America's dream

di saraviktoria
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** perchè mi hai fatto questo?? ***
Capitolo 2: *** benvenuta Laure! ***
Capitolo 3: *** nel nome della rosa ***
Capitolo 4: *** partenza ***
Capitolo 5: *** in missione ***
Capitolo 6: *** ciak!azione! ***
Capitolo 7: *** colpo di fulmine ***
Capitolo 8: *** appuntamento ***
Capitolo 9: *** la famiglia Rathbone ***



Capitolo 1
*** perchè mi hai fatto questo?? ***


Perché non riesco a dimenticarti? O più semplicemente ad azzerare tutto? Basta. È finita. Ma il mio cuore non lo vuole capire. Perché continuo a pensare a te? Perché mi devono sempre tornare in mente i pomeriggi passati a ridere, a prenderci in giro? Perché alla fine ritorno sempre a guardare le tue foto? Perché sono una stupida. Perché ci soffro ma non riesco a togliermi il vizio di volerti vedere. Perché io non sono capace di dimenticare, non posso chiudere un capitolo e aprirne un altro, come se niente fosse. Perché ogni cosa che faccio, ogni persona che incontro, entrano a far parte di me e mi cambiano. Ecco, tu mi hai cambiato. E azzerare tutto è contro la mia natura. Ma in questo momento vorrei essere un computer: mi resetterei e ricomincerei da capo. Ma non posso, perché non sono un computer. Soffrire fa parte della natura umana. Ma è normale che mi venga da piangere ogni volta che vedo i tuoi occhi azzurri? È possibile che mi tremino le gambe ogni volta che sento pronunciare il tuo nome? È normale voler sbattere la testa contro il muro, pur di non pensarci? No, non credo sia normale. E perciò sono ancora più stupida, ancora più infantile, piccola. Persino i bambini dopo un po’ si dimenticano perché piangono. Io no. Ma crescerò anch’io e magari fra qualche anno riuscirò a ricordare senza soffrire. Allora riuscirò a innamorarmi un’altra volta. Allora ti sarò grata per avermi fatta felice. Ma ora no. È difficile sorridere quando dentro ti senti morire. È difficile ignorare tutto e andare avanti, ma ci devo riuscire e anche bene se non voglio che qualcuno mi faccia domande. Ci devo riuscire e ci riuscirò perché è la mia vita, è una sola e voglio viverla al meglio.
È passata un’altra giornata. Un’altra giornata senza di te. Oggi entrando in classe mi sono ricordata di quando, non molto tempo fa, mi abbracciavi non appena varcavo la soglia dell’aula. E sentivo il tua calore sul mio corpo, anche se magari eri appena sceso dalla moto e ti stavi congelando. Ma stamattina non c’era nessuno ad abbracciarmi, solo il ‘ciao’ di qualcuno, qualche più raro ‘buongiorno’ e poi la prof che dice di andare a posto. Mi siedo al mio banco e prendo i libri dallo zaino. Mi ricordo di quando vicino a me c’eri tu, di quando mi mandavi dei bigliettini durante la lezione. Ma ora vicino a me c’è una ragazza, una nuova, di cui non ricordo neanche il nome. Appoggio la testa sul banco e non ascolto più nessuno. Così per sei ore. Quando torno a casa non c’è nessuno, come al solito. Faccio i compiti, preparo la cartella con una frenesia improvvisa, senza neanche accorgermene. Prendo la borsa, poi le chiavi, come quando uscivamo al pomeriggio. Ma arrivata in corridoio mi ricordo che oggi non sarai sulla panchina ad aspettarmi. Mi butto sul letto e comincio a piangere. Ti odio. Ma ti amo. È così difficile far andare d’accordo due sentimenti tanto opposti. Sento la chiave nella porta. Poi la maniglia che gira e la voce dolce di mia mamma. Do un calcio alla porta perché si chiuda, ma lei è più veloce. Ecco, penso, ora mi sgrida. Invece si avvicina e mi abbraccia e non dice niente. Così anche la sera: mi bacia sulla fronte e mi augura la buona notte. Mio fratello dorme già. Ascolto un po’ di musica, poi mi addormento anch’io.
