4 di picche

di VeganWanderingWolf
(/viewuser.php?uid=77762)

Disclaimer: Questo testo proprietà del suo autore e degli aventi diritto. La stampa o il salvataggio del testo dà diritto ad un usufrutto personale a scopo di lettura ed esclude ogni forma di sfruttamento commerciale o altri usi improri.


Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Introduzione-Presentazione ***
Capitolo 2: *** 00 - Prologo - DANNY ***
Capitolo 3: *** 01 - KUMALS ***
Capitolo 4: *** 02 - SERATA DI GALA ***
Capitolo 5: *** 03 - CHE SUCCEDE GIU' IN CITTA'? ***
Capitolo 6: *** 04 - SPETTACOLO AL PORTO ***
Capitolo 7: *** 05 - UTHER ***
Capitolo 8: *** 06 - RAMO ***
Capitolo 9: *** 07 - QUATTRO PICCHE E UN FUNERALE ***
Capitolo 10: *** 08 - TROPICANA YE! ***
Capitolo 11: *** 09 - DUE LETTI, DUE BICCHIERI ***
Capitolo 12: *** 10 - SVEGLIA SVEGLIA ***
Capitolo 13: *** 11 - COME DIVENTARE UN PASSABILE ZOMBIE ***
Capitolo 14: *** 12 - ALMENO UN QUATTRO DI PICCHE ***
Capitolo 15: *** 13 - SWING WITH HARRY DARRY ***
Capitolo 16: *** 14 - BARRICADES! ***
Capitolo 17: *** 15 - QUADRO PARLANTE...E ALTRI TRUCCHI ***
Capitolo 18: *** 16 - ANDREA ***
Capitolo 19: *** 17 - ANDREA NOCHMALS ***
Capitolo 20: *** 18 - FLAVOURS AND FAVOURS ***
Capitolo 21: *** 19 - LEI CAMMINA NELLA NOTTE ... parte I ***
Capitolo 22: *** 20 - LEI CAMMINA NELLA NOTTE ... parte II ***
Capitolo 23: *** 21 - LEI CAMMINA NELLA NOTTE...parte III ***
Capitolo 24: *** 22 - IL BUCO NERO DELLA SITUAZIONE...I ***
Capitolo 25: *** 23 - IL BUCO NERO DELLA SITUAZIONE...II ***
Capitolo 26: *** 24 - I'M ALL LOST IN A SUPERMARKET ***
Capitolo 27: *** 25 - SARA' QUEL CHE SARA' ***
Capitolo 28: *** 26 - IL COLPEVOLE E' SEMPRE... ***
Capitolo 29: *** 27 - ...IL MAGGIORDOMO ***
Capitolo 30: *** 28 - INTASCATO ***
Capitolo 31: *** 29 - IL SOGNO DEL LEONE MARINO ***
Capitolo 32: *** 30 - SENZA BIGLIETTO ***
Capitolo 33: *** 31 - DI CARNE E DI SANGUE, INFINE ***
Capitolo 34: *** 32 - EPPURE I SUOI OCCHI ***
Capitolo 35: *** 33 - UN CICCHETTO PER I TUOI PENSIERI ***
Capitolo 36: *** 34 - PARTITA A CARTE ***
Capitolo 37: *** 35 - MAMA NON MAMA ***
Capitolo 38: *** 36 - MESSAGE IN A STONE ***
Capitolo 39: *** 37 - E ALLORA... ***
Capitolo 40: *** 38 - ...FESTA! ***
Capitolo 41: *** 39 - FALO' MORENTI E RISVEGLI MATTUTINI ***
Capitolo 42: *** 40 - SABBIA E CAVALLI ***
Capitolo 43: *** 41 - I LUPI NON SPUTANO ***
Capitolo 44: *** 42 - GIUSTO IN TEMPO ***
Capitolo 45: *** 43 - SILENZIO RADIO ***
Capitolo 46: *** 44 - MOON IN THE NIGHT, NIGHT IN THE WOOD ***
Capitolo 47: *** 45 - TAKE IT EASY... IF YOU CAN! ***
Capitolo 48: *** 46 - SE MI RICONOSCERAI ***
Capitolo 49: *** 47 - SECONDO I PIANI ***
Capitolo 50: *** 48 - TESSUTO ROSSO ***
Capitolo 51: *** 49 - PIUME DI RAPACE ***
Capitolo 52: *** 50 - ATTENZIONE A RADICI E CECCHINI ***
Capitolo 53: *** 51 - TEMPESTA NELLA STANZA DEI BOTTONI - I parte ***
Capitolo 54: *** 52 - TEMPESTA NELLA STANZA DEI BOTTONI - II parte ***
Capitolo 55: *** 53 - L'ULTIMA VOLTA CHE HO VISTO... ***
Capitolo 56: *** 54 - ...UN LUPO CADERE ***
Capitolo 57: *** 55 - RISVEGLIO E SONNO ***
Capitolo 58: *** 56 - DI MORTI MANCATE ***
Capitolo 59: *** 57 - L'INCANTATORE DI LUPI ***
Capitolo 60: *** 58 - HOME IS... ***
Capitolo 61: *** 59 - INCONTRI RAVVICINATI DI STRANO TIPO ***
Capitolo 62: *** 60 - L'ULTIMA RAGIONE ***
Capitolo 63: *** 61 - UNA CUCINA ***
Capitolo 64: *** 62 - CHE SIA VETRO CHE SIA LUNA ***
Capitolo 65: *** 63 - A CARTE SCOPERTE - parte I ***
Capitolo 66: *** 64 - A CARTE SCOPERTE - parte II ***
Capitolo 67: *** 65 - THANK YOU ***
Capitolo 68: *** 66 - A CARTE SCOPERTE - parte III ***
Capitolo 69: *** 67 - A PROPOSITO DI KUMALS ***
Capitolo 70: *** 68 - UN'ULTIMA CANZONE ***
Capitolo 71: *** 69 - NIENTEPIU' NIENTEMENO ***
Capitolo 72: *** 70 - Epilogo - FLAMES ON THE HORIZON ***
Capitolo 73: *** Note finali... the END? ***



Capitolo 1
*** Introduzione-Presentazione ***


(se l’immagine non vi appare, potete trovarla qui: https://imageshack.com/i/ipLMpiYdj )

Note introduttive

(leggersi almeno la parte ‘altre avvertenze…’)

 

Eccoci qua, cercherò di fare un’introduzione passabile, se non ci riesco non me ne vogliate troppo, sono incapace nelle introduzioni. Stavolta tenterò un metodo schematico, anche per non perdermi troppo in giri di parole di discutibile interesse.

Genere: direi prima di tutto demenzial-horror-avventura-azione. Non mancheranno varie schermaglie amorose e di vario genere. Principalmente, la storia ruota attorno ad alcuni personaggi centrali (vedere: ‘personaggi’) che si trovano a dover avere a che fare con qualche manifestazione (apparentemente?) paranormale, che per inciso darà loro non poco filo da torcere. L’ironia e soprattutto l’autoironia saranno all’ordine del capitolo. Tuttavia questa storia non ha un’anima solo ‘scherzosa’ e ‘assurda’, tutt’altro, in un tutt’uno ben stretto, comprende anche parti più gravi/riflessive che verranno alla luce man mano che ci si addentra nella trama. Si potrebbe dire che i personaggi stessi, vero nerbo vitale di questa storia, hanno molte cose in loro (e nelle loro vite) che sono tutt’altro che ‘leggerezze’, ma per la loro vitalità estrosa hanno l’inguaribile volontà di lasciar perdere per la maggior parte del tempo le parti in ombra di sé e del loro passato, per dedicarsi alla libera scemenza.

Personaggi: Sono ispirati principalmente a persone realmente esistenti. Questo non li renderà automaticamente simpatici, gradevoli e quant’altro. Sicuramente ben poco eroici. E l’ironia, basandomi su persone realmente esistenti, è praticamente d’obbligo. Tuttavia, i personaggi si sono distaccati col tempo da chi li aveva ispirati, quindi sono ormai cosa a sé. Persino alcuni dei fatti potrebbero essere ‘verosimili’, diciamo…

Stile: il tutto è in uno stile “sperimentale” in un certo senso. Penso lo troverete molto leggero e scorrevole. Fino a questo momento mi è sembrato lo stile migliore per questo genere di racconto. Se qualcuno conosce l’altro racconto che sto pubblicando on line (‘Sol Se Desto Son Sogno’), troverà insomma uno stile molto diverso.

 

Altre avvertenze da leggersi prima dell’uso (questa parte è importante, leggetevi almeno questa, grazie):

» questo racconto, tra il resto, è queer (categoria che comprende ‘transessualismo’, ‘travestitismo’, ‘omosessuali&lesbiche&bisessuali’…, o, che dir si voglia, ‘LGBTQ’(rspquvz…)). Confido nel buonsenso di tutt*, e quindi, se sapete che non vi va a genio, nisba. Grazie, e prego.

» lo stile gotico-barocco, benché presente, non rimarrà esente dall’ironia generale, essendo lo stile generale direi piuttosto kitch, e qualche volta proprio trash.

» questo racconto ha una sua “colonna sonora”. Per la maggior parte le canzoni verranno citate senza che sia importante il loro testo, e ove lo sarà, espliciterò il testo (ed eventualmente sommaria traduzione). E finché ci sono, la canzone di apertura qui è ‘Born to be alive’ [Village People].

» chi ha problemi con l’horror non dovrebbe averne con questo racconto, essendo il genere horror assai impallidito dall’ironia e comunque in genere debole.

 

Se a qualcuno vien voglia di lasciare commenti, in genere non mi offendo :)

Buona lettura.

 

p.s.: L’immagine che userei per lo stacco dei capitoli (se riuscissi a farla apparire nel capitolo): è questa à https://imageshack.com/i/ip4HqM6Fj

* i diritti dell’immagine, presa da internet sono questi:

Copyright © 2006. Flash2xs.com, LLC and/or Design Artist. All right reserved.

 

Ritorna all'indice


Capitolo 2
*** 00 - Prologo - DANNY ***


00 - DANNY

 

 

 

 

Prologo (Danny)

 

Danny si trovava nella situazione in cui qualsiasi ragazzo giovane e in salute non dovrebbe essere al sabato sera. Per la precisione sotto un albero, miagolando ai rami, nel bel mezzo di un acquazzone.

Il meglio che si potesse dire di lui in quel momento è che ormai era bagnato fino al midollo, vale a dire molto al di sotto dei jeans, degli scalcagnati scarponcini da ginnastica, delle calze imbevute d’acqua, della maglietta e giubbotto che indossava e dei capelli appiccicati sul cranio dalla pioggia.

Il peggio che si potesse dire è che era sobrio marcio. Il che non poteva spiegare perché stesse miagolando ad un albero cercando di non dare troppo nell’occhio, benché, a parte qualche macchina occasionale di passaggio, non ci fosse un altro essere umano in giro a quell’ora e con quel tempo.

Il che la diceva lunga su di lui. Oppure no.

La sua giustificazione, in quel momento, si trovava qualche metro sopra la sua testa, raggomitolata su qualche ramo in un imprecisato punto in mezzo alla chioma dell’arbusto. Un sempreverde. Uno dei pochi che sul finire di dicembre non era quindi del tutto privo di foglie.

La cosa più arguta che si potesse dire di Danny: non era una persona molto fortunata, per non dire di peggio.

E una cosa molto umana da dire al suo riguardo è che, tra un miagolio e l’altro, infilava tali imprecazioni che, se il gatto di cui andava in caccia le avesse comprese, non si sarebbe mai sognato di scendere finché lui sarebbe stato lì sotto ad aspettarlo. Quel gatto, tuttavia, non era particolarmente intelligente. Questo si poteva intuire dal fatto che si fosse arrampicato per metri e metri prima di rammentarsi che, in genere, quando si sale sarebbe meglio essere sicuri di essere in grado di poter ridiscendere.

Danny sospirò, una variazione singolare rispetto a tutte le bestemmie che aveva lanciato al nulla fino a quel momento. Si portò una mano al collo e si grattò appena, in un gesto distratto e un po’ impacciato.

«Va bene, vediamo cosa fai ora.» mormorò.

Andò a chinarsi vicino allo zainetto malconcio che aveva appoggiato alla base del tronco, in mezzo al fango, e vi frugò dentro, finché non trovò una piccola scatoletta di latta. L’aprì con l’apposita linguetta e ne annusò il contenuto, prima di fare una smorfia di vago disgusto.

«Spero che io e te non abbiamo gli stessi gusti.» osservò.

Si allontanò di nuovo di qualche passo, studiando a naso in su i rami, come se ciò potesse aiutarlo a trovare una buona posizione. Si chinò e, in mancanza di meglio, usò un dito per scavare il contenuto della scatoletta di cibo per gatti, e per rovesciarlo in un mucchietto approssimativo sul terreno. Non c’era molta differenza di colore rispetto al fango, col quale in compenso la pioggia l’avrebbe presto mescolato, ma al momento Danny non aveva idee migliori.

Quando ebbe svuotato la scatoletta, ed ebbe riflettuto sul fatto che tutto sommato forse era meglio lasciare il cibo al suo interno, si pulì il dito sull’erba fradicia di pioggia e si rialzò in piedi; lanciò una breve occhiata verso l’alto e ghignò in modo poco raccomandabile.

Si allontanò con aria ostentatamente indifferente e, cercando di non farsi notare, girò l’angolo, appostandosi dietro la casa nel giardino della quale si trovava il sempreverde.

Per molto tempo non accadde proprio niente. Anche se non osava fare rumore, Danny continuava a ripetersi mentalmente diverse imprecazioni.

Dopo almeno un quarto d’ora sembrò che ci fosse un movimento tra i rami. O forse era stato il vento. Poi qualcosa iniziò lentamente a muoversi di ramo in ramo, con piccoli balzi sgraziati.

“Ho idea che, se si spiaccicherà nell’arrivare a terra, non sarà considerato un lavoro valido.” pensò tra sé e sé Danny, con preoccupazione.

Alla fine intravide qualcosa, proprio sui rami più bassi, che si muoveva goffamente.

Perfetto. Stava funzionando davvero, realizzò, iniziando a congratularsi con se stesso.

E in quel mentre, quella che sembrava una palla di pelo rossastro caracollò giù lungo il tronco semi-precipitando. Si abbatté al suolo con poca eleganza, salvo poi balzare subito ritto sulle quattro zampe con aria minacciosa, come se stesse cercando il responsabile della sua caduta. Non trovandolo, parve tranquillizzarsi. Lentamente, con aria molto più circospetta del necessario, il gatto si avvicinò al cibo, che ormai aveva l’aspetto di un intruglio fangoso.

Tra sé e sé, senza muovere un muscolo, Danny lo osservava quasi maniacalmente, esclamando incitazioni poco gentili nella sua testa.

All’improvviso nell’aria eruppe una musichetta stupida, rompendo l’incanto.

La palla di pelo rosso ebbe un sussulto violento, fece un balzo che lo staccò da terra di mezzo metro, si voltò e in una sola mossa rapida risalì su per il tronco, così velocemente da far sembrare che per lui camminare in orizzontale o in verticale fosse la stessa cosa, con solo qualche leggera variazione sul tema.

A Danny non valse nulla spiccare la corsa e precipitarsi fino sotto l’albero. Quando raggiunse il tronco, il felino era bello che sparito di nuovo tra le fronde.

« No! No! No! Così non vale!» strepitò il ragazzo, prima di ricordarsi che era nel bel mezzo di un quartiere residenziale considerato rispettabile, abbastanza rispettabile perché uno che urla in piena notte non sia considerato degno di stare lì.

Lanciando sguardi di odio alle fronde tornate immobili, Danny si portò una mano rabbiosa alla tasca del giubbotto di jeans, ed estrasse un cellulare che, nonostante l’età e le fradice condizioni, sembrava essere ancora in grado di funzionare miracolosamente.

«Chi è?» gridò con ira, nel rispondere alla chiamata.

«Hey… hey, amico, calma…» disse una voce dall’altra parte della comunicazione. «Mi hai assordato.».

«Oh, questo è niente…» ringhiò Danny.

«Come scusa?» chiese l’interlocutore, con sinceri stupore e incomprensione.

Danny sospirò, e si calmò abbastanza da assumere un tono più “civile”.

«Che c’è?» tagliò corto.

«Ah, beh… cioè, ma dove sei finito?».

Danny dovette ricominciare da capo nel calmarsi i nervi, prima di riuscire a rispondere.

«Sto lavorando. Cosa c’è?» ribatté, sillabando tra i denti l’ultima frase.

«Ecco… qui abbiamo un problema.».

Silenzio.

«Ovvero?» chiese Danny, in tono generosamente esasperato.

«Il bagnoschiuma è finito. Cioè, no, è sparito. Cioè, Conte dice che ce n’era ancora, secondo lui. Tu l’hai visto da qualche parte, cioè, l’hai preso tu…?».

Danny staccò il telefonino dall’orecchio e lo fissò per un lungo momento, considerando la possibilità di interrompere la comunicazione e spegnerlo. D’altra parte avrebbe dovuto, e avrebbe voluto, farlo molto prima. Sospirò per l’ennesima volta e lo riattaccò all’orecchio.

«Prova a guardare sul mio comodino. E, per favore, non chiamatemi più finché non torno!».

«Ah, sul comodino hai detto… ha detto sul comodino, sì, sul suo…» disse, l’altro, parlando a qualcuno che si trovava con lui, e poi, rivolgendosi di nuovo a Danny «Non è che potresti aspettare per vedere se lo troviamo?».

«No.» rispose seccatamente e cupamente Danny «Se non è lì, non ho idea di dove sia. Ora devo andare.» e senza aspettare risposta chiuse la comunicazione, spegnendo poi il telefono.

Tornò a fissare i rami dell’albero con aria torva.

«E va bene… hai avuto fortuna stavolta. Ma sai una cosa? Mi sono proprio strarotto le palle.» disse, col tono di chi fa una dichiarazione di guerra.

Si avvicinò al tronco, si sfilò la cintura e la passò attorno ad esso, impugnandola saldamente alle estremità.

«A noi due.» mormorò, con un ghigno di sfida.

E iniziò ad arrampicarsi, cercando di scivolare il meno possibile sulla corteccia bagnata e friabile.

 

Il campanello della porta squillò una seconda volta, con maggiore insistenza, nel silenzio notturno della casa. Una donna corpulenta si alzò dal letto, muovendosi con tanta grazia da svegliare quasi del tutto il marito, che fino ad un attimo prima stava dormendo molto sodo.

«Che succede?» chiese l’uomo, assonnato e poco interessato.

«Come diavolo faccio a saperlo? Potresti andare a vedere tu, se sei proprio così curioso!» gli rinfacciò immediatamente la moglie, come se non avesse aspettato altro per aggredirlo verbalmente.

«Chiamami se c’è bisogno.» rispose il coniuge, per nulla turbato, girandosi dall’altra parte.

La donna emise un verso di dispregio a cui sembrava molto avvezza e, dopo essersi infilata le ciabatte e una vestaglia, marciò fino alla porta con aria battagliera.

Guardò attraverso lo spioncino, molto sospettosa, mentre chiedeva allo stesso momento «Chi è?» con il tono più minaccioso e astioso possibile.

«Sono io… signora.» giunse la pacata risposta dall’esterno.

Lei fissò per diversi secondi l’immagine dall’altro lato della porta, incredula. Quindi, con movimenti velocizzati dal nervosismo, armeggiò con i diversi catenacci multipli per aprire, lasciando comunque la catenella di sicurezza.

Attraverso il piccolo spazio consentito dalla catena spiò fuori, con espressione truce.

«Che diavolo ci fa qui a quest’ora?» sibilò acida, studiando il tizio fermo sulla sua soglia, il quale aveva un atteggiamento assai misero, tipico di chi è fisicamente provato.

Era un ragazzo intorno ai vent’anni, mediamente alto, con un corpo in cui, nonostante una certa magrezza, spiccava una muscolatura essenziale ben delineata; faceva pensare che, benché non molto ben piantato, fosse dotato di una non comune agilità. Tra i lineamenti sottili e quasi androgini, coperti dalla pelle piuttosto pallida, spiccava lo sguardo intenso di due occhi blu molto scuro, semi-celati da una frangia di capelli tinti di biondo acceso, con tracce del suo castano naturale, di solito scompigliati e semiritti in testa, ora completamente appesantiti dal loro fradiciume di pioggia. L’orecchio destro aveva il padiglione percorso da una serie di piercing ad anello, e laddove ne mancava uno, la carne portava la cicatrice di uno strappo, come se l’anello mancante gli fosse stato tirato via con la forza. Indossava inoltre un doppio giro di una catenella di ferro al collo, con appeso un qualcosa che rimaneva celato sotto il bordo della maglietta. Per finire, vestiva, si muoveva e parlava come una specie di ex-punk appena uscito da una dura terapia di riabilitazione, che cerca di passare per una persona più comune, forse per qualche suo scopo, senza peraltro riuscire a ingannare bene nessuno.

Indossava i vestiti più consumati e fradici che la donna avesse mai visto.

«Beh, ehm, se potesse aprirmi un momento, dovrei consegnarle una cosa. Cioè: ci sono riuscito.».

La donna considerò con circospezione le sue parole per qualche minuto, mentre continuava a osservarlo da capo a piedi, in cerca di ciò che il ragazzo avrebbe dovuto portarle e non trovandolo; poi sembrò capire qualcosa, e disse: «Va bene, aspetta un momento.».

Tornò a chiudere la porta, andò in cucina, prese un paio di trancia pollo da un cassetto e le nascose sotto la vestaglia, infilandole nei pantaloni del pigiama. Quindi tornò alla porta, tolse la catenella e aprì, piazzandosi sulla soglia con tutta la sua larghezza e le mani puntellate sui fianchi.

«Allora?» esordì, cercando di esplicitare il più possibile quanto si aspettasse che il ragazzo avesse una buona giustificazione per presentarsi a disturbare a quell’ora, e pretendere persino che lei gli aprisse.

Forse lui stava iniziando a prendere troppa confidenza, visto che l’aveva assunto e aveva cercato di chiudere un occhio sulla sua impresentabilità, e ora era lì per cercare di propinarle qualcuno dei suoi problemi, o magari per chiedere dei soldi per la droga.

«Beh, può anche andare a prendere il portafogli…» esordì Danny, con un sorrisetto.

“Ecco, appunto…” pensò la donna, convinta di trovare conferma ai suoi sospetti.

«Perché qui c’è qualcuno che vorrebbe rivederla.» disse ancora lui, aprendo abbastanza il giubbotto che indossava per rivelare una palla di pelo rossastro, bagnata, miagolante, e con le unghie profondamente conficcate nel petto del ragazzo attraverso la maglietta.

«Oddio!» esclamò la donna, portandosi una mano al seno come se stesse per avere un mancamento «Adameo! Adameo caro, come sei conciato!».

A sentirla, sembrava che stesse implicitamente considerando Danny responsabile delle condizioni del ‘suo’ Adameo.

Allungò le braccia per prenderlo, con adorazione, e sembrò non dare peso al fatto che occorse strattonare parecchio per staccarlo dal petto del ragazzo. Questi trattenne un gemito quando le unghie gli vennero strappate via dalla pelle, per andarsi poi a piantare nel generoso petto della sua cliente, la quale abbracciò il felino con trasporto materno.

Danny rimase fermo sulla soglia, immobile, ad aspettare, come un componente dell’arredamento che peraltro fatica a stare in piedi, mentre i due si scambiavano una serie di complimenti affettuosi, ignorandolo completamente.

Alla fine, la donna sembrò ricordarsi della sua presenza, se non altro prima di chiudergli la porta in faccia, e dopo avergli lanciato un’occhiata, come se si stesse chiedendo per un momento che ci faceva ancora lì, disse, con tono totalmente diverso da quello riservato all’amato Amedeo…

«Ah, sì, bene. Allora vado a prendere i soldi.».

Quando fece per muoversi, qualcosa di pesante cadde fuori dall’orlo inferiore dei suoi pantaloni, sbattendo rumorosamente sul pavimento. Danny e la donna fissarono per un momento in completo silenzio il trancia pollo. Poi il ragazzo si chinò, lo raccolse e lo porse alla signora.

«Stavo giusto… stavo giusto mettendo un po’ d’ordine in cucina…» cercò di giustificarsi debolmente lei, riprendendolo.

«Allora, i soldi. Vado.» disse poi sbrigativamente, e ritornò dentro, avendo cura di richiudere la porta con Danny fuori.

Il ragazzo fece appena in tempo a fare una linguaccia generosa agli occhietti gialli e maligni del felino, che lo fissavano da sopra la spalla della padrona. Poi si dispose ad aspettare, con pazienza, la sua meritatissima ricompensa.

L’edificio era quel che rimaneva di una villetta gotica e un po’ barocca, isolata in cima ad una collinetta poco alta, appena fuori dalla periferia della piccola cittadina.

Sembrava che fosse stata utilizzata almeno per un film horror, qualche decina di anni prima, uno di quei film di serie C che quasi nessuno guarda, se non gli amanti del genere che vanno a caccia di rarità. Perché la distribuzione di quel film doveva essere stata una rarità.

Ad ogni modo, ora la villetta era ancora più dimessa. Nessuno ci aveva fatto seri lavori di ristrutturazione, pulizia o conservazione da molti, molti anni, e questo si poteva dedurlo fin dalla prima occhiata. In compenso il tempo e agenti atmosferici di ogni sorta si erano dati parecchio da fare.

C’era da chiedersi perché non si vedesse da nessuna parte uno di quei cartelli che vietano di avvicinarsi per il pericolo di crollo imminente. Tuttavia, c’era una ragione ben precisa. Ovvero che, in realtà, nonostante l’aspetto lugubre, cupo e assai malmesso, la struttura fondamentale della costruzione era ancora solidissima. I nostalgici dei famosi “tempi andati” o in generale “delle cose di una volta”, quel genere di persone che potrebbero giurare che quando loro erano giovani pioveva al massimo due o tre volte l’anno, che la neve era meno fredda e tutto, assolutamente tutto era inimmaginabilmente migliore, sarebbero stati felici di additarla come esempio di come ‘una volta costruissero case più solide e capaci di durare più a lungo’.

Disgraziatamente, nel caso della vecchia stamberga in questione i nostalgici avrebbero avuto ragione.

Ad avvicinarcisi abbastanza, ci si poteva anche rendere conto che l’architettura e le varie decorazioni non erano tutte banale paccottiglia gotic-horror, ma comprendevano buone ed equilibrate trovate di questo genere, piuttosto originali e nient’affatto scontate. Persino eleganti, per coloro che considerano un tocco di classe provvedere i davanzali esterni delle finestre di una cornice di piccoli artigli intagliati e serpenti somiglianti a draghi orientali, contorti come se fossero sospesi nell’aria. Persino gli occasionali gargoyle di pietra, posti qui e là senza preciso ordine, avevano atteggiamenti originali, nemmeno fosse stata presa ispirazione da soggetti veramente esistenti. Il preferito di Danny era quello sull’angolo sinistro, al terzo piano, sopra la porta d’ingresso principale; se si guardava bene si poteva notare che, tra gli artigli di una delle zampe anteriori, appoggiata sul bordo della cornice, stringeva una bottiglia.

Dopo la nottata che aveva appena passato, tuttavia, Danny non era proprio dell’umore adatto per cogliere gli aspetti migliori della casa che già ben conosceva, mentre vi si dirigeva a passi pesanti e strascicati, nel grigiore dell’alba che si avvicinava.

Naturalmente aveva smesso di piovere qualche minuto prima, giusto in tempo perché lui raggiungesse un posto riparato. Ma non aveva più nemmeno l’energia per rammaricarsi della sua sfortuna nera.

Percorse lentamente la lieve salita lungo la strada sterrata, camminandovi a lato per evitare la fanghiglia e le pozze d’acqua melmosa, finché finalmente raggiunse l’ingresso della villa.

Salì la breve e piccola scalinata dell’ingresso e si fermò davanti alla porta chiusa. La spinse, e quella si aprì semplicemente, cigolando appena. Prima o poi avrebbero dovuto pensare a dargli un po’ d’olio. Chissà se poteva funzionare con quello d’oliva…

Si chiuse la porta alle spalle e si inoltrò nell’ingresso.

Una volta che ci si abituava all’ambiente polveroso, con qui e là qualche ampia ragnatela cosparsa di mummie d’insetti, l’arredamento antiquato e la penombra che vi regnava quasi perennemente risultavano perfettamente normali. Anzi, affascinanti. Abituandosi ancora di più, diventavano solo noiosi e trascurabili.

Danny vi passò in mezzo senza degnare niente di uno sguardo, e svoltò quasi subito, attraversando la cornice d’ingresso all’ala sinistra della casa. Superò il breve e stretto corridoio ed aprì la pesante porta di legno, che qualcuno aveva accostato per nessun motivo apparente.

Entrò nella spaziosa cucina, ed esitò un momento sulla soglia, prima di dirigersi ai fornelli in cerca di qualche avanzo. Trovò un po’ di tè, naturalmente gelido, e un pentolino con un coperchio; ne esplorò il contenuto: pasta e pomodoro.

Accese il fuoco sotto entrambi i contenitori, e con un paio di passi raggiunse il solido tavolo di legno e si abbatté su una delle sedie.

Dopo un po’ disse: «Allora, hai trovato il bagnoschiuma?».

Una sagoma scura uscì dall’ombra di un angolo della cucina, alzandosi da una sedia, e senza emettere un suono si avvicinò al tavolo, come se fluttuasse sul pavimento, i piedi quasi nascosti dal lungo abito nero che indossava.

Un viso pallido, dal naso pronunciato e aquilino, insieme ai lineamenti sbiancati e smorti, erano ciò che più risaltava nella persona del resto tutta in nero, dai capelli ondulati e lunghi poco oltre le spalle, passando per gli abiti, fino alle unghie dipinte con smalto nero.

«Sì.» disse solo, con voce bassa e piuttosto cupa.

«Bene.» grugnì Danny, e si appoggiò allo schienale della sedia con aria esausta, allungando le gambe sotto al tavolo.

L’altro lo fissò, congiunse le dita delle mani all’altezza dello stomaco, in una posa che sembrava essergli abituale, e notò: «Sei completamente fradicio.».

«Oh, già.» gli concesse Danny, distrattamente.

«Non dev’essere stata una buona notte.» dedusse.

«No, infatti. Ma almeno ci sono riuscito. Ho recuperato quel maledetto gatto, e mi hanno pagato. Come minimo. Se non mi dava quanto accordato, non sarei più stato responsabile delle mie azioni…» riassunse il ragazzo.

Un lieve sorriso si disegnò sul viso terreo del suo interlocutore, in un’espressione di composto divertimento.

«Suvvia, non dire così… in fondo sappiamo bene che non avresti mai torto un pelo al felino…».

«Beh, no, a lui no.» rispose Danny, come se fosse una cosa ovvia che non era al gatto che stava pensando.

«Oh.» commentò semplicemente l’altro, cogliendo l’allusione.

«Ma tu non dovresti andare a letto ormai? Sono quasi le sei e mezza.» osservò Danny.

«Sì, infatti stavo per andare, ma ti ho visto dalla finestra e ho pensato di aspettarti. Ha telefonato qualcuno che ti cercava ieri sera, non molto tempo dopo che eri uscito.».

«Sì?» chiese Danny stupito, corrugando la fronte «E chi era?».

«Non ho risposto io, ma Justin.» spiegò tranquillamente l’altro.

«E dov’è Justin?»

«E’ andato a letto un paio d’ore fa.» disse ancora, calmo.

«Mm. Va beh, glielo chiederò domani.» si rassegnò Danny, un po’ deluso.

«… Mi sembra avesse nome Klumans, o qualche simile epiteto…» disse pensieroso l’uomo in nero.

Danny rifletté un attimo, poi sussultò e il viso riprese vita di colpo, colto da un’espressione vivacemente stupita e interessata.

«Non era per caso ‘Kumals’?» chiese, scandendo il nome mentre si rizzava sulla sedia e guardava molto attentamente l’altro.

Questi ci ripensò un momento.

«Potrebbe essere… sì, forse era Kumals.».

«Ah!» esclamò Danny, quasi incredulo.

Si passò una mano sulla fronte, staccando un po’ i capelli fradici che vi erano appiccicati, e fissò il piano del tavolo, come sopraffatto da qualche pensiero.

«Incredibile…» mormorò.

«Se posso intromettermi… di chi si tratta?» chiese, con atteggiamento di composta curiosità, il Conte.

Riprendendosi, Danny lo guardò, e sorrise in modo inaspettatamente affettuoso, ma non rivolto a lui.

«Beh… è un vecchio amico.» disse solamente, e continuò a sorridere rivolto al piano del tavolo come se gli venissero alla mente vecchi scherzi, in quel modo in cui non ci si rende precisamente conto di che espressione abbia la propria faccia.

Il Conte continuò a osservarlo per un po’, colpito. Da quando lo conosceva, non ricordava di aver mai visto Danny tanto vicino all’allegria.

 

 

 

 

* i diritti dell’immagine, presa da internet, che uso come stacco tra alcune parti della storia, sono questi:

Copyright © 2006. Flash2xs.com, LLC and/or Design Artist. All right reserved.                    

Ritorna all'indice


Capitolo 3
*** 01 - KUMALS ***


 

 

Capitolo 1

(Kumals)

 

Danny sentì confusamente un rumore. Lo ignorò. Il rumore si ripeté, fastidiosamente insistente. Seguito da un suono diverso, e da quello di passi. L’udito di Danny era particolarmente sviluppato. In certe occasioni ciò era molto prezioso; in altre si rivelava sgradevolmente inopportuno. Quella situazione apparteneva indubbiamente alla seconda categoria.

Mentre iniziava a riemergere suo malgrado dal profondo sonno, trascinato senza tanti complimenti dalla crescente allerta istintiva dei suoi sensibili sensi, anche l’olfatto gli mandò un segnale inequivocabile, perché familiare. Era l’odore di Justin. Questo gli instillò maggiore fastidio, e uno spontaneo sospiro di pazienza accumulata a stento.

«Che c’è?» mugugnò, rivolto più al cuscino che ad altro.

«Ah, sei sveglio allora…» osservò piuttosto stupidamente Justin, che doveva essere in piedi da qualche parte nella stanza.

«Adesso lo sono. O quasi. Faccio ancora in tempo a non esserlo?» disse per tutta risposta Danny.

Sì, sentiva chiaramente che avrebbe anche potuto riaddormentarsi praticamente immediatamente. Specialmente se Justin non trovava nessun’altro argomento con cui tenerlo sveglio che non fossero le sue inutili osservazioni. Cosa di cui dubitava molto.

«Ah, hem, mi dispiace disturbarti… c’è di nuovo quel tipo al telefono che ti cerca. Ha detto che potevo svegliarti.».

Suo malgrado Danny sorrise, ancora ad occhi chiusi. Solo una persona che conosceva bene poteva avere tanta voluta mancanza di tatto. Il che andava in genere di pari passo con questioni abbastanza urgenti. Aprì gli occhi, che si guardò bene dal rivolgere su Justin, per evitare che fosse la prima cosa da vedere al risveglio, e si lasciò invece quasi cullare dalla bella sensazione del risentire dopo tanto tempo, anche se per comunicazione indiretta, parole tipiche di chi lo stava cercando.

«Va bene. Arrivo subito.» disse mentre si alzava, stiracchiando distrattamente le articolazioni un po’ irrigiditesi durante il sonno.

«Ah, ok, allora vado a dirgli che…» iniziò Justin.

«Lascia stare, vado a rispondergli io.» lo interruppe Danny, ancora sorridendo vagamente.

Come se non gli venisse in mente niente di meglio da fare, Justin, un ragazzo non molto alto, con la sua corta barba del mattino e ancora vestito con gli abiti con cui dormiva, restò a guardarlo senza interesse, mentre si alzava e pescava dai vari indumenti, sparsi confusamente per la stanza, qualcosa da indossare contro il freddo tagliente, che come al solito regnava in casa, solo di pochi gradi superiore alla temperatura esterna. Justin si limitò a spostarsi per farlo passare quando uscì dalla stanza, e rimase ancora lì a guardarlo mentre si allontanava. Danny percorse un paio di corridoi del primo piano e raggiunse il telefono, appoggiato sul pavimento e collegato a una delle scarse prese per telefono della casa, o forse l’unica. Il ricevitore del vecchio apparecchio era appoggiato a lato del telefono. Danny lo raccolse e si mise a sedere per terra, appoggiando comodamente la schiena al muro e riassaporando per un momento l’attesa subito prima di rispondere.

«Yo.» disse.

Silenzio.

Danny iniziò a pensare che dall’altra parte avessero interrotto la comunicazione, e il suo entusiasmo si stava già sgonfiando, quando sentì la voce.

«Sono quasi le cinque del pomeriggio.»

«Lo so.» disse Danny, ancora sorridendo nel risentire la vecchia voce, e un po’ perplesso per lo strano modo di salutarlo.

«E tu stavi dormendo… O non hai veramente niente da fare, oppure hai i soliti orari.»

«Un po’ di tutti e due.» rispose Danny con sincerità.

«Non c’è nemmeno stata la luna piena stanotte.» osservò la voce, con tono di disapprovazione che lasciava trapelare solo appena una vena di scherzo. Solamente chi conosceva abbastanza bene chi parlava avrebbe potuto coglierla senza ombra di dubbio, e certe volte darla anche per scontata pur senza sentirla.

«Allora, tu perché mi chiami alle quasi cinque del pomeriggio? Non hai niente di meglio da fare?» ribatté divertito Danny.

«Eccome se ho di meglio da fare!» rispose subito l’altro. «E si da il caso che ciò mi abbia portato dalle tue parti. Castle MacHearty, giusto?».

Danny trasecolò «Come… ? Vuoi dire che sei qui!?».

«Beh, io non so dove sia tu esattamente. Io sto chiamando da una cabina telefonica di Castle MacHearty.».

«E che aspetti? Dai, passa di qua. Ti spiego la strada.» disse Danny, con pronta disponibilità.

«Frena i cavalli. Adesso devo prima sbrigare un affare, ma più tardi potrei fare un salto. Per la verità volevo chiederti, se è possibile, se posso passare qualche giorno da te. Ho alcuni affari qui, e sinceramente preferirei evitare di prendere una stanza in affitto, visto che posso approfittare di te.» spiegò la voce, con sincerità burbera e diretta sempre appena velata dall’ironia.

«Certo! Passa quando vuoi. Puoi restare, c’è un sacco di spazio qui. È la casa che c’è in cima alla collinetta in fondo a via del Cimitero Vecchio.».

Silenzio.

«Sì.» disse Danny, stancamente, interpretando l’assenza di replica dell’altro  «Si chiama davvero così. E, lo anticipo per quando vedrai la casa, ci vivo davvero qui. La porta è aperta. Dai un urlo quando arrivi.».

«Chissà, dopo queste premesse magari il mio sarà un urlo sincero.» commentò la voce dall’altra parte della cornetta, sardonica e non particolarmente sorpresa.

«See, va bene. Allora a più tardi…» iniziò a salutarlo Danny.

«Già, così pare, se non mi viene in mente niente di meglio nel frattempo.» e la comunicazione si interruppe.

Danny mise giù il telefono con un sorrisetto dipinto in volto. «E chi l’avrebbe detto! Cosa ci farà qui…?» si chiese tra sé e sé.

«Chi?».

Danny, che pensava di essere solo, si voltò fulmineo, trovandosi a guardare Justin, il quale lo stava fissando dal fondo del corridoio con curiosità. Solo allora sembrò ricordarsi di non essere in effetti il solo a vivere lì. E questo smorzò un poco la sua contentezza.

«Un vecchio amico. Viene a stare qui per qualche giorno. Come è messa la stanza di fianco alla mia?» gli rispose Danny, volutamente evasivo.

«Mmmh… ma l’hai chiesto al Conte?» chiese Justin, poco convinto.

«Tsk.» Danny liquidò la domanda con un gesto della mano.

«Al Conte non darà fastidio.» affermò, con la sicurezza dell’abitudine, mentre si rialzava in piedi. «Allora… Sarà meglio dare un occhiata a quella stanza.».

Justin lo seguì lungo il corridoio con le mani in tasca e la solita aria annoiata spazzata via da un’evidente curiosità.

«Sì, ma chi è questo… Kulmens?» domandò ancora, con incertezza nel pronunciare il nome.

«Kumals.» lo corresse Danny.

«Te l’ho detto, un vecchio amico. Lo conoscerai di persona, comunque, entro stasera.» spiegò distrattamente Danny, mentre raggiungeva la stanza di fianco alla sua.

Aprì la porta e rimase di sasso per un momento. La stanza era un caos di polvere, oggetti di ogni genere, un letto malmesso appena intravedibile nella confusione e provvisto solo di materasso, e qualche altro molto svogliato accenno di arredamento da stanza da letto.

«Dannazione, è anche peggio di quel che ricordavo…» mormorò, mentre le spalle gli si afflosciavano per lo sconforto. «Qui ci sarà da lavorare parecchio.» e si voltò a occhieggiare Justin. «Non è che mi daresti una mano? Se non hai altri impegni…».

Justin diede una lieve alzata di spalle e riassunse la sua aria svogliata. «Ok.».

«Grande. Bene… da dove iniziamo… ? Cristo, che casino!» borbottò, mentre scostava col piede gli oggetti sparsi sul pavimento per raggiungere il letto e guardarsi meglio attorno nell’ambiente non molto ampio di per sé, ma reso ancora più angusto dalle cose che vi erano ammassate.

Justin lo guardava dalla soglia senza muovere un muscolo, finché le sue sopracciglia si aggrottarono un poco.

«Sì, ma… chi è esattamente Kumals?». 

per stacco capitoli in 4 di picche small

Il Conte, come al suo solito pallidissimo e vestito completamente in nero, sedeva sulla sua grossa e pesante sedia, rassomigliante a un trono di modeste dimensioni: faceva parte dell’arredamento antico, vagamente goticheggiante o baroccheggiante e comunque semimarcio e scrostato che aveva trovato già nella casa quando vi si era trasferito, diversi anni addietro. Tra le mani dalle dita sottili, quasi scheletriche, e con le unghie molto lunghe dipinte di nero, stringeva con eleganza mal celatamente studiata una tazza laccata di nero, contenente un liquido denso e rosso cupo. Allungò una mano sul davanzale della finestra della cucina, presso la quale sedeva d’abitudine, e prese dal piattino abbinato alla tazza un cucchiaino di foggia antica, di simil-argento, inverosimilmente sottile, dal manico decorato con arabescature semplici, e con esso mescolò un poco il contenuto, prima di riappoggiarlo sul piattino senza emettere nemmeno un debole tintinnio. Lentamente si portò la tazza alle labbra, sorbì un piccolo sorso, la riabbassò appoggiandosela in grembo e con la mano, sempre la sinistra, decorata con due dei cinque anelli dall’aspetto antico che portava sempre, prese un fazzoletto di pizzo, naturalmente nero, da una tasca invisibile del mantello che indossava, e si deterse con piccoli colpi leggeri le labbra pulite, prima di riporlo nuovamente. I suoi gesti sempre composti, lenti e calcolati al millimetro sembravano provenire dall’aristocrazia del XVIII o XIX secolo.

Poi, lentamente, alzò lo sguardo, che fino a quel momento aveva tenuto basso, sugli altri due occupanti della stanza.

«Se garantisci tu per lui, Danny, non c’è niente che mi turbi nell’avere un ospite.» disse con calma.

Per quanto potesse sembrare che stesse aggiungendo una battuta a una conversazione in corso, in effetti stava rompendo un silenzio che durava già da diversi minuti. Danny infatti, che nelle ultime ore sembrava avere la testa altrove più del suo solito, impiegò qualche secondo per registrare le sue parole. Quindi si voltò a metà, senza abbandonare la presa sul cucchiaio di legno e sul manico della padella sul fuoco, nella quale si stava scaldando un sughetto di pomodoro, olive e capperi, e lo guardò.

«Certo, garantisco io per lui. È una situazione insolita… Di solito era il contrario.» rispose.

«Cioè?» fece curioso Justin, distraendosi dal fumetto che stava leggendo, sedendo al massiccio tavolo antico di legno di noce, che ingombrava gran parte dello spazio della cucina.

«Ovvero…» spiegò Danny, svogliatamente, mentre riprendeva a occuparsi pienamente del cucinare «… di solito era lui a garantire per me.».

«Per quanto ciò corrisponda indubbiamente a verità, dovresti considerare che è passato molto tempo. Certe cose nel tempo cambiano, certe altre rimangono immutabili.» sentenziò il Conte, la schiena ritta contro lo schienale del suo scranno preferito e la postura elegante e solenne di un oracolo cimiteriale.

Justin lo fissò con aria confusa e fece per dire qualcosa, poi sembrò ripensarci e tacque.

«Già…» mormorò d’accordo Danny, rivolgendo uno sguardo di affettuosa nostalgia al sugo che stava mescolando.

Ritornò il silenzio, nel quale si udiva solo il rumore della pioggia fine che cadeva fuori, ticchettando appena sulle decrepite tegole e sui pavimenti e parapetti dei piccoli terrazzi della casa, lo sfrigolare leggero della padella con il sugo e, occasionalmente, una pagina di fumetto che veniva girata.

Dopo poco Justin si distrasse di nuovo dalla lettura e rivolse uno sguardo pensieroso alle spalle di Danny, che stava spegnendo il fuoco sotto la padella e si stava preparando a trasferirne il contenuto nella grossa pentola piena di pasta già cotta e in procinto di raffreddarsi.

«A che ora ha detto che arrivava?» chiese, alzandosi dalla sedia e avvicinandosi ai fornelli per guardare da vicino la pasta che veniva mescolata, con aria particolarmente interessata, annusando appena.

Danny si trattenne dal sospirare spazientito.

«Non ha detto un orario preciso. Doveva fare alcune cose, e presumo non sapesse a che ora avrebbe finito…» rispose, laconico.

«Ah.» fu l’unico commento di Justin.

Continuò a fissare la pasta.

«Cavolo, ce n’è per un reggimento!».

«Ne ho fatta anche per lui, nel caso non avesse mangiato. Tutt’al più ce la mangeremo domani. Per colazione.» esplicitò Danny.

Justin fece una smorfia poco convinta, che l’altro non notò.

«Prendi i piatti.» gli chiese Danny.

Justin eseguì, andando a prelevare due piatti dalla pila di stoviglie lavate impilate di fianco al lavandino, e li sorresse mentre Danny ci schiaffava dentro abbondanti quantità di pasta.

«Andiamo a mangiare davanti alla televisione?» propose Justin.

«Perché, c’è qualcosa di interessante?» ribatté Danny poco convinto. Non amava molto la televisione.

«Pensavo di proiettare una vecchia pellicola sui vampiri.» interloquì il Conte.

Danny sbuffò appena. «Vabbhe.» si arrese.

I tre si trasferirono nella sala sempre al pianterreno, nella quale si era fatto abbastanza spazio per piazzare due divani, una faraonica poltrona antica e sdrucita che era un altro dei posti preferiti del Conte, che vi si assise appena entrato, e una televisione malandata, recupero di fortuna, appoggiata in un vano di un’antica credenza, con la quale stava come l’incarnazione del divario tra il (molto) antico e il para-moderno (la televisione risaliva probabilmente agli inizi degli anni ’90).

Dopo aver appoggiato il suo piatto sullo sporco tavolino basso davanti ai due divani, Justin trasse da un’anta della massiccia credenza polverosa e un po’ tarlata una videocassetta, e la inserì nel videoregistratore appoggiato sulla televisione, armeggiò un poco e, mentre i titoli di inizio del film apparivano in bianco e nero sullo schermo, si lasciò cadere sul divano sul quale non si era già stravaccato Danny e riagguantò il suo piatto.

per stacco capitoli in 4 di picche small

Justin sbadigliò generosamente per l’ennesima volta e si decise a spegnere la televisione. Si alzò faticosamente dal divano e si voltò verso la poltrona, trovandola vuota. Si rammentò che il Conte aveva loro augurato pomposamente la buonanotte qualche tempo prima, ritirandosi in qualche altra stanza della casa, probabilmente nella biblioteca dove avrebbe passato la notte, come faceva di solito. Allora si voltò verso Danny.

«Io vado a letto. Vuoi che ti lasci la televisione accesa?».

Dal ragazzo sdraiato sul divano, coperto da una vecchia coperta di lana, non provenne alcun segno di vita né tantomeno di risposta.

«Stai dormendo?».

Ancora niente.

Justin alzò le spalle appena e se ne andò a dormire. Nella stanza c’era ancora il confortevole tepore dato dalle braci, baluginanti nel camino integrato nella parete opposta a quella quasi interamente occupata dalla mastodontica credenza. L’odore di legno bruciato e di sugo di pasta si mescolava con il respiro pesante di Danny, ancora pregno dell’aroma della birra che aveva bevuto poco prima di addormentarsi e di quello della sigaretta che l’aveva accompagnata.

Per il resto, nella casa regnava il silenzio. Fuori non pioveva più.

per stacco capitoli in 4 di picche small

Il fine udito di Danny captò alcuni rumori lontani, ma abbastanza distinti. Qualcuno camminava, avvicinandosi. Il ragazzo si riscosse e si alzò a sedere. Nel breve tempo che impiegò a riprendere piena lucidità, contemplò la stanza vuota e si impensierì. Senza fare quasi rumore, scivolò fuori dalla coperta e si alzò in piedi. Istintivamente annusò l’aria, ma della miriade di odori che gli giungevano nessuno gli segnalava qualcosa che non andasse. D’altra parte i rumori provenivano dall’esterno della stanza, anzi, dall’esterno della casa.

Muovendosi con perizia nel buio, evitando tutti i mobili e qualsiasi altro oggetto contro cui poter urtare, uscì dalla sala e si avvicinò all’ingresso principale della casa, seguendo l’intensità crescente dei rumori, segno che stava accorciando le distanze appropriatamente.

A passi felpati si appressò a una delle due strette finestre che affiancavano la porta, come facendole da sentinella, e, prestando attenzione al fatto che la sua sagoma non fosse visibile dall’esterno, cercò di spiare fuori, nonostante i vetri abbondantemente sporchi e impolverati, che insieme al buio non potevano offrire una grande vista sull’esterno.

In effetti non ottenne niente per qualche istante, ma poi individuò nettamente un movimento: una figura sulla porta, che stava indugiando ai piedi dei gradini dell’ingresso. Anche se non aveva mai visto quel profilo familiare con una postura così malmessa, come se faticasse a stare in piedi, Danny lo riconobbe, alla fine. Allora si rilassò.

Mentre si avvicinava alla porta e la apriva, gettò una rapida occhiata all’orologio. Erano da poco passate le tre di notte.

Aprì la porta e si profilò sulla soglia, fissando la sagoma ai piedi dei gradini e trattenendo un sorriso spontaneo.

«È questa l’ora di presentarsi?» esordì scherzosamente, incrociando le braccia sul petto per recitare meglio la parte dell’indignato.

«Ciao Danny. Guarda… non è proprio il momento…» gli giunse la risposta, con un tono di stanca franchezza.

Danny divenne rapidamente serio udendo quell’intonazione, e scese i gradini andando incontro a Kumals.

«Che è successo?» chiese, quando fu abbastanza vicino da vederlo bene.

L’altro lasciò che nella sua espressione consumata spaziasse un leggero ma sentito sorriso. Danny lo ricambiò e alzò la mano per scambiare una stretta di mano, in segno di saluto amichevole. Kumals emise un breve sbuffo divertito e lo trasse più vicino. Si abbracciarono per un momento, scambiandosi brevi pacche sulle schiene.

«Avresti una sigaretta?» domandò Kumals. «Credo di aver lasciato il tabacco là… maledizione…».

«Sì. Sono dentro. Vieni dentro anche tu. Per quanto tu possa essere impresentabile, ti assicuro che qui…» iniziò Danny.

«Oh sì, ho visto.» lo interruppe Kumals, accennando con gli occhi e un gesto della testa alla casa che li sovrastava «Posticino carino. Ci sei ancora dentro fino al collo, eh Danny?» chiese con complicità.

«Ah, non esattamente.» si schernì il ragazzo, tuttavia piacevolmente divertito dall’osservazione. «E’ tutta scenografia, nient’altro…».

«Va bene, allora entriamo e vediamo che succede.» commentò sarcastico Kumals.

«Ma… sei ferito?» chiese preoccupato Danny, mentre affiancati salivano le scale, occhieggiando l’incedere un po’ zoppicante e dolorante dell’amico.

«Niente più che qualche livido e qualche taglietto… niente di serio comunque. Lasciami mettere seduto e bere qualcosa di caldo e ti dirò…» aggiunse, come per prevenire altre domande.

«Sì, certo…» acconsentì Danny, con aria però sempre più preoccupata.

Ma Kumals si fermò all’improvviso, con un piede sullo scalino successivo, si irrigidì e il suo sguardo si assottigliò. Danny alzò la testa ad osservare la sagoma scura e immobile che li attendeva sulla soglia della porta.

«Mi era parso di udire delle voci…» disse il Conte.

«Ah, hem… beh, visto che ci siamo... Conte, questo è Kumals. Kumals: il Conte.» fece le presentazioni Danny, impacciato, portandosi una mano a sfregarsi il collo.

I due si osservarono per qualche lungo momento in silenzio. Il Conte studiò con accorta pacatezza l’uomo che doveva avere poco più di trent’anni, che poteva sembrare più giovane per via del fisico alto e in forma, in gran parte celato da un lungo e pesante cappotto dall’aria frusta, e per via dei lunghi capelli rasta raccolti in un groviglio accennante a una coda di cavallo bassa, ma i cui occhi e l’espressione dura e attenta tradivano un invecchiamento precoce e impegnativo.

«Immagino di dover ringraziare principalmente lei per l’ospitalità.» disse Kumals, ancora senza muoversi, e ancora con lo sguardo di chi studia attentamente, pur senza rendere troppo palese l’indagine in atto e la natura d’essa, né tantomeno le eventuali conclusioni a cui giunge.

«Abolisca pure le formalità. Sono io che sono lusingato di poterle dare ospitalità. Danny mi ha parlato molto di lei.» ribatté il Conte, sempre con pacata cortesia.

«Ah sì?» chiese Kumals, rivolgendo a Danny un cipiglio poco contento, ma velato di ironia.

«Beh, non così tanto poi…» si difese Danny, con un sorrisetto.

«Venite dentro. Dev’esserci molto freddo.» li invitò il Conte, come se lui non subisse in alcun modo gli effetti della temperatura. Chiunque avrebbe potuto trovarlo un invito ben poco rassicurante. Ma Kumals e Danny salirono la scala e seguirono il Conte all’interno della casa con aria tranquilla.

 

 

 

* i diritti dell’immagine, presa da internet, che uso come stacco tra alcune parti della storia, sono questi:

Copyright © 2006. Flash2xs.com, LLC and/or Design Artist. All right reserved.

 

Ritorna all'indice


Capitolo 4
*** 02 - SERATA DI GALA ***


 

 

Capitolo 2

(Serata di gala)

 

Danny spense il fuoco sotto alla padella e travasò in un piatto pulito una generosa montagnola di pasta al sugo appena riscaldata. Mentre si dirigeva verso l’ingresso della cucina, portando un pezzo di legno grezzo a mo’ di vassoio, prese con sé anche il monocolo con la candela che usava per farsi luce, e tornò nel salotto, illuminato da altre tre candele.

« Ecco qua, uno spuntino.» annunciò allegramente  « E il tuo the. » e porse la tazza a Kumals, il quale aveva poco prima dichiarato che non aveva fame, essendo reduce da un’abbondante cena.

Danny si sedette sul divano libero e attaccò il piatto di pasta che aveva preso per sé.

« E tu, stai cenando? » domandò Kumals, guardandolo.

« Beh no… ma ho fame. » ribatté Danny, tranquillamente.

« Non che questo mi stupisca… »  commentò Kumals con un lieve sorriso ironico, e distolse lo sguardo dalle indaffarate mandibole di Danny per rivolgerlo alla poltrona in cui la scura figura del Conte sedeva elegantemente, le braccia e le mani distese appoggiate sui braccioli, e l’abbondanza di stoffa del mantello cupo che ricadeva in un regolare drappeggio.

« Mi stava dicendo, quindi, che lei preferisce dormire di giorno. » disse Kumals.

A ben guardare, si sarebbe potuto notare che la presenza del Conte lo disturbava un po’, in quel momento.

« Oh sì. Trovo il sole eccessivamente aggressivo, persino in questa rigida stagione invernale. »  spiegò il Conte « Inoltre, i miei flussi mentali di notte sono al loro massimo splendore. Questo mi è molto di aiuto per i miei studi. »

« I suoi studi…? Danny mi ha accennato qualcosa tempo fa… ».

« Sì, per la verità questo mi mette in un certo imbarazzo… Vede, la mia si può dire un’attività ancora alle prime armi… Non posso certo ancora definirmi un esperto. Tuttavia sono certo che se nei prossimi giorni, durante la sua permanenza, volesse dare un’occhiata agli scritti che ho raccolto nella biblioteca, li troverebbe assai interessanti. Specialmente una persona come lei, Kumals, che, da quanto mi è stato accennato dal nostro comune amico, deve avere le competenze necessarie per poter apprezzare appieno la pur relativamente modesta prestigiosità dei documenti che conservo. » disse il Conte.

Masticando, Danny gli rivolse un’occhiata stupita. Non lo sentiva pronunciare una frase così lunga e appena vibrante di una pallida ombra di entusiasmo umano da diverso tempo.

« Se lei ritiene di potermi consigliare qualcosa di particolare da cui iniziare, sarei lieto di darci un’occhiata. E vista l’occasione in cui ci troviamo entrambi qui, se vuole andare a prendere qualcosa dalla biblioteca e portarla qui mi farebbe molto piacere… » rispose gentilmente Kumals.

Danny lo fissò sospettosamente, ma dal viso impenetrabile, e assai abituato a mostrarsi tale, non ricavò nulla.

« Ma certamente. Allora, credo che andrò a prendere alcune delle cose che ritengo più interessanti, niente al confronto di altre opere che posseggo, dal momento che dovrei consigliarle troppi elementi in una sola volta se volessi fare una cernita che potesse dirsi basilarmente completa… ma prenderò un assaggio leggero. » disse il Conte, mostrando appena, come dettava la sua personale etichetta, la contentezza che doveva starlo pervadendo.

Si mosse senza fretta, alzandosi dalla poltrona, voltando con un circolare e composto gesto del braccio il mantello alle sue spalle, e uscendo col suo passo invisibile e inudibile dalla stanza.

Dal momento che non era possibile udire i suoi passi, Kumals aspettò qualche momento, per essere sicuro che si fosse allontanato, prima di rivolgersi a Danny.

« Così quello è il Conte? »

« Sì. » bofonchiò Danny a bocca piena.

« Mh… e usate sempre le candele di notte? A proposito. Lui non ne ha presa una con sé… »

« Così risparmiamo sull’elettricità. Inoltre, Conte dice che le luci elettriche sono ‘disgustose’. E sostiene di vederci benissimo al buio…. Beh, comunque sia, se mai va a sbattere contro qualcosa riesce a farlo senza far rumore. »

« Questa tua sistemazione richiederebbe commenti tali che penso me li preparerò con calma nelle prossime ore. Per ora, mentre siamo soli, vorrei parlarti di quello che mi è successo prima… » Kumals divenne molto più serio, e Danny si fece attento, al punto da appoggiare il piatto e interrompere il suo spuntino notturno.

« Vai. » disse solo.

Kumals gli gettò un’occhiata poco convinta, e scosse appena la testa, si appoggiò con la schiena all’indietro sul divano, e interrompendosi solo per mandare giù un sorso di the bollente ogni tanto, prese a parlare in tono calmo e riflessivo; gli occhi erano un nugolo di pensieri inespressi, segno che mentre raccontava andava in cerca di nuovi indizi, setacciando la sua stessa memoria.

« Come sai, da un po’ di tempo ho una piccola attività di investigazioni privata, e l’altro giorno un uomo mi ha chiamato in ufficio. Ha chiesto l’intervento dei ‘4 di picche’. »

Danny si sporse in avanti, interessato.

« Naturalmente io gli ho spiegato che non esiste più il gruppo… ma dal momento che lui insisteva sulla gravità della situazione, gli ho promesso che sarei almeno venuto io a parlargli. Infatti non voleva assolutamente spiegarmi al telefono di che si trattava. Sembrava molto spaventato, sensazione che mi ha rinnovato il vederlo quando sono arrivato qui. Per la precisione, sembrava in preda a manie di persecuzione non da poco. Comunque… forse ti ricorderai di lui: il signor Benton. Ti dice nulla? »

« No… non mi pare… » mormorò Danny, concentrato.

« Hum, beh, in effetti forse quando abbiamo svolto un altro incarico da queste parti noi non ci conoscevamo ancora… Ad ogni modo, quest’uomo, oltre a pagarmi il viaggio e il disturbo con un generoso anticipo, mi ha dato appuntamento alla cabina telefonica, la stessa da cui ti ho chiamato oggi. Quando sono arrivato, per telefono mi ha detto che ci saremmo dovuti parlare senza dare minimamente nell’occhio, e io avrei dovuto quindi fingermi uno degli invitati alla sontuosa festa di capodanno che ha dato stasera nella sua villa. »

« Festa di capodanno? » si stupì Danny.

Kumals inclinò appena un sopracciglio « Beh, da circa tre o quattro ore siamo nell’anno nuovo. Buon anno. » disse, ironicamente.

« Ah, sì? Vai avanti. » lo incitò Danny, senza mostrare particolare interesse per la festività.

« Bene… » sogghignò Kumals « stavo dicendo, mi sono dovuto affittare un abito da sera, sempre a spese del signor Benton, e sono andato a questa fatidica festa sfarzosa. C’erano montagne di cibo e di bevande di ogni genere… ti sarebbe piaciuta. »

Danny gli lanciò un’occhiata storta.  « Vai avanti. » ripeté, un po’ più ruvidamente.

« Vedi, il signor Benton è sempre stato un tantino originale… sai, un arcistramiliardario che è venuto ad abitare in un villone in un paesino di campagna, e si è appassionato all’occultismo qualche anno fa… un po’ come il Conte… anche se lui la… ‘viveva’ in modo diverso. Diciamo che il suo era propriamente solo un hobby per passare il tempo. Durante la festa, dopo che ha dovuto salutare e fermarsi con tutti gli altri invitati o quasi, ha infine trovato il tempo di venirmi a parlare, così abbiamo fatto finta di fare una discussione del tutto innocua e mondana, accanto al punch. Non avevo mai visto il signor Benton così. Era dimagrito, impallidito, e sembrava malaticcio, e soprattutto aveva i nervi a fior di pelle. Ad ogni buon conto… quello che diceva era da delirio. Mi ha detto che ci sarebbe un tizio, di cui aveva troppa paura di farmi il nome, che un paio di anni fa ha preso una villa sulle colline, qua vicino da qualche parte. Questo signore sarebbe uno scienziato che stava per raggiungere la fama mondiale, ma per qualche dissidio con superiori e colleghi riguardo agli esperimenti che stava conducendo è stato praticamente estromesso dai “giochi dei grandi”. Allora si è rifugiato qui in isolamento, ma non ha smesso di lavorare ai suoi progetti, anzi, ha continuato libero da ogni vincolo. Secondo il signor Benton, quest’uomo sarebbe venuto a parlargli qualche settimana fa, proclamando di aver fatto una scoperta sensazionale, e voleva cercare di convincere il signor Benton a finanziarlo per perfezionarla. Anche di quale invenzione si trattasse, Benton non ha voluto dirmi praticamente nulla… sembrava ossessionato dall’idea che qualcosa o qualcuno lo spiasse di continuo da sopra la spalla praticamente; insomma, sembrava fuori di testa, nemmeno avesse preso un acido… che sarebbe poi esattamente quello che avrei sospettato, se non conoscessi abbastanza il signor Benton per pensarlo incapace di voler anche solo prendersi la briga di procurarsi dell’acido. Tutto quello che mi ha detto è che questo sedicente scienziato avrebbe ideato una macchina tremenda, che va oltre ogni sensibilità ed etica umana, una ‘cosa mostruosa’… e che voleva metterla presto in funzione, testarne gli effetti. »

Kumals si interruppe per riaccendersi la sigaretta che si era spenta.

Danny lo guardava attentamente.

« Sembrerebbe che questo Benton ti abbia più taciuto che detto qualcosa di utile… » osservò, serio.

« Sì. Infatti. Ma credo che avrei potuto convincerlo e rassicurarlo abbastanza perché mi desse informazioni più utili per svolgere il lavoro, qualsiasi incarico egli volesse affibbiarmi, se non fossimo stati interrotti… » l’espressione di Kumals si incupì notevolmente.

« Uh? Da cosa? »

« Beh… mi è difficile dirlo con esattezza… per la verità, io stesso sono ancora indeciso riguardo al credere a ciò a cui ho assistito… d’altra parte, sono abbastanza contuso da averne le prove fisiche addosso. »

« A proposito, hai bisogno di bende, cerotti, qualcosa del genere…? No, perché dovremmo avere qualcosa come una cassetta del pronto soccorso da qualche parte, qui dentro… » offrì Danny.

« Lascia stare, non è niente di serio, ci penserò dopo. Adesso lasciami finire di dirti tutto… perché visto che sei di queste parti, magari mi saprai dire se è normale che una banda di una trentina di motociclisti faccia irruzione alla festa di un riccone in una villa e devasti tutto… »

Danny lo guardò, spalancando un po’ gli occhi.

« … come? » chiese incerto, cercando sul viso di Kumals traccia di scherzo. E, suo malgrado, non trovandola.

« Già, che tu ci creda o meno, questo è proprio quello che è successo. All’improvviso si è sentito all’esterno della villa un rumore infernale di motori di moto di grossa stazza, e truccate sicuramente, più le urla di questo branco di centauri, tutti galvanizzati per qualche motivo. Forse non ho ancora detto che la festa si svolgeva in un salone al pianterreno che ha gran parte delle pareti costituite da vetrate. Bene, per cominciare uno o due di questi tizi si sono gettati dentro attraverso la vetrata con le motociclette e tutto… insomma, immaginati, un secondo ed è scoppiato il panico generale tra gli invitati, che ovviamente erano tutti in abito da sera, perfettamente a loro agio, e i quali fino  a un attimo prima non si aspettavano di dover affrontare niente di più che una leggera sbronza da punch e una lieve indigestione per l’abbuffata… Quindi sono entrati anche gli altri, attraverso le vetrate rotte, e hanno iniziato il solito copione del genere. Per la verità in effetti sembravano comparse di terzo ordine… come se qualcuno li avesse assoldati… Comunque, il signor Benton era terrorizzato, ma non così tanto come se non se lo aspettasse. In pochi minuti quel branco di gentiluomini tutti vestiti in pelle, ferro e pelo al vento è riuscito a devastare tutti i tavoli, i bicchieri, la stoviglieria varia, a mangiarsi o spiaccicarsi addosso o per terra cibo e bevande, a spaventare gli invitati rincorrendoli a bordo delle moto, percuotendoli occasionalmente con catene o spranghe, e cose del genere… »

Danny era senza parole. Era ormai sicuro che Kumals non stesse scherzando. A uno sguardo inesperto, per la verità, Kumals sarebbe apparso piuttosto grottesco, per il suo modo di raccontare l’accaduto e di mostrare totale disinteresse per quello che era successo. Ma agli occhi attenti di Danny, che aveva imparato in anni di pratica a leggere i minuti segnali che poteva trasmettere la ben nascosta emotività dell’amico, era chiaro che Kumals era particolarmente stanco, stupito, amareggiato e impensierito.

« E quindi cosa hai fatto? » chiese infine, e capì immediatamente l’errore della sua domanda quando vide Kumals accigliarsi un poco.

« Cosa pensi che avrei fatto? Ho fatto di tutto per non farmi notare dagli invitati imprevisti e mi sono lasciato alle spalle quel delirio il prima possibile. Nel farlo ho preso qualche cinghiata di striscio occasionale, ma niente di serio. E mi sono trascinato dietro il signor Benton, perché era chiaro che era così basito e spaventato che da solo non avrebbe mosso un muscolo, anche se chiaramente l’indimenticabilità della festa era ormai garantita… »

« Quindi sei riuscito a portarlo via di là… ma dov’è ora? »

« Ci sto arrivando… » disse Kumals, un poco spazientito « Vedi, prima che riuscissi a portarlo via si è preso diverse botte, più di me senza dubbio, anche perché sembrava non avesse nemmeno la forza o la volontà di cercare di evitare i colpi. Aveva l’aspetto di uno che è perfettamente convinto e affatto sorpreso di dover sicuramente morire di lì a poco. Comunque, l’ho trascinato in questa direzione. Eravamo sì e no a cento metri da questa… ‘casa’… quando è crollato per terra. Penso sia stato un infarto o qualcosa del genere… perché non era gravemente ferito. »

« Stai dicendo… » Danny si interruppe, scosse un momento la testa come per riprendere lucidità, e riprovò «Vuoi dire che c’è il cadavere di Benton lungo la strada che porta qui??! »

« Beh… sì. In effetti, sì. »

« Tu… ma… ma perché diavolo non l’hai detto prima? » si infervorò Danny, alzandosi in piedi di colpo.

« Sai, dopo tanto che non ci vediamo, e visto che sono ospite, non mi sembrava il caso… » obbiettò Kumals, con infastidito sarcasmo « Danny, ragiona! Lui è già morto ormai. Ma se quei signori ci hanno seguito ho pensato che fosse più logico venire ad avvertirvi! »

« Va bene… va bene… » ripetè Danny, come per calmarsi  « Dobbiamo toglierlo di là per prima cosa. Dobbiamo metterlo da qualche parte... »

« Sì. Se mi dai una mano in due riusciremo a trascinarlo. » fu d’accordo Kumals, e si alzò anche lui in piedi.

« Ma prima di tornare fuori, sarà meglio essere un po’ più preparati. Hai ancora le tue armi, vero? »

« Ma certo! » disse Danny, quasi indignato per la domanda.

« Bene, valle a prendere, ti aspetto all’ingresso. » terminò Kumals, mentre entrambi uscivano dalla sala.

Danny prese le scale quasi di corsa, raggiunse la sua stanza al primo piano e si chinò subito sulle ginocchia, accanto al letto. Con mosse attente, sollevò il materasso ed estrasse da sotto di esso una valigia rigida e consunta, con l’apertura chiusa da tre giri di catena e un grosso lucchetto. L’appoggiò per terra, si portò le mani al collo e si slacciò la catenina che vi portava, alla quale era appeso un anello con una chiavetta, che di solito non era visibile perché penzolava al di sotto della sua maglia. Con quella chiave aprì il lucchetto, se la riallacciò al collo, e, dopo un breve momento di esitazione, aprì la valigia lentamente.

All’interno, avvolte in un panno, c’erano due pistole di foggia diversa. Danny ne prese una, richiuse la valigia e la re-infilò sotto al materasso. Si alzò in piedi e si sistemò la pistola tra la schiena e la cintura dei pantaloni, per poi coprirla con la maglia. Quindi, muovendosi rapidamente, uscì dalla stanza dirigendosi alle scale, ma prima di scendere notò una luce che lo precedeva scendendo i gradini.

Justin si voltò con aria assonnata, reggendo la candela, e chiese lievemente allarmato « Che succede? »

« Niente…. torna a letto Justin. » gli consigliò Danny.

« E’ arrivato il tuo amico? » continuò imperterrito Justin, seguendolo giù dalle scale.

« Torna a letto » ripeté Danny, a un passo dall’esasperazione, mentre continuava a scendere velocemente.

Ma sentì Justin che lo seguiva, a passo sostenuto.

« Ma cosa succede? »

In fondo alle scale li aspettava lo sguardo accigliato di Kumals, in piedi presso la porta.

« Oh! Ciao. Io sono Justin. » disse Justin, vedendolo.

Kumals lo fissò per un lungo momento in silenzio, prima di rispondere « Scusami, ma questo è un momento un po’ delicato. Se non ti dispiace rimanderei la nostra conoscenza a domattina. »

« Sì, esatto. Ci vediamo domattina, Justin. » ripeté Danny, lanciandogli uno sguardo significativo.

Il ragazzo continuò a spostare lo sguardo dall’uno all’altro « Ah, ma allora sta succedendo qualcosa!»

« Parrebbe di sì, Justin. » disse una voce, e suo malgrado anche Danny sussultò stavolta.

Il Conte emerse dall’ombra del sottoscala, col suo serio sguardo pallido imperturbabile, tra le mani una pila di cinque libri tenuti in perfetto equilibrio.

« Penso che loro due abbiano qualcosa di urgente di cui occuparsi. Sarà meglio che noi gli evitiamo la nostra interferenza per il momento. » continuò.

Sembrava vagamente offeso.

Danny esitò e fissò Kumals « Beh… dopotutto, insomma, non vedo che male possa fare se anche loro… cioè, dopotutto è sulla strada che porta alla casa… e qui ci vivono anche loro… » accennò, senza grande convinzione.

Kumals gli rivolse uno sguardo attento e affatto persuaso, e dopo un po’ disse « Lascio a te la valutazione se è il caso… intanto sarà meglio che io mi avvii… » e detto ciò si voltò, aprì la porta e uscì, lasciandola aperta.

Kumals scese i gradini d’ingresso e iniziò a camminare, scendendo la discesa lungo la strada immersa nel buio.

Alle sue spalle, dopo un rapido parlottio di Danny, risuonò all’improvviso un mezzo urlo che aveva la voce di Justin.

« Un cadavere?!! ».

Kumals scosse la testa e proseguì, con aria particolarmente accigliata.

*

***

*

Kumals aveva fatto pochi passi lontano dai gradini dell’ingresso, quando qualcosa lo indusse a fermarsi di colpo, e a rimanere rigido, fissando l’oscurità. Un rumore strascicato si avvicinava, molto lentamente. Kumals continuò a fissare insistentemente il buio. Poco dopo il rumore fu coperto dalle voci dei tre ragazzi alle sue spalle, tra le quali spiccava quella di Justin.

« Ma quindi com’è successo? Cosa significa che ce lo spieghi dopo?? Non è possibile che… »

« Zitto! » ordinò imperioso Danny, e Kumals capì con soddisfazione che si erano tutti immobilizzati e zittiti.

Anche Danny l’aveva sentito. Il rumore continuava ad avvicinarsi, strascicando nel buio.

« Ma… non era morto? » sussurrò la voce alterata dalla paura di Justin.

« Certo che è morto, non può essere lui. » gli rispose Kumals, che aveva fatto qualche passo indietro, raggiungendo di nuovo gli scalini, dove almeno la luce della candela impugnata da Justin gettava una certa luce, piuttosto tremolante, all’intorno.

Danny scese le scale a metà, e si fermò di nuovo, anche lui protendendo la sua attenzione verso l’ancora invisibile fonte del rumore. Le sue membra sembravano pronte a un rapido scatto, benché la posizione di difesa-reazione fosse appena accennata.

Dall’oscurità emerse lentamente una sagoma, che si trascinava zoppicando verso di loro, seguendo la strada, le braccia penzoloni lungo il corpo. Nel buio spiccarono i bianchi polsini e colletto di un vestito da sera, e poi anche la faccia dell’uomo divenne abbastanza visibile, finché Kumals lo riconobbe.

« E’ Benton… » mormorò, incredulo.

« Ma avevi detto che era morto! » osservò Danny, in un’esclamazione tesa.

« Ne ero sicuro… » disse Kumals, piuttosto confuso.

« Beh, a quanto pare ti sbagliavi. » commentò Danny, scendendo le scale per andare incontro all’uomo, che era evidentemente in difficoltà.

Ma quando passò accanto a Kumals, egli gli calò pesantemente una mano sulla spalla e lo fermò. Danny lo guardò interrogativamente.

« Non è che in realtà volevi ucciderlo? » gli domandò, ironico.

« Ascolta: non senti niente? Intendo, come odore… » gli domandò seriamente Kumals.

Danny lo guardò lievemente stupito « No, non sento niente di strano… a parte odore di punch e di sudore e di fanghiglia e neve. »

« Mhm. » annuì Kumals, poco convinto. E tolse la mano dalla spalla di Danny, avanzando di qualche passo incontro all’uomo barcollante, che ormai distava da loro di pochi passi.

« Signor Benton? » lo chiamò Kumals, mentre gli si avvicinava. Gli occhi dell’uomo ebbero un lieve baluginio, ed egli allungò le braccia verso Kumals.

« Beh, signor Benton, sono spiacente. Se avessi sospettato che era ancora vivo non l’avrei certamente lasciata là… Su, coraggio, ormai il peggio è passato. » gli disse Kumals, lasciando che l’uomo gli posasse le mani sulle spalle e prendendolo per i gomiti per sorreggerlo, dal momento che Benton si stava appoggiando in avanti a lui, come se stesse per cadere da un momento all’altro.

Osservandone la faccia pallida e sconvolta e gli occhi quasi vitrei, Danny fece una lieve smorfia. «Qui sarà meglio chiamare un’ambulanza, prima che gli prenda un altro colpo. » osservò, senza preoccuparsi del tatto.

« Esatto Benton, ora chiamiamo un’ambulanza e tutto andrà megl… » prima che Kumals potesse finire di parlare, Benton, che stava gradualmente scivolando verso il terreno, lasciandosi andare pesantemente e con una lentezza quasi surreale addosso a Kumals, abbassò la testa e gli addentò un polso.

« Ma che diavolo! » gridò Kumals, ritirando in fretta le braccia. L’uomo cadde lungo riverso per terra di faccia, senza fare niente per proteggersi dalla caduta.

« Che è successo? Cosa è successo? » chiese istericamente Justin dalla soglia.

« Presto, allontanatevi da lui! » disse invece il Conte, che aveva spalancato gli occhi come se si trovasse davanti a uno dei suoi peggiori incubi; afferrò la candela dalle mani quasi tremanti di Justin e, immerso nel vivace svolazzo dei suoi lunghi abiti neri, discese gli scalini appressandosi agli altri . Kumals e Danny lo ignorarono e fissarono la sagoma dell’uomo lunga distesa per terra, immobile.

« Dai, aiutami a girarlo. » sospirò Kumals, e in due riuscirono a voltare l’uomo sulla schiena, scoprendo che i suoi occhi erano immobili, spalancati sul nulla.

Danny gli avvicinò una mano alla bocca semiaperta per sentire se c’era respirazione, mentre Kumals gli prendeva un polso tastando in cerca del battito cardiaco. Poco dopo entrambi ritirarono le mani e fissarono in silenzio il corpo con aria sconfitta.

« Beh… » disse lentamente Danny « stavolta mi sembra che sia morto veramente… »

« Certo che è morto! » esclamò vicina la voce del Conte. Dalla loro posizione accucciata per terra, i due alzarono il viso a guardarlo. Li aveva raggiunti e li sovrastava, il viso pallido in modo quasi malsano illuminato dal basso verso l’alto dal debole bagliore della candela che aveva tolto di mano a Justin, il quale restava ancora immobilizzato sulla soglia con aria decisamente spaventata.

« Ma era morto anche prima. » sentenziò cupamente il Conte.

Kumals e Danny gli lanciarono sguardi accigliati e confusi.

« Certamente. » proseguì con calma convinzione « Lei ne è sicuro signor Kumals, vero? Ebbene, è chiaro. Non sembrava affatto in sé. E l’ha morsa, e non ha detto una parola. Ci sono tutti i sintomi! »

« Che cosa sta dicendo? » chiese Kumals a Danny. Questi scosse la testa e alzò le spalle con aria afflitta.

« Sto dicendo… » rispose il Conte in tono grave «che si trattava di uno zombie. »

Dalla soglia della casa si alzò la risata di scherno nervoso, praticamente isterico, di Justin. Il Conte si voltò a lanciargli un’occhiata pungente, infastidita e colma di sostenuto rimprovero.

« Senti… » iniziò Danny « ne abbiamo già parlato. Esistono una serie di cose che definire paranormali è poco… ma gli zombie non esistono. »

« Ragazzo, tu hai sempre disdegnato di leggere i documenti in mio possesso con sufficiente apertura mentale e abilità di fare collegamenti e riflessioni accurate… » disse con aria severa il Conte « ma se lo avessi fatto ora sapresti che… »

« Mi dispiace interrompere, ma qui dobbiamo decidere cosa farne del corpo. » disse Kumals, con tono seriamente infastidito.

« Per prima cosa dovremmo piantargli una pallottola in testa. Se poi vogliamo essere meticolosi e del tutto sicuri di non doverci aspettare brutte sorprese, dovremmo bruciarlo integralmente. O perlomeno decapitarlo. Mi stupisce che lei non lo sappia signor Kumals… » disse il Conte, con il tono di chi è ben felice di essere d’aiuto, e ignorando lo sguardo sempre più offuscato dal malumore che gli rivolgeva l’altro.

« Sarà meglio seppellirlo suppongo… » sospirò Danny « oppure… non lo so. Non ne ho idea. Per il momento sarà meglio metterlo in una cassa, se Conte può prestarcene una della sua collezione. Poi domani andremo a denunciarne la morte da qualche parte… ci sarà un ufficio del tipo ‘ritrovamento cadaveri’ o cose del genere… o anzi, magari lo staranno cercando visto quello che è successo alla villa, no? »

« Già » disse Kumals « Sarà meglio chiamare e avvisare di quanto è accaduto. Magari omettendo la parte in cui avevo creduto che fosse già morto. Non so bene, ma credo proprio che potrebbe risultare come ‘omissione di soccorso’. »

« Va bene. Allora portiamolo dentro. Conte ha diverse casse vuote… » decise Danny « E il polso come va? »

« Oh, niente di serio. Niente più che una leggera morsicatura… chissà che diavolo gli ha preso... » rispose Kumals, massaggiandosi pensierosamente il polso.

« Forse aveva un principio di attacco cardiaco e il dolore l’ha fatto impazzire, o ha battuto la testa, qualcosa del genere… » tentò Danny, poco interessato. Per quanto gli concerneva, ormai era morto.

Si accorse che Justin aveva finalmente deciso che non c’era pericolo e li aveva raggiunti. Con le mani in tasca, osservava già da un po’ il cadavere, pensosamente.

Infine, col tono di chi commenta un film sgradevole, osservò « Certo che ha proprio una brutta cera.»

 

 

 

 

Soundtrack: ‘Summer Cannibals’ (Patti Smith)

Ritorna all'indice


Capitolo 5
*** 03 - CHE SUCCEDE GIU' IN CITTA'? ***


Capitolo 3

(Che succede giù in città?)

 

Danny si svegliò lentamente, e si sentì subito molto stanco. C’era qualcosa che gli si piantava un po’ nella schiena, su metà della quale era sdraiato sbilencamente. Non era una sensazione sconosciuta, ma non la provava da molto tempo. Sorrise appena e si portò una mano alla schiena, la infilò sotto alla maglia e si sfilò dalla cintura dei pantaloni la pistola. La mise sotto al cuscino e si alzò, stiracchiandosi e sbadigliando profondamente. Grattandosi la testa senza rendersene conto, si guardò intorno senza scopo, ritrovando il consueto caos della sua camera da letto, mentre cercava di riordinare le idee.

Le braccia stanche gli ricordavano nettamente il lavoro pesante della sera prima, quando lui e Kumals avevano dovuto trascinare il cadavere del signor Benton fin sul retro della casa. Un rimasuglio di esasperazione paziente gli ricordava come lui avesse dovuto persuadere il Conte che, anche se Benton fosse stato uno zombie, inchiodarlo in una cassa da morto sarebbe stato più che sufficiente, e quindi chiedere a Justin di aiutarlo a trascinare fuori una delle casse da morto del Conte, nonché sopportare il profondo stato di prostrata sofferenza che aveva colto quest’ultimo nel vedere usata in tal modo uno dei suoi pezzi da collezione. Dopo lunghi ripensamenti e dolorose scelte, il Conte aveva concesso loro di utilizzare la cassa che, di quelle che possedeva, era meno probabilmente appartenuta a un vampiro “vero”, o in ogni caso a un vampiro poco rilevante nella storia del vampirismo, come si era premurato di raccontare profusamente a Kumals, facendo loro da sottofondo non richiesto mentre sistemavano il cadavere nella cassa e la inchiodavano.

Danny aveva iniziato a smaltire in fretta la nostalgia che aveva provato per Kumals, dal momento che questi non aveva fatto altro che osservare il suo discutere e barcamenarsi con i suoi due coinquilini senza battere ciglio, ma con il suo silenzio fitto di commenti pungenti.

Danny sospirò appena, prese fiato e si alzò dal letto definitivamente. Non aveva idea di che ora fosse, ma sembrava che il pallido e fumoso sole invernale fosse al suo culmine, da quello che poteva intuire dalla luce che entrava dalla finestra gotica della sua stanza.

Stiracchiandosi ancora, si avventurò fuori dalla camera, e stava per scendere al piano di sotto, quando un rumore attirò la sua attenzione. Sembrava che qualcuno avesse appena rimesso giù piuttosto bruscamente la cornetta del vecchio telefono, sbattendola.

Danny girò l’angolo del corridoio e vide Kumals seduto per terra, accanto al telefono, con aria cupa e nervosa. Di fianco a lui c’era una malandata cassetta del pronto soccorso aperta, con qualche pezzo di benda e qualche cerotto che ne fuoriusciva. Indossava ancora il suo cappotto lungo e logoro, ma sotto di esso non aveva più il vestito da serata di gala con cui era arrivato la sera prima, ma il solito anonimo paio di pantaloni marroni che gridavano all’ordine e alla pulizia minimalisti ma essenziali, nonché il suo solito paio di grossi scarponi; una camicia e un maglione ampio completavano il tutto.

Mentre Danny gli si avvicinava, Kumals alzò la testa verso di lui e sorrise appena, accennando a un vago saluto con la testa.

«Ancora niente?» chiese Danny, occhieggiando l’elenco telefonico aperto appoggiato sul pavimento.

«Macché!» disse un po’ irritato Kumals, con una stizzita alzata di spalle «Sembra che non ci sia nessuno da nessuna parte, o che in questa dannata città non sappiano cosa sia un telefono! Non risponde nessuno. In certi casi non suona nemmeno, come se la linea non funzionasse proprio. Beh, riguardo alla linea della villa di Benton potrei anche aspettarmelo, visto lo spettacolo di ieri sera… ma possibile che non si trovi nessuno?: polizia, pompieri, pompe funebri, cimitero, ospedale… ho chiamato ogni ufficio, servizio d’emergenza e che diavolo altro fino al servizio spazzini ma niente!»

Danny corrugò la fronte «Che sia per il capodanno…

Kumals gli lanciò un’occhiata in tralice «Pensavo infatti che vivere con quei due non ti facesse bene… Come fanno ad annullare i servizi d’emergenza essenziali perché è capodanno?!»

«Hum, beh sì… è che non mi viene in mente nient’altro…» si scusò Danny, portandosi una mano a sfregarsi la nuca «A proposito, dove sono gli altri?»

Kumals fece una leggera smorfia e allungò una mano, che Danny afferrò per aiutarlo a rialzarsi in piedi.

«Il Conte è andato a letto qualche ora fa. Quell’altro l’ha sostituito a fare la guardia a Benton.»

«Vuoi dire che è resuscitato di nuovo?!» chiese Danny, sobbalzando.

«No.» chiarì tetramente Kumals, guardandolo in cagnesco «E’ ancora normalmente e perfettamente morto stecchito. Ma sai, lui è sicuro che sia uno zombie. Tu che ne pensi? Se gli sparassimo un colpo in fronte si tranquillizzerebbe?»

«Al Conte o a Benton?» chiese Danny, sorridendo maliziosamente.

«Che ne pensi di entrambi?» propose Kumals con un lieve sorriso, che sottolineò la stanchezza sul suo viso.

«Sei riuscito a dormire?»

«Qualcosa del genere.» liquidò Kumals «Ora, vista la situazione, forse sarebbe il caso di andare di persona a cercare qualcuno che ci spieghi dove seppellire Benton, ammesso che qualcuno ci tenga. Perché sto iniziando a pensare che se lo seppellissimo sulle colline nessuno ci chiederebbe niente.»

«Mhm… io mangerei qualcosa prima.»

«Buona idea.» commentò Kumals, seguendolo giù per le scale.

 

 

 

«Mhm.» mugugnò con tono dubbioso Danny, a bocca piena.

«Che c’è?» chiese Kumals, alzando appena la testa dal suo piatto.

«Non mi sembra molto… rispettoso…» osservò Danny, guardando la cassa da morto di Benton che stavano usando come tavola.

«Beh, non credo che lui se ne avrà a male. Poi stiamo facendo esattamente quello che voleva il Conte, il che è preoccupante in effetti. Ci stiamo accertando che sia davvero morto. Io penso che se non lo fosse, a quest’ora si sarebbe già sentito abbastanza risentito da protestare.»

«Sarà…» commentò poco convinto Danny, continuando a mangiare

Qualche minuto dopo Kumals appoggiò sulla cassa il suo piatto vuoto, si pulì le labbra con il tovagliolo e sorseggiò il vino che Danny aveva aperto per l’occasione, che ora non sapeva più bene quale fosse visto tutto quello che era accaduto.

Osservò per un po’ l’ambiente in cui si trovavano.

L’ingresso sul retro della casa non lo usavano praticamente mai, perciò aveva un aspetto molto peggiore, oltre che del resto della casa, anche rispetto alla cantina abbandonata di qualche maniero antico. La cosa strana era che non aveva ancora visto un topo. Ma non dubitava che se avesse osservato meglio la cassa avrebbe potuto trovarci qualche rosicchiatura agli angoli. Il che avrebbe certamente mandato in bestia il Conte, dal momento che gli avevano garantito che l’avrebbero solo presa in prestito e che, una volta trovata una sistemazione più adeguata per il morto, avrebbero provveduto a restituirgliela pienamente intatta.

«Meno male che c’è così freddo. Altrimenti avrebbe già iniziato a puzzare.» osservò distrattamente Kumals, riferendosi al cadavere.

Danny fece una smorfia «Ah, risparmiami per favore…»

«Senti…» continuò Kumals, dopo un po’ «…ti sembra ancora una buona idea aver mandato quel tipo… Dustin… »

« Justin »

«Sì, lui… a cercare qualcuno in città? Voglio dire, c’è qualche possibilità che ritorni di qui a domani e che concluda qualcosa di utile?»

Danny alzò le spalle e continuò a mangiare.

«Voglio dire, non che non apprezzi la sua assenza… ma forse a quest’ora sarà già riuscito a farsi arrestare per omicidio, o qualcosa del genere… »

Stavolta Danny gli lanciò un’occhiata preoccupata. Aprì la bocca come per dire qualcosa, la richiuse senza aver pronunciato verbo. Ci ripensò, riaprì la bocca e di nuovo non disse niente. Scosse la testa e gli si abbassarono le spalle nello sconforto.

«Va bene… diciamo che, se tra un paio d’ore non è di ritorno, andremo a vedere dove si è cacciato…» propose Kumals, collaborativamente.

 

 

 

Kumals sedeva al tavolone della cucina sfogliando distrattamente i libri che il Conte gli aveva portato dalla biblioteca la sera prima, mentre Danny lavava i piatti con aria distratta.

Ad una certa, alzando gli occhi sulla finestra che aveva di fronte, Danny intravide qualcosa.

«Eccolo.» disse, spegnendo l’acqua corrente e asciugandosi sbrigativamente le mani sui jeans.

Entrambi uscirono dalla cucina e dall’ingresso principale, fermandosi sulle scale ad aspettare che Justin, che arrivava correndo, li raggiungesse.

«Forse è inseguito dalla polizia.» ipotizzò Kumals, con il tono vagamente annoiato di chi commenta uno show televisivo particolarmente banale. Danny non disse niente.

Correndo con moderata velocità, come se stesse correndo già da un po’, Justin continuava ad avvicinarsi lungo la salita nella fredda aria grigiastra del primo pomeriggio dell’anno nuovo.

«Mi correggo…» aggiunse Kumals «Se fosse stato inseguito lo avrebbero già preso da parecchio.»

Finalmente Justin li vide, accelerò un poco e li raggiunse. Cercò di dire qualcosa con urgenza, il viso alterato da un forte entusiasmo, ma tutto ciò che gli uscì furono una serie di mozziconi di parole incomprensibili, amputate dal respiro affannoso, e il ragazzo finì per chinarsi appoggiando le mani sulle ginocchia e cercando di respirare più normalmente. Danny e Kumals attesero pazientemente.

«Sono… in giro… mai visti… ma loro… sono… come dire… io non so…» farfugliò ancora Justin.

«Calmati. Respira. E poi parla.» consigliò Danny. Kumals aveva di nuovo un’aria accigliata.

Justin si sedette su uno scalino e continuò ad affannare, cercando di riprendere a respirare più normalmente. Si sentì un fruscio e un lieve tramestio: Kumals tirò fuori da una tasca del suo pastrano la busta di tabacco prestatagli da Danny e prese ad arrotolarsi una sigaretta con tutta calma. Fece a tempo a finirla, a rifinirla, ad accenderla e a fare un paio di tiri con calma, prima che Justin riprendesse a parlare più comprensibilmente.

«È incredibile. Sta succedendo qualcosa giù in città. Qualcosa di strano. Non si vede quasi nessuno in giro, è tutto deserto, e c’è silenzio. Dappertutto. E poi ho visto… ho visto qualcosa, cioè, beh non so bene come spiegare, cioè c’era… c’erano alcune persone. Ma erano strane strane. Si muovevano assurdamente, tipo un po’ rigidi. Avevano lo sguardo fisso ed erano tutti muti… tipo ipnotizzati… sì, sì, ecco! Sembravano ipnotizzati.»

«Hum…» borbottò Danny, cercando di valutare la credibilità da concedere alle parole sconnesse di Justin  «E che facevano?»

«Beh, niente… non facevano assolutamente niente! Cioè, camminavano tutte insieme, tipo branco, tutti in mucchio, e non si guardavano tra loro, e, beh, non sembrava stessero andando da nessuna parte! La strada è deserta. Non si sente rumore di alcuna macchina e così quelli camminano in mezzo alla strada e boh, non so, non mi sembra normale… cioè… »

«Ok, abbiamo capito.» lo interruppe Kumals.

«Cosa?» chiese Justin.

«Eh?» ribatté Kumals, guardandolo stranito.

«Cosa avete capito?» incalzò Justin ansioso, pendendo dalle loro labbra.

Kumals lanciò un’occhiata significativa a Danny a riguardo di quello che pensava di Justin, e quindi rispose «Non intendevo che abbiamo capito cosa sta succedendo… abbiamo capito cosa stai dicendo, cosa hai visto.»

«Ah.» disse deluso Justin.

Kumals ebbe un breve gesto di stizza e si rivolse a Danny «Forse sarebbe meglio andare a dare un’occhiata.»

«Sì.» confermò Danny, serio.

«Magari c’era solo qualcosa di andato a male nel menù del cenone.» ipotizzò, con scarsa convinzione, Kumals.

«Già.» mormorò distrattamente e gravemente Danny.

«Adesso? Andare adesso?» chiese Justin «Ma tra poco farà buio.»

«E’ vero.» osservò Kumals, alzando un breve sguardo sul cielo «Ma cercheremo di sfruttarlo a nostro vantaggio.»

Tornò a guardare Danny «Sarà meglio portarci con noi…» esitò, spiando Justin di sottecchi «…le  nostre cose. Per ogni evenienza.» aggiunse in fretta, per sdrammatizzare. Ma l’espressione di Danny rimase cupa, e lui si limitò ad annuire.

«Quali cose?» intervenne Justin, curioso.

«Dopo le vedrai.» disse Danny, in fretta. Guardò Kumals «Non possiamo lasciarli qui da soli… Per ogni evenienza.» ripeté, in tono poco rassicurante.

«No certo, vengo anch’io, voglio vedere che succede!» disse subito Justin.

Kumals sospirò, passandosi una mano sulla faccia. «Va bene…» disse lentamente, dopo un momento, riacquistando padronanza della sua quasi totale imperturbabilità.

«D’accordo…» continuò Danny «Justin, per favore, vai a svegliare il Conte.»

«Come?» domandò Justin, perdendo tutto il suo entusiasmo «Il Conte? Ma non si può svegliare il Conte… è giorno!»

«Questo lo so anch’io!» ribattè irritato Danny «Ma tu spiegagli che la situazione è critica. Che è meglio che ci muoviamo tutti insieme e… e non dirgli cosa hai visto, per il momento.»

«Perché?»

«Perché - sì.» telegrafò Danny, seriamente.

Justin osservò per un po’ la sua espressione, quindi lentamente si alzò dal gradino e, al ritmo della sua solita indolenza, ulteriormente rallentato dalla stanchezza della corsa e dalla sua esitazione nell’andare a svegliare il Conte, entrò pian piano in casa.

 

 

 

I quattro procedevano a passo spedito giù per la discesa della collinetta sulla quale sorgeva la casa. Danny e Kumals avanzavano ad ampie falcate, mentre Justin li seguiva con aria svagata, accesa occasionalmente dalla curiosità; dietro di loro, il Conte procedeva con aria cupa. Indossava un paio di guanti neri. Per ripararsi non dal freddo ma dalla la luce si era alzato il largo cappuccio sulla testa, celandosi completamente anche il viso, e apparendo vagamente simile a una bizzarra caricatura del Tristo Mietitore**, se non fosse stato per il grosso ombrello nero aperto che portava al posto della falce, sempre per proteggersi dal sole. Il fatto che tutto quello che si poteva chiamare ‘sole’, con un certo sforzo di fantasia, fossero i contorni imprecisi di un pallido tondo giallastro che andava calando rapidamente, non sembrava essergli degno di nota.

«Voi cosa pensate che possa essere?» interloquì Justin, non per la prima volta da quando si erano incamminati.

«Non lo so. Come potrei saperlo?» rispose, piuttosto stizzito, Danny.

«Beh, ma avete un’aria tutta… come dire…»

«Professionale.» specificò il Conte, in tono cupo ma vagamente deliziato.

Kumals alzò appena un sopracciglio, ma non disse niente.

« ‘Professionale’?» si stupì Justin «No, non è quello che volevo dire…»

«Oh, questo perché tu non ti puoi rendere ancora pienamente conto di ciò a cui assisteremo…» disse il Conte, con aria misteriosa.

«E sarebbe?» domandò Justin, scettico.

«Non capisci, Justin, non puoi capire… ma io sì. Oh… non credevo proprio che avrei potuto assistere di persona allo spettacolo di professionisti all’opera.» continuò compostamente e romanticamente emozionato il Conte.

«Professionisti di cosa?» insisté Justin.

«Ma è lampante… ci troviamo di fronte, caro Justin, al fior fiore di… beh, lo dico in maniera assai grezza e spero che per stavolta loro mi perdoneranno, essendo mia premura cercare di esserti più comprensibile… ci troviamo di fronte ad eccellenti cacciatori di… »

«Ascoltate.» interruppe prontamente Kumals «Da qui in poi sarà meglio procedere in silenzio. Potremmo sentire qualche rumore, o qualcuno potrebbe sentirci. Sarà meglio essere molto prudenti. Cercate di non far rumore se potete… e siate pronti a nascondervi se lo riterremo necessario… »

«Oh, sì, naturalmente. Perdoni la mia mancanza di attenzione, signor Kumals, da questo momento starò particolarmente attento a non intralciare in nessun modo la vostra opera.» promise il Conte, affettatamente.

Per qualche minuto procedettero in assoluto silenzio, eccetto per il rumore dei loro passi sulla terra battuta. Ma all’orecchio fino di Danny e all’udito attento di Kumals non sfuggì un lieve sussurro.

«Professionisti di che?» mormorò Justin a bassa voce all’orecchio del Conte.

 

 

 

 

* i diritti dell’immagine, presa da internet, che uso come stacco tra alcune parti della storia, sono questi:

Copyright © 2006. Flash2xs.com, LLC and/or Design Artist. All right reserved.

** il Tristo Mietitore, alias la Morte.

 

Ritorna all'indice


Capitolo 6
*** 04 - SPETTACOLO AL PORTO ***


Capitolo 4

(Spettacolo al porto)

 

Da ormai un’ora e mezzo passeggiavano per la città, rasentando i muri e muovendosi con accorta prudenza, girando gli angoli mantenendo aderenza ad essi e uno alla volta, sempre davanti Danny o Kumals. Nonostante tutto, tanto il Conte quanto Justin mantenevano un religioso silenzio. Spesso Danny annusava l’aria, ma non trovava niente da riferire. Né Kumals aveva ancora fatto qualche osservazione riguardo quali pensieri gli stessero passando per la testa.

Il fatto è che non c’era niente da notare. Anzi, non c’era proprio niente di niente.

La città pareva abbandonata. Non si vedevano persone, non si sentivano voci né rumori né altro, e tutto giaceva immobile come se si fosse congelato nella posizione in cui si trovava quando qualcosa aveva interrotto tutto. Persino spiando attraverso le finestre all’interno di qualche casa si trovavano a guardare solo stanze vuote e immobili.

Alla fine si fermarono lungo la strada principale, che attraversava quella sorta di città fantasma. Danny si grattò pensosamente la testa per l’ennesima volta, confuso. Kumals si accese una sigaretta, con aria innervosita. Justin strusciò un piede per terra con aria annoiata. Ma gli occhi del Conte, che li fissava tutti attentamente, erano già da un po’ densi di sinistri luccichii dovuti ad un entusiasmo a stento trattenuto.

«Qui c’è qualcosa di strano.» esordì infine Danny.

«Lieto che tu lo dica.» disse Kumals «Mi aspettavo di trovare un mortorio il primo dell’anno in una città così piccola, ma qui si esagera un po’…»

«Che noia.» fu il laconico contributo di Justin.

Seguì una pausa di silenzio inutile. Anche Danny si arrotolò una sigaretta e se la accese.

Il Conte si schiarì la voce significativamente. Kumals e Danny lo fissarono, mentre Justin continuava a guardare il terreno e a strusciare il piede con le mani in tasca.

«Cosa?» incalzò Danny, dal momento che il Conte taceva, ma aveva assunto la tipica posa di quando stava per fare un discorso.

«Oh?» domandò il Conte, fingendosi stupito della loro attenzione su di lui «Ebbene, non vorrei sembrare scortese… non vorrei interferire…»

«Ovvero?» insisté Danny.

«Vedete, stavo pensando… beh, forse vi sembrerà una cosa sciocca… da novellino per così dire…» tacque di nuovo.

«E se andassimo alla villa del morto?» si intromise Justin, desideroso di movimentare un po’ la situazione. Kumals sembrò considerare seriamente la proposta, dopo essersi sorpreso di stare considerando seriamente qualcosa che aveva pronunciato Justin.

«Caro Justin, dovresti lasciare spazio a chi se ne intende, a coloro che hanno un ricco e assortito bagaglio di esperienza alle loro spalle, così eviteresti di dire troppe sciocchezze…» lo rimproverò pacatamente il Conte.

«Cosa stavi per dire?» insistè Danny spazientito, rivolto al Conte.

«Ah, ecco… in effetti stavo pensando che il signor Benton deve aver contratto da qualcuno la contaminazione, che lo ha reso purtroppo uno zombie…»

Mentre diceva così, Danny ricordò con spiacevolezza che il Conte aveva insistito perché legassero con una pesante catena tutta la cassa dove si trovava il cadavere di Benton, nel caso tentasse di uscire, come paventava il Conte.

«Per questo stavo pensando, basandomi anche su quanto riportato dal nostro Justin qui nella sua precedente visita odierna in città, e mi duole dover esprimere questo terribile dubbio ad alta voce, anche se sono certo che anche voi siate giunti alle stesse conclusioni, che l’intera città, o almeno un’ampia porzione dei suoi residenti, potrebbe essere stata parimenti contagiata. Se è questo il caso, resta la domanda di dove siano andate, una volta decedute e mutate in zombie, queste persone. In base alle mie letture e conoscenze in proposito, fino a poco fa non avevo rammentato niente che ci potesse procurare un valido indizio. Ma riflettendo oltre, ho notato che c’è un luogo che non abbiamo ancora avuto cura di verificare.»

«E quale?» domandò ancora Danny, mentre Kumals si faceva più attento.

«Il porto.»

Calò un assorto silenzio.

«Scusa…» disse Danny «ma cosa pensi che potrebbero fare tutti quanti al porto di sera? Tutta la città?!»

«Danny Danny…» lo rimbeccò amabilmente il Conte «Sono contento che tu voglia mettermi alla prova. Ma ti assicuro che non tiro a indovinare, e che la mia deduzione è frutto delle accurate riflessioni che tu stesso, e naturalmente anche il signor Kumals, avete padroneggiato certamente molto più appropriatamente di quanto abbia potuto fare io. E’ inappuntabile che gli zombie camminino sempre dritto davanti a loro, specialmente se sono del tipo più antico, ovvero feticci creati da stregoni probabilmente originari della profonda Africa nera.* Dal momento che essi non hanno cognizione dell’ambiente dove si muovono, né possono patire le comuni sofferenze umane, come la mancanza di ossigeno, potrebbero essere facilmente giunti al porto e proseguendo sempre davanti a sé potrebbero ormai essere ridotti a camminare sul fondo del mare senza soffrirne.»

Scese un altro silenzio.

«Il porto è l’unico posto di questa città dove non abbiamo ancora guardato?» chiese Kumals a Danny.

«Sì… ma francamente…» iniziò a ribattere Danny, ma Kumals alzò una mano per interromperlo.

Danny sospirò «D’accordo… andiamo a vedere al porto.»

Il Conte sorrise, quasi gongolando, e li seguì mentre riprendevano a camminare in direzione del porto.

Dopo un po’, Justin allungò il passo per affiancarsi a Danny e domandò «Ma allora non andiamo alla villa del morto?»

*

***

*

Il porto era, come del resto sempre a quell’ora di sera nei giorni festivi, deserto, piuttosto buio e decisamente umido e salmastro. A parte ciò, Danny camminava con maggiore circospezione, e Kumals, che lo seguiva da vicino, spiava di tanto in tanto la sua espressione concentrata.

«Sembra che ci sia davvero qualcuno da queste parti…» mormorò piano Danny, pensosamente.

«Magari qualcheduno che…» iniziò Justin, ma si interruppe nell’andare a sbattere contro il braccio che Kumals, immobilizzandosi all’improvviso, aveva proteso di fianco a sé.

«Hey…» iniziò a protestare Justin, massaggiandosi il costato con aria offesa.

«Zitti!» sibilò frettolosamente Danny.

Allora Justin si protese sulla punta dei piedi per spiare oltre le spalle di Danny e Kumals, e anche lui si trovò a fissare la singolare scena che li aveva fatti fermare.

C’erano una trentina di persone sulla banchina, riunite in un gruppo molto eterogeneo, costituito da persone di ogni età, vestiario e qualsivoglia altra caratteristica visiva. Benché fosse piuttosto strano trovare tutte quelle persone riunite in piedi sulla banchina a quell’ora e a quel giorno, tra i quali quasi nessuno aveva l’aria di qualcuno che frequenta abitualmente il porto, ancora più bizzarro era il loro comportamento. Tutti immobili, fissavano qualcosa appeso a un muro dei magazzini del porto, con aria assente eppure insistente.

«Ma che diavolo…?» iniziò a dire Danny, dal momento che nessuno degli improvvisati visitatori del porto li stava degnando in alcun modo. Ma si interruppe da solo, non trovando altro modo più eloquente di esprimere il suo confuso stupore interrogativo.

«Ma che gli piglia?» domandò curioso Justin «Comunque ecco, è proprio così che li ho visti prima… secondo me sono strafatti.»

«Ci sono dei bambini. E degli anziani. E persone che non credo che… a guardarle così…» obbiettò debolmente Danny.

«Proviamo ad avvicinarci. Piano. E vediamo cosa stanno guardando con tanto interesse…» disse Kumals. E dopo che lui si fu avviato anche gli altri lo seguirono, a passi lenti e con lo sguardo attento e circospetto.

D’altra parte, per quanto piano potessero avanzare, tutte quelle persone non diedero alcun segno di potersi interessare in alcun modo a loro. Mentre si avvicinavano, da parte loro, notavano altri particolari curiosi.

Un uomo del gruppo indossava, lì in quel freddo dicembrino, solo una canottiera e un paio di boxer e uno di ciabatte, e in effetti aveva la pelle con una insana sfumatura bluastra livida. Le bocche di diversi erano semiaperte, come se fossero in trance o stessero dormendo ad occhi aperti, e gli occhi di tutti erano vitrei e inespressivi, come se fossero incantati e del tutto incoscienti.

Mentre registravano questi dati, qualcosa di ancora più sospetto iniziava a intravedersi.

Quando infine si fermarono a pochi metri dal gruppo, senza che nessuno avesse ancora avuto la gentilezza di notare la loro presenza, si resero conto che indubbiamente il muro che tutti fissavano incantati era… vuoto. Beh, perlomeno non era altro che un muro, di mattoni. Non c’era niente appeso, disegnato, scritto o in qualche altra maniera segnato sopra. Nient’altro che mattoni.

Danny allungò automaticamente una mano a strofinarsi la nuca con aria perplessa. Per diversi momenti non dissero né fecero assolutamente niente, mentre il loro disagio cresceva saturando chiaramente e preoccupantemente l’aria loro attorno.

Infine, con esitazione e sforzo, Danny si voltò a guardare Kumals.

«D’accordo…» iniziò Kumals, lentamente «iniziamo a valutare qualche ipotesi che sia, diciamo, credibile…»

«Perché, a te sembra credibile questo?» obbiettò Danny piuttosto nervosamente «Voglio dire, tu pensi che se lo raccontassimo qualcuno ci crederebbe?»

«Quel che intendevo, era chiedere se qualcuno ha qualche idea di cosa diamine stia accadendo. Dopotutto sei tu… siete voi che vivete in questa città. Che sapete quali strani ed insulse usanze abbiano quaggiù… perché io proprio non avrei idea di che altro fare a questo punto, se non chiamare la neuro. Ammesso che rispondano. E che non siano anche là tutti intenti a fissare un muro!» replicò Kumals.

Mentre discutevano, Danny aveva sentito che il Conte si stava agitando, in quella maniera impercettibile in cui si agitava il Conte, ovvero perdendo una parte della sua solita imperturbabilità. Aveva iniziato a spostare il peso da un piede all’altro, e il suo sguardo saettava in giro con aria tesa. Finché il suo nervosismo giunse al culmine e gli diede persino voce con un «Hem…» esitante e davvero poco eloquente, e quasi volgare rispetto al suo consueto modo d’esprimersi.

«Cosa c’è?» chiese Danny, voltandosi repentinamente a fissarlo, irritato dall’essere distratto dalla sua discussione con Kumals, e allo stesso tempo propenso ad accettare nuovi soggetti su cui scaricare la propria tensione.

Il Conte, di nuovo stranamente, sembrò non trovare le parole. Ma allungò un braccio, e dalla larga manica lunga e nera del suo manto di velluto spuntò un lungo dito guantato di nero, col quale indicò qualcosa. Danny e Kumals si voltarono a guardare cosa indicava. E rimasero di sasso, proprio mentre Justin, che mentre loro parlavano si era avvicinato al gruppo di persone immobili e si era affiancato con nonchalance ad un uomo di grossa stazza, chiedeva ad alta e vivida voce

«Ma insomma, cosa state guardando?»

Fu questione di un attimo.

Mentre Kumals e Danny guardavano la scena, come pietrificati, gli occhi vitrei dell’omone si distolsero dal muro, e con lenta ottusità si voltarono a fissare Justin, che in tutta la sua altezza non gli arrivava nemmeno alla spalla. Mentre Danny apriva la bocca senza che ne uscisse suono, l’uomo allungò, sempre molto lentamente, una manona grande due volte una di Justin, lo prese per il bavero della giacca e iniziò a tirare verso l’alto, sempre senza fretta.

«Maledizione!» imprecò Kumals, e lui e Danny spiccarono la corsa quasi nel medesimo istante, lanciandosi verso Justin, i piedi del quale si stavano staccando da terra inesorabilmente, mentre l’uomo lo sollevava senza particolare sforzo, fissandolo sempre con quello sguardo vuoto.

«Hey! Hey, che diavolo fai? Hey hey, no, no! Aiuto. Aiuto!» iniziò a strillare Justin, agitandosi e stringendo invano con le mani il braccio e la mano dell’omone, agitando freneticamente le gambe che ormai penzolavano nell’aria.

Mentre Kumals e Danny stavano per raggiungerlo, qualcosa cambiò all’interno del gruppo di persone.

I loro occhi, più insensibili di quelli di un pesce morto, si spostarono prima su Justin, poi, mano a mano che Kumals e Danny spingevano, urtavano e tiravano spallate per passare attraverso quei corpi che parevano colonne incementate per terra, anche su loro due.

Prima che Danny o Kumals potessero arrivare abbastanza vicino a Justin, una serie di mani si allungarono su di loro, afferrando confusamente e disordinatamente i loro abiti, capelli, braccia, spalle, aggrappandosi senza fare violenza, ma opponendo di fatto al loro procedere una marea di insistenti mani. Una specie di equivalente, insomma, di un turista che cerca di passare attraverso una folla di mendicanti indiani inebetiti dall’inedia e rafforzati dalla disperazione della fame.

Mentre lottava contro le braccia e le mani che da ogni lato gli si aggrappavano addosso e gli toccavano la faccia infastidendolo continuamente, a Danny parve di udire un sommesso parlottio di orrore da parte del Conte, in gran parte sovrastato dalle nevrasteniche urla di Justin. Poi sentì Kumals chiamarlo da qualche parte in mezzo a quel groviglio di corpi lenti, pesanti e stupidi che lo zavorravano da ogni lato, ma non riusciva più a vederlo. In quella marea di idiota umanità rimbambita, lui e Kumals erano stati separati e non erano più così vicino. A Danny non rimase da far altro che chiamare a sua volta Kumals, e Justin, cercando di vederli, mentre gradualmente la folla di arti e mani lo sommergeva, togliendogli il fiato e accrescendogli esponenzialmente il panico, che gli tamburellava nel cuore prepotentemente.

Si sentì perduto, e tra sé e sé maledì Justin, mentre con tutte le sue forze continuava a strapparsi di dosso una mano, mentre altre cinque o dieci gli si aggrappavano, e cercava di fare forza con tutto il suo peso contro i corpi che lo circondavano, nel tentativo vano di spostarli abbastanza da sgusciare tra loro. Odiò i vestiti che offrivano un facile appiglio e che lo trattenevano come una rete, e trattenne a denti stretti i gemiti di dolore dati dalle mani che afferravano, come alla cieca, lembi di pelle, col risultato di tirargliela, che minacciavano di finirgli negli occhi e in bocca e nelle narici e nelle orecchie, e che talvolta gli afferravano ciocche di capelli.

Mentre la sua furia cresceva, perse ogni scrupolo, e iniziò a mordere a fondo ogni mano o braccio che gli capitasse sotto tiro, a graffiare, tirare spallate e gomitate e pugni e calci, lottando strenuamente. Ma, con sua grande sorpresa e inquietudine, si rese conto che quelle persone non reagivano in maniera normale. Non davano segno di provare alcun dolore o fastidio, nemmeno quei minimi segni involontari e immediati di dolorabilità che qualsiasi essere vivente dotato di sistema nervoso dovrebbe possedere. Questa nuova constatazione iniziò a erodere efficacemente la sua determinazione, spingendolo sempre più verso la resa, nonostante fosse ancora deciso a lottare con ogni mezzo, fino a che non avesse completamente esaurito le forze.

Doveva essere un incubo, doveva esserlo!

Poi, di colpo, all’improvviso, uno sparo tagliò ogni rumore, risuonando netto nell’aria, e raggelando tutto per un momento, mentre riecheggiava sugli edifici del porto.

Danny si immobilizzò, se non altro perché anche tutti gli altri corpi intorno a lui si erano immobilizzati nella posizione in cui si trovavano, come se avessero perso ogni volontà e capacità di muoversi. Danny era abbastanza certo di non essere stato lui a sparare, ma si sentì stupido per non averlo fatto prima, purché fosse riuscito a raggiungere la fondina della pistola che aveva allacciata sotto alla giacca contro il petto, o la pistola che teneva infilata nella cintura contro la schiena, sotto la maglia. In ogni caso, qualcuno aveva sparato.

Per un po’ non si udì nient’altro, tutto e tutti giacquero perfettamente immobili.

Poi si udì un fischio d’amplificatore, qualche rumore, come se cercassero di far funzionare un microfono, anzi, un megafono. Danny udì la voce del Conte, singolarmente amplificata, alzarsi esitante nell’aria immobile, evidentemente venata di panico.

«Che cosa dovrei dir…? Oh… ah… beh, se la mette in questi termini penso… oh, sì, certo d’accordo… hem hem… Dunque, signori e signori, bambini e maturi, prestatemi tutti la vostra gentile attenzione! Da questa parte signori, da questa parte signore. Sì, ecco io… io devo fare un importante annuncio. Sì… dunque… come? Ah, d’accordo… Allora, venite, venite, da questa parte, sta per iniziare un favoloso spettacolo! Qualcosa di straordinario, che lorsignori e signore non hanno mai avuto il privilegio di ammirare in tutta la loro vita, che dico, nemmeno i loro avi hanno mai potuto ambire ad ammirarlo. La meraviglia delle meraviglie… »

Ascoltando incredulo, a Danny parve evidente che il Conte doveva aver perso d’un sol colpo tutto il senno. E, vista la situazione drammatica in cui si trovavano, non era nemmeno qualcosa di cui stupirsi eccessivamente. Quello che gli sfuggiva era come il Conte si fosse potuto procurare dal nulla, nella sua follia, un megafono.

In compenso, parve funzionare.

La folla iniziò a muoversi, per la maggior parte staccandogli le mani di dosso e mollando la presa, o non opponendo alcuna resistenza se egli stesso, con cautela, staccava le mani dai suoi vestiti. Tutti gli occhi si erano distolti da lui, e puntavano nella direzione dalla quale provenivano le sconclusionate parole del Conte.

«Da questa parte signori e signore, sì, lo spettacolo è qui!» continuava il Conte, e lentamente le persone si mossero, a passi pesanti e barcollanti, sempre col loro fare assolutamente inebetito, allontanandosi da Danny, il quale si vide affiancato poco dopo da Kumals, che si muoveva piano, cercando di seguire il flusso delle persone senza urtare nessuno.

«Credevo che fossi stato tu a sparare.» gli disse pianissimo Kumals, chinandosi un po’ verso di lui.

Entrambi fissavano nella direzione in cui gli uomini si stavano dirigendo. Ora che la folla si era diradata i due potevano distinguere due sagome, in piedi sulla banchina. Una era distintamente quella del Conte, il quale impugnava il megafono dentro il quale parlava, con aria molto incerta, lanciando continuamente sguardi smarriti all’altra sagoma, quella di un maschio non molto alto e dal corpo un po’ minuto, che si muoveva con agilità con un fucile a tracolla sulla schiena, sistemando per terra quelli che sembravano scatole di fuochi artificiali.

«No…» rispose Danny, come se ce ne fosse bisogno «E non ho idea di cosa stia succedendo ora.»

«Faranno meglio a saperlo loro…» iniziò a dire Kumals, osservando con preoccupazione la distanza scemante tra la piccola folla stordita e il Conte e lo sconosciuto; ma entrambi furono distratti dal rumore di qualcosa che veniva trascinato pesantemente.

Prima che potessero capire di che si trattasse, un omone passò loro di fianco, dirigendosi come tutti gli altri verso il Conte e il loro anonimo soccorritore. La differenza era che questo si trascinava dietro, appeso in fondo a un braccio abbandonato lungo il fianco, Justin. Il ragazzo, boccheggiante e con l’aria stralunata e impanicata, era ancora tenuto per il collo della giacca, e per quanto ancora si agitasse debolmente, era evidentemente in principio di una seria apnea.

Muovendosi quasi sincronicamente, Danny e Kumals si misero a seguire l’omone e, con attenzione, cercarono di sciogliere le sue dita dalla stretta sulla giacca di Justin, mentre questi li intralciava aggrappandosi loro addosso con le mani nel tentativo di fermare il suo trascinamento. Così, mentre Danny afferrava le braccia di Justin bloccando le sue mosse convulse, Kumals riuscì a districare il ragazzo dalla presa dell’omone, con l’attenzione che si dedicherebbe al disinnescamento di una carica esplosiva, senza che il massiccio individuo desse segno di accorgersene, preso com’era dalla voce amplificata del Conte. Justin sbatté per terra rovinosamente, e Danny lo fece alzare in piedi senza troppe cerimonie, sorreggendolo con forza.

Tutti e tre si trovarono a guardare il misterioso individuo, che rapidamente accese la miccia dei fuochi artificiali che aveva sistemato, e in una veloce e sciolta sequenza di mosse afferrò per una spalla il Conte, gli disse qualcosa, ed entrambi svicolarono lateralmente senza fretta, mentre la massa di persone che avanzavano era ormai a pochi metri da loro. Pochi istanti dopo, mentre i due aggiravano la folla da una certa distanza, l’aria fu lacerata da sibili e scoppi, e i fuochi artificiali iniziarono a esplodere in un tripudio di luci colorate saettanti verso l’alto. La folla di persone si immobilizzò di nuovo, e i loro larghi occhi vitrei e le loro bocche semiaperte, e in certi casi un po’ sbavanti, si focalizzarono verso lo spettacolo pirotecnico.

«Oh, state tutti bene, per fortuna!» esordì a mezza voce il Conte, raggiungendoli; ma Danny e Kumals lo notarono appena. Entrambi fissavano l’altro individuo.

Questi indossava un giacchetto sdrucito sopra una vecchia felpa, il cappuccio della quale portava calato sulla testa, così che il suo viso non era chiaramente visibile, anche a causa della penombra del porto.

«Sarà meglio allontanarci ora.» osservò il tizio, con tono basso e quasi arrochito «Quelli li terranno occupati per un po’… ma prima o poi finiranno.»

«Sono d’accordo» annuì con serietà Kumals, continuando ad osservare attentamente l’altro.

Justin tossì pesantemente «Mi stava soffocando, mi stava uccidendo, non riuscivo più a respirare!» prese ad esclamare attonito, mentre si incamminava con gli altri, massaggiandosi insistentemente il collo e la gola, come se fosse preda di un tic nervoso.

Camminando a passo sostenuto, i cinque si allontanarono lungo la banchina.

 

 

 

* in diverse culture africane esiste il fenomeno di zombie, persone trasformate in uno stato catatonico-passivo da stregoni e sciamani vari. In alcuni casi sono state trovate spiegazioni para-scientifiche dei trucchi stregoneschi, come la somministrazione di una polverina a base di tetrodotossina, sostanza tossica estraibile dal veleno di alcuni pesci, come il ‘pesce palla’… ma non mi dilungo. Comunque nelle regioni profonde dell’Africa non è così difficile imbattersi a livello culturale in fenomeni di zombismo. A differenza dello zombie convenzionale della filmografia e bibliografia horror occidentale, comunque, per quel che ne so il classico ‘zombie’ della cultura africana è solo un individuo privo di propria volontà, ai comandi dello stregone che l’ha trasformato, che può dargli semplici ordini; vive in uno stato di catalessi che lo rende al livello di un’ameba, e pertanto se lasciato a se stesso è una creatura totalmente passiva, inquietante proprio nel suo essere paragonabile a un essere umano che sembra più morto che vivo. Questa tipologia di zombie, da che ne so, non presenta alcun tipo di aggressività o desiderio di nutrirsi di altri viventi, semplicemente se ne sta abbandonata nella nullafacenza totale, oppure semplicemente cammina sempre dritto avanti a sé, ignorando tutto ciò che gli sta intorno, che pesta, che attraversa.

 

Soundtrack: ‘Zombie’ (Jamie T)

Ritorna all'indice


Capitolo 7
*** 05 - UTHER ***


Capitolo 5

(Uther)

 

Nel porto deserto spiccava la presenza solitaria di un gruppetto di cinque persone, che sostavano sul bordo della banchina, al di sopra dell’acqua scura che sciabordava ritmicamente contro l’alto scalino in muratura. Il mare era calmo quella notte.

Kumals fumava una sigaretta, in piedi, i rasta raccolti nella bassa coda di cavallo che aveva poco prima risistemato, dopo la sgradevole avventura, che ricadevano sulla schiena coperta dal lungo pastrano consunto.

Il Conte, ritto e immobile, si appoggiava all’ombrello chiuso, come un signore aristocratico potrebbe appoggiarsi al suo pregiato bastone da passeggio, e si era tirato giù l’ampio cappuccio nero, e si era tolto i guanti, scoprendo le pallide mani scarne; dopotutto il proto-sole invernale era tramontato da parecchio, ammesso che fosse mai sorto nel vero senso della parola.

Justin, seduto per terra, continuava a massaggiarsi il collo e la gola con aria molto afflitta, fissando il terreno, borbottando di tanto in tanto qualche lamentela in tono vittimistico. Nessuno si sarebbe sorpreso se di lì a poco avesse iniziato a dondolarsi ritmicamente come sotto shock.

Quanto a Danny, seduto a terra all’indiana**, stava a braccia incrociate sul petto, fissando attentamente la quinta persona, il personaggio misterioso a cui dovevano il recente mantenimento di loro tutti in buona salute.

Questi, che si era seduto su un blocco di cemento a cui venivano legate occasionalmente le barche in ormeggio, ostentava un’aria molto tranquilla, nonostante il suo viso fosse ancora celato dal cappuccio della felpa. Si era tolto il fucile da tracolla e, appoggiatolo a terra col calcio, teneva la canna stretta con entrambe le mani, in una posa rilassata che sembrava essergli usuale.

«Penso di poterti ringraziare a nome di tutti, qui… » esordì Kumals infine, fissando lo straniero «Se non fosse stato per il tuo intervento, sinceramente non so come ne saremmo usciti. Sei stato… provvidenziale.»

Benché fosse sincero, era chiaro, almeno alle orecchie di Danny, che il suo tono aveva intenti diplomatici e fini secondari ben precisi. Che d’altro canto Kumals non esitò ad esprimere chiaramente subito dopo, quando l’altro, con una lieve alzata di spalle, rispose solo «Non c’è di che.», con un tono vagamente ironico.

«Spero che non ti sembri maleducato se ti chiedo chi sei.» disse Kumals.

«Tu sei maleducato Kumals. Anche se in maniera molto abile.» rispose l’altro, facendo immediatamente apparire un’espressione di vivo stupore sul viso di Kumals e di Danny, e risvegliando l’attenzione del Conte.

«Tu…» iniziò Kumals. «Ah!» esclamò sardonicamente «Ma guarda un po’… è da parecchio che non ci si vede. Di certo non mi aspettavo di trovarti da queste parti.» e un lieve sorriso amichevole gli rilassò i tratti del viso. Anche l’altro sembrò emettere un breve sbuffo divertito, e quando Kumals si avvicinò si scambiarono un breve saluto, stringendosi calorosamente la mano.

«Hey!» eruppe Danny, alzandosi in piedi con aria scontenta «Ma allora lo conosci! E chi è?»

Kumals lo guardò, con divertita sorpresa, e alzò un sopracciglio «Ma come Danny, non lo riconosci, proprio tu?»

Danny esitò, confuso, studiando l’espressione di Kumals.

«Ma certo. Una persona così abile non poteva che essere una vostra conoscenza.» disse il Conte, con tono ammirato. Mentre parlava, Danny aveva preso a fissare intensamente lo sconosciuto, come se cercasse di vedere al di sotto del cappuccio della felpa, e fece cautamente un passo avanti.

«Il suo intervento è stato eccezionale, magistrale nella sua essenziale efficacia e nella sua mirata pertinenza… » continuò il Conte.

Sul viso di Danny passavano emozioni veloci, confusione, incertezza e dubbio, speranza e impellente curiosità. Lentamente, mosse altri passi verso lo sconosciuto. Ad un occhio attento non sarebbero sfuggite le sue narici, che si dilatavano e restringevano a ritmo serrato, mentre annusava l’aria, in cerca di un preciso odore.

«Sono stato particolarmente colpito dalla rapidità con cui ha immediatamente colto il significato di ciò che stava accadendo, e come ha fulmineamente agito nel modo più appropriato…» continuava imperterrito il Conte, assorto nella declamazione in tono altisonante e formale.

Kumals stava guardando la faccia di Danny, il quale avanzava lentamente, e un sorriso affettuoso e ironico ad un tempo gli ringiovanì il volto.

«D’altro canto, io ho sempre avuto la mia personale opinione riguardo le ammirevoli persone che, pur portando con sé un’arma, riescono ad usarla in modo risolutivo senza nel contempo provocare gravose ferite a qualcuna delle persone coinvolte. Si tratta indubbiamente di persone dotate di un’eccellente abilità e tempismo, di una arguta intelligenza che travalica le sordide e banali azioni di comune violenza di basso livello che oggigiorno ci troviamo purtroppo sempre più spesso di fronte e…» proseguiva il Conte

Lo sconosciuto alzò una mano all’orlo del cappuccio, e lo scostò all’indietro, scoprendo un viso da ragazzo, dai tratti piuttosto sottili, invecchiato da una stanchezza profonda sulla quale sbocciava però, tra il mento e le guance coperte da una corta barbetta biondastra, al di sotto di due occhi azzurro ghiaccio dallo sguardo vivacemente sveglio e impertinente e dei capelli medio-corti biondi e mossi in un accenno di riccioli, un sorriso apertamente felice e un po’ complicemente ironico, che gli increspò le labbra carnose screpolate dal freddo.

«Quindi, in summa, non posso che esprimere piena e sincera ammirazione per ciò che lei è riuscito a mettere in atto in modo così notevolmente…» il Conte si interruppe, suo malgrado, nel bel mezzo del discorso.

Danny aveva emesso un’esclamazione soffocata e si era gettato ad abbracciare l’altro ragazzo, per poco non travolgendolo. Il fucile quasi gli sfuggì di mano, rischiando di cadere a terra, mentre Kumals sogghignava, godendosi con aria soddisfatta la scena.

Justin si voltò con aria tesa e offesa, come se qualcosa avesse disturbato le sue rimostranze borbottate, e guardò accigliato i due.

«E adesso che succede?» domandò, in tono lamentoso.

*

***

*

Nella notte buia, cinque figure arrancavano senza fretta su per la collina, seguendo la strada sterrata in direzione della vecchia casa goticheggiante, abbandonata sulla collina come un relitto di tempi andati.

«Quindi…» disse il Conte nel silenzio, dopo essersi schiarito la voce con educata moderazione «il suo nome è…

«Uther» rispose subito Danny, per conto dell’altro.

Uther lanciò una breve occhiata ironicamente stupita al Conte «Puoi darmi del tu.» disse.

«Oh, se lo dice lei… va bene. La rin… Ti ringrazio.»

Uther lo guardò di nuovo incuriosito, ma non disse niente.

«Fa un freddo cane.» lamentò Justin, stringendosi di più le braccia addosso; si sentiva il moderato rumore dei suoi denti che battevano. Camminava come se fosse reduce da una dura battaglia.

«Io sono Conte.» continuò il Conte, dopo essersi nuovamente schiarito la voce. Camminava appoggiandosi discretamente all’ombrello. «E questo è Justin.» aggiunse, con un breve elegante gesto della mano in direzione del ragazzo nominato.

Uther annuì.

«E quella che vede lassù è la mia umile dimora, dove lei… tu sei naturalmente benvenuto.» terminò Conte, indicando la costruzione decrepita verso la quale stavano dirigendo il loro cammino, seguendo ubbidientemente la strada.

«Grazie.» bofonchiò un po’ imbarazzato Uther, con indecisione.

«Non è così terribile come sembra.» disse Danny, con l’aria di voler essere rincuorante.

«Oh, io credo che lui sia abituato a molto peggio.» commentò Kumals. Uther gli lanciò uno sguardo ammonitore, che Kumals ignorò in grande scioltezza.

Danny sorrise appena. «Vuoi che ti porti lo zaino?» chiese a Uther, il quale, oltre il fucile, si trascinava appresso sulla schiena una grossa sacca da viaggio dall’aspetto molto provato.

«No… grazie.» disse solo Uther.

Per qualche momento ridiscese il silenzio.

«Quindi, tu cosa fai?» chiese Justin, temporaneamente distratto dalle sue sofferenze.

«Come?» replicò Uther, con aria poco amichevole.

«Ma Justin, è chiaro, lui è un collega di Danny e Kumals.» disse il Conte, quasi scandalizzato.

«Ex colleghi» precisò distrattamente Kumals.

«Collega? Collega di che?» insisté Justin.

«Credo che ora ci sia altro di cui parlare.» intervenne precipitosamente Danny, a disagio.

«Già. Per esempio, dove te li sei procurati quei fuochi artificiali?» chiese Kumals a Uther.

«Mhm…» mugugnò vagamente Uhter.

«Magari aspettiamo di arrivare, e parleremo con calma…» disse di nuovo Danny.

«Ma quanto manca?» si lagnò ancora Justin.

*

***

*

Il Conte si era ritirato nella biblioteca, per svolgere importanti indagini tra i suoi documenti, nel tentativo di scoprire qualche indizio di ciò che stava accadendo, a suo dire. Justin si era trascinato su per le scale verso la sua camera da letto, con aria malconcia, arreso al fatto che nessuno sembrava voler dar credito al suo essere stato vittima indifesa e a rischio della vita. Kumals si era messo ai fornelli di cucina per fare da mangiare, mentre Danny e Uther lo fissavano.

«C’è qualcosa da bere?» chiese Uther.

«Mi domandavo quando lo avresti chiesto.» commentò di spalle Kumals.

«Solo birra.» disse Danny, alzandosi e andando ad aprire uno sportello della cucina, mettendo allo scoperto una cassa di bottiglie di birra. Ne prese due e tornò al tavolo, passandone una a Uther. Questi la guardò per un po’ e poi gli si illuminò lo sguardo.

«Ah, dimenticavo…» disse.

Si alzò, andò a frugare nella sacca da viaggio che aveva abbandonato in un angolo insieme al fucile, e, sotto lo sguardo curioso di Danny e Kumals, tornò al tavolo reggendo una bottiglia di grappa.

Kumals la guardò per un po’, mentre Uther la apriva contento e Danny procurava tre bicchieri.

«Dove l’hai trovata? Ha persino l’etichetta… non l’avrai comprata…?» chiese incredulo Kumals.

Uther aspettò di mandare giù un sorso e di gustarne il sapore con aria critica, prima di voltarsi a rispondere. «Beh, non c’era nessuno in giro in città… nemmeno per i negozi.» spiegò.

Kumals espresse un verso ironico, mentre Danny ridacchiava.

«Già. Non ci avevo ancora pensato.» disse Kumals «A proposito, che ci fai da queste parti?»

«Stavo andando a trovare Yuta e Zoal su alla casa, ma passando di qua ho notato questa situazione e ho pensato di fermarmi a vedere cosa succedeva.»

Danny, che stava porgendo un bicchiere mezzo pieno a Kumals, si voltò stupito «Yuta e Zoal? Ma perché, abitano qua vicino?»

«Non lo sapevi?» si sorprese Uther «Sì, casa loro è sulle colline, a un’ora e qualcosa di auto da qui.»

«No, non lo sapevo!» confermò Danny incredulo.

«Perché questo non mi stupisce…?» commentò Kumals.

«Qualcuno poteva anche dirmelo!» continuò Danny.

«Dirti cosa?»

I tre si voltarono a guardare Justin, che indossava una maglia e dei pantaloni puliti, e li guardava dalla soglia della cucina.

«Pensavo fossi andato a dormire.» disse Danny

«Sì ma… sto morendo di fame.» borbottò Justin, entrando e sedendosi anche lui al tavolo. «Hey, che cos’è?» chiese subito dopo, accennando alla bottiglia.

«Grappa.» rispose Danny.

«Posso assaggiare?» domandò retoricamente Justin, come se la risposta non lo interessasse poi tanto.

Danny si alzò svogliatamente e gli portò un bicchiere davanti, versandogli poi una moderata quantità nel bicchiere. Mentre Justin guardava sospettosamente il contenuto del bicchiere e lo annusava e lo rigirava, Danny distolse lo sguardo per rivolgerlo di nuovo a Uther.

«E come ci hai trovato?» gli domandò, curioso.

«Beh… stavo andando in giro per i fatti miei, quando ho sentito qualcuno che strillava come una gallina che sta per essere spennata.»

Justin, che aveva assaggiato un sorso, prese a tossire pesantemente. Dopo avergli rivolto un breve sguardo infastidito, Danny disse solo «Già.»

«Allora mi sono avvicinato…» continuò Uther «e ho visto un cretino appeso alla mano di un colosso. Poi ho visto voialtri, che vi buttavate in mezzo, e quell’altro tizio che stava a guardare senza sapere che pesci pigliare.»

«Io… non… sono… un… cretino…» balbettò Justin, ancora scosso dalla tosse per l’alcool.

Danny e Kumals avevano abbassato lo sguardo, rivivendo la scena dal punto di vista di chi aveva assistito alla loro disastrosa azione con aria un po’ vergognosa.

«E ho pensato di fare uno spettacolo pirotecnico. Ecco qua. Fine della storia.» terminò Uther, prendendo un'altra sorsata di grappa.

«Anche i fuochi provengono dai… negozi locali.» osservò Kumals, senza proprio domandarlo.

«Sì.»

«Io non strillavo come una gallina.» protestò ancora Justin, allontandosi il bicchiere e trattenendo a stento altri colpi di tosse.

Danny prese il suo bicchiere e ne travasò il contenuto nel proprio senza battere ciglio.

Uther sorrise appena.

*

***

*

Danny finì di lavare l’ultimo piatto e lo ripose a scolare l’acqua con gli altri. Si asciugò le mani in un vecchio strofinaccio e si voltò a guardare la cucina deserta.

Raggiunse la soglia e spiò fuori, finchè non intravide nell’oscurità la sagoma famigliare di Uther, in piedi con una bottiglia di birra aperta in mano, che guardava qualcosa nell’ingresso posteriore. Danny lo raggiunse e gli si affiancò. Uther, reduce da un giretto d’esplorazione della casa, chiese senza voltarsi «Cosa c’è lì?» e indicò la cassa da morto inchiodata e incatenata con una spessa catena di ferro.

«Un cadavere.»

«Ah.»

«E’ il signor Benton.»

«Mhm… ah, davvero?» chiese Uther, lievemente sorpreso. «E com’è morto?»

«E’ una storia piuttosto lunga… e forse sarebbe meglio che te la raccontasse Kumals.» rispose dubbioso Danny, ripensando con preoccupazione ai recenti eventi.

«Ah…» disse solo Uther. Prese un sorso di birra. «Ma… » disse ancora, con un sorrisetto «Avevate paura che scappasse?»

«Lascia perdere…» commentò con scarso entusiasmo Danny. «Piuttosto… dove ti metto a dormire?»

«Beh… non sono così sbronzo da non riuscire a mettermi a letto.» obbiettò piuttosto divertito Uther.

«Ah, intendevo… » mormorò Danny, imbarazzato «Volevo dire in quale camera puoi dormire… ce ne sono tante, ma sono in condizioni spaventose… cioè, in modo assolutamente non interessante.»

«Credo andrò sul divano.»

«Il divano?»

«Ce ne sono ben due in quella specie di sala, no?»

«Ah, sì. Ma su ci sono anche dei letti…»

«Andrà bene, grazie. Ah, un’altra cosa…»

«Sì?»

«Qui state sempre con la porta aperta?»

«Sì…»

«Per stasera, vista la situazione, forse sarebbe meglio chiuderla.»

«Ah, già. L’aveva detto anche Kumals. Ma qui non abbiamo chiavi o cose come serrature funzionanti.»

«Humm… ci sono assi di legno e chiodi?»

«Vuoi inchiodarle?!»

«Bhe, se non c’è altra soluzione… » disse Uther, con un’alzata di spalle.

«Va bene… vado a prendere tutto.» acconsentì un po’ esitante Danny, e andò al piano di sopra.

Uther si guardò intorno ancora un po’, attentamente. «Che posto…» mormorò piano tra sé e sé. Sorrise e mandò giù un altro sorso di birra.

Quando Danny terminò di radunare vicino alla porta principale assi e chiodi raccolti in giro per la casa, i due presero a lavorare con calma, inchiodando asse dopo asse.

Dopo diversi minuti che lavoravano in silenzio, eccetto per il forte rumore delle martellata che scuotevano il silenzio della casa naturalmente, Uther disse distrattamente «C’è un cimitero, qui accanto.»

«Sì.» confermò Danny «E’ un vecchio cimitero abbandonato. Una volta li seppellivano qui, sulla collina.»

«Dormono, dormono sulla collina… *» canticchiò Uther.

«Già…» sorrise Danny «Qualcosa del genere.»

«Potremmo seppellire qui il signor Benton, no? Cioè, quando saremo sicuri che non possa scappare dalla bara.» osservò, con chiara ironia.

«Va bene, allora, ora ti dico…» sospirò Danny, e mentre lavoravano iniziò a raccontare cos’era accaduto a Kumals e Benton, mentre Uther, che ascoltava attentamente, si faceva sempre più serio e pensieroso, mano a mano che la storia proseguiva.

 

 

 

 

 

Note:

* ‘Dormono sulla collina’ è il titolo di una canzone di De André, il cui tema è stato tratto a sua volta da Spoon River Anthology’ (Antologia di Spoon River), raccolta di poesie del poeta americano Edgar Lee Masters, tradotta per la prima volta in Italia nel 1941 da Fernanda Pivano.

** io lo sentivo dire, soprattutto tempo fa, il modo di sedersi “all’indiano” (nel senso di nativo americano), cioè, semplicemente, a gambe incrociate per terra. Tutto questo perché dovevo evitare una ripetizione…

 

a Lucretia: vedo ora la seconda recensione, grazie mille intanto :) Hai uno sguardo acuto nel leggere... per un momento ho avuto l'impressione che li capissi meglio te di me i personaggi (cosa che non è da escludersi). Comunque sì, Justin e il Conte sono un po' delle 'palle al piede' come personaggi, ma qualcosa di buono ogni tanto sanno tirarlo fuori... credo, forse. In quanto a Danny e Kumals, in effetti sono e restano un po' chiusi. Bisognerà faticare prima di avere l'impressione di conoscerli un po' meglio... Per non parlare di chi salterà fuori poi... Ecco un altro capitolo, visto che sono fino al collo in una follia scribacchiante che mi fa procedere a ritmo di due o 3 capitoli al giorno, ultimamente... di norma ho ritmi più "umani". Ma intanto, da qui al capitolo oltre il 22 o giù di lì li ho già in saccoccia. N.B.: l'immagine che uso di stacco devo ancora capire come riuscire a farla comparire. Di solito ci salto fuori abbastanza bene anche con l'html, ma qui non sono abituato ancora a gestirmi bene. Per ora mi accontento di esser riuscito a mettere l'immagine della copertina-traduzione...

Ritorna all'indice


Capitolo 8
*** 06 - RAMO ***


Capitolo 6

(Ramo)

 

Danny si sentì chiamare con insistenza e scuotere per una spalla e si svegliò di soprassalto, trovandosi a fissare Kumals, chinato su di lui con un martello in mano.

«Ehu!» gridò Danny, allarmato, saltando da sdraiato più lontano da Kumals, e finendo a sbattere contro il muro contro il quale era sistemato il suo letto.

Kumals aggrottò la fronte. «Che razza di modo di svegliarsi…» poi notò lo sguardo di Danny, e guardò il martello che reggeva. «Ah, no. Non ho intenzione di spaccarti il cranio a martellate, per il momento…» spiegò, con calma. «Questo è per te.» e gli allungò il martello.

Danny lo prese con riluttanza, alzandosi a sedere e guardando Kumals, confuso.

«E cosa ci dovrei fare?» chiese, con un broncio sospettoso.

«Beh, vedi, qualche genio del male ha passato la notte a fare ristrutturazioni, tenendomi sveglio peraltro, e inchiodando praticamente ogni via di ingresso e uscita. Adesso dobbiamo aprire qualcosa da cui possiamo far entrare Ramo.»

«Co… cosa? Ramo?? Che cosa… è qui??»

«Sì, sì. Ha chiamato per chiedere se avevamo visto Uther, visto che anche lui è andato a trovare Yuta e Zoal, e loro gli hanno detto che Uther non si era ancora visto. Allora si sono preoccupati e hanno chiamato il tuo numero, visto che Ramo ce l’aveva. Quando hanno saputo la situazione, Ramo ha pensato di venire a dare un occhio personalmente ed è arrivato qui. Ma qualcuno, come ti dicevo, ha inchiodato tutto…» Kumals lasciò in sospeso, lanciandogli occhiate molto significative.

«Ma era per non far entrare qualche cosa… qualcuno… insomma, qualcheduna di quelle persone che si aggirano come mortadelle impazzite in città, o i centauri che hai visto tu! L’avevi detto anche tu che bisognava chiudere!»

«Io mi illudevo che fosse scontato che dovevate chiudere usando cose meno drastiche, come chiavi, serrature, imposte…»

«Ma le serrature sono rotte, quando ci sono. Le chiavi non sappiamo dove siano, e se esistono. Le persiane sono tutte marce…» iniziò ad elencare Danny.

«Va bene, va bene.» lo interruppe Kumals, alzando le mani in segno di resa. «Le spiegazioni a dopo, ora andiamo ad aprire a Ramo per favore. Ha già cercato di arrampicarsi e gli è rimasto un pezzo di cornicione in mano.»

«Eh?! Si è fatto male?»

«Era a malapena ad un metro da terra…» disse Kumals, guardandolo scetticamente.

«Ah… beh, meno male…» si rilassò Danny. «Ok, arrivo…» e appoggiò il martello, scostando poi le coperte per alzarsi.

«Spero ci sia una doccia in questa casa…» disse Kumals, mentre usciva dalla stanza per tornare al piano di sotto. «Hai l’aroma di uno scaricatore di porto.»

«Ieri siamo stati al porto. C’eri anche tu.» precisò Danny.

«Ma tu puzzi anche di birra e di grappa.» aggiunse Kumals attraverso il corridoio; aveva già raggiunto le scale.

Danny si vestì in fretta e scese anche lui. Un buon odore di caffè caldo saliva lungo le scale, dandogli un bel buongiorno, insieme alla voce di Uther, alquanto scocciata, che diceva a Justin «Senti, per favore, lascia perdere.»

Danny vide Justin che cercava di staccare un’asse dalla porta dell’ingresso principale, tirando con tutte le sue forze con le dita, ma smise con riluttanza udendo il tono di Uther, e poi si voltò verso Danny. «Ah, ecco dov’era il martello.»

Danny comprese immediatamente perché Kumals glielo aveva portato. Non era solo per dargli un adeguato risveglio, ma anche per sottrarlo alle mani di Justin.

«Sì…» disse a Justin, mentre Uther si voltava a guardarlo con un velo di irritata esasperazione che gli oscurava il volto; probabilmente anche lui era reduce da un brusco risveglio. «Ma ci penso io… Dov’è Kumals?» chiese.

«In cucina.» informò Justin, lieto di mostrarsi utile.

«Perché non vai a dare una mano a lui… ? Dopotutto abbiamo un solo martello. E Kumals è un’ospite, non è il massimo fare cucinare sempre solo lui.» propose Danny.

«Ah, giusto, sì.» e Justin andò in cucina.

Affiancandoglisi per aiutare con lo schiodamento delle assi, Danny notò un sorrisetto sulle labbra di Uther.

«Questo è veramente un colpo basso per Kumals…» mormorò Uther, divertito.

«Credevo stessi per crocifiggerlo.» ribatté Danny, riferendosi indubbiamente a Justin.

«Era una delle idee…» ammise Uther, con una lieve alzata di spalle.

Da fuori si udì il rumore di qualcosa che scivolava lungo una parete, probabilmente staccandone anche un po’ di vernice sgretolata.

«Tutto bene Ramo?» urlò Danny.

«Ah, ciao Danny! Sì, tutto ok.» disse una voce contenta da fuori.

«Tra poco ci siamo.» annunciò Danny, togliendo un altro chiodo.

«Quindi puoi smetterla di tentare la scalata!» aggiunse Uther, sogghignando largamente.

«E’ un altro vostro amico?» chiese Justin alle loro spalle.

Uther lo ignorò, Danny si voltò appena a guardarlo.

«Non stavi aiutando Kumals…

«Ha detto che lui ormai ha finito. Dice che avrete certamente più bisogno voi.»

Uther schiodò una parte di asse con un solo grosso strattone nervoso, facendo sussultare un po’ Danny.

«Uao, forte!» esclamò entusiasta Justin, come se avesse appena assistito ad un gioco di prestigio.

Uther lanciò uno sguardo significativo a Danny, il quale però non ebbe l’ardire di guardarlo direttamente.

«Ahm… Justin, mi faresti un favore?»

«Cioè?»

«Ho lasciato…. Er… le sigarette su in camera. Potresti andarmele a prendere?» domandò Danny.

«Ok, dove sono?»

«Non ricordo bene… prova a guardare un po’ in giro…»

«Vabbhé. Torno subito.» salutò Justin, e salì quasi correndo le scale.

«Guarda che non funzionerà a lungo…» notò Uther, cupamente.

«Nh… » mugugnò Danny distrattamente, mentre finiva di togliere un chiodo e toglieva un’altra asse facendo leva con un piede appoggiato contro la porta.

Kumals si fece sulla soglia della cucina, con in mano una tazza di caffè fumante, e rimase ad osservare per un po’ il loro affaccendarsi, sorseggiando il caffè. Dopo un poco chiese a Danny «Hai una sigaretta?»

Danny tirò fuori il pacchetto con il tabacco e le cartine dalla tasca dei jeans e glieli lanciò. Uther prese a sbuffare ridacchiando.

«Che c’è?» chiese Kumals.

«Niente…» disse Danny, sorridendo divertito.

«Mhm.» mugugnò Kumals, arrotolandosi una sigaretta «E Justin dov’è finito?»

Uther riprese a ridere nel suo modo di sommessi sbuffi trattenuti.

*

***

*

Quando finalmente riuscirono a togliere l’ultima asse e ad aprire la porta, sull’ingresso apparve un ragazzo sui venticinque anni, molto alto e dalle spalle larghe e le braccia piuttosto muscolose, con i corti capelli neri spettinati, un viso giovanile e sincero dalla pelle scurita dal sole in cui spiccavano due occhi nerissimi, trasparenti ai sentimenti, ed un sorriso amichevole insieme al quale, nella luce scialba del mattino invernale, rilucevano debolmente diversi piercings: uno al sopracciglio, uno al labbro inferiore ed alcuni alle orecchie. Vestito sobriamente con una maglia, pantaloni e un giaccone neri, con le mani in tasca e un’aria vagamente imbarazzata, guardò quasi stupito gli altri, tre che gli apparvero all’improvviso quando la porta fu aperta.

Il suo sorriso si accentuò visibilmente.

«Ciao Ramo.» lo salutò Kumals, mentre egli scambiava saluti e pacche sulla schiena con Danny e Uther, e poi lo guardava.

«Kumals.» disse il nuovo arrivato, con uno scherzoso accenno di formalità, prima che si stringessero le mani e si scambiassero un rapido abbraccio.

«Cavoli, ci siete proprio tutti!» esclamò ridendo contento Ramo.

«Eh sì, mancavi solo tu!» gli rispose calorosamente Danny «Che fine avevi fatto?»

«Sempre a far finta di lavorare, eh?» ironizzò Kumals, amichevolmente.

«Senti chi parla, l’ispettore Clusoe!» rise Ramo.

«Ah, detto dal veterinario della mutua…» ribatté Kumals.

«E la sua mazza.» aggiunse Uther, occhieggiando la massiccia mazza di legno grezzo, che una volta doveva essere stata una mazza da baseball, che Ramo si portava appresso.

«Ah, beh, avete detto che da queste parti la situazione è… hum… sospetta…» spiegò Ramo, vagamente imbarazzato, cercando di spiegare perché se ne andava in giro armato in quel singolare modo.

«Hai la macchina!» notò Danny, spiando alle sue spalle una vecchia macchina malconcia, di medie dimensioni, con la vernice blu intaccata da diverse chiazze di fango secco, parcheggiata davanti alla casa.

«Eh sì. Credevi che fossi venuto a piedi?» chiese Ramo, piacevolmente divertito.

«Si vede che è tanto tempo che non ci vediamo…» scherzò Kumals, sardonico «Lui è Danny, ricordi?»

Danny assestò un pugno volutamente debole alla spalla di Kumals.

«Dai, vieni dentro, c’è del caffè.» invitò Kumals, ed entrarono in casa; ma si fermarono, notando Justin ai piedi delle scale, che fissava Ramo con curiosità.

«Ciao.» disse.

«Hem, ciao.» rispose Ramo, con cordiale perplessità.

«Lui è Justin.» lo presentò Danny, svogliatamente.

«Ramo.» si presentò lui, andando incontro a Justin e stringendogli la mano con aperta amichevolezza. Poi guardò le grosse assi di legno appena schiodate, appoggiate alla rinfusa per terra nell’ingresso. «Mamma mia… ma la situazione è così grave?»

«Lo è ogni volta che questi due si trovano nello stesso posto…» commentò Kumals, accennando a Danny e Uther.

«Sì, va bene, poi me lo spieghi come altro avremmo dovuto fare…» ribatté seccato Uther.

«Oh, non fraintendermi… ma scusa se non posso ammirare il vostro lavoro, sarà la stanchezza, visto che ho passato buona parte della notte tenuto sveglio da martellate e risate da ubriachi.» osservò Kumals, piuttosto acidamente.

«Io ho bisogno di caffè.» intervenne Danny, andando in cucina, seguito subito da Ramo e poi dagli altri.

«Abiti qui davvero?» chiese Ramo guardandosi intorno, mentre Danny versava del caffè in un paio di tazze.

«Ci abito anch’io.» si intromise Justin.

«Solo voi due?» chiese Ramo, giusto per fare conversazione, ma tutto sommato piuttosto curioso.

«Eh no, ce n’è anche un altro.» disse Uther, con un tono inconfondibilmente sarcastico, che a Justin sfuggì completamente, ma non a Ramo, che gli lanciò uno sguardo di perplessa curiosità.

«Sì, ma lui di giorno dorme, e sta sveglio di notte.» aggiunse Kumals, anche lui in tono eloquente.

«Ah…» disse solo vagamente Ramo, un po’ in imbarazzo. «Allora, cos’è successo in città?»

«Be’, vediamo, c’è tutta la popolazione che sembra preda di uno stato allucinogeno o qualcosa del genere… Vanno in giro come un branco di manzi instupiditi dagli antibiotici e che sono stati ripetutamente colpiti alla testa, e all’occasione ti afferrano e ti si aggrappano addosso o si radunano a fissare muri di mattoni nel bel mezzo della notte giù al porto.» riassunse Kumals.

Ramo lo guardò, cercando di interpretare lo scherzo.

Ma Danny disse «Sì, è vero. Pressappoco.»

«Ah, già, e poi la sera di capodanno un branco di motociclisti che sembravano pesantemente fatti di anfetamine hanno devastato la festa di gala del signor Benton (te lo ricordi, vero?), e lui è morto, probabilmente un infarto, per shock. Abbiamo qui il suo cadavere, anche perché non abbiamo trovato nessuno in città ancora in possesso di qualche facoltà mentale che volesse venirselo a ritirare. Prima di morire il signor Benton mi aveva chiamato per un incarico, ma non ha fatto in tempo a spiegarmi di che si trattava, anche se mi ha raccontato una storia assurda riguardo un certo scienziato pazzo con un laboratorio segreto da qualche parte sulle colline che stava per iniziare a fare qualche esperimento da pazzoide per distruggere la razza umana. E questa è la cosa più inverosimile, visto che non capisco che bisogno ci sia di dare una mano, mi sembra che la razza umana stia già facendo un ottimo lavoro da sola per distruggersi.» terminò Kumals, e diede un tiro alla sigaretta in tutta calma.

Ramo lo fissava con un’espressione piuttosto incredula. Infine, si appoggiò pesantemente allo schienale della sedia e respirò profondamente. «Uho… beh, direi che ce n’è abbastanza…» commentò impressionato.

«E Yuta e Zoal come stanno? E Valentine e Tirch?» chiese Kumals, tranquillamente.

«Eh?» disse Ramo, ancora stordito dal racconto, ma si riprese abbastanza in fretta «Ah, bene… bene. Ci stanno aspettando su a casa loro… Zoal tornerà presto. Valentine è rimasta là con Tirch, così in macchina c’è abbastanza spazio per tutti, se ci stringiamo.»

«Come? Per andare dove?» si stupì Danny.

«Beh…» iniziò Kumals, alquanto esitante «Vista la situazione non mi sembra il caso di rimanere qui… ho pensato che potremmo andare da loro per un po’…»

«Ma qui c’è da fare qualcosa! Non possiamo lasciare tutta quella gente là che vaga stravolta!» lo interruppe animosamente Danny.

«Calma.» disse Kumals, alzando una mano. «Non  ho detto che ce ne strafeghiamo. Però adesso qui non possiamo fare niente, e anzi potremmo finire sotto tiro di quelle mandrie stupide… Invece credo che Yuta e Zoal potrebbero saperne qualcosa in più, che potrebbe aiutarci a capire cosa sta succedendo.»

«Sì.» intervenne Ramo «Yuta dice che Zoal, che era andata via per occuparsi di certi affari, sta tornando a casa perché ha sentito qualcosa… e pare che Zoal abbia sentito parlare di qualcosa del genere… qualcosa che potrebbe avere causato questa roba alle persone… Insomma, non sembra del tutto sorpresa di quello che sta succedendo.»

«Ma quindi tu lo sapevi già?»

«Be’, non esattamente… Ma l’altro giorno Uther ha chiamato Yuta da una cabina telefonica e le ha raccontato a grandi linee cosa aveva visto qui in città…» spiegò Ramo.

Danny guardò Uther, appoggiato all’indietro al lavandino e a braccia incrociate, il quale annuì in conferma.

«Ok, allora… forse… Non sarebbe meglio se qualcuno rimanesse qui a vedere cosa succede?» tentennò dubbiosamente Danny.

«Non credo sia molto prudente. Se per qualche motivo succede qualcosa alla linea telefonica, se non c’è più nessuno qui che se ne occupa, rimaniamo separati. Non siamo comunque in molti. Io credo sia meglio rimanere uniti.» disse Kumals.

«Sono d’accordo…» mormorò piano Uther, pensosamente.

«Hey! E io? E il Conte?» chiese Justin precipitosamente, con aria ansiosa.

Tutti lo guardarono per un momento in silenzio; si erano praticamente dimenticati della sua presenza.

«A dire il vero…» iniziò Danny, incerto «Chiaramente dovreste venire anche voi…»

«Hum… questo non piacerà affatto al Conte.» commentò Justin, dubbioso.

«Figurati a me…» mormorò Uther, così piano che solo il fine udito di Danny captò e comprese le parole.

Il ragazzo però si ricompose abbastanza in fretta da replicare, pur se con scarsa convinzione «Sono certo che il Conte sarà abbastanza ragionevole da capire che si tratta di cause di forza maggiore…»

«Sempre che tu riesca a convincerlo a non portarsi dietro le bare e tutta la biblioteca…» gli fece notare Kumals, lasciando intendere che quell’onerosità spettava tutta a Danny.

Questi sospirò. «Va bene… quando partiamo?»

«Il prima possibile, direi. La strada è ancora sgombra, ma se è come dite voi, potremmo trovarci da un momento all’altro un gruppo di quelle persone in mezzo alla carreggiata…» osservò acutamente Ramo.

Uther annuì in silenzio, con aria seria.

«Va bene…» ripeté Danny «Allora… penso che andrò a svegliare il Conte…» annunciò esitante. Ma rimase seduto.

Uther aprì lo sportello della cucina dove c’era la birra e gliene porse una bottiglia, che Danny prese con un pallido sorriso di gratitudine. Kumals scosse la testa, mentre Ramo chiedeva se ce n’era una anche per lui e afferrava al volo quella che gli lanciava Uther.

«Justin, perché non vai a fare le valigie?» disse Kumals, rivolgendo all’altro un tono punzecchiante.

«Ah, sì vero…» concordò Justin, apparentemente senza notare la provocazione, e uscì dalla cucina.

«Ma…» indagò dopo un po’ Ramo «Com’è che lo hai conosciuto?» accennando al posto lasciato vuoto da Justin.

«E’ venuto qui una sera a chiedere ospitalità al Conte. Era una sua vecchia conoscenza. Non so altro.» disse Danny con un alzata di spalle, prendendo una generosa sorsata di birra.

«Aspetta di vedere l’altro.» commentò Kumals.

«Dai, Kumals…» lo rimproverò pacatamente Ramo, con aria imbarazzata.

Danny si alzò in piedi con aria grave e si incamminò per uscire dalla cucina, ma sulla soglia esitò e si voltò a guardare gli altri tre con aria riflessiva.

«Ah, nella credenza ci dovrebbero essere delle fette biscottate, della marmellata… cose così… mangiate pure tutto quello che volete, anche perché visto che dobbiamo andare via tanto vale finire il più possibile quello che c’è.»

«Questo è parlare!» esclamò Uther, e con la nonchalance di chi è pratico del posto prese ad aprire cassetti e sportelli, uno alla volta, indagando il contenuto con calma e critica attenzione.

 

 

Note…

Presto il prossimo capitolo.

 

a Lucretia: secondo me le tue preoccupazioni riguardo alla qualità delle tue recensioni sono infondate. Perlomeno, secondo me recensisci molto bene. Oltre al fatto che permane la sensazione che tu abbia un occhio più acuto del mio nei confronti dei personaggi... Alcune cose, come la ridondanza del Conte o il puntuale 'essere fuori luogo' di Justin, sono volute, nel rispecchiare le persone reali che li hanno ispirati, ma calcando un po’ su certi tratti, lo ammetto.

Uther prende non a caso ispirazione da un amico che, evidentemente anche nel tramite cartaceo di un personaggio che in parte gli somiglia, mantiene una certa capacità di sedurre a colpo d'occhio. Non che il suo fascino possa trarre in inganno chi lo conosce bene... ma rimane il fatto che è un fascino del tutto privo di calcolo! O, se c'è una tecnica, la nasconde molto bene ;)

In quanto a Danny... io non gli avrei attribuito tutta questa debolezza, inizialmente, ma è anche vero che rispetto a tutti gli altri suoi colleghi ha qualcosa di diverso, che si paleserà più avanti, che gli ha fatto vivere esperienze diverse... e vabbhé, si vedrà poi.

Nell'immediata continuazione di questa storia, come hai visto, l'arrivare di nuovi personaggi potrebbe rimandare per un altro pochino lo svelarsi di quale genere di collaborazione abbia in passato reso colleghi alcuni dei personaggi, ma verrà fuori, e anche molto molto presto... ;)

Riguardo al... [cit.]'credo che in quasi tutti i personaggi si possa vedere un aspetto di quello che si è, o di quello che si cerca, che qualche volta coincide con qualcosa che l'autore aveva scritto a livello forse inconscio...'[cit.], sono fondamentalmente molto d'accordo, o almeno lo ritengo parecchio verosimile; nel caso di questa storia, comunque, quasi tutti i personaggi mi sono stati ispirati da persone che conosco, e quindi per me non hanno palesemente questo significato, semmai un continuo rimando d'affetto e, per alcuni, di solidale rispetto... o qualcosa del genere. E specialmente verso coloro che, per motivi assolutamente non dipendenti dalla nostra volontà anzi repressivamente contrari ad essa, al momento non posso vedere né sentire di persona... ma questa è un'altra storia (come amava dire M. Ende).

Sperando tu gradisca anche questo capitolo... alla prossima :)

n.b.: i miei ritmi 'disumani' vanno a periodo, ma quando ci sono ne approfitto pienamente!

 

Ritorna all'indice


Capitolo 9
*** 07 - QUATTRO PICCHE E UN FUNERALE ***


Capitolo 7

(Quattro picche e un funerale)

 

Danny si avvicinò esitante alla porta che dava accesso agli “appartamenti” del Conte.

A differenza di lui e Justin, infatti, il Conte occupava come suoi luoghi riservati tre stanze, praticamente come un piccolo appartamento, che aveva avuto cura di allestire nei sotterranei della casa, che per la verità non erano altro che un piano semi interrato.

Lì sotto, le stanze non erano originariamente molto rifinite o arredate, e si aprivano su un unico lungo corridoio, che il Conte aveva fatto pavimentare con lucide mattonelle nere e ricoprire da un lungo, regale tappeto color viola e blu cupo, con alcuni elaborati arabeschi argentei. Non che, nel buio che regnava solitamente lì sotto, si potessero ammirare visivamente bene le modifiche del Conte.

Lungo le pareti del corridoio, che erano state a intervalli regolari, c’erano dei piccoli candelieri a due corte piccole braccia, tutti provvisti di candele nuove e pressoché inutilizzate. Infatti il Conte si muoveva sempre al buio, e quindi non le accendeva mai, ma sosteneva che sarebbero state utili in caso di ospiti. Ad ogni buon conto, quando a Danny capitava di scendere, il che avveniva raramente, si portava dietro una candela o, come in quel caso, una torcia elettrica.

Il peggio che poteva capitare era di inciampare in qualche topo, che occasionalmente si rifugiava lì sotto, occupando tutte le altre stanze non occupate dal Conte. Queste avevano l’aspetto di essere state ex-cantine e magazzini e dispense, ma ciò che non avevano rosicchiato o fatto cadere per terra e rotto i topi e qualche eventuale altro animale, aveva di sicuro ormai superato da un bel pezzo la data di scadenza.

Per evitare che i topi rosicchiassero il tappeto del corridoio, e forse anche per evitare di consumarlo nel camminarci direttamente sopra, il Conte aveva pensato bene di farlo ricoprire da una lastra di vetro trasparente, che non era particolarmente scivolosa solo perché in quell’ambiente si era già insudiciata abbastanza da diventare appicicaticcia.

Danny guardò ancora per un po’ la massiccia porta degli appartamenti del Conte, un grosso pannello  in legno con una fantasia squadrata e severa di figure geometriche intagliate, e una prolissa e arabescata scritta in latino che Danny non si era mai preoccupato di tradurre oltre il ‘qui riposa…’.

Fissò la maniglia dorata, ma non la toccò. Sapeva che quella porta era sempre meticolosamente chiusa a chiave. Era l’unica serratura funzionante in tutta la casa.

Invece allungò una mano a una cordicella attaccata a un minuto ed elegante meccanismo a rotella. La corda spariva attraverso un’apposita piccola fessura semicircolare nella parte superiore della porta, e in fondo ad essa, lì all’esterno, era appeso un ciondolo dorato a forma di goccia, con un collo costituito da una fascetta di pietra color rosso rubino cupo.

Danny tirò piano la cordicella, avendo cura di evitare di toccare direttamente il luccichio sinistramente intonso del ciondolo, e dall’interno degli appartamenti udì provenire in contemporanea un lieve scampanellio.

Attese. Non avvenne nulla per diversi minuti.

Danny tirò di nuovo la cordicella, lasciandola subito andare come se si fosse scottato. Stavolta, dopo qualche secondo, un piccolo campanellino attaccato subito dietro la porta davanti alla quale si trovava scampanellò brevemente in risposta, segno che il Conte lo aveva sentito e sarebbe arrivato ad aprire di lì a poco.

Danny si dispose ad aspettare, conoscendo gli elaborati preparativi che il Conte doveva compiere prima di presentarsi alla porta, primo fra tutti aprire il pesante coperchio e uscire dalla grossa bara nera e lucida in cui era solito dormire, allungato un po’ rigidamente sul materasso di cuscini di raso bordò scuro. Danny aveva appurato tutto ciò l’unica volta che il Conte, in un gesto di confidenziale amicizia, gli aveva mostrato la sua stanza, orgoglioso dell’arredamento e dei particolari squisitamente eleganti e ricercati, tutti dello stesso preciso stile gotico-vampiresco, che egli apprezzava con un’aria consumata e un po’ teatrale da grande e raffinato intenditore del genere.

Anche se non c’era nulla di propriamente kitsch, di certo diverse cose ci andavano molto, molto vicino, secondo Danny.

Finalmente il suo udito captò dei rumori leggerissimi, niente più che un delicato fruscio, nella stanza subito oltre la porta presso la quale aspettava, che era l’anticamera del Conte.

Il Conte stesso aprì la serratura, un paio di giri completi, e schiuse la porta con calma, guardando poi Danny con un’attenzione velata appena da un certo risentito stupore per essere stato disturbato.

«Danny.» constatò tuttavia in tono abbastanza amabile. «E’ forse accaduto qualcosa di grave?»

«Beh, non proprio, non ancora cioè…» esitò il ragazzo imbarazzato, portandosi una mano alla nuca e scompigliandosi i capelli sul collo senza motivo apparente.«Per la verità sarebbe una cosa, hem, un po’ difficile da spiegare così su due piedi…»

«Capisco.» disse cortesemente il Conte «Prego, entra pure.» e si scostò per lasciarlo entrare nell’anticamera, una stanzetta piccola dalla forma di esagono irregolare, sulla quale davano altre due porte chiuse: una, adornata di velluto rosso scuro, conduceva alla camera del Conte, l’altra, adornata di velluto color ocra scuro, al suo bagno personale, che Danny non aveva mai visto.

Aveva la sensazione che il Conte si vergognasse di cose come l’espletamento delle basilari funzioni corporali umane, cosa della quale a Danny sfuggiva completamente la comprensione, ma che trovava tutto sommato in armonia col personaggio che il Conte rappresentava.

Nell’anticamera il pavimento era tutto coperto da una morbida moquette verde cupo e le pareti erano quasi interamente occupate da quadri di qualche personalità storica famosa, tra cui spiccava quello grande e maestoso del conte Vlad III di Valacchia, l’unico di cui Danny ricordasse il nome e le macabre “imprese”, nonostante il Conte avesse passato qualche ora parlandogli di ognuno dei singoli quadri durante la sua unica precedente visita ai suoi ‘appartamenti’, come egli amava definirli.

Il Conte vestiva con le sue vesti da camera, e cioè una lunga e ampia vestaglia che differiva dal suo mantello usuale principalmente per il colore, non nero ma di un blu molto cupo che ci rassomigliava, e che uguagliava il mantello per la fattura generosa in stoffa, che la rendeva forse paragonabile alla vela di un vascello. Nonostante ciò, il Conte, così come con il suo mantello, riusciva a padroneggiarla e indossarla con grande ordine ed eleganza, come se fosse un prolungamento naturale del suo corpo; così come nessuno si aspetterebbe insomma di vedere un uccello che inciampa nella sua stessa coda, nemmeno se si tratta di un pavone maschio.

Veleggiando con la sua abituale grazia silenziosa, si sedette al piccolo tavolinetto accostato al lato di muro frapposto tra le due porte, fornito di due sedie, e invitò Danny a sedere sull’altra. Il ragazzo si accomodò, appoggiandosi con gomiti e mani sul tavolo e facendo attenzione a non urtare il prezioso centro-tavola: una sorta di basso vaso in qualche materiale metallico che riluceva come bronzo dorato, decorato da una serie di pietruzze di vari colori, il tutto appoggiato su un panno di stoffa ricamata dall’aria ugualmente antica, o se non altro lasciato ad impolverarsi ad arte.

«Perdonami la sollecitudine, Danny, ma come sai per me il riposo è molto importante, e particolarmente nelle ore diurne. Sono ciononostante più che certo che, se tu hai sentito la necessità di venire a colloquiare con me in un’ora come questa, ci devono essere importanti questioni, a proposito delle quali il tuo buonsenso suggerisce sia urgente farne parola col sottoscritto al più presto.» esordì il Conte.

Per Danny era l’equivalente di un fenomeno paranormale come una persona appena svegliatasi in quella che per lui coincideva con il bel mezzo della notte fosse in grado di mostrarsi così equilibrata nei movimenti e abbastanza lucida da pronunciare frasi tanto lunghe ed elaborate, senza sbagliare nemmeno la pronuncia di una sillaba o il tono. Ma si concentrò rapidamente di nuovo su quello che doveva dire. E non gli parve più facile di prima, anzi.

Tuttavia, lentamente e con cautela, cercò di spiegare al Conte come lui e gli altri fossero giunti alla conclusione che era meglio lasciare temporaneamente la casa per riparare presso l’abitazione delle loro amiche, aggiungendo il racconto del recente arrivo di Ramo con una macchina utile allo scopo. Man mano che parlava si rendeva conto sempre di più, con suo crescente nervosismo, come il viso del Conte diventasse via via sempre più impassibile; il che significava che quello che stava udendo non lo trovava affatto d’accordo.

Alla fine, quando la voce di Danny, che ormai arrancava nelle ripetizioni scoordinate o nella vaghezza più totale, si spense lentamente, il Conte si schiarì la voce.

«Comprendo perfettamente la logica delle vostre considerazioni, e non posso che condividerle pienamente. Tanto più che la conoscenza del vostro valore nelle situazioni di simile calibro quale questa che si sta verificando in queste vicinanze, mi fa ritenere di poter riporre in voi completa fiducia. Perciò sono d’accordo sul fatto che voi agiate nel modo che ritenete più opportuno. Avete senz’altro tutta la mia approvazione. Ti ringrazio enormemente per non aver trascurato di preoccuparti della mia incolumità. Tuttavia, Danny, io rimarrò qui.» terminò, con la placida decisione di chi annuncia un fatto ineluttabile.

*

***

*

Uther rientrò nella casa, lasciando Ramo e Kumals a parlare di fianco all’auto e Justin che li guardava con aria annoiata.

Andò in cucina, aprì lo sportello e, afferratala saldamente con entrambe le mani, trasse fuori la cassa quasi piena di bottiglie di birra. La portò fino all’ingresso, ma qui qualcosa lo distrasse.

Danny, appena risalito dalle scale che scendevano dall’ingresso posteriore della casa e che portavano al piano seminterrato, veniva verso di lui con lo sguardo al pavimento e l’aria afflitta.

Uther appoggiò la cassa sul pavimento e Danny notò la sua presenza.

«Dunque?» chiese Uther, interessato.

«Mhm?» Danny lo guardò distrattamente.

«Viene anche l’altro?»

«Sì… sta arrivando.»

«Ah.» si stupì Uther «Dopotutto ci sei riuscito.»

«Sì.» ammise Danny con aria scontenta «Ma ho dovuto promettergli che si potrà portare dietro il minimo necessario.»

«Ovvero?» chiese severamente Kumals, che si era fatto sulla soglia e aveva appena finito di lanciare significativi sguardi di ironico rimprovero alla cassa di birra e a Uther.

«Beh… un paio di libri fondamentali…» iniziò Danny, e vide l’espressione di Kumals rabbuiarsi. «Hey, ha accettato di lasciare qui le casse da morto e gli arredamenti, e anche le candele e le sue videocassette… e diverse altre cose. È stata una lunga trattativa. Non guardarmi così!» protestò vivacemente Danny.

«Ah, fosse per me…» ribatté Kumals, non in tono comprensivo ma disinteressato «Ma, a meno che qualcuno non ci segua a piedi, sulla macchina non ci sta molta roba oltre a noi, per non dire quasi niente. E con questo mi riferisco anche a te.» specificò, guardando Uther e la cassa di birra.

«Ma questa è per il viaggio.» provò l’altro in rimando, con un ironico sorrisetto candido.

«Cinque bottiglie.» sentenziò Kumals, guardandolo deciso.

«Ma non siamo in sei?» chiese Uther, sempre con ironico candore.

«Il Conte non beve birra. Beh, veramente si nutre solo di sangue.» spiegò Danny.

Kumals e Uther smisero di rivaleggiarsi con lo sguardo e si voltarono a fissare Danny, straniti.

«Sangue di manzo, o di cavallo, o di gallinacei… lo prende dal macellaio. Cioè, ci manda Justin.» aggiunse in fretta Danny.

Uther tornò a guardare Kumals con serietà. «Prendiamone sei lo stesso. Una si potrebbe rompere.»

«Sì, e ho anche idea di come.» ribatté Kumals, con aria piuttosto ironicamente minacciosa.

«Allora, siamo pronti?» li interruppe Ramo, affacciandosi sulla porta, con Justin alle spalle.

«Quasi.» disse Uther.

Ramo fissò la cassa di birra e sorrise complicemente.

«Che ha detto il Conte?» chiese Justin a Danny.

«Viene anche lui.»

«Ah, davvero?» si stupì genuinamente Justin.

Danny udì Uther mormorare qualcosa all’orecchio di Ramo che poteva suonare come «Se lasciamo giù lui ci sta tutta la cassa di birra, vero?» mentre accennava con un vago cenno della testa a Justin.

Ma poi Danny fu distratto da qualcos’altro.

Un lieve spostamento d’aria alle sue spalle e gli occhi di tutti che si erano concentrati dietro di lui gli segnalarono l’arrivo del Conte.

Tutti lo guardarono silenziosi, ed egli, con un’aria che aveva un che di signorile sofferenza romantica, li fissò a sua volta con fare semi-tragico, degno di qualche dramma epico da romanzo ottocentesco. Aveva con sé una piccola valigia nera, che appoggiò a terra, chinandosi impercettibilmente.

«Vado a prendere l’essenziale dei miei documenti. Poi, per quanto mi riguarda, possiamo partire.» disse in tono molto grave, ma a testa orgogliosamente alta, come in spregio della sofferenza che lo attanagliava.

«Le garantisco che niente di quello che rimarrà qui sarà esposto a qualche pericolo… Danny e Uther hanno inchiodato tutto l’inchiodabile, e riguardo alla porta principale la sigilleremo dall’esterno.» disse Kumals.

«Anzi, inchioderemo anche l’ingresso del seminterrato.» aggiunse Danny, premurosamente.

«Sì, mi pare un’idea eccellente.» concesse il Conte, senza entusiasmo «Dopotutto gran parte della mia collezione di oggetti rari si trova nei sotterranei.»

«Se non le dispiace verrò con lei ad aiutarla a prendere i documenti.» si offrì Kumals.

Danny comprese immediatamente che il suo scopo originale era quello di velocizzare la scelta del Conte e assicurarsi che non prendesse con sé più di quanto l’auto poteva contenere, ma i suoi modi erano così volenterosamente garbati che il Conte li apprezzò come se fosse una sincera offerta di aiuto, e annuì grato.

«La ringrazio, signor Kumals. Mi segua dunque. Sono molto felice che lei possa vedere la mia biblioteca prima che io debba lasciare questa casa…» e così dicendo fece strada a Kumals su per le scale.

«Così quello è il Conte?» chiese curioso Ramo, quando le loro voci furono abbastanza lontane su in alto.

«Sì. Se non fosse così sconvolto per la partenza e per il fatto che è giorno ti avrebbe notato e si sarebbe presentato subito…» lo scusò Danny.

Uther si stiracchiò, alzando le braccia sopra alla testa. «Allora, cos’è che dobbiamo inchiodare ancora?»

«Hem, a parte l’inchiodare la porta… ci sarebbe un altro particolare in sospeso…» disse Danny.

Uther, Ramo e Justin lo guardarono interrogativamente. Danny allungò un dito, indicando l’ingresso posteriore della casa, dove giaceva la grossa cassa da morto incatenata.

«Cos’è?» chiese incuriosito Ramo.

«Il signor Benton.» disse Uther, in tono stanco per l’ennesimo lavoro che si presentava da fare.

Ramo rimase di sasso per un momento. «Oh…» riuscì poi solo a dire, tristemente.

*

***

*

Il Conte, in piedi sull’ingresso posteriore e protetto dalla debole luce solare dal suo solito apparato di mantello, guanti, cappuccio e ampio ombrello nero, guardava con compassata compostezza il vecchio cimitero abbandonato che si stendeva accanto alla casa. Un luogo assai mesto e malinconico, oltre che molto melmoso.

In uno spazio di terreno vuoto oltre i limiti delle ultime tombe, adornate e appesantite da lapidi e grosse croci di pietra inclinate, rovinate dalle intemperie e in parte ricoperte di muschi e licheni, tre figure lavoravano con le pale per gettare le ultime manciate di terra sulla tomba fresca. Le altre due stavano a guardare in attesa, anche se, come si notava dallo stato dei loro abiti, avevano cessato da poco loro stesse di lavorare con le pale nella terra.

«Hey, Uther.» chiamò Kumals, tra una boccata di fumo e l’altra dalla sua sigaretta.

Uther si interruppe con la pala a mezz’aria e lo guardò.

«Non ti ricorda qualcosa?»

Imprecando a mezza voce, Uther riprese a lavorare, sotto le vaghe occhiate incuriosite di Ramo, Danny e Justin.

Quando anche l’ultima palata di terreno fu al suo posto sul piccolo cumulo di terra smossa, e i tre appoggiarono le pale guardando il loro lavoro, il Conte si mosse.

Scese i gradini dell’ingresso posteriore della casa e si avvicinò a loro lentamente, apparentemente riuscendo in quale modo ad evitare che il lungo orlo del suo mantello si infangasse, mentre slalomava con perizia data dall’abitudine tra le varie tombe antiche: una sagoma scura e immantellata, come se la morte in persona venisse a controllare che fosse stato fatto un adeguato lavoro.

Si fermò accanto agli altri. Scese un pesante silenzio.

«Dopotutto non era uno zombie.» osservò il Conte, con un certo rammarico.

«La ringrazio per essersi offerto volontario per l’elogio funebre… In effetti stavo proprio per chiederglielo, dal momento che lei mi sembra il più adatto a dire qualche buona parola.» disse Kumals, ignorando lo sguardo molto preoccupato di Danny, il quale cercava di fargli capire quanto fosse un errore affidare ad un logorroico un elogio funebre, soprattutto visto che nessuno di loro, lì, al momento, pareva particolarmente interessato ad inscenare un funerale.

Uther si guardava intorno furtivamente, cercando di capire quando sarebbe stato il momento migliore per sgusciare via.

«Mi auguro che qui nessuno creda nella vita dell’aldilà!» disse invece in tono fieramente antireligioso Ramo.

«Ne sarei felice…» iniziò a dire il Conte, rispondendo a Kumals «…ma devo declinare questo gravoso compito. Dopotutto il signore non era tra le mie conoscenze. Tutto quello che posso dire è che mi dispiace aver paventato che fosse uno zombie… senza nemmeno conoscerlo.»

«Oh, non credo che lui se ne sia avuto a male.» mormorò molto piano Uther.

Danny riuscì a trattenersi dal ridere in qualche modo, ma poi si accorse che Kumals lo stava guardando. «Hey, nemmeno io lo conoscevo!»

«Vabbe’, ma insomma basta dire le solite cose… che siamo tutti dispiaciuti che sia morto e cose così… no?» disse Justin, guardandosi intorno senza capire le tante complicazioni che si stavano facendo.

«Ecco fatto.» commentò Uther con infastidita ironia, e diede qualche colpo di pala per pianeggiare il terreno, con aria sbrigativa.

«Va bene, sentite, a parte gli scherzi…» disse Ramo «Se vogliamo dire qualcosa diciamola e via…»

«Amen.» disse ancora Uther, sempre ironicamente, beccandosi un’occhiata poco convinta da parte di Ramo.

«Tu sei esente dall’elogio Uther, grazie per il contributo comunque. Nessuno vorrebbe che tu facessi il suo elogio funebre.» notò Kumals, sarcastico.

«Questo sembrava un complimento…» scherzò Ramo.

«Sentite.» li richiamò Danny «Qui nessuno di noi riuscirebbe a rimanere serio abbastanza a lungo per fare un elogio come si deve, e nessuno di noi saprebbe da che parte cominciare… quindi almeno evitiamo di buffoneggiare sulla tomba di questo poveraccio.»

«Sono d’accordo.» disse Uther, il quale evidentemente avrebbe concordato con quasi qualsiasi cosa che prevedesse di andarsene e passare ad altro.

«Dopotutto, però, tu dovresti essere quello tra di noi che ha sentito più elogi funebri…» disse Kumals pensosamente, osservando Uther. L’altro lo guardò per un momento, nero di malumore, e infine si incamminò verso la casa, allontanandosi.

«Hem… io vado a caricare la macchina…» disse Ramo con un certo imbarazzo, e visto che nessuno ebbe niente da obbiettare anche lui si allontanò, dopo aver gettato una breve occhiate esitante alla tomba.

«Le auguro un buon riposo, signor Benton.» disse compostamente il Conte, e anche lui si allontanò.

Justin esitò un momento, fissando alternativamente la tomba e il Conte, quindi anche lui svicolò via.

Kumals e Danny rimasero accanto alla tomba in silenzio per un po’. Alla fine Danny guardò Kumals e chiese con aria mesta «Non ti viene in mente proprio niente da dire… ? Dopotutto lo conoscevi… beh, almeno un po’… Voglio dire, nessuno di noi crede nell’importanza di queste cose, ma forse lui ci credeva…»

«Se potesse sentirmi avrei parecchie cose da dirgli, e soprattutto da chiedergli, ma così…» commentò pungente Kumals, ma il tono ironico gli morì in gola, e ricadde il denso silenzio.

«Mi dispiace di non essere riuscito ad aiutarla Benton…» mormorò molto piano Kumals, infine.

Poi, muovendosi lentamente, mise un braccio attorno alle spalle di Danny, e con una lieve pressione se lo portò dietro mentre si allontanava, lasciandosi alle spalle il vecchio cimitero silenzioso e deserto.

*

***

*

Dopo lunghi e complessi lavori di mediazione e intricate manovre di incastro, Ramo riuscì a suddividere lo scarso spazio della macchina tra le cianfrusaglie di Justin, alcune bottiglie di birra, la sacca e il fucile di Uther, le poche cose che si portava dietro Kumals, qualche ricambio di vestiti e qualche altra essenzialità di Danny, e i libri e i documenti del Conte.

Alla fine riuscirono perfino a starci tutti loro, anche se parecchio stretti.

Davanti Ramo, alla guida, era quello che stava più largo. Accanto a lui, Uther condivideva il sedile del passeggero e lo spazio per le gambe e i piedi e buona parte della superficie del cruscotto con le sue cose, le bottiglie di birra e altro. Dietro, Danny, Kumals, Justin e il Conte stavano stipati tra loro e le altre cose che strabordavano dal baule posteriore.

Nonostante l’aria molto sofferta e a disagio del Conte, e l’occasionale parlare di Justin, Danny si sentiva quasi a suo agio. Prima di tutto, pochi minuti dopo la partenza, riuscì ad allungare un braccio e a toccare appena la spalla di Uther, il quale non ebbe bisogno di voltarsi a guardarlo per capire; raccolse una bottiglia di birra, la aprì, ne prese un paio di sorsi e la passò a Danny.

«Voi sareste capaci di bere in qualunque situazione, vero?» chiese retoricamente Kumals.

«Beh, solo nelle migliori o nelle peggiori, o nelle noiose.» tentò di giustificarsi debolmente Danny.

«Avete sigillato anche la porta che da accesso ai sotterranei?» chiese il Conte, con voce estremamente grave.

«Sì.» rispose pazientemente Danny.

«Quanto pensate che staremo via?» chiese Justin, inaugurando così la serie di infinite e disparate domande che avrebbe posto per il resto del viaggio.

«Non possiamo saperlo.» rispose Danny, in tono atono e rassegnato.

«Ah…» commentò deluso Justin.

A Danny pareva di sentire gli ingranaggi del cervello del suo coinquilino lavorare alacremente in cerca di un’altra domanda, e non restò deluso.

«Quindi voi siete colleghi di cosa?» chiese Justin.

«Ex colleghi.» precisarono Kumals e Uther distrattamente, quasi all’unisono.

«Justin, non essere sgarbato…» trovò la forza di dire il Conte, nonostante il suo lutto sofferto «Sono certo che Danny e i suoi… ex-colleghi troveranno il tempo di raccontarci più avanti, con la dovuta calma e precisione di cronaca, riguardo alla loro pregevole attività di esperti cacciatori di presenze maligne.»

«Eh? Cosa? Ma davvero?»

E così Justin iniziò una lunga serie di esclamazioni incredule, mentre Danny si faceva piccolo piccolo e cercava di scomparire nel sedile, Kumals osservava con concentrata ostinazione fuori dal finestrino, Ramo si faceva estremamente assorto nella guida e Uther fingeva di essere preda di un colpo di sonno improvviso.

 

 

 

Note dello scribacchiatore:

Per chi ipotizzava che Danny, Kumals, Uther e Ramo fossero stati ballerini spogliarellisti, stile ‘Full Monty’, mi spiace avervi deluso. Non che la loro “ex-attività” non possa rivelarsi meno risibile, per certi aspetti, anzi… Comunque, presto giungerà il prossimo capitolo.

 

 

Soundtrack: (Don’t fear) The reaper – dei ‘Blue Oyster Cult’

 

 

A Lucretia: per chi sta leggendo e gradisce la ridondanza pressoché ridicola del Conte, e quindi anche per te, spero la prima parte di questo capitolo sia stata particolarmente gradita :) Era già stata scritta tempo fa, ma viste le preferenze del pubblico di questa storia… (a giudicare dalle recensioni composto da una sola persona, ma chissà, forse altri sono in attesa di vedere dove diavolo andrò a parare! E se anche non comparirà nessun’altro, io sono della scuola ‘molto meglio pochi e rari, ma ottimi’, e quindi così per me è super-ok)… dovrebbe risultare alla fine una buona cosa, forse. Io avevo pure pensato di toglierla perché mi sembrava rallentare troppo la trama. Ma ha il suo fascino dopotutto…

Inoltre, io vedo un certo stridore tra il fatto che Danny sia molto meno spaventato dagli strani eventi di quanto lo sia dalla prospettiva di svegliare il Conte in pieno giorno per chiedergli di lasciare la sua casa e tutte le sue cose. Una cosa, forse, un po’ l’ho capita di Danny… (a scrivere sono parecchi capitoli più avanti di questo)…ed è che credo finisca per dare – volutamente o meno – messaggi in sottofondo, tramite il suo comportamento spontaneo. Forse, quindi, in questa occasione intende dire che a farci paura è ciò a cui diamo il potere di spaventarci, e non sempre è necessariamente qualcosa che costituisce una reale minaccia per noi.

Su Ramo, concordo con te che sia il meno esuberante e il più ‘solido’ sia fisicamente che di carattere del gruppo (che carattere e aspetto fisico coincidano lo noto ora…). Proprio per la sua pacata e amichevole tranquillità, sarà probabilmente più difficile intuirne i tratti distintivi, se non a frammenti, almeno finché ci saranno tanto gli altri personaggi ad occupare quasi interamente la scena.

Ebbene sì, presto arriverà la controparte femminile… non al gran completo, ma quasi. Il fatto che tu sia “una-donna-fiera-dell’esser-donna” credo sia un buon punto per farti considerare i futuri personaggi femminili da un punto di vista privilegiato ;)

Ritorna all'indice


Capitolo 10
*** 08 - TROPICANA YE! ***


Capitolo 8

(Tropicana ye!)

 

Ramo fermò l’auto alla fine della stretta strada sterrata che avevano percorso, serpeggiando tra i boschi delle colline, fino a quel momento.

Tutti si guardarono intorno, senza vedere nient’altro a parte la boscaglia, senza udire niente a parte cinguettii di uccelli e qualche fruscio nel sottobosco.

«Be’?» esordì Justin, impaziente «Dov’è la casa?»

«E’ qualche centinaio di metri più in là… ma la strada non ci arriva proprio davanti…» spiegò Ramo.

«Un bel posto.» aggiunse Uther, con aria soddisfatta.

Kumals gli lanciò un’occhiata critica, come se ritenesse che fosse colpa sua.

«Quindi, gambe in spalla, ognuno prenda le sue cose, eccetera…» disse allegramente Ramo, aprendo lo sportello e uscendo, presto imitato da Uther. Agli altri  quattro, stretti sul sedile posteriore, servì qualche momento in più per riuscire a tirarsi fuori dall’abitacolo.

Per prima cosa, appena sceso il Conte aprì il grosso ombrello nero sopra la testa, anche se lì nel bosco c’era una sempiterna ombra tratteggiata qui e là da strisce di luce di sole. Nel pieno inverno, comunque, con la maggior parte degli alberi quasi completamente spogli e il sole pallido, era più che altro una continua penombra grigiastra, allietata però dal sottobosco e dall’odore di terra, di alberi, di corteccia e così via.

Danny restò qualche momento a dare profondi respiri golosi, annusando e godendosi l’aroma dell’aria, gli occhi socchiusi per il piacere. Probabilmente, se avesse avuto una coda in quel momento avrebbe scodinzolato.

Uther lo spiò e sorrise, profondamente e furtivamente.

«Ma quanto è lontano?» chiese Justin, preoccupato «Io ho tutte le mie cose da portarmi dietro.»

«A dire la verità, credo che sia più onerosa la situazione di Conte…» notò Kumals, soffermandosi in particolare a guardare il letto del Conte, la lunga bara nera e lucida che avevano legato sopra il tettuccio della macchina e coperto con una tela cerata per proteggerla.

«Che ne dite se andiamo intanto a salutare le altre e portiamo solo qualcosa? Torneremo a prendere il resto dopo… Non è lontano.» propose Ramo.

«Ma sì, andiamo.» disse Kumals. «O prima vuoi scavare un po’ in giro, Danny?» chiese all’altro, che stava ancora inspirando a pieni polmoni, e si guardava intorno come se stesse contemplando un piccolo paradiso terreno.

Il ragazzo si distolse dal suo apprezzamento e lo guardò un attimo disorientato. «Eh? Ah, no, no, andiamo.» disse, senza preoccuparsi di prendersela per la provocazione. Sembrava troppo di buonumore per potersela prendere per qualsiasi cosa al momento. Non smise di guardarsi intorno con un sorrisetto contento nemmeno mentre scaricavano alcune cose dall’auto né lo distrasse il discutere degli altri.

«Uther, le bottiglie possiamo prenderle dopo.» consigliò Kumals, con occhio fino, cogliendo i movimenti con cui il ragazzo stava cercando di infilare le bottiglie nella sua sacca senza farsi troppo notare. In compenso, una volta scoperto, continuò come se non avesse affatto cercato di passare inosservato.

«Finché ci siamo, tanto vale intanto portarle…» rispose solo.

Kumals guardò Ramo in cerca di comprensione, e quegli sorrise con una piccola alzata di spalle, come a consigliargli pazienza.

Il Conte si muoveva lì intorno, guardando un po’ schifato e un po’ critico ogni particolare, come se aumentassero quelli che lui riteneva fastidiosi; pareva l’incarnazione di una donzella nobile che fosse stata gettata all’improvviso dalle sfarzose e lindissime stanze di palazzo nel bel mezzo della giungla. Dopo un po’trasse fuori da una delle tasche interne del mantello un fazzoletto di pizzo nero e se lo portò al viso.

«Temo di essere allergico a qualcosa…» spiegò con voce attutita a Kumals, che lo guardava perplesso.

Uther disse qualcosa in tedesco a mo’ di commento, e benché nessun’altro di loro conoscesse la lingua, il suo tono da solo era palesemente ironico e provocatorio.

Alla fine i sei si avviarono sui passi di Ramo, che camminava con sicurezza, come se trovasse qualche misterioso segno di orientamento nella boscaglia non tracciata da nessun sentiero. Slalomò attorno ai cespugli più grandi e agli alberi, seguendo un percorso facile che non appesantisse ulteriormente il loro passo già carico dei bagagli che trasportavano.

Di tanto in tanto si udiva il lieve tintinnio di due bottiglie che cozzavano appena tra di loro nella sacca di Uther.

In quanto a Danny, era così assorto nella contemplazione che incespicava spesso, talvolta persino nei suoi stessi piedi, provocando rumori brevi e frenetici di foglie secche e arbusti smossi, ai quali dopo un po’ tutti gli altri smisero di fare caso. Solo Ramo o Uther, di tanto in tanto, all’udire quei trambusti si gettavano brevi occhiate istintive dietro le spalle, per accertarsi che il ragazzo non fosse franato a terra.

Justin sembrava invece avere una particolare propensione per impigliarsi ovunque, e in generale camminava con una nonchalance che si assocerebbe più facilmente a qualcuno che stia facendo una passeggiata in centro città, col risultato che da solo riusciva a produrre più rumore di tutti loro messi insieme.

Il Conte, in qualche misterioso modo, riusciva ad evitare persino lì di far troppo rumore o di impigliarsi, nonostante i sontuosi abiti certamente inadatti a ogni sorta di scampagnata.

Effettivamente, bastarono un paio di minuti di camminata prima che tra gli alberi scorgessero il graduale apparire di una casetta di bosco, a due piani, non molto ampia. Un albero, crescendo, aveva infilato uno dei suoi rami principali dentro a una finestra, e sul tetto, in corrispondenza, si vedevano filtrare verso l’alto alcuni rametti più sottili, che si facevano strada tra le tegole.

Un rampicante frondoso occupava tutta una parete, e di certo lo spettacolo in una stagione più fertile doveva essere notevole, ma in inverno si riduceva a un intrico di radici che serpeggiavano sul muro.

Non c’erano vialetti né un cortile, nient’altro come segno di abitazione umana intorno alla casa eccetto per alcuni strumenti utili per animali, come una mangiatoia con del fieno, alcune casette di legno per volatili con relative mangiatoie, e una grossa vasca da bagno vecchia e piena d’acqua che sembrava essere stata riciclata come abbeveratoio.

Infine, da una parete laterale della casa partiva una grossa tettoia fatta tutta in tronchi di legno e strati di paglia, sotto alla quale il terreno era battuto.

La prima cosa che tutti notarono in modo particolare, comunque, fu che tutta le pareti, costituite da spesse pietre  tipiche delle costruzioni contadine delle zone collinari e montagnose, erano tinte di un deciso lilla che richiamava il colore del glicine***. Eccetto per le porte, pitturate in una zebratura bianca e nera, e per le imposte delle finestre in legno, colorate di argento od oro lievemente imbrillantinato.

Invece di avvicinarsi all’ingresso principale, Ramo deviò verso la tettoia, sotto alla quale si aprivano una porta e una finestra, con il davanzale quasi pieno di ciotole per animali.

Dalla finestra, semiaperta e riparata solo da un accenno di tenda costituito da un pezzo di vecchia coperta la cui fantasia patchwork era ancora ben visibile, proveniva della musica.

Quando si avvicinarono ulteriormente, riconobbero le parole della canzone:

Brucia nella notte la citta' di San Jose
Radio Cuba urlava fuori da un cafe'
La lava incandescente
gremava gli hulahop
l'uragano travolgeva i bungalow
Noi stavamo lì, dimmi dimmi
non ti senti come al cinema?
E stavamo lì, dimmi dimmi
come dentro a un film
E stavamo lì, dimmi dimmi
non ti senti come al cinema?
E stavamo lì, dimmi dimmi
come dentro a un film*

Kumals e Danny si scambiarono una breve occhiata divertita.

«Sembra che siamo capitati nel posto giusto.» osservò Kumals, mentre appoggiavano sul terreno le loro cose e Uther si sporgeva a spiare dalla finestra l’interno della casa.

Anche se in gran parte sovrastato dalla musica a tutto volume, si sentiva un chiacchiericcio allegro in sottofondo, alternato ad un canticchiare la canzone.

Ramo fece per entrare, ma Kumals lo fermò mettendogli una mano sulla spalla, e scambiò un breve sguardo di intesa con Danny.

Mentre la tivu' diceva
mentre la tivu' cantava*

Kumals e Danny presero fiato…

Bevila perche' è tropicana je!*

urlarono all’unisono con la musica.

Da dentro le voci si interruppero, e si sentirono rumori che si avvicinavano inequivocabilmente alla porta, la quale poco dopo si aprì. Ne uscì di slancio un piccolo cagnetto nero e marroncino, che in pochi balzi fu da Ramo e iniziò a fargli feste entusiastiche.

«Ciao Tirch. Sono qui, son tornato.» disse affettuosamente il ragazzo, carezzandolo, e poi gli indicò Danny. «Chi c’è?» chiese, in tono vivace, per entusiasmare il cagnetto, che in effetti, non appena individuò Danny, corse a fare le feste anche a lui, facendo ridere di contentezza il ragazzo.

Frattanto dalla porta erano uscite anche due ragazze.

La prima, una giovane ragazza alta e slanciata. Aveva gli occhi dal taglio allungato lievemente truccati, che vivacizzavano il bel viso da sotto una corta frangetta dritta, e una cascata di capelli tra cui facevano capolino treccine e rasta colorati, che le ricadevano da un’alta coda di cavallo sulla schiena. Indossava una maglia a fantasia leopardata e un paio di pantaloni quasi attillati neri, che terminavano in piedi calzanti scarponcini da montagna.

Guardò tutti con sorpresa contenta, e abbracciò Uther, che le si era avvicinato.

L’altra ragazza, un po’ meno giovane ma dall’entusiasmo altrettanto vivace e anzi anche più appariscente, era quasi altrettanto alta, ma con un fisico con curve femminili più accentuate e in parte sottolineate dal lungo vestito nero dark, non particolarmente elaborato ma sobriamente elegante, che indossava. Il suo viso, più truccato e incorniciato da lunghi e fluenti capelli rilucenti di nero, si focalizzò prima brevemente su Ramo e poi su Danny, che salutò calorosamente, esclamando di gioia.

Ben presto ne nacque una danza di scambievoli saluti, abbracci, esclamazioni e risate, e tra le gambe di tutti saltellava il cagnetto Tirch, cercando attenzione in particolare da Ramo, Danny e le due ragazze, e lanciando di tanto in tanto latrati entusiastici di richiamo quando gli pareva di non essere sufficientemente notato.

Da quel tripudio amichevole e un po’ caotico rimasero esclusi solo Justin e il Conte, che, ai margini della folla degli altri, li fissavano, e in particolare studiavano le due ragazze con espressioni molto diverse. Justin aveva assunto uno sguardo felino, mentre il Conte, che pure si era soffermato per qualche minuto a notare i particolari del vestito dark di una di loro, ora appariva lievemente infastidito e a disagio.

Quando l’improvvisato ballo dei saluti iniziò a scemare, benché sembrassero quasi tutti ansiosi di iniziarne uno di chiacchiere intense e fitto di domande reciproche, Danny si voltò verso Justin e il Conte.

«Ah, loro sono i miei coinquilini… vi presento il Conte e Justin.» li introdusse gentilmente. Sembrava così contento da aver dimenticato ogni sorta di risentimento verso i due.

Le ragazze si avvicinarono a salutarli, come se fossero pronte ad accordare loro piena amicizia per il solo fatto di essere amici di Danny.

«Io sono Yuta.» si presentò la ragazza dalle lunghe gambe affusolate e coi capelli castani intricati con treccine e rasta colorati, facendosi loro di fronte con un’aria amichevole, venata tuttavia da un accenno di incuriosita analisi dei due ragazzi.

L’altra, la ragazza vestita in stile dark, fu molto più calorosa; scambiò un accenno di abbraccio con Justin mentre diceva «Ciao! Valentine, piacere!» e fece per fare lo stesso anche con il Conte, il quale tuttavia la precedette, porgendo in avanti quasi precipitosamente una mano. La ragazza di nome Valentine fissò per un attimo la mano, presa in contropiede, ma subito la strinse con energia.

«Allora, che fate? Entrate pure. Fate come se fosse casa vostra. Insomma, prendete esempio da Uther.» esclamò con vivace sarcasmo Yuta, e tutti notarono che in effetti Uther era già sparito all’interno della casa con le sue cose.

Entrarono nella piccola ma accogliente cucina, stipata di cassette di frutta e verdure, di sacchetti di cereali e di erbe di ogni genere, di cestelli pensili, attaccati tramite cordicelle a ganci affissi nel soffitto, e contenenti le più svariate cose, da cibarie a oggettistica disparata che sembrava provenire da un ufficio di smarrimento oggetti. L’ambiente era colmo di odori di spezie e del calore proveniente principalmente da una grossa pentola, che bolliva sui fornelli.

Uther stava già curiosando il contenuto della pentola, con aria attenta.

«Allora, com’è andato il viaggio?» esordì Valentine con allegra vivacità, prendendo sottobraccio Ramo.

«Bene, tutto sommato.» le rispose lui, mentre Tirch saltellava loro attorno scodinzolando.

«Credevo fosse successo qualcosa…» disse dubbiosamente Yuta. «Loro due sono coperti di fango.» e accennò a Uther, che stava scegliendo dagli strumenti appesi sopra ai fornelli un mestolo per assaggiare il contenuto della pentola, e a Danny, che si stava guardando intorno contento.

In effetti i due erano sporchi di fango semi-incrostato, dai capelli fino alla punta delle scarpe.

«Oh, niente di che, si sono rotolati un po’ nel fango per divertimento.» spiegò Kumals.

«Non è vero!» protestò subito Danny, per poi calmarsi e rivolgersi alle due ragazze. «La macchina si è piantata ad un certo punto, e abbiamo dovuto spingerla.»

«Ma come, voi due da soli?» chiese Yuta, guardando con un accenno di rimprovero Kumals.

«No, abbiamo spinto quasi tutti...» disse Ramo.

«Ma solo loro due sono caduti nel fango.» aggiunse Kumals, cercando di non far trasparire troppo divertimento dalla sua espressione fintanto che Yuta continuava a guardarlo.

«Io ci metterei un po’ più di cipolla.» disse Uther, che stava assaggiando una mestolata della zuppa.

«Sei appena arrivato e già critichi?» chiese Yuta, con evidente contentezza. Prese una cipolla da una delle cassette e si avvicinò al banco di cucina, su cui c’erano un paio di coltelli, un tagliere di legno e alcune bucce di varie verdure.

«Che cosa state facendo?» chiese Ramo, curioso.

«Zuppa.» rispose Valentine. «L’abbiamo inventata adesso.» aggiunse «Con quello che c’era.»

«Ah no!» esclamò Yuta, rivolta a Uther, il quale si apprestava ad affettare la cipolla. «Va bene tutto, ma almeno togliti un po’ di fango di dosso prima di toccare qualcosa da mangiare, che dobbiamo mangiare anche noi soprattutto.»

Il ragazzo fece per dire qualcosa, ma si guardò le mani e le maniche infangate, e finì per annuire.

«Che cos’ha lui?»

Tutti si voltarono a guardare Justin, che stava indicando il cagnetto Tirch. Quindi tutti guardarono il cane, il quale in quel momento era tranquillamente seduto sul pavimento vicino ai piedi di Ramo, e scodinzolava ancora, guardandosi intorno, il muso aperto come se sorridesse.

Per un po’ nessuno sembrò capire cosa intendesse dire Justin, poi Danny ebbe un’intuizione. «Ah, intendi la zampa?»

Tirch era tripode, cioè provvisto di sole tre zampe. Gli mancava la zampa anteriore destra.

«Lo hanno investito prima che lo adottassimo.» spiegò Ramo «E gli hanno dovuto amputare la zampa.»

«Poverino.» disse solo Justin.

«Beh, tanto poverino non mi sembra.» disse Yuta «Se la cava alla grande, vero Tirchetto?» domandò retoricamente, chinandosi a fare i complimenti al cagnetto, e lasciando che l’altro le leccasse il mento scodinzolando.

Il Conte fece una breve smorfia, mentre Justin si chinava anche lui per fare i complimenti al cane, che lo considerò con maggiore timidezza, non conoscendolo altrettanto bene.

«D’accordo!» esordì Yuta con fare pratico, rialzandosi. «Voi due, andate a darvi una ripulita almeno sommaria, che fra poco si mangia!» annunciò, rivolta a Danny e Uther.

«La metto io la cipolla, fidati.» disse Ramo a Uther.

«Bene.» sorrise Uther, e, ripresa in mano la sua sacca, fece per uscire dalla cucina, quando Yuta lo richiamò.

«E porta questo coso da qualche altra parte.» disse, porgendogli il fucile. Uther le lanciò un breve sguardo sarcastico e glielo prese dalle mani.

Il Conte si accostò a Ramo con aria discreta e disse, con una certa affettata vergogna «Scusi, se non le dispiace… non ho potuto fare a meno di notare che non abbiamo ancora avuto occasione di presentarci, una mancanza imperdonabile da parte del sottoscritto…»

«Ah, no, beh tranquillo. Non c’è problema. Io sono Ramo. Puoi darmi del tu.» disse il ragazzo, tranquillamente anche se un po’ imbarazzato dai modi formali dell’altro.

Gli altri fissavano il Conte, con aria stranita per quanto riguardava Valentine e Yuta, con aria sorniona da parte di Kumals, e Justin, che si era già seduto su uno degli zoppicanti sgabelli in legno e paglia presso il bancone di cucina, era troppo occupato a guardarsi intorno con aria semi incredula. Kumals tentò di dare di gomito a Yuta senza farsi notare, per provocare qualche suo esplicito commento riguardo al Conte, ma lei si rifiutò di dargli corda, fingendosi più infastidita dal suo comportamento di quanto non fosse realmente.

*

***

*

Danny, che era uscito dalla cucina qualche secondo dopo Uther, e che si era soffermato a guardarsi intorno nell’ambiente del piccolo salotto che contingeva con la cucina, si rese conto troppo tardi che l’altro, dopo aver rapidamente lasciato il fucile in un angolo un po’ nascosto del salotto, era già sparito alla vista su per le scale. Anche Danny salì, scorgendo vari oggetti appoggiati persino sugli scalini, e quando arrivò al primo piano si trovò davanti solo una serie di porte semiaperte o chiuse, senza sapere dove dirigersi.

Stava per considerare l’idea di tornare in cucina a chiedere esattamente a Yuta dove fosse il bagno, quando sentì un rumore provenire da una delle stanze con la porta chiusa, e vi si diresse. Senza pensarci socchiuse la porta, trovandosi davanti una camera da letto nella quale si aggiravano, giocavano o dormivano diversi gatti, tutti diversi l’uno dall’altro. Danny stava per fare dietrofront, anche se si sarebbe soffermato volentieri a fare la conoscenza dei felini, quando sentì una voce.

«Chiudi la porta, credo non debbano uscire.»

Allora entrò abbastanza nella stanza per vedere Uther, seduto su uno dei due letti che occupavano la stanza, intento a guardare dentro un baule aperto. Danny entrò, si chiuse la porta alle spalle appena in tempo prima che alcuni gatti riuscissero a infilare la fessura per uscire, e si appressò a Uther, fermandosi di tanto in tanto ad accarezzare alcuni gatti che gli si avvicinavano incuriositi.

«Hem… tu sai dove sia il bagno?» chiese Danny.

«Sì, terza porta sulla sinistra.» disse Uther.

«Ah… quindi ci sei già stato qui.»

«Ogni tanto passo a trovarle.»

Uther gli voltava le spalle, chino sul baule, perciò Danny non si sentì immediatamente desideroso di togliersi dalla faccia l’espressione di delusione che vi si era dipinta spontaneamente. Visto che lui abitava relativamente vicino a Yuta e Zoal, Uther avrebbe potuto teoricamente passare a trovare anche lui quando veniva lì…

Uther si voltò verso di lui con un mezzo sorriso. «Gliel’hanno fatta** di nuovo.»

«Eh?» chiese Danny, spaesato.

«Vieni a vedere.» lo invitò Uther, e anche Danny si sporse sul baule aperto.

Dentro di esso c’era un mucchietto di pelo, in cui Danny riuscì a contare cinque gattini raggomitolati e profondamente addormentati su un mucchio di pezzi di stoffa di vario genere.

«Ma guarda…» disse estasiato Danny. «Cosa intendi che gliel’hanno fatta di nuovo?» aggiunse a Uther.

Questi si rialzò del tutto in piedi e Danny notò solo in quel momento che era già a petto nudo.

«Yuta e Zoal cercano sempre di evitare che figlino, altrimenti finiranno per straripare di gatti… ma non è che riesca loro molto bene.» sogghignò Uther.

Danny ridacchiò e si guardò intorno nella stanza. «Ma perché li avranno chiusi tutti qui?»

«Probabilmente per Tirch, finché non si abituano.» disse Uther, con una lieve alzata di spalle.

«Ah già…» Danny si interruppe, udendo un rumore sulle scale.

Poco dopo si aprì la porta della stanza, e fece capolino Kumals.

«Che cosa fate qui?» chiese Kumals, guardandoli con aria ironica e sospettosa.

Per qualche motivo Uther si era messo a guardarlo in cagnesco, perciò fu Danny ad annunciargli «Ci sono dei nuovi gattini.»

«Ah sì? Andiamo bene.» commentò Kumals burberamente, tuttavia anch’egli si avvicinò al baule e vi guardò dentro interessato.

«Ah, la porta… i gatti…» disse Danny un po’ allarmato, notando che alcuni gatti stavano uscendo alla chetichella dalla porta lasciata aperta da Kumals.

«Mi hanno detto di venire su ad aprirgli.» lo tranquillizzò Kumals. «E di controllare che sapeste come usare un bagno civilmente.» aggiunse.

«Sì, come no!» commentò Danny.

«Io vado a lavarmi.» comunicò Uther, e sparì dalla stanza.

Danny e Kumals continuarono a guardare i gattini per un po’, in silenzio.

«Il Conte ha persuaso Ramo a tornare alla macchina per prendere un po’ del sangue che si è portato dietro. Abbiamo dovuto spiegare a Valentine e Yuta che lui si nutre di quello.» disse, come se stesse suggerendo che si era assunto una responsabilità che sarebbe dovuta spettare a Danny.

«Hum…» mugugnò distrattamente questo.

«E credo che Justin ci stia provando con Yuta.» continuò Kumals, ma in tono molto diverso, piuttosto irritato.

«Ah!» disse stavolta Danny, girandosi a guardarlo. «Hem… beh…» balbettò imbarazzato «Quindi…» e tacque, senza sapere più che dire.

Kumals diede un’alzata di spalle e si sedette per terra, appoggiandosi con la schiena al letto come se non gli importasse. E Danny cercò davvero di capire se era realmente così, ma l’altro non disse più niente, e prese ad accarezzare un grosso gatto color cannella che gli si era acciambellato in grembo quasi immediatamente dopo che si era accomodato.

«Anche tu vieni spesso a trovarle?» chiese Danny.

«Qui? No, non vengo da parecchio tempo. C’ero stato solo una volta, quando si sono trasferite qui.»

«Ah…» disse Danny, quasi distrattamente.

«Perché?»

«No, niente!» tagliò corto in fretta Danny, ma suo malgrado arrossì un po’, e Kumals restò a studiarlo con un sopracciglio alzato per qualche lungo secondo.

Pochi minuti dopo Uther rifece capolino sulla porta, stavolta sia a petto che a piedi nudi, e li guardò con un’aria vagamente corrucciata. «Credo che non ci sia acqua calda oggi.»

Danny lo guardò, finché non fu del tutto sicuro che diceva sul serio, e allora gli sfuggì dalle labbra un sommesso gemito di sconforto.

 

 

* parole tratte dal testo della canzone Tropicana’ di ‘Gruppo Italiano’, tutti i diritti e i meriti riservati etcetera etcetera.

**non so se sia una forma dialettale in uso ovunque in italia, perciò specifico che ‘gliel’hanno fatta’ significa ‘le hanno ingannate, fregate, etc…

***il glicine (Wisteria floribunda) è un arbusto rampicante e rustico, originario della Cina e del Giappone – ma ormai diffuso a scopo ornamentale anche in Italia – che in primavera fiorisce con grossi grappoli pendenti di fiorellini color azzurro-violetto, che mandano un profumo dolce. Il titolo originale di questo capitolo era, non per niente, ‘la casa di lillà’ (che richiamava la canzone della ‘casetta in canadà’… embé, il trash è trash, gente). Per me è un omaggio ad alcune delle persone che hanno ispirato alcuni personaggi di questa storia.

 

 

Note dello scribacchiatore:

Questo capitolo potrebbe sembrare piuttosto dispersivo… ma credo fosse importante concedere il giusto spazio alla conoscenza dei nuovi personaggi, e al delinearsi dei rapporti interpersonali tra di loro, o almeno accennarvi a tratti. Aldilà dei fatti straordinari e allarmanti che sono l’elemento scatenante di questa storia, c’è anche in essa, non secondariamente, una dimensione più tranquilla in cui vivono e si intrecciano le singole esperienze dei personaggi. In ogni caso, cercherò di accelerare un po’ la pubblicazione dei prossimi capitoli (che sono già scritti), in modo da non tardare troppo il ritorno di un po’ di vera e propria azione.

 

a Lucretia: il tuo seguire la storia passo passo (o meglio ‘capitolo capitolo’) mi piace molto. La puntualità (non nel senso temporale ma nel senso di contenuto) delle tue recensioni mi aiuta molto a tenere il polso di come appare il racconto al lettore, dal momento che per me, visto anche il richiamo continuo alle persone reali che hanno ispirato i personaggi, non è così facile prendervi le giuste distanze per osservare il tutto più obbiettivamente. Anche stavolta, sono rimasto colpito dall’acume con cui riesci a intuire piccoli ma significativamente fondamentali aspetti di ognuno di questi personaggi. Il tuo sguardo preciso non lascia da parte nemmeno gli ambienti, il loro significato per e rispetto ai personaggi, e il clima generale che anima in modo particolare alcune situazioni. Per questo, le tue recensioni rimangono sempre molto affascinanti per me.

p.s.: fai bene a farti distrarre dal sole :D Condivido in pieno, visto che anche qui ci sono stati giorni proprio estivi; una pacchia!

Ritorna all'indice


Capitolo 11
*** 09 - DUE LETTI, DUE BICCHIERI ***


Capitolo 9

(Due letti, due bicchieri)

 

Quando Danny ritornò al piano terra, ancora rabbrividendo per la doccia gelida che si era fatto, trovò il Conte solo, seduto sul divano del salotto, accanto al camino acceso e scoppiettante. Aveva appoggiato un fazzoletto, sempre nero ma grande come un foulard, sul divano, prima di sedervicisi sopra, e stringeva tra le mani una tazza, nera, che si era portato da casa, sicuramente piena di sangue.

Alzò lo sguardo su Danny e disse «Gli altri sono nella stanza attigua, ovverosia nella cucina.»

Danny accennò un sorriso. Non avrebbe comunque avuto bisogno di quell’indicazione, dal momento che dalla cucina provenivano risa, parole quasi urlate, e lo stereo emetteva

Cuccuruccucù Paloma

Ahi ahi ahi ahi ahi cantava*

«E tu perché sei qui?» chiese Danny, con tatto.

Il Conte lo guardò placidamente. «Ho bisogno di riflettere su alcuni degli ultimi eventi occorsi.» disse solo.

Benché fosse assai tentato di unirsi agli altri in cucina, e le chiacchiere festanti che ne provenivano lo attiravano come una calamita, Danny si auto costrinse a sedersi sul divano accanto al Conte.

«So che tutto questo ti sembrerà un po’ troppo… hum… caotico… Ma dopotutto, non appena avremo risolto la situazione, potremo tornare a casa.» disse, comprensivo. E ignorò il fatto che pensare alla parola ‘casa’ gli rimandava più l’attuale luogo in cui si trovava, piuttosto che quello dove aveva vissuto negli ultimi due anni con Justin e il Conte.

