Labhair dorchadais aingeal ris

di My Pride
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** [ Atto I › Scozia, 1888 ] Graceful Degradation ***
Capitolo 2: *** [ Atto II › Scozia, 1888 ] A room without a mirror ***
Capitolo 3: *** [ Atto III › Scozia, 1888 ] Fragile ***
Capitolo 4: *** [ Atto IV › Inghilterra, 1888 ] Metamorphose ***
Capitolo 5: *** [ Atto V › Inghilterra, 1888 ] Night in Gale ***



Capitolo 1
*** [ Atto I › Scozia, 1888 ] Graceful Degradation ***


Un oscuro angelo_1
[ Prima classificata al contest «Competition for long-fic published»
indetto da Insana e valutato da NonnaPapera ]


Titolo: Labhair dorchadais aingeal ris
Autore: My Pride
Fandom: Originali › Sovrannaturale › Vampiri
Tipologia: Long fiction [ 5 capitoli ]
Genere: Romantico (Dipende moltissimo dai punti di vista e dall’idea di romantico), Drammatico, Malinconico, Sovrannaturale
Rating: Giallo / Arancione
Avvertimenti: Slash, Probabilmente Non per stomaci delicati, Lime
Nota1: Nel corso della storia potrebbero essere presenti espressioni come “Aye” e “Nay”, che significano rispettivamente “Sì” e “No” in italiano, e “Och”, che è un rafforzativo del “Sì”. Esse non sono un errore, bensì una scelta personale dell’autore, ormai affezionatasi a tale dicitura. Tenendo inoltre conto del luogo e dell'anno in cui la storia è ambientata, esse sono un’ottima scelta linguistica, proprio come lo stile utilizzato.
Nota2: Le immagini presenti e con cui si apre la storia sono tratte dalle doujinshi da cui prendono spunto i titoli, tutti spiegati accuratamente in ogni nota presente nei capitoli successivi
Nota3: Gli incipit con cui si aprono i capitoli sono di mia esclusiva creazione, dunque i credits vanno a me medesima

Introduzione: In ginocchio su quella strada lastricata, dove la pioggia caduta ore addietro aveva reso lucida la pavimentazione, sentì anche i suoi occhi inumidirsi di lacrime.
Non di nuovo, pensò angustiato, non di nuovo, per l’amor del Cielo.



DISCLAIMER:
All rights reserved © I personaggi presenti in questa storia sono tutti maggiorenni e mi appartengono, dal primo all'ultimo. Sono comunque frutto di pura immaginazione. Ogni riferimento a cose e persone realmente esistite e/o esistenti è puramente casuale.
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LABHAIR DORCHADAIS AINGEAL RIS [1]


ATTO I: INVERNESS › SCOZIA, 1888
GRACEFUL DEGRADATION [2]
 
Rigoglioso germoglia
il frutto del mutamento,
perdendosi tra i flutti

d’antiche memorie.
 
    La pioggia autunnale cadeva fitta ormai da parecchie ore, abbattendosi sui mille colori della brughiera mentre vorticava nel vento che si innalzava da essa.
    In quell’antica magione, s’udivano suoni cupi ogni qual volta uno spiffero d’aria s’insinuava nei cunicoli, disturbando la solitaria figura accomodata su una poltrona accanto al caminetto; con distratta svogliatezza, osservava il whisky dorato che lambiva il bordo del bicchiere in cui era contenuto, con il palmo d’una mano poggiato sulla copertina consunta d’un libro che aveva abbandonato sulle cosce, entrambe nascoste dal pesante tessuto in tartan che usava per riscaldarsi.
    L’uomo sospirò pesantemente e accostò il cristallo alla bocca, bevendo giusto un sorso prima di storcere il naso mentre lo sguardo si perdeva fra le fiamme che scoppiettavano allegre nel camino. Il piacevole calore che trasmettevano si disperdeva con il lieve venticello e con qualche goccia di pioggia che entrava nel salotto, simbolo che una delle grandi vetrate era stata lasciata socchiusa; notò difatti le tende danzare in quella brezza, simili a oscuri fantasmi che si perdevano nella penombra circostante e che creavano, come le pieghe dei più pregiati abiti d’una dama, invisibili archi rigonfiandosi sul davanti, quasi fossero l’enorme ventre d’una bestia famelica.
    Non si scomodò, però, per andare a chiudere la porta-finestra, abbandonando semplicemente il bicchiere per immergersi ancora una volta nella propria lettura. Gli occhiali che indossava erano in bilico sul naso, ma parve non prestarvi poi molta attenzione; se li alzò appena con l’indice della mano destra, ascoltando il dolce sottofondo che la pioggia creava per lui e pochi altri che, in quel maniero, potevano sentirla. Dai piani inferiori, gli giungevano alle orecchie i suoni delle vettovaglie e i richiami di qualche capo cuoco, intento a dar direttive alla restante servitù. Mancava poco all’ora di cena e, poco prima che venisse servita a tavola, uno dei suoi domestici sarebbe salito a chiamarlo per scortarlo nella grande sala da pranzo, ne era certo. Voltò pagina e si ravvivò dietro alle orecchie qualche ciuffo di capelli scuri, castigati in una lunga coda che gli ricadeva morbidamente sulla spalla opposta a quella nascosta dallo scialle. Sbadigliando, accavallò con disinvoltura le gambe, vedendo, con la coda dell’occhio, il barlume d’un lampo lontano solcare il cielo.
    Lo sciabordio della pioggia divenne più fitto e scrosciante, picchiettando insistentemente contro i vetri di tutta la magione. Quando minacciò d’inondare il pavimento del salone, l'uomo si alzò, lasciando il libro e gli occhiali sul tavolino, proprio accanto al bicchiere mezzo pieno. Non fece caso alla coperta in tartan che cadde in terra, avviandosi verso il balcone senza fretta, dove scostò le tende e si innamorò di quella vista spettacolare e terribile al tempo stesso. Ogni chioma, ramo o cespuglio era sferzata dal vento che soffiava furente, mentre le goccioline d’acqua mulinavano in una danza infinita insieme alle foglie che si staccavano dagli alberi; la visibilità non era né scarsa né ottima, ma si riuscivano vagamente a scorgere le luci delle lanterne della città lontana. Carrozze cercavano di risalire le stradine scoscese e fangose, tutte simili a piccole formiche che si muovevano laboriose.
    Per qualche minuto, la figura si concentrò su quel trionfo di suoni e cupi colori, perdendosi a sua volta in esso. Gli sembrava che fossero passati anni da quando si era ritrovato ad osservare, con una tranquillità che non avrebbe mai creduto possibile, la bellezza terrificante della natura: il rombare dei tuoni, il sibilo sferzante del vento tra gli anfratti e i cunicoli, le folgori che squarciavano la volta oscura del cielo; tutto ciò gli riportava alla mente un solo ed unico istante, vecchie memorie e rimembranze d’un ragazzo che ancora non sapeva nulla della vera vita e delle crudeltà che essa aveva in serbo continuamente.
    Un sorriso amaro gli si disegnò sulle labbra sottili, poi chiuse la vetrata del balcone con lo sguardo ancora perso nel vuoto. Un suono dietro di sé richiamò la sua totale attenzione, facendolo voltare, anche se di poco, verso la soglia del soggiorno. Proprio lì, immobile, si trovava un ragazzo dalla capigliatura mora che, in silenzio, l’osservava con i suoi occhi profondi e azzurri, come se attendesse un suo consenso per qualsiasi cosa. Fu difatti con esitazione che fece qualche passo avanti, entrando completamente nella stanza solo quando gli venne fatto appena un cenno con la testa. Indossava il suo stesso vestiario, ma con una o più varianti: non portava con sé lo sporran [3], né tanto meno portava drappeggiato sulla spalla il suo solito scialle, facendo sì che la bianca camicia non fosse nascosta alla vista. Il kilt [4], tenuto fermo da una cintura borchiata dalle rifiniture in argento, era invece in tinta unica, privo dei ricchi ornamenti e senza i colori che indicavano l’appartenenza del ragazzo a quel nobile e antico casato. Proprio lui si stava tormentando le mani, quasi avesse timore di parlare. Anche la vena pulsante del collo, che l’altro osservava con velato interesse dal punto in cui si trovava, sembrava dare la stessa identica impressione. «Vi stiamo attendendo per la cena, m’Athair [5]», disse sottovoce, il tono simile al pigolio d’un pulcino abbandonato nel nido.
    Le iridi dell’altro, gelide e austere, lo fissarono attento e gli fecero correre un brivido lungo la schiena; gli venne quasi spontaneo chinare il capo e indietreggiare, come se la sua sola presenza potesse irritare il possessore di quegli occhi che continuavano ad osservarlo in silenzio. A malapena sentì i passi leggeri che aveva compiuto per avanzare verso di lui, accorgendosi della sua vicinanza solo quando una gelida mano gli sfiorò appena il viso. Tremò senza poterne fare a meno, socchiudendo le palpebre. Ma non gli sfuggì l’esitazione che si impadronì subito dopo di quell’arto, allontanato dal suo proprietario che parve quasi sospirare sebbene non avesse emesso alcun suono. «Vi raggiungerò fra poco, Jason», rispose infine, semplicemente, voltandosi ancora una volta verso il balcone come se nella stanza fosse solo.
    Senza aggiungere altro, il ragazzo si congedò frettolosamente, ritrovandosi in poco nel corridoio freddo e parzialmente illuminato. Si gettò giusto uno sguardo alle spalle, quasi temesse d’esser seguito. Fu deglutendo che tornò a guardare avanti, massaggiandosi le braccia per riscaldarsi come poteva. Ormai da un paio d’anni, l’uomo che aveva considerato alla stregua d’un padre non era più colui che aveva conosciuto ed imparato ad amare.
    Ricordava bene il giorno in cui l’aveva preso con sé, allontanandolo da Londra per portarlo in quel vecchio maniero ai limitari di Inverness; quel giorno, per lui, era stato come ricominciare a vivere. Senza casa e senza famiglia, si era rassegnato a quella vita passando da orfanotrofio ad orfanotrofio. Un’infanzia infelice e grama, per un bambino di appena sei anni. E poi era arrivato, inaspettatamente, quel giovane uomo che l’aveva accolto e trattato come un figlio dato che non avrebbe potuto mai averne, nemmeno risposandosi. Da quel momento aveva imparato a sorridere davvero, ad amare ogni singola cosa del mondo circostante: si divertiva ad andare a caccia con lui durante la stagione della lepre, lo ascoltava attentamente quando gli narrava imprese eroiche o gesta d’uomini che erano passati alla storia; tutte piccole cose che assimilava e apprendeva, beandosi del calore e dei sorrisi sereni che riscontrava nel suo volto e in quello della servitù. Ma, come ogni cosa bella, non poté durare. Fu durante la sua quattordicesima estate, poco più di tre o quattro anni addietro, che le cose cominciarono radicalmente a cambiare. Le mattinate o i pomeriggi passati insieme si ridussero a non più di qualche ora, così come le gran feste di gala a cui, di tanto in tanto, amavano partecipare per conoscere uomini di culto e gente nuova che si riuniva ogni anno prima dell’inverno. Il suo tutore passava infinite giornate chiuso nel suo studio, ordinando ai domestici di non disturbarlo assolutamente se non necessario. Ne usciva solo quando era ormai sera tarda, cenando velocemente in sua compagnia prima di lasciarlo nuovamente solo e tornare a rinchiudersi in quella stanza che era ormai divenuta il suo mondo.

    Tutto ciò era cominciato dopo un incontro di lavoro, quando un uomo dall’aspetto giovane e aristocratico aveva fatto loro visita in quell’antica dimora. S’era presentato come un annoso amico di famiglia - sebbene non dimostrasse più di ventidue anni -, affermando d’esser lì per riscuotere un vecchio debito. Dopo varie ore passate fra una chiacchiera e l’altra, s’era scoperto che tale giovane aveva conosciuto il padre dell’attuale padrone di casa, anche se la cosa risultava quasi impossibile. Fatto stava che, da quando era comparso quel giovane nelle loro vite, nulla era rimasto più come un tempo. Il ragazzo vedeva il padre adottivo passare svariate ore in compagnia di quel misterioso ospite, rivolgendo unicamente a lui le sue attenzioni o i suoi sorrisi. E tutto ciò avveniva senza che si capacitasse del perché. Nemmeno i domestici, che lo conoscevano sin da quando era bambino, riuscivano a spiegarsi questo repentino cambiamento. Giorno dopo giorno, anno dopo anno, il loro signore diveniva sempre più pallido e stanco, sebbene conservasse quello sguardo fiero e quei lineamenti decisi che l’avevano sempre caratterizzato. Avevano sperato che, con il passar del tempo, tutto sarebbe tornato come una volta, ma tutt’ora quegl’incontri non erano affatto diminuiti; non passava un mese o un mese e mezzo senza che quell’uomo venisse a far loro visita. Ed era quasi giunto il giorno del suo arrivo. Forse era per tale motivo che, al ragazzo, il tutore appariva più distaccato e lontano.
    A sguardo chino, il giovane discese le scale che lo separavano dai piani inferiori, attraversando quel vasto disimpegno mentre gli sembrava di sentire su di sé lo sguardo degli uomini raffigurati nei quadri lì presenti. Deglutì ancora, adocchiandone uno di sfuggita; mai come quella notte, forse a causa del temporale che stava avendo luogo, quegli occhi obliqui - così simili a quelli del padre adottivo - gli sembravano freddi e saccenti, quasi dotati di vita propria. Aumentando il passo, stornò lo sguardo, concentrando l’attenzione solo e unicamente sulla strada che stava percorrendo. Alle orecchie gli giungevano, lievi, gli ultimi preparativi dei domestici, affaccendati a mettere in tavola calici e posate. Arrivato alla grande sala, vide uno di loro riempire il bicchiere che un uomo già accomodato gli stava porgendo, prima di chinare il capo e dileguarsi alla volta delle cucine.
    Il ragazzo s’avvicinò al tavolo e salutò con un cenno del capo, vedendo suo zio Seamus alzare lo sguardo dal giornale che aveva dinanzi per puntarlo su di lui. Sembrò squadrarlo, forse saggiando il suo vestiario. «Quanto ci farà attendere, stavolta?», domandò, quasi disinteressato, lasciando su una piccola catasta d’altri giornali quello che stava studiando per allungare una mano verso il calice. Non bevve, osservando solo il vino oscillare al suo interno.
    Con un sospiro, Jason si sedette a sua volta, poggiando le mani sulla tovaglia che nascondeva il pregiato legno d’ebano nel quale la tavola era intagliata. Senza guardare il suo interlocutore, sebbene fosse conscio della sgarbatezza, si concentrò solo sui movimenti dei domestici che vedeva di tanto in tanto. «Non lo so, nobile zio», rispose in un mormorio mesto, alzando lo sguardo per osservarlo.
    L’uomo si carezzò i baffi curati con fare pensoso, prima di portarsi il bicchiere alle labbra e bere un sorso; lanciò un’occhiata al giovane e soppesò ancora una volta il suo abbigliamento
, poggiando una mano sui giornali posti a lato del tavolo prima di togliersi gli occhiali che indossava. «Come mai ti sei cambiato d’abito?», gli porse un altro quesito - forse per cambiare argomento -, attento a nascondere i titoli che svettavano con inchiostro nero.
    Il giovane si strinse nelle spalle, sistemandosi la camicia. «M’Athair preferisce che applichi le vecchie usanze almeno in casa, nobile zio. Dovresti saperlo», rispose con semplicità, voltando appena lo sguardo quando sentì l’avvicinarsi d’una cameriera che portava con sé i primi piatti. Li poggiò in tavola rivolgendo ad entrambi un cenno formale del capo, allontanandosi mentre un’altra donna portava le restanti porzioni.
    Nuovamente soli, Seaums fissò il nipote. «Come sta?», chiese, lasciando trapelare dalla voce la preoccupazione che cresceva, in modo viscerale, dentro di lui. Era da oltre un anno che lasciava la tenuta che possedeva a Londra per passare uno o due mesi in loro compagnia, forse per tener sotto controllo le instabili condizioni del padrone che, di tanto in tanto - nonostante i suoi domestici l’implorassero più volte di non muoversi, preoccupati per la sua salute -, si recava a sua volta in quella zona per chissà quali affari di lavoro. Come tutti in quella casa, anche lui conosceva il padrone sin da quando erano entrambi bambini; avevano passato insieme già i primi anni della loro infanzia, divenendo nel corso del tempo più simili a due fratelli che a degli amici. Crescendo, poi, il loro rapporto si era consolidato. Sebbene a quel tempo - e tuttora, c’era da aggiungere - abitassero lontani l’uno dall’altro, si scrivevano molto spesso, quasi suscitando l’ilarità, ma anche la gioia, dei loro genitori. Il rivedersi durante eventi mondani o cene di famiglia erano i momenti che più attendevano; dopo cena salivano nelle stanze ai piani superiori e, proprio come fratelli, si raccontavano ogni cosa, tenendosi informati su tutto. Avevano condiviso pianti, risate. Giorni felici ormai divenuti un ricordo sbiadito. Perso com’era nei suoi tristi pensieri, quasi non sentì la risposta del ragazzo, scusandosi immediatamente per la sua distrazione.
    «Sta come tutti gli altri giorni», ripeté paziente lui, rigirandosi una posata fra le dita. «A volte mangia, altre no... sembra che nemmeno gli interessi il fatto che salta i pasti». Aveva tenuto gli occhi azzurri bassi, senza avere il coraggio di incontrare lo sguardo dell’uomo. Il solo trovarsi lì, per lui, equivaleva a dare allo zio spiegazioni che avrebbe preferito fossero rimaste sepolte. La sua attenzione cadde, per chissà quale motivo, sui giornali che proprio lo zio cercava di tener nascosti come poteva.  «Li hai portati da Londra o da Inverness, nobile zio?», fu il suo turno di chiedere e cambiare argomento, alzando finalmente lo sguardo sul volto intristito di lui. Quando lo zio era arrivato, poco più di qualche ora prima, il ragazzo non aveva fatto poi tanto caso a ciò che aveva con sé. S’era semplicemente soffermato sulla valigia, non potendo chiedergli nulla dato che era stato accompagnato dai domestici nelle sue stanze. Ma adesso che aveva trovato un pretesto per distrarsi, la curiosità e il sapere avevano sostituito per poco la solita maschera preoccupata che indossava da anni.
    Seamus, seppur colto un po’ alla sprovvista dal quesito, si limitò ad annuire, cercando comunque di occultare i titoli. «Purtroppo sono tutte cattive notizie, Jason», gli rispose con voce spenta, prendendo la catasta di giornali per poggiarsela sulle gambe. Così facendo evitò al ragazzo di leggere anche per sbaglio, ma gli fece corrugare le fini sopracciglia scure dall’angoscia.
    «Quali cattive notizie?», chiese immediatamente, insistente. Lì, ai limitari del nulla, non avevano i mezzi per tenersi informati su ciò che accadeva nel mondo. Era raro che i loro domestici, quando lasciavano il maniero per rifornire le dispense e dirigersi ad Inverness, pensassero a comprare un giornale o a chiedere qualcosa alla popolazione. Le notizie, quindi, riusciva ad assimilarle solo quando, come in quel momento, era lo zio a pensare a ciò.
    Ancora una volta, però, l’uomo scosse la testa; non sembrava intenzionato a parlarne. «È una faccenda molto delicata», asserì con una nota flebile e accorata, decidendo infine di cominciare a mangiare.
    «Ed è per questo che te lo chiedo», rimbeccò Jason, senza darsi per vinto. Gli occhi azzurri scintillavano di preoccupazione e, allo stesso tempo, di voglia di sapere. Ci impiegò tutta la sua forza di volontà per riuscire a far cedere l’uomo. Nonostante continuasse a ripetere che non era il caso di venire a conoscenza di tali fatti, lui insisteva il più possibile, forse comportandosi come un bambino capriccioso. Quando infine, probabilmente esasperato, glielo disse lasciandogli uno dei giornali, il ragazzo si limitò ad osservare il titolo, scioccato. Si sentiva le labbra secche, e dovette umettarle più volte e deglutire prima di riuscire a parlare con un po’ di disinvoltura. «Un assassino?», domandò con voce spezzata, come se si fosse dimenticato della crudeltà che imperversava nel mondo. Nell’agio e nella felicità di quella sua esistenza, divenuta da troppo, ormai, un suo sogno dorato, aveva lasciato al di fuori di tutto ciò la vita vera, ritrovandosi poi sbattuto con forza contro tale terrificante realtà, come un naufrago in balia delle onde.
    «Lo chiamano Jack lo squartatore [6]», rispose suo zio, interrompendo il flusso disarticolato dei suoi pensieri. «Ironico quanta malvagità possa risiedere in un solo uomo, vero? Alcuni dicono che sia opera del Diavolo, altri pensano che siano riti pagani tornati agli albori... io credo che sia solo uno psicopatico che ha trovato il modo di far parlare di sé. Persino Scotland Yard non ha nessuna pista e sta ancora investigando».
    Il ragazzo ci mise un po' per riprendersi, sentendo la gola quasi impastata. «È... una cosa terribile», riuscì a dire con voce incrinata, senza aggiungere altro. Rilesse più volte quel paragrafo, rendendosi sempre più conto della verità dei fatti. Eppure, sebbene la sua mente avesse ormai immagazzinato quelle informazioni, il suo cuore ancora si rifiutava di crederci. Chi poteva mai essere così folle da ammazzare a quel modo delle persone? Erano delle prostitute, certo, ma non per questo si erano meritate quella fine. Cosa poteva mai spingere un altro essere umano ad agire contro natura? Immerso com’era nei suoi pensieri, Jason sussultò quando sentì la mano dello zio posarsi sulla sua spalla, accorgendosi solo in un secondo momento che si era ripreso il giornale. Sconvolto com’era dall’aver appreso quella notizia, aveva quasi estraniato il mondo circostante.
    «Non farne parola con tuo padre», gli raccomandò, con una lieve inclinazione preoccupata nel tono di solito composto della sua voce. «Tali notizie non giovano alla sua salute».

