Under a bloody sky di My Pride (/viewuser.php?uid=39068)
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Incontri inattesi e indagini irrisolte ***
Capitolo 2: *** Chiacchiere tra vecchi compari ***
Capitolo 3: *** Ben poche spiegazioni ***
Capitolo 4: *** Vecchie e nuove conoscenze ***
Capitolo 1 *** Incontri inattesi e indagini irrisolte ***
Under a bloody sky_1
Autore: My
Pride
Titolo: Under
a bloody sky
Fandom: Originali
› Sovrannaturale › Vampiri
Tipologia: Long
fic
Genere:
Generale, Vagamente Introspettivo, Romantico (Dipende moltissimo
dai punti di vista e dall’idea di romantico), Drammatico,
Thriller, Sovrannaturale
Rating: Giallo
/ Arancione
Nota: Alcuni
personaggi presenti
in questa storia provengono da Na
doir sìon
dhomh, mo brèagha aingeal
Avvertimenti: Probabilmente
Non per stomaci delicati, Heterosexual, Slash,
Femslash
Introduzione: «Quanto
sei disposta a spingerti oltre con questa
storia?» mi domandò con voce sottile e tagliente.
Sembrava che ci fosse qualcosa
che lo rendeva nervoso, dato il modo in cui mi si era rivolto.
Mi limitai
semplicemente ad incrociare le braccia al petto. «Quel che
basta per capire
cosa sta succedendo», risposi con fare ovvio, vedendolo
finalmente voltarsi
verso di me. Il suo viso era una maschera marmorea, e la sua bocca era
ritratta
a scoprire le zanne candide e affilate.
«Lo dico per il tuo bene, chica,
lascia perdere questa faccenda adesso che sei ancora in tempo per
farlo»,
disse, per nulla cordiale. «Non hai nulla a che vedere con
tutto questo».
DISCLAIMER:
All rights reserved
©
I
personaggi presenti in questa storia sono tutti maggiorenni e mi
appartengono, dal primo all'ultimo. Sono comunque frutto di pura
immaginazione. Ogni riferimento a
cose e persone realmente esistite e/o esistenti è puramente
casuale.
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work
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ATTO I
INCONTRI
INATTESI E INDAGINI IRRISOLTE
Il
picchiettare insistente delle gocce di pioggia contro i vetri stava
facendo
salire in me una sempre più crescente irritazione.
Seduta al solito posto, in quella
bettola che il proprietario si ostinava a chiamare bar nonostante fosse
una
tavola calda per trasandati, osservavo svogliatamente il poco paesaggio
che si
scorgeva oltre quell’ammasso incrostato di sudiciume che, nei
bei tempi d’oro
di quel locale, aveva portato il nome di finestra.
Stringevo in una mano un Bloody
Mary che non avrei mai bevuto, ma che Harry, il sopracitato possessore
del
posto, ci teneva sempre a portarmi per dare ad una buona fetta della
clientela
l’impressione che consumassi qualcosa, visto il tempo che
sprecavo nello
starmene lì. Avevo sempre odiato quel suo modo di fare, ma
persino provare a
minacciarlo come durante i tempi ormai andati era servito a ben poco. A
quanto
sembrava, difatti, non gli incutevo più lo stesso timore che
gli avevo
suscitato quasi un secolo prima.
Oh, aye. Un secolo, esatto. Eravamo
entrambi quello che, da tempi immemori, gli esseri umani chiamavano vampiro.
Fra noi ci chiamavano in ben altro modo, ma tutte le lingue del mondo
mortale
non sarebbero riuscite a dare un giusto suono a quell’unica e
determinata
parola.
Comunque sia, sebbene in confronto
all’età che mi portavo sulle spalle Harry
apparisse poco più d’un infante,
aveva imparato in un tempo relativamente breve che ciò che
più riusciva a
divertirmi e ad eccitarmi, specialmente durante una caccia, era il
terrore che
provocavo nelle mie vittime e che sentivo nelle loro membra un attimo
prima
della fine.
Spaventare lui aveva perso quel
perverso fascino da quando si era dimostrato indifferente alle mie
minacce e
alle mie provocazioni. Quasi mi mancavano i tempi in cui era ancora un
comune
umano e il fatto che tremasse dinnanzi ad una donna. Nonostante
l’aria
menefreghista che sfoggiava adesso, difatti, quand’era in
vita era sempre stato
un vero e proprio cacasotto. Chi l’aveva reso uno di noi
l’aveva scelto solo
per il suo aspetto, visto che sembrava essere uscito da uno di quei
vecchi film
d’indiani e cowboy. Era alto e parecchio robusto, dagli
zigomi e dalla mascella
squadrata, con il naso aquilino e quel taglio all’orientale
che faceva apparire
i suoi occhi neri piccoli e rapaci. Spesso e volentieri, poi, si legava
i
capelli scuri in un basso codino o in due bizzarre trecce, tanto da
dare quasi
l’impressione d’essere davvero un sioux, un apache
o comunque un esponente
d’un’altra tribù nativa americana. Altre
volte invece lasciava la sua chioma
sciolta, esattamente come quella sera.
Adocchiandolo appena, lo vidi
intento a passare uno straccio sul bancone, anche se dalla scarsa
concentrazione che gli vedevo dipinta in viso sembrava stesse solo
occupando un
po’ di tempo. Quella infatti era una serata fiacca, sia per
gli affari che per
il nutrimento. A causa della pioggia torrenziale non erano in molti
quelli che
si ritrovavano per strada, figurarsi quindi se, di punto in bianco, a
qualcuno
veniva la stramba idea di gettarsi in quel sudicio posto.
Già per la poca
clientela presente, Harry doveva ringraziare un qualunque Dio.
Per quanto mi riguardava, invece,
starsene lì seduta a battere bellamente la fiacca era una
delle poche cose che
mi piacevano oltre l’andare a caccia. Non avevo il minimo
problema, quella
notte: se avessi deciso di voler bere
un goccio avrei anche potuto
chiedere ad uno dei pochissimi camerieri che lavoravano in quel posto.
Sarebbe
bastato sfoggiare la mia cosiddetta grazia femminile,
anche se il mio
aspetto di femminile aveva davvero poco o niente, e loro mi avrebbero
donato il
loro sangue senza fare tante storie.
Peccato che il più delle
volte non
mi bastasse. Siccome ero uno di quei vampiri ad aver quasi passato i
settecento
anni, spesso mi mancava quel sapore di sfida che si riversava nel
sangue delle
mie prede insieme alla paura. Non era raro, quindi, che mi ritrovassi a
cacciare come si usava fare quando le creature come noi venivano
braccate dai
cacciatori. Tutt’oggi lo facevano, era vero, ed era proprio
per questo che ci
limitavamo ad una cerchia ristretta, così da mantenere il
nostro segreto senza
esporci ai pericoli che potevano insidiarsi in ogni dove. Ma come
dicevano i
mortali «Le vecchie abitudini sono dure a morire»,
e quello a quanto sembrava
era esattamente il mio caso. Spesso non riuscivo a resistere al
richiamo
selvaggio della caccia e a ciò che il mondo del ventunesimo
secolo poteva
offrirmi.
Fu in quel mentre che, ancora
immersa nei miei pensieri, vidi l’aiutante di Harry sbucare
dalla piccola
cucina posta sul lato destro del locale. Il ragazzo appariva
scapestrato come
al solito e aveva il grembiule macchiato d’olio, forse
vecchio anche di
settimane. Sotto quel grembiule lercio si nascondeva un ventenne
mingherlino
con la fissa degli abiti hip hop, che lo facevano sembrare ancor
più
scarmigliato di quanto non apparisse normalmente.
Sentii Harry richiamarlo ma non
approfondii il discorso che seguì subito dopo, distogliendo
lo sguardo per
puntarlo nuovamente sul vetro ormai inesorabilmente appannato. Se fossi
stata
umana avrei scorto la mia immagine che mi fissava, ma vedevo solamente
la
patina bianca dell’umidità.
Sbuffai appena e, dopo essermi
passata le dita d’una mano fra i miei corti capelli chiari,
cominciai a far
vagare lo sguardo un po’ ovunque, ricevendo delle occhiate
dalle poche ragazze
presenti e anche da Matthew, uno dei clienti abituali di Harry. Era a
sua volta
un vampiro, ma a differenza di molti altri sembrava osservare tutto
ciò che lo
circondava come se fosse sempre in allerta, come se un angolo oscuro,
per lui,
anziché un rifugio significasse chissà quale
trappola mortale. Mi stava
fissando con lo sguardo fisso, in quel momento, con gli occhi quasi
fuori dalle
orbite che lo facevano somigliare ad un folle.
Fui la prima a distogliere lo
sguardo dal suo, sentendo uno strano senso d’inquietudine e
di ribrezzo. Non mi
era mai andato a genio, lo ammettevo.
La serata continuò comunque
fiacca
fino all’una passata, orario in cui di solito cominciavano a
farsi vivi
i veri e propri clienti di Harry. Ma anche di loro non si vide nemmeno
l’ombra,
quella notte, tanto che mi ritrovai a gettare un’ennesima
occhiata verso il
bancone per cercare una qualche sorta di spiegazione
nell’espressione che il
viso di Harry aveva assunto. Sebbene stesse tranquillamente conversando
con
Tom, un altro dei suoi aiutanti - sulla quarantina, calvo e un
po’ in
sovrappeso -, e Jim, quell’aria di superficiale calma di cui
si era rivestito
tradiva ciò che realmente stava provando. Un senso
d’inquietudine strisciava
sotto la sua pelle, facendo fremere le sue membra e donando a tutta la
sua
persona un bizzarro stato d’allerta. Non avrebbe dovuto
temere nulla, in
teoria, ma c’era un qualcosa che si stava condensando con
lentezza estenuante
intorno a noi.
E forse fu proprio quello a
lasciare anche dentro di me l’opprimente sensazione che
quella non fosse affatto
una comune notte di pioggia. Mi sentivo come se qualcuno mi stesse
tenendo
d’occhio, come se avessi degli sguardi puntati su di me. Il
mio istinto aveva
cominciato a mettermi in guardia, esattamente come succedeva quando
s’avvicinava un pericolo o come quando l’alba era
alle porte.
Fu quindi con quella stessa
attenzione che mi voltai svelta verso l’entrata quando sentii
la porta della
tavola calda aprirsi, osservando i movimenti di quel nuovo arrivato.
Indossava
un lungo impermeabile nero che gocciolava fiaccamente alla base, mentre
il
cappuccio che indossava gli copriva praticamente tutto il viso.
Dirigendosi al bancone
scambiò
giusto qualche parola con Harry, chiedendo probabilmente scusa con il
capo per
l’aver interrotto la sua discussione con Tom e Jim, e vidi
proprio quest’ultimo
intromettersi per fare un rapido cenno verso di me.
Sbattei le palpebre quando quello
sconosciuto si voltò nella mia direzione, probabilmente
frastornato, tornando
poi a guardare gli altri tre per rivolgere loro un cenno di
ringraziamento. Si
avviò fra i tavoli, raggiungendo quello che stavo
occupando io per sedersi
tranquillamente dinanzi a me senza aspettare che io glielo
consentissi.
«Lewis Ride,
giusto?» domandò
incerto, sebbene la sua sembrasse semplicemente una costatazione. La
sua voce
era bassa e cortese, con un lieve accento del sud.