«Sì, certamente.» concordò in tono pacato il Conte «Ma non preoccuparti per me, Danny. Io qui mi troverò bene, per il tempo necessario. Inoltre, conoscendo la vostra abilità e la vostra professionalità, sono certo che riuscirete a risolvere brillantemente la situazione quanto prima.»

Danny trovò quelle parole molto eloquenti. E gli sembrò di capire che il Conte si stava sforzando di accostare la sua idea di professionalità a quella casa, quelle persone e il loro spensierato comportamento.

«Hem… sì… Beh, il contributo di Yuta e Zoal sarà fondamentale. Anche loro erano nostre colleghe quando eravamo, er.., nell’attività… E senza il loro prezioso aiuto non ce la saremmo sempre cavata così bene.» spiegò Danny.

«Non l’avrei mai creduto. Ma dal momento che lo sento dire proprio dalla tua bocca vi pongo fiducia.» disse il Conte.

«In che senso…? Perché non l’avresti mai creduto?» chiese curioso Danny, senza capire.

«Beh, Danny, d’altro canto loro sono donne.»

Danny trasecolò, e sentì il bisogno di voltarsi a metà per guardare molto più direttamente il Conte.

«E con questo?» chiese perplesso, cercando di interpretare cosa volesse dire l’altro; perché gli pareva che all’improvviso stessero parlando due lingue diverse.

«Naturalmente, Danny, l’uomo e la donna sono due creature profondamente diverse per molte cose. E di norma i lavori impegnativi sono affidati alla ragionevole, equilibrata, e allo stesso tempo cospicua forza maschile.»

Danny aggrottò la fronte, piuttosto infastidito. «Lavori impegnativi? Intendi l’aver a che fare con il paranormale? Ebbene, non so che donne conosci tu… ma quelle che conosco io sono sempre state indispensabili, e per niente secondarie a noi, anzi!»

Il Conte lo guardò, apparentemente stupito dal fatto di non trovarlo perfettamente d’accordo.

«Inoltre, in questa casa non ci sono ‘donne’. Ci sono Yuta e Valentine e ci sarà Zoal. E qualsiasi cosa siano, non sono quello che dici tu.» continuò più ombrosamente, ma con tranquilla ed insieme energica decisione Danny.

«Oh, non era mia intenzione offenderle…» specificò il Conte, un po’ offeso a sua volta.

«Lo spero bene. Perché non se lo meritano affatto.» disse Danny, e si alzò in piedi. Proprio in quel momento udì il suo nome provenire dalla cucina.

«Ma dov’è Danny?» chiese Yuta.

«Già. Si sta ancora facendo la doccia?» aggiunse Valentine.

«Danny! È pronto!» urlò in tono generosamente alto Kumals.

Si udì il rumore di una sedia che veniva spostata e poco dopo comparve sulla soglia della cucina Uther, che si guardò intorno nel salotto e si soffermò infine a fissare Danny.

«Ah sei qui. Se non vieni credo che non ci rimarrà molto… vedo già Ramo che sta puntando quel che è rimasto…» aggiunse, con un sorrisetto, voltandosi a guardare dentro la cucina.

«Ah, senti chi parla!» ribatté ironico Kumals.

«E anche Kumals sta puntando.» rincarò Uther.

«Ti è venuto a chiamare solo perché aspetta di vedere cosa prendi prima di gettarsi sul resto.» rise Ramo dalla cucina.

«Sì, eccomi…» disse Danny, con un sorriso gradevolmente imbarazzato. Mentre rispondeva si era alzato e aveva diretto i suoi passi verso la cucina, nella quale si era già riprecipitato Uther, con l’aria di aver intenzione di fare esattamente quello che aveva pronosticato Ramo.

Quando stava per raggiungere la porta, Danny esitò, e si voltò di nuovo verso il Conte.

«Vieni di là anche tu? C’è spazio.» disse solo.

«Ti ringrazio.» disse compostamente il Conte, senza muoversi.

Danny si voltò per entrare in cucina, fece un passo oltre la soglia e si ritrovò lo sguardo di Uther addosso, che lo fissava interrogativamente, avendo evidentemente udito le sue parole rivolte al Conte. Danny fece un breve cenno di diniego, a dirgli di lasciare perdere, e subito si ritrovò Yuta che gli veniva incontro con la pentola ed un cucchiaio.

«To’. Che qui mi sembra di essere in mezzo a un branco di affamati.» gli disse, porgendogli pentola e cucchiaio.

Uther cercò di spiare l’interno della pentola e Yuta gli agitò vicino alla faccia il cucchiaio in modo scherzosamente minaccioso, facendolo prima un po’ imbronciare e poi sorridere.

*

***

*

Danny guardava Ramo pulire il suo piatto usando il dito, e Uther che faceva lo stesso con un cucchiaio nella pentola ormai vuota.

«Che selvaggi…» borbottò sarcasticamente Kumals, divertito.

«Dai, Ramo…» lo rimproverò debolmente Valentine, che invece era realmente un po’ imbarazzata. Dal suo grembo Tirch si guardava intorno col suo sorriso canino.

«Se volete ci sono altri piatti da lavare.» commentò invece Yuta, ironica. Poi sembrò le venisse in mente qualcos’altro. «A proposito, ma voi dove avete messo la vostra roba?» chiese a Danny e Uther.

«Nella stanza dove c’erano i gatti…» iniziò a dire Danny.

«Nella tua stanza.» specificò Kumals, e si dispose come per assistere a una scena violenta.

Invece Yuta rivolse a lui uno sguardo critico. «E tu non gli hai detto che era la mia stanza, immagino.»

«Me ne sono guardato bene.» scherzò Kumals, composto e tranquillo.

«Mi dispiace… non sapevo che…» iniziò Danny.

«Ma no, mica è un problema.» lo interruppe Yuta «Però per dormire lì non c’è posto. L’altro letto è per gli ospiti, e adesso ci dorme Valentine.» spiegò.

«Quindi, noi non siamo quel che si direbbe ospiti?» chiese candidamente Kumals, per provocarla. Yuta fece un vago cenno con la mano come per zittirlo, anche se le sfuggì un sorriso.

«Io posso dormire sul divano.» disse Danny.

«Beh, veramente, siccome voi quattro già vi conoscete… e voglio dire sopportate… abbastanza bene, pensavo di mettervi nell’altra camera da letto, quella per gli ospiti.» propose Yuta, accennando un significativo sguardo al cipiglio ancora ironico di Kumals. «Poi, per te…» e guardò Justin «…possiamo mettere una branda in salotto, se ti va bene. E per… com’è che si chiama?»

«Il Conte.» disse subito Kumals, fingendo di venirle in aiuto, ma con la precisa intenzione di cercare di farla sentire in imbarazzo per averlo dimenticato.

«Sì, per lui potremmo…»

«No, lui ha la sua bara.» disse Danny.

Yuta si interruppe e lo fissò confusa, così come Valentine.

«Sì, va bene, lui dorme in una bara, e ce l’abbiamo sulla macchina. La metteremo da qualche parte.» tagliò corto Kumals, precedendo le delucidazioni da parte di Danny, e continuò, più interessato «Ma nella camera degli ospiti non ci sono solo due letti?»

«Io ho anche un sacco a pelo con me.» disse Ramo.

«E con questo rimane comunque un posto in meno.» osservò Kumals.

«C’è anche il divano, no?» fece presente Danny, chiedendosi come mai stesse diventando così complesso organizzare dove dormire per tutti.

«Oppure la camera di Zoal. Visto che lei non c’è.» disse Kumals.

«Ma no, la sua camera no.» obbiettò subito Yuta. «Sai com’è… è sempre chiusa quando lei non c’è, e in ogni caso può entrarci solo lei. Ma scusate, non potete dormire in due in un letto?»

Kumals sembrò rifletterci su per un momento, si alzò in piedi e si aggirò per la cucina pensierosamente. Uther lo teneva d’occhio con aria sospettosa.

«Beh, quindi…» iniziò Kumals lentamente, avvicinandosi alla soglia. «Chi arriva ultimo dorme per terra!» esclamò di botto, così in fretta da accavallare le parole, mentre già stava schizzando una corsa rapida fuori dalla cucina e su per le scale.

Uther gli corse subito dietro e Justin balzò in piedi.

Danny lo guardò torvamente. «Justin, tu hai già la tua branda.»

«Ah, va bene.» disse Justin, tornando a sedersi.

Danny notò che Ramo lo guardava come se si tenesse pronto a scattare. Sospirò divertito «Vai pure. Io non ho intenzione di correre.» disse, con un breve ghigno. E Ramo si rilassò, restando seduto, con una lieve ombra di imbarazzato senso di colpa.

«Ecco, bravi, anche perché se qualcun altro si mette a correre qui dentro a quel modo lo ammazzo.» disse Yuta.

Danny e Ramo la guardarono, stupiti. Lei ricambiò il loro sguardo, e parve ripensarci. «Anzi, no… lo lascio a digiuno.» si corresse.

«Guardo che sappiamo cucinare anche noi.» notò divertito Ramo.

«Sì, ma la materia prima è mia.» sentenziò Yuta, e quando vide che il ragazzo non trovava niente da replicare sorrise vittoriosamente.

«Ma non potete dormire in un letto in due come ha detto lei?» chiese ragionevolmente Valentine.

«Beh, immagino di sì…» disse debolmente Ramo, non particolarmente persuaso.

«Fa lo stesso, dormo per terra.» disse Danny, con calma scarsità di interesse per il presunto problema.

«No, tu non dormi per terra.» disse decisa Yuta. Lui la guardò e sorrise.

«Piuttosto, perché non ci dormite voi in due in un letto?» azzardò Ramo, con un tono vagamente da vittima di ingiustizia, guardando le due ragazze.

«Eddai!» protestò Valentine, come se la risposta fosse implicita.

«Non credo ci fosse un intento erotico, diceva sul serio.» disse Danny maliziosamente, facendo imbarazzare Ramo, ma poi sembrò venirgli in mente qualcosa, e si chiese perché non potessero piuttosto dormirci Valentine e Ramo, con tanto del loro essere fidanzati, nello stesso letto. Ma non ebbe bisogno di chiederlo, quando ricordò l’avversione di Valentine per praticamente ogni cosa che prevedeva lo stare scomodi, principalmente a causa dei suoi dolori alla schiena. E a proposito di dolori alla schiena, si rammentò quelli che si era procurato lui le ultime volte che aveva dormito da sobrio su un pavimento, e il suo sguardo si rammaricò.

«Perché lei ha bisogno di un letto intero per la sua schiena, e perché io vorrei il mio letto tutto per me, grazie.» stava frattanto rispondendo Yuta ad un Ramo piuttosto imbronciato.

«Allora Tirch te lo prendi a dormire con te.» disse Ramo a Valentine, col tono di chi fa un dispetto.

«Ma perché, dove pensi abbia dormito stanotte?» ribatté prontamente Valentine. «E comunque, lui sì che non avrebbe problemi a dormire per terra.»

«Ma no, ma Tirch, senti cosa dice…» disse Ramo, mettendosi a parlare col cane. Questi agitò immediatamente la coda sentendosi rivolgere la parola, e sporse il muso per leccare allegramente le mani di Ramo.

Yuta si alzò in piedi e fece segno a Danny di seguirla, mentre gli altri due continuavano a confrontarsi verbalmente, con l’aria di esserci avvezzi e di provarci gusto al battibecco di scherzosa sfida reciproca. Quando furono sulla soglia della cucina, però, Yuta e Danny si accorsero che Justin era ancora seduto che fissava il vuoto con aria annoiata.

«Justin.» lo chiamò pazientemente Danny, e il ragazzo alzò su di lui uno sguardo interrogativo.

«Vieni che ti do la branda.» disse Yuta collaborativamente, e Danny la ringraziò mentalmente, per essere riuscita a ottenere che Justin si alzasse e li seguisse, lasciando spazio all’appassionato confronto tra Ramo e Valentine.

«Andiamo a vedere cosa cavolo stanno facendo quei due.» disse baldanzosamente Yuta, dirigendosi alle scale, seguita dagli altri; ma prima di iniziare i gradini si fermò, e disse a Justin «Ah, aspetta pure qui in salotto, te la porto qui la branda. Tu fai spazio intanto…»

«Ok.» disse Justin, rivolgendole un sorriso di eccessiva gratitudine, e sedendosi poi accanto al Conte, il quale si limitava a sorseggiare il sangue dalla sua tazza e sembrava deciso a ignorare ogni cosa che gli avveniva intorno.

Mentre salivano le scale, Danny disse a Yuta «Ti starai chiedendo da dove saltano fuori quei due…»

«Io non ho detto niente.» obbiettò Yuta, e voltò la testa per fargli un complice occhiolino. Danny le sorrise, grato.

Entrando nella cosiddetta camera degli ospiti, trovarono Kumals sdraiato sulla schiena che fumava e Uther che frugava nella sua sacca, a gambe incrociate sull’altro letto.

Quest’ultimo alzò gli occhi vedendoli entrare, e chiese «E Ramo?»

«La validità della vostra gara è stata annullata e si è deciso a maggioranza che dormirete in due in un letto.» annunciò Yuta.

«Da quando in qua in questa casa si fa uso della democrazia?» chiese provocatoriamente Uther, sogghignando.

«Oh, no, questa non è affatto una democrazia. È una tirannia. E io sono il tiranno e così ho deciso.» disse Yuta, con un sorrisetto piuttosto sadico.

«Ti si addice molto.» commentò Kumals dal letto.

«Hai anche deciso chi deve dormire insieme?» chiese Uther distrattamente, mentre trovava finalmente ciò che stava cercando con tanto impegno nella sua sacca: estrasse la bottiglia di grappa. La agitò con aria critica e un po’ contrariata, vedendo che ne erano rimaste solo quattro dita, come se agitarla avesse potuto moltiplicare la quantità del liquido.

Per qualche motivo, quando Uther aveva parlato Kumals si era alzato su un gomito, perdendo la sua aria rilassata, e aveva iniziato a lanciargli una serie di sguardi significativamente allusivi a qualcosa. Uther lo ignorò deliberatamente, ma parve pentirsi seriamente di aver parlato.

«Mhm… no, perché in fondo sono magnanima almeno un po’.» disse Yuta «Questo sceglietelo voi. Estraendo a sorte, tipo. Non correndo in giro a sfasciare la casa o facendo a gara a chi piscia più lontano qui fuori.» intimò.

«Io dormo da solo.» disse subito Kumals.

«Ah, e perché proprio tu?» chiese con pesante sarcasmo Uther.

«Se me lo chiedi tu non rispondo…**» canticchiò Kumals. Gli occhi di Uther iniziarono a realizzare uno sguardo piuttosto seriamente alterato.

«E non decidete solo voi due, ma tutti e quattro!» disse ancora Yuta, scegliendo di ignorare, pur avendolo chiaramente colto, lo scambio di messaggi codificati tra i due. Quindi si rivolse a Danny «Vieni a darmi una mano con la branda per favore?»

«Quale branda?» indagò Uther.

«C’è una branda, ci dormirà Justin.» disse Danny.

«Si potrebbe dormire in due nella branda…» disse Kumals, cercando di infastidire qualcuno. Uther gli rivolse un’altra occhiata di fuoco.

«Ma cosa stanno dicendo?» chiese Yuta, mentre già lei e Danny erano tornati nel corridoio.

«Non ne ho idea.» rispose Danny, scuotendo la testa con un sorrisetto d’abitudine «Quando scherzano tra loro non si è quasi mai capito niente, lo sai…»

«Sì. Vero.» disse Yuta con sicurezza.

«Però…» iniziò Danny, ed esitò.

Yuta lo guardò, come invitandolo a proseguire.

«Però erano bei tempi, no?» disse quasi timidamente il ragazzo, spiando di sottecchi la reazione di Yuta.

La ragazza sorrise leggermente, assumendo un’aria un po’ assente, riflettendo sul passato.

«Sì, tutto sommato… sì.» rispose solo, con un sorriso rivolto ai ricordi.

*

***

*

Era scesa la notte da diverse ore, ormai. Nella cucina, Uther, Danny e Ramo sedevano intorno al banco, giocando a carte e bevendo birra.

«Tadaan.» eruppe Danny, buttando tutte le carte che aveva in mano sul tavolo, con un sorriso vincente.

Ramo lo guardò, per un attimo stupito, e poi si sporse a guardare le carte che già Uther, appoggiatosi su un gomito e chino in avanti, stava analizzando da vicino. Dopo un po’, Uther si tirò indietro, guardando Danny con una smorfia tra il divertito e l’arrendevole, e dopo poco anche Ramo si raddrizzò di nuovo e gettò le sue carte sul tavolo con aria esasperata.

«Ma non si può!» protestò Ramo «Sai a malapena giocare, ma hai una fortuna sfacciata!»

Danny gli rivolse uno smagliante sorriso da smargiasso. «Oppure siete voi ad essere sfortunati… Comunque, potresti semplicemente ammettere di aver perso.»

«Adesso vedremo…» disse Uther, raccogliendo le carte e rimescolandole con deciso impegno, desideroso di rivincita come se ne andasse del suo onore.

«Ah… beh, penso che io lascio qui. Vado a letto…» annunciò Ramo, alzando le braccia sopra la testa, stirandosi e sbadigliando generosamente.

«Ma come!» protestò con una certa delusione Uther.

«E dai…» aggiunse Danny, cercando di essere persuasivo.

«No, davvero… avevo detto che era l’ultima almeno cinque partite fa!» ricordò loro Ramo.

«Guarda che ormai Valentine starà dormendo…» disse maliziosamente Danny.

«Guarda che siamo in due stanze diverse.» gli ricordò un po’ cupamente Ramo.

«Ah, è vero… ma allora qual è la scusa?!»

«Che sono stanco, ad esempio?» ribatté Ramo, sarcastico.

«Banale…» commentò Danny.

«Ma va là, và!» disse Ramo, rifilando una breve pacca sulla spalla di Danny mentre si alzava.

«Beh, buonanotte a tutti.» aggiunse.

«‘notte.» disse Uther, alzando solo per un momento lo sguardo amichevole dalle carte che aveva già ripreso a distribuire tra lui e Danny.

Ramo si soffermò a guardarli con aria dubbiosa. «Continuate fino a domattina?» si informò.

«Non credo proprio.» gli sorrise Danny.

Ramo annuì con aria assonnata, rivolse un breve cenno di saluto a Danny ed Uther e lasciò la cucina, avendo cura di richiudere la porta alle sue spalle.

«Perché non ci spostiamo di là?» chiese Uther.

«Ci sta dormendo Justin.» gli rammentò Danny.

«Ah, sì.» disse solo Uther, con una lieve smorfia.

Danny sorrise appena, prese la sua birra per portasela alle labbra e si accorse che era ormai vuota. «Accidenti…» si lamentò debolmente.

Uther, già intento a sistemare le sue carte, gli lanciò un’occhiata per accertarsi di cosa stava facendo, capì, e riappoggiò le carte. Si alzò in piedi e prese a girare per la cucina, aprendo e chiudendo sportelli a casaccio.

«Che fai?» chiese confuso Danny.

«Ci deve pur essere qualcosa da bere, da qualche parte…»

«Gli abbiamo già bevuto un sacco di birra!» notò Danny.

«Vabbeh… ma solo qualcosina per bagnarsi le labbra…»

Danny rivolse un sorrisetto sardonico alla schiena di Uther, impegnato a frugare in giro.

Dopo un po’ il ragazzo si fermò e disse «Ah, ecco…», e Danny tornò a guardarlo, proprio mentre lui si rialzava dall’accuccio davanti a uno sportello, e si voltava per mostrargli con soddisfazione una bottiglia di vodka.

Danny si illuminò per un momento, ma poi tornò dubbioso «Ma io non credo che…»

Uther alzò le spalle, e richiuse lo sportello dietro di lui con un piede, tornando poi a sedersi, appoggiando la bottiglia sul tavolo. In men che non si dica l’aveva già aperta, svitando con rapida abilità il tappo. «Ce ne sono delle altre, tranquillo.» disse, rivolgendogli un sorrisetto contento e ammiccante.

«Beh… allora immagino che…» iniziò Danny, guardandolo prendere un sorso e gustarselo facendo un paio di schiocchi di gradimento con la lingua.

Uther gli porse la bottiglia, mandandogli al naso una deliziosa zaffata di vodka al limone fatta in casa. Danny la prese, infine, mentre Uther tornava a sedersi con aria soddisfatta e riprendeva in mano le carte.

Dopo un po’ che giocavano e bevevano in silenzio, Danny riprese la parola con più sicurezza. «Ma poi dov’è che dovrei dormire io?»

«Non ne ho idea.» disse distrattamente Uther, continuando a studiare le sue carte.

Il fatto era che quel pomeriggio avevano tutti avuto da fare.

Il Conte si era ritirato a studiare le carte che si era portato dietro – o forse a dormire –, chiudendosi nella buia e muffosa soffitta dove avevano spostato faticosamente la sua bara; Danny non si sarebbe stupito eccessivamente se di lì a poco avesse iniziato a riferirsi al sottotetto, che già apprezzava per la sua aria di ragnateloso semi-abbandono, come i suoi ‘appartamenti’. Da un piano semi-interrato alla soffitta, il passo non era forse così ampio come la distanza materiale faceva supporre. Non per il Conte almeno. C’era da chiedersi se avesse già iniziato a progettare con quale sontuoso arredamento decadente si poteva arredare. Difficilmente questa sarebbe parsa una buona idea a Yuta e Zoal: il loro stile era decisamente diverso. E comunque, per Danny era ancora un mistero come Kumals fosse riuscito a convincere il Conte ad abbandonare il famoso dipinto del voivoda*** Vlad III di Valacchia.

Valentine e Ramo si erano eclissati nel primo pomeriggio per dedicarsi a una lunga passeggiata nel bosco con Tirch. Erano partiti ancora discutendo tra di loro, in scherzosa e singolar tenzone, con le loro frasi di schermaglia che echeggiavano tra i tronchi e i cespugli del bosco, tra i quali il cagnetto tripode saltellava vivace ed entusiasta come un leprotto ad aprile. Quando erano tornati, parlavano tra di loro più o meno sommessamente, si tenevano per mano, e si rivolgevano sorrisi alternati a baci e a qualche breve frase in tono confidenziale che, a giudicare dalle loro espressioni, poteva essere scherzosa, o seria, o romantica, o anche completamente senza senso. Del resto, avevano passato quasi il resto della giornata e della serata a tubare tra di loro in quel modo piuttosto riservato, ma eloquentemente tradito dalla natura dei loro sguardi. Persino gli sguardi sornioni e ammiccanti di Kumals venivano ignorati con una invidiante naturalezza un po’ assente da Ramo.

Uther aveva passato quasi tutto il pomeriggio con Yuta, aiutandola a rifornire le mangiatoie per animali, a disporre le ciotole col cibo per gatti, e infine a cucinare qualcosa da cena. Per il loro chiacchiericcio divertito, e a tratti quasi cospiratorio, non era immediatamente chiaro di chi fosse stata originariamente l’idea di aggiungere del vino rosso per aromatizzare la portata principale della serata. Come che fosse, il piano era riuscito: dopo averli seguiti ed essere stato loro nei piedi per la maggior parte del tempo, chiedendo continuamente cosa poteva fare per essere d’aiuto salvo poi annoiarsi dell’incarico e abbandonarlo a metà o svolgerlo accuratamente male, Justin era stato preso da un’acuta sonnolenza, dopo aver cenato, ed era andato a coricarsi nella sua brandina molto presto. Yuta ed Uther avevano continuato a mostrarsi estranei alla vicenda con  placidissima nonchalance. Sulle labbra di Uther e negli occhi di Yuta, tuttavia, faceva capolino a tratti, furtivamente, un certo divertimento soddisfatto.

Quanto a Kumals, si era fatto i fatti suoi così bene che era difficile stabilire esattamente cosa avesse combinato delle ore tra il pranzo e l’andare a letto. Danny, che aveva passato le sopraddette ore ad aggirarsi per il bosco e per la casa, accompagnandosi di tanto in tanto a Yuta ed Uther per essere d’aiuto nei lavori che svolgevano o soffermandosi a occhieggiare i libri sparsi per le stanze – che andavano dai romanzi di ottocento e novecento fino a libri semi-specialistici sulle cure fitoterapeutiche e omeopatiche per umani ed altri animali, passando per libri di cucina e guide alle piante selvatiche commestibili e/o curative –, senza trascurare  di trovare tempo anche per sostare semplicemente sdraiato a prendere un po’ del pallido sole, avrebbe potuto giurare di aver intravisto Kumals almeno una volta: seduto su una delle poltrone del salotto, fumava distrattamente, lo sguardo assorto in densi pensieri, e un libro aperto appoggiato sulle ginocchia. Danny aveva capito al volo che non era il caso di distrarlo dai suoi rimuginamenti.

Della sistemazione per la notte, insomma, nessuno aveva avuto il pensiero o la voglia di riparlarne. Ma Danny aveva ottimi motivi per sospettare che Kumals avesse comunque già preso possesso di un letto, e fosse estremamente riluttante, per non dire fermamente convinto a non condividerlo. Pena venire spinti per terra durante la notte, con tanto di finzione di averlo fatto nel sonno senza accorgersene da parte di Kumals.

«Mi sa che questo giro è mio.» disse Uther, lasciando trapelare un’espressione di quasi boriosa vittoria nel posare le sue carte scoperte sul tavolo.

Danny lo guardò, colto di sorpresa.

E capì che la vodka, deliziosa, doveva aver già iniziato a fare loro un certo effetto. Non tanto quanto perché lui aveva perso, quanto perché ora giocavano entrambi con maggiore abilità.

 

 

 

* forse non ci sarebbe bisogno di dirlo perché penso che quasi nessuno non la conosca… comunque queste parole sono tratte dal testo della canzone ‘Cuccuruccù Paloma’ di Franco Battiato, con tutti i diritti e i meriti riservati.

** questa invece è una frase storpiata dalla canzone ‘Mare Nero’ di Lucio Battisti

***voivoda: termine slavo che in origine designa il comandante militare, ma anche regnante di territori, o ‘principe ereditario’… etc. Almeno, questo apprendo da wikipedia.

 

 

Note dello scribacchiatore:

L’azione stenta un po’ a tornare. Mi sembrava appropriato concedere altro spazio per presentare un po’ meglio i nuovi personaggi, e chiarire ulteriormente, con qualche spaccato quotidiano, i rapporti tra i vari personaggi, e i loro modi di fare, tipici peraltro di questa nuova ambientazione :) Già dal prossimo capitolo, comunque, ricominceremo ad occuparci delle questioni centrali dell’avventura di questa storia…

Dimenticavo, cosa che avrei già dovuto scrivere nel precedente capitolo in effetti…: il nome ‘Valentine’ è previsto per essere pronunciato all’inglese, ovvero ‘valentain’, ma se preferite la pronuncia letterale fate pure :)

 

a Lucretia: argh! Scusa per la svista sul nome! Evidentemente l’allergia mi rincretinisce peggio di quel che pensavo... Comunque, appena letto la tua recensione sono volato a correggere.

Oltre a farmi molto piacere che ti sia piaciuto il capitolo precedente – e spero che anche questo ti risulti gradevole -, resto colpito molto positivamente dalla sensibilità e perspicacia che puntualmente salta fuori nelle tue recensioni, tanto riguardo alle ambientazioni quanto – e specialmente – ai personaggi! Sono quasi per consigliare la lettura delle tue recensioni come ‘guida’ a questo racconto… E comunque, questa volta sono particolarmente contento perché dalle tue parole mi sembra di potermi ritenere abbastanza soddisfatto: sembra che io sia riuscito a rendere abbastanza come volevo certi particolari, atmosfere, e delineamenti di personaggi e loro relazioni interpersonali. Oppure sono le tue recensioni che risaltano tutto in positivo? ;)

Le persone reali da cui prendono ispirazione i personaggi che animano il racconto a partire dal capitolo scorso – Yuta e Valentine, ma manca Zoal, come hai notato, però non posso anticipare nulla su di lei… ^^; - sono effettivamente così: spensieratamente e naturalmente e tremendamente ‘a modo loro’ (in maniera non studiata e calcolata, come potrebbe essere invece la natura dei modi di altri… vero, Conte?), così come il luogo che ha ispirato la casa lilla… Benché abbia modificato, e continui a farlo, diversi particolari specifici, quel che mi preme è trasmetterne il nucleo fondamentale nel racconto… non voglio tradire gli originali, in questo :)

Ah ah ah, no, credimi, non è per fare il prezioso (o il sadico?) che non svelo subito determinati aspetti di relazioni interpersonali, aspetti del passato, o altro, ma perché per alcune cose mi serve spazio a livello di trama – e qui ci sono troppe persone e cose in ballo (letteralmente, quasi) – e vorrei per il/la lettore/trice prima far conoscere ancora meglio e un po’ più da vicino certi personaggi, certa parte del loro passato, certe sfumature che non saltano all’occhio così facilmente, anche perché col tempo e l’esperienza si può diventare non poco abili a travisare o dissimulare certi aspetti di sé.

Non ho idea se lo scorso sia il primo capitolo che non inizia con la parola ‘Danny’… e non vado a ricontrollare nemmeno io perché poi le coincidenze casualmente significative mi intimidiscono :p In ogni caso, se è così non era voluto :)

Deh, capisco il rammarico per questi giorni che le stagioni sembrano tornare all’indietro verso l’inverno… Non so com’è da quelle parti, ma qui capita spesso che aprile faccia di queste finte. Una volta è pure venuta una nevicatina ad aprile inoltrato, qualche anno fa. Ma poi passa sempre. Mese con un certo senso dell’umorismo, si diverte a fare qualche tiro mancino, ma poi deve pur cedere il passo al tempo seriamente caldo e soleggiato!

Alla prossima, con furore (vista l’animazione di certi personaggi… )

 

Ritorna all'indice


Capitolo 12
*** 10 - SVEGLIA SVEGLIA ***


Capitolo 10

(SVEGLIA SVEGLIA)

 

Danny era solito essere svegliato facilmente da ogni minimo rumore abbastanza vicino e che gli risultasse diverso dai suoni di sottofondo che considerava non allarmanti, in quanto tipici del luogo in cui si trovava a dormire. Quella notte, ad esempio, non di rado aveva sentito rumori provocati da qualche gatto che si aggirava per la stanza, o l’occasionale russare di Kumals e di Ramo.

Ma quando sentì delle voci vicine a lui, non riuscì a riprendere abbastanza lucidità da svegliarsi del tutto, stranamente, nonostante riuscisse persino a capire le parole, benché solo da sveglio, più tardi, avrebbe potuto comprenderne esattamente il significato compiuto.

«Ma guarda qui…» sembrava la voce di Kumals, e il suo tipico tono critico.

«Hem… sei sicuro che sia una buona idea? Voglio dire, se io stessi dormendo non mi piacerebbe essere svegliato in questo modo, e anzi potrei reagire piuttosto male…» era decisamente la voce di Ramo, esitante.

«Al diavolo.» concluse Kumals, con una sfumatura decisa di menefreghismo risolutorio.

Un attimo dopo qualcosa di freddo precipitò addosso a Danny dall’alto, rifilandogli un brusco schiaffo scrosciante su buona parte del corpo.

Il ragazzo si svegliò di botto, e solo per poco non balzò subito a sedere, ancora boccheggiante per la sorpresa. Ma gli occorse poco per capire di essere stato aggredito nient’altro che da dell’acqua, a giudicare dalla vivida sensazione di bagnato sulla pelle e sui vestiti inzuppati.

Qualcosa, o forse qualcuno, di fianco a lui, e che fino a un momento prima era stato appoggiato alla sua schiena e immobile nel sonno, si svegliò molto più bruscamente.

Danny si voltò sulla schiena, ancora intontito dal sonno, e fu colpito dall’odore in cui era avvolto come in un bozzolo piuttosto appiccicoso, anche se tutto sommato gradevole. Odore di alcool, di vodka precisamente. Vodka trasudata attraverso il corpo con l’alito e con il sudore, e che il più anonimo odore dell’acqua che gli era precipitata addosso non valeva ad intimidire. Aprì gli occhi, e la vista gli si snebbiò rapidamente, permettendogli di riconoscere Uther semisdraiato di fianco a lui, e con un’espressione talmente furente che il suo sguardo avrebbe idealmente potuto far evaporare tutta l’acqua che avevano loro gettato addosso.

Poi distinse bene due figure che li fissavano, in piedi di fianco al letto.

Kumals lo guardò, evitando volutamente lo sguardo penetrante di Uther, e abbassò le braccia con cui ancora reggeva il secchio che aveva loro vuotato addosso. Sorrise sornione. «Ma buongiorno!» li salutò ironico.

Ramo, di fianco a lui, sembrava avesse molta voglia di essere ovunque tranne che lì, e chiaramente temeva la reazione di Uther, il quale, sgocciolando acqua dai capelli, continuava a guardarli fisso.

Alla fine Ramo si schiarì la voce e riuscì a dire «Abbiamo provato a chiamarvi, prima, e abbiamo anche aspettato che vi svegliaste, ma visto che non c’era verso… beh, in ogni caso è un’idea di Kumals. Io non ero del tutto d’accordo.»

Uther si passò una mano sulla faccia, per togliersi un po’ d’acqua o forse per svegliarsi meglio, e allo stesso tempo poteva essere un gesto per tentare di recuperare la calma e di non abbandonarsi né alla rabbia né all’esasperazione.

«Comunque puzzate di alcool. Una lavata vi può solo fare bene.» puntualizzò Kumals, che non sembrava minimamente pentito del suo gesto.

Danny continuava a cercare di riordinare le idee.

Evidentemente si trovavano nella cosiddetta stanza degli ospiti di Yuta e Zoal. E dal momento che non riusciva a ricordare per niente come ci era arrivato la sera prima, e per la verità non ricordava niente oltre il punto in cui lui e Uther avevano iniziato a sbronzarsi seriamente e a sbagliare continuamente le carte nel gioco che stavano facendo, qualsiasi fosse stato, optò per la ragionevole supposizione che in qualche modo dovevano essere riusciti entrambi a raggiungere l’ultimo letto rimasto libero e a dormirci.

Concludendo che non c’era niente di allarmante che potesse indurlo a stare ancora sveglio molto a lungo, e visto che tutto ciò che il suo corpo e la sua testa appesantita gli chiedevano a viva voce era di continuare a dormire, si appoggiò un braccio sugli occhi e si rilassò di nuovo per dormire, con un sospiro.

«Mi dispiace.» ammise infine Ramo, nel silenzio.

«Sono le undici e tutto va male. Quindi datevi una mossa per favore, che è richiesta la vostra presenza.» disse invece Kumals, con piglio piuttosto seccato.

Uther bestemmiò, chiaramente rivolto in modo particolare all’indirizzo di Kumals, e si alzò dal letto con mosse nervose, uscendo poi dalla stanza.

«Di mattina è quasi sempre di cattivo umore.» disse Kumals, come per tranquillizzare Ramo.

«Particolarmente quando viene svegliato a secchiate d’acqua, immagino.» mormorò Danny da sotto il braccio che proteggeva gli occhi chiusi dalla fin troppo aggressiva luce che illuminava la stanza.

«A proposito … te ne serve un’altra o pensi di poterti alzare?» chiese Kumals. Dal suo tono era palese che non gli sarebbe affatto dispiaciuto tornare a riempire il secchio.

Danny sospirò di nuovo e si decise a togliere il braccio dal viso per guardarli. «Ma che succede, si può sapere?» chiese astioso.

«Te alzati e ve lo spieghiamo.» disse solo Kumals, e, secchio alla mano, uscì anche lui dalla stanza.

Rimase Ramo, a guardarlo ancora con aria dispiaciuta, mentre Danny cercava di ricordare, sforzandosi, se la sera prima lui ed Uther avevano fatto qualche guaio alla casa prima di andare a dormire. Sembrò che Ramo interpretasse il suo sguardo pensieroso, perché sorrise debolmente, divertito.

«Niente di particolarmente grave … ma ci sono delle novità.» gli disse, mettendo a nudo per un momento un brillio vivace negli occhi scuri «Siamo già tutti in cucina… Beh … ti aspetto giù …». E quando Danny annuì, il ragazzo sorrise appena di nuovo e anche lui uscì.

Danny si rimise il braccio sugli occhi, e con la scusa che in ogni caso c’era un solo bagno, in quel momento occupato certamente da Uther, si lasciò ricadere mollemente verso il sonno.

Non molto dopo, tuttavia, sentì i rumori di qualcuno che si muoveva per la stanza. E ancora pochi momenti dopo sentì una voce bassa chiamarlo con una certa delicatezza.

«Danny.»

L’interpellato si sforzò di riprendere ancora coscienza, trattenendo un lamento di fastidio assonnato, e alzò il braccio per vedere. Uther, vicino al suo letto, mani in tasca, lo guardava in paziente attesa. Per qualche motivo Danny si sentì in imbarazzo, e riuscì pertanto ad alzarsi a sedere, guardando l’altro interrogativamente.

«Sarà meglio che andiamo a sentire…» disse solo Uther, serio.

«Hum … sì, d’accordo.» rispose Danny, e, benché ancora intontito e confuso dal sonno, si alzò dal letto e si avviò in bagno. Prima di chiudere la porta sentì la voce di Uther già sulle scale.

«Io intanto scendo.» gli comunicò familiarmente.

«Sì, arrivo subito…» disse Danny, impacciato.

Aveva la sensazione che ci fosse qualcosa di strano, che gli era parso di intuire appena: qualche indizio che poteva afferrare se solo avesse saputo che cosa stava cercando. In ogni caso, non ne aveva idea.

*

***

*

Scendendo al pianterreno Danny udì per prima cosa un animato discutere collettivo dalla cucina. Quando entrò però si azzittirono tutti, e si voltarono a guardarlo, mettendolo piuttosto a disagio.

«Beh … Su, non guardatemi così.» disse, con un mezzo sorriso «Che succede?»

«Buongiorno!» lo salutò amichevolmente Valentine. «Qui c’è del caffè se vuoi.» disse premurosamente, allungandogli una tazza.

«Non riesce a berlo nessuno quello … L’ha corretto Uther.» lo avvertì Yuta, lanciando un breve sguardo sarcastico al nominato, che non la degnò.

Danny prese la tazza e annusò, riconoscendo subito un forte odore di sambuca, misto a quello del caffè.

«C’è una novità.» annunciò Ramo, con un tono da aggiornamento, mentre Danny assaggiava con un piccolo sorso il caffè corretto, trovandolo in effetti molto forte, e riposava la tazza sul bancone cercando di non farsi troppo notare.

«Yuta dice che c’è una scuola d’arte, un istituto privato, un edificio isolato nei boschi a qualche miglio da qui.» proseguì Ramo «E riteniamo che molto probabilmente là non sappiano ancora nulla di quello che sta succedendo in città. Oppure …» esitò, e Danny lo guardò interrogativamente.

«Oppure lo sanno già più che bene e si trovano nei guai.» concluse Kumals con praticità.

«Allora dobbiamo andare là!» esclamò subito Danny, con sicurezza.

«E’ appunto di questo che stavamo discutendo… » accennò Yuta, guardandosi intorno per studiare le espressioni degli altri.

«Cioè?» chiese confuso Danny «Cosa c’è da discutere precisamente?»

«Non siamo tutti d’accordo sul fatto di andare subito là.» spiegò Kumals, senza guardarlo.

«E perché?» chiese quasi animatamente Danny, fissandolo.

Ma fu Uther a schiarirsi discretamente la voce. «Non sappiamo cosa troveremo. Siamo solo in quattro. In quella scuola ci sono molte più persone, e se sono già state tutte prese da quel … quell’”atteggiamento” … saremo in netto svantaggio numerico, per cominciare.»

Danny gli rivolse una breve occhiata dubbiosa, poi chiese a Yuta «E provare a telefonare, intanto?»

«Ci abbiamo già provato. Non risponde nessuno.» disse Ramo.

«Nessuna possibilità che quel posto sia chiuso?» indagò Danny «Dopotutto dovrebbero essere le vacanze di Natale in questo periodo, o qualcosa del genere…»

«Sì, ci sono le vacanze.» ammise Yuta «Ma anche nei periodi di vacanza ci sono sempre degli studenti che rimangono là, perché molti vengono da molto lontano, anche dall’estero … In ogni caso ci dovrebbe essere almeno un custode. Il telefono suona a vuoto. Non c’è nemmeno la solita segreteria telefonica attiva.»

«Come sai tutte queste cose?» si incuriosì Danny.

«Qualche tempo fa un gruppetto di studenti c’erano venute a trovare, credevano fossimo una specie di agriturismo, o qualcosa di aperto al pubblico. Abbiamo chiacchierato un po’ e ci hanno detto queste cose, suppergiù…» spiegò Yuta.

«Allora è chiaro che c’è qualcosa che non va.» disse Danny «No?» insisté, nel silenzio generale.

«Se ci fosse qualcuno ancora in possesso di qualche facoltà mentale avrebbe risposto al telefono.» fece notare Uther.

Danny lo guardò con maggiore attenzione, anche se il ragazzo manteneva lo sguardo abbassato sul tavolo, neanche stesse parlando con esso. «Sempre che il telefono sia raggiungibile per chi è rimasto.» ribatté in risposta.

«Esatto.» commentò Kumals, guardando anche lui Uther.

Evidentemente Danny stava replicando osservazioni che erano già state fatte. Si rammaricò che avessero iniziato a discutere senza di lui, ma cercò di mandare giù in fretta la sua delusione per concentrarsi su quello che stavano dicendo.

«Non capisco che problema ci sia.» disse ancora «Abbiamo i nostri strumenti, ci siamo quasi tutti, sappiamo dov’è il posto e che ci potrebbero essere seri problemi là… cosa ci trattiene?»

«Ma noi non siamo una squadra di recupero e salvataggio.» obbiettò Uther «E se anche ci trovassimo di fronte a una situazione come quella che c’è in città, cosa potremmo fare ora come ora? Non abbiamo idea di cosa stia succedendo esattamente.»

«La maggior parte delle volte non avevamo idea di che cosa stava succedendo prima di intervenire.» gli ricordò Danny.

«Un po’ di strategia non guasterebbe comunque.» insisté Uther «Se aspettiamo l’arrivo di Zoal, che dice di avere diverse informazioni a riguardo, potremmo poi intervenire più utilmente, invece di buttarci alla cieca.»

Danny lo guardò più attentamente. Non riusciva quasi a credere che Uther stesse parlando in quel modo.

«Quando arriva Zoal?» chiese allora a Yuta, come per evitare un confronto diretto con Uther, cosa che sentiva comunque come imminente, e non gli piaceva.

«Probabilmente stasera, forse domani.» disse la ragazza «Se non trova problemi lungo la strada.»

«Siamo già d’accordo che le andremo incontro se ci avverte quando sta arrivando.» aggiunse Ramo «Anche se, ad ogni buon conto, sa già di dover girare il più possibile alla larga dalla città…»

«E’ molto tempo.» osservò Danny «Se là in questa scuola c’è qualcuno nei guai potrebbe essere davvero troppo tempo.»

Kumals annuì di nuovo, con le braccia incrociate, concordando in silenzio. Lui e Uther evitavano accuratamente di guardarsi, e la maggior parte della tensione che aleggiava nell’atmosfera sembrava concentrata nello spazio d’aria che li divideva, notò Danny.

«Sono praticamente isolati. Se non andiamo noi non credo potranno contare su nessun’altro…» disse Ramo, quasi in tono sommesso.

«Poco ma sicuro! Dobbiamo andare.» aggiunse Danny. E tornò a guardare Uther in attesa di una replica, che però non venne. Allora Danny continuò, rivolto direttamente a lui, con calmo e serio interesse «Cosa non ti persuade?»

«E’ un’improvvisata!» sbottò Uther, infastidito per essere stato interpellato in quel modo «E’ vero, ne abbiamo fatte di uscite nel genere in passato, ma non è che le cose siano sempre riuscite bene, tanto per cominciare. Inoltre erano sempre casi isolati e di breve raggio. Qui c’è tutta una città con la gente impazzita, e se addirittura questo è arrivato anche là deve avere un raggio molto più ampio di quello che non temevamo! A questo punto anche il tragitto da qui fino alla scuola e il ritorno potrebbe essere da solo un serio problema. E ancora non sappiamo come affrontare la cosa. Che facciamo se veniamo assaliti di nuovo? Apriamo il fuoco? Se quelle persone possono essere riportate a quello che erano precedentemente ucciderle nel frattempo non sarà loro certo d’aiuto!»

E Danny finalmente comprese. Non era esitazione o paura ciò che frenava Uther. O non sarebbe stato lui. Bensì il timore di non sapere come regolarsi con quel genere di “nemico” che si trovavano di fronte. Qualcosa che non si poteva uccidere, ferire o danneggiare in alcun modo, benché quelle persone preda di una sorta di trance potessero nuocere eccome, pur inconsapevolmente. Ed era sommariamente vero quello che diceva. Loro non avevano alcuna reale formazione riguardante la diplomazia. In genere, quando erano ancora nell’”attività”, fondavano la loro azione sull’attacco e la difesa, l’indagine tutt’al più, ma pur sempre finalizzata a risolvere problemi che in genere necessitavano dell’eliminazione o perlomeno dell’allontanamento o del rendere innocuo il loro “obbiettivo”. Semmai era risultato utile contrattare, in genere non si era trattato di negoziati, ma di chiacchierate burbere dopo che loro e i loro avversari se l’erano date per un po’ di santa ragione, giusto per dimostrarsi reciprocamente con chi avevano a che fare. Adesso erano di fronte a qualcosa da tenere loro lontano senza praticamente toccarlo.

Danny si sentì stupido per non aver considerato anche lui quelle implicazioni, e tutto il suo spirito adrenalinico, già pronto all’azione, si sgonfiò rapidamente.

«Lo so…» disse debolmente «Ma che altra scelta abbiamo… ? Aspettare sarebbe ancora peggio per quelli che ancora non sono ridotti in quello stato…»

«Sempre che ce ne sia qualcuno là in quella scuola.» lo interruppe Uther, mestamente.

«Questo non possiamo saperlo se non andiamo a vederlo noi stessi.» ribatté Danny «Ma non possiamo correre il rischio…»

«Ma se aspettassimo…» insistette ancora Uther «…anche se quelle persone che ancora non sono state contagiate finissero a vegetare come le altre, una volta che sappiamo come riportarle alla normalità potremo riportare anche loro al loro stato originale.»

«Sempre che questo si possa fare… cosa di cui ancora non abbiamo alcuna certezza…» notò cupamente Danny.

Uther lo guardò. Per un attimo gli si dilatarono gli occhi, che poi riabbassò sul tavolo con aria afflitta. Danny si rese conto in ritardo che le sue parole, esprimenti un dubbio che fino a quel momento nessuno aveva osato pronunciare ad alta voce, avevano avuto un duro contraccolpo su tutti.

Nella cucina calò un pesante silenzio, ma lui non poteva più rimangiarsi ciò che aveva detto.

Alla fine, Kumals riprese la parola con pacata determinazione. «E’ inutile fasciarsi la testa prima di averla rotta. Ma in ogni caso, qui non si tratta solo di “contagio”. Quelle persone che sono già … “contagiate” … possono fare del male a chi ancora non lo è, come abbiamo visto noi stessi l’altra sera al porto. Anche o forse soprattutto per questo, se c’è qualcuno in quell’istituto ancora in possesso delle sue facoltà mentali rischia grosso. Io preferirei non avere nessun’altro sulla coscienza. Allora, andiamo?»

Tutti lo guardarono, dopo averlo ascoltato attentamente.

Un pallido sorriso si disegnò sul volto di Danny, che studiò quasi furtivamente le espressioni degli altri, specialmente quelle di Ramo e di Uther.

Quest’ultimo, ancora molto pensieroso, chiese «E che cosa dovremmo portarci dietro?»

«Vediamo… di questo discuteremo meglio… ma… hai ancora dei fuochi d’artificio?» gli chiese Kumals, col sorrisetto di chi trama qualcosa.

Uther sembrò sul punto di chiedergli maggiore chiarezza, ma un attimo dopo sembrò capire, e annuì. «Sì.»

«E’ già un ottimo punto di partenza …» sogghignò ancora Kumals.

«Fuochi d’artificio?» chiese Ramo, perplesso.

«E’ una lunga storia. Te la racconteremo strada facendo.» gli disse Danny, che aveva decisamente recuperato gran parte del suo buonumore. Non poteva fare a meno di sentirsi molto elettrizzato da tutto ciò. La vecchia squadra al completo stava per rientrare in azione! Se qualcuno glielo avesse preannunciato si sarebbe offeso, pensando a una presa in giro dolorosa. Per la verità, ancora stentava a crederci sul serio.

Anche Yuta sembrava in preda a forti emozioni, perché iniziò a rimettere in ordine e pulire un po’ la cucina, azioni piuttosto insolite per lei.

«Ti do una mano.» disse Valentine, affiancandolesi. Quello che voleva nascondere lei, era invece un’espressione preoccupata e contrariata. Pur notandolo, Ramo non disse né fece nulla, anche se il suo viso si rattristò e impensierì.

«Ma dove sono Justin e il Conte?» chiese Danny, accorgendosi in quel momento della loro assenza.

«Justin sta ancora dormendo sulla branda.» lo informò Yuta, senza voltarsi. «Il Conte non l’ho ancora visto. Suppongo sia ancora nel suo let … nella sua bar … nel suo giacigl … su in soffitta insomma.»

«Ma lui di giorno dorme, no?» osservò Ramo.

«Sì, certo.» rispose Danny «Ma credo che andrò comunque a vedere se va tutto bene, e se è sveglio a dirgli che andiamo via … »

«Guarda che qui rimaniamo io, Valentine e Justin.» disse Yuta per tranquillizzarlo.

«Lascialo andare, altrimenti toccherà a voi andare a vedere se è ancora vivo … o ancora morto.» suggerì Kumals.

«Dopo torni giù? Che dobbiamo organizzarci.» gli consigliò Uther, alzandosi dal tavolo e sfregandosi le mani.

Sembrava aver ripreso vivacità anche lui, il che fece sorridere Danny, prima di uscire dalla cucina e, dopo aver lanciato una breve occhiata alla sagoma di Justin avvolta nella coperta sulla branda, dirigersi su per le scale, alla volta della soffitta.

Poco dopo dalla cucina sentirono Danny ridiscendere le scale precipitosamente, e lo videro affacciarsi alla cucina con aria ansiosa. Lo guardarono perplessi.

«Non c’è!» disse Danny, quasi agitato «In soffitta non c’è. La bara è aperta. Dove può essere?»

Ma tutto ciò che ebbe per risposta fu una gamma di espressioni confuse.

 

 

Soundtrack: Underdog (Imagine Dragons)

 

 

Note dello scribacchiatore:

E con questo, ecco qualche chiarimento riguardo alle prossime “iniziative” dei ‘4 di picche’; riguardo al nome e a qualche cos’altro, ci saranno presto chiarimenti... Il Conte? Mah, forse è solo andato a cogliere margherite. Sono tentato di pubblicare uno dietro l’altro due o tre capitoli, perché in questi in particolare la narrazione mi sembra piuttosto piatta… o forse è l’effetto che da rileggerla per l’ennesima volta a caccia di errori… Mah. Comunque sia, non farò attendere molto per il prossimo capitolo.

Il titolo è un omaggio ad una breve ma bella avventura avuta con certe mie complici conoscenze, alcune delle quali hanno ispirato alcuni personaggi di questo racconto. Il ricordo mi fa sempre sorridere... È stato un azzardo niente male, tempo fa…

Ritorna all'indice


Capitolo 13
*** 11 - COME DIVENTARE UN PASSABILE ZOMBIE ***


Capitolo 11

(Come diventare un passabile zombie)

 

«Come sarebbe che non c’è più?» chiese Yuta, un po’ spazientita, riferendosi al Conte.

Lo chiese quasi retoricamente, mentre lei e gli altri seguivano Danny che, a passo di marcia, passava dalla cucina al salotto, per fermarsi a sovrastare la brandina in cui Justin dormiva beatamente. Si abbassò ad abbrancarlo per una spalla e prese a scuoterlo senza particolare scrupolo. Justin si svegliò di soprassalto.

«Che … cosa? Cosa?» chiese precipitosamente, frastornato.

«Sai dove sia il Conte?» lo interrogò Danny.

«Il Conte… » ripeté l’altro, ancora assonnato e confuso. «Ah, ma sarà a dormire… nelle sue stanze…»

«Avanti Justin, fai mente locale!» lo incalzò Danny. «Siamo a casa di Yuta e Zoal, ricordi? Il Conte dormiva in soffitta, ma sono appena andato a vedere e non c’è, è sparito. Sai dove possa essere, ti ha detto qualcosa, qual è l’ultima volta che l’hai visto?»

Justin sbatté diverse volte le palpebre sugli occhi cisposi, con un’espressione ancora molto lontana da quella di chi è in possesso di tutte le sue facoltà mentali.

«Eh? E io che ne so?» disse infine, per tutta replica alla raffica di domande.

«Ascolta…» disse Uther con calma, rivolto a Danny «Sarà in un’altra stanza.»

«Giusto, hai guardato in giro per la casa?» suggerì Valentine, collaborativamente.

Danny li guardò perplesso. «Beh, no. Ma adesso dovrebbe stare dormendo. Voglio dire, è giorno! E comunque mi sembra strano che se ne sia andato in giro da solo senza chiedere niente a nessuno…»

«Va bene, andiamo semplicemente a vedere nelle altre stanze.» risolse Kumals, e precedette tutti gli altri su per le scale.

Solo Justin rimase semi-sdraiato sulla branda, guardandoli ancora piuttosto confuso.

Di lì a poco tutti si divisero, cercando nelle varie stanze del piano superiore.

Finché Danny non aprì una porta, e scoprì una stanzetta ingombra di oggetti, che gli ricordò le stanze della casa in cui aveva vissuto ultimamente; vide una televisione accesa, il cui schermo mandava però solo un disturbo di ricezione in frizzanti righe grigie, nere e bianche, il tutto accompagnato dal tipico rumore sfrigolante di sottofondo.

Ma a catturare l’attenzione del ragazzo in modo particolare fu il fatto che davanti alla televisione era sistemata una poltrona: nonostante la vedesse dal lato dello schienale, riconobbe alcuni sprazzi della figura del Conte, e in particolare del suo nero mantello ridondante, assiso su di essa. Il Conte non diede alcun segno di averlo udito.

Danny tirò un grosso sospiro di sollievo ed esclamò «Ma sei qui!»

«L’ho trovato! È qui!» urlò per avvertire gli altri, mentre si avvicinava alla poltrona.

«Hey, sei sveglio?» chiese ancora, visto che l’altro non si muoveva.

Lo raggiunse e gli appoggiò una mano sulla spalla. «Allora, si può sapere cosa stai … ?»

Ma si bloccò. C’era qualcosa di strano. Il corpo del Conte era singolarmente rigido, eppure egli, lentamente, si mosse.

Ora che Danny iniziava a vederlo meglio, comprese che c’era davvero qualcosa che non andava, e istintivamente ritrasse la mano e fece qualche passo indietro.

Il Conte, con movimenti rigidi e molto lenti, si alzò, e si voltò molto gradualmente verso di lui. I suoi occhi erano vuoti e inespressivi, come ciechi, e la sua faccia era una maschera di insensibilità immobile.

«Oh, no… Maledizione!» si sentì mormorare Danny, prima di rendersi conto di aver parlato.

Il Conte gli stava venendo incontro, con passi pesanti e irrigiditi, così inusuali per lui, dal momento che producevano persino rumore, e continuava a incespicare nell’orlo del mantello. La bocca era semi aperta, come se stesse dormendo, o se fosse in trance.

Allungò le mani verso Danny, il quale continuò ad arretrare verso la porta aperta alle sue spalle, senza saper meglio cosa altro fare, e sconvolto dalla scoperta. L’altro tuttavia accelerò quasi bruscamente, le mani tese e le dita contorte come ad artiglio. La sua espressione iniziò a cambiare lentamente, innaturalmente, come se qualcosa dall’esterno la modificasse con violenza, modellandola come una maschera di cera. I suoi lineamenti si corrugarono, e la sua bocca si piegò in una smorfia di rabbia ebete ma travolgente, mentre gli occhi rimanevano imperturbabili.

Danny, ancora ipnotizzato dall’orrore per ciò che stava accadendo al Conte, raggiunse la soglia della porta nell’istante in cui il Conte raggiungeva lui, afferrandolo alla gola con le mani, in un gesto che era più un aggrapparsi che altro. Danny perse l’equilibrio all’indietro, inciampando nella soglia lievemente rialzata, e il Conte inciampò nel contempo nel proprio mantello sbilanciandosi pesantemente in avanti.

Entrambi crollarono in mezzo al corridoio, e allora Danny iniziò a sentire che le mani attorno alla sua gola iniziavano inequivocabilmente, anche se molto lentamente, a stringere la presa. Sentì le unghie lunghe e laccate di nero del Conte che incominciavano a perforargli la pelle, ed egli lo afferrò precipitosamente per gli abiti, cercando di scrollarselo di dosso.

Ma nel corridoio c’erano ancora tutti gli altri. Qualcuno emise un breve gemito soffocato di sorpresa, ma Uther scattò in avanti, fulmineo, e si gettò di peso addosso al Conte, come se lo dovesse placcare. Danny sentì le mani del Conte perdere la presa sul suo collo, mentre lui e Uther rotolavano un paio di volte sul pavimento, lontano da lui.

Danny si rimise seduto, massaggiandosi il collo, e spalmandosi addosso inconsapevolmente il suo stesso sangue, quella quantità minima prodotta dai graffi delle unghie del Conte.

«Non fargli male!» urlò alle due figure, impegnate in una specie di strana colluttazione.

«A chi ti riferisci?» chiese rabbiosamente Uther, e sganciò un pugno in piena faccia al Conte, il quale non fece una piega.

Mentre Uther colluttava nel vero senso del termine, cercando di immobilizzare l’altro, con movimenti scattanti e alterati dalla rabbia della lotta, il Conte si muoveva con esasperante lentezza, e con azioni illogiche, come afferrare i vestiti dell’altro o cercare di aggrapparsi al suo naso, ai suoi capelli e così via; ma allo stesso tempo sembrava non sentire alcun dolore, e la sua forza sembrava persino superiore a quella di Uther, cosa assurda considerando che invece la sua muscolatura era esile e del tutto fuori esercizio rispetto a quella del suo avversario.

«Stai bene?» chiedeva intanto ansiosamente Valentine, chinandosi di fianco a Danny e appoggiandogli una mano sulla spalla.

«Ma sì, non mi ha fatto niente… è del tutto innocuo, Uther non metterci tutta la forza o…» ma esitò, notando che non era il Conte quello più in difficoltà al momento.

«E allora! Se non devo nemmeno fargli male! Datemi una mano!» esclamò a denti stretti Uther, che aveva optato per afferrare il Conte per i polsi, ma aveva serie difficoltà a mantenere le mani e il viso dell’altro lontani da sé.

Al suo richiamo Kumals e Ramo, che fino a quel momento erano rimasti stupiti a guardare la scena, si riscossero e si mossero rapidamente, raggiungendo i due e aiutando Uther a bloccare i movimenti del Conte. Occorse la piena collaborazione di tutti e tre per ottenere un buon risultato.

«Ma … anche lui … ?» iniziò a chiedere timorosamente Yuta, guardando incredula il Conte, immobilizzato dagli altri tre.

«A quanto pare.» rispose solo Kumals, il tono alterato dallo sforzo, mentre Danny abbassava la testa, in silenzio.

«Hey!» lo richiamò Ramo, osservandolo «Stai sanguinando.»

«Non è niente, mi ha solo graffiato …» rispose cupamente Danny a testa china.

*

***

*

Il Conte stava ritto in piedi, immobile e impassibile, dietro la porta della stallo per cavalli dentro cui l’avevano chiuso. La parte inferiore del suo corpo era nascosta dalla parte inferiore della porta, costituita da uno spesso pannello di legno grezzo, mentre quella superiore era visibile attraverso lo sportello superiore in sbarre metalliche.

«Quindi … starà qui …» disse Danny lentamente, con incertezza, guardando il Conte, che sembrava di nuovo cieco e immoto.

«Non vedo altra soluzione al momento.» notò con praticità Kumals.

«Mi dispiace…» disse piano Yuta a Danny.

Calò un denso silenzio. Infine Danny sospirò, si avvicinò alle sbarre e si rivolse al Conte.

«Ti prometto che sarà solo finché non troveremo una solu…» ma fu interrotto bruscamente da due gesti quasi simultanei.

Uno fu quello del Conte, che allungò all’improvviso le braccia in avanti attraverso le sbarre, verso di lui, per afferrarlo. L’altro fu quello di Uther, alle spalle di Danny, che lo agguantò per il giacchetto e lo tirò all’indietro senza tanti complimenti, fuori dalla portata del Conte.

«Io credo che questo sia il posto migliore.» commentò Uther tra i denti.

Come ricordandosi di qualcosa, Danny distolse lo sguardo molto triste dal Conte e voltò la testa a guardare Uther.

«Ti ha fatto male, prima?»

«Tsk.» si schernì Uther, lasciandogli andare il giacchetto. «No, per niente.» rispose, con una breve alzata di spalle.

«Questo perché non è capace o non sa come si tira un pugno…» notò Ramo «Altrimenti avrebbe steso chiunque di noi … Ha una forza incredibile … E non sente dolore, a quanto sembra, anche se gli si fa del male.»

«Però non è esente dal subire danni.» aggiunse Kumals, guardando la faccia impassibile del Conte «Si vede già l’ombra di un livido dove Uther lo ha colpito.»

«Cercavo di fargli solo perdere i sensi per non dovergli fare più male.» spiegò Uther, senza particolare rammarico.

«Ma questo non funziona…» disse pensierosamente Kumals. «In fondo avevi ragione…» ammise, rivolto ad Uther «Sarebbe molto difficile ingaggiare un vero e proprio combattimento con loro senza fargli seriamente del male…»

«Ma come può essere successo?» chiese angosciosamente Valentine.

«Questo è veramente strano infatti.» le fece eco Yuta «Insomma, cosa ha fatto lui che noi non abbiamo fatto, per cui potrebbe essere stato contagiato?»

«Beh … lui è astemio …» disse Uther, saggiando il terreno con la prima cosa che gli era venuta in mente.

«Se è per questo neanche Justin ha bevuto niente ieri.» gli fece notare Ramo, con sguardo divertito.

«Stavo solo cercando di dire che non ha bevuto e mangiato quello che abbiamo mangiato tutti noi.» specificò Uther. «In effetti ha mangiato … cioè bevuto … solo quel sangue. Forse è quello che era contaminato. Lo prende dal macellaio giusto? Forse c’era qualcosa nella carne, un virus, tipo BSE*…»

«Non credo…» lo interruppe Danny «Lui il sangue lo va a prendere in grandi quantità una volta ogni tanto, e poi lo conserva. Quello doveva essere di almeno una settimana fa. Non avrebbe senso, considerato che tutte le persone in città hanno iniziato a manifestare l’altro ieri, circa, e lui con il sangue di una settimana fa appena lo ha bevuto … e poi tutti in una volta quelli della città … non ha senso …»

«Dev’esserci qualcos’altro che ha fatto solo lui.» disse Ramo.

«Ah, beh, se è per questo ci sono un mucchio di cose che quasi nessun’altro farebbe!» commentò con sarcasmo Kumals «Tipo dormire in una bara, dormire solo di giorno, andare in giro con un lungo mantello nero, e …»

«La televisione!!» gridò Danny, facendo sobbalzare tutti, che poi lo guardarono con espressioni stupite.

«La televisione … ?» ripeté Ramo, incerto.

«E’ vero!» disse Yuta come se avesse avuto una rivelazione «E’ l’unico che si  è messo a guardarla prima, e tutto da solo. Però … non funzionava nemmeno …»

«Questo è difficile da dire.» ribatté Danny «Potrebbe aver schiacciato pulsanti a caso sul telecomando quando ha iniziato a cadere in questa specie di trance, e aver selezionato un canale che non prende … ma … in ogni caso! È l’unica cosa che ha veramente fatto che nessun’altro di noi … Insomma, io non guardo la televisione da parecchio. L’altra sera abbiamo visto solo una videocassetta.»

«Aspetta solo un momento, stai veramente dicendo che …» iniziò ad opporsi ragionevolmente Kumals.

«Qualcuno di voi ha guardato la televisione di recente?» lo interruppe con urgenza Danny.

Tutti scossero la testa o dissero di no.

Alla fine anche Kumals sospirò e ammise «No. Ma questo non vuol necessariamente dire che…» continuò a tentare di controribattere.

«Comunque, per sicurezza da questo momento non la guarderemo più.» lo interruppe nuovamente Danny, con decisione.

«Va bene, non credo comunque che nessuno di noi qui si sarebbe messo a guardare la televisione, già non lo facciamo praticamente mai, figuriamoci in questo frangente.» osservò Yuta.

«Tranne che … dov’è Justin?» chiese Danny, aggrottando la fronte.

«No, eh? Non di nuovo.» incominciò a protestare Kumals.

«L’ultima volta che l’ho visto, e che gli ho spiegato cos’era successo…» lo informò Valentine «…era su nel corridoio…»

La ragazza fece appena in tempo a finire di parlare che gli altri, dopo essersi lanciati brevi occhiate reciprocamente, si erano lanciati di corsa fuori dalla stalla e dentro casa, quasi incastrandosi nelle porte nella foga.

Corsero su per le scale, e poi verso la stanza dove avevano trovato il Conte.

Il primo a precipitarsi dentro, che aveva distanziato di qualche metro gli altri, fu Danny, e si lanciò subito quasi addosso a Justin, il quale stava girando i canali col telecomando cercandone uno che prendesse la ricezione. Danny gli strappò di mano il telecomando, individuò frettolosamente il tasto di spegnimento e lo pigiò con forza. La televisione si spense.

«Hey!» protestò Justin, indignato «Ma che ti piglia?»

Tra gli altri che erano caracollati dentro la stanza avanzò Ramo, a grandi passi. Raggiunse la televisione, alzò sopra la testa la mazza che impugnava e la abbatté sullo schermo dell’apparecchio, che si incrinò. Il ragazzo ripeté l’operazione altre due o tre volte, finché non mandò in frantumi lo schermo. Subito dopo si accorse del silenzio che lo circondava, e si voltò a guardare le facce attonite degli altri, mentre riprendeva fiato.

Cogliendo i loro sguardi sorpresi si imbarazzò, tornò a guardare lo schermo rotto e abbassò lentamente le braccia con la mazza lungo i fianchi.

«Hem … scusate … credo di essermi lasciato un po’ prendere…»

«Sì, credo anch’io.» non gli fu d’aiuto Kumals.

«Forse bastava spegnerla.» sogghignò divertito e ammirato Uther.

«In ogni caso non la guardavamo mai…» disse Yuta, accennando un’intenzione di conforto.

«Maledizione!» si sfogò Danny, lanciando per terra con forza il telecomando che aveva ancora in mano, giusto per sfogare il suo nervosismo e la sua frustrazione.

Justin continuava a spostare lo sguardo perplesso e spaventato dall’uno all’altro.

«Ma … siete tutti impazziti?» chiese infine debolmente.

Dopodiché, si ritrovò a considerare con esitante preoccupazione la folla di sguardi irritati e corrucciati che si erano fissati su di lui con una certa insistenza. Deglutì. «Mi sono perso qualcosa…

Con sua sorpresa, questo non migliorò affatto la natura delle occhiate eloquenti che gli erano rivolte.

 

 

* meglio conosciuto come ‘morbo della mucca pazza’

 

Soundtrack: ‘The sun always shine on T.V.’ (Milk.Inc.)

 

Note dello scribacchiatore:

Ebbene, uno in meno…. No, intendevo di capitoli, uno in meno da pubblicare online…  Al prossimo forse sapremo qualcosa in più sui ‘4 di picche’. Se non altro, un po’ d’azione vera e propria è tornata, direi, proprio prima che mi venisse la tentazione di picchiettare discretamente sulla spalla di qualche personaggio per ricordargli cosa ha creato il contesto per le loro allegre reunions. Bien, al prossimo capitolo.

 

A Lucretia: oilà! :) Dunque, mi dispiace per quel ‘te-soggetto’… il fatto è che Kumals non poteva esprimersi diversamente senza perdere efficacia, direi. Quel ‘te’ è espressivamente burbero e diretto, almeno per come lo si sente usare da queste parti. La storia della sensazione di inferiorità nella lingua italiana da parte di qualcuno che vive/è nat* più a sud delle zone dove vivo non mi è nuova, anche se è una triste faccenda… In compenso, qui si prova un certo fastidio verso i dialetti ancora più a nord. Io, ad esempio, mal sopporto l’articolo per i nomi propri (la Francesca, lo Stefano) tipicamente milanese, e trovo sgradevole il dialetto bergamasco, almeno in alcune accentazioni… però, tanté, in fondo a forza di condividerseli con gente da tutta Italia o giù di lì, questo multilinguismo è particolarmente bello secondo me, almeno, a me piace assai ;) E’ vero anche che da noi c’è il processo inverso: che si perdono tantissimo i dialetti locali… sai com’è, i miei nonni lo sanno bene il dialetto, i miei genitori abbastanza da parlarlo come lingua parallela, io lo capisco bene, ma se devo parlarlo non vado oltre qualche breve espressione basilare. Insomma, mi sembra triste anche questo… Personalmente, mi piacerebbe essere bilingue e sapere anche il dialetto abbastanza bene…  e in realtà ormai parlo una specie di mischione tra vari dialetti/accenti e modi di dire di varie zone ^^

Riguardo alle osservazioni sui personaggi, le trovo molto azzeccate, almeno in base a quello che si è saputo e che è trasparso di loro fino ad ora ;) Il fatto è che, comunque, i componenti dei ‘4 di picche’ sono ancora un po’ arrugginiti, mi sa. E mentre da parte di qualcuno la ricostituzione del gruppo può essere prima di tutto qualcosa di piacevole, altri forse sono meno convinti. Beh, ognuno avrà i suoi motivi personali e generali e le sue impressioni… si vedrà. :)

Ritorna all'indice


Capitolo 14
*** 12 - ALMENO UN QUATTRO DI PICCHE ***


Capitolo 12

(Almeno un quattro di picche)

 

Nel salotto risuonava la musica di un’audiocassetta, spandendo ‘Ready to go’ dei Banana Republic.

«Mah, ma chi l’ha messa su questa?» chiese Danny, a nessuno in particolare, piuttosto criticamente. Mentre lo diceva finiva di inserire l’ultimo proiettile nella sua seconda pistola, con una mossa rapida e scattante chiudeva il caricatore, e se la sistemava nell’apposita custodia che teneva legata alla cintura.

Gli altri presenti erano troppo occupati in qualcosa per rispondere.

Ramo agitava in aria la sua mazza di legno grezzo, facendola roteare e riprendendola al volo, apparentemente senza motivo, ma provando qualche mossa come per riprendervi confidenza.

Kumals si stava arrotolando una sigaretta.

Justin, seduto sul divano, li guardava con curiosa attenzione. «Quindi io non vengo?» chiese, un po’ dispiaciuto.

«Cielo, no!» rispose d’impulso Kumals.

«Hem… meglio di no, Justin.» spiegò, più diplomaticamente, Danny «Noi ci abbiamo già avuto a che fare con questo genere di… cose…»

«Hum…» mugugnò indeciso Justin «Ma davvero voi… cioè, davate la caccia agli spettri?»

Kumals lo spiò con la coda dell’occhio per un momento, infastidito.

«Beh… sì… non proprio ‘davamo la caccia agli spettri’ ma… una specie…» rispose Danny, evasivo e piuttosto imbarazzato.

«Ah…» disse solo Justin, ma si vedeva che era immerso in sue riflessioni assorte. «Come i Ghostbusters?»

«Quello era un film!» sbottò Kumals, mentre Ramo ridacchiava.

«Lasciamo perdere.» tagliò corto Danny.

«Ma avrete un sacco di cose da raccontare!» protestò Justin.

«Forse. Non adesso comunque.» cercò di placarlo Danny, guardando con preoccupazione gli occhi sfavillanti di interesse dell’altro.

Proprio in quel momento, fortuitamente, Yuta e Uther scesero le scale, reggendo in due un grosso scatolone.

«Beh?» disse Kumals, guardando lo scatolone e le espressioni dei due, quella di Yuta maliziosa e quella di Uther ammiccante.

«Avreste dimenticato una cosa importante.» esordì Yuta, mentre appoggiavano per terra lo scatolone. Nonostante la viva impazienza sul suo volto, Uther lasciò che fosse la ragazza a chinarsi di fianco allo scatolone, ad aprirlo e a trarvi fuori uno per uno tre indumenti.

«Oh, no…» protestò con debole imbarazzo Kumals, trattenendo però a stento un sorriso.

«Oh sì! Eccome.» ribatté Yuta, contenta «Ricordate? Questi fanno parte dell’equipaggiamento basilarmente necessario.»

«Cosa sono?» chiese Justin, curioso.

Nessuno prese in considerazione di rispondergli, ma Danny e Ramo si erano avvicinati allo scatolone, e loro due e Uther presero ognuno uno degli indumenti, alzandoli nella luce, rigirandoli, studiandoli.

Danny scosse un paio di volte il suo, per liberarlo dalla polvere, e Justin si trovò a fissare un giacchetto sportivo corto, di jeans nero. Sulla schiena era stata cucita una grossa toppa: sullo sfondo bianco spiccava in grande il nero simbolo delle picche delle carte da gioco.

Come Danny, anche gli altri tolsero un po’ di polvere dai loro, una sorta di bomber quello di Uther, e una giacca in tessuto grezzo dai bordi sfilacciati e senza maniche quella di Ramo. Anche su queste due spiccava un’identica toppa sulla schiena.

«Non vorrete metterle davvero?» disse Kumals, fingendo indifferenza. Ma si era dimenticato di accendere la sua sigaretta, e continuava a guardarli con un certo interesse, quasi d’aspettativa.

Gli altri tre lo fissarono con diverse espressioni esitanti. Poi, lentamente ma esplicitamente, Danny sorrise, un sorriso contento di sfida, e indossò il suo giacchetto, muovendo le spalle per assaggiarne l’elasticità, e trovando che gli andava ancora a pennello come misura. Uther e Ramo sorrisero anch’essi, e indossarono i loro.

«Bene…» disse Kumals, con un tono di semplice constatazione, e si accese la sigaretta, ostentando ancora una forzata indifferenza.

Dalle labbra di Yuta eruppe una breve risata, cristallina e vivace.

«Perché il simbolo delle picche?» chiese Justin.

«Ah, sì. Dunque…» disse Yuta, come se avesse aspettato l’occasione di spiegarlo a qualcuno «Non ricordo bene com’è nata… ma una sera si scherzava dicendo che non valevano un due di picche. Ma siccome sono in quattro, in fondo sono almeno un quattro di picche.»

«Et voilà.» terminò Kumals, sarcastico.

«E tu non ne hai uno?» chiese Justin, guardandolo.

Kumals gli lanciò una breve occhiata irritata. «No.» rispose lapidario.

«Avanti Kumals, alzati in piedi.» lo spronò Danny, ghignando.

«Se succede lo sentirò.» obiettò Kumals.

«Ma non ci dirai niente.» lo criticò Ramo, deluso.

«Può darsi.» concluse Kumals, pacifico.

Mentre lui fumava la sua sigaretta, Yuta, Ramo, Danny e Uther si scambiarono in silenzio alcuni sguardi d’intesa. Quindi, rapidamente, si gettarono tutti e quattro in avanti, quasi all’unisono, afferrando Kumals per le braccia.

«Hey, fermi!» fece appena in tempo a protestare lui, ma ormai la loro forza era stata sufficiente per tirarlo in piedi di peso. Dopo di che, mentre Ramo e Uther lo tenevano fermo, Danny e Yuta gli girarono intorno e presero a osservare attentamente la schiena del suo grosso e lungo pastrano.

«Allora?» chiese Ramo.

«No, ancora niente…» scosse la testa Yuta, delusa.

«Ma che succede?» chiese confuso Justin.

«Ah, no, aspettate!» esclamò all’improvviso Danny con entusiasmo, e Ramo e Uther tornarono a rinsaldare la presa sulle braccia di Kumals, che aveva un’espressione assai irritata, ma aveva smesso di dibattersi, mostrando una rassegnazione un po’ sdegnosamente paziente.

«Sì! Sì, eccolo qua!» gridò Yuta.

Justin, scontento dell’assenza di qualcuno che gli spiegasse cosa accadeva, si affiancò a Danny e Yuta e spiò il cappotto tra le loro spalle avvicinate. Rimase di stucco. Il tessuto si stava muovendo da solo!

Come se avessero preso vita, in una delimitata zona sulla schiena del cappotto i fili si muovevano, scorrendo serpentini attraverso il loro intreccio reciproco, e cambiando gradualmente colore. Alcuni si fecero di un bianco sporco, grigiastro, altri di un nero cupo e marroncino, difficilmente distinguibile dal colore originale dell’intero cappotto. Finché, lentamente, comparve un accenno di disegno su tessuto, come un tatuaggio un po’ rovinato dal tempo sulla simil-pelle consunta dell’indumento: una carta da gioco, il simbolo delle picche.

«Sì, c’è.» disse piano, quasi riverenzialmente, Danny.

Soddisfatti, Ramo e Uther mollarono le braccia di Kumals e anch’essi gli girarono attorno per guardare il simbolo comparso dal nulla, scostando senza troppi complimenti un Justin rimasto attonito e quasi boccheggiante.

Non appena riprese la parola eruppe in un sonoro «Grande! Incredibile! È un trucco?»

Kumals si voltò per guardarlo male, e per sottrarre lo spettacolo dagli occhi degli altri.

«Va bene. E adesso possiamo andare?» domandò piuttosto severamente.

*

***

*

Quando uscirono dalla casa, trovarono Valentine e Tirch. La ragazza lanciava un bastoncino che il cagnetto si divertiva un mondo a correre a recuperare, anche se poi non gli era del tutto chiaro che era necessario che lo restituisse a lei perché potesse lanciarglielo di nuovo.

Udendoli, Valentine si voltò verso di loro e li guardò con un’espressione seria, anche se si sforzò di sembrare amichevole.

«Allora siete pronti?» domandò.

«Sì…» disse Danny esitante, spiando di sottecchi l’espressione della ragazza e quella di Ramo, divenuta altrettanto seria.

«Se ci dai le chiavi noi intanto andiamo alla macchina a caricare le nostre cose intanto.» aggiunse quasi precipitosamente, rivolto a Ramo.

Questi, senza quasi distogliere lo sguardo da Valentine, annuì, si tolse le chiavi della macchina dalla tasca e le lanciò a Danny, che le afferrò al volo. Un momento dopo Kumals gliele prese dalle mani. Danny lo guardò interrogativamente.

«Se le tieni tu saresti capace di perderle da qui alla macchina.» gli spiegò Kumals.

«Addirittura!» protestò Danny, ma poi notò che Kumals era riuscito a far sorridere brevemente tutti, Ramo e Valentine compresi.

«Va bene, credo che io rimarrò qui…» disse Yuta, significativamente.

Kumals si voltò a guardarla intensamente, le si avvicinò e le diede un bacio sulla guancia, quasi senza toccarla.

«Grazie.» mormorò, così piano che probabilmente lo udì solo Danny, a parte la stessa Yuta.

Uther, fucile in spalla, si avviò verso la macchina, seguito da vicino da Danny e Kumals. Ramo rimase indietro, e raggiunse Valentine, che aveva ripreso a giocare con Tirch come nulla fosse.

«Ho visto che hai preso le pistole.» disse Uther dopo un po’ a Danny «Ero rimasto che dobbiamo cercare di non ferire nessuno… »

«Sono proiettili adatti.» spiegò Danny «Tu piuttosto! Il fucile?»

«Mica ci sparo solo con questo.» ammiccò Uther, e si sistemò meglio in mano il piccolo scatolone con i fuochi artificiali che trasportava. «Ma… Valentine non mi sembra molto contenta. La solita storia… ?»

«Già…» rispose brevemente Danny, con aria abbastanza angustiata.

Poco dopo, mentre gli altri tre già si stavano sistemando nell’auto, arrivò anche Ramo. Senza dire niente, anche se la sua espressione chiusa e molto seria era più che eloquente, si sedette al posto di guida.

Mentre la macchina partiva, sobbalzando sulle irregolarità della strada sterrata, poco più che un sentiero, Danny passò a Kumals, seduto al posto del passeggero, un’audiocassetta, facendogli segno di metterla su. Kumals gli lanciò una breve occhiata dubbiosa, ma inserì la cassetta e fece partire l’autoradio. Ramo spiò la sua mossa e guardò Danny attraverso lo specchietto retrovisore.

«Che cos’è?» chiese.

«Un po’ di musica.» rispose solo Danny.

«Grazie mille, l’avevo capito, dai volevo dire…»

Ma fu interrotto dall’inizio di ‘Timebomb’ dei Rancid.

«Musica di Danny.» specificò Kumals, sardonico.

Ramo sospirò brevemente, sorridendo, e passò un foglietto di carta a Kumals. «Tieni, vedi se ci capisci qualcosa.»

«Cos’è?» domandò Kumals, ancora prima di dispiegarlo e iniziare a leggerlo.

«Yuta ci ha disegnato una piantina per arrivare a quella scuola.»

«Bene.» commentò solo Kumals.

Poco dopo, nell’abitacolo dell’auto risuonò chiaramente il rumore frizzante di una lattina che veniva aperta. Kumals non ebbe bisogno di spiare nello specchietto retrovisore per vedere Uther iniziare a generose sorsate una lattina di birra, e passarla poi a un felice Danny.

«E’ davvero crudele bere mentre qualcuno sta guidando, e non può quindi unirsi.» osservò scherzoso Ramo.

«Nah, avanti, mica troveremo la polizia qui in mezzo.» lo invitò Danny allegramente, allungandogli la lattina.

*

***

*

«Sembra tranquillo.» osservò pensosamente Ramo, visto che da un bel pezzo nessuno diceva più niente.

Abbandonata la macchina a una certa distanza, per non palesare immediatamente la loro presenza, avevano poi dovuto camminare per qualche centinaio di metri, nel bosco, prima di trovarsi ai margini di una piazzola asfaltata. Una strada asfaltata, che a quanto pare loro avevano mancato, terminava lì, precisamente davanti a un cancello puramente ornamentale, sulla cui parte superiore le sbarre che lo costituivano si articolavano a formare la scritta variopinta di diverse vernici chiazzate a libero casaccio: ‘Welcome’.

Se non fossero stati piuttosto tesi e impegnati nel cercare di sondare tutto il sondabile dell’ambiente, rimanendo ancora precauzionalmente celati negli ultimi sprazzi di vegetazione boschiva al bordo della piazzole in cui sorgeva la costruzione, probabilmente sarebbero già volate diverse battute scorrette riguardo alle manie degli artistoidi o sedicenti tali.

«Anche troppo tranquillo.» precisò Kumals in tono sommesso, gli occhi fissi, come quelli degli altri, sull’edificio semplice della scuola.

Per contenere tutto il genio creativo che proclamava nelle sue intenzioni, l’edificio era piuttosto banale. Di nuova fattura, non era altro che un grosso parallelepipedo con finestre e una sola grossa porta centrale, almeno per quanto riguardava la facciata principale, che ora stavano fissando, al riparo dalla vista grazie alla boscaglia che premeva agli orli dello spiazzo, al di fuori della quale non si erano ancora avventurati.

«Probabilmente ci sono altri ingressi.» osservò Uther.

«Sicuramente.» lo corresse Kumals.

«L’importante è che abbia quattro lati.» disse Danny.

Gli altri si voltarono a guardarlo piuttosto perplessi e interrogativi.

«Beh, uno a testa, no?»

Uther e Ramo gli sorrisero appena, piuttosto divertiti, ma trattenuti dalla tensione della situazione.

«D’accordo… quindi hai già un’idea su come procedere?» gli domandò Kumals, guardandolo come se lo stesse mettendo alla prova.

«Le due alternative sono andarcene tutti dentro alla meno peggio dalla porta principale… e se c’è qualche intoppo oltre di essa, ci finiremo tutti dentro in un sol colpo. Piuttosto che rischiare lo scacco matto così… sarei per prenderci un lato a testa, entrare dai diversi lati... e poi il primo che ha problemi chiama i rinforzi.» ragionò Danny, osservando l’edificio con uno sguardo da cacciatore impaziente.

Gli altri, che gli conoscevano quello sguardo addosso molto bene, non batterono ciglio. Ma si poteva rimanere piuttosto inquietati, se si notava per la prima volta sul suo viso, dalle espressioni spesso vivaci e quasi naif, quello scintillio da predatore che gli rendeva lo sguardo tagliente, colmo di un primordiale istinto feroce.

«Non abbiamo mezzi per mantenerci in contatto. Cioè, niente walkie-talkie o roba del genere.» gli ricordò Kumals.

«E’ vero…» borbottò Danny, riassumendo un’espressione delusa, quasi infantile, come se gli si fosse rovinato tutto il divertimento.

«Però questa è una scuola, tra l’altro di recente costruzione pare…» continuò Kumals.

Fu il suo turno di essere guardato interrogativamente dagli altri, attenti.

«Ritengo quasi sicuro che sia perciò zeppa di sistemi d’allarme… rivelazione fumo per gli incendi… o anche solo quelle levette da muro da tirare in caso di emergenza.»

«Di cui potremmo servirci.» completò Ramo «Però così non possiamo segnalarci reciprocamente la nostra posizione all’interno dell’edificio…»

«Già. Ma una volta che qualcuno ha messo in funzione l’allarme, è chiaro che è nei guai. E a quel punto gli altri devono mollare tutto e andare a cercarlo per dargli manforte. Se non sono già nei guai per conto loro…» prospettò cupamente Kumals.

«Io pensavo di non entrare.» disse Uther.

Lo guardarono.

«Ecco, se qualcuno viene fuori, tanto vale che io veda che succede da qui. Inoltre pensavo che, prima che entriate, sarebbe bene organizzare un piccolo spettacolo pirotecnico. Se c’è qualcuno che è già mammaluccato, sarà tutto impegnato a guardare i fuochi, piuttosto che darvi noia mentre fate un giretto dentro.» spiegò.

«Questa mi piace!» concordò Danny, recuperando un certo ottimismo.

«Se vengono tutti addosso a te, qui, però, saresti da solo.» osservò Kumals, guardandolo seriamente.

«Beh, ma io mica sto ad aspettare che mi vengano a prendere.» disse Uther, l’espressione ammiccante «Quelli sono di una lentezza spaventosa, in fondo.»

«Ora che ci penso…» mormorò Danny, e prese a frugare nelle tasche del giubbetto e dei pantaloni, finché non ne cavò alcuni proiettili di grossa foggia e dal colore vivacemente rosso. Avevano un aspetto troppo singolare per assomigliare in alcun caso a convenzionali proiettili d’arma da fuoco. Ma le sue pistole, in particolare una di esse, era modificata per poterli utilizzare a meraviglia.

Li mostrò agli altri con un sorrisetto trionfante.

«Sono ‘da segnalazione’. Sparano una sorta di piccolo razzo che sale verso l’alto e fa un piccolo fuoco… niente di serio per la verità… ma nel caso uno si trovi in grossi guai, può sempre spararne uno contro una finestra, rompendola. Se non c’è troppo altro rumore, quello del vetro rotto ci segnalerà all’incirca la sua posizione.»

«Per usarli però servono le pistole…» osservò Ramo, abbacchiato.

Danny alzò brevemente le spalle. Tirò fuori una delle pistole, aprì il caricatore, e sostituì uno dei proiettili con quelli speciali che aveva appena illustrato. Richiuse il caricatore, e guardando gli altri la alzò un po’ in alto.

«Chi la vuole?» domandò, sorridendo.

«Credevo servissero a te.» disse retoricamente Kumals, alzando appena un sopracciglio e guardandolo poco convinto.

Danny alzò di nuovo le spalle.

«Me la cavo benissimo con una. Mica sono la mia unica risorsa.» ricordò agli altri, ammiccando. «E comunque, purché me la trattiate bene, s’intende… se me la perdete là dentro dovrete tornare a cercarla.» annunciò.

Vedendo che faceva sul serio, Uther parlò per primo, per dargli maggiore credito.

«Io sono a posto.» disse, dando una piccola pacca al calcio del fucile che teneva a tracolla.

«Io non la voglio, grazie. Non ci andrei d’accordo.» si risolse a dire Kumals.

Rimase Ramo, a fissare incerto la pistola e il viso di Danny. «Beh, hem… ma… sei sicuro?» domandò, titubante.

«Assolutamente.» sorrise Danny, allungandogliela.

Ramo trafficò per sistemarsi la pistola nella cintola dei pantaloni, dopo che Danny gli aveva brevemente spiegato il minimo indispensabile su come togliere e mettere la sicura, e su come mirare appena a nord-est del bersaglio per correggere il tiro un po’ mancino della sua pistola, gli altri tornarono a fissare l’edificio.

«Ci sono ben cinque macchine parcheggiate qui.» osservò ancora Kumals.

«Questo significa, sostanzialmente, che dovrebbero esserci almeno in cinque là dentro…» mormorò Danny, scontatamente.

«Bene.» disse semplicemente Ramo, che era riuscito a sistemarsi la pistola e sembrava piuttosto soddisfatto.

Calò un breve silenzio.

«Certo che… era da parecchio che non vedevo una scuola da così vicino…» osservò Danny, quasi riflettendo ad alta voce.

«Già.» sottoscrisse Ramo.

«Le scuole sono solo una specie di prigione alternativa.» commentò Uther con un’alzata di spalle, come se la cosa non lo riguardasse affatto.

«Bene… e ora che abbiamo tutti espresso le nostre opinioni a proposito del sistema scolastico… che ne direste di darci da fare?» disse Kumals, piuttosto burberamente.

«Pienamente d’accordo.» disse Uther, e si chinò a raccogliere la sua scatola di fuochi artificiali.

Stava già per filare via per guadagnare la sua posizione, quando Danny lo fermò mettendogli una mano sulla spalla. Uther si voltò a guardarlo interrogativamente, un po’ deluso per essere stato interrotto sul più bello, quando l’adrenalina iniziava a scorrere frizzante, subito prima dell’azione.

«Rimango a coprirti le spalle finché non avrai sistemato tutti gli accidenti.» gli disse Danny «Li devi mettere in campo aperto, no? Dove possano vederli per essere attirati…»

«E anche per evitare di appiccare il fuoco al bosco.» fece notare Uther, sorridendo piuttosto divertito.

«D’accordo.» s’intromise Kumals, con un lieve velo d’irritazione nel trovarsi escluso dalla pianificazione «Ma poi non metterci una vita a raggiungere la tua posizione… A proposito: che lato vuoi?»

 

 

Soundtrack: Blitzkrieg Bop (Ramones)

 

 

Note dello scribacchiatore:

Lo scribacchiatore è al momento semi assente. Sta tornando indietro con la memoria a quella volta che un gruppo di studenti tedeschi vennero in visita, ospiti di qualcuno di quei programmi di scambio tra classi scolastiche, e alcuni di loro si fermarono qualche ora a seguire una nostrana lezione di tedesco. Dal momento che si chiacchierava furtivamente d’altro, lezione natural-durante, uno di loro osservava come la nostra classe sembrasse una prigione (l’edificio ha o almeno aveva delle inferriate di quelle vecchie, spesse e di ferro, ad alcune finestre del piano semi-interrato, forse rimasuglio del vecchio convento che è stato prima di diventare una scuola con una mentalità generale ancora praticamente da convento). E lo scribacchiatore pensava che il tizio stesse citando, tra l’altro, i ‘Sex Pistols’. Morale: se si ha un problema con le citazioni, non è detto che la persona con cui state parlando abbia lo stesso problema. A quel punto, comunque, lo scribacchiatore aveva già iniziato a canticchiare tra sé e sé la canzone, mentre spiegava in inglese al tedesco impressionato che, oltre che assomigliare ad una prigione, quella scuola assomigliava anche ad un convento. Tutto questo è collegato nel sostenere il sospetto che lo scribacchiatore avesse l’abitudine di prendersi qualche cicchetto o caffè corretto fin dalla tenera mattinata, in via preventiva, prima di mettere piede –se proprio – nelle celle (nel multiplo senso di celle da monastero e di celle di galera) della cosiddetta scuola.

Ah, comunque, al prossimo capitolo. Con i fuochi artificiali. ;)

 

 

Ritorna all'indice


Capitolo 15
*** 13 - SWING WITH HARRY DARRY ***


Capitolo 13

(Swing with Harry Darry)

 

Fissando intensamente la porta, come non aveva mai smesso di fare negli ultimi istanti, Danny prese un respiro profondo, caricò i muscoli che gli occorrevano, e si tenne pronto, cercando di evitare che la tensione che gli teneva tesi i nervi iniziasse anche a logorarglieli troppo rapidamente.

Ancora qualche istante, e l’aria silenziosa fu lacerata da un fischio penetrante. Ancora prima che fosse seguito da uno scoppiettio festoso di fuoco d’artificio, al quale si sovrappose quasi subito un altro fischio acuto prodotto dai fuochi successivi, Danny si era mosso con un fulmineo scatto.

Aveva già provato prima, molto piano e silenziosamente, la maniglia della porta laterale dell’edificio, scoprendo, senza troppa sorpresa, che era chiusa. Quindi ora non perse tempo, e le rifilò direttamente un forte calcio. Gliene occorse solo un altro, un po’ più forte, per farla spalancare, tra il rumore della serratura che andava in pezzi.

Immediatamente scattò un forte rumore lamentoso, quasi assordandolo, e facendolo sussultare.

Un allarme.

Probabilmente si trattava di una porta di sicurezza in caso di emergenza, con annesso allarme. Non ci voleva. Danny masticò un’imprecazione tra sé e sé, ed entrò nel corridoio, sprofondando in una densa e silenziosa penombra. Mentre vi si inoltrava, rapido e silenzioso, ma con il corpo teso a percepire qualsiasi segno di altrui presenza, maledisse una seconda volta l’allarme, che gli riempiva il fine udito, impedendogli di ascoltare se c’erano altri rumori. Perciò si affidò alla vista e al fiuto.

La prima non gli disse niente di che. Si trovava semplicemente in un lungo corridoio, su un pavimento coperto da un tappeto decorato con stampe di quadri che non si soffermò nemmeno per un istante ad osservare, stretto tra due pareti color pesca, piene di quadri e disegni, alcuni veri e propri murales dalla vernice vivace e lucida. Sul soffitto, notò brevemente, erano attaccate luci al neon, tutte spente.

L’odore gli disse qualcosa di più, ma di altrettanto generico: un sentore di qualche detersivo aromatico, sopra al quale spiccava odore di persone, di vernice, acquerelli, solventi chimici, fumo di sigaretta, ed altro che non riuscì a distinguere con precisione. Ma, sopra a tutto questo, l’aria era in parte satura di un sentore di polvere, come se il luogo non fosse frequentato da almeno qualche giorno. Non era sicuro se questo fosse o meno un brutto segno.

Avanzò di qualche rapido passo, tenendo accuratamente d’occhio specialmente le porte laterali, quasi tutte chiuse. Poi si fermò di botto, incerto.

C’erano delle sagome lungo il corridoio, più avanti. Quelle degli estintori affissi alle pareti le aveva riconosciute subito, e lasciate da parte rispetto alla sua concentrata attenzione; ma quelle più avanti, calate pesantemente nella penombra, avevano forme più dubbie. Immobile, le studiò attentamente, stringendo più forte il pugno attorno all’unica pistola che aveva tenuto con sé, al momento armata di proiettili di gomma.

Dopo qualche lento secondo, mano a mano che la sua vista si abituava alla penombra, distinse meglio quelle sagome, e i suoi nervi si distesero un poco. Erano statue e sculture, disseminate qui e là appresso alle pareti. Questo, tuttavia, lo portò a fare uno schiocco di fastidio con la lingua. Un altro elemento di disturbo non da poco, che si assommava all’insistente lamento dell’allarme che si era lasciato alle spalle. Si arrischiò a rivolgere parzialmente la schiena al corridoio che gli stava davanti, per fissare accigliato l’aggeggio che continuava a suonare.

Eccolo lì, un affare metallico poco al di sopra del vano della porta. Volendo avrebbe potuto romperlo in un istante. Tuttavia, un’altra idea lo colse. Se le persone che erano già state colpite da quella specie di “ammattimento collettivo” mostravano, tra gli altri sintomi, un notevole interesse per ogni cosa luminosa/colorata e/o rumorosa, quell’allarme avrebbe potuto attirarli come una calamita. Tornò a concentrare immediatamente tutta la sua attenzione sul corridoio deserto che aveva davanti. Gli era parso di sentire un piccolo rumore, al di sotto di quello dell’allarme. Ascoltò per qualche istante, ma non udì più niente.

Pur senza tornare a voltarsi, riprese il filo del ragionamento. Se quell’allarme avesse attirato lì in quel punto la gente già preda di quell’”ammattimento” sopra detto, lui poteva o metterlo subito fuori uso, oppure rivolgere il tutto a proprio vantaggio. Occhieggiò pensosamente una delle porte lungo il corridoio. Se si fosse infilato in una di quelle stanze, nascondendosi, avrebbe potuto attendere che i suoi avversari rispondessero all’esca, accorrendo presso l’allarme, e quindi, una volta che fossero tutti stati ammassati lì, liberando della loro presenza il resto dell’edificio, sarebbe stato molto più facile, una volta aggiratili senza farsi vedere o sentire, andare in cerca di qualcuno rimasto incolume.

Portò una mano alla nuca, grattandosi senza motivo, nervoso. In ogni caso, l’allarme stava spargendo intorno il suo lamentoso rumore già da un po’, non potevano non averlo sentito. Quindi, probabilmente ciò li aveva già fatti muovere e messi in allarme, qualunque fossero le loro condizioni. Neutralizzarlo adesso, avrebbe voluto dire lasciarli tutti a vagare disordinatamente e vivacemente per l’edificio.

Aggrottò le sopracciglia un momento. Bene, era deciso. Tutto quel che aveva da fare ora era trovarsi una stanza in cui aspettare tranquillamente.

Un cigolio risuonò netto lungo il corridoio. Istintivamente, Danny si schiacciò contro una parete, e puntò la pistola verso la porta a pochi passi da lui, che si andava aprendo. Ne spuntò una sagoma, che lo fissò con occhi spalancati, sussultò e schizzò le mani verso l’alto.

«Oddio! No, la prego! Non mi faccia del male!» gridò un uomo relativamente giovane, sbattendo con la schiena contro la parete, lo sguardo terrorizzato.

Danny lo considerò per un altro istante, quindi abbassò l’arma.

«Non si preoccupi… non ho intenzione di spararla.» esordì, nel tono più tranquillizzante che riuscì a trovare.

«Ma… » mormorò incerto l’altro, senza abbassare le mani, né staccare gli occhi dalla pistola ora adesa a una gamba dei jeans di Danny. «Ma…» ripeté, appena meno esitante, senza comunque riuscire ad andare oltre.

Intanto, Danny lo studiava con una certa curiosità.

Si trattava di un uomo intorno alla trentina, con i capelli ritti in testa per il gel, ma piuttosto disordinati e spettinati, in maniera non calcolata cioè. Indossava abiti modaioli, con una maglietta da cui esordiva l’immagine in colori vividi di un qualche gruppo musicale, e un paio di jeans studiatamente strappati in alcuni punti. Aveva un fisico atletico, uno sguardo di occhi castani, e l’aria tremendamente spaurita di chi non si è mai permesso di trovarsi in una situazione a lui in qualche modo sfavorevole, o che non saprebbe sfruttare a proprio vantaggio.

«Sei uno studente di questa scuola?» chiese Danny, anche per incoraggiarlo a parlare.

L’altro, invece, si accigliò. Alzò lo sguardo dalla pistola alla faccia di Danny, con un’aria da orgoglio ferito.

«Sono un insegnante riconosciuto, nonché famoso. Ha mai sentito parlare di Harry Derry

«Per la verità… no.» rispose sinceramente stupito Danny. Se non altro, considerò tra sé, il tizio sembrava essersi ripreso dallo spavento. A dirla tutta, ora sembrava anche piuttosto irritato.

«Evidentemente lei non ha alcuna dimestichezza con gli ambienti artistici.» commentò l’uomo, passandosi nervosamente una mano tra i capelli, gesto che sembrava essergli abituale e meccanico.

«No, infatt…» iniziò a dire Danny, ma fu repentinamente interrotto.

«E questo mi porta a chiederle che cosa ci faccia lei qui. Con chi ho il… piacere di parlare, se non le dispiace?» disse con energia, facendoglisi incontro con una mano tesa con decisione.

Danny fissò la mano muscolosa, dalle dita curate e le unghie limate e della stessa lunghezza, la pelle artificialmente abbronzata e i modi decisi. «Hum… » mugugnò dubbiosamente, mentre storceva appena il naso per la zaffata di profumo stantio che lo aveva investito in seguito all’appressarsi dell’altro.

«Per la verità…» disse, tornando a fissarlo negli occhi «Non credo che questo sia un buon momento per le presentazioni. Sono venuto a vedere se qui ci sono stati dei… hem… problemi di qualche genere… beh… come dire… qualcosa a che vedere con… gente che… si comporta in modo… bizzarro. Cioè!» si affrettò a correggersi, vedendo l’aria accigliata dell’altro «In modo più bizzarro del solito.». Lo sguardo dell’altro non migliorò affatto.

«Quindi lei è della polizia?» domandò l’uomo, abbassando finalmente la mano che non era stata stretta. Emise un verso di vivo sarcasmo, senza aspettare risposta «Ah! Ma bene, vedo che ve la siete presa comoda eh? Qui dentro è stato un inferno! Un vero i-n-f-e-r-n-o!».

Quell’individuo stava assumendo un atteggiamento fin troppo teatrale e drammatico per i gusti di Danny, ma il ragazzo tentò di spazzare via dal volto l’aria scettica, per concentrarsi su un tono comprensivo; evitando accuratamente di negare il suo appartenere alle forze dell’ordine (anche se quel fraintendimento non lo avrebbe mandato giù tanto facilmente, in situazioni meno urgenti), propose «Certo, posso capire. Ora, mi può dire dove pensa che…? ».

Si interruppe immediatamente. E prima ancora che l’altro potesse averlo udito, si voltò repentinamente verso la parte di corridoio che li separava dalla porta, per vedere che cosa aveva prodotto il rumore che aveva sentito. Al di sopra della porta trillava ancora il persistente allarme. Il vano era sgombro, ma alcuni rumori trascinati si udivano da oltre l’uscio, all’esterno. Danny, la pistola già puntata in quella direzione, assottigliò lo sguardo, pronto a cogliere ogni minimo movimento.

«Oddio! Dio, dio, dio… » iniziò invece a strepitare l’uomo, e si precipitò dentro la stanza dalla quale era appena uscito, cercando di chiudersi la porta alle spalle. Danny fece appena in tempo a frapporci in mezzo una gamba, sulla quale l’uscio picchiò dolorosamente, strappandogli un’imprecazione che, a nota di cronaca, conteneva lo stesso epiteto invocato dall’altro, ma in vece tutt’altro che lusinghiera.

«Che diavolo fa?! È pazzo? Si tolga di mezzo!» gridò l’uomo, non appena appurò cosa impediva alla porta di chiudersi. Danny non gli prestò grande attenzione, il suo sguardo era ancora concentrato sulla porta in fondo al corridoio, quella che dava sull’esterno. Ora vedeva distintamente, confuse nel controluce, alcune sagome umane profilarcisi in mezzo, con movimenti goffi e piuttosto lenti.

«Non vede che stanno arrivando?!» strepitò ancora il sedicente Harry Darry, cercando di forzare la porta contro la sua gamba ben piantata a terra «Se lei vuole morire faccia pure! Ma si tolga immediatamente di qua!»

Danny rinunciò a tenere sott’occhio l’ingresso, si voltò e mollò un forte pugno contro la porta, che fece esitare l’altro, o se non altro lo colse di sorpresa.

«Non dica cazzate!» lo richiamò alla calma Danny «Non può tornare a chiudersi qua dentro a marcire. Venga con me, usciamo!»

«E da dove?» ribatté l’altro, sull’orlo di una crisi isterica «Grazie al suo aver fatto scattare quell’allarme ora sull’uscita ci stanno quei cosi!»

«Dettagli…» disse Danny, tra i denti.

Harry Darry considerò con preoccupazione gli occhi dello strano ragazzo. Il suo sguardo, fisso sugli uomini e le donne che stavano entrando ciondoloni dalla porta di fondo del corridoio, sbatacchiando un po’ disordinatamente tra di loro e contro le pareti, faticando a comprendere che potevano passare solo uno alla volta dall’ingresso, era mutato rapido come nuvole sospinte da un forte vento d’alta quota. I suoi occhi trasudavano uno sguardo ferino e divertito, si sarebbe detto quasi feroce. Doveva essere pazzo.

Harry fece per tentare nuovamente di chiudere la porta, ma con mosse rapide e stranamente dotate di più forza di quello che ci si sarebbe aspettati dopo aver notato la sua muscolatura non tanto prominente, il ragazzo diede un’altra botta alla porta, spalancandola del tutto e facendola sbattere violentemente contro il muro del corridoio.

Gli uomini e le donne dagli occhi spenti fissi su di loro erano a pochi passi; alcuni si erano in effetti incantati sotto l’allarme, protendendo le braccia in alto verso di esso, vanamente, ma gli altri avevano sentito i movimenti, i rumori e le voci di Harry e Danny, e si andavano avvicinando. Le mani dei primi si stavano già protendendo verso di loro, colme di quella che si sarebbe detta un’innocente curiosità famelica, quando Danny afferrò saldamente Harry per un braccio e prese a trascinarlo a forza lungo il corridoio, verso l’interno dell’edificio.

«Che… diavolo… ?» ansimava l’uomo, cercando di tenergli il passo, correndo e incespicando lungo il corridoio.

«Dove?» ringhiò Danny, con urgenza.

«Cosa?»

«Dove devo andare? Ci serve un’altra uscita! Ci sono altri come lei qui dentro? Intendo non ancora “influenzati”.»

«Non ne ho idea. E se non la smette di andare così veloce… non riesco nemmeno a ragionare…» tentò di protestare debolmente Harry.

Danny occhieggiò brevemente alle loro spalle. «Non è il caso di rallentare.» lo informò telegraficamente. «Si concentri!» lo apostrofò ancora, con rinnovata urgenza «Dove possiamo andare? Tra poco siamo alla fine del corridoio. Avanti, dica!»

Harry riuscì a guardare davanti, per accertare sommariamente dove si stavano dirigendo. Effettivamente il corridoio si stava per aprire in una sala più grande, che aveva tutta l’aria di essere una hall di ingresso. «Io non… » balbettò.

Danny sperò ardentemente che alla hall corrispondesse almeno uno degli altri ingressi, o perlomeno di incrociare Ramo o Kumals. Dietro di loro sentiva lo scalpicciare del gruppetto che li inseguiva. Ne aveva adocchiati almeno sei. E benché non fossero rapidissimi e i loro movimenti avessero un che di scoordinato, da quando avevano iniziato a seguirli si erano dati un certo ordine, e solo se continuavano a correre potevano tenerli a una buona distanza.

Quando giunsero al bordo della hall, Danny si fermò quasi di scatto, ed Harry gli avrebbe sbattuto addosso pesantemente, se con unica mossa di strattone il ragazzo non lo avesse anche spostato di lato, togliendolo dalla traiettoria della sua pistola, già puntata all’indietro nel corridoio che avevano appena percorso.

Mentre incespicava, quasi cadendo a terra, Harry vide il ragazzo prendere la mira e sparare. Il colpo suonò netto, rimbombando nella hall deserta e nel corridoio, dove fu seguito da altri rumori concitati. Harry si arrischiò a dare un’occhiata, distinguendo un intrico di membra cadute in un mucchio centrale nel corridoio, che si agitavano cercando di rimettersi in piedi e districarsi le une dalle altre.

Benché Harry non fosse nelle condizioni di appurarlo, Danny aveva la pistola armata di proiettili di gomma particolarmente grossi e duri, e aveva avuto cura di mirare ai piedi del primo del gruppetto che li inseguiva, riuscendo a farlo incespicare e cadere. Ora si stava già guardando intorno nella hall con attenzione rapida.

Non c’era traccia di altri ingressi, notò subito. Nella stanza bianca, dal pavimento lucido e le pareti coperte di decorazioni varie che non si curò di degnare di attenzione, c’erano solo altri corridoi che partivano in altre direzioni, vari divani e poltrone, due ampie finestre sbarrate dal vetro, dalle serrande e da inferriate di ferro, e due scalinate che salivano verso l’alto. Nella penombra cadeva pigramente una pioggerella di pulviscolo, tradita da luccichii risvegliati dalle lame di luce che penetravano dalle sottili fessure delle serrande abbassate delle finestre.

Trascinandosi dietro l’uomo ancora insicuro, Danny continuò a guardarsi intorno con attenzione. Poi tornò a rivolgersi con decisione ad Harry.

«Da che parte? Un’uscita!» stringò.

«Sì… va bene, va bene… dunque… credo che… di là.» indicò infine, ancora ansimando, l’altro.

Danny non disse niente, si limitò a riprendere la corsa verso il corridoio indicato dall’uomo, ma in quella si udì un rumore, al di sopra delle loro teste. I loro sguardi schizzarono verso l’alto, in tempo per vedere un corpo umano che cadeva pesantemente, finendo a schiantarsi per terra, a pochi passi da loro. La testa si spappolò nell’impatto, le membra si agitarono disordinatamente nel contraccolpo, e si udì un suono difficilmente mal interpretabile di ossa rotte, accompagnato dal tonfo come di sacco pesante.

Per un istante tutto precipitò nel silenzio. Poi Harry lanciò uno strillo eccezionalmente alto e disperato.

Danny non se ne curò, limitandosi a mantenere salda la presa sul suo braccio. I suoi occhi erano già fissi sulla balaustra sporgente sul vuoto, sulla quale terminavano le due rampe di scale che occupavano buona parte dello spazio della hall. Sul soffitto un grosso lampadario di vetro colorato e decorato da risvolti decorativi artistici dondolava lentamente, emettendo un debole tintinnio. Dalla balaustra diverse mani e braccia si protendevano incantate verso di esso, sporgendo da un assembramento di persone prive delle loro solite capacità mentali. Ma alcuni degli sguardi privi d’espressione, vacui e assenti, si erano fissati su Danny ed Harry, in seguito all’urlo di quest’ultimo.

Prima di poter assistere alla loro decisione se prendersi il disturbo di scendere per venire loro incontro, e sentendo dal corridoio che si erano appena lasciati alle spalle l’inconfondibile rumore di passi che si avvicinavano, Danny riprese a correre, strattonando un Harry che si era nascosto la faccia sotto le mani, orripilato dalla vista del cadavere sul pavimento.

«Avanti!» lo spronò Danny, imboccando l’altro corridoio. L’uscita non poteva essere molto lontana, si disse, ammesso che Harry Darry non avesse preso un completo fiasco riguardo la planimetria dell’edificio, e concesso che non li aspettassero altre sorprese.

Quel corridoio sembrava deserto e muto. Perfetto, dal punto di vista di Danny. Ma, tuttavia, si auto-corresse, anche perfetto per un agguato. Non si sbagliò. Di lì a poco notò alcune ombre che si muovevano lungo il corridoio, procedendo nella loro direzione.

Danny si fermò immediatamente, e Harry gli sbatté addosso, emettendo un debole lamento stordito. Il ragazzo si voltò, guardando indietro, e appurando con costernazione che il gruppo dei loro inseguitori stava già imboccando l’altra entrata del corridoio.

«Maledizione!» esclamò, e la sua voce rimbombò per il lungo spazio stretto tra le pareti. Ciò sembrò non sortire altro effetto che quello di eccitare maggiormente gli umani ambulanti che avanzano verso di loro da entrambe le parti.

Oh, davvero ‘perfetto’, sì. Erano in trappola.

«D’accordo… se la mettiamo così… » ringhiò Danny, occhieggiando prima l’uno e poi l’altro dei gruppi che si avvicinavano loro da entrambi i lati, rivolgendosi a nessuno in particolare, visto che Harry sembrava troppo sconvolto per realizzare bene la situazione in cui si trovavano. Danny scelse una porta a caso tra quelle che si allineavano lungo i muri, quella che ad occhio gli parve più robusta. Raccolse un rapido respiro, si diede la spinta prendendo per lo slancio tutto lo spazio concesso in larghezza dal corridoio, e si gettò contro quella porta.

Era a pochi centimetri dal plastico rivestimento giallo limoncello della porta, quando questa iniziò ad aprirsi, e lui ne travolse l’apertura e chiunque la stesse aprendo con circospetta lentezza. Rotolò dall’altra parte, mentre una ragazza che intravide appena si spostava appena in tempo per evitare di venire investita, emettendo un piccolo verso allarmato di sorpresa. Aveva appena terminato la sua semi-rotolante caduta sul pavimento della stanza, quando qualcuno gli abbatté addosso una sedia, strappandogli un lamento di dolore.

«Fermi!» disse una voce. E la sedia, che si era rialzata in aria per essere calata di nuovo addosso a lui, si interruppe a metà, chiaramente esitando indecisa.

«Sì, fermi, maledizione!» fece eco Danny, sentitamente, cercando di pararsi la testa con le mani e di realizzare nel contempo la scena che aveva attorno.

A lato della porta c’era la ragazza che aveva quasi investito. Una tipa piuttosto alta, dalla pelle scura e grandi e attenti occhi marroni che lo fissavano stupiti e allarmati. Fluenti rasta le incorniciavano il bel viso, che svettava su un collo flessuoso. Prima di appurare altro di lei, Danny guardò la sedia ancora sospesa sopra di lui, e chi la teneva in mano. Un signore di mezza età, con un paio di occhiali sul naso grosso, e i capelli bianchi e viola brillantinati e ritti in testa, lo guardava con astio minaccioso, le labbra sporte in fuori in un inespresso grugnito di sforzo bellico.

«Hey, metta giù la sedia!» strepitò Danny. «Non su di me!» chiarì precipitosamente.

«Sì, Lian, la metta giù. Questo sembra a posto.» disse un’altra voce «E lì fuori c’è Harry.» aggiunse.

Danny sapeva che non era stata la ragazza con i rasta a parlare, ma quelle parole gli ricordarono immediatamente cosa stava succedendo fuori da quella stanza.

«La porta!» gridò, balzando a sedere, e poi in piedi, evitando di sbattere contro la sedia ancora tenuta sospesa a mezz’aria dall’uomo con i capelli bianchi e viola. Ma la ragazza con i rasta, fortunatamente, aveva buoni riflessi. La vide tirare dentro Harry afferrandolo per la maglia, chiudere la porta e dare tre giri di chiave.

Harry tirò fiato, o più precisamente si lasciò scivolare seduto a terra, con la schiena contro la porta, mentre la ragazza con i rasta, dopo averlo considerato per un momento con espressione sorpresa, si chinava di fianco a lui con aria preoccupata.

Danny si rese conto di una serie di sguardi puntati su di lui. Qualcuno gli si parò davanti, con aria decisa. Mise a fuoco la figura. Era una ragazza di media altezza, con i capelli corti e sbarazzini che le formavano una sorta di piccola criniera color bluette, in totale disaccordo con gli occhi di un morbido nocciola, ma ben assecondando l’arcobaleno indaco-viola-blu-azzurro delle perline che le decoravano la punta di una tozza treccina, che partendo dalla nuca, poco dietro l’orecchio destro, le ricadeva pigramente sulla spalla. Questa ragazza, dal fisico ben proporzionato e dall’aria forte e decisa, lo stava studiando con espressione indagatrice e corrucciata, facendolo sentire come se si fosse appena rimediato una ramanzina con i fiocchi.

Ma, dopo averlo fissato con attenzione quasi minacciosa, specialmente e quasi esclusivamente negli occhi, la sua espressione si rilassò; le spuntò l’ombra di un sorriso sagace sulle labbra sottili e ben delineate, racchiuse in un viso quasi a forma di cuore, in cui spiccavano acuminati i lineamenti sottili, eleganti. Eleganza decisamente dissimulata dalla sua espressione risoluta e quasi divertita.

«Sembra che tu te la sia vista brutta là fuori… » gli disse, con un che di amichevolmente comprensivo nel tono.

Prima di accorgersene, era lui che si era imbronciato. E non era tanto per la questione della sedia che gli era stata abbattuta addosso mentre ancora finiva di rotolare all’interno della stanza, quanto per il fatto che in quella situazione lui avrebbe dovuto essere quello che portava soccorso, e tante grazie anche. Ed invece, quella ragazza pensava di averlo appena tolto dai guai.

Stava per replicare qualcosa, quando un pesante tonfo sordo si abbatté dall’altra parte della porta, facendoli sussultare tutti.

Harry schizzò via dalla porta alla quale era appoggiato, con un gridolino che poteva riassumere il definitivo cedere di nervi già messi duramente alla prova. Corse direttamente dall’altra parte della stanza, dove si rannicchiò in posizione fetale.

La ragazza con i rasta era stata più lesta, e si era rizzata in piedi e discostata un po’ dalla porta chiusa, afferrando nel contempo una scopa appoggiata al muro lì accanto a lei, in modo battagliero. Danny la considerò per un momento, dubbiosamente. E solo in quella si ricordò della sua pistola, che teneva ancora saldamente in mano. Non sapendo bene che altro fare, la puntò verso la porta.

Si udirono altri colpi e tonfi aldilà, ma nessuno nemmeno lontanamente abbastanza significativo da costituire un pericolo per la resistenza del saldo pannello.

Dal momento che i colpi continuavano, senza aumentare di intensità, nella stanza tornò a delinearsi un certo calo di tensione. E Danny si sentì apostrofare duramente, di nuovo dalla ragazza con i capelli bluette.

«E quella cosa sarebbe?»

La guardò, per determinare dalla direzione del suo sguardo a che cosa si stava riferendo.

«Una pistola.» rispose, piuttosto ovviamente. Non aveva ancora compreso la natura della domanda, sapeva solo che lei ora aveva un atteggiamento decisamente ostile.

«Bene, mettila giù.» gli disse, con calma a stento utile a mascherare la sua rabbia.

«Sì, e poi apriamo anche la porta, visto che stanno bussando.» obbiettò lui, con vivo sarcasmo.

«La porta terrà, e nel frattempo quella pistola è solo pericolosa qui.» insistette fermamente la ragazza. La cosa ancora più curiosa, secondo Danny, è che gli si stava rivolgendo in modo ragionevole, assolutamente convinta di avere ragione.

«Ascolta… » iniziò. Ma poi rifletté un momento di più. Non aveva ancora nemmeno dato un’occhiata per bene a dove e con chi si trovava ora, e sospettava che una seconda sediata potesse calargli alle spalle da un momento all’altro. Se continuava a perdere tempo con quella ragazza dall’assurdo colore di capelli non avrebbe concluso niente. Scrollò le spalle e sospirò.

«D’accordo, la metto via.» disse, e se la infilò alla cintola.

«Ha detto che devi metterla giù per terra.» lo apostrofò duramente qualcuno alle sue spalle, dalla voce nasale e sgraziata.

Danny si voltò, trovandosi di fronte l’uomo di mezza età dai capelli mezzi bianchi e mezzi viola, con brillantini. Anche se aveva appoggiato la sedia a terra, ne teneva ancora saldamente stretta la spalliera, come si notava dalla pelle sbiancata sulle nocche che la stringevano. E lo fissava con sguardo torvo e diffidente.

Danny si sforzò di mantenere la calma e decise di prendere tempo. Si passò una mano sulla nuca, e mentre occhieggiava attorno nella stanza, cercando di non farsi troppo notare, interloquì con tono piatto e che sperava potesse suonare in qualche modo conciliante.

«Bene, ascoltate un attimo. Cerchiamo di ragionare. Là fuori c’è un’orda di… cosi… che sembrano anche parecchio minacciosi. E questo dovreste saperlo bene, visto che siete tutti barricati qui dentro con i nervi a fior di pelle… »

Mentre parlava, lasciò vagare intorno lo sguardo con maggior nonchalance. Nella stanza c’erano poco meno di una decina di persone, compreso lui, Harry che piagnucolava dall’altra parte della stanza, la ragazza coi rasta, l’uomo appassionato alle sedie e la ragazza dai capelli buette. Gli altri erano: una donna ritta rigidamente in piedi come se fosse sul punto di buttarsi da un momento all’altro in una scena isterica, e due ragazzi, uno particolarmente giovane e spaurito e l’altro un po’ più in possesso del suo autocontrollo, almeno apparentemente.

«Quindi, ricapitolando, si direbbe che la nostra unica arma degna di questo nome…» e qui Danny lanciò una breve occhiata significativa alla sedia che l’uomo stringeva ancora saldamente, e poi alla scopa impugnata dalla ragazza con i rasta «… sia la mia pistola. Si da il caso che io sappia anche usarla. E che sia caricata con proiettili di gomma.» specificò con tono acre, tornando a voltarsi per fissare la ragazza dai capelli bluette, che lo guardava a braccia incrociate, dando l’impressione di non sentirsi molto colpita.

«Se non vi dispiace, dunque, visto che nessuno qui rischia di farsi seriamente male, almeno, non a causa della pistola… » e qui indicò con un eloquente cenno della testa la porta, ancora bersagliata dai deboli tonfi e colpi dall’esterno «… preferirei tenermela. Peraltro, è mia. E direi che il discorso finisce qui. Parlando di cose più urgenti… avete un piano di qualche tipo per uscire di qui abbastanza illesi?»

«Oh, no. Aspettavamo te per essere tutti salvati, bellino mio.» commentò pungente la ragazza con i rasta, appoggiandosi alla scopa, anca in fuori e aria particolarmente accigliata.

«D’accordo. E avete fatto bene.» le rispose a tono Danny, lanciandole un sorrisetto ammiccante «Tra poco arriveranno anche gli altri e allora… » lasciò la frase volutamente in sospeso, compiacendosi della sua capacità di creare una certa suspance.

«E allora non potranno entrare qui, a meno che non intendano scavalcare tutti quelli assembrati là fuori.» gli fece notare con aria scettica la ragazza dai capelli bluette.

Danny la guardò, cercando di apparire il meno in difficoltà possibile.

«Quelli che tu hai ammassato qui fuori, trascinandoteli dietro fin qua, a quanto pare, e facendo prendere un colpo ad Harry.» precisò la ragazza con i rasta.

«Bene, non avete tutti i torti. In effetti, il piano era un tantino diverso. Ma non è che si potesse fare molto altro, vista la situazione. Comunque, tra poco arriveranno gli altri. Non sono gente stupida o inabituata a queste situazioni. Se la caveranno benissimo, e ci tireranno tutti fuori di qui al più presto.» cercò di recuperare Danny. E gli parve di esserci riuscito abbastanza bene, visto che il suo tono era spontaneamente divenuto fiducioso nel pensare a Ramo, Kumals ed Uther. Sicuramente stavano già escogitando o mettendo in atto qualcosa di ingegnoso per aiutarli.

In quella alcuni colpi risuonarono più forti sulla porta, facendo sussultare tutti. Per un momento, Danny osò arrischiare tra sé e sé la pallida e nervosa ipotesi che potesse già trattarsi dei loro rinforzi. Ma a giudicare dal modo in cui procedeva il piovere di colpi, che era continuato ininterrotto fin da quando la porta era stata chiusa, andando intensificandosi, non sembrava che quella speranza potesse rivelarsi altro che una ridicola illusione.

La ragazza coi rasta aveva rafforzato la stretta attorno al manico della scopa, e aveva fatto un passo indietro rispetto alla porta, quasi involontariamente, guardandola con preoccupazione.

La ragazza dai capelli bluette si appressò un poco a lui, con gli occhi ugualmente incollati alla porta, e mormorò piano «Quant’è che dovrebbero impiegarci… i tuoi amici?»

A Danny occorse qualche istante per riuscire a rispondere.

«A momenti.... a momenti!» affermò, irritato dal suono arrochito della sua voce.

 

 

 

Soundtrack: High school never ends (Bowling for soup)

Ritorna all'indice


Capitolo 16
*** 14 - BARRICADES! ***


Capitolo 14

(Barricades!*)

 

Danny finì di sistemare una sedia nell’ammasso generale di mobilio eretto contro la porta. Tornò ad alzarsi ritto in piedi e si stiracchiò la schiena, contemplando con attenzione critica la barricata.

Fu distratto per un momento dai movimenti con cui la magra e nervosa donna castana, che aveva appreso chiamarsi Bethan, stava sistemando un quadro, ingombrante e dal peso trascurabile, sul mucchio, aiutata da uno dei ragazzi, che se non si sbagliava si chiamava Thomas. D’accordo, quel quadro non avrebbe fatto nessunissima differenza, ma qualsiasi cosa potesse tenerli occupati e distrarli dalla tensione che si andava accumulando nella stanza, di pari passo con l’intensificarsi dei colpi sull’esterno della porta, poteva rivelarsi fondamentalmente benefico dopotutto.

Quindi occhieggiò brevemente la ragazza con i capelli bluette e quella con i rasta, che aveva scoperto chiamarsi rispettivamente Andrea e Janine, che parlottavano animatamente tra loro, discoste dagli altri. Vide l’altro ragazzo, Gavin, avvicinarsi a loro con aria interessata. La ragazza coi rasta indicò Danny con fervore mentre parlava, con aria chiaramente alterata dalla rabbia, e lui sentì che era meglio rivolgere lo sguardo altrove.

Il tizio che aveva sottratto alle grinfie dei sub-umani che imperversavano con pugni e tonfi contro la porta, dall’assurdo nome di Harry Darry, era ancora rannicchiato contro la parete. Aveva smesso di gemere, dondolarsi e tenersi convulsamente rannicchiato come se stesse per crollargli addosso l’intero edificio. In compenso, tutte le pazienti moine consolatorie della ragazza con i rasta non erano valse a persuaderlo ad aiutarli con la costruzione della barricata mobilizia. Ora se ne stava semplicemente seduto nell’angolo, le braccia strette intorno alle ginocchia ripiegate contro il petto, lo sguardo vacuo perso nel nulla. Sussultava violentemente ad ognuno dei singoli colpi che percuotevano la porta; il che implicava che non faceva altro che tremare e saltellare sul posto, come se fosse preda di una leggera crisi di convulsioni.

Infine, l’occhio di Danny cadde sull’ultimo occupante dell’angusta stanza. L’uomo di mezza età, con i capelli bianchi e mezzo tinti di viola ed un estroso paio di occhiali con catenella appoggiato sul grosso naso a patata, di costituzione tracagnotta e vestiti abbacinanti di colori e frappe di tessuto: nientemeno che Lian Dartax, come si era presentato poco prima; si asciugava il sudore dalla fronte con un fazzoletto preso da qualche taschino del giacchettino che gli fasciava l’ampio addome. Danny notò, con una certa sorpresa irritazione che si teneva saldamente appoggiato allo schienale della sedia. Quella stessa che, come il suo corpo ricordava chiaramente, gli era stata sbattuta addosso nemmeno dieci minuti prima.

Si avvicinò a passi misurati a Lian Dartax, e accennò alla sedia, dicendo, in tono tranquillo «Sarà meglio che la aggiungiamo al mucchio, questa.»

Con un gesto brusco, l’uomo intensificò la stretta sulla sedia e se la trascinò più vicino, lanciandogli uno sguardo accigliato.

«Ragazzo. Questa sedia sta benissimo dove sta.» gli intimò.

Danny alzò le mani con aria di fredda pacificazione «Bene. Era un consiglio. Come preferisce.»

Gli voltò le spalle e tornò verso la barricata, con cipiglio scuro. Conosceva ormai abbastanza bene la forza e la resistenza stolida e insensibile del tipo di “uomini” come quelli che erano assembrati fuori dalla porta; e sapeva che una sedia datagli addosso non sarebbe servita nemmeno a rallentarli più di tanto. Ma non aveva alcuna voglia di iniziare una simile discussione, specie con il signor Lian Dartax.

Mentre stava fingendo di interessarsi alla struttura precaria della barricata, sotto lo sguardo nervoso di Bethan e Thomas, che sembravano aspettarsi qualche giudizio sul loro lavoro, Danny si rese conto che Andrea e Janine gli si stavano avvicinando con aria piuttosto battagliera.

‘Ci siamo, altre grane.’ pensò, con un certo fastidio. Avrebbe voluto esser lasciato in pace almeno per un po’. Il tempo sufficiente per pensare decentemente cosa si potesse fare, che non fosse lo star lì ad aspettare che accadesse loro addosso qualcosa.

Prima di tutto, Kumals e gli altri ci stavano mettendo un certo tempo; preoccupante. Probabilmente erano stati coinvolti in qualche scaramuccia da qualche altra parte dell’edificio. E questo non faceva che aumentare la sua ansia per il loro destino. Non che non si fidasse di loro… ma la situazione era evidentemente critica. Era pur vero che non aveva sentito niente che indicasse che Ramo avesse avuto bisogno di sparare un colpo d’allarme con la pistola che gli aveva affidato. D’altra parte, i fuochi artificiali non si udivano più da un pezzo. O erano semplicemente finiti, oppure anche Uther aveva avuto il suo daffare là fuori. Nemmeno di Kumals nessun segno.

Per continuare, in seguito a una breve indagine di pocanzi aveva scoperto di essersi andato a cacciare nella stanza più sfigata del mondo. Veniva usata, normalmente, per le ‘attività musicali’ dell’istituto artistico,e quindi le finestre erano state murate e le pareti inspessite e acusticamente isolate. Si poteva capitare in posto peggiore? Danny si trattenne a stento dal tirare un calcio di frustrazione alla già pericolante pila di mobilio ritta di fronte a lui. Va bene, l’importante era mantenere il sangue freddo.

E in questo non lo stavano certo aiutando le due ragazze che si erano appena fermate di fianco a lui con aria decisa.

Si voltò in parte verso di loro, occhieggiando distrattamente alle loro spalle, e ignorando il fatto che anche Gavin, il ragazzo, e pure Lian Dartax, stavano assistendo alla scena con insistente interesse. Prese un respiro profondo, senza darlo a vedere, e attese.

«Ci stavamo chiedendo…» iniziò la ragazza con i capelli bluette, nonché Andrea. Ma si interruppe e socchiuse per un momento gli occhi, come per un ripensamento. Ricominciò, con tono più conciliante e diretto «Insomma… chi sei?»

Lui la guardò, fingendo un certo stupore. L’importante era prendere tempo.

«Ah, mi sembrava di avervelo già detto… mi chiamo Danny.»

La ragazza con i rasta, Janine, sbuffò e si piantò saldamente le mani sui fianchi, ma Andrea la precedette rapidamente. «Volevo dire… sì, ecco, come mai sei qui? Che intenzioni avevi?»

Bene, qui veniva la parte un po’ più complessa. Ignorando cocciutamente gli sguardi di tutti che gli erano puntati addosso, Danny le rivolse un’occhiata penetrante, che intaccò brevemente la sicurezza della ragazza. Ritenendosi soddisfatto, riprese a far vagare lo sguardo sulla loro barricata improvvisata, trattenendosi dalla tentazione di volgere direttamente loro le spalle e riprendere a saggiarne la resistenza.

«Ho visto cosa sta succedendo giù in paese. Vivo là. Ci sono persone come queste qua fuori.» indicò brevemente e svogliatamente la porta, ancora bersagliata dai colpi che crescevano lentamente, gradualmente ma risolutamente di intensità. «Se ne vanno in giro per la città tutti imbambolati, pressappoco come questi. E ho già avuto occasione di avere a che fare con la loro… aggressività. Per la precisione… » esitò brevemente, e lanciò un sguardo incerto agli occhi attenti di Andrea «Anche un mio amico è stato… “colpito”. Abbiamo dovuto chiuderlo da una parte, per evitare di farci e di fargli male. Comunque, dei nostri amici ci hanno detto di questa scuola isolata. E abbiamo pensato che fosse opportuno venire a vedere se avevate bisogno di una mano. A quanto pare non sbagliavamo.» concluse, asciutto.

«Intanto… » riprese quasi subito, per evitare il frapporsi di loro commenti di sorta «Mi potreste raccontare come è venuto a verificarsi qui il… fenomeno… » propose.

« Vuoi dire intanto che aspettiamo che buttino giù del tutto la porta?» domandò Janine, in tono aspro.

Lui alzò le spalle, ostentando una calma che non era più certo di padroneggiare molto bene.

«Questa cosa reggerà per un po’. » disse, appoggiando una mano sulla barricata, e ritirandola subito, avendola sentita chiaramente tremare in modo pericolante sotto le dita «Giusto il tempo per dare modo  agli altri di venire a darci man forte.»

«E chi sono gli altri?» domandò Gavin. Benché rimanesse accuratamente dietro le spalle delle due ragazze, sembrava avesse deciso di assumere anche lui un atteggiamento di supponente critica e dubbio. Danny alzò uno sguardo ammonitore su di lui.

«Quando saranno qui vedrai di cosa sono capaci.» gli preannunziò elusivamente, e in modo che sperava sembrasse abbastanza minaccioso anche nei confronti del ragazzo stesso. Questo, però, parve avere l’unico effetto di esasperare l’espressione accigliata di Gavin e di Janine; e tuttavia non osarono replicare nulla, inconsapevolmente moderati dalla sua occhiata. Quanto ad Andrea, sembrava vivacemente curiosa. Parlò di nuovo lei.

«Intanto cos’altro potremmo fare?» si guardò intorno, fissando tutti uno per uno. «Qualche idea?»

Danny notò, con un certo fastidio, che Lian Dartax stava prendendo la parola, e lo precedette frettolosamente.

«Siamo proprio sicuri che questa stanza sia completamente sigillata?»

Si ritrovò fissato da una serie di sguardi poco elogianti. D’accordo, aveva detto una castronata totale. Ma non poteva essere tanto peggiore di quella che stava sicuramente per dire Lian Dartax, no?

Dopo un compatto silenzio, Andrea accennò un movimento, e guardò pensosamente verso le finestre murate.

«Forse… » iniziò, con un tono in cui Danny riconobbe con sollievo una nota collaborativa «Potremmo accertarcene meglio.» terminò la ragazza.

L’entusiasmo di Danny si inabissò, ma considerò quella come, se non altro, un’ulteriore possibilità di distrarre tutti, oltre che dalla porta e dai colpi preoccupantemente forti che vi si abbattevano contro, anche da se stesso.

Era stanco, e non aveva altre idee, ma solo una sensazione di soffocamento. Non aveva mai amato particolarmente i luoghi chiusi, e non faceva parte dei suoi desideri riguardo la propria morte dover tirare le cuoia proprio lì dentro. Per un momento, un’immagine confusa, in cui c’entravano montagne boscose e innevate e un cielo scuro di notte, si intrufolò tra i suoi pensieri. Rapida com’era comparsa riaffondò, e lui non provò nemmeno a trattenerla per un istante.

Sotto gli sguardi scettici, amereggiati o sconfitti degli altri, Andrea si era avvicinata alla parete che dava sull’esterno, toccando con mano esitante il muro. Danny sospirò appena, e andò ad affiancarlesi. Qualsiasi cosa, pur di non rimaner fermi ad aspettare passivamente la fine; non faceva per lui.

Prima di allontanarsi dagli altri, scoccò un breve sguardo a Bethan e Thomas, che gli sembravano i meno ostili in quel momento, e propose loro, quasi in tono di chi chiede un favore «Torno subito… Voi intanto potreste cercare di sistemare meglio la barricata… se vi sembra che in qualche punto possa essere più debole… ».

La donna di nome Bethan, pallida e dallo sguardo spiritato, fece un vago movimento con la testa, Thomas annuì un po’ più energicamente, indi si voltò con entusiasmo e per poco non urtò uno spigolo di quel quadro inutile che avevano sistemato poco prima, rischiando pertanto di demolire con una sola mossa gran parte del pericolante ammasso.

Danny trattenne un sospiro di scoramento e procedette verso la parete che Andrea stava tastando e saggiando con attenzione. Mentre cercava di capire, senza troppa convinzione, cosa esattamente si proponesse di combinare la ragazza con quel fare impegnato, i suoi pensieri corsero di nuovo agli altri suoi “colleghi”.

Decisamente ci stavano mettendo troppo. Cosa poteva essere successo? Se solo avesse potuto chiamarli inviando un qualche segnale di richiesta di aiuto… Ma anche ammesso che avessero avuto a loro disposizione un qualche pertugio atto allo scopo, non aveva con sé niente di rumoroso che potesse attirare l’attenzione. E semmai l’avesse avuto, produrre qualche rumore avrebbe esasperato molto rapidamente i colpi contro la porta, e tutto si sarebbe giocato sul filo del rasoio: avrebbero fatto prima gli altri a individuarli ed accorrere e tirarli fuori di lì o gli umanoidi là fuori a tirar giù la porta?

Danny rabbrividì per un momento, e ingoiò un significativo grumo di saliva; quel nervosismo lo irritava. Ma vide che la ragazza dai capelli bluette lo stava ora fissando. Effettivamente, si era limitato ad affiancarlesi senza fare niente, assistendo con stupida immobilità al suo tastare la parete; non doveva aver dato un’immagine di sé troppo intelligente negli ultimi istanti.

Si schiarì la gola, e le si rivolse in tono calmo, cercando di darsi un contegno: «Hem, trovato qualcosa di interessante?»

Fu allora che lei sorrise, un sorriso particolare. Danny ci rimase un poco basito. Sorrideva con aria di furba e complice soddisfazione, come se le fosse riuscito un trucchetto di non poca abilità, del quale però non si sentiva eccessivamente meritevole. Un sorriso che gli ricordava vagamente qualcuno. Quando recuperò un po’ di raziocinio, Danny si chiese se quello non fosse da ascriversi come sintomo di follia incipiente: forse alla ragazza erano crollati i nervi? Questo avrebbe potuto spiegare perché ora gli stava mostrando, con aria piena d’aspettativa, la parete, mentre la picchiettava in punti diversi con le nocche.

Ma, un momento… Il fine udito di Danny vibrò. E, allora, anche lui sorrise, lentamente e significativamente, un sorriso da Grinch che ha trovato le caramelle da rubare a qualche moccioso; un luccichio di immediata comprensione gli sfavillò a lampo nello sguardo. Il sorriso della ragazza si accentuò, e sembrò quasi che stesse per scoppiare a ridere. Invece, si voltò verso la parete che aveva picchiettato fino a quel momento, e iniziò a cercare di stracciare la carta da parati con le unghie.

Danny si mise una mano nella tasca del giubbetto, estrasse un coltello a serramanico e glielo porse, così Andrea poté continuare il lavoro con più risultato. Intanto, lui studiava e tastava con brevi pugni la consistenza della finestra murata.

Dal rumore prodotto dal picchiettarci sopra le nocche, era chiaro che in quel punto, dove una volta doveva esserci stata una finestra che era poi stata murata, la parete aveva una consistenza e uno spessore diverso.

Il ragazzo occhieggiò il lavoro di Andrea: da sotto la carta da parati stava rivelando uno strato di intonaco.

Dietro di loro si erano assiepati alcuni degli altri. Si udì la voce di Lian Dartax.

«Che diavolo stanno facendo?»

Ma il tono sbrigativo e pratico di Janine, la ragazza con i rasta, sovrastò quasi subito la voce dell’uomo «Andrea, che avete trovato? Ditemi che dobbiamo fare.»

«State indietro, per ora.» rispose semplicemente la ragazza dai capelli bluette.

«Lascia perdere la carta da parati, ora, vedi se riesci a piantare il coltellino nel muro.» le consigliò Danny, poi si girò verso gli altri «Abbiamo un qualche oggetto contundente abbastanza pesante? Un martello, un estintore, qualcosa del genere…

Gli altri si guardarono tra loro, esitanti, ma Janine annuì in fretta, afferrò Gavin per un lembo della giacca e se lo trascinò dietro. «Cerchiamolo!» stabilì con tono deciso, avvicinandosi alla barricata, tenuta a bada in qualche modo da Bethan e Thomas.

In quella si udì un sonoro rumore di qualcosa di notevole resistenza che si spacca. Tutti raggelarono, immobilizzandosi laddove si trovavano, realizzando immediatamente cos’era successo: il primo colpo della folla radunata dietro la porta che riusciva a spezzare il pannello. Benché la porta non fosse visibile da dietro la loro barricata improvvisata, o forse proprio per questo, Thomas, Bethan e Gavin indietreggiarono di diversi passi, mentre Janine assumeva d’istinto una posizione da difesa tipica di qualche disciplina orientale da combattimento. Danny si morse le labbra e tirò un’imprecazione particolarmente vivace tra sé e sé, mentre Andrea tratteneva a malapena il coltellino che aveva rischiato di caderle di mano per la violenza del suo sussulto di sorpresa. Lian Dartax corse precipitosamente alla sua solita sedia e la afferrò, alzandola sopra la testa e rimanendo in attesa. Ma non accadde niente.

A giudicare dal rumore, dovevano essere riusciti solo a farsi una piccola breccia, poco più grande dello spessore di un braccio. E, se Danny aveva compreso bene le loro facoltà mentali, probabilmente avrebbero impiegato qualche momento a capire che il cercare di infilarsi tutti contemporaneamente dentro quella breccia troppo piccola non avrebbe prodotto grandi progressi nella loro avanzata.

«Va bene. » disse, con voce roca «Abbiamo ancora un po’ di tempo, avanti!»

Si voltò verso Andrea e le mormorò «Spostati, usiamo un altro metodo.»

La ragazza lo guardò confusa, ma si scostò da lui e dalla parete, come richiesto.

Intanto Janine gestiva gli altri, intimando a Bethan di zittire Harry Darry, che aveva preso a lanciare piccoli gridi di panico dalla sua posizione rannicchiata nell’angolo della stanza più lontano dalla porta, e spronava Thomas, Gavin e Lian Dartax ad aiutarla a cercare qualche oggetto pesante.

Andrea guardò con sorpresa il ragazzo puntare per un momento con precisione lo sguardo sul punto del muro messo a nudo da lei col coltello; indi, prima che lei potesse sorprendersene eccessivamente, Danny si era un po’ allontanato dalla parete, aveva caricato i muscoli e aveva rifilato un forte calcio al volo contro la parete. Nonostante la fulmineità dell’azione, la ragazza notò che il colpo veniva dato con una mossa tale che tutto il peso e la forza del corpo del ragazzo era concentrato e impresso in quel calcio. Probabilmente fu per questo che vide quasi subito il suo volto deformarsi in una smorfia di dolore. Capì chiaramente che doveva star trattenendo parecchie imprecazioni o semplici urla di dolore, mentre, zoppicando sul piede sano, cercava di recuperare l’equilibrio. Lei tornò a guardare la parete, chiedendosi quale problema avesse quel tizio con il mondo della realtà possibile, ma furono le sue certezze a incrinarsi, e trattenne il fiato, stupita.

Nel punto colpito da Danny il muro era seriamente incrinato.

‘Possibile che questa parete sia così sottile?’ si chiese incredula la ragazza. Quindi tornò ad osservare Danny, che pure stava rimirando il risultato con un sorrisetto un po’ critico. ‘Niente male, ma si può far di meglio’ gli lesse nell’espressione. Senza avvedersene, Andrea fece un piccolo ulteriore passo indietro, e rabbrividì appena al pensiero di come lo avevano provocato fino a qualche momento prima. Lo sguardo feroce che gli balenava negli occhi ora non lasciava presagire nulla di buono, e c’era qualcosa di selvatico nel suo viso, concentrato sul muro come lo sguardo di un cacciatore si concentra sulla preda prima di spiccare il balzo dell’agguato o di dare il colpo mortale alla gola.

Danny spiccò un altro balzo, stavolta prendendo un po’ più di rincorsa; e nonostante la sua rincorsa fosse stata un poco zoppicante, anche il secondo calcio al volo, inferto con l’altro piede, andò a segno nello stesso punto. Il muro si incrinò di nuovo notevolmente, pezzi di intonaco schizzarono in giro come scintille polverose. Mentre Danny di nuovo saltellava sul posto cercando di recuperare l’equilibrio, e con una più accentuata smorfia di dolore a incrinargli i tratti del viso, il suo sguardo e quello di Andrea si concentrarono nel punto che aveva colpito. Poi si guardarono brevemente tra di loro, Andrea con una certa apprensione.

Lui le sorrise appena, in un modo che sperava tranquillizzante, nonostante il dolore che gli rendeva difficili certe espressioni, e le indicò con un cenno della testa il muro rotto. «Prova a dar qualche colpo col coltellino, ora… Solo che recuperi un po’ la sensibilità del piede e ci riprovo… »

Lei annuì, piuttosto rigidamente e meccanicamente, si chinò verso il punto del muro messo a dura prova dai calci di Danny e prese a dare qualche botta col coltello chiuso.

«Hey, come diavolo… ?!»

Danny ed Andrea si voltarono, incontrando lo sguardo incredulo di Janine, che era dietro di loro, e fissava stupita il muro rotto e Andrea, alternativamente. «Ma come ci sei riuscita?» domandò, incredula.

Andrea rivolse un breve sguardo piuttosto furtivo a Danny, notando che lui glielo stava ricambiando in modo impacciato. Allora lei alzò le spalle, come a liquidare una questione senza rilevanza, e si rivolse a Janine. «Piuttosto, che hai lì?» le domandò.

Janine si riscosse dal suo stupore, e parve ricordarsi di ciò che stava trasportando tra le braccia. Lo sollevò un poco, mostrandolo ad entrambi. Sembrava una scultura astratta, in metallo lucido, ed evidentemente in parte cava; aveva una forma vagamente oblunga… Danny alzò appena un sopracciglio: in effetti, la scultura rappresentava una sorta di fallo. Bene, o male. In ogni caso, non afferrava perché Janine avesse scelto quel momento per mostrarla loro…

«E’… una tua… hum… creazione? » le chiese, con tono esitante e insolitamente delicato.

Lei lo fissò come se fosse convinta della sua totale stupidità. «No. Che importa? Ci serve qualcosa per buttare giù questo cavolo di muro, giusto?»

«Oh! Ah, sì, certo certo… Bene, allora, provo io…» cercò di recuperare in fretta Danny, prendendo dalle mani della ragazza la pesante scultura, e agitandola un po’ nell’aria come se saggiasse una mazza da baseball prima di battere il colpo decisivo della partita. In un certo senso, era proprio quello che doveva fare: un colpo decisivo.

Un altro schianto, più cospicuo e lamentoso, di plastica e legno spezzati.

«Cazzo, sbrighiamoci!» imprecò Janine. Per la prima volta Danny fu pienamente d’accordo con lei.

Si voltò su se stesso, e prese a somministrare generosi colpi con la scultura contro il muro, concentrandoli sempre nel punto prima bersagliato dai suoi calci. Con sorpresa di tutti e tre, occorsero un paio di colpi prima che il muro andasse in pezzi. Danny esultò tra sé e sé: ottimo, la parete era ancora più sottile di quello che aveva pensato. Ma c’era qualcosa di strano… non si vedeva alcuno spicchio di luce esterna filtrare dal buco, anzi si ritrovò a fissare un buio ancora più fitto.

Danny era abbastanza sicuro che non fosse possibile che la notte fosse già calata.

Andrea si inginocchiò rapidamente di fronte al buco e vi spiò attraverso, emettendo quasi subito un verso di irritata delusione. Alzò lo sguardo su Janine e Danny, che aspettavano impazientemente il responso.

«C’è un altro muro, più in là… hanno lasciato dentro tra le due neo-pareti un po’ dello spazio della vecchia finestra…»

«Va bene, non drammatizziamo! Servirà solo qualche altro colpo, ora scostati… » iniziò a dire Danny. Fu quasi interrotto da un nuovo schianto, più poderoso dei precedenti. Vide Janine e Andrea voltare gli sguardi allarmati verso la porta, ma lui si rifiutò di imitarle. Poggiò una mano sulla spalla di Andrea e la scostò piuttosto bruscamente, con urgenza, e riprese a bersagliare il muro di colpi. Non avevano quasi più tempo, lo sapeva bene, e stare ad assistere alla scena gli avrebbe solo fatto perdere più preziosi secondi.

Mentre alle sue spalle imperversavano i rumori della porta che andava distrutta poco a poco e della loro barricata che tremava e iniziava a cadere, si limitò a continuare a tirar colpi al muro. Con la coda dell’occhio intravide Janine e Andrea scostarsi dalla parete per dirigersi alla barricata.

«Via di lì!» urlò Janine a qualcuno.

«No, proviamo a tenere la barricata ancora un po’! Non ci vorrà ancora molto!» la contraddisse Andrea.

Poi, mentre Danny ancora menava colpi alla parete, ignorando le sempre più dolorose ripercussioni dei contraccolpi che gli scuotevano le braccia fino all’osso e gli rintronavano in tutto il resto del corpo, furioso principalmente con se stesso oltre che con quella dannata parete, gli parve di udire qualcos’altro.

Sembrava una voce. E non veniva da dietro di lui, ma da davanti. Oltre la parete… ?

«Danny?» domandò la voce, con una certa perplessa sorpresa.

E allora lui si accorse di aver già aperto uno squarcio grosso come un pugno, abbastanza grande da permettere a due occhi di spiare dentro, vedendolo. Erano occhi azzurrissimi.

«Danny… » ripeté la voce, stavolta con un tono di meno dubbiosa constatazione.

«Hu… Uther!» esclamò Danny, per un momento preso dal sollievo, e subito dopo da una nuova urgenza. «Qui siamo nei guai! Siamo tutti chiusi dentro e hanno ormai sfasciato la porta, ci sono altre persone, non ci sono altre uscite!» riassunse rapidamente.

Gli occhi azzurri si spalancarono per un momento per la sorpresa, poi le sopracciglia si aggrottarono gravemente, e Danny avrebbe quasi potuto giurare di aver udito un’imprecazione particolarmente blasfema attraverso la parete.

«Dove sono gli altri?!» domandò ancora Danny.

«Stanno arrivando. Sono ancora dentro. Ma tu sei messo male e non c’è tempo… Ascolta. Forse ho un’idea… »

«Ok, dimmi!» lo interruppe vivacemente Danny. Ma prima di dedicare la sua completa attenzione alla voce di Uther, ovattata dalla parete, decise di arrischiarsi a sbirciare cosa stava succedendo alle sue spalle.

Trattenne un istante il fiato, poi, prendendo coraggio, si voltò a guardare cosa restava della barricata e degli altri occupanti della stanza.

 

 

 

*BARRICADES = BARRICATE (in inglese). Non è che ci sia altro motivo per cui ho messo la parola in inglese che questo: mi è rimasto in mente il termine, devo averlo sentito in qualche film/canzone/scritto da cui mi è rimasto impresso… Sul significato di ‘barricata’ non mi sembra necessario esprimermi, visto che basta anche solo una puntatina sulla wikipedia :)

 

 

Soundtrack: Too cool for school (Fountains of Wayne)

Ritorna all'indice


Capitolo 17
*** 15 - QUADRO PARLANTE...E ALTRI TRUCCHI ***


Capitolo 15

(Quadro parlante… e altri trucchi)

 

La stanza sembrava completamente immersa in una cocciuta immobilità. Come il resto dell’edificio, peraltro.

Un’aria da ‘calma dopo la tempesta’, o, a meglio vedere, più una ‘calma da occhio del ciclone’ aleggiava su una nutrita distesa di vari detriti, che una volta erano stati l’arredamento della stanza, poi, nell’ultima parte della loro vita, qualcosa che avrebbe voluto assomigliare a una barricata di fortuna. La porta non aveva decisamente più l’aspetto di una porta, se non in minima e vaga parte; più che altro era ridotta a un cumulo di pezzi rotti, spezzati, strappati, alcuni pendenti dallo stipite.

Un tripudio di schegge di varie dimensioni, di pezzi di plastica e di altri materiali, si stendeva fitto sul pavimento, come una sorta di originale tappeto in stile ‘the day after tomorrow’.

Si era nelle prime ore di un pigro pomeriggio invernale. Fuori il sole gettava una luce pallida, malsana, su una tranquillità sinistramente desolata, e l’aria fredda e immobile aveva un che di fumoso. Ma nulla di tutto questo penetrava minimamente nella stanza, che era stata sigillata, murate le vecchie finestre.

Un mucchio di esseri umani di svariate corporature, vestiario, età, genere sessuale e condizioni fisiche erano radunati nella stanza; tutti perfettamente immobili, ritti in piedi e con le braccia abbandonate lungo i fianchi, assolutamente muti, guardavano, con aria incantata eppure sguardo assente e vacuo, la parete di fondo, presso la quale si erano tutti ammassati, come per assistere ad un eccezionale spettacolo.

Appoggiato alla parete c’era un vecchio quadro di tela, con la cornice grossa e pesante un po’ rovinata agli angoli. Rappresentava una scena dal forte impatto visivo, nonostante la semplicità di ciò che era effettivamente dipinto. Lo stile era uno di quei pasticci moderni sperimentali e, in un generale abbozzo impressionistico di linee e schizzi di colore apparentemente casuali, si poteva distinguere la fitta vegetazione da foresta amazzonica. Come se il punto di vista di chi apprezzava l’opera fosse stato quello di qualcuno che, nascosto tra la iper-rigogliosa vegetazione, spiava cautamente attraverso di essa, tra il verde delle foglie si apriva appena un piccolo scorcio, un po’ forzatamente, come se le spostasse una mano però invisibile. E in quello scorcio si vedeva in lontananza, come se l’osservatore si trovasse sull’orlo di una grande conca nel terreno, delle dimensioni di una piccola valle.

Al centro della valle si ergeva, sempre nello stile schizzato e con un che di psicologico-impressionista, la parte superiore di una costruzione immensa, una sorta di piramide a gradoni. I gradoni erano tutti avvolti fittamente da rampicanti, e da tutto ciò di arboreo che aveva potuto arrampicare il grosso edificio sacro e immobile, vestigia di popolazioni più antiche.

Ma sulla cima della grossa piramide ormai quasi inghiottita dalla vegetazione, troneggiava un totem d’oro, rappresentante una strana creatura dal corpo di un essere umano nano, rannicchiato in una posa seduta sui talloni. La testa assomigliava a quella di un dragone incrociato con qualche altro animale mitologico; dalle fauci aperte sfuggivano piccole lingue di fuoco dorate. Anche alla distanza dalla quale osservava l’osservatore immaginario del quadro, gli occhi di quel totem, pulito e luccicante d’oro in una luce la cui fonte il pittore non rendeva nota, avevano un che di vivo e smagliante, uno sguardo penetrante che solcava senza alcuna difficoltà ogni distanza, osservando tutto, e posandosi con implacabile precisione sull’osservatore che lo spiava di tanto lontano, come se l’avesse visto subito, immediatamente colto sul fatto.

Nel silenzio opprimente della stanza, il totem del dipinto parlò con voce chiara.

« Ma bene, che bel branco di stupidi c’è qui. Certo che è proprio una vera soddisfazione parlare con voi. » declamò in tono evidentemente ironico.

Dal gruppo di persone tutte ammassate lì davanti, con gli sguardi vacui fissi sulla bocca del totem nel dipinto, non provenne alcun segno di reazione. Cionondimeno, sembravano convinti che non ci fosse niente di maggiormente interessante e assoluto nella vita che stare ad ascoltare la voce, guardando il quadro parlante con quella che si sarebbe detta, a voler penetrare con la fantasia la cortina di indifferenza vacua dei loro sguardi, una venerazione stolida e inconsapevole.

Dalla bocca dipinta del totem provenne un debole sospiro.

« Giurerei quasi che non state capendo un accidenti di quello che dico, sbaglio? Bé, non state a rispondermi, era una domanda retorica comunque. » continuò la voce con solerzia, come se ormai avesse ben compreso che non avrebbe ricevuto alcuna risposta, e fosse decisa ad impegnarsi per impedire al silenzio di inserirsi troppo significativamente tra le sue parole, che cadevano con precisione netta, quasi ipnotica, tradendo solo leggermente un accento straniero; in ogni caso, aveva cura di usare un tono da rivelazione apocalittica.

« Comunque, cosa stavo dicendo? Ah, sì. Bene, vedete, è proprio una storia completamente assurda. Questo tizio, il taxista, voleva farmi pagare il sovrappiù! Dico, l’unica volta che prendo un taxi, a causa di un’emergenza, e vado a beccarmi un maledetto strozzino largo come un armadio e più puzzolente di una macelleria abbandonata sporca da tre anni. Beh, o quasi. Forse c’hanno addosso qualche loro istinto del mestiere, e ti sentono l’odore quando sei nuovo, cioè che non hai mai preso un taxi in vita tua. Come che sia, io gli dico così, sentite bene: ‘, nano, ma stiamo scherzando? Ragioniamo un attimo. Se tu non avessi fatto il possibile per infilarti nelle strade e nei quartieri più trafficati della zona, a quest’ora sai dove si sarebbe? Prova un po’ a immaginarlo!’. E allora, questo bestione mi fa… »

Un piccolo lieve rumore, assomigliante a un gemito, si insinuò tra le parole del totem. La voce tossicchiò brevemente, con aria irritata, e lasciò perdere la piccola pausa ad effetto per riprendere a parlare in tono ostinatamente più alto e proclamante, come se stesse recitando in un teatro grande ed affollato, e come se fosse giunto a un punto di altissimo pathos narrativo.

Da qualche parte nella stanza, alle spalle del gruppo immerso in una trance assorta ed immemore di sé che pendeva dalle labbra del quadro parlante, il piccolo gemito era stato prontamente azzittito. E fu seguito di nuovo da un composto ma sospeso silenzio.

Diverse paia di occhi ben più vivaci e attenti di quelli degli astanti il quadro, anzi, piuttosto strabuzzati in una suspense densa di tensione, rimasero incollati ancora qualche lungo secondo alle spalle e schiene dell’immobile schiera che occupava il fondo della stanza. Poi, finalmente, tornarono a rilassarsi, concedendosi un sospiro mentale di sollievo.

Facendo bene attenzione a non provocare alcun rumore col suo gesto, e continuando a mantenere tutta la sua persona intimamente incollata alla parete alle sue spalle, contro la quale già da qualche minuto andava strisciando lentamente e silenziosamente, in direzione del vano che era stato occupato dalla porta ormai in pezzi, Danny osò muovere la testa. Percorse con lo sguardo la parete lungo la quale andava spostandosi, senza soffermarsi su nessuno degli altri, ugualmente impegnati nel suo stesso furtivo spostamento, e si fermò a fissare Harry Darry, corrugando la fronte nel medesimo istante.

Il giovane uomo, ancora troppo sconvolto dagli ultimi avvenimenti, che avevano definitivamente demolito i suoi nervi, era immobile come tutti gli altri, ma aveva la muscolatura inflaccidita, come se stesse per lasciarsi cadere a terra da un momento all’altro. Per scongiurare questo, era pesantemente sorretto ai lati dal robusto Gavin e da Janine; la mano di quest’ultima era risolutamente premuta sulla sua bocca.

Janine guardò Danny con aria penetrante e vagamente minacciosa, raggelandolo nel mentre del suo scuotere appena la testa con disapprovazione. Piuttosto irritato, il ragazzo si limitò a farle un cenno con la testa, indicandole di continuare a proseguire verso il vano della porta. La ragazza alzò appena le spalle, con aria infastidita, e senza rispondergli riprese a muoversi a piccoli passi cauti; Danny osservò comunque con approvazione il fatto che lei decise di mantenere la mano schiacciata sulla bocca di Harry Darry, mentre con l’altro braccio lo sosteneva. Era evidente che l’uomo era sostenuto quasi solo dalla presa sua e da quella di Gavin, il quale assecondò prontamente la ripresa del movimento.

Dietro di loro venivano Bethan e Thomas; questi, pallido e concentrato, teneva per mano la donna con fare consolatorio. Era poi la volta di Lian Dartax, tutto impegnato nel suo essere calato nella parte di ‘furtivo’, al punto che le labbra carnose gli sporgevano un po’ in fuori, in maniera quasi bizzarramente comica, e dall’attaccatura sulla fronte dei capelli mezzo bianchi e mezzo tinti di viola una sottile patina di sudore gli scendeva sul faccione un po’ rubizzo per lo sforzo.

Danny lo seguiva con passi attenti, studiando di volta in volta come muovere i piedi senza urtare alcuno dei detriti sparsi per terra. Nella mano stringeva la sua pistola, pronta, e probabilmente inutile. Andrea, che lo seguiva da vicino, lasciò andare la manica della sua giacca, che aveva afferrato in un rapido gesto di spavento quando il gemito di Harry Darry aveva spezzato il loro accorto silenzio.

Danny se ne dispiacque per un momento. Preferiva sentire il tocco di lei, a conferma che lo stava seguendo, piuttosto che doversi voltare di tanto in tanto a lanciarle un’occhiata. Lo fece anche in quel momento, sentendo che lo lasciava andare. La ragazza, evidentemente tesa e nervosa, aveva però l’espressione decisa, con le labbra strette; gli rivolse un brevissimo cenno d’assenso, come per confermargli che andava tutto bene.

Continuarono tutti a strisciare contro la parete.

Finalmente, dopo qualche altro minuto, scandito dalla voce del quadro, che intratteneva il gruppo dei suoi singolari accoliti con racconti sempre più strampalati e improbabili, ma sempre con tono di solenne declamazione, il gruppetto costituito da Janine, Harry Darry e Gavin giunse alla porta.

Janine si voltò, e con uno sguardo d’intesa lasciò che il peso di Harry Darry gravasse solo su Gavin e sulla parete.

La ragazza si allontanò dagli altri due, scavalcò con attenzione i resti della porta, alzando e muovendo con lenta perizia le lunghe gambe, e sparì oltre la soglia.

Il lento sollievo che Danny iniziava a pregustare gli rimase incastrato in gola, non appena si udì l’allarmata esclamazione di Janine che andava a sbattere contro qualcuno.

Quasi subito si udì un’altra voce, maschile, calma anche se sorpresa, che in tono accortamente cortese le disse «Tutto bene. Sono qui per aiutarti. Hai visto per caso qui in giro uno strano ragazzo biondo ed evidentemente stupido che… »

Ma Danny non ebbe quasi il tempo di riconoscere con sollievo la voce di Kumals.

Nonostante la voce del totem nel quadro avesse alzato il tono e si fosse lanciata in una serie di vive esclamazioni, cercando di mantenere concentrata su di sé l’attenzione del gruppo delle persone in trance, alcune di queste ultime, udendo la voce di Janine e di Kumals, si erano distratte. Lentamente si erano voltate verso il resto della stanza e il suo ingresso, e iniziavano a muoversi, a passi pesanti, alzando le braccia verso i fuggitivi.

«Fuori! Fuori!» gridò imperiosamente e urgentemente Danny, spingendo verso la porta Lian Dartax, che era davanti a lui, e afferrando in un sol gesto e alla cieca un braccio di Andrea che lo seguiva.

Con suo grande sollievo, a Kumals occorsero pochi istanti per realizzare la situazione, e aiutò subito Gavin a sostenere Harry Darry, mentre tutti si precipitavano fuori dalla stanza e nel corridoio, dove iniziavano a correre più o meno forte, ognuno a seconda delle sue immediate capacità.

«Di qua!» li scortò Kumals, in testa al gruppo.

Danny, con un gesto rapido, tirò Andrea davanti a sé, mettendosi in coda al gruppo, e si voltò indietro, prendendo la mira rapidamente e sparando, in tempo per assestare un proiettile di gomma nel ginocchio del primo dei loro inseguitori, che stava giusto uscendo dalla stanza al corridoio. Questo, più per la sorpresa e l’eccessiva lentezza in ogni reazione, piuttosto che per il danno effettivo, incespicò, cadendo riverso proprio davanti alla soglia. I due che lo seguivano gli inciamparono subito addosso, cadendo rovinosamente, e abbastanza precisamente da ostruire agli altri la soglia della stanza.

Danny, con un sorrisetto soddisfatto, si voltò, andando a sbattere contro Andrea.

«Sei impazzito?!» gli gridò in faccia lei, afferrandolo per la maglia.

Lui si strappò una delle sue mani di dosso e la sospinse per farle riprendere la corsa della fuga, mentre rispondeva precipitosamente. «Sono di gomma!»

«Non è vero! Anche se sono ridotti in quello stato, possono farsi male comunque…» iniziò a replicare lei.

«I proiettili, perdio!» specificò lui.

Tuttavia, nonostante tutto, Andrea aveva già ripreso a correre un po’ davanti e un po’ di fianco a lui. Si limitò a dare uno strattone per liberarsi della presa con cui il ragazzo la sospingeva, come per recuperare con cocciuta decisione la sua completa autonomia di movimenti, e tornò a rivolgere la sua espressione irritata davanti a sé, lungo il corridoio.

*

***

*

Uther, appiccicato alla parete esterna dell’edificio, spiò attraverso il buco che trapassava il muro e il quadro l’effetto dell’arrivo di Kumals e la fuga precipitosa di tutti. Quando anche la nuca di Danny scomparve nel vano della porta, abbastanza prima che il gruppo degli individui che aveva intrattenuto fino a quel momento raggiungesse lo stesso punto, si concesse un sospiro di sollievo, e staccò l’occhio dal buco.

Fece qualche passo indietro dal muro, e si sistemò meglio il fucile a tracolla; quindi si voltò di mezzo giro e si immobilizzò.

Ramo lo guardava, con aria alquanto confusa.

«Eccoti.» disse Uther, con un sorriso.

Ramo rimase in silenzio qualche istante, prima di chiedere, con esitazione «Ma… che diavolo stavi facendo?»

Uther rimase un momento immerso nell’imbarazzo suscitatogli dal tono dell’altro, prima di alzare le spalle «Lungo da spiegare ora. Piuttosto, dovremmo dare una mano a… »

In quella si udì un notevole rumore di diversi passi in corsa sul cemento della spianata che circondava l’edificio. Ramo si voltò in una posizione allarmata di difesa verso l’angolo dell’istituto, da cui comparve repentinamente un nutrito gruppo.

Per prima apparve una ragazza alta e snella, con i lunghi rasta che le si agitavano intorno come una nuvola poco più scura della sua pelle e poco meno dei suoi occhi, mentre lei un po’ correva e un po’ saltellava accanto a Kumals che, insieme ad un altro ragazzo, sostenevano e quasi trascinavano un tizio biondo dall’aria distrutta.

«Che diavolo…?» iniziò Ramo, ma subito andò incontro a Kumals, come già stava facendo Uther.

Dietro di loro c’erano un altro ragazzo, una donna spaventata, e un signore con i capelli bianchi e viola.

«Kumals…» iniziò a dire Ramo.

«Ci serve una macchina o due per caricare questa gente.» lo interruppe in tono pratico e urgente il nominato, scaricando senza tante cerimonie parte del suo fardello sulla spalla di Ramo. «E in particolare per trasportare questo.» aggiunse, mentre con un breve sbuffo si liberava del peso di Harry Darry, con la stessa grazia con cui ci si scarica dalle spalle un pacco pesante.

«E dobbiamo darci una mossa, perché quei cosi saranno qui da un momento all’altro!» chiarì.

Si voltò verso Janine «Abbiamo delle chiavi, qualcuno sa guidare e se ne sente in grado?»

«Voi non avete neanche un’auto?» domandò, con tono acutamente critico, la ragazza.

«Ma dov’è Danny?» si intromise Uther, precedendo di poco la stessa domanda che stava cercando di fare Ramo.

Kumals indicò con un gesto infastidito alle sue spalle, e voltandosi i due videro Danny girare l’angolo. Aveva un’espressione a dir poco contrariata, simile a quella che occupava il viso della ragazza dai capelli bluette che gli scarpinava accanto con aria intimidatoriamente decisa.

Ramo ed Uther aggrottarono le sopracciglia.

«Vediamo di concentrarci! Noi abbiamo già un’auto, che può trasportare noi e al massimo un’altra persona. Ce ne serve almeno un'altra con abbastanza spazio. E qualcuno che sia in grado di guidare.» riprese Kumals, con decisione.

«Siamo sicuri…» tornò tuttavia a interrompere Uther, il quale continuava a spiare di sottecchi Danny e il suo cipiglio innervosito, come stava facendo in parte anche Ramo «… che dentro non ci sia più nessuno?»

«Nessuno che non sia già stato inebetito.» rispose Janine, incrociando le braccia con sicurezza.

«Io so guidare… » disse debolmente Bethan.

«Non importa, Bethan, guiderò io.» affermò ancora Janine, dopo averle lanciato uno sguardo piuttosto preoccupato «Ma non abbiamo le chiavi nemmeno di una sola auto con noi… credo… »

«Questo non è un problema.» le comunicò Uther.

«Bene, basta chiacchiere, andiamo alle macchine.» concluse sbrigativamente Kumals. Aveva già notato che Danny, che stava sorvegliando se arrivava qualcuno dalla casa, si stava un po’ agitando.

Infatti il ragazzo si voltò. «E facciamo in fretta.» disse.

Quando il gruppetto ebbe raggiunto le auto parcheggiate, Uther si fece indicare da Janine la prescelta, un grosso fuoristrada nuovo, dalla carrozzeria luccicante dello smalto della vernice verde scuro e argentea.

«Danny.» disse solo Uther, mentre frugava nelle sue tasche.

Il ragazzo, che già stava armeggiando da un po’ con la sua pistola, la puntò sul finestrino del guidatore e fece fuoco. Stavolta era un proiettile vero e proprio, del caricatore che aveva giustappunto appena inserito per lo scopo, quello che mandò in frantumi il finestrino. Si era curato di mettere il silenziatore, ma nell’aria il rumore dei vetri che si infrangevano sembrò comunque a tutti troppo forte per i loro gusti.

«Stanno arrivando.» avvertì nervosamente Thomas, che guardava verso l’edificio.

Anche Kumals, che guardava in quella direzione, fece sentire la sua voce «Abbiamo altri due minuti, forse. Diamoci una mossa.» comunicò ai suoi “colleghi”, i quali comunque erano già indaffarati.

In una sequenza fluida e abitudinaria di movimenti, gli altri osservarono Danny chinarsi accanto allo sportello, permettendo a Uther di salirgli sulla schiena, usandola come scalino per entrare meglio nell’auto attraverso il finestrino. Una volta dentro, si infilò subito sotto al volante, e iniziò ad armeggiare con i fili che metteva a nudo.

Nel giro di pochi momenti riuscì a provocare l’effetto di un giro di chiavi, facendo accendere la centralina elettrica della macchina. Prontamente Danny inserì il braccio attraverso lo spazio lasciato dal finestrino rotto, sporgendosi a cliccare il pulsante sul quadrante accanto al volante, facendo scattare l’apertura automatica degli sportelli.

«Avanti, tutti dentro, a parte chi è già con noi sull’auto, forza!» incoraggiò energicamente Kumals.

Ramo e Gavin, che già aspettavano di fianco a uno degli sportelli posteriori, lo aprirono e ci caricarono sopra il semi-incapace Harry Darry, mentre anche Bethan e Thomas si arrampicavano sui sedili posteriori, aiutando a tirar su il corpo dell’uomo.

Mentre anche Gavin saliva sull’auto, Uther strisciò fuori da sotto il volante, poco dopo che il rumore del motore si era fatto sentire, rombando.

«Non farla spegnere per i primi kilometri almeno, o siete fregati.» raccomandò a Janine, la quale annuì con decisione mentre lo sostituiva al posto di guida.

«E’ meglio che sali anche tu con loro, per sicurezza.» gli suggerì Kumals.

Uther lo guardò «Non ci stiamo tutti.»

«Questa ragazza può venire con noi per ora, vero?» propose ancora l’altro, indicando Andrea.

Janine guardò Andrea con intenzione, e la ragazza la contraccambiò con decisione. «Benissimo.» affermò.

«Non abbiamo più tempo!» avvertì Ramo, che teneva d’occhio con preoccupazione il gruppo di persone ciondolanti, ormai a pochi metri dall’auto.

«Vai!» urlò Uther a Janine, saltando in fretta sul sedile davanti, scostando abbastanza bruscamente Gavin.

Mentre la grossa auto partiva, con le enormi ruote che sgommavano sollevando un po’ di polvere di cemento nella partenza, gli altri che erano rimasti a terra si allontanarono rapidamente per lasciarle sgombro il passaggio, e per allontanarsi dal gruppo di persone che arrivavano con solerte velocità crescente.

«Ramo!» chiamò Danny «La pistola.»

L’interpellato ebbe buona prontezza di riflessi, estraendosi la pistola dalla cintola e lanciandola a Danny, che la afferrò al volo.

Andrea fece per aggrapparsi al braccio armato di Danny, ma Kumals, benché confuso sui propositi della ragazza, l’afferrò per un gomito, rallentandola per gli istanti che servirono a Danny per alzare la canna dell’arma al cielo e premere il grilletto.

Con un sibilo penetrante ne schizzò fuori il proiettile, che salì verso l’alto di alcuni metri ed esplose in un debole razzo di segnalazione. Gran parte degli uomini e delle donne che si andavano avvicinando loro si soffermò a guardare verso l’alto, abbastanza interessati dallo spettacolo rossastro e sprizzante un poco di scintille per dimenticarsi almeno temporaneamente di chi stavano inseguendo.

Ma loro non rimasero a guardare l’effetto prodotto dallo sparo di Danny. Questi, in una sola rapida mossa, si era girato su se stesso, aveva afferrato Andrea per il braccio e si era dato alla fuga nella boscaglia, subito imitato e seguito da Kumals e Ramo. Quest’ultimo si tirava appresso Lian Dartax, ansante e pesante, che non era stato abbastanza lesto da salire sul fuoristrada prima che partisse.

 

 

Soundtrack: Bang a gong (T.Rex)

 

Ritorna all'indice


Capitolo 18
*** 16 - ANDREA ***


Capitolo 16

(Andrea)

 

La luce rossastra di un rapido tramonto invernale inondava l’aria, facendola apparire ingannevolmente più calda. Ma, come testimoniavano le chiazze di neve sparse sul terreno e su parte delle chiome degli alberi del bosco, unitamente alla temperatura piuttosto rigida che andava abbassandosi con l’avvicinarsi della notte, era comunque inverno.

Uther rabbrividì appena, e si tirò più su la cerniera del giubbotto, prima di tornare ad appoggiarsi di schiena all’auto ferma, a braccia conserte. Di fianco a lui brillò una piccola fiamma; Kumals aspirò, accendendo la sigaretta, poi allungò l’accendino a Danny, che fece altrettanto.

Tutti e tre tornarono a fissare l’altra auto, il grosso fuoristrada, fermo a pochi metri dalla loro, nel bel mezzo dell’incrocio delle strade che si facevano moderatamente largo solcando serpentinamente la boscaglia.

Quasi tutti gli sportelli della grossa macchina verde e argento erano aperti, mostrando diverse scene.

Sui sedili posteriori era coricato per il lungo, supino, Harry Darry. Sembrava che dormisse, un sonno agitato, la testa poggiata sulle gambe di Janine. La ragazza era intenta a vegliarne il riposo con pazienza, carezzandogli il viso con delicatezza, attentissima ad ogni suo minimo segno di vita.

Con aria mal celatamente esausta, seduto sul sedile del guidatore ma voltato verso i sedili posteriori, Gavin si limitava a guardarli, come se non riuscisse a farsi venire in mente proprio niente di meglio da fare.

Lian Dartax, con il panciotto color verde acido un po’ allentato, si avvicinò a Danny, agitando in aria con fare plateale un sigaro che aveva intenzione di accendersi. Il ragazzo si ricavò l’accendino di tasca e, benché l’uomo si fosse già infilato il sigaro tra le labbra e si stesse sporgendo un poco verso di lui, invece di accendergli gli porse l’accendino perché lo prendesse e si accendesse da solo.

Lian Dartax gli scoccò uno sguardo corrucciato, ma prese l’accendino, si accese il sigaro, glielo restituì, e tornò verso il fuoristrada con passo studiatamente offeso; si assise sul sedile del passeggero, tirando ampie boccate di fumo azzurrognolo, con fare sostenuto. Nonostante il suo atteggiamento, era evidente che era molto stanco anche lui.

Danny fu il primo a girare la testa in direzione della boscaglia, mostrandosi particolarmente attento. Kumals ed Uther seguirono immediatamente il suo sguardo e attesero. Poco dopo, una serie di piccoli rumori di passi segnalò che qualcuno si stava avvicinando.

 Dalla vegetazione comparvero, nell’ordine, una ragazza dai capelli bluette, affiancata da una donna dall’aria molto provata, un ragazzino magro e pallido e ugualmente stanco, e quindi Ramo con la sua mazza di legno appoggiata su una spalla.

Lian Dartax si alzò in piedi e andò loro incontro. Prese tra le mani quelle gelide di Bethan, e le chiese con ostentata preoccupazione come si sentisse, chiamandola col nome di ‘professoressa Forrester’.

«B… bene» balbettò la donna, impegnandosi poi in uno stentoreo sorriso.

Andrea si era avvicinata a Janine, e le aveva appoggiato una mano sulla spalla, osservando anche lei in silenzio il viso addormentato di Harry Darry. Thomas rimase semplicemente fermo in piedi accanto a Bethan. Sembrava poco propenso ad allontanarsi troppo da lei.

Ramo si avvicinò agli altri. «Tutto bene.» disse, come facendo rapporto di fronte agli sguardi vagamente interrogativi di Uther e Danny, e sotto quello attento e calmo di Kumals. Appoggiò la mazza di legno per terra e alla fiancata dell’auto, e si guardò un po’ intorno, fissando una ad una le persone ivi riunite, con aria un po’ impacciata.

«E qui come va?» chiese, infilandosi le mani in tasca e stringendosi nelle spalle, tremando un poco nell’aria fredda.

«Niente. Vi abbiamo aspettato.» disse solo Uther.

«Come sta quello?» domandò ancora Ramo, accennando con la testa ad Harry Darry.

«Dorme.» disse Kumals, lanciandogli un’occhiata appena interessata «Penso che si riprenderà.»

«Hum… » mugugnò pensosamente Ramo. Indi, avvicinandosi più strettamente agli altri tre, mormorò piano «Ma… li portiamo tutti su a casa di Yuta e Zoal

«Sarebbe meglio se raggiungessero tutti al più presto un ospedale.» interloquì Kumals. «Secondo quel ragazzo» e indicò Gavin «e quell’altro là» e accennò a Lian Dartax «ce n’è uno a Saint Vikam. È un paesino non molto lontano da Castle MacHearty, dall’altra parte delle colline, di là.» indicò vagamente una direzione.

«Ma se anche là… ?» iniziò Ramo, dubbioso ed esitante.

«Qui i telefoni prendono. La ragazza, Janine mi pare, ha dato un colpo di telefono. Li stanno già aspettando. Se partono ora, in capo ad un paio d’ore al massimo dovrebbero essere là. Abbiamo trasferito un po’ della benzina dalla tua macchina alla loro…» Kumals lo guardò, come per chiedergli approvazione.

Ramo annuì «Sì, certo, avete fatto bene.»

Si zittirono.

Andrea e Janine si stavano loro avvicinando, accompagnate da un poco energico Gavin e da un Lian Dartax dall’aria ufficiosa e altisonante. Il sonno di Harry Darry era stato lasciato alle cure di Bethan e Thomas.

«Allora, siete in partenza a quanto pare… » disse loro Ramo, in tono amichevole.

«Sì… Janine ci ha detto.» disse Andrea. Aveva un’aria poco persuasa, stranamente, come se qualcosa le fosse rimasto sullo stomaco. I suoi occhi vagano sui quattro ragazzi, indecisi.

«Se dio vuole!» esclamò invece Lian Dartax, piuttosto teatralmente.

«Comunque… » disse Janine, fissandoli ad uno ad uno con sguardo fiero e deciso «Grazie.» concluse, con seria sincerità e gratitudine, dopo aver chiaramente deciso di rimangiarsi qualcos’altro.

Kumals annuì appena, e, in tono di commiato, le rispose «Non ce di che. Buon viaggio, allora.»

Janine lo guardò direttamente ed annuì anche lei.

«E buona fortuna con… lui.» disse ancora Kumals, accennando con il capo ad Harry Darry «Sono certo che si riprenderà. Ha bisogno di riposare.»

Per un momento gli occhi di Janine si allargarono, tradendo la grande preoccupazione che la pervadeva; ma fu solo per un istante passeggero.

«Certo.» confermò.

«Allora noi…» iniziò Kumals.

«Aspettate un momento.»

Tutti si voltarono a guardare Andrea, la quale aveva parlato con una certa energia, ma aveva lo sguardo corrucciato fisso sul terreno, come se non osasse incontrare gli occhi di nessuno. Di quelle che la stavano fissando, l’occhiata di Janine era certamente la più sorpresa.

«Cosa succede?» le domandò per primo Gavin.

Andrea alzò finalmente la testa, guardandolo, ma distrattamente, immersa in altri pensieri.

«Janine…» disse infine, lentamente «Posso… potrei parlarti un momento? Cioè, se a voi non dispiace aspettare un attimo…» aggiunse, distogliendo gli occhi da Janine, come se non ardisse guardarla troppo a lungo, per fissare Kumals e Ramo.

Ramo alzò le spalle, e occhieggiò gli altri «No, non credo ci siano problemi…»

«Il sole calerà tra non molto. Dopo potrebbe essere peggio, guidare e il resto.» intervenne Uther.

«Solo per un momento. Un paio di minuti.» disse ancora Andrea, prendendo per un braccio con tocco gentile Janine, che la fissava con curiosa incomprensione, e invitandola ad accompagnarla mentre si allontanava da entrambe le macchine. A qualche metro da tutti gli altri, guadagnato un certo spazio di riservatezza, si vide che la ragazza dai capelli bluette iniziava in tono esitante e ad occhi bassi e imbarazzati un discorso a Janine, la quale ascoltava con viva attenzione.

Kumals guardò Gavin, e interruppe il silenzio di disagio che si era creato tra loro chiedendogli «Uther ti ha spiegato bene, quindi, come riavviare il motore, nel caso occorra?»

Il ragazzo annuì «Sì, non è difficile, non sarà un problema.»

«Molto bene.» commentò Kumals.

Ricadde un denso silenzio, interrotto dal fitto mormorio incomprensibile di Andrea, e da brevi parole in tono aspro di Janine.

«Magari intanto potremmo salire in macchina.» propose Gavin.

«Eh sì, sarà il caso.» fu d’accordo Lian Dartax.

«Bene, allora… grazie ancora di tutto… » si congedò Gavin, allungando in avanti una mano. Ramo la strinse, e, un po’ meno prontamente, anche Kumals, Danny e Uther fecero altrettanto a turno, per poi ripetere il gesto con Lian Dartax.

«Buona fortuna.» stava giusto dicendo Danny, quando un mezzo urlo li fece sobbalzare.

«Dico, tu stai scherzando!» strillò Janine.

Tutti si voltarono a guardarla, compresi Bethan e Thomas.

La ragazza si era piazzata le mani sui fianchi con aria battagliera, e ascoltava con cipiglio severamente contrariato Andrea, che parlottava ancora a bassa voce.

Danny aveva l’impressione di avere, in quel momento, un pensiero non troppo dissimile da quello che doveva star circolando nella testa dei suoi tre amici: perché mai le due ragazze avevano scelto proprio quella situazione per farsi chissà quali strette e urgenti confidenze private?

«Magari intanto salgo in macchina anch’io.» si risolse a dire Kumals, e lo fece, chiudendosi dietro lo sportello, dopo essersi accomodato sul sedile del passeggero.

Gavin e Lian Dartax rivolsero qualche ultimo cenno di saluto a Ramo, Danny ed Uther, e anche loro andarono a sistemarsi sui sedili del fuoristrada.

Fu il turno di Thomas di avvicinarsi a loro tre. Il ragazzo li guardò, piuttosto intimidito, e disse che li ringraziava, sia da parte sua sia da parte di Bethan. Quando occhieggiarono nella sua direzione, videro la donna fare loro un cenno di saluto, che ricambiarono. Anche con Thomas furono scambiate strette di mano et consimilia.

Ramo stava appunto scambiando per ultimo con Thomas una stretta di mano ricca di un certo imbarazzo da formalità, quando si resero conto che le due ragazze avevano finito di parlare. Per la precisione, Andrea stava marciando risolutamente verso di loro, mentre Janine la seguiva scuotendo la testa e borbottando tra sé e sé.

La ragazza dai capelli bluette si fermò di fronte a loro, le gambe un po’ larghe per consentirle una posizione decisa, le mani a pugno sui fianchi, e un’espressione che, da risoluta, si addolcì un poco in un accenno di sorriso nel guardarli; sembrava decisa anche ad ignorare le espressioni stupite e un po’ confuse con cui la stavano considerando.

Kumals era lentamente sceso dalla macchina, avendo assistito allo strano comportamento della ragazza attraverso i finestrini, e, appoggiatosi con un braccio al tettuccio, la guardava con scarsa pazienza, ma comunque anche con una certa pigra curiosità.

Janine si fermò a pochi passi da lei, vicino al fuoristrada, incrociò le braccia sul petto e rimase a guardarla, come se la mettesse alla prova tra sé e sé.

«Io vengo con voi.» disse Andrea.

Danny non avrebbe saputo dire se era stato più il significato semplice e diretto delle sue parole, o più la sua aria risoluta, animata da una fondamentale sicurezza, ma messa appena in dubbio dal suo lieve sorriso un po’ autoironico e un po’ dolcemente dubbioso, a fargliela apparire maggiormente folle. Folle in modo carino, e con un che di eroicamente drammatico, d’accordo, era da concederglielo; ma pur sempre folle. E, fatto ancor più curioso, quella follia aveva un che di assolutamente naturale e benevolo.

Mentre ancora lui accusava l’estraneità di quella sensazione, udì la voce placidamente calma e gentile di Kumals, alle sue spalle.

«Sì?» chiese, con tono apparentemente innocente. Chi lo conosceva, l’avrebbe però trovato sinistramente minaccioso. Era chiaro che Kumals si andava spazientendo, e parecchio anche.

Spiazzata da quella semplice domanda, e forse intuendo che c’era qualcosa che non andava in una risposta così tranquilla, Andrea tacque, ed allargò un po’ gli occhi, stupita. Non doveva essere quella la reazione che si era aspettata.

«Io ho provato a dissuaderla.» disse Janine «Ma questa ha una testa dura che non vi dico. E quando decide qualcosa… ah, beh, allora è un’impresa.». Nonostante il suo tono riprovevole, Danny ebbe l’impressione che la ragazza stesse rivolgendo all’amica una specie di commento che faceva di tutto per non sembrare generosamente pregno di meritorio rispetto.

«Mhm mhm, capisco.» disse ancora Kumals, mostrandosi falsamente comprensivo. Di nuovo, il suo tono fece un po’ rabbrividire Danny.

«E come mai vorresti venire con noi?» chiese ancora Kumals, in tono pressoché amabile.

Sul viso di Andrea comparve una lieve esitazione. Ma, se era stata messa in evidente difficoltà, si riprese in fretta, e rispose in tono ancora più saldo «Per darvi una mano.»

Kumals sospirò.

«Sei molto gentile…» iniziò «…e molto coraggiosa.» puntualizzò, con obbiettività «Ma il fatto è che…»

«So di non potervi essere di molto aiuto. Non sono stupida.» lo interruppe Andrea, facendo sussultare Danny. Difficilmente qualcuno di loro si sarebbe azzardato ad interrompere così direttamente Kumals, quando assumeva quel tono. Anche Ramo, accanto a lui, era ugualmente impressionato. Sul viso di Uther, invece, andava facendosi strada un’ombra di sorriso, segno che ammirava l’audacia dell’azione; ma i suoi occhi erano attenti e molto seri.

«Non così stupida, almeno.» proseguì imperterrita Andrea «Mi sono resa conto che avete capacità… non comuni.» e qui il suo sguardo si soffermò per un momento su Danny.

Il ragazzo ebbe lo sgradevole sentore degli occhi di Kumals che gli perforavano la nuca insistentemente, ma evitò di voltarsi, benché sentisse sudore freddo iniziare a inumidirgli il collo.

«Però, sono certa che a qualcosa potrò pur riuscire ad essere utile. Sempre meglio, insomma, che non fare niente, e mettermi solo in salvo. Non potrei tollerarlo. Sta succedendo qualcosa, a tutte quelle persone. E se qualcos’altro può essere fatto, per aiutarle, per farle tornare come prima, ho intenzione di fare la mia parte in questa direzione.»

I suoi occhi, nocciola dorato, esalavano uno sguardo di ferrea determinazione, ed erano fissi in quelli di Kumals, come se avesse intuito che in quel momento era lui il suo maggior detrattore, anche se prima avevano vagato ad incrociare gli sguardi degli altri tre.

Calò un profondo silenzio, saturo di tensione.

Thomas, rimasto sorpreso da tutta quella scena mentre, lasciata andare la mano di Ramo, si apprestava a tornare verso il fuoristrada, era rimasto bloccato sul posto vicino al gruppetto costituito dai tre ragazzi, e non aveva più osato muoversi. Impacciato, assisteva alla scena con aria grottescamente comica, lanciando sguardi rapidi da Andrea a Kumals e viceversa. Danny non invidiava affatto la sua posizione; lui non avrebbe osato guardare Kumals negli occhi, in quel frangente.

«Degno di lode, da parte tua.» replicò Kumals. Stavolta il suo tono aveva una notevole freddezza impersonale, tagliente e netta «Tuttavia, in gran parte per i motivi che tu hai già detto, questo è fuori discussione.»

«Bene.» ribatté Andrea. Questo sembrò sorprendere lo stesso Kumals, che non avrebbe avuto difficoltà a fronteggiare risolutamente ulteriori insistenze, per quanto fantasiose o studiate o piene di suppliche o di che altro.

«Certamente voi non avete il monopolio del contrasto di questa cosa che si sta impossessando delle persone.» disse Andrea, calma e decisa.

«E non sono qui a chiedervi il permesso di fare qualcosa.» proseguì, chiara.

Danny sentì un brivido gelido di allarme percorrergli la schiena.

«Vi sto chiedendo solo di venire con voi. Se non mi volete, andrò per mio conto.»

Qui Uther intervenne quasi frettolosamente, chiaramente nel tentativo di smorzare il confronto di sfida diretta che si era creato tra Andrea e Kumals. Danny gliene fu profondamente grato.

«E dove andresti, di preciso, se posso chiederlo?» le domandò.

Andrea lo guardò, e alzò le spalle «Penso che tornerò a prendermi un’auto alla scuola, per iniziare. E cercherò di procurarmi anche qualcosa da mangiare.»

«Non puoi dire sul serio.» obbiettò con calma ragionevolezza Ramo; ma il suo tono un tantino più acuto del solito tradiva una certa semi-disperata incredulità.

Andrea lo guardò «Starò attenta. Da sola sarà più facile non farmi prendere.»

«E farti ammazzare in buon ordine senza che nessuno ne sappia niente.» mormorò pianissimo Kumals, tra i denti. Danny lo udì distintamente, ma era chiaro che solo lui, Ramo, Uther e forse Thomas erano abbastanza vicini da averlo inteso.

Danny si schiarì la voce, e si rivolse alla ragazza, cercando un tono calmo.

«Ascolta, potrebbe essere inutile tornare là, ora. Magari potresti venire con noi, a casa delle nostre amiche. Là intanto potresti riposare e mangiare qualcosa. E ripensarci meglio.» concluse. Sapeva che prima o poi avrebbe dovuto voltarsi per fare i conti con l’espressione che doveva star concentrando Kumals sulle sue spalle in quel momento, ma ingoiò saliva e focalizzò sul volto della ragazza, per vedere l’effetto prodotto dalle sue parole.

Andrea lo stava fissando come per accertarsi delle sue intenzioni.

«Se non è un problema, potrebbe andare bene anche così, per il momento.» disse infine, tornando a guardare Kumals.

Prendendo il coraggio a quattro mani, anche Danny si voltò a fissare Kumals, sentendo che anche Ramo si voltava un po’ a spiarlo, cercando di non farsi notare. Non così Uther, che continuò a dargli le spalle, aspettando semplicemente con attenzione di udire la sua risposta verbale.

Lo sguardo di Kumals era gelido. Lanciò una lunga occhiata a Danny, che lo intese benissimo. Gli stava comunicando che ora la responsabilità era tutta sua, perché lui, Kumals, a quel punto aveva intenzione di lavarsene le mani di quanto poteva riuscire a cacciarsi nei guai la ragazza.

Era già meno peggio di quanto si era aspettato Danny, come reazione.

In ogni caso, sapevano tutti benissimo che Kumals non sarebbe mai riuscito a disinteressarsi di qualcuno fino a quel punto, a meno che non avesse ottimi motivi per odiarlo. Piuttosto, invece, era chiaro per chi ben lo conosceva che l’uomo stava combattendo contro la spontanea ammirazione che il carattere deciso, benché sconsiderato , di Andrea iniziava a solleticargli. Danny lo capiva, perché provava qualcosa di simile, al momento.

«Come hai detto tu, puoi fare quello che ti pare. Se vuoi venire a mangiare e dormire da Yuta e Zoal, lo chiederai a loro. Non è casa mia, quella. Se vuoi un passaggio, chiedi a Ramo, la macchina è sua. Come vedi, non hai nulla da chiedere a me.» e così concludendo, Kumals si ritirò nuovamente in macchina, chiudendosi di nuovo lo sportello dietro, e sbattendolo più forte del necessario.

Quel rumore suonò per Danny come quello del martelletto di un giudice rabbioso che cala dopo la sentenza. Tirò un profondo sospiro di sollievo mentale, e si ritrovò a guardare l’espressione incredula ma sollevata di Ramo.

Andrea era rimasta non meno sorpresa, quasi stordita, come se avesse appena ottenuto una vittoria che le sembrava troppo facile. Dopo una lieve smorfia di indecisa diffidenza, si rivolse a Ramo. «Quindi, me lo dai un passaggio?» domandò, con un pizzico di forzata allegria.

Uther emise un lieve sbuffo divertito, in cui Danny riconobbe un segno di tacita approvazione.

 

 

a Lucretia: eccoci qui, anche se non mi dispiace la faccenda di poter rispondere direttamente alla recensione con l’apposito pulsante, preferisco rispondere nel capitolo successivo, in fondo :)

Ebbene sì, all’inizio dello scorso ho proprio voluto piazzare, per ispirazione del momento, un momento di defocalizzazione dai nostri protagonisti, per creare spaesamento e far rimanere un momento sbigottiti di fronte a un quadro parlante. Inizialmente uno pensa di essersi perso qualche pezzo… E invece, poi, mettendo insieme i pezzi, dovrebbe diventare chiaro che il tutto è un trucco di Uther, ma dal tuo commento non ho capito se hai capito l’aspetto tecnico, indi vado a spiegarlo per esteso (bisogna unire vari elementi disseminati per intuirlo questo trucco, e forse ho orchestrato male la cosa, sig): Danny ha appoggiato alla parete un comune quadro (quello che Bethan e Thomas tentavano di far stare in equilibrio sulla catasta di oggetti che formavano la barricata),proprio davanti al buco che lui e Andrea erano riusciti a creare nella parete;parlando attraverso quel buco, e rimanendo celato dal quadro, Uther riesce a far credere ai contagiati (che come abbiamo visto non brillano per acume) di trovarsi di fronte a un oggetto inanimato purtuttavia in grado di parlare, riuscendo così a intrattenerli. Ebbene, è una cosa particolare da notare… questi soggetti contagiati sembrano riuscire comunque a percepire la differenza tra un oggetto inanimato capace di far qualcosa per intrattenerli (come un quadro parlante) e un qualche individuo animato (che invece di solito si apprestano ad inseguire).

Per finire, nel titolo si suggeriva un parallelo tra il trucco del quadro parlante e quello di poter far partire un’auto senza avere le chiavi(a nota di cronaca devo dire che quella era un po’ una forzatura, perché o il fuoristrada era un modello piuttosto vecchio, o penso che non sarebbe stato così facile… i modelli più moderni non sono così immediati da avviare col gioco dei fili…). Insomma, direi che i quattro di picche conoscono qualche trucchetto utile per cavarsela con poco a disposizione ma in maniera sufficiente a salvare la pelle a loro ed eventuali altri… purché la fortuna collabori forse… ^^

Comunque, come si sarà confermato anche in questo capitolo credo, ebbene sì, mi sa che la popolazione femminile di questo racconto ha una certa grinta… ma non tutte tutte (Bethan fa eccezione, anche se a breve comparsa)… ecco, diciamo che due (Yuta e Zoal) sono due personaggi che sono così ad ispirazione di personaggi reali, e almeno di primo acchito sono come sono :)  Riguardo alle altre, c’è stata un po’ di “selezione naturale”, nel senso che per sfuggire a ciò che è accaduto di punto in bianco nella scuola ci voleva una certa decisione, prontezza di riflessi, o essere già dentro/vicino a una stanza che si potesse chiudere, o a qualcuno che avesse abbastanza fegato e fortuna per entrambi  ^^ Comunque, all’appello delle protagoniste manca ancora Zoal… tra non molto, tra non molto :)

 

 

Ritorna all'indice


Capitolo 19
*** 17 - ANDREA NOCHMALS ***


Capitolo 17

(ANDREA NOCHMALS**)

 

L’auto procedeva sobbalzando su una strada sterrata. Sui sedili posteriori, Andrea, seduta tra Uther e Danny, cercava di mantenersi composta senza rischiare di sbilanciarsi e cadere in qualche direzione; faccenda oltremodo difficile, con tutti quei sobbalzi. Un po’ l’aiutava l’aggrapparsi saldamente al poggiatesta dei due sedili davanti.

Per tutto il viaggio, che durava ormai da una mezzoretta, nell’abitacolo era regnato il più assoluto silenzio. Lei si sentiva semplicemente ignorata.

Provava una grande mancanza dell’abbraccio stretto con cui si era salutata con Janine. Le aveva mormorato in fretta parole incoraggianti riguardo le future condizioni di Harry Darry. L’amica, invece, aveva avuto molte più cose da dirle, e sicuramente non era riuscita a dirgliele tutte. Per la maggior parte si trattava di raccomandazioni perentorie sul non fidarsi di quello scalcagnato gruppo di sconosciuti, sullo stare attenta e in guardia, sull’avere cura di sé; e sul tenersi sempre a portata di mano lo spray anti-aggressione al peperoncino che le aveva passato, di nascosto da tutti gli altri.

Tutto questo non aveva sortito altro effetto che far accrescere l’inquietudine che Andrea già provava nei confronti di tutti quelli con cui condivideva ora l’auto.

Non che le sembrassero particolarmente pericolosi o minacciosi. No, non poteva arrivare a pensare tanto. Di certo, però, non si sarebbe sentita tranquilla ad affidare la sua vita nelle loro mani nella maggior parte delle situazioni, non dopo aver visto la loro rocambolesca e confusionaria “azione di salvataggio” alla scuola. Eppure, anche se non le piaceva pensarci troppo, sembrava che loro si fossero trovati in una situazione che non gli era così estranea. Sicuramente avevano qualcosa fuori dal comune.

Andrea li spiò uno per uno, cercando di non farsi notare. Cosa che non le risultò troppo difficile, dal momento che continuavano ad ignorare ostinatamente la sua presenza.

Al volante c’era quello che sembrava il meno bizzarro dei quattro; a parte il suo nome. ‘Ramo’. D’accordo, forse era solo un soprannome. Niente di particolarmente strano da notare a suo riguardo. Anzi, sembrava gentile, tranquillo, e amichevole. Ciò non spiegava cosa ci facesse in compagnia degli altri.

Kumals, seduto accanto a lui nel posto del passeggero, sembrava circondato da un’aura di malumore, al momento. Era comunque meno inquietante e minaccioso di quando aveva discusso con lei, poco prima. Nonostante i suoi modi apparentemente calmi, persino piuttosto freddi e scostanti, era chiaro che sapeva dosare abilmente una velata autorità perpetua in sottofondo; allo stesso tempo, sembrava cercasse di nascondere ostinatamente un carattere ben più accorato di quello che non apparisse immediatamente di lui. Per non parlare poi di quell’orrendo cappottone che si portava addosso; non si capiva di che materiale fosse fatto, ma aveva un aspetto particolarmente sinistro, e sembrava fatto di pelle di qualche essere vivente che non era stato ammazzato del tutto prima di essere conciato.

Andrea rabbrividì. Ebbe l’impressione, per un momento, che un paio di sguardi l’avessero spiata fugacemente, prima di tornare a voltarsi repentinamente ognuno sul proprio finestrino.

Accanto a lei poteva “contare” sulla presenza di altri due tipi mica poco strambi.

Uno, quello biondastro, non molto alto, con gli occhi azzurrissimi, un’incolta barba corta, e una faccia che aveva tutto il fascino di quella di un ladro di bestiame da far west raffazzonato alla belle’e’meglio, se l’effetto non fosse stato rovinato da un’espressività particolarmente viva e sensibile, aveva nome Uther. Emanava un certo odore di birra, mischiato a quello di sapone grezzo e di polvere da sparo. E si portava sempre appresso un fucile, come se lo considerasse un compagno inseparabile.

Andrea odiava le armi. E, nonostante ciò, aveva la curiosa impressione che quel tipo non fosse solito usare molto il suo fucile. Non l’aveva mai visto nemmeno accennare la mossa di imbracciarlo.

La stessa cosa non si poteva purtroppo affermare a riguardo dell’altro. Andrea si trattenne dallo spiare di sottecchi quello che si chiamava Danny. Anche lui odorava un po’ di birra, e di un sudore che sembrava derivare dall’essersi rotolato nella terra di bosco, qualcosa di muschiato che non si poteva associare a qualche prodotto che si potesse acquistare. Al momento sapeva anche della polvere di intonaco che gli era rimasta un po’ impigliata nei capelli e negli abiti. Con quei capelli colorati di biondo giallo da tintura, quegli orecchini ad anella all’orecchio, i vestiti costituiti da jeans scuri un po’ strappati, da una maglietta dai bordi sfrangiati dall’uso e con qualche piccolo buco qui e là, oltre al giubbotto, non si poteva dire che sarebbe passato inosservato molto facilmente.

Forse non sembrava il più bizzarro dei quattro, ma aveva quell’aria da giovane punk stagionato, e uno strano miscuglio di spensierata sconsideratezza giovanile e di amaro cinismo stantio che gli rendeva l’espressione e i gesti mobili e molto diversi tra loro, in un’ampia gamma di carattere pressoché lunatico e sempre in rapido cambiamento. Difficile stargli dietro. E ciò lo faceva apparire fin troppo imprevedibile. Senza contare che, con il suo azzardato modo di fare, li aveva messi tutti nei guai, prima, nella stanza, e aveva ridotto male i nervi di Harry Darry. Poi, continuava a usare quelle pistole ad ogni piè sospinto, con quella stupida aria spavalda eppure molto seria e attenta, quasi indecifrabile. Infine, ma era la cosa più importante al momento per lei, Andrea ricordava molto bene come lo aveva visto rompere un pezzo di muro a suon di calci e pugni dalla forza stranamente eccessiva. A ripensarci, le sembrava impossibile, troppo inverosimile; e dannatamente sinistro.

Rabbrividì di nuovo, prima di rendersene conto.

Di nuovo i due ragazzi seduti di fianco a lei la spiarono appena di sottecchi. Le parve che si scambiassero poi una furtiva occhiata tra di loro. Infine, Danny si schiarì debolmente e nervosamente la voce.

«Hai freddo?» le domandò.

«No.» rispose lei, il più tranquillamente e anonimamente possibile. Poi ci ripensò. «Grazie.» gracchiò debolmente.

Danny non parve convinto, perché continuò ad osservarla per qualche istante, quindi alzò le spalle con l’aria di disinteressarsi del tutto, e riprese a guardare fuori dal finestrino.

Andrea si morse le labbra di sfuggita. Certo che era proprio irritante.

Pochi minuti più tardi, l’auto rallentò e si fermò.

Lei spiò fuori dai finestrini. Erano ancora nel bel mezzo della boscaglia, ma la strada sterrata finiva lì. Istintivamente infilò una mano in tasca, stringendo forte le dita attorno al tubetto dello spray anti-aggressione.

Come se le avesse letto nel pensiero, Ramo si voltò indietro, dopo aver spento il motore, e le spiegò che la strada non arrivava fino alla casa, ma dovevano fare un piccolo tratto a piedi.

Andrea annuì, ma tra sé e sé si sentì il morale sprofondare sotto le scarpe. Si sentiva parecchio stanca.

«Non è molta strada.» le comunicò Uther, come a voler essere rincuorante.

«Ok.» gli rispose lei, rivolgendogli un piccolo sorriso grato.

Kumals e Danny erano già scesi dall’auto, e sembravano decisi a far di tutto per ignorarsi anche tra di loro. Era chiaro che avevano qualcosa in sospeso di cui parlare. Ed effettivamente, mentre gli altri tre camminavano nel bosco verso la casa, che dopo poco iniziò a intravedersi tra la vegetazione, loro due rimasero un po’ più indietro, parlottando fittamente tra di loro.

Di tanto in tanto, Andrea sentiva il tono di Danny alzarsi un po’ di volume, preso dall’animazione del discorso, ma subito tornava ad abbassarsi, probabilmente ammonito da un gesto o un’occhiata di Kumals. Nonostante fosse molto curiosa di capire cosa si stessero dicendo, Andrea sapeva con sicurezza che non erano fatti suoi, e che non la riguardavano abbastanza direttamente. O almeno lo sperava.

In ogni caso, di lì a poco si trovò occupata a studiare la casa davanti a cui si erano fermati. Prima che potesse esaminarla sufficientemente, comunque, la porta si spalancò, quando loro erano a pochi passi da essa, e corsero fuori alcune persone.

Una ragazza, alta e con una corporatura massiccia da amazzone impreziosita da un vestito dark, corse verso di loro, mostrando una certa agilità possente, nonostante i grossi e pesanti anfibi borchiati che le appesantivano i piedi, e ignorando gli altri volò con impeto tra le braccia di Ramo. Andrea fece in tempo a spiare sul volto di lei un’espressione di ansioso sollievo, prima che seppellisse il viso contro la spalla del ragazzo, che ricambiò strettamente l’abbraccio, semicelando un sorriso nel collo di lei.

Un piccolo cagnolino dallo sparuto pelo nero con screziature grigio cupo, abbaiante e scodinzolante, zoppicò agilmente su tre zampe contro le gambe di Ramo, iniziando gioiosi festeggiamenti di benvenuto. Non si diede pace finché Ramo non si sciolse parzialmente dall’abbraccio della ragazza, per dedicargli la sua attenzione contenta. Solo dopo il cagnetto passò con soddisfazione a dare il benvenuto agli altri, soffermandosi a ballare giocosamente intorno a un allegro Danny.

C’era un’altra ragazza, alta e dalla bellezza con un che di etnico, col fisico flessuoso che ricordò immediatamente ad Andrea quello di Janine, facendole provare una vena di mancanza. Il suo carattere però sembrava molto diverso. Con un sorriso brillante che gli illuminava gli occhi dalla forma un po’ allungata e obliqua, scambiò abbracci affettuosi con tutti i ragazzi, mostrandosi un po’ meno spontanea solo nei confronti di Kumals, al quale rivolse alcune parole in tono ironico, in uno scherzoso saluto che Andrea non intese completamente. Aveva qualcosa a che fare, in maniera derisoria e parodica, con l’eroismo di lui.

 Andrea si trovò di colpo davanti un ragazzo, e sussultò sorpresa.

«Ciao» le disse questi. Nonostante il suo aspetto assolutamente comune e insignificante, oppure proprio per quello, non le diede una buona sensazione, così sul momento.

Lei ricambiò esitante il saluto.

«Io sono Justin. Tu?» disse ancora il ragazzo, con le mani in tasca ed un’aria svagata ma interessata.

«Andrea» disse solo.

Lui la guardò improvvisamente stupito e incredulo, e scoppiò in una breve risatina irritante, come se volesse mostrarsi gentile nei confronti di uno scherzo mal riuscito.

«No, sul serio dai, come ti chiami?» insisté.

Lei lo guardò male. «Te l’ho appena detto.» gli rispose, in tono ormai piuttosto scontroso.

Il ragazzo strabuzzò gli occhi, e il risolino che aveva stampato in faccia continuò ad accrescersi, divenendo perpetuo. «Dai, mi stai prendendo in giro. È un nome da maschio.»

«No. È un nome da femmina, di origine tedesca, probabilmente.»

Andrea sussultò. A parlare, in tono calmo ma velato di minaccia, era stato Uther, comparso come dal nulla di fianco a lei. Questo la irritò: non aveva certo bisogno di essere difesa.

«Sì, come stavo per dirti.» affermò Andrea, tornando a fissare Justin, che ora pareva confuso, anche se ancora non gli era sparita dalla faccia l’espressione piuttosto derisoria. Sembrava stesse cercando di smascherare un scherzo collettivo di cui era convinto di essere vittima, e non voleva sembrare stupido. Cosa che era un peccato, perché sembrava riuscirgli benissimo, constatò Andrea tra sé e sé. Ne aveva già abbastanza. Perché diavolo era voluta venire lì?! Forse era lei la più stupida.

«Ma no dai…» stava insistendo Justin, con una smorfietta divertita «Mi prendete in giro… E poi vuoi dire che in Germania chiamano le femmine con nomi da maschio? Mica sarà una cosa normale che…»

«Justin.» a chiamarlo, interrompendolo con voce flautata, era stata Yuta, che si era avvicinata a loro. «Potresti andare a controllare la pentola sul fuoco?» domandò, rivolgendogli uno sguardo appena ammiccante, sbattendo un paio di volte in più del necessario le lunghe ciglia.

Il ragazzo le sorrise con aria sorniona, e tuttavia chiese «Quale pentola?»

Ad Andrea fu chiaro che Yuta si stava trattenendo dal reagire in maniera ben meno amichevole, ma il suo tono suonò ancora quasi amorevole. «Quella che abbiamo messo sul fornello prima. È la nostra cena. Dovresti dare un paio di mescolate, controllare che non stia bollendo troppo forte, e in quel caso abbassare un po’ la fiamma. Poi magari aggiungici un paio di pizzichi di origano, e una manciatina di quell’aglio che ho schiacciato prima, e rimescola bene il tutto. Se ti sembra, aggiungi anche un po’ di sale. Le spezie sono sulla mensola sopra ai fornelli, sai no?»

«Sì, certo certo. Ormai sono di casa.» concordò Justin. Tornò a guardare Andrea. «Beh, dopo me lo spieghi meglio allora questa cosa del nome.» e le fece l’occhiolino.

«Contaci.» mentì spudoratamente Andrea, senza nascondere troppo un accenno di ironia che fece ammiccare sulle labbra di Uther un leggero sorrisetto, e accese un brillio divertito negli occhi di Yuta.

Justin entrò in casa, e non appena fu sparito dalla loro vista, Yuta emise un generoso sbuffo d’esasperazione e, in tono completamente diverso da prima, si voltò verso Danny, che li aveva raggiunti.

«Parola mia, quello è impossibile. Non so proprio come hai fatto a viverci insieme fino ad ora.»

«A ben pensarci, non lo so più nemmeno io.» rispose Danny, sincero.

«Allora, è veramente triste che abbiamo permesso che ti desse lui il benvenuto.» disse Yuta, rivolgendosi ad Andrea con aria complice «Comunque, non farti scrupoli. Puoi maltrattarlo quanto ti pare, finché sarà valido a tenertelo alla larga. O, se vuoi il mio parere, potrebbe essere anche più utile ignorarlo. In qualsiasi modo lo tratterai, per buona parte del tempo sarà convinto di piacerti, e si sentirà in dovere di annoiarti e infastidirti in ogni maniera possibile.»

Andrea la guardò, sbigottita dalla sua parlantina vivace e magistralmente accompagnata da un tono ironico che metteva a nudo un’acuta intelligenza, e infine, senza quasi accorgersene, scoppiò a ridere.

Un lento sollievo un po’ stupito si fece strada sui volti di Danny ed Uther, nell’udire la sua risata cristallina, e fece sorridere Yuta, che disse ancora «Bene, ci siamo intese. Io sono Yuta. Benvenuta. Puoi fare come se fossi a casa tua, ma non prendere esempio da questi qua per favore…» e indicò brevemente Danny e Uther «Anzi, cerca di non farti troppo coinvolgere. Sono dei disastri umani. Senza offesa, Danny.» e ammiccò nella direzione del ragazzo, il quale provava all’improvviso anche lui una gran voglia di ridere, ma sentendo quest’ultimo commento arrossì appena.

«Ecco, a proposito di ‘disastri umani’… hai detto benissimo.» si fece udire la voce di Kumals, che li aveva raggiunti in tempo per udire l’ultima parte della frase.

«Perché, cos’è successo?» domandò Yuta, incrociando le braccia e lanciandogli un’occhiata del tipo ‘non mi lascio abbindolare dalle tue solite esagerazioni’.

«Beh, è stato un completo disastro.» disse Kumals, occhieggiando Danny, che si sentì in dovere di rispondere con energia.

«Hey, come facevo a sapere che su quella maledetta porta c’era un allarme?»

«Danny, un edificio di super-ricconi estrosi, moderno, immerso in un bosco, senza allarme per gli intrusi? Avanti, non ci vuole tutta questa immaginazione.» replicò Kumals, alzando appena un sopracciglio eloquente.

Di fronte allo sguardo offeso e corrucciato del ragazzo, Andrea si ritrovò a ridacchiare appena, di nuovo. Quando Danny si voltò a guardarla, con aria sorpresa e contrariata, lei si ritrovò a dire, piano «Scusa…»

Il che fece arrossire Danny, di rimando.

«Comunque… io sono Andrea.» disse lei, rivolgendosi a Yuta con un sorriso.

«Io mi chiamo Valentine» si presentò anche la ragazza dark, che li aveva raggiunti insieme a Ramo e al cagnetto, che subito dopo indicò ad Andrea, giusto mentre il piccolo tripode le si avvicinava annusandole le scarpe e scodinzolando amichevolmente. «E lui è Tirch.» lo presentò, con fare allegro.

Intanto, Kumals lanciava un’occhiata densa di allusioni al rossore che colorava ancora le guance di Danny, e gli assestava una debole gomitata complice da dietro. Ma Danny, il cui sguardo e pensiero era evidentemente ancora concentrato altrove, perse quasi l’equilibrio per quel gesto, e Ramo lo afferrò per un braccio per evitargli di cadere.

Riprendendo l’equilibrio, Danny si assicurò che nessun’altro avesse notato la sua penosa performance, quindi si accorse che Uther lo stava guardando. Fece a malapena in tempo a cogliere l’accenno di un’espressione singolare e sconosciuta, ma l’altro aveva già distolto lo sguardo in fretta, dirigendolo altrove, e celando repentinamente qualsiasi espressione avesse portato fino ad un istante prima.

 

 

 

 

**è tedesco. Se ho azzeccato la traduzione, visto che il tedesco lo mastico ma non con tutta questa sicurezza, dovrebbe significare ‘Andrea, di nuovo’. Se ho sbagliato, e andava invece usato ‘wieder’ o ‘wiederum’, o qualcos’altro, e qualcuno lo sa, me lo segnali se passa di qua e ne ha voglia, grazie.

 

 

a Lucretia: è sempre bello leggere qualche recensione, le tue mi piacciono particolarmente, ma in via generale è pur vero che qualcuno che recensisce da l’idea che quello che si sta scrivendo possa aver fatto passare qualche minuto di piacevole svago a qualcuno :)  Non avrei detto che Andrea sembrasse così intrigante, ma in effetti non sembra stupida o impulsiva… e quindi potrebbe pur avere qualche suo programma. Beh, spero che tu abbia gradito anche questo capitolo… Indubbiamente quando scrivo vado “ad alti e bassi”, o almeno questa è la mia impressione, e se qualche volta mi pare di piazzare qualche passaggio più interessante, altre ho l’impressione di buttare giù delle righe che, sebbene abbiano la loro “utilità” nella storia in un certo senso, alla fine risultano meno coinvolgenti o comunque mi lasciano una sensazione di ‘superfluo’. Comunque, spero che siano sopportabili anche i passaggi un po’ più laschi ^^ (ad esempio a questo punto del racconto si focalizza più su Andrea, e si rivede un po’ il gruppo di gente che già conosciamo attraverso il suo sguardo, e se questo può risultare forse interessante per capire un po’ di più il personaggio di Andrea, attraverso le sue impressioni, e forse fornire un appoggio un po’ più “da persona comune” per chi sta cercando di venire a patti con il totale ‘sopra le righe’ di certe situazioni e personaggi, d’altro canto potrebbe risultare una specie di noiosa ripetizione… Non è stata cosa calcolata, in un certo senso il personaggio di Andrea mi s’è imposto così nello scrivere, e d’altra parte già l’ho detto che io i personaggi non li so “tenere al loro posto” :) )

Ritorna all'indice


Capitolo 20
*** 18 - FLAVOURS AND FAVOURS ***


Capitolo 18

(Flavours and favours ****)

 

Andrea sembrava non riuscire più a smettere di guardarsi intorno per la casa, anche se cercava di mascherare il suo interesse nascondendo spesso l’espressione dietro la grossa tazza di tisana – o di dissimularlo mangiando a grandi morsi le fette di pane e marmellata – che Yuta le aveva prontamente procurato; il fatto che anche gli altri avessero voluto approfittare dello spuntino fuori programma, qualcuno con un’irruenza a stento trattenuta, aveva creato qualche momento di confusione ilare generale, prima che Yuta ripristinasse l’ordine a suon di battute sagacemente pungenti e minacce più o meno serie.

La nuova arrivata assisteva alle schermaglie con timida curiosità, e di tanto in tanto Yuta le si rivolgeva come se da tempo fosse abituata a lamentarsi con lei del comportamento incivile degli altri. In ogni caso, a turno provvedevano a tenerle abbastanza lontano il fastidioso Justin.

«Non è per te, sai. È per lui. So bene che dopo poco si inizia a desiderare seriamente la sua morte.» le aveva mormorato a un orecchio Yuta, ammiccandole e roteando poi gli occhi con esasperazione auto-ironica. Poco dopo era impegnata a intimare a gran voce a Danny di smetterla di spargere marmellata ovunque e senza avere nemmeno la pena di accorgersene.

Improvvisamente, nella confusione generale, che sembrava poter degenerare da un momento all’altro in una vera e propria festa improvvisata, clima fomentato anche da un sottofondo musicale che mischiava Squishy Squid, Honey Bane**, e un po’ di punk vario, Andrea notò che Yuta si era soffermata a parlare con serietà con Danny. I due avevano un’espressione particolarmente grave, Yuta molto dispiaciuta,  Danny si era proprio adombrato. Di lì a poco, i due lasciarono la stanza, parlottando ancora tra di loro.

Andrea si sistemò meglio sullo sgabello su cui era seduta, e continuò a sorseggiare la tisana.