    Jason annuì automaticamente, a sguardo chino. «Non l’avrei fatto di sicuro, nobile zio», lo rassicurò, fissando con poca convinzione il cibo ancora presente nel piatto mentre sentiva l’altro tornare al suo posto. Cincischiò con la forchetta senza portarsi nulla alla bocca, versandosi del vino in un calice ma senza prenderlo per bere. Sembrava semplicemente che facesse quei piccoli gesti solo per distrarsi. Gli unici suoni che si sentivano erano i loro respiri e l’insistente ticchettio della pioggia sui vetri o, a volte, qualche scricchiolio del vecchio maniero. «Nobile zio», lo chiamò d’un tratto il ragazzo, quasi insicuro, abbandonando per l’ennesima volta la posata nel piatto. Ma non continuò finché gli occhi marroni non si puntarono su di lui, attente. «Cosa ne pensi dell’omicidio?» chiese a bruciapelo, vedendo il suo interlocutore dilatare gli occhi, come se non avesse intuito il perché di tale domanda.
    Prima che potesse anche solo provare a rispondere, tuttavia, fu un suono proveniente dal vano della porta a richiamare l’attenzione d’entrambi. «Gradirei che non si parlasse di tali cose, alla mia tavola», esordì il padrone di casa, appena giunto nella sala da pranzo. Aveva sciolto i lunghi capelli d’ebano, creando così un forte contrasto sulla bianca camicia bordata e sul pallido viso.
    Entrò e ignorò i loro sguardi e la loro palese sorpresa, forse perché, proprio a causa di quel suo presenziare o alla luce più forte lì presente, il pallido colore del viso risaltava ancor di più. Quasi con eleganza prese posto a capotavola, facendo vagare i suoi occhi cerulei sull’abbondante cena prima di scoccare veloci occhiate ad entrambi. Con altrettanta grazia agitò piano una mano, come ad invitarli a consumare la loro cena. «Mangiate, mangiate. Non preoccupatevi», disse in tono ammaliante. E, quando incurvò le labbra in un piacevole sorriso, gli altri due commensali non seppero spiegare la provenienza del brivido che sentirono all’unisono, legato probabilmente anche al tono con cui il padrone di casa pronunciò ben altre parole. «La notte è ancora lunga».





[1] Letteralmente significa “Un oscuro angelo parlò a lui” ed è gaelico scozzese.

[2]
Titolo di una doujinshi di Idea (Rin Seina/Houseki Hime) uscita il 19 marzo del 2006.
Indica la degradazione a cui il protagonista principale va incontro, sebbene al principio lui non sembri pensarla esattamente in questo modo.

[3] Borsetta che si indossa sopra il kilt. Realizzato in pelle o pelliccia, l’ornamentazione del sporran è determinato dalla formalità del vestito indossato con esso. Viene indossato su un cinturino in pelle o a catena, convenzionalmente posizionato di fronte all’inguine di chi lo indossa.
Poiché il kilt non ha tasche, lo sporran funge da raccoglitore e contenitore per tutti gli oggetti personali.


[4] Indumento maschile scozzese, composto da tessuto in tartan indossato insieme ad uno sporran (la borsetta di cuoio posta sul davanti) e portato senza nulla sotto.
Anticamente veniva confezionato con un pezzo di stoffa molto lungo, così da poter essere assicurato alla spalla con una spilla dopo averlo legato intorno alla vita, dando la sensazione voluminosa che richiamava quasi i drappi.
In tempi non molto lontani era disprezzato da chi considerava gli Highlanders dei selvaggi, chiamati con l’appellativo dispregiativo “redshanks” a causa del colorito paonazzo che assumevano a causa del clima e delle condizioni atmosferiche alle quali erano esposti.

[5] Padre mio, gaelico scozzese.
Abbreviazione ottenuta dal pronome possessivo “Mo” (Mio) dinnanzi alla vocale di “Athair” (Padre)

[6] Serial Killer che, durante l’autunno del 1888 (Anno in cui la storia si svolge, quindi), commetteva omicidi nel quartiere di Whitechapel e negli adiacenti distretti.
Prendeva di mira solo le prostitute, seguendo sempre lo stesso modus operandi; le sgozzava e le sventrava, abbandonandole a “opera” conclusa.
Alla polizia e ai giornali, durante quel periodo, arrivavano migliaia di lettere che riguardavano il caso, dov’erano molte le persone che cercavano di fornire informazioni sul serial killer, sebbene la maggior parte di tali testimonianze fossero considerate abbastanza inutili.






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Capitolo 2
*** [ Atto II › Scozia, 1888 ] A room without a mirror ***


Un oscuro angelo_2
ATTO II: INVERNESS › SCOZIA, 1888
A ROOM WITHOUT A MIRROR
[1]

Qui, solitario loco ove anch’io
posso trovare il sonno eterno,
tu, o mio infido amante,
chiudi l’occhi al tristo mietitore.