Mi misi in guardia, scrutandolo
con attenzione. «Dipende da chi lo sta cercando»,
replicai seccamente,
vedendolo finalmente liberarsi del cappuccio. Il suo volto aveva dei
lineamenti
molto fini, quasi da donna, ma il resto del suo viso faceva ben
intendere la
sua appartenenza al genere maschile. Nonostante le lunghe ciglia che
possedeva
le sopracciglia erano folte e arcuate, e portava i capelli molto corti,
ma non
abbastanza per essere definito un marines.
Mi rivolse appena l’ombra
d’un
sorriso prima di presentarsi. «Jackson Winchester»,
il tono acquisì una
sfumatura calda e cordiale. «Le dirò la
verità, mi aspettavo che lei fosse,
beh...», si interruppe, quasi stesse cercando le parole
adatte. Poi continuò,
nuovamente sorridente. «Mi aspettavo che lei fosse un
uomo».
Chissà
cosa ti ha tratto in
inganno, ragazzo mio, mi ritrovai a pensare con fare
sarcastico. Tra il mio
aspetto e il mio nome, non mi stupivo affatto che chi non mi conosceva
mi
scambiasse per un uomo e non per la donna che ero. Ma ci si faceva
l’abitudine,
e spesso, data la mia condizione, era sempre meglio far credere di
essere un
maschio. Ero meno esposta, in quel modo.
«Non sei il primo che me lo
dice»,
gli risposi semplicemente, ammiccando. «Cosa vuoi da
me?» soggiunsi, arrivando
subito al sodo. E di questo lui se ne rese conto immediatamente, dato
il modo
in cui mi osservò e mi rispose.
«Abbiamo un amico
in comune,
signorina Ride».
A quel dire sollevai un
sopracciglio, cominciando a squadrare quel ragazzo da capo a piedi:
poteva
avere sì e no venticinque anni, non gliene avrei dati
né più né meno. Non era
sicuramente un vampiro ma nemmeno un licantropo, e faticavo quindi a
credere
che facesse parte di quel nostro gruppo
ristretto, dato che non aveva
per niente un volto familiare.
«E sentiamo, Jack - posso
chiamarti Jack, vero? -, chi sarebbe questo nostro fantomatico amico in
comune?»
gli chiesi, per nulla gentile. Non era mai stato da me fingermi
simpatica con
degli estranei o persino con gli amici, nemmeno quand’ero
ancora umana.
Ma quel che mi sorprese fu il suo
sorriso.
«Dovrà restare ancora un po’
nell’anonimato, signorina Ride, mi spiace», mi
rispose tranquillo. «Ciò di cui sono venuto a
parlarle questa notte riguarda
questo», aprì di poco l’impermeabile,
cominciando a frugare all’interno prima
di tirarne fuori una piccola cartellina plastificata che
poggiò sul tavolino.
Con due dita la fece scivolare verso di me, invitandomi ad aprirla con
un
cenno.
Riluttante mi ritrovai ad
obbedire, abbassando lo sguardo per osservare quell’unico
foglio di carta
presente - e ancora odorante d’inchiostro, tra
l’altro - e quella miriade di
fotografie. Scattate probabilmente su una scena del crimine, ritraevano
in
ordine sparso donne e uomini che, almeno ad un occhio esperto come il
mio,
erano morti a causa d’uno scarso quantitativo di sangue. In
più punti, tra
l’altro, la pelle appariva livida e violacea, come se in quel
determinato punto
si fosse addensato del sangue prima della morte. La ragione
più probabile era
da imputare a delle contusioni, forse provocate da un oggetto pesante
e, forse,
anche di forma ovale. Ciò che maggiormente risaltava
all’occhio, comunque,
erano i segni di morsi in prossimità di quei lividi e lo
sternocleidomastoideo
probabilmente lacerato da zanne.
Alzai nuovamente lo sguardo per
incontrare quello del ragazzo: i suoi occhi verdi sembravano scrutarmi
con
attenzione già da un bel po’ di tempo.
«Sei della scientifica, per caso?» gli
domandai di getto, ancor prima che il mio cervello potesse formulare
quelle
parole.
Lui sorrise ancora,
scuotendo leggermente il capo. «Non lo sono, ma ho i miei...
mezzi di
persuasione. Ed ho sfruttato questa mia piccola dote per recuperare
questa
documentazione fotografica», replicò
semplicemente, agitando appena una mano
per liquidare cortesemente quella faccenda. «Comunque sia, da
quel che si
evince in quelle foto, è stato qualcuno della vecchia scuola ad
uccidere
tutte quelle persone».
«E cosa potrebbe mai
importarmene?»
ribattei immediatamente e con tono sprezzante, inculcando nel mio tono
tutto il
mio cinismo. «Sono per caso nella lista dei
sospettati?»
«Potrebbe esserlo, e non in
quella
della polizia», mi informò, senza abbandonare
nemmeno per un attimo quella sua
irritante maschera cordiale. «So bene chi è lei e
dove va a caccia, signorina
Ride, sebbene non sapessi che fosse una donna fino a questo
momento», si fermò
un attimo, per poi continuare con tono più basso.
«E mi creda, non sono l’unico
a conoscerla. Ed è proprio perché anche lei
appartiene ai più anziani
della
vostra razza che i miei colleghi
la tengono sott’occhio».
Non del tutto convinta dalle sue
parole, cercai di leggere nei suoi occhi chiari se mi stesse mentendo.
«Se è
come dici, perché mai sei venuto da me con tali
informazioni?» gli chiesi
ancora, forse nel tentativo di metterlo in difficoltà.
«Chi ti dice che non sia
stata realmente io ad uccidere quella gente?»
Parve rifletterci, ma il sorriso
sulle sue labbra non vacillò nemmeno per un attimo.
«Se fosse stata lei sarei
già morto, o forse sbaglio?» constatò,
spiazzandomi e lasciandomi senza parole.
Quel ragazzo probabilmente era più in gamba di quanto
pensassi. «Sono venuto da
lei proprio perché potrebbe esserci d’aiuto per
individuare il vero colpevole»,
continuò, riscuotendomi. «Quindici persone
è un numero un po’ troppo alto per
soli tre giorni».
Scossi il capo. «Ragazzo, ti
rendi
conto della stronzata che stai dicendo?» sbottai, lasciando
da parte
l’etichetta delle buone maniere e osservandolo con
attenzione. «Io non posso
aiutare né te né altri, e tutto per un semplice
motivo», invece di spiegarlo a
parole, aprii di poco la bocca e feci fare capolino dalle mie labbra le
zanne a
scopo dimostrativo.
Lui le guardò con un
po’ di
timore, ma confermò la sua fermezza e
s’evitò di deglutire. Voleva fare il
duro, a quanto sembrava, e con questo guadagnò mio malgrado
un punto. «Non la
prenda come la richiesta d’un mortale che cerca
d’aiutare altri mortali, signorina
Ride», fece infine con fermezza. «La consideri
più che altro... una specie di
sfida».
Non capendo, diventai maggiormente
scettica. «Una sfida?» ripetei, vedendolo
semplicemente annuire.
«Una sfida, esatto»,
confermò. «C’è
qualcuno, là fuori, che si diverte ad ammazzare la gente.
Così facendo rischia
d’esporre anche voi... voi che cercate in tutti i modi di
passare inosservati
il più possibile. Quindi non crede che salvaguarderebbe
anche i suoi
confratelli, se ci aiutasse?»
Sembrava fermamente convinto di
ciò che diceva, e non lo rendeva palese solo ed unicamente
il suo tono di voce:
la sua espressione, la sua postura, persino il modo in cui aveva
poggiato le
mani sul tavolo indicavano che credeva nelle sue parole come se esse
rappresentassero un’antica fede.
Scossi nuovamente la testa, quasi
incredula. «Proverò a scoprire
qualcosa», rimbrottai, vedendo il suo viso
illuminarsi d’un sorriso. «Ma non ti assicuro
niente, ragazzo».
Lui abbassò lo sguardo,
accompagnandolo con un cortese cenno del capo. «La ringrazio
della collaborazione,
signorina Ride», disse, tornando cordiale come in principio.
«Devo confessarle
che temevo una sua risposta negativa, specialmente dopo le poche parole
scambiate poco fa con i suoi compagni».
A quel dire sbuffai. Passare
troppo tempo con gli esseri umani mi stava rammollendo. Mi stava
rammollendo o
stava facendo finalmente sorgere il mio lato femminile, una delle due.
«Non ringraziarmi,
non ho nemmeno detto che l’avrei fatto gratis».
Quel ragazzo alzò
immediatamente
il viso e finalmente la sua espressione cambiò, divenendo
sorpresa. «Vorrebbe
essere pagata?»
«Non si fa mai niente per
niente»,
ribattei con semplicità, godendo di quell’aria
persa che gli si era dipinta in
volto. «Decideremo il compenso a lavoro compiuto... che ne
pensi?»
Sbatté le palpebre, ancora
sconvolto. «Ma io... ecco, non...» si prese un
po’ di tempo, come se stesse
cercando le parole adatte. «Non vorrei risultare scortese,
signorina Ride, ma
cosa se ne fa del denaro?»
Il modo in cui lo disse mi fece
scoppiare in una sonora risata, tanto che richiamai su di me
l’attenzione di
Harry, rimasto solo da chissà quanto, e di quelle poche
anime ancora presenti
in quella tavola calda.
Guardai il ragazzo, sorridendogli
e avendo al contempo l’accortezza di non scoprire nuovamente
le zanne. «Sono un
tipo vizioso e anche un po’ avaro, Jackie»,
gli risposi, pronunciando il
suo nome con troppa enfasi. «Le cose materiali mi conquistano
più di quanto si
creda in giro, e vado letteralmente pazza per cose frivole come i
gioielli,
anche se prediligo i libri. Non dico di no neanche ai piaceri della
carne, se
devo essere sincera. In fondo, in quanto vampiro, non dovrei essere una
creatura che, per natura, ammalia e affascina?»
Stavolta lo vidi distintamente
deglutire, prima che allungasse con circospezione una mano per
recuperare la
cartellina. «Ne discuterò con i miei superiori,
allora», volle semplicemente
dire, come se stesse cercando di chiudere in fretta quel discorso.
«Se
riusciremo a risolvere tutta questa faccenda avrà il suo
compenso. Parola
d’onore», e detto ciò
s’alzò in piedi, riponendo la sua documentazione
all’interno dell’impermeabile. Richiuse poi
quest’ultimo, rivolgendomi un cenno
di saluto prima di coprirsi nuovamente il viso con il cappuccio. Fu
però con
una strana apprensione che s’allontanò, salutando
anche Harry con il medesimo
cenno prima d’imboccare la porta e sparire nuovamente
all’esterno.
Dal bancone sentii una risata,
vedendo lo stesso Harry con un sorriso beffardo dipinto sulle labbra
sottili. «Cos’hai
detto a quel poveraccio?» mi domandò divertito.
«Sembrava avere il Diavolo alle
calcagna, mentre usciva».
Scrollai semplicemente le spalle,
alzandomi a mia volta per avvicinarmi a lui. «Le solite
quattro cazzate»,
ribattei sarcastica, rifilandogli un centone che sfilai dalla tasca dei
jeans. «Per
il Bloody Mary», soggiunsi, ignorando la sua occhiataccia.