La sua corporatura di media altezza, e generalmente piuttosto piccola, navigava ampiamente nei vestiti di ricambio che gli aveva prestato Yuta: la larga maglia e il maglione le coprivano giusto la curva delle spalle, lasciandole nuda la pelle fin quasi a mezza spanna dalla base del collo – cosa a cui avevano rimediato con una grossa sciarpa, che avrebbe potuto farle quasi da poncho se indossata distesa –, mentre i laschi pantaloni da tuta, indossati sopra a una calzamaglia, avevano dovuto essere rimboccati in fondo e mezzo infilati dentro i larghi scarponi da montagna, che le stavano fermi ai piedi solo in guisa dello spessore di due paia di calzettoni e della calzamaglia. Del resto, stava calda.

Notò che Justin si stava avvicinando a lei, e si rese conto di aver fatto l’errore di non trovare qualcosa che la facesse sembrare estremamente occupata. Poco prima che il ragazzo, che tentava di dare l’impressione di starsi avvicinando casualmente, arrivasse al tavolo, Valentine le si affiancò e sbatté molto rumorosamente e perentoriamente la tazza fumante che aveva in mano sul tavolo. Andrea sussultò, mentre un po’ della tisana di Valentine si rovesciava sul piano di formica***. Nonostante la ragazza non lo stesse guardando direttamente, il gesto dovette sembrare abbastanza eloquente anche per Justin, il quale deviò abilmente i suoi passi, terminando senza scopo apparente a fissare fuori da una finestra.

Valentine si sedette con soddisfazione su una sedia, e si rivolse ad Andrea come se non fosse successo nulla, niente degno di nota comunque, avviando una chiacchierata sulle attività che si svolgevano all’istituto d’arte da cui Andrea proveniva. Ramo si sedette accanto a loro, ascoltando incuriosito.

Kumals e Uther, intanto, abbandonavano la cucina. Dopo averli visti attraversare lo spazio davanti alla casa ed entrare nelle stalle, Justin prese coraggio e decise di andare a curiosare in quella direzione.

*

***

*

Justin occhieggiò dentro la penombra della stalla, per accertarsi della situazione prima di entrare. Si ritrovò a fissare un gruppetto di schiene, braccia incrociate, in un’aria concentrata e critica: per sua fortuna e sollievo non erano rivolte a lui.

Lentamente, cercando di non produrre rumore e di non far niente che potesse denotare la sua presenza, si avvicinò a Yuta, Danny, Kumals ed Uther, rimanendo comunque in disparte, e limitandosi ad ascolta re con attenzione.

Tutti e quattro stavano fissando la parte superiore della porta dello stallo; quella parte, cioè, che essendo costituita da una serie di robuste sbarre metalliche, permetteva di scorgere, chiusa nel box, la faccia smorta e assente del Conte. Egli fissava davanti a sé con occhi vitrei, senza mostrare alcun cenno di vitalità o di capacità di percezione di ciò che lo circondava.

«Come vedi… » disse piano Yuta a Danny «…sembra anche meno presente di prima. Ora anche se qualcuno entra od esce, o a parlare a voce alta, o provocando forti rumori… Niente pare più riscuoterlo. Forse si va indebolendo. Potrebbe avere bisogno di mangiare e bere, nonostante il suo stato, ma non essere in grado di gestirsi da solo in questo…»

Danny sospirò profondamente.

«Forse dovremmo dargli da mangiare noi, a questo punto.» osservò Kumals.

Danny gli rivolse un’occhiata attenta, riflettendo tra sé e sé.

«Sempre che sia capace di deglutire senza strangolarsi.» avvertì Uther, dubbioso.

«Considerando che mangia solo sangue… potrebbe essere l’ultimo dei problemi.» disse lentamente, quasi distrattamente Danny, osservando tristemente il Conte e lo stato in cui si trovava.

«Come è possibile che possa sopravvivere solo bevendo sangue?» mise in dubbio Kumals, quasi spazientito «Avanti, sarà il caso di dargli qualcosa di più sostanzioso. Basterà frullarlo per renderlo in forma di purea, così non rischierà di strangolarsi. E del resto… probabilmente mangiava di nascosto.»

«E’ possibile…» ammise Danny, aggrottando appena le sopracciglia.

«Allora… » accennò Yuta, in tono pratico «Dovremmo alimentarlo forzatamente…? O qualcosa del genere?»

Danny la guardò «Precisamente: o qualcosa del genere.»

Lei annuì, in maniera comprensiva «Va bene. Non gli faremo male.»

Danny alzò le spalle con aria malinconica, lanciando un breve sguardo agli occhi vitrei del Conte, a disagio «Difficile peggiorare la situazione.»

Calò un assorto silenzio. E di colpo fu rotto da una voce incuriosita.

«E come fa ad andare in bagno da solo?»

Yuta sussultò con allarme, sorpresa, lanciò uno sguardo con cui riconobbe la presenza di Justin, e si portò una mano alla fronte, con aria esasperata, concentrandosi per trattenere una mala-reazione.

«Questo è un buon punto. Vuol dire che gli occorrerà anche un pannolone.» disse Kumals, ignorando da chi proveniva l’osservazione.

«In ogni caso, se non altro non se ne accorgerà.» disse Danny, a mo’ di pallida consolazione.

«Per fortuna…» mormorò piano Uther.

*

***

*

«Quindi…» disse Andrea, con voce piena di tatto «…gli darete da mangiare con la forza…

«O se non altro, ci proveremo.» riadattò Yuta, che stava preparando una purea di verdure, legumi e cereali cotti, con aria concentrata. Finì di rimestarla, la assaggiò con aria da critico culinario, indi posò il cucchiaio e assunse un’espressione soddisfatta e un po’ più ottimista.

Guardò Andrea, con un sorriso. «Mi dai un secondo parere?» le domandò.

Andrea annuì. «Certo…» mormorò, prendendo il cucchiaio e assaggiando a sua volta. Yuta attendeva pazientemente il responso.

«Un altro po’ di sale, secondo me.» disse infine.

«Posso assaggiare anch’io?» domandò Uther.

«No.» rispose con grande calma Yuta.

«Questa è discriminazione.» osservò Ramo, in tono da litigio scherzoso.

«Sì…? Convincimene.» rispose ancora calma Yuta.

«In ogni caso, anche se fosse terribile, non potrà lamentarsene.» osservò Kumals.

Yuta sbatté con più violenza del necessario il coperchio sulla pentola, si voltò verso gli altri, incrociò le braccia all’altezza del petto, ed assunse un cipiglio ironico. «Qual è il vostro piano, quindi?»

Uther sollevò alcune spesse funi di corda, mostrandogliele. Yuta le guardò per un po’, indi studiò le espressioni di tutti e tre, uno alla volta, lentamente e accuratamente. «Non è divertente.»

«Sono d’accordo.» disse Kumals, pure lui a braccia incrociate, una sigaretta accesa tra le dita, e un’aria pacificamente paziente «D’altra parte, non è nemmeno uno scherzo.»

«D’accordo.» riformulò con decisione Yuta «Farete meglio a trovare qualcosa di molto meglio, prima che torni Danny.»

«Dov’è andato?» domandò Andrea. Guardava Yuta, e non si accorse degli sguardi in vari modi allusivi o interessati che gli venivano rivolti da alcuni degli altri.

«A cercare qualcosa con cui distrarre Justin, in modo che non stia nei piedi. Per quanto mi riguarda, può anche legarlo mani e piedi e chiuderlo in qualche stanza, debitamente imbavagliato.» rispose Yuta, sorseggiando a lenti sorsi un po’ di vino rosso.

«Danny non aveva idee migliori.» puntualizzò Kumals, riferendosi al Conte.

Yuta lo guardò con serietà. «Vuoi dire che è d’accordo?»

Kumals alzò le spalle. «Sempre che Justin non gli stia dando geniali suggerimenti risolutori.» ironizzò, senza ombra di reale divertimento. Spiò Uther di sottecchi «Magari potresti andare ad accertarti che non lo stia ammazzando.»

Uther gli scoccò un’occhiata indecifrabile. «Danny se la caverà. Senza ucciderlo.» disse, con una certa durezza nel tono.

«Potrei tenerlo occupato io…» mormorò Andrea, esitante.

«Perdio, no, non ti chiederemmo mai una cosa del genere.» esclamò Yuta, rivolgendole un’occhiata sinceramente impressionata «E non ci sarà bisogno di tanto.»

«Non so quale parte della tua frase suonasse più preoccupante.» rincarò la dose Kumals, fissando Andrea.

«Il fatto è che… non so, mi sento piuttosto inutile, al momento.» disse Andrea, un po’ timidamente, abbassando lo sguardo sul pavimento «E mi dispiace per il vostro amico…»

«E’ amico di Danny» chiarì Kumals. «Sembrerebbe che la tua sia una vocazione, quella di aiutare.» osservò ancora, guardandola con una domanda inespressa negli occhi. Era chiaro che cercava di capire qualcosa che riteneva gli stesse sfuggendo. Lei non riuscì a sostenere a lungo il suo sguardo, ma appena prima che si trovasse costretta a distoglierlo, nella stanza entrò Valentine.

La ragazza, reduce da una doccia, era accompagnata da una nuvola di leggero profumo aromatico. Li guardò tutti, uno per uno, dopo essersi fermata accanto a Ramo ed avergli passato un braccio da dietro attorno al busto, gesto ricambiato dal suo appoggiargli il braccio sulle spalle, circondandole la cascata di capelli nerissimi, lunghi, quasi completamente lisci, e ancora un po’ umidi. «Siete già andati?»

«No, non ancora.» le rispose Ramo «Stiamo aspettando Danny, e poi andiamo… »

«Valentine, ti dispiace tener d’occhio la nostra cena?» domandò Yuta.

«Nient’affatto.» rispose la ragazza, mentre si scioglieva dall’abbraccio di Ramo per andarsi a sedere sullo sgabello più vicino ai fornelli, su cui borbottavano altre due pentole, oltre quella che conteneva il pastone per il Conte. Tirò fuori da una tasca del vestito nero e lungo che indossava un pettine robusto, con cui attaccò battaglia con gli ultimi nodi rimastegli a impigliare qui e là i capelli.

In quella, Danny entrò in cucina, con aria davvero molto poco entusiasta.

«Fatto?» domandò Yuta.

La guardò, come se riemergesse a fatica da qualche sgradevole pensiero, e il suo sguardo si schiarì un poco «L’ho messo a spolverare alcuni vasi di conserva, in soffitta.»

«I vasi di conserva, Danny?!» trasecolò Yuta.

Il ragazzo non riuscì a ricavare dalla propria espressione sufficiente vitalità da mostrare rimorso. «Mi dispiace… lo so. Comunque, abbiamo steso un paio di materassi vecchi sotto alla zona dove sta lavorando. Dovrebbe poter evitare il peggio… E’ la cosa meno pericolosa che mi è venuta in mente e che potesse occuparlo per un po’ di tempo…»

«Come minimo, non riuscirà in nessun modo a rompersi la testa accidentalmente. Ma sento che quei vasi sono in serio pericolo… » mormorò Kumals.

«Va bene, in effetti, non mi è venuto in mente nient’altro nemmeno a me… » sospirò Yuta, e notò che lo sguardo di Danny si era concentrato sulle funi tenute in mano da Uther. Si voltò e spense il fuoco da sotto la pentola con il cibo per il Conte, trattenendo un altro sospiro. Poi guardò Andrea, pensierosa, per qualche momento.

«Potresti reggerci la luce, mentre lo nutriamo…?» le chiese.

*

***

*

Non riusciva a dormire. Continuava a rigirarsi nel letto già da molti minuti. Non era questione di scomodità. Dopotutto, le avevano assegnato un intero materasso in buone condizioni, e abbondanti coperte, oltre ad un cuscino in piena regola.

E si sentiva esausta e indolenzita. Specialmente le braccia, che aveva dovuto tener a lungo in alto, tenendo sospesa la luce, mentre gli altri placcavano il Conte e, senza tante cerimonie, lo nutrivano e lo provvedevano di un pannolino, dopo averlo sommariamente lavato ove necessario. In ogni caso, lui non aveva espresso molta volontà o convinzione nei pallidi tentativi di resistenza. Anche gli altri se ne erano accorti, e, dopo aver iniziato le operazioni con forza e determinazione, come se dovessero scaravoltare sulla schiena un bisonte scalciante, avevano moderato la loro forza. Danny, da allora, si era fatto particolarmente cupo e silenzioso.

Ma lei, ora, non trovava pace, e non poteva fare a meno di continuare a rigirarsi silenziosamente, un fianco o l’altro, pancia o schiena: inutile.

Già da un po’ i respiri di Valentine e Yuta, regolari e talvolta pesanti e rumorosi nel russare, avvolgevano la stanza in un’atmosfera calda e tranquilla. C’erano nell’aria diversi odori. Odore di profumo, trucco e shampo, che aleggiava principalmente dalle parti del letto dove riposava Valentine. Del resto, la stanza sapeva di legno, di sandalo, di spezie da cucina, e di vari altri odori aromatici e per nulla sintetici. Era un odore che assomigliava a quello che aveva addosso Yuta.

Ma tutto questo non riusciva a ispirarle il sonno, anche se la faceva sentire molto rilassata.

Aspettò ancora; infine, esasperata dalla sua incapacità di dormire, si alzò piano a sedere. Facendo attenzione a non produrre nessun rumore non estremamente necessario, scivolò fuori dalle coperte, si alzò in piedi, raccolse gli scarponi da montagna prestatigli da Yuta, attraversò piano la stanza a tentoni, e uscì. Si chiuse piano la porta alle spalle, ascoltando il silenzio in cui era immerso il corridoio del primo e unico piano rialzato della casa. Si infilò e allacciò gli scarponi, e quindi scese le scale.

Magari fare una passeggiata in cucina, a prendere un bicchiere d’acqua, le avrebbe ispirato qualcosa di più riguardo al suo assoluto bisogno di dormire e riposare. Se solo avesse potuto togliersi per un momento dalla testa ciò che la tormentava senza posa… come un tarlo che rodeva poco a poco, a piccoli morsi persistentemente fastidiosi, la sua coscienza.

Si fermò nel bel mezzo della sala/salotto, notando che dalla porta chiusa della cucina filtrava un po’ di luce, e giungevano alcuni rumori pacati. Esitò, tentata di ritornare indietro, ma un rumore molto più vicino la fece sussultare.

Con un moto di acuta sorpresa, udì un cigolio di molle, e intravide nel buio una brandina, e una sagoma sopra che si girava sull’altro fianco. Realizzò che si trattava di Justin. Se il ragazzo si fosse accorto che lei era lì in piena notte, probabilmente ciò gli avrebbe provocato una serie di romanzate e arzigogolate teorie, che l’avrebbero portato a diventare ancora più fastidioso di quanto già non fosse.

Andrea scelse la strada più breve, ed entrò in cucina, chiudendosi la porta alle spalle. Si voltò, e si trovò a fissare due paia di occhi che la guardavano sorpresi.

Lei studiò per qualche momento la partita di carte in atto, le tre bottiglie di birra vuote, i bicchierini di vetro mezzi pieni di un liquido verde chiaro,  e infine tornò a fissare i due in viso, cercando di non mostrarsi più imbarazzata e stranita di quanto effettivamente si sentisse.

Si schiarì la voce. «Sono venuta a prendere un bicchiere d’acqua.» li informò, sentendosi anche abbastanza stupida.

Uther annuì. Danny esitò qualche momento, e infine chiese «Fai fatica a dormire?»

Lei lo guardò, comunicandogli abbastanza eloquentemente con lo sguardo che non aveva voglia di rispondere ad una simile domanda. Non sapeva se il ragazzo avesse compreso il messaggio silenzioso, ma gli fu ugualmente piuttosto grata quando lo vide raccogliere uno dei bicchierini dal ripiano del tavolo, e porgerglielo, dicendo, con una certa cauta gentilezza «Se vuoi, questo potrebbe essere un buon rimedio…»

«Cos’è?» domandò, mentre già prendeva il bicchierino in mano.

«Un liquore al finocchietto che fanno Yuta e Zoal

Ne assaggiò un piccolo sorso, trovandolo sorprendentemente buono. «E’ buono… molto… Ma lo fanno proprio in casa?»

«Sì.» disse Danny, e dopo un po’aggiunse «Zoal è la sorella di Yuta. Dovrebbe arrivare qui domani.»

Lei annuì, e fece per restituirgli il bicchiere, ma il ragazzo le fece segno di continuare pure a bere.

Uther appoggiò le carte che aveva in mano sul tavolo e si stiracchiò un poco, quindi si voltò a guardarla. «Vuoi fare una partita?»

Lei ci pensò su per qualche momento, infine, inclinando appena la testa di lato e dando una piccola alzata di spalle, rispose «Perché no?»

Si accomodò anche lei su uno sgabello al lungo bancone della cucina, e rimase a guardare per un po’ Uther che mescolava e rimescolava le carte, mentre Danny si alzava, andando a prendere un terzo bicchierino dallo scolapiatti.

Dopo una serie di almeno tre o quattro partite abbastanza impegnate e qualche altro sorso di finocchietto, Andrea ebbe una strana sensazione. E, prima di pensarci troppo, anche se da molto, quasi inconsapevolmente, studiava le espressioni concentrate e allo stesso tempo svagate dei due ragazzi, prese una decisione tra sé e sé.

Mentre Danny raccoglieva le carte dopo la fine di un’altra partita, e le rimescolava, la ragazza si schiarì la voce, appoggiò il bicchierino che aveva vuotato con un sorso deciso, e li guardò attentamente.

«Io… avrei un favore… da chiedervi… » mormorò, così piano che dubitò che potessero aver inteso il senso delle sue parole.

Eppure, a giudicare dalle espressioni curiose e stupite con cui la fissavano con aria semi-incredula, e da come si erano congelati in ciò che stavano facendo, l’uno con le carte in mano e l’altro mentre stava per prendere tra le dita il suo bicchierino, sembrava avessero capito benissimo.

 

 

 

 

 

 

 

**ho recentemente eletto Squishy Squid e Honey Bane come colonna sonora ufficiale del personaggio di Andrea.

*** non è formìca, l’insetto, ma fòrmica, un materiale di poco pregio ma resistente, utilizzato, tra il resto, per i ripiani dei tavoli.

**** il gioco di parole, piuttosto orrendo, sarebbe tra due termini somiglianti. Uno è quello inglese di ‘flavours’, che sta per ‘sapori, fragranze’. L’altro (‘favours’) sta per ‘favori’.

 

Ritorna all'indice


Capitolo 21
*** 19 - LEI CAMMINA NELLA NOTTE ... parte I ***


Capitolo 19

(Lei cammina nella notte – I parte**)

 

La notte era scesa densa nella boscaglia. C’era un freddo cane. C’erano in giro solo animali di bosco.

Ebbene, un osservatore distratto sarebbe stato a questo punto costretto a correggersi, per parlare di tre animali non di bosco, che percorrevano in silenzio la strada sterrata, scarpinando.

Lo sparuto gruppetto di ventura comprendeva tre individui, che camminavano affiancati, cercando di accordare reciprocamente il ritmo del loro passo.

Uno di loro, quello un po’ più alto, dai capelli tinti di biondo acceso, teneva lo sguardo corrucciato e pensieroso sul terreno, e sembrava continuamente sul punto di sbottare a dire qualcosa; ma all’ultimo riusciva sempre a trattenersi. Un altro, biondastro naturale, di corporatura dai muscoli snelli, un fucile a tracolla e l’espressione altrettanto pensierosa e preoccupata, guardava davanti a sé, procedendo pieno di dubbi. Tra di loro c’era la figura di poco più minuta di una ragazza, dai corti capelli bluette che facevano a pugni con il colore castano-dorato degli occhi, segnati da generose occhiaie di stanchezza, ma dall’espressione sveglia e accorta; tuttavia, a fare ancora più attenzione, si sarebbe potuto sentire odore di rimorso e tormento intorno a lei.

«Tu sei completamente matta.» esordì infine, con tono di semplice constatazione, ma tenendo tra i denti una certa contrarietà, il ragazzo un po’ più alto. La ragazza di fianco a lui lo spiò appena, e cercò di evitare che uno dei suoi sopraccigli si prendesse la libertà di alzarsi eccessivamente rispetto all’altro.

«E noi lo siamo ancora di più!» disse ancora lo stesso ragazzo, con l’aria di chi afferma un dato certo e risaputo.

«Hai intenzione di andare avanti così per tutta la strada?» domandò lei, vagamente risentita.

«Beh… » finse di pensarci su lui, anche se il suo tono si era un poco ridimensionato «Perché no? Abbiamo davanti a noi almeno un’altra ora e qualcosa di camminata. Potrebbe essere un modo interessante di occupare il tempo.»

«Facciamo ancora in tempo a tornare indietro.» gli ricordò lei.

Il ragazzo si immusonì ulteriormente. Sapeva benissimo che era vero, e che nessuno aveva puntato un’arma alla testa né a lui né ad Uther, per costringerli ad assecondarla. Questo rendeva il tutto ancora più preoccupante, folle, assurdo, e folle (valeva la pena di ripeterlo per sottolineare il concetto).

«Tsk! Lo so!» replicò stizzito «E non è escluso che tra un po’ non mi decida a farlo…» la avvertì. Bleffava, lo sapeva lui, e probabilmente lo intuiva abbastanza bene anche lei. Di sicuro l’aveva capito Uther, che gli lanciò un’occhiata divertita, rapida e furtiva, cercando di non farsi scoprire da Andrea. Ma lei, evidentemente, era immersa in altri pensieri.

«Ah, avanti, ora non fare l’offesa, per favore…» la pregò piccato Danny, dopo qualche minuto che procedevano nel completo silenzio.

«Qui sei tu quello che sembra offeso.» notò lei.

Danny spiò il modo in cui lei teneva la testa alta, camminando, e lo trovò inutile e fastidioso; specialmente quando lui incespicò tra i suoi stessi piedi, e recuperò l’equilibrio a stento.

«Dovremmo impiegarci qualcosa come un paio d’ore al massimo, complessivamente… » disse Uther.

«Poi mi rispiegherete perché non abbiamo preso la macchina.» commentò Andrea, lanciando una breve occhiata ad Uther. «C’ero anch’io quando avete aperto e messo in moto quel fuoristrada come niente fosse.»

«Non è cosa così facile da farsi.» le fece presente Uther, tranquillamente. «E comunque, avremmo dovuto conciare male l’auto di Ramo. E rubargliela senza permesso. Inoltre, se ci avessero sentito andarcene, si sarebbero preoccupati molto… oltre a cercare di fermarci in ogni modo possibile.»

Danny immaginò per un momento quale sarebbe stata la reazione di Kumals, quando avrebbe saputo ciò che stavano andando a combinare. Rabbrividì, e preferì concentrare in fretta i pensieri su altro. Non incontrò fatica in questo, dal momento che i suoi sensi all’erta furono colpiti dalla traccia di qualcosa di strano.

Si immobilizzò, tendendo automaticamente un braccio accanto a sé per segnalare anche agli altri di fermarsi; Andrea ci sbatté praticamente contro, e gli lanciò subito un’occhiata storta. Ma l’espressione della ragazza cangiò rapidamente, quando notò quella tesa e in allerta di Danny. Uther non disse niente, così fu lei, dopo qualche momento in cui non accadde niente, a sussurrare «Che c’è?».

Danny non sembrò volerla degnare di attenzione per qualche istante, ma poi voltò repentinamente verso di loro la testa. «Arriva qualcuno, lungo il sentiero. Ci viene incontro.» annunciò rapidamente, mormorando appena a filo di labbra.

«Nascondiamoci tra i cespugli, e vedremo di che si tratta.» propose Uther.

Danny confermò con un rapido cenno d’assenso, e fece per prendere per un braccio Andrea, ma la ragazza si sottrasse preventivamente alla sua stretta; nonostante il cuore avesse preso a martellarle in petto per l’inquietudine, e improvvisamente si trovasse immersa nella trafelata ricerca di un nascondiglio tra la vegetazione più bassa della boscaglia, trovò il tempo di lanciargli un’occhiata con cui gli comunicava perentoriamente che preferiva ed era benissimo in grado di badare a se stessa da sola.

Nell’arco di pochi istanti, tutti e tre erano scomparsi come se non fossero mai stati lì, a parte il loro odore, che aleggiava ancora chiaramente nell’aria, per chi aveva le capacità sufficienti per percepirlo e distinguerlo da tutti gli altri.

Danny notò che tanto Uther quanto Andrea avevano scelto il lato opposto del sentiero rispetto al suo, per nascondersi; e, tuttavia, quella ragazza aveva voluto andarsi a nascondere da sola. Se da un punto di vista strettamente strategico l’essere sparsi, piuttosto che tutti ammassati in un unico punto, poteva risultare un’ottima cosa a loro vantaggio, d’altro canto ciò rendeva Danny inquieto. Si mosse un poco, come se fosse scomodo, ma si immobilizzò di nuovo in fretta, benché il suo movimento, compiuto con cautela, non avesse prodotto alcun rumore facilmente percepibile per chi non avesse ottimo orecchio e non si trovasse al contempo nelle immediatissime vicinanze del suo nascondiglio.

Ma lungo il sentiero si iniziavano ad udire i primi rumori di qualcuno che si avvicinava.

Per primo, da oltre una lieve curva della strada, comparve un cane. Danny rimase ad osservarlo sbigottito per diversi istanti, mentre il quadrupede, un cane di taglia medio piccola, dal musetto puntuto, gli occhi vispi, l’aria spensierata, piccole orecchiette un po’ pendenti in avanti, e il pelo a chiazze bianche e marroncine, trotterellava lungo la strada curioso, salvo poi fermarsi di botto quando il suo fiuto incontrò il loro odore. Il cagnetto si immobilizzò e prese a sniffare la strada, esplorando le loro tracce odorose, accompagnato dalla sua coda un po’ arricciata all’indietro sulla schiena.

Intanto, sulla strada si udiva un altro scalpiccio.

Di lì a poco sul sentiero comparve un secondo cane, una femmina di taglia media, dai buoni muscoli da molossoide meticcio che si profilavano chiaramente sotto il pelo raso color rosso mattone e tigreggiato di nero; anche lei, che avanzava a zig zag  annusando in giro, notò che il piccoletto che la precedeva era impegnato in un’analisi odorosa accurata, e tosto vi si unì con entusiasmo giocoso.

Benché Danny si fosse fatto a lungo distrarre dalla scena, sapeva che quei due non erano gli unici soggetti che avevano destato i suoi sensi poco prima. Si sentiva un altro passo, di natura ben diversa da quello canino, che arrivava lungo il sentiero. Questo era il passo di due gambe umane.

Da dietro la curva comparve gradualmente una sagoma scura. Chiunque fosse, indossava una grossa cappa, un mantello da viaggio di spesso e pesante tessuto verde cupo, con un ampio cappuccio calato a celare completamente il volto.

La figura avanzava di buon ritmo, senza incertezze, se non per un rallentamento dovuto a quella che sembrava stanchezza; si appoggiava un poco a un lungo bastone, che a giudicare dalle dimensioni e dalle molteplici naturali nodosità e bernoccoli e venature, doveva essere stato intagliato sommariamente direttamente da un grosso ramo. Verso la sommità del bastone, dove la fisionomia si inspessiva notevolmente, erano appesi, per mezzo di alcune cordicelle di caucciù, un paio di piccole zucchette dai vivaci colori naturali: arancione l’una, verde vivace l’altra, entrambe rigate di irregolari bande bianco-giallo pallido. Dovevano fungere da contenitori, poiché, al loro muoversi al ritmo del passo della figura, emettevano un sommesso rumore, come se contenessero qualche polvere sabbiosa e qualche piccolo detrito di consistenza un po’ più grossa.

Quando la sagoma umana giunse nei pressi del nascondiglio di Danny – laddove i cani stavano annusando la strada con particolare interesse, percorrendone pochi metri per il lungo e il largo, spesso tornando indietro o girando in tondo – rallentò il passo, e in tutta calma si fermò. Si sbilanciò un poco in avanti, appoggiandosi con le mani a coppa rovesciata al bastone, in una posa di nonchalance rilassata e vagamente partecipe. Osservò per qualche istante l’indaffararsi dei cani, infine emise un piccolo schiocco, probabilmente con la lingua, in segno di lieve disappunto.

«Certamente, se dovessi basarmi sulla vostra capacità di seguire le tracce…» mormorò con voce cupa, ma si azzittì, piuttosto stancamente, come se ritenesse superfluo finire la frase. La sua testa coperta dal grosso cappuccio emise un breve movimento bilaterale, come se la stesse scuotendo, o come se si stesse guardando appena un po’ intorno; difficile distinguere in quel gesto ambiguo un fine ben preciso.

«In quanto a voi… mi piacerebbe proprio sapere a che cosa pensate di tendere un agguato, piuttosto di venire a farvi vedere.» disse ancora la voce cupa.

Danny vide un movimento tra le frasche, dall’altra parte della strada, e di lì a poco Uther uscì allo scoperto, andando incontro alla figura. Si fermò a pochi passi da essa, e sorrise ampiamente, allargando poi le braccia in un gesto di benvenuto e in un accenno di abbraccio. La sagoma incappucciata solcò il resto della distanza che li separava con un paio di passi e, reggendo sempre il bastone con una mano, con il braccio libero cinse le spalle di Uther in un leggero abbraccio.

Danny attese ancora un poco, che i due si sciogliessero dall’abbraccio amichevole, prima di uscire a sua volta allo scoperto. La figura non si voltò subito verso di lui, rimanendo a guardare ancora per un poco il volto di Uther, al quale stava rivolgendo evidentemente un sommario studio. Ma poi il cappuccio si rivolse verso Danny.

«Danny. Ciao. Non ci si vede da diverso tempo.»

«Eccome! Fin troppo!» esclamò contento il ragazzo, ricambiandole l’abbraccio, poi si staccò, e si guardò in giro. I due cani che avevano preceduto l’arrivo della sagoma avvolta nel mantello da viaggio stavano ora scodinzolando e annusando curiosamente gambe e piedi suoi e di Uther, producendosi occasionalmente in qualche mugolio a mo’ di commento.

Danny sorrise, e si volse all’apertura del cappuccio «E Mama dov’è?»

La figura agitò appena la sommità del bastone, facendo dondolare le zucche che vi erano appese, in modo da voler significare qualcosa che aveva a che fare con un velo di indignazione. «Mama arriva sempre.» disse «E non vedo perché dovrebbe farsi fretta.»

I tre si voltarono verso il sentiero; da dietro la curva si avvicinava un altro passo, pesante e un po’ strascicato.

*

***

*

Andrea ne aveva abbastanza.

Prima erano comparsi quei cani. Lei non odiava né amava i cani a priori, beninteso, dipendeva strettamente da come il suo carattere si accordava al loro e viceversa, di volta in volta. Però, dal momento che in quel caso si era trovata nascosta tra le frasche, cercando di non farsi scoprire, le era stato immediatamente chiaro che il fiuto dei cani avrebbe potuto stanarla in un  batter d’occhio.

Poi era apparsa quella figura tutta ammantata, con quel bastone e quelle zucche che, con il loro rumore sabbioso e un po’ sassoso, ne ritmavano il passo in modo sinistro. Per finire, quel ‘chiunque fosse’ aveva immediatamente capito non solo che i cani avevano fiutato l’odore di qualcuno, ma che quel qualcuno era nascosto proprio lì vicino; e come se non bastasse, sapeva già che era qualcuno che conosceva.

D’accordo, dal modo in cui Danny ed Uther erano usciti allo scoperto, e da come si erano comportati con esso, non sembrava che il nuovo arrivo potesse costituire una qualche minaccia; anzi. Quindi, che diamine aspettavano a dirle che poteva uscire allo scoperto anche lei? Non era sicura, ancora, che l’intenzione dei due non fosse per caso quella di lasciare coperta la sua presenza, per impedire al nuovo arrivato di scoprire i loro propositi.

Per finire, ecco che si sentiva arrivare qualcos’altro, strascicando sinistramente e pesantemente. Doveva essere qualcuno di massiccio, che trasportava qualcosa di impegnativo, anzi lo trascinava; e nonostante ciò si avvicinava rapidamente.

Andrea non dovette aspettare a lungo, per il sollievo dei suoi nervi.

Ben presto dalla curva del sentiero comparve un’altra sagoma, incredibilmente grande, ma relativamente troppo bassa per essere umana. Decisamente aveva tre zampe, e gliene mancava una quarta, costringendo la creatura ad avanzare in maniera impari e un po’ difficoltosa. Aveva una testa enorme, orecchie pendenti grandi come strofinacci, una lunga coda affusolata che sbatteva per terra nel suo incedere zoppicante, e una muscolatura notevole, che riluceva nettamente nel bagliore lunare notturno, per via del pelo corto completamente e lucidamente nero.

L’enorme cane, che dopo un po’ Andrea decise dopotutto non trattarsi piuttosto di un leone o di Cerbero in persona, si fermò, fissando le tre figure che la aspettavano sulla strada. Lanciò quindi un boante latrato, prima di avanzare verso di loro, con impeto deciso. Solo quando, giunta di fianco alla figura incappucciata, il grosso alano femmina privo di una zampa posteriore ebbe scoperto che la situazione era tranquilla, e solo dopo aver annusato e riconosciuto le persone di Danny ed Uther, trasformò il suo atteggiamento potenzialmente minaccioso e severamente indagatorio in un saluto affettuoso nei confronti dei ragazzi.

«Ciao Mama!» esclamò ridendo Danny, mentre lui ed Uther la carezzavano affettuosamente.

«E’ inutile che ora fate così. Mama lo sa, in fondo, che avete pensato che sia lenta.» li ammonì con una leggera nota di scherzo nella voce la figura incappucciata.

«Ah, andiamo! Non si diceva mica sul serio… » si schernì Danny, rispondendo allo scherzo.

«Va bene, va bene… per stavolta forse Mama vi darà credito. Lei è molto paziente.» interloquì ancora la persona celata dal pesante mantello. «Piuttosto…» continuò, pensierosamente, con tono nuovamente serio «…non sarebbe l’ora che mi presentaste anche la vostra nuova amica?».

Andrea vide allora la figura alzare un braccio. Il dito dalla pelle scurita dal sole che spuntò dall’orlo della larga manica del mantello mirava precisamente al punto in cui lei si trovava nascosta, nonostante la figura non avesse nemmeno la testa girata nella sua direzione.

Fu scossa da un lungo brivido, e si alzò in piedi, ancora prima di udire la voce di Uther dire «Ah, sì… vieni pure fuori, Andrea.»

La ragazza uscì allo scoperto, e fu quasi immediatamente raggiunta dai primi due cani che aveva visto, mentre la grossa alano nera dal nome di Mama rimase al fianco della figura incappucciata. Entrambe la fissavano con molta attenzione, ma rimasero l’una a fianco dell’altra, immobili e pazienti, finché lei non li raggiunse.

Solo allora, quando si fermò di fronte a loro, mentre già l’alano sporgeva il muso – grosso da solo più delle sue due mani insieme – ad annusarla a filo di abiti, la figura alzò un braccio all’orlo del cappuccio, e se lo calò dietro la testa.

Andrea guardò spuntare dall’ombra del pesante tessuto verde scuro un viso dal profilo bello ed elegante, ed indubbiamente femminile. Una donna relativamente giovane, non più longeva di una trentina d’anni, la guardò con occhi verdi dallo sguardo particolarmente penetrante, come se la vedesse per più di ciò che appariva, e oltre ciò che lei stessa sapeva a proposito di sé. Investita da quell’occhiata, Andrea si irrigidì un po’, notando appena la folta e abbondante chioma della donna: capelli ondulati come un tripudio marino, ma color castano-rosso scuro, in parte domati in un’acconciatura senza ordine preciso, che un po’ li raccoglieva sulla sommità alta dietro la nuca, e in parte li lasciava ricadere intorno al viso e dietro il collo, in varie ciocche senza particolare somiglianza da condividere tra loro.

La sconosciuta si appoggiò ancora un po’ in avanti al suo bastone, e allungò una mano dalle lunga dita affusolate verso Andrea, piegando le carnose labbra ben disegnate in un accenno sincero e moderato di sorriso; e, celando meravigliosamente ogni segno di sorpresa o curiosità, disse semplicemente «Zoal

Solo allora Andrea notò una vaga somiglianza, nei tratti del viso, con quella forma ovale, dagli zigomi un po’ sporgenti, e con gli occhi di forma un po’ allungata, quasi felina, con Yuta.

«Andrea» disse, abbastanza prontamente, ricambiando la stretta di mano, che scoprì essere calda e accogliente, anche se un po’ inquisitoria forse, e breve. Vide gli occhi della donna indugiare sulla sua mano, come se cercasse di leggervi qualcosa, ma alla fine alzò di nuovo lo sguardo su di lei, con un accenno di scusa, come se si rendesse conto di essere stata invadente.

Aveva uno sguardo quasi ipnotico, che sembrava avere il potere di dire moltissimo in un battito di ciglia: non messaggi rapidi, evidenti e di conclamata volontà. Piuttosto, sembrava di immergersi in quello stesso sguardo che fissava, in un flusso denso di pensieri ed emozioni strette le une alle altre in una mistura complessa e profonda. Quando se ne riemergeva, non si era certi di dove si fosse stati, né per quanto tempo; neppure si sarebbe potuto giurare di aver visto davvero qualcosa, se si trattasse di ciò che quello sguardo conteneva, o se, piuttosto, ci si era involontariamente lasciati affascinare da un raffinato gioco di specchi, in cui si era vista un’illusione che aveva qualche cosa di se stessi e qualcosa che non esisteva nemmeno con certezza.

Andrea scosse un po’ la testa, perplessa a proposito di quelle sue osservazioni, come se stentasse a riconoscerle come proprie. E sospettò che fosse stato lo sguardo di quegli occhi a suscitargliele, oppure a inculcargliele.

Ma la donna stava già guardando di nuovo Danny e Uther. Con una mano appoggiata ancora sul suo bastone, e l’altra, quella con cui aveva stretto la mano di Andrea, ora poggiata con significativa cura sul testone dell’alano nero che era ancora ferma al suo fianco, li guardò per un momento in silenzio. Infine, un lento sorriso sibillino le piegò appena le labbra in un’espressione di pacato divertimento, come se fosse appena giunta ad una sua personale e accurata conclusione.

E con la sua profonda voce, densa di chissà quali significati reconditi, domandò con aria auto-ironicamente innocente «Bene, quindi, non mi volete raccontare dove pensate di andare a scampagnare in piena notte? Come fuga d’amore mi sembra mal riuscita, a meno che non siate appositamente in tre.»

Andrea avrebbe quasi giurato di vedere la palpebra dell’occhio sinistro della donna tremolare, come in un accenno di complice occhiolino. Poi, vide chiaramente la fugace occhiata nervosa che si scambiarono Danny e Uther tra di loro, prima di voltarsi entrambi a guardare lei; un perfetto, sincronico gesto da ‘scarica barile’ di prim’ordine.

Tuttavia, la donna di nome Zoal continuò a guardare attentamente loro due. Nell’impacciato silenzio che seguì le sue parole, si prese la libertà di chinarsi un po’ più in avanti, per appoggiare il mento sul dorso della mano che teneva sulla sommità del suo bastone. Sbatté le palpebre un paio di volte, con languida e perfetta calma, e rimase in attesa di una risposta, come se avesse a sua disposizione tutto il tempo del mondo, e trovasse la cosa piuttosto comicamente noiosa.

 

 

Soundtrack: Baby, I don’t care (Transvision Vamp)

(…perché mi veniva troppo in mente Andrea che dopo essere stata buttata in un cespuglio con una spinta e poi uscita fuori dopo essere stata brevemente dimenticata per l’arrivo di Zoal, e quindi ripescata giusto per essere messa davanti alla non-comune Zoal, finisse per dire ‘no, tranquilli, non importa’… hu hu, certe volte credo di avere un po’ una certa verve maligna “alla Kumals”… questo spiegherebbe perché adoro prendermi gioco dei miei stessi personaggi, forse…)

 

 

Note per la comprensione:

** qui inizia una serie di capitoli (tre in tutto), che portano lo stesso titolo di ‘Lei cammina nella notte’, per questo li distinguo, oltre che con la numerazione, anche con ‘I, II, III  parte’.

 

Ritorna all'indice


Capitolo 22
*** 20 - LEI CAMMINA NELLA NOTTE ... parte II ***


Capitolo 20

(Lei cammina nella notte – II parte)

 

Forse era impazzita davvero, ecco tutto. Senza accorgersene; semmai questo potesse risultare in qualche modo utile a una sua parziale giustificazione. In ogni caso, la follia incipiente avrebbe potuto spiegare almeno in parte come le fosse passato per l’anticamera del cervello di rivolgersi a Danny ed Uther, due persone che a malapena conosceva, e che per svariati motivi non le davano proprio tutto questo gran senso di affidabilità.

Magari poteva anche spiegare perché ora fosse accucciata per terra nella boscaglia, celata come meglio possibile nella vegetazione, e stesse fissando con cipiglio concentrato e battagliero una costruzione che le era ben nota.

L’edificio da cui era scappata precipitosamente solo poche ore prima,  l’istituto d’arte, svettava nello spiazzo di cemento come al solito. Ma era completamente buio, silenzioso, immobile, come morto o abbandonato.

Andrea sentì un rumore da qualche parte nella boscaglia, e sussultò, benché avesse già intuito, dai movimenti furtivi e rapidi, di chi si trattasse.

 Lentamente, di fianco a lei apparve Uther, che si accucciò in una posizione di riposo, ma mantenne lo sguardo concentrato nella sua stessa direzione, sull’edificio immoto.

«Danny è già in posizione.» disse.

Andrea tacque, ma alle sue spalle ci fu un lieve fruscio appena udibile, seguito poco dopo dalla voce profonda che ormai conosceva bene.

«D’accordo. Allora, suppongo che tocchi a noi.» disse Zoal, con perfetta calma.

«Sei sicura di sapere dove trovare questa… ‘cosa importantissima’?» domandò Uther ad Andrea.

Lei cercò di non innervosirsi troppo per il semplice fatto che, tra lui e Danny, era l’ennesima volta che le veniva rivolta quella domanda. «Sì, certissima. Potrei arrivarci ad occhi chiusi.»

«Sconsigliabile.» commentò Uther, e poi si pentì della battuta, quando si ritrovò addosso un’occhiataccia di Andrea.

«Uther.» lo chiamò la voce di Zoal alle loro spalle, ritta in piedi contro il tronco di un albero, difficilmente visibile nell’ombra. Persino i tre cani che la accompagnavano, l’enorme Mama compresa, si erano ben celati, accucciandosi tra le frasche intorno ai suoi piedi; muti e in attesa apparentemente inconsapevole, si facevano udire solo per il rumore del loro respiro, e per qualche lieve fruscio di tanto in tanto.

«E’ come pensavate, quindi?» domandò Zoal.

«Sì.» confermò Uther, voltandosi un po’ verso di lei «Sembra che siano un bel po’, direi una quindicina, ma sono tutti fermi sotto all’allarme che suona ancora, quello che ha attivato Danny stamattina involontariamente. Sta squillando da parecchie ore. A meno che non ci sia qualcos’altro di molto più interessante qui nei paraggi, suppongo che ormai si saranno tutti raccolti lì. Io e Andrea entreremo dall’ingresso dalla parte opposta, e se tutto va come ci s’è detti, non faremo abbastanza rumore da segnalare loro la nostra presenza. Dentro non ci dovrebbe essere nessuno. In ogni caso, Danny è andato in avanscoperta, se c’è qualcosa che non va ce lo dirà subito. Per il resto, ci affidiamo a te, Zoal. Nonché a Mama, Danza e Duca.» concluse Uther, rivolgendo uno sguardo a dove intravedeva le sagome dei tre cani accucciati.

«E comunque, lasci il fucile qui, no?» si intromise Andrea.

Uther le lanciò un’occhiata in tralice «Non l’ho mai detto né pensato. Perché dovrei?»

«Non avrai anche tu proiettili di gomma…?» domandò scettica Andrea, studiandone l’espressione per cercarvi traccia di menzogna.

Uther corrugò la fronte, perplesso. «No, sono veri.» spiegò.

«Andrea.» mormorò Zoal, facendola sussultare «Conosco Uther da molto tempo. Non farebbe male a nessuno se non fosse necessario.»

«E’ proprio sul cosa sia questa necessità, che non ho le idee ben chiare.» ardì rispondere Andrea.

Dopo un certo silenzio, Uther disse «Lo userò solo come oggetto contundente. D’accordo?»

«Va bene… Quindi, puoi lasciare qui i proiettili, giusto?» domandò con finto candore Andrea.

«Senti bene…» iniziò Uther, con tono già molto meno diplomatico.

«Basta.» calò la voce di Zoal «E’ meglio muoversi. Stiamo facendo aspettare Danny, e prima ci muoviamo meglio è. Sono stanca, e mi piacerebbe finire in fretta questo gioco. Abbiamo molte cose di cui occuparci, nei prossimi giorni. E non sarà facile.»

Nonostante avesse parlato in tono conciliante, benché deciso e serio, la voce di Zoal aveva una sfumatura di autorità profonda e naturale, che le conferiva una saggezza dal sapore di giustizia antica. O forse, sospettò per un fugace momento Andrea, era solo una capacità illusionistica molto ben esercitata. In ogni caso, rimase un poco risentita per la definizione di ‘gioco’, nonostante la parola non avesse avuto niente di lontanamente dispregiativo o diminutivo in sé.

 Come che fosse, udì Uther sbuffare appena. «Bene, andiamo allora.»

Nonostante il ragazzo avesse parlato così, come da accordi furono solo Zoal e i suoi tre cani a muoversi per primi. Non appena si mosse lei, i tre erano in piedi al fianco delle sue caviglie, e tutti e quattro insieme trotterellarono attraverso la boscaglia, fino a spuntare allo scoperto nello spazio di cemento. Una volta lì, si fermarono, immobili nel buio appena rischiarato dalla luna, immobili nel silenzio.

Ad Andrea, che stava altrettanto immobile e col fiato trattenuto, parve di udire il rumore impalpabile di Zoal che prendeva fiato, in un tutt’uno con i tre cani che la accompagnavano. Quindi, esplosero tutti insieme, chi latrando, chi cantando a piena voce, producendo un rumore impressionante nel silenzio in cui era immerso il luogo, rotto solo in lontananza dal trillare continuo e petulante dell’allarme sulla porta dell’ingresso laterale.

Andrea quasi sussultò, distratta all’improvviso da un tocco leggero di Uther sulla spalla. «Andiamo.» le mormorò. E lei si ritrovò a seguirlo, furtivi attraverso la vegetazione.

Si spostarono lungo il margine del piazzale di cemento, tenendosi sempre ben al riparo tra il sottobosco, prima di fermarsi, di fronte al lato dell’edificio da cui dovevano entrare. La porta era socchiusa e immobile.

Uther iniziò lentamente a uscire dalla boscaglia, mettendo piede con accorta attenzione sul cemento del piazzale, ponendosi lentamente e circospettamente allo scoperto. Quasi subito, la porta si schiuse un po’ di più; attraverso la fessura buia, si intravide appena un movimento, nell’ombra.

«E’ il via libera di Danny. Andiamo. Lui continuerà a controllare che la strada che dobbiamo fare sia sgombra. Facciamo in modo di essere rapidi e silenziosi…»

«Sì.» troncò la conversazione Andrea, uscendo anche lei allo scoperto, e affiancando Uther in una piccola corsa con cui raggiunsero in pochi secondi l’ingresso dell’edificio.

Uther si infilò all’interno, affondando nel buio, subito seguito da Andrea.

Una volta dentro, la ragazza si sentì per un momento invadere dal panico. Ricordava bene la sensazione del corridoio piuttosto stretto, l’odore polveroso e stantio delle stanze abbandonate, colme della loro paura e ansia, fino alla loro fuga finale. Era come se il suo corpo si aspettasse di dover spiccare la corsa di nuovo, frettolosamente e affannosamente, sentendosi soffocare dalle pareti del corridoio, e nervoso per la timorosa aspettativa di trovarsi da un momento all’altra in trappola.

 Sentì le gambe tremarle un po’, come se non sapessero spiegarsi come mai non stava ancora correndo.

Cercò di fare un respiro profondo, e di dominarsi il più possibile, ripetendosi che ora erano più organizzati, era abbastanza al sicuro, e in ogni caso sarebbero loro occorsi una manciata di secondi per farsi strada fino alla sua ex stanza da letto. Avrebbe preso ciò che doveva, e poi se ne sarebbero andati tutti di nuovo, ben lontani da quel luogo.

Fuori, sentiva Zoal cantare e i cani abbaiare. Non era sicura che fossero proprio nell’esatta posizione in cui erano stati prima, all’inizio. Forse si stavano già spostando, attirando con sé lontano dall’edificio le persone instupidite che seguivano con aria rapace e amebica qualsiasi suono o rumore o colore vivace.

Davanti a lei si accese all’improvviso una piccola luce. Uther, impugnando una torcia, si voltò a guardarla. «Sempre dritto per ora, vero?» le domandò.

Lei trovò chissà come la forza di annuire con decisione, ignorando spregiudicatamente il tremare incontrollato di parte della sua muscolatura.

«Andiamo allora.» disse il ragazzo, iniziando con passi rapidi e silenziosi a percorrere il corridoio.

Andrea sapeva bene che non era poca la strada che avevano davanti. Dovevano arrivare fino alla hall, dove c’erano le scale, salirle, e affrontare l’incognita del corridoio del primo piano, fino a raggiungere la sua stanza da letto, entrare, prendere ciò che doveva assolutamente avere con sé, quindi rifare tutta la strada per uscire.

«Andrea» disse piano Uther, quando si fermarono sull’orlo della stanza della hall, buia e deserta come il resto dell’edificio «Danny è davanti a noi, ha già controllato tutto il percorso. Se ci fossero problemi ci avrebbe già avvertito. Ci avvertirà anche nel caso qualcosa si muova qui dentro. E quando sentiremo il suo avvertimento, dovremo solo fare dietro-front e uscire immediatamente. Noi siamo al sicuro. Ci penserà lui.»

«D’accordo.» mormorò piano lei «Però… io non posso uscire senza aver preso…»

«Bene, sì, lo sappiamo.» la interruppe con calma pazienza Uther «Ma se ci toccherà fare una ritirata, significherà solo che dovremo riorganizzarci meglio al prossimo tentativo. Adesso, andiamo. Meno rimaniamo qua dentro, meglio è.»

Entrambi fecero qualche passo all’interno della hall, e qui si bloccarono, raggelando. C’era un corpo lungo disteso sul pavimento, quasi al centro della grossa stanza. A ben guardare, c’erano altri corpi in giro, tutti lunghi distesi per terra.

«Che diavolaccio…?» iniziò Uther tra i denti, ma poi si accorse di qualcosa che riluceva all’imboccatura di un altro corridoio, dalla parte opposta della hall rispetto a dove si trovavano loro. Un segnale luminoso.

Uther cercò la mano di Andrea al suo fianco, e quando la trovò la strinse con forza per un momento, per richiamare la sua attenzione dall’osservazione paralizzata dei cadaveri che disseminavano il pavimento della hall.

«Andiamo avanti.» le disse «Danny ci da il via libera. Questi devono essere tutti morti… »

Andrea riuscì a soffocare piuttosto bene il debole gemito che le chiuse per un momento la gola, e quando si sentì tirare da Uther proseguì con lui.

Attraversarono la hall, immobile, silenziosa, slalomando tra i cadaveri. Il solito pesante lampadario di vetro che Andrea ben conosceva dondolava lentamente, tintinnando molto piano nel silenzio spettrale.

*

***

*

Come Uther aveva promesso, trovarono tutto sgombro. Salire le scale, trovare la stanza di Andrea ed entrarvi non costò loro più di qualche concitato istante.

Mentre Uther rimaneva sulla soglia a sorvegliare il silenzio assoluto del corridoio, Andrea si mosse a tentoni tra le sue cose abbandonate, mischiate in parte a quelle di una ragazza che era stata sua compagna di stanza. Non aveva idea di che fine avesse fatto, ma ricordare ora i corpi morti intravisti nella hall le fece venire la nausea.

Di  nuovo riuscì a dominarsi, e a concentrarsi su ciò che doveva fare. Si chinò accanto al letto, e ci si infilò sotto a metà. Lì frugò in un grosso scatolone, finché le sue mani non toccarono la superficie familiare di ciò che cercava. La estrasse, se la strinse al petto, si rialzò in piedi e raggiunse di nuovo Uther sulla soglia.

«L’hai preso?» sussurrò pianissimo il ragazzo, dandole appena il tempo di arrivargli di fianco.

«Sì» disse lei, ricordandosi giusto in tempo che annuire era inutile, visto che lui non la stava guardando, ma vigilava sul corridoio vuoto con occhio attento e orecchie tese.

«Bene, il più è fatto. Danny mi ha dato un attimo fa segno di via libera. Usciamo.»

Senza aspettare risposta, Uther si riavviò per il corridoio, e lei lo seguì da vicino. Il ragazzo impugnava il fucile a due mani, senza che ciò lo ostacolasse nel procedere silenzioso e rapido, ma non come se dovesse sparare, piuttosto come se dovesse usarlo come un bastone contundente.

In un attimo rifurono sulle scale, e scesero precipitosamente i gradini.

Erano appena balzati giù dall’ultimo gradino, e stavano di nuovo slalomando tra i cadaveri, quando avvenne.

Un sibilo appena percettibile tagliò l’aria, e quindi una delle vetrate delle finestre molto in alto nella hall andò fragorosamente in frantumi.

Andrea fece per buttarsi a terra, avendo riconosciuto in tutto quello il probabile intervento di un proiettile, ma Uther la afferrò saldamente per un braccio, impedendole di toccare terra; la sostenne con forza, mentre con l’altra mano già impugnava il fucile, come se fosse pronto a sparare. Il suo viso, notò però fugacemente Andrea, era rivolto verso l’alto. Lei lo imitò istintivamente, e si ritrovò a fissare il fondo del lampadario, che dondolava, forse un po’ più rapidamente di prima.

Un altro veloce sibilo, e un’altra finestra troppo in alto nella hall che andava in frantumi.

Uther stava già spiccando la corsa verso il corridoio che dovevano imboccare per uscire, trascinandosela dietro di peso, mentre ancora lei fissava con orrore l’enorme lampadario di vetro, che decisamente ora ondeggiava molto forte.

Andrea udì un ringhio basso, gutturale, prodotto da qualcosa che non c’entrava con loro, e che risuonò un po’ amplificato nell’eco dall’ampiezza della sala.

Ma stava avvenendo già tutto troppo in fretta, e confusamente lei intravide qualcosa, una sagoma rapida, che si lanciava nel corridoio molto prima che loro stessi lo imboccassero, e veniva inghiottito dal buio prima che lei vi avesse riconosciuto una qualsiasi somiglianza con qualcosa che già conosceva.

Alle sue spalle sentì un grosso spostamento d’aria, e poi lo schianto, quando avevano appena infilato il corridoio. Il rumore fu enorme e lacerante, pesante. Anche se già lo aspettava, sentì il tamburo dell’orecchio interno ferito dallo scoppio improvviso di un’enorme massa di vetro che precipitava sul pavimento qualche metro dietro le loro spalle, infrangedovisi duramente. Una serie di schegge di vetro o di pezzi piuttosto grossi esplosero in una nuvola scintillante che in parte li investì da dietro.

Se non ci fosse stato Uther a tirarla fermamente in avanti, forse sarebbe caduta quando una pioggia di pezzettini taglienti le si conficcò nella pelle della schiena, del collo e del retro delle gambe, per fortuna in gran parte ostacolata dai diversi strati di vestiti pesanti che indossava; un tripudio di pezzi di vetro di svariate dimensioni li precedette lungo il corridoio, saettando più rapidi di loro sul pavimento, infilandosi tra i loro piedi, facendoli scivolare in parte, e circondando ogni loro passo del rumore crocchiante di vetro infranto, di lì per parecchi altri metri di corridoio. Nonostante tutto, continuarono a correre.

E alla fine, ecco la porta davanti a loro. Era spalancata sulla notte. E ora Andrea non sapeva più se aveva più paura di rimanere dentro o di uscire. Uther sembrò invece farsi bastare la vista del vano della porta sgombro per decidere di gettarvicisi attraverso. Furono fuori. Solo allora lei si accorse che, chissà come, si stringeva ancora convulsamente al petto ciò che aveva recuperato poc’anzi dalla sua ex-stanza da letto.

Uther la teneva ancora per mano quando si fermarono, ansando per lo spavento e la corsa. Andrea si sentiva il cuore picchiarle forte nel petto, come se dovesse esplodere da un momento all’altro. Eppure, di colpo raggelò, vedendo ciò che li fronteggiava.

C’era una piccola folla di quelle persone, e tutti i loro occhi vitrei erano fissi su di loro. Era evidente che già si stavano muovendo nella direzione della porta quando loro erano usciti, attirati quasi sicuramente dal forte rumore prodotto dal lampadario precipitato ed esploso nella hall. E vedendoli uscire, vedendo qualcosa che con il semplice muoversi rapidamente e respirare affannosamente poteva attirare la loro attenzione, stavano accelerando per precipitarsi su di loro.

Uther reagì in fretta. Con sgomento di lei, lasciò precipitosamente andare la mano di Andrea, si scostò da lei con un rapido movimento laterale, armò il fucile e di lì a pochi istanti sparò un colpo verso l’alto. L’attenzione degli addormentati ambulanti che avanzavano si concentrò maggiormente su di lui.

«Ebbene sì, nientemeno che il fuoco e il tuono insieme! Avanti, venite a dare un’occhiata.» sbraitò lui, in loro direzione, continuando a muoversi rapidamente per tenersi loro un po’ alla larga, mentre ricaricava il fucile. Lanciò solo una breve occhiata ancora nella direzione della ragazza, sillabandole a labbra mute: ‘Vai!’.

Andrea esitò un attimo solo, ma valutò, dal modo in cui si comportava il ragazzo, che lui avrebbe saputo cavarsela molto bene anche da solo.

Gli voltò quindi le spalle, sperando di non doversene poi pentire, e corse nella direzione che le sembrava la più valida per il suo proposito di aggirare il gruppetto che già si stava facendo convincere da Uther a dedicarsi interamente a lui. Subito dopo si sarebbe tuffata nella vegetazione del sottobosco. Poi, non aveva idea di che avrebbe fatto. Non udiva più il canto di Zoal o l’abbaiare dei cani. Era tornato a calare quell’allarmante silenzio, interrotto solo dal rumore che riusciva a produrre Uther.

 

Ritorna all'indice


Capitolo 23
*** 21 - LEI CAMMINA NELLA NOTTE...parte III ***


Capitolo 21

(Lei cammina nella notte – III parte)

 

Se fosse stata meno sconvolta dalla serie rapida di eventi che era appena successa, probabilmente Andrea avrebbe scelto più accuratamente la direzione e la traiettoria della sua fuga. Invece, si ritrovò ben presto tra due fuochi.

Alle sue spalle c’erano alcuni componenti del gruppo che, nonostante la buona performance che stava conducendo Uther, avevano preferito tallonare lei. Davanti a lei, trovò un altro gruppetto di quegli individui come inebetiti, che le sbarravano il cammino per raggiungere il riparo del bosco. Riparo di cui ora dubitava. Non era più sicura che la boscaglia fosse sgombra dalla presenza di quelle persone. Erano troppi, molti di più di quante persone la scuola avesse mai ospitato. Quindi, verosimilmente provenivano proprio dalla boscaglia, e si andavano radunando intorno all’edificio.

Impedendo a se stessa con fermezza di farsi rallentare dal panico che le cresceva dentro, Andrea deviò rapidamente la propria corsa, svoltando ad angolo retto per sfuggire alla morsa dei due gruppi, uno alle sue spalle e uno davanti a lei, e trovò finalmente la strada sgombra.

Doveva solo raggiungere la boscaglia. Almeno lì, probabilmente, avrebbe potuto sfuggire loro più abilmente. Anche solo potersi nascondere in qualche macchia arborea, o arrampicare un albero, e mettersi al sicuro per un momento, in modo da prendere fiato e recuperare lucidità, le sembrava qualcosa di molto prezioso. Cosa affatto secondaria, doveva continuare a correre, per impedire che i due gruppetti, compattatisi ora in un'unica piccola folla alle sue spalle, la raggiungessero.

Con suo crescente sollievo, corse senza trovare ostacolo fino a pochi metri dal riparo del bosco.

Ma di colpo qualcosa balzò rapido fuori dalla boscaglia, e si fermò di fronte e a pochi metri da lei, facendola bloccare sul posto per lo spavento e la sorpresa.

Per un fugace momento aveva creduto che si trattasse di uno dei cani di Zoal. Ma ora che lo vedeva bene, era chiaro che non era né Mama né Danza né il piccolo Duca. Quello che si ergeva di fronte a lei su quattro zampe lunghe e agili, il muso lungo puntato verso di lei, così come la parte interna degli alti triangoli acuti delle orecchie, fissandola attentamente, aveva sì la forma di un canide. Ma la folta pelliccia grigio, nera e bianca, e il resto del suo aspetto lasciavano pochi dubbi. Era un lupo.

Si fissarono per lunghi istanti, mentre lei sentiva gli uomini e le donne dagli occhi vitrei avvicinarsi alle sue spalle. Per un attimo dimentica del pericolo incalzante che la inseguiva, insensibile al suo essersi fermata, si ritrovò a fissare un paio di attenti occhi. Qualcosa, nel loro colore blu scuro intenso, e nel suo sguardo particolarmente intelligente, la confuse profondamente.

Poi, prima che lei potesse riaversi abbastanza dalla sorpresa, il lupo sorto dal nulla balzò avanti in corsa. Lei rimase perfettamente immobile, aspettando il colpo finale. Il lupo era troppo veloce, e alle sue spalle premeva ormai da vicino il gruppo di persone che le stava dando la caccia come un inebetito esercito amebico.

Il lupo la raggiunse, lasciandole solo il tempo di alzare le braccia davanti a sé, in un debole tentativo puramente istintivo di difesa. E la superò.

Si voltò, attonita, seguendolo con lo sguardo.

L’animale, la coda tesa dietro di sé nella corsa, utile ad equilibrarlo nei rapidi cambi di direzione, si frappose tra lei e il gruppo alle sue spalle, esattamente a metà strada tra di loro. Qui si fermò di nuovo, con prontezza di riflessi muscolari. Fissò per un brevissimo e raggelante istante le persone che avanzavano, i cui sguardi vitrei e come ipnotizzati erano ora concentrati su di lui. Alzò di getto il muso al cielo, scaravoltando all’indietro di scatto il capo e appiattendo un poco le orecchie sul cranio; dalla sua gola eruppe senza preavviso in un lungo ululato, rabbioso eppure lamentoso, che ebbe il potere di calamitare completamente l’attenzione del gruppo di persone su di sé.

Il tutto durò pochi attimi. L’ululato si spense in fretta, pur se ne rimase come un potente eco sospeso nell’aria. Ma il lupo era già scattato di nuovo in avanti.

Sotto lo sguardo assorto ed incredulo di Andrea, l’animale si gettò di corsa dritto nel mucchio di persone. Con indomita agilità prese a slalomare tra le loro gambe e braccia protese, sfiorandoli appena, muovendosi senza posa, troppo fulmineo per permettere a chicchesia di loro di afferrarlo, anche se molti ci arrivavano parecchio vicini. Andrea ebbe l’impressione fugace di alcune paia di occhi vitrei che iniziavano ad esultare, convinti di averlo afferrato, ma il lupo era già un poco più distante, proseguendo nei suoi scatti rapidissimi e perfettamente calcolati al millimetro.

Prima che una qualsiasi di quelle mani rapaci avesse potuto riuscire nel proposito di rallentarne anche solo la corsa, aveva solcato tutto il gruppo, facendoli voltare come un’onda scomposta di stupore su loro stessi, impotenti. Una volta che fu dietro di loro, guadagnò pochi metri di distanza, e di nuovo si fermò, frenando bruscamente e senza eccessivo sforzo apparente.

Di nuovo piegò la testa, mostrando la gola coperta di fitto pelame al cielo, e lanciò un altro potente e breve ululato.

Ormai tutti i componenti del gruppo erano concentrati su di lui, e si rimisero in marcia, ansiosamente, col proposito di afferrarlo.

L’animale permise loro di guadagnare qualche metro di vantaggio, poi, quando le mani dei primi erano lì per afferrargli il pelo, scattò di nuovo, con uno spasmo muscolare come se il suo corpo fosse stato percorso da una potente scarica elettrica, e di nuovo si allontanò di qualche metro, solo per fermarsi di nuovo, e di nuovo scagliare un ululato.

Il gruppo accelerava sempre più, scoordinato, incespicando confusionariamente ognuno nei propri piedi o in quelli dei vicini di folla, tutti appesi all’unico impellente e irresistibile desiderio di afferrare il lupo, il quale si limitava a tenerli d’occhio attentamente, ripetendo il suo giochetto volta dopo volta, sempre uguale, se non per un graduale aumento della distanza che guadagnava ogni volta prima di fermarsi; lo sguardo allibito, ma suo malgrado affascinato, di Andrea registrò bene il fatto che l’intelligente animale calcolava quelle distanze in base alla velocità crescente con cui il gruppone gli stava alle calcagna. Ciò, tuttavia, non sembrava allarmarlo particolarmente.

E ancora, in lontananza, risuonavano i colpi di fucile e la voce berciante di Uther.

E all’improvviso, un singolare paragone tra i due colpì la capacità d’osservazione della ragazza, subito tallonato dalla memoria di quello sguardo di occhi blu scuro, attenti e intelligenti, con cui l’animale l’aveva osservata poco prima.

Andrea realizzò troppo tardi il rumore alle sue spalle. Prima di potersi voltare, si trovò avvolta le spalle in uno stretto abbraccio fermo e forte, e una mano gelida le calò sulla bocca, impedendole di emettere qualsiasi suono. Si aggrappò ansiosamente a quelle braccia, tentando invano di strapparsele di dosso. Era ad un passo dal panico più totale, quando udì una profonda voce femminile mormorarle all’orecchio «Sono io: Zoal. Non urlare, o rovinerai il loro lavoro.»

Subito dopo, Andrea fu liberata dalla presa delle forti braccia, e poté voltarsi, per trovarsi di fronte alla giovane donna. Accanto a lei c’erano i tre cani: Danza, Duca e Mama, tutti e tre con gli occhi e le orecchie concentrate verso il lupo e la massa di persone stordite che stava “ammaestrando”.

«Mi dispiace. Non volevo spaventarti.» si scusò Zoal «Ora andiamo, però. In fretta.»

Andrea riuscì a ritrovare la voce «Dove?»

«Nel bosco. Là saremo abbastanza al sicuro, e potremo aspettare gli altri.»

«Ma Uther… e Danny…» iniziò a replicare debolmente Andrea.

Zoal le sorrise, dolce e misteriosamente allusiva ad un tempo. «Non ti preoccupare. Se la stanno cavando benissimo. Sanno quel che fanno. Ma lo stanno facendo per permetterci di fuggire. Tanto più in fretta ci allontaniamo, tanto prima potranno seminare quelle persone e raggiungerci.»

Solo in parte tranquillizzata da quelle parole, Andrea costrinse le sue gambe, ormai poco propense ad ubbidirle con prontezza, a seguire rapidamente Zoal, fin dentro la boscaglia.

Quando furono al riparo degli alberi e del sottobosco, mentre continuavano a camminare rapidamente, Andrea riuscì a parlare di nuovo.

«Ma come ci troveranno? E dove stiamo andando? Credo ci siano di quelle persone anche qui in mezzo…» mormorò piano, timorosamente, guardandosi nervosamente intorno, diffidando profondamente di tutte quelle ombre più o meno fitte, e di quei profili neri che si stendevano ovunque intorno a loro.

«Tranquilla. Loro ci guideranno bene.» disse Zoal, alludendo ai tre cani che le accompagnavano. Andrea notò che, effettivamente, i tre animali le seguivano da vicino, disposti intorno a loro come una scorta, l’aria attenta ed estremamente vigile, il passo rapido ed agile, persino quello su sole tre zampe di Mama. Sembrava che le stessero scortando e guidando ad un tempo. Il loro atteggiamento calmo e attento, pieno di cura, ebbe il potere di calmarla un po’.

Allora, mano a mano che si inoltravano nella boscaglia, lasciandosi alle spalle i rumori di colpi di fucile, urla e ululati, e che la vegetazione si richiudeva attorno a loro protettiva, la ragazza sentì l’adrenalina iniziare a scemare. Dietro di sé, lasciava una scia di profonda prostrazione fisica e mentale, un lascito di stanchezza estrema e di nervi che si sfacevano, dopo aver miracolosamente resistito alla forte tensione. Provò una gran voglia di piangere, ma trattenne il groppo di improvvisa commozione chiuso in gola. Le gambe minacciavano continuamente di cederle, ma tutto sommato reggevano e continuavano a portarla avanti, se solo non concedeva loro troppa attenzione. Le braccia strette quasi convulsamente attorno al grosso libro che stringeva al petto, strinse i denti, per evitare alle dolorose punture delle schegge di vetro che le avevano raggiunto la pelle su schiena, gambe e collo di strapparle anche solo il più piccolo gemito.

«Ormai, ce l’abbiamo fatta.» udì che diceva la propria voce, con fermezza atta a convincere, prima di tutto, se stessa.

Zoal la spiò per un momento da sopra una spalla, con sulle labbra un accenno di qualcosa che poteva assomigliare a un poco di sorpresa.

«Proprio così.» disse solo, con calma convinzione.

*

***

*

La luce tenue di un’alba rosata si faceva strada a fatica, strisciante, tra i tronchi e la vegetazione del sottobosco, senza alcuna fretta.

Andrea faticava a tenere gli occhi aperti, e soprattutto a impedire che lacrimassero più di quanto già non stessero facendo.

Sdraiata a pancia in giù su una coperta, e a sua volta semi-coperta dal pesante mantello verde scuro e odoroso di strane fragranze che aveva visto indosso a Zoal fin da quando l’aveva veduta per la prima volta, cercava di sopportare il doloroso fastidio delle mani della giovane donna che le toccavano piano la schiena.

Dopo qualche altro minuto di accorta ispezione, parve che Zoal si ritenesse soddisfatta, perché le riabbassò i vestiti sulla schiena, tornando a coprirgliela. Andrea si tirò in piedi. Stare seduta, al momento, era troppo doloroso. Si rimise a posto i vestiti, muovendosi molto piano. Nonostante la sua cura, sentiva continuamente la puntura come di tanti piccoli aghi. Fastidiose, ma non gravi, almeno a giudicare dalle parole di Zoal.

«Niente di pericoloso.» stava infatti dicendo la donna, mentre recuperava il proprio mantello, e lo reindossava. «Ti ho tolto la maggior parte delle schegge dall’interno dei vestiti, così la situazione non dovrebbe peggiorare troppo, fintanto che arriviamo a casa. Una volta lì, ti ripuliremo per bene. Dev’essere terribilmente fastidioso… Ma certamente nessuna scheggia era abbastanza grossa o viaggiava abbastanza veloce da esser potuta penetrare molto in profondità.» spiegò.

Uther, seduto poco lontano, sospirò appena. «In ogni caso, ce la siamo cavata bene, insomma.»

Andrea li guardò bene entrambi, e alla fine annuì. «Grazie…» disse, debolmente.

«Quando Danny tornerà potremmo…» continuò Uther, come se non l’avesse sentita.

In quel momento, Mama, che fino ad allora se ne era rimasta tranquillamente accucciata vicino a Zoal, come se dormisse, si alzò rapidamente sulle tre massicce zampe. Subito Danza e Duca la imitarono, rizzando come lei le rispettive orecchie, in ascolto.

«Dev’essere qui, ormai.» notò Zoal.

In effetti, poco dopo si iniziò ad udire il rumore di qualcuno che camminava nel sottobosco, avvicinandosi.

Nonostante la loro tranquillità di fondo, i tre cani rimasero attenti e ritti in piedi, finché, quando il rumore si trovava a pochi metri da loro, risuonò la voce di Danny, in tono cupo ma chiaro.

«Sono io.» disse solo. E poco dopo spuntava tra gli alberi.

Andrea gli rivolse una lunga occhiata. Era evidentemente stanco, ma sembrava il solito ragazzo che aveva sempre visto fino a quel momento. Pur tuttavia, i suoi occhi erano…

«Bene, possiamo andare allora.» disse la bassa voce di Zoal «Oppure intendevi riposarti un po’, prima?» aggiunse, rivolta a Danny.

Egli la guardò e sorrise debolmente «Non sono molto stanco. Per me va bene così, se andiamo.». Ma poi, come colto da un ripensamento, si voltò a guardare prima Uther, poi Andrea. «A meno che voi…» ma la sua voce si spense, e la sua espressione si rabbuiò. Aveva colto il sussulto mal trattenuto della ragazza, quando l’aveva guardata direttamente.

«Per me possiamo andare.» disse Uther, facendo per rimettersi a tracolla il fucile. Ma si fermò in tempo, ricordando lo stato scheggiato della sua schiena, e si limitò a tenerlo in mano, risolvendosi a trasportarlo in quel modo.

Zoal guardò Andrea, che annuì.

Allora, i quattro fecero per riprendere il cammino. Ma, di punto in bianco, Andrea si fermò. «Aspettate…» mormorò.

Si fermarono e si voltarono a guardarla, in attesa.

Non osando incontrare i loro sguardi, la ragazza tenne il suo rivolto a terra, ma parlò in tono molto aperto.

«Io… penso che… dopo quello che avete fatto per me… Vorrei… Insomma, mi sembra giusto che sappiate che cosa dovevo assolutamente tornare a prendere… »

Zoal dissimulò abbastanza bene  il sorriso che le sorse alle labbra, e che l’avrebbe detta lunga a proposito di ciò che stava pensando in quel momento. Ma tacque, e lanciò un’occhiata a Uther, il quale si stava esprimendo in un fin troppo sincero «Beh, effettivamente…». Il ragazzo si zittì. E, dal momento che Andrea li stava guardando, in trepidante attesa, annuì. «Va bene.»

Andrea sciolse lentamente l’abbraccio in cui teneva ancora stretto il grosso librone, dalla copertina robusta un poco malconcia. Si chinò, e lo appoggiò per terra, per aprirlo con maggiore libertà.

Gli altri rimasero fermi, senza avvicinarsi o spiare troppo, eccetto per la viva curiosità che faceva un po’ allungare il collo a Danny ed Uther. Ma i due, in presenza di Zoal, parevano aver acquisito più tatto e sensibile cautela di quanta potessero intendere fosse meglio adottare.

Lentamente, Andrea sfogliò alcune pagine, maneggiandole tra le dita con grande delicatezza. Era ormai evidente che il suo tesoro consisteva in un album di fotografie.

Lei scelse una pagina, la guardò per qualche momento. La sua espressione,  notarono tutti, si era fatta decisamente più accorata, come se stesse guardando un tempo lontano, altre giornate, altre ore, un altro intero mondo.

Alla fine, il suo sguardo ritornò al presente. Si riscosse appena, e voltò l’album, girandolo verso di loro. I tre si sporsero appena sulla pagina, chinandosi o accucciandosi davanti al librone aperto, osservando con attenzione composta e concentrata. I tre cani, bastò un gesto perentorio della mano di Zoal per tenerli a sufficiente distanza, affinché non rischiassero di pestare accidentalmente il libro.

Danny si trovò a fissare tre foto. Erano tutte in bianco e nero. Ritratti, da cui trasudava una strana atmosfera, data dalla perizia quasi poetica con cui erano state scattate, e dalla particolare atmosfera in cui dovevano trovarsi immerse quelle persone quando erano state fissate sul rullino.

Su una sola pagina erano due foto. Una rappresentava una coppia, un uomo e una donna di una certa età. L’uomo rideva o stava esclamando qualcosa di divertente. La donna, che gli era seduta in ginocchio, lo guardava con aria che voleva essere paziente e sostenuta, ma si stemperava in un sorriso estremamente dolce e affettuoso, che tradiva un sentimento particolarmente esclusivo. Nessuno dei due fissava l’obbiettivo o cercava di sorridere forzatamente.

Nell’altra foto sulla stessa pagina era ritratto un ragazzino in pantaloncini corti e maglietta, immerso nel sole di un pomeriggio estivo, che guardava attentamente qualcosa che era rimasto fuori dal campo d’azione della macchina fotografica. Aveva un ghiacciolo in mano, che si andava sciogliendo, e al quale aveva dimenticato di dedicare attenzione. Doveva essere qualcosa di molto interessante ciò che l’aveva distratto, sembrava suggerire la foto.

Infine, c’era l’altra pagina. A differenza della precedente, conteneva un’unica foto, incollata al centro. Tutt’intorno, la pagina era solcata di minute scritte e scarabocchi vari. La foto rappresentava una ragazza piuttosto carina, dal viso magro, e gli occhi colmi di una luce d’entusiasmo straboccante. Sembrava che la ragazza stesse per dire qualcosa, e il suo sguardo era eccezionalmente vivace, ma un poco adombrato da una consapevolezza un po’ triste, in parte disabilitata da un sorrisetto sardonico che metteva allo scoperto, tra labbra molto sottili, denti dai canini piccoli e puntuti; ciò rendeva il suo sorriso particolarmente pungente e sagace. I capelli lisci e chiari che le incorniciavano il volto magro e appuntito, terminando poco al di sotto delle spalle, erano piuttosto spettinati. Era troppo presa da qualche cosa, per curarsi di qualcuno che le scattava una foto.

Qualcosa calamitava l’attenzione in particolare su quell’ultima foto. L’impressione di Danny sembrò confermata da un singolare gesto di Zoal. La giovane donna, dopo aver osservato molto a lungo e con particolare attenzione quella foto, allungò una mano, come assorta in riflessioni profonde, e fece per toccare la foto. Ma si fermò un attimo prima, e finì per deviare il suo tocco sulla carta accanto ad essa, come in una fugace carezza della pagina piena di scritte.

Infine, Zoal, senza staccare gli occhi dalla foto, mormorò, in tono basso e carico di significato «Lei, ora, cammina nella notte.»

Alzò poi lo sguardo, un po’ meno addensato, su Andrea, e annuì, come se avesse compreso con sicurezza qualcosa. Si rialzò in piedi, appoggiandosi al suo bastone. Quasi simultaneamente, Andrea richiuse l’album, con un leggero sorriso triste sulle labbra.

Solo diversi minuti dopo, mentre camminavano in silenzio, dirigendosi verso casa, solcando la boscaglia immersa nell’alba che andava schiarendosi nel primo mattino, in un’atmosfera quasi fatata di rosa e tenue dorato, Danny comprese.

Rammentò cosa significava quella frase. E capì che quella ragazza, quella mostrata nella foto, era morta diverso tempo prima.

 

 

 

 

 

 

Risposte e note varie dello scribacchiatore:

 

a Lucretia: oilà! Mi fa piacere risentirti! :) Per non dire che avevo proprio sentito la mancanza delle tue recensioni. E anche in questa non ti smentisci.

Partiamo col dire una cosa… visto che ci tengo particolarmente ad argomentare alcuni punti della storia che hai toccato, e che già ti devo rispondere ad un altro messaggio, parte della risposta alla tua recensione la metto qui, mentre altre cose te le scrivo in messaggio personale. Una forma di vendetta verso chi non commenta? Un tentativo di creare una specie di “zona riservata” per chi commenta? Ma no! Aspetta… ah… sì. :p  No, scherzi a parte, in realtà trovo gradevole l’assenza di molti commenti: ti lascia spazio per quel cantuccio ovattato in cui puoi fumarti fulmicotone mentale, creandoti l’immagine che siano tutti rimasti senza parole (per la meraviglia o per lo schifo, a seconda del mio umore del momento).

Torniamo alla storia, diamine! Ebbene, hai colto con poche ma efficaci parole l’aspetto fondamentale di Zoal (o almeno nel modo in cui si presenta di primo acchito): una sorta di misteriosa ambiguità. Mi astengo dal confessare se è ispirata a qualcuno che conosco nel reale perché in particolari casi, ti dirò, si può diventare piuttosto timorosi delle vendette… Comunque, fintanto che Zoal non sia un fantasma o qualche altra creatura soprannaturale (nel senso proprio del termine, perché in effetti forse in senso lato… haem!), deve pur avere anche un lato umano: basta trovarlo… hum… Il fatto è che, dopotutto, Andrea la incontra per la prima volta, e rimane subito irretita in quella sorta di impressione che non è facile comprendere se sia un’illusione molto ben fatta o il sentore di qualcosa di realmente soprannaturale. Zoal potrebbe apparire in effetti come una specie di concentrato dell’ambiguità di fondo di questi personaggi e situazioni: non è sempre ben chiaro cosa sia frutto di un’illusione, di un trucco, o di un vero e proprio fenomeno paranormale o situazione/creatura soprannaturale.

Riguardo ad Andrea… il suo sguardo di personaggio distaccato e molto ordinario (aspetto che cogli appieno, ma che ritengo sia molto amplificato dalla comparazione con gli altri), è dopotutto quanto di meglio per poter permettere non solo a Zoal di sguazzare nell’ambiguità (con una certa soddisfazione anche, direi), ma anche ad altre cose di non risultare immediatamente chiare, anche se in certi casi facilmente intuibili… Se ho scritto bene, infatti, in questo capitolo l’ambiguità si amplierà ancora davanti ad Andrea. Comunque, per chi è stanco di Andrea come protagonista di capitoli, questo qua è l’ultimo in cui la farà da padrona in assoluto, ma rimane un personaggio che potrebbe avere una certa importanza, e il suo ‘percorso’ non si interrompe qui… In ogni caso, consiglio di non sottovalutare questo personaggio, considerando una cosa: per essere così ordinaria e abituata a una vita ‘più tranquilla e comune’, sta reagendo con una certa energica prontezza alle situazioni che si trova davanti. Mi sembra un tipo che non tralascia mai di mettersi alla prova; cosa che potrebbe avere anche il nome di ‘pura testardaggine’ in effetti.  In questo senso, il suo è un piano ben diverso rispetto agli altri, ai ‘4 di picche’, che possono contare oltre che sull’esperienza anche forse su un certo ironico cinismo di fondo, almeno per alcuni di loro.

Ebbene sì, devo dire che la mancanza di Danny si sente. In fondo metterlo un po’ da parte non sembrava una cosa così significativa, per via del fatto che, dopotutto, è dall’inizio della storia che c’è, immancabilmente e spesso in primo piano. Soprattutto, non pensavo potesse mancare così tanto al lettore. Comunque, dal prossimo capitolo si rifocalizza sul gruppo e, di qui a poco, anche su alcuni suoi componenti che, a giudicare dalle tue osservazioni, sono quelli che più hanno colpito nel segno (com’è che non senti la mancanza di Kumals? He he he ;) ).

Riguardo ai misteri che si infittiscono… qui s’è scoperto cosa doveva recuperare Andrea, e penso che presto sapremo meglio perché ha tutta questa importanza per lei. Riguardo ad altri particolari, or ora arriverà (finalmente!) un po’ di ‘punto della situazione’… o meglio… beh, vedrai nel prossimo titolo ;)

Bien, del resto ti scrivo qualcosa di più in messaggio personale :)

 

a tutt* le/gli altr* che leggono: al prossimo capitolo gente! Ah, visto come stanno le cose, diciamo che ufficializzo che gli aggiornamenti dei capitoli cadranno a ritmo regolare: ogni 5-9 giorni, salvo problemi particolari. Infatti ci sono molti capitoli già belle che pronti, e la trama è già definita fino alla fine, quindi posso procedere tranquillo, ove rallenterò sarà a causa di problemi pratici di tempo nella pubblicazione, che cercherò di evitare. Hasta luego!

 

Ritorna all'indice


Capitolo 24
*** 22 - IL BUCO NERO DELLA SITUAZIONE...I ***


Capitolo 22

(Il buco nero della situazione – parte I)

 

Nella cucina, avvolta nella luce di un pomeriggio inoltrato soleggiato, regnava da un po’ un concentrato silenzio, rotto di tanto in tanto solo da qualche rumore. Come quello di Ramo, che rimestava nelle pentole, preparando qualcosa di lenta cottura da mangiarsi per cena.

Uther, seduto su un grosso cuscino sistemato su una poltrona leggera, da giardino, malconcia come se provenisse da una discarica, sistemata vicino alla stufa, sorseggiava distrattamente una birra, facendo correre lo sguardo sul soffitto, con caparbia concentrazione. Insomma, faceva di tutto per evitare di incrociare lo sguardo di chicchesia.

Dalla grossa stufa vecchia, accesa, proveniva un intenso calore; tuttavia, di tanto in tanto gli sfuggiva qualche brivido. Indossando solo una leggera camicia sul torso nudo e un paio di larghi boxer, era per il resto avvolto qua e là, ad altezza di collo, busto e braccia, da una candida bendeggiatura, cosparsa di una strana sostanza di consistenza pastosa e dal preoccupante colore marrone-verdognolo. Era appunto per fare asciugare bene l’intruglio che gli era stato spalmato addosso, che il ragazzo permaneva seminudo nei pressi della stufa, cercando tutto sommato di darsi comunque un contegno, mentre nell’aria della cucina si spandeva un odore intenso di fanghiglia ed erbe di svariata tipologia, che riusciva a coprire tranquillamente l’odore del cibo che cuoceva sui fornelli.

Dall’altra parte della stufa, anche lei seduta su un grosso cuscino, anche lei bendata e seminuda, anche se meglio celata da una coperta di lana che si teneva sulle spalle, sedeva Andrea.

Presso il bancone di cucina, o sparsi su altre sedie nella stanza, sedevano Valentine, Yuta e Zoal. Accanto a quest’ultima, era sdraiata e profondamente addormentata la grossa Mama. Sulle ginocchia di Zoal, beandosi delle lente carezze della donna, era accucciato il piccolo Duca. In simile posizione, Tirch dormiva in grembo a Valentine. Quanto a Danza, aveva preferito addormentarsi semisdraiata sulle gambe incrociate di Danny, che sedeva per terra, la schiena appoggiata al muro, non molto lontano dalla sedia di Uther.

Kumals, in piedi, appoggiato al muro, braccia conserte e viso abbassato, aveva un aspetto poco fraintendibile. Chiuso in un deciso silenzio, degno di uno in sciopero della parola, stava fumando l’ennesima sigaretta. Benché nessuno osasse spiargli troppo insistentemente l’espressione, doveva avere una faccia parecchio oscurata dalla collera trattenuta.

Dopo aver passato la maggior parte del tempo a passare cautamente lo sguardo da Kumals ai tre vicino alla stufa, alternativamente, Yuta, soffermando lo sguardo su Andrea ed Uther, sospirò brevemente.

«Sembrate due mummie.» disse, riferendosi al loro bendaggio.

Uther le lanciò uno sguardo un po’ corrucciato, ma poi abbassò il viso, nel tentativo di celare almeno in parte il sorriso divertito che l’aveva colto. Andrea si limitò a sistemarsi un po’ meglio sul suo cuscino, piuttosto a disagio, e tuttavia riconobbe tra sé e sé con sollievo il tentativo di Yuta di stemperare l’aria di tensione che aleggiava nella stanza.

Poco dopo, Kumals alzò lo sguardo, lanciando anche lui un’occhiata verso la stufa, con espressione di marmo. «E’ vero.» osservò «Ma è ancor più vero che siete dei totali idioti.»

Un lento sollievo si fece strada nella stanza.

Ramo e Danny si mossero quasi simultaneamente, come se ora osassero farlo. L’uno smise di mescolare ormai inutilmente il contenuto sobbollente della pentola, e si voltò finalmente verso il resto della stanza, appoggiandosi un po’ all’indietro al banco dei fornelli, osando persino un pacato accenno di sorriso verso Kumals. L’altro si alzò da terra, scostandosi piano Danza di dosso, e si chinò di nuovo, presso la stufa, aprendo lo sportelletto apposito e prendendo a muovere i pezzi di legno e ad aggiungerne qualcuno, per rinfoltire le fiamme. Poco dopo ripose di nuovo l’attizzatoio, appendendolo al suo apposito gancio, e ritornò a sedersi dove si trovava prima. Con tranquillità, Danza gli si riappoggiò addosso, emise un sospiro compassato, e riprese a sonnecchiare con soddisfazione.

«Comunque…» disse piano Danny, a testa bassa «…è andato tutto bene…»

Un compatto gelo calò nella stanza.

«Fino ad ora.» minacciò sordamente Kumals.

Danny lo guardò. «D’accordo, abbiamo commesso una sciocchezza…»

«Tu ti sottovaluti, Danny.» lo interruppe, sempre in tono cupo, Kumals, guardandolo fisso.

«Ma era importante.» terminò Danny, con salda e calma convinzione.

Andrea lo spiò appena. Ripensò al suo album di fotografie, ora al sicuro sotto il materasso su cui dormiva, nella stanza di Yuta. Ingoiò saliva e prese fiato. «E’ stata colpa mia… mi dispiace…» disse, seriamente contrita.

Un sopracciglio di Kumals ebbe un rapido guizzo di disappunto. «Il tuo contributo non è in discussione.» confermò «Ma se questi due non ti avessero appoggiato prontamente… Probabilmente non saresti andata molto lontana. Avevi tutto questo in mente fin dall’inizio, no?»

Un’espressione contrariata corrugò i tratti del viso della ragazza, che lo guardò, arrossendo un poco per l’indignazione. «Non è solo per questo. Dicevo sul serio, quando ho detto che volevo cercare di dare una mano in tutto questo…». Si zittì, abbassando di nuovo il suo sguardo amareggiato, puntandolo senza scopo sulle mani abbandonate in grembo, con una piccola smorfia di dolore.

Le piccole ferite bruciavano un po’, quasi senza sosta, da quando le erano state curate. Le avevano tolto una per una tutte le minute schegge dalla pelle, operazione fastidiosa che aveva richiesto lunghi ed elaborati minuti. E anche se quella strana pasta curativa che Zoal e Yuta avevano preparato e spalmato nelle bende iniziava a darle un leggero sollievo, il tutto era ancora particolarmente fastidioso. Non aveva affatto voglia di sorbirsi, esausta come si sentiva, una ramanzina; anche se sapeva che Kumals aveva tutte le ragioni del caso per propinarla loro, e gli riconosceva una profonda e sincera preoccupazione, adombrata da un risentimento palpabile.

«C’ero anch’io.» disse la voce bassa di Zoal.

Kumals occhieggiò nella sua direzione «Sì. Immagino avrai capito subito che era inutile tentare di dissuaderli.»

La giovane donna alzò uno sguardo penetrante, nonostante le palpebre a mezz’asta in un’espressione di intensa stanchezza ma viva concentrazione, su di lui, scrutandolo significativamente. «Proprio così.» disse solo, eloquentemente «Per questo sono andata con loro.»

Kumals, che aveva assorbito in pieno quello sguardo, la ricambiò con un’espressione testarda. «Se ce lo avessero permesso, anche noi avremmo potuto dare una mano.»

«Avresti fatto di tutto per dissuaderci.» lo contraddisse Danny.

«E voi non avreste avuto nessun valido motivo per sostenere la vostra… “causa”.» completò Kumals.

Calò un denso silenzio. Infine, Yuta parlò di nuovo per prima. «Ad ogni buon conto, ciò che è fatto è fatto. Loro se la sono cavata, in qualche modo… » esitò, scoccando un’occhiata alle fasciature di Andrea ed Uther «…e questo è l’importante. Supponendo che, come spero, qui nessuno abbia più motivo di dover tornare a quella scuola, ci sono altre cose di cui dovremmo parlare. E potremmo iniziare proprio da ciò che è successo stanotte.»

La ragazza concentrò il suo sguardo su Danny ed Uther «Non c’erano solo quelle persone come ipnotizzate, là, non è vero?»

«No… » disse lentamente Danny «C’era qualcuno, nascosto nella boscaglia. Che ha sparato.»

«Con l’evidente intenzione di cercare di spiaccicarci sotto il lampadario.» aggiunse Uther.

«Danny, hai provato ad inseguirlo, non è vero?» domandò Zoal, fissando attentamente il ragazzo, che la ricambiò con espressione seria, annuendo.

«Sì. Ma chiunque fosse, oltre ad avere una buona mira e chiare intenzioni, aveva anche ottime qualità per scomparire. Non sono riuscito a rintracciarlo. Non ho potuto mettermi seriamente sulle sue tracce. Ho dovuto… tornare indietro… ». Il suo tono si era fatto esitante. «Ma per quello che ho potuto accertare, chiunque fosse si è curato di non lasciare tracce evidenti.»

«Riassumendo…» intervenne Ramo, serio «Oltre ad una banda sparsa di varie persone che sembrano aver perso la testa, in un modo autolesivo ed aggressivo nel contempo, abbiamo un cecchino che ha intenzione di farci fuori.»

Andrea rabbrividì, e lanciò sguardi preoccupati alle finestre. «Cosa ci dice che non possa cercare di venirci a colpire anche qui…?» chiese.

«Se è stato tanto accorto da impedire a Danny di individuarlo, e da preferire scomparire dopo aver effettuato un attacco a distanza di sicurezza, difficile che osi avvicinarsi qui, dove ci siamo tutti.» osservò Yuta, in tono tranquillizzante, ma preoccupato. «In ogni caso, loro lo sentirebbero per tempo.» e così dicendo accennò con la testa ai cani.

«Abbiamo alcuni sistemi di allarme, per così dire, qui intorno.» terminò, con sicurezza.

«Andrea» la interpellò Zoal «Tu hai notato qualcos’altro alla scuola, rispetto a prima. Qualcosa di diverso, no?»

«Beh, c’erano troppe di quelle persone… Voglio dire, molte di più di quante ce ne siano mai state a scuola. E solo alcune le ho riconosciute come frequentatrici abitudinarie o residenti all’istituto. Poi… » rabbrividì e non riuscì a continuare subito.

«Diversi di loro erano morti.» le venne in aiuto Danny. «Probabilmente, sono precipitati uno dopo l’altro dalla balaustra delle scale, mentre si sporgevano per cercare di afferrare il lampadario. Doveva essere un’attrazione molto forte per loro.»

«A proposito di attrazioni…» aggiunse pensierosamente Zoal «Qualcuno, poco dopo che io, Uther ed Andrea ci siamo separati, ha disinnescato l’allarme della porta che aveva accidentalmente attivato Danny. Suppongo che anche questo sia da attribuire al cecchino. Ma potrebbe significare anche che lei o lui aveva una singolare capacità di muoversi rapidamente, per poter raggiungere prima la porta e disinnescare l’allarme e poi trovare un buon punto nella boscaglia da cui tirare al lampadario; oppure erano in più di una sola persona.»

Danny corrugò le sopracciglia. «Non saprei dire se fossero in più di uno. Ma se era lo stesso, potrebbe aver semplicemente fatto saltare l’allarme con un proiettile, agendo sempre dalla posizione da cui ha poi mirato al lampadario. Se aveva un silenziatore, potremmo non esser riusciti a sentire il colpo con  cui ha zittito l’allarme.» e rivolse un’occhiata di richiesta di un’opinione ad Uther.

«Sì…» disse quest’ultimo «…è abbastanza plausibile. Ma sarebbe stato molto difficile riuscire a trovare una posizione da cui beccare sia l’allarme che poi il lampadario.»

«Ma, cosa più importante, come faceva a sapere che vi avrebbe trovati là, e che sareste passati sotto il lampadario?» domandò Yuta.

«Potremmo supporre che fosse già là. E che, una volta che ci ha individuati, pur se abbastanza da lontano e nascostamente da non farsi sentire né da Zoal né da me né da loro…» e Danny accennò brevemente a Danza, abbandonata e rilassata sulle sue gambe «…ha deciso di conseguenza di sabotarci e cercare di farci fuori.»

«Il passaggio sotto il lampadario è quasi d’obbligo, sia per passare da un corridoio ad un altro del piano terra, sia per salire al piano di sopra. La hall è il nucleo centrale e passaggio pressoché obbligato, per come è fatto l’edificio.» aggiunse Andrea.

«Inoltre, era l’unico serio mezzo con cui avrebbe potuto attaccarci a distanza… » riflettè Uther «Se avesse cercato di freddarci a distanza, uno ad uno, avrebbe dovuto calcolare che, una volta abbattuta una persona o due, gli altri avrebbero cercato riparo, e sarebbero stati allerta.»

«O forse era un avvertimento.»

Tutti si voltarono a guardare Zoal. Lei ricambiò le occhiate con calma. «In ogni caso, per il fatto che abbia scelto di agire in lontananza, e che abbia puntato per primi e in modo particolare Andrea ed Uther, piuttosto che me, che ero molto più allo scoperto là nel piazzale… e contando che è riuscito – o riuscita – a scomparire in fretta, come se avesse calcolato che Danny si sarebbe lanciato alla sua ricerca rapidamente… e l’esser riuscito a seminarlo, e a spiarci da lontano senza che nessuno di noi avesse sentore della sua presenza… Tutte queste cose mi fanno supporre che sapesse, in qualche modo, con chi aveva a che fare. Ci ha dedicato una notevole cura di particolari, troppa per essere un cecchino disinformato al nostro riguardo. Tuttavia, non era così preparato da agire in maniera impeccabile. In summa, ritengo probabile che si trovasse là per suoi motivi, e che sia stato sorpreso dal nostro arrivo, ma che sapesse qualcosa a proposito di noi. O non era nelle sue capacità ucciderci, o era nelle sue intenzioni darci solo un cospicuo avvertimento, di mantenerci fuori dalla faccenda.»

«Sono d’accordo.» commentò Kumals. «E ciò ci porta a comprendere anche un’altra cosa importante. Non abbiamo a che fare con qualcosa di completamente fuori dal controllo di tutti. Qualcuno sta seguendo la faccenda da vicino, oltre a noi, e probabilmente con più dimestichezza di noi. Forse sa cosa sta succedendo, in qualche modo.»

«Se ha ragione Danny, a riguardo del fatto che la fonte di quello stato sia la televisione…» iniziò Uther.

«La televisione?!» si stupì Andrea, con sguardo poco convinto.

Uther si voltò a fissarla «Tu hai l’abitudine di guardarla?»

«Beh, no… » disse Andrea «Però, mi sembra eccessivo sospettare addirittura una cosa del genere.»

«Il Conte ha sviluppato quel comportamento dopo aver guardato la televisione. Inoltre, nessuno di noi qui presenti, che siamo rimasti immuni, è solito guardare la televisione.» spiegò Danny.

«Questo è il nostro unico indizio.» disse Kumals, guardando con comprensione l’espressione perplessa di Andrea «E’ penoso, e parecchio discutibile, ma è pur sempre un indizio. Per iniziare…»

«Cosa stavi dicendo?» chiese Yuta ad Uther.

«Che se è vero che è la televisione, a causare questo stato, deve aver a che fare con le trasmissioni e via dicendo. Potrebbe trattarsi di un messaggio induttivo trasmesso via schermo… no?»

«E’ un’idea interessante.» commentò Kumals.

«Oltre che parecchio inquietante.» aggiunse Ramo «Ma, Andrea, tu sapresti dirci se in qualche modo potrebbero essere veramente collegate le due cose? Non per minare la tua idea, Danny…» parve quasi scusarsi, rivolto al ragazzo «… però potremmo stare prendendo un abbaglio. Il Conte avrebbe potuto avere già in sé qualcosa che poi ha fatto uscire fuori quel comportamento, e potrebbe essere un caso che quando è iniziato stesse guardando la televisione.»

«Detto da chi ha sfasciato lo schermo a mazzate… è notevole.» sogghignò Kumals.

Ramo arrossì un poco.

«Comunque la domanda è molto pertinente. C’erano delle televisioni, immagino, là nella scuola.» disse Kumals, guardando Andrea.

«Sì, certo…» disse lei, ancora non particolarmente persuasa «Ma non è che io stessi a controllare chi e quando e quanto la guardava. Non sono sicura di riuscire a ricordare bene. So che io e Janine non la guardavamo praticamente mai, se non di sfuggita se eravamo in una stanza dove l’avevano accesa. C’erano diverse televisioni. Alcune in qualcuna delle sale comuni, e qualchedun’altra privata che la gente aveva in camera sua. Sarebbe impossibile sapere con certezza chi se l’è guardata e quando, ora come ora…»

«Insomma, non abbiamo modo di chiarire questo indizio. Ma in ogni caso, qui non ci sono televisioni, specialmente dopo quello che è successo con il Conte.» osservò Yuta «E non ci mancheranno. Un’altra possibilità potrebbe essere il fatto che in realtà l’induzione del comportamento venga effettuata in qualche altro modo, e che poi il tutto venga attivato guardando la televisione… E’ una tecnica usata già in ambiti di condizionamento psicologico…»

«Giusto. Interessante.» disse Uther.

«E questo ci riporta in ogni caso a qualcosa di artificialmente indotto.» concluse Kumals. «Zoal.» disse poi «Tu hai detto che avevi qualcosa da dirci… alcune novità… »

Zoal alzò la testa, e percorse la stanza con una lunga occhiata riflessiva. «Sì.» disse, in tono grave «Qualche cosa l’ho sentita. E non mi è sembrato nulla di buono, fin dall’inizio. Per questo sono tornata subito qui.»

 

 

 

 

 

 

 

 

Ritorna all'indice


Capitolo 25
*** 23 - IL BUCO NERO DELLA SITUAZIONE...II ***


Capitolo 23

(Il buco nero della situazione – parte II)

 

Nella cucina quasi silenziosa, Zoal, abbigliata con una serie di stracci in tonalità cupe che le davano un’aria da mistica zingara elegante, accavallò le gambe, mettendosi un po’ più comoda. Con un gesto distratto della mano si scostò alcune sottili ciocche di capelli dal viso. Indi, tornò a guardare gli altri e le altre occupanti della stanza, che attendevano le sue parole con una certa curiosità.

«Tralasciando le mie personali sensazioni, che mi hanno indotta a pensare che qui stesse succedendo qualcosa di cospicuo, penso sia più importante dire ciò che so. Kumals mi ha già parlato di ciò che è accaduto con il signor Benton.» informò gli altri, lanciando un breve sguardo al nominato, che annuì.

«Ma credo che non sia stato quello il centro scatenante di ciò che sta avvenendo qui. Non conosco l’uomo di cui Benton accennava a Kumals, anche se so, da alcune voci, che probabilmente Benton sapeva di cosa stava parlando. Il fatto che fosse molto intimorito, non ci è di molto aiuto; aveva una personalità facilmente suggestionabile. Tuttavia, potremmo considerare potenzialmente utile quanto ha accennato a Kumals. Penso che potremmo concentrare la nostra attenzione su un punto in particolare: l’ampiezza del “fenomeno”. Si è diffuso, molto rapidamente, tra una grande quantità di persone, ma in una zona ben precisa. Questo potrebbe indicare che si tratta di qualcosa che procede in maniera geograficamente circoscritta. Ma questo non spiegherebbe per quale motivo noi ne siamo rimasti immuni. La teoria della televisione potrebbe avere qualche elemento di consistenza interessante. Per questo, penso che sarebbe opportuno andare a fare una visita alla stazione ferroviaria di Foelm

La giovane donna si interruppe, prese qualche sorso d’acqua da un bicchiere appoggiato sul bancone vicino a lei, quindi, poggiandosi il bicchiere in grembo, riprese con voce calma e precisa.

«C’è una zona tra i binari, relativamente vicino all’attuale stazione, in cui ci sono alcuni edifici abbandonati, appartenenti al complesso della vecchia stazione. Per un certo tempo, sono stati anche la sede di alcune antenne molto potenti. So che queste antenne non sono mai state disattivate del tutto, anche se giacciono da anni perlopiù inutilizzate. Venendo qui, in treno, ho evitato la zona. Già a Traum, che dista qualche chilometro da Foelm, la situazione era piuttosto allarmante. La stazione era in un discreto caos, visto che alcune persone, che accusavano i sintomi che avete già avuto modo di riscontrare qui massivamente, mettevano in difficoltà il normale traffico dei treni, ostacolandone anche il transito. Inoltre, ho presentito che più avanti, in una zona relativamente circoscritta, ed entro la quale Castle MacHearty e noi stessi qui ci troviamo immersi in pieno, la situazione era ben più massiccia. Ho dovuto arrabattarmi chiedendo passaggi in auto, e facendo molta strada a piedi. In qualche caso sono stata abbastanza fortunata da rinvenire auto abbandonate, che ho preso in prestito per cercare di fare prima.

Per tornare alla stazione di Foelm… Non credo che corrisponda in qualche modo ad un eventuale epicentro della zona colpita in cui ci troviamo. Tuttavia, pensandoci bene, potrebbe essere un luogo dove, chi si stesse eventualmente servendo di sistemi di diffusione ad onda, di quelli usati di norma nelle telecomunicazioni, potrebbe aver approfittato di quegli edifici e di quegli apparecchi a suo vantaggio.»

«Sembra che tu possa aver visto giusto.» osservò Kumals.

«Ma…» accennò Ramo, riflessivo «Se comunque alcune persone hanno seminato il panico in quel modo nella stazione di Traum, ciò vuol dire che le persone non colpite, e specialmente le forze dell’ordine, sono ben a conoscenza della situazione. E che interverranno. Staranno già facendo qualcosa. Se incappassimo in qualche loro squadra, potrebbe essere un problema.»

«Io ho qualche riflessione che al momento potrebbe suonarvi strana o improbabile, in proposito. Per questo preferirei tacerla, per ora.» gli rispose Zoal «Ma potremmo avere modo di verificarla. Un modo peraltro doppiamente utile.». La donna tacque, e si volse a guardare la sorella.

Yuta intervenne, accettando l’invito a parlare. «Il fatto è, gente, che qui i viveri iniziano a scarseggiare. A questo ha contribuito anche Justin, peraltro, riuscendo a demolire parte delle nostre conserve. L’ho chiuso a chiave in una stanza. Sennò, sarebbe stato peggio. Per lui.» annunciò, e guardò Danny, il quale ebbe il buonsenso di non replicare nulla, anche se il suo sguardo si era un po’ allargato in un’espressione colpita.

«Quindi, parlando con Zoal, si pensava che domani potremmo andare a fare un salto giù in città, a Castle MacHearty. A fare spesa. In ogni caso, i negozi saranno lasciati a se stessi.» disse ancora Yuta.

«Sempre che, come diceva Ramo, non siano arrivati i rinforzi.» notò Uther, con una certa preoccupazione.

«In quel caso, eviteremo saggiamente di farci vedere in giro, e in generale di mettere piede per le strade di Castle MacHearty.» disse Zoal «Ma un giro là potrebbe esserci utile per chiarire alcune altre cose. Ad esempio, sospetto che alcune delle persone che abbiamo avuto il dispiacere di incrociare nei pressi della scuola, provenissero proprio da là.»

Danny si fece più attento «Vuoi dire che vagano per la boscaglia?»

«No, Danny. Non credo che vaghino. Credo che qualcuno li stia inducendo a spostarsi, in una precisa direzione, che dovremo individuare con più esattezza prima o poi. Anche per questo, se ci imbattessimo fortuitamente in qualche persona ridotta in quello stato, giù a Castle MacHearty, potrebbe essere utile farle un regalo.» e così dicendo, affondò la mano tra i vestiti, estraendone poco dopo una piccola scatolina chiusa.

«E’ un aggeggio per il tracciamento di posizione?» domandò Uther, senza particolare sorpresa.

«Precisamente.» confermò Zoal. Una sua palpebra tremolò appena, come in un accenno di ammiccamento.

«Come ve lo siete procurato?» chiese Andrea, sorpresa.

Zoal la guardò, sorrise, e non rispose.

«Se è vero che qualcuno li sta spostando, se riusciamo a piazzare quello addosso a uno di quei soggetti, potremmo sapere quindi dove li stanno spostando. E magari ciò ci condurrebbe da chi li sta manovrando...» continuò a ragionare Danny. «Ottimo.» e sorrise complicemente.

«Quindi, domani si va al saccheggio.» ricapitolò Ramo, con un sorriso impaziente.

«Non c’è bisogno che andiamo tutti.» disse Kumals.

Ramo lo guardò interrogativamente. «Che intendi?»

«Che alcuni di noi potrebbero fare nel frattempo un salto alla villa del signor Benton. Magari possiamo trovare qualche indizio. Al quadro generale che abbiamo delineato, manca un aspetto che non mi torna. Ovvero: chi erano e da dove venivano quelli di quel branco di motociclisti che ha devastato la festa, e soprattutto che scopo avevano. Non penso sia in alcun modo probabile che si sia trattato di un gesto casuale.»

«Sono d’accordo con te.» annuì Zoal. «Per quanto ne sappiamo, è facile immaginare che siano stati inviati da qualcuno.»

«Non mi suona bene.» intervenne Danny «Dividerci intendo. Potremmo incappare tutte e due in grossi guai, sia alla villa di Benton che giù a Castle MacHearty. Saremmo in meno persone, e non potremmo darci una mano a vicenda, se succede qualcosa, oltre al fatto che non abbiamo niente che ci permetta di comunicare tra di noi.»

«Non è proprio esatto.» lo contraddisse con un’ombra di divertita contentezza Zoal.

Il ragazzo la guardò, confuso, ma fu Kumals a parlare.

«Zoal si è procurata un paio di radio portatili, di raggio abbastanza ampio da comprendere la distanza tra la villa e Castle MacHearty. In ogni caso, Danny, visto anche il fatto che sembra stiano spostando le persone dalla città, non penso che troveremo troppi problemi in nessuno dei due posti. Io credo che valga la pena rischiare. Invece, sarà poi opportuno che andiamo tutti in forze a dare un’occhiata a quella antenne, meglio se già dopodomani.»

Uther si stiracchiò piano, cercando di non farsi male alle piccole ferite. Per un po’ toccò con aria distratta i suoi bendaggi, per indagare sul fatto se l’impiastro di erbe si fosse sufficientemente asciugato.

«Insomma, abbiamo già una bella tabella di marcia.» osservò, quasi allegramente. «Bene, mi sembra che possa andare.»

Non fu chiaro se si riferiva alla tabella di marcia o allo stato della pasta fitoterapica che aveva indosso. Come per fugare ogni dubbio, lanciò un ghignetto divertito in direzione di Kumals, Yuta e Zoal. «Io ci sto.»

Uno dopo l’altro, anche gli altri si dissero d’accordo.

«Bene!» esordì infine Yuta, puntandosi le mani sui fianchi con aria decisa, e lasciando trapelare i denti tra le labbra socchiuse in un sorrisetto soddisfatto «Abbiamo fatto proprio un bel punto della situazione, finalmente.»

«Più che il punto della situazione, a me sembra che ci troviamo nel buco nero della situazione.» commentò Danny, con cipiglio pessimista.

Uther gli lanciò una breve occhiata, sorridendo.

 

*

***

*

 

Si presentava come il felice inizio di una giornata soleggiata. L’astro splendeva nel cielo terso, e sebbene l’assenza delle nuvole rendesse più fredda l’aria, i raggi abbastanza tiepidi spandevano un dolce calore nella mattina.

Nel sottobosco regnava una calma vitale: vari rumori più o meno furtivi di frasche spostate e terriccio calpestato da qualche scalpiccio venivano quasi del tutto coperti dal canto di svariate specie di piccoli volatili chiacchieroni, la cui vista rimaneva celata dalle chiome da cui decantavano i loro messaggi.

Alcuni di questi suoni si interrompevano, o si smorzavano comunque di molto, quando si udiva un altro genere di rumore: passi pesanti e sgraziati scendevano lungo il sentiero. Chi eventualmente si fosse disposto a guardare, avrebbe visto comparire per primi due ragazzi.

Una era una giovane dai capelli corti color bluette, un corpo non molto alto ma ben proporzionato che navigava in ampi abiti da montagna, facendola quasi rassomigliare ad una bambina, se non fosse stato per un nonsoché nel suo aspetto e nei suoi modi, pur se in qualche modo naturali e quasi spensierati, di matura femminilità. Avanzava decisa, molleggiando le gambe per accordare il passo alla discesa che stava affrontando.

Accanto a lei, con l’aria di starla tallonando sia con i passi ben meno accordati sia con una serie di chiacchiere forzatamente simpatiche, procedeva un ragazzo non molto alto, che tentava di tenere sempre le mani in tasca e di ostentare un’aria rilassata e sicura di sé, in perfetta noncuranza del fatto che non era provvisto di un buon equilibrio o abitudine nel camminare lungo sentieri pendenti di montagna.

Pochi metri più indietro li seguivano altri due ragazzi. Loro avevano sì un’aria concentrata, ma non sul camminare seguendo il sentiero inclinato, cosa che risultava loro scioltamente abitudinaria; bensì, apparivano immersi in qualche loro profonda riflessione.

Ad un certo momento, uno dei due, quello biondo naturale e che indossava un fucile a tracolla, aprì un po’ le braccia in un breve stiracchiamento, e disse «C’è un bel sole, oggi.»

L’altro lo guardò, con un accenno di incuriosito divertimento sul volto. Se lo conosceva abbastanza bene, e così era, il suo amico non era affatto solito parlare giusto per fare qualche commento sul tempo, anche se, in effetti, di solito mostrava con aperta contentezza quanto fosse piacevole potersi godere una giornata soleggiata passeggiando in mezzo ad un bosco.

Danny osservò meglio Uther, notando tra sé e sé come molte delle sue caratteristiche fisionomiche apparissero tipiche di qualcuno abituato a vivere tra le montagne: la pelle non troppo pallida, e protetta dalla peluria bionda e non molto fitta, sembrava l’ideale per accogliere sprazzi di ore di sole intenso, tra una tirata e l’altra di vento freddo, annuvolamento, e generale abbassamento repentino della temperatura. Gli occhi molto chiari, erano protetti da ciglia abbastanza lunghe e fitte, e sempre bionde, così come dal ciuffo di capelli molto mossi che protendeva un po’ in fuori dalla fronte.

Uther si voltò a guardarlo, rendendosi conto, o forse sapendo fin dall’inizio, che la sua inutile e banale osservazione era stata smascherata come un pretesto per attaccare conversazione. Danny sostenne il suo sguardo, rimanendo in attesa delle altre sue parole, con tranquilla e spontanea calma.

Tuttavia, con l’evidente intento di non andare ancora a toccare il motivo che più propriamente l’aveva spinto a parlare, Uther distolse lo sguardo, fissandolo sui due che camminavano davanti a loro. Ogni loro silenzio era punteggiato dal chiacchierare di Justin, il quale sembrava non volersi proprio sentire in alcun modo incoraggiato a tacere dalle brevi risposte lapidarie di Andrea.

«Non le darà tregua per tutto il giorno.» osservò Uther.

«Già. Sembra che l’essere chiuso in una stanza e la sfuriata di Yuta non gli abbiano suggerito altro che di cambiar bersaglio…» notò Danny, ostentando un cocciuto disinteresse distratto.

Ma il fine occhio di Uther non era disposto a farsi ingannare da così poco.

«Forse dovremmo dirgli qualche cosa… cercare di distrarlo un po’.» propose, studiando la reazione di Danny senza darlo a vedere.

Una dubbiosità auto-infastidita da sé medesima incrinò per un momento netto la faccia di Danny, che riprese però rapidamente padronanza della sua espressività, tornando ad irrigidirla in una maschera di noncuranza, mentre ribatteva «Credo che lei sia ben capace di cavarsela da sola. Semmai, le basterebbe fargli lo sgambetto e mandarlo a rotolare per un po’ giù per il sentiero. Probabilmente così arriverebbe prima, e non avrebbe più occasione di lamentarsi in maniera così ripetitiva e inutile sulla fatica di camminare.»

Uther sogghignò con comprensione. «Mi pare che tu lo sopporti di meno ora rispetto a quando ci vivevi insieme…»

Danny lo spiò brevemente, colpito dalla sua osservazione, e alzò le spalle. «E’ sempre stato così. Ma là alla casa del Conte io ero fuori quasi tutto il giorno, e lui stava in casa quasi tutto il giorno. Avevamo meno occasione, per fortuna, di dover passare tanto tempo entro lo stesso perimetro di qualche chilometro.»

«A proposito di distanze… La radio funziona?» domandò Uther.

«Perfettamente.» sorrise Danny. «Se vuoi possiamo passarci il tempo infastidendo Kumals finché non arriviamo in città…» propose con divertita malignità.

«Perché no?» commentò Uther «Ma sarebbe meglio aspettare ancora un po’, quando ci annoieremo di più… Perché se iniziamo fin da ora inizierà a non risponderci più.»

«Qui viene il bello: non può permetterselo.  Se fossimo nei guai veramente e non rispondesse per evitare uno scherzo… non oserebbe.»

«Tu dici?» dubitò Uther scherzosamente, alzando un sopracciglio «Mai sentita la storia di ‘Al lupo, al lupo!’?»

«Certo che l’ho sentita, come tutte le altre storie sull’argomento…» rispose Danny, strizzandogli brevemente l’occhio.

Uther emise una breve risata sommessa.

Danny notò che Andrea accennava una fugace sbirciatina dietro le sue spalle, mentre continuava ad ignorare quasi completamente l’affaccendarsi discorsivo di Justin.

«Comunque…» continuò Uther, attirando di nuovo la sua attenzione «Prima, quando siamo partiti da casa, mi sembra che Valentine fosse di pessimo umore…»

«Già…» confermò Danny, annuendo appena con aria rattristata.

«Si tratta sempre del solito discorso, no…?» domandò ancora Uther, con un’incerta timidezza dettata dal tatto.

«Credo proprio di sì.» sospirò brevemente Danny, con aria abbastanza rassegnata.«Ormai sa bene in che genere di situazioni si ritrova coinvolto Ramo, specie quando ci siamo di mezzo anche noi… e tutto questo non le è mai andato giù. Odia che lui sia così a repentaglio… Credo che sia per questo che Ramo è stato assegnato al gruppo che sta andando alla villa, piuttosto che al nostro. Gli sarà dispiaciuto… saccheggiare è uno dei suoi passatempi preferiti. O skippare**. Cioè, doveva esserlo, prima che Valentine disapprovasse.»

«Non è una situazione facile…» disse cautamente Uther.

«No, infatti… Però… » Danny si interruppe, lo sguardo concentrato su una sua riflessione personale «Tutto questo, alla fin fine, tiene Ramo come legato, limitato nella sua libertà. D’accordo, nessuno lo costringe, e non credo che Valentine sia mai arrivata al punto di imporgli ultimatum o cose del genere, che lui non avrebbe mai accettato. Ma anche senza ultimatum… rimane comunque un ricatto, anzi per questo ancora più sottile. E quindi, lo tiene invischiato, bene o male.»

«Oppure… » mormorò Uther, con voce profondamente seria «Lo induce anche ad avere più cura di se stesso.»

Danny si voltò a dare una lunga occhiata a Uther, colpito dalle sue parole. Questo, era effettivamente un lato della situazione che difficilmente avrebbe considerato  o scorto con buona chiarezza, se non gli fosse stato fatto notare.

Dal modo in cui lo aveva detto, sembrava che Uther avesse avuto a che fare con qualcosa del genere, o che comunque l’argomento lo toccasse profondamente. Nonostante ciò, Danny non riusciva a immaginare in che maniera questo fosse possibile; per quanto conoscesse bene Uther, non sapeva proprio tutto di lui. E d’altra parte, entrambi avevano trascorso la maggior parte della loro vita senza conoscersi o sapere dell’esistenza l’uno dell’altro. Nonostante Danny l’avesse sempre saputo, a volte la familiarità fraterna che si creava con immediata spontaneità tra di loro glielo faceva come dimenticare. Era pur anche vero, che nessuno dei due era solito lasciarsi andare a chissà quali confidenze personali nel parlare con l’altro. E tuttavia quel tono aveva risvegliato in Danny una speciale attenzione, che riecheggiava di una sorda preoccupazione. Persino per lui quell’argomento aveva un’importanza vitale… ma non lo avrebbe ammesso, come aveva fatto Uther; non ci sarebbe riuscito con tanta pur coraggiosa nettezza di parole.

Danny, che ora fissava davanti a sé, colse un movimento che lo distrasse, calamitando la sua attenzione. Poco più avanti di loro, Justin aveva allungato con nonchalance una mano, mentre parlava vicino all’orecchio di lei, come per sfiorare il braccio di Andrea. La ragazza scostò il braccio con scatto irritato, e lo tenne per un po’ sollevato, come se indecisa se abbatterlo sul ragazzo. I suoi occhi castano mielato si schiarirono in un guizzo lampeggiante di dorato ma intenso astio, fissandosi su Justin con stilettante segno d’aggressività a stento repressa.

Danny riconobbe prontamente in quell’occhiata il segnale che la pazienza di Andrea era giunta al termine. Accelerò bruscamente il passo e subito chiamò a gran voce «Justin!»

Interrotti dal suo intervento, sia Andrea che Justin si voltarono a guardarlo, benché con espressioni molto diverse.

Ignorando l’offesa disapprovazione che Andrea gli rivolgeva con i suoi occhi ancora accesi da una vivace espressività, il ragazzo raggiunse Justin, che invece si era fermato ad aspettarlo con nient’altro che pura curiosità.

«Senti Justin, hai con te la lista della spesa che ti ho dato prima?» domandò Danny.

«Sì, certo…» collaborò l’altro, prendendo a frugarsi laboriosamente in tutte le tasche di cui disponevano gli abiti che indossava.

Andrea scoccò un’ultima occhiata per niente grata a Danny, quindi riprese a camminare. Il ragazzo fissò per un momento la sua schiena, eloquentemente indispettita, e tirò un lievissimo sospiro. Uther li sorpassò, lanciandogli un breve sguardo d’intesa, e andò ad accodarsi con prudenza ad Andrea.

Justin si stava ancora frugando nelle tasche.

Danny trattenne un altro sospiro di esasperata rassegnazione solo perché Justin riuscì infine ad estrarre di tasca il giusto foglio ripiegato, vergato dalla scritta di Valentine e di Yuta.

«Eccola!» esclamò vittoriosamente «A che ti serve?»

«Vorrei controllare che non abbiamo dimenticato niente, mi puoi dare una mano?»

«Certo.» si arrese Justin, dopo aver lanciato un’occhiata di deluso rimpianto ad Andrea che si allontanava.

Danny represse a stento il proposito di affibbiargli una manata sulla nuca, riprese il controllo di sé con un generoso sforzo, e disse «Bene, intanto camminiamo, o non arriveremo più.»

Justin annuì, e si rimise al passo di fianco a lui.

«Quanto manca ancora?» domandò dopo pochi passi.

Danny risolse, semplicemente, di ignorarlo, e prese ad elencare cosa dovevano procurarsi nella spesa, costringendo Justin ad immergersi in un controllo incrociato. Gli attenti occhi di Danny, tuttavia, rimasero concentrati sulle spalle di Uther ed Andrea, che si erano messi a parlare.

«Non ho bisogno di guardie del corpo.» puntualizzò Andrea con Uther.

«Lo sappiamo. Il nostro proposito era di impedirti di ferirlo seriamente…»

«Forse qualche sberla di tanto in tanto potrebbe essergli utile per calibrare meglio le sue azioni.» suggerì Andrea, chiaramente irritata.

«O forse gli farebbe pensare, come dice Yuta, che sei disposta a concedergli più attenzioni di quante ne speri già per proprio conto.»

Andrea gli lanciò una breve occhiata. «In questo caso, anch’io ho qualcosa da imparare. Ma se voi continuate a frapporvi, mi sarà difficile.»

«Ti prometto che, non appena sarà finita questa faccenda, ti lasceremo liberissima di perdere tutto il tempo che vuoi con Justin.»

«Hum… » borbottò Andrea, poco persuasa.

Dopo qualche minuto che procedevano in silenzio, la ragazza parlò di nuovo, esitante.

«Senti, hem, Uther… »

Lui la guardò per un momento, invitandola a proseguire nel parlare.

«Ma Danny… » la ragazza si interruppe bruscamente. Non era sicura, all’improvviso, che il nominato, che pure distava da loro di quattro o cinque metri buoni, non potesse udirla.

«Danny cosa?» le venne in aiuto Uther.

«Come ha fatto a sopportare Justin?» rimediò in fretta lei, sostituendo la domanda che si era originariamente proposta di fare «Erano coinquilini, no?»

Il sopracciglio di Uther ebbe un accenno di tremolio. Se il ragazzo aveva inteso il suo cambiar discorso repentino, non lo esplicitò in altro modo, invece sogghignò appena e disse «Si direbbe che oggi siamo tutti molto interessati ai fatti di Justin…»

Da come lo disse, Andrea ebbe l’impressione che potesse capirla molto bene su quel punto.

 

 

 

 

**SKIPPARE: dall’inglese, in un certo gergale italiano (e direi anche in quello inglese) viene utilizzato per ‘rubacchiare’.

 

Note dello scribacchiatore:

ecco qua, visto che sarò via tre-quattro giorni aggiorno oggi.

So che c’è una certa ripetitività quando vengono fatti discorsi sulla situazione “zombismo” e strategie varie; mi pare che la cosa rispecchi il bisogno dei personaggi di ricapitolare tutto per cercare di rimediare una visione il più onnicomprensiva possibile, per tracciare il più chiaramente possibile i potenziali collegamenti tra gli eventi, alla ricerca di indizi. E spero che possa essere anche utile a chi legge per ricapitolare un po’ questi eventi appunto, sciogliendoli dal miscuglio con le cose più personali dei personaggi e/o dai momenti più “di svago”.

I prossimi tre capitoli sono quelli che mi è piaciuto di più scrivere e rileggere… non vedo l’ora di pubblicarli :)

 

Ritorna all'indice


Capitolo 26
*** 24 - I'M ALL LOST IN A SUPERMARKET ***


Capitolo 24

(I’m all lost in a supermarket***)

 

C’era uno sconfortante, profondo silenzio, sia da una parte che dall’altra delle grosse vetrate, sia all’interno della zona casse, sia all’esterno, in strada.

Il sole cadeva in modo tale da percorrere per il lungo la strada, in cui spadroneggiava sovrano, lasciando in ombra gli edifici a lato di essa, tra cui le vetrate e l’interno del supermercato. Sembrava una scena di altri tempi e altri luoghi, qualcosa a che vedere con quei film western, in cui nella polverosa strada deserta e soleggiata sta per accadere qualcosa, magari un duello.

Lui, come in accordo con questa fugace idea, aprì il caricatore della pistola, lo fece rullare a vuoto con un colpo del dito, e con una mossa del polso la richiuse di colpo, producendo un secco scatto metallico che rimbombò nel silenzio. Sogghignò appena tra sé e sé.

Proprio così, mancavano giusto delle rotolanti palle secche di arbusti, e qualche altro chilo di polvere, e più vento a sollevarla e a far rotolare le palle di rami lungo la strada, magari un caldo cocente e un sole impietoso, e sarebbe stata una perfetta scena western.

Le casse del supermercato si allineavano con distinta precisione, in modo da poter permettere un ordinato e rapido defluire dei clienti; ora che erano inutilizzate, e che non c’era alcun cliente, la cosa poteva apparire singolare. Una ripetitività meccanica e vuota fine a se stessa, degna dell’arte pop, con un tocco di post-apocalittico.

A spezzare la monotonia era solo la figura seduta su una delle casse, sul bordo dello slargo dal levigato piano  metallico in cui terminava lo scivolo dedicato a quella merce già passata sotto all’infrarosso che legge il codice a barre delle etichette.

I registratori di cassa erano chiusi, tutto taceva, e ogni fonte di illuminazione era spenta; doveva essere rimasto tutto così immobile dalla chiusura che risaliva all’ultimo dell’anno. Tutto quanto era rimasto ad attendere il giorno di riapertura, invano.

Leggermente annoiato, il ragazzo seduto sulla cassa, che continuava imperterrito a guardare attraverso le vetrate il paesaggio da ‘città fantasma’, prese a far oscillare un po’ le gambe penzoloni.

«I’m all lost in the supermarket… I can no longer shop happily… I came in here for that special offer… A guaranteed personality… ***» canticchiò piano, cercando di evitare che la sua voce si disperdesse troppo ampiamente nello spazio deserto, per non dover udire il rimbombo d’essa che, dopo aver sbattuto contro tutte quelle superfici linde e vuote, gli tornava indietro, circondandolo.

L’aria che entrava dal pannello di vetrata che avevano dovuto rompere per entrare, dal momento che le porte automatiche non avevano degnato loro di alcuna attenzione, rimanendo stolidamente immobili e chiuse, gli solleticò la pelle. Era calda di sole, piacevole.

Senza staccare lo sguardo dalla strada, che continuava a tener attentamente sott’occhio, anche se ormai dubitava profondamente che ci potesse essere mai qualcosa di interessante da vedervi, si trasse dalla tasca dei pantaloni il pacchetto di tabacco. Appoggiò la pistola sul piano accanto a sé, e prese ad arrotolarsi una sigaretta. Mentre se la accendeva, sentì alle sue spalle un rumore di passi rimbombare tra le corsie vuote dell’esercizio commerciale.

Senza darsi alcuna pena di voltarsi subito, finì di accendersi la sigaretta, ripose via l’accendino, e solo allora, mentre se la sfilava dalle labbra dopo aver dato il primo generoso tiro di fumo, voltò il capo per guardare chi arrivava.

Uther camminava un po’ frettolosamente, forse per via del peso del mucchio di svariate confezioni che reggeva tra le braccia. Muovendosi con tranquilla agilità si infilò nello stretto spazio tra la sbarra metallica e provvista di cartello che sbarrava il passo alla cassa e la cassa successiva, raggiungendo il banco su cui era seduto Danny. Appoggiò ciò che portava su quel piano, accanto a lui, e alzò su Danny uno sguardo vagamente corrucciato.

«Mi sa che hanno finito la Worse Hell*.» annunciò, riferendosi ad una marca di birra.

«Semmai da queste parti l’hanno mai vista, vuoi dire.» commentò Danny, sorridendo.

«In effetti… comunque, ho adocchiato valide sostitute.» completò Uther, con una certa soddisfazione.

 «Bene.» disse solo Danny.

Uther si appoggiò all’indietro al bancone, afferrandone i bordi con le mani, e tirò un lieve respiro di rilassamento post-fatica, guardando anche lui la strada attraverso le vetrate.

«Calma piatta.» osservò Danny.

«Già… non l’avrei detto.»

«Probabilmente è questo che Zoal sospettava.» notò Danny.

Uther lo guardò. «Sì, l’ho pensato anch’io. Ora non ci resta che aspettare di sentire la sua teoria, perché io non ne ho molte di verosimili, ora come ora.»

Danny annuì, fece per dire qualcosa, ma si zittì quasi sussultando quando un cospicuo rumore spezzò il silenzio. Entrambi si voltarono praticamente di scatto, poiché la fonte del frastuono era alle loro spalle. E rimasero a guardare la scena.

Andrea scivolava lungo una corsia del supermercato diretta verso di loro, in piedi a bordo di un carrello colmo di cose. Ogni qual volta rallentava o aveva bisogno di riassestare la rotta per evitare di sbattere contro gli scaffali laterali, poggiava a terra con decisione un piede, mantenendo l’altro sul carrello, al quale era anche saldamente aggrappata con le mani, e si dava la spinta, correggendo appropriatamente la direzione.

Dietro di lei, rimanendo chiaramente indietro, arrivava Justin. Spiccava una piccola corsa per tentare di starle al passo, ma i sussulti violenti scomponevano la massa eccessiva di oggetti che portava a braccia, facendogliene perdere qualcuno, e costringendolo a tornare qualche passo indietro a recuperarlo. Sequenza che si ripeté almeno un paio di volte mentre Danny e Uther stavano a guardare.

«Beh…» disse Uther, divertito « Kumals e Ramo avranno anche dovuto rinunciare ad unirsi a noi, ma quella lì è una valida sostituta, e sembra sapere il fatto suo…»

Danny sorrise.

Seminato definitivamente Justin, Andrea approdò con il carrello contro l’inizio del rullo mobile della cassa, frenando con il piede sulla ruota abbastanza da smorzare l’impatto. Scese dal carrello, e si affiancò a loro, guardandoli contenta.

«Direi che c’è tutto.» riferì «Non appena arriveranno le ultime cose… » aggiunse, lanciando uno sguardo di malcelata soddisfazione a Justin, che cercava di non farsi cadere le altre cose mentre ne raccoglieva alcune delle ultime che aveva perso per strada.

«Quasi tutto.» la corresse Uther, a braccia incrociate.

Andrea lo guardò, chiedendo spiegazioni con uno sguardo piuttosto divertito.

«Manca la birra. Il companatico, insomma.» le disse Danny.

«Ah… ok.» stava rispondendo Andrea, ma il suono della sua voce fu quasi interamente coperto dal frastuono con cui Justin si liberò del peso degli oggetti, lasciandoli cadere sul rullo mobile della cassa, e appoggiandovisi poi lui stesso, con aria consumata dalla fatica. Prese ad ansimare pesantemente.

«Urca!» esclamò tra un ansito e l’altro «Che faticaccia, eh?»

Gli altri tre lo fissarono per qualche istante, con l’aria di chi sta cercando di scoprire da che parte bisogna voltare’un immagine per capirla.

«Io vado a prendere la birra.» disse Uther, riscuotendosi. Frugò sotto il banco della cassa, cavandone una sporta di tessuto. Scavalcò con un salto la sbarra, appoggiandosi ad essa con una mano, e scarpinò con moderata fretta verso la corsia delle bevande alcoliche, sotto lo sguardo sorridente di Danny.

«Tanto vale mettere tutto nelle sporte, intanto…» osservò Andrea.

«Sì.» convenne Danny, ed entrambi si misero a trasferire l’abbondante spesa nelle sporte di stoffa, cercando di suddividerla intelligentemente in base a peso e fragilità.

Pochi minuti dopo, a lavoro quasi ultimato, udirono il rumore di passi e di tintinnare di vetro che annunciava il ritorno di Uther. Il ragazzo, che si portava appresso la sporta colma e appesantita, li raggiunse con passo di ritmo più moderato di prima, e poggiò il fardello tintinnante per terra con cauta gentilezza, fermandosi poi ad osservarli mentre mettevano le ultime cose nelle sporte.

Danny soppesò l’ultima sporta che avevano riempito. «Bene, direi che possiamo andare. Justin, potresti…? Justin?»

Tutti e tre notarono che il ragazzo giaceva immobile, come imbambolato, fissando intensamente le vetrate. Scacciando di getto dalla mente lo spiacevole dejà-vou che quello stato di inebetimento gli suscitò immediatamente, Danny gli si affiancò rapido, impugnando la pistola che aveva appena afferrato al volo dal banco dove l’aveva lasciata appoggiata.

«Hai visto qualcosa?» gli chiese subito, appena gli fu a fianco, indagando attentamente la strada con le pupille saettanti.

«Eh?» si stupì Justin.

«Perché stai fissando fuori così? Cosa hai visto?» ripeté Danny. Lui non riusciva ancora a scorgere nulla di strano, rispetto all’immobilità e assenza di vita che c’era anche prima.

«Ah… » si riprese Justin «Stavo pensando… Avete presente quella scena di quel film in cui i tipi sono chiusi nel supermercato, e fuori c’è l’orda di zombie, e stanno tutti spiaccicati contro le vetrate, con le loro facce e mani tutte sanguinolente…?**»

Danny abbassò la pistola, guardandolo con intenzione.

Andrea iniziò a borbottare tra i denti qualcosa di particolarmente poco gentile nei confronti di Justin.

Questi riprese a guardare le vetrate, con aria assente. «Fa proprio impressione, brrr…» rabbrividì.

Danny si stava già reinfilando la pistola alla cintola. «Cerchiamo di dividerci abbastanza equamente il peso delle sporte… E stavo pensando che…»

«Hey!» esclamò Justin.

Di nuovo si fermarono e si voltarono a guardarlo, almeno per quanto riguardò Uther e Danny. Andrea era occupata a ignorarlo ostinatamente, e si stava concentrando sul calcolo del peso che poteva riuscire a trasportare senza rischiare di far cadere nulla.

Justin stava indicando il registratore di cassa. «Devono esserci dei soldi lì dentro, no?»

«Non credo.» si prese la briga di rispondere Danny «In genere a chiusura li portano nell’ufficio, direi…»

«Allora saranno in ufficio i soldi.» disse ancora Justin.

Danny si voltò a guardarlo con irritazione. «Sì, è quello che ho appena detto. Dove vuoi arrivare?»

«A farsi uccidere, probabilmente.» borbottò Andrea.

«Beh… potremmo prenderli, no? Tanto qui cosa ci stanno a fare? Non c’è più nessuno…» propose Justin, come se fosse una cosa ovvia.

Probabilmente avrebbe potuto esserlo. Tuttavia, gli altri tre lo considerarono finalmente con attenzione, esplicitando così che questo pensiero non li aveva ancora sfiorati.

«In effetti… potremmo dare giusto un’occhiata… per curiosità.» disse Uther, esitante.

Danny lo guardò. «Va bene. In ogni caso, non abbiamo fretta.» acconsentì, con una breve alzata di spalle.

I tre uscirono dal corridoio tra le casse, carichi di sporte, e si diressero verso la scatola di muro che racchiudeva gli uffici, giù in angolo. Quando giunsero davanti alla porta chiusa si fermarono, appoggiando per terra la spesa.

Uther si chinò con il viso all’altezza della serratura e la studiò per un po’. Infine, alzando lo sguardo verso gli altri, annunciò «Ci serve una forcina.»

Istintivamente gli sguardi degli altri si concentrarono su Andrea.

«Non ho forcine. Non le uso.» li informò, con l’aria di chi la ritiene una cosa evidente.

Uther si rialzò in piedi. «Potrei fare un salto a cercarle, dovranno pur avercele qui da qualche parte… no?»

Danny sospirò appena, con aria svogliata. «Usiamo il piano B, per stavolta.» disse.

E prima che Andrea o Justin potessero chiedere in che cosa consisteva il piano B, il ragazzo si scostò dalla porta, prese lo slancio brevemente e le scagliò un pesante calcio, facendola cedere di qualche centimetro rispetto alla sua cornice. Un altro paio di calci fu sufficiente a farla aprire.

«Uao! Hai fatto arti marziali?» domandò Justin.

«No.» rispose solo Danny.

Andrea lo fissava attentamente, cercando di non farsi notare, ma tradendo una certa soggezione.

Uther aprì la porta ed entrò per primo nell’ambiente in penombra.

Non occorse loro più di qualche minuto per individuare la solida cassaforte. La ignorarono. Ma Uther, utilizzando un righello metallico e il suo coltellino, riuscì in qualche modo ad aprire uno dei cassetti chiusi a chiave della scrivania. Dentro una cassetta portamonete, che venne ugualmente forzata, trovarono un’accurata pila di banconote, e una serie di monete divise in base al tipo in una serie di cilindri di carta con scritto sopra il valore corrispondente.

«Hey, siamo praticamente ricchi!» esclamò allegramente Justin.

Gli altri fissavano il contenuto con aria indecisa, forse  cercando di prendere ad occhio le misure della somma alla quale si trovavano effettivamente di fronte.

Dopo qualche momento di silenziosa immobilità, Danny rialzò la testa. Uther lo guardò, serio. Danny gli rivolse un sorriso tranquillo; quindi si voltò e uscì. Si soffermò a prendere alcune delle sporte che avevano lasciato fuori dall’ufficio, e si diresse verso la vetrata sfondata da cui erano entrati.

Uther emise un lieve sbuffo divertito, scosse lentamente la testa tra sé e sé; lanciò un’ultima occhiata vaga ai soldi, quindi anch’egli uscì, imitando le mosse di Danny nel prendere le sporte che gli spettavano e dirigersi alla loro via d’uscita.

«Ma che diamine fanno? Devono essere pazzi… vuole dire che li devo trasportare io per tutti?» eruppe Justin, perplesso e contrariato.

Andrea lo guardò, anche se i suoi pensieri parevano concentrati su qualcos’altro. «No, non credo che loro ne vogliano.»

«Eh?! Ma perché, scusa? Voglio dire, sono qui, proprio qui. Non dobbiamo far altro che prenderli. Non c’è nessuno e quindi non credo che serviranno più a qualcuno.»

«Nemmeno a noi servono…» mormorò Andrea, ancora intenta nelle sue riflessioni. «Abbiamo preso da mangiare, e ora andremo a prenderci il resto. I soldi servono per comprare cose, ma noi le stiamo già prendendo, e gratis. Quindi, a che altro possono servire?»

«Oh, ma sei scema? Dai, non fare la stupida. Lo sai anche tu! Qui possiamo prendere tutto gratis, ma altrove le cose funzionano ancora così, che si usano i soldi, mica che prendi e vai come niente fosse! Io non li prendo per qui, li prendo per quando saremo in un posto dove avremo bisogno di comprare.»

Di colpo lo sguardo di Andrea si schiarì, divenendo lucido. Lo fissò sui soldi. «Non si è mai per forza costretti a comprare. Non credo che loro due stiano approfittando solo di questa situazione. Si vede che sono abituati a fare cose simili anche in ‘contesti normalmente funzionanti’… E in ogni caso… » il suo sguardo si incupì «Se qualcuno non riesce a fare qualcosa per riportare quelle persone alla normalità, forse un giorno sarà così dappertutto. E non ci sarà più bisogno di soldi, da nessuna parte.»

«Ohé, stai delirando?» disse Justin, agitandole una mano davanti agli occhi come se dovesse sottrarla ad un ipnotismo.

Andrea scostò la sua mano con un improvviso gesto brusco, scoccandogli un’occhiata furiosa. Mentre il ragazzo la guardava sorpreso, lei ebbe un improvviso moto rapido. Si chinò sul cassetto, afferrò ai bordi la scatola che conteneva i soldi, e la sollevò e scaravoltò con violenza, mandandone il contenuto monetario a ricadere in giro per la stanza. Tra le banconote che svolazzarono con un verde fruscio cartaceo, planando a terra come foglie finte, e le monetine che, rottisi i loro contenitori di carta, tintinnavano e rotolavano in una pesante pioggia irregolare sul pavimento, Justin vide Andrea rivolgergli uno sguardo forte, di cui lui non intese bene il senso.

La ragazza riappoggiò la scatola quasi vuota nel cassetto, proprio com’era prima.

Mentre usciva, chinandosi anch’essa a raccogliere le sue sporte, comunicò a Justin, che ancora spostava lo sguardo perplesso tra lei e il denaro sparso per la stanza, cercando di interpretare: «Ti aspettiamo fuori. Sbrigati.»

 

 

 

 

 

* nome che ho totalmente inventato, anche se ha un significato in inglese.

**scena che devo aver visto in qualche film di cui non so rintracciare precisamente il titolo, comunque dovrebbe essere o uno di quelli di Romero oppure ‘L’alba dei morti viventi’ di Zack Snyder.

*** omaggio alla canzone ‘Lost in the supermarket’ dei Clash, sia nel titolo che nella prima parte, dove Danny appunto canticchia questa canzone. Non penso che la scelta sia casuale, perciò inserisco anche il testo, con sommaria traduzione…

 

 

 

Lost in the supermarket - (Joe Strummer e Mick Jones) - the Clash

 

I’m all lost in a supermarket

I can no longer shop happily

I came in here for that special offer

A guaranteed personality

 

I wasn’t born so much as i fell out

Nobody seemed to notice me

We had a hedge back home in the suburbs

Over which i never could see

 

I heard the people who live on the ceiling

Scream and fight most scarily

Hearing that noise was my first ever feeling

That’s how it’s been all around me

 

I’m all tuned in, I see all the programmes

I save coupons from packets of tea

I’ve got my giant hit discotheque album

I empty a bottle i feel a bit free

 

The kids in the halls and the pipes in the walls

Make me noises for company

Long distance callers make long distance calls

And the silence makes me lonely

 

And it’s no hear

it disappear

 

 

traduzione: Perso nel supermercato

 

Mi sono completamente perso in un supermercato

Non riesco più a fare la spesa felicemente

Sono entrato qui per quell’offerta speciale

Una personalità garantita

 

Più che nato sono capitato

Nessuno sembrava accorgersi di me

Avevamo una siepe dietro casa in periferia

Oltre la quale non riuscivo a vedere

 

Sentivo la gente del piano di sopra

Urlare e picchiarsi nei modi più terribili

Sentendo quel rumore provai la mia prima emozione

Questo è quello che avevo intorno a me

 

Sono sempre sintonizzato, vedo tutti i programmi

Conservo i punti dei pacchetti di tè

Ho comprato il mio grande album di hits da discoteca

Svuoto una bottiglia e mi sento un po’ libero

 

I ragazzi nelle stanze e le tubature nei muri

Fanno rumori che mi tengono compagnia

I visitatori da lontano fanno delle chiamate interurbane

E il silenzio mi lascia solo

 

E non lo sento

scompare

 

 

Note dello scribacchiatore

La scena in cui viene chiesta una forcina per aprire la porta, è auto-ironica… nel senso che difficilmente molte porte al giorno d’oggi possono aprirsi con delle forcine. Vabbhé che Castle MacHearty è un piccolo paesino sperduto… ma siamo sempre in un supermercato. E, seppure magari quando l’hanno costruito non immaginavano che qualcuno credesse che una porta al giorno d’oggi potesse essere aperta con una forcina… ok, basta così (e avanza pure).

Questo capitolo per qualche motivo mi piace particolarmente come m’è venuto fuori (a livello di scene perlomeno, su come sono riuscito a scriverlo sono meno convinto ^^). Quindi non accetto critiche :p  No, scherzo, dite quel che vi pare :)

Al prossimo capitolo!

 

Ritorna all'indice


Capitolo 27
*** 25 - SARA' QUEL CHE SARA' ***


Capitolo 25

(Sarà quel che sarà)

 

Nel pomeriggio, la giornata sembrava ancora decisa a mantenersi su un’ottima avances estiva, piuttosto che assomigliare al tempo più consono all’inverno.

Il sole riempiva l’aria di luce giallo pallido e di un gradevole calore, pur senza mai avvicinarsi ad una vera e propria calura, dal momento che la temperatura si manteneva comunque non oltre i quindici o sedici gradi; riluceva mandando bagliori metallici anche sulle pompe di benzina di un piccolo distributore, sito nella periferia di Castle MacHearty.

Una piccola figura femminile uscì dal negozietto di generi di prima necessità annesso al distributore, lanciando una vaga occhiata alla serratura forzata della porta che stava attraversando. Mentre si fermava, infilandosi nel contempo con aria distratta un piccolo oggetto in tasca, si guardò intorno, cercando qualcosa con lo sguardo.

Dopo un po’, Andrea riuscì a intravedere due figure, due ragazzi, che si aggiravano all’interno di una zona recintata, un piccolo deposito di pezzi di macchina da rottamare. Benché fosse all’ombra della grande e alta tettoia del distributore, la ragazza si portò una mano stesa all’altezza delle sopracciglia, per ripararsi gli occhi dal riflesso metallico dei raggi rimandati dai piccoli cumuli disseminati nel deposito a cielo aperto, e si concentrò brevemente sui tratti caratteristici delle due figure, per appurarne l’identità.

Quando vi riuscì, riabbassò il braccio lungo il fianco, ma non smise di guardarsi attorno, in cerca di qualcun altro.

Infine, mentre con lo sguardo percorreva una zona di prato verde, che si apriva subito accanto al distributore, scorse un elemento variante: un’altra persona, seduta nell’erba, a una cinquantina di metri dal termine del cemento della zona del distributore, aveva tutta l’aria di starsi pacificamente facendo i fatti suoi. Di tanto in tanto alzava un braccio, per portarsi alla bocca il collo di una bottiglia di birra, o una sigaretta accesa.

Andrea decise di avviarsi nella direzione di quest’ultima figura.

Con calmi passi misurati, attraversò prima lo spazio cementato del distributore, passando solitaria in mezzo ai marciapiedi dotati di pompe, tutto completamente deserto. Il prato, invece, con l’erba vecchia che per ora resisteva all’inverno, arrivandole quasi al ginocchio, stancamente lussureggiante, non era affatto desolante nel suo essere spopolato di figure umane, a parte quella verso la quale lei si stava dirigendo. Avvicinandosi ad essa, la ragazza le gettò un lungo sguardo piuttosto assorto.

Danny sedeva sul prato, semi affondato nell’erba, ed aveva un’espressione quasi pigra, anche se, da un certo variare della parte più profonda dei tratti del suo viso, si poteva intuire che stava conducendo tra sé e sé qualche riflessione.

Aveva le spalle rilassate, avvolte, come il resto del busto, da un maglione non molto spesso, color blu cupo, che gli ricadeva indosso un po’ largo, rivelando parzialmente, specie all’altezza della base del collo, il colore nero della maglietta che portava sotto. Si era arrotolato le maniche fin sopra il gomito, lasciando scoperta la pelle un po’ scurita da un leggero principio di abbronzatura, che faceva appena contrasto con la peluria color castano molto chiaro; lo stesso colore che si intravedeva alla base di alcune ciocche dei capelli. Questi, del resto tinti di un biondo intensamente giallo, erano vivacemente spettinati, formando ciuffetti che ricadevano poco al di sopra degli occhi, solleticavano il padiglione delle orecchie, come minacciando di artigliare i piercings ad anello che ne traforavano uno, e spiovevano disordinatamente sulla nuca. La sua muscolatura, non particolarmente rilevata, ma evidente nella corporatura snella, dava l’idea che potesse abitualmente contare su una decisiva agilità nelle mosse.

Seduto a gambe incrociate, con i suoi jeans abbastanza forti da aver resistito alla consunzione del tempo e dell’uso, come dimostrava il colore originariamente scuro un po’ sbiadito qui e là, con accanto la bottiglia di birra appoggiata a terra, e una sigaretta tra le dita, sembrava quasi in contemplazione di qualcosa. Era pur vero che, essendo il prato un po’ in pendenza, in salita, a precedere il terreno delle colline che iniziavano un po’ più oltre,  da quel punto si poteva vedere quasi dall’alto una parte degli edifici di Castle MacHearty.

Andrea si soffermò anche lei a gettare uno sguardo alle strade vuote, avvolte da un grande silenzio, che lì nel prato era invece scalfito da un tenue formicolare della brezza che scendeva dalle colline, che faceva mormorare l’erba in una flebile litania, e smorzava il frinire di qualche raro insetto. Non era stagione favorevole per gli insetti che non erano soliti sopravvivere durante l’inverno; ma il sole sembrava aver attirato fuori quei pochi che erano rimasti dall’estate. La cittadina, invece, sembrava morta. O, perlomeno, completamente abbandonata.

«Sembrerebbe un’impresa mica da poco quella di fare spostare una massa simile di persone, tutte quelle che vivono a Castle MacHearty.» mormorò Danny, come se parlasse più che altro a se stesso.

Questa sensazione fu acuita dal fatto che, quando voltò la testa verso di lui, Andrea notò che il suo sguardo era ancora assorto sul panorama della cittadina. Tuttavia, i suoi occhi erano…

Danny si voltò a guardarla, sottraendola piuttosto bruscamente ai suoi pensieri. Le sorrise, un sorriso pacato ma estremamente sereno.

Nonostante le sue parole, sembrava essere in pace col mondo intero in quel momento, forse per il solo fatto che c’era il sole, e aveva una birra e una sigaretta e un intero prato in cui sbracarsi.

«Hai trovato quello che cercavi?» le domandò.

«Sì.» annuì lei, tirando fuori dalla tasca la scatola di cartone e plastica, vivacemente colorata. Si avvicinò, e si sedette accanto a lui, mentre studiava con occhio critico le istruzioni stampate sulla confezione, aggrottando appena le sopracciglia.

Il ragazzo non aggiunse altro, e tornò a fissare lo sguardo sulla cittadina deserta, con aria tuttavia piacevolmente distratta, ora.

Dopo qualche istante, lei si appoggiò la scatola in grembo e diede un piccolo sospiro.

«Beh, non sarà proprio una cosa da reportage… tutt’altro. Ma per ora può andare più che bene.»

Danny voltò appena la testa e la guardò.

«E’ pur sempre una macchina fotografica usa&getta… difficile pretendere troppo da quei cosi.»

Lei gli lanciò uno sguardo significativo, inclinando appena un sopracciglio. «Con questi cosi ho fatto gran parte della mia “gavetta”, sai?» gli raccontò, piuttosto divertita.

Danny non si fece intimidire dalla consapevolezza della sua gaffe, anzi, sembrò pensar bene di peggiorarla. «Per finire in quell’istituto, tra pregiati artisti come Harry Darry e Lian Dartax… Se fossi in te, avrei un certo rancore ora verso queste macchinette.» disse, sogghignando appena.

«Vuoi dire che hai già un opinione sulla loro arte, senza nemmeno aver mai visto nessuna delle loro opere…?» gli rispose Andrea, alzando entrambe le sopracciglia e chinandosi un po’ all’indietro, per guardarlo meglio, con l’espressione divertita di chi la sa lunga e si ritiene abbastanza sicura di colpire nel segno. «E da che cosa l’hai capito che sono pessimi artisti? Dal loro vestiario, o dalla loro pettinatura…

«No, in base a quelle mi sono fatto ben altre idee riguardo a loro, che esulano dalle loro opere. Quello che “producono” è meglio?» ribatté lui, stando allo scherzo.

La ragazza voltò il viso verso le case viste dall’alto di Castle MacHearty, come per interrompere il confronto, ma poi, mentre il ragazzo continuava a fissarla, rivolse verso di lui solo uno sguardo furtivo, e come facendogli una confidenza, scherzosamente, mormorò «No. Per niente.»

Danny sorrise, e si schiarì la gola, per mascherare una risatina.

Per un po’ scese di nuovo il silenzio. Poi , Andrea riprese la parola .

«Pensi che Justin abbia preso dei soldi dal supermercato, prima?»

Danny la guardò, sorpreso «Non saprei. Perché?»

«Così…» disse Andrea, alzando le spalle, quasi infastidita dal dover fornire una motivazione per quella domanda, o, piuttosto, imbarazzata. «Tu non te lo chiedi?»

«Hum…» rifletté Danny, prendendo un sorso di birra dalla bottiglia. «No.» disse infine «Non è qualcosa che mi incuriosisce.»

Senza accorgersene, Andrea, nell’udire questa risposta sincera e disinteressata, si era soffermata a studiargli l’espressione, alla spontanea ricerca di qualche crepa di auto-contraddizione; così, si accorse con qualche istante di ritardo che il ragazzo le stava sporgendo la bottiglia di birra. Cercò di non affrettarsi troppo nel prenderla, per non dare a vedere della sua distrazione, ma quando ne mandò giù una sorsata troppo grande tutto d’un fiato, per poco non si mandò la bevanda di traverso. Sentendola tossicchiare, Danny tornò a guardarla.

«Ora non vorrai farmi credere che sei astemia…» commentò, ironico.

«Cosa che per te risulterebbe quasi incredibile, non è vero?» scherzò lei a sua volta, dopo essersi ripresa dal momento di defiance della sua epiglottide*.

«Questa suonava come un’uscita tipica di Kumals…» si imbronciò un po’ Danny.

«Te la sei voluta.» osservò tranquillamente Andrea.

«Va bene, mi arrendo… per stavolta.» disse lui, con un mezzo sorriso, mentre prendeva la bottiglia di birra che lei gli ridava.

«Senza rancore.» disse ancora, alzando la bottiglia come a brindare, prima di trangugiarne un generoso sorso.

«Già… senza rancore.» mormorò lei, già assorta in altri pensieri, che portarono il suo sguardo a dare l’impressione che stesse mirando qualcosa di molto più lontano del panorama.

Danny lasciò cadere il silenzio per qualche momento, prima di schiarirsi la gola, e osservare «Così… la tua specialità è la fotografia…»

«’Specialità’…» ripeté lei, come se assaggiasse la parola. «Sì, così si può dire.»

«Beh… sembri cavartela molto bene.»

«Tu dici? In base a cosa…?» chiese lei, di rimando.

«Mah. Direi… Ecco, quella foto è molto… molto ‘non so cosa’.» concluse Danny, rinunciando al proposito di trovare un’espressione più esplicita che fosse sufficientemente adeguata.

«Quale foto?»

«Quella che ritrae quella ragazza…»

Andrea restò in silenzio per qualche momento, nonostante la sua espressione fosse divenuta molto greve. «Sarah.» disse infine.

«Come?»

«Sarah. Si chiama così. Si chiamava, cioè…»

«Hum… forse, non è il caso di chiederti chi era…» osservò Danny, con delicato tatto.

«No… non importa. Posso parlarne. È molto tempo che non lo faccio.» rivelò Andrea, assortamente, senza guardarlo.

«Era la tua ragazza?» chiese allora lui.

«La mia  migliore… una cara amica. Per me.»

«Ah… capisco.» concluse Danny, senza osare dire altro.

Il ragazzo finì la sigaretta un paio di minuti dopo. Spense le ultime braci contro una suola delle scarpe, e ripose il filtro consumato nel pacchetto stesso del tabacco che si portava appresso. Dopo che se lo ebbe rimesso in tasca, si riaccomodò, distendendo le gambe e appoggiandosi con le braccia all’indietro. Tornò il silenzio, rotto solo dai rumori che avevano intorno. Da Castle MacHearty il silenzio pareva estendersi, esalando verso dove si trovavano loro, verso le colline alle loro spalle, in un flusso singolarmente contrario alla brezza che ne scendeva.

«Stasera tornerà il freddo…» notò banalmente Danny. Il tenue respiro di vento faceva danzare lentamente le ciocche dei suoi capelli, più lentamente della lieve agitazione dell’erba tutt’intorno a loro.

«Abbiamo passato tanti anni insieme.» iniziò di punto in bianco Andrea.

Benché stupito dal suo tono calmo e denso di ricordi, Danny si dispose ad ascoltare, appoggiandosi a braccia conserte in avanti, sulle ginocchia un po’ piegate. E non disse nulla, giacché altrimenti avrebbe avuto la netta sensazione di starla interrompendo.

«Lei aveva un anno più di me, ma era stata bocciata in qualche anno di scuola, o qualcosa del genere. Quando doveva dare qualche spiegazione più o meno burocratica, si incasinava spesso, e finiva per riderci su. Amava molto l’auto-ironia, quando la faceva a riguardo di se stessa. Se era qualcun altro a dire qualche cosa di scherzoso sul suo conto, invece, lo guardava attentamente, come sondando le sue intenzioni più vere. Per questo difficilmente qualcuno faceva qualche commento che la riguardava più o meno direttamente. Io facevo eccezione. Potevo dire qualsiasi cosa con lei che la riguardava, e lei ascoltava con molta attenzione, come se le stessi predicendo il futuro. O il passato. Tranne la prima volta. La prima volta che avanzai una critica a riguardo di qualcosa che aveva fatto, mi diede un pugno, dritto sul naso.»

Danny sorrise appena.

«Non so perché, mi venne da ridere.» continuò Andrea, con un piccolo dolce sorriso rivolto ai suoi ricordi «Ma da allora, ogni volta che le dicevo qualcosa che la riguardava, ero sempre seria.»

Andrea sporse una mano, raccolse la bottiglia di birra e diede un sorso, come a rimpastare meglio le parole. Poi riprese a parlare, con la birra in mano, come se l’avesse dimenticata completamente.

«Comunque… non durò tanto, la sua permanenza a scuola. Non molto tempo dopo che ci conoscemmo e diventammo amiche, la sua vita iniziò a incasinarsi di brutto. Lei diceva proprio così, parlava come se la sua vita fosse un serpente bizzoso, che non riusciva ad ammaestrare in nessun modo. La maggior parte del tempo, mi diceva, se ne stava lì calmo, questo serpente, come se non esistesse. Ed era quella la parte più pericolosa: si dimenticava della sua esistenza, e così si stupiva, veniva colta di sorpresa, quando esso si rivoltava e la mordeva, senza nessun preavviso. Più avanti sosteneva che aveva imparato a cogliere qualche segno di preavviso. Dopo tutto c’era qualche campanello d’allarme, disse. Ma all’inizio era totalmente sorda rispetto ad essi. Come che sia… lei procedeva con le mani decisamente pigiate sugli occhi, allora. Prima di tutto, non voleva sapere che direzione stava prendendo, di preciso. Le interessava che il treno corresse, e ben forte, anche se poi fosse andato a schiantarsi contro un muro. In qualche modo sapeva che c’erano, questi muri, ma se li avesse visti prima, le avrebbero rovinato tutto il gusto del viaggio.»

Andrea si interruppe, e il suo sguardo si schiarì, come se tornasse d’improvviso alla coscienza di dove si trovava, e del fatto che stava parlando. Guardò Danny, piuttosto perplessa verso se stessa.

«Continua…» mormorò lui.

Andrea annuì, cogliendo l’invito con gradita spontaneità.

«Aveva un problema con l’alcol, secondo gli altri. Secondo lei, l’alcol era l’ultimo dei suoi problemi, anzi, era la medicina per i suoi problemi. L’alcol si poteva risolvere, certo, ma gli altri sarebbero rimasti. ‘E allora a che pro’?’ diceva. Così, quando iniziò ad allontanarsi dal bere, prese a drogarsi. Poi incontrò Sonny. E si misero insieme. E si drogavano insieme, naturalmente. Allora, le cose andarono avanti per un po’. Dopo iniziò la trafila dei ‘recuperi mancati’, come li definiva lei.

Amava cantare, tantissimo. Quando non riuscì più a farlo come e quando voleva, quando si ritrovò a cantare per sé e per gli altri e le altre dei centri di recupero, iniziò anche a fuggire dai questi centri. Quasi sempre lei e Sonny finivano nello stesso posto, e quasi sempre ne fuggivano insieme. E quando diverse persone iniziarono a dirle che insieme non ce la potevano fare, lei lasciò tutti gli altri. La sua famiglia, comunque, aspettava l’ultimo valido pretesto per scaricarla. Per quanto li detestasse, lei mi diceva che non erano loro che non sopportava, ma qualcosa che li possedeva.

Parecchi erano estremamente convinti che le sue ‘nevrosi’, ‘ossessioni’, ‘allucinazioni’ e via dicendo fossero parte degli effetti collaterali di alcol e/o droga. Ma lei sapeva che c’erano anche prima, se le ricordava bene, molto bene. Anzi, quando beveva o si faceva, si attenuavano, diventavano in qualche modo più affrontabili, anche se allo stesso tempo ne diveniva preda. Ma formavano una realtà con cui le era più naturale avere a che fare. Così mi diceva; sapevo, sentivo che aveva più ragione di qualsiasi altro a proposito di se stessa. Di più: la sua vista diventava tremendamente chiara e spietatamente netta quando focalizzava su di sé.

In breve, lei e Sonny scapparono dall’ennesimo centro di disintossicazione, e da quel momento non la vidi più. Mi scriveva molto spesso, a volte cartoline dei posti dove vagabondava, a volte lunghe lettere. Le ho ancora tutte. Risponderle era un casino. Spesso ciò che le scrivevo arrivava troppo tardi, e loro erano già da qualche altra parte. Mi ero abituata a tenere una copia di tutto quello che le mandavo, in modo da rispedirlo se mi comunicava un nuovo indirizzo e sapevamo che non poteva più ricevere l’originale che le avevo mandato. Comunque, ci tenemmo sempre in contatto.

Un giorno mi tornò indietro una lettera per lei, accompagnata da una di Sonny. Lui diceva che avevano litigato più duramente del solito, poi si erano riappacificati, o almeno così credeva, ma quando era tornato nel posto dove stavano, lei era sparita con tutta la sua roba. La cercai disperatamente, ed ero lì per mollare tutto e partire alla sua ricerca, quando ricevetti sue notizie. La rividi un giorno di maggio. Era parecchio provata, ma non l’avevo mai vista così serena. Disse che aveva mollato Sonny. Le loro direzioni erano troppo diverse, ormai. A lui andava bene continuare così, lei aveva bisogno di cambiare, anche se non sapeva ancora come.

Per qualche tempo provò a riprendere la vita che aveva prima: viveva in una casa sua, aveva riallacciato le vecchie conoscenze, andava a trovare ogni tanto i suoi genitori, in ‘visite di cortesia’ come di diceva lei, lavorava e seguiva delle lezioni serali. Non la vedevo affatto convinta, e lei stessa penso sentisse che si stava solo riposando. Ma da lì non riusciva a cercare un orizzonte, diceva. Agli inizi d’autunno scomparve di nuovo, praticamente senza preavviso. Mi venne a salutare e partì di nuovo. Nonostante si dicesse che era solo un viaggetto per ‘staccare un po’ dalla quotidianità’, era esattamente l’opposto. Quel vagabondare era la sua più vera quotidianità, e lei lo sapeva, anche se non le piaceva dirlo.

Per tutto l’inverno ci tenemmo in contatto, ancora, tramite lettere. I suoi spostamenti erano in effetti meno rapidi, ora; si prendeva più tempo per vivere i luoghi in cui passava. Ma non riusciva mai a fermarsi. Aveva bisogno di prendere il largo di nuovo, dopo massimo qualche decina di giorni. Stare ferma la soffocava, in un certo senso. Però, mi disse, non si sentiva più inseguita. Si era raggiunta. In quel periodo, amava finire le sue lettere spesso con l’espressione ‘Sarà quel che Sarà’, un giochetto col suo nome che le sembrava divertente. Non c’era più alcuna amarezza nel suo scherzare. Pensavo davvero che poteva andare meglio. Lo pensava anche lei, credo.

Una notte, siccome era uscita di casa senza soldi, e aveva scarpinato così tanto, finendo per trovarsi senza sigarette, e volendole assolutamente comprare, tentò di rubarne un pacchetto. Ma vide che il gestore del piccolo drugstore dove si era fermata trattava con durezza un vecchio un po’ sbronzo che gli chiedeva cosa ne pensasse di qualche squadra di calcio. Voleva fare due parole, il tipo, ma il gestore lo trattò male, lo cacciò dal negozio. Lei si arrabbiò. Allora prese ad infilarsi in tasca e nella sacca molte cose, come se volesse portargli via tutto il negozio. Così, quando fece per uscire, il gestore se ne accorse, che stava rubando. Litigò con lui, e alla fine lo spinse via e uscì comunque con tutto ciò che aveva preso, salutandolo a male parole. Quell’uomo si arrabbiò moltissimo. Non si sa cosa gli avesse detto, esattamente. Aveva una pistola sotto al bancone, regolarmente registrata e tutto. Un paio di testimoni dissero che lo videro uscire dal negozio con foga, alzare il braccio con la pistola, verso di lei. Era di spalle, non si accorse di niente. Quali parole valgono due spari alla schiena? Secondo i rapporti, secondo i documenti, era già morta quando arrivarono in ospedale con l’ambulanza.»

Gli occhi di Andrea erano  immoti, fissi sulla cittadina poco in lontananza. Qualsiasi cosa stesse passando tra i suoi pensieri, la tenne gelosamente e strettamente custodita dietro quello sguardo indifferente in superficie. Danny rimase in accorto silenzio.

«Il fatto è che… dicono che era cosciente, mentre aspettavano l’ambulanza. Era sdraiata per terra, sul marciapiede. E intorno cercavano di capire cosa fare, cercavano di parlarle, di tenerla sveglia. Ma dicono che lei sorridesse, anche se aveva una smorfia e lacrimava per il dolore. Dicono che tenne la bocca chiusa, che non disse proprio nulla, non rispose a nessuna domanda, anche se dalla sua espressione era chiaro che capiva e intendeva cosa le dicevano. Non disse niente. E mi chiedo che cosa mai abbia pensato. Se il pensiero di finire così… su un marciapiede… colpita alle spalle, a tradimento… Se fossi stata lì, con me avrebbe detto qualcosa? Aveva qualche cosa che voleva dire per ultima? Io credo che… credo che sapesse che non ce l’avrebbe fatta. Sennò non avrebbe sorriso a quel modo, e non sarebbe stata così zitta… » mormorò Andrea.

Nonostante il tono suonasse spezzato, non c’era traccia di lacrime nei suoi occhi, ancora rivolti lontano.

Danny prese fiato, piano, quasi con cautela. E osò mormorare, molto piano «Credo che lei lo sapesse. Di stare morendo libera. Dagli altri e… cosa più difficile… da se stessa.»

Andrea si voltò, allora. Il suo sguardo tornò presente, distogliendosi dalla contemplazione di cose più lontane, e guardò Danny dritto negli occhi, come assorbendo anche con essi le sue parole.

Infine, con lentezza estrema, ma con movimenti completamente abbandonati, come di chi cade mentre dorme, gli appoggiò la testa sulla spalla, quasi nell’incavo del collo. Le braccia abbandonate lungo i fianchi, e le labbra tirate come a contrastare un’ondata di dolore fisico quasi stordente, si abbandonò con tutto il suo peso contro di lui.

Senza fare una piega, Danny cambiò appena posizione, per sostenere il peso di lei senza cadere all’indietro. Le appoggiò un braccio intorno alle spalle, esercitando una morbida ma decisa presa, e piegò la testa, appoggiando appena il mento sul capo di lei.

Sebbene si accorse che Andrea piangeva, silenziosamente, semplicemente lasciando che le lacrime le scorressero sulla faccia, dal suo fare tranquillo e calmo, seppur partecipe, non si sarebbe detto che si fosse accorto di nulla, tranne forse che della brezza che scorreva intorno a loro, muovendo l’erba come un mormorante mare verde stanco.

 

 

 

 

*condefiance’ (termine francese) s’intende ‘momento di difficoltà, mancanza di riuscire a fare qualcosa, errore… etc.’. Quindi per esteso parlo di ‘fallimento/momento di difficoltà dell’epiglottide’. L’epiglottide è una sorta di “seconda lingua” che l’essere umano ha dentro al collo; quando deglutiamo qualcosa (che sia saliva o cibo o altro), essa ‘tappa’ l’ingresso della laringe (vie respiratorie), in modo da impedire che ciò che si sta ingerendo finisca nei polmoni. Quando qualcosa ‘va di traverso’, si tratta in genere di un malfunzionamento temporaneo dell’epiglottide (che viene azionata da un riflesso a livello del sistema nervoso) che non riesce a tappare bene la laringe, facendo finire un poco di quello che stiamo ingerendo nel “condotto sbagliato”. L’effetto di tosse corrisponde al tentativo – che scatta sempre per riflesso – di ributtare fuori dalla laringe ciò che c’è entrato erroneamente. Tant’è, chi non ha capito nulla, può comunque trovare info in internet, oppure lasciare perdere, tanto non è necessario alla comprensione della storia.

 

 

Note dello scribacchiatore

Non è stato un capitolo semplice da scrivere, per qualche motivo. Forse non sono sicuro del risultato rispetto alle mie aspettative sul clima che volevo rendere tramite le immagini e le parole dei personaggi. Di nuovo, vediamo un certo incentrarsi sul personaggio di Andrea. Forse ciò può apparire strano… ed in effetti anch’io sono ancora un po’ stranito da come questo personaggio finisca per concentrare su di sé tanta attenzione, nonostante sia circondata da protagonisti che avrebbero sì le capacità per occupare molto più ampiamente di lei la scena. Il fatto è che gli altri e le altre, specialmente i/le componenti del gruppo ‘4 di picche’, sono personalità un po’ più sfuggenti, e, a differenza di Andrea, poco disponibili a farsi leggere chiaramente… e lo scribacchiatore qui presente deve adattarsi a questo stato di cose ^^ (almeno per il momento… hu hu… ma la vedremo!)

Mi sembra di aver notato, anzi, che dalla comparsa di Andrea alcuni personaggi, come Danny ed Uther, sembrano approfittarsi della spontanea apertura di questa ragazza per nascondersi dietro di lei in un certo senso… Ma credo che sia anche perché ognuno di loro cova i suoi personali pensieri ed impressioni… Si potrebbero fare parecchie speculazioni in proposito, ma credo che ci vorrà ancora un po’ prima che si mettano ad agire in una maniera che permetta di intuire meglio ciò che stanno attraversando. Inoltre, dopotutto la storia inizia da un punto in cui certi determinanti trascorsi sono già passati oltre… e qui, prima di poterli rivangare passerà un poco… ma qualcosa verrà fuori, chi avrà pazienza vedrà ;)

Qualcosa mi dice che nei prossimi due capitoli ci sarà qualche sviluppo riguardo alla situazione dello zombismo… quindi, se vi va di saperne di più, stay tuned  :)  E se vi dovesse sovvenire anche qualche osservazione fatevi pure avanti, s’intende. Alla prossima!

 

Ritorna all'indice


Capitolo 28
*** 26 - IL COLPEVOLE E' SEMPRE... ***


Capitolo 26

(Il colpevole è sempre…)

 

La stanza per i ricevimenti, ampia e con un’intera parete costituita da pannelli di vetri doppi, doveva avere avuto un aspetto sobriamente regale, prima che una ventina di motociclisti la devastassero spensieratamente da cima a fondo.

Si trovava nel lato nord-ovest della villa del fu signor Benton, quasi a strapiombo sul ciglio del ripido fianco della collina su cui sorgeva. Per questo dalle vetrate, ora ridotte in un caos diffuso di schegge dalla vasta gamma di dimensioni e forme sparse su tutto il pavimento e fuori sul prato, si poteva spaziare la vista sul panorama di colline boscose.

Nella luce soffusa del sole invernale, quattro figure comparvero come dal nulla. Crocchiando sulle schegge di vetro, un paio di piedi avvolti in pesanti scarponi da montagna e undici zampe calzate in appositi scarponcini anti-ferita, evidentemente fatti in casa, entrarono a passo calmo nel salone, passando direttamente attraverso le nude cornici che una volta avevano sostenuto le vetrate.

Tre cani di varia dimensione camminavano intorno alla figura umana, come facendole da scorta. Per primo veniva un piccolo cagnetto dall’aria accorta e vispa, poi la donna, quindi, in scia a lei, uno più sulla sinistra e uno a destra, venivano una grossa alano nera a tre zampe e una cagna dal pelo raso rossiccio tigrato di nero.

Giunta nel centro della stanza, la donna si fermò. Lo stesso fecero i tre cani che la accompagnavano. Mentre Duca si accosciava a sedere per terra, rivolgendo intorno a scatti il musetto da piccola volpe, Mama si sdraiava, la testa alta, maestosa come un leone, e Danza si aggirava impaziente rigorosamente entro un perimetro di circa tre metri quadrati, la donna si abbassò l’ampio cappuccio di spessa stoffa verde cupo che le aveva celato completamente il viso fino a quel momento.

Il viso dall’espressione di sfinge di Zoal rivolse intorno per tutto l’ampio ambiente della sala da ricevimenti un lento sguardo imperscrutabile. Quindi, muovendosi con molta compita calma, avanzò davanti a sé il braccio sinistro con cui impugnava il grosso bastone di legno d’albero che si portava appresso. Le zucchette svuotate che erano legate con cordicella sottile alla sommità del bastone dondolarono e sbatterono leggermente contro il legno, producendo un rumore di sabbia smossa e un tintinnio di piccoli oggetti più consistenti. Zoal impugnò con entrambe le mani il bastone, con salda fermezza, e tenendolo dritto, perfettamente perpendicolare al pavimento, ne appoggiò la punta per terra, con delicatezza.

Nel silenzio, rotto appena dal ticchettare delle zampe di Danza, che continuava a muoversi con una certa vivace impazienza, Zoal allontanò lentamente le mani dal bastone, con aria concentrata, tra le palpebre a mezz’asta lo sguardo lontano e chiuso, eppure denso, come se stesse guardando qualcosa che non apparteneva al mondo in cui si trovava, o come se fosse caduta in una profonda trance. Il bastone, privo di ogni sostegno, rimase fermo, in impossibile equilibrio perfetto sulla punta che, in effetti, era tutto tranne che piatta.

Per  qualche istante, in un’atmosfera irreale, come sospesa nel tempo, il bastone rimase immobile. Zoal, lo sguardo fisso in un altrove di dubbia definizione, era altrettanto immobile. Persino Danza si era infine fermata, fissando attenta il bastone, in attesa.

Le mani di Zoal, dalle lunghe dita che si muovevano appena, in movimenti lenti e arabescati, come se fossero dotate di vita propria, si allontanavano con esasperante lentezza dal bastone lasciato in equilibrio irreale; un movimento che sembrava un rallenty artificialmente prodotto, fuori dal tempo, per l’innaturale velocità a cui avveniva.

Di colpo le mani di Zoal ebbero uno scatto molto rapido: in una fulminea successione di movimenti si chiusero a pugno, compirono qualche mulinello, e schizzarono lontano dal bastone in direzione opposta, con mossa rapida e precisa, come se stesse spezzando un filo invisibile che passava attraverso la verga sospesa. Non appena ebbe compiuto quest’ultima sorta di strappo, il bastone si mosse. Perse l’equilibrio, e sembrò oscillare leggermente nell’aria, come un perno infisso nel pavimento indeciso da che parte cadere. Infine prese una decisione, si mosse inesorabilmente verso terra, e cadde sul pavimento.

Il rumore del legno che cocciava sulle mattonelle causò un netto rumore, che echeggiò lungo il pavimento e nell’aria, dall’epicentro fino in fondo, terminando contro le pareti lontane e di largo perimetro della stanza, e da lì rimbalzando indietro disordinatamente in tutto lo spazio disponibile.

Le quattro figure al centro della sala rimasero perfettamente immobili, Zoal con ancora le mani strette a pugno a mezz’aria, con le braccia aperte e stese. Finché l’eco del rumore, calato gradualmente di intensità, si spense definitivamente.

Allora sul viso di Zoal si verificò un cambiamento. Gli occhi tornarono del tutto presenti e attenti, vivi e brillanti di un’ilare e sibillina intelligenza color verde, con sfumature grigio scuro, somiglianti a quelle di una pietra estratta dal ventre della montagna dal paziente lavoro di agenti atmosferici, che si ritrovi esposta alla luce esterna dopo secoli di immersione nel buio della roccia.

Un lento sorriso si disegnò sulle sue labbra. Sembrava soddisfatta. Quanto un topolino che sta spingendo la trappola a molla verso la coda del gatto che dorme.

Zoal si chinò piano a raccogliere il bastone, quindi, voltatasi verso le cornici vuote delle ex-vetrate, picchiò tre volte sul pavimento la punta della verga, con decisa fermezza.

Pochi istanti dopo, due figure spuntarono da dietro la piega del terreno discendente che iniziava pochi metri dopo le vetrate, alzandosi dalla posizione acquattata che avevano mantenuto fino a quel momento, e avanzarono con calma verso di lei, affiancate.

A larghi passi Kumals e Ramo scavalcarono le cornici vuote ed entrarono anch’essi nel salone deserto e devastato. Lanciavano occhiate in giro, esaminando con attenzione i resti delle tavolate che avevano sorretto i piatti e le ciotole e le bottiglie colme del rinfresco: una notevole gamma di cibi e bevande e decorazioni giacevano sparse in un confuso guazzabuglio d’attorno. Ghirlande che pendevano semi-strappate dal soffito, cocci di ogni materiale, colore e dimensione, tovaglie strappate, tovaglioli gettati in giro con nonchalance, scarpe col tacco da signora abbandonate e via dicendo giacevano tutt’intorno. Uno scenario abbastanza apocalittico, tutto sommato.

Mentre Ramo contemplava il tutto con le sopracciglia aggrottate in una truce espressione di preoccupazione, Kumals mostrava un interesse puramente analitico, o almeno questo era tutto ciò che lasciava trapelare dalla sua espressione compassata, e dal modo con cui camminava, le mani in tasca e l’aria di chi sta facendo una passeggiata incuriosita, turista nel disastro.

Tenendo la sua mazza di legno appoggiata sulla spalla e saldamente impugnata con una mano, Ramo si fermò infine vicino a Zoal, senza smettere di lanciare sguardi piuttosto nervosi tutt’attorno. Quest’ultima sospirò appena, e si piegò un po’ in avanti, appoggiandosi con le mani sul suo bastone e appoggiando su di esse il mento, con aria pensierosa. Fissava con attenzione il viso di Kumals.

«Se non altro, sembra non ci siano state vittime.» notò infine Kumals, mentre traeva fuori da una tasca il tabacco, e prendeva ad arrotolarsi una sigaretta.

«A parte il signor Benton...» osservò con placida calma Zoal, continuando a studiare l’espressione del giovane uomo.

Se le sue intenzioni erano di cercare di provocare una qualche espressione più vivace sul volto di Kumals, trovarono esito in niente più che un’incrinarsi momentaneo di un suo sopracciglio, che tornò poco dopo ad una posa rilassata.

«Pensate che stessero cercando qualcuno o qualcosa?» domandò Ramo, continuando a lanciarsi intorno lunghe occhiate. Per un momento lo distrasse il fatto che Duca e Danza stessero trotterellando tutt’attorno per la sala, annusando i resti di cibo con un certo interesse, ed azzardando qua e là una leccatina d’assaggio. Mama invece, con aria tranquilla ma vigile, era ancora sdraiata a terra, imponente, a testa alta.

«Voglio dire… » proseguì Ramo, cercando di non farsi eccessivamente intimidire dall’accurata occhiata che gli stava lanciando Zoal «Hanno fatto un casino incredibile. Sembra che sia passato un esercito… E, insomma, voi pensate che volessero solo divertirsi?»

«Se proprio un gruppo di centauri di una certa età decidesse la notte di capodanno di prendersi tanto disturbo, sarebbe poco credibile che scegliessero come obbiettivo proprio una villa sperduta in un paesino ancora più sperduto, con una festa di moderate dimensioni, senza peraltro soffermarsi nemmeno più di tanto… O rubare nulla.» Kumals emise un respiro di fumo dalle narici e accennò con un dito verso un oggetto per terra. Sembrava trattarsi di una collana di perle, rotta e perduta durante la fuga precipitosa della proprietaria evidentemente.

Ramo corrugò ulteriormente la fronte; andò a raccogliere la collana e la soppesò nel palmo della mano, mentre alcune perle scivolavano via dal filo, rimbalzavano per terra e rotolavano via sul pavimento liscio; per un po’ Danza trovò divertente rincorrerne una, ma quando provò a masticarla e si rese conto che non era abbordabile come alimento, perse interesse.

 «Sembrano vere… » disse infine Ramo, voltandosi di nuovo verso gli altri due. Non mostrarono particolare sorpresa o altre emozioni più forti di una semplice, vaga aria di constatazione.

«Quindi…» continuò Ramo, un po’ spaesato dalla mancanza di vivo interesse negli altri «Pensate che cercassero qualcosa? E che l’abbiano trovato?»

Finalmente negli occhi di Kumals brillò un piccolo luccichio di curiosità «Bene, è quel che siamo qui a cercare di scoprire, no?». E sorrise appena, come un gatto che sta facendo finta di dormire affinché il topo si avvicini abbastanza da poterlo afferrare.

 

*

***

*

 

Dopo un’accurata ispezione del piano terra dell’edificio, costituito nello specifico dalle cucine, un ampio corridoio di ingresso, una sala da pranzo e un salotto, oltre al salone da ricevimento dal quale erano entrati, Zoal, Ramo e Kumals potevano concludere di aver trovato: assolutamente niente di niente.

Ramo, le cui spalle si abbassavano man mano che passava il tempo, e che impugnava la mazza sempre meno minacciosamente, si trovò a lanciare sguardi piuttosto delusi ai suoi cinque compagni di ispezione. I più vivaci erano certamente Duca e Danza, che raramente avevano interrotto il loro scorazzare curioso nelle varie stanze; Mama approfittava di ogni loro sosta in qualche stanza per accosciarsi, talvolta esibendo le enormi fauci in qualche lascivo sbadiglio.

 L’irritazione crescente di Kumals si esprimeva nel suo fumare una sigaretta dopo l’altra, e in un po’ di nervosismo che permeava ormai i suoi movimenti, oltre che le sopracciglia piegate in una smorfia di scontento auto-sarcastico sempre più eloquente. I ticchettii del bastone di Zoal si perdevano nel silenzio delle stanze, mentre i suoi occhi scrutavano con indomita attenzione precisa, baluginando a volte su qualche punto in particolare, per spegnersi poco dopo nella consueta calma ermetica, quando non trovavano nulla che potesse destare il loro interesse.

Sembrava che la banda di motociclisti avesse dedicato la sua attenzione quasi esclusivamente al salone dei ricevimenti, limitandosi a una rapida e disattenta scorreria nelle altre stanze, neanche avessero percepito come doveroso dare perlomeno una controllata in ogni angolo, senza molta persuasione.

Infine, si trovarono di fronte alle scale che portavano al piano superiore. Duca si era seduto ai piedi degli scalini, e il suo corpicino tremava di nervosismo a stento represso. Danza, le orecchie ritte e un sordo mugolio che faceva di tanto in tanto capolino entro la sua gola, teneva lo sguardo fisso verso il piano superiore. Anche l’attenzione di Mama sembrava essersi risvegliata: l’alano puntava il muso verso l’alto, su per le scale, teneva la coda dritta, parallela al suolo, e un leggero fremito le faceva tremolare le grandi labbra del muso.

Zoal osservò i cani con attenzione, così come stava facendo Kumals, e sul suo sguardo passò una cupa perturbazione. «Sembra che al piano di sopra ci sia qualcosa di interessante…» mormorò, alzando lo sguardo adombrato verso le scale, e impugnando un po’ più saldamente il suo bastone. Anche Ramo tornò a rinforzare allora la presa sulla sua mazza, togliendola dall’appoggio alla spalla e tenendola alta di fronte a sé.

«Allora saliamo.» concluse Kumals, con imperiosa risoluzione.

Precendendo Zoal di pochi scalini, Duca e Danza si misero alla testa del gruppo. Mentre Duca procedeva con più attenta prudenza, Danza sembrava impaziente di avanzare di rapido impulso. Ma pareva che la presenza di Zoal e Mama la dissuadessa dall’azzardare qualsiasi cosa. Guadagnatasi senza mezzi termini la posizione subito dietro Zoal, che saliva tenendo con una mano il bastone e con l’altra alzando un po’ una delle lunghe gonne sovrapposte e un po’ stracciate che indossava, la grande alano s’inerpicava pesantemente su per gli scalini, forzando con impegno le sue tre zampe; con le poderose spalle del cinto anteriore* che pompavano con impeto su per gli scalini, rappresentava una figura da temere, come un cerbero che si reca ad accertarsi di cosa non vada, pronto a scagliarsi con ferocia su qualsiasi cosa riconosca come minaccia nemica.

Dietro di lei avanzavano Kumals e Ramo, affiancati, e con espressioni concentrate di chi è pronto a fronteggiare ogni evenienza.

Furono gli occhi di Zoal, scrutanti nel semibuio della casa, a scorgere per primi la sagoma riversa sull’ultimo gradino, al termine delle scale. Il corpo occupava parte del pianerottolo del primo piano. Fin dalla posa innaturale delle membra, oltre che dall’odore di marcio che emanava generosamente, si riconosceva nella figura un cadavere riverso.

Zoal si fermò, e con un gesto imperioso intimò ai cani di mantenersi a buona distanza dal corpo. Essi le ubbidirono, pur continuando ad annusare a pieni polmoni, con interesse.

Ramo storse il naso, pur guardando con pietà l’uomo morto. Indossava una divisa sommaria ma elegante, un abito scuro su una camicia bianco-rosata. La sfumatura rosea doveva esser data dal sangue della ferita che lo aveva ucciso. Era ben visibile: una contusione sanguinolenta alla base della nuca, rivolta impietosamente verso il soffitto. Il viso, celato dalla posizione a pancia sotto, era attaccato alla moquette del pavimento del primo piano.

Kumals si chinò abbastanza vicino al corpo, tenendosi una manica pigiata contro il naso, osservando da vicino.

«Morto sul colpo.» disse in tono basso «Dev’essere il maggiordomo del signor Benton.»

«Ma…! » eruppe Ramo, in tono iroso pregno di un urticante senso di ingiustizia. Gli morì la voce in gola per un momento, ma riprese praticamente subito. «Che bisogno c’era di ucciderlo?»

«Bisogno?» Kumals si rialzò in piedi, scuotendo appena il capo «Forse si è trovato nel posto sbagliato al momento sbagliato.»

«O avrà tentato di fermarli…?» azzardò Ramo.

Kumals, lo sguardo fisso sul corpo, assunse un’espressione particolarmente corrucciata. «Non ho mai avuto occasione di conoscerlo bene di persona… Ma da quel poco che so, non mi è parso un uomo stupido.»

«Beh, tecnicamente non c’è bisogno di essere stupidi…» tentò Ramo «Magari non sopportava di vedere quello che stavano facendo i motociclisti alla casa…»

Kumals lo guardò, serio. «Questa sarebbe stata una cosa relativamente stupida. Sapeva di non poterli fermare. Anche se forse non si aspettava di essere ucciso. Ma… non mi sembra una cosa sensata. Piuttosto… nota il fatto che sia caduto proprio in cima alle scale. Forse stava cercando di fuggire al piano terra.»

«Lo hanno colpito alle spalle.» disse Zoal, con voce profonda «Loro erano già al piano superiore. E non li stava fronteggiando. Propendo per pensare più verosimile ciò che dice Kumals

Per qualche istante rimasero ancora fermi ad osservare il corpo, in silenzio, come riuniti in un sommario gesto di rispettoso lutto.

Alfine, Zoal si mosse. Si voltò, e prese a percorrere il corridoio del primo piano, diretta all’ultima stanza. Lentamente, anche Kumals e Ramo si allontanarono dal maggiordomo defunto, seguendola.

I cani, che si erano rianimati appena Zoal si era mossa, la stavano già precedendo dentro la camera da letto del signor Benton.

 

 

*vale a dire le spalle delle zampe davanti, praticamente.

 

 

 

 

 

 

Note dello scribacchiatore:

No, non ho dimenticato un pezzo di titolo… l’ho appositamente diviso in due parti, e la seconda sta a titolo del capitolo successivo. A questo proposito, siccome sarò via qualche giorno prossimamente, credo proprio che pubblicherò il capitolo seguente lunedì (dopodomani) , perché preferisco non far passare tanto tempo tra questo cap e il successivo visto che  sono direttamente connessi; se non fosse per rispettare la lunghezza base sarebbero un unico capitolo.

Spero che chi segue gradisca come procede la storia per ora… Alla prossima!

 

 

Ritorna all'indice


Capitolo 29
*** 27 - ...IL MAGGIORDOMO ***


Capitolo 27

(…il maggiordomo)

 

«Niente.»

Si trovavano nella camera da letto del signor Benton. Vi erano tornati dopo aver cessato l’ispezione delle altre stanze del primo e più alto piano della villa. A mani vuote.

Kumals, che aveva parlato, lanciò in giro per la stanza uno sguardo ormai evidentemente irritato. Sembrava scontento e insoddisfatto, e Ramo lo notò.

«Abbiamo guardato dappertutto.» esplicitò «Forse non c’è niente da trovare. Forse hanno trovato loro ciò che cercavano, e se lo sono portato via…»

«Già… forse è così.» rispose Kumals, in tono tutt’altro che pago.

Zoal si aggirava intorno al grande letto a baldacchino che occupava buona parte dell’ambiente. Solide colonne in legno scuro reggevano il cospicuo peso del baldacchino, dal quale pendeva un tendaggio bordò in ordinati e polverosi ripiegamenti di stoffa.

Kumals si lasciò cadere nella poltrona in un angolo della stanza, con aria scontenta. «C’è qualcosa che non mi torna, in tutto questo.»

«E cioè?» domandò Ramo, attento.

Kumals lo guardò, accigliato. «Se lo sapessi, non starei a farci tanti giri di parole, lo direi e basta.» fece presente, in tono praticamente astioso.

«Se avessero trovato ciò che cercavano…» mormorò Zoal distrattamente, mentre continuava a passare le mani sulle colonne del baldacchino, seguendone le forme floreali intagliatevi a bassorilievo con sguardo assorto «…avrebbero interrotto le ricerche.». Tacque, apparentemente persa nel seguire le forme armoniose di una ninfa intagliata con perizia.

«E… quindi?» azzardò Ramo, timidamente.

Zoal interruppe le divagazioni della sua mano, pur lasciandola appoggiata laddove si trovava, e voltò un poco la testa verso di loro, guardandoli. «Avrebbero smesso di buttare tutto all’aria. Non abbiamo invece trovato grandi differenze nel nostro giro. La devastazione è omogeneamente distribuita.»

«In effetti…» riconobbe Ramo. Si voltò a guardare Kumals. «E’ questo che non ti convinceva?»

Kumals, le mani giunte e la schiena curva, gli indici alzati e appoggiati davanti alle labbra, alzò gli occhi verso di lui, a fronte aggrottata. «Forse. Non so.»

Ramo sospirò pesantemente. «Insomma, cos’altro possiamo fare? Abbiamo guardato dappertutto, e in certi punti, tipo nello studio di Benton, almeno un paio di volte. E nonostante questo non… Hey!» si interruppe bruscamente, sorpreso. «Cos’ha Mama

Zoal e Kumals seguirono il suo sguardo. L’alano era in piedi, immobile, irrigidita, e teneva il muso spiaccicato sul pavimento in un preciso punto, con testarda convinzione. Tuttavia, non stava annusando.

Come avendo notato che l’attenzione degli altri si era concentrata su di lei, Duca le trotterellò vicino, e fece per avvicinare il musetto al punto in cui Mama teneva fisse le sue grosse narici. Ma dalla gola della cerbero si udì un cupo brontolio di minaccia. Duca risolse di non immischiarsi, e trotterellò ad annusare altrove.

Zoal, i cui occhi sfavillavano di curiosità, si avvicinò.

«Mama…» la chiamò, con sommessa dolcezza. «Cosa c’è di interessante?» le chiese, con rispettosa serietà, chinandosi accanto a lei.

Mama si mosse, e si sedette dritta dritta sul punto su cui aveva tenuto incollato il naso, trovandosi così con la grossa testa sullo stesso livello del viso di Zoal. La guardò con compitezza orgogliosa, per quanto poteva esprimerla uno sguardo canino.

«Avanti Mama… non posso proprio darci un’occhiata?» la blandì Zoal, con un sorriso incoraggiante e allo stesso tempo divertito «Non ho certo intenzione di soffiarti la scoperta. È chiaro: l’hai trovato tu.»

«Qualsiasi cosa sia.» commentò la voce di Kumals.

«Non puoi farla semplicemente spostare…?» domandò Ramo. Tanto Kumals quanto Zoal gli rivolsero una breve occhiata di scarsa considerazione, e il ragazzo ebbe l’impressione di aver detto una pura sciocchezza.

Per qualche momento Zoal e Mama continuarono a fronteggiarsi con lo sguardo, come se stessero svolgendo un qualche colloquio riservato tra loro. A Ramo non rimase che osservare la scena silenziosamente, come stava facendo Kumals, anche se più pazientemente.

Infine Mama spezzò la sua ferrea immobilità. Prima mosse un po’ le spalle e le zampe anteriori, come combattuta, oscillando il testone con aria quasi infastidita. Infine si alzò in piedi, emettendo un sonoro sbuffo di compassata pazienza, e lasciò libero il tratto di pavimento che aveva protetto con tanta cocciutaggine, andando a sdraiarsi in un altro punto della stanza, senza trascurare l’ostentazione di un altero disinteresse.

Ramo e Kumals si avvicinarono al punto su cui era già chinata Zoal.

Apparentemente non c’era proprio nulla. Quel tratto di pavimento appariva in tutto e per tutto assolutamente identico a qualsiasi altro punto del resto del pavimento in assicelle levigate di legno del resto della stanza. E, nonostante tre paia di occhi lo stessero osservando con viva attenzione interrogatoria, rimase tale.

Zoal passò lentamente una mano sulla superficie liscia, sotto lo sguardo attento di Kumals; Ramo tratteneva il respiro. La donna sorrise appena, chiuse le affusolate dita a pugno, e picchiettò con attenzione sul pavimento. Suonò vuoto. Ramo buttò fuori l’aria tutta in una volta, insieme ad un’esclamazione vivace.

«C’è qualcosa!»

«Già… forse un ammanco da parte dei costruttori.» osservò più scetticamente Kumals.

Zoal gli scoccò un’occhiata vagamente divertita, e si rialzò in piedi. «Oppure…» mormorò «…un nascondiglio segreto.»

Tornò verso il baldacchino, ridedicando tutta la sua attenzione al bassorilievo che rappresentava un’affascinante ninfa dei boschi.

«Se c’è, è davvero ben nascosto.» disse Kumals, passando a sua volta le dita sul pavimento «Nemmeno un’imperfezione.»

«Potremmo sfondarlo direttamente.» propose Ramo, con praticità, facendo oscillare esplicitamente la mazza che impugnava.

«Forse non sarà necessario.» disse Zoal.

Ramo guardò la schiena della donna interrogativamente, ma fu Kumals a chiedere in tono ammiccante «Ah, no?»

Zoal sorrise appena. «Ho detto ‘forse’…» chiarì argutamente.

«Non trovate anche voi che questo punto sia particolarmente levigato…?» domandò allusivamente, sfiorando la spalla sinistra della ninfa intagliata.

Mentre un sorrisetto si dipingeva sul viso di Kumals, e l’espressione di Ramo si schiariva in un lento accenno di comprensione, Zoal si decise, e pigiò con delicata fermezza il braccio della ninfa, che affondò di qualche scarso centimetro nel resto della struttura da cui sporgeva.

Si udì un piccolo scatto morbido ma netto, e contemporaneamente il tratto di pavimento davanti a cui erano chinati Ramo e Kumals ebbe un fremito e si mosse di colpo: alcune delle assicelle di legno schizzarono verso l’alto, rivelando una sorta di cassetto nascosto.

Sempre sorridendo, Kumals afferrò i bordi del pezzo di pavimento che si era alzato, e lo tirò piano verso l’alto, estraendo un ligneo piccolo cassetto.

Zoal tornò di fianco a loro, e tutti e tre guardarono all’interno del nascondiglio. Mama li osservava con aria distrattamente interessata dal suo angolo della stanza.

«E’ vuoto!» disse subito Ramo, con cocente delusione, esplicitando ciò che tutti e tre stavano effettivamente constatando con i loro occhi.

«Un altro buco nell’acqua! O nel legno, direi.» osservò con stizza Kumals, ripigiando il cassetto al suo posto con irritazione.

«Eppure…» mormorò Ramo, affranto. Ma non trovò nulla con cui completare la frase.

«Lo era fin dall’inizio, probabilmente.» osservò pensierosamente Zoal, e concentrò poi il suo sguardo su Kumals «A meno che Benton non avesse qualcosa addosso… Avete controllato?»

Kumals alzò le spalle, mentre si rialzava in piedi «Sì, non c’era nulla di strano. Portafogli, qualche gingillo, niente di che.»

«Ma allora… insomma, stavano cercando qualcosa che non c’era?» insistette pervicacemente Ramo, riferendosi ai centauri devastatori di ville.

«O lo hanno già trovato, anche se per ultimo, dopo aver messo sottosopra il resto della villa. O forse Benton, aspettandosi che qualcuno sarebbe venuto a cercarlo, lo ha tolto da qui e messo da qualche altra parte.» disse Zoal.

«Senza lasciarci nessun indizio… niente…» concluse Ramo, sconfitto.

«Va bene. Possiamo anche andarcene. Ormai è chiaro che abbiamo fatto un giro inutile.» disse Kumals, avviandosi per uscire dalla stanza. Gli altri lo seguirono nel corridoio.

Scavalcarono con attenzione il corpo del maggiordomo riverso in cima agli scalini, e presero a scendere. Ma Kumals si accorse che qualcuno si era fermato, alle sue spalle. Si fermò a sua volta, e si voltò, trovando che Ramo si era bloccato a metà delle scale, guardando dietro di sé.

«Ebbene? Che succede?» lo richiamò Kumals, frustrato.

«Lo… lo lasciamo lì?» domandò Ramo, guardandoli con esitazione, accennando al corpo senza vita.

«Non abbiamo il tempo di metterci a seppellire tutti i morti che troviamo in giro. È più urgente occuparsi dei vivi, ora come ora.» ribatté Kumals, forzando una decisione militaresca che non sentiva affatto come propria, ma che riteneva quantomeno necessaria, al momento.

«Ce ne occuperemo non appena avremmo risolto le cose più urgenti.» mormorò Zoal, più accondiscendente, con rispetto.

«Sì ma…» iniziò Ramo. Però si interruppe, e corrugò la fronte.

«Cosa?» lo incoraggiò Kumals, con rinnovata pazienza.

Ramo non rispose, invece riprese a salire gli scalini, tornando verso il corpo.

Kumals fece per dire qualcosa, ma Zoal alzò un braccio davanti a lui, chiedendogli silenzio. L’uomo la esaudì, rivolgendo uno sguardo più attento alle mosse di Ramo.

Il ragazzo arrivò a pochi passi dal corpo e si fermò. Per qualche momento ristette a guardarlo immobile, poi tornò a parlare, lentamente.

«Non pensate…» iniziò, volgendosi poi a guardarli «…che sia veramente strano…

«Che cosa?» chiese Zoal, con attenta calma.

«Beh… quei tizi devono aver perso un sacco di tempo giù al piano di sotto, con gli invitati della festa e tutto il resto. E devono aver fatto un rumore d’inferno, fin da quando sono entrati sfondando le vetrate… Dai racconti di Kumals, non sembra che si siano precipitati subito al primo piano… Quindi… questo tizio deve averli certamente uditi benissimo. Teoricamente, se iniziava a fuggire appena li ha sentiti arrivare, aveva tutto il tempo di raggiungere perlomeno il pianterreno… E allora… perché lo hanno sorpreso che era ancora in cima alle scale…? Come se…» la voce di Ramo si spense, esitante.

Gli occhi di Zoal brillavano di vivace attenzione. Lentamente la donna risalì anche lei le scale, e come incoraggiato da ciò Ramo tornò accanto al cadavere, presto affiancato da lei.

«Come se si fosse attardato in qualcosa.» completò Zoal.

Kumals emise uno sbuffo cinico «Forse voleva portarsi via qualche cosa per sé, che ne so, qualche prezioso.». Tuttavia, avendo notato il particolare interesse di Zoal, anche lui risalì le scale, avvicinandosi loro, studiando le loro espressioni.

«O meglio…» disse Zoal «…qualcosa di prezioso.»

Kumals li guardò bene in viso, uno dopo l’altro, e si ritrovò contraccambiato dallo sguardo in cerca di complice comprensione di Ramo.

«Volete dire…?» cominciò, ma non completò la frase. Invece, muovendosi piano, come temendo di spezzare un’illusione, si piegò di fianco al corpo riverso, e con il dovuto rispetto infilò le mani tra gli abiti del morto, cercando, frugando, sotto gli sguardi di sospesa aspettativa di Ramo e Zoal.

Infine, estrasse da una tasca interna della giacca della livrea da maggiordomo un involto di fogli.

Li aprì piano, e li guardò con attenzione, leggendo le righe.

Un lieve sorriso si disegnò sulle sue labbra, e Ramo emise una breve esclamazione di vittoria, mentre anche Zoal accennava un pacato sorriso.

 

*

***

*

 

Il sole si avviava al rapido tramonto invernale, rendendo la luce del giorno grigio fumosa, e accompagnando il frettoloso ritiro delle ore tiepide della giornata, quando l’auto di Ramo si fermò nello spazio deserto di un distributore di benzina alla periferia di Castle MacHearty.

Le portiere si aprirono una dopo l’altra, sospinte dai passeggeri che discendevano: Kumals, Ramo e Zoal posarono i piedi sul cemento compatto della stazione di servizio, e si guardarono intorno, mentre i tre cani scorazzavano, annusando incuriositi.

Di lì a poco Danza spiccava la corsa in una direzione precisa. Ramo, che aveva già visto le figure che correvano nella distesa di prato in discesa accanto al distributore, sorrise.

«Passa!» gridò Uther, ed Andrea calciò con forza verso di lui il pallone da calcio nuovo di zecca, appena sottratto dal reparto giocattoli del negozio del distributore di benzina. La palla rimbalzò debolmente sul prato, e rotolò verso il ragazzo, notevolmente intralciata dall’erba alta morente. Prima che Uther potesse intercettarla, però, un latrato lo distrasse, e un momento dopo un cane rossiccio e nero si abbatteva come un fulmine sulla palla, addentandola come se fosse una preda ambita.

Uther si fermò, guardando con cipiglio un po’ contrariato ma tutto sommato rassegnato Danza, che trotterellava via contenta con la palla tra i denti.

Pochi momenti dopo però il cane si ritrovava costretto ad accelerare, per tentare di evitare che un rapido Danny gettatosi al suo inseguimento potesse sottrargli il trofeo. Ma Danza se n’era accorta troppo tardi, e di lì a poco i due si ritrovavano a rotolare avvinghiati nel prato, contendendosi testardamente la palla.

Un acuto fischio risuonò sul campo erboso. «Rigore!» gridò ironicamente Kumals, mentre Ramo si traeva dalle labbra le dita con cui aveva fischiato, e salutava brevemente con la mano il gruppetto disperso nella penombra del sole calante.

«Heylà!» li accolse di rimando Uther, distogliendo lo sguardo dallo spettacolo di giocoso litigio che stavano offrendo Danny e Danza. Duca, che li aveva raggiunti, li osservava con attenzione, aspettando il migliore momento per intromettersi e soffiare loro il pallone con una rapida incursione. Forse era per la filosofia ‘tra i due litiganti il terzo gode’.

«Ma dai, stavamo giocando!» protestò Justin, sudato e spettinato almeno quanto gli altri, guardando con preoccupazione la palla contesa. «Così lo rompete, dai, smettetela.»

Danny lo ignorava beatamente, ridendo e strattonando giocosamente la palla tenuta dalla presa della mascella di Danza.

«Allora vi siete dati al calcio?» domandò Ramo, fermandosi accanto ad Andrea.

«Qualcosa del genere…» sorrise la ragazza.

Ramo notò che aveva qualcosa di strano nell’espressione, una specie di pallida ombra, ma non ebbe l’ardire di interrogarla ulteriormente.

«La spesa?» chiedeva frattanto Kumals ad Uther.

«Eseguito!» rispose Uther, accennando un’ironica parodia di un militare. «E voi?»

«Ah, è una faccenda un po’ complicata…» rispose Ramo, senza troppa convinzione.

«Cioè?» indagò Uther, serio.

«Prima richiamiamo quell’altro là, và, che non ho voglia di ripetere il riassunto dieci volte.» disse Kumals, guardando Danny, ancora soddisfacemente impegnato nella contesa della palla con Danza.

Ramo si ricacciò le dita in bocca ed emise un altro acuto fischio. La colluttazione scherzosa si interruppe, e le due facce di Danza e Danny si fissarono su di loro, immobili, l’una con le orecchie rizzate, e l’altro mostrando una curiosa analogia con la canina attenzione.

Ramo fece segno a Danny di raggiungerli. Videro il ragazzo abbandonare a malincuore la presa sulla palla, alzarsi e incamminarsi per raggiungerli, togliendosi sommariamente qualche filo d’erba dai capelli arruffati.

Dopo aver lanciato sguardi scontenti a Danza che si allontanava trotterellando con la palla ormai semi-sgonfia tra le fauci, agitando la coda con ostentata soddisfazione, anche Justin si risolse a dirigersi verso di loro.

Zoal si accomodò seduta a gambe incrociate sul prato, ordinando le gonne attorno a sé,come una regina dei gitani. Mama terminò la sua passeggiata nei dintorni e si sdraiò poco discosta da lei, appoggiando la grossa testa sulle zampe distese. Duca si sistemò seduto in grembo a Zoal, guardandosi attorno come un signorotto assiso.

«Allora?» chiese Danny con aspettativa, non appena li ebbe raggiunti.

«’Allora’ un accidenti.» lo rimbrottò in amichevole scherzo Kumals. «Mentre voi stavate qui a giocare, abbiamo dovuto rimettere a soqquadro la villa di Benton, prima di trovare qualcosa.»

«Ramo l’ha trovata.» chiarì Zoal, quasi distrattamente, carezzando Duca.

«C’è bisogno di tutta questa suspance?» domandò Uther, con un piccolo sorriso d’incoraggiamento.

Kumals gli scoccò un’occhiata ironica, segno che l’osservazione lo aveva punto sul vivo, distruggendo con abile mossa la sua costruzione un po’ teatrale. Si infilò una mano in una delle ampie tasche dei pantaloni, ed estrasse un plico di fogli ripiegato e piuttosto spiegazzato. Lo dispose, lo aprì, vi passò sopra le mani per distenderlo, con ostentazione di importanza, sotto lo sguardo sempre più criticamente divertito di Ramo, Andrea, Danny ed Uther.

Kumals, in apparenza soddisfatto, si schiarì la voce, e smise di pettinare i fogli.

«Ecco qui. Il maggiordomo del signor Benton è morto nel tentativo di portare in salvo questi preziosi documenti…» iniziò a spiegare. Passò un attento sguardo sui volti impazienti degli astanti, esclusi naturalmente Ramo e Zoal, e si schiarì di nuovo significativamente la voce. «E dopo attento esame posso affermare senza ombra di dubbio…» proseguì «…che noi non sapremo mai cosa vogliono dire.»

Un pesante disappunto serpeggiò tra tutti, mentre Ramo scuoteva la testa e Zoal continuava tranquillamente ad accarezzare Duca.

«Come sarebbe a dire?» domandò un po’ spazientito Danny, allungando una mano per prendere le carte.

Kumals tirò indietro le braccia, sottraendo i fogli dalla sua portata. «Giù le zampe…» disse con tranquilla sicurezza. Poi alzò i fogli in modo che tutti potessero vederli.

Uther, Andrea e Danny si sporsero in avanti, e si ritrovarono a guardare una serie di fitte righe. Era perlopiù una successione di cifre, interrotta qua e là da una serie di lettere a proposito delle quali tutto quello che si sarebbe potuto affermare con sicurezza era che non appartenevano a nessun alfabeto che fosse loro famigliare; il tutto tracciato dall’impeccabile segno netto di una stampante in inchiostro nero sul bianco dei fogli.

«E che cosa mi dovrebbe rappresentare…?» commentò accigliato Uther.

«Per l’appunto, niente che noi possiamo capire….» concluse Kumals, prendendo a ripiegare i fogli.

«Sembrerebbe un codice binario, o qualcosa del genere.» intervenne più appropriatamente Ramo.

«’Binario’… già, e noi dobbiamo andare ad una stazione domani, no?»

Si voltarono a guardare Justin. Lui li osservò a sua volta, e sghignazzò con l’aria di chi la sa lunga.

«E’ un gioco di parole, non l’avete capito? ‘Binario’, ‘binari’…. Chiaro, no?» delucidò, ridacchiando tra sé e sé.

Calò un corposo silenzio.

«E’ inutile che mi guardi a quel modo.» disse Uther, in risposta all’espressione di Kumals «Noi è da stamattina che ce lo portiamo dietro, vorrei ricordarti.»

«Ma insomma!» sbottò Justin, con una nota di acuta irritazione della voce che fece sussultare un po’ gli altri. «La volete smettere? Mi trattate sempre come uno scemo!» protestò.

Uther si voltò completamente verso di lui, entrambe le sopracciglia parecchio inarcate, come sfidandolo con lo sguardo a contraddire questa definizione.

«Siete solo dei… cosi… pieni di sé, ecco!» disse ancora Justin, mettendo su il broncio.

«Senti, Justin…» iniziò Danny bonariamente, trattenendo un sospiro, ma con tono abbastanza comprensivo.

«’Justin’ niente!» ribatté ostinatamente quello. «Mi avete stufato, ecco!»

Le sopracciglia di Kumals ed Uther si piegarono ulteriormente verso l’alto, e i due si scambiarono tra di loro un’occhiata che non aveva bisogno di interpretazioni.

Justin si sedette sul prato con aria seccata, e prese in mano un filo d’erba, iniziandolo ad annodarlo e piegarlo senza preciso scopo, giocherellando e borbottando cose incomprensibili.

Danny continuò a guardarlo per qualche istante, poi si rivolse a Kumals «Ad ogni modo, penso che…»

«Comunque io lo so leggere il codice binario…» si udì borbottare Justin tra sé e sé, in tono scontroso.

Danny si zittì. Lentamente tornarono tutti a concentrare lo sguardo su Justin, che continuava a borbottare tra sé e sé in tono sommesso ed incomprensibile.

Dopo essersi scambiati una lenta occhiata tra loro, fu Kumals a schiarirsi la voce con circospezione. «Come hai detto, Justin…

Il ragazzo interruppe i suoi borbottii e rivolse loro uno sguardo assente. «Eh?»

«Dicevi… a proposito del codice binario…?» riprovò Kumals, con aria tranquilla e disponibile.

«Oh dicevo che… ah!» e Justin comprese improvvisamente. Allora un sorriso felino gli disegnò la bocca, accompagnando un’espressione calcolatrice. «Certo… tra una cosa e l’altra… io me ne intendo dei codici di programmazione.» ammise, con l’evidente proposito di darsi importanza.

«Davvero…?» insisté Kumals, con una certa cauta incredulità.

«Oh, eccome!» confermò Justin, prima di riconcentrarsi sul filo d’erba che stava annodando casualmente, mantenendo tuttavia la sua espressione studiatamente distratta.

Kumals si rivolse a Danny. «Davvero?» chiese più direttamente.

Danny esitò «Bhe, effettivamente… da che so ha lavoricchiato come informatico… e insomma, direi che ne sa abbastanza, sì.»

«Oh, bene. Che fortuna, Justin!» esclamò allora amabilmente Kumals. «Quindi potrai aiutarci a tradurre questi fogli.» disse con forzato entusiasmo, tornando a dispiegare i sopraddetti fogli, agitandoli a mezz’aria con fare invitante.

Justin li degnò a malapena di un’occhiata annoiata. «Sì, forse. Potrei.»

Kumals smise di agitare i fogli, comprendendo il suo fallimento, e guardò gli altri, in cerca di ispirazione o collaborazione. Danny corrucciò la fronte, Uther alzò le spalle con aria irritata, e Ramo scosse la testa a mo’ di caustico commento verso i modi e le intenzioni di Kumals, mentre Zoal continuava ad accarezzare Duca con aria assente, anche se qualche fremito delle sue sopracciglia segnalava che stava seguendo l’avvicendarsi delle battute.

«Oh, secondo me non ne è in grado.» A parlare era stata Andrea.

Kumals e gli altri le rivolsero un’occhiata perplessa, ma l’attenzione di Justin sembrò risvegliarsi di punto in bianco.

«Cosa vuoi dire?» chiese, piccato.

«Bhe… non che io ne sappia molto, ma so che ci sono codici diversi, e molti livelli di programmazione informatica. Quindi, non è detto che tu sia in grado di tradurre proprio questo codice. Sembra parecchio complicato, questo.» osservò la ragazza con nonchalance.

Lo sguardo di Justin si adombrò, e il ragazzo non poté impedire che un’espressione piuttosto offesa facesse capolino sul suo viso. «Sembra un commento pretenzioso questo, visto che tu non ne sai niente di informatica.»

«Già. Ma io ho la modestia di ammetterlo, almeno.»

Justin la fissò per un po’, corrucciato. Poi si alzò in piedi, senza smettere di guardarla con diretto astio. «Bene, lo vedremo!» annunciò, con orgoglio ferito. «Allora?» si rivolse poi a Kumals «Vediamo un po’ se sono capace o no!» e gli prese i fogli di mano con furiosa determinazione.

Mentre gli altri si sforzavano di mantenere impassibili le loro espressioni, Danny, che era alle spalle di Justin ora, lasciò trapelare verso Andrea uno sguardo di ammirata sorpresa, contento e grato. La ragazza, che fino a quel momento era stata impegnata a celare dietro la scettica indifferenza rivolta a Justin un sorrisetto di vittoria, sul momento gli rivolse un occhiolino, ma poi si sentì arrossire, e distolse lo sguardo rapidamente.

 

 

 

Note dello scribacchiatore:

i lettori più accorti avranno ormai capito che non bisognerebbe mai darmi retta al cento per cento ^^ Dunque, ecco l’aggiornamento, quello che doveva uscire lunedì scorso, ma dopotutto tra brighe varie esce oggi, del resto in tempo per il ‘periodo medio di aggiornamento regolare’ che ho dichiarato qualche capitolo fa. E anche il prossimo capitolo non farà eccezione, ci si risente tra sette-nove giorni!

 

Ritorna all'indice


Capitolo 30
*** 28 - INTASCATO ***


Capitolo 28

(INTASCATO)

 

Uther e Zoal camminavano tranquillamente nel sottobosco.

Intorno a loro, avvicinandosi, allontanandosi, e in generale scorazzando liberamente, Mama, Duca e Danza curiosavano e trotterellavano d’attorno, si soffermavano ad annusare, esplorando, piazzavano qui e là qualche pisciatina o qualche escremento, e ripartivano. Tirch si teneva un po’ più d’appresso alle due figure che camminavano più avanti, quella di Ramo e quella di Valentine, senza trascurare le sue incursioni tra i cespugli, con spirito di cocente curiosità velato da una certa prudente esitazione.

Le zucchette appese al bastone di Zoal sbatacchiavano tra di loro e contro il legno della verga, col loro sordo e crepitante rumore di sabbia, bacche secche e rametti.

Fino a quel momento Zoal ed Uther avevano continuato a camminare in silenzio, ascoltando distrattamente l’eco del chiacchiericcio fitto e incomprensibile che svolgevano Valentine e Ramo tra di loro, poco più avanti.

«Mi sembra di essere stata via per anni, invece che solo per alcune settimane.» disse Zoal, a calma e bassa voce, mormorando come rivolta al bosco, piuttosto che ad altri.

Uther annuì, con un lieve sorriso di comprensione.«Ne avrai sentito la mancanza…» commentò.

«Sì, devi aver ragione.» concordò Zoal, senza porvi tutta la sua fiducia.

Tra il frusciare delle fronde scostate dal loro procedere, Uther si schiarì la voce, ma tacque.

Zoal disse «E’ un déjà-vu notevole… Di nuovo tutti insieme… Non siamo mai stati tutti riuniti qui così. Allora, quando eravamo abituati a vivere insieme, vivevamo ancora in città, giù a Razel. Ricordi, non è vero?» domandò, con dolcezza, rivolgendo uno sguardo affettuoso ad Uther.

Egli sorrise, lo sguardo assorto in qualche ricordo, ed annuì.

«Talvolta sembra che non siano passati che pochi giorni… Talvolta sembrano anni, secoli.» parlò ancora Zoal, con voce bassa ed assorta.

«Già… » asserì Uther, poco loquace.

Zoal lo guardò ancora, intenta. «E Julie?» chiese.

Come colto di sorpresa, l’espressione di Uther si riscosse, ed egli esitò, stupendosene peraltro.

«Ci siamo lasciati. Circa sei mesi fa.»

«Oh.» disse solo Zoal, lasciando poi che un rispettoso silenzio tornasse a calare tra loro.

Ma Uther, poco dopo, si sentì di dire di più. «Stavolta definitivamente, direi.»

«Mhm mhm.» annuì semplicemente Zoal.

