a queste cose perlomeno. Ed infatti
tornò a concentrarsi sulla sua corsa, che si presumeva disperata. In realtà, si
stava quasi divertendo. Sarebbe stato semplice raggiungere il limitare del
villaggio e inoltrarsi nella fitta foresta molto prima che uno qualunque di
quegli uomini, perlopiù scalzi, o in ciabatte, mezzi nudi o in pigiama,
arrivassero a vedere anche l’ombra della sua coda.
Svicolò
con rapidità in una stradina stretta, decidendo di scegliere una scorciatoia da
intenditore verso la fine del villaggio; prese a slalomare
tra i vicoletti quasi completamente bui, accarezzando a fior di pelo con
famigliarità audace le pietre o l’intonaco degli angoli delle case ad ogni
curva.
Poi
svoltò intorno ad un altro angolo, e si immobilizzò.
Sorpreso,
e subito dopo furente, fissò con gli occhi blu scuro gli uomini che lo
aspettavano, come se volesse trapassarlicon la sua occhiata.
Dapprima
non fu del tutto sicuro che stessero aspettando proprio lui. Forse era per via
del fatto che erano solo in due, e che non stavano agitando fiaccole o pile a
batteria con aria iraconda. Uno si limitava a starsene appoggiato di schiena al
muro, fumando una sigaretta. L’altro, appoggiato al muro opposto della strada,
che era larga sì e no due metri, aveva lo sguardo svagato. Si erano immediatamente
accorti di lui; si erano distaccati dal muro e lo fissavano come se non fossero
particolarmente sorpresi. Sì, era lui che aspettavano.
Scoprì
i denti arricciando le labbra sulle gengive rosate inscurite da grumi di
sangue, e ringhiò sommessamente, mentre il pelo gli si rizzava come una
serpentina elettrificata sulla schiena, dalla nuca alla coda. La pelle del muso
arriccata disegnava un intrico di nervi e vene sul
dorso del muso.
I
due uomini parvero stupiti, e si scambiarono uno sguardo fugace, come per
accertarsi che stesse accadendo davvero.
Anche
lui era stupito, un po’, doveva ammetterlo. Prima di tutto, non gli era chiaro
come avessero potuto sapere che avrebbe scelto proprio quella stradina; in
secondo luogo, non gli era chiaro perché, invece di girare su se stesso e
andarsene scegliendo un percorso diverso tra i tanti a sua disposizione, li
stesse sfidando. Forse, era per via del fatto che uno degli uomini, quello un
po’ più basso e che non aveva gettato via una sigaretta a metà nel vederlo
comparire, impugnava un fucile. L’istinto gli dettava di non voltare mai le
spalle ad un fucile; l’istinto doveva aver ragione.
«Heylà… bella serata per una scorreria nei pollai, eh?»
domandò l’uomo più alto, il fumatore. Con sorpresa si accorse che gli si stava
rivolgendo; e con fastidio si ricordò di poter comprendere il linguaggio umano.
Ringhiò
di nuovo, più sonoramente, con le orecchie appiattite sul capo, i denti bianchi
ben scoperti, e le zampe davanti leggermente allargate, la testa un po’ china
verso il suolo; li guardava dal basso all’alto, sebbene a quella distanza di
diversi metri, e sapeva che nessuno che avesse mai visto un lupo prima poteva
equivocare quella posa. Anche il messaggio doveva essere abbastanza eloquente:
toglietevi di mezzo, lasciatemi passare.
L’uomo
che gli si era rivolto sembrò deluso dalla sua reazione, ma non sorpreso;
lanciò un’occhiata fugace verso l’altro, come in cerca di una qualche
ispirazione sul da farsi. Ma il suo compagno non gli fu d’aiuto. Fissava il
lupo intensamente, e il lupo pensò che almeno quello avesse colto in pieno la
gravità e il pericolo della situazione in cui si trovavano.
«D’accordo… il fatto è che… siamo
stati incaricati, capisci?» disse ancora l’uomo più alto, ancora rivolgendoglisi con fare ragionevole. «Noi di solito non ci
immischiamo in queste cose. Comunque, se tu volessi venire con noi, ora, penso
che potremmo trovare una soluzione…»
Se
avesse avuto una bocca umana, al momento, piuttosto che un muso lungo e forte,
in cui baluginava il biancore sporco di sangue della sua temibile dentatura, e
dal quale eruttava il cupo ringhio gutturale di minacccia,
avrebbe potuto ridere con sarcasmo, burlarsi di quel tentativo di inganno che
avrebbe potuto fallire nel circuire persino un moccioso.
Invece,
si limitò a rendere ancora un po’ più udibile il suo ringhio, e a mettere una
zampa in avanti, segno che era lì lì per attaccare;
non era sua intenzione aggredirli veramente, però. Con tutta quell’orda di
invasati pronti a fargli la pelle che si stava avvicinando, qualche strada più
indietro, aveva ben altro a cui pensare ora piuttosto che ingaggiare una zuffa
con due tizi così. C’era qualcosa, inoltre, in loro, che l’aveva colpito fin
dal primo istante. Non sembravano come tutti gli altri umani che aveva
incontrato prima; non erano terrorizzati come se vedessero un lupo per la prima
volta, né tantomeno sembravano considerarlo un lupo, perché gli stavano
parlando come se lui potesse capirli. Benché avrebbe preferito non arrivare a
quella conclusione, l’unica spiegazione possibile sembrava essere quella che
passava per il fatto che loro sapessero cos’era. A giudicare dal loro
atteggiamento serio, ma tutto sommato tranquillo, troppo calmo davvero, ciò non
sembrava turbarli in maniera particolare. Quelli non erano alle prime armi… no. Dovevano essere cacciatori…
non di lupi comuni, ma di quelli come lui.
Per
questo sapeva ora, più che bene, che non poteva voltare loro le spalle; non
poteva dar loro nessun vantaggio; non poteva lasciarli lì e andarsene
semplicemente. Loro lo avrebbero seguito, lo avrebbero braccato, gli avrebbero
dato la caccia fino a scovarlo ed abbatterlo. Perciò, doveva risolvere la
questione ora. E l’unica soluzione era ‘lui o loro’. Doveva impedire loro di
avere in futuro la possibilità di tendergli agguati e tranelli più capziosi, di
poterlo sorprendere letalmente, di costringerlo a
scappare e fare sempre i conti con il loro inseguirlo col proposito di
abbatterlo. Dovevano essere loro a cadere per primi. Quella che aveva davanti
ora era forse l’occasione più valida: erano troppo tranquilli e disinvolti,
come se lo stessero sottovalutando.
Come
se qualcosa dei suoi ragionamenti fosse trapelato dal suo sguardo o da qualche
suo leggero movimento, cosa possibile, giacché troppo poco di umano era rimasto
in lui per indurlo a saper fingere abbastanza bene, vide l’altro uomo, quello
che era rimasto in silenzio fino ad allora, muoversi. Lo vide togliersi il
fucile da tracolla, e allora seppe immediatamente che non c’era più tempo da
perdere.
Scattò,
rapido e fulmineo. Il tempo di mezzo battito di ciglia e aveva già coperto la
distanza che li separava, e si stava gettando a zanne scoperte dritto verso la
gola dell’uomo più alto, quello che aveva la guardia scoperta; ma si rese conto
di aver sbagliato i suoi calcoli. L’istinto, questa volta, lo aveva tradito:
l’istinto che gli suggeriva, di solito, di puntare sulla preda più debole, in
quel frangente lo aveva automaticamente fatto deviare sull’uomo disarmato. Un
errore plateale, imperdonabile. Ed infatti non fu perdonato, così doveva
essere.
Sentì
il colpo d’arma da fuoco rompere l’aria, con quel frastuono corposo tipico dei
fucili, e subito fu seguito da una fitta bruciante ad un suo fianco. Il proiettile
lo prese di striscio, senza ledere organi vitali, ma lui, che non era mai stato
colpito prima da un proiettile, non sapeva valutare la gravità della ferita.
Aveva visto così tante volte persone e non cadere sotto i proiettili, che si
aspettava di crollare immediatamente al suolo anche lui, nel mentre che,
rinunciando al suo attacco all’altro uomo, compiva un’acuta deviazione nella
corsa, nel caso che fosse partito un secondo proiettile.
Ma
non avvenne niente di tutto questo; il lupo non cadde, né partì un secondo
proiettile. Il guaito di dolore che il colpo gli aveva strappato riecheggiò
insieme a quello dello sparo, sulle pareti ravvicinate delle case che
circondavano la stradina, ma il lupo non attese di sentirli tacere. Nello
stesso istante in cui realizzava che il colpo non l’aveva fatto cadere, ma che
era ancora ritto sulle proprie zampe e capace di correre, si ritrovò a
scappare.
Corse
giù per la stradina, procedendo un po’ a zig-zag, come l’esperienza gli aveva
insegnato, per evitare altri eventuali colpi; non lo distolse da ciò il fatto
che non udì più nessun’altro sparo, perché sapeva che poteva trattarsi
semplicemente del fatto che l’uomo stava cercando di prendere al meglio la
mira.
Girò
sano e salvo un altro angolo, e continuò la sua corsa a perdifiato, cercando di
ignorare il più possibile il dolore tremendo della ferita, dalla quale sentiva
sgorgare ilsangue, a inzuppargli
lentamente il pelo. Ma continuò solo a correre.
Riuscì
a raggiungere il limitare del villaggio, e, ancora incerto sul fatto di essere
ancora vivo, proseguì oltre, salendo la lieve china scoperta, col terreno
ammantato di neve, che portava al riparo della foresta.
E
solo allora iniziò a capire che, anche se nessun’altro proiettile lo avesse
colpito fino a che non avesse raggiunto i primi alberi, il suo destino era già
segnato. L’odore del sangue era pressante; e sapeva che stava cadendo sulla
neve, segnando dietro di lui una precisa traccia indelebile, visiva e odorosa,
che contrassegnava le sue impronte, rendendole chiaramente distinguibili da
quelle di qualsiasi altro animale stesse affondato le zampe nella neve in
quella maledetta notte.
Note dello scribacchiatore:
Vi
chiedo ancora un po’ di fiducia nel sottoscritto e nei confronti di questa storia… L’ultima parte di questo capitolo, quella scritta
in corsivo, si spiegherà meglio – a livello di collocazione temporale, di
personaggi e quant’altro – nei prossimi capitoli, anche se penso abbiate già
riconosciuto tutti e abbiate intuito il resto. Okay, al prossimo capitolo
(abbiate pazienza sui tempi d’aggiornamento, sulla lunghezza capitoli… ebbene, non volevo troncarli questi!).
Ciò che sentì tutto in una volta,
mentre riemergeva da un luogo non meglio specificato se non nella completa
incoscienza e inconsistenza, fu un colpo forte e doloroso sulla sinistra del petto,
e il contatto di labbra screpolate dal freddo che si staccavano
precipitosamente dalle sue, mentre tossiva e annaspava, cercando di respirare,
trovandolo incomprensibilmente impegnativo, come se stesse imparando a farlo in
quel momento.
Quando tutto quel cercare aria
come se fosse stato in apnea per giorni risultò in qualcosa di utile, sentì
meglio altre cose: per primo il dolore al petto, come se gli avessero tirato un
pugno; il cuore gli batteva e anche questo, singolarmente, lo trovò qualcosa di
sorprendentemente nuovo, qualcosa da non dare così per scontato. Dunque, o era
diventato eccezionalmente pessimista ultimamente, oppure…
Gli odori lo colpirono con
violenza. Odore di sangue, parecchio sangue, quello di ferro sterilizzato, di
tessuto di garza, di qualche genere di disinfettante chimico; in sottofondo,
però, c’era il sentore di un ambiente che conosceva bene. Sì, l’odore di
spezie, di cibo, di stufa e legna da ardere non lasciava dubbi: era la cucina,
quella cucina.
Poi sentì anche i loro odori, e
le loro voci che parlavano piano, perlopiù con esitazione accorata,tutti concentrati attorno a lui.
«C’è…sì… c’è… è andata…»
era la voce di Ramo, una specie di tono sospirante e semi-incredulo, molto
affaticato e infinitamente sollevato.
«Porco mondo…»
Yuta dava l’impressione di stare per vomitare
l’anima.
«Oh, grazie…grazie… grazie! » se avesse avuto più forza, in quel
momento, probabilmente in realtà quelle parole di Valentine
sarebbero risultate più simili ad un grido; sembrava non sapere bene chi o che
cosa ringraziare, così su due piedi, anche se ne aveva un precipitoso,
irreprensibile bisogno.
Poi fu preso dal suo odore,
vicino, anche se non la sentì dire nulla. Cercò di aprire gli occhi, e anche
questo, manco a dirlo, risultò difficile, nemmeno avesse dei mattoni appoggiati
sulle palpebre; la testa stessa gli era così pesante, che sembrava pure il suo
cervello fosse legato ad un mattone mentre, per giunta, nuotava controcorrente.
Ma voleva proprio vedere qualcosa, almeno.
A pensarci bene, conosceva quelle
labbra che aveva sentito contro le sue. Le aveva riconosciute subito; non
sapeva, prima di questa prova, che si potessero riconoscere delle labbra
davvero così bene.
Con sforzo, si destreggiò per un
po’ nel tentativo di sollevare le palpebre, mentre, nel frattempo, qualche
contatto sul suo corpo gli faceva pervenire altre informazioni, qualcosa a che
vedere con il senso dell’equilibrio e del sopra e del sotto; era abbastanza
sicuro, dopo un po’, di trovarsi sdraiato sulla schiena, su una superficie
dura.
Riuscì ad aprire gli occhi,
infine, anche se le palpebre gli rimasero sgradevolmente a mezz’asta, e si
rifiutarono di accontentarlo oltre; ma era sufficiente per vedere il viso della
persona mezzo china su di lui, che dava l’impressione di starlo fissando da
parecchio, in silenzio.
Lo straniò rivederla; non la
ricordava proprio così: non così esausta e prostrata, con quell’espressione,
come se fosse invecchiata tutto d’un colpo di parecchio tempo, e pesi
incommensurabili le si fossero adagiati sgraziatamente sulle spalle tutti in
una volta, invece di accumularsi nel tempo, più diluiti.
«Ciao…»
riuscì a rantolare. Persino parlare, a quanto pareva, improvvisamente doveva
essere reimparato sul momento.
E lei sorrise, anche se molto
pallidamente; forse anche lei stava reimparando
alcune cose.
«’Ciao’ un accidente…»
gli mormorò, il viso vicino al suo; e solo allora Andrea osò prendergli una
mano con la sua, e stringerli l’altra sulla spalla sana.
Danny deglutì, pure quella una
faccenda corposa, visto che aveva la bocca impastata come se avesse dormito per
settimane senza intervallo. Riuscì ad abbozzare un lieve sorriso, o almeno così
gli parve; non era tanto sicuro di quali vie stessero prendendo i suoi muscoli
facciali, in quel momento. «Era un bacio o la respirazione bocca a bocca?»
Andrea lo guardò come se, in
tutta onestà, la considerasse una domanda stupida e superflua; la qual cosa,
però, sembrava divertirla. Era strano come la sua espressione sembrasse quella
di uno che potrebbe essere sul punto di scoppiare a ridere o a piangere, senza
riuscire a decidersi.
Fu allora che intravide anche il
viso di Ramo, che si stava chinando su di lui. «Danny?» scandì, molto piano e
lentamente, come se stesse parlando ad un cerebroleso.
«Non mi starai mica per chiedere
‘quante dita sono queste’, vero?» riuscì a dirgli, sebbene parlare rappresentasse
per lui, al momento, una delle cose più ardue del mondo.
Ramo rimase un attimo sorpreso;
poi scosse leggermente la testa. «Perché, hai avuto un’esperienza pre-morte in
cui hai imparato a contare?»
Danny sogghignò. Se solo fosse
stato un po’ meno complesso coordinare il parlare, il tenere gli occhi aperti,
il respirare e il controllare che il cuore non mancasse nemmeno un battito, era
sicuro che avrebbe trovato una risposta adeguata a quello.
«No, sul serio Danny… ora, non sforzarti per rimanere sveglio. Dormi pure.
Anzi, è meglio. C’è un po’ di lavoro con ago e filo da fare, da queste parti… » gli comunicò Ramo.
Danny realizzò in quel momento di
essere sotto i ferri di un veterinario; la qual cosa lo fece ridere, ma dopo un
vago tentativo di iniziare una risata ci rinunciò, perché i lievi sussulti che
essa provocava gli mandavano un dolore tremendo per tutto il corpo, e gli
appesantivano ulteriormente la testa. Era particolarmente seccante.
In ogni caso, avrebbe volentieri
seguito il consiglio di Ramo, se non fosse stato per il fatto che aveva un’ultima
curiosità: già da un po’ si era accorto che quel peso che sentiva in
corrispondenza della pancia non c’entrava con l’appesantimento in cui erano al
momento intrappolate tutte le altresue
membra. Più che altro, era come se qualcuno ci avesse appoggiato qualcosa
sopra.
Perciò abbassò lo sguardo il più
possibile, e si azzardò ad avventurarsi nella complicata sequenza di movimenti
che davano come risultato, o almeno lo sperava, il muovere la testa un po’
verso il basso, avvicinando il mento al petto.
Per un po’ si limitò ad osservare
chi gli stava quasi seduto sulla pancia, a cavalcioni, con le mani, gli abiti e
parte delle braccia sporche di sangue; Uther lo stava
già fissando, con un interesse attento e d’attesa, come se aspettasse il suo
turno dei saluti. Nonostante questo, Danny realizzò due cose: che era molto
arrabbiato con lui, e che stava affrontando i postumi di una paura del diavolo.
Non senza un certo stoicismo, era da ammettere. E sospettò che, se non si fosse
trovato disteso sulla tavola della cucina di Yuta e Zoal, coperto di sangue, con una ferita ancora aperta anche
se abbondantemente tamponata, e appena tornato da qualche posto che si poteva
avere l’ardire di situare ai confini ultimi della zona tra la vita e la morte, Uther gli avrebbe già assestato un pugno, oppure anche due.
Per la verità, forse ciò era già accaduto… e riconsiderò
quel dolore che sentiva al petto.
La domanda che gli rivolse, e che
gli uscì di bocca senza che riuscisse a riflettervi prima, tuttavia, risultò
molto strana e allo stesso tempo molto sensata, alle sue stesse orecchie colte
di sorpresa.
«Mi hai sparato di nuovo?» si
sentì chiedere ad Uther.
Quasi tutti, lui compreso, non
avevano idea di che diavolo stesse parlando.
Ma gli occhi azzurro chiaro che
lo stavano fissando ebbero un barlume di profonda e grave comprensione.
Qualsiasi cosa avesse detto, di preciso, Uther sembrò
averlo compreso.
«E’ normale, è normale… » stava dicendo Ramo, rivolgendosi soprattutto ad
Andrea «Accade spesso di essere molto confusi quando…»
«No.» disse Uther,
rispondendogli, senza staccare nemmeno per un istante lo sguardo, estremamente
serio, dal suo. «Non io, stavolta.»
Ramo, interrottosi nell’udire Uther parlare, per un po’ non riuscì comunque a riprendere
il discorso, confuso dalla risposta non meno che dalla domanda; per Uther non aveva nessun motivo medico, al momento, da
enumerare.
«Veramente…
è stato lui, Uther, a farti il massaggio cardiaco… » tentò Valentine.
Yuta, invece,
ascoltava lo scambio tra i due con serietà. Anche i suoi occhi erano divenuti
seri e gravi, come se si fosse persa in alcuni pensieri lontani.
«E a te chi ha sparato…?» domandò ancora Danny, sempre rivolto ad Uther.
Gli altri rimasero basiti per un
momento, e, senza bisogno che Ramo provasse a ripeterlo, accordarono
quell’uscita allo stato confusionale post-traumatico.
Ma il naso di Danny non poteva
essere ingannato, o perlomeno meno della sua testa; l’odore del sangue che
sentiva non era solo il suo. Alzò il braccio sano, seppure con molta fatica;
dovette stringere i denti per riuscirvi, e comunque il suo risultò un movimento
lento, affaticato, come se il braccio pesasse chili e chili in più del normale.
Alla fine, la sua mano raggiunse un fianco di Uther,
ma le sue dita l’avevano appena sfiorato che l’altro gliela afferrò,
bloccandola, e non riuscì tuttavia a trattenere una smorfia di dolore.
«Uther,
ma sei ferito anche tu?!» trasecolò Ramo.
Yuta spalancò gli
occhi di colpo e prese ad imprecare, soprattutto all’indirizzo di Uther, al quale assestò di getto uno schiaffo a mano aperta
sulla nuca «Brutto deficiente! Che diavolo aspettavi a dirlo?». Sembrava fuori
di sé, ma Danny la riconobbe proprio in quello; sapeva che certe situazioni, a
lungo andare, le facevano saltare i nervi. E non si stupì di vedere Utherrivolgerlesi con la volontà
di giustificarsi.
«E’ solo poco più di un graffio.
Mi ha colpito solo di striscio, non c’è bisogno di farne una tragedia, quello
che sta per morire è questo qua, io non…»
«Chi?» domandò Danny. Di nuovo Uther voltò la testa su di lui. «Chi ti ha colpito?»
Uther lo guardò per
un po’, prima che Danny si rendesse conto che non gli avrebbe risposto.
«Danny…
» lo chiamò Ramo, mentre già la vista, soprattutto ai bordi del suo campo
visivo, andava sfocandosi «…ora sarebbe meglio che
cercassi di riposare. Dormi un po’. Il peggio è passato…
Ti richiuderò la ferita… Andrà bene…
Solo, cerca di riposare tranquillo… »
La voce si smorzò e scomparve
gradualmente, in un ottusità crescente che riattirò
Danny in un abbraccio pesante, obliante. Gli parve però di udire un tonfo
sordo, verso la fine, mentre ritornava nel buio confortevole.
«Hey!»
gridò Ramo allarmato, avendo visto Yuta andare giù,
come se qualcosa l’avesse afferrata alle gambe.
D’istinto Valentine,
che era la più vicina alla ragazza, riuscì ad afferrarla prima che crollasse
del tutto a terra. Appoggiò il più delicatamente possibile il suo corpo sul
pavimento, facendovelo distendere. «E’ solo svenuta…
» annunciò.
Ramo sospirò, poi lanciò uno
sguardo sospettoso al viso pallidissimo di Andrea, che stava guardando Yuta, priva di sensi, con una certa sorpresa. La ragazza si
accorse del suo sguardo. «Non sto per svenire.» chiarì.
«Bene, meglio così…
perché mi servirebbe una mano per ricucire i lembi della ferita.» le chiese
Ramo, quasi con timidezza, incerto e a disagio nel chiederle proprio questo.
«Posso aiutare anch’io.» fece
presente Uther.
Ramo si concentrò su di lui. «Tu,
per favore, scendi da lì intanto. E poi alzati la maglia e fammi vedere quella
ferita.»
Uther fece una sorta
di smorfia, come se gli fosse stato proposto di mandar giù un cucchiaino di
fiele.
«Lo so cosa pensi…»
disse Ramo, guardandolo in modo diretto ma anche più comprensivo «Ma ti assicuro
che un paio di mani che ne sanno qualcosa di medicina possono essere più d’aiuto
del prendersi una sbronza per non sentire il dolore e cucirsi da soli con filo
e ago sterilizzato sul fuoco; e… no, non te li presto
ago e filo se non ti fai ricucire da me dopo che ci ho dato un’occhiata. La
sbronza, se vuoi, te la puoi prendere lo stesso.»
Uther alzò un
sopracciglio, contrariato. Quello che non voleva dare a vedere, ma che Ramo
aveva già intuito, era il fatto che, ora che l’adrenalina e l’urgenza per le
condizioni di Danny andavano scemando, lui stava sentendo fin troppo
chiaramente il dolore per la propria, di ferita, e che quindi non era molto
propenso a voler fare un movimento come quello che gli serviva per scendere dal
bancone. «Santo demonio, questa è una specie di…
‘sopruso medico’…» affermò infine.
«Lo è.» confermò Ramo, in tono
irremovibile, annuendo.
Andrea smise di seguire lo
scambio di opinioni; distrutta, si appoggiò con le braccia al bancone, e, il
mento abbandonato sopra ad esse, rimase ad ascoltare il rumore del respiro di
Danny, la testa vicino alla sua, cercando di farsi una ragione del fatto che
fosse ancora vivo, e, in qualche modo, del fatto che anche lei fosse ancora
viva.
*
***
*
Dov'era?
Neve,
aria fredda e fresca e libera; aria esterna e selvatica di bosco, satura di
odori come quello della corteccia, del terreno gelato…
quel sapore del freddo indefinibile. Nel nero della notte turbinavano minuti
batuffoli tondeggianti e leggeri di neve; sembravano così a loro agio
muovendosi nel vuoto, come se si divertissero a fingere di essere preda della
gravitàcome tutto il resto, quando in
realtà era loro precisa scelta artistica vorticare silenziosamente verso il
terreno.
Il
silenzio... già... quel silenzio. Il silenzio prezioso, inenarrabile della
foresta e delle montagne addormentate nell'inverno; il silenzio vellutato dal
suo rivestimento di neve, come una coperta candida su un addormentato
inconscio.
Lui…
lui invece era ben sveglio.
Oh,
sì. Sapeva dove si trovava. Certo.
Era una notte d'inverno delle
tante che aveva passato nella foresta. Aveva tra le fauci quel sapore buono e
saggio della solitudine, della comunione pacifica e semplice con la foresta e
tutto il resto. Un mondo bellissimo, un universo così specifico, dove non
c'erano finzioni, mezzi termini, diverse prospettive. Tutto era ciò che era:
dalla pellicola dei suoi sensi più esterni fin nel midollo della sua essenza;
ed era un tutt'uno.
Lui era un lupo nella sua tana,
che guardava la neve dell'inverno cadere nel buio fitto della notte, con la
pelliccia che lo proteggeva dal freddo e il suo fiato caldo che si condensava
immediatamente in evanescenti nuvolette bianco pallido. E le orecchie ritte,
pronte a captare ogni suono.
Non era tranquillo quella notte. C'era
qualcosa… qualcosa che turbava la solita placida
calma che – ricordava – lo aveva accompagnato come un sottofondo costante durante
tutto quel periodo.
Il suo fiuto, che avrebbe dovuto
cogliere solo gli odori della foresta in inverno, era saturo di un odore
pungente e preciso, netto come una lama nella notte, come un faro nella nebbia:
sangue e polvere da sparo. Normale: lui si era predato di creature che
perdevano sangue, lo aveva lappato dai loro corpi esanimi, atterrati dalle sue
zanne e dal peso del suo corpo di cacciatore, la vita troncata in un attimo
definito dal calare della stretta delle sue zanne, senza quasi dolore. Ma
quello era il suo sangue. Lo sentiva, raggrumato e congelato sul suo pelo; da
qualche parte, immerso nel folto della sua pelliccia, scorreva pigramente fuori
dalla sua pelle, attraversando con fin troppo entusiasmo un taglio nella sua
cute. Una ferita d'arma umana. Una ferita di striscio. Sarebbe guarita, non era
affatto quella a preoccuparlo.
A tenerlo con tutti i sensi
allerta e i nervi tesi, i muscoli gonfi di collera repressa e di ferocia
guardinga e anticipatrice, a fargli raccogliere le forze animate da un misto di
orgoglio ferito, rabbia vendicativa e ira di pura aggressività e odio, a
tenderlo come un elastico paziente ma pronto a scattare come fulmine micidiale
da un momento all'altro erano le macchie scure sulla neve. Il suo sangue gelato
e affondato nell’alto strato di neve. Non lo vedeva, ma sapeva che c'era. I
suoi sensi istintivi, e in particolare l'odore, ne individuavano con precisione
i contorni, ne tastavano con pazienza macchia dopo macchia. Sapeva cosa era.
Lui non si faceva stupide illusioni, non aveva patetiche speranze o deboli
auto-inganni a celargli lo sguardo. Era una traccia. Una traccia netta e
precisa che si interrompeva lì davanti alle sue zampe sdraiate in attesa
paziente, davanti all'ingresso della sua tana; poco oltre la soglia, sdraiato
per riposare e per impedire a troppo sangue di colare, lui aspettava alla fine
di quella traccia.
Sapeva bene cosa stava facendo, e
sapere che era giusto ed efficiente non gli procurava nessun piacere di autoglorificazione. I lupi non sono soggetti a questo
genere di cose, perché hanno un senso della gravità della vita molto più
terra-terra, mai preda delle auto-celebrazioni a volte teatrali a volte
melodrammatiche a volte ciniche e quant'altro che sono tipicamente umane. Il
lupo sapeva come stavano le cose e sapeva che cosa avrebbe fatto; tutto qua. La
neve cadendo avrebbe cancellato le tracce delle sue zampe. Oh, com'era
perfettamente utile la neve, in quel frangente. Ma la neve non avrebbe potuto
coprire l'odore del suo sangue: poteva celarne la vista, ma non l'esistenza. E
gli umani non potevano seguirlo, ma i loro cani sì. Avevano anche dei buoni
cani: non troppo irrequieti né impazienti né travolti dai loro sensi, dei cani
che si limitavano a fare il loro lavoro, a seguire la traccia naso a terra che
fende la neve ghiacciandosi ma senza perdere le sue preziose proprietà, e non
abbaiavano né uggiolavano o latravano, dando così stupidamente annuncio del
loro imminente arrivo a tutto e tutti. Ma il loro odore, e ancora più l'odore
degli uomini che li seguivano da vicino, li avrebbe preceduti comunque di
parecchio. Per questo il lupo avrebbe saputo con sufficiente anticipo quando
stavano per arrivare.
Non aveva alcuna fretta, no, alcuna
fretta di morire. E non gli importava. Appoggiò il muso sulle zampe anteriori, con
gli occhi fissi davanti a sé nella notte, e continuò ad aspettare ascoltando il
rumore del suo cuore che batteva regolare, e quello languido del sangue che
colava fuori dalla sua ferita e scorreva su altro sangue già seccatosi intorno
a rigide ciocche di pelo.
Ah,
sì... ricordava che notte era questa. Che precisa notte. Ma si scoprì a non
ricordare cos'era successo dopo, come se la vivesse per la prima volta. Aveva
una pallida idea del tutto. Del fatto che in realtà non sarebbe morto quella
notte dopotutto. Ma, quasi ugualmente inconscio del futuro come lo era stato la
prima volta che era accaduto, si dispose ad aspettare di vedere quello che
sarebbe successo, con una certa curiosità oziosa e vaga. Perché mai doveva
avere una qualche importanza? Era qualcosa che era già accaduto, era
semplicemente quello che era già successo, non gli pareva avesse niente di
straordinario... eppure sentiva un senso di anticipazione fargli il solletico
al cuore. E si rese conto di non vedere l'ora che comparissero le sagome
familiari ai limiti della salita di collina innevata su cui poteva spaziare la
vista dalla tana.
Ma
ricordava male. Non era proprio così che era andata. Prima aveva sentito
l'odore.
Il lupo alzò la testa e rizzò
ancora di più le orecchie. Apparentemente nulla si era mosso là fuori dalla sua
tana, a parte la neve che cadeva. Ma il suo naso non ingannabile fremeva
appena. L'odore degli uomini, prima così debole che poteva essere un'illusione,
- ma i lupi non hanno illusioni, e
questo in particolare forse ne aveva ancora meno degli altri in quel momento di
quella notte d'inverno - e poi sempre
più forte, si concretizzava, rendeva realtà indiscutibilmente fisica e reale la
presenza di uomini. Stavano arrivando.
Il lupo fece per alzarsi, ma poi
decise di restare sdraiato. A che sarebbe valso alzarsi se non a sprecare forze
utili per quando sarebbero stati abbastanza vicini? Certo non doveva andare
loro incontro, ad accogliere i suoi uccisori. Maledetti. Ma non li odiava
veramente. No. Li avrebbe combattuti e uccisi, ma sentiva di non odiarli
veramente; non gli importava così tanto degli umani. Ma forse c'era una punta
di odio per quegli umani in particolare, quelli che gli davano la caccia da
molti giorni, e che alla fine lo avevano trovato senza ombra di dubbio. Certo
se ne sarebbero pentiti, avrebbe provveduto lui personalmente a questo.
Dovette aspettare ancora, ma non
così tanto. Con quel freddo gli odori non viaggiavano così veloci. Poi le
sagome si profilarono sul limite opposto del pendio digradante e relativamente
sgombero da alberi che l'ingresso della sua tana dominava. Eccoli dunque, i
suoi uccisori. Venivano avanti lentamente, senza fretta. Questo lo colpì. Ma
poi altre cose lo disorientarono. Non c'era una folla di cacciatori con cani al
seguito. I cani si erano fermati prima, e a giudicare dall'odore e dalla
direzione del vento non stavano nemmeno prendendo un percorso diverso per
accerchiarlo. Ovvio, non sapevano nemmeno che lui si trovava precisamente lì,
non ancora. Gli uccisori che si discostavano dal resto del gruppo rimasto
indietro coi cani erano solo due uomini, e lui li riconobbe subito dall'odore.
Erano i due cacciatori, quelli che gli avevano dato la caccia tanto a lungo,
gli unici che sapevano precisamente che cos'era e come affrontarlo. Ma non lo
conoscevano affatto. Forse per quello non lo temevano abbastanza. Avanzavano
piano, con calma, anche se poteva sentire l'odore della loro tensione e
inquietudine, di adrenalina che aspetta di scattare.
I suoi denti iniziarono a
stringersi, facendo forza gli uni contro gli altri come a raccogliere energia,
allenandosi reciprocamente in attesa del momento in cui avrebbero scaricato la
loro potenza formidabile affondando nei tessuti altrui, lacerando e smaciullando senza freno così come decideva il loro
proprietario. Man mano che si avvicinavano un'altra cosa lo colpì e lo stupì,
suo malgrado. La sua attenzione si andava progressivamente concentrando su uno
di loro, quello più basso e un po’ più magro, ma dal quale emanava una durezza
che l’altro non aveva altrettanto, una ruvidezza quasi selvatica di un uomo che
conosce certe cose della foresta, certe sue regole, certi suoi modi, e un po'
della vita che essa incarna, per quanto le può conoscere un uomo s'intende. Era
stato lui a colpirlo, ne era sicuro; poteva quindi contare sulla sua cattiva
mira se non era stato capace di colpirlo a dovere nemmeno cogliendolo un po’
impreparato. Figuriamoci ora che li stava aspettando e che sapeva chi erano
cosa avrebbe potuto combinare. Pregustava il momento in cui gli avrebbe
squarciato la gola con le zanne, ben prima che potesse arrivare vicino ad
ucciderlo, ben prima! Ma ecco, lui era anche l'unico armato.
Avanzava con lo sguardo basso, e
i capelli spettinati e non molto puliti che gli oscuravano in parte gli occhi,
anche se erano corti, piuttosto mossi e di un sottile chiaro-biondastro.
Sembrava assorto in se stesso. Lui e il suo fucile che portava a tracolla, le
mani in tasca. Che stupida mancanza. Stava andando incontro ad un lupo,
perlomeno avrebbe dovuto imbracciarlo e averlo carico quel fucile! Ma non lo
aveva in mano nemmeno quando lo avevano scovato la prima volta, lo ricordava.
Bizzarro; ma non doveva lasciarsi disorientare. Questo era tutto a suo
vantaggio, che altro doveva importargli a riguardo della stupidità di quegli
uomini? Parlavano persino, parlavano tra di loro a voci sommesse, concentrate,
come se stessero passeggiando invece che andando in caccia. Il più vigile era
quello più alto, e il suo essere vigile significava che camminava con i nervi
tesi guardandosi attorno, e nient'altro. Quelli erano uomini ben strani, si
ritrovò a pensare per un momento fugace il lupo; poi tornò a concentrarsi
sull'attesa, spasmodica eppure paziente.
Ora che era chiaro che non
l'avrebbero individuato fino a che non fossero inciampati nel suo muso, lui
poteva concedersi di prepararsi con calma ad un buon agguato. Avrebbe aspettato
che si avvicinassero tanto da permettergli di balzare loro addosso coprendo una
breve distanza, e li avrebbe fatti fuori così rapidamente che a stento se ne
sarebbero accorti a tempo prima di morire. E il tutto senza perdere troppo
altro sangue. Forse, dopotutto, non sarebbe morto. Per questo doveva aver cura
di occuparsi prima di tutto di quello che imbracciava il fucile, certamente;
non ripetere una seconda volta lo stesso errore. Ma era un umano di
costituzione così poco robusta, in fondo, che nonostante avesse chiaramente una
ben valida forza, da lavoratore, avrebbe potuto sopraffarlo abbastanza
facilmente; probabilmente pesava meno di lui, che non era al massimo della sua
forma in quel periodo. Lui avrebbe avuto un'altra possibilità per non farsi più
trovare così facilmente, mentre gli umani non avrebbero avuto un'altra
possibilità per non farsi ammazzare. Tutto questo gli suonava meraviglioso; ma
non serviva certo a mitigare la sua ferocia, anzi la faceva lievitare
amorevolmente, infarcendola di crudele delizia. Ancora qualche metro e gli
umani sarebbero stati a buona distanza. Si preparò a scattare, pur senza
muoversi.
Gli umani si fermarono. Lui
indugiò. Non stavano guardando dalla sua parte, non si erano fermati perché
l'avevano visto. Il primo a fermarsi era stato quello col fucile e l’altro lo
guardava, in attesa. Quello che gli aveva sparato si prese un po' di tempo, poi
disse qualcosa al suo compagno, che il lupo non udì. Il lupo era solo nervoso e
impaziente. Se solo avessero fatto qualche altro passo a quell'ora lui sarebbe
già stato loro addosso e quel maledetto piccolo umano col fucile avrebbe già
avuto la gola troppo squarciata per poter parlare. Gli umani parlarono ancora
per qualche minuto, poi, sotto gli occhi attenti ma privi di comprensione del lupo,
quello disarmato iniziò ad allontanarsi, tornando da dove erano venuti. Solo
uno continuò ad avanzare verso la tana nascosta: quello col fucile. Se avesse
potuto sbigottirsi, il lupo sarebbe stato parecchio sbigottito a quel punto:
sembrava quasi che stessero cercando di rendergli le cose ancora più semplici.
Ma dov'era la trappola? Orbene, se c'era lui non la vedeva né sentiva né
riusciva a immaginarla, quindi doveva riconoscere agli uomini più astuzia di
lui: in quel caso lui avrebbe perso, così funzionava, e sarebbe stato ucciso.
Bene, tanto valeva che giocasse bene i suoi ultimi istanti di vita. Voleva
assolutamente arrivare ad infilare le zanne nella gola di quel tizio prima che
la trappola scattasse. Non si mosse di un millimetro, ma tese i muscoli.
L'uomo, che avanzava lentamente
sulla neve, mani ancora in tasca e fucile lasciato con nonchalance a tracolla,
si stava avvicinando abbastanza, e continuava a fissare il terreno. Un'altra
cosa strana, era che non riusciva a percepire in lui i sentimenti, che di
solito negli umani si palesano così facilmente attraverso gli odori. Quell'uomo
non era né nervoso né spaventato né nient'altro che potesse sentire. Che strano
essere umano. Se non avesse voluto ucciderlo, forse si sarebbe incuriosito.
Ecco, era quasi alla distanza giusta per consentirgli di essergli addosso con
due o tre balzi ben calcolati...
L'essere umano alzò gli occhi su
di lui. Il lupo, già sul punto di scattare, vi rinunciò, preso in pieno dallo
sguardo. Sapeva che era lì! Lo sapeva già! Questo lo distolse per un momento,
anche a causa della natura dello sguardo di quell'uomo. Non avrebbe saputo
spiegarlo con esattezza ma gli occhi azzurro chiarissimo, color di un fiume
ghiacciato, lo fissavano in modo particolare. Non cercavano la sua posizione,
ma il suo pensiero. Non aveva mai visto un umano tentare di capire cosa passava
per la testa di un lupo quando il lupo in questione si trovava a qualche metro
da lui, sul punto di balzargli addosso e distruggergli la gola e portarsi via
la sua vita in un baleno di zanne. Per questo esitò, ma già avrebbe posto fine
bruscamente alla sua esitazione e si sarebbe già scagliato addosso all'umano se
non fosse stato ulteriormente stupito. L'umano si stava piegando verso il
terreno, si metteva lentamente in ginocchio e poi a sedere sulla neve, con
mosse lente e apparentemente piuttosto tranquille. Mentre si muoveva, tuttavia,
non toglieva lo sguardo di dosso dal lupo. Questi era davvero colpito: perché
quell'umano non era in preda alla paura, all'istinto di lotta per la
sopravvivenza o perlomeno alla volontà di uccidere prima di essere ucciso?
Perché era così tranquillo? Un animale tranquillo, un animale che non ha paura,
è un animale che si trova nella posizione di potersi permettere di non averla.
Quindi, o l'umano lo stava sottovalutando enormemente, oppure sapeva di avere
in serbo qualche espediente, qualche segreta forza, che il lupo non riusciva a
sentire. Decise di aspettare ancora. Non capì bene perché lo fece,
probabilmente la sua non era altro che curiosità. Non aveva più una tale ansia
di uccidere ora che la sua vittima si era messa così alla sua mercé. E sapeva
di potersi permettere di temporeggiare finché l'uomo non avesse fatto un
movimento che indicava che stava allungando le mani sul fucile. Quello era il
solo vero pericolo.
Un uomo da solo era poco o
niente, niente più che una creatura debole, che non era in grado di evitare di
palesarsi fatalmente attraverso i suoi odori forti, il suo fare rumore e il suo
essere nudo e indifeso come una sorta di grosso verme strisciante, una specie
di aberrazione evolutiva che non è adatta a nient'altro che a patire e morire
in qualsiasi ambiente che non si costruisca con le sue mani a sua misura,
facilitandosi le cose, cambiando le regole a proprio vantaggio o meglio creando
luoghi dove è possibile fare ciò. Per questo l'uomo era così arrogante e
distruggeva ciò che toccava...sapeva che altrimenti sarebbe stato distrutto da
ogni cosa, e che non aveva alcuna difesa efficiente, se non quella di
sovvertire le regole con ingegnosi trucchi. Il lupo disprezzava gli umani, ma
suo malgrado li capiva. Tranne questo: questo umano che sedeva davanti alla sua
tana e non sembrava avesse intenzione di imbracciare il fucile o estrarre un
coltello o qualche altra invenzione che cambiava le regole, che lo rendeva
vincitore a tradimento di una battaglia non certo ad armi pari. Le sue mani
erano ferme sulle sue ginocchia piegate nella posizione seduta. Voleva forse
cambiare le regole anche lì, da solo nel bel mezzo della foresta, nientemeno
che davanti alla sua tana, come se gli rinfacciasse ciò che stava facendo?
Certo, doveva essere così, non era forse un insopprimibile istinto di natura
umana giocare sporco?
Il lupo emise un lungo, cupo,
basso ringhio gutturale, un lamento che sembrava appartenere alla morte stessa,
la morte che sta arrivando. Quanti umani avrebbero tremato impotenti sentendo
quel suono. Anche l'uomo che gli sedeva davanti alla tana, sbeffeggiandolo con
i suoi modi, ebbe un fremito leggero. Non abbastanza comunque per i suoi gusti.
Continuò a riflettere, mentre nel silenzio che li circondava l'eco sinistro del
suo verso si prolungava minaccioso. Forse quell'uomo era lì appositamente per
distrarlo, intanto che gli altri gli tessevano intorno qualche trappola. Ma il suo
fine udito e il suo naso gli dicevano solo che la mandria di uomini furiosi coi
cani era ancora ferma a notevole distanza da lì, come se stesse aspettando
qualcosa, e che l’altro cacciatore si era fermato quasi all'estremo opposto del
pendio, e aspettava immobile, guardando nella loro direzione. In quell’uomo sì
che sentiva l'inquietudine, la preoccupazione: viaggiava nell'aria chiara e
distinta come se stesse urlando ciò che lo tormentava.
L'uomo davanti alla tana si mosse
e il lupo ebbe un fremito ed aumentò il volume del suo lugubre ringhio
gutturale: ‘sto per ucciderti’, continuava a dirgli, non per minaccia ma perché
era davvero ciò che stava per fare. Non era possibile che quell'uomo non lo
sapesse, impossibile. L'uomo aveva alzato una mano per spingere indietro il cappuccio
che gli copriva in parte la testa. Sembrava un gesto non particolarmente
significante. O era così tranquillo da poterselo permettere o era così
terrorizzato da cercare di distrarsi dalla sua stessa paura. Ma il lupo,
dannazione, non riusciva a sentirlo. Tuttavia non staccò più gli occhi dalle
mani dell'uomo, attento a ogni loro movimento. Quello era il vero pericolo
degli uomini, le loro uniche vere armi d'offesa: le loro mani. Con le mani
potevano armeggiare coltelli, fucili, tagliole e quant'altro.
Le mani si mossero di nuovo:
l'uomo le aprì rivolgendole con le palme verso l'alto, e le appoggiò sulla
neve, nude e vuote, ridicolmente dotate solo di una peluria rada e corta,
biondastra. Allora il lupo alzò gli occhi sullo sguardo dell'uomo, facendo
quello che nessun lupo vero e proprio avrebbe forse mai fatto: cercare un senso
delle azioni dell'uomo nel suo sguardo. Ma la sua parte umana, nonostante
tutto, conservava il potere di farlo agire istintivamente in un certo modo
assolutamente “non lupesco”, a volte. Sondò e risondò
gli occhi dell'uomo, dall'espressione estremamente seria e aperta, sincera. E
questo non gli piacque affatto. Come poteva uccidere una vittima come si deve
se questa si comportava in modo così bizzarro? Come poteva prendersi la sua
vendetta? Un barlume tuttavia lo colse in quegli occhi, in quella tranquillità.
Dopotutto lui e l'umano avevano qualcosa in comune, per quanto potesse
sembrargli incredibile. Quell'umano non aveva paura di morire.
«Mi dispiace di averti colpito.»
Il lupo trasecolò. Lui poteva
capire il linguaggio umano, suo malgrado, ma prima di tutto lo sorprese sentire
la voce di quell’uomo: il fatto che gli parlasse, e che lo facesse con quel
tono sincero. Poi lo colpì ciò che aveva detto. Si accorse di aver smesso di
emettere di tanto in tanto il basso ringhio gutturale.
«Ma non potevo permetterti di
uccidere Kumals.» disse ancora l'umano, con lo stesso
calmo tono.
Le sue parole ricordarono al lupo
della ferita. Essa gli doleva, certamente, ma era abituato a sopportare il
dolore. E il sangue ormai scorreva molto più lentamente. Si sarebbe fermato, e
la ferita si sarebbe richiusa, lo sapeva. Aveva pensato che l'uomo fosse lì per
sparargli un'altro colpo, uno mortale stavolta. Cos'era dunque quella recita
bizzarra?
L'uomo continuò a parlare, sempre
senza staccargli gli occhi di dosso.
«L'inverno è duro qui. Il cibo
scarseggia molto. Non metto in dubbio le tue qualità di cacciatore...ma non
puoi cacciare il nulla dopotutto. Se non fosse per questo, credo che avresti
fatto il possibile per evitare di venire in contatto con degli esseri umani.
Forse mi sbaglio. Ad ogni modo, se non ti dispiace, mentre aspetti che la tua
ferita guarisca, nei prossimi giorni, tornerò in questo bosco. Magari ci
incontreremo. Ti lasceremo del cibo nelle vicinanze. Ne porterò altro, finché
non sarai guarito. Ma non tornare più in mezzo alla gente. Non qui, non come
lupo, non per cacciare. O dovremo darti di nuovo la caccia anche noi.»
Questo disse l'umano, che il lupo
volesse crederci o no. Questo disse, guardandolo dritto con quegli occhi
impenetrabili, ma cortesi e sinceri. Parlò lentamente e pazientemente, come se
pensasse che il lupo potesse faticare a comprendere il linguaggio umano. Ma il
lupo lo capì benissimo, senza fatica, anche se non riusciva a capire nel vero
senso della parola: non aveva più idea di che stesse succedendo.
Dopo qualche altro momento
l'umano si alzò di nuovo in piedi. Il lupo tese di nuovo i muscoli, nel caso lo
avesse visto prendere il fucile, e anche perché aveva ancora intenzione di
ammazzarlo. L'uomo lo guardò e poi gli voltò le spalle, gli voltò le spalle!, e
si incamminò allontanandosi, voltandogli le spalle! Mentre il lupo lo osservava
attentamente, aspettando ancora il momento di ucciderlo, l'uomo si allontanò, si
ricongiunse con il collega che lo aspettava, e parlando tra loro continuarono
ad allontanarsi insieme, finché sparirono alla vista del lupo, e dopo qualche
tempo sparirono anche dal suo fiuto, loro due e tutti gli altri uomini e i cani
che erano venuti a cercarlo, a ucciderlo. E lui restò lì, ancora vivo, ad
aspettare invano il momento per uccidere ed essere ucciso.
Sì...
era così che era andata... ancora gli sembrava incredibile e quasi divertitamente assurdo... ma era andata proprio così.
Quella scena, quel sogno o qualsiasi altra cosa fosse, era esatta: le cose
erano andate così. Solo che lui lo aveva quasi dimenticato... e non capiva come
aveva potuto farlo.
Non
gli sarebbe dispiaciuto restare ancora sdraiato in quella tana, a riassaporare
quel momento di quella notte di tanti anni prima, quando se ne stava a guardare
la neve fioccare nell'aria scura, che ricopriva lentamente le orme degli umani
che se n'erano andati. Le orme si cancellavano per sempre, ma lui aveva una
sensazione dentro di sé, una sensazione nuova e curiosa.
Poi
la scena si ruppe, se ne andò, o lui ne fu gettato fuori.
Soundtrack: A dustlandfairytale (the Killers)
Note
dello scribacchiatore: ecco qua, in ritardo ma alla fine arrivo! Anche
questo bello lunghetto… già. Me ne dolgo per chi
apprezzava la brevità, che comunque tornerà, giusto che io smaltisca un po’ di
questi capitoli più…ampi…
spazialmente e temporalmente e quant’altramente e blabla.
Giusto
un paio di cose da dire. La prima è che mi dispiace per il carattere fin troppo
rivelatorio del titolo, ma che volete…
m’è venuto fuori così e mi ci sono affezionato col tempo! (no, raramente le mie
motivazioni hanno intenzione di essere ‘accettabili’, né vi ambiscono particolarmente…). La seconda è che tutte quelle tirate su
natura umana e quant’altro non sono messe lì a caso tanto per fare della
speculazione aggratis da parte del sottoscritto, ma
sono interessanti in quanto scaturiscono dal personaggio…
o almeno, vi consiglio di prenderle in tal senso ecco!
Yuta, seduta sul
divano, sorbì un altro sorso di caffè bollente dalla tazza, con la quale si
stava anche scaldando le mani; poi ci pensò per un momento, e decise che si
sentiva come la patetica imitazione di una vecchia rimbambita, a stare lì
seduta con la schiena un po’ curva, un grosso scialle sulle spalle e il suo
sorseggiare dalla tazza. Con un gesto infastidito si fece cadere lo scialle di
dosso.
Il suo movimento attirò lo
sguardo di Valentine, sprofondata nella poltrona
della stanza più ampia del piano terra della casa; la ragazza la spiò per un
momento, incuriosita, ma non disse niente. Sembrava sul punto di cedere alla
stanchezza e di addormentarsi di botto.
Chi invece non aveva notato per
niente il gesto di Yuta era Andrea, addormentata
profondamente, distesa sul divano di fianco a lei. Yuta
la fissò. «Mi sembra ancora strano che si sia addormentata. Avrei giurato che
non si sarebbe staccata da Danny per niente al mondo.»
Valentine si riscosse,
udendola parlare, e cercò di tirarsi un po’ più su contro lo schienale della
poltrona. «Beh… non è che si è proprio addormentata
da sola… » accennò.
Yuta si voltò
immediatamente a guardarla, chiedendole di spiegarsi meglio con un’occhiata più
che eloquente.
«Ramo le ha messo un po’ di
calmante nel caffè…»
All’improvviso Yuta stava osservando la sua tazza con estremo sospetto.
«Oh, no, nella tua ha messo un
po’ di peperoncino, giusto un pizzico…»
Ora Yuta
la guardava con un sopracciglio alzato come se stesse facendo una spaccata
sopraccigliare.
«Dice che è una specie di ricetta
per far passare… il mal di testa.» improvvisò Valentine; per poco non stava per ammettere che, più
propriamente, l’intento di Ramo era stato quello di far rinvenire Yuta. A dirla tutta, le sembrava molto poco educato, oltre
che potenzialmente pericoloso, ricordare alla ragazza che era crollata a terra
come una pera matura, e che si era ripresa solo da un quarto d’ora circa.
«Mhm… »
fu tutto ciò che mugugnò Yuta, continuando a guardare
per un po’ il caffè nella tazza come se stesse cercando di decidersi a berlo.
«Mi dicevi…» riprese poi «…che
hai già richiamato gli altri per dire loro che Danny è salvo, vero? E che loro
dicono che ce l’hanno fatta… »
Valentine annuì. «Sì. E
hanno voluto aggiungere solo che ci rivediamo qui per spiegarci cosa ci è
successo.» Per un momento si ricordò del tono preciso con cui Kumals aveva rafforzato quest’ultimo concetto. E decise che
non aveva alcuna voglia di incrociarlo, non prima che qualcuno avesse smorzato
quello che si preannunciava come un vero e proprio temporale a riguardo del
perché e del percome Danny avesse rischiato la pelle a quel modo. Forse Ramo ci
aveva già pensato, e stava somministrando al ragazzo, ancora privo di
coscienza, qualcosa per farlo dormire a lungo; in modo che, quando si fosse
svegliato, sarebbe stato di nuovo abbastanza in forze da fronteggiare una
probabile aggressione di Kumals.
Valentine si tirò in
piedi. «Credo che andrò a farmi una dormita… o una
doccia, o entrambe le cose.» annunciò a mo’ di congedo.
Yuta annuì.
Quando la ragazza si fu
incamminata su per le scale, Yuta decise di alzarsi
anche lei; ora che sapeva in grazia di cosa Andrea stesse dormendo così
pesantemente, non si preoccupò affatto di far muovere un po’ il divano mentre
lo abbandonava. Si diresse in cucina.
Entrando, si soffermò per qualche
momento ad osservare la scena. Uther se ne stava a
torso nudo seduto sul bordo del bancone, le braccia un po’ alzate e allargate,
per permettere a Ramo di avvolgergli diversi giri di bende intorno al fianco,
finendo la fasciatura. Dietro di lui, disteso sul bancone, con una protuberanza
di spessa fasciatura all’altezza della spalla, giaceva ancora Danny,
completamente incosciente.
«Hai drogato Andrea?» domandò Yuta.
