Under a bloody sky

di My Pride
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Incontri inattesi e indagini irrisolte ***
Capitolo 2: *** Chiacchiere tra vecchi compari ***
Capitolo 3: *** Ben poche spiegazioni ***
Capitolo 4: *** Vecchie e nuove conoscenze ***



Capitolo 1
*** Incontri inattesi e indagini irrisolte ***


Under a bloody sky_1 Autore: My Pride
Titolo: Under a bloody sky
Fandom: Originali › Sovrannaturale › Vampiri
Tipologia: Long fic
Genere: Generale, Vagamente Introspettivo, Romantico (Dipende moltissimo dai punti di vista e dall’idea di romantico), Drammatico, Thriller, Sovrannaturale
Rating: Giallo / Arancione
Nota: Alcuni personaggi presenti in questa storia provengono da Na doir sìon dhomh, mo brèagha aingeal
Avvertimenti: Probabilmente Non per stomaci delicati, Heterosexual, Slash, Femslash
Introduzione: «Quanto sei disposta a spingerti oltre con questa storia?» mi domandò con voce sottile e tagliente. Sembrava che ci fosse qualcosa che lo rendeva nervoso, dato il modo in cui mi si era rivolto.
Mi limitai semplicemente ad incrociare le braccia al petto. «Quel che basta per capire cosa sta succedendo», risposi con fare ovvio, vedendolo finalmente voltarsi verso di me. Il suo viso era una maschera marmorea, e la sua bocca era ritratta a scoprire le zanne candide e affilate.
«Lo dico per il tuo bene, chica, lascia perdere questa faccenda adesso che sei ancora in tempo per farlo», disse, per nulla cordiale. «Non hai nulla a che vedere con tutto questo».


DISCLAIMER:
All rights reserved © I personaggi presenti in questa storia sono tutti maggiorenni e mi appartengono, dal primo all'ultimo. Sono comunque frutto di pura immaginazione. Ogni riferimento a cose e persone realmente esistite e/o esistenti è puramente casuale.
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ATTO I
INCONTRI INATTESI E INDAGINI IRRISOLTE