Sabato mattina. Oggi niente scuola. Forse sono le otto, ma non mi va di alzarmi a controllare. Lancio un’occhiata al calendario: è il 10 dicembre. È passato un mese da quando mi hai detto che di me non ti importava più niente. In questo mese ho toccato il fondo, mentre tu ti divertivi con gli amici. Sento la mamma avvicinarsi, si siede ai piedi del letto e inizia uno strano discorso. “la vita è come trovarsi in un porto , dove ogni giorno partono e arrivano navi. Sei tu a scegliere quale prendere. Ma può capitare che la nave affondi a qualche miglio dalla costa. E allora bisogna nuotare per salvarsi, per poter prendere un’altra nave. E dopo tanti naufragi troverai una nave solida, che ti porterà a destinazione. Hai capito a cosa mi riferisco?” e come potrei sbagliarmi? Annuisco e lei continua. “devi tornare a riva e riprovare, ok? Prova a cambiare aria per un po’, cerca di ritornare a sorridere. Fallo per te” conosco già la frase successiva. Infatti la mamma mi consiglia di trasferirmi da papà per qualche tempo. Ma papà abita lontano, in un paesino di cui non ricordo neanche il nome. Talmente diverso da qui che non riuscirei a immaginarti …. Ma forse la soluzione è proprio questa. Decido di provare, tanto cosa mi è rimasto da perdere? Accetto e la mamma tira un sospiro di sollievo. Faccio colazione e mi vesto, senza badare a cosa metto. Non è la prima volta.                             Poi mi chiudo in camera e cerco il numero di papà sul telefono: 0463 … solo il prefisso mi preoccupa e controllo di avere abbastanza credito.              Uno … due … tre squilli, poi qualcuno risponde: è la voce di una donna, mai sentita prima.                                                                                 “pronto? Buongiorno , casa Kiel”                                                                              “salve, sono la figlia di Stephan, potrei parlare con lui?”                             la donna esita un attimo , poi chiama qualcuno. Silenzio. Aspetto e dopo un po’ riprendono in mano la cornetta                                                               “Laure? Sei tu?”                                                                                                                  “si, ciao , papà. Sono io, come stai?” e dopo i primi convenevoli vado al dunque “papà mi piacerebbe venire a Cles per un po’. È un problema?” “perché? Non stai bene? E comunque a me va benissimo” ha capito che c’è qualcosa che non va, ma l’unica cosa che gli viene in mente che mi costringa ad andare da lui è un motivo di salute.                                                Già , perché Cles, il posto in cui vive, è un comune microscopico del Trentino Alto Adige, dove l’unica cosa buona è l’aria pulita. Ho sempre detestato quel posto, ma ora il mio odio è confluito in un'altra parte del mio cervello, quindi …                                                                                             Così parte l’organizzazione della partenza. Papà è felicissimo di avermi a casa con lui. Io, per ora, non riesco a provare emozioni positive. So solo che così facendo taglio definitivamente i ponti con il mio passato, soprattutto con la parte più dolorosa del mio passato. Ma comunque peggio di così non può andare, posso solo sperare in un miglioramento.
Nei giorni seguenti preparo le valigie, sorrido a chi mi augura buon viaggio, piango assieme alle mie compagne di classe che sono dispiaciute. Ma da te niente, neanche un misero saluto. Non piango perché sono dispiaciuta di lasciare le mie amiche, piango perché non voglio allontanarmi da te. Perché non voglio dimenticarmi dei tuoi occhi azzurri , dei tuoi capelli neri come il carbone, del tuo sorriso che mi fa fermare il cuore. Mi scendono altre lacrime. Si avvicina una mia compagna, Antonella, che mi abbraccia                                                                               “vedrai che in Trentino ti troverai bene” sorrido e mi asciugo gli occhi. Annuisco, saluto e me ne vado. Cammino lungo il corridoio della scuola, poi giù per le scale. Sento una voce  che mi chiama, la tua.                                   Mi giro e ti avvicini.                                                                                               “Laure … io …”  sospiri “ … niente, volevo solo augurarti buon viaggio …” poi rimango da sola. Fantastico!                                                                                  Piango ancora uscendo da scuola. Passato il cancello mi guardo indietro. Dico addio al liceo, alle mie amiche, alla mia adorata Firenze. E piango.