Ramo sussultò, tirando un po’
troppo la benda. Uther fece una smorfia di dolore
trattenuto, poi lo fissò, con aria sorpresa, quindi incuriosita, quindi
ghignante; Ramo non riuscì a interpretare bene quest’ultima espressione.
Sospirando stancamente, si voltò verso Yuta.
«Non l’ho proprio ‘drogata’.
Erano solo dei calmanti; abbastanza leggeri.»
Yuta sorseggiò il
suo caffè, fissandolo pensosamente; se solo fosse riuscita a sentire anche il
più vago accenno di sapore di peperoncino, avrebbe avuto un valido motivo per
aggravare il capo d’imputazione, ma sembrava proprio che ce ne fosse stato
messo pochissimo, e che il caffè fosse stato saggiamente molto allungato con
l’acqua calda.
«Oh.» commentò, asciutta.
Ramo si sentì intrappolato tra
quel commento, accompagnato da uno sguardo acuto, e dal sogghigno con cui Uther lo stava fissando come se avesse appena deciso che
era il suo nuovo eroe.
*
***
*
Il lupo trotterellava di buon
ritmo nella foresta, seguendo con scioltezza la direzione in cui lo stava
guidando il suo fiuto. Si sentiva di umore strano; un genere di umore che non
provava da molto tempo, al punto che ora lo lasciava perplesso, e piuttosto
ironicamente divertito.
Alla fine si fermò. Allungò il
muso verso l’alto, saggiando meglio la traccia, per poi puntare decisamente
verso un albero in particolare. Ai piedi di esso trovò un involto. Sapeva già
cosa conteneva.
Diversi minuti più tardi, un
ragazzo solitario e completamente nudo stava valutando uno per uno gli abiti
che aveva messo allo scoperto dopo aver aperto la coperta in cui erano stati
avvolti. Con un sorriso divertito si rendeva conto di come la quantità di
vestiti fosse considerevole, e tutti in tessuto pesante. Tra sé e sé pensò che
dopotutto quegli umani non dovevano saperne così tanto, a proposito dei lupi
mannari, per pensare che nella sua forma umana lui soffrisse ancora il freddo
come un essere umano.
Scelse una maglia un po’ troppo
larga e un paio di pantaloni un po’ troppo corti, oltre alla biancheria e a una
giacca, che indossò senza preoccuparsi nemmeno di chiudere, il tutto completato
da un paio di calze e di scarpe di una misura abbastanza vicina alla sua;
riavvolse il resto degli abiti nella coperta, e si sistemò il tutto sotto al
braccio mentre si rialzava in piedi. Nel farlo una lieve fitta dolorosa gli
rammentò per un momento della ferita guarita completamente solo da poco.
Sogghignò tra sé e sé.
Guardandosi intorno, si soffermò
per qualche istante nella felice contemplazione della foresta innevata
tutt’intorno, come se quel paesaggio lo abbracciasse benigno.
Quindi, rialzò di nuovo un po’ il
suo naso umano verso l’alto, ora scegliendo un’altra pista. La sentiva già da
un po’, e la posizionò senza difficoltà in cima ai suoi interessi del momento.
Di lì a poco si stava già incamminando, una mano affondata nella tasca dei
pantaloni in prestito, dirigendosi in una direzione specifica. Non avrebbe
nemmeno avuto bisogno di sentire così bene quell’odore, perché sapeva che colui
a cui apparteneva sceglieva sempre lo stesso posto.
Camminò a quel modo per una mezz’oretta, prima
di individuare la macchia fitta d’alberi che gli era oramai famigliare. Lì i
pini formavano, in un certo punto, una specie di cerchio, lasciando al loro
centro uno spazio quasi spoglio, come un piccolo circolo di calvizie nella
foresta.
E ancora prima di vederlo sapeva
che cosa vi avrebbe trovato.
Mentre entrava nel circolo, con i
piedi che scricchiolavano appena sulla neve un po’ ghiacciata nonostante la
naturale leggerezza del suo passo, le sue narici si riempirono del sentore di
fumo; quel fumo che saliva in un filo sottile dal piccolo falò morente. Accanto
ad esso, una sagoma dormiva in un sacco a pelo, vicino al tronco sdraiato di un
albero caduto.
Per la prima volta, forse perché
si sentiva meno teso e sospettoso, il ragazzo notò che quel posto sembrava
essere stato scelto accuratamente; si chiese quanto ciò fosse dovuto al caso o
piuttosto alla cura del tizio che dormiva.
Senza fare troppo rumore, e
pertanto senza svegliarlo, Danny raggiunse gli avanzi del piccolo falò e il
sacco a pelo, finendo per sedersi sul tronco. Per qualche momento rimase a
soppesare la situazione, senza particolare coinvolgimento; c’era una specie di
curiosità distratta nei suoi modi, benché non ne fosse pienamente consapevole.
Lo sguardo gli cadde su una
bottiglia, lasciata in piedi sul terreno, accanto al tronco. La raccolse, e la
studiò per un po’; quando ricordò l’interpretazione corretta delle lettere,
lesse il nome di una marca. Non gli diceva nulla, ma c’era qualcosa nella
conformazione della bottiglia di vetro che aveva risvegliato un preciso ricordo
nella sua mente.
Sorrise appena, fugacemente, poi
applicò i denti al tappo, allentandolo. Finì di aprirlo facendo leva col
pollice, e mirò attentamente, in modo tale che il tappo, schizzando via dal
collo della bottiglia, rimbalzasse sulla figura addormentata nel sacco a pelo.
Ci fu un movimento, dapprima
ancora semi-immerso nel sonno; poi la figura si girò, e gli occhi si aprirono.
Le due pupille, di un azzurro simile al ghiaccio che ricopre talvolta i corsi
d’acqua, individuarono la sagoma seduta sul tronco. Uther
la guardò sorseggiare dalla bottiglia, e ricambiargli lo sguardo con aria di
divertita superiorità; era un certo qual tipo di ‘buongiorno’ quello,
indubbiamente. Ma nessuno dei due disse effettivamente ‘buongiorno’.
Uther si tirò a
sedere, mentre finiva lentamente di svegliarsi, senza fretta.
Danny allontanò un po’ la
bottiglia da sé, e la rimirò con aria particolarmente interessata, mentre
degustava la bevanda. «E’ un bel po’ che non ne sentivo.» osservò.
Uther si passò una
mano sulla faccia, cercando di scacciare le ultime tracce di sonno; poi allungò
la mano. L’altro osservò per un po’ quella mano tesa con fare naturale, e
sembrò pensarci su, prima di allungargli la bottiglia.
Uther sorbì un sorso,
se lo fece turbinare in bocca, come una specie di gargarismo, lo mandò giù, e
bevve un altro sorso. «Un bel po’ che non senti della birra?» domandò quindi,
con un certo accenno di divertimento.
Danny alzò un sopracciglio. «Non
ci sono bar nelle foreste.» notò, col tono di chi vuole specificare che la
trova una cosa sufficientemente scontata.
«Immagino.» fu tutto ciò che
rispose l’altro, distrattamente, mentre usciva dal sacco a pelo,
stiracchiandosi.
Per un po’ si limitò ad
osservarlo, mentre arrotolava il sacco a pelo e si infilava il bomber che gli
aveva sempre visto indosso. C’era qualcosa che gli premeva dire, anche se
l’argomento era già stato affrontato diverse volte.
«Il fatto che io sia venuto non
significa che sia stato convinto dalla tua proposta.» disse infine Danny.
Uther interruppe le
sue occupazioni pratiche, soffermandosi a lanciargli un’occhiata seria; Danny
ancora non capiva cosa interessasse così tanto a quell’essere umano. Ma ne
aveva il sospetto; aveva molti sospetti.
«Così…»
riprese quindi, raccogliendo di nuovo la bottiglia di birra, e osservandola
riflessivamente, prima di bervi «…sei davvero
persuaso che dovrei incontrare anche gli altri.» osservò, fingendo una
compassata distrazione.
«E tu ancora non lo sei.» si
limitò a ribattere Uther, come se non fosse cosa
ovvia.
Danny lo fissò più direttamente,
mettendo di colpo allo scoperto uno sguardo saturo del tentativo di leggere attraverso
le sue intenzioni più riposte. «Non dovrei? Voi siete cacciatori di quelli come
noi. Perdonami, sai, se ritengo che francamente tutto questo sia una sorta di
ridicola trappola.»
Uther lo fissava con
altrettanta durezza. «Lo capisco. Ma pensi davvero che avremmo fatto tutto
questo, se avessimo voluto abbatterti fin dal primo momento?»
Danny si accigliò leggermente,
per fargli capire quello che avrebbe potuto naturalmente ribattere. Dopotutto,
la sua ferita non era ancora guarita completamente, anche se poco ci mancava.
«Come ti ho già spiegato… » ricominciò Uther, con
un accenno di pazienza in più «…effettivamente questa
era una possibilità che abbiamo preso in considerazione, quando siamo stati
chiamati qui. Ma, dopotutto, sebbene ne abbiamo avuto l’occasione, non ti
abbiamo ucciso. Semmai, abbiamo finto di averti ucciso, con quelli del
villaggio; gli avevamo promesso la tua testa, e gli abbiamo portato quella di
un vecchio lupo trovato morto da un guardiacaccia qualche tempo fa, investito,
che ci siamo portati appositamente dietro.»
Danny sogghignò, amaramente
divertito «Sì, sì, la conosco, la vostra storia; così mi avete nutrito fino ad
ora, mentre mi rimettevo, per evitare che mi azzardassi a fare ancora qualche
scorreria tra gli animali che allevano. Sarebbe stato imbarazzante per voi
cercare di convincerli che ero un altro lupo ancora, e perdipiù
un altro che mostrasse abbastanza intelligenza da convincere alcuni vecchi del
villaggio d’essere più propriamente un ‘lupo mannaro’.»
«Non lo abbiamo fatto solo per
questo.» puntualizzò Uther «Sapevamo che non avresti
potuto cacciare, con quella ferita. Che saresti potuto morire di fame.»
Danny sputò fuori una risata
profonda, graffiante di amarezza. Poi tornò di una fredda, crudele serietà.
«Cosa vorresti dire, cacciatore di spettri? Che dovrei rischiare la pelle per
gratitudine?» Benché ogni parola suonasse come una gelida sferzata, l’ultima
risuonò particolarmente disprezzante. «Per ripulirmi la coscienza?» disse
ancora, le labbra un po’ arricciate, lasciando i denti scoprirsi tra le labbra
più di quello che gli serviva per parlare.
«No.» rispose il ragazzo. E per
la prima volta, da che avevano iniziato quella conversazione, lo guardò
direttamente, e particolarmente serio. «Per mettere in pace la mia.»
Suo malgrado, Danny rimase
disarmato dalla risposta. Lui che col ghiaccio ci sapeva aver a che fare, non
trovò bisogno di rompere quello del colore di quegli occhi; ebbe la pura
impressione che fossero pienamente sinceri, così come quel tono, fattosi
improvvisamente profondo.
Per qualche momento si fissarono
a quel modo; le pupille del lupo mannaro correvano veloci, cercando discrepanze,
come faceva quando doveva scovare il miglior punto debole da cui attaccare una
preda, o quando doveva decidere se uno strato di ghiaccio che ricopriva un
corso d’acqua poteva sostenere il suo peso finché non l’avesse attraversato. Lo
lasciò fastidiosamente insoddisfatto il fatto di non trovarne.
Uther riprese a
finire di arrotolare il sacco a pelo, e a mettere in ordine le altre poche cose
che si era portato dietro. Quando ebbe terminato, diede la chiara impressione
di essere pronto per mettersi in marcia. Solo allora tornò a guardare Danny.
Il ragazzo tirò fuori un ghigno
furbo. «Il fatto che io venga, non significa che vi credo. Se la vostra è una
trappola, non troverete le cose affatto semplici.» lo informò, con tono sordo
di una minaccia, velata solo per renderla più temibile.
Uther annuì e si
strinse nelle spalle. Poi iniziò a camminare, verso il villaggio.
Danny temporeggiò ancora,
accorgendosi di stare soppesando nella mano la bottiglia di birra. Alla fine ne
bevve un sorso, e anche lui si incamminò, seguendo il primo essere umano che
avesse mai conosciuto che si dilettava a parlare con i lupi mannari. Doveva
ammettere, tra sé e sé, che questo richiedeva una maledetta faccia tosta; ma se
avevano intenzioni secondarie, e dovevano pur averne, che gli fossero state
avverse, non avrebbe esitato a fargliene pentire. E quel tizio sarebbe stato il
primo.
Quando lo raggiunse, lo sentì
persino fischiettare. Si schernì per questo, per quella specie di tranquillità
svagata. Ma fece di tutto per non darlo a vedere. Se pensavano di stare
giocando con un cucciolo, presto o tardi li avrebbe fatti ricredere; sarebbe
stato il loro ultimo, gravissimo errore.
Quando si rese conto di essere
riemerso da un sonno profondo, si accorse anche di non saper dire da quanto si
dilettava a rimanere in quel dormiveglia riposante e gradevole, stordente;
avvolto nella calda gentilezza di un materasso, un cuscino e una coperta
pesante, si trattenne ancora un poco in quello scarso stato di coscienza. E già
si sarebbe riabbandonato al sonno, se non avesse realizzato improvvisamente
cosa aveva attirato la sua attenzione.
La voce, dolce e riflessivamente
malinconica, intonava piano le parole e il ritmo di una canzone che gli pareva
di conoscere, riempiendo la stanza con quella melodia sottile. Non era nemmeno
sicuro di starla udendo davvero, e dubitò che non fosse piuttosto uno strascico
dolceamaro di un sogno, che dava l’impressione di echeggiare anche nel suo essere
quasi sveglio.
Mano a mano che inseguiva quella
voce, però, riemergendo sempre più dal torpore del dormiveglia caldo, la
distingueva più chiaramente. Aprì gli occhi su un soffitto abbastanza
familiare, benché sommariamente neutro. Riconobbe gli odori della stanza, la
identificò come la stanza per gli ospiti della casa di Yuta
e Zoal. E fu improvvisamente grato di non aver
sognato quello, il fatto di riaverli rivisti, tutti quanti, di aver passato
ancora del tempo con loro, e tutto il resto; era successo veramente. Questa
realizzazione fu purtroppo anche accompagnata dal sentore di un dolore
lancinante alla spalla, che gli giunse però in sordina, lontano, come se non
provenisse proprio dalla sua spalla; riconobbe la mano dei medicinali
anti-dolorifici che Ramo doveva avergli somministrato, e anche se la cosa non
gli arrideva molto ne fu grato.
Si guardò intorno, nella penombra
di quello che sembrava un tardo pomeriggio di un giorno annuvolato. Anche se la
stanza sembrava chiusa, e vi regnava odore di sonno, di aria rappresa in un
tepore caldo, accogliente e quasi soffocante, appesantito dal respiro di
dormiente, da un sentore di sudore, uno più sottile di sangue e di materiale
sterilizzato, e quello mordente di spezie ed erbe che costituivano i soliti
rimedi in paste auto-prodotte dalle due sorelle, Danny riuscì a percepire anche
qualcosa dell’esterno: l’umidità era forte, quel giorno, e ammorbidiva il
freddo della stagione.
Spostò lo sguardo per la stanza,
finché non individuò due cose. La prima era una figura distesa su un altro
letto, verosimilmente quella di Ramo, profondamente addormentato; lo identificò
dalla capigliatura corvina e un po’ lunghetta,
slegata dal solito codino retro-nucale e stesa
scompostamente sul cuscino, che era tutto ciò che spuntava da sotto le coperte.
L’altra era una donna, seduta su
un cuscino, per terra, accanto alla finestra. A gambe incrociate e braccia appoggiate
in grembo con fare riposante, Yuta guardava fuori, il
viso così vicino al vetro che quasi vi appoggiava la fronte. Con lo sguardo
assorto in qualche riflessione, o forse solo abbandonato nel guardare
l’esterno, cantava a mezza voce. Era piuttosto stonata, ma estremamente dolce.
Danny ricordò allora di quale canzone si trattava, qualcosa come ‘Pioggia’*.
Yuta si interruppe,
esitò, forse non ricordando le parole di quel punto della canzone, e finì per
continuare a cantarla con un mugugno gutturale. Poi, quasi distrattamente,
distolse lo sguardo dalla pioggerellina che cadeva fuori, e lo rivolse
all’interno della stanza. Così facendo si rese conto che Danny era sveglio, e
la stava guardando. Si stupì, poi un sorriso spontaneo e improvviso le sciolse
la serietà dei tratti del viso.
Danny la guardò alzarsi in piedi
e venire verso il suo letto, sul quale si sedette, mentre gli rivolgeva la
domanda più scontata e più affettuosa che ricordasse di aver mai sentito di
recente. «Come va’?»
«Mhmm…
bene, abbastanza bene.» rispose, altrettanto scontatamente. Gli dava una
piacevolissima sensazione tutta quella scontatezza,
perché, in qualche modo, non la trovava affatto così scontata; pareva
piuttosto, al momento, qualcosa di molto prezioso, e darla per scontato un
grave errore, di cui poi potersi ritrovare a pentirsi cocentemente.
Yuta interruppe il
suo sorridere nel ricordarsi di qualcosa di importante. «Ah, Ramo mi ha detto
di chiederti se senti dolore… perché deve adattare la
dose degli antidolorifici anche in base a quello, qualcosa del genere.» gli
comunicò, con una lieve smorfia.
Danny ebbe una pronta intuizione,
subito seguita da un ricordo poco piacevole.
La prima riguardava il fatto che
probabilmente Yuta e Zoal
si erano trovate in disaccordo riguardo ai metodi curativi, con Ramo. Non che
Ramo fosse un sostenitore della medicina farmacologica, tutt’altro, ma riteneva
che certe basi fossero il minimo necessario; e tra queste basi necessarie
rientravano con ogni probabilità anche gli anti-dolorifici, specialmente se
associati a una ferita come quella da cui Danny si stava rimettendo. Lui aveva indubbiamente
dalla sua la natura di lupo; le sue ferite, tutti loro lo sapevano per
esperienza, potevano guarire e cicatrizzare in un tempo molto ridotto, pari
talvolta fino ad un terzo o un quarto di quello che avrebbero richiesto ad un
essere umano fatto e finito. D’altra parte, bastava una dose ridicola di
argento puro in contatto col suo sangue per mandarlo in avvelenamento serio, e
spedirlo molto vicino all’aldilà. Di colpo realizzò che, se non fosse stato un
lupo, probabilmente non sarebbe sopravvissuto a quella ferita, specialmente
considerando tutto il tempo che doveva essere trascorso da quando era stato
colpito a quando erano riusciti a dargli un primo soccorso. Il suo sangue non
poteva ricevere trasfusioni da quelle di un essere umano. Non aveva idea ben
precisa, a pensarci meglio, di come potesse essere sopravvissuto. Tutt’ora non
era del tutto sicuro di potervi credere.
Il ricordo doveva appartenere ai
giorni precedenti, nei quali verosimilmente non aveva fatto molto altro che
dormire e dormire. Ma ricordava di essersi svegliato, ad un certo punto, e che
a strapparlo dal sonno era stato un dolore insopportabile alla spalla ferita;
non aveva potuto evitare di svegliarsi mentre già stava gridando dal dolore,
agitato violentemente dal proposito di fare qualsiasi cosa per tentare di
eliminarlo. Il ricordo era ottenebrato e incerto a quel punto, ma rammentava di
aver visto improvvisamente Kumals, Ramo, Zoal, Andrea e Yuta davanti a sé.
Ricordava vagamente di come prima avessero sospinto Andrea per allontanarla, di
come Zoal gli avesse ficcato il suo bastone di
traverso tra i denti, e Kumals e Yuta
l’avessero afferrato e placcato sul materasso, tenendolo fermo mentre Ramo gli
piantava una siringa nel braccio sano. Poi buio di nuovo; il dolore se ne era
andato quasi nello stesso istante in cui era riprecipitato
nell’incoscienza. L’ultima cosa che ricordava era quell’espressione, quegli
occhi nocciola che lo fissavano, spaventati e disperati, con un dolore
difficile da contenere.
«Yuta…»
disse «…no, sto bene, non sento dolore, non tanto.
Però, dimmi… dov’è Andrea?» domandò. Si sentiva
improvvisamente inquieto, come se qualcosa fosse completamente fuori posto; una
chiave di volta non era dove doveva essere, e il resto della struttura
minacciava di crollare da un momento all’altro, e il suo equilibrio, anche se
avesse fortunosamente resistito ancora per un po’, perdeva di senso. Davvero
era solo perché non poteva vederla lì, ora, perché non poteva sentirne
chiaramente l’odore, verificare la sua presenza, saggiare e cercare di capire
cosa stesse passando? Non pareva meno strano del fatto che fosse sopravvissuto,
né meno fondamentale. Anche se il suo odore permeava la stanza, non gli
bastava.
«E’ uscita una ventina minuti fa
da questa stanza. Sono giorni che non fa altro che stare chiusa qui, e poco fa
sono finalmente riuscita a convincerla a scendere in cucina a mangiare
qualcosa, a prendere un po’ d’aria insomma.» spiegò Yuta.
«Ramo mi ha aiutato a convincerla…» aggiunse,
indicando il ragazzo addormentato con un cenno della testa «…con
la scusa di farlo dormire un po’ in un letto vero e proprio, visto che fin’ora
ha potuto fare affidamento solo sul divano, e per giunta passando la notte con
Justin sulla brandina di fianco. Credo che se ci fosse stato chiunque altro di
noi, al posto di Ramo, ora Justin non potrebbe più raccontarlo.»
Danny sorrise appena, non solo
per il sollievo nel sapere che, nonostante tutto, c’era pur sempre Yuta a tenere un occhio attento su Andrea, ma anche per
l’ennesima nota di demerito a proposito di Justin. «Forse dovreste rivalutare
il numero di persone che può contenere questa casa…»
commentò alla fine, sardonico.
«Non preoccuparti.» rispose
prontamente Yuta, mantenendo la scherzosa sfida «Non
appena tu e qualcun altro sarete capaci di tenervi in piedi come si deve potrete
andarvene quando meglio credete.»
«Ah! E Uther?»
si informò Danny.
«Niente di grave, effettivamente
è stato colpito solo di striscio da una pallottola, anche se fino ad ora si è
rifiutato di dire come sia stato possibile… Comunque,
sta nella mia stanza, anche lui allettato. Ho il sospetto che se ne stia
approfittando in realtà, perché a parer mio sta più a letto di quanto non ce ne
sia bisogno per rimettersi dalla sua ferita.». Anche se i propositi di
sdrammatizzare di Yuta erano evidenti, a Danny risultò
chiaro che la ragazza era preoccupata per questo.
«Comunque…»
riprese, dopo una breve pausa «…Kumals passa quasi
tutto il tempo con lui. Quello che si può dire un aiuto alla convalescenza,
perché credo che prima o poi Uther cederà all’impulso
di alzarsi per aggredirlo. L’altro giorno sono entrata a sorpresa nella stanza,
e ho beccato Kumals che, a ragionevole distanza di
sicurezza dal letto, stava mangiando il piatto che gli avevo dato per Uther mentre improvvisava un balletto e canticchiava quella
canzone… come si chiama…
credo sia ‘Johnny are youqueer?’
di JosieCotton; e Uther lo stava guardando malissimo e tentava di prendere la
mira per tirargli addosso il cuscino.»
«Più che una convalescenza si
direbbe una tortura…» osservò Danny, con un
sorrisetto smaliziato.
«Oh beh…Kumals sembra tenerci particolarmente a vegliarlo; si
diverte così.» commentò Yuta, alzando le spalle. «Ad
ogni modo, giù Valentine ha preparato qualcosa da
mangiare, così Andrea mangerà, e Valentine si
assicurerà che lo faccia, e le terrà lontano Justin e il Conte e via dicendo…»
«Il Conte?» Danny allargò lo
sguardo per lo stupore.
«Oh sì, è tornato norm…hem, beh, è come prima. Non
preoccuparti, quando ti sentirai meglio ti racconteremo tutto…
o meglio, tutto quello che ci hanno detto Zoal e Kumals. Anche se mi è difficile credere del tutto in quella
parte in cui sembra dobbiamo ringraziare principalmente il Conte e Justin,
nientemeno, per aver risolto la situazione… Inoltre,
sai com’è, Kumals ha un modo tutto suo di raccontare
le cose, Zoal non è di molte parole in proposito, e
sta riposando molto anche lei in questi giorni, il Conte più che parlare si è
messo a scrivere con inchiostro e penna d’oca su della carta tipo
finta-pergamena qualcosa che lui chiama ‘le sue memorie’, e Justin è
semplicemente inaffidabile.» riportò Yuta.
Danny accennò di nuovo un
sorriso. «Grazie… » mormorò.
Fu il turno di Yuta di apparire stupita. «Come? Di che?»
Il ragazzo si trattenne appena in
tempo dal proposito di alzare le spalle nel classico gesto, ricordando che una
delle sue spalle al momento era il centro dello sprigionarsi di un dolore
sopportabile solo grazie all’intontimento da anti-dolorifici. «Di tutto… e specialmente per Andrea…»
Yuta alzò un poco un
sopracciglio, e sembrò divertita. «L’ho fatto per lei, mica per te.» precisò.
«Sì lo so…
appunto: grazie…» e Danny dovette cedere ad un ampio
sbadiglio. «Scusami, sto morendo di sonno…»
Yuta annuì. «No problema… Però non prenderci troppo gusto a dormire tanto.
Sai, c’è ancora una cosa di cui dobbiamo occuparci, e penso che ti spiacerebbe mancare… » accennò, con un sorrisetto ghignante.
Danny sentì la sua curiosità
risvegliarsi, e le lanciò un breve sguardo interrogativo. Ma già la stanchezza
enorme reclamava il suo tributo, e sentì il sonno ricalare
giù le sue palpebre senza ammettere troppe interferenze. Cercò di annuire, e
non fu troppo sicuro di riuscirvi.
Sentì Yuta
lasciargli una rapida carezza tra i capelli, e poi il letto muoversi, mentre
lei si rialzava in piedi e, probabilmente, tornava a sedersi accanto alla
finestra, perché l’ultima cosa che il ragazzo sentì fu il riprendere di quella
canzone dolce e melanconica, che lo cullò nel riaddormentarsi.
*
***
*
Tanto più si ostinava a voler
partecipare a quella specie di gioco, tanto più il lupo ne usciva convinto di
averci visto giunto fin dal primo momento. L’edificio all’interno del quale lo
stava conducendo il ragazzo che diceva di chiamarsi Uther
era da ogni punto di vista perfetto per un’imboscata.
Senza apparentemente battere
ciglio, Danny strinse più fortemente i denti, irrigidendo la mascella in
un’espressione di cinico e feroce divertimento, mentre entrava nel portone del
capannone di medie dimensioni sito alla periferia del villaggio. Tanto valeva
risolvere la faccenda al più presto, considerò tra sé e sé, dedicando la
massima attenzione d’allerta alla schiena e ai movimenti del ragazzo che lo
precedeva.
Questi si incamminò con
naturalezza nel corridoio non molto largo. Là dentro appariva tutto essenziale
già dalle pareti intonacate rozzamente, dal pavimento con piastrelle plastiche
che producevano un rumore sommesso muovendosi elasticamente sotto i loro passi,
fino al soffitto di pannelli, alcuni dei quali erano usciti dalla loro cornice,
mostrando il vuoto dello spazio che li separava dalla muratura di cemento vero
e proprio; in questo spazio si annidavano cavi della luce e consimili
ammennicoli, ma le luci al neon che si susseguivano a intervalli regolari sul
soffitto erano tutte ugualmente spente. La penombra era appesantita da un sentore
di polvere accumulatasi per anni e di abbandono.
Danny valutò distrattamente la
singolarità di quel luogo: doveva essere stato un tentativo industriale nel
villaggio, ed era stato abbandonato piuttosto presto. Qualche gruppo di
abitanti locali doveva aver rilevato l’edificio per riutilizzarlo come
magazzino, almeno a giudicare dall’odore di fieno secco e di strumenti da
falegnameria, sentore di officina e di ferro e benzina di aggeggi da officina,
che riusciva a sentire. Spirava dalle porte laterali chiuse, che per le loro
considerevoli dimensioni dovevano condurre a grosse stanze, che occupavano
completamente il pianterreno. L’istante successivo era di nuovo completamente
ed esclusivamente concentrato sull’agguato che presagiva lo stesse aspettando
in quel luogo.
Per questo lo innervosì dover
seguire Uther su per una scala relativamente stretta,
che portava al primo e più alto piano dell’edificio. Lo aveva guardato bene da
fuori, e sapeva che alcune delle vetrate del piano superiore erano incrinate,
rotte o completamente mancanti. Volendo, avrebbe potuto saltare direttamente
attraverso di esse, e atterrare senza danno sul terreno all’esterno,
liberandosi in un baleno della costrizione del ritrovarsi chiuso in un
edificio. Benché continuasse a considerare la cosa solo da un punto di vista
tecnico, relativo allo scontro che era certo di dover affrontare di lì a poco,
c’era un sottofondo ben preciso al suo irritato fastidio. Era da molto tempo
che si trovava non fuori all’aria aperta, o tutt’al’più in qualche riparo
naturale, bensì dentro un edificio umano vero e proprio. E quell’aria fetida di
chiuso, per di più acuita dallo stato di semiabbandono dell’edificio, gli
risultava particolarmente pestilenziale.
Arrivarono in cima alle scale
senza che nulla fosse ancora occorso, e Danny si ritrovò ad essere impaziente.
Che bisogno c’era di quella perdita di tempo? Forse intendevano condurlo in
qualche specifica stanza, magari rinchiudercelo, e affrontarlo in un ambiente
dal quale gli fosse impedito darsela a gambe. Questo, però, sarebbe stato vero
anche in senso reciproco: nemmeno loro, a quel punto, avrebbero potuto
sfuggirgli.
Aveva già intuito l’odore di
altre persone, ed ebbe per la prima volta a che fare col fatto che i due uomini
che lo avevano attaccato, uno dei quali stava seguendo in quel momento, non
rappresentavano gli unici componenti di quella sorta di gruppo di ‘cacciatori
di presenze’; questo nonostante Uther gliene avesse
già accennato. Tanto peggio per loro; chiamare rinforzi non sarebbe valso loro
l’impegno, visto come li avrebbe ridotti non appena gli avessero dato
l’opportunità di farlo.
Uther gli fece strada
nel corridoio al piano di sopra, non meno pregno di uno stato di
semi-abbandono. Il fine udito di Danny sentì le voci molto prima che la sua
guida svoltasse dentro la porta aperta di una stanza. Il lupo, invece, si fermò
sulla soglia, occhieggiando in giro per l’ambiente che si ampliava di fronte a
lui, senza mancare di tenere sotto il controllo dei suoi sensi tesi il
corridoio che si stava per lasciare alle spalle.
Guardò Uther
attraversare la stanza, quasi completamente vuota; lungo le pareti c’erano
materassi a terra con sopra sacchi a pelo, e una cucina da campo asserragliata
da qualche pentola e padella, oltre che da una selva di scatole di cibarie.
Infine, contro il muro di fondo, sorgeva il relitto di una vecchia e pesante
scrivania da ufficio. Su di quella, e in particolare sulle due figure che vi
erano sedute vicino su alcune sedie di recupero, Danny focalizzò immediatamente
lo sguardo.
«Quello che voglio dire, è che se
io sono rimasta negli anni ’80, tu sei rimasto perlomeno ai ’50!» stava
rimbeccando con decisione una ragazza alta e dalla voluminosa capigliatura
castana raccolta in una coda di cavallo che ricadeva dalla cima della nuca, in
cui le ciocche mosse si mischiavano a treccine e dreds
colorati. Con le mani puntellate sui fianchi dei pantaloni zebrati attillati,
fronteggiava risolutamente l’uomo sedutole pacificamente di fronte,
semi-immerso nella nuvola del fumo della sua sigaretta; per l’animazione i
grossi orecchini di un improbabile verde acido e dalla forma di ananas le si
agitavano vivacemente ai lati degli zigomi pronunciati e alti sul viso.
Il suo interlocutore, avvolto in
un ampio e consunto pastrano lungo, accavallò le gambe e non rinunciò nemmeno
per un momento alla sua espressione sorniona, mentre diceva «Di qualsiasi epoca
sia, il kitch rimane tale aldilà del tempo e dello
spazio.»
‘Factory**’… pensò Danny a primo
impatto, poi scosse la testa con frustrazione; non era lì per simili
baggianate. Per quanto lo riguardava potevano anche mettere fine alla loro
commedia e fare sul serio.
«Heylà…
» salutò Uther con nonchalance. Danny avrebbe giurato
di avergli sentito mormorare qualcosa come ‘Ci risiamo’ poco prima.
I due si voltarono verso Uther, dedicandogli ben poca attenzione. Al momento la
ragazza sembrava molto impegnata a bersagliare l’altro con occhiate di fuoco e
una mitraglia di parole a mo’ di ribattuta.
Uther rimase per un
po’ a guardarli e ascoltarli, con le mani in tasca e l’aria per nulla sorpresa.
Nemmeno una volta si voltò indietro verso Danny, ancora fermo sulla soglia e immerso
nel tentativo di esaminare accuratamente l’ambiente con tutti i sensi a sua
disposizione, con l’aggiunta dell’intuito e dell’esperienza, in cerca della
trappola che lo aspettava. Si stava risolvendo ad accettare il fatto che doveva
trattarsi di una trappola estremamente fine ed elaborata, difficile da
individuare.
«Scusate... » riprovò Uther, accigliato, ma in tono tutto sommato cauto. Ciò non
lo risparmiò dal ritrovarsi puntati addosso due sguardi ben diversi, tra quello
molto risentito della ragazza e quello incuriosito e sorpreso, e forse un poco
grato per l’interruzione, dell’altro.
«Cosa??» quasi sbraitò la
ragazza, con un agitarsi prepotentemente eloquente dei suoi orecchini.
«Beh…
non sono solo…. » annunciò Uther.
Gli occhi del suo collega, però,
avevano già individuato la sagoma ferma, in piedi sulla porta, e la stavano
studiando con acuto interesse penetrante. «Lo vedo... » commentò, lentamente, l’uomo.
La ragazza sembrava
improvvisamente tesa e imbarazzata.
«Puoi entrare…»
disse l’uomo seduto, rivolgendosi a Danny con calma gentilezza, molto
accuratamente calibrata.
Danny rimase immobile.
La ragazza scoccò un’occhiata
scontenta all’uomo, come ritenendo inadatto il suo invito. Tornò a guardare
Danny con una notevole esitazione, e con quella che negli anni il ragazzo aveva
imparato a identificare come paura. Poi, con sorpresa, la vide iniziare a
camminare, venendogli incontro con i grandi passi quasi di ritmo marziale delle
sue lunghe e affusolate gambe.
Irrigidì i muscoli e aspettò,
chiedendosi se quello fosse un molto mal assortito tentativo di attacco, o
piuttosto il proposito di distrarlo mentre qualcosa d’altro lo colpiva a
sorpresa. Iniziò a sentire il sentore di una strana sorta di profumo, mentre la
ragazza si avvicinava; forse, vedendo quell’abbigliamento, si era aspettato che
lei odorasse di quei profumi volgarmente forti e fruttati. Invece l’alone di
odore che la precedeva era quasi solo quello che apparteneva per natura alla
sua persona, oltre ad un sentore di erbe aromatiche, di frutta, di terra, neve
e sigaretta.
Era ormai irrigidito fino quasi
allo spasmo, pronto allo scatto, quando la ragazza si fermò di fronte a lui, a
distanza di mezzo metro scarso. Lo fissò a lungo, un po’ dall’alto al basso,
nel senso che era appena un po’ più alta di lui; aveva uno sguardo intenso, ma
la sua espressione era pulita in una maniera che Danny non ricordava di aver
mai visto: non l’ombra di giudizio, sospetto, aspettativa, valutazione…
quasi niente, oltre ad una semplice ed onesta constatazione pratica. Rimase
spiazzato per un momento, mentre lei incrociava le braccia sotto il petto,
appoggiandole alla maglia in foggia finto-pellerossa
color viola acceso che indossava, continuando a guardarlo come se stesse
prendendo atto di qualcosa.
«Così, alla fine sei venuto… » mormorò infine, pensosamente.
Danny si irrigidì ulteriormente,
e preparò rapidamente a fior di labbra un’urticante risposta, ma quella gli si
impigliò in gola nel mentre che si rendeva conto che il viso della ragazza
andava aprendosi in un lieve sorriso, a stento trattenuto, e indubbiamente
amichevole.
L’istante successivo la vide
sporgere un braccio verso di lui; sussultò violentemente, e fece per muoversi
in una posizione difensiva, quando riscontrò che lei gli stava semplicemente
porgendo la mano.
«Yuta.»
disse.
Dopo qualche istante comprese che
si stava presentando. Faticò non poco a superare un certo sbigottimento, ma
nemmeno per un momento aveva dimenticato che gli altri due uomini li stavano
fissando, dall’altra parte della stanza, né che in essa permeava l’odore di
un’altra persona, che però al momento non era presente, e che dunque poteva
essere appostata da qualche parte per aggredirlo di sorpresa.
Storse appena il naso, gesto di
perplessità e sforzo riflessivo, e rifiutò di stringere la mano della ragazza.
«E cosa sono venuto a fare, qui?» domandò in tono duro.
La ragazza che si era presentata
come Yuta riabbassò lentamente la mano e lo guardò
con un’espressione non meno perplessa. «Se non lo sai tu…
» rispose, irritandolo ulteriormente.
Subito dopo gli aveva voltato le
spalle e stava tornando verso la scrivania. «Comunque, se vuoi bere qualcosa
abbiamo un po’ di birra. Ma chiedi ad Uther, o la
prende sul personale…»
Il citato le lanciò un breve
sguardo critico, ma Yuta gli stava già rivolgendo una
strizzata d’occhio divertita.
Se non fosse stato per lo sguardo
dell’uomo con i rasta e il voluminoso pastrano, che non gli aveva staccato gli
occhi di dosso nemmeno per un istante, con fare quasi inquisitorio, Danny
avrebbe a quel punto capitombolato a quel tipo di impressione che si potrebbe
avere quando si arriva ad una festa aspettandosi di essere l’anima della
serata, atteso da tutti, e quando si fa il proprio trionfale ingresso, ci si
rende conto che la festa sta procedendo benissimo anche senza di voi, nonostante
non riusciate proprio a spiegarvi come. Ad acuire questa straniante impressione
collaborò ulteriormente il fatto che Yuta si mise a
chiacchierare con Uther, riguardo qualcosa che aveva
a che fare con la possibilità di infilarsi di soppiatto e gratuitamente dalla
porta sul retro del cinema locale quella sera, mentre lui prendeva a svuotare
lo zaino, stendendo sul pavimento il sacco a pelo per farlo asciugare bene
dalle tracce di neve.
Passarono così un paio di minuti,
e tutto ciò che accadde di saliente fu l’uomo coi rasta che iniziava un’altra
sigaretta e il chiacchiericcio di Yuta e Uther che passava al riassunto della trama del film che si
progettava di andare a vedere.
Alla fine Danny prese la sua
decisione; dopo aver a lungo ponderato di andarsene, perché le cose sembravano
notevolmente più preoccupanti e pericolose di quanto si era aspettato se i suoi
avversari erano capaci di fingere tanta naturalezza con quella sfacciataggine,
si risolse invece a solcare la soglia. A lenti passi ben misurati attraversò
l’ampio spazio, dall’alto soffitto sostenuto da alcune grosse colonne di
cemento, squadrate, che si ergevano qui e là per l’ambiente.
Si fermò vicino alla scrivania, e
continuò a fingere di ignorare lo sguardo che l’uomo coi rasta gli teneva
ancora incollato addosso; solo dopo qualche minuto si arrese a guardarlo,
dedicandogli una vaga attenzione superiore. Quegli sorrise appena, in qualche
modo divertito.
«Spero tu non ti stia aspettando
delle scuse anche da me.» gli disse.
Se fosse stato in forma di lupo,
Danny sarebbe stato provvisto in quel momento di una striscia di pelo rizzatasi
di colpo lungo la schiena, formando una sorta di cresta elettrostatica;
sentendosi sgradevolmente privato di quell’espressività, si trovò limitato a
ricambiare con uno sguardo tagliente quelle parole, che se non altro avevano
avuto il potere di interrompere le chiacchiere degli altri due, e di calamitarne
l’attenzione su di loro. L’atmosfera si era raggelata, e Danny si rese conto
alla fine che Yuta ed Uther
stavano guardando se fosse sua attenzione attaccare l’uomo; anche se doveva
ammettere a se stesso di aver preso l’idea in considerazione, prima di tutto lo
infastidiva risultare prevedibile ai loro occhi, e in secondo luogo sapeva bene
che nel progetto di una trappola il fatto di attaccare per primo lo avrebbe
automaticamente messo in svantaggio. Perciò rimase immobile: che altro c’era,
se non attaccare in risposta a quella provocazione? Se c’era qualcos’altro, al
momento non lo ricordava.
Con la coda dell’occhio, vide Yuta alzare una mano ed indicare l’uomo. «E quello è Kumals…» disse «…e, più
propriamente, sarebbe inutile aspettarsi qualsiasi cosa di non irritante da
quella bocca.»
Sentendo ciò, le sopracciglia di Kumals ebbero un guizzo, e un sorrisetto indisponente gli
curvò le labbra, mentre, staccando le pupille solo per un istante da Danny,
occhieggiava nella direzione della ragazza. «Che non ci si possa aspettare
altro dalla mia bocca… proprio tu a dirlo, Yuta…?»
Uther sbuffò, a metà
tra il divertito e il disapprovante. Yuta divenne
rossa di colpo, dall’attaccatura dei capelli fino alle unghie delle dita,
ovvero in ogni parte visibile della sua pelle; quindi strappò dalle mani di Uther un libro e scattò rapidamente.
Danny si mosse di conseguenza,
rapido e allarmato, per evitare l’attacco, ma Yuta
gli passò di fianco ignorandolo, e si gettò addosso a Kumals;
prima che l’uomo potesse essere abbastanza lesto dall’organizzare una
colluttazione difensiva la ragazza era già riuscita ad assestargli un colpo di
libro sulla spalla e uno in testa. E, nonostante tutto, Kumals
rideva.
Sentendosi particolarmente
smontato, Danny abbassò un po’ le spalle, ritrovandosi suo malgrado ad
assistere a quella strana lotta con perplessità. Non che le diatribe mischiate
col flirt e con la colluttazione gli fossero nuove, ma quella specie di scontro
rassomigliava più, ai suoi occhi, a due coniugi che dopo tanti anni passati in
convivenza colgono ogni opportunità per scatenare una burrasca. E, in ogni
caso, quella ragazza sembrava potenzialmente pericolosa…
«Hey…hey! Dico, potreste evitare di distruggermi il libro…?» rimbrottò Uther, con
aria poco persuasa dalla possibilità di essere considerato; anche lui sembrava
indeciso se ridere o arrabbiarsi, perciò, nel trattenere un sorriso e cercare
di impalcare almeno un’arrabbiatura più formale che altro, ne usciva in qualche
modo molto spontaneo. Improvvisamente guardò Danny per un momento, e aggiunse,
come se fosse buona educazione dargli quell’informazione «Si tratta di una
vecchia edizione di un manuale sulla distillazione della grappa.»
Danny rimase a fissarlo per
qualche minuto, ormai incolume all’aria di tranquilla serietà dell’altro. Per
l’ennesima volta fece un tentativo ormai parecchio sfiduciato di capire cosa
non funzionasse lì dentro. E per l’ennesima volta si ritrovò alla fine a mani
vuote. Alzò le spalle e scosse appena la testa, come per scacciare qualcosa di
fastidioso. «Credo che me ne andrò.» disse.
Uther non ne parve
sorpreso, e annuì.
Ma prima che si potesse avviare
verso la porta, Danny udì la voce femminile appellarlo vivacemente. «Come
sarebbe??»
Il ragazzo si voltò verso Yuta, considerandola con un’occhiata storta.
La ragazza stabilì una tregua
nella colluttazione, smettendo di cercare di recuperare il libro che Kumals era riuscito a sottrarle, e di tirargli un rasta con
l’altra mano; si sedette sulle ginocchia dell’uomo, accomodandosi come se non
fosse nient’altro che una sedia, e disse, più estesamente «Ma te ne vai di già?
Non resti a pranzo, allora?»
«Colazione, semmai…
che ore sono, le dieci?» corresse en passant Kumals,
sfogliando distrattamente il manuale sulla distillazione della grappa.
Danny si accigliò ulteriormente,
fissando Yuta con una certa sorpresa confusione:
quello era davvero troppo!
Mal interpretando la sua
sorpresa, la ragazza si rivolse subito a Uther. «Ma
non gli hai detto che lo invitavamo a pranzo? O colazione, o quel che è,
insomma!» terminò, rifilando una gomitata tremenda nella milza di Kumals, che le stava picchiettando sul braccio tentando di
attirare la sua attenzione. L’uomo imprecò sottovoce, portandosi una mano sul
punto colpito con una leggera smorfia di dolore.
Uther sembrò essere
stato colto in fragrante. Nel breve sguardo che si scambiò con Danny, entrambi
realizzarono benissimo perché non l’aveva fatto: già il lupo sospettava ogni
genere di tranello, se lo avesse invitato ad un brunch, ci sarebbe mancato poco
che gli scoppiasse a ridere in faccia per una buona mezz’ora. Poi tornò a
guardare Yuta, fingendo che non fosse niente di significativo.
«Devo essermene dimenticato…»
«Si dev’essere
sbronzato…» mormorò Kumals,
di nuovo con tono di chi fa un’opportuna integrazione, senza rialzare lo
sguardo dal libro sulle grappe.
Yuta fece un gesto
infastidito, roteando gli occhi e alzando le braccia in alto con un sospiro.
«Sei inaffidabile! Comunque…» e addolcì il tono,
rivolgendosi a Danny «…resti a pranzo?». Il suo
gomito era già pronto a colpire di nuovo, lo aveva persino già piegato e
spostato per caricare il colpo, ma Kumals mantenne un
saggio e composto silenzio, stavolta.
Danny non ebbe bisogno di
pensarci. «No. Graz…» si interruppe in tempo,
infastidito. «Me ne vado.» disse invece, e si incamminò verso l’uscita con
decisione. Aveva l’irritante sensazione di quando si aspetta per tanto tempo
che accada qualcosa, con ansiosa e impaziente attesa, e invece non succede
proprio niente.
Kumals fece uno
schiocco con la lingua, vagamente deluso.
«Peccato…
» mormorò Yuta.
Era quasi sulla porta, quando
sentì di nuovo la voce di Uther. «Comunque, puoi
tornare a fare un salto quando vuoi… Non saremo qua
ancora per molto. Ma per un paio di giorni ancora di sicuro.»
Per qualche motivo, prima di
rendersene ben conto, Danny voltò appena il viso indietro e si espresse in un
cenno d’assenso.
Se non fosse stato chiuso nella
sua profonda amarezza, curiosamente e ancora più irritantemente causata dal
fatto di non aver subito alcun attacco, si sarebbe accorto prima del rumore;
non appena lo realizzò, comunque, si bloccò dove si trovava, ancora a qualche
metro dalla porta. Completamente immobile, sentì i nervi tornarsi a tendere
come quando era arrivato. Forse, dopotutto, non si era sbagliato di tanto,
riguardo all’essere bersaglio di una trappola.
Preceduti dai loro odori, alcune
creature stavano salendo le scale. Istintivamente Danny fece diversi passi
indietro, allontanandosi dalla soglia ulteriormente, vicino alla quale sarebbe
stato troppo esposto ad un attacco di chi stava arrivando. C’era un ulteriore
particolare, che non aveva calcolato. L’odore di cane e di pelo bagnato lo
aveva sentito fin dal primo momento che aveva messo piede nell’edificio, ma
aveva pensato che si trattasse del rimasuglio di qualche cane randagio che
aveva sfruttato il posto come rifugio temporaneo. Ora capiva di essersi
sbagliato.
Per primo si precipitò nella
stanza un cagnetto dall’aria buffa e spensierata, che trotterellava
allegramente, ma aveva il naso spiaccicato sul pavimento; seguiva la sua
traccia, la traccia di lupo. E quando vide Danny si bloccò anch’esso,
fissandolo con sorpresa ed incertezza. Il ragazzo conosceva quell’effetto, e
comprendeva bene la sua forte perplessità: vedeva un essere umano, e ne sentiva
l’odore, eppure sentiva allo stesso tempo un forte odore di lupo, e i suoi
sensi e l’intuito istintivo gli mandavano messaggi misti, fortemente
contrastanti con tutta la sua esperienza. Forse sarebbe rimasto ancora a lungo
immobile, cercando di venire a capo del dilemma, se dietro di lui non fosse
accorso un secondo cane, talmente lanciato in una corsa animata che quasi lo
travolse.
La cagna incespicò un po’ nel
cagnetto che l’aveva preceduta, ma nel giro di un istante era di nuovo piantata
sulle quattro zampe, il muso schiacciato da simil-boxer
puntato verso Danny, gli occhi che mandavano lampi di ferocia, i denti scoperti,
e un ringhio rimbrottante a stento trattenuto in gola. Lei sì che poteva
ostentare una cresta di pelo ritto dalla testa fino alla punta della coda.
Danny sapeva che lo avrebbe
attaccato, senza soffermarsi più di tanto sul problema di capire di cosa si trattava,
e anch’egli caricò i muscoli, pronto al confronto; anche il cagnetto ora
ringhiava un po’, e aveva scoperto un poco i piccoli denti appuntiti come
quelli di una volpe, coralmente con la collega. Il ragazzo era a disagio;
sapeva essere qualcosa di molto vicino ad un araldo della morte quando poteva
contare sulla fulmineità delle quattro zampe e del lungo muso munito di una
dentatura formidabile, capace di rompere ossa, tranciare vene e arterie,
individuare a primo sguardo i punti deboli e mirarli con precisione priva
d’errore quanto di calcolo complesso. Ma ora, senza zanne, zampe, coda, pelo… si sentiva nudo. Non aveva un paio di orecchie da
appiattire sulla testa, e le labbra umane arricciate a lasciare scoperti i
denti umani non erano affatto sufficienti a contro-ribattere all’effetto
fornito dai due cani che lo fronteggiavano.
Erano sul punto di schizzargli
addosso, i due cani, lo sentiva, ed era pronto a fare altrettanto nello stesso
identico istante in cui l’avrebbero fatto loro, quando un terzo cane si stagliò
improvvisamente sulla soglia, occupandola in buona parte. Il fremito da
battaglia di Danny fu leggermente smorzato, che lui lo volesse o no, nel vedere
l’enorme alano dal pelo lucido di nero inchiostro, con una macchia bianca sulla
testa e sotto la gola e la pancia, che lo squadrava con aria autorevole;
reggendosi sulle sue tre grosse zampe, la testa alta con una dignità che
sembrava dimentica dell’istintiva necessità di tenere più protetta la
vulnerabile gola, pareva una veterana di battaglie e avventure inenarrabili,
che lo contemplava come se, dopo tutto, ritenesse di averne viste davvero
troppe ormai per stupirsi ancora. Nonostante ciò, anche lei era evidentemente
irritata per l’intrusione; il rumore di aria inspirata dalle ampie narici a
tutto spiano, analizzando il suo odore, era chiaramente udibile, persino al di
sopra del ringhiare degli altri due cani.
E, come se tutto questo non fosse
già stato sufficiente per lui, Danny si vide comparire davanti una quarta
figura. Stavolta era umana; stavolta era alta, il profilo del corpo a malapena delineato
sotto una massa di abiti indossati l’uno sopra-sotto-compenetrato-a.completamento
dell’altro, i capelli lunghi poco oltre le spalle, fulvi e animati da una mezza
via tra l’ondosità e il quasi boccolo, incorniciavano un po’ spettinati i lati
del volto. Dall’espressione di esso il ragazzo fu investito senza preavviso. Il
paio di smaglianti occhi verdi lo scrutarono come se in pochi istanti potessero
scaravoltarlo da ogni parte come un calzino, vederlo
da molte diverse prospettive tutte tra loro complementari o in disaccordo, e
metterlo in discussione in molti modi possibili, riconfermandolo o smentendolo
molte volte non consecutive né sempre coerenti. La prima istintiva tentazione
fu di fuggire da quello sguardo, di trovarvi riparo, di negargli il diritto di
avanzare una tale analisi senza nemmeno chiederne il permesso; ma Danny
comprese quasi subito che non faceva parte delle possibilità che aveva nella
sua attuale posizione tentare con successo di sottrarvicisi.
Il secondo impulso fu di ingannarlo, di distrarlo, distoglierlo o deviarlo; ma
anche quell’ipotesi affondò presto. E, infine, fu preso dalla necessità di
sostenerlo e affrontarlo, di ributtarlo indietro, rimandarlo al mittente,
risolutamente, e senza alcun altro fine che quello di rispedirlo da dove
veniva.
Non seppe mai se ci era riuscito;
ma alla fine la donna smise di scrutarlo a quel modo. Sembrò ritornare al
presente e alla materialità della situazione, come se uscisse da un qualche stato
alterato tutto suo, e abbassò di colpo lo sguardo, ora più innocuo, sui cani
davanti a lei. Dopo aver dato l’impressione di aver colto la natura della
questione abbastanza da sapere come agirvi, disse, con un tono basso e profondo
«Danza… basta così.»
A chiunque si stesse rivolgendo,
nessuno le diede retta. Aggrottò appena la fronte, e con il bastone che
impugnava diede un deciso urto contro un fianco della cagna rossa tigrata di
nero. «Ebbene?» insisté. Non appena sentì quel colpo, non molto forte ma in
qualche modo significativo, accompagnato dal tono, la cagna mutò
improvvisamente atteggiamento dal giorno alla notte. Le orecchie appiattite
all’indietro si spostarono in laterale, pentite, la coda le si cacciò tra le
zampe posteriori, e smise di ringhiare, mentre i denti sparivano, lasciando il
posto alla lingua che si mosse come se si stesse rimescolando la saliva con
imbarazzo. Così facendo la cagna si voltò un po’ verso la donna, con aria di
scusa, ma cercando anche di far valere le sue ragioni: infatti prese a
uggiolare in protesta insistente, rivolgendo di tanto in tanto il muso ancora
nella direzione di Danny, come a indicarlo.
«Non fare la stupida…»
le raccomandò con paziente gentilezza la donna, chinandosi per prenderla
saldamente per il collare con una mano; non sembrava volersi affidare solo al
fatto di averla convinta.
Danny notò che la grossa alano
nera e bianca emetteva un sommesso latrato a bocca chiusa, facendo tremare
appena le grosse labbra pendenti; tanto sembrò bastare al piccolo cagnetto per
decidere di abbandonare anche lui l’atteggiamento aggressivo. Agitando ancora
la coda con evidente sovraeccitazione, prese a zampettare
di qua e di là nel perimetro di mezzo metro, con fare frustrato.