    Il picchiettare insistente delle gocce di pioggia contro i vetri stava facendo salire in me una sempre più crescente irritazione.
    Seduta al solito posto, in quella bettola che il proprietario si ostinava a chiamare bar nonostante fosse una tavola calda per trasandati, osservavo svogliatamente il poco paesaggio che si scorgeva oltre quell’ammasso incrostato di sudiciume che, nei bei tempi d’oro di quel locale, aveva portato il nome di finestra.
    Stringevo in una mano un Bloody Mary che non avrei mai bevuto, ma che Harry, il sopracitato possessore del posto, ci teneva sempre a portarmi per dare ad una buona fetta della clientela l’impressione che consumassi qualcosa, visto il tempo che sprecavo nello starmene lì. Avevo sempre odiato quel suo modo di fare, ma persino provare a minacciarlo come durante i tempi ormai andati era servito a ben poco. A quanto sembrava, difatti, non gli incutevo più lo stesso timore che gli avevo suscitato quasi un secolo prima.
    Oh, aye. Un secolo, esatto. Eravamo entrambi quello che, da tempi immemori, gli esseri umani chiamavano vampiro. Fra noi ci chiamavano in ben altro modo, ma tutte le lingue del mondo mortale non sarebbero riuscite a dare un giusto suono a quell’unica e determinata parola. Comunque sia, sebbene in confronto all’età che mi portavo sulle spalle Harry apparisse poco più d’un infante, aveva imparato in un tempo relativamente breve che ciò che più riusciva a divertirmi e ad eccitarmi, specialmente durante una caccia, era il terrore che provocavo nelle mie vittime e che sentivo nelle loro membra un attimo prima della fine.
    Spaventare lui aveva perso quel perverso fascino da quando si era dimostrato indifferente alle mie minacce e alle mie provocazioni. Quasi mi mancavano i tempi in cui era ancora un comune umano e il fatto che tremasse dinnanzi ad una donna. Nonostante l’aria menefreghista che sfoggiava adesso, difatti, quand’era in vita era sempre stato un vero e proprio cacasotto. Chi l’aveva reso uno di noi l’aveva scelto solo per il suo aspetto, visto che sembrava essere uscito da uno di quei vecchi film d’indiani e cowboy. Era alto e parecchio robusto, dagli zigomi e dalla mascella squadrata, con il naso aquilino e quel taglio all’orientale che faceva apparire i suoi occhi neri piccoli e rapaci. Spesso e volentieri, poi, si legava i capelli scuri in un basso codino o in due bizzarre trecce, tanto da dare quasi l’impressione d’essere davvero un sioux, un apache o comunque un esponente d’un’altra tribù nativa americana. Altre volte invece lasciava la sua chioma sciolta, esattamente come quella sera.
    Adocchiandolo appena, lo vidi intento a passare uno straccio sul bancone, anche se dalla scarsa concentrazione che gli vedevo dipinta in viso sembrava stesse solo occupando un po’ di tempo. Quella infatti era una serata fiacca, sia per gli affari che per il nutrimento. A causa della pioggia torrenziale non erano in molti quelli che si ritrovavano per strada, figurarsi quindi se, di punto in bianco, a qualcuno veniva la stramba idea di gettarsi in quel sudicio posto. Già per la poca clientela presente, Harry doveva ringraziare un qualunque Dio.
    Per quanto mi riguardava, invece, starsene lì seduta a battere bellamente la fiacca era una delle poche cose che mi piacevano oltre l’andare a caccia. Non avevo il minimo problema, quella notte: se avessi deciso di voler bere un goccio avrei anche potuto chiedere ad uno dei pochissimi camerieri che lavoravano in quel posto. Sarebbe bastato sfoggiare la mia cosiddetta grazia femminile, anche se il mio aspetto di femminile aveva davvero poco o niente, e loro mi avrebbero donato il loro sangue senza fare tante storie.
    Peccato che il più delle volte non mi bastasse. Siccome ero uno di quei vampiri ad aver quasi passato i settecento anni, spesso mi mancava quel sapore di sfida che si riversava nel sangue delle mie prede insieme alla paura. Non era raro, quindi, che mi ritrovassi a cacciare come si usava fare quando le creature come noi venivano braccate dai cacciatori. Tutt’oggi lo facevano, era vero, ed era proprio per questo che ci limitavamo ad una cerchia ristretta, così da mantenere il nostro segreto senza esporci ai pericoli che potevano insidiarsi in ogni dove. Ma come dicevano i mortali «Le vecchie abitudini sono dure a morire», e quello a quanto sembrava era esattamente il mio caso. Spesso non riuscivo a resistere al richiamo selvaggio della caccia e a ciò che il mondo del ventunesimo secolo poteva offrirmi.
    Fu in quel mentre che, ancora immersa nei miei pensieri, vidi l’aiutante di Harry sbucare dalla piccola cucina posta sul lato destro del locale. Il ragazzo appariva scapestrato come al solito e aveva il grembiule macchiato d’olio, forse vecchio anche di settimane. Sotto quel grembiule lercio si nascondeva un ventenne mingherlino con la fissa degli abiti hip hop, che lo facevano sembrare ancor più scarmigliato di quanto non apparisse normalmente.
    Sentii Harry richiamarlo ma non approfondii il discorso che seguì subito dopo, distogliendo lo sguardo per puntarlo nuovamente sul vetro ormai inesorabilmente appannato. Se fossi stata umana avrei scorto la mia immagine che mi fissava, ma vedevo solamente la patina bianca dell’umidità.
    Sbuffai appena e, dopo essermi passata le dita d’una mano fra i miei corti capelli chiari, cominciai a far vagare lo sguardo un po’ ovunque, ricevendo delle occhiate dalle poche ragazze presenti e anche da Matthew, uno dei clienti abituali di Harry. Era a sua volta un vampiro, ma a differenza di molti altri sembrava osservare tutto ciò che lo circondava come se fosse sempre in allerta, come se un angolo oscuro, per lui, anziché un rifugio significasse chissà quale trappola mortale. Mi stava fissando con lo sguardo fisso, in quel momento, con gli occhi quasi fuori dalle orbite che lo facevano somigliare ad un folle.
    Fui la prima a distogliere lo sguardo dal suo, sentendo uno strano senso d’inquietudine e di ribrezzo. Non mi era mai andato a genio, lo ammettevo.
    La serata continuò comunque fiacca fino all’una passata, orario in cui di solito cominciavano a farsi vivi i veri e propri clienti di Harry. Ma anche di loro non si vide nemmeno l’ombra, quella notte, tanto che mi ritrovai a gettare un’ennesima occhiata verso il bancone per cercare una qualche sorta di spiegazione nell’espressione che il viso di Harry aveva assunto. Sebbene stesse tranquillamente conversando con Tom, un altro dei suoi aiutanti - sulla quarantina, calvo e un po’ in sovrappeso -, e Jim, quell’aria di superficiale calma di cui si era rivestito tradiva ciò che realmente stava provando. Un senso d’inquietudine strisciava sotto la sua pelle, facendo fremere le sue membra e donando a tutta la sua persona un bizzarro stato d’allerta. Non avrebbe dovuto temere nulla, in teoria, ma c’era un qualcosa che si stava condensando con lentezza estenuante intorno a noi. E forse fu proprio quello a lasciare anche dentro di me l’opprimente sensazione che quella non fosse affatto una comune notte di pioggia. Mi sentivo come se qualcuno mi stesse tenendo d’occhio, come se avessi degli sguardi puntati su di me. Il mio istinto aveva cominciato a mettermi in guardia, esattamente come succedeva quando s’avvicinava un pericolo o come quando l’alba era alle porte. Fu quindi con quella stessa attenzione che mi voltai svelta verso l’entrata quando sentii la porta della tavola calda aprirsi, osservando i movimenti di quel nuovo arrivato. Indossava un lungo impermeabile nero che gocciolava fiaccamente alla base, mentre il cappuccio che indossava gli copriva praticamente tutto il viso.
    Dirigendosi al bancone scambiò giusto qualche parola con Harry, chiedendo probabilmente scusa con il capo per l’aver interrotto la sua discussione con Tom e Jim, e vidi proprio quest’ultimo intromettersi per fare un rapido cenno verso di me.
    Sbattei le palpebre quando quello sconosciuto si voltò nella mia direzione, probabilmente frastornato, tornando poi a guardare gli altri tre per rivolgere loro un cenno di ringraziamento. Si avviò fra i tavoli, raggiungendo quello che stavo occupando io per sedersi tranquillamente dinanzi a me senza aspettare che io glielo consentissi.
    «Lewis Ride, giusto?» domandò incerto, sebbene la sua sembrasse semplicemente una costatazione. La sua voce era bassa e cortese, con un lieve accento del sud.
    Mi misi in guardia, scrutandolo con attenzione. «Dipende da chi lo sta cercando», replicai seccamente, vedendolo finalmente liberarsi del cappuccio. Il suo volto aveva dei lineamenti molto fini, quasi da donna, ma il resto del suo viso faceva ben intendere la sua appartenenza al genere maschile. Nonostante le lunghe ciglia che possedeva le sopracciglia erano folte e arcuate, e portava i capelli molto corti, ma non abbastanza per essere definito un marines.
    Mi rivolse appena l’ombra d’un sorriso prima di presentarsi. «Jackson Winchester», il tono acquisì una sfumatura calda e cordiale. «Le dirò la verità, mi aspettavo che lei fosse, beh...», si interruppe, quasi stesse cercando le parole adatte. Poi continuò, nuovamente sorridente. «Mi aspettavo che lei fosse un uomo».
    Chissà cosa ti ha tratto in inganno, ragazzo mio, mi ritrovai a pensare con fare sarcastico. Tra il mio aspetto e il mio nome, non mi stupivo affatto che chi non mi conosceva mi scambiasse per un uomo e non per la donna che ero. Ma ci si faceva l’abitudine, e spesso, data la mia condizione, era sempre meglio far credere di essere un maschio. Ero meno esposta, in quel modo.
    «Non sei il primo che me lo dice», gli risposi semplicemente, ammiccando. «Cosa vuoi da me?» soggiunsi, arrivando subito al sodo. E di questo lui se ne rese conto immediatamente, dato il modo in cui mi osservò e mi rispose.
    «Abbiamo un amico in comune, signorina Ride».
    A quel dire sollevai un sopracciglio, cominciando a squadrare quel ragazzo da capo a piedi: poteva avere sì e no venticinque anni, non gliene avrei dati né più né meno. Non era sicuramente un vampiro ma nemmeno un licantropo, e faticavo quindi a credere che facesse parte di quel nostro gruppo ristretto, dato che non aveva per niente un volto familiare.
    «E sentiamo, Jack - posso chiamarti Jack, vero? -, chi sarebbe questo nostro fantomatico amico in comune?» gli chiesi, per nulla gentile. Non era mai stato da me fingermi simpatica con degli estranei o persino con gli amici, nemmeno quand’ero ancora umana.