«Non l’hai mica
consumato», mi
tenne presente, strappandomi un sorrisino ilare che mi fece apparire
più
femminile, glielo vidi negli occhi.
«Vorrà dire che
sarà per la
prossima volta, Harry», replicai semplicemente, soffiandogli
un bacio prima
d’avviarmi verso l’uscita mentre lo salutavo con
una mano.
«Guarda che ci conto, Lewis»,
lo sentii dire prima che uscissi, riconoscendo la sfumatura sarcastica
con cui
enfatizzò sul mio nome. In realtà quello era solo
il mio secondo pseudonimo,
pseudonimo che usavo già da due o trecento anni.
Quand’ero ancora in vita, da
bambina, ero stata cresciuta con la credenza che se qualcuno,
specialmente se
si trattava di un nemico, conosceva il tuo vero nome, poteva poi
rivendicare
grazie ai poteri occulti il controllo della tua persona. Erano stati i
miei
nonni e i miei genitori - entrambi appartenenti ad una tribù
nomade e sorretta
da vecchie tradizioni - ad inculcarmi quel credo secoli addietro, e
anche dopo
la mia trasformazione non ero riuscita a liberarmi di quella
convinzione. Avevo
quindi abbandonato il mio vero nome il giorno stesso in cui ero rinata,
lasciando che durante quegl’anni fossi conosciuta come
Samantha, affettuosamente
chiamata Sam da quei pochissimi amici che avevo. Solo quando dopo i
miei
vagabondaggi ero arrivata nella vecchia St. Louis avevo deciso di
adottare il
nome che portavo tutt’oggi. Era spesso simbolo di
fraintendimenti ma, ehi, a me
poco importava. Non cercavo un compagno come la maggior parte delle
vampire
presenti in città né tanto meno ne volevo uno,
sebbene qualche volta non mi
mostrassi per nulla indifferente alle loro attenzioni. Ma da qui ad
accoppiarmi
con uno di loro e mettere
su famiglia ne correva davvero molta di acqua
sotto i ponti. Amavo la mia vita scapestrata, la libertà che
mi ero guadagnata
con tanta fatica e il mio modo di fare.
A quei pensieri, scossi
immediatamente il capo, alzando lo sguardo verso quel cielo scuro e
nuvoloso.
Non pioveva più a dirotto, ma una lieve pioggerellina
persisteva ancora e
rendeva l’aria abbastanza umida. Forse era soltanto una mia
impressione, però qualcosa mi dava la certezza che quella
sera così bizzarra
sarebbe stata soltanto la prima di tante altre.
Messaggio No Profit
Dona l'8% del tuo tempo
alla causa pro-recensioni.
Farai felici milioni di
scrittori.
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Capitolo 2 *** Chiacchiere tra vecchi compari ***
Under a bloody sky_2
ATTO II
CHIACCHIERE TRA VECCHI
COMPARI
Era
stato rincorrendo pensieri su pensieri che avevo cominciato a
camminare,
tralasciando almeno per quella sera il mio nutrimento. Avrei potuto
benissimo
stare un paio di giorni senza sangue, dunque il problema, per me, non
esisteva
affatto. Farmene uno sarebbe stato alquanto stupido, in
realtà.
Mi infilai le mani nelle tasche
dei jeans e mi avviai verso il piccolo parcheggio davanti alla tavola
calda,
concentrandomi sul suono che le mie nike producevano
sull’asfalto bagnato.
Quello scalpiccio divenne ben presto l’unico rumore che
sentii, sebbene
captassi ciò che mi succedeva intorno solo ed unicamente con
l’olfatto: sentivo
l’umido sentore della terra e dell’erba giungere da
ovest; lo smog confuso con
l’odore della pioggia, proveniente dalle auto che
percorrevano la statale non
molto distante; riuscivo persino a percepire, man mano che avanzavo e
mi
avvicinavo ai viali poco alberati, l’odore di grasso e di
frittura che
avvolgeva l’area intorno ad altre tavole calde e locali.
Sembrava andare tutto normalmente,
esattamente come le altre notti. Ma l’incontro con quel
ragazzo era riuscito a
farmi comprendere, almeno in parte, cosa significasse
quell’inquietudine che
avevo avvertito prima del suo arrivo. Probabilmente avrei dovuto
prendere sul
serio le sue parole e cominciare ad investigare, se non volevo
realmente che
qualche cacciatore sulle tracce di quest’assassino giungesse
fino a noi. Più
continuavamo a tenerci nascosti più era un bene, e non
potevo quindi permettere
che un folle lupo solitario ci esponesse in quel modo ai pericoli.
Cominciai a guardarmi intorno
distrattamente, superando la 596a della South Road mentre catturavo
al contempo le luci dei lampioni e dei fari delle auto che mi
superavano. Mi
tenevo sul marciapiede, gettando solo di tanto in tanto delle occhiate
ai
guidatori delle auto quando mi passavano accanto. Giunsi fino alla 540a
e sorpassai due puttane al bivio, facendo finta di non sentirle mentre
mettevano in mostra la mercanzia rivolgendosi agli uomini che si
fermavano con
le loro belle automobiline. Quando vedevano un uomo erano peggio degli
avvoltoi, riuscivo a fiutare l’odore della loro lussuria come
se la stessi
assaporando sulla lingua, ma dovevo ammettere che come carne da bara non
sarebbero state affatto male. O almeno a detta di molti altri vampiri.
Mi recai svelta a casa, che
distava da lì giusto un altro paio d’isolati. In
realtà era ironico chiamare
quel monolocale completamente spoglio “casa”, visto
che sarebbe anche potuto
essere catalogato come da vendere data la mia poca presenza e la scarsa
mobilia. Se non si contava il grande paravento scuro che divideva
l’ubicazione
del mio feretro dal resto del monolocale o il mio feretro stesso, quel
che era
presente era un grande armadio in legno massello posto sulla sinistra,
esattamente poco lontano da una larga finestra che, in precedenza,
avevo
inchiodato con delle assi e nascosto con delle pesanti tende per
evitare che la
luce del sole filtrasse durante il giorno. Oltre a quello
c’era un divano
letto, che usavo in occasioni
speciali, e uno schermo al plasma da
sessanta pollici che avevo comprato solo per capriccio. Non ero
propriamente un
tipo materiale, ma gli oggetti mortali mi attraevano come la falena
alla
fiamma. Riguardo i vestiti di quel secolo, invece, dovevo ancora farci
il
callo. Jeans e felpe erano comodi, ma spesso mi mancavano pizzi e
merletti dei
tempi andati. Quel che non rimpiangevo affatto era il bustino.
Chissà perché,
eh?
Aprii la porta del monolocale
quando lo raggiunsi, ma mi misi subito in allerta nel momento esatto in
cui mi
arrivò alle narici un odore sconosciuto.
All’interno ero sicura che non ci
fosse nessuno, mortale o immortale che fosse. Non sentivo il palpito di
nessuno
cuore, e nemmeno quel sentore di morte e putrefazione che spesso
caratterizzava
molti di noi. Era rimasta solo una debole scia d’un odore
denso e quasi
dolciastro, troppo confusa per capire a chi o cosa appartenesse
realmente.
Entrai con circospezione,
richiudendomi silenziosamente la porta alle spalle prima di scrutare in
quella
penombra e scoprire che l’unica cosa che era stata profanata
era la mia bara,
ben visibile da dove mi trovavo a causa del paravento caduto. Quel
qualcuno che
si era introdotto in casa l’aveva scoperchiata e ne aveva
sfregiato con strani
simboli il legno d’ebano, lacerando persino, senza alcuna
ragione, il rosso
velluto all’interno.
Quella notte stava prendendo
pieghe sempre più strane, e non riuscivo nemmeno a capire
cosa avesse provato a
cercare quell’intruso o cosa avesse provato a fare. Ma forse
stavo lasciandomi
suggestionare un po’ troppo, e probabilmente s’era
trattato d’un comune ladro
che, in cerca di denaro o altro, non trovando nulla aveva sfogato la
sua rabbia
sul mio giaciglio. E allora perché non rubare il televisore,
che da solo
avrebbe potuto fruttare abbastanza dollari? La cosa non aveva il
benché minimo
senso, ma non ne me curai poi molto. Perché mai avrei dovuto
temere un comune
ladro visto quel che ero?
Fu però con una piccola
smorfia di
disappunto che mi chinai a raccogliere il coperchio del mio feretro,
esaminandolo prima di scuotere il capo. Un gran bel lavoro vandalico,
senza
alcun ombra di dubbio. Gettai poi uno sguardo al cataletto stesso,
richiudendolo subito. Quello scempio aveva rovinato ancor
più una serata già
iniziata male.
Quel che volevo capire adesso era
chi mai fosse stato, e fu per quel motivo che socchiusi gli occhi ed
inspirai
più a fondo l’odore che aleggiava in casa, non
riuscendo a dargli una vera e
propria catalogazione. Escludendo umani, vampiri e licantropi, restava
solo
chissà quale creatura capace di attraversare le pareti, dato
che la serratura non
era stata forzata e che la finestra era sigillata.
Sbuffai. Non era il momento per il
sarcasmo, quello.
Perché diavolo avessi accettato
quell’incarico, veniva da chiedersi. Non era stata
propriamente la
preoccupazione per la mia razza a spingermi ad accontentare la
richiesta di
quel ragazzo, ma forse più semplicemente il fatto che, da un
po’ di tempo a
quella parte, quella mia vita quasi immortale stava perdendo il fascino
che
aveva avuto all’inizio. Mi stavo più che altro
confondendo con la massa, divenendo
sempre più schiava di quella società
industrializzata. Probabilmente speravo
che l’investigare in quel caso, fianco a fianco con degli
esseri umani per
nulla comuni, avrebbe riportato quel pizzico di pepe che ormai da un
paio di
secoli mancava nella mia esistenza. Per quelli come me era sempre un
po’
difficile ambientarsi e adattarsi ai nuovi stili di vita. Succedeva
quasi ogni
cent’anni o poco più.
Uscii nuovamente di casa senza
richiudere nemmeno la porta a chiave, cominciando a tormentarmi con le
zanne il
labbro inferiore e con una parvenza di nervosismo dipinta in viso.
Mancava
mezz’ora o più all’alba, non mi ero
nutrita per niente e la mia bara era stata
praticamente ridotta a brandelli. Non avrei potuto chiedere di meglio,
e la mia
era ironia.
Mi ritrovai in strada e risalii il
lungo marciapiede che costeggiava i palazzi, sentendo qualche lieve ed
incerto
cinguettio provenire dai radi alberi lì presenti. Nel cielo
volteggiava ancora
qualche pipistrello solitario, ma l’imminente arrivo del
giorno era ormai una
certezza. Mi affrettai dunque ad incamminarmi, giungendo a destinazione
in men
che non si dica.
Ero quasi in periferia, dove si
riuscivano a scorgere le poche villette presenti in
quell’angolo di St. Louis.
L’erba era umida di rugiada, e anziché
l’odore di smog serpeggiava nell’aria il
piacevole sentore che caratterizzava la notte poco prima
dell’alba, molto più
percettibile grazie alla più comune presenza di spazi verdi.