«Di comune accordo, più o meno.» disse ancora Uther.

«Capisco.»

Il ragazzo lanciò a Zoal una breve occhiata appena divertita, cercando di capire se la donna fosse interessata a saperne di più. Ma la sue espressione rimase ermetica. Allora lui sospirò brevemente, e scosse appena la testa, tra sé e sé. «Te ne sei accorta, non è vero?»

Zoal si fermò, e lo guardò con maggiore intenzione. «Non ci vedo nulla di male, Uther.» gli disse, con calma sicurezza.

«Ah, tu no?» ironizzò lui, con una certa amarezza.

Zoal comprese cosa intendeva. «Non vorrai farmi dire banalità… Non vorrai sentirle, no? Non ci crederesti, tu.»

«No.» concordò Uther «Quelle lasciamole pure a Kumals… » e si impegnò a tirare fuori un sorrisetto, che risultò tuttavia tirato in una sorta di smorfia piuttosto dolente.

Zoal sorrise, benché egli ora guardasse altrove. Alzò un braccio, e gli appoggiò una mano su una spalla, carezzandolo con gentilezza. «Ho capito che hai fatto una scelta precisa. E so bene che per questo non sarà più facile. Ma nessuno di noi ti porta rancore, o si è pentito. Anche se tu avevi le tue motivazioni, ognuno di noi aveva le proprie, ricordalo. Per un caso fortunato, esse andavano nella stessa direzione, in fondo.» C’era un che di dubbioso nel modo in cui aveva pronunciato la parola ‘fortunato’.

Uther scosse un po’ la testa. «Questo discorso non vale per tutti…» osservò.

«Vero. Ma se non ci sono state nette obiezioni, da parte degli altri, c’è un motivo, o più di uno.»

Uther la guardò attentamente, e Zoal gli tenne testa con sguardo deciso, seppure addolcito da una profonda e solidale comprensione.

«Non si può sempre evitare tutte le contraddizioni di una scelta. E so che tu non sei così, non è quello che cerchi di fare, solitamente. Ma proprio per questo… non posso fare a meno di preoccupar…»

«Io sto bene.» chiarì Uther, in tono di profonda affermazione, guardandola dritta negli occhi.

«Tu sei forte.» Zoal gli afferrò la spalla in una presa decisa «Ma non pretendere di essere sempre illeso. O ti trascinerai più a fondo.». Lo guardò con più attenzione, come scrutandogli dentro gli occhi azzurri.

Uther fronteggiò per qualche momento la sua occhiata, senza ostacolarla, e infine alzò brevemente le spalle, e abbassò lo sguardo, con un sorrisetto. «Grazie, Zoal

Lo sguardo penetrante della donna si stemperò di nuovo in un moto di affetto. «E di cosa?» mormorò con tranquillità, lasciandogli andare la spalla.

Ripresero a camminare nel sottobosco, sulla scia dei rumori dei cani e di Valentine e Ramo.

«Solo un’altra cosa…» disse Zoal.

Uther la occhieggiò appena, dandole segno di stare ascoltando attentamente.

«Per quanto possa essere… volutamente fraintendibile… Kumals di solito ha buone intenzioni. E credo le abbia ancora. Più di quel che vorrebbe mai dare a vedere.»

Uther sorrise tra sé e sé. «Lo so…» disse, come se fosse cosa risaputa, che comprendeva benissimo, in fondo.

 

*

***

*

 

Nella cucina della casa di Yuta e Zoal, Danny e Yuta si erano impegnati in una partita a dama.

«Certo che si potrebbe farla con i cicchetti…» mormorò Danny, mangiando una pedina di Yuta.

«Sono ancora le sette, Danny.» osservò Yuta, mangiando una pedina di Danny.

«Hum…» mugugnò il ragazzo, scontento della perdita. Fece una mossa e poi rivolse a Yuta un sorriso curioso «Da quando questo è un problema?»

«Da quando si è deciso che domattina ci si alza presto per andare a Foelm.» rispose Yuta, studiando la sua prossima mossa, il viso appoggiato sulle dita intrecciate, i gomiti appoggiati al tavolo, accanto ad una tazza fumante di tisana; i capelli, sciolti dalla coda di cavallo, le ricadevano morbidamente intorno al viso: tra le ciocche castane facevano capolino le treccine e i rasta colorati.

Andrea, che si era auto-incaricata di collaborare alla cena, entrò nella stanza e si appressò ai fornelli per dare una mescolata nel pentolone. Lanciò poi un’occhiata alla partita, mentre si sedeva al bancone. Quindi guardò Justin. Il ragazzo si era immerso in uno studio attento del codice binario che avevano trovato alla villa di Benton, e questo aveva creato una gradevole assenza dell’eco della sua voce nella casa.

«Come procede?» gli chiese.

Justin alzò la testa. «E’ abbastanza chiaro. Si direbbe un codice per installare un programma. Ma è bello complicato… » sembrò avere un ripensamento «Niente che io non possa tradurre comunque!» precisò, guardandola con sfida.

«Ah, ok.» replicò la ragazza, fingendo una certa indifferenza, e prendendo a sbocconcellare il pezzo di pane con olio piccante che si erano preparati come antipasto.

«Kumals sta ancora studiando i libri del Conte?» domandò Danny, a nessuno in particolare, assorbito dallo svolgimento della partita.

«Sì.» rispose Andrea. «Ma non gli ho chiesto a che punto era…»

«Meglio così.» commentò Yuta.

Andrea la guardò interrogativamente.

«Meglio lasciarlo stare, quando è così impegnato, o si irrita per un nonnulla.» spiegò Yuta tranquillamente, mangiando un’altra pedina di Danny, e sorridendo lievemente nel notare il corrucciarsi del ragazzo.

«Aha!» gridò Justin. Gli altri tre sussultarono, e si voltarono a guardarlo con espressioni dalla varia gamma di disappunto infastidito.

Justin alzò lo sguardo verso di loro, con il fare fiduciosamente ottimistico di chi ha appena avuto un’importante illuminazione rivelatoria. «Ecco perché non capivo questo pezzo! Manca un foglio!»

Gli sguardi degli altri si incupirono e scoraggiarono. Danny in particolare pensava alla reazione di Kumals quando avrebbe appreso questa novità. «Ne sei proprio sicuro?» domandò, in un ultimo debole tentativo di indurre Justin a ricredersi.

Il ragazzo stava sfogliando tutti i fogli, ricontrollando «Sì sì, qui manca un foglio. E per ora. Non ho ancora codificato tutto, può darsi che avanti ne manchino degli altri.»

«E questo quanto è grave? Voglio dire, senza quel foglio quel codice è inutilizzabile?» indagò Yuta.

«Non saprei… » rispose Justin «Sono ancora alla prima lettura, ne serviranno almeno altre due per arrivare a capire bene questo tipo di programmazione. È complicata e arzigogolata, mica roba tipo per la grafica di un sito… Piuttosto tipo programmazione per qualche sistema di macchina industriale, o anche roba missilistica… Hey, mica esagero!» esclamò, accorgendosi degli sguardi un po’ scettici degli altri.

«Insomma, dici che quello sarebbe il codice per far partire un razzo?» chiese Andrea, in tono chiaramente poco persuaso.

«Non ho detto proprio un razzo!» si schernì Justin «Ma qualcosa di complicato lo è. Inoltre, si basa su un codice strano… sembra roba runica, in certi punti… voglio dire, lo schema è quello basilare, anche se molto complicato in specifici particolari, di un programma di installazione; ma prevede anche molti punti in cui si fa uso di altri linguaggi, come per comunicare messaggi particolari a chi utilizza il programma… e questi altri linguaggi non li conosco. Sembra roba da intellettualoidi, o studiosi di roba antica, archeologia insomma… E’ ben strano, sì.»

«Mhmm… forse Zoal potrebbe contattare qualcuna delle nostre conoscenze… se è un linguaggio del tipo runico, forse conosciamo qualcuno che potrebbe interpretarlo…» accennò Yuta.

«Sì? Bhe, tanto meglio, perché io di quella roba non ci capisco nulla.» commentò Justin. «Comunque questa pagina mancante è proprio irritante, sì!»

«Che vuoi farci… magari ne sapremo qualcosa di più domani.» ribatté Yuta, con un’alzata di spalle. Non vedeva alcun motivo di insistere su  un particolare fastidioso, sul quale al momento non potevano farci niente. Perciò, detto ciò, continuò a concentrarsi sulla partita. La sua mossa, con la quale giunse a fare damone, riattirò rapidamente sulla scacchiera anche l’attenzione di Danny. Andrea sospirò appena, silenziosamente, e tornò ad alternare il seguire la partita di dama, al rimescolare il minestrone, al curiosare le pagine di un libro per riconoscere le erbe selvatiche curative, che aveva trovato lì in casa.

Per questo, quando Justin decise di scivolare giù dallo sgabello, tenendo i fogli in mano e mormorando tra sé e sé, nessuno gli rivolse particolare attenzione. Quei giorni di convivenza avevano insegnato a tutti loro che dedicare una qualche attenzione alle azioni di Justin si sarebbe immancabilmente rivelato perlomeno noioso e quasi sempre irritante; quindi, ormai, per pura abitudine lo ignoravano.

Il ragazzo, borbottando tra sé e sé, si aggirò per un po’ a larghi passi per la stanza, col viso concentrato sui fogli; non riusciva proprio a darsi pace per la mancanza di quella pagina. Fino a quel momento aveva svolto un lavoro piuttosto buono, era riuscito a capire la maggior parte del significato del codice di installazione e, di conseguenza, anche qualche cosa di ciò che implicava lo svolgimento del programma di cui il codice parlava. Poi, ecco che scopriva la mancanza di quella pagina. Fastidioso.

All’improvviso nell’irritazione di Justin spuntò una speranzosa idea, nel mentre che il suo sguardo, alzatosi dai fogli, incappava casualmente nel grosso pastrano di Kumals, lasciato abbandonato sopra a una pila di cassette di frutta e verdura, in un angolo della cucina. Forse quella pagina non era proprio mancante… forse, piuttosto, era andata perduta nel trasporto del plico, rimanendo a vagare in una delle tasche del cappotto.

Mentre così pensava, Justin si avvicinò all’indumento.

«Ma forse è rimasta in una di queste tasche!» esclamò a bassa voce, infilando una mano in una delle tascone più grandi del cappotto provato dall’usura.

Gli occhi di Yuta e Danny si allargarono di colpo, nel mentre che i due realizzavano il senso delle parole di Justin, già pochi secondi di ritardo rispetto a quando erano state pronunciate.

«No!» «Fermo!» esclamarono precipitosamente, voltandosi verso di lui, e facendo voltare allarmata anche Andrea. Ma era troppo tardi.

Di fronte ai tre sguardi, Justin sparì, risucchiato all’interno della grossa tasca.

Andrea emise un breve urlo di sorpresa, balzando in piedi, spaventata, mentre Danny, che aveva spiccato un salto dallo sgabello su cui era seduto verso il cappotto, si ritrovò accanto ad esso, nello spazio vuoto lasciato da Justin.

Fu come se l’atmosfera nella stanza si fosse congelata. I tre rimasero immobili, impotenti, guardando con costernazione, paura, sorpresa e amarezza il giaccone, e constatando la scomparsa effettiva di Justin.

«Cosa…?» mormorò Andrea, in tono di lamentoso spavento, senza ricevere risposta, nonostante fosse evidentemente confusa, in piedi accanto al bancone della cucina, irrigidita e incerta sul da farsi, mentre tentava invano di dare un senso compiuto a ciò che era appena accaduto.

Quando pochi momenti dopo Kumals entrò nella cucina, la scena irrigidita era ancora la stessa. Ma l’uomo, impegnato in sue speculazioni, avanzò con un librone antico in mano verso di loro, e iniziò a dire «Penso di aver trovato qualcosa. In questi giorni ho consultato un po’ i libri del Conte, che non sono tutta paccottiglia dalla mentalità ciecamente superstiziosa e fantasiosa dopotutto, anche se non mancano diversi viaggi puramente immaginativi, ma…». E qui Kumals, finalmente, realizzò lo strano clima concentrato nella stanza, e si interruppe, mostrando un’attenzione un po’ irritata, perché realizzava che in effetti tutto quel silenzio colmo di tensione non era rivolto alle sue parole.

«Cosa succede?» chiese infine, nel trovarsi vistosamente ignorato.

Tutto ciò che ebbe per risposta, inizialmente, fu l’alzarsi di un braccio un po’ tremante di Andrea, che puntava un dito verso qualcosa. Ne seguì la direzione, e si trovò a guardare il suo pastrano, appoggiato tranquillamente sulla pila di cassette su cui appunto l’aveva lasciato. Notò che era in effetti quello che stava calamitando anche l’attenzione di Danny e Yuta. Ma tutto questo formava un indizio insufficiente, per lui.

«Allora?» insisté, in tono più deciso, cercando di capire nel frattempo perché Danny si trovasse vicino al suo cappotto, e lo fissasse come se stesse meditando come attaccarlo.

Yuta, finalmente, si volse a guardarlo, con aria sospesa tra un addolorato rammarico e una grottescamente incredula constatazione. «Credo che il tuo cappotto si sia mangiato Justin…»

Kumals la fissò, cercando qualche traccia di scherzo nella sua espressione. Non trovandolo, aggrottò le sopracciglia, appoggiò sul bancone il libro che aveva in mano, ostentando una calma forzata nei suoi gesti, e disse, con composta serietà, velata da una notevole contrarietà «E come sarebbe successo, di preciso?»

Anche Danny si voltò a guardarlo, pallido «E’ stata colpa nostra… Non abbiamo fatto in tempo ad avvertirlo… Chi si sarebbe immaginato che…? Insomma, un momento prima era qui, e poi ha infilato una mano nella tasca e…». La sua voce già tremolante si spense.

«Ma com’è possibile?» gridò, quasi istericamente, Andrea, guardandoli uno per uno, risultandole impossibile assimilare tanta mancanza di vera e propria sorpresa.

Kumals stava considerando con cupo cipiglio il suo stesso pastrano. «E come diavolo gli è venuto in mente di mettersi a frugare nelle mie tasche?» domandò severamente.

«Cercava una pagina.» spiegò Yuta, distogliendo lo sguardo guidato dalla volontà di calmarla dal viso di Andrea. «Sembra manchi una pagina dai fogli che avete trovato alla villa.»

«Pensava che fosse rimasta nel tuo cappotto…» completò amaramente Danny, continuando a guardare l’indumento con sguardo rancoroso.

Kumals si portò le dita alla fronte e sospirò lungamente. «D’accordo… bene… » commentò, con tono evidentemente irritato. «Quello stupido, stupido! Che diavolo, avremmo dovuto legarlo!»

«Non… non è la prima volta che quel coso… » ed Andrea alluse con un cauto accenno della testa al cappotto «…fa così…?» e il suo tono si spense in una nota molto vicina a quella di un gemito.

Kumals passò di fianco a Danny e raccolse il suo pastrano, infilandoselo addosso, sotto gli occhi stupiti e spaventati di Andrea. «No.» le rispose «Non con chi gli infila le mani in tasca, se non sono io. E d’altra parte, non vedo proprio perché una persona con un minimo di cervello dovrebbe farlo, piuttosto che venire a chiedere a me!» aggiunse, stizzito.

«Ma…» tentò ancora Andrea, mentre ancora il sangue stentava a ricolorarle le pallidissime guance «…tu puoi farglielo… hem… risputare? Cioè, dove è finito…? Non può essere dentro la tasca… non ci sta! È troppo grande!»

Kumals la guardò, serio, ma ora animato anche da un certo desiderio di voler essere rassicurante. «Questo non è proprio un cappotto comune. Ha alcune… eccezionali proprietà. Io stesso non le conosco appieno, anche se questo scherzetto gliel’ho già visto fare. In un certo senso… si potrebbe dire che ha vita propria, e una propria volontà. Posso venirci a patti, c’è una specie di tregua tra noi. Ma questo non implica che io gli possa ordinare alcunché. Non posso perciò indurlo a ‘risputare’ – e qui hai scelto una parola appropriata – quel cretino patentato. Però, non credo che gli interessi fare del male a Justin. Semplicemente, ha reagito alla sua azione invasiva e sconsiderata. E probabilmente ora Justin si trova nella tasca, ecco tutto.»

«Ma forse c’è un modo per farglielo… hum… ‘risputare fuori’…» insisté Danny, ancora immusonito e amareggiato.

«Se c’è, non lo conosco.» ribatté Kumals.

«Non… non potresti… chiederglielo?» suggerì con voce stentorea Andrea.

Kumals la guardò, con un lievissimo accenno di triste sorriso. «Purtroppo le cose non sono così semplici. Comunque, gliene parlerò.»

«Vuoi dire che ci parli?!» chiese incredula la ragazza.

«Non proprio…» obbiettò Kumals «Cioè, forse capisce ciò che dico, mi sente quando parlo ecco. Ma non è che mi risponda. A volte, ove gli sembra opportuno, prende seriamente in considerazione la mia opinione, e talvolta, se gli sembra giusta, la mette in pratica in qualche modo. Ma intrusioni come questa lo infastidiscono particolarmente. Ora come ora sarebbe difficile che accettasse di discutere della cosa. Credo che per lui ora Justin meriti di stare confinato nella tasca che ardiva tanto esplorare.»

Andrea li guardò uno ad uno, lentamente, ancora incredula e notevolmente spaventata. Infine si mosse; a grandi passi uscì dalla stanza, quasi rifilando una spallata a Danny, che si spostò appena in tempo, e girando alla larga da Kumals e dal cappotto che indossava. Se fosse stata più padrona di sé, in quel momento, probabilmente avrebbe sbattuto la porta della cucina con rabbia, uscendo.

Danny si chiese se seguirla, mentre Kumals guardava la porta dalla quale era uscita con un sopracciglio alzato. «Non credevo che ci tenesse così tanto a Justin.» commentò.

«Oh, non fare il solito!» si indispettì Yuta, alzandosi a sua volta «A nessuno piace vedere un cappotto che si pappa una persona così, come se niente fosse.».

«Vado a parlarle in maniera più normale. Ma non so se saprò darle una buona motivazione per non andarsene immediatamente da qui.» chiarì Yuta, uscendo dalla stanza.

Danny cancellò da sé con sollievo l’idea di doversi incaricare di seguire lui Andrea per parlarle. In effetti, stavolta non avrebbe saputo esattamente cosa dirle, per quanto ci tenesse a non lasciarla da sola a confrontarsi con ciò che aveva appena visto. Questo suo sussiego, inoltre, lo lasciava perplesso. Non era la prima volta che qualcuno che non era abituato a ciò assisteva a qualche “performance” del genere… e tuttavia lui non si era mai sentito in dovere di occuparsi in qualche modo del fatto che le certezze materiali di quella persona erano state messe brutalmente in crisi. Semmai, in qualche caso era stato divertente. Ad ogni modo, comunque, quella faccenda gli rimordeva particolarmente, specialmente per Justin. Per questo si ritrovò a voltarsi verso Kumals, con nervosismo.

«Ma dovevi proprio lasciarlo in giro il cappotto?»

Kumals lo guardò. «Sarebbe a dire:doveva proprio mettersi a frugare nelle mie tasche?»

«Avanti.» ribadì seccatamente Danny, cercando di indurre nell’altro più onestà di giudizio «Non ti sembrerà paragonabile il fatto che Justin, che sai benissimo essere fatto così al naturale e non per propositi maligni, ti abbia infilato una mano in tasca, tra l’altro per la ragionevole motivazione di cercare la pagina mancante, e il fatto che quel “coso” l’abbia ingoiato!»

Kumals sembrò rifletterci per qualche momento, ma alla fine disse «Non dipende certo dal mio giudizio. È stato lui a decidere. Intendo lui…» e toccò il pastrano che indossava «…non Justin. Anche se, da un certo punto di vista, in effetti è stato Justin a cacciarsi in questa situazione, e quindi ad aver scelto…»

«Kumals, dici stronzate, e lo sai.» disse Danny, guardandolo con decisione e una certa rabbia.

Lo sguardo dell’altro si adombrò per un momento, ma infine, accettando lo stato alterato di Danny,  e comunque comprendendolo, alzò le spalle. «Magari lo risputerà fuori. Di solito non è proprio così severo.»

«Intendi che ha risputato fuori anche gli altri che ha ingoiato prima?» domandò Danny, interessato.

Kumals rimase in silenzio per qualche momento, infine domandò, col chiaro proposito di cambiare discorso «Quindi mancava una pagina da quei fogli?»

Il morale di Danny scese molto al di sotto del livello del terreno.

«Beh, magari possiamo comunque tradurre il resto… mi pare che Zoal accennasse al fatto che forse conosce qualcun altro che potrebbe…»

«Anche le pagine sono finite nella tasca. Justin le aveva in mano.» lo interruppe con voce cupa Danny.

Kumals lo guardò, come per accertarsi che dicesse il vero. «Oh.» commentò, corrucciato.

Danny gli rivolse un’occhiata di fuoco, e infine uscì anch’egli dalla stanza, con passo irato.

Nella sua marcia  frustrata, per poco non sbatté addosso ad Uther, che rientrava in quel momento in casa, ignorò i tentativi di fargli le feste di Tirch e Danza, e l’amichevole scodinzolare di Duca, tagliò sgarbatamente la strada a Mama, non degnò di uno sguardo Zoal, né l’aria interrogativa di Valentine o l’inizio di saluto che gli stava rivolgendo Ramo, e uscì fuori.

Uther, Valentine, Zoal e Ramo rimasero a fissare per un po’ la figura dell’amico, che attraversava il breve spiazzo attorno alla casa e spariva nel bosco, trasudando una profonda rabbia.

«Ma cos’è successo?» domandò Valentine, retoricamente.

Uther entrò in cucina e concentrò il suo sguardo su Kumals, che sedeva al bancone, sfogliando le pagine di un librone consunto di quelli che il Conte si era portato appresso.

Kumals non alzò lo sguardo per un po’, ma quando si decise ad affrontare l’espressione interrogativa e accusatoria di Uther, e quelle in attesa di spiegazione degli altri che lo avevano seguito entrando nella stanza, disse «Credo di aver trovato qualcosa di interessante, su questi libri.»

Il viso di Uther si ombreggiò decisamente.

Si conoscevano troppo bene perché Kumals potesse eludere in quel modo l’ostinata attenzione che l’ex-collega gli stava rivolgendo con cocciutaggine quasi feroce.

Kumals si riscoprì spinto a prepararsi, tra sé e sé, un’improvvisazione di difesa, e questo lo indispettì ulteriormente, ma non lo indusse a parlare subito, per raccontare quanto accaduto.

 

 

Note dello scribacchiatore:

e fuori un altro. Sempre di capitoli intendo, naturalmente :p

Al prossimo!

 

Ritorna all'indice


Capitolo 31
*** 29 - IL SOGNO DEL LEONE MARINO ***


Capitolo 29

(IL SOGNO DEL LEONE MARINO)

 

Erano le prime ore della mattina quando Andrea, terminato da poco di fare colazione, uscì dalla casa dalle pareti lilla dispersa in mezzo alle boscose colline intorno a Castle MacHearty. Abbigliata alla bell’e’meglio con i soliti strati di vestiti prestatigli dalle ragazze della casa, che le andavano un po’ larghi, e la facevano sembrare ancora più piccola, uscì nell’aria pungentemente fredda del mattino, trattenendo appena il fiato nel passare dal tepore della casa alla rigida temperatura invernale.

La prima cosa che vide, dal momento che si aspettava di trovare il piccolo piazzale di terra battuta che circondava la casa ancora deserto, furono le due figure che invece lo occupavano. Una era quella di un cavallo dal manto rosso scuro, quasi marrone. La ragazza si fermò dove si trovava, tentennante.

L’animale se ne stava fermo, lasciando tranquillamente che Yuta gli carezzasse ruvidamente il muso vellutato, parlandogli con familiarità confidenziale. Ma sentendo uscire qualcuno il cavallo aveva alzato testa, orecchie e sguardo verso Andrea, e ve li teneva tutt’ora puntati. Yuta le sorrise gentilmente.

«Buongiorno.» la salutò, e, notando il suo sguardo, aggiunse «Ti presento Artax

«Come il cavallo de ‘La storia infinita’…» disse quasi di getto Andrea, risposta istintiva.

«Sì!» disse Yuta, mostrandosi contenta che l’altra avesse subito riconosciuto l’origine del nome.

Il cavallo, invece, emise un sonoro sbuffo, agitò un po’ la testa nervosamente, sottraendosi ad un tentativo di carezza di Yuta, e si mosse. Senza particolare fretta si girò e si allontanò, sparendo ben presto nel bosco.

Andrea guardò Yuta, piuttosto confusa. «Ma… se ne sta andando…» notò, come se non fosse ovvio. La sua interlocutrice tuttavia sembrò comprendere cosa voleva dire, e annuì con aria tranquillizzante.

«Sì, sono abituati a girovagare per i fatti loro nel bosco. Quando hanno fame o vogliono ripararsi al calduccio vengono qui…» e indicò la tettoia, chiusa su tre lati, e in parte ingombra di balle di fieno, che occupava una parte del piccolo piazzale, poco discosta dalla casa.

«Cioè sono… selvatici?» chiese ancora Andrea, non proprio sicura di aver capito.

«No no, li abbiamo portati noi qui, e ci conoscono. Siamo in buoni rapporti, per così dire. Ma se la passano meglio nel girare qui nei dintorni, curiosare, correre, cose così.»

«Quindi ce ne sono degli altri.»

«Tre in tutto.» le rispose Yuta, con un sorriso contento. Poi si portò le mani sulle braccia e si sfregò un po’ i palmi sulla giacca che indossava. «Brrr!» rabbrividì, battendo un paio di volte gli scarponi da montagna sul terreno. «Oggi fa freddo sul serio… Speriamo che non nevichi.» concluse, lanciando uno sguardo scrutatore al cielo semi-oscurato da una lenta migrazione di nuvole grigie.

La ragazza, già alta per natura e dotata di lunghe gambe flessuose, aveva un abbigliamento più sportivo del solito. Al di sotto della giacca da montagna, un vecchio modello color terra scura che le terminava poco al di sotto delle anche, spuntava un paio di pantaloni di stoffa pesante, e a giudicare dal volume dovevano essere solo il paio di pantaloni più esterni. I capelli castano chiaro, mossi e intricati di treccine e rasta colorati, se li era legati più strettamente del solito nell’alta coda di cavallo. Aveva le guance un po’ arrossate dal freddo, sopra alle quali gli occhi dal taglio allungato, ambiguo per natura, rilucevano vivaci.

Andrea andò verso di lei, e notò allora che, vicino ai piedi di Yuta, erano poggiati due singolari oggetti. Di dimensioni abbastanza cospicue, cioè grandi pressappoco come una coscia del cavallo che aveva appena incrociato, erano ognuno a forma di cerchio un po’ schiacciato da una parte; entrambi celati da un involto di panni di tessuto resistente, legato dall’attorcigliarsi di sottili corde da arrampicata, rivelavano ciascuno una sorta di stringa, che usciva dall’involto e serpeggiava sul terreno. Questa “stringa” sembrava fatta di crine di cavallo, pitturato, decorato con perline, intrecciato a costituire un unico filamento dall’aria resistente.

Yuta aveva intercettato lo sguardo curioso di Andrea, e sorrise appena tra sé e sé. «Questi?» disse, senza aspettare la domanda «Sono i miei “oggetti utili”.»

E sotto lo sguardo di Andrea si chinò su di essi, e prese a privarne uno dall’involto, con calma. «Te li faccio vedere.» offrì.

«Ok…» mormorò Andrea, emettendo una nuvoletta di respiro condensato nell’aria fredda.

Le mani in tasca, stringendosi un po’ nelle spalle, indagò con sguardo vivacemente curioso ogni particolare dell’oggetto che si andava rivelando poco a poco. Quando alfine Yuta tolse del tutto il tessuto “da imballaggio”, e tornò a rialzarsi in piedi, Andrea vide che impugnava una specie di cerchio di materiale duro, forse un qualche tipo di osso, rivestito da uno strato metallico simile all’ottone e di colore rameico, che si interrompeva per un tratto centrale un po’ più sottile, rivestito da una spessa fasciatura fatta con una striscia di quello che sembrava caucciù. Questo per quanto riguardava l’impugnatura, che consisteva in poco meno di metà del cerchio, quella parte più dritta. Il circolo era completato da una lama ricurva, che scintillava vividamente e freddamente nella pur relativamente scarsa luce della mattina invernale. Sembrava il sinistro sorriso di un’affilata falce di luna.

«Che… cos’è?» chiese Andrea, soffermandosi ancora a guardare l’oggetto.

Yuta sorrideva ancora, orgogliosamente quasi. «Un’arma.» esplicitò, soppesandola in mano con fare abituato. Per come la impugnava, stringendo saldamente la mano intorno alla parte avvolta nel caucciù e tenendo la lama rivolta all’esterno, la stringa di crine pendeva a mezz’aria, verso il terreno. Andrea stentava ad immaginare come i vari particolari dell’oggetto potessero collaborare nella realizzazione di un qualche specifico uso, ma l’espressione fiduciosa della ragazza valeva a convincerla che lei sapesse come utilizzare quella singolare arma al meglio.

«Le ho costruite io.» raccontò Yuta, mentre continuava a soppesare lo strano cerchio, come prendendo confidenza con qualcuno che non si rivede da qualche tempo, purtroppo. «Sembra passato tanto tempo… E’ solo che… » continuò, con aria quasi intimidita da un vago senso di colpa «…da quando non esiste più il gruppo dei ‘4 di picche’… Beh, non ho avuto molte occasioni in cui mi sarebbe stato utile usarli. Tutto sommato, però, credo di saperci ancora fare discretamente bene.». Yuta ammiccò, con un fare volutamente quasi caricaturiale, che indusse Andrea al sorriso.

«Va bene, sarà il caso che le metta via… Credo di essermi pavoneggiata abbastanza.» concluse ironica Yuta, chinandosi e tornando ad avvolgere l’oggetto nei pezzi di tessuto dalla cui protezione l’aveva sottratto.

Guardandola, Andrea rifletteva tra sé e sé. Di momento in momento saltava fuori qualche particolare nuovo e sempre più inverosimile, lì in quel gruppo di persone. Eppure, tutti loro si muovevano tra e convivevano con quelle molteplici stravaganze, talvolta sinistre, talvolta inquietanti, talvolta pericolose… - e qui Justin le ritornò significativamente alla memoria – e tal’altra volta semplicemente bizzarramente curiose, come se trovassero il tutto perfettamente comune.

Andrea ancora aspettava il momento in cui semplicemente non ce l’avrebbe fatta più: il momento in cui l’estraniamento, l’accumulo di violenta e a volte allarmata sorpresa, lo spaesamento e l’incredulità le sarebbero alfine piombati addosso tutti insieme, forti dell’abbondante scorta con cui li aveva collezionati su di sé in quelle ultime ore. A tratti si era per così dire quasi sdraiata ad aspettarli, convinta che erano lì per arrivare, o che erano già arrivati e si stavano consultando tra di loro per trovare un comune accordo sul preciso istante in cui aggredirla. E lei era convinta di essere inerme nei loro confronti, su questo non si faceva illusioni.

Eppure eccola ancora lì. Ogni volta che si era arresa, aspettando di crollare sotto quell’attacco fenomenale, ogni volta, dopo un’inutile attesa, si era rialzata, andando incontro al prossimo avvenimento paradossale con una sorta di irreale rassegnazione; e quell’evento era sempre immancabilmente giunto, ancora più o meno fuori dal normale rispetto a quello che lo aveva preceduto.

Eppure, in quel modo fastidiosamente insistente e scorrevole, eccola ancora lì, indenne.

Fino a quel momento aveva pensato di essere sospesa su un filo sottile, andando avanti con la pretesa di potersi mantenere in equilibrio dopotutto, anche se perfettamente consapevole che da un momento all’altro avrebbe messo un piede in fallo. Invece ora iniziava a sospettare, un poco e senza osare confessarlo a se stessa, di essersi ormai abituata a quel camminare sospeso. Da qualche parte, in qualche punto, doveva aver sorpassato il limite delle cose alle quali era disposta a credere come effettivamente esistenti, e non se n’era accorta. “Facile” come varcare le soglie da un mondo all’altro. E dopotutto il suo “mondo” era cambiato parimenti, volgendosi a una quotidianità in cui le persone avevano lasciato deserte le città per vagare in gruppi di umani preda di una sorta di decisa demenza collettiva; tutto con la placida naturalezza con cui un leone marino si volterebbe sull’altro fianco, sdraiato sulla banchina ghiacciata a prendere un po’ di sole, sprofondato in un semi-inconscio sonno soddisfatto.

E ora Andrea non era al punto di desiderare disperatamente di chiudere gli occhi, di rifugiarsi in un angolo aspettando che la tempesta passasse, concentrando tutta la sua energia residua sul basilarmente istintivo desiderio di rimanere incolume, decisa ad abbandonare il suo rifugio nel rifiuto solo quando tutte le cose spaventose fossero ormai passate oltre, lasciando quel che lasciavano dopo il loro passaggio. Era dentro la tempesta, e il desiderio profondamente radicato di ricorrere a quel rifugio era stato spazzato via dalla tempesta stessa, o indebolito; poteva rammentare giusto di averne sentito ancora la tentazione, vacua come il ricordo di un sogno confuso al secco risveglio, tempo prima, non avrebbe saputo dire quanto tempo. E poi più niente; non aveva idea di come l’aveva perso, quel desiderio, anche se si ritrovava a volte a provarne una malinconica mancanza.

«Tutto bene?» le chiese Yuta, sfiorandole una spalla con la mano. Il suo tono non aveva niente di commiserante, anche se Andrea non avrebbe saputo immaginare un tono di tipo diverso abbinato a quella frase, se non l’avesse sentita pronunciare proprio in quell’indefinibile modo.

«Sì.» disse, annuendo «Stavo solo ripensando… cercando di rimettere un po’ in ordine le idee, insomma.» ammise, con un sorriso in cerca di comprensione. La trovò negli occhi franchi di Yuta.

«Sei sicura di voler venire anche tu?» le domandò.

«Sì, davvero… » rispose Andrea, con calma determinazione.

Yuta la guardò in silenzio per qualche istante, e infine annuì, come se stesse rispondendo anche a qualcosa che si era chiesta fra sé e sé. «Bene. Allora, scusami se ti parlo in questo modo… Ma vedi, gli altri li conosco. E questo mi permette di conoscere all’incirca la misura della loro abilità nel cavarsela nelle situazioni. Te non ti conosco abbastanza. Quindi perdonami se dico una sciocchezza. Ad ogni modo, volevo dirti: nel caso ti trovassi in difficoltà, o se anche solo ti senti minacciata, resta abbastanza vicino a qualcuno di noi. Sapremo coprirti le spalle.»

Andrea rimase per un momento in balia dell’occhiata densa di sicura affermazione di Yuta, e dell’eco delle sue parole, pronunciate con eloquente serietà di intenti. Si sentì invasa da un commosso sollievo, e riuscì solo ad annuire, ricambiandole lo sguardo con gratitudine.

La pelle agli angoli degli occhi dalla forma sinuosa di Yuta si arrugò, rivelando l’impronta netta di un sorriso sincero.

Andrea, piuttosto intimidita dall’aperta e generosa lealtà della ragazza, ritrovò la voce e il filo dei pensieri, e si ritrovò a domandare «A questo proposito… Voi… sembrate così… come dire? ‘Abituati’. Non sembrate mai molto sorpresi… Anche se succedono cose molto strane qui. E quindi… insomma, mi chiedevo, cosa sarebbe esattamente questo gruppo… questo ‘quattro di picche’

L’espressione di Yuta tornò seria, ed Andrea vi lesse un accenno di indecisa esitazione. Ma infine la ragazza si decise a parlare. «Sarebbe difficile da dire in due parole… Comunque, proverò a dirti qualcosa.». Ciò detto, Yuta si accomodò meglio, infilandosi le mani in tasca e lasciando vagare lo sguardo in lontananza mentre parlava, come a caccia di ricordi e di parole accortamente misurate.

«Io, Zoal, Kumals, Ramo, Danny ed Uther ci siamo incontrati in modi diversi, in situazioni diverse e in momenti diversi. Ed alla fine solo tutti insieme eravamo i ‘4 di picche’. Il nome l’abbiamo tirato fuori una sera, ridendo e scherzando, perché era un periodo in cui Ramo, Danny, Uther e Kumals si davano da fare con un certo successo; guadagnavamo abbastanza bene, nessuno di noi si era messo eccessivamente nei guai nell’ultimo periodo, ed eravamo ebbri di fiducia nel nostro progetto. Che si trattava, sostanzialmente, di cercare di risolvere varie situazioni diciamo “paranormali”. E intendo ciò che la maggior parte della gente intende per “paranormale”, non quando, credendosi di appartenere a tutto un sistema di realtà perfettamente organizzata, calcolata e dotata di confini che definiscono il concetto di ‘normale’, decide di ergersi a giudice delle varianti che giudica inaccettabili, squalificandole con il semplice rilegarle fuori dai confini in cui pretende di auto-rinchiudersi. No, ecco, io mi riferisco a quei fenomeni che per qualche motivo sembrano ‘inspiegabili’, e in genere ‘inquietanti’ o ‘spaventosi’. Banalizzando, e facendo riferimento al genere horror, potrei dirti ‘fantasmi’ e ‘demoni’ o chennesò… Ma a dir la verità, niente di quello che abbiamo incontrato era mai esattamente ciò che si potrebbe definire in una sola parola, o in una serie di sinonimi. Beh… la varietà di ciò che “esiste” è sempre molto più vasta e varia di quanto potrebbe essere racchiuso in qualsiasi codice interpretativo, o anche in un immenso archivio di testimonianze. In un certo senso, credo che sia per questo che tra di noi ci trovavamo così bene. Nessuno di noi ha mai provato a cercare di dare un senso conciso e preciso, di interpretare nettamente, di codificare, tradurre in maniera finita, di trovare schemi comuni a tutto ciò di cui abbiamo avuto esperienza nella nostra… “attività”. Insomma, tu non mi sembri stupida, e vorrei essere sincera. Anche qualche gioco di campo magnetico potrebbe creare senza troppo disturbo qualche fenomeno sorprendente. Per non parlare di tutto ciò di cui non abbiamo ancora, e forse non avremo mai, una spiegazione razionale. Noi semplicemente intervenivamo per cercare di risolvere situazioni problematiche. E ci facevamo ricompensare per questo. Certamente non siamo mai stati armati di qualche proposito tipo ‘portare soccorso e salvezza’, non in maniera disinteressata. C’era chi era disposto a ricompensarci, e ci chiamava appositamente. E non sai in quante occasioni questo rapporto di scambio, e qualche ostentazione di ‘professionalità’, possa mettere a loro agio chi ha bisogno di aiuto. Comunque… devo dire che, se hai mai sentito qualche accenno a ‘stregoni’ e compagnia bella, puoi immaginare quanta parte del cosiddetto ‘paranormale’ consista in “trucchetti”, che sanno sfruttare risorse illusionistiche, e magari mescolarle con reazioni inspiegabili e non calcolabili fin dall’inizio. Noi stessi ci muovevamo sempre in quest’ottica, e all’occorrenza sapevamo tirar fuori qualche “trucco”. In certi casi, si poteva anche cercare di trovare accordo con qualche “presenza”… e qui la gamma è disparata e immensa. Ho visto individui riuscire in cose che avrei detto impossibili, mescolando suggestione e auto-suggestione, illusionismo o ‘magia’ che dir si voglia… E il nostro proposito di non cercare mai confini che distinguessero e limitassero questi aspetti si è rivelato sempre tutto sommato l’approccio migliore, almeno in base al mio giudizio a posteriori… Direi che eravamo “bravi” insomma, in quel che facevamo.»

Yuta, con il duraturo sorriso mezzo ironico e mezzo affettuoso, riabbassò lo sguardo. «Dico bene?»

Con sorpresa Andrea realizzò che il suo sguardo non si rivolgeva su di lei, ma alle sue spalle. Si voltò, e vide Ramo, in piedi una decina di passi dietro di lei, le mani in tasca, e l’espressione assorta che smascherava immediatamente il suo aver ascoltato con attenzione.

Il ragazzo abbassò lentamente lo sguardo sul terreno, con un sorriso di quasi timida dolcezza, e annuì. «Benissimo.» mormorò.

Andrea notò che Ramo non portava nemmeno una giacca, sopra alla pesante felpa nera, e che gli anfibi che indossava non erano stati allacciati con la consueta stretta accuratezza.

«Tu non vieni…?» gli domandò Andrea, stupita.

Ramo alzò la testa a guardarla. «Ah, no… Io e Valentine restiamo qui.»

«Mi sembra un’ottima idea.» approvò Yuta. «Non che non ti vorrei con noi, Ramo. Ma è bene che Valentine non rimanga da sola, visto che dobbiamo tenere in conto anche un probabile cecchino, oltre alla torma di persone instupidite che vagano. Se non ti dispiace, oggi è il mio turno…» la ragazza gli rivolse una smorfia scherzosa, mentre gli andava incontro e gli metteva un braccio sulle spalle «Fin’ora tutto il divertimento ve lo siete preso solo voi, non è tanto giusto.». Il suo tono era evidentemente sarcastico.

«Direi anche non tanto democratico.» la assecondò Ramo, con anche maggiore ironia.

«Vedo che il tenore della conversazione sta degenerando.» s’intromise Kumals, uscendo dalla casa vestito di tutto punto, compreso il suo solito pesante pastrano: quello che si era “ingoiato” Justin. «Quindi sarà il caso di andare.»

«Tutti pronti?» domandò Yuta, raccogliendo da terra le sue singolari armi, ben impacchettate, e mettendosele a tracolla sulle spalle con tranquilla abitudine.

«Sì, gli altri stanno arrivando.» confermò Kumals, che poi concentrò il suo sguardo su Andrea. «Indi vieni anche tu?»

Andrea lo guardò direttamente. «Sì.» disse, con calma.

Kumals la fissò ancora per qualche pensieroso istante, poi annuì. «Bene. Ramo? Le chiavi dell’auto.»

L’interpellato sfilò una mano dalla tasca, mostrando un paio di chiavi, e le lanciò a Yuta, che le afferrò al volo.

«Prometto solennemente di non mettere in pericolo il tuo automezzo.» scherzò la ragazza.

«Se farete del vostro meglio in questo senso, mi considererò soddisfatto.» le rispose a tono Ramo, strappandole un sorriso.

«D’accordo… Allora, direi che intanto possiamo andare in auto, noialtri.» osservò Kumals. «Ramo.» salutò, con una breve stretta delle dita sull’avambraccio del ragazzo a mo’ di congedo. «Fai il bravo, mi raccomando.» ironizzò.

Ramo lo considerò con un sopracciglio divertito lievemente alzato. «Ahan. E voi vedete di tornare presto… Non sono sicuro di riuscire a mandare avanti questa casa senza il vostro prezioso apporto. Specialmente il tuo, naturalmente.»

Fingendo di non notare l’accento di scherno dell’altro, Kumals annuì con piena comprensione. «Certo, certo. Tranquillo, saremo qui a breve.»

In quella Uther fece capolino sulla soglia della casa, e si soffermò brevemente a guardarli tutti. «Ci siamo?»

«Ancora no. Aspettiamo qualcun altro che chieda se stiamo partendo, siccome non è abbastanza evidente.» ribatté Kumals, in tono sarcastico.

Uther scosse la testa, sbuffando appena, e si incamminò verso il punto in cui avevano lasciato l’automobile, il fucile in spalla. Kumals batté un’ultima volta la mano sulla spalla di Ramo e si accodò ad Uther, così come già stavano facendo Yuta ed Andrea.

Per ultimi li raggiunsero Danny e Zoal, stringendosi a fatica nella macchina già molto affollata, cosa che spinse gli altri a riorganizzarsi, facendo sedere Andrea sulle ginocchia di Yuta. Danny, stretto tra Zoal e lo sportello, riuscì in qualche modo ad estrarsi di tasca un’audiocassetta, e la passò ad Uther, seduto al posto del passeggero davanti; l’altro la infilò nel mangianastri dell’auto senza battere ciglio, mentre Kumals, alla guida, emetteva un breve verso di sarcasmo. Di lì a poco nell’abitacolo esplosero le note di ‘Underground’ dei Broder Daniel, poi seguite da ‘It’s my life’ dei Talk Talk.

L’auto si mosse lentamente, procedendo sulla stradina sterrata nel bosco. Non accelerò mai particolarmente, come se non ci fosse nessuna fretta; in effetti, faceva in modo di permettere a Danza di poterli seguire trotterellando a buon ritmo. Duca, invece, sembrava il più comodo di tutti, seduto con aria viziata in grembo a Zoal.

Andrea, immersa nella naturale vivacità del gruppo, colma di una decisione spontanea e con un che di autoironico, che sentiva permearli, ebbe la fugace visione di quel leone marino di cui si diceva sopra.

Il sole andava calando sulla banchina ghiacciata, e il leone marino si svegliava dal suo dormiveglia popolato di sogni; solo per scivolare, con una sola leggera spinta delle grosse pinne, giù dal regno di ghiaccio galleggiante su cui si era assopito, infilandosi quasi senza scombussolarne la superficie nella densa acqua ghiacciata, come se il tremendo mordente del freddo non potesse niente contro la sua pelle inspessita di grasso.

 

 

 

 

Note dello scribacchiatore:

Gente, novità di pubblicazione: ho deciso di stringere un po’ le pause tra un capitolo e l’altro, perciò da ora in poi li metterò online ogni 5-7 giorni. In parte perché ormai sono a scrivere i capitoli finali (saranno in tutto una settantina al massimo direi), e in parte perché ho bisogno di dedicarmi ad altre storie, tra quelle già presenti su EFP e quelle che sto scrivendo senza ancora metterle on-line… quindi, provo un’acceleratina, sperando di non rendere scomodo lo starmi dietro… se ci sono obiezioni, fatevi avanti :)

Parlando di questo capitolo… forse sembrerà piuttosto “inutile”, ma io ci vedo un suo senso… anche se non saprei spiegarlo ^^;  Può darsi che a me sembri una specie di stacco, e allo stesso tempo di introduzione rispetto alla parte – che comprende i prossimi capitoli – che verterà sul viaggio dei nostri a Foelm.

In questi giorni sto scrivendo alcuni dei capitoli decisivi, che spiegano molte cose, e che preludono ai capitoli finali… Sono quindi all’anticamera del mio “addio” a questa storia, e fa un certo effetto… mi ci sarò affezionato più di quel che credevo all’inizio, forse.

Comunque… qualcosa mi dice che in ogni caso la fine di questa storia non rappresenterà anche la fine delle avventure di questi personaggi… ;)

 

Ritorna all'indice


Capitolo 32
*** 30 - SENZA BIGLIETTO ***


Capitolo 30

(SENZA BIGLIETTO)

 

«D’accordo… provate a rispiegarmi tutto…» propose Danny, con aria ben poco persuasa.

Kumals sbuffò sonoramente. «Se hai migliori alternative illustracele pure…»

Danny gli lanciò un’occhiata corrucciata, però non ribatté nulla. Ma non era solo perché non aveva al momento altre alternative in mente.

Si trovavano nella stazione deserta di Umak, nonché la prima stazione ferroviaria più vicina a Castle MacHearty. Le notizie non erano buone.

Mentre scendevano in auto da casa di Yuta e Zoal, avevano fatto un giro strategico, guidati da Zoal, che li aveva portati a percorrere percorsi delle colline che permettevano di spaziare la vista su parte dei tratti pianeggianti che si stendevano nell’intramezzo dei boscosi rilievi. Molti dei loro timori avevano trovato conferma: utilizzando un binocolo di sufficiente potenza, avevano visto masse di persone “contagiate” vagare in gruppi non organizzati, alla rinfusa, per buona parte dei panorami su cui avevano potuto stendere lo sguardo. Tutte le strade percorribili in auto che potevano congiungerli alla loro destinazione, la città di Foelm, erano ingombre del vagare disordinato di queste persone. E non avevano visto ombra di squadre di intervento, che fossero di polizia o di soccorso sanitario: niente.

Zoal non si era stupita, e Kumals si era messo a rimuginare ancora più impegnativamente tra sé e sé, ma entrambi si erano astenuti dal condividere con gli altri le loro riflessioni. ‘Non ancora’ aveva detto Zoal, in risposta alla cauta richiesta di Andrea in proposito alla possibilità di essere messi a parte della sua prospettiva sull’intera faccenda. Danny, Yuta e Uther, che conoscevano bene l’ostinazione dell’ermetismo in cui erano capaci di chiudersi Zoal e Kumals, specialmente quando non avevano ancora trovato tutti i tasselli mancanti per completare qualche loro idea complessiva su una situazione, non avevano insistito, ed Andrea aveva seguito il loro esempio.

A portare Danny ad avanzare un evidente scetticismo, era stato il fatto che solo ora, dopo che Zoal aveva indicato loro una certa strada senza rivelare la loro meta, i due avevano esplicitato la loro migliore idea: raggiungere Foelm tramite via ferrata, usando qualcuno dei treni abbandonati.

«Non capisco…» intervenne Andrea, con rispettosa esitazione. Era ormai entrata completamente nello stato mentale in cui ogni cosa andava messa in dubbio, non per criticare qualche uscita apparentemente insensata o qualche fatto incredibile, ma per comprenderne meglio la natura. «Come facciamo a… rubare un treno? Qualcuno di voi lo sa guidare?»

Zoal, seduta su una delle panchine allineate contro il muro del basso edificio della stazione, parlò con la sua placida calma accorta. «Uther è proprio andato a vedere se c’è qualcosa che fa al caso nostro.»

Andrea si accorse solo in quel momento che il ragazzo nominato non era più lì con loro. Doveva essersi inoltrato dentro la stazione e sui binari; sembrava avere un’innata dote per sgusciare via inosservato in qualsiasi momento. Zoal, invece, era maestra nel rispondere girando le domande in base a ciò che era disposta a rivelare.

Yuta si mosse un po’, come a disagio, e si sistemò meglio sulla spalla i due grossi cerchi che erano le sue armi. «Speriamo di riuscire a partire presto. Per ora qui non c’è nessuna di quelle persone… Ma niente ci garantisce che non potrebbero arrivare da un momento all’altro… Giusto?» terminò, rivolgendo un’eloquente sguardo a Kumals e alla sorella, cercando di far loro pesare il silenzio sulle loro intuizioni.

Kumals alzò appena un sopracciglio e si accese una sigaretta. «Siamo stati fortunati.»

«C’è qualcosa che non mi torna.» eruppe Danny, accigliato. «Avevamo ipotizzato che qualcuno stesse richiamando tutte le persone “contagiate” verso un punto… Ma ce ne sono moltissimi in giro che vagano senz’ordine. Quindi la nostra ipotesi era sbagliata?»

Kumals gli si rivolse, con un’ironia quasi divertita. «L’unica ipotesi alla quale stento ancora a credere è che si possa esercitare una sorta di ipnosi di massa utilizzando la televisione. E con questo bypassarei il fatto che sì, questo viene in effetti fatto sempre, ma con fini precisi, come farsi eleggere, vendere qualcosa, distrarre da altre tematiche, instupidire e basta… Ma non credo che persone ridotte in questo stato possano essere utili a qualsivoglia cosa, tranne quella di distribuire generosamente scompiglio gratuito. L’ipotesi che qualcuno stia cercando di richiamarli, di concentrarli in un solo punto, non la vedo così messa in dubbio. Si potrebbe supporre che lo strumento col quale vengono richiamati sia a raggio ristretto, ad esempio, e che abbia agito quindi solo sugli abitanti di Castle MacHearty… fino ad ora almeno.»

Danny sembrò imbronciarsi un poco. «Perché ti vanno bene tutte le ipotesi tranne le mie? Hai dei pregiudizi nei miei confronti.»

«Può darsi.» replicò pacificamente Kumals.

«Hey…»

Tutti si voltarono al debole richiamo mormorato da Uther, comparso sulla soglia dell’edificio della stazione. Gli dedicarono tutta la loro attenzione, e il ragazzo, dopo una pausa, prese a riassumere l’esito della sua perlustrazione. «Ci sono diversi treni. La maggior parte sono troppo moderni e automatizzati, ma ce n’è uno che penso possiamo riuscire a far funzionare, un modello vecchiotto… Dovremo sganciare alcuni binari. È troppo lungo, non ci serve tutto quello spazio, e ci rallenterebbe.»

«Benissimo.» annuì Kumals. «Andiamo.»

Zoal si alzò, prese le chiavi dell’auto che le porgeva Yuta ed andò ad aprire le portiere. Duca e Danza scesero con aria vivace e iniziarono a scorazzare intorno, incuriositi. Ma con pochi cenni di Zoal, il loro comportamento si adattò abbastanza prontamente alla gravità della situazione. Si fecero rapidi, silenziosi ed efficienti; dedicando solo qualche annusata in giro e qualche breve azzardo di allontanamento dal resto del gruppo, accompagnarono tutti nel loro cammino attraverso il piccolo edificio della stazione, e poi tra i binari incassati nel ghiaione di pietre.

Guidati da Uther, solcarono gli spazi della stazione, che così deserti sembravano più vasti e desolati del consueto. Passavano da un binario all’altro senza preoccuparsi di controllare che arrivassero dei treni; era chiaro che il servizio della stazione abbandonata era sospeso. Un debole vento freddo faceva frusciare foglie morte, cartacce e altra spazzatura sule mattonelle dei pavimenti deserti, sotto le pensiline e tra i binari. Tutti gli oggetti regnavano incontrastati nell’ambiente non frequentato da umani né da alcuna loro azione.

C’erano tre o quattro treni fermi ad altrettanti binari, ma Uther si diresse risolutamente verso quello più piccolo e d’aspetto più malmesso. Danny considerò con ampie occhiate interessate il corpo del serpentone metallico, con le ruote intravedibili sotto i parallelepipedi dei vagoni passeggeri, i finestrini vuoti e perlopiù chiusi; l’interno era invisibile: la scarsa luce della giornata nuvolosa lo lasciava nell’ombra del tetto dei vagoni. La locomotiva aveva un’aria superata, vecchia e un po’ malconcia, ma con quel qualcosa di solido che spesso hanno gli oggetti antichi che resistono con tranquilla abilità misteriosa al passare del tempo, continuando a svolgere la loro funzione con imperturbabile pazienza.

Senza soffermarsi nemmeno un momento, Uther si arrampicò agilmente sui gradini della locomotiva e al suo interno, attraverso il portellone metallico aperto. La vernice un po’ scrostata, color grigio cupo e dagli scintillii metallici, distribuita solo in alcuni punti della locomotiva, dava al tutto un’aria ancora più consumata.

Kumals valutò per un momento con occhio critico la decina di vagoni attaccati alla locomotiva; gettò la sigaretta in terra, la schiacciò con uno degli scarponi che calzava, e guardò Danny ed Andrea, mentre si rimboccava le maniche del cappottone e della maglia fin poco sotto i gomiti delle lunghe, solide braccia, rivelando una peluria scura. «Stacchiamo i vagoni che non ci servono.»

Mentre Zoal raccoglieva le sue gonne e si arrampicava sulla locomotiva, che già risuonava degli armeggi di Uther, presto seguita da Danza, che salì a bordo con un balzo impegnato, Yuta si chinò a prendere Duca in braccio. Allungò il cagnetto alle braccia sporte della sorella, che lo prese all’interno della locomotiva.

Yuta, Andrea e Danny seguirono quindi Kumals, percorrendo i vagoni dall’esterno. Le porte erano tutte aperte, ma loro le ignorarono. Kumals studiava uno per uno con occhio attento gli agganci che collegavano i vagoni gli uni agli altri. Dopo aver superato tre vagoni si fermò davanti al collegamento tra il terzo e il quarto vagone.

«Ci servono degli strumenti… Non credo che potremmo riuscirci a mani nude.» osservò Yuta.

Kumals si voltò a guardarla con un mezzo sorriso. «A mani nude no… Ma forse abbiamo già qualcosa che potrebbe aiutare.» e stava guardando significativamente i due cerchi dotati di lama che pendevano dalla spalla della ragazza.

Yuta gli rivolse uno sguardo piuttosto scettico. «Non possono tagliare il metallo. Non così spesso. Non senza rovinarsi.» puntualizzò.

«Non useremo solo quelle…» chiarì Kumals. «Danny? Puoi andare a chiedere ad Uther se c’è una cassetta degli attrezzi là sulla locomotiva? Altrimenti ci toccherà andare a cercare il deposito degli attrezzi nella stazione… Solo, cerchiamo di non perdere troppo tempo.»

 

*

***

*

 

Era passata un’oretta da quando lo sparuto gruppetto era arrivato davanti alla stazione ferroviaria di Umak; ora un treno, composto da una vecchia locomotiva che si trascinava dietro tre vagoni, scivolando con pesante sferragliare sui binari, abbandonava la stazione lungo la linea ferroviaria che collegava la cittadina a quella più grande di Foelm e, più avanti, al centro abitato ancora più cospicuo di Traum.

Nello spazio piuttosto angusto della locomotiva, Uther e Kumals lavoravano senza sosta per mantenere in moto il tutto senza provocare danni. Dalla soglia del passaggio che collegava la locomotiva al primo vagone, Zoal osservava i loro sforzi, esibendosi di tanto in tanto la sua voce pacata in qualche osservazione o consiglio che riteneva potessero risultare utili. Ogni tanto si voltava, increspando appena la sua tranquilla posa appoggiata allo stipite con le braccia incrociate sul petto, per rivolgere sguardi vagamente ammonitori a Duca o Danza, i quali percorrevano avanti e indietro i corridoi di tutti e tre i vagoni, annusando ovunque, famelicamente curiosi.

In un silenzio assorto, Yuta, Danny ed Andrea sedevano nello spazio di quattro sedili disposti di fronte a due a due, nella prima metà del primo vagone.

Yuta passò i primi dieci minuti del lento viaggio esaminando minuziosamente le lame delle sue armi, controllando le loro condizioni, anche se tutti avevano visto coi loro occhi o saputo indirettamente che avevano tagliato senza problemi alcuni grossi cavi che costituivano parte del collegamento tra il terzo ed il quarto vagone.

Danny alternava una pigra e compatta contemplazione del paesaggio attraverso il finestrino ad un più attento seguire le frasi di argomento tecnico che si scambiavano Uther, Kumals e Zoal. Quando il treno si fermava, Danny si alzava in piedi, ed insieme a Kumals scendeva sui binari, per aiutare col sistema manuale di cambio, che consentiva loro di aggiustare di volta in volta la traiettoria del percorso del treno in direzione di Foelm.

In condizioni normali il viaggio tra Umak e Foelm non avrebbe richiesto più di venticinque minuti circa; ma, rallentati da queste fermate e in generale dalla cauta velocità di marcia su cui mantenevano il convoglio, il percorso si preannunciava più lungo. Si doveva anche mettere in conto che, talvolta, il passaggio per punti in cui molti binari si incrociavano confusamente richiedeva più di un’operazione di cambio manuale, o in alternativa una perlustrazione appiedata di avanscoperta che stabilisse i punti più giusti in cui fare cambiare binario al treno per consentirgli di procedere nella corretta direzione.

Fortunatamente, Zoal sembrava avere un ottimo occhio nell’orientarsi, e talvolta si serviva di una piccola bussola che portava appesa in qualche punto imprecisato sotto ai diversi strati di abiti che indossava.

Andrea si limitava a cercare di capire dove poteva dare una mano, ma fino a quel momento l’incarico più cospicuo che le era stato affidato consisteva nel tenere a bada Duca e Danza, trattenendoli a bordo del treno ogni qual volta Zoal si avventurava sui binari insieme a Kumals e Danny, e talvolta Yuta, per stabilire quale cambio aggiustare, e come. Compito che condivideva con i cani stessi, in un certo senso, visto che Zoal raccomandava ai due di restare con lei. Di fatto, insomma, la ragazza e i due cani si facevano la guardia a vicenda, in piedi sul bordo della portiera aperta del primo vagone, seguendo con lo sguardo gli spostamenti degli altri lungo i binari. Talvolta Kumals rimaneva a bordo, e si univa a loro, approfittandone per fumarsi una sigaretta. E tutti insieme si occupavano anche di fare da sentinella, avvalendosi della posizione sopraelevata a bordo del vagone per controllare a vista che nessuna figura di umano instupidito e ciondolante si avvicinasse all’improvviso sui binari, minacciando in tal modo il gruppetto andato ad accordare i cambi. Fino a quel momento, comunque, non avevano mai dovuto avvertire gli altri di qualche imminente pericolo. Ma ogni nuova fermata, a causa di questo rischio che rimaneva sospeso nell’aria senza mai concretizzarsi e perciò assumendo di volta in volta sembianze anche più indefinitamente minacciose, rappresentava un momento di tensione.

Andrea si sentiva già abbastanza stanca, e non vedeva l’ora che quella giornata finisse, di potersi di nuovo rannicchiare al caldo sul materasso appoggiato sul pavimento della stanza di Yuta, e di potersi addormentare tra i respiri di Yuta e Valentine che dormivano. Allo stesso tempo, provava un vivo senso di irrealtà per quella casa tra i boschi sulle colline, come se le bastasse esservi lontana per dubitare nella sua concretezza. Così, nelle pause tra una fermata e l’altra, mentre osservava il paesaggio deserto dal finestrino del corto treno in movimento, i suoi pensieri ritmati dal rumore un po’ stridente e freddamente metallico delle ruote sui binari prendevano un corso di ormai irrimandabile realizzazione della sua precaria situazione.

Questa precarietà era di volta in volta rinvigorita dal semplice condividere quei lenti minuti con la presenza degli altri. Tutti loro, dall’imperturbabile Zoal fino al nervosismo ferramente tenuto a bada di Danny, emanavano una capacità di auto-controllo stupefacente ai suoi occhi. Sembrava davvero, nonostante li avesse sentiti ironizzarci sopra la sera prima, che godessero di una certa abitudine un po’ annoiata nei confronti delle situazioni sui generis: questo pareva essere ciò che permetteva loro di mantenere, anche nei casi più minacciosi, almeno un debole strato di distacco di protezione rispetto alla bruta immediatezza delle circostanze. Come lei camminavano sul filo; ma diversamente da lei lo facevano forse da molto più tempo, e così quella era per loro niente più che una passeggiata un po’ più impegnativa di quelle condotte su terreno saldamente compatto.

A volte, però, osava spiare di sottecchi l’espressione di Danny, la quale, mentre il ragazzo guardava fuori dal finestrino con l’aria di essere assorbito in un qualche tipo di rimuginare che lo distraeva da sé medesimo, si scioglieva lentamente in modi più diretti e molto spontanei. Allora le sembrava di leggervi che, aldilà dell’abitudine, negli occhi del ragazzo albergava una certa indifferenza amara, che faceva appena capolino, stonando rozzamente con l’animata vitalità che era il fulcro naturale di quello sguardo. A quel punto, sembrandole di stare spiando troppo direttamente qualcosa di riservato e intimo, Andrea imponeva una brusca interruzione al suo scrutare di nascosto quei lineamenti dalla sincerità candida eppure sinistra, e rivolgeva subitaneamente gli occhi a qualsiasi altra cosa le capitasse a portata, pur se un leggero sentore di senso di colpa continuava ad accompagnarla per qualche istante ancora, incollandosi furtivamente all’angolo dei suoi pensieri. Eppure i suoi occhi…

Stavano ormai procedendo a quel modo da forse una ventina di minuti, rassegnati alla lentezza del loro viaggio, quando qualcosa sembrò risvegliare l’attenzione di Danny. Inizialmente il ragazzo rimase immobile, pur se il suo sguardo, da assorto sul paesaggio che scorreva fuori dal finestrino, si era fatto di colpo presente e attento, e concentrato su qualcosa che non era ciò che gli correva davanti agli occhi. Qualche istante dopo, stava voltando la testa, volgendola molto lentamente indietro, lungo il corridoio che si stendeva in mezzo alle file di sedili vuoti.

Yuta stava discorrendo a parole mormorate con Zoal, Duca rilassato tra le sue braccia, e gli altri erano perlopiù concentrati sulla strumentazione di guida del treno; ma Andrea notò quasi subito il movimento di Danny, e si concentrò su di lui, semplicemente guardandolo attentamente. Era sul punto di chiedere qualcosa, ma fu il ragazzo a parlare, senza staccare lo sguardo dalla porta che collegava il binario in cui si trovavano a quello successivo.

«Dov’è Danza?» chiese semplicemente. Ad Andrea parve che il suo tono avesse una serietà e una scorrevolezza particolarmente curate, ma non era certa di potervi leggere molto di più. Tuttavia, sentì il nervosismo tenderle i nervi, e si irrigidì nella sua posizione seduta.

«Non so, sarà negli altri vagoni.» rispose piuttosto distrattamente Yuta, ma nel voltarsi verso di lui parve coglierne l’atteggiamento, perché quasi subito aggiunse «Perché?» con urgenza malcelata. Anche gli smeraldini occhi di Zoal ora scrutavano attentamente il ragazzo.

Danny si alzò in piedi, e avanzò con un solo passo posizionandosi nel centro del corridoio, completamente rivolto verso la porta che già da qualche minuto stava osservando con insistenza, come mirando a qualcosa.

«Cosa c’è?» chiese ancora Yuta, stavolta con più vivido nervosismo, portando piano una mano ai due cerchi con lama che teneva a tracolla sulla spalla.

«Non ne sono sicuro…» mormorò in tono basso il ragazzo, come se non fosse disposto a prestarle molta attenzione.

«Di cosa non sei sicuro?» insistette Yuta, stringendo le dita attorno ad uno dei suoi cerchi.

«Danza?» chiamò con una certa autorità Zoal, in tono piuttosto alto.

«Che succede?» domandò Kumals dalla cabina di comando.

Ma Danny si stava già avviando ad ampi passi verso il secondo vagone, e ad Andrea sembrò opportuno alzarsi in piedi anche lei, mentre Yuta si avviava dietro Danny, chiedendogli ancora, stavolta quasi sussurrando «Cosa hai sentito?» con una nota quasi acuta di nervosismo crescente.

«Allora?» Andrea sentì insistere la voce di Kumals, ora fattosi sulla soglia della cabina della locomotiva, con sguardo aggrottato dalla preoccupazione, e piuttosto irritato dal fatto che nessuno rispondeva alla sua domanda.

«Forse Danny ha sentito qualcosa…» gli rispose Andrea, insicura, dal momento che anche Zoal si stava accodando a Yuta e Danny, seguendoli verso il secondo vagone.

Kumals fece per dire qualcosa, ma in quella si sentì il rumore di qualcuno che correva, provenendo dal secondo vagone. Danny aveva quasi raggiunto la soglia di collegamento tra i due vagoni, e ormai il suo passo era guidato da una fretta decisa, quando Danza irruppe nello scompartimento in cui si trovavano, galoppando a ritmo sostenuto, un leggero uggiolio intrappolato a stento in gola. Precipitò su Danny, alzandosi sulle zampe posteriori per poggiargli le anteriori sull’addome, come se fosse estremamente contenta di vederlo. Ma il ragazzo si limitò ad osservarla per un momento, concedendole una distratta carezza con la mano sul capo, prima di scostarla per passare oltre. Andrea fece in tempo a vedere che si stava sfilando dalla parte posteriore della cinta dei pantaloni una delle sue pistole, prima che scomparisse all’interno del secondo vagone.

Allora, mentre Danza precipitava tra le gambe di Zoal e, poi, ritornava alle calcagna di Danny, il suo uggiolio allarmato sostituito da un cupo brontolio che culminava a tratti in un vero e proprio ringhiare, Andrea si mosse per seguirli, con risolutezza, come dimentica di trovarsi sguarnita di armi e qualsiasi altro oggetto da offesa o difesa. Si accodò rapidamente alle gonne di Zoal, la quale impugnava saldamente il suo grosso ligneo bastone, mentre Kumals obbiettava un abbastanza incerto «Aspettate… hey

Gli occhi di Danny, fermamente puntati sempre avanti, scoprirono il secondo vagone vuoto, ma lui procedette verso il successivo e ultimo, senza rallentare. La pistola in pugno, e i muscoli caricati in procinto di spiccare quasi la corsa, mantenne tuttavia un deciso ampio passo, attraversando il vagone, quasi di fretta.

«Danny.» lo richiamò con autorevolezza Zoal, mentre Yuta afferrava saldamente per il collare l’inquieta Danza «Cosa hai sentito?». Yuta lasciò cadere di peso Duca su un sedile vuoto mentre passava, e Zoal, che la seguiva, indirizzò al cane un rapido gesto, che l’animale parve intendere, ed eseguì, tornando senza convinzione indietro, verso il primo vagone. Andrea era abbastanza sicura di sentire qualche metro dietro di sé i passi di Kumals che arrivava, ma tutto si stava svolgendo troppo rapidamente perché potesse stare dietro ad ogni particolare. Per questo, mentre Danny ancora non rispondeva, capì che stava accadendo qualcosa non tanto perché li vide subito, essendole la vista notevolmente ostruita dalle spalle, schiene e teste dei tre che la precedevano, ma lo intuì dal mutare del ritmo dei passi del ragazzo.

Danny rallentò, e si fermò, mentre un rumore chiarissimo indicava che qualcuno procedeva in senso contrario al loro dal vagone di fondo, affondato nella penombra combinata dalla mancanza di illuminazione all’interno dei vagoni e dalla giornata nuvolosa; il rumore veniva loro incontro abbastanza rapidamente.

I tre davanti a lei si arrestarono quasi di colpo, ed Andrea intravide due sagome umane dall’altra parte del secondo vagone, che ne solcavano la soglia, diretti verso di loro. Poi tutti si voltarono, ed Andrea per metà ebbe la prontezza di indovinare il cambio di programma, per metà fu sospinta da Zoal, e si ritrovò a tornare indietro abbastanza precipitosamente lungo il corridoio.

All’inizio del secondo vagone incrociarono Kumals che li stava raggiungendo, e che si fermò e prese ad arretrare, rivolgendo rapidamente a Zoal la domanda «Quanti sono?»

«Due, per ora.» rispose rapidamente la donna, continuando a sospingere con ferma gentilezza Andrea, quasi fino a sbattere addosso a Kumals.

Di lì a poco Andrea si ritrovò compressata nell’angusto spazio tra i corridoi tra tutti quanti, tranne Duca, ritornato nel primo vagone, ed Uther, rimasto nella cabina di manovra.

Fu la voce di Danny ad imporsi con rapida urgenza. «Dite ad Uther di non fermarsi. Li buttiamo giù dal treno in corsa. Fatti dare il suo fucile, Kumals, mi serve. Due vadano dentro questo bagno, qui davanti resto io. Vanno piano, sembrano provati. Li blocco, dal bagno aprite la porta: li spingiamo giù dalla portiera aperta.»

«Veloci, arrivano!» avvertì Yuta, in un mormorio concitato. Ma tutti si stavano già muovendo con estremo e rapido ordine di mosse. Kumals corse verso la cabina di guida, chiamando Uther senza alzare troppo la voce; Zoal afferrò saldamente Danza e la trascinò fuori dai piedi, dentro il primo vagone; Yuta afferrò Andrea e la tirò dentro il piccolo bagno sito all’immediato inizio del secondo vagone, richiudendo la porta, lasciando appena una sottile fessura, attraverso la quale videro Danny porsi dritto in mezzo al corridoio, il volto mutato in un’espressione che stupì Andrea enormemente.

I suoi occhi, di solito relativamente calmi pur se attenti e vitali, erano ora adombrati da uno sguardo che faceva rabbrividire, in cui scintillava con un che di preoccupante una sottile scintilla di ferocia battagliera. La stessa che gli tirava i lineamenti del volto in una smorfia di divertimento malsano e minaccioso; le labbra leggermente arricciate in corrispondenza dei canini mettevano allo scoperto un leggero intramezzo del bianco-giallino dei denti. Eppure i suoi occhi…

Fu in un solo breve istante che Andrea riuscì ad incamerare quell’impressione complessiva, e già poco dopo tutta la sua attenzione fu presa dal timore con cui udì i passi dei due in avvicinamento che si appropinquavano alla porta dietro la quale lei e Yuta aspettavano immobili. Sentì le labbra della ragazza solleticarle una tempia, mentre le sussurrava molto piano: «Appena te lo dico, spingi con tutta la tua forza.»

Allora smise di chiedersi qualsiasi cosa, la sua testa si annebbiò, e una specie di concentrazione puramente istintiva la portò a imitare la posizione di Yuta, che, le braccia stese e i palmi aperti appiccicati alla porta, teneva una gamba piegata in avanti per stare in equilibrio e l’altra stesa all’indietro, il tallone sollevato e la punta del piede saldamente puntato a terra, pronta a gettarsi con tutta forza contro la porta.

Non ci fu il tempo di pensare ad altro, né quasi quello per vedere due corpi precipitare contro a Danny – solo allora Andrea si rese conto che il fucile di Uther, lanciato attraverso lo spazio del primo vagone da un tiro di Zoal o di Kumals, era appena atterrato nelle mani del ragazzo, e con quello stretto in orizzontale davanti a sé, Danny ostacolò con tutta la forza che riuscì a sviscerare dalle sue membra l’assalto delle due persone “contagiate” che gli arrivavano addosso.

«Ora!» gridò contemporaneamente Yuta, e le due ragazze si buttarono con tutto il loro peso contro la porta, di getto improvviso. All’inizio la porta cozzò semplicemente contro le masse dei due corpi dall’altra parte, ma grazie anche all’intervento di Danny e a quello di Kumals che gli era finalmente giunto alle spalle per tentare di dargli man forte, i due che li stavano aggredendo persero l’equilibrio sul loro fianco sinistro, e slittarono verso la porta aperta che ivi li aspettava, sospinti con testardo e violento sforzo dalla forza concentrata di tutti loro quattro.

«Dai! Forza!» incitò a denti stretti Kumals, ed Andrea, mentre Yuta continuava a pressare contro la porta, prese invece a fare la spola tra il muro di fondo del piccolo bagno e la porta, dandosi ogni volta slancio per arrivare con colpi di spalla, ginocchia e fianco più forti che riusciva contro la porta.

Il tutto non durò che pochi istanti, poi la porta cedette, spalancandosi di colpo. Yuta cadde in ginocchio, ma Andrea, che aveva appunto appena terminato uno dei suoi slanci violenti, cedette in avanti insieme alla porta che si spalancava e, girando sui suoi cardini, si toglieva framezzo alla ragazza e a chi stava dall’altra parte. Scivolando sul pavimento lurido del vagone, Andrea si trovò a cozzare duramente contro le gambe di uno degli uomini “posseduti” contro cui stavano colluttando, collaborando in pratica all’ultima spinta necessaria per spingerlo giù dal vagone.

Nello spazio di un battito di ciglia, il vago e inatteso principio di sollievo nel non stare capitando dritta nella rapace preda di quell’uomo che andava cadendo dal treno fu crudamente sostituito da ben altra sensazione. Come un pugno nello stomaco, vide il corpo di Danny troppo sporto fuori dalla porta spalancata del vagone scivolare verso l’esterno. Allungò di getto la mano, mirando ad afferrarlo, e per un infinitesimo di istante credette di riuscirvi, ma la sua presa mancò di parecchi centimetri l’obbiettivo, e le sue mani si chiusero sul vuoto, mentre anche il tentativo di Kumals di afferrare in extremis il ragazzo falliva molto similmente.

I due loro aggressori caddero oltre il bordo rialzato della soglia del treno, urtando un po’ di rimbalzo contro i gradini per la salita dei passeggeri che sporgevano subito oltre, e sparirono nel vuoto; così come Danny e il fucile di Uther.

 

 

Soundtrack: I like trains (ASDF Movie)

 

 

Note dello scribacchiatore:

spiacente di non avervelo detto prima, forse sarebbe stato opportuno, nel caso qualcheduno non provasse tutta questa lealtà nei confronti di questa storia da essere determinat* a seguirla anche nei suoi momenti più … hum, “difficili”, ecco, questi capitoli, questa “gita a Foelm” non sarà proprio tutta zucchero e stelle filanti. Ciò è reso in effetti da un insieme di cose, non solo dagli eventi ma anche dall’atteggiamento dei personaggi, dal clima che in generale si sta creando nel gruppo, e per conseguenza nel modo – un po’ più corposo e gravoso – con cui m’è venuto di articolare e scrivere questi capitoli.  Quel che intendo sarà più chiaro probabilmente dal prossimo capitolo. Io mi affido alla mia fiducia nei personaggi!

Se la dinamica di quello che succede in questi tre vagoni non è chiarissima ne chiedo perdono, ho cercato di fare del mio meglio, ma la scena da descrivere mi si presentava piuttosto intricata… se avete qualche osservazione in proposito o a sproposito, fatevi pure sentire. Per il resto… al prossimo capitolo!

Ritorna all'indice


Capitolo 33
*** 31 - DI CARNE E DI SANGUE, INFINE ***


Capitolo 31

(DI CARNE E DI SANGUE, INFINE)

 

Cadere da un treno in corsa non rappresentava la peggiore batosta che Danny avesse preso in vita sua. Garantito.

Il fatto che il treno andasse molto piano, poi, certo aveva collaborato. Ma c’erano anche fattori che avevano sicuramente aiutato a rendere il suo incontro con il terreno, costituito dalle pietrone che circondavano i binari, particolarmente doloroso: come il fatto che, di fatto, era stato trascinato giù e appesantito nella caduta da uno dei suoi avversari di colluttazione che gli era aggrappato addosso, e al quale fortunatamente l’impatto del salto aveva prontamente fatto perdere la presa sui suoi vestiti. Un’altra faccenda poco edificante e procuratrice di notevoli sballottamenti e futuri lividi, era il fatto che dopo il duro atterraggio Danny era incappato, così come i due caduti dal treno con lui, in un incontrollato rotolamento franante giù dal pendio del terrapieno su cui correvano i binari.

Ad ogni modo, era ben altro che ora appesantiva l’animo del ragazzo, mentre, fucile imbracciato in spalla e pistole al sicuro (una al solito incastrata tra la sua schiena e la cintola dei pantaloni, sotto la maglietta, e l’altra infilata in una custodia che portava allacciata attorno agli snelli fianchi ammaccati), scarpinava sui binari, dopo essersi riarrampicato sul terrapieno. E non era il fatto che i due uomini che aveva scaravoltato giù dal treno - volendo per un attimo omettere lo sgradevole lato della faccenda in cui ciò facendo era ruzzolato giù pure lui - lo stavano seguendo, a una certa distanza.

I due non apparivano meno malconci di lui, e uno zoppicava vistosamente. Avevano il solito sguardo insensibile, come appannato, e la bocca rilassata in smorfie di demenza platealmente ebete, i vestiti stracciati e impolverati per la caduta e forse per qualche disavventura in cui erano incappati prima di trovarsi sbattuti giù da un treno in corsa. Che fosse stata quell’ultima esperienza, o il probabile dato di fatto che da giorni vagassero senza toccare cibo e acqua né riposarsi, fatto stava che il loro incedere, per quanto determinato, risultava lento e faticoso, piuttosto trascinante in summa; per questo Danny non aveva alcuna difficoltà, mantenendo un buon passo, a lasciarli procedere solo a diversi metri dietro di sé, ignorandoli. Nel complesso la scena aveva un che di grottescamente comico, forse.

Inoltre, il ragazzo aveva deciso di rimandare a migliori situazioni il chiedersi com’era possibile che non si fossero accorti di avere a bordo con loro due passeggeri imprevisti, i quali peraltro si erano guardati bene dal comparire sulla scena prima di una ventina di minuti di tranquillo viaggio indisturbato. E d’altra parte bastava guardarli in faccia per un momento, e considerare le misere condizioni materiali in cui si trovavano, per trovare un pronto e deciso dissenso a qualsiasi supposizione su una loro ben celata capacità intellettiva. Che Danny e compagnia, invece, teoricamente dovevano poter esercitare ampiamente… Che fossero riusciti a salire nell’ultimo vagone durante una delle loro soste per aggiustare i cambi dei binari, o che fossero stati chiusi in uno dei bagni del treno o imbambolati a fissare qualcosa, accorgendosi della loro presenza solo con parecchio ritardo, o che si fossero incastrati in due in mezzo al corridoio tra i sedili riuscendo a liberarsi dall’ingarbuglio solo all’ultimo, magari eccitati dalla vista di Danza, la prima a scoprirli… insomma,qualsiasi cosa fosse successa di preciso, ora non costituiva per Danny qualcosa di così importante o interessante.

No, ad angustiare maggiormente Danny, mentre avanzava, doloroso passo dopo l’altro, verso un orizzonte lontano e reso un po’nebuloso dall’umidità della grigia giornata invernale, era il fatto che non ci fosse alcun treno composto da una vecchia caffettiera (o, a voler essere generosi, ‘locomotiva’) e da tre vagoni in vista. Il treno, dopo la loro caduta, non si era fermato. Anzi, doveva aver proseguito per una certa distanza, visto che quando era riuscito a terminare la sua arrampicata sul terrapieno per spaziare la sua vista in quella direzione, lo aveva intravisto per pochi minuti sparire in lontananza. Insomma: perché diavolo non si erano fermati?!

Danny sospirò pesantemente, si sistemò meglio a tracolla il fucile di Uther, e lanciò l’ennesimo sguardo distratto alle sue spalle. I suoi testardi e malmessi inseguitori procedevano diversi metri più indietro, e sembravano persino ingenuamente convinti di poterlo raggiungere. Il ragazzo distolse lo sguardo dal patetico spettacolo, con una lieve smorfia di vaga pena, sospirò ancora, e continuò a camminare con una certa generosa pazienza. Comunque fosse, sperava di non dover arrivare a piedi fino a Foelm, perché doveva trovarsi ancora a diversi chilometri dalla cittadina, a giudicare dai suoi calcoli assemblati in base a vaghi ricordi ed impressioni.

Da quando aveva preso ad abitare alla casa con Justin ed il Conte, non si era allontanato che rare volte, e per periodi molto brevi, da Castle MacHearty. Non che il piccolo assembramento urbano, con le sue noiose e ripetitive ritualità quotidiane, o la casa del Conte, con le sue mire di ambiente gotic-horror, avessero mai esercitato su di lui tutta questa attrattiva. Se si fosse concesso per un momento abbastanza lungo di ripensare apertamente e onestamente a quella sistemazione, avrebbe finito per ammettere a se stesso che si era trattato solo di un ripiego, dettato da cose come pigrizia e sfiducia. Riteneva che fosse abbastanza chiaramente sottinteso senza il bisogno di dirlo proprio così com’era; non se la sentiva di iniziare qualcosa come un impegnativo confronto, una sorta di tedioso processo alla sua coscienza. Perlomeno, non ora che andava camminando su binari deserti, trascinandosi involontariamente dietro due individui sconosciuti privati delle più basilari facoltà mentali, ridotti a corpi ambulanti dalla pervicace e indistinta volontà di afferrarlo. Per farne cosa, poi, forse non lo sapevano nemmeno loro. Se avesse avuto a che fare con sensibilità minimamente capaci di distinguere la natura di uno sguardo, Danny si sarebbe probabilmente abbandonato all’istintivo proposito di voltarsi a fronteggiarli. Anche se non ne andava del tutto consapevole, la sua esperienza aveva incamerato chiaramente l’informazione che la maggior parte degli umani che aveva incrociato fino a quel momento erano stati indotti, da una delle sue occhiate più concentrate, a rifare qualche volta i loro calcoli con una certa meticolosità, per vedere se era proprio necessario e irrimediabile il dover avere a che fare con lui.

Danny aveva mantenuto, in compenso, un atteggiamento di distaccata cortesia di convenienza con i numerosi componenti la sua clientela come ‘acchiappa animali’. E col tempo, col passare delle ore, dei giorni, delle settimane e poi di mesi ed anni, si era impersonato abbastanza bene in quel ruolo. Non che lo tenesse sempre coscienziosamente presente, il fatto che il suo non era altro che un ruolo di formale interesse immediato. Aveva avuto bisogno di soldi, e si era dedicato alla caccia di animali domestici perduti, scomparsi, in difficoltà momentanea; le sue abilità si accordavano molto bene ad un lavoro come quello. Così come le sue considerazioni riguardo ai rapporti formali tra i componenti di una società civile di umani si erano accordate bene al suo fingere un compassato distacco professionale quando doveva trattare su incarico e compenso con chi lo mandava alla ricerca di un animale perduto. A volte pensava che il suo genere di ‘caccia’ era molto mutato, e scopriva di non essersi accorto del parallelo singolare abbastanza bene, tranne quando faceva un raffronto aperto e chiaro tra sé e sé; e allora ne rideva, in un modo che non gradiva. Non amava la natura del divertimento in cui si era trovato ad incappare nell’ultimo periodo. E non era tanto per il sarcasmo amaro, marcio, che costituiva gran parte della natura di quella specie di considerazioni auto-ironiche sulle sue attività attuali. Era qualcosa di diverso, che aveva a che fare con il principio dell’adattabilità, un’adattabilità nemmeno forzata, e per questo quindi più colpevole forse; adattabilità che sembrava trovarsi spinta ad esercitarsi solo sotto l’egemone governo di una pigra incapacità di fare qualcos’altro.

Sorpreso da un sentore leggero di nausea, Danny raccolse un po’ di saliva in bocca e sputò per terra. Scorse l’ombra rossastra di un filo di sangue nel suo sputo, mentre lo superava nel continuare a camminare. Si passò una mano sulla bocca, e trovò un’altra leggera macchia di sangue, scoprendo insieme una certa dolorabilità di un tratto del labbro superiore. Doveva esserglisi un po’ rotto nella caduta. Non se ne curò particolarmente; sapeva che sarebbe guarito presto.

Rialzando lo sguardo davanti a sé verso l’orizzonte, però, qualcosa attirò la sua attenzione immediatamente. Sul piatto dell’orizzonte, verso cui spariva il terrapieno costellato dall’intelaiatura spessa e metallica dei binari, qualcosa si muoveva. Danny ricordò a se stesso che era meglio disubbidire nettamente all’istinto di rallentare il passo, dal momento che doveva fare i conti con i suoi mal assortiti ma testardi inseguitori, e invece assottigliò gli occhi, concentrando lo sguardo sulle sagome che si definivano man mano che si avvicinavano.

Riconobbe due persone che camminavano come lui sui binari, venendogli incontro. L’allarme e la speranza si battagliavano dentro di lui, ognuno deciso a non cedere di un millimetro, per continuare a frapporsi senza arretrare al tentativo dell’altro di guadagnarsi un po’ di vantaggio. Nessuno l’ebbe vinta per diversi minuti, mentre ancora il ragazzo cercava di distinguere meglio i particolari che definivano le due sagome. Poi, la relativa scarsa altezza delle due figure, e il loro passo convinto e ben coordinato, insieme ad una sensazione di familiarità che accompagnava il loro modo di muoversi, diedero definitivamente vantaggio alla speranza, che spazzò via in pochi colpi il timore. Infine, un biondo e un bluette di capelli eclissarono ogni dubbio, e Danny sorrise, con sempre maggior convinzione liberatoria.

Ben prima che i loro odori arrivassero alle narici di Danny, per essere riconosciuti e dare la finale conferma, lui aveva riconosciuto i tratti di Andrea ed Uther. E loro avevano visto lui. E poi, mano a mano che si avvicinavano, i loro sorrisi impallidivano, e i loro sguardi si facevano più preoccupati. Dovevano aver visto anche le due sagome che seguivano Danny, ora, considerò il ragazzo.

Alzò una mano, in un gesto di saluto a cui impresse anche un segno di rassicurazione, per segnalare loro che non c’era pericolo; in fondo era sufficiente che continuassero a camminare tenendoli a distanza. Piuttosto, c’era da chiedersi che fine avesse fatto il treno con il resto del gruppo. Ma la viva preoccupazione di Uther ed Andrea sembrava essere rivolta solo a lui e ai suoi inseguitori, segno che probabilmente gli altri aspettavano più avanti, treno compreso, senza particolari problemi.

Danny constatò con stupore che Uther, quando ormai mancava solo un paio di centinaia di metri a separarli, allargava gli occhi in un’espressione particolarmente allarmata, ed Andrea iniziava a gridare qualcosa. Uther prese a fare segni confusi con le braccia, affannosamente, ed uno dopo l’altra iniziarono a correre verso di lui.

Il ragazzo arricciò appena il naso, perplesso. Dovevano aver frainteso la pericolosità dei due soggetti che lo seguivano. Per confermarsi ciò, lui voltò appena il capo per spiare dietro le sue spalle. E vide due braccia calargli addosso, mentre veniva investito dal peso morto di un corpo.

Non fece in tempo a formulare una risposta fisica sufficiente, e si ritrovò addosso prima uno, poi anche l’altro dei due individui. Il peso confusamente scoordinato che gli gravò all’improvviso sulle spalle, unitamente a un piede o due di troppo framezzo ai suoi ancora impegnati a camminare, gli fecero perdere l’equilibrio, e si ritrovò a cadere malamente di traverso, inciampando nel contempo sui binari. Con i due corpi addosso, di nuovo si trovò a franare giù dal terrapieno, in un aggroviglio confuso di braccia, gambe e addomi che rotolavano giù, trascinandosi dietro lastre superficiali di terreno, travolgendo cespugli e arbusti.

Proprio su un arbusto più resistente degli altri lo slittamento a peso morto di Danny si arrestò passivamente, e lui si ritrovò addosso solo uno dei due corpi. Sentiva confusamente le urla di Andrea che si avvicinava correndo.

Per prima cosa, non senza un nervosismo infastidito ad appesantirgli le mani, Danny recuperò abbastanza le coordinate sul sotto e il sopra del mondo per puntellarsi su un ginocchio, raddrizzare il busto e assestare un forte pugno all’uomo che gli pesava addosso, e che stava confusamente cercando di esercitare presa su di lui, con l’unico risultato di sbattergli addosso senz’ordine manate frenetiche.

Danny ebbe la giusta intuizione: prima che il tizio potesse riuscire ad aggrapparsi abbastanza saldamente a qualsiasi cosa che riguardasse la sua persona, abiti compresi, riuscì a fare leva con le gambe, in modo da far scaravoltare il corpo dell’uomo sopra un suo ginocchio, facendogli perdere l’equilibrio ed indirizzando la sua caduta verso il fondo del terrapieno. Funzionò, e di lì a poco Danny si ritrovò a contemplare il corpo dell’avversario che rotolava giù per il resto del terrapieno, senza riuscire ad opporre una qualsiasi azione sensata lontanamente utile ad arrestarsi.

Un urlo acuto eruppe vicino. Danny si voltò fulmineamente verso la cima del terrapieno, e vide che Andrea era incappata nell’altro uomo. Probabilmente nell’affrettarsi giù per la ripida discesa era caduta. E l’uomo, che doveva aver perso la presa su Danny nel loro precedente rotolare, aveva avuto sufficiente tempo per accorgersi di lei e muoversi per raggiungerla. Uther non era molto distante, ma per evitare di cadere aveva dovuto optare per una corsa più lenta giù per il pendio, e si era inoltre attardato a raccogliere il suo fucile, che doveva essere sfuggito a Danny mentre rotolava. Uther aveva compreso in fretta il suo errore di valutazione, e si stava già precipitando verso Andrea. Ma Danny era più vicino, e trovandosi davanti la vista dell’uomo instupidito dallo stato privo di consapevolezza in cui si trovava che un po’ cadeva un po’ arrivava volutamente addosso ad Andrea, scattò fulmineo.

In rapidi balzi alternati ad una veloce corsa solcò i pochi metri che lo separavano dai due, e si immischiò prontamente nella colluttazione appena iniziata. Con notevole sforzo riuscì quasi subito a togliere di dosso da Andrea, semi-rannichiata in un’istintiva posizione di difesa, gran parte del corpo dell’uomo. Ma allora si rese conto, anche a causa di un lamento doloroso della ragazza, che l’uomo aveva trovato il tempo di afferrarla abbastanza saldamente. Con una mano le stringeva il polso, ma quello che preoccupò maggiormente Danny fu quella con cui stringeva una fenomenale presa dritta sulla testa della ragazza. La statura mingherlina di Andrea e quella invece di notevoli dimensioni dell’uomo, permetteva a quest’ultimo di esercitare una stretta salda, a mano aperta, sul cranio della ragazza.

Lei ora urlava di dolore vivo, e a giudicare dalle vene in rilievo sul palmo e il polso delle sue mani, l’uomo stava esercitando tutta la sua forza su quelle prese. Che lo avesse sentito davvero oppure no, nelle orecchie di Danny parve risuonare un eco di ossa che si incrinano.

Uther, che arrivava precipitosamente, ormai correndo, scivolando e continuando anche in scivolata a procedere, tutto pur di raggiungere gli altri e aiutare, vide la scena evolversi con rapidità. Mentre Andrea gridava, tirando pugni e calci a caso, guidata dall’accecante necessità di eliminare il dolore, e colpendo pertanto tanto il suo aggressore quanto, inavvertitamente, Danny stesso, quest’ultimo mutò il suo atteggiamento. Se prima la sua azione era stata pronta e determinata, guidata dalla forza e dalla necessità, di colpo metamorfosò in fulminea volontà feroce.

Dopo il vano tentativo di staccare le mani dell’uomo da Andrea facendo appello a tutta la propria forza, Uther vide Danny concentrarsi sul colpire lui. Uther sapeva, o presumeva molto fortemente, che il proposito di Danny era quello di indurre l’uomo a mollare la presa; e sapeva anche che l’uomo non era in condizioni di scegliere tra il proprio dolore e quello che stava esercitando sulla ragazza. Ricordava vagamente, ma abbastanza distintamente, di aver assistito ad un episodio del genere, diversi anni addietro, la cui dinamica, per qualche motivo, gli ricordava la scena presente.

Ricordava un cane, di una qualche razza mastina; era dedito ad abbaiare furiosamente a qualsiasi cosa si muovesse davanti a lui, e la sua panoramica era sempre comunque piuttosto ristretta, dal momento che il padrone lo teneva perennemente legato ad una corta catena, sul giardino sul retro della sua abitazione. Probabilmente per i proprietari il cane aveva l’unico scopo di fare la guardia, e l’unica necessità di bere e mangiare a sufficienza; il fatto che mostrasse folli propositi omicidi verso qualunque cosa osasse muoversi davanti al suo sguardo, eccetto che il padrone in persona, probabilmente rappresentava per questi la conferma che l’animale assecondava meravigliosamente il suo scopo. Un giorno, poiché in tutte questo genere di storie ‘quel giorno’ arriva sempre, prima o poi, un uomo in bici col cane che gli correva appresso erano passati di fronte al giardino dove giaceva il mastinoide legato. Questi, vedendo tale inaudita cosa, e soprattutto constatando che il cancello del cortile in quel momento era aperto, perché il padrone era sul marciapiede che parlava con un conoscente, si era precipitato fuori. Nell’arco di pochi istanti era riuscito a divelgere il chiodo che teneva la catena infissa nel muro, e trascinandosela dietro aveva superato il cancello aperto, saettando tra le gambe di padrone e conoscente, nessuno dei quali aveva fatto in tempo ad accorgersi di cosa stava accadendo per poter intervenire. Il cane aveva terminato la sua corsa dritto sull’altro, e aveva iniziato immediatamente la sua opera demolitrice, semplicemente azzannando il suo consimile eppure dissimile dritto alle interiora. Uther, che allora lavorava al porto, stava tornando a casa, camminando sulla banchina. Ricordava bene che c’era un sole rosso, un tramonto primaverile dall’aria dolce. E il cane, sotto la presa formidabile delle zanne del mastino, aveva prima tentato ogni cosa a sua disposizione, e di concerto il suo padrone: avevano blandito, gridato e guaito, morso, picchiato, tirato, strattonato, preso a calci e a colpi di zampa, ripetutamente e sempre più violentemente. Ma il mastino non voleva staccarsi, e il padrone di esso, che assisteva alla scena senza sapere che fare, osava a malapena lanciare rauchi gridi di protesta. Uther aveva visto il cane azzannato cadere pian piano a terra, gocciolando sangue, e l’altro ancora non mollava, anzi piuttosto si lasciava morire anche lui sotto i colpi infertigli a suon di pugni e calci dal padrone del cane aggredito; morire, pur di non mollare la presa sulla sua vittima. Aveva poi sentito dire che in qualche fortuito modo i due cani erano entrambi sopravvissuti, anche se con brutte ferite e una lunga degenza; il cane che aveva aggredito, giudicato pericoloso, era stato condannato all’abbattimento, ma pochi giorni prima della data prefissata il proprietario aveva dichiarato che il cane era scappato; c’era da aspettarsi, logicamente, che lo avesse fatto sparire per evitargli la morte.

Ora, mentre si affrettava per gli ultimi metri che lo separavano dai tre, Uther vedeva Danny sferrare colpi sempre più potenti all’uomo, colpendo a caso e in ogni punto che gli capitasse a portata, mentre Andrea, ormai lamentandosi a stento, aveva ripreso abbastanza coscienza da cercare di staccare da sé le mani che la stringevano. Lei aveva smesso di colpire l’uomo, ma Danny continuò, imperterrito, guidato da una testardaggine in cui la disperazione si mescolava troppo strettamente con l’aggressività perché si potessero distinguere ancora l’una dall’altra. Pochi istanti prima che Uther si fermasse accanto a loro, l’uomo era crollato esanime a terra, e Andrea era riuscita a togliersi di dosso almeno la mano che le aveva tenuto stretto il cranio. Quella che la teneva per il polso era ancora salda al suo posto, ma la ragazza aveva temporaneamente perso interesse per il dolore derivante da ciò, perché ora anche lei stava realizzando cos’era accaduto.

Con dolorosa comprensione, Uther vide lo sguardo di Danny schiarirsi, tornare pienamente consapevole, e realizzare con sgomento e terrore l’immagine del corpo dell’uomo riverso a terra, la ridda di contusioni che gli aveva inferto, spezzando ossa e spappolando gli organi più esposti, spaccandogli i lineamenti fino a trasformagli la faccia in un pestato avanzo sanguinante di ciò che era stato il viso.

Uther si chinò, prese la mano dell’uomo ancora stretta attorno al polso di Andrea, e cercò di aprire le dita, ma non vi riuscì, nonostante esercitasse tutta la sua forza, senza timore di infliggere alcun danno al corpo ormai maciullato dell’uomo. Andrea agitò un po’ il braccio, inizialmente, tentando di liberarsi, e poi restò immobile, per facilitare l’opera del ragazzo; ma Uther non riuscì ad aprire le dita. Allora si voltò a guardare Danny. Il ragazzo, in ginocchio sul terreno, aveva le braccia abbandonate lungo i fianchi, come se fossero semplicemente appese alle sue spalle e prive di vita. Aveva le mani e le scarpe sporche di sangue, che gli era schizzato addosso in sottili spruzzi anche sugli abiti. I suoi occhi erano persi nel vuoto, anche se apparentemente fissi sul corpo dell’uomo che giaceva davanti a lui.

Uther si alzò, e caricò il fucile che aveva in mano. Quindi guardò Andrea, e aspettò pazientemente che lei capisse. Quando la ragazza realizzò le sue intenzioni, sembrò sul punto di protestare, scosse la testa, come volendo respingere da sé qualcosa, ma poi seguì il cenno della testa con cui Uther gli indicava l’uomo abbandonato a terra. Respirava a fatica, e irregolarmente; e nonostante ciò era ancora assente, nel tipico atteggiamento che avevano assunto tutte le persone contagiate. Tuttavia, c’era ora un ulteriore velo ad appannargli lo sguardo.

Andrea ebbe un moto di orrore e rifiuto più violento. «No… no!» disse, con voce roca e stentorea. Ma Uther scosse la testa, dandole segno che non era disposto a scendere a patti. Però le concesse ancora tempo, mentre lentamente puntava la canna del fucile verso la testa dell’uomo; gli appoggiò la bocca del tubo metallico dritta sul cranio già sanguinante. Finalmente Andrea girò il capo dall’altra parte, chiudendo gli occhi e non trattenendo un forte singhiozzo angosciato, che sembrò sul punto di mozzarle il respiro in gola.

Uther guardò un ultima volta Danny in viso, ma non trovò alcun segno di presenza nei suoi occhi. Attese ancora, poi, dal momento che il tempo scorreva, allungò un piede e assestò un debole calcio contro un braccio del ragazzo, richiedendo con più fermezza la sua partecipazione.

Danny reagì. Alzò lo sguardo su Uther, benché la sua espressione di totale smarrimento orrorificato fosse intatta; mosse a malapena la testa, in un impercettibile cenno d’assenso. Uther se lo fece bastare.

Lo sparo riecheggiò con violenza, assordando in parte Danny ed Andrea, che vi erano meno abituati.

Andrea attese qualche istante, e fece per girarsi, ma le mani di Danny si posarono sulle sue spalle, e il ragazzo, che le si era affiancato quasi senza rumore, la persuase con il suo semplice frapporsi tra lei e il resto ad evitare di guardare direttamente lo spettacolo che doveva aver lasciato dietro di sé il colpo di fucile.

Uther si era chinato di nuovo, dopo essersi rimesso il fucile a tracolla. Andrea sentì le sue mani che, con calma gentilezza, le toglievano di dosso le dita dell’uomo, rimaste strette attorno al suo polso. Lei si portò allora la mano liberata contro le clavicole, avvolgendolo nella stretta dell’altra mano, come se ciò valesse ad alleviare il dolore, che esplodeva particolarmente se osava commettere il più piccolo movimento con il polso contuso. Ebbe un impulso improvviso, e con la mano sana spinse Danny lentamente ma con fermezza, allontanandolo da sé, e si voltò a guardare.

La scena truculenta dei resti del suo aggressore non le sembrò più impressionante del disgustoso odore in cui era ormai immersa, ma si sentì molto triste. Fu tentata di rivolgere una rabbia furiosa all’indirizzo di Uther, che stava ricomponendo sommariamente il cadavere, allineando le gambe e disponendo le braccia sul torace, come se cercasse qualcosa da fare; ma sapeva, non poteva fingere di ignorare, che il ragazzo si era limitato a dare il colpo di grazia, un gesto puramente dettato dalla pietà e dalla volontà di evitare peggiori e più lunghe sofferenze.

Si volse allora verso Danny, come in cerca di un migliore bersaglio. Ma tutta la sua furia si spense con la subitaneità di un fiammifero acceso che viene immerso nell’acqua.

Danny giaceva seduto sul terreno, le gambe come abbandonate, così come le braccia, la schiena e le spalle curve, e il capo chino sul petto, come se fosse stato privato di ogni scintilla vitale. Il viso abbassato, quasi invisibile, sembrava privo di ogni cenno di volontà, smorto e pallido, come perduto nella contemplazione di qualcosa che toglieva ogni desiderio di vita, lasciando soli di fronte ad un grande orrore.

Andrea si voltò a guardare Uther, il quale, come comprendendo la natura del suo scoramento, rispose con un’espressione triste, e scosse appena la testa. «Ti fa male…?» le domandò, in un sussurro, indicando col cenno di un dito il suo polso, che ora teneva abbandonato in grembo. Lei fece segno di no con la testa, anche se non era vero, ed entrambi lo sapevano.

Tornò a guardare Danny. E gli parve di vedere un fantasma che non si è accorto di essere morto. Fu percorsa da un forte tremito incontrollato, inquietata da questa sua stessa metafora, ma riuscì infine a muoversi, anche se si sentiva dolorante, e anche lei vinta, impotente, senza forze di alcun tipo.

Strisciò vicino al ragazzo, e gli si inginocchiò di fronte. Dal momento che lui non reagiva in alcun modo, allungò lentamente il braccio del polso sano, ignorando come meglio poteva il dolore dell’altro, che andava strisciandole fin sulla punta delle dita e fino alla spalla sinistra. Passò la mano tra la spalla e la nuca di Danny, e gli girò lentamente il braccio intorno al collo, senza curarsi di strisciare la pelle sul collo e sull’orecchio di lui nel gesto; il calcolo dei suoi movimenti era faticoso, e appariva superfluo, in quel momento. La lentezza dei suoi gesti era dovuta unicamente al proposito di non spaventare né Danny né se stessa. Si sporse ad abbracciarlo meglio, con quell’unico braccio, rimanendo abbastanza discosta da non risultare invadente, e appoggiò la guancia sul lato della sua testa, sui capelli arruffati, mischiati di polvere e odorosi di sangue.

L’odore del sangue riempiva tutta l’aria attorno a loro, e le dava una pesante sensazione di soffocamento. Forse per questo il suo intero corpo fu percorso da un altro paio di tremiti incontrollati, e quasi le sfuggì dalle labbra un lamento singhiozzante. Poco dopo, Danny si mosse; con gesto sospeso, come in un sogno di melassa ostile, portò un braccio a ricambiare l’abbraccio, debole e assente.

Uther distolse lo sguardo, per rivolgerlo al fondo del terrapieno. Là vedeva l’altro uomo, quello di cui si era liberato Danny prima, rialzarsi ed iniziare ad arrampicarsi, e continuare a ricadere a ripetizione. Aveva una gamba rotta, che gli impediva di riuscire a camminare senza crollare di nuovo al suolo. Nonostante ciò, continuava a rialzarsi e a fare qualche passo, prima di ricadere e rotolare di nuovo fino all’incirca nel punto dal quale era partito.

Uther aveva un forte desiderio di urlare, ma restò zitto.

 

 

 

Note dello scribacchiatore:

Questo capitolo è venuto fuori così saturo di drammaticità sanguinaria, che mi sento quasi in soggezione nello scrivervi una nota al termine; ma sento questa necessità. Confesso che questa storia, sebbene prevedesse momenti più seri e drammatici, non comprendeva inizialmente un passaggio così ‘duro’ come questo capitolo. Tuttavia da sempre quando scrivo non ho il completo controllo della direzione degli eventi: essi sono guidati anche dal libero arbitrio dei personaggi (d’accordo, libero arbitrio fino ad un certo punto, dopotutto sono mie creazioni ^^). Ma questo capitolo va oltre la volontà dei personaggi stessi, e difatti, come viene sostanzialmente affermato nei ricordi di Uther, a volte la situazione si rivolge in modo tale che sembra di non poter fare altrimenti, di non poter trovare altre vie, sebbene quelle che si prendono ripugnino profondamente, fino a portare ad aver repulsione per le proprie azioni e, attraverso esse, per se stessi. Questo, credo, è ciò che capita a Danny. E da qui sorge il titolo, che richiama all’impotenza e a un terreno basilare comune su cui a volte possono precipitare le cose, finendo per terminare solo in questione di carne e di sangue.

La scena ricordata da Uther, mi duole dirlo, è ispirata al racconto di una scena verificatasi nella realtà, e accaduta ad un amico e al suo cane. Anche nella realtà, per fortuna, entrambi i cani se la sono cavata, anche se quello aggredito per poco.

 

Ritorna all'indice


Capitolo 34
*** 32 - EPPURE I SUOI OCCHI ***


Capitolo 32

(EPPURE I SUOI OCCHI)

 

Yuta, Kumals e Zoal abbandonarono infine temporaneamente il treno di cui si erano impossessati sui binari, e, Duca e Danza al seguito, si incamminarono a piedi, tornando indietro verso Umak, alla ricerca degli altri, il cui ritardo nel tornare non faceva presagire nulla di molto positivo.

Quando alfine li trovarono, in effetti la scena che si presentò loro era abbastanza tragica.

Aveva iniziato a cadere una sottile pioggerellina fredda, che andava infradiciandoli con snervante lentezza.

Mentre Kumals e Yuta scendevano fino al fondo del terrapieno, accompagnando Uther ad occuparsi dell’uomo “contagiato” che continuava ad alzarsi, fare qualche passo, e ricadere a causa della gamba rotta, Zoal si fermò presso il corpo senza vita dell’altro uomo.

Danny non aveva ancora dato altro segno di vita; si limitava a restare abbandonato seduto sul terreno, come senza forza, stringendo debolmente un braccio attorno ad Andrea. Lei alzò lo sguardo su Zoal, che le aveva chiesto se era ferita. Annuì debolmente, ma non accennò alcun movimento, rimanendo semi abbracciata al ragazzo, come paventando di poter trovare un equilibrio in altro modo; il braccio dolorante, col polso ferito su cui si andava scurendo una contusione rossastra e livida, se lo teneva appoggiato in grembo, non osando muoverlo.

Zoal si chinò, inginocchiandosi a fianco del cadavere che Uther aveva sommariamente ricomposto. Gettò un breve sguardo giù lungo il pendio, accertando che Duca e Danza stavano accompagnando gli altri appresso all’uomo con la gamba rotta. Poi chinò di nuovo lo sguardo sul corpo che giaceva davanti a lei.

Andrea la vide allungare piano una mano, e posarla sul viso del corpo. Cominciò poi a mormorare una sorta di cantilenante serie di parole, in un idioma che Andrea non aveva mai sentito. Ma dal tono usato dalla donna, le parve di poterne comprendere il senso. Zoal diceva qualcosa come ‘dormi bene, il resto è passato, riposa tranquillo ora, sei a casa, e va tutto bene.’.

Solo allora Andrea si sentì iniziare a singhiozzare piano. Danny ebbe un tremito, nell’udirla, e si mosse. Si scostò un po’ da lei, guardandola spaventato, e si allontanò ulteriormente, salvo riprendere poi la sua posa abbandonata e infinitamente contrita, a capo abbassato e spalle chine, come appesantito da un eccessivo carico.

Zoal terminò la sua specie di cantilenante ninna nanna funebre, e poi si alzò, facendosi appresso ad Andrea. Le avvolse intorno alle spalle uno dei suoi lunghi bracci adombri di vestiti, e stringendola per le spalle si limitò a tenerla stretta contro di sé, mentre con cauti modi iniziava a toccarle il polso con le lunghe dita piuttosto fredde, saggiando il danno con cura paziente e in silenzio.

 

*

***

*

 

Riuscire a tenere abbastanza fermo l’uomo privo di coscienza di sé, per potergli steccare alla bell’e’meglio la gamba rotta, e guidarlo poi al treno con loro, su cui lo caricarono, fu un’operazione impegnativa e necessitante di molta pazienza, in cui si cimentarono in silenzio Kumals, Yuta ed Uther. Solo quest’ultimo mostrava di tanto in tanto il suo evidente fastidio verso i movimenti insensati e ostruenti che l’uomo opponeva loro, senza rendersi conto di ciò che faceva.

Mentre viaggiavano, il treno rimesso in moto sui binari, Zoal e Yuta si occuparono tanto delle contusioni di Andrea quanto della gamba dell’uomo. Utilizzando pezzi recuperati dal treno stesso, come il legno di una porta che ruppero, unitamente a gommapiuma e stoffa che presero dall’imbottitura di un paio di sedili, riuscirono ad arrabattare sia una fasciatura per il polso della ragazza che una sommaria steccatura per la gamba del tizio inebetito. Dopodiché dovettero legarlo ad un sedile con le cinture di Kumals, Danny e Yuta, e con la cinghia che Uther utilizzava per tenere il fucile a tracolla, impedendogli di continuare ad infastidirli, tentare di aggrapparsi a loro o di aggredirli in svariati e assurdi modi.

Continuarono il viaggio, e poteva quasi sembrare che non fosse avvenuto nulla di importante nel framezzo, se non fosse stato per l’uomo che continuava ad agitarsi tentando vanamente di liberarsi dal suo sedile, o per l’atteggiamento atono di Danny, o per il pesante silenzio che tutti mantenevano ora.

Il mattino stava ormai sfumando in un pomeriggio ancora più incupito da pesanti nuvole, anche se la pioggerellina era cessata quasi del tutto, quando il treno giunse nelle vicinanze della stazione di Foelm, avanzando al suo lento passo di marcia.

Mentre Uther guidava il loro breve convoglio, Andrea, il braccio appeso al collo con una fascia che Zoal abitualmente portava legata in vita, vide che superavano lentamente la stazione deserta e desolata di Foelm, e subito dopo iniziavano a rallentare e a frenare, con sonoro stridio delle ruote sui binari. Quando avevano dovuto fermarsi per tornare indietro in cerca di Danny, frenare era risultato molto più difficoltoso; ma anche stavolta non fu uno scherzo da poco. Infatti raggiunsero e oltrepassarono di qualche metro il loro obbiettivo, prima che il breve convoglio si arrestasse definitivamente. Così la ragazza, che manteneva lo sguardo incollato al finestrino, così come gli altri che non erano occupati nella guida, riuscì a vedere bene ciò a cui miravano.

Si trattava di un complesso di edifici, un paio in totale, grandi, tutti in cemento: due pezzi grigi che svettavano un po’ sinistramente nel plumbeo della giornata in penombra, con la parte superiore protesa in orizzontale sopra e perpendicolarmente ai binari, mentre l’inferiore era costituita da lunghe zampe di cemento, che scavalcavano i binari, trovando a stento posto tra il loro serpentino distendersi. Parevano i resti di due colossi di cemento che, nell’attraversare i binari col passo e la mole epidermici, si fossero bloccati lì per sempre. Nelle compatte parenti di cemento si aprivano numerose piccole finestre, di una forma perpendicolare quasi quadrata; la maggior parte erano rotte, e il frastagliato delle schegge di vetro rimaste attaccate alle cornici contornava il buio che sembrava regnare all’interno delle costruzioni, come zanne irregolari sul vuoto.

Andrea rabbrividì a quella vista, e il suo sguardo studiò a lungo quelle strutture, come cercando di cavarne un aspetto meno sinistro, ma invano. Di nuovo spiò Danny; benché gli occhi del ragazzo fossero intenti nello studio degli edifici e dell’ambiente circostante, il suo volto appariva come pietrificato in un’espressione assente, e le sue membra avevano un che di abbandonato, come preda di una profonda mancanza di volontà, difficile a definirsi e ancor di più ad ostacolarsi. Andrea provò l’impulso di sporgere cautamente una mano a sfiorarlo, come per provare a sé ed a lui che era ancora vivo, dopotutto, ed ancora in grado di recuperare, di riaversi dallo stato di prostrazione in cui pareva stare affondando lentamente e inesorabilmente. Aveva ancora i vestiti e i capelli schizzati di sangue rappreso, anche se l’odore ora era meno penetrante. Ed anche verso di questo mostrava un apparente disinteresse assente, anche se, a ben percepire, questo faceva pienamente parte di ciò che lo stava trascinando a fondo.

Prima che Andrea trovasse il necessario coraggio per ardire rivolgergli qualche gesto o parola, il treno si fermò, troncando a metà l’ultimo proposito di slancio in avanti che aveva animato la sua corsa. La ragazza si trovò proiettata contro lo schienale del sedile, mentre Yuta e Zoal incespicavano appena, recuperando prontamente l’equilibrio; Danny, il corpo come abbandonato agli eventi, rimbalzò un poco contro il suo sedile, e il suo sguardo rimase indifferente, ancora rivolto sul paesaggio esterno al finestrino.

Kumals ed Uther uscirono nel corridoio del vagone, abbandonando la cabina di guida, e tutti si ritrovarono a fissarsi tra di loro per qualche momento, fintanto che gli sguardi furono calamitati verso gli edifici che rappresentavano il loro obbiettivo. Il silenzio era di tanto in tanto intervallato dai versi di sforzo emessi dall’uomo contagiato che tentava di liberarsi dal suo essere legato al sedile. Ma già da diversi minuti avevano tutti imparato ad ignorarlo abbastanza bene.

 

*

***

*

 

«Allora, fammi vedere di che sei capace…»

Andrea guardò Kumals e si concentrò intensamente, assumendo un’espressione estremamente seria; allargò un po’ le gambe, per essere maggiormente stabile sul terreno, ovvero la sassaiola grezza e grossa su cui si stendevano i binari. Aggrottò appena la fronte. Di colpo puntò il braccio dritto davanti a sé, in mano una pistola di Danny saldamente impugnata, e gridò in un sussurro molto deciso e minaccioso «Altolà! Non fare un passo o sei morto.»

Kumals, le braccia incrociate sul petto e l’aria di un critico animato più da razionale cinismo che da disponibilità a farsi sorprendere, studiò la ragazza da capo a piedi.

«Niente male… » concesse «Certamente senza quel braccio fasciato al collo potresti rendere anche di più… Ma credo sarà sufficiente. Se non fermerai qualcuno per timore, se non altro vi riuscirai suscitandogli una notevole perplessità…»

Andrea riabbassò il braccio sano che impugnava la pistola scarica lungo il fianco, con un accenno di smorfia delusa.

«Non ascoltarlo.» lo contraddisse Yuta, che era accanto a Kumals. «Andava più che bene.»

Zoal, Uther e Danny, così come Danza e Duca, erano sparsi sul resto del terreno che circondava gli edifici. Continuavano a camminare intorno senza precisa meta, come avevano fatto fin da subito dopo essere scesi dal treno; ma dal loro scrutare attento e dalle espressioni tese si poteva intuire che si stavano impegnando in un approfondito esame del tutto.

Dopo un sommario confronto verbale si era deciso che la cosa più ovvia da fare probabilmente coincideva con le loro migliori possibilità. Sarebbero penetrati all’interno degli edifici, prima uno poi l’altro, esaminandone le stanze interne, andando ad appurare cosa e/o chi contenevano. Le loro speranze sul ‘chi’ si potevano riassumere in ‘nessuno’, mentre quelle sul ‘cosa’ in ‘qualche utile indizio’.

Ad Andrea e Zoal era affidato il compito di rimanere invece fuori, tanto per controllare che non giungessero imprevisti dall’esterno, quanto per poter essere pronti ad accorrere come ‘rinforzi’ in caso di bisogno in favore a chi entrava; ed infine, non in ultimo, per tagliare la via di fuga a chi eventualmente nascosto all’interno degli edifici avesse tentato di sottrarsi alla loro esplorazione. In quest’ultima ottica, si prevedeva che Andrea avrebbe sorpreso con un accenno di minaccia improvvisata i fuggitivi, mentre al resto avrebbe pensato Zoal, in un modo che ad Andrea non era tutt’ora completamente chiaro; non le era molto chiaro nemmeno perché, nonostante queste lacune di informazioni ben definite, si sentisse comunque tranquilla nel riporre la sua incolumità fisica nelle loro mani. Il braccio che le pendeva dal collo e il dolore della contusione sulla testa avrebbero dovuto raccomandarle altrimenti, e tuttavia rimanevano in silenzio di fronte a quell’improbabile eppure salda fiducia negli altri. Intuiva che nemmeno se si fosse trovata circondata da un esercito, stile americano (armi di qualsiasi potenziale medio-alto generosamente dispiegate e atteggiamento da ‘rambo in missione’), avrebbe potuto sentirsi più al sicuro di quanto si sentiva ora. Era cosciente dell’assurdità di questa sensazione, ma sapeva di non avere tempo, ora come ora, per cercare di meglio comprenderne il senso.

«Bene… » mormorò Kumals, continuando a prestare attenzione al mantenere un tono relativamente basso, per non mettere in allarme eventuali presenze all’interno degli edifici ai piedi dei quali sostavano. «Direi che possiamo entrare. Ci siamo?». Si voltò con sguardo attento verso gli altri. Uno dopo l’altro, Danny con la pistola in pugno, Uther col fucile in mano e Yuta con i suoi cerchi dotati di lama stretti nei pugni, annuirono.

Zoal andò a disporsi accanto alla soglia dell’edificio sotto cui si trovavano, lateralmente, per poter cogliere alle spalle chi fosse eventualmente corso fuori; i cani fecero altrettanto, andando a posizionarsi vicino alle sue gambe, volenterosi di collaborare, almeno in apparenza. Andrea si posizionò a diversi metri dall’ingresso, ma dritta di fronte ad esso. Allargò di  nuovo le gambe per rendere più salda la sua posizione, e mosse le dita sull’impugnatura della pistola, alternando lo stringere e l’allentare della sua presa, cercando di stemperare la tensione, e per fare impallidire la convinzione che quella fosse un’altra azione arrabattata alla meno peggio, pertanto ricca di un abbondante margine di rischio e di imprevisto.

Kumals, Yuta, Uther e Danny si scambiarono un ultimo incrocio di sguardi reciproci, già appresso la soglia. Poi, Kumals si chinò, due ferretti sottili estratti dalle tasche dei pantaloni, e con quelli lavorò per pochi minuti sul lucchetto che chiudeva la catena con cui era stata sbarrata la porta dell’edificio. Di lì a poco si udì un secco scatto metallico, e Kumals poté sfilare con tranquillità il lucchetto, aprendo la spessa catena. Prima di procedere oltre, Kumals si rigirò un paio di volte in mano il lucchetto, e infine lo sporse verso gli altri, per far loro notare l’interessante particolare: mentre la catena e tutto il resto degli edifici risultavano più che stravecchi, il lucchetto era lucido e quasi per nulla rovinato, vale a dire praticamente nuovo.

Poi aprirono uno spazio nella porta sufficiente a fare entrare una persona alla volta. Danny, lo sguardo già profondamente attento, anche se in qualche modo ancora assente,  le narici frementi e i nervi tesi, con alcune vene in tenue rilievo all’altezza delle tempie, si inoltrò per primo nel buio dell’interno dell’edificio.

 

*

***

*

 

A parte un profluvio di ragnatele, abitate da ragni e pregne di insetti intrappolati e inbozzolati, un gufo spaventato che abbandonò con sonore proteste il suo rifugio in un angolo di una delle poche ampie e nude stanze, una multiforme e furtiva popolazione di scarafaggi e centopiedi, una nottola profondamente addormentata appesa contro un angolo tra muro e soffitto, e qualche falena discretamente mimetizzata ed appiattita nel sonno contro le pareti, non trovarono nessun’altro in entrambi gli edifici. Questo dato di fatto sembrava avere indotto in tutti loro una specie di delusa perplessità, piuttosto che un deciso sollievo.

Ma le cose interessanti non mancavano.

Le stanze risultavano abbandonate da molto tempo, perlopiù; e a giudicare da qualche segno di falò improvvisato, qualche detrito di varia natura e in sostanza un po’ di spazzatura umana, dovevano aver fornito rifugio a qualche senza dimora. Ma una delle stanze degli edifici era in gran parte occupata da strumentazione tecnologica. Per quanto l’apparecchiatura di vecchi strumenti perlopiù radiofonici e in generale per la comunicazione a medio-lunga distanza risultassero datati, un aspetto lampante era subito risultato chiaro a tutti. Su gran parte dei quadranti, delle leve, dei pulsanti e così via, a differenza che sul resto degli oggetti abbandonati e dispersi nelle stanze, non c’era quasi polvere né traccia di ragnatela. Erano, quindi, stati utilizzati abbastanza recentemente.

Anzi, alcune cose facevano pensare che lì avesse sostato per un certo tempo qualcuno che li aveva utilizzati. C’era un bicchiere di plastica semipieno di the, freddo e andato a male, proprio su uno dei piani di lavoro dei vecchi apparecchi. Le grosse scatole metalliche, ricche di quadranti e pulsantiere, risultavano però mute, nel complesso, a tutti loro.

«Ah…» sospirò Kumals «Non avrei mai creduto di trovarmi a dirlo… Ma sento la mancanza di Justin; visto come stanno le cose, forse lui ci avrebbe potuto cavare qualcosa…»

Si erano anche loro attrezzati per bivaccare. Stesa qualche sommaria coperta o direttamente i cappotti sul lordo pavimento nudo di cemento, e tirati fuori gli alimenti e l’acqua che si erano portati dietro, avevano improvvisato un pasto valido per tutta la giornata. Prevedevano di riavviarsi per il ritorno non prima del mattino dopo. Ormai il sole andava calando sull’orizzonte, nella grigia umidità del pomeriggio inoltrato; a nessuno di loro arrideva particolarmente l’idea di doversi ritrovare allo scoperto senza nemmeno l’ausilio della pur debole luce diurna, e in tal senso persino la parziale copertura fornita dal progetto di arroccarsi in quegli edifici appariva migliore del rimettersi in viaggio prima sui binari e poi in auto.

Danny, che non aveva mangiato quasi niente, si era seduto in un angolo della stanza, lontano da tutti gli altri; da lì il suo atteggiamento assente e atono tuttavia sembrava riecheggiare più pesantemente su tutti loro. Spesso lo sguardo di almeno uno di loro vagava nella sua direzione, come in cerca di segno della sua effettiva presenza, e si distoglieva prontamente dopo pochi istanti, senza osare soffermarsi troppo. Solo Zoal non lo guardava mai.

Uther, che era da poco riuscito a far scoccare una scintilla nel falò improvvisato con detriti più o meno infiammabili trovati in giro (tra cui, fortunosamente, una piccola scorta di legna da ardere accumulata, con tutta probabilità, da qualche altro accampato di passaggio), e che stava iniziando a grandi morsi il suo panino, interruppe il suo masticare e scoccò uno sguardo adirato in direzione di Kumals. Ma questo era niente in confronto a quel che emanava la figura di Danny. Benché il suo atteggiamento fosse ancora assente e apparentemente indifferente, sembrava che il suo corpo avesse il potere di diffondere nella stanza un’emozione di profondo risentimento. Non disse nulla, ma si alzò e uscì dalla stanza.

Uther, dopo aver lanciato un breve sguardo verso Danny che usciva, tornò a concentrarsi su Kumals, intento ad estrarre una piccola nuvola di fumo dalla sua sigaretta. «Certe uscite potresti risparmiartele.» gli disse, in tono ombroso.

Kumals lo guardò significativamente, come ad ammonirlo o sfidarlo, e dopo qualche momento di silenzio disse «E’ ciò di più vivace che gli ho visto fare nelle ultime cinque o sei ore, quello di alzarsi e uscire di sua iniziativa. È già qualcosa. Sta iniziando ad assomigliare fin troppo al nostro amico laggiù.».

Accennò brevemente con un movimento della testa in un altro angolo della stanza. Lì, impacchettato in un groviglio di pezzi di stoffa di sedile, cinture e corde di fortuna, giaceva l’uomo dalla gamba rotta, che avevano opportunamente trasferito dal treno. Nonostante mostrasse ancora, con ostinazione infinita, qualche accenno di ribellione al suo essere legato, sembrava che la sua assurda testardaggine iniziasse a scemare, probabilmente per il semplice fatto che le sue forze andavano indebolendosi.

Yuta scosse la testa tra sé e sé. «Smettetela.» mormorò, in tono stanco. Si alzò in piedi, un pezzo di pane e una bottiglia di acqua in mano, e andò a chinarsi accanto all’uomo privo di coscienza di sé, ignorando il suo convulso animarsi minaccioso e apprestandosi a cercare di nutrirlo e dissetarlo con la forza. Kumals prese un’ultima aspirata dalla sua sigaretta, buttò l’avanzo nel piccolo falò e si alzò per andare ad aiutarla.

Uther, senza curarsi di celare il suo essere parecchio angustiato, iniziò ad aprire e distendere i sacchi a pelo di cui disponevano, con gesti scattanti per il nervosismo.

Andrea guardò Zoal, come in inconsapevole ricerca di ispirazione. Ma la donna, che accarezzava con una mano il piccolo Duca, acciambellatolesi in grembo come suo solito, e con l’altra mano Danza, distesa accanto a lei e addormentata, fissava il fuoco, immersa in qualche sua riflessione.

Non era certa che gli altri quindi lo notarono quando si alzò in piedi, ed uscì dalla stanza, senza voltarsi indietro. Nemmeno lei era proprio certa delle sue intenzioni, e si limitò a farsi guidare dai suoi indefiniti propositi nella pesante penombra desolata del corridoio che univa le uniche due grosse stanze dell’edificio, collegandole nel contempo alla scala a chiocciola in ferro che le connetteva al terreno, qualche decina di metri più in basso.

Di primo acchito, entrando nell’altra stanza, credette di trovarla vuota. Ma si accorse poi della presenza della figura solitaria, che voltava le spalle all’ingresso, in piedi di fronte ad una delle finestre dal vetro rotto, attraverso cui entrava nuda e cruda la fredda aria invernale.

Per diversi istanti, mentre Andrea si fermava più o meno al centro della stanza, incerta, Danny rimase immobile in quella posizione. Poi, lentamente, si voltò appena, per guardare chi era, anche se lei aveva la viva impressione che lui lo sapesse già. Non doveva forse ormai ammettere a se stessa che, a quanto pareva, quel ben strano ragazzo era in grado di padroneggiare il fiuto e l’udito con una finezza particolare, di norma estranea alla specie umana?

Danny non disse nulla, ma in qualche modo Andrea evinse dal suo sguardo calmo e piatto che era disposto a concederle una certa basilare attenzione, o che perlomeno stava attestando la sua presenza e la possibilità che lei lo avesse raggiunto per interagire con lui. Solamente che, a conti fatti, lei ora non aveva idea di che cosa volesse dire o fare. Comunque, pensò bene che avvicinarsi a lui fosse un buon inizio, anche se qualcosa nella figura del ragazzo la disarmava: sentiva che, nonostante il superficiale sentore di passivo distacco, qualcosa di muoveva dietro quello sguardo, trapelando una profonda forza, che restava al momento quasi acquattata dietro le parvenze di indifferenza, come se raccogliesse le energie per qualcosa di decisivo.

Se c’era una minaccia da cogliere, Andrea la ignorò. I suoi passi risuonarono uno dopo l’altro, nettamente, nel vuoto della stanza, e si azzittirono solo quando lei si ritrovò vicino a lui.

Danny la guardava con un silenzio che sembrava un pacato invito a parlare, dettato da pura e un po’ formale pazienza gentile.

Andrea gli fissava attentamente lo sguardo, studiando gli occhi. Eppure… già, indubbiamente: i suoi occhi erano blu scuro.

La ragazza ingoiò saliva e ritrovò la voce, che uscì comunque in un roco sforzo azzardato.

«Blu scuro.» mormorò.

Dopo qualche istante, come se le parole avessero avuto bisogno di un po’ di tempo per penetrare nell’indifferenza del ragazzo, solcando la distanza che egli aveva disposto senza mezzi termini tra se stesso e tutto il resto, la sua fronte si aggrottò in un accenno di incomprensione.

«Cosa?» domandò.

Andrea si sentì piuttosto in difficoltà, ma rimase concentrata. «I tuoi occhi…» estrapolò dalle sue riflessioni «Sono blu scuro.»

Danny non disse più niente, ma continuò a guardarla come invitandola a parlare ancora, a spiegarsi meglio.

«Ti devo la vita; per due volte.» disse Andrea, con calma certezza.

Ora sul viso del ragazzo si animò un fastidio istintivo. Scostò lo sguardo da lei, socchiudendo gli occhi, e mosse appena le spalle, come per allontanare da sé qualcosa. «Non mi devi niente.» chiarì. Puntò di nuovo la sua attenzione sul paesaggio intravedibile dalla finestra, ma la ragazza intuì che era ancora concentrato su di lei. Per questo ritrovò ancora la voce, e parlò con maggiore chiarezza.

«Credo di aver capito… Non ero sicura che… No, non me lo posso ancora spiegare.»

Danny la spiò, spostando solamente le pupille. E quando vide una mano tendersi verso di lui si irrigidì, mentre un accenno di sorpresa rompeva la sua indifferenza.

Andrea gli sfiorò il viso con le dita, lasciandole infine poggiate contro la sua guancia.

Dopo qualche altro momento, Danny voltò un po’ di più la faccia verso di lei, guardandola più direttamente. Era arduo intuire cosa veramente stesse passando dietro i suoi occhi, ma dal modo in cui la fissava, quasi di sfida, ad Andrea risultò chiaro che se si fosse sottratta in quel momento non avrebbe più potuto recuperare l’attenzione di cui era oggetto.

«Non ho paura di te. Anche se so che… » esitò per un breve istante, ma la sua decisione non vacillava più. «Sei un lupo…»

Un breve luccichio illuminò gli occhi blu scuro, come un lampo, troppo rapido per evincerne il significato, che fosse di minaccia o di comprensione, o di entrambe le cose insieme.

Infine, le labbra di Danny si piegarono in un accenno di sorriso tagliente ed ironico; abbassò lo sguardo ed emise un lieve suono gutturale, simile a una risata trattenuta, dal gusto profondamente amaro.

«Cosa c’è?» domandò lei, abbandonata nell’incomprensione totale.

Gli occhi blu scuro tornarono a fissarsi su di lei, ora con maggiore padronanza, ma senza riuscire a celare completamente un vivido accenno di stupore quasi disarmato.

«Hai detto ‘lupo’… Sei la prima persona che non dice anche ‘mannaro’..,.» mormorò il ragazzo. Nonostante il suo tono di semplice constatazione, c’era una curiosità indubbia ora.

Andrea ci pensò per un po’. «Non avevo pensato a questo. Ho visto un lupo, ecco quanto. E mi ha salvato la vita. E penso che eri tu, che sei tu, anche se non mi so spiegare… Beh… non ha importanza, dopotutto.» disse, con piena sincerità.

Ora lo sguardo del ragazzo palesava uno studio accurato di lei, come se cercasse di prevaricare ogni sorta di apparenza per frugarle dietro gli occhi. «Hai ragione…» rispose infine «Non hai idea…»

Angustiata da quella presa di distanza scostante, Andrea sentì l’impulso di dire qualcos’altro, e le  parole le uscirono senza riflettere. «Non ho paura di te.» disse, in tono cristallino. «Non ci riesco.» aggiunse, mentre capiva che era vero, soprattutto ora che lo diceva.

Ma nell’udirla, Danny ebbe un fremito nervoso. Si allontanò di un passo, sottraendo al tocco delle sue dita il sentore della pelle della guancia, su cui faceva capolino un accenno di barba, e distolse da lei lo sguardo, con movimenti quasi scattanti, come se qualcosa lo avesse spaventato.

Tornò a guardarla, dal basso all’alto, gli occhi semicelati dalle sopracciglia e dai ciuffi biondastri, ora che manteneva il capo un po’ abbassato, come a spiarla cautamente e con sforzo infastidito. «Appunto. Non hai idea.» scandì in tono duro, che non ammette repliche. Subito dopo si stava già voltando. Abbandonò la stanza, senza fretta, anche se in qualche modo sembrava gli fosse urgente spostarsi, o perlomeno sottrarsi alla sua presenza.

Andrea udì il rumore dei suoi passi che rimbombavano sulla scala a chiocciola che conduceva in basso. La mano ancora semiprotesa, le dita che si andavano raffreddando, riadattandosi alla bassa temperatura che regnava all’esterno e all’interno della stanza, rimase a fissare la soglia priva di porta, come stretta in una morsa di spietata indifferenza che troncava ogni proposito sul nascere, soffocandolo senza appello, senza reale interesse né qualsivoglia motivo.

 

 

Soundtrack: Temptation (New Order)

 

 

 

 

Ritorna all'indice


Capitolo 35
*** 33 - UN CICCHETTO PER I TUOI PENSIERI ***


Capitolo 33

(UN CICCHETTO PER I TUOI PENSIERI)

 

Uther, in piedi sul terreno, immerso nel buio incalzante della giovane serata invernale, si guardava intorno senza apparente scopo, il fucile a tracolla, e le mani infilate saldamente in tasca. Il suo sguardo spaziava sul desolante panorama dei binari deserti; la figura del treno isolato che avevano utilizzato, con i suoi soli tre vagoni, sembrava incombere con la sua ombra scura su quell’ambiente inanimato, come un rimasuglio di passato. Il ragazzo, solo e immerso nei suoi solitari pensieri, aveva un che di malinconicamente saldo, come se qualcosa in lui resistesse a ciò che quella vista trasmetteva, e il resto vi si accompagnasse con completa sincronia.

Per questo, quando Uther udì il rumore chiaro di piccoli passi che spezzavano il silenzio, gli parve quasi una sorta di allucinazione uditiva. Ma sapeva di non starsi sbagliando. Occhieggiò alle sue spalle, vedendo la sagoma minuta e femminile dai capelli bluette di Andrea, che si era soffermata sulla soglia dell’edificio in cui erano accampati, e lo fissava, con incerta esitazione.

Poco dopo la udì venirgli incontro, ma egli restò girato di spalle, lasciando che lei si fermasse di poco più indietro rispetto a lui, intuendo a ragione che le stava prestando una gentile ma riservata attenzione.

Andrea rimase per diversi minuti in silenzio, accordandosi alla solitaria contemplazione del paesaggio in cui si stava già cimentando Uther; ma in lei si agitavano più intensamente diverse emozioni, le bruciavano sotto le piante dei piedi. A lungo andare, perciò, quel silenzioso abbandono alla desolazione della vecchia stazione sembrava renderle quelle braci non abbastanza tiepide, bensì sempre più fastidiose e pungenti.

E di colpo, mentre fissava le spalle di Uther, le sorse in mente un’idea improvvisa, urgente quanto azzardata.

«Senti, Uther…» lo chiamò.

Senza voltarsi, lui girò un po’ il viso al di sopra della spalla, dandole segno che l’ascoltava.

Andrea si schiarì la voce, esitante, ma parlò con sicurezza «Ti andrebbe di dormire insieme, stanotte?»

Se la domanda lo aveva colto di sorpresa, il ragazzo non lo diede a vedere, se non per un immobilizzarsi leggero delle sue membra, come irrigiditosi per un attimo. Tornò a voltare la testa in avanti, rivolgendole la nuca bionda, e diede qualche debole calcio distratto al terreno di fronte a sé, in atteggiamento riflessivo. Infine rispose «Sì, perché no?»

Andrea trattenne il fiato per qualche istante, infine lo ributtò fuori, senza rumore, e rispose un composto «Bene. D’accordo…»

«Solo una cosa… » disse Uther, in tono fermo e chiaro. Si voltò completamente verso di lei, guardandola. «Prima ci terrei a saperlo. A chi dobbiamo fare dispetto?»

Andrea rimase di stucco. Lo fissò attentamente. Lo sguardo gentile ma allo stesso tempo denso di piena consapevolezza del ragazzo si stemperò in un lieve sorriso di complice comprensione. Di fronte a quell’espressione, le spalle di Andrea crollarono in segno di sconfitta.

«Va bene… lascia perdere… » mormorò, arrendendosi. «Scusami… » disse ancora, con sincera apprensione.

Uther sorrise con maggior rilassatezza, scuotendo appena il capo, come a dissipare la sua preoccupazione. «Niente.» disse. «La proposta, comunque, era allettante.» chiarì, con rispetto.

Stavolta fu la ragazza a sorridere, anche se più tristemente «Okay… grazie, Uther

Lui diede una leggera alzata di spalle, a significare che non c’era problema. Ma subito dopo il suo sguardo si animò maggiormente, mentre fissava un punto alle spalle di Andrea. La ragazza si voltò, e notò Kumals, in piedi sulla soglia che lei stessa aveva varcato poco prima, una sigaretta accesa tra le labbra, le mani in tasca, e appoggiato con una spalla allo stipite.

Li guardava come se non stesse fissando niente di particolare, ma in lui c’era qualcosa di inquisitorio che mise Andrea a disagio.

«Penso che… tornerò un po’ dentro, a scaldarmi, accanto al fuoco. E ad aiutare Yuta…» disse Andrea, e si girò a informare Uther. «Ha deciso di cercare di stampare tutti i dati recenti che compaiono sugli schermi di quei macchinari. Forse possono essere significativi… Semmai troveremo qualcuno in grado di comprenderli, cioè.» spiegò.

Uther annuì con aria grave. «Sì, mi sembra una buona idea.» commentò.

«Bene… a più tardi, allora…» concluse Andrea, avviandosi poi per tornare su per la ripida e stretta scala a chiocciola.

Quando attraversò la soglia, Kumals si scostò appena per lasciarla passare, lo sguardo rivolto al terreno, e la sigaretta sottratta momentaneamente alle labbra per favorire l’espulsione di una piccola nuvola di fumo; agitando appena la cicca con le mani, per far cadere la cenere della piccola brace, rimase chiuso nel suo candido disinteresse apparente. Nonostante ciò, Andrea aveva la curiosa impressione che la stesse fissando intensamente, anche se i suoi occhi erano rivolti altrove. Gli passò accanto, cercando di non mettere troppa ansiosa fretta in questa azione, e sparì su per le scale buie, ogni rumore di passo sugli scalini di ferro che sembrava accrescere ulteriormente il suo disagio.

Uther era rimasto semplicemente a guardare Kumals. L’altro, tuttavia, gli lanciò appena un’occhiata perfettamente distratta e tranquilla, continuando a fumare, prima di rivolgere uno sguardo di freddamente pacifica contemplazione sui binari vuoti tutt’attorno.

Uther emise uno sbuffo di abbastanza infastidita constatazione tra sé e sé, e gli si incamminò poi incontro, senza alcuna fretta. Gli si fermò accanto, si dispose anche lui sulla soglia, e imitò malamente il suo distribuire all’intorno occhiate di calma zen. Aveva in volto una vaga smorfia insoddisfatta e un po’ amareggiata, come di chi soffre di mal di testa, nausea e bruciori di stomaco nel contempo, ma è profondamente persuaso di voler mantenere un’espressione quasi impassibile o addirittura compassata.

«Credi ancora che io abbia esagerato, con Danny?» mormorò dopo qualche momento Kumals, col tono di chi vuole semplicemente fare conversazione, dissimulando alla perfezione ogni eventuale interesse da coinvolgimento personale.

Uther considerò per un po’ la domanda in silenzio, infine alzò appena le spalle; socchiuse un poco gli occhi, fissi sull’orizzonte, in cui un tramonto rosso pallido si mischiava torbidamente con un minestrone di nuvole grigio-ghiaia, mandando deboli riverberi di fiamma spenta sull’azzurro molto chiaro delle sue pupille, come per imitare il gioco rosso-grigio su un azzurro diverso da quello del cielo. «E’ abituato alla tua intenzionale mancanza di tatto, ormai.» constatò.

Un leggero sorriso di contentezza a malapena trattenuta disegnò un’espressione più umana sul viso dell’altro, facendo risaltare l’ombra di qualche piccola ruga, e perciò rendendo più palese la reale portata di quel sorriso. «Ne sono sicuro.» disse.

Per qualche momento tornò a scendere un silenzio ora di natura completamente diversa, più rilassata. Kumals spiò il viso di Uther, e il suo lieve sorriso divenne un po’ più scorrettamente ironico, mentre uno dei suoi sopraccigli si alzava un poco, dandogli un’aria da critico intenditore. «Qualcosa ti preoccupa?»

Uther lo spiò a sua volta di rimando, con un rapido guizzo azzurro, e anch’egli sogghignò, dando segno di essere deciso a reggere il confronto. «Niente che debba preoccupare anche te.»

«Allora…» replicò Kumals, con calma «Come si suol dire… ‘un cicchetto per i tuoi pensieri’.»

Stavolta Uther lo guardò più direttamente, accigliato. «Non abbiamo niente da bere con noi.»

«Oh… Accidenti, non ci sei cascato.» rispose ironicamente Kumals.

L’espressione di Uther si adombrò, mentre tornava a concentrarla sull’orizzonte. «No, infatti no…»

Kumals capì perfettamente che quelle parole avevano suscitato alla mente di Uther altri argomenti. Cercò di approfittarne. «Hmm… Non mi diresti mai di cosa avete parlato poc’anzi tu ed Andrea, vero?»

Uther gli sorrise, in modo amichevolmente e furbamente affettato. «Esatto.»

«Già… Lo sospettavo…» risolse Kumals con un simile sorriso, lasciando cadere il mozzicone a terra e spegnendolo con la suola di uno dei suoi scarponi.

 

*

***

*

 

«Temo che non riuscirò a tenerlo acceso ancora per molto.»

Risvegliata da un inizio di torpore - tipico del sonno inquieto - dalle poche parole pronunciate con la voce profonda che ormai sapeva riconoscere, Andrea alzò gli occhi su Zoal, seduta a gambe incrociate vicino al piccolo falò, ed impegnata a cercare di riattizzarne un po’ la fiamma, smuovendo con un bastoncino i rimasugli di oggetti che avevano destinato all’uso di combustibile: per loro fortuna la maggior parte era di legno.

Riconoscendo che una delle sue gambe si era addormentata, e che aveva la schiena e la spalla corrispondente al polso ferito particolarmente indolenzite, Andrea si mosse un po’, stringendosi di più addosso una delle coperte che si erano portati dietro, e che si teneva calata sulle spalle e sulle gambe incrociate. Sotto di lei il tessuto del sacco a pelo in cui avrebbe dormito per quella notte emise il tipico rumore di tessuto sintetico e un po’ imbottito che fruscia. Nel muoversi si accorse che Duca aveva deciso di acciambellarsi su parte del sacco a pelo, e non si prese il disturbo di dare segno di aver percepito il suo movimento.

Zoal appoggiò a terra il bastoncino, e la guardò con i suoi occhi dalle sfumature verdi difficilmente afferrabili. Persino nel semibuio della stanza le sue pupille riuscivano a rilucere come se sorridessero, divertite di qualcosa pur senza intenzione di prendersene gioco. Andrea sapeva, ormai, che quella specie di sorriso panteresco non era rivolto maggiormente a cosa quegli occhi stavano fissando piuttosto che a tutto quanto.

«Come vanno la fronte e il polso?» le domandò Zoal.

«Hum… credo bene… » rispose, riservandosi il beneficio del dubbio.

Andrea fece per portarsi una mano alla fronte, ma si fermò in tempo, ricordando che poco prima Zoal le aveva impiastricciato le contusioni con quella specie di pomata di erbe che già le era stata propinata in occasione delle ferite da schegge di vetro. Non erano ancora guarite completamente, quelle, anche se per la loro scarsa profondità ormai non le dolevano più, e già ecco pronte pronte altre ammaccature. Le schegge che l’avevano trafitta erano le stesse che, al tempo in cui erano state a ciondolare dal soffitto della hall della scuola d’arte, parte del grande lampadario, avevano attirato in trappola mortale diverse persone inebetite, e poi avevano quasi schiacciato a morte lei ed Uther. E ancora, anche quelle nuove ferite corrispondevano ad una nuova morte, e in un certo senso ne erano state la causa scatenante.

Prima che potesse fermarli, alcuni flash confusi della scena violenta e truculenta a cui aveva assistito durante la giornata le ricomparvero alla memoria. Com’era possibile che quelle persone le avessero vissute così spesso? Ora aveva la risposta… loro non le subivano. Affatto. Loro erano in grado di combinare altrettanto… E rivide Danny, sporco di sangue non suo, eppure devastato dal rendersi conto di ciò che aveva fatto. ‘Tu non sai.’ le aveva detto. Sottinteso ‘…di cosa sono capace’? Rabbrividì più fortemente, e poi si accorse che Zoal la fissava ancora.

Se possibile gli occhi della donna avevano riflessi anche più vivaci, come se stessero seguendo con famelico interesse i suoi pensieri, leggendoglieli. Per un istante breve ma fulminante, Andrea ebbe l’impressione ingannevole che persino Zoal, con quegli occhi diamantini, potesse diventare pericolosa, come un basilisco.

«Devi essere molto stanca…» mormorò Zoal, e il suo tono mise in fuga ogni possibile fraintendimento. La sua voce calda e gentile lasciava trapelare il sincero proposito di consolarla e farle sentire una qualche vicinanza, un sentore d’appoggio; se c’era qualcosa di meno gradevole, in quella voce, era la non sorpresa di fronte alla constatazione che Andrea era esausta, e profondamente abbattuta e rintronata da ciò a cui aveva assistito in quel giorno. Gli occhi smeraldini sembravano quelli di una pantera che considera con affettuosa attenzione un cucciolo, tenendo presente che a separarli c’è  una decisiva disparità di esperienza nei confronti di certe cose.

«Volevo tenere acceso il fuoco almeno finché non ci fossimo addormentati più o meno tutti… Ma qui… O questi sacchi a pelo sono tremendamente scomodi, oppure non so perché tutti si stiano rifiutando così nettamente di provare a riposarsi… ». Ora nel tono di Zoal c’era una nota di divertimento che tentava di celare la preoccupazione.

Andrea osservò il resto della stanza. Nonostante i sacchi a pelo disposti a terra, al momento non si vedevano né Kumals, né Uther, né Danny. L’uomo che avevano catturato aveva apparentemente rinunciato a muoversi con propositi di ribellione alle corde di fortuna che lo mantenevano innocuo, probabilmente a causa del fatto che tutta la sua attenzione era spasmodicamente concentrata nello sguardo che dedicava agli schermi accesi dei vecchi macchinari. Seduta di fronte ad essi su una sedia molto consunta, Yuta era impegnata a cercare di capire come ottenere collaborazione da un’antiquata stampante, per poter tracciare su carta e portarsi poi con loro le informazioni contenute negli apparecchi, senza dover ricorrere allo spostamento di quei chili e chili di aggeggi grossi come armadi.

All’improvviso nel silenzio della stanza risuonò come uno scoppio la voce di Yuta. «Ti venisse uno stramaledetto accidenti!» gridò imbestialita, rifilando un pugno sul bancale dei comandi, evitando per un pelo di pigiare qualche pulsante, mentre digrignava i denti verso gli schermi. «A te e a chi ti ha progettato!» aggiunse, assestando un calcio alle macchine. «Ed anche a me che cerco pure di farti funzionare!» terminò.

L’uomo legato, nell’assistere a quella sfuriata di rumori e vociare, si rianimò, cercando di slegarsi con agitazione.

«E tu stai zitto!» gli intimò Yuta con ostilità, lanciandogli un’occhiata di fuoco, prima di tornare a voltarsi verso gli schermi. Si abbandonò per un momento contro lo schienale della pericolante vecchia sedia, allungando le gambe avanti e affondandosi le dita nei capelli. «Cazzo, che odio!» mormorò ancora, come tra sé e sé. Dopo qualche istante di immobilità, la ragazza esalò un pesante sospiro, rilassando un po’ le membra caricate di tensione. Di punto in bianco tornò a muoversi, appoggiando con risolutorio colpo le mani aperte sul pianale davanti a lei, evitando più consapevolmente e attentamente di urtare qualche pulsante, mentre diceva, con rinnovata pazienza «Va bene, ricominciamo da capo allora, maledetto arnese.»

Zoal, che si era girata a guardare la sorella, tornò a fissare Andrea, e scoprì sul viso della ragazza un’espressione un po’ più rilassata. Perfino un debole sorriso. Quando Andrea spostò lo sguardo su di lei, Zoal abbassò il suo e scosse la testa un paio di volte, con autoironica rassegnazione. «Fa tanta scena, ma credo che alla fine ci riuscirà.» confidò.

Andrea tentò di accentuare il suo sorriso, riuscendovi piuttosto malamente.

«Ad ogni modo…» riprese Zoal, sistemandosi con gesto vago e distratto le numerose gonne che indossava «Se mi permetti un consiglio… tu che puoi faresti bene a considerare seriamente l’idea di fare una buona dormita.»

Andrea ci pensò su per un momento, infine scrollò le spalle, piuttosto miserevolmente. «Sì, ma… non so… penso che farei fatica a dormire… Mi sento troppo stanca persino per dormire… o qualcosa del genere… » provò a spiegarsi.

Zoal la guardava con attenzione. «Capisco… Però una buona dormita può fare tanto, più di quello che immaginiamo, a volte. È stata una giornata pesante, soprattutto per te, credo.»

Andrea corrugò appena le sopracciglia, trovando fastidiosamente ragionevoli e azzeccate quelle parole. «Sì, io… » ammise, con circospetto tentativo di autoanalisi «Forse è che… Bhe, non sono ancora abituata a… questo genere di… cose. Ma mi ci abituerò… col tempo.»

«Oh, bhe… spero di no.» replicò Zoal.

Andrea comprese cosa intendeva, e si ritrovò a guardarla con curiosità. «Tu le avrai viste molte volte, ormai, scene del genere…» azzardò.

Sul viso di Zoal, rischiarato e ombreggiato insieme dalla luce del piccolo fuoco, si disegnò un’espressione profondamente trattenuta. «E’ sempre bene non parlare di cose che non si vorrebbero sentire.» rispose.

Andrea arrossì e abbassò il capo. «Ah! Sì, certo io intendevo… No, cioè, scusami… A volte dico delle sciocchezze.»

Zoal la guardò con maggiore attenzione. «Non è questo. Tutti noi commettiamo degli errori, quando non ci rendiamo ben conto di cosa le nostre parole possano risvegliare.»

Andrea rialzò il viso di colpo, gli occhi lievemente allargati.

«Come forse ho appena fatto io…» disse ancora Zoal, studiando l’espressione un po’ sconvolta dell’altra.

«Oh, è solo che… » mormorò piano Andrea, lentamente, tornando a riabbassare lo sguardo sul terreno. Aveva ora un atteggiamento profondamente contrito. «Credo di aver parlato a sproposito anche prima…» esitò a lungo, prima di terminare la frase. «…con Danny…»

L’interesse che brillava ora negli occhi di Zoal non sembrava particolarmente sorpreso. «Qualsiasi cosa ti abbia detto, devi considerare che non sempre abbiamo il completo possesso della nostra volontà, riguardo alle parole. Non sempre riusciamo ad ammaestrarle come vorremmo, o come davvero riteniamo che sarebbe il caso.»

Andrea la guardò, con un leggero cipiglio di disappunto. «No… credo di essere stata io a…» la sua voce si smorzò nel silenzio. Dopo un po’, riuscì a sussurrare. «E’ un lupo. Non è vero? Era lui che ci ha… che mi ha salvato, l’altra notte, alla scuola… Se non fosse stato per lui… Ma non sembrava fiero di ciò che aveva fatto… Ed è stato come se avessi sbagliato a mostrarmi grata… Dopotutto però mi ha salvato la pelle… e con oggi fanno due volte…»

Zoal si era fatta più seria del solito, persino il solito lieve sorriso apparentemente distratto che le disegnava appena le labbra in un accenno di smorfia (auto)ironica si era nascosto meglio. Quando parlò, ad Andrea parve che la sua voce si fosse fatta più profonda.

«Se hai detto qualcosa che gli è risultato sgradevole, e se ciò non era affatto nelle tue intenzioni, sono certa che lui l’ha capito. Ma a volte è molto arduo frenare solo con questa consapevolezza ciò che le parole possono suscitarci.»

Si interruppe, fissando Andrea con gentilezza.

«Sì, ma… aldilà delle mie intenzioni, devo comunque avergli fatto del male in qualche modo… questo è il fatto, dopotutto…» mormorò Andrea, abbattuta. Dopo un momento si arrischiò a rialzare lo sguardo su Zoal, in cerca di altre parole.

«Non posso parlare a nome di Danny, e non desidero farlo. Perciò parlerò per me.» disse la donna, con maggiormente aperta decisione. «E quel che ti dico è che credo che per lui oggi sia stata dura. L’abitudine non può tutto, non per tutti, anzi… a volte determina chiaramente la natura diversa delle persone… ».

Zoal riprese in mano il pezzetto di legno e smosse un poco i detriti che bruciavano nel piccolo falò; il fuoco faceva giochi di luce ed ombra sul suo lieve sorriso, triste e affettuoso. Con una mano carezzò distrattamente Danza, sdraiata e addormentata vicino a lei. Riprese a parlare fissando intensamente le fiamme danzanti. Aveva un tono singolare, ora, come se stesse leggendo nel fuoco ciò che diceva, come se andasse cavando predizioni e delucidazioni fumose.

«Il sangue nei suoi occhi è come una nuvola sul suo cuore, e non lo lascia respirare.» mormorò «Ma non preoccuparti, bambina… Non gli è mai andato di traverso al punto da strangolarlo… Benché mandarlo giù gli bruci le interiora, ogni volta. Ma non è sempre stato così come è ora, per lui. È cambiato molto da allora… Ed è curioso, come vedendo una cosa con occhi nuovi, si possa trovare intollerabile ciò di cui prima si viveva giorno dopo giorno, tranquillamente. C’è chi piuttosto si cava gli occhi. Ma lui ha vomitato ciò che aveva ingoiato fino ad allora, e non ha dovuto rivoltarsi poco lo stomaco, no… non poco. Forse non ha ancora terminato. Tuttavia… ho fiducia in lui. Metterei una mano sul fuoco. E non sono completamente certa in una sua riuscita più di quanto lo sono che sacrificherei volentieri una mano per lui.»

Come se fosse rimasta incantata dall’osservare le fiamme, mosse le palpebre, e le sbatté un paio di volte. Il suo sguardo si schiarì, e quando lo rivolse di nuovo su Andrea aveva rinnovato il suo solito sorriso un po’ sardonico e un po’ malinconicamente gentile.

«Dormi ora. Domani sarà un’altra cosa…»

La donna si tirò in piedi con calma, e si allontanò dal piccolo falò, andando ad affiancarsi a Yuta. Le posò una mano sulla spalla, guardando al di sopra della ragazza seduta le righe che scorrevano sugli schermi; quando Yuta alzò brevemente gli occhi su di lei, le sorrise, e le porse la tazza che aveva in mano. Dalla tisana si levava una leggera spira di fumo.

Fu questa l’ultima cosa che rimase nella memoria di Andrea, che, sdraiatasi nel sacco a pelo dopo aver scostato praticamente di peso un sospirante Duca, sentì appena le membra del suo corpo, più appesantite dalla stanchezza di quanto avesse immaginato, rilassarsi completamente; e si addormentò senza accorgersene.

 

Ritorna all'indice


Capitolo 36
*** 34 - PARTITA A CARTE ***


Capitolo 34

(PARTITA A CARTE)

 

Nella luce dell’alba, colorata di un pallido rosa, e ancora impegolata con le diradanti ombre livide della parte morente della notte, i binari si stendevano deserti, serpeggiando su chilometri e chilometri privi di traccia umana.

Quasi increduli di tanto spazio a loro disposizione, una svariata gamma di creature girovagava, con un’aria svagata e distratta, che sembrava un atteggiamento assonnato. I piccoli roditori, qualche lepre, due o tre razze diverse di bisce, la volpe e qualche gatto che si aggiravano ognuno per i fatti loro, tuttavia, dovevano essere ben più accorti di quanto apparivano, perché quando un piccolo rapace notturno passò, a volo abbastanza basso e poco interessato, il loro brulichio divenne all’improvviso invisibile: si acquattarono, infrattarono, nascosero e celarono tutti all’unisono, sfruttando le più impensabili occasioni di nascondiglio che si potevano scovare e inventare sul momento, dai radi cespugli selvatici fino alla più a malapena sufficiente frattura del terreno semi-ghiacciato e spaccato.

Poco dopo, quando ormai le ali dell’uccello erano abbastanza lontane, iniziarono a far di nuovo capolino dai loro rifugi temporanei, e la maggior parte di loro sembrò prendere con determinazione la via della tana, o comunque migrò verso luoghi più riparati dalla svelante luce diurna, disertando poco a poco i binari per dirigersi verso i terreni più ricchi di vegetazione selvatica che bordavano il terrapieno rialzato. Forse erano tutti però ben consapevoli di essere esposti a una minaccia potenziale; si trattava più precisamente di una sagoma che si delineava chiaramente contro il cielo, appollaiata immobile su uno dei grossi piloni che svettavano sui binari a intervalli più o meno regolari.

Il fatto che quella sagoma fosse rimasta lassù immobile per tutta la notte, senza degnarli di attenzione in qualche modo minacciosa, non sembrava comunque costituire per loro una rassicurazione sufficiente; i più erano ben avvezzi al comportamento tipico del predatore paziente, capace di restare immobile per ore ed ore, imitando con perfezione un assoluto disinteresse, salvo approfittare di una loro minima svista, neanche la prima, ma quella che, dopo la terza o la quarta, è  abbastanza flagrante da poter concedere una buona probabilità di riuscita all’agguato.

Inoltre, il fatto che la sagoma avesse sembianze chiaramente umane non valeva a rassicurarli sulle scarse capacità di cacciatore disarmato del soggetto; l’aria un po’ ventosa che aveva perdurato per tutta la notte e solo ora, sul far del primo giorno, iniziava a infiacchirsi, aveva portato alle narici di tutti gli animali della zona un odore più somigliante a quello di un cacciatore non umano, non completamente almeno.

Per questo quando la figura si mosse, si ripeté la scena di quando era passato in volo il rapace; tutte le sagome che si muovevano furtivamente si infrattarono con la rapidità di mezzo battito di ciglia, aspettando, col cuore che batteva forte, che l’attacco passasse. Ma non ci fu nessun agguato. La sagoma umana si limitò a stiracchiarsi e muoversi un poco, come a riaccomodare meglio la sua posizione seduta su uno dei bracci del grosso pilone metallico. Lo fece con estrema scioltezza, come se non avesse nulla da temere rispetto alla caduta di qualche decina di metri a cui una perdita di equilibrio l’avrebbe immancabilmente destinata. Poi tornò immobile. Nonostante ciò, quando parecchi minuti dopo alcune delle creature - fin troppo consapevoli di poter essere considerate valide prede da parecchi altri animali - osarono avventurarsi fuori dai loro rifugi di fortuna, si muovevano in modo leggermente diverso, più prudente, e tenendo sotto stretto controllo la figura appollaiata in alto.

La maggior parte degli animali vaganti aveva ormai abbandonato il terrapieno, quando i rimanenti dovettero far fronte ad un’altra minacciosa presenza. Anche questa aveva sembianze umane, ma nel suo caso l’odore che emanava lo confermava anche in pieno. Provenendo da uno dei due grossi edifici di cemento della vecchia stazione di Foelm, questo umano-indubbio camminò con calma, come passeggiando, fino a fermarsi sotto all’alto pilone su cui era appollaiata l’altra figura.

Alzò gli occhi per un momento a guardare in su, quindi, sempre con molta tranquillità, si apprestò ad arrampicare il pilone, salendo per la scalettina di ferro battuto annessagli appositamente dai costruttori, ad uso degli operai per eventuali riparazioni ai fili elettrici.

Quando Kumals giunse in cima al pilone, muovendosi con attenta precauzione, ma con una scioltezza non priva di un certo composto stile, si sistemò seduto, non osando però appressarsi troppo alla posizione dove si trovava l’altro. Per quanto lo riguardava, Kumals preferiva poter contare anche sul tenersi stretto circondando con un braccio la punta del pilone, senza spingersi più in fuori sul braccio orizzontale della costruzione, dove avrebbe potuto contare solo sull’equilibrio della posizione seduta per evitare di cadere.

Una volta che si fu accomodato in maniera soddisfacente, restò qualche minuto a contemplare il paesaggio scarno che si vedeva da lassù. L’unica nota abbastanza addolcente sul terreno semi-ghiacciato e spaccato, percorso dai binari deserti, vagamente brulicanti di animali vaganti, e sul terrapieno che sorgeva dalle distese incolte popolate di vegetazione selvatica come il dorso appiattito di un serpente semischiacciato, era la luce morbida dell’alba inoltrata.

Kumals si accese una sigaretta, che aveva precedentemente arrotolato, prima di trovarsi appollaiato là in cima, e rimase ancora in silenzio per qualche momento. Poi, con una certa insoddisfazione, si voltò a guardare l’altra figura seduta immobile, con lo sguardo perso sul paesaggio come se non lo notasse un granché, e che sembrava non aver voluto notare un granché nemmeno il fatto di non essere più da sola.

«Buongiorno.» esordì Kumals, con affabilità chiaramente ironica e amichevole «Dormito bene?»

Finalmente l’altro gli gettò un’occhiata obliqua, come se lo notasse solo ora, senza nemmeno voltare la testa. «Buondì, Kumals.» disse solo.

Kumals sospirò appena, e gli porse una sigaretta, dopo averla accesa con la sua, sporgendosi quel tanto che osava fare, senza sognarsi di abbandonare nemmeno per un istante la presa dell’altro braccio attorno al pilone.

Danny la prese, sporgendo il braccio a sua volta, con aria distratta che distolse solo per un momento, di nuovo, dalla contemplazione assente del panorama.

Kumals lo guardò pensierosamente fumare per qualche minuto, in silenzio, infine si schiarì la voce. «Hai fatto bene a far la guardia, stanotte. Ma saremmo stati felici di darti il cambio. Più felici, insomma, che saperti qui insonne tutto il tempo.»

«Insonne?» ribatté Danny, mostrando una lieve sorpresa.

Kumals aggrottò le sopracciglia. Non amava essere preso in giro in quel modo distratto, non da chi non mostra mai un simile modo di fare con tanta naturalezza scontata.

«Non mi vorrai dire che hai dormito qui… Sei capace di stare in equilibrio come un canarino sul trespolo?»

Danny fece una leggera smorfia, un tipo di smorfia che poteva risultare singolare sul volto di una persona, perché si presentava come un piccolo arricciamento delle labbra e la punta della lingua che faceva capolino tra i denti, e durava solo per un paio di secondi, sembrando quasi inconscia. Kumals la notò, non perché la vedesse per la prima volta sul suo viso, ma perché non ve la vedeva da molto tempo*. Ora Danny contemplava la sigaretta che stava fumando, con aria assente.

«Comunque…» riprese Kumals «Notato niente di interessante? O meglio, qualcosa di ‘sospetto’?»

Ora Danny rivolse lo sguardo verso di lui, tornando a trattare la sigaretta come se non fosse niente più che una sigaretta. Se quest’ultimo gesto avrebbe potuto instillare in Kumals un po’ di sollievo, il fatto invece che l’occhiata del ragazzo risultasse così carica di profonda serietà e intenzione lo distolse da ogni genere di rilassamento, e continuò invece ad alimentare una sua interna, personale e testardamente irrivelabile preoccupazione.

«Abbiamo qualcuno alle costole.» lo informò Danny «Forse lo stesso che abbiamo incrociato alla scuola, la seconda volta.»

Kumals non ne parve eccessivamente turbato. Danny ne rimase sorpreso e vagamente deluso, come se si fosse aspettato di esercitare un potere scenico ben maggiore. Notandolo, Kumals si sentì meglio, e il sogghigno che voleva imprimere alle sue parole si rivelò più che altro un sorriso quasi sollevato.

«Sì, lo immaginavo. Per la precisione, ci hanno fatto una soffiata.»

«Una soffiata?» Danny aggrottò maggiormente la fronte «E chi?»

«Ha chiamato Ramo, ieri sera. Dice che poco dopo che siamo partiti lui, Tirch e Mama hanno fatto una saggia passeggiata intorno alla casa, e Tirch ha annusato qualche traccia, mentre Mama era di pessimo umore, anzi, proprio incavolata nera. Probabilmente quel tipo ci ha seguito fin dall’inizio. Mantenendosi a una più che valida distanza…»

L’espressione di Danny si era incupita, ma ora il suo viso mostrava in ogni caso ben più capacità di sentimento rispetto a pochi minuti prima, e Kumals nascondeva a meraviglia dietro i suoi modi il grande sollievo che provava. Si limitava ad abbracciare il palo con maggiormente grata gentilezza.

«Oh.» commentò inizialmente Danny. «Ma io ne ho sentito qualche traccia solo stanotte… Prima non ne ho sentito l’odore. Non avevo alcun sospetto che… e non è che non avessi pensato a questa possibilità e non ci stessi costantemente attento, anzi… è proprio vero il contrario!»

«Avevamo già calcolato la possibilità che questa persona sia sufficientemente abile da non farsi sentire, Danny, nemmeno da te.» osservò Kumals con l’aria di volerlo rassicurare. «Probabilmente si è limitato a mantenersi a grande distanza, e a tenersi sempre sottovento.»

«Allora perché rivelarsi stanotte? Sicuramente poteva vedere benissimo che ero di guardia. Mi sono messo quassù proprio per evidenziarlo…»

«Oh, credevo fosse una posa scenico-melanconica…» interruppe Kumals, con aria bonariamente punzecchiante.

«…e per cercare di spingerlo a venire allo scoperto e tentare di attaccarmi. In quel caso, avrei potuto finalmente rispondere come si deve ai suoi attacchi.» Danny mostrò i denti appena un po’ più del necessario, mentre parlava, e un bagliore sinistro, un preludio di ferocia aggressiva, fece una fugace comparsa nelle profondità delle sue pupille.

«Il fatto è che probabilmente aveva la mezza idea di avvicinarsi, ma vedendoti ha solo tentato di studiare se poteva giocare in qualche modo la tua guardia, e non c’è riuscito. Forse ha aiutato il fatto che io ed Uther ci siamo dati il cambio a fare la guardia col fucile da una delle finestre dalla parte opposta di questa rispetto agli edifici…» buttò lì distrattamente Kumals.

Danny lo guardò in tralice. «Ma lo avrei sentito anche se si avvicinava dall’altra parte! Mi sono messo appositamente da questa parte perché la direzione del vento mi avrebbe portato il suo odore o perlomeno il rumore e…»

«Sì, sì, lo so, e poi ci sono Duca e Danza che si sarebbero svegliati con un nonnulla, oltre ai trabocchetti che Zoal ha disposto qui d’attorno… Ma ci siamo sentiti più tranquilli in questo modo…» spiegò Kumals «Anche perché Yuta ha passato buona parte della notte litigando con quel computer.»

«Ah, già…» mormorò Danny «E ci è riuscita?»

Kumals lo guardò con aria critica, rivolta in realtà ad altro. «Ci ha svegliato circa un quarto d’ora fa lanciando grida di vittoria degne di un esercito bellicoso, perché è riuscita ad avviare la stampa…»

«Sì… capisco cosa erano quelle grida… Pensavo fosse qualcuno nel sonno… Avendo sentito che non erano grida di aiuto o di allarme non mi sono preoccupato di venire a controllare…» si giustificò Danny, mentre un pallido sorriso cercava di venire a capo della rigidità del suo volto, come contratto e poco dedito al mostrare troppo spontaneamente qualche espressione particolarmente vivace. Kumals, però, sapeva che non era così, di solito.

«Però…» continuò Danny, con aria pensierosa «Continuo a non capire cosa diavolo abbia in testa questo cecchino… Se voleva spiarci e basta, non si sarebbe rivelato. Se voleva attaccarci… be’, perché non l’ha fatto? Non ci ha nemmeno provato…»

«Perché sapeva che avrebbe fallito, in questo caso.» disse Kumals «Credo che abbiamo a che fare con una persona particolarmente opportunista. Ha un carattere da mercenario, a mio parere, e forse lo è. I suoi ordini non sono stati dati con precisione, o non in maniera molto vincolante… oppure è uno abbastanza esperto da saperli reinterpretare a seconda delle circostanze. Ci tiene più ad evitare di finire dentro a una completa disfatta che metta a repentaglio la sua vita piuttosto che ad eseguire a puntino i comandi. Non ha nessun particolare vincolo morale, ideologico o che altro. Un mercenario perfetto, oltre che un abile cecchino, come avete potuto constatare alla scuola… Inoltre, conosce le tue capacità, sa come trattarle in modo che non gli siano fatali, e sa che non siamo sprovveduti abbastanza da permettergli di attaccarci senza fargli rischiare grosso, troppo grosso.»

Kumals guardò con contrarietà la sigaretta ormai quasi finita. «In altre parole, finché siamo accorti non dovremo temere da lui – o lei – niente di grave come un attacco diretto… Ma sembra deciso a farci da angelo custode. Se siamo bravi, non ci faremo saltare i nervi solo per questo, offrendogli la possibilità di un nostro errore per poterci danneggiare.» L’uomo rivolse a Danny un’occhiata significativa. «E noi siamo abbastanza bravi per questo.» affermò con calma, e l’ombra di un ghigno convinto di sé.

Danny rifletté qualche momento sulle sue parole, e infine scosse le spalle con scontento. «A me tutta questa cosa irrita maledettamente.» chiarì «Perché non andiamo a stanarlo e ce lo togliamo di torno? Inoltre, se lo prendiamo e riusciamo a farlo parlare, ci potrebbe dire un sacco di cose interessanti, secondo me!»

Kumals lo guardò direttamente. «Credo che saprebbe sfruttare meravigliosamente questa opportunità per farci perdere tempo e fiaccarci i nervi. È riuscito a sfuggirti già una volta. E se sa di te, probabilmente sa anche qualcosa delle nostre capacità. Se è uno che sa fare bene il suo lavoro, come credo che sia, si sarà adeguatamente informato sulle nostre capacità.»

«E allora qual è il piano? Ce lo portiamo dietro a tempo indeterminato?» domandò Danny, piuttosto astiosamente «E comunque ci sta pur sempre spiando. Riferirà delle nostre mosse. Qualsiasi cosa tentiamo di fare, o qualsiasi informazione cerchiamo o troviamo, lui la saprà, e potrà comunicarla ai suoi superiori, che forse sono gli stessi che hanno scatenato questo casino di gente rimbecillita.»

Kumals aveva ora un’espressione felina. «Danny, quando si ha a che fare con gente dotata di tale professionalità, bisogna sedersi al tavolo e iniziare una bella partita. Se sappiamo giocare bene, faremo in modo di rivolgere a nostro favore qualsiasi mano capiti, e non metteremo mai in mostra tutte le nostre carte, anzi, faremo di tutto per depistare l’avversario…»

Danny si voltò a mezzo busto verso Kumals. «E noi che carte stiamo nascondendo?»

L’altro stava studiando un modo per riuscire ad arrotolarsi un’altra sigaretta senza nel contempo abbandonare la presa del braccio attorno al pilone. Danny strisciò col sedere sul palo su cui era appollaiato, avvicinandoglisi, e gli sottrasse la sigaretta dalle mani sbrigativamente, per arrotolarla lui stesso. «Dai qua. Pensa a parlare.»

Kumals lo guardò con aria di avvertimento ammonitorio per un momento, cosa che d’altra parte fu ignorata da Danny. «Se questo tipo è abbastanza bravo come sembra, non dubito che possa anche intercettare le nostre conversazioni. È meglio che non stiamo qui a parlare delle nostre carte così allo scoperto… Volevo solo rassicurarti sul fatto che ho già preso certe contromisure. Ne parleremo più avanti.»

Lo sguardo che Danny gli stava rivolgendo era particolarmente ombroso.

«Posso avere la mia sigaretta, ora?» domandò Kumals, significativamente.

Danny ci pensò su per un momento, infine si infilò la sigaretta dietro un orecchio, sospirando con fare pazientemente arreso. «Dammi del tabacco, ne faccio su un’altra.»

Kumals gli passò tabacco e cartina, e si mosse un poco con precauzione, cercando invano una posizione un po’ più comoda, e chiedendosi come diavolo avesse fatto Danny a restare lassù tutta la notte mantenendo la sensibilità delle gambe nel contempo.

«Comunque… ci sono anche dei lati più positivi.» disse ancora Kumals.

Danny alzò per un momento lo sguardo dalla seconda sigaretta che stava arrotolando. «Ah sì?» domandò scettico.

«Per iniziare…» Kumals si interruppe momentaneamente per prendere la sigaretta e accendersela. «Per iniziare…» riprese, in tono più sereno «comincio ormai a pensare che chi ha ordito questa faccenda sia drammaticamente a corto di personale. Sembra che abbia affidato la custodia dei nostri movimenti a una sola persona. Questo è un buon segno. Anche se la qualità, a quanto sembra, è ben sufficiente per rimediare alla scarsità. Però rimane il fatto che noi siamo in di più, al momento, e questo, tecnicamente parlando, può essere meravigliosamente sfruttato come un vantaggio.»

L’espressione di Danny, che era tornata distratta, si rifocalizzò di colpo, nel mentre che le parole di Kumals gli rivelavano più di quanto esprimevano chiaramente. Gli andò di traverso una boccata di sigaretta, e si ritrovò a tossire faticosamente.

Kumals si sporse gentilmente, e sempre molto cautamente, per battergli qualche colpo d’aiuto sulla schiena con una mano. Danny però riuscì a dominare abbastanza la tosse da spostare con un gesto lento ma determinato il suo braccio, e lo guardò con intenzione.

Sotto quello sguardo, Kumals tentò di dominare l’imbarazzato senso di colpa che gli suscitava. «Ti assicuro che non…» iniziò a dire.

«Kumals.» disse Danny, con ira gelida «Fammi un favore. Evita di rassicurarmi su qualsiasi cosa…»

«Mhm… d’accordo… Però vorrei che ti fosse chiaro che era necessario sfruttare ciò che era a nostra disposizione, e per come vanno le cose al momento non vedevo come altro avremmo potuto fare per…» Kumals esitò, l’occhiata gelida dell’altro ancora fissa su di lui, perentoriamente.

«Ci ho pensato molto, prima, ho valutato tutte le altre nostre opportunità e…»

Danny continuava a guardarlo fisso, con netto rimprovero.

Kumals distolse lo sguardo, piuttosto a disagio, e diede un profondo sospiro, risolvendosi infine ad un più appropriato silenzio. Dopo diversi minuti, Danny distolse quello sguardo glaciale dall’uomo, ma la sua espressione adirata non mutò affatto.

«Comunque…» si arrischiò a dire Kumals, dopo diversi minuti «Questo giro qui a Foelm è stata un’ottima cosa, in fondo.»

Danny gli ributtò gli occhi addosso, con un’espressione di fuoco.

«Scusa, mi sono espresso male…» cercò di rimediare Kumals «Quel che intendevo, è che abbiamo rimediato dati preziosi in più… Quelli che Yuta sta stampando. Credo che abbiano molto a che fare con ciò che sta accadendo. E se riusciremo ad usarli, potrebbero diventare parte della soluzione. In effetti, il fatto che il nostro “angelo custode” fosse impaziente di tentare un attacco, stanotte, al punto di azzardare qualche tentativo di avvicinamento che ha rivelato la sua presenza in modo tanto grossolanamente evidente… mi fa supporre che il fatto che siamo riusciti a trovare quei dati gli risulti particolarmente irritante. È un buon segno.»

Danny tornò a guardare il paesaggio, con aria riflessiva e dubbiosa. «Spero di scoprire che hai ragione…» mormorò, senza molto entusiasmo.

Kumals gli rivolse un’occhiata quasi affettuosa. «Danny…» lo richiamò con voce pacata.

Il ragazzo lo guardò, senza cambiare la sua espressione contrariata nemmeno quando incontrò gli occhi gentili dell’altro.

«Se non fosse per la tua presenza, saremmo tutti molto più innervositi in questa specie di partita a carte… e giocheremmo molto meno bene.»

Il ragazzo annuì appena, accettando quello che sembrava un incoraggiante riconoscimento della sua collaborazione. Ma il suo sguardo si era rifatto distante e ben poco orgoglioso di sé quando lo distolse, tornandolo a fissare sui binari che si perdevano lontano sull’orizzonte, ormai abbastanza generosamente illuminato dalla luce mattutina.

 

 

 

* la smorfia fatta qui da Danny (cioè l’arricciare un po’ le labbra sui denti e far sporgere la lingua tra di essi) è parte tipica della mimica dei lupi, e corrisponde, a quanto se ne sa, a una sensazione di nervosismo e rabbia.

 

Note dello scribacchiatore:

ed ecco qua, ho dovuto attardarmi in certe faccende e così sono un po’ in ritardo nella pubblicazione. Stavolta aggiungo nota solo per dire che l’ultima parte della chiacchierata tra Kumals e Danny risulta effettivamente criptica perché le parole accennate da Kumals hanno fatto capire a Danny cosa sia stato ordito; il tutto diventerà chiaro a chi legge nel prossimo capitolo. E a proposito di questo, il prossimo capitolo lo pubblicherò anche tra meno di 5 giorni magari, visto che sono stato un po’ in ritardo ultimamente. Alla prossima!

Ritorna all'indice


Capitolo 37
*** 35 - MAMA NON MAMA ***


Capitolo 35

(MAMA NON MAMA*)

 

Era mattina anche sulle colline boscose intorno alla zona di Castle MacHearty. Una mattina soleggiata del pallido sole invernale.

Il respiro di Mama si tramutava in ampi sbuffi di aria condensata, in nuvolette più piccole e a stento visibili quello di Tirch, che le trotterellava vicino. Entrambi si mantenevano a una distanza di sicurezza - carica di un evidente dubbio - rispetto al gruppetto umano che procedeva nel sottobosco poco avanti a loro. Di tanto in tanto Tirch accennava il proposito di volersi avvicinare di più a Ramo e a Valentine, ma i movimenti convulsi con cui si ribellava la figura che i due tenevano stretta tra loro, trascinandola a forza e quasi di peso, lo facevano desistere quasi immediatamente; con aria afflitta il cagnetto si riportava un po’ più indietro, e i modi orgogliosi di Mama, che partecipava al tutto con aria critica, non valevano a rassicurarlo nemmeno un po’.

Valentine inciampò per l’ennesima volta in qualche insidioso ramo di felce, si mantenne in piedi con prontezza di riflessi e strinse più fortemente la presa per sicurezza sulla figura che lei e Ramo stavano trascinando. «Maledizione! Stramaledette piante!» esclamò in tono relativamente basso. Nonostante la sua premura, il suono della sua voce provocò per un momento un agitarsi più animato di chi tenevano stretto tra loro. Ma la solida presa di Ramo si rafforzò con energia, trattenendo i tentativi di liberarsi del loro prigioniero.

«Ci siamo quasi…» sibilò il ragazzo, a mo’ di conforto.

«E meno male, diavolo!» sussurrò Valentine con sentimento.

Qualche decina di metri più avanti, Ramo rallentò, mentre il ritmo dei passi di Valentine si accordava automaticamente al suo, e quello del trascinamento obbligato a cui era sottoposta la persona tra di loro si adeguava forzatamente. Il gruppetto infine si fermò; anche Mama e Tirch, dietro di loro, si arrestarono bruscamente.

Respirando piuttosto affannosamente, Ramo e Valentine ristettero qualche momento immobili. In mezzo a loro la terza persona tentava di tanto in tanto qualche movimento stanco per liberarsi. Da dietro lo spesso strato di stoffa con cui era imbavagliata si udivano quasi costantemente versi mugolanti di sforzo, e la benda che invece le copriva gli occhi si era allentata abbastanza da iniziare un lento scivolamento sul naso piuttosto pronunciato.

Valentine scoccò uno sguardo irritato per controllare le corde con cui il loro prigioniero era stato saldamente legato, e infine guardò Ramo. «Allora… come facciamo adesso?»

«Prima di tutto controlla che funzioni davvero.» propose Ramo, in tono di ragionevole praticità.

«Abbiamo già controllato.» obbiettò Valentine, ma estrasse un apparecchio elettronico, ne spinse un pulsante per accenderlo, e attese pazientemente che lo schermo si illuminasse. Intanto Ramo si guardava attorno, studiando l’ambiente.

«Sì, tutto a posto.» disse dopo qualche minuto Valentine, sempre parlando a voce molto bassa. Nonostante ciò, ogni loro minimo movimento o suono provocava un rinvigorimento nel dimenarsi della terza persona, che si divincolava con forza nella loro presa.

«Certamente è indebolito. Altrimenti non saremmo riusciti a tenerlo solo in due…» osservò Ramo, con evidente nota di sollievo nella voce.

«Anche questo avevamo già provato prima, appositamente.» fece notare Valentine, mentre spegneva l’apparecchio e se lo rinfilava in una delle tasche del lungo cappotto nero in finta pelle che indossava, e che la stava facendo sudare fin troppo per i suoi gusti, a causa dello sforzo compiuto per trascinare fino a lì il corpo che ancora insisteva ad agitarsi, come se fosse completamente incapace di intuire che i suoi sforzi non sarebbero valsi a nulla. «Ripeto: qual è il piano ora?» insisté.

«Effettivamente questa è l’unica cosa che non abbiamo pianificato in anticipo…» mormorò Ramo, cercando di mantenere un tono ottimistico.

Valentine allargò gli occhi, con aria di incredulo e molto critico stupore.

«Ma basterà l’ispirazione del momento, è molto meglio in questo caso…» si affrettò a dire Ramo, come per impedirle di parlare. «Quindi, vediamo, vedi quel grosso ramo lì…? Sì, proprio quello. Stavo pensando che potremmo legare la corda lì, e l’altro capo alla sua vita. Poi tagliamo una frazione nello spessore della corda, e poi ce la filiamo. Probabilmente ci metterà un po’ a rompersi, e noi saremo abbastanza lontani. Non è certamente in grado di seguirci basandosi su cose come le nostre tracce, quindi rimarrà qui a vagare, e quindi come da piano…»

«Sì, sì, ho capito!» lo interruppe con una certa irritazione Valentine. «Non ho mai sentito una cosa fatta in maniera più raffazzonata alla meno peggio, ma la cosa più sorprendente è che potrebbe anche funzionare!»

«Hem… già… » riuscì a borbottare Ramo, con un certo imbarazzo. «A me sembra un buon piano…» tentò di protestare debolmente.

«D’accordo, in ogni caso non mi viene in mente niente di meglio, dovendoci pensare così all’ultimo momento.» puntualizzò Valentine. «Facciamo come hai detto.»

Una quindicina di minuti dopo elaborati e difficoltosi preparativi, il loro prigioniero giaceva legato per la vita alla corda, che serpeggiava brevemente sul terreno, e poi saliva quasi verticalmente per circa un metro, terminando annodata intorno al grosso ramo di un pino.

«Bene, vai.» disse Ramo, il quale teneva inchiodato il dimenante imbavagliato a terra, usando tutto il suo peso, tenendogli premute le ginocchia con decisione sul petto, ignorando le occasionali ginocchiate alla schiena, e mantenendogli una mano spiaccicata sulla faccia. Mentre così diceva, con la mano libera lanciò un coltellino a serramanico a Valentine.

Presolo al volo, la ragazza lo fece scattare, denudandone la lama, e prese a tagliare la corda.

«Quanta ne lascio?» domandò mentre lavorava con rapida precisione.

Ramo ci pensò su un istante. «Tagliane tra i due terzi e i tre quarti.» suggerì.

Valentine gli lanciò una breve occhiataccia. «Non ho un righello. Andrò ad occhio.»

«E’ quello che intendevo…» rispose Ramo, mentre schiacciava la testa del tizio adesa al terreno con tutta la forza di cui disponeva in un braccio, mentre guardava le corde che ancora gli tenevano legate le braccia, chiedendosi se fosse opportuno tentare di toglierle all’ultimo momento. Decise di scartare l’idea, era al di sopra delle sue capacità. E in ogni caso non gli avrebbe impedito di camminare. Forse avrebbe incontrato qualche difficoltà ad alzarsi in piedi, inizialmente, ma in fondo…

«Fatto!» annunciò Valentine, interrompendo il corso dei suoi pensieri. Ramo la vide chiudere il coltellino e allontanarsi dalla corda.

«Bene, vai tu intanto.»

«Ma se qualcosa va storto dovrai averci a che fare da solo!» protestò Valentine.

«Nel caso ti richiamerò indietro. Ora vai.» insisté Ramo.

Valentine gli gettò un’occhiata lunga ed esitante, ma alla fine si decise a muoversi. Correndo si allontanò rapidamente, sparendo alla vista nella boscaglia. Ramo attese finché non sentì quasi più il rumore della vegetazione smossa dalla corsa della ragazza, in lontananza, e fino a che le braccia e le gambe impegnate a contenere il prigioniero non presero a dolergli sul serio per lo sforzo. Allora gonfiò i muscoli, preparandoli allo scatto.

Ramo balzò su e subito corse via in rapidi e ampi balzi, allontanandosi dal tizio, che, una volta libero, prese ad agitarsi maniacalmente per tentare di rialzarsi in piedi.

«Tirch, andiamo!» urlò Ramo, mentre correva via. Il cagnetto gli si accodò immediatamente, con la coda tra le gambe.

«Mama, che fai?! Vieni!» gridò ancora Ramo, mentre le sue urla facevano agitare ancora più fortemente la sagoma a terra, che sembrava iniziare a riuscire a dirigere i suoi movimenti abbastanza da sfruttare le braccia legate come appoggio e il trucco di rigirarsi su un fianco per potersi alzare in piedi.

Ma, con costernazione di Ramo, la grossa Mama rimase seduta immobile lì dove si trovava. Si limitò a rivolgergli un’occhiata imperscrutabile.

«Mama!» chiamò ancora Ramo, con urgenza. Ma la poderosa cagna si limitò a distogliere muso e occhi da lui, volgendo il testone verso la figura che si stava alzando.

Ramo ci rinunciò, e con riluttanza riprese a correre, con Tirch alle calcagna, contando con disperata convinzione sul fatto che Mama sapesse ciò che stava facendo, e al contempo pensando con apprensione a cosa ne sarebbe stato di lui se non avessero più visto Mama, e lui si sarebbe trovato a spiegare agli altri, ed in particolare a Zoal, cosa era successo.

Quando infine il giovane uomo, o quello che sembrava essere, riuscì ad alzarsi in piedi e a muovere passi colmi di una disordinata fretta nella direzione in cui erano scomparsi Ramo e Tirch, i due erano ormai lontani. La corda si tese, lo tirò per la vita e lo fece cadere dritto per terra, come un sacco di patate, e dopotutto mostrava una simile padronanza di movimenti.

Incurante del fatto di essere precipitato a faccia a terra, il tizio si rialzò, dopo diversi elaborati tentativi, al termine dei quali riuscì nuovamente più per fortuna che per comprensione a recuperare l’ordine esatto di movimenti che gli occorrevano per poter passare dalla posizione orizzontale a quella verticale pur avendo le mani legate. Appena ci riuscì, riprese a tirare nella stessa direzione di prima, facendo forza contro la costrizione della corda, con una cocciutaggine che sarebbe totalmente offensivo tentare di paragonare a quella che potrebbe dimostrare un mulo.

Si udì un cortese sbuffo, simile a un sommesso accenno di abbaio. Immediatamente l’uomo legato si voltò verso la fonte del rumore, e, senza degnare la grossa Mama, compostamente seduta sulla sua unica zampa posteriore, di più di una semplice occhiata di constatazione, attraverso uno sguardo vacuo e vuoto da pesce morto, iniziò a tirare nella sua direzione.

La grossa Mama si alzò pigramente in piedi, guardando con aria annoiata gli sforzi dell’uomo che puntavano verso di lei. Quindi prese a camminare, trotterellandogli incontro con decisione. Nessuna ombra di dubbio o timore passò nello sguardo dell’altro, né si distolse nemmeno per un momento dal suo ripetitivo impegno.

Il massiccio peso della cagna si abbatté contro l’umano, e il suo testone cozzò con precisione dritto nel suo busto, mandandolo a finire disteso lungo per terra, sulla quale strisciò anche per quasi un metro per il colpo della carica. Immediatamente Mama prese quindi la corda tra i denti, nel punto in cui Valentine l’aveva incisa col coltello, ed iniziò a masticarla con decisione tra i suoi mastodontici denti.

Non fu un’operazione lineare. Ogni volta che il tipo legato riusciva a rialzarsi in piedi, Mama mollava con indolenza la presa sulla corda e lo caricava di nuovo, mandandolo a terra, e quindi ritornava a masticare la corda in quel punto, sfruttando il tempo impiegato dall’uomo per rialzarsi. Nonostante il fatto che stesse dovendo ripetere quella mossa parecchie volte di fila, infatti, sembrava che quel soggetto non fosse capace di acquisire l’esperienza necessaria per fargli ricordare i semplici movimenti utili per rialzarsi senza l’uso delle mani; averli compiuti nemmeno tre secondi prima con successo non pareva suggerirgli niente.

Infine la corda si ruppe tra i denti di Mama, e lei prese allora con calma ad allontanarsi, nella direzione opposta rispetto a quella in cui erano corsi via Valentine, Ramo e Tirch. Dovette per inciso fermarsi qualche istante, ad aspettare che l’uomo riuscisse nuovamente ad alzarsi, e quindi si mettesse a seguirla con ostentazione di un’aggressività totalmente idiota e priva di volontà precisa.

Mama trottò a velocità crescente tra la vegetazione della boscaglia, finché, anche quando sentì che il suo inseguitore inciampava per l’ennesima volta nei lunghi abiti neri ed eleganti che indossava, ruzzolando a terra, non si fermò ad aspettarlo, continuando semplicemente a correre, ora con l’evidente proposito di seminarlo.

Ben presto il Conte, trasfigurato in uno stato difficilmente comparabile ad altro se non a quello di un uomo che è stato sottoposto ad una lobotomia effettuata da un apprendista macellaio cieco, si ritrovò a vagare a casaccio nella boscaglia, ignaro di qualsiasi cosa, stolidamente dedito ad un camminare senza preciso scopo apparente. Dopotutto Mama non era più in vista, e non c’era quindi nessun bersaglio disponibile. Ma se vedeva volare qualche insetto nell’aria si dedicava con cura all’inseguimento, fintanto che gli pareva di riuscire a capirne la posizione. Questo lo portava di tanto in tanto a sbattere contro un tronco, o a rotolare disordinatamente tra le felci dopo essere capottato dritto sopra un cespuglio o aver inciampato nei suoi abiti.

Quando sembrava non esserci niente che potesse inseguire, talvolta si fermava immobile. Altre volte si girava di colpo su se stesso, persuaso per un momento che i rumori prodotti dalle sue stesse vesti, ormai lacere e piuttosto strascicanti alle sue spalle, avessero come fonte qualche altra creatura in grado di muoversi.

A diversi chilometri di distanza, Ramo entrò in cucina, e si soffermò a guardare Valentine, seduta a riposare su uno sgabello accanto al tavolo piuttosto alto.

«Allora?»

La ragazza distolse lo sguardo dal video dell’apparecchio che stava osservando. «Funziona perfettamente.» disse, con aperta soddisfazione. «Vedi, la tecnologia può essere molto utile, a volte.»

Con sorpresa di Valentine, Ramo non colse la provocazione. Si sedette pesantemente su uno sgabello, continuando a frizionarsi il collo bagnato dalla recente doccia, e fissando con costernato malumore il tavolo disse «Abbiamo perduto Mama…»

«’Abbiamo’?» ribatté Valentine «Sei tu che…» esitò e tacque per un po’, guardando l’espressione molto abbattuta del ragazzo. «Ascoltami, anche se non conosco bene Mama, è chiaramente una pers… un cane molto in gamba. Non penso proprio che non avrebbe voluto rimanere là appositamente, se non avesse avuto in testa qualcosa da fare. Magari è partita poco dopo che sei andato via tu e…»

Un forte e imperioso latrato risuonò fuori dalla casa.

Ramo e Valentine si guardarono per un momento, increduli. Balzarono su dai rispettivi sgabelli e si precipitarono alla porta, che spalancarono, Tirch che scodinzolava e saltellava allegro tra le loro gambe.

Sulla soglia comparve Mama, seduta sullo zerbino, a testa alta e dignitosa in attesa.

«Mama!» gridò Ramo «Oh, meno male, stai bene… sono salvo…» esclamò Ramo, al colmo di un gioioso ed entusiasta sollievo.

«Ecco qua, che ti dicevo? Lei è perfettamente in grado di…» stava dicendo Valentine.

Mama accolse con distratta gentilezza le carezze dei due, e rivolse un basso mormorio gutturale a Tirch, che a quanto pareva le stava balzellando intorno troppo fastidiosamente. Quindi si alzò, e avanzò con decisione, mentre i tre si scostavano appena in tempo.

Entrò in casa, si diresse alla ciotola e bevve con generosità, mandando a spandersi intorno grosse gocce d’acqua. Infine passò in cucina.

Ramo e Valentine si scambiarono un veloce sguardo, e la seguirono. Trovarono la grossa cagna seduta sotto il piano dei fornelli, che aspettava con una pazienza lievemente rimproverante.

«Credo che sia ora di pranzo, in effetti…» osservò Ramo, piuttosto intimidito dallo sguardo dei grandi occhi canini.

«E’…. è davvero… » mormorò Valentine, cercando le parole.

Ramo alzò le spalle, raggiungendo i fornelli. «E’ Mama, sempre stata così da che la conosco.» commentò, con un largo sorriso contento sulla faccia.

Pur sorridendo anch’essa, Valentine scosse appena la testa. Si riavvicinò al tavolo, mentre Ramo iniziava a cucinare qualcosa, e riprese in mano il tracciatore di posizione che sfruttava il sistema GPS. Si perse ad osservare con interesse il puntino rosso che si muoveva attraverso lo schermo; ogni volta che spariva oltre la capacità del video, l’immagine si ricomponeva adattandosi alle nuove coordinate. Con gli appositi pulsanti, Valentine poteva adattare l’inquadratura, regolando la frazione di planimetria compresa nello schermo.

«Sembra che stia funzionando…» mormorò pensierosamente, mentre l’ansia di cui era preda da diverse ore andava finalmente sciogliendosi. Si abbandonò sulla sedia, continuando a tenere d’occhio il punto lampeggiante sullo schermo. «Avanti, Conte, contiamo su di te**…» sussurrò.

«Che fai? Parli con quel coso?» domandò Ramo, con intento chiaramente provocatore e divertito, che denotava il suo ottimo umore.

 

 

 

 

* no, non è un grossolano errore di ortografia, ma un gioco di parole col nome di ‘Mama’ e l’espressione ‘m’ama non m’ama’. Se non sono titoli trash questi… ^^;

** e per questo gioco di parole… dai, siamo comprensivi, non credo che Valentine l’abbia fatto apposta… concediamogliela…

 

Ritorna all'indice


Capitolo 38
*** 36 - MESSAGE IN A STONE ***


Capitolo 36

(MESSAGE IN A STONE*)

 

Il treno composto dalla vecchia locomotiva e dai quattro vagoni procedeva a ritmo abbastanza sostenuto, lungo i binari deserti.

Ora potevano permettersi di farlo andare più forte. Di certo non c’era il pericolo di incrociare altri convogli. E soprattutto i cambi che avevano sistemato all’andata erano così già aperti e validi per il ritorno. Essendo partiti di prima mattina, contavano sul fatto di poter arrivare a casa entro il pomeriggio.

Nonostante questo, Andrea non riusciva a sentirsi troppo sollevata.

Seduta in un sedile, partecipava con svogliatezza alla chiacchierata in cui Yuta e Zoal cercavano di coinvolgerla, chiedendole delle sue fotografie, e da dove veniva, qualsiasi argomento abbastanza valido per una conversazione leggera, fino alle ricette tipiche della Germania. Andrea aveva spiegato che in realtà lei c’era stata solo qualche volta in Germania, non ci aveva mai vissuto per lunghi periodi. Sua madre era venuta via da qualche anno dalla Germania quando lei era nata, e ci andavano solo di tanto in tanto per far visita ai parenti rimasti a vivere là. Questo non aveva rappresentato per Zoal e Yuta un disincentivo a continuare a chiacchierare.

Per prima cosa, Andrea faticava a vedere in Zoal una persona con cui svolgere una tranquilla chiacchierata, ed in effetti la donna non mostrava di esservi molto portata; parlava poco, e il peso di trovare qualche argomento di conversazione e mantenere la chiacchierata vitale era quasi tutto sulle spalle di Yuta, che in compenso sembrava entusiasta di impiegare il tempo così. Tuttavia aveva desistito già da un pezzo dal cercare di coinvolgere anche Danny.

Il ragazzo se ne stava qualche sedile più discosto da loro, e perlopiù sembrava assente. Guardava fuori dal finestrino quasi tutto il tempo, distraendosene solo per volgere lo sguardo occasionalmente verso la sala macchine, in cui stavano Uther e Kumals. Mentre il primo si occupava di tener sott’occhio gli strumenti che facevano procedere il treno, l’altro stava cercando di far funzionare la radio di bordo, anche se tutto quello che ne era uscito fino a quel momento erano disturbi di ricezione in varie tonalità e sfumature, che si accendevano e spegnevano bruscamente e senza alcun apparente senso preciso.

«La vuoi smettere con quel coso?» disse Uther, con un certo fastidio. «Non abbiamo fatto che parlare della possibilità che quella cosa possa essere trasmessa via televisione o radio o che altro, e tu cerchi di ascoltare la radio…»

«Uther…» rispose Kumals, con piglio paziente ma convinto «Non che tu non abbia tutte le ragioni, ma credo sia improbabile che per colpire il maggior numero di persone si punti ai messaggi radio per i conduttori dei treni, più che sulle trasmissioni pubbliche… Altrimenti avrebbero colpito prima di tutto il personale del treno, e quando i treni avrebbero iniziato ad andare a sbattere o a deragliare e i passeggeri a chiamare chiedendo aiuto per treni fuori controllo o persone che li aggredivano come zombie impazziti, penso che qualcuno si sarebbe messo in allarme un po’ troppo presto. Se chi sta facendo questo ha un minimo di cervello, certamente voleva evitare di mettere sull’avviso tutti prima di aver contagiato un buon numero di persone, no…

Danny, che aveva ascoltato la conversazione, si alzò in piedi e raggiunse la soglia della cabina di comando. «A questo proposito… non mi è ancora chiaro perché diavolo non siamo incappati nemmeno per sbaglio in qualche forma di autorità schierata per l’emergenza…»

L’interesse dell’argomento aveva indotto anche la chiacchierata, quasi un monologo di Yuta, ad interrompersi.

«Beh… ho un’idea in proposito.» annunciò Zoal.

«E sarebbe?» chiese Uther, con sincero interesse.

«Potrebbero semplicemente aver formato una specie di cordone di sicurezza attorno alla zona colpita, forse pensando a qualche cosa di propagabile. E potrebbero star studiando un piano d’azione, cercando di capire come stanno le cose con un’osservazione a distanza, per intervenire poi nel modo più opportuno…» iniziò a dire Zoal, in tono dubbioso.

«Ma la cosa non ti convince.» completò Yuta.

«Però… non abbiamo nemmeno visto degli elicotteri…» disse Andrea. «Se stessero monitorando la cosa, almeno dovremmo aver visto elicotteri, qualcosa insomma che permetta loro di vedere come stanno le cose senza invischiarsi nella faccenda.»

«Oh, andiamo! Non avete mai visto un film sugli zombie?» sbottò Danny, con impaziente irritazione. Lo guardarono con una certa stupita incomprensione.

«Insomma… » cercò di rimediare Danny «Il fatto è che… il Conte è un patito di film dell’orrore, e così se ne vedeva parecchi là, e… sì, insomma, non c’era molto altro da fare, era diventato una specie di rito guardarsi un film la sera… In realtà, perlopiù voleva vedere roba vecchissima, in bianco e nero. Questo almeno è da riconoscerglielo, ha un gusto abbastanza buono in fatto di film…»

«Danny… qual è il punto?» lo richiamò Kumals, con pacata gentilezza. «Cosa c’è di rivelatorio nei film sugli zombie? Non sei l’unico che ne ha visti, qui, ma sei l’unico a cui siano venuti in mente in questo momento…» fece notare, abbozzando una certa rispettosa disponibilità a dargli credito.

Danny gli lanciò un’occhiattaccia. «Volevo dire che lì intervengono subito, nel giro di ventiquattro o quarantott’ore, mobilitano persino l’esercito in grande stile; e iniziano la strage.»

«Forse vogliono evitare la strage…» mormorò Andrea.

«Forse i film sono basati puramente sulla fantasia, e qui stiamo parlando di realtà.» commentò Yuta, asciutta.

«Danny non ha tutti i torti. Sono passati cinque giorni, e non s’è vista l’ombra di una divisa.» disse Uther. «Anche ammesso che ci voglia il loro tempo per schierarsi, qui si esagera. Non che non mi dispiaccia la loro assenza, però… non la capisco.»

«D’accordo, Zoal, qual è la vera teoria?» domandò Yuta alla sorella.

La donna raccolse un momento le idee, come se ci tenesse ad esprimersi bene. «Si tratta di un’idea azzardata, ma… Forse loro sanno già cosa sta accadendo. E non vogliono intervenire.»

Calò un assorto silenzio, per qualche secondo.

«E perché non dovrebbero volerlo?» chiese dubbiosamente Danny «Voglio dire, qui sta andando tutto a puttane… il commercio, il traffico… i treni persino.»

«E i negozi sono abbandonati al saccheggio…» ghignò Kumals. Su di lui si concentrarono immediatamente l’occhiata di rimprovero di Yuta e quella infastidita di Danny, mentre Uther si voltava verso il quadro comandi, fingendo di controllare gli strumenti, nascondendo così puntualmente un sorrisetto divertito.

«E va bene, in ogni caso, non si poteva sperare di meglio.» disse Kumals «Siamo sinceri, non si è mai vista una situazione migliore. Nessuna evacuazione forzata a cui fuggire, credito illimitato presso qualsiasi esercizio commerciale, e non dobbiamo mai preoccuparci di scaramucce o dell’inventare trucchi improbabili per poter fare cose come prendere un treno in prestito.»

Kumals si voltò a guardare Danny ed Uther. «Avanti, ammettiamolo no? Che ce la stiamo godendo.»

Uther scosse appena la testa, anche se sorrideva, mentre Danny si limitò ad alzare un sopracciglio. Non poteva dare torto a Kumals, ma certo non si sentiva di poter definire esattamente come divertimento tutto quello. «Oh certo. Anzi, sai cosa? Potremmo fregarcene e approfittarcene in pieno. Lasciamo perdere la gente, che si è tolta dai piedi così, e viviamo di rendita in città.» disse con pesante sarcasmo. Uther tornò serio, e il sorriso di Kumals scomparve, mentre un pesante clima di gelo calava tra di loro.

«Sai benissimo che non intendevo in senso letterale…» mormorò Kumals, in tono cupo. Danny rivolse uno sguardo cocciutamente corrucciato altrove, incrociando le braccia sul petto con espressione amareggiata.

Kumals sospirò appena, e andò a sedersi nello scomparto dei passeggeri.

«Beh… non prenderla nel verso sbagliato…» disse Yuta, voltandosi verso Andrea, che stava guardando Danny con preoccupazione , sentendosi sgradevolmente impotente. «Voglio dire, non è precisamente che noi… insomma, abbiamo avuto qualche problema con le autorità, sì… comunque…»

«Quello che Yuta sta cercando di non dire, è che noi non ci andremmo d’accordo comunque, con le autorità.» disse Kumals, con chiara assenza di qualsivoglia ricorso al tatto o alle mezze parole. «Il fatto che abbiamo condotto per la maggior parte del tempo un’attività che si potrebbe definire una truffa belle e buona, cosa che in certi casi è proprio stata, non ha aiutato a farci vedere di buon occhio, né viceversa.»

«Mhm, lo immagino. Ma non è che questo cambi la mia considerazione di voi…» rispose Andrea, con sincerità che non riuscì a mediare in alcun modo. Forse prima o poi si sarebbe chiesta da quando non provava più l’istinto di ponderare con attenzione ciò che diceva, che combaciava sempre più scioltamente con ciò che pensava, nell’ultimo periodo.

Kumals le sorrise «Spero non sia così brutta, la tua considerazione…»

Andrea diede un’alzata di spalle un po’ pensierosa. «Non saprei, è difficile prendervi in un un’unica maniera.»

Yuta, Zoal e Kumals sorrisero, cercando di non farsi troppo notare.

«Ad ogni modo, visto che non sappiamo da che parte del gioco stiano adesso le autorità…» rifletté Kumals ad alta voce «…è una fortuna che non siamo così facilmente rintracciabili…»

«Che intendi?» chiese Andrea, con curiosità.

«Beh, volevo dire che… hem… » Kumals esitò, scoccando occhiate incerte a Zoal e Yuta.

«La nostra casa non è registrata come abitazione, e non sanno che ci viviamo.» disse Zoal, tranquillamente, guardando direttamente Andrea.

«Non c’era nessuno, e ci siamo andate a vivere.» spiegò meglio Yuta.

Andrea studiò per un momento le loro espressioni. «Non lo dirò a nessuno, davvero.»

«Ah beh, se anche ne avessi la tentazione, potrebbero sempre scambiarli per i vaneggiamenti di una persona rimasta scioccata dall’essere rimasta coinvolta in questo casino.» commentò Kumals spensieratamente.

«Ci fidiamo.» puntualizzò Yuta, lanciando uno sguardo in tralice a Kumals.

Zoal annuì. Ed Andrea arrossì un poco.

Dopo aver udito quello scambio di battute, Danny si avvicinò alla porta della cabina di comando, chiudendola quasi. Si lasciò quindi ricadere seduto per terra, con la schiena appoggiata alla parete, e un’espressione piuttosto scoraggiata.

Uther lo spiò appena, e tornò con lo sguardo sui comandi. Dopo qualche momento, come se ci avesse riflettuto sopra, chiese «Potresti prendere il mio zaino? È appoggiato lì vicino a te…»

Danny si sorprese un momento, poiché era raro, se non inverosimile, che Uther chiedesse un favore a qualcuno, tantomeno quando si trattava di qualcosa che poteva fare da solo, il che era quasi qualsiasi cosa gli interessasse fare, di norma. Tuttavia Danny si allungò a prendere lo zaino, e fece per allungarglielo.

«C’è una birra dentro.» mormorò Uther, con naturalezza piuttosto distratta.

Danny rimase stupito, e infine sorrise. Frugò nello zaino, trovando la bottiglia da 66 cl. Usando un accendino fece saltare il tappo di latta, bevve qualche sorso e si rilassò. «Ci voleva.» disse, prima di passarla ad Uther, il quale sorrise brevemente, senza staccare gli occhi dal quadro comandi.

Tornò a calare un tranquillo silenzio.

Alla fine Danny si rialzò in piedi, e diede un’occhiata alla radio con la quale stava pasticciando Kumals fino a qualche momento prima. La studiò per un po’, e iniziò ad armeggiarci lui stesso, la fronte aggrottata per la concentrazione di capirci qualcosa.

«Non credo ci siano davvero delle comunicazioni. Dopotutto ci siamo solo noi in movimento su ferrovia, qui in zona…» gli disse Uther, senza troppa attenzione.

«No, infatti… Però se stanno comunicando qualcosa, come di evitare la zona, potremmo sentirlo… Non so cosa potremmo ricavarne, però… Beh, non ho di meglio da fare, al momento.»

Uther annuì con aria comprensiva.

In quella si udì un forte schianto provenire dal vagone accanto, dove si trovavano gli altri. Danny balzò verso la porta, la spalancò e si gettò nel vagone, seguito a ruota da Uther. Ma si bloccarono tosto, vedendo che tutti gli altri giacevano appiattiti sul pavimento, Danza e Duca compresi. Anche Danny si abbassò a terra di slancio, traendo fuori le sue due pistole, mentre Uther tornava sui suoi passi per afferrare il fucile appoggiato a terra in sala comandi.

«Che succede?» mormorò Danny, osservando intensamente la parte opposta del vagone, la porta che lo collegava al vagone successivo, con una spiacevole e forte sensazione di dejà vou.

«Un sasso, si direbbe…» disse Kumals, strisciando sul pavimento. Ma prima che lo raggiungesse, Zoal allungò una mano e raccolse un pietrone, che giaceva sul pavimento dello scompartimento. Mentre lo prendeva in mano, svolgendo con calma il pezzo di carta appallottolatogli intorno, Uther e Danny concentravano i loro sguardi su uno dei finestrini del treno, fitto di crepe, e con un largo buco al centro, frastagliato delle punte del vetro rotto.

«E’ troppo spesso!» sibilò Danny «Come è possibile romperlo con un sasso lanciato…

«Ha sparato, prima. Poi ha lanciato il sasso attraverso il buco… Una notevole mira. Sì, è proprio il nostro “angelo custode”…» osservò Kumals, staccando gli occhi dal foglio che Zoal stava leggendo insieme ad Andrea, che le era vicino, solo per lanciare un’occhiata analitica al vetro rotto.

«Va bene, basta, stavolta lo prendo!» decise Danny, dirigendosi con risolutoria ferocia alla porta di discesa dal vagone più vicina a lui. Ma Uther non si spostò da dove si trovava, ostruendogli la strada per il tempo necessario che occorse a Kumals per raggiungerlo, camminando a quattro zampe, ed afferrarlo per la spalla.

«Non diciamo amenità!» gli disse con autorevolezza «Che facciamo, gli permettiamo di farci perdere tempo? E mentre tu te ne vai a zonzo alla sua ricerca noi dovremmo fermare il treno e stare qui ad aspettare che succeda qualcosa? Siamo esposti già troppo, non rendiamogli le cose più facili!»

«Doveva essere vicino per riuscire a lanciare il sasso con quella precisione!» ribatté Danny tra i denti «Stavolta ha fatto un errore troppo grande, posso prenderlo, non ha abbastanza vantaggio, lasciatemi andare!»

Yuta, che stava spiando cautamente attraverso un finestrino, senza esporsi troppo alla vista attraverso il vetro, osservò con praticità «Stiamo attraversando quel boschetto che c’è vicino a Bonthern. Deve avere aspettato nascosto qui. E per averci preceduto deve avere un mezzo di spostamento rapido, una moto o una macchina… Altrimenti non ce l’avrebbe fatta. Ti seminerebbe, Danny.» terminò, voltandosi a guardare il ragazzo con fermezza.

Danny smise di fare resistenza alla presa di Kumals, e la sua determinazione si sgonfiò rapidamente, lasciandogli tuttavia a contrargli il volto un’espressione di amaro scontento e irritazione per l’adrenalina soppressa forzatamente.

«Cosa c’è scritto?» chiese Kumals a Zoal.

La donna alzò gli occhi dal foglio, e lo voltò per mostrarlo loro. Era stampato a computer. Nessuna calligrafia.

«’Non state tra i piedi. La faccenda si risolverà presto. Tutto tornerà come prima. Non immischiatevi.’» citò in tono piatto.

Era tutto abbastanza chiaro, tranne un punto cruciale.

«’Tutto tornerà come prima’? E lui che diavolo ne sa?» obbiettò Uther.

«Lui è quello che dovrebbe saperlo. Il fatto che ne sembri così certo, ammesso che non si tratti di una patetica bugia, significa che sa anche molto bene che qualcuno sta avendo il controllo della cosa…» rifletté Kumals. «Uther, sarà meglio che tu torni ai comandi.» si voltò a dire all’altro. «Non sarebbe stato così stupido da avvertirci prima se intendeva colpirci a tradimento. Probabilmente sarà già lontano.» e così dicendo scoccò un’occhiata significativa a Danny.

Il ragazzo si liberò con uno strattone della sua presa, e si avviò per tornare nella cabina di comando.

«C’è un’altra cosa…» disse Yuta. Tutti tornarono a immobilizzarsi e a concentrarsi su di lei.

«Il tipo di carattere da computer che ha usato…» disse la ragazza, che aveva preso il foglio del messaggio dalle mani di Zoal «…è lo stesso degli altri fogli. Sia quelli che avete trovato alla villa, sia quelli che ho stampato stanotte…»

«Ne sei sicura?» indagò Kumals con serietà.

«Ho passato buona parte della notte con quelle righe davanti alla faccia, ne sono molto sicura.» chiarì Yuta.

«E non è nemmeno uno di quei caratteri che si usano comunemente…» aggiunse Andrea, spiando ancora il foglio da sopra una spalla di Yuta.

«Quindi abbiamo un indizio fondamentale su quale tipo di carattere di scrittura preferisce questa ignota persona. Splendido.» ironizzò pesantemente Danny.

«Senti Danny, che diavolo c’è, si può sapere? Non hai preso la tua pastiglia mensile per la filaria?» reagì bruscamente Kumals.

Danny lo guardò con puro astio. Ma si trattenne dal rispondere, e tornò nella cabina dei comandi, sbattendosi la porta alle spalle.

«E’ molto d’aiuto che tu collabori provocandolo, davvero Kumals.» lo rimbeccò Yuta.

«E dovremmo sopportare qualsiasi uscita solo perché sembra che gli sia andata di traverso una palla di pelo?» ribatté Kumals «Oh, andiamo… Uther, a meno che tu non sia assolutamente certo che Danny sappia pilotare un treno, potresti tornare ai comandi?»

Uther gli rivolse un’occhiata molto lunga, e infine tornò ai comandi.

«Porco mondo, inizio a ricordarmi perché noi…» iniziò a dire Kumals.

«Kumals.» lo interruppe Zoal, con tono pacatamente – ma in qualche modo anche perentoriamente – deciso. Lui la guardò con attenzione.

«Basta così… per oggi può bastare.» disse la donna, con la certezza di chi comunica un dato di fatto.

Kumals scrollò le spalle. «Immagino che tu abbia ragione, Zoal. Maledettamente ragione…»

 

 

 

 

* ‘MESSAGE IN A STONE’ vuole essere il solito stupido giochetto di parole; deriva da ‘message in a bottle’ opportunamente modificato allo scopo della situazione di questo capitolo. So che letteralmente è un errore, per essere giusto dovrebbe essere ‘message with a stone’, semmai. Ma, hey, se mi fosse venuto in mente un titolo migliore per questo capitolo ce lo avrei pur messo, no…? :p

 

Note dello scribacchiatore

Ebbene, da dopo quelle parti più tragiche dei capitoli precedenti, la situazione non accenna a distendersi per il momento, semmai a peggiorare… Che vi devo dire… odiatemi pure. Ma garantisco io per questi personaggi: hanno abbastanza verve da poter superare anche i momenti più ardui. In ogni caso, qualcosa mi dice che ci saranno presto momenti diversi. Dopotutto, la ‘gita a Foelm’ ormai è finita. Al prossimo capitolo!

Alla prossima!

 

Ritorna all'indice


Capitolo 39
*** 37 - E ALLORA... ***


Capitolo 37

(E ALLORA…*)

 

«Bene…» disse Kumals, parlando tra sé e sé.

«Siamo sicuri che stia bene?» chiese Yuta, a voce chiaramente alta «Saranno dieci minuti che non fa altro che fissare quello schermo e dire ‘bene’. Se non altro, inizia a diventare una cosa molto noiosa.»

Kumals, seduto su uno degli sgabelli nella cucina della casa di Yuta e Zoal, distolse lo sguardo fisso con cui stava seguendo incessantemente il puntino rosso lampeggiante sullo strumento di intercettazione GPS, e cercò di darsi un contegno. «Stavo solo verificando che tutto andasse bene.» chiarì, scoccando un’occhiata a Yuta. Gli sorse sulle labbra un sorrisetto, con cui dava segno di apprezzare il tono ironico della ragazza, dopotutto.

Lei diede un’alzata di spalle, e tornò ad assaggiare la cena che stava cucinando sui fornelli della cucina.

«E’ stato un piano riuscito.» notò Uther.

Nella stanza entrò Zoal, l’unica che mancava all’appello in cucina. «Sì. Una buona idea, Kumals.» intervenne. «Comunque, credo che sia l’ora di fare il punto della situazione… Presto potremo andare dritti al nucleo del problema, non appena il Conte si fermerà, che vorrà dire che sarà arrivato nel punto dove si stanno riunendo le persone colpite.»

«Ecco, a questo proposito…» iniziò Ramo, in tono dubbioso e piuttosto esitante «Forse mi sfugge qualcosa ma… Voglio dire, abbiamo un abbozzo di piano…? Perché per quanto ne so ancora non abbiamo idea di che cosa… Insomma, non mi è chiaro se abbiamo una panoramica complessiva. Perché io vedo solo elementi separati.»

«Sono d’accordo.» disse Danny, seduto di fianco alla stufa, e apparentemente auto-incaricatosi di alimentarla con nuovi pezzi di legna di tanto in tanto. «Abbiamo un tizio alle calcagna, che presumibilmente prima o poi tenterà di fare qualcosa, oltre allo spiarci di continuo e a lanciare messaggi sconclusionati. Poi abbiamo fogli su fogli di roba che non sappiamo tradurre. L’unico che forse poteva riuscirci è stato ingoiato dal suo cappotto…» e accennò con aperto fastidio a Kumals «…il Conte è stato mandato incontro a chissà cosa…  Dimentico qualcosa?»