    Ma quel che mi sorprese fu il suo sorriso. «Dovrà restare ancora un po’ nell’anonimato, signorina Ride, mi spiace», mi rispose tranquillo. «Ciò di cui sono venuto a parlarle questa notte riguarda questo», aprì di poco l’impermeabile, cominciando a frugare all’interno prima di tirarne fuori una piccola cartellina plastificata che poggiò sul tavolino. Con due dita la fece scivolare verso di me, invitandomi ad aprirla con un cenno.
    Riluttante mi ritrovai ad obbedire, abbassando lo sguardo per osservare quell’unico foglio di carta presente - e ancora odorante d’inchiostro, tra l’altro - e quella miriade di fotografie. Scattate probabilmente su una scena del crimine, ritraevano in ordine sparso donne e uomini che, almeno ad un occhio esperto come il mio, erano morti a causa d’uno scarso quantitativo di sangue. In più punti, tra l’altro, la pelle appariva livida e violacea, come se in quel determinato punto si fosse addensato del sangue prima della morte. La ragione più probabile era da imputare a delle contusioni, forse provocate da un oggetto pesante e, forse, anche di forma ovale. Ciò che maggiormente risaltava all’occhio, comunque, erano i segni di morsi in prossimità di quei lividi e lo sternocleidomastoideo probabilmente lacerato da zanne.
    Alzai nuovamente lo sguardo per incontrare quello del ragazzo: i suoi occhi verdi sembravano scrutarmi con attenzione già da un bel po’ di tempo. «Sei della scientifica, per caso?» gli domandai di getto, ancor prima che il mio cervello potesse formulare quelle parole.
    Lui sorrise ancora, scuotendo leggermente il capo. «Non lo sono, ma ho i miei... mezzi di persuasione. Ed ho sfruttato questa mia piccola dote per recuperare questa documentazione fotografica», replicò semplicemente, agitando appena una mano per liquidare cortesemente quella faccenda. «Comunque sia, da quel che si evince in quelle foto, è stato qualcuno della vecchia scuola ad uccidere tutte quelle persone».
    «E cosa potrebbe mai importarmene?» ribattei immediatamente e con tono sprezzante, inculcando nel mio tono tutto il mio cinismo. «Sono per caso nella lista dei sospettati?»
    «Potrebbe esserlo, e non in quella della polizia», mi informò, senza abbandonare nemmeno per un attimo quella sua irritante maschera cordiale. «So bene chi è lei e dove va a caccia, signorina Ride, sebbene non sapessi che fosse una donna fino a questo momento», si fermò un attimo, per poi continuare con tono più basso. «E mi creda, non sono l’unico a conoscerla. Ed è proprio perché anche lei appartiene ai più anziani della vostra razza che i miei colleghi la tengono sott’occhio».
    Non del tutto convinta dalle sue parole, cercai di leggere nei suoi occhi chiari se mi stesse mentendo. «Se è come dici, perché mai sei venuto da me con tali informazioni?» gli chiesi ancora, forse nel tentativo di metterlo in difficoltà. «Chi ti dice che non sia stata realmente io ad uccidere quella gente?»
    Parve rifletterci, ma il sorriso sulle sue labbra non vacillò nemmeno per un attimo. «Se fosse stata lei sarei già morto, o forse sbaglio?» constatò, spiazzandomi e lasciandomi senza parole. Quel ragazzo probabilmente era più in gamba di quanto pensassi. «Sono venuto da lei proprio perché potrebbe esserci d’aiuto per individuare il vero colpevole», continuò, riscuotendomi. «Quindici persone è un numero un po’ troppo alto per soli tre giorni».
    Scossi il capo. «Ragazzo, ti rendi conto della stronzata che stai dicendo?» sbottai, lasciando da parte l’etichetta delle buone maniere e osservandolo con attenzione. «Io non posso aiutare né te né altri, e tutto per un semplice motivo», invece di spiegarlo a parole, aprii di poco la bocca e feci fare capolino dalle mie labbra le zanne a scopo dimostrativo.
    Lui le guardò con un po’ di timore, ma confermò la sua fermezza e s’evitò di deglutire. Voleva fare il duro, a quanto sembrava, e con questo guadagnò mio malgrado un punto. «Non la prenda come la richiesta d’un mortale che cerca d’aiutare altri mortali, signorina Ride», fece infine con fermezza. «La consideri più che altro... una specie di sfida».
Non capendo, diventai maggiormente scettica. «Una sfida?» ripetei, vedendolo semplicemente annuire.
    «Una sfida, esatto», confermò. «C’è qualcuno, là fuori, che si diverte ad ammazzare la gente. Così facendo rischia d’esporre anche voi... voi che cercate in tutti i modi di passare inosservati il più possibile. Quindi non crede che salvaguarderebbe anche i suoi confratelli, se ci aiutasse?»
    Sembrava fermamente convinto di ciò che diceva, e non lo rendeva palese solo ed unicamente il suo tono di voce: la sua espressione, la sua postura, persino il modo in cui aveva poggiato le mani sul tavolo indicavano che credeva nelle sue parole come se esse rappresentassero un’antica fede.
    Scossi nuovamente la testa, quasi incredula. «Proverò a scoprire qualcosa», rimbrottai, vedendo il suo viso illuminarsi d’un sorriso. «Ma non ti assicuro niente, ragazzo».
    Lui abbassò lo sguardo, accompagnandolo con un cortese cenno del capo. «La ringrazio della collaborazione, signorina Ride», disse, tornando cordiale come in principio. «Devo confessarle che temevo una sua risposta negativa, specialmente dopo le poche parole scambiate poco fa con i suoi compagni».
    A quel dire sbuffai. Passare troppo tempo con gli esseri umani mi stava rammollendo. Mi stava rammollendo o stava facendo finalmente sorgere il mio lato femminile, una delle due. «Non ringraziarmi, non ho nemmeno detto che l’avrei fatto gratis».
    Quel ragazzo alzò immediatamente il viso e finalmente la sua espressione cambiò, divenendo sorpresa. «Vorrebbe essere pagata?»
    «Non si fa mai niente per niente», ribattei con semplicità, godendo di quell’aria persa che gli si era dipinta in volto. «Decideremo il compenso a lavoro compiuto... che ne pensi?»
    Sbatté le palpebre, ancora sconvolto. «Ma io... ecco, non...» si prese un po’ di tempo, come se stesse cercando le parole adatte. «Non vorrei risultare scortese, signorina Ride, ma cosa se ne fa del denaro?»
    Il modo in cui lo disse mi fece scoppiare in una sonora risata, tanto che richiamai su di me l’attenzione di Harry, rimasto solo da chissà quanto, e di quelle poche anime ancora presenti in quella tavola calda.
    Guardai il ragazzo, sorridendogli e avendo al contempo l’accortezza di non scoprire nuovamente le zanne. «Sono un tipo vizioso e anche un po’ avaro, Jackie», gli risposi, pronunciando il suo nome con troppa enfasi. «Le cose materiali mi conquistano più di quanto si creda in giro, e vado letteralmente pazza per cose frivole come i gioielli, anche se prediligo i libri. Non dico di no neanche ai piaceri della carne, se devo essere sincera. In fondo, in quanto vampiro, non dovrei essere una creatura che, per natura, ammalia e affascina?»
    Stavolta lo vidi distintamente deglutire, prima che allungasse con circospezione una mano per recuperare la cartellina. «Ne discuterò con i miei superiori, allora», volle semplicemente dire, come se stesse cercando di chiudere in fretta quel discorso. «Se riusciremo a risolvere tutta questa faccenda avrà il suo compenso. Parola d’onore», e detto ciò s’alzò in piedi, riponendo la sua documentazione all’interno dell’impermeabile. Richiuse poi quest’ultimo, rivolgendomi un cenno di saluto prima di coprirsi nuovamente il viso con il cappuccio. Fu però con una strana apprensione che s’allontanò, salutando anche Harry con il medesimo cenno prima d’imboccare la porta e sparire nuovamente all’esterno.
    Dal bancone sentii una risata, vedendo lo stesso Harry con un sorriso beffardo dipinto sulle labbra sottili. «Cos’hai detto a quel poveraccio?» mi domandò divertito. «Sembrava avere il Diavolo alle calcagna, mentre usciva».
    Scrollai semplicemente le spalle, alzandomi a mia volta per avvicinarmi a lui. «Le solite quattro cazzate», ribattei sarcastica, rifilandogli un centone che sfilai dalla tasca dei jeans. «Per il Bloody Mary», soggiunsi, ignorando la sua occhiataccia.
    «Non l’hai mica consumato», mi tenne presente, strappandomi un sorrisino ilare che mi fece apparire più femminile, glielo vidi negli occhi.
    «Vorrà dire che sarà per la prossima volta, Harry», replicai semplicemente, soffiandogli un bacio prima d’avviarmi verso l’uscita mentre lo salutavo con una mano.
    «Guarda che ci conto, Lewis», lo sentii dire prima che uscissi, riconoscendo la sfumatura sarcastica con cui enfatizzò sul mio nome. In realtà quello era solo il mio secondo pseudonimo, pseudonimo che usavo già da due o trecento anni.
    Quand’ero ancora in vita, da bambina, ero stata cresciuta con la credenza che se qualcuno, specialmente se si trattava di un nemico, conosceva il tuo vero nome, poteva poi rivendicare grazie ai poteri occulti il controllo della tua persona. Erano stati i miei nonni e i miei genitori - entrambi appartenenti ad una tribù nomade e sorretta da vecchie tradizioni - ad inculcarmi quel credo secoli addietro, e anche dopo la mia trasformazione non ero riuscita a liberarmi di quella convinzione. Avevo quindi abbandonato il mio vero nome il giorno stesso in cui ero rinata, lasciando che durante quegl’anni fossi conosciuta come Samantha, affettuosamente chiamata Sam da quei pochissimi amici che avevo. Solo quando dopo i miei vagabondaggi ero arrivata nella vecchia St. Louis avevo deciso di adottare il nome che portavo tutt’oggi. Era spesso simbolo di fraintendimenti ma, ehi, a me poco importava. Non cercavo un compagno come la maggior parte delle vampire presenti in città né tanto meno ne volevo uno, sebbene qualche volta non mi mostrassi per nulla indifferente alle loro attenzioni. Ma da qui ad accoppiarmi con uno di loro e mettere su famiglia ne correva davvero molta di acqua sotto i ponti. Amavo la mia vita scapestrata, la libertà che mi ero guadagnata con tanta fatica e il mio modo di fare.
    A quei pensieri, scossi immediatamente il capo, alzando lo sguardo verso quel cielo scuro e nuvoloso. Non pioveva più a dirotto, ma una lieve pioggerellina persisteva ancora e rendeva l’aria abbastanza umida. Forse era soltanto una mia impressione, però qualcosa mi dava la certezza che quella sera così bizzarra sarebbe stata soltanto la prima di tante altre.