Non persi altro tempo a rimuginare
su quei pensieri o a perdermi fra quei profumi, andando dritta verso
una di
quelle villette. Aprii il cancelletto e attraversai il cortile,
bussando al
campanello. In realtà sarei potuta entrare in qualsiasi
momento, avendo avuto
tempo addietro il consenso di varcare quella soglia, ma la persona che
era
andato a trovare meritava un piccolo trattamento di favore,
per non
parlare del suo essere famoso per il suo trastullarsi da solo o con
qualcuno in
qualsiasi ora del giorno o della notte. Difatti venne ad aprirmi in
mutande,
senza nemmeno chiedere chi fosse visto che l’aveva
sicuramente intuito ancor
prima di vedermi.
«Sappi che la tua puzza mi
ha interrotto proprio sul più bello, sanguisuga»,
mi salutò così, con tono
sarcastico e anche un po’ rauco.
Ma non gli badai, sollevando
appena un angolo della bocca in un mezzo sorrisino prima di
appioppargli una
pacca sulla spalla destra, entrando tranquillamente come se mi trovassi
a casa
mia. L’interno era appestato come al solito da un odore come
di cane bagnato,
ma ormai il mio naso se n’era assuefatto. Oltre a quello,
però, non c’era
nessun altro odore, specialmente d’esponenti del gentil sesso
come me. Il che
stava a significare una sola cosa, e quasi mi ritrovai a sorridere
maggiormente.
«Non dire cazzate»,
replicai
ironica, voltandomi appena verso di lui che aveva appena richiuso la
porta. «Più
di una sega non ho interrotto».
A quelle mie parole dilatò di
poco
gli occhi, facendo una finta faccia scandalizzata. Secondo lui le signorine
non avrebbero dovuto parlare in quel modo. Beh, con me aveva ormai
quasi perso
tutte le speranze. Difatti subito dopo lasciò perdere e
sbuffò, sgranchendosi
appena il collo. «Serata fiacca oggi, e allora?»
ribatté scontroso. «Piuttosto...
perché sei qui, sanguisuga?»
«Ho forse bisogno
d’un motivo per
venire a trovare un amico?»
replicai, fingendomi innocente come la più
illibata delle fanciulle e sfoderando un nuovo sorriso in cui lasciai
ben
intravedere la punta delle zanne.
Lo vidi sollevare un sopracciglio.
«Direi di sì, visto che le poche volte in cui ti
fai viva - perdona
l’espressione - è sempre perché ti
serve qualcosa», rispose con fare ovvio. «E
poi è quasi l’alba, mia dolce sanguisuga, non
credo che tu non te ne sia resa
conto».
Alzai entrambe le mani in segno di
resa, osservando distrattamente l’arredamento spartano del
salotto in cui ci
trovavamo. «Hai colto immediatamente nel segno, sacco di
pulci».
Lui era l’unico che poteva
permettersi di parlarmi con tutta quella scioltezza. Non
c’era quasi nessuno,
difatti, che considerassi degno di farlo. Sebbene lui, Nathan, fosse un
licantropo, era il solo che sentivo più vicino. Quasi amico,
avrei potuto
aggiungere. Ed il motivo era che gli ero debitrice, visto che mi aveva
donato
il suo sangue per salvarmi. Avrebbe potuto andarsene e lasciarmi al mio
destino, quella lontana notte in cui mi aveva trovato moribonda, ma non
l’aveva
fatto e aveva deciso d’aiutarmi nonostante non fosse
obbligato a farlo a causa
delle nostre nature così diverse. E dovevo ammettere che,
anche a distanza
d’anni, mi sentivo ancora in debito con lui. Che razza di
vampiro ero.
Fu un suo lungo sospiro a
distogliermi da quei miei pensieri. «Avanti,
parla», fece schietto. «Che cosa
ti serve, stavolta?»
Lo guardai con assoluta
serietà. «Hai
ancora quella vecchia bara che ti lasciai cinque anni fa?»
Lui sbatté le palpebre,
probabilmente non capendo. «E’ in
cantina», rispose perplesso. «Perché me
lo
chiedi di punto in bianco?»
Non badai a quel suo quesito,
limitandomi ad annuire quasi pensosa. «Per oggi mi ospiterai
tu, allora», dissi
fra me e me, bloccando tempestivamente una sua protesta appena con
un’alzata di
mano. «Quando mi sveglierò, poi, ti
spiegherò tutto».
Per nulla contento, sbuffò.
«Se
non mi dirai tutto per filo e per segno, sanguisuga, questa
è la volta buona
che quel tuo cuore te lo riduco in poltiglia»,
commentò con falso tono
minaccioso, dato che quelle parole le ripeteva di continuo ma non aveva
ancora
mai attuato quei suoi propositi. Un po’ perché,
sebbene non l’avrebbe mai
ammesso, ero una sua cara amica, un po’ perché era
talmente gentiluomo che non
si sarebbe mai permesso di alzare le mani su una donna. A quanto
sembrava la
cavalleria non era ancora morta, per lui.
In risposta agitai semplicemente
una mano con non curanza, volendolo accontentare solo con
quell’unico gesto. «Lo
farò, stai tranquillo. Noi vampiri manteniamo sempre la parola
data».
«Che marea di
cazzate»,
ribatté
immediatamente, quasi in tono ironico. «Che non bisogna
fidarsi di voi lo sanno
bene anche i muri. E adesso, mia cara, vedi di filare di sotto. Vorrei
riposare
ancora un po’ anch’io, se non ti spiace».
«Ho un ultimo favore da
chiederti»,
feci, avvicinandomi a lui per osservarlo con attenzione. E per farlo
dovetti
alzare lo sguardo, visto che mi superava di parecchi centimetri buoni.
I suoi
occhi marroni avevano quel riflesso dorato tipico del periodo che
precedeva la
luna piena. Quel che colpiva di lui era che, pur non essendo un tipo
atletico o
sportivo, aveva comunque il fisico asciutto. Il suo viso non era
né bello né
brutto, e anche se aveva la fronte sporgente e gli zigomi troppo
pronunciati,
era un uomo che veniva sempre cercato dalle donne. Se mi avessero
chiesto che
lavoro facesse avrei prontamente risposto escort.
«Non mi piace affatto quello
sguardo», disse sulla difensiva, affrettandosi a distogliere
gli occhi dai
miei. «Sembra simile a quello d’un
depravato».
«Ci sei vicino»,
replicai sarcastica,
afferrandogli con facilità un braccio per tenergli ferma la
mano
con una delle mie, poggiando invece l’altra poco
più su del polso. «Solo un
sorso, Nathan. Poi puoi dormire o masturbarti quanto ti
pare».
Non oppose resistenza, ma lo vidi
digrignare i denti e socchiudere appena le palpebre. «Avrei
dovuto immaginarlo»,
sibilò inviperito. «Ma guai a te se tenti di
sedurmi per portarmi a letto. Per
quanto tu sia bella non rientri nel mio prototipo di donna
ideale».
Nel sentire le sue parole non
potei evitarmi di ridere, chinandomi a leccargli il polso, esattamente
dove
sentivo la vena palpitare invitante. «I maschi non mi
interessano più di tanto,
e tu non saresti nemmeno il mio tipo, ad esser sincera»,
ribattei
semplicemente, snudando le zanne per affondarle nella sua carne
morbida.
Mi giunse alle orecchie il gemito
doloroso di Nathan, ma lo ignorai per iniziare invece a succhiare e a
deglutire
con vigore, sentendo quella piacevole sensazione di forza convergere in
me. Smisi
di bere molto presto, forse anche più di quanto fossi
abituata a fare.
Solitamente la mia vittima mi implorava di smettere ancor prima che mi
fermassi. Nathan invece non aveva proferito parola, gemiti e rantoli
esclusi.
Non appena allontanai le labbra
lui ritirò il braccio, osservandosi il punto che avevo morso
con aria
disgustata. Lo coprì poi con una mano, guardandomi e
assottigliando le
palpebre. «Vedi di non farci l’abitudine,
sanguisuga», mi sbottò contro,
bofonchiando qualcosa fra sé e sé mentre
s’allontanava in direzione del divano
letto. Quel che disse lo sentii benissimo ma soprassedetti, limitandomi
a
leccarmi le labbra prima di stringermi nelle spalle. L’unica
cosa positiva di
quella serata era stata sicuramente la conclusione.
Presi la strada che conduceva alla
cantina ed aprii la porta, scendendo le scale a due a due come se
stessi
scivolando sull’acqua. Scrutai in ogni anfratto, spostando
mobili e ferri
vecchi alla ricerca della mia bara. Una volta trovata ci soffiai un
po’ su per
liberarla almeno in parte dallo strato di polvere che la ricopriva,
carezzando
il coperchio con appena due dita. Era un feretro molto più
rudimentale e
scomodo di quello che avevo avuto nel mio monolocale, ma si poteva dire
che mi
aveva accompagnato nel corso della mia esistenza.
Tolsi la copertura lasciandola
lì
accanto, scavalcando i bordi della bara per sedermi sul duro fondo di
legno.
Sporgendomi recuperai poi il coperchio, stendendomi mentre lo
richiudevo sopra
di me. Il buio mi avvolse, e quel senso di abbandono del proprio io
prese
possesso di me come ogni qual volta chiudevo gli occhi.
Non era propriamente sonno, quello
in cui noi vampiri cadevamo, ma più un annullamento
dell’essere, una sorta di
limbo in cui non esistevano né giorno né notte,
né bene né male, solo noi
stessi e quel potere che la sera ci animava. Senza quello e la nostra
essenza o
la nostra ragione, quel che restava era solo un involucro vuoto di
carne e
muscoli, un cadavere mantenuto in bello stato. Quando giungeva la notte
il
nostro corpo tornava a muoversi, sebbene, almeno io, mi svegliassi come
se
fossi rimasta in apnea più di quanto concessomi. E lo stesso
accadde quella
sera quando riaprii gli occhi nell’oscurità, tanto
che ci misi un po’ a
ricordare tutto con nitidezza e ad alzare il coperchio per mettermi a
sedere.
Mi sgranchii appena il collo e mi
rialzai in piedi, muovendomi in quell’oscurità che
avvolgeva la cantina con
estrema facilità. Risalii le scale e sbucai nuovamente nel
soggiorno, dove
aleggiava un intenso odore di bacon. Lo accompagnava anche quello della
frittura, simbolo che Nathan stava preparando la propria cena. Quando
giunsi
nella piccola cucina, difatti, lo trovai ai fornelli, intento a
rigirare il suo
cibo nella padella.
Senza voltarsi, essendosi accorto
di me, mi indicò con un cenno della mano il tavolo, e io mi
accomodai
tranquilla ed attesi. Quando lui posò tutto a tavola si
sedette a sua volta,
spronandomi a spiegargli cosa mi avesse spinto fin lì prima
dell’alba. Gli
raccontai tutto con gran dovizia di particolari, proprio
com’ero solita fare,
partendo dall’incontro con quel ragazzo e della discussione
che avevamo avuto
prima d’arrivare all’infrazione avvenuta nel mio
monolocale. Lui mi ascoltò
attento e senza interrompermi, assumendo poi un’espressione
alquanto pensosa
quando conclusi. Aveva unito le dita a cupola e si era accomodato
contro lo
schienale della sedia, con lo sguardo fisso dinnanzi a sé.
«Allora, fammi capire
bene»,
esordì infine con un tono abbastanza scettico. «Un
ragazzino, per di più
facente probabilmente parte d’uno di quei reparti
d’investigazione
sovrannaturale, ti ha chiesto d’aiutarlo con un caso... e tu
hai accettato?» mi
guardò con un sopracciglio inarcato prima di continuare.