Gli occhi verdi si alzarono di
nuovo su Danny; nonostante lui l’avesse tenuto in conto, non lo stavano
fissando più in quel modo con cui lo avevano scrutato fino in fondo poco prima.
«Così, sei il lupo mannaro.» constatò, senza particolare impressione.
Da quelle parti sembravano tutti
ben poco impressionabili, nonostante fossero a loro modo impressionanti,
constatò in un angolino della testa il ragazzo; non disse nulla, si limitò a
fissarla, restituendole l’occhiata intensa, senza cedere di un millimetro.
«In realtà si chiama…
come hai detto che ti chiami…?» intervenne Uther, inizialmente con buona volontà, prima di realizzare
la sua dimenticanza.
Yuta sbuffò
sonoramente. «Sei impossibile! Almeno il nome, che diamine!»
«E’ colpa della brutta influenza
di questo libro.» diagnosticò Kumals.
La donna dagli occhi verdi non
smetteva di fissarlo con curiosità. «Non avevo mai incontrato un lupo mannaro,
prima.» disse.
Lui la considerò una cosa
stranamente debole da ammettere in un frangente come quello. Si sforzò di
mostrarsi più indifferente di quanto si sentiva, e finse in tal senso anche con
se stesso. Alzò brevemente le spalle. «Me ne stavo andando.»
La donna sembrò comprendere il
messaggio sottinteso. Annuì, e si spostò dalla soglia, tirandosi dietro la
cagna che aveva ripreso un moderato ringhiare gutturale nella sua direzione;
gli altri due cani la seguirono di concerto, e tutti nel complesso si
ritrovarono così a compiere una specie di movimento per aggirarlo senza mai
voltargli la schiena.
Gli venne quasi da piangere per
una specie di commiserante commozione; e lui che aveva pensato che volessero
attaccarlo, quando per la verità sembravano trattarlo con una poco oliata
cortesia. Eppure, era evidente, nessuno di loro aveva realmente paura di lui.
Non aveva mai visto prima una simile accozzaglia di sconsiderati riuniti tutti
nello stesso posto. Forse aveva avuto fortuna fino a quel momento…
«Vieni a pranzo qui da noi,
domani.» disse la donna dagli occhi verdi. Non era una domanda, e questo lo
infastidì, per quanto fosse ancora possibile.
«No.» rispose, senza darvi il
tono di una risposta, piuttosto che quello di una comunicazione affermante.
«Allora dopodomani.» disse ancora
la donna. Non usava un tono di domanda né di insistenza né di preghiera né di
invito; era un tono singolarmente neutro e tranquillo, come chi sta dicendo che
pioverà, senza specificare quando, perché è chiaro che prima o poi dovrà pur
piovere, e quindi ne è assolutamente sicuro e non teme di sbagliare.
«Si vedrà.» rispose Danny; e dal
suo tono non era chiaro se intendesse ‘state freschi’ o ‘deciderò poi’ o ‘ci
penserò su’ o ‘forse, non so’. Nemmeno lui era ben sicuro di cosa stesse
cercando di dire, al momento. Forse, dopotutto, si stava riferendo più alla
pioggia che al pranzo. Si sentì giocato.
Senza aggiungere altro, solcò la
soglia e se ne andò.
Dopo un po’ di tempo,
attraversato dal silenzio, Yuta si alzò, raccolse un
guinzaglio e raggiunse la donna, legandolo al collare della cagna. Con quello
l’animale fu persuaso a raggiungere la scrivania, alla quale fu assicurato il
guinzaglio, per impedirle di gettarsi all’inseguimento di Danny. Il cagnetto
aveva preso ad esaminare il pavimento centimetro per centimetro, il naso
pigiato su esso come un metal-detector. L’alano femmina si limitò a sdraiarsi
in un angolo, su una grossa coperta appositamente distesa e piena di peli;
mandò un sospiro compassato e prese a sonnecchiare.
Senza dire nulla, l’ultima
arrivata si mise a mettere sul fornelletto da campo acceso una pentola con un
po’ d’acqua, dopo aver chiesto se avessero già mangiato.
Nella stanza tornò a regnare
un’atmosfera da campeggio.
Ma Yuta,
sedutasi di nuovo sulle ginocchia di Kumals, gli
avvicinò la bocca all’orecchio e mormorò «Avevi ragione, quello è un
incantatore di lupi…». Fissava Uther
senza farsi notare, con un sorriso.
Kumals finì di
arrotolarsi una sigaretta, se la accese, emise una boccata di fumo, e rispose
piano, con fare conciso «Io avevo detto ‘spulciatore’,
veramente. ‘Spulciatore di lupi’, così avevo detto.»
Yuta gli rivolse
un’occhiata storta, e scosse la testa con aria rassegnata.
Di punto in bianco si udì di
nuovo la voce profonda della donna che si era messa a cucinare. Disse alcune
parole in una qualche lingua, come se riflettesse ad alta voce, senza staccare
gli occhi dalla pentola in cui stava facendo cadere i pezzetti di verdure che
stava tagliando, nemmeno si stesse rivolgendo alla pentola stessa.
Benché tutti l’avessero udita,
nessuno sembrò aver compreso cosa avesse detto. Ma poi Kumals,
dopo aver invano aspettato che aggiungesse altro, si accorse dell’espressione
dal profondo sorriso che aveva Yuta.
«Beh?» le fece.
Lei lo guardò. «Cosa?»
«Che ha detto?»
Yuta sorrise di
nuovo, tra sé e sé. «E’ gaelico.» disse solo, e si rifiutò di tradurre,
nonostante le fastidiose insistenze del compagno. Lasciò che rimanesse tra lei
e la sorella. Avevano imparato un po’ di gaelico dalle streghe irlandesi,
diverso tempo prima, e quella era forse una delle poche frasi complete che
fossero in grado di articolare. In inglese antico si sarebbe potuta tradurre
sommariamente, e un po’ poveramente, in ‘Wherethouheartis
– thereyour home is.***’
* più propriamente ‘Pioggia d’estate’, di Nada.
** è una citazione del complesso/ambiente “produttivo-artistico” messo in piedi da Andy Wahrol.
*** in italiano: dove è la tua casa, là è il tuo
cuore. E’ una frase che ho sentito citare in Irlanda, per questo l’ho riportata
con questi riferimenti, ma per inciso penso proprio che l’originale da cui era
citata (modificata, o forse non la ricordo così precisamente bene io la
citazione) è ‘Wherethou
art – that – isHome.’, titolo di un poema di Emily Dickinson.
**** ebbene: no, non è il solito titolo diviso in
due parti, ma si tratta di puntini di sospensione tesi appunto a lasciare in
sospeso la frase. E il resto viene da sé nel contenuto del capitolo.
Note dello scribacchiatore:
Eccomi qua, in
ritardo ma si continua testardamente!
Qualcuno forse
avrà notato un breve riferimento alle ‘streghe’… chissà che non compaia
qualcos’altro di loro in seguito (non in questa storia dei ‘4 di picche’)… chissà…massì, facciamo i vaghi…
fischiettiamo anche con nonchalance direi…
Capitolo 61 *** 59 - INCONTRI RAVVICINATI DI STRANO TIPO ***
Capitolo 59
(INCONTRI RAVVICINATI DI STRANO TIPO*)
Sul pianerottolo alla fine delle
scale del primo piano della casa di Yuta e Zoal, Andrea se ne stava in piedi sola, guardando
distrattamente fuori dalla finestra. Nello spiazzo davanti alla casa, Zoal andava avanti e indietro lentamente, occupata in
faccende come riempire la mangiatoia per i cavalli; uno di loro, la cavalla dal
peso rossiccio, la seguiva dappresso, come se al momento non trovasse di meglio
da fare, e anche Danza e Duca si aggiravano annusando e giocherellando.
Senza realizzarlo, Andrea si
portò una mano al viso e si massaggiò una guancia, leggermente infastidita
dalla dolorabilità della faccia per la stanchezza;
non si guardava allo specchio seriamente da molti giorni, ma se lo avesse fatto
avrebbe scoperto un paio di occhiaie, piccole ma piuttosto sottolineate, di
quel tipo che si sviluppa per una stanchezza cronica.
Perennemente consapevole del
pacato rumore del discorso che si stava svolgendo dabbasso tra Justin e l’uomo
con la gamba rotta, quello che avevano trovato a Foelm,
e che, una volta tornato normale, aveva iniziato pazientemente a cercare di
cavare fuori dalle loro spiegazioni qualcosa di sensato riguardo a ciò che gli
era accaduto, lei teneva costantemente monitorati anche tutti gli altri rumori
della casa. Non c’era molto da sentire: regnava una calma ovattata, come dopo
una tempesta, ed erano già quasi cinque giorni che quell’atmosfera aveva
avvolto l’abitazione. Il tempo atmosferico, quasi sempre rannuvolato e
piovigginoso, sembrava confermarlo, anche se, a detta di Yuta,
era solo per via del fatto che febbraio era vicino, e di conseguenza anche la
primavera.
Dalla cucina poteva sentire di
tanto in tanto qualche rumore; Valentine e Ramo
stavano condividendo il riassettare del dopo pranzo. Le camere invece erano
avvolte in un denso silenzio, anche se lei sapeva che in una dormiva Danny, e
in un’altra Uther. E da qualche parte in soffitta
anche il Conte doveva essere immerso nel suo sonno diurno. Se non fosse stato
per quello, Andrea avrebbe decisamente puntato al sottotetto, in cerca di
rifugio. Iniziava ad essere stanca delle attenzioni che le rivolgevano Yuta e Valentine, al punto da
trovarle ormai quasi sempre irritanti; sapeva che se avesse lasciato trasparirlo, poi si sarebbe sentita in colpa, perché
sarebbe stato ingiusto nei loro confronti. D’altra parte, aveva bisogno di
stare da sola. Solo che, nella casa sovraffollata, sembrava che ciò fosse
possibile solo rimanendosene lì sul pianerottolo; giusto per non farsi trovare seduta
sulle scale, il che non avrebbe fatto altro che attirare l’attenzione di
chiunque passasse, facendolo preoccupare o, ancora peggio, facendolo sentire in
dovere di cercare di attaccare discorso con lei. Lì ferma, fingendo di trovare
interessante il guardare fuori dalla finestra, sperava di poter prontamente lasciar
pensare di essere solo di passaggio tra il piano terra e il primo piano o
viceversa, nel caso qualcuno l’avesse vista.
Strinse un po’ di più la presa
delle braccia intorno al voluminoso album di fotografie che si teneva contro il
petto, che continuava lentamente a scivolare verso il basso, e sospirò
silenziosamente, mentre rinunciava al proposito di provare per l’ennesima volta
ad arrotolarsi le maniche troppo lunghe e larghe del maglione in prestito.
Anche quelle, in ogni caso, continuavano a scivolarle giù di nuovo
puntualmente.
In quella sentì una porta aprirsi
lungo il corridoio; si riscosse, ma non aderì immediatamente al suo piano di
fingere di essere solo in transito. Si distrasse nel riconoscere la sagoma che
camminava lungo il corridoio.
Anche Kumals
la riconobbe; rallentò e si fermò a guardarla. Lei sperò ardentemente che
decidesse di limitarsi a salutarla e a proseguire oltre. Ma l’uomo, invece, la
osservava riflessivamente, vagamente incuriosito.
«Ecco dove l’ho già visto.»
disse, dopo un po’ «Quell’album. È per quello che sei tornata indietro alla
scuola.»
Non era affatto un buon inizio;
ciò riportava al fatto che lei aveva convinto Danny ed Uther
a cacciarsi nei guai insieme a lei, salvo poi aggiungersi anche Zoal e i cani. Ed era superfluo rivangare quanto Kumals se la fosse presa per quello. Annuì. «Già…» fu tutto quello che trovò da dire sul momento.
Kumals fece un cenno
d’assenso per conferma. «Mi pareva. Allora, non starai anche tu aspettando che
il bagno si liberi, spero.»
Sorpresa per il tranquillo
passaggio da un argomento spinoso a quello puramente prosaico, Andrea sbatté le
palpebre un paio di volte. «No.»
«Bene…
Scusa un momento.» accennò Kumals, prima di voltarsi
e dirigersi dall’altra parte del corridoio. Giuntovi al termine, bussò alla
porta del bagno. Da dentro provenne una qualche risposta incomprensibile. «So
benissimo che sei là dentro.» rispose Kumals, con un
inizio di divertimento sul viso sogghignante «Stavo solo controllando che tu
fossi ancora viva. Si può sapere cosa ti sta prendendo tanto tempo? Spero tu
non ti stia depilando, perché sennò posso anche prenotarmi per l’anno prossimo
per usare il bagno, no…?»
Stavolta Andrea intese
chiaramente un’imprecazione colorita con la voce di Yuta,
e qualche cosa sbatté duramente contro la parte interna della porta, per tutta
risposta. Lentamente Andrea si avvicinò a Kumals.
Lui sospirò e iniziò ad
arrotolarsi una sigaretta. «Suscettibile.» commentò, a voce cautamente molto bassa.
Andrea sorrise appena. «Ti ho
visto uscire dalla stanza degli ospiti… Credevo che
stessi assistendo Uther…»
«Infatti era così. Ma ultimamente
ogni volta che metto anche solo la punta del naso dentro la stanza mi lancia
qualcosa addosso tentando di colpirmi. Oggetti pesanti.» spiegò Kumals, con l’aria di chi sta constatando la sussistenza di
un fenomeno inspiegabile.
«Non mi dire…
» disse Andrea, con scoperta finzione di solidarietà.
Kumals le lanciò uno
sguardo con un sopracciglio alzato.
«Potresti provare ad infastidire Justin…» propose la ragazza, con fare collaborativo venato
da un certo proposito di vendetta.
L’uomo la guardò ancora per un
po’ con fare ammonitorio, poi però assunse una posa riflessiva, alzò gli occhi
al cielo e ci pensò su. «No… non credo che possa
funzionare. Dev’essere scientificamente impossibile
importunare Justin. Convive con se stesso, dopotutto.» teorizzò alla fine.
Andrea annuì, stavolta con
sincera comprensione. «Vero…»
«Mi basterebbe giusto poter
andare in bagno.» disse Kumals, alzando un po’ la
voce per farsi sentire da Yuta, che lo stava
occupando al momento.
«Voi due stavate insieme…no… ?» domandò Andrea.
Kumals la guardò con
aria supponente. «Te l’ha detto Danny?»
«No…
non proprio. Si vede… » chiarì lei.
«Ah sì…?»
rispose distrattamente l’uomo, accendendosi la sigaretta.
«Scusa…
non sono fatti miei... » recalcitrò Andrea.
Kumals la guardò con
sincero stupore; poi, con sorpresa della ragazza, sorrise, di un sorriso che
aveva raramente sul suo volto, espressione di uno spontaneo moto di sincerità,
senza ombra di malizia o di derisione. «Ma va là… »
mormorò, tornando a dedicarsi alla sua sigaretta, lasciando che quel sorriso
sparisse lentamente, riassorbito.
«Secondo me ci è andata in
letargo là dentro… » commentò, rivolto alla porta
chiusa del bagno.
«E ci sento anche bene, da qua
dentro!» imprecò Yuta vivacemente.
«Oh-oh…
» fece l’uomo, poi si rivolse ad Andrea con fare cospiratorio «Io la tengo
occupata. Tu scappa.»
La ragazza scosse appena la
testa, ma dopotutto il suo sguardo svicolò, percorse il corridoio e si fermò su
una porta in particolare. «In effetti…» mormorò,
assorta «C’è una cosa che dovrei fare…»
Tornò a guardare Kumals. «Beh… a dopo… e buona fortuna.»
Detto ciò, si incamminò verso la
porta, bussò piano, e, pur non avendo ricevuto alcuna risposta, si apprestò ad
aprirla piano e ad entrare lentamente.
Kumals, nel vedere
quale porta avesse scelto, rimase basito per lunghi minuti, al punto che la
cenere della sigaretta gli cadde tra le punte delle scarpe senza che avesse il
tempo di ciccare nel sacchetto che teneva appositamente in mano. Resosene
conto, aggrottò un po’ le sopracciglia, e ciccò a vuoto nel sacchetto, mentre
mormorava tra sé e sé qualcosa come ‘Dovevo essere io a dirlo, ‘buona fortuna’…’.
Subito dopo, cogliendo
un’ispirazione del momento, iniziò a canticchiare ‘No woman no cry’**, solo che ogni volta che ripeteva il ritornello
alternava il ‘no woman no cry’ al ‘no men no cry’ al ‘no people no cry’.
«Oh, per favore, la pianti di
fare la caricatura del rasta-man?» lamentò Yuta da dentro il bagno.
*
***
*
Entrando lentamente nella stanza,
illuminata solo dalla grigia luce che giungeva attraverso la finestra, Andrea
cercò in ogni modo di fare il minor rumore possibile. Vide subito la figura
distesa su un fianco nel letto; dava la schiena al resto della stanza,
rivolgendosi contro il muro. Anche se lei sapeva che poteva essere solo un modo
per appoggiare il peso esclusivamente sul fianco non ferito, aveva la
sensazione che quello fosse un preciso atteggiamento.
Si fermò di fianco al letto, a
buona distanza da esso però. E quando trovò il fiato e la capacità di
articolare le parole, domandò solo «Sei sveglio…?»
Per diversi, lunghi secondi non
giunse alcuna risposta. In qualche modo sapeva che era sveglio, e in qualche
altro modo intuiva altrettanto chiaramente che forse non le avrebbe mai
risposto. Doveva aver riconosciuto la sua voce, anche se non si era girato a
vedere chi entrava.
Alla fine, la sagoma si mosse un
po’, e la testa si voltò quel tanto che bastava. I due occhi azzurro
chiarissimo la fissarono per un breve momento al di sopra della spalla; era uno
sguardo particolarmente distante, e il tono con cui Uther
le si rivolse appariva ingannevolmente neutro. «A quanto pare.» disse solo,
prima di tornare a voltarle la nuca, come se non avesse intenzione di scomporre
la sua posizione più di così.
D’accordo, non poteva realmente
aspettarsi di essere accolta meglio; non se lo aspettava per niente, fin da
quando aveva deciso di entrare in quella stanza. Andrea se lo ripeté per un
po’, nonostante sembrasse che ciò non avesse il potere di darle più forza. Non
se la sentiva affatto, e aveva il continuo sentore di essere in errore, per il
solo fatto di essere lì e di stare in un certo senso avendo la faccia tosta di
parlargli così. Perciò, lasciò perdere i preamboli, con l’istintivo proposito
di uscire al più presto di lì, subito dopo il termine del tempo necessario per
chiedere ciò che voleva domandare; ma era anche perché sapeva che la brevità
sarebbe valsa come ‘più indolore possibile’ anche per Uther.
«Se accadesse di nuovo… se tornassimo indietro, e fossimo di nuovo sotto
quel lampadario che sta per cadere… lo rifaresti? Mi
salveresti di nuovo?» riuscì infine a buttare fuori, in poco più che un
sussurro.
La risposta giunse molto
lentamente, e risultò stranamente molto più elaborata e significativa di quel
che poteva lasciare intendere la concisa semplicità delle parole. «Sì.»
E Andrea capì diverse cose. Che
non aveva aggiunto, nella sua domanda ‘nonostante tutto’; che Uther aveva comunque compreso pienamente cosa volesse dire,
e che non le avrebbe mai dato una risposta diversa, perché non era possibile
una risposta diversa. E soprattutto che, malgrado se stesso in primis, era
sincero. Davvero, se si fossero ritrovati in una consimile situazione, le
avrebbe salvato la vita così come avrebbe fatto con chiunque altro; proprio
così, come con chiunque altro. Come se non fosse lei, e come se lei non
significasse per lui la causa dell’approfondirsi di un dolore netto e dal
sapore di definitivo. Non era come se potessero davvero tornare indietro, ma se
fosse accaduto, quello che Uther avrebbe
probabilmente realmente desiderato non era di non salvarla, che le succedesse
qualcosa. No, il punto giusto in cui fermare il rewind
e scegliere un'altra combinazione di eventi era quando lei aveva deciso di
unirsi a loro per aiutarli; e la reale domanda che lei avrebbe dovuto porgli,
sarebbe stato se, potendo tornare indietro, lui non avrebbe fatto qualcosa per
evitare che lei lo facesse. Per evitare, alfine, che lei e Danny si
incontrassero.
Non poteva chiedergli altro, e
non poteva ripetere l’errore e aggravarlo, soffermandosi ancora nella stanza, o
parlando ancora. Non c’era niente altro che potesse dire che non suonasse falso
o stupido, o ancora più doloroso per Uther. Lei non
poteva fare niente per lui, nient’altro, forse, che scomparire, o andarsene e
non tornare più, e fare come se non avesse mai incontrato tutti loro; ma
soprattutto come se non avesse mai incontrato Danny.
Nell’istante in cui lo capì,
senza fretta, si mosse. Tornò alla porta, la riaprì piano, e uscì
silenziosamente come era entrata.
Lungo il corridoio era in corso
un’animata discussione tra Yuta e Kumals
sull’uso del bagno, e Andrea ne fu sollevata, perché poté scivolare inosservata
fino alle scale, e andare a rifugiarsi nella stalla.
*
***
*
Era un tiepido pomeriggio primaverile,
e molte delle strade della cittadina di medie dimensioni erano trafficate di
auto, pedoni e biciclette; la sera imminente si apriva sul traffico calante
dell’ora di punta serale. Ma tra le persone che andavano di fretta, e con
nervosismo, tra i gruppetti o le coppie ferme a fare quattro chiacchiere, e
tutto il resto della fauna urbana, due figure slalomavano
con un che di tranquillo e leggero, come di chi è spensieratamente in pace con
se stesso.
Non era tuttavia per quello che
molti si soffermavano a lanciare ai due un secondo sguardo, ben più insomma che
una distratta occhiata di semplice constatazione della loro esistenza. Sebbene
uno dei due avesse un’aria a suo modo singolare, con il fisico dalla
muscolatura snella che sembrava quello di un lavoratore, e che lasciava indecisi
sull’identificarlo come uno studente invecchiato precocemente o piuttosto come un
uomo di una certa età che manteneva saldamente molto di una gioventù mischiata
con l’infantile nell’aspetto, era evidentemente il suo cane che attirava tutta
quell’attenzione. Non tanto perché non indossava né un guinzaglio né un
collare, e nonostante ciò trotterellava a fianco dell’altro come se avesse in
mente troppo bene il tipico atteggiamento di un essere umano e lo sapesse in
qualche modo imitare; no, a far correre un brivido d’incertezza nelle occhiate
che incappavano nell’animale era il suo essere di dimensioni considerevoli,
provvisto di lunghe zampe, una folta coda che quasi toccava terra, un muso
lungo e abbastanza sottile, e un cospicuo pelame grigio-nero-bianco…
insomma, tutto ciò che nell’immaginario collettivo si potrebbe associare ad
un’immagine di lupo. A peggiorare quell’impressione, c’era il fatto che
l’animale aveva uno sguardo chiaramente molto acuto e quasi tagliente, puntato
con decisione dritto davanti a sé, facendosi bastare le orecchie mobili per
misurare l’ambiente che lo circondava, e che, a differenze della maggior parte
dei cani domestici, non sembrava minimamente interessato a soffermarsi ad
annusare angoli, alberi, idranti, escrementi di altri cani, né nient’altro.
Eppure le sue narici fremevano, a ritmo perfetto col respiro e col suo
trotterellare allo stesso ritmo del passo veloce e leggero del suo padrone.
I due slalomavano
tra la folla come se si stessero intrattenendo in un loro personale gioco, che
consisteva appunto nel non dover mai rompere il ritmo a cui procedevano,
trovando ogni spiraglio giusto e incuneandovisi al
momento opportuno, prendendo le misure esattamente, e talvolta adattandovicisi procedendo più in diagonale o quasi in
scivolata piana dei piedi e delle zampe; nel fluire continuo di quel loro
procedere si poteva quasi pensare che avessero indosso dei pattini. Gli occhi
azzurro chiarissimo dell’uno, all’altezza delle altre persone, più o meno, e
quelli blu scuro dell’altro, all’altezza delle gambe della gente, non
sbagliavano quasi mai nel cogliere il giusto movimento da fare per evitare di
dover interrompere la loro camminata; talvolta si separavano, per attraversare
la folla in punti diversi, senza dover rallentare nel procedere l’uno dietro
l’altro, e più avanti si riunivano, mostrando sempre che ci tenevano a non
rimanere indietro l’uno rispetto all’altro. Sì, forse dopotutto stavano facendo
una specie di loro gioco.
Ma ben presto nessuno poté
osservarli più a lungo, perché svicolarono giù per una stradina più piccola, e
si inoltrarono in un quartiere di case perlopiù vecchie, una zona quasi
esclusivamente residenziale. Non dovendo più slalomare
tra la folla, il loro passo si quietò un poco, e procedettero affiancati al
centro della strada non più accessibile alle auto, affrontando il dedalo di
stradine con tranquilla abitudine. Di lì a poco rallentavano ulteriormente,
avendo svoltato in quella che doveva essere la loro via di destinazione, visto
che il ragazzo, usando la mano con cui non stava reggendo un cospicuo sacchetto
di pane e di birra in bottiglia, si estrasse dalla tasca dei pantaloni un paio
di chiavi.
Di colpo però, entrambi si
fermarono. Avevano notato un ragazzo molto alto, fermo lungo la strada, che
sembrava aspettare qualcosa. Anche quegli li aveva notati. E il ragazzo che
aveva appena tirato fuori le chiavi fece un’espressione curiosa, come se, se
non fosse stato per il suo gesto traditore, avrebbe considerato seriamente
l’idea di far finta di non essere diretto proprio alla porta davanti alla quale
era fermo lo sconosciuto.
Questi, un ragazzo alto e dalle
spalle larghe che in qualche modo mal si abbinavano alla figura snella, sulle
quali si appoggiava una corta coda di capelli nero corvino e quasi
completamente lisci, legati in una specie di nodo più tendente alla praticità
che a qualsivoglia attenzione estetica, li scrutò con una curiosità evidente,
ma quasi timida. Non sembrava cercasse proprio loro.
Per questo, dopo aver esitato
nell’osservarlo attentamente, Uther prestò attenzione
al fatto che il lupo, fermo di fianco a lui, avesse lasciato un po’ scoperti i
denti, sui quali tremolavano le labbra ritratte, accompagnando un cupo e sordo
brontolio gutturale. «Aspetta… Non ha proprio
l’aspetto di un creditore, o di un altro rompicoglioni qualsiasi…
no?» osservò a bassa voce.
Uno degli orecchi del lupo si
mosse immediatamente, per catturare quelle parole. Poi, le labbra ricalarono a coprire i denti, e il ringhio gutturale si
attenuò fino a non essere praticamente più udibile. Nonostante ciò, le sue
narici non smisero nemmeno per un istante di sondare l’aria, né le sue pupille
penetranti si sganciarono dalla figura immobile.
Tanto Uther
quanto il lupo ripresero a camminare, l’uno ostentando una calma perfetta e
distratta, l’altro guardando con evidente e rancoroso sospetto il ragazzo a cui
si andavano appressando. Il loro diverso atteggiamento era così contrastante
che sembrava avessero raggiunto conclusioni completamente diverse; tuttavia, in
qualche modo sembrava che quegli atteggiamenti opposti si spalleggiassero e
sostenessero a vicenda, come una stessa persona che tende una mano disponibile
mentre chiude l’altra a pugno, nel caso ce ne sia bisogno.
Il ragazzo dai capelli corvini
ora li guardava con ancora più vivo interesse. Non aveva mai visto nulla del
genere: quel cane sembrava un lupo, più di qualsiasi cane che avesse mai visto,
ed oltre a ciò procedeva del tutto privo di vincoli come guinzaglio o collare,
e lo guardava con una fredda minaccia, come se stesse mirando ad una preda. Si
sentì pervadere dall’inquietudine, anche perché, ad aggravare la situazione, il
padrone che gli camminava di fianco non sembrava affatto propenso a prepararsi
a trattenerlo nel caso avesse deciso di procedere in un qualche gesto fuori
dalle regole civili. Più che per accompagnare il suo cane, sembrava uno
capitato lì per caso, che abbia deciso sul momento di soffermarsi ad assistere
alla scena.
Egli si fece un po’ indietro,
quando i due, cane e uomo, si fermarono proprio davanti al civico presso il
quale stava aspettando lui. Guardò in silenzio il ragazzo di imprecisabile età
che infilava le chiavi nella serratura, e solo allora, mentre il cane ancora lo
fissava come se fosse deciso a non perderlo di vista finché non ci fosse stato
almeno un muro a separarli, osò aprire bocca.
«Hem…scusa… » tentò, incerto.
Il ragazzo, che aveva quasi
girato del tutto le chiavi nella serratura, gli rivolse il viso da sopra la
spalla, senza apparentemente scomporsi. Eppure, avrebbe potuto giurare che si
stava maledicendo per non essere stato più veloce con quelle chiavi. «Sì?» gli
fece, con impeccabile cortesia da rivolgere agli sconosciuti; tuttavia c’era
qualcosa, in lui, che sembrava nel contempo dire ‘se stai cercando grane,
considerale trovate’.
«Ecco…hum… tu vivi qui?». La domanda era stupida, considerando
che quello aveva tutta l’aria di stare entrando in casa sua con il suo paio di
chiavi.
Eppure l’altro la soppesò come se
fosse estremamente significativa. Ritrasse la mano con cui teneva le chiavi,
lasciandole attaccate alla serratura, e si voltò un po’ di più verso di lui.
«Può darsi. Perché?»
Quella era una sorta di risposta
bizzarra, in qualche modo. Il cane continuava a fissarlo con sempre maggiore
sorda minaccia.
Il ragazzo spostò il peso sui
piedi, assumendo un’aria ancora meno convinta. «Beh…ecco… mi chiedevo… forse dirò una
cosa strana ma… Non è che hai mai sentito parlare dei… ‘arriccia-spettri’…?»
Nonostante il suo tono
chiaramente esitante, nello sguardo dell’altro era passato un bagliore, che
scomparve molto in fretta, prontamente ricacciato tra i pensieri inespugnabili.
«Chi?» domandò.
Stavolta il ragazzo alto si
abbandonò ad un cospicuo sospiro. «Ecco, lo sapevo! Mi stavano prendendo in giro… ». Assunse un’aria non molto più delusa e pensierosa
di prima, e scosse la testa contrito. «Ah, niente, niente…
Scusami. Ciao.» salutò poi, voltandosi e iniziando ad allontanarsi lungo la
via. Nel farlo, tirò un calcio irritato al cemento, e prese a borbottare tra sé
e sé qualcosa di poco benevolo all’indirizzo di qualcuno, le mani ficcate nella
tasca del giubbotto senza maniche nero, avanzando a grandi passi saldi, come
gli permettevano le lunghe gambe strette in un paio di jeans e gli anfibi
robusti.
Uther lo guardò per
qualche istante, poi rivolse uno sguardo al lupo di fianco a lui, con un
sopracciglio lievemente alzato e un’espressione tra il perplesso e il paziente,
che sembrava dire ‘ce n’è di gente bislacca in giro, eh?’. Curiosamente, il
lupo aveva già il muso alzato verso il suo viso, e gli ricambiò lo sguardo con
quella che poteva stranamente sembrare una chiara comprensione; più chiara,
insomma, di quella di un animale che non comprende il linguaggio umano. Si
fissarono a quel modo per qualche lungo secondo, prima che il ragazzo
distogliesse lo sguardo ed esalasse un lieve sospiro rassegnato. «Hey!» chiamò quindi a voce ben udibile, che riecheggiò
brevemente lungo la strada.
Il tipo che si stava allontanando
si fermò, e si voltò, stupito.
Uther fece del suo
meglio per trattenere un sorrisetto «Che li cerchi a fare questi…
‘arricia-spettri’?» domandò.
L’altro sembrò ponderare la cosa
per un momento; poi, forse persuaso dall’affabilità informale con cui gli si
rivolgeva l’altro, ritornò sui suoi passi. «Non so bene…
A dire la verità è una faccenda…strana…
»
Uther appoggiò il
sacchetto di pane e birra sullo scalino della porta della casa, si rialzò e incrociò
le braccia sul petto con l’aria di mettersi comodo. «Non sembra che li conosci,
ti avrà parlato di loro qualcuno…»
«Sì, infatti. Ma forse nemmeno
esistono, no? Ho tutta l’impressione che mi volessero prendere in giro.»
commentò il ragazzo, con aria imbronciata. «Però… sai
una cosa?» domandò retoricamente, risollevando lo sguardo verso il suo
interlocutore. «La cosa peggiore è che li capisco pure!»
Uther lo guardò,
lievemente incuriosito, ma non lo invitò a continuare. Lo sguardo dell’altro si
distrasse altrove, guidato probabilmente dal proposito di poter cambiare
argomento, magari. E in effetti trovò un argomento potenzialmente interessante,
quando gli occhi gli caddero su quello strane cane. Anche se aveva smesso di
fissarlo come se stesse considerando l’opportunità di saltargli alla gola,
appariva se possibile anche più disturbante di prima; infatti, sedutosi per
terra con l’aria di aver compreso che la cosa si faceva lunga, sembrava che
stesse seguendo la conversazione pure lui.
Fu principalmente per
distogliersi da quella straniante impressione, che il ragazzo osservò «E’ un
cane bellissimo… Come si chiama?»
Uther fece una lieve
smorfia, come se volesse trattenere un certo divertimento. «Danny. Non è un
cane. Non proprio.» rispose, con l’aria di fare una concessione.
«Certo, certo…Dev’essere di qualche incrocio particolare, magari
con un lupo... Ha un’aria piuttosto intelligente.» fece l’altro, con aria impressionata.
Rimase stranito, quando vide il
cane muovere le orecchie come se fosse infastidito da una mosca, e il muso
storcersi come se avesse assaggiato una cosa andata a male; nel contempo, il
suo padrone aveva emesso una risatina sogghignante. «Già…
» commentò solo, tuttavia, come se volesse far finta di nulla. «Ma dicevi… chi ti avrebbe tirato dietro questa roba sugli ‘arriccia-spettri’?»
Il ragazzo tornò mogio. «Mah, è
un tizio che conosco di sfuggita… va sempre a
prendere il caffè al mattino nello stesso bar dove vado io, a due passi dallo studio…»
«Studio?» interruppe Uther, con aria più gentile che realmente interessata.
«Uno studio veterinario.» spiegò
l’altro «Sto facendo un po’ di praticantato. Se tutto va bene fra un paio d’anni
mi laureo anche.»
Il sorrisetto di quello che lo
ascoltava si accentuò maggiormente, e poi si rivolse al suo cane, come se gli
fosse appena venuta in mente una cosa molto comica. «Sentito, Danny? Magari la
prossima volta che hai bisogno di qualcosa potremmo andare da lui, no?»
propose.
Il ragazzo proprio non capiva
perché quel tipo trovasse così divertente ciò che aveva appena detto. «Sicuro.»
disse tuttavia «Sono bravi, là. Poi, non è come quelli che considerano con più
attenzione il padrone, come se fosse lui il malato, solo perché è quello che
paga.»
L’altro lo fissò con amichevole
ma decisa franchezza. «Oh, non sono il suo padrone.». Poi, come a voler
prevenire domande riguardanti la sua affermazione, aggiunse «Ma perché sei venuto
a cercare questi ‘arriccia-spettri’?»
Di nuovo il ragazzo fu riportato
alla sua storia, e la cosa sembrò avere il potere di ritrascinargli
il morale a terra. «Beh, questo tizio che vedo sempre al bar… insomma, mi ha
visto un po’ stanco, stamattina. Così gli ho raccontato che ultimamente non
riesco a dormire bene. E allora, insomma, una cosa tira l’altra, gli ho
raccontato il perché anche. E lui mi ha detto di andare a cercare gli ‘arriccia-spettri’, e mi ha dato questo indirizzo. Lo
sospettavo che mi stesse prendendo in giro, ma come biasimarlo, insomma… »
Uther ora lo
considerava con bonaria simpatia, si sarebbe detto. «Che gente. Farti fare
tanta strada, per giunta considerando che non dormi bene. E, scusa se mi
impiccio ancora ma… Cosa sarebbero, questi ‘arriccia-spettri’, una specie di terapeuti? Forse dovresti
piuttosto andare a prendere qualcosa in una farmacia…
a meno che non pensi che sia altro per cui non dormi…»
accennò. Anche se c’era qualcosa di pervicacemente sussiegoso e un po’
divertito, nel modo in cui parlava, l’altro non ne era del tutto sicuro. Non
solo perché non lo guardava più in faccia, avendo puntato lo sguardo al suolo,
ma anche perché iniziava ad essere nuovamente persuaso che fosse meglio
chiudere lì lo scambio di confidenze.
«No no…
non credo o almeno spero che non lo siano dei terapeuti. Non è questo. Insomma,
non sono proprio pazzo!» si rianimò per un momento, fissando Uther con decisione «O almeno non credo…
» ritrattò abbattuto, tornando ad abbassare lo sguardo con aria piuttosto
tormentata.
Visto che in quel momento non era
osservato, Uther ne approfittò per scoccare uno
sguardo al cane, che ora si era pure sdraiato, ma le cui orecchie svettavano sul
capo appoggiato sulle zampe anteriori, rittissime e
attentissime ad ogni parola. Di nuovo lo sguardo gli fu brevemente ricambiato.
«E allora cos’è, quindi, che non
ti fa dormire?» incalzò Uther, con il migliore tatto
che gli riuscì di tirar fuori, e che risultò grezzo ma sincero.
La risposta uscì flebile, e
subito prima e subito dopo di essa il ragazzo gli gettò delle occhiate
indagatrici, come per studiare la sua reazione, timidamente ma attentamente;
evidentemente temeva un altro raggiro, o il dileggio puro e semplice. «Un… credo sia… una specie di spirito… di fantasma… » borbottò.
Ma rimase spiazzato nel non
vedere nel suo ascoltatore nessuna particolare reazione; non apparve stupito,
né propenso a bollarlo seduta stante come un matto o un ingenuo credulone.
Invece, socchiuse gli occhi per un momento, come riflettendo tra sé e sé, e
infine un leggero sorriso gli incurvò le labbra. Lo vide muoversi per pescare
dal sacchetto di carta che aveva lasciato appoggiato sulla soglia una bottiglia
di birra; la aprì sfruttando un apribottiglie di ferro che aveva appeso al
portachiavi rimasto a penzolare dalla serratura, poi ne bevve un sorso, ancora
pensierosamente.
Alla fine, con sua sorpresa, il
ragazzo si trovò a fissare la birra che gli veniva porta; anche se considerava
evidente che l’altro stesse compiendo un gesto di pietà, la prese, ringraziando
debolmente. L’offerente gli rivolse un gesto socievole della testa, come a
scansare il ringraziamento.
«A dire la verità…
» ricominciò infine, dopo quel silenzio, mentre lui mandava giù un sorso di
birra. E si dilungò nel mezzo della frase, giusto per scoccare uno sguardo
complice al suo cane. «Forse, a ben pensarci, io e Danny li conosciamo, questi
che si fanno chiamare ‘arriccia-spettri’…»
Il ragazzo ingoiò frettolosamente
la birra e spalancò un po’ gli occhi per la sorpresa. «Vuoi dire che esistono
veramente?» domandò, soppesando con circospezione quell’affermazione.
L’altro sorrise al cane, come se
stessero condividendo una battuta, poi tornò a guardarlo, e sogghignò. «Ci puoi
giurare…»
Il ragazzo sembrò sollevato. «Ah…allora… beh, se mi sapresti
dire a quale piano sono… sempre che siano qui… Non ho visto nulla sul campanello. Accidenti! Allora
dopotutto non mi stava prendendo per i fondelli! Ah, beh, comunque…
» alzò una mano aperta, nel gesto di presentazione «… io sono Ramo.»
Uther allungò la
mano, ma invece di stringergliela vi assestò un colpetto come a scansare la
formalità, e la protese verso la bottiglia di birra; quando il ragazzo gliela
allungò, vi strappò un sorso, prima di sorridere di nuovo con una simpatia
sghemba. «Uther.» rispose, alzando lievemente la
bottiglia come in un accenno di brindisi.
Il lupo, ancora sdraiato a terra,
occhieggiò una volta di più la loro nuova conoscenza con interesse, prima di
aprire il muso in uno sbadiglio che mise allo scoperto con tranquilla rilassatezza
le temibili fauci.
* [nota da leggersi dopo aver
letto il capitolo, per evitare spoiler] naturalmente è una ripresa del titolo
del film ‘Incontri ravvicinati del terzo tipo’ (non che serva averlo visto per
capire, ma si parla di incontri con gli alieni, con i quali si cerca
difficoltosamente di stabilire una comunicazione cercando un linguaggio cifrato
che possa essere usato a questo scopo). Il parallelo è con la “stranezza” di
vario livello delle comunicazioni/incontri che si instaurano qui: prima Andrea
e Kumals – che per lei risulta bizzarro e come
sospeso nell’atmosfera da ‘dopo la tempesta’ della casa – ; poi il breve confronto
tra Andrea ed Uther, che per motivi che forse molti
di coloro che leggono avranno già intuito (se avete capito perché Andrea pone
proprio quella domanda, oltre ad aver colto qualche altro non molto soft
indizio disseminato fino a qua nella storia, bene, altrimenti diventerà
comunque più esplicito nei prossimi capitoli. E con questo si potrà
re-interpretare meglio anche alcuni passati passi falsi che Andrea ora sa di
aver fatto.) è chiaramente difficoltoso e su filo sottile; per finire,
flashback sul primo incontro di Ramo con Uther e
Danny, che chiaramente risulta un po’ bizzarro per Ramo, oltre che non poco
decisivo per le loro vite.
** beh, credo di non dire nulla
di nuovo (onestamente, chi non la conosce?), comunque è ‘No woman no cry’ di Bob Marley. E la reinterpretazione di Kumals è significativa, oltre a far parte degli indizi
piuttosto scoperti menzionati nella nota precedente.
-----
Note
dello scribacchiatore: voilà, scusatemi per il solito ritardo e per
qualche eventuale strafalcione che mi fosse sfuggito nel dover rivedere alla
veloce il capitolo. Per il resto, ritardi a parte, si procede verso il finale e
ci si arriverà, garantito! Alla prossima, bye a tutti/e e grazie della pazienza
a chi sta seguendo, come al solito se vi va di dire qualcosa con commenti o
contattandomi direttamente procedete pure a briglia sciolta.
Danny si svegliò nuovamente;
riscontrò piacevolmente che il suo corpo sembrava meno pesante e sofferente. Il
dolore alla ferita della spalla era certamente ancora presente, ma il suo
essere così in sordina non sembrava più solo dovuto all’effetto ottundente dei
farmaci. Osò persino seguire l’impulso di stiracchiarsi un po’, con cautela, un
muscolo e una parte del corpo alla volta, per evitare di muovere quelli della
spalla o in generale quelli più attinenti al punto ancora generosamente
fasciato e spalmato dei rimedi auto-prodotti di Yuta
e Zoal.
Quando si decise ad aprire gli
occhi, nella luce calda e semi-offuscata di un tardo mattino in cui,
finalmente, la pioggia e le nuvole sembravano aver lasciato il passo almeno per
qualche ora ad un po’ di cauto sole, realizzò di non essere il solo occupante
della stanza.
Ramo, seduto a gambe incrociate
sull’altro letto della camera “degli ospiti”, sottrasse lo sguardo dal libro
che stava leggendo, essendosi accorto del suo muoversi, e lo guardò. Sorrise
luminosamente. «Heylà!»
«Deh…»
fece Danny, provando la voce che ultimamente non aveva usato molto «… è il tuo
turno di balia? Dov’è il grembiulino d’ordinanza?»
«Eh… se
l’è mangiato il gatto, se l’è…» ribatté prontamente
Ramo, appoggiando da parte il libro e spostandosi sul letto per venire più
vicino a quello dove giaceva sdraiato lui; si appoggiò con le braccia conserte
sulla testiera dell’altro letto e lo guardò per bene, in quel modo in cui si
fissa una persona che non si vede da un bel po’ di tempo. Anche Danny aveva
quell’impressione con tutti loro, in fondo; come se i sogni che faceva lo
portassero molto lontano. E, in effetti, non poteva dire che non fosse così.
«Ho sognato…
» iniziò. Poi ci ripensò, scosse la testa, più che altro tra sé e sé, e lasciò
perdere, anche se era stato sul punto di chiedere a Ramo se ricordava la prima
volta che si erano incrociati. E soprattutto il modo in cui Ramo aveva avuto
bisogno di sedersi pesantemente su una sedia e mandare giù un paio di generosi
cicchetti, la prima volta che aveva scoperto la sua natura di lupo. «Niente… » riprese «Piuttosto, dottore, direi che la terapia
a base di antidolorifici può finire qua… che ne
dice?»
Ramo mosse le sopracciglia con
aria piuttosto divertita, dando segno di ritenere di saperne un po’ di più al
riguardo. «Guarda un po’… così oggi è il paziente che dice cosa fare. Beh, non
fraintendermi ora, ma… a dirla tutta è da un po’ che
ho diminuito gradualmente la dose, per poterti lasciare poi senza. Non è che
tendessi a usare la strategia di “aprirgli la bocca, schiaffare una manciata di
pasticche dentro, e quel che entra è la dose giusta”*… Anche se certe volte ne
avevo la tentazione. A dir la verità, avrei potuto usarti come esempio
straordinario per una ricerca scientifica, visto la velocità a cui guariscono
le tue ferite.»
«Oh, sì, mi vedo la scena… La prima dichiarazione pubblica della scoperta di un
‘lupo mannaro’. Magari ci sarebbe scappato il Nobel, eh?» celiò Danny,
nell’ironia generale.
«Guardala dal lato giusto.» fece
Ramo, parimenti sogghignante «Una volta rinchiuso dentro un qualche centro di
esperimenti su animali, avresti potuto scatenare un macello tale da tirarlo
giù. Il che è il minimo che si potrebbe augurare a posti del genere.»
«Sicuro.» approvò Danny, annuendo
«Mettiamo l’idea nel cassetto, non si sa mai.»
Ramo scoppiò a ridere, e gli ci
volle qualche secondo per riuscire a calmarsi a sufficienza da spiegare «Scusa… stavo immaginando come poteva uscire il servizio nei
telegiornali, sui ‘lupi mannari terroristi’, con il disegno del muso di un lupo
coperto con un passamontagna nero.»
Anche Danny ridacchiò. «Non male… non male… Sì, teniamocela
per il futuro, questa idea.»
«Quale idea?» esclamò Kumals, mentre entrava nella stanza spalancando la porta,
ignorando giovialmente ogni più basilare logica che riguarda il chiedere
permesso.
«Quella di insegnarti un minimo
di buone maniere, Kumals, naturalmente.» fece Danny,
piegando il capo all’indietro per guardare l’altro dal sotto in su, visto che
la porta si trovava dietro la testata del letto.
«Oh, vedo che ti sei ripreso.»
commentò Kumals, e il sarcasmo della sua voce non
riuscì a dissimulare la sincerità del sorriso che gli animava il volto. «Bene
bene, allora potrai sostenere le prime visite, no?» proseguì, rivolgendo un
gesto verso la porta aperta per invitare qualcun altro ad entrare.
Anche se Danny fremeva dal
desiderio di rivedere qualcuno in particolare, cercò di non rimanere troppo
deluso nello scoprire che ad entrare nella stanza, con timida cautela, erano
Justin ed il Conte.
Il primo aveva la consueta aria
svagata, e si appressò al fianco del letto, le mandibole intente
a masticare un chewingum e le mani in tasca; l’altro
aveva il volto ordinato in un’espressione di cordoglio e sollievo insieme, seriosamente compunto, e le mani giunte davanti al petto,
nella posa che, come Danny sapeva ormai fin troppo bene, preannunciava un
discorso.
«Ciao.» fece Justin, alzando una
mano in segno di saluto scansafatiche. Il Conte gli rivolse di sbieco
un’occhiata disapprovante; poi si chiarì la voce e si rivolse a Danny, il quale
si trattenne a stento dal permettere alle pupille di esprimersi in un eloquente
viaggio circolare verso l’alto. Tutto sommato, dovette riconoscere tra sé e sé,
non gli dispiaceva nemmeno rivedere quei due; se non altro, era una riconferma
del fatto che fosse ancora vivo.
«Danny carissimo. Non potresti
dipingerti con la fantasia, né potrei renderti con le banali parole che vado
ora a pronunciare, l’enorme vastità del mio sollievo nel saperti sano e salvo.
Se mi è possibile avanzare una personale riflessione, trovo che il tuo essere
ora purtroppo confinato in un giaciglio a causa delle ferite riportate, non sia
uno smacco al tuo valore in battaglia, ma anzi un pregevole segno di
distinzione: dunque, non una vergogna, bensì, e tutt’altro, un fregio del tuo
coraggio ammirevolmente sublime. Pertanto, ho ritenuto doverosodomandare al signor Kumals,
che ho saputo averti assistito in questi giorni di travaglio, il momento più
adatto per recarmi a rendere omaggio al tuo indiscutibile e pregevolissimo
intervento, determinante nello stabilire le sorti di quella che è stata una
delle più importanti vicissitudini nelle quali mi sono trovato coinvolto nella
mia modesta vita su questa terra. Posso dire fin d’ora con assoluta sicurezza
che essa non mancherà di rimanere nelle mie memorie, fino al momento in cui
esalerò l’ultimo respiro; e sarò sempre in debito verso di te e i tuoi insigni
colleghi per avermi permesso di collaborare a quella che, come penso verrà riportata,
abbia rappresentato un passo fondamentale della storia umana, per via del suo…»
«Ti stai divertendo…?»
mormorava intanto Ramo, rivolgendosi a Kumals, che si
era seduto sul letto di fianco a lui; sembrava che gli mancasse giusto un
sacchetto di pop-corn in mano per potersi godere la scena meglio di così. Come
per ovviare a questa mancanza, si stava d’altra parte arrotolando una
sigaretta.
Kumals non si diede la
pena di guardarlo, e, con la solita noncurante faccia tosta, si limitò a
ribattere «Secondo te se l’è proprio preparato scrivendolo su carta, e magari
scartando un paio di bozze, questo discorso, oppure gli viene spontaneo?»
«Secondo me Danny sta cercando di
comunicarti qualcosa… » gli fece presente Ramo, per
tutta risposta.
Kumals alzò gli occhi sull’allettato,
scoprendo che gli stava rivolgendo uno sguardo ineluttabilmente letterale, e
che era riassumibile pressoché in queste parole ‘Poi me la paghi, lo sai,
vero?’. Ciò sembrò rendere l’uomo molto soddisfatto, perché alzò
spensieratamente le spalle, e con un sorrisetto disse a Ramo «Oh, devono essere
ancora i postumi della batosta che si è preso… E
semmai, questo gli sta più che bene, visto che s’è preso la briga di farsi
sparare quando non ce n’era alcun bisogno, giusto per fare l’eroe drammatico della
situazione.»
A quelle parole, Ramo non seppe
bene cosa ribattere, sul momento. Poi, dopo aver riflettuto un paio di minuti
su qualcosa, disse «Beh… Volevo chiedertelo da un
po’… Ma quella pallottola che si è beccato Uther… ? »
Ma Kumals
scosse la testa con decisione, interrompendolo, e Ramo comprese che gli stava
ricordando che l’udito di Danny era troppo fine per pensare di escluderlo dalla
conversazione solo perché stavano parlando pianissimo e quasi l’intero rumore
di tutta la stanza era occupato dal discorso del Conte. «C’eri tu là, non io. E
Uther non ha parlato di questo, con nessuno; dovresti
saperlo.» rispose comunque, col tono di chi intende chiudere un argomento
definitivamente.
Ramo annuì, consapevole del suo
passo falso. Quando Uther voleva tenersi qualcosa per
sé, il massimo che si potesse fare, pur se si era tra le persone che potevano… “vantare”?... maggior familiarità con lui, era
cercare di indovinare e intuire, e tenersi rigorosamente nella propria testa le
conclusioni a cui si giungeva.
Justin era già arrivato a
sbadigliare per la seconda o terza volta, come accompagnando il discorso del
Conte, quando Danny disse, con indulgente cortesia «Scusami un attimo, Conte…». E si rivolse a Kumals
con decisione impudente, cogliendolo con precisione nel momento in cui, appena
portatosi la sigaretta alle labbra, stava per accenderla. «Hey…Kumals…»
L’uomo lo guardò, vagamente
interrogativo.
Danny sogghignò, aumentando
decisamente la naturale impudenza che gli stava rivolgendo. «Offrimi una sigaretta.»
disse, senza cenno alcuno al proposito di fare una domanda, quanto piuttosto
un’affermazione.
Kumals gli rivolse uno
sguardo significativo, e per qualche istante si fronteggiarono a quel modo;
alla fine, l’uomo si alzò dal letto e, con un mezzo sospiro, si trasse la
sigaretta di bocca. Facendosi strada senza complimenti tra il Conte e Justin,
il quale d’altra parte ora faceva sempre in modo di evitare che la sua distanza
dal vecchio pastrano stregato fosse inferiore al metro, si affiancò al letto, e
allungò la sigaretta a Danny, che, infilatala tra le labbra, se la fece persino
accendere con l’accendino. Kumals lo guardava con
sorniona presa in giro, pur assecondando la richiesta. Poi, come a rimettere a
posto le cose, si rivolse al Conte, dicendo «Continua pure, scusa
l’interruzione.»
Danny, nell’udire quelle parole,
gli rivolse uno sguardo conciso, e scosse la testa appena, con un sorrisetto
sospeso tra il proposito di futura vendetta e il presente riconoscimento di
essere stato battuto.
Il Conte riprese fiato, e
ricominciò da dove si era interrotto. Ascoltando le brevi rimostranze
all’indirizzo di Kumals che stava avanzando Ramo, pur
se nemmeno per un attimo illuso di poter essere preso sul serio, riguardo all’inappropriatezza delle sigarette per i degenti, e lasciando
che le parole altisonanti del Conte si perdessero nel loro stesso eco tra le
quattro mura della stanza, Danny si godette la sigaretta conplacido rilassamento.
In fondo, forse il presente non
era tanto malvagio, in confronto al passato al quale l’avevano riportato i suoi
sogni. Però sapeva benissimo, anche se tendeva a cercare di lasciare quella
consapevolezza in un angolo più remoto della testa, che da quando era stato
bucato da quell’ultima pallottola c’erano cose molto importanti che aveva
lasciato in sospeso, e che ben presto avrebbe dovuto affrontare. Gli premeva
farlo; e gli premeva rivedere quelle persone. Senza, continuava a sentire un
senso di incompletezza aleggiare tutt’intorno a lui nell’aria; e niente avrebbe
potuto scacciarlo, lo sapeva, nemmeno precipitare in un sempiterno sogno del
passato.