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Capitolo 2
*** Chiacchiere tra vecchi compari ***


Under a bloody sky_2 ATTO II
CHIACCHIERE TRA VECCHI COMPARI
 
    Era stato rincorrendo pensieri su pensieri che avevo cominciato a camminare, tralasciando almeno per quella sera il mio nutrimento. Avrei potuto benissimo stare un paio di giorni senza sangue, dunque il problema, per me, non esisteva affatto. Farmene uno sarebbe stato alquanto stupido, in realtà.
    Mi infilai le mani nelle tasche dei jeans e mi avviai verso il piccolo parcheggio davanti alla tavola calda, concentrandomi sul suono che le mie nike producevano sull’asfalto bagnato. Quello scalpiccio divenne ben presto l’unico rumore che sentii, sebbene captassi ciò che mi succedeva intorno solo ed unicamente con l’olfatto: sentivo l’umido sentore della terra e dell’erba giungere da ovest; lo smog confuso con l’odore della pioggia, proveniente dalle auto che percorrevano la statale non molto distante; riuscivo persino a percepire, man mano che avanzavo e mi avvicinavo ai viali poco alberati, l’odore di grasso e di frittura che avvolgeva l’area intorno ad altre tavole calde e locali.
    Sembrava andare tutto normalmente, esattamente come le altre notti. Ma l’incontro con quel ragazzo era riuscito a farmi comprendere, almeno in parte, cosa significasse quell’inquietudine che avevo avvertito prima del suo arrivo. Probabilmente avrei dovuto prendere sul serio le sue parole e cominciare ad investigare, se non volevo realmente che qualche cacciatore sulle tracce di quest’assassino giungesse fino a noi. Più continuavamo a tenerci nascosti più era un bene, e non potevo quindi permettere che un folle lupo solitario ci esponesse in quel modo ai pericoli.
    Cominciai a guardarmi intorno distrattamente, superando la 596a della South Road mentre catturavo al contempo le luci dei lampioni e dei fari delle auto che mi superavano. Mi tenevo sul marciapiede, gettando solo di tanto in tanto delle occhiate ai guidatori delle auto quando mi passavano accanto. Giunsi fino alla 540a e sorpassai due puttane al bivio, facendo finta di non sentirle mentre mettevano in mostra la mercanzia rivolgendosi agli uomini che si fermavano con le loro belle automobiline. Quando vedevano un uomo erano peggio degli avvoltoi, riuscivo a fiutare l’odore della loro lussuria come se la stessi assaporando sulla lingua, ma dovevo ammettere che come carne da bara non sarebbero state affatto male. O almeno a detta di molti altri vampiri.
    Mi recai svelta a casa, che distava da lì giusto un altro paio d’isolati. In realtà era ironico chiamare quel monolocale completamente spoglio “casa”, visto che sarebbe anche potuto essere catalogato come da vendere data la mia poca presenza e la scarsa mobilia. Se non si contava il grande paravento scuro che divideva l’ubicazione del mio feretro dal resto del monolocale o il mio feretro stesso, quel che era presente era un grande armadio in legno massello posto sulla sinistra, esattamente poco lontano da una larga finestra che, in precedenza, avevo inchiodato con delle assi e nascosto con delle pesanti tende per evitare che la luce del sole filtrasse durante il giorno. Oltre a quello c’era un divano letto, che usavo in occasioni speciali, e uno schermo al plasma da sessanta pollici che avevo comprato solo per capriccio. Non ero propriamente un tipo materiale, ma gli oggetti mortali mi attraevano come la falena alla fiamma. Riguardo i vestiti di quel secolo, invece, dovevo ancora farci il callo. Jeans e felpe erano comodi, ma spesso mi mancavano pizzi e merletti dei tempi andati. Quel che non rimpiangevo affatto era il bustino. Chissà perché, eh?
    Aprii la porta del monolocale quando lo raggiunsi, ma mi misi subito in allerta nel momento esatto in cui mi arrivò alle narici un odore sconosciuto. All’interno ero sicura che non ci fosse nessuno, mortale o immortale che fosse. Non sentivo il palpito di nessuno cuore, e nemmeno quel sentore di morte e putrefazione che spesso caratterizzava molti di noi. Era rimasta solo una debole scia d’un odore denso e quasi dolciastro, troppo confusa per capire a chi o cosa appartenesse realmente.
    Entrai con circospezione, richiudendomi silenziosamente la porta alle spalle prima di scrutare in quella penombra e scoprire che l’unica cosa che era stata profanata era la mia bara, ben visibile da dove mi trovavo a causa del paravento caduto. Quel qualcuno che si era introdotto in casa l’aveva scoperchiata e ne aveva sfregiato con strani simboli il legno d’ebano, lacerando persino, senza alcuna ragione, il rosso velluto all’interno.
    Quella notte stava prendendo pieghe sempre più strane, e non riuscivo nemmeno a capire cosa avesse provato a cercare quell’intruso o cosa avesse provato a fare. Ma forse stavo lasciandomi suggestionare un po’ troppo, e probabilmente s’era trattato d’un comune ladro che, in cerca di denaro o altro, non trovando nulla aveva sfogato la sua rabbia sul mio giaciglio. E allora perché non rubare il televisore, che da solo avrebbe potuto fruttare abbastanza dollari? La cosa non aveva il benché minimo senso, ma non ne me curai poi molto. Perché mai avrei dovuto temere un comune ladro visto quel che ero?
    Fu però con una piccola smorfia di disappunto che mi chinai a raccogliere il coperchio del mio feretro, esaminandolo prima di scuotere il capo. Un gran bel lavoro vandalico, senza alcun ombra di dubbio. Gettai poi uno sguardo al cataletto stesso, richiudendolo subito. Quello scempio aveva rovinato ancor più una serata già iniziata male.
    Quel che volevo capire adesso era chi mai fosse stato, e fu per quel motivo che socchiusi gli occhi ed inspirai più a fondo l’odore che aleggiava in casa, non riuscendo a dargli una vera e propria catalogazione. Escludendo umani, vampiri e licantropi, restava solo chissà quale creatura capace di attraversare le pareti, dato che la serratura non era stata forzata e che la finestra era sigillata.
    Sbuffai. Non era il momento per il sarcasmo, quello. Perché diavolo avessi accettato quell’incarico, veniva da chiedersi. Non era stata propriamente la preoccupazione per la mia razza a spingermi ad accontentare la richiesta di quel ragazzo, ma forse più semplicemente il fatto che, da un po’ di tempo a quella parte, quella mia vita quasi immortale stava perdendo il fascino che aveva avuto all’inizio. Mi stavo più che altro confondendo con la massa, divenendo sempre più schiava di quella società industrializzata. Probabilmente speravo che l’investigare in quel caso, fianco a fianco con degli esseri umani per nulla comuni, avrebbe riportato quel pizzico di pepe che ormai da un paio di secoli mancava nella mia esistenza. Per quelli come me era sempre un po’ difficile ambientarsi e adattarsi ai nuovi stili di vita. Succedeva quasi ogni cent’anni o poco più.
    Uscii nuovamente di casa senza richiudere nemmeno la porta a chiave, cominciando a tormentarmi con le zanne il labbro inferiore e con una parvenza di nervosismo dipinta in viso. Mancava mezz’ora o più all’alba, non mi ero nutrita per niente e la mia bara era stata praticamente ridotta a brandelli. Non avrei potuto chiedere di meglio, e la mia era ironia.
    Mi ritrovai in strada e risalii il lungo marciapiede che costeggiava i palazzi, sentendo qualche lieve ed incerto cinguettio provenire dai radi alberi lì presenti. Nel cielo volteggiava ancora qualche pipistrello solitario, ma l’imminente arrivo del giorno era ormai una certezza. Mi affrettai dunque ad incamminarmi, giungendo a destinazione in men che non si dica.
    Ero quasi in periferia, dove si riuscivano a scorgere le poche villette presenti in quell’angolo di St. Louis. L’erba era umida di rugiada, e anziché l’odore di smog serpeggiava nell’aria il piacevole sentore che caratterizzava la notte poco prima dell’alba, molto più percettibile grazie alla più comune presenza di spazi verdi.
    Non persi altro tempo a rimuginare su quei pensieri o a perdermi fra quei profumi, andando dritta verso una di quelle villette. Aprii il cancelletto e attraversai il cortile, bussando al campanello. In realtà sarei potuta entrare in qualsiasi momento, avendo avuto tempo addietro il consenso di varcare quella soglia, ma la persona che era andato a trovare meritava un piccolo trattamento di favore, per non parlare del suo essere famoso per il suo trastullarsi da solo o con qualcuno in qualsiasi ora del giorno o della notte. Difatti venne ad aprirmi in mutande, senza nemmeno chiedere chi fosse visto che l’aveva sicuramente intuito ancor prima di vedermi.
    «Sappi che la tua puzza mi ha interrotto proprio sul più bello, sanguisuga», mi salutò così, con tono sarcastico e anche un po’ rauco. Ma non gli badai, sollevando appena un angolo della bocca in un mezzo sorrisino prima di appioppargli una pacca sulla spalla destra, entrando tranquillamente come se mi trovassi a casa mia. L’interno era appestato come al solito da un odore come di cane bagnato, ma ormai il mio naso se n’era assuefatto. Oltre a quello, però, non c’era nessun altro odore, specialmente d’esponenti del gentil sesso come me. Il che stava a significare una sola cosa, e quasi mi ritrovai a sorridere maggiormente.
    «Non dire cazzate», replicai ironica, voltandomi appena verso di lui che aveva appena richiuso la porta. «Più di una sega non ho interrotto».
    A quelle mie parole dilatò di poco gli occhi, facendo una finta faccia scandalizzata. Secondo lui le signorine non avrebbero dovuto parlare in quel modo. Beh, con me aveva ormai quasi perso tutte le speranze. Difatti subito dopo lasciò perdere e sbuffò, sgranchendosi appena il collo. «Serata fiacca oggi, e allora?» ribatté scontroso. «Piuttosto... perché sei qui, sanguisuga?»
    «Ho forse bisogno d’un motivo per venire a trovare un amico?» replicai, fingendomi innocente come la più illibata delle fanciulle e sfoderando un nuovo sorriso in cui lasciai ben intravedere la punta delle zanne.
  Lo vidi sollevare un sopracciglio. «Direi di sì, visto che le poche volte in cui ti fai viva - perdona l’espressione - è sempre perché ti serve qualcosa», rispose con fare ovvio. «E poi è quasi l’alba, mia dolce sanguisuga, non credo che tu non te ne sia resa conto».
    Alzai entrambe le mani in segno di resa, osservando distrattamente l’arredamento spartano del salotto in cui ci trovavamo. «Hai colto immediatamente nel segno, sacco di pulci».