«Tu,
miss “non
voglio avere niente a che fare con i problemi del genere
umano”?»
Non diedi alcun peso alle sue
parole, agitando con fare svogliato una mano prima di poggiare il viso
sul
dorso della mano dell’altra. «L’ho fatto
solo perché sono coinvolti uno o più
vampiri», ci tenni a precisargli. «Solo e
unicamente per questo. Altrimenti col
cazzo che accettavo».
«Inventatene
un’altra»,
ribatté
sarcastico. «Di un po’, non è che in fin
dei conti sei preoccupata per le
possibili conseguenze?»
Lo guardai a zanne scoperte nel
sentire quelle parole, alzandomi in piedi per osservarlo
dall’alto in basso. «Non
è un problema mio, perché dovrei essere
preoccupata?»
Per un po’ di tempo lui non
rispose, limitandosi a mettersi comodo e ad impugnare le posate. Diede
giusto
un morso al bacon, riempiendosi il bicchiere con la sua birra scura. Fu
solo a
quel punto che mi guardò, facendo spallucce. «Hai
accettato, no? Questo
dimostra che un minimo di preoccupazione ce l’hai»,
prese il bicchiere e se lo
rigirò in mano, abbassando gli occhi per vedere il liquido
oscillare al suo
interno. «E poi questa è una cattiva
pubblicità, per voi. Già non fate una
bella vita, dover poi temere d’essere esposti a causa di
certi squilibrati non
dev’essere un gran bell’affare».
A quel dire restai interdetta, ma
cercai di non dimostrarlo. «Cazzate», sbottai,
volendo negare l’evidenza. Mi
allontanai dal tavolo dando le spalle a Nathan, avviandomi in direzione
dell’ingresso. Ma mi fermai a metà strada,
fissando un punto indefinito. «Ehi,
sacco di pulci», lo chiamai, continuando solo quando sentii
il suo sguardo su
di me. «Vedi di fare attenzione quando esci, la
notte».
Dopo qualche attimo di
imbarazzante silenzio, mi giunse una sua lieve risata.
«Cos’è, sei preoccupata
per me, sanguisuga?» mi chiese ironico. «Lo sai che
so badare a me stesso. Non
mi diventare sentimentale, adesso. Non ti si addice».
Mi voltai appena verso di lui,
sollevando un angolo della bocca in un piccolo sorriso. «Tu
tieni a mente il
consiglio», ribattei semplicemente, riprendendo ad
incamminarmi verso la porta
e, dopo averla aperta, feci un rapido cenno di saluto a Nathan.
«Stammi bene,
amico», soggiunsi, uscendo e lasciandolo infine solo con la
sua cena.
Quella che era calata era la mia
notte, ed era appena cominciata.
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scrittori.
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Capitolo 3 *** Ben poche spiegazioni ***
Under a bloody sky_3
ATTO III
BEN POCHE
SPIEGAZIONI
Il
modo migliore per ottenere delle informazioni senza dover ricorrere
alla
polizia, lì in quella zona di St. Louis, era senza alcun
ombra di dubbio il
recarsi nei bassi fondi della città. Si riusciva sempre a
trovare qualcuno
disposto a raccontare qualcosa per un po’ di centoni, che
fossero storie
sentite in giro, cose semplicemente vedute o, meglio ancora, esperienze
vissute
sulla propria pelle. C’era sempre chi non cantava nemmeno
pagato a peso d’oro,
certo, ma per me andavano bene anche le maniere forti.
Avevo parlato con ben otto
persone prima di essere finalmente direzionata verso
l’insegna al neon del
night club fuori cui mi ero ritrovata, e dovevo ammettere che tutto mi
sarei
aspettata tranne quello. Apparteneva ad un mio vecchio conoscente che,
da
quanto sapevo, aveva fatto parte della malavita sin da giovane. Adesso
che era
vecchio e stanco continuava sì gli affari, ma da un paio
d’anni aveva affidato
la gestione di quel night club ad una persona di cui, almeno per quanto
mi riguardava,
non c’era molto da fidarsi. Non era un uomo malvagio - non
secondo i canoni
della sua natura di vampiro, almeno -, ma nel corso dei secoli non si
era mai
fatto scrupoli nell’agire come meglio credeva, il
più delle volte rasentando i
limiti dell’immaginario di noi vampiri stessi. Avevo passato
abbastanza tempo
con lui da rendermene conto a mie spese. Che fosse proprio per quel
motivo che
mi avessero indirizzata lì? Non lo sapevo, ma volevo
scoprire a tutti i costi
cosa c’entrasse lui con quegl’omicidi, se ne fosse
realmente a conoscenza o se
quelle che gli erano state rivolte fossero solo accuse infondate. Cosa
di cui
in fondo, conoscendolo, non dubitavo.
Tornai con i piedi per terra e
scossi il capo, osservando un’ultima volta
l’insegna prima di rassettare i miei
abiti. Con quei semplici jeans scuri e quel dolcevita aderente, ero ben
lontana
dai canoni della restante clientela. Ma, ehi, non ero mica andata
lì ad
abbordare qualcuno, no? Decisi dunque di entrare, gettando occhiate
quasi
svogliate in ogni dove. Lì dentro l’odore di pelle
sintetica, sangue e liquore
era asfissiante ed insopportabile, tanto che mi fece storcere il naso
dal
disgusto.
Ancor più penetrante, poi,
era
l’olezzo di fumo che avvolgeva ogni cosa, persone comprese. I
clienti, per la
maggior parte uomini, si trastullavano con le accompagnatrici o gli
accompagnatori ingurgitando bicchieri su bicchieri, troppo presi da
quei loro
svaghi per accorgersi di quel che capitava loro intorno. Cercavano con
le
labbra il viso delle donne sedute accanto a loro o sulle loro cosce,
con gli
occhi annebbiati dai fumi dell’alcool. Uno di loro mi rivolse
uno sguardo vacuo
e per nulla intelligente, simbolo che oltre al liquore c’era
qualcos’altro che
stava facendo effetto nel suo organismo. Lo sentivo
nell’odore che lo avvolgeva
come se fosse l’aroma d’un vino pregiato, un
miscuglio di colori e forme che si
riversava forte e prepotente nei palpiti del suo cuore.
Non era il solo ad avere
quell’aspetto e quell’aria smarrita, quella notte,
e non fu il solo sguardo che
ricevetti mentre avanzavo nella ressa del night club. Superai un paio
di tavoli
e gran parte di quell’ammasso di carne e muscoli,
raggiungendo il limitare
dell’ambiente.
«Sono entrate qui parecchie
persone, questa notte, ma mai avrei pensato che ci onorassi della tua
presenza,
chica»,
mi accolse subito una voce, proveniente da uno dei divani
accostati alla parete sinistra del pub. Erano in ombra a differenza di
quelli
nel restante locale, e a malapena si scorgevano i volti delle tre
persone lì
accomodate. Quelle due sedute rispettivamente a destra e a sinistra
erano
donne, e dal loro odore - un misto di vodka, Chanel n°5 e
lussuria - sembravano
anche pronte a prestarsi sessualmente a qualunque uomo
l’avesse loro chiesto.
In mezzo a loro c’era l’unico vampiro a cui non
avrei mai voluto chiedere un
favore. In nessun secolo, possibilmente. Per mia sfortuna, invece, vi
ero stata
costretta per cause di forza maggiore.
Inclinai il capo di lato ed
assunsi un’espressione scettica per il modo in cui ero stata
chiamata,
ritrovandomi a sbuffare appena, ilare. «Risparmiati tutti
questi convenevoli,
Miguel», replicai per nulla cordiale. «Avrei
volentieri evitato di venire nel
tuo night club».
Mi giunse in risposta una
risata, prima che una mano d’alabastro uscisse da quella zona
delimitata dalle
ombre. «Non vieni a farmi visita da quasi un secolo e mezzo
ed è questo il
saluto che ottengo da te?» più che una vera e
propria domanda, la sua mi parve
più un’affermazione o una semplice constatazione.
La voce con cui la porse fu
comunque bassa e calda, esattamente come mi sarei aspettato da un
vampiro della
sua levatura. Proveniva da una famiglia che un tempo era stata nobile e
ricca,
ed era l’unico, lì dentro, ad appartenere allo
stesso secolo a cui appartenevo
io. Era stato creato parecchi anni prima di me, ed era stato lui ad
insegnarmi
tutto quello di cui ero a conoscenza e come sopravvivere nel corso dei
secoli.
In un modo alquanto contorto e perverso si poteva dire che mi avesse
quasi
fatto da padre, mentore e, sebbene odiassi ammetterlo, anche da amante.
Ma era
una storia chiusa ormai da troppi secoli per rivangarla ancora.
«La mia natura la conosci, non
fare domande ovvie», mi sentii comunque in dovere di
ribattere, forse anche un
po’ scontrosa. «Comunque sia non sono venuta qui
per questo scambio di futili
chiacchiere, Miguel», arrivai dritto al punto, aggirando il
tavolino lì davanti
per accomodarmi, senza attendere il suo consenso, sul divano libero che
gli
stava di fronte. «Mi è giunta voce che tu sai un
po’ di cose riguardo a degli
omicidi... è così?»
Per qualche minuto nessuno dei
due fiatò oltre: sentivo solo il battito del cuore delle due
accompagnatrici e
i loro respiri, suoni mescolati con la miriade di organi palpitanti e
la bassa
musica che faceva quasi da sottofondo. Vidi poi Miguel fare un cenno
con quella
sua mano bianca, e finalmente una delle due donne si alzò in
piedi esponendosi
alla debole luce. Era alta e snella, con ricci capelli castani sciolti
sulle
spalle. Non era esattamente una di quelle donne dalle curve vertiginose
e il
fisico da modella, ma aveva una carica di voluttà unicamente
sua. Se fossero
solo quegli occhi scuri che mi avevano fissato per un attimo a dare
quell’impressione, non avrei saputo dirlo. Sbatté
appena le lunghe ciglia prima
di distogliere lo sguardo da me, aiutando Miguel ad alzarsi in piedi e
ad
evitare il tavolino sebbene non ce ne fosse bisogno, venendo ben presto
congedata da lui stesso. Lui fece cenno ad entrambe di lasciarci soli,
e quando
finalmente lo fummo ci squadrammo e restammo in silenzio, quasi in uno
stato di
mistica contemplazione.
Sembrava come se uno di noi due
avesse il terrore di rompere quel precario equilibrio di quiete,
sebbene l’aria
che vibrasse intorno a noi fosse tutto fuorché placida e
tranquilla: tesi come
corde di violino sembrava che ci stessimo scontrando con
l’aura di potere che
ci caratterizzava, ma nessuno dei due stava cercando di imporre il
proprio
volere all’altro.
Accavallai disinvolta le gambe,
attendendo che lui proferisse parola senza staccare al contempo lo
sguardo dal
suo viso per non dimostrarmi debole dinnanzi ai suoi occhi. Seppur
velati dalla
patina della cecità, difatti, quelle sue polle che un tempo
erano state più
azzurre del cielo stesso sembravano metter soggezione anche guardandoli
per un
breve attimo.
Volse infine lo sguardo verso
un punto indefinito del locale, affidandosi al suo udito per compiere
qualche
passo. «Seguimi», disse semplicemente.
«Meglio discutere in un luogo più
appartato. Anche i muri hanno le orecchie, lo sai».