*
***
*
Kumals si alzò dal letto
per aprire la finestra, facendo così dissipare il fumo di sigaretta che aveva
iniziato ad avvolgere un po’ troppo cospicuamente la stanza. Si risedette sul
letto vuoto, cercando di staccare con qualche gesto distratto della mano i
ciuffi di pelo di gatto che erano rimasti attaccati al cappotto, e che
giacevano sparsi praticamente in ogni punto della stanza. Non sembrava ritenere
che questo fosse un gesto superfluo solo perché in effetti uno dei gatti più
grossi e vecchi della casa gli si stava giusto acciambellando in grembo, già
vibrando di rumorose fusa.
Danny lo fissava in silenzio,
pensierosamente.
Ramo aveva lasciato la stanza poco
prima, annunciando il proposito di andare a vedere se Valentine
era intenzionata a condivedere una doccia, e c’era
stata anche la dipartita di Justin e del Conte, il cui discorso doveva essere
durato pressappoco una ventina di minuti.
«Saranno quasi ventiquattr’ore che cerco di farla io, una doccia… » borbottò Kumals.
«Sembra quasi che lo facciano apposta… ». Aveva preso
ad accarezzare il gatto con fare abituato.
«Eh sì, devono essersi coalizzati
contro di te.» notò Danny, con finta comprensione, e in realtà un sorrisetto di
aperta provocazione.
Kumals gli rivolse un
cipiglio che pretendeva di essere severo, nonostante l’evidente divertimento.
Agitò a mezz’aria in un gesto sommario la mano con cui reggeva la sigaretta,
nella sua direzione. «Vedi di non allargarti troppo…
Prima o poi dovrai pur uscire da quel letto, no? Quanto a lungo pensi di poter
fingere di non essere ancora guarito? E, non appena starai sulle tue gambe, ho
intenzione di fornirti chiaramente le mie rimostranze riguardo al fatto di fare
gesti stupidi da kamikaze dell’ultim’ora.»
Danny sapeva che quella di
scatenargli contro i discorsi del Conte non poteva che essere l’inizio della
vendetta di Kumals. La cosa fastidiosa, era che gli
riconosceva ogni ragione di mettere in atto quella sua personale “lavata di
capo”; non per questo aveva intenzione di sottostarvici
così semplicemente. «In questo caso, spera che io non sia proprio guarito del
tutto, quando uscirò da questo letto… »
«In realtà, ho molti progetti… » annunciò con plateale calma minacciosa Kumals mentre si accendeva la sigaretta, abbassando lo
sguardo e socchiudendo le palpebre come se si stesse sollazzando nel rimuginare
sui suoi “progetti”.
«Oh, non vedo l’ora.» gli
assicurò Danny, non meno scherzosamente né meno minacciosamente.
Per un po’ tornò il silenzio,
mentre entrambi fumavano e si separavano, per condursi ognuno sulla propria
scia di pensieri.
Alla fine, però, Danny tornò a
guardare l’uomo, e si decise a dire ciò che da un po’ aveva messo da parte. «Allora… cosa vuoi dirmi?»
Kumals tornò a fissarlo,
con motteggiante sorpresa. «Prego?»
«Avanti, lascia perdere la commedia… » lo esortò Danny, sbuffando «Te ne stai lì come
se cercassi le parole.»
«E che ne vorresti sapere, tu, di
grazia?» lo riprese con un sorrisetto un po’ altero l’altro «Magari sto solo
cercando l’espressione migliore del mio repertorio per mandarti a quel paese.
Vedi, questa ad esempio è insufficiente. Magari ne dovrei coniare una apposta...»
Danny si limitò ad alzare un
sopracciglio e a mostrare una faccia annoiata, dando segno che era stanco e non
aveva tutta questa voglia di doversi mettere a cercare di cavargli le parole di
bocca con le pinze, dopo averlo figurativamente – o magari anche letteralmente
– legato.
Kumals studiò per un
po’ quest’ultima espressione; c’era qualcosa in Danny, da quando aveva preso a
risvegliarsi dal profondo sonno ricoverante, che gli ricordava il suo modo di
fare di quando l’aveva conosciuto tempo addietro. Come se fosse tornato
indietro per recuperare qualcosa di sé, e ne fosse tornato più completo. In
compenso, Kumals sapeva fin troppo bene che questo
lato di Danny era capace di tenergli testa abbastanza da costituire un valido
avversario ad ogni migliore suo tentativo di prendersi gioco di lui. Certo,
avrebbe potuto ricorrere a quella scorta di cose che conosceva di lui, qualche
vecchio particolare imbarazzante magari, per guadagnare vantaggio. Ma il fatto
era che ciò che doveva dire ora lo privava sgradevolmente della maggior parte
della sua voglia di scherzare e di prendere per i fondelli; il che non era
molto da lui. Così, finì per sospirare, esalando in tal modo le residue
intenzioni di avvalersi dell’ironia.
Danny se ne accorse, e la sua
espressione mutò rapidamente, divenendo più seria, stupita e preoccupata. «E’
così grave…?» si informò.
«Oh, tranquillo…
Non è che Andrea mi ha mandato a fare da messaggero…
anche se, francamente, non ho potuto fare a meno di notare che tutto il tempo
che avete passato insieme da quando siamo tornati qui, tu stavi dormendo
saporitamente.» fece Kumals. Il suo tono aveva
definitivamente rinunciato al proposito di suonare sarcastico, anche se nelle
parole lo era ancora un poco.
Danny si rabbuiò immediatamente.
«Riguarda lei?»
Kumals sembrò rendersi
conto dell’errore, perché scosse subito la testa in segno di diniego. «No, no… Non so perché l’ho tirata fuori, solo che… Beh, può darsi che c’entri anche lei, molto
indirettamente. No, no… come non detto…
a ben pensarci, non deve c’entrare, non in quello che voglio dirti io… Lei è arrivata molto dopo, in effetti, e anche se tutto
questo…Hum… Ricominciamo
da capo?» propose infine, con fare pratico.
Danny lo studiava con evidente
perplessità; non ricordava di aver mai visto Kumals
tanto in difficoltà, salvo forse quella volta in cui aveva dovuto spiegare a
Ramo come mai, in sua assenza, avessero usato alcuni dei ferri chirurgici che
aveva dimenticato nel vecchio quartier generale dei ‘4 di picche’
come posate. Naturalmente, i suoi tentativi di evitare di menzionare il motivo reale,
ovvero che nessuno aveva voglia di lavare le posate vere e proprie, tutte
sporche, e che avevano sperato di farla franca limitandosi a lavare gli
strumenti dopo averli usati, erano risultati piuttosto fallimentari in
confronto all’incazzatura magistrale di Ramo. Si limitò ad annuire, accettando
la proposta.
«Bene.» riprese Kumals, lieto, ma non meno in difficoltà; si poteva notare
principalmente dal contegno che si ostinava a dimostrare, passando da un gesto
inutile all’altro, come lisciare il suo lurido pastrano, concentrarsi
eccessivamente sulla misura delle carezze che stendeva sulla schiena del gatto,
mirare con un surplus di attenzione a centrare il posacenere ciccando la cenere
dalla sigaretta, o girando lo sguardo intorno per la stanza per fornire la
forzata impressione di sentirsi perfettamente a suo agio.
Ritornò a calare il silenzio, ma
Danny si guardò bene dall’interromperlo per primo; iniziava a sospettare
seriamente di non voler sentire per davvero ciò che Kumals
ci teneva a dirgli. E sembrava che anche per l’altro parlare rappresentasse al
momento l’equivalente di una visita al dentista nel corso della quale si dovrà
rinunciare a tutti i propri denti, estratti uno per uno senza anestesia.
«Allora…
» riprese Kumals, discorsivamente, mantenendo lo
sguardo fisso su una ragnatela in un angolo del soffitto, come se la trovasse
estremamente degna di tutto quell’interesse «… Non dovrei dirti ciò che sto per
dire, per iniziare.»
Danny si alzò un po’ sul gomito,
col braccio sano, per guardarlo meglio. «E anche per finire, direi. Cosa si
suppone, che quindi io dovrei far finta di non ascoltarti?»
Kumals lo guardò negli
occhi, con l’aria di ponderare con attenzione l’idea. «Forse non dovresti
proprio ascoltarmi sul serio, non solo per finta, cioè…
»
Danny scosse la testa, lievemente
spazientito. «Oh, andiamo… » lo riprese «Sono qui in
un letto da giorni, e non sono sicuro di potermi ancora alzare in piedi come si
deve, e mi vieni a parlare proprio ora. Che tu te ne renda conto oppure no,
sembra che hai scelto il momento migliore per mettermi alle strette e
praticamente costringermi ad ascolarti.»
Kumals ebbe un breve
moto di incertezza, rendendosi conto dell’inappellabile sensatezza di quelle
parole, ma si riprese molto in fretta, e senza battere ciglio osservò «Non
proprio. Potresti sempre tapparti le orecchie e cantare a squarciagola, mentre
parlo.»
Danny iniziò a mostrare seri
segni di averne abbastanza. «D’accordo. Ora: deciditi. Non si può fare entrambe
le cose. O parli o taci, fine. Mi sembra semplice.»
Kumals strinse le
labbra in una smorfia di acceso rimprovero, e stavolta il suo viso assunse i
toni di un ammonimento quanto mai serio. «Credi che starei qui a blaterare
sconclusionatamente come un decerebrato qualsiasi, se fosse ‘così semplice’?»
domandò, suonando caldamente terrificante per un momento, come se la sua intera
sagoma avesse ampliato i propri contorni in qualcosa di più grande e più
decisamente minaccioso.
Danny abbassò un po’ il viso,
guardandolo più dal sotto in su; se avesse avuto un paio di orecchie in quel
momento, sarebbero state probabilmente abbassate e stese verso l’esterno. In
quel gesto istintivo, più tipico di un lupo che di un essere umano, Kumals poteva leggere segno di parziale resa e scusa. Se le
fece bastare, e tornò a calmarsi . Eruppe in un leggero sospiro, di una pazienza
che sembrava rivolta tanto a se stesso quanto ad altri, e riprese a fumare e a
parlare in tono più pacato.
«Tu sai bene i motivi dello
scioglimento dei ‘4 di picche’… no?.» domandò.
Di tutto ciò che si stava
immaginando Danny, questo non vi rientrava affatto. Annuì piano, attentamente.
«Perché Ramo aveva preso a lavorare, e Valentine, con
la quale si era messo insieme, non riusciva ad adattarsi alle nostre… “faccende”. Perché tu e Yuta
vi eravate lasciati, e, francamente, eravate anche più insopportabili di prima,
anche se sembra impossibile. Perché Zoal e Yuta iniziavano a sentire il bisogno di riposarsi,dedicarsi ad alcune loro ricerche, e
abbandonare la città per un luogo più… più come
questo. Perché ormai non guadagnavamo così tanti soldi, e tu e Uther avevate iniziato ad accarezzare l’idea di cercarvi
altri lavori. Forse perché tutte queste cose, tutte insieme, non ci
permettevano più di continuare a mantenere il gruppo unito come prima, e
altrettanto efficiente. E perché i tempi sono cambiati, e le persone vanno
sempre in cerca di scienziati, di spiegazioni razionali e inappellabili, di
capri espiatori scelti a preferenza, e quant’altro… e
i nostri ultimi clienti erano tutti visionari e/o disperati che andavano alla
ricerca di qualcuno che potesse ingannarli con facili e consolanti fandonie
sull’aldilà e l’immortalità dell’anima o roba da guru orientaleggiante.». Danny
si interruppe per un momento, come rivalutando tra sé e sé tutto ciò che aveva
menzionato. «Perciò, sì, li so bene, i motivi.» mormorò infine.
Era doloroso, sì, ancora; ma ora
si rendeva conto che, da dopo che era passato attraverso gli ultimi giorni, e
che ci era passato insieme a loro, di nuovo tutti insieme, con preziose
aggiunte, si sentiva abbastanza forte da rievocare con parole chiare e concise
quanto era stato. Non aveva più bisogno di rifugiarsi nella dimenticanza, nel
lasciarsi alle spalle ciò che non si può fare a meno di portarsi appresso
ovunque si vada, qualsiasi peso abbia. E forse era anche a causa di quei sogni,
che ora, senza nemmeno poterlo realizzare chiaramente, si sentiva come se fosse
tornato in sé, come se, paradossalmente, sognando si fosse risvegliato
completamente. Li ricordava, anche se non in modo completamente preciso, quei
sogni, e il passato che avevano rievocato. Quel passato che non sapeva come
aveva fatto a lasciare tanto lontano dietro le sue spalle.
Kumals, che aveva
ascoltato, occasionalmente annuendo piano, o aggrottando un po’ le sopracciglia
in occasione della menzione di lui e Yuta, con lo sguardo
rivolto accuratamente sui suoi piedi, lo alzò lentamente su di lui, e lo fissò
con penetrante moto di sincerità. «Ebbene, ti sbagli.»
Danny trasecolò leggermente, e lo
guardò con serietà aggrottata. «Su cosa?»
«Sul fatto che conosci tutti i
motivi. C’è una ragione della quale non sei mai stato consapevole. E, ti prego
di non fare quella faccia. Non è che abbiamo tutti cospirato alle tue spalle
per mantenerti all’oscuro, o qualcosa del genere. Anzi, ti garantisco che sono
quasi certo che anche altri di noi, giusto Ramo per dire, non ne sappiano nulla
esattamente come te. Perché… quest’ultima ragione non
è stata mai detta, né chi la porta ha mai fatto niente, o quasi, per lasciarla
trapelare. Se ce ne siamo accorti, io, Yuta e Zoal, è stato solo per intuizione, diciamo così. Beh,
scusami la franchezza, Danny, ma tu e Ramo sembrate due idioti ciechi, sordi e
muti quando si tratta di certe cose, quindi è inutile che poi te la prendi con
me!» terminò Kumals, con un tono più simile a quello
di perenne presa in giro che aveva di solito, ma anche piuttosto nervoso.
Danny ascoltò attentamente ogni
parola. Ed infine annuì. «Bene, e quale sarebbe questa preziosa rivelazione che
io e Ramo non avremmo colto?» disse infine, con testardo auto-controllo.
Kumals non ebbe fretta
nel rispondere, e prese a misurare le parole anche più cautamente di prima, se
possibile. «Ramo non c’entra. Cioè, sì, probabilmente sarebbe stato più
corretto se lo avesse saputo anche lui… Ma il punto è
che questa cosa non ci riguarda davvero tutti. È stata una delle cose che ha
spinto chi aveva capito a prendere la decisione di scioglimento del gruppo,
insieme a tutte le altre; ma, allo stesso tempo, non potevamo dire qualcosa che
appartiene solo ad una persona, a livello personaleper così dire. Per questo nessuno di noi te
ne ha mai parlato prima. E, per la verità, nemmeno io avrei il diritto di
dirtelo ora. Ma, visto come stanno certe cose, ho preferito prendermene il
diritto. Forse non tanto perché penso che tu debba saperlo…
anzi, sicuramente non è così che dovresti saperlo, semmai dovessi…
» Kumals si interruppe giusto per evitare di ripetere
la stessa parola per la terza volta, rendendosene conto appena in tempo. Chiuse
gli occhi per un momento, come per concentrarsi maggiormente, e riprendere il
filo del discorso.
«Kumals…
se giri ancora così intorno al punto mi inizierà a girare la testa sul serio.»
fece presente Danny, con gentilezza tuttavia. Gli sembrava di poter comprendere
Kumals nella sua difficoltà di parlare, anche se non
aveva la più pallida idea di che cosa accidenti stesse parlando, o forse
cercando di non parlare.
Kumals prese atto di
ciò, e riprese fiato con profondità. Lasciò definitivamente perdere il
mozzicone di sigaretta, abbandonandolo nel posacenere, spinse il gatto via dalle
sue gambe con ferma gentilezza e si chinò in avanti, appoggiando i gomiti sulle
ginocchia e incrociando le dita delle mani unite, guardandole pensosamente.
«L’ultima ragione riguarda Uther.»
Danny sentì il procinto di
un’indistinta ma sgradevole sensazione. «Non dev’essere
una malattia terminale, visto che è bello che vivo e vegeto tutt’ora… »
constatò, tentando un debole sogghigno, e riuscendovi decisamente male.
«A meno che non si tratti di una
cirrosi epatica cronica…» commentò ironicamente Kumals, ma poi sembrò riaversi dal momento di
sdrammatizzazione con pronta auto-disciplina, ritornando serio, e dando
l’impressione, per una volta, di sentirsi colpevole della battuta. «Comunque,
c’era qualcosa che non poteva più sopportare. Non ce la faceva più, e potevo
leggerglielo meglio io addosso di quanto potesse forse riuscire ad essere
onesto con se stesso per primo. Ha insistito a voler fare la parte della
“vittima” della situazione, continuando a tacere, e andarsi a fare un giro da
qualche parte quando si sentiva cedere, per i cavoli suoi, come ha sempre
fatto, che sia dannato se ha mai permesso a qualcuno di essergli un minimo
vicino in quel momento. D’altra parte, è passato un po’ di tempo, e ora sembra
cavarsela un po’ meglio… anche se credo stia facendo
una specie di prova di resistenza sul breve termine…
e in effetti non ho mancato di assicurarmi a che punto stava la sua resistenza
di tanto in tanto, con qualche provocazione accuratamente misurata, come è mia abitudine… ho rischiato grosso talvolta, ma con sprezzo del
pericolo quando si tratta di cercare di capire a che punto…
»
«Kumals?»
chiamò Danny, visto che l’uomo sembrava aver preso una deriva in cui parlava
soprattutto con se stesso.
E in effetti l’altro lo guardò
come se si fosse quasi dimenticato della sua presenza, e nel realizzare che
l’aveva interrotto si mostrò estremamente irritato. «Senti, sto cercando di
fare un discorso non facile. Se potessi farmi il favore di stare zitto un momento…»
Danny fece il gesto di chiudersi
le labbra con un’immaginaria cerniera, ubbidientemente.
Kumals annuì con
soddisfazione. «Bene, quindi, come dicevo…sì…cioè… dov’ero rimasto…?»
Dopo qualche istante, Danny alzò
un dito, come si fa a scuola per chiedere il permesso di parlare. Kumals lo perforò con lo sguardo. «Sì, sì! Cosa c’è?»
Danny rifece il gesto di prima,
stavolta come per riaprirsi le labbra. «Posso parlare?» domandò. Ma non aspettò
risposta, ritenendo l’occhiataccia dell’altro più che sufficiente. «Allora: che
cosa Uther non poteva più sopportare?»
Nonostante la domanda fosse molto
semplice, per qualche motivo Kumals sembrò
precipitare in un difficoltoso stato d’incertezza. Abbassò il capo come sotto
il peso di un dilemma, infine, quando rialzò lo sguardo su Danny, fu per
mormorare «Non ce la faceva più a far finta di niente…»
«Su cosa…?»
incoraggiò Danny.
«Con te…»
sussurrò Kumals, così piano da risultare a stento
udibile.
Danny fece un’espressione molto
scetticamente stupita. «Non mi pare che mi detesti a tal punto…
» osservò ragionevolmente.
Kumals spalancò gli
occhi, fulminato, poi si alzò in piedi e prese ad agitare le braccia camminando
per la stanza in preda all’esasperazione. «Ma sei completamente scemo, allora?
Ma perché, perché mi chiedo vengo anche a provare a dire le cose, quando so
benissimo che qui nessuno capisce mai niente di niente se non viene messo per
iscritto con le indicazioni… Ah! Ma allora forse
tanto vale fare tornare il Conte per darti l’annuncio con un discorso di una
mezz’oretta, ammesso che si riesca ad estrapolare qualcosa di sensato tra tutto
quell’arzigogolare ricercato… Ma non è che non ci
abbia provato, comunque vada, che diamine, io ci ho provato, no?!» e via
discorrendo.
Danny lo guardò con seria
preoccupazione, chiedendosi se gli avesse dato di volta il cervello o fosse più
semplicemente preda di una crisi di nervi coi controfiocchi; poi si ritrovò Kumals piantato di fianco al letto, le gambe un po' larghe
per tenersi ben saldo sul posto, un’espressione terribilmente scontrosa in
volto, e le braccia incrociate sul petto. «Danny, ma tu rifletti mai, prima di
parlare?» lo interpellò brutalmente.
Il ragazzo gli rivolse uno
sguardo imbronciato; tuttavia, doveva ammettere che se Kumals
si abbandonava ad una simile scenata, doveva aver detto qualcosa di
particolarmente stupido. D’altra parte… «Beh, e tu
riesci mai a spiegarti in modo da farti capire?» ribatté.
Kumals lo guardava in
un modo sempre più terrificante, e sembrava deciso a far incombere su di lui
tutta la sua altezza. «Danny, prenditi un momento… »
consigliò, con minaccia trattenuta sul ciglio dei nervi, stringendosi la base
del naso tra il pollice e l’indice, strizzando gli occhi chiusi «Riflettiqualche istante…
poi, dimmi dove ero fraintendibile…»
Allora Danny si mise di buona
lena a pensarci su. Se non altro, sperava in tal modo di riuscire a dare pace a
Kumals. Ripassò mentalmente, con calma precisione,
tutte le battute del discorso, o almeno quelle che riteneva più significative,
scartando poco a poco le farneticazioni nelle quali si era smarrito Kumals di tanto in tanto. Alla fine, rimase con in mano il
concetto che Uther, in qualche modo, non tollerava
più la sua presenza, non a tal punto da poter mantenere ancora unito il gruppo
dei ‘4 di picche’; d’accordo, fino a qua c’era. Poi,
rimaneva il problema del perché. E se non era odio, o anche solo mal
sopportazione generale, del tipo che si poteva iniziare a coltivare nei
confronti di Justin e il Conte, ad esempio, se ci si viveva a stretto contatto
per sufficiente tempo, allora….
Kumals, che stava
spiando di sottecchi il viso di Danny, ai lati della mano con cui si stava
massaggiando la parte centrale della fronte e la base del naso, non si perse
nemmeno un passaggio delle espressioni che iniziarono a saettargli per i tratti
facciali; la maggior parte di esse riguardavano un continuo ri-palleggio
tra il diniego assoluto (e annessa convinzione di sbagliarsi) e il tentativo di
ricominciare qualche elaborato ragionamento da capo. Nel complesso, dava
l’impressione di qualcuno che stesse consumando preziose ore alle prese con una
formula matematica, ottenendo ogni volta lo stesso risultato, ma diverso
rispetto a quello che si aspettava. Aspettò pazientemente, mentre
parallelamente iniziava a calmarsi poco alla volta; e fu solo quando riconobbe
in Danny i primi segni di una resa allo stesso identico risultato che
continuava a uscirgli dalla sua “formula matematica” mentale, che riprese la
parola con molta più tranquillità. «Ci crederesti? Adesso ti sarei molto più
grato se dicessi qualcosa. Qualsiasi cosa, per la verità.»
Danny tornò a guardarlo, anche se
in un certo senso sembrava molto distante da lì. Alla fine, dopo lunghi e
faticosi secondi di silenzio, emise parola. «Oh.» mormorò, a mo’ di unico
commento alle conclusioni alle quali doveva essere giunto. Il suo tono era
chiaramente pregno della giusta serietà che Kumals
riteneva appropriata all’argomento; pur tuttavia, il fatto che quello fosse
tutto ciò che il ragazzo aveva da dire così sul momento, lo spazientì a tal
punto che per un attimo si sentì nuovamente sull’orlo di una nuova e peggiore
sfuriata. In qualche misteriosa maniera, riuscì a dominarsi abbastanza,
considerando il lato positivo della faccenda: quello lo esimeva dal soffermarsi
ancora a parlarne.
«Bene…
ora, visto che inizio a sentire un principio di soffocamento…
credo che andrò a fare quattro passi qui fuori… »
annunciò a Danny, il quale continuava a fissarlo come se fosse l’unico punto
fermo in mezzo ad una grande nebbia mentale.
Si girò e prese risolutamente la
via della porta, quando si sentì richiamare in tono incerto. «Sì?» disse, non
nascondendo l’urgenza di volersene andare il prima possibile.
Danny ci pensò su qualche
istante. «No…niente… »
disse, con aria vagamente traumatizzata, che forse assomigliava un po’ alla
faccia che dovevano avere fatto i contemporanei dei primi a proclamare
ufficialmente la rotondità della Terra, in contrapposizione alla precedente
teoria di Terra piatta e mari che precipitavano oltre i bordi.
Kumals avrebbe quasi
preferito la tortura fisica, a quel punto. «Perdiana, Danny!» imprecò
spazientito. «Forse sarebbe meglio fare finta che questa conversazione non sia
mai avvenuta.» rifletté.
Danny tornò a guardarlo, con
improvvisa e aperta sincerità. «Francamente… credo
che sarà un po’ difficile… » constatò genuinamente.
«Splendido!» esclamò Kumals con greve sarcasmo, prima di uscire e sbattersi la
porta alle spalle, abbandonando Danny alle sue riflessioni, qualsiasi esse
fossero, e ormai completamente persuaso che non avrebbe mai dovuto impicciarsi
in faccende altrui, per quanto potessero toccarlo da vicino. Trovò consolazione
solo nell’immaginario potersi calare un paio di solidi paraocchi sulla fronte
seduta stante.
* questa battuta l’ho ripresa
all’incirca uguale (non mi va di andare a ricontrollare, mi baso sulla memoria
và) da quella detta in qualche puntata di ‘Scrubs’
dal dottor Cox. Sospetto che in effetti Ramo la
conosca in guisa del fatto che Valentine è
un’appassionata di molti telefilm del genere di buona qualità, solitamente. Non
so se ‘Scrubs’ è “di buona qualità”, ma qualche volta
l’ho trovato godibile e divertente.
Soundtrack: Johnny, are youqueer? (JosieCotton) – non odiatemi, avevo avvertito fin dall’inizio
che il trash avrebbe avuto largo spazio!
In un certo senso sembrò una specie di quei percorsi tematici che dovrebbero spingerti a provare le sensazioni dell’esperienza reale; quella roba liofilizzata che potrebbero spacciarti in qualche parco o museo tematico, una delle versioni più moderne di quei venditori ambulanti che una volta potevano cercare di venderti sabbia colorata per ricordarti di una località marina. Fallendo miseramente, certo, nella rievocazione che intendono fare. Almeno, così cercava di pensarla Danny; sì, effettivamente cercava di ricavare una distanza di qualche genere da quella forte impressione che aveva di nascere di nuovo, mentre camminava piano, con cautela quasi, lungo il corridoio quasi completamente al buio.
Il suo sangue era umano e canide, giammai felino, pertanto non poteva contare su una buona visione al buio; si affidava al contatto del pavimento sotto i piedi, infilati in ben tre strati di calze pesanti. L’assenza di suola di scarpa gli rendeva un senso di maggiore percezione del terreno sotto i piedi, e quindi una migliore sensazione di equilibrio. Un equilibrio un po’ incerto a dirla tutta, come se stesse reimparando come si camminava esattamente. Il braccio pesantemente fasciato gli pendeva dal collo, appoggiato alla sciarpa con cui se l’era legato, e faceva di tutto per muoverlo il meno possibile, mentre con l’altro si affidava al contatto del palmo della mano sulla parete, seguendo quella, pur senza appoggiarvisi di peso. Una parete a fianco e il pavimento sotto ai piedi, oltre alla memoria di come era il corridoio del piano superiore della casa di Yuta e Zoal: in tal modo percorse quei metri dalla stanza degli ospiti che si era alfine lasciato alle spalle, giungendo sulla cima delle scale. Qui si fermò un momento a riposare, sforzo più altro che fisico, e una certa soddisfazione di sé che gli aleggiava intorno e dentro, come se il più fosse fatto.
Fu con una certa lievitata confidenza che scese uno alla volta gli scalini, quasi baldanzosamente a quel punto. Se qualcuno lo avesse visto in quel momento, avrebbe potuto apprezzare la strana impressione che gli mancasse una coda da portare un po’ alta, con una fierezza molto semplice e profonda, di auto-realizzazione. E se qualcuno avesse pensato che fosse eccessiva rispetto a quello che stava facendo, si sarebbe sbagliato di molto dopotutto.
Anche il piano terra era perlopiù affondato della penombra, quando raggiunse la base della scala; ma i suoi sensi non mentivano in proposito: qualche metro più avanti giungeva il chiarore e il rumore che proveniva dalla cucina illuminata. Attraversò pertanto il salotto buio e deserto, ormai ansioso per l’anticipazione che giungeva dall’unica stanza illuminata dalla luce e dal suono delle voci, la porta socchiusa.
Fu praticamente con furtività che allargò un po’ lo spazio aperto della porta, sistemandosi sulla soglia, senza dire nulla e senza produrre rumore, attendendo semplicemente che si accorgessero di lui; e nel frattempo, ne approfittò per godersi la scena da spettatore inosservato, sorta di voyeur.
«Ma non è vero!» esclamò Yuta piccata, voltandosi a guardare Kumals; seduto sulle sue ginocchia, Duca si beava delle sue carezze con aria piuttosto regale, guardando in giro per la stanza affollata con pigra indifferenza.
Kumals fece vibrare la sigaretta sull’orlo del posacenere e un suo sopracciglio tremolò visibilmente, tradendo il suo divertimento. «Come no? Ero lì. Gli hai tirato uno schiaffo colossale.»
«Era ubriaca, non può ricordare così bene.» osservò con calma Zoal, seduta su una vecchia poltrona mezzo sfondata, nell’angolo più caldo della cucina, accanto alla stufa. Nel vederla, Danny si sorprese e sussultò, e sentì gli occhi pizzicargli di un sentimento intenso che assomigliava forse alla commozione.
Yuta si voltò a lanciare uno sguardo con un che di risentito alla sorella. «Adesso, non ero proprio ubriaca nel vero senso del termine… d’accordo, forse avevo bevuto qualcosa, ma non è che… »
«Comunque se lo meritava.» commentò Kumals. «Per quello che ti aveva detto.» precisò.
«E cosa le aveva detto?» domandò incuriosito Justin, seduto su uno sgabello vicino alla porta che dava sull’esterno della casa, con l’aria di chi tenta strenuamente di rendersi molto partecipe in una vicenda della quale non sta capendo molto suo malgrado.
Valentine, forse per il solo sentire la sua voce, roteò gli occhi con sopportazione. Ramo, sulle gambe del quale era seduta, abbozzò un lieve sorriso, abbassando un po’ il volto per non farlo notare eccessivamente.
Qualcuno si schiarì la voce; Danny non poteva vederlo, da dove si trovava, ma riconobbe la tonalità tipica del Conte. «Justin, hai sempre avuto la sgradevole abitudine di seguire poco accortamente le fasi di una conversazione, ma in certi casi si potrebbe quasi certificare che la tua mal’attenzione sia eccessivamente spregiudicata. La signorina Yuta ha già detto che la persona in questione aveva avanzato un ben poco cortese apprezzamento sul suo modo poco politicamente corretto di esprimersi.»
«Beh, ma non è stato quello che mi ha fatto uscire dai gangheri.» fece Yuta, mettendosi più comoda sul bancone, sul quale sedeva a gambe incrociate, sgranocchiando le arachidi che sbucciava una ad una, pescandole da un sacchetto aperto, appoggiato di fianco ad un bicchiere semi-pieno di una sostanza colorata e zuccherosa, che aveva tutta l’aria di essere una bevanda d’aperitivo preparata in casa miscelando il contenuto di diverse bottiglie.
«No?» fece Kumals. Dal suo tono era chiaro che conosceva già bene la storia, ma che intendeva agevolare il meglio raccontarla anche agli altri che la sentivano per la prima volta.
«Certo che no. Chi se ne importa di che cosa ha nella testa certa gente riguardo alla correttezza con cui c’è da trattare certe tematiche.» espresse Yuta senza problemi. «Il fatto è che definì i miei orecchini ‘semplicemente orrendi’, o qualcosa del genere.»
«Per questo lo ha schiaffeggiato.» spiegò Kumals, come se non fosse già evidente. C’era un sorrisetto all’angolo delle sue labbra che attirò un’occhiata torva da parte della protagonista della vicenda.
«Infatti.» disse Yuta, il tono quasi sbuffante, come se sfidasse qualcuno a dirle che non aveva fatto benissimo a farlo.
«Erano i tuoi orecchini preferiti, allora, se non sbaglio.» osservò Zoal, sempre in tono pacatamente gentile. «Quelli a forma di fragola blu elettrico.»
«Già. A proposito, dove sono finiti poi?» ribatté Yuta, improvvisamente preoccupata.
«Devono essere su nella tua stanza da qualche parte.» rispose Zoal, con fare tranquillizzante, ed era impossibile stabilire se stesse affermando qualcosa in cui credeva veramente. Non per niente, Yuta le studiò per un po’ il viso con aria poco convinta, ed una certa smorfia sospettosa, forse cercando di ricordare se aveva mai sentito anche solo un cenno riguardo alla possibile reale fine dei suoi ex-orecchini preferiti.
In quel momento Danza, che stava sonnecchiando ai piedi di Zoal, balzò sulle quattro zampe, svegliandosi di colpo; gli altri la guardarono senza grande sorpresa, forse ritenendo che si fosse svegliata con gli strascichi di un sogno particolarmente animato. Ma quando la cagna balzò di corsa verso la porta, quasi inciampando nelle zampe allungate di Mama, che si svegliò a sua volta e mostrò subito il fastidio per la bruschezza di quella sveglia, gli sguardi di tutti si concentrarono in quella direzione.
L’unica cosa che fece Danny fu cercare di sottrarre un po’ il braccio fasciato dall’impeto del saluto di Danza, accogliendola nell’abbraccio affezionato che gli somministrò a suo modo, finendo con le zampe anteriori alzate contro il suo petto, e la lingua e il muso che gli raggiungevano il collo e il mento, leccandolo e guaendo per l’emozione. Danny rise, un suono che sorprese lui per primo per la spontaneità e la brillantezza con cui risuonò nella stanza, improvvisamente sprofondata nel silenzio per la sorpresa della sua comparsa.
«Guarda guarda… » commentò Kumals «… chi ci degna della sua visita… »
Yuta sorrise profondamente, senza dire nulla.
«Danny! Finalmente!» esclamò allegramente Valentine, alzandosi e andandogli incontro per abbracciarlo e stampargli un bacio sulla guancia, lasciandogli una vaga impronta del rossetto rosso cupo. Si soffermò a studiargli il viso con attenzione che si sarebbe potuta dire di sapore praticamente materno. «Come stai?» indagò.
Danny la guardò come se si stesse rendendo conto solo in quel momento di non essersi preparato una risposta, nemmeno per una domanda così scontata. Sorrise. «Ora bene.» mormorò.
Zoal si tirò lentamente in piedi, e per quel solo movimento sembrò che una strana atmosfera di composto silenzio prendesse possesso della stanza. Il gesto, per quanto semplice, parve costarle un notevole impegno, un paziente sforzo, che tuttavia eseguiva con sentito piacere. Mama si alzò quasi di concerto, e Danny, come tutti gli altri, notò bene il modo in cui l’enorme alano affiancò e seguì i passi della donna, con un fare protettivo e solidale ben espresso dai suoi modi decisi.
Entrambe si fecero incontro a Danny, e il ragazzo, per quanto avrebbe voluto farlo, non si lasciò ingannare nemmeno per un istante dal sospetto che andare loro incontro fosse la cosa migliore da fare; tutt’altro. Attese immobile lì dove si trovava, mano a mano che Zoal, arrivando a fermarsi a pochi centimetri da lui, sembrava paradossalmente andare in dissolvenza mano a mano che gli si avvicinava. Intuì a cosa era dovuto quell’effetto. Ella si fermò immobile di fronte a lui, lasciandogli per bene il tempo di vederla chiaramente, in ciò che era ora.
Gli occhi blu scuro di Danny corsero con rapida calma dal pallore della pelle del viso al colore verde delle pupille che appariva come annacquato, di una straordinaria fragilità, che per contro rendeva più evidente aldilà una forza profonda, di cui non era dato riuscire a vedere fin dove arrivava e fin dove poteva arrivare; procedettero sul modo in cui la pelle sembrava essersi rammollita, facendo un po’ risaltare il contorno delle ossa in certi punti, come in corrispondenza degli zigomi, delle tempie e delle dita, e il fatto che ora le ciglia e le sopracciglia e il resto della peluria era di un color cinerino. Nella chioma originariamente castano scuro, con notevoli sfumature rossicce, erano comparse delle sottile ciocche di singoli capelli ingrigiti, come slavati e sbiancati. Fu nel vedere questi ultimi che Danny sentì infine chiaramente un procinto di lacrime premere dietro i suoi occhi; fece di tutto per ricacciarle indietro, ma era sicuro che Zoal avesse visto il loro luccichio.
«Oh, Zoal…» mormorò Danny, pianissimo, la voce ad un passo dall’incrinarsi seriamente. E l’istante successivo aveva sporto il braccio sano per stringerla in un abbraccio che la donna ricambiò prontamente, come se non avesse atteso che quello, pazientemente, alla fine del suo rivederla in quella nuova luce.
E fu quando udì che gli diceva piano, in modo che sentisse solo lui, quelle parole, che si sentì sul punto di iniziare a piangere sul serio, e non ebbe idea di come riuscì a non farlo.
«Mi hai fatto preoccupare davvero, questa volta… » mormorò Zoal, nel suo tono basso e, ora, particolarmente sommesso. «Sono contenta di rivederti, sciocco lupo.» sussurrò, un momento prima di sciogliersi dall’abbraccio, lentamente, e tornare a guardarlo. Stavolta, egli capì che gli stava decisamente chiedendo di non piangere sul serio. Solo allora comprese perché riusciva a non farlo.
*
***
*
«Vorrete scherzare!» si animò per l’ennesima volta Danny, rischiando di rovesciare la cioccolata calda, opportunamente corretta con un po’ di grappa, che riempiva la tazza fumante che stringeva nella mano del braccio sano.
«No, per niente.» gli rispose Kumals, ignorando volutamente la retoricità della sua esclamazione.
Fino a quel momento l’uomo aveva fatto di tutto per monopolizzare il racconto di ciò che era successo a lui, Zoal, Justin e il Conte, e persino Yuta alla fine, riconoscendo quanto gli procurasse piacere poter essere il solo a raccontare e confondere allo stesso tempo le idee a Danny, aveva moderato il numero delle sue intrusioni nella narrazione.
Danny mostrò di voler ignorare per l’ennesima volta i provocatori commenti che Kumals era abile nell’inserire a seguito di ogni suo commento, e divenne ancora più rimuginante. «’Collins’…» mormorò riflessivamente, come se assaggiasse con un certo perplesso sospetto il nome «…non mi dice niente…»
«Non vedo perché dovrebbe dirti qualcosa. Non mi pare che tu ti sia mai dedicato alla lettura di prestigiose riviste scientifiche. In ogni caso, probabilmente il suo nome non è mai comparso su alcuna rivista; deve essere stato estromesso dalla comunità scientifica molto prima di poter arrivare a tale “privilegio”… per ragioni morali. O meglio, perché tutti fingono almeno apparentemente di averle, anche perché questo consente di rimpinguare gli stipendi di chi viene inserito nelle commissioni etiche. Collins, invece, doveva avere l’abitudine di rivelare i suoi scopi e le sue ambizioni senza mezzi termini e senza patine di bella presentazione. E deve averla fatta veramente grossa per arrivare ad urtare quel residuo microbico di morale che rappresenta la media forse realmente posseduta dalla comunità scientifica in generale.» ribatté Kumals.
Danny gli indirizzò uno sguardo torvo. «D’accordo. In ogni caso, non credo che mi rimarrà molto impresso in ogni caso, questo nome.»
«Condivido.» si limitò a dire Kumals, sorseggiando il suo aperitivo.
«E quindi… il motivo per cui non stiamo aspettando l’arrivo di una parte dell’esercito nazionale qui alla porta è che… ?» continuò Danny, tentando ancora testardamente di avere un quadro più complessivo della situazione.
«Perché Kumals, qui, ha un ben calibrato modo di fare delle minacce assestate, e sa a chi farle.» venne in aiuto Yuta, rendendosi conto forse troppo tardi di avere in tal modo espresso quello che, a tutti gli effetti, poteva sembrare un complimento. Fece una smorfia conscia dell’errore, mentre Kumals le rivolgeva appositamente un finto sorrisetto untuoso, sapendo di colpire nel segno con quello.
Per qualche motivo, Justin era impallidito e aveva preso a tremare leggermente, e Danny, che era abbastanza vicino a lui per accorgersene, gli lanciò un’occhiata incuriosita, alzando un sopracciglio sospettoso; lo fissò con quello sguardo che si potrebbe rivolgere alla probabile vittima di pesanti molestie.
«Mi ha fatto scrivere l’e-mail… l’ho scritta io… l’ha dettata lui, parola per parola, ma l’ho scritta io…» prese a sussurrare Justin, in tono spezzato e scosso.
«Non è che ci sia la tua calligrafia, Justin. Avanti, calmati, nessuno può veramente sapere che l’hai scritta tu.» fece Kumals, infastidito.
Justin lo guardò con un principio di speranza di salvezza che faceva pallidamente capolino, palesandosi in un sorriso stentato sulle labbra riarse, lo sguardo che esprimeva un sentito e semi-disperato ‘Davvero…?’.
Tutti gli altri riconobbero benissimo il sorrisetto da basilisco che comparve a quel punto sul viso di Kumals, mentre i suoi occhi si stringevano appena, in quella maniera sinistra tipica di chi è sicuro di avere la sua preda ormai in pugno. «Oh, certo, a parte tutti quelli che sono qui presenti in questa stanza, che ora, dopo che lo hai detto, sanno esattamente che sei stato tu.» osservò Kumals, abbassando lo sguardo sul bicchiere con una nonchalance magistralmente studiata.
Danny aveva già alzato gli occhi al cielo al solo sentire le prime parole della replica di Kumals, ma poteva comunque immaginare la reazione di Justin; il ragazzo sprofondò in un silenzio di piombo, denso di tensione, e dopo aver sbarrato gli occhi prese a guardarsi in giro per la stanza, studiando le facce degli altri con quella sospettosità maniacale tipica della pura paranoia incipiente, di quella che ti riduce in briciolo i nervi in pochi secondi. I capelli e i peli gli s’erano rizzati per tutto il corpo e sembrò che si potesse quasi sentire il rumore del suo equilibrio psichico che si incrinava paurosamente.
‘Tre, due, uno…’ iniziò a contare mentalmente Danny.
«Ma voi non lo direte a nessuno, è chiaro!» esplose Justin, praticamente gridando, e scrosciando allo stesso tempo in una risata forzata e isterica che gli rompeva le parole a metà. «Certo che no! Siamo complici, giusto? Siamo tutti dentro a questa storia, quindi nessuno qui farebbe la spia sugli altri, è logico! Anzi, avete sentito tutti, sì, lo sapete benissimo che non l’ho davvero scritta io quell’e-mail, no. Si potrebbe dire che praticamente mi ha costretto a farlo. Era una situazione disperata, non ero del tutto lucido e…»
«Justin!» tuonò Yuta; e per quanto il suo tono e il suo viso fossero lividi di cupa autorità, il suo gesto apparve agli altri molto misericordioso. «Piantala! Nessuno ha scritto niente qui, fine.»
Justin la fissò per qualche istante, incerto, insicuro, come se non avesse più idea di che cosa stesse succedendo né di dove si trovava. «Giusto…» mormorò infine, tremando ancora «Giusto… Nessuno ha scritto niente… Nessuno… proprio nessuno…» e fece un debole risolino storto.
Danny sospirò appena, e assestò una pacca che voleva essere confortante sulla spalla del suo ex – o forse ancora attuale – coinquilino, il quale reagì tuttavia con uno scatto incontrollato di allarme, come se avesse presentito che qualcuno stava tentando di accoltellarlo alle spalle. Danny rinunciò ai suoi propositi consolatori, riconoscendo che non aveva idea di come metterli in pratica, al momento.
«Justin… » esordì il Conte, alzandosi in piedi con la sua solita eleganza di modi, ordinando con pochi gesti un po’ svolazzanti i lunghi abiti integri che aveva indossato fin da quando era tornato dalla sua speciale, e perlopiù incosciente, spedizione, e che rappresentavano comunque solo un quinto della totale quantità di vestiario che aveva portato con sé. «Ti dispiacerebbe venire con me in soffitta, ora? Mi rendo conto di avanzare con questo una richiesta di collaborazione molto importante, ma ti sarei molto grato se tu volessi aiutarmi ancora una volta nel riordinare le pagine dei miei appunti e delle mie memorie. Si tratta di un lavoro che richiede un impegno e una responsabilità notevoli, come tu già ben sai, ed avendolo tu eseguito ottimamente in questi ultimi giorni, sono certo di poter dire che non lo chiederei a nessun’altro se non alla tua persona.»
Justin fissò l’altro con sguardo ancora vacuo. «Sì… va bene… » asserì, per poi avviarsi dietro al Conte a passi strascicati, come se avesse chili di pietra legati alle caviglie.
«E’ stato un raro piacere intrattenermi con voi in questa conversazione, amici e amiche. Sarò felice di poterla replicare nelle prossime ore. Ora, però, scusatemi, ma considerata l’ora, mi aspettano ore di lungo, appassionato e impegnato lavoro sui miei scritti.» si accomiatò il Conte, con un abbozzo di cortese inchino rivolto a tutti i presenti in cucina.
«Buon lavoro, alla prossima.» salutò Ramo, da parte di tutti, mentre Yuta ci aggiungeva un cenno della testa.
«Danny, mi ha fatto estremamente piacere rivederti, e posso dire che hai un aspetto sempre migliore ogni volta che ti rivedo. Sono molto lieto che tu ti stia riprendendo così vigorosamente.» disse ancora il Conte.
Danny annuì. «Già.» disse solo, con un leggero sorriso amichevole. «Grazie.»
Il Conte rispose con un breve svolazzo della mano che il ragazzo non fu sicuro di poter bene interpretare, anche se assomigliava a quel modo in cui solevano salutare certe persone di corte in epoche passate, qualcosa che aveva a che fare con una sorta di affettata parsimonia nell’ampiezza dei gesti. Poi uscì dalla stanza, con Justin che si strascicava dietro di lui, mostrando di contro una completa assenza di eleganza.
«A proposito…» fece Danny, essendogli venuto in mente solo in quel momento, e proseguì abbastanza in fretta da impedire a Kumals di intromettersi con qualcosa come ‘A proposito di che cosa?’, perché effettivamente lo aveva detto con senso esclusivamente di forma. «E quell’uomo che ci eravamo portati dietro? Quello con la gamba rotta, quello che avevamo...»
«Oh, lui!» fece Kumals, frettolosamente. Pochi degli altri compresero immediatamente che aveva interrotto Danny appositamente per impedirgli di pronunciare il nome di Foelm e di quello che là era successo, per evitargli eccessiva vicinanza con quel ricordo doloroso. «Mah, ieri si sentiva abbastanza bene da affrontare il viaggio, così Valentine e Ramo lo hanno accompagnato in auto all’ospedale di Castle Mac’Hearty.»
«Hem… più propriamente… abbiamo dovuto farlo scendere vicino ad una fermata dell’autobus… c’è una grande confusione a Castle Mac’Hearty ora… un sacco di gente confusa, le autorità che stanno gestendo tutta la fase di “recupero” da questi giorni per evitare il più possibile scenate da panico di massa… roba del genere…» spiegò Ramo.
Danny lo guardò. «Già, mi immagino. È sempre curioso vedere come certe persone siano così ingegnose e generose nel procurare ‘situazioni da panico di massa’ e poi nell’auto-proclamarsi coloro che sono preposte ad evitare questo ‘panico di massa’…» iniziò, ma poi, mentre forse era nel bel mezzo di una riflessione potenzialmente più ampia, un odore gli colpì le narici. Non lo avrebbe potuto confondere con quello di nessun’altro al mondo, anche se, è giusto dirlo, il suo fumare occasionalmente qualche sigaretta tendeva ad appannare un po’ la potenza del suo fiuto lupesco.
Era un odore che aleggiava per tutta la casa, come quello degli altri che ci vivevano in quei giorni, ma per lui risaltava in maniera completamente diversa; inoltre, questa volta era più intenso, segno che la fonte d’esso si stava probabilmente avvicinando. Non per niente, di lì a pochi secondi anche gli altri riuscirono a sentire bene i rumori dei passi che si appressavano alla porta della cucina.
La sagoma si stagliò sulla soglia, trovando la stanza improvvisamente sprofondata nel silenzio generale; abbozzò un sorriso un po’ stanco e un po’ nervoso. «Beh? Perché vi siete zittiti all’improvviso…» ma si interruppe repentinamente, quando i suoi occhi, che stavano individuando una ad una tutte le ben conosciute facce, si fermarono su quella di una di esse in particolare. Fissò Danny per alcuni secondi, che parvero immensamente lunghi. Poi, come se fosse assolutamente normale, o come se fosse risultata in quel momento la cosa più normale da fare, girò su se stessa e se ne andò senza aggiungere altro, lasciando dietro di sé solo un vago odore di bagno schiuma e il baluginio di corti capelli bluette.
Nella cucina di nuovo immobile e silenziosa passarono altri lunghi secondi, trapuntati con leggero tatto da qualche occhiata incerta che alcuni degli astanti stavano iniziando a scambiarsi circospettamente. Poi Danny si alzò in piedi, forse con eccessiva energia rispetto alla sua attuale confidenza col concetto di stare in posizione eretta e camminare, perché in effetti trovò il modo di incespicare due o tre volte nello spazio di un metro prima di riuscire a imboccare una sequenza di passi che gli permettessero di uscire dalla cucina senza lasciarsi dietro troppo della sua dignità.
Dopo qualche altro momento di silenzio compatto, si udì un compassato sospiro. «Ah… gli innamorati… » commentò Kumals, con fare divertito.
Yuta lo guardò di sbieco. «Dio… quanto sei vecchio.» commentò, con rassegnazione.
Kumals si accigliò, e sul serio stavolta, nell’udire ciò; e si accigliò ancora di più quando realizzò che Ramo e Zoal, dopo essersi scambiati tra loro una breve occhiata, erano scoppiati a ridere, sommessamente ma comunque di gusto, e Valentine faceva di tutto per non guardare nella sua direzione e per non sfociare oltre il suo trattenere un largo sorrisetto.
Il richiamo risultò in tono basso, incerto, come se dubitasse di poter parlare in quel modo, ma urgente e piuttosto implorante. E lei seppe di nuovo come solo certe persone e in certi particolari momenti sono capaci di esprimere una richiesta così aperta e visceralmente indifesa senza suonare nel contempo striscianti e privi di dignità.
Non riuscì a determinare chiaramente cosa volesse realmente fare, cosa pensava che fosse giusto fare; la sua testa, al momento, era una confusione totale di diversi pensieri e potenziali reazioni che si rincorrevano. Un principio di lacerazione, dovuta al fatto di sentirsi tirata tra il proposito di fermarsi e voltarsi immediatamente e quello di ignorarlo e continuare a camminare fino a raggiungere una stanza in cui chiudersi dentro, iniziava a farle sentire un dolore anche fisico.
In un certo senso, furono i suoi piedi a scegliere per lei; come se quelle parole avessero influito direttamente su di essi, rallentarono e, terminati i gradini della scala che aveva appena salito, finirono per fermarsi pochi passi più oltre, in quel tratto di corridoio che sporgeva sulla scala da un lato, e che dall’altro contemplava la porta della stanza di Yuta.
Udì i passi dietro di lei che salivano i gradini, sforzandosi di risultare utili ad un buon ritmo di camminata, nonostante fossero evidentemente affaticati, quasi recalcitranti.
Andrea si voltò di scatto, in modo quasi aggressivo, a fronteggiarlo. E Danny si fermò di botto, rischiando di inciampare negli ultimi due gradini. Solo allora la ragazza realizzò due cose che assolutamente non aveva previsto: che il motivo per cui lui strascicava quasi i passi nel seguirla non era tanto perché doveva ancora riprendersi del tutto dalla convalescenza, quanto perché al momento aveva una paura terribile; e poi, che lei si sentiva così tremendamente arrabbiata che rischiava di finire per sorvolare completamente la fase in cui se la doveva prendere a morte con lui, per passare direttamente a piangere in maniera stupidamente disperata e assolutamente senza motivo. Non un motivo che fosse facile chiarire, perlomeno.
Mentre Danny la guardava, con sgomento, paura e aperta disponibilità a farsi maltrattare in qualsiasi modo, come se gli fosse chiaro che era perfettamente normale che lei ce l’avesse con lui, Andrea lo odiò. Per un incisivo, brevissimo e conciso istante lo odiò, e si ritrovò ad odiare se stessa nel contempo; fu anche lo stesso istante in cui fu seriamente sul punto di scoppiare a piangere e di rifilargli una spinta sufficiente ad allontanarlo da sé e forse a mandarlo a rotolare giù per le scale. Ebbe la vivida impressione che lui non avrebbe fatto alcuna resistenza: aveva decisamente l’aria di chi crede di meritarsi di tutto. Soprattutto, Andrea trovava insopportabile il modo in cui stava lì ad aspettare che fosse lei a fare qualcosa, qualsiasi cosa, mentre lui se ne restava lì in balia di un’attesa spaventata.
Però, poi, lentamente, si rese conto che le parole lei le aveva in quel momento: parole giuste e chiare, perfettamente lucide. Non se ne rese conto se non mentre ascoltava la sua stessa voce che le pronunciava nel silenzio immenso che s’era creato nel corridoio.
«E’ il momento sbagliato per avere paura, questo. Avresti dovuto averne quando rischiavi di essere ammazzato dai proiettili del cecchino.» mormorò. Il suo stesso tono la fece rabbrividire. Non sembrava nemmeno lei a parlare, tanto risuonava fredda la sua voce; in completo contrasto con le brucianti emozioni di rabbia e di altro che stavano battagliando una complicata e disastrosa tempesta dentro di lei.
Niente a che vedere, comunque, con gli occhi con cui la stava guardando Danny. Anche là dentro c’era una tempesta coi fiocchi. Ma la cosa che le faceva più male, era che lui sembrava molto più avvezzo alle tempeste piuttosto che ad una almeno discreta calma. Tuttavia, la fissavano come se credessero fermamente in quello che lei stava dicendo; o meglio, come se sapessero benissimo che in qualche modo lei aveva perfettamente ragione.
«Ma tu non ne avevi… ». Alla fine le parole le si districarono da quel punto imprecisato della gola in cui erano rimaste disgraziatamente impigliate, e lei riuscì a cavarle fuori, in un sussurro fragile come ghiaccio sottile che va incrinandosi con tediosa lentezza. Sembrarono così impalpabili, eppure così appuntite, da potersi infilare direttamente negli occhi di Danny, come spilli torturanti. Solo allora Andrea realizzò che stava già facendo qualcosa per cui si sarebbe odiata: lo stava accusando di qualcosa di molto più grave di quello che una persona può fare; lo stava accusando di quello che era.