    Lui era l’unico che poteva permettersi di parlarmi con tutta quella scioltezza. Non c’era quasi nessuno, difatti, che considerassi degno di farlo. Sebbene lui, Nathan, fosse un licantropo, era il solo che sentivo più vicino. Quasi amico, avrei potuto aggiungere. Ed il motivo era che gli ero debitrice, visto che mi aveva donato il suo sangue per salvarmi. Avrebbe potuto andarsene e lasciarmi al mio destino, quella lontana notte in cui mi aveva trovato moribonda, ma non l’aveva fatto e aveva deciso d’aiutarmi nonostante non fosse obbligato a farlo a causa delle nostre nature così diverse. E dovevo ammettere che, anche a distanza d’anni, mi sentivo ancora in debito con lui. Che razza di vampiro ero.
    Fu un suo lungo sospiro a distogliermi da quei miei pensieri. «Avanti, parla», fece schietto. «Che cosa ti serve, stavolta?»
    Lo guardai con assoluta serietà. «Hai ancora quella vecchia bara che ti lasciai cinque anni fa?»
    Lui sbatté le palpebre, probabilmente non capendo. «E’ in cantina», rispose perplesso. «Perché me lo chiedi di punto in bianco?»
    Non badai a quel suo quesito, limitandomi ad annuire quasi pensosa. «Per oggi mi ospiterai tu, allora», dissi fra me e me, bloccando tempestivamente una sua protesta appena con un’alzata di mano. «Quando mi sveglierò, poi, ti spiegherò tutto».
    Per nulla contento, sbuffò. «Se non mi dirai tutto per filo e per segno, sanguisuga, questa è la volta buona che quel tuo cuore te lo riduco in poltiglia», commentò con falso tono minaccioso, dato che quelle parole le ripeteva di continuo ma non aveva ancora mai attuato quei suoi propositi. Un po’ perché, sebbene non l’avrebbe mai ammesso, ero una sua cara amica, un po’ perché era talmente gentiluomo che non si sarebbe mai permesso di alzare le mani su una donna. A quanto sembrava la cavalleria non era ancora morta, per lui.
    In risposta agitai semplicemente una mano con non curanza, volendolo accontentare solo con quell’unico gesto. «Lo farò, stai tranquillo. Noi vampiri manteniamo sempre la parola data».
    «Che marea di cazzate», ribatté immediatamente, quasi in tono ironico. «Che non bisogna fidarsi di voi lo sanno bene anche i muri. E adesso, mia cara, vedi di filare di sotto. Vorrei riposare ancora un po’ anch’io, se non ti spiace».
    «Ho un ultimo favore da chiederti», feci, avvicinandomi a lui per osservarlo con attenzione. E per farlo dovetti alzare lo sguardo, visto che mi superava di parecchi centimetri buoni. I suoi occhi marroni avevano quel riflesso dorato tipico del periodo che precedeva la luna piena. Quel che colpiva di lui era che, pur non essendo un tipo atletico o sportivo, aveva comunque il fisico asciutto. Il suo viso non era né bello né brutto, e anche se aveva la fronte sporgente e gli zigomi troppo pronunciati, era un uomo che veniva sempre cercato dalle donne. Se mi avessero chiesto che lavoro facesse avrei prontamente risposto escort. 
    «Non mi piace affatto quello sguardo», disse sulla difensiva, affrettandosi a distogliere gli occhi dai miei. «Sembra simile a quello d’un depravato».
    «Ci sei vicino», replicai sarcastica, afferrandogli con facilità un braccio per tenergli ferma la mano con una delle mie, poggiando invece l’altra poco più su del polso. «Solo un sorso, Nathan. Poi puoi dormire o masturbarti quanto ti pare».
    Non oppose resistenza, ma lo vidi digrignare i denti e socchiudere appena le palpebre. «Avrei dovuto immaginarlo», sibilò inviperito. «Ma guai a te se tenti di sedurmi per portarmi a letto. Per quanto tu sia bella non rientri nel mio prototipo di donna ideale».
    Nel sentire le sue parole non potei evitarmi di ridere, chinandomi a leccargli il polso, esattamente dove sentivo la vena palpitare invitante. «I maschi non mi interessano più di tanto, e tu non saresti nemmeno il mio tipo, ad esser sincera», ribattei semplicemente, snudando le zanne per affondarle nella sua carne morbida.
    Mi giunse alle orecchie il gemito doloroso di Nathan, ma lo ignorai per iniziare invece a succhiare e a deglutire con vigore, sentendo quella piacevole sensazione di forza convergere in me. Smisi di bere molto presto, forse anche più di quanto fossi abituata a fare. Solitamente la mia vittima mi implorava di smettere ancor prima che mi fermassi. Nathan invece non aveva proferito parola, gemiti e rantoli esclusi.
    Non appena allontanai le labbra lui ritirò il braccio, osservandosi il punto che avevo morso con aria disgustata. Lo coprì poi con una mano, guardandomi e assottigliando le palpebre. «Vedi di non farci l’abitudine, sanguisuga», mi sbottò contro, bofonchiando qualcosa fra sé e sé mentre s’allontanava in direzione del divano letto. Quel che disse lo sentii benissimo ma soprassedetti, limitandomi a leccarmi le labbra prima di stringermi nelle spalle. L’unica cosa positiva di quella serata era stata sicuramente la conclusione.
    Presi la strada che conduceva alla cantina ed aprii la porta, scendendo le scale a due a due come se stessi scivolando sull’acqua. Scrutai in ogni anfratto, spostando mobili e ferri vecchi alla ricerca della mia bara. Una volta trovata ci soffiai un po’ su per liberarla almeno in parte dallo strato di polvere che la ricopriva, carezzando il coperchio con appena due dita. Era un feretro molto più rudimentale e scomodo di quello che avevo avuto nel mio monolocale, ma si poteva dire che mi aveva accompagnato nel corso della mia esistenza.
    Tolsi la copertura lasciandola lì accanto, scavalcando i bordi della bara per sedermi sul duro fondo di legno. Sporgendomi recuperai poi il coperchio, stendendomi mentre lo richiudevo sopra di me. Il buio mi avvolse, e quel senso di abbandono del proprio io prese possesso di me come ogni qual volta chiudevo gli occhi.
    Non era propriamente sonno, quello in cui noi vampiri cadevamo, ma più un annullamento dell’essere, una sorta di limbo in cui non esistevano né giorno né notte, né bene né male, solo noi stessi e quel potere che la sera ci animava. Senza quello e la nostra essenza o la nostra ragione, quel che restava era solo un involucro vuoto di carne e muscoli, un cadavere mantenuto in bello stato. Quando giungeva la notte il nostro corpo tornava a muoversi, sebbene, almeno io, mi svegliassi come se fossi rimasta in apnea più di quanto concessomi. E lo stesso accadde quella sera quando riaprii gli occhi nell’oscurità, tanto che ci misi un po’ a ricordare tutto con nitidezza e ad alzare il coperchio per mettermi a sedere.
    Mi sgranchii appena il collo e mi rialzai in piedi, muovendomi in quell’oscurità che avvolgeva la cantina con estrema facilità. Risalii le scale e sbucai nuovamente nel soggiorno, dove aleggiava un intenso odore di bacon. Lo accompagnava anche quello della frittura, simbolo che Nathan stava preparando la propria cena. Quando giunsi nella piccola cucina, difatti, lo trovai ai fornelli, intento a rigirare il suo cibo nella padella.
    Senza voltarsi, essendosi accorto di me, mi indicò con un cenno della mano il tavolo, e io mi accomodai tranquilla ed attesi. Quando lui posò tutto a tavola si sedette a sua volta, spronandomi a spiegargli cosa mi avesse spinto fin lì prima dell’alba. Gli raccontai tutto con gran dovizia di particolari, proprio com’ero solita fare, partendo dall’incontro con quel ragazzo e della discussione che avevamo avuto prima d’arrivare all’infrazione avvenuta nel mio monolocale. Lui mi ascoltò attento e senza interrompermi, assumendo poi un’espressione alquanto pensosa quando conclusi. Aveva unito le dita a cupola e si era accomodato contro lo schienale della sedia, con lo sguardo fisso dinnanzi a sé.
    «Allora, fammi capire bene», esordì infine con un tono abbastanza scettico. «Un ragazzino, per di più facente probabilmente parte d’uno di quei reparti d’investigazione sovrannaturale, ti ha chiesto d’aiutarlo con un caso... e tu hai accettato?» mi guardò con un sopracciglio inarcato prima di continuare. «Tu, miss “non voglio avere niente a che fare con i problemi del genere umano”?»
    Non diedi alcun peso alle sue parole, agitando con fare svogliato una mano prima di poggiare il viso sul dorso della mano dell’altra. «L’ho fatto solo perché sono coinvolti uno o più vampiri», ci tenni a precisargli. «Solo e unicamente per questo. Altrimenti col cazzo che accettavo».
    «Inventatene un’altra», ribatté sarcastico. «Di un po’, non è che in fin dei conti sei preoccupata per le possibili conseguenze?»
    Lo guardai a zanne scoperte nel sentire quelle parole, alzandomi in piedi per osservarlo dall’alto in basso. «Non è un problema mio, perché dovrei essere preoccupata?»
    Per un po’ di tempo lui non rispose, limitandosi a mettersi comodo e ad impugnare le posate. Diede giusto un morso al bacon, riempiendosi il bicchiere con la sua birra scura. Fu solo a quel punto che mi guardò, facendo spallucce. «Hai accettato, no? Questo dimostra che un minimo di preoccupazione ce l’hai», prese il bicchiere e se lo rigirò in mano, abbassando gli occhi per vedere il liquido oscillare al suo interno. «E poi questa è una cattiva pubblicità, per voi. Già non fate una bella vita, dover poi temere d’essere esposti a causa di certi squilibrati non dev’essere un gran bell’affare».
    A quel dire restai interdetta, ma cercai di non dimostrarlo. «Cazzate», sbottai, volendo negare l’evidenza. Mi allontanai dal tavolo dando le spalle a Nathan, avviandomi in direzione dell’ingresso. Ma mi fermai a metà strada, fissando un punto indefinito. «Ehi, sacco di pulci», lo chiamai, continuando solo quando sentii il suo sguardo su di me. «Vedi di fare attenzione quando esci, la notte».
    Dopo qualche attimo di imbarazzante silenzio, mi giunse una sua lieve risata. «Cos’è, sei preoccupata per me, sanguisuga?» mi chiese ironico. «Lo sai che so badare a me stesso. Non mi diventare sentimentale, adesso. Non ti si addice».
    Mi voltai appena verso di lui, sollevando un angolo della bocca in un piccolo sorriso. «Tu tieni a mente il consiglio», ribattei semplicemente, riprendendo ad incamminarmi verso la porta e, dopo averla aperta, feci un rapido cenno di saluto a Nathan. «Stammi bene, amico», soggiunsi, uscendo e lasciandolo infine solo con la sua cena.
    Quella che era calata era la mia notte, ed era appena cominciata.