Non ribattei, limitandomi solo
ad alzarmi. Se voleva parlarmi in privato voleva significare che di
qualcosa,
in fin dei conti, ne era a conoscenza.
Lo seguii nella ressa del
locale, superando divani e clienti prima di giungere dal lato opposto,
uscendo
con lui dalla porta di servizio. Ci ritrovammo in un vicolo, dove un
tanfo
insopportabile appestava l’aria, rendendola quasi
irrespirabile. Storsi il naso
e mi portai una mano su di esso, coprendomi anche la bocca mentre
continuavo a
stare al passo di Miguel che, bisognava ammetterlo, pur essendo cieco
riusciva
a muoversi con una facilità inaudita.
Ad un certo punto si fermò e,
ancora di spalle, intercedette. «Quanto sei disposta a
spingerti oltre con
questa storia?» mi domandò, con un tono di voce
sottile e tagliente. Sembrava
che ci fosse qualcosa che lo rendeva nervoso, dato il modo in cui mi si
era
rivolto.
Mi limitai semplicemente ad
incrociare le braccia al petto. «Quel che basta per capire
cosa sta succedendo»,
risposi con fare ovvio, vedendolo finalmente voltarsi verso di me. Il
suo viso
era una maschera marmorea, e la sua bocca era ritratta a scoprire le
zanne
candide e affilate.
«Lo dico per il tuo bene, chica,
lascia perdere questa faccenda adesso che sei ancora in tempo per
farlo»,
disse, per nulla cordiale. «Non hai nulla a che vedere con
tutto questo».
Sollevai un sopracciglio, senza
capire. «Come sarebbe a dire?» fu il mio turno di
chiedere. «Non eri stato
proprio tu, un tempo, a dire che più evitavamo
d’esporci meglio sarebbe stato?»
Non riuscivo a comprendere il
suo cambiamento e il motivo di tanta ostilità, e anche
l’espressione sul suo
viso non era capace di rispondere alle mie mute domande o diradare
qualsiasi
dubbio. Non lo fece nemmeno lui stesso, fra l’altro,
incamminandosi verso di me
con passo deciso ma malfermo, come se stesse facendo attenzione a dove
metteva
i piedi.
«Ed è proprio per
questo che ti
dico di restarne fuori», disse ancora una volta.
«Quando sarà il momento saprai
tutto, per adesso vedi di tenere lontano da te quel
ragazzino».
Feci per ribattere, ma
realizzai quelle parole e subito guardai Miguel con serietà.
«Che ne sai del
ragazzino?» domandai nuovamente. «Non ti ho parlato
di lui».
«Ci sono domande di cui
è
meglio non conoscere mai le risposte», replicò
semplicemente, alquanto
sibillino. «E tu ne hai poste troppe».
Scossi il capo, avvicinandomi
io stesso a lui prima di fermarmi a pochissimi passi. Se avessi
allungato una
mano avrei potuto sfiorargli il viso. «Cosa mi stai
nascondendo, Miguel?» gli
chiesi senza giri di parole, fissandolo seriamente negli occhi sebbene
sapessi
che lui non avrebbe potuto ricambiare il mio sguardo. «Che
cosa significano
tutti questi misteri?»
Con gli occhi fissi dinnanzi a
sé alzò un braccio per cercare il mio volto,
ponendomi un dito sulle labbra. «Secoli
or soro abbiamo condiviso tutto», cominciò,
carezzandomi delicatamente un
angolo della bocca con i polpastrelli. «Il mio rifugio era il
tuo rifugio, la
mia tavola era la tua tavola. Il mio corpo era tuo, così
come la mia
conoscenza. Per un breve periodo sei anche stata i miei occhi, ma quel
tempo è
finito», si spostò lungo una guancia e poi verso
il petto, attento a non
sfiorarmi i seni, chinandosi verso di me come se stesse inspirando il
mio
odore. «In nome di quei sentimenti che ci hanno legati, te ne
prego, interrompi
le tue ricerche e lascia perdere questo caso. Lascia che siano i
mortali a
risolvere i problemi dei mortali».
Avevo chiuso gli occhi durante
quel suo monologo, concentrata sul tocco della sua mano che aveva
percorso per
tutto il tempo i lineamenti del mio viso. Erano secoli che non sentivo
quelle
carezze, e la sensazione che provai fu tutto fuorché
piacevole. Mi allontanai
difatti di scatto, sentendo nell’aria la sua incertezza a
quel mio modo di
fare.
«Non mi sono mai data per
vinta,
Miguel, ed era questa mia caparbietà ad averti attratto
quasi seicento anni fa»,
gli tenni presente in tono quasi accusatorio. «Sai anche che
sono un tipo
curioso e testardo, quindi pretendo di sapere che cosa sta
succedendo».
Sentii un suo lungo sospiro
prima che si riavvicinasse, ma mi sorpassò senza proferir
parola per
attraversare il vicolo e ritornare probabilmente all’interno.
Lo seguii con lo
sguardo, interdetta, affrettandomi a raggiungerlo per artigliargli una
spalla e
fermarlo.
Si voltò solo di poco, con
un’espressione palesemente stanca che ignorai prontamente. Mi
limitai solo a
snudare le zanne, facendo in modo che sentisse il ringhio nel fondo
della mia
gola. «Voglio sapere cosa mi stai nascondendo»,
ripetei, e lui mi scostò la
mano con uno scatto secco, intrappolandomi con una mossa fulminea il
braccio e,
costringendomi a dargli le spalle, me lo bloccò dietro alla
schiena.
«Mi pare d’averti
detto che non
devi immischiarti in questa storia, quindi non abbiamo più
nulla di cui parlare»,
sibilò al mio orecchio, facendo serpeggiare il suo potere
nell’aria, quasi
rendendola satura di zolfo e pronta ad esplodere. «Non
costringermi ad essere
violento con te. Anche se sono cieco lo scontro non volgerebbe a tuo
favore».
Mi divincolai dalla sua presa,
guardandolo nuovamente in viso con un’espressione furiosa.
Non l’avrei mai
ammesso a me stessa, ma sapevo che aveva ragione: se si fosse
presentata
l’occasione di uno scontro non sarei mai riuscita ad avere la
meglio su di lui.
Era specialmente per questo che molti preferivano essere dalla sua
parte
piuttosto che contro.
«Non ho intenzione di battermi
con te, Miguel», lo informai in tono aspro e tagliente.
«Voglio solo sapere in
che cazzo di situazione mi sono cacciata. Anche due parole mi
bastano».
«Proprio non vuoi
capire»,
ribatté subito con serietà. «Non
dipende né da me, né da te. Siamo solo perdine
in un gioco di scatti fra i potenti».
«E chi sarebbero
costoro?»
insistetti agguerrita. «Chi è così
potente da tenere in pugno anche te?»
Lo vidi compiere qualche passo
a ritroso mentre scuoteva al contempo la testa. «Ti ho
già detto troppo,
accontentati di quello che sai», disse semplicemente, stando
attento ai passi
che compiva man mano che si riavvicinava alla porta di servizio.
«Posso solo
dirti che i più fortunati hanno sofferto di meno».
A quelle parole strabuzzai gli
occhi, correndo verso di lui per afferrarlo per il colletto della
camicia che
indossava. Prima che potessi farlo, però, vidi due omaccioni
uscire dalla porta
e accostarsi a lui, guardando me con aria di sfida. Uno dei due porse
un
braccio a Miguel e lo aiutò a sostenersi, mentre
l’altro si piazzò invece
dinnanzi a lui come per nasconderlo alla mia vista. Erano grandi e
grossi e
odoravano di cane: da quella poca distanza, nonostante il tanfo
presente nel
vicolo, il loro puzzo era inconfondibile. I lineamenti identici dei
loro volti,
troppo sottili per la conformazione fisica del restante corpo, facevano
presupporre che fossero gemelli. Solo il taglio dei capelli,
d’un biondo
cenere, era diverso e permetteva di distinguerli, mentre per il resto
erano
praticamente due gocce d’acqua, anche nel modo di vestire.
«Non alzo mai le mani su una
donna, quindi ti conviene stare alla larga», mi
consigliò con voce imperativa
quello che si era piazzato dinnanzi a Miguel, ma lo ignorai.
Inclinai invece il capo di lato
per rivolgermi proprio a quest’ultimo. «Chi sono, i
tuoi cani da guardia?» gli
domandai con fare ovvio, sentendo il distinto suono d’un
ringhio provenire
dalle gole d’entrambi.
Vidi Miguel alzare appena una
mano ed agitarla, come se stesse scacciando una mosca parecchio
fastidiosa. «Dominique,
Paul. Basta», impose loro, anche se il tono in cui lo disse
sembrò tutto
fuorché autoritario. Ma dopo avermi scoccato entrambi
un’occhiata nervosa
ubbidirono, aiutandolo a rientrare senza più proferir
parola. Prima che la
porta fosse richiusa ricevetti un ultimo sguardo da quello che presunsi
essere
Dominique, venendo infine lasciata sola in quel vicolo buio e
puzzolente.
Ero andata fin lì quasi per
nulla, maledizione. Quel che avevo scoperto non mi avrebbe portata da
nessuna
parte, anzi, aveva semplicemente aggiunto dubbi e domande a quelle che
già mi
portavo dentro. Una questione che avevo pensato si sarebbe risolta in
un lampo
stava lasciando dietro di sé più misteri di
quanto non avessi potuto credere. E
il fatto che Miguel mi consigliasse di restarne fuori voleva
significare che
c’era qualcosa che andava ben oltre all’umana
questione degli assassinii.
Qual era il tassello mancante
per completare quel puzzle, dunque? Perché era
così difficile trovarlo? Gli
omicidi, il mio monolocale messo a soqquadro, le informazioni che
conducevano a
Miguel e il suo tenermi all’oscuro di tutto... cosa, tra
queste, avrebbe
condotto alla soluzione dell’enigma? L’unico modo
per scoprirlo era indagare
ancora. Adesso che sapevo che riguardava anche noi non potevo starmene
semplicemente a guardare, nemmeno se era stato Miguel a consigliarmelo.
Forse avrei dovuto parlare con
chi di dovere, e questo voleva significare un solo nome: Dante.
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scrittori.
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Capitolo 4 *** Vecchie e nuove conoscenze ***
Under a bloody sky_4
ATTO IV
VECCHIE E
NUOVE CONOSCENZE
Dovevo
essere davvero impazzita se, dopo Miguel, avevo deciso di andare a
chiedere
spiegazioni, per di più nella stessa sera, ad un tipo come
Dante.
Appartenente ad una schiera di
vampiri ben più antica della maggior parte delle creature
presenti in tutta St.
Louis, era un non-morto ben poco socievole e fortemente legato alle
vecchie
tradizioni. Non muoveva un passo se non era prima stato autorizzato
dalla sua
Nobile Madre, e proprio quest’ultima, per quel che ne sapevo,
aveva cominciato
da un mese e mezzo esatto una sorta di rito di iniziazione caduto in
disuso
ormai da troppi secoli per ricordare con esattezza quando fosse
successo.
Avevo avuto la sfortuna
di incontrare entrambi un paio di volte, e fino a quel momento mi era
bastato.
Peccato che, dopo tutto quel tempo, mi toccasse parlare nuovamente con
loro.