La ragazza si portò una mano alle labbra, senza quasi accorgersene, come se si fosse resa conto di aver fatto qualcosa di terribile. Solo allora le pupille di Danny saettarono brevemente, cogliendo il gesto; si mosse con molta calma e lentezza, ma con determinazione: con una mano intercettò quella di Andrea prima che lei potesse portarsela davanti alla bocca in quel gesto di pentimento. Le strinse le dita nelle sue, dolente.
Quando Andrea si rese conto che quel gesto lo aveva compiuto col braccio ferito, e che doveva essergli appena costato un notevole dolore, le si bagnarono gli occhi nel realizzare che a lui era importato così tanto di prenderle la mano da dimenticarsi e forse quasi non sentire il dolore della ferita. Lasciando che alcune lacrime le scorressero sulle guance, senza dar loro molto peso o cura, ristrinse le dita in risposta alla sua stretta, brevemente, poi sciolse la mano dalla sua, e lo riguardò negli occhi, distogliendosi dall’osservare la fasciatura che gonfiava gli abiti del ragazzo in corrispondenza della spalla.
«Vieni.» gli mormorò dopo un poco, passandosi il dorso di una mano sulla guancia, per asciugarsi distrattamente l’umido delle lacrime. «Devo farti vedere una cosa.»
E così detto, si voltò e si incamminò verso la stanza di Yuta. Nonostante tutta la sua determinazione, si sentì tranquilla solo quando sentì i passi di Danny che, lentamente ma meno tormentosamente, la seguivano.
*
***
*
Il rumore della pagina che veniva voltata fece un leggero fruscio di carta consumata; risuonò nel silenzio attutito, tranquillo, della camera da letto.
La mano del braccio sano di Danny prese ubbidientemente il bordo della pagina, dopo una lieve e timida esitazione; Andrea glielo affidò tranquillamente, affinché finisse lui di voltare la pagina. I suoi occhi nocciola erano già poco dopo concentrati sulle facciate che si erano in quel modo rivelate.
Danny concesse una cura particolare alla sistemazione della pagina voltata, come se stesse toccando una specie di cosa molto delicata. Dopodiché, senza rendersene conto né farsene un problema, si incantò ad osservare il volto concentrato eppure rilassato di Andrea. Rimase completamente ignaro di quanto farlo avesse una forte sensazione balsamicamente calmante e spontaneamente familiare. O forse in fondo credeva che si trattasse semplicemente dell’odore di lei.
Per il suo fiuto particolarmente sviluppato, il fatto che al momento si trovassero molto vicini, seduti fianco a fianco sul letto con le schiene appoggiate contro la spalliera dello stesso, rendeva scontato - ragionevolmente riflettendo - che fosse ciò che sentiva più fortemente di qualsiasi altro sentore nella stanza. L’odore di lei si mischiava poi, in maniera stranamente complementare, con quello del grosso libro che Andrea teneva sulle ginocchia sue e di Danny, in mezzo a loro. Ad ogni pagina voltata, l’esalazione di carta di libro vecchio e di qualche elemento chimico e un po’ plastificato tipico di foto pareva fare coro e diventare un tutt’uno con la concentrata contemplazione della ragazza.
Danny si mosse appena, quasi involontariamente, per l’impazienza. Ad ogni nuova immagine – e ce n’erano in genere ben cinque o sei per ogni nuova coppia di facciate – lo assaliva una cospicua curiosità. Veniva lasciata puntualmente indietro dal soffermarsi di lui ad osservare l’espressione di Andrea; ma poi risaliva, prendeva corposità e lo angustiava fastidiosamente. Gli ricordava di quei giorni in cui viveva completamente libero e solo nelle foreste, e ogni minimo odore di paese gli suggeriva una moltitudine di cose dalle quali si sentiva escluso e richiamato allo stesso tempo. Mai, a differenza di questa volta, aveva desiderato così profondamente di farne parte in maniera indissolubile.
Andrea si accorse del suo leggero movimento un po’ nervoso, a giudicare dal rapido spostarsi delle sue pupille in diagonale, per poi tornare rapide su carta. Un piccolo sorriso dolcemente partecipe sulle labbra però la tradiva, come un dispetto giocoso. Tratta dal suo rapimento, comunque, si decise a riprendere la voce con calma.
«Qui…» iniziò, accompagnandosi con un dito puntato sul bordo di una delle foto «…eravamo di nuovo in viaggio, io e mia madre.». Voltò la testa a guardare Danny, ritrovandosi contraccambiata da uno sguardo impegnato in una seria attenzione. «Lei adora viaggiare. È più in giro che a casa. E non manca di trascinarmi con sé ogni volta che glielo permetto.» spiegò.
Danny annuì. Quello glielo aveva in parte già detto, qualche foto più in là; non aveva punto idea del perché gli interessasse così tanto dimostrare di essere stato molto attento. Ma il modo in cui lei gli sorrise, con un misto di gratitudine e sorta di affettuoso riconoscimento, lo colmò di una profonda soddisfazione.
Andrea sembrò imporsi con piglio pratico di riportare lo sguardo sull’immagine che stava indicando; scostò il dito e riprese a raccontare. Diceva tutto ciò che le veniva in mente a riguardo dell’esperienza e/o della persona che aveva immortalato nella foto di cui stava parlando. Su alcune era più che esaustiva: ricordava molti momenti e particolare, spesso solo apparentemente scollegati o in disaccordo tra di loro. Si sarebbe detto che avesse una memoria notevole, non di quel tipo… appunto… ‘da fotografia’. Bensì, era come se potesse rievocare con scioltezza le sensazioni di quelle esperienze. Dava l’impressione di essere sempre stata molto viva e vitale, in quasi ogni momento; per Danny era qualcosa di strabiliante e impressionante. Tuttavia, non gli sfuggiva il modo in cui, qui e là, lasciava volontariamente il silenzio o un accenno leggero su alcune cose. Evidentemente, teneva alcune cose per sé. Ma lo lasciava di stucco anche quello: la naturalezza con cui era in grado di variegare il grado di confidenze e rivelazioni, di misurarne a propria volontà la profondità, l’estensione, la ricchezza di particolari. Era un disvelarsi colorato e misurato, non certo a lama, bianco o nero.
Qualche volta diventava comunque particolarmente intenso, sofferto o ricco di un entusiasmo vivace, divertito o annoiato, e così via. Ed erano quelli in cui il suono della voce di lei, le parole, il tono, la rapidità del parlare lo incantavano perdutamente; gli lasciava sentire tutto quanto. Non aveva idea del perché o percome lo stesse facendo, ma soprattutto ne era enormemente stupito. Solo dopo altro tempo passato in quel modo lo colse la sensazione che si trattasse di un muto invito, offerto senza condizioni. Allora, Danny iniziò a cercare in sé il modo di coglierlo e andarvi incontro, corrispondendo al desiderio di contraccambiarlo.
Come se si fosse accorta di un mutamento improvviso nella stanza, Andrea finì lentamente la storia che stava raccontando. Poi, lentamente, come se avesse la mente altrove, raccolse piano la parte di libro che giaceva appoggiata sulla gamba di Danny, e lo chiuse. Si voltò a guardarlo, contraccambiandogli lo sguardo per un momento in completo silenzio. Poi, sul suo viso sorse una smorfia tra il divertito e l’imbarazzato; le spuntò appena la lingua tra i denti, in una linguaccia a se stessa.
«Beh, sei ancora sveglio, nonostante tutte questi racconti.» fece notare.
Danny parlò senza pensare. «Sono sempre stato qui.» il suo tono basso era da solo un sigillo di garanzia.
Per un momento Andrea lo fissò come se cercasse il modo di non credergli; come non trovandolo, lasciò perdere, scosse lievemente la testa, e, lo sguardo abbassato, mormorò «Lo so.»
Anche il ragazzo sapeva che lei ne era ben consapevole. Aveva la precisa idea che, se in un qualsiasi momento Andrea avesse sentito che lui era altrove, e aveva pure l’insidiosa consapevolezza che se ne sarebbe accorta immediatamente, si sarebbe azzittita. Avrebbe semplicemente lasciato perdere il tutto, e in qualche modo se ne sarebbe andata, per lasciarlo in pace. E lui non voleva che lo lasciasse in pace; ma non voleva nemmeno più metterla nella condizione di doverlo tormentare.
Danny socchiuse gli occhi per un momento; sospirò e si appoggiò maggiormente alla parete alle sue spalle. Il suo respiro profondo suggeriva un complicato tentativo di lasciarsi andare. Il punto, scopriva tra sé e sé, era che non aveva la più pallida idea di come si faceva, né da dove iniziare. Iniziare cosa, poi, era un mistero ancora maggiore. Aveva la sensazione di saperlo, in qualche modo, come doveva fare.
Anche Andrea si mosse, di fianco a lui, dando tuttavia l’impressione di leggerezza di chi si mette semplicemente più comodo, e teme allo stesso tempo di poter essere invadente. Questo modo di fare gli fece voltare il viso verso di lei, incuriosito e un po’ divertito. Emise una lieve risata, come se stesse dando degli sciocchi ad entrambi, e lei considerò quel gesto come una specie di permesso forse, perché si riaccomodò meglio, stavolta per stargli più vicino.
Poi, mentre ancora la guardava negli occhi, trovò in quelle stesse pupille le parole che gli mancavano, in qualche strano modo che non si sarebbe poi mai più potuto spiegare chiaramente. «Avevo… sedici anni circa… quando sono diventato un lupo. Prima ero un ragazzo scappato di casa e basta.».
Tacque. Per un momento gli era vividamente sembrato di stare parlando di qualcun altro. Non comprendeva tutta quella distanza tra sé e ciò che stava dicendo; ma forse era per via di tutti i passi che aveva poggiato sul terreno di mezzo. Era molto distante, anche se aveva la vividezza di un ricordo netto.
«Perché eri scappato di casa…? » domandò piano Andrea.
Lui si riprese da quella specie di assorta constatazione di distanze, e la guardò con sguardo limpido, attraversato solo per un momento dal nebuloso proposito di sottrarsi immediatamente; ci passò di mezzo e lo superò. Distolse lo sguardo senza fretta e lo posò sulle loro gambe appoggiate tra di loro, in parte sovrapposte.
Alzò le spalle e un lieve sorriso amaro gli incurvò le labbra. Quello sembrava ancora più lontano, come se non gli appartenesse. «Di tutte le case che ho avuto… » mormorò semplicemente «…quella in cui sono nato non era tra quelle.»
La ragazza annuì, dando insieme l’impressione di aver compreso e gettando tra loro l’invito a proseguire.
Danny tornò a guardarla per un momento, e gli sfuggì un leggero sorriso. Sembrava che il peggio fosse scivolato oltre, persino con un’ombra scura e ingombrante che gli si parava davanti, sulla scia della successiva parte della storia. La scansò con decisione.
«Ti racconterò come è successo, una di queste volte… E’ una storia lunga.»
Andrea accennò di nuovo un assenso.
«Poi… beh… » di nuovo Danny sorrise appena, più che altro a se stesso. «Che fosse vetro o luna, ho sempre seguito qualche traccia sul momento. Perlopiù ho vagato tra boschi e boschi, specialmente sulle montagne, quasi sempre da solo. Ero in forma di lupo, per la maggior parte del tempo. All’inizio mi trasformavo in essere umano per farmi un giro in qualche paese o città; ma era solo noioso e irritante la maggior parte delle volte. Mi dava nausea e vuoto. Quindi tornavo nei boschi. Alla fine vivevo quasi solo là allora. Non stavo fermo mai molto a lungo nello stesso posto. A volte perché c’era di mezzo qualche intoppo. Altre volte semplicemente mi andava di cambiare aria. Finché… »
Un sorriso diverso gli prese le labbra. E quando si voltò verso di lei i suoi occhi avevano un bagliore di pura e vivace complicità. «Finché una notte, sulla strada di un paese in cui ero andato per prendere qualche animale allevato dalla gente perché era inverno e c’erano poche e difficili prede in giro, mi sono ritrovato a scappare da una moltitudine di persone seriamente incazzate. Mi volevano fare la pelle, indubbiamente. Mi stavo persino divertendo abbastanza; capisci, ero sicuro che li avrei seminati senza alcun problema. E mi ritrovo parati davanti questi due deficienti… »
La voce gli fu improvvisamente spezzata da una risata cristallina. Poi notò lo sguardo perplesso e vagamente interrogativo di Andrea.
«Beh… erano Kumals ed Uther.» spiegò Danny, con un vivo orgoglio nella voce. Poi, come preso da un’idea tutta sua, si portò le mani su un fianco, prese la maglia e, salvo sussultare per il dolore della recente ferita riacceso dal suo movimento fin troppo fiduciosamente agile, se la sollevò quel tanto che bastava per mostrare un segno più chiaro sulla pelle.
Andrea osservò la cicatrice, anche se non la vedeva per la prima volta, spalancando gli occhi colpita. Non che la cicatrice fosse particolarmente brutta, anche se era evidente che era guarita senza cure mediche che prevedessero strumenti chirurgici di qualche tipo.
«E mi hanno pure sparato.» fece Danny, sghignazzando con un certo spavaldo divertimento.
La ragazza rialzò il viso verso di lui con aria spaesata e incredula, praticamente orrorificata. Il sorriso sparì pressoché completamente dal volto di Danny, mentre un eco di qualche ramanzina sull’uso delle armi gli tornava immediatamente alla mente, come un chiaro avvertimento.
«Ah! Ma…» e si ritirò prontamente giù la maglia «…era per via del fatto che io stavo quasi per aggredirli. Sai, mi stavano proprio in mezzo alla strada, alla mia via di fuga, e così…». La sua voce andò smorzandosi, mentre Andrea allungava le mani e gli tirava di nuovo su la maglia, guardando la cicatrice con grande severità.
La porta della stanza si aprì di getto, e la voce di Yuta precipitò dentro con irritata decisione. «Ti ho già detto che non ho idea di come sia possibile che Justin sia riuscito a farlo. In ogni caso, il fatto che tu ad ogni piè sospinto faccia di tutto per terrorizzarlo non…. Oh! Ops! Scusate!». E così dicendo, Yuta interruppe precipitosamente il suo discorso, e, distolto rapidamente lo sguardo dall’interno della stanza si rifece indietro altrettanto rapidamente, richiudendo la porta. Il fatto che nel farlo fosse andata a sbattere brutalmente contro Kumals che la stava seguendo e, forse, anche ascoltando, non sembrò costituire per lei alcun problema. Anzi, a giudicare dal modo in cui lo sospinse via senza sforzo né cura, poteva essere che per lei rappresentasse una scusa per imporsi senza spiegazioni.
Ma quando Yuta incrociò lo sguardo particolarmente interessato e malizioso di Kumals, si sarebbe volentieri raccomandata a qualche anima pia.
Un sorrisetto incurvò l’espressione già prima predisposta al dispetto di Kumals. «Che cosa c’è là dentro?»
Yuta si parò con decisione tra la porta e l’uomo, incrociando le braccia davanti a sé e sfidandolo con aria divertita. «Nulla che ti riguardi. Ti ricordo che è la mia stanza.» disse, modulando la voce in un assaggio di motteggio. La sua aria soddisfatta fu messa però a repentaglio dal fatto che Kumals, dopo un istante di valutazione di quale strategia adottare, si fosse posizionato di fronte a lei imitando la sua posizione in tutto e per tutto. Aveva tutte le intenzioni di raccogliere la sfida.
«Ma stavamo andando a prendere una delle piantine. Dobbiamo finire di controllare la zona d’azione di quella macchina. Per saperne di più. In modo che poi… »
«In modo che poi tu possa trattenere tutti per ore con un comizio su… »
«Una riunione.» corresse Kumals.
«Un comizio… » insistette Yuta «…su quello che è successo e su come sei stato eroico e intelligente, su come hai capito tutto e…»
In quella si udì distintamente provenire dalla serratura della porta della stanza alle spalle di Yuta la chiave che girava un paio di volte, chiudendo. Il corridoio sprofondò in un denso silenzio.
Lentamente, Yuta si voltò verso la porta, le braccia ancora incrociate, e un’espressione di pietra, che andava sgretolandosi in una cospicua e per buona parte ancora incredula indignazione.
«Oh…» cinguettò Kumals alle sue spalle. «Si direbbe che abbiano chiuso la porta della tua stanza… si direbbe che si siano chiusi dentro la tua stanza… che ti abbiano chiusa fuo…». Però, qualcosa nel modo in cui Yuta non lo stava degnando di alcuna attenzione, e di come la sua posa fosse rigida eppure in qualche modo pregna di qualche crescente sentimento di collera, tolse alle parole molto del loro potenziale.
Kumals decise prontamente di lasciare perdere. Diede una piccola alzata di spalle, e si concesse un certo stile nel provvedere ad un’adeguata ritirata. «D’accordo… vedo che sei occupata…»
Ci ripensò su un momento, e decise di proseguire lungo il corridoio verso una determinata porta. «Penso proprio che andrò a scambiare quattro chiacchiere con Uther!» annunciò ottimisticamente.
Stava per raggiungere la porta della stanza dove giaceva Uther, quando un rumore di piedi rapidi e nudi sul pavimento interno della stanza si udì distintamente venirgli incontro; Kumals esitò brevemente, e in quello scarso ma decisivo lasso di tempo si udì la chiave che girava nella toppa.
Mentre Kumals rimaneva immobile a fissare la porta chiusa davanti a lui, risuonarono di nuovo i passi dall’altra parte, che tornavano lentamente al letto da cui erano provenuti, quasi ostentassero una notevole calma.
Dopo lunghi secondi di immobilità, Kumals voltò la testa lungo il corridoio. Yuta lo stava guardando con espressione indecifrabile. L’uomo si riscosse e, cercando di darsi un tono, con plateale nonchalance e aria riflessiva si trasse il pacchetto di tabacco dalla tasca e iniziò a farsi su una sigaretta. «A mia opinione, qui la situazione sta degenerando.» osservò con i modi di un dottore di illuminata fama che si esprime in un’analisi modestamente consapevole di essere completamente corretta e autorevole.
Yuta si portò le mani alla pancia e scoppiò a ridere talmente forte da far risuonare tutta la casa di una frizzante ilarità vittoriosa.
Note dello scribacchiatore: ebbene, il titolo m’è uscito così. ‘A caso’ suggerisce qualcuno. Non proprio. Qualche motivo c’è. Forse è solo l’immagine del vetro abbinata alla lente di una macchina fotografica (a richiamare il personaggio di Andrea) e quella della luna abbinata chiaramente alla natura di Danny. Vabbhé dai, non facciamola lunga. Al prossimo capitolo!
Capitolo 65 *** 63 - A CARTE SCOPERTE - parte I ***
Capitolo 63
(A CARTE SCOPERTE – parte I)
Un leggero bussare alla porta
sottrasse Uther dai suoi pensieri di dormiveglia. Si
svegliò del tutto, trovandosi a fissare senza particolare curiosità il muro
contro il quale stava il letto che raramente aveva abbandonato negli ultimi
giorni; si rigirò la saliva in bocca e riemerse del tutto e controvoglia dal
sonno per chiedersi chi fosse. Tuttavia, non disse nulla, finché non udì un
secondo gentile bussare, e una voce chiamarlo piano, con rispettoso timore di
disturbare. Uther mosse appena un angolo delle
labbra, ma il sorriso morì prima di esprimersi, e si ritrovò a dire un incolore
‘Avanti’ automatico.
Ramo aprì la porta e gettò una
cauta occhiata all’interno della stanza, come se temesse lo scatto di qualche
trabocchetto; a quanto pareva, però, tutto ciò che c’era da constatare era la
solita camera preda di un disordine vissuto, e un Uther
sdraiato su un fianco su uno dei letti, che girava le spalle al resto della
stanza e forse – ammesso che avesse gli occhi aperti – guardava il muro come se
non avesse assolutamente di meglio da fare.
Ramo si schiarì la voce, ma visto
che non proveniva alcuna reazione dal ragazzo allettato, aggiunse un incerto «Hem… posso entrare? »
Osservando attentamente Uther, lo vide accennare un movimento della testa nella sua
direzione «Certo.»
Ramo entrò, e aveva appena
sorpassato la soglia che Uther aggiunse di chiudere
la porta. Il suo tono era particolarmente piatto, ma non era una novità per
Ramo, che lo aveva assistito negli ultimi giorni da buon ‘infermiere
veterinario’, come lo chiamava affabilmente Kumals
quando gli chiedeva come stavano ‘i pazienti’. Inizialmente l’appellativo
comprendeva anche Danny. Ma quest’ultimo, in quanto lupo mannaro o sorta di
tale, benché ridotto molto peggio di tutti loro, si era anche naturalmente
rimesso molto più velocemente.
Ramo chiuse la porta e trattenne
un sospiro, poi si avvicinò al letto sempre camminando piano, come se qualcosa gli
suggerisse che, benché sveglio, Uther poteva essere
disturbato come se stesse dormendo. Rimase in piedi di fianco al letto fissando
la sagoma sdraiata, completamente incerto sul da farsi. Qualche altra volta
prima d’allora aveva visto Uther in una versione
rabbuiata e scostante. Tuttavia, di solito c’erano due grandi differenze. Prima
di tutto solitamente c’era qualcosa per cui essere rabbuiati, mentre quelle
erano teoricamente le ore in cui ‘tutto era passato e finito’, e si era
concluso abbastanza bene. A parte per qualche incidente di percorso, che semmai
avrebbe dovuto pesare maggiormente su Danny, ad esempio per via di quello che
era accaduto a Foelm. In secondo luogo, di solito Uther era attento a portare lontano dagli altri quel suo
stato d’animo, ovvero si isolava, andandosene a fare un giro da solo per
qualche ora. Qualche ora, appunto. Invece, da quando erano tornati alla casa
tutti sani e salvi, Uther si manteneva in quello
stato assente e triste.
«Beh?»
Ramo si concentrò sulla versione
viva e concreta dei suoi rimuginamenti. Uther aveva voltato la testa quel tanto che bastava per
guardarlo.
«E’ l’ora del controllo medico?»
Ramo sospirò e si decise a
sedersi sul bordo del letto. «Non esattamente.» tentennò.
Seppure lentamente, Uther si girò, si tirò a sedere, e lo guardò con più
attenzione. «E’ successo qualcosa?» domandò, con un’ombra di allerta nella
voce.
«No, no…»
si affrettò a tranquillizzare Ramo. Esitò qualche altro secondo prima di
continuare. «E’ solo che… Beh, è solo che Kumals dice che dovremmo tutti riunirci in cucina per fare
il punto di quello che è successo e così via.» spiegò alla fine.
Come Ramo sospettava, Uther sembrò essere tutt’altro che entusiasta dell’idea.
Emise un basso mugugno che apparentemente poteva significare qualsiasi cosa o
anche niente. Poi si decise a dire «Interessante. Potete sempre aggiornarmi più
tardi. Dopotutto, sono un convalescente.»
Ramo evitò accuratamente di dire
quello che stava realmente pensando. Come ad esempio che in realtà ormai anche
la ferita di striscio da proiettile di Uther si era
rimessa abbastanza da non costituire più che un doloroso fastidio, che in ogni
caso gli antidolorifici che gli somministrava tenevano adeguatamente a bada. O
che, qualsiasi fosse il motivo per cui Uther stava
facendo il possibile per rimanere tutto il tempo su quel letto, molto presto la
scusa della convalescenza non sarebbe sembrata nemmeno appena valida quanto lo
era ora.
«In ogni caso…
ho anche una buona notizia.» proseguì invece Ramo, ignorando il pallore della
vaga curiosità, insufficiente ad animare veramente il viso di Uther. Il ragazzo sfilò la mano da dentro il giubbotto,
posizione nella quale era stato fino ad allora e della quale normalmente Uther si sarebbe immediatamente accorto, ed estrasse una
bottiglia di birra. «Puoi ufficialmente tornare a bere.» annunciò, con un sorriso
incoraggiante.
Uther fissò per
qualche istante la bottiglia, lasciando Ramo in una sospesa e speranzosa
attesa, quindi riuscì a tirare fuori una specie di leggero sorrisetto, e
allungò una mano per prendere la bottiglia, rivolgendogli un cenno di ringraziamento.
«Ottima notizia.» aggiunse, cercando di sottolineare la sua gratitudine.
«Questo vuol dire anche che puoi
smettere di bere di nascosto e nascondere le bottiglie sotto al letto.»
aggiunse Ramo, mentre apriva la birra con il suo apribottiglie attaccato al suo
mazzo di chiavi.
Uther, ormai seduto
piuttosto scioltamente accanto a lui, prese un sorso dalla bottiglia, e
passandogliela annuì. «Ne terrò conto.» disse, accennando un rapido occhiolino.
Ramo sorrise più liberamente.
Forse si era preoccupato eccessivamente, e dopotutto Uther
aveva solo bisogno di un po’ più di tempo per riposarsi e per riprendersi.
D’altro canto, non è che quei giorni fossero stati esattamente una sciocchezza
da digerire.
«Credo che sarebbe meglio se ci
fossi anche tu giù in cucina, per il momento delle chiarificazioni.» si azzardò
quindi ad aggiungere Ramo, condividendo la birra con il suo ex-paziente
d’eccezione. «Di solito la tua presenza evita un po’ che Kumals…beh…hum…»
«Che Kumals
faccia troppo il gradasso?» domandò tranquillamente Uther,
riprendendosi la bottiglia con un gesto di tranquilla abitudine.
«Beh, sì…
qualcosa del genere.» rise Ramo.
«Humm…»
rifletté Uther, rigirandosi il sorso di birra in
bocca «E così ha mandato te a chiamarmi?»
«Sosteneva che quando cerca di
entrare nella tua stanza ultimamente gli scagli oggetti addosso.» spiegò Ramo,
occhieggiando sul pavimento vicino alla porta, dove in effetti c’erano alcuni
oggetti che normalmente avrebbero dovuto trovarsi ovunque ma non su un
pavimento.
Uther seguì il suo
sguardo senza particolare interesse «Oh, ci sarà sicuramente un ottimo motivo
perché succede così. Kumals sa essere particolarmente… magnetico.»
Ramo annuì comprensivamente,
dando segno che la spiegazione era sufficiente per lui. Quindi non osò dire altro.
Solo dopo qualche minuto di
passaggi di bottiglia e di un comune e silenzioso fissare la finestra, che dava
su una giornata modestamente soleggiata da un pallido sole, udì Uther sospirare, e comprese che si era deciso a scendere
dabbasso.
*
***
*
Danny si fece sulla soglia della
porta aperta e si appoggiò con spalla e fianco allo stipite di solido legno,
tipico della struttura piuttosto vecchia della casa. Appoggiato all’altro
stipite, Kumals fumava placidamente una sigaretta e
guardava fuori.
Nello spazio antistante la casa
di Zoal e Yuta splendeva un
pallido sole e spirava una leggera brezza appena tiepida. I due cavalli di Yuta e Zoal, la biancastra Raj e il rossiccio Wally, sembravano starsi godendo la
compagnia, o perlomeno il gustoso banchetto. Yuta
insegnava e faceva provare a due emozionate Andrea e Valentine
come offrire ai due dei pezzi di mela a mano aperta, e come accarezzarli in
tutta tranquillità.
Danny occhieggiò alla sua
sinistra. Una decina di metri più in là, c’era una grande e vecchia poltrona di
vimini, che era stata sistemata contro il muro esterno della casa. Su di essa, Zoal sedeva con riposante abbandono, avvolta in una serie
di coperte e scialli. Il ragazzo si soffermò appena e con una certa apprensione
sui suoi capelli, con il castano scuro e ramato di rosso solcato da ciocche
grigie e bianche. La donna sembrava dormire, tuttavia la sua mano che non si
fermava mai nella serie di carezze affettuose sul dorso del piccolo Duca che le
dormiva acciambellato in grembo, e il fatto che di tanto in tanto le palpebre
si alzassero per permetterle di sbirciare i cavalli e le altre, segnalavano che
in fondo era sveglia. Ai suoi piedi dormiva Mama,
mentre più in là Danza e Tirch erano impegnati a
rincorrersi e giocare tra loro, lanciando di tanto qualche latrato di richiamo
e provocazione.
Danny sorrise appena,
specialmente quando il suo sguardo si soffermò a guardare Andrea. La ragazza
rideva e si entusiasmava per ogni piccola cosa, dal solletico che la lingua dei
cavalli le produceva sul palmo aperto della mano nel prendere in bocca i pezzi
di mela che offriva loro, fino al fatto che i due animali fossero così
invadenti nel cercare di avere altro cibo da lei e dalle altre. Il ragazzo si
sentì invadere da un singolare stato di stupore. Eccola lì, una ragazza dalla
vita fin’ora perfettamente comune, reduce dall’avere appena affrontato una
manciata di giorni fitta di una lunga e stancante serie di eventi a dir poco
fuori dal comune. Aveva ancora un polso fasciato dalla loro avventura a Foelm, più una piccola serie di varie escoriazioni e
contusioni, e sicuramente un’accessoriata gamma di cose non visibili ancora da
mandare giù, dal fatto di avere rischiato la vita diverse volte, dall’essere
stata sequestrata da un demone, aver parlato con un albero, aver rischiato di
essere sparata da un assassino mercenario, aver scorazzato su un treno preso in
prestito, essere stata più volte sul punto di essere travolta da una folla di
persone ridotte in una sorta di idiota zombismo, fino
ad aver corso per la foresta aggrappata alla meno peggio alla schiena di un
lupo. Ed ora, semplicemente, se ne stava lì a dare mangiare a dei cavalli e a
scoprire il modo di comportarsi di quegli animali, come se si trovasse in una
gita ad una fattoria didattica e tutto quello che avesse fatto in quei giorni
fosse sperimentare una specie di vacanza nella natura. Certo, se stava
appositamente cercando di far credere che non era stato dopotutto niente di
così terribile tutto quello che era successo, vi riusciva davvero perfettamente.
Ma Danny sospettava che fosse qualcosa di diverso, qualcosa che aveva a che
fare con la sua personalità o con una sorta di sua caratteristica capacità di
reagire e di riprendersi. Per un lungo momento desiderò che lei si accorgesse
della sua presenza e che gli rivolgesse uno sguardo, anche senza sorridere, una
qualsiasi espressione di conferma che effettivamente andava tutto bene, in
qualche misterioso e assurdo modo, già, andava tutto bene.
Ma Andrea era effettivamente
molto presa da Raj e Wally, e dalle chiacchiere con Yuta e Valentine. E lui, d’altra
parte, non stava facendo niente per palesare la sua presenza. Avrebbe anzi
potuto dubitare che persino Kumals si fosse accorto
di lui, a giudicare dal fatto che l’uomo non aveva mostrato nessuna reazione al
suo arrivo. Questo però non lo stupiva particolarmente: in parte per via del
modo di fare di Kumals, e in parte per via del fatto
che ultimamente l’uomo sembrava cercare di evitarlo con pacata testardaggine,
pressappoco da quando era venuto nella sua stanza e gli aveva parlato di Uther. Era già tanto, dopotutto, che Kumals
si trovasse ancora lì dov’era di fianco a lui, e che non fosse andato a trovare
qualcosa di cui occuparsi per scusare il suo evitare la sua vicinanza.
Probabilmente però rivolgergli la parola era qualcosa che ancora gli risultava
troppo complicato.
«Come sta…
effettivamente intendo…Zoal?»
si decise infine a chiedergli Danny.
Kumals gli lanciò
un’occhiata rapida con la coda dell’occhio, e sembrò per qualche motivo
sorpreso. Sospirò appena, rivolgendo un lungo sguardo alla donna seduta sulla
sua sedia, forse chiedendosi se da lì poteva sentire e capire le loro parole.
«Ha dovuto sostenere un grosso sforzo. Non era nemmeno scontato che riuscisse
effettivamente a sostenerlo, in effetti. Concentrare così tanta energia magica
in un corpo umano è un lavoro notevole e pericoloso. L’ha molto stancata, ha
consumato buona parte delle sue energie vitali. Però Zoal
è forte, come tu ben sai. E tutto considerato, penso proprio che possiamo stare
tranquilli. Le occorrerà molto riposo per diverso tempo, ma continuerà
lentamente a rimettersi. Forse non tornerà esattamente come prima, anche se è
presto per dirlo. Ma al peggio, forse le rimarrà qualche segno abbastanza
trascurabile. Credo che i suoi capelli non torneranno più tutti del loro colore
originale. Un po’ come quelle persone che hanno subito un forte shock
traumatico. Ma per il resto, credo proprio che si rimetterà praticamente del
tutto.»
Seguì un breve ma concentrato
silenzio da parte di Danny, prima che chiedesse «Ha rischiato la vita?»
Stavolta sentì chiaramente lo
stupore di Kumals, e un pizzico di contrarietà forse.
«E’ strano sentirlo chiedere
proprio da te, e con quel tono preoccupato. Se non sbaglio, eri proprio tu, o
qualcuno che perlomeno ti assomigliava davvero moltissimo, che è corso di
fronte ad un killer professionista, offrendosi come bersaglio di massima
semplicità, e si è fatto sparare abbastanza seriamente da poter essere ucciso,
oltre a rischiare di essere direttamente freddato sul posto.»
Il tono era di quelli che Kumals cavava fuori piuttosto raramente, e che era capace
di suonare come un epitaffio su una pietra tombale tanto era serio e
compitamente ma inappellabilmente lapidario. Danny strinse appena le labbra e
si chiuse in un ostinato silenzio, anche se, per qualche motivo, evitò di
muoversi, nonostante quel tono gli avesse fatto venire una certa voglia di
allontanarsi e andarsi a nascondere da qualche parte.
Solo dopo qualche minuto Kumals riprese a parlare, con voce totalmente diversa,
pensierosa e distratta ad un tempo, come se parlasse di un argomento totalmente
privo di problemi. Accennò appena con la testa a Valentine,
ancora intenta a socializzare con i cavalli e con Yuta
e Andrea.
«Non credo che Ramo avrebbe
rinunciato tanto velocemente ai ‘4 di picche’ se non
fosse stato per lei.»
Danny rizzò metaforicamente le
orecchie, incuriosito dalla scelta dell’argomento. Non aveva mai sentito
nessuno di loro parlarne tanto apertamente, salvo ognuno di loro direttamente e
privatamente con Ramo tutt’al’più.
«E’ una cosa perfettamente…
“naturale”, per così dire. » disse ancora Kumals,
come se parlasse a se stesso. «Valentine lo ama
sinceramente, io credo. E, pertanto, non poteva sopportare che lui corresse dei
rischi eventualmente mortali con tanta frequenza. L’incubo ricorrente: che noi
prima o poi tornassimo senza Ramo, che lui non tornasse. Basta un istante per
morire. Tutto il resto è il tempo di chi aspetta il tuo ritorno, e che continua
ad aspettare anche quando sa che non tornerai più, che combatte una battaglia
persa in partenza contro il tempo, per farlo tornare indietro e fargli prendere
un’altra svolta.»
Danny distolse lo sguardo da Valentine e sentì un groppo di ribellione concentrarglisi in gola. «Credo che tu stia esagerando.»
rispose, con tono involontariamente piuttosto aspro «Non rischiavamo la pelle
così tanto. Perlopiù cazzeggiavamo con spiritelli ridicoli, quando anche c’era
qualcosa di effettivamente soprannaturale. Quanto erano più alte le possibilità
di morte rispetto a quelle, ad esempio, di un incidente stradale?»
Kumals accennò un
sorrisetto tirato «Viviamo in un mondo di esseri umani, almeno in maggioranza,
Danny. L’uso dell’automobile è percepito come una necessità. Andare a caccia di
fenomeni paranormali no. Non devi per forza sopravvivere di questo. Puoi sempre
scegliere un altro lavoro, ammesso che lo trovi, un’altra vita. Andare a caccia
di fenomeni paranormali è… andarsela a cercare in un
certo senso. O almeno, ritengo che sia questo per Valentine,
nonché per la stragrande maggioranza delle altre persone, che incrociano il
paranormale nella loro vita, forse, solo una volta o poco più, e fanno di tutto
per ignorarlo. Meglio non sapere, meglio non andarsela a cercare. Se proprio
capiterà in maniera pericolosa… sperare di sopravvivere.
E basta. In ogni caso, per morire basta una sola volta, basta un attimo. È una
delle cose più semplici in assoluto a questo mondo, forse la più semplice di
tutte. E anche se sono state veramente poche le volte in cui abbiamo rischiato
la pelle, una qualsiasi di esse sarebbe stata quello che si dice ‘molto più che
sufficiente’.»
«Però, nonostante quello che è
successo in questi giorni sia stata proprio una di quelle volte che sarebbero
potute essere ‘più che sufficienti’, Valentine è
rimasta qui e ha fatto la sua parte. Non ha cercato di andarsene e di portare
con se Ramo al sicuro, no?» ribatté Danny pervicacemente.
«Non è una persona così
menefreghista o codarda. Una volta che ci si è trovata dentro, non poteva
sottrarsi. Inoltre, stavolta era qualcosa che riguardava un po’ più persone… non era certo una semplice casa infestata o una
persona posseduta. Ma da qui al gruppo dei ‘4 di picche’…
beh, per lei il gruppo era molto più come un’andarsela a cercare. E forse non
ha tutti i torti, dal suo punto di vista.» commentò Kumals.
Danny gli rivolse un’occhiata
piuttosto storta. «Kumals… Potrei sapere cosa stai
cercando di dire con tutto questo?»
L’altro buttò in terra la
sigaretta finita, incrociò le braccia sul petto e assunse di nuovo un contegno
serio e severo. «Quello che sto dicendo, è che è questo che accade di solito.
Molte volte, se non si è completamente soli al mondo, c’è qualcuno che potrebbe
diciamo risentirne se ti accadesse qualcosa, che non potrebbe sopportare la tua
morte. E, francamente, è dimostrazione di un certo grado di considerazione
degli altri e di quanto ti possono voler bene essere consapevoli di questo. È
diverso dall’essere un lupo solitario. E usualmente, quando c’è qualcuno che ci
tiene particolarmente a che tu rimanga perlomeno in vita, si cerca di giocarsi
meglio la propria sopravvivenza.»
«Scegliere la propria vita e la
propria morte come vogliono gli altri, di questo stiamo parlando?» replicò Danny
tra i denti, quasi con repulsione.
«Non esattamente. È sempre un
compromesso. Ma su questo si gioca anche la fiducia reciproca. Sul potersi
fidare del fatto che la persona a cui tieni non si farà ammazzare come se non
gli importasse non solo di se stessa, ma nemmeno del fatto che non ci si potrebbe
rivedere mai più se morisse, e perdipiù in una
maniera strategicamente non necessaria. Ancora peggio, se ti lascia con la
sensazione che abbia a torto pensato che la sua morte non valesse niente a
confronto con la sopravvivenza degli altri. Come se pensasse di potersi elevare
a salvatore di tutti quanti semplicemente andando a buttarsi in faccia alla
morte come se dovesse dimostrare a qualcuno che non ha affatto paura nemmeno di
quella. Un modo davvero stupido di dimostrarlo, ad ogni modo, buttarcisi in
bocca senza intelligenza, come se non avesse tutta questa importanza.» Il tono
di Kumals era cambiato di nuovo. Sembrava essersi
lasciato indietro, suo malgrado, la sfumatura da ramanzina, per lasciare posto
ad un’ombra di sincero tentativo di comprensione.
Danny non sembrò aver niente in
particolare da rispondere, e Kumals proseguì con tono
sempre più calmo benché serio. «Di solito… se si ha
qualcuno che ti vuole bene, ci si sente parte di una qualche specie di
condivisione. Non ci si sente più come se si appartenesse solo a se stessi, si
sente di appartenere a qualcosa che coinvolge anche altri. Per questo,
abbandonare la vita non significa rinunciare solo a se stessi…»
Di nuovo, Danny rimase in
silenzio.
«Ma da che ti conosco…»
continuò Kumals «Mi è sempre sembrato come se tu
volessi convincerti del contrario. E ho sempre sperato che prima o poi qualcosa
o qualcuno sarebbe riuscito a dimostrarti il contrario. Dopo tanto tempo… vederti di nuovo giocarti le penne, o il pelo se
preferisci, come se non avesse importanza… è piuttosto… irritante.» terminò, calcando sull’ultima parola
con tono appunto infastidito e frustrato.
Kumals si rese conto
che, per quanto lo stesse ascoltando, Danny era in qualche modo anche preso da
altro. Seguì il corso del suo sguardo e vide che era di nuovo intento su Andrea.
Per questo, senza pensarci troppo, aggiunse «Pensi che lei l’avrebbe presa con
una certa sopportazione se non ce l’avessi fatta?»
Danny si voltò a guardarlo con
uno sguardo quasi feroce, di serio ammonimento, come ad avvertirlo che stava
esagerando. Ma Kumals, sebbene con difficoltà, si
sforzò di sostenere il meglio possibile quello sguardo da lupo in procinto di
attaccarlo, per mantenere valida la domanda, pur senza pretendervi una risposta
in parole.
Alla fine, gli occhi di Danny
tornarono lentamente a schiarirsi, e si spostarono in un punto indefinito fuori
dalla casa, senza concentrarsi su nulla di particolare. Emise un lieve verso di
amara ironia. «Sono un mezzo lupo. Sopravviverò a
tutti quanti voi.» commentò.
Kumals sospirò
leggermente. «Ed è per questo che ti pare più giusto morire in maniera stupida?
O pensi che, solo perché i ‘4 di picche’ non esistono
più, puoi far finta che tutti noi non ci teniamo moltissimo a te…?»
Danny scosse lentamente la testa
e chiuse un momento gli occhi, come infastidito. Alla fine, riprese a parlare
con tono sommesso, come se cavasse a fatica le parole dalle sue riflessioni.
«Parli come se avessi deciso di suicidarmi. Ma non è stato questo. Solo… non riuscivo a pensare ad altro: tutto quello che
importava era eliminare quel tizio, farlo smettere di sparare finché non fosse
riuscito a colpire gli altri. Forse… ero entrato nel
suo stesso modo di fare. Dopotutto lui era un killer. E io a volte non sono
molto diverso. Anche a me a volte non importa altro che di uccidere. Di
eliminare la preda, o l’obbiettivo. È una questione di istinto.»
Kumals sorrise
gentilmente. «Sappiamo benissimo entrambi che non è così. Tu hai agito per
proteggere tutti gli altri, a costo di te stesso, anche se non c’era veramente
bisogno forse di andare a rischiare così tanto, anche se forse si poteva
prendere qualche secondo in più per pensare ad una strategia un po’ meno
estrema. Suppongo che in un certo senso sia più facile giudicare quando non ci
si ritrova in mezzo. E forse tutti noi avremmo potuto pensare ad un piano un
tantino migliore. In ogni caso, la tua non mi sembra una strategia molto
intelligente.»
Danny sospirò e scosse le spalle,
come a dire che si potevano anche trarre semplicemente quelle conclusioni
dopotutto.
Kumals continuò a sorridere
appena, come tra sé e sé. «Certo che ti sei ripreso davvero bene. Sembri stare
molto meglio. Eh… l’amore fa miracoli.» commentò,
guardando Andrea.
Danny lo guardò arrossendo, e
notandolo Kumals scoppiò a ridere di cuore.
«Che c’è??» domandò Danny, piuttosto
stizzito.
«Certo che è incredibile…
già: un lupo mannaro. Ne avrai viste già più di noi, e se la pianterai di
essere così stupidamente impulsivo in certe situazioni, probabilmente ne vedrai
ancora più di noi. Ma sei ancora capace di arrossire come un ragazzino colto in
flagrante.»
Danny dimenticò la sua
irritazione per fissare l’altro con stupore.
Kumals allungò un
braccio e glielo mise attorno alle spalle. «In confidenza, Danny, non importa
poi molto quanta acqua sia corsa sotto ai ponti da allora. La maggior parte del
tempo continuo a vederti come quello stupido lupo testardo e impulsivo che
abbiamo pescato a rubare galline una notte d’inverno.»
Danny gli rivolse un sorrisetto
cantilenante. «Oh, beh, tu invece hai molte più rughe di allora. E lo so bene: faresti
un patto col diavolo per non invecchiare.»
L’uomo colse la provocazione con
un ghigno divertito. «E puoi biasimarmi? Il mio fascino meriterebbe almeno
l’immortalità.»
Subito dopo, Kumals
rilasciò Danny dal fugace abbraccio, e fece qualche passo sul terreno ancora
umido davanti alla casa, raccolse il fiato e con voce tonante e allegramente
spensierata esclamò «Va bene, forza, piantiamola con questi cavalli ingordi e
scansafatiche! Abbiamo il punto della situazione da fare! Yuta,
vai a chiamare quei due topi in soffitta, il Conte e Justin.»
La ragazza si voltò a fulminarlo
con lo sguardo per aver ricevuto un ordine tanto esplicito, e Kumals, con la sua solita abilità, evitò agilmente
l’occhiataccia girandosi e avvicinandosi a Zoal.
Fermatosi davanti alla sua sedia, rivolse un affettuoso sguardo alla donna che
lo osservava attraverso le palpebre semi-sollevate, e le porse un braccio piegato,
con fare cavalleresco.
«Zoal.
Se volessi unirti a noi nella cucina. Avrò bisogno di te per spiegare a tutti
quanti cosa diavolo è successo in questi dannati giorni.»
Le labbra della donna si
incrinarono in un sorrisetto divertito, che esplicava chiaramente che le
lusinghe di Kumals erano pienamente prese con
scherzosa e tranquilla immunità. «Al momento mi trovo molto bene qui. Potremmo
invece considerare di spostare questa…assemblea… qui fuori, piuttosto che rinchiuderci tutti in
quella piccola cucina?»
Kumals ritrasse il
braccio «Ottima idea, eccellente!» commentò «Ogni tuo desiderio è un ordine.»
celiò.
Yuta, che gli stava
passando vicino per andare dentro la casa, gli assestò uno scherzoso ma
abbastanza consistente scappellotto a mano aperta sulla nuca. «Non ti si può
proprio sentire quando fai il cascamorto.» commentò di passaggio.
Kumals seguì con lo sguardo
la ragazza finché non entrò in casa, poi si rivolse di nuovo a Zoal e strizzò l’occhio complicemente.
«Ti assicuro: una volta le piaceva quando facevo il cascamorto.»
Zoal aprì
completamente gli occhi e lo guardò con intenzione. «Parli come se fosse passato
molto tempo. Negli ultimi giorni, però, sembra che non ne sia passato poi così
tanto, in fondo.»
Kumals sembrò colpito,
ma cercò di non darlo troppo a vedere. Affondò entrambe le mani nel suo enorme
e consunto cappotto e raddrizzò la schiena, fissando un punto imprecisato del
muro della casa. Sorrise appena, con delicata e distante malinconia, e scosse
un po’ la testa in un tranquillo ma sicuro disaccordo. «Forse sì, l’impressione
è questa in effetti… Ma certe cose non tornano più
indietro.»
Zoal lo fissò ancora
per un poco, poi richiuse gli occhi, con espressione stanca ma rilassata. «No,
certo. Non era questo che intendevo. Le cose vanno avanti. Ma siamo ancora
tutti qui. Non è come allora. Ma sarebbe sciocco fare paragoni, o perlomeno non
tentare di evitare di farli.»
Kumals le rivolse un
sorriso dolce. «Non siamo persone molto sciocche, dopotutto?»
Zoal annuì a occhi
chiusi.
«Lo siamo.» disse.
Note
dello scribacchiatore:
Rieccomi!No,
ben lungi da me voler lasciare la storia incompleta. Solo qualche accidenti di
problema tecnico con pc e affini da risolvere, ma rieccomi. Tornerò nei prossimi giorni col capitolo seguente
(insomma, ricomincio con un ritmo di pubblicazione decente!). Bye a chi è
sopravvissuto all’andamento della storia e alla lunga pausa.
Capitolo 66 *** 64 - A CARTE SCOPERTE - parte II ***
Capitolo 64
(A CARTE SCOPERTE – parte II)
Uther strizzò
leggermente gli occhi per il riflesso, seppure piuttosto pallido, del sole, nel
passare dalla penombra dell’interno della casa all’esterno. Nell’arco di pochi
secondi la sua vista si riabitò abbastanza da permettergli di mettere a fuoco
la scena. Si fermò pochi passi oltre la soglia per guardarla meglio, una mano
in tasca, l’altra che reggeva per il collo una bottiglia lungo il fianco, e uno
sguardo all’apparenza piuttosto assente.
A quanto sembrava, erano tutti lì
fuori, come per una specie di pic-nic improvvisato.
In mezzo ad un cerchio sommario
di sedie o seduti per terra sul terreno coperto da una verde peluria pre-primaverile, Yuta aveva
sistemato uno strofinaccio da cucina disteso, sul quale aveva appoggiato un
vassoio con un assortimento improvvisato di bruschette con salse e olive e un
paio di bottiglie di beveraggi fatti in casa. Valentine
e Kumals si erano portati delle sedie dalla cucina,
mentre Zoal era accomodata in una vecchia poltrona di
vimini. Ma sicuramente il più degno di nota era il Conte. Una cassetta di
plastica vuota da bottiglie era stata appoggiata per terra a testa in giù, e
tra essa e il posteriore del Conte c’erano un paio di cuscini di foggia
antiquata e un vecchio tappeto piegato; davanti a lui era stato sistemato un
tavolino basso di legno, probabilmente recuperato dalla soffitta. Per finire,
Justin stava finendo di sistemare, sotto le attente e contegnose istruzioni del
Conte, un forcone che era stato piantato per terra in modo che col manico
potesse sostenere l’ombrello nero aperto legato ad esso.
Una leggera smorfia fece per
comparire all’angolo delle labbra di Uther,
specialmente quando il suo sguardo, spostandosi dall’affaccendato, nervoso e in
qualche modo quasi ossequioso Justin, incrociò per caso il furtivo e complicemente divertito sguardo di Ramo.
«Oh, bene, eccoti qui!» esclamò
allora Kumals, notandolo.
Uther lo fissò di
sfuggita, per poi avvicinarsi al gruppo, salutando con un breve gesto con cui
alzò un poco il braccio che reggeva la bottiglia. Si sistemò seduto a sedere
tra Ramo e Kumals, ignorando con scioltezza il
tentativo di quest’ultimo di ottenere da lui una qualche osservazione con il
guardarlo in attesa.
«Splendido, ora che ci siamo
tutti, possiamo iniziare, no?» continuò Kumals con
piglio pragmaticamente vivace, occhieggiando in particolare in direzione del
Conte e di Justin, ancora intenti alla sistemazione dell’improvvisato sostegno
dell’ombrello in modo che l’ombra ricadesse perfettamente su ogni superficie
del corpo del Conte. Udendo il suo tono significativamente esortativo, Justin
ebbe un rapido sussulto nervoso.
«Certamente, signor Kumals. Justin, in cotal modo
credo che sia perfettamente posizionato.» gli venne in aiuto il Conte, per poi
guardare Uther, con sorpresa di quest’ultimo. «Signor
Uther, non posso esimermi dal comunicarle il mio
incommensurabile sollievo nel trovarla in buone condizioni di ripresa dalle
ferite che ha riportato in battaglia.»
Per un istante Uther gli rivolse un cipiglio pressoché scontroso, come
chiedendogli implicitamente se facesse sul serio. Tuttavia, vedendo che sul
viso del Conte faceva bella mostra di sé la più sincera delle espressioni, si
risolse a muovere la mano in aria per dare segno che in qualche modo accoglieva
la sua attenzione, mentre beveva un sorso di birra. Guardando da più vicino,
notava ora che sul tavolino davanti all’altro erano stati accuratamente
sistemati alcuni fogli stirati, un calamaio in cui giaceva affondata di punta
una lunga e nera penna, una tazza con piattino di porcellana decorata con un
cucchiaino di quello che sembrava argento e una teiera dello stesso tipo.
«Perfetto, e allora iniziamo!»
annunciò Kumals.
Uther lo spiò di
sbieco. «Non farla tanto lunga.» borbottò.
A Yuta
andò di traverso il liquore che stava bevendo a causa dell’improvviso sorgere
di un sussulto di riso. Guardò in direzione di Uther
sorridendo divertita, ma suo malgrado si accorse che il ragazzo teneva lo
sguardo rivolto al terreno, e non poteva incrociare la sua occhiata.
Anche Kumals
lo stava guardando, e il suo sguardo critico tradiva un che di immancabilmente
affettuosamente divertito. «Sarebbe meglio prenderla almeno un po’ sul serio.
Si tratta di fare il punto della situazione… e non è
così semplice da spiegare.» disse tuttavia in tono appena ammonitorio.
Uther gli gettò di
nuovo un breve sguardo, e in tono assolutamente serio rispose motteggiante
«Allora, per favore, comincia dal principio e, quando arrivi alla fine,
fermati.*»
Un percettibile divertimento
percorse quasi tutto il cerchio, esplicitandosi in vari suoni di sommessa
risatina. Perfino Zoal, anche se sembrava
stanchissima e in procinto di cedere al sonno, sorrise con piacere dalla sua
poltrona di vimini.
Kumals scosse
brevemente la testa in segno di rassegnazione, sospirò leggermente, e iniziò a
parlare facendo calare su tutto il gruppo un assorto e attentissimo silenzio.
«Tanto per iniziare…
posso concludere, visto quello che è successo in questi giorni e considerate le
informazioni di cui siamo riusciti a entrare in possesso, che si sia trattato
nel complesso e in definitiva di un esperimento.» Dopo una breve pausa,
aggiunse «E noi ne siamo stati parte integrante.»
Kumals si soffermò a
saggiare con soddisfatta aspettativa gli sguardi che lo osservavano con varie
espressioni di stupore, confusione, tentativo di comprendere o anche plateale
perplessità e vaga incredulità. Certamente, non si potevano definire
altrettanto soddisfacenti i contegni di Uther, che
continuava a fissare il terreno con fare tra l’annoiato e l’impassibile, o del
Conte, che, chino sul suo tavolino, era intento a scrivere febbrilmente con la
penna che grattava rumorosamente il foglio. Se si poteva reggere il grado di
ansia vicina al tracrollo che trasmetteva,
l’espressione di Justin era tuttavia più che fruttuosa nel rendere l’idea di
cosa sia la suspense che mozza il fiato in gola e l’ossigeno nel cervello.
«Proprio così. Un esperimento.
Ritengo che il signor Collins ne fosse l’incaricato. E che i suoi “datori di
lavoro” siano alcune teste dell’esercito e in particolare dei reparti della
difesa di alcuni paesi alleati o perlomeno in buoni rapporti commerciali. Non
ambivano, come credo che sia ovvio, a mantenere una particolare segretezza.