 
    Quel giorno, il sole era sorto a carezzare piacevolmente il maniero e i suoi dintorni, portando con la sua luce una placida tranquillità nei cuori dei suoi abitanti.
    I domestici avevano già cominciato a darsi da fare sin dalle prime luci dell’alba, tra le pulizie di casa e la colazione per i loro padroni. Solo un’anima, come se fosse preda di incubi o deliri, si agitava fra le sue coltri, artigliando fra le dita la bianca camicia da notte che indossava. Scosso da immagini e voci che correvano veloci nella sua mente, muoveva la testa sul cuscino, dov’erano sparpagliati i suoi capelli mori. D’un tratto, Jason aprì di scatto le palpebre, fissando gli occhi azzurri sul soffitto. Aveva il respiro velocizzato e la fronte madida di sudore, quasi avesse la febbre.
    Deglutì più volte prima di mettersi a sedere, portandosi una mano alla testa per intrecciare le dita fra i capelli; non ricordava nulla del sogno che l’aveva turbato, ma quella sensazione che aveva provato durante quell’incubo non era scomparsa. Rammentava solo che si era ritrovato in un luogo buio, senza alcuna luce, dove non era giunto nessuno a portarlo via da lì. Quell’angoscia l’aveva sentita soltanto durante i primi anni della sua vita: quel terribile senso di abbandono; quell’essere consapevole di non poter contare su nessuno se non su se stesso; quella paura che lo scuoteva durante le notti trascorse in orfanotrofio. Aveva avuto il potere di fargli tornare alla mente quei giorni, quell’incubo. E non voleva che quei fantasmi del passato tornassero a tormentarlo.
    Con un po’ di incertezza, si liberò con mano tremante delle coltri, poggiando poi i piedi oltre il bordo del materasso. Si sorreggeva ancora il capo, come se in quel modo potesse cancellare del tutto la sensazione che aveva provato e i suoi molteplici pensieri. Gettò uno sguardo al grande balcone posto alla sinistra della sua camera, vedendo qualche raggio di sole infiltrarsi birichino fra le tende. Il ragazzo si strofinò gli occhi più volte mentre si alzava, camminando scalzo sul pavimento per andare ad aprire la porta-finestra che dava sull’ampio cortile. Il canto della pernice giunse nitido e armonioso alle sue orecchie, lenendo almeno in parte le sue preoccupazioni. Tutti i colori della vegetazione, poi, erano ravvivati dalle goccioline di pioggia ivi rimasta: dagl’iris al germoglio appena spuntato; dagl’alberi di pino ai larici; persino le felci che s’intravedevano risplendevano di tante minuscole gocce. Anche una delle cameriere, che s’affaccendava nel piccolo orto, sembrava godere d’ogni minimo suono e di quel sole che, dopo il temporale del giorno addietro, scaldava piacevolmente il Paese. Sorrideva serena mentre raccoglieva carote e rape, scostandosi di tanto in tanto i fulvi capelli; li teneva come suo solito castigati in un’alta crocchia, dalla quale qualche ciuffo ribelle sfuggiva ricadendo ad infastidirle il viso. Sembrava canticchiare una dolce nenia nella sua lingua natia, interrompendosi solo per scambiare qualche chiacchiera con il giardiniere poco distante che, con il medesimo e allegro sorriso di lei dipinto in volto, potava le rose tranquillamente.
    Jason distolse lo sguardo, richiudendo la porta-finestra per estraniare dalla sua stanza la familiare melodia mattutina. Tornò al suo letto, soppesando con lo sguardo gli indumenti che aveva indossato la sera addietro e che aveva lasciato lì, come stracci vecchi, sulla sedia della sua scrivania: da quel che sapeva, nessuno di loro aveva portato più quell’indumento da quando la battaglia di Culloden
[2] - di cui tanto aveva sentito parlare dal padre con fervore - s’era conclusa con una sconfitta, sebbene quel bando fosse stato abolito già da parecchio tempo. Ma, ben sapendo quanto lo stesso padre tenesse alle vecchie usanze e tradizioni, indossava quegli abiti solo all’interno del maniero, e solo ed esclusivamente per fargli piacere. Si ritrovò a scuotere la testa come per scacciare un pensiero fastidioso, dandosi una sistemata per vestirsi poi con una semplice camicia e un calzone. Mentre attraversava i corridoi, però, una bizzarra ed opprimente ansia lo scosse, senza che lui riuscisse a capire da dove arrivasse quella sensazione. Era dovuta forse al sogno che aveva fatto? Non avrebbe saputo darsi una risposta concreta. Aveva sicuramente bisogno d’uscire, di respirare aria fresca; sarebbe andato in città, prendendo uno dei purosangue dalle scuderie per non scomodare il cocchiere. Una cavalcata fino ad Inverness gli avrebbe fatto più che bene. Quel pensiero bastò a rallegrarlo di poco e a fargli affrettare il passo, come se volesse consumare velocemente la sua colazione per lasciare il maniero.
    Giunse alla sala da pranzo e si sorprese quando, oltre allo zio Seamus, trovò seduto a tavola anche suo padre: sembrava molto rilassato, più dei giorni precedenti, ma, ciò che maggiormente lo stupiva, era la sua presenza. Era molto raro, difatti, vederlo consumare dei pasti il primo mattino e, in particolar modo, in compagnia di qualcuno. Non fece domande mentre s’avvicinava per accomodarsi, nonostante gli occhi azzurri non lo perdessero un attimo di vista. Erano entrambi in silenzio, a far colazione con qualcosa di leggero: il padre aveva cominciato a sorseggiare tranquillamente del the e, dalla densa e delicata fragranza che si spandeva nell’aria, sembrava essere Earl Grey
[3]; lo zio, invece, aveva dinanzi a sé un filetto di salmone cotto in camicia e qualche focaccia di grano. Jason si sedette in silenzio e si limitò ad osservarli, ringraziando distrattamente quando un cameriere portò anche il suo pasto, composto dalla medesima pietanza.
    Non si scambiarono parole mentre consumavano la colazione ma, di tanto in tanto, scoccava qualche occhiata al padre che, come suo solito, non si era fatto portare nulla se non quel the. Lasciò la sala solo qualche minuto dopo, facendo appena un rapido cenno di saluto, probabilmente per rinchiudersi nuovamente nelle sue stanze. Quando furono soli, il ragazzo sentì lo zio trarre un lungo sospiro, anche se non fiatò. Si concentrò solo sulla restante colazione, e lui fece lo stesso; non era mai stato così grato di quel silenzio come quella mattina. E fu ancor più riconoscente quando terminarono e lasciarono la sala, salutando lo zio prima di correre verso le scuderie. Vi trovò Mòrag, la giovane donna a cui erano affidate le cure dei cavalli. Aveva raccolto i lunghi capelli biondi in un’alta coda e, serena come lo erano stati la cameriera e il giardiniere durante le prime ore di quella mattina, stava mormorando qualche parolina ad uno dei cavalli, forse per farlo stare buono mentre s’occupava del suo manto.
    Quando s’accorse del ragazzo, interruppe il suo lavoro per voltarsi del tutto verso di lui, chinandosi a mezzo busto con le mani abbandonate lungo le cosce. «Buongiorno, signorino», disse, regalandogli un sorriso.
    Jason sorrise di rimando, gettando poi uno sguardo veloce ai restanti box pieni. «Potresti sellare Samhradh
[4], Mòrag?», le chiese cordiale, avvicinandosi al suo purosangue per accarezzargli il muso. «Vorrei raggiungere la città».
    Seppur un po’ perplessa da quella richiesta, lei non domandò altro, aprendo il box per preparare il cavallo del suo signorino. Samhradh, questo era il suo nome, era un possente puledro dal manto nero che era stato regalato al ragazzo il giorno del suo quindicesimo compleanno: l’aveva chiamato così perché, semplicemente, la stagione in cui l’aveva ricevuto in dono era l’estate. Ricordava che aveva provocato l’ilarità della sua lontana cugina Màiri per quella scelta. Un nitrito del cavallo bastò a richiamarlo dai suoi pensieri e, quando si voltò, i suoi occhi si persero in quelli neri dell’animale. Gli carezzò nuovamente il forte muso, rivolgendo alla donna un altro indulgente sorriso. «Grazie davvero, Mòrag», mormorò il ragazzo, issandosi in groppa al cavallo mentre lei teneva ferme le briglie e l’osservava.
    «E di cosa, signorino», parve polemizzare, anche se divertita. «Questo è il mio lavoro».
    Il giovane sorrise ancora, carezzando il collo dell’animale. «Tornerò nel pomeriggio», annunciò, picchiettando i fianchi del destriero per fargli fare qualche passo e uscire dalle scuderie. «Ci penserò io a Samhradh, poi».
    «Come desidera», disse subito lei, seguendolo con lo sguardo mentre s’allontanava.
    Jason lanciò il cavallo al trotto e poi al galoppo, godendo di quella libertà che sentiva man mano che il maniero dietro di sé diventava solo un punto indistinto. Avrebbe tanto voluto lanciarsi fra i boschi, stare ad ascoltare ogni singolo suono della natura; gli sarebbe piaciuto anche cacciare, magari per distrarsi, anche se con sé non aveva portato praticamente nulla per farlo. Con quei pensieri che si facevano largo nella sua testa quasi non s’accorse d’esser giunto nei pressi della città, raggiungendola quando il sole fu quasi alto nel cielo. Scese da cavallo e lo legò accanto ad una mangiatoia poco distante, carezzandogli il muso e sussurrandogli che sarebbe tornato presto. S’inoltrò poi fra le vie della città, sentendosi quasi rasserenato. La vita che percepiva scorrere, accompagnata al chiacchiericcio allegro e alle tonanti voci dei venditori, riusciva a fargli dimenticare parzialmente cosa affliggesse il luogo in cui viveva. Non era mai stato un ragazzo egoista ma, almeno quel giorno, voleva pensare solo a se stesso e al suo benessere, cancellando tutto il resto. Si meravigliò d’ogni minima cosa che vedeva, d’ogni più piccolo oggetto; gli era sembrata un’eternità quella che aveva passato rinchiuso nella magione senza partecipare più alle serate mondane. Non se ne interessava molto di tali cose, certo, ma un tempo erano un modo come un altro per poter scoprire cose che non avrebbe creduto possibili.
    Non seppe quando tempo passò fra quelle strade, consumando un pasto leggero che quei pochi soldi che si era portato dietro gli avevano permesso di comprarsi. Solo quando vide le vie spopolarsi decise a sua volta di tornare, ripercorrendo i suoi passi per recuperare il suo cavallo. S’affrettò un po’, quasi correndo, e anche quel semplice fare lo fece stirare un altro sorriso. Ad una distanza non molto considerevole vide il possente animale allargare le narici quando s’accorse della sua presenza, scalpicciando.
    «Jason, se ben ricordo». La voce che udì alle sue spalle, però, fu capace di farlo sussultare, tanto che si fermò a pochi metri da dove aveva lasciato legato il suo destriero. Fu con molta lentezza che si voltò, specchiandosi in quelle polle innaturalmente dorate che l’osservavano con bislacco divertimento. Il sorriso dipinto sul volto di quel nuovo arrivato ammorbidiva i lineamenti delle sue labbra sottili, donandogli un aspetto quasi bonario ed angelico. Qualche ciuffo di ricci capelli castani cadeva scomposto sul volto d’alabastro, perfetto nella sua imperfezione: il suo possessore sembrava un angelo scacciato dal Paradiso. Era più pallido di quanto il ragazzo ricordasse, ma, passato quel suo momento di iniziale stupore, chinò con fare cortese il capo, salutandolo.  
    «È un piacere rivederla, Sir William», gli disse, sebbene nella sua voce risuonò una sfumatura di falsità ben celata. «Mio padre attendeva con ansia il vostro arrivo in città». Quella invece, seppur avesse voluto il contrario, era la pura e semplice verità. Il padre adottivo, anche senza dar voce al suo desiderio, lasciava espressamente intendere quanto la lontananza di quell’angelo l’opprimesse. Non aveva mai avuto il coraggio di chiedergli perché l’affliggesse tanto quella separazione, ben conscio che non avrebbe ottenuto nessun favorevole risultato.
    Jason osservò quelle labbra sottili incurvarsi in un altro piacevole sorriso, prima che quegli occhi d’ambra soppesassero la sua postura quasi con aria critica. «Avrei dovuto mandarvi una missiva per informarvi che sarei arrivato quest’oggi, probabilmente», rifletté l'uomo, rivolto più a se stesso che al ragazzo. «Mi par da maleducati giungere senza preavviso».
    Il giovane scosse la testa, come ad indicare che non importava. «Non si preoccupi. Come le ho ben detto, l’attendevamo». Messo in chiaro tale concetto, indicò con un gesto svogliato della mano il cavallo poco distante che scalpitava e nitriva, come stufo di quell’attesa o come se avesse fiutato qualcosa di sgradevole. «Posso portarla io, al maniero. Stavo giusto tornando», continuò il ragazzo, incamminandosi verso l’animale senza far caso al suo comportamento. «Può forse sembrare un po’ disdicevole, ma, almeno, non le farò perdere tempo alla ricerca d’una carrozza».
    Un altro sorriso accondiscendente solcò le morbide labbra del nobile, che agitò in risposta una mano. «Non rifiuterei mai una così cordiale offerta», dichiarò. «E poi, sono anni che non cavalco». Accompagnò quelle parole con un breve cenno del capo, annullando a sua volta la distanza che lo separava dal purosangue. Ad una spanna da lui, però, il cavallo nitrì e s’imbizzarrì, quasi sfuggendo alla presa del moretto che stringeva le redini ora sciolte.
    «Deagh, Samhradh, deagh
[5]!», cercò di calmarlo il ragazzo, parlando con la sua lingua madre in tono duro e imperativo. Ma più i piccoli occhietti scuri del destriero guizzavano come impazziti sul volto del nobile dalle iridi dorate, più i nitriti sembravano acquistare intensità diventando alti e spaventati. La presa delle redini si fece meno salda, tanto che Jason fu tentato di lasciarle finché non vide una pallida mano avvicinarsi al muso del destriero. Ancora un nitrito si levò dalla gola dell’animale a quel tocco, ma, quando stavolta guardò quello sconosciuto negli occhi, smise d’agitarsi tornando il cavallo mite di sempre. Quella mano di porcellana passò sotto alle narici, forse attendendo che identificasse l’odore e lo ricordasse. Il possessore di quell’arto, poi, si voltò verso il ragazzo che aveva osservato tutta la scena incredulo e senza fiatare. Solo in presenza di pericolo aveva visto il suo cavallo comportarsi in quello stesso e identico modo; era successo qualche anno prima, durante una delle ultime battute di caccia in cui si erano ritrovati a far fronte a qualche bestia selvatica. Ma quel sorriso indulgente che gli veniva rivolto, per lui, non aveva nulla di pericoloso. Solo di... ipnotico.
    «Aveva semplicemente bisogno di fare la mia conoscenza», si fece sentire quella voce soffice e vellutata, prima che l’uomo gli regalasse un ennesimo sorriso. «Direi che possiamo partire, adesso. Non vorrei far attendere più del dovuto il tuo buon padre».
    Il ragazzo non rispose né aggiunse nulla alle parole dell’altro, montando soltanto in sella per aiutarlo poi a fare lo stesso. Con una mano il nobile declinò gentilmente l’offerta, provvedendo da solo per cingere poi, in un contatto forse fin troppo intimo, i fianchi del giovane seduto dinnanzi a sé. Quest’ultimo sussultò, a quel fare, sentendo quasi un fastidioso gelo invaderlo a poco a poco, penetrando al di sotto degli abiti che indossava. Ma non disse nulla nemmeno stavolta, limitandosi solo a deglutire mentre faceva schioccare le briglie. Il cavallo partì al galoppo con un basso nitrito quando lo guidò, picchiettandogli i fianchi con uno stivale. Ben presto si ritrovarono in aperta campagna, dove tutti i colori ivi presenti cominciavano a tingersi dell’acceso colore del tramonto. Il vento s’insinuava fra i capelli d’entrambi, scompigliandoli, suonando alle loro orecchie melodie senza musica o parole; sembravano esserci solo loro e la natura selvaggia. Le Highlands, durante quel periodo dell’anno, erano sempre uno spettacolo da rimirare e da vivere.
    Tagliarono per i campi gettando maggiormente al galoppo il destriero che, essendo un cavallo nato per correre, non risentì minimamente di quello sforzo. Ancor prima che calasse il sole, erano quindi giunti fino agli enormi cancelli che segnavano quella proprietà. Lasciarono il cavallo nelle scuderie, trovandole stavolta vuote. Mòrag, probabilmente, era andata a svolgere qualche commissione. Dopo essere smontati entrambi dalla groppa, il ragazzo fece cenno al nobile di seguirlo, addentrandosi nel piccolo giardino fino a giungere ai portoni. Aprì facendo accomodare prima il suo ospite, intrattenendo una piccolo chiacchierata con lui mentre gli faceva strada nel maniero; incaricò uno dei domestici di scortare il nobile dal padre, scusandosi di non accompagnarlo lui stesso. Ma quell'uomo, con un breve cenno della mano, gli fece capire che non importava, seguendo quel servitore fino ai piani superiori.
    Quando si ritrovarono dinanzi alle porte dello studio del padrone di casa, il domestico s’affrettò ad aprirle, senza azzardarsi ad entrare. «Mio signore, l’ospite che attendevate è arrivato», annunciò, chinando il capo con fare referenziale per salutare il nobile, lasciandoli poi soli entrambi.
    Sir William lo seguì con lo sguardo, lasciandosi andare ad uno sbuffo ilare mentre faceva il suo ingresso nello studio. Una lunga libreria dai ripiani ben pieni occupava tutto il lato nord, mentre due poltrone di pelle erano poste al centro della stanza, l’una perfettamente dinnanzi all’altra. Non c’era molta luce, ma questo non parve turbare il visitatore.
    «Sei qui, finalmente», si fece sentire una voce, bassa e profonda. Proveniva da un’altra poltrona avvolta dalla penombra in cui la stanza era, dove si riusciva a scorgere a malapena la figura lì accomodata.
    Gli occhi dorati non faticarono molto a riconoscerla, e il loro possessore stirò le labbra in un lieve e dolce sorriso. «Oh... allora è vero che mi attendevi con ansia», disse con scherno, avvicinandosi. Vide quella sagoma abbandonare la sua postazione e aggirare la pregiata scrivania in legno di noce, tutto per avvicinarsi unicamente al caminetto posto al lato opposto dello studio. Seguì i suoi movimenti, il suo chinarsi accanto; non stornò lo sguardo nemmeno quando una delle sue mani prese della legna da ardere per gettarla all’interno. Con l’attizzatoio, alimentò le fiamme, ritornando in posizione eretta per voltarsi verso di lui. I colori arancioni del fuoco danzavano sul suo volto innaturalmente pallido e sui suoi capelli mori, donandogli un’aria tetra e lugubre.
    «Sai bene cosa stavo aspettando, in realtà», dichiarò, in tono schietto e duro.
    Intuendo di cosa parlasse, William arrivato accentuò il sorriso, facendolo ben presto sparire nella curva delle sue labbra. Atteggiò il viso ad un’espressione addolorata, portandosi teatralmente una mano al petto. «Sono da poco giunto qui e già pretendi di abusare di me?», chiese, fingendosi scandalizzato. «Che uomo di pochi principi morali».
    «Non voglio prediche da un mostro», ribatté immediatamente l’uomo, incamminandosi verso di lui per poterlo osservare meglio. Ma l'altro s’allontanò ben presto, distogliendo lo sguardo dal suo interlocutore per farlo vagare con finto interesse alla grande finestra posta sulla destra. Aveva portato le braccia dietro alla schiena con il fare tipico dei bambini, quasi quella conversazione che stavano intrattenendo per lui non significasse nulla.
    «Dopo tali parole potrei anche decidere di negarti ciò che desideri, sai?», disse sarcastico, voltando di poco la testa verso di lui. «Ma il mostro che hai dinanzi ha un onore».
    «Dammelo e basta», replicò l’uomo, tendendo una mano verso di lui.
    William sollevò finemente un sopracciglio. Osservò quel palmo proteso e poi il volto del proprio interlocutore, ritrovandosi per l’ennesima volta a sorridere. «Se vai così di fretta, devo supporre che quello che ti avevo lasciato un po’ di tempo fa sia del tutto finito», fece, sondando con lo sguardo la sua postura come se volesse scrutare nella sua anima.
    Il Lord non si lasciò abbindolare né da quelle parole né tanto meno da quello sguardo, facendo ancora una volta un cenno con una mano. «Questo riguarda solo me. Tu limitati a darmelo», ripeté nuovamente, senza dargli spiegazioni o soddisfazioni.
    «È diventato come una droga per te, vero?» esordì il nobile William, tentatore. «Dovresti essermi grato invece di trattarmi così», continuò, tornando verso di lui per alzare il viso ad incontrare il suo. «Non regalo a chiunque un assaggio del mio bacio immortale». Si specchiò in quelle polle celesti, che sembravano rilucere d’un ardore e d’una rabbia repressa che ben altre volte aveva veduto. Era come se ammetterlo a se stesso lo facesse star male e, tale discordanza sul giusto e sbagliato, era un chiaro invito a nozze per quel nobil uomo. Senza dir nulla allungò il volto per sfiorare le sue labbra, un breve contatto che servì solo ad annullare quelle distanze fisiche. «Siediti, sciocco», disse poi, baciandogli lievemente un angolo della bocca. «Sai bene quanto sia potente questo mio dono».
    Riscontrò l’incertezza in quelle iridi, quando s’allontanò; lo vide poi socchiudere le palpebre per annuire, come un bambino che obbediva agli ordini dettati dal padre. Sorrise ancora nel vedere tale sottomissione, schiudendo le labbra per rivelare infine un paio di candide zanne. Le sfiorò appena con la lingua, le leccò; snudandole del tutto si scoprì un polso, affondandole poi in esso per ferirsi. Il sangue sgorgò inondando la sua bocca, inebriando i suoi sensi con quel rugginoso profumo. Su di sé sentì lo sguardo dell’uomo che, accomodatosi su una poltrona, sembrava attendere, più che impaziente, soltanto lui.
    Allontanò le labbra macchiate per ricambiare quell’occhiata, avvolgendo l’altra mano intorno al polso per evitare che il sangue cadesse in abbondanza sul pavimento mentre s’avvicinava alla poltrona. Quando lo raggiunse, accostò il punto ferito alla sua bocca, assicurandosi che l’odore di quel liquido vermiglio venisse inspirato a pieni polmoni. Sentì poi, quasi insicura, la lingua del Lord accarezzare piano la pelle che si stava rimarginando pian piano, lappare il sangue che la sporcava in gran quantità; fu poi il turno di quell’incerto succhiare, di quel cercare di volere più di quanto non potesse ottenere. Rammentava bene il momento in cui si erano scambiati quel patto nella tenebra e nel sangue: quell’uomo, molti anni addietro, era diventato un suo schiavo per l’eternità senza esserne pienamente cosciente. Già il suo bisnonno, a suo tempo, avrebbe dovuto diventarlo; ma le cose non erano andate come sperava ed era stato costretto a rinunciare a quel suo capriccio. Li aveva quasi perseguitati, passando di padre in figlio alla ricerca d’un anello debole che avrebbe spezzato la catena: loro, stirpe d’antichi cacciatori, non si sarebbero mai abbassati a divenire servi d’un’immonda creatura come lui. Ma in tutte le famiglie esisteva la pecora nera: lui, la sua, l’aveva trovata. Era l’agnello sacrificale che avrebbe condotto con sé all’Inferno.
    Il suo viso si trasfigurò in una maschera di puro piacere quando sentì quel risucchio aumentare, quasi con avidità e lussuria; le mani dell’uomo avevano avvolto il suo esile polso, quasi non riuscisse a fare a meno di quel poco sangue che gli era stato donato. Il nobile fu costretto a staccarlo delicatamente da sé, a quel fare, usando una forza misurata per evitare di fargli del male. Troppo prezioso, per rischiare. «Basta così, per oggi», lo ammonì, con il tono premuroso d’una madre. «Ne hai bevuto abbastanza».  S’allontanò per girovagare nello studio senza badare più di tanto al viso del Lord, che mutò e si storse in una smorfia mentre si leccava via il sangue dalle labbra. Sembrava esserne disgustato sebbene non riuscisse a farne a meno.
    Più volte, difatti, l’uomo abbassò e rialzò le palpebre, ripulendosi la bocca con due dita. «Di un po’, sei stato tu ad uccidere quelle donne a Londra?», chiese d’un tratto in tono acido, adocchiandolo appena con la coda dell’occhio.
    William, che stava camminando come se nulla fosse per la stanza, gli lanciò un rapido sguardo, fermandosi a ridosso dei grandi scaffali della libreria. «
È giunta notizia anche fin qui, di quegli assassinii?» domandò in risposta, stirando le labbra sottili in un piacevole sorriso.
    «Mio fratello ha portato dei giornali», fece l’altro, come se ciò spiegasse tutto. «Non mi pare che tu mi abbia dato una risposta, però», soggiunse, tenendoglielo ancora presente.
    Il nobile diede vita ad una di quelle scrollate di spalle che potevano significare tutto o niente. «Se te lo domandi con tanta apprensione, nay. Non sono stato io», rivelò pacatamente, sfiorando le copertine consunte di qualche libro prima di voltarsi verso di lui. «Che bisogno avrei di fare uno scempio simile? Io caccio per necessità e, solo raramente, per divertimento».
    «Che parole immonde», esordì l’uomo, come disgustato da quella confessione. «Parli con cotanta semplicità d’un’uccisione».
    S’udì appena uno sbuffo divertito, poi i passi dell’altro che s’avvicinavano. Con grazia felina prese posto sulla poltrona accanto a lui, poggiando una mano sul bracciolo mentre agitava svogliatamente l’altra. «
È forse sbagliato uccidere per sopravvivere?», domandò, con quella voce soave e candida, quasi fosse un bambino innocente. Ma distolse lo sguardo dai suoi occhi d’ambra, il Lord, quasi non riuscisse a sostenere quei profondi pozzi d’oro fuso.
    «Non vi è nulla di più errato dell’omicidio», rispose, provocando al suo interlocutore una piccola, quanto divertita, risata.
    «Och, adesso sei tu nel torto», fece ancora il nobile William, accavallando con disinvoltura le gambe mentre faceva vagare con non curanza lo sguardo in quello studio di cui, ormai, conosceva ogni anfratto. «I miei non sono affatto degli omicidi. Io lo faccio per mantenere questo corpo in grado di muoversi, uccidendo solo i malvagi e i malfattori. Siete voi umani a darvi battaglia, togliendovi la vita a vicenda anche quando siete innocenti».
    «Non puoi giustificare il tuo comportamento in quest’assurdo modo. 
È inaudito».
    «Inaudito, dici?», ripeté William, fingendosi perplesso. «Perché non ti domandi dunque quale sia il motivo di quel tale, Jack lo squartatore? Con il suo mietere vittime ha facilitato di molto la mia caccia, laggiù a Londra. Come vedi, mio sciocco amante, gli uomini sono capaci di qualunque malvagità anche senza dover credere ad un
entità sovrannaturale votata al male stesso».
    Il Lord scosse nuovamente il capo, come se non volesse sentire. «Perché devi uccidere?», insistette, corrugando con fare quasi preoccupato le sopracciglia. «Non puoi... non puoi fare esattamente come fai con me?»
    Fu in grado di provocargli un’altra risata, con quelle parole, vedendo poi una pallida mano intrecciarsi fra quei fili castani. «
È ben diverso», gli spiegò tranquillo. «Tu sei legato a me, hai bevuto il mio sangue mescolato con il tuo. Non c’è unione più sacra di questa. Non mi tradiresti nemmeno se volessi. Gli umani là fuori invece sono deboli, patetici. Se li lasciassi in vita, dopo essermi nutrito di loro, non potrei più vagare indisturbato. Su tale logica non credi che, in fondo, l’omicidio sia perdonato?».
    Joseph sbatté una mano sul bracciolo della poltrona, aggrottando la fronte. «Nay, non posso accettarlo», disse ancora, sempre più insistente. «L’omicidio è sempre un errore».
    Un mesto sospiro sfuggì dalle labbra sottili del nobile vampiro, prima che fosse lui a scuotere la testa con fare contrariato. «Non citare il te tanto caro Wilde senza comprendere appieno il significato di tale frase. Ti soffermi sempre su quella prima parte», gli tenne presente, distaccato. «Proprio non vuoi comprendere, nevvero? Sei esattamente come tuo padre, e come suo padre prima di lui», soggiunse, vagamente nostalgico. «Ma a differenza loro il tuo spirito è battagliero, sebbene tu ti sia lasciato soggiogare molto facilmente».
    «
È stato per mia scelta, non mi sono fatto soggiogare da nessuno», ribatté sicuro di sé. «Tanto meno da te». Ma sussultò quando, senza che lui se ne rendesse conto o se ne accorgesse, il volto del suo interlocutore si trovò ad una spanna dal suo. Gli sarebbe bastato alzare, anche di poco, una mano per sfiorare il suo petto marmoreo o le sue labbra sottili e fredde.
    «Non dicevi così qualche anno or sono, mo chridhe
[6]», parve mormorargli lui, quasi con inaudita dolcezza. «Per quanto tu ti sia sforzato, sei unicamente mio, adesso».
    Cadde un pesante silenzio fra i due, dopo tali parole. Tutto ciò che s’udiva era il ticchettio dell’orologio a pendolo che scandiva lo scorrere del tempo e, forse agitato, il respiro dell’uomo. Sentiva il cuore battere quasi furente nel petto, il ritmico rombo del sangue nelle orecchie; gli occhi azzurri erano ancora puntati altrove, ma un brivido lo scosse quando, come un soffio di morte, il gelido respiro del vampiro gli solleticò quasi dolcemente il collo. Parve inebriarsi del suo profumo, la creatura, sfiorandogli con la punta della lingua la vena pulsante. «Sei stato tu a lasciare che questa passione ti consumasse, tu mi hai aperto i meandri oscuri della tua anima lasciando che la spiassi senza opporti», continuò, rompendo quella quiete opprimente. «Sei stato tu a dar vita a questa follia che ti dilania. Non io».
    Il cuore del Lord batteva sempre più forte, quasi all’impazzata, con un ritmo calzante che trasformò i tocchi di quel suo ospite in gesti languidi e cadenzati. Una gelida mano gli sfiorò il viso quando lui s’allontanò, osservandolo con quei pozzi d’ambra che altro non erano che i suoi occhi.
    «Rifletti su queste mie parole», sussurrò, quasi lascivo. «Tra sei notti, spero di trovarti a Londra». Detto questo s’alzò, con un unico movimento fluido. Sempre con moderazione si diresse verso la porta, facendo ondeggiare i suoi lunghi capelli ricci ad ogni minimo passo, quasi fosse lui a comandar loro di farlo. Si fermò proprio sulla soglia, con le dita che sfioravano appena la maniglia lucente. «Ti farò recapitare un messaggio, così saprai esattamente dove raggiungermi». Voltandosi verso di lui con quel dolce sorriso tentatore, sparì come una triste apparizione dalla sua vista, lasciandolo solo con la sua angoscia e il suo tormento.




[1] Titolo di una doujinshi di GDMechano (Izumi Yakumo) pubblicata nel 2004, il cui titolo in giapponese è “Kagami no Naiheya”.
La scelta di tale titolo sta ad indicare non l’assenza d’uno specchio nella stanza in cui i due protagonisti si trovano, bensì un confronto inesistente fra loro.