«Finché c’è il nostro “angelo custode”, siamo sicuri che non ci verrà mandato incontro nessun’altro.» spiegò Kumals, ignorando fermamente il tono cinico del ragazzo.

«Ma quando saprà che ci stiamo dirigendo là… al “nucleo” di questa cosa… potrebbe pensare che sia l’ora di tirare fuori tutte le sue risorse…» procrastinò cupamente Yuta.

«Faremo in modo di tenerne conto.» risolse tranquillamente Kumals.

Danny rivolse gli rivolse una lunga occhiata poco persuasa. «Ovvero?»

Kumals gli indirizzò di rimando uno sguardo serio. «Non abbiamo ancora scelto una via precisa, ma se ci sono idee, bene, ecco qui, fate pure.» e così dicendo fece strisciare un foglio bianco, con sopra una biro, sul bancone del tavolo, allontanandolo da sé.

«Oh, nel caso quello che ci sta tenendo d’occhio possa sentire ciò che diciamo…?» mormorò Valentine.

«Precisamente.» confermò Kumals.

«E se ci troviamo di fronte un’orda di quelle persone imbambolate… ?» domandò Uther, con aria angustiata, come era evidente dal suo tenersi appoggiato a braccia incrociate allo stipite della porta, con le sopracciglia aggrottate pensosamente.

Kumals sospirò. «Da quando in qua vi aspettate tutte le soluzioni già pronte? La verità è che vi siete impigriti…» sorrise stancamente. «Come ho detto, ogni idea sarà ben accolta. Al resto provvederà la nostra ispirazione del momento. Nonché il nostro spirito di sopravvivenza.»

Kumals sorseggiò il the caldo dalla tazza che aveva davanti, evitando di rivolgere anche solo la coda dell’occhio in una qualche direzione che passasse troppo vicino al cipiglio scuro di Uther, all’aria abbattuta di Ramo o alla faccia greve di malcontento di Danny.

«Bene, tra poco è pronta la cena. E poi…» Yuta lasciò serpeggiare la sua voce carica di aspettativa per tutta la stanza, insieme al suo sguardo sinistramente denso di progetti. Solo quando gli occhi di tutti si ritrovarono concentrati su di lei prese fiato, mentre appoggiava lentamente il cucchiaio sul bordo della pentola.

«E dopo inizia la festa!» esclamò vivacemente, alzando le braccia in aria con danzante movimento celebrativo.

«Festa? Quale festa?» domandò Danny, trasecolando e cercare di capire se si stavano usando parole per indicare cose che non c’entravano col loro senso più letterale.

«Dopo cena, stasera, facciamo una festa. Ultimamente sembriamo tutti cani rabbiosi, e comunque è un sacco di tempo che non facciamo una festa, no?» spiegò Yuta, con animata naturalezza.

Danny la guardò attentamente. «Una festa…» ripeté, cercando di capacitarsi o di ottenere qualche sprazzo di buon senso dalla ragazza.

«Una festa!» ribadì lei tra i denti, imperiosa, agitando il cucchiaio in aria come se lo stesse soppesando in attesa dell’occasione propizia per utilizzarlo come arma impropria.

Danny distolse lo sguardo, e Yuta sorrise vittoriosa tra sé e sé. «D’accordo. Allora, fatevi belli, mi raccomando.»

«Una festa in costume?» chiese con una punta di ironia Uther.

«Una generale riassestata prima è accettabile come sufficiente.» chiarì Yuta, guardandolo da capo a piedi con intenzione.

Anche Uther si guardò da capo a piedi, senza ricavarne niente di interessante, ma la ragazza si stava già rivolgendo a Valentine. «Se vuoi qualche vestito, io e Zoal abbiamo qualche cosa in più. In realtà, abbiamo un sacco di cose molto carine.»

«Beh, grazie, ma un vestito buono dovrei avercelo con me…» rispose Valentine, mascherando un leggero disagio per l’atteggiamento marzialmente interessato ai preparativi che stava mostrando Yuta; questa udì appena la fine della risposta, e già stava guardando Andrea.

«Naturalmente tu vieni a vestirti nella mia stanza. Ho un sacco di cose, non preoccuparti, troviamo qualcosa che ti vada bene sicuramente!»

«Ah… d’accordo…» disse Andrea, con l’aria di chi non avrebbe osato contraddirla per nulla al mondo, con quel genere di gentile cautela che potrebbe venir spontaneo mostrare di fronte a una tigre che ci si è trovati in giardino mentre si usciva di casa un giorno come un altro.

«E naturalmente, Danny e Uther consideratevi arruolati per provvedere alle bevande.» terminò Yuta.

Questo fece sentire molto meglio i due, i quali le sorrisero con gratitudine complice.

«E io?» chiese Kumals, abbastanza sicuro che non ci fosse più niente da assegnare.

Yuta lo guardò. «Tu e Ramo potete accendere il falò.»

«Il falò?» si stupì Ramo, sentendosi chiamato in causa a tradimento.

«Certo! Qui è troppo stretto, facciamo una festa all’aperto!» dichiarò Yuta, come se fosse una delle cose più ovvie del mondo dopo la forza di gravità.

«Yuta… fuori ci saranno quasi zero gradi…» mormorò Ramo, inquieto.

«Ma per questo serve il falò.» disse lei, facendogli l’occhiolino.

Ramo si guardò in giro per la stanza furtivamente, in cerca di appoggio. Non trovandolo, si trovò a rispondere un flebile «Giusto…» in tono malfermo.

«E il cecchino?» sibilò Uther in uno degli orecchi di Kumals, senza farsi notare da Yuta.

Zoal si sporse con nonchalance all’orecchio di Uther. «Mama, Danza e Duca faranno pattugliamento intorno alla casa. E ci sono i soliti sistemi di sicurezza… Basteranno.» lo tranquillizzò.

Uther si voltò a lanciarle uno sguardo incerto e vagamente imbarazzato. «Oh, sì, esatto… Bene, tutto a posto, allora.» disse, imitando il tono di chi pensa di essersi posto una preoccupazione stupidamente superflua; il suo sguardo tuttavia sembrava piuttosto in cerca di qualche spunto di aiuto.

Se avesse guardato nella direzione di Andrea, avrebbe però ricavato in ricambio un’occhiata di totale spaesamento. La ragazza cercava tra sé e sé di capacitarsi del fatto che, in una situazione come quella, a qualcuno potesse venire in mente di fare una festa. Non trovò alcuna valida spiegazione al fenomeno, e così finì per alzare le spalle, rinunciando alla ricerca. Subito dopo si chiese che diavolo le stesse prendendo. Ma anche quella sembrava una domanda destinata a rimanere senza indizio di risposta.

 

*

***

*

 

«Beh, forse poteva andare peggio.» azzardò Uther, sorseggiando dalla lattina di birra, la pelle del viso arrossata dal calore intenso, e i capelli e l’accenno di barba biondastri rilucenti per il riflesso delle guizzanti fiamme del grande fuoco acceso a mezzo metro scarso da lui.

Danny si stiracchiò meglio, allungando le gambe davanti a sé e appoggiandosi con le braccia all’indietro, con fare pigro. «Sì?» domandò con un sorrisetto d’aspettativa. «E come?»

«Hum… poteva essere una festa in maschera. O poteva decidere di costruire una piscina su due piedi…» tentò Uther.

«Ahhh, andiamo… Non esageriamo adesso.» rise piano Danny, terminando con un ultimo sorso la sua seconda lattina di birra. Si sentiva di umore molto più passabile, ora, anche se non se ne accorgeva a sufficienza da poter pensare che fosse inappropriato alla situazione.

Uther gli lanciò un’occhiata, distogliendo il viso per un momento dal falò. «Una volta se l’è messo in testa veramente. La piscina intendo. Era la fine di novembre.»

Danny lo guardò, cercando di capire se diceva sul serio. «E allora l’avete costruita?»

«Naah. Abbiamo scavato nella terra finché non siamo stati abbastanza stanchi. Poi è venuto a piovere. Allora Yuta ha risolto di fare piuttosto una battaglia a palle di fango.»

Sogghignando, Danny aprì un’altra lattina di birra, prendendola da una delle due casse piene che aveva accanto.

Si avvicinò Kumals, carico di una bracciata di ciocchi di legno, che scaricò presso il falò, abbastanza lontano perché non fosse raggiunta dalle occasionali scintille di brace che ne schizzavano di tanto in tanto, accompagnate da rumorosi schiocchi. Rialzandosi, si appoggiò le mani sulla parte bassa della schiena, e fissò gli altri due. «Mi raccomando, non disturbatevi a dare una mano.»

«Non ne avevamo nessuna intenzione.» lo rassicurò Danny con un sorrisetto.

«Noi eravamo incaricati del bere.» specificò Uther, a mo’ di scusa scherzosa.

«Vedo, vedo…» concesse Kumals in tono ironicamente contemplativo, guardando le casse di birra e le bottiglie di vino radunate vicino al fuoco, insieme ad una cassa di bottiglie piene di liquidi semiviscosi di vari colori, che costituivano buona parte della scorta dei liquori autoprodotti che Yuta e Zoal avevano in casa. «Ed eravate incaricati anche di berla, poi?» domandò con aria arguta.

«Stiamo solo controllando che sia una buona annata.» rassicurò Danny in scherno, dal momento che stavano bevendo birra.

Kumals alzò un sopracciglio e sorrise appena, ma subito dopo fu distratto dall’esclamazione entusiastica che annunciava l’arrivo di Yuta. Uther e Danny voltarono un po’ la testa dietro le loro spalle, in tempo per vedere la ragazza emergere con aria festosa dalla casa.

Yuta ostentava la pancia scoperta, tra un paio di pantaloncini corti neri, di sotto ai quali spuntava un paio di aderenti pantacollant fucsia, e un corpetto morbido dalla fantasia di finto pelo di tigre con una sola spallina, indossato sopra ad un corto dolcevita viola prugna. Il tutto era completato da un collarino leopardato e da un’acconciatura che era più che altro una crocchia annodata in alto sulla nuca, tenuta ferma da un intricato nodo dal quale spuntavano in alto due bacchette decorate da una fantasia cinese dorata e nera, e sotto il resto della sua chioma in una coda di cavallo che era un nugolo confuso di capelli sciolti e delle sue solite treccine e rasta colorati.

«Olàààà!» gridò entusiasticamente, camminando a grandi passi e agitando un po’ una bottiglia semi-piena di liquore fatto in casa. Raggiunse rapidamente il falò e si gettò per terra, accovacciandosi tra Uther e Danny e circondando le spalle di ognuno con un braccio.

«Eccovi qua! Che bello!» annunciò al mondo con entusiasmo, mentre si sporgeva a stampare un bacio sulla guancia di Danny, ed Uther le toglieva gentilmente di mano la bottiglia prima che facesse una fine peggiore.

Kumals adocchiò il fatto che la bottiglia era vuota per due terzi. «In casa la festa è già iniziata?» si informò, con divertita ironia.

«Non fare il prete.» ribatté Yuta. «Abbiamo bevuto qualcosa mentre ci preparavamo. Ma Ramo dov’è? Dove sono gli altri?»

«Ramo sta spaccando altra legna per il falò. Le altre saranno ancora in casa, sono certo che se ci pensi bene scoprirai che lo sapevi già.»

Yuta si rialzò, riprendendo la bottiglia in mano da Uther, che non osò opporre resistenza. «Ma quale legna e legna… Basta legna!» disse, passando di fianco a Kumals e colpendolo con una spallata scherzosa. «Raaaamoooo!» chiamò, sparendo dietro l’angolo della casa con fare baldanzoso, diretta alla legnaia.

«Spero che prima di tutto Ramo abbia la prontezza di appoggiare l’accetta, prima che qualcuno si faccia male…» commentò Kumals, mentre ancora fissavano il punto in cui era scomparsa Yuta. «Perché non credo che lei…».

Kumals si interruppe, distratto da un rumore. Si voltò verso l’ingresso della casa di nuovo, e vide uscirne Andrea. Anche Danny ed Uther si erano girati.

Andrea uscì e si avvicinò al falò e a loro, cercando di ignorare al meglio possibile i loro sguardi contemplativi. Aveva un paio di pantacollant viola scuro, una corta gonna nera e piuttosto larga che le fasciava appena i fianchi, con tutta l’aria di essere un pezzo di un vestito che era stato tagliato per ricavarne una gonna, come rivelavano gli sfilacciamenti del bordo, una maglia arancione a maniche lunghe e una maglietta senza maniche rossa e nera che le terminava all’altezza delle ultime costole. Al collo portava un collarino blu elettrico di qualcosa di simile a un morbido tessuto peluccoso, con brillantini argentati. Se non altro i soliti scarponi da montagna che le andavano bene solo con l’ausilio della somma di due pesanti paia di calze le permettevano di camminare con il suo solito passo misurato. Il fatto curioso, comunque, era che si sentiva persino a suo agio vestita così. E non avrebbe saputo da che parte cominciare per provare a spiegarselo.

«Qualcuno è stato vittima delle idee di vestiario di Yuta, qui.» commentò Kumals «Oppure ha avuto una complicata colluttazione dentro ad un armadio.»

«Non farci caso, è solo che è geloso.» disse Uther.

«Perché lui starebbe malissimo se si vestisse così.» aggiunse Danny.

Kumals li fissò. «Voi due siete pessimi cantinieri.»

«Comincio a pentirmi di aver dissuaso Yuta dal cercare di fare indossa a tutti qualcosa di luccicante…» disse Andrea con calma, come parlando a se stessa, mentre si chinava a prendere una lattina di birra e celava appositamente in malo modo un sorrisetto.

Kumals le porse con esagerata prontezza e interessamento l’accendino per aprire la bottiglia. «Oh, e ci sei riuscita?» domandò, fingendo un tono da disinteressata conversazione.

«Hum… beh, ha deciso di aspettare che siate più propensi ad essere convinti…» rispose evasivamente Andrea.

«Grazie dell’avvertimento.» ammise Kumals.

«Quale avvertimento?» finse di stupirsi Andrea, indirizzandogli uno sguardo allusivo.

«Non lo so.» rispose Kumals, con perfettamente simulato atteggiamento di incomprensione.

Di colpo partì la musica ad alto volume dalla casa. Si voltarono a guardare le finestre che venivano solertemente aperte una alla volta da Valentine dall’interno, mentre dalle casse schizzava ‘Balla’ di Umberto Balsamo.

«Cattive notizie.» annunciò con tono esperto Kumals.

«Cosa?» chiese Andrea, un po’ allarmata.

«Questa che mette su la musica dev’essere Zoal.» disse Uther con tono da spiegazione, mentre sorseggiava la sua birra.

«E nessuno come Zoal conosce la musica preferita da Yuta…» terminò Danny.

Andrea sorrise.

«Danny, passami una birra per favore, credo che ne avrò bisogno…» domandò Kumals.

Sogghignando, Danny gli lanciò una lattina.

 

 

 

* non preoccupatevi, non mi sono dimenticato un pezzo di titolo, è che l’altra parte si trova a titolo del prossimo capitolo.

 

Soundtrack: I gotta feeling (Black eyed peas)

Ritorna all'indice


Capitolo 40
*** 38 - ...FESTA! ***


Capitolo 38

(…FESTA!)

 

Andrea continuava a stupirsi, e non riusciva davvero a farne a meno. E non era per il fatto che non aveva mai sentito prima una tale sfilza di canzoni, perlopiù trash. Di certo aveva partecipato prima ad alte feste. Ma si trattava dopotutto di accozzaglie di persone che bevevano, chiacchieravano, ascoltavano musica, ballavano, magari qualche gruppo dal vivo, e qualche sbronza con spiacevoli conseguenze di indisposizione.

Invece quelli facevano sul serio.

Sebbene all’inizio sembrava che Yuta imperversasse da una parte all’altra, cogliendo impunemente sul fatto chi stava osando mostrare troppo poco entusiasmo, e coinvolgendolo puntualmente in qualche ballo, ben presto aveva potuto smettere di sentirsi incaricata di costringere tutti su un livello per lei accettabile di partecipazione, come quei giocolieri che tentano di mantenere una serie di piatti a ruotare in equilibrio su una sfilza di bastoncini. Nonostante ciò, ad un certo punto lei e Danny avevano fornito una dimostrazione di come si poteva ballare sulle note di ‘Walk of life’ dei Dire Straits che sfiorava l’acrobatico, e che superava ampiamente la capacità di immaginazione di Andrea riguardo alle capacità danzanti e d’improvvisazione casuale di due persone che avessero bevuto tanto quanto quei due.

Anche se Kumals ed Uther continuavano a cercare di sottrarsi furtivamente alle danze generali per fare da bordopista con sollievo, Valentine e Zoal erano riuscite saltuariamente a coinvolgerli, tanto quanto Ramo e Danny. Valentine in particolare, da un certo numero di bicchieri e bottiglie in poi, non faceva che volteggiare nel suo modo misteriosamente agile ed elegante, con la lunga gonna del suo nero vestito dark che le volava attorno in onde da capogiro, e i capelli solo in parte legati in una piccola coroncina su un lato della nuca le spiovevano attorno come una specie di vessillo nero. Ramo, che ballava con lei per la maggior parte del tempo, non trovò obiezione quando lei lo lasciò per improvvisare con una solidale Yuta una gara a chi scaravoltava in avanti i capelli più vigorosamente sui ritmi di una canzone dall’incalzante ritmo rock-metal (occasione che Valentine ritenne più che valida come motivazione per sciogliere completamente la sua acconciatura).

Per quanto fosse stata abituata in altre occasioni a bere con tranquilla abbondanza, Andrea era ormai immersa in una nuvola di frizzante allegria spensierata, oltre che un poco in balia di una generale difficoltà a mantenere non ondeggiante la sua visuale; a questo comunque contribuiva il fatto che fosse impegnata per la maggior parte del tempo da Zoal, che aveva un complicato modo di ballare, con il corpo e persino i larghi abiti zingareschi che si muovevano in volute dal disegno apparentemente semplice e spontaneo, eppure disorientantemente quasi ipnotico. Se un serpente avesse potuto alzarsi in verticale e ballare, probabilmente si sarebbe mosso a quel modo. Nonostante questo, Zoal la guidava anche in un modo tale che Andrea aveva la profonda per quanto irreale sensazione di potersi abbandonare ad ogni azzardo di movimento oltre le sue attuali cognizioni spaziali ed equilibratorie senza alcun timore di cadere, come se si trovasse in assenza di gravità.

Ben presto perse l’ordine della situazione, dal momento che si trovarono a ballare tutti in gruppo unito, anche se Valentine continuava a preferire Ramo o al più Danny, salvo impegnarsi momentaneamente in una specie di sfida a chi poteva ballare in maniera più ipnotica confrontandosi con Zoal, ed evidenziando così semplicemente il fatto che lo stile dell’una era più misterico quanto quello dell’altra più provocatoriamente sensuale.

Kumals riuscì a dissuadere abbastanza prontamente Yuta dal piazzare da qualche parte, che non esisteva davvero, un bastone di bambù recuperato chissà dove in casa, convincendo in qualche modo la ragazza che per iniziare una gara di limbo come si deve non disponevano della musica adatta; e quando Yuta si rivolse a Zoal per chiedere conferma del fatto che invece erano in possesso di un intero cd con musica apposita, la sorella affermò che era andato buttato via dopo che Danza lo aveva masticato. Nessuno comprese se era sincera, ma tanto valse a distogliere Yuta, la quale in compenso prese allora Kumals in contropiede trascinandolo a ballare. Uther, d’altra parte, aveva già bevuto abbastanza per accettare di accompagnare Zoal nel ballo.

Yuta raccomandò con aria molto seria a Ramo e Valentine di assicurarsi che Kumals continuasse a ballare, e quindi improvvisò con Danny una selvatica sorta di ballo, che prevedeva un sacco di giravolte e di improvvisazione, al punto che, dopo la terza canzone di fila, Andrea iniziò a sospettare che i due stettero in realtà facendo un’impegnata sfida per determinare chi si sarebbe sfinito per primo, o piuttosto quei complicati passi fossero un tentativo di farsi lo sgambetto a vicenda, e le giravolte reciproche e a rigido turno scambievole celassero la loro vera natura, simile a quella di quei giochetti con le mani in cui perde chi sbaglia l’ordine esatto delle mosse. E sembravano entrambi molto determinati a vincere, ma mai quanto a darsi prova di essere reciprocamente l’uno all’altezza dell’altra in quella specie di gioco.

Finché Kumals, apparentemente annoiatosi della scena, decise di iniziare a boicottarli. Iniziò con l’afferrare Uther a tradimento e lanciarlo contro i due, che riuscirono ad evitarlo appena in tempo, allontanandosi per un momento perfettamente sincronizzato, nel quale Yuta trovò il tempo di rivolgere a Kumals una linguaccia eloquentemente vittoriosa; Uther restò in piedi a stento, e rivolse un’occhiata a Kumals che minacciava una futura vendetta quando meno se lo sarebbe aspettato. Ramo, che stava ballando con Valentine, si sottrasse agilmente al tentativo di Kumals di destinarlo allo stesso scopo e gli rivolse una smorfia di motteggio; Valentine gli assestò una spinta lei per prima, mostrandogli che era pronta a reagire a dovere. Andrea si stava divertendo troppo come semplice spettatrice per rendersi conto del pericolo, e quando fu il suo turno, non riuscì a fronteggiare con sufficiente energia l’attacco di Kumals. E d’altra parte non si aspettava certo di essere afferrata per la vita, sollevata a mezz’aria di peso e lanciata al volo verso Yuta e Danny. Per quanto i due stessero già da un po’ tenendo d’occhio le mosse di Kumals, furono stupiti da questa iniziativa, e Danny non riuscì a trattenersi dall’impulso di cercare di afferrare Andrea al volo. Andrea si ritrovò buttata a terra mezzo sopra a Danny, mentre Kumals si spazzava le mani con l’aria soddisfatta di chi si è tolto un peso, e Yuta lo guardava con l’espressione sconfitta di chi vorrebbe essere rimasta molto meno colta di sorpresa.

Ma intanto Valentine,apparentemente spronata dall’inizio di una nuova canzone, aveva deciso di tentare di divelgere dal terreno una spiga di pianta selvatica. Quando Ramo le chiese cosa voleva farci, lei manifestò la convinta sicurezza che fosse sufficiente che lo sapesse lei. Il ragazzo si rassegnò ad estrarre il coltellino ed aiutare i suoi maldestri tentativi tagliando la piccola felce. Con aria professionale Valentine si drizzò, si discose dal viso alcune ciocche di capelli, e quindi prese una mano di Ramo, con l’altra si mise la felce tra i denti di traverso, e iniziò con determinazione un passo di tango senza che il ragazzo trovasse abbastanza motivi per non seguirla con piena partecipazione.

Nemmeno fossero state le organizzatrici della coreografia, Yuta e Zoal iniziarono una specie di quadriglia che prevedeva di tanto in tanto, e in momenti scelti casualmente, di alzare le braccia in alto, le mani unite, formando un arco sotto al quale Valentine e Ramo si chinavano per passare, cercando di mantenere nel tutto il ritmo da tango che stava degenerando in quadriglia. E prima di poter recuperare esattamente il come, Andrea si ritrovò a incrociare le mani in alto con quelle di Yuta o di Uther o di Danny o di Zoal o di Kumals, affiancando gli altri ugualmente disposti per formare di tanto in tanto quell’arco, mentre per il resto del tempo doveva cercare di rispettare gli schemi, peraltro totalmente improvvisati, della disordinata quadriglia collettiva.

Questo durò finché una serie di canzoni più punk convinsero alla velocità di pochi secondi Danny, Ramo, Uther e Valentine che c’era assoluto bisogno di un ritmo ben più incalzante. Approfittando del ritmo più rapido, Uther, Danny e Ramo riuscirono ad un tratto a cogliere Kumals di sorpresa, sollevarlo di peso, e correndo gettarlo dentro le balle di fieno ammucchiate nella stalla. Ma prima di essere lasciato andare di getto Kumals era riuscito a coinvolgere col collo del piede una caviglia di Ramo, che non poté evitare di cadere anche lui in parte nel fieno. Mentre i due tentavano di affondarsi reciprocamente nella paglia, ed Uther e Danny davano supporto od ostacolavano ora l’uno ora l’altro senza preciso obbiettivo, Yuta irruppe nella stalla protestando che stavano facendo sfacelo della paglia. Uther si voltò di getto e le tirò addosso una bracciata di paglia. Yuta lo fissò per qualche istante, quindi lo inseguì mentre il ragazzo scappava sulla montagna di fieno, semi travolgendo nella corsa Kumals e Ramo. Quest’ultimo, vedendo che ora Danny si stava limitando ad assistere allo spettacolo, scambiò un rapido sguardo d’intesa con Kumals, e i due si trovarono coalizzati nel tirare di peso il ragazzo dentro fino al collo nella paglia.

Andrea stava giusto contemplando le schermaglie in una pioggia e lancio incrociato di pagliuzze dorate, quando una decisa spinta la fece finire a sua volta nel mucchio. Lei si ritrovò semisdraiata e semisprofondata nel fieno, a guardare con aria incredula Zoal, che le fece l’occhiolino con aria candida. L’istante successivo Uther, giunto alle spalle della donna di soppiatto, le rovesciava una montagna di paglia addosso, e subito dopo i due conducevano una specie di giocosa zuffa in cui cercavano di spingersi vicendevolmente per terra. Andrea si era distratta di nuovo, e proprio quando si stava rendendo conto dell’errore ecco che Valentine e Yuta la prendevano per le braccia e le gambe di peso ed ignorando i suoi tentativi di resistenza si dedicavano a farla dondolare e quindi a lanciarla in pieno dentro il mucchio di paglia, facendola atterrare malamente nel mezzo della zuffa che stava tenendo occupati Kumals, Danny e Ramo. Quest’ultimo decise di vendicarsi raggiungendo rapidamente Valentine e scaravoltandola nel mucchio di fieno, nel quale però non riuscì di nuovo ad evitare di essere trascinato a sua volta.

E di punto in bianco, sparito Kumals in qualche modo, Valentine e Ramo ancora impegnati a cercare di infilarsi reciprocamente paglia nei vestiti, e Yuta e Zoal intente a cercare di sollevare di peso un dimenantesi Uther per fargli fare il suo volo nella paglia, Andrea si accorse che si stava azzuffando solo con Danny. Di colpo la cosa smise di essere solo divertente, e quasi in perfetta sincronia anche Danny si bloccò. Senza preciso senso, si ritrovarono con il fiato affaticato per la colluttazione a guardarsi dritti negli occhi, l’espressione dei quali stava mutando in un modo di cui Andrea non riusciva a delineare il percorso o la direzione.

«No, Kumals, quello no.» disse Uther con fermezza.

Danny ed Andrea riuscirono in qualche modo, stranamente impegnativo, a rompere il contatto visivo per voltarsi verso l’ingresso della stalla, che Kumals aveva appena varcato imbracciando una bottiglione di vino rosso con aria determinata. Scoccò uno sguardo ad Uther, che gli si era avvicinato con fare da moderatore, e fece il gesto rapido di lanciargli addosso un getto di vino, facendolo balzare d’istinto più lontano.

Subito dopo Kumals si era messo all’inseguimento di Ramo, il quale però si era prontamente alzato in piedi e a larghe falcate semi-affondanti nella paglia stava compiendo un lungo giro intorno al perimetro della stalla per cercare di aggirare Kumals e fuggire fuori. Danny fu invece troppo lento, e non sospettava che Kumals, vedendo sfumata per il momento la possibilità di acchiappare Ramo, si soffermasse su di lui. Mentre Andrea rotolava via frettolosamente, Kumals si gettò di peso sul ragazzo, rovesciandogli addosso una generosa doccia di vino. Solo quando Danny aveva già tutta la testa, le spalle e parte del costato zuppi Kumals si ritenne abbastanza soddisfatto per decidere di abbandonare la sua vittima e ridedicarsi all’inseguimento di Ramo fuori dalla stalla, ignorando Uther che si era per precauzione rifugiato nell’angolo più lontano.

Con aria di vendetta Danny lo inseguì, tallonato ben presto dalle ragazze e da Uther. Appena usciti dalla stalla videro che Ramo, scappando rapidamente da Kumals, si ritrovava all’improvviso di fronte al falò.

«N….!» iniziò Valentine. E Ramo spiccò il salto più alto e lungo che poté e riuscì a superare il falò.

«…o…» terminò Valentine, stupita.

Kumals si era fermato di fronte al falò con aria riflessiva. «Tutto qui?» disse infine, affatto colpito. Si chinò ad appoggiare la bottiglia di vino a terra, con calma; si rizzò, e camminò incontro alle fiamme crepitanti. Sotto lo sguardo incredulo di Andrea, abbastanza propensa a pensare di aver bevuto troppo per potersi affidare con fiducia ai suoi stessi occhi, l’uomo camminò tranquillo attraverso il falò, mentre una specie di flusso d’aria invisibile, del quale si poteva sospettare come artefice il pastrano che indossava, gli apriva intorno le fiamme, lasciandolo illeso.

Danny sogghignò, e corse verso il falò. Superò le fiamme con un balzo ben più alto di quello di Ramo, e decisamente troppo poco umano, esibendosi perfino in un salto carpiato.

«Tsk, esibizionista…» commentò sardonico Kumals, mentre Ramo e Danny si posizionavano accanto al falò. Uther spiccò la corsa, usò le schiene di Danny e Ramo chinatisi come due scalini di altezza crescente, e superò a sua volta il falò in salto, terminando con un paio di rotolate per terra dall’altra parte, e rialzandosi in piedi nel finale dell’ultima rotolata. Quindi prese la bottiglia di vino abbandonata poco prima da Kumals, bevve un sorso, ingoiò e accennò un inchino assolutamente e volutamente inelegante.

In quella partì la canzone ‘Eaten by the monster of love’ degli Sparks. Di lì a poco Andrea si ritrovò a guardare Valentine impegnata a cercare di coinvolgere Danny in una sorta di balletto, che prevedeva di tenersi un braccio sulle spalle, affiancati, e di gettare ritmicamente una gamba una volta da una parte e una volta dall’altra, il tutto ad un ritmo saltellante sincronizzato con quello della canzone. Fin dall’inizio era stato evidente che il ragazzo era profondamente incapace di prendere il ritmo, e che continuava pertanto a sbagliare quale gamba alzare e/o da che parte scalciare; anche il fatto che a turno Uther o Ramo lo affiancassero dall’altra parte, cercando di fargli prendere il ritmo giusto, si rivelò inspiegabilmente insufficiente. Nonostante ciò Valentine si era intestardita nel continuare fintanto che Danny non avesse imparato, e pretese, con quel tipo di ostinazione molto determinata di chi s’è fatto prendere da un cocktail di alcol ed entusiasmo, che la canzone fosse rimessa dall’inizio almeno una mezza dozzina di volte. Danny a quel punto era talmente concentrato, stanco e alticcio da finire per inciampare nei suoi stessi piedi e cadere, in maniera sospetta che assomigliava ad un tentativo di ammutinamento. Valentine però se ne accorse, e cercò di tirarlo in piedi di peso per un braccio, opponendosi energicamente ai suoi tentativi di resistenza, finché Ramo ed Uther non riuscirono a dissuaderla e a persuaderla a terminare la canzone avvalendosi piuttosto di loro due come compagni di ballo.

Di lì a poco Ramo riuscì anche a convincerla a lasciare la festa e ad accettare, non troppo scopertamente, che non era più capace di mettere insieme un’azione migliore di quella di andare a dormire su un vero e proprio letto, piuttosto che crollare a terra senza rendersene ben conto. Mentre Ramo era così intento a sostenere una Valentine piuttosto convinta di poter ancora ballare e a dirigerla con accorta nonchalance verso la casa, non fece in tempo ad accorgersi del rapido appropinquarsi di Kumals, che riuscì infine a vuotargli il contenuto di vino rimasto nel bottiglione dritto in testa. Ramo strappò di mano la birra che aveva in mano Valentine e gliela lanciò in faccia di getto, prendendolo in contropiede, e facendolo rimanere lì, sgocciolante e stupito, mentre Andrea si univa alle scroscianti risa di Yuta. Subito dopo Uther, che era riuscito a sgusciare in casa e a tornarne reggendo una brocca piena d’acqua, accorse e la rovesciò totalmente addosso a Kumals, guardandolo poi con l’aria soddisfatta di chi ritiene di aver fatto il suo dovere fino in fondo.

Kumals era troppo sorpreso per trovare di meglio da fare, così sul momento, che trarsi fuori dalla tasca il pacchetto del tabacco, salvo scoprire che era andato completamente infradiciato anche quello. Alzò lo sguardo sull’aumentato sogghigno di Uther, gli strappò di mano la brocca vuota e marciò con decisione dentro la casa. Uther fissò per un momento la sua scomparsa, quindi si diresse a passo sostenuto dietro l’angolo della casa, con l’evidente proposito di scovare al più presto un accettabile nascondiglio.

Quando, ancora più tardi, ad Andrea parve di vedere Kumals ballare con il suo cappotto vuoto eppure animato come se fosse indosso ad una persona invisibile, preferì rassicurare se stessa sul fatto che doveva essere soggetta ad allucinazioni.

 

Ritorna all'indice


Capitolo 41
*** 39 - FALO' MORENTI E RISVEGLI MATTUTINI ***


Capitolo 39

(FALO’ MORENTI E RISVEGLI MATTUTINI)

 

Yuta, seduta in terra a gambe incrociate, lanciò un cupo sguardo di sfida a Kumals, seduto in modo non troppo dissimile e di fronte a lei. Il fuoco le baluginava sui capelli spettinati, e sul viso chiuso in un’espressione molto battagliera.

Senza staccare lo sguardo dall’altro, sollevò il bicchierino colmo fino all’orlo di liquore autoprodotto, tenendolo con adoperata maestria solo con la punta delle dita. Nonostante il leggero tremore della sua mano, fu misteriosamente in grado di farlo arrivare fino all’altezza del suo mento senza farne strabordare il contenuto. Fissò per un ultimo istante decisivo Kumals, quindi scaravoltò la testa all’indietro e sincronicamente si versò tutto il contenuto del bicchierino in bocca. Buttò giù subito per l’esofago il liquore, sbatté il bicchierino sul terreno davanti a lei con fare perentorio, ed esclamò, con vivace ottimismo: «Nove!».

Kumals sorrise appena. «Vorrai dire ‘otto’.»

Lo sguardo di Yuta tornò severo. «No. Voglio dire ‘nove’. Perché questo è il nono.» affermò con sicurezza.

«Oh, già, è vero. Devo aver perso il conto…» commentò Kumals con compassata indifferenza, mentre prendeva la bottiglia e tornava a riempire il bicchierino fino all’orlo.

Yuta sorrise furbamente. «Patetico trucco, Kumals

Kumals fece finta di non essere deluso, mentre la guardava con un sogghigno sottile al di sopra del bicchierino che teneva alzato davanti alla bocca. Lo vuotò d’un sorso netto, buttò giù, e riappoggiò con calma il bicchierino a terra. «Nove.» dichiarò formalmente a sua volta.

«Sicuro che non sia ‘dieci’?» lo prese in giro Yuta.

Zoal passò loro di fianco a passo strascicato. «’Notte…» mugugnò con voce stanca, ma scandendo ogni lettera con una precisione e una limpidezza di voce che sarebbe improbabile aspettarsi da qualcuno reduce da una festa generosa in bevute.

«Buonanotte… Ah, Zoal. Ricordati che Uther dorme nella…» la rincorse Yuta con le parole, mentre Kumals riempiva di nuovo il bicchierino.

«Sì, certo.» rispose con calma Zoal, poco prima di sparire all’interno della casa.

«Un giorno scoprirò come fa…» borbottò tra sé e sé Yuta.

«Non credo che quei due si siano accorti che la festa è finita…» commentò Kumals. Yuta seguì con curiosità la linea del suo sguardo, terminandolo su due figure che ancora si trattenevano vicino al falò, ballando tra loro in una maniera che aveva un che di scherzoso e un che di qualcos’altro. In effetti la musica proveniente dalle casse si spandeva ancora vividamente nell’aria silenziosa dello spiazzo attorno alla casa.

«Resta concentrato!» lo richiamò Yuta con severità. Soppesò il bicchierino per un momento, e lo vuotò. «Dieci.» concluse, sbattendolo sul terreno, e ricordandosi stavolta di rovesciarlo, come prevede l’etichetta in questi casi.

Kumals alzò un sopracciglio, raccolse il bicchierino e con le dita tentò di ripulirne il bordo, sul quale si era attaccata la terra usando come collante il rimasuglio appicicaticcio di liquore.

«Ah… » sospirò lamentosamente Yuta, senza apparentemente accorgersi di ciò che stava facendo il suo sfidante, che ora aveva dovuto pescare un fazzoletto abbastanza pulito da una tasca, per usarlo per staccare il terriccio dal vetro. «E’ durata troppo poco, questa festa!»

«Hmm… dici?» domandò distrattamente Kumals.

«Ma sì!» insisté la ragazza. «Che ore sono?»

Kumals riappoggiò per terra la bottiglia che stava per inclinare sopra al bicchiere, dopo averle lanciato uno sguardo eloquente. Si alzò un po’ la manica del cappotto, mettendo allo scoperto il polso sguarnito; lo studiò per qualche momento fingendo di consultare un orologio, ed infine sancì «Esattamente le ‘è abbastanza tardi’ in punto.»

Yuta fece un verso sprezzante, prese la bottiglia e riempì lei il bicchierino. «Potevamo anche farla durare un po’ di più.»

«Beh, considerando che avevamo tra noi Uther e Danny direi che…»

«Non la bottiglia, intendevo la festa.» interruppe lei il malinteso con decisione, guardandolo con aria vagamente di rimprovero.

«Gli altri sono già a letto. Quasi tutti, almeno.» disse Kumals, e nel vuotare il bicchierino lanciò un’occhiata in direzione del falò.

«Potremmo dare fuoco alla casa. Così dovrebbero tornare fuori.» rimuginò Yuta.

Kumals si fece andare di traverso il liquore e prese a tossire.

Yuta sorrise maliziosamente. «Che c’è? Vuoi arrenderti?» domandò senza nascondere la sua contentezza, mentre si sporgeva a picchiargli la mano chiusa a pugno sulla schiena.

Kumals scosse la testa, mentre finiva di tossire.

«Guarda che stavo scherzando… a proposito di bruciare la casa… » puntualizzò Yuta, pensando che l’uomo si fosse fatto cogliere di sorpresa dalla sua affermazione. Ma poi si rese conto che lo sguardo di lui era rivolto altrove. Di nuovo voltò la testa in direzione del falò, e oltre esso.

Gli ultimi due ancora in piedi avevano effettivamente smesso di ballare, alla fine. Ora stavano abbracciati. Andrea si era un po’ alzata in punta di piedi, le braccia attorno al collo di Danny, che stava ricambiando il suo bacio.

«Chi l’avrebbe mai detto…» commentò divertito Kumals, la voce semi-strozzata per il non essersi ancora ripreso dal quasi soffocamento.

Yuta tornò a voltarsi e lo guardò in tralice. «Ma te sei proprio cieco.» constatò.

Kumals alzò un sopracciglio. «Curioso detto da chi stava impiegando dieci minuti minuti per prendere la mira sul bicchiere col collo della bottiglia, neanche cinque minuti fa.»

«Io sono sbronza. La tua scusa qual è?*» ribatté Yuta.

«Tu non sei sbronza, sei solo convinta di esserlo.» la corresse Kumals.

«Cosa sarebbe questa, una terapia basata sull’effetto placebo?» ironizzò Yuta scetticamente.

«Non saprei nemmeno farmi venire in mente il significato di ‘psicologia inversa’ in questo momento…» ridimensionò Kumals.

Yuta lo fissò con gli occhi socchiusi, e un sorriso appena accennato. «Non me la fai, Kumals

L’altro le alzò il bicchierino davanti al viso. «Tocca a te, vero?» domandò, senza volerlo veramente chiedere.

Yuta sorrise un po’ di più e un po’ più argutamente; gli prese il bicchierino dalle dita con delicata sicurezza e lo vuotò, ingoiò, e glielo restituì scoccandogli uno sguardo che mandava bagliori forse solo in parte creati dalla luce del falò. «Undici.» sussurrò, con autoironico tono cospiratorio.

 

*

***

*

 

Yuta emerse con notevolissime difficoltà da un sonno molto pesante, accorgendosi che tutto ciò che stava cercando molto fastidiosamente di svegliarla era un qualcosa che le punzecchiava il fianco o la schiena a intervalli irregolari, ma con crescente pressione.

Lei mugugnò qualcosa, e si rigirò un po’ sulla schiena, per assestare una manata dietro di sé, ad occhi chiusi, col confuso proposito di eliminare la fonte del fastidio. In effetti le punzecchiature si interruppero. Lei era già tornata a rigirarsi sul fianco, nella posizione semi-rannicchiata sotto le coperte, senza alcuna intenzione cosciente, cosa che non serve quando tutto ciò che si sta facendo è riprendere a dormire saporitamente.

Le punzecchiature ripresero, con un po’ più di cautela, ma anche più intense.

Stavolta Yuta si girò del tutto e si alzò un po’ col busto, puntellandosi con un gomito. Attraverso uno sguardo inizialmente appannato dalla difficoltà che impiegava il messaggio visivo ad arrivarle al cervello, vide Kumals in piedi di fianco al letto. Aveva in mano un tergicristallo.

«Cosa?!» disse Yuta, con tono decisamente alterato.

«Heylà.» salutò amichevolmente l’altro «Buongiorno.»

Yuta gli lanciò uno sguardo minaccioso, e quindi si guardò un po’ intorno. Si trovava su un letto nella stanza degli ospiti. Non vedeva nulla di male nel dormire su un letto per smaltire una sbronza, e pertanto non riusciva a trovare nessun motivo valido per cui qualcuno dovesse svegliarla. Sicuramente aveva bisogno di essere più in forze per iniziare a rimediare i ricordi delle ultime cose che erano successe nottetempo, e al momento non ne aveva nessuna voglia. Nonostante ciò, qualcosa attirò insensatamente la sua attenzione.

«Perché hai un tergicristallo in mano?»

Kumals alzò le spalle «L’ho trovato nell’altro letto, quello dove ho dormito, stamattina. Credo l’abbia sputato fuori il cappotto. Strano, no? Voglio dire, in genere non lo fa. Credo si trovasse qui da quando…»

«Bene. Buonanotte.» lo interruppe Yuta, tornò a girarsi nella precedente posizione e trovò che non aveva alcun problema a ricadere rapidamente nel sonno. Si sentì di nuovo punzecchiare il fianco.

«Che c’è?» gridò imbestialita, tornando a girarsi e a fronteggiare Kumals con uno sguardo di fuoco.

«Beh… c’è da dar da mangiare ai gatti, rompere l’acqua congelata nell’abbeveratoio dei cavalli, riassestare le balle di fieno che abbiamo scombinato ieri sera durante la festa… E tutti gli altri dormono. Almeno credo. Non si sente volare una mosca. Inoltre, ieri sera Uther è sparito ad una certa, e insomma, stavo pensando che potremmo cercarlo e vedere se è ancora vivo, tipo.»

Yuta rifletté con impegno su tutte queste informazioni. Alla fine domandò «E Zoal

«Dorme sul divano.»

«Perché non sono nella mia camera?» chiese ancora Yuta.

«Perché ci sono andati a dormire Ramo e Valentine, e mi sembrava appropriato lasciarli per conto loro. Ah, a proposito, non ho visto in giro nemmeno Danny e Andrea.» e sogghignò significativamente.

«Mhm… bene.» concluse Yuta. Tornò a girarsi sul fianco e ad appoggiare la testa sul cuscino.

Le punzecchiature non ripresero, e lo trovò molto soddisfacente. Anche tutta la capacità importunante di Kumals doveva pure avere una fine. E non poteva essere superiore alla sua determinazione a dormire ancora, era sicuro!

In quella si accorse che qualcuno stava entrando nel letto di fianco a lei, infilandosi sotto le coperte, e iniziando a spingerla lentamente per farsi posto. Yuta balzò a sedere e in un tutt’uno spinse energicamente Kumals, già mezzo sdraiato, fuori dal letto. Si ritrovò a fissarlo mentre, seduto sul pavimento dov’era caduto non troppo rovinosamente, la guardava.

«Senti, Kumals…» iniziò a dire lei, tentennante, con serietà dispiaciuta ma convinta.

«Beh, se non ti svegliava questo, mi sarei arreso davvero.» le comunicò lui, con un sorrisetto ambiguo.

Lei lo fissò in tralice per qualche secondo, quindi si rese conto che effettivamente ora era sveglissima. Con un ampio sbuffare scostò di getto le coperte e scese dal letto, senza curarsi di camminare sopra a Kumals stesso, che replicò solo con qualche lamento più volto al vittimismo che all’espressione di dolore.

Borbottando mozziconi di frasi imprecanti, Yuta si trascinò con passo malfermo fino alla porta, la aprì e fece per uscire;  ma si bloccò sulla soglia, e tornò a guardare l’altro, che si era alzato e si stava spazzando distrattamente polvere e terriccio raccolti dal pavimento sugli abiti.

«Hai detto che in camera mia ci sono Ramo e Valentine

«Sì.»

«Beh… ma io ho bisogno di vestiti di ricambio! Busserò.» decise Yuta, parlando più che altro a se stessa, ed uscì.

Kumals sorrise brevemente tra sé e sé, quindi anche lui uscì nel corridoio, diretto al bagno. Entrò e prese a lavarsi la faccia al lavandino con acqua rigorosamente fredda. Gli sorse l’idea che avrebbe potuto farsi una doccia veloce. Ma prima era meglio accertarsi a quale livello di sporcizia sommaria fosse giunta la vasca. Così si voltò e tirò le tende chiuse della vasca da bagno. Sussultò violentemente, per quella sorpresa totalmente inaspettata che allarma in maniera puramente istintiva.

La persona che invece giaceva sdraiata nella vasca vuota, avvolta in un paio di coperte, seppure altrettanto colta di sorpresa stava riemergendo da un sonno pesante, perciò si limitò a guardarlo con occhi cisposi ed espressione di irritato disturbo.

«Oh. Scusa.» disse meccanicamente Kumals, guardando Uther. Ora che lo aveva riconosciuto e che era certo che fosse vivo, il tutto non gli sembrava affatto strano.

Uther mugugnò qualcosa di incomprensibile, che a giudicare dal tono assomigliava all’espressione di chi è a malapena disposto a scusare qualcuno, a patto che scompaia con la stessa prontezza con cui è apparso.

Tuttavia, Kumals stava notando che accanto alla vasca, appoggiati per terra, c’erano una bacinella vuota, una bottiglia d’acqua e una pagnotta.

«Chi ti ha portato la colazione a letto? Cioè, volevo dire la colazione ‘in vasca’…» domandò Kumals, curioso ed ironico.

Uther ci pensò un momento, ma la curiosità fu infine più forte dei postumi da sbronza. Si alzò faticosamente a mezzo busto, sporgendosi oltre il bordo della vasca per guardare gli oggetti che avevano attirato l’attenzione di Kumals. «Non ne ho idea.» commentò.

«Dev’essere stata Zoal.» concluse Kumals. «Questo potrebbe voler dire che si è anche già occupata di tutto quello che c’era da fare, prima di tornare a dormire sul divano. Credo che Yuta non la prenderà bene.»

«Mhm.» emise Uther, mettendosi a sedere a fatica dentro la vasca, tenendosi saldamente sulle spalle le coperte, evidentemente ben poco interessato a ciò che stava dicendo l’altro.

«E tu come stai?» domandò con aria arzilla Kumals.

Uther lo guardò con un cipiglio ben poco amichevole.

«Stavo pensando di farmi una doccia… Ma posso anche passare più tardi.» disse ancora Kumals.

Uther emise un grugnito d’assenso.

«A dir la verità non mi sembrava che avessi bevuto molto più del solito, stanotte…. » osservò Kumals. Ora nel suo tono c’era, a malapena distinguibile, un accenno di indagine più propria.

Uther lo notò, gli scoccò uno sguardo in cagnesco, e disse «M’è sembrato che hai detto che saresti ripassato più tardi.»

Kumals si arrese alla chiusura del ragazzo. Tra sé e sé, in ogni caso, si era già dato molte risposte, osservando quell’espressione di profondo malumore, mischiato a qualcosa che poteva sembrare un buon inizio di abbattimento che sconfinava con la depressione.

«L’ho detto…» ammise quindi, dopo aver rivalutato con più obbiettività le probabilità che ad Uther potesse giovare anche solo la sua muta presenza. «Va bene, a più tardi allora.»

Mentre Kumals usciva, Uther occhieggiò il telefono della doccia, che era disposto quasi precisamente sulla sua testa. Si liberò delle coperte e le buttò fuori dalla vasca, sul pavimento; tornò a riabbassare la faccia, mentre allungava una mano sul pomello che accendeva l’acqua, e lo girava.

Kumals udì l’acqua della doccia iniziare a scrosciare di colpo. Si voltò appena, senza interrompere la sua azione di uscire, e prima di chiudersi la porta alle spalle intravide chiaramente Uther, ancora seduto dentro la vasca, a spalle abbandonate, gambe incrociate e sguardo vacuo perso sul nulla, che lasciava che l’acqua gli piovesse addosso, bagnandolo completamente, vestito com’era.

 

 

 

 

* Questa battuta originariamente non è mia, anche se l’ho leggermente modificata per adattarla al contesto. Però non mi ricordo dove l’ho sentita… mah.

 

 

Ritorna all'indice


Capitolo 42
*** 40 - SABBIA E CAVALLI ***


Capitolo 40

(SABBIA E CAVALLI)

 

 

Appena uscito dal bagno, Kumals si ritrovò di fronte Ramo.

Il ragazzo gli rivolse uno sguardo ancora piuttosto intontito e assonnato, e con voce impastata domandò «Ma il bagno è occupato…

Kumals ci rifletté sopra per un momento. «Diciamo che Uther si sta facendo la doccia.»

Notando il tono dubbioso, Ramo smise di sfregarsi la testa per cercare di risvegliarsi, e lo guardò con uno sguardo più concentrato. «Che significa ‘diciamo’…?»

«Beh, se devi solo pisciare credo che tu possa procedere tranquillo.» recuperò Kumals «Se devi fare una doccia, ci sono prima io.»

«Hum…» borbottò Ramo, poco convinto. «Dipenderà da chi arriva primo. Ma… Uther è già sveglio?»

«Non ne sono sicuro.» commentò Kumals, con riserbo.

«Ha dormito nella vasca, eh?»

«Già. Di solito dice ch’è perché il letto si muove troppo dopo che ha bevuto. Così, suona strano che non ci dorma praticamente sempre nella vasca.» notò Kumals.

«Va bene… tenterò dopo.» risolse Ramo, con un ampio sbadiglio, e si ridiresse verso la stanza di Yuta.

«Hai per caso visto Yuta?» gli chiese Kumals.

«Sì…» rispose Ramo, con sforzo di concentrazione. «E’ venuta a prendere dei vestiti, prima… Credo che sia scesa, dopo.»

«D’accordo, grazie.» concluse Kumals, superando l’altro mentre rientrava nella stanza, e scendendo le scale.

Attraversò il salotto ed entrò in cucina, dove trovò le due sorelle.

Zoal stava rimestando un pastone per i cani in una pentola sopra ai fornelli, mentre vicino ai suoi piedi Mama, seduta, aspettava con una vaga aria di pazienza, e Danza cercava di coinvolgere Duca in una lotta giocosa, agitandogli addosso un pezzo di legno, a proposito del quale sembrava convinta valesse la pena di iniziare una contesa.

«Buongiorno Zoal.» salutò Kumals, mentre occhieggiava Yuta, seduta al bancone con un’aria molto provata; sentendo la sua voce la ragazza si distrasse dal fissare con eccessivo interesse la tazza di caffè caldo poggiata davanti a lei, e gli scoccò uno sguardo corrucciato, come se cercasse il motivo preciso per cui doveva avercela con lui.

«Buongiorno.» rispose Zoal.

«Che ore sono?» si informò Kumals.

«L’una.» rispose la donna.

«Hum… E sei stata tu a portare la colazione ad Uther, immagino…»

«Ahan.» confermò Zoal, mentre schiacciava alcuni grumi nel pastone col cucchiaio.

«Era nella vasca?» si udì la voce di Yuta uscire faticosamente; aveva l’aria di essersi svegliata da poco da un coma profondo. Kumals sperò intensamente che non riuscisse a ricordarsi che l’aveva svegliata con la motivazione di faccende a cui doveva aver già provveduto Zoal.

«Mh-mh.» rispose affermativamente Zoal.

«Speriamo che non ci anneghi…» commentò Kumals, come tra sé e sé.

«Eh?» fece Yuta, in cerca del proposito per attaccare briga, e chiedendosi se il fatto che l’uomo non si stesse esprimendo in maniera sufficientemente chiara fosse adatto allo scopo.

«Niente, niente… ». E Kumals si sedette al bancone, dopo aver recuperato qualcosa da mangiare da alcuni stipetti; prese a spalmare della marmellata su un pezzo di pane piuttosto vecchio, cercando di opporre allo sguardo penetrante di Yuta un’espressione innocentemente distratta.

Zoal spense uno dei fornelli. «Altro caffè è pronto.» annunciò.

«Ottimo, caffè…» mormorò Kumals, alzandosi e andandosene a versare una tazza. Mentre zuccherava il suo caffè, sentì il rumore di una sedia che veniva spostata con brusca urgenza dietro le sue spalle. Si voltò subito, pronto a fronteggiare un’aggressione. Ma dietro di lui non c’era nessuno in procinto di sferrargli un attacco.

Kumals si ritrovò a guardare la schiena, il sedere e le gambe di Yuta, riversa con la parte superiore del corpo fuori dalla finestra aperta della cucina. I rumori di chi sta rimettendo erano inequivocabili.

«Quando gli altri si saranno alzati, dovremmo parlare un po’…» disse con calma Zoal, porgendogli un lega capelli che di solito usava la sorella.

«Sì.» concordò Kumals, prendendo il lega capelli e andando ad accostarsi a Yuta da dietro. Con naturalezza si sporse dalla finestra di fianco a lei, chinandosi a raccoglierle i capelli con le mani, ciocca per ciocca, allontanandoglieli dal volto, e glieli legò in una coda di cavallo sommaria dietro la schiena.

«Grazie…» bofonchiò Yuta, con tono irritato.

Kumals le porse uno strofinaccio che aveva pocanzi un po’ bagnato d’acqua sotto il lavandino, senza dire nulla. Iniziò a canticchiare.

«Her name is Rio and she dances on the sand…*»

 

*

***

*

 

Andrea fu richiamata senza tanti complimenti dal sonno profondo per via di qualcosa di umido e vellutato che le urtava la guancia. Spalancò gli occhi, voltandosi, e si ritrovò a fissare l’impressionante primo piano di un grosso muso equino; dalle grosse narici eruppe uno sbuffo che le soffiò un’alitata di aria calda su tutta la faccia.

«Ah!» esclamò stupita la ragazza, scostandosi di fretta per mettere un po’ più distanza tra la sua faccia e quella del cavallo. L’azione non fu così facile, perché quel qualcosa su cui era sdraiata slittava sotto di lei, con un crepitio secco, e si sentì graffiare un po’ la pelle da un minuto accozzaglia di punte rigide. Si rese così conto di essere sulla paglia.

Guardandosi intorno, realizzò di trovarsi nella stalla. Di fronte a lei, un cavallo non molto grosso, dal pelo bianco-grigiastro, ruminava tranquillamente. Mentre lei lo guardava, ingollò l’ultima parte del boccone, e sporse il muso di fianco a lei, scostando un po’ i vestiti nei quali era mezzo avvoltolata, per raggiungere la paglia: dai grossi labbroni, appositamente ritratti, baluginò il bianco-giallastro di grossi denti piatti, coi quali afferrò un po’ di paglia, che si portò in bocca, riprendendo tosto a ruminare, pacificamente.

Andrea sentì un movimento di fianco a lei, e la paglia si mosse un altro po’, accompagnata da un mugugno tra lo stanco e il pigro. Voltò lo sguardo sul ragazzo disteso accanto a lei, come lei nudo e sommariamente avvolto in un mucchio disordinato di vestiti.

Da sotto alcuni scompigliati ciuffi bianco-gialli spuntò uno sguardo blu scuro, che si aprì su di lei. Danny parve non avere alcuna esitazione nel riconoscerla; nella sua espressione ancora mezzo preda del sonno occhieggiò un sorriso tenue. In qualche modo, lei rapì prontamente quell’immagine, e la sprofondò con cura in sé, per l’immediato desiderio di custodirvela a lungo.

Poi Danny si accorse del cavallo che ruminava con lenta pazienza vicino a loro.

«Oh… Raj.» disse, a mo’ di constatazione e di saluto. Il cavallo non sembrò curarsene. Nonostante ciò, Danny sporse il braccio, per appoggiare le dita sul muso bianco-rosato, sul quale assestò un grattino.

«Si chiama Raj.» disse Andrea, abbozzando vagamente il tono interrogativo.

Danny tornò a guardarla, ancora con quell’espressione di dolce abbandono. «Sì.» sussurrò in risposta. Poi, mentre ancora considerava la ragazza, qualcosa mutò nel suo sguardo. Come se si stesse svegliando appieno solo in quel momento, la sua espressione si fece di colpo lucida, e subito dopo piuttosto concentrata nell’evitare di fare trasparire un certo imbarazzo.

Andrea sorrise, mentre si raccoglieva meglio intorno gli abiti, più che altro per ripararsi meglio dall’aria fredda, ma anche per un inatteso senso di pudore. Intanto non poteva fare a meno di interrogarsi su costa stesse passando per la testa del ragazzo, con una certa ansietà; ma si guardò bene dall’osare studiarne direttamente il viso.

Danny si guardò attorno, rilevando dove si trovavano, e anche alcuni dettagli che lasciavano assai scarso spazio per equivocare. Il sottile sospetto di aver combinato un disastro gli si insinuò addosso prima che potesse realizzarne meglio il significato; poi, sempre non troppo chiaramente, intuì che aveva qualcosa a che vedere con l’avere accelerato troppo bruscamente qualcosa.

«Scusa ma… scusa…» riuscì a dire.

Andrea lo guardò, con un’aria vagamente divertita. «’Scusa’ di cosa?»

Danny aggrottò le sopracciglia. «Non ne sono sicuro…»

Andrea ridacchiò, e improvvisamente le venne naturale allungargli le braccia intorno al collo, con fare affettuoso. Anche a Danny venne da sorridere, piuttosto stupidamente, e senza che riuscisse a capirne compiutamente il motivo. Ma quando si ritrovò a guardare il sorriso di lei, e a toccarle le labbra con un bacio, smise di sentire il bisogno di parecchie cose che avevano a che fare con il mondo dei motivi.

Il muso del cavallo urtò con una certa indulgente ma pressante insistenza le loro gambe, per raggiungere il fieno; Andrea si staccò dal bacio per guardare con aria perplessa l’animale, mentre Danny, staccatosi anch’egli con riluttanza, gli rivolgeva un’aria abbastanza infastidita.

«Senti, Raj, devi proprio mangiare qui e adesso?» domandò in tono eloquente.

La piccola risatina brillante di Andrea lo distolse repentinamente dai suoi propositi di rimbrotto.

«Forse per lei è ora di colazione.» azzardò la ragazza, come cercando di scusarla.

«Non me ne importa niente… C’è un sacco di spazio qui da dove mangiare…» ribatté Danny, mentre con fare scherzosamente dispettoso appoggiava una pianta del piede sul muso del cavallo, spingendolo piano per allontanarlo. L’animale mosse la testa per liberarsi del gesto, e nitrì piano a bocca piena, come in protesta.

«Non fare il prepotente…» lo rimbeccò con tono tutt’altro che di rimprovero Andrea. Le ultime parole gliele mormorò sorridendo, a filo di labbra.

Di lì a poco, quando Raj tentò nuovamente di trovare un boccone di paglia, che stava cercando di scegliere dal mucchio su cui avevano dormito i due, perché si trattava di bocconi più caldi, trovò la cosa più difficile, perché ora doveva spostare due corpi come se fossero un unico mucchio, piuttosto che uno solo.

Emise qualche sbuffo frustrato, ma dopo che una serie di spinte rifilategli con gesto distratto ma deciso da una mano di Danny le ebbero scostato il muso diverse volte, si risolse a spostarsi.

Vagò un po’ nello spazio della stalla, provando qualche assaggio da alcuni dei vari mucchi di paglia, molto più disordinati del solito, e continuò il suo spuntino non senza un velo di irritazione.

 

*

***

*

 

«Non ci sarebbe da spaccare l’acqua per i cavalli?» domandò Yuta, ancora mezzo sporta fuori dalla finestra, ma con già il fare di chi è in energica ripresa.

«Già fatto.» disse Zoal che stava distribuendo il cibo per i cani nelle ciotole, sotto lo sguardo e i musi puntati e sbavanti dei destinatari.

«Mhm.» mugugnò con aria scontenta Yuta.

«Potresti almeno aspettare di aver finito di rimettere per iniziare a… »

«Non sto parlando con te.» chiarì Yuta in tono scontroso, lanciando un’occhiata perentoria a Kumals, che, appoggiato alla cornice della finestra di fianco a lei, stava fumando una sigaretta e bevendo il suo caffè, con aria rilassata.

«E hai anche già risistemato la paglia nella stalla?» domandò ancora Yuta.

«Quello no.» rispose tranquillamente Zoal, mentre appoggiava per terra, in diversi punti della cucina, le ciotole piene, sulle quali si precipitavano con entusiasmo, nell’ordine, Mama, Duca e Danza.

«Ah, bene.» disse Yuta.

Kumals aggrottò un po’ la fronte, e trattenne appena un sorrisetto divertito, avendo riconosciuto nel tono della ragazza una sfumatura di vittoria, non tanto dissimile da quella di un bambino che, dopo aver messo testardamente in discussione qualcosa, riesce alla fine a far ammettere al suo avversario di aver ragione.

«Allora tra poco vado io.» comunicò ancora Yuta.

«Quando hai finito di rivoltarti lo stomaco…» accennò Kumals.

«E’ ovvio!» commentò piccata la ragazza.

«Credo sarebbe meglio aspettare.» intervenne inaspettatamente Zoal.

Kumals la guardò con aria incuriosita.

«Perché?» esplicitò Yuta.

Zoal sembrò combattuta per qualche momento. «Mah. È meglio aspettare ancora un po’.» ripeté.

Tutta questa vaghezza stava mettendo Kumals di buon umore, come accadeva spesso quando si presentava un mistero che aveva a che fare con qualcosa che qualcuno stava accuratamente evitando di dire.

In quella, però, fu distratto dal fatto che Yuta si fosse rialzata dalla sua posizione, e stesse guardando dritto fuori dalla finestra, evidentemente fissando qualcosa in particolare.

«Che c’è?» domandò Kumals, voltandosi subito per guardare anche lui fuori. Dopotutto, non era da dimenticare che avevano il loro “angelo custode” che si stava probabilmente aggirando intorno alla casa, a debita distanza di sicurezza dalle trappole di Zoal. E che orde di persone instupidite e potenzialmente aggressive vagavano disperse per le colline.

Ma dovette ridimensionare e scacciare in fretta il suo allarmismo, quando si ritrovò a fissare ben altra scena di quella che aveva temuto.

Danny ed Andrea stavano uscendo dalla stalla per dirigersi verso la casa. Parlavano tra loro, con una confidenza affettuosa, e sorridendo in maniera stupida; di tanto in tanto l’uno sporgeva una mano sull’altra o viceversa, per togliersi reciprocamente dai capelli o dagli abiti qualche filo di paglia.

«Guarda guarda…» considerò Kumals, con aria ghiotta.

Yuta gli scoccò uno sguardo di rimprovero. «Oohh! Non inizierai subito ad infastidirli, eh?»

Kumals le rivolse un sorriso falsamente candido. «Hai già finito di rimettere?»

«Fanculo.» lo fronteggiò lei, con un simile sorriso di fintamente cortese minaccia.

«Adesso chi vuole può anche andare a risistemare la paglia.» osservò Zoal tranquillamente, mentre, seduta al bancone con l’aria di essersi messa in pausa, sorseggiava la sua tazza di caffè.

 

 

 

 

 

*  (ATTENZIONE: parte di questa nota contiene uno spoiler sulla seconda parte del capitolo, quindi finite di leggerlo prima di leggere questa nota.) parole dal testo della canzone ‘Rio’ dei Duran Duran. L’ho abbinata a Yuta su due piedi, o l’ha fatto Kumals. Questo si è mischiato nella scelta del titolo: il modo in cui Danny e Andrea se ne stanno sulla paglia mi ha richiamato un po’ l’idea di come si potrebbe stare spaparanzati su una spiaggia (sabbia, da cui il richiamo alla canzone ‘Rio’). Fine dei viaggi insensati dello scribacchiatore; per ora…

 

 

 

Note dello scribacchiatore: et voilà, tra un paio di capitoli si ritorna a fare sul serio rispetto ai problemucci di zombie-simili che si aggirano per le colline, e in generale con i piani dei 4-di-picche & co. Anche se non mancherà qualche altra uscita da “compagnia spensierata”. E poi, adesso che Kumals ha materiale di gossip per fare il fastidioso… chi lo ferma più…

 

Ritorna all'indice


Capitolo 43
*** 41 - I LUPI NON SPUTANO ***


Capitolo 41

(I LUPI NON SPUTANO)

 

Yuta marciò sovrappensiero fino alla porta socchiusa del bagno e la spalancò.

«Ah, scusa, credevo non ci fosse nessuno.» disse poi, trovandosi a guardare Valentine, che, in piedi davanti al lavandino, si stava pettinando i lunghi capelli neri. Fece per uscire.

«No, vieni pure, ho praticamente finito…» la invitò Valentine.

«In questo caso…» tentò gentilmente Yuta, tornando a infilarsi nel bagno «…se non ti dispiace intanto farei una doccia.»

«Certo, certo, vai pure. Se vuoi comunque esco…»

«No, non importa, grazie.» disse Yuta con un sospiro, mentre lasciava cadere sopra un mobile, che in origine era un basso tavolinetto da salotto, il mucchio di vestiti puliti che aveva in mano.

Attraverso il riflesso dello specchio, Valentine la vide guardare con sospetto la tenda tirata della doccia; si voltò proprio mentre Yuta la scostava di colpo, con uno strattone deciso e fulmineo. «Qualcosa non va…?» chiese incerta, mentre Yuta esaminava con cipiglio indagatorio la vasca.

«Hum… no… Non c’era nessuno qui, quando sei entrata?»

«Beh, Ramo ha fatto la doccia con me, poi è uscito qualche minuto fa…. E’ forse rimasto qualche capello? Li raccolgo sempre ma ogni tanto qualcuno mi sfugge…» spiegò Valentine.

Yuta scosse la testa. «No, niente.». Entrò nella vasca, tornò a chiudere la tenda e prese a spogliarsi, impiegando così il tempo d’attesa che occorreva al getto d’acqua, che aveva già acceso e fuori dalla portata del quale si mantenne, per produrre arrivare ad una temperatura sufficientemente calda. «Ho pensato che Uther potesse essere ancora qui.» disse dopo un po’, pensando che Valentine meritasse qualche delucidazione.

«Ah… sì… Ramo mi ha detto che a volte dorme nella vasca.» osservò Valentine comprensiva, mentre riprendeva a pettinarsi più rasserenata.

«Già… quando è sbronzo… e depresso…» mormorò tra sé e sé Yuta, pensierosamente. L’acqua che scorreva coprì le sue parole.

«Come?» chiese Valentine ad alta voce, attraverso lo scroscio vivace della doccia.

«Dicevo… Quando abbiamo finito siamo d’accordo che ci vediamo tutti in cucina per parlare del da farsi.» mentì Yuta.

«Oh, sì.» asserì Valentine, sforzando la voce in un tono neutrale. Ma lo specchio le rimandava la sua immagine, rabbuiatasi in un’espressione gravemente seria. «Quando pensi che inizieremo…

La risposta si fece attendere per qualche minuto.

«Questa sera.»

E ad entrambe fu improvvisamente chiaro che il tempo delle feste era davvero finito.

 

*

***

*

 

«Quindi… se io vedessi un lupo… come farei a riconoscerti?» domandò con voce esitante Andrea, accomodandosi meglio sul divano.

Seduto a gambe incrociate sul pavimento, vicino alle sue gambe, Danny sembrò un po’ a disagio. «Hem… beh…»

«Potresti provare a chiederglielo.» suggerì Uther, in un tono serio che nascondeva bene lo scherzo.

Ramo, appoggiato a braccia incrociate al muro, lo guardò con aria poco persuasa. «Questa era proprio brutta.» commentò con un sorrisetto.

«Va bene, stronzate a parte…» riprese Danny.

«Senti me.» lo interruppe Kumals, rivolgendosi ad Andrea «Se il lupo inciampa…»

«Come…?» chiese la ragazza, confusa.

«Sì, insomma, Danny è capace di inciampare dappertutto, certe volte. Perciò se il lupo inciampa deve trattarsi certamente di lui.» continuò Kumals, sotto lo sguardo sempre meno convinto di lei.

«Ah ah ah!» Danny finse una risata, con puro sarcasmo «Molto divertente…»

«In effetti, forse un modo ci sarebbe…» iniziò a dire Ramo, con circospezione.

«Ci stiamo tutti squagliando dalle risate!» continuò Danny in direzione di Kumals.

«Mi sembra di avergli fatto una foto, una volta che era in forma di lupo, quindi se… » cercò di proseguire Ramo.

«Aiuto, non respiro più dal ridere…» insistette col sarcasmo Danny, trafiggendo con occhiatacce decise Kumals.

Ramo alzò le spalle. «Sennò puoi mettergli una pinta di birra davanti e…»

«Hey, ti ci metti anche tu?» lo fulminò Danny.

«No, la birra non vale, anzi, è pericoloso.» osservò Kumals, in tono discorsivo.

«Beh, sì, d’accordo… Tecnicamente fare bere dell’alcool ad un lupo non credo che…» ammise Ramo.

«No, non intendevo quello.» lo corresse Kumals, serio. «Ti ricordi quella volta che ci abbiamo provato, e Uther e Danny si sono azzuffati per prenderla?»

«Eh già.» ironizzò Uther, per smascherare la burla «Che vergogna, Kumals, raccontare le bugie alla tua età…»

Kumals lo guardò. «Sì sì, fai pure finta di niente…»

Danny si voltò a guardare Andrea. «Comunque non è vero.» puntualizzò, con fare rassicurante.

Kumals lo guardò in modo sussiegoso. «Oh, ma tu non te ne ricordi perché eri in forma di lupo…»

Mentre Danny rispondeva energicamente a Kumals, Andrea spiò Zoal, seduta di fianco a lei. «Ma fanno sempre così…?» le mormorò, in modo che la sentisse solo lei.

«Non sempre. Spesso.» rispose Zoal, con sincerità priva di tentativo di rincuorarla. «Comunque…» aggiunse, voltandosi a guardarla. «Questa è una cosa importante. Non sempre Danny può ricordarsi di tutto quello che ha fatto quando era in forma di lupo. Questo dipende dal grado di memoria e consapevolezza umana che mantiene nella sua forma-lupo. E questo a sua volta dipende strettamente, anche se non esclusivamente, dalle fasi lunari. Ci sono fasi lunari in cui Danny mantiene molto chiaramente i suoi ricordi e la sua consapevolezza umana anche quando è lupo, mentre in altre fasi più critiche questo non è così scontato. Nelle notti in cui non c’è luna, invece, non è in grado di assumere la forma di lupo. Nel resto del tempo può assumere la forma di lupo sia nelle ore diurne che in quelle notturne, anche se solo in presenza di luna ben visibile la mutazione gli risulta più facile e meno dolorosa, oltre al poter restare in forma di lupo per più tempo. Ci sono insomma situazioni molto diverse tra loro, a seconda della fase lunare. E anche da qualcosa che, semplificando, potremmo definire ‘il suo stato d’animo’

Andrea, che stava ascoltando molto attentamente, si accorse di punto in bianco che Zoal aveva smesso di parlare perché la zuffa verbale tra Danny e Kumals, con alcuni interventi di Ramo, stava scemando. Ebbe anche la sensazione di un penetrante sguardo concentrato su di lei; si voltò, e realizzò che quello sguardo consisteva in due occhi di un azzurro chiaro e, forse, persino freddamente attento in quel momento. Ma quando lei voltò la testa, Uther distolse rapidamente lo sguardo, come se l’avesse osservata solo distrattamente. Però l’impressione che le rimase addosso era tutt’altra.

«Quindi, per fare un esempio…» le si rivolse Kumals, che aveva l’aria di essere riuscito a seguire abbastanza bene il discorso di Zoal, anche mentre era impegnato a discutere con Danny e Ramo «Se quando è in forma di lupo Danny ti sputasse nel bicchiere, non dovresti prendertela troppo perché…»

«Ma che razza di esempio è?!» intervenne il citato, con fare infervorato «Non le sputerei mai nel bicchiere! E come potrei farlo in forma di lupo, poi?»

Ramo ridacchiò, accorgendosi troppo tardi di poter essere sentito molto bene dal fine udito dell’amico.

«Cosa?!» lo interpellò astiosamente Danny.

«Beh… tenderesti piuttosto a bertelo, il bicchiere…» sogghignò Ramo.

«O se ti sputa nel bicchiere da umano, poi quando è lupo potrebbe non ricordarsene affatto…» continuò a fare esempi Kumals, rivolgendosi con fare volenteroso ad Andrea.

«Io non vado in giro a sputare nei bicchieri alla gente!» protestò Danny.

«Guarda che una volta l’hai fatto.» obbiettò tranquillamente Kumals. «Hai sputato nel bicchiere di Uther per convincerlo a lasciarlo bere a te.»

Uther tornò improvvisamente partecipe, e lanciò lunghi sguardi tra Kumals e Danny.

«Guarda… Non è vero.» chiarì quest’ultimo.

Kumals si rivolse ad Uther con candido stupore. «Ah, non te ne eri accorto?»

Danny si voltò a guardarlo con uno scatto della testa «Ma non l’ho mai fatto!»

«Comunque è vero: non può sputare quando è in forma di lupo. Al massimo sbava.» constatò Uther.

«Mi avete rotto.» concluse Danny, alzandosi e abbandonando la stanza, mentre gli altri tre sogghignavano, guardandolo.

«Gli passerà.» pronosticò Ramo.

«Sì… ma nel frattempo potrebbe sputare nei nostri bicchieri per vendicarsi.» fece notare Kumals, senza riuscire a rendere abbastanza passabile per serio il suo sorrisetto.

«Ma… così… non rischieremmo tutti di diventare lupi mannari?» domandò Andrea. Solo dopo averlo detto si rese conto di quanto quella domanda suonasse stupida.

Kumals indicò vagamente Uther. «Beh, lui non lo è diventato, quindi… No, comunque non è infettivo così. Però la licantropia è contagiosa, sì.» Guardò Andrea direttamente, con serietà, sporgendosi un po’ dalla poltrona verso di lei. E non si accorse così che, alle sue spalle, nella stanza stava entrando Yuta.

«E’ come una malattia venerea… » continuò Kumals, con aria grave. Ma fu interrotto dall’urto di una scatola che gli fu scaraventata addosso, colpendolo alle scapole, mentre una serie di oggetti si rovesciavano intorno e in grembo, frusciando. L’uomo guardò per un momento le numerose e ampie mappe che gli erano precipitate addosso, mentre Yuta gli si affiancava con le mani puntate sui fianchi.

«La smettiamo?!» gli disse.

«Yuta… Stavamo tutti scherzando. Andrea lo sa.» tentò di giustificarsi Kumals senza troppo impegno, mentre raccoglieva le piantine mezzo aperte cadutegli addosso, e si metteva a studiarle con interesse.

Yuta lo guardò con aria di consapevole rimprovero.

«No, d’accordo, stavo scherzando…» ridimensionò Kumals, anche se ancora fingeva di non essere stato toccato dai modi della ragazza. «Però in effetti io non ho le idee tutte chiare su questo punto. Insomma, a voi ha mai presentato una ragazza che non si trasformasse in lupo?»

Yuta raccolse una delle mappe, la arrotolò rapidamente e la usò per affibbiare un colpo sulla spalla all’uomo, il quale non permise che il suo contegno si incrinasse troppo tramite l’ostinato mostrarsi indifferente.

«A te non ha mai presentato una ragazza, perché sa benissimo che non gli avresti dato tregua!» specificò Yuta.

«Credo che andrò a farmi una doccia.» disse Andrea, che osservava quel singolare tipo di battibecco con un lieve sorriso. Si alzò e uscì dalla stanza.

«Ce la stai mettendo tutta per farla scappare, vero?» osservò Ramo, fissando Kumals.

«Secondo me la doccia è una scusa: dev’essere andata a fare le valigie.» rincarò Uther.

Ma si ritrovò oggetto di un singolare sguardo da parte di Kumals. «Da te non accetto critiche in questo senso…» gli mormorò.

Ramo occhieggiò la strana atmosfera che si stava creando tra i due, sotto forma di una sorta di scambio di sguardi di sfida, e dopo un po’ osò dire. «Cosa…?». Quella non l’aveva proprio capita, se era una battuta.

«Niente.» disse Uther tra i denti, mentre si alzava dalla sedia che aveva occupato fino a quel momento, e se ne andava in cucina.

Ramo si sentì in dovere di distogliere lo sguardo da lui, dopo che fu sparito, ma si ritrovò a guardare Kumals.

L’uomo sembrò riflettere su qualcosa per un po’, ma alfine tornò ad appoggiarsi allo schienale della poltrona, e il suo sguardo ridivenne calmo; lo abbassò sul sacchetto di tabacco che si era estratto dalla tasca.

«Niente.» mormorò, mentre si arrotolava una sigaretta, con un’espressione quasi triste, ma insondabilmente chiusa.

Yuta, che insieme a Zoal stava aprendo le piantine, stendendole sul pavimento, ma che aveva seguito con particolare attenzione gli ultimi scambi, scosse piano la testa tra sé e sé, con fare disapprovante.

 

*

***

*

 

Andrea finì di indossare i vestiti puliti provenienti dall’armadio di Yuta ed aprì la finestra del bagno, per far uscire un po’ il vapore generato dall’acqua calda, che annebbiava la stanza. Finché c’era, guardò un po’ fuori. E notò una sagoma, in piedi in mezzo allo spiazzo davanti alla casa, che fumava, riflettendo tra sé e sé.

La ragazza si appoggiò per un po’ al davanzale, e si accorse solo dopo che si era semplicemente persa a guardare la figura solitaria per qualche istante.

«Hey.» lanciò piano il richiamo nell’aria fredda.

Danny si voltò e alzò la testa, vedendola. «Hey…» ricambiò.

Si guardarono per un po’, in silenzio.

«Aspetta… vengo giù…» disse poi lei. Danny sorrise e annuì, e Andrea si scostò per chiudere la finestra.

Scese le scale quasi di fretta, e si fermò solo alla fine d’esse, per infilarsi rapidamente il grosso cappotto che le era stato prestato, che giaceva appeso all’attaccapanni accanto alla porta. Prima che qualcuno di quelli che erano ancora radunati nel salotto potesse aver notato la sua presenza, si affrettò ad uscire dalla casa.

Danny era di spalle, e lei capì che non si era voltato perché, forse, già l’aveva riconosciuta dall’odore. Scostò da sé con calma fermezza le domande che sembravano volerla porre di fronte al fatto che si fosse già abituata così scioltamente a comprendere l’universo sensitivo del ragazzo, come se già in parte le appartenesse.

Lo considerò bene, mentre gli si avvicinava, a suon di piccoli passi che scricchiolavano appena sul terreno congelato dal freddo delle gelide notti invernali. Si soffermò in particolare su quel giubbotto di jeans, sul cui dorso spiccava la toppa: una carta da gioco, un asso di picche. Anche quello le appariva ora come un particolare familiare.

Si fermò accanto a lui, appoggiando la spalla e il braccio contro ai suoi. Danny ricambiò il contatto appoggiandosi anche lui un po’ contro di lei; sembrava gradire quella vicinanza, anche se non si sarebbe detto che ci fosse abituato. C’era un sottofondo di esitante impaccio nei suoi gesti, talvolta, che faceva pensare che non fosse solito condividere i suoi spazi con qualcuno, non così confidenzialmente.

Il ragazzo chinò un po’ la testa verso di lei, e Andrea pensò che ne stava assorbendo l’odore. Le piacque quel gesto.

Tra sé e sé, però, continuava la riflessione che già aveva iniziato mentre si faceva una doccia, nella gradevole solitudine che le aveva finalmente concesso poc’anzi il bagno. Nonostante quel loro modo familiare e molto piacevole, doveva pur sempre fare i conti col fatto che a far cadere tra loro le ultime barriere era stata una festa e una certa ubriachezza. Non sapeva ancora bene cosa ciò avrebbe implicato, ma lo temeva.

Non sarebbe stato meglio se avessero superato quelle ultime distanze confrontandosi più apertamente? Certo, poteva ancora esserci lo spazio per farlo. O invece avevano fatto un passo troppo lungo della gamba, e ora quella distanza era più difficile da affrontare? Ricordava con chiarezza il loro confronto, agli edifici abbandonati della stazione di Foelm. Aveva bene in mente quegli sguardi raggelanti che le aveva rivolto, con l’evidente volontà di allontanarla da sé. Faticava a riallacciare ora quegli sguardi al fiducioso abbandono affettuoso che le stava rivolgendo fin dalla fine della festa.

E finiva per rimproverarsi di non riuscire a prendere più spontaneamente le cose così come venivano, tra loro.

Danny fece un respiro più pesante, quasi un sospiro. «Cosa c’è?» le domandò, in un sussurro gentile.

«Davvero mi vuoi con te?» si trovò a dire Andrea, quasi d’impulso. Dopo averla udita, fu terrorizzata dalla perentorietà della sua stessa domanda.

Danny scostò la testa dalla sua, per guardarla bene negli occhi. Sembrava aver capito immediatamente il senso completo della sua domanda, fin nelle implicazioni più lontane. E non sembrava trovarla inappropriata. Non a giudicare dal modo in cui la guardava, con profonda serietà. Forse lo stava chiedendo molto attentamente anche a se stesso.

Andrea rabbrividì, e cercò di prepararsi all’idea che di lì a poco il ragazzo si sarebbe scostato, e avrebbe cercato parole adatte a chiederle una maggiore distanza, o almeno per proporre che potevano fare qualche passo indietro, ritornare su alcuni punti. Ma non riusciva a prepararsi in alcun modo, e sentiva in anticipazione la paura del dolore, con la stessa nettezza con cui, dopo aver deciso di farsi del male, si teme la sofferenza.

Danny la guardò molto a lungo, in silenzio. Infine, si chinò a baciarla. Dopo qualche istante si scostò appena, e la guardò di nuovo, gli occhi fissi nei suoi, il volto a breve distanza dal suo, e una chiarezza così intensa che lei se ne sentì immediatamente preda, e capì di non potersi più riparare in alcun modo da questo.

«Sì.» sussurrò Danny in tono basso.

Andrea sondò il suo sguardo, fin dove riuscì ad arrivare, e non vi vide traccia di dissenso o dubbio interno. Avrebbe voluto trovare qualche appiglio per cercare di metterlo in dubbio, nonostante tutto.

«Ma non sarà semplice.» mormorò ancora lui, col fermo proposito di essere chiaro fino in fondo.

Lei capì che non stava più cercando di spaventarla o allontanarla; sembrava aver lasciato da parte quell’idea. Invece, stava cercando di fare quello che aveva appena tentato lei: era in cerca di dubbi e di esitazioni. Lei li aveva. Fu profondamente tentata di nasconderglieli, ma cedette alla richiesta muta che le stava porgendo con gli occhi: quella di dire fino in fondo la verità anche lei; ad entrambi.

«Va bene.» disse.

Danny ne intese il senso, ma appoggiando la fronte alla sua, sospirò di nuovo. «Per favore… Non affidarti più alla sicurezza che troverai un modo. Non prima di aver saputo con cosa hai a che fare…»

Lei rifletté attentamente sul senso di quelle parole. «D’accordo…» rispose infine. «Prima, ascolterò tutto ciò che vorrai dirmi.»

Danny tornò a guardarla, con un mesto sorriso. «Alcune cose posso dirle. Altre ti saranno chiare solo col tempo, temo…» accennò, incerto.

Andrea alzò le braccia e gli prese il volto tra le mani. «Bene così…» ribadì, con maggiore decisione. «Allora… mi farò insegnare dal tempo con te.»

L’espressione di Danny virò decisamente in un aperto stupore colpito. Poi sembrò che quell’affermazione avesse il potere di cavargli un lento sorriso, straordinariamente privo di tristezza o amarezza. Con quello in volto, socchiuse gli occhi alle carezze delle mani di lei, e si sporse di nuovo per andare incontro alle sue labbra.

 

Ritorna all'indice


Capitolo 44
*** 42 - GIUSTO IN TEMPO ***


Capitolo 42

(GIUSTO IN TEMPO)

 

«D’accordo…» sospirò Kumals con aria indaffarata, lasciandosi cadere quasi di peso sul divano; Mama, completamente sdraiata ad occupare il restante spazio, emise un basso ringhio gutturale di protesta.

«Oh, scusa Mama…» mormorò Kumals distrattamente, mentre portava una mano a cercare qualcosa su cui si era seduto sopra.

«Ti sei seduto sulla sua coda?» gli domandò Yuta, con aria critica.

«Non sembra una… coda…» rispose distrattamente Kumals, continuando a cercare. Estrasse la mano, e tutti gli altri, radunati nel salotto della casa, si ritrovarono a fissare con una certa perplessità un piccolo tostapane, con tanto di spina elettrica, ma senza piastre metalliche. Kumals non sembrava meno stupito di loro.

«Hum… sono abbastanza certa che… non abbiamo mai avuto un tostapane qui…» iniziò a dire Yuta, con precauzione, mentre cercava tra sé e sé di darsi una valida e plausibile spiegazione.

Kumals la guardò. «Ah, no, dev’essere uscito dalle mie tasche.»

«Mhm… già.» commentò Uther, con un leggero sogghigno.

Kumals gli lanciò un’occhiata. «Ah, ecco, ora ricordo. È quello che mi ero infilato in tasca quando io e te siamo stati ospiti di quella cliente… Dev’essere stato tre anni fa. Curioso.»

«’Cliente’?» domandò Andrea, mentre Danny cercava di comunicare a Kumals, tramite il solo uso di sguardi eloquenti al di sopra della spalla di Andrea, di dire qualsiasi cosa tranne la verità; venne bellamente ignorato.

«Sì, era convinta di avere un fantasma in casa. Non c’era nessun fantasma, a dirla tutta, ma fare qualche rito a caso l’ha resa molto più tranquilla. E mentre Zoal e Yuta fingevano qualche rito, io ed Uther abbiamo notato questo bel tostapane…» spiegò Kumals; ma qualcosa, nello sguardo abbastanza deluso di Andrea, lo fece esitare.

«Ne aveva due, di tostapane. Questo era il più vecchio. Coperto di polvere, secondo me non lo usava mai. Poi era una piena di soldi. Sicuramente se ne sarebbe potuta permettere cinque al mese, di tostapane. E il rito che hanno fatto Yuta e Zoal le ha profumato la sala da tè per gli ospiti di mughetto e lavanda per qualche mese, sicuramente. Sono certo che i suoi ospiti l’avranno gradito.» puntualizzò Kumals.

Gli altri lo guardarono stupiti. Da che lo conoscevano, era la prima volta che lo vedevano sentirsi in dovere di fornire giustificazioni così dettagliate. Andrea annuì, e lo sguardo di pacato rimprovero scomparve dalla sua faccia.

«Però è strano… secondo me quando l’abbiamo preso c’erano anche le piastre.» osservò Uther.

«Anch’io me la ricordavo così.» concordò Kumals. «Ma la cosa che più mi preoccupa è che è da stamattina che il cappotto continua a buttare fuori oggetti di tanto in tanto… Hum… è come se avesse fatto indigestione, tipo…»

Danny sbuffò sonoramente. «Potremmo tornare a occuparci di cose serie?»

«Ecco, infatti.» fu d’accordo Yuta, e rivolse un’occhiata a Zoal.

La donna, seduta a gambe incrociate su un grosso cuscino che giaceva a terra, assunse una posizione più partecipativa, e si schiarì leggermente la gola. Alzò una mano, nella quale reggeva lo strumento di rilevamento di posizione a tecnologia GPS, e a voce ben chiara annunciò «Poche ore fa si è fermato. Dovrebbe significare che il Conte è giunto nel punto dove stanno raccogliendo tutti i “contagiati”.»

«Grande!» esclamò Ramo, ma subito dopo la sua espressione ridivenne grave e seria «E dove si trova?»

Yuta, che sedeva per terra con le gambe ripiegate di lato, allungò un braccio al di sopra di una delle grandi cartine che lei e Zoal avevano dispiegato a ricoprire praticamente tutto il pavimento che si stendeva tra loro, dispostisi sommariamente in cerchio: il suo dito indice indugiò per qualche istante nel sorvolare una zona, poi cadde a puntare con precisione.

Gli altri si sporsero, chi camminando in piedi e poi chinandosi, chi gattonando sulla distesa di cartine, stringendosi intorno al punto indicato da Yuta. Solo Zoal e Kumals rimasero dove si trovavano, avendo già visto di cosa si trattava.

Dopo aver osservato il punto indicato da Yuta, Danny si voltò verso loro due, con aria particolarmente seria, e studiò brevemente le loro espressioni. Poi, sorridendo con aria complice, disse «Qualcosa mi dice che non è quello che sembra… cioè un punto qualsiasi in mezzo alla boscaglia delle colline… C’è dell’altro, vero?»

Anche gli altri rivolsero i loro sguardi verso Zoal e Kumals, in curiosa attesa. Zoal stava sorridendo pacatamente, apparentemente compiaciuta dell’intuizione di Danny, mentre Kumals, trattenendo un sogghigno, fingeva di essere particolarmente impegnato a fumare e ad accarezzare con le dita dell’altra mano il tostapane.

«Quando io e Yuta stavamo cercando un posto adatto per venirci ad abitare, su queste colline…» iniziò Zoal «…abbiamo indagato un po’ la zona… E in particolare gli edifici, eventualmente abbandonati o in vendita, che c’erano. Abbiamo sempre avuto una buona memoria, ma per maggiore praticità segnammo anche i posti in qualche modo interessanti o curiosi che trovammo.»

Zoal si interruppe per voltarsi di lato, scegliendo una piantina lasciata arrotolata per terra di fianco al cuscino su cui sedeva. La raccolse, e la aprì con calma, per poi alzarla in modo che tutti la vedessero. Kumals, appoggiatosi il tostapane in grembo, utilizzò il tergicristallo d’auto - quello che era stata la prima cosa che il suo cappotto aveva sputato quella mattina, e che si portava dietro da allora senza nessuno scopo apparente - a mo’ di bacchetta da lezione per indicare un punto preciso sulla piantina, che era solcata da scritte, frecce e punti tracciati a biro. Il punto che indicò mostrava un cerchio a biro, e alcune parole scritte troppo in piccolo per poter essere ben viste.

«Pare che il signor Benton avesse ragione, dopotutto.» commentò Kumals. «C’è una specie di magazzino, qui, o comunque un edificio di notevoli dimensioni. Secondo Zoal e Yuta, sempre rispetto alle informazioni che raccolsero quando cercavano casa da queste parti, l’edificio risulta di proprietà statale, disabitato e completamente inutilizzato.»

«Però quando andammo a darci un’occhiata notammo subito che non era affatto vero.» proseguì Yuta. «Era frequentato sì, anzi, proprio abitato. La notte era illuminato, solo pochissime stanze alla volta, quindi probabilmente da una sola o poche persone. Nonostante io e Zoal lo abbiamo studiato per qualche tempo, non abbiamo mai visto nessuno entrare o uscire da lì. Sempre dai vetri delle finestre, di notte, si vedevano riverberi colorati: forse una televisione, o forse… »

«Forse un computer.» intervenne Uther, di punto in bianco.

«Più di uno, a giudicare dall’intensità del bagliore.» corresse Zoal.

«Computer con cui forse stavano programmando il messaggio subliminale che ha ridotto le persone a quel modo!» quasi gridò Valentine, con entusiasmo.

Kumals annuì con aria soddisfatta. «Mi hai tolto le parole di bocca.» constatò.

«Bene!» esclamò Danny «Quindi non ci resta che andare là e tirare giù tutto e spiegare un paio di cose a chi ha avuto questa brillante idea!». E, nel completare questo suo personale piano, lasciò baluginare tra le labbra un sorriso di denti che aveva qualcosa di sinistramente pregno di impaziente aspettativa.

«Sì, giusto, ma… » si inserì Ramo, con tono di affranto scoramento «E quel cecchino che ci tiene d’occhio? Poi, se là hanno tutte quelle persone imbambolate… Tutta la città di MacHearty, e forse pure altre da centri abitati qui vicino? Insomma, un esercito di quei tizi… Noi siamo in… hum… otto persone? Non mi sembra una passeggiata… Per non dire impossibile… »

«Il fatto che siano imbambolate… » iniziò a dire Danny.

«Sempre che lo siano ancora.» lo interruppe Andrea. Si voltarono tutti a guardarla, incuriositi. Nell’osservarla, e nell’udire le sue parole, nelle pupille di Zoal passò un fugace lampo di comprensione.

«Voglio dire…» continuò Andrea, accomodandosi meglio nella sua posizione, seduta tra le gambe di Danny e leggermente appoggiata con la schiena al suo petto «Se qualcuno ha voluto imbambolare tutte quelle persone, e poi radunarle tutte in un punto preciso, cioè praticamente a casa sua… che scopo può avere? Quelle persone, fintanto che non si rendono conto di quello che fanno, sono pericolose, perché aggrediscono qualsiasi cosa sia capace di muoversi e/o di emettere rumori, a quanto pare. Quindi, a meno che chi ha organizzato tutto questo non avesse un piano abbastanza preciso, non le avrebbe fatte tutte quante arrivare dritte dritte al suo rifugio. Forse ha un modo per controllarle, per dirigere le loro azioni. Questo significa che una volta là potremmo ritrovarci di fronte a una specie di esercito telecomandato. E naturalmente, visto che forse sa anche ormai fin troppo bene cosa stiamo cercando di fare, a causa della sua spia-cecchino, appena arriviamo ce li rivolgerà contro.»

«E visto quanto sono resistenti ridotte in quello stato… non è che possiamo semplicemente metterle fuori gioco… O le riduciamo in poltiglia, il che sarebbe mal augurabile visto che non si rendono nemmeno conto di quello che stanno facendo, oppure ci facciamo ridurre in poltiglia.» commentò con umore tetro Ramo.

Per qualche lungo minuto, nella stanza avvolta in una penombra di pomeriggio semi-buio, calò il silenzio, nel quale si udiva distintamente il sottile ticchettare della pioggerellina che cadeva fuori.

«Beh!» esordì Kumals, affabilmente «Forse dovremmo dare una rivisitatina ai nostri “principi morali” e considerare l’idea di sacrificare qualcuno degli imbambolati per riuscire a saltarci fuori.»

«Cerchiamo di restare seri, per favore!» si stizzì Yuta, nervosamente.

«Ammesso e concesso che riusciamo a superare quell’orda di bravi cittadini col cervello in pappa e a raggiungere chi sta gestendo tutto questo casino…» ragionò Uther.

«Mi è sempre piaciuto il tuo ottimismo, Uther.» commentò Kumals di passaggio.

Uther lo ignorò deliberatamente «… ancora non sappiamo come funzioni il sistema di intordimento* diffuso. E ancora non sappiamo quindi né come rimanerne immuni noi né come disinnescarlo per far ritornare alla loro benedetta normalità gli altri.»

«A’ha! Su questo forse abbiamo qualcosa!» disse Kumals, con aria contenta. Sotto le occhiate in vario modo scettiche e interessate degli altri, l’uomo si chinò a raccogliere qualcosa da sotto il divano; estrasse un grosso librone, dalla copertina dall’aria antica impolverata di tutta la sporcizia che aveva potuto raccogliere lì dove era stata riposta, se lo appoggiò in grembo e iniziò a sfogliarlo dandosi un’aria di composta importanza. Sembrava un attore teatrale molto poco propenso alla modestia che avesse finalmente trovato il modo di far risaltare il suo personaggio al di sopra degli altri, cogliendo un punto decisivo dell’opera.

«Quello è uno dei libri del Conte?» disse Danny.

«Certamente.» confermò Kumals, continuando a sfogliare le pagine incartapecorite. «Per inciso, è già da un pezzo che ho notato che il Conte, dopotutto, ha avuto una bella idea: si  è portato dietro quasi solo libri riguardanti il fenomeno dello zombismo. Ma quando stavo per dirvelo è successo quello spiacevole inconveniente con Justin, e così…»

«’Spiacevole inconveniente’?!» ruggì Danny, facendo per alzarsi in piedi; ma realizzò all’improvviso il tocco di una mano di Andrea, che gli aveva somministrato una leggera stretta su un ginocchio. Si soffermò a guardarla, e comprese che gli stava chiedendo, se possibile, di rimandare gli scontri animati a un momento che non fosse tanto importante; soprattutto considerando quanto Kumals fosse propenso a lasciarsi coinvolgere negli attacchi diretti alla sua persona. Danny sembrò considerare con rammarico la possibilità di lasciar perdere la replica donchisciottesca che aveva a malapena iniziato, ma alla fine, seppure con malcontento, parve decidere di accettare il consiglio, perché si riabbandonò nella posizione seduta, lasciando andare l’angolo del tavolinetto a cui si era aggrappato per aiutarsi a balzare in piedi, e borbottando qualcosa tra sé e sé con rancoroso cipiglio tornò a placarsi forzatamente.

Andrea lasciò andare la presa significativa sul suo ginocchio, e si riappoggiò un po’ con la schiena a lui; mentre così faceva, realizzò improvvisamente la sensazione di due occhi che la fissavano, penetranti. Ma quando alzò lo sguardo sugli altri occupanti della stanza, li ritrovò tutti ancora intenti a fissare Kumals, che continuava a sfogliare le pagine con convinto impegno e una certa soddisfazione per il suo essere al centro dell’attenzione. Eppure, Andrea avrebbe giurato che lo sguardo che si era concentrato su di lei fino a un istante prima appartenesse a due occhi azzurro chiaro.

«Ecco!» disse Kumals, smettendo di sfogliare le pagine. Nel punto in cui si era fermato, c’era un fumetto piuttosto sottile infilato dentro al libro. Lui lo raccolse, e richiuse poi il librone con un sonoro tonfo.

«Credevo fosse nel libro ciò che avevi trovato d’interessante.» disse Ramo, piuttosto perplesso, e un po’ incerto sul se quello non fosse una specie di scherzo fuori luogo.

«Oh, beh, ci sono delle cose interessanti anche in questo libro, certo. Ma, mi comprenderai se dico che la sua pubblicazione risale a qualcosa come un secolo e mezzo fa. Tratta perlopiù del fenomeno dello zombismo nelle zone africane e nelle isole tropicali e negli arcipelaghi asiatici. Molto affascinante, specialmente considerando che questo è uno dei dieci volumi dell’edizione completa. Ma io mi riferivo in particolare a questo fumetto.» disse, alzandolo di fronte agli altri per farlo meglio vedere. Era un fumetto disegnato in stile tipicamente americano, probabilmente risalente agli anni ’70 od ’80, e, a giudicare dalla figura splatter che mostrava uno zombie che rosicchiava un collo privo di testa di qualche malcapitata vittima, l’argomento era abbastanza scontato.

«Kumals… » iniziò a dire Yuta, con aria tra il rassegnato e il propenso a scoppiare in una scenata coi fiocchi.

«Zitta un momento, lasciami finire.» disse l’interpellato, e, ignorando al meglio possibile lo sguardo incredulo e furioso che gli stava rivolgendo la ragazza, continuò in fretta «In questa storia gli zombie sono sì i classici contagiati da virus misteriosi o forse risvegliati da riti da stregone decrepito del caso… non so, questa parte non l’ho letta bene… ma il punto è che ad una certa si scopre che un tizio, utilizzando un sistema combinato di onde radio e riti occulti, è riuscito a comandarli, pilotandone le azioni, proprio come un esercito ben organizzato.»

Yuta lo guardò con decisione. «Kumals, si tratta di un fumetto.»

L’uomo la guardò, e allargò le braccia in un gesto che sembrava voler indicare tutto quello che li circondava «Hey, dico, siamo nel bel mezzo dell’incredibile. Centinaia di persone ridotte tipo in stato di ipnosi generale, radunate in un luogo da quello che, stando a Benton, sarebbe una specie di scienziato pazzoide, e niente autorità che abbiano ancora fatto vedere anche solo la punta del naso… Io penso che sia l’ora di iniziare a valutare anche le ipotesi più improbabili.»

«Il fatto è che abbiamo solo ipotesi improbabili.» notò Uther, con una certa cauta criticità.

«Più sono improbabili, meglio si sposano a una situazione improbabile.» disse Kumals, facendogli l’occhiolino e alzando un dito per raccomandargli con fare accattivante quel suo motto appena coniato. L’espressione di Uther si fece, se possibile, ancora più scetticamente angustiata.

«Bene. Quindi abbiamo ipotesi improbabili e una missione impossibile. Ottimo. Quando cominciamo?» commentò Danny con sarcasmo.

«Insomma… siamo a un punto morto?» domandò Ramo, in tono abbattuto.

«Ma… quei dati che hai stampato alla stazione di Foelm?» chiese Andrea a Yuta.

«Beh… li ho sfogliati, ma è tutto linguaggio di programmazione… non ci capisco granché…» ammise Yuta.

«Tu li hai guardati?» domandò Ramo, rivolgendosi a Valentine, ben conoscendo la sua abitudine di passare gran parte delle sue giornate davanti ad uno schermo con tastiera.

«Sì. Riesco a capire che si tratta di un programma, ma è molto complesso ed articolato… Inoltre ci sono un sacco di quei caratteri strani… sembra aramaico o roba del genere… Non riesco a decifrare il contenuto. Ci vorrebbe un esperto di lingue morte, o un esperto nella traduzione di codici segreti…» confessò Valentine , profondamente dispiaciuta.

Danny fece un verso di pura irritazione. «Se solo il tuo cappotto non avesse ingoiato Justin… » recriminò, rivolgendosi a Kumals con astio.

Questi ricambiò lo sguardo con serietà. «Ebbene, hai ragione, è stata una vera sfortuna. Ma ogni cosa ha i suoi lati positivi e i suoi lati negativi. Devi ammettere che, da quando non è più in giro, abbiamo dovuto perdere molto meno tempo per stargli dietro…»

«Il tuo cappotto se l’è inglobato proprio quando aveva appena dimostrato di poter essere veramente utile in questa situazione!» urlò Danny con esasperazione. Stavolta Andrea non stava nemmeno provando a calmarlo.

«Hem… Zoal… non è che potresti cercare di fargli vomitare Justin… o qualcosa del genere?» domandò Ramo.

La donna scosse appena la testa, scontenta. «Purtroppo, quel cappotto ha una sua peculiare individualità… Sebbene possa sembrare a tutti gli effetti solo un oggetto… se io provassi a imporgli qualcosa, si ribellerebbe; è comprensibile.»

«Certo che è comprensibile. Il fatto stesso che abbia fatto quello che ha fatto a Justin era seriamente motivato dal fatto che quello stupido si è messo a frugargli in tasca.» fece notare Kumals.

«Oh, ma ovvio! Chi non dovrebbe sapere subito, semplicemente guardandolo, che quello è un affare stregato che ti si mangia vivo se provi a toccarlo?» ribatté Danny.

«Se qualcuno avesse semplicemente imparato i principi fondamentali, tra cui quello di non frugare nelle tasche altrui…» iniziò Kumals.

«Curioso, detto da chi ha appena raccontato di quando s’è fregato un tostapane.» lo interruppe piccatamente Danny.

«Ma andiamo, è completamente diverso!» si irritò Kumals, e si ricacciò il tostapane che ancora teneva in grembo in una delle tasche del cappotto motivo della contesa verbale.

Il tostapane era appena sparito nella tasca, che nel cappotto ci fu una sorta di movimento improvviso; gli altri se ne accorsero principalmente perché videro Kumals sussultare e assumere un’espressione tra lo stupito e il preoccupato, mentre Mama, che fino ad un istante prima dormicchiava saporitamente, balzò a sedere sul divano con un ringhio minaccioso rivolto al cappotto.

«Che succede?» domandò Uther, lo sguardo attento e pronto ad ogni evenienza.

«Credo che… ci sia un problema…» mormorò Kumals con aria tesa, e di lì a poco, mentre gli altri ancora finivano di assumere le sue parole con viva preoccupazione, balzò in piedi, imprecando.

Mentre Mama iniziava ad abbaiare con rabbia verso il cappotto, Kumals prese concitatamente a sfilarselo di dosso; si vedeva un grosso rigonfiamento interno che andava aumentando rapidamente di volume su un lato dell’indumento.

Il tostapane schizzò fuori dalla tasca dov’era stato infilato pochi istanti prima, e si schiantò sul muro, qualche metro al di sopra della testa di Ramo e Valentine. La ragazza gridò per lo spavento, mentre pezzi di tostapane ricadevano intorno.

«Kumals, dannazione!» urlò Yuta, dicendogli implicitamente di fare qualcosa.

Ma l’uomo si stava limitando a sfilarsi il cappotto più rapidamente che poteva.

Un grosso orologio da parete schizzò fuori dalla stessa tasca, e volò dritto attraverso una delle finestre, fracassando il vetro e continuando il suo volo all’esterno della casa; presto fu seguito da un trapano elettrico, che andò ad atterrare dentro al camino spento con uno schianto che lasciava poco da sperare sulla sua futura capacità di funzionare; subito dopo balzò fuori dalla tasca un piccolo ventilatore portatile, che finì a sbattere contro il muro, travolgendo nel mentre un portacenere che si scaravoltò a terra.

Mentre questi e altri oggetti uscivano dalla tasca, volando per la stanza a velocità notevole e andando a schiantarsi in giro, gli altri avevano cercato di reagire in qualche modo. Ramo aveva afferrato per un braccio Valentine e se n’erano andati rapidamente in cucina. Uther, riparatosi sotto un tavolo e facendosi scudo con un ombrello aperto, continuava a cercare di capire che succedeva, più incuriosito che allarmato. Yuta aveva afferrato Mama per il grosso collare e cercava di arretrare verso la porta che dava all’esterno, tirandosi dietro la grossa alano, che ancora continuava ad abbaiare aggressivamente verso il cappotto, ignorando la pioggia di oggetti dai quali invece la ragazza cercava di non farsi colpire, parandosi la faccia e la testa con il braccio libero. Danny aveva abbracciato Andrea e cercava di farle da scudo tenendola il più possibile compresa tra il muro e se stesso, dal momento che, anche se qualche oggetto lo colpiva di tanto in tanto, grazie alla sua maggiore resistenza e alla maggiore rapidità dei suoi riflessi da mezzo-lupo riusciva a intercettarne la maggior parte e a deviarne il volo con un repentino scatto del braccio quando la loro traiettoria terminava su di lui. Zoal era invece rimasta seduta composta al suo posto, con aria piuttosto incuriosita; una pompa per gonfiare le ruote di bicicletta, eruttata dalla tasca, si diresse verso di lei, ma, sebbene sembrasse che avrebbe finito per colpirla alla spalla, le passò a pochi millimetri tra la mascella e la spalla senza sfiorarla. Se qualcuno avesse notato questo particolare, avrebbe potuto avere la curiosa impressione che la traiettoria dell’oggetto fosse stata leggermente deviata, quel tanto necessario a impedirgli di colpire la donna. E, in ogni caso, Zoal non aveva affatto l’espressione di chi si stia sentendo in colpa nel sovvertire qualche legge fisica, semmai lo stava facendo.

Finalmente, dopo aver avuto il suo daffare col fatto di essere rimasto impigliato col braccio in una delle larghe maniche, Kumals riuscì a sfilarsi il cappotto, la cui forma era ormai evidentemente dilatata da qualcosa che gli si gonfiava all’interno; l’uomo lasciò ricadere l’indumento verso terra, mentre si allontanava rapidamente da esso.

Il cappotto non aveva ancora toccato terra completamente che qualcosa di forma non ben definita saltò fuori dalla solita tasca; gli altri che stavano guardando non avrebbero saputo dire, basandosi semplicemente sulle loro capacità ottiche, di cosa si trattasse, ma solo che un grumo di qualche cosa tracciò una parabola in aria, nel percorrere la quale divenne man mano più consistente, più grande e di contorni meglio definiti. Qualsiasi cosa fosse, terminò il suo volo proprio contro Andrea e Danny.

Quest’ultimo, sbalzato via dall’impatto con il grosso ‘qualcosa’, sbatté di schiena contro il muro, e quando riaprì gli occhi, socchiusi d’istinto, li spalancò per la sorpresa.

Justin si riebbe lentamente dalla brutta caduta, e constatò che era atterrato su qualcosa di relativamente morbido. Fece leva sulle braccia, sollevando abbastanza il busto per guardare meglio su che cosa si trovava, e, non appena lo realizzò, sul suo viso, coperto da una barba lunga di qualche giorno, si aprì un sorrisetto sornione che voleva essere accattivante. «Ah…, ciao… Andrea.»

Un momento dopo due mani, appartenenti per inciso a Danny, lo afferravano saldamente per una spalla e lo spingevano via con decisa forza, combinandosi con lo slancio delle gambe con cui la ragazza, colpendolo alla pancia, lo stava spostando con violenza da sé.

Justin si ritrovò a rotolare un paio di volte di lato sul pavimento, finendo a sbattere contro le gambe di qualcuno in piedi. Di nuovo riaprì gli occhi, e guardò chi lo sovrastava.

Mentre finiva di spolverare con qualche colpo della mano il cappotto che aveva raccolto da terra, Kumals abbassò lo sguardo verso i propri piedi, e gli dedicò un’occhiata vaga. «Oh, Justin… Giusto in tempo: capiti proprio a fagiolo.» gli disse, con fare casuale e perfettamente tranquillo.

 

 

 

 

* mi scuso per questa pura gergalità locale, ma ce la vedevo troppo bene detta da Uther. Per chi non la capisse, ‘essere un tordo’ qui e là in queste zone significa essere stupidi, quindi ‘intordimento’ sta per instupidimento. In realtà, per come viene usata, credo che Uther volesse insinuare che comunque queste persone potevano essere ben stupide anche prima di essere coinvolte in tutto questo.

 

Scusate tutti per il mega-ritardo di aggiornamento, ma in questi giorni è un delirio, diciamo così (no, le feste non c'entrano un cavolo marcio, perché me ne impippo, ma ho altre cose da brigare), e non ho ancora avuto occasione di avere la corrispondenza necessaria: mio pc + linea internet. Quindi il capitolo successivo, che giace pronto da molte settimane orsono, ha solo bisogno di trovare la giusta via cibernetica. In base ai miei calcoli riuscirò per questo sabato o domenica. Ancora qualche scusa -> saluto -> scomparsa rapida

Ritorna all'indice


Capitolo 45
*** 43 - SILENZIO RADIO ***


Capitolo 43

(SILENZIO RADIO)

 

«E’ stato proprio strano…» disse Justin, che aveva occupato gli ultimi minuti a stiracchiarsi diffusamente, come se stesse facendo un check-up generale a tutti i suoi muscoli.

Gli altri non poterono fare a meno di guardarlo, incuriositi. Il ragazzo se ne rese conto, ma non sembrò che questo avesse il potere di fargli aggiungere altro.

«Com’era… là dentro?» si convinse infine a domandare Valentine, esprimendo ad alta voce la viva curiosità di tutti gli altri. Justin rappresentava in quel momento l’unico soggetto vivo che fosse entrato ed uscito dal cappotto di Kumals, per giunta in condizioni che gli permettessero di raccontarlo.

Il ragazzo si voltò verso di lei, e rimuginò un po’. «Hum… è stretto. Poco spazio. Ci sono un sacco di cose, si fa fatica a muoversi.» e come a sottolineare il concetto stirò con forza un braccio, massaggiandosi la spalla con l’altra mano.

Danny scosse la testa; sembrava particolarmente di malumore da quando aveva dovuto spingere via Justin da Andrea. Da quel momento pareva essersi sintonizzato sull’atteggiamento di generale insofferenza che la maggior parte degli altri già riservavano verso il ragazzo.

«E qui cos’è successo, nel frattempo?» si informò Justin, con incuriosita tranquillità.

Yuta, che stava spazzando con una scopa i detriti dei vari oggetti che il cappotto di Kumals aveva violentemente risputato prima di Justin, emise un pacato verso di infastidito sarcasmo.

«Molte cose.» disse Kumals, tornato a sedersi sulla poltrona con aria compita. «A questo proposito… visto che non avrai avuto altro da fare dentro le mie tasche, suppongo, avrai avuto tempo per studiare meglio quei fogli che avevamo trovato alla villa di Benton. Non li hai lasciati dentro il cappotto, vero?» domandò, con un velo di minaccia nel tono.

«Ah, già!» si ricordò Justin. Si infilò una mano nella tasca dei pantaloni ed estrasse un grosso pacco di carta più volte ripiegata su se stessa e parecchio spiegazzata. «Sì, è vero…» rivolse a tutti gli altri uno sguardo di artificiosa superiorità solenne, come se cercasse di darsi un cospicuo contegno. «Ebbene, ho capito tutto. O quasi.»

Qualsiasi cosa gli altri stessero facendo, tra il rimettere un po’ a posto la stanza ed altro, si fermarono a guardarlo in un’attesa piena di tensione attenta. Justin ne sembrò intimidito, specialmente dallo sguardo intento, profondamente serio e in qualche modo ambiguo che gli teneva puntato addosso Zoal.

«E’ un programma molto complesso.» proseguì Justin, cercando di mantenere salda la sua aria di importanza «Ma ora so come disinstallarlo. Più o meno. Credo.»

Yuta abbandonò improvvisamente la scopa, che cadde a terra rumorosamente, e prese ad attraversare la stanza ad ampie falcate. Istintivamente Justin arretrò di un passo, con volto terreo, ma la ragazza passò oltre e sparì in cucina.

Kumals tornò a guardare Justin «Credo di non aver capito bene l’ultima parte, quella dove parli in termini di incertezza.». Ci pensò su un secondo. «Ma forse preferisco non capirla.» si arrese con un sospiro, abbandonandosi contro lo schienale della poltrona.

Yuta ritornò nel salotto con aria battagliera, e stavolta puntò decisamente su Justin, il quale prese ad arretrare in un modo tanto poco notabile da fare invidia ad un uomo invisibile; lei si fermò di fronte a lui e gli allungò un pugno verso la faccia. Justin serrò gli occhi. Ma non avvenne niente. Con cauta timidezza il ragazzo riaprì piano gli occhi, giusto uno spiffero tra le palpebre, che poco a poco allargò. Così si rese conto che la ragazza teneva la mano davanti al suo naso, porgendogli con gesto quanto mai perentorio un pacco di fogli.

Justin studiò per qualche istante la situazione. «Oh no… non sarà mica un altro programma, vero?» domandò con afflizione.

Yuta gli sbatté i fogli sul petto, per costringerlo a prenderli in mano, mentre ribatteva seccata «Lo è; o lo sembra molto credibilmente. Lo abbiamo trovato ad una vecchia postazione radio, che probabilmente devono avere utilizzato per diffondere questa cosa… Non sappiamo ancora bene che tipo di trasmissione abbiano usato, ma a giudicare dalla potenza degli strumenti che c’erano lì, e da come erano stati modificati e arricchiti all’uopo, potrebbero essere stati in grado di infiltrarsi con i loro messaggi su trasmissioni radio e televisive. Hanno abbandonato il posto, ma non si sono preoccupati di cancellare le tracce. Questo, in effetti, è strano. Comunque, ho stampato tutto. Sarà meglio che dai un’occhiata anche a questo; se non altro non è prettamente in codice binario, stavolta.»

«Eh… come no… è anche peggio… » brontolò Justin in tono lamentoso, sfogliando le carte. «Che razza di scrittura è? Aramaico?»

«In effetti… c’era un’altra cosa che volevo dirvi.» intervenne Kumals. «Sui libri di quello là… del Conte… ci sono anche alcuni esempi di scritture… quelle delle culture che avevano tra le loro storie gli ‘zombie’. Sembrerebbe un antico dialetto africano, mischiato con germi arabi; pare abbia avuto vita breve e molto circoscritta. E prima ho dato anch’io un’occhiata a quei fogli. Non che sui libri del Conte ci sia una qualche traduzione, si limitano a citare qualche parola scritta di cui non si sa la traduzione, o perlomeno non la sapevano nell’ottocento, cioè più o meno quando è uscita questa enciclopedia delle leggende da giungla nera… Comunque, diversi vocaboli combaciano, almeno per come sono scritti.»

«Vuoi dire che… » iniziò a mormorare Andrea, con timorosa preoccupazione «Qualcuno ha messo insieme questa specie di lingua morta africana e relative leggende con il linguaggio informatico… e ne ha ricavato un messaggio trasmissibile su diverse frequenze che è in grado di ipnotizzare la gente… convincendola di essere degli zombie?»

Kumals aggrottò le sopracciglia, corrucciato. «Non ci metterei la firma, su una simile ipotesi.» chiarì scetticamente.

«Potrebbe anche essere un modo per farlo credere a noi, che abbiano messo su un simile pasticcio… Forse è tutto un depistaggio.» osservò Uther, sospettoso «In fondo questo spiegherebbe come mai abbiamo trovato tanta roba in giro. Prima quei fogli in tasca al maggiordomo morto, abbandonati là così. E poi il programma lì bello pronto per essere stampato alla vecchia stazione di Foelm. Se sono stati così bravi da sviluppare un programma del genere, non riesco a far coincidere questo con la stupidaggine di lasciare tanti indizi in giro.»

«Forse non avevano previsto che qualcuno non sarebbe stato preda del loro messaggio, però… » ragionò Ramo «Se si aspettavano che nel raggio di qualche miglio nessuno rimanesse abbastanza lucido da riuscire a mettere insieme un paio di azioni coordinate tra loro, perché preoccuparsi di non lasciare in giro indizi?»

«Gli indizi potrebbero essere trovati e raccolti da altri rimasti lucidi, però.» intervenne Valentine «Voglio dire, anche se stanno ancora trasmettendo il messaggio, che sia che è trasmissibile direttamente tramite televisione e radio, o che esse servano solo a trasmettere “l’innesco” dell’ipnosi… in ogni caso è logico aspettarsi che con una situazione del genere intervenga l’esercito e via dicendo. E non credo che i soldati si metterebbero a guardare la televisione, anche se… » ma qui la ragazza si interruppe.

Nel silenzio, sembrò che tutti comprendessero immediatamente.

«Cosa? ‘Anche se’ cosa?» domandò Justin.

«Le radio… Qualsiasi truppa armata fa uso di onde radio per tenersi in comunicazione tra squadre e quartieri generali… per coordinare le operazioni… » rifletté cupamente Danny ad alta voce. «Se una squadra entrasse nel raggio d’azione del messaggio ipnotico che stanno trasmettendo, probabilmente chi ha architettato il tutto sarebbe capace di infiltrarsi nei loro messaggi di comunicazione tra squadre e comunicare il messaggio o l’’innesco’…»

«Così… ecco… per questo non abbiamo mai incrociato in giro nessuna squadra armata… Se ne hanno mandata qualcuna… si devono essere resi conto che gli uomini cadevano in quello stato… » proseguì Andrea.

«Non sono sicura che questo sia l’unico motivo.» si udì di colpo la profonda voce di Zoal.

Si voltarono tutti a guardarla. Ma la donna ora taceva.

«In ogni caso, tornando a noi… Ci serve una strategia valida.» disse Kumals. L’uomo si alzò dalla poltrona per accomodarsi a sedere per terra. Estrasse foglio e matita e li appoggiò con calma sul pavimento, davanti a sé. «Quindi, se ora venite tutti qui, per cortesia, vediamo di buttare giù qualche idea.» Tornò a sollevare lo sguardo sugli altri, e nei suoi occhi passò un baluginio di intenso stato d’animo. «Stanotte si va.» annunciò, in tono basso e deciso.

Poco dopo, nel silenzio pesante che era sceso tra loro, sostituito solo dai rumori con cui tutti si sedettero a terra, sistemandosi in cerchio sommario vicino a Kumals, si udì la voce sogghignante di Uther mormorare «Hey Justin… ma mentre eri dentro la tasca… dov’è che pisciavi?»

 

*

***

*

 

In tutta la casa regnava da ore un diffuso silenzio. Nonostante avessero preparato la cena per loro e per i cani, studiato e tracciato segni e confrontato idee e percorsi sulle piantine in un generale fruscio cartaceo, e si fossero preparati con indumenti pesanti e, chi le aveva, le rispettive armi, non si era parlato molto. Tutto il loro piano d’azione era stato tracciato a suon di parole più o meno animate e discorsive, dubbiose, azzardate, litiganti e via dicendo su carta: era stato un processo lungo, e che, come aveva fatto notare Kumals, ricordava quel gioco in cui ognuno scrive una frase a turno e la nasconde ripiegando il foglio, tentando poi di cavarci una storia sensata.

Alla fine, anche se loro per primi non ci avrebbero giurato, erano giunti a stabilire un’idea generale condivisa all’unanimità, salvo qualche particolare su cui i disaccordi erano stati sedati più dalla stanchezza del continuare a discuterne e dal poco tempo rimasto a loro disposizione piuttosto che da una comunione di opinioni.

A mettere la parola fine al confronto era stato Ramo, quando, dopo aver letto qualcosa scritto da Valentine, si era voltato verso di lei e aveva detto ad alta voce, e con un tono un po’ più acuto del solito «Ma tu non vieni.»

Lei lo aveva fulminato con lo sguardo, ed era diventata mortalmente seria. Di lì a poco ne era scaturita tra i due una fitta diatriba, tanto concentrata da permettere agli altri di sgusciare via uno ad uno senza farsi minimamente notare né dall’uno né dall’altra.

Sparita Zoal nella sua stanza al piano superiore, probabilmente dedita a rifornirsi di alcune cose che riteneva necessario portarsi dietro, e sulla natura delle quali i ‘4 di picche’ preferivano mantenersi a rispettosa e un po’ grata distanza, gli altri si erano dispersi dopo aver condiviso una rapida cena.

Nella cucina, sfruttando come illuminazione praticamente solo i bagliori rossastri della stufa accesa accanto alla quale era seduto per terra, Danny finì di controllare la tipologia delle cartucce e dei proiettili speciali che si doveva portare dietro; giacevano tutti infilati in una specie di apposita fascia con stringhe per singolo proiettile, che egli si teneva normalmente legata in vita in doppio giro, e seminascosta dal bordo della maglia. Ora, invece, si limitò ad appoggiarla per terra di fianco a sé.

Si riaccomodò meglio, con la schiena appoggiata contro il muro, cercando una posizione comoda tra Andrea, seduta di fianco a lui e a lui semi-appoggiata, in quel momento intenta a ripassare il foglio su cui avevano scritto il riassunto pratico e organizzato del loro piano, e Danza, la quale si era sdraiata sulle gambe di entrambi a peso morto, sonnecchiando con soddisfatto abbandono. Il tutto era reso se possibile ancora più arduo dal fatto che tra Danza e le loro gambe era distesa una coperta che continuava ad impigliarsi in ogni cosa.

Andrea rilesse di nuovo l’ultima frase del foglio: ‘In ogni caso, dovremmo procedere senza mantenerci in contatto. Silenzio radio.’. Con aria preoccupata si riappoggiò il foglio in grembo, rimanendo qualche istante con lo sguardo fermo davanti a sé, riflettendo.

Alla fine, però, l’armeggiare di Danny attirò la sua attenzione: si voltò a guardare il ragazzo, che stava cercando di sistemare un lembo di coperta, nonostante Danza non sembrasse assolutamente intenzionata a collaborare, visto che ignorava totalmente i suoi sforzi e si ostinava a fare da ostacolo col suo peso morto. Un lieve sorriso si disegnò sul volto della ragazza, mentre si sporgeva, sollevando di peso una zampa e parte del costato di Danza per permettere a Danny di riuscire finalmente a finire di sistemare la coperta.

Danny rilasciò un sospiro, e si rilassò contro il muro e contro di lei; alla fine la guardò, e poco dopo si sporse per baciarla. Ma Andrea evitò gentilmente il suo approccio, per infilare piuttosto le mani tra le loro anche appoggiate: dopo un po’ riuscì a sfilare dalla cintura dei pantaloni di Danny una delle sue pistole. Lui fissò l’arma, e poi lei, con aria un po’ imbarazzata. «Ah… hem, scusa. Sono così abituato a portarla che mi dimentico di averla…»

Andrea sorrise, e si sporse per appoggiare la pistola sul pavimento. «Com’era quella frase…

«’Hai una pistola in tasca o sei solo contento di vedermi?’» intuì rapidamente Danny.

Lei lo guardò, sorpresa dalla prontezza con cui aveva indovinato a cosa si stava riferendo. «Forse… » mormorò, allacciandogli lentamente le braccia intorno al collo «…preferivo la seconda…»

Danny sorrise, ammiccante. «E chi ha detto che non sussiste…?» le sussurrò contro la bocca, provocatoriamente, facendola sorridere complicemente.

 

*

***

*

 

Kumals soffiò fuori una boccata di fumo nell’aria fredda della notte; nel buio profondo dell’ombra nerissima di uno dei grandi alberi più vicini all’ingresso della casa, proiettata in grazia dell’argenta luce della grossa luna, il fumo biancastro si disperse lentamente.

«Pessima notte… » mormorò Kumals, come parlando tra sé e sé, mentre guardava distrattamente il fumo dissiparsi in frammenti sfrangiati «Troppa luce, e niente vento.»

«Guarda che… » osservò Yuta, seduta poco distante da lui, e occupata a rifinire con un’apposita pietra l’affilatura della lama di una delle sue armi a forma di cerchio «…se anche ci fosse stato un po’ di vento per aiutare il fiuto di Danny, quel tizio ha già dimostrato di conoscere le sue capacità. Si sarebbe messo sopravento. E allora, meglio senza vento. Così è più probabile per Danny riuscire a sentirlo… e lui non potrà sfruttare il vento a proprio vantaggio.»

«In effetti… » ammise Kumals «Ed inoltre… conoscendo Danny, meglio che non lo senta. Nonostante tutto… potrebbe sempre decidere di testa sua di partire al suo inseguimento.»

«Già. E penso che ci si metterebbe tanto da finire per prenderlo. Per quanto possa riuscire a far disperdere le sue tracce questo tizio è pur sempre umano. E Danny, in forma di lupo… specie con una luna così poi… sicuramente può correre più veloce.» rafforzò Yuta.

Entrambi lasciarono ricadere il silenzio. Il loro non era un discorso casuale. Se, come supponevano, il loro “angelo custode” aveva qualche modo per riuscire a intercettare le loro parole a distanza, questo era un messaggio indiretto per lui: che si tenesse a buona distanza, o Danny l’avrebbe preso. Loro volevano farlo andare in una direzione ben specifica, il loro “angelo custode”.

«Per non parlare dei cani… » riprese Yuta, con un tono pregno di una perfetta naturalezza da conversazione. «Mama non sarà velocissima, ma è formidabile per quanto riguarda fiuto e udito. Danza è una corridora formidabile, e dopotutto, con quel muso un po’ da mastino che si ritrova, non oso pensare come potrebbe ridurre il tizio se lo prendesse. Quanto a Duca, quando vuole è imbattibile nel seguire le tracce: deve avere un che da segugio nel sangue.»

«Se è per questo, consideriamo quei tre in combinazione con Zoal. Sono sempre grato di essere suo amico, e non suo nemico.» constatò Kumals.

«Eggià… ma magari il tizio pensa di poter stabilire la ‘pericolosità’ che Zoal può rappresentare per lui in base alle trappole che ha trovato intorno alla casa. Allora, finirà per sottovalutarla; quindi magari si avvicinerà tanto da farsi scoprire da lei. Sì… penso che magari sarà lei a beccarlo.»

«Sì, ho idea che quella di stanotte sarà una caccia proficua…» mormorò Kumals, con soddisfazione minacciosa.

Lasciarono ricadere con calma il silenzio. E benché i loro visi fossero impassibili, e le labbra ferme in una posizione neutra, era come se sorridessero tra sé e sé: un sorriso di inquietante soddisfazione feroce.

All’improvviso delle urla di terrore risuonarono poco lontano; Yuta balzò in piedi impugnando saldamente l’arma che stava affilando, così come Kumals fu in piedi in un istante, in tempo per vedere una figura che correva fuori dalla stalla. Li vide, e corse verso di loro con viso terreo.

Yuta, con aria ben poco paziente, riabbassò il braccio con il cerchio provvisto di lama lungo fianco, rilassandolo, mentre anche Kumals lasciava perdere il suo atteggiamento pronto all’azione.

Justin si rivolse loro con gli occhi spalancati e voce tremante. «E’ terribile! Sono andato a vedere come stava il Conte e… si è trasformato! In un’altra persona!»

Kumals notò con la coda dell’occhio che Yuta, di fianco a lui, stava stringendo un po’ troppo fortemente le dita attorno all’impugnatura della sua arma; sospirò e si affrettò a dire, con diplomatico autocontrollo «Non c’è niente di cui allarmarsi, Justin. In effetti quello non è il Conte perché…»

Ma fu interrotto da una precipitosa esclamazione.

«Che succede?!» si informò Danny, apparendo sulla soglia della porta di casa, una delle sue pistole alla mano, evidentemente pronto a combattere; tranne per il fatto che era a petto nudo.

Kumals lo squadrò per un po’, alzando lievemente un sopracciglio, e un sogghigno gli si disegnò in volto. «Oh, nulla, tranquillo, le foto per il calendario le facciamo in un altro momento.»

Danny si rilassò un poco, e gli lanciò uno sguardo che voleva essere fermamente corrucciato, anche se un’ombra di imbarazzo si era impossessata di buona parte del suo volto non appena la frecciatina dell’amico gli aveva comunicato che Kumals aveva capito benissimo il motivo della sua semi-nudità.

«Come stavo dicendo, Justin» proseguì Kumals, tornando a rivolgersi al ragazzo ancora preda dell’orrore «Il Conte non si trova qui, in questo momento. E’ in missione. Sono certo che qualcuno avrà voglia di spiegarti meglio. Quello che hai visto nella stalla è un altro tizio contagiato che abbiamo trovato nei pressi di Foelm. Lo terremo qui e ce ne occuperemo fintanto che non avremo compreso come poter eliminare i sintomi dell’ipnotizzazione o di qualsiasi altra cosa sia.»

Frattanto anche Ramo e Valentine erano comparsi sulla soglia della porta, di fianco a Danny. Ramo gettò al ragazzo una breve occhiata dubbiosa, realizzando il suo essere a petto nudo. «Cosa succede? Chi ha gridato?»

«Niente… era Justin… » rispose Danny, come se citare l’altro bastasse a definire l’infondatezza dell’allarme.

«Ah… » mormorò solo Ramo, per dare segno di aver compreso; anche se continuava ad essere evidentemente perplesso per la semi-nudità di Danny, sembrò scegliere di mantenere per sé eventuali domande, pressappoco la stessa cosa che aveva deciso di fare Valentine. Cosa di cui Danny fu loro grato.

«Visto che ci siamo… » aggiunse Kumals, guardando il gruppetto sulla porta «Vieni anche tu con noi, stanotte, Valentine

La ragazza e Ramo si scambiarono un lungo sguardo carico di significato. «Sì.» affermò infine lei, mentre Ramo, sebbene combattuto, restava in un silenzio che assomigliava ad uno stentatissimo consenso.

«D’accordo.» annuì Kumals, e, dopo aver scambiato un breve sguardo di accordo con Yuta, si avvicinò loro, chiedendo a Justin di seguirlo. Quando furono tutti riuniti in gruppo sommario sulla porta, Kumals trasse di tasca un foglietto di carta con alcune scritte sopra, e lo mostrò agli altri.

Di lì a poco si sentirono dei passi per le scale, e anche Uther si unì agli altri sulla porta. «Ho sentito gridare… » iniziò a dire, ma si interruppe, vedendo tutti concentrati nella lettura del foglio. Si allungò anche lui a leggere, non prima di aver scoccato una lunga occhiata imperscrutabile a Danny, che, nonostante il freddo e il suo essere semi-nudo, risultava praticamente quasi insensibile all’aria gelida.

«Sono già d’accordo con Yuta e Zoal. Ad Andrea lo dirai tu, Danny.» disse Kumals, con tono insolitamente serio per lui.

Le prime parole scritte sul foglietto erano: ‘Questi sono i gruppi in cui ci divideremo…

 

Ritorna all'indice


Capitolo 46
*** 44 - MOON IN THE NIGHT, NIGHT IN THE WOOD ***


Capitolo 44

(MOON IN THE NIGHT, NIGHT IN THE WOOD)

 

Nello spiazzo davanti alla casa color lilla nel bosco, una sagoma ritta in piedi fumava e accarezzava i muri con sguardo assorto; l’argenteo alone lunare giocava col lilla delle pareti, e faceva luccicare l’oro e l’argento delle persiane. Poco prima Kumals aveva visto l’ultima delle finestre venir serrata, con quel fare deciso e piuttosto brusco che gli aveva fatto riconoscere la mano di Yuta.

Passarono pochi altri minuti, e la ragazza uscì dalla porta, che giaceva aperta. Impugnava saldamente in una mano i due cerchi semi-schiacciati provvisti di lama. Non erano avvolti dai soliti panni legati con le sottili corde; per questo, mentre lei usciva dall’ombra scura dell’interno della casa, il riflesso lunare baluginò sulle lame, ricavandone un sinistro bagliore tagliente. La luce della luna tentò anche di ricavare qualche risposta luminosa dagli occhi di Yuta, ma dovette arrendersi, sbrindellata dalle fitte ciglia prima di poter intaccare l’espressione sicura degli occhi castani.

La ragazza si fermò poco distante dalla soglia, e considerò Kumals con sguardo indecifrabile, prima di prodursi in uno dei consueti sorrisetti provocatori. «Che fai?» domandò.

«Vi aspetto.» disse solo Kumals; la naturalezza del significato delle parole non si accordava per nulla con il suo tono di voce, né con l’espressione seria eppure lievemente sorridente del volto.

Yuta lesse bene in quei modi, perché le erano profondamente familiari. Per un momento ebbe la vivida sensazione che tra di loro fosse stata annullata di colpo la distanza che avevano pazientemente costruito nel tempo. Stranamente, per la prima volta dopo molto tempo, ciò non le suscitò l’immediato bisogno di riafferrare quella distanza e gettarla risolutamente tra di loro, con una decisione che non ammette repliche. Sorrise lentamente, e con una spontaneità leggera che quasi non ricordava potesse appartenerle. Ma nemmeno per un istante questo ebbe il potere di far impallidire l’intima forza che emanava da lei. Non era per le armi che impugnava con calma abitudine, né per il suo essere pronta a gettarsi nella loro notte di battaglia; semplicemente, quella forza era un tutt’uno con lei, o almeno così sembrava. In ogni caso Kumals lo credeva, senza aver bisogno di vederla comparire tanto chiaramente.

«Gli altri stanno arrivando… » mormorò Yuta, apparentemente per puro scopo informativo. Ma Kumals comprese che stava già riprendendo a recuperare la distanza che doveva stendersi tra di loro. Annuì, e tirò un’altra boccata di fumo alla sua sigaretta.

Yuta lo osservava con una certa attenzione; per quanto ne sapeva, Kumals fumava tanto specialmente in due situazioni.: quando era molto tranquillo e rilassato, o quando era piuttosto nervoso. Non era certa di poter stabilire con precisione di quale contesto si trattasse ora, e sospettava una stretta combinazione tra i due.

Un fruscio di abiti, il ritmico e sommesso battere di qualcosa per terra, e il zampettare di undici zampe li avvertì dell’imminente arrivo di Zoal, Mama, Duca e Danza. Ed in effetti la donna e i tre cani uscirono poco dopo dalla porta aperta, e si fermarono vicino a loro. Yuta abbassò quasi distrattamente una mano per accarezzare la testa di Danza, mentre Mama si sedeva con la sua solita composta aura autorevole accanto alle gambe di Zoal, e Duca scorazzava un po’ d’attorno, annusando il terreno e l’aria, pregno di un’impazienza che lo faceva tremolare quasi comicamente.

Restarono in silenzio, attendendo. Fino a quando anche Uther, il fucile in spalla, Ramo, impugnando la sua solida mazza di legno, Valentine, per una volta priva dei suoi abiti con gonna lunga ma abbigliata più praticamente con lunghi pantaloni neri e scarponi da montagna prestatigli dalle due padrone di casa, arrivarono. Allungando lo sguardo, Kumals colse il movimento di un’altra persona, rimasta semicelata dall’arrivo compatto degli altri.

«Justin.» chiamò, con voce bassa e seria «Mi raccomando, resta sempre vicino ad Uther…»

Quest’ultimo non trattenne un accenno di smorfia, mentre l’altro annuiva generosamente, senza per questo scomporre l’espressione abbastanza in preda al terrore che gli rendeva i tratti facciali molli. Notando tale stato d’animo, e avendo osservato anche l’impegno con cui Valentine sembrava decisa ad impedire che ogni segno di incertezza o timore prendesse possesso del suo volto, Zoal parlò con voce calda e sicura.

«Potete starne certi. Non permetteremo che vi accada niente. Semmai la situazione volgesse al peggio, i vostri compagni di gruppo faranno in modo di mettervi al sicuro in ogni  caso.»

Yuta annuì, spostando il peso sull’altro fianco con aria determinata. Uther indurì leggermente la mascella, e i suoi occhi incrociarono per un breve ma intenso momento quelli di Zoal: la donna vi lesse qualcosa, rapidamente, e poi il ragazzo rivolse altrove lo sguardo. Zoal parve soddisfatta, per qualche motivo che lasciò giacere celato nelle profondità delle sue pupille verdi.  Ma c’era da supporre che fosse uscita vincitrice da un qualche tipo di breve confronto.

Un leggero rumore di movimenti preannunciò l’approssimarsi di Danny e Andrea sulla soglia della porta. Mentre tutti gli altri lanciavano almeno una sommaria occhiata nella loro direzione, Uther evitò di voltarsi; benché questo sembrasse niente di più che uno dei suoi soliti gesti piuttosto goffamente burberi, Kumals rivolse particolare attenzione alla cosa.

«Andate?»  domandò piano Danny, poco più che un sommesso sussurro, e nessuna retorica nel tono.

Kumals rifletté per qualche momento. «Qualche ultima raccomandazione mi sembra il minimo necessario…» annunciò.

Gli altri si voltarono a guardarlo. Yuta, Danny e Ramo gli rivolsero, più precisamente, quel cipiglio scetticamente vigile di chi si aspetta un’uscita inappropriatamente comica; anche Zoal ed Uther, pur essendo ugualmente in grado di riconoscere quel tipo di sfumatura nel tono di Kumals, si disposero in attesa delle successive parole, ma preferendo mantenere abbastanza nascosto il loro aver presagito l’arrivo di qualche motteggio.

«Non vorrei che succedesse come quella volta… » disse ancora Kumals, lasciando in sospeso la frase con studiata accortezza, e mostrandosi propenso ad evitare di proseguire se qualcuno non avesse chiesto maggiori specificazioni. Ma si ritrovò circondato dal silenzio. Gli altri non avevano intenzione di rendergliela così facile. Persino Andrea, sebbene non ancora usa a riconoscere il significato specifico delle infinitesime sfumature del tono dell’uomo, aveva compreso la natura della situazione, tanto percependone il clima quanto occhieggiando le espressioni degli altri.

«Quale volta?» giunse a domandare la voce di Justin.

Kumals rivolse un piccolo sorrisetto di vittoria al resto del gruppo dei ‘4 di picche’, rendendo manifesto che aveva calcolato di poter contare su Justin per dargli corda. Qualcheduno di loro provò l’impulso di tirare una sberla o di rivolgere un principio di leggero strangolamento sul ragazzo, ma si trattennero tutti, mentre Kumals proseguiva con una soddisfazione sospesa tra il borioso e il sadico.

«Beh, quella volta che ci siamo divisi per esplorare quella casa abbandonata che ci era stata segnalata come infestata da mostruose presenze. Dopo un po’ io e Ramo ci siamo ritrovati nel punto in cui avevamo prestabilito di riunirci. Ma Danny ed Uther non si vedevano. Così ci siamo messi a cercarli. Apro la porta della cantina, che era una delle stanze che avevamo assegnato per la perlustrazione ad Uther, e trovo tutto buio pesto. Però qualcosa mi diceva che c’era qualcuno… c’era una certa tensione nell’aria, tipo. Allora accendo la luce, e chi vi vedo? Danny ed Uther erano nascosti in due punti opposti della cantina; ognuno di loro si era accorto che c’era qualcun altro, e non essendosi riconosciuti pensavano ciascuno di essere in presenza di un nemico, perciò si tenevano reciprocamente nascosti, aspettando il momento migliore per attaccare.» Kumals fece una pausa ad effetto, e rivolse una lunga occhiata satura di auto-compiacimento sui due protagonisti della sua storia. «Questione di fortuna che non vi siate piantati reciprocamente qualche pallottola addosso.»  concluse efficacemente.

Era calato un silenzio compatto. Yuta sbuffò sonoramente. Andrea, che cercava in ogni modo di non lasciar trasparire un sorriso divertito sulla sua faccia, non riusciva ad evitare di spiare appena i due protagonisti della vicenda, i quali si erano come chiusi in se stessi, con un’aria tra il risentito e l’imbarazzato.

«Ma come può essere vera una simile storia…?» obbiettò Valentine, divertita «Voglio dire!» recuperò in fretta, di fronte all’occhiata offesa che le indirizzò Danny «In quanto mezzo lupo, Danny avrebbe dovuto sentire l’odore di Uther, e riconoscerlo, no?» spiegò, mostrando il volenteroso desiderio di giungere in aiuto ai due ragazzi.

Danny tornò ad abbassare il viso verso terra. Dopo qualche istante, borbottò «C’era molta polvere, in quella cantina…»

Valentine perse di colpo il suo piglio da soccorso e, mentre Ramo distoglieva lo sguardo con un imbarazzo mischiato al divertimento, mormorò un dispiaciuto e sorpreso «Oh…»

«E sarebbe meglio evitare anche di fare come quell’altra volta… » riprese Kumals impietosamente, evitando di rivolgere attenzione allo sguardo fulminante che gli puntava addosso Yuta «…quando avete quasi ammazzato il nostro cliente.»

Ramo alzò un sopracciglio. «Ma le pensi la notte?»

«Ah, andiamo, questa è sleale!» obbiettò tuttavia vivacemente Danny, zittendo i dubbi di Ramo in proposito alla sincerità del racconto.

«Sto solo facendo un generico ripasso per evitare gli errori da cui dovremmo aver imparato ad agire con prudenza.» chiarì Kumals, mentendo con candida spudoratezza. Per un momento sembrò voler attendere di nuovo che fosse Justin a dare avvio al seguente aneddoto, ma poi decise di dare adito alla sua impazienza nel proseguire. «Sapete, una volta riceviamo questa chiamata allarmata. Il fatto è che chi chiama, un uomo, sembra così terrorizzato da non riuscire a spiegare bene la situazione. Parla genericamente di mostri, fantasmi o roba del genere, e farfuglia chiaramente solo l’indirizzo. Così io, Uther e Danny andiamo a questo indirizzo, pronti a tutto. A proposito, Ramo, ma tu dov’eri? Ti sei perso il meglio.»

«Stavo studiando per un esame… ero ancora all’università… e comunque, me l’avrai raccontata decine di volte… » rispose il ragazzo, tentando di venire in soccorso a Danny ed Uther.

Kumals aggirò però immediatamente il tentativo. «Già. Ma Justin ed Andrea non l’hanno mai sentita. Dunque, arriviamo in questo posto… nella periferia, zona industriale. E ci troviamo effettivamente di fronte a un vecchio capannone che sembra abbandonato. Entriamo e iniziamo a girarlo. Alla fine arriviamo davanti alla porta chiusa degli uffici, bussiamo, e da dentro esplodono all’improvviso urla agghiaccianti, come se qualcuno stesse venendo scuoiato vivo praticamente. Cerchiamo di aprire la porta, ma era una di quelle porte blindate, probabilmente per evitare furti di documenti o di soldi dagli uffici quando la fabbrica era ancora aperta. Dunque, non riusciamo a tirar giù questa maledetta porta, no? E prima che possiamo elaborare qualcosa di sensato, questi due… » Kumals indicò con gesto deliberatamente appena accennato Danny ed Uther «… hanno uno dei loro colpi di genio. Non ho capito quello che volevano fare, sul momento. Vedo solo che guardano verso l’alto, al soffitto, e mentre alzo anch’io lo sguardo, e mi imbatto in una grossa tubatura sporgente, questi due son già partiti per la tangente. Immaginatevi la scena… quando riabbasso lo sguardo hanno già preso qualche metro di distanza in fondo al corridoio, ed ecco che partono di corsa, saltano, si appendono alla tubatura con le braccia e si danno la spinta così per slanciarsi di peso e coi piedi tutte e due contro la porta. Era una scena notevole… avreste dovuto vederla… due scimmie ammaestrate non avrebbero saputo fare di meglio nemmeno se fossero state imbottite di caffeina per una settimana.»

«E poi?» eruppe Justin, tutto preso dalla suspance del racconto. Talmente preso da passare indenne attraverso lo sguardo bruciante di rimprovero che gli lanciarono alcuni degli altri, e che denunciava chiaramente il proposito di saltargli alla gola.

«E la porta… » Kumals prese tempo, creando una pausa teatrale a puntino «…è venuta giù.»

«Ma allora hanno fatto bene, no?» disse Andrea, prima di pentirsene, interpretando l’occhiata che le lanciò Danny di sbieco, e che era decisamente una preghiera di non dare mai corda in nessun modo a Kumals.

«Oh, sì, eccome se ha funzionato per la porta.» concesse Kumals con sguardo felino «E così porta e i nostri due eroi d’azione sono franati completamente dall’altra parte, travolgendo dritto dritto il nostro cliente.». Kumals fece un tiro dalla sigaretta, creando un’altra pausa studiata. «Infatti…» proseguì quindi, con crescente soddisfazione «…come abbiamo poi scoperto, il tizio era il padrone dello stabilimento, che era andato in fallimento completo qualche mese prima. Da allora aveva preso l’abitudine di andarci la notte a guardarsi filmini, immagino porno, e a farsi di droga. Quella notte aveva avuto l’infelice idea di abbinare ad un potente cocktail di anfetamine un film horror… ed eccolo che aveva finito per convincersi di essere intrappolato nella fabbrica insieme a delle presenze maligne e mostruose. Preda delle sue allucinazioni aveva trovato sul telefono il nostro numero, che gli aveva dato un suo amico. Amico completamente idiota o che voleva fargli uno scherzo, suppongo. Comunque, quando siamo arrivati si stava riprendendo, e stava appunto venendo ad aprire la porta avendoci sentito tempestarla di pugni e tentare di sfondarla a spallate, quando porta e i due gli sono finiti addosso, facendogli prendere un colpo. Credo non ci sia bisogno di dire quanto sia pericoloso prendersi un simile spavento quando si è alterati da sostanze psicotrope. Insomma, è quasi morto. Per fortuna siamo riusciti a rianimarlo. E per ulteriore fortuna abbiamo raggiunto un soddisfacente accordo: noi abbiamo promesso di mantenere il riserbo assoluto sulla sua avventura con film horror e droga, e lui ha voluto solo una cifra simbolicamente cospicua come risarcimento danni per averlo quasi fatto fuori. Niente male, no?» concluse Kumals.

Era nuovamente sceso un denso silenzio, nel quale tutti facevano in modo di rivolgere lo sguardo in qualsiasi direzione, pur di non incappare per sbaglio in Danny o Uther; tranne Kumals, che rimirava il loro atteggiamento imbarazzato e corrucciato come se si gustasse pienamente il risultato delle sue narrazioni.

«Beh… » mormorò Andrea infine, sforzandosi «…era una situazione difficile…»

Yuta si rivolse a Kumals con dimestichezza perentoria. «Se hai finito con le tue stronzate, potremmo anche muoverci ora, no?»

Kumals gettò a terra il mozzicone di sigaretta e stemperò un poco il suo sorrisetto. «Nulla in contrario.» accettò.

«Bene…» mormorò Zoal, e tra i suoi occhi passò un lampo. «Andiamo, allora.» sancì.

Con movimenti ben calcolati, rapidi ma non affrettati, il gruppetto si sciolse.

Kumals, Zoal, Danza e Mama si avviarono in una direzione, sparendo nella boscaglia; Ramo, Yuta e Valentine presero un’altra strada, anche loro svanendo presto alla vista nell’immergersi nell’oscurità del bosco insieme a Duca; Uther e Justin procedettero divisi dagli altri, ma molto vicini dal momento che Justin sembrava determinato a rimanere incollato alle caviglie del suo compagno di ventura, come se ne valesse della sua vita. Anche loro due si sottrassero alla vista per ultimi tra la vegetazione fitta.

Danny ed Andrea li guardarono con intensità, finché non furono più raggiungibili dal loro sguardo; e anche allora rimasero immobili e concentrati sui rumori che si allontanavano, finché non udirono più assolutamente nulla.

 

*

***

*

 

La notte ricadeva scura sulle colline boscose intorno a Castle MacHearty; ma la luna, grande e bianco-argentata, risplendeva con intensa luminosità, gettando nell’oscurità un chiarore deciso. Solo le ombre degli alberi, all’interno del bosco, valevano a scurire abbastanza profondamente il sottobosco.

Danny fissava la boscaglia, intento.

Alla casa non c’era più nessuno, tranne lui ed Andrea. Si sentiva inquieto; un disturbante nervosismo gli artigliava lo stomaco, sgradevole come una nausea intensa e senza motivazioni fisiche. Doveva impegnarsi con costanza per impedire che quella sorta di angoscia tediosa gli caricasse i nervi, rendendoli tesi come corde di violino. Lui invece sapeva molto bene che, nelle situazioni decisive, occorreva mantenere sangue freddo e una buona elasticità di pensiero e movimenti. Se avesse permesso alla paura, all’incertezza o al nervosismo di irrigidirlo e rallentarlo, ogni sua scelta ed ogni suo scatto, ogni sua reazione, invece di calibrarsi il più efficacemente possibile sulla situazione, avrebbero avuto il potere di disequilibrarlo, zavorrarlo, sabotare la sua capacità di precisione. Non poteva permetterselo. Non ora… perché non si trattava solo di lui; non più.

Udì i movimenti di Andrea dietro di lui, mentre usciva e si richiudeva la porta alle spalle, e ascoltò i giri di chiave che la ragazza assestò nella serratura, con una lentezza che pareva quasi solenne alle sue orecchie in quel momento: i rumori suonavano netti nel silenzio.

Sentì che gli si affiancava, ma ancora non spezzò la sua immobilità quasi rigida. Quando una mano gli sfiorò il fianco e, trovata la sua, si infilò con le dita tra le sue, cingendola con esitante premura in una stretta leggera, si accorse a stento che un brivido lo aveva riscosso, prendendolo di sorpresa, al punto da farlo tremare un poco.

Abbassò allora gli occhi sulla figura che gli si era fermata accanto, e quando incontrò lo sguardo fermo – e in qualche maniera dolcemente calmo – delle pupille nocciola di Andrea, provò la singolare sensazione di una sorta di tuffo alle interiora.

Per qualche momento la stretta di angosciante tensione si intensificò, al punto da provocargli una specie di pressante dolore quasi insopportabile; poi, inspiegabilmente e con esasperantemente lenta incertezza, prese a sciogliersi. Riuscì a dare fiducia al fatto che si stava allentando solo quando trovò che i suoi denti non erano più presi dallo spasmodico bisogno di stringersi, che la sua mandibola non era più una morsa rivolta addosso a se stessa, e che la rete ferrea in cui i nervi si erano stretti si era allargata, lasciandogli un poco di spazio in più, quel tanto per non sentirsi pressato fino allo sfinimento.

Istintivamente e prima di accorgersene, mosse il pollice in una carezza quasi distratta sulla mano che Andrea aveva avvolto intorno alla sua, e continuò a guardarla, non più come se stesse cercando di valutare qualcosa, o di anticipare la natura malevole o benigna di ciò che li aspettava. In qualche modo, sentiva che il presente era abbastanza, ora.

La maniera in cui Andrea lo stava guardando lo indusse a parlare. «Sei sicura… di voler venire anche tu?»

La ragazza inclinò lievemente la testa, come se volesse guardarlo meglio in viso. «Sì… » mormorò.

La semplicità racchiusa nella naturalezza della risposta portò Danny, per qualche motivo, a distogliere lo sguardo dalla sua espressione, rivolgendolo altrove, come se ne fosse infastidito.

Andrea lo guardò ancora qualche istante, in silenzio, e infine gli disse, in tono basso e calmo, come se parlasse soprattutto a se stessa. «Non sono sicura di poter essere davvero di aiuto; e nemmeno che magari non risulterò un fardello. Però… Ci ho pensato. E anche se non saprei come spiegarlo… Vedi, nonostante tutto quello che è successo… o forse anche a causa di tutto quello che è successo… non mi sono ancora pentita di aver preso la decisione di venire con voi, quella volta, dopo che ci avete portato via dalla scuola.»

Gli occhi di Danny si allargarono appena, vuotandosi dal fastidio e colmandosi di sorpresa curiosità mentre tornava a rivolgerli sul viso di Andrea.

Lei si ritrovò a sorridere, piano. «Sai una cosa?» sussurrò, in tono confidenziale.

Danny la osservava attentamente, adesso. «Cosa?»

Andrea attese qualche momento, come chiedendosi se c’era bisogno di valutare per bene le parole, piuttosto che lasciarle uscire con tanta scioltezza. Ma quando le pronunciò, il modo in cui suonarono alle sue stesse orecchie approfondì la serietà e la dolcezza del suo sorriso.

«Non credo che me ne pentirò mai.»

Poco dopo, le ultime due figure rimaste nei pressi della casa si incamminarono vicine. Solo all’ultimo, prima di immergersi nell’oscurità della boscaglia, sciolsero con esitante rammarico la stretta delle loro mani unite.

Ritorna all'indice


Capitolo 47
*** 45 - TAKE IT EASY... IF YOU CAN! ***


Capitolo 45

(TAKE IT EASY… IF YOU CAN!*)

 

La notte gelida era una ridda di sfumature che andavano dal nero al bianco latte, e framezzo una miriade di gamme di grigio: in qualche modo, sembrava tutto quasi in bianco e nero, tra i colori del cielo buio, in cui navigavano lente alcune sfrange di nubi affilate dal perlato chiarore lunare, l’enorme numero di stelle ben visibili in assenza di illuminazioni artificiali, e le varie gradazioni di nero della boscaglia, in cui le ombre scure di alberi, fronde e cespugli si profilavano nettamente, opposte al biancore delle chiazze di neve sparse sul terreno.

Una simile prospettiva non era affatto nuova agli occhi di Danny, uso alla visione in bianco e nero che aveva a sua disposizione quando era in forma di lupo, e che gli era familiare come quella a colori di cui disponeva ora che era in forma umana. Tuttavia, in quel momento non tendeva per nulla a dedicarsi a queste considerazioni.

Spingendo i sensi al massimo delle loro possibilità, che pur senza raggiungere quelle canine travalicavano quelle umane, fiutava e ascoltava attentamente l’ambiente circostante, mentre procedeva a ritmo spedito nel sottobosco. Parte della sua concentrazione rimaneva sempre fissa su un unico elemento: l’odore e il rumore di Andrea, che lo seguiva d’appresso.

«Se vuoi possiamo rallentare un po’…» mormorò dopo un’ora che procedevano a quel modo; si rendeva ben conto che i suoi muscoli, alterati dalla sua condizione di mezzo lupo, erano capaci di sostenere sforzi maggiori di quelli che poteva sopportare un umano, senza per questo sentirsi nemmeno affaticati. E gli premeva che Andrea non sfruttasse la maggior parte delle energie nella prima parte della strada: erano ancora piuttosto lontani dal loro obbiettivo… la casa nel bosco dove, secondo la segnalazione del rilevatore di posizione nascosto addosso al Conte, qualcuno stava radunando tutte le persone perdute in quello stato amebico.

«No…» rispose dopo qualche istante Andrea, in tono serio e determinato che non sfuggì al ragazzo. «Non sono stanca.»

«Abbiamo ancora almeno un paio d’ore di strada davanti a noi.» le ricordò Danny, trattenendosi dal proposito di voltarsi a studiare la sua espressione, in cerca di segni di stanchezza.

«Lo so.» confermò Andrea, sempre seria. «Se continuiamo a questa velocità, ce la farò benissimo.»

Danny ristette in silenzio qualche momento, riflettendo. «D’accordo.» concluse.

Procedettero così per molti altri lunghi minuti.

Quando, al termine di una salita abbastanza inclinata, Danny raggiunse la cima di una collina, senza che per questo potesse spaziare intorno la vista, a causa della boscaglia in cui era immerso, rallentò e si fermò. Il suo respiro era a malapena accelerato, ma negli ultimi metri aveva sentito quello di Andrea appesantirsi, segno che quell’ultimo tratto le aveva richiesto maggiore impegno. Ora il ragazzo riteneva che potessero fermarsi qualche momento per tirare fiato.

«Dovremmo essere in orario… Gli altri non devono essere molto più avanti di noi.» considerò, mentre si voltava verso la ragazza «Perciò penso che ora possiamo anche…». Ma la voce gli si interruppe bruscamente in gola, mentre i suoi occhi stentavano a credere a ciò che vedevano: non c’era nessuno dietro di lui.

Danny si riebbe in fretta dall’assoluto stupore, ma non poté fare a meno di lasciarsi stringere nella morsa di un principio di panico. Prima di tutto perché era sicurissimo di aver sentito i rumori del respiro e dei passi di Andrea dietro di lui fino a pochi istanti prima, proprio prima di fermarsi.

Mentre le sue pupille saettavano tutt’attorno, in ansiosa ricerca della ragazza, chiamò il suo nome in un sussurro roco, il tono evidentemente pregno di una nota di viva e ancora incredula preoccupazione. Non ricevette risposta.

Scosse la testa e strinse i denti con irritazione: qualcosa non gli tornava. Ora non riusciva più a sentire nemmeno l’odore di lei… non così forte come se si trovasse ancora nei paraggi. C’era solo una traccia leggera, come se Andrea fosse stata lì ore prima. Ma questo era del tutto impossibile!

Il ragazzo prese una decisione, ed iniziò a ridiscendere la collina a balzi rapidi, quasi correndo. Doveva essersi fermata lungo la salita, per riposarsi un momento. O, forse, aveva avuto bisogno di appartarsi per qualche bisogno puramente fisiologico. Tuttavia, nessuna di queste valide ipotesi reggeva il confronto con la credibilità, se si considerava che in questi casi la ragazza avrebbe dovuto chiamarlo ed avvertirlo che si stava fermando o allontanando un momento. Andrea non era così stupida da non pensare che avvertirlo fosse il minimo necessario: prima di tutto per non lasciarlo preda della crescente preoccupazione che si andava impossessando di lui, e in secondo luogo per evitare di perdersi, il che sarebbe risultato in un ritardo rispetto alla tabella di marcia. Cosa che chiaramente non potevano permettersi così alla leggera.

Un’altra possibilità abbastanza realistica giunse in provvidenziale aiuto di Danny, sempre più dominato da un prepotente nervosismo: forse era inciampata, e si era fatta male, rimanendo costretta là dov’era caduta. Questo, però, non coincideva con ciò di cui lui era certo: aveva continuato a percepire la presenza di lei proprio dietro di sé, almeno fin quando non aveva deciso di fermarsi sulla sommità della collina.

Giunse alla fine della discesa, suo malgrado: Andrea non si vedeva da nessuna parte. E, cosa ancora più assurda, la traccia dell’odore di lei non era mai cresciuta d’intensità. Ciò significava che Andrea doveva essere stata lì, ma non di recente, e che ora non si trovava nemmeno in quei pressi. Confuso, e ora anche seriamente arrabbiato, con se stesso e con tutta l’impossibilità di quella situazione, Danny non si accorse del cedere del suo sangue freddo e degli ultimi barlumi di razionalità.

Nonostante il piano prevedesse che lui e Andrea non permettessero a chicchesia di individuare troppo facilmente la loro esatta posizione, il ragazzo prese a chiamare il nome di lei a piena voce, crescendo il volume ad ogni nuovo richiamo che rimaneva senza risposta. Rifece di nuovo la salita sulla cima della collina, stavolta correndo a tutta la notevole velocità che poteva raggiungere, e da lì ripartì dopo una brevissima pausa, prendendo a solcare tutti i fianchi della collina, aggirandosi senza preciso ordine: il fiuto non gli era d’aiuto, perché la traccia di Andrea rimaneva leggera, e presente solo nei dintorni del percorso che lui stesso aveva fatto, convinto che lei gli fosse dietro.

Infine, pressato dal non trovare nessuna traccia di lei, si concentrò per recuperare tutta la lucidità di cui era capace: cercò allora le tracce della ragazza. Con sua sorpresa, trovò quello che si aspettava, quello che doveva essere la cosa più logica. In base alle tracce degli scarponi, leggermente impresse nel terreno, Andrea era arrivata proprio in cima alla collina dove lui si era fermato. Ma lì le impronte di lei si interrompevano. Come se fosse semplicemente svanita nel nulla.

Danny mantenne la ridda di imprecazioni e la paura abbastanza a distanza da lasciare spazio per un nuovo ragionamento sensato, al quale aggrapparsi come ultima risorsa: ammesso che in qualche improbabile modo Andrea avesse proseguito lungo la strada che era stata loro assegnata, avrebbe potuto incrociarla lungo uno degli altri punti che, come Yuta e Zoal avevano loro indicato quando si erano spartiti i percorsi tra gruppi, doveva fungere da riferimento lungo la strada. Andrea aveva con sé una delle piantine con il percorso segnato, perciò, ammesso che non si perdesse, poteva raggiungere il punto di riferimento successivo: una piccola radura a pochi chilometri da dove si trovava ora Danny.

Il ragazzo riprese a correre a tutta velocità verso quella radura, cercando di ignorare il fatto che l’odore di Andrea non era mai percettibile lungo la strada che stava facendo. Ma non poté evitare che un sinistro pensiero strisciante gli si insediasse in testa. Riguardava quello che aveva detto loro Zoal, poco prima che finissero di stabilire i percorsi che avrebbero seguito…

 

*

***

*

 

«…E quindi mi sembra che sia l’idea migliore.» terminò il discorso Justin, con l’autoreferenziale fiducia di chi ritiene di aver presentato motivazioni di una logicità talmente pragmatica e inattaccabile da poter convincere chiunque. Nonostante ciò, Uther, che camminava davanti a lui di buon passo, almeno a giudicare dal suo silenzio e dal suo atteggiamento, sembrava averlo semplicemente ignorato.

Un principio di broncio si delineò sul viso di Justin. «Hey, mi hai sentito?» domandò. Di nuovo, non ricevette segno di risposta. Allora si bloccò lì dove si trovava, incrociando le braccia sul petto, manifestando il deciso proposito di uno sciopero del camminare. «Hey!» chiamò più forte.

Uther si fermò qualche passo più avanti, e si voltò a malapena, guardandolo con atteggiamento distante e abbastanza spazientito. Non disse nulla, si limitò a fissarlo.

«Allora? Non hai niente da dire, a riguardo?» incalzò Justin, ostinato.

Uther sembrò riflettere sull’opportunità di evitare di rispondere, ma poi disse «Prima di tutto, non abbiamo una corda.»

«Ah… non c’è problema.» Justin si sfilò lo zainetto da trekking che si portava in spalla, lo appoggiò per terra e prese a frugare tra il termos di caffè caldo, un paio di scaldamuscoli, un ricambio di maglia, una piccola busta con alcuni oggetti per il pronto soccorso, e altri ammennicoli.

Uther si risistemò un po’ meglio il fucile a tracolla, e gli si rivolse in tono duro. «Non credo che tu abbia afferrato la situazione in cui ti trovi. Dobbiamo sbrigarci, e arrivare il prima possibile dove… dove dobbiamo arrivare. Forse abbiamo un cecchino sulle nostre tracce. E se non arriviamo di buon orario, la nostra assenza farà concentrare maggiori problemi sugli altri. Non te ne frega nulla se per le tue maledette stronzate gli altri finiranno nei guai?» terminò, scandendo con tremolante residuo di pazienza, già ricca di una sorda minaccia.

«Eccola!» esclamò Justin vivacemente, tirando fuori un pezzo di corda da scalata lunga un paio di metri. Guardò in viso Uther con soddisfazione, ma quando realizzò l’astio con cui l’altro lo fissava sembrò che il senso delle parole dette poco prima lo raggiungesse finalmente. «Mi rendo conto benissimo della gravità della situazione.» replicò, con solenne serietà. «E ho intenzione di fare di tutto per mettere in salvo il Conte. E tutti gli altri, sì. Proprio per questo, sto cercando di farci arrivare laggiù indenni, in modo da poter fare quel che dobbiamo. Se rimaniamo preda del bosco in qualche punto, non arriveremo mai, e allora sarà anche peggio, no?»

L’espressione di Uther si scurì ulteriormente, se mai era possibile. «Justin…» affermò, con lenta e cristallina sicurezza «Non ci legheremo in cordata.»

Justin apparve nuovamente deluso. «Ma insomma… perché no? Se fossimo legati non ci perderemmo… no? E in base a quello che ha detto Zoal…»

«Sì, so quel che ha detto Zoal.» lo interruppe Uther, di malumore. Mentre il viso gli si irrigidiva nella preoccupazione scontrosa, ripensò anch’egli alle parole della donna.

“Io e Yuta viviamo qui da circa due anni. E abbiamo avuto modo di accorgerci che… non tutto è chiaramente definibile sotto il sole, in questi luoghi. Questi boschi sono antichi, e non sono mai stati sottoposti ad intense attività umane, se non in qualche piccola zona relativamente circoscritta. La maggior parte delle volte, alcune cose molto antiche che hanno vissuto in queste foreste dormono. Ma certe volte… alcune di esse sono sveglie. Perciò, raccomando a tutti e a ciascuno di stare molto attenti. Potreste incappare in… qualche ‘manifestazione’ singolare… Non c’è motivo di preoccuparsene seriamente; le nostre priorità sono altre, e non vorrei che le mie parole ve ne distogliessero, perché abbiamo bisogno di essere molto concentrati. Quel che voglio dire, però, è di non girare per i boschi come se stesse facendo una passeggiata: non sentitevi troppo al sicuro, e mantenete alta la guardia. Al massimo vi imbatterete in qualche inganno che vi potrebbe disorientare per un po’: cercate di non dare troppo adito alle cose strane che potreste vedere o sentire, specie se sono voci che vi chiamano per nome, o quel genere di cose concepite di solito come trappole. Ora, non è mai accaduto nulla di serio, qui. Ciò che vive da queste parti si limita a giocare, di solito. Al massimo cercherà di farvi perdere nel bosco, o di farvi lo sgambetto per farvi cadere per terra, o farvi apparire per illusione ottica qualche collina decisamente spostata rispetto a come dovrebbe essere, o vi solleticherà con voci suadenti o terrificanti. Voi, semplicemente, ignoratele. O, nel caso gli scherzi si facciano troppo pesanti…

«…per non parlare del fatto che io ho paura sul serio…». La voce piagnucolante di Justin sottrasse Uther al ricordo. Si ritrovò a fissarlo, conscio e contento di non aver nemmeno sentito il resto di ciò che aveva detto.

«Andiamo. Abbiamo già perso fin troppo tempo.» gli disse, conciso. Si voltò e riprese a camminare.

«Non mi stai nemmeno dando retta!» protestò Justin, rivolto alla schiena che si allontanava. «Allora… io non mi muovo di qui finché non mi dici esattamente perché non pensi che legarsi in cordata per non perdersi non sia una valida idea!». Ostentando un’aria da significativa risoluzione presa, Justin incrociò le braccia strettamente, e rimase fermo dove si trovava, a gambe un po’ larghe, per dare alla sua posa un che di definitivo.

Uther si fermò di nuovo, e lo spiò da sopra una spalla per qualche lungo istante. «Va bene.» risolse infine, e mentre il volto di Justin già si illuminava, aggiunse «Rimani pure qui.»

Justin rimase quasi a bocca aperta, attonito, guardando Uther che riprendeva a camminare. «Non puoi farlo! Mi hai sentito?» gli gridò dietro, mentre l’altro proseguiva imperterrito e indifferente, allontanandosi tra gli alberi e iniziando a sparire gradualmente alla vista.

«Gli altri non te lo perdoneranno! Danny ti chiederà come hai potuto lasciarmi qui da solo!» tentò, con voce incrinata dall’isterica indignazione, Justin.

Come se avesse detto qualcosa di terribilmente profano, Uther si immobilizzò e si voltò in una sola mossa, animata da una rapidità furente; il suo sguardo gelido e alterato trapassò Justin da parte a parte, facendogli considerare per la prima volta come ci si sente a sentirsi sul punto di partecipare come vittima ad un omicidio colposo.

«Che diavolo pensi di saperne tu di…?» sibilò Uther, come privo di controllo. Ma di colpo tacque, mentre i suoi occhi si concentravano in un punto particolare, e le pupille si allargavano un poco per la sorpresa.

«Justin…» riprese, in tono completamente diverso, mentre ritornava indietro verso di lui, con passi lenti e misurati, come se qualcosa lo sgomentasse.

L’interpellato, ancora spaventato dall’improvvisa aggressività mostrata in precedenza da Uther, iniziò a dire frettolosamente «Senti… d’accordo… capisco se, insomma, per qualche motivo non sei d’accordo col piano della corda… quindi, facciamo che rispetto la tua opinione, anche se non coincide con la mia… e…»

«Justin!» lo interruppe Uther con decisione «Dove cazzo sono andati a finire i tuoi piedi?»

Il ragazzo rimase sbigottito per qualche istante, infine, realizzando che effettivamente Uther stava fissando già da parecchio appunto i suoi piedi con intenzione, abbassò lo sguardo: e realizzò che i suoi piedi erano scomparsi. Non era proprio come se fossero diventati invisibili. Ma in effetti le sue gambe terminavano all’altezza delle caviglie, che poggiavano direttamente sul terreno, come se semplicemente lui fosse nato così: senza piedi.

Dopo essere stato sul punto di svenire, Justin eruppe in un grido seriamente preda del panico più totale, agitò le braccia e perse l’equilibrio: ma non cadde. Tornando ad abbassare lo sguardo a terra, riscontrò che ora anche le sue caviglie erano scomparse.

«Stai… stai affondando…?» mormorò Uther, più incuriosito che allarmato, anche se gli era chiara la potenziale gravità della situazione.

Guidato da questa scelta dei termini, Justin osservò meglio. In effetti non era solo la parte terminale delle sue gambe che era scomparsa. All’appello mancava anche il fondo del suo zainetto da trekking, che aveva lasciato appoggiato al terreno di fianco alle sue scarpe. E a guardare ancora meglio, nonostante il buio si poteva notare che il terreno aveva un aspetto insolitamente semi-liquido, e che si raggrinzava intorno alle sue gambe e allo zaino: sforzando la vista, Justin riuscì a distinguere persino qualche bollicina che scoppiava.

Mentre lui evinceva tutte queste cose, Uther, che  già le aveva notate, cercava di stabilire fino a che punto il terreno fosse affidabile sotto i suoi stessi piedi. Poco a poco, scrutando con attenzione e saggiando la consistenza della terra con la punta della scarpa prima di avvicinarsi di ogni singolo ulteriore passo, realizzò che intorno a Justin si stendeva una pozza ampia alcuni metri di quelle che, contro ogni logica possibile, sembravano sabbie mobili.

«Che succede? Cosa mi sta succedendo?!» prese a strillare Justin.

«Sabbie mobili… sabbie mobili?» mormorava assorto Uther, ignorando le grida spaventate dell’altro. Presa una frasca, si chinò sul ciglio della pozza dove il terreno era diventato di una consistenza non molto più resistente di quella di una pappa d’avena: rimescolando un po’ la poltiglia fangosa con il ramo, Uther si grattò pensosamente il mento. «Com’è possibile che ci siano sabbie mobili, qui? Non è mica una giungla…»

«Hey! Uther! Aiutami, sto affogando!» urlò Justin, in preda alla disperazione.

Uther rialzò rapidamente lo sguardo dai suoi studi, realizzando che Justin era affondato fino alle ginocchia, già. Dello zainetto era ancora visibile solo la sommità.

«Non preoccuparti. Anche se non capisco come sia possibile che ci siano sabbie mobili da queste parti… non affogherai. Tutte le cosiddette sabbie mobili si creano solo in pozzanghere di limitata profondità; quindi toccherai il fondo molto prima di finire in apnea. Piuttosto… sarà dura tirarti fuori da…» Uther si interruppe nel bel mezzo delle sue tranquillizzazioni, che peraltro sembravano non stare funzionando molto per Justin. A mozzargli le parole in bocca era stato il fatto che, col fare pigro e tranquillo di chi vuole eseguire una dimostrazione il cui risultato dà per scontato, aveva provato ad immergere nella melma la frasca, in verticale: ed era affondata completamente. Quella frasca era più precisamente un ramo caduto, lungo all’incirca un metro e ottanta. Justin era alto al massimo, e a voler essere generosi, un metro e sessantacinque.

Justin rimase un istante con gli occhi concentrati sul punto dove era scomparso il ramo. Quindi prese a dimenarsi e a gridare aiuto come un tarantolato.

«Che diamine…» si stupì Uther, di fronte alla sparizione del ramo, e aggiunse qualche imprecazione che meglio esplicitasse la sua sorpresa. Poi tornò a dedicarsi a Justin. «Non agitarti, idiota! Più ti muovi più affondi in fretta!»

Gli venne in mente qualcos’altro. «La corda!» gridò a Justin, che ora spuntava al di sopra della fanghiglia solo dal bacino in su. «Quella maledetta corda che hai in mano! Lanciamene un capo, dannazione!» gli ordinò.

Justin si riebbe un momento dalla sua disperazione, quel tanto che gli bastò per realizzare la sensatezza delle parole di Uther, e il fatto che effettivamente aveva ancora il piccolo rotolo di corda da arrampicata in mano. Con mosse impacciate la svolse, prese la mira nervosamente, e lanciò un capo di corda verso Uther. La corda atterrò completamente distesa sul terreno risucchiante, senza che Uther avesse potuto raggiungerla con le mani.

Mentre Justin veniva stordito dal panico, Uther scattò a strappare dai cespugli una fraschetta, con la quale, tornato repentinamente sul bordo della pozza, riuscì ad avvicinare il capo di corda prima che affondasse abbastanza da rimanere incollato nel punto dove si trovava. Afferrata saldamente la corda, raccomandò con decisione a Justin di stare immobile, e mantenere i muscoli rilassati, come a peso morto. Quindi prese a tirare con tutte le sue forze.

Se si fosse trattato del gioco di tiro alla fune, il risultato avrebbe potuto rimanere incerto per qualche momento, e alla fine volgersi molto probabilmente in favore di Uther. Anche se era poco più alto di Justin, e se il loro peso doveva essere all’incirca lo stesso, lui aveva infatti dalla sua una muscolatura un po’ più esercitata agli sforzi. Ma Uther non doveva spostare solo il peso di Justin: contro di lui c’era il potente risucchio del fango che continuava a inghiottire il corpo del ragazzo, centimetro dopo centimetro. Dopo diversi momenti, in cui Uther tirò a lungo, impiegando tutta la sua forza, fino al punto di sentire braccia e spalle e altri muscoli trasformati in un unico dolore, allentò la presa. La scusa era quella di riprendere un attimo di riposo, prima di riprendere lo sforzo; ma di fatto, era anche una resa: doveva ammettere a se stesso che non poteva farcela. Era riuscito solo a spostare Justin nella melma, ma se anche aveva potuto tirarlo verso la superficie di qualche millimetro, non appena aveva allentato la presa il fango si era ripreso non solo tutti quei millimetri di vantaggio, ma aveva guadagnato un’altra buona parte del corpo di Justin, che ora sporgeva solo da metà del petto in su. Uther ritrovò rispecchiato il suo fallimento nello sguardo ormai in preda alla pura disperazione di chi sta morendo, negli occhi di Justin.

Riprese a tirare con tutte le sue forze, senza far caso al fatto che il fango stava invece riuscendo a tirare anche lui dentro la pozza; ignorò il sentore dei suoi piedi che, dovendo cedere un poco in avanti, finivano dentro la melma, dove cominciavano ad affondare. Semplicemente lo sforzo di tirare Justin divenne un tutt’uno col cercare di tirarsi indietro. E continuò testardamente a fare forza sulla corda da arrampicata, rendendosi vagamente conto, con ironia amarissima, che quella corda che aveva tanto dileggiato era l’unica cosa che ora gli permetteva di non rimanere semplicemente a guardare impotente mentre Justin affondava. La melma aveva raggiunto la base del collo di Justin, che oramai, persa la voce a forza di gridare, si limitava a piangere, lo sguardo appannato dalla consapevolezza che stava per scomparire sotto la superficie che lo stava inghiottendo, e che lo avrebbe annegato.

E fu allora che, mentre Uther già sapeva tra sé e sé che erano entrambi spacciati, come un lampo a ciel sereno gli tornarono alla mente le ultime parole di Zoal.

…O, nel caso gli scherzi si facciano troppo pesanti…  allora dovete annullare il valore del loro divertimento. In tal modo, se non riusciranno più a tenervi in scacco come pedine dei loro giochi, si annoieranno e disinteresseranno di voi. Che significa che vi lasceranno andare.’

Uther smise di tirare. Quella specie di sabbie mobili gli avevano inghiottito le gambe fino a metà polpaccio, e Justin, accortosi del cessare dei suoi sforzi, avevo lo sguardo immenso di un vitello che cammina nel corridoio del macello verso il coltello.

Uther sogghignò, sinistramente, e infine, ingoiata saliva, iniziò lentamente a ridacchiare. Justin, che aveva la melma che gli solleticava il mento, rendendogli ormai impossibile praticamente muovere la testa, si riprese dallo stato catatonico per il terrore, e lo fissò allibito.

«Ridi, Justin, ridi! È tutto maledettamente divertente… sì, lo è! Ridi!» gli gridò Uther, scoppiando a ridere come se fosse completamente impazzito. Justin era incredulo. «Ridi!» urlò di nuovo Uther, imperiosamente, pure se ormai stava scrosciando in una risata incontrollabile, che quasi lo faceva piegare in due. La corda che li univa, allentata, era completamente affondata nella sua parte più centrale. E Justin, in qualche modo preda della perentorietà delle parole di Uther, prese a ridere, prima pallidamente, poi urlando, ridendo e piangendo insieme.

Uther continuò a ridere, come se non si fosse accorto proprio di niente: ma le sue gambe, affondate nel terreno molle dal ginocchio in giù, ora potevano muoversi, come se la densità della trappola mortale stesse mutando, diventando più acquosa. Allora, senza cessare nemmeno per un momento di scompisciarsi dalle risate, Uther riprese lentamente a tirare la corda. Ora era tutto più cedevole: il corpo di Justin, che ugualmente continuava a ridere, isterico dal terrore, si muoveva sempre più facilmente, assecondando la corda. Così Uther proseguì, ridendo e tirando senza alcuna fretta, mentre lentamente usciva dalla pozza, sempre più brodosa, e Justin riemergeva poco a poco, completamente coperto di melma frammentata di muschi e pezzetti decomposti di legno e altri detriti di bosco.

Qualche minuto dopo giacevano entrambi sdraiati sul terreno, compatto come doveva esserlo sempre: Uther tirava fiato, e Justin lo riprendeva, aspettando che il terrore lo sciogliesse dal suo dominio, riprendendo confidenza con l’idea di essere ancora vivo.

Uther si ritrovò a fissare le fronde degli alberi, in alto sulle loro teste. Allora rise di nuovo, stavolta più piano, e di cuore. «Stramaledetto bosco… » mormorò, con tono di vittoriosa minaccia.

Justin si alzò a sedere, guardando in direzione della pozza di sabbie mobili: solo che ora al suo posto c’era niente più che una piccola pozzanghera di neve sciolta, nemmeno abbastanza grande per contenerlo se vi ci si fosse sdraiato dentro.

«Hey… Uther?» disse, dopo un po’, in tono ancora debole e provato.

«Mhm?» fece solo l’altro.

«Dove pensi che sia finito il mio zaino…

Uther rise di nuovo, brevemente. Una risata roca e quasi gutturale. «Non me ne importa un accidenti di niente.» rispose con aperta sincerità, gustandosi quell’affermazione con piena soddisfazione.

 

 

 

 

 

Note per la comprensione:

* la traduzione del titolo è pressappoco: ‘Prendila alla leggera, se ne sei capace…’. ‘Take it easy’ dovrebbe essere sdrammatizzante, ma il ‘se ne sei capace’ è minaccioso. Questo riassume il doppio taglio di quello che accade nel capitolo…

 

 

Soundtrack: Eez-Eh (Kasabian)

 

 

Note dello scribacchiatore:

Ebbene sì, a lungo andare m’è parso ingiusto trattare Justin solo come un personaggio secondario. Per questo gli ho dato questa splendida opportunità di mettere in luce la sua personalità nello sfiorare la morte rapida e tragica. No, scherzi a parte… mi dispiace, ma certi personaggi in questa storia verranno trattati talvolta … talvolta…?... in modo tale che vi potrebbe far venire seriamente voglia di chiamare la protezione animali, o qualcosa del genere. Non preoccupatevi però, ci penserà Uther (e qui potete interpretare come meglio vi pare).

E tutto questo in realtà era per dire che, in qualche maniera, questa scena solo Justin & Uther è stata divertente da scrivere. Come possa esserlo, con uno che sta affogando nelle sabbie mobili, è un mistero in effetti; si suppone che io abbia una notevole vena da boia di tanto in tanto, e che, dopotutto, Justin come personaggio è l’equivalente per me del sacco da boxe, sapete, quella specie di persone che alla terza parola che vi dicono dopo dieci secondi che le avete incontrate per la prima volta vi fanno venire l’irresistibile voglia di iniziare a scrocchiarvi le nocche…? Beh, che ci volete fare… vi basti sapere che la reale persona che ha ispirato questo personaggio è assai meno gradevole di Justin (non ha assolutamente la verve comica involontaria che io ho dato al personaggio!).

Comunque, dev’essere tutto questo bosco di notte, in questa zona e in questa storia, che mi mettono addosso del surrealismo, a meno che non sia umidità… ma, sinceramente, avete davvero idea del potenziale di surrealismo che c’ha la nebbia? No? Sul serio? Evidentemente non avete mai visto una notte nelle campagne basso-emiliane (o ‘Amarcord’ di Fellini).

(sì, quando ho scritto queste note ero particolarmente in vena di straparlare)

Ritorna all'indice


Capitolo 48
*** 46 - SE MI RICONOSCERAI ***


Capitolo 46

(SE MI RICONOSCERAI)

 

Il cielo buio e il silenzio del bosco di notte, solo a tratti brevemente traforato da qualche fruscio prodotto da animali che si muovevano furtivi, furono le uniche cose che Danny trovò ad attenderlo quando, lievemente ansante per il nervosismo più che per la rapidissima corsa costante che aveva mantenuto nell’ultima mezz’ora, uscì allo scoperto della vegetazione; con passo quasi esitante, entrò nello spazio della piccola radura, dispiegata nel chiarore lunare.

E già sapeva quello che avrebbe visto: nessuno. Andrea non era lì. E, a giudicare dal fatto che il suo odore non l’aveva sentito nemmeno di sfuggita per tutto il percorso, non era più da nessuna parte.

Pestando ad ogni passo con profonda rabbia l’erba semi-congelata e il terreno, quasi volesse vendicarsi su di esso, strinse i pugni con forza micidiale, e digrignò i denti, mentre si guardava intorno col fare di chi è in cerca di qualcosa o qualcuno da eliminare sul momento.

Come percependo il suo stato d’animo, una lepre spiccò di colpo la corsa, abbandonando il nascondiglio costituito da un folto di cespuglio, che forse le era improvvisamente  parso insufficiente. Il ragazzo seguì con lo sguardo la corsa con cui l’animale si diede alla precipitosa fuga disperata. Per un lungo momento fu tentato di inseguirla, raggiungerla e spezzarle il collo; ma si riscosse prima di farlo, scuotendo la testa un paio di volte, come per recuperare la ragione.

In compenso, accettare il fatto che Andrea forse non era semplicemente scomparsa, ma le era anche accaduto qualcosa di brutto, era ancora troppo oltre le sue capacità.

Se qualcuno avesse potuto vederlo in quel momento, con la luna che cavava dal suo sguardo tetramente rabbuiato uno scintillio di furia ancora priva di obbiettivo, anche senza poter indovinare su quali risorse Danny potesse contare avrebbe probabilmente provato l’istintivo impulso di fuggire, seguendo l’accorto esempio della lepre. Ma la piccola radura era del tutto deserta.

Alla fine, come se la cospicua rabbia si fosse bruciata su se stessa fino a ridursi in cenere, Danny, sentendosi svuotato, si chinò lì dove si trovava, appoggiando un ginocchio a terra pesantemente, e scagliando un poderoso pugno sul terreno. Lì, a testa bassa, cercò di raccogliere la pista di qualche pensiero ragionevole e potenzialmente utile.

Per diversi minuti riesaminò i fatti con la maggior freddezza obbiettiva che riuscì ad ottenere dal suo stato alterato, ed iniziò faticosamente ad elaborare nuovi progetti d’azione, vagliandoli uno per uno e mettendoli a confronto: poteva tornare indietro alla collina, e da lì riprendere un più attento esame delle zone circostanti, chiamandola per nome; tornare ad esaminare le tracce, più e più volte, cercandovi qualche recondito senso compiuto; poteva tornare alla casa di Yuta e Zoal, seguendo la traccia di lui e Andrea a ritroso, nel caso che lei fosse semplicemente tornata indietro per qualche motivo; poteva…

In quella, qualcosa colpì il suo fiuto come uno schiaffo ben calibrato. Danny riconobbe immediatamente l’odore, e rialzò la testa di scatto: subito i suoi occhi si allargarono per lo stupore incredulo. C’era una sagoma, ferma sul limitare della radura praticamente opposto rispetto a quello a cui lui si trovava più vicino. Impiegò molto meno di un briciolo di secondo per riconoscere alla perfezione le fattezze femminili e piuttosto minute, i corti capelli bluette con il dred che scendeva su una delle spalle appoggiandovisi, gli occhi di un morbido nocciola, e tutto il resto che le era proprio.

Balzò in piedi, continuando a guardare, come sospettoso di un miraggio. Ma l’odore confermava, così come l’espressione sollevata e un po’ intimidita con cui lei lo stava guardando.

«Andrea…» gli sfuggì dalle labbra, poco più di un mormorio. Lei sorrise, ma rimase ferma, lì in piedi dove si trovava. Solo allora lui notò che si teneva stretto un braccio, e che nella sua espressione c’era un accenno di smorfia dolorosa.

Immediatamente corse verso di lei: doveva essere ferita. Ma la cosa più importante in assoluto, ora, era che lei non era più scomparsa, ma lì davanti a lui. A capire come e cosa era successo ci avrebbe pensato in un molto successivo momento.

L’aveva quasi raggiunta, quando la sua impazienza di poterla anche toccare, come per accertarsi della sua tangibilità e del fatto che stesse abbastanza bene, fu spezzata di netto da un forte grido.

«Non ti avvicinare a lei!» gridò una voce, che, con suo immenso stupore, gli suonò sin troppo familiare. Si bloccò lì dove si trovava, e voltò rapidamente lo sguardo nella direzione da cui era provenuto l’urlo. C’era una sola cosa che in quel momento poteva distoglierlo dal sincerarsi che Andrea stesse bene. E quella cosa era la proprietaria della voce che aveva gridato.

Danny individuò quasi immediatamente la fonte della voce. E la sua razionalità vacillò prepotentemente.

Andrea era ferma sul limitare della radura, con capelli bluette, occhi nocciola, abiti troppo larghi, e un braccio tenuto stretto come se le dolesse. Era indubbiamente lei, persino nell’odore, e nella voce con cui aveva gridato. Ma il problema, essenzialmente, era che c’erano due Andrea.

Danny esitò solo un momento, poi tornò a guardare la prima Andrea comparsa: anche lei stava fissando con incredulità la seconda versione di se stessa, poi iniziò a spostare lo sguardo tra lui e la sua copia, come se cercasse spiegazioni che non trovava.

Il ragazzo fece qualche passo indietro, istintivamente: certamente, qualcosa non andava bene.

Quell’Andrea comparsa per prima considerò con stupore quel gesto, e un misto di timore e senso di tradimento le comparve in volto. «Ascolta! Dev’essere una specie di… un qualcosa… un demone, non so. Mi ha preso, prima. Credevo di essergli sfuggita ma… Ha preso le mie sembianze…»

«Questo è vero!» affermò Andrea, solo che ora era l’altra a parlare, verso la quale Danny si girò, in ascolto «Ma è lei il demone! Non farti ingannare… usa il fiuto! Non può avere imitato anche il mio odore…»

Danny lo stava già facendo da parecchio il controllo incrociato: odore, voce, aspetto… e ancora non aveva trovato niente. «Temo che invece ci sia riuscita molto bene…» ammise in tono cupo, spostando lo sguardo dall’una all’altra, rivolgendosi a nessuna delle due in particolare e allo stesso tempo ad entrambe.

«Zoal lo aveva detto che questo posto è infestato… o qualcosa del genere… » mormorò la prima Andrea comparsa. Il suo tono usciva come affaticato, e Danny notò che si stringeva il braccio più forte di colpo, come colta da uno spasmo.

Danny ebbe l’impulso di avvicinarlesi subito, ma la seconda Andrea gli gridò. «Non avvicinarti! Non sono io quella… ti potrebbe far del male… oh, dannazione… » terminò, imprecando.

Il ragazzo aggrottò la fronte, e domandò con circospezione «La ferita… è grave?». Ancora, si rivolgeva ad entrambe e a nessuna in specifico; in ogni caso, sembravano entrambe soffrire per il braccio.

«No, non tanto, è solo una brutta botta.» rispose con un sorriso tranquillizzante la prima Andrea comparsa, sorridendogli appena.

«Hey, stronza, sei tu che me l’hai fatta!» imprecò la seconda Andrea, con irritazione.

La prima Andrea si stupì, e si voltò verso l’altra con sguardo fulminante. «E’ inutile che tenti di depistarlo… cosa credi? Danny è molto più in gamba di quel che non sembra.»

Le labbra del ragazzo si piegarono in un accenno di imbarazzo per quell’osservazione, ma tra sé e sé maledisse quella frase, perché aveva rivelato il suo nome: semmai era possibile che la falsa Andrea non lo conoscesse, ora quell’appiglio era andato perduto. Intanto, continuava a confrontare attentamente le due, col proposito di distinguere l’originale dall’altra. Fino a che, finalmente, un’idea lo colse.

«Per quel che ne so… potreste anche essere entrambe delle copie… » disse con serietà. Si ritrovò puntati addosso di colpo lo sguardo colpito di due paia di quegli occhi nocciola, che di solito gli facevano un certo effetto, ma che in quel frangente, per fortuna, avevano molto diminuito il loro ascendente su di lui, per via del fatto che erano in duplice copia.

«Danny, senti… » disse la seconda Andrea che era comparsa, facendosi improvvisamente molto seria. «So che puoi riconoscermi…»

Lui rivolse ad entrambe un sorriso il più distaccato possibile. «Esclusa tu, Andrea… se sei veramente qui… » mormorò con chiarezza, senza fissare nessuna delle due «Per voi altri, sappiate che se le avete fatto del male, ve ne pentirete seriamente…». Se già il suo tono non fosse suonato abbastanza degno di fiducia, a rendere più fondato il senso delle parole vi fu il suo gesto: con calma spostò una mano, portandosela alla cintola. Estrasse con lente mosse precise quella delle sue due pistole che era in grado di sparare proiettili “modificati” appositamente dall’impegno incrociato di Kumals, Uther e Zoal.

Osservando quel gesto, sul viso dell’Andrea comparsa per prima apparve un lento sorriso di sollievo. «Mi hai riconosciuta… quindi… » gli disse, con calore.

Danny non le rivolse alcuna attenzione, come se non l’avesse udita affatto. Sembrava esclusivamente concentrato nei movimenti delle dita, con cui aprì il caricatore della pistola, scelse accuratamente una tipologia dei proiettili, ordinatamente infilati nelle fasce che portava legate in vita, e iniziò ad infilarli uno alla volta nella pistola, come se avesse a sua disposizione tutto il tempo del mondo.

«Danny… » mormorò la seconda Andrea, con tono intimorito; suonò come un richiamo pacato, quasi privo di speranza.

Il ragazzo rialzò gli occhi, il braccio scattò di getto, chiudendo il caricatore ed alzando la pistola in una mira precisa nello stesso movimento fluido eppure rapidissimo; sembrò tutto contemporaneo al rumore dello sparo che squarciò brutalmente il silenzio notturno.

Gettata indietro dal colpo, la seconda Andrea che era comparsa sbatté duramente contro un tronco alle sue spalle, e si afflosciò strisciando sulla corteccia, la testa abbandonata col mento contro il petto, e il viso in tal modo praticamente celato.

La prima Andrea che era comparsa, che aveva sussultato ed era rimasta paralizzata dall’immediatezza dello svolgersi dell’azione decisiva del ragazzo, sembrò riprendersi abbastanza in fretta. Danny aveva riabbassato il braccio armato, e ora le rivolgeva un sorriso tranquillo. La ragazza gli si appressò a lenti passi, guardandolo in volto con uno sguardo colmo di fiducia, che lo colpì profondamente.

Quando lei gli fu davanti, concentrò gli occhi sul suo braccio, e la sua espressione tornò a farsi grave. «Ti fa male?» le domandò.

Andrea diede una leggera alzata di spalle. «Tutto a posto… Te l’ho detto: è solo una botta.»

Poi lo guardò meglio, piegando leggermente la testa di lato, con un’aria interessata, come di chi ha trovato qualcosa che era sicuro ci fosse. «Sapevo che mi avresti riconosciuto…» mormorò.

Danny sorrise come se tutta la tensione, finalmente, gli fosse scivolata via di dosso. Allungò il braccio con cui non impugnava la pistola verso di lei, le cinse le spalle e la attrasse contro di sé, abbracciandola strettamente.

«Credevo di averti perso…» le mormorò.

Andrea sorrise, il viso affondato contro il suo petto, lasciandosi stringere. «Non avresti mai potuto.»

«Ero persino quasi arrabbiato con te… Non so, pensavo che in qualche modo era come se avessi voluto sparire.»

Andrea alzò il volto verso il suo, piuttosto stupita. «In che senso?»

«Beh… mah, no, niente. Lascia stare… » si corresse Danny, con un’aria imbarazzata. «In ogni caso, ormai il peggio è passato.»

«Sì…» fu d’accordo lei, e si sporse per baciarlo.

Le loro labbra si erano quasi congiunte, quando all’improvviso Danny parlò di nuovo. «Adesso non esageriamo…» disse, con calma. Ma qualcosa nel suo tono provocò nella ragazza uno stupito tremito di disappunto. Riaprì gli occhi, che aveva socchiuso, e lo guardò.

«Cosa…?» domandò, senza capire.

Sulla faccia di Danny comparve, con esasperante lentezza, un sorriso sempre più inquietante. «Devo riconoscerlo… » disse «Sei brava. Ma non abbastanza.»

Andrea spalancò gli occhi, e nello stesso tempo, mentre comprendeva il senso di quelle parole, si rese conto che tra di loro c’era l’inequivocabile intromissione della pistola che Danny ancora impugnava; ed era rivolta verso la sua pancia. Era stato troppo rapido, e aveva appena finito di parlare che già partiva il colpo, trapassandola, mentre in un tutt’uno di disperata urgenza la ragazza si strattonava via dal suo abbraccio e si allontanava di qualche passo.

Danny mantenne il braccio piegato e la pistola puntata su di lei, come incerto se sparare ancora. Guardò la ragazza che, tenendosi le mani premute contro l’ampia ferita che lo sparo le aveva aperto nella pancia, osservava prima il sangue che ne sgorgava abbondante, macchiandole i vestiti e iniziando a colare giù verso terra, poi lui. Lo fissò, col viso che era il dipinto di uno stupore amaro, profondo, tradito e accusatore, ma prima di tutto ferito e orrorificato.

«Danny… ?» gli mormorò, con voce debole. «Che cosa hai fatto…

Il ragazzo le rivolse uno sguardo duro e spietato. «Puoi anche smetterla di fare la commedia, ora.»

Per qualche momento Andrea rimase a fissarlo, semplicemente sconvolta. Poi, mentre l’espressione rigida di Danny non mutava di un millimetro, la sua divenne sempre meno colma di dolore; come se tutti i sentimenti le scivolassero via di dosso lentamente, colando via insieme al sangue che sgorgava dall’ampia ferita mortale, sul suo viso comparve gradualmente qualcosa di diverso. Andrea sorrise, in principio, e gli occhi nocciola cangiarono in astiosa ma divertita astuzia. Infine, scoppiò proprio a ridere di gusto, o perlomeno emise un suono che assomigliava molto ad una malsana risata.

Danny non si mosse, né disse nulla, mentre lei rideva sempre più forte. Persino le pupille di lui si muovevano solo molto lentamente, mentre rilevava, con nessuna apparente sorpresa, che il sangue che scorreva dalla ferita che le aveva appena inferto iniziava a diminuire, così come le sue membra andavano staccandosi dalla contrazione dolorosa, per distendersi in una rilassatezza tronfia, finendo per essere solo appena scosse dalle risate della sua proprietaria.

Quando finalmente finì di ridere, Andrea lo guardò con nuovo interesse, e un ghigno ben poco promettente. «Dopotutto non sei così male in arnese, lupacchiotto.» osservò.

«Me la cavo.» disse Danny, senza tradire alcuna espressione, a parte un accenno di sorriso freddamente sicuro di sé, che gli riuscì passabilmente.

«Bene bene bene…» risolse quella che aveva le sembianze di Andrea, rizzandosi in tutta la modesta altezza di cui disponeva, e appoggiandosi le mani a palmo aperto sui lombi, dando l’impressione di ritenerla una posa di rilassata sicurezza. «Così te ne sei accorto. Sono il meglio del meglio nel mio campo, e tu te ne sei accorto. Potresti almeno fingere che sia stato un poco difficile, no? Oh, ma non credere che sia stupida. Sono certa che ha funzionato, perlomeno per buona parte della nostra conversazione.»

Danny si limitava a fissarla, tacendo, come se semplicemente stesse aspettando che gli eventi proseguissero, e a lui non fosse necessario preoccuparsene più di quanto uno spettatore non si preoccupi di cosa avviene sullo schermo del cinema. Ma notando la rigidezza del suo corpo, il fatto che teneva ancora la pistola puntata, e la preoccupazione a stento celata nei suoi occhi, si sarebbe potuto capire che la faccenda gli stava molto più a cuore di quanto non cercasse di far credere.

Piuttosto delusa dalla mancanza di coinvolgimento che il ragazzo insisteva a mostrare, la creatura dalle sembianze di Andrea domandò più direttamente «Allora? Avanti, come te ne sei accorto?»

Di nuovo, Danny si rifiutò di rispondere, e di dare qualsiasi altro segno di voler interagire.

Quella che sembrava Andrea in tutto e per tutto sbuffò. «D’accordo. Proverò a indovinare. Non è che per caso sei andato per esclusione… ?» gli chiese, sibillina «Perché ho notato che hai sparato anche alla tua amata… o forse non l’amavi così tanto, dopotutto eh?». E rise, grossolanamente e apertamente, piegandosi leggermente all’indietro per meglio godersi il suo divertimento.

Ma quando tornò a fissare Danny, si rese conto che ora anche lui sembrava piuttosto divertito, almeno a giudicare dallo sguardo con cui la considerava ora; i suoi occhi si erano come affilati, e facevano rabbrividire. «Sempre che io abbia usato lo stesso tipo di proiettili…» mormorò semplicemente.

Un pungente dubbio si insinuò nella creatura, che subito riabbassò lo sguardo sulla ferita. Dal momento che era indenne alle comuni ferite da proiettili, l’essere stata presa in pieno non l’aveva preoccupata nemmeno per un momento. Ma qualcosa nella sicurezza del ragazzo, e specialmente nel tono che aveva appena usato, le aveva dato l’impellente bisogno di guardare il punto dove era stata colpita. E così vide che il buco della ferita era anomalamente ampio: poteva passarci attraverso il pugno di una mano molto grande. Era decisamente molto più ampio di prima. Come se non bastasse, dai bordi esalava un leggero fumigare biancastro, come se stessero bruciando i contorni di un buco aperto con una sigaretta accesa in una foglia. Solo che era il corpo del demone che stava iniziando a bruciare.

La creatura spalancò gli occhi per la sorpresa, e quindi rialzò lo sguardo, pregna di una collera assassina. Ma non trovò più Danny là dove era un momento prima. Il ragazzo stava correndo, ad una velocità decisamente superiore a quella possibile per un essere umano. Si era lanciato nella direzione in cui giaceva la ragazza originale, che ora, come constatarono gli occhi del demone, si stava cercando di rimettere in piedi faticosamente, illesa.

La falsa Andrea iniziava a sentire la ferita bruciare, ad un intensità che cresceva a spaventevole ritmo, e il buco al centro della pancia andava allargandosi rapidamente. Accecata dal furore, si lanciò all’inseguimento del ragazzo, determinata ad eliminarlo in una volta sola, senza perdere tempo in qualsivoglia maniera; un potente ruggito disumano di pura collera emerse dalla sua gola.

Udendo quel suono, Andrea, che era appena riuscita a rialzarsi in piedi, appoggiandosi pesantemente al tronco contro cui il colpo di pistola l’aveva sbattuta, alzò lo sguardo con terrore: la scena che le si presentò la lasciò senza fiato, e quasi le fece perdere un battito al cuore. Danny correva verso di lei, e le sue ampie falcate l’avevano quasi raggiunta. Dietro di lui solo di pochissimi metri, una massa confusa che sembrava il corpo deformato di un mostro semi-umanoide si stendeva come un’ombra scura e altissima su gran parte della radura; la parte più avanzata, costituita da una specie di faccia dall’immensa bocca spalancata come in urlo di Munch provvisto di zanne enormi, così come gli artigli affilati che munivano le dita di un abbozzo di mani dilatate in lunghezza, avevano quasi raggiunto le spalle e il collo scoperto di Danny.

Andrea gridò, con l’intenzione di avvertire Danny, e la paura le impedì di articolare meglio le sue intenzioni, ma un istante dopo, mentre ancora finiva l’urlo, il ragazzo le precipitò addosso di slancio, senza aver nemmeno rallentato. Entrambi finirono a terra, strisciando, e Andrea percepì a stento che, in una mossa agile e fulminea, lui le aveva circondato il corpo con braccia e testa in modo tale da evitarle il più possibile le contusioni con il terreno; allo stesso tempo, si era decisamente frapposto fra lei e la creatura mostruosa che stava ricadendo su di loro. Come avvoltala in un accenno di bozzolo protettivo costituito dal suo stesso corpo, Danny le affondò il viso nei capelli, stringendola con forza, e serrando prepotentemente gli occhi.

Nessuno dei due vide pertanto quella che sembrava un’ombra immensa e tangibile calare su di loro; né poterono accorgersi che, nonostante l’aspetto orribile del tutto, quell’ombra andava anche bruciando come se fosse in preda ad una specie di autocombustione priva di fiamma. E forse fu una fortuna che né Andrea né Danny potessero assistere al come, proprio pochi centimetri prima di raggiungere con gli artigli o i denti i loro corpi disperatamente avvinghiati, la massa scura della creatura sfumò, bruciò, si accartocciò e si sfrangiò come gli ultimi brandelli carbonizzati di carta buttata nel fuoco; e, così, disapparve nel nulla.

 

 

 

Note dello scribacchiatore: lo ammetto, è un periodaccio e faccio una fatica del diavolo a trovare tempo anche solo di rivedere i capitoli un’ultima volta come si deve prima di metterli online. Questo dovrebbe essere a posto, a parte qualche svista. A dirla tutta certe parti non mi soddisfano a livello di descrizione dinamica delle scene, ma visto come son messo ho perduto le speranze di trovare il tempo di riscriverlo come si deve. Gli altri capitoli a venire mi danno meno ripensamenti in generale su come sono scritti, quindi, se tutto va bene, il prossimo esce regolarmente tra 5-7 giorni. Bye bye.

 

 

Ritorna all'indice


Capitolo 49
*** 47 - SECONDO I PIANI ***


Capitolo 47

(SECONDO I PIANI)

 

Passarono diversi minuti, lentissimi. Poi, poco a poco, Danny allentò leggermente l’abbraccio intorno ad Andrea, rilassò un po’ i muscoli, ed infine emise un leggero ma sincero sospiro. Andrea aprì uno spillo di fessura in una palpebra, e traverso quella spiò molto cautamente ciò che la circondava.

Non si sentiva più alcun rumore, ruggito o altro; nessuna ombra scura o mostruosa in vista; e, specialmente, niente che stesse per precipitare su di loro con propositi tutt’altro che positivi.

La ragazza si azzardò ad aprire un po’ di più gli occhi, ma già si stava rilassando anche lei, seppure non la abbandonasse la sensazione che le cose si fossero risolte un po’ troppo facilmente. Guardò Danny, gli occhi ancora chiusi, e un sorriso distratto sul volto, come se dormisse e stesse facendo un sogno pieno di serenità. Vedere questo la indusse, suo malgrado, ad assecondare maggiormente il senso di rilassatezza che andava avvolgendola gentilmente; senza che quasi se ne accorgesse sulle sue labbra spuntò un piccolo sorriso calmo. Allungò una mano e gli accarezzò il volto, con gesto quasi inconsapevole.

«E’… tutto finito?» gli domandò, senza fretta.

Danny sorrise un poco di più, senza aprire gli occhi, come se si trattenesse nel cullarsi in quello che gli suggerivano gli altri sensi. «Sì.» mormorò.

Un braccio del ragazzo si staccò dal fianco di lei, e le sue dita andarono a toccare leggermente il punto, tra la spalla e il collo, in cui l’aveva colpita il proiettile che le aveva sparato. «Scusami…» mormorò.

Andrea annuì, benché lui avesse ancora gli occhi chiusi. «Accidenti a te… » disse, con tono affettuoso che solo a fatica riusciva ad avere anche un che di rimproverante «Per un attimo ho davvero creduto che mi stessi ammazzando… »

Danny aprì un poco gli occhi, con fare quasi pigro, e la guardò, come a volerle dedicare maggiore attenzione.

«Che razza di proiettile è? » continuò Andrea, aprendo una mano che teneva chiusa a pugno, e mostrandogli il proiettile in questione, racchiuso in una cartuccia azzurrina, o meglio, quel che ne rimaneva dopo che era esploso nell’essere sparato. «Fa parecchio male per essere una specie di trucco. Inoltre, ho dato una zuccata tremenda contro quell’albero.»

«Sì… ho visto. Confesso che non ci avevo pensato, che saresti finita contro l’albero. Ho agito in fretta… Dovevo farle credere che ci fossi cascato. Se avessi tentato di colpirla così, mentre era in allerta, probabilmente non l’avrei presa. Per non parlare del fatto che avrebbe potuto scagliarsi su di te…» disse Danny.

Andrea annuì. «Sì, l’avevo capito…» lo tranquillizzò. «L’ho capito quando mi sono ripresa dalla botta e ho notato che il proiettile non mi aveva fatto niente più che un colpo e una finta macchia di sangue addosso.» aggiunse, passandosi le dita sulla macchia in questione, color rosso cupo, che le lordava la giacca nel punto in cui era arrivato il proiettile. «Ma… a cosa diavolo vi servono questi proiettili?»

Andrea non si aspettava che quella domanda mettesse così in difficoltà il ragazzo; Danny sembrò colpito, quindi si sforzò di impedire ad un certo imbarazzo di colorirgli troppo il viso, anche se non riuscì a nascondere un certo senso di colpa. E lei capì che prima aveva cercato di far cadere l’argomento.

«Hem… beh… vedi, praticamente… In determinate situazioni… poteva essere utile far credere di aver colpito qualcuno, quando in realtà non lo si era colpito davvero… » disse Danny, con più che evidente vaghezza.

Andrea inarcò un sopracciglio pensosamente. «E’ un trucco che usavate per ingannare i clienti?» domandò, con aperta chiarezza.

Danny la guardò  come se si sentisse per un momento vittima di una sorta di maleducazione; poi, poco a poco, dopo aver viaggiato dall’offesa al far finta di niente, la sua espressione si fece corrucciata, smascherando il suo ritenere di essere stato colto in fallo. Distolse lo sguardo da lei per rivolgerlo in nessun punto in particolare. «Qualcosa del genere…» ammise, mettendo su il broncio.

Andrea cercò invano di trattenere un sorrisetto divertito. «Siete davvero degli imbroglioni, vero?»

Danny, giacché nel frattempo si erano alzati a sedere, tornò a girarsi verso di lei di scatto. «Hey, qualche volta c’era davvero del paranormale. E, per dirla tutta, è proprio questo il punto. Non tutte le creature… hum… ‘non comuni’ sono così pericolose o crudeli; anzi, ce ne sono alcune piuttosto simpatiche. A volte facevamo loro dei favori, tipo avvertirle prima del nostro arrivo, o che la casa che stavano infestando stava per essere tirata giù per costruirci altro lì… Insomma, ci sono state tante situazioni, e abbiamo avuto un sacco di rapporti diversi con queste… beh, sorte di ‘creature’. Così, a volte, quando le chiamate scarseggiavano e noi avevamo bisogno di un po’ di denaro… quindi… come dire… poteva capitare che chiedessimo a qualcuna di loro, che ci doveva un favore, di fare un po’ di scena, qualche comparsa ad effetto, e poi noi intervenivamo fingendo tipo di ammazzarle o farle scomparire… e così ci davano qualche compenso.»

Andrea lo guardava ancora con intenzione, una specie di miscuglio tra il rimprovero divertito e la curiosità sorpresa.

Danny distolse di nuovo lo sguardo, sentendosi vagamente in colpa. «Dopotutto non si è mai fatto male nessuno… » borbottò.

Andrea si ritrovò a sorridere di nuovo, comprensiva. «In un certo senso, stavolta sembra che i ruoli si siano invertiti.» e, quando Danny la guardò senza capire, specificò «Stavolta è stato l’’umano’ della faccenda a dover far finta di essere stato steso, e la creatura soprannaturale ad essere fregata.»

Danny espirò lungamente, come se solo ora realizzasse completamente che, sì, in effetti l’avevano scampata bella. «Accidenti, per un momento ho pensato che non ce l’avremmo fatta…».

Si pentì subito di quelle parole, quando vide Andrea quasi strabuzzare gli occhi.

«Vuoi dire che… nonostante tutte quelle arie che ti sei dato davanti a quel demone… non avevi la situazione completamente sotto controllo?!» gli domandò, alzando la voce in un acuto involontario.

Danny si corrucciò nuovamente. «E’ un po’ difficile avere la situazione sotto controllo quando il tuo piano prevede di far fuori un demone mentre lo stai abbracciando e fingendo di avervi riconosciuto la propria… » e qui il ragazzo esitò, fu preso da un singolare imbarazzo, cercò le parole, e infine vi rinunciò, terminando con un frettoloso «Non ti pare?»

Andrea, apparentemente lasciando perdere il suo momento di difficoltà, insisté caparbia. «Ma perché non le hai sparato più colpi, tanto per cominciare?»

«Sai com’è, ero piuttosto impegnato a darmela a gambe… Una volta che si era accorta di essere stata colpita da un proiettile speciale, modificato apposta per demoni e affini, era abbastanza inutile provare a continuare a colpirla. Mi avrebbe staccato la pistola con tutto il braccio molto prima che riuscissi a premere il grilletto. Onestamente, hai idea di quanto possano essere veloci?»

«Vuoi dire che ne avevi già visto uno così prima d’ora?» si stupì Andrea, dimenticando per un momento di essere irritata.

«Ma sì, ma sì… il trucchetto di prendere le sembianze di qualcuno che si conosce è vecchio come il mondo tra i demoni… Anzi, alcuni lo considerano piuttosto patetico, perché denota scarsità d’immaginazione, mi spiego?» riassunse Danny, con nonchalance. «Comunque, se tu non ti fossi fatta rapire…

Andrea trasecolò. «Ah, certo! Scusami tanto se non ho potuto evitare che quella ‘cosa’ mi depistasse con una specie di illusione e mi facesse cadere dritta dritta nelle sue braccia per poi tenermi in ostaggio…»

«D’accordo, non volevo proprio dire…»

«Sarà meglio!» puntualizzò Andrea.

Danny le rivolse uno sguardo di sbieco, con cautela. Nonostante stesse mostrando una tenace arrabbiatura, Andrea appariva piuttosto provata. Per questo le si rivolse recuperando prontamente e automaticamente un tono più disponibile e serio. «Come sono andate esattamente le cose…

Andrea sembrò considerare se rispondere o meno, e se mantenere in vigoroso stato la sua aria offesa; infine, prese fiato lentamente, e si rilassò un poco. Era troppo stanca per continuare a sostenere un battibecco così vivacemente campato sul nulla o quasi.

«Ero convinta di stare seguendo te… quando è calata una specie di nebbia… ti vedevo a malapena, anche se ero sì e no due passi dietro di te. Poi, per qualche momento sei addirittura scomparso, così sono corsa in avanti chiamandoti, per dirti di fermarti e chiederti cos’era tutta quella nebbia; ti sono finita praticamente a sbattere addosso. Ma quando ti sei girato… avevi uno sguardo strano… e ho capito che non eri tu, anche se quando ho sentito cosa diceva è stato chiaro. Si è rallegrata di avermi preso così facilmente, l’ha definito ‘un giochetto facile facile’… Dopodiché mi ha buttato per terra con forza, e per qualche motivo che non so ho perso i sensi. Mi sentivo terribilmente idiota. E credevo avesse fatto qualcosa anche a te. Quando sono rinvenuta, ero qui vicino, a terra, e ho sentito la tua voce… e la “mia” anche! Così ho capito che, come poteva prendere le tue sembianze, poteva prendere anche le mie. Ma non ho capito perché mi abbia lasciato lì così… libera di intervenire. Sarebbe stato più sensato che si liberasse di me, anche solo lasciandomi là dove mi aveva preso, per poterti ingannare meglio… No?»

Danny sorrise appena, amaramente. «Credo volesse giocare con noi, o qualcosa del genere. Probabilmente non voleva davvero eliminarci, cioè, non subito… Prima voleva mandarci in confusione, spaventarci, e roba del genere. Bah. Sai com’è, certe creature sono schifosamente crudeli, in modo morboso pure; come certi esseri umani insomma.»

Andrea studiò per qualche momento l’espressione del ragazzo. «Le hai sparato una sola volta perché volevi vedere se bastava a metterla in fuga… vero?» gli chiese, senza troppo nascondere l’acutezza dell’intuizione.

Danny le puntò addosso lo sguardo con intensità, serio. «Non proprio. Ero quasi sicuro che un solo proiettile sarebbe stato sufficiente per stenderla… Ma non si può essere sempre sicuri di quale effetto abbiano… Ci sono molte più tipologie di demoni che di insetti, forse, addirittura. Questi proiettili… e le polveri che contengono… sono state elaborate da Zoal, Kumals ed Uther sulla base delle tipologie di creature soprannaturali che abbiamo incontrato, e a volte contiamo che possano avere un effetto simile su quelle che ancora non abbiamo incontrato ma che assomigliano abbastanza a quelle già “classificate”.» le spiegò.

Andrea annuì, dando l’impressione di aver ascoltato con impegno. Danny tornò a concentrarsi sul corpo di lei. «Come vanno il braccio e la spalla…

La ragazza provò a muovere un po’ l’arto, lentamente e con circospezione, ma a parte qualche smorfia di dolore trovò il modo di dire con sicurezza «Abbastanza bene. Niente di grave… Anche se ho la sensazione di essermi procurata due lividi enormi.»

Danny si sentì enormemente sollevato, come se ora potesse guardare a qualsiasi cosa con pieno ottimismo; e lei, occhieggiando la sua espressione, se ne accorse. Stava per sporgersi ad abbracciarlo, quando il ragazzo si alzò in piedi, esclamando «Ah! Quasi dimenticavo!»

«Cosa…?» domandò lei, mentre Danny ritornava fuori dal coperto degli alberi, nella radura. Mentre camminava aveva riaperto il caricatore della sua pistola appositamente modificata, e vi stava inserendo un proiettile accuratamente scelto dalla sua scorta. Andrea lo seguì, incuriosita, finché lui non si fermò e punto il braccio verso l’alto, mirando al cielo; quando premette il grilletto, il proiettile balzò verso l’alto con spinta eccezionale, lasciandosi persino dietro un accenno di traccia di fumo. Si alzò di diverse decine di metri, ed esplose a mezz’aria, gettando un’intensa luce color blu tutt’intorno: certamente era stato visibile per diverse miglia.

Danny riabbassò il braccio, con aria pragmaticamente soddisfatta.

«Credevo che dovessimo cercare di farci notare il meno possibile…» notò Andrea, dubbiosa.

«Già. Ma ormai ho dovuto esplodere ben due colpi di pistola, prima. Se il nostro “angelo custode”, come lo chiama Kumals, non è un completo idiota deve aver già individuato la nostra posizione. Questo potrebbe essere un bene. Nel mentre che si sforza di raggiungere questo punto, noi saremo già lontani…» disse Danny, con una sicurezza che incuriosì Andrea.

«Significa che dobbiamo metterci in marcia subito…?» gli chiese.

Danny la fissò con un’espressione particolarmente esitante e dubbiosa. «Avevo pensato che… con tutta questa storia abbiamo accumulato un certo ritardo… potremmo proseguire… in un altro modo… più veloce… »

«Ovvero?» chiese Andrea direttamente.

«Beh, hum… è solo un’ipotesi ma… » Danny la stava considerando da capo a piedi, come se le stesse prendendo le misure. Si portò una mano dietro la nuca, e si grattò un po’ il collo, pensieroso e abbastanza nervoso. «Quanto pesi?»