Erano abbastanza schivi e misteriosi da poter essere in qualche modo
invischiati in tutta quella storia, ma guai a far capir loro che
nutrivi
qualche sospetto nei loro confronti. A quel punto quasi ti ritrovavi a
preferire di essere nelle mani di un qualche cacciatore di vampiri che
nelle
loro.
Era proprio per quel motivo
che, nonostante tutta la mia spavalderia, mi rifiutavo ad andare da
sola. Per
quanto fossi forte, non ero di certo stupida. Impelagarmi in una
disputa con
loro equivaleva quasi come metter la testa nelle fauci di un leone, e
io volevo
evitare di essere il povero agnello sacrificale. Non mi avrebbero
trattata con
nessun riguardo, donna oppure no. Se sentivano un pericolo per la loro
casata,
Dante e la sua Nobile Madre erano più che pronti a far fuori
eventuali
scocciatori o intrusi, anche se tali minacce provenivano dalla razza
stessa.
Era per questo che molti di noi preferivano non avere niente a che fare
con
quella stirpe. Dunque perché mi ero ritrovata in quella
situazione? Avevo detto
di essere annoiata, certo, ma questo non voleva di certo significare
che mi
fossi scocciata anche di vivere. I misteri della vita.
Avevo passato le due ore
successive all’incontro con Miguel a girovagare a vuoto,
indecisa sul da farsi.
Non potevo rischiare di andare a trovare Dante da sola, e non volevo
nemmeno
essere sprovvista di un guardaspalle, se proprio dovevo essere sincera.
Quindi
avevo riflettuto non poco sulla situazione che si era venuta a creare:
mi ero
diretta in un parco nei pressi della 530a e mi ero seduta su una
panchina, fissando un punto indefinito e lasciando che fosse solo la
piacevole
brezza di quella serata a guidare i miei pensieri. Ero alla fine
arrivata ad
una sola ed unica conclusione, ma non ero consapevole di quanto la cosa
sarebbe
andata a genio al diretto interessato.
E ancora non lo sapevo, anche
se mi trovavo proprio fuori dalla porta di casa sua. Non avevo quasi
avuto il
coraggio di entrare, riflettendo probabilmente su quanto ci eravamo
detti prima
che mi ritrovassi a lasciare la sua dimora. Dannazione, avrebbe di
sicuro fatto
una delle sue battute su quanto non riuscissi a stargli alla larga,
quel cretino.
Trassi un lungo sospiro, pronta
a bussare come avevo già fatto non più di una
quindicina di ore prima. Prima
ancora che potessi farlo, però, la porta fu aperta
silenziosamente. Stavo quasi
per lasciarmi scappare una battuta sarcastica, convinta che Nathan mi
avesse
sentita arrivare ancora una volta da lontano, quando il sorriso e il
divertimento mi morirono letteralmente sulle labbra. Non era Nathan
quello che
mi squadrava dalla soglia, sebbene fosse di sicuro un licantropo,
bensì una
donna che non poteva avere più di vent’anni. I
capelli neri e fluenti le
ricadevano in ciocche ondulate e graziose sulle spalle, donandole
un’aria
innaturalmente innocua e fanciullesca; erano però i suoi
occhi, d’un verde
chiaro con piccole venature marroni intorno alla pupilla, a far capire
perfettamente che tipo di donna era: fredda, spietata e manipolatrice,
una
licantropa che non avrebbe esitato nemmeno un attimo ad attaccare il
proprio
nemico se ne fosse richiesta l’occasione. Al pari di Nathan,
inoltre, aveva
quella lieve e classica sfumatura dorata che caratterizzava ogni lupo
mannaro
all’avvicinarsi della luna piena.
Non fui la sola a restare
sorpresa, comunque, giacché anche lei mi squadrò
da capo a piedi e sbatté le
lunghe ciglia con fare piuttosto frastornato, quasi non si aspettasse
la visita
di un vampiro come me. Beh, in quel momento ero della sua stessa idea.
«Lewis?»
mi domandò d’un tratto con voce bassa e melodiosa,
quasi alla pari di quella di
molti vampiri con cui avevo avuto a che fare, e stavolta fui io ad
accigliarmi.
L’avevo forse già incontrata da qualche altra
parte? Da quel che ricordavo mi
sembrava proprio di no, sebbene in lei ci fosse qualcosa che richiamava
in me
la nostalgia di tempi passati.
«Ci siamo già
viste, per caso?»
replicai guardinga, squadrandola da capo a piedi come se cercassi di
capire
cos’era quella sensazione che avevo cominciato a provare.
C’era qualcosa che
stonava nettamente in tutta quella storia, anche se non riuscivo ancora
a
capire che cosa. Avevo visto così tante persone, in tutti
quei secoli, che
quasi mi domandavo come mai la vista di quella licantropa avrebbe
dovuto
accendere nella mia mente una qualche lampadina. Ebbene, avrei potuto
dire che
le lampadine in questione erano tutte fulminate.
L’ampio sorriso che lei mi
rivolse
in seguito fu caldo come quel sole che non vedevo ormai da secoli.
«Sono io,
Giselle», rispose raggiante, evitando però
accuratamente di guardarmi negli
occhi. E potei benissimo capire il perché: mai guardare
negli occhi un vampiro
centenario, anche se sei un lupo mannaro.
A quel suo dire, sbattei le
palpebre come se non ci credessi, facendo scorrere lo sguardo su di lei
come
per cercare di capire se stesse mentendo o meno. Beh, se quella era
davvero
Giselle, la cugina di quel sacco di pulci di Nathan, dacché
l’avevo vista era
cambiata tantissimo, parola mia. Ma era anche vero che la prima volta
che
l’avevo vista aveva soltanto dieci anni, diamine! E i
licantropi, a differenza
dei vampiri, invecchiavano come qualunque essere umano.
L’unica cosa che avevano
in più era una gran longevità e un po’
di pelo durante la luna piena.
Sopportabile, no? Forse.
«Giselle», ripetei
incredula,
continuando a squadrarla con attenzione. Non mi fu però
possibile perché lei si
sporse di poco e mi afferrò il braccio destro, guidandomi
lei stessa all’interno
della casa. In altri momenti avrei reagito per far sì che mi
lasciasse, ma in
quel preciso istante ero troppo scombussolata per pensare
razionalmente. Che cosa
diavolo mi stava succedendo?
Senza che me ne rendessi conto ci
ritrovammo ben presto in cucina, dove trovammo Nathan seduto al tavolo.
«Non mi
aspettavo di rivederti così presto, mia dolce
sanguisuga», si fece sentire lui
in tono sarcastico, guardandoci entrambe al di sopra della pagina
sportiva. I
suoi occhi sembravano divertiti per un motivo che non capivo e che, se
dovevo
essere sincera, non volevo capire. «Hai sempre un tempismo
perfetto nel
rovinarmi la cena».
Riacquistai a poco a poco la
compostezza che il vedere Giselle aveva frantumato, guardando
seriamente Nathan
in viso. Non ero andata lì per tergiversare. «Devo
parlarti, Nathan».
Per un po’ lui non fiato,
concentrato a leggere senza la benché minima attenzione la
pagina sportiva.
Forse voleva più un pretesto per non guardarmi che conoscere
davvero i
risultati dei Red Sox. Infine sospirò, chiedendomi cosa mi
avesse spinta a
tornare lì in meno di ventiquattrore. Senza tanti preamboli,
esattamente come avevo fatto poche ore addietro, gli raccontai quel
poco che
avevo scoperto, sentendo su di me gli sguardi interessati di entrambi i
licantropi. Giselle abbandonò la sua postazione soltanto per
un attimo,
tornando con due belle tazze di caffè freddo. Non mi
offrì nulla, e fu una
scelta saggia che le fece guadagnare ancora più punti: mai chiedere ad
un vampiro se voleva qualcosa da bere. Ne diede una a Nathan e
tornò a sedersi,
alzando i suoi occhi verdi su di me ancora una volta, quasi pendesse
dalle mie
labbra. Era interessata a saperne di più su tutta quella
storia e, se dovevo
essere sincera, avrei tanto voluto che qualcun altro avesse messo al
corrente
anche me dei fatti.
Giunta a parlare di Dante mi
fermai un attimo, chiedendomi distrattamente come avrebbero potuto
reagire. Non
era famoso fra i licantropi, sebbene avessi sentito in giro che lui e
la sua
stirpe ne avevano fatti prigionieri e seviziati non pochi - rendendoli
anche
schiavi di sangue al pari degli esseri umani con cui spesso si
dilettavano -,
però era comunque meglio metterli in guardia. Se dovevo
coinvolgere Nathan, era
giusto che sapesse a cosa andava in contro.
Quando terminai, tra noi tre
calò un silenzio così sottile che mi parve quasi
possibile poterlo tagliare con
un coltello. Nathan aveva cominciato a passarsi spasmodicamente una
mano fra i
corti capelli castani, borbottando chissà cosa fra
sé e sé a mezza voce; non mi
sforzai di capirlo, non ce ne sarebbe stato bisogno. Giselle, invece,
appariva
composta ma piuttosto preoccupata. L’unico indizio che
lasciava intravedere
perfettamente quanto quella situazione la sconvolgesse era il suo
raschiarsi il
labbro inferiore con i denti.
«Verrò con
te», esordì d’un
tratto Nathan, alzandosi in piedi così rapidamente che quasi
temetti che
rovesciasse anche il tavolo. Aveva abbandonato già da un
po’ di tempo il
giornale, che adesso giaceva come inutile cartastraccia dinanzi a lui.
«Non
posso permettere che ti succeda qualcosa, sanguisuga».
Sorrisi senza poterne fare a
meno. In parte ero persino felice che fosse stato lui a decidere di
venire con
me, visto che non gliel’avevo ancora chiesto. Probabilmente
nel farlo mi sarei
sentita in colpa, anche se ero andata lì proprio con
quell’intento. «Adesso sei
tu ad essere preoccupato per me?» lo schernii, forse nel
tentativo di
alleggerire quella situazione opprimente. Lo sguardo che mi rivolse,
però, mi
lasciò interdetta. Era un misto di ansia e timore, gli si
leggeva perfettamente
in quelle sue polle marroni dalla sfumatura dorata.
«Dannazione, sacco di
pulci!» esclamai incredula, sgranando di poco gli occhi.
«Sei davvero
preoccupato per me!»
Quello che gli vidi in volto
subito dopo fu un lieve rossore, difficile capire se per la rabbia o
semplicemente perché la situazione lo metteva un tantino in
imbarazzo. «Stai
zitta e vedi di muoverti», bofonchiò, e fu il suo
tono a tradirlo. Era
imbarazzato. Beh, grandioso! Quel che mi mancava era un licantropo
grande e
grosso in preda all’imbarazzo. Guardò ben presto
sua cugina, cercando di
dissimulare il tutto dietro ad una maschera di sfida.
«Giselle, tu aspettaci
qui», le disse, facendole spalancare la bocca. «Se
non torneremo prima
dell’alba saprai cos’è
successo».
«Non ci penso proprio a
restare
qui!» esclamò adirata, dilatando di poco i suoi
begl’occhi verdi, ingigantiti
dalla confusione. Ma Nathan non volle sentir
ragioni, imponendole il silenzio con un gesto secco della mano prima di
voltarsi
verso di me e farmi cenno di precederlo, ignorando deliberatamente gli
epiteti
che Giselle gli stava lanciando contro. Però non si era
mossa, simbolo che,
forse, l’autorità del cugino valeva più
di quanto non sembrasse. Che fosse lui
il maschio alfa, in famiglia? Molto probabile, ma non volevo scoprirlo.