Probabilmente, tuttavia, si staranno sicuramente premurando di fornire
informazioni, ben distribuite in piccole dosi nel tempo, su quale sia un
accenno di spiegazione che non li coinvolga né lasci sospettare una loro
consapevolezza di quanto hanno scatenato. Per finire, dovremmo considerare
anche l’intervento di quello che doveva essere un assassino prezzolato. Credo
che il suo compito specifico fosse tenerci d’occhio per impedirci di combinare
troppi danni, diciamo, ma anche di permetterci tutto sommato di arrivare
abbastanza vicino a capire quello che stava succedendo. Ma per non complicare
troppo le cose, partiamo dal principio, procedendo abbastanza
cronologicamente.»
«L’esperimento consisteva nel
testare l’invenzione frutto degli studi di Collins. Un meccanismo di controllo
o di neutralizzazione mentale distribuito ad ampio raggio con sistema di radio
e televisione, in grado di colpire chiunque la guardi o la ascolti anche solo
per pochi minuti, giudicando da ciò che è successo al Conte. Sulla maggior
parte delle persone è stata testata la neutralizzazione. Il controllo vero e
proprio è invece stato testato su un gruppo ristretto di persone, quelle
richiamate alla villa dove era stata sistemata la base del signor Collins. Ho
lasciato che i documenti riguardanti l’esperimento fossero ritrovati dalle
persone che si sono risvegliate. Noi tuttavia possediamo una copia del
programma, che era gestito a livello informatico. Per nostra fortuna, visto che
Justin ha potuto così farci qualcosa. Ma non si tratta solo di scienza e
tecnologia, per così dire, ma anche di magia nera. Il signor Collins si è
ispirato ad alcuni diari in lingua antica africana, probabilmente redatti da
qualche stregone, che riportavano il modo di generare quelli che chiamiamo
zombie. Forse la maggior parte di noi conosce meglio quella versione degli
zombie che fanno capolino nei film moderni, cioè i morti che si risvegliano e
la cui priorità è cibarsi di carne umana. Ma più originalmente la leggenda
dello zombie proviene dall’africa nera, dalle storie di stregoni che erano in
grado di ridurre persone in uno stato apatico, di neutralizzare la loro volontà
individuale, di farne dei loro servi che ubbidivano a comandi relativamente
semplici, e li eseguivano con un accanimento tanto formidabile da non curarsi
dei bisogni fondamentali come nutrirsi o dormire, e senza per questo deperire o
morire. Beh, dopotutto, se volete saperne di più potete sempre chiedere al
Conte, che ne sa molto più di me.»
«L’esperimento voleva essere
fatto nel “mondo reale”. Un’intera cittadina e qualche casa isolata, un raggio
di diversi chilometri. Colpire tutti i soggetti che vivono o si muovono in
quest’area, non escludendo affatto chi poteva rimanerne immune, perché magari
non fa uso di radio o televisione, o addirittura chi potrebbe cercare di
scoprire cosa sta succedendo e cercare di ostacolarlo. Perciò, anche noi
eravamo inclusi nell’esperimento. In parte non proprio volutamente. Dopotutto,
sanno della nostra esistenza, e delle nostre passate attività e delle nostre
capacità: siamo sotto la categoria dei fenomeni o degli esseri viventi strani.
Forse non potevano prevedere che io arrivassi, ma la mia presenza non poteva
turbare più di tanto l’esperimento, semmai renderlo più interessante.
L’efficacia di un mezzo tale doveva essere testata specialmente anche nel
resistere al nostro contrattacco. Non credo però che il signor Collins fosse
del tutto consapevole della sua posizione. Quello che lui deve aver scambiato
per una fiduciosa scelta di lasciargli una certa autonomia nel fare questo
test, era in verità una parte stessa del test. Vedere quanto qualcuno che fosse
eventualmente stato in possesso del programma ma che agisse da solo potesse
cavarsela. Anche un modo per scaricare poi esclusivamente su di lui come su di
un pazzo isolato tutta la responsabilità di quanto successo. Sicuramente
affermeranno, oltre al non averne saputo niente, che tutti i dati del programma
sono andati distrutti o non sono stati ritrovati. In realtà ne avranno
sicuramente una copia, quella che Collins sarà stato costretto a dare loro
quando ha deciso di avere il loro lasciapassare per fare questo esperimento.»
«Il mio arrivo era dovuto alla
chiamata del signor Benton, che come sapete purtroppo è deceduto. Lui non aveva
forse capito esattamente che cosa stava accadendo nelle retrovie, ma aveva
avuto un assaggio di quello che stava combinando Collins, che, essendosi
stabilito laggiù, si sentiva così solo da cercare la compagnia del signor
Benton. Questi era una persona estremamente istruita, e non nuovo a qualche
chicca da collezionista di curiosità riguardo fenomeni paranormali come quello
dello zombismo. Probabilmente ha pensato inizialmente
che Collins non fosse altro che ciò che si spacciava: un uomo di scienza e di
cultura venuto a cercare un po’ di quiete da queste parti. Ma in qualche modo
Benton ha capito quello che succedeva. Credo che sia stata una disattenzione di
Collins stesso, magari un passo falso involontario, per cui ha accennato
qualcosa al suo nuovo amico riguardo al suo lavoro. Benton allora si è
preoccupato moltissimo e mi ha chiamato, paventando cosa potesse fare quello
che per lui era in effetti un pazzo solitario che stava per scatenare una
tragedia ad ampio raggio. Collins però deve essere stato avvertito dalle teste
alte che Benton lo aveva “tradito” e che poteva essere pericoloso. Per questo
ha condizionato mentalmente un gruppo circoscritto di persone che potevano fare
al caso suo, un gruppo di centauri. Probabilmente li ha attirati da lui
offrendo loro soldi per sottostare ad un semplice ed innocuo esperimento, ma li
ha a tutti gli effetti condizionati in modo che svolgessero un compito
abbastanza semplice: irrompere da Benton ed eliminarlo. Quella stessa sera però
c’era un intero ricevimento e la cosa è diventata un po’ più drammatica del
previsto, o forse Collins sapeva del ricevimento e, chissà, magari gli è
sembrato più divertente oppure ha ritenuto che potesse suonare più credibile
che un gruppo di centauri drogati facesse irruzione ad un ricevimento vedendone
le luci e sentendone i rumori. Ad ogni modo, Benton, che già sospettava che
potesse accadergli qualcosa, aveva affidato al suo maggiordomo, con lo
specifico compito di tenerle sempre al sicuro con sé, le carte che riteneva
potessero essere una chiave per capire cosa stesse facendo Collins.
Probabilmente voleva affidarmele, ma non ha purtroppo fatto in tempo, ed era
troppo sconvolto quando ci siamo incontrati in mezzo a quella confusione per
poter pensare che fosse una buona idea mettermi a parte della loro esistenza o
importanza. È grazie a lui però se siamo riusciti a fermare il tutto. Quelle
che aveva erano le carte di un antico scritto di uno stregone africano su come
indurre ma, soprattutto, su come annullare lo zombismo.
Se il Conte non fosse inoltre stato in grado di comprenderne il significato,
probabilmente a quest’ora ci saremmo trovati in acque assai peggiori.»
«Per quanto riguarda quello che
abbiamo trovato a Foelm e il cecchino, Zoal, credo che tu potresti continuare spiegando meglio,
visto che è stata una tua intuizione capire cosa è successo e ricollegarlo al resto…»
Kumals si rivolse
gentilmente alla donna seduta di fianco a lui.
Sembrava impossibile che Zoal, che appariva assai stanca e debole, come se fosse in
preda ad una sorta di stato febbrile, potesse effettivamente continuare il
discorso. Invece, iniziò a parlare con chiarezza, per quanto il suo tono fosse
calibrato in modo da farsi appena sentire comprensibilmente, e il suo ritmo di
parola fosse molto più lento e attento, come procedendo con paziente
circospezione, ma limpidamente.
«Credo che quelle carte che
abbiamo trovato a Foelm non fossero rimaste là per
sbaglio. » iniziò Zoal con calma «Forse Collins le ha
inizialmente effettivamente lasciate là quando è stato a quella stazione radio
per inserire il programma di condizionamento nella ripetizione delle onde
radio. Tuttavia, non credo non si fosse accorto della sua svista. Sapeva che
saremmo andati là. Ci hanno sicuramente tenuti d’occhio, perlomeno mediante
quell’assassino mercenario, in ogni nostro spostamento. Hanno propriamente
analizzato il nostro modo di agire nell’indagare e contrastare quello che stava
accadendo, facendo parte dell’esperimento. Ma Collins era interessato a che noi
trovassimo quelle carte per altri motivi. Voleva che lo trovassimo e che
cercassimo di fermarlo. Non certo perché voleva essere fermato, ma perché aveva
sentito parlare di Kumals e dei ‘4 di picche’, seguendo la sua passione per il paranormale.
Voleva incontrarci, o almeno incontrare Kumals;
voleva fronteggiarci e rassicurare il suo delirio di onnipotenza nello
sconfiggere il nostro tentativo di fermarlo. Per quanto riguarda l’assassino,
egli deve essere stato assoldato da quelle che Kumals
definisce riassuntivamente le ‘teste alte’, ed essere
stato messo agli ordini parziali di Collins, anche se naturalmente i suoi
referenti nonché assoldatori erano gli stessi che
hanno permesso a Collins di fare questo esperimento. Dagli uni aveva ricevuto
l’ordine di sorvegliarci e seguirci e di essere pronto a intervenire contro di
noi appena ne avesse ricevuto l’ordine. Da Collins probabilmente ha ricevuto
l’ordine similare di lasciarci fare fino a quel tanto che avessimo la
possibilità di arrivare a lui e di essere da lui sconfittie umiliati nel nostro volerlo fermare. In
tutto questo, però, ha come sapete tentato qualche volta di colpirci. Non credo
che il suo vero intento fosse esattamente quello di eliminarci. Troppe volte
avrebbe potuto farlo e non l’ha fatto, né vi ha provato troppo seriamente. Più
che altro, voleva intimorirci quel tanto da testare la nostra testardaggine dal
voler proseguire con le nostre azioni di indagine e contrasto. Ritengo che
probabilmente facesse parte del test. E che anche lui facesse parte del test.
Se Collins doveva figurare come l’esperimento di uno che cerca di utilizzare da
solo il programma di controllo mentale, quel mercenario figurava come uno solo
che aiutasse Collins. Quando però abbiamo deciso di attaccare direttamente
Collins, i suoi ordini sono cambiati. Doveva eliminare una parte di noi. Quello
che non sapeva, però, era di essere stato mandato incontro appositamente
sguarnito. Secondo i loro piani doveva essere sconfitto, così come Collins, in
modo che fossimo noi a eliminare le tracce scomode e vive di quanto successo e
dimostrassimo come questo sistema di controllo mentale, se cadesse nelle mani
di una sola persona e solo da essa venisse utilizzato, non funzionerebbe. In
altre parole, un modo per dimostrare l’efficienza della resistenza di un
‘ambiente’ e dei suoi ‘abitanti’ in caso venisse usato in questo modo. Così,
quell’assassino è stato mandato contro di noi appositamente non del tutto
fornito di quanto serve per sconfiggerci. Nessuno ha infatti pensato di
informarlo esattamente sul fatto che un lupo, quale Danny è, può essere
efficacemente ucciso con armi d’argento, anche se, in certe circostanze, si può
abbatterlo anche con armi convenzionali, ma è comunque molto più semplice con
l’argento. Dunque, il mercenario era un altro campione di esperimento: un
cecchino comune, non dotato di particolari conoscenze né armi per affrontare il
paranormale. Quello che hanno voluto testare, in somma, è un esperimento della
resistenza di un ambiente comune e di alcuni soggetti del mondo del paranormale
contro un attacco di base scientifico e tecnologico, per quanto dotato di una
piccola parte di paranormale quale sono le parole di magia nera che lo fanno
funzionare. Collins, per finire, era invece fiducioso nel cecchino. Certo era
troppo preso dal suo febbrile delirio di onnipotenza per seguire le cose in
maniera abbastanza lucida da potersi accorgere, se ne avesse avuto il sospetto,
che non era così. Pensava che il mercenario sarebbe riuscito da solo a
occuparsi di noi, essendo in effetti un assassino molto abile e professionale,
dopotutto scelto e ingaggiato proprio dalle acute “teste alte”, mentre lui avrebbe
potuto affrontare faccia a faccia solo Kumals, me,
Justin ed eventualmente Uther solo con il suo
esercito di condizionati. Ritengo inoltre che fosse così affascinato da ciò che
sapeva di Kumals di aver trascurato gli altri di noi
e le nostre capacità, e quindi non temeva molto ciò che avremmo potuto fare.
D’altra parte, non credo ci siano inoltre molte testimonianze di molte delle
nostre capacità… Io per prima, non ho mai palesato
tanto i miei trucchetti quanto ho fatto in questa occasione…»
Il tono della donna si smorzò e
si spense lentamente, lasciando spazio al silenzio. Eccetto che per il
frenetico grattare della penna del Conte sui fogli, che cessò solo dopo qualche
minuto. Qualche lungo momento di silenzio dopo, Andrea si schiarì timidamente la
voce, attirando suo malgrado su di sé l’attenzione di tutti.
«D’accordo, quindi…
quindi siamo tutti in pericolo? Cioè, noi sappiamo cosa effettivamente è
successo e più o meno da chi è stato ordito e messo in atto tutto questo.
Sappiamo anche come neutralizzare questo… programma
di condizionamento mentale di massa, e abbiamo tutte quelle carte che penso
proprio possano essere considerate come… ‘prove’. In
altre parole, non dovrebbero voler eliminare anche noi?» chiese infine,
lottando contro il nervosismo che cercava di irrigidirle le corde vocali.
Kumals sorrise
sibillino. «Giustissimo. Ma non se lo possono permettere. Prima di tutto, mi
conoscono più che abbastanza. Sanno che la mia morte sarebbe per loro molto più
scomoda che la mia sopravvivenza. Sanno che non diffonderò le “prove” in mio
possesso a meno che non mi daranno motivo di farlo attaccando in qualche modo
la mia o la vostra incolumità o tentando di utilizzare ancora questo programma
di condizionamento mentale. Sanno che la nostra sopravvivenza sta abbastanza a
cuore ad una serie di persone che fanno parte del mondo – per così dire – del
“paranormale”, che ancora tu non conosci Andrea, e qualche altra abile persona
che da sola potrebbe costituire per loro una spina nel fianco. È estremamente
nel loro interesse evitare una coalizione di attacchi a loro danno per
vendicare qualche morte o serio attacco che ci riguardi direttamente. E sanno
che ho qualche arma di ricatto potenzialmente molto scomoda nei loro confronti.
Come quella volta che tentarono di inserirsi nella guerra di Liphantop – una delle guerre tra vampiri e streghe – per
dirigere degli attacchi su alcuni insediamenti umani. O per il fatto che posso
chiedere a qualche amico il favore di fare parlare qualche morto che loro hanno
ucciso proprio per evitare che rivelasse certe scomodità…»
Per un momento sulle labbra di Kumals comparve un sorrisetto astuto che aveva qualcosa di
indubbiamente mefistofelico. Andrea tuttavia aveva un’espressione attonita.
«Vuoi dire che esistono…strehe e vampiri?!»
esclamò poi, con un tono in cui si mischiavano così strettamente lo stupore,
l’incredulità e la curiosità da essere praticamente indistinguibili.
Kumals si sottrasse
dalle sue riflessioni, che avevano tutta l’aria di stare sguazzando in accurati
e diabolici piani di vendetta spietata, per concentrarsi di nuovo sulla
ragazza, e per un momento la sua prima sensazione fu di sorpresa. Ma si riprese
in fretta. Certo, stava pur sempre parlando con qualcuno che fino a qualche
giorno prima era completamente all’oscuro che potesse davvero esistere, e che
si potesse assistere così direttamente e non attraverso qualche trucco scenico,
qualsivoglia tipo di fenomeno paranormale. Strano piuttosto che l’avesse
dimenticato. Forse era per via del fatto che era molto preso dalle sue
riflessioni riguardo a sottili giochi di ricatto e vendetta, o forse… forse era perché per qualche istante aveva come
dimenticato che Andrea fosse una novizia del loro piano di realtà. Poteva
essere a causa del fatto che la ragazza, dopotutto, era stata la prima a
reagire a quel carico di informazioni e spiegazioni, individuando prontamente
quello che per lei era un punto critico, digerendo ed elaborando più
velocemente di tutti gli altri tutte quelle delucidazioni.
Non era la prima volta che Kumals incontrava nella sua vita qualcuno che, per quanto
avesse vissuto una vita perfettamente comune e non avesse alcuna particolare
esperienza, dote innata o talento nell’essere invischiato dal paranormale,
riuscisse ad averci a che fare di primo acchito con una certa naturalezza
spontanea. Una specie di ‘esserci portati’ anche quando vi si era per natura
estranei. Così come qualcuno potrebbe imparare in fretta qualche arte pur senza
che essa gli calzi affatto. Forse era per quello, si rese conto Kumals - che a volte parlava con più impulsività di quanto
avrebbe voluto, anche se non lo dava a vedere - che prima aveva detto proprio
che Andrea non conosceva ancora quel
mondo del “paranormale”. Sì, decisamente doveva ancora affinare la scelta delle
parole prima di pronunciarle, perché per quanto le sue sviste fossero
infinitesimali, a volte erano più che significative, e purtroppo involontarie.
Ma la voce di Ramo lo sottrasse alle sue riflessioni.
«Quindi…
praticamente abbiamo loro fatto un favore, abbiamo seguito i loro piani in un
certo senso…» commentò con rabbia e scoramento il
ragazzo «Insomma, abbiamo fatto parte del loro fottuto esperimento come cavie.
Siamo arrivati all’uscita del loro labirinto e abbiamo rosicchiato il loro
formaggio avvelenato.»
Kumals soppesò
brevemente il cocente senso di sconfitta dell’altro, e rispose con tono
gentilmente incoraggiante e sicuro. «Tutt’altro. Abbiamo loro dimostrato, pur nell’ambito
del loro esperimento, che il paranormale può ancora vincere contro sistemi di
controllo tecnologico. E abbiamo conquistato una posizione di indubbio
vantaggio non solo per noi, ma per tutte le potenziali future vittime del loro
programma. Come dicevo, Ramo, non potranno più usarlo fintanto che potremo
ricattarli tirando fuori le prove di chi ha contribuito allo sviluppo e al test
del progetto e, soprattutto, fintanto che potremo comunicare alle nostre
conoscenze dotate di qualche potere come disinnescarlo. Abbiamo una copia delle
loro chiavi del nostro mazzo. Se aprono una porta in tal senso, noi potremmo
chiuderli dentro o fuori, potremmo entrare e uscire a piacimento, e via
dicendo. Inoltre… beh, nonostante io non ritenga
interessante al momento diffondere le informazioni e le prove che abbiamo
all’opinione pubblica comune, per così dire, ti garantisco che gireranno tra
chi sarebbe in grado di capirle e contrastarle. Sicuramente qualcuno avrà
voglia di mettersi a giocare in modo da sviluppare un programma di disinnesco
del loro controllo mentale molto più potente ed efficace di quello che abbiamo
dovuto improvvisare noi.»
Ramo lo guardò, in qualche modo
ancora non del tutto soddisfatto. Come se comprendesse perfettamente
quell’espressione, fu però Danny a farsi sentire. «In ogni caso, sarebbe molto
più divertenti andarli a trovare uno per uno e prenderli a calci in culo finché
non gli passasse del tutto la voglia di fare queste cazzate. Voglio dire,
aldilà del tutto della gente ci ha lasciato le penne! Per esempio tutti quelli
che erano nella scuola di Andrea che sono caduti dalla balaustra perché non si
rendevano conto di ciò che stavano facendo. Probabilmente altre persone si
saranno fatte male o… »
Danny tacque, come se
improvvisamente avesse realizzato solo in quel momento a quale ricordo il suo
discorso aveva finito per condurlo. La memoria di quanto aveva fatto a Foelm calò improvvisamente e pesantemente su tutti loro
come un pesante manto che non lascia respirare.
Kumals riprese parola,
con tono cupamente greve. «Prima o poi dovranno avere a che fare con le
conseguenze di tutto questo. Non ho mai detto che saranno per sempre incolumi
per quello che è successo. Solo, è saggio aspettare il momento più opportuno
per farli pentire acutamente di ciò che hanno messo in atto. Il mercenario e
Collins sono già morti. Ma ci sono cose che ad alcune persone possono dare più
fastidio, piuttosto che la semplice morte. Nel frattempo, se mi conoscono un
minimo, passeranno il tempo nel timore dell’attesa del giorno in cui andrò ad
incrociare il loro cammino.»
Danny alzò lo sguardo su Kumals. L’uomo aveva radunato attorno a sé un’aria davvero
degna di essere presa in seria e timorosa considerazione. Andrea, che li stava
fissando, notò la maniera in cui il ragazzo soppesava quell’aria come se non lo
spaventasse, bensì per saggiarne la serietà della determinazione, come se Kumals gli stesse in qualche modo facendo una promessa
sull’onore. Anche se Andrea si era più o meno abituata a tutte quelle stranezze
da paranormale, non aveva ancora imparato a temerlo, e quella fu la prima volta
in cui sentì la vera e propria paura che lo sguardo di Danny o l’aura di Kumals potevano esercitare. Il senso di inconciliabilità
tra la fiducia e la conoscenza che aveva maturato dei due e quel senso di
istintiva e pura paura la scosse profondamente, al punto che resistette a
stento dal muoversi per scostarsi un poco dal fianco di Danny. Ricordò quando,
giorni prima, il ragazzo le aveva detto che avrebbe dovuto temerlo, e lei aveva
affermato di non aver paura di lui. Credeva di non poterne avere in nessun
caso, ma in quel momento quella sensazione non poteva che essere presa com’era,
come qualcosa che aveva il potere di rimettere in dubbio quella sua
affermazione, in cui allora aveva creduto senza riserve.
«D’accordo…
allora a parte le vendette e i ricatti, se non c’è altro, io tornerei ai fatti
miei.» commentò all’improvviso Uther, rimettendosi
lentamente in piedi con aria tutto sommato tranquilla, anche se ancora teneva
lo sguardo abbassato, come se fosse sua precisa intenzione incrociare il meno
possibile, o meglio se per niente, gli occhi di chiunque altro.
«Un momento solo, se non vi
dispiace concedermelo naturalmente.»
Uther si fermò appena
prima di girare le spalle per tornarsene in camera e scoccò uno sguardo
piuttosto sinceramente infastidito al Conte, alzando appena un sopracciglio di
vago sospetto di perplessità imminente.
Il Conte stava già da qualche
momento sistemando i suoi fogli di appunti, prima pareggiandoli reciprocamente
lungo i bordi usando accuratamente il ripiano del tavolo come appoggio e
righello, poi sfogliandoli per apportare qualche piccola correzione con qualche
elegante svolazzo di penna inchiostrata e della manica larga e nera del suo
abito.
«Sono estremamente desolato di
dovervi disturbare nel chiedervi di concedermi altro tempo, ma purtroppo la
rapidità della mia mano non ha potuto accompagnare ad ogni passo la precisa e
rapida esposizione del signor Kumals e della
signorina Zoal. Dunque, vorrei umilmente demandarvi
la pazienza di assistere il mio modesto tentativo di rendere merito alle vostre
parole nel ripercorrere le mie note, per assicurarmi che il limite delle mie
capacità non abbia in alcun modo intaccato la vostra accorta esposizione dei
fatti.»
Già molto prima che il Conte
finisse di parlare, Uther si era risolto ad
andarsene, il suo ultimo dubbio sul fatto che l’altro non avesse niente di
significativo da dire definitivamente fugato. Gli sguardi di Danny, Ramo,
Andrea e Yuta lo seguirono finché non scomparve
all’interno della casa.
«A proposito dei suoi scritti, Conte…» iniziò con affabile e cauta gentilezza Kumals.
«Oh, mi perdoni se la interrompo,
ma oso pensare di poter già immaginare quali parole sta per rivolgermi. E mi
rendo conto soltanto in questo momento, purtroppo e mea
culpa signor Kumals, di non averle esposto in quale
maniera ho studiato di conservarli, per garantire che possano essere essi
stessi al sicuro da mani e occhi indiscreti. Sarei felice di potermi consultare
con lei a riguardo.» disse il Conte.
Kumals sospirò appena.
«Certamente. Parliamone, allora.» si rassegnò.
Mentre Kumals
e il Conte continuavano a discutere del destino degli appunti sulle cronache di
quei giorni, o, come le chiamava il Conte, sulle sue memorie autobiografiche
scritte, il resto del gruppo iniziò a sciogliersi e a disperdersi.
Justin rimase a sonnecchiare
placidamente accanto allo scrittoio del Conte; le parole del discorso che
avveniva accanto a lui sembravano lasciarlo indifferente, mentre masticava un chewingum ostinatamente, leggeva distrattamente un fumetto,
e manteneva la sua posizione come se, nella nube della sua esaustione
fisica e soprattutto nervosa, il suo punto fermo fosse diventato il suo
rimanere accanto al Conte e a sua disposizione. Di tanto in tanto, dal momento
che la disquisizione proseguiva attraverso i minuti, il Conte interrompeva
brevemente lo scambio, dopo averne chiesto rispettosamente scusa a Kumals, per chiedere gentilmente a Justin di riaccomodare
l’ombrello in modo che, nonostante il viaggiare del sole nel cielo, l’ombra lo
ricoprisse sempre perfettamente.
Anche Zoal
era rimasta seduta sulla sua poltrona di vimini, ma sembrava ascoltare solo
come un sottofondo interessante ma tralasciabile per fiducia la conversazione.
Abbandonata al suo sonnecchiante riposo, sembrava rilassarsi sotto la luce del
sole e nell’accarezzare Duca, acciambellato sulle sue ginocchia. Da Mama, accucciata accanto alle sue gambe e con la grossa
testa appoggiata su uno dei suoi piedi, proveniva un russare dal ritmo
regolare.
* la citazione proviene dal
personaggio del leprotto bisestile /lepre marzolina del cartone animato Alice
nel Paese delle Meraviglie della Disney
Note
dello scribacchiatore
Come
vedete, l’aggiornamento ha effettivamente ripreso ritmi decenti!
Questo
è uno dei capitoli che purtroppo non ho potuto accorciare.
Perdonatemi
eventuali errori di ortografia, purtroppo ora come ora mi manca il tempo di
ricontrollare più accuratamente, mi riprometto di farlo in futuro.
Ecco,
comunque, ci sono altre “carte da scoprire”, anche se di altro tipo, e quindi
continuerò a farlo nel prossimo capitolo!
Come
sempre se volete potete scrivere commenti, domande, etc,
come recensione o privatamente a me.
Andrea guardò Danny. Ogni
centimetro del viso del ragazzo esprimeva una tranquillità così serena e
contenta che aveva qualcosa da ragazzino. Beh, dopotutto, lui avrebbe dovuto
esserlo, un ragazzino, magari con qualche anno di più. Tutto del suo aspetto
diceva qualcosa sui venticinque anni suppergiù. In quel momento Andrea realizzò
che quel tipo di espressioni da più o meno spensierato ventenne non comparivano
molto frequentemente sul suo viso. No, nonostante il suo aspetto e certi suoi
modi giocosamente immaturi, Danny aveva la maggior parte delle sue espressioni
che sembravano appartenere ad una persona più vecchia. E la sua natura di lupo
poteva ben permettergli di essere in effetti molto più longevo di quello che
appariva. La ragazza si rese conto che quella era una delle tante importanti
domande che non gli aveva ancora fatto.
L’espressione di Danny mutò
rapidamente, diventando più seria e iniziando ad essere offuscata da un’ombra
di apprensione. «Qualcosa non va?» le domandò premurosamente, prendendole
istintivamente le mani tra le sue e avvicinandosi di più a lei, per guardarla
meglio in viso e per permettere loro una certa intimità nel parlare.
Poco lontano, Kumals
era ancora intento a discutere con il Conte. Dall’altra parte, più vicino a
loro, Ramo e Valentine si erano messi a giocare con Tirch e Danza, senza aspettare la risposta all’offerta che
avevano appena fatto ad Andrea e Danny di andare con loro a fare una
passeggiata nel bosco tutti insieme con i due cani.
Andrea guardò Danny negli occhi e
sorrise al pensiero che lui doveva essere così candidamente felice solo per
quell’occasione di fare una passeggiata tutti insieme. «No, niente, tutto ok.
Stavo solo pensando.» gli rispose.
Danny le credette,
probabilmente più per il sorriso che le era comparso in volto più che per le
semplici parole. Sorrise caldamente a sua volta, convinto che dovessero essere
riflessioni piacevoli quelle che l’avevano indotta a quell’espressione. «A che
cosa?»
«Beh…»
cominciò Andrea, guardando verso il bosco e assumendo un’espressione più vivace
«Non sembra affatto una cattiva idea. Vedere il bosco in piena luce, stavolta.
Niente strane cose… demoni, o giù di lì. Giusto?»
«Più che giusto!» confermò Danny
con entusiasmo, dandole l’impressione di poter essere figurativamente
scodinzolante quanto lo erano letteralmente Tirch e
Danza. «E’ bellissimo il bosco di giorno! Okay, in realtà lo è anche di notte…ma… diciamo che è sempre
meglio avere i primi approcci con la luce del sole. E magari niente nebbia. Per
via di qualche trucchetto qui e là che fanno quelli
che ci vivono… Hanno veramente un pessimo senso
dell’umorismo a volte. Davvero pessimo.»
Andrea lo guardò alzando un
sopracciglio. «Vuoi dire che quel demone che mi ha rapito e si è trasformato in
me stava solo cercando di scherzare?» domandò, tra l’incredulo e il tenacemente
indignato.
«Va bene…»
ammise Danny, facendo vagare attorno nell’aria lo sguardo, sulla difensiva
«Diciamo che non si può parlare di senso dell’umorismo. Forse sarebbe più
adatto dire che è il loro modo di passarsi il tempo.»
Andrea lo guardò con ancora
maggiore scetticismo. Danny lasciò una delle sue mani per passarsela
distrattamente dietro la nuca.
«Okay, forse no... non rende
l’idea, eh?»
Andrea scoppiò a ridere cristallinamente. «No, affatto!»
Danny la guardò con felice
stupore. Era da un po’ che non la sentiva ridere, si rese conto. O forse, non
l’aveva ancora mai sentita ridere così. Un suono particolarmente gradito per il
suo sensibile udito. Un momento dopo, realizzò che lei stava ridendo con tanto
divertimento, di quelle risa che scaturiscono a scoppio e senza preavviso come
per un qualche segreto e inconsapevole senso di gioia, proprio a riguardo di un
episodio che in origine doveva essere stato per lei particolarmente drammatico.
Diamine, era pur sempre stata rapita da un demone, e lui aveva dovuto fare
finta di spararle addosso! No, per lui era stato peggio perderla che spararle,
certo, perché nel secondo caso sapeva benissimo di stare facendo finta, ma lei
non lo sapeva: non mentre lo aveva visto mirare su di lei e premere il
grilletto. E ora ne rideva. Ecco qua. Forse era un po’ matta, almeno un po’,
almeno abbastanza da essere un po’ fuori di testa quanto loro.
«In ogni caso» riprese Danny
incoraggiante, riprendendole entrambi le mani e facendole oscillare leggermente
e ritmicamente, come imitando alla lontana un invito a ballare «di giorno il
bosco è meglio! Niente cose in agguato, cioè, niente più che sciocchezzuole da
quattro soldi. Una normale passeggiata, ma è affascinante. Niente a che vedere
con i parchi di città e roba del genere.» garantì.
Andrea si prese qualche altro
secondo per osservarlo. Decisamente, ricordava un bambino che stesse per essere
portato al luna park. Poteva leggergli negli occhi
che stava per aggiungere qualcosa a riguardo del fatto che c’era anche il sole,
e un certo caldo dal sapore primaverile, e altre cose di questa sorta. Non che
lei avesse davvero bisogno di sentire la descrizione di altre qualità aggiunte
di una passeggiata nel bosco. Ma…
«Danny…»
iniziò, con una certa fatica «Credo che questo sia un buon momento in cui
potresti approfittare del fatto che, in qualche modo, le cose si sono risolte,
per fare un’altra cosa...»
Il ragazzo scacciò di nuovo
l’entusiasmo vivace per tornare concentrato e serio. Non che si fosse fatto del
tutto convincere prima da lei a riguardo del fatto che non c’era niente che la
stesse preoccupando. Ma aveva pensato che si trattasse “solo” del fatto che ora
che si poteva tirare fiato dal precipitoso susseguirsi e accavallarsi di
emergenze, lotte, ferite, e così via, Andrea stesse semplicemente impattando
con il poter tornare ad uno stato di calma relativamente sufficiente per
digerire tutto quello che era successo. In questo senso, niente sembrava meglio
di una passeggiata nel bosco, almeno per lui; perché non avrebbe dovuto
rappresentare un’allegra e piacevole distrazione anche per lei? Visto che per
lei le cose dovevano essere cambiate come dal giorno alla notte in quelle
lunghe ore del suo precipitare fronte a fronte con tutto quello che avevano
passato loro, che in un certo senso ci erano più avvezzi, perché no, poteva
essere un buon modo passare dalla notte al giorno in un bosco che poteva essere
sicuro e incantevole.
«Che cosa?» le chiese
gentilmente, tornando ad avvicinarsi per darle uno spazio di conversazione più
confidenziale e dedicandole tutta la sua attenzione.
«Prima, stavo pensando a…» Andrea alzò lo sguardo, intuendo che era importante che
lo guardasse dritto negli occhi per vedere la sua espressione mentre parlava «a
Uther.» concluse.
Danny corrugò lievemente la
fronte, e un’ombra di disappunto gli incrinò lo sguardo, portandolo per qualche
fugace istante lontano da lei. Ma riuscì molto bene a ricomporsi rapidamente.
«Ovvero?» domandò, non riuscendo a nascondere una sottile irritazione per
l’argomento che veniva sollevato proprio in quel momento in cui tutto ciò che
gli si prospettava era un’allegra passeggiata nel bosco.
Andrea continuò a guardarlo
dritto in faccia. «Avanti.» esortò, in un mormorio gentilmente insistente «Io
non lo conosco così bene. Ma tu sì. Ti sembra normale, per lui, che stia
passando tutto il tempo chiuso in quella stanza a letto?»
Danny ebbe un fremito di
sconcerto ad un sopracciglio, come se si sforzasse di focalizzare quale fosse
il punto. «Non so, starà riflettendo, e cose del genere.»
Andrea distolse lo sguardo da
lui. «Già, può essere.» ammise. Ma la sua espressione aveva un che di deluso.
Danny trattenne un pesante
sospiro e si concentrò per trovare le parole. «Ascolta, non è che non te ne
voglia parlare. Il fatto è che…Uther
non è mai stato un granché espansivo, per certi versi. Se ne sta sulle sue,
parecchio. Dunque, non ho idea che cosa possa farlo rimuginare così tanto da
farlo stare chiuso in una stanza per giorni, ma prima o poi ne riemergerà,
quando avrà finito di rigirarsi le sue cose in testa.»
Andrea tornò a fissarlo. «Ma tu
hai la sensazione che stia bene?» domandò a bruciapelo.
Danny sostenne il suo sguardo
solo per qualche istante, prima di abbassarlo. «No…
non esattamente.» ammise.
Andrea gli dette una stretta
incoraggiante alle mani ancora strette insieme, e quando lui tornò a guardarla,
occhieggiandola dal sotto in su con il capo lievemente inclinato, lei gli
rivolse un leggero sorriso dolcemente ammiccante. «Allora, non posso credere
che tu, considerando quanto siate amici, non sia ancora andato a cercare di
scoprire cosa gli stia succedendo, e se puoi fare qualcosa per farlo stare
meglio.»
Nonostante i modi della ragazza,
Danny sembrò di nuovo per un momento molto distante da lei. Un moto di lieve
malinconia gli segnò un angolo dello sguardo. «Non ne sono così sicuro.»
commentò con sincerità, tendendo appena un muscolo della mascella con amarezza.
Andrea si sforzò di continuare a
sorridergli in quel modo, e gli strinse di nuovo le mani, stavolta mantenendo
la stretta. «Io credo di sì. Credo proprio che, tra tutti noi qui, tu sia la
persona che può persuaderlo ad alzarsi da quel letto.»
Danny continuò ad evitare di
guardarla per un po’. C’era un fuligginare di neve
bianca sullo sfondo di un cielo nero di notte, che gli era come sfarfallata per
un momento davanti agli occhi: un ricordo. Non erano le parole di Andrea in sé,
perché lei non poteva sapere di quella notte di diversi anni prima; ma il
semplice fatto che gli avessero ricordato che c’era stato un tempo in cui Uther era stato l’unico essere umano che non l’aveva ucciso,
pur trovandolo dall’altra parte del suo fucile e sapendo benissimo che cosa
era, gli fece capire che lei doveva aver ragione.
Alla fine tornò a guardarla. E,
senza aggiungere altro, si limitò ad annuire con serietà, e l’accenno di un
sorriso di ringraziamento. Andrea comprese di averlo convinto, e rilasciò le
sue mani dopo un’altra breve stretta di commiato. Gli sorrise più dolcemente.
«Magari possiamo farla più tardi
una passeggiata. O domani.» gli propose.
Danny annuì, quasi
distrattamente, guardandosi i piedi.
«Mi piacerebbe. Davvero.»
aggiunse Andrea.
Lui alzò di nuovo lo sguardo,
richiamato dal tono profondamente affettuoso di lei. E le sorrise prima di
rendersene conto, lasciandosi guidare poi dall’impeto di abbracciarla. Le fece
fare un paio di giravolte sul posto, prima di depositarla a terra.
«Grazie.» le mormorò
all’orecchio, senza lasciarla andare. Di che cosa non ne era certo. Forse di
avergli ricordato che cosa era giusto fare aldilà di tutto, o forse di averlo
fatto sentire, chissà in quale misterioso modo, come se lui fosse perfettamente
in grado di fare qualcosa di giusto nonostante si sentisse senza speranza nel
riuscirvi. Ma non sapeva come provare a spiegarle tutto questo. Non proprio,
quando questo avrebbe compreso rivelare fin troppo a proposito di quanto gli
sembrava complicato ora dover andare a bussare alla porta di Uther e parlare con lui. Di cosa, poi?
«Credo…»
sentì la voce di lei nel suo orecchio «…che a tutti
gli effetti parlare un po’ con te potrebbe farlo sentire molto meglio. Aldilà
di ciò che si dice parola per parola.»
Danny spalancò gli occhi e si
staccò dall’abbraccio per guardarla. E improvvisamente credette
di aver compreso. Ricordò quando lei gli aveva raccontato della sua amica, di
Sarah. Doveva averle imparate allora cose come quella che aveva appena detto.
Andrea guardò con stupore lo
sguardo blu che la stava fissando farsi più profondo e intenso, come se la
stesse avvolgendo in un abbraccio confortevolmente caldo e in qualche modo
importante. «Che c’è?» ebbe l’urgenza di chiedere, arrossendo suo malgrado.
Danny sembrò riprendersi. Chiuse
gli occhi per un momento e scosse la testa, sorridendo, come per scacciare da
sé qualcosa di fuori luogo. La guardò, ancora sorridendo, e piegò la testa per
lasciarle un leggero bacio a fior di labbra. Poi, lentamente, le girò le
spalle, guardando la casa, e in particolare il primo piano, dove c’erano le
camere da letto. Sospirò profondamente e silenziosamente, come cercando il capo
iniziale di una matassa da iniziare a riarrotolare;
l’istante successivo stava camminando verso la porta di ingresso aperta, le
mani nelle tasche dei pantaloni e il capo abbassato, immerso in diversi
pensieri piuttosto intricati.
Andrea lo guardò allontanarsi a
quel modo, e si incrociò le braccia sul petto, con soddisfazione, rilasciando a
sua volta un leggero sospiro. Era fatta. Sentì che qualcuno le si avvicinava, e
si ritrovò a guardare Ramo che, fermatosi di fianco a lei, osservava la soglia
oltre la quale era scomparso Danny. La fissò, una domanda muta negli occhi, e
lei sorrise, non senza qualche difficoltà, in conferma. Uno splendente sorriso
di contentezza illuminò il volto del ragazzo, che poi le offrì la mano davanti
al volto, per stringergliela in una forte presa di complicità che suonava come
un caloroso complimento. Ora anche Valentine era di
fianco a loro, e, vedendo il gesto, guardò Ramo in cerca di spiegazioni. Lui si
piegò verso di lei e le disse qualcosa all’orecchio. L’espressione di Valentine virò bruscamente in stupore, poi guardò Andrea e,
con un riso cristallino, alzò le mani per dargli un doppio cinque.
Ad Andrea non rimase che
rifiutare gentilmente il loro invito ad andare comunque a fare una passeggiata,
e rimase a guardarli mentre scomparivano tra gli alberi del bosco insieme a
Danza e Tirch. Poi sentì un passo alle sue spalle, e voltandosi
si trovò di fronte Yuta. Vedendo l’espressione con
cui la stava considerando, completamente diversa da quella di gioioso e
complimentoso sollievo che avevano avuto Ramo e Valentine,
sussultò profondamente. C’era una comprensione diversa negli occhi di Yuta, che le fece afferrare immediatamente che l’altra
sapeva ciò che realmente aveva appena fatto. No, non l’aveva fatto perché
pensava che l’amicizia di Danny potesse essere un salutare toccasana per Uther. L’aveva fatto perché sapeva che Danny era davvero
l’unica persona in grado di persuadere Uther a
rimettersi sulle sue gambe per più del tempo sufficiente per andare in bagno o
per assistere ad una riunione organizzata da Kumals.
E Yuta lo sapeva almeno quanto lei, se non meglio.
«Certo…»
iniziò Yuta. Poi sembrò rinunciare alle parole, forse
nello stesso istante in cui vide che gli sforzi di Andrea di mantenere
un’espressione tranquilla cedevano, e che una patina liquida occhieggiava
pericolosamente dietro il suo sguardo. Allora fece un altro passo in avanti e
l’abbracciò strettamente.
«Certo l’avevo capito. Che sei
una persona molto in gamba.» disse infine, solo dopo qualche istante che la
stringeva come se volesse proteggerla da qualsiasi cosa. E nonostante questo,
sentì che Andrea non stava versando una sola lacrima.
«Ma non riuscivo ancora a
immaginare quanto, in realtà.» terminò in un sussurro gentile.
Dopo qualche lungo minuto, Andrea
si staccò lentamente dall’abbraccio e rivolse a Yuta
un sorriso tirato. L’altra la guardò con affettuoso scherno. «Credo proprio che
tu non abbia ancora assaggiato il nostro liquore al limone e cioccolato,
sbaglio?» domandò, continuando a tenerla per le spalle e a guardarla protettivamente in viso.
Andrea scosse la testa con un
accenno di sollievo in faccia. «No, non credo.» disse, tirando su col naso il
più silenziosamente possibile.
«Allora è ora che tu lo faccia.»
concluse Yuta, avvolgendole un braccio attorno alle
spalle per guidarla verso la sedia di vimini dov’era seduta Zoal.
Giunta lì, le offrì di sedersi di fianco alla donna, su una sedia contro il
muro della casa, e le preparò un bicchiere di un denso liquido dall’odore
pungente dell’alcool che si mischiava con quello dolce del cioccolato, e glielo
porse, riempiendone poi un altro che porse a Zoal.
Andrea avrebbe giurato che Zoal stesse dormendo, ma dopo qualche istante che il bicchierino
veniva tenuto sospeso davanti ai suoi occhi chiusi, li aprì, lo soppesò per un momento
con lo sguardo, e infine alzò lentamente un braccio per prenderlo in mano.
Yuta annuì con
soddisfazione, si versò un bicchiere per lei, e si sedette a sua volta su una
sedia, all’altro fianco della poltrona di vimini, sorseggiando il liquido denso
con aria piuttosto rilassata. Dopo un po’, si voltò a guardare di nuovo Andrea,
chiedendole cosa ne pensasse del liquore; le lasciò appena il tempo di
rispondere un paio di complimentosi commenti, prima di iniziare a spiegarne la
ricetta con dovizia di particolari. Sembrava decisa a non lasciare cadere il
silenzio, probabilmente intuendo più che bene che il meglio che poteva fare ora
per Andrea era distrarla. La ragazza acconsentì ad ascoltarla, anche se molte
parole le scivolavano addosso come se non riuscisse proprio ad afferrarle.
Zoal sembrava spiare
non molto più attentamente la conversazione, dal modo in cui teneva solo un
occhio mezzo aperto verso Yuta. Sembrava in qualche
modo malinconicamente divertita dal modo in cui la sorella si impegnava a
chiacchierare, anche a costo di essere sostanzialmente l’unica a parlare
praticamente senza interruzione.
A distrarre Andrea furono proprio
le sembianze di Zoal, invece. Era difficile non
notarla. Persino con quella sua aria mezzo addormentata, non sembrava assente,
bensì come profondamente immersa in una specie di trance, che dava la
sensazione di uno stato di consapevolezza altro, più profondo, come se potesse
sentire meglio tutto ciò che le accadeva attorno in quel modo. Lo sguardo di
Andrea occhieggiò brevemente il suo bastone. Aveva il solito aspetto, come un
grosso ramo nodoso. Ma sembrava anche diverso, come se dormisse: nel suo stato
di quiete apparente, tuttavia, sembrava anche più significativamente potente.
Proprio come la sua proprietaria.
E fu allora che Andrea si ricordò
di un particolare importante.
Attese pazientemente che Yuta terminasse di raccontare l’ultimo aneddoto che sul
momento era riuscita a ricollegare in qualche funambolico modo alla ricetta del
liquore al limone e cioccolato, prima di rivolgersi a Zoal.
Il suo tono risultava irrimediabilmente intimidito. Assurdo, considerando che
dopotutto non si stava rivolgendo ad altri che ad una donna che sonnecchiava
affondata in una poltrona di vimini, con un bastone di legno appoggiato ad un
bracciale della suddetta poltrona, un cane acciambellato sulle gambe e un altro
accucciato ai suoi piedi.
«Zoal…
credo di doverti restituire qualcosa.»
Nell’udire il suo nome la donna
aveva aperto di più l’unico occhio che sembrava voler riservare in quel momento
allo scrutare il mondo, e lo aveva rivolto alla ragazza. La guardò portarsi le
mani al collo dove, cercando brevemente sotto al collo del maglione, individuò
un cordoncino di quello che sembrava caucciò. Stava
già iniziando il gesto di sfilarselo dal collo, ma ciò che vi era appeso non
era neanche apparso da sotto il maglione quando parlò.
«Tienilo.» disse semplicemente.
Il tono profondo, come se fosse
per metà immerso in un altro luogo, bloccò Andrea a metà del gesto. Guardò
l’unico occhio di un verde ambiguamente profondo e sfuggente, continuamente
cangiante, fisso su di lei come se potesse passarle attraverso, e lo facesse,
pur senza risultare invadente in ciò. Uno sguardo che attraversava i corridoi
con tranquilla fiducia auto-referenziale, senza soffermarsi nemmeno un attimo a
spiare le porte, come se non fosse interessato al fatto che fossero chiuse o
spalancate. Se qualcosa fosse uscito da esse, lo avrebbe considerato,
altrimenti avrebbe proseguito oltre, senza lasciare nulla dietro di sé.
«Davvero…?
Cioè, voglio dire, sembra una cosa…preziosa…» Andrea non era sicura di poter trovare le parole
adatte. Forse ‘potente’ sarebbe stata più adeguata. Ad ogni modo, comunque, non
era certa che quella cosa che indossava, quell’amuleto di penne di rapace e di
pietrine colorate, avesse sortito qualche effetto su ciò che le era accaduto.
Nonostante, più di una volta, avesse trovato conforto nel pensiero di
indossarlo. In un modo che non era sicura di poter comprendere o interpretare
in qualche senso compiuto.
Zoal sorrise appena,
in quel suo solito modo in buona parte enigmatico. «Oh, sì…»
mormorò. «Ne sono sicura.». E con quello chiuse l’unico occhio che stava
tenendo aperto, come a sancire la conclusione di ciò che voleva dire.
Andrea esitò ancora. E quasi
sussultò di sorpresa nell’udire di nuovo la voce tanto profonda da sembrare
quasi cupa.
«Gli incubi possono sempre
esserci. Non solo quando pensiamo che arriveranno. Quello è un tipo di oggetto
che può rivelarsi sempre utile.» disse solo Zoal,
come se stesse parlando di qualcosa di semplicemente naturale come il bello o
il cattivo tempo.
Andrea lasciò andare il filo di
quello che poteva essere caucciù, e sentì il peso leggero del ciondolo
ricaderle sul petto sotto ai vestiti, e il solleticare delle penne che si
riassestavano contro la pelle nuda. Ma solo quando vide come Yuta la stava guardando, ebbe la conferma che quel regalo
non c’entrava in alcun modo con la pietosa considerazione di lei come di una
persona esposta e più debole, bensì di una specie di riconoscimento. Non aveva
idea di che cosa si trattasse esattamente, ma tutto sommato iniziò a credere
che forse non era proprio l’”ultima arrivata” della situazione. Non più,
dopotutto. Qualsiasi cosa potesse significare, perché non ne aveva realmente
una precisa idea. Ma non sentiva qualcosa come il bisogno di averla, ora come
ora.
Avrebbe voluto ringraziare, ma
aveva la forte impressione che qualsiasi parola in quel momento non avrebbe
fatto che rompere la trasmissione del messaggio di gratitudine che stava già
aleggiando nell’aria. E se Zoal non era il tipo da
captarlo, allora non sapeva proprio chi altro avrebbe potuto esserlo.
Note dello scribacchiatore: no, non sono diventato imbecille o particolarmente
distratto tutt’un’tratto (la rima è involontaria), non ho dimenticato un
capitolo per strada. Dal punto di vista dei capitoli questo è una sorta di
intermezzo con un diverso titolo. Il prossimo è la terza e ultima parte della
serie di capitoli ‘A carte scoperte’. Al prossimo capitolo quindi! Yo!
Capitolo 68 *** 66 - A CARTE SCOPERTE - parte III ***
Capitolo 66
(A CARTE SCOPERTE – parte III)
La casa suonava particolarmente
silenziosa, ora che tutti erano fuori. Danny poteva immaginarlo anche prima, ma
provarlo era diverso. Specialmente visto che il silenzio gli pesava addosso in
quel momento, in cui la sua testa pullulava di pensieri.
Erano tutti molto veloci, confusi
e lontani, e in effetti ciò che stava sperimentando non era esattamente una
rassegna di riflessioni, quanto una ridda confusa di ricordi – più o meno
lontani o vicini – che si andavano sovrapponendosi e scavalcandosi, eppure
senza litigare tra di loro. Come un branco di ungulati selvatici che corre,
riuscivano a non inciamparsi addosso nonostante il
loro seguire percorsi in molti punti sovrapposti o anche cozzanti; correvano
tutti nella stessa direzione. Ed egli la seguì, come un qualsiasi lupo avrebbe
seguito un branco di erbivori, non con l’intenzione di cacciarli, ma con il
proposito giocoso di correre dietro di loro, stare al loro stesso passo senza
lasciarsi seminare, come se si concedesse di dimenticare per qualche momento
che non stava veramente correndo insieme a loro tuttavia.
Quella corsa si svolgeva nella
realtà molto più lentamente. Non stava correndo. Camminava piano, con una calma
totalmente dissimile al ritmo incalzante nella sua testa. A passi regolarmente
misurati salì le scale. Un lupo sapeva come essere estremamente e perfettamente
silenzioso. Ma mentre si avvicinava alla stanza dalla porta chiusa, gli parve
opportuno rendere più udibili i suoi passi. Combattendo la voglia perciò di
diventare invisibile quanto un fantasma che si muove di soppiatto e non ha
alcun particolare desiderio di mostrarsi o farsi intuire, produsse abbastanza
rumore da farsi sentire attraverso la porta chiusa mentre si avvicinava ad
essa.
Lui invece non sentiva niente.
Non più che il leggero rumore di un respiro umano dentro la stanza, e l’odore
di chi stava andando a trovare, mischiato peraltro a quello di tutti gli altri
e le altre che avevano vissuto nella casa in quegli ultimi giorni.
Si fermò davanti alla porta e
rimase a fissarla, lo sguardo scornato di un cane recalcitrante messo davanti a
qualcosa che ci si aspetta da lui e che sa che dovrebbe fare, ma che è troppo
testardo per riuscire a risolversi del tutto a farlo e basta.
Alla fine un pensiero di
impietosa lucidità lo colse in fallo. Sospirò leggermente per la pazienza, nel
realizzarlo con chiarezza: se restava lì fermo immobile senza fare nulla,
semplicemente non sarebbe successo niente di niente. E allora riuscì a
convincersi ad alzare una mano e bussare piano contro la porta.
Passò qualche secondo, che a
Danny parve lunghissimo, prima che la voce rispondesse dall’interno.
«Lascia perdere, Kumals. È chiusa a chiave. E sai bene che se la sfondi poi Yuta cercherà di avere il tuo scalpo.»
Il tono mordace, per quanto
appannato di una stanchezza che lo impallidiva e lo faceva sembrare debole,
ebbe comunque il potere di far sentire Danny meno nervoso. Cercò di trovare una
tonalità altrettanto tranquilla e naturale, e si dovette schiarire la voce. «In
effetti… sono io.» si ritrovò semplicemente a dire.
Gli mancavano le parole, e continuava a non trovarle.
Di nuovo un silenzio, e di nuovo
Danny non riuscì a calcolarne iltempo.
Poi la voce di Uther si fece risentire, più
tranquilla stavolta. «Puoi entrare. Non è veramente chiusa a chiave. Credo
proprio di essermene dimenticato.»
Danny sogghignò brevemente e
scosse un poco la testa tra sé e sé, prima di abbassare la maniglia ed entrare.
Avanzò cautamente solo di un paio di passi nella stanza, impregnata ben più
cospicuamente del resto della casa dell’odore di Uther,
e di un che di stantio. Non sembrava che il suo occupante si fosse preoccupato
particolarmente di arieggiarla molto nelle ultime ore. Indeciso, rimase
immobile, come se persino l’idea di cercare la successiva mossa fosse troppo
complicata da elaborare al momento.
Uther parlò di nuovo,
come venendogli in aiuto. «E chiudila dietro di te. Kumalsè… sempre in agguato.»
Danny ubbidì, grato di avere un
preciso incarico. Chiuse la porta alle sue spalle, poi, decidendosi a lottare
maggiormente per uscire dal suo stato di spaesamento pressoché ridicolo, si
avvicinò al letto. Guardò solo per un momento Uther,
seduto sopra il materasso con un cuscino dietro la schiena appoggiato al muro e
intento a sorseggiare la stessa bottiglia di birra che aveva con sé poco prima,
durante la riunione esplicativa. O almeno, Danny poteva solo supporre che fosse
la stessa. Si diresse con più decisione di quanta era necessaria verso l’altro
letto e si lasciò cadere a sedere sopra di esso, incrociando le gambe e
tentando di recuperare almeno nei gesti una certa svagata e leggera
naturalezza.