[2] Battaglia combattuta il 16 aprile del 1746 nei pressi di Inverness, che vide sconfitti i giacobiti, sostenitori di “Bonnie Prince” (Charles Edward Stuart), dalle forze lealiste guidate da William di Cumberland, figlio del re Giorgio II.
Lo scontro si concluse in una disastrosa sconfitta, soprattutto a causa delle scarse innovazioni belliche di cui l’esercito scozzese era dotato; gli Highlanders, difatti, s’ispiravano ancora a strategie e concetti risalenti al medioevo.
La fine della battaglia impedì del tutto agli Stuart di riconquistare il trono inglese, ponendo fine al sogno della Scozia di rendersi ancora una volta indipendente dall’Inghilterra.
Dopo la disfatta furono molti i prigionieri, sia giacobiti che sostenitori, dei quali una stragrande maggioranza fu deportata nelle colonie, mentre i restanti vennero condannati, tenuti in carcere o mandati in esilio.
Per sottomettere definitivamente la Scozia, tra l’altro, il governo britannico ne annientò costumi e tradizioni, proibendo ai civili scozzesi di indossare il kilt (Da qui ciò che viene accennato nel secondo capitolo) o di suonare la cornamusa, fatta eccezione per i reggimenti facenti parte dell’esercito inglese.
A ciò si aggiunse inoltre l’abolizione dell’autorità che i capi avevano sui propri clan.
Il bando venne abolito solo nel 1782, il periodo in cui l’immagine del mondo celtico andava pian piano estendendosi.

[3] Uno dei thé più famosi in Inghilterra.
Il suo sapore e il suo aroma si distinguono grazie all’aggiunta di un olio estratto dalla scorza di bergamotto.
Il nome deriva dai Jacksons di Piccadilly, che ne rivendicarono la paternità.

[4] Significa “Estate” in gaelico scozzese.
Praticamente è la stagione in cui, nel mese d’agosto, il cavallo viene regalato a Jason, come accennato nel capitolo.

[5] Letteralmente significa “Buono Samhradh, buono” in gaelico scozzese.
L’aggettivo “Deagh” (Buono) viene utilizzato prima d’un nome (In questo caso quello del cavallo), e non bisogna confondersi con “Math ; Maithe ; Fheàrr” (Buono/Bene), aggettivo usato invece per indicare uno “stato” _ Ciamar a tha thu? (Come stai?) ; Tha mi math, tapadh leibh (Bene, grazie)

[6] Cuore mio, gaelico scozzese.




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Capitolo 3
*** [ Atto III › Scozia, 1888 ] Fragile ***


Un oscuro angelo_3
ATTO III: INVERNESS › SCOZIA, 1888
FRAGILE
[1]

L’animo tuo altro non è che l’inverso del mio.
Ne traggo nutrimento, rendendolo fragile:
come un’incrinatura su una superficie di cristallo.

    Era ormai tarda notte, e la magione si presentava estremamente silenziosa.
    I suoi abitanti erano sprofondati da diverso tempo nel sonno, non una luce illuminava le stanze nelle quali erano chiusi. Soltanto uno di loro sembrava non riuscire a trarre conforto da quelle ore notturne, vagando fra i corridoi desolati come un’anima in pena. La lunga vestaglia che indossava - tra l’altro insufficiente per difenderlo dal freddo - creava un sinistro fruscio sul pavimento ogni qual volta lo sfiorava, rendendolo sempre più simile ad un’antica apparizione. Ma non sembrava nemmeno rendersene conto, come se fosse completamente immerso nei propri pensieri. La mente vagava verso gli avvenimenti accaduti esattamente due giorni addietro, perdendosi persino in ricordi ben più lontani: nel percorrere quei disimpegni che conosceva più di chiunque altro, forse persino dei domestici stessi, non smetteva di tormentarsi e martoriarsi il cervello, quasi fosse alla ricerca dell’esatto momento che aveva scatenato tutti quegli eventi futuri. Non avrebbe mai negato d’esser stato stolto, accettando quella condizione che gli era stata offerta; il suo animo era stato combattuto fra due diverse ragioni per mesi e mesi, prima della fatidica decisione. Gli era stata mostrata la consapevolezza di morire poco a poco, giorno dopo giorno, consumato dalla malattia che lo divorava o la scelta di farla sparire per sempre.
    Ormai da molti anni, prima che quel suo carceriere si presentasse al suo cospetto, aveva scoperto d’aver contratto un morbo sconosciuto. Già cagionevole di salute, non si era meravigliato poi tanto di quella sua situazione, accettandola a poco a poco come tutte le altre tragedie già capitate nella sua vita. I primi periodi era dunque stato abbastanza sopportabile, senza grosse complicazioni; svolgeva tutto normalmente, sforzandosi d’apparir tranquillo agli occhi della società e a quelli degli abitanti del maniero, in particolare dinanzi al figlio adottivo. Ma con il passar del tempo, per lui, aveva cominciato a diventare tutto più difficile. Fingeva quanto poteva, questo era indiscutibilmente vero, ma la malattia che aveva contratto aveva iniziato a deteriorarlo attimo per attimo. L’arrivo di quello sconosciuto - che gli si era subito rivelato per ciò che realmente era, senza porre condizioni per quei primi periodi -, quindi, era stato per lui come un’ultima preghiera o desiderio. Ed era stato da quel momento che le visite erano cominciate, alternandosi di mese in mese. Durante quei loro incontri segreti lui recuperava pian piano la salute, pagando tale dono con la sua integrità ed anima. Uno scambio equo, al principio. Scambio che era per lui divenuto un bisogno troppo necessario in seguito, proprio come aveva dimostrato quella sera stessa in cui quel nobile era andato a fargli visita. Non poteva resistere a lungo senza quel suo nettare proibito, sebbene lui stesso non ne capisse il motivo e ne fosse consapevole solo in parte.
    Un tetro sospiro sfuggì dalle sue labbra, condensandosi in una piccola nuvoletta di vapore che lui osservò con sguardo vacuo; quasi si sentiva come quel sospiro divenuto visibile a causa dell’umidità presente in corridoio. Era come se potesse svanire da un momento all’altro, senza lasciar nessuna traccia di sé non appena qualcuno avesse mosso una mano. Se confrontava su un piano artistico il suo stato d’animo, poteva benissimo azzardarsi a dire d’esser simile ad un’imperfezione su tela che sarebbe potuta sparire con altre rapide pennellate. Si ritrovò a stirare le labbra in un sorriso che non esprimeva nulla, un sorriso privo di vita. Era diventato quello, in fin dei conti. Un quadro incompleto a cui mancavano dettagli e ritocchi.
    Svoltò l’angolo e percorse un altro disimpegno, accantonando per qualche attimo i suoi pensieri mentre si guardava con falsa attenzione intorno. Nemmeno si rese esattamente conto dell’ala del maniero in cui adesso si trovava, camminando adagio a causa del buio che si fece più fitto. Allungò a tentoni una mano, sfiorando un mobile e poi un muro; continuò, passo dopo passo, ad esplorare quegli antri oscuri che erano quei corridoi, toccando con la punta delle dita qualsiasi cosa. Giunse senza accorgersene nella piccola sala che, ormai da un paio d’anni, avevano adibito a studio per il suo amico, entrandovi senza un apparente motivo. Le dita andarono automaticamente alla ricerca della lanterna a gas, cercando a tentoni il beccuccio per accenderla e far luce; si schermò gli occhi con l’altra mano, poiché la poca intensità di quella fiammella gli aveva ferito la vista abituata al buio. Quando il fastidio s’attenuò, poté gettare uno sguardo all’interno di quella stanza, trovando tutto perfettamente in ordine tranne la grande scrivania. Lì, difatti, oltre ai vari tomi rilegati in pelle e altri fogli sparsi, era presente una pila di giornali dalle pagine spiegazzate, nonché qualche stilografica gettata in ogni dove. La sua attenzione fu però catturata proprio da quei giornali, che suppose essere quelli di cui aveva vagamente sentito parlare qualche sera addietro. Sapeva dei casi d’omicidio - sebbene l’amico credesse l’esatto contrario - ma, seppur ne avesse ascoltata qualche parola, non era ancora riuscito a leggere nulla su quel caso. Fu per quel motivo che s’avvicinò, prendendo un periodico; non ci fu nemmeno bisogno di sfogliarlo del tutto, sin dalle prime pagine apprese più di quanto volesse forse venir a conoscenza.
    Lesse e lesse fino a saziare del tutto la sua sete di sapere, senza tralascere il benché minimo particolare su quegli efferati omodici e su quell'uomo che sfidava ogni legge dell'umana malignità, lasciando poi ricadere il giornale senza prendersi la briga di rimetterlo a posto. Perse invece tempo a cincischiare con un altro, passando poi ad un altro ancora; passò forse un’ora ad andare avanti così, uscendo dallo studio e tornando sui suoi passi solo quando si fu stancato. Percorse a ritroso quei corridoi con la stessa aria smarrita che aveva avuto in principio, fermandosi d’un tratto in mezzo al disimpegno solo quando sentì un fruscio dietro di sé. Si voltò di scatto, riacquistando una parziale ombra d’emozioni su quel suo viso che sembrava di cera; gli occhi s’erano ridotti a poco più di due fessure per riuscire a scrutare con più facilità fra quelle tenebre, mentre la mano vagava alla ricerca di una possibile e improvvisata arma. Ma nulla parve muoversi, nemmeno le molteplici ombre che distinse maggiormente quando tornò fra i disimpegni illuminati fiocamente. Era sicuramente stata una semplice suggestione, la sua. Ne era più che convinto. Scosse quindi il capo e riprese a camminare, stavolta conscio di ciò che stava facendo; e fu forse per quel motivo che tornò nelle sue stanze, ritrovandosi a coricarsi nel letto e a lasciarlo solo quando vennero a svegliarlo il mattino dopo. Nemmeno ricordava esattamente quando avesse abbassato le palpebre, ma quel giorno si sentiva meno stanco di quelli precedenti. Che fosse a causa di quella visita?
    A quel pensiero, gli occhi corsero rapidi alla cassettiera poco distante da dove si trovava, tanto che si ritrovò a lasciar perdere temporaneamente la camicia che stava indossando per avvicinarsi. Aprì uno dei cassetti, tastando un po’ con le dita fino a trovare ciò che cercava; sentì poi il click d’apertura dello sportello abilmente nascosto, rivelando il doppio fondo lì presente. La prese con due dita per il collo e la guardò, facendo oscillare il liquido al suo interno prima di storcere il naso: era quella la causa di tutto, era di quello e del suo possessore che avrebbe dovuto liberarsi; e invece si ostinava a conservare l’uno e a non voler allontanare l’altro.
  Si maledisse ancora quando si ritrovò a stappare l’ampolla, capovolgendola per tappare la bocca con un dito. L’allontanò solo quando il polpastrello si macchiò di vermiglio, avvicinandolo poi alle labbra con aria disgustata. Chiuse gli occhi, lo leccò; diede un paio di rapide lappate, compiendo quella stessa azione altre due volte prima di riporre in fretta e furia l’ampolla al suo posto quando sentì bussare. Richiuse il cassetto, facendo poi un colpo di tosse per schiarire la voce. «Avanti», esordì, invitando quell’inaspettato ospite ad entrare. Voltò giusto di poco lo sguardo verso la soglia, ritrovandosi poi a sbattere più volte le palpebre più volte, come stupito.
    Ad osservarlo a braccia incrociate, e con un cipiglio tutt’altro che gioviale, si trovava il suo amico e fratello, che sembrava soppesare la sua postura con aria abbastanza critica. «Sembri star meglio, stamani», disse tranquillamente lui, chinando lievemente il capo in avanti a mo’ di saluto.
    Il Lord produsse un piccolo suono s’assenso, come se non volesse dargli né ragione né torto. Doveva soltanto comportarsi normalmente, tutto qui. «Le medicine che porta Sir William da Londra non le pago certo per nulla», riprese semplicemente, in tono quasi di scherno.
    «Medicine, dici?» ripeté scettico. «Secondo me dovresti tenerti alla larga da quell’uomo». Entrò circospetto nella camera, facendo vagare un po’ ovunque lo sguardo come se stesse assimilando ogni dettaglio. Di rado osservava il suo interlocutore, che si stava intanto apprestando a darsi un’ultima sistemata. Infine si lasciò andare ad un lungo sospiro, continuando. «Dovresti partecipare più attivamente alle serate mondane, Joseph», gli consigliò, anche se in tono di paterno rimprovero. «Dovresti riprendere le tue solite attività, lasciare più spesso questo posto sperduto. Non puoi restartene confinato qui per il resto dei tuoi giorni».
    Joseph sospirò e si passò una mano fra i capelli per ravvivarsi alcune ciocche dietro alle orecchie, passando a sistemarsi il solino al collo e a comportarsi come se l’altro non avesse aperto bocca. Non ci voleva di certo lui a dirgli quelle cose, ne era ben consapevole. Si diede un’ultima rapida sistemata prima di voltarsi verso l’amico, lasciando temporaneamente perdere il kilt e i restanti abiti che avrebbe voluto riporre nel cassetto. Forse più per nascondere lo sportello che per vera necessità. «Non ho tempo per certe cose, Seamus», gli parlò con voce tranquilla, forse per tentare in quel modo di rassicurarlo. «Se non avessi dei compiti da svolgere uscirei, davvero».
    Che mentiva era palese, e l’altro non si fece scrupoli nel farglielo notare. «Non puoi andare avanti così», ribatté. «Jason e tutti noi siamo preoccupati, e nessuno dei tuoi domestici ha il coraggio di dirti quanto tu sia cambiato», si avvicinò, azzardandosi a passargli un braccio intorno alle spalle sebbene vide Joseph restar sorpreso sia dal gesto che dalle parole. «Hai bisogno di svago, di divertimento. Non hai ancora l’età per lasciarti andare così», lo condusse verso la porta, come se lo stesse invitando ad uscire. «Hai bisogno di conoscere gente nuova, d’appassionarti ancora una volta a qualcosa. Una donna, ecco di cosa hai realmente bisogno».
    A quella constatazione, Joseph oppose resistenza, allontanandogli il braccio di malomodo prima di scuotere il capo, come se non avesse mai preso in considerazione quell’alternativa. «Sai bene che non voglio nessuna donna da quand’è successo, Seamus», replicò lugubre, abbassando lo sguardo come se non riuscisse più a sostenere quello dell’altro.
    «Sono passati anni, Joseph. Comportarti così non servirà a farli tornare indietro». Schiette ma veritiere, quelle parole colpirono il Lord come una pugnalata al cuore. Ed era proprio quello a fargli male, accumulando ferita dopo ferita. Forse era stata proprio quella tragedia a spingerlo, seppur inconsciamente, ad adottare Jason. Con lui non ne aveva mai parlato, facendo in modo che anche i restanti abitanti della casa tacessero su quell’avvenimento. Un anno prima che Jason entrasse nella sua vita, difatti, lui sarebbe dovuto divenire padre. Era stato sposato, un tempo. Sua moglie, Elisabeth, l’aveva conosciuta all’età di diciassette anni ad un ballo in onore di un qualche nobile di cui vagamente ricordava il nome, a Londra. Vi si era recato con la famiglia dell’amico Seamus, i McDougal, e, vedendo quella bionda e fragile figura fra le altre dame, ne era rimasto inesorabilmente attratto.
    Tutto era iniziato da un semplice valzer insieme, poi da comuni incontri tempo dopo; erano convolati a nozze in pochi mesi, amandosi intensamente negli anni che seguirono. Avevano provato ad avere un figlio per un lungo periodo, prima che avvenisse quel miracolo che li aveva resi felici e impazienti dell’arrivo del nascituro. Durante la gravidanza, il giovane Lord era rimasto quasi sempre vicino alla donna, sentendo il cuore sempre più colmo di gioia. Lui, a cui era stato detto che non avrebbe potuto avere figli, avrebbe ben presto avuto un erede. Ma le cose si erano complicate poco più di sei mesi dopo; il bambino voleva uscire anche se prematuramente, e il medico di famiglia aveva fatto tutto ciò che era in suo potere. Elisabeth era morta a causa dell’emorragia, e a lui, che si trovava nel salone adiacente, era stato comunicato da una delle domestiche che aveva assistito il medico durante il parto. Quasi non aveva voluto credere alle sue orecchie, quando gli erano state dette quelle parole; l’aveva osservata smarrito, con quell’espressione da fanciullo ancora presente in viso. Non aveva nemmeno vent’anni, quando successe. Persino il conforto di avere ancora suo figlio gli era stato negato. Era morto fra le sue braccia quella sera stessa, non avendo i polmoni abbastanza sviluppati per poter respirare normalmente e con regolarità.
    Quella tragedia l'aveva segnato dentro. Dopo i funerali, non aveva voluto vedere nessuno per giorni e giorni, né tanto meno parlarci; non mangiava e non beveva, se ne restava solo chiuso nella camera matrimoniale, seduto al centro del letto, ad osservare il vuoto con sguardo spento. Gli ci erano voluti mesi per riprendersi almeno in parte, e, quando si era ritrovato quasi per sbaglio a passare accanto a quell’orfanotrofio, quel bizzarro pensiero gli aveva oltrepassato la mente. Tra tutti i bambini lì presenti, la sua attenzione era stata richiamata proprio da quel moretto di sette anni o poco più; se avesse avuto la possibilità di crescere, aveva pensato il giovane Lord, suo figlio sarebbe potuto diventare così. Ed era stato quel pensiero a spingerlo ad adottare proprio Jason, imparando a volergli bene proprio come se fosse stato davvero il suo bambino.
    Joseph scosse finalmente la testa per scacciare quei tristi e amari ricordi, senza prendersi la briga di dare una risposta all’altro uomo che, fino a quel momento, non aveva fatto altro che osservarlo in silenzio. Si recarono entrambi ai piani inferiori, senza proferir parola nemmeno una volta. Il resto della giornata passò così velocemente che nemmeno se ne resero conto; entrambi si erano diretti verso i propri studi, rincontrandosi solo a cena insieme a Jason. Sentendo che qualcosa non andava, aveva provato ad intavolare con loro un discorso, ma venendo ignorato aveva deciso di concentrarsi unicamente sulla cena, in silenzio. Il Lord era poi tornato nelle sue stanze, incaricando parecchie ore dopo, senza spiegazione alcuna, una cameriera di chiamargli il vecchio cocchiere. E lei si trovava a dirigersi verso le camere della servitù, adesso, quasi tremante.
    Quando raggiunse la porta, la donna esitò, facendosi coraggio solo pochi attimi dopo. «Hamish?» chiamò intimidita, bussando leggera. Da dietro la porta si levò un grugnito, come se l’uomo presente all’interno di quella stanza si fosse appena svegliato. Attese con il cuore in gola mentre si guardava intorno, lei, quasi trasalendo quando si ritrovò ad incrociare le iridi castane dell’anziano cocchiere. I lunghi capelli canuti erano sciolti ad incorniciargli il viso, segnato dalle rughe tipiche dell’età; sebbene gli occhi apparissero assonnati, inoltre, conservavano ancora quell’aria vispa che l’avevano caratterizzati sin da quando l’uomo era giovane.
    «Cosa ti porta qui a quest’ora, Giselle?» domandò infine lui, portandosi una mano alla bocca per evitarsi di sbadigliare. Osservò invece la donna, cercando di capire il perché di quell’espressione che aveva in viso. Sembrava apprensiva, quasi impaurita, tanto che continuava a guardarsi intorno come se temesse d’esser seguita o tenuta d’occhio. Perché si comportava così, quella notte?
    La risposta gli fu data in breve, anche se la donna sembrò solo diventare più timorosa. «Il... il Lord ha chiesto di te», soffiò via con voce tremante, facendo accigliare non poco l’uomo.
    «Di me, dici?» chiese conferma, come se non credesse alle sue orecchie. La vide annuire energicamente, prima che facesse qualche passo indietro per incitarlo a muoversi. Era sempre stata una donna goffa e inquieta, certo, ma quella notte sembrava aver superato il limite; sin da quando l’avevano presa a lavorare in casa non aveva fatto altro che tentare di svolgere al meglio il compito che le era stato affidato, sbagliando solo di tanto in tanto e venendo richiamata dalle cameriere più anziane. Ma quando si parlava del Lord diveniva ancor più nervosa, come se lo temesse. In molte avevano provato a rassicurarla e a dirle che la sua era una paura inutile, ma ogni qual volta glielo ripetevano lei non riusciva ad abbandonare questo suo terrore. Eppure l’uomo non riusciva a capire da dove potesse provenire tale atteggiamento. Aveva assistito il Lord sin da quando era bambino, divenendo quasi la figura d’un tutore e d’un secondo padre per lui nonostante fosse solo un semplice cocchiere; era cresciuto come un ragazzino normale e per niente viziato, il suo nobile signore, data l’educazione che il genitore gli aveva impartito sin da piccolo. Perché avrebbe dovuto incutere timore a qualcuno?
    Scosse la testa per schiarirsi i pensieri, facendo appena un lieve cenno con il capo prima di seguire la donna lungo il corridoio. E quel via vai silenzioso fu colto di sfuggita da una terza persona che era appena uscita dalla biblioteca, e che si ritrovò a sbattere perplesso le palpebre nel vedere con quanta inquietudine sembravano scambiarsi le parole. In un primo momento il ragazzo quasi decise di non prestarvi poi molta attenzione. Ma quando si voltò e fece per tornarsene nella sua camera, non si mosse, gettandosi uno sguardo alle spalle. Si stavano allontanando piano, e continuavano a mormorare tra loro. Chiuse e riaprì gli occhi più volte, prendendo in considerazione l’idea di seguirli. Così fece, senza aspettare oltre; strinse a sé il libro che aveva preso pedinandoli silenzioso, accorgendosi solo in un secondo momento che il corridoio che stava percorrendo era quello che portava alle stanze di suo padre. Un orrendo pensiero gli attraversò la mente, facendogli affrettare il passo; che fosse accaduto qualcosa? Che fosse peggiorato? Era per quel motivo che il cocchiere e la cameriera apparivano così ansiosi?
    Non perse altro tempo a fare domande a se stesso, attraversando quegli ampi disimpegni ricchi di quadri e ornamenti per arrivare allo studio del padre. Vide la cameriera accennare appena un saluto verso l’uomo prima di dileguarsi trafelata, come se non volesse restare lì. E il ragazzo approfittò di quel momento, avvicinandosi svelto nello stesso istante in cui l’anziano cocchiere entrò nello studio di suo padre. Istintivamente deglutì, senza capire il perché di quella segretezza con cui si era introdotto lì dentro; che cosa stava succedendo, in quella casa? S’affrettò, adagiando poi la schiena contro il muro prima tendere le orecchie ed ascoltare, cercando d’essere il più silenzioso possibile. Non s’azzardò ad affacciarsi, limitandosi solo a sentire ciò che avevano da dirsi.
    «Mi ha fatto chiamare, Milord?» la voce dell’uomo si fece sentire mentre lui si torceva le dita, forse solo perché non riusciva a star fermo più che per nervosismo. Osservò il retro della poltrona sulla quale il suo signore era accomodato, vedendo appena una sua mano allungarsi verso la bottiglia di whisky presente sul tavolino.
    «Te la sentiresti d’intraprendere un lungo viaggio, Hamish?» domandò in risposta il Lord senza alcun giro di parole, sfiorando con due dita il vetro.
    L’uomo restò esterrefatto, ritrovandosi a sbattere più volte le palpebre. «Perché questa domanda, Milord?» chiese ancora, azzardandosi a fare qualche passo avanti per avvicinarsi alla poltrona, così da poter osservare il viso del suo interlocutore. Ma lo vide allontanare il braccio dalla bottiglia ed alzarsi, voltandosi poi verso di lui con un vago e lontano sorriso dipinto sulle labbra. Un sorriso bizzarro, come non ne aveva mai visti da anni.
  «Voglio che tu mi accompagni a Londra», rispose semplicemente il nobile, aggirando la poltrona e avvicinandosi lui stesso, assumendo una postura quasi regale quando si fermò.
    Hamish inclinò il capo di lato, portandosi i capelli dietro alle orecchie prima di drizzare la schiena. «Se posso, Milord, come mai questa scelta?» s’arrischiò a chiedere nuovamente, andando forse ben oltre di quanto volesse. «Non poteva attendere domattina per mettermene al corrente?» soggiunse poi, tormentandosi un po’ le mani.
    Joseph scosse la testa, come se quell’ipotesi non fosse fattibile. «Non voglio che nessun altro, oltre te, sappia di questa partenza», disse, osservandolo serio con quegli occhi dal taglio a mandorla, abbastanza rari per uno scozzese. «Non voglio forzarti, data l’età, ma di te mi fido ciecamente, Hamish».
    Fu il silenzio a regnare, subito dopo. Nessuno dei due proferì parola, come se stessero aspettando il momento giusto per farlo. E fu proprio un sospiro del cocchiere ad infrangere quella quiete, facendosi di poco da parte. «Farò come desidera, Milord», disse infine, chinando referenziale il capo prima di guardarlo con fare quasi severo. «Ma le chiederò il motivo, se lo rammenti».
    Riuscì a strappargli un piccolo sorriso, così facendo. «Sempre pronto a fare la parte del padre come tuo solito, eh?» fece, socchiudendo di poco le palpebre mentre tornava ad accomodarsi sulla poltrona. «Partiremo all’alba, ti ringrazio». E fuori da quella stanza, a quella parole, il ragazzo - che aveva fino a quel momento origliato tutta la conversazione avvenuta - socchiuse gli occhi, lasciandosi sfuggire un sospiro silenzioso. Dunque il padre voleva partire. Voleva partire per Londra anche se non ne capiva il motivo.
    Jason s’allontanò a passi felpati, onde evitare che il padre o l’anziano cocchiere potessero sentirlo. Avrebbe fatto finta di nulla, per il momento, senza dar ad intendere ciò che aveva udito; quando sarebbero partiti, avrebbe fatto in modo di seguirli a sua volta. Con qualsiasi mezzo a lui necessario.