 

*

***

*

 

Un colpo d’arma da fuoco risuonò nella foresta, attutito dalla distanza di diversi chilometri.

Valentine, Ramo e Yuta si fermarono, girandosi istintivamente nella direzione da cui proveniva; Duca rizzò le orecchiette pendule e si irrigidì come se fosse diventato un cane impagliato, concentrato, con massima attenzione quasi spasmodica.

Per diversi secondi, mentre l’eco dello sparo si perdeva tra le colline, rimasero congelati in quella posizione. Infine, si ritrovarono a scambiarsi lunghe occhiate, cercando comprensione e rassicurazione, senza riuscire a trovarle un granché.

«Era… era Danny, vero?» domandò Valentine, nervosamente.

«Sì.» rispose Yuta, rabbuiatasi.

«Che pensi…? Il cecchino sarà da lui?» chiese Ramo, chiedendo un’opinione diversa dalla sua alla ragazza.

Yuta ci pensò su qualche istante. «No. Credo che il nostro piano stia funzionando. Deve avere avuto altri problemi… Non stento a crederci, in un bosco come questo. Comunque… credo sappia come cavarsela.»

Questa osservazione parve non convincere del tutto Ramo. «E se avesse bisogno d’aiuto…? Come possiamo essere certi che non sia in guai seri?»

Yuta lo guardò con una certa durezza nello sguardo. «Non possiamo. Ma Danny è in gamba, quando vuole. Non credi che ci voglia un po’ di più di qualche scarto di ectoplasma o qualche sciocco folletto con un senso dell’umorismo tutto suo per metterlo in difficoltà?»

«Noi abbiamo incontrato solo mezze calzette, fino ad ora, ma non è detto che ci siano solo quelle, qua in giro.» ribatté Ramo.

Mentre i due continuavano a discutere, Valentine si estraniò per un momento, rivangando tra sé e sé alcune parti degli incontri che avevano avuto precedentemente. Non solo non aveva mai visto nulla del genere, ma era difficile che se lo potesse anche solo immaginare. Aveva un che di particolarmente sgradevole…

Prima si erano imbattuti in una voce che si era rivolta loro con una cortesia modesta e gentilissima, parlando con un finto accento inglese calcato, chiamando ‘sir’ Ramo e ‘milady’ Valentine e Yuta. Aveva anche fatto qualche osservazione sull’aria simpatica di Duca, il quale stava annusando indaffaratamente la base di un tronco. A quel punto la voce aveva chiesto se potevano richiamare il cagnolino, in modo che non gli venisse l’idea di ‘urinare sui suoi piedi’. Yuta si era rivolta all’albero in questione, da quel momento in poi, per rispondere alla voce. Con molta più esitazione anche Ramo aveva finito per fare altrettanto, mentre Valentine era semplicemente troppo occupata a rimanere attonita. L’albero, del tutto uguale ad un qualsiasi albero piuttosto antico e grande, del tipo dei quali ce n’erano a bizzeffe in quei boschi, aveva continuato a dialogare cortesemente con loro, interessandosi a cosa li aveva spinti a vagare per il bosco di notte, e raccontando che da moltissimi anni non vedeva esseri umani da quelle parti. Yuta aveva ben presto tagliato corto, dicendo che non potevano fermarsi a parlare; e l’albero, pur rimastone offeso, aveva finito quasi per supplicarli di rimanere a fargli ancora un poco di compagnia, mentre si allontanavano seguendo il passo marziale di Yuta.

Poi era stata la volta di un ectoplasma. Aveva tutte le carte in regola per essere un ectoplasma, ovvero la sua aura pallidamente luminescente, la sua brava essenza lattiginosa, dalla luce piuttosto malsana, con la forma solo abbozzata di un essere umano; almeno finché non era incespicato con gli orli inferiori privi di gambe in alcuni cespugli, finendo lungo disteso per terra. Mentre la paura che aveva preso Ramo e Valentine veniva messa in crisi da questo, Yuta non era sembrata particolarmente sorpresa. Anzi, interpellando lo spettro ‘Formaggino’ (cosa che lo aveva parecchio indispettito), gli aveva comunicato che non avevano tempo per giocare, e quindi aveva proseguito oltre, raccomandando a Ramo e Valentine di ignorare il fatto che lo spiritello, ora provvisto di catene arrugginite, continuava ad agitarle, urlando loro ‘Aspettate! Hey, guardate qua! Ho persino le catene! Eh? Che ve ne pare, eh?’.

Insomma, quando poco prima una figurina femminile provvista di lunghi e sinuosi capelli, di curve ben distribuite e coperte solo un poco da un vestito di foglie, li aveva salutati dalla sua posizione seduta su un grosso fungo del genere velenoso ‘Amanita muscaria’*, sbattendo graziosamente le ali da farfalla con colori fiabeschi, Valentine era già molto oltre l’impressionabilità. Tuttavia aveva colto chiaramente lo sguardo per un attimo distratto che Ramo aveva rivolto alla fatina succintamente vestita, che aveva sbattuto le ciglia in sua direzione in modo particolarmente lascivo, dopo che Yuta l’aveva già superata senza degnarla nemmeno di mezza occhiata: agendo d’impulso Valentine aveva tirato dritto. Udendo uno scrosciare di imprecazioni particolarmente scurrili gridate da una vocina minuscola, Yuta si era gettata uno sguardo dietro le spalle, osservando per un momento il fungo spiaccicato da un pestone e, di fianco ad esso, la fatina che agitava il pugno e faceva gestacci ad una Valentine che proseguiva ignorandola. Si era limitata a chiedere a Valentine di non dare loro troppa corda, perché non avevano tempo da perdere.

In quella, il rumore di un altro sparo fece interrompere bruscamente la discussione tra Ramo e Yuta, e ridestò Valentine dai ricordi recenti; dal musetto fremente di Duca eruppe un piccolo mugolio. Cogliendo il secondo sparo come sostegno alla sua tesi che Danny poteva trovarsi in seri guai, Ramo insisté nel sostenere che non potevano lasciare lui e Andrea preda di qualsiasi cosa li stesse attaccando; Yuta, però, benché era evidente che Ramo stava mettendo in crisi la sua fermezza, insisteva nel sostenere che i piani prevedevano fin dall’inizio che ogni gruppo dovesse contare esclusivamente su se stesso: dovevano mantenere il silenzio radio, e gli altri non potevano mandare a monte tutto il piano per accorrere in soccorso di qualcun altro… era un rischio forte, ma Zoal era abbastanza sicura che non ci fosse niente di veramente serio da temere riguardo alle presenze in quei boschi. Inoltre, non era possibile annullare il piano e rimandarlo ad un’altra notte: ormai il cecchino che li seguiva doveva essersi accorto dove stavano puntando, e se gli avessero dato tempo di avvertire i complici, e questi ultimi avessero optato per agire in qualche maniera determinante, loro non avrebbero più potuto cogliere l’occasione di agire in quel modo.

«Hey!» gridò Valentine all’improvviso, interrompendoli. Alzarono gli occhi, seguendo la linea indicata dal suo dito puntato verso l’alto; parte del cielo era illuminata da un bagliore blu intenso.

«Ma… che cos’è?» chiese Valentine, mentre l’alone colorato, dopo essersi fatto vedere per un po’, iniziava ad impallidire e svanire.

Ramo, diventato ancora più nervoso, ingoiò saliva. «Danny dev’essere davvero in grossi guai…»

«Ma no… quello è uno dei suoi razzi di segnalazione…» disse invece Yuta. «A quanto pare, è tutto a posto… »

«Come fai a saperlo?» si stupì Ramo.

«E’ tipico di quei due… decidere di testa loro qualche tipo di segnale particolare. Avanti, Ramo… quante volte Uther e Danny si sono fatti le loro aggiunte al piano comune? Ogni volta che avevamo deciso il piano d’azione, quei due si riunivano in concilio privato tra loro, analizzavano tutti i punti critici e via dicendo, facevano le loro personali riaggiustatine… sviluppavano una serie di piani B, C e forse anche D.»

«Ma perché lo fanno di nascosto da voi?» si incuriosì Valentine.

«Non è proprio di nascosto… » osservò Ramo, sulla difensiva. «Più che altro cercano di non farsi notare da Kumals… »

Valentine ci pensò su per un po’. «Oh.» disse infine, in tono comprensivo. Il genere di comprensione che poteva cogliere chiunque conoscesse abbastanza bene Kumals da poterne valutare le capacità importunanti per il loro esatto peso.

«Il razzo blu significa ‘tutto bene’. Danny deve aver risolto qualsiasi pasticcio in cui s’era cacciato.» concluse Yuta, scoccando a Ramo un accenno di sguardo della serie ‘te l’avevo detto’, mentre si risistemava più comodamente uno dei suoi cerchi con lama, che portava a tracolla.

Il gruppetto si rimise in marcia. Un certo nervosismo continuava comunque ad aleggiare tra loro già da prima di udire il primo colpo di pistola. Come per diminuirlo un poco, Yuta voltò appena la testa per lanciare a Ramo e Valentine un’occhiata che poteva difficilmente essere mal interpretabile: il loro piano stava riuscendo. Era da un po’ che si erano accorti di essere seguiti, tramite l’atteggiamento di costante nervosismo mantenuto da Duca, il quale, tuttavia, si guardava bene dal segnalare in altra maniera di aver ben percepito qualcosa. Anche lui stava seguendo il piano…

 

 

 

* sono quelli dal gambo bianco medio-lungo con cappello tondeggiante più o meno appiattito o a palloncino, i classici rossi a pois bianchi insomma… dove di solito compaiono sopra i folletti, le fatine, dentro a cui abitano i puffi e così via. Per inciso: velenosi.

 

 

 

Note dello scribacchiatore: eccoci qua, se non altro sono stato puntuale a livello di aggiornamento. In quanto a ‘chiarezza’… ammettiamolo, ho dubbi di stare facendo un buon lavoro, questi sono capitoli un po’ complessi a livello di dinamica, e magari sto facendo un paciugo. Solo che in questo periodo intricato e complicato ho necessità di stare dietro a molte altre vicende, e con questo non intendo assolutamente che questa storia per me ha perso di importanza… ma ho proprio difficoltà materiali di tempo per rimettermi a rivalutare certi passaggi; forse, a dirla tutta, mi sono anche affezionato al modo in cui ho scritto questi capitoli, per quanto possa risultare un po’ confusionario... Ma chissenefrega di tutto questo? Quel che intendevo è che, se pensate che qualcosa sia proprio incomprensibile o illeggibile, ditemelo pure! Non mangio nessuno. Non prima di cena, che mi si rovina l’appetito. Per gli/le apprezzatori/trici di Justin e per chi sta aspettando di vedere dove va a parare più o meno questa lunga notte nella boscaglia intorno a Castle MacHearty, il prossimo capitolo sarà interessante, anche se non conclusivo. Eh no… questa è proprio una lunga, lunga, lunga notte (l’ho già detto ‘lunga’?).

 

Ritorna all'indice


Capitolo 50
*** 48 - TESSUTO ROSSO ***


Capitolo 48

(TESSUTO ROSSO)

 

Fin da dopo la fortunosa conclusione della loro disavventura con le “sabbie mobili”, Uther era riuscito a imporre definitivamente a Justin un regime di assoluto silenzio e severa attenzione volta a produrre il minor rumore possibile. Nonostante questo, solamente il fatto che Uther si girasse di tanto in tanto a rivolgergli occhiate particolarmente perentorie e autoritarie aveva avuto il potere di indurre il suo compagno di viaggio a contenere il terrore che lo aveva colto a più riprese; così, ogni qual volta aveva udito voci spiritate sussurrare paroline sinistramente dolci o lietamente minacciose stranamente vicino alle sue orecchie, o lamenti lugubri riecheggiare tra i tronchi del bosco buio, Justin era in qualche maniera riuscito a limitarsi a tremare quasi convulsamente, a incespicare di continuo, ad essere talmente teso da faticare a camminare, e a stringere forte le nocche in una stretta nervosa sui suoi stessi abiti. Alla fine, il rimanere in forzato silenzio era passato dall’essere una costrizione all’essere tutto ciò che aveva ancora la forza di fare, spossato e annichilito com’era dal continuo sentirsi come una specie di vitellino abbandonato legato in mezzo ad una radura, in piena vista, in piena notte, con il bosco intorno pullulante di ogni sorta di sconosciuti predatori celati tra le ombre.

Tutto ciò aveva quasi finito per esaurire persino la straordinaria scorta di auto-commiserazione che Justin era in grado di produrre; quasi. Aveva ancora parte dei suoi pensieri ostinatamente impegnati nel tessere le sue ultime lamentazioni di vittima innocente sul punto di soccombere a tremende – e sinistramente imprecisabili – minacce, quando andò a sbattere contro Uther.

Prima ancora di realizzare che ciò era dovuto al fatto che l’altro si era fermato di botto, fu afferrato per una spalla e costretto di forza ad appiattirsi rapidamente sul terreno, celandosi in mezzo alle frasche fitte del sottobosco. Stava già per cercare di tradurre un lamento in una domanda abbastanza articolata, ma timorosa di una qualsiasi risposta, a proposito di cosa stava accadendo, quando Uther si voltò prontamente verso di lui facendogli segno di stare zitto.

Sempre a gesti, Uther gli fece capire che da quel momento dovevano procedere praticamente strisciando, o al più gattonando a basso ventre, tra il sottobosco. Come il ragazzo potesse riuscire a procedere in quella scomoda maniera senza inciampare nel fucile, che teneva a tracolla, e il cui calcio toccava terra, lasciando un piccolo solco nel terreno mano a mano che procedeva, per Justin rappresentava solamente l’ennesimo mistero. Stanco e abbacchiato, si risolse ad eseguire alla lettera i nuovi ordini. Non era ancora molto sicuro del perché Uther lo avesse tratto in salvo rischiando la sua stessa pelle; dopo che si era riscoperto ancora vivo, si era accorto che, semmai avesse avuto abbastanza lucidità da riuscire a considerare attentamente la situazione nel mentre che stava affondando nel fango centimetro dopo centimetro, si sarebbe trovato a dubitare molto nell’aiuto decisivo dell’altro. Per questo al momento il suo attaccamento ad Uther ed il suo tenerci ad eseguire i suoi ordini aveva molto a che fare con l’istintiva dedizione totale con cui un cucciolo orfano potrebbe affidarsi alla prima cosa vivente che gli suscita anche solo un abbozzo di imprinting, comprendendo al volo che ciò rappresenta la sua unica chance di sopravvivenza; nemmeno minimamente garantita, come chance.

Quando Uther si fermò di nuovo, Justin, che arrancava molto meno agevolmente di lui, non ebbe difficoltà stavolta a non sbattergli addosso. Si fermò a riprendere fiato, mostrando pressappoco la stessa vitalità di un sottaceto immerso nella sua salamoia in barattolo; si limitava a galleggiare sommerso, insomma. Registrò distrattamente il fatto che Uther si era concentrato in un’attenta analisi dell’ambiente circostante, ascoltando e guardando con piena attenzione.

Justin si ritrovò di colpo a rimpiangere di non essere stato accoppiato con Danny per quella missione: dopotutto, chi poteva competere con un lupo mannaro? Questo avrebbe voluto dire che sarebbe stato molto più al sicuro. Probabilmente Danny avrebbe potuto trarlo fuori dalle sabbie mobili senza tanta fatica, grazie alla sua forza sovrumana; e avrebbe potuto percepire i pericoli in avvicinamento con buon anticipo grazie ai suoi sensi iper-sviluppati. Decisamente Andrea doveva essere in una botte di ferro, al momento. Già. Mentre lui strisciava tra le frasche come una specie di animale a quattro zampe, seguendo quello che non si disturbava nemmeno ad impugnare il fucile, e che non era ancora sicuro se poteva ricoprire il ruolo di suo difensore o di suo assassino. Possibile che, sebbene il Conte fosse andato perduto, Danny non fosse preoccupato anche per la sua salvezza ora? Tanto più dopo che era riemerso da un cappotto ingoia-persona: a ben pensarci, la dinamica di quella faccenda non gli era ancora del tutto chiara… Justin aveva il forte bisogno di parlarne con qualcuno, ma aveva anche la sensazione che se avesse fiatato per dire qualsiasi cosa Uther avrebbe potuto reagire molto, molto, molto male: e aveva la sgradevole impressione che quest’ultima previsione fosse solo un eufemismo rispetto alla realtà.

Uther si mosse, finalmente: sotto lo sguardo opacamente interessato di Justin, si portò le mani alla bocca, chiudendole a pugno e allineandole; soffiò attraverso di esse, muovendo le nocche a modulare il suono, ed emise qualcosa di piuttosto simile al richiamo di un uccello. Justin lo fissò come se gli fosse andato di volta il cervello; e lo temeva seriamente. Ma ancora non osò chiedere spiegazioni. Non era sicuro se un Uther fuori di testa fosse più o meno pericoloso del solito Uther.

Dopo qualche istante di silenzio, risuonò un verso di risposta, pressoché identico a quello emesso da Uther. Justin rimase pensoso qualche momento, cercando di spiegarsi perché il tizio a cui era costretto ad affidare la sua sopravvivenza si fosse messo a comunicare con i volatili del bosco: non ci riuscì.

All’improvviso si udì una serie di rumori; erano sommessi, certo, furtivi. Piccoli scricchiolii e fruscii. Forse non sarebbero risultati così allarmanti alle orecchie di Justin, se non fosse stato che provenivano dai rami di un albero al di sopra delle teste sue e di Uther. Quest’ultimo aveva alzato lo sguardo, ma non sembrava minimamente sorpreso o spaventato: più precisamente, sembrava che stesse semplicemente aspettando. Anche Justin, infine, osò alzare lo sguardo ai rami, e realizzò che una sagoma scura e di cospicue dimensioni stava scendendo dall’albero, calandosi di ramo in ramo con ritmo lento ma costante. Se proprio in quel momento Uther non gli avesse abbassato pesantemente una mano sulla spalla, insieme all’inequivocabile messaggio implicito che se avesse dato segno di volersi muovere se ne sarebbe pentito amaramente, Justin avrebbe spiccato una di quelle fughe che avrebbero potuto lasciare ben impressionato un campione di corsa ad ostacoli.

La sagoma si dondolò per un momento a mezz’aria, appesa per le braccia al ramo più vicino al suolo, e si lasciò andare, atterrando agilmente anche se pesantemente sul terreno, sul quale rimase chinata, evidentemente volendo seguire l’esempio dei due ragazzi presso i quali era piombata: anch’essa ci teneva a rimanere nascosta. Justin emise un gemito soffocato con le ultime forze, e si sentì mancare dal terrore. Senza nemmeno accorgersene, si ritrovò a cadere semi-afflosciato come un sacco quasi vuoto; le braccia di Uther accompagnarono gentilmente il suo crollo, per impedirgli di fare troppo rumore, e lo lasciarono giacere sul terreno.

Quando Justin si riprese, dovevano essere passati solo pochissimi minuti: non era stato un vero e proprio svenimento, anche se c’era andato parecchio vicino. Le orecchie smisero gradualmente di ronzargli in modo assordante, come se i suoi timpani si stessero risintonizzando sui suoni che lo circondavano; sentì chiaramente il sangue rifluirgli al viso e alle dita di piedi e mani con più vigore, e cessò di provare quell’improvvisa ondata di freddo che lo aveva colto. Con un certo impegno si concentrò per riaprire gli occhi. Udiva un sommesso borbottare, una discussione a toni bassissimi, che si stava svolgendo vicino a lui. Tentò di alzare la testa abbastanza da permettere alla sua visuale di comprendere chi stava parlando, ma fu colto da un capogiro e ricadde con la nuca contro il suolo, emettendo un lamento doloroso. «Ahi!»

Le voci che sussurravano vicino a lui si zittirono immediatamente; quindi qualcuno o qualcosa si mosse, sempre strisciando sul terreno, per avvicinarglisi. Una flebile luce gli venne puntata in faccia, accecandolo per un momento; infastidito, si portò le mani davanti agli occhi e aprì bocca per implorare di essere lasciato in pace, quando una mano gli mozzò parole e respiro, abbassandosi esplicitamente sulla sua bocca. La luce, comunque, fu puntata più lontana dal suo viso, permettendogli di distinguere un po’ meglio le due sagome chine su di lui.

Una di esse, quelle che aveva i rasta in testa, gli si rivolse a voce bassissima, ma tono eloquentemente ironico, che gli risultò immediatamente famigliare. «Per favore, Justin; non farmi preferire quando sei svenuto, e non indurmi a ricreare tale condizione immediatamente.»

Benché espresso con voce amabile, il concetto era chiarissimo.

«Stiamo cercando di non farci sentire… e siamo molto vicini a chi potrebbe sentirci, al momento. Quindi, se tu potessi evitare di emettere qualsiasi suono sarebbe ottima cosa. A meno che tu non sia in punto di morte, s’intende. In quel caso, possiamo aiutarti ad allontanarti per andare a morire più lontano da qui, se proprio devi farlo in maniera rumorosa.»

In qualche modo ora il tono lasciava intendere che il proprietario della voce conosceva almeno un paio di validi espedienti con cui uccidere qualcuno senza produrre eccessivo rumore. Justin ingoiò una generosa quantità di saliva, ma si riscosse abbastanza da cercare di scostare la mano che gli veniva premuta sulla bocca. Era abbastanza sicuro che non lo avrebbero ucciso sul serio, non finché sapevano che Danny si sarebbe arrabbiato moltissimo con loro, per questo. Pur tuttavia, era più potente come argomento il fatto che quella mano gli impediva di respirare decentemente, e quindi rappresentava una minaccia di morte più urgente.

La stretta si intensificò, vanificando i suoi tentativi di ribellione. La sagoma si chinò più vicino a lui, e Justin potè distinguere fin troppo chiaramente per i suoi gusti i tratti del viso di Kumals, impietriti in una serietà sinistramente gioviale. «Siamo intesi?» gli domandò con voce profonda.

Justin si riabbandonò mollemente sul suolo, emise un lungo e compassato sospiro di commiseranda resa, e annuì. Quasi subito la mano si scostò, e lui riebbe la bocca libera, oltre che la possibilità di alzarsi almeno a sedere.

«Possiamo smettere di perdere tempo con lui?» domandò Uther, con una certa irritazione, sempre a voce molto sommessa.

Kumals, che si stava ripulendo il palmo della mano sui pantaloni, gli rivolse uno sguardo ora realmente serio e grave; aggrottò le sopracciglia e disse «Cos’è che mi stavi dicendo… a proposito del perché ci avete messo tanto ad arrivare?»

Uther sbuffò. «Non ne vale la pena, lasciamo perdere.»

«Peccato…» osservò Kumals «…sembrerebbe una storia interessante… specialmente se spiega perché siete legati con una corda tra di voi…» commentò allusivamente.

Uther ebbe un moto di imbarazzato fastidio, e provvide immediatamente a sciogliere il nodo che assicurava un capo della corda alla sua vita; tese quindi il capo di corda a Kumals, dicendo «Ecco qua. Tutto tuo. Vado a dare un’occhiata, allora…»

Kumals prese la corda in mano, e iniziò a soppesarla come se considerasse qualche opzione particolarmente interessante, mentre rispondeva, quasi distrattamente «Ahan. Molto meglio che vedi coi tuoi occhi…»

Uther annuì rapidamente, quindi iniziò ad arrampicarsi sull’albero che Kumals aveva disceso poco prima.

Justin si ritrovò a guardare Kumals, che si accomodò seduto a gambe incrociate, la schiena poggiata al tronco di quello stesso albero; appoggiò a terra la piccola torcia elettrica portatile, il cui vetro era stato avvolto in un pezzo di stoffa per farne defluire solo un bagliore pallido, poco visibile se non si era molto vicini; estrasse da una tasca un pacchetto di tabacco e prese ad arrotolarsi una sigaretta, con aria pensierosa e preoccupata. Poco dopo, accorgendosi dello sguardo di Justin, gli si rivolse.

«Allora, me la racconti tu questa storia sulla corda?» domandò, con tono quasi canzonatorio.

Justin ci pensò su un momento. «Non puoi fumare.» affermò «Il fumo sarebbe visibile, e rivelerebbe il nostro nascondiglio.»

Kumals si bloccò nell’atto di leccare la parte adesiva della cartina, e gli lanciò uno sguardo tale, al di sopra della sigaretta, che Justin dimenticò improvvisamente tutto lo spavento che aveva provato fino ad allora, in occasione della scoperta di un nuovo tipo di paura. Un momento dopo, tuttavia, l’espressione di Kumals era ritornata pacificamente concentrata sulla sua sigaretta.

«Lo so. Mi limito ad arrotolarle. È sempre utile averne una buona scorta.»

Nonostante questo, Justin comprese, di punto in bianco, che l’uomo stava cercando di dissimulare un profondo nervosismo e una tremenda tensione: per questo non si stupì molto quando Kumals, poggiata a terra la sigaretta appena arrotolata, iniziò subito a confezionarne un’altra. Se c’era qualcosa che aveva il potere di indurre Kumals in quello stato, Justin era fortemente sicuro di non voler scoprire di cosa si trattava.

 

*

***

*

 

Lasciatosi alle spalle con sollievo le voci di Kumals e di Justin, diversi metri più sotto, Uther scalò l’albero ramo per ramo, con paziente impegno, finché, giunto vicino alla cima, iniziò a distinguere una sagoma più scura, appollaiata su uno spesso ramo. Si diresse verso di essa, e quando fu abbastanza vicino a quel ramo, dalla sagoma si sporse in fuori un braccio; dal mantello verde scuro che la avvolgeva spuntò una mano, che lui afferrò, lasciandosi aiutare per issarsi sul ramo, sul quale trovò un equilibrio abbastanza valido.

«Grazie.» mormorò molto piano.

Nell’oscurità gli parve di intravedere un leggero sorriso sul viso di Zoal. Subito dopo, la donna sporse di nuovo la mano, stavolta meno distesamente, per indicargli la direzione in cui volgere lo sguardo. Uther guardò in quella direzione: tra i rami folti di foglie dell’albero sempreverde su cui erano appollaiati, si intravedeva lo spiazzo, l’edificio che vi sorgeva, e…

Uther trattenne il fiato e sbarrò gli occhi, rimanendo definitivamente senza parole, commenti od osservazioni valide per diversi minuti, mentre assorbiva la scena con lo sguardo, e cercava di darle un senso.

La casa nel bosco, quel vecchio edificio che si presumeva abbandonato tranne secondo l’opinione di Yuta e Zoal, era molto affollato. Solo alcune delle finestre, perlopiù composte da grandi vetrate in alcuni punti molto impolverate, rotte o incrinate, erano illuminate, gettando intorno una penombra sufficiente a lasciar distinguere le numerose sagome umane affollate intorno alle pareti dell’edificio, alto almeno tre piani, e non molto largo.

Sembrava che le due sorelle avessero visto giusto, e che il rilevatore affidato all’inconsapevole Conte avesse avuto tutte le sue ragioni nel segnalare quella zona: intorno alla struttura c’era una vera e propria moltitudine delle persone ridotte in stato amebico. Ma c’era qualcosa di molto più strano del solito, ora, in esse. Non erano intente a vagare a casaccio, o a incantarsi contro qualcosa. Invece, ognuna di loro aveva un contegno marziale; ritte, immobili e irrigidite come fantocci, stavano schierate in un mucchio che circondava tutta la casa. Sebbene a poterle vedere in viso si potesse distinguere chiaramente l’espressione vuota e come priva di vita, con gli occhi opachi e le bocche spesso semi-aperte e un po’ sbavanti, parevano sospese nel bel mezzo di uno strano gioco che prevedeva l’imitare il meglio possibile una statua di sale. Tutte rivolgevano la schiena all’edificio, e il viso e la parte anteriore del corpo al bosco circostante; sembravano essere state disposte a guardia. Uther fu brevemente colto dall’idea che difficilmente si poteva trovare un sistema di guardia più efficiente: qualsiasi persona dotata di un minimo di pensiero avrebbe trovato tutto il tempo di annoiarsi e distrarsi, in riflessioni, chiacchiere, rimuginamenti senza capo né coda, o anche in un principio di abbiocco. Ma quelle persone ridotte in quella specie di stato vegetativo non sembravano capaci di produrre altro che quella perfetta immobilità da stand-by totale e assoluto: tutto ciò che poteva risvegliarle era, probabilmente, l’udire un rumore o vedere qualche movimento. A quel punto sarebbero partite all’attacco della fonte che era stata capace di suscitare la loro attenzione, con quell’aggressività caparbia, idiota e pericolosa che gli era ormai fin troppo familiare, purtroppo.

Ma non era tanto questo ad aver lasciato Uther senza riserve riguardo al farsi un’idea di tutta la situazione. C’era un gruppo ben fornito - una cinquantina almeno - di quelle persone che era stato disposto in maniera del tutto diversa. In corrispondenza dell’ingresso ampio dell’edificio, un portone largo abbastanza da permettere il passaggio ad un tir, non s’era fatto risparmio di illuminazione: due potenti fari illuminavano la cinquantina di persone schierate in due gruppi, che formavano due cordoni – ognuno dei quali composta a sua volta da tre file – che partivano dall’ingresso e si stendevano verso il bosco, pur senza raggiungere i primi alberi. Tra i due cordoni schierati come una nutrita equipe di servitù domestica, si distendeva un lungo tappeto in tessuto rosso, largo pressappoco un metro e lungo almeno una mezza dozzina. Un tappeto rosso, ovvero di benvenuto.

A completare il grottesco della scena era l’aspetto con cui si presentava quella sorta di comitato di benvenuto: quelle persone giacevano da giorni in uno stato inconsapevole, che aveva certamente impedito loro anche solo di preoccuparsi delle più basilari norme di igiene e di cura di sé. Inoltre, avevano camminato da Castle Mac’Hearty fino a lì, attraversando il bosco per chilometri. Tutti, insomma, presentavano vestiti stracciati, consunti, macchiati di cose sulla cui natura era meglio non indagare, anche se l’odore stantio di sudore e altri liquidi corporali si poteva sentire bene; saturava l’aria tutt’intorno.

Uther giacque col volto impietrito per diverso tempo, fissando quella scena fin nei minimi particolari. Infine, una smorfia di disgusto e rabbia prese a disegnarli i tratti del volto: l’azzurro chiaro degli occhi lampeggiò di gelida furia, e le labbra si piegarono in un combattuto nervosismo, campo di battaglia tra il proposito di un qualsiasi intervento utile a mettere fine a quella scena e la preoccupazione per sé e per gli altri che si presumeva fossero giunti fin lì appunto per fare qualcosa.

Per questo, quando udì la voce sommessa di Zoal, che lo distolse da quel silenzio opprimente, ne provò un pacato sollievo.

«A quanto pare il nostro arrivo non sarà una sorpresa.» constatò la donna con voce profonda. Nonostante il tono volesse alleggerire il tutto, Uther lo conosceva troppo bene per lasciarsi ingannare a tal punto; anche lei covava da tempo una gravosa preoccupazione e una rabbia feroce.

La spiò di sottecchi. Gli occhi verdi erano completamente concentrati sull’ingresso, sul tappeto rosso, sull’abbondanza di persone prive di coscienza di sé che erano stata radunate tutte in quel luogo. C’era un bagliore strano che danzava sul lieve spuntare di una visione dei denti stretti in un sorriso sinistro tra le labbra appena socchiuse: al ragazzo ricordò qualcun altro, e ciò lo fece sentire molto più nervoso e molto più tranquillo allo stesso tempo. Forse il contrasto era solo apparente. Forse era semplicemente il fatto di starsi cacciando in una delle più scomode e incerte situazioni in cui avesse mai inciampato nella sua intera vita con le persone di cui più si fidava e per la sorte delle quali più temeva. Non stava davvero riflettendo su quello, ora, ma era un motivo di sottofondo di cui era in qualche modo consapevole.

«Una trappola?» domandò.

Zoal ricompose un poco la sua espressione, e per un momento le sue pupille si spostarono verso di lui, prima di concentrarsi di nuovo sulla scena che si preparava davanti a loro. «Non credo. Troppo evidente, no? In qualche modo, credo sarebbe stato peggio se avessimo trovato tutto tranquillo, come se stessimo davvero per fare un attacco a sorpresa. Non mi aspettavo certo che non sapessero che stavamo venendo qui… non dopo che per giorni non abbiamo fatto altro che girare attorno al punto cruciale: eccolo qua.»

Uther ci rifletté su per un istante. «Non saprei dire bene perché ma.. non mi hanno mai convinto particolarmente i punti cruciali con tappeto rosso di benvenuto.»

Zoal sogghignò. «Vero.»

«Non sembri così sorpresa… persino del tappeto rosso.» azzardò Uther, cercando di non dare a vedere l’attenzione con cui cercava di sondare l’espressione della donna.

Lei sorrise appena, di nuovo, e non rispose.

Uther attese qualche istante, prima di dire «Ci sono diverse cose, diverse ipotesi, di cui tu e Kumals non ci avete fatto cenno; non è vero?»

Stavolta Zoal voltò il viso verso di lui, e lo guardò bene in faccia. «Ma tu e gli altri non vi siete sforzati tanto di farci sputare il rospo.» constatò con tranquillità.

Uther sorrise obliquamente, con complicità, e lasciò che questo bastasse ad esternare la sua risposta. Aveva a che fare col fatto che, se Zoal e Kumals ritenevano che fosse meglio non anticipare una loro ipotesi prima di averne saggiato le probabilità, loro non si sentivano così obbligati ad indagarvi sopra.

Zoal tornò a rivolgere lo sguardo sul loro obbiettivo. «Curioso… Mi ricorda il modo in cui tu e Danny siete soliti decidere sempre quei colori.»

Per un momento Uther fu colto di sorpresa, non capendo di cosa stesse parlando.

Zoal, che ne spiava l’espressione, sorrise soddisfatta. «Sempre il blu per il ‘tutto bene’, e sempre il rosso per ‘guai’.» disse.

Uther abbozzò un’espressione di innocente superiorità. Lei fece un sorriso ammiccante.

Pochi istanti dopo, la donna si mosse. «E’ ora di scendere. Abbiamo osservato abbastanza. E tutta questa immobilità mi sta facendo venire i reumatismi.» ironizzò, mentre iniziava a trovare gli appigli per calarsi giù dall’albero. Uther  sorrise lievemente, e la seguì.

Quando toccarono terra, subito abbassandosi in un accuccio sul terreno, per meglio celarsi, trovarono Kumals e Justin silenziosi. «Com’era la vista?» domandò l’uomo, pretendendo una tranquilla nonchalance, rivolto ad Uther.

«Non tanto male.» rispose l’altro, mantenendo il doppio senso riguardo a quello che Kumals gli stava realmente chiedendo: erano le loro chance di farcela a ‘non essere tanto male’, più propriamente.

«Che si vede?» domandò Justin, preso da una febbrile curiosità.

«Un parco giochi con le giostre.» tagliò corto Kumals, per poi rivolgersi a Zoal. «Ancora di quell’idea?»

La donna annuì, con serietà.

«Quale id…?» iniziò Uther, ma fu interrotto da un rumore. Il colpo di uno sparo rimbombò chiaramente nel bosco, pur se a generosa distanza da lì; l’eco risuonò un paio di volte, prima di spegnersi. L’espressione di Uther si rabbuiò di colpo.

«Ci siamo.» scandì Kumals, a denti stretti.

Uther lo guardò, e poi rivolse un lungo sguardo anche a Zoal. Justin non era capace di interpretarlo bene, ma ebbe l’impressione che ci fosse un’accorata domanda in quell’occhiata. Come a confermarlo, dopo qualche istante Zoal mosse la testa in un cenno d’assenso grave. «Vai.» disse «Qui ce la caveremo.»

Kumals sembrava meno convinto, ma non avanzò alcuna replica.

Uther annuì di rimando, e di punto in bianco partì, tornando a inoltrarsi nel bosco; sebbene procedesse a gambe piegate, chino, per rimanere protetto il più possibile dalla vegetazione più bassa, Justin lo vide scomparire rapidamente, spedito. Fece giusto in tempo a notare che il ragazzo, mentre se ne andava, si toglieva il fucile da tracolla, tenendolo in mano, parallelo al suolo. Questo particolare fece tornare a Justin un profondo senso di malessere.

«Hey.» lo richiamò Kumals, schioccandogli le dita a due centimetri dal naso, senza fare rumore, ma con evidente simbolismo. «Sveglia. Abbiamo da fare, qui.» gli ricordò con severità.

«Ma… non dovevo sempre rimanere con Uther? Non era lui che doveva preoccuparsi della mia incolumità?» replicò Justin preoccupato, guardando in faccia i due, che lo consideravano con una pazienza poco interessata. «Voglio dire, chi penserà a me da ora in avanti?»

Per un momento gli rispose solo il silenzio; poi, Kumals occhieggiò Zoal, con un sogghigno. «E’ la prima volta che sento qualcuno ansioso di farsi accudire da un ex-becchino.»

«Mi ha tirato fuori dalle sabbie mobili! In qualche modo, credo che potesse proteggermi.» spiegò Justin. Ora lo guardavano come se stesse delirando.

Zoal gli parlò con grande calma, la qual cosa, però, non sembrava poterlo tranquillizzare molto. «Resta vicino a noi, ora. E non fare niente che non ti chiediamo di fare. Se vuoi che ti aiutiamo a uscire vivo da qui, da ora in avanti, dovrai concederci la più assoluta fiducia.»

La donna non si soffermò nemmeno a vedere quale effetto avessero prodotto le sue parole su Justin; si stava già rivolgendo a Kumals. «Andiamo, allora?»

L’uomo annuì.

«Hem… quale sarebbe il piano, esattamente?» cercò di indagare Justin.

Il fatto che non gli rispondessero, come se pensassero che fosse meglio che lui non lo sapesse in anticipo, gli fece provare la sgradevole sensazione che quelle potessero essere le sue ultime ore da vivo. Ancora più curiosamente, ciò sembrava rappresentare un controsenso col fatto che già da diversi giorni sentiva come se fosse stato più probabile se fosse morto prima, in una delle tante precedenti occasioni che lui o la Morte non avevano colto. Se quello era una specie di gioco per tormentarlo, stava riuscendo pienamente.

Guardò Zoal tirare fuori qualcosa da qualche tasca nascosta tra le pieghe dei suoi abiti alla rinfusa: osservò con attenzione praticamente spasmodica. E si ritrovò ad osservare un campanellino, piccolo e ricoperto da una patina di finto oro, appeso a ciondolo ad un collare da cani; con grande naturalezza Zoal si portò le dita dell’altra mano alle labbra, le introdusse in bocca, e si estrasse dall’incastro tra due denti, dove lo aveva conservato fino a quel momento, il pendaglio del campanellino. Lo agganciò al campanellino, ma lo tenne fermo in modo che non producesse rumore. Quindi, sempre con mosse lente e calme, quasi da rituale, sbatté tre volte il palmo steso della mano sul suolo, emettendo un rumore molto sommesso. In risposta ad esso, qualcosa si mosse furtivamente tra le frasche, a pochi metri da loro. Justin sussultò violentemente, e stava già per farsi prendere dal panico, quando riconobbe Danza nella figura che camminò vicino a Zoal, accanto alla quale si accucciò ubbidientemente, anche se agitava un po’ la coda con aria giocosa.

Justin continuò a guardare, mentre Zoal assicurava al collo del cane il collare, sempre tenendo fermo il pendaglio per impedire al campanellino di produrre rumore. Ed ebbe la certezza che, qualsiasi cosa stessero progettando di fare, doveva essere un piano particolarmente azzardato. Perlomeno, questo avrebbe potuto spiegare perché Kumals, pur seguendo le mosse della donna con attenzione, avesse ripreso ad arrotolarsi sigarette che non avrebbe fumato per le prossime ore, o forse mai più. Tale era il massimo ottimismo che Justin era al momento in grado di spremere da sé.

 

 

 

 

Note dello scribacchiatore:

Il ‘tessuto rosso’ del titolo si riferisce al tappeto di benvenuto che si trovano davanti Zoal, Kumals ed Uther.

Come al solito accade in questo periodo, non ho avuto modo di ricontrollare il tutto con la dovuta tranquillità e concentrazione, però varie occhiate gliele ho date, quindi sì, se ci sono sviste od orrendumi non perfettamente voluti e studiati vuol proprio dire che persiste la mia fondamentale vena di scribacchiatore con una propensione ad inciampare laddove non ci dovrebbero essere gradini.

Oh, non preoccupatevi, non è che io abbia improvvisamente deciso di dedicare così tanto spazio a Justin, però per qualche capitolo è stato divertente focalizzare un po’ anche su di lui. Eh sì, immagino che magari ci sia chi preferirebbe focalizzare su altri, a seconda delle preferenze, ma non dubitate, prima o poi li prenderò al varco qui e là anche gli altri… a piccole dosi sparse o a sprazzi chiarificatori!

Spero questo capitolo vi prenda bene, per il resto, ci si sente al prossimo, bye!

 

Ritorna all'indice


Capitolo 51
*** 49 - PIUME DI RAPACE ***


Capitolo 49

(PIUME DI RAPACE)

 

Andrea era contenta, in fondo, che al momento Danny non potesse esprimersi a parole; perché se le avesse chiesto a cosa stava pensando, sarebbe stato imbarazzante da spiegare.

Stava pensando alla storia di ‘Cappuccetto Rosso’. Non le era mai piaciuto il finale, cioè quando il cacciatore, nel ruolo di salvatore eroico, ammazza il lupo per salvare Cappuccetto e nonna. Dopotutto, giacché il lupo era stato così abile da metterle nel sacco – o meglio da mettersele in pancia – entrambe, era sleale che arrivasse qualcuno e gliele sottraesse, per giunta sventrandolo. Era un po’ come la forza bruta prevaricatrice contro l’astuzia. D’accordo, non le era mai riuscito di provare eccessiva empatia per la sorte delle due divorate. Aldilà di queste divagazioni, però, era la situazione in cui la ragazza si trovava al momento ad averla indotta a ricordare quella storia.

‘Quanto pesi?’ le aveva chiesto Danny. Certo, quando glielo aveva domandato non aveva assolutamente capito dove volesse andare a parare. Ma ora che lo sapeva, le era difficile ignorare il parallelo con lo scambio di battute tra il lupo travestito da nonna e Cappuccetto Rosso: ‘che begli occhi grandi che hai…’ e via dicendo.

In quella, Danny dovette superare un tratto di terreno particolarmente disagevole, e quasi incespicò, sebbene stesse facendo il possibile per riuscire a procedere a ritmo sostenuto senza cadere. Andrea non riusciva ad immaginare come si potesse coordinare così bene il movimento di quattro zampe contemporaneamente; ma le era chiaro, anche se non ci fosse dovuta arrivare con la logica, che per lui era assolutamente innaturale, in forma di lupo, trasportare tanto peso sulla schiena. E lei ce la stava mettendo tutta per cercare di pesare di meno, davvero, ma onestamente non credeva che fosse qualcosa che poteva dipendere dal suo impegno, al momento.

Danny, o meglio il lupo che le era ricomparso davanti da quando - dopo averle annunciato il suo piano - il ragazzo era andato a celarsi in un folto di cespugli, per poi ritornare sotto quelle sembianze e tenendo in bocca i propri vestiti, superò il momento di difficoltà del terreno in pendenza e irto di radici grosse e nodose, e proseguì oltre. Lei intensificò un poco la presa delle mani e delle gambe attorno al suo collo e ai  suoi fianchi, e cercò di lasciare perdere le divagazioni su Cappuccetto Rosso, per concentrarsi meglio sul rimanere in equilibrio a cavalcioni e praticamente sdraiata sulla schiena del grosso lupo. Però era difficile sottrarsi a quella riflessione: a quanto pareva, in quella loro versione della storia Cappuccetto Rosso e il lupo si erano coalizzati per andare a dare il benservito al cacciatore. Non le dispiaceva affatto, come versione.

Già da diversi minuti procedevano spediti, nonostante l’evidente affaticamento di Danny; i lupi, come lei aveva fatto notare in guisa di obiezione alla sua idea, non avevano affatto la colonna vertebrale adatta a trasportarci sopra un peso, a mo’ di cavallo. Lui aveva ribadito che poteva sopportarlo per un po’: giusto il tempo di poter fare qualche chilometro più velocemente, per cercare di recuperare il ritardo. Andrea aveva il forte sospetto che, in realtà, il ragazzo volesse anche evitarle ulteriore fatica. Si era accorta che era più preoccupato e immusonito di quanto non desse a vedere, per il suo essere rimasta coinvolta e ammaccata dal rapimento da parte del demone. Nonostante le sue migliori intenzioni, Andrea non riusciva ancora a trovare tra sé e sé un modo efficace per togliere dall’espressione di Danny quel’aleggiante senso di colpa, che lo intristiva. Quello era il vero peso che stava costituendo per lui, al momento, e non tanto il fatto che si stesse facendo trasportare.

Si strinse più forte al petto, con la parte di braccio libera dal doversi mantenere stretta e praticamente sdraiata sulla schiena del lupo, l’involto di vestiti di Danny, ripiegati e ordinati in una specie di pacchetto da viaggio, cosa di cui si era occupata con cura. Sentì anche la rigida consistenza delle due pistole e della cintura pesante di cartucce e pallottole, il tutto racchiuso al centro del pacco di abiti. E percepì un altro oggetto di consistenza più morbida, che le pendeva attaccato al collo. Rimpianse di non avere una mano libera per poterlo toccare, e cercarvi un poco di rassicurazione. Ma ritornò col pensiero a quando lo aveva visto per la prima volta, non più di alcune ore prima.

… … …

«Andrea.» chiamò Valentine piano. La ragazza si fermò. Era appena uscita dal bagno, e il suono della voce quasi l’aveva spaventata, cogliendola di sorpresa. Nella penombra del primo piano della casa di Yuta e Zoal, distinse la sagoma scura di Valentine; diversamente dal solito abito elegante, in stile dark, indossava un pratico paio di pantaloni lunghi, scarponi da montagna e un grosso e spesso maglione, tutto comunque in colori scuri, che le permettevano di celarsi bene nella scarsa luminosità, se non fosse stato per la pelle particolarmente chiara.

«Ah, ciao. Scusa se non ti ho vista… ero sovrappensiero.» rispose.

Valentine le rivolse un sorriso gentile. «Non ti preoccupare. Sarei io a dovermi scusare. In realtà ti ho teso una specie di agguato. Non volevo proprio entrare in cucina… visto che tu e Danny vi eravate sistemati vicino alla stufa… così ho aspettato di beccarti qui in giro.»

L’accenno di Valentine per poco non la fece arrossire. L’’essersi sistemati’ doveva essere una specie di gentile metafora; più che altro si erano disordinati, e molto volentieri.

«Il fatto è…» proseguì Valentine «…che Yuta mi ha chiesto di chiamarti. Dice che Zoal ci aspetta nella sua stanza. Vorrebbe parlarci in privato.»

Andrea se ne stupì, e sul momento non riuscì a rispondere. Non solo sembrava strana quella sorta di ‘convocazione’ tramite parti terze, ma soprattutto era strano che fossero appena state invitate nella stanza di Zoal. Da ciò che aveva intuito a forza di stare nella casa, ed era un’impressione rinforzata dagli accenni non troppo particolareggiati od espliciti di Danny, la stanza di Zoal era una sorta di tempio: nessuno a parte Zoal stessa ci metteva piede; la porta era sempre chiusa. Era una specie di insieme di regole non dette, ma rispettate da tutti, con un certo accenno di timoroso rispetto anche. Sembrava che un po’ tutti fossero ben felici di non dover mettere piede nella stanza di Zoal.

«D…davvero?» si risolse a dire Andrea, senza trovare di meglio.

«Già.» Valentine non sembrava molto più persuasa di lei, anche se si sforzava di prendere la cosa con pragmatica naturalezza. «Non so perché. Anche Yuta non lo sapeva. Ma sembra che Zoal abbia qualcosa di importante da dirci.»

«Ah. Sì, certo, bene.» concluse Andrea. Avrebbe dovuto possedere molto più sangue freddo e molta più faccia tosta per non mostrarsi nervosa in quel momento; perciò vi rinunciò, e si limitò a seguire Valentine giù per il corridoio, anche se l’altra non sembrava tanto ansiosa di fare strada. Ebbe la forte tentazione di inventare una scusa per tornare in cucina e dirlo a Danny; dopotutto lui Zoal la conosceva bene, per quanto sembrasse fosse disposta a farsi conoscere bene Zoal, e quindi avrebbe pur trovato qualcosa di rassicurante da dirle. Forse, però, invece sarebbe apparso stupito quanto lei, e allora questo non l’avrebbe aiutata particolarmente. In ogni caso, le parve stupido dover andare a chiedere supporto a qualcuno, perciò ricacciò indietro la tentazione.

E di colpo erano di fronte alla porta chiusa della stanza di Zoal, e nessuna delle due osava tendere una mano per bussare. Tuttavia, era una porta normalissima, uguale a quella di tutte le altre stanze della casa; eccetto forse per il forte misto di odori che usciva appena attraverso di essa. Andrea cercò di interpretarli, ma tutto ciò che ne cavò fu una bizzarra miscela tra fragranze di tisane aromatizzate, spezie da cucina, piante esotiche, frutta secca, fumi simili a quelli da incenso, pelo bagnato di cane, una specie di sentore che ricordava la polvere di minerali, terra umida, e, volendo sorvolare su un nonsoché che ricordava il gusto metallico del sangue, avrebbe giurato che ci fosse una punta di zolfo. Si disse che doveva essere uovo marcio, e si decise a bussare; nonostante questo, entrambe le mani le rimasero incollate lungo i fianchi, dove pensavano di stare molto meglio al momento.

«Entrate pure.» disse Zoal, dall’interno, senza che nessuno ancora avesse accennato a bussare.

Andrea e Valentine, come di comune accordo, fecero di tutto per non scambiarsi uno sguardo. Poi Valentine allungò una mano sulla maniglia ed aprì la porta. Andrea si stupì che non cigolasse in maniera sinistra, né che non comparisse dall’apertura che si andava allargando una ridda di bagliori di malsano color livido e acquamarina putrescente, insomma, roba tipica da ‘antro della strega’.

Entrarono e si richiusero la porta alle spalle, come la voce di Zoal, sempre profonda e calma, chiese loro di fare. Subito si stavano guardando intorno con avida curiosità; ma rimasero piuttosto deluse. Benché la stanza sembrasse grande, Zoal usava tenere appesi al soffitto ampi drappi di colori varianti tra le gamme del viola e del blu, che facevano da tende, tenendo l’ambiente separato in diverse zone. In quella dove si trovavano loro, appena varcata la soglia, si poteva distinguere principalmente il pavimento nudo, ma solcato da segni di bruciacchiature e scribacchiature in gesso colorato, più volte cancellate e ripulite alla belle e meglio, semi-coperte da briciole di fango secco sparse un po’ ovunque, e spesso impresse da impronte canine.

Distesa su un divanetto lungo, di foggia simile a quello utilizzato dagli antichi romani per i loro banchetti a base di ingozzati-e-vomita-e-reingozzati*, Mama alzò la testa dalle zampe allungate e riservò loro una lunga occhiata molto attenta.

Andrea notò ancora una piccola scaffalatura in legno, che dava l’impressione di poter crollare da un momento all’altro sotto il peso di un impressionante numero di libri, stretti l’uno all’altro sulle mensole; purtroppo, il fatto che una sciarpa semi-trasparente color viola, nero e indaco fosse stata appoggiata in modo da coprire i libri, forse con l’intento di proteggerli un po’ dalla polvere, non le permise di sbirciare i titoli. C’era un grosso e spesso tappeto, apparentemente di origine sud-americana, che occupava una parte del pavimento, con aria polverosa e pensosa. Dal piccolo lampadario di legno e cartapesta appeso al soffitto, con arabescati disegni di sagome di animali leggendari, pendevano alcune conchiglie di tenui colori bianco-rosati e sfumature più decisamente rosso-sanguigno, legati a sottili fili di quello che sembrava caucciù, e lo scheletro ricostruito di un uccello che Andrea non riuscì a identificare, ma del quale non poté fare a meno di rimanere incantata, per via delle penne lunghe e molto variopinte, più di quelle di un pavone sebbene meno appariscenti, che erano state legate in alcuni punti strategici: sembrava insomma che fosse stato ricostruito un accenno di quello che doveva essere stato quell’uccello in vita. Mancavano le parti più organiche, ma c’era persino il becco, non particolarmente lungo o appuntito, sul davanti del piccolo cranio dall’apparenza fragile.

Una delle tende che celavano il resto della stanza fu scostata con vigore, e Zoal comparì davanti a loro, avanzando a lunghi passi. Andrea e Valentine notarono immediatamente che recava in una mano un merlo sgozzato e sanguinante, e furono seriamente sul punto di abbandonarsi al panico, specialmente per via del fatto che gli occhi verdi della donna che avanzava con decisione brillavano di rabbia.

Lei le notò, come se si ricordasse di loro in quel momento, e la sua furia sfumò un poco. «Oh, sì, giusto. Sono subito da voi…» disse. Poi si girò verso la tenda da dietro la quale era comparsa e, con voce dura, esclamò imperiosamente «Avanti, vieni qui!»

Si sentì un lieve tramestio, e infine la tenda si spostò di nuovo, ma solo nella parte bassa: Danza venne fuori con aria mesta ed esitante, e, dopo aver cercato per qualche momento di tergiversare rivolgendo il muso e un accenno di scodinzolio a Valentine e Andrea, si arrese all’occhiata funesta che le lanciava Zoal, e le si avvicinò. Si sedette vicino alle sue gambe, con aria dispiaciuta ma non particolarmente pentita.

Zoal, che la fissava impietosamente, sporse verso di lei l’uccello morto che impugnava. «Vorrei proprio sapere cosa aveva fatto di tanto grave perché ci fosse il bisogno di ucciderlo!» tuonò.

Il cane voltò un poco il muso dall’altra parte, anche se il fremere delle sue narici indicava che era ancora particolarmente interessata al piccolo cadavere.

«Questo è un brutto gioco.» mormorò Zoal, con voce tanto bassa e minacciosa, che Andrea e Valentine, ancora ferme in piedi ad osservare la scena, si sentirono rabbrividire. Danza, invece, le rivolse uno sguardo che tentava di essere implorante e compassionevole, le pupille larghe e brillanti come in un accenno di commozione, e s’azzardò a muovere un poco la coda.

Dopo qualche lungo minuto di immobilità, Zoal sospirò, e scosse la testa. «Vai a dormire, dunque, o dove meglio ti pare.» disse, con tono deluso e ancora arrabbiato, ma in cui il cane sembrò riconoscere il segno che la ramanzina, almeno per il momento, era finita. Si alzò di nuovo sulle quattro zampe, e dopo aver tentato vagamente un approccio di leccata su una delle mani della donna, salvo venir respinta con un gesto, si avviò alla porta della stanza con aria più tranquilla e spensierata; sembrava fiduciosa in un perdono nel prossimo futuro.

«Fatela pure uscire…» disse Zoal, mentre tornava dietro la tenda.

Andrea aprì la porta e Danza sgusciò fuori; per un momento la invidiò.

Quando poco dopo Zoal ricomparve, non aveva più in mano l’uccello sgozzato, anche se stava finendo di pulirsi la mano dal sangue con uno straccio; ora aveva con sé anche il solito bastone. Le guardò, mentre sfregava via le ultime tracce di sangue, e sorrise appena.

«A volte le prende una sorta di istinto da caccia, e mi porta le sue prede in regalo…» spiegò. «A quanto pare non ha ancora capito bene che non mi fa affatto piacere che uccida solo per questo.»

Sebbene la prima parte della frase rientrasse nella norma, la seconda, in qualche modo, lasciò ad Andrea l’ombra di uno sgradevole dubbio.

«Comunque…» riprese Zoal, gettando lo straccio sul pavimento, un po’ più in là «Se volete sedervi, fate pure. Volevo dirvi e darvi alcune cose…»

Seguendo il suo esempio, le due ragazze si sedettero per terra, accomodandosi sullo spesso tappeto, di fronte alla donna.

A gambe incrociate, col bastone appoggiato in obliquo su una coscia, come ormai erano abituate a vederla, Zoal non sembrò avere fretta, come sembrava non averla mai. La cura dei gesti e dei modi, per lei, pareva uscire indenne da qualsiasi tipo di urgenza; non per un fatto di eleganza o di apparenza, beninteso, cosa che d’altra parte avrebbe cozzato miseramente con il resto di lei e dei suoi modi. Ricordava più che altro una specie di ritualità pagana.

Si prese così la sua pausa di riflessione, come soppesando le parole, prima di parlare; e a loro due non parve affatto fuori luogo, considerata la situazione.

«Stanotte andremo dritti al cuore di ciò che sta accadendo, come sapete.» iniziò, seria ma calma «E so bene che per voi questo genere di situazioni non rappresentano la norma. Forse - è ciò che temo - nessuno di noialtri qui è ancora molto capace di tornare indietro con la memoria abbastanza da immedesimarsi nel quanto ci si può sentire disorientati, quando non si è già piuttosto… usi a questo.»

Zoal le guardava con attenzione, e Andrea si sentì di nuovo come la prima volta che l’aveva incontrata. Le stava studiando, si sarebbe detto. Ma stavolta lei non voleva cadere nel gioco di specchi illusori delle pupille verdi, e preferiva rimanere a distanza di sicurezza dai disegni che pareva di poter vedere fluttuare in quello sguardo, senza riuscire più a capire se si stava scorgendo solo il riflesso della propria immagine o qualcosa di cui Zoal voleva convincere, o ancora altro. Andrea evitò di fissarle direttamente lo sguardo.

«In ogni caso, verrete con noi, è questo che volete.» concluse Zoal.

«Valentine.» disse ancora, guardando soprattutto l’interpellata «Per come abbiamo deciso di procedere, potresti trovarti particolarmente esposta. Non mi perdonerei se ti succedesse qualcosa. Per questo, ti affiderò un piccolo aiuto, se vuoi accettarlo.»

Così dicendo, trasse fuori qualcosa da una piega imprecisata dei suoi abiti, e tese la mano verso la ragazza, a palmo aperto e verso l’alto: su di esso campeggiava un piccolo anello semplice, color ebano molto scuro, con un bordino sottilissimo d’argento.

Mentre Valentine osservava il monile con un misto di curiosità e soggezione, Zoal sorrise con aria un po’ sdrammatizzante, e lo fece saltellare un po’ sul palmo aperto. «Non è quello della saga di Tolkien. Niente pasticci di dimensioni epiche, qui. È solo un piccolo amuleto. Ti proteggerà un poco.»

Valentine si decise a prenderlo, sorridendo appena per quelle parole. «Grazie…» disse, con sincera gratitudine, infilandoselo al pollice con riverenziale cautela.

Zoal annuì, come se fosse soddisfatta. «In ogni caso, Yuta sarà con te. Le affiderei la mia vita senza pensarci mezza volta. E averla al fianco vale molto di più di qualsiasi amuleto. Di Ramo non dirò nulla, perché già lo conosci bene.»

Valentine la guardò bene in viso. «E’ proprio così.» concordò.

«Ora… se non ti spiace, vorrei parlare solo con Andrea.» mormorò Zoal, dopo qualche istante di silenzio.

«Sì, certo…» e Valentine si rialzò in piedi. Mentre usciva, ripeté «Grazie, Zoal. Davvero.»

La donna si limitò a rivolgerle un pacato sorriso, mentre la porta si richiudeva alle spalle della ragazza.

Ora nella stanza c’erano solo Zoal e Andrea. Quest’ultima si concentrò sull’osservare Mama, la quale, dopo aver spalancato le cospicue fauci in un pigro sbadiglio, si mise più comoda sul fianco, e riprese a dormire.

Alla fine, dal momento che Zoal non diceva niente, Andrea si decise a guardarla. La donna sembrava riflettere su qualcosa, e la fissava meno intensamente ora.

«E quindi… hai un amuleto anche per me?» si decise infine a domandare, dopo essersi schiarita la voce.

Zoal sembrò stupita per un momento. «Cosa ti fa pensare che abbia un amuleto per te?» domandò, sinceramente curiosa, con un sorriso gentile.

Andrea aggrottò un po’ le sopracciglia, suo malgrado colta di sorpresa.

«D’altra parte, tu non credi che questi ‘amuleti’ abbiano qualche potere reale, vero?» osservò ancora Zoal; sebbene sembrasse sapere di aver colto nel segno, non appariva per niente offesa o arrabbiata o divertita. La sua era una constatazione che emanava persino un accenno di gradita considerazione. A sguardo abbassato sul tappeto, si era messa a giocherellare con le dita con alcuni sassolini tenuamente colorati che Andrea non aveva notato prima, e che sospettò avesse tratto da qualche parte dei suoi abiti senza farsi notare.

Sebbene sentirglielo dire l’avesse lasciata di gesso, cercò di ricomporsi in fretta. «No. Non sono sicura né che ne abbiano né che non ne abbiano. Ho visto solo un anello. Come posso sapere cosa può fare? Non ho mai visto gli anelli fare qualcosa di più che cambiare colore, quelli che dovrebbero dire l’umore di chi li indossa in base alla temperatura corporea, o qualcosa del genere… Ma… d’altra parte, fino a qualche giorno fa avrei pensato di essere pazza ad immaginare che potessero accadere veramente cose come quelle a cui mi sono ritrovata in mezzo. Perciò, al momento è veramente poco ciò di cui posso sentirmi sicura.»

Zoal annuì comprensivamente, e lei ebbe l’impressione che l’avesse ascoltata attentamente, pure se continuava a giocherellare con i sassetti dall’aria assolutamente e poveramente normale.

«Per esempio, magari ora con quei sassolini stai leggendo il futuro, o stai controllando se sto parlando sinceramente. O forse è solo quello che mi vuoi fare credere, per farmi pressione psicologica.» aggiunse.

Zoal smise di giocherellare e alzò su di lei uno sguardo singolarmente nudo per lo stupore. «Uh? Oh… è solo che mi rilassa e mi aiuta a pensare… Scusami.» disse, e rifece sparire i sassolini dentro una qualche tasca interna tra i vari pezzi di stoffa alla rinfusa che componevano il suo vestiario.

Andrea, seduta a gambe incrociate e con le mani puntellate sulle ginocchia, a schiena e braccia diritte, come una specie di squaw-guerriera impegnata in un discorso di importanza determinante, si sgonfiò visibilmente, e arrossì d’imbarazzo per la gaffe. Tuttavia, a farla sentire ancora più a disagio era il fatto che Zoal non sembrava affatto essersela presa; non c’era ombra di offesa o di fastidio in lei, ma solo una comprensione un po’ ammirata. Andrea era abbastanza sicura che fosse molto raro incontrare una persona che considerasse qualcuno che dubitava in lei un soggetto del tutto rispettabile ed eventualmente da ammirare.

«Ahem… comunque… pensavo che volessi farmi lo stesso discorso che hai fatto a Valentine: sul fatto che ho deciso di partecipare a tutto questo, anche se non è mia abitudine scorazzare in queste situazioni, e sul particolare che sono specialmente vulnerabile, perché non ho capacità… ‘sui generis’…» riprese Andrea, cercando di passare oltre il momento di silenzio, che Zoal aveva occupato fissandola con interesse e con un accenno di sorriso gentile.

La donna accentuò il suo sorriso. «Sarai insieme a Danny, Andrea. Non posseggo niente che possa essere più protettivo di lui… specie nei tuoi confronti, credo. Inoltre, come tu stessa hai detto, saresti disposta a dubitare dall’inizio fino alla fine nei poteri di qualsiasi oggetto che io possa affidarti; mentre di lui, di Danny, non dubiteresti. Sbaglio di molto?»

Andrea rimase colpita, e rispose stentatamente «Non… beh, sì… è così… in fondo.» Mentre lo diceva, realizzò che era perfettamente vero. Anche se non sapeva spiegarselo, e non avrebbe potuto ipotizzare nemmeno lontanamente da che parte iniziare a cercare di darvi un senso logico e compiuto.

«Tuttavia… Danny ha anche una grande debolezza, al momento.» aggiunse Zoal, con gravità.

Andrea tornò a focalizzare su di lei con preoccupazione; non c’era bisogno che facesse ad alta voce la domanda che stavano esprimendo con vivace timore i suoi occhi.

«E sei tu.» sentenziò la donna.

Andrea rimase come congelata. Sebbene questa osservazione le risultasse come uno schiaffo, come sempre Zoal aveva un atteggiamento e un tono tutti suoi: non lo diceva per farle male, o per attaccarla o accusarla. La sua era una constatazione chirurgicamente precisa e sicura di sé. Glielo diceva con la ferma e leale serietà di chi pronostica una prossima caduta, proprio perché trova la forza di non fare finta che non vi sia quel rischio. Non per questo faceva meno male.

«Forse, allora, non dovrei venire con voi. Stai dicendo che la mia presenza potrebbe indurlo ad agire in modo pericoloso per se stesso, giusto?» disse dopo un po’; l’amarezza le rendeva il tono duro, ma la rabbia che provava, in fondo lo sapeva, era dovuta al fatto che credeva che Zoal avesse colto nel segno, che quegli occhi smeraldini avessero visto benissimo.

«No.» Zoal scosse un poco la testa, in segno di calmo diniego «Non è questo che intendevo. Al di là del fatto che è molto meglio che nessuno rimanga qui alla casa da solo, per via di questo cecchino a piede libero che ci tiene sotto tiro… non voglio suggerire un modo diverso d’agire. Non voglio indurti a pensare qualcosa. Altrimenti, avrei agito in altro modo. Quello che mi premeva, è che tu sappia cosa ne penso. Perché se ho ragione, se al momento tu sei il punto debole di Danny, potresti volerti prendere tutta la responsabilità che ciò comporta.»

Di nuovo raggelata dalla serietà delle parole, e dal modo in cui la donna la fissava, come se scandisse una cosa sulla cui integrità si poteva fondare una colonna portante dell’universo, Andrea si sentì terribilmente insignificante e impotente. Ma, dopotutto, capiva cosa Zoal le stava dicendo. Nonostante i loro modi spesso ben poco ortodossi, i componenti dei ‘4 di picche’ dovevano avere tra di loro un legame particolarmente forte; e quello che a Zoal premeva, era di assicurarsi che Andrea prendesse su di sé con il dovuto rispetto e impegno il compito di vegliare su Danny. Curioso che non avesse piuttosto scelto di fare il contrario; questo Andrea non era sicura di capirlo: solitamente era da raccomandarsi al più forte e capace di proteggere il più vulnerabile… non viceversa. E non credeva affatto che Zoal la ritenesse più forte di Danny; anzi, come le aveva detto, lei ne rappresentava al momento il punto debole. Chiedere al punto debole di qualcuno di prendersene cura… aveva una logica particolare, intricata, e forse inesistente. In quella logica Zoal credeva.

Andrea la guardò direttamente, scacciando da sé al meglio possibile i brandelli degli ultimi dubbi; senza rendersene conto drizzò ancora di più la schiena e alzò bene la testa, cosicché il profilo del suo viso, mal illuminato dalla luce del piccolo lampadario di cartapesta che spioveva dall’alto, assunse un taglio di chiaro-scuro particolarmente netto. Alcune delle piume dai colori variopinti appesi a quello stesso lampadario, attraversate dalla luce, giocavano riflessi violacei, blu e rossastri intorno; e quando uno di questi riflessi toccava gli occhi di Zoal, spariva, come se venisse ingoiato. Gli occhi verdi che ora erano completamente concentrati su Andrea.

«Non permetterò che gli… che ci accada niente.» si ritrovò a dire la ragazza, con tono fermo e deciso. Pareva qualcosa in cui credesse senza requie, piuttosto che una promessa. E non era davvero completamente consapevole di ciò che sembrava emanare da lei in quel momento, dell’impressione che offriva con quel tono, con quello sguardo testardamente fisso, e con quella posa da squaw battagliera. Ma era un’immagine che gli occhi smeraldini che la guardavano potevano cogliere appieno, e un po’ più oltre anche.

Zoal annuì, abbassando lo sguardo, e sorrise tra sé e sé tenuemente; intanto aveva infilato una mano di nuovo in qualche punto recondito dei suoi abiti. Quando la trasse nuovamente allo scoperto, chiusa a pugno, Andrea per un momento pensò che stesse ritirando fuori quei sassolini con cui giocherellava fino a poco prima. Ma poi la mano si aprì di colpo, e lei sussultò quasi nel vedere un piccolo oggetto che ne cadeva fuori, salvo fermarsi di botto a mezz’aria, rimanendo a ciondolare appeso alle dita aperte di Zoal, sospeso tra loro due.

Andrea fissò il laccio sottile di caucciù e la cosa che vi era appesa, per lunghi istanti, incuriosita. Il piccolo cattura-sogni aveva un aspetto classico, quasi scontato nella sua semplicità, ma c’era qualcosa nella fattura un po’ rozza e leggermente irregolare che dava l’idea che fosse stato costruito molto artigianalmente. Un cerchio non perfettamente circolare di canapa intrecciata, in mezzo al quale si stendeva una tela estremamente fitta e sottile, semitrasparente – di qualsiasi materiale fosse, non riuscì a riconoscerlo, dopo aver scartato con sicurezza il nylon – ; al centro della tela, costruita con l’architettura di una rete di ragno, era incastonata una perlina minutissima color indaco – anche in questo caso Andrea, dopo aver scartato l’opzione plastica, non riuscì a distinguere se potesse essere legno od osso o qualcos’altro, quello sotto il colore aggiunto a pennellate – ; ed infine, su tre punti del cerchio, rispettivamente ai lati e in basso, erano legati tre sparuti gruppetti di piume un po’ arruffate: il colore di sfumature marroncine, con fascette bianche maculate di marrone o di nero, fece pensare ad Andrea che fossero appartenute originalmente a qualche rapace notturno.

«Così… dopotutto qualcosa per me lo avevi…» disse dopo un po’, con un sorriso.

Zoal la guardò con una simpatia lievemente stupita, e un accenno di rimprovero scherzoso. «Non si tratta di un amuleto.» specificò «E tu, comunque, non riesci a crederci del tutto, negli amuleti. I pericoli dovrai affrontarli da sola, dunque. Questo ti aiuterà a tenere lontani gli incubi; che sono più insidiosi, e sanno giocare tiri più mancini, di solito.»

Andrea si decise ad allungare una mano a palmo aperto verso l’alto. Zoal vi appoggiò con delicatezza il ciondolo, lasciandovi serpeggiare sopra il caucciù. Parve riflettere un momento su qualcos’altro. «Non ho ucciso nessuno, per quello. Sarebbe un grave errore costruire una trappola per incubi gravida di orrore, sarebbe esattamente l’opposto di ciò che ci si augura. Le piume sono state smarrite; ma per molti notti hanno accompagnato la caccia dei loro proprietari, e di giorno ne hanno cullato il sonno. I rapaci notturni, che dormono di giorno, sognano solo alla luce del sole, mentre con gli incubi notturni ci hanno a che fare con molta dimestichevolezza, visto che sono ben svegli quando li incontrano, e per giunta in caccia.». Zoal sorrise, con amorevolezza «Così… ritengo che abbia il suo valore.» concluse.

Andrea se lo legò al collo, lo toccò brevemente, con delicatezza, e poi lo infilò sotto gli strati di maglietta e maglione, celandolo. «Ne sono sicura.» disse, con un serio sorriso, guardando dritto dritto negli occhi verdi, stavolta per affermare lei qualcosa a loro.

 

 

Note dello scribacchiatore: come spero si sia intuito, la seconda parte di questo capitolo è un vero e proprio flash-back, anche se di poche ore. Nei prossimi capitoli compariranno a volte alcuni flashbacks, di periodi anche più lunghi. Dovrebbe sempre risultare intuibile (per via delle scene descritte), quando si tratta di un flashback. E, dal momento che apprezzo molto il rendersene conto leggendolo, non offrirò specifici simboli per indicare che quello che sta iniziando è un flashback. Tranne qui (ho usato un segno diverso per lo stacco tra le due parti), che mi sembrava logico specificarlo. Così, vado a sentore. Spero non risulti problematico. Mi direte poi, eventualmente.

Ritorna all'indice


Capitolo 52
*** 50 - ATTENZIONE A RADICI E CECCHINI ***


Capitolo 50

(ATTENZIONE A RADICI E CECCHINI)

 

Un forte rumore lacerò di colpo i ricordi di Andrea, risuonando prepotentemente nel bosco, in lontananza. Danny frenò di botto, e la ragazza quasi perse l’equilibrio, rischiando di capriolare in avanti sopra la testa del lupo e di cadere per terra. Ma l’improvvisa guardia alta suscitatale dal rumore dello sparo le aveva subito allertato i riflessi, e riuscì in qualche modo a rimanere in groppa al lupo; l’animale stava già fiutando l’aria e cercando di catturare suoni, il muso fremente in alto e le orecchie ritte e mobili.

«Cosa… cos’è stato?» domandò istintivamente Andrea, prima di ricordarsi che Danny, nella forma in cui si trovava, non poteva certamente comunicare a parole. Nonostante questo, comprese cosa voleva dirle quando accennò a sdraiarsi per terra: era ora di scendere. Andrea scavalcò la sua schiena e con gratitudine si ritrovò con i piedi per terra. Porse il pacco di vestiti al lupo, in modo tale che potesse prenderlo tra i denti come un fagotto, senza perdere niente per strada mentre trotterellava via trasportandolo.

Lei aspettò, con pazienza. Lo sparo era lontano, e quindi non le faceva paura. E se qualche altro demone fosse saltato fuori per attaccare, lei era certa che Danny fosse abbastanza vicino per accorrere fulmineamente.

«Buonasera, signorina.»

Andrea si voltò di scatto, tutti i peli del corpo ritti, elettrificati dalla paura: e non vide nessuno; iniziò ad avere un brutto presentimento. Continuò a girarsi intorno a trecentosessanta gradi, con una lentezza rigida di timore e precauzione, frugando con gli occhi: ma ancora non vedeva anima viva.

«Oh, non si spaventi. Non ho intenzione di farle alcun male. Certo, comprendo che forse la mia introduzione è stata maleducata. Di questo mi scuso. Ad ogni buon conto: sono qui, proprio di fianco a lei.»

Andrea guardò con fissità ottusa un tronco. Cautamente, ci girò attorno, ma non trovò niente. «Qui… ‘qui’ dove…?» domandò, esitante. Se solo fosse riuscita a temporeggiare finché non fosse tornato Danny, allora…

«Beh…» tentennò la voce «Mi ha appena fatto un giro completo intorno, signorina…» spiegò la voce, sentendosi in imbarazzo per lei.

Andrea alzò di scatto la testa verso l’alto, e si ritrovò a fissare niente più che la chioma dell’albero. «Sei nascosto lassù?» chiese. «Allora, vieni fuori, no? È piuttosto stupido parlarmi standotene nascosto.» Davvero, non aveva idea da che cosa le scaturisse tanta faccia tosta; non era sicura di voler scoprire la sagoma, probabilmente mostruosa, di chi le stava parlando, con quel tono così garbato che doveva essere un tentativo di ingannarla. Ma vedere bene cosa stava per affrontare probabilmente le sarebbe risultato meno inquietante che non vederlo. Almeno lo sperava.

«Ma sono proprio davanti a lei, signorina. Oh, capisco. Forse lei non è abituata a dialogare con gente come noi. Non si preoccupi, allora… In ogni caso, le sarei molto grato se potesse scendere dalla mia radice… sa com’è… con l’umidità la corteccia diventa un po’ morbida, e rischiamo di sbucciarci più facilmente del solito…»

Andrea spiccò praticamente un balzo, e si spostò in fretta e furia dalla radice su cui aveva un piede. Subito dopo, si concesse di essere impazzita. Stava parlando con… quello che sembrava… ma che non poteva essere… giusto…?

«Sei… sei un albero?» riuscì a dire, con voce particolarmente stentorea, che le uscì a fatica.

L’albero rise leggermente, con quel fare piuttosto accondiscendente e un po’ formale che ci si potrebbe aspettare da un anziano lord che trova potenzialmente divertente uno scherzo da humor inglese, pronunciato con immotivato orgoglio al di sopra di un tè delle cinque con pasticcini e abiti eleganti, in un salotto con un  che di nostalgicamente vittoriano nell’arredamento.

«Oh, mia cara, per l’amor del cielo, no.» le rispose l’albero. «La mia storia è un poco più complessa…»

«Allora, al massimo potresti fare un riassunto veloce, perché abbiamo una fretta del diavolo.»

Andrea, che stava studiando la corteccia del tronco e la chioma, cercando di capire dove fosse il trucco che faceva apparire come se la voce uscisse proprio dalla pianta, si voltò repentinamente udendo quel commento deciso, e si ritrovò a fissare Danny. Il ragazzo, che tornava verso di lei camminando  ad ampie falcate, si stava giusto finendo di infilare il giubbotto sulla schiena del quale era cucita la toppa col simbolo delle picche; aveva già la cintura con le cartucce assicurata saldamente alla vita, e una delle pistole visibile, infilata nella custodia assicurata alla stessa cintura.

Lei si sentì estremamente sollevata; forse Danny poteva spiegarle perché, contro tutte le possibilità del mondo, quell’albero stesse parlando. E, per prima cosa, il fatto che avesse risposto alla voce significava che non la stava sentendo solo lei: un gran bel segno.

«Ohhh… » mormorò l’albero, ammirato «Salve, lei è un lupo mannaro, vero? Molto grazioso, sì. L’avevo notata prima. Spero solo che non appartenga a qualche gang di balordi… Non se la prenda, sa? Ma con quel vestiario… è soprattutto per via della giacca con quella toppa che l’ho pensato.»

«Senti, alberello, non è che hai visto qualcosa di strano da queste parti, ultimamente, eh?» domandò Danny, con aria accattivante e allo stesso tempo lievemente minacciosa.

«Oh.» l’albero sembrava esserci rimasto male; mai quanto c’era rimasta male Andrea, nel rendersi conto che stava diventando stranamente normale, ora, parlare con un albero. Iniziava a considerare con preoccupazione il fatto che si trovassero immersi in un bosco pieno di alberi. E se si fossero messi a parlare tutti insieme? O a cantare? Potevano essere terribilmente stonati. Ok; forse stava iniziando a dare di matto per lo shock.

«Come stavo spiegando alla sua gentile signora, non sono certo un albero. Oh oh oh… » ridacchiò l’albero, con superiorità benevola «…certo che no. Altrimenti non potremmo stare avendo questa conversazione…»

«Giusto!» concordò energicamente Andrea.

Danny le rivolse una fugace occhiata incuriosita, poi tornò a rivolgersi alla voce dell’albero. «E allora cosa sei? In breve!» ammonì.

«Vedete, la mia triste storia inizia molti anni or sono. Più precisamente… » trascorse qualche secondo di silenzioso rimuginare «…oh… per dirindindina… non rimembro, ahimé.» mormorò sconsolato l’albero.

«Sembra molto tempo, in ogni caso.» osservò Danny, riferendosi allo stile delle espressioni linguistiche usate dalla pianta «Ti ripeto, se non riassumi molto stringato, non perderemo un attimo di più qui. Non abbiamo tempo!»

«Certamente, certamente. Vi prego, non angustiatevi. Sarò breve.» si affrettò a promettere la voce «Dunque, in breve… ero un gentiluomo che aveva tutto ciò che un uomo può desiderare nella sua vita: una moglie devota, tre figli splendidi e rispettosi, una casa in un tranquillo quartiere, un onesto lavoro all’ufficio pubblico, e una vita per bene. Sapete, ‘l’angelo di Dio bacia in fronte gli uomini savi e onesti, e li tiene in gran cura’.»

«Cos’è? La bibbia?» domandò Danny, annoiato.

La voce apparve orrorificata. «Oh, no. Ma il nostro predicatore, padre O’Neill, che il Signore l’abbia in gloria, amava dire questa frase accomiatandosi a fine messa.»

«Credevo di averti chiesto più volte di essere breve.» ripeté Danny, il quale appariva sul punto di gettare la spugna.

«Ebbene, come dicevo, tutto ciò che un uomo possa desiderare nella propria vita, quello Dio me l’aveva donato. Ma un giorno, accadde l’impensabile.»

«Iniziasti a pensare con la tua testa? O ti sei accorto di essere un morto ambulante?» domandò Danny, poco impressionato.

«No.» negò l’albero, senza apparentemente cogliere il senso delle parole del ragazzo, immerso com’era nella rievocazione della propria vicenda. «Un giorno, la sorella della mia amata Elizabeth, che il Signore abbia cura di lei, venne a farci visita.»

«Perché il novanta per cento delle donne inglesi nell’ottocento si chiamavano Elizabeth?» domandò Danny, rivolgendosi ad Andrea. «Doveva essere un gran casino, specie nelle classi scolastiche o nei luoghi pubblici.»

«Le donne non andavano a scuola. Elizabeth… ci sono state diverse regine che si sono chiamate così…» tentò di spiegare Andrea, sebbene la sua voce suonasse distratta, e lei continuasse a fissare l’albero parlante con uno sguardo particolarmente spiritato.

«Oh, già.» commentò Danny, considerando con preoccupazione l’espressione di lei. «Va tutto bene?»

«Sì. Forse. Non saprei. Gli alberi parlano spesso da queste parti?» domandò la voce di Andrea, impegnata nel non incrinarsi; le uscì comunque di gola fragile come cristallo.

«A dir la verità è la prima volta che ne sento uno.» concesse Danny «Comunque, lui pensa di non essere un albero.»

«Oh, beh… pensa che io ero convinta che gli alberi non potessero parlare. In nessun caso. Tranne agli schizofrenici forse.» osservò la ragazza, con correttezza.

«Ha-hem.» si schiarì cortesemente la voce l’albero.

«Oh, sì, scusa. Dicevi? A proposito di tua… tua… la sorella di tua moglie, insomma?» e Danny si voltò di nuovo verso l’albero, pur premurandosi di stringere una presa gentile con la mano intorno ad un braccio di Andrea.

«La sorella di mia moglie era una persona orribile. Ed era una strega.»

«Ahan. E quindi?» sollecitò Danny, impaziente.

All’albero sembrò evidente che il suo interlocutore non aveva colto per niente la pausa ad effetto che aveva appena fatto. «No. Una vera strega, una vera e propria strega. Una con i poteri magici, una sposa del Demonio, un’anima dannata, una donna che non solo non si pentì del tremendo errore che Eva fece col serpente ma che proprio nella ripetizione continua e disprezzante di quell’errore…»

«Hey!» urlò Andrea. Danny sussultò e la guardò, e dal suo sguardo inviperito comprese che stava per iniziare una diatriba infuocata sull’argomento ‘donne’. Vedeva già dove avrebbe portato: da nessuna parte.

«E’ stata lei a trasformarti così?» si affrettò quindi a chiedere Danny.

L’albero sospirò dolorosamente. «Disgraziatamente sì.»

Sul viso di Andrea spuntò un sorrisetto soddisfatto e vittorioso. Poi, sembrò realizzare qualcosa di punto in bianco. «Aspetta un attimo! Quindi tu non sei un albero! Cioè, non un vero e proprio albero. Se un uomo trasformato in albero!»

Danny pensò che se un albero potesse avere delle sopracciglia, quelle del loro interlocutore in quel momento sarebbero state molto incurvate verso l’alto.

«Proprio così, milady. Come vi ho detto fin dall’inizio.»

«E perché ti ha trasformato in quel modo?» domandò Andrea, incrociando le braccia sul petto e poggiando il peso su una sola anca, con l’aria di chi si vuole godere qualcosa fino in fondo.

«Come dicevo!» interruppe Danny ad alta voce «Noi abbiamo fretta! È risuonato uno sparo, poco fa, e…»

«Oh, dev’essere stato quel tipo che è passato di qui un po’ di tempo fa.» disse l’albero.

Danny trasecolò. «Quale tipo?»

«Dunque… doveva essere alto pressappoco un metro e settantuno. Forse un metro e settantadue, a dirla tutta. Sapete, guardando le cose dall’alto è un po’ più arduo riuscire a farsi un’idea di…»

«Sembrava un tizio furtivo, era armato, e stava seguendo qualcuno?» domandò a raffica Danny.

«Hum… sì, era furtivo. Non è buon costume sparlare così di qualcuno, certo, ma vedete, devo proprio notificare che aveva un aspetto molto poco raccomandabile. Sì, credo che stesse seguendo le tracce di quei signori che sono passati poco prima di lui… avevano anche un cagnetto con loro… e avevo iniziato un’interessante conversazione, anche se… »

Andrea smise di ascoltare l’albero, mentre guardava l’espressione grave di Danny. Non sembrava particolarmente sorpreso, e lei capì che non aveva proceduto casualmente fino a quel momento. Aveva seguito una pista di odori. Ma sentire quello sparo doveva averlo convinto a riprendere la sua forma umana alla svelta; ovvero, la forma che gli permetteva di utilizzare le sue pistole.

«Comunque, anche voi sembrate brave persone.» proseguì l’albero «Sapete, è un vero piacere poter scambiare due parole con qualcuno. Non è un’occasione che mi capita di sovente, come potete immaginare. Oh, con questo non voglio dire che questi alberi non siano interessanti, a loro modo. È solo che ho impiegato molti, molti anni per poter iniziare a comprendere un po’ del loro linguaggio, e molte cose ancora mi sfuggono. Inoltre, temo di avere un pessimo accento, perché quando provo a dire qualcosa non mi rispondono, come se non mi capissero affatto, o come se non mi sentissero.»

Danny e Andrea pensarono bene di non avanzare nessun commento a quest’ultima cosa.

«Ma voi sembrate delle persone per bene, voglio dire, non ho mai visto un lupo mannaro prima d’ora, ma lei sembra gentile, nonostante quel suo vestiario. La sua signora è molto graziosa. Siete sposati, nevvero?»

«Assolutamente no!»

«Diavolo, no!»

Mentre l’albero inorridiva, Danny e Andrea si scambiarono un breve sguardo, dopo aver esclamato la risposta nello stesso momento. E si sorrisero, in una specie di dolce e reciproca comprensione.

«Ma… volete dire… che… ?» tentennò l’albero.

«Ora sarà meglio che andiamo.» concluse Danny, incupendosi in volto.

Andrea annuì, e lo seguì nell’addentrarsi tra gli alberi, verso la direzione da cui proveniva lo sparo.

«Oh, aspettate… posso capire che dovete avere avuto delle difficoltà, figlioli, per via della sua natura, signore, ma non per questo dovete arrendervi… una fuga non è la soluzione, anzi, manderà in rovina voi e le vostre famiglie… Aspettate, potrei esservi d’aiuto in qualche modo, e… » per un momento l’albero si rese conto di che cosa stava effettivamente dicendo, ripassò sul fatto che al momento era impedito a qualsiasi movimento a causa del suo essere a tutti gli effetti un albero, e tentennò. «Almeno con un consiglio!» tentò disperatamente.

Fu l’ultima cosa che udirono i due ragazzi, ormai lontani, mentre praticamente procedevano di corsa, sperando vivamente di non essere lontani dalla fonte dello sparo.

 

*

***

*

 

‘Mantenere la calma’, ecco quello che era diventato un ritornello quasi ossessivo nella mente di Valentine, mentre si teneva nascosta dietro il tronco di un albero, ricontrollando ogni pochi secondi che nessuna parte del suo corpo sporgesse fuori dal riparo. Allo stesso tempo, tentava di ascoltare attentamente, nel caso fosse stata capace di percepire qualche rumore insolito. E ogni due secondi lanciava occhiate ansiose agli alberi sparsi davanti e di fianco a lei, per cogliere l’immagine di Ramo, nascosto dietro un altro tronco a qualche metro di distanza.

Yuta non riusciva a vederla, ma era certa che doveva essere nascosta da qualche parte nei dintorni.

Il piano si poteva dire riuscito, persino troppo bene forse.

Valentine sapeva, fin da quando era iniziata quella notte, quale era il ruolo suo, così come quello di Yuta e di Ramo: un’esca. Avevano pensato, mettendo insieme idee, ragionamenti, timori, valutazioni e critiche varie, che il loro ‘angelo custode’ doveva essere attirato allo scoperto, e che non potevano farlo nello stesso posto e momento in cui si sarebbero trovati ad affrontare chi aveva ordito tutto quello. Dovevano occuparsene su due piani diversi.

Quattro gruppi, e due diversi obbiettivi. Kumals, Zoal, Danza e Mama avrebbero puntato direttamente sulla casa celata nella boscaglia che supponevano fosse il quartier generale di cosa stava accadendo. Il cecchino li avrebbe lasciati perdere, considerando i due cani in grado di poter rilevare il suo odore e di attaccare, oltre a due persone che, se come supponevano aveva a disposizione abbastanza informazioni su di loro, sapeva non essere sguarnite di capacità combattive affatto alle prime armi come esperienza. Uther e Justin li avrebbero raggiunti poco dopo, in supporto. Il cecchino li avrebbe lasciati perdere perché, considerando il fucile di Uther, li avrebbe considerati scomodi da attaccare, ma allo stesso tempo insignificanti.

Poi loro: Yuta, Ramo, Duca e lei. Un cagnetto piccolo, una ragazza totalmente sguarnita di armi e poteri vari, uno armato di una mazza di legno, e, forse l’unico lato dolente – e tagliente – :Yuta con i suoi due cerchi da utilizzare come arma. Scartando il gruppo costituito da Danny e Andrea, perché un lupo mannaro era un po’ troppo, considerando specialmente che avrebbe dovuto attaccarlo nel suo ambiente naturale - un bosco - tutti loro si aspettavano che il loro ‘angelo custode’ avrebbe puntato sul gruppo capitaneggiato da Yuta. E non avevano avuto torto. Era in qualche modo strano sperare nell’essere efficaci come esca, e Valentine se ne rendeva conto ora come non mai. Strinse i denti e le labbra, nervosamente; il cuore le correva rapido in gola, quasi rendendole faticoso respirare.

Quando la voce li aveva apostrofati, intimando loro di fermarsi lì dove si trovavano, mentre erano sul termine di una piccola radura che avevano appena attraversato con tensione palpabile, sapevano già da un po’ di essere seguiti; a segnalarlo era stato l’atteggiamento nervoso di Duca, che, pur avendo fiutato la traccia, aveva ubbidito a Yuta, che gli ordinava di continuare a camminare con loro. Il cecchino era così sicuro di sé che, seguendoli, non si era nemmeno preoccupato di mettersi sotto-vento, per impedire che Duca lo sentisse. Questo particolare aveva reso Valentine molto vicina alla pura paura, ma Yuta sembrava così decisa del fatto suo. E ora si chiedeva se non si fosse sforzata di apparire in quel modo solo per impedire a lei e Ramo di innervosirsi ancora di più.

Però, era anche vero che, appena avevano sentito la voce ordinare loro ‘Fermi dove siete.’, con freddezza soddisfatta, Yuta aveva reagito con la prontezza e la rapidità di un lampo. Aveva gridato loro di mettersi al riparo, nello stesso istante in cui si voltava e scagliava con forza uno dei due cerchi con lama, dopo aver preso la mira in un frammento di secondo. Frammento di secondo insufficiente, era da ammettere. Il cerchio aveva vorticato nell’aria con la precisione di un frisbee lanciato con perizia omicida, ma all’uomo fermo almeno una cinquantina di metri dietro di loro era bastato spostarsi un poco di lato, ed in ogni caso la traiettoria non era abbastanza precisa da colpirlo: il cerchio si era andato a piantare in un tronco dietro di lui.

Anche se Valentine - già rifugiatasi dietro il tronco dell’albero che occupava anche in questo momento, dopo aver afferrato rapidamente Duca per portarlo con sé -  non aveva potuto vederlo, il cecchino aveva lanciato un lungo sguardo incuriosito a quel singolare tipo di arma. Aveva considerato con ammirazione il fatto che la lama si fosse piantata nella corteccia molto dura per due buoni terzi. Poi era tornato a guardare verso i suoi obbiettivi, ben sapendo che già non erano più in vista, tutti nascosti da qualche parte dietro i tronchi. E allora, con molta calma, aveva iniziato a considerare quale di loro sarebbe stato meglio eliminare per primo, e poi chi l’avrebbe seguito.

I suoi occhi videro immediatamente, dopo molto minuti di completo silenzio e immobilità, un movimento: avvenne in contemporanea al fatto che aveva iniziato a muovere lenti passi verso il punto in cui riteneva più probabile si fossero nascosti. Alzò la pistola, moderna, precisa, infallibile, che impugnava, e sparò proprio in quel punto; era abbastanza sicuro di averlo mancato, e se ne sentì piuttosto infastidito. Intanto l’oggetto che il braccio che si era sporto aveva lanciato nella sua direzione stava cadendo verso il suolo: quando atterrò rimbalzò un paio di volte, poi, quasi subito, iniziò a sibilare, e fu inghiottito da una possente nuvola di fumo che eruttò fuori, spandendosi rapidamente. Non era un fumogeno, considerò il cecchino, rinunciando al gesto con cui aveva accennato a portarsi un lembo di tessuto che teneva al collo sulla parte posteriore del viso; se fosse stato un fumogeno, aveva anche un paio di occhiali specifici in tasca, ma non sarebbero stati necessari. Tutto quello che le sue vittime potevano tirar fuori, a quanto pareva, era uno scarso effetto pirotecnico, una piccola bomba che produceva una nebbia biancastra, non tanto ampia.

Il cecchino sorrise, divertito, e iniziò a spostarsi ad ampi passi, quel tanto che gli sarebbe bastato per evitare la nuvola ed avere la visuale comunque libera.

Ramo imprecò tra sé e sé: in quell’imprecazione era contenuta l’irritazione nel constatare che il suo piccolo stratagemma non sarebbe valso a molto, e il sollievo nello scoprire che il colpo del cecchino gli aveva mancato il braccio, anche se di poco. Indagò con le dita il tessuto lacerato della giacca che indossava, e si ritrovò in una di quelle situazioni un po’ grottesche in cui ringraziare solo la fortuna sembra stranamente un po’ insufficiente. Ma c’è sempre il caso: il prezioso caso.

Fece un cenno in direzione di Valentine, che vedeva, nascosta non molto lontano, per segnalarle che andava tutto bene, che non era ferito. La ragazza sembrò particolarmente sollevata. Ramo si voltò dall’altra parte, cercando per l’ennesima volta con lo sguardo Yuta; era quasi certo di averla intravista nascondersi dietro un certo albero, ma non riusciva a vederla. Si spostò un poco, e cercò di spiare appena oltre la curva del tronco dell’albero, per individuare la posizione che aveva guadagnato il cecchino.

Se le sue supposizioni erano esatte, Yuta si era nascosta in modo tale da cercare di sorprenderlo, con un agguato abbastanza ravvicinato da impedirgli di spararle, per ingaggiare subito uno scontro fisico, in cui lei, sebbene le fosse rimasto solo uno dei suoi cerchi con lama, poteva avere indubbiamente la meglio. Ma quel cecchino non era del tutto stupido. Sapendo di essere l’unico ad avere delle armi da fuoco, si manteneva in mezzo alla piccola radura, allo scoperto: per avvicinarglisi avrebbero dovuto uscire allo scoperto degli alberi, e lui avrebbe potuto colpirli in maniera ridicolmente facile. Tutto ciò che Ramo poteva fare, dunque, era continuare a lanciare una ad una quelle piccole bombe di fumo che aveva con sé, e non erano molte. Sperava di riuscire a produrre abbastanza fumo, se non da permettere a Yuta di avvicinarsi al cecchino senza essere colpita, almeno per prendere tempo, impedendogli di avvicinarsi ai loro nascondigli, costringendoli ad allontanarsi saltando da tronco a tronco, di riparo in riparo: anche in quel caso avrebbero offerto un bersaglio abbastanza semplice.

Prendere tempo, ecco tutto quello che occorreva loro. Danny doveva aver sentito lo sparo. E doveva essere sulle loro tracce. Mentre loro tenevano occupato il cecchino in qualche maniera, cercando come meglio possibile di non farsi colpire, Danny gli sarebbe piombato alle spalle, e fine.

Forse potevano anche cercare di congegnare un piano migliore… vero. Ma a nessuno di loro era venuto in mente qualcosa di meglio.

Ramo prese un respiro profondo, e di scatto si sporse dal tronco solo col braccio per lanciare un'altra di quelle bombette. Anche se sperava di no, in effetti la pistola del cecchino era già puntata quasi sul punto in cui lui era nascosto, con ancora un certo margine di errore; ma dal momento che i suoi occhi erano intenti al minimo movimento, ora individuarono con precisione l’albero dietro cui si nascondeva Ramo. Ignorando la bombetta che iniziava a tracciare la parabola a mezz’aria, il cecchino stava già premendo il grilletto, stavolta puntando con precisione sul braccio sporto, ma qualcosa uscì dal folto di alberi a velocità incredibile, diretto verso di lui. L’uomo dovette scansarsi abbastanza prontamente da evitare un altro cerchio con lama rotante, che lo mancò di poco, e il colpo che aveva esploso, a causa del suo scatto, mancò di una generosa distanza il braccio di Ramo.

Anche se doveva ammettere di essere stato colto di sorpresa, a farlo era stata la stupidità delle sue vittime, considerò il cecchino, mentre con alcuni passi si spostava dalla nuova nuvola di innocuo fumo.

«Brutta mossa, signorina Yuta.» disse a voce alta, per farsi chiaramente udire. «Temo proprio che lei abbia esaurito i suoi cerchi… »

E, soprattutto, considerò il cecchino con un sorrisetto di commiserazione, la ragazza era rimasta senza armi solo per salvaguardare un braccio del suo collega. Un braccio. Chissà che avrebbe fatto se fosse stata a repentaglio l’intera vita dell’altro. Ad ogni modo, si deliziò l’uomo tra sé e sé, ben presto lo avrebbe scoperto. E con perfetta calma riprese ad avvicinarsi agli alberi dietro i quali, lo sapeva, si nascondevano, da qualche parte, le sue prossime vittime. Uno, il nascondiglio del ragazzo, era già stato individuato con precisione. Dunque, lui sarebbe stato il primo. Si rammaricava di non aver potuto individuare con sufficiente precisione anche il punto da cui era partito il cerchio con lama; ma questo particolare non lo preoccupava eccessivamente.

Erano tutti lì davanti a lui, e ben presto, uno alla volta, senza fretta, se li sarebbe lasciati dietro le spalle. Poi si sarebbe dedicato anche agli altri. Certamente avevano rallentato il suo lavoro, separandosi a quel modo. Ma, dopotutto, avevano anche diminuito di molto la loro forza complessiva; al punto da ridursi a farlo semplicemente giocare al tiro a segno, praticamente, com’era in quel caso.

Non aveva fretta; la notte era ancora lunga.

 

 

 

 

Note dello scribacchiatore: lo so, sono in ritardo. Abbiate pazienza. Non son riuscito prima.

 

Ritorna all'indice


Capitolo 53
*** 51 - TEMPESTA NELLA STANZA DEI BOTTONI - I parte ***


Capitolo 51

(TEMPESTA NELLA STANZA DEI BOTTONI – parte I)

 

Intorno all’edificio immerso nella boscaglia, lo schieramento delle persone prive di coscienza di sé pareva una sorta di crociata di pezzenti che fosse rimasta incantata nella visione di qualche specie d’apparizione celeste, e che tuttavia non se ne rendesse conto; però l’appariscente lo notavano.

Quando un rumorino iniziò ad udirsi tra gli alberi, l’attenzione di tutti si calamitò immediatamente in quel punto; l’istante dopo, un cane dall’aria spensierata trotterellò fuori dal folto della vegetazione, producendo un suono allegramente scampanellante. Ciò era sicuramente dovuto al fatto che portava un campanellino dorato appeso al collo. Ma l’esercito di persone ridotte in una sorta di coma vigile non si soffermò nemmeno per un istante su questo particolare. Quasi tutti si gettarono immediatamente in avanti, verso il cane  col campanellino, con la prontezza di un meccanismo automatico che scatta in risposta all’aver pigiato un bottone o piegato una leva dalla parte giusta.

Danza schizzò immediatamente in un trotterellare molto più sostenuto, e si lasciò inseguire da una schiera impressionantemente numerosa di persone che non desideravano null’altro che metterle le mani addosso, apparentemente senza che ciò la turbasse così tanto. Poco prima che si inoltrasse nel bosco, da un folto di cespugli un secondo cane uscì allo scoperto. Mama si erse in tutta la sua potenza muscolosa e di grandi dimensioni, troneggiando sulle tre zampe, ed emise un potente latrato.

L’attenzione  di almeno due terzi del gruppone scomposto si focalizzò su di lei, mentre Danza proseguiva tranquillamente sulla sua strada, trotterellando dentro la boscaglia. La folta mandria di persone inebetite si trovò così davanti ad un notevole dilemma: alla fine, parte di loro decise di seguire lo scampanellio trotterellante di Danza, mentre i restanti si misero alle costole di Mama, che aveva preso ad allontanarsi di buona lena. Questo produsse un caos indescrivibile. Le persone cozzarono le une contro le altre, si inciamparono addosso e in loro stesse, caddero più volte, vennero mezze pestate, si rialzarono come se nulla fosse accaduto e ripresero l’inseguimento dell’obbiettivo che avevano scelto, o forse dell’altro, difficile stabilirlo. Dopo diversi minuti di quel ribollire di persone prive di ogni senno eppure spinte in avanti da una volontà indomita, cosa che le rendeva simili a una moltitudine di altri gruppi di persone che avevano avuto parti più o meno determinanti nella Storia – e in una ben più nutrita schiera di ‘storie’ senza alcuna maiuscola – prima di loro, il gruppone si divise pressappoco in due gruppi, che inseguirono l’uno Mama e l’altro Danza; una parte si inoltrò nella boscaglia con uno di questi stessi propositi, ma prendendo direzioni completamente sbagliate.

Tra il fittume della bassa vegetazione, in un punto diverso della boscaglia, si sarebbe potuto sentire, se si fosse stati dotati di un udito molto sviluppato, un gemente sospiro di sollievo parecchio auto-incredulo.

«Ha… ha funzionato… » mormorò Justin; spiò il viso di Kumals, che aveva assistito alla scena nascosto di fianco a lui, e vi trovò un’espressione ancora molto preoccupata. «Ha funzionato, no?»

«Troppo semplice…» commentò l’uomo, con aria truce.

«A me non sembra affatto così semplice…» lamentò Justin, guardando ancora verso l’edificio «Ci sono ancora tutti quelli lì.»

Non tutte le persone radunate là fuori avevano seguito i due cani, in effetti. Una fila che si chiudeva a perimetro protettivo intorno all’edificio, oltre a tutto il gruppo che affiancava ordinatamente schierato il tappeto rosso di benvenuto, non si erano mossi, non avevano battuto ciglio.

Justin udì la voce di Zoal, accanto all’altro suo fianco. «Loro non sono attirati da suoni e rumori, a differenza di tutti gli altri che se ne sono andati.» osservò. I suoi occhi si assottigliarono. «Sono stati diversificati. Il metodo che stanno usando ha già almeno questa raffinazione; è in grado di impartire loro una immobilità assoluta.»

«Questo vuol dire che non sono pericolosi…? Che non fanno altro che starsene lì immobili come statue?» domandò speranzoso Justin.

«Non lo so.» ammise Zoal. «In ogni caso, lo scopriremo.» e così dicendo si alzò in piedi, abbandonando la sua posizione nascosta.

Justin si sentì sul punto di svenire di nuovo. «Cosa… cosa fai?» esclamò con voce strozzata dal terrore. In quella si sentì afferrare da una presa micidiale al collo della giacca e dei vestiti. Kumals si alzò in piedi, come Zoal, e trascinò in piedi anche lui a viva forza.

«Qual è il piano? Qual è?!» domandò Justin con urgenza, mentre i due iniziavano a camminare allo scoperto della boscaglia, verso l’ingresso dell’edificio, con Kumals che se lo trascinava dietro impietosamente.

«Stacci vicino, Justin, e faremo in modo che non ti accada niente di male.» affermò Zoal, con il tono di chi non vuole e non pensa che avrà occasione di ripeterlo ancora.

I tre si avvicinarono ancora all’edificio, dirigendosi a grandi passi verso l’ingresso, adorno del lungo tappeto rosso. Nessuno di quelli ancora schierati intorno all’edificio, o ai lati del tappeto rosso, diede alcun segno di vita; non spostarono lo sguardo, né li degnarono della benché minima attenzione, come se non esistessero.

«Fai una cosa, Justin…» sussurrò Kumals, senza staccare lo sguardo fisso sull’ingresso, dando l’impressione di essere più vigile, attento e in tensione che mai. Justin gli dedicò tutta la sua attenzione, disperatamente. «Vedi se ti riesce di riconoscere il Conte, in qualcuno di loro.»

Furono le ultime parole che si sentì rivolgere, prima che entrambi i suoi compagni di (s)ventura sprofondassero di nuovo in un completo silenzio, rotto solo dal ritmico battere del bastone di Zoal, e dal rumore dei loro passi – quelli di Justin molto forzati e praticamente strascicati, per via del fatto che le sue gambe continuavano a tendere in direzione opposta rispetto a quella in cui Kumals continuava a sospingerlo con forza decisa.

Di lì a poco stavano camminando sul tappeto rosso, che attutì di molto anche quei soli rumori rimasti; procedettero in mezzo alle due file schierate delle persone immobili e insensibili a qualsiasi stimolo. Era da notare che trovarsi circondati da quelle file silenti e immote era come immergersi in acque profonde, con la certezza che da qualche parte si muova un buon numero di squali.

Camminarono ancora, senza che accadesse nulla, che niente si muovesse, avvicinandosi sempre più all’ingresso, al grande portone spalancato, e così intensamente illuminato che era impossibile distinguere bene cosa ci fosse al suo interno. Proprio allora una sagoma si profilò poco a poco sulla soglia. Una sagoma umana, che si delineava maggiormente mano a mano che si faceva loro incontro. Si fermò pochi passi fuori dal portone, e lì rimase ad attenderli, con composta pazienza.

Nel vederla, però, Kumals e Zoal avevano rallentato, e si erano infine fermati.

Anche Justin fissava la sagoma con attenzione. Infine, con voce incerta, chiamò «Kumals…

«Sì?» rispose quello, degnandolo solo di una parziale attenzione.

«… L’ho trovato…» disse.

«Grazie, Justin.» rispose Kumals, meccanicamente, e senza ombra di gratitudine.

Come quelli di Zoal, i suoi occhi erano fissi sulla figura che li aspettava; una figura abbastanza difficilmente mal riconoscibile, con quella pelle pallidissima, il naso piuttosto adunco, le labbra sottili e serie, i capelli neri e mossi quasi in boccoli che gli ricadevano pesantemente sulle spalle, terminando poco oltre. Gli abiti, che erano stati molto eleganti, scuri, lunghi e dallo stile ricercato eppure semplice, con un che da cerimoniale dark, erano sbrindellati e malridotti come quelli delle persone annichilite che li circondavano, disposte nelle loro rettilinee file accanto al tappeto.

«Mi duole dirlo, ma credo che a questo punto sarà difficile evitare uno scontro serio…» mormorò Zoal.

«Non credo sarà necessario.» osservò Kumals. Zoal lo sbirciò appena, incuriosita.

All’uomo non era sfuggito quel gesto: nel fermarsi dove si trovava ora, la sagoma aveva portato una mano a sistemarsi meglio lo strascico semistracciato in cui era ridotto l’abito lungo che indossava; inoltre, poco dopo, aveva mosso leggermente il capo, per spostarsi un po’ i capelli da un lato del viso.

«Buonasera, Conte. Felice di rivederla.» disse Kumals. Zoal tornò a guardare meglio la sagoma, e allora anche lei capì. Gli occhi del Conte erano immersi in uno sguardo impersonale e distante, certo; ma non erano nemmeno lontanamente così imbambolati e vitrei come quelli delle persone che li circondavano.

«Signor Kumals.» rispose il Conte. «Anch’io sono considerevolmente felice di reincontrarla, sebbene le tristi circostanze di questo incontro non siano proprio all’altezza di ciò che mi auguravo.»

Kumals si voltò per un momento verso Zoal. «Zoal, il Conte.» Tornò a voltarsi verso il Conte. «Conte, Zoal.» concluse le presentazioni.

«Sono lieto di fare la sua conoscenza, signorina. Anche se, come accennavo poc’anzi, queste circostanze sono infauste ad ogni buon proposito di poter condurre una conversazione…»

«Conte.» lo interruppe Kumals. «Sono abbastanza certo che tu sia arrivato qui in condizioni molto diverse da come sei ora. Che cosa è successo da allora? E cosa ci fai qui, con quel libro in mano?»

Il Conte fissò l’oggetto «Oh, niente, questo è solo uno scritto di moderato interesse con cui mi stavo intrattenendo in vostra attesa. Più precisamente, sembra che io sia stato scelto per accogliervi in questa dimora, e introdurvi alla presenza del suo proprietario.»

«Logico. Chissà come ho fatto a non pensarci…» borbottò Kumals tra i denti.

«La prego di non sospettare per questo che io sia in qualche rapporto amichevole o complice con quell’uomo, signor Kumals. Capisco che la situazione in cui mi sono trovato mio malgrado coinvolto possa apparire odiosamente ingannevole. Ma, vede, mi è stata fatta un’offerta che non ho potuto rifiutare, in cambio di questi semplici servigi.»

«Ovvero?» domandò Kumals, in tono glaciale.

Il Conte si schiarì la gola, portandosi educatamente una mano chiusa a pugno davanti alla bocca, denotando così un certo pallido nervosismo. «Il mio mantenimento in vita.» spiegò.

Di colpo la rabbia e il senso di tradimento abbandonarono Kumals. «Oh.». Davvero, per essere un ostaggio il Conte manteneva una compostezza ammirevole, dovette riconoscere tra sé e sé.

«Che cosa dovrebbe accadere, ora?» domandò Zoal, mortalmente seria.

«Oh, per quanto mi riguarda, sono stato fatto oggetto dell’incarico di venirvi semplicemente incontro, accogliervi, e introdurvi all’interno della stanza che troverete qui, proprio oltre questa soglia. Il padrone di questa dimora vi attende. Con una certa impazienza, oserei dire.»

Justin rabbrividì fortemente; aveva gli occhi lucidi per la commozione. «Conte! Sei tornato normale! Dobbiamo andarcene subito da qui!»

Il Conte lo guardò. «Mi è gradito di rivedere anche te, Justin. Spero che non ti sia occorso niente di spiacevole, nel frattempo. A questo proposito, mi premeva di chiedere come sono le condizioni e l’umore del nostro comune amico, nonché coinquilino, Danny.»

«Kumals!» esclamò Justin, rivolgendoglisi con aria di urgente supplica. «Lascia che io e il Conte ce la battiamo. Che altro possiamo fare, qui? Ci faranno a pezzi, ci distruggeranno… » e la sua voce diventò quasi piagnucolante «Noi non abbiamo nessun potere, niente di niente… la cosa più sensata è che ce ne andiamo subito, no?»

Kumals lo ignorò totalmente. Si limitò a scambiare uno sguardo denso di parole silenziose con Zoal. Questa lo ricambiò, poi tornò a rivolgersi al Conte. «Allora, procediamo pure. Introducici dall’artefice di tutta questa situazione. Ormai è da un po’ che rimandiamo questo incontro.»

Il Conte annuì compostamente. «Venite pure, seguitemi, gentilmente.» li invitò, aprendo un braccio per disegnare un gesto elegante di invito rivolto alle sue spalle, verso l’interno dell’edificio ancora immerso nella luce intensa.

«D’accordo… ora, se mi permette, Conte, non è affatto necessario che lei impieghi tanta convinzione.» masticò Kumals, mentre, ignorando ostinatamente le suppliche rivoltegli da Justin, procedeva ancora, a fianco di Zoal, trascinandosi dietro a viva forza il ragazzo, e passando di fianco al Conte che, udendo quelle parole, aveva prontamente riabbassato il braccio, con aria mortificata come se avesse mancato a qualche elemento fondamentale di una rigorosa etichetta.

 

Per qualche momento, appena entrati, Kumals, Zoal e Justin ebbero la vista impedita dalla forte differenza di illuminazione, passando dall’ombra del bosco alla generosa luce dell’interno dell’edificio. Non appena i loro occhi si abituarono, si guardarono intorno attentamente.

Si trovavano in uno spazio ampio e vuoto, una sorta di ambiente che ricordava un capannone in disuso. Ma, nelle vicinanze di una delle pareti di fondo, di fronte all’ingresso e dalla parte opposta rispetto a dove si trovavano, sorgeva una struttura particolare, che spiccava nettamente, isolata com’era in tanto spazio completamente sgombro.

Nel fissarla con attenzione, mentre, seguendo i passi del Conte, procedevano verso di essa, lo sguardo di Zoal si assottigliò, e la fronte di Kumals si corrugò rapidamente.

Era una specie di costruzione assemblata con ordinata geometria, e con materiali che ricordavano quelli utilizzati per uno di quei centri-comando che possono ritrovarsi nei film stile ‘Stargate’, anche se con un che di più spartano. Piastre metalliche circondavano quasi completamente una piattaforma rialzata rispetto al livello del pavimento, alla quale si poteva accedere da un’apertura tra le piastre, con gradini. La sommità delle piastre, piatta e rivestita di materiale gommoso, faceva anche da parapetto a chi fosse salito su quella piattaforma, ritrovandosi circondato da un semicerchio di grossi macchinari: computer, schermi, macchine sordamente ronzanti; dalla boccha stretta e lunga di una di esse scendeva una striscia di fogli sui quali veniva costantemente e lentamente stampata, riga dopo riga, qualche sorta di dati specifici. Non c’era bisogno di riconoscere che era lo stesso tipo di stampa che avevano ritrovato nascosta nella livrea del maggiordomo del signor Benton. Proprio come non c’era bisogno di mal interpretare l’atteggiamento della figura solitaria che li attendeva, in piedi sulla cima degli scalini che conducevano alla piattaforma, le mani raccolte dietro la schiena e una composta aria impaziente e soddisfatta. Era decisamente felice di vederli arrivare, ordinatamente felice, se così si può dire.

Kumals si sentì per un momento davvero deluso dal modo in cui aveva finito per risolversi il loro “attacco”. Ciò non lo distrasse, comunque, dallo studio visivo attento dell’uomo che li stava aspettando.

Aveva un aspetto stolidamente comune: un uomo di mezza età, circa, ma da cui emanava un’energia vitale, giovanile. I suoi occhi, piccoli e grigi, che li scrutavano quasi famelicamente da dietro un paio di occhialetti da vista dalla sottile montatura color metallico, sprizzavano gioia nel seguirli. Non molto alto, e di corporatura piuttosto minuta, era abbigliato con un camice bianco da laboratorio, sotto al quale si intravedeva un paio di pantaloni di foggia comoda, color cachi, e un paio di scarpe da ginnastica, oltre ad una semplice camicia e ad un pullover marrone scuro. Dava l’impressione di qualcuno che avesse deciso all’ultimo momento di rinunciare alla cravatta, per mettere più a loro agio i suoi ospiti.

«Benvenuti!» esordì, trattenendo a stento l’entusiasmo. «Finalmente…» aggiunse, sorridendo tra sé e sé. Ai nuovi arrivati parve quasi un sollievo poter scorgere almeno un’ombra di malignità nel sogghigno sottile che fece per un momento capolino sui tratti del viso, segnati da uno stadio avanzato di forte sovreccitazione mischiata a stress da sforzo.

Justin occhieggiò i visi di Kumals e Zoal, trovandovi due maschere rigide di serietà ostile. Non avrebbe voluto essere nei panni di quell’uomo per nulla al mondo, e questo pensiero gli risollevò per un momento il morale. Ne aveva un gran bisogno. Ora, visto che la cosa più minacciosa lì dentro sembrava essere un po’ di sporco accumulatosi negli angoli tra parete e pavimento, lungo il perimetro di quella specie di hangar dalle alte pareti, iniziava a sentirsi decisamente meglio. Probabilmente avrebbe continuato a camminare anche se non avesse ancora avuto la stretta di Kumals sul collo dei vestiti.

Quando furono a pochi metri dalla piattaforma, l’uomo che li attendeva sciolse l’allaccio delle mani dietro la schiena, e aprì le braccia in largo, con un gesto più teatrale ed esplicito di benvenuto particolarmente auto-celebrativo. «Benvenuti…» ripeté, contento. Il luccichio che gli passò nello sguardo, occupato da un misto tra eccitazione innaturale e un sospetto di frenesia già sul ciglio dell’iperattività folle, s’intonò sinistramente con il riflesso metallico che riverberò sulla pistola che impugnava con distratta naturalezza in una delle mani alzate a lato nella sua posa di accoglienza magnificente.

Justin sudò freddo, e una serie di domande nervose ripresero a battergli nella testa selvaggiamente: anche loro avevano una pistola, giusto? Giusto?!

Spiò Kumals e Zoal, al suo fianco, ma con suo disappunto non vide estrarre alcuna arma da fuoco, né segno di sorpresa o timore sui loro volti. Certo si erano accorti bene anche loro che quel tizio aveva una pistola in mano, e soprattutto che la teneva come se per lui rappresentasse una sorta di gadget comune e spesso utilizzato con leggerezza; tuttavia, i loro volti rimasero impassibili, ancora fermi in quella severità glacialmente composta, sotto alla quale si poteva sentire ribollire una rabbia forte, micidiale, ma che rimaneva in sordina, come in attesa.

Il gruppetto si fermò ai piedi degli scalini, gli sguardi rivolti in alto verso l’uomo, che ormai tornava a riabbassare le braccia lungo i fianchi, e sembrava starsi riprendendo almeno in parte dall’entusiasmo. C’era però ancora quel sorrisetto storto, ambiguamente fragile eppure dall’aria perenne, che gli rimase incollato alle labbra; e i suoi occhi avevano ancora quel lampante segno di schizofrenia drogata, e altrettanto abituata. Justin pensò che doveva essere completamente pazzo. E questo non lo tranquillizzò affatto, naturalmente: sembrava quel genere di pazzia pericolosa.

«Il signor Kumals, naturalmente.» disse l’uomo, sorprendendo Justin «E… Zoal. A lei non saprei con che titolo rivolgermi… Ho già avuto modo di conoscere Conte. Ma proprio non… Rusty, forse?»

«Justin.» corresse automaticamente e meccanicamente il ragazzo.

«Justin, giusto… Coinquilino del Conte; e di Danny. In tutta onestà, avrei avuto molto piacere di poter incontrare tutto il gruppo dei ‘4 di picche’ al completo… Sapete, il signor Benton parlava di voi in termini lusinghieri. Ma il nostro buon Benton era così ingenuo, a volte… Forse il suo giudizio non si potrebbe definire obbiettivo. Quindi, sarei stato curioso di conoscervi tutti. Disgraziatamente, non credo che ne avrò più l’occasione… Ma, come si dice, non si può sempre avere tutto ciò che si vuole, dico bene?»

Nessuno gli rispose, e si creò un compatto silenzio in seguito al suo tacere. L’uomo ne parve appena un istante deluso, ma si riprese repentinamente, e non sembrò sorpreso della mancata risposta.

«Signor Conte, le domando un ultimo favore: vorrebbe venire qui un attimo?»

Il Conte esitò un momento, poi, sollevatosi un po’ l’orlo sciupato del vestito, salì i cinque gradini che lo portarono alla piattaforma, andando incontro all’uomo. Non appena gli fu giunto vicino, l’altro lo prese delicatamente per le spalle, guidandone i movimenti in modo da farlo affiancare a sé; infine, gli avvolse un braccio attorno alle spalle con calma. Era lo stesso braccio con cui impugnava la pistola, che appoggiò alla tempia del Conte, con una tranquillità rilassata e quasi annoiata.

Osservandone il contegno imperscrutabile, Kumals si chiese se il Conte possedesse una saldezza di nervi che non era nemmeno lontanamente vicino ad immaginare, o se non fosse per caso completamente persuaso di poter morire solo con un paletto di legno di frassino infilato nel cuore.

«Ecco fatto.» riprese l’uomo, con tono pratico. «Ora, Justin, mi farebbe la cortesia di prendere il bastone e il cappotto che Zoal e il signor Kumals, ne sono certo, saranno disposti a cederle?»

Justin ingoiò un corposo grumo di saliva, trovandosi comunque la gola molto secca, e occhieggiò nella direzione degli altri due, aspettando di vedere quale sarebbe stata la prossima mossa. Per lunghissimi momenti rimasero immobili e impassibili. Infine, Zoal emise un lieve rumore gutturale a mo’ di cinico commento, sorrise con profonda amarezza, e, lentamente, mosse il braccio, porgendo a Justin il suo bastone. Anche Kumals si mosse, iniziando a sfilarsi con calma il lungo pastrano. Se prendere nelle proprie mani il bastone di Zoal gli fece scorrere un gelido brivido lungo la spina dorsale, trovare il fegato di lasciare che Kumals gli appoggiasse ordinatamente sul braccio teso il cappotto richiese a Justin notevole sangue freddo, che lui non era certo di possedere. Da quel momento non smise di considerare spesso l’indumento con occhiate dense di timoroso sospetto, pronto a mollarlo per terra e a guadagnare di corsa diversi metri di vantaggio se avesse avuto anche solo una vaga impressione che si stesse muovendo da solo.

Mentre si sfilava il cappotto, Kumals parlò per la prima volta, rivolgendosi all’uomo con una cortesia platealmente falsa e forzata. «Conosce i nostri nomi. Ma non ci ha ancora detto il suo.»

L’altro accentuò appena il suo perenne sorrisetto. «Lei ha ragione, signor Kumals. Vede, ci sono nomi che, per circostanze storiche di indubbia importanza, diventano noti a tutti, per decenni e secoli a seguire. Altri nomi, che contribuiscono alla storia dell’umanità in modo forse ancora più fondamentalmente determinante, rimangono nell’ombra per sempre: questo sarà uno di quelli. Bryan Collins.»

L’espressione di Kumals rimase rigida, ma un leggerissimo movimento di un sopracciglio sarebbe parso estremamente eloquente a chi lo avesse colto. «E il suo contributo, deduco, sarà il potere di ridurre l’intera umanità in uno stato di zombismo decerebrato?»

Stavolta l’uomo rise. Una risata grande e lunga, che gli eruttò dal profondo della gola e lo scosse energicamente. Nonostante questo, non c’era alcuna felicità in essa. «Signor Kumals, sono certo, per quello che so di lei, che non possa essere davvero questo ciò che realmente pensa. L’umanità è già ridotta in questo stato!» affermò, con amarezza divertita «E lei lo sa molto bene. Che sia rivolta allo scopo di preferire certi prodotti piuttosto che altri, o che sia inviata a combattere guerre sanguinarie per il guadagno di chi la abbindola in modo così scrupolosamente e banalmente abile, questo è già quel che è diventata tutta la brillantezza dell’umanità. Ma c’è chi fa eccezione, certamente. E io e lei, Kumals, siamo fra questi.»

«Il fatto è, che abbindolare in questo modo richiede tempo, impegno e soldi. Perché non aggirare tutto questo con sistemi molto più immediati, come quello che le è stato commissionato di portare avanti qui…?» disse allora Kumals.

L’uomo aumentò di nuovo per un momento il suo sorrisetto. «Mi voglia scusare un momento…» chiese educatamente. «Justin. Non le dispiace portare quegli oggetti là in fondo, contro il muro opposto, vero? Poi le sarei grato se tornasse qui in nostra compagnia, senza tentare di fuggire, cosa che purtroppo mi vedrebbe costretto ad ordinare alle persone là fuori di occuparsi di lei.»

Justin, stavolta, si soffermò nell’esitazione solo un momento, prima di eseguire l’ordine modulato in ingannevole gentile richiesta. Con aria mesta, si incamminò per attraversare l’enorme stanza, diretto verso il muro opposto. Né KumalsZoal gli dedicarono la benché minima attenzione.

«Lo sapevo, signor Kumals, che lei non è affatto un uomo stupido!» riprese l’uomo, contento, guardando l’altro con un brillio grigio nello sguardo. «Oh, naturalmente, Zoal, lei non è stata certo da meno. Non avrei pensato che giungesse al punto di mettere del sonnifero nella bevanda di sua sorella, quella notte a Foelm, per studiare in tutta calma i dati che vi ho lasciato là…»

La donna non lasciò che alcuna emozione le emergesse allo scoperto sul viso.

«Lei ci teneva che avessimo occasione di apprezzare il suo lavoro.» osservò apertamente Kumals.

«Certo, signor Kumals. Può tranquillamente interpretarla come una piccola debolezza di vanagloria. Ma le assicuro che, se non avessi avuto a che fare con persone del vostro calibro, non mi sarebbe passato nemmeno per l’anticamera del cervello di espormi fino a questo punto.» Bryan Collins sogghignò appena.

«In ogni caso… » si fece udire per la prima volta la voce profonda e un po’ roca di Zoal «…se avessimo tentato di diffondere qualche informazione, l’esercito e i servizi segreti avrebbero immediatamente provveduto a bloccarla prima che arrivasse fuori dal perimetro chiuso che è stato creato intorno al territorio assegnato a questo esperimento.»

Collins sembrò galvanizzarsi improvvisamente. «Certamente! Un intero territorio, una stima di trentamila anime ivi residenti… tutto riservato all’esperimento del mio progetto! Quante altre persone prima hanno avuto a disposizione tanto? Poche; davvero poche.»

«Chi, al giorno d’oggi, farebbe completamente a meno di utilizzare la televisione e/o il computer e/o la radio o i cellulari dotati di internet…?» commentò caustico Kumals.

«Esatto, signor Kumals. Un mezzo di diffusione perfetto, pur se banale. Ma è proprio questo il punto. Ormai, tutti questi canali potenziali vengono utilizzati in modo così abitudinario; parte integrante della vita quotidiana di tutti! Volendo, si potrebbero avvelenare milioni di persone semplicemente attraverso la distribuzione di acqua potabile. Ma chi altro potrebbe farlo, se non un terrorista fuori di testa?»

«Un apparato di collaborazione tra servizi segreti e comandi di sicurezza, eserciti, e qualche potenziale acquirente privato. Se qualcosa andasse storto, nell’esperimento, si potrebbe semplicemente scaricare la colpa su un attentato terroristico.» intervenne ancora Kumals, in tono piatto e incolore.

«Ma non ce ne sarà alcun bisogno, in questo caso. Perché l’esperimento, come avete potuto vedere, è riuscito perfettamente.» constatò Collins, emanando pura soddisfazione da tutti i pori. E, così dicendo, appoggiò una mano sulla spalla del Conte, sempre tenuto sotto tiro dalla pistola puntata alla tempia, come se fosse il suo animale da esperimento prediletto, il suo successo incarnato. «Quando l’esperimento sarà terminato, tutte queste persone torneranno alla normalità. E nessuno avrà idea di che cosa sarà successo qui. Perché non ne troverà alcun segno.»

Lo sguardo dell’uomo si assottigliò, con eloquenza. «Nessuno.» ripeté, con tono da epitaffio.

Ma quando tornò a rivolgersi a Justin, che era tornato indietro dopo aver lasciato il bastone di Zoal e il cappotto di Kumals dall’altra parte dello stanzone, aveva di nuovo riassunto un fare gioiosamente sicuro di sé.

«Justin, ora, se non le dispiace, potrebbe prendere quelle corde che ho lasciato là in quell’angolo. Sono certo che non avrà difficoltà a legare in maniera efficace i suoi amici. Nel caso, sarò qui pronto a suggerirle il modo migliore.»

Ritorna all'indice


Capitolo 54
*** 52 - TEMPESTA NELLA STANZA DEI BOTTONI - II parte ***


Capitolo 52

(Tempesta nella stanza dei bottoni – parte II)

 

Di tanto in tanto uno sparo riecheggiava in lontananza, nel bosco.

Bryan Collins, seduto comodamente su una sedia girevole da ufficio, tra le grosse macchine disposte sulla piattaforma, staccò un momento lo sguardo da uno della decina di monitor che stava tenendo sotto controllo, e sorseggiò un po’ di te caldo dalla tazza che aveva appoggiata davanti a sé.

«A quanto pare, non avrò davvero l’occasione di conoscere il resto dei ‘4 di picche’. Un vero peccato, davvero.» constatò, girando sulla sedia per rivolgersi verso Kumals, Zoal, Justin e il Conte. Giacevano tutti seduti, uno di fianco all’altro, la schiena appoggiata alla parte bassa di alcune macchine della piattaforma, mani e piedi saldamente legati. E, con suo disappunto, con l’eccezione di Justin, che sembrava caduto in una catatonica stasi da chi si prepara a morire da un momento all’altro, nessuno degli altri diede segno di reazione a quelle parole.

Appoggiò la tazza sul piattino, e si voltò maggiormente verso di loro, appoggiandosi con calma allo schienale della sedia. «Ma sono certo che Johnson potrà dirmi almeno come li ha trovati da vivi, prima che non sia più possibile riscontrarlo in alcun modo.»

«Johnson… » proseguì, portando avanti il suo monologo con la pervicace idea di ignorare il mutismo in cui si erano chiusi i suoi prigionieri. «Certamente un nome fittizio. Faccende da ‘top secret’; sembra che sia una morbosa fissazione per loro. D’altra parte, mi è stata garantita la sua professionalità.»

Finalmente lo sguardo di Kumals riacquisì uno sprazzo di intenzione. Guardandolo, disse «Penso che avrà modo di verificare di persona la sua professionalità, e potrà farlo ancora da vivo, almeno in parte.»

Negli occhi grigi di Collins, dietro le lenti da vista, si concentrò un certo interesse. «Cosa intende esattamente, signor Kumals

«Come diceva lei… nessuna traccia dell’esperimento. Anche lei è una traccia. Probabilmente l’agenda del signor Johnson prevede, come ultimo compito di questa missione, di eliminarla.» spiegò Kumals.

Collins sogghignò, ovvero accentuò un poco il suo perenne sorrisetto. «Oh, beh… è probabile. Sempre che sopravviva al vostro collega più pericoloso… il lupo mannaro… Ma se anche così fosse, chiunque la spunterà e, coi miei migliori auguri, riuscirà ad arrivare di corsa fino a qui, sarà degnamente accolto dalle persone che avete visto schierate lì fuori.»

Kumals aggrottò appena le sopracciglia, ma trattenne al meglio possibile qualsiasi altro sentimento dietro un’espressione il più indifferente possibile.

Bryan Collins rise, nevroticamente. «Signor Kumals, sono spiacente che lei continui a sottovalutarmi in questo modo. Ero convinto che lei avrebbe compreso appieno l’importanza di quello che sta avvenendo qui. Forse, speravo addirittura che sarebbe stato grato di prendervi parte, anche se per così poco tempo purtroppo.»

«Quindi, sei riuscito a perfezionare il programma di controllo. Non solo possono essere resi tutti immemori e insensibili, alla stregua di “zombie”… Ma puoi anche dare loro qualche ordine basilare. Come quello di aspettare immobili, o come quello di attaccare a comando…» mormorò Zoal, sembrando interessata.

Collins concentrò immediatamente su di lei tutta la sua tronfia attenzione. «Precisamente. Sono lieto che almeno lei abbia potuto cogliere questi non indifferenti progressi. Vede, quello che lei descrive come uno stato pressoché catatonico, è solo il programma base, la ‘fase 0’, per così dire: una tabula rasa, sulla quale si può poi lavorare a piacimento, purché si sia capaci di padroneggiare a sufficienza il programma che ho elaborato. Non per vantarmi oltre i miei meriti obbiettivi, ma non posso fare a meno di lodare questo gioiellino di programma. Ben presto, purché la sperimentazione continui a buon ritmo, riuscirò a rendere la programmazione e i suoi effetti sui soggetti molto più diretta, efficace ed immediata. Ammetto che si tratta di un programma ancora molto complesso, e non sempre di sicura efficacia… ma sono già molto oltre le mie migliori aspettative iniziali! Sì, continuando così, presto si potrà ordinare ai soggetti di eseguire compiti che richiedono una sequenza di mosse tutt’altro che banali, come… » i suoi occhi vagarono attorno, alla ricerca di ispirazione, e si soffermarono sulla sua tazza di tè «Come preparare un te e servirlo.» e rise leggermente.

«Non è proprio così…» notò Kumals, con placido autocontrollo.

Collins lo fissò con interesse, ma anche un leggero fastidio. «Cos’è che non la persuade, signor Kumals

L’uomo alzò un po’ meglio la schiena, cercando di acquisire una posizione più dignitosa, nonostante la scomodità del trovarsi seduto e strettamente legato. Alzò la testa al massimo delle sue possibilità, e guardò l’altro con un pacato divertimento. «Se fosse riuscito a perfezionare il programma in modo sufficientemente rapido, a quest’ora potrebbe mantenere questo territorio come suo personale dominio. Quelle persone, i “soggetti”, non sarebbero più semplicemente cavie, ma i componenti di un suo esercito personale, col quale difendere questo luogo, farne la sua roccaforte. Se vi fosse riuscito, come sperava, ora potrebbe trattare con gli uomini che le hanno permesso di condurre questo esperimento a pari livello, senza più dovere stare alle loro condizioni; anzi, forse avrebbe potuto essere lei a dettare nuove condizioni. Ma non è riuscito a fare tanto in così poco tempo… e quegli uomini che le hanno dato questa opportunità, sanno bene come strizzare fuori da qualcuno tutto ciò che può essere loro utile, prima di liberarsene. Forse potrà evitare che quel cecchino, che è stato messo a sua disposizione per occuparsi di qualche intoppo nei suoi piani – e specialmente utilizzando la scusa della nostra presenza in queste vicinanze -, ma che ha sempre seguito più che altro gli ordini di chi gliel’ha fornito, riesca ad eliminarla. Ma sicuramente, non appena questo esperimento giungerà a termine, e subito dopo che lei avrà spiegato a qualcuno dei suoi finanziatori e facilitatori come utilizzare questo programma, si libereranno di lei in un istante. Tant’è, dopotutto, per averla pescata così precisamente tra la moltitudine dei suoi colleghi, cogliendo in lei quelle stesse sfumature che denotano l’ambizione da onnipotenza, e che loro devono saper riconoscere a colpo d’occhio poiché vi vivono immersi come nella merda, certamente devono essersi informati per bene al suo riguardo: non solo sul piano professionale, ma anche personale. Proprio come hanno potuto fornirle dettagliate informazioni su di noi, dev’esserci nel loro archivio un profilo completo anche su di lei; e in questo profilo, in qualche sua parte, sono probabilmente state evidenziate le righe che la denotano come un uomo troppo simile a loro nelle aspirazioni per poterle permettere di diventare un altro centro di potere, con cui dover stabilire complicate relazioni di forza. Lei non rappresenta niente di più che uno strumento, per loro: la “persona” che vogliono realmente possedere è il suo programma. Per questo, dopo che lo avranno e che sapranno usarlo, sapranno come darle la liquidazione che le spetta. Se lei fosse ricattabile su qualche punto che non riguarda anche loro, forse potrebbe vantare qualche moneta di scambio coatto nei loro confronti, ma per come stanno le cose, una volta che non sapranno che farsene di lei, sarà solo un elemento pericoloso, che potrebbe testimoniare il lavoro che ha svolto per i loro desideri. Il suo destino è già scritto, ed è sicuro esattamente come il fatto che quel tè finirà per raffreddarsi.»

Kumals tacque. Se avesse avuto una sigaretta, in quel momento si sarebbe probabilmente preso il tempo di tirarne una lunga aspirata. Ma si limitò a fare una pausa.

Collins si era irrigidito, e il suo volto era diventato cupamente grigio, di un pallore sinistramente minaccioso. Lentamente, si alzò in piedi, e si avvicinò ai suoi quattro prigionieri, fissando freddamente Kumals dall’alto. «Signor Kumals… sono spiacente di non trovare contraccambiato l’ammirato riconoscimento dei meriti che provo nei suoi confronti… e sono ancora più spiacente di doverle ricordare che lei, qui, è un ospite.»

Kumals emise un lieve verso di sarcastica derisione. «Lei è in un vicolo cieco, o un uomo morto che cammina, se preferisce. E su una cosa aveva perfettamente ragione: il suo nome rimarrà per sempre nell’ombra. E persino quei gentiluomini per cui ha tanto faticato, che hanno mostrato di comprendere le sue capacità eccezionali, non sprecheranno un secondo di più a pensare a lei oltre quello che occorrerà loro per far infilare il suo fascicolo nel mangiacarta da qualche segretario. Sa… lo sa che il signor Johnson ci ha spedito un messaggio, chiedendoci di stare alla larga da qui? Nonostante i suoi ordini, come immagino, fossero quelli di tenerci sott’occhio, e di permetterci, alla fine, di giungere fino a lei; i suoi superiori devono aver ritenuto che, checché le suggerissero i suoi capricci anfitrionici, complicare ulteriormente la situazione, con tutta la fatica che staranno facendo per mantenere in sordina e isolato il perimetro entro cui si svolge l’esperimento, sarebbe stato un po’ eccessivo. Ma alla fine hanno pur lasciato che lei ci facesse arrivare fino a qui. Per ammirare, sostanzialmente, quanto può essere pilotabile con insignificante semplicità l’intera umanità, lei per primo… basta trovare la raffinatezza costruita su misura per la singola persona. E su di lei devono aver fatto un lavoro di sartoria eccellente.»

In una cosa Kumals era certamente riuscito: il perenne sorrisetto storto era sparito dalla faccia di Collins, lasciandovi emergere una spossatezza incerta e delusa. Sospirò, e scosse lentamente la testa. «Evidentemente, mi sbagliavo su di lei. Qualsiasi cosa mi succederà, il mio programma sopravviverà. Sarà usato, avrà potere in sé, aldilà delle spregevoli persone che lo utilizzeranno. Forse, un giorno, chissà, potrebbe addirittura finire nelle mani di persone lodevoli, invece, che lo useranno per scopi positivi. Potrebbero rivolgerlo contro coloro che oggi detengono il potere, e con esso schiacciano a loro arbitrio tutti gli altri, il mondo intero, alla fine. Questo programma, dopotutto, può essere utilizzato da chiunque ne conosca il funzionamento. Diversamente dal potere, e dalla corruzione che porta in sé, questo è uno strumento: se nelle mani giuste, potrà fare molto per l’umanità… chissà, forse potrebbe persino riscattarla dalla miserabile condizione in cui è ridotta ora. Non importa se nessuno conoscerà il mio nome: questo programma sarà comunque il mio lascito a questo mondo.»

«Questo programma è potere.» lo contraddisse Kumals. «E non vedo come potrebbe mai essere usato “positivamente” il ridurre in poltiglia il cervello altrui, e ordinargli di fare ciò che si vuole. Questo è il succo della schiavitù. E chiunque possa usarlo, questo sarà il potere che avrà, e il modo in cui potrà essere utilizzato il suo programma, Collins: per schiavizzare. La chimera che uno strumento possa essere ‘buono’ o ‘cattivo’ a seconda di chi lo usa… è quanto serve a coloro che posseggono quegli strumenti, che li conquistano, che li rubano, che li costruiscono… per legittimare la loro esistenza, e poter rivendicare, ognuno di loro, la loro ‘bontà’ d’intenti. Se un pezzente soffiasse il posto del sovrano, saprebbe bene come condannare la corona e lo scettro, mandandoli alle fiamme; e saprebbe come rendere oggetto di devozione i vestiti stracciati; ma potrebbe anche tenersi la corona, e proclamare che è stata semplicemente utilizzata da persone armate di cattive intenzioni.»

Collins rise, ancora più nevroticamente. «Signor Kumals, lei parla di un’utopia ancora più grande e impossibile. Questo travalica la natura umana stessa.»

«A dirle la verità, non so di quale ‘umanità’ vada cianciando… poiché se lei stesso è il primo a riconoscere di non essere ‘come tutti gli altri’, devono esserci molti altri che non sono affatto come lei. Per qualche motivo, questo pensiero ha rinforzato di colpo la mia fiducia nell’”umanità”.» ribatté Kumals, sorridendo leggermente, senza cattiveria, ma quasi con serenità.

Bryan Collins tornò ad essere tremendamente serio. «Lei è una persona assennata, signor Kumals, ma credo che non sia capace – o forse non voglia – cogliere la bontà intrinseca del progresso, dell’’andare avanti’, del migliorare. Cose che tutto questo strumento rappresenta.»

«No, infatti, non la colgo affatto.» rispose semplicemente Kumals.

In qualche modo, quelle ultime parole avevano un che di conclusivo. Come a sottolinearlo, Collins spostò una mano, e raccolse la pistola appoggiata nello spazio tra i comandi di uno schermo e l’altro.

Sospirò, di nuovo, con fare melanconicamente dispiaciuto, mentre toglieva la sicura. «In questo caso, ritengo che sia meglio per tutti concludere la nostra conoscenza. Non la prenda sul personale, signor Kumals. Persino se lei fosse stato disposto ad ammettere la grandiosità del mio progetto, non avrei potuto fare altrimenti. Ma non vi ho mai mentito su questo, dopotutto. Ritengo di aver fatto il possibile per essere stato corretto, con voi.» e, così dicendo, alzò con calma il braccio, delineando la traiettoria indicata dalla pistola, che terminava all’incirca sulla nuca di Justin, il quale, peraltro, nemmeno se ne accorse, dal momento che giaceva a testa china, come se non avesse più niente al mondo che potesse valere qualcosa per lui.

Anche Zoal aveva la testa chinata in consimile modo, come se si fosse assopita. Ma il Conte, che invece guardava con un qual certo timore la pistola impugnata da Collins, aveva la testa alta e lo sguardo ben attento. Di colpo il suo sguardo si concentrò alle spalle di Collins, allargandosi leggermente nella sorpresa. «Oh… notevole…» mormorò, ammirato.

Collins lo considerò un maldestro tentativo di distrarlo dal suo proposito, ma di colpo qualcosa gli suggerì che la recitazione del Conte era fin troppo efficace; fece per voltarsi di scatto, ma qualcosa gli si abbatté duramente sulla nuca, facendogli perdere l’equilibrio per la violenza del colpo. Cadde di lato, e si appoggiò pesantemente con braccia e busto sull’unico piano abbastanza rialzato che circondava l’interno della piattaforma: uno dei quadri di comandi. Pigiò così involontariamente una serie di bottoni, atterrandovi sopra, e gli schermi reagirono, iniziando ad emettere lampi di colori, suoni, una corsa impazzita di scritte a raffica e di segnali di errore, di pericolo, di avvertenza, di richiesta di conferma di ordini tra loro contrastanti o puramente insensati. Nonostante questo, l’uomo aveva mantenuto ben stretta la presa sulla pistola, e rialzò la mano armata contemporaneamente allo sguardo, scoprendo cosa lo aveva colpito.

Il bastone di Zoal era ritto, sospeso a mezz’aria, davanti alla sua proprietaria, che giaceva ancora a terra legata; ma aveva alzato il viso, e Collins rimase per un momento affascinato dallo sguardo verde, che sembrava mandare lampi, ed essere diventato impersonale, disumano, come se la donna fosse precipitata in una sorta di trance profonda.

Subito dopo l’uomo puntò verso di lei, e iniziò a premettere il grilletto. Fu allora che Kumals si alzò di scatto, e gli si parò davanti. Istintivamente Collins rilasciò il grilletto. «Signor Kumals…» sogghignò, ignorando il sentore di sangue in bocca, dovuto all’aver sbattuto la faccia sul quadrante per il colpo del bastone di Zoal. Mostrava ancora grande sicurezza di sé: il bastone di Zoal era già ricaduto a terra, e la donna appariva profondamente affaticata. Kumals, sebbene fosse riuscito ad alzarsi in piedi davanti a lui, aveva ancora mani e piedi legati. «Non capisco proprio come abbiamo potuto fraintenderci a tal punto…»

Kumals alzò fulmineamente una mano da dietro la schiena, mentre le corde che gli legavano i polsi cadevano a terra. In una sola mossa guidata da una rapidissima decisione violenta, gli torse il polso, strappandogli di mano la pistola con l’altra mano dopo che era partito un colpo troppo tardivo che lo mancò completamente, e gli assestò un forte colpo dritto in faccia, un misto tra un pugno e un urto del calcio dell’arma di cui si era appena impadronito. Collins però cadde più malamente di quanto ci si poteva aspettare, perdendo l’equilibrio nell’inciampare in un piede della sedia girevole da ufficio; mancò di poco la tazza di tè, mentre sbatteva violentemente con la spalla e la testa, di nuovo sul quadro comando, accendendo altri allarmi e segnali lampeggianti sugli schermi, insensibili all’afflosciarsi a terra del corpo del loro creatore, come solo le macchine e le architetture naturali sanno esserlo.

«Io sì… » disse Kumals. Poi, accorgendosi di una notevole scompostezza con cui giaceva il corpo dell’uomo, qualcosa lo impensierì. Si chinò su di esso, e gli portò due mani alla giugolare, cercando il battito cardiaco. Non lo trovò, e realizzò che il modo in cui aveva sbattuto la tempia contro lo spigolo del piano comandi non gli aveva consentito di sopravvivere.

Kumals si rialzò in piedi, con aria gravemente seria. Poi, si voltò di nuovo verso gli altri. Il Conte lo guardava, con un’ombra di sbigottimento che gli segnava i tratti del volto, rompendo irreparabilmente la rigidezza della sua consueta compostezza assoluta. Ma Kumals si inginocchiò, senza nemmeno soffermarsi a sciogliersi le corde che ancora gli legavano le caviglie, davanti a Zoal, la quale era ancora un po’ accovacciata su se stessa, e che, vedendolo di fronte a sé, si sforzò di alzare almeno un po’ la testa per guardarlo. Il suo sguardo aveva un che di interrogativamente curioso. Vedendolo, Kumals sorrise appena, con affetto spontaneo.

Allungò una mano laddove fino a poco prima era anche lui giaciuto legato, e raccolse un piccolo oggetto piatto, sottile, e metallico. Lo alzò tra il viso suo e quello di Zoal, mostrando una lametta da barba, con fare illustrativamente complice. «Mi è scivolata in mano da una delle maniche del cappotto, prima, mentre me lo toglievo. Non ce l’ho mai messa una lametta nella manica del cappotto.» spiegò, mentre il suo sorriso diventava un po’ più disarmato e incerto, quasi infantile.

Zoal sorrise di rimando, anche se sembrava particolarmente stanca.

«Avrei voluto dirtelo prima, ma non sapevo come fartelo capire senza farmi troppo notare… mi dispiace.» aggiunse Kumals. Zoal annuì, comprensiva. L’uomo si sporse a darle un bacio sulla fronte.

Poi, impegnò la lametta sulle corde che gli legavano le caviglie, liberandosele. Tagliò quindi le corde che legavano Zoal, e le affidò la lametta affinché lei potesse fare lo stesso col Conte.

Kumals si alzò in piedi, recuperando un contegno deciso e pragmatico. «Conte.» chiamò.

«Signor Kumals?» fece l’altro, con rispettosa attenzione.

Ma in quella, proprio sul pronunciare qualche cosa, l’uomo si interruppe. I suoi occhi si concentrarono sull’ingresso dell’hangar, dall’altra parte della nudità ampia dello stanzone. E allora vide chiaramente la massa di persone prive di coscienza di sé, quelle che erano fino ad allora rimaste a fare una guardia stolidamente immobile fuori dall’edificio. Ora non erano più immobili. Tutt’altro.

Zoal raccolse il suo bastone, e si affiancò a Kumals, studiando la situazione con sguardo assottigliato. Scorse immediatamente il nutrito gruppo di “zombie” mal assortiti, che si precipitavano verso la piattaforma dove si trovavano, attirati dal rumore, dai suoni, e dalla loro presenza.

«Diamine.» si concesse di strafare a mo’ di commento il Conte, giunto al loro fianco.

Kumals si voltò rapidamente verso gli schermi che lampeggiavano e rumoreggiavano furiosamente, come una tempesta elettronica in piena regola. «Conte. Lei riesce a leggere quella specie di linguaggio che Collins ha usato nel programma, vero? Quella roba…»

«Dialetto che si ritiene essere appartenuto alla perduta e dimenticata tribù degli Untuah, e che consisteva nelle formule rituali utilizzate dai loro stregoni per risvegliare zombie dai corpi morti.» fornì prontamente il Conte. «Sì.» concluse.

«Allora, cerchi di capire cosa diavolo dicono quelle scritte sugli schermi, ora!» gli impartì Kumals, mentre anche lui fissava gli schermi, senza capirci nulla.

Il Conte fece scorrere pensosamente lo sguardo sulle scritte. «Sì. È tutto abbastanza semplice. Non credo che il signor Collins avesse maturato una conoscenza così approfondita della lingua. Desolato, però, di non poterle essere d’aiuto, purtroppo. Vede, non ho mai posato mano su un computer in vita mia.»

«A tutto c’è una soluzione.» disse Kumals, afferrando la tazzina di tè, ormai freddo, rimasta appoggiata vicino al quadro comandi. Ne scaravoltò il contenuto sulla testa di Justin.

Il ragazzo ebbe uno spasmo, si risvegliò o riprese coscienza di soprassalto, e per prima cosa, colto di sorpresa, cercò di prendere dentro i polmoni tutta l’aria che riusciva con un’inspirazione radicale; si ritrovò a tossicchiare e sputacchiare tè freddo.

«Che diavolo…?!» gridò, spaventato.

Kumals era già chino su di lui, e lo aveva già liberato dalle corde con la lametta da rasoio. «Niente di brutto Justin, è il tuo momento.»

«Cosa…?» cercò di capire Justin, mentre l’uomo lo afferrava per un braccio, aiutandolo e inducendolo allo stesso tempo a mettersi in piedi. Non appena vi riuscì, lo sguardo di Justin, che ora poteva spaziare oltre il bordo rialzato della piattaforma, individuò subito la maggiore fonte di pericolo, con il fiuto infallibile di un animale da preda. «Oh no!» strillò, vedendo la massa delle persone che si affrettavano verso di loro, attraversando come una marea scalcagnata il pavimento nudo e ampio del magazzino.

«Lascia perdere ora…» iniziò a rimbeccarlo Kumals, stringendo più saldamente la presa su di lui. Ma si interruppe, mentre realizzava qualcos’altro, nel seguire la direzione dello sguardo di Justin.

Zoal era scesa dalla piattaforma, bastone in pugno. A lunghi passi muoveva incontro alla massa che arrivava a spron battuto, rinvigorita dalla simile vicinanza di qualcosa che si muoveva e dava tutta l’apparenza di essere vivo proprio davanti ai loro avidi occhi e alle mani già protese per afferrare.

«Zoal!» gridò con tutta la voce che aveva Kumals.

La donna lo ignorò. Si era fermata, ora, e con mosse regolate da un equilibrio dinamico dei movimenti, più veloci del solito, ma ancora pregni di quella sorta di grazia cerimoniale, portò davanti a sé il bastone, in verticale, poggiandone con delicatezza la punta inferiore sul pavimento. I primi componenti del gruppo che stava per travolgerla distavano una dozzina di metri da lei.

Kumals distolse lo sguardo, voltò le spalle alla torma di aggressori inconsapevoli e a Zoal, sola nel bel mezzo dello spazio vuoto dell’hangar. Trascinò Justin davanti al pannello di controllo, di fianco al Conte, ancora quasi completamente intento a leggere le scritte sugli schermi, ma anche a dare un’occhiata incuriosita a quelle stampate sui fogli eruttati dalla stampante.

«Dovete disinstallare il programma, subito. Se collaborate, ce la farete.» disse loro Kumals, piazzando Justin, fattosi molle come una marionetta, accanto all’altro. «Tu ne sai di informatica. Tu sai tradurre quel linguaggio… qualsiasi cosa sia. Mettete insieme il tutto e disattivate questo dannato programma.»

«E’ una pazzia!» strillò Justin, ritrovando una certa energia, con la quale tentò di liberarsi della salda presa di Kumals sulle spalle. «Scappiamo! Ci arriveranno addosso!»

In quella, si udì uno strano rumore crepitare nell’aria: era come se fosse iniziata senza preavviso una danza selvaggia di energia statica, o qualcosa del genere. Correva, invisibile, in flussi potenti, che si battagliavano scorrendo in tutte le direzioni, colmando lo spazio dell’hangar, con un sibilo irreale, che non sembrava nemmeno poter essere sentito con l’udito, ma con qualche altro senso non riconducibile a quelli comunemente usati e conosciuti.

Si volsero, tutti e tre, a guardare.

I loro occhi non vedevano niente di strano, eppure, era come se potessero intuire che quelle scie di qualsiasi cosa fosse trovavano nella figura di Zoal, immobile, un punto d’attrazione e repulsione, un obbiettivo o qualcosa da cui fuggire, o da sfiorare scherzosamente, o da tentare di scalfire con forza. Poi, Zoal emise un grido estremamente forte, lacerante: impossibile dire se fosse di dolore, di rabbia, di gioia, una dichiarazione di forza o di profondo terrore, perché in un certo senso sembrava essere tutto questo, e al contempo al di sopra di tutto questo. Quel suono emise un ulteriore sconvolgimento nei flussi di ‘qualcosa’ che volavano con furia in tutte le direzioni, compressi tra le pareti dello stanzone. E alcuni di essi si rivolsero contro il gruppo di persone ridotte allo stato di zombismo, correndogli contro con pura violenza distruttiva: quando li colpirono, l’impatto acquistò consistenza fisica. Quelli più avanti furono scagliati all’indietro violentemente, investendo coloro che li seguivano, e così via in successione: la folla fu compressa su se stessa e indietro, fin quasi a raccogliersi disordinatamente contro la parete opposta dell’hangar, come foglie spostate da un forte vento.

«Porca putt…» iniziò Justin, ma non trovò nel suo repertorio alcuna esclamazione sufficientemente adatta, e si zittì, mentre le correnti invisibili eppure percepibili continuavano a impazzare dappertutto.

Gli occhi di Kumals, invece, si erano concentrati sulla figura di Zoal. La donna, dopo aver prodotto quell’effetto potente e guidato, sembrava essere stata sul punto di cadere per terra. Si era aggrappata con forza al suo bastone, poggiandovi contro la fronte anche, puntellandosi per rimanere in piedi, nonostante fosse stato come se tutta la forza muscolare l’avesse abbandonata per un lungo istante da capogiro. Mentre rimaneva così raccolta, forzandosi a non cadere in ginocchio, Kumals percepì con uno sguardo che non era della vista il moto convulso con cui, all’improvviso, molti dei flussi  invisibili si erano gettati su di lei, come approfittando del suo momento di forte debolezza.

Anche il Conte doveva essersi accorto delle difficoltà della donna, perché il tono era dolente, sebbene Kumals non comprese subito cosa intendesse con «Se solo avessimo un megafono…»

Un istante dopo, Kumals ricordò quella volta al porto, solo pochi giorni prima, ma sembrava molto di più, quando Justin era stato preso da quell’energumeno della stessa pasta di quelli che stavano per piombare loro addosso ora. Ricordò il maldestro intervento suo e di Danny in suo aiuto, e come Uther fosse arrivato con i fuochi artificiali, impegnando il Conte nel collaborare con l’uso del megafono. Ora, Uther e Danny dovevano essere da qualche parte nel bosco, come tutti gli altri, a lottare contro un cecchino che si era fatto le ossa e tutta l’esperienza in qualche formidabile addestramento ultra-formativo di qualche reparto speciale di esercito e/o servizi segreti, mentre Danza e Mama correvano tenendo a bada il resto delle persone coinvolte in quell’”esperimento”. Rivolse uno sguardo al cadavere a terra di Bryan Collins; e, mentalmente, lo scavalcò.

Kumals si voltò, afferrando senza complimenti Justin e il Conte per un braccio, e riportando la loro attenzione agli schermi disse«Zoal non potrà resistere ancora per molto.  Ditemi come posso esservi d’aiuto, se posso. Ma, miseria nera, vedete di fare funzionare questo dannato coso!» e sbatté un pugno con frustrazione sul bordo del ripiano, fissando la distesa di pulsanti che per lui non avevano mai significato niente, ma dai quali di punto in bianco si trovava a veder dipendere la salvezza di diverse persone, quella di alcune delle quali gli premeva, forse, più di qualsiasi altra cosa.

 

 

Soundtrack: Open your eyes (Guano Apes)

 

 

Note dello scribacchiatore: hem… sì! Mi tocca scusarmi di nuovo per l’enorme ritardo! Varie cose urgenti e coinvolgenti m’hanno trattenuto lontano dalla cura delle mie scribacchiature, e come accade spesso ultimamente sono anche indiavolamente incasinato al punto da non riuscire a riguardarle come meriterebbe chi se le sorbisce, hu hu… Però abbiate fede, alla fine della storia ci arrivo, anche perché molti altri capitoli son già belle che scritti, mi sa giusto che dovrò continuare per un po’ a metterli online così senza riuscire a riguardarmeli per benino. Per cui scusate anche eventuali strafalcioni o errori e consimili… nel caso qualcuno abbia voglia di segnalarmeli faccia pure, naturalmente! (sì sì, sto cercando di facilitarmi le cose, ebbene sì. Non funziona eh?). Orsù, ditelo chi lo sta pensando: alzi la mano chi c’è rimasto/a male per l’apparente mediocrità di cattivi e piani malefici in questa storia. Nulla da obbiettare. Una vocina in fondo alla fila esclama fin troppo entusiasticamente: ‘ah sì, certo! la banalità del male!’ In certi casi potrei essere d’accordo. Forse anche in questo. In ogni caso, nelle prossime storie dei quattro di picche s’avrà a che fare con malignità di tutt’altro spessore (qui la vincono di gran lunga le cattiverie dei “nostri”, he he… ammesso che stiate parteggiando per chi parteggio io, beninteso ;) ). Sì, sì, sì… ok, la pianto qui. Alla prossima per chi resiste! (e cercherò di sbrigarmi, lo prometto! Ha! Promesse da marinaio… o da gabbiano, non so). Spoiler da incontinenza d’anticipazione (non è che sia tutto così semplice come sembra qui. Ne arrivano altre di ardue…). Quasi dimenticavo… i capitoli in questa parte si allungheranno un pochetto… necessità da scribacchiatore, e che volete?! :p

Ritorna all'indice


Capitolo 55
*** 53 - L'ULTIMA VOLTA CHE HO VISTO... ***


Capitolo 53

(L’ULTIMA VOLTA CHE HO VISTO…)

 

Danny si rese conto immediatamente dell’errore madornale; se ne rese conto non appena lui e Andrea, arrivati di corsa, si ritrovarono di fronte all’improvviso l’aprirsi degli alberi nella radura scoperta. Realizzò il tutto nello stesso istante in cui vide una sagoma umana uscire a passo rapido da una morente nuvola di fumo non molto denso, nel mezzo della radura, individuarli, e girare il braccio verso di loro. E seppe cosa fare per prima cosa ancora prima di pensarlo.

Si gettò di lato con quasi tutto il suo peso, dritto contro Andrea, in una deviazione improvvisa della corsa; la ragazza fece un notevole volo, finendo a rotolare sul terreno, come toccò del resto anche a lui. Ma era proprio quello di importanza vitale al momento: togliersi dalla traiettoria. Il proiettile tagliò l’aria da qualche parte al di sopra di loro, e spostato lateralmente.

Andrea non aveva ancora terminato di collezionare la sequenza di mosse per cui ora si ritrovava per terra sul terreno freddo e umido di neve e di foglie marce, che un paio di forti braccia l’avevano afferrata. Prima di iniziare a divincolarsi violentemente riconobbe Ramo, che la tirò con modi sgraziati per l’urgenza, facendola strisciare ancora per terra fin dietro lo stesso tronco dietro cui si stava riparando il ragazzo da un bel pezzo.

Ma la ragazza non degnò niente di tutto questo di qualche importanza particolare, non prima di aver trovato con lo sguardo Danny, che cercava febbrilmente.

«E’ dietro quell’altro albero, tranquilla.» le disse Ramo, con tono gentile.

«Dove?» domandò con gratitudine lei.

«Da qui non si vede, ma l’ho visto schizzare là dietro appena ha visto che ti prendevo io.» spiegò.

Solo allora Andrea realizzò che, nonostante la velocità con cui era avvenuto tutto quello, qualcuno aveva fatto in tempo a sparare ben tre colpi, cercando di centrarli. «E’ l’’angelo custode’… vero?» domandò, senza dubitarne.

«Già…» confermò Ramo, con aria abbattuta «E ci sta tenendo a bada tutti quanti.»

Andrea ne studiò l’espressione per un momento, trovandola parecchio giù di morale.

«Ci siamo fatti fregare tutti quanti…» disse ancora Ramo, sconsolato.

«Ma adesso c’è Danny. Lui ha le pistole.» osservò Andrea.

«Oh, sì. Per questo ora quello starà mirando solo al punto dove si è nascosto Danny; e, se gli vede mettere fuori anche solo un capello, lo falcia.» pronosticò Ramo, tetramente.

Andrea rifletté per un momento. «A meno che qualcuno non gli offra un altro bersaglio potenziale, che lo distragga mentre Danny…»

«Non ci pensare nemmeno.» stabilì Ramo.

Andrea lo fissò. «Ma… » tentò di ribattere, debolmente.

«Sai cosa mi fa Danny se ti lascio fare da bersaglio mobile? Beh, non ne ho idea nemmeno io, ma non voglio scoprirlo.» concluse, sicuro.

Andrea abbassò le spalle, ora sconfortata anche lei. «Quindi…

«Sto pensando a qualcosa.» disse Ramo, nervosamente.

Andrea si trattenne dal chiedere che cosa avesse prodotto fino a quel momento tutto quel pensare. Il ragazzo aveva scaltramente mantenuto la presa di una mano sul suo braccio, in modo da impedirle davvero di poter realizzare qualsiasi tentativo di uscire allo scoperto rispetto al riparo. Spiò sconsolatamente nella direzione in cui, secondo Ramo, si era nascosto Danny: un altro tronco. Avrebbe dato chissà che per sapere se al momento lui ora aveva qualche idea.

 

E quello che cos’era?

Il cuore gli batteva forte, come se avesse appena subito un lieve shock. Cosa poteva essere stato? Era iniziato da quando il primo proiettile aveva tagliato quella porzione d’aria in cui fino a poco prima si trovavano lui o Andrea, e ancora non accennava a voler smettere.

Quando mai aveva avuto paura di correre tra i proiettili saettanti? Quando mai aveva avuto davvero tanta paura di morire? Poteva essere preoccupato di morire; poteva essere seriamente preoccupato dell’esito di qualche azione particolarmente avventata, in cui aveva un ruolo fondamentale la combinazione tra caso e fortuna. Ma, sul serio, ora non si poteva spiegare perché avesse avuto paura di quel proiettile, persino dopo che si era reso conto che li stava mancando.

Il battito del cuore non accennava a chetarsi. Si tolse la mano che si era appoggiato sul petto, in sua corrispondenza, e la riportò per terra, come abbandonata; non serviva a niente continuare ad ascoltarlo. Che corresse pure quanto gli pareva, perché non gli importava di cosa decideva di fare il suo cuore; dovevano avere idee diverse, al momento.

Per un po’ si chiuse in quella convinzione, ma alla fine essa apparve ridicolmente insufficiente. Dovette abbandonarla. E riprese a chiederselo.

Da quando aveva effettivamente così tanta paura di morire? Da quando aveva paura degli stupidi proiettili di un uomo in piedi in mezzo ad una radura, nel bel mezzo di un bosco? Proprio nel bel mezzo di un bosco. Quella era, per definizione, casa sua. E un uomo che sparava lo gettava nel panico? E aveva paura di essere colpito da lui? Sul serio? Era da ridere.

Se era veramente così, se ora temeva tutto quello, e non riusciva a fare altrimenti, dovevano essere cambiate parecchie cose, in lui; senza che se ne accorgesse. Si poteva mutare davvero così tanto, al punto da stentare a riconoscersi? Lui poteva mutare talmente tanto? No, non era nella sua natura. Mutare di forma, sì, drasticamente, e continuamente; ma non in altro. Questo lo ricordava; una delle prime lezioni da quando era diventato ciò che era. E ricordava chi glielo aveva insegnato; avrebbe riso fino a scaravoltarsi per terra, se quella persona lo avesse visto ora: a nascondersi dietro un albero per paura di morire. E lui avrebbe capito perfettamente cosa ci trovava di così terribilmente ridicolo.

Una lenta smorfia di divertita nausea gli increscpò le labbra, e i suoi occhi bruciarono, come se stessero ardendo per il vedere troppo chiaramente qualcosa, e della conseguente rabbia che ciò che vedeva gli suscitava. Perciò li chiuse. D’altra parte, la vista non era che l’ultimo dei suoi validi sensi, da quando era ciò che era.

Respirò profondamente, e a lungo, inspirando l’odore del bosco tutt’intorno; l’odore di neve, l’odore di corteccia, l’odore delle foglie e persino quello degli aghi dei pini, l’odore del tappeto di foglie morte, terra umida e fanghiglia, l’odore del cielo e dell’aria invernale notturna. Sì, le riconosceva come se gli fossero sempre appartenute. Era, indiscutibilmente, inconfondibilmente, casa sua. Dunque, non poteva essere cambiato così tanto; come si aspettava d’altro canto: non era semplicemente possibile.

Il cuore si era calmato, lentamente ma chiaramente. Non gli batteva più così forte. Seppe così che quella paura se n’era andata. Forse, pensò fra sé e sé, in realtà aveva avuto paura per altri, per gli altri. Certo, sentiva anche il loro odore, erano lì, non molto lontano, anche loro nascosti dietro altri tronchi, al riparo dai proiettili. La cosa bizzarra, in tutto quello, era che anche lui fosse nascosto allo stesso modo.

Poi, improvvisamente, capì. Una rivelazione lucida e quasi abbagliante, e riaprì gli occhi di getto, nel coglierla.

Proprio così, improvvisamente Danny comprese.

Fu come se intorno a lui non ci fosse che uno sfondo, di cui tutto, dai sassi per terra ad ogni persona umana o meno presente in quel momento, facevano parte; e aveva solo se stesso messo ben a fuoco al centro di tutto il resto. Capì cosa significava: aveva il completo controllo di se stesso. Gli venne quasi da ridere. Cos'altro poteva servirgli?

Ma certo, era così chiaro... era una cosa che lui già sapeva, la sapeva benissimo quando vagava solo, ora dopo ora, per anni, lungo valli, colline, montagne, neve e inverni e notti immense di stelle, lune e foreste o città addormentate, solo lui e i suoi passi in sequenza rapida e regolare, al ritmo del suo cuore e del suo respiro. E non c'era nient'altro. Certo, era sempre stato così.

La paura di essere solo, come in effetti erano di tutti forse, doveva essere stata quella a trarlo in inganno, a disorientarlo, a distoglierlo dalla realtà definitiva che conosceva così bene. Certo che era solo, e aveva il potere completo di se stesso: una cosa immensa. Come aveva potuto dimenticarlo? Com'era stato sciocco. Ma ora lo sapeva di nuovo. E sapeva perfettamente cosa doveva fare ora, meglio che mai.

Ogni paura gli era scivolata di dosso come se si fosse sciolta, e il suo corpo e la sua mente erano chiari e limpidi e liberi da ogni legame. Perché quelli che erano intorno a lui, con la presenza dei quali si era per un po' cullato nella splendida ma irreale illusione di non essere alfine solo, loro non erano liberi come lo era lui, legati e invischiati nella paura reciproca per sé e per gli altri.

Per fortuna ora lui vedeva tutto con estrema chiarezza.

Loro dovevano proprio restare così immobili, legati alla paura e al disorientamento e ai dubbi morali ed etici e quant'altro, ma lui, lui che non era umano, o perlomeno non solo e non principalmente umano... non era più legato: poteva muoversi.

 E lo fece con spavalda immediatezza.

Un istante prima era immobile e prigioniero e il momento dopo stava facendo un passo e poi un altro, camminando in avanti; la velocità dei gesti mutata, come se la sua percezione fosse precipitata in uno stato alterato; così rapido, lo sapeva, che solo il suo stesso pensiero poteva stargli al passo, mentre quelli di tutti gli altri che facevano parte dello sfondo erano ancora impegnati a ingranare faticosamente per realizzare cosa stava succedendo. Ma lui aveva un ritmo diverso da loro, lui che non aveva più legami.

Lui che aveva tanto amato la libertà pura, oh, che delizia, la ricordava ancora, l'aveva riabbracciata immediatamente, come se non si fossero mai lasciati, il tempo di un battito del suo cuore che ora scalpitava in quella che era una corsa, se paragonata alla lentezza di tutte le cose false e zavorranti che gli erano intorno e scorrevano via insignificanti mentre camminava, senza peso, dritto nella freschezza della sua pura visione di libertà, le labbra piegate in un sorriso inconsapevole, e gli occhi come lampi accecanti. Intuiva che gli altri non avrebbero potuto cogliere quella purezza tagliente dei suoi occhi blu e del suo sorriso divertito e fiducioso: era un'intuizione pura di libertà a guidarlo, come un'ispirazione superiore.

 

«Se foste arrivati dalla parte opposta, almeno, avreste potuto prenderlo alle spalle.» sbottò Ramo, dopo che erano rimasti in silenzio fino ad allora. «O perlomeno gli avreste complicato parecchio la vita, a dover tener d’occhio dei bersagli in direzioni opposte.»

Andrea trasecolò. «Oh, beh, non è che abbiamo fatto apposta!»

«Meno male, altrimenti chissà cosa ne sarebbe venuto fuori…» mormorò Ramo, come se non potesse fare a meno di quel commento, ma allo stesso non si sentisse del tutto nel giusto a darvi voce.

Andrea si indispettì. «Davvero, se tu avessi idea di che cosa ci è successo fino ad ora non…» ma si azzittì. C’era qualcosa che Ramo stava fissando con un’attenzione strana, a metà tra l’incredulità e il terrore; aveva spalancato gli occhi di colpo.

La ragazza si voltò di getto, e allora lo vide. Gelò, fin dentro il midollo di ogni singolo osso che aveva in corpo, come se la temperatura fosse crollata di diversi gradi nello spazio di un decimo di secondo.

Ora poteva vederlo, Danny. E questo era perché il ragazzo stava abbandonando il suo riparo, tenendo tra le punta delle dita di una delle due mani un fazzoletto da naso di colore chiaro somigliante al bianco. Con le braccia in alto, e lo sguardo fisso sulla radura, iniziò a camminare in direzione del cecchino.

«Danny! Porco mondo… Danny! Che diavolo fai?!» sibilò Ramo, fuori di sé, chiamandolo, mentre il ragazzo passava a tre metri da loro, continuando  a camminare.

Nemmeno per un momento il suo sguardo, fisso sul cecchino, con un’espressione che Andrea non gli aveva mai visto in volto, diede segno di volersi voltare verso di loro, né di considerarli degni di alcuna attenzione.

Andrea tremò, e, a differenza di Ramo, che continuò a chiamarlo a filo di voce, irato, mentre il ragazzo li superava, lei non ci provò nemmeno. Era sicura che non l’avrebbe sentita, proprio come non stava sentendo Ramo.

Dovette fare forza e ribellarsi con cocciuta decisione per ostacolare Ramo, quando tentò di impedirle di sporgersi un poco oltre il tronco, per continuare a seguire Danny con lo sguardo, per vedere cosa sarebbe successo.

Quando realizzò che nessun colpo sarebbe partito verso di loro, perché ora tutta l’attenzione e l’arma del cecchino erano completamente concentrate su Danny, Ramo smise di opporre resistenza. Invece, si sporse dall’altra parte del tronco, con circospezione, per vedere anche lui Danny proseguire, entrando nella radura, a calmi passi. Quello che non riusciva davvero a spiegarsi, nonostante ritenesse di conoscerlo bene, era il tipo di lievissimo sorriso che incurvava le labbra dell’amico, quando li aveva superati.

 

*

***

*

 

Il relativo silenzio invernale del bosco di notte venne rotto di colpo. Una figura agile e veloce passò di corsa, e continuò.

Tratto dopo tratto, metro dopo metro, superando una moltitudine di alberi, che gli scorrevano intorno come uno scenario sfocato e poco importante, il ragazzo correva al massimo delle sue forze, piegando il corpo e tornando a rialzarlo, mano a mano che doveva concentrare più forza sulle gambe per superare salite, discese e parti pianeggianti.

Il fucile in mano, che correva parallelamente a lui, e l’altro braccio più sporto in fuori per aiutarlo nell’equilibrio. Semmai gli capitava di incespicare per un momento in qualche radice o in qualche arbusto, o di scivolare sul misto di neve sciolta e foglie morte, comunque recuperava l’equilibrio con testardo sforzo; e continuava a correre.

Scivolò più gravemente in un punto particolarmente denso di fanghiglia e in una discesa piuttosto acuta, e questa volta, non riuscendo a mantenere l’equilibrio, cadde; ruzzolò due o tre volte e strisciò sul fango, ma non si soffermò nemmeno allora. Approfittando dello slancio stesso della caduta fece immediatamente forza sulle ginocchia e si rialzò, continuando a correre in un balzo.

Di tanto in tanto, per tagliare attraverso fittumi di vegetazione bassa, li saltava semplicemente, talvolta impigliandosi nel mezzo d’essi, e sottraendosi a quelle prese con decisi strattoni.

Era così che Uther, nell’arco di minuti che scorrevano lenti, sebbene stesse correndo, si era già allontanato di molto dall’edificio presso cui aveva lasciato Zoal, Kumals e Justin. E ad ampie falcate si precipitava nella direzione da cui sentiva provenire, di tanto in tanto, degli spari, spesso isolati.

Si aggrappava a questo particolare, gli spari che continuavano. Lo avrebbero guidato. Ma, soprattutto, significavano che la sparatoria era ancora in corso, e che non si era in alcun modo giunti ad un momento decisivo.

Era abbastanza sicuro di non poter ancora riconoscere in quegli spari l’intervento di armi di tipologia diversa. Se era già arrivato, Danny non aveva ancora sparato un solo colpo. Tipico di lui. Aspettava il momento migliore, e non era suo uso mandare in giro pallottole senza avere un preciso obbiettivo e scopo, oltre ad una valida probabilità di colpire efficacemente.

Dunque, Uther era perfettamente convinto che non ci fosse veramente niente di cui preoccuparsi. Danny non avrebbe fatto niente di stupido, ne era certo.

 

 

 

Note dello scribacchiatore: il titolo, come altre volte, è diviso in due parti continuative, quindi la seconda metà è a titolo del prossimo capitolo. Il corsivo indica in questo caso una parte più “introspettiva” di uno specifico personaggio, come avrete capito anche da soli leggendo. Bene, posto non succeda nient’altro di particolarmente urgente/stravolgente/eccetera di mezzo il prossimo capitolo non tarderà! Salud!

 

Ritorna all'indice


Capitolo 56
*** 54 - ...UN LUPO CADERE ***


Capitolo 54

(… UN LUPO CADERE)

 

Zoal urlò di nuovo, in quel modo indefinibile; di nuovo, eppure nella sua voce si sentiva un’incrinatura pesante di sfinimento. Di nuovo alcuni, veramente pochi per la verità, di quei flussi di qualcosa di impalpabile si gettarono incontro alla folla di persone che procedevano verso di lei, disordinatamente, gli occhi vuoti come quelli di pesci morti, e gli arti protesi verso di lei, per afferrarla prima possibile. Di nuovo furono scagliati indietro da quelle forze non percettibili dalla comune vista, e si sparpagliarono in un mucchio confuso verso il muro opposto del capannone, come travolti da una piena di moderata ma decisa forza.

E di nuovo, un numero cospicuo degli altri flussi, che vorticavano e si scagliavano in ogni direzione per l’ampio spazio del magazzino quasi completamente vuoto, si gettarono sulla figura isolata di Zoal, come per inghiottirla in un sol boccone.

Sotto gli occhi ansiosi di Kumals, ancora ritto in piedi sulla piattaforma a seguire la scena, la donna barcollò pesantemente, e stavolta crollò verso terra; per un lungo momento egli credette che si sarebbe afflosciata completamente. Ma all’ultimo, Zoal riuscì a puntellare un ginocchio sul pavimento; e lì rimase, piegata, la testa abbassata sul petto come se avesse perso coscienza, e le mani in alto strette convulsamente al bastone ancora ritto in verticale di fronte a lei, le braccia tese e tremanti come se si stesse tenendo stretta sull’orlo di un precipizio vertiginoso.

Rimase così, violentemente scossa da un tremore incontrollabile, mentre i flussi continuavano a lanciarsi su di lei, creando qualche metro sopra la sua testa un vortice ferocemente ingordo, che andava aumentando di dimensioni. Kumals osservò il suo corpo, che pareva sul punto di cedere; osservò come alcune ciocche di capelli le si fossero sbiancate in un grigio fumoso, da vecchia; e soprattutto non riuscì a staccare gli occhi dal modo in cui giaceva abbandonata la gamba con la quale non era puntellata per non cadere del tutto, e il modo in cui le mani le tremavano così fortemente che non aveva idea di come potesse ancora riuscire a tenere stretto il bastone. L’ultima delle due zucchette rimasta appesa alla sommità della verga esplose, come l’altra che l’aveva preceduta qualche momento prima; il contenuto di vegetali secchi macerati in polvere, di sabbia e terra, piccole bacche dal colore vivace e pezzetti di corteccia si sparse attorno come una nuvola che implodeva, cospargendo Zoal e il pavimento intorno.

E Kumals pensò che non si sarebbe più rialzata.

Tuttavia, dopo lunghi istanti, come risvegliata dalla rottura improvvisa della zucchetta, Zoal si mosse. Mentre il tremore che la scuoteva si attenuava un poco, sicuramente solo per lo sforzo faticoso di lei di riprendere il controllo saldo dei suoi movimenti, la donna fece forza sulla presa sul bastone, tirandosi verso l’alto, e sul ginocchio puntellato a terra, spingendosi dal basso. Riuscì a rialzarsi, molto lentamente e faticosamente, dando l’idea che quell’azione le risultasse particolarmente elaborata. Si rialzò in piedi, a gambe un po’ allargate per mantenersi in equilibrio nonostante tutto; di nuovo ritta, da sola, dietro il suo bastone, che sembrava ben più saldo di lei.

Kumals distolse lo sguardo, rivolgendolo rapidamente verso gli schermi del centro di controllo e comando che occupava la piattaforma; i video non lampeggiavano né si lamentavano più, come impazziti. Righe che non riusciva a leggere scorrevano su di essi. Solo su uno di essi l’immagine era lenta, e spesso ferma. Era lo schermo davanti al quale erano impegnati le due figure, che leggevano riga per riga, o la scorrevano velocemente, scrivevano, battendo sulla tastiera, parlottavano tra loro, quasi discutendo animatamente talvolta.

L’uomo avanzò a passi decisi, e si fermò alle loro spalle. «Justin, Conte, a che stramaledetto punto siamo?» tuonò al di sopra delle loro teste, minaccioso.

Justin sussultò con evidenza, e urtò inavvertitamente un mucchio di fogli impilato di fianco a lui. Il mucchio si inclinò rapidamente e cadde verso terra, mentre le pagine turbinavano ovunque.

Kumals fissò il ragazzo con sguardo decisamente omicida.

«Non… Sono numerate!» si difese Justin, spaventato da quell’occhiata.

«Non si preoccupi, signor Kumals; in ogni caso, quelli erano i fogli che abbiamo già sistemato.» rassicurò il Conte, con voce fredda, a quanto pareva senza distogliersi minimamente dalla contemplazione del video. «Qui.» indicò un punto dello schermo col dito, poggiando la punta dell’unghia laccata di smalto nero rovinato su una parola che Kumals non era neanche sicuro fosse scritta nello stesso alfabeto che conosceva lui. «Cancella questa. E scrivi…» e il Conte prese a sillabare in dettato una sequenza di lettere ben precisa, mentre Justin le pigiava una ad una sulla tastiera, con le mani piuttosto tremanti. Quando pigiò il tasto di invio, altre parole sullo schermo mutarono di conseguenza, in automatico. Il Conte diede loro una rapida occhiata. «Perfetto.» concluse.

«Allora, adesso possiamo lanciare quella… cosa?» domandò Kumals con impazienza.

«Ancora qualche attimo di pazienza, signor Kumals, e potremo dare avvio all’antidoto.» spiegò il Conte.

«Programma di disinstallazione.» corresse Justin, automaticamente.

Kumals lanciò uno sguardo attento alla faccia contratta dalla paura, estremamente pallida e nervosa, del ragazzo, e per l’ennesima volta maledisse il fatto di trovarsi nella situazione di dover riporre il buon esito della vicenda nelle mani di qualcuno che aveva quell’espressione.

«In fretta. Zoal non ce la fa più.» si limitò a scandire in tono cupo. E si voltò di nuovo, per tornare al limite della piattaforma, dietro ai parapetti in lamiera; per guardare Zoal.

La donna era in attesa, si sarebbe detto. I suoi occhi, anche se gli voltava le spalle, dovevano essere rivolti con attenzione alla mandria di persone, che si stavano rialzando. Sembravano stordite e confuse, ma rapidamente riprendevano ciò che avevano interrotto: dirigersi cocciutamente verso di lei, e verso la piattaforma che svettava qualche metro dietro le sue spalle. Segno evidente che non erano affatto tornati in possesso delle loro consuete facoltà mentali.

Kumals, però, vedeva che nel modo di Zoal di aspettare c’era anche il tentativo di riprendersi abbastanza da poter lanciare un altro moto di flussi contro il gruppo. Ricordò molto bene le parole che la donna aveva pronunciato molto tempo prima; non ricordava esattamente la situazione in cui le aveva dette, il contesto, e non era mai stato sicuro di aver compreso di che cosa stesse parlando. Ma c’era qualcosa, ora che guardava cosa stava facendo, che gli aveva fatto rammentare di quelle parole.

‘E’ sempre più facile distruggere, piuttosto che rendere innocuo; uccidere, piuttosto che disarmare. Più facile, tecnicamente parlando. E più sicuro, almeno sul momento…

Di colpo, quelle parole ricordarono a Kumals anche le preoccupazioni espresse da Uther, diversi giorni prima, quando il ragazzo non era sicuro di voler intervenire in una situazione in cui avrebbero potuto trovarsi a fronteggiarsi quelle persone ridotte in stato amebico. Aveva parlato lucidamente a proposito del fatto di non poter fare loro del male, ma che si sarebbe rivelato praticamente impossibile, considerato il loro atteggiamento. Solo ora Kumals realizzò nettamente quanto avesse avuto una lungimirante, totale ragione. Per un istante gli si affacciò alla mente tutto quel sangue sparso per terra, dopo che Danny aveva ucciso quel tizio che stava aggredendo Andrea. Tutt’ora non avevano idea di chi si trattasse. E, Kumals se lo ripromise fermamente, nel caso fosse riuscito a uscirne vivo avrebbe fatto di tutto perché Danny non lo scoprisse mai. Ed era evidente il modo in cui quella ipnotizzazione collettiva era stata progettata: per creare carne da macello. Il fatto che loro non fossero stati disposti a trattarla come tale, fin’ora sembrava semplicemente avere il potere di scaravoltare la situazione: rendere loro carne da macello.

Zoal si preparò a lanciare un altro flusso potente per respingere la folla che iniziava a camminare rapidamente verso di lei. Kumals pensò che stavolta sarebbe caduta. Lui non aveva idea di come proteggerla da quella sorta di “cose” che tempestavano per tutta la stanza, e che le sarebbero di nuovo rovinate addosso; in primo luogo… non sapeva nemmeno che cos’erano!

Fu allora che risuonò un rumore inequivocabile.

Il rumore salì nell’aria, al di sopra del rumore di passi strascicati della folla che avanzava, facendosi udire chiaramente. Era un latrato; e fu seguito da uno scampanellio piuttosto allegro, che apparve stupidamente fuori luogo.

Kumals e Zoal compresero immediatamente, mentre diverse delle persone che componevano il gruppo che si stava precipitando su Zoal rallentarono, o si fermarono proprio, voltandosi su se stesse, per cercare la fonte del rumore.

Danza, ferma in piedi sull’ingresso spalancato dell’hangar, abbaiò di nuovo, con decisione.

Una generosa parte delle persone che la fissavano si gettò allora verso di lei, cambiando repentinamente obbiettivo; e il cane attese, paziente, finché non furono abbastanza vicine, prima di iniziare ad allontanarsi trotterellando. Così uscì dal capannone, quasi scodinzolando soddisfatta, e scampanellando col suo pendaglio appeso al collare, si lasciò seguire di buon grado dai suoi aspiranti aggressori.

Una trentina forse di persone, rimaste nell’hangar, si crogiolavano nell’indecisione. E Kumals scattò. Scese a precipizio gli scalini, abbandonando la piattaforma, e prese ad attraversare l’hangar di corsa, dirigendosi verso il suo cappotto, che Justin, costretto dagli ordini di Collins, aveva lasciato prima abbandonato in un angolo. Decise di ignorare costantemente e il più possibile il fatto che la trentina di persone, notando il suo movimento, si stessero gettando entusiaste su di lui.

Zoal gridò un verso di allarme, roco e debole, e lui ignorò anche quello.

Appena raggiunto il cappotto, si chinò e lo raccolse in tutta fretta; lo indossò fulmineamente, e si voltò per affrontare a viso aperto le persone che stavano arrivando su di lui.

Fu allora che una musica classica iniziò a spandersi per tutto l’ambiente dell’hangar, lasciando attoniti tanto lui quanto Zoal. Ma, ancora più stranamente, e fortuitamente, fece fermare lì dove si trovavano anche tutti i corpi immemori che gli stavano correndo addosso.

 

*

***

*

 

Sì, era vero: Johnson non era il suo vero nome, ma solo uno dei tanti che aveva usato di volta in volta come copertura; una parola come un’altra, che potesse servire, a chi ne aveva bisogno in quella missione, per rivolgersi a lui. Ne aveva indossati così tanti di quei nomi casuali, che ormai non rappresentavano niente più che qualcosa come un paio di calzini usa e getta per lui. Ne aveva cambiati così tanti, che nemmeno lui pensava a se stesso con qualche nome in particolare. Adattarsi al meglio ad ogni aspetto specifico del suo mestiere faceva parte della sua professionalità, era una delle sue migliori quotazioni come cecchino e assassino, una versione di agente segreto raffinata dalla precisione netta nell’esecuzione suoi compiti e dal fatto che essi fossero sempre sgombri, puliti da ogni residuo di emozione troppo forte, di riscontro morale od etico, di empatia, di quella che qualcheduno si ostinava a chiamare e rivendicare come “umanità”; come se non si potesse più appartenere al genere umano, pur facendo a meno dell’indefinibile, imprecisato concetto di “umanità”. Tutt’altro: per certi versi diventava molto più facile.

Qualcosa, tuttavia, vibrò all’interno dell’uomo, quando si sentì apostrofare a quel modo.

«Mercenario….» scandì il ragazzo che gli era di fronte, pochi metri a separarli. Sebbene se ne stesse con le braccia alzate in segno di resa, e un fazzoletto da naso usato e di un colore grigiastro tenuto a penzoloni dalle dita di una mano, quel ragazzo non dava segno di essere disposto a mostrare uno sguardo cedevole o arrendevole; a dirla tutta, non sembrava nemmeno preoccupato o tutt’al’più intimidito. Al contrario, aveva un sorrisetto tagliente, convinto, furbo. Una scintilla di forza fiduciosa gli saettava per lo sguardo, puntando dritta su di lui, come se quel ragazzo fosse convinto di essere lui a starlo tenendo sotto tiro.

Johnson aveva visto altre volte quel comportamento, perciò non ne era sorpreso. Nella lista dei suoi passati obbiettivi – che, per la precisione, non aveva mai mancato – figuravano alcuni soggetti come quelli: forse si sarebbe potuto dirli ‘pazzi’, semplificando, o meglio insensibili al fatto di stare per morire. Nulla di ciò, dunque, lo sorprendeva. Piuttosto, c’era qualcosa che lo incuriosiva. Doveva trattarsi del fatto che era la prima volta che il suo obbiettivo era un lupo mannaro.

Quella parola, però, ‘mercenario’, ebbe il potere di fargli provare qualcosa, per un momento. Una sensazione fuori dal suo controllo, e perciò bruciante, perché da tempo non vi era più avvezzo. Era una parola, una definizione, che suonava sgradevolmente grezza rispetto alla sua pulita professionalità; aveva un sapore di retrò medioevale, di rozzità. Non era certo un energumeno che andava a spaccare il cranio alla gente con un martello da fabbro, lui. Affatto, e tutt’altro. Aveva un corpo snello e muscoloso, scolpito dagli addestramenti e allenamenti, che lui continuava a fare in proprio, per mantenersi uno dei più rispettati e ricercati killer a pagamento. Anche la sua testa e la sua mira erano, inutile dirlo, perfettamente allenati, in splendida e massima forma.

Sparare un colpo subito e freddare quella specie di mostruosità semi-umana, quindi, al momento gli sembrava un gioco ridicolmente semplice. Il tanto decantato fatto che quel tizio fosse un ‘lupo mannaro’, ovvero secondo i suoi superiori un obbiettivo da non sottovalutare e da tenere in più alta considerazione rispetto ad una vittima umana, in quel momento sfumò definitivamente per Johnson. Ma era curioso di sapere, tutto sommato, cosa passasse per la testa del lupo mannaro, cosa lo avesse convinto ad esporsi così, a venirgli incontro come se volesse parlargli. Non considerava che avrebbe potuto dirgli nulla di interessante; dopo un po’, tutte le lamentazioni, gli scongiuri, le minacce, le promesse, le blandizie delle vittime diventavano un disco rotto, mortalmente noiose, tutte simili tra loro in fondo. Già da tempo Johnson non permetteva nemmeno ai suoi obbiettivi di iniziare quelle inutili manfrine spregevoli e tediose; li freddava prima. Ma, dopotutto, forse si trattava dell’unica volta in vita sua che avrebbe avuto occasione di sopprimere un lupo mannaro; sì, c’era indubbiamente una curiosità un po’ turistica e da collezionista, a proposito di come un lupo mannaro poteva esprimersi diversamente da un essere umano. E poi, scegliere proprio il termine ‘mercenario’ non era cosa così scontata.

Ma c’era quel particolare fastidioso in più, innanzi a tutto il resto: indubbiamente, era riuscito a infastidirlo.

«Lupo mannaro.» disse di rimando «Per te posso anche essere chiamato ‘morte’.»

Un sogghigno, singolarmente sia divertito che triste, sopraggiunse sul volto del ragazzo. «’Mercenario’…» spiegò, con calma «…perché hai fatto diversi errori grossolani. E forse è solo perché ti sei montato la testa, in fondo…»

Forse, alla resa dei conti, ciò che rendeva un lupo mannaro diverso da un essere umano non era niente più che la capacità di parlare a vuoto, ma riuscendo ad essere nel contempo particolarmente irritante, considerò Johnson tra sé e sé, accarezzato dalla tentazione di far partire immediatamente il colpo dalla sua pistola moderna ed efficiente, puntata con precisione cecchina – per l’appunto – sul petto del ragazzo, in corrispondenza del cuore.

«Davvero?» si ritrovò a dire, suo malgrado; nel disegno rapido della sua testa, mappato fin nei minimi dettagli, i piani erano lievemente cambiati. Preferiva farlo iniziare a parlare, lasciargli l’illusione di poter recitare completamente la sua straziante o penosa commedia d’addio; quando fosse stato ad un punto saliente della stessa, però, lui vi avrebbe messo bruscamente fine, senza alcun preavviso, semplicemente premendo il grilletto. Era l’equivalente di far scendere il sipario a tradimento proprio mentre il protagonista sta esprimendo con tutta la sua passione il monologo più importante e commovente di tutta l’opera. Lo deliziava.

«Non hai fatto che tenerti a distanza di sicurezza, in questi giorni… come se avessi paura. Era di me che avevi paura?» domandò Danny, sempre con molta calma.

Questo non rientrava nei piani; il ragazzo – o meglio, il lupo mannaro – non stava procedendo col suo copione. Invece di elencare i presunti errori che aveva riscontrato nel suo agire, come a volerla avere vinta su di lui in quel modo anche se sapeva che sarebbe morto comunque, stava esitando, come se una banale curiosità l’avesse colto di sorpresa. Ma quella specie di psicologia pre-morte che Johnson aveva sviluppato in tutti i suoi anni di onorata carriera gli permetteva di capire anche questo; improvvisamente alla sua vittima sembrava insufficiente averla vinta in un solo modo, e dunque voleva averla vinta doppiamente, non solo enumerando i suoi errori, ma anche facendogli ammettere di aver paura di lui. Scarso tentativo. Quel lupo mannaro gli sembrava sempre più alla stregua di una qualsiasi delle sue vittime umane. Per poco non gli veniva da avanzare qualche rimostranza in proposito. Invece rispose.

«In effetti no. Certo, se avessi saputo che ti saresti limitato ad arrenderti così, forse ci avrei fatto un pensiero prima. Lo ammetto, non avevo mai incontrato un lupo mannaro. Tutto quello che volevo evitare era che mi rintracciaste, e acceleraste un po’ i piani del mio attuale diretto superiore.»

Si riferiva a Collins, naturalmente, quella specie di scienziato megalomane da strapazzo, col suo assurdo capriccio di incontrare almeno uno o due dei membri di quel ridicolo gruppetto di “scaccia-spettri”. In base alle accurate informazioni diligentemente fornite a Johnson – il quale prima di ogni missione ci teneva ad avere un quadro quanto più preciso e pulito possibile del campo dove stava andando ad operare – i componenti del gruppo non erano che una accozzaglia di imbroglioni di basso grado, degni di un circo. Per un momento fu tentato di dirlo, al ragazzo; dirgli qualcosa di pungente, come accennare al fatto che, dopo averlo steso, gli avrebbe preso la testa per appenderla ad una parete di casa sua. Sotto ci avrebbe scritto ‘lupo’, e si sarebbe divertito del fatto che i suoi ospiti l’avrebbero scambiato per un macabro scherzo, vedendo una testa umana. Naturalmente avrebbe mentito, perché lui non aveva una cosa come una casa fissa, né ‘ospiti’ di quel tipo che si divertono agli scherzi goliardici come quello. Però valeva la pena di provare a scardinare quel ghigno dal viso della sua vittima, e farla scaldare un po’, per vedere qualche effetto speciale da ‘lupo mannaro’, prima di ucciderlo.

«Hai tentato di far fuori Andrea ed Uther, sotto quel lampadario.» disse quello che gli stava di fronte, e che in base alle informazioni si faceva chiamare ‘Danny’.

La trovò una cosa stupida da fare presente, perché lui lo sapeva benissimo che cosa aveva tentato di fare. Il punto era che non aveva ‘tentato’… era stato un modo per cercare di spaventarli, di rimetterli al loro posto, di indurli a disinteressarsi della faccenda. I suoi superiori non la pensavano come Collins, non erano cioè particolarmente affascinati da quei ‘4 di picche’; e lui poteva ben capirlo. Quello che non capiva era perché non gli avessero ordinato di abbatterli tutti, per toglierseli dai piedi in fretta. Invece, erano stati stranamente più “diplomatici”: lo avevano incaricato di cercare di allontanarli, e di fare intanto credere a Collins di stare seguendo il suo piano di farli arrivare, alla fine di una catena di indizi, alla casa dove stava conducendo l’esperimento. Voleva mostrarlo loro, e in particolare ad uno di loro, aveva detto Collins. Per quanto gliene importava di Collins, avrebbe potuto freddare anche lui senza battere ciglio; e non era escluso che prima o poi gli sarebbe stato ordinato anche quello. Anzi, forse un po’ ci sperava. Quell’uomo gli dava ai nervi, specie per il suo trattarlo come ‘bassa manovalanza’. Ma Johnson pensava che fosse solo un esaltato allucinato dalle proprie stesse manie di grandezza; uno di quelli che, quando già esistono modi sicuri ed infallibili per uccidere, come una pistola, si metteva a progettare un astruso sistema complicato e intricato per girare intorno al punto fondamentale: prima o poi tutti avrebbero dovuto aver a che fare con la morte. La posizione di Johnson, per quanto lo riguardava, poteva essere considerata in maniera un po’ diversa, significativamente; lui era una specie di alleato della morte, una delle sue tante mani. Una mano particolarmente pulita, efficiente, sicura.

«Ebbene?» chiese al lupo mannaro. Per un momento gli parve di scorgere un rapido intensificarsi di un baluginare sommerso negli occhi di quel ragazzo.

«Questo è stato uno degli errori.» gli comunicò, sempre così convinto del fatto suo da apparirgli sempre più ridicolo «Poi, ce ne sono altri tre.»

Ora sogghignava anche Johnson, sebbene a malapena. Non era sua abitudine perdere tanto tempo a giocare, o almeno, era da anni che non ci si soffermava così tanto. «Ti assicuro che non è mia abitudine fare errori; e questo caso non fa eccezione.» chiarì risolutamente.

Non aveva idea di a che cosa si riferisse quella sua vittima; era certo come che il cielo sta sopra la terra che lui non aveva commesso alcun errore. Alcuni dei cosiddetti ‘4 di picche’ dovevano già essere arrivati al laboratorio di quel degenerato di Collins, e gli altri erano tutti lì con lui: tutto ciò che doveva farli era ucciderli uno dopo l’altro. Sapeva che solo tre di loro erano armati.

Uno, quello di origine tedesca, era da Collins: gli aveva assicurato che ci avrebbe pensato lui, e con tutto quell’esercito di persone inebetite non era difficile immaginare come. Quel tizio avrebbe finito le cartucce molto prima di aver potuto stendere tutte quelle persone.

L’altra era la ragazza, quella che viveva in quella casa nel bosco; e le sue due armi bizzarre a forma di cerchio lo avevano mancato ed erano una infissa in qualche tronco alle sue spalle, e l’altra chissà dove tra gli alberi, a buona distanza.

Infine, il terzo e ultimo armato era davanti a lui; non aveva alcuna arma in mano, e se solo avesse accennato al proposito di impugnarne una, lui avrebbe saputo esattamente cosa fare, ed avrebbe agito immediatamente.

E tutti gli altri componenti di quella combriccola da operetta giacevano nascosti dietro qualche tronco poco più avanti. Per ora li stava monitorando solo con la coda dell’occhio, e vedeva almeno un paio di loro sporgersi da dietro l’albero per assister a cosa stava facendo il loro stupido amico; quelli sarebbero stati i prossimi.

Se qualcuno di loro avesse cercato di approfittare della sua attuale concentrazione sul lupo mannaro per uscire allo scoperto, si sarebbe liberato di lui immediatamente con un solo colpo, e poi avrebbe colpito anche loro. La sua mira era infallibile, la sua rapidità nel prenderla eccezionale: nessuno con sale in zucca si sarebbe sognato di assoldare un cecchino che non fosse perlomeno oltre ogni migliore aspettativa quando si trattava di fare del tiro al bersaglio. I bersagli mobili, in particolare, rendevano la faccenda più interessante; almeno lo avrebbero fatto divertire un po’ di più di quanto non stava facendo quel deludente lupo mannaro.

«Primo:…» lo sentì dire, continuando il suo discorso.

Sospirò, e si decise. Era proprio l’ora di finirla.

«… non hai proiettili d’argento nel caricatore.» disse Danny, ancora sogghignando. E mentre lo diceva una delle sue mani scattò: abbandonando il fazzoletto che aveva stretto tra le dita in segno di resa, si portò la mano al fianco ed estrasse in un lampo la pistola dalla custodia appesa alla cintura. Era già carica, e la stava già per puntare su Johnson. Ma l’altro sparò.

Il proiettile lo prese in pieno, dritto sulla spalla del braccio con cui Danny impugnava la pistola, che gli cadde di mano; a causa del movimento che stava compiendo per puntarla addosso all’altro, l’arma atterrò sul terreno ad almeno un metro da lui, come se l’avesse lanciata. Ma aveva altro di cui preoccuparsi, che lo volesse o meno.

Danny dovette stringere i denti molto forte per trattenere il forte gemito di dolore che lo colse, mandandogli una scarica frantumante a riverberare per tutto il corpo. Cadde su un ginocchio, quello della gamba corrispondente al braccio ferito, e rimase con l’altro ginocchio piegato, come se fosse inginocchiato. Il sangue sgorgò generosamente dal buco apertogli nella spalla; il proiettile l’aveva trapassata da parte a parte, e il dolore lancinante gli oscurò la testa per un momento. Quando iniziò a recuperare un poco di lucidità, vide l’assassino che avanzava verso di lui a lenti passi tranquilli, come se stesse facendo una passeggiata; si fermò di  nuovo, ancora a qualche metro da lui, la pistola sempre puntata, stavolta alla sua testa. Sembrava divertito e di ottimo umore.

«Converrai con me che, se ben assestato, anche il proiettile più infimamente comune può essere adatto allo scopo.» gli disse, col tono di chi fa un’osservazione puramente accademica.

Danny sentì l’aria impregnarsi dell’odore del suo sangue, che già gli stava bagnando i vestiti, aprendosi a macchia intorno alla cospicua ferita, allargandosi velocemente. Gli parve di udire il rumore sottile, quasi inesistente, del gocciolare del plasma sullo scarso strato di neve davanti a lui. Ma rimase cogli occhi fissi sul cecchino. Sembrava stesse aspettando qualcosa.

Gli parve di sentire delle urla, ed ebbe timore che dietro di lui, da qualche parte, Andrea fosse uscita allo scoperto dal suo riparo, probabilmente per correre verso di lui; non aveva più molto tempo, in ogni caso.

«Secondo:…» disse, sforzandosi di scandire la parola in modo comprensibile.

Il cecchino premette il grilletto.

Andrea gridò così forte, dietro di lui, che gli sembrò potesse mandare in pezzi tutto quanto li circondava, davvero; sembrò che avesse il potere di negare al proiettile di compiere il tragitto fino a lui, di farlo tornare indietro, fin dentro la canna della pistola che gli era puntata addosso.

In effetti, però, non c’era nessun proiettile.

L’urlo che aveva fatto Andrea riecheggiò tra gli alberi, il cielo e la neve, e parve un eco stupito, incredulo; gli occhi dell’assassino erano uno spettacolo del tutto diverso. E la performance migliorò, agli occhi di Danny, quando lo vide premere il grilletto una seconda e una terza volta in rapida successione, testardamente e con irritazione; vanamente.

«… quello era l’ultimo colpo di quel caricatore.» annunciò Danny. Se il dolore alla spalla non gli fosse stato così dannatamente pressante, avrebbe cercato di mostrargli almeno un sogghigno, ma non riuscì a fare altro che fissarlo con serietà, mentre l’altro realizzava che forse lui lo sapeva già; forse aveva contato i colpi, dopo aver riconosciuto a vista e udito il tipo di arma che stava usando, e sapeva quanti colpi contenevano i caricatori che vi erano abbinati. Danny non lo avrebbe soddisfatto rivelandogli se la sua era stata fortuna o intelligenza. C’era un’altra cosa che gli premeva dire, al momento.

«Terzo:…» mormorò, sentendosi già molto debole per il sangue che continuava a correre fuori dalla ferita, iniziando a innestargli un bruciante formicolio anche per il fianco, oltre che in tutto il braccio. Si soffermò per un momento a osservare le mosse estremamente rapide, ma allo stesso tempo guidate da una fredda determinazione e precisione, con cui il cecchino estraeva dalla tasca un caricatore ed iniziava ad immetterlo nella sua pistola infallibile.

In una sola fluida e rapidissima mossa, giacché dopotutto lui, in quanto lupo mannaro, poteva permettersi di essere più veloce di qualsiasi pistolero umano, Danny si portò il braccio sano, il sinistro, dietro la schiena; le sue dita trovarono senza bisogno di cercare o esitare l’impugnatura della seconda pistola, quella che portava sempre tra la schiena e la cintura, sotto la maglia. Con movimento altrettanto fluido del braccio sano la portò davanti a sé, alzando la canna verso Johnson, il quale aveva appena finito di inserire il caricatore, ma iniziava anche già a rendersi conto fin troppo chiaramente di che cosa stava accadendo.

Il colpo di Danny gli trapassò la gola di netto; il sangue dell’assassino che aveva portato come ultimo il nome ‘Johnson’ schizzò la neve mentre il suo corpo atterrava pesantemente all’indietro sulla schiena. Risuonò un altro sparo, perché dopotutto aveva fatto in tempo a stringere il grilletto, solo che il suo era stato un gesto già perso in partenza, perché l’aveva fatto nel momento in cui stava già cadendo; il proiettile si disperse tra gli alberi, finendo chissà dove.

«… io porto sempre due pistole.» terminò Danny, con voce fioca, a fatica.

Dopo, si sentì precipitare. Cadde in avanti, afflosciandosi un po’ su se stesso nel contempo, e vide il terreno venirgli incontro molto velocemente, prima di chiudere gli occhi d’istinto.

 

Certo. Era proprio così che funzionava. La libertà si paga, molto duramente. E spesso ogni gesto di quel tipo è l'ultimo quando è ancora il primo. Non c'era alcuna amarezza o arrendevolezza o recriminazione, nessun sentore di giustizia, era così che funzionava. E capì che lo sapeva, o lo immaginava, perché ricordava anche quello, che funzionava così.

E mentre cadeva come se fosse privo di peso, comprese anche che sapeva perché lo aveva fatto. Dietro di lui gli altri sarebbero rimasti indenni, lo sapeva, oh, lo sapeva così chiaramente.

Sentì il suo corpo cadere, afflosciarsi, e di già non gli sembrava nemmeno più il suo corpo, già non gli apparteneva, come una vecchia pelle che si lasciava oltre; avrebbe preferito guizzarne fuori spensieratamente, e invece essa gli bruciava attorno, senza garanzia di lasciarlo intatto. E lui non aveva ancora una nuova pelle in cui infilarsi.

Il lieve sentore di un senso di pace che lo pervadeva, qualcosa che non aveva mai provato ma che subito gli parve infinitamente meraviglioso.

E poi quel suono squarciò la sua visione, come un pugno su una superficie d'acqua intatta. Più precisamente, due suoni orribili in rapida successione, mentre il suo corpo senza più coscienza cadeva, e lui non sentiva nemmeno l'impatto col terreno, ma solo il senso di precipitare da un'altezza maggiore verso il centro della terra. Due rumori orrendi che gli trapassarono le orecchie e gli bucarono l'anima. Un grido soffocato e debole, una sorta di gemito, vinto dal dolore che porta prima di poter raggiungere intensità sufficiente da farsi sentire.

Era Andrea. Proprio lei. Anche lei si era lasciato alle spalle per la libertà? Ma aveva conosciuto la libertà molto prima di conoscere Andrea, questo lo ricordava. E anche molto meglio. Lui apparteneva alla libertà, ed essa, almeno per qualche istante, gli era appartenuta, completamente. Eppure... Andrea, lei non avrebbe capito. Non avrebbe capito quello che anche lui aveva rischiato di non cogliere. L'avevano entrambi creduta una spavalderia la sua, un gesto libertino, sconsiderato e completamente, pazzamente irresponsabile, un'ostentazione di eroismo apparentemente grandiosa e in realtà orribilmente leggera. Ma non lo era, lui l'aveva capito, sì, proprio un istante prima dello squarcio del tuono che aveva rimbombato dentro il tubo di metallo. Non l'aveva fatto per , per sembrarsi migliore. Si era sentito stupendo, sì, ma quella meravigliosa ispirazione, quella chiarezza folgorante era partita dal desiderio di loro incolumi. Lo sapeva, in fondo, anche se avrebbe preferito non ammetterlo. Ed era sollevato in fondo che lei non l'avesse capito.

Poi l'altro suono, non meno tremendo, un grido che gli mandò in pezzi ciò che restava del suo cuore, irrimediabilmente. Il grido di dolore puro, puro come la sua libertà, e altrettanto radicale e istintivo, altrettanto potente; per questo gli fece così male, quasi più della ferita che finiva di bruciargli il cervello e il corpo. Ed era Uther, come lui ora sciolto da ogni paura, ogni remora, ogni esitazione, come lui preso da un unico senso puro e totalizzante, posseduto da esso, mentre tutto il resto si annullava pallidamente ai margini. Ma tanto era stato bello il suo senso, la libertà, così era pesante e orribile come il guizzo di una lama nel profondo il senso di Uther: dolore e disperazione senza fondo, senza fine, senza fondo... Liberato delle sue redini lui aveva volato, davvero, si era alzato in volo per un momento infinito. Uther invece precipitava, e il suo urlo non era un richiamo di salvezza o il tentativo di non cadere per sempre, ma semplicemente espressione del suo precipitare senza fondo.

Comprese, di nuovo e meglio. Uther aveva capito. Uther aveva capito con intuizione immediata che lui non lo aveva fatto per sé, ma per loro, primariamente, anche se gli era piaciuto così tanto che si era illuso per la maggior parte del tempo di averlo fatto per sé e basta. Ma Uther aveva capito, forse quasi prima di lui. E non glielo avrebbe mai perdonato. Mai.

I suoi occhi erano già ciechi, anche se non riusciva a capire se li aveva aperti o chiusi. Eppure, era come se iniziassero a vedere un’altra scena. Non era possibile, no?

Ma ecco il dolore che arrivava, un'onda nera bruciante e orribile, troppo spaventosa per tollerarne la vista. E il piccolo lupo sul ciglio del burrone sapeva che non poteva sfuggirgli altrimenti che in un unico disperato e ultimo modo: così spiccò un balzo. Prima in alto, per qualche prezioso frammento di metro, e poi giù, dritto nel dirupo nero e informe.

'Addio', si accorse di pensare.

Ma non capì a chi si stesse rivolgendo, perché lui era solo là.

 

 

 

 

Note dello scribacchiatore:

se avete seguito fino a qui, nel bene e nel male del mio scribacchiare tentando di rendere al meglio delle mie attuali possibilità questa storia, vi chiedo di non abbandonarla ancora. Lasciatemi qualche altro capitolo, perché in effetti ce ne sono diversi altri (non temete, la lunghezza vista in questi è un’eccezione, la gran parte degli altri torneranno della lunghezza più limitata perlopiù mantenuta fin’ora).

E non temete per Danny; in fondo, sono in qualche modo fiducioso che egli sappia come cavarsela in pressoché qualsiasi situazione, anche se a modo suo…

 

 

Soundtrack: Pet Semetary (Ramones)

Ritorna all'indice


Capitolo 57
*** 55 - RISVEGLIO E SONNO ***


Capitolo 55

(RISVEGLIO E SONNO)

 

Cari signori cospiratori del cazzo,

mi trovo in un certo luogo che potrebbe esservi famigliare, e mi stavo chiedendo se questo potrebbe interessarvi, perché sto per farvi una proposta.’

Justin interruppe la digitazione sulla tastiera, e si voltò a guardare Kumals. «Non vuoi mandargliela davvero, no?» chiese, cercando rassicurazione.

L’uomo lo guardò, al di sopra della sua tazza di tè terribilmente freddo, e alzò lentamente prima un sopracciglio, poi anche l’altro. «Oh, no, Justin, certo che no!» rispose, e il ragazzo sembrò riprendersi.

«Ti sto dettando una mieil solo perché così, sul momento, mi annoiavo, e sai, volevo vedere come stai nei panni di una brava dattilografa.» continuò Kumals, il tono trasudante un sarcasmo piuttosto alterato.

Justin impallidì di nuovo, boccheggiò per emettere qualche cosa, ma Kumals alzò una mano davanti a lui, facendogli segno di aspettare prima di dire qualsiasi cosa volesse esprimere. Justin si interruppe, effettivamente, e guardò Kumals voltarsi per lanciare uno sguardo interessato in un altro punto della piattaforma.

Zoal giaceva sdraiata per terra, il capo appoggiato sulla larga schiena di Mama; pareva profondamente addormentata.

«Come sta?» domandò Kumals al Conte, seduto di fianco a lei.

«Oh, per quanto io non possa contare su valide conoscenze mediche, azzarderei che le sue condizioni siano stabili e buone. Giace immersa in un profondo sonno.» rispose quegli, distraendosi per un momento dalla conversazione che stava intrattenendo con cinque persone.

I cinque rivolsero uno sguardo risentito e sospettoso a Kumals, il quale non li degnò minimamente. Il fatto che quelli fossero gli auto-incaricatisi nuovi leader di tutte le persone che erano ritornate alla normalità una mezz’ora prima circa, udendo il suono della musica classica che, per qualche motivo, Collins aveva abbinato al programma di ‘risveglio’ che Justin e il Conte erano riusciti a perfezionare e riattivare, non sembrava sfiorarlo particolarmente.

Sorbì un lungo sorso di tè dalla tazza, e lo ingoiò a fatica, gelido com’era. Seduto sul bordo di una delle pulsantiere enormi e squadrate che occupavano buona parte dello spazio orizzontale della piattaforma, dondolava con nonchalance i piedi al di sopra del corpo riverso di Collins. Erano dopotutto diverse le cose che sembravano non tangerlo più di tanto in quel momento.

«Allora, questa mieil.» disse, ritornando a dedicarsi a Justin.

«’E-mail’. Si dice ‘e-mail’…» rispose quello, con voce quasi incorporea.

«Esatto, dove eravamo arrivati?» ma senza aspettare risposta si sporse a leggere nello schermo, quindi, riprese a dettare. Justin, dopo un lungo momento di esitazione, riportò le dita alla tastiera.

Si da il caso che io abbia trovato questo riferimento nella rubrica personale del signor Collins, grazie alla brillante operazione di hackeraggio di uno dei miei attuali soci.

«’Socio’? Davvero?» domandò Justin, improvvisamente entusiasta. Poi, però, si rabbuiò di colpo, e le sue spalle si abbassarono insieme al morale. «Questo mi rende anche tuo complice…

Kumals agitò una mano per aria con noncuranza. «E’ solo retorica. Scrivi, vorrei togliermi questo sasso dalla scarpa al più presto.» raccomandò.

‘E si da anche il caso che il signor Collins giaccia al momento morto qui ai miei piedi. Prima di morire, però, è mia premura farvelo sapere, ha cantato meglio di un usignolo ad un concerto canoro; tutto ciò che non mi ha detto, comunque, è ordinatamente contenuto in questo computer, che il mio socio non ha avuto problemi ad esplorare da cima a fondo.’

«Beh, questo non è vero…» osservò Justin con onestà d’intenti. «Mi hai solo detto di fare un back-up su cd, sostanzialmente, ma non è che io abbia proprio indagato tutto quello che…»

Kumals lo fulminò con lo sguardo. «E’ sempre retorica, come ti ho detto. E ti sarei grato se ti astenessi da ogni altro commento. Un po’ di professionalità, per favore.»

‘Così, voi capirete che se ancora mi sfuggiva qualcosa, a proposito degli eventi che si sono verificati qui a Castle MacHearty e dintorni, ora ne ho un quadro più che completo. Non solo: ora dispongo del materiale sufficiente per poter tenere, se questo dovesse essere un giorno di mio interesse, una serie di presentazioni in tour per il mondo intero.

Voi sapete bene, signori, che non è mio costume dirvi tutto questo per vantarmi. In passato, alcuni di voi potranno ricordare di aver concluso interessanti accordi con il sottoscritto. E costoro sanno bene che mi sono sempre premurato di non parlare mai male di loro, o in generale dei loro affari.

Quindi ritengo che io goda presso di voi di sufficienti referenze per poter avanzare le seguenti richieste, in cambio di una mia totale amnesia che presto potrebbe incorrermi riguardo ai nomi coinvolti in questa vicenda.’

«E come vi stavo riportando con la massima esattezza ora consentitami dalle circostanze, è stato a quel punto che io e Justin, quel giovane che vedete laggiù, siamo riusciti nel periglioso intento di dare voce al programma, che vi ha riportati sani e salvi alle condizioni normali in cui vi trovate in questo preciso momento.» terminò di narrare il Conte.

Gli sguardi che si ritrovò addosso, tuttavia, erano tutt’altro che grati; ciò lo sorprese sgradevolmente, e gli fece sorgere il sospetto di non stare avendo a che fare con quelli che si potrebbero definire gentiluomini.

In quella, sentì Kumals che gli si affiancava. Tutto il suo pubblico dei cinque rappresentanti temporanei delle persone risvegliatesi dal programma di Collins si concentrò su di lui, con in sottofondo ancora la musica classica che si spandeva per tutto l’hangar dagli altoparlanti fissati sulla parte più alta della piattaforma.

«Allora, vi è piaciuta la storia?» domandò Kumals.

Un uomo corpulento e dallo sguardo sanguigno gli si rivolse in tono duro e deciso. «Volete spiegarci ora perché ci avete lasciato a parlare con questo pagliaccio, a sentire queste panzane?» domandò.

Se fosse stato possibile, il Conte sarebbe impallidito; ma si limitò a stirare il volto in un’espressione di profonda offesa, mentre si portava una mano al petto, incredulo nell’udire tanta mancanza di un minimo di decenza.

Kumals incrociò le braccia sul petto. «Quindi non credete ad una parola di quello che vi ha detto?»

L’uomo fece un passo avanti, piuttosto minacciosamente, ed esclamò. «E’ pura fantascienza! Se pensate di prenderci per il culo, beh, avete sbagliato persone! E ora, vorrei proprio sentire come è possibile che ci troviamo qui, nel bel mezzo del nulla, e ridotti in questo stato!»

Kumals sospirò pesantemente. Mentre guardava per un momento le altre persone ripresesi dallo stato catatonico, solo per entrare in una condizione di shock, nel ritrovarsi sperdute in una casa semi-abbandonata nel bosco, con i vestiti stracciati e luridi, affamate e assetate e molto dimesse, si infilò una mano in una tasca dei pantaloni. Estrasse una cartina più volte ripiegata, la distese e iniziò a studiarla con lo sguardo.

Il Conte notò con una certa apprensione che l’uomo con cui stavano dialogando, ma anche un po’ le altre quattro persone, le uniche che sembrassero avere ancora energia e determinazione sufficiente per cercare perentoriamente di capire cos’era accaduto, stavano valutando il proposito di strappare di mano la cartina a Kumals; ma, come altre volte, c’era qualcosa in quell’uomo, qualcosa di indefinibile, che le faceva esitare e temporeggiare.

Kumals porse loro la cartina dispiegata. «Su questa pianta è segnato il punto in cui vi trovate ora. Seguendola, potrete ritornare a Castle MacHearty. Dovrete attraversare il bosco, naturalmente. Personalmente, vi consiglierei di aspettare almeno fino a domattina prima di partire. Nel frattempo, potrete trovare al piano di sopra qualche benda, cerotto, disinfettante, cose da bere e da mangiare; mi sono assicurato io personalmente che ci siano.»

Mentre alcuni di loro studiavano attentamente la cartina, emettendo mugolii di sconforto nel notare la distanza tra lì e Castle MacHearty, una donna domandò «E di chi è questo posto? Sarà mica di quell’uomo là per terra… quello… quello morto…

Kumals annuì. «Sì.»

«E cosa gli è successo? Chi l’ha ucciso?» domandò un altro.

Kumals rispose molto tranquillamente. «E’ caduto male.»