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Capitolo 3
*** Ben poche spiegazioni ***


Under a bloody sky_3 ATTO III
BEN POCHE SPIEGAZIONI
 
    Il modo migliore per ottenere delle informazioni senza dover ricorrere alla polizia, lì in quella zona di St. Louis, era senza alcun ombra di dubbio il recarsi nei bassi fondi della città. Si riusciva sempre a trovare qualcuno disposto a raccontare qualcosa per un po’ di centoni, che fossero storie sentite in giro, cose semplicemente vedute o, meglio ancora, esperienze vissute sulla propria pelle. C’era sempre chi non cantava nemmeno pagato a peso d’oro, certo, ma per me andavano bene anche le maniere forti.
    Avevo parlato con ben otto persone prima di essere finalmente direzionata verso l’insegna al neon del night club fuori cui mi ero ritrovata, e dovevo ammettere che tutto mi sarei aspettata tranne quello. Apparteneva ad un mio vecchio conoscente che, da quanto sapevo, aveva fatto parte della malavita sin da giovane. Adesso che era vecchio e stanco continuava sì gli affari, ma da un paio d’anni aveva affidato la gestione di quel night club ad una persona di cui, almeno per quanto mi riguardava, non c’era molto da fidarsi. Non era un uomo malvagio - non secondo i canoni della sua natura di vampiro, almeno -, ma nel corso dei secoli non si era mai fatto scrupoli nell’agire come meglio credeva, il più delle volte rasentando i limiti dell’immaginario di noi vampiri stessi. Avevo passato abbastanza tempo con lui da rendermene conto a mie spese. Che fosse proprio per quel motivo che mi avessero indirizzata lì? Non lo sapevo, ma volevo scoprire a tutti i costi cosa c’entrasse lui con quegl’omicidi, se ne fosse realmente a conoscenza o se quelle che gli erano state rivolte fossero solo accuse infondate. Cosa di cui in fondo, conoscendolo, non dubitavo.
    Tornai con i piedi per terra e scossi il capo, osservando un’ultima volta l’insegna prima di rassettare i miei abiti. Con quei semplici jeans scuri e quel dolcevita aderente, ero ben lontana dai canoni della restante clientela. Ma, ehi, non ero mica andata lì ad abbordare qualcuno, no? Decisi dunque di entrare, gettando occhiate quasi svogliate in ogni dove. Lì dentro l’odore di pelle sintetica, sangue e liquore era asfissiante ed insopportabile, tanto che mi fece storcere il naso dal disgusto.
    Ancor più penetrante, poi, era l’olezzo di fumo che avvolgeva ogni cosa, persone comprese. I clienti, per la maggior parte uomini, si trastullavano con le accompagnatrici o gli accompagnatori ingurgitando bicchieri su bicchieri, troppo presi da quei loro svaghi per accorgersi di quel che capitava loro intorno. Cercavano con le labbra il viso delle donne sedute accanto a loro o sulle loro cosce, con gli occhi annebbiati dai fumi dell’alcool. Uno di loro mi rivolse uno sguardo vacuo e per nulla intelligente, simbolo che oltre al liquore c’era qualcos’altro che stava facendo effetto nel suo organismo. Lo sentivo nell’odore che lo avvolgeva come se fosse l’aroma d’un vino pregiato, un miscuglio di colori e forme che si riversava forte e prepotente nei palpiti del suo cuore.
    Non era il solo ad avere quell’aspetto e quell’aria smarrita, quella notte, e non fu il solo sguardo che ricevetti mentre avanzavo nella ressa del night club. Superai un paio di tavoli e gran parte di quell’ammasso di carne e muscoli, raggiungendo il limitare dell’ambiente.
    «Sono entrate qui parecchie persone, questa notte, ma mai avrei pensato che ci onorassi della tua presenza, chica», mi accolse subito una voce, proveniente da uno dei divani accostati alla parete sinistra del pub. Erano in ombra a differenza di quelli nel restante locale, e a malapena si scorgevano i volti delle tre persone lì accomodate. Quelle due sedute rispettivamente a destra e a sinistra erano donne, e dal loro odore - un misto di vodka, Chanel n°5 e lussuria - sembravano anche pronte a prestarsi sessualmente a qualunque uomo l’avesse loro chiesto. In mezzo a loro c’era l’unico vampiro a cui non avrei mai voluto chiedere un favore. In nessun secolo, possibilmente. Per mia sfortuna, invece, vi ero stata costretta per cause di forza maggiore.
    Inclinai il capo di lato ed assunsi un’espressione scettica per il modo in cui ero stata chiamata, ritrovandomi a sbuffare appena, ilare. «Risparmiati tutti questi convenevoli, Miguel», replicai per nulla cordiale. «Avrei volentieri evitato di venire nel tuo night club».
    Mi giunse in risposta una risata, prima che una mano d’alabastro uscisse da quella zona delimitata dalle ombre. «Non vieni a farmi visita da quasi un secolo e mezzo ed è questo il saluto che ottengo da te?» più che una vera e propria domanda, la sua mi parve più un’affermazione o una semplice constatazione. La voce con cui la porse fu comunque bassa e calda, esattamente come mi sarei aspettato da un vampiro della sua levatura. Proveniva da una famiglia che un tempo era stata nobile e ricca, ed era l’unico, lì dentro, ad appartenere allo stesso secolo a cui appartenevo io. Era stato creato parecchi anni prima di me, ed era stato lui ad insegnarmi tutto quello di cui ero a conoscenza e come sopravvivere nel corso dei secoli. In un modo alquanto contorto e perverso si poteva dire che mi avesse quasi fatto da padre, mentore e, sebbene odiassi ammetterlo, anche da amante. Ma era una storia chiusa ormai da troppi secoli per rivangarla ancora.
    «La mia natura la conosci, non fare domande ovvie», mi sentii comunque in dovere di ribattere, forse anche un po’ scontrosa. «Comunque sia non sono venuta qui per questo scambio di futili chiacchiere, Miguel», arrivai dritto al punto, aggirando il tavolino lì davanti per accomodarmi, senza attendere il suo consenso, sul divano libero che gli stava di fronte. «Mi è giunta voce che tu sai un po’ di cose riguardo a degli omicidi... è così?»
    Per qualche minuto nessuno dei due fiatò oltre: sentivo solo il battito del cuore delle due accompagnatrici e i loro respiri, suoni mescolati con la miriade di organi palpitanti e la bassa musica che faceva quasi da sottofondo. Vidi poi Miguel fare un cenno con quella sua mano bianca, e finalmente una delle due donne si alzò in piedi esponendosi alla debole luce. Era alta e snella, con ricci capelli castani sciolti sulle spalle. Non era esattamente una di quelle donne dalle curve vertiginose e il fisico da modella, ma aveva una carica di voluttà unicamente sua. Se fossero solo quegli occhi scuri che mi avevano fissato per un attimo a dare quell’impressione, non avrei saputo dirlo. Sbatté appena le lunghe ciglia prima di distogliere lo sguardo da me, aiutando Miguel ad alzarsi in piedi e ad evitare il tavolino sebbene non ce ne fosse bisogno, venendo ben presto congedata da lui stesso. Lui fece cenno ad entrambe di lasciarci soli, e quando finalmente lo fummo ci squadrammo e restammo in silenzio, quasi in uno stato di mistica contemplazione.
    Sembrava come se uno di noi due avesse il terrore di rompere quel precario equilibrio di quiete, sebbene l’aria che vibrasse intorno a noi fosse tutto fuorché placida e tranquilla: tesi come corde di violino sembrava che ci stessimo scontrando con l’aura di potere che ci caratterizzava, ma nessuno dei due stava cercando di imporre il proprio volere all’altro.
    Accavallai disinvolta le gambe, attendendo che lui proferisse parola senza staccare al contempo lo sguardo dal suo viso per non dimostrarmi debole dinnanzi ai suoi occhi. Seppur velati dalla patina della cecità, difatti, quelle sue polle che un tempo erano state più azzurre del cielo stesso sembravano metter soggezione anche guardandoli per un breve attimo.
    Volse infine lo sguardo verso un punto indefinito del locale, affidandosi al suo udito per compiere qualche passo. «Seguimi», disse semplicemente. «Meglio discutere in un luogo più appartato. Anche i muri hanno le orecchie, lo sai».
    Non ribattei, limitandomi solo ad alzarmi. Se voleva parlarmi in privato voleva significare che di qualcosa, in fin dei conti, ne era a conoscenza.
    Lo seguii nella ressa del locale, superando divani e clienti prima di giungere dal lato opposto, uscendo con lui dalla porta di servizio. Ci ritrovammo in un vicolo, dove un tanfo insopportabile appestava l’aria, rendendola quasi irrespirabile. Storsi il naso e mi portai una mano su di esso, coprendomi anche la bocca mentre continuavo a stare al passo di Miguel che, bisognava ammetterlo, pur essendo cieco riusciva a muoversi con una facilità inaudita.
    Ad un certo punto si fermò e, ancora di spalle, intercedette. «Quanto sei disposta a spingerti oltre con questa storia?» mi domandò, con un tono di voce sottile e tagliente. Sembrava che ci fosse qualcosa che lo rendeva nervoso, dato il modo in cui mi si era rivolto.
    Mi limitai semplicemente ad incrociare le braccia al petto. «Quel che basta per capire cosa sta succedendo», risposi con fare ovvio, vedendolo finalmente voltarsi verso di me. Il suo viso era una maschera marmorea, e la sua bocca era ritratta a scoprire le zanne candide e affilate.
    «Lo dico per il tuo bene, chica, lascia perdere questa faccenda adesso che sei ancora in tempo per farlo», disse, per nulla cordiale. «Non hai nulla a che vedere con tutto questo».
    Sollevai un sopracciglio, senza capire. «Come sarebbe a dire?» fu il mio turno di chiedere. «Non eri stato proprio tu, un tempo, a dire che più evitavamo d’esporci meglio sarebbe stato?»
    Non riuscivo a comprendere il suo cambiamento e il motivo di tanta ostilità, e anche l’espressione sul suo viso non era capace di rispondere alle mie mute domande o diradare qualsiasi dubbio. Non lo fece nemmeno lui stesso, fra l’altro, incamminandosi verso di me con passo deciso ma malfermo, come se stesse facendo attenzione a dove metteva i piedi.
    «Ed è proprio per questo che ti dico di restarne fuori», disse ancora una volta. «Quando sarà il momento saprai tutto, per adesso vedi di tenere lontano da te quel ragazzino».
    Feci per ribattere, ma realizzai quelle parole e subito guardai Miguel con serietà. «Che ne sai del ragazzino?» domandai nuovamente. «Non ti ho parlato di lui».
    «Ci sono domande di cui è meglio non conoscere mai le risposte», replicò semplicemente, alquanto sibillino. «E tu ne hai poste troppe».
    Scossi il capo, avvicinandomi io stesso a lui prima di fermarmi a pochissimi passi. Se avessi allungato una mano avrei potuto sfiorargli il viso. «Cosa mi stai nascondendo, Miguel?» gli chiesi senza giri di parole, fissandolo seriamente negli occhi sebbene sapessi che lui non avrebbe potuto ricambiare il mio sguardo. «Che cosa significano tutti questi misteri?»
    Con gli occhi fissi dinnanzi a sé alzò un braccio per cercare il mio volto, ponendomi un dito sulle labbra. «Secoli or soro abbiamo condiviso tutto», cominciò, carezzandomi delicatamente un angolo della bocca con i polpastrelli. «Il mio rifugio era il tuo rifugio, la mia tavola era la tua tavola. Il mio corpo era tuo, così come la mia conoscenza. Per un breve periodo sei anche stata i miei occhi, ma quel tempo è finito», si spostò lungo una guancia e poi verso il petto, attento a non sfiorarmi i seni, chinandosi verso di me come se stesse inspirando il mio odore. «In nome di quei sentimenti che ci hanno legati, te ne prego, interrompi le tue ricerche e lascia perdere questo caso. Lascia che siano i mortali a risolvere i problemi dei mortali».
    Avevo chiuso gli occhi durante quel suo monologo, concentrata sul tocco della sua mano che aveva percorso per tutto il tempo i lineamenti del mio viso. Erano secoli che non sentivo quelle carezze, e la sensazione che provai fu tutto fuorché piacevole. Mi allontanai difatti di scatto, sentendo nell’aria la sua incertezza a quel mio modo di fare.
    «Non mi sono mai data per vinta, Miguel, ed era questa mia caparbietà ad averti attratto quasi seicento anni fa», gli tenni presente in tono quasi accusatorio. «Sai anche che sono un tipo curioso e testardo, quindi pretendo di sapere che cosa sta succedendo».
    Sentii un suo lungo sospiro prima che si riavvicinasse, ma mi sorpassò senza proferir parola per attraversare il vicolo e ritornare probabilmente all’interno. Lo seguii con lo sguardo, interdetta, affrettandomi a raggiungerlo per artigliargli una spalla e fermarlo.
    Si voltò solo di poco, con un’espressione palesemente stanca che ignorai prontamente. Mi limitai solo a snudare le zanne, facendo in modo che sentisse il ringhio nel fondo della mia gola. «Voglio sapere cosa mi stai nascondendo», ripetei, e lui mi scostò la mano con uno scatto secco, intrappolandomi con una mossa fulminea il braccio e, costringendomi a dargli le spalle, me lo bloccò dietro alla schiena.
    «Mi pare d’averti detto che non devi immischiarti in questa storia, quindi non abbiamo più nulla di cui parlare», sibilò al mio orecchio, facendo serpeggiare il suo potere nell’aria, quasi rendendola satura di zolfo e pronta ad esplodere. «Non costringermi ad essere violento con te. Anche se sono cieco lo scontro non volgerebbe a tuo favore».
    Mi divincolai dalla sua presa, guardandolo nuovamente in viso con un’espressione furiosa. Non l’avrei mai ammesso a me stessa, ma sapevo che aveva ragione: se si fosse presentata l’occasione di uno scontro non sarei mai riuscita ad avere la meglio su di lui. Era specialmente per questo che molti preferivano essere dalla sua parte piuttosto che contro.
    «Non ho intenzione di battermi con te, Miguel», lo informai in tono aspro e tagliente. «Voglio solo sapere in che cazzo di situazione mi sono cacciata. Anche due parole mi bastano».
    «Proprio non vuoi capire», ribatté subito con serietà. «Non dipende né da me, né da te. Siamo solo perdine in un gioco di scatti fra i potenti».
    «E chi sarebbero costoro?» insistetti agguerrita. «Chi è così potente da tenere in pugno anche te?»
    Lo vidi compiere qualche passo a ritroso mentre scuoteva al contempo la testa. «Ti ho già detto troppo, accontentati di quello che sai», disse semplicemente, stando attento ai passi che compiva man mano che si riavvicinava alla porta di servizio. «Posso solo dirti che i più fortunati hanno sofferto di meno».
    A quelle parole strabuzzai gli occhi, correndo verso di lui per afferrarlo per il colletto della camicia che indossava. Prima che potessi farlo, però, vidi due omaccioni uscire dalla porta e accostarsi a lui, guardando me con aria di sfida. Uno dei due porse un braccio a Miguel e lo aiutò a sostenersi, mentre l’altro si piazzò invece dinnanzi a lui come per nasconderlo alla mia vista. Erano grandi e grossi e odoravano di cane: da quella poca distanza, nonostante il tanfo presente nel vicolo, il loro puzzo era inconfondibile. I lineamenti identici dei loro volti, troppo sottili per la conformazione fisica del restante corpo, facevano presupporre che fossero gemelli. Solo il taglio dei capelli, d’un biondo cenere, era diverso e permetteva di distinguerli, mentre per il resto erano praticamente due gocce d’acqua, anche nel modo di vestire.
    «Non alzo mai le mani su una donna, quindi ti conviene stare alla larga», mi consigliò con voce imperativa quello che si era piazzato dinnanzi a Miguel, ma lo ignorai.
    Inclinai invece il capo di lato per rivolgermi proprio a quest’ultimo. «Chi sono, i tuoi cani da guardia?» gli domandai con fare ovvio, sentendo il distinto suono d’un ringhio provenire dalle gole d’entrambi.
    Vidi Miguel alzare appena una mano ed agitarla, come se stesse scacciando una mosca parecchio fastidiosa. «Dominique, Paul. Basta», impose loro, anche se il tono in cui lo disse sembrò tutto fuorché autoritario. Ma dopo avermi scoccato entrambi un’occhiata nervosa ubbidirono, aiutandolo a rientrare senza più proferir parola. Prima che la porta fosse richiusa ricevetti un ultimo sguardo da quello che presunsi essere Dominique, venendo infine lasciata sola in quel vicolo buio e puzzolente.
    Ero andata fin lì quasi per nulla, maledizione. Quel che avevo scoperto non mi avrebbe portata da nessuna parte, anzi, aveva semplicemente aggiunto dubbi e domande a quelle che già mi portavo dentro. Una questione che avevo pensato si sarebbe risolta in un lampo stava lasciando dietro di sé più misteri di quanto non avessi potuto credere. E il fatto che Miguel mi consigliasse di restarne fuori voleva significare che c’era qualcosa che andava ben oltre all’umana questione degli assassinii.
    Qual era il tassello mancante per completare quel puzzle, dunque? Perché era così difficile trovarlo? Gli omicidi, il mio monolocale messo a soqquadro, le informazioni che conducevano a Miguel e il suo tenermi all’oscuro di tutto... cosa, tra queste, avrebbe condotto alla soluzione dell’enigma? L’unico modo per scoprirlo era indagare ancora. Adesso che sapevo che riguardava anche noi non potevo starmene semplicemente a guardare, nemmeno se era stato Miguel a consigliarmelo.
    Forse avrei dovuto parlare con chi di dovere, e questo voleva significare un solo nome: Dante.