[1] Titolo di una doujinshi di Idea (Rin Seina/Houseki Hime) uscita il 30 maggio del 2007, nonché seguito di “Graceful Degradation”
Indica appunto l’animo del protagonista che, man mano che la storia segue il suo corso, diventa sempre più fragile, quasi deteriorandosi.




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Capitolo 4
*** [ Atto IV › Inghilterra, 1888 ] Metamorphose ***


Un oscuro angelo_4
ATTO IV: LONDRA › INGHILTERRA, 1888
METAMORPHOSE
[1]

Volgi lo sguardo al cielo e osservi, attento;
torni poi a guardare la foglia, scoprendo
che il bruco è divenuto farfalla.

    Le nuvole in quel cielo plumbeo, grigie e sfilacciate, minacciavano un’insistente pioggia, esattamente come nella stragrande maggioranza dei giorni passati. Il tempo non era affatto cambiato durante il lungo viaggio che lui, signore della tenuta di Beul an latha [2], aveva affrontato; solo di rado qualche timido raggio di sole filtrava attraverso le coltri di nubi, rischiarando il paesaggio prima di venir inghiottito ancora una volta.
    Aveva preso quella decisione senza avvertire nessuno, tanto meno il figlio o il suo caro amico. All’insaputa di tutti, domestici inclusi, aveva preparato lui stesso un bagaglio leggero e ordinato all’anziano cocchiere, che serviva la sua famiglia da parecchi anni, d’accompagnarlo in quella lontana traversata. Indossato un pesante soprabito e un cilindro, poi, aveva preso il vecchio bastone da passeggio che era appartenuto a suo nonno ed era salito in carrozza, partendo alla volta di Londra. Se fosse stato più coscienzioso, avrebbe di sicuro evitato il viaggio; ma le parole che Sir William aveva pronunziato non avevano fatto altro che vorticargli insistentemente nella testa, non permettendogli di conservare quella poca pace che aveva nell’animo. E mentre i pensieri si perdevano, lui continuava a guardare con distratta svogliatezza fuori da quella carrozza: quei pochi cittadini presenti fra le strade avevano quasi tutti un’aria divertita e assorta, vivacità dovuta probabilmente anche al clima mite nonostante fosse autunno.
    Si meravigliò non poco di come fosse cambiata Londra dall’ultima volta che l’aveva visitata; quei piccoli negozietti che ricordava sembravano aver acquisito un nome altolocato, come se fossero un marchio di garanzia per chi, nobile o borghese che fosse, ne acquistava le merci in esposizione. Signori e dame camminavano quasi fianco a fianco con piccoli orfanelli, sebbene né gli uni né gli altri prestassero una reale attenzione a tale vicinanza. Sembrava tutto nuovo, per lui. Era attento ad ogni minimo particolare, ad ogni più piccolo cambiamento che si sarebbe potuto scorgere. E la cosa lo turbava ed emozionava al tempo stesso; si sentiva come un bambino che, per la prima volta, veniva accompagnato dai genitori a vedere un nuovo mondo. Avrebbe voluto toccare tutto con mano, comprare tutto ciò che poteva permettersi. In quegli anni di auto-reclusione nella sua stessa casa, si era negato le bellezze che il mondo avrebbe con così tanta cura potuto offrirgli. Ma, ormai, era troppo tardi per recuperare. Ben si rendeva conto della sua situazione, non doveva dimenticarlo. Era come uno schiavo; uno schiavo lasciato però libero d’agire come meglio credeva, purché lo facesse nei limiti delle condizioni a cui era legato.
    Forse furono proprio quei pensieri a farlo sospirare affranto, tanto che si ritrovò a sporgersi per aprire la piccola finestrella che consentiva di parlare al cocchiere. «Ferma la carrozza da qualche parte, Hamish», esordì, dovendo fare un piccolo colpo di tosse per non rendere la voce troppo rauca o stridula. «Ho voglia di fare due passi».
    In risposta sentì prima il nitrito dei cavalli, forse simbolo che l’anziano aveva dato un ennesimo strattone alle briglie. «È sicuro, Milord?» domandò lui, la voce ovattata dai tasselli di legno che li dividevano. «Non credo sia il caso, date le vostre condizioni».
    «Portami lungo le rive del Tamigi», continuò tranquillo il Lord, come ripensando alla loro destinazione, senza prestargli la minima attenzione. «Portami lungo il Tamigi e ferma la carrozza, per favore».
    Sebbene il volto del cocchiere avesse assunto un’espressione preoccupata e tutt’altro che accondiscendente, lui non contestò oltre, limitandosi semplicemente ad eseguire gli ordini del suo signore. S’udì il nitrito dei cavalli, che aumentarono la loro andatura dopo uno schiocco; il nobil uomo s’adagiò nuovamente contro lo schienale dalla morbida imbottitura, abbassando le palpebre per concentrarsi unicamente sul suono degli zoccoli sull’acciottolato. Voleva pensare che non esistesse nient’altro all’infuori di quello, voleva cercare di cancellare tutto il resto e fissare la sua mente solo su quel rumore familiare che in passato l’aveva accompagnato per lunghe ore. Gli era persino sembrato di riascoltare i suoni della foresta, il richiamo della pernice bianca o quel suono simile ad un uggiolio che emetteva la volpe rincorsa dai cani.
    Non si accorse neppure che avevano oltrepassato quei quartieri in cui si trovavano da parecchio tempo, ridestandosi da quel suo bizzarro dormiveglia solo quando sentì l’anziano cocchiere annunciare il loro arrivo. Rialzò piano le palpebre e gettò un’occhiata fuori, ritrovandosi ad osservare le piccole imbarcazioni ivi presenti e lo specchio argentato che il fiume sembrava essere in quel momento. Un’innocua pioggerellina aveva cominciato a riversarsi dalle nuvole, creando piccole onde e increspature quando toccavano quella superficie che l’uomo stava osservando. Non era ancora sceso dalla carrozza, ma aveva stretto una mano intorno al bastone come se si apprestasse ad impugnarlo per raggiungere la strada. Pochi attimi dopo, difatti, aprì la porticina che lo separava dall’esterno, respirando a pieni polmoni quell’aria pura e fresca d’umidità che non sentiva da tempo. Sorrise, forse inconsciamente; era la libertà, quella?
    «Ti ringrazio, Hamish», disse infine, voltandosi verso il cocchiere per rivolgere lui quel sorriso. Mai come in quel momento si sentiva vivo, l’uomo d’un tempo, come se avesse subito una regressione o una metamorfosi; e forse ciò era dovuto a quel senso di benessere che sembrava avvertire nell’aria.
    «L’aspetto qui, Milord», fece pacatamente l’uomo, togliendosi la coppola che indossava per chinare referenziale il capo. «La prego solo di non restare troppo tempo sotto questa pioggia. Non fa affatto bene alla sua salute».
    «Mio buon Hamish, sono solo poche gocce», rispose lui, per la prima volta dopo tanto tempo quasi in tono scherzoso. «Non aggraverà di certo la mia salute passeggiare un po’».
    L’anziano cocchiere sospirò, sospiro che sembrava rassegnato e che sapeva di tempi lontani. «Anche in questo siete diventato simile al vostro compianto padre, Milord», esordì lui con veemenza. «La testardaggine non vi manca».
    «E non è stata forse questa mia testardaggine a condurmi dove sono adesso, Hamish?» domandò in risposta, incamminandosi senza attendere una possibile replica. Come si era prefissato voleva godersi quegli attimi, voleva pensare che tutte le cose a cui era andato incontro non fossero mai accadute. Desiderava credere che quel lungo periodo che lo vincolava a quel patto di sangue si sarebbe concluso, che presto avrebbe ripreso il normale andazzo della sua vita senza più doversi preoccupare di nulla o del possibile regresso della sua malattia che per anni l’aveva logorato; bramava un ritorno ai tempi andati, ai tempi in cui suo figlio contava più di qualunque altra cosa; ardeva dalla voglia di passare ogni attimo della sua restante vita a far ciò che si era negato, senza dover ostinarsi a ricercare colui che, per lui, era divenuto una droga. Perché era ciò che era, anche se cercava di convincersi che non lo fosse.
    Scosse la testa per scacciare quei pensieri, sforzandosi ancora una volta di sorridere con rinnovata tranquillità; in quel momento voleva solo far finta d’esser lì per suo capriccio, vivere l’illusione di trovarsi a Londra per lo stesso motivo che spingeva nobili come lui a recarvisi. Puro e semplice svago, un modo come un altro per passare il tempo.
    Nemmeno tenne il conto delle ore che se ne andarono nel vagare fra quei Café o quei negozi sulle rive del Tamigi, né tanto meno si fece problemi per la pioggerella che picchiettava insistente sul cilindro che gli copriva il capo. Si inoltrò nei vicoli, si fermò alle vetrine dei negozi di balocchi; rise persino ad una piccola rappresentazione di marionette, probabilmente messa su per attirare un discreto pubblico al circo recentemente arrivato in città. Nessun londinese sembrava preoccuparsi di nulla, anzi: rare erano le persone che si guardavano intorno con aria attenta, forse temendo quel killer che la stessa Scotland Yard aveva ribattezzato Jack lo Squartatore.
    Ne sapeva poco, di lui, il Lord. Tutto ciò di cui era venuto a conoscenza l’aveva letto sui giornali che il suo amico e fratello Seamus McDougal aveva portato; e probabilmente fu proprio il nuovo pensiero su quell’assassino a fargli ricordare il reale motivo per cui si trovava lì e a farlo tornare sui suoi passi, così da raggiungere nuovamente la carrozza e partire alla volta del West End
[3] , dove l’abitazione che era la sua meta stanziava poco distante da quei distretti, apparendo quasi come una casa desolata che metteva soggezione. E fu proprio quella che provò quando gli si presentò dinanzi agli occhi quell’enorme villa patronale, circondata da un vasto giardino avvolto dal buio. Aveva congedato il cocchiere dicendogli che non sarebbe occorso attenderlo lì fuori al freddo, visto che sarebbe tornato solo a mattina inoltrata; non contava di certo di far così tardi, ma, conoscendo il nobile che l’aveva invitato a raggiungerlo fin lì, prima dell’alba non gli sarebbe di certo stato concesso d’andarsene. Seppur avesse dovuto fare i conti con la riluttanza dell’anziano uomo - sempre stato, da quel che ricordava, parecchio diffidente su tutto -, era riuscito a tranquillizzarlo e a convincerlo ad andar via senza preoccuparsi di nulla. Era un uomo adulto, sapeva ciò che faceva. Ma era da più d’una decina di minuti che si trovava lì fuori, quasi non avesse il coraggio d’entrare.
    Brividi gelidi correvano lungo la sua schiena, come se, in qualche modo, il suo corpo volesse metterlo in guardia; in guardia da cosa, però, non ne era a conoscenza. E, quando infine prese una decisione, la porta che fino a quel momento aveva osservato s’aprì con un sinistro cigolio, facendolo quasi trasalire. Avrebbe anche strillato se non avesse avuto un minimo di contegno. Si ritrovò istintivamente a deglutire, accorgendosi solo in un secondo momento di dover abbassare lo sguardo per guardare in viso colui che era venuto ad aprirgli. Era un uomo molto basso e tarchiato, con degli spessi occhiali a nascondergli gli occhi piccoli e stretti; dall’abbigliamento che indossava, poi, si sarebbe potuto dire un maggiordomo composto e d’aspetto ordinario. Fu persino certo che lo stesse scrutando con attenzione, quando le iridi d’entrambi s’incontrarono.
    «Sir William vi stava aspettando, Lord Dellinton», asserì formale, senza la benché minima sfumatura nella voce. «Prego, mi segua», e, detto questo, si fece da parte per far accomodare l’uomo nell’ingresso, richiudendo poi la pesante porta d’ebano che produsse lo stesso identico suono di quando era stata aperta.
    Con il cuore in gola il signore di Beul an latha si ritrovò a seguire quel suo cicerone, azzardandosi di tanto in tanto ad osservare di sottecchi l’arredamento. Pochi erano i quadri appesi alle pareti, più che altro vecchi affreschi risalenti ad epoche ormai lontane; antichi candelabri da parete rilucevano quasi sinistramente alla luce del doppiere che il maggiordomo reggeva - e che, tra l’altro, non gli aveva minimamente visto prendere -, sebbene sembrassero spenti da molti anni a causa dello stato della cera delle candele.
    Oltrepassarono solo una grande finestra dalle ante chiuse, le cui tende che non le nascondevano del tutto lasciavano intravedere parzialmente il giardino che circondava la villa. Si riusciva a scorgere ben poco data la scarsa luce ma, anche in quel modo, sembrava ben tenuto. «Da questa parte, prego», si fece sentire, ancora una volta, la voce atona del maggiordomo, distraendolo da quelle sue contemplazioni.
    Quando svoltarono l’angolo, una piacevole musica gli giunse armoniosa alle orecchie; fu quasi certo che si trattasse della Sonata in Re maggiore
[4] di Mozart, riproduzione indubbiamente fedele a quella del grande maestro. Le note erano chiare e concise, come se colui che stava dando vita a quella melodia fosse il reale compositore. Ipotesi che, naturalmente, scartò subito, ma che restò ancorata nella sua mente per tutto il tragitto che separò lui e il suo accompagnatore da quella che scoprì, in seguito, essere la sala musica.
    «Siamo arrivati, Lord Dellinton», annunciò l’uomo, accostandosi alle due grandi porte in legno d’ebano per spalancarle quasi con grazia. Appena la debole luce proveniente dal salone inondò il corridoio, la musica cessò, rivelando mille volti e occhi che osservavano adesso nella loro direzione. Alcune donne dai visi nascosti da maschere e voluminosi ventagli avevano interrotto la loro ciarliera conversazione, portando la loro più completa attenzione su quel nuovo arrivato. Persino gli uomini, di cui si riuscivano a malapena a scorgere gli occhi a causa delle nere maschere che anch’essi indossavano, sembravano meravigliati e seccati al tempo stesso da quell’ospite per loro inaspettato. Chi non sembrava per nulla sorpreso o infastidito era un giovane dal taglio corto e sbarazzino, che si era invece distinto regalandogli un sorriso. Aveva anch’egli il viso nascosto, e ciò rendeva la curva delle sue labbra ancor più invitante e carnosa. Era seduto su uno sgabello di legno, esattamente dietro ad un lucente piano smaltato di nero; era dunque lui l’artefice di quella melodia, melodia che era quasi riuscita ad incantare il nobile come nessuna aveva mai fatto. Forse nemmeno quella suonata dallo stesso Mozart.
    Quel fanciullo sconosciuto allontanò le mani dai tasti bianchi e neri, sfilandosi la maschera con un unico movimento fluido. Due occhi perfetti, tendenti quasi ad ambrato che ben conosceva, squadrarono con bislacco divertimento l’espressione che si era dipinta sul volto del nobil uomo, sorridendogli ancora una volta bonario.
    «Lord Dellinton, devo supporre», esordì con voce squillante, ma non per questo fastidiosa. «Mo bhràthair
[5] William mi ha parlato molto di lei. Ne ha parlato a tutti noi», soggiunse, enfatizzando soprattutto le ultime parole. E forse fu a quel punto che i precedenti timori dell’uomo si manifestarono all’improvviso. Era entrato da solo nella tana del lupo: aveva lasciato che quel suo carceriere tessesse con abilità quella  tela, cadendovi preda.
    Il Lord si sentì la gola secca, resistendo all’impulso d’indietreggiare e scappare. Avrebbe solo reso la loro caccia più eccitante, poiché sapeva cos’erano quegli esseri. Gli sguardi che avvertiva su di sé erano quasi famelici, o forse era solo lui ad avere quell’impressione; occultati alla vista com’erano, non avrebbe mai saputo dire cosa nascondessero realmente quegli occhi che l’osservavano. Cercò quindi di dimostrarsi tranquillo, azzardandosi persino a chinare cordialmente il capo. «Sono onorato di tutto quest’interesse nei miei riguardi, davvero», rispose, con l’intonazione più naturale che riuscì a trovare nonostante la nota incrinata che lui stesso sentì. «Ma devo ammetterlo, dinanzi ad una tale bellezza che mi mostrate, mi sento quasi fuori luogo».
    Stava tergiversando, certo, ma in qualche modo, a quelle parole, sentì una risata provenire da un gruppo di dame accomodate su un divanetto poco distante e si voltò, incontrando due profondi occhi d’un celeste cristallino.
    «Un ospite davvero divertente, non c’è che dire», esordì colei che aveva riso, chinando di poco il ventaglio piumato per lasciar intravedere le labbra rosse e carnose. «Questa volta la scelta è stata sicuramente migliore delle precedenti».
    Il viso di lei aveva lineamenti delicati ma decisi, quasi austeri, e i biondi capelli che glielo incorniciavano ricadevano delicati sullo stretto corpetto color panna che indossava e che metteva in risalto il suo corpo longilineo; pizzi e broccato rendevano armonioso quell’abito, anch’esso d’un tenue e spento colore. Aveva concesso un sorriso al nobile, la donna, e nel farlo sembrava aver sciolto l’iniziale tensione che, fino a quel momento, aveva regnato in quella sala. «Si accomodi con noi sino al ritorno del nostro amato William, Lord Dellinton», esordì ancora una volta lei, con tono caldo e sensuale. «Arthur ci delizierà con la sua musica mentre attendiamo. Vedrà, le piacerà da morire».
    Il Lord deglutì e, seppur riluttante dopo le ultime parole udite, mentre andava ad accomodarsi su uno dei piccoli divani presenti, il basso e armonioso chiacchiericcio che era stato interrotto riprese, quasi simile ad una bassa nenia che accompagnava ogni nota che aleggiava lieve. Cominciò a guardarsi intorno, leccandosi le labbra che sentiva secche, con tutta la discrezione possibile; mentre la sua attenzione vagava sui volti cinerei ed immoti che sotto quella luce soffusa acquisivano sinistri toni, i suoi pensieri continuavano a correre veloci, mulinando nella sua mente come fiocchi di neve. Era giunto sin lì poiché richiesto e desideroso di farla finita, ma colui che aveva espresso tale desiderio non si era nemmeno degnato d’attenderlo in casa. E ora era lì fuori, chissà dove e a fare chissà cosa, mentre lui aveva preso posto su quel divano di velluto rosso, circondato da esseri che era stato ben attento a non catalogare umani. Quell’aspetto che possedevano, le movenze con cui compivano anche il più minimo gesto; no, quelle creature erano esattamente quelle che aveva pensato al principio: vampiri. Creature che ammaliavano, sconvolgevano e conducevano alla perdizione.
    Con quei pensieri nella mente, non osò nemmeno toccare i pregiati calici che, di tanto in tanto, qualche domestico s’apprestava a portare - ironicamente, a dir suo - su un vassoio d’argento. Osservava gli ospiti consumare i beveraggi, tuttavia: osservava quei loro sorrisi accondiscendenti, quel loro far oscillare con lentezza il bicchiere; ascoltava il limpido suono delle loro voci e delle loro risate smaliziate, tonalità diverse che andavano talvolta confondendosi cristalline con le note create dal pianoforte. Fece persino fatica ad accorgersi che la Re maggiore era divenuta la Sonata in Sol maggiore
[6], tanto che si era perso in quelle sue osservazioni.
    Si ridestò solo quando sentì un morbido peso prender posto accanto a sé e una carezza su una guancia, che per poco non lo fece trasalire per la freddezza. Stupì persino se stesso per il suo voltarsi lentamente, incontrando un paio d’occhi d’un verde così intenso che stentò quasi a credere che un colore simile esistesse. La donna che aveva dinanzi era giovanissima, forse poco più che ventenne; non indossava più la maschera, e ciò permetteva di distinguere maggiormente ogni lineamento del viso. Pallida come tutti i presenti, sembrava però esser l’emblema più assoluto d’un’innocenza dannata. Nel guardarla con attenzione, difatti, l’uomo si rese conto di non aver dinanzi a sé una donna, ma una ragazzina poco più che tredicenne; i seni erano ancora acerbi, il corpo non aveva acquisito la forma aggraziata e lussuriosa d’una giovane donna. Ma l’aspetto con cui si mostrava la faceva apparire più grande, conferendole una sensualità che non le apparteneva. E il pensiero di quanti anni potesse realmente avere quella creatura che stava osservando colpì la mente del nobile come una folgore. In nome di Dio, dov’era capitato?
    «Sembra annoiato e in ansia, Milord», la ragazza finalmente parlò, arrotondando il suono delle consonanti con un forte accento francese. «La nostra compagnia non vi è gradita, forse?»
    Deglutì più volte, lui, quasi non sapesse come poterle rispondere. Fece guizzare nuovamente gli occhi scuri su quella gracile figura, corrugando le sopracciglia per dar vita ad un’espressione quasi addolorata; dimostrava pochi anni meno di suo figlio, buon Dio. Si sforzò di restare ancora una volta calmo, concentrando la sua attenzione sulla musica che sentiva ancora aleggiare. Quello, forse, l’avrebbe anche aiutato a distrarsi. «In realtà non vorrei arrecare disturbo, piccola miss», le rispose cortese, usando un tono quasi paterno. «Non ho nessun diritto di privarvi del vostro riposo».
    Quando lei rise innocente e in modo genuino, la cosa lo colpì parecchio, forse più di quando gli afferrò un braccio per stringerselo al petto. Sussultò un po’, l’uomo, al freddo contatto che s’avvertiva nonostante il velo dei vestiti, e non poté far altro che sentirsi peggio nel constatare che quel corpo non sarebbe mai cresciuto.
    «È stato William a parlarle della nostra natura, non è così?» chiese ingenuamente lei, guardandolo con quei suoi occhi profondi. Aveva dato un suono e una pronuncia diversa alla maggior parte delle parole, quasi si divertisse ad utilizzare il suo accento straniero.
    Lord Dellinton annuì, non riuscendo ad intavolare un vero e proprio discorso. Ad ogni domanda che gli veniva posta, rispondeva esattamente allo stesso modo, buttando lì giusto qualche parola sconnessa quando se ne richiedeva l’occasione; sebbene quelle creature della notte fossero a conoscenza del fatto che lui sapeva, non avevano ancora provveduto ad eliminarlo. E forse era proprio questo a metterlo in guardia e a renderlo maggiormente sospettoso, attento ad ogni minima mossa che vedeva compiersi.
    In realtà era raro che si muovessero o, se lo facevano, lui stentava semplicemente ad accorgersene. Persino i movimenti delle mani del giovane di nome Arthur, che fino a quel momento aveva suonato ininterrottamente, sembravano quasi invisibili ai suoi occhi umani. Ma fu proprio in quel mentre che il ragazzo si fermò, alzando di scatto il viso per puntarlo sulla porta, come un cane che aveva appena fiutato la sua preda. E così fecero gli altri, subito dopo; una marea di sguardi si spostò in quella direzione, esattamente come quando era giunto il nobil uomo sin lì. Il primo ad entrare da quella soglia fu un distinto gentiluomo, munito semplicemente d’un bastone da passeggio: gettava nella sala sguardi un po’ spaesati, quasi non capisse il motivo di quelle attenzioni su di sé; qualche attimo dopo fu il turno di una dama, di entrare, amorevolmente a braccetto con un giovane dalla lunga capigliatura dorata. Proprio lui, invitò quel nuovo arrivato a farsi avanti, sussurrando qualche parola - probabilmente di conforto - all’orecchio della donna. Quello sguardo ambrato si soffermò poi sul volto del signore di Beul an latha e, riconoscendolo, gli regalò un ampio sorriso che sembrò quasi risplendere in quel luogo di luce soffusa.
    Lasciò andare la donna richiudendosi la porta alle spalle, invitando ancora una volta entrambi a farsi avanti per arrivare quasi al centro della sala. «Coraggio, non siate timidi», li esortò, quasi in tono divertito. «Ho invitato voi e la vostra dama per festeggiare, Sir Scott. Senza la vostra presenza la festa non ci sarebbe».
    Un piccolo mormorio ilare, molto simile ad una lieve risata, corse fra i presenti a quelle parole. Solo Lord Dellinton assisteva quasi allibito alla scena, come se non comprendesse a pieno ciò che stava accadendo o che sarebbe presto accaduto. Non si rilassò nemmeno quando vide la donna sorridere e l’uomo ricambiare il sorriso, quasi vago e sparuto, come se non si rendesse realmente conto di dove si trovava.
    «Lei è stato troppo gentile, Sir William», replicò cordiale, e fu il suo turno di prendere a braccetto la dama, che sembrava far vagare semplicemente lo sguardo senza pronunciar parola. «L’abbiamo vista al club solo rare volte, e non abbiamo potuto dialogare come si conveniva. Questa serata sarà un’ottima occasione per farlo».
    «Una ghiotta occasione», lo corresse con falso tono di rimprovero, sempre con quel suo solito sorriso bonario. «Ma accomodatevi, prego. Le faccio conoscere i restanti ospiti».
    I minuti che passarono andarono avanti così, tra scambi di convenevoli e saluti referenziali; William non aveva degnato il signore di Beul an latha nemmeno d’un’attenzione, se si escludeva quell’unica occhiata che gli aveva rivolto quand’era entrato. Aveva bensì interagito con gli ospiti, parlato con quello che aveva scoperto essere il fratello. Ma nemmeno per un attimo era sembrato interessarsi a lui, nemmeno quando uno di quegli ospiti che aveva portato prese posto accanto a lui e alla ragazzina che ancora stringeva il suo braccio.
    Lord Dellinton aveva quindi deciso d’intrattenere una conversazione con quell’uomo, che sembrava dal canto suo non curarsi affatto di come la sua accompagnatrice stava sollazzandosi. Parlava e parlava, perdendosi in discorsi che decantavano l’arte e la musica d’un paese o d’un altro; farneticava di argomenti d’attualità, bofonchiando sull’inettitudine della polizia londinese e su come quei crimini sanguinosi passassero tranquillamente sotto il loro naso. E faceva finta d’ascoltare e d’esser interessato, il nobil uomo, annuendo di tanto in tanto. Anzi, non potendo più soffrire altro, dopo un’interminabile sproloquio decise d’alzarsi, lasciandolo in compagnia della ragazzina che pendeva letteralmente dalle sue labbra. Fece per uscire da quella stanza quando un urlo agghiacciante lo richiamò, facendolo voltare di scatto; proprio dove poco prima era accomodato, quell’uomo che corrispondeva al nome di Scott giaceva mezzo disteso sul divano, con la ragazzina seduta a cavalcioni sulle sue gambe. Vista da occhi estranei sarebbe potuta essere fraintesa, quella situazione. Ma per lui, che conosceva il vero aspetto di quelle creature, fu come fare i conti con tutto quello che fino a quel momento non aveva voluto vedere. La ragazzina aveva affondato le piccole zanne nel collo di quel mal capitato, e ciò che si sentiva, oltre gli strilli della donna, era quell’intenso succhiare e deglutire senza sosta.
    Lord Dellinton
si portò una mano alla bocca, reprimendo l’impulso di dare di stomaco; si costrinse invece a guardare, come se volesse imprimersi quella scena nella mente. Quella fanciulla, in quel momento, gli era apparsa per ciò che era in realtà: un semplice mostro che si nutriva degli sventurati esseri umani che si ritrovavano sul suo cammino. E trattenne un conato di vomito quando lei, con un gemito alto e compiaciuto, sollevò di scatto la testa e schiuse le labbra, ripulendosi sensualmente il sangue che colava da esse con la punta della lingua.
  «Sono desolato, signori», si fece sentire William, sovrastando tutto quel baccano con fare divertito. «Temo che la nostra piccola Juliette abbiamo deciso d’anticipare i festeggiamenti».
    Si levò una nuova risata, a quelle parole. «Dunque possiamo cominciare con l’antipasto?» replicò un uomo che si trovava poco lontano da lui, attendendo fremente una risposta.
    William atteggiò giusto il viso ad un’espressione tranquilla e impassibile, sbattendo con lentezza, per ben due volte, le palpebre, quasi come se volesse accennare a qualcosa. Una nuova risata, più cristallina della precedente, serpeggiò nella stanza quando il ragazzo seduto al piano s’alzò, avvicinandosi al fratello per cingergli i fianchi con le braccia.
    «Sei sicuro di non volerne un po’, mo bhràthair?» il suo fu più un mormorio che una vera e propria domanda, e strofinò di poco il viso contro il suo collo prima d’adocchiare di sfuggita il Lord. Gli sorrise, snudando le zanne; con le stesse carezzò la pelle del maggiore, senza distogliere lo sguardo da quegli occhi scuri che sembravano squadrarlo.
    William piegò il capo di lato, alzando un braccio per intrecciare le dita fra i capelli di Arthur. «Questo è per voi, adesso. Solo per voi», replicò, poggiandogli poi l’altra mano su un braccio per farsi lasciare, allontanandosi poi da lui per far schioccare appena le dita; fu un attimo, e le urla della donna ripresero più forti mentre lei tentava di scappare.
    Gli ospiti che erano apparsi così normali al signore di Beul an latha, stavano mostrando adesso i loro veri volti - mutando, avrebbe osato dire -, avventandosi senza pietà su quei corpi che martoriavano in più punti: c’era chi alzava le gonne per azzannare una coscia, chi si accontentava più semplicemente del collo; chi, invece, sembrava tranquillamente assorto ad incidere un esile polso, lasciandolo stillare goccia per goccia. Intingeva un dito, lo portava alle labbra; lasciava che il viso si trasfigurasse in una maschera di puro piacere, compiendo quel rito a poco a poco. E il Lord era rimasto impalato accanto alla soglia, con la schiena contro la porta mentre osservava quel massacro di carne e sangue. Gli occhi azzurri sembravano ingigantiti dalla paura e, forse, anche da un qualcosa di molto simile all’eccitazione della caccia. Erano anni che non provava più quella sensazione e, il provarla per la scena a cui stava assistendo, gli fece storcere il viso per l’indignazione. Quand’era diventato così?
    Fu solo a quel punto che il suo carceriere gli si avvicinò, prendendolo per una mano per esortarlo ad allontanarsi da lì e ad avvicinarsi al banchetto. «A te non faranno nulla, non temere», mormorò con tono dolce e comprensivo, quasi stesse parlando ad un bambino. «Puniscono solo i malvagi».
    «Tu sei folle, un sadico pazzo», replicò immediatamente l’uomo, sconvolto e ad occhi sbarrati. Ma riuscì solo a farlo ridere, sentendo le sue mani sulle spalle.
    «Erano complici d’un omicidio e andavano puniti, mio sciocco amante. E l’omicidio è sempre un errore», gli mormorò divertito, alzandogli il viso per fargli vedere meglio la scena che entrambi avevano dinanzi. I volti degli uomini e delle donne lì presenti erano divenuti quasi simili a quelli di una statua di marmo bianco, solo di rado vedeva le labbra di costoro macchiate del vermiglio colore del sangue. Ancora una risata si levò dalla gola di William, che si strinse maggiormente all’uomo per continuare a sussurrare al suo orecchio: «Fosti tu stesso a dirmi tali parole».




[1] Prima parte di una doujinshi di Idea (Rin Seina/Houseki Hime) uscita il 29 dicembre del 2005, rilasciata insieme a “Planetarium”.
Potrebbe indicare metaforicamente il cambiamento di pensiero che sta avvenendo nella mente del protagonista, così come potrebbe indicare il cambiamento vero e proprio che viene messo in atto dai vampiri presenti nella villa.

[2] Non si può definire esattamente come nome d’un territorio patronale.
In realtà significa “Alba” in gaelico scozzese.

[3] E’ il principale distretto di shopping e divertimento, ed è incluso nella cosiddetta City of Westminster, uno dei 32 distretti di Londra che paradossalmente ha anche lo status di città.
Il luogo più conosciuto della zona è Trafalgar Square, mentre Oxford Street è una strada per lo shopping famosa in tutto il mondo.

[4] Fu composta ed eseguita a Londra nel 1765, ed è la quarta sinfonia dell’allora giovane Mozart.
Si apre con un Allegro per variare poi con un Andante e concludersi con un Presto.

[5] Mio fratello, gaelico scozzese.
I primi tre pronomi possessivi causano lenizione alla parola “bràthair” (Fratello), alla quale si aggiunge, appunto, l’ “H”.

[6] Venne composta tra l’estate e l’autunno del 1774, e fa parte delle sei sonate per pianoforte che Mozart scrisse.
Come quella in Re maggiore, anch’essa si suddivide in tre tempi.



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Capitolo 5
*** [ Atto V › Inghilterra, 1888 ] Night in Gale ***


Un oscuro angelo_5
ATTO V: LONDRA › INGHILTERRA, 1888
NIGHT IN GALE [1]

Piangi e ti disperi,
cancellando tutto il resto;
ma cadi e ti rialzi
ad un passo dalla fine.