Uscimmo di casa nella notte
ormai alta, seguiti ancora dalla voce di Giselle che si affievoliva
pian piano,
quasi si fosse finalmente scocciata di urlare il suo disappunto. In
parte
potevo capirla: anche a me non sarebbe affatto piaciuto starmene con le
mani in
mano. Peccato che avrei tanto voluto essere al suo posto e non dover
andare a
trovare quei vecchi vampiri, in quel momento.
Col favore delle tenebre ci
gettammo svelti nei vicoli di St. Louis, diretti verso
l’ubicazione di Dante. Avremmo
potuto prendere l’auto di Nathan per andare più in
fretta, visto che dovevo
stare al suo passo, ma sapevo quanto sarebbe stato stupido farlo.
Nessun
mortale aveva mai varcato quei cancelli e ne era poi uscito vivo, da
quel che
si raccontava in giro. Forse portare con me Nathan era stata una
pessima idea.
«Così stiamo
andando a trovare
una specie di famiglia reale, eh?» mi domandò lui
di punto in bianco, con voce
talmente bassa da poter quasi risultare impercettibile. Aveva reso il
tono
della sua voce scherzoso e allegro, come se stessimo andando a fare una
bella
scampagnata. Me ne rallegrai: l’ultima cosa che ci serviva
era farci prendere
dal panico.
Facendogli cenno di seguirmi in
un vicolo, superammo alcuni cassoni dell’immondizia e alti
palazzi dalle scale
anti-incendio praticamente a pezzi. «Una cosa del
genere», risposi infine,
quasi rabbrividendo. E non di certo per il freddo. «Se avessi
potuto l’avrei
evitato, sul serio».
«Sono così
spaventosi?» chiese
di rimando, stando attento a dove metteva i piedi. I gatti randagi
avevano
fatto man passa di quel che potevano trovare nei cassonetti, e la
maggior parte
delle schifezze era riversata a terra in un misto di umidità
e sudiciume.
«Non voglio rovinarti la
sorpresa», ironizzai, ritrovandomi ad abbozzare un sorriso
amaro. Forse quella
storia si sarebbe conclusa ancor prima che credessi: io sarei finita in
una
bara inchiodata e colma d’argento e Nathan sarebbe diventato
un bello zerbino
per la tappezzeria di qualche stanza di Dante. Che scenario
terrificante.
Sbucammo ben presto a Kennett
Place, una stradina popolata per lo più da semplici esseri
umani. C’era persino
una scuola elementare, più avanti, con tanto di giardino per
lasciar liberi i
bambini durante l’intervallo. In quel momento appariva
piuttosto desolata e
sinistra, data l’ora e la scarsa illuminazione, ma che cosa
mi aspettavo? Di
certo i bambini non andavano a scuola a mezzanotte.
La nostra meta era qualche isolato
più avanti,
oltre i viali alberati dov’erano ferme le auto delle famiglie
di quelle modeste
casette, esattamente verso Lafayette Park. Per raggiungerlo dovemmo
attraversare tutto Kennett Place e giungere verso Mississippi Ave,
parzialmente
illuminata come il resto della strada. Vedemmo giusto qualche
autopattuglia di
passaggio, i cui guidatori ci degnavano appena di uno sguardo senza
però fermarsi. Probabilmente per quei
poliziotti eravamo una semplice coppietta che aveva deciso di passare
una
serata al parco, per quanto la scelta potesse essere alquanto
discutibile.
Invece di dirigerci verso il
parco continuammo lungo Mississippi Ave, svoltando immediatamente verso
sinistra per ritrovarci così in un ambio spazio.
C’erano case ovunque, e sentii
su di me lo sguardo incuriosito e stralunato di Nathan. Non gli diedi
però
spiegazioni, sebbene sapessi che ne voleva almeno una, vista la zona
residenziale in cui ci eravamo ritrovati. Se vuoi nascondere qualcosa
fallo
sotto gli occhi di chiunque, no? Ebbene, Dante aveva praticamente preso
alla
lettera quelle parole.
«Un bel posticino, non
c’è che
dire». La voce di Nathan ruppe ancora una volta il vigile
silenzio che si era
venuto a creare tra di noi, e fu con una leggera forma di divertimento
che mi
ritrovai a scoccargli un’altra rapida occhiata. Si guardava
intorno con
attenzione, le mani nelle tasche dei larghi calzoni che indossava.
Sebbene
sembrasse rilassato, la mascella contratta e i muscoli tesi delle
spalle
smentivano quell’impressione.
«E non hai ancora visto
l’interno», lo presi in giro, gettando qualche
occhiata a destra e a sinistra
prima di fargli cenno di farsi più vicino. Poco distante da
noi si trovava una
normalissima casetta che dava sul parco, e fu proprio lì che
ci dirigemmo. Sentivo
la tensione farsi sempre più pesante mano a mano che
avanzavamo, addentrandoci
oltre la siepe che si ergeva nel piccolo giardino nel quale eravamo
appena
entrati.
All’apparenza
quell’abitazione
appariva normale, esattamente come tante altre. Era fatta in mattoni
rossi e
aveva una facciata composta da sole finestre, decisamente il luogo
peggiore
come ubicazione di una grande famiglia di vampiri. Ma era quello che
c’era
sotto le fondamenta a contare davvero, lì. Salendo i pochi
gradini del portico,
difatti, ci ritrovammo sì all’interno della casa,
ma anziché dirigersi ai piani
superiori, feci cenno a Nathan di seguirmi verso la cantina. Lo vidi
sollevare
appena un sopracciglio, probabilmente incredulo, prima di farsi strada
a sua
volta in quello spazio polveroso e pieno di ragnatele.
Mi fermai esattamente al centro
della stanza, sentendo lo sguardo di Nathan su di me.
«Beh?» si fece sentire,
guardandosi attentamente intorno. «Finita la
passeggiata?» soggiunse
sarcastico, sollevando appena un sopracciglio.
Io, però, mi limitai ad
indicare il pavimento di legno ai nostri piedi. «Ci stanno
aspettando qua sotto»,
ribattei, abbassando lo sguardo per osservare le assi. C’era
movimento,
riuscivo a sentirlo sulla pelle come se una miriade di formiche avesse
cominciato a camminarmi addosso. E la sensazione peggiore fu proprio il
potere
che mi attraversò come una scarica elettrica.
«Sembra che Sebastian si sia già
accorto di noi, tra poco verrà a prenderci».
L’incredulità che
si dipinse
sul viso di Nathan non mi sfuggì affatto. «Vuoi
davvero farmi credere che
vivono relegati qui?» mi chiese, dilatando di poco gli occhi.
Facevamo tanto
per cancellare gli stereotipi di noi vampiri ed ecco che ci trovavamo
ad
affrontarne una. Davvero ironico.
«Per quanto ti possa sembrare
impossibile, è esattamente così».
«Non posso crederci. Anzi, mi rifiuto
di crederci».
Quelle sue parole mi
divertirono, ma mi astenni dall’aggiungere altro. In fin dei
conti neanche io
ci avevo creduto, secoli prima. Eppure ci trovavamo esattamente nello
stesso
punto, adesso.
Aspettammo che qualcuno venisse
a prenderci, giacché non avremmo mai potuto varcare quella
soglia senza esserci
prima presentati
ai padroni di casa. Avevano un modo tutto loro per
sapere quando avevano ospiti, e non solo grazie alla piccola telecamera
di
sorveglianza piazzata tra i due scaffali alla mia destra. Era
pressoché
invisibile, abilmente nascosta dagli scatoloni e dalle cianfrusaglie.
Quasi angosciata, cominciai a
torcermi le mani. Avevo bisogno di non pensare a cosa ci attendeva
sotto quella
casa, e ancor prima che potessi rendermene conto io stessa fu
un’immagine
fulminea a passarmi dinanzi agli occhi. «Ehi, sacco di
pulci», esordii piano,
quasi cautamente, come se faticassi a rendermi davvero conto dei
pensieri che
avevano cominciato ad affollarmi la mente.
Ci guadagnai giusto
un’occhiata, vedendolo sollevare entrambe le sopracciglia.
«Uhm?» fece,
sbattendo poi inconsapevolmente le palpebre.
Mi presi ancora un po’ di
tempo
prima di rispondergli, concentrata falsamente sulle venature del legno
ai miei
piedi. Avevo anche un laccio delle nike allentato, ma non mi chinai a
rifarlo.
Quante cose si notavano quando non si voleva arrivare al nocciolo della
questione, eh? «Non mi avevi mai detto che tua cugina Giselle
fosse diventata così
carina», me ne uscii, stupendo me stessa e probabilmente
anche lui.
Difatti sorrise, piacevolmente
sorpreso di quel mio complimento. Era raro che sprecassi belle parole
per
qualcuno, figurarsi per un licantropo di sesso femminile. Un bel
faccino, di
uomo o di donna che fosse, non mi aveva mai conquistata tanto come
quello di
Giselle. Infatuazione? Sperai vivamente di no. «Tu non me
l’hai chiesto»,
replicò bonario, e decisi di lasciar perdere. Un
po’ perché mi sarei incazzata
inutilmente - e non era proprio il caso, in quel momento -, ma la
ragione principale
fu l’aprirsi di una botola sul pavimento, esattamente a poca
distanza da noi.
Come in un sogno, vedemmo la
copertura di legno aprirsi lentamente e poi far capolino una testa dai
capelli
brizzolati. Quegl’occhi che ci squadrarono avrei potuto
riconoscerli fra mille:
Sebastian, il maggiordomo di famiglia, era venuto ad accoglierci
proprio come
avevo previsto. Aveva la sua solita aria blanda e distaccata che
l’aveva sempre
caratterizzato, e fui quasi lieta di vedere che non indossava quello
stupido frac
che lo faceva assomigliare ad un pinguino. Un bel miglioramento, visto
che avevo
proprio bisogno di qualche cambiamento. Non sapevo però se
fosse meglio vederlo
in completo oppure con quei pantaloni color cachi e quella camicia.
Probabilmente la prima, già. Vestito così mi
faceva decisamente impressione.
Fece scorrere lo sguardo prima
su Nathan e poi su di me, sorridendo brevemente. Ma si capiva fin
troppo bene
che quel sorriso era soltanto una facciata e non voleva significare
niente, in
realtà. Sebastian era un bravissimo attore. «Vi
abbiamo sentita arrivare da
lontano, signorina», disse con voce pacata, chinando di poco
il capo. «Il
Nobile Dante fremeva dalla voglia di ricevere una sua nuova visita da
tantissimo tempo, ormai».
Certo, immaginavo. Andare a
casa sua equivaleva ad un bel giro sul patibolo, poco ma sicuro. Mi
sforzai
dunque di apparire a mia volta cordiale e, senza spiegargli il reale
motivo di
quella nostra presenza - né tanto meno gli dissi
perché avevo portato con me un
licantropo, facendo passare Nathan per un mio schiavo di sangue -,
attesi che
lui ci facesse cenno di avvicinarci alla botola e ci facesse strada,
sentendo
dentro di me la pressione provocata da tutto quel potere che scaturiva
dalle
viscere della terra.
Avevo preso la decisione peggiore
di tutta la mia vita, decisamente.
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