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Capitolo 4
*** Vecchie e nuove conoscenze ***


Under a bloody sky_4 ATTO IV
VECCHIE E NUOVE CONOSCENZE
 
    Dovevo essere davvero impazzita se, dopo Miguel, avevo deciso di andare a chiedere spiegazioni, per di più nella stessa sera, ad un tipo come Dante.
    Appartenente ad una schiera di vampiri ben più antica della maggior parte delle creature presenti in tutta St. Louis, era un non-morto ben poco socievole e fortemente legato alle vecchie tradizioni. Non muoveva un passo se non era prima stato autorizzato dalla sua Nobile Madre, e proprio quest’ultima, per quel che ne sapevo, aveva cominciato da un mese e mezzo esatto una sorta di rito di iniziazione caduto in disuso ormai da troppi secoli per ricordare con esattezza quando fosse successo.
    Avevo avuto la sfortuna di incontrare entrambi un paio di volte, e fino a quel momento mi era bastato. Peccato che, dopo tutto quel tempo, mi toccasse parlare nuovamente con loro. Erano abbastanza schivi e misteriosi da poter essere in qualche modo invischiati in tutta quella storia, ma guai a far capir loro che nutrivi qualche sospetto nei loro confronti. A quel punto quasi ti ritrovavi a preferire di essere nelle mani di un qualche cacciatore di vampiri che nelle loro. Era proprio per quel motivo che, nonostante tutta la mia spavalderia, mi rifiutavo ad andare da sola. Per quanto fossi forte, non ero di certo stupida. Impelagarmi in una disputa con loro equivaleva quasi come metter la testa nelle fauci di un leone, e io volevo evitare di essere il povero agnello sacrificale. Non mi avrebbero trattata con nessun riguardo, donna oppure no. Se sentivano un pericolo per la loro casata, Dante e la sua Nobile Madre erano più che pronti a far fuori eventuali scocciatori o intrusi, anche se tali minacce provenivano dalla razza stessa. Era per questo che molti di noi preferivano non avere niente a che fare con quella stirpe. Dunque perché mi ero ritrovata in quella situazione? Avevo detto di essere annoiata, certo, ma questo non voleva di certo significare che mi fossi scocciata anche di vivere. I misteri della vita.
    Avevo passato le due ore successive all’incontro con Miguel a girovagare a vuoto, indecisa sul da farsi. Non potevo rischiare di andare a trovare Dante da sola, e non volevo nemmeno essere sprovvista di un guardaspalle, se proprio dovevo essere sincera. Quindi avevo riflettuto non poco sulla situazione che si era venuta a creare: mi ero diretta in un parco nei pressi della 530a e mi ero seduta su una panchina, fissando un punto indefinito e lasciando che fosse solo la piacevole brezza di quella serata a guidare i miei pensieri. Ero alla fine arrivata ad una sola ed unica conclusione, ma non ero consapevole di quanto la cosa sarebbe andata a genio al diretto interessato. E ancora non lo sapevo, anche se mi trovavo proprio fuori dalla porta di casa sua. Non avevo quasi avuto il coraggio di entrare, riflettendo probabilmente su quanto ci eravamo detti prima che mi ritrovassi a lasciare la sua dimora. Dannazione, avrebbe di sicuro fatto una delle sue battute su quanto non riuscissi a stargli alla larga, quel cretino.
    Trassi un lungo sospiro, pronta a bussare come avevo già fatto non più di una quindicina di ore prima. Prima ancora che potessi farlo, però, la porta fu aperta silenziosamente. Stavo quasi per lasciarmi scappare una battuta sarcastica, convinta che Nathan mi avesse sentita arrivare ancora una volta da lontano, quando il sorriso e il divertimento mi morirono letteralmente sulle labbra. Non era Nathan quello che mi squadrava dalla soglia, sebbene fosse di sicuro un licantropo, bensì una donna che non poteva avere più di vent’anni. I capelli neri e fluenti le ricadevano in ciocche ondulate e graziose sulle spalle, donandole un’aria innaturalmente innocua e fanciullesca; erano però i suoi occhi, d’un verde chiaro con piccole venature marroni intorno alla pupilla, a far capire perfettamente che tipo di donna era: fredda, spietata e manipolatrice, una licantropa che non avrebbe esitato nemmeno un attimo ad attaccare il proprio nemico se ne fosse richiesta l’occasione. Al pari di Nathan, inoltre, aveva quella lieve e classica sfumatura dorata che caratterizzava ogni lupo mannaro all’avvicinarsi della luna piena.
    Non fui la sola a restare sorpresa, comunque, giacché anche lei mi squadrò da capo a piedi e sbatté le lunghe ciglia con fare piuttosto frastornato, quasi non si aspettasse la visita di un vampiro come me. Beh, in quel momento ero della sua stessa idea. «Lewis?» mi domandò d’un tratto con voce bassa e melodiosa, quasi alla pari di quella di molti vampiri con cui avevo avuto a che fare, e stavolta fui io ad accigliarmi. L’avevo forse già incontrata da qualche altra parte? Da quel che ricordavo mi sembrava proprio di no, sebbene in lei ci fosse qualcosa che richiamava in me la nostalgia di tempi passati.
    «Ci siamo già viste, per caso?» replicai guardinga, squadrandola da capo a piedi come se cercassi di capire cos’era quella sensazione che avevo cominciato a provare. C’era qualcosa che stonava nettamente in tutta quella storia, anche se non riuscivo ancora a capire che cosa. Avevo visto così tante persone, in tutti quei secoli, che quasi mi domandavo come mai la vista di quella licantropa avrebbe dovuto accendere nella mia mente una qualche lampadina. Ebbene, avrei potuto dire che le lampadine in questione erano tutte fulminate.
    L’ampio sorriso che lei mi rivolse in seguito fu caldo come quel sole che non vedevo ormai da secoli. «Sono io, Giselle», rispose raggiante, evitando però accuratamente di guardarmi negli occhi. E potei benissimo capire il perché: mai guardare negli occhi un vampiro centenario, anche se sei un lupo mannaro.
    A quel suo dire, sbattei le palpebre come se non ci credessi, facendo scorrere lo sguardo su di lei come per cercare di capire se stesse mentendo o meno. Beh, se quella era davvero Giselle, la cugina di quel sacco di pulci di Nathan, dacché l’avevo vista era cambiata tantissimo, parola mia. Ma era anche vero che la prima volta che l’avevo vista aveva soltanto dieci anni, diamine! E i licantropi, a differenza dei vampiri, invecchiavano come qualunque essere umano. L’unica cosa che avevano in più era una gran longevità e un po’ di pelo durante la luna piena. Sopportabile, no? Forse.
    «Giselle», ripetei incredula, continuando a squadrarla con attenzione. Non mi fu però possibile perché lei si sporse di poco e mi afferrò il braccio destro, guidandomi lei stessa all’interno della casa. In altri momenti avrei reagito per far sì che mi lasciasse, ma in quel preciso istante ero troppo scombussolata per pensare razionalmente. Che cosa diavolo mi stava succedendo?
    Senza che me ne rendessi conto ci ritrovammo ben presto in cucina, dove trovammo Nathan seduto al tavolo. «Non mi aspettavo di rivederti così presto, mia dolce sanguisuga», si fece sentire lui in tono sarcastico, guardandoci entrambe al di sopra della pagina sportiva. I suoi occhi sembravano divertiti per un motivo che non capivo e che, se dovevo essere sincera, non volevo capire. «Hai sempre un tempismo perfetto nel rovinarmi la cena».
    Riacquistai a poco a poco la compostezza che il vedere Giselle aveva frantumato, guardando seriamente Nathan in viso. Non ero andata lì per tergiversare. «Devo parlarti, Nathan».
    Per un po’ lui non fiato, concentrato a leggere senza la benché minima attenzione la pagina sportiva. Forse voleva più un pretesto per non guardarmi che conoscere davvero i risultati dei Red Sox. Infine sospirò, chiedendomi cosa mi avesse spinta a tornare lì in meno di ventiquattrore. Senza tanti preamboli, esattamente come avevo fatto poche ore addietro, gli raccontai quel poco che avevo scoperto, sentendo su di me gli sguardi interessati di entrambi i licantropi. Giselle abbandonò la sua postazione soltanto per un attimo, tornando con due belle tazze di caffè freddo. Non mi offrì nulla, e fu una scelta saggia che le fece guadagnare ancora più punti: mai chiedere ad un vampiro se voleva qualcosa da bere. Ne diede una a Nathan e tornò a sedersi, alzando i suoi occhi verdi su di me ancora una volta, quasi pendesse dalle mie labbra. Era interessata a saperne di più su tutta quella storia e, se dovevo essere sincera, avrei tanto voluto che qualcun altro avesse messo al corrente anche me dei fatti.
    Giunta a parlare di Dante mi fermai un attimo, chiedendomi distrattamente come avrebbero potuto reagire. Non era famoso fra i licantropi, sebbene avessi sentito in giro che lui e la sua stirpe ne avevano fatti prigionieri e seviziati non pochi - rendendoli anche schiavi di sangue al pari degli esseri umani con cui spesso si dilettavano -, però era comunque meglio metterli in guardia. Se dovevo coinvolgere Nathan, era giusto che sapesse a cosa andava in contro.
    Quando terminai, tra noi tre calò un silenzio così sottile che mi parve quasi possibile poterlo tagliare con un coltello. Nathan aveva cominciato a passarsi spasmodicamente una mano fra i corti capelli castani, borbottando chissà cosa fra sé e sé a mezza voce; non mi sforzai di capirlo, non ce ne sarebbe stato bisogno. Giselle, invece, appariva composta ma piuttosto preoccupata. L’unico indizio che lasciava intravedere perfettamente quanto quella situazione la sconvolgesse era il suo raschiarsi il labbro inferiore con i denti.
    «Verrò con te», esordì d’un tratto Nathan, alzandosi in piedi così rapidamente che quasi temetti che rovesciasse anche il tavolo. Aveva abbandonato già da un po’ di tempo il giornale, che adesso giaceva come inutile cartastraccia dinanzi a lui. «Non posso permettere che ti succeda qualcosa, sanguisuga».
    Sorrisi senza poterne fare a meno. In parte ero persino felice che fosse stato lui a decidere di venire con me, visto che non gliel’avevo ancora chiesto. Probabilmente nel farlo mi sarei sentita in colpa, anche se ero andata lì proprio con quell’intento. «Adesso sei tu ad essere preoccupato per me?» lo schernii, forse nel tentativo di alleggerire quella situazione opprimente. Lo sguardo che mi rivolse, però, mi lasciò interdetta. Era un misto di ansia e timore, gli si leggeva perfettamente in quelle sue polle marroni dalla sfumatura dorata. «Dannazione, sacco di pulci!» esclamai incredula, sgranando di poco gli occhi. «Sei davvero preoccupato per me!»
    Quello che gli vidi in volto subito dopo fu un lieve rossore, difficile capire se per la rabbia o semplicemente perché la situazione lo metteva un tantino in imbarazzo. «Stai zitta e vedi di muoverti», bofonchiò, e fu il suo tono a tradirlo. Era imbarazzato. Beh, grandioso! Quel che mi mancava era un licantropo grande e grosso in preda all’imbarazzo. Guardò ben presto sua cugina, cercando di dissimulare il tutto dietro ad una maschera di sfida. «Giselle, tu aspettaci qui», le disse, facendole spalancare la bocca. «Se non torneremo prima dell’alba saprai cos’è successo».