    Le strade apparivano desolate, a quell’ora della notte.
    Non un suono si levava ad infrangere quel silenzio, rendendo la quiete quasi irreale. Camminando accanto a quei due giovani per quei distretti bui, sorpassando gente e persone che avevano un'aria più losca dei suoi accompagnatori, persino al signore di Beul an latha quel mondo appariva etereo, quasi distaccato dalla comune concretezza alla quale era abituato. Le poche luci lì presenti erano così offuscate e cupe da far sembrare ancor più fattibile quella sensazione, tanto che, mentre continuava ad avanzare, il gelo e l’angoscia avevano cominciato a farsi sempre più spazio nel suo animo.
    Avevano lasciato la ricca villa non più d’un’ora addietro, uscendo insieme a quegli altri ospiti. Non avevano preso strade simili, separandosi; lui era salito in carrozza con Sir William e il suo giovane fratello, osservando l’allontanarsi delle restanti creature per quanto gli era stato concesso. L’unica a degnarlo di una vera e propria attenzione era stata la ragazzina di nome Juliette, che gli aveva rivolto un sorriso e mostrato le zanne prima di scomparire. In religioso silenzio, poi, quella carrozza era partita; si erano fermanti non molto lontano dal East End
[2], un quartiere che il nobil uomo non aveva mai visitato per ovvi motivi. Era lì che si concentravano i più poveri fra i distretti di Londra, e sembrava, d’altronde, che fosse in quella zona che il serial killer agisse. Adesso si trovavano a vagare proprio da quelle parti, ma l’unico che temeva qualcosa era lui. Non lo dava a vedere a causa del suo orgoglio, anche se faceva continuamente guizzare gli occhi da una parte all’altra. Non aveva, inoltre, osato chiedere il perché di quella sosta e il loro andare a piedi, guardandosi da solo le spalle poiché sapeva che di quegli esseri non c’era da fidarsi.
    Si ritrovarono ben presto a svoltare in un vicolo, dove vaghi suoni e rumori gli giunsero alle orecchie: risate sguaiate, musica proveniente probabilmente da una tavernetta da quattro soldi; riuscì persino a distinguere l’odore del piscio e del liquore annacquato, storcendo il viso in una smorfia per il tanfo. Vide poi, qualche attimo dopo, i primi moribondi gettati ai cigli delle strade o adagiati contro i muri, sudici quanto il posto che li circondava se non di più. Bambini dai vestiti logori frugavano fra le vesti dei sicuri cadaveri, scappando poi veloci con il misero bottino ottenuto. Non più di qualche sterlina, molto probabilmente, ma che per loro sembrava equivalere anche a troppo.
    Lord Dellinton si perse negli occhi di un uomo  - stranamente distinto, dato il luogo in cui si trovavano - che gli passò accanto e distolse subito lo sguardo, adocchiando solo di sfuggita i volti marmorei dei suoi due accompagnatori: sembravano l’uno più indifferente dell’altro, come se quelle fossero cose che vedevano ogni singola notte. Fu a quel punto che capì il motivo per cui, forse, si trovavano lì. Dovevano sfamarsi e l’avevano portato a caccia. Si tenne per sé una nuova domanda, continuando a seguirli senza proferir parola. Non sembravano nemmeno molto propensi alla conversazione, in quel momento.
    Quando i due giovani si fermarono, trovando le loro vittime, lui guardò ancora una volta altrove per non vedere quello sfacelo; gli era bastata la scena a cui aveva assistito in casa per fargli comprendere quel perverso meccanismo. Un pensiero lo fulminò nel sentire comunque quel succhiare e deglutire e gli ultimi aneliti di vita di quel povero disgraziato: anche quando era lui a fare la parte del cibo quel vampiro aveva in volto quella stessa espressione? L’aveva vista solo di sfuggita, ma sul suo viso aveva letto un qualcosa paragonabile solo alla lussuria. Era questo ciò che provavano i vampiri nell’uccidere? Un qualcosa di simile alla sensazione che derivava dall’atto sessuale? Il solo rifletterci gli fece arricciare ancora una volta la punta del naso, cercando inoltre di resistere all’impulso d’allontanarsi per scappare via. Non aveva la benché minima idea di dove si trovasse; sarebbe stato solo preda di poco di buono, dato il ricco modo in cui era vestito.
    Trasalì quando sentì una mano su una spalla, ritrovandosi ad osservare gli occhi verde ambra che appartenevano al più giovane dei due. L’altro si stava ancora nutrendo, cingendo la sua vittima in un abbraccio letale e possessivo. «Sei ancora convinto che questo nostro modo d’agire sia sbagliato?» gli domandò con voce sicura, senza la benché minima traccia di quel sadico divertimento che sembrava caratterizzare invece il fratello maggiore.
    L’uomo non rispose, ma s’affrettò a non guardare oltre quelle iridi ferine. Nemmeno il giovane disse altro, come se non gli fosse mai interessata una vera e propria risposta; tornò invece accanto al fratello, lasciando il signore di Beul an latha ad attendere non molto distante. Fu solo quando lasciarono quei vicoli e salirono nuovamente sulla carrozza - il cocchiere li aveva attesi fin a quel momento - che il Lord riacquistò quel minimo di calma e razionalità che lo caratterizzavano.
    Si sedette su quel morbido sedile dopo che si furono accomodati gli altri due, attendendo ancora una volta che partissero alla volta della residenza che occupava lì a Londra. C’era un qualcosa che per lui non quadrava, nell’aria. Se fossero gli sguardi o il silenzio di William e Arthur non avrebbe saputo dirlo con certezza nemmeno lui. Fatto stava che, quando arrivarono - poco prima che scendesse per lasciarsi finalmente alle spalle quella notte -, le parole che il vampiro più grande gli rivolse lo raggelarono.
    Si fermò con una mano su uno sportello e si voltò, cercando di dare un’aria saccente e distaccata all’espressione dipinta sul suo viso. «Perdonami, cosa hai detto?» chiese, fingendosi il più cordiale possibile. Ma l’occhiata che gli venne rivolta fu ben diversa dalle solite a cui era abituato. Appariva fredda, inespressiva, come se ad osservarlo fosse una statua di marmo.
    «Prendi ciò che ti occorre senza farti vedere da nessuno e torna indietro», ripeté William, paziente nonostante l’espressione. «L’incontro che potresti fare in casa potrebbe non piacerti».
    «Che mucchio di sciocchezze», replicò Lord Dellinton, senza prestargli altra attenzione. Per quella sera ne aveva avuto abbastanza.
    «Non sono sciocchezze, te ne renderai conto tu stesso», parve protestare ancora una volta William, senza nessuna sfumatura nella voce. Il suo volto lasciava intendere solo una vaga cortesia: non c’era nient’altro che rivelasse ciò che lui, all’interno di quella casa, aveva avvertito.
    Il signore di Beul an latha scostò la mano dallo sportello e si voltò verso entrambi, osservando prima il minore per appuntare poi la sua totale attenzione sul viso del maggiore. «Voglio che tu mi lasci in pace», quasi ordinò, come se quello potesse servire ad essere ascoltato.
    «Non lo vuoi davvero, altrimenti non saresti venuto sin qui», ribatté immediatamente l’altro, accavallando disinvolto le gambe.
    «Sono venuto per dirti addio».
    «Quanto sei sciocco a convincerti che sia così», fece ancora il vampiro, gettando un rapido sguardo al fratello che sorrideva come se fosse divertito. «Sei venuto perché non sei riuscito a starmi lontano».
    Lord Dellinton scosse di poco il capo, rivolgendogli poi uno sguardo risoluto e ricco di mille emozioni. «Io rivoglio la mia vita», replicò solenne, riuscendo solo a strappare una piacevole risata ad entrambi. I lineamenti del viso di William si erano persino addolciti.
    «Ancora non ti sei reso conto che non hai più una vita da anni, ormai?» s’intromise nel discorso Arthur, alzandosi per scendere le scalette della carrozza e avvicinarsi al Lord. «Mo bhràthair te l’ha rubato tempo addietro, è inutile ostinarsi».
    Joseph scosse ancora una volta il capo, indietreggiando verso l’entrata mentre non perdeva di vista nessuno dei due. «State mentendo entrambi», dichiarò, forse più per convincere se stesso che accusare loro. Ma una nuova risata si fece sentire, prima che fosse William a parlare ancora una volta.
    «E che bisogno avremo di farlo?» chiese, scrollando di poco le spalle come se nulla fosse.
    «Perché siete vampiri».
    «Non tutti mentiamo, mio sciocco amante».
    «C’è persino chi dice che non siamo affatto bravi», soggiunse il minore, cominciando a girare intorno al moro come una tigre che si preparava a balzare sulla sua preda. Ben presto anche William scese dalla carrozza, raggiungendo gli altri due per guardarsi distrattamente intorno. Faceva vagare lo sguardo in ogni dove, quasi con svogliatezza, soffermandosi giusto per pochi attimi sul paesaggio che li circondava per tornare poi a guardare il giovane fratello e il nobil uomo.
    Il sorriso non aveva abbandonato il suo volto, anche se quello stesso sorriso rassomigliava ad uno derisorio o di scherno. «Continui ad aggrapparti ai tuoi ideali come se valessero ancora qualcosa», buttò lì, sbottando per la prima volta. Nonostante apparisse tranquillo, difatti, dalla voce sembrava quasi indispettito. Non aveva mai sentito quel tono, Lord Dellinton, tanto che si ritrovò a deglutire anche non volendo. Il suo viso però ostentava ancora quell’espressione spavalda e fiera, un’espressione che l’aveva sempre caratterizzato.
    «Anche tu avrai avuto i tuoi ideali, un tempo», replicò, ignorando la rapida occhiata che gli venne lanciata dal minore dei due. «Fatico a credere che un ragazzo come te fosse già così».
    Non ebbe nemmeno il tempo di accorgersene, subito dopo, che sentì le mani di William afferrarlo per il solino che aveva alla gola, venendo quasi issato da terra mentre lo sguardo chino si perdeva in quegli oscuri oblii che erano adesso gli occhi del castano. «Se tu fossi nato nell’epoca in cui sono nato io non parleresti affatto in questo modo», ribatté, forse rabbioso. «Ho veduto la prima alba del tuo paese
[3], la ribellione alla Corona [4] e persino la sconfitta dei giacobiti secoli dopo. Meglio tacere su cose che non conosci», disse ancora, mostrandogli senza remore le zanne. «Ora vai in casa, se proprio lo desideri. Ma ricorda che ti ho messo in guardia».
    Lasciò andare la presa solo quando sentì una mano del moro posarsi sul suo avambraccio, vedendo la sua bocca muoversi senza emettere suono, come se non avesse voce. Si accorse solo in quel momento d’essersi fatto guidare dalla rabbia e di aver stretto troppo, rischiando quasi di strozzarlo. Ma non fece una piega, limitandosi ad osservarlo mentre si massaggiava la gola e tossiva, indietreggiando. Senza perdere altro tempo, poi, Lord Dellinton diede loro le spalle e si precipitò dentro, lasciandoli lì ad osservare la sua figura che scompariva.
    Guardandolo ancora con la coda dell’occhio, Arthur si avvicinò al fratello maggiore, assumendo quasi un cipiglio bambinesco. «Pensavo che ti fossi deciso a porre fine a tutta questa pagliacciata», asserì, come se fosse vagamente irritato. «Quell’uomo ti ha rubato molto più tempo del previsto».
    Con lo sguardo ancora perso in direzione della casa, William arricciò appena le labbra per dar vita ad un’espressione contrariata. «Non c’era bisogno che fossi tu a ricordarmelo, Arthur», rispose, in tono quasi dolce nonostante il viso contratto in una specie di smorfia. «Ho intenzione di chiudere la questione stanotte stessa, non temere», soggiunse poi, voltandosi verso di lui per sorridergli in un lampeggiar di zanne. «Ma dovrai fare anche tu la tua parte».
    «Aspettavo soltanto che tu me lo dicessi, mo bhràthair», ribatté, tornando ad assumere quella vaga tranquillità che sembrava far da pilastro portante a tutto il suo essere.
    «Bada a non lasciarti sfuggire l’occasione», gli ricordò immediatamente il maggiore, serio. «Deve essere sul punto della disperazione, e io ho lavorato troppi anni per arrivare fino a questo momento».
    «Andrà tutto come stabilito, non temere».
    Nessuno dei due disse altro o aggiunse qualcosa, poi. Si limitarono solo ad avanzare in direzione della residenza dopo aver chiuso lo sportello e fatto un rapido cenno al cocchiere, che chinò brevemente il capo prima di spronare i cavalli a partire. Lo seguirono con lo sguardo finché la carrozza non sparì del tutto dalla loro vista, attraversando il piccolo giardino per giungere alla porta.
    Proprio all’interno di quella casa, frattanto, v’era chi si affaccendava in silenzio e frugava in ogni dove, quasi fosse alla ricerca di qualcosa. Sembrava agitato e frettoloso, anche se di tanto in tanto non mancava di gettare uno sguardo fuori dalla finestra posta a lato della stanza, quasi a ridosso del muro. Sospirò di sollievo quando trovò il tanto agognato oggetto della sua ricerca, infilandosi in tasca quella piccola ampolla prima d’attraversare l’ampio salone. Si sarebbe dapprima disfatto di quella una volta per tutte, ponendo così fine ad una parte della follia che lo stava lentamente consumando. Ma si fermò poco lontano dall’ingresso quando vide una figura accucciata accanto al camino, riconoscendola quando le fiamme guizzarono creando riflessi arancioni sui suoi capelli, illuminandogli anche il viso.
    «Jason?» chiamò sorpreso, quasi credendo d’essere impazzito. Suo figlio non sarebbe dovuto trovarsi lì, ma ad Inverness. Che ci faceva così lontano da casa? Quella doveva senz’altro essere una visione mostratagli dalla sua follia, non poteva essere altrimenti. Dovette però ricredersi quando lo vide voltarsi, incontrando quegli occhi azzurri nei quali danzavano, rispecchiandosi, le fiamme.
    Come un bambino colto sul fatto a compiere una marachella, Jason abbassò il capo
non appena incrociò lo sguardo del genitore, osservando il pavimento con fin troppo interesse. Non aveva il coraggio d’alzare il viso, forse per non vedere l’espressione sbigottita e al contempo infuriata che segnava il volto del tutore. Era la prima volta, in fondo, che s’allontanava così tanto da casa senza nessuno con sé; la residenza era riuscito a trovarla solo perché, negli anni passati, si erano recati a Londra per diversi eventi, altrimenti non avrebbe mai potuto arrischiarsi ad intraprendere quel viaggio. Montando in sella al suo cavallo, difatti, aveva lasciato a sua volta il vecchio maniero per seguire il padre, dovendo sostare più volte in locande o taverne per rifocillare sia se stesso che il suo destriero. Provare a raccontare quel suo vagabondare al tutore, però, non sarebbe servito a nulla; probabilmente avrebbe solo fatto valere la sua autorità paterna, ammonendolo per quell’atto tanto stupido quanto sconsiderato.
    «Che cosa ci fai qui?» gli venne chiesto infine, ma non osò comunque alzare lo sguardo.
    Il ragazzo si strinse solo un po’ nelle spalle, come se si vergognasse a rispondere. «Ecco, io...» provò ad articolare qualche parola, forse tentando nel contempo di metter su una scusa abbastanza plausibile. Ma nemmeno lui sarebbe stato in grado di spiegare ciò che lo aveva spinto a seguire il moro fin lì, quindi la scelta migliore fu quella di restare ancora una volta in silenzio. Sentì i passi del tutore giusto qualche attimo dopo, ritrovandosi a sussultare come poche sere addietro quando sentì entrambe le sue grandi mani sulle spalle.
    «Devi andartene da qui, Jason», asserì Lord Dellinton, accorato ed imperativo al tempo stesso. «Devi andartene subito».
    Forse fu proprio quel tono sparuto a dargli il coraggio d’alzare il viso, rispecchiandosi in quei pozzi d’onice che, forse anche a causa delle fiamme, sembravano rilucere sinistramente. Non capì il perché di quelle parole, sentendo però la stretta aumentare; che avesse avuto ragione nel credere che il padre stesse nascondendo qualcosa a tutti loro? Già l’esser partito senza dir nulla non lasciava spazio a fraintendimenti.
    «Perché dovrei farlo, m’Athair?» riuscì finalmente a domandare, sentendosi come se si fosse tolto un peso. «Cosa sta succedendo? Cosa vi sta succedendo?»
    Gli occhi di Lord Dellinton guizzarono serpentini ovunque, come se distogliendo lo sguardo avesse potuto eludere la domanda. Ma ben sapeva che non era così. Suo figlio non era affatto stupido. «Ti racconterò tutto, te lo giuro», esordì poi, aumentando la presa sulle sue spalle esili. «Ma per adesso lascia questa residenza, te ne prego». Detto ciò allontanò le mani, lasciando ricadere le braccia lungo i fianchi per avvicinarsi al caminetto acceso.
    Il ragazzo volse lo sguardo verso di lui e l’osservò fissare le fiamme, contemplarle con una luce di follia che quasi gli brillava negli occhi azzurri. Restò interdetto per quel modo di fare: mai come in quel momento, l’uomo che stava osservando non gli sembrava affatto il tutore con cui era cresciuto. «M’Athair, perché dite tali cose?» domandò insistente, provando ad avvicinarsi. Ma lo vide infilare una mano in tasca ed estrarre una piccola ampolla, facendo oscillare lentamente il liquido rossastro al suo interno.
    Joseph si voltò verso di lui, sorridendogli senza la benché minima traccia d’emozione. «Perché ho intenzione d’infrangere il patto stretto con un angelo delle tenebre, figlio mio», gli rispose semplicemente, senza che quella vena di pazzia avesse abbandonato quelle polle cerulee.