«Beh…»
iniziò «A quanto pare, ti trovi bene qui.»
Non ebbe bisogno di incrociare lo
sguardo incuriosito con cui Uther lo stava fissando,
con un sopracciglio lievemente alzato, per rendersi pienamente conto di aver
detto una frase di circostanza pietosamente mal raffazzonata.
«Oh sì. Un hotel a quattro
stelle.» commentò l’altro, sorseggiando un sorso di birra e decidendo
apparentemente di sorvolare sulla stranezza delle parole di Danny. «Ma devo ammettere…» continuò poi, guardandosi in giro per la stanza
pensierosamente «…che in effetti sembra di essere a
casa. Sarà per via del fatto che è dove vivono Yuta e
Zoal.»
Danny sorrise senza rendersene
pienamente conto. «Già. Siamo profondamente abituati.» Poi un pensiero parve
coglierlo, trascinato dalle sue stesse parole «Anche se è strano, considerando
che è tanto tempo che non… ci vediamo.» terminò, con
involontaria esitazione.
Uther lo spiò di
nuovo da sopra il collo della bottiglia, ancora incuriosito, nonostante Danny
non lo stesse guardando, ma sembrasse assorto nel fissare fuori dalla finestra.
«E cosa hai combinato in tutto
questo tempo? Voglio dire, davvero ti sei dedicato semplicemente a dare la
caccia agli animali domestici smarriti?» gli chiese, quasi cantilenando per
scherzo le ultime parole.
Danny gli rivolse un’occhiata
stupita, rendendosi conto che l’altro pareva convinto che lui avesse loro
nascosto qualcosa. «Beh, sì.» ammise, sbattendo un paio di volte le palpebre
con il più candido dello stupore. Poi alzò le spalle e divenne cinicamente
distante. «Un modo come un altro per guadagnarsi qualcosa. Non che ce ne sia
veramente bisogno. Il Conte ha un sacco di soldi. Lasciti della sua famiglia.
Anche se ha un modo tutto suo di amministrarli. Hai visto la casa, no? Più che
al lusso, si dedica alle cose di… ricercata
decadenza, credo si possa dire.»
Uther materializzò
per un momento nella memoria l’immagine della casa del Conte, dove vivevano
anche Danny e Justin. «Sì, si può ben dire!» commentò, e poi un sogghigno e un
lieve accenno di risatina gli sorsero alle labbra, mentre chiedeva «E come
diavolo vi siete conosciuti, tu e il Conte?»
Danny finalmente lo guardò,
animato dalla discussione, e poiché aveva ben colto il tono sussiegosamente
divertito dell’altro. «Oh, è stato un caso. E’ stata una notte in cui stavo
girando per queste zone, di passaggio. E su una collina ho visto queste due
persone. Erano il Conte e Justin. Il Conte stava facendo un rito per celebrare
l’arrivo della primavera, secondo certe antiche usanze druide,
se ho ben capito, e Justin era il suo assistente. A dirla tutta, ci ho messo un
po’ a capire chi fosse esattamente Justin. A quanto pare, ha semplicemente
risposto ad un annuncio sul giornale. Justin cercava un lavoro e quell’annuncio
che cercava un assistente-tuttofare gli era sembrata la cosa meno faticosa. E
poi è andato a vivere col Conte ed è diventato il suo assistente in effetti.
Non credo si siano presentati altri candidati, sinceramente. Riguardo a quella notte… beh, era da tanto tempo che non incontravo qualcuno
che ne sapesse qualcosa di paciughi semi-magici, o presunti tali. E il Conte
era molto presunto, per non parlare di Justin. La cosa mi ha…»
Danny esitò.
Uther gli dedicò
un’occhiata saputamente complice. «Divertito?»
Danny colse l’occhiata e
sogghignò. «Qualcosa del genere. O forse ero anche un po’ preoccupato diciamo.
Specialmente quando, dopo che mi sono avvicinato a loro e mi hanno spiegato
cosa stavano facendo, il Conte, entusiasta del fatto che mostrassi di saperne
qualche cosa di riti e così via, mi ha offerto di andare a trovarlo a casa sua
il giorno dopo, perché forse potevo trovare interessante il fatto che avesse
intenzione di fare un’evocazione.»
Uther alzò un
sopracciglio molto sarcasticamente perplesso. «Ah, e c’è riuscito?»
Danny si rilassò, appoggiandosi
all’indietro contro la parete mentre ricordava. Sospirò, socchiudendo gli
occhi. «Purtroppo sì. È stata dura. Era molto arrabbiata, la creatura che ha
evocato. Non so cosa fosse, esattamente, ma è stato difficile riuscire a
convincerla delle nostre scuse per averla evocata imprigionandola in un cerchio
e a tornarsene a casa. Per fortuna ha ritenuto che fosse sufficiente per
punirci farci una piccola maledizione. Una specie di dermatite simile alla
varicella. Ci siamo grattati notte e giorno per una settimana buona, poi se n’è
andata.»
Uther sghignazzò
debolmente per qualche istante, mentre sorseggiava ancora l’ultima parte della
sua birra.
«Il Conte è rimasto ammirato dal
modo in cui ho trattato con la creatura, e, dal momento che il posto da suo
‘assistente’ era già occupato da Justin, e considerando quelle che lui ha
chiamato le mie ‘qualità’, mi ha nominato sua guardia del corpo. O qualcosa del
genere. Credo che abbia usato la definizione ‘custode della sua persona, della
sua dimora, e delle sue arti’… sì, temo proprio di sì.»
Uther sogghignava
ancora. «Ma allora hai un lavoro. Perché mai te ne vai in giro a fare l’acchiappa-cani-e-gatti, anche?»
Danny alzò le spalle ed emise uno
sbuffo di riso quasi malinconico. «Non so, per passare il tempo suppongo.
Altrimenti non avrei da fare altro che vagare per la casa del Conte, spiare i
suoi libri, o stare in compagnia di lui e di Justin. Cosa che a volte è… piuttosto tediante.»
«Hum…
non fatico a immaginarlo.» sogghignò ancora Uther,
come tra sé e sé.
Danny lo guardò. Certo, avrebbe
potuto ammettere a se stesso che la sua sistemazione degli ultimi mesi era
parecchio risibile, ma solo ora che vedeva e sentiva il modo in cui Uther si divertiva a considerarla la cosa gli sembrava una
faccenda leggera, uno scherzo, non pesante come se si trattasse della sua vita sprecata
o cose del genere. Ad ogni modo, il fatto che l’altro sembrasse essere in una
modalità più comunicativa di quanto non fosse mai stato negli ultimi giorni lo
incoraggiò a provare a fare lui qualche domanda.
«E tu che hai fatto in tutto
questo tempo?»
Uther sembrò di colpo
tornare serio, ma si sforzò di assumere un’espressione tranquilla e svagata
quanto lo era stata fino ad un attimo prima. «Oh, sai, niente di che. Mi sono
tenuto occupato. Lavoretti occasionali, andare in giro qui e là. Nulla di speciale.»
Danny rimase deluso. E si sentì
quasi sciocco nell’aver pensato di poter eludere così facilmente la ferrea
abitudine di Uther di rimanere sul vago quando si
trattava di se stesso, di lasciar correre, evitare ogni cosa che sembrasse
poter intaccare il suo riserbo. Non come se dovesse nascondere chissà cosa o si
facesse tanti problemi nel condividerlo, ma come se fosse convinto di non poter
in ogni caso dare l’idea solo attraverso le parole di ciò che aveva vissuto per
proprio conto, e raccontarlo.
Uther sembrò però di
colpo quasi pentito della risposta. Alzò sull’altro lo sguardo di azzurro
chiarissimo, e sorrise un poco, quasi dolente. «Niente di interessante, ad ogni
modo. Sicuramente, nulla di fuori dall’ordinario come quello che è successo qui
in questi giorni.»
Danny celiò un’espressione
divertita «Meglio così, direi! D’altra parte… è curioso,
non trovi? Sembra quasi che ogni volta che ci ritroviamo tutti insieme si
concentrino delle forze che creano chissà quali incredibili fenomeni strani.»
Uther gli rivolse uno
sguardo profondamente interessato per un istante, poi tornò a rivolgerlo alla
bottiglia. Sembrava che stesse riflettendo su diverse cose, ma tutto quello che
disse fu «La parola giusta che stai cercando è…
sfiga.»
Danny si ritrovò così stranito
dall’improvviso cambio di tenore sulla serietà della conversazione che ridacchiò
di cuore. Poi, ripresosi, osservò per un momento il sorrisetto che aleggiava
pallidamente sulle labbra di Uther. Nonostante tutto,
riusciva comunque a vedere che l’altro sembrava angustiato da qualcosa di
pesante. Si ricordò allora che erano giorni che non usciva da quella stanza,
che se ne stava a letto e quasi costantemente in solitaria. E a guardarlo bene,
e a considerare come lo conosceva lui, gli appariva chiaro che era come se non
fosse il solito Uther. Ma non poteva essere sicuro di
questo. Non si erano visti per molto tempo, e Uther
poteva essere cambiato. Era umano in ogni caso, o meglio, molto più umano di
quanto non si potesse auto-considerare Danny. E gli esseri umani invecchiano, e
quindi cambiano, ad un ritmo diverso da quello dei lupi, più rapido e più
complicato forse. Molte volte Danny si dimenticava completamente di questa
differenza: nonostante l’educazione da neo-lupo che aveva ricevuto quello che
sembrava un sacco di tempo fa pur non essendolo nemmeno contando con la cadenza
umana, aveva pur sempre vissuto la maggior parte della sua socialità con esseri
umani. E solo molto raramente gli era sorta spontaneamente alla mente quella
differenza che tuttavia, forse, non avrebbe dovuto dimenticare così spesso.
«Come va la ferita?» si ritrovò a
chiedere, dopo qualche altro istante, come preso da una notevole intuizione di
quali fossero, finalmente, le parole giuste.
Uther sussultò
impercettibilmente, ed evitò studiatamente di guardarlo. «Guarita.» sancì «Me
l’ha detto proprio il dottore, Ramo in persona. In ogni caso, non era niente di
grave.»
Nemmeno per un istante Danny si
lasciò distrarre però dal tono evasivo di quella risposta. Aveva un obbiettivo
cristallino nella sua testa, ora. E lui era un cacciatore di natura. «Già, poca
roba, dopotutto. Giusto un proiettile che ti ha preso di striscio. Per
fortuna.» continuò. Nonostante la cadenza fluida delle sue parole, il suo tono
si era fatto serio e penetrante, appena sotto la superficie. E Uther non era la persona che potesse farsi sfuggire le sue
variazioni di voce.
Alzò lo sguardo su di lui, serio
di colpo, anche se ancora apparentemente tranquillo. «Esatto.» disse solo, in
tono lapidario, quasi di avvertimento, un ‘non andare oltre’ sospeso nell’aria
con risolutezza, come un sigillo.
Danny sostenne il suo sguardo, e
i suoi occhi divennero di colpo apertamente pieni di significato, investendo il
suo conversatore solo un istante prima di parlare, per non dargli il tempo di
sfuggire in alcun modo. «Un mio
proiettile.»
Un lampo di rabbia solcò lo
sguardo di Uther, sottile ma profondo come uno
squarcio direttamente sulle radici della furia che poteva scatenarsi da un
momento all’altro. E una volta passato, non accadde niente. Uther
continuò semplicemente a fissarlo con sguardo duro, le dita strette a pugno attorno
alla bottiglia.
L’espressione di Danny, invece,
poco dopo cedette, e sul suo volto si fece strada una tristezza sconfinata.
Chiuse gli occhi, abbassò un po’ la testa e la scosse appena. «Perché non me
l’hai detto?» mormorò.
Non sapeva come l’aveva capito, che
era stato lui a ferire Uther. Forse, in qualche parte
della sua testa era riemerso solo recentemente qualche frammento di ricordo
degli ultimi momenti prima che perdesse conoscenza per la ferita subita dal
cecchino che aveva ucciso. All’inizio, quel ricordo era andato perduto, ma poi
era ritornato, riemergendo dall’oblio in cui si era smarrito quando lui aveva
perso conoscenza e aveva iniziato a sognare ricordi di tempo addietro. Il
ricordo di quando, dopo aver sparato al cecchino e prima di cadere, aveva
esploso un altro colpo verso la foresta. Il suo era stato un gesto istintivo e
sconnesso. Era debole, stava perdendo conoscenza, e il suo istinto gli
suggeriva che era a pochi passi da un baratro ben più profondo e senza ritorno.
Quell’istinto non completamente umano e selvatico che alzava e rafforzava le
difese proprio nel momento in cui si sentiva più vulnerabile. L’antico istinto
di un lupo che, sentendosi cadere dopo essere stato ferito e sentendo l’odore
della morte probabile su di sé, attacca istintivamente ogni cosa che sembra
suggerire un pericolo dinanzi a sé. No, non era più lucido in quel momento. Non
abbastanza da distinguere che lo scintillio familiare che aveva scorto al
limitare del bosco, a qualche decina di metri da lui, l’inconfondibile
sfarfallio della luce lunare sul metallo lungo di un fucile, era proprio quel
fucile, quello che Uther si portava appresso da che
lo conosceva. E aveva sparato in quella direzione. Gli altri non se ne erano
nemmeno accorti, e le sue stesse orecchie da lupo avevano percepito appena il
sottile sibilo di un proiettile che parte col silenziatore inserito. Poi era
come se non fosse successo. Ma ora poteva ricordarlo. E se i suoi sensi in quel
momento ottusi, aggrappati solo al nudo e crudo istinto di auto-conservazione,
erano da maledire per aver sparato contro Uther,
erano all’opposto da benedire nell’essere stati incapaci di colpirlo più di
quanto sufficiente per procurargli appena una ferita di striscio.
Uther emise un verso
di schernita ironia. «Perché, cosa sarebbe cambiato se te lo avessi detto? Non
è successo niente di grave. Una ferita di striscio, niente di più, ed è già
guarita.» insistette.
Danny lo fulminò con lo sguardo.
«Ma ti ho sparato addosso! Come puoi dire che non è niente?!»
Uther corrugò la
fronte, con un principio di seria alterazione. «Non ti ho forse sparato addosso
anch’io una volta?» obbiettò.
Danny lo guardò incredulo. «Sai
bene che è completamente diverso.» mormorò «Vi stavo attaccando. Mentre l’altra
notte tu non stavi…»
«Ho puntato il fucile. Volevo
colpire il cecchino, appena prima che fossi tu a colpirlo in effetti, e tu hai
visto un fucile puntato, eri ferito e non perfettamente lucido. Hai reagito di
istinto. È stata una questione di pochi secondi, ed è perfettamente normale non
riuscire sempre a fare le cose proprio completamente per bene in certi
frangenti, ad esempio quando ne va della propria vita o morte, ti pare?» lo
interruppe Uther, infastidito.
Dannny rimase qualche
istante in silenzio. «Per me non è sufficiente questo. No. Se deve essere una scusa… non è per niente sufficiente…»
disse piano.
Uther lo guardò con
sincera comprensione. «Ora ti rendi conto che sai già la risposta alla tua
domanda? Perché non te l’ho detto? Perché tu di solito reagisci in questa
stupida maniera… devi per forza tenerti addosso le
croci del mondo. E non sai perdonarti.»
Danny spalancò gli occhi. Quelle
precise parole sembravano straordinariamente adatte a spiegare tutt’altro
argomento. Quello che aveva a che fare con ciò che gli aveva detto Kumals a proposito del perché Uther
avesse mollato i ‘4 di picche’. La sua domanda e la
risposta di Uther filavano perfettamente. Non si
sentiva forse come in colpa per via di ciò che Kumals
gli aveva rivelato? Proprio come se fosse colpa sua. Era più colpa sua di
quanto lo fosse il fatto che gli aveva sparato? Come se un destino
caparbiamente crudele si divertisse a ripetersi senza fantasia: lui era
l’aguzzino, e Uther era la vittima. Per quanto fosse
l’ultima cosa che volesse, e Uther fosse tra le
ultime persone che lui desiderasse ferire. In qualsiasi modo.
Poi, di colpo, gli apparve
chiaramente. C’era una cosa che poteva fare, ed era la migliore di tutte, fin
dove arrivava la sua immaginazione.
«Allora, non farmi sentire in
colpa.» rispose infine, guardando Uther. Lentamente
la sua espressione mutò, mentre continuava, e la componente più grave era
bruciata ai margini da un sincero moto di puro affetto. «Se è vero che la
ferita è guarita, che stai bene, dimostramelo! Vieni a fare una passeggiata nel
bosco. O a prendere il sole fuori. È vero, c’è Kumals,
ma il Conte lo sta tenendo occupato… e per questo,
temo proprio che dovrai riconsiderare per un momento il mio amico ed essergli
almeno un poco grato.»
Uther osservò con grande
attenzione quell’espressione, come se gli si stesse imprimendo in testa con
naturalezza. Fu distratto per un momento dal modo in cui, sebbene Danny non
stesse ammiccando, era come se gli stesse rivolgendo una delle maggiori
complicità che gli avesse mai visto dedicare a qualcuno. Ma nonostante quello,
gli stava chiedendo qualcosa di più significativo. E aveva vinto, perché la
trappola che gli aveva appena teso era già scattata, non necessitava di una sua
mossa di tradimento. Poi distolse lo sguardo e tirò fuori da qualche tasca
dimenticata della sua testa un sogghigno da scacchista. «Sei bravo in queste
cose, eh?»
Anche Danny sorrise astutamente.
«Ho imparato da uno molto bravo.»
Entrambi capirono che si riferiva
ad Uther stesso, e quest’ultimo credeva di poter
indovinare dove voleva andare a parare quella risposta. A quando era stato lui,
Uther, a sparargli e ferirlo, e al modo in cui gli
aveva poi chiesto di aiutarlo col suo senso di colpa, assecondando la sua
richiesta di farsi aiutare e poi di conoscere gli altri. Ruoli capovolti, ma il
senso di quel trucco non sembrava essere cambiato poi di tanto. Ognuno chiedeva
all’altro di fare qualcosa per sé che, più propriamente, aiutava entrambi in
qualche modo. Non per niente, ora Danny gli stava chiedendo di mettere piede
fuori dalla stanza seriamente.
«Che c’è, hai bisogno di un
bastone per camminare?» accennò provocatorio Danny.
Uther lo guardò. No,
più propriamente lo stava sfidando. Paura per paura. Quello che un tempo era
stato un lupo che riteneva di poter essere aggredito da un momento all’altro
seguendolo in mezzo ad un gruppo di umani ferrati nella caccia alle creature
soprannaturali, ora lo sfidava ad affrontare la sua stessa debolezza in cui si
era rifugiato come in guscio che lo sottraesse per un momento da quel mondo in
cui, lo sapeva bene da tempo ormai, gli sarebbe sempre acutamente mancata
quell’unica cosa che il lupo non poteva dargli, perché non la possedeva, per
quanto potesse desiderare altrimenti.
«Solo perché tu sei in grado di
camminare su quattro zampe, non ritenerti così superiore, sai?Ricorda che in quella tua forma osservi noi a
due gambe dal basso in alto.» rispose a tono.
Danny sorrise e una luce di
soddisfatto divertimento gli illuminò lo sguardo come due pozze d’acqua
profonda e fresca nell’ombra estiva di un bosco. «Anche voi avete pur sempre
quattro arti. Ma siete la cosa più disaggraziata del
mondo a vedersi se provate a camminare su tutte e quattro.»
Uther gli scoccò una
rapida occhiata soppesante, poi sorrise. «Questa non è male.» concesse, alzando
la bottiglia in un gesto complimentoso, per poi portarsela alla bocca, e
accorgersi che era già vuota. Guardò il vetro ormai vuotato con un infastidito
rammarico, poi tornò a ricambiare lo sguardo di Danny. Alzò le spalle, come a
ritrarsi in se stesso, anche se non riuscì a nascondere il sorriso che gli si
disegnò sulle labbra.
«Beh…
dopotutto, perlomeno dovrò scendere a prendermi un’altra birra.» disse.
Danny si trattenne dal ridere,
prenderlo in giro, o fare qualsiasi altra cosa, nonostante ritenesse fosse uno
spettacolo particolarmente degno di nota il modo in cui Uther
cercava di non dargliela vinta nonostante tutto. Così, finse anche di ignorare
perfettamente il fatto che, quasi sicuramente, c’era ancora qualche bottiglia
piena ben al sicuro nella personale scorta di Uther,
sotto al letto, e che l’altro lo sapeva benissimo.
«Credo che mi stia venendo la
febbre.» osservò Kumals, sistemando meglio la pezza
bagnata di acqua fresca che si teneva sulla fronte. Sdraiato nella sedia a
sdraio cavata fuori da qualche angolo della soffitta di Yuta
e Zoal e portata in giardino, osservò con occhio
torvo la scena circostante.
Nella luce del tramonto, Yuta e Valentine ridevano e
chiacchieravano tra loro, abbassando talvolta il tono per parlare più
confidenzialmente. Sdraiate a pancia in giù su un plaid dalla fantasia
patchwork disteso per terra, stavano facendo un puzzle e sorseggiando cicchetti
di liquori auto-prodotti almeno da una mezz’ora a quella parte. Di tanto in
tanto, Yuta alzava la voce per chiamare Uther, affinché le raggiungesse; ma lui se la prendeva
comoda. Seduto comodamente su una sedia, la schiena appoggiata anche al muro
della casa e le gambe distese in modo rilassato davanti a sé, parlava con calma
con Zoal. La loro sembrava una conversazione
particolarmente lenta e piena di tatto, come se ognuna delle poche parole fosse
scelta con cura. Tutti e quattro i cani, distesi accanto a loro e impegnati a
sonnecchiare tranquillamente, sembravano immersi nei loro sogni canini.
«Io credo piuttosto che il Conte
ti abbia fatto venire il mal di testa.» obbiettò la voce accanto a lui.
Kumals spiò Ramo,
seduto di fianco alle sue gambe sullo sdraio, in una delle sue pose più
rilassate, ovvero con la schiena curva e i gomiti appoggiati sulle ginocchia,
le mani unite con le dita sommariamente intrecciate. Il suo sguardo però era
rivolto a spiare Uther, e un sorriso di contentezza
gli attraversava il volto da parte a parte, come se fosse ad un passo dallo
scoppiare da un momento all’altro in un’allegra risata.
Kumals chiuse gli
occhi e sorrise tra sé e sé. «Risposta banale per un dottore. Pardon, veterinario. D’altra parte, a giudicare dal
risultato ottenuto coi tuoi pazienti, forse si può trarre la conclusione che
anche con gli umani non te la cavi male.»
Ramo lo guardò e prese un sorso
di birra dalla lattina appoggiata accanto ai suoi piedi, dopo averla raccolta
con un movimento talmente tranquillo da sfiorare l’indolenza. «Sono un ottimo
dottore. Di animali e umani.» si auto-incensò, fingendo uno scherzoso orgoglio.
Kumals sospirò
stancamente. «E qual è la tua diagnosi riguardo il Conte? Voglio dire, senza
scadere nella psicologia, quella sarà meglio lasciarla perdere a suo riguardo.
Ma come diavolo può sopravvivere standosene sempre senza prendere un’oncia di
sole e nutrendosi di… sangue comprato dal macellaio?»
«Hum…»
rifletté Ramo «Da quello che mi diceva, Danny sospetta che in realtà mangi
anche altre cose, ma di nascosto perlopiù. È una questione di…
presentazione della sua persona, suppongo. Danny mi ha spiegato che, a quanto
pare, vorrebbe essere un vampiro.»
Kumals ebbe un forte
sussulto, aprì gli occhi sul cielo che andava imbrunendosi, uno sguardo grave
accompagnato da una smorfia di contrarietà. «Pessima idea.» commentò.
«Evidentemente non ne ha mai incontrato uno…»
Ramo lo contemplò con curiosità
così pura da sembrare quanto mai quella di un bambino. «Tu sì??»
Kumals si stiracchiò
appena, mettendosi più comodo. «Non qualcosa che ricordo volentieri. E spero
che non mi ricapiti…» rispose solo, lasciando cadere
il discorso.
Per quanto evidentemente deluso
dalla mancata possibilità di sentire qualche storia interessante, Ramo gettò la
spugna. Kumals sembrava fin troppo provato,
dopotutto. Non stava precisamente cercando un altro argomento, ma lo sguardo
gli ricadde su Uther, al quale Yuta
si stava rivolgendo vivacemente per convincerlo a passare dalla birra ai
cicchetti di liquore.
«Certo che…
è straordinario. Sembrava stare così male, ma… ora
sembra quasi il solito.» osservò, come se parlasse a se stesso.
Kumals seguì la linea
del suo sguardo e tralasciò la formalità di chiedere di chi stesse parlando.
Chiuse di nuovo gli occhi e sorrise. Non aveva intenzione di far intuire a Ramo
cosa, o meglio chi, avesse avuto il potere di far uscire Uther
da quel maledetto letto. Dopotutto, aveva la sensazione che l’altro stesse solo
cercando di fargli dire chiaramente qualcosa alla quale poteva arrivare per
semplice deduzione. Per un momento, si sentì invaso da una sensazione di
malinconico affetto, che gli era fin troppo familiare, non solo a riguardo di Uther. Poi ritenne opportuno cambiare argomento.
«Saranno state le tue miracolose
cure. È bene che ti abitui a prenderti anche i meriti che non ritieni di avere,
se vuoi avere successo nella tua professione. In questo senso, mi pare proprio
che i ‘4 di picche’ siano stati un’ottima scuola,
no?»
Ramo occhieggiò verso di lui, poi
rise brevemente. «Quello che posso dirti, è che iniziare a vivere troppo nel
passato rende più vecchi.»
Kumals riaprì gli
occhi di colpo e lo fissò, stupito. Poi però sogghignò ammiccante. «Anche il
tentativo di improvvisare qualche perla di saggezza fa apparire parecchio
anzianotti, sei avvertito.»
«Nah.»
motteggiò Ramo «Non preoccuparti. Questa specialità te la lascio.»
Kumals si limitò a
sorridere e incassare, mentre il suo sguardo scivolava di nuovo su Uther.
Illuminato dal sole al tramonto,
che faceva risplendere di un baluginio dorato i capelli e i peli color paglia
sulle braccia arditamente nude nonostante non facesse poi così caldo, gli occhi
azzurri illuminati dal solito luccichio confidenzialmente divertito dovuto alla
birra, e la pelle non così meno scurita e indurita dal sole rispetto al solito,
poteva in effetti sembrare il solito Uther. Se non
fosse stato per ciò che gli mancava.
Kumals soppesò la
situazione tra sé e sé, considerando anche gli assenti. Il Conte e Justin erano
tornati a chiudersi in soffitta. Poteva immaginarli, l’uno che dormiva nella
sua bara, magari persino composto nella posa di chi è effettivamente sepolto
sotto metri di terra, e l’altro che si leggeva i suoi fumetti masticando un chewingum da tempo degno di essere sputato. Riguardo a
Danny e Andrea, se ne erano andati a scorazzare per la foresta come una
qualsiasi coppietta spensierata in vacanza.
Forse, allora, andava davvero
tutto abbastanza bene. Forse, poteva tirare qualche somma, e riposarsi più
cospicuamente sull’illusione perfetta che tutto andasse abbastanza veramente
tanto bene, in qualche modo.
«Una “vecchiaia” tranquilla.
Molto più di quello che si potrebbe sperare nel mio caso. Ma perché no. Per un
momento, fingerò che sia tutto qui.»
«Cosa?» domandò Ramo, avendo
udito un mormorio troppo basso per poter distinguere le parole. Ma voltandosi
nel mentre verso Kumals, vide che l’altro rimaneva
impassibile ad occhi chiusi e con le membra rilassate, e realizzò che si era
assopito. Ramo sorrise amichevolmente, poi tornò a guardare gli altri,
lasciando che un’aleggiante senso di rilassante calma lo cullasse come se
stesse dormendo beatamente anche lui.
*
***
*
Erano pressappoco le tre della
notte. Yuta lo sapeva, e la cosa le risultava
particolarmente irritante. Aveva fatto di tutto per cercare di addormentarsi:
leggere libri, chiudere gli occhie
giacere immobile nella posizione più comoda che riuscisse a trovare, accendere incensi
di fragranze rilassanti. Quando era arrivata al punto da sperare che i suoi
movimenti accortamente silenziosi potessero comunque svegliare Danny o Andrea per
farle compagnia, beatamente addormentati abbracciati nell’altro letto della
stanza, aveva deciso di arrendersi.
Eccolo lì, il motivo per cui,
alle tre di notte, stava scendendo le scale cercando di non far rumore, diretta
in cucina: banale insonnia. Ma contava sulla soluzione successiva: una tisana
di quelle erbe che avrebbero avuto il potere di far addormentare un cavallo. O
quasi. A tutti gli effetti, erano piante consigliate anche come
tranquillizzanti, sorta di anestetici naturali da utilizzare per gli animali in
caso si dovesse applicare loro qualche bendaggio o altra cura per cui era
augurabile che stessero abbastanza fermi.
Aveva quasi raggiunto la soglia
della cucina, quando qualcosa attirò prepotentemente la sua attenzione,
facendola sussultare di spavento e costringendola a trattenere in gola
l’ennesimo sonoro sbuffo che stava per uscirle vigorosamente dalla bocca. Si
immobilizzò immediatamente e quasi trattenne il fiato, interrogandosi sul fatto
di aver davvero sentito dei piccoli rumori provenire dalla cucina. Ma, a ben
guardare, non era normale che dalla stanza provenisse quel soffuso chiarore,
come il riflesso di una piccola fonte di luce.
Si concentrò meglio, e continuò a
sentire quei piccoli rumori. Erano sicuramente del tipo di quelli prodotti da
qualcuno che si muoveva furtivamente. Lentamente e silenziosamente, Yuta iniziò a muoversi per girarsi su se stessa e tornare di
sopra. Non era ancora sicura se fosse addirittura il caso di svegliare qualcun
altro, ma sicuramente era il caso che lei si procurasse qualcosa di meglio di
se stessa, i vestiti da notte che indossava e il paio di pantofole che, se non
altro, erano abbastanza morbide da permetterle di procedere a passi silenziosi.
Stava già riflettendo
sull’opportunità di armarsi più o meno pesantemente, quando un rumore diverso
dagli altri ricatturò la sua attenzione. Si fermò, e
si girò di nuovo, dedicando alla soglia della cucina un’occhiata decisamente
meno allarmata e più irritata. Attese, finché, qualche istante dopo,
l’inconfondibile rumore si ripetè: rumore di vetri
che si urtano appena. Vetri di bottiglia, per la precisione.
Yuta sogghignò,
qualcosa tra la furba intuizione e il mordente rimprovero. Poi optò per
tutt’altro genere di arma. Si mosse fin verso la porta d’ingresso e impugnò il
manico di una grossa scopa da giardino, dopodiché riprese ad avanzare verso la
soglia della cucina, sempre con accurata silenziosità.
Una volta raggiunta la porta
aperta, poté spaziare lo sguardo nella penombra che avvolgeva la stanza. A
rischiarare l’ambiente, abbastanza da permetterle di vedere la sagoma chinata
in un angolo della stanza e che le dava le spalle indaffarandosi
in qualcosa e cercando di essere silenziosa, era una torcia a pile appoggiata
per terra, col fascio di luce rivolto verso l’occupazione della figura
accucciata sul pavimento.
A Yuta
occorsero solo un paio di occhiate per riconoscere la sagoma, e la seconda di
esse era solo di puro controllo, perché, a tutti gli effetti, si era aspettata
di trovare qualcun altro, quando aveva sentito il rumore delle bottiglie di
birra. A quanto pare, però, la nuca di chi si stava indaffarando
a sistemare le bottiglie tenute dentro una svariata serie di recipienti, dai
cartoni da birra del supermercato fino ai contenitori di bottiglie di plastica,
non era ricoperta da capelli biondi e quasi ricci, bensì da lunghi rasta.
La ragazza raccolse il fiato, poi
emise un poderoso e significativo «Haem!», che
risuonò chiaramente nel silenzio della casa. Quasi contemporaneamente, la
sagoma sussultò di sorpresa, e subito dopo le braccia si agitavano per cercare
di impedire che le bottiglie che le erano sfuggite di mano rovinassero troppo
bruscamente sul pavimento. Ci riuscì, quasi altrettanto bene quanto
nell’assumere un’aria di compassata naturalezza in tempi sufficientemente
rapidi da permetterle di girare poi la faccia verso di lei e affrontare la sua
espressione.
«Heylà.
Buonasera.» salutò semplicemente Kumals.
Per un momento, Yuta fu quasi davvero colpita dall’immacolata maschera di
nonchalance che lui indossava perfettamente. Poi dovette ricordare a se stessa
che lo conosceva fin troppo bene per lasciarsi impressionare troppo dall’abilità
di certi suoi trucchi.
Gli rivolse un sorriso felinamente sagace, prima di rilassare la bocca in un tono
impertinentemente provocatorio. «Okay. Se volevi sembrare uno che sta cercando
appositamente di non fare il sospetto, ci sei riuscito perfettamente.»
Kumals considerò
momentaneamente la stoccata, ma già si stava rialzando in piedi, passando le
mani sul cappotto all’altezza delle ginocchia per spolverarlo. «Non stavo
facendo niente di strano. Stavo solo prendendo una birra.» spiegò, con
eccellente tranquillità.
Yuta lo considerò da
capo a piedi, prendendosi il tempo strategico che occorreva per dare abbastanza
peso alla sua obiezione. «Già. Curioso che tu non ne abbia una in mano, al
momento.» notò, con placida calma apparente.
Kumals corrugò appena
la fronte per un istante. Ma si riprese molto rapidamente per ribattere «Questo
è perché mi hai spaventato facendo rumore, e mi hai distratto. Ma è esattamente
quello che stavo facendo.»
Yuta si disimpegnò
della scopa da giardino appoggiandola alla parete accanto alla porta,quindi
incrociò le braccia e si appoggiò allo stipite con la spalla e il fianco,
tornando a guardarlo con interesse. «Hmmm…» mugugnò,
fingendosi dubbiosa «Quindi non stavi, come in effetti sembrava, contando le
birre, vero?»
Kumals le lanciò uno
sguardo di stupore costruito ad arte, per celare quanto prima possibile il
principio di tradita sorpresa che stava per prendere possesso della sua
espressione. «Cosa? Perché mai dovrei farlo?!»
Continuando a recitare, Yuta fece vagare lo sguardo per la stanza, portandosi il
dito indice di una mano alla bocca in posa riflessiva. «Oh beh…
conoscendo il tuo contorto modo di fare le cose la stragrande maggioranza delle
volte, credo che sia una specie di maniera per sincerarti delle condizioni di Uther.»
Kumals rimase in
silenzio. Alla fine, scrollò le spalle e, sospirando, si chinò a prendere una
birra. «Potrebbe anche essere un modo, seppure estremamente contorto, di fare
le cose, sì.» ammise, mentre andava a sedersi al bancone della cucina.
Yuta lo guardò, con
un sorriso. Il gioco era finito. E lei aveva vinto. «Tu sei contorto, Kumals.» commentò
confidenzialmente, mentre a sua volta rompeva la posa statica per raggiungere i
fornelli.
Kumals ingoiò il sorso
di birra e spiò i suoi movimenti al di sopra della spalla. «Nahhh.
Non davvero.»
«Lo sei.» insistette con
tranquilla sicurezza lei, mentre iniziava a riscaldare l’acqua sul fuoco.
Kumals considerò per
un momento il suo tono, mentre si distraeva a notare quanto Yuta
sembrasse casalinga in quel momento. Non che, persino nelle vesti da notte, non
apparissero evidentemente i suoi gusti, a cominciare dalle pantofole di pelo
finto leopardato, fino alla vestaglia di finta seta e di forma e decorazione
floreale in stile giapponese. Forse sembrava più domestica perché i suoi
capelli non erano articolati in qualche architettura di bastoncini e nastrini
colorati ma semplicemente legati in un’alta coda di cavallo, e non indossava
orecchini. E Yuta senza orecchini sembrava quasi
nuda. Per un momento Kumals fu sul punto di
dirglielo, ma subito dopo considerò le implicazioni di eccessiva confidenza di
quell’osservazione provocatoria, e si trattenne. Poteva scherzare su un sacco
di cose, ma il terreno che riguardava, anche se solo alla lontana, un certo
tipo di intimità, era per sua sensazione qualcosa che era meglio lasciare da
parte. Troppo infido e probabilmente facilmente inopportuno tra loro.
«Che razza di intruglio a base di
erbe strane hai bisogno di preparare alle tre di notte?» domandò divertito.
Le dita di lei continuarono a
dosare con cura il misto di foglie e petali essiccati e triturati che stava
preparando in una ciotola di legno. «Qualcosa per dormire. E non sono ‘erbe
strane’. Niente di più e niente di meno che alcune piante selvatiche dalle
proprietà rilassanti che crescono comunemente in questi boschi. Tranne qualcuna
che abbiamo raccolto tempo fa in altre zone. E qualcun’altra che coltiviamo
nell’orto o nei vasi in casa.» spiegò, assorta.
«Insomma, una tisana.» semplificò
Kumals.
«Un infuso.» corresse lei.
Kumals alzò un
sopracciglio, divertito. Non aveva intenzione di condurre la conversazione su
una spiegazione della differenza tra i due termini. «Avanti…
Potrai bere brodaglie calde e analcoliche quando sarai decrepita. Ora puoi
essere ancora definita giovane.»
La ragazza, che aveva appena
terminato di riporre il coperchio sull’ultimo contenitore di erbe che aveva
usato, girò le spalle ai fornelli e si appoggiò al bordo d’essi, incrociando le
braccia e affrontandolo vis à vis. «Sono certa che questo tipo di parole non
meritano un ringraziemento… non proprio come se
fossero un complimento. Anche se, considerando il tuo modo di essere
implicitamente terribilmente contorto, potrebbero anche esserlo. Involontario,
magari.»
Kumals rise un poco.
«Oh, suvvia! Se davvero pensassi che ti ho offesa, a quest’ora mi avresti già
tirato qualcosa addosso.»
Yuta vi rifletté
sopra solo per un breve istante. «Sì, è vero.» ammise senza difficoltà.
Kumals alzò la
bottiglia e la agitò leggermente facendola penzolare tra le dita per il collo.
«Niente birra, quindi?»
Yuta girò appena la
testa per rivolgergli un sorrisetto di sbieco. «Non farmi pensare che un giorno
qualcuno dovrebbe contare le bottiglie anche per sincerarti delle tue di condizioni. Comunque, cosa hai
potuto trarre dal tuo conteggio, riguardo a Uther?»
Kumals rinunciò al suo
gesto di tentazione tornando a riappoggiare la bottiglia sul bancone accanto a
sé. «Dunque, sostanzialmente…»
Un silenzio composto cadde nella
stanza. Yuta sospirò brevemente e pazientemente, concedendogli
la difficoltà nell’esprimere un giudizio in qualche modo sensato. «Oggi Danny è
andato a parlare con lui, no? E ora cammina sulle sue gambe, fuori dalla
stanza. Almeno per qualche ora. Ha cenato con noi, è rimasto con noi finché non
siamo andati a dormire. Mi sembra un ottimo inizio, no?»
Kumals considerò la
cosa, poi le servì un’espressione di stupore. «Oh, davvero? Danny è andato a
parlarci?»
Yuta alzò un
sopracciglio ma sorrise divertita, suo malgrado. «Lascia perdere. So che lo sai
benissimo. Mi stupirebbe il contrario. Che tu non sappia qualcosa di quello che
succede qui dentro.»
Kumals le restituì lo
sguardo con altrettanta provocazione. «Dev’essere
irritante, considerando che è casa tua.»
Yuta scosse la
testa, per negargli la deviazione. «Uther sembra
stare meglio, no?» insistette.
«Davvero lo pensi? Oh, bene. Mi
fa molto piacere!» recitò di nuovo Kumals.
La ragazza lasciò che il silenzio
ricadesse a pesare in risposta su quell’elusività testarda, mentre si voltava a
versare le erbe essiccate nell’acqua che iniziava a sobbollire. Non si stupì
nel sentire la voce dell’altro, né di sentirla così incertamente sospesa.
«Insomma…»
accennò Kumals.
Yuta continuò con
calma a rimettere a posto i contenitori delle erbe e a spolverare la ciotola di
legno ormai vuota con uno strofinaccio pulito.
«Quindi…»
ritentò Kumals.
Ora lei stava spegnendo il fuoco
sotto alla piccola pentola e mescolando l’acqua che si andava tingendo di un
colore brunaceo.
Kumals si voltò sulla
sedia per guardarla. «Quindi?»
Yuta si voltò.
«Quindi cosa?»
«Insomma, cosa ne pensi? Come
pensi che stiano andando le cose? Per Uther,
intendo.» esplicitò Kumals.
«Potrei sempre leggere il futuro
nelle foglie del tè. Probabilmente non è molto diverso dal contare le bottiglie
di birra per vedere quante ne beve al giorno. Anche perché sospetto che il tuo
metodo non dia alcun risultato. Credo proprio che il numero di quelle che
spariscono sia rimasto sempre costante, almeno fin da quando è tornato
abbastanza abile da riuscire a reggersi sulle gambe per sgattaloiare
quaggiù nottetempo a prendersene qualcuna, no?» rispose Yuta.
Kumals ci pensò sopra
per un momento. Poi il suo sguardo si illuminò per la rivelazione. «Ma certo!»
esclamò. «Sei un genio!»
Yuta alzò un
sopracciglio, rendendosi conto che l’altro non sembrava stare scherzando.
«Attento, questo sì che assomigliava pericolosamente ad un complimento.»
Kumals proseguì come
se non l’avesse sentita. «Oggi ci sono più bottiglie, cioè, ne mancano meno di
quelle che sparivano di solito. Vuol dire che non ha pensato di dover rifornire
la sua scorta giornaliera che tiene sotto il letto. Questo significa che non
pensa che continuerà a stare chiuso nella stanza tutto il tempo, ma che girerà
per la casa come tutti noi e quindi potrà prendersene una quando vuole!»
L’uomo rivolse a Yuta uno sguardo di tripudio, e gli occorse qualche istante
per comprendere perché lei non stesse contraccambiando il suo entusiasmo.
Tossicchiò e si ricompose rapidamente, tornando ad assumere un contegno meno
prossimo alla vittoriosità. Si appoggiò al bancone
con un gomito e riprese a sorseggiare la birra con tranquillità. «Ad ogni modo,
mi stavi dicendo a proposito delle tue considerazioni a riguardo della
faccenda.» disse.
Yuta scosse appena
la testa, notando la sua abilità nel darsi delle arie di serietà composta.
Sapeva però che, aldilà di tutte quelle sconclusionate predizioni a base di
conti da cambusa, doveva essere davvero stato molto preoccupato per Uther ultimamente. Per questo, forse, si decise a sedersi in
un’altra sedia vicino a lui, con la sua tazza di infuso bollente che le
scaldava piacevolmente le mani. Lasciò che lo sguardo si distraesse nel fumo
che esalava dal liquido bollente, una danzante colonna impalpabile nell’aria
che si dissolveva lentamente sfumando nel nulla poco oltre l’altezza del suo
viso.
«Questa è una situazione in cui
le cose non possono evolvere più di tanto. Pensavo lo sapessi già. Credo che,
qualsiasi cosa sia, sia per sempre, ma solo proprio così com’è ora.» disse
infine.
Kumals mugugnò pensierosamente
tra sé e sé.
Yuta fu distolta dal
suo stato contemplativo e lo fissò come se fosse stata disturbata. «Cosa c’è da
mugugnare come una vecchia teiera?» domandò, anche se il suo tono era più affettuosamente
comprensivo che leggermente aggressivo.
Kumals fissava la
superficie del tavolo come se invece stesse cercando di cavare qualcosa da
essa. «Non ne sono sicuro, ma sembra una cosa piuttosto triste.» ammise.
Yuta sorrise,
dolcemente ma tristemente. «Forse. Ma sarebbe molto più triste cambiare le cose
che non possono tramutarsi in qualcos’altro, e perdere per sempre quelle che si
hanno, splendide in ciò che sono. Non trovi?»
Kumals sospirò a
lungo. «Non lo so. Forse a volte, però, la paura di perdere qualcosa che già
abbiamo, ci priva per sempre della possibilità di cercare di sfidarci per
ottenere qualcosa di ancora meglio.»
La ragazza restò per un momento
silenziosa, immersa nei suoi pensieri, lo sguardo sospeso nel nulla di fronte a
se e le labbra piegate a soffiare sulla tazza per raffreddarne il liquido. Dopo
qualche momento, abbassò gli occhi sull’infuso. L’istante successivo si stava
alzando per appoggiare la tazza lontano sul tavolo, prendere un bicchiere
vuoto, e risedersi mentre allungava una mano aperta in attesa verso Kumals. Lui considerò per un momento il gesto, poi le passò
la bottiglia di birra permettendole di versarsene un bicchiere prima di
restituirgliela. E non avanzò alcun commento; cosa che molti avrebbero detto
insolita da parte sua.
«Cosa ne pensi…»
ruppe senza preavviso il silenzio Yuta «..di come
andranno le cose?»
«Definisci ‘cose’.» invitò Kumals.
«Non so, riguardo a Zoal…»
L’uomo la guardò finché lei non
gli ricambiò lo sguardo, e la fissò con seria aria di promessa. «Yuta, Zoal starà bene. Sono
sempre stato più che sincero a questo proposito. Non devi preoccuparti…»
Yuta si
tranquillizzò, ma scelse di lanciargli un’occhiata alleggerente. «Io mi
preoccupo sempre, per sicurezza.» scherzò.
Kumals scoppiò in una
breve risata. «Già. Tutto sommato saggio, anche se faticoso.» scherzò a sua
volta.
«Tu sei il maestro delle
preoccupazioni non necessarie, non posso davvero accettare questa osservazione
da te.» gli ribatté lei.
Kumals sembrò
rifletterci su per un breve istante, anche se con atteggiamento ancora giocoso.
«No, non sono una persona così preoccupata.»
«Lo sei invece. Magari anche
preoccupante, ma soprattutto preoccupata.» insistette la ragazza.
Kumals la guardò, con
curioso interesse. «Sul serio? Do questa impressione?»
Yuta gli lanciò
un’occhiata saputa al di sopra del bicchiere dal quale stava sorseggiando
distrattamente. «Forse non dai l’impressione. Ma noi ti conosciamo da troppo
tempo per poter credere che tu non sia una persona estremamente…
apprensiva.»
Uno sei sopraccigli dell’uomo si
inclinò maggiormente. «Male. È una di quelle cose che fanno sembrare vecchi,
piuttosto disdicevole.»
Yuta ridacchiò.
«Usare la parola ‘disdicevole’, quello sì che ti fa sembrare vecchio.»
Kumals raddrizzò la
schiena e si finse più offeso di quanto poteva realmente sentirsi. «Acculturato,
semmai. Possiedo semplicemente un ricco vocabolario.»
«Perciò…»
accennò Yuta, con un luccichio divertito negli occhi
«Si potrebbe anche dire ‘decrepito’.»
«No. Direi proprio che la parola
giusta è ‘acculturato’.» insistette Kumals, tenendo
fermo su di lei uno sguardo testardamente provocatorio.
La ragazza però rise,
distogliendo gli occhi da lui, poi sospirò brevemente, ma in modo rilassato.
«E’ strano davvero. In questi giorni è sembrato come se quasi non fosse passato
del tempo. Tutti i ‘4 di picche’ riuniti e tutte
queste dannate cose… Però, forse…
Sì, forse è questo: fatico ad abituarmi all’idea che nelle prossime ore, come
se niente fosse, ognuno tornerà alle sue cose e case.»
Kumals la guardava
ancora, ma il suo viso era tornato serio. Poi Yuta
rialzò losguardo su di lui, con
circospetta ricerca di confidenza.
«Non ti sembra che sia un po’
come se i ‘4 di picche’ si stessero sciogliendo di
nuovo?» gli chiese.
L’uomo ci pensò su per qualche
momento prima di rispondere. «No, non faremo di nuovo così. Credo piuttosto che
dovremmo considerare questa storia come una dimostrazione che i ‘4 di picche’ esisteranno per sempre, almeno finché saremo vivi.
Voglio dire, in poche ore ci siamo riuniti ed è stato un po’ come… come se non ci fossimo mai sciolti. Può essere così
per sempre, anzi, lo credo proprio. In qualsiasi altro momento potremmo
rivederci tutti insieme e sarà praticamente come se non ci fossimo mai
disciolti.»
Yuta lo stava
guardando sinceramente colpita. «E’… un pensiero singolarmente ottimistico, per
essere un tuo pensiero.»
L’espressione dell’altro iniziò a
virare faticosamente dalla seria riflessività verso una certa perplessità
divertita. «Che vorresti dire?»
«Beh…
dopotutto tu tornerai oltreoceano, no? A fare… cos’è
che farai esattamente?»
«Investigatore privato, per
l’esattezza.» informò Kumals con aria
professionalmente seria.
Ma Yuta
lo stava considerando con un certo divertimento. «Cioè continuerai a occuparti
di casi strani in sordina, insomma.» e rise, prima di aggiungere «Allora per te
è certamente così, è come se i ‘4 di picche’ non si
fossero mai disciolti, praticamente.»
Per un attimo Kumals
sembrò deciso a rivolgerle uno sguardo di rimprovero per la sua mancanza di
serietà a riguardo del suo lavoro, ma alla fine un sorriso divertito gli piegò
le labbra. Alzò la bottiglia di birra verso l’alto in un giocoso brindisi
ironico e con tono scherzosamente solenne esclamò «Ci saranno sempre dei casi
paranormali di cui potranno eccellentemente occuparsi…»
«Persone paranormali!» completò Yuta, interrompendolo e alzando a sua volta il bicchiere
nel brindisi per fargli prontamente il verso.
Complessivamente la frase era
così inaspettatamente azzeccata che, nell’istante in cui lo realizzarono, si
ritrovarono entrambi a ridere saporitamente.
Poi Kumals,
ritrovata la voce e la calma, continuando a guardarla osservò «D’altro canto,
ora che tu e Zoal siete ben sistemate qui, magari ci
sarà occasione per altre rimpatriate. O, in ogni caso, qualcuno di noi potrà
venirvi a trovare di tanto in tanto.»
«Certo!» confermò la ragazza,
apparentemente senza cogliere quel qualcosa di significativa attesa contenuto
nel sottofondo del suo sguardo «Tutti voi potrete venire quando volete!»
Kumals afferrò quel
plurale come una risposta in qualche modo significativa per lui, e si disse che,
comunque, era valsa la pena tentare quel pallidissimo tentativo; non era sicuro
se lo avesse fatto più perché non aveva potuto farne a meno o perché ne sarebbe
in ogni caso valsa la pena.
Dopo qualche altra chiacchiera su
argomenti vaghi e vari, l’uomo, ormai terminata la sua birra, si alzò e
stiracchiò pigramente, annunciando che doveva essere ormai la sua ora per
andare a dormire. Yuta non avanzò proteste a
riguardo.
«Buonanotte, allora.» disse Kumals, con gentile affetto, rivolgendole un’ultima
occhiata.
«Buonanotte, Kumals.»
rispose tranquillamente Yuta, fissando la sua schiena
che raggiungeva la porta della cucina e vi spariva oltre. Sospirò profondamente
e scosse appena la testa. Certe volte, constatò tra sé e sé, l’illusione che
non fosse affatto passato del tempo da quando i ‘4 di picche’
erano una squadra compatta si sfilacciava, lasciando scoperte alcune cose a
proposito delle quali, invece, sembrava essere passato un sacco di tempo.
«Non posso ancora crederci. Non
del tutto.» mormorò Danny.
Andrea, seduta sul divano di
foggia ottocentesca, le gambe piegate contro il petto e la testa appoggiata
sulla sua spalla, alzò gli occhi per spiarlo in volto. «Stai cercando di
rubarmi le parole che non ho mai detto?»
Danny comprese lo scherzo e
abbassò la testa sorridendole divertito.
«A che cosa, comunque?» domandò
Andrea.
«Beh…a
tutto questo. Ti rendi conto?» replicò lui, indicando brevemente l’intera
stanza. «Voglio dire… una festa! In casa del Conte! E
lui non sta nemmeno impazzendo dal nervosismo a riguardo del pericolo che
qualche tappeto o mobile o quadro o lampada o chissà che altro, risalente a
chissà quale secolo e da chissà quale casata e riconducibile a chissà quali
tenebrose leggende, possa essere irreparabilmente rovinato. Non ti sembra
incredibile?»
Andrea guardò in giro per la
stanza, poi, cautamente, diede la sua netta impressione. «Danny…
credo proprio che il Conte abbia rimosso dalla stanza o ricoperto con spessi
drappi neri qualsiasi cosa potesse ritenere di valore.»
Danny abbassò lo sguardo sullo
spesso telo nero che ricopriva il divano sul quale erano seduti. «Beh… sì, in effetti…»
«Più che altro, mi stupisce che
lui sia qui.» commentò Andrea.
Danny tornò a solcare la stanza
con lo sguardo. Attraversò il largo spazio del salone da ballo della cadente
villa in cui aveva abitato negli ultimi mesi, passando attraverso le sagome che
ballavano - più o meno scherzosamente o seriosamente
- degli altri e delle altre della loro comitiva, scivolando con diverse dosi di
grazia o assenza d’essa sulla superficie estremamente liscia del pavimento di
freddo marmo, e trovò il Conte.
Lui e Justin erano seduti alle
estremità opposte di un tavolino quadrato, di foggia apposita per essere
utilizzato per giocare a scacchi. Ma il Conte aveva riposto altrove la
scacchiera, e tutte le sue facoltà erano al momento concentrate sulla
comprensione delle regole e dei trucchi di un gioco di carte e ruoli, di draghi,
guerrieri, maghi e stregoni, sacerdotesse, mostri, battaglie in stile tolkjeniano, guerre, maledizioni, leggende e quant’altro.
Mentre l’infervorato Justin a tratti spiegava e a tratti si lasciava andare ad
un apatico stato di torpore annoiato, il Conte studiava la cartina di gioco
disposta davanti a lui, impugnava, soppesava nella mano e lanciava i dadi,
muoveva le pedine e sceglieva le carte prima di posarle solennemente sul tavolo
con l’eleganza di un principe d’altri tempi che stia sviluppando una strategia
di attacco fondamentale per buona parte delle sorti del suo impero.