    «Non ci penso proprio a restare qui!» esclamò adirata, dilatando di poco i suoi begl’occhi verdi, ingigantiti dalla confusione. Ma Nathan non volle sentir ragioni, imponendole il silenzio con un gesto secco della mano prima di voltarsi verso di me e farmi cenno di precederlo, ignorando deliberatamente gli epiteti che Giselle gli stava lanciando contro. Però non si era mossa, simbolo che, forse, l’autorità del cugino valeva più di quanto non sembrasse. Che fosse lui il maschio alfa, in famiglia? Molto probabile, ma non volevo scoprirlo.
    Uscimmo di casa nella notte ormai alta, seguiti ancora dalla voce di Giselle che si affievoliva pian piano, quasi si fosse finalmente scocciata di urlare il suo disappunto. In parte potevo capirla: anche a me non sarebbe affatto piaciuto starmene con le mani in mano. Peccato che avrei tanto voluto essere al suo posto e non dover andare a trovare quei vecchi vampiri, in quel momento. Col favore delle tenebre ci gettammo svelti nei vicoli di St. Louis, diretti verso l’ubicazione di Dante. Avremmo potuto prendere l’auto di Nathan per andare più in fretta, visto che dovevo stare al suo passo, ma sapevo quanto sarebbe stato stupido farlo. Nessun mortale aveva mai varcato quei cancelli e ne era poi uscito vivo, da quel che si raccontava in giro. Forse portare con me Nathan era stata una pessima idea.
    «Così stiamo andando a trovare una specie di famiglia reale, eh?» mi domandò lui di punto in bianco, con voce talmente bassa da poter quasi risultare impercettibile. Aveva reso il tono della sua voce scherzoso e allegro, come se stessimo andando a fare una bella scampagnata. Me ne rallegrai: l’ultima cosa che ci serviva era farci prendere dal panico.
    Facendogli cenno di seguirmi in un vicolo, superammo alcuni cassoni dell’immondizia e alti palazzi dalle scale anti-incendio praticamente a pezzi. «Una cosa del genere», risposi infine, quasi rabbrividendo. E non di certo per il freddo. «Se avessi potuto l’avrei evitato, sul serio».
    «Sono così spaventosi?» chiese di rimando, stando attento a dove metteva i piedi. I gatti randagi avevano fatto man passa di quel che potevano trovare nei cassonetti, e la maggior parte delle schifezze era riversata a terra in un misto di umidità e sudiciume.
    «Non voglio rovinarti la sorpresa», ironizzai, ritrovandomi ad abbozzare un sorriso amaro. Forse quella storia si sarebbe conclusa ancor prima che credessi: io sarei finita in una bara inchiodata e colma d’argento e Nathan sarebbe diventato un bello zerbino per la tappezzeria di qualche stanza di Dante. Che scenario terrificante.
    Sbucammo ben presto a Kennett Place, una stradina popolata per lo più da semplici esseri umani. C’era persino una scuola elementare, più avanti, con tanto di giardino per lasciar liberi i bambini durante l’intervallo. In quel momento appariva piuttosto desolata e sinistra, data l’ora e la scarsa illuminazione, ma che cosa mi aspettavo? Di certo i bambini non andavano a scuola a mezzanotte.
    La nostra meta era qualche isolato più avanti, oltre i viali alberati dov’erano ferme le auto delle famiglie di quelle modeste casette, esattamente verso Lafayette Park. Per raggiungerlo dovemmo attraversare tutto Kennett Place e giungere verso Mississippi Ave, parzialmente illuminata come il resto della strada. Vedemmo giusto qualche autopattuglia di passaggio, i cui guidatori ci degnavano appena di uno sguardo senza però fermarsi. Probabilmente per quei poliziotti eravamo una semplice coppietta che aveva deciso di passare una serata al parco, per quanto la scelta potesse essere alquanto discutibile.
    Invece di dirigerci verso il parco continuammo lungo Mississippi Ave, svoltando immediatamente verso sinistra per ritrovarci così in un ambio spazio. C’erano case ovunque, e sentii su di me lo sguardo incuriosito e stralunato di Nathan. Non gli diedi però spiegazioni, sebbene sapessi che ne voleva almeno una, vista la zona residenziale in cui ci eravamo ritrovati. Se vuoi nascondere qualcosa fallo sotto gli occhi di chiunque, no? Ebbene, Dante aveva praticamente preso alla lettera quelle parole.
    «Un bel posticino, non c’è che dire». La voce di Nathan ruppe ancora una volta il vigile silenzio che si era venuto a creare tra di noi, e fu con una leggera forma di divertimento che mi ritrovai a scoccargli un’altra rapida occhiata. Si guardava intorno con attenzione, le mani nelle tasche dei larghi calzoni che indossava. Sebbene sembrasse rilassato, la mascella contratta e i muscoli tesi delle spalle smentivano quell’impressione.
    «E non hai ancora visto l’interno», lo presi in giro, gettando qualche occhiata a destra e a sinistra prima di fargli cenno di farsi più vicino. Poco distante da noi si trovava una normalissima casetta che dava sul parco, e fu proprio lì che ci dirigemmo. Sentivo la tensione farsi sempre più pesante mano a mano che avanzavamo, addentrandoci oltre la siepe che si ergeva nel piccolo giardino nel quale eravamo appena entrati.
    All’apparenza quell’abitazione appariva normale, esattamente come tante altre. Era fatta in mattoni rossi e aveva una facciata composta da sole finestre, decisamente il luogo peggiore come ubicazione di una grande famiglia di vampiri. Ma era quello che c’era sotto le fondamenta a contare davvero, lì. Salendo i pochi gradini del portico, difatti, ci ritrovammo sì all’interno della casa, ma anziché dirigersi ai piani superiori, feci cenno a Nathan di seguirmi verso la cantina. Lo vidi sollevare appena un sopracciglio, probabilmente incredulo, prima di farsi strada a sua volta in quello spazio polveroso e pieno di ragnatele.
    Mi fermai esattamente al centro della stanza, sentendo lo sguardo di Nathan su di me. «Beh?» si fece sentire, guardandosi attentamente intorno. «Finita la passeggiata?» soggiunse sarcastico, sollevando appena un sopracciglio.
    Io, però, mi limitai ad indicare il pavimento di legno ai nostri piedi. «Ci stanno aspettando qua sotto», ribattei, abbassando lo sguardo per osservare le assi. C’era movimento, riuscivo a sentirlo sulla pelle come se una miriade di formiche avesse cominciato a camminarmi addosso. E la sensazione peggiore fu proprio il potere che mi attraversò come una scarica elettrica. «Sembra che Sebastian si sia già accorto di noi, tra poco verrà a prenderci».
    L’incredulità che si dipinse sul viso di Nathan non mi sfuggì affatto. «Vuoi davvero farmi credere che vivono relegati qui?» mi chiese, dilatando di poco gli occhi. Facevamo tanto per cancellare gli stereotipi di noi vampiri ed ecco che ci trovavamo ad affrontarne una. Davvero ironico.
    «Per quanto ti possa sembrare impossibile, è esattamente così».
    «Non posso crederci. Anzi, mi rifiuto di crederci».
    Quelle sue parole mi divertirono, ma mi astenni dall’aggiungere altro. In fin dei conti neanche io ci avevo creduto, secoli prima. Eppure ci trovavamo esattamente nello stesso punto, adesso.
    Aspettammo che qualcuno venisse a prenderci, giacché non avremmo mai potuto varcare quella soglia senza esserci prima presentati ai padroni di casa. Avevano un modo tutto loro per sapere quando avevano ospiti, e non solo grazie alla piccola telecamera di sorveglianza piazzata tra i due scaffali alla mia destra. Era pressoché invisibile, abilmente nascosta dagli scatoloni e dalle cianfrusaglie.
    Quasi angosciata, cominciai a torcermi le mani. Avevo bisogno di non pensare a cosa ci attendeva sotto quella casa, e ancor prima che potessi rendermene conto io stessa fu un’immagine fulminea a passarmi dinanzi agli occhi. «Ehi, sacco di pulci», esordii piano, quasi cautamente, come se faticassi a rendermi davvero conto dei pensieri che avevano cominciato ad affollarmi la mente.
    Ci guadagnai giusto un’occhiata, vedendolo sollevare entrambe le sopracciglia. «Uhm?» fece, sbattendo poi inconsapevolmente le palpebre.
    Mi presi ancora un po’ di tempo prima di rispondergli, concentrata falsamente sulle venature del legno ai miei piedi. Avevo anche un laccio delle nike allentato, ma non mi chinai a rifarlo. Quante cose si notavano quando non si voleva arrivare al nocciolo della questione, eh? «Non mi avevi mai detto che tua cugina Giselle fosse diventata così carina», me ne uscii, stupendo me stessa e probabilmente anche lui.
    Difatti sorrise, piacevolmente sorpreso di quel mio complimento. Era raro che sprecassi belle parole per qualcuno, figurarsi per un licantropo di sesso femminile. Un bel faccino, di uomo o di donna che fosse, non mi aveva mai conquistata tanto come quello di Giselle. Infatuazione? Sperai vivamente di no. «Tu non me l’hai chiesto», replicò bonario, e decisi di lasciar perdere. Un po’ perché mi sarei incazzata inutilmente - e non era proprio il caso, in quel momento -, ma la ragione principale fu l’aprirsi di una botola sul pavimento, esattamente a poca distanza da noi.
    Come in un sogno, vedemmo la copertura di legno aprirsi lentamente e poi far capolino una testa dai capelli brizzolati. Quegl’occhi che ci squadrarono avrei potuto riconoscerli fra mille: Sebastian, il maggiordomo di famiglia, era venuto ad accoglierci proprio come avevo previsto. Aveva la sua solita aria blanda e distaccata che l’aveva sempre caratterizzato, e fui quasi lieta di vedere che non indossava quello stupido frac che lo faceva assomigliare ad un pinguino. Un bel miglioramento, visto che avevo proprio bisogno di qualche cambiamento. Non sapevo però se fosse meglio vederlo in completo oppure con quei pantaloni color cachi e quella camicia. Probabilmente la prima, già. Vestito così mi faceva decisamente impressione.
    Fece scorrere lo sguardo prima su Nathan e poi su di me, sorridendo brevemente. Ma si capiva fin troppo bene che quel sorriso era soltanto una facciata e non voleva significare niente, in realtà. Sebastian era un bravissimo attore. «Vi abbiamo sentita arrivare da lontano, signorina», disse con voce pacata, chinando di poco il capo. «Il Nobile Dante fremeva dalla voglia di ricevere una sua nuova visita da tantissimo tempo, ormai».
    Certo, immaginavo. Andare a casa sua equivaleva ad un bel giro sul patibolo, poco ma sicuro. Mi sforzai dunque di apparire a mia volta cordiale e, senza spiegargli il reale motivo di quella nostra presenza - né tanto meno gli dissi perché avevo portato con me un licantropo, facendo passare Nathan per un mio schiavo di sangue -, attesi che lui ci facesse cenno di avvicinarci alla botola e ci facesse strada, sentendo dentro di me la pressione provocata da tutto quel potere che scaturiva dalle viscere della terra.
    Avevo preso la decisione peggiore di tutta la mia vita, decisamente.



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