    Jason sbatté le palpebre con fare perplesso, tentando di dire qualcosa. Ciò che lo fermò non fu lo sguardo del genitore, bensì il gesto che fece subito dopo: chiuse la mano intorno all’ampolla dopo averla guardata un’ultima volta, gettandola poi fra le fiamme. Le stesse ebbero un guizzo e un fremito, come se avessero preso vita, ritraendosi poi all’interno del caminetto prima d’esplodere in lingue di fuoco, quasi d’un cobalto tendente al violaceo. Boccheggiò, il ragazzo, non credendo ai propri occhi. Contrariamente a Lord Dellinton, che aveva assistito alla scena senza battere ciglio. Proprio lui si voltò ancora una volta verso il giovane, facendogli rapidamente cenno di seguirlo.
    Vedendo che non rispondeva, fu lui stesso ad avvicinarsi, afferrandolo per un braccio per trascinarlo via con sé. «Se proprio non vuoi andartene da solo dobbiamo affrettarci», esordì di punto in bianco, in tono spiccio. «Non riusciremo ad andare troppo lontano, altrimenti».
    «M’Athair, cosa...?» provò a chiedere il ragazzo, ripresosi parzialmente, ma ottenne solo risposte vaghe mentre attraversavano il salotto e si dirigevano verso le cucine, passando per il corridoio secondario dov’erano situate le stanze dei domestici. La maggior parte erano vuote, per il momento, ma una era occupata dal vecchio cocchiere; dovettero quindi fare più silenzio possibile mentre passavano, affrettando il passo solo quando non furono a portata d’orecchio. Si ritrovarono ben presto ad uscire dalla porta delle cucine, collegata con il giardino che attraversarono immersi nella stessa quiete di poco prima.
    Il ragazzo continuava a non capire lo strano comportamento del tutore mentre si lasciavano alle spalle la residenza ma, d’un tratto, furono entrambi costretti a fermarsi. Dinanzi a loro si trovavano due figure, entrambe elegantemente vestite e d’aspetto aristocratico, differenti solo nei tratti del viso e poco altro. «Sir... Sir William?» chiamò dopo aver riconosciuto una delle due figure, ma una mano del padre l’afferrò per un braccio e lo fece indietreggiare di malo modo, come se volesse metterlo al sicuro da un qualche pericolo.
    «Vattene, Jason», gli sussurrò Joseph, in tono accorato e spaventato. E forse fu proprio quello a convincerlo, indietreggiando rapido mentre provava comunque a far vagare lo sguardo dall’uno all’altro senza comprendere la situazione.
    «Quasi stentavo a credere che mi avresti reso le cose difficili», si fece sentire la voce pacata del biondo, le cui parole erano rivolte a Lord Dellinton, che l’osservava con sfida. «Pensavo d’averti in pugno, ormai».
    «A quanto pare ti sbagliavi», ribatté prontamente con la medesima voce, indietreggiando a sua volta per raggiungere il ragazzo. «Se ti bruciassi, succederebbe la stessa cosa che è accaduta al tuo sangue?» domandò poi, quasi in tono sarcastico.
    William arricciò il naso in una smorfia, lasciando ben intravedere quanto l’esser venuto a conoscenza di ciò che aveva fatto lo irritasse profondamente. Senza parlare, gli si avvicinò, fermandosi solo quando fu a pochi passi da lui prima d’allargare di poco le braccia, quasi stesse invitando l’uomo a colpirlo. «Allora fallo, se è vero che vuoi liberarti di me», disse semplicemente, come se la cosa non lo sfiorasse minimamente nonostante l’espressione del viso. «Ma so per certo che non parleresti così, se ti privassi di ciò che ti è più caro», sussurrò sibillino, quasi in un tono velatamente minaccioso.
    «Di cosa diavolo stai...» cominciò l’uomo, ma un urlo di dolore interruppe le sue parole. Lord Dellinton si voltò di scatto, sgranando gli occhi esterrefatto quando le sue polle scure si posarono su quella scena: poco lontano da lui si trovava Jason, tenuto immobile per i fianchi dall’esile braccio di Arthur. Il volto di quest’ultimo era nascosto nell’incavo del collo del ragazzo, la cui bocca era ora spalancata in un grido senza voce; gli occhi, di solito d’un azzurro iridescente, erano vacui e inespressivi. Perdeva copiosamente sangue da un’arteria lacerata, dove ben si riuscivano a scorgere le zanne appuntite del vampiro, macchiate di vermiglio.
    «Jason!» esclamò Joseph, sconvolto, correndo verso di loro per scostare con un gesto brusco Arthur che, contrariamente a ciò che si sarebbe aspettato, non fece una piega. Fu invece lui stesso a scansarsi maggiormente, leccandosi le labbra mentre li osservava con un vago sorriso ad illuminargli il volto. Troppo agitato per badargli, Lord Dellinton non gli prestò la benché minima attenzione, chinandosi in terra per stringere a sé il corpo del figlio adottivo. I profondi occhi azzurri di lui erano nascosti dalle palpebre, abbassate e lievemente tremanti; la bocca, dalla quale scorreva all’angolo un finissimo rivoletto di sangue, era schiusa per dar vita a respiri irregolari e frammentati. Sembrava che anche il solo farlo gli provocasse dolore, data l’espressione dipinta sul suo viso.
    All’uomo tremarono le mani, a quella vista. In ginocchio su quella strada lastricata, dove la pioggia caduta ore addietro aveva reso lucida la pavimentazione, sentì anche i suoi occhi inumidirsi di lacrime.
    Non di nuovo, pensò angustiato, non di nuovo, per l’amor del Cielo.
    Non voleva vedere nuovamente suo figlio spegnersi fra le sue braccia. Avrebbe preferito morire con lui, piuttosto che continuare a vivere con quel nuovo dolore nel cuore. Con delicatezza, quasi temesse che anche il minimo tocco potesse fargli del male, sollevò piano il capo del ragazzo, adagiandolo attentamente sulle sue cosce. Spasmodico cominciò a passargli delicatamente le dita sulle guance, sulle labbra, fra i capelli mori quasi completamente fradici di sudore. Umidità e sangue. Questi gli unici odori che l’uomo sentiva. 
    «Jason, Jason», lo chiamò ancora, in un rauco sussurro spezzato. «Rispondimi, figlio mio». Ma il ragazzo non riusciva a parlargli, muoveva solo la bocca senza emettere suono. E ciò non fece altro che angustiare maggiormente l’uomo, che gli premette il palmo d’una mano sul collo per tentare d’arrestare l’emorragia. Sentì il calore del sangue contro la pelle, quello stesso liquido vermiglio scorrergli fra le dita; e i respiri del giovane erano sempre più irregolari, quasi gli mancasse il fiato. «Perché lo hai fatto!» strillò fuori di sé, rivolto al più giovane dei due vampiri. «Che ragione avevi di farlo!»
    William si strinse appena nelle spalle, come se l’asprezza delle sue parole per lui non avesse alcun peso o senso. Sembrava perfettamente tranquillo. «Perché forse in questo modo non farai cose stupide», rispose infine, con semplicità inaudita.
    «È mio figlio!» strepitò Joseph, accalorato. «Mio figlio, dannazione!» Non riusciva a credere che l’avesse lì, agonizzante fra le sue braccia, e che l’unica cosa che riuscissero a fare quei due fratelli fosse solo guardare. In un impeto d’ira si issò - dopo aver sdraiato in terra il ragazzo - quasi in un unico movimento, scattando verso Arthur per afferrargli senza riguardi il collo con una mano, come se quell’unico gesto potesse servire realmente a qualcosa. «Se lui muore», cominciò, in un sibilo rabbioso «non mi darò pace. Troverò il modo d’ammazzare entrambi».
    Il minore lo guardò pacato, a quelle parole. Non tentò di liberarsi dalla presa, bensì si limitò semplicemente a posare una mano sulla sua. «E se ti dicessi che non esiste nessun modo?» esordì calmo, distogliendo lo sguardo da quegli occhi scuri per puntarlo oltre la spalla del moro, precisamente dov’era riverso il ragazzo. «Se ti dicessi che, qualsiasi cosa tu faccia, ciò non comporterebbe alcun risultato?»
    La stretta aumentò, così come l’ardore in quelle polle d’onice. «Non siete immortali», ribatté Lord Dellinton, astioso. «Fingete di esserlo, ma non lo siete».
    Fu a quel punto che sentì anche la presa di Arthur divenire più salda, quasi volesse spezzargli le ossa della mano. Si limitò invece a scansargliela con facilità, quasi fosse appartenuta ad un bambino di cinque anni. «Mentre sei qui a minacciarci, lì c’è tuo figlio che muore. Te ne rendi conto, vero?» gli mormorò in tono soave, facendo qualche piccolo passo indietro. Ridacchiò, poi, nel vedere il volto dell’uomo tramutarsi da una maschera d’odio ad un’espressione di consapevolezza, prima che abbandonasse temporaneamente la sete di vendetta per tornare svelto accanto al figlio. Gli aveva preso delicatamente una mano e gliel’aveva stretta forte, sporcandola con il sangue che macchiava la sua. Cominciò poi a mormorargli qualche parola nella sua lingua, come se in quel modo potesse calmare anche il battito impazzito del proprio cuore.
    Lord Dellinton vide quegli occhi aprirsi di poco e cercarlo, ma sembrava che la scintilla della vita stesse scemando a poco a poco. Non riusciva a vederlo così, non poteva sopportarlo. Era tornato a premergli una mano sul collo, certo, ma non aveva idea di quanto sarebbe riuscito ancora a resistere. Se lo issò quindi in braccio, rimettendosi in piedi con lui; l’avrebbe portato via da lì, anche a costo di venir ostacolato da quelle due creature che lo stavano osservando.
    «M-M’Athair», la voce di Jason gli giunse in un bisbiglio stridulo e strascicato, quasi troppo basso per poter essere udito e compreso. Gli mormorò solo qualche altra parola di conforto per calmarlo, facendo poi in modo che reclinasse un po’ la testa verso il suo petto.
    «Andate già via?» domandò divertito Arthur quando lo vide, incrociando tranquillamente le braccia al petto per squadrare poi la postura dell’uomo. Proprio lui non gli rispose affatto, dandogli le spalle con tutto il coraggio che era riuscito a raccogliere. Non aveva tempo per i loro giochetti; doveva portare suo figlio da un medico, immediatamente. Affrettò quindi il passo con il cuore che gli batteva all’impazzata, meravigliandosi di non esser seguito quando s’azzardò a lanciare uno sguardo dietro. Ma dovette ricredersi prima di svoltare l’angolo, ritrovandoli entrambi dinnanzi a sé. Era in trappola e non poteva fuggire: qualsiasi strada provasse a prendere li ritrovava sempre lì, sempre davanti a lui ad attenderlo come spettrali presenze. Si arrese all’evidenza, crollando con tutto il proprio peso sulle ginocchia mentre stringeva convulsamente a sé il ragazzo. I suoi respiri ormai si erano ridotti al minimo, era già un miracolo che avesse resistito così a lungo; gli aveva stretto debolmente la mano, ma anche quel gesto sembrava divenir meno sicuro.
    Non si curò dei passi che udì subito dopo, restando con lo sguardo puntato sul volto pallido del figlio. Ma fu proprio nel guardarlo che un pensiero malsano gli balenò nella mente, facendogli alzare di scatto la testa. «Tu puoi salvarlo!», gridò d’un tratto, voltandosi verso William che, fino a quel momento, aveva osservato la scena come se si fosse estraniato dal mondo.
    Sentendo tali parole, sbatté più volte le palpebre, stirando poi le livide e sottili labbra in un ammaliante sorriso. Scoprì le zanne, senza avere l’accortezza d’occultarle alla vista del suo interlocutore. «Salvarlo?», domandò lui, sollevando finemente un sopracciglio. «Och, mo chridhe... sei sempre stato così ingenuo», mosse qualche passo verso di loro, abbassandosi alla loro stessa altezza per sorridere ancora. «Tutto ciò che io potrei fare sarebbe solo completare l’opera di mio fratello e condannarlo».
    «Ma vivrà!» insistette l’uomo, comportandosi quasi come un bambino capriccioso al quale era appena stato negato un gioco. Sapeva che, compiuto quel passo, non sarebbe potuto più tornare indietro. Tuttavia, ciò che maggiormente gli premeva era non perdere suo figlio. Un gesto egoistico, il suo, ne era ben consapevole.
    «Cosa ti da il diritto di decidere per lui?» si fece sentire la voce di William - interrompendo così i suoi pensieri -, con una tonalità così calda che quasi stentò a credere gli appartenesse. Non avrebbe voluto rispondere, né sentiva di avere abbastanza tempo per farlo. La stretta della mano del figlio diveniva sempre più debole, senza permettergli di ragionare con freddezza e lucidità. Ma di una cosa era certo: non voleva vederlo morire. In cuor suo, però, sapeva che ciò sarebbe accaduto lo stesso. Avrebbe salvato suo figlio solo per vederlo morire; l’avrebbe condannato all’Inferno, un Inferno dal quale non sarebbe più riuscito a fuggire. Ma, in quel caso, l’omicidio non appariva più come un errore, per lui. Appariva come un’ultima possibilità per il suo unico figlio. «Ti darò qualunque cosa tu chieda», provò l’uomo, sentendo quel groppo in gola aumentare mentre lo sguardo era chino sul pallido volto del moretto.
    L’ombra d’una risata giunse però in risposta, lieve come la pioggia che sarebbe presto tornata a lacrimare sul mondo. «Oh, ma io ho già tutto ciò che voglio», sussurrò ancora, quasi spietata e tagliente, quella voce al suo orecchio. «Io ho te».
    Lord Dellinton non distolse lo sguardo dal volto del giovane anche quando udì quelle parole, sebbene sentisse un peso opprimente nel petto. «Se hai me, non lasciare che io perda lui», insistette, come se quello potesse far maggiormente presa sul suo biondo interlocutore.
    Ci fu un silenzio carico d’attesa, subito dopo; non un suono o un respiro sembrava infrangerlo, tanto che l’uomo fu quasi certo che anche i battiti del suo cuore sarebbero stati perfettamente udibili. Sentì poi un lungo sospiro, poi gelide dita s’intrecciarono fra i suoi capelli scuri. «Pur di non volerlo perdere lo condanni dunque alla dannazione eterna?» gli venne chiesto, quasi nello stesso sussurro di pocanzi, e voltò di poco lo sguardo verso il vampiro per fondere i suoi occhi cerulei in quei pozzi d’oro.
    «Io non...» rispose, quasi colto alla sprovvista, ma ancora una volta quelle dita gli carezzarono la cute, reclinandogli poi la testa all’indietro.
    «Non sprecarti in parole inutili», fece immediatamente William, mostrandogli le zanne. «Dimmi solo se lo vuoi o no».
  Lord Dellinton si leccò le labbra, stringendo ancor più a sé il corpo del ragazzo. «Non voglio perdere un altro figlio», ribatté, riprendendo ad accarezzargli spasmodicamente le guance gelide.
    Gli giunse alle orecchie un altro sospiro, prima che con la coda dell’occhio vedesse il vampiro inginocchiarsi accanto a lui. «Implorami, allora», gli disse, quasi con sagacia. «Prostrati dinnanzi a me e implorami di salvarlo».
    L’uomo scosse la testa, autoritario; non si sarebbe abbassato a tanto. L’aveva umiliato anche troppo, durante quegli anni. «Nay, questo non lo farò».
    «Ciò significa che il tuo orgoglio vale più della vita di tuo figlio?» replicò William con fare saccente, inarcando un sopracciglio. «Eppure non mi sembrava che tu la pensassi così, pochi attimi prima».
    Come colpito in pieno da quella constatazione, il Lord chinò lo sguardo per osservare il volto del figlio, i cui respiri irregolari e spezzati gli giungevano lievi alle orecchie. Tremava fra le sue braccia, biascicando parole che non avevano alcun senso; le palpebre continuavano a tremare e il viso diveniva sempre più freddo. Aveva quasi smesso di lottare, lasciando che il soffio della vita abbandonasse il suo corpo. Il suo orgoglio valeva davvero più della vita del proprio figlio? La risposta a quella domanda era più che ovvia. «Ti prego... non potrei sopportare di perdere anche lui», sussurrò Joseph, voltandosi definitivamente verso il vampiro con le sopracciglia corrugate dalla preoccupazione.
    Fu a quel punto che William sollevò appena un angolo della bocca in un sorriso, assaporando quelle parole come se le stesse gustando sulla punta della lingua. «Allora chiudi gli occhi, mo chridhe», mormorò poi, ammaliante, alzando di poco una mano per fargli scorrere due dita sul viso. «Chiudi gli occhi e non pensare ad altro. Sarò io l’ultima cosa che ti sarà concessa di vedere».
    Forse inconsciamente, Lord Dellinton si ritrovò ad obbedire a quelle parole. Abbassò le palpebre, sentendo poi quel tocco gelido sfiorarle delicatamente per carezzarle con altrettanta accidia. Ebbe quasi la sensazione che, man mano che quella carezza si spostava, ogni preoccupazione, ogni angoscia o tormento venisse spazzato via, sepolto sotto uno spesso strato di ghiaccio. Quello stesso ghiaccio che gli percorreva adesso il corpo, facendogli correre brividi inspiegabili lungo la schiena. Udì vagamente una voce giungere alle sue orecchie, scoprendo in un secondo momento che quella voce sommessa e rauca apparteneva a suo figlio. Voltò subito il viso nella sua direzione per vedere come stesse, vedendo però intorno a sé solo tenebre ed ombre. Persino quando provò ad alzare le palpebre non distinse nulla, sentendo solo quella voce cominciare a chiamarlo e quelle gelide carezze riprendere, insistenti. S’agitò, tentando di parlare a sua volta, di rispondergli; ma non un suono uscì dalle sue labbra mentre quell’oblio s’intensificava e lo inghiottiva.
    Un sussurro si fece largo fra quelle tenebre, un sussurro che prometteva sangue e passione, dolore e morte: il sussurro d’un demonio. Ma quello che lo stringeva in quell’abbraccio di morte era il suo angelo. Un angelo oscuro che, nel corso degli anni, l’aveva inesorabilmente condotto all’Inferno.