«Oh, non credo che il Conte
disapprovi le occasioni di festeggiamento. Più che altro, credo che la sua idea
appartenga più alla convenzione che riguarda i ‘ricevimenti’ piuttosto che le
‘feste’.» osservò Danny. Il commento gli era stato suscitato dagli abiti del
Conte, scelti tra quelli più eleganti e più da occasione importante di quelli
del suo repertorio; per cui, al posto di una certa modestia basilarmente
gotica, ora indossava un tripudio di broccato, dorato, verde scuro, nero,
argento e madreperlaceo, distribuiti in una serie di strati tra abito,
mantello, sottomantello, e altri capi svariati. Oltre a ciò, il Conte indossava
una serie di monili di foggia imponente nella loro antichità, ma da quanto
brillavano di oro e pietre preziose si sarebbe detto che non fossero state mai
troppo a lungo private di lucidatura e cura.
«Voglio dire…
» cercò di spiegarsi meglio Danny «Lui è fatto così. E’ dalle cose cerimoniose
che si vede meglio quanto consideri questa un’occasione importante, cioè da
come è vestito. Il fatto che invece di scalmanarsi in giro sia più devoto a
giocare seduto ad un tavolo oppure a conversare amabilmente e lungamente con
qualcuno tenendo un bicchiere di sangue con delicata grazia in mano… è che quella è la sua idea di festa.»
«Credo che quasi nessuno di noi
sia più in grado di seguire uno dei suoi discorsi a questo punto. La maggior
parte di noi ha già bevuto troppo per riuscire in tanto.» ridacchiò Andrea. Poi
si soffermò a fissare con attenzione il volto di Danny. «Ma è davvero una festa
questa? Cioè… » continuò, avendo ottenuto la piena
interrogativa attenzione del ragazzo «Dopotutto, ora vi separerete di nuovo,
no?...»
Danny distolse lo sguardo,
riflettendo tra sé e sé, mentre guardava di nuovo uno ad uno tutti gli altri
che ballavano. Doveva ammettere che non era probabilmente il Conte ad essere la
persona più stranita dall’avere una festa con tutti loro lì in quella casa. No,
era lui ad essere più spaesato. Quella era la casa dove aveva passato gli
ultimi mesi: stanze perlopiù silenziose, in cui il Conte si aggirava solo nelle
ore notturne e senza quasi produrre rumore, dove Justin trascorreva il tempo a
perderlo più che a impiegarlo in qualcosa, e dove lui abitava come se la
domanda di che diavolo esattamente ci faceva lì rimanesse sempre in sospeso. E
ora invece c’era una festa in piena regola, rumorosa delle note delle varie
canzoni di musica moderna che stonavano curiosamente con l’arredamento antico,
pesante, di tinte scure e cupe; tutt’altra cosa rispetto a quando
occasionalmente il Conte vi faceva risuonare qualche vinile di musica classica
e/o epicamente tragica. Ora che si trovava immerso in
quell’atmosfera di spensierata e affollata festa, Danny si rendeva conto di quanto
lo spazio di quella sala da ballo apparisse enormemente ampio e vuoto tutto il
resto del tempo; e gli sarebbe apparso ancora più vuoto dopo quella notte.
Tornò a voltarsi verso Andrea e
le rivolse un sorriso un po’ stentato. «Beh, in fondo, ora che so che Yuta e Zoal vivono qui vicino,
potrò andare a trovarle e a passare un po’ di tempo da loro. E poi, credo che
ogni tanto verrò a trovare te alla scuola. Sì, d’accordo, me l’hai già detto
che il regolamento vieta assolutamente di avere ospiti nelle stanze, tranne si
tratti di parenti in visita che vengono da lontano. Però non mi è parso che la
struttura sia stata progettata per evitare eventuali incursioni di lupi.» e
sogghignò divertito.
Andrea gli sorrise caldamente e complicemente. «Ottimo punto. Sarà solo un po’ difficile
spiegare a Janine com’è possibile che tu sia in grado
di uscire dalla stanza saltando dalla finestra e atterrando a terra svariati
metri più sotto senza riportare gravi danni…» osservò
divertita.
«Hum…
sì, questo forse sarà un po’ difficile da spiegare.» ammise Danny, ridendo e
chinandosi a darle un bacio.
Dall’altra parte della stanza,
seduta su una grande poltrona che doveva un tempo aver fatto parte
dell’arredamento di qualche potente casata dell’est-europa,
Zoal osservava la scena, un po’ china in avanti, il
mento appoggiato sulle mani a loro volta appoggiate sulla cima del suo bastone,
obliquamente appoggiato al pavimento. Il lieve sorriso di divertita ironia che
le aleggiava in volto era reso più ambiguamente imperscrutabile dal modo in cui
brillavano di sommessa luce propria gli occhi verdi, intenti a scrutare
qualcosa che pareva solo lei fosse in grado di cogliere con precisione. Una
figura le si stagliò di fronte, ma solo con lenta calma lei alzò lo sguardo sul
viso che la stava osservando.
«Mi concedi un ballo?» le offrì Yuta, porgendole la mano e aprendo le labbra a mostrare i
denti in un sorriso divertito. Zoal le sorrise di
rimando. «Solo perché sei tu.» accettò, prendendole la mano e alzandosi piano
dalla sedia.
Abituata al fatto che la sorella
non abbandonava praticamente mai il suo bastone, Yuta
le prese l’altra mano permettendole di tenere sia impugnato il bastone, sia stretto
un lembo della lunga gonna dell’abito, che Zoal
raccolse di lato per tenerla abbastanza sollevata da potersi muovere più
liberamente e perché, a quanto sembrava, era la sua abitudine nel danzare. Yuta la trascinò in qualche giravolta senza esagerare, e
sostenendola con attenzione, mentre alternava qualche risata frizzante a
qualche commento riguardo agli altri e alla casa, che solo poche ore prima
avevano potuto vedere per la prima volta, e che non aveva potuto fare a meno di
colpirle. Qualche commento ben piazzato di Zoal non
aveva mancato di far evidentemente inorgogliosire il
Conte, tra un profluvio di sopracciglia alzate da parte degli altri. Ma anche Valentine non era stata da meno, emozionandosi per quasi
ogni singola cosa contenessero quelle mura; solo lei aveva avuto l’interesse e
la pazienza di seguire gli interminabili discorsi del Conte sulle
caratteristiche, l’epoca e la storia che sembrava potesse vantare praticamente
ogni singolo oggetto. Vedendolo così entusiasta, Danny si era ricordato di
quando anche lui aveva ascoltato diverse di quelle storie, anche se con meno
entusiasmo, ma non aveva quasi mai visto il Conte così travolto da una talmente
profonda soddisfazione nel sciorinare la sua cultura e la sua cura verso tutto
ciò che aveva collezionato in quella casa, come una specie di museo personale.
Andrea osservò con ammirata
attenzione il modo in cui le due sorelle ballavano con eleganza intrinseca,
nonché il fatto che Ramo e Uther ballassero vicino a
loro calcando invece sulle proprie movenze come a prenderle scherzosamente in
giro, mentre poco più in là Kumals faceva volteggiare
Valentine con grande abilità, con soddisfatto
divertimento di lei. Poco dopo, Ramo e Valentine, con
evidente complicità, si erano precipitati davanti a loro e, ignorando le vivaci
proteste di Danny, lo avevano trascinato in pista, mentre lei rideva per il
modo in cui la cosa era quasi degenerata in una specie di lotta in cui il
ragazzo si aggrappava al telo che copriva il divano e i due lo tiravano per le
gambe cercando di fargli mollare la presa. Il ritmo della musica era cambiato,
diventando più vivace, e Ramo e Valentine coinvolsero
Danny in un balletto saltellante e giocoso, più di evoluzioni giocose da
quadriglia improvvisata che altro.
Improvvisamente, Andrea, troppo
distratta dal guardare i tre che scherzavano stupidamente, si accorse di una
sagoma dritta in piedi davanti a lei. Alzò gli occhi su Kumals,
quasi sussultando per la sorpresa. L’uomo le sorrise gentilmente.
«Non mi dirai che non sai
ballare.» le disse, porgendole la mano. «E non puoi davvero negarmi un ballo, a
meno che non ci sia un valido motivo.»
Andrea lo considerò per un
intento momento. «Forse qualcuno dovrebbe essercene.» scherzò, sorridendo con
divertita allusività. Tra sé e sé, ebbe per un momento l’impressione che Kumals le stesse rivolgendo uno sguardo simile a quando si
erano incontrati per la prima volta, e lui sembrava studiarla come a cercare di
decidere se poteva ritenere la sua volontà abbastanza forte da essere presa sul
serio nelle sue intenzioni di farsi immischiare in situazioni piuttosto
complicate e stravaganti come quelle in cui si erano trovati. Ma ora era
diverso, e la valutazione di Kumals cercava di
stabilire qualcos’altro, forse una specie di tirare le somme a posteriori: se
la sua valutazione di allora poteva ora essere aggiustata in base a quello che
era successo.
«Sai…»
disse ancora Andrea «Se fosse stato per te, a quest’ora non sarei nemmeno qui.
Sarei a casa, e non sarei stata coinvolta in tutto questo.»
Kumals la guardò con
maggiore attenzione e una decisiva ombra di serietà. «Non è concesso a tutti un
errore?» domandò, con un leggero sorriso gentile.
«Qual è stato l’errore?» domandò
ancora Andrea, il tono parimenti significativo ma confidenzialmente leggero
«Aver cercato di non permettermi di essere coinvolta, o avermi alla fine
lasciato vincere e farmi coinvolgere?»
Kumals sembrò
riflettervi per qualche istante e alla fine disse «Probabilmente ho sbagliato
doppiamente. Ma quale sia esattamente tra queste due la mia colpa, solo tu
potresti essere in grado di stabilirlo.»
Andrea allargò appena gli occhi,
suo malgrado colpita. Poi, sorridendo, gli prese la mano e si lasciò
coinvolgere nelle danze.
Fu a quel punto che Uther, mentre nessuno sembrava lo stesse notando, si
appressò quasi di soppiatto al massiccio stereo che avevano portato da casa di Yuta e Zoal. Da una tasca dei
pantaloni pescò un’audiocassetta che, prima di partire, aveva intascato
appositamente, senza farsi notare da nessun’altro. E anche ora ebbe cura di non
farsi notare mentre la sistemava nello scompartimento apposito. Sapeva che era
già impostata per partire su una canzone precisa, visto che lui personalmente
l’aveva fatta arrivare su quel punto, trafficando poco prima, mentre gli altri
erano troppo impegnati a osservare meglio la casa del Conte, che lui invece
aveva già curiosato quasi da cima a fondo la prima notte che vi era rimasto a
dormire.
Attese pazientemente, fingendo
con nonchalance di essere per caso nei pressi dello stereo ogni volta che lo
sguardo di qualcuno degli altri terminava per caso su di lui, finché la canzone
in corso che proveniva dal cd masterizzato che ruotava nell’altro scomparto
dello stereo non fu verso la fine. A quel punto, senza alcun preavviso, pigiò
con decisione il tasto per fare partire la cassetta e zittire il cd. E gli
altri ebbero a malapena il tempo di realizzare la brusca interruzione e di
voltarsi a guardare lo stereo e lui, nonché di notare il suo sorrisetto
divertito, prima che le prime note di ‘Voglio andare ad Alghero’* si
spandessero per l’ampio salone.
Andrea osservò che una strana
sensazione sembrava aver preso praticamente tutti quelli dell’ex gruppo dei ‘4
di picche’, persino i cani di Zoal
quasi, mentre lei e Valentine cercavano di capire di
che si trattasse. Ma poi, entrambe si ritrovarono a guardare, come tutti gli
altri, due persone in particolare che si volavano incontro attraversando
rapidamente la stanza.
Danny e Yuta
si raggiunsero nel minor tempo possibile, si afferrarono reciprocamente le
mani, e, come rispondendo ad un comando automatico, iniziarono a ballare quella
che evidentemente era una coreografia preparata.
«Oh diamine…»
ridacchiò Kumals, con tono di sussiegoso rimprovero
«Vieni, sarà meglio sgombrare la pista.» le disse, prendendola per mano e
guidandola verso lo stereo, così come Ramo stava facendo con Valentine. Zoal era già di fianco
a Uther, e quando anche gli altri li raggiunsero, Kumals, appoggiandosi alla parete e incrociando le braccia,
distolse lo sguardo solo per un momento dalla coppia danzante per incrociare di
sbieco quello di Uther, parimenti sogghignante.
«Volevo solo vedere se si
ricordavano la canzone.» disse Uther, mentendo con
spudorato divertimento.
«Perché proprio questa canzone?»
domandò con sincera incomprensione Valentine, mentre
osservava seriamente ammirata l’abilità di Danny e Yuta
nell’animare il ritmo ballando insieme. Facevano tali giravolte che sembravano
ad un passo dalla danza acrobatica.
«Tempo fa, quando la sentì per la
prima volta, Yuta se ne innamorò, e convinse Danny a
passare una settimana a preparare una coreografia.» spiegò Ramo, sorridendo
divertito. «Ma la cosa incredibile è che… a quanto
sembra se la ricordano ancora più che bene!» notò, con sincero stupore
ammirato.
«Dopo tre giorni in cui eravamo
tutti costretti a sentirla dalla mattina alla sera per decine di volte, gli
avevo fatto sparire la cassetta.» ricordò Kumals.
«Già, è vero.» confermò Uther, ricordando «E Yuta ti ha
tenuto legato al letto tre ore con le corde prima di riuscire a farti
confessare dove l’avevi messa. Sapeva che eri troppo furbo per liberartene
definitivamente, visto che la sua vendetta a quel punto sarebbe stata
terribile.»
Risentito dal commento, Kumals ribatté «Ma è stato solo grazie a quello se abbiamo
potuto trattare con lei per ottenere che non venisse fatta suonare per più di
sette volte al giorno.»
«Vero anche questo.» concesse Uther.
Andrea non si perse una parola di
quella conversazione; dopotutto, era sempre qualcosa in più sul passato di
Danny, persino se si trattava di qualcosa di superficiale come quello. Ma i
suoi occhi erano completamente rapiti dalla danza, che in coincidenza con
l’animarsi della canzone si era fatta una vera e propria danza acrobatica. E
così, in silenzio tutti rimasero ad osservare senza staccare lo sguardo dalla
coinvolgente coreografia, fintanto che la musica non andò spegnendosi lasciando
il posto alla canzone successiva, e Yuta e Danny si
ritrovarono a ridere e complimentarsi vicendevolmente. Kumals,
animato probabilmente anche dall’alcool, iniziò a battere le mani e fischiare
rumorosamente, chiaramente anche scherzosamente, accompagnato presto anche da
Ramo, e il Conte, che si era addirittura alzato in piedi, fece loro eco
dall’altra parte della stanza con aria seriamente ammirata e partecipe,
battendo elegantemente le mani a lungo e con persuasione. Danny e Yuta si inchinarono alcune volte, evidentemente divertiti
dall’applauso scherzoso improvvisato, ma sinceramente soddisfatti.
Poi, mentre gli altri si
ricomponevano in un gruppetto al centro della pista, Danny la attraversò di
getto fino a fermarsi davanti ad Andrea, un sorriso a trentadue denti che gli
splendeva tra le labbra sottili piegate nella smorfia con un che di
perennemente sogghignante che gli era propria. Le prese le mani di impulso,
ridendo senza particolare motivo. Ma si stupì vedendo il modo in cui lei lo
stava guardando. «Che c’è?» domandò incuriosito, piegando leggermente la testa
di lato, un altro gesto che lei aveva imparato essergli solito quando era in
qualche modo perplesso.
«Beh…»
disse lei, ancora piuttosto stordita da ciò che aveva appena visto. Poi parve
riscuotersi e gli sorrise luminosamente «Hey, sai
ballare! Altroché se sai ballare!»
Il ragazzo, che forse si era
aspettato di sentire qualcosa di più serio, si stupì di nuovo e sorrise a sua
volta, anche se vagamente imbarazzato «In realtà, la coreografia è tutta farina
del sacco di Yuta. Mi ha insegnato lei a ballare. Ma
so ballare solo quella canzone.»
Andrea spalancò gli occhi e poi
scoppiò a ridere di getto, divertita.
Danny roteò gli occhi, ancora più
imbarazzato. In effetti, non era qualcosa per cui non si potesse ridere,
dopotutto.
* disclaimer:
la canzone è ‘Voglio andare ad Alghero’ di Giuni
Russo
Nella luce ancora pallida del
mattino, Tirch scorazzava sul terreno incolto attorno
alla vecchia casa goticheggiante fino al più completo
kitcsch che dominava la piccola collinetta affacciata
sulla cittadina di Castle Mc’Hearty.
A quella distanza, si poteva vedere che la cittadina, nonostante l’ora ancora
piuttosto giovane del giorno,era animata. Piccole figure umane, auto e
biciclette in movimento per le strade. Aveva un’aria incredibilmente comune,
tranquilla, normale. Al punto che, se non fosse stato per gli agglomerati di
esercito e ausiliari medici accampati in piccoli gruppi di tende, auto e
camionette poco al di fuori dell’addensamento di case, difficilmente si sarebbe
potuto intuire che solo fino a pochi giorni prima lì era successo
l’inimmaginabile.
Ramo passeggiava tranquillamente,
seguendo distrattamente con lo sguardo le scorribande di Tirch
col naso sul terreno e, di tanto in tanto, la testa e le orecchie rizzate in
aria e il naso fremente. Gettava spesso lunghe occhiate soppesanti verso il
paese. Nonostante una piccola squadra di militari e paramedici si fosse
presentata il giorno prima alla casa per accertarsi, con un fare molto più paternalisticamente sospettoso e invadente piuttosto che
professionale, che lì non ci fossero state vittime o danni, e che gli abitanti
fossero tranquilli purché informati e convinti delle spiegazioni ufficiali di
quanto era accaduto – una sorta di forte virus che aveva prodotto un danno
cerebrale a molti dei colpiti -, Ramo non era ancora tranquillo. Proprio come Tirch quando fiutava l’odore di un animale selvatico
potenzialmente pericoloso nelle vicinanze, ad esempio un cinghiale, i suoi
sensi erano inquieti e all’erta quando si trattava di forze militari, forze
dell’ordine e apparati vari nelle vicinanze. Ma, lucidamente riflettendo,
dopotutto forse avevano ragione Kumals e il suo
ottimismo all’apparenza facilone e pragmatico: ormai non dovevano più temere
niente.
Certamente i componenti della
squadra che erano saliti alla casa avevano fatto delle facce veramente strane.
Ma si poteva capirli: si erano trovati di fronte ad una casa di quella sorta, e
a Danny e Justin, il primo tutto sommato magistrale nella sua parte recitata di
persona ancora preoccupata ma convinta e tranquilla e dispiaciuta per quanto
accaduto a causa del virus, e il secondo che sembrava troppo improbabilmente
ottuso per dimostrarsi qualcosa di più che annoiato e insensibile. Il Conte
aveva messo più a dura prova la loro patina di non discriminazione dei
cittadini da tranquillizzare: apparso in ritardo, dopo essere stato chiamato
dai suoi due ospiti e conviventi, che lui aveva presentato come il suo
‘assistente’ e la sua ‘guardia del corpo’ nonché ‘fidati amici’, si era scusato
per via del fatto che a quell’ora di solito dormiva, e aveva usato un
incredibile numero di parafrasi di imprecisabile lunghezza e svariate
contorsioni implicite per esprimere che, in breve, si riteneva soddisfatto del
loro operato nell’assicurarsi che loro stessero bene e avessero superato quella
calamità senza danni e che non avessero bisogno di alcun ausilio, come in
effetti era.
Mentre avveniva quel singolare
incontro, Ramo aveva cercato di ascoltare ogni parola, il fiato sospeso e un
certo nervosismo, dovuto anche alla scomodità della sua posizione
probabilmente, visto che aveva dovuto spiare la scena attraverso la finestra a
livello del terreno che dava nei sotterranei, schiacciato contro la parete del
corridoio, sfarzosamente arredato secondo il gusto del Conte, e contro i
fianchi degli altri e delle altre, ugualmente tesi come lui a sentire tutto
quello che si poteva sentire attraverso quell’apertura.
In seguito, Uther
aveva passato la gran parte della giornata a fare il verso ad uno degli
incaricati che avevano fornito a Danny, il Conte e Justin le spiegazioni ufficiali.
In particolare, Uther continuava a ripetere
un’espressione usata dall’uomo con tono convinto e atto a convincere: ‘niente
più e nientemeno che un virus di terribile virulenza’. ‘Nientepiù
nientemeno’ aveva continuato a cantilenare Uther,
imitando in maniera sempre più calcatamente boriosa
il tono, specialmente dalla seconda birra in poi. A quanto pareva,
quell’espressione lo divertiva molto, e il fatto che Kumals
e Yuta avessero in vario modo espresso e dimostrato
quanto fossero stanchi di sentirglielo ripetere, chi con pungenti commenti e
chi tirandogli una scarpa addosso e minacciando di peggio, non lo aveva
dissuaso dal continuare.
Ramo rivolse un’ultima occhiata
preoccupata e scontrosa al centro abitato completo di forze dell’ordine,
reparti militari e assistenzialismo ufficiale d’emergenza, quindi si decise a
richiamare Tirch. Il cagnetto gli zampettò
allegramente incontro, e il ragazzo smise di massaggiarsi rapidamente le
braccia per farsi un po’ di calore sulla pelle nuda contro l’aria ancora fresca
del mattino, per ricambiare con qualche carezza l’affettuoso saluto.
Poi, seguito da Tirch, tornò verso l’ingresso della casa. Se la concitata
festa della sera prima non era bastata a togliergli completamente dalla mente
le cupe riflessioni che la visita ufficiale di controllo alla casa gli avevano
suscitato, non c’era troppo da stupirsi. Le feste duravano un inestimabile
sprazzo di ore di giovialità, il resto del tempo, beh…
era tutto il resto della vita. Di lì a poche ore, anche gli altri avrebbero
realizzato il particolare che persino una proficua dormita per riposarsi dopo
una festa durata quasi tutta la notte ha il suo termine; dopodiché, ci sarebbe
stato quel difficile momento che Ramo temeva.
Aggrottò la fronte, mentre entrava
nella cucina silenziosa per prepararsi un tè e trovare qualcosa con cui fare
colazione. A parte cibarsi, doveva assolutamente trovare qualcosa che lo
distraesse maggiormente dal pensiero che avrebbero dovuto salutarsi, lui e gli
altri e le altre, e che lui e Valentine e Tirch se ne sarebbero andati insieme da lì. Non che gli
dispiacesse particolarmente abbandonare la casa in cui Danny viveva al momento:
aveva un che di lugubre, nonostante gli apprezzamenti di Valentine
sul gusto goticheggiante. Ma, naturalmente, non si
trattava solo di quello. Molto di più, o forse no: nientepiù
e nientemeno, avrebbe canticchiato Uther, che una
nuova separazione dei ‘4 di picche’. Impossibile
prepararsi a quello.
*
***
*
L’auto di Ramo e Valentine si decise a partire, abbandonando il piccolo
parcheggio davanti alla stazione dei treni. Kumals e Uther si sforzarono di alzare una mano a testa in un
accenno di saluto che, tuttavia, sembrava una specie di sciocca dimostrazione
evidente di qualcosa che era troppo difficile a dirsi. Un saluto, come un
arrivederci profondamente beneaugurale.
Rimasero qualche minuto ancora
immobili, a fissare l’auto che spariva nel traffico del tardo pomeriggio
soleggiato che si avviava ad un tramonto rosseggiante. Alla fine, come
realizzando che nessuno dei due al momento era probabilmente capace di fare un
primo passo per voltare la schiena all’auto ormai scomparsa, Kumals, le mani nelle tasche dei pantaloni e leggermente
sbilanciato all’indietro come se volesse assumere una posizione inconsciamente
più rassegnata, voltò la testa verso Uther. Dopo
qualche istante, l’altro fece la stessa cosa, e si ritrovarono a guardarsi per
qualche breve momento silenzioso. Poco dopo, entrambi si voltarono, come se
avessero raggiunto un comune accordo, e si diressero verso la peninsilina.
Probabilmente a causa dei recenti
sconvolgimenti avvenuti in quegli ultimi giorni nella zona, la stazione non era
per niente affollata, nonostante l’orario serale di un giorno feriale. I due
non ebbero difficoltà a consultare l’orario dei treni appeso in bacheca, e a
trovare poi posto su una delle panchine, trovando nel mentre il tempo per una
breve sosta al bar in cui si procurarono una birra da condividere. Nonostante
ciò, Kumals lasciò che la bottiglia rimanesse nelle
mani di Uther per la maggior parte del tempo, e si
accinse piuttosto ad arrotolarsi una sigaretta; nel farlo, gli sfuggì un lungo
e paziente sospiro. Uther, tuttavia, non gli rivolse
la sua attenzione finché non lo sentì parlare. Forse il sospiro era qualcosa di
particolarmente scontato in quel frangente.
«Beh, visto che siamo qui, a
quanto pare ce la siamo cavata anche stavolta.» osservò tranquillamente, con
tono puramente colloquiale.
Uther si limitò a un
mugugno concorde. Kumals trattenne un altro sospiro;
certe volte sembrava particolarmente difficile riuscire a sostenere una
conversazione con l’altro. Nulla di nuovo per lui, dopotutto si conoscevano
ormai da diversi anni. Ma in qualche maniera, persino conoscendolo da tempo,
sembrava che Uther avesse un’innata abilità nel
sottrarsi agilmente a qualsiasi tentativo di figurarsi cosa gli stesse passando
per la testa, la maggior parte del tempo. L’unica tattica rimaneva quella della
provocazione, che Kumals padroneggiava
splendidamente, ma verso la quale sapeva anche bene che Uther
aveva col tempo sempre migliorato la sua immunità già dall’inizio
particolarmente alta. Allora non rimanevano che le domande, verso le quali
l’altro sapeva essere certamente non meno elusivo. Ma c’era una curiosità in
particolare alla quale Kumals non aveva ancora dato
voce dopotutto.
«Dunque, dove sei diretto
stavolta?» gli chiese affabilmente.
Uther continuò a
guardare il binario vuoto davanti a sé come se scrutasse i confini spaziali
piuttosto che quelli temporali; riguardo al tempo, sembrava trovarsi a suo agio
nel semplice qui ed ora. «Non ho una precisa meta. Credo che andrò a trovare
alcuni vecchi amici, e vedrò se c’è qualche lavoretto da quelle parti.
Altrimenti, mi sposterò per cercarne qualcuno altrove. È da un po’ che non lavoro,
sono quasi a corto di soldi.» disse semplicemente.
Kumals annuì,
mostrando di aver compreso. Oltre la pragmaticità, a
quanto pareva, non si poteva ottenere altro. Come la maggior parte delle altre
volte. Ammesso che ci fosse altro, naturalmente. D’altro canto, per quanto ne
sapeva, Uther aveva passato la maggior parte della
sua vita spostandosi, girovagando, vivendo alla giornata. Era raro che si
fermasse molto più di qualche mese nello stesso posto; come se fosse inseguito
dalla noia più che trascinato dalla curiosità.
«Mal che vada, potresti sempre
tornare qui e chiedere al Conte. Sospetto che non faticherebbe affatto a
trovarti qualche mansione di dubbia e incerta utilità pratica.» celiò allora Kumals. E, con sua soddisfazione, stavolta ottenne da Uther un sommesso ma sincero sbuffo di divertimento.
«Oh, non ne dubito.» commentò il
biondo, sogghignando appena. «Ma ne ho avuto abbastanza di questo posto. Credo
che tutto ciò che potesse succedere di interessante da queste parti sia ormai
finito.»
Kumals accolse quella
cinica ironia con un pallido sorriso e un lento scuotere la testa. Stava giusto
osservando il fucile che Uther si portava appresso
nella sua custodia di stoffa, chiedendosi se il ragazzo possedesse a tutti gli
effetti i documenti necessari per poterselo portare in giro tanto
tranquillamente, quando l’altro bevve l’ultimo sorso di birra della bottiglia e
si alzò in piedi.
Uther si stiracchiò
appena, prima di caricarsi in spalla lo zaino e il fucile. Poi guardò Kumals direttamente, e sorrise appena, quasi con una certa
difficoltà. Non era sicuramente un tipo di persona che si sentisse a suo agio
con le convenzioni sociali anche solo minimamente formali.
«Credo che andrò sul mio binario.
Ammesso che il treno arrivi suppergiù in orario.» lo informò.
Kumals lo fissò per
qualche momento in silenzio, come studiandolo. Alla fine, si alzò in piedi
anche lui. «Suvvia, non fare quella faccia così seria.» gli disse con scherzoso
affetto, prima di aprire le braccia per somministrargli un caloroso abbraccio,
con qualche beneaugurante pacca sulle spalle.
«Stammi bene, Uther.»
mormorò con voce profonda, come a imprimere al senso di quelle parole tutta
l’importanza che poteva dargli.
Uther ricambiò
l’abbraccio, stringendo solo per un breve momento, ma sentito. «Mi aspetto che
tu faccia perlomeno altrettanto.» rispose.
Kumals sogghignò
leggermente, nel lasciarlo andare e tornarlo a guardare in faccia. «Oh, non
dubitarne! Non è così facile liberarsi di me.»
«Quel che è vero è vero.» ribatté
Uther, sogghignando complicemente
a sua volta.
Qualche istante dopo, Kumals era ancora in piedi, osservando la familiare sagoma
che gli dava le spalle, mentre camminava con calma, una mano in tasca e la
schiena leggermente curva sotto il peso dello zaino, lo sguardo rivolto a
terra, dirigendosi alle scale che scendevano nel sottopassaggio.
L’uomo continuò a fissare per
qualche pensoso istante il punto in cui Uther era già
ormai scomparso alla vista, poi si portò le mani dietro la testa, incrociandole
dietro la nuca, ed emise un lungo respiro, come se stesse cercando di abituarsi
a qualcosa, pur nella convinzione che non ci sarebbe comunque riuscito.
‘Stammi bene davvero, Uther, fino alla prossima volta che le nostre strade si incroceranno…’ si disse fra sé e sé.
Poi, di colpo un gradevole
pensiero lo colse, facendogli sorridere gli angoli delle labbra in maniera
ammiccante e scuotendogli di dosso ogni traccia di malinconia. Da qualche parte
in lui, era spuntata prepotentemente una certezza, spensieratamente sfacciata
nella sua solidità. Molto più che una sensazione. La certezza che le loro
strade si sarebbero incrociate ancora.
*
***
*
Andrea continuò ad agitare le
braccia in un caloroso saluto finché l’auto di Yuta,
carica delle due sorelle e dei tre cani, non fu scomparsa alla vista, sforzando
lo sguardo finché fu certa che era ormai effettivamente al di là del profilo
collinare oltre il quale spariva la strada sterrata che proseguiva verso la
zona boschiva di CastleMac’Hearty, e che non si trattava invece di un inganno alla
vista dato dalla penombra in cui giaceva acquattata l’imminente notte.
Rimase poi ancora un po’
immobile, le braccia ormai abbandonate lungo i fianchi, e un’improvvisa
sensazione di vuoto. Una ventata di aria fresca la riscosse facendola
rabbrividire, e solo allora, voltandosi verso gli altri, notò l’assenza di
Danny.
«Dov’è andato?» domandò, stupita.
Justin la guardò. «Chi?» chiese,
e la sua domanda era sul serio sincera.
Il Conte, accanto a lui, l’aria
ancora un po’ assonnata per essersi svegliato così presto per salutare i
partenti, ebbe un tremito alle sopracciglia di quello che, a ben vedere oltre
la sua inflessibile compostezza, poteva chiaramente apparire come una certa
disapprovazione.
«Oserei supporre che Andrea si
stia riferendo a Danny, Justin, essendo l’unico al momento assente ivi e ora.»
notò, con tono irreprensibilmente atono. «Suppongo che sia sul tetto, cara.» le
rispose quindi.
«Sul…
tetto? Voglio dire…» si affrettò ad aggiungere la
ragazza, colta dal timore che il Conte potesse considerare la sua domanda come
non retorica e iniziare a illustrare nei particolari che cosa si intende per
‘tetto’ «…si può salire sul tetto? Come ci posso
arrivare?»
«Sarà un grande piacere per me
scortarti personalmente alla botola che da accesso al tetto.» invitò
gentilmente il Conte «Justin, ti dispiacerebbe nel frattempo provvedere
gentilmente all’approntare una cena per te, Danny e la nostra gradita ospite?
Per quanto mi riguarda, una tazza della pietanza che consumo abitualmente per
colazione andrà più che bene, se non ti dispiace, e se naturalmente altri
impegni non richiedono al momento la tua cura.»
Justin rifletté qualche istante,
forse il tempo che gli era necessario per tradurre in un senso più compiuto le
espressioni del Conte, e infine guardò Andrea. «D’accordo. Cosa vuoi per cena?»
«Qualsiasi cosa ci sia andrà
benissimo.» tagliò corto lei, nella maniera meno spazientita possibile, prima
di rifiutare gentilmente il braccio che il Conte le porgeva, risultando che a
quanto pareva quella era la sua idea di ‘scortare’ qualcuno da qualche parte.
Lo seguì dentro la casa, nella quale l’ombra della sera si addensava al punto
da formare quasi un completo buio, rischiarato dalla luce calda ma fantasmagoricamente pallida delle candele accese qui e là
nelle stanze e nei corridoi.
Il Conte fece una breve sosta
presso l’ingresso, per prendere in mano con le sue eleganti movenze d’altri
tempi un piccolo candelabro con due candele accese, quindi proseguì con calma,
seguito dalla ragazza. Salirono la grande scalinata e proseguirono ancora, fino
al secondo piano, e fino ad un corridoio laterale, ad un certo punto del quale
il Conte si fermò; Andrea frenò in tempo prima di andare a sbattergli addosso,
e sforzò la vista per vedere cosa l’altro stesse facendo. La mano del Conte,
che risultava più chiara alla vista di tutto il resto più per il pallore della
pelle che per la luce diffusa dalle candele, si alzò in alto e afferrò un
piccolo anello metallico legato ad una cordicella che pendeva dal soffitto.
Mentre Andrea realizzava che l’altro capo della corda era legato alla maniglia
di una botola i cui contorni rettangolari si intravedevano nell’intonaco del
soffitto, il Conte avvolse due delle sue sottili dita un po’ ossute attorno
all’anello e tirò con forza in graduale aumento di intensità.
Aprendosi, la botola rivelò una
scala metallica pieghevole applicata sulla sua superficie interna, che
automaticamente si allungò. Andrea provvide a far scendere completamente la
scala, sostituendosi al Conte, il quale era certamente troppo impacciato dai lunghi
abiti e dal dover reggere il candelabro, oltreché sembrava più abituato al fatto
che fosse qualcun altro ad aprire la scala per lui. Poi la ragazza si ritrovò a
fissare incerta il riquadro nero aperto nel soffitto. Nel sottotetto regnava il
buio, ancora più che nel resto della casa. Si disse che forse non poteva essere
davvero stupita: figurarsi se nella casa del Conte non doveva spuntare un nonsoché di horror in ogni angolo.
Il Conte le porse gentilmente il
piccolo candelabro che reggeva, e lei lo guardò dubbiosa.
«Puoi tranquillamente usufruire
di questo per farti luce, in modo da concederti di accendere le candele nel
sottotetto. Non avrò difficoltà a ridiscendere senza questo ausilio, in quanto
gli spostamenti in ambienti privi di fonti di luce non rappresentano per me una
difficoltà. Nel momento in cui avrai la luce sufficiente, noterai che poco
discosto dal punto in cui si apre questa botola, sul soffitto del sottotetto si
apre un piccolo lucernario. Attraverso quell’apertura potrai accedere senza dubbio
al tetto. Ma mi permetto di consigliarti di chiamare Danny prima di salirvi. Il
tetto è un po’ scivoloso, non offre un sicuro appiglio, ma il nostro Danny è
avvezzo a muovercisi in libera agilità e senza pericolo, pertanto potrà
sicuramente aiutarti affinché tu non rischi in alcun modo una perigliosa
perdita di equilibrio.» illustrò il Conte.
Nonostante il tono volesse essere
tranquillizzante e premuroso, quelle parole non riuscirono affatto a rendere
Andrea meno esitante. La ragazza fissò per un momento il candelabro che le
veniva porto, poi scosse lentamente la testa e pescò dalla tasca dei jeans una
piccola torcia portatile. «Grazie, ma credo che userò questa, mi è un po’ più… comoda da portare.» spiegò.
«Certo, comprendo benissimo. Ad
ogni modo, midolgo di non poterti
accompagnare personalmente fino al lucernario, ma purtroppo il sottotetto è
invaso da una disdicevole quantità di polvere, che urta terribilmente la mia
pelle e le mie mucose esterne.» disse ancora il Conte.
«Non c’è problema, grazie!
Proseguo da sola.» si affrettò a ribattere lei. Sinceramente, riteneva che
portarsi dietro il Conte sarebbe stato più problematico che altro. Non riusciva
ad immaginarlo salire la scala metallica senza che i suoi abiti si
impigliassero ovunque.
Andrea accese la sua piccola
torcia da campeggio e se la sistemò tra i denti, in modo da poterla tenere
senza impegnarsi le mani che le servivano per reggersi alla scala, che iniziò a
salire ignorando alla belle e meglio il cigolante lamento metallico delle molle
sotto il suo peso. Era già quasi arrivata al riquadro nero aperto nel soffitto,
quando udì il Conte parlare di nuovo. Voltò la testa per guardarlo, notando che
l’altro si era già allontanato di diversi passi senza produrre praticamente
alcun rumore mentre si riavviava verso le scale.
«Oh, e se non ti dispiace ti
affido un’ambasciata da recare a Danny. Certamente lui già ne sarà a conoscenza,
ma colgo l’occasione per renderne informazione anche a te. La cena è sempre
alle 20.30 della sera. Tornando al piano inferiore mi accerterò personalmente
che Justin rispetti questa nostra piccola convenzione, alla quale tengo
particolarmente.»
Andrea si limitò ad annuire con
decisione, dal momento che la torcia in bocca le impediva di parlare. Il Conte
non sembrò ritenerlo un gesto particolarmente maleducato, perché chinò
leggermente il capo in segno di educato commiato, e si voltò per proseguire
verso le scale.
La ragazza tornò a fissare il
riquadro buio aperto nel soffitto con sguardo un po’ corrucciato. Poi riprese a
salire la scala metallica, auto-imponendosi di non lasciarsi sopraffare dalle
apparenze inquietanti delle infrastrutture di quella casa. Tutto fumo e niente
arrosto, tutta polvere e niente cose soprannaturali: solo un sottotetto buio,
polveroso e praticamente inutilizzato.
Aveva appena raggiunto con le
mani il pavimento del sottotetto, e stava cercando un appiglio per aiutarsi a
salire del tutto lungo gli ultimi gradini della scala, quando sopra di lei ci
fu un movimento improvviso nell’oscurità. D’istinto Andrea gridò, lasciando
così involontariamente cadere la pila di sotto, e ritrasse le mani perdendo
malauguratamente la presa.
Ma con uno scatto repentino la
sagoma sporse una salda presa con cui l’afferrò ad entrambe le braccia,
impedendole di cadere all’indietro nel vuoto.
«Hey!
Sono io, sono io!» si affrettò la voce che le era ben famigliare.
Andrea riconobbe la voce di
Danny, benché nell’oscurità potesse solo intravedere i contorni della sua
figura. Ma anche le braccia e le mani che la tenevano per gli avambracci erano
sicuramente i suoi.
Andrea fissò decisamente nel
punto in cui riteneva dovesse trovarsi la faccia del ragazzo, e trovò il
relativo chiarore del blu intenso degli occhi.
Capitolo 72 *** 70 - Epilogo - FLAMES ON THE HORIZON ***
Capitolo 70
(Epilogo: FLAMES ON THE ORIZON)
Il sottotetto della casa del
Conte era più interessante di quanto non si sarebbe aspettata, dovette
ammettere a se stessa Andrea, mentre camminava a passi ancora incerti nello
spazio libero. Mano a mano che Danny accendeva le varie candele sparse in giro
per fare luce, emergevano dal buio gli oggetti più disparati.
C’era di tutto, o pressappoco
quella era l’impressione. E non era quel ‘di tutto’ che si sarebbe potuto
trovare in qualsiasi soffitta. Ma un ‘di tutto’ anche spazio-temporale. Oggetti
di svariate epoche, dimensioni, utilità e stili decorativi spuntavano nel
chiarore in aumento, dal luccichio lucidamente nero di un pianoforte a coda
fino all’argentato baluginio di un cannocchiale antico col suo piedistallo e le
sue arabescate decorazioni sulla superficie.
Non c’era dopotutto così tanta
polvere. O meglio, ce n’era sìparecchia, ma la cosa strana era che essa ricopriva abbondantemente il
pavimento ma non gli oggetti che non erano coperti con teli grigi, bianchi,
neri e di vari altri colori e stoffe.
«Beh?» le domandò con tono
sommessamente premuroso e curioso Danny, arrivandole accanto. Sembrava in
attesa di una qualche sua osservazione, come se si aspettasse che quello che
lei avrebbe detto potesse cambiare di punto in bianco qualsiasi sua valutazione
su ciò che li circondava.
Andrea si voltò a guardare il suo
sorriso ammiccante e complice, poi tornò a fissare l’accumulo di oggetti
antichi, improbabili, e quelli ai quali non avrebbe nemmeno saputo dare un nome.
Quando tornò a guardare l’espressione di aspettativa del ragazzo, un verso di
divertito riso le scappò dalle labbra prima che se ne accorgesse. «E’… è
incredibile!»
Il ragazzo si appoggiò al piano
del pianoforte a coda dietro di loro ed emise un breve sospiro rilassato che
aveva un che di confermativo. «Sì, è pressappoco la stessa cosa che ho pensato
anch’io la prima volta che ho messo piede quassù. E…
credimi, a quel punto credevo che ci fosse ben poco che potesse ancora
stupirmi, dopo aver conosciuto Justin e il Conte e aver visto il resto della
casa.»
«Sembri…
più abituato a questo posto che al resto di tutta la casa…»
osservò Andrea.
Danny la guardò, sorpreso
dall’intuizione di lei. Poi sorrise tra sé e sé, abbassando lo sguardo. «Sai… Justin non sale mai qui. Credo che sia perché ci sono
tante scale. Non gli piace fare fatica. Il Conte non viene spesso, quasi mai
credo, per via…»
«Della polvere.» completò Andrea.
Danny le sorrise brevemente di
nuovo e annuì. «Già, a quanto pare. In ogni caso, mi ha chiesto di occuparmi di
queste cose. Quando gli ho chiesto cosa intendesse esattamente, ha detto che
sarebbe stato sufficiente che le tenessi pulite, suppergiù, e controllassi che
non si rovinassero.»
«Quindi…
fai la guardia a degli oggetti inanimati…» commentò
Andrea. Il ragazzo la guardò, incuriosito dal suo tono forzatamente neutro, e
lei non resistette oltre e scoppiò a ridere.
«Hey,
potresti suonare veramente offensiva sai?» protestò Danny, seppure neppure lui
riuscisse a rimanere abbastanza serio da imitare sufficientemente un tono
scherzosamente risentito. «’Fare la guardia’…»
«Okay, magari c’è qualche oggetto
posseduto, qualcosa che può andare in giro da solo…
sono certa che questo pianoforte potrebbe ingoiare cose. Justin ad esempio.
Ecco, Justin sarebbe un ottimo campione, se ci fosse qualcosa di pericoloso,
basterebbe farlo entrare, punterebbe subito su di lui…»
continuò Andrea, sforzandosi di parlare nonostante le risate.
«Oh, questo è veramente
scorretto!» rise a sua volta Danny.
«Sì sì, proprio così, l’esca perfetta…» continuò imperterrita Andrea.
Solo dopo qualche minuto le
risate finirono per spegnersi. Ma sembrava che l’intera soffitta fosse stata
almeno un poco rivitalizzata da tutta quell’ilarità; come se delle risate
stonassero con l’ambiente pesante di polvere e antichità, e ne avessero rotto
di colpo l’immobilità dormiente.
«Così questo è il tuo…rifugio… qui?» domandò
Andrea, cercando di usare il massimo tatto.
Danny alzò uno sguardo brevemente
lampeggiante di intelligenza su di lei, di rimando alla sua perspicacia.
«Qualcosa del genere.» ammise, con parsimoniosa sincerità. «Ma in realtà… il mio vero rifugio è un po’… più sopra.» terminò
con confidenza, alzando un dito ad indicare in alto.
Andrea alzò lo sguardo
istintivamente, ma si ritrovò a fissare solo il soffitto colmo di ragnatele e
polvere della soffitta.
«Il tetto.» precisò Danny.
«L’avevo capito.» puntualizzò
lei, continuando tuttavia a guardare il soffitto come se fosse intenta in
qualche riflessione.
«Vuoi…
salirci?» le chiese con una certa esitazione d’incertezza.
Andrea abbassò lo sguardo su di
lui. «Non cadrò?» domandò.
«Hm… tu
soffri di vertigini?» indagò il ragazzo, ponderando tra sé e sé qualcosa che
doveva aver a che fare col tentativo di intuire, col solo studiarla da capo a
piedi, quanto potesse essere affidabile l’abilità di lei nel tenersi in
equilibrio sulle tegole di un tetto.
«Non soffro di vertigini. Ma il
Conte diceva qualcosa a proposito delle tegole scivolose…
e, beh, ammetto che non sono mai andata in giro sulle tegole di un tetto. Mi
manca ancora, questa esperienza…» spiegò Andrea, con
un accenno di ironia piuttosto nervosa.
«L’importante è non farsi
prendere dal panico se si scivola un poco, tenersi in equilibrio nonostante
qualche scivolamento, spostare il peso del corpo in modo da rimanere comunque
in piedi, no? La cosa fondamentale è rimanere in piedi, perché comunque si ha
più stabilità così, se si cade si scivola di più ed è più difficile fermarsi…» la voce di Danny si smorzò e si spense del
tutto, mentre notava il pallore di Andrea e le sue sopracciglia sempre più
scetticamente sollevate nel guardarlo e ascoltarlo.
Si schiarì la voce, come a
cercare di riprendere un tono più sensato. «Ti terrò stretta. Non cadrai. Farò
in modo che tu non cada, che non rischi nemmeno di cadere.» le assicurò.
Andrea soppesò per qualche
istante la sicurezza delle sue parole e del suo sguardo, poi annuì con un
sorriso piuttosto nervosamente tirato. «D’accordo. Sembra più…
fattibile.»
«Ho già camminato sul tetto
tenendo cose pesanti in mano. Una volta il Conte mi ha fatto portare un vecchio
marchingegno sul tetto…» il ragazzo esitò, ma vedendo
la curiosità di lei, si decise a proseguire «Lui sosteneva che fosse un
cattura-fulmini. Dice anche che è probabilmente un modello simile a quello
usato nel romanzo ‘Frankestein’. Non che lui volesse
rianimare un morto. Credo. Così ha detto almeno. Mi ha detto che voleva solo
vedere se riusciva effettivamente a catturare i fulmini e…»
«Stai dicendo che sei salito su
un tetto nel mezzo di una tempesta con un grande oggetto metallico tra le
braccia?!» lo interruppe Andrea scandalizzata.
Danny si fermò un attimo, come in
cerca dell’elemento più tranquillizzante che potesse contenere la sua storia.
«Beh, la tempesta era ancora lontana, molto lontana, la si intravedeva appena
all’orizzonte. In ogni caso, poi ho chiesto al Conte a cosa poteva servirci
immagazzinare energia elettrica se non avevamo il necessario per immagazzinarla
e se qui si usano quasi solo candele per far luce, e lui ha detto che non
capivo: non era una questione di utilitarismo ma un esperimento scientifico.
Poi Justin ha fatto saltare i circuiti mentre cercava di collegare i fili e
tutto il resto, così ho dovuto riportare giù il marchingegno prima che
arrivassero i fulmini, perché se non poteva scaricarne l’elettricità altrove
rischiava di saltare per aria praticamente. E, insomma, non se n’è fatto più
nulla.»
Danny studiò il volto di Andrea
con aspettativa di trovarla maggiormente tranquilla, ma lei lo stava guardando
con gli occhi spalancati per l’incredulità. Poi, però, di colpo lei scoppiò a
ridere. «Siete… siete incredibili!»
«Hum…
sospetto che quello che volessi veramente dire fosse qualcosa come
‘completamente matti’, vero?» insinuò con scherzosa provocazione Danny, la
bocca che finì per aprirsi in un aperto sorriso che metteva in mostra tutti i
denti stretti in un ammiccante ghigno.
«Probabilmente sarebbe il termine
tecnicamente più corretto.» ammise lei, continuando a ridacchiare.
*
***
*
Il tramonto era nel pieno della
sua magnificenza. Il cielo era quasi pulito, ma una serie di sfrangiate nuvole
bianche risplendevano come navi di cotone in procinto di incendiarsi sul ciglio
dell’orizzonte lontano. Le sfumature dorate, rosseggianti e arancione parevano
come fiamme dipinte, immobilizzate nell’istante in cui le lingue brucianti
pennellate sul bianco delle nuvole stavano per far scaturire un incendio.
Andrea si rese conto che stava
trattenendo il respiro e, nel cercare di riprendere fiato, le sfuggì un lungo
sospiro, che sembrò disperdersi nel leggero vento che spirava a quell’altezza.
Dietro di lei, le braccia strette
saldamente attorno alla sua vita per tenerla al sicuro e impedirle di scivolare
o cadere sulle tegole in leggera discesa del tetto, Danny colse quel suono e
piegò maggiormente la testa verso il suo collo, come cercando istintivamente di
cogliere qualche altro suono che potesse indicargli cosa le stesse passando per
la testa.
Ma solo dopo qualche altro
momento la ragazza ruppe il silenzio, in tono mormorante e lontano. «Ora
capisco perché questo è uno dei tuoi posti preferiti.»
Danny sorrise appena. «Non so se
‘preferito’ è il termine esatto…» rifletté ad alta
voce.
Andrea voltò un po’ la testa per
guardarlo in viso, in una muta richiesta di maggiori spiegazioni.
Il ragazzo si sforzò di trovare
le parole. «A volte… o forse sempre…
vedere l’orizzonte così lontano mi fa venire voglia di corrervi incontro.
Andare lontano, continuare a correre…»
«Come se dovessi sempre cercare
qualcosa, senza fermarti mai…» tentò Andrea, cercando
di interpretare.
Danny le dedicò uno sguardo di
incuriosita sorpresa. «Credo… sì, forse qualcosa del
genere. Ma è che… non senti questo vento? Non è
trascinante? È… strano non seguirlo, restare fermi,
non andare oltre. È un limite… innaturale, per me.»
Dopo qualche altro istante di
silenzio, Andrea parlò di nuovo. «E perché non lo segui mai? Perché resti
sempre qui, ogni volta?»
Lo sguardo di Danny si fece più
profondo, fisso sull’orizzonte come se lo studiasse con attenzione, cercando di
leggervi qualcosa. «Ho passato la maggior parte della mia vita in questo modo.
Forse, il bisogno di qualcosa di nuovo stavolta era provare a fermarsi, a
vedere cosa sarebbe successo. O forse sono solo stanco di correre sempre, e
volevo riposarmi un po’. Ma a dire tutta la verità, non so perché. Ogni volta
sento questo impulso, prendere e andare, iniziare a correre. Ed ogni volta alla
fine non lo faccio. A volte penso sia solo una specie di prendere tempo. Non so
per che cosa però.»
Da diversi minuti Andrea fissava
l’orizzonte come se invece stesse cercando di non guardarlo direttamente.
«Potresti anche non dover scegliere tra un estremo o l’altro…
Voglio dire, potresti sempre partire ogni tanto, iniziare a correre. E poi
tornare qui, ogni tanto.»
Danny rimase colpito da quel
suggerimento. Abbassò lo sguardo su di lei, anche se non era ricambiato, e lo
fissò insistentemente sul suo volto. «E’ vero, potrei anche fare così.»
Attese pazientemente, finché lei
non si decise a voltarsi a guardarlo a sua volta. Allora le sorrise.
«Ma non ora.» disse. E il suo
tono suonava come qualcosa di simile ad una sentita promessa.
Entrambi tornarono a guardare di
nuovo l’orizzonte, dopo qualche istante.
Il suo fiuto sviluppato a volte
lo traeva in inganno, e Danny aveva l’impressione di poter fiutare persino cose
che normalmente non si potrebbe spiegare come sia possibile che vengano portate
dal vento. Un sentore di eventi futuri, una traccia all’indietro, come un eco
impossibile, o perlomeno altamente improbabile. Ma lui aveva vissuto molte cose
che si sarebbero potute dire altamente improbabili.
E l’odore che gli portava ora il
vento suonava come una promessa. L’odore del prossimo incontro. L’idea
suggerita chiaramente, luminosa come un dato di fatto, come uno scintillio di
convergere di linee del futuro. Al punto che gli sembrava di poter intravedere,
molto più lontano dell’orizzonte, le cose arrivare. Il suggerimento delle linee
era appena distinguibile: le sagome di alcune persone che arrivavano da oltre
l’orizzonte, ed egli poteva riconoscere benissimo le loro sagome estremamente
famigliari. Un giorno tutti gli altri dei ‘4 di picche’
avrebbero raggiunto la linea dell’orizzonte, sarebbero apparsi, venendogli
incontro di nuovo. Ed egli avrebbe aspettato di vedere quello che ora sembrava come
un miraggio, per andargli incontro a sua volta, come se in fondo non potesse
desiderare nient’altro più di quello.
a E.
e V., lasciandomi alle spalle i torti fatti e non;
a M., con profondo affetto;
a
B., sempre con complicità;
e
a tutti gli altri e le altre - specialmente le sorelle trash della casa tra
boschi e colline - che hanno ispirato almeno in parte alcuni personaggi
fondamentali, per le ore passate insieme.
Alcune
considerazioni finali:
Credo
di aver inizialmente immaginato questa storia come molto più movimentata di
quanto effettivamente sia diventata nello scriverla. Forse sarà anche per via
del fatto che io per primo dovevo in qualche modo sfruttare lo spazio della
storia per conoscere meglio i personaggi. E ora che ho quasi preso la mano nel
trattare con loro, non ho ancora intenzione di “abbandonarli”…
the
END … ?
Ebbene sì! Danny, Kumals,
Ramo, Uther e molti altri ed altre compariranno
ancora, in un paio di continuazioni di questa storia…
Perciò, chi ha avuto l’impressione che alcune cose siano ‘rimaste in sospeso’,
non si è trattata di un’impressione sbagliata. Un indizio: per trovarli, a
parte l’ovvia traccia del mio nick-name, farò in modo che si possa fare
affidamento alla citazione del titolo ‘4 di picche’
nei titoli delle continuazioni. Grazie a chi ha seguito, a chi ha lasciato
commenti, e a chi li lascerà in seguito!
Spero che sia stato piacevole leggere questa storia
come è stato per me scriverla. Arrivederci nelle prossime storie dei ‘4 di picche’ & co.!