La risposta aleggiò pesantemente su tutti gli altri, e li ridusse all’improvviso in un compatto silenzio. Il Conte non riuscì a stabilire se Kumals avesse precisamente voluto ottenere quell’effetto, anche perché l’uomo, dopo aver constatato che non c’erano altre obiezioni, era tornato accanto a Justin.

«Hai finito di copiare quei dati?»

«Fatto! Tutto su questi cd.» rispose il ragazzo, mostrandogli una pila di almeno venti dischetti tondi, bucati al centro, con sfumature iridescenti su un lato. «Questi computer sono una meraviglia, iper veloci, iper…» ma il suo tono entusiasta si smorzò, nel cogliere l’espressione del suo interlocutore.

«Bene. Allora, sarà ora che andiamo.» disse Kumals.

Justin apparve incerto. «E dove? Lei è svenuta…» osservò, accennando a Zoal «…e quelli non ci lasceranno andare via così facilmente, no…?» chiese con preoccupazione, occhieggiando i cinque ‘rappresentanti’. Anche Kumals guardò verso di loro, scoprendoli a mormorare in uno stretto capannello, dal quale partivano di tanto in tanto occhiate intimorite e nervose nella sua direzione.

«Oh, non credo sarà un problema.» commentò semplicemente. Poi, si avvicinò a Zoal; inginocchiatosi di fianco a lei, le sussurrò qualcosa all’orecchio. La donna, sempre ad occhi chiusi, annuì.

Kumals le passò un braccio dietro la schiena, e la sostenne mentre si alzava in piedi, lentamente. Anche Mama si alzò.

Il Conte porse con reverenza il bastone alla donna, che lo prese mormorando un ringraziamento. Kumals, intanto, si era cacciato le dita in bocca, per emettere un fischio acuto. Di lì a poco si udì un allegro scampanellare, e Danza scese dalle scale che portavano al piano di sopra, finendo di masticare qualche cosa e di leccarsi il muso con soddisfazione.

Tutti quelli che si erano accaniti seguendo Danza erano stati risvegliati dall’ipnosi mentre ancora seguivano il cane, che, stanca di scorazzare per il bosco, si stava limitando a farli girare in tondo intorno al capannone, quando Justin e il Conte erano venuti a capo del programma di disinstallazione.

«Justin.» disse Kumals «Abbi cura di quei cd come se fossero la cosa più preziosa che tu abbia mai posseduto. Sei sicuro che l’imiel, o comunque si chiami, sia partita e arrivata a destinazione, vero?»

«Certissimo.» asserì Justin.

«Conte?»

«Signor Kumals

«Abbi cura che Danza non infastidisca nessuno, e che nessuno infastidisca Mama, mentre passiamo in mezzo a queste persone, per favore.»

«La consideri cosa già fatta.»

«Zoal

La donna lo fissò, interrogativa.

Sul viso di Kumals si aprì d’improvviso, lentamente, un aperto e dolce sorriso pienamente sincero. «Ben fatto.»

«Capitano mio capitano, la tua nave è di carta fradicia...» mormorò lei, ironica.

«Oh, lo so. Ma non dirlo a questi qua… non prima che ce ne siamo andati perlomeno…» disse Kumals, in tono così basso da farsi sentire solo da lei, alludendo ai cinque rappresentanti improvvisati che ancora parlottavano tra loro, guardandolo con dubbio e timore.

«Sono sicura che prima o poi troveranno un capro espiatorio all’altezza delle colpe che intendono affibbiare.» commentò Zoal, altrettanto piano.

In quella si udì un rumore sommesso, come una voce lontana che chiamava. Kumals, Zoal e Justin si voltarono verso il Conte, il quale, non meno perplesso, stava fissando i suoi abiti, in particolare all’altezza del suo petto.

«Zoal…?» iniziò Kumals «C’era per caso compreso un qualche sistema di comunicazione, in quell’apparecchio per individuare la posizione che abbiamo messo addosso al Conte?»

«Se ne è occupata soprattutto Valentine, non saprei dire. Tuttavia, sembra proprio che sia così.» rispose lei.

Kumals ordinò a Justin di aiutare il Conte a recuperare l’apparecchio che aveva legato al petto, sotto agli abiti. Quando vi riuscirono, Justin accese la comunicazione, in qualche modo che Kumals, naturalmente, non comprese molto bene. Però riconobbe subito la voce; era Valentine. E sembrava sull’orlo del pianto.

Quando ebbe finito di parlare con lei, e chiuse la comunicazione, il viso di Kumals era impietrito in una gravità enorme. Zoal lo fissò; e tutto ciò che disse fu «Chi?»

 

*

***

*

 

Ramo terminò la sua corsa disperata di slancio, atterrando di peso sul terreno con le ginocchia, accanto al corpo riverso; senza fermarsi nemmeno un istante, e senza esitare, lo afferrò saldamente per la spalla intonsa e lo girò a faccia in alto, disponendolo disteso di schiena.

Di fianco a lui iniziarono ad arrivare, in rapida successione, Yuta, Andrea, Uther, Valentine e Duca. Ma non li guardò nemmeno. Invece, strappò gli abiti zuppi di sangue sulla spalla, macchiandosi immediatamente le mani egli stesso, ed esaminò rapidamente con uno sguardo la ferita.

«L’ha trapassato. È aperta su entrambi i lati. Non basta tamponare, dobbiamo fasciarla stretta, e subito! Qualcosa di pesante e spesso, deve poter assorbire il sangue, ma soprattutto cercare di bloccarlo il più possibile.» scandì, come se si stesse rivolgendo ad un’equipe da sala operatoria.

Nel giro di qualche istante gli furono porti una grossa sciarpa e un intero cappotto. Ma scosse brevemente la testa. C’era qualcos’altro da fare prima; era una specie di formalità, perché lui non poteva immaginare di ricevere da quei gesti una risposta diversa da quella che sperava con tutto se stesso. Se si fosse permesso di immaginarlo, non avrebbe potuto continuare con tanta prontezza.

Cercò il battito cardiaco di Danny, premendogli le dita di una mano sulla carotide, e tastandogli con l’altra il polso. L’istante in cui aspettava di sentirlo sembrò congelarsi e protrarsi all’infinito, al punto da fargli pensare che persino il suo cuore si fosse fermato ad aspettare il responso. C’era battito. Certo che c’era, doveva esserci!

Ramo si riscosse, afferrò la sciarpa che gli veniva porta e iniziò a fasciare la ferita, chiedendo agli altri di dividere in pezzi più piccoli il cappotto. Non osò nemmeno per un momento spiare le loro espressioni; lo avrebbero minato troppo profondamente, al momento.

«Dev’essere portato subito da qualche parte dove… a casa, a casa vostra. Là ho le altre cose, gli strumenti. Più di così qua non posso fare.» ammise, frustrato.

Quello che non aveva detto, che ancora non trovava il modo di dire, erano gli altri rilevamenti che poteva già fare, per i quali non gli servivano altri strumenti: la ferita era grande, era vicino al cuore, e aveva già perso molto sangue, e molto altro ancora ne avrebbe perso nel tempo che avrebbero impiegato per trasportarlo in qualche modo fino alla casa di Yuta e Zoal. E a lui veniva quasi da piangere o spaccare qualcosa, o fare entrambe le cose, già da subito.

 

*

***

*

 

Il lupo correva rapidamente; non era proprio disperato, o realmente così spaventato. Ma l’istinto, più forte dell’esperienza in quel momento, gli faceva volare le zampe come se dovesse mettersi in salvo.

Il suo pelo, di solito elasticamente adattabile ai suoi movimenti, nonostante lo spessore notevole e stratificato in saggio modo da renderlo quasi completamente impermeabile, e allo stesso tempo molto caldo, era un po’ più rigido in corrispondenza del muso e della gola; il sangue rappreso e il freddo lo avevano diviso in ciocche rosseggianti. C’era persino una penna bianca di gallina che gli era rimasta incollata col sangue sul petto, quasi in mezzo alle zampe davanti, che ora mulinavano rapide.

I cuscinetti morbidi e resistenti delle zampe e le unghie che facevano capolino tra il pelo quasi non producevano rumore, sulle pietre che lastricavano gran parte delle strade del vecchio villaggio; un villaggio prettamente contadino e rurale, che sembrava essere rimasto un po’affondato in altri tempi. Non c’era molto cemento da quelle parti, non c’erano molte macchine, poche luci soffuse accese durante la notte, odore di bestiame, di segatura, di cibo conservato in cantina, di bottega artigianale, di vino e formaggio che fermentavano e invecchiavano nelle loro botti e scansie, di fieno imballato a seccare e asciugare nei fienili, di sterco di cavallo e di pelle conciata aleggiavano nell’aria, mischiandosi al sentore di umano.

C’erano molti umani in giro, quella notte; molti più del solito. Ed erano tutti occupati ad urlarsi l’un l’altro, per galvanizzarsi tra loro o anche solo per scambiare di finestra in finestra, di casa in casa, di porta in porta che veniva spalancata al sentire tutta quella confusione per strada, l’informazione che stavolta lo avrebbero preso e ammazzato.

Forse era quello che lo aveva attirato e poi spinto a soffermarsi a rifornirsi di cibo da quelle parti, considerò il lupo tra sé e sé: no, non il rischio di essere preso e ammazzato, ma quella sorta di tuffo in un passato un po’ più calloso, lento, scorbutico e campagnolo. Subito dopo si stupì di averlo pensato, perché lui non pensava molto, non a queste cose perlomeno. Ed infatti tornò a concentrarsi sulla sua corsa, che si presumeva disperata. In realtà, si stava quasi divertendo. Sarebbe stato semplice raggiungere il limitare del villaggio e inoltrarsi nella fitta foresta molto prima che uno qualunque di quegli uomini, perlopiù scalzi, o in ciabatte, mezzi nudi o in pigiama, arrivassero a vedere anche l’ombra della sua coda.

Svicolò con rapidità in una stradina stretta, decidendo di scegliere una scorciatoia da intenditore verso la fine del villaggio; prese a slalomare tra i vicoletti quasi completamente bui, accarezzando a fior di pelo con famigliarità audace le pietre o l’intonaco degli angoli delle case ad ogni curva.

Poi svoltò intorno ad un altro angolo, e si immobilizzò.

Sorpreso, e subito dopo furente, fissò con gli occhi blu scuro gli uomini che lo aspettavano, come se volesse trapassarli  con la sua occhiata.

Dapprima non fu del tutto sicuro che stessero aspettando proprio lui. Forse era per via del fatto che erano solo in due, e che non stavano agitando fiaccole o pile a batteria con aria iraconda. Uno si limitava a starsene appoggiato di schiena al muro, fumando una sigaretta. L’altro, appoggiato al muro opposto della strada, che era larga sì e no due metri, aveva lo sguardo svagato. Si erano immediatamente accorti di lui; si erano distaccati dal muro e lo fissavano come se non fossero particolarmente sorpresi. Sì, era lui che aspettavano.

Scoprì i denti arricciando le labbra sulle gengive rosate inscurite da grumi di sangue, e ringhiò sommessamente, mentre il pelo gli si rizzava come una serpentina elettrificata sulla schiena, dalla nuca alla coda. La pelle del muso arriccata disegnava un intrico di nervi e vene sul dorso del muso.

I due uomini parvero stupiti, e si scambiarono uno sguardo fugace, come per accertarsi che stesse accadendo davvero.

Anche lui era stupito, un po’, doveva ammetterlo. Prima di tutto, non gli era chiaro come avessero potuto sapere che avrebbe scelto proprio quella stradina; in secondo luogo, non gli era chiaro perché, invece di girare su se stesso e andarsene scegliendo un percorso diverso tra i tanti a sua disposizione, li stesse sfidando. Forse, era per via del fatto che uno degli uomini, quello un po’ più basso e che non aveva gettato via una sigaretta a metà nel vederlo comparire, impugnava un fucile. L’istinto gli dettava di non voltare mai le spalle ad un fucile; l’istinto doveva aver ragione.

«Heylà… bella serata per una scorreria nei pollai, eh?» domandò l’uomo più alto, il fumatore. Con sorpresa si accorse che gli si stava rivolgendo; e con fastidio si ricordò di poter comprendere il linguaggio umano.

Ringhiò di nuovo, più sonoramente, con le orecchie appiattite sul capo, i denti bianchi ben scoperti, e le zampe davanti leggermente allargate, la testa un po’ china verso il suolo; li guardava dal basso all’alto, sebbene a quella distanza di diversi metri, e sapeva che nessuno che avesse mai visto un lupo prima poteva equivocare quella posa. Anche il messaggio doveva essere abbastanza eloquente: toglietevi di mezzo, lasciatemi passare.

L’uomo che gli si era rivolto sembrò deluso dalla sua reazione, ma non sorpreso; lanciò un’occhiata fugace verso l’altro, come in cerca di una qualche ispirazione sul da farsi. Ma il suo compagno non gli fu d’aiuto. Fissava il lupo intensamente, e il lupo pensò che almeno quello avesse colto in pieno la gravità e il pericolo della situazione in cui si trovavano.

«D’accordo… il fatto è che… siamo stati incaricati, capisci?» disse ancora l’uomo più alto, ancora rivolgendoglisi con fare ragionevole. «Noi di solito non ci immischiamo in queste cose. Comunque, se tu volessi venire con noi, ora, penso che potremmo trovare una soluzione…»

Se avesse avuto una bocca umana, al momento, piuttosto che un muso lungo e forte, in cui baluginava il biancore sporco di sangue della sua temibile dentatura, e dal quale eruttava il cupo ringhio gutturale di minacccia, avrebbe potuto ridere con sarcasmo, burlarsi di quel tentativo di inganno che avrebbe potuto fallire nel circuire persino un moccioso.

Invece, si limitò a rendere ancora un po’ più udibile il suo ringhio, e a mettere una zampa in avanti, segno che era lì per attaccare; non era sua intenzione aggredirli veramente, però. Con tutta quell’orda di invasati pronti a fargli la pelle che si stava avvicinando, qualche strada più indietro, aveva ben altro a cui pensare ora piuttosto che ingaggiare una zuffa con due tizi così. C’era qualcosa, inoltre, in loro, che l’aveva colpito fin dal primo istante. Non sembravano come tutti gli altri umani che aveva incontrato prima; non erano terrorizzati come se vedessero un lupo per la prima volta, né tantomeno sembravano considerarlo un lupo, perché gli stavano parlando come se lui potesse capirli. Benché avrebbe preferito non arrivare a quella conclusione, l’unica spiegazione possibile sembrava essere quella che passava per il fatto che loro sapessero cos’era. A giudicare dal loro atteggiamento serio, ma tutto sommato tranquillo, troppo calmo davvero, ciò non sembrava turbarli in maniera particolare. Quelli non erano alle prime armi… no. Dovevano essere cacciatori… non di lupi comuni, ma di quelli come lui.

Per questo sapeva ora, più che bene, che non poteva voltare loro le spalle; non poteva dar loro nessun vantaggio; non poteva lasciarli lì e andarsene semplicemente. Loro lo avrebbero seguito, lo avrebbero braccato, gli avrebbero dato la caccia fino a scovarlo ed abbatterlo. Perciò, doveva risolvere la questione ora. E l’unica soluzione era ‘lui o loro’. Doveva impedire loro di avere in futuro la possibilità di tendergli agguati e tranelli più capziosi, di poterlo sorprendere letalmente, di costringerlo a scappare e fare sempre i conti con il loro inseguirlo col proposito di abbatterlo. Dovevano essere loro a cadere per primi. Quella che aveva davanti ora era forse l’occasione più valida: erano troppo tranquilli e disinvolti, come se lo stessero sottovalutando.

Come se qualcosa dei suoi ragionamenti fosse trapelato dal suo sguardo o da qualche suo leggero movimento, cosa possibile, giacché troppo poco di umano era rimasto in lui per indurlo a saper fingere abbastanza bene, vide l’altro uomo, quello che era rimasto in silenzio fino ad allora, muoversi. Lo vide togliersi il fucile da tracolla, e allora seppe immediatamente che non c’era più tempo da perdere.

Scattò, rapido e fulmineo. Il tempo di mezzo battito di ciglia e aveva già coperto la distanza che li separava, e si stava gettando a zanne scoperte dritto verso la gola dell’uomo più alto, quello che aveva la guardia scoperta; ma si rese conto di aver sbagliato i suoi calcoli. L’istinto, questa volta, lo aveva tradito: l’istinto che gli suggeriva, di solito, di puntare sulla preda più debole, in quel frangente lo aveva automaticamente fatto deviare sull’uomo disarmato. Un errore plateale, imperdonabile. Ed infatti non fu perdonato, così doveva essere.

Sentì il colpo d’arma da fuoco rompere l’aria, con quel frastuono corposo tipico dei fucili, e subito fu seguito da una fitta bruciante ad un suo fianco. Il proiettile lo prese di striscio, senza ledere organi vitali, ma lui, che non era mai stato colpito prima da un proiettile, non sapeva valutare la gravità della ferita. Aveva visto così tante volte persone e non cadere sotto i proiettili, che si aspettava di crollare immediatamente al suolo anche lui, nel mentre che, rinunciando al suo attacco all’altro uomo, compiva un’acuta deviazione nella corsa, nel caso che fosse partito un secondo proiettile.

Ma non avvenne niente di tutto questo; il lupo non cadde, né partì un secondo proiettile. Il guaito di dolore che il colpo gli aveva strappato riecheggiò insieme a quello dello sparo, sulle pareti ravvicinate delle case che circondavano la stradina, ma il lupo non attese di sentirli tacere. Nello stesso istante in cui realizzava che il colpo non l’aveva fatto cadere, ma che era ancora ritto sulle proprie zampe e capace di correre, si ritrovò a scappare.

Corse giù per la stradina, procedendo un po’ a zig-zag, come l’esperienza gli aveva insegnato, per evitare altri eventuali colpi; non lo distolse da ciò il fatto che non udì più nessun’altro sparo, perché sapeva che poteva trattarsi semplicemente del fatto che l’uomo stava cercando di prendere al meglio la mira.

Girò sano e salvo un altro angolo, e continuò la sua corsa a perdifiato, cercando di ignorare il più possibile il dolore tremendo della ferita, dalla quale sentiva sgorgare il  sangue, a inzuppargli lentamente il pelo. Ma continuò solo a correre.

Riuscì a raggiungere il limitare del villaggio, e, ancora incerto sul fatto di essere ancora vivo, proseguì oltre, salendo la lieve china scoperta, col terreno ammantato di neve, che portava al riparo della foresta.

E solo allora iniziò a capire che, anche se nessun’altro proiettile lo avesse colpito fino a che non avesse raggiunto i primi alberi, il suo destino era già segnato. L’odore del sangue era pressante; e sapeva che stava cadendo sulla neve, segnando dietro di lui una precisa traccia indelebile, visiva e odorosa, che contrassegnava le sue impronte, rendendole chiaramente distinguibili da quelle di qualsiasi altro animale stesse affondato le zampe nella neve in quella maledetta notte.

 

 

Note dello scribacchiatore:

Vi chiedo ancora un po’ di fiducia nel sottoscritto e nei confronti di questa storia… L’ultima parte di questo capitolo, quella scritta in corsivo, si spiegherà meglio – a livello di collocazione temporale, di personaggi e quant’altro – nei prossimi capitoli, anche se penso abbiate già riconosciuto tutti e abbiate intuito il resto. Okay, al prossimo capitolo (abbiate pazienza sui tempi d’aggiornamento, sulla lunghezza capitoli… ebbene, non volevo troncarli questi!).

 

Ritorna all'indice


Capitolo 58
*** 56 - DI MORTI MANCATE ***


Capitolo 56

(DI MORTI MANCATE)

 

Ciò che sentì tutto in una volta, mentre riemergeva da un luogo non meglio specificato se non nella completa incoscienza e inconsistenza, fu un colpo forte e doloroso sulla sinistra del petto, e il contatto di labbra screpolate dal freddo che si staccavano precipitosamente dalle sue, mentre tossiva e annaspava, cercando di respirare, trovandolo incomprensibilmente impegnativo, come se stesse imparando a farlo in quel momento.

Quando tutto quel cercare aria come se fosse stato in apnea per giorni risultò in qualcosa di utile, sentì meglio altre cose: per primo il dolore al petto, come se gli avessero tirato un pugno; il cuore gli batteva e anche questo, singolarmente, lo trovò qualcosa di sorprendentemente nuovo, qualcosa da non dare così per scontato. Dunque, o era diventato eccezionalmente pessimista ultimamente, oppure…

Gli odori lo colpirono con violenza. Odore di sangue, parecchio sangue, quello di ferro sterilizzato, di tessuto di garza, di qualche genere di disinfettante chimico; in sottofondo, però, c’era il sentore di un ambiente che conosceva bene. Sì, l’odore di spezie, di cibo, di stufa e legna da ardere non lasciava dubbi: era la cucina, quella cucina.

Poi sentì anche i loro odori, e le loro voci che parlavano piano, perlopiù con esitazione accorata,  tutti concentrati attorno a lui.

«C’è… sì… c’è… è andata…» era la voce di Ramo, una specie di tono sospirante e semi-incredulo, molto affaticato e infinitamente sollevato.

«Porco mondo…» Yuta dava l’impressione di stare per vomitare l’anima.

«Oh, grazie… grazie… grazie! » se avesse avuto più forza, in quel momento, probabilmente in realtà quelle parole di Valentine sarebbero risultate più simili ad un grido; sembrava non sapere bene chi o che cosa ringraziare, così su due piedi, anche se ne aveva un precipitoso, irreprensibile bisogno.

Poi fu preso dal suo odore, vicino, anche se non la sentì dire nulla. Cercò di aprire gli occhi, e anche questo, manco a dirlo, risultò difficile, nemmeno avesse dei mattoni appoggiati sulle palpebre; la testa stessa gli era così pesante, che sembrava pure il suo cervello fosse legato ad un mattone mentre, per giunta, nuotava controcorrente. Ma voleva proprio vedere qualcosa, almeno.

A pensarci bene, conosceva quelle labbra che aveva sentito contro le sue. Le aveva riconosciute subito; non sapeva, prima di questa prova, che si potessero riconoscere delle labbra davvero così bene.

Con sforzo, si destreggiò per un po’ nel tentativo di sollevare le palpebre, mentre, nel frattempo, qualche contatto sul suo corpo gli faceva pervenire altre informazioni, qualcosa a che vedere con il senso dell’equilibrio e del sopra e del sotto; era abbastanza sicuro, dopo un po’, di trovarsi sdraiato sulla schiena, su una superficie dura.

Riuscì ad aprire gli occhi, infine, anche se le palpebre gli rimasero sgradevolmente a mezz’asta, e si rifiutarono di accontentarlo oltre; ma era sufficiente per vedere il viso della persona mezzo china su di lui, che dava l’impressione di starlo fissando da parecchio, in silenzio.

Lo straniò rivederla; non la ricordava proprio così: non così esausta e prostrata, con quell’espressione, come se fosse invecchiata tutto d’un colpo di parecchio tempo, e pesi incommensurabili le si fossero adagiati sgraziatamente sulle spalle tutti in una volta, invece di accumularsi nel tempo, più diluiti.

«Ciao…» riuscì a rantolare. Persino parlare, a quanto pareva, improvvisamente doveva essere reimparato sul momento.

E lei sorrise, anche se molto pallidamente; forse anche lei stava reimparando alcune cose.

«’Ciao’ un accidente…» gli mormorò, il viso vicino al suo; e solo allora Andrea osò prendergli una mano con la sua, e stringerli l’altra sulla spalla sana.

Danny deglutì, pure quella una faccenda corposa, visto che aveva la bocca impastata come se avesse dormito per settimane senza intervallo. Riuscì ad abbozzare un lieve sorriso, o almeno così gli parve; non era tanto sicuro di quali vie stessero prendendo i suoi muscoli facciali, in quel momento. «Era un bacio o la respirazione bocca a bocca?»

Andrea lo guardò come se, in tutta onestà, la considerasse una domanda stupida e superflua; la qual cosa, però, sembrava divertirla. Era strano come la sua espressione sembrasse quella di uno che potrebbe essere sul punto di scoppiare a ridere o a piangere, senza riuscire a decidersi.

Fu allora che intravide anche il viso di Ramo, che si stava chinando su di lui. «Danny?» scandì, molto piano e lentamente, come se stesse parlando ad un cerebroleso.

«Non mi starai mica per chiedere ‘quante dita sono queste’, vero?» riuscì a dirgli, sebbene parlare rappresentasse per lui, al momento, una delle cose più ardue del mondo.

Ramo rimase un attimo sorpreso; poi scosse leggermente la testa. «Perché, hai avuto un’esperienza pre-morte in cui hai imparato a contare?»

Danny sogghignò. Se solo fosse stato un po’ meno complesso coordinare il parlare, il tenere gli occhi aperti, il respirare e il controllare che il cuore non mancasse nemmeno un battito, era sicuro che avrebbe trovato una risposta adeguata a quello.

«No, sul serio Danny… ora, non sforzarti per rimanere sveglio. Dormi pure. Anzi, è meglio. C’è un po’ di lavoro con ago e filo da fare, da queste parti… » gli comunicò Ramo.

Danny realizzò in quel momento di essere sotto i ferri di un veterinario; la qual cosa lo fece ridere, ma dopo un vago tentativo di iniziare una risata ci rinunciò, perché i lievi sussulti che essa provocava gli mandavano un dolore tremendo per tutto il corpo, e gli appesantivano ulteriormente la testa. Era particolarmente seccante.

In ogni caso, avrebbe volentieri seguito il consiglio di Ramo, se non fosse stato per il fatto che aveva un’ultima curiosità: già da un po’ si era accorto che quel peso che sentiva in corrispondenza della pancia non c’entrava con l’appesantimento in cui erano al momento intrappolate tutte le altre  sue membra. Più che altro, era come se qualcuno ci avesse appoggiato qualcosa sopra.

Perciò abbassò lo sguardo il più possibile, e si azzardò ad avventurarsi nella complicata sequenza di movimenti che davano come risultato, o almeno lo sperava, il muovere la testa un po’ verso il basso, avvicinando il mento al petto.

Per un po’ si limitò ad osservare chi gli stava quasi seduto sulla pancia, a cavalcioni, con le mani, gli abiti e parte delle braccia sporche di sangue; Uther lo stava già fissando, con un interesse attento e d’attesa, come se aspettasse il suo turno dei saluti. Nonostante questo, Danny realizzò due cose: che era molto arrabbiato con lui, e che stava affrontando i postumi di una paura del diavolo. Non senza un certo stoicismo, era da ammettere. E sospettò che, se non si fosse trovato disteso sulla tavola della cucina di Yuta e Zoal, coperto di sangue, con una ferita ancora aperta anche se abbondantemente tamponata, e appena tornato da qualche posto che si poteva avere l’ardire di situare ai confini ultimi della zona tra la vita e la morte, Uther gli avrebbe già assestato un pugno, oppure anche due. Per la verità, forse ciò era già accaduto… e riconsiderò quel dolore che sentiva al petto.

La domanda che gli rivolse, e che gli uscì di bocca senza che riuscisse a riflettervi prima, tuttavia, risultò molto strana e allo stesso tempo molto sensata, alle sue stesse orecchie colte di sorpresa.

«Mi hai sparato di nuovo?» si sentì chiedere ad Uther.

Quasi tutti, lui compreso, non avevano idea di che diavolo stesse parlando.

Ma gli occhi azzurro chiaro che lo stavano fissando ebbero un barlume di profonda e grave comprensione. Qualsiasi cosa avesse detto, di preciso, Uther sembrò averlo compreso.

«E’ normale, è normale… » stava dicendo Ramo, rivolgendosi soprattutto ad Andrea «Accade spesso di essere molto confusi quando…»

«No.» disse Uther, rispondendogli, senza staccare nemmeno per un istante lo sguardo, estremamente serio, dal suo. «Non io, stavolta.»

Ramo, interrottosi nell’udire Uther parlare, per un po’ non riuscì comunque a riprendere il discorso, confuso dalla risposta non meno che dalla domanda; per Uther non aveva nessun motivo medico, al momento, da enumerare.

«Veramente… è stato lui, Uther, a farti il massaggio cardiaco… » tentò Valentine.

Yuta, invece, ascoltava lo scambio tra i due con serietà. Anche i suoi occhi erano divenuti seri e gravi, come se si fosse persa in alcuni pensieri lontani.

«E a te chi ha sparato…?» domandò ancora Danny, sempre rivolto ad Uther.

Gli altri rimasero basiti per un momento, e, senza bisogno che Ramo provasse a ripeterlo, accordarono quell’uscita allo stato confusionale post-traumatico.

Ma il naso di Danny non poteva essere ingannato, o perlomeno meno della sua testa; l’odore del sangue che sentiva non era solo il suo. Alzò il braccio sano, seppure con molta fatica; dovette stringere i denti per riuscirvi, e comunque il suo risultò un movimento lento, affaticato, come se il braccio pesasse chili e chili in più del normale. Alla fine, la sua mano raggiunse un fianco di Uther, ma le sue dita l’avevano appena sfiorato che l’altro gliela afferrò, bloccandola, e non riuscì tuttavia a trattenere una smorfia di dolore.

«Uther, ma sei ferito anche tu?!» trasecolò Ramo.

Yuta spalancò gli occhi di colpo e prese ad imprecare, soprattutto all’indirizzo di Uther, al quale assestò di getto uno schiaffo a mano aperta sulla nuca «Brutto deficiente! Che diavolo aspettavi a dirlo?». Sembrava fuori di sé, ma Danny la riconobbe proprio in quello; sapeva che certe situazioni, a lungo andare, le facevano saltare i nervi. E non si stupì di vedere Uther rivolgerlesi con la volontà di giustificarsi.

«E’ solo poco più di un graffio. Mi ha colpito solo di striscio, non c’è bisogno di farne una tragedia, quello che sta per morire è questo qua, io non…»

«Chi?» domandò Danny. Di nuovo Uther voltò la testa su di lui. «Chi ti ha colpito?»

Uther lo guardò per un po’, prima che Danny si rendesse conto che non gli avrebbe risposto.

«Danny… » lo chiamò Ramo, mentre già la vista, soprattutto ai bordi del suo campo visivo, andava sfocandosi «…ora sarebbe meglio che cercassi di riposare. Dormi un po’. Il peggio è passato… Ti richiuderò la ferita… Andrà bene… Solo, cerca di riposare tranquillo… »

La voce si smorzò e scomparve gradualmente, in un ottusità crescente che riattirò Danny in un abbraccio pesante, obliante. Gli parve però di udire un tonfo sordo, verso la fine, mentre ritornava nel buio confortevole.

 

«Hey!» gridò Ramo allarmato, avendo visto Yuta andare giù, come se qualcosa l’avesse afferrata alle gambe.

D’istinto Valentine, che era la più vicina alla ragazza, riuscì ad afferrarla prima che crollasse del tutto a terra. Appoggiò il più delicatamente possibile il suo corpo sul pavimento, facendovelo distendere. «E’ solo svenuta… » annunciò.

Ramo sospirò, poi lanciò uno sguardo sospettoso al viso pallidissimo di Andrea, che stava guardando Yuta, priva di sensi, con una certa sorpresa. La ragazza si accorse del suo sguardo. «Non sto per svenire.» chiarì.

«Bene, meglio così… perché mi servirebbe una mano per ricucire i lembi della ferita.» le chiese Ramo, quasi con timidezza, incerto e a disagio nel chiederle proprio questo.

«Posso aiutare anch’io.» fece presente Uther.

Ramo si concentrò su di lui. «Tu, per favore, scendi da lì intanto. E poi alzati la maglia e fammi vedere quella ferita.»

Uther fece una sorta di smorfia, come se gli fosse stato proposto di mandar giù un cucchiaino di fiele.

«Lo so cosa pensi…» disse Ramo, guardandolo in modo diretto ma anche più comprensivo «Ma ti assicuro che un paio di mani che ne sanno qualcosa di medicina possono essere più d’aiuto del prendersi una sbronza per non sentire il dolore e cucirsi da soli con filo e ago sterilizzato sul fuoco; e… no, non te li presto ago e filo se non ti fai ricucire da me dopo che ci ho dato un’occhiata. La sbronza, se vuoi, te la puoi prendere lo stesso.»

Uther alzò un sopracciglio, contrariato. Quello che non voleva dare a vedere, ma che Ramo aveva già intuito, era il fatto che, ora che l’adrenalina e l’urgenza per le condizioni di Danny andavano scemando, lui stava sentendo fin troppo chiaramente il dolore per la propria, di ferita, e che quindi non era molto propenso a voler fare un movimento come quello che gli serviva per scendere dal bancone. «Santo demonio, questa è una specie di… ‘sopruso medico’…» affermò infine.

«Lo è.» confermò Ramo, in tono irremovibile, annuendo.

Andrea smise di seguire lo scambio di opinioni; distrutta, si appoggiò con le braccia al bancone, e, il mento abbandonato sopra ad esse, rimase ad ascoltare il rumore del respiro di Danny, la testa vicino alla sua, cercando di farsi una ragione del fatto che fosse ancora vivo, e, in qualche modo, del fatto che anche lei fosse ancora viva.

 

*

***

*

 

Dov'era?

Neve, aria fredda e fresca e libera; aria esterna e selvatica di bosco, satura di odori come quello della corteccia, del terreno gelato… quel sapore del freddo indefinibile. Nel nero della notte turbinavano minuti batuffoli tondeggianti e leggeri di neve; sembravano così a loro agio muovendosi nel vuoto, come se si divertissero a fingere di essere preda della gravità  come tutto il resto, quando in realtà era loro precisa scelta artistica vorticare silenziosamente verso il terreno.

Il silenzio... già... quel silenzio. Il silenzio prezioso, inenarrabile della foresta e delle montagne addormentate nell'inverno; il silenzio vellutato dal suo rivestimento di neve, come una coperta candida su un addormentato inconscio.

Lui… lui invece era ben sveglio.

Oh, sì. Sapeva dove si trovava. Certo.

Era una notte d'inverno delle tante che aveva passato nella foresta. Aveva tra le fauci quel sapore buono e saggio della solitudine, della comunione pacifica e semplice con la foresta e tutto il resto. Un mondo bellissimo, un universo così specifico, dove non c'erano finzioni, mezzi termini, diverse prospettive. Tutto era ciò che era: dalla pellicola dei suoi sensi più esterni fin nel midollo della sua essenza; ed era un tutt'uno.

Lui era un lupo nella sua tana, che guardava la neve dell'inverno cadere nel buio fitto della notte, con la pelliccia che lo proteggeva dal freddo e il suo fiato caldo che si condensava immediatamente in evanescenti nuvolette bianco pallido. E le orecchie ritte, pronte a captare ogni suono.

Non era tranquillo quella notte. C'era qualcosa… qualcosa che turbava la solita placida calma che – ricordava – lo aveva accompagnato come un sottofondo costante durante tutto quel periodo.

Il suo fiuto, che avrebbe dovuto cogliere solo gli odori della foresta in inverno, era saturo di un odore pungente e preciso, netto come una lama nella notte, come un faro nella nebbia: sangue e polvere da sparo. Normale: lui si era predato di creature che perdevano sangue, lo aveva lappato dai loro corpi esanimi, atterrati dalle sue zanne e dal peso del suo corpo di cacciatore, la vita troncata in un attimo definito dal calare della stretta delle sue zanne, senza quasi dolore. Ma quello era il suo sangue. Lo sentiva, raggrumato e congelato sul suo pelo; da qualche parte, immerso nel folto della sua pelliccia, scorreva pigramente fuori dalla sua pelle, attraversando con fin troppo entusiasmo un taglio nella sua cute. Una ferita d'arma umana. Una ferita di striscio. Sarebbe guarita, non era affatto quella a preoccuparlo.

A tenerlo con tutti i sensi allerta e i nervi tesi, i muscoli gonfi di collera repressa e di ferocia guardinga e anticipatrice, a fargli raccogliere le forze animate da un misto di orgoglio ferito, rabbia vendicativa e ira di pura aggressività e odio, a tenderlo come un elastico paziente ma pronto a scattare come fulmine micidiale da un momento all'altro erano le macchie scure sulla neve. Il suo sangue gelato e affondato nell’alto strato di neve. Non lo vedeva, ma sapeva che c'era. I suoi sensi istintivi, e in particolare l'odore, ne individuavano con precisione i contorni, ne tastavano con pazienza macchia dopo macchia. Sapeva cosa era. Lui non si faceva stupide illusioni, non aveva patetiche speranze o deboli auto-inganni a celargli lo sguardo. Era una traccia. Una traccia netta e precisa che si interrompeva lì davanti alle sue zampe sdraiate in attesa paziente, davanti all'ingresso della sua tana; poco oltre la soglia, sdraiato per riposare e per impedire a troppo sangue di colare, lui aspettava alla fine di quella traccia.

Sapeva bene cosa stava facendo, e sapere che era giusto ed efficiente non gli procurava nessun piacere di autoglorificazione. I lupi non sono soggetti a questo genere di cose, perché hanno un senso della gravità della vita molto più terra-terra, mai preda delle auto-celebrazioni a volte teatrali a volte melodrammatiche a volte ciniche e quant'altro che sono tipicamente umane. Il lupo sapeva come stavano le cose e sapeva che cosa avrebbe fatto; tutto qua. La neve cadendo avrebbe cancellato le tracce delle sue zampe. Oh, com'era perfettamente utile la neve, in quel frangente. Ma la neve non avrebbe potuto coprire l'odore del suo sangue: poteva celarne la vista, ma non l'esistenza. E gli umani non potevano seguirlo, ma i loro cani sì. Avevano anche dei buoni cani: non troppo irrequieti né impazienti né travolti dai loro sensi, dei cani che si limitavano a fare il loro lavoro, a seguire la traccia naso a terra che fende la neve ghiacciandosi ma senza perdere le sue preziose proprietà, e non abbaiavano né uggiolavano o latravano, dando così stupidamente annuncio del loro imminente arrivo a tutto e tutti. Ma il loro odore, e ancora più l'odore degli uomini che li seguivano da vicino, li avrebbe preceduti comunque di parecchio. Per questo il lupo avrebbe saputo con sufficiente anticipo quando stavano per arrivare.

Non aveva alcuna fretta, no, alcuna fretta di morire. E non gli importava. Appoggiò il muso sulle zampe anteriori, con gli occhi fissi davanti a sé nella notte, e continuò ad aspettare ascoltando il rumore del suo cuore che batteva regolare, e quello languido del sangue che colava fuori dalla sua ferita e scorreva su altro sangue già seccatosi intorno a rigide ciocche di pelo.

Ah, sì... ricordava che notte era questa. Che precisa notte. Ma si scoprì a non ricordare cos'era successo dopo, come se la vivesse per la prima volta. Aveva una pallida idea del tutto. Del fatto che in realtà non sarebbe morto quella notte dopotutto. Ma, quasi ugualmente inconscio del futuro come lo era stato la prima volta che era accaduto, si dispose ad aspettare di vedere quello che sarebbe successo, con una certa curiosità oziosa e vaga. Perché mai doveva avere una qualche importanza? Era qualcosa che era già accaduto, era semplicemente quello che era già successo, non gli pareva avesse niente di straordinario... eppure sentiva un senso di anticipazione fargli il solletico al cuore. E si rese conto di non vedere l'ora che comparissero le sagome familiari ai limiti della salita di collina innevata su cui poteva spaziare la vista dalla tana.

Ma ricordava male. Non era proprio così che era andata. Prima aveva sentito l'odore.

Il lupo alzò la testa e rizzò ancora di più le orecchie. Apparentemente nulla si era mosso là fuori dalla sua tana, a parte la neve che cadeva. Ma il suo naso non ingannabile fremeva appena. L'odore degli uomini, prima così debole che poteva essere un'illusione,  - ma i lupi non hanno illusioni, e questo in particolare forse ne aveva ancora meno degli altri in quel momento di quella notte d'inverno -  e poi sempre più forte, si concretizzava, rendeva realtà indiscutibilmente fisica e reale la presenza di uomini. Stavano arrivando.

Il lupo fece per alzarsi, ma poi decise di restare sdraiato. A che sarebbe valso alzarsi se non a sprecare forze utili per quando sarebbero stati abbastanza vicini? Certo non doveva andare loro incontro, ad accogliere i suoi uccisori. Maledetti. Ma non li odiava veramente. No. Li avrebbe combattuti e uccisi, ma sentiva di non odiarli veramente; non gli importava così tanto degli umani. Ma forse c'era una punta di odio per quegli umani in particolare, quelli che gli davano la caccia da molti giorni, e che alla fine lo avevano trovato senza ombra di dubbio. Certo se ne sarebbero pentiti, avrebbe provveduto lui personalmente a questo.

Dovette aspettare ancora, ma non così tanto. Con quel freddo gli odori non viaggiavano così veloci. Poi le sagome si profilarono sul limite opposto del pendio digradante e relativamente sgombero da alberi che l'ingresso della sua tana dominava. Eccoli dunque, i suoi uccisori. Venivano avanti lentamente, senza fretta. Questo lo colpì. Ma poi altre cose lo disorientarono. Non c'era una folla di cacciatori con cani al seguito. I cani si erano fermati prima, e a giudicare dall'odore e dalla direzione del vento non stavano nemmeno prendendo un percorso diverso per accerchiarlo. Ovvio, non sapevano nemmeno che lui si trovava precisamente lì, non ancora. Gli uccisori che si discostavano dal resto del gruppo rimasto indietro coi cani erano solo due uomini, e lui li riconobbe subito dall'odore. Erano i due cacciatori, quelli che gli avevano dato la caccia tanto a lungo, gli unici che sapevano precisamente che cos'era e come affrontarlo. Ma non lo conoscevano affatto. Forse per quello non lo temevano abbastanza. Avanzavano piano, con calma, anche se poteva sentire l'odore della loro tensione e inquietudine, di adrenalina che aspetta di scattare.

I suoi denti iniziarono a stringersi, facendo forza gli uni contro gli altri come a raccogliere energia, allenandosi reciprocamente in attesa del momento in cui avrebbero scaricato la loro potenza formidabile affondando nei tessuti altrui, lacerando e smaciullando senza freno così come decideva il loro proprietario. Man mano che si avvicinavano un'altra cosa lo colpì e lo stupì, suo malgrado. La sua attenzione si andava progressivamente concentrando su uno di loro, quello più basso e un po’ più magro, ma dal quale emanava una durezza che l’altro non aveva altrettanto, una ruvidezza quasi selvatica di un uomo che conosce certe cose della foresta, certe sue regole, certi suoi modi, e un po' della vita che essa incarna, per quanto le può conoscere un uomo s'intende. Era stato lui a colpirlo, ne era sicuro; poteva quindi contare sulla sua cattiva mira se non era stato capace di colpirlo a dovere nemmeno cogliendolo un po’ impreparato. Figuriamoci ora che li stava aspettando e che sapeva chi erano cosa avrebbe potuto combinare. Pregustava il momento in cui gli avrebbe squarciato la gola con le zanne, ben prima che potesse arrivare vicino ad ucciderlo, ben prima! Ma ecco, lui era anche l'unico armato.

Avanzava con lo sguardo basso, e i capelli spettinati e non molto puliti che gli oscuravano in parte gli occhi, anche se erano corti, piuttosto mossi e di un sottile chiaro-biondastro. Sembrava assorto in se stesso. Lui e il suo fucile che portava a tracolla, le mani in tasca. Che stupida mancanza. Stava andando incontro ad un lupo, perlomeno avrebbe dovuto imbracciarlo e averlo carico quel fucile! Ma non lo aveva in mano nemmeno quando lo avevano scovato la prima volta, lo ricordava. Bizzarro; ma non doveva lasciarsi disorientare. Questo era tutto a suo vantaggio, che altro doveva importargli a riguardo della stupidità di quegli uomini? Parlavano persino, parlavano tra di loro a voci sommesse, concentrate, come se stessero passeggiando invece che andando in caccia. Il più vigile era quello più alto, e il suo essere vigile significava che camminava con i nervi tesi guardandosi attorno, e nient'altro. Quelli erano uomini ben strani, si ritrovò a pensare per un momento fugace il lupo; poi tornò a concentrarsi sull'attesa, spasmodica eppure paziente.

Ora che era chiaro che non l'avrebbero individuato fino a che non fossero inciampati nel suo muso, lui poteva concedersi di prepararsi con calma ad un buon agguato. Avrebbe aspettato che si avvicinassero tanto da permettergli di balzare loro addosso coprendo una breve distanza, e li avrebbe fatti fuori così rapidamente che a stento se ne sarebbero accorti a tempo prima di morire. E il tutto senza perdere troppo altro sangue. Forse, dopotutto, non sarebbe morto. Per questo doveva aver cura di occuparsi prima di tutto di quello che imbracciava il fucile, certamente; non ripetere una seconda volta lo stesso errore. Ma era un umano di costituzione così poco robusta, in fondo, che nonostante avesse chiaramente una ben valida forza, da lavoratore, avrebbe potuto sopraffarlo abbastanza facilmente; probabilmente pesava meno di lui, che non era al massimo della sua forma in quel periodo. Lui avrebbe avuto un'altra possibilità per non farsi più trovare così facilmente, mentre gli umani non avrebbero avuto un'altra possibilità per non farsi ammazzare. Tutto questo gli suonava meraviglioso; ma non serviva certo a mitigare la sua ferocia, anzi la faceva lievitare amorevolmente, infarcendola di crudele delizia. Ancora qualche metro e gli umani sarebbero stati a buona distanza. Si preparò a scattare, pur senza muoversi.

Gli umani si fermarono. Lui indugiò. Non stavano guardando dalla sua parte, non si erano fermati perché l'avevano visto. Il primo a fermarsi era stato quello col fucile e l’altro lo guardava, in attesa. Quello che gli aveva sparato si prese un po' di tempo, poi disse qualcosa al suo compagno, che il lupo non udì. Il lupo era solo nervoso e impaziente. Se solo avessero fatto qualche altro passo a quell'ora lui sarebbe già stato loro addosso e quel maledetto piccolo umano col fucile avrebbe già avuto la gola troppo squarciata per poter parlare. Gli umani parlarono ancora per qualche minuto, poi, sotto gli occhi attenti ma privi di comprensione del lupo, quello disarmato iniziò ad allontanarsi, tornando da dove erano venuti. Solo uno continuò ad avanzare verso la tana nascosta: quello col fucile. Se avesse potuto sbigottirsi, il lupo sarebbe stato parecchio sbigottito a quel punto: sembrava quasi che stessero cercando di rendergli le cose ancora più semplici. Ma dov'era la trappola? Orbene, se c'era lui non la vedeva né sentiva né riusciva a immaginarla, quindi doveva riconoscere agli uomini più astuzia di lui: in quel caso lui avrebbe perso, così funzionava, e sarebbe stato ucciso. Bene, tanto valeva che giocasse bene i suoi ultimi istanti di vita. Voleva assolutamente arrivare ad infilare le zanne nella gola di quel tizio prima che la trappola scattasse. Non si mosse di un millimetro, ma tese i muscoli.

L'uomo, che avanzava lentamente sulla neve, mani ancora in tasca e fucile lasciato con nonchalance a tracolla, si stava avvicinando abbastanza, e continuava a fissare il terreno. Un'altra cosa strana, era che non riusciva a percepire in lui i sentimenti, che di solito negli umani si palesano così facilmente attraverso gli odori. Quell'uomo non era né nervoso né spaventato né nient'altro che potesse sentire. Che strano essere umano. Se non avesse voluto ucciderlo, forse si sarebbe incuriosito. Ecco, era quasi alla distanza giusta per consentirgli di essergli addosso con due o tre balzi ben calcolati...

L'essere umano alzò gli occhi su di lui. Il lupo, già sul punto di scattare, vi rinunciò, preso in pieno dallo sguardo. Sapeva che era lì! Lo sapeva già! Questo lo distolse per un momento, anche a causa della natura dello sguardo di quell'uomo. Non avrebbe saputo spiegarlo con esattezza ma gli occhi azzurro chiarissimo, color di un fiume ghiacciato, lo fissavano in modo particolare. Non cercavano la sua posizione, ma il suo pensiero. Non aveva mai visto un umano tentare di capire cosa passava per la testa di un lupo quando il lupo in questione si trovava a qualche metro da lui, sul punto di balzargli addosso e distruggergli la gola e portarsi via la sua vita in un baleno di zanne. Per questo esitò, ma già avrebbe posto fine bruscamente alla sua esitazione e si sarebbe già scagliato addosso all'umano se non fosse stato ulteriormente stupito. L'umano si stava piegando verso il terreno, si metteva lentamente in ginocchio e poi a sedere sulla neve, con mosse lente e apparentemente piuttosto tranquille. Mentre si muoveva, tuttavia, non toglieva lo sguardo di dosso dal lupo. Questi era davvero colpito: perché quell'umano non era in preda alla paura, all'istinto di lotta per la sopravvivenza o perlomeno alla volontà di uccidere prima di essere ucciso? Perché era così tranquillo? Un animale tranquillo, un animale che non ha paura, è un animale che si trova nella posizione di potersi permettere di non averla. Quindi, o l'umano lo stava sottovalutando enormemente, oppure sapeva di avere in serbo qualche espediente, qualche segreta forza, che il lupo non riusciva a sentire. Decise di aspettare ancora. Non capì bene perché lo fece, probabilmente la sua non era altro che curiosità. Non aveva più una tale ansia di uccidere ora che la sua vittima si era messa così alla sua mercé. E sapeva di potersi permettere di temporeggiare finché l'uomo non avesse fatto un movimento che indicava che stava allungando le mani sul fucile. Quello era il solo vero pericolo.

Un uomo da solo era poco o niente, niente più che una creatura debole, che non era in grado di evitare di palesarsi fatalmente attraverso i suoi odori forti, il suo fare rumore e il suo essere nudo e indifeso come una sorta di grosso verme strisciante, una specie di aberrazione evolutiva che non è adatta a nient'altro che a patire e morire in qualsiasi ambiente che non si costruisca con le sue mani a sua misura, facilitandosi le cose, cambiando le regole a proprio vantaggio o meglio creando luoghi dove è possibile fare ciò. Per questo l'uomo era così arrogante e distruggeva ciò che toccava...sapeva che altrimenti sarebbe stato distrutto da ogni cosa, e che non aveva alcuna difesa efficiente, se non quella di sovvertire le regole con ingegnosi trucchi. Il lupo disprezzava gli umani, ma suo malgrado li capiva. Tranne questo: questo umano che sedeva davanti alla sua tana e non sembrava avesse intenzione di imbracciare il fucile o estrarre un coltello o qualche altra invenzione che cambiava le regole, che lo rendeva vincitore a tradimento di una battaglia non certo ad armi pari. Le sue mani erano ferme sulle sue ginocchia piegate nella posizione seduta. Voleva forse cambiare le regole anche lì, da solo nel bel mezzo della foresta, nientemeno che davanti alla sua tana, come se gli rinfacciasse ciò che stava facendo? Certo, doveva essere così, non era forse un insopprimibile istinto di natura umana giocare sporco?

Il lupo emise un lungo, cupo, basso ringhio gutturale, un lamento che sembrava appartenere alla morte stessa, la morte che sta arrivando. Quanti umani avrebbero tremato impotenti sentendo quel suono. Anche l'uomo che gli sedeva davanti alla tana, sbeffeggiandolo con i suoi modi, ebbe un fremito leggero. Non abbastanza comunque per i suoi gusti. Continuò a riflettere, mentre nel silenzio che li circondava l'eco sinistro del suo verso si prolungava minaccioso. Forse quell'uomo era lì appositamente per distrarlo, intanto che gli altri gli tessevano intorno qualche trappola. Ma il suo fine udito e il suo naso gli dicevano solo che la mandria di uomini furiosi coi cani era ancora ferma a notevole distanza da lì, come se stesse aspettando qualcosa, e che l’altro cacciatore si era fermato quasi all'estremo opposto del pendio, e aspettava immobile, guardando nella loro direzione. In quell’uomo sì che sentiva l'inquietudine, la preoccupazione: viaggiava nell'aria chiara e distinta come se stesse urlando ciò che lo tormentava.

L'uomo davanti alla tana si mosse e il lupo ebbe un fremito ed aumentò il volume del suo lugubre ringhio gutturale: ‘sto per ucciderti’, continuava a dirgli, non per minaccia ma perché era davvero ciò che stava per fare. Non era possibile che quell'uomo non lo sapesse, impossibile. L'uomo aveva alzato una mano per spingere indietro il cappuccio che gli copriva in parte la testa. Sembrava un gesto non particolarmente significante. O era così tranquillo da poterselo permettere o era così terrorizzato da cercare di distrarsi dalla sua stessa paura. Ma il lupo, dannazione, non riusciva a sentirlo. Tuttavia non staccò più gli occhi dalle mani dell'uomo, attento a ogni loro movimento. Quello era il vero pericolo degli uomini, le loro uniche vere armi d'offesa: le loro mani. Con le mani potevano armeggiare coltelli, fucili, tagliole e quant'altro.

Le mani si mossero di nuovo: l'uomo le aprì rivolgendole con le palme verso l'alto, e le appoggiò sulla neve, nude e vuote, ridicolmente dotate solo di una peluria rada e corta, biondastra. Allora il lupo alzò gli occhi sullo sguardo dell'uomo, facendo quello che nessun lupo vero e proprio avrebbe forse mai fatto: cercare un senso delle azioni dell'uomo nel suo sguardo. Ma la sua parte umana, nonostante tutto, conservava il potere di farlo agire istintivamente in un certo modo assolutamente “non lupesco”, a volte. Sondò e risondò gli occhi dell'uomo, dall'espressione estremamente seria e aperta, sincera. E questo non gli piacque affatto. Come poteva uccidere una vittima come si deve se questa si comportava in modo così bizzarro? Come poteva prendersi la sua vendetta? Un barlume tuttavia lo colse in quegli occhi, in quella tranquillità. Dopotutto lui e l'umano avevano qualcosa in comune, per quanto potesse sembrargli incredibile. Quell'umano non aveva paura di morire.

«Mi dispiace di averti colpito.»

Il lupo trasecolò. Lui poteva capire il linguaggio umano, suo malgrado, ma prima di tutto lo sorprese sentire la voce di quell’uomo: il fatto che gli parlasse, e che lo facesse con quel tono sincero. Poi lo colpì ciò che aveva detto. Si accorse di aver smesso di emettere di tanto in tanto il basso ringhio gutturale.

«Ma non potevo permetterti di uccidere Kumals.» disse ancora l'umano, con lo stesso calmo tono.

Le sue parole ricordarono al lupo della ferita. Essa gli doleva, certamente, ma era abituato a sopportare il dolore. E il sangue ormai scorreva molto più lentamente. Si sarebbe fermato, e la ferita si sarebbe richiusa, lo sapeva. Aveva pensato che l'uomo fosse lì per sparargli un'altro colpo, uno mortale stavolta. Cos'era dunque quella recita bizzarra?

L'uomo continuò a parlare, sempre senza staccargli gli occhi di dosso.

«L'inverno è duro qui. Il cibo scarseggia molto. Non metto in dubbio le tue qualità di cacciatore...ma non puoi cacciare il nulla dopotutto. Se non fosse per questo, credo che avresti fatto il possibile per evitare di venire in contatto con degli esseri umani. Forse mi sbaglio. Ad ogni modo, se non ti dispiace, mentre aspetti che la tua ferita guarisca, nei prossimi giorni, tornerò in questo bosco. Magari ci incontreremo. Ti lasceremo del cibo nelle vicinanze. Ne porterò altro, finché non sarai guarito. Ma non tornare più in mezzo alla gente. Non qui, non come lupo, non per cacciare. O dovremo darti di nuovo la caccia anche noi.»

Questo disse l'umano, che il lupo volesse crederci o no. Questo disse, guardandolo dritto con quegli occhi impenetrabili, ma cortesi e sinceri. Parlò lentamente e pazientemente, come se pensasse che il lupo potesse faticare a comprendere il linguaggio umano. Ma il lupo lo capì benissimo, senza fatica, anche se non riusciva a capire nel vero senso della parola: non aveva più idea di che stesse succedendo.

Dopo qualche altro momento l'umano si alzò di nuovo in piedi. Il lupo tese di nuovo i muscoli, nel caso lo avesse visto prendere il fucile, e anche perché aveva ancora intenzione di ammazzarlo. L'uomo lo guardò e poi gli voltò le spalle, gli voltò le spalle!, e si incamminò allontanandosi, voltandogli le spalle! Mentre il lupo lo osservava attentamente, aspettando ancora il momento di ucciderlo, l'uomo si allontanò, si ricongiunse con il collega che lo aspettava, e parlando tra loro continuarono ad allontanarsi insieme, finché sparirono alla vista del lupo, e dopo qualche tempo sparirono anche dal suo fiuto, loro due e tutti gli altri uomini e i cani che erano venuti a cercarlo, a ucciderlo. E lui restò lì, ancora vivo, ad aspettare invano il momento per uccidere ed essere ucciso.

Sì... era così che era andata... ancora gli sembrava incredibile e quasi divertitamente assurdo... ma era andata proprio così. Quella scena, quel sogno o qualsiasi altra cosa fosse, era esatta: le cose erano andate così. Solo che lui lo aveva quasi dimenticato... e non capiva come aveva potuto farlo.

Non gli sarebbe dispiaciuto restare ancora sdraiato in quella tana, a riassaporare quel momento di quella notte di tanti anni prima, quando se ne stava a guardare la neve fioccare nell'aria scura, che ricopriva lentamente le orme degli umani che se n'erano andati. Le orme si cancellavano per sempre, ma lui aveva una sensazione dentro di sé, una sensazione nuova e curiosa.

Poi la scena si ruppe, se ne andò, o lui ne fu gettato fuori.

 

 

Soundtrack: A dustland fairytale (the Killers)

 

 

Note dello scribacchiatore: ecco qua, in ritardo ma alla fine arrivo! Anche questo bello lunghetto… già. Me ne dolgo per chi apprezzava la brevità, che comunque tornerà, giusto che io smaltisca un po’ di questi capitoli più… ampi… spazialmente e temporalmente e quant’altramente e bla bla.

Giusto un paio di cose da dire. La prima è che mi dispiace per il carattere fin troppo rivelatorio del titolo, ma che volete… m’è venuto fuori così e mi ci sono affezionato col tempo! (no, raramente le mie motivazioni hanno intenzione di essere ‘accettabili’, né vi ambiscono particolarmente…). La seconda è che tutte quelle tirate su natura umana e quant’altro non sono messe lì a caso tanto per fare della speculazione aggratis da parte del sottoscritto, ma sono interessanti in quanto scaturiscono dal personaggio… o almeno, vi consiglio di prenderle in tal senso ecco!

Al prossimo capitolo, salud!

Ritorna all'indice


Capitolo 59
*** 57 - L'INCANTATORE DI LUPI ***


Capitolo 57

(L’INCANTATORE DI LUPI)

 

Yuta, seduta sul divano, sorbì un altro sorso di caffè bollente dalla tazza, con la quale si stava anche scaldando le mani; poi ci pensò per un momento, e decise che si sentiva come la patetica imitazione di una vecchia rimbambita, a stare lì seduta con la schiena un po’ curva, un grosso scialle sulle spalle e il suo sorseggiare dalla tazza. Con un gesto infastidito si fece cadere lo scialle di dosso.

Il suo movimento attirò lo sguardo di Valentine, sprofondata nella poltrona della stanza più ampia del piano terra della casa; la ragazza la spiò per un momento, incuriosita, ma non disse niente. Sembrava sul punto di cedere alla stanchezza e di addormentarsi di botto.

Chi invece non aveva notato per niente il gesto di Yuta era Andrea, addormentata profondamente, distesa sul divano di fianco a lei. Yuta la fissò. «Mi sembra ancora strano che si sia addormentata. Avrei giurato che non si sarebbe staccata da Danny per niente al mondo.»

Valentine si riscosse, udendola parlare, e cercò di tirarsi un po’ più su contro lo schienale della poltrona. «Beh… non è che si è proprio addormentata da sola… » accennò.

Yuta si voltò immediatamente a guardarla, chiedendole di spiegarsi meglio con un’occhiata più che eloquente.

«Ramo le ha messo un po’ di calmante nel caffè…»

All’improvviso Yuta stava osservando la sua tazza con estremo sospetto.

«Oh, no, nella tua ha messo un po’ di peperoncino, giusto un pizzico…»

Ora Yuta la guardava con un sopracciglio alzato come se stesse facendo una spaccata sopraccigliare.

«Dice che è una specie di ricetta per far passare… il mal di testa.» improvvisò Valentine; per poco non stava per ammettere che, più propriamente, l’intento di Ramo era stato quello di far rinvenire Yuta. A dirla tutta, le sembrava molto poco educato, oltre che potenzialmente pericoloso, ricordare alla ragazza che era crollata a terra come una pera matura, e che si era ripresa solo da un quarto d’ora circa.

«Mhm… » fu tutto ciò che mugugnò Yuta, continuando a guardare per un po’ il caffè nella tazza come se stesse cercando di decidersi a berlo. «Mi dicevi…» riprese poi «…che hai già richiamato gli altri per dire loro che Danny è salvo, vero? E che loro dicono che ce l’hanno fatta… »

Valentine annuì. «Sì. E hanno voluto aggiungere solo che ci rivediamo qui per spiegarci cosa ci è successo.» Per un momento si ricordò del tono preciso con cui Kumals aveva rafforzato quest’ultimo concetto. E decise che non aveva alcuna voglia di incrociarlo, non prima che qualcuno avesse smorzato quello che si preannunciava come un vero e proprio temporale a riguardo del perché e del percome Danny avesse rischiato la pelle a quel modo. Forse Ramo ci aveva già pensato, e stava somministrando al ragazzo, ancora privo di coscienza, qualcosa per farlo dormire a lungo; in modo che, quando si fosse svegliato, sarebbe stato di nuovo abbastanza in forze da fronteggiare una probabile aggressione di Kumals.

Valentine si tirò in piedi. «Credo che andrò a farmi una dormita… o una doccia, o entrambe le cose.» annunciò a mo’ di congedo.

Yuta annuì.

Quando la ragazza si fu incamminata su per le scale, Yuta decise di alzarsi anche lei; ora che sapeva in grazia di cosa Andrea stesse dormendo così pesantemente, non si preoccupò affatto di far muovere un po’ il divano mentre lo abbandonava. Si diresse in cucina.

Entrando, si soffermò per qualche momento ad osservare la scena. Uther se ne stava a torso nudo seduto sul bordo del bancone, le braccia un po’ alzate e allargate, per permettere a Ramo di avvolgergli diversi giri di bende intorno al fianco, finendo la fasciatura. Dietro di lui, disteso sul bancone, con una protuberanza di spessa fasciatura all’altezza della spalla, giaceva ancora Danny, completamente incosciente.

«Hai drogato Andrea?» domandò Yuta.

Ramo sussultò, tirando un po’ troppo la benda. Uther fece una smorfia di dolore trattenuto, poi lo fissò, con aria sorpresa, quindi incuriosita, quindi ghignante; Ramo non riuscì a interpretare bene quest’ultima espressione. Sospirando stancamente, si voltò verso Yuta.

«Non l’ho proprio ‘drogata’. Erano solo dei calmanti; abbastanza leggeri.»

Yuta sorseggiò il suo caffè, fissandolo pensosamente; se solo fosse riuscita a sentire anche il più vago accenno di sapore di peperoncino, avrebbe avuto un valido motivo per aggravare il capo d’imputazione, ma sembrava proprio che ce ne fosse stato messo pochissimo, e che il caffè fosse stato saggiamente molto allungato con l’acqua calda.

«Oh.» commentò, asciutta.

Ramo si sentì intrappolato tra quel commento, accompagnato da uno sguardo acuto, e dal sogghigno con cui Uther lo stava fissando come se avesse appena deciso che era il suo nuovo eroe.

 

*

***

*

 

Il lupo trotterellava di buon ritmo nella foresta, seguendo con scioltezza la direzione in cui lo stava guidando il suo fiuto. Si sentiva di umore strano; un genere di umore che non provava da molto tempo, al punto che ora lo lasciava perplesso, e piuttosto ironicamente divertito.

Alla fine si fermò. Allungò il muso verso l’alto, saggiando meglio la traccia, per poi puntare decisamente verso un albero in particolare. Ai piedi di esso trovò un involto. Sapeva già cosa conteneva.

Diversi minuti più tardi, un ragazzo solitario e completamente nudo stava valutando uno per uno gli abiti che aveva messo allo scoperto dopo aver aperto la coperta in cui erano stati avvolti. Con un sorriso divertito si rendeva conto di come la quantità di vestiti fosse considerevole, e tutti in tessuto pesante. Tra sé e sé pensò che dopotutto quegli umani non dovevano saperne così tanto, a proposito dei lupi mannari, per pensare che nella sua forma umana lui soffrisse ancora il freddo come un essere umano.

Scelse una maglia un po’ troppo larga e un paio di pantaloni un po’ troppo corti, oltre alla biancheria e a una giacca, che indossò senza preoccuparsi nemmeno di chiudere, il tutto completato da un paio di calze e di scarpe di una misura abbastanza vicina alla sua; riavvolse il resto degli abiti nella coperta, e si sistemò il tutto sotto al braccio mentre si rialzava in piedi. Nel farlo una lieve fitta dolorosa gli rammentò per un momento della ferita guarita completamente solo da poco. Sogghignò tra sé e sé.

Guardandosi intorno, si soffermò per qualche istante nella felice contemplazione della foresta innevata tutt’intorno, come se quel paesaggio lo abbracciasse benigno.

Quindi, rialzò di nuovo un po’ il suo naso umano verso l’alto, ora scegliendo un’altra pista. La sentiva già da un po’, e la posizionò senza difficoltà in cima ai suoi interessi del momento. Di lì a poco si stava già incamminando, una mano affondata nella tasca dei pantaloni in prestito, dirigendosi in una direzione specifica. Non avrebbe nemmeno avuto bisogno di sentire così bene quell’odore, perché sapeva che colui a cui apparteneva sceglieva sempre lo stesso posto.

 Camminò a quel modo per una mezz’oretta, prima di individuare la macchia fitta d’alberi che gli era oramai famigliare. Lì i pini formavano, in un certo punto, una specie di cerchio, lasciando al loro centro uno spazio quasi spoglio, come un piccolo circolo di calvizie nella foresta.

E ancora prima di vederlo sapeva che cosa vi avrebbe trovato.

Mentre entrava nel circolo, con i piedi che scricchiolavano appena sulla neve un po’ ghiacciata nonostante la naturale leggerezza del suo passo, le sue narici si riempirono del sentore di fumo; quel fumo che saliva in un filo sottile dal piccolo falò morente. Accanto ad esso, una sagoma dormiva in un sacco a pelo, vicino al tronco sdraiato di un albero caduto.

Per la prima volta, forse perché si sentiva meno teso e sospettoso, il ragazzo notò che quel posto sembrava essere stato scelto accuratamente; si chiese quanto ciò fosse dovuto al caso o piuttosto alla cura del tizio che dormiva.

Senza fare troppo rumore, e pertanto senza svegliarlo, Danny raggiunse gli avanzi del piccolo falò e il sacco a pelo, finendo per sedersi sul tronco. Per qualche momento rimase a soppesare la situazione, senza particolare coinvolgimento; c’era una specie di curiosità distratta nei suoi modi, benché non ne fosse pienamente consapevole.

Lo sguardo gli cadde su una bottiglia, lasciata in piedi sul terreno, accanto al tronco. La raccolse, e la studiò per un po’; quando ricordò l’interpretazione corretta delle lettere, lesse il nome di una marca. Non gli diceva nulla, ma c’era qualcosa nella conformazione della bottiglia di vetro che aveva risvegliato un preciso ricordo nella sua mente.

Sorrise appena, fugacemente, poi applicò i denti al tappo, allentandolo. Finì di aprirlo facendo leva col pollice, e mirò attentamente, in modo tale che il tappo, schizzando via dal collo della bottiglia, rimbalzasse sulla figura addormentata nel sacco a pelo.

Ci fu un movimento, dapprima ancora semi-immerso nel sonno; poi la figura si girò, e gli occhi si aprirono. Le due pupille, di un azzurro simile al ghiaccio che ricopre talvolta i corsi d’acqua, individuarono la sagoma seduta sul tronco. Uther la guardò sorseggiare dalla bottiglia, e ricambiargli lo sguardo con aria di divertita superiorità; era un certo qual tipo di ‘buongiorno’ quello, indubbiamente. Ma nessuno dei due disse effettivamente ‘buongiorno’.

Uther si tirò a sedere, mentre finiva lentamente di svegliarsi, senza fretta.

Danny allontanò un po’ la bottiglia da sé, e la rimirò con aria particolarmente interessata, mentre degustava la bevanda. «E’ un bel po’ che non ne sentivo.» osservò.

Uther si passò una mano sulla faccia, cercando di scacciare le ultime tracce di sonno; poi allungò la mano. L’altro osservò per un po’ quella mano tesa con fare naturale, e sembrò pensarci su, prima di allungargli la bottiglia.

Uther sorbì un sorso, se lo fece turbinare in bocca, come una specie di gargarismo, lo mandò giù, e bevve un altro sorso. «Un bel po’ che non senti della birra?» domandò quindi, con un certo accenno di divertimento.

Danny alzò un sopracciglio. «Non ci sono bar nelle foreste.» notò, col tono di chi vuole specificare che la trova una cosa sufficientemente scontata.

«Immagino.» fu tutto ciò che rispose l’altro, distrattamente, mentre usciva dal sacco a pelo, stiracchiandosi.

Per un po’ si limitò ad osservarlo, mentre arrotolava il sacco a pelo e si infilava il bomber che gli aveva sempre visto indosso. C’era qualcosa che gli premeva dire, anche se l’argomento era già stato affrontato diverse volte.

«Il fatto che io sia venuto non significa che sia stato convinto dalla tua proposta.» disse infine Danny.

Uther interruppe le sue occupazioni pratiche, soffermandosi a lanciargli un’occhiata seria; Danny ancora non capiva cosa interessasse così tanto a quell’essere umano. Ma ne aveva il sospetto; aveva molti sospetti.

«Così…» riprese quindi, raccogliendo di nuovo la bottiglia di birra, e osservandola riflessivamente, prima di bervi «…sei davvero persuaso che dovrei incontrare anche gli altri.» osservò, fingendo una compassata distrazione.

«E tu ancora non lo sei.» si limitò a ribattere Uther, come se non fosse cosa ovvia.

Danny lo fissò più direttamente, mettendo di colpo allo scoperto uno sguardo saturo del tentativo di leggere attraverso le sue intenzioni più riposte. «Non dovrei? Voi siete cacciatori di quelli come noi. Perdonami, sai, se ritengo che francamente tutto questo sia una sorta di ridicola trappola.»

Uther lo fissava con altrettanta durezza. «Lo capisco. Ma pensi davvero che avremmo fatto tutto questo, se avessimo voluto abbatterti fin dal primo momento?»

Danny si accigliò leggermente, per fargli capire quello che avrebbe potuto naturalmente ribattere. Dopotutto, la sua ferita non era ancora guarita completamente, anche se poco ci mancava.

«Come ti ho già spiegato… » ricominciò Uther, con un accenno di pazienza in più «…effettivamente questa era una possibilità che abbiamo preso in considerazione, quando siamo stati chiamati qui. Ma, dopotutto, sebbene ne abbiamo avuto l’occasione, non ti abbiamo ucciso. Semmai, abbiamo finto di averti ucciso, con quelli del villaggio; gli avevamo promesso la tua testa, e gli abbiamo portato quella di un vecchio lupo trovato morto da un guardiacaccia qualche tempo fa, investito, che ci siamo portati appositamente dietro.»

Danny sogghignò, amaramente divertito «Sì, sì, la conosco, la vostra storia; così mi avete nutrito fino ad ora, mentre mi rimettevo, per evitare che mi azzardassi a fare ancora qualche scorreria tra gli animali che allevano. Sarebbe stato imbarazzante per voi cercare di convincerli che ero un altro lupo ancora, e perdipiù un altro che mostrasse abbastanza intelligenza da convincere alcuni vecchi del villaggio d’essere più propriamente un ‘lupo mannaro’.»

«Non lo abbiamo fatto solo per questo.» puntualizzò Uther «Sapevamo che non avresti potuto cacciare, con quella ferita. Che saresti potuto morire di fame.»

Danny sputò fuori una risata profonda, graffiante di amarezza. Poi tornò di una fredda, crudele serietà. «Cosa vorresti dire, cacciatore di spettri? Che dovrei rischiare la pelle per gratitudine?» Benché ogni parola suonasse come una gelida sferzata, l’ultima risuonò particolarmente disprezzante. «Per ripulirmi la coscienza?» disse ancora, le labbra un po’ arricciate, lasciando i denti scoprirsi tra le labbra più di quello che gli serviva per parlare.

«No.» rispose il ragazzo. E per la prima volta, da che avevano iniziato quella conversazione, lo guardò direttamente, e particolarmente serio. «Per mettere in pace la mia.»

Suo malgrado, Danny rimase disarmato dalla risposta. Lui che col ghiaccio ci sapeva aver a che fare, non trovò bisogno di rompere quello del colore di quegli occhi; ebbe la pura impressione che fossero pienamente sinceri, così come quel tono, fattosi improvvisamente profondo.

Per qualche momento si fissarono a quel modo; le pupille del lupo mannaro correvano veloci, cercando discrepanze, come faceva quando doveva scovare il miglior punto debole da cui attaccare una preda, o quando doveva decidere se uno strato di ghiaccio che ricopriva un corso d’acqua poteva sostenere il suo peso finché non l’avesse attraversato. Lo lasciò fastidiosamente insoddisfatto il fatto di non trovarne.

Uther riprese a finire di arrotolare il sacco a pelo, e a mettere in ordine le altre poche cose che si era portato dietro. Quando ebbe terminato, diede la chiara impressione di essere pronto per mettersi in marcia. Solo allora tornò a guardare Danny.

Il ragazzo tirò fuori un ghigno furbo. «Il fatto che io venga, non significa che vi credo. Se la vostra è una trappola, non troverete le cose affatto semplici.» lo informò, con tono sordo di una minaccia, velata solo per renderla più temibile.

Uther annuì e si strinse nelle spalle. Poi iniziò a camminare, verso il villaggio.

Danny temporeggiò ancora, accorgendosi di stare soppesando nella mano la bottiglia di birra. Alla fine ne bevve un sorso, e anche lui si incamminò, seguendo il primo essere umano che avesse mai conosciuto che si dilettava a parlare con i lupi mannari. Doveva ammettere, tra sé e sé, che questo richiedeva una maledetta faccia tosta; ma se avevano intenzioni secondarie, e dovevano pur averne, che gli fossero state avverse, non avrebbe esitato a fargliene pentire. E quel tizio sarebbe stato il primo.

Quando lo raggiunse, lo sentì persino fischiettare. Si schernì per questo, per quella specie di tranquillità svagata. Ma fece di tutto per non darlo a vedere. Se pensavano di stare giocando con un cucciolo, presto o tardi li avrebbe fatti ricredere; sarebbe stato il loro ultimo, gravissimo errore.

 

 

 

Soundtrack: ‘When you were young’ (the Killers)

Ritorna all'indice


Capitolo 60
*** 58 - HOME IS... ***


Capitolo 58

(Home is…****)

 

Quando si rese conto di essere riemerso da un sonno profondo, si accorse anche di non saper dire da quanto si dilettava a rimanere in quel dormiveglia riposante e gradevole, stordente; avvolto nella calda gentilezza di un materasso, un cuscino e una coperta pesante, si trattenne ancora un poco in quello scarso stato di coscienza. E già si sarebbe riabbandonato al sonno, se non avesse realizzato improvvisamente cosa aveva attirato la sua attenzione.

La voce, dolce e riflessivamente malinconica, intonava piano le parole e il ritmo di una canzone che gli pareva di conoscere, riempiendo la stanza con quella melodia sottile. Non era nemmeno sicuro di starla udendo davvero, e dubitò che non fosse piuttosto uno strascico dolceamaro di un sogno, che dava l’impressione di echeggiare anche nel suo essere quasi sveglio.

Mano a mano che inseguiva quella voce, però, riemergendo sempre più dal torpore del dormiveglia caldo, la distingueva più chiaramente. Aprì gli occhi su un soffitto abbastanza familiare, benché sommariamente neutro. Riconobbe gli odori della stanza, la identificò come la stanza per gli ospiti della casa di Yuta e Zoal. E fu improvvisamente grato di non aver sognato quello, il fatto di riaverli rivisti, tutti quanti, di aver passato ancora del tempo con loro, e tutto il resto; era successo veramente. Questa realizzazione fu purtroppo anche accompagnata dal sentore di un dolore lancinante alla spalla, che gli giunse però in sordina, lontano, come se non provenisse proprio dalla sua spalla; riconobbe la mano dei medicinali anti-dolorifici che Ramo doveva avergli somministrato, e anche se la cosa non gli arrideva molto ne fu grato.

Si guardò intorno, nella penombra di quello che sembrava un tardo pomeriggio di un giorno annuvolato. Anche se la stanza sembrava chiusa, e vi regnava odore di sonno, di aria rappresa in un tepore caldo, accogliente e quasi soffocante, appesantito dal respiro di dormiente, da un sentore di sudore, uno più sottile di sangue e di materiale sterilizzato, e quello mordente di spezie ed erbe che costituivano i soliti rimedi in paste auto-prodotte dalle due sorelle, Danny riuscì a percepire anche qualcosa dell’esterno: l’umidità era forte, quel giorno, e ammorbidiva il freddo della stagione.

Spostò lo sguardo per la stanza, finché non individuò due cose. La prima era una figura distesa su un altro letto, verosimilmente quella di Ramo, profondamente addormentato; lo identificò dalla capigliatura corvina e un po’ lunghetta, slegata dal solito codino retro-nucale e stesa scompostamente sul cuscino, che era tutto ciò che spuntava da sotto le coperte.

L’altra era una donna, seduta su un cuscino, per terra, accanto alla finestra. A gambe incrociate e braccia appoggiate in grembo con fare riposante, Yuta guardava fuori, il viso così vicino al vetro che quasi vi appoggiava la fronte. Con lo sguardo assorto in qualche riflessione, o forse solo abbandonato nel guardare l’esterno, cantava a mezza voce. Era piuttosto stonata, ma estremamente dolce. Danny ricordò allora di quale canzone si trattava, qualcosa come ‘Pioggia’*.

Yuta si interruppe, esitò, forse non ricordando le parole di quel punto della canzone, e finì per continuare a cantarla con un mugugno gutturale. Poi, quasi distrattamente, distolse lo sguardo dalla pioggerellina che cadeva fuori, e lo rivolse all’interno della stanza. Così facendo si rese conto che Danny era sveglio, e la stava guardando. Si stupì, poi un sorriso spontaneo e improvviso le sciolse la serietà dei tratti del viso.

Danny la guardò alzarsi in piedi e venire verso il suo letto, sul quale si sedette, mentre gli rivolgeva la domanda più scontata e più affettuosa che ricordasse di aver mai sentito di recente. «Come va’?»

«Mhmm… bene, abbastanza bene.» rispose, altrettanto scontatamente. Gli dava una piacevolissima sensazione tutta quella scontatezza, perché, in qualche modo, non la trovava affatto così scontata; pareva piuttosto, al momento, qualcosa di molto prezioso, e darla per scontato un grave errore, di cui poi potersi ritrovare a pentirsi cocentemente.

Yuta interruppe il suo sorridere nel ricordarsi di qualcosa di importante. «Ah, Ramo mi ha detto di chiederti se senti dolore… perché deve adattare la dose degli antidolorifici anche in base a quello, qualcosa del genere.» gli comunicò, con una lieve smorfia.

Danny ebbe una pronta intuizione, subito seguita da un ricordo poco piacevole.

La prima riguardava il fatto che probabilmente Yuta e Zoal si erano trovate in disaccordo riguardo ai metodi curativi, con Ramo. Non che Ramo fosse un sostenitore della medicina farmacologica, tutt’altro, ma riteneva che certe basi fossero il minimo necessario; e tra queste basi necessarie rientravano con ogni probabilità anche gli anti-dolorifici, specialmente se associati a una ferita come quella da cui Danny si stava rimettendo. Lui aveva indubbiamente dalla sua la natura di lupo; le sue ferite, tutti loro lo sapevano per esperienza, potevano guarire e cicatrizzare in un tempo molto ridotto, pari talvolta fino ad un terzo o un quarto di quello che avrebbero richiesto ad un essere umano fatto e finito. D’altra parte, bastava una dose ridicola di argento puro in contatto col suo sangue per mandarlo in avvelenamento serio, e spedirlo molto vicino all’aldilà. Di colpo realizzò che, se non fosse stato un lupo, probabilmente non sarebbe sopravvissuto a quella ferita, specialmente considerando tutto il tempo che doveva essere trascorso da quando era stato colpito a quando erano riusciti a dargli un primo soccorso. Il suo sangue non poteva ricevere trasfusioni da quelle di un essere umano. Non aveva idea ben precisa, a pensarci meglio, di come potesse essere sopravvissuto. Tutt’ora non era del tutto sicuro di potervi credere.

Il ricordo doveva appartenere ai giorni precedenti, nei quali verosimilmente non aveva fatto molto altro che dormire e dormire. Ma ricordava di essersi svegliato, ad un certo punto, e che a strapparlo dal sonno era stato un dolore insopportabile alla spalla ferita; non aveva potuto evitare di svegliarsi mentre già stava gridando dal dolore, agitato violentemente dal proposito di fare qualsiasi cosa per tentare di eliminarlo. Il ricordo era ottenebrato e incerto a quel punto, ma rammentava di aver visto improvvisamente Kumals, Ramo, Zoal, Andrea e Yuta davanti a sé. Ricordava vagamente di come prima avessero sospinto Andrea per allontanarla, di come Zoal gli avesse ficcato il suo bastone di traverso tra i denti, e Kumals e Yuta l’avessero afferrato e placcato sul materasso, tenendolo fermo mentre Ramo gli piantava una siringa nel braccio sano. Poi buio di nuovo; il dolore se ne era andato quasi nello stesso istante in cui era riprecipitato nell’incoscienza. L’ultima cosa che ricordava era quell’espressione, quegli occhi nocciola che lo fissavano, spaventati e disperati, con un dolore difficile da contenere.

«Yuta…» disse «…no, sto bene, non sento dolore, non tanto. Però, dimmi… dov’è Andrea?» domandò. Si sentiva improvvisamente inquieto, come se qualcosa fosse completamente fuori posto; una chiave di volta non era dove doveva essere, e il resto della struttura minacciava di crollare da un momento all’altro, e il suo equilibrio, anche se avesse fortunosamente resistito ancora per un po’, perdeva di senso. Davvero era solo perché non poteva vederla lì, ora, perché non poteva sentirne chiaramente l’odore, verificare la sua presenza, saggiare e cercare di capire cosa stesse passando? Non pareva meno strano del fatto che fosse sopravvissuto, né meno fondamentale. Anche se il suo odore permeava la stanza, non gli bastava.

«E’ uscita una ventina minuti fa da questa stanza. Sono giorni che non fa altro che stare chiusa qui, e poco fa sono finalmente riuscita a convincerla a scendere in cucina a mangiare qualcosa, a prendere un po’ d’aria insomma.» spiegò Yuta. «Ramo mi ha aiutato a convincerla…» aggiunse, indicando il ragazzo addormentato con un cenno della testa «…con la scusa di farlo dormire un po’ in un letto vero e proprio, visto che fin’ora ha potuto fare affidamento solo sul divano, e per giunta passando la notte con Justin sulla brandina di fianco. Credo che se ci fosse stato chiunque altro di noi, al posto di Ramo, ora Justin non potrebbe più raccontarlo.»

Danny sorrise appena, non solo per il sollievo nel sapere che, nonostante tutto, c’era pur sempre Yuta a tenere un occhio attento su Andrea, ma anche per l’ennesima nota di demerito a proposito di Justin. «Forse dovreste rivalutare il numero di persone che può contenere questa casa…» commentò alla fine, sardonico.

«Non preoccuparti.» rispose prontamente Yuta, mantenendo la scherzosa sfida «Non appena tu e qualcun altro sarete capaci di tenervi in piedi come si deve potrete andarvene quando meglio credete.»

«Ah! E Uther?» si informò Danny.

«Niente di grave, effettivamente è stato colpito solo di striscio da una pallottola, anche se fino ad ora si è rifiutato di dire come sia stato possibile… Comunque, sta nella mia stanza, anche lui allettato. Ho il sospetto che se ne stia approfittando in realtà, perché a parer mio sta più a letto di quanto non ce ne sia bisogno per rimettersi dalla sua ferita.». Anche se i propositi di sdrammatizzare di Yuta erano evidenti, a Danny risultò chiaro che la ragazza era preoccupata per questo.

«Comunque…» riprese, dopo una breve pausa «…Kumals passa quasi tutto il tempo con lui. Quello che si può dire un aiuto alla convalescenza, perché credo che prima o poi Uther cederà all’impulso di alzarsi per aggredirlo. L’altro giorno sono entrata a sorpresa nella stanza, e ho beccato Kumals che, a ragionevole distanza di sicurezza dal letto, stava mangiando il piatto che gli avevo dato per Uther mentre improvvisava un balletto e canticchiava quella canzone… come si chiama… credo sia ‘Johnny are you queer?’ di Josie Cotton; e Uther lo stava guardando malissimo e tentava di prendere la mira per tirargli addosso il cuscino.»

«Più che una convalescenza si direbbe una tortura…» osservò Danny, con un sorrisetto smaliziato.

«Oh beh… Kumals sembra tenerci particolarmente a vegliarlo; si diverte così.» commentò Yuta, alzando le spalle. «Ad ogni modo, giù Valentine ha preparato qualcosa da mangiare, così Andrea mangerà, e Valentine si assicurerà che lo faccia, e le terrà lontano Justin e il Conte e via dicendo…»

«Il Conte?» Danny allargò lo sguardo per lo stupore.

«Oh sì, è tornato norm… hem, beh, è come prima. Non preoccuparti, quando ti sentirai meglio ti racconteremo tutto… o meglio, tutto quello che ci hanno detto Zoal e Kumals. Anche se mi è difficile credere del tutto in quella parte in cui sembra dobbiamo ringraziare principalmente il Conte e Justin, nientemeno, per aver risolto la situazione… Inoltre, sai com’è, Kumals ha un modo tutto suo di raccontare le cose, Zoal non è di molte parole in proposito, e sta riposando molto anche lei in questi giorni, il Conte più che parlare si è messo a scrivere con inchiostro e penna d’oca su della carta tipo finta-pergamena qualcosa che lui chiama ‘le sue memorie’, e Justin è semplicemente inaffidabile.» riportò Yuta.

Danny accennò di nuovo un sorriso. «Grazie… » mormorò.

Fu il turno di Yuta di apparire stupita. «Come? Di che?»

Il ragazzo si trattenne appena in tempo dal proposito di alzare le spalle nel classico gesto, ricordando che una delle sue spalle al momento era il centro dello sprigionarsi di un dolore sopportabile solo grazie all’intontimento da anti-dolorifici. «Di tutto… e specialmente per Andrea…»

Yuta alzò un poco un sopracciglio, e sembrò divertita. «L’ho fatto per lei, mica per te.» precisò.

«Sì lo so… appunto: grazie…» e Danny dovette cedere ad un ampio sbadiglio. «Scusami, sto morendo di sonno…»

Yuta annuì. «No problema… Però non prenderci troppo gusto a dormire tanto. Sai, c’è ancora una cosa di cui dobbiamo occuparci, e penso che ti spiacerebbe mancare… » accennò, con un sorrisetto ghignante.

Danny sentì la sua curiosità risvegliarsi, e le lanciò un breve sguardo interrogativo. Ma già la stanchezza enorme reclamava il suo tributo, e sentì il sonno ricalare giù le sue palpebre senza ammettere troppe interferenze. Cercò di annuire, e non fu troppo sicuro di riuscirvi.

Sentì Yuta lasciargli una rapida carezza tra i capelli, e poi il letto muoversi, mentre lei si rialzava in piedi e, probabilmente, tornava a sedersi accanto alla finestra, perché l’ultima cosa che il ragazzo sentì fu il riprendere di quella canzone dolce e melanconica, che lo cullò nel riaddormentarsi.

 

*

***

*

 

Tanto più si ostinava a voler partecipare a quella specie di gioco, tanto più il lupo ne usciva convinto di averci visto giunto fin dal primo momento. L’edificio all’interno del quale lo stava conducendo il ragazzo che diceva di chiamarsi Uther era da ogni punto di vista perfetto per un’imboscata.

Senza apparentemente battere ciglio, Danny strinse più fortemente i denti, irrigidendo la mascella in un’espressione di cinico e feroce divertimento, mentre entrava nel portone del capannone di medie dimensioni sito alla periferia del villaggio. Tanto valeva risolvere la faccenda al più presto, considerò tra sé e sé, dedicando la massima attenzione d’allerta alla schiena e ai movimenti del ragazzo che lo precedeva.

Questi si incamminò con naturalezza nel corridoio non molto largo. Là dentro appariva tutto essenziale già dalle pareti intonacate rozzamente, dal pavimento con piastrelle plastiche che producevano un rumore sommesso muovendosi elasticamente sotto i loro passi, fino al soffitto di pannelli, alcuni dei quali erano usciti dalla loro cornice, mostrando il vuoto dello spazio che li separava dalla muratura di cemento vero e proprio; in questo spazio si annidavano cavi della luce e consimili ammennicoli, ma le luci al neon che si susseguivano a intervalli regolari sul soffitto erano tutte ugualmente spente. La penombra era appesantita da un sentore di polvere accumulatasi per anni e di abbandono.

Danny valutò distrattamente la singolarità di quel luogo: doveva essere stato un tentativo industriale nel villaggio, ed era stato abbandonato piuttosto presto. Qualche gruppo di abitanti locali doveva aver rilevato l’edificio per riutilizzarlo come magazzino, almeno a giudicare dall’odore di fieno secco e di strumenti da falegnameria, sentore di officina e di ferro e benzina di aggeggi da officina, che riusciva a sentire. Spirava dalle porte laterali chiuse, che per le loro considerevoli dimensioni dovevano condurre a grosse stanze, che occupavano completamente il pianterreno. L’istante successivo era di nuovo completamente ed esclusivamente concentrato sull’agguato che presagiva lo stesse aspettando in quel luogo.

Per questo lo innervosì dover seguire Uther su per una scala relativamente stretta, che portava al primo e più alto piano dell’edificio. Lo aveva guardato bene da fuori, e sapeva che alcune delle vetrate del piano superiore erano incrinate, rotte o completamente mancanti. Volendo, avrebbe potuto saltare direttamente attraverso di esse, e atterrare senza danno sul terreno all’esterno, liberandosi in un baleno della costrizione del ritrovarsi chiuso in un edificio. Benché continuasse a considerare la cosa solo da un punto di vista tecnico, relativo allo scontro che era certo di dover affrontare di lì a poco, c’era un sottofondo ben preciso al suo irritato fastidio. Era da molto tempo che si trovava non fuori all’aria aperta, o tutt’al’più in qualche riparo naturale, bensì dentro un edificio umano vero e proprio. E quell’aria fetida di chiuso, per di più acuita dallo stato di semiabbandono dell’edificio, gli risultava particolarmente pestilenziale.

Arrivarono in cima alle scale senza che nulla fosse ancora occorso, e Danny si ritrovò ad essere impaziente. Che bisogno c’era di quella perdita di tempo? Forse intendevano condurlo in qualche specifica stanza, magari rinchiudercelo, e affrontarlo in un ambiente dal quale gli fosse impedito darsela a gambe. Questo, però, sarebbe stato vero anche in senso reciproco: nemmeno loro, a quel punto, avrebbero potuto sfuggirgli.

Aveva già intuito l’odore di altre persone, ed ebbe per la prima volta a che fare col fatto che i due uomini che lo avevano attaccato, uno dei quali stava seguendo in quel momento, non rappresentavano gli unici componenti di quella sorta di gruppo di ‘cacciatori di presenze’; questo nonostante Uther gliene avesse già accennato. Tanto peggio per loro; chiamare rinforzi non sarebbe valso loro l’impegno, visto come li avrebbe ridotti non appena gli avessero dato l’opportunità di farlo.

Uther gli fece strada nel corridoio al piano di sopra, non meno pregno di uno stato di semi-abbandono. Il fine udito di Danny sentì le voci molto prima che la sua guida svoltasse dentro la porta aperta di una stanza. Il lupo, invece, si fermò sulla soglia, occhieggiando in giro per l’ambiente che si ampliava di fronte a lui, senza mancare di tenere sotto il controllo dei suoi sensi tesi il corridoio che si stava per lasciare alle spalle.

Guardò Uther attraversare la stanza, quasi completamente vuota; lungo le pareti c’erano materassi a terra con sopra sacchi a pelo, e una cucina da campo asserragliata da qualche pentola e padella, oltre che da una selva di scatole di cibarie. Infine, contro il muro di fondo, sorgeva il relitto di una vecchia e pesante scrivania da ufficio. Su di quella, e in particolare sulle due figure che vi erano sedute vicino su alcune sedie di recupero, Danny focalizzò immediatamente lo sguardo.

«Quello che voglio dire, è che se io sono rimasta negli anni ’80, tu sei rimasto perlomeno ai ’50!» stava rimbeccando con decisione una ragazza alta e dalla voluminosa capigliatura castana raccolta in una coda di cavallo che ricadeva dalla cima della nuca, in cui le ciocche mosse si mischiavano a treccine e dreds colorati. Con le mani puntellate sui fianchi dei pantaloni zebrati attillati, fronteggiava risolutamente l’uomo sedutole pacificamente di fronte, semi-immerso nella nuvola del fumo della sua sigaretta; per l’animazione i grossi orecchini di un improbabile verde acido e dalla forma di ananas le si agitavano vivacemente ai lati degli zigomi pronunciati e alti sul viso.

Il suo interlocutore, avvolto in un ampio e consunto pastrano lungo, accavallò le gambe e non rinunciò nemmeno per un momento alla sua espressione sorniona, mentre diceva «Di qualsiasi epoca sia, il kitch rimane tale aldilà del tempo e dello spazio.»

‘Factory**’… pensò Danny a primo impatto, poi scosse la testa con frustrazione; non era lì per simili baggianate. Per quanto lo riguardava potevano anche mettere fine alla loro commedia e fare sul serio.

«Heylà… » salutò Uther con nonchalance. Danny avrebbe giurato di avergli sentito mormorare qualcosa come ‘Ci risiamo’ poco prima.

I due si voltarono verso Uther, dedicandogli ben poca attenzione. Al momento la ragazza sembrava molto impegnata a bersagliare l’altro con occhiate di fuoco e una mitraglia di parole a mo’ di ribattuta.

Uther rimase per un po’ a guardarli e ascoltarli, con le mani in tasca e l’aria per nulla sorpresa. Nemmeno una volta si voltò indietro verso Danny, ancora fermo sulla soglia e immerso nel tentativo di esaminare accuratamente l’ambiente con tutti i sensi a sua disposizione, con l’aggiunta dell’intuito e dell’esperienza, in cerca della trappola che lo aspettava. Si stava risolvendo ad accettare il fatto che doveva trattarsi di una trappola estremamente fine ed elaborata, difficile da individuare.

«Scusate... » riprovò Uther, accigliato, ma in tono tutto sommato cauto. Ciò non lo risparmiò dal ritrovarsi puntati addosso due sguardi ben diversi, tra quello molto risentito della ragazza e quello incuriosito e sorpreso, e forse un poco grato per l’interruzione, dell’altro.

«Cosa??» quasi sbraitò la ragazza, con un agitarsi prepotentemente eloquente dei suoi orecchini.

«Beh… non sono solo…. » annunciò Uther.

Gli occhi del suo collega, però, avevano già individuato la sagoma ferma, in piedi sulla porta, e la stavano studiando con acuto interesse penetrante. «Lo vedo... » commentò, lentamente, l’uomo.

La ragazza sembrava improvvisamente tesa e imbarazzata.

«Puoi entrare…» disse l’uomo seduto, rivolgendosi a Danny con calma gentilezza, molto accuratamente calibrata.

Danny rimase immobile.

La ragazza scoccò un’occhiata scontenta all’uomo, come ritenendo inadatto il suo invito. Tornò a guardare Danny con una notevole esitazione, e con quella che negli anni il ragazzo aveva imparato a identificare come paura. Poi, con sorpresa, la vide iniziare a camminare, venendogli incontro con i grandi passi quasi di ritmo marziale delle sue lunghe e affusolate gambe.

Irrigidì i muscoli e aspettò, chiedendosi se quello fosse un molto mal assortito tentativo di attacco, o piuttosto il proposito di distrarlo mentre qualcosa d’altro lo colpiva a sorpresa. Iniziò a sentire il sentore di una strana sorta di profumo, mentre la ragazza si avvicinava; forse, vedendo quell’abbigliamento, si era aspettato che lei odorasse di quei profumi volgarmente forti e fruttati. Invece l’alone di odore che la precedeva era quasi solo quello che apparteneva per natura alla sua persona, oltre ad un sentore di erbe aromatiche, di frutta, di terra, neve e sigaretta.

Era ormai irrigidito fino quasi allo spasmo, pronto allo scatto, quando la ragazza si fermò di fronte a lui, a distanza di mezzo metro scarso. Lo fissò a lungo, un po’ dall’alto al basso, nel senso che era appena un po’ più alta di lui; aveva uno sguardo intenso, ma la sua espressione era pulita in una maniera che Danny non ricordava di aver mai visto: non l’ombra di giudizio, sospetto, aspettativa, valutazione… quasi niente, oltre ad una semplice ed onesta constatazione pratica. Rimase spiazzato per un momento, mentre lei incrociava le braccia sotto il petto, appoggiandole alla maglia in foggia finto-pellerossa color viola acceso che indossava, continuando a guardarlo come se stesse prendendo atto di qualcosa.

«Così, alla fine sei venuto… » mormorò infine, pensosamente.

Danny si irrigidì ulteriormente, e preparò rapidamente a fior di labbra un’urticante risposta, ma quella gli si impigliò in gola nel mentre che si rendeva conto che il viso della ragazza andava aprendosi in un lieve sorriso, a stento trattenuto, e indubbiamente amichevole.

L’istante successivo la vide sporgere un braccio verso di lui; sussultò violentemente, e fece per muoversi in una posizione difensiva, quando riscontrò che lei gli stava semplicemente porgendo la mano.

«Yuta.» disse.

Dopo qualche istante comprese che si stava presentando. Faticò non poco a superare un certo sbigottimento, ma nemmeno per un momento aveva dimenticato che gli altri due uomini li stavano fissando, dall’altra parte della stanza, né che in essa permeava l’odore di un’altra persona, che però al momento non era presente, e che dunque poteva essere appostata da qualche parte per aggredirlo di sorpresa.

Storse appena il naso, gesto di perplessità e sforzo riflessivo, e rifiutò di stringere la mano della ragazza. «E cosa sono venuto a fare, qui?» domandò in tono duro.

La ragazza che si era presentata come Yuta riabbassò lentamente la mano e lo guardò con un’espressione non meno perplessa. «Se non lo sai tu… » rispose, irritandolo ulteriormente.

Subito dopo gli aveva voltato le spalle e stava tornando verso la scrivania. «Comunque, se vuoi bere qualcosa abbiamo un po’ di birra. Ma chiedi ad Uther, o la prende sul personale…»

Il citato le lanciò un breve sguardo critico, ma Yuta gli stava già rivolgendo una strizzata d’occhio divertita.

Se non fosse stato per lo sguardo dell’uomo con i rasta e il voluminoso pastrano, che non gli aveva staccato gli occhi di dosso nemmeno per un istante, con fare quasi inquisitorio, Danny avrebbe a quel punto capitombolato a quel tipo di impressione che si potrebbe avere quando si arriva ad una festa aspettandosi di essere l’anima della serata, atteso da tutti, e quando si fa il proprio trionfale ingresso, ci si rende conto che la festa sta procedendo benissimo anche senza di voi, nonostante non riusciate proprio a spiegarvi come. Ad acuire questa straniante impressione collaborò ulteriormente il fatto che Yuta si mise a chiacchierare con Uther, riguardo qualcosa che aveva a che fare con la possibilità di infilarsi di soppiatto e gratuitamente dalla porta sul retro del cinema locale quella sera, mentre lui prendeva a svuotare lo zaino, stendendo sul pavimento il sacco a pelo per farlo asciugare bene dalle tracce di neve.

Passarono così un paio di minuti, e tutto ciò che accadde di saliente fu l’uomo coi rasta che iniziava un’altra sigaretta e il chiacchiericcio di Yuta e Uther che passava al riassunto della trama del film che si progettava di andare a vedere.

Alla fine Danny prese la sua decisione; dopo aver a lungo ponderato di andarsene, perché le cose sembravano notevolmente più preoccupanti e pericolose di quanto si era aspettato se i suoi avversari erano capaci di fingere tanta naturalezza con quella sfacciataggine, si risolse invece a solcare la soglia. A lenti passi ben misurati attraversò l’ampio spazio, dall’alto soffitto sostenuto da alcune grosse colonne di cemento, squadrate, che si ergevano qui e là per l’ambiente.

Si fermò vicino alla scrivania, e continuò a fingere di ignorare lo sguardo che l’uomo coi rasta gli teneva ancora incollato addosso; solo dopo qualche minuto si arrese a guardarlo, dedicandogli una vaga attenzione superiore. Quegli sorrise appena, in qualche modo divertito.

«Spero tu non ti stia aspettando delle scuse anche da me.» gli disse.

Se fosse stato in forma di lupo, Danny sarebbe stato provvisto in quel momento di una striscia di pelo rizzatasi di colpo lungo la schiena, formando una sorta di cresta elettrostatica; sentendosi sgradevolmente privato di quell’espressività, si trovò limitato a ricambiare con uno sguardo tagliente quelle parole, che se non altro avevano avuto il potere di interrompere le chiacchiere degli altri due, e di calamitarne l’attenzione su di loro. L’atmosfera si era raggelata, e Danny si rese conto alla fine che Yuta ed Uther stavano guardando se fosse sua attenzione attaccare l’uomo; anche se doveva ammettere a se stesso di aver preso l’idea in considerazione, prima di tutto lo infastidiva risultare prevedibile ai loro occhi, e in secondo luogo sapeva bene che nel progetto di una trappola il fatto di attaccare per primo lo avrebbe automaticamente messo in svantaggio. Perciò rimase immobile: che altro c’era, se non attaccare in risposta a quella provocazione? Se c’era qualcos’altro, al momento non lo ricordava.

Con la coda dell’occhio, vide Yuta alzare una mano ed indicare l’uomo. «E quello è Kumals…» disse «…e, più propriamente, sarebbe inutile aspettarsi qualsiasi cosa di non irritante da quella bocca.»

Sentendo ciò, le sopracciglia di Kumals ebbero un guizzo, e un sorrisetto indisponente gli curvò le labbra, mentre, staccando le pupille solo per un istante da Danny, occhieggiava nella direzione della ragazza. «Che non ci si possa aspettare altro dalla mia bocca… proprio tu a dirlo, Yuta…

Uther sbuffò, a metà tra il divertito e il disapprovante. Yuta divenne rossa di colpo, dall’attaccatura dei capelli fino alle unghie delle dita, ovvero in ogni parte visibile della sua pelle; quindi strappò dalle mani di Uther un libro e scattò rapidamente.

Danny si mosse di conseguenza, rapido e allarmato, per evitare l’attacco, ma Yuta gli passò di fianco ignorandolo, e si gettò addosso a Kumals; prima che l’uomo potesse essere abbastanza lesto dall’organizzare una colluttazione difensiva la ragazza era già riuscita ad assestargli un colpo di libro sulla spalla e uno in testa. E, nonostante tutto, Kumals rideva.

Sentendosi particolarmente smontato, Danny abbassò un po’ le spalle, ritrovandosi suo malgrado ad assistere a quella strana lotta con perplessità. Non che le diatribe mischiate col flirt e con la colluttazione gli fossero nuove, ma quella specie di scontro rassomigliava più, ai suoi occhi, a due coniugi che dopo tanti anni passati in convivenza colgono ogni opportunità per scatenare una burrasca. E, in ogni caso, quella ragazza sembrava potenzialmente pericolosa…

«Hey… hey! Dico, potreste evitare di distruggermi il libro…?» rimbrottò Uther, con aria poco persuasa dalla possibilità di essere considerato; anche lui sembrava indeciso se ridere o arrabbiarsi, perciò, nel trattenere un sorriso e cercare di impalcare almeno un’arrabbiatura più formale che altro, ne usciva in qualche modo molto spontaneo. Improvvisamente guardò Danny per un momento, e aggiunse, come se fosse buona educazione dargli quell’informazione «Si tratta di una vecchia edizione di un manuale sulla distillazione della grappa.»

Danny rimase a fissarlo per qualche minuto, ormai incolume all’aria di tranquilla serietà dell’altro. Per l’ennesima volta fece un tentativo ormai parecchio sfiduciato di capire cosa non funzionasse lì dentro. E per l’ennesima volta si ritrovò alla fine a mani vuote. Alzò le spalle e scosse appena la testa, come per scacciare qualcosa di fastidioso. «Credo che me ne andrò.» disse.

Uther non ne parve sorpreso, e annuì.

Ma prima che si potesse avviare verso la porta, Danny udì la voce femminile appellarlo vivacemente. «Come sarebbe??»

Il ragazzo si voltò verso Yuta, considerandola con un’occhiata storta.

La ragazza stabilì una tregua nella colluttazione, smettendo di cercare di recuperare il libro che Kumals era riuscito a sottrarle, e di tirargli un rasta con l’altra mano; si sedette sulle ginocchia dell’uomo, accomodandosi come se non fosse nient’altro che una sedia, e disse, più estesamente «Ma te ne vai di già? Non resti a pranzo, allora?»

«Colazione, semmai… che ore sono, le dieci?» corresse en passant Kumals, sfogliando distrattamente il manuale sulla distillazione della grappa.

Danny si accigliò ulteriormente, fissando Yuta con una certa sorpresa confusione: quello era davvero troppo!

Mal interpretando la sua sorpresa, la ragazza si rivolse subito a Uther. «Ma non gli hai detto che lo invitavamo a pranzo? O colazione, o quel che è, insomma!» terminò, rifilando una gomitata tremenda nella milza di Kumals, che le stava picchiettando sul braccio tentando di attirare la sua attenzione. L’uomo imprecò sottovoce, portandosi una mano sul punto colpito con una leggera smorfia di dolore.

Uther sembrò essere stato colto in fragrante. Nel breve sguardo che si scambiò con Danny, entrambi realizzarono benissimo perché non l’aveva fatto: già il lupo sospettava ogni genere di tranello, se lo avesse invitato ad un brunch, ci sarebbe mancato poco che gli scoppiasse a ridere in faccia per una buona mezz’ora. Poi tornò a guardare Yuta, fingendo che non fosse niente di significativo. «Devo essermene dimenticato…»

«Si dev’essere sbronzato…» mormorò Kumals, di nuovo con tono di chi fa un’opportuna integrazione, senza rialzare lo sguardo dal libro sulle grappe.

Yuta fece un gesto infastidito, roteando gli occhi e alzando le braccia in alto con un sospiro. «Sei inaffidabile! Comunque…» e addolcì il tono, rivolgendosi a Danny «…resti a pranzo?». Il suo gomito era già pronto a colpire di nuovo, lo aveva persino già piegato e spostato per caricare il colpo, ma Kumals mantenne un saggio e composto silenzio, stavolta.

Danny non ebbe bisogno di pensarci. «No. Graz…» si interruppe in tempo, infastidito. «Me ne vado.» disse invece, e si incamminò verso l’uscita con decisione. Aveva l’irritante sensazione di quando si aspetta per tanto tempo che accada qualcosa, con ansiosa e impaziente attesa, e invece non succede proprio niente.

Kumals fece uno schiocco con la lingua, vagamente deluso.

«Peccato… » mormorò Yuta.

Era quasi sulla porta, quando sentì di nuovo la voce di Uther. «Comunque, puoi tornare a fare un salto quando vuoi… Non saremo qua ancora per molto. Ma per un paio di giorni ancora di sicuro.»

Per qualche motivo, prima di rendersene ben conto, Danny voltò appena il viso indietro e si espresse in un cenno d’assenso.

Se non fosse stato chiuso nella sua profonda amarezza, curiosamente e ancora più irritantemente causata dal fatto di non aver subito alcun attacco, si sarebbe accorto prima del rumore; non appena lo realizzò, comunque, si bloccò dove si trovava, ancora a qualche metro dalla porta. Completamente immobile, sentì i nervi tornarsi a tendere come quando era arrivato. Forse, dopotutto, non si era sbagliato di tanto, riguardo all’essere bersaglio di una trappola.

Preceduti dai loro odori, alcune creature stavano salendo le scale. Istintivamente Danny fece diversi passi indietro, allontanandosi dalla soglia ulteriormente, vicino alla quale sarebbe stato troppo esposto ad un attacco di chi stava arrivando. C’era un ulteriore particolare, che non aveva calcolato. L’odore di cane e di pelo bagnato lo aveva sentito fin dal primo momento che aveva messo piede nell’edificio, ma aveva pensato che si trattasse del rimasuglio di qualche cane randagio che aveva sfruttato il posto come rifugio temporaneo. Ora capiva di essersi sbagliato.

Per primo si precipitò nella stanza un cagnetto dall’aria buffa e spensierata, che trotterellava allegramente, ma aveva il naso spiaccicato sul pavimento; seguiva la sua traccia, la traccia di lupo. E quando vide Danny si bloccò anch’esso, fissandolo con sorpresa ed incertezza. Il ragazzo conosceva quell’effetto, e comprendeva bene la sua forte perplessità: vedeva un essere umano, e ne sentiva l’odore, eppure sentiva allo stesso tempo un forte odore di lupo, e i suoi sensi e l’intuito istintivo gli mandavano messaggi misti, fortemente contrastanti con tutta la sua esperienza. Forse sarebbe rimasto ancora a lungo immobile, cercando di venire a capo del dilemma, se dietro di lui non fosse accorso un secondo cane, talmente lanciato in una corsa animata che quasi lo travolse.

La cagna incespicò un po’ nel cagnetto che l’aveva preceduta, ma nel giro di un istante era di nuovo piantata sulle quattro zampe, il muso schiacciato da simil-boxer puntato verso Danny, gli occhi che mandavano lampi di ferocia, i denti scoperti, e un ringhio rimbrottante a stento trattenuto in gola. Lei sì che poteva ostentare una cresta di pelo ritto dalla testa fino alla punta della coda.

Danny sapeva che lo avrebbe attaccato, senza soffermarsi più di tanto sul problema di capire di cosa si trattava, e anch’egli caricò i muscoli, pronto al confronto; anche il cagnetto ora ringhiava un po’, e aveva scoperto un poco i piccoli denti appuntiti come quelli di una volpe, coralmente con la collega. Il ragazzo era a disagio; sapeva essere qualcosa di molto vicino ad un araldo della morte quando poteva contare sulla fulmineità delle quattro zampe e del lungo muso munito di una dentatura formidabile, capace di rompere ossa, tranciare vene e arterie, individuare a primo sguardo i punti deboli e mirarli con precisione priva d’errore quanto di calcolo complesso. Ma ora, senza zanne, zampe, coda, pelo… si sentiva nudo. Non aveva un paio di orecchie da appiattire sulla testa, e le labbra umane arricciate a lasciare scoperti i denti umani non erano affatto sufficienti a contro-ribattere all’effetto fornito dai due cani che lo fronteggiavano.

Erano sul punto di schizzargli addosso, i due cani, lo sentiva, ed era pronto a fare altrettanto nello stesso identico istante in cui l’avrebbero fatto loro, quando un terzo cane si stagliò improvvisamente sulla soglia, occupandola in buona parte. Il fremito da battaglia di Danny fu leggermente smorzato, che lui lo volesse o no, nel vedere l’enorme alano dal pelo lucido di nero inchiostro, con una macchia bianca sulla testa e sotto la gola e la pancia, che lo squadrava con aria autorevole; reggendosi sulle sue tre grosse zampe, la testa alta con una dignità che sembrava dimentica dell’istintiva necessità di tenere più protetta la vulnerabile gola, pareva una veterana di battaglie e avventure inenarrabili, che lo contemplava come se, dopo tutto, ritenesse di averne viste davvero troppe ormai per stupirsi ancora. Nonostante ciò, anche lei era evidentemente irritata per l’intrusione; il rumore di aria inspirata dalle ampie narici a tutto spiano, analizzando il suo odore, era chiaramente udibile, persino al di sopra del ringhiare degli altri due cani.

E, come se tutto questo non fosse già stato sufficiente per lui, Danny si vide comparire davanti una quarta figura. Stavolta era umana; stavolta era alta, il profilo del corpo a malapena delineato sotto una massa di abiti indossati l’uno sopra-sotto-compenetrato-a.completamento dell’altro, i capelli lunghi poco oltre le spalle, fulvi e animati da una mezza via tra l’ondosità e il quasi boccolo, incorniciavano un po’ spettinati i lati del volto. Dall’espressione di esso il ragazzo fu investito senza preavviso. Il paio di smaglianti occhi verdi lo scrutarono come se in pochi istanti potessero scaravoltarlo da ogni parte come un calzino, vederlo da molte diverse prospettive tutte tra loro complementari o in disaccordo, e metterlo in discussione in molti modi possibili, riconfermandolo o smentendolo molte volte non consecutive né sempre coerenti. La prima istintiva tentazione fu di fuggire da quello sguardo, di trovarvi riparo, di negargli il diritto di avanzare una tale analisi senza nemmeno chiederne il permesso; ma Danny comprese quasi subito che non faceva parte delle possibilità che aveva nella sua attuale posizione tentare con successo di sottrarvicisi. Il secondo impulso fu di ingannarlo, di distrarlo, distoglierlo o deviarlo; ma anche quell’ipotesi affondò presto. E, infine, fu preso dalla necessità di sostenerlo e affrontarlo, di ributtarlo indietro, rimandarlo al mittente, risolutamente, e senza alcun altro fine che quello di rispedirlo da dove veniva.

Non seppe mai se ci era riuscito; ma alla fine la donna smise di scrutarlo a quel modo. Sembrò ritornare al presente e alla materialità della situazione, come se uscisse da un qualche stato alterato tutto suo, e abbassò di colpo lo sguardo, ora più innocuo, sui cani davanti a lei. Dopo aver dato l’impressione di aver colto la natura della questione abbastanza da sapere come agirvi, disse, con un tono basso e profondo «Danza… basta così.»

A chiunque si stesse rivolgendo, nessuno le diede retta. Aggrottò appena la fronte, e con il bastone che impugnava diede un deciso urto contro un fianco della cagna rossa tigrata di nero. «Ebbene?» insisté. Non appena sentì quel colpo, non molto forte ma in qualche modo significativo, accompagnato dal tono, la cagna mutò improvvisamente atteggiamento dal giorno alla notte. Le orecchie appiattite all’indietro si spostarono in laterale, pentite, la coda le si cacciò tra le zampe posteriori, e smise di ringhiare, mentre i denti sparivano, lasciando il posto alla lingua che si mosse come se si stesse rimescolando la saliva con imbarazzo. Così facendo la cagna si voltò un po’ verso la donna, con aria di scusa, ma cercando anche di far valere le sue ragioni: infatti prese a uggiolare in protesta insistente, rivolgendo di tanto in tanto il muso ancora nella direzione di Danny, come a indicarlo.

«Non fare la stupida…» le raccomandò con paziente gentilezza la donna, chinandosi per prenderla saldamente per il collare con una mano; non sembrava volersi affidare solo al fatto di averla convinta.

Danny notò che la grossa alano nera e bianca emetteva un sommesso latrato a bocca chiusa, facendo tremare appena le grosse labbra pendenti; tanto sembrò bastare al piccolo cagnetto per decidere di abbandonare anche lui l’atteggiamento aggressivo. Agitando ancora la coda con evidente sovraeccitazione, prese a zampettare di qua e di là nel perimetro di mezzo metro, con fare frustrato.

Gli occhi verdi si alzarono di nuovo su Danny; nonostante lui l’avesse tenuto in conto, non lo stavano fissando più in quel modo con cui lo avevano scrutato fino in fondo poco prima. «Così, sei il lupo mannaro.» constatò, senza particolare impressione.

Da quelle parti sembravano tutti ben poco impressionabili, nonostante fossero a loro modo impressionanti, constatò in un angolino della testa il ragazzo; non disse nulla, si limitò a fissarla, restituendole l’occhiata intensa, senza cedere di un millimetro.

«In realtà si chiama… come hai detto che ti chiami…?» intervenne Uther, inizialmente con buona volontà, prima di realizzare la sua dimenticanza.

Yuta sbuffò sonoramente. «Sei impossibile! Almeno il nome, che diamine!»

«E’ colpa della brutta influenza di questo libro.» diagnosticò Kumals.

La donna dagli occhi verdi non smetteva di fissarlo con curiosità. «Non avevo mai incontrato un lupo mannaro, prima.» disse.

Lui la considerò una cosa stranamente debole da ammettere in un frangente come quello. Si sforzò di mostrarsi più indifferente di quanto si sentiva, e finse in tal senso anche con se stesso. Alzò brevemente le spalle. «Me ne stavo andando.»

La donna sembrò comprendere il messaggio sottinteso. Annuì, e si spostò dalla soglia, tirandosi dietro la cagna che aveva ripreso un moderato ringhiare gutturale nella sua direzione; gli altri due cani la seguirono di concerto, e tutti nel complesso si ritrovarono così a compiere una specie di movimento per aggirarlo senza mai voltargli la schiena.

Gli venne quasi da piangere per una specie di commiserante commozione; e lui che aveva pensato che volessero attaccarlo, quando per la verità sembravano trattarlo con una poco oliata cortesia. Eppure, era evidente, nessuno di loro aveva realmente paura di lui. Non aveva mai visto prima una simile accozzaglia di sconsiderati riuniti tutti nello stesso posto. Forse aveva avuto fortuna fino a quel momento…

«Vieni a pranzo qui da noi, domani.» disse la donna dagli occhi verdi. Non era una domanda, e questo lo infastidì, per quanto fosse ancora possibile.

«No.» rispose, senza darvi il tono di una risposta, piuttosto che quello di una comunicazione affermante.

«Allora dopodomani.» disse ancora la donna. Non usava un tono di domanda né di insistenza né di preghiera né di invito; era un tono singolarmente neutro e tranquillo, come chi sta dicendo che pioverà, senza specificare quando, perché è chiaro che prima o poi dovrà pur piovere, e quindi ne è assolutamente sicuro e non teme di sbagliare.

«Si vedrà.» rispose Danny; e dal suo tono non era chiaro se intendesse ‘state freschi’ o ‘deciderò poi’ o ‘ci penserò su’ o ‘forse, non so’. Nemmeno lui era ben sicuro di cosa stesse cercando di dire, al momento. Forse, dopotutto, si stava riferendo più alla pioggia che al pranzo. Si sentì giocato.

Senza aggiungere altro, solcò la soglia e se ne andò.

Dopo un po’ di tempo, attraversato dal silenzio, Yuta si alzò, raccolse un guinzaglio e raggiunse la donna, legandolo al collare della cagna. Con quello l’animale fu persuaso a raggiungere la scrivania, alla quale fu assicurato il guinzaglio, per impedirle di gettarsi all’inseguimento di Danny. Il cagnetto aveva preso ad esaminare il pavimento centimetro per centimetro, il naso pigiato su esso come un metal-detector. L’alano femmina si limitò a sdraiarsi in un angolo, su una grossa coperta appositamente distesa e piena di peli; mandò un sospiro compassato e prese a sonnecchiare.

Senza dire nulla, l’ultima arrivata si mise a mettere sul fornelletto da campo acceso una pentola con un po’ d’acqua, dopo aver chiesto se avessero già mangiato.

Nella stanza tornò a regnare un’atmosfera da campeggio.

Ma Yuta, sedutasi di nuovo sulle ginocchia di Kumals, gli avvicinò la bocca all’orecchio e mormorò «Avevi ragione, quello è un incantatore di lupi…». Fissava Uther senza farsi notare, con un sorriso.

Kumals finì di arrotolarsi una sigaretta, se la accese, emise una boccata di fumo, e rispose piano, con fare conciso «Io avevo detto ‘spulciatore’, veramente. ‘Spulciatore di lupi’, così avevo detto.»

Yuta gli rivolse un’occhiata storta, e scosse la testa con aria rassegnata.

Di punto in bianco si udì di nuovo la voce profonda della donna che si era messa a cucinare. Disse alcune parole in una qualche lingua, come se riflettesse ad alta voce, senza staccare gli occhi dalla pentola in cui stava facendo cadere i pezzetti di verdure che stava tagliando, nemmeno si stesse rivolgendo alla pentola stessa.

Benché tutti l’avessero udita, nessuno sembrò aver compreso cosa avesse detto. Ma poi Kumals, dopo aver invano aspettato che aggiungesse altro, si accorse dell’espressione dal profondo sorriso che aveva Yuta.

«Beh?» le fece.

Lei lo guardò. «Cosa?»

«Che ha detto?»

Yuta sorrise di nuovo, tra sé e sé. «E’ gaelico.» disse solo, e si rifiutò di tradurre, nonostante le fastidiose insistenze del compagno. Lasciò che rimanesse tra lei e la sorella. Avevano imparato un po’ di gaelico dalle streghe irlandesi, diverso tempo prima, e quella era forse una delle poche frasi complete che fossero in grado di articolare. In inglese antico si sarebbe potuta tradurre sommariamente, e un po’ poveramente, in ‘Where thou heart isthere your home is.***’

 

 

 

 

 

 

 

* più propriamente ‘Pioggia d’estate’, di Nada.

** è una citazione del complesso/ambiente “produttivo-artistico” messo in piedi da Andy Wahrol.

*** in italiano: dove è la tua casa, là è il tuo cuore. E’ una frase che ho sentito citare in Irlanda, per questo l’ho riportata con questi riferimenti, ma per inciso penso proprio che l’originale da cui era citata (modificata, o forse non la ricordo così precisamente bene io la citazione) è ‘Where thou art – thatis Home.’, titolo di un poema di Emily Dickinson.

**** ebbene: no, non è il solito titolo diviso in due parti, ma si tratta di puntini di sospensione tesi appunto a lasciare in sospeso la frase. E il resto viene da sé nel contenuto del capitolo.

 

 

Note dello scribacchiatore:

Eccomi qua, in ritardo ma si continua testardamente!

Qualcuno forse avrà notato un breve riferimento alle ‘streghe’… chissà che non compaia qualcos’altro di loro in seguito (non in questa storia dei ‘4 di picche’)… chissà… massì, facciamo i vaghi… fischiettiamo anche con nonchalance direi…

Ritorna all'indice


Capitolo 61
*** 59 - INCONTRI RAVVICINATI DI STRANO TIPO ***


Capitolo 59

(INCONTRI RAVVICINATI DI STRANO TIPO*)

 

Sul pianerottolo alla fine delle scale del primo piano della casa di Yuta e Zoal, Andrea se ne stava in piedi sola, guardando distrattamente fuori dalla finestra. Nello spiazzo davanti alla casa, Zoal andava avanti e indietro lentamente, occupata in faccende come riempire la mangiatoia per i cavalli; uno di loro, la cavalla dal peso rossiccio, la seguiva dappresso, come se al momento non trovasse di meglio da fare, e anche Danza e Duca si aggiravano annusando e giocherellando.

Senza realizzarlo, Andrea si portò una mano al viso e si massaggiò una guancia, leggermente infastidita dalla dolorabilità della faccia per la stanchezza; non si guardava allo specchio seriamente da molti giorni, ma se lo avesse fatto avrebbe scoperto un paio di occhiaie, piccole ma piuttosto sottolineate, di quel tipo che si sviluppa per una stanchezza cronica.

Perennemente consapevole del pacato rumore del discorso che si stava svolgendo dabbasso tra Justin e l’uomo con la gamba rotta, quello che avevano trovato a Foelm, e che, una volta tornato normale, aveva iniziato pazientemente a cercare di cavare fuori dalle loro spiegazioni qualcosa di sensato riguardo a ciò che gli era accaduto, lei teneva costantemente monitorati anche tutti gli altri rumori della casa. Non c’era molto da sentire: regnava una calma ovattata, come dopo una tempesta, ed erano già quasi cinque giorni che quell’atmosfera aveva avvolto l’abitazione. Il tempo atmosferico, quasi sempre rannuvolato e piovigginoso, sembrava confermarlo, anche se, a detta di Yuta, era solo per via del fatto che febbraio era vicino, e di conseguenza anche la primavera.

Dalla cucina poteva sentire di tanto in tanto qualche rumore; Valentine e Ramo stavano condividendo il riassettare del dopo pranzo. Le camere invece erano avvolte in un denso silenzio, anche se lei sapeva che in una dormiva Danny, e in un’altra Uther. E da qualche parte in soffitta anche il Conte doveva essere immerso nel suo sonno diurno. Se non fosse stato per quello, Andrea avrebbe decisamente puntato al sottotetto, in cerca di rifugio. Iniziava ad essere stanca delle attenzioni che le rivolgevano Yuta e Valentine, al punto da trovarle ormai quasi sempre irritanti; sapeva che se avesse lasciato trasparirlo, poi si sarebbe sentita in colpa, perché sarebbe stato ingiusto nei loro confronti. D’altra parte, aveva bisogno di stare da sola. Solo che, nella casa sovraffollata, sembrava che ciò fosse possibile solo rimanendosene lì sul pianerottolo; giusto per non farsi trovare seduta sulle scale, il che non avrebbe fatto altro che attirare l’attenzione di chiunque passasse, facendolo preoccupare o, ancora peggio, facendolo sentire in dovere di cercare di attaccare discorso con lei. Lì ferma, fingendo di trovare interessante il guardare fuori dalla finestra, sperava di poter prontamente lasciar pensare di essere solo di passaggio tra il piano terra e il primo piano o viceversa, nel caso qualcuno l’avesse vista.

Strinse un po’ di più la presa delle braccia intorno al voluminoso album di fotografie che si teneva contro il petto, che continuava lentamente a scivolare verso il basso, e sospirò silenziosamente, mentre rinunciava al proposito di provare per l’ennesima volta ad arrotolarsi le maniche troppo lunghe e larghe del maglione in prestito. Anche quelle, in ogni caso, continuavano a scivolarle giù di nuovo puntualmente.

In quella sentì una porta aprirsi lungo il corridoio; si riscosse, ma non aderì immediatamente al suo piano di fingere di essere solo in transito. Si distrasse nel riconoscere la sagoma che camminava lungo il corridoio.

Anche Kumals la riconobbe; rallentò e si fermò a guardarla. Lei sperò ardentemente che decidesse di limitarsi a salutarla e a proseguire oltre. Ma l’uomo, invece, la osservava riflessivamente, vagamente incuriosito.

«Ecco dove l’ho già visto.» disse, dopo un po’ «Quell’album. È per quello che sei tornata indietro alla scuola.»

Non era affatto un buon inizio; ciò riportava al fatto che lei aveva convinto Danny ed Uther a cacciarsi nei guai insieme a lei, salvo poi aggiungersi anche Zoal e i cani. Ed era superfluo rivangare quanto Kumals se la fosse presa per quello. Annuì. «Già…» fu tutto quello che trovò da dire sul momento.

Kumals fece un cenno d’assenso per conferma. «Mi pareva. Allora, non starai anche tu aspettando che il bagno si liberi, spero.»

Sorpresa per il tranquillo passaggio da un argomento spinoso a quello puramente prosaico, Andrea sbatté le palpebre un paio di volte. «No.»

«Bene… Scusa un momento.» accennò Kumals, prima di voltarsi e dirigersi dall’altra parte del corridoio. Giuntovi al termine, bussò alla porta del bagno. Da dentro provenne una qualche risposta incomprensibile. «So benissimo che sei là dentro.» rispose Kumals, con un inizio di divertimento sul viso sogghignante «Stavo solo controllando che tu fossi ancora viva. Si può sapere cosa ti sta prendendo tanto tempo? Spero tu non ti stia depilando, perché sennò posso anche prenotarmi per l’anno prossimo per usare il bagno, no…

Stavolta Andrea intese chiaramente un’imprecazione colorita con la voce di Yuta, e qualche cosa sbatté duramente contro la parte interna della porta, per tutta risposta. Lentamente Andrea si avvicinò a Kumals.

Lui sospirò e iniziò ad arrotolarsi una sigaretta. «Suscettibile.» commentò, a voce cautamente molto bassa.

Andrea sorrise appena. «Ti ho visto uscire dalla stanza degli ospiti… Credevo che stessi assistendo Uther…»

«Infatti era così. Ma ultimamente ogni volta che metto anche solo la punta del naso dentro la stanza mi lancia qualcosa addosso tentando di colpirmi. Oggetti pesanti.» spiegò Kumals, con l’aria di chi sta constatando la sussistenza di un fenomeno inspiegabile.

«Non mi dire… » disse Andrea, con scoperta finzione di solidarietà.

Kumals le lanciò uno sguardo con un sopracciglio alzato.

«Potresti provare ad infastidire Justin…» propose la ragazza, con fare collaborativo venato da un certo proposito di vendetta.

L’uomo la guardò ancora per un po’ con fare ammonitorio, poi però assunse una posa riflessiva, alzò gli occhi al cielo e ci pensò su. «No… non credo che possa funzionare. Dev’essere scientificamente impossibile importunare Justin. Convive con se stesso, dopotutto.» teorizzò alla fine.

Andrea annuì, stavolta con sincera comprensione. «Vero…»

«Mi basterebbe giusto poter andare in bagno.» disse Kumals, alzando un po’ la voce per farsi sentire da Yuta, che lo stava occupando al momento.

«Voi due stavate insieme… no… ?» domandò Andrea.

Kumals la guardò con aria supponente. «Te l’ha detto Danny?»

«No… non proprio. Si vede… » chiarì lei.

«Ah sì…?» rispose distrattamente l’uomo, accendendosi la sigaretta.

«Scusa… non sono fatti miei... » recalcitrò Andrea.

Kumals la guardò con sincero stupore; poi, con sorpresa della ragazza, sorrise, di un sorriso che aveva raramente sul suo volto, espressione di uno spontaneo moto di sincerità, senza ombra di malizia o di derisione. «Ma va là… » mormorò, tornando a dedicarsi alla sua sigaretta, lasciando che quel sorriso sparisse lentamente, riassorbito.

«Secondo me ci è andata in letargo là dentro… » commentò, rivolto alla porta chiusa del bagno.

«E ci sento anche bene, da qua dentro!» imprecò Yuta vivacemente.

«Oh-oh… » fece l’uomo, poi si rivolse ad Andrea con fare cospiratorio «Io la tengo occupata. Tu scappa.»

La ragazza scosse appena la testa, ma dopotutto il suo sguardo svicolò, percorse il corridoio e si fermò su una porta in particolare. «In effetti…» mormorò, assorta «C’è una cosa che dovrei fare…»

Tornò a guardare Kumals. «Beh… a dopo… e buona fortuna.»

Detto ciò, si incamminò verso la porta, bussò piano, e, pur non avendo ricevuto alcuna risposta, si apprestò ad aprirla piano e ad entrare lentamente.

Kumals, nel vedere quale porta avesse scelto, rimase basito per lunghi minuti, al punto che la cenere della sigaretta gli cadde tra le punte delle scarpe senza che avesse il tempo di ciccare nel sacchetto che teneva appositamente in mano. Resosene conto, aggrottò un po’ le sopracciglia, e ciccò a vuoto nel sacchetto, mentre mormorava tra sé e sé qualcosa come ‘Dovevo essere io a dirlo, ‘buona fortuna’…’.

Subito dopo, cogliendo un’ispirazione del momento, iniziò a canticchiare ‘No woman no cry’**, solo che ogni volta che ripeteva il ritornello alternava il ‘no woman no cry’ al ‘no men no cry’ al ‘no people no cry’.

«Oh, per favore, la pianti di fare la caricatura del rasta-man?» lamentò Yuta da dentro il bagno.

 

*

***

*

 

Entrando lentamente nella stanza, illuminata solo dalla grigia luce che giungeva attraverso la finestra, Andrea cercò in ogni modo di fare il minor rumore possibile. Vide subito la figura distesa su un fianco nel letto; dava la schiena al resto della stanza, rivolgendosi contro il muro. Anche se lei sapeva che poteva essere solo un modo per appoggiare il peso esclusivamente sul fianco non ferito, aveva la sensazione che quello fosse un preciso atteggiamento.

Si fermò di fianco al letto, a buona distanza da esso però. E quando trovò il fiato e la capacità di articolare le parole, domandò solo «Sei sveglio…

Per diversi, lunghi secondi non giunse alcuna risposta. In qualche modo sapeva che era sveglio, e in qualche altro modo intuiva altrettanto chiaramente che forse non le avrebbe mai risposto. Doveva aver riconosciuto la sua voce, anche se non si era girato a vedere chi entrava.

Alla fine, la sagoma si mosse un po’, e la testa si voltò quel tanto che bastava. I due occhi azzurro chiarissimo la fissarono per un breve momento al di sopra della spalla; era uno sguardo particolarmente distante, e il tono con cui Uther le si rivolse appariva ingannevolmente neutro. «A quanto pare.» disse solo, prima di tornare a voltarle la nuca, come se non avesse intenzione di scomporre la sua posizione più di così.

D’accordo, non poteva realmente aspettarsi di essere accolta meglio; non se lo aspettava per niente, fin da quando aveva deciso di entrare in quella stanza. Andrea se lo ripeté per un po’, nonostante sembrasse che ciò non avesse il potere di darle più forza. Non se la sentiva affatto, e aveva il continuo sentore di essere in errore, per il solo fatto di essere lì e di stare in un certo senso avendo la faccia tosta di parlargli così. Perciò, lasciò perdere i preamboli, con l’istintivo proposito di uscire al più presto di lì, subito dopo il termine del tempo necessario per chiedere ciò che voleva domandare; ma era anche perché sapeva che la brevità sarebbe valsa come ‘più indolore possibile’ anche per Uther.

«Se accadesse di nuovo… se tornassimo indietro, e fossimo di nuovo sotto quel lampadario che sta per cadere… lo rifaresti? Mi salveresti di nuovo?» riuscì infine a buttare fuori, in poco più che un sussurro.

La risposta giunse molto lentamente, e risultò stranamente molto più elaborata e significativa di quel che poteva lasciare intendere la concisa semplicità delle parole. «Sì.»

E Andrea capì diverse cose. Che non aveva aggiunto, nella sua domanda ‘nonostante tutto’; che Uther aveva comunque compreso pienamente cosa volesse dire, e che non le avrebbe mai dato una risposta diversa, perché non era possibile una risposta diversa. E soprattutto che, malgrado se stesso in primis, era sincero. Davvero, se si fossero ritrovati in una consimile situazione, le avrebbe salvato la vita così come avrebbe fatto con chiunque altro; proprio così, come con chiunque altro. Come se non fosse lei, e come se lei non significasse per lui la causa dell’approfondirsi di un dolore netto e dal sapore di definitivo. Non era come se potessero davvero tornare indietro, ma se fosse accaduto, quello che Uther avrebbe probabilmente realmente desiderato non era di non salvarla, che le succedesse qualcosa. No, il punto giusto in cui fermare il rewind e scegliere un'altra combinazione di eventi era quando lei aveva deciso di unirsi a loro per aiutarli; e la reale domanda che lei avrebbe dovuto porgli, sarebbe stato se, potendo tornare indietro, lui non avrebbe fatto qualcosa per evitare che lei lo facesse. Per evitare, alfine, che lei e Danny si incontrassero.

Non poteva chiedergli altro, e non poteva ripetere l’errore e aggravarlo, soffermandosi ancora nella stanza, o parlando ancora. Non c’era niente altro che potesse dire che non suonasse falso o stupido, o ancora più doloroso per Uther. Lei non poteva fare niente per lui, nient’altro, forse, che scomparire, o andarsene e non tornare più, e fare come se non avesse mai incontrato tutti loro; ma soprattutto come se non avesse mai incontrato Danny.

Nell’istante in cui lo capì, senza fretta, si mosse. Tornò alla porta, la riaprì piano, e uscì silenziosamente come era entrata.

Lungo il corridoio era in corso un’animata discussione tra Yuta e Kumals sull’uso del bagno, e Andrea ne fu sollevata, perché poté scivolare inosservata fino alle scale, e andare a rifugiarsi nella stalla.

 

*

***

*

 

Era un tiepido pomeriggio primaverile, e molte delle strade della cittadina di medie dimensioni erano trafficate di auto, pedoni e biciclette; la sera imminente si apriva sul traffico calante dell’ora di punta serale. Ma tra le persone che andavano di fretta, e con nervosismo, tra i gruppetti o le coppie ferme a fare quattro chiacchiere, e tutto il resto della fauna urbana, due figure slalomavano con un che di tranquillo e leggero, come di chi è spensieratamente in pace con se stesso.

Non era tuttavia per quello che molti si soffermavano a lanciare ai due un secondo sguardo, ben più insomma che una distratta occhiata di semplice constatazione della loro esistenza. Sebbene uno dei due avesse un’aria a suo modo singolare, con il fisico dalla muscolatura snella che sembrava quello di un lavoratore, e che lasciava indecisi sull’identificarlo come uno studente invecchiato precocemente o piuttosto come un uomo di una certa età che manteneva saldamente molto di una gioventù mischiata con l’infantile nell’aspetto, era evidentemente il suo cane che attirava tutta quell’attenzione. Non tanto perché non indossava né un guinzaglio né un collare, e nonostante ciò trotterellava a fianco dell’altro come se avesse in mente troppo bene il tipico atteggiamento di un essere umano e lo sapesse in qualche modo imitare; no, a far correre un brivido d’incertezza nelle occhiate che incappavano nell’animale era il suo essere di dimensioni considerevoli, provvisto di lunghe zampe, una folta coda che quasi toccava terra, un muso lungo e abbastanza sottile, e un cospicuo pelame grigio-nero-bianco… insomma, tutto ciò che nell’immaginario collettivo si potrebbe associare ad un’immagine di lupo. A peggiorare quell’impressione, c’era il fatto che l’animale aveva uno sguardo chiaramente molto acuto e quasi tagliente, puntato con decisione dritto davanti a sé, facendosi bastare le orecchie mobili per misurare l’ambiente che lo circondava, e che, a differenze della maggior parte dei cani domestici, non sembrava minimamente interessato a soffermarsi ad annusare angoli, alberi, idranti, escrementi di altri cani, né nient’altro. Eppure le sue narici fremevano, a ritmo perfetto col respiro e col suo trotterellare allo stesso ritmo del passo veloce e leggero del suo padrone.

I due slalomavano tra la folla come se si stessero intrattenendo in un loro personale gioco, che consisteva appunto nel non dover mai rompere il ritmo a cui procedevano, trovando ogni spiraglio giusto e incuneandovisi al momento opportuno, prendendo le misure esattamente, e talvolta adattandovicisi procedendo più in diagonale o quasi in scivolata piana dei piedi e delle zampe; nel fluire continuo di quel loro procedere si poteva quasi pensare che avessero indosso dei pattini. Gli occhi azzurro chiarissimo dell’uno, all’altezza delle altre persone, più o meno, e quelli blu scuro dell’altro, all’altezza delle gambe della gente, non sbagliavano quasi mai nel cogliere il giusto movimento da fare per evitare di dover interrompere la loro camminata; talvolta si separavano, per attraversare la folla in punti diversi, senza dover rallentare nel procedere l’uno dietro l’altro, e più avanti si riunivano, mostrando sempre che ci tenevano a non rimanere indietro l’uno rispetto all’altro. Sì, forse dopotutto stavano facendo una specie di loro gioco.

Ma ben presto nessuno poté osservarli più a lungo, perché svicolarono giù per una stradina più piccola, e si inoltrarono in un quartiere di case perlopiù vecchie, una zona quasi esclusivamente residenziale. Non dovendo più slalomare tra la folla, il loro passo si quietò un poco, e procedettero affiancati al centro della strada non più accessibile alle auto, affrontando il dedalo di stradine con tranquilla abitudine. Di lì a poco rallentavano ulteriormente, avendo svoltato in quella che doveva essere la loro via di destinazione, visto che il ragazzo, usando la mano con cui non stava reggendo un cospicuo sacchetto di pane e di birra in bottiglia, si estrasse dalla tasca dei pantaloni un paio di chiavi.

Di colpo però, entrambi si fermarono. Avevano notato un ragazzo molto alto, fermo lungo la strada, che sembrava aspettare qualcosa. Anche quegli li aveva notati. E il ragazzo che aveva appena tirato fuori le chiavi fece un’espressione curiosa, come se, se non fosse stato per il suo gesto traditore, avrebbe considerato seriamente l’idea di far finta di non essere diretto proprio alla porta davanti alla quale era fermo lo sconosciuto.

Questi, un ragazzo alto e dalle spalle larghe che in qualche modo mal si abbinavano alla figura snella, sulle quali si appoggiava una corta coda di capelli nero corvino e quasi completamente lisci, legati in una specie di nodo più tendente alla praticità che a qualsivoglia attenzione estetica, li scrutò con una curiosità evidente, ma quasi timida. Non sembrava cercasse proprio loro.

Per questo, dopo aver esitato nell’osservarlo attentamente, Uther prestò attenzione al fatto che il lupo, fermo di fianco a lui, avesse lasciato un po’ scoperti i denti, sui quali tremolavano le labbra ritratte, accompagnando un cupo e sordo brontolio gutturale. «Aspetta… Non ha proprio l’aspetto di un creditore, o di un altro rompicoglioni qualsiasi… no?» osservò a bassa voce.

Uno degli orecchi del lupo si mosse immediatamente, per catturare quelle parole. Poi, le labbra ricalarono a coprire i denti, e il ringhio gutturale si attenuò fino a non essere praticamente più udibile. Nonostante ciò, le sue narici non smisero nemmeno per un istante di sondare l’aria, né le sue pupille penetranti si sganciarono dalla figura immobile.

Tanto Uther quanto il lupo ripresero a camminare, l’uno ostentando una calma perfetta e distratta, l’altro guardando con evidente e rancoroso sospetto il ragazzo a cui si andavano appressando. Il loro diverso atteggiamento era così contrastante che sembrava avessero raggiunto conclusioni completamente diverse; tuttavia, in qualche modo sembrava che quegli atteggiamenti opposti si spalleggiassero e sostenessero a vicenda, come una stessa persona che tende una mano disponibile mentre chiude l’altra a pugno, nel caso ce ne sia bisogno.

Il ragazzo dai capelli corvini ora li guardava con ancora più vivo interesse. Non aveva mai visto nulla del genere: quel cane sembrava un lupo, più di qualsiasi cane che avesse mai visto, ed oltre a ciò procedeva del tutto privo di vincoli come guinzaglio o collare, e lo guardava con una fredda minaccia, come se stesse mirando ad una preda. Si sentì pervadere dall’inquietudine, anche perché, ad aggravare la situazione, il padrone che gli camminava di fianco non sembrava affatto propenso a prepararsi a trattenerlo nel caso avesse deciso di procedere in un qualche gesto fuori dalle regole civili. Più che per accompagnare il suo cane, sembrava uno capitato lì per caso, che abbia deciso sul momento di soffermarsi ad assistere alla scena.

Egli si fece un po’ indietro, quando i due, cane e uomo, si fermarono proprio davanti al civico presso il quale stava aspettando lui. Guardò in silenzio il ragazzo di imprecisabile età che infilava le chiavi nella serratura, e solo allora, mentre il cane ancora lo fissava come se fosse deciso a non perderlo di vista finché non ci fosse stato almeno un muro a separarli, osò aprire bocca.

«Hem… scusa… » tentò, incerto.

Il ragazzo, che aveva quasi girato del tutto le chiavi nella serratura, gli rivolse il viso da sopra la spalla, senza apparentemente scomporsi. Eppure, avrebbe potuto giurare che si stava maledicendo per non essere stato più veloce con quelle chiavi. «Sì?» gli fece, con impeccabile cortesia da rivolgere agli sconosciuti; tuttavia c’era qualcosa, in lui, che sembrava nel contempo dire ‘se stai cercando grane, considerale trovate’.

«Ecco… hum… tu vivi qui?». La domanda era stupida, considerando che quello aveva tutta l’aria di stare entrando in casa sua con il suo paio di chiavi.

Eppure l’altro la soppesò come se fosse estremamente significativa. Ritrasse la mano con cui teneva le chiavi, lasciandole attaccate alla serratura, e si voltò un po’ di più verso di lui. «Può darsi. Perché?»

Quella era una sorta di risposta bizzarra, in qualche modo. Il cane continuava a fissarlo con sempre maggiore sorda minaccia.

Il ragazzo spostò il peso sui piedi, assumendo un’aria ancora meno convinta. «Beh… ecco… mi chiedevo… forse dirò una cosa strana ma… Non è che hai mai sentito parlare dei…arriccia-spettri’…?»

Nonostante il suo tono chiaramente esitante, nello sguardo dell’altro era passato un bagliore, che scomparve molto in fretta, prontamente ricacciato tra i pensieri inespugnabili. «Chi?» domandò.

Stavolta il ragazzo alto si abbandonò ad un cospicuo sospiro. «Ecco, lo sapevo! Mi stavano prendendo in giro… ». Assunse un’aria non molto più delusa e pensierosa di prima, e scosse la testa contrito. «Ah, niente, niente… Scusami. Ciao.» salutò poi, voltandosi e iniziando ad allontanarsi lungo la via. Nel farlo, tirò un calcio irritato al cemento, e prese a borbottare tra sé e sé qualcosa di poco benevolo all’indirizzo di qualcuno, le mani ficcate nella tasca del giubbotto senza maniche nero, avanzando a grandi passi saldi, come gli permettevano le lunghe gambe strette in un paio di jeans e gli anfibi robusti.

Uther lo guardò per qualche istante, poi rivolse uno sguardo al lupo di fianco a lui, con un sopracciglio lievemente alzato e un’espressione tra il perplesso e il paziente, che sembrava dire ‘ce n’è di gente bislacca in giro, eh?’. Curiosamente, il lupo aveva già il muso alzato verso il suo viso, e gli ricambiò lo sguardo con quella che poteva stranamente sembrare una chiara comprensione; più chiara, insomma, di quella di un animale che non comprende il linguaggio umano. Si fissarono a quel modo per qualche lungo secondo, prima che il ragazzo distogliesse lo sguardo ed esalasse un lieve sospiro rassegnato. «Hey!» chiamò quindi a voce ben udibile, che riecheggiò brevemente lungo la strada.

Il tipo che si stava allontanando si fermò, e si voltò, stupito.

Uther fece del suo meglio per trattenere un sorrisetto «Che li cerchi a fare questi…arricia-spettri’?» domandò.

L’altro sembrò ponderare la cosa per un momento; poi, forse persuaso dall’affabilità informale con cui gli si rivolgeva l’altro, ritornò sui suoi passi. «Non so bene… A dire la verità è una faccenda… strana… »

Uther appoggiò il sacchetto di pane e birra sullo scalino della porta della casa, si rialzò e incrociò le braccia sul petto con l’aria di mettersi comodo. «Non sembra che li conosci, ti avrà parlato di loro qualcuno…»

«Sì, infatti. Ma forse nemmeno esistono, no? Ho tutta l’impressione che mi volessero prendere in giro.» commentò il ragazzo, con aria imbronciata. «Però… sai una cosa?» domandò retoricamente, risollevando lo sguardo verso il suo interlocutore. «La cosa peggiore è che li capisco pure!»

Uther lo guardò, lievemente incuriosito, ma non lo invitò a continuare. Lo sguardo dell’altro si distrasse altrove, guidato probabilmente dal proposito di poter cambiare argomento, magari. E in effetti trovò un argomento potenzialmente interessante, quando gli occhi gli caddero su quello strane cane. Anche se aveva smesso di fissarlo come se stesse considerando l’opportunità di saltargli alla gola, appariva se possibile anche più disturbante di prima; infatti, sedutosi per terra con l’aria di aver compreso che la cosa si faceva lunga, sembrava che stesse seguendo la conversazione pure lui.

Fu principalmente per distogliersi da quella straniante impressione, che il ragazzo osservò «E’ un cane bellissimo… Come si chiama?»

Uther fece una lieve smorfia, come se volesse trattenere un certo divertimento. «Danny. Non è un cane. Non proprio.» rispose, con l’aria di fare una concessione.

«Certo, certo… Dev’essere di qualche incrocio particolare, magari con un lupo... Ha un’aria piuttosto intelligente.» fece l’altro, con aria impressionata.

Rimase stranito, quando vide il cane muovere le orecchie come se fosse infastidito da una mosca, e il muso storcersi come se avesse assaggiato una cosa andata a male; nel contempo, il suo padrone aveva emesso una risatina sogghignante. «Già… » commentò solo, tuttavia, come se volesse far finta di nulla. «Ma dicevi… chi ti avrebbe tirato dietro questa roba sugli ‘arriccia-spettri’?»

Il ragazzo tornò mogio. «Mah, è un tizio che conosco di sfuggita… va sempre a prendere il caffè al mattino nello stesso bar dove vado io, a due passi dallo studio…»

«Studio?» interruppe Uther, con aria più gentile che realmente interessata.

«Uno studio veterinario.» spiegò l’altro «Sto facendo un po’ di praticantato. Se tutto va bene fra un paio d’anni mi laureo anche.»

Il sorrisetto di quello che lo ascoltava si accentuò maggiormente, e poi si rivolse al suo cane, come se gli fosse appena venuta in mente una cosa molto comica. «Sentito, Danny? Magari la prossima volta che hai bisogno di qualcosa potremmo andare da lui, no?» propose.

Il ragazzo proprio non capiva perché quel tipo trovasse così divertente ciò che aveva appena detto. «Sicuro.» disse tuttavia «Sono bravi, là. Poi, non è come quelli che considerano con più attenzione il padrone, come se fosse lui il malato, solo perché è quello che paga.»

L’altro lo fissò con amichevole ma decisa franchezza. «Oh, non sono il suo padrone.». Poi, come a voler prevenire domande riguardanti la sua affermazione, aggiunse «Ma perché sei venuto a cercare questi ‘arriccia-spettri’?»

Di nuovo il ragazzo fu riportato alla sua storia, e la cosa sembrò avere il potere di ritrascinargli il morale a terra. «Beh, questo tizio che vedo sempre al bar… insomma, mi ha visto un po’ stanco, stamattina. Così gli ho raccontato che ultimamente non riesco a dormire bene. E allora, insomma, una cosa tira l’altra, gli ho raccontato il perché anche. E lui mi ha detto di andare a cercare gli ‘arriccia-spettri’, e mi ha dato questo indirizzo. Lo sospettavo che mi stesse prendendo in giro, ma come biasimarlo, insomma… »

Uther ora lo considerava con bonaria simpatia, si sarebbe detto. «Che gente. Farti fare tanta strada, per giunta considerando che non dormi bene. E, scusa se mi impiccio ancora ma… Cosa sarebbero, questi ‘arriccia-spettri’, una specie di terapeuti? Forse dovresti piuttosto andare a prendere qualcosa in una farmacia… a meno che non pensi che sia altro per cui non dormi…» accennò. Anche se c’era qualcosa di pervicacemente sussiegoso e un po’ divertito, nel modo in cui parlava, l’altro non ne era del tutto sicuro. Non solo perché non lo guardava più in faccia, avendo puntato lo sguardo al suolo, ma anche perché iniziava ad essere nuovamente persuaso che fosse meglio chiudere lì lo scambio di confidenze.

«No no… non credo o almeno spero che non lo siano dei terapeuti. Non è questo. Insomma, non sono proprio pazzo!» si rianimò per un momento, fissando Uther con decisione «O almeno non credo… » ritrattò abbattuto, tornando ad abbassare lo sguardo con aria piuttosto tormentata.

Visto che in quel momento non era osservato, Uther ne approfittò per scoccare uno sguardo al cane, che ora si era pure sdraiato, ma le cui orecchie svettavano sul capo appoggiato sulle zampe anteriori, rittissime e attentissime ad ogni parola. Di nuovo lo sguardo gli fu brevemente ricambiato.

«E allora cos’è, quindi, che non ti fa dormire?» incalzò Uther, con il migliore tatto che gli riuscì di tirar fuori, e che risultò grezzo ma sincero.

La risposta uscì flebile, e subito prima e subito dopo di essa il ragazzo gli gettò delle occhiate indagatrici, come per studiare la sua reazione, timidamente ma attentamente; evidentemente temeva un altro raggiro, o il dileggio puro e semplice. «Un… credo sia… una specie di spirito… di fantasma… » borbottò.

Ma rimase spiazzato nel non vedere nel suo ascoltatore nessuna particolare reazione; non apparve stupito, né propenso a bollarlo seduta stante come un matto o un ingenuo credulone. Invece, socchiuse gli occhi per un momento, come riflettendo tra sé e sé, e infine un leggero sorriso gli incurvò le labbra. Lo vide muoversi per pescare dal sacchetto di carta che aveva lasciato appoggiato sulla soglia una bottiglia di birra; la aprì sfruttando un apribottiglie di ferro che aveva appeso al portachiavi rimasto a penzolare dalla serratura, poi ne bevve un sorso, ancora pensierosamente.

Alla fine, con sua sorpresa, il ragazzo si trovò a fissare la birra che gli veniva porta; anche se considerava evidente che l’altro stesse compiendo un gesto di pietà, la prese, ringraziando debolmente. L’offerente gli rivolse un gesto socievole della testa, come a scansare il ringraziamento.

«A dire la verità… » ricominciò infine, dopo quel silenzio, mentre lui mandava giù un sorso di birra. E si dilungò nel mezzo della frase, giusto per scoccare uno sguardo complice al suo cane. «Forse, a ben pensarci, io e Danny li conosciamo, questi che si fanno chiamare ‘arriccia-spettri’…»

Il ragazzo ingoiò frettolosamente la birra e spalancò un po’ gli occhi per la sorpresa. «Vuoi dire che esistono veramente?» domandò, soppesando con circospezione quell’affermazione.

L’altro sorrise al cane, come se stessero condividendo una battuta, poi tornò a guardarlo, e sogghignò. «Ci puoi giurare…»

Il ragazzo sembrò sollevato. «Ah… allora… beh, se mi sapresti dire a quale piano sono… sempre che siano qui… Non ho visto nulla sul campanello. Accidenti! Allora dopotutto non mi stava prendendo per i fondelli! Ah, beh, comunque… » alzò una mano aperta, nel gesto di presentazione «… io sono Ramo.»

Uther allungò la mano, ma invece di stringergliela vi assestò un colpetto come a scansare la formalità, e la protese verso la bottiglia di birra; quando il ragazzo gliela allungò, vi strappò un sorso, prima di sorridere di nuovo con una simpatia sghemba. «Uther.» rispose, alzando lievemente la bottiglia come in un accenno di brindisi.

Il lupo, ancora sdraiato a terra, occhieggiò una volta di più la loro nuova conoscenza con interesse, prima di aprire il muso in uno sbadiglio che mise allo scoperto con tranquilla rilassatezza le temibili fauci.

 

 

 

 

 

* [nota da leggersi dopo aver letto il capitolo, per evitare spoiler] naturalmente è una ripresa del titolo del film ‘Incontri ravvicinati del terzo tipo’ (non che serva averlo visto per capire, ma si parla di incontri con gli alieni, con i quali si cerca difficoltosamente di stabilire una comunicazione cercando un linguaggio cifrato che possa essere usato a questo scopo). Il parallelo è con la “stranezza” di vario livello delle comunicazioni/incontri che si instaurano qui: prima Andrea e Kumals – che per lei risulta bizzarro e come sospeso nell’atmosfera da ‘dopo la tempesta’ della casa – ; poi il breve confronto tra Andrea ed Uther, che per motivi che forse molti di coloro che leggono avranno già intuito (se avete capito perché Andrea pone proprio quella domanda, oltre ad aver colto qualche altro non molto soft indizio disseminato fino a qua nella storia, bene, altrimenti diventerà comunque più esplicito nei prossimi capitoli. E con questo si potrà re-interpretare meglio anche alcuni passati passi falsi che Andrea ora sa di aver fatto.) è chiaramente difficoltoso e su filo sottile; per finire, flashback sul primo incontro di Ramo con Uther e Danny, che chiaramente risulta un po’ bizzarro per Ramo, oltre che non poco decisivo per le loro vite.

** beh, credo di non dire nulla di nuovo (onestamente, chi non la conosce?), comunque è ‘No woman no cry’ di Bob Marley. E la reinterpretazione di Kumals è significativa, oltre a far parte degli indizi piuttosto scoperti menzionati nella nota precedente.

 

 

 

-----

Note dello scribacchiatore: voilà, scusatemi per il solito ritardo e per qualche eventuale strafalcione che mi fosse sfuggito nel dover rivedere alla veloce il capitolo. Per il resto, ritardi a parte, si procede verso il finale e ci si arriverà, garantito! Alla prossima, bye a tutti/e e grazie della pazienza a chi sta seguendo, come al solito se vi va di dire qualcosa con commenti o contattandomi direttamente procedete pure a briglia sciolta.

 

Ritorna all'indice


Capitolo 62
*** 60 - L'ULTIMA RAGIONE ***


Capitolo 60

(L’ultima ragione)

 

Danny si svegliò nuovamente; riscontrò piacevolmente che il suo corpo sembrava meno pesante e sofferente. Il dolore alla ferita della spalla era certamente ancora presente, ma il suo essere così in sordina non sembrava più solo dovuto all’effetto ottundente dei farmaci. Osò persino seguire l’impulso di stiracchiarsi un po’, con cautela, un muscolo e una parte del corpo alla volta, per evitare di muovere quelli della spalla o in generale quelli più attinenti al punto ancora generosamente fasciato e spalmato dei rimedi auto-prodotti di Yuta e Zoal.

Quando si decise ad aprire gli occhi, nella luce calda e semi-offuscata di un tardo mattino in cui, finalmente, la pioggia e le nuvole sembravano aver lasciato il passo almeno per qualche ora ad un po’ di cauto sole, realizzò di non essere il solo occupante della stanza.

Ramo, seduto a gambe incrociate sull’altro letto della camera “degli ospiti”, sottrasse lo sguardo dal libro che stava leggendo, essendosi accorto del suo muoversi, e lo guardò. Sorrise luminosamente. «Heylà

«Deh…» fece Danny, provando la voce che ultimamente non aveva usato molto «… è il tuo turno di balia? Dov’è il grembiulino d’ordinanza?»

«Eh… se l’è mangiato il gatto, se l’è…» ribatté prontamente Ramo, appoggiando da parte il libro e spostandosi sul letto per venire più vicino a quello dove giaceva sdraiato lui; si appoggiò con le braccia conserte sulla testiera dell’altro letto e lo guardò per bene, in quel modo in cui si fissa una persona che non si vede da un bel po’ di tempo. Anche Danny aveva quell’impressione con tutti loro, in fondo; come se i sogni che faceva lo portassero molto lontano. E, in effetti, non poteva dire che non fosse così.

«Ho sognato… » iniziò. Poi ci ripensò, scosse la testa, più che altro tra sé e sé, e lasciò perdere, anche se era stato sul punto di chiedere a Ramo se ricordava la prima volta che si erano incrociati. E soprattutto il modo in cui Ramo aveva avuto bisogno di sedersi pesantemente su una sedia e mandare giù un paio di generosi cicchetti, la prima volta che aveva scoperto la sua natura di lupo. «Niente… » riprese «Piuttosto, dottore, direi che la terapia a base di antidolorifici può finire qua… che ne dice?»

Ramo mosse le sopracciglia con aria piuttosto divertita, dando segno di ritenere di saperne un po’ di più al riguardo. «Guarda un po’… così oggi è il paziente che dice cosa fare. Beh, non fraintendermi ora, ma… a dirla tutta è da un po’ che ho diminuito gradualmente la dose, per poterti lasciare poi senza. Non è che tendessi a usare la strategia di “aprirgli la bocca, schiaffare una manciata di pasticche dentro, e quel che entra è la dose giusta”*… Anche se certe volte ne avevo la tentazione. A dir la verità, avrei potuto usarti come esempio straordinario per una ricerca scientifica, visto la velocità a cui guariscono le tue ferite.»

«Oh, sì, mi vedo la scena… La prima dichiarazione pubblica della scoperta di un ‘lupo mannaro’. Magari ci sarebbe scappato il Nobel, eh?» celiò Danny, nell’ironia generale.

«Guardala dal lato giusto.» fece Ramo, parimenti sogghignante «Una volta rinchiuso dentro un qualche centro di esperimenti su animali, avresti potuto scatenare un macello tale da tirarlo giù. Il che è il minimo che si potrebbe augurare a posti del genere.»

«Sicuro.» approvò Danny, annuendo «Mettiamo l’idea nel cassetto, non si sa mai.»

Ramo scoppiò a ridere, e gli ci volle qualche secondo per riuscire a calmarsi a sufficienza da spiegare «Scusa… stavo immaginando come poteva uscire il servizio nei telegiornali, sui ‘lupi mannari terroristi’, con il disegno del muso di un lupo coperto con un passamontagna nero.»

Anche Danny ridacchiò. «Non male… non male… Sì, teniamocela per il futuro, questa idea.»

«Quale idea?» esclamò Kumals, mentre entrava nella stanza spalancando la porta, ignorando giovialmente ogni più basilare logica che riguarda il chiedere permesso.

«Quella di insegnarti un minimo di buone maniere, Kumals, naturalmente.» fece Danny, piegando il capo all’indietro per guardare l’altro dal sotto in su, visto che la porta si trovava dietro la testata del letto.

«Oh, vedo che ti sei ripreso.» commentò Kumals, e il sarcasmo della sua voce non riuscì a dissimulare la sincerità del sorriso che gli animava il volto. «Bene bene, allora potrai sostenere le prime visite, no?» proseguì, rivolgendo un gesto verso la porta aperta per invitare qualcun altro ad entrare.

Anche se Danny fremeva dal desiderio di rivedere qualcuno in particolare, cercò di non rimanere troppo deluso nello scoprire che ad entrare nella stanza, con timida cautela, erano Justin ed il Conte.

Il primo aveva la consueta aria svagata, e si appressò al fianco del letto, le mandibole intente a masticare un chewingum e le mani in tasca; l’altro aveva il volto ordinato in un’espressione di cordoglio e sollievo insieme, seriosamente compunto, e le mani giunte davanti al petto, nella posa che, come Danny sapeva ormai fin troppo bene, preannunciava un discorso.

«Ciao.» fece Justin, alzando una mano in segno di saluto scansafatiche. Il Conte gli rivolse di sbieco un’occhiata disapprovante; poi si chiarì la voce e si rivolse a Danny, il quale si trattenne a stento dal permettere alle pupille di esprimersi in un eloquente viaggio circolare verso l’alto. Tutto sommato, dovette riconoscere tra sé e sé, non gli dispiaceva nemmeno rivedere quei due; se non altro, era una riconferma del fatto che fosse ancora vivo.

«Danny carissimo. Non potresti dipingerti con la fantasia, né potrei renderti con le banali parole che vado ora a pronunciare, l’enorme vastità del mio sollievo nel saperti sano e salvo. Se mi è possibile avanzare una personale riflessione, trovo che il tuo essere ora purtroppo confinato in un giaciglio a causa delle ferite riportate, non sia uno smacco al tuo valore in battaglia, ma anzi un pregevole segno di distinzione: dunque, non una vergogna, bensì, e tutt’altro, un fregio del tuo coraggio ammirevolmente sublime. Pertanto, ho ritenuto doveroso  domandare al signor Kumals, che ho saputo averti assistito in questi giorni di travaglio, il momento più adatto per recarmi a rendere omaggio al tuo indiscutibile e pregevolissimo intervento, determinante nello stabilire le sorti di quella che è stata una delle più importanti vicissitudini nelle quali mi sono trovato coinvolto nella mia modesta vita su questa terra. Posso dire fin d’ora con assoluta sicurezza che essa non mancherà di rimanere nelle mie memorie, fino al momento in cui esalerò l’ultimo respiro; e sarò sempre in debito verso di te e i tuoi insigni colleghi per avermi permesso di collaborare a quella che, come penso verrà riportata, abbia rappresentato un passo fondamentale della storia umana, per via del suo…»

«Ti stai divertendo…?» mormorava intanto Ramo, rivolgendosi a Kumals, che si era seduto sul letto di fianco a lui; sembrava che gli mancasse giusto un sacchetto di pop-corn in mano per potersi godere la scena meglio di così. Come per ovviare a questa mancanza, si stava d’altra parte arrotolando una sigaretta.

Kumals non si diede la pena di guardarlo, e, con la solita noncurante faccia tosta, si limitò a ribattere «Secondo te se l’è proprio preparato scrivendolo su carta, e magari scartando un paio di bozze, questo discorso, oppure gli viene spontaneo?»

«Secondo me Danny sta cercando di comunicarti qualcosa… » gli fece presente Ramo, per tutta risposta.

Kumals alzò gli occhi sull’allettato, scoprendo che gli stava rivolgendo uno sguardo ineluttabilmente letterale, e che era riassumibile pressoché in queste parole ‘Poi me la paghi, lo sai, vero?’. Ciò sembrò rendere l’uomo molto soddisfatto, perché alzò spensieratamente le spalle, e con un sorrisetto disse a Ramo «Oh, devono essere ancora i postumi della batosta che si è preso… E semmai, questo gli sta più che bene, visto che s’è preso la briga di farsi sparare quando non ce n’era alcun bisogno, giusto per fare l’eroe drammatico della situazione.»

A quelle parole, Ramo non seppe bene cosa ribattere, sul momento. Poi, dopo aver riflettuto un paio di minuti su qualcosa, disse «Beh… Volevo chiedertelo da un po’… Ma quella pallottola che si è beccato Uther… ? »

Ma Kumals scosse la testa con decisione, interrompendolo, e Ramo comprese che gli stava ricordando che l’udito di Danny era troppo fine per pensare di escluderlo dalla conversazione solo perché stavano parlando pianissimo e quasi l’intero rumore di tutta la stanza era occupato dal discorso del Conte. «C’eri tu là, non io. E Uther non ha parlato di questo, con nessuno; dovresti saperlo.» rispose comunque, col tono di chi intende chiudere un argomento definitivamente.

Ramo annuì, consapevole del suo passo falso. Quando Uther voleva tenersi qualcosa per sé, il massimo che si potesse fare, pur se si era tra le persone che potevano… “vantare”?... maggior familiarità con lui, era cercare di indovinare e intuire, e tenersi rigorosamente nella propria testa le conclusioni a cui si giungeva.

Justin era già arrivato a sbadigliare per la seconda o terza volta, come accompagnando il discorso del Conte, quando Danny disse, con indulgente cortesia «Scusami un attimo, Conte…». E si rivolse a Kumals con decisione impudente, cogliendolo con precisione nel momento in cui, appena portatosi la sigaretta alle labbra, stava per accenderla. «Hey… Kumals…»

L’uomo lo guardò, vagamente interrogativo.

Danny sogghignò, aumentando decisamente la naturale impudenza che gli stava rivolgendo. «Offrimi una sigaretta.» disse, senza cenno alcuno al proposito di fare una domanda, quanto piuttosto un’affermazione.

Kumals gli rivolse uno sguardo significativo, e per qualche istante si fronteggiarono a quel modo; alla fine, l’uomo si alzò dal letto e, con un mezzo sospiro, si trasse la sigaretta di bocca. Facendosi strada senza complimenti tra il Conte e Justin, il quale d’altra parte ora faceva sempre in modo di evitare che la sua distanza dal vecchio pastrano stregato fosse inferiore al metro, si affiancò al letto, e allungò la sigaretta a Danny, che, infilatala tra le labbra, se la fece persino accendere con l’accendino. Kumals lo guardava con sorniona presa in giro, pur assecondando la richiesta. Poi, come a rimettere a posto le cose, si rivolse al Conte, dicendo «Continua pure, scusa l’interruzione.»

Danny, nell’udire quelle parole, gli rivolse uno sguardo conciso, e scosse la testa appena, con un sorrisetto sospeso tra il proposito di futura vendetta e il presente riconoscimento di essere stato battuto.

Il Conte riprese fiato, e ricominciò da dove si era interrotto. Ascoltando le brevi rimostranze all’indirizzo di Kumals che stava avanzando Ramo, pur se nemmeno per un attimo illuso di poter essere preso sul serio, riguardo all’inappropriatezza delle sigarette per i degenti, e lasciando che le parole altisonanti del Conte si perdessero nel loro stesso eco tra le quattro mura della stanza, Danny si godette la sigaretta con  placido rilassamento.

In fondo, forse il presente non era tanto malvagio, in confronto al passato al quale l’avevano riportato i suoi sogni. Però sapeva benissimo, anche se tendeva a cercare di lasciare quella consapevolezza in un angolo più remoto della testa, che da quando era stato bucato da quell’ultima pallottola c’erano cose molto importanti che aveva lasciato in sospeso, e che ben presto avrebbe dovuto affrontare. Gli premeva farlo; e gli premeva rivedere quelle persone. Senza, continuava a sentire un senso di incompletezza aleggiare tutt’intorno a lui nell’aria; e niente avrebbe potuto scacciarlo, lo sapeva, nemmeno precipitare in un sempiterno sogno del passato.

 

*

***

*

 

Kumals si alzò dal letto per aprire la finestra, facendo così dissipare il fumo di sigaretta che aveva iniziato ad avvolgere un po’ troppo cospicuamente la stanza. Si risedette sul letto vuoto, cercando di staccare con qualche gesto distratto della mano i ciuffi di pelo di gatto che erano rimasti attaccati al cappotto, e che giacevano sparsi praticamente in ogni punto della stanza. Non sembrava ritenere che questo fosse un gesto superfluo solo perché in effetti uno dei gatti più grossi e vecchi della casa gli si stava giusto acciambellando in grembo, già vibrando di rumorose fusa.

Danny lo fissava in silenzio, pensierosamente.

Ramo aveva lasciato la stanza poco prima, annunciando il proposito di andare a vedere se Valentine era intenzionata a condivedere una doccia, e c’era stata anche la dipartita di Justin e del Conte, il cui discorso doveva essere durato pressappoco una ventina di minuti.

«Saranno quasi ventiquattr’ore che cerco di farla io, una doccia… » borbottò Kumals. «Sembra quasi che lo facciano apposta… ». Aveva preso ad accarezzare il gatto con fare abituato.

«Eh sì, devono essersi coalizzati contro di te.» notò Danny, con finta comprensione, e in realtà un sorrisetto di aperta provocazione.

Kumals gli rivolse un cipiglio che pretendeva di essere severo, nonostante l’evidente divertimento. Agitò a mezz’aria in un gesto sommario la mano con cui reggeva la sigaretta, nella sua direzione. «Vedi di non allargarti troppo… Prima o poi dovrai pur uscire da quel letto, no? Quanto a lungo pensi di poter fingere di non essere ancora guarito? E, non appena starai sulle tue gambe, ho intenzione di fornirti chiaramente le mie rimostranze riguardo al fatto di fare gesti stupidi da kamikaze dell’ultim’ora.»

Danny sapeva che quella di scatenargli contro i discorsi del Conte non poteva che essere l’inizio della vendetta di Kumals. La cosa fastidiosa, era che gli riconosceva ogni ragione di mettere in atto quella sua personale “lavata di capo”; non per questo aveva intenzione di sottostarvici così semplicemente. «In questo caso, spera che io non sia proprio guarito del tutto, quando uscirò da questo letto… »

«In realtà, ho molti progetti… » annunciò con plateale calma minacciosa Kumals mentre si accendeva la sigaretta, abbassando lo sguardo e socchiudendo le palpebre come se si stesse sollazzando nel rimuginare sui suoi “progetti”.

«Oh, non vedo l’ora.» gli assicurò Danny, non meno scherzosamente né meno minacciosamente.

Per un po’ tornò il silenzio, mentre entrambi fumavano e si separavano, per condursi ognuno sulla propria scia di pensieri.

Alla fine, però, Danny tornò a guardare l’uomo, e si decise a dire ciò che da un po’ aveva messo da parte. «Allora… cosa vuoi dirmi?»

Kumals tornò a fissarlo, con motteggiante sorpresa. «Prego?»

«Avanti, lascia perdere la commedia… » lo esortò Danny, sbuffando «Te ne stai lì come se cercassi le parole.»

«E che ne vorresti sapere, tu, di grazia?» lo riprese con un sorrisetto un po’ altero l’altro «Magari sto solo cercando l’espressione migliore del mio repertorio per mandarti a quel paese. Vedi, questa ad esempio è insufficiente. Magari ne dovrei coniare una apposta...»

Danny si limitò ad alzare un sopracciglio e a mostrare una faccia annoiata, dando segno che era stanco e non aveva tutta questa voglia di doversi mettere a cercare di cavargli le parole di bocca con le pinze, dopo averlo figurativamente – o magari anche letteralmente – legato.

Kumals studiò per un po’ quest’ultima espressione; c’era qualcosa in Danny, da quando aveva preso a risvegliarsi dal profondo sonno ricoverante, che gli ricordava il suo modo di fare di quando l’aveva conosciuto tempo addietro. Come se fosse tornato indietro per recuperare qualcosa di sé, e ne fosse tornato più completo. In compenso, Kumals sapeva fin troppo bene che questo lato di Danny era capace di tenergli testa abbastanza da costituire un valido avversario ad ogni migliore suo tentativo di prendersi gioco di lui. Certo, avrebbe potuto ricorrere a quella scorta di cose che conosceva di lui, qualche vecchio particolare imbarazzante magari, per guadagnare vantaggio. Ma il fatto era che ciò che doveva dire ora lo privava sgradevolmente della maggior parte della sua voglia di scherzare e di prendere per i fondelli; il che non era molto da lui. Così, finì per sospirare, esalando in tal modo le residue intenzioni di avvalersi dell’ironia.

Danny se ne accorse, e la sua espressione mutò rapidamente, divenendo più seria, stupita e preoccupata. «E’ così grave…?» si informò.

«Oh, tranquillo… Non è che Andrea mi ha mandato a fare da messaggero… anche se, francamente, non ho potuto fare a meno di notare che tutto il tempo che avete passato insieme da quando siamo tornati qui, tu stavi dormendo saporitamente.» fece Kumals. Il suo tono aveva definitivamente rinunciato al proposito di suonare sarcastico, anche se nelle parole lo era ancora un poco.

Danny si rabbuiò immediatamente. «Riguarda lei?»

Kumals sembrò rendersi conto dell’errore, perché scosse subito la testa in segno di diniego. «No, no… Non so perché l’ho tirata fuori, solo che… Beh, può darsi che c’entri anche lei, molto indirettamente. No, no… come non detto… a ben pensarci, non deve c’entrare, non in quello che voglio dirti io… Lei è arrivata molto dopo, in effetti, e anche se tutto questo… Hum… Ricominciamo da capo?» propose infine, con fare pratico.

Danny lo studiava con evidente perplessità; non ricordava di aver mai visto Kumals tanto in difficoltà, salvo forse quella volta in cui aveva dovuto spiegare a Ramo come mai, in sua assenza, avessero usato alcuni dei ferri chirurgici che aveva dimenticato nel vecchio quartier generale dei ‘4 di picche’ come posate. Naturalmente, i suoi tentativi di evitare di menzionare il motivo reale, ovvero che nessuno aveva voglia di lavare le posate vere e proprie, tutte sporche, e che avevano sperato di farla franca limitandosi a lavare gli strumenti dopo averli usati, erano risultati piuttosto fallimentari in confronto all’incazzatura magistrale di Ramo. Si limitò ad annuire, accettando la proposta.

«Bene.» riprese Kumals, lieto, ma non meno in difficoltà; si poteva notare principalmente dal contegno che si ostinava a dimostrare, passando da un gesto inutile all’altro, come lisciare il suo lurido pastrano, concentrarsi eccessivamente sulla misura delle carezze che stendeva sulla schiena del gatto, mirare con un surplus di attenzione a centrare il posacenere ciccando la cenere dalla sigaretta, o girando lo sguardo intorno per la stanza per fornire la forzata impressione di sentirsi perfettamente a suo agio.

Ritornò a calare il silenzio, ma Danny si guardò bene dall’interromperlo per primo; iniziava a sospettare seriamente di non voler sentire per davvero ciò che Kumals ci teneva a dirgli. E sembrava che anche per l’altro parlare rappresentasse al momento l’equivalente di una visita al dentista nel corso della quale si dovrà rinunciare a tutti i propri denti, estratti uno per uno senza anestesia.

«Allora… » riprese Kumals, discorsivamente, mantenendo lo sguardo fisso su una ragnatela in un angolo del soffitto, come se la trovasse estremamente degna di tutto quell’interesse «… Non dovrei dirti ciò che sto per dire, per iniziare.»

Danny si alzò un po’ sul gomito, col braccio sano, per guardarlo meglio. «E anche per finire, direi. Cosa si suppone, che quindi io dovrei far finta di non ascoltarti?»

Kumals lo guardò negli occhi, con l’aria di ponderare con attenzione l’idea. «Forse non dovresti proprio ascoltarmi sul serio, non solo per finta, cioè… »

Danny scosse la testa, lievemente spazientito. «Oh, andiamo… » lo riprese «Sono qui in un letto da giorni, e non sono sicuro di potermi ancora alzare in piedi come si deve, e mi vieni a parlare proprio ora. Che tu te ne renda conto oppure no, sembra che hai scelto il momento migliore per mettermi alle strette e praticamente costringermi ad ascolarti

Kumals ebbe un breve moto di incertezza, rendendosi conto dell’inappellabile sensatezza di quelle parole, ma si riprese molto in fretta, e senza battere ciglio osservò «Non proprio. Potresti sempre tapparti le orecchie e cantare a squarciagola, mentre parlo.»

Danny iniziò a mostrare seri segni di averne abbastanza. «D’accordo. Ora: deciditi. Non si può fare entrambe le cose. O parli o taci, fine. Mi sembra semplice.»

Kumals strinse le labbra in una smorfia di acceso rimprovero, e stavolta il suo viso assunse i toni di un ammonimento quanto mai serio. «Credi che starei qui a blaterare sconclusionatamente come un decerebrato qualsiasi, se fosse ‘così semplice’?» domandò, suonando caldamente terrificante per un momento, come se la sua intera sagoma avesse ampliato i propri contorni in qualcosa di più grande e più decisamente minaccioso.

Danny abbassò un po’ il viso, guardandolo più dal sotto in su; se avesse avuto un paio di orecchie in quel momento, sarebbero state probabilmente abbassate e stese verso l’esterno. In quel gesto istintivo, più tipico di un lupo che di un essere umano, Kumals poteva leggere segno di parziale resa e scusa. Se le fece bastare, e tornò a calmarsi . Eruppe in un leggero sospiro, di una pazienza che sembrava rivolta tanto a se stesso quanto ad altri, e riprese a fumare e a parlare in tono più pacato.

«Tu sai bene i motivi dello scioglimento dei ‘4 di picche’… no?.» domandò.

Di tutto ciò che si stava immaginando Danny, questo non vi rientrava affatto. Annuì piano, attentamente. «Perché Ramo aveva preso a lavorare, e Valentine, con la quale si era messo insieme, non riusciva ad adattarsi alle nostre… “faccende”. Perché tu e Yuta vi eravate lasciati, e, francamente, eravate anche più insopportabili di prima, anche se sembra impossibile. Perché Zoal e Yuta iniziavano a sentire il bisogno di riposarsi,  dedicarsi ad alcune loro ricerche, e abbandonare la città per un luogo più… più come questo. Perché ormai non guadagnavamo così tanti soldi, e tu e Uther avevate iniziato ad accarezzare l’idea di cercarvi altri lavori. Forse perché tutte queste cose, tutte insieme, non ci permettevano più di continuare a mantenere il gruppo unito come prima, e altrettanto efficiente. E perché i tempi sono cambiati, e le persone vanno sempre in cerca di scienziati, di spiegazioni razionali e inappellabili, di capri espiatori scelti a preferenza, e quant’altro… e i nostri ultimi clienti erano tutti visionari e/o disperati che andavano alla ricerca di qualcuno che potesse ingannarli con facili e consolanti fandonie sull’aldilà e l’immortalità dell’anima o roba da guru orientaleggiante.». Danny si interruppe per un momento, come rivalutando tra sé e sé tutto ciò che aveva menzionato. «Perciò, sì, li so bene, i motivi.» mormorò infine.

Era doloroso, sì, ancora; ma ora si rendeva conto che, da dopo che era passato attraverso gli ultimi giorni, e che ci era passato insieme a loro, di nuovo tutti insieme, con preziose aggiunte, si sentiva abbastanza forte da rievocare con parole chiare e concise quanto era stato. Non aveva più bisogno di rifugiarsi nella dimenticanza, nel lasciarsi alle spalle ciò che non si può fare a meno di portarsi appresso ovunque si vada, qualsiasi peso abbia. E forse era anche a causa di quei sogni, che ora, senza nemmeno poterlo realizzare chiaramente, si sentiva come se fosse tornato in sé, come se, paradossalmente, sognando si fosse risvegliato completamente. Li ricordava, anche se non in modo completamente preciso, quei sogni, e il passato che avevano rievocato. Quel passato che non sapeva come aveva fatto a lasciare tanto lontano dietro le sue spalle.

Kumals, che aveva ascoltato, occasionalmente annuendo piano, o aggrottando un po’ le sopracciglia in occasione della menzione di lui e Yuta, con lo sguardo rivolto accuratamente sui suoi piedi, lo alzò lentamente su di lui, e lo fissò con penetrante moto di sincerità. «Ebbene, ti sbagli.»

Danny trasecolò leggermente, e lo guardò con serietà aggrottata. «Su cosa?»

«Sul fatto che conosci tutti i motivi. C’è una ragione della quale non sei mai stato consapevole. E, ti prego di non fare quella faccia. Non è che abbiamo tutti cospirato alle tue spalle per mantenerti all’oscuro, o qualcosa del genere. Anzi, ti garantisco che sono quasi certo che anche altri di noi, giusto Ramo per dire, non ne sappiano nulla esattamente come te. Perché… quest’ultima ragione non è stata mai detta, né chi la porta ha mai fatto niente, o quasi, per lasciarla trapelare. Se ce ne siamo accorti, io, Yuta e Zoal, è stato solo per intuizione, diciamo così. Beh, scusami la franchezza, Danny, ma tu e Ramo sembrate due idioti ciechi, sordi e muti quando si tratta di certe cose, quindi è inutile che poi te la prendi con me!» terminò Kumals, con un tono più simile a quello di perenne presa in giro che aveva di solito, ma anche piuttosto nervoso.

Danny ascoltò attentamente ogni parola. Ed infine annuì. «Bene, e quale sarebbe questa preziosa rivelazione che io e Ramo non avremmo colto?» disse infine, con testardo auto-controllo.

Kumals non ebbe fretta nel rispondere, e prese a misurare le parole anche più cautamente di prima, se possibile. «Ramo non c’entra. Cioè, sì, probabilmente sarebbe stato più corretto se lo avesse saputo anche lui… Ma il punto è che questa cosa non ci riguarda davvero tutti. È stata una delle cose che ha spinto chi aveva capito a prendere la decisione di scioglimento del gruppo, insieme a tutte le altre; ma, allo stesso tempo, non potevamo dire qualcosa che appartiene solo ad una persona, a livello personale  per così dire. Per questo nessuno di noi te ne ha mai parlato prima. E, per la verità, nemmeno io avrei il diritto di dirtelo ora. Ma, visto come stanno certe cose, ho preferito prendermene il diritto. Forse non tanto perché penso che tu debba saperlo… anzi, sicuramente non è così che dovresti saperlo, semmai dovessi… » Kumals si interruppe giusto per evitare di ripetere la stessa parola per la terza volta, rendendosene conto appena in tempo. Chiuse gli occhi per un momento, come per concentrarsi maggiormente, e riprendere il filo del discorso.

«Kumals… se giri ancora così intorno al punto mi inizierà a girare la testa sul serio.» fece presente Danny, con gentilezza tuttavia. Gli sembrava di poter comprendere Kumals nella sua difficoltà di parlare, anche se non aveva la più pallida idea di che cosa accidenti stesse parlando, o forse cercando di non parlare.

Kumals prese atto di ciò, e riprese fiato con profondità. Lasciò definitivamente perdere il mozzicone di sigaretta, abbandonandolo nel posacenere, spinse il gatto via dalle sue gambe con ferma gentilezza e si chinò in avanti, appoggiando i gomiti sulle ginocchia e incrociando le dita delle mani unite, guardandole pensosamente. «L’ultima ragione riguarda Uther

Danny sentì il procinto di un’indistinta ma sgradevole sensazione. «Non dev’essere una malattia terminale, visto che è bello che vivo e vegeto tutt’ora… » constatò, tentando un debole sogghigno, e riuscendovi decisamente male.

«A meno che non si tratti di una cirrosi epatica cronica…» commentò ironicamente Kumals, ma poi sembrò riaversi dal momento di sdrammatizzazione con pronta auto-disciplina, ritornando serio, e dando l’impressione, per una volta, di sentirsi colpevole della battuta. «Comunque, c’era qualcosa che non poteva più sopportare. Non ce la faceva più, e potevo leggerglielo meglio io addosso di quanto potesse forse riuscire ad essere onesto con se stesso per primo. Ha insistito a voler fare la parte della “vittima” della situazione, continuando a tacere, e andarsi a fare un giro da qualche parte quando si sentiva cedere, per i cavoli suoi, come ha sempre fatto, che sia dannato se ha mai permesso a qualcuno di essergli un minimo vicino in quel momento. D’altra parte, è passato un po’ di tempo, e ora sembra cavarsela un po’ meglio… anche se credo stia facendo una specie di prova di resistenza sul breve termine… e in effetti non ho mancato di assicurarmi a che punto stava la sua resistenza di tanto in tanto, con qualche provocazione accuratamente misurata, come è mia abitudine… ho rischiato grosso talvolta, ma con sprezzo del pericolo quando si tratta di cercare di capire a che punto… »

«Kumals?» chiamò Danny, visto che l’uomo sembrava aver preso una deriva in cui parlava soprattutto con se stesso.

E in effetti l’altro lo guardò come se si fosse quasi dimenticato della sua presenza, e nel realizzare che l’aveva interrotto si mostrò estremamente irritato. «Senti, sto cercando di fare un discorso non facile. Se potessi farmi il favore di stare zitto un momento…»

Danny fece il gesto di chiudersi le labbra con un’immaginaria cerniera, ubbidientemente.

Kumals annuì con soddisfazione. «Bene, quindi, come dicevo… sì… cioè… dov’ero rimasto…

Dopo qualche istante, Danny alzò un dito, come si fa a scuola per chiedere il permesso di parlare. Kumals lo perforò con lo sguardo. «Sì, sì! Cosa c’è?»

Danny rifece il gesto di prima, stavolta come per riaprirsi le labbra. «Posso parlare?» domandò. Ma non aspettò risposta, ritenendo l’occhiataccia dell’altro più che sufficiente. «Allora: che cosa Uther non poteva più sopportare?»

Nonostante la domanda fosse molto semplice, per qualche motivo Kumals sembrò precipitare in un difficoltoso stato d’incertezza. Abbassò il capo come sotto il peso di un dilemma, infine, quando rialzò lo sguardo su Danny, fu per mormorare «Non ce la faceva più a far finta di niente…»

«Su cosa…?» incoraggiò Danny.

«Con te…» sussurrò Kumals, così piano da risultare a stento udibile.

Danny fece un’espressione molto scetticamente stupita. «Non mi pare che mi detesti a tal punto… » osservò ragionevolmente.

Kumals spalancò gli occhi, fulminato, poi si alzò in piedi e prese ad agitare le braccia camminando per la stanza in preda all’esasperazione. «Ma sei completamente scemo, allora? Ma perché, perché mi chiedo vengo anche a provare a dire le cose, quando so benissimo che qui nessuno capisce mai niente di niente se non viene messo per iscritto con le indicazioni… Ah! Ma allora forse tanto vale fare tornare il Conte per darti l’annuncio con un discorso di una mezz’oretta, ammesso che si riesca ad estrapolare qualcosa di sensato tra tutto quell’arzigogolare ricercato… Ma non è che non ci abbia provato, comunque vada, che diamine, io ci ho provato, no?!» e via discorrendo.

Danny lo guardò con seria preoccupazione, chiedendosi se gli avesse dato di volta il cervello o fosse più semplicemente preda di una crisi di nervi coi controfiocchi; poi si ritrovò Kumals piantato di fianco al letto, le gambe un po' larghe per tenersi ben saldo sul posto, un’espressione terribilmente scontrosa in volto, e le braccia incrociate sul petto. «Danny, ma tu rifletti mai, prima di parlare?» lo interpellò brutalmente.

Il ragazzo gli rivolse uno sguardo imbronciato; tuttavia, doveva ammettere che se Kumals si abbandonava ad una simile scenata, doveva aver detto qualcosa di particolarmente stupido. D’altra parte… «Beh, e tu riesci mai a spiegarti in modo da farti capire?» ribatté.

Kumals lo guardava in un modo sempre più terrificante, e sembrava deciso a far incombere su di lui tutta la sua altezza. «Danny, prenditi un momento… » consigliò, con minaccia trattenuta sul ciglio dei nervi, stringendosi la base del naso tra il pollice e l’indice, strizzando gli occhi chiusi «Rifletti  qualche istante… poi, dimmi dove ero fraintendibile…»

Allora Danny si mise di buona lena a pensarci su. Se non altro, sperava in tal modo di riuscire a dare pace a Kumals. Ripassò mentalmente, con calma precisione, tutte le battute del discorso, o almeno quelle che riteneva più significative, scartando poco a poco le farneticazioni nelle quali si era smarrito Kumals di tanto in tanto. Alla fine, rimase con in mano il concetto che Uther, in qualche modo, non tollerava più la sua presenza, non a tal punto da poter mantenere ancora unito il gruppo dei ‘4 di picche’; d’accordo, fino a qua c’era. Poi, rimaneva il problema del perché. E se non era odio, o anche solo mal sopportazione generale, del tipo che si poteva iniziare a coltivare nei confronti di Justin e il Conte, ad esempio, se ci si viveva a stretto contatto per sufficiente tempo, allora….

Kumals, che stava spiando di sottecchi il viso di Danny, ai lati della mano con cui si stava massaggiando la parte centrale della fronte e la base del naso, non si perse nemmeno un passaggio delle espressioni che iniziarono a saettargli per i tratti facciali; la maggior parte di esse riguardavano un continuo ri-palleggio tra il diniego assoluto (e annessa convinzione di sbagliarsi) e il tentativo di ricominciare qualche elaborato ragionamento da capo. Nel complesso, dava l’impressione di qualcuno che stesse consumando preziose ore alle prese con una formula matematica, ottenendo ogni volta lo stesso risultato, ma diverso rispetto a quello che si aspettava. Aspettò pazientemente, mentre parallelamente iniziava a calmarsi poco alla volta; e fu solo quando riconobbe in Danny i primi segni di una resa allo stesso identico risultato che continuava a uscirgli dalla sua “formula matematica” mentale, che riprese la parola con molta più tranquillità. «Ci crederesti? Adesso ti sarei molto più grato se dicessi qualcosa. Qualsiasi cosa, per la verità.»

Danny tornò a guardarlo, anche se in un certo senso sembrava molto distante da lì. Alla fine, dopo lunghi e faticosi secondi di silenzio, emise parola. «Oh.» mormorò, a mo’ di unico commento alle conclusioni alle quali doveva essere giunto. Il suo tono era chiaramente pregno della giusta serietà che Kumals riteneva appropriata all’argomento; pur tuttavia, il fatto che quello fosse tutto ciò che il ragazzo aveva da dire così sul momento, lo spazientì a tal punto che per un attimo si sentì nuovamente sull’orlo di una nuova e peggiore sfuriata. In qualche misteriosa maniera, riuscì a dominarsi abbastanza, considerando il lato positivo della faccenda: quello lo esimeva dal soffermarsi ancora a parlarne.

«Bene… ora, visto che inizio a sentire un principio di soffocamento… credo che andrò a fare quattro passi qui fuori… » annunciò a Danny, il quale continuava a fissarlo come se fosse l’unico punto fermo in mezzo ad una grande nebbia mentale.

Si girò e prese risolutamente la via della porta, quando si sentì richiamare in tono incerto. «Sì?» disse, non nascondendo l’urgenza di volersene andare il prima possibile.

Danny ci pensò su qualche istante. «No… niente… » disse, con aria vagamente traumatizzata, che forse assomigliava un po’ alla faccia che dovevano avere fatto i contemporanei dei primi a proclamare ufficialmente la rotondità della Terra, in contrapposizione alla precedente teoria di Terra piatta e mari che precipitavano oltre i bordi.

Kumals avrebbe quasi preferito la tortura fisica, a quel punto. «Perdiana, Danny!» imprecò spazientito. «Forse sarebbe meglio fare finta che questa conversazione non sia mai avvenuta.» rifletté.

Danny tornò a guardarlo, con improvvisa e aperta sincerità. «Francamente… credo che sarà un po’ difficile… » constatò genuinamente.

«Splendido!» esclamò Kumals con greve sarcasmo, prima di uscire e sbattersi la porta alle spalle, abbandonando Danny alle sue riflessioni, qualsiasi esse fossero, e ormai completamente persuaso che non avrebbe mai dovuto impicciarsi in faccende altrui, per quanto potessero toccarlo da vicino. Trovò consolazione solo nell’immaginario potersi calare un paio di solidi paraocchi sulla fronte seduta stante.

 

 

 

 

* questa battuta l’ho ripresa all’incirca uguale (non mi va di andare a ricontrollare, mi baso sulla memoria và) da quella detta in qualche puntata di ‘Scrubs’ dal dottor Cox. Sospetto che in effetti Ramo la conosca in guisa del fatto che Valentine è un’appassionata di molti telefilm del genere di buona qualità, solitamente. Non so se ‘Scrubs’ è “di buona qualità”, ma qualche volta l’ho trovato godibile e divertente.

 

 

Soundtrack: Johnny, are you queer? (Josie Cotton) – non odiatemi, avevo avvertito fin dall’inizio che il trash avrebbe avuto largo spazio!

Ritorna all'indice


Capitolo 63
*** 61 - UNA CUCINA ***


61%20-%20UNA%20CUCINA.html

  Capitolo 61

(UNA CUCINA)

In un certo senso sembrò una specie di quei percorsi tematici che dovrebbero spingerti a provare le sensazioni dell’esperienza reale; quella roba liofilizzata che potrebbero spacciarti in qualche parco o museo tematico, una delle versioni più moderne di quei venditori ambulanti che una volta potevano cercare di venderti sabbia colorata per ricordarti di una località marina. Fallendo miseramente, certo, nella rievocazione che intendono fare. Almeno, così cercava di pensarla Danny; sì, effettivamente cercava di ricavare una distanza di qualche genere da quella forte impressione che aveva di nascere di nuovo, mentre camminava piano, con cautela quasi, lungo il corridoio quasi completamente al buio.

Il suo sangue era umano e canide, giammai felino, pertanto non poteva contare su una buona visione al buio; si affidava al contatto del pavimento sotto i piedi, infilati in ben tre strati di calze pesanti. L’assenza di suola di scarpa gli rendeva un senso di maggiore percezione del terreno sotto i piedi, e quindi una migliore sensazione di equilibrio. Un equilibrio un po’ incerto a dirla tutta, come se stesse reimparando come si camminava esattamente. Il braccio pesantemente fasciato gli pendeva dal collo, appoggiato alla sciarpa con cui se l’era legato, e faceva di tutto per muoverlo il meno possibile, mentre con l’altro si affidava al contatto del palmo della mano sulla parete, seguendo quella, pur senza appoggiarvisi di peso. Una parete a fianco e il pavimento sotto ai piedi, oltre alla memoria di come era il corridoio del piano superiore della casa di Yuta e Zoal: in tal modo percorse quei metri dalla stanza degli ospiti che si era alfine lasciato alle spalle, giungendo sulla cima delle scale. Qui si fermò un momento a riposare, sforzo più altro che fisico, e una certa soddisfazione di sé che gli aleggiava intorno e dentro, come se il più fosse fatto.

Fu con una certa lievitata confidenza che scese uno alla volta gli scalini, quasi baldanzosamente a quel punto. Se qualcuno lo avesse visto in quel momento, avrebbe potuto apprezzare la strana impressione che gli mancasse una coda da portare un po’ alta, con una fierezza molto semplice e profonda, di auto-realizzazione. E se qualcuno avesse pensato che fosse eccessiva rispetto a quello che stava facendo, si sarebbe sbagliato di molto dopotutto.

Anche il piano terra era perlopiù affondato della penombra, quando raggiunse la base della scala; ma i suoi sensi non mentivano in proposito: qualche metro più avanti giungeva il chiarore e il rumore che proveniva dalla cucina illuminata. Attraversò pertanto il salotto buio e deserto, ormai ansioso per l’anticipazione che giungeva dall’unica stanza illuminata dalla luce e dal suono delle voci, la porta socchiusa.

Fu praticamente con furtività che allargò un po’ lo spazio aperto della porta, sistemandosi sulla soglia, senza dire nulla e senza produrre rumore, attendendo semplicemente che si accorgessero di lui; e nel frattempo, ne approfittò per godersi la scena da spettatore inosservato, sorta di voyeur.

«Ma non è vero!» esclamò Yuta piccata, voltandosi a guardare Kumals; seduto sulle sue ginocchia, Duca si beava delle sue carezze con aria piuttosto regale, guardando in giro per la stanza affollata con pigra indifferenza.

Kumals fece vibrare la sigaretta sull’orlo del posacenere e un suo sopracciglio tremolò visibilmente, tradendo il suo divertimento. «Come no? Ero lì. Gli hai tirato uno schiaffo colossale.»

«Era ubriaca, non può ricordare così bene.» osservò con calma Zoal, seduta su una vecchia poltrona mezzo sfondata, nell’angolo più caldo della cucina, accanto alla stufa. Nel vederla, Danny si sorprese e sussultò, e sentì gli occhi pizzicargli di un sentimento intenso che assomigliava forse alla commozione.

Yuta si voltò a lanciare uno sguardo con un che di risentito alla sorella. «Adesso, non ero proprio ubriaca nel vero senso del termine… d’accordo, forse avevo bevuto qualcosa, ma non è che… »

«Comunque se lo meritava.» commentò Kumals. «Per quello che ti aveva detto.» precisò.

«E cosa le aveva detto?» domandò incuriosito Justin, seduto su uno sgabello vicino alla porta che dava sull’esterno della casa, con l’aria di chi tenta strenuamente di rendersi molto partecipe in una vicenda della quale non sta capendo molto suo malgrado.

Valentine, forse per il solo sentire la sua voce, roteò gli occhi con sopportazione. Ramo, sulle gambe del quale era seduta, abbozzò un lieve sorriso, abbassando un po’ il volto per non farlo notare eccessivamente.

Qualcuno si schiarì la voce; Danny non poteva vederlo, da dove si trovava, ma riconobbe la tonalità tipica del Conte. «Justin, hai sempre avuto la sgradevole abitudine di seguire poco accortamente le fasi di una conversazione, ma in certi casi si potrebbe quasi certificare che la tua mal’attenzione sia eccessivamente spregiudicata. La signorina Yuta ha già detto che la persona in questione aveva avanzato un ben poco cortese apprezzamento sul suo modo poco politicamente corretto di esprimersi.»

«Beh, ma non è stato quello che mi ha fatto uscire dai gangheri.» fece Yuta, mettendosi più comoda sul bancone, sul quale sedeva a gambe incrociate, sgranocchiando le arachidi che sbucciava una ad una, pescandole da un sacchetto aperto, appoggiato di fianco ad un bicchiere semi-pieno di una sostanza colorata e zuccherosa, che aveva tutta l’aria di essere una bevanda d’aperitivo preparata in casa miscelando il contenuto di diverse bottiglie.

«No?» fece Kumals. Dal suo tono era chiaro che conosceva già bene la storia, ma che intendeva agevolare il meglio raccontarla anche agli altri che la sentivano per la prima volta.

«Certo che no. Chi se ne importa di che cosa ha nella testa certa gente riguardo alla correttezza con cui c’è da trattare certe tematiche.» espresse Yuta senza problemi. «Il fatto è che definì i miei orecchini ‘semplicemente orrendi’, o qualcosa del genere.»

«Per questo lo ha schiaffeggiato.» spiegò Kumals, come se non fosse già evidente. C’era un sorrisetto all’angolo delle sue labbra che attirò un’occhiata torva da parte della protagonista della vicenda.

«Infatti.» disse Yuta, il tono quasi sbuffante, come se sfidasse qualcuno a dirle che non aveva fatto benissimo a farlo.

«Erano i tuoi orecchini preferiti, allora, se non sbaglio.» osservò Zoal, sempre in tono pacatamente gentile. «Quelli a forma di fragola blu elettrico.»

«Già. A proposito, dove sono finiti poi?» ribatté Yuta, improvvisamente preoccupata.

«Devono essere su nella tua stanza da qualche parte.» rispose Zoal, con fare tranquillizzante, ed era impossibile stabilire se stesse affermando qualcosa in cui credeva veramente. Non per niente, Yuta le studiò per un po’ il viso con aria poco convinta, ed una certa smorfia sospettosa, forse cercando di ricordare se aveva mai sentito anche solo un cenno riguardo alla possibile reale fine dei suoi ex-orecchini preferiti.

In quel momento Danza, che stava sonnecchiando ai piedi di Zoal, balzò sulle quattro zampe, svegliandosi di colpo; gli altri la guardarono senza grande sorpresa, forse ritenendo che si fosse svegliata con gli strascichi di un sogno particolarmente animato. Ma quando la cagna balzò di corsa verso la porta, quasi inciampando nelle zampe allungate di Mama, che si svegliò a sua volta e mostrò subito il fastidio per la bruschezza di quella sveglia, gli sguardi di tutti si concentrarono in quella direzione.

L’unica cosa che fece Danny fu cercare di sottrarre un po’ il braccio fasciato dall’impeto del saluto di Danza, accogliendola nell’abbraccio affezionato che gli somministrò a suo modo, finendo con le zampe anteriori alzate contro il suo petto, e la lingua e il muso che gli raggiungevano il collo e il mento, leccandolo e guaendo per l’emozione. Danny rise, un suono che sorprese lui per primo per la spontaneità e la brillantezza con cui risuonò nella stanza, improvvisamente sprofondata nel silenzio per la sorpresa della sua comparsa.

«Guarda guarda… » commentò Kumals «… chi ci degna della sua visita… »

Yuta sorrise profondamente, senza dire nulla.

«Danny! Finalmente!» esclamò allegramente Valentine, alzandosi e andandogli incontro per abbracciarlo e stampargli un bacio sulla guancia, lasciandogli una vaga impronta del rossetto rosso cupo. Si soffermò a studiargli il viso con attenzione che si sarebbe potuta dire di sapore praticamente materno. «Come stai?» indagò.

Danny la guardò come se si stesse rendendo conto solo in quel momento di non essersi preparato una risposta, nemmeno per una domanda così scontata. Sorrise. «Ora bene.» mormorò.

Zoal si tirò lentamente in piedi, e per quel solo movimento sembrò che una strana atmosfera di composto silenzio prendesse possesso della stanza. Il gesto, per quanto semplice, parve costarle un notevole impegno, un paziente sforzo, che tuttavia eseguiva con sentito piacere. Mama si alzò quasi di concerto, e Danny, come tutti gli altri, notò bene il modo in cui l’enorme alano affiancò e seguì i passi della donna, con un fare protettivo e solidale ben espresso dai suoi modi decisi.

Entrambe si fecero incontro a Danny, e il ragazzo, per quanto avrebbe voluto farlo, non si lasciò ingannare nemmeno per un istante dal sospetto che andare loro incontro fosse la cosa migliore da fare; tutt’altro. Attese immobile lì dove si trovava, mano a mano che Zoal, arrivando a fermarsi a pochi centimetri da lui, sembrava paradossalmente andare in dissolvenza mano a mano che gli si avvicinava. Intuì a cosa era dovuto quell’effetto. Ella si fermò immobile di fronte a lui, lasciandogli per bene il tempo di vederla chiaramente, in ciò che era ora.

Gli occhi blu scuro di Danny corsero con rapida calma dal pallore della pelle del viso al colore verde delle pupille che appariva come annacquato, di una straordinaria fragilità, che per contro rendeva più evidente aldilà una forza profonda, di cui non era dato riuscire a vedere fin dove arrivava e fin dove poteva arrivare; procedettero sul modo in cui la pelle sembrava essersi rammollita, facendo un po’ risaltare il contorno delle ossa in certi punti, come in corrispondenza degli zigomi, delle tempie e delle dita, e il fatto che ora le ciglia e le sopracciglia e il resto della peluria era di un color cinerino. Nella chioma originariamente castano scuro, con notevoli sfumature rossicce, erano comparse delle sottile ciocche di singoli capelli ingrigiti, come slavati e sbiancati. Fu nel vedere questi ultimi che Danny sentì infine chiaramente un procinto di lacrime premere dietro i suoi occhi; fece di tutto per ricacciarle indietro, ma era sicuro che Zoal avesse visto il loro luccichio.

«Oh, Zoal…» mormorò Danny, pianissimo, la voce ad un passo dall’incrinarsi seriamente. E l’istante successivo aveva sporto il braccio sano per stringerla in un abbraccio che la donna ricambiò prontamente, come se non avesse atteso che quello, pazientemente, alla fine del suo rivederla in quella nuova luce.

E fu quando udì che gli diceva piano, in modo che sentisse solo lui, quelle parole, che si sentì sul punto di iniziare a piangere sul serio, e non ebbe idea di come riuscì a non farlo.

«Mi hai fatto preoccupare davvero, questa volta… » mormorò Zoal, nel suo tono basso e, ora, particolarmente sommesso. «Sono contenta di rivederti, sciocco lupo.» sussurrò, un momento prima di sciogliersi dall’abbraccio, lentamente, e tornare a guardarlo. Stavolta, egli capì che gli stava decisamente chiedendo di non piangere sul serio. Solo allora comprese perché riusciva a non farlo.

*

***

*

«Vorrete scherzare!» si animò per l’ennesima volta Danny, rischiando di rovesciare la cioccolata calda, opportunamente corretta con un po’ di grappa, che riempiva la tazza fumante che stringeva nella mano del braccio sano.

«No, per niente.» gli rispose Kumals, ignorando volutamente la retoricità della sua esclamazione.

Fino a quel momento l’uomo aveva fatto di tutto per monopolizzare il racconto di ciò che era successo a lui, Zoal, Justin e il Conte, e persino Yuta alla fine, riconoscendo quanto gli procurasse piacere poter essere il solo a raccontare e confondere allo stesso tempo le idee a Danny, aveva moderato il numero delle sue intrusioni nella narrazione.

Danny mostrò di voler ignorare per l’ennesima volta i provocatori commenti che Kumals era abile nell’inserire a seguito di ogni suo commento, e divenne ancora più rimuginante. «’Collins’…» mormorò riflessivamente, come se assaggiasse con un certo perplesso sospetto il nome «…non mi dice niente…»

«Non vedo perché dovrebbe dirti qualcosa. Non mi pare che tu ti sia mai dedicato alla lettura di prestigiose riviste scientifiche. In ogni caso, probabilmente il suo nome non è mai comparso su alcuna rivista; deve essere stato estromesso dalla comunità scientifica molto prima di poter arrivare a tale “privilegio”… per ragioni morali. O meglio, perché tutti fingono almeno apparentemente di averle, anche perché questo consente di rimpinguare gli stipendi di chi viene inserito nelle commissioni etiche. Collins, invece, doveva avere l’abitudine di rivelare i suoi scopi e le sue ambizioni senza mezzi termini e senza patine di bella presentazione. E deve averla fatta veramente grossa per arrivare ad urtare quel residuo microbico di morale che rappresenta la media forse realmente posseduta dalla comunità scientifica in generale.» ribatté Kumals.

Danny gli indirizzò uno sguardo torvo. «D’accordo. In ogni caso, non credo che mi rimarrà molto impresso in ogni caso, questo nome.»

«Condivido.» si limitò a dire Kumals, sorseggiando il suo aperitivo.

«E quindi… il motivo per cui non stiamo aspettando l’arrivo di una parte dell’esercito nazionale qui alla porta è che… ?» continuò Danny, tentando ancora testardamente di avere un quadro più complessivo della situazione.

«Perché Kumals, qui, ha un ben calibrato modo di fare delle minacce assestate, e sa a chi farle.» venne in aiuto Yuta, rendendosi conto forse troppo tardi di avere in tal modo espresso quello che, a tutti gli effetti, poteva sembrare un complimento. Fece una smorfia conscia dell’errore, mentre Kumals le rivolgeva appositamente un finto sorrisetto untuoso, sapendo di colpire nel segno con quello.

Per qualche motivo, Justin era impallidito e aveva preso a tremare leggermente, e Danny, che era abbastanza vicino a lui per accorgersene, gli lanciò un’occhiata incuriosita, alzando un sopracciglio sospettoso; lo fissò con quello sguardo che si potrebbe rivolgere alla probabile vittima di pesanti molestie.

«Mi ha fatto scrivere l’e-mail… l’ho scritta io… l’ha dettata lui, parola per parola, ma l’ho scritta io…» prese a sussurrare Justin, in tono spezzato e scosso.

«Non è che ci sia la tua calligrafia, Justin. Avanti, calmati, nessuno può veramente sapere che l’hai scritta tu.» fece Kumals, infastidito.

Justin lo guardò con un principio di speranza di salvezza che faceva pallidamente capolino, palesandosi in un sorriso stentato sulle labbra riarse, lo sguardo che esprimeva un sentito e semi-disperato ‘Davvero…?’.

Tutti gli altri riconobbero benissimo il sorrisetto da basilisco che comparve a quel punto sul viso di Kumals, mentre i suoi occhi si stringevano appena, in quella maniera sinistra tipica di chi è sicuro di avere la sua preda ormai in pugno. «Oh, certo, a parte tutti quelli che sono qui presenti in questa stanza, che ora, dopo che lo hai detto, sanno esattamente che sei stato tu.» osservò Kumals, abbassando lo sguardo sul bicchiere con una nonchalance magistralmente studiata.

Danny aveva già alzato gli occhi al cielo al solo sentire le prime parole della replica di Kumals, ma poteva comunque immaginare la reazione di Justin; il ragazzo sprofondò in un silenzio di piombo, denso di tensione, e dopo aver sbarrato gli occhi prese a guardarsi in giro per la stanza, studiando le facce degli altri con quella sospettosità maniacale tipica della pura paranoia incipiente, di quella che ti riduce in briciolo i nervi in pochi secondi. I capelli e i peli gli s’erano rizzati per tutto il corpo e sembrò che si potesse quasi sentire il rumore del suo equilibrio psichico che si incrinava paurosamente.

‘Tre, due, uno…’ iniziò a contare mentalmente Danny.

«Ma voi non lo direte a nessuno, è chiaro!» esplose Justin, praticamente gridando, e scrosciando allo stesso tempo in una risata forzata e isterica che gli rompeva le parole a metà. «Certo che no! Siamo complici, giusto? Siamo tutti dentro a questa storia, quindi nessuno qui farebbe la spia sugli altri, è logico! Anzi, avete sentito tutti, sì, lo sapete benissimo che non l’ho davvero scritta io quell’e-mail, no. Si potrebbe dire che praticamente mi ha costretto a farlo. Era una situazione disperata, non ero del tutto lucido e…»

«Justin!» tuonò Yuta; e per quanto il suo tono e il suo viso fossero lividi di cupa autorità, il suo gesto apparve agli altri molto misericordioso. «Piantala! Nessuno ha scritto niente qui, fine.»

Justin la fissò per qualche istante, incerto, insicuro, come se non avesse più idea di che cosa stesse succedendo né di dove si trovava. «Giusto…» mormorò infine, tremando ancora «Giusto… Nessuno ha scritto niente… Nessuno… proprio nessuno…» e fece un debole risolino storto.

Danny sospirò appena, e assestò una pacca che voleva essere confortante sulla spalla del suo ex – o forse ancora attuale – coinquilino, il quale reagì tuttavia con uno scatto incontrollato di allarme, come se avesse presentito che qualcuno stava tentando di accoltellarlo alle spalle. Danny rinunciò ai suoi propositi consolatori, riconoscendo che non aveva idea di come metterli in pratica, al momento.

«Justin… » esordì il Conte, alzandosi in piedi con la sua solita eleganza di modi, ordinando con pochi gesti un po’ svolazzanti i lunghi abiti integri che aveva indossato fin da quando era tornato dalla sua speciale, e perlopiù incosciente, spedizione, e che rappresentavano comunque solo un quinto della totale quantità di vestiario che aveva portato con sé. «Ti dispiacerebbe venire con me in soffitta, ora? Mi rendo conto di avanzare con questo una richiesta di collaborazione molto importante, ma ti sarei molto grato se tu volessi aiutarmi ancora una volta nel riordinare le pagine dei miei appunti e delle mie memorie. Si tratta di un lavoro che richiede un impegno e una responsabilità notevoli, come tu già ben sai, ed avendolo tu eseguito ottimamente in questi ultimi giorni, sono certo di poter dire che non lo chiederei a nessun’altro se non alla tua persona.»

Justin fissò l’altro con sguardo ancora vacuo. «Sì… va bene… » asserì, per poi avviarsi dietro al Conte a passi strascicati, come se avesse chili di pietra legati alle caviglie.

«E’ stato un raro piacere intrattenermi con voi in questa conversazione, amici e amiche. Sarò felice di poterla replicare nelle prossime ore. Ora, però, scusatemi, ma considerata l’ora, mi aspettano ore di lungo, appassionato e impegnato lavoro sui miei scritti.» si accomiatò il Conte, con un abbozzo di cortese inchino rivolto a tutti i presenti in cucina.

«Buon lavoro, alla prossima.» salutò Ramo, da parte di tutti, mentre Yuta ci aggiungeva un cenno della testa.

«Danny, mi ha fatto estremamente piacere rivederti, e posso dire che hai un aspetto sempre migliore ogni volta che ti rivedo. Sono molto lieto che tu ti stia riprendendo così vigorosamente.» disse ancora il Conte.

Danny annuì. «Già.» disse solo, con un leggero sorriso amichevole. «Grazie.»

Il Conte rispose con un breve svolazzo della mano che il ragazzo non fu sicuro di poter bene interpretare, anche se assomigliava a quel modo in cui solevano salutare certe persone di corte in epoche passate, qualcosa che aveva a che fare con una sorta di affettata parsimonia nell’ampiezza dei gesti. Poi uscì dalla stanza, con Justin che si strascicava dietro di lui, mostrando di contro una completa assenza di eleganza.

«A proposito…» fece Danny, essendogli venuto in mente solo in quel momento, e proseguì abbastanza in fretta da impedire a Kumals di intromettersi con qualcosa come ‘A proposito di che cosa?’, perché effettivamente lo aveva detto con senso esclusivamente di forma. «E quell’uomo che ci eravamo portati dietro? Quello con la gamba rotta, quello che avevamo...»

«Oh, lui!» fece Kumals, frettolosamente. Pochi degli altri compresero immediatamente che aveva interrotto Danny appositamente per impedirgli di pronunciare il nome di Foelm e di quello che là era successo, per evitargli eccessiva vicinanza con quel ricordo doloroso. «Mah, ieri si sentiva abbastanza bene da affrontare il viaggio, così Valentine e Ramo lo hanno accompagnato in auto all’ospedale di Castle Mac’Hearty.»

«Hem… più propriamente… abbiamo dovuto farlo scendere vicino ad una fermata dell’autobus… c’è una grande confusione a Castle Mac’Hearty ora… un sacco di gente confusa, le autorità che stanno gestendo tutta la fase di “recupero” da questi giorni per evitare il più possibile scenate da panico di massa… roba del genere…» spiegò Ramo.

Danny lo guardò. «Già, mi immagino. È sempre curioso vedere come certe persone siano così ingegnose e generose nel procurare ‘situazioni da panico di massa’ e poi nell’auto-proclamarsi coloro che sono preposte ad evitare questo ‘panico di massa’…» iniziò, ma poi, mentre forse era nel bel mezzo di una riflessione potenzialmente più ampia, un odore gli colpì le narici. Non lo avrebbe potuto confondere con quello di nessun’altro al mondo, anche se, è giusto dirlo, il suo fumare occasionalmente qualche sigaretta tendeva ad appannare un po’ la potenza del suo fiuto lupesco.

Era un odore che aleggiava per tutta la casa, come quello degli altri che ci vivevano in quei giorni, ma per lui risaltava in maniera completamente diversa; inoltre, questa volta era più intenso, segno che la fonte d’esso si stava probabilmente avvicinando. Non per niente, di lì a pochi secondi anche gli altri riuscirono a sentire bene i rumori dei passi che si appressavano alla porta della cucina.

La sagoma si stagliò sulla soglia, trovando la stanza improvvisamente sprofondata nel silenzio generale; abbozzò un sorriso un po’ stanco e un po’ nervoso. «Beh? Perché vi siete zittiti all’improvviso…» ma si interruppe repentinamente, quando i suoi occhi, che stavano individuando una ad una tutte le ben conosciute facce, si fermarono su quella di una di esse in particolare. Fissò Danny per alcuni secondi, che parvero immensamente lunghi. Poi, come se fosse assolutamente normale, o come se fosse risultata in quel momento la cosa più normale da fare, girò su se stessa e se ne andò senza aggiungere altro, lasciando dietro di sé solo un vago odore di bagno schiuma e il baluginio di corti capelli bluette.

Nella cucina di nuovo immobile e silenziosa passarono altri lunghi secondi, trapuntati con leggero tatto da qualche occhiata incerta che alcuni degli astanti stavano iniziando a scambiarsi circospettamente. Poi Danny si alzò in piedi, forse con eccessiva energia rispetto alla sua attuale confidenza col concetto di stare in posizione eretta e camminare, perché in effetti trovò il modo di incespicare due o tre volte nello spazio di un metro prima di riuscire a imboccare una sequenza di passi che gli permettessero di uscire dalla cucina senza lasciarsi dietro troppo della sua dignità.

Dopo qualche altro momento di silenzio compatto, si udì un compassato sospiro. «Ah… gli innamorati… » commentò Kumals, con fare divertito.

Yuta lo guardò di sbieco. «Dio… quanto sei vecchio.» commentò, con rassegnazione.

Kumals si accigliò, e sul serio stavolta, nell’udire ciò; e si accigliò ancora di più quando realizzò che Ramo e Zoal, dopo essersi scambiati tra loro una breve occhiata, erano scoppiati a ridere, sommessamente ma comunque di gusto, e Valentine faceva di tutto per non guardare nella sua direzione e per non sfociare oltre il suo trattenere un largo sorrisetto.