~ END ~






[1] Titolo di una doujinshi di Idea (Rin Seina/Houseki Hime) uscita il 27 marzo del 2005, facente parte della serie “Precious Wonders”.
Tradotto, si rifà principalmente a tutto ciò che succede nel capitolo fino alle note di chiusura, visto ciò che accade durante quella notte.

[2] Prossimo al vecchio porto di Londra, proprio per tale motivo è il luogo in cui gli immigrati trovavano un posto in cui stare.
La sua storia, a volte vista in chiave romantica, è fatta di umorismo e valori della classe operaia, ma anche di delitti come quelli di Jack lo Squartatore a Whitechapel, crimine organizzato, gangsters come la Banda Kray, povertà affrontata e resa sopportabile dalla tenacia britannica.
La verità, forse un po’ cruda, è che nell’East End si concentrano alcuni dei quartieri più poveri del Regno Unito, con tutti i problemi che ciò comporta.

[3] Si riferisce ovviamente a quando venne fondato il Regno di Scozia, precisamente intorno l’843 dal re Cináed I.

[4] Qui ci si riferisce invece alle guerre d’indipendenza che scuotevano la Scozia, precisamente alla famosa battaglia di Stirling Bridge nel 1297 in cui gli scozzesi si ribellarono sotto la guida di William Wallace, e quella di Bannockburn in cui Robert Bruce, incoronato re di Scozia, ottenne una vittoria schiacciante contro l’antica rivale del suo regno.









_Note conclusive (E inconcludenti) dell'autrice
Questa storia era stata originariamente scritta per un contest indetto da Selhin e Seiko, “Dalla Frase alla Storia”, ma ho poi pensato saggiamente di trasformarla in un'originale, giacché i personaggi che avevo utilizzato si discostavano un po' troppo dai loro caratteri e sarebbero apparsi così decisamente OOC.
Ecco perché, dunque, sono nati personaggi come Sir William, crudele vampiro per antonomasia, e Joseph, uomo che ha sempre avuto tutto grazie alla propria posizione ma che è stato più volte beffato da un destino crudele che ha colpito lui stesso e la sua famiglia. Il solo personaggio che ho lasciato è Jason, ragazzo creato nel lontano 2008 da me e Red Robin per gioco, e che ormai fa parte della nostra vita quotidiana, per così dire. Un po' come se fosse nostro figlio, se proprio vogliamo metterla in questi termini.
Comunque sia, la storia gioca più sugli aspetti psicologici di tutti i personaggi e sulla natura crudele degli esseri umani e dei mostri, sulla soggiogazione che essi possono provocare e sulla debolezza dell'animo, intersecando così realtà e immaginazione in un gioco di ombre e sguardi che conduce ad una drammatica conclusione. Ovviamente l'accenno a Jack lo Squartatore, dato il periodo, era d'obbligo, e lo si può benissimo notare, anche se solo accennato, quando Joseph gli passa vicino. Era una tale piccolezza per la trama che non ho ritenuto obbligatorio spiegarlo durante la stessa.
Spero che vi sia piaciuta e che l'abbiate in qualche modo apprezzata.
 
Alla prossima
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