Ritorna all'indice


Capitolo 64
*** 62 - CHE SIA VETRO CHE SIA LUNA ***


62%20-%20CHE%20SIA%20VETRO%20CHE%20SIA%20LUNA.html

Capitolo 62

(CHE SIA VETRO, CHE SIA LUNA)

«Hey… aspetta… per favore… ».

Il richiamo risultò in tono basso, incerto, come se dubitasse di poter parlare in quel modo, ma urgente e piuttosto implorante. E lei seppe di nuovo come solo certe persone e in certi particolari momenti sono capaci di esprimere una richiesta così aperta e visceralmente indifesa senza suonare nel contempo striscianti e privi di dignità.

Non riuscì a determinare chiaramente cosa volesse realmente fare, cosa pensava che fosse giusto fare; la sua testa, al momento, era una confusione totale di diversi pensieri e potenziali reazioni che si rincorrevano. Un principio di lacerazione, dovuta al fatto di sentirsi tirata tra il proposito di fermarsi e voltarsi immediatamente e quello di ignorarlo e continuare a camminare fino a raggiungere una stanza in cui chiudersi dentro, iniziava a farle sentire un dolore anche fisico.

In un certo senso, furono i suoi piedi a scegliere per lei; come se quelle parole avessero influito direttamente su di essi, rallentarono e, terminati i gradini della scala che aveva appena salito, finirono per fermarsi pochi passi più oltre, in quel tratto di corridoio che sporgeva sulla scala da un lato, e che dall’altro contemplava la porta della stanza di Yuta.

Udì i passi dietro di lei che salivano i gradini, sforzandosi di risultare utili ad un buon ritmo di camminata, nonostante fossero evidentemente affaticati, quasi recalcitranti.

Andrea si voltò di scatto, in modo quasi aggressivo, a fronteggiarlo. E Danny si fermò di botto, rischiando di inciampare negli ultimi due gradini. Solo allora la ragazza realizzò due cose che assolutamente non aveva previsto: che il motivo per cui lui strascicava quasi i passi nel seguirla non era tanto perché doveva ancora riprendersi del tutto dalla convalescenza, quanto perché al momento aveva una paura terribile; e poi, che lei si sentiva così tremendamente arrabbiata che rischiava di finire per sorvolare completamente la fase in cui se la doveva prendere a morte con lui, per passare direttamente a piangere in maniera stupidamente disperata e assolutamente senza motivo. Non un motivo che fosse facile chiarire, perlomeno.

Mentre Danny la guardava, con sgomento, paura e aperta disponibilità a farsi maltrattare in qualsiasi modo, come se gli fosse chiaro che era perfettamente normale che lei ce l’avesse con lui, Andrea lo odiò. Per un incisivo, brevissimo e conciso istante lo odiò, e si ritrovò ad odiare se stessa nel contempo; fu anche lo stesso istante in cui fu seriamente sul punto di scoppiare a piangere e di rifilargli una spinta sufficiente ad allontanarlo da sé e forse a mandarlo a rotolare giù per le scale. Ebbe la vivida impressione che lui non avrebbe fatto alcuna resistenza: aveva decisamente l’aria di chi crede di meritarsi di tutto. Soprattutto, Andrea trovava insopportabile il modo in cui stava lì ad aspettare che fosse lei a fare qualcosa, qualsiasi cosa, mentre lui se ne restava lì in balia di un’attesa spaventata.

Però, poi, lentamente, si rese conto che le parole lei le aveva in quel momento: parole giuste e chiare, perfettamente lucide. Non se ne rese conto se non mentre ascoltava la sua stessa voce che le pronunciava nel silenzio immenso che s’era creato nel corridoio.

«E’ il momento sbagliato per avere paura, questo. Avresti dovuto averne quando rischiavi di essere ammazzato dai proiettili del cecchino.» mormorò. Il suo stesso tono la fece rabbrividire. Non sembrava nemmeno lei a parlare, tanto risuonava fredda la sua voce; in completo contrasto con le brucianti emozioni di rabbia e di altro che stavano battagliando una complicata e disastrosa tempesta dentro di lei.

Niente a che vedere, comunque, con gli occhi con cui la stava guardando Danny. Anche là dentro c’era una tempesta coi fiocchi. Ma la cosa che le faceva più male, era che lui sembrava molto più avvezzo alle tempeste piuttosto che ad una almeno discreta calma. Tuttavia, la fissavano come se credessero fermamente in quello che lei stava dicendo; o meglio, come se sapessero benissimo che in qualche modo lei aveva perfettamente ragione.

«Ma tu non ne avevi… ». Alla fine le parole le si districarono da quel punto imprecisato della gola in cui erano rimaste disgraziatamente impigliate, e lei riuscì a cavarle fuori, in un sussurro fragile come ghiaccio sottile che va incrinandosi con tediosa lentezza. Sembrarono così impalpabili, eppure così appuntite, da potersi infilare direttamente negli occhi di Danny, come spilli torturanti. Solo allora Andrea realizzò che stava già facendo qualcosa per cui si sarebbe odiata: lo stava accusando di qualcosa di molto più grave di quello che una persona può fare; lo stava accusando di quello che era.

La ragazza si portò una mano alle labbra, senza quasi accorgersene, come se si fosse resa conto di aver fatto qualcosa di terribile. Solo allora le pupille di Danny saettarono brevemente, cogliendo il gesto; si mosse con molta calma e lentezza, ma con determinazione: con una mano intercettò quella di Andrea prima che lei potesse portarsela davanti alla bocca in quel gesto di pentimento. Le strinse le dita nelle sue, dolente.

Quando Andrea si rese conto che quel gesto lo aveva compiuto col braccio ferito, e che doveva essergli appena costato un notevole dolore, le si bagnarono gli occhi nel realizzare che a lui era importato così tanto di prenderle la mano da dimenticarsi e forse quasi non sentire il dolore della ferita. Lasciando che alcune lacrime le scorressero sulle guance, senza dar loro molto peso o cura, ristrinse le dita in risposta alla sua stretta, brevemente, poi sciolse la mano dalla sua, e lo riguardò negli occhi, distogliendosi dall’osservare la fasciatura che gonfiava gli abiti del ragazzo in corrispondenza della spalla.

«Vieni.» gli mormorò dopo un poco, passandosi il dorso di una mano sulla guancia, per asciugarsi distrattamente l’umido delle lacrime. «Devo farti vedere una cosa.»

E così detto, si voltò e si incamminò verso la stanza di Yuta. Nonostante tutta la sua determinazione, si sentì tranquilla solo quando sentì i passi di Danny che, lentamente ma meno tormentosamente, la seguivano.

*

***

*

Il rumore della pagina che veniva voltata fece un leggero fruscio di carta consumata; risuonò nel silenzio attutito, tranquillo, della camera da letto.

La mano del braccio sano di Danny prese ubbidientemente il bordo della pagina, dopo una lieve e timida esitazione; Andrea glielo affidò tranquillamente, affinché finisse lui di voltare la pagina. I suoi occhi nocciola erano già poco dopo concentrati sulle facciate che si erano in quel modo rivelate.

Danny concesse una cura particolare alla sistemazione della pagina voltata, come se stesse toccando una specie di cosa molto delicata. Dopodiché, senza rendersene conto né farsene un problema, si incantò ad osservare il volto concentrato eppure rilassato di Andrea. Rimase completamente ignaro di quanto farlo avesse una forte sensazione balsamicamente calmante e spontaneamente familiare. O forse in fondo credeva che si trattasse semplicemente dell’odore di lei.

Per il suo fiuto particolarmente sviluppato, il fatto che al momento si trovassero molto vicini, seduti fianco a fianco sul letto con le schiene appoggiate contro la spalliera dello stesso, rendeva scontato - ragionevolmente riflettendo - che fosse ciò che sentiva più fortemente di qualsiasi altro sentore nella stanza. L’odore di lei si mischiava poi, in maniera stranamente complementare, con quello del grosso libro che Andrea teneva sulle ginocchia sue e di Danny, in mezzo a loro. Ad ogni pagina voltata, l’esalazione di carta di libro vecchio e di qualche elemento chimico e un po’ plastificato tipico di foto pareva fare coro e diventare un tutt’uno con la concentrata contemplazione della ragazza.

Danny si mosse appena, quasi involontariamente, per l’impazienza. Ad ogni nuova immagine – e ce n’erano in genere ben cinque o sei per ogni nuova coppia di facciate – lo assaliva una cospicua curiosità. Veniva lasciata puntualmente indietro dal soffermarsi di lui ad osservare l’espressione di Andrea; ma poi risaliva, prendeva corposità e lo angustiava fastidiosamente. Gli ricordava di quei giorni in cui viveva completamente libero e solo nelle foreste, e ogni minimo odore di paese gli suggeriva una moltitudine di cose dalle quali si sentiva escluso e richiamato allo stesso tempo. Mai, a differenza di questa volta, aveva desiderato così profondamente di farne parte in maniera indissolubile.

Andrea si accorse del suo leggero movimento un po’ nervoso, a giudicare dal rapido spostarsi delle sue pupille in diagonale, per poi tornare rapide su carta. Un piccolo sorriso dolcemente partecipe sulle labbra però la tradiva, come un dispetto giocoso. Tratta dal suo rapimento, comunque, si decise a riprendere la voce con calma.

«Qui…» iniziò, accompagnandosi con un dito puntato sul bordo di una delle foto «…eravamo di nuovo in viaggio, io e mia madre.». Voltò la testa a guardare Danny, ritrovandosi contraccambiata da uno sguardo impegnato in una seria attenzione. «Lei adora viaggiare. È più in giro che a casa. E non manca di trascinarmi con sé ogni volta che glielo permetto.» spiegò.

Danny annuì. Quello glielo aveva in parte già detto, qualche foto più in là; non aveva punto idea del perché gli interessasse così tanto dimostrare di essere stato molto attento. Ma il modo in cui lei gli sorrise, con un misto di gratitudine e sorta di affettuoso riconoscimento, lo colmò di una profonda soddisfazione.

Andrea sembrò imporsi con piglio pratico di riportare lo sguardo sull’immagine che stava indicando; scostò il dito e riprese a raccontare. Diceva tutto ciò che le veniva in mente a riguardo dell’esperienza e/o della persona che aveva immortalato nella foto di cui stava parlando. Su alcune era più che esaustiva: ricordava molti momenti e particolare, spesso solo apparentemente scollegati o in disaccordo tra di loro. Si sarebbe detto che avesse una memoria notevole, non di quel tipo… appunto… ‘da fotografia’. Bensì, era come se potesse rievocare con scioltezza le sensazioni di quelle esperienze. Dava l’impressione di essere sempre stata molto viva e vitale, in quasi ogni momento; per Danny era qualcosa di strabiliante e impressionante. Tuttavia, non gli sfuggiva il modo in cui, qui e là, lasciava volontariamente il silenzio o un accenno leggero su alcune cose. Evidentemente, teneva alcune cose per sé. Ma lo lasciava di stucco anche quello: la naturalezza con cui era in grado di variegare il grado di confidenze e rivelazioni, di misurarne a propria volontà la profondità, l’estensione, la ricchezza di particolari. Era un disvelarsi colorato e misurato, non certo a lama, bianco o nero.

Qualche volta diventava comunque particolarmente intenso, sofferto o ricco di un entusiasmo vivace, divertito o annoiato, e così via. Ed erano quelli in cui il suono della voce di lei, le parole, il tono, la rapidità del parlare lo incantavano perdutamente; gli lasciava sentire tutto quanto. Non aveva idea del perché o percome lo stesse facendo, ma soprattutto ne era enormemente stupito. Solo dopo altro tempo passato in quel modo lo colse la sensazione che si trattasse di un muto invito, offerto senza condizioni. Allora, Danny iniziò a cercare in sé il modo di coglierlo e andarvi incontro, corrispondendo al desiderio di contraccambiarlo.

Come se si fosse accorta di un mutamento improvviso nella stanza, Andrea finì lentamente la storia che stava raccontando. Poi, lentamente, come se avesse la mente altrove, raccolse piano la parte di libro che giaceva appoggiata sulla gamba di Danny, e lo chiuse. Si voltò a guardarlo, contraccambiandogli lo sguardo per un momento in completo silenzio. Poi, sul suo viso sorse una smorfia tra il divertito e l’imbarazzato; le spuntò appena la lingua tra i denti, in una linguaccia a se stessa.

«Beh, sei ancora sveglio, nonostante tutte questi racconti.» fece notare.

Danny parlò senza pensare. «Sono sempre stato qui.» il suo tono basso era da solo un sigillo di garanzia.

Per un momento Andrea lo fissò come se cercasse il modo di non credergli; come non trovandolo, lasciò perdere, scosse lievemente la testa, e, lo sguardo abbassato, mormorò «Lo so.»

Anche il ragazzo sapeva che lei ne era ben consapevole. Aveva la precisa idea che, se in un qualsiasi momento Andrea avesse sentito che lui era altrove, e aveva pure l’insidiosa consapevolezza che se ne sarebbe accorta immediatamente, si sarebbe azzittita. Avrebbe semplicemente lasciato perdere il tutto, e in qualche modo se ne sarebbe andata, per lasciarlo in pace. E lui non voleva che lo lasciasse in pace; ma non voleva nemmeno più metterla nella condizione di doverlo tormentare.

Danny socchiuse gli occhi per un momento; sospirò e si appoggiò maggiormente alla parete alle sue spalle. Il suo respiro profondo suggeriva un complicato tentativo di lasciarsi andare. Il punto, scopriva tra sé e sé, era che non aveva la più pallida idea di come si faceva, né da dove iniziare. Iniziare cosa, poi, era un mistero ancora maggiore. Aveva la sensazione di saperlo, in qualche modo, come doveva fare.

Anche Andrea si mosse, di fianco a lui, dando tuttavia l’impressione di leggerezza di chi si mette semplicemente più comodo, e teme allo stesso tempo di poter essere invadente. Questo modo di fare gli fece voltare il viso verso di lei, incuriosito e un po’ divertito. Emise una lieve risata, come se stesse dando degli sciocchi ad entrambi, e lei considerò quel gesto come una specie di permesso forse, perché si riaccomodò meglio, stavolta per stargli più vicino.

Poi, mentre ancora la guardava negli occhi, trovò in quelle stesse pupille le parole che gli mancavano, in qualche strano modo che non si sarebbe poi mai più potuto spiegare chiaramente. «Avevo… sedici anni circa… quando sono diventato un lupo. Prima ero un ragazzo scappato di casa e basta.».

Tacque. Per un momento gli era vividamente sembrato di stare parlando di qualcun altro. Non comprendeva tutta quella distanza tra sé e ciò che stava dicendo; ma forse era per via di tutti i passi che aveva poggiato sul terreno di mezzo. Era molto distante, anche se aveva la vividezza di un ricordo netto.

«Perché eri scappato di casa…? » domandò piano Andrea.

Lui si riprese da quella specie di assorta constatazione di distanze, e la guardò con sguardo limpido, attraversato solo per un momento dal nebuloso proposito di sottrarsi immediatamente; ci passò di mezzo e lo superò. Distolse lo sguardo senza fretta e lo posò sulle loro gambe appoggiate tra di loro, in parte sovrapposte.

Alzò le spalle e un lieve sorriso amaro gli incurvò le labbra. Quello sembrava ancora più lontano, come se non gli appartenesse. «Di tutte le case che ho avuto… » mormorò semplicemente «…quella in cui sono nato non era tra quelle.»

La ragazza annuì, dando insieme l’impressione di aver compreso e gettando tra loro l’invito a proseguire.

Danny tornò a guardarla per un momento, e gli sfuggì un leggero sorriso. Sembrava che il peggio fosse scivolato oltre, persino con un’ombra scura e ingombrante che gli si parava davanti, sulla scia della successiva parte della storia. La scansò con decisione.

«Ti racconterò come è successo, una di queste volte… E’ una storia lunga.»

Andrea accennò di nuovo un assenso.

«Poi… beh… » di nuovo Danny sorrise appena, più che altro a se stesso. «Che fosse vetro o luna, ho sempre seguito qualche traccia sul momento. Perlopiù ho vagato tra boschi e boschi, specialmente sulle montagne, quasi sempre da solo. Ero in forma di lupo, per la maggior parte del tempo. All’inizio mi trasformavo in essere umano per farmi un giro in qualche paese o città; ma era solo noioso e irritante la maggior parte delle volte. Mi dava nausea e vuoto. Quindi tornavo nei boschi. Alla fine vivevo quasi solo là allora. Non stavo fermo mai molto a lungo nello stesso posto. A volte perché c’era di mezzo qualche intoppo. Altre volte semplicemente mi andava di cambiare aria. Finché… »

Un sorriso diverso gli prese le labbra. E quando si voltò verso di lei i suoi occhi avevano un bagliore di pura e vivace complicità. «Finché una notte, sulla strada di un paese in cui ero andato per prendere qualche animale allevato dalla gente perché era inverno e c’erano poche e difficili prede in giro, mi sono ritrovato a scappare da una moltitudine di persone seriamente incazzate. Mi volevano fare la pelle, indubbiamente. Mi stavo persino divertendo abbastanza; capisci, ero sicuro che li avrei seminati senza alcun problema. E mi ritrovo parati davanti questi due deficienti… »

La voce gli fu improvvisamente spezzata da una risata cristallina. Poi notò lo sguardo perplesso e vagamente interrogativo di Andrea.

«Beh… erano Kumals ed Uther.» spiegò Danny, con un vivo orgoglio nella voce. Poi, come preso da un’idea tutta sua, si portò le mani su un fianco, prese la maglia e, salvo sussultare per il dolore della recente ferita riacceso dal suo movimento fin troppo fiduciosamente agile, se la sollevò quel tanto che bastava per mostrare un segno più chiaro sulla pelle.

Andrea osservò la cicatrice, anche se non la vedeva per la prima volta, spalancando gli occhi colpita. Non che la cicatrice fosse particolarmente brutta, anche se era evidente che era guarita senza cure mediche che prevedessero strumenti chirurgici di qualche tipo.

«E mi hanno pure sparato.» fece Danny, sghignazzando con un certo spavaldo divertimento.

La ragazza rialzò il viso verso di lui con aria spaesata e incredula, praticamente orrorificata. Il sorriso sparì pressoché completamente dal volto di Danny, mentre un eco di qualche ramanzina sull’uso delle armi gli tornava immediatamente alla mente, come un chiaro avvertimento.

«Ah! Ma…» e si ritirò prontamente giù la maglia «…era per via del fatto che io stavo quasi per aggredirli. Sai, mi stavano proprio in mezzo alla strada, alla mia via di fuga, e così…». La sua voce andò smorzandosi, mentre Andrea allungava le mani e gli tirava di nuovo su la maglia, guardando la cicatrice con grande severità.

La porta della stanza si aprì di getto, e la voce di Yuta precipitò dentro con irritata decisione. «Ti ho già detto che non ho idea di come sia possibile che Justin sia riuscito a farlo. In ogni caso, il fatto che tu ad ogni piè sospinto faccia di tutto per terrorizzarlo non…. Oh! Ops! Scusate!». E così dicendo, Yuta interruppe precipitosamente il suo discorso, e, distolto rapidamente lo sguardo dall’interno della stanza si rifece indietro altrettanto rapidamente, richiudendo la porta. Il fatto che nel farlo fosse andata a sbattere brutalmente contro Kumals che la stava seguendo e, forse, anche ascoltando, non sembrò costituire per lei alcun problema. Anzi, a giudicare dal modo in cui lo sospinse via senza sforzo né cura, poteva essere che per lei rappresentasse una scusa per imporsi senza spiegazioni.

Ma quando Yuta incrociò lo sguardo particolarmente interessato e malizioso di Kumals, si sarebbe volentieri raccomandata a qualche anima pia.

Un sorrisetto incurvò l’espressione già prima predisposta al dispetto di Kumals. «Che cosa c’è là dentro?»

Yuta si parò con decisione tra la porta e l’uomo, incrociando le braccia davanti a sé e sfidandolo con aria divertita. «Nulla che ti riguardi. Ti ricordo che è la mia stanza.» disse, modulando la voce in un assaggio di motteggio. La sua aria soddisfatta fu messa però a repentaglio dal fatto che Kumals, dopo un istante di valutazione di quale strategia adottare, si fosse posizionato di fronte a lei imitando la sua posizione in tutto e per tutto. Aveva tutte le intenzioni di raccogliere la sfida.

«Ma stavamo andando a prendere una delle piantine. Dobbiamo finire di controllare la zona d’azione di quella macchina. Per saperne di più. In modo che poi… »

«In modo che poi tu possa trattenere tutti per ore con un comizio su… »

«Una riunione.» corresse Kumals.

«Un comizio… » insistette Yuta «…su quello che è successo e su come sei stato eroico e intelligente, su come hai capito tutto e…»

In quella si udì distintamente provenire dalla serratura della porta della stanza alle spalle di Yuta la chiave che girava un paio di volte, chiudendo. Il corridoio sprofondò in un denso silenzio.

Lentamente, Yuta si voltò verso la porta, le braccia ancora incrociate, e un’espressione di pietra, che andava sgretolandosi in una cospicua e per buona parte ancora incredula indignazione.

«Oh…» cinguettò Kumals alle sue spalle. «Si direbbe che abbiano chiuso la porta della tua stanza… si direbbe che si siano chiusi dentro la tua stanza… che ti abbiano chiusa fuo…». Però, qualcosa nel modo in cui Yuta non lo stava degnando di alcuna attenzione, e di come la sua posa fosse rigida eppure in qualche modo pregna di qualche crescente sentimento di collera, tolse alle parole molto del loro potenziale.

Kumals decise prontamente di lasciare perdere. Diede una piccola alzata di spalle, e si concesse un certo stile nel provvedere ad un’adeguata ritirata. «D’accordo… vedo che sei occupata…»

Ci ripensò su un momento, e decise di proseguire lungo il corridoio verso una determinata porta. «Penso proprio che andrò a scambiare quattro chiacchiere con Uther!» annunciò ottimisticamente.

Stava per raggiungere la porta della stanza dove giaceva Uther, quando un rumore di piedi rapidi e nudi sul pavimento interno della stanza si udì distintamente venirgli incontro; Kumals esitò brevemente, e in quello scarso ma decisivo lasso di tempo si udì la chiave che girava nella toppa.

Mentre Kumals rimaneva immobile a fissare la porta chiusa davanti a lui, risuonarono di nuovo i passi dall’altra parte, che tornavano lentamente al letto da cui erano provenuti, quasi ostentassero una notevole calma.

Dopo lunghi secondi di immobilità, Kumals voltò la testa lungo il corridoio. Yuta lo stava guardando con espressione indecifrabile. L’uomo si riscosse e, cercando di darsi un tono, con plateale nonchalance e aria riflessiva si trasse il pacchetto di tabacco dalla tasca e iniziò a farsi su una sigaretta. «A mia opinione, qui la situazione sta degenerando.» osservò con i modi di un dottore di illuminata fama che si esprime in un’analisi modestamente consapevole di essere completamente corretta e autorevole.

Yuta si portò le mani alla pancia e scoppiò a ridere talmente forte da far risuonare tutta la casa di una frizzante ilarità vittoriosa.

Note dello scribacchiatore: ebbene, il titolo m’è uscito così. ‘A caso’ suggerisce qualcuno. Non proprio. Qualche motivo c’è. Forse è solo l’immagine del vetro abbinata alla lente di una macchina fotografica (a richiamare il personaggio di Andrea) e quella della luna abbinata chiaramente alla natura di Danny. Vabbhé dai, non facciamola lunga. Al prossimo capitolo!

Ritorna all'indice


Capitolo 65
*** 63 - A CARTE SCOPERTE - parte I ***


Capitolo 63

(A CARTE SCOPERTE – parte I)

 

Un leggero bussare alla porta sottrasse Uther dai suoi pensieri di dormiveglia. Si svegliò del tutto, trovandosi a fissare senza particolare curiosità il muro contro il quale stava il letto che raramente aveva abbandonato negli ultimi giorni; si rigirò la saliva in bocca e riemerse del tutto e controvoglia dal sonno per chiedersi chi fosse. Tuttavia, non disse nulla, finché non udì un secondo gentile bussare, e una voce chiamarlo piano, con rispettoso timore di disturbare. Uther mosse appena un angolo delle labbra, ma il sorriso morì prima di esprimersi, e si ritrovò a dire un incolore ‘Avanti’ automatico.

Ramo aprì la porta e gettò una cauta occhiata all’interno della stanza, come se temesse lo scatto di qualche trabocchetto; a quanto pareva, però, tutto ciò che c’era da constatare era la solita camera preda di un disordine vissuto, e un Uther sdraiato su un fianco su uno dei letti, che girava le spalle al resto della stanza e forse – ammesso che avesse gli occhi aperti – guardava il muro come se non avesse assolutamente di meglio da fare.

Ramo si schiarì la voce, ma visto che non proveniva alcuna reazione dal ragazzo allettato, aggiunse un incerto «Hem… posso entrare? »

Osservando attentamente Uther, lo vide accennare un movimento della testa nella sua direzione «Certo.»

Ramo entrò, e aveva appena sorpassato la soglia che Uther aggiunse di chiudere la porta. Il suo tono era particolarmente piatto, ma non era una novità per Ramo, che lo aveva assistito negli ultimi giorni da buon ‘infermiere veterinario’, come lo chiamava affabilmente Kumals quando gli chiedeva come stavano ‘i pazienti’. Inizialmente l’appellativo comprendeva anche Danny. Ma quest’ultimo, in quanto lupo mannaro o sorta di tale, benché ridotto molto peggio di tutti loro, si era anche naturalmente rimesso molto più velocemente.

Ramo chiuse la porta e trattenne un sospiro, poi si avvicinò al letto sempre camminando piano, come se qualcosa gli suggerisse che, benché sveglio, Uther poteva essere disturbato come se stesse dormendo. Rimase in piedi di fianco al letto fissando la sagoma sdraiata, completamente incerto sul da farsi. Qualche altra volta prima d’allora aveva visto Uther in una versione rabbuiata e scostante. Tuttavia, di solito c’erano due grandi differenze. Prima di tutto solitamente c’era qualcosa per cui essere rabbuiati, mentre quelle erano teoricamente le ore in cui ‘tutto era passato e finito’, e si era concluso abbastanza bene. A parte per qualche incidente di percorso, che semmai avrebbe dovuto pesare maggiormente su Danny, ad esempio per via di quello che era accaduto a Foelm. In secondo luogo, di solito Uther era attento a portare lontano dagli altri quel suo stato d’animo, ovvero si isolava, andandosene a fare un giro da solo per qualche ora. Qualche ora, appunto. Invece, da quando erano tornati alla casa tutti sani e salvi, Uther si manteneva in quello stato assente e triste.

«Beh?»

Ramo si concentrò sulla versione viva e concreta dei suoi rimuginamenti. Uther aveva voltato la testa quel tanto che bastava per guardarlo.

«E’ l’ora del controllo medico?»

Ramo sospirò e si decise a sedersi sul bordo del letto. «Non esattamente.» tentennò.

Seppure lentamente, Uther si girò, si tirò a sedere, e lo guardò con più attenzione. «E’ successo qualcosa?» domandò, con un’ombra di allerta nella voce.

«No, no…» si affrettò a tranquillizzare Ramo. Esitò qualche altro secondo prima di continuare. «E’ solo che… Beh, è solo che Kumals dice che dovremmo tutti riunirci in cucina per fare il punto di quello che è successo e così via.» spiegò alla fine.

Come Ramo sospettava, Uther sembrò essere tutt’altro che entusiasta dell’idea. Emise un basso mugugno che apparentemente poteva significare qualsiasi cosa o anche niente. Poi si decise a dire «Interessante. Potete sempre aggiornarmi più tardi. Dopotutto, sono un convalescente.»

Ramo evitò accuratamente di dire quello che stava realmente pensando. Come ad esempio che in realtà ormai anche la ferita di striscio da proiettile di Uther si era rimessa abbastanza da non costituire più che un doloroso fastidio, che in ogni caso gli antidolorifici che gli somministrava tenevano adeguatamente a bada. O che, qualsiasi fosse il motivo per cui Uther stava facendo il possibile per rimanere tutto il tempo su quel letto, molto presto la scusa della convalescenza non sarebbe sembrata nemmeno appena valida quanto lo era ora.

«In ogni caso… ho anche una buona notizia.» proseguì invece Ramo, ignorando il pallore della vaga curiosità, insufficiente ad animare veramente il viso di Uther. Il ragazzo sfilò la mano da dentro il giubbotto, posizione nella quale era stato fino ad allora e della quale normalmente Uther si sarebbe immediatamente accorto, ed estrasse una bottiglia di birra. «Puoi ufficialmente tornare a bere.» annunciò, con un sorriso incoraggiante.

Uther fissò per qualche istante la bottiglia, lasciando Ramo in una sospesa e speranzosa attesa, quindi riuscì a tirare fuori una specie di leggero sorrisetto, e allungò una mano per prendere la bottiglia, rivolgendogli un cenno di ringraziamento. «Ottima notizia.» aggiunse, cercando di sottolineare la sua gratitudine.

«Questo vuol dire anche che puoi smettere di bere di nascosto e nascondere le bottiglie sotto al letto.» aggiunse Ramo, mentre apriva la birra con il suo apribottiglie attaccato al suo mazzo di chiavi.

Uther, ormai seduto piuttosto scioltamente accanto a lui, prese un sorso dalla bottiglia, e passandogliela annuì. «Ne terrò conto.» disse, accennando un rapido occhiolino.

Ramo sorrise più liberamente. Forse si era preoccupato eccessivamente, e dopotutto Uther aveva solo bisogno di un po’ più di tempo per riposarsi e per riprendersi. D’altro canto, non è che quei giorni fossero stati esattamente una sciocchezza da digerire.

«Credo che sarebbe meglio se ci fossi anche tu giù in cucina, per il momento delle chiarificazioni.» si azzardò quindi ad aggiungere Ramo, condividendo la birra con il suo ex-paziente d’eccezione. «Di solito la tua presenza evita un po’ che Kumals… beh… hum…»

«Che Kumals faccia troppo il gradasso?» domandò tranquillamente Uther, riprendendosi la bottiglia con un gesto di tranquilla abitudine.

«Beh, sì… qualcosa del genere.» rise Ramo.

«Humm…» rifletté Uther, rigirandosi il sorso di birra in bocca «E così ha mandato te a chiamarmi?»

«Sosteneva che quando cerca di entrare nella tua stanza ultimamente gli scagli oggetti addosso.» spiegò Ramo, occhieggiando sul pavimento vicino alla porta, dove in effetti c’erano alcuni oggetti che normalmente avrebbero dovuto trovarsi ovunque ma non su un pavimento.

Uther seguì il suo sguardo senza particolare interesse «Oh, ci sarà sicuramente un ottimo motivo perché succede così. Kumals sa essere particolarmente… magnetico.»

Ramo annuì comprensivamente, dando segno che la spiegazione era sufficiente per lui. Quindi non osò dire altro.

Solo dopo qualche minuto di passaggi di bottiglia e di un comune e silenzioso fissare la finestra, che dava su una giornata modestamente soleggiata da un pallido sole, udì Uther sospirare, e comprese che si era deciso a scendere dabbasso.

 

*

***

*

 

Danny si fece sulla soglia della porta aperta e si appoggiò con spalla e fianco allo stipite di solido legno, tipico della struttura piuttosto vecchia della casa. Appoggiato all’altro stipite, Kumals fumava placidamente una sigaretta e guardava fuori.

Nello spazio antistante la casa di Zoal e Yuta splendeva un pallido sole e spirava una leggera brezza appena tiepida. I due cavalli di Yuta e Zoal, la biancastra Raj e il rossiccio Wally, sembravano starsi godendo la compagnia, o perlomeno il gustoso banchetto. Yuta insegnava e faceva provare a due emozionate Andrea e Valentine come offrire ai due dei pezzi di mela a mano aperta, e come accarezzarli in tutta tranquillità.

Danny occhieggiò alla sua sinistra. Una decina di metri più in là, c’era una grande e vecchia poltrona di vimini, che era stata sistemata contro il muro esterno della casa. Su di essa, Zoal sedeva con riposante abbandono, avvolta in una serie di coperte e scialli. Il ragazzo si soffermò appena e con una certa apprensione sui suoi capelli, con il castano scuro e ramato di rosso solcato da ciocche grigie e bianche. La donna sembrava dormire, tuttavia la sua mano che non si fermava mai nella serie di carezze affettuose sul dorso del piccolo Duca che le dormiva acciambellato in grembo, e il fatto che di tanto in tanto le palpebre si alzassero per permetterle di sbirciare i cavalli e le altre, segnalavano che in fondo era sveglia. Ai suoi piedi dormiva Mama, mentre più in là Danza e Tirch erano impegnati a rincorrersi e giocare tra loro, lanciando di tanto qualche latrato di richiamo e provocazione.

Danny sorrise appena, specialmente quando il suo sguardo si soffermò a guardare Andrea. La ragazza rideva e si entusiasmava per ogni piccola cosa, dal solletico che la lingua dei cavalli le produceva sul palmo aperto della mano nel prendere in bocca i pezzi di mela che offriva loro, fino al fatto che i due animali fossero così invadenti nel cercare di avere altro cibo da lei e dalle altre. Il ragazzo si sentì invadere da un singolare stato di stupore. Eccola lì, una ragazza dalla vita fin’ora perfettamente comune, reduce dall’avere appena affrontato una manciata di giorni fitta di una lunga e stancante serie di eventi a dir poco fuori dal comune. Aveva ancora un polso fasciato dalla loro avventura a Foelm, più una piccola serie di varie escoriazioni e contusioni, e sicuramente un’accessoriata gamma di cose non visibili ancora da mandare giù, dal fatto di avere rischiato la vita diverse volte, dall’essere stata sequestrata da un demone, aver parlato con un albero, aver rischiato di essere sparata da un assassino mercenario, aver scorazzato su un treno preso in prestito, essere stata più volte sul punto di essere travolta da una folla di persone ridotte in una sorta di idiota zombismo, fino ad aver corso per la foresta aggrappata alla meno peggio alla schiena di un lupo. Ed ora, semplicemente, se ne stava lì a dare mangiare a dei cavalli e a scoprire il modo di comportarsi di quegli animali, come se si trovasse in una gita ad una fattoria didattica e tutto quello che avesse fatto in quei giorni fosse sperimentare una specie di vacanza nella natura. Certo, se stava appositamente cercando di far credere che non era stato dopotutto niente di così terribile tutto quello che era successo, vi riusciva davvero perfettamente. Ma Danny sospettava che fosse qualcosa di diverso, qualcosa che aveva a che fare con la sua personalità o con una sorta di sua caratteristica capacità di reagire e di riprendersi. Per un lungo momento desiderò che lei si accorgesse della sua presenza e che gli rivolgesse uno sguardo, anche senza sorridere, una qualsiasi espressione di conferma che effettivamente andava tutto bene, in qualche misterioso e assurdo modo, già, andava tutto bene.

Ma Andrea era effettivamente molto presa da Raj e Wally, e dalle chiacchiere con Yuta e Valentine. E lui, d’altra parte, non stava facendo niente per palesare la sua presenza. Avrebbe anzi potuto dubitare che persino Kumals si fosse accorto di lui, a giudicare dal fatto che l’uomo non aveva mostrato nessuna reazione al suo arrivo. Questo però non lo stupiva particolarmente: in parte per via del modo di fare di Kumals, e in parte per via del fatto che ultimamente l’uomo sembrava cercare di evitarlo con pacata testardaggine, pressappoco da quando era venuto nella sua stanza e gli aveva parlato di Uther. Era già tanto, dopotutto, che Kumals si trovasse ancora lì dov’era di fianco a lui, e che non fosse andato a trovare qualcosa di cui occuparsi per scusare il suo evitare la sua vicinanza. Probabilmente però rivolgergli la parola era qualcosa che ancora gli risultava troppo complicato.

«Come sta… effettivamente intendo… Zoal?» si decise infine a chiedergli Danny.

Kumals gli lanciò un’occhiata rapida con la coda dell’occhio, e sembrò per qualche motivo sorpreso. Sospirò appena, rivolgendo un lungo sguardo alla donna seduta sulla sua sedia, forse chiedendosi se da lì poteva sentire e capire le loro parole. «Ha dovuto sostenere un grosso sforzo. Non era nemmeno scontato che riuscisse effettivamente a sostenerlo, in effetti. Concentrare così tanta energia magica in un corpo umano è un lavoro notevole e pericoloso. L’ha molto stancata, ha consumato buona parte delle sue energie vitali. Però Zoal è forte, come tu ben sai. E tutto considerato, penso proprio che possiamo stare tranquilli. Le occorrerà molto riposo per diverso tempo, ma continuerà lentamente a rimettersi. Forse non tornerà esattamente come prima, anche se è presto per dirlo. Ma al peggio, forse le rimarrà qualche segno abbastanza trascurabile. Credo che i suoi capelli non torneranno più tutti del loro colore originale. Un po’ come quelle persone che hanno subito un forte shock traumatico. Ma per il resto, credo proprio che si rimetterà praticamente del tutto.»

Seguì un breve ma concentrato silenzio da parte di Danny, prima che chiedesse «Ha rischiato la vita?»

Stavolta sentì chiaramente lo stupore di Kumals, e un pizzico di contrarietà forse.

«E’ strano sentirlo chiedere proprio da te, e con quel tono preoccupato. Se non sbaglio, eri proprio tu, o qualcuno che perlomeno ti assomigliava davvero moltissimo, che è corso di fronte ad un killer professionista, offrendosi come bersaglio di massima semplicità, e si è fatto sparare abbastanza seriamente da poter essere ucciso, oltre a rischiare di essere direttamente freddato sul posto.»

Il tono era di quelli che Kumals cavava fuori piuttosto raramente, e che era capace di suonare come un epitaffio su una pietra tombale tanto era serio e compitamente ma inappellabilmente lapidario. Danny strinse appena le labbra e si chiuse in un ostinato silenzio, anche se, per qualche motivo, evitò di muoversi, nonostante quel tono gli avesse fatto venire una certa voglia di allontanarsi e andarsi a nascondere da qualche parte.

Solo dopo qualche minuto Kumals riprese a parlare, con voce totalmente diversa, pensierosa e distratta ad un tempo, come se parlasse di un argomento totalmente privo di problemi. Accennò appena con la testa a Valentine, ancora intenta a socializzare con i cavalli e con Yuta e Andrea.

«Non credo che Ramo avrebbe rinunciato tanto velocemente ai ‘4 di picche’ se non fosse stato per lei.»

Danny rizzò metaforicamente le orecchie, incuriosito dalla scelta dell’argomento. Non aveva mai sentito nessuno di loro parlarne tanto apertamente, salvo ognuno di loro direttamente e privatamente con Ramo tutt’al’più.

«E’ una cosa perfettamente… “naturale”, per così dire. » disse ancora Kumals, come se parlasse a se stesso. «Valentine lo ama sinceramente, io credo. E, pertanto, non poteva sopportare che lui corresse dei rischi eventualmente mortali con tanta frequenza. L’incubo ricorrente: che noi prima o poi tornassimo senza Ramo, che lui non tornasse. Basta un istante per morire. Tutto il resto è il tempo di chi aspetta il tuo ritorno, e che continua ad aspettare anche quando sa che non tornerai più, che combatte una battaglia persa in partenza contro il tempo, per farlo tornare indietro e fargli prendere un’altra svolta.»

Danny distolse lo sguardo da Valentine e sentì un groppo di ribellione concentrarglisi in gola. «Credo che tu stia esagerando.» rispose, con tono involontariamente piuttosto aspro «Non rischiavamo la pelle così tanto. Perlopiù cazzeggiavamo con spiritelli ridicoli, quando anche c’era qualcosa di effettivamente soprannaturale. Quanto erano più alte le possibilità di morte rispetto a quelle, ad esempio, di un incidente stradale?»

Kumals accennò un sorrisetto tirato «Viviamo in un mondo di esseri umani, almeno in maggioranza, Danny. L’uso dell’automobile è percepito come una necessità. Andare a caccia di fenomeni paranormali no. Non devi per forza sopravvivere di questo. Puoi sempre scegliere un altro lavoro, ammesso che lo trovi, un’altra vita. Andare a caccia di fenomeni paranormali è… andarsela a cercare in un certo senso. O almeno, ritengo che sia questo per Valentine, nonché per la stragrande maggioranza delle altre persone, che incrociano il paranormale nella loro vita, forse, solo una volta o poco più, e fanno di tutto per ignorarlo. Meglio non sapere, meglio non andarsela a cercare. Se proprio capiterà in maniera pericolosa… sperare di sopravvivere. E basta. In ogni caso, per morire basta una sola volta, basta un attimo. È una delle cose più semplici in assoluto a questo mondo, forse la più semplice di tutte. E anche se sono state veramente poche le volte in cui abbiamo rischiato la pelle, una qualsiasi di esse sarebbe stata quello che si dice ‘molto più che sufficiente’.»

«Però, nonostante quello che è successo in questi giorni sia stata proprio una di quelle volte che sarebbero potute essere ‘più che sufficienti’, Valentine è rimasta qui e ha fatto la sua parte. Non ha cercato di andarsene e di portare con se Ramo al sicuro, no?» ribatté Danny pervicacemente.

«Non è una persona così menefreghista o codarda. Una volta che ci si è trovata dentro, non poteva sottrarsi. Inoltre, stavolta era qualcosa che riguardava un po’ più persone… non era certo una semplice casa infestata o una persona posseduta. Ma da qui al gruppo dei ‘4 di picche’… beh, per lei il gruppo era molto più come un’andarsela a cercare. E forse non ha tutti i torti, dal suo punto di vista.» commentò Kumals.

Danny gli rivolse un’occhiata piuttosto storta. «Kumals… Potrei sapere cosa stai cercando di dire con tutto questo?»

L’altro buttò in terra la sigaretta finita, incrociò le braccia sul petto e assunse di nuovo un contegno serio e severo. «Quello che sto dicendo, è che è questo che accade di solito. Molte volte, se non si è completamente soli al mondo, c’è qualcuno che potrebbe diciamo risentirne se ti accadesse qualcosa, che non potrebbe sopportare la tua morte. E, francamente, è dimostrazione di un certo grado di considerazione degli altri e di quanto ti possono voler bene essere consapevoli di questo. È diverso dall’essere un lupo solitario. E usualmente, quando c’è qualcuno che ci tiene particolarmente a che tu rimanga perlomeno in vita, si cerca di giocarsi meglio la propria sopravvivenza.»

«Scegliere la propria vita e la propria morte come vogliono gli altri, di questo stiamo parlando?» replicò Danny tra i denti, quasi con repulsione.

«Non esattamente. È sempre un compromesso. Ma su questo si gioca anche la fiducia reciproca. Sul potersi fidare del fatto che la persona a cui tieni non si farà ammazzare come se non gli importasse non solo di se stessa, ma nemmeno del fatto che non ci si potrebbe rivedere mai più se morisse, e perdipiù in una maniera strategicamente non necessaria. Ancora peggio, se ti lascia con la sensazione che abbia a torto pensato che la sua morte non valesse niente a confronto con la sopravvivenza degli altri. Come se pensasse di potersi elevare a salvatore di tutti quanti semplicemente andando a buttarsi in faccia alla morte come se dovesse dimostrare a qualcuno che non ha affatto paura nemmeno di quella. Un modo davvero stupido di dimostrarlo, ad ogni modo, buttarcisi in bocca senza intelligenza, come se non avesse tutta questa importanza.» Il tono di Kumals era cambiato di nuovo. Sembrava essersi lasciato indietro, suo malgrado, la sfumatura da ramanzina, per lasciare posto ad un’ombra di sincero tentativo di comprensione.

Danny non sembrò aver niente in particolare da rispondere, e Kumals proseguì con tono sempre più calmo benché serio. «Di solito… se si ha qualcuno che ti vuole bene, ci si sente parte di una qualche specie di condivisione. Non ci si sente più come se si appartenesse solo a se stessi, si sente di appartenere a qualcosa che coinvolge anche altri. Per questo, abbandonare la vita non significa rinunciare solo a se stessi…»

Di nuovo, Danny rimase in silenzio.

«Ma da che ti conosco…» continuò Kumals «Mi è sempre sembrato come se tu volessi convincerti del contrario. E ho sempre sperato che prima o poi qualcosa o qualcuno sarebbe riuscito a dimostrarti il contrario. Dopo tanto tempo… vederti di nuovo giocarti le penne, o il pelo se preferisci, come se non avesse importanza… è piuttosto… irritante.» terminò, calcando sull’ultima parola con tono appunto infastidito e frustrato.

Kumals si rese conto che, per quanto lo stesse ascoltando, Danny era in qualche modo anche preso da altro. Seguì il corso del suo sguardo e vide che era di nuovo intento su Andrea. Per questo, senza pensarci troppo, aggiunse «Pensi che lei l’avrebbe presa con una certa sopportazione se non ce l’avessi fatta?»

Danny si voltò a guardarlo con uno sguardo quasi feroce, di serio ammonimento, come ad avvertirlo che stava esagerando. Ma Kumals, sebbene con difficoltà, si sforzò di sostenere il meglio possibile quello sguardo da lupo in procinto di attaccarlo, per mantenere valida la domanda, pur senza pretendervi una risposta in parole.

Alla fine, gli occhi di Danny tornarono lentamente a schiarirsi, e si spostarono in un punto indefinito fuori dalla casa, senza concentrarsi su nulla di particolare. Emise un lieve verso di amara ironia. «Sono un mezzo lupo. Sopravviverò a tutti quanti voi.» commentò.

Kumals sospirò leggermente. «Ed è per questo che ti pare più giusto morire in maniera stupida? O pensi che, solo perché i ‘4 di picche’ non esistono più, puoi far finta che tutti noi non ci teniamo moltissimo a te…

Danny scosse lentamente la testa e chiuse un momento gli occhi, come infastidito. Alla fine, riprese a parlare con tono sommesso, come se cavasse a fatica le parole dalle sue riflessioni. «Parli come se avessi deciso di suicidarmi. Ma non è stato questo. Solo… non riuscivo a pensare ad altro: tutto quello che importava era eliminare quel tizio, farlo smettere di sparare finché non fosse riuscito a colpire gli altri. Forse… ero entrato nel suo stesso modo di fare. Dopotutto lui era un killer. E io a volte non sono molto diverso. Anche a me a volte non importa altro che di uccidere. Di eliminare la preda, o l’obbiettivo. È una questione di istinto.»

Kumals sorrise gentilmente. «Sappiamo benissimo entrambi che non è così. Tu hai agito per proteggere tutti gli altri, a costo di te stesso, anche se non c’era veramente bisogno forse di andare a rischiare così tanto, anche se forse si poteva prendere qualche secondo in più per pensare ad una strategia un po’ meno estrema. Suppongo che in un certo senso sia più facile giudicare quando non ci si ritrova in mezzo. E forse tutti noi avremmo potuto pensare ad un piano un tantino migliore. In ogni caso, la tua non mi sembra una strategia molto intelligente.»

Danny sospirò e scosse le spalle, come a dire che si potevano anche trarre semplicemente quelle conclusioni dopotutto.

Kumals continuò a sorridere appena, come tra sé e sé. «Certo che ti sei ripreso davvero bene. Sembri stare molto meglio. Eh… l’amore fa miracoli.» commentò, guardando Andrea.

Danny lo guardò arrossendo, e notandolo Kumals scoppiò a ridere di cuore.

«Che c’è??» domandò Danny, piuttosto stizzito.

«Certo che è incredibile… già: un lupo mannaro. Ne avrai viste già più di noi, e se la pianterai di essere così stupidamente impulsivo in certe situazioni, probabilmente ne vedrai ancora più di noi. Ma sei ancora capace di arrossire come un ragazzino colto in flagrante.»

Danny dimenticò la sua irritazione per fissare l’altro con stupore.

Kumals allungò un braccio e glielo mise attorno alle spalle. «In confidenza, Danny, non importa poi molto quanta acqua sia corsa sotto ai ponti da allora. La maggior parte del tempo continuo a vederti come quello stupido lupo testardo e impulsivo che abbiamo pescato a rubare galline una notte d’inverno.»

Danny gli rivolse un sorrisetto cantilenante. «Oh, beh, tu invece hai molte più rughe di allora. E lo so bene: faresti un patto col diavolo per non invecchiare.»

L’uomo colse la provocazione con un ghigno divertito. «E puoi biasimarmi? Il mio fascino meriterebbe almeno l’immortalità.»

Subito dopo, Kumals rilasciò Danny dal fugace abbraccio, e fece qualche passo sul terreno ancora umido davanti alla casa, raccolse il fiato e con voce tonante e allegramente spensierata esclamò «Va bene, forza, piantiamola con questi cavalli ingordi e scansafatiche! Abbiamo il punto della situazione da fare! Yuta, vai a chiamare quei due topi in soffitta, il Conte e Justin.»

La ragazza si voltò a fulminarlo con lo sguardo per aver ricevuto un ordine tanto esplicito, e Kumals, con la sua solita abilità, evitò agilmente l’occhiataccia girandosi e avvicinandosi a Zoal. Fermatosi davanti alla sua sedia, rivolse un affettuoso sguardo alla donna che lo osservava attraverso le palpebre semi-sollevate, e le porse un braccio piegato, con fare cavalleresco.

«Zoal. Se volessi unirti a noi nella cucina. Avrò bisogno di te per spiegare a tutti quanti cosa diavolo è successo in questi dannati giorni.»

Le labbra della donna si incrinarono in un sorrisetto divertito, che esplicava chiaramente che le lusinghe di Kumals erano pienamente prese con scherzosa e tranquilla immunità. «Al momento mi trovo molto bene qui. Potremmo invece considerare di spostare questa… assemblea… qui fuori, piuttosto che rinchiuderci tutti in quella piccola cucina?»

Kumals ritrasse il braccio «Ottima idea, eccellente!» commentò «Ogni tuo desiderio è un ordine.» celiò.

Yuta, che gli stava passando vicino per andare dentro la casa, gli assestò uno scherzoso ma abbastanza consistente scappellotto a mano aperta sulla nuca. «Non ti si può proprio sentire quando fai il cascamorto.» commentò di passaggio.

Kumals seguì con lo sguardo la ragazza finché non entrò in casa, poi si rivolse di nuovo a Zoal e strizzò l’occhio complicemente. «Ti assicuro: una volta le piaceva quando facevo il cascamorto.»

Zoal aprì completamente gli occhi e lo guardò con intenzione. «Parli come se fosse passato molto tempo. Negli ultimi giorni, però, sembra che non ne sia passato poi così tanto, in fondo.»

Kumals sembrò colpito, ma cercò di non darlo troppo a vedere. Affondò entrambe le mani nel suo enorme e consunto cappotto e raddrizzò la schiena, fissando un punto imprecisato del muro della casa. Sorrise appena, con delicata e distante malinconia, e scosse un po’ la testa in un tranquillo ma sicuro disaccordo. «Forse sì, l’impressione è questa in effetti… Ma certe cose non tornano più indietro.»

Zoal lo fissò ancora per un poco, poi richiuse gli occhi, con espressione stanca ma rilassata. «No, certo. Non era questo che intendevo. Le cose vanno avanti. Ma siamo ancora tutti qui. Non è come allora. Ma sarebbe sciocco fare paragoni, o perlomeno non tentare di evitare di farli.»

Kumals le rivolse un sorriso dolce. «Non siamo persone molto sciocche, dopotutto?»

Zoal annuì a occhi chiusi.

«Lo siamo.» disse.

 

 

Note dello scribacchiatore:

       Rieccomi!No, ben lungi da me voler lasciare la storia incompleta. Solo qualche accidenti di problema tecnico con pc e affini da risolvere, ma rieccomi. Tornerò nei prossimi giorni col capitolo seguente (insomma, ricomincio con un ritmo di pubblicazione decente!). Bye a chi è sopravvissuto all’andamento della storia e alla lunga pausa.

Ritorna all'indice


Capitolo 66
*** 64 - A CARTE SCOPERTE - parte II ***


Capitolo 64

(A CARTE SCOPERTE – parte II)

 

Uther strizzò leggermente gli occhi per il riflesso, seppure piuttosto pallido, del sole, nel passare dalla penombra dell’interno della casa all’esterno. Nell’arco di pochi secondi la sua vista si riabitò abbastanza da permettergli di mettere a fuoco la scena. Si fermò pochi passi oltre la soglia per guardarla meglio, una mano in tasca, l’altra che reggeva per il collo una bottiglia lungo il fianco, e uno sguardo all’apparenza piuttosto assente.

A quanto sembrava, erano tutti lì fuori, come per una specie di pic-nic improvvisato.

In mezzo ad un cerchio sommario di sedie o seduti per terra sul terreno coperto da una verde peluria pre-primaverile, Yuta aveva sistemato uno strofinaccio da cucina disteso, sul quale aveva appoggiato un vassoio con un assortimento improvvisato di bruschette con salse e olive e un paio di bottiglie di beveraggi fatti in casa. Valentine e Kumals si erano portati delle sedie dalla cucina, mentre Zoal era accomodata in una vecchia poltrona di vimini. Ma sicuramente il più degno di nota era il Conte. Una cassetta di plastica vuota da bottiglie era stata appoggiata per terra a testa in giù, e tra essa e il posteriore del Conte c’erano un paio di cuscini di foggia antiquata e un vecchio tappeto piegato; davanti a lui era stato sistemato un tavolino basso di legno, probabilmente recuperato dalla soffitta. Per finire, Justin stava finendo di sistemare, sotto le attente e contegnose istruzioni del Conte, un forcone che era stato piantato per terra in modo che col manico potesse sostenere l’ombrello nero aperto legato ad esso.

Una leggera smorfia fece per comparire all’angolo delle labbra di Uther, specialmente quando il suo sguardo, spostandosi dall’affaccendato, nervoso e in qualche modo quasi ossequioso Justin, incrociò per caso il furtivo e complicemente divertito sguardo di Ramo.

«Oh, bene, eccoti qui!» esclamò allora Kumals, notandolo.

Uther lo fissò di sfuggita, per poi avvicinarsi al gruppo, salutando con un breve gesto con cui alzò un poco il braccio che reggeva la bottiglia. Si sistemò seduto a sedere tra Ramo e Kumals, ignorando con scioltezza il tentativo di quest’ultimo di ottenere da lui una qualche osservazione con il guardarlo in attesa.

«Splendido, ora che ci siamo tutti, possiamo iniziare, no?» continuò Kumals con piglio pragmaticamente vivace, occhieggiando in particolare in direzione del Conte e di Justin, ancora intenti alla sistemazione dell’improvvisato sostegno dell’ombrello in modo che l’ombra ricadesse perfettamente su ogni superficie del corpo del Conte. Udendo il suo tono significativamente esortativo, Justin ebbe un rapido sussulto nervoso.

«Certamente, signor Kumals. Justin, in cotal modo credo che sia perfettamente posizionato.» gli venne in aiuto il Conte, per poi guardare Uther, con sorpresa di quest’ultimo. «Signor Uther, non posso esimermi dal comunicarle il mio incommensurabile sollievo nel trovarla in buone condizioni di ripresa dalle ferite che ha riportato in battaglia.»

Per un istante Uther gli rivolse un cipiglio pressoché scontroso, come chiedendogli implicitamente se facesse sul serio. Tuttavia, vedendo che sul viso del Conte faceva bella mostra di sé la più sincera delle espressioni, si risolse a muovere la mano in aria per dare segno che in qualche modo accoglieva la sua attenzione, mentre beveva un sorso di birra. Guardando da più vicino, notava ora che sul tavolino davanti all’altro erano stati accuratamente sistemati alcuni fogli stirati, un calamaio in cui giaceva affondata di punta una lunga e nera penna, una tazza con piattino di porcellana decorata con un cucchiaino di quello che sembrava argento e una teiera dello stesso tipo.

«Perfetto, e allora iniziamo!» annunciò Kumals.

Uther lo spiò di sbieco. «Non farla tanto lunga.» borbottò.

A Yuta andò di traverso il liquore che stava bevendo a causa dell’improvviso sorgere di un sussulto di riso. Guardò in direzione di Uther sorridendo divertita, ma suo malgrado si accorse che il ragazzo teneva lo sguardo rivolto al terreno, e non poteva incrociare la sua occhiata.

Anche Kumals lo stava guardando, e il suo sguardo critico tradiva un che di immancabilmente affettuosamente divertito. «Sarebbe meglio prenderla almeno un po’ sul serio. Si tratta di fare il punto della situazione… e non è così semplice da spiegare.» disse tuttavia in tono appena ammonitorio.

Uther gli gettò di nuovo un breve sguardo, e in tono assolutamente serio rispose motteggiante «Allora, per favore, comincia dal principio e, quando arrivi alla fine, fermati.*»

Un percettibile divertimento percorse quasi tutto il cerchio, esplicitandosi in vari suoni di sommessa risatina. Perfino Zoal, anche se sembrava stanchissima e in procinto di cedere al sonno, sorrise con piacere dalla sua poltrona di vimini.

Kumals scosse brevemente la testa in segno di rassegnazione, sospirò leggermente, e iniziò a parlare facendo calare su tutto il gruppo un assorto e attentissimo silenzio.

«Tanto per iniziare… posso concludere, visto quello che è successo in questi giorni e considerate le informazioni di cui siamo riusciti a entrare in possesso, che si sia trattato nel complesso e in definitiva di un esperimento.» Dopo una breve pausa, aggiunse «E noi ne siamo stati parte integrante.»

Kumals si soffermò a saggiare con soddisfatta aspettativa gli sguardi che lo osservavano con varie espressioni di stupore, confusione, tentativo di comprendere o anche plateale perplessità e vaga incredulità. Certamente, non si potevano definire altrettanto soddisfacenti i contegni di Uther, che continuava a fissare il terreno con fare tra l’annoiato e l’impassibile, o del Conte, che, chino sul suo tavolino, era intento a scrivere febbrilmente con la penna che grattava rumorosamente il foglio. Se si poteva reggere il grado di ansia vicina al tracrollo che trasmetteva, l’espressione di Justin era tuttavia più che fruttuosa nel rendere l’idea di cosa sia la suspense che mozza il fiato in gola e l’ossigeno nel cervello.

«Proprio così. Un esperimento. Ritengo che il signor Collins ne fosse l’incaricato. E che i suoi “datori di lavoro” siano alcune teste dell’esercito e in particolare dei reparti della difesa di alcuni paesi alleati o perlomeno in buoni rapporti commerciali. Non ambivano, come credo che sia ovvio, a mantenere una particolare segretezza. Probabilmente, tuttavia, si staranno sicuramente premurando di fornire informazioni, ben distribuite in piccole dosi nel tempo, su quale sia un accenno di spiegazione che non li coinvolga né lasci sospettare una loro consapevolezza di quanto hanno scatenato. Per finire, dovremmo considerare anche l’intervento di quello che doveva essere un assassino prezzolato. Credo che il suo compito specifico fosse tenerci d’occhio per impedirci di combinare troppi danni, diciamo, ma anche di permetterci tutto sommato di arrivare abbastanza vicino a capire quello che stava succedendo. Ma per non complicare troppo le cose, partiamo dal principio, procedendo abbastanza cronologicamente.»

«L’esperimento consisteva nel testare l’invenzione frutto degli studi di Collins. Un meccanismo di controllo o di neutralizzazione mentale distribuito ad ampio raggio con sistema di radio e televisione, in grado di colpire chiunque la guardi o la ascolti anche solo per pochi minuti, giudicando da ciò che è successo al Conte. Sulla maggior parte delle persone è stata testata la neutralizzazione. Il controllo vero e proprio è invece stato testato su un gruppo ristretto di persone, quelle richiamate alla villa dove era stata sistemata la base del signor Collins. Ho lasciato che i documenti riguardanti l’esperimento fossero ritrovati dalle persone che si sono risvegliate. Noi tuttavia possediamo una copia del programma, che era gestito a livello informatico. Per nostra fortuna, visto che Justin ha potuto così farci qualcosa. Ma non si tratta solo di scienza e tecnologia, per così dire, ma anche di magia nera. Il signor Collins si è ispirato ad alcuni diari in lingua antica africana, probabilmente redatti da qualche stregone, che riportavano il modo di generare quelli che chiamiamo zombie. Forse la maggior parte di noi conosce meglio quella versione degli zombie che fanno capolino nei film moderni, cioè i morti che si risvegliano e la cui priorità è cibarsi di carne umana. Ma più originalmente la leggenda dello zombie proviene dall’africa nera, dalle storie di stregoni che erano in grado di ridurre persone in uno stato apatico, di neutralizzare la loro volontà individuale, di farne dei loro servi che ubbidivano a comandi relativamente semplici, e li eseguivano con un accanimento tanto formidabile da non curarsi dei bisogni fondamentali come nutrirsi o dormire, e senza per questo deperire o morire. Beh, dopotutto, se volete saperne di più potete sempre chiedere al Conte, che ne sa molto più di me.»

«L’esperimento voleva essere fatto nel “mondo reale”. Un’intera cittadina e qualche casa isolata, un raggio di diversi chilometri. Colpire tutti i soggetti che vivono o si muovono in quest’area, non escludendo affatto chi poteva rimanerne immune, perché magari non fa uso di radio o televisione, o addirittura chi potrebbe cercare di scoprire cosa sta succedendo e cercare di ostacolarlo. Perciò, anche noi eravamo inclusi nell’esperimento. In parte non proprio volutamente. Dopotutto, sanno della nostra esistenza, e delle nostre passate attività e delle nostre capacità: siamo sotto la categoria dei fenomeni o degli esseri viventi strani. Forse non potevano prevedere che io arrivassi, ma la mia presenza non poteva turbare più di tanto l’esperimento, semmai renderlo più interessante. L’efficacia di un mezzo tale doveva essere testata specialmente anche nel resistere al nostro contrattacco. Non credo però che il signor Collins fosse del tutto consapevole della sua posizione. Quello che lui deve aver scambiato per una fiduciosa scelta di lasciargli una certa autonomia nel fare questo test, era in verità una parte stessa del test. Vedere quanto qualcuno che fosse eventualmente stato in possesso del programma ma che agisse da solo potesse cavarsela. Anche un modo per scaricare poi esclusivamente su di lui come su di un pazzo isolato tutta la responsabilità di quanto successo. Sicuramente affermeranno, oltre al non averne saputo niente, che tutti i dati del programma sono andati distrutti o non sono stati ritrovati. In realtà ne avranno sicuramente una copia, quella che Collins sarà stato costretto a dare loro quando ha deciso di avere il loro lasciapassare per fare questo esperimento.»

«Il mio arrivo era dovuto alla chiamata del signor Benton, che come sapete purtroppo è deceduto. Lui non aveva forse capito esattamente che cosa stava accadendo nelle retrovie, ma aveva avuto un assaggio di quello che stava combinando Collins, che, essendosi stabilito laggiù, si sentiva così solo da cercare la compagnia del signor Benton. Questi era una persona estremamente istruita, e non nuovo a qualche chicca da collezionista di curiosità riguardo fenomeni paranormali come quello dello zombismo. Probabilmente ha pensato inizialmente che Collins non fosse altro che ciò che si spacciava: un uomo di scienza e di cultura venuto a cercare un po’ di quiete da queste parti. Ma in qualche modo Benton ha capito quello che succedeva. Credo che sia stata una disattenzione di Collins stesso, magari un passo falso involontario, per cui ha accennato qualcosa al suo nuovo amico riguardo al suo lavoro. Benton allora si è preoccupato moltissimo e mi ha chiamato, paventando cosa potesse fare quello che per lui era in effetti un pazzo solitario che stava per scatenare una tragedia ad ampio raggio. Collins però deve essere stato avvertito dalle teste alte che Benton lo aveva “tradito” e che poteva essere pericoloso. Per questo ha condizionato mentalmente un gruppo circoscritto di persone che potevano fare al caso suo, un gruppo di centauri. Probabilmente li ha attirati da lui offrendo loro soldi per sottostare ad un semplice ed innocuo esperimento, ma li ha a tutti gli effetti condizionati in modo che svolgessero un compito abbastanza semplice: irrompere da Benton ed eliminarlo. Quella stessa sera però c’era un intero ricevimento e la cosa è diventata un po’ più drammatica del previsto, o forse Collins sapeva del ricevimento e, chissà, magari gli è sembrato più divertente oppure ha ritenuto che potesse suonare più credibile che un gruppo di centauri drogati facesse irruzione ad un ricevimento vedendone le luci e sentendone i rumori. Ad ogni modo, Benton, che già sospettava che potesse accadergli qualcosa, aveva affidato al suo maggiordomo, con lo specifico compito di tenerle sempre al sicuro con sé, le carte che riteneva potessero essere una chiave per capire cosa stesse facendo Collins. Probabilmente voleva affidarmele, ma non ha purtroppo fatto in tempo, ed era troppo sconvolto quando ci siamo incontrati in mezzo a quella confusione per poter pensare che fosse una buona idea mettermi a parte della loro esistenza o importanza. È grazie a lui però se siamo riusciti a fermare il tutto. Quelle che aveva erano le carte di un antico scritto di uno stregone africano su come indurre ma, soprattutto, su come annullare lo zombismo. Se il Conte non fosse inoltre stato in grado di comprenderne il significato, probabilmente a quest’ora ci saremmo trovati in acque assai peggiori.»

«Per quanto riguarda quello che abbiamo trovato a Foelm e il cecchino, Zoal, credo che tu potresti continuare spiegando meglio, visto che è stata una tua intuizione capire cosa è successo e ricollegarlo al resto…»

Kumals si rivolse gentilmente alla donna seduta di fianco a lui.

Sembrava impossibile che Zoal, che appariva assai stanca e debole, come se fosse in preda ad una sorta di stato febbrile, potesse effettivamente continuare il discorso. Invece, iniziò a parlare con chiarezza, per quanto il suo tono fosse calibrato in modo da farsi appena sentire comprensibilmente, e il suo ritmo di parola fosse molto più lento e attento, come procedendo con paziente circospezione, ma limpidamente.

«Credo che quelle carte che abbiamo trovato a Foelm non fossero rimaste là per sbaglio. » iniziò Zoal con calma «Forse Collins le ha inizialmente effettivamente lasciate là quando è stato a quella stazione radio per inserire il programma di condizionamento nella ripetizione delle onde radio. Tuttavia, non credo non si fosse accorto della sua svista. Sapeva che saremmo andati là. Ci hanno sicuramente tenuti d’occhio, perlomeno mediante quell’assassino mercenario, in ogni nostro spostamento. Hanno propriamente analizzato il nostro modo di agire nell’indagare e contrastare quello che stava accadendo, facendo parte dell’esperimento. Ma Collins era interessato a che noi trovassimo quelle carte per altri motivi. Voleva che lo trovassimo e che cercassimo di fermarlo. Non certo perché voleva essere fermato, ma perché aveva sentito parlare di Kumals e dei ‘4 di picche’, seguendo la sua passione per il paranormale. Voleva incontrarci, o almeno incontrare Kumals; voleva fronteggiarci e rassicurare il suo delirio di onnipotenza nello sconfiggere il nostro tentativo di fermarlo. Per quanto riguarda l’assassino, egli deve essere stato assoldato da quelle che Kumals definisce riassuntivamente le ‘teste alte’, ed essere stato messo agli ordini parziali di Collins, anche se naturalmente i suoi referenti nonché assoldatori erano gli stessi che hanno permesso a Collins di fare questo esperimento. Dagli uni aveva ricevuto l’ordine di sorvegliarci e seguirci e di essere pronto a intervenire contro di noi appena ne avesse ricevuto l’ordine. Da Collins probabilmente ha ricevuto l’ordine similare di lasciarci fare fino a quel tanto che avessimo la possibilità di arrivare a lui e di essere da lui sconfitti  e umiliati nel nostro volerlo fermare. In tutto questo, però, ha come sapete tentato qualche volta di colpirci. Non credo che il suo vero intento fosse esattamente quello di eliminarci. Troppe volte avrebbe potuto farlo e non l’ha fatto, né vi ha provato troppo seriamente. Più che altro, voleva intimorirci quel tanto da testare la nostra testardaggine dal voler proseguire con le nostre azioni di indagine e contrasto. Ritengo che probabilmente facesse parte del test. E che anche lui facesse parte del test. Se Collins doveva figurare come l’esperimento di uno che cerca di utilizzare da solo il programma di controllo mentale, quel mercenario figurava come uno solo che aiutasse Collins. Quando però abbiamo deciso di attaccare direttamente Collins, i suoi ordini sono cambiati. Doveva eliminare una parte di noi. Quello che non sapeva, però, era di essere stato mandato incontro appositamente sguarnito. Secondo i loro piani doveva essere sconfitto, così come Collins, in modo che fossimo noi a eliminare le tracce scomode e vive di quanto successo e dimostrassimo come questo sistema di controllo mentale, se cadesse nelle mani di una sola persona e solo da essa venisse utilizzato, non funzionerebbe. In altre parole, un modo per dimostrare l’efficienza della resistenza di un ‘ambiente’ e dei suoi ‘abitanti’ in caso venisse usato in questo modo. Così, quell’assassino è stato mandato contro di noi appositamente non del tutto fornito di quanto serve per sconfiggerci. Nessuno ha infatti pensato di informarlo esattamente sul fatto che un lupo, quale Danny è, può essere efficacemente ucciso con armi d’argento, anche se, in certe circostanze, si può abbatterlo anche con armi convenzionali, ma è comunque molto più semplice con l’argento. Dunque, il mercenario era un altro campione di esperimento: un cecchino comune, non dotato di particolari conoscenze né armi per affrontare il paranormale. Quello che hanno voluto testare, in somma, è un esperimento della resistenza di un ambiente comune e di alcuni soggetti del mondo del paranormale contro un attacco di base scientifico e tecnologico, per quanto dotato di una piccola parte di paranormale quale sono le parole di magia nera che lo fanno funzionare. Collins, per finire, era invece fiducioso nel cecchino. Certo era troppo preso dal suo febbrile delirio di onnipotenza per seguire le cose in maniera abbastanza lucida da potersi accorgere, se ne avesse avuto il sospetto, che non era così. Pensava che il mercenario sarebbe riuscito da solo a occuparsi di noi, essendo in effetti un assassino molto abile e professionale, dopotutto scelto e ingaggiato proprio dalle acute “teste alte”, mentre lui avrebbe potuto affrontare faccia a faccia solo Kumals, me, Justin ed eventualmente Uther solo con il suo esercito di condizionati. Ritengo inoltre che fosse così affascinato da ciò che sapeva di Kumals di aver trascurato gli altri di noi e le nostre capacità, e quindi non temeva molto ciò che avremmo potuto fare. D’altra parte, non credo ci siano inoltre molte testimonianze di molte delle nostre capacità… Io per prima, non ho mai palesato tanto i miei trucchetti quanto ho fatto in questa occasione…»

Il tono della donna si smorzò e si spense lentamente, lasciando spazio al silenzio. Eccetto che per il frenetico grattare della penna del Conte sui fogli, che cessò solo dopo qualche minuto. Qualche lungo momento di silenzio dopo, Andrea si schiarì timidamente la voce, attirando suo malgrado su di sé l’attenzione di tutti.

«D’accordo, quindi… quindi siamo tutti in pericolo? Cioè, noi sappiamo cosa effettivamente è successo e più o meno da chi è stato ordito e messo in atto tutto questo. Sappiamo anche come neutralizzare questo… programma di condizionamento mentale di massa, e abbiamo tutte quelle carte che penso proprio possano essere considerate come… ‘prove’. In altre parole, non dovrebbero voler eliminare anche noi?» chiese infine, lottando contro il nervosismo che cercava di irrigidirle le corde vocali.

Kumals sorrise sibillino. «Giustissimo. Ma non se lo possono permettere. Prima di tutto, mi conoscono più che abbastanza. Sanno che la mia morte sarebbe per loro molto più scomoda che la mia sopravvivenza. Sanno che non diffonderò le “prove” in mio possesso a meno che non mi daranno motivo di farlo attaccando in qualche modo la mia o la vostra incolumità o tentando di utilizzare ancora questo programma di condizionamento mentale. Sanno che la nostra sopravvivenza sta abbastanza a cuore ad una serie di persone che fanno parte del mondo – per così dire – del “paranormale”, che ancora tu non conosci Andrea, e qualche altra abile persona che da sola potrebbe costituire per loro una spina nel fianco. È estremamente nel loro interesse evitare una coalizione di attacchi a loro danno per vendicare qualche morte o serio attacco che ci riguardi direttamente. E sanno che ho qualche arma di ricatto potenzialmente molto scomoda nei loro confronti. Come quella volta che tentarono di inserirsi nella guerra di Liphantop – una delle guerre tra vampiri e streghe – per dirigere degli attacchi su alcuni insediamenti umani. O per il fatto che posso chiedere a qualche amico il favore di fare parlare qualche morto che loro hanno ucciso proprio per evitare che rivelasse certe scomodità…»

Per un momento sulle labbra di Kumals comparve un sorrisetto astuto che aveva qualcosa di indubbiamente mefistofelico. Andrea tuttavia aveva un’espressione attonita.

«Vuoi dire che esistono… strehe e vampiri?!» esclamò poi, con un tono in cui si mischiavano così strettamente lo stupore, l’incredulità e la curiosità da essere praticamente indistinguibili.

Kumals si sottrasse dalle sue riflessioni, che avevano tutta l’aria di stare sguazzando in accurati e diabolici piani di vendetta spietata, per concentrarsi di nuovo sulla ragazza, e per un momento la sua prima sensazione fu di sorpresa. Ma si riprese in fretta. Certo, stava pur sempre parlando con qualcuno che fino a qualche giorno prima era completamente all’oscuro che potesse davvero esistere, e che si potesse assistere così direttamente e non attraverso qualche trucco scenico, qualsivoglia tipo di fenomeno paranormale. Strano piuttosto che l’avesse dimenticato. Forse era per via del fatto che era molto preso dalle sue riflessioni riguardo a sottili giochi di ricatto e vendetta, o forse… forse era perché per qualche istante aveva come dimenticato che Andrea fosse una novizia del loro piano di realtà. Poteva essere a causa del fatto che la ragazza, dopotutto, era stata la prima a reagire a quel carico di informazioni e spiegazioni, individuando prontamente quello che per lei era un punto critico, digerendo ed elaborando più velocemente di tutti gli altri tutte quelle delucidazioni.

Non era la prima volta che Kumals incontrava nella sua vita qualcuno che, per quanto avesse vissuto una vita perfettamente comune e non avesse alcuna particolare esperienza, dote innata o talento nell’essere invischiato dal paranormale, riuscisse ad averci a che fare di primo acchito con una certa naturalezza spontanea. Una specie di ‘esserci portati’ anche quando vi si era per natura estranei. Così come qualcuno potrebbe imparare in fretta qualche arte pur senza che essa gli calzi affatto. Forse era per quello, si rese conto Kumals - che a volte parlava con più impulsività di quanto avrebbe voluto, anche se non lo dava a vedere - che prima aveva detto proprio che Andrea non conosceva ancora quel mondo del “paranormale”. Sì, decisamente doveva ancora affinare la scelta delle parole prima di pronunciarle, perché per quanto le sue sviste fossero infinitesimali, a volte erano più che significative, e purtroppo involontarie. Ma la voce di Ramo lo sottrasse alle sue riflessioni.

«Quindi… praticamente abbiamo loro fatto un favore, abbiamo seguito i loro piani in un certo senso…» commentò con rabbia e scoramento il ragazzo «Insomma, abbiamo fatto parte del loro fottuto esperimento come cavie. Siamo arrivati all’uscita del loro labirinto e abbiamo rosicchiato il loro formaggio avvelenato.»

Kumals soppesò brevemente il cocente senso di sconfitta dell’altro, e rispose con tono gentilmente incoraggiante e sicuro. «Tutt’altro. Abbiamo loro dimostrato, pur nell’ambito del loro esperimento, che il paranormale può ancora vincere contro sistemi di controllo tecnologico. E abbiamo conquistato una posizione di indubbio vantaggio non solo per noi, ma per tutte le potenziali future vittime del loro programma. Come dicevo, Ramo, non potranno più usarlo fintanto che potremo ricattarli tirando fuori le prove di chi ha contribuito allo sviluppo e al test del progetto e, soprattutto, fintanto che potremo comunicare alle nostre conoscenze dotate di qualche potere come disinnescarlo. Abbiamo una copia delle loro chiavi del nostro mazzo. Se aprono una porta in tal senso, noi potremmo chiuderli dentro o fuori, potremmo entrare e uscire a piacimento, e via dicendo. Inoltre… beh, nonostante io non ritenga interessante al momento diffondere le informazioni e le prove che abbiamo all’opinione pubblica comune, per così dire, ti garantisco che gireranno tra chi sarebbe in grado di capirle e contrastarle. Sicuramente qualcuno avrà voglia di mettersi a giocare in modo da sviluppare un programma di disinnesco del loro controllo mentale molto più potente ed efficace di quello che abbiamo dovuto improvvisare noi.»

Ramo lo guardò, in qualche modo ancora non del tutto soddisfatto. Come se comprendesse perfettamente quell’espressione, fu però Danny a farsi sentire. «In ogni caso, sarebbe molto più divertenti andarli a trovare uno per uno e prenderli a calci in culo finché non gli passasse del tutto la voglia di fare queste cazzate. Voglio dire, aldilà del tutto della gente ci ha lasciato le penne! Per esempio tutti quelli che erano nella scuola di Andrea che sono caduti dalla balaustra perché non si rendevano conto di ciò che stavano facendo. Probabilmente altre persone si saranno fatte male o… »

Danny tacque, come se improvvisamente avesse realizzato solo in quel momento a quale ricordo il suo discorso aveva finito per condurlo. La memoria di quanto aveva fatto a Foelm calò improvvisamente e pesantemente su tutti loro come un pesante manto che non lascia respirare.

Kumals riprese parola, con tono cupamente greve. «Prima o poi dovranno avere a che fare con le conseguenze di tutto questo. Non ho mai detto che saranno per sempre incolumi per quello che è successo. Solo, è saggio aspettare il momento più opportuno per farli pentire acutamente di ciò che hanno messo in atto. Il mercenario e Collins sono già morti. Ma ci sono cose che ad alcune persone possono dare più fastidio, piuttosto che la semplice morte. Nel frattempo, se mi conoscono un minimo, passeranno il tempo nel timore dell’attesa del giorno in cui andrò ad incrociare il loro cammino.»

Danny alzò lo sguardo su Kumals. L’uomo aveva radunato attorno a sé un’aria davvero degna di essere presa in seria e timorosa considerazione. Andrea, che li stava fissando, notò la maniera in cui il ragazzo soppesava quell’aria come se non lo spaventasse, bensì per saggiarne la serietà della determinazione, come se Kumals gli stesse in qualche modo facendo una promessa sull’onore. Anche se Andrea si era più o meno abituata a tutte quelle stranezze da paranormale, non aveva ancora imparato a temerlo, e quella fu la prima volta in cui sentì la vera e propria paura che lo sguardo di Danny o l’aura di Kumals potevano esercitare. Il senso di inconciliabilità tra la fiducia e la conoscenza che aveva maturato dei due e quel senso di istintiva e pura paura la scosse profondamente, al punto che resistette a stento dal muoversi per scostarsi un poco dal fianco di Danny. Ricordò quando, giorni prima, il ragazzo le aveva detto che avrebbe dovuto temerlo, e lei aveva affermato di non aver paura di lui. Credeva di non poterne avere in nessun caso, ma in quel momento quella sensazione non poteva che essere presa com’era, come qualcosa che aveva il potere di rimettere in dubbio quella sua affermazione, in cui allora aveva creduto senza riserve.

«D’accordo… allora a parte le vendette e i ricatti, se non c’è altro, io tornerei ai fatti miei.» commentò all’improvviso Uther, rimettendosi lentamente in piedi con aria tutto sommato tranquilla, anche se ancora teneva lo sguardo abbassato, come se fosse sua precisa intenzione incrociare il meno possibile, o meglio se per niente, gli occhi di chiunque altro.

«Un momento solo, se non vi dispiace concedermelo naturalmente.»

Uther si fermò appena prima di girare le spalle per tornarsene in camera e scoccò uno sguardo piuttosto sinceramente infastidito al Conte, alzando appena un sopracciglio di vago sospetto di perplessità imminente.

Il Conte stava già da qualche momento sistemando i suoi fogli di appunti, prima pareggiandoli reciprocamente lungo i bordi usando accuratamente il ripiano del tavolo come appoggio e righello, poi sfogliandoli per apportare qualche piccola correzione con qualche elegante svolazzo di penna inchiostrata e della manica larga e nera del suo abito.

«Sono estremamente desolato di dovervi disturbare nel chiedervi di concedermi altro tempo, ma purtroppo la rapidità della mia mano non ha potuto accompagnare ad ogni passo la precisa e rapida esposizione del signor Kumals e della signorina Zoal. Dunque, vorrei umilmente demandarvi la pazienza di assistere il mio modesto tentativo di rendere merito alle vostre parole nel ripercorrere le mie note, per assicurarmi che il limite delle mie capacità non abbia in alcun modo intaccato la vostra accorta esposizione dei fatti.»

Già molto prima che il Conte finisse di parlare, Uther si era risolto ad andarsene, il suo ultimo dubbio sul fatto che l’altro non avesse niente di significativo da dire definitivamente fugato. Gli sguardi di Danny, Ramo, Andrea e Yuta lo seguirono finché non scomparve all’interno della casa.

«A proposito dei suoi scritti, Conte…» iniziò con affabile e cauta gentilezza Kumals.

«Oh, mi perdoni se la interrompo, ma oso pensare di poter già immaginare quali parole sta per rivolgermi. E mi rendo conto soltanto in questo momento, purtroppo e mea culpa signor Kumals, di non averle esposto in quale maniera ho studiato di conservarli, per garantire che possano essere essi stessi al sicuro da mani e occhi indiscreti. Sarei felice di potermi consultare con lei a riguardo.» disse il Conte.

Kumals sospirò appena. «Certamente. Parliamone, allora.» si rassegnò.

Mentre Kumals e il Conte continuavano a discutere del destino degli appunti sulle cronache di quei giorni, o, come le chiamava il Conte, sulle sue memorie autobiografiche scritte, il resto del gruppo iniziò a sciogliersi e a disperdersi.

Justin rimase a sonnecchiare placidamente accanto allo scrittoio del Conte; le parole del discorso che avveniva accanto a lui sembravano lasciarlo indifferente, mentre masticava un chewingum ostinatamente, leggeva distrattamente un fumetto, e manteneva la sua posizione come se, nella nube della sua esaustione fisica e soprattutto nervosa, il suo punto fermo fosse diventato il suo rimanere accanto al Conte e a sua disposizione. Di tanto in tanto, dal momento che la disquisizione proseguiva attraverso i minuti, il Conte interrompeva brevemente lo scambio, dopo averne chiesto rispettosamente scusa a Kumals, per chiedere gentilmente a Justin di riaccomodare l’ombrello in modo che, nonostante il viaggiare del sole nel cielo, l’ombra lo ricoprisse sempre perfettamente.

Anche Zoal era rimasta seduta sulla sua poltrona di vimini, ma sembrava ascoltare solo come un sottofondo interessante ma tralasciabile per fiducia la conversazione. Abbandonata al suo sonnecchiante riposo, sembrava rilassarsi sotto la luce del sole e nell’accarezzare Duca, acciambellato sulle sue ginocchia. Da Mama, accucciata accanto alle sue gambe e con la grossa testa appoggiata su uno dei suoi piedi, proveniva un russare dal ritmo regolare.

 

 

* la citazione proviene dal personaggio del leprotto bisestile /lepre marzolina del cartone animato Alice nel Paese delle Meraviglie della Disney

 

 

 

Note dello scribacchiatore

Come vedete, l’aggiornamento ha effettivamente ripreso ritmi decenti!

Questo è uno dei capitoli che purtroppo non ho potuto accorciare.

Perdonatemi eventuali errori di ortografia, purtroppo ora come ora mi manca il tempo di ricontrollare più accuratamente, mi riprometto di farlo in futuro.

Ecco, comunque, ci sono altre “carte da scoprire”, anche se di altro tipo, e quindi continuerò a farlo nel prossimo capitolo!

Come sempre se volete potete scrivere commenti, domande, etc, come recensione o privatamente a me.

Alla prossima!

Ritorna all'indice


Capitolo 67
*** 65 - THANK YOU ***


Capitolo 65

(THANK YOU)

 

«Allora, che ne dici?»

Andrea guardò Danny. Ogni centimetro del viso del ragazzo esprimeva una tranquillità così serena e contenta che aveva qualcosa da ragazzino. Beh, dopotutto, lui avrebbe dovuto esserlo, un ragazzino, magari con qualche anno di più. Tutto del suo aspetto diceva qualcosa sui venticinque anni suppergiù. In quel momento Andrea realizzò che quel tipo di espressioni da più o meno spensierato ventenne non comparivano molto frequentemente sul suo viso. No, nonostante il suo aspetto e certi suoi modi giocosamente immaturi, Danny aveva la maggior parte delle sue espressioni che sembravano appartenere ad una persona più vecchia. E la sua natura di lupo poteva ben permettergli di essere in effetti molto più longevo di quello che appariva. La ragazza si rese conto che quella era una delle tante importanti domande che non gli aveva ancora fatto.

L’espressione di Danny mutò rapidamente, diventando più seria e iniziando ad essere offuscata da un’ombra di apprensione. «Qualcosa non va?» le domandò premurosamente, prendendole istintivamente le mani tra le sue e avvicinandosi di più a lei, per guardarla meglio in viso e per permettere loro una certa intimità nel parlare.

Poco lontano, Kumals era ancora intento a discutere con il Conte. Dall’altra parte, più vicino a loro, Ramo e Valentine si erano messi a giocare con Tirch e Danza, senza aspettare la risposta all’offerta che avevano appena fatto ad Andrea e Danny di andare con loro a fare una passeggiata nel bosco tutti insieme con i due cani.

Andrea guardò Danny negli occhi e sorrise al pensiero che lui doveva essere così candidamente felice solo per quell’occasione di fare una passeggiata tutti insieme. «No, niente, tutto ok. Stavo solo pensando.» gli rispose.

Danny le credette, probabilmente più per il sorriso che le era comparso in volto più che per le semplici parole. Sorrise caldamente a sua volta, convinto che dovessero essere riflessioni piacevoli quelle che l’avevano indotta a quell’espressione. «A che cosa?»

«Beh…» cominciò Andrea, guardando verso il bosco e assumendo un’espressione più vivace «Non sembra affatto una cattiva idea. Vedere il bosco in piena luce, stavolta. Niente strane cose… demoni, o giù di lì. Giusto?»

«Più che giusto!» confermò Danny con entusiasmo, dandole l’impressione di poter essere figurativamente scodinzolante quanto lo erano letteralmente Tirch e Danza. «E’ bellissimo il bosco di giorno! Okay, in realtà lo è anche di notte… ma… diciamo che è sempre meglio avere i primi approcci con la luce del sole. E magari niente nebbia. Per via di qualche trucchetto qui e là che fanno quelli che ci vivono… Hanno veramente un pessimo senso dell’umorismo a volte. Davvero pessimo.»

Andrea lo guardò alzando un sopracciglio. «Vuoi dire che quel demone che mi ha rapito e si è trasformato in me stava solo cercando di scherzare?» domandò, tra l’incredulo e il tenacemente indignato.

«Va bene…» ammise Danny, facendo vagare attorno nell’aria lo sguardo, sulla difensiva «Diciamo che non si può parlare di senso dell’umorismo. Forse sarebbe più adatto dire che è il loro modo di passarsi il tempo.»

Andrea lo guardò con ancora maggiore scetticismo. Danny lasciò una delle sue mani per passarsela distrattamente dietro la nuca.

«Okay, forse no... non rende l’idea, eh?»

Andrea scoppiò a ridere cristallinamente. «No, affatto!»

Danny la guardò con felice stupore. Era da un po’ che non la sentiva ridere, si rese conto. O forse, non l’aveva ancora mai sentita ridere così. Un suono particolarmente gradito per il suo sensibile udito. Un momento dopo, realizzò che lei stava ridendo con tanto divertimento, di quelle risa che scaturiscono a scoppio e senza preavviso come per un qualche segreto e inconsapevole senso di gioia, proprio a riguardo di un episodio che in origine doveva essere stato per lei particolarmente drammatico. Diamine, era pur sempre stata rapita da un demone, e lui aveva dovuto fare finta di spararle addosso! No, per lui era stato peggio perderla che spararle, certo, perché nel secondo caso sapeva benissimo di stare facendo finta, ma lei non lo sapeva: non mentre lo aveva visto mirare su di lei e premere il grilletto. E ora ne rideva. Ecco qua. Forse era un po’ matta, almeno un po’, almeno abbastanza da essere un po’ fuori di testa quanto loro.

«In ogni caso» riprese Danny incoraggiante, riprendendole entrambi le mani e facendole oscillare leggermente e ritmicamente, come imitando alla lontana un invito a ballare «di giorno il bosco è meglio! Niente cose in agguato, cioè, niente più che sciocchezzuole da quattro soldi. Una normale passeggiata, ma è affascinante. Niente a che vedere con i parchi di città e roba del genere.» garantì.

Andrea si prese qualche altro secondo per osservarlo. Decisamente, ricordava un bambino che stesse per essere portato al luna park. Poteva leggergli negli occhi che stava per aggiungere qualcosa a riguardo del fatto che c’era anche il sole, e un certo caldo dal sapore primaverile, e altre cose di questa sorta. Non che lei avesse davvero bisogno di sentire la descrizione di altre qualità aggiunte di una passeggiata nel bosco. Ma…

«Danny…» iniziò, con una certa fatica «Credo che questo sia un buon momento in cui potresti approfittare del fatto che, in qualche modo, le cose si sono risolte, per fare un’altra cosa...»

Il ragazzo scacciò di nuovo l’entusiasmo vivace per tornare concentrato e serio. Non che si fosse fatto del tutto convincere prima da lei a riguardo del fatto che non c’era niente che la stesse preoccupando. Ma aveva pensato che si trattasse “solo” del fatto che ora che si poteva tirare fiato dal precipitoso susseguirsi e accavallarsi di emergenze, lotte, ferite, e così via, Andrea stesse semplicemente impattando con il poter tornare ad uno stato di calma relativamente sufficiente per digerire tutto quello che era successo. In questo senso, niente sembrava meglio di una passeggiata nel bosco, almeno per lui; perché non avrebbe dovuto rappresentare un’allegra e piacevole distrazione anche per lei? Visto che per lei le cose dovevano essere cambiate come dal giorno alla notte in quelle lunghe ore del suo precipitare fronte a fronte con tutto quello che avevano passato loro, che in un certo senso ci erano più avvezzi, perché no, poteva essere un buon modo passare dalla notte al giorno in un bosco che poteva essere sicuro e incantevole.

«Che cosa?» le chiese gentilmente, tornando ad avvicinarsi per darle uno spazio di conversazione più confidenziale e dedicandole tutta la sua attenzione.

«Prima, stavo pensando a…» Andrea alzò lo sguardo, intuendo che era importante che lo guardasse dritto negli occhi per vedere la sua espressione mentre parlava «a Uther.» concluse.

Danny corrugò lievemente la fronte, e un’ombra di disappunto gli incrinò lo sguardo, portandolo per qualche fugace istante lontano da lei. Ma riuscì molto bene a ricomporsi rapidamente. «Ovvero?» domandò, non riuscendo a nascondere una sottile irritazione per l’argomento che veniva sollevato proprio in quel momento in cui tutto ciò che gli si prospettava era un’allegra passeggiata nel bosco.

Andrea continuò a guardarlo dritto in faccia. «Avanti.» esortò, in un mormorio gentilmente insistente «Io non lo conosco così bene. Ma tu sì. Ti sembra normale, per lui, che stia passando tutto il tempo chiuso in quella stanza a letto?»

Danny ebbe un fremito di sconcerto ad un sopracciglio, come se si sforzasse di focalizzare quale fosse il punto. «Non so, starà riflettendo, e cose del genere.»

Andrea distolse lo sguardo da lui. «Già, può essere.» ammise. Ma la sua espressione aveva un che di deluso.

Danny trattenne un pesante sospiro e si concentrò per trovare le parole. «Ascolta, non è che non te ne voglia parlare. Il fatto è che… Uther non è mai stato un granché espansivo, per certi versi. Se ne sta sulle sue, parecchio. Dunque, non ho idea che cosa possa farlo rimuginare così tanto da farlo stare chiuso in una stanza per giorni, ma prima o poi ne riemergerà, quando avrà finito di rigirarsi le sue cose in testa.»

Andrea tornò a fissarlo. «Ma tu hai la sensazione che stia bene?» domandò a bruciapelo.

Danny sostenne il suo sguardo solo per qualche istante, prima di abbassarlo. «No… non esattamente.» ammise.

Andrea gli dette una stretta incoraggiante alle mani ancora strette insieme, e quando lui tornò a guardarla, occhieggiandola dal sotto in su con il capo lievemente inclinato, lei gli rivolse un leggero sorriso dolcemente ammiccante. «Allora, non posso credere che tu, considerando quanto siate amici, non sia ancora andato a cercare di scoprire cosa gli stia succedendo, e se puoi fare qualcosa per farlo stare meglio.»

Nonostante i modi della ragazza, Danny sembrò di nuovo per un momento molto distante da lei. Un moto di lieve malinconia gli segnò un angolo dello sguardo. «Non ne sono così sicuro.» commentò con sincerità, tendendo appena un muscolo della mascella con amarezza.

Andrea si sforzò di continuare a sorridergli in quel modo, e gli strinse di nuovo le mani, stavolta mantenendo la stretta. «Io credo di sì. Credo proprio che, tra tutti noi qui, tu sia la persona che può persuaderlo ad alzarsi da quel letto.»

Danny continuò ad evitare di guardarla per un po’. C’era un fuligginare di neve bianca sullo sfondo di un cielo nero di notte, che gli era come sfarfallata per un momento davanti agli occhi: un ricordo. Non erano le parole di Andrea in sé, perché lei non poteva sapere di quella notte di diversi anni prima; ma il semplice fatto che gli avessero ricordato che c’era stato un tempo in cui Uther era stato l’unico essere umano che non l’aveva ucciso, pur trovandolo dall’altra parte del suo fucile e sapendo benissimo che cosa era, gli fece capire che lei doveva aver ragione.

Alla fine tornò a guardarla. E, senza aggiungere altro, si limitò ad annuire con serietà, e l’accenno di un sorriso di ringraziamento. Andrea comprese di averlo convinto, e rilasciò le sue mani dopo un’altra breve stretta di commiato. Gli sorrise più dolcemente.

«Magari possiamo farla più tardi una passeggiata. O domani.» gli propose.

Danny annuì, quasi distrattamente, guardandosi i piedi.

«Mi piacerebbe. Davvero.» aggiunse Andrea.

Lui alzò di nuovo lo sguardo, richiamato dal tono profondamente affettuoso di lei. E le sorrise prima di rendersene conto, lasciandosi guidare poi dall’impeto di abbracciarla. Le fece fare un paio di giravolte sul posto, prima di depositarla a terra.

«Grazie.» le mormorò all’orecchio, senza lasciarla andare. Di che cosa non ne era certo. Forse di avergli ricordato che cosa era giusto fare aldilà di tutto, o forse di averlo fatto sentire, chissà in quale misterioso modo, come se lui fosse perfettamente in grado di fare qualcosa di giusto nonostante si sentisse senza speranza nel riuscirvi. Ma non sapeva come provare a spiegarle tutto questo. Non proprio, quando questo avrebbe compreso rivelare fin troppo a proposito di quanto gli sembrava complicato ora dover andare a bussare alla porta di Uther e parlare con lui. Di cosa, poi?

«Credo…» sentì la voce di lei nel suo orecchio «…che a tutti gli effetti parlare un po’ con te potrebbe farlo sentire molto meglio. Aldilà di ciò che si dice parola per parola.»

Danny spalancò gli occhi e si staccò dall’abbraccio per guardarla. E improvvisamente credette di aver compreso. Ricordò quando lei gli aveva raccontato della sua amica, di Sarah. Doveva averle imparate allora cose come quella che aveva appena detto.

Andrea guardò con stupore lo sguardo blu che la stava fissando farsi più profondo e intenso, come se la stesse avvolgendo in un abbraccio confortevolmente caldo e in qualche modo importante. «Che c’è?» ebbe l’urgenza di chiedere, arrossendo suo malgrado.

Danny sembrò riprendersi. Chiuse gli occhi per un momento e scosse la testa, sorridendo, come per scacciare da sé qualcosa di fuori luogo. La guardò, ancora sorridendo, e piegò la testa per lasciarle un leggero bacio a fior di labbra. Poi, lentamente, le girò le spalle, guardando la casa, e in particolare il primo piano, dove c’erano le camere da letto. Sospirò profondamente e silenziosamente, come cercando il capo iniziale di una matassa da iniziare a riarrotolare; l’istante successivo stava camminando verso la porta di ingresso aperta, le mani nelle tasche dei pantaloni e il capo abbassato, immerso in diversi pensieri piuttosto intricati.

Andrea lo guardò allontanarsi a quel modo, e si incrociò le braccia sul petto, con soddisfazione, rilasciando a sua volta un leggero sospiro. Era fatta. Sentì che qualcuno le si avvicinava, e si ritrovò a guardare Ramo che, fermatosi di fianco a lei, osservava la soglia oltre la quale era scomparso Danny. La fissò, una domanda muta negli occhi, e lei sorrise, non senza qualche difficoltà, in conferma. Uno splendente sorriso di contentezza illuminò il volto del ragazzo, che poi le offrì la mano davanti al volto, per stringergliela in una forte presa di complicità che suonava come un caloroso complimento. Ora anche Valentine era di fianco a loro, e, vedendo il gesto, guardò Ramo in cerca di spiegazioni. Lui si piegò verso di lei e le disse qualcosa all’orecchio. L’espressione di Valentine virò bruscamente in stupore, poi guardò Andrea e, con un riso cristallino, alzò le mani per dargli un doppio cinque.

Ad Andrea non rimase che rifiutare gentilmente il loro invito ad andare comunque a fare una passeggiata, e rimase a guardarli mentre scomparivano tra gli alberi del bosco insieme a Danza e Tirch. Poi sentì un passo alle sue spalle, e voltandosi si trovò di fronte Yuta. Vedendo l’espressione con cui la stava considerando, completamente diversa da quella di gioioso e complimentoso sollievo che avevano avuto Ramo e Valentine, sussultò profondamente. C’era una comprensione diversa negli occhi di Yuta, che le fece afferrare immediatamente che l’altra sapeva ciò che realmente aveva appena fatto. No, non l’aveva fatto perché pensava che l’amicizia di Danny potesse essere un salutare toccasana per Uther. L’aveva fatto perché sapeva che Danny era davvero l’unica persona in grado di persuadere Uther a rimettersi sulle sue gambe per più del tempo sufficiente per andare in bagno o per assistere ad una riunione organizzata da Kumals. E Yuta lo sapeva almeno quanto lei, se non meglio.

«Certo…» iniziò Yuta. Poi sembrò rinunciare alle parole, forse nello stesso istante in cui vide che gli sforzi di Andrea di mantenere un’espressione tranquilla cedevano, e che una patina liquida occhieggiava pericolosamente dietro il suo sguardo. Allora fece un altro passo in avanti e l’abbracciò strettamente.

«Certo l’avevo capito. Che sei una persona molto in gamba.» disse infine, solo dopo qualche istante che la stringeva come se volesse proteggerla da qualsiasi cosa. E nonostante questo, sentì che Andrea non stava versando una sola lacrima.

«Ma non riuscivo ancora a immaginare quanto, in realtà.» terminò in un sussurro gentile.

Dopo qualche lungo minuto, Andrea si staccò lentamente dall’abbraccio e rivolse a Yuta un sorriso tirato. L’altra la guardò con affettuoso scherno. «Credo proprio che tu non abbia ancora assaggiato il nostro liquore al limone e cioccolato, sbaglio?» domandò, continuando a tenerla per le spalle e a guardarla protettivamente in viso.

Andrea scosse la testa con un accenno di sollievo in faccia. «No, non credo.» disse, tirando su col naso il più silenziosamente possibile.

«Allora è ora che tu lo faccia.» concluse Yuta, avvolgendole un braccio attorno alle spalle per guidarla verso la sedia di vimini dov’era seduta Zoal. Giunta lì, le offrì di sedersi di fianco alla donna, su una sedia contro il muro della casa, e le preparò un bicchiere di un denso liquido dall’odore pungente dell’alcool che si mischiava con quello dolce del cioccolato, e glielo porse, riempiendone poi un altro che porse a Zoal.

Andrea avrebbe giurato che Zoal stesse dormendo, ma dopo qualche istante che il bicchierino veniva tenuto sospeso davanti ai suoi occhi chiusi, li aprì, lo soppesò per un momento con lo sguardo, e infine alzò lentamente un braccio per prenderlo in mano.

Yuta annuì con soddisfazione, si versò un bicchiere per lei, e si sedette a sua volta su una sedia, all’altro fianco della poltrona di vimini, sorseggiando il liquido denso con aria piuttosto rilassata. Dopo un po’, si voltò a guardare di nuovo Andrea, chiedendole cosa ne pensasse del liquore; le lasciò appena il tempo di rispondere un paio di complimentosi commenti, prima di iniziare a spiegarne la ricetta con dovizia di particolari. Sembrava decisa a non lasciare cadere il silenzio, probabilmente intuendo più che bene che il meglio che poteva fare ora per Andrea era distrarla. La ragazza acconsentì ad ascoltarla, anche se molte parole le scivolavano addosso come se non riuscisse proprio ad afferrarle.

Zoal sembrava spiare non molto più attentamente la conversazione, dal modo in cui teneva solo un occhio mezzo aperto verso Yuta. Sembrava in qualche modo malinconicamente divertita dal modo in cui la sorella si impegnava a chiacchierare, anche a costo di essere sostanzialmente l’unica a parlare praticamente senza interruzione.

A distrarre Andrea furono proprio le sembianze di Zoal, invece. Era difficile non notarla. Persino con quella sua aria mezzo addormentata, non sembrava assente, bensì come profondamente immersa in una specie di trance, che dava la sensazione di uno stato di consapevolezza altro, più profondo, come se potesse sentire meglio tutto ciò che le accadeva attorno in quel modo. Lo sguardo di Andrea occhieggiò brevemente il suo bastone. Aveva il solito aspetto, come un grosso ramo nodoso. Ma sembrava anche diverso, come se dormisse: nel suo stato di quiete apparente, tuttavia, sembrava anche più significativamente potente. Proprio come la sua proprietaria.

E fu allora che Andrea si ricordò di un particolare importante.

Attese pazientemente che Yuta terminasse di raccontare l’ultimo aneddoto che sul momento era riuscita a ricollegare in qualche funambolico modo alla ricetta del liquore al limone e cioccolato, prima di rivolgersi a Zoal. Il suo tono risultava irrimediabilmente intimidito. Assurdo, considerando che dopotutto non si stava rivolgendo ad altri che ad una donna che sonnecchiava affondata in una poltrona di vimini, con un bastone di legno appoggiato ad un bracciale della suddetta poltrona, un cane acciambellato sulle gambe e un altro accucciato ai suoi piedi.

«Zoal… credo di doverti restituire qualcosa.»

Nell’udire il suo nome la donna aveva aperto di più l’unico occhio che sembrava voler riservare in quel momento allo scrutare il mondo, e lo aveva rivolto alla ragazza. La guardò portarsi le mani al collo dove, cercando brevemente sotto al collo del maglione, individuò un cordoncino di quello che sembrava caucciò. Stava già iniziando il gesto di sfilarselo dal collo, ma ciò che vi era appeso non era neanche apparso da sotto il maglione quando parlò.

«Tienilo.» disse semplicemente.

Il tono profondo, come se fosse per metà immerso in un altro luogo, bloccò Andrea a metà del gesto. Guardò l’unico occhio di un verde ambiguamente profondo e sfuggente, continuamente cangiante, fisso su di lei come se potesse passarle attraverso, e lo facesse, pur senza risultare invadente in ciò. Uno sguardo che attraversava i corridoi con tranquilla fiducia auto-referenziale, senza soffermarsi nemmeno un attimo a spiare le porte, come se non fosse interessato al fatto che fossero chiuse o spalancate. Se qualcosa fosse uscito da esse, lo avrebbe considerato, altrimenti avrebbe proseguito oltre, senza lasciare nulla dietro di sé.

«Davvero…? Cioè, voglio dire, sembra una cosa… preziosa…» Andrea non era sicura di poter trovare le parole adatte. Forse ‘potente’ sarebbe stata più adeguata. Ad ogni modo, comunque, non era certa che quella cosa che indossava, quell’amuleto di penne di rapace e di pietrine colorate, avesse sortito qualche effetto su ciò che le era accaduto. Nonostante, più di una volta, avesse trovato conforto nel pensiero di indossarlo. In un modo che non era sicura di poter comprendere o interpretare in qualche senso compiuto.

Zoal sorrise appena, in quel suo solito modo in buona parte enigmatico. «Oh, sì…» mormorò. «Ne sono sicura.». E con quello chiuse l’unico occhio che stava tenendo aperto, come a sancire la conclusione di ciò che voleva dire.

Andrea esitò ancora. E quasi sussultò di sorpresa nell’udire di nuovo la voce tanto profonda da sembrare quasi cupa.

«Gli incubi possono sempre esserci. Non solo quando pensiamo che arriveranno. Quello è un tipo di oggetto che può rivelarsi sempre utile.» disse solo Zoal, come se stesse parlando di qualcosa di semplicemente naturale come il bello o il cattivo tempo.

Andrea lasciò andare il filo di quello che poteva essere caucciù, e sentì il peso leggero del ciondolo ricaderle sul petto sotto ai vestiti, e il solleticare delle penne che si riassestavano contro la pelle nuda. Ma solo quando vide come Yuta la stava guardando, ebbe la conferma che quel regalo non c’entrava in alcun modo con la pietosa considerazione di lei come di una persona esposta e più debole, bensì di una specie di riconoscimento. Non aveva idea di che cosa si trattasse esattamente, ma tutto sommato iniziò a credere che forse non era proprio l’”ultima arrivata” della situazione. Non più, dopotutto. Qualsiasi cosa potesse significare, perché non ne aveva realmente una precisa idea. Ma non sentiva qualcosa come il bisogno di averla, ora come ora.

Avrebbe voluto ringraziare, ma aveva la forte impressione che qualsiasi parola in quel momento non avrebbe fatto che rompere la trasmissione del messaggio di gratitudine che stava già aleggiando nell’aria. E se Zoal non era il tipo da captarlo, allora non sapeva proprio chi altro avrebbe potuto esserlo.

 

 

Note dello scribacchiatore: no, non sono diventato imbecille o particolarmente distratto tutt’un’tratto (la rima è involontaria), non ho dimenticato un capitolo per strada. Dal punto di vista dei capitoli questo è una sorta di intermezzo con un diverso titolo. Il prossimo è la terza e ultima parte della serie di capitoli ‘A carte scoperte’. Al prossimo capitolo quindi! Yo!

 

Ritorna all'indice


Capitolo 68
*** 66 - A CARTE SCOPERTE - parte III ***


Capitolo 66

(A CARTE SCOPERTE – parte III)

 

La casa suonava particolarmente silenziosa, ora che tutti erano fuori. Danny poteva immaginarlo anche prima, ma provarlo era diverso. Specialmente visto che il silenzio gli pesava addosso in quel momento, in cui la sua testa pullulava di pensieri.

Erano tutti molto veloci, confusi e lontani, e in effetti ciò che stava sperimentando non era esattamente una rassegna di riflessioni, quanto una ridda confusa di ricordi – più o meno lontani o vicini – che si andavano sovrapponendosi e scavalcandosi, eppure senza litigare tra di loro. Come un branco di ungulati selvatici che corre, riuscivano a non inciamparsi addosso nonostante il loro seguire percorsi in molti punti sovrapposti o anche cozzanti; correvano tutti nella stessa direzione. Ed egli la seguì, come un qualsiasi lupo avrebbe seguito un branco di erbivori, non con l’intenzione di cacciarli, ma con il proposito giocoso di correre dietro di loro, stare al loro stesso passo senza lasciarsi seminare, come se si concedesse di dimenticare per qualche momento che non stava veramente correndo insieme a loro tuttavia.

Quella corsa si svolgeva nella realtà molto più lentamente. Non stava correndo. Camminava piano, con una calma totalmente dissimile al ritmo incalzante nella sua testa. A passi regolarmente misurati salì le scale. Un lupo sapeva come essere estremamente e perfettamente silenzioso. Ma mentre si avvicinava alla stanza dalla porta chiusa, gli parve opportuno rendere più udibili i suoi passi. Combattendo la voglia perciò di diventare invisibile quanto un fantasma che si muove di soppiatto e non ha alcun particolare desiderio di mostrarsi o farsi intuire, produsse abbastanza rumore da farsi sentire attraverso la porta chiusa mentre si avvicinava ad essa.

Lui invece non sentiva niente. Non più che il leggero rumore di un respiro umano dentro la stanza, e l’odore di chi stava andando a trovare, mischiato peraltro a quello di tutti gli altri e le altre che avevano vissuto nella casa in quegli ultimi giorni.

Si fermò davanti alla porta e rimase a fissarla, lo sguardo scornato di un cane recalcitrante messo davanti a qualcosa che ci si aspetta da lui e che sa che dovrebbe fare, ma che è troppo testardo per riuscire a risolversi del tutto a farlo e basta.

Alla fine un pensiero di impietosa lucidità lo colse in fallo. Sospirò leggermente per la pazienza, nel realizzarlo con chiarezza: se restava lì fermo immobile senza fare nulla, semplicemente non sarebbe successo niente di niente. E allora riuscì a convincersi ad alzare una mano e bussare piano contro la porta.

Passò qualche secondo, che a Danny parve lunghissimo, prima che la voce rispondesse dall’interno.

«Lascia perdere, Kumals. È chiusa a chiave. E sai bene che se la sfondi poi Yuta cercherà di avere il tuo scalpo.»

Il tono mordace, per quanto appannato di una stanchezza che lo impallidiva e lo faceva sembrare debole, ebbe comunque il potere di far sentire Danny meno nervoso. Cercò di trovare una tonalità altrettanto tranquilla e naturale, e si dovette schiarire la voce. «In effetti… sono io.» si ritrovò semplicemente a dire. Gli mancavano le parole, e continuava a non trovarle.

Di nuovo un silenzio, e di nuovo Danny non riuscì a calcolarne il  tempo. Poi la voce di Uther si fece risentire, più tranquilla stavolta. «Puoi entrare. Non è veramente chiusa a chiave. Credo proprio di essermene dimenticato.»

Danny sogghignò brevemente e scosse un poco la testa tra sé e sé, prima di abbassare la maniglia ed entrare. Avanzò cautamente solo di un paio di passi nella stanza, impregnata ben più cospicuamente del resto della casa dell’odore di Uther, e di un che di stantio. Non sembrava che il suo occupante si fosse preoccupato particolarmente di arieggiarla molto nelle ultime ore. Indeciso, rimase immobile, come se persino l’idea di cercare la successiva mossa fosse troppo complicata da elaborare al momento.

Uther parlò di nuovo, come venendogli in aiuto. «E chiudila dietro di te. Kumals è… sempre in agguato.»

Danny ubbidì, grato di avere un preciso incarico. Chiuse la porta alle sue spalle, poi, decidendosi a lottare maggiormente per uscire dal suo stato di spaesamento pressoché ridicolo, si avvicinò al letto. Guardò solo per un momento Uther, seduto sopra il materasso con un cuscino dietro la schiena appoggiato al muro e intento a sorseggiare la stessa bottiglia di birra che aveva con sé poco prima, durante la riunione esplicativa. O almeno, Danny poteva solo supporre che fosse la stessa. Si diresse con più decisione di quanta era necessaria verso l’altro letto e si lasciò cadere a sedere sopra di esso, incrociando le gambe e tentando di recuperare almeno nei gesti una certa svagata e leggera naturalezza.

«Beh…» iniziò «A quanto pare, ti trovi bene qui.»

Non ebbe bisogno di incrociare lo sguardo incuriosito con cui Uther lo stava fissando, con un sopracciglio lievemente alzato, per rendersi pienamente conto di aver detto una frase di circostanza pietosamente mal raffazzonata.

«Oh sì. Un hotel a quattro stelle.» commentò l’altro, sorseggiando un sorso di birra e decidendo apparentemente di sorvolare sulla stranezza delle parole di Danny. «Ma devo ammettere…» continuò poi, guardandosi in giro per la stanza pensierosamente «…che in effetti sembra di essere a casa. Sarà per via del fatto che è dove vivono Yuta e Zoal

Danny sorrise senza rendersene pienamente conto. «Già. Siamo profondamente abituati.» Poi un pensiero parve coglierlo, trascinato dalle sue stesse parole «Anche se è strano, considerando che è tanto tempo che non… ci vediamo.» terminò, con involontaria esitazione.

Uther lo spiò di nuovo da sopra il collo della bottiglia, ancora incuriosito, nonostante Danny non lo stesse guardando, ma sembrasse assorto nel fissare fuori dalla finestra.

«E cosa hai combinato in tutto questo tempo? Voglio dire, davvero ti sei dedicato semplicemente a dare la caccia agli animali domestici smarriti?» gli chiese, quasi cantilenando per scherzo le ultime parole.

Danny gli rivolse un’occhiata stupita, rendendosi conto che l’altro pareva convinto che lui avesse loro nascosto qualcosa. «Beh, sì.» ammise, sbattendo un paio di volte le palpebre con il più candido dello stupore. Poi alzò le spalle e divenne cinicamente distante. «Un modo come un altro per guadagnarsi qualcosa. Non che ce ne sia veramente bisogno. Il Conte ha un sacco di soldi. Lasciti della sua famiglia. Anche se ha un modo tutto suo di amministrarli. Hai visto la casa, no? Più che al lusso, si dedica alle cose di… ricercata decadenza, credo si possa dire.»

Uther materializzò per un momento nella memoria l’immagine della casa del Conte, dove vivevano anche Danny e Justin. «Sì, si può ben dire!» commentò, e poi un sogghigno e un lieve accenno di risatina gli sorsero alle labbra, mentre chiedeva «E come diavolo vi siete conosciuti, tu e il Conte?»

Danny finalmente lo guardò, animato dalla discussione, e poiché aveva ben colto il tono sussiegosamente divertito dell’altro. «Oh, è stato un caso. E’ stata una notte in cui stavo girando per queste zone, di passaggio. E su una collina ho visto queste due persone. Erano il Conte e Justin. Il Conte stava facendo un rito per celebrare l’arrivo della primavera, secondo certe antiche usanze druide, se ho ben capito, e Justin era il suo assistente. A dirla tutta, ci ho messo un po’ a capire chi fosse esattamente Justin. A quanto pare, ha semplicemente risposto ad un annuncio sul giornale. Justin cercava un lavoro e quell’annuncio che cercava un assistente-tuttofare gli era sembrata la cosa meno faticosa. E poi è andato a vivere col Conte ed è diventato il suo assistente in effetti. Non credo si siano presentati altri candidati, sinceramente. Riguardo a quella notte… beh, era da tanto tempo che non incontravo qualcuno che ne sapesse qualcosa di paciughi semi-magici, o presunti tali. E il Conte era molto presunto, per non parlare di Justin. La cosa mi ha…» Danny esitò.

Uther gli dedicò un’occhiata saputamente complice. «Divertito?»

Danny colse l’occhiata e sogghignò. «Qualcosa del genere. O forse ero anche un po’ preoccupato diciamo. Specialmente quando, dopo che mi sono avvicinato a loro e mi hanno spiegato cosa stavano facendo, il Conte, entusiasta del fatto che mostrassi di saperne qualche cosa di riti e così via, mi ha offerto di andare a trovarlo a casa sua il giorno dopo, perché forse potevo trovare interessante il fatto che avesse intenzione di fare un’evocazione.»

Uther alzò un sopracciglio molto sarcasticamente perplesso. «Ah, e c’è riuscito?»

Danny si rilassò, appoggiandosi all’indietro contro la parete mentre ricordava. Sospirò, socchiudendo gli occhi. «Purtroppo sì. È stata dura. Era molto arrabbiata, la creatura che ha evocato. Non so cosa fosse, esattamente, ma è stato difficile riuscire a convincerla delle nostre scuse per averla evocata imprigionandola in un cerchio e a tornarsene a casa. Per fortuna ha ritenuto che fosse sufficiente per punirci farci una piccola maledizione. Una specie di dermatite simile alla varicella. Ci siamo grattati notte e giorno per una settimana buona, poi se n’è andata.»

Uther sghignazzò debolmente per qualche istante, mentre sorseggiava ancora l’ultima parte della sua birra.

«Il Conte è rimasto ammirato dal modo in cui ho trattato con la creatura, e, dal momento che il posto da suo ‘assistente’ era già occupato da Justin, e considerando quelle che lui ha chiamato le mie ‘qualità’, mi ha nominato sua guardia del corpo. O qualcosa del genere. Credo che abbia usato la definizione ‘custode della sua persona, della sua dimora, e delle sue arti’… sì, temo proprio di sì.»

Uther sogghignava ancora. «Ma allora hai un lavoro. Perché mai te ne vai in giro a fare l’acchiappa-cani-e-gatti, anche?»

Danny alzò le spalle ed emise uno sbuffo di riso quasi malinconico. «Non so, per passare il tempo suppongo. Altrimenti non avrei da fare altro che vagare per la casa del Conte, spiare i suoi libri, o stare in compagnia di lui e di Justin. Cosa che a volte è… piuttosto tediante.»

«Hum… non fatico a immaginarlo.» sogghignò ancora Uther, come tra sé e sé.

Danny lo guardò. Certo, avrebbe potuto ammettere a se stesso che la sua sistemazione degli ultimi mesi era parecchio risibile, ma solo ora che vedeva e sentiva il modo in cui Uther si divertiva a considerarla la cosa gli sembrava una faccenda leggera, uno scherzo, non pesante come se si trattasse della sua vita sprecata o cose del genere. Ad ogni modo, il fatto che l’altro sembrasse essere in una modalità più comunicativa di quanto non fosse mai stato negli ultimi giorni lo incoraggiò a provare a fare lui qualche domanda.

«E tu che hai fatto in tutto questo tempo?»

Uther sembrò di colpo tornare serio, ma si sforzò di assumere un’espressione tranquilla e svagata quanto lo era stata fino ad un attimo prima. «Oh, sai, niente di che. Mi sono tenuto occupato. Lavoretti occasionali, andare in giro qui e là. Nulla di speciale.»

Danny rimase deluso. E si sentì quasi sciocco nell’aver pensato di poter eludere così facilmente la ferrea abitudine di Uther di rimanere sul vago quando si trattava di se stesso, di lasciar correre, evitare ogni cosa che sembrasse poter intaccare il suo riserbo. Non come se dovesse nascondere chissà cosa o si facesse tanti problemi nel condividerlo, ma come se fosse convinto di non poter in ogni caso dare l’idea solo attraverso le parole di ciò che aveva vissuto per proprio conto, e raccontarlo.

Uther sembrò però di colpo quasi pentito della risposta. Alzò sull’altro lo sguardo di azzurro chiarissimo, e sorrise un poco, quasi dolente. «Niente di interessante, ad ogni modo. Sicuramente, nulla di fuori dall’ordinario come quello che è successo qui in questi giorni.»

Danny celiò un’espressione divertita «Meglio così, direi! D’altra parte… è curioso, non trovi? Sembra quasi che ogni volta che ci ritroviamo tutti insieme si concentrino delle forze che creano chissà quali incredibili fenomeni strani.»

Uther gli rivolse uno sguardo profondamente interessato per un istante, poi tornò a rivolgerlo alla bottiglia. Sembrava che stesse riflettendo su diverse cose, ma tutto quello che disse fu «La parola giusta che stai cercando è… sfiga.»

Danny si ritrovò così stranito dall’improvviso cambio di tenore sulla serietà della conversazione che ridacchiò di cuore. Poi, ripresosi, osservò per un momento il sorrisetto che aleggiava pallidamente sulle labbra di Uther. Nonostante tutto, riusciva comunque a vedere che l’altro sembrava angustiato da qualcosa di pesante. Si ricordò allora che erano giorni che non usciva da quella stanza, che se ne stava a letto e quasi costantemente in solitaria. E a guardarlo bene, e a considerare come lo conosceva lui, gli appariva chiaro che era come se non fosse il solito Uther. Ma non poteva essere sicuro di questo. Non si erano visti per molto tempo, e Uther poteva essere cambiato. Era umano in ogni caso, o meglio, molto più umano di quanto non si potesse auto-considerare Danny. E gli esseri umani invecchiano, e quindi cambiano, ad un ritmo diverso da quello dei lupi, più rapido e più complicato forse. Molte volte Danny si dimenticava completamente di questa differenza: nonostante l’educazione da neo-lupo che aveva ricevuto quello che sembrava un sacco di tempo fa pur non essendolo nemmeno contando con la cadenza umana, aveva pur sempre vissuto la maggior parte della sua socialità con esseri umani. E solo molto raramente gli era sorta spontaneamente alla mente quella differenza che tuttavia, forse, non avrebbe dovuto dimenticare così spesso.

«Come va la ferita?» si ritrovò a chiedere, dopo qualche altro istante, come preso da una notevole intuizione di quali fossero, finalmente, le parole giuste.

Uther sussultò impercettibilmente, ed evitò studiatamente di guardarlo. «Guarita.» sancì «Me l’ha detto proprio il dottore, Ramo in persona. In ogni caso, non era niente di grave.»

Nemmeno per un istante Danny si lasciò distrarre però dal tono evasivo di quella risposta. Aveva un obbiettivo cristallino nella sua testa, ora. E lui era un cacciatore di natura. «Già, poca roba, dopotutto. Giusto un proiettile che ti ha preso di striscio. Per fortuna.» continuò. Nonostante la cadenza fluida delle sue parole, il suo tono si era fatto serio e penetrante, appena sotto la superficie. E Uther non era la persona che potesse farsi sfuggire le sue variazioni di voce.

Alzò lo sguardo su di lui, serio di colpo, anche se ancora apparentemente tranquillo. «Esatto.» disse solo, in tono lapidario, quasi di avvertimento, un ‘non andare oltre’ sospeso nell’aria con risolutezza, come un sigillo.

Danny sostenne il suo sguardo, e i suoi occhi divennero di colpo apertamente pieni di significato, investendo il suo conversatore solo un istante prima di parlare, per non dargli il tempo di sfuggire in alcun modo. «Un mio proiettile.»

Un lampo di rabbia solcò lo sguardo di Uther, sottile ma profondo come uno squarcio direttamente sulle radici della furia che poteva scatenarsi da un momento all’altro. E una volta passato, non accadde niente. Uther continuò semplicemente a fissarlo con sguardo duro, le dita strette a pugno attorno alla bottiglia.

L’espressione di Danny, invece, poco dopo cedette, e sul suo volto si fece strada una tristezza sconfinata. Chiuse gli occhi, abbassò un po’ la testa e la scosse appena. «Perché non me l’hai detto?» mormorò.

Non sapeva come l’aveva capito, che era stato lui a ferire Uther. Forse, in qualche parte della sua testa era riemerso solo recentemente qualche frammento di ricordo degli ultimi momenti prima che perdesse conoscenza per la ferita subita dal cecchino che aveva ucciso. All’inizio, quel ricordo era andato perduto, ma poi era ritornato, riemergendo dall’oblio in cui si era smarrito quando lui aveva perso conoscenza e aveva iniziato a sognare ricordi di tempo addietro. Il ricordo di quando, dopo aver sparato al cecchino e prima di cadere, aveva esploso un altro colpo verso la foresta. Il suo era stato un gesto istintivo e sconnesso. Era debole, stava perdendo conoscenza, e il suo istinto gli suggeriva che era a pochi passi da un baratro ben più profondo e senza ritorno. Quell’istinto non completamente umano e selvatico che alzava e rafforzava le difese proprio nel momento in cui si sentiva più vulnerabile. L’antico istinto di un lupo che, sentendosi cadere dopo essere stato ferito e sentendo l’odore della morte probabile su di sé, attacca istintivamente ogni cosa che sembra suggerire un pericolo dinanzi a sé. No, non era più lucido in quel momento. Non abbastanza da distinguere che lo scintillio familiare che aveva scorto al limitare del bosco, a qualche decina di metri da lui, l’inconfondibile sfarfallio della luce lunare sul metallo lungo di un fucile, era proprio quel fucile, quello che Uther si portava appresso da che lo conosceva. E aveva sparato in quella direzione. Gli altri non se ne erano nemmeno accorti, e le sue stesse orecchie da lupo avevano percepito appena il sottile sibilo di un proiettile che parte col silenziatore inserito. Poi era come se non fosse successo. Ma ora poteva ricordarlo. E se i suoi sensi in quel momento ottusi, aggrappati solo al nudo e crudo istinto di auto-conservazione, erano da maledire per aver sparato contro Uther, erano all’opposto da benedire nell’essere stati incapaci di colpirlo più di quanto sufficiente per procurargli appena una ferita di striscio.

Uther emise un verso di schernita ironia. «Perché, cosa sarebbe cambiato se te lo avessi detto? Non è successo niente di grave. Una ferita di striscio, niente di più, ed è già guarita.» insistette.

Danny lo fulminò con lo sguardo. «Ma ti ho sparato addosso! Come puoi dire che non è niente?!»

Uther corrugò la fronte, con un principio di seria alterazione. «Non ti ho forse sparato addosso anch’io una volta?» obbiettò.

Danny lo guardò incredulo. «Sai bene che è completamente diverso.» mormorò «Vi stavo attaccando. Mentre l’altra notte tu non stavi…»

«Ho puntato il fucile. Volevo colpire il cecchino, appena prima che fossi tu a colpirlo in effetti, e tu hai visto un fucile puntato, eri ferito e non perfettamente lucido. Hai reagito di istinto. È stata una questione di pochi secondi, ed è perfettamente normale non riuscire sempre a fare le cose proprio completamente per bene in certi frangenti, ad esempio quando ne va della propria vita o morte, ti pare?» lo interruppe Uther, infastidito.

Dannny rimase qualche istante in silenzio. «Per me non è sufficiente questo. No. Se deve essere una scusa… non è per niente sufficiente…» disse piano.

Uther lo guardò con sincera comprensione. «Ora ti rendi conto che sai già la risposta alla tua domanda? Perché non te l’ho detto? Perché tu di solito reagisci in questa stupida maniera… devi per forza tenerti addosso le croci del mondo. E non sai perdonarti.»

Danny spalancò gli occhi. Quelle precise parole sembravano straordinariamente adatte a spiegare tutt’altro argomento. Quello che aveva a che fare con ciò che gli aveva detto Kumals a proposito del perché Uther avesse mollato i ‘4 di picche’. La sua domanda e la risposta di Uther filavano perfettamente. Non si sentiva forse come in colpa per via di ciò che Kumals gli aveva rivelato? Proprio come se fosse colpa sua. Era più colpa sua di quanto lo fosse il fatto che gli aveva sparato? Come se un destino caparbiamente crudele si divertisse a ripetersi senza fantasia: lui era l’aguzzino, e Uther era la vittima. Per quanto fosse l’ultima cosa che volesse, e Uther fosse tra le ultime persone che lui desiderasse ferire. In qualsiasi modo.

Poi, di colpo, gli apparve chiaramente. C’era una cosa che poteva fare, ed era la migliore di tutte, fin dove arrivava la sua immaginazione.

«Allora, non farmi sentire in colpa.» rispose infine, guardando Uther. Lentamente la sua espressione mutò, mentre continuava, e la componente più grave era bruciata ai margini da un sincero moto di puro affetto. «Se è vero che la ferita è guarita, che stai bene, dimostramelo! Vieni a fare una passeggiata nel bosco. O a prendere il sole fuori. È vero, c’è Kumals, ma il Conte lo sta tenendo occupato… e per questo, temo proprio che dovrai riconsiderare per un momento il mio amico ed essergli almeno un poco grato.»

Uther osservò con grande attenzione quell’espressione, come se gli si stesse imprimendo in testa con naturalezza. Fu distratto per un momento dal modo in cui, sebbene Danny non stesse ammiccando, era come se gli stesse rivolgendo una delle maggiori complicità che gli avesse mai visto dedicare a qualcuno. Ma nonostante quello, gli stava chiedendo qualcosa di più significativo. E aveva vinto, perché la trappola che gli aveva appena teso era già scattata, non necessitava di una sua mossa di tradimento. Poi distolse lo sguardo e tirò fuori da qualche tasca dimenticata della sua testa un sogghigno da scacchista. «Sei bravo in queste cose, eh?»

Anche Danny sorrise astutamente. «Ho imparato da uno molto bravo.»

Entrambi capirono che si riferiva ad Uther stesso, e quest’ultimo credeva di poter indovinare dove voleva andare a parare quella risposta. A quando era stato lui, Uther, a sparargli e ferirlo, e al modo in cui gli aveva poi chiesto di aiutarlo col suo senso di colpa, assecondando la sua richiesta di farsi aiutare e poi di conoscere gli altri. Ruoli capovolti, ma il senso di quel trucco non sembrava essere cambiato poi di tanto. Ognuno chiedeva all’altro di fare qualcosa per sé che, più propriamente, aiutava entrambi in qualche modo. Non per niente, ora Danny gli stava chiedendo di mettere piede fuori dalla stanza seriamente.

«Che c’è, hai bisogno di un bastone per camminare?» accennò provocatorio Danny.

Uther lo guardò. No, più propriamente lo stava sfidando. Paura per paura. Quello che un tempo era stato un lupo che riteneva di poter essere aggredito da un momento all’altro seguendolo in mezzo ad un gruppo di umani ferrati nella caccia alle creature soprannaturali, ora lo sfidava ad affrontare la sua stessa debolezza in cui si era rifugiato come in guscio che lo sottraesse per un momento da quel mondo in cui, lo sapeva bene da tempo ormai, gli sarebbe sempre acutamente mancata quell’unica cosa che il lupo non poteva dargli, perché non la possedeva, per quanto potesse desiderare altrimenti.

«Solo perché tu sei in grado di camminare su quattro zampe, non ritenerti così superiore, sai?  Ricorda che in quella tua forma osservi noi a due gambe dal basso in alto.» rispose a tono.

Danny sorrise e una luce di soddisfatto divertimento gli illuminò lo sguardo come due pozze d’acqua profonda e fresca nell’ombra estiva di un bosco. «Anche voi avete pur sempre quattro arti. Ma siete la cosa più disaggraziata del mondo a vedersi se provate a camminare su tutte e quattro.»

Uther gli scoccò una rapida occhiata soppesante, poi sorrise. «Questa non è male.» concesse, alzando la bottiglia in un gesto complimentoso, per poi portarsela alla bocca, e accorgersi che era già vuota. Guardò il vetro ormai vuotato con un infastidito rammarico, poi tornò a ricambiare lo sguardo di Danny. Alzò le spalle, come a ritrarsi in se stesso, anche se non riuscì a nascondere il sorriso che gli si disegnò sulle labbra.

«Beh… dopotutto, perlomeno dovrò scendere a prendermi un’altra birra.» disse.

Danny si trattenne dal ridere, prenderlo in giro, o fare qualsiasi altra cosa, nonostante ritenesse fosse uno spettacolo particolarmente degno di nota il modo in cui Uther cercava di non dargliela vinta nonostante tutto. Così, finse anche di ignorare perfettamente il fatto che, quasi sicuramente, c’era ancora qualche bottiglia piena ben al sicuro nella personale scorta di Uther, sotto al letto, e che l’altro lo sapeva benissimo.

 

 

Soundtrack: Sweet disposition (The Temper Trap)

Ritorna all'indice


Capitolo 69
*** 67 - A PROPOSITO DI KUMALS ***


Capitolo 67

(A PROPOSITO DI KUMALS)

 

«Credo che mi stia venendo la febbre.» osservò Kumals, sistemando meglio la pezza bagnata di acqua fresca che si teneva sulla fronte. Sdraiato nella sedia a sdraio cavata fuori da qualche angolo della soffitta di Yuta e Zoal e portata in giardino, osservò con occhio torvo la scena circostante.

Nella luce del tramonto, Yuta e Valentine ridevano e chiacchieravano tra loro, abbassando talvolta il tono per parlare più confidenzialmente. Sdraiate a pancia in giù su un plaid dalla fantasia patchwork disteso per terra, stavano facendo un puzzle e sorseggiando cicchetti di liquori auto-prodotti almeno da una mezz’ora a quella parte. Di tanto in tanto, Yuta alzava la voce per chiamare Uther, affinché le raggiungesse; ma lui se la prendeva comoda. Seduto comodamente su una sedia, la schiena appoggiata anche al muro della casa e le gambe distese in modo rilassato davanti a sé, parlava con calma con Zoal. La loro sembrava una conversazione particolarmente lenta e piena di tatto, come se ognuna delle poche parole fosse scelta con cura. Tutti e quattro i cani, distesi accanto a loro e impegnati a sonnecchiare tranquillamente, sembravano immersi nei loro sogni canini.

«Io credo piuttosto che il Conte ti abbia fatto venire il mal di testa.» obbiettò la voce accanto a lui.

Kumals spiò Ramo, seduto di fianco alle sue gambe sullo sdraio, in una delle sue pose più rilassate, ovvero con la schiena curva e i gomiti appoggiati sulle ginocchia, le mani unite con le dita sommariamente intrecciate. Il suo sguardo però era rivolto a spiare Uther, e un sorriso di contentezza gli attraversava il volto da parte a parte, come se fosse ad un passo dallo scoppiare da un momento all’altro in un’allegra risata.

Kumals chiuse gli occhi e sorrise tra sé e sé. «Risposta banale per un dottore. Pardon, veterinario. D’altra parte, a giudicare dal risultato ottenuto coi tuoi pazienti, forse si può trarre la conclusione che anche con gli umani non te la cavi male.»

Ramo lo guardò e prese un sorso di birra dalla lattina appoggiata accanto ai suoi piedi, dopo averla raccolta con un movimento talmente tranquillo da sfiorare l’indolenza. «Sono un ottimo dottore. Di animali e umani.» si auto-incensò, fingendo uno scherzoso orgoglio.

Kumals sospirò stancamente. «E qual è la tua diagnosi riguardo il Conte? Voglio dire, senza scadere nella psicologia, quella sarà meglio lasciarla perdere a suo riguardo. Ma come diavolo può sopravvivere standosene sempre senza prendere un’oncia di sole e nutrendosi di… sangue comprato dal macellaio?»

«Hum…» rifletté Ramo «Da quello che mi diceva, Danny sospetta che in realtà mangi anche altre cose, ma di nascosto perlopiù. È una questione di… presentazione della sua persona, suppongo. Danny mi ha spiegato che, a quanto pare, vorrebbe essere un vampiro.»

Kumals ebbe un forte sussulto, aprì gli occhi sul cielo che andava imbrunendosi, uno sguardo grave accompagnato da una smorfia di contrarietà. «Pessima idea.» commentò. «Evidentemente non ne ha mai incontrato uno…»

Ramo lo contemplò con curiosità così pura da sembrare quanto mai quella di un bambino. «Tu sì??»

Kumals si stiracchiò appena, mettendosi più comodo. «Non qualcosa che ricordo volentieri. E spero che non mi ricapiti…» rispose solo, lasciando cadere il discorso.

Per quanto evidentemente deluso dalla mancata possibilità di sentire qualche storia interessante, Ramo gettò la spugna. Kumals sembrava fin troppo provato, dopotutto. Non stava precisamente cercando un altro argomento, ma lo sguardo gli ricadde su Uther, al quale Yuta si stava rivolgendo vivacemente per convincerlo a passare dalla birra ai cicchetti di liquore.

«Certo che… è straordinario. Sembrava stare così male, ma… ora sembra quasi il solito.» osservò, come se parlasse a se stesso.

Kumals seguì la linea del suo sguardo e tralasciò la formalità di chiedere di chi stesse parlando. Chiuse di nuovo gli occhi e sorrise. Non aveva intenzione di far intuire a Ramo cosa, o meglio chi, avesse avuto il potere di far uscire Uther da quel maledetto letto. Dopotutto, aveva la sensazione che l’altro stesse solo cercando di fargli dire chiaramente qualcosa alla quale poteva arrivare per semplice deduzione. Per un momento, si sentì invaso da una sensazione di malinconico affetto, che gli era fin troppo familiare, non solo a riguardo di Uther. Poi ritenne opportuno cambiare argomento.

«Saranno state le tue miracolose cure. È bene che ti abitui a prenderti anche i meriti che non ritieni di avere, se vuoi avere successo nella tua professione. In questo senso, mi pare proprio che i ‘4 di picche’ siano stati un’ottima scuola, no?»

Ramo occhieggiò verso di lui, poi rise brevemente. «Quello che posso dirti, è che iniziare a vivere troppo nel passato rende più vecchi.»

Kumals riaprì gli occhi di colpo e lo fissò, stupito. Poi però sogghignò ammiccante. «Anche il tentativo di improvvisare qualche perla di saggezza fa apparire parecchio anzianotti, sei avvertito.»

«Nah.» motteggiò Ramo «Non preoccuparti. Questa specialità te la lascio.»

Kumals si limitò a sorridere e incassare, mentre il suo sguardo scivolava di nuovo su Uther.

Illuminato dal sole al tramonto, che faceva risplendere di un baluginio dorato i capelli e i peli color paglia sulle braccia arditamente nude nonostante non facesse poi così caldo, gli occhi azzurri illuminati dal solito luccichio confidenzialmente divertito dovuto alla birra, e la pelle non così meno scurita e indurita dal sole rispetto al solito, poteva in effetti sembrare il solito Uther. Se non fosse stato per ciò che gli mancava.

Kumals soppesò la situazione tra sé e sé, considerando anche gli assenti. Il Conte e Justin erano tornati a chiudersi in soffitta. Poteva immaginarli, l’uno che dormiva nella sua bara, magari persino composto nella posa di chi è effettivamente sepolto sotto metri di terra, e l’altro che si leggeva i suoi fumetti masticando un chewingum da tempo degno di essere sputato. Riguardo a Danny e Andrea, se ne erano andati a scorazzare per la foresta come una qualsiasi coppietta spensierata in vacanza.

Forse, allora, andava davvero tutto abbastanza bene. Forse, poteva tirare qualche somma, e riposarsi più cospicuamente sull’illusione perfetta che tutto andasse abbastanza veramente tanto bene, in qualche modo.

«Una “vecchiaia” tranquilla. Molto più di quello che si potrebbe sperare nel mio caso. Ma perché no. Per un momento, fingerò che sia tutto qui.»

«Cosa?» domandò Ramo, avendo udito un mormorio troppo basso per poter distinguere le parole. Ma voltandosi nel mentre verso Kumals, vide che l’altro rimaneva impassibile ad occhi chiusi e con le membra rilassate, e realizzò che si era assopito. Ramo sorrise amichevolmente, poi tornò a guardare gli altri, lasciando che un’aleggiante senso di rilassante calma lo cullasse come se stesse dormendo beatamente anche lui.

*

***

*

Erano pressappoco le tre della notte. Yuta lo sapeva, e la cosa le risultava particolarmente irritante. Aveva fatto di tutto per cercare di addormentarsi: leggere libri, chiudere gli occhi  e giacere immobile nella posizione più comoda che riuscisse a trovare, accendere incensi di fragranze rilassanti. Quando era arrivata al punto da sperare che i suoi movimenti accortamente silenziosi potessero comunque svegliare Danny o Andrea per farle compagnia, beatamente addormentati abbracciati nell’altro letto della stanza, aveva deciso di arrendersi.

Eccolo lì, il motivo per cui, alle tre di notte, stava scendendo le scale cercando di non far rumore, diretta in cucina: banale insonnia. Ma contava sulla soluzione successiva: una tisana di quelle erbe che avrebbero avuto il potere di far addormentare un cavallo. O quasi. A tutti gli effetti, erano piante consigliate anche come tranquillizzanti, sorta di anestetici naturali da utilizzare per gli animali in caso si dovesse applicare loro qualche bendaggio o altra cura per cui era augurabile che stessero abbastanza fermi.

Aveva quasi raggiunto la soglia della cucina, quando qualcosa attirò prepotentemente la sua attenzione, facendola sussultare di spavento e costringendola a trattenere in gola l’ennesimo sonoro sbuffo che stava per uscirle vigorosamente dalla bocca. Si immobilizzò immediatamente e quasi trattenne il fiato, interrogandosi sul fatto di aver davvero sentito dei piccoli rumori provenire dalla cucina. Ma, a ben guardare, non era normale che dalla stanza provenisse quel soffuso chiarore, come il riflesso di una piccola fonte di luce.

Si concentrò meglio, e continuò a sentire quei piccoli rumori. Erano sicuramente del tipo di quelli prodotti da qualcuno che si muoveva furtivamente. Lentamente e silenziosamente, Yuta iniziò a muoversi per girarsi su se stessa e tornare di sopra. Non era ancora sicura se fosse addirittura il caso di svegliare qualcun altro, ma sicuramente era il caso che lei si procurasse qualcosa di meglio di se stessa, i vestiti da notte che indossava e il paio di pantofole che, se non altro, erano abbastanza morbide da permetterle di procedere a passi silenziosi.

Stava già riflettendo sull’opportunità di armarsi più o meno pesantemente, quando un rumore diverso dagli altri ricatturò la sua attenzione. Si fermò, e si girò di nuovo, dedicando alla soglia della cucina un’occhiata decisamente meno allarmata e più irritata. Attese, finché, qualche istante dopo, l’inconfondibile rumore si ripetè: rumore di vetri che si urtano appena. Vetri di bottiglia, per la precisione.

Yuta sogghignò, qualcosa tra la furba intuizione e il mordente rimprovero. Poi optò per tutt’altro genere di arma. Si mosse fin verso la porta d’ingresso e impugnò il manico di una grossa scopa da giardino, dopodiché riprese ad avanzare verso la soglia della cucina, sempre con accurata silenziosità.

Una volta raggiunta la porta aperta, poté spaziare lo sguardo nella penombra che avvolgeva la stanza. A rischiarare l’ambiente, abbastanza da permetterle di vedere la sagoma chinata in un angolo della stanza e che le dava le spalle indaffarandosi in qualcosa e cercando di essere silenziosa, era una torcia a pile appoggiata per terra, col fascio di luce rivolto verso l’occupazione della figura accucciata sul pavimento.

A Yuta occorsero solo un paio di occhiate per riconoscere la sagoma, e la seconda di esse era solo di puro controllo, perché, a tutti gli effetti, si era aspettata di trovare qualcun altro, quando aveva sentito il rumore delle bottiglie di birra. A quanto pare, però, la nuca di chi si stava indaffarando a sistemare le bottiglie tenute dentro una svariata serie di recipienti, dai cartoni da birra del supermercato fino ai contenitori di bottiglie di plastica, non era ricoperta da capelli biondi e quasi ricci, bensì da lunghi rasta.

La ragazza raccolse il fiato, poi emise un poderoso e significativo «Haem!», che risuonò chiaramente nel silenzio della casa. Quasi contemporaneamente, la sagoma sussultò di sorpresa, e subito dopo le braccia si agitavano per cercare di impedire che le bottiglie che le erano sfuggite di mano rovinassero troppo bruscamente sul pavimento. Ci riuscì, quasi altrettanto bene quanto nell’assumere un’aria di compassata naturalezza in tempi sufficientemente rapidi da permetterle di girare poi la faccia verso di lei e affrontare la sua espressione.

«Heylà. Buonasera.» salutò semplicemente Kumals.

Per un momento, Yuta fu quasi davvero colpita dall’immacolata maschera di nonchalance che lui indossava perfettamente. Poi dovette ricordare a se stessa che lo conosceva fin troppo bene per lasciarsi impressionare troppo dall’abilità di certi suoi trucchi.

Gli rivolse un sorriso felinamente sagace, prima di rilassare la bocca in un tono impertinentemente provocatorio. «Okay. Se volevi sembrare uno che sta cercando appositamente di non fare il sospetto, ci sei riuscito perfettamente.»

Kumals considerò momentaneamente la stoccata, ma già si stava rialzando in piedi, passando le mani sul cappotto all’altezza delle ginocchia per spolverarlo. «Non stavo facendo niente di strano. Stavo solo prendendo una birra.» spiegò, con eccellente tranquillità.

Yuta lo considerò da capo a piedi, prendendosi il tempo strategico che occorreva per dare abbastanza peso alla sua obiezione. «Già. Curioso che tu non ne abbia una in mano, al momento.» notò, con placida calma apparente.

Kumals corrugò appena la fronte per un istante. Ma si riprese molto rapidamente per ribattere «Questo è perché mi hai spaventato facendo rumore, e mi hai distratto. Ma è esattamente quello che stavo facendo.»

Yuta si disimpegnò della scopa da giardino appoggiandola alla parete accanto alla porta,quindi incrociò le braccia e si appoggiò allo stipite con la spalla e il fianco, tornando a guardarlo con interesse. «Hmmm…» mugugnò, fingendosi dubbiosa «Quindi non stavi, come in effetti sembrava, contando le birre, vero?»

Kumals le lanciò uno sguardo di stupore costruito ad arte, per celare quanto prima possibile il principio di tradita sorpresa che stava per prendere possesso della sua espressione. «Cosa? Perché mai dovrei farlo?!»

Continuando a recitare, Yuta fece vagare lo sguardo per la stanza, portandosi il dito indice di una mano alla bocca in posa riflessiva. «Oh beh… conoscendo il tuo contorto modo di fare le cose la stragrande maggioranza delle volte, credo che sia una specie di maniera per sincerarti delle condizioni di Uther

Kumals rimase in silenzio. Alla fine, scrollò le spalle e, sospirando, si chinò a prendere una birra. «Potrebbe anche essere un modo, seppure estremamente contorto, di fare le cose, sì.» ammise, mentre andava a sedersi al bancone della cucina.

Yuta lo guardò, con un sorriso. Il gioco era finito. E lei aveva vinto. «Tu sei contorto, Kumals.» commentò confidenzialmente, mentre a sua volta rompeva la posa statica per raggiungere i fornelli.

Kumals ingoiò il sorso di birra e spiò i suoi movimenti al di sopra della spalla. «Nahhh. Non davvero.»

«Lo sei.» insistette con tranquilla sicurezza lei, mentre iniziava a riscaldare l’acqua sul fuoco.

Kumals considerò per un momento il suo tono, mentre si distraeva a notare quanto Yuta sembrasse casalinga in quel momento. Non che, persino nelle vesti da notte, non apparissero evidentemente i suoi gusti, a cominciare dalle pantofole di pelo finto leopardato, fino alla vestaglia di finta seta e di forma e decorazione floreale in stile giapponese. Forse sembrava più domestica perché i suoi capelli non erano articolati in qualche architettura di bastoncini e nastrini colorati ma semplicemente legati in un’alta coda di cavallo, e non indossava orecchini. E Yuta senza orecchini sembrava quasi nuda. Per un momento Kumals fu sul punto di dirglielo, ma subito dopo considerò le implicazioni di eccessiva confidenza di quell’osservazione provocatoria, e si trattenne. Poteva scherzare su un sacco di cose, ma il terreno che riguardava, anche se solo alla lontana, un certo tipo di intimità, era per sua sensazione qualcosa che era meglio lasciare da parte. Troppo infido e probabilmente facilmente inopportuno tra loro.

«Che razza di intruglio a base di erbe strane hai bisogno di preparare alle tre di notte?» domandò divertito.

Le dita di lei continuarono a dosare con cura il misto di foglie e petali essiccati e triturati che stava preparando in una ciotola di legno. «Qualcosa per dormire. E non sono ‘erbe strane’. Niente di più e niente di meno che alcune piante selvatiche dalle proprietà rilassanti che crescono comunemente in questi boschi. Tranne qualcuna che abbiamo raccolto tempo fa in altre zone. E qualcun’altra che coltiviamo nell’orto o nei vasi in casa.» spiegò, assorta.

«Insomma, una tisana.» semplificò Kumals.

«Un infuso.» corresse lei.

Kumals alzò un sopracciglio, divertito. Non aveva intenzione di condurre la conversazione su una spiegazione della differenza tra i due termini. «Avanti… Potrai bere brodaglie calde e analcoliche quando sarai decrepita. Ora puoi essere ancora definita giovane.»

La ragazza, che aveva appena terminato di riporre il coperchio sull’ultimo contenitore di erbe che aveva usato, girò le spalle ai fornelli e si appoggiò al bordo d’essi, incrociando le braccia e affrontandolo vis à vis. «Sono certa che questo tipo di parole non meritano un ringraziemento… non proprio come se fossero un complimento. Anche se, considerando il tuo modo di essere implicitamente terribilmente contorto, potrebbero anche esserlo. Involontario, magari.»

Kumals rise un poco. «Oh, suvvia! Se davvero pensassi che ti ho offesa, a quest’ora mi avresti già tirato qualcosa addosso.»

Yuta vi rifletté sopra solo per un breve istante. «Sì, è vero.» ammise senza difficoltà.

Kumals alzò la bottiglia e la agitò leggermente facendola penzolare tra le dita per il collo. «Niente birra, quindi?»

Yuta girò appena la testa per rivolgergli un sorrisetto di sbieco. «Non farmi pensare che un giorno qualcuno dovrebbe contare le bottiglie anche per sincerarti delle tue di condizioni. Comunque, cosa hai potuto trarre dal tuo conteggio, riguardo a Uther

Kumals rinunciò al suo gesto di tentazione tornando a riappoggiare la bottiglia sul bancone accanto a sé. «Dunque, sostanzialmente…»

Un silenzio composto cadde nella stanza. Yuta sospirò brevemente e pazientemente, concedendogli la difficoltà nell’esprimere un giudizio in qualche modo sensato. «Oggi Danny è andato a parlare con lui, no? E ora cammina sulle sue gambe, fuori dalla stanza. Almeno per qualche ora. Ha cenato con noi, è rimasto con noi finché non siamo andati a dormire. Mi sembra un ottimo inizio, no?»

Kumals considerò la cosa, poi le servì un’espressione di stupore. «Oh, davvero? Danny è andato a parlarci?»

Yuta alzò un sopracciglio ma sorrise divertita, suo malgrado. «Lascia perdere. So che lo sai benissimo. Mi stupirebbe il contrario. Che tu non sappia qualcosa di quello che succede qui dentro.»

Kumals le restituì lo sguardo con altrettanta provocazione. «Dev’essere irritante, considerando che è casa tua.»

Yuta scosse la testa, per negargli la deviazione. «Uther sembra stare meglio, no?» insistette.

«Davvero lo pensi? Oh, bene. Mi fa molto piacere!» recitò di nuovo Kumals.

La ragazza lasciò che il silenzio ricadesse a pesare in risposta su quell’elusività testarda, mentre si voltava a versare le erbe essiccate nell’acqua che iniziava a sobbollire. Non si stupì nel sentire la voce dell’altro, né di sentirla così incertamente sospesa.

«Insomma…» accennò Kumals.

Yuta continuò con calma a rimettere a posto i contenitori delle erbe e a spolverare la ciotola di legno ormai vuota con uno strofinaccio pulito.

«Quindi…» ritentò Kumals.

Ora lei stava spegnendo il fuoco sotto alla piccola pentola e mescolando l’acqua che si andava tingendo di un colore brunaceo.

Kumals si voltò sulla sedia per guardarla. «Quindi?»

Yuta si voltò. «Quindi cosa?»

«Insomma, cosa ne pensi? Come pensi che stiano andando le cose? Per Uther, intendo.» esplicitò Kumals.

«Potrei sempre leggere il futuro nelle foglie del tè. Probabilmente non è molto diverso dal contare le bottiglie di birra per vedere quante ne beve al giorno. Anche perché sospetto che il tuo metodo non dia alcun risultato. Credo proprio che il numero di quelle che spariscono sia rimasto sempre costante, almeno fin da quando è tornato abbastanza abile da riuscire a reggersi sulle gambe per sgattaloiare quaggiù nottetempo a prendersene qualcuna, no?» rispose Yuta.

Kumals ci pensò sopra per un momento. Poi il suo sguardo si illuminò per la rivelazione. «Ma certo!» esclamò. «Sei un genio!»

Yuta alzò un sopracciglio, rendendosi conto che l’altro non sembrava stare scherzando. «Attento, questo sì che assomigliava pericolosamente ad un complimento.»

Kumals proseguì come se non l’avesse sentita. «Oggi ci sono più bottiglie, cioè, ne mancano meno di quelle che sparivano di solito. Vuol dire che non ha pensato di dover rifornire la sua scorta giornaliera che tiene sotto il letto. Questo significa che non pensa che continuerà a stare chiuso nella stanza tutto il tempo, ma che girerà per la casa come tutti noi e quindi potrà prendersene una quando vuole!»

L’uomo rivolse a Yuta uno sguardo di tripudio, e gli occorse qualche istante per comprendere perché lei non stesse contraccambiando il suo entusiasmo. Tossicchiò e si ricompose rapidamente, tornando ad assumere un contegno meno prossimo alla vittoriosità. Si appoggiò al bancone con un gomito e riprese a sorseggiare la birra con tranquillità. «Ad ogni modo, mi stavi dicendo a proposito delle tue considerazioni a riguardo della faccenda.» disse.

Yuta scosse appena la testa, notando la sua abilità nel darsi delle arie di serietà composta. Sapeva però che, aldilà di tutte quelle sconclusionate predizioni a base di conti da cambusa, doveva essere davvero stato molto preoccupato per Uther ultimamente. Per questo, forse, si decise a sedersi in un’altra sedia vicino a lui, con la sua tazza di infuso bollente che le scaldava piacevolmente le mani. Lasciò che lo sguardo si distraesse nel fumo che esalava dal liquido bollente, una danzante colonna impalpabile nell’aria che si dissolveva lentamente sfumando nel nulla poco oltre l’altezza del suo viso.

«Questa è una situazione in cui le cose non possono evolvere più di tanto. Pensavo lo sapessi già. Credo che, qualsiasi cosa sia, sia per sempre, ma solo proprio così com’è ora.» disse infine.

Kumals mugugnò pensierosamente tra sé e sé.

Yuta fu distolta dal suo stato contemplativo e lo fissò come se fosse stata disturbata. «Cosa c’è da mugugnare come una vecchia teiera?» domandò, anche se il suo tono era più affettuosamente comprensivo che leggermente aggressivo.

Kumals fissava la superficie del tavolo come se invece stesse cercando di cavare qualcosa da essa. «Non ne sono sicuro, ma sembra una cosa piuttosto triste.» ammise.

Yuta sorrise, dolcemente ma tristemente. «Forse. Ma sarebbe molto più triste cambiare le cose che non possono tramutarsi in qualcos’altro, e perdere per sempre quelle che si hanno, splendide in ciò che sono. Non trovi?»

Kumals sospirò a lungo. «Non lo so. Forse a volte, però, la paura di perdere qualcosa che già abbiamo, ci priva per sempre della possibilità di cercare di sfidarci per ottenere qualcosa di ancora meglio.»

La ragazza restò per un momento silenziosa, immersa nei suoi pensieri, lo sguardo sospeso nel nulla di fronte a se e le labbra piegate a soffiare sulla tazza per raffreddarne il liquido. Dopo qualche momento, abbassò gli occhi sull’infuso. L’istante successivo si stava alzando per appoggiare la tazza lontano sul tavolo, prendere un bicchiere vuoto, e risedersi mentre allungava una mano aperta in attesa verso Kumals. Lui considerò per un momento il gesto, poi le passò la bottiglia di birra permettendole di versarsene un bicchiere prima di restituirgliela. E non avanzò alcun commento; cosa che molti avrebbero detto insolita da parte sua.

«Cosa ne pensi…» ruppe senza preavviso il silenzio Yuta «..di come andranno le cose?»

«Definisci ‘cose’.» invitò Kumals.

«Non so, riguardo a Zoal…»

L’uomo la guardò finché lei non gli ricambiò lo sguardo, e la fissò con seria aria di promessa. «Yuta, Zoal starà bene. Sono sempre stato più che sincero a questo proposito. Non devi preoccuparti…»

Yuta si tranquillizzò, ma scelse di lanciargli un’occhiata alleggerente. «Io mi preoccupo sempre, per sicurezza.» scherzò.

Kumals scoppiò in una breve risata. «Già. Tutto sommato saggio, anche se faticoso.» scherzò a sua volta.

«Tu sei il maestro delle preoccupazioni non necessarie, non posso davvero accettare questa osservazione da te.» gli ribatté lei.

Kumals sembrò rifletterci su per un breve istante, anche se con atteggiamento ancora giocoso. «No, non sono una persona così preoccupata.»

«Lo sei invece. Magari anche preoccupante, ma soprattutto preoccupata.» insistette la ragazza.

Kumals la guardò, con curioso interesse. «Sul serio? Do questa impressione?»

Yuta gli lanciò un’occhiata saputa al di sopra del bicchiere dal quale stava sorseggiando distrattamente. «Forse non dai l’impressione. Ma noi ti conosciamo da troppo tempo per poter credere che tu non sia una persona estremamente… apprensiva.»

Uno sei sopraccigli dell’uomo si inclinò maggiormente. «Male. È una di quelle cose che fanno sembrare vecchi, piuttosto disdicevole.»

Yuta ridacchiò. «Usare la parola ‘disdicevole’, quello sì che ti fa sembrare vecchio.»

Kumals raddrizzò la schiena e si finse più offeso di quanto poteva realmente sentirsi. «Acculturato, semmai. Possiedo semplicemente un ricco vocabolario.»

«Perciò…» accennò Yuta, con un luccichio divertito negli occhi «Si potrebbe anche dire ‘decrepito’.»

«No. Direi proprio che la parola giusta è ‘acculturato’.» insistette Kumals, tenendo fermo su di lei uno sguardo testardamente provocatorio.

La ragazza però rise, distogliendo gli occhi da lui, poi sospirò brevemente, ma in modo rilassato. «E’ strano davvero. In questi giorni è sembrato come se quasi non fosse passato del tempo. Tutti i ‘4 di picche’ riuniti e tutte queste dannate cose… Però, forse… Sì, forse è questo: fatico ad abituarmi all’idea che nelle prossime ore, come se niente fosse, ognuno tornerà alle sue cose e case.»

Kumals la guardava ancora, ma il suo viso era tornato serio. Poi Yuta rialzò lo  sguardo su di lui, con circospetta ricerca di confidenza.

«Non ti sembra che sia un po’ come se i ‘4 di picche’ si stessero sciogliendo di nuovo?» gli chiese.

L’uomo ci pensò su per qualche momento prima di rispondere. «No, non faremo di nuovo così. Credo piuttosto che dovremmo considerare questa storia come una dimostrazione che i ‘4 di picche’ esisteranno per sempre, almeno finché saremo vivi. Voglio dire, in poche ore ci siamo riuniti ed è stato un po’ come… come se non ci fossimo mai sciolti. Può essere così per sempre, anzi, lo credo proprio. In qualsiasi altro momento potremmo rivederci tutti insieme e sarà praticamente come se non ci fossimo mai disciolti.»

Yuta lo stava guardando sinceramente colpita. «E’… un pensiero singolarmente ottimistico, per essere un tuo pensiero.»

L’espressione dell’altro iniziò a virare faticosamente dalla seria riflessività verso una certa perplessità divertita. «Che vorresti dire?»

«Beh… dopotutto tu tornerai oltreoceano, no? A fare… cos’è che farai esattamente?»

«Investigatore privato, per l’esattezza.» informò Kumals con aria professionalmente seria.

Ma Yuta lo stava considerando con un certo divertimento. «Cioè continuerai a occuparti di casi strani in sordina, insomma.» e rise, prima di aggiungere «Allora per te è certamente così, è come se i ‘4 di picche’ non si fossero mai disciolti, praticamente.»

Per un attimo Kumals sembrò deciso a rivolgerle uno sguardo di rimprovero per la sua mancanza di serietà a riguardo del suo lavoro, ma alla fine un sorriso divertito gli piegò le labbra. Alzò la bottiglia di birra verso l’alto in un giocoso brindisi ironico e con tono scherzosamente solenne esclamò «Ci saranno sempre dei casi paranormali di cui potranno eccellentemente occuparsi…»

«Persone paranormali!» completò Yuta, interrompendolo e alzando a sua volta il bicchiere nel brindisi per fargli prontamente il verso.

Complessivamente la frase era così inaspettatamente azzeccata che, nell’istante in cui lo realizzarono, si ritrovarono entrambi a ridere saporitamente.

Poi Kumals, ritrovata la voce e la calma, continuando a guardarla osservò «D’altro canto, ora che tu e Zoal siete ben sistemate qui, magari ci sarà occasione per altre rimpatriate. O, in ogni caso, qualcuno di noi potrà venirvi a trovare di tanto in tanto.»

«Certo!» confermò la ragazza, apparentemente senza cogliere quel qualcosa di significativa attesa contenuto nel sottofondo del suo sguardo «Tutti voi potrete venire quando volete!»

Kumals afferrò quel plurale come una risposta in qualche modo significativa per lui, e si disse che, comunque, era valsa la pena tentare quel pallidissimo tentativo; non era sicuro se lo avesse fatto più perché non aveva potuto farne a meno o perché ne sarebbe in ogni caso valsa la pena.

Dopo qualche altra chiacchiera su argomenti vaghi e vari, l’uomo, ormai terminata la sua birra, si alzò e stiracchiò pigramente, annunciando che doveva essere ormai la sua ora per andare a dormire. Yuta non avanzò proteste a riguardo.

«Buonanotte, allora.» disse Kumals, con gentile affetto, rivolgendole un’ultima occhiata.

«Buonanotte, Kumals.» rispose tranquillamente Yuta, fissando la sua schiena che raggiungeva la porta della cucina e vi spariva oltre. Sospirò profondamente e scosse appena la testa. Certe volte, constatò tra sé e sé, l’illusione che non fosse affatto passato del tempo da quando i ‘4 di picche’ erano una squadra compatta si sfilacciava, lasciando scoperte alcune cose a proposito delle quali, invece, sembrava essere passato un sacco di tempo.

 

 

Sountrack: My way (Sid Vicious – Sex Pistols)

Ritorna all'indice


Capitolo 70
*** 68 - UN'ULTIMA CANZONE ***


Capitolo 68

(UN’ULTIMA CANZONE)

 

«Non posso ancora crederci. Non del tutto.» mormorò Danny.

Andrea, seduta sul divano di foggia ottocentesca, le gambe piegate contro il petto e la testa appoggiata sulla sua spalla, alzò gli occhi per spiarlo in volto. «Stai cercando di rubarmi le parole che non ho mai detto?»

Danny comprese lo scherzo e abbassò la testa sorridendole divertito.

«A che cosa, comunque?» domandò Andrea.

«Beh…a tutto questo. Ti rendi conto?» replicò lui, indicando brevemente l’intera stanza. «Voglio dire… una festa! In casa del Conte! E lui non sta nemmeno impazzendo dal nervosismo a riguardo del pericolo che qualche tappeto o mobile o quadro o lampada o chissà che altro, risalente a chissà quale secolo e da chissà quale casata e riconducibile a chissà quali tenebrose leggende, possa essere irreparabilmente rovinato. Non ti sembra incredibile?»

Andrea guardò in giro per la stanza, poi, cautamente, diede la sua netta impressione. «Danny… credo proprio che il Conte abbia rimosso dalla stanza o ricoperto con spessi drappi neri qualsiasi cosa potesse ritenere di valore.»

Danny abbassò lo sguardo sullo spesso telo nero che ricopriva il divano sul quale erano seduti. «Beh… sì, in effetti…»

«Più che altro, mi stupisce che lui sia qui.» commentò Andrea.

Danny tornò a solcare la stanza con lo sguardo. Attraversò il largo spazio del salone da ballo della cadente villa in cui aveva abitato negli ultimi mesi, passando attraverso le sagome che ballavano - più o meno scherzosamente o seriosamente - degli altri e delle altre della loro comitiva, scivolando con diverse dosi di grazia o assenza d’essa sulla superficie estremamente liscia del pavimento di freddo marmo, e trovò il Conte.

Lui e Justin erano seduti alle estremità opposte di un tavolino quadrato, di foggia apposita per essere utilizzato per giocare a scacchi. Ma il Conte aveva riposto altrove la scacchiera, e tutte le sue facoltà erano al momento concentrate sulla comprensione delle regole e dei trucchi di un gioco di carte e ruoli, di draghi, guerrieri, maghi e stregoni, sacerdotesse, mostri, battaglie in stile tolkjeniano, guerre, maledizioni, leggende e quant’altro. Mentre l’infervorato Justin a tratti spiegava e a tratti si lasciava andare ad un apatico stato di torpore annoiato, il Conte studiava la cartina di gioco disposta davanti a lui, impugnava, soppesava nella mano e lanciava i dadi, muoveva le pedine e sceglieva le carte prima di posarle solennemente sul tavolo con l’eleganza di un principe d’altri tempi che stia sviluppando una strategia di attacco fondamentale per buona parte delle sorti del suo impero.

«Oh, non credo che il Conte disapprovi le occasioni di festeggiamento. Più che altro, credo che la sua idea appartenga più alla convenzione che riguarda i ‘ricevimenti’ piuttosto che le ‘feste’.» osservò Danny. Il commento gli era stato suscitato dagli abiti del Conte, scelti tra quelli più eleganti e più da occasione importante di quelli del suo repertorio; per cui, al posto di una certa modestia basilarmente gotica, ora indossava un tripudio di broccato, dorato, verde scuro, nero, argento e madreperlaceo, distribuiti in una serie di strati tra abito, mantello, sottomantello, e altri capi svariati. Oltre a ciò, il Conte indossava una serie di monili di foggia imponente nella loro antichità, ma da quanto brillavano di oro e pietre preziose si sarebbe detto che non fossero state mai troppo a lungo private di lucidatura e cura.

«Voglio dire… » cercò di spiegarsi meglio Danny «Lui è fatto così. E’ dalle cose cerimoniose che si vede meglio quanto consideri questa un’occasione importante, cioè da come è vestito. Il fatto che invece di scalmanarsi in giro sia più devoto a giocare seduto ad un tavolo oppure a conversare amabilmente e lungamente con qualcuno tenendo un bicchiere di sangue con delicata grazia in mano… è che quella è la sua idea di festa.»

«Credo che quasi nessuno di noi sia più in grado di seguire uno dei suoi discorsi a questo punto. La maggior parte di noi ha già bevuto troppo per riuscire in tanto.» ridacchiò Andrea. Poi si soffermò a fissare con attenzione il volto di Danny. «Ma è davvero una festa questa? Cioè… » continuò, avendo ottenuto la piena interrogativa attenzione del ragazzo «Dopotutto, ora vi separerete di nuovo, no?...»

Danny distolse lo sguardo, riflettendo tra sé e sé, mentre guardava di nuovo uno ad uno tutti gli altri che ballavano. Doveva ammettere che non era probabilmente il Conte ad essere la persona più stranita dall’avere una festa con tutti loro lì in quella casa. No, era lui ad essere più spaesato. Quella era la casa dove aveva passato gli ultimi mesi: stanze perlopiù silenziose, in cui il Conte si aggirava solo nelle ore notturne e senza quasi produrre rumore, dove Justin trascorreva il tempo a perderlo più che a impiegarlo in qualcosa, e dove lui abitava come se la domanda di che diavolo esattamente ci faceva lì rimanesse sempre in sospeso. E ora invece c’era una festa in piena regola, rumorosa delle note delle varie canzoni di musica moderna che stonavano curiosamente con l’arredamento antico, pesante, di tinte scure e cupe; tutt’altra cosa rispetto a quando occasionalmente il Conte vi faceva risuonare qualche vinile di musica classica e/o epicamente tragica. Ora che si trovava immerso in quell’atmosfera di spensierata e affollata festa, Danny si rendeva conto di quanto lo spazio di quella sala da ballo apparisse enormemente ampio e vuoto tutto il resto del tempo; e gli sarebbe apparso ancora più vuoto dopo quella notte.

Tornò a voltarsi verso Andrea e le rivolse un sorriso un po’ stentato. «Beh, in fondo, ora che so che Yuta e Zoal vivono qui vicino, potrò andare a trovarle e a passare un po’ di tempo da loro. E poi, credo che ogni tanto verrò a trovare te alla scuola. Sì, d’accordo, me l’hai già detto che il regolamento vieta assolutamente di avere ospiti nelle stanze, tranne si tratti di parenti in visita che vengono da lontano. Però non mi è parso che la struttura sia stata progettata per evitare eventuali incursioni di lupi.» e sogghignò divertito.

Andrea gli sorrise caldamente e complicemente. «Ottimo punto. Sarà solo un po’ difficile spiegare a Janine com’è possibile che tu sia in grado di uscire dalla stanza saltando dalla finestra e atterrando a terra svariati metri più sotto senza riportare gravi danni…» osservò divertita.

«Hum… sì, questo forse sarà un po’ difficile da spiegare.» ammise Danny, ridendo e chinandosi a darle un bacio.

Dall’altra parte della stanza, seduta su una grande poltrona che doveva un tempo aver fatto parte dell’arredamento di qualche potente casata dell’est-europa, Zoal osservava la scena, un po’ china in avanti, il mento appoggiato sulle mani a loro volta appoggiate sulla cima del suo bastone, obliquamente appoggiato al pavimento. Il lieve sorriso di divertita ironia che le aleggiava in volto era reso più ambiguamente imperscrutabile dal modo in cui brillavano di sommessa luce propria gli occhi verdi, intenti a scrutare qualcosa che pareva solo lei fosse in grado di cogliere con precisione. Una figura le si stagliò di fronte, ma solo con lenta calma lei alzò lo sguardo sul viso che la stava osservando.

«Mi concedi un ballo?» le offrì Yuta, porgendole la mano e aprendo le labbra a mostrare i denti in un sorriso divertito. Zoal le sorrise di rimando. «Solo perché sei tu.» accettò, prendendole la mano e alzandosi piano dalla sedia.

Abituata al fatto che la sorella non abbandonava praticamente mai il suo bastone, Yuta le prese l’altra mano permettendole di tenere sia impugnato il bastone, sia stretto un lembo della lunga gonna dell’abito, che Zoal raccolse di lato per tenerla abbastanza sollevata da potersi muovere più liberamente e perché, a quanto sembrava, era la sua abitudine nel danzare. Yuta la trascinò in qualche giravolta senza esagerare, e sostenendola con attenzione, mentre alternava qualche risata frizzante a qualche commento riguardo agli altri e alla casa, che solo poche ore prima avevano potuto vedere per la prima volta, e che non aveva potuto fare a meno di colpirle. Qualche commento ben piazzato di Zoal non aveva mancato di far evidentemente inorgogliosire il Conte, tra un profluvio di sopracciglia alzate da parte degli altri. Ma anche Valentine non era stata da meno, emozionandosi per quasi ogni singola cosa contenessero quelle mura; solo lei aveva avuto l’interesse e la pazienza di seguire gli interminabili discorsi del Conte sulle caratteristiche, l’epoca e la storia che sembrava potesse vantare praticamente ogni singolo oggetto. Vedendolo così entusiasta, Danny si era ricordato di quando anche lui aveva ascoltato diverse di quelle storie, anche se con meno entusiasmo, ma non aveva quasi mai visto il Conte così travolto da una talmente profonda soddisfazione nel sciorinare la sua cultura e la sua cura verso tutto ciò che aveva collezionato in quella casa, come una specie di museo personale.

Andrea osservò con ammirata attenzione il modo in cui le due sorelle ballavano con eleganza intrinseca, nonché il fatto che Ramo e Uther ballassero vicino a loro calcando invece sulle proprie movenze come a prenderle scherzosamente in giro, mentre poco più in là Kumals faceva volteggiare Valentine con grande abilità, con soddisfatto divertimento di lei. Poco dopo, Ramo e Valentine, con evidente complicità, si erano precipitati davanti a loro e, ignorando le vivaci proteste di Danny, lo avevano trascinato in pista, mentre lei rideva per il modo in cui la cosa era quasi degenerata in una specie di lotta in cui il ragazzo si aggrappava al telo che copriva il divano e i due lo tiravano per le gambe cercando di fargli mollare la presa. Il ritmo della musica era cambiato, diventando più vivace, e Ramo e Valentine coinvolsero Danny in un balletto saltellante e giocoso, più di evoluzioni giocose da quadriglia improvvisata che altro.

Improvvisamente, Andrea, troppo distratta dal guardare i tre che scherzavano stupidamente, si accorse di una sagoma dritta in piedi davanti a lei. Alzò gli occhi su Kumals, quasi sussultando per la sorpresa. L’uomo le sorrise gentilmente.

«Non mi dirai che non sai ballare.» le disse, porgendole la mano. «E non puoi davvero negarmi un ballo, a meno che non ci sia un valido motivo.»

Andrea lo considerò per un intento momento. «Forse qualcuno dovrebbe essercene.» scherzò, sorridendo con divertita allusività. Tra sé e sé, ebbe per un momento l’impressione che Kumals le stesse rivolgendo uno sguardo simile a quando si erano incontrati per la prima volta, e lui sembrava studiarla come a cercare di decidere se poteva ritenere la sua volontà abbastanza forte da essere presa sul serio nelle sue intenzioni di farsi immischiare in situazioni piuttosto complicate e stravaganti come quelle in cui si erano trovati. Ma ora era diverso, e la valutazione di Kumals cercava di stabilire qualcos’altro, forse una specie di tirare le somme a posteriori: se la sua valutazione di allora poteva ora essere aggiustata in base a quello che era successo.

«Sai…» disse ancora Andrea «Se fosse stato per te, a quest’ora non sarei nemmeno qui. Sarei a casa, e non sarei stata coinvolta in tutto questo.»

Kumals la guardò con maggiore attenzione e una decisiva ombra di serietà. «Non è concesso a tutti un errore?» domandò, con un leggero sorriso gentile.

«Qual è stato l’errore?» domandò ancora Andrea, il tono parimenti significativo ma confidenzialmente leggero «Aver cercato di non permettermi di essere coinvolta, o avermi alla fine lasciato vincere e farmi coinvolgere?»

Kumals sembrò riflettervi per qualche istante e alla fine disse «Probabilmente ho sbagliato doppiamente. Ma quale sia esattamente tra queste due la mia colpa, solo tu potresti essere in grado di stabilirlo.»

Andrea allargò appena gli occhi, suo malgrado colpita. Poi, sorridendo, gli prese la mano e si lasciò coinvolgere nelle danze.

Fu a quel punto che Uther, mentre nessuno sembrava lo stesse notando, si appressò quasi di soppiatto al massiccio stereo che avevano portato da casa di Yuta e Zoal. Da una tasca dei pantaloni pescò un’audiocassetta che, prima di partire, aveva intascato appositamente, senza farsi notare da nessun’altro. E anche ora ebbe cura di non farsi notare mentre la sistemava nello scompartimento apposito. Sapeva che era già impostata per partire su una canzone precisa, visto che lui personalmente l’aveva fatta arrivare su quel punto, trafficando poco prima, mentre gli altri erano troppo impegnati a osservare meglio la casa del Conte, che lui invece aveva già curiosato quasi da cima a fondo la prima notte che vi era rimasto a dormire.

Attese pazientemente, fingendo con nonchalance di essere per caso nei pressi dello stereo ogni volta che lo sguardo di qualcuno degli altri terminava per caso su di lui, finché la canzone in corso che proveniva dal cd masterizzato che ruotava nell’altro scomparto dello stereo non fu verso la fine. A quel punto, senza alcun preavviso, pigiò con decisione il tasto per fare partire la cassetta e zittire il cd. E gli altri ebbero a malapena il tempo di realizzare la brusca interruzione e di voltarsi a guardare lo stereo e lui, nonché di notare il suo sorrisetto divertito, prima che le prime note di ‘Voglio andare ad Alghero’* si spandessero per l’ampio salone.

Andrea osservò che una strana sensazione sembrava aver preso praticamente tutti quelli dell’ex gruppo dei ‘4 di picche’, persino i cani di Zoal quasi, mentre lei e Valentine cercavano di capire di che si trattasse. Ma poi, entrambe si ritrovarono a guardare, come tutti gli altri, due persone in particolare che si volavano incontro attraversando rapidamente la stanza.

Danny e Yuta si raggiunsero nel minor tempo possibile, si afferrarono reciprocamente le mani, e, come rispondendo ad un comando automatico, iniziarono a ballare quella che evidentemente era una coreografia preparata.

«Oh diamine…» ridacchiò Kumals, con tono di sussiegoso rimprovero «Vieni, sarà meglio sgombrare la pista.» le disse, prendendola per mano e guidandola verso lo stereo, così come Ramo stava facendo con Valentine. Zoal era già di fianco a Uther, e quando anche gli altri li raggiunsero, Kumals, appoggiandosi alla parete e incrociando le braccia, distolse lo sguardo solo per un momento dalla coppia danzante per incrociare di sbieco quello di Uther, parimenti sogghignante.

«Volevo solo vedere se si ricordavano la canzone.» disse Uther, mentendo con spudorato divertimento.

«Perché proprio questa canzone?» domandò con sincera incomprensione Valentine, mentre osservava seriamente ammirata l’abilità di Danny e Yuta nell’animare il ritmo ballando insieme. Facevano tali giravolte che sembravano ad un passo dalla danza acrobatica.

«Tempo fa, quando la sentì per la prima volta, Yuta se ne innamorò, e convinse Danny a passare una settimana a preparare una coreografia.» spiegò Ramo, sorridendo divertito. «Ma la cosa incredibile è che… a quanto sembra se la ricordano ancora più che bene!» notò, con sincero stupore ammirato.

«Dopo tre giorni in cui eravamo tutti costretti a sentirla dalla mattina alla sera per decine di volte, gli avevo fatto sparire la cassetta.» ricordò Kumals.

«Già, è vero.» confermò Uther, ricordando «E Yuta ti ha tenuto legato al letto tre ore con le corde prima di riuscire a farti confessare dove l’avevi messa. Sapeva che eri troppo furbo per liberartene definitivamente, visto che la sua vendetta a quel punto sarebbe stata terribile.»

Risentito dal commento, Kumals ribatté «Ma è stato solo grazie a quello se abbiamo potuto trattare con lei per ottenere che non venisse fatta suonare per più di sette volte al giorno.»

«Vero anche questo.» concesse Uther.

Andrea non si perse una parola di quella conversazione; dopotutto, era sempre qualcosa in più sul passato di Danny, persino se si trattava di qualcosa di superficiale come quello. Ma i suoi occhi erano completamente rapiti dalla danza, che in coincidenza con l’animarsi della canzone si era fatta una vera e propria danza acrobatica. E così, in silenzio tutti rimasero ad osservare senza staccare lo sguardo dalla coinvolgente coreografia, fintanto che la musica non andò spegnendosi lasciando il posto alla canzone successiva, e Yuta e Danny si ritrovarono a ridere e complimentarsi vicendevolmente. Kumals, animato probabilmente anche dall’alcool, iniziò a battere le mani e fischiare rumorosamente, chiaramente anche scherzosamente, accompagnato presto anche da Ramo, e il Conte, che si era addirittura alzato in piedi, fece loro eco dall’altra parte della stanza con aria seriamente ammirata e partecipe, battendo elegantemente le mani a lungo e con persuasione. Danny e Yuta si inchinarono alcune volte, evidentemente divertiti dall’applauso scherzoso improvvisato, ma sinceramente soddisfatti.

Poi, mentre gli altri si ricomponevano in un gruppetto al centro della pista, Danny la attraversò di getto fino a fermarsi davanti ad Andrea, un sorriso a trentadue denti che gli splendeva tra le labbra sottili piegate nella smorfia con un che di perennemente sogghignante che gli era propria. Le prese le mani di impulso, ridendo senza particolare motivo. Ma si stupì vedendo il modo in cui lei lo stava guardando. «Che c’è?» domandò incuriosito, piegando leggermente la testa di lato, un altro gesto che lei aveva imparato essergli solito quando era in qualche modo perplesso.

«Beh…» disse lei, ancora piuttosto stordita da ciò che aveva appena visto. Poi parve riscuotersi e gli sorrise luminosamente «Hey, sai ballare! Altroché se sai ballare!»

Il ragazzo, che forse si era aspettato di sentire qualcosa di più serio, si stupì di nuovo e sorrise a sua volta, anche se vagamente imbarazzato «In realtà, la coreografia è tutta farina del sacco di Yuta. Mi ha insegnato lei a ballare. Ma so ballare solo quella canzone.»

Andrea spalancò gli occhi e poi scoppiò a ridere di getto, divertita.

Danny roteò gli occhi, ancora più imbarazzato. In effetti, non era qualcosa per cui non si potesse ridere, dopotutto.

 

 

 

 

* disclaimer: la canzone è ‘Voglio andare ad Alghero’ di Giuni Russo

 

 

 

 

Ritorna all'indice


Capitolo 71
*** 69 - NIENTEPIU' NIENTEMENO ***


Capitolo 69

(NIENTEPIU’, NIENTEMENO…)

 

Nella luce ancora pallida del mattino, Tirch scorazzava sul terreno incolto attorno alla vecchia casa goticheggiante fino al più completo kitcsch che dominava la piccola collinetta affacciata sulla cittadina di Castle Mc’Hearty. A quella distanza, si poteva vedere che la cittadina, nonostante l’ora ancora piuttosto giovane del giorno,era animata. Piccole figure umane, auto e biciclette in movimento per le strade. Aveva un’aria incredibilmente comune, tranquilla, normale. Al punto che, se non fosse stato per gli agglomerati di esercito e ausiliari medici accampati in piccoli gruppi di tende, auto e camionette poco al di fuori dell’addensamento di case, difficilmente si sarebbe potuto intuire che solo fino a pochi giorni prima lì era successo l’inimmaginabile.

Ramo passeggiava tranquillamente, seguendo distrattamente con lo sguardo le scorribande di Tirch col naso sul terreno e, di tanto in tanto, la testa e le orecchie rizzate in aria e il naso fremente. Gettava spesso lunghe occhiate soppesanti verso il paese. Nonostante una piccola squadra di militari e paramedici si fosse presentata il giorno prima alla casa per accertarsi, con un fare molto più paternalisticamente sospettoso e invadente piuttosto che professionale, che lì non ci fossero state vittime o danni, e che gli abitanti fossero tranquilli purché informati e convinti delle spiegazioni ufficiali di quanto era accaduto – una sorta di forte virus che aveva prodotto un danno cerebrale a molti dei colpiti -, Ramo non era ancora tranquillo. Proprio come Tirch quando fiutava l’odore di un animale selvatico potenzialmente pericoloso nelle vicinanze, ad esempio un cinghiale, i suoi sensi erano inquieti e all’erta quando si trattava di forze militari, forze dell’ordine e apparati vari nelle vicinanze. Ma, lucidamente riflettendo, dopotutto forse avevano ragione Kumals e il suo ottimismo all’apparenza facilone e pragmatico: ormai non dovevano più temere niente.

Certamente i componenti della squadra che erano saliti alla casa avevano fatto delle facce veramente strane. Ma si poteva capirli: si erano trovati di fronte ad una casa di quella sorta, e a Danny e Justin, il primo tutto sommato magistrale nella sua parte recitata di persona ancora preoccupata ma convinta e tranquilla e dispiaciuta per quanto accaduto a causa del virus, e il secondo che sembrava troppo improbabilmente ottuso per dimostrarsi qualcosa di più che annoiato e insensibile. Il Conte aveva messo più a dura prova la loro patina di non discriminazione dei cittadini da tranquillizzare: apparso in ritardo, dopo essere stato chiamato dai suoi due ospiti e conviventi, che lui aveva presentato come il suo ‘assistente’ e la sua ‘guardia del corpo’ nonché ‘fidati amici’, si era scusato per via del fatto che a quell’ora di solito dormiva, e aveva usato un incredibile numero di parafrasi di imprecisabile lunghezza e svariate contorsioni implicite per esprimere che, in breve, si riteneva soddisfatto del loro operato nell’assicurarsi che loro stessero bene e avessero superato quella calamità senza danni e che non avessero bisogno di alcun ausilio, come in effetti era.

Mentre avveniva quel singolare incontro, Ramo aveva cercato di ascoltare ogni parola, il fiato sospeso e un certo nervosismo, dovuto anche alla scomodità della sua posizione probabilmente, visto che aveva dovuto spiare la scena attraverso la finestra a livello del terreno che dava nei sotterranei, schiacciato contro la parete del corridoio, sfarzosamente arredato secondo il gusto del Conte, e contro i fianchi degli altri e delle altre, ugualmente tesi come lui a sentire tutto quello che si poteva sentire attraverso quell’apertura.

In seguito, Uther aveva passato la gran parte della giornata a fare il verso ad uno degli incaricati che avevano fornito a Danny, il Conte e Justin le spiegazioni ufficiali. In particolare, Uther continuava a ripetere un’espressione usata dall’uomo con tono convinto e atto a convincere: ‘niente più e nientemeno che un virus di terribile virulenza’. ‘Nientepiù nientemeno’ aveva continuato a cantilenare Uther, imitando in maniera sempre più calcatamente boriosa il tono, specialmente dalla seconda birra in poi. A quanto pareva, quell’espressione lo divertiva molto, e il fatto che Kumals e Yuta avessero in vario modo espresso e dimostrato quanto fossero stanchi di sentirglielo ripetere, chi con pungenti commenti e chi tirandogli una scarpa addosso e minacciando di peggio, non lo aveva dissuaso dal continuare.

Ramo rivolse un’ultima occhiata preoccupata e scontrosa al centro abitato completo di forze dell’ordine, reparti militari e assistenzialismo ufficiale d’emergenza, quindi si decise a richiamare Tirch. Il cagnetto gli zampettò allegramente incontro, e il ragazzo smise di massaggiarsi rapidamente le braccia per farsi un po’ di calore sulla pelle nuda contro l’aria ancora fresca del mattino, per ricambiare con qualche carezza l’affettuoso saluto.

Poi, seguito da Tirch, tornò verso l’ingresso della casa. Se la concitata festa della sera prima non era bastata a togliergli completamente dalla mente le cupe riflessioni che la visita ufficiale di controllo alla casa gli avevano suscitato, non c’era troppo da stupirsi. Le feste duravano un inestimabile sprazzo di ore di giovialità, il resto del tempo, beh… era tutto il resto della vita. Di lì a poche ore, anche gli altri avrebbero realizzato il particolare che persino una proficua dormita per riposarsi dopo una festa durata quasi tutta la notte ha il suo termine; dopodiché, ci sarebbe stato quel difficile momento che Ramo temeva.

Aggrottò la fronte, mentre entrava nella cucina silenziosa per prepararsi un tè e trovare qualcosa con cui fare colazione. A parte cibarsi, doveva assolutamente trovare qualcosa che lo distraesse maggiormente dal pensiero che avrebbero dovuto salutarsi, lui e gli altri e le altre, e che lui e Valentine e Tirch se ne sarebbero andati insieme da lì. Non che gli dispiacesse particolarmente abbandonare la casa in cui Danny viveva al momento: aveva un che di lugubre, nonostante gli apprezzamenti di Valentine sul gusto goticheggiante. Ma, naturalmente, non si trattava solo di quello. Molto di più, o forse no: nientepiù e nientemeno, avrebbe canticchiato Uther, che una nuova separazione dei ‘4 di picche’. Impossibile prepararsi a quello.

*

***

*

L’auto di Ramo e Valentine si decise a partire, abbandonando il piccolo parcheggio davanti alla stazione dei treni. Kumals e Uther si sforzarono di alzare una mano a testa in un accenno di saluto che, tuttavia, sembrava una specie di sciocca dimostrazione evidente di qualcosa che era troppo difficile a dirsi. Un saluto, come un arrivederci profondamente beneaugurale.

Rimasero qualche minuto ancora immobili, a fissare l’auto che spariva nel traffico del tardo pomeriggio soleggiato che si avviava ad un tramonto rosseggiante. Alla fine, come realizzando che nessuno dei due al momento era probabilmente capace di fare un primo passo per voltare la schiena all’auto ormai scomparsa, Kumals, le mani nelle tasche dei pantaloni e leggermente sbilanciato all’indietro come se volesse assumere una posizione inconsciamente più rassegnata, voltò la testa verso Uther. Dopo qualche istante, l’altro fece la stessa cosa, e si ritrovarono a guardarsi per qualche breve momento silenzioso. Poco dopo, entrambi si voltarono, come se avessero raggiunto un comune accordo, e si diressero verso la peninsilina.

Probabilmente a causa dei recenti sconvolgimenti avvenuti in quegli ultimi giorni nella zona, la stazione non era per niente affollata, nonostante l’orario serale di un giorno feriale. I due non ebbero difficoltà a consultare l’orario dei treni appeso in bacheca, e a trovare poi posto su una delle panchine, trovando nel mentre il tempo per una breve sosta al bar in cui si procurarono una birra da condividere. Nonostante ciò, Kumals lasciò che la bottiglia rimanesse nelle mani di Uther per la maggior parte del tempo, e si accinse piuttosto ad arrotolarsi una sigaretta; nel farlo, gli sfuggì un lungo e paziente sospiro. Uther, tuttavia, non gli rivolse la sua attenzione finché non lo sentì parlare. Forse il sospiro era qualcosa di particolarmente scontato in quel frangente.

«Beh, visto che siamo qui, a quanto pare ce la siamo cavata anche stavolta.» osservò tranquillamente, con tono puramente colloquiale.

Uther si limitò a un mugugno concorde. Kumals trattenne un altro sospiro; certe volte sembrava particolarmente difficile riuscire a sostenere una conversazione con l’altro. Nulla di nuovo per lui, dopotutto si conoscevano ormai da diversi anni. Ma in qualche maniera, persino conoscendolo da tempo, sembrava che Uther avesse un’innata abilità nel sottrarsi agilmente a qualsiasi tentativo di figurarsi cosa gli stesse passando per la testa, la maggior parte del tempo. L’unica tattica rimaneva quella della provocazione, che Kumals padroneggiava splendidamente, ma verso la quale sapeva anche bene che Uther aveva col tempo sempre migliorato la sua immunità già dall’inizio particolarmente alta. Allora non rimanevano che le domande, verso le quali l’altro sapeva essere certamente non meno elusivo. Ma c’era una curiosità in particolare alla quale Kumals non aveva ancora dato voce dopotutto.

«Dunque, dove sei diretto stavolta?» gli chiese affabilmente.

Uther continuò a guardare il binario vuoto davanti a sé come se scrutasse i confini spaziali piuttosto che quelli temporali; riguardo al tempo, sembrava trovarsi a suo agio nel semplice qui ed ora. «Non ho una precisa meta. Credo che andrò a trovare alcuni vecchi amici, e vedrò se c’è qualche lavoretto da quelle parti. Altrimenti, mi sposterò per cercarne qualcuno altrove. È da un po’ che non lavoro, sono quasi a corto di soldi.» disse semplicemente.

Kumals annuì, mostrando di aver compreso. Oltre la pragmaticità, a quanto pareva, non si poteva ottenere altro. Come la maggior parte delle altre volte. Ammesso che ci fosse altro, naturalmente. D’altro canto, per quanto ne sapeva, Uther aveva passato la maggior parte della sua vita spostandosi, girovagando, vivendo alla giornata. Era raro che si fermasse molto più di qualche mese nello stesso posto; come se fosse inseguito dalla noia più che trascinato dalla curiosità.

«Mal che vada, potresti sempre tornare qui e chiedere al Conte. Sospetto che non faticherebbe affatto a trovarti qualche mansione di dubbia e incerta utilità pratica.» celiò allora Kumals. E, con sua soddisfazione, stavolta ottenne da Uther un sommesso ma sincero sbuffo di divertimento.

«Oh, non ne dubito.» commentò il biondo, sogghignando appena. «Ma ne ho avuto abbastanza di questo posto. Credo che tutto ciò che potesse succedere di interessante da queste parti sia ormai finito.»

Kumals accolse quella cinica ironia con un pallido sorriso e un lento scuotere la testa. Stava giusto osservando il fucile che Uther si portava appresso nella sua custodia di stoffa, chiedendosi se il ragazzo possedesse a tutti gli effetti i documenti necessari per poterselo portare in giro tanto tranquillamente, quando l’altro bevve l’ultimo sorso di birra della bottiglia e si alzò in piedi.

Uther si stiracchiò appena, prima di caricarsi in spalla lo zaino e il fucile. Poi guardò Kumals direttamente, e sorrise appena, quasi con una certa difficoltà. Non era sicuramente un tipo di persona che si sentisse a suo agio con le convenzioni sociali anche solo minimamente formali.

«Credo che andrò sul mio binario. Ammesso che il treno arrivi suppergiù in orario.» lo informò.

Kumals lo fissò per qualche momento in silenzio, come studiandolo. Alla fine, si alzò in piedi anche lui. «Suvvia, non fare quella faccia così seria.» gli disse con scherzoso affetto, prima di aprire le braccia per somministrargli un caloroso abbraccio, con qualche beneaugurante pacca sulle spalle.

«Stammi bene, Uther.» mormorò con voce profonda, come a imprimere al senso di quelle parole tutta l’importanza che poteva dargli.

Uther ricambiò l’abbraccio, stringendo solo per un breve momento, ma sentito. «Mi aspetto che tu faccia perlomeno altrettanto.» rispose.

Kumals sogghignò leggermente, nel lasciarlo andare e tornarlo a guardare in faccia. «Oh, non dubitarne! Non è così facile liberarsi di me.»

«Quel che è vero è vero.» ribatté Uther, sogghignando complicemente a sua volta.

Qualche istante dopo, Kumals era ancora in piedi, osservando la familiare sagoma che gli dava le spalle, mentre camminava con calma, una mano in tasca e la schiena leggermente curva sotto il peso dello zaino, lo sguardo rivolto a terra, dirigendosi alle scale che scendevano nel sottopassaggio.

L’uomo continuò a fissare per qualche pensoso istante il punto in cui Uther era già ormai scomparso alla vista, poi si portò le mani dietro la testa, incrociandole dietro la nuca, ed emise un lungo respiro, come se stesse cercando di abituarsi a qualcosa, pur nella convinzione che non ci sarebbe comunque riuscito.

‘Stammi bene davvero, Uther, fino alla prossima volta che le nostre strade si incroceranno…’ si disse fra sé e sé.

Poi, di colpo un gradevole pensiero lo colse, facendogli sorridere gli angoli delle labbra in maniera ammiccante e scuotendogli di dosso ogni traccia di malinconia. Da qualche parte in lui, era spuntata prepotentemente una certezza, spensieratamente sfacciata nella sua solidità. Molto più che una sensazione. La certezza che le loro strade si sarebbero incrociate ancora.

*

***

*

Andrea continuò ad agitare le braccia in un caloroso saluto finché l’auto di Yuta, carica delle due sorelle e dei tre cani, non fu scomparsa alla vista, sforzando lo sguardo finché fu certa che era ormai effettivamente al di là del profilo collinare oltre il quale spariva la strada sterrata che proseguiva verso la zona boschiva di Castle MacHearty, e che non si trattava invece di un inganno alla vista dato dalla penombra in cui giaceva acquattata l’imminente notte.

Rimase poi ancora un po’ immobile, le braccia ormai abbandonate lungo i fianchi, e un’improvvisa sensazione di vuoto. Una ventata di aria fresca la riscosse facendola rabbrividire, e solo allora, voltandosi verso gli altri, notò l’assenza di Danny.

«Dov’è andato?» domandò, stupita.

Justin la guardò. «Chi?» chiese, e la sua domanda era sul serio sincera.

Il Conte, accanto a lui, l’aria ancora un po’ assonnata per essersi svegliato così presto per salutare i partenti, ebbe un tremito alle sopracciglia di quello che, a ben vedere oltre la sua inflessibile compostezza, poteva chiaramente apparire come una certa disapprovazione.

«Oserei supporre che Andrea si stia riferendo a Danny, Justin, essendo l’unico al momento assente ivi e ora.» notò, con tono irreprensibilmente atono. «Suppongo che sia sul tetto, cara.» le rispose quindi.

«Sul… tetto? Voglio dire…» si affrettò ad aggiungere la ragazza, colta dal timore che il Conte potesse considerare la sua domanda come non retorica e iniziare a illustrare nei particolari che cosa si intende per ‘tetto’ «…si può salire sul tetto? Come ci posso arrivare?»

«Sarà un grande piacere per me scortarti personalmente alla botola che da accesso al tetto.» invitò gentilmente il Conte «Justin, ti dispiacerebbe nel frattempo provvedere gentilmente all’approntare una cena per te, Danny e la nostra gradita ospite? Per quanto mi riguarda, una tazza della pietanza che consumo abitualmente per colazione andrà più che bene, se non ti dispiace, e se naturalmente altri impegni non richiedono al momento la tua cura.»

Justin rifletté qualche istante, forse il tempo che gli era necessario per tradurre in un senso più compiuto le espressioni del Conte, e infine guardò Andrea. «D’accordo. Cosa vuoi per cena?»

«Qualsiasi cosa ci sia andrà benissimo.» tagliò corto lei, nella maniera meno spazientita possibile, prima di rifiutare gentilmente il braccio che il Conte le porgeva, risultando che a quanto pareva quella era la sua idea di ‘scortare’ qualcuno da qualche parte. Lo seguì dentro la casa, nella quale l’ombra della sera si addensava al punto da formare quasi un completo buio, rischiarato dalla luce calda ma fantasmagoricamente pallida delle candele accese qui e là nelle stanze e nei corridoi.

Il Conte fece una breve sosta presso l’ingresso, per prendere in mano con le sue eleganti movenze d’altri tempi un piccolo candelabro con due candele accese, quindi proseguì con calma, seguito dalla ragazza. Salirono la grande scalinata e proseguirono ancora, fino al secondo piano, e fino ad un corridoio laterale, ad un certo punto del quale il Conte si fermò; Andrea frenò in tempo prima di andare a sbattergli addosso, e sforzò la vista per vedere cosa l’altro stesse facendo. La mano del Conte, che risultava più chiara alla vista di tutto il resto più per il pallore della pelle che per la luce diffusa dalle candele, si alzò in alto e afferrò un piccolo anello metallico legato ad una cordicella che pendeva dal soffitto. Mentre Andrea realizzava che l’altro capo della corda era legato alla maniglia di una botola i cui contorni rettangolari si intravedevano nell’intonaco del soffitto, il Conte avvolse due delle sue sottili dita un po’ ossute attorno all’anello e tirò con forza in graduale aumento di intensità.

Aprendosi, la botola rivelò una scala metallica pieghevole applicata sulla sua superficie interna, che automaticamente si allungò. Andrea provvide a far scendere completamente la scala, sostituendosi al Conte, il quale era certamente troppo impacciato dai lunghi abiti e dal dover reggere il candelabro, oltreché sembrava più abituato al fatto che fosse qualcun altro ad aprire la scala per lui. Poi la ragazza si ritrovò a fissare incerta il riquadro nero aperto nel soffitto. Nel sottotetto regnava il buio, ancora più che nel resto della casa. Si disse che forse non poteva essere davvero stupita: figurarsi se nella casa del Conte non doveva spuntare un nonsoché di horror in ogni angolo.

Il Conte le porse gentilmente il piccolo candelabro che reggeva, e lei lo guardò dubbiosa.

«Puoi tranquillamente usufruire di questo per farti luce, in modo da concederti di accendere le candele nel sottotetto. Non avrò difficoltà a ridiscendere senza questo ausilio, in quanto gli spostamenti in ambienti privi di fonti di luce non rappresentano per me una difficoltà. Nel momento in cui avrai la luce sufficiente, noterai che poco discosto dal punto in cui si apre questa botola, sul soffitto del sottotetto si apre un piccolo lucernario. Attraverso quell’apertura potrai accedere senza dubbio al tetto. Ma mi permetto di consigliarti di chiamare Danny prima di salirvi. Il tetto è un po’ scivoloso, non offre un sicuro appiglio, ma il nostro Danny è avvezzo a muovercisi in libera agilità e senza pericolo, pertanto potrà sicuramente aiutarti affinché tu non rischi in alcun modo una perigliosa perdita di equilibrio.» illustrò il Conte.

Nonostante il tono volesse essere tranquillizzante e premuroso, quelle parole non riuscirono affatto a rendere Andrea meno esitante. La ragazza fissò per un momento il candelabro che le veniva porto, poi scosse lentamente la testa e pescò dalla tasca dei jeans una piccola torcia portatile. «Grazie, ma credo che userò questa, mi è un po’ più… comoda da portare.» spiegò.

«Certo, comprendo benissimo. Ad ogni modo, mi  dolgo di non poterti accompagnare personalmente fino al lucernario, ma purtroppo il sottotetto è invaso da una disdicevole quantità di polvere, che urta terribilmente la mia pelle e le mie mucose esterne.» disse ancora il Conte.

«Non c’è problema, grazie! Proseguo da sola.» si affrettò a ribattere lei. Sinceramente, riteneva che portarsi dietro il Conte sarebbe stato più problematico che altro. Non riusciva ad immaginarlo salire la scala metallica senza che i suoi abiti si impigliassero ovunque.

Andrea accese la sua piccola torcia da campeggio e se la sistemò tra i denti, in modo da poterla tenere senza impegnarsi le mani che le servivano per reggersi alla scala, che iniziò a salire ignorando alla belle e meglio il cigolante lamento metallico delle molle sotto il suo peso. Era già quasi arrivata al riquadro nero aperto nel soffitto, quando udì il Conte parlare di nuovo. Voltò la testa per guardarlo, notando che l’altro si era già allontanato di diversi passi senza produrre praticamente alcun rumore mentre si riavviava verso le scale.

«Oh, e se non ti dispiace ti affido un’ambasciata da recare a Danny. Certamente lui già ne sarà a conoscenza, ma colgo l’occasione per renderne informazione anche a te. La cena è sempre alle 20.30 della sera. Tornando al piano inferiore mi accerterò personalmente che Justin rispetti questa nostra piccola convenzione, alla quale tengo particolarmente.»

Andrea si limitò ad annuire con decisione, dal momento che la torcia in bocca le impediva di parlare. Il Conte non sembrò ritenerlo un gesto particolarmente maleducato, perché chinò leggermente il capo in segno di educato commiato, e si voltò per proseguire verso le scale.

La ragazza tornò a fissare il riquadro buio aperto nel soffitto con sguardo un po’ corrucciato. Poi riprese a salire la scala metallica, auto-imponendosi di non lasciarsi sopraffare dalle apparenze inquietanti delle infrastrutture di quella casa. Tutto fumo e niente arrosto, tutta polvere e niente cose soprannaturali: solo un sottotetto buio, polveroso e praticamente inutilizzato.

Aveva appena raggiunto con le mani il pavimento del sottotetto, e stava cercando un appiglio per aiutarsi a salire del tutto lungo gli ultimi gradini della scala, quando sopra di lei ci fu un movimento improvviso nell’oscurità. D’istinto Andrea gridò, lasciando così involontariamente cadere la pila di sotto, e ritrasse le mani perdendo malauguratamente la presa.

Ma con uno scatto repentino la sagoma sporse una salda presa con cui l’afferrò ad entrambe le braccia, impedendole di cadere all’indietro nel vuoto.

«Hey! Sono io, sono io!» si affrettò la voce che le era ben famigliare.

Andrea riconobbe la voce di Danny, benché nell’oscurità potesse solo intravedere i contorni della sua figura. Ma anche le braccia e le mani che la tenevano per gli avambracci erano sicuramente i suoi.

Andrea fissò decisamente nel punto in cui riteneva dovesse trovarsi la faccia del ragazzo, e trovò il relativo chiarore del blu intenso degli occhi.

«Danny! Dannazione!» bestemmiò con convinzione.

Ritorna all'indice


Capitolo 72
*** 70 - Epilogo - FLAMES ON THE HORIZON ***


Capitolo 70

(Epilogo: FLAMES ON THE ORIZON)

 

Il sottotetto della casa del Conte era più interessante di quanto non si sarebbe aspettata, dovette ammettere a se stessa Andrea, mentre camminava a passi ancora incerti nello spazio libero. Mano a mano che Danny accendeva le varie candele sparse in giro per fare luce, emergevano dal buio gli oggetti più disparati.

C’era di tutto, o pressappoco quella era l’impressione. E non era quel ‘di tutto’ che si sarebbe potuto trovare in qualsiasi soffitta. Ma un ‘di tutto’ anche spazio-temporale. Oggetti di svariate epoche, dimensioni, utilità e stili decorativi spuntavano nel chiarore in aumento, dal luccichio lucidamente nero di un pianoforte a coda fino all’argentato baluginio di un cannocchiale antico col suo piedistallo e le sue arabescate decorazioni sulla superficie.

Non c’era dopotutto così tanta polvere. O meglio, ce n’era sì  parecchia, ma la cosa strana era che essa ricopriva abbondantemente il pavimento ma non gli oggetti che non erano coperti con teli grigi, bianchi, neri e di vari altri colori e stoffe.

«Beh?» le domandò con tono sommessamente premuroso e curioso Danny, arrivandole accanto. Sembrava in attesa di una qualche sua osservazione, come se si aspettasse che quello che lei avrebbe detto potesse cambiare di punto in bianco qualsiasi sua valutazione su ciò che li circondava.

Andrea si voltò a guardare il suo sorriso ammiccante e complice, poi tornò a fissare l’accumulo di oggetti antichi, improbabili, e quelli ai quali non avrebbe nemmeno saputo dare un nome. Quando tornò a guardare l’espressione di aspettativa del ragazzo, un verso di divertito riso le scappò dalle labbra prima che se ne accorgesse. «E’… è incredibile!»

Il ragazzo si appoggiò al piano del pianoforte a coda dietro di loro ed emise un breve sospiro rilassato che aveva un che di confermativo. «Sì, è pressappoco la stessa cosa che ho pensato anch’io la prima volta che ho messo piede quassù. E… credimi, a quel punto credevo che ci fosse ben poco che potesse ancora stupirmi, dopo aver conosciuto Justin e il Conte e aver visto il resto della casa.»

«Sembri… più abituato a questo posto che al resto di tutta la casa…» osservò Andrea.

Danny la guardò, sorpreso dall’intuizione di lei. Poi sorrise tra sé e sé, abbassando lo sguardo. «Sai… Justin non sale mai qui. Credo che sia perché ci sono tante scale. Non gli piace fare fatica. Il Conte non viene spesso, quasi mai credo, per via…»

«Della polvere.» completò Andrea.

Danny le sorrise brevemente di nuovo e annuì. «Già, a quanto pare. In ogni caso, mi ha chiesto di occuparmi di queste cose. Quando gli ho chiesto cosa intendesse esattamente, ha detto che sarebbe stato sufficiente che le tenessi pulite, suppergiù, e controllassi che non si rovinassero.»

«Quindi… fai la guardia a degli oggetti inanimati…» commentò Andrea. Il ragazzo la guardò, incuriosito dal suo tono forzatamente neutro, e lei non resistette oltre e scoppiò a ridere.

«Hey, potresti suonare veramente offensiva sai?» protestò Danny, seppure neppure lui riuscisse a rimanere abbastanza serio da imitare sufficientemente un tono scherzosamente risentito. «’Fare la guardia’…»

«Okay, magari c’è qualche oggetto posseduto, qualcosa che può andare in giro da solo… sono certa che questo pianoforte potrebbe ingoiare cose. Justin ad esempio. Ecco, Justin sarebbe un ottimo campione, se ci fosse qualcosa di pericoloso, basterebbe farlo entrare, punterebbe subito su di lui…» continuò Andrea, sforzandosi di parlare nonostante le risate.

«Oh, questo è veramente scorretto!» rise a sua volta Danny.

«Sì sì, proprio così, l’esca perfetta…» continuò imperterrita Andrea.

Solo dopo qualche minuto le risate finirono per spegnersi. Ma sembrava che l’intera soffitta fosse stata almeno un poco rivitalizzata da tutta quell’ilarità; come se delle risate stonassero con l’ambiente pesante di polvere e antichità, e ne avessero rotto di colpo l’immobilità dormiente.

«Così questo è il tuo… rifugio… qui?» domandò Andrea, cercando di usare il massimo tatto.

Danny alzò uno sguardo brevemente lampeggiante di intelligenza su di lei, di rimando alla sua perspicacia. «Qualcosa del genere.» ammise, con parsimoniosa sincerità. «Ma in realtà… il mio vero rifugio è un po’… più sopra.» terminò con confidenza, alzando un dito ad indicare in alto.

Andrea alzò lo sguardo istintivamente, ma si ritrovò a fissare solo il soffitto colmo di ragnatele e polvere della soffitta.

«Il tetto.» precisò Danny.

«L’avevo capito.» puntualizzò lei, continuando tuttavia a guardare il soffitto come se fosse intenta in qualche riflessione.

«Vuoi… salirci?» le chiese con una certa esitazione d’incertezza.

Andrea abbassò lo sguardo su di lui. «Non cadrò?» domandò.

«Hm… tu soffri di vertigini?» indagò il ragazzo, ponderando tra sé e sé qualcosa che doveva aver a che fare col tentativo di intuire, col solo studiarla da capo a piedi, quanto potesse essere affidabile l’abilità di lei nel tenersi in equilibrio sulle tegole di un tetto.

«Non soffro di vertigini. Ma il Conte diceva qualcosa a proposito delle tegole scivolose… e, beh, ammetto che non sono mai andata in giro sulle tegole di un tetto. Mi manca ancora, questa esperienza…» spiegò Andrea, con un accenno di ironia piuttosto nervosa.

«L’importante è non farsi prendere dal panico se si scivola un poco, tenersi in equilibrio nonostante qualche scivolamento, spostare il peso del corpo in modo da rimanere comunque in piedi, no? La cosa fondamentale è rimanere in piedi, perché comunque si ha più stabilità così, se si cade si scivola di più ed è più difficile fermarsi…» la voce di Danny si smorzò e si spense del tutto, mentre notava il pallore di Andrea e le sue sopracciglia sempre più scetticamente sollevate nel guardarlo e ascoltarlo.

Si schiarì la voce, come a cercare di riprendere un tono più sensato. «Ti terrò stretta. Non cadrai. Farò in modo che tu non cada, che non rischi nemmeno di cadere.» le assicurò.

Andrea soppesò per qualche istante la sicurezza delle sue parole e del suo sguardo, poi annuì con un sorriso piuttosto nervosamente tirato. «D’accordo. Sembra più… fattibile.»

«Ho già camminato sul tetto tenendo cose pesanti in mano. Una volta il Conte mi ha fatto portare un vecchio marchingegno sul tetto…» il ragazzo esitò, ma vedendo la curiosità di lei, si decise a proseguire «Lui sosteneva che fosse un cattura-fulmini. Dice anche che è probabilmente un modello simile a quello usato nel romanzo ‘Frankestein’. Non che lui volesse rianimare un morto. Credo. Così ha detto almeno. Mi ha detto che voleva solo vedere se riusciva effettivamente a catturare i fulmini  e…»

«Stai dicendo che sei salito su un tetto nel mezzo di una tempesta con un grande oggetto metallico tra le braccia?!» lo interruppe Andrea scandalizzata.

Danny si fermò un attimo, come in cerca dell’elemento più tranquillizzante che potesse contenere la sua storia. «Beh, la tempesta era ancora lontana, molto lontana, la si intravedeva appena all’orizzonte. In ogni caso, poi ho chiesto al Conte a cosa poteva servirci immagazzinare energia elettrica se non avevamo il necessario per immagazzinarla e se qui si usano quasi solo candele per far luce, e lui ha detto che non capivo: non era una questione di utilitarismo ma un esperimento scientifico. Poi Justin ha fatto saltare i circuiti mentre cercava di collegare i fili e tutto il resto, così ho dovuto riportare giù il marchingegno prima che arrivassero i fulmini, perché se non poteva scaricarne l’elettricità altrove rischiava di saltare per aria praticamente. E, insomma, non se n’è fatto più nulla.»

Danny studiò il volto di Andrea con aspettativa di trovarla maggiormente tranquilla, ma lei lo stava guardando con gli occhi spalancati per l’incredulità. Poi, però, di colpo lei scoppiò a ridere. «Siete… siete incredibili!»

«Hum… sospetto che quello che volessi veramente dire fosse qualcosa come ‘completamente matti’, vero?» insinuò con scherzosa provocazione Danny, la bocca che finì per aprirsi in un aperto sorriso che metteva in mostra tutti i denti stretti in un ammiccante ghigno.

«Probabilmente sarebbe il termine tecnicamente più corretto.» ammise lei, continuando a ridacchiare.

*

***

*

Il tramonto era nel pieno della sua magnificenza. Il cielo era quasi pulito, ma una serie di sfrangiate nuvole bianche risplendevano come navi di cotone in procinto di incendiarsi sul ciglio dell’orizzonte lontano. Le sfumature dorate, rosseggianti e arancione parevano come fiamme dipinte, immobilizzate nell’istante in cui le lingue brucianti pennellate sul bianco delle nuvole stavano per far scaturire un incendio.

Andrea si rese conto che stava trattenendo il respiro e, nel cercare di riprendere fiato, le sfuggì un lungo sospiro, che sembrò disperdersi nel leggero vento che spirava a quell’altezza.

Dietro di lei, le braccia strette saldamente attorno alla sua vita per tenerla al sicuro e impedirle di scivolare o cadere sulle tegole in leggera discesa del tetto, Danny colse quel suono e piegò maggiormente la testa verso il suo collo, come cercando istintivamente di cogliere qualche altro suono che potesse indicargli cosa le stesse passando per la testa.

Ma solo dopo qualche altro momento la ragazza ruppe il silenzio, in tono mormorante e lontano. «Ora capisco perché questo è uno dei tuoi posti preferiti.»

Danny sorrise appena. «Non so se ‘preferito’ è il termine esatto…» rifletté ad alta voce.

Andrea voltò un po’ la testa per guardarlo in viso, in una muta richiesta di maggiori spiegazioni.

Il ragazzo si sforzò di trovare le parole. «A volte… o forse sempre… vedere l’orizzonte così lontano mi fa venire voglia di corrervi incontro. Andare lontano, continuare a correre…»

«Come se dovessi sempre cercare qualcosa, senza fermarti mai…» tentò Andrea, cercando di interpretare.

Danny le dedicò uno sguardo di incuriosita sorpresa. «Credo… sì, forse qualcosa del genere. Ma è che… non senti questo vento? Non è trascinante? È… strano non seguirlo, restare fermi, non andare oltre. È un limite… innaturale, per me.»

Dopo qualche altro istante di silenzio, Andrea parlò di nuovo. «E perché non lo segui mai? Perché resti sempre qui, ogni volta?»

Lo sguardo di Danny si fece più profondo, fisso sull’orizzonte come se lo studiasse con attenzione, cercando di leggervi qualcosa. «Ho passato la maggior parte della mia vita in questo modo. Forse, il bisogno di qualcosa di nuovo stavolta era provare a fermarsi, a vedere cosa sarebbe successo. O forse sono solo stanco di correre sempre, e volevo riposarmi un po’. Ma a dire tutta la verità, non so perché. Ogni volta sento questo impulso, prendere e andare, iniziare a correre. Ed ogni volta alla fine non lo faccio. A volte penso sia solo una specie di prendere tempo. Non so per che cosa però.»

Da diversi minuti Andrea fissava l’orizzonte come se invece stesse cercando di non guardarlo direttamente. «Potresti anche non dover scegliere tra un estremo o l’altro… Voglio dire, potresti sempre partire ogni tanto, iniziare a correre. E poi tornare qui, ogni tanto.»

Danny rimase colpito da quel suggerimento. Abbassò lo sguardo su di lei, anche se non era ricambiato, e lo fissò insistentemente sul suo volto. «E’ vero, potrei anche fare così.»

Attese pazientemente, finché lei non si decise a voltarsi a guardarlo a sua volta. Allora le sorrise.

«Ma non ora.» disse. E il suo tono suonava come qualcosa di simile ad una sentita promessa.

Entrambi tornarono a guardare di nuovo l’orizzonte, dopo qualche istante.

Il suo fiuto sviluppato a volte lo traeva in inganno, e Danny aveva l’impressione di poter fiutare persino cose che normalmente non si potrebbe spiegare come sia possibile che vengano portate dal vento. Un sentore di eventi futuri, una traccia all’indietro, come un eco impossibile, o perlomeno altamente improbabile. Ma lui aveva vissuto molte cose che si sarebbero potute dire altamente improbabili.

E l’odore che gli portava ora il vento suonava come una promessa. L’odore del prossimo incontro. L’idea suggerita chiaramente, luminosa come un dato di fatto, come uno scintillio di convergere di linee del futuro. Al punto che gli sembrava di poter intravedere, molto più lontano dell’orizzonte, le cose arrivare. Il suggerimento delle linee era appena distinguibile: le sagome di alcune persone che arrivavano da oltre l’orizzonte, ed egli poteva riconoscere benissimo le loro sagome estremamente famigliari. Un giorno tutti gli altri dei ‘4 di picche’ avrebbero raggiunto la linea dell’orizzonte, sarebbero apparsi, venendogli incontro di nuovo. Ed egli avrebbe aspettato di vedere quello che ora sembrava come un miraggio, per andargli incontro a sua volta, come se in fondo non potesse desiderare nient’altro più di quello.

Nientepiù, nientemeno… che un quattro di picche.

 

 

Soundtrack: Wild wild life (Talking heads)

Ritorna all'indice


Capitolo 73
*** Note finali... the END? ***


a S. ed L., in amicizia e scherzo;

a C., con mancanza;

a E. e V., lasciandomi alle spalle i torti fatti e non;

a M., con profondo affetto;

a B., sempre con complicità;

 

 

e a tutti gli altri e le altre - specialmente le sorelle trash della casa tra boschi e colline - che hanno ispirato almeno in parte alcuni personaggi fondamentali, per le ore passate insieme.

 

 

 

Alcune considerazioni finali:

Credo di aver inizialmente immaginato questa storia come molto più movimentata di quanto effettivamente sia diventata nello scriverla. Forse sarà anche per via del fatto che io per primo dovevo in qualche modo sfruttare lo spazio della storia per conoscere meglio i personaggi. E ora che ho quasi preso la mano nel trattare con loro, non ho ancora intenzione di “abbandonarli”…

 

the END … ?

 

Ebbene sì! Danny, Kumals, Ramo, Uther e molti altri ed altre compariranno ancora, in un paio di continuazioni di questa storia… Perciò, chi ha avuto l’impressione che alcune cose siano ‘rimaste in sospeso’, non si è trattata di un’impressione sbagliata. Un indizio: per trovarli, a parte l’ovvia traccia del mio nick-name, farò in modo che si possa fare affidamento alla citazione del titolo ‘4 di picche’ nei titoli delle continuazioni. Grazie a chi ha seguito, a chi ha lasciato commenti, e a chi li lascerà in seguito!

Spero che sia stato piacevole leggere questa storia come è stato per me scriverla. Arrivederci nelle prossime storie dei ‘4 di picche’ & co.!

 

VeganWanderingWolf

Ritorna all'indice


Questa storia è archiviata su: EFP

/viewstory.php?sid=683066