Arrivo a casa senza accorgermene, apro meccanicamente la porta e vado in camera a finire le valigie. Non manca molto. Apro l’ultimo cassetto e sotto alla camicia bianca che ho preso a Roma vedo la maglietta che mi hai regalato tu. La prendo in mano e rimango così.                                      E in quella posizione mi ritrova mio fratello, tre quarti d’ora più tardi. “Laure, non puoi andare avanti così. Devi reagire”                                                  “Mark, non ce la faccio. Ci ho provato, te lo giuro, ma non ci riesco” e lui sorride.                                                                                                                             Mio fratello Mark ha venticinque anni, è alto e moro come me, con i capelli mossi e gli occhi nocciola. Con me è sempre gentile, mi capisce; gli piace considerarmi la sua piccolina, perché abbiamo otto anni di differenza. Otto anni e mezzo per essere precisi.                                     Prende la maglietta e la mette in un sacchetto. Alza i vestiti della valigia e la mette sotto                                                                                                ”promettimi che non la tirerai fuori fino a quando non tornerai a sorridere” prometto e poi mi aiuta a finire i bagagli.                        Qualche ora più tardi la mamma ci chiama per andare in aeroporto. Prendo la valigia, il borsone e la sacca con le scarpe. Mark mi passa il giubbotto e la mamma mi infila sciarpa e cappello. Usciamo. Inciampo nelle scale, nelle ruote della valigia e anche nei miei piedi. L’equilibrio non è mai stato il mio forte. Arriviamo all’aeroporto Amerigo Vespucci di Firenze e mi metto in fila per il check-in. Porgo i miei documenti alla guardia che controlla la carta d’imbarco.                                                                “buon viaggio, signorina” mi invita a salire a bordo.                             Controlla il biglietto e poi i posti: 26 A  … 27 B  … 28 A  … e finalmente mi siedo, vicino al finestrino. Dopo mezz’ora una voce gentile annuncia l’imminente partenza invitandoci ad allacciare le cinture.                           Guardo la città rimpicciolirsi e penso.                                                                     Penso a mia mamma, francese di nascita, che sposò papà a vent’anni, già incinta di mio fratello. Comprarono una casa nel paese di papà, Cles appunto. Otto anni più tardi nasco io . Ma la mamma non è abituata a vivere in un posto così piccolo e litigano sempre. Qualche mese dopo lei se ne va, portandoci con sé. Si trasferisce a Firenze, dove un’amica la aiuta a trovare una casa e un lavoro.                                                                            Non ho molti ricordi di papà. L’ho visto una volta sola e lo sento tutti gli anni per Natale e Pasqua. Niente di più. Provo a immaginare la sua vita.                 Si sarà risposato? Avrà avuto altri figli? L’unica cosa che testimoniano le foto è una grande casa bianca circondata di alberi. Il resto sarà una sorpresa. Poi penso a quello che sa lui di me , a quanto dovrò raccontargli. Che cosa risponderò alla domanda: come mai vuoi vivere qui? Non ho mai nascosto il mio odio per Cles, dovrei dirgli la verità? Raccontargli che sto impazzendo perché mi hai detto che non mi ami più? O farei meglio a inventare una bugia plausibile? Un singhiozzo interrompe le mie riflessioni e prendo in tempo il fazzoletto per asciugarmi gli occhi. A un certo punto mi addormento. Mi sveglia il suono delle cinture di sicurezza. Le allaccio e mi preparo all’atterraggio. Quando le ruote dell’aereo toccano la pista dell’aeroporto Francesco Baracca di Bolzano sento che sta per cominciare qualcosa di nuovo, e non è detto che sia un male.
 
 

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Capitolo 2
*** benvenuta Laure! ***


Prendo i bagagli dal nastro e mi guardo intorno. Sapevo che papà non sarebbe potuto venire a prendermi e mi aveva detto di prendere l’1 / o forse il 3 … non mi ricordo!! Mi avvicino al banco informazioni .                        “scusi, sa quale autobus devo prendere per Cles?” la signora mi guarda male, come se avessi parlato arabo “ehm … Cles … C-L-E-S …” e allora sembra capire. Si scusa un autobus fermo al di là del vetro. Ringrazio e mi affretto a salire.                                                                                              Controllando la cartina mi accorgo dovrò sopportare ancora più di due ore di impervie stradine di montagna. Arrivata a Cles mi avevano detto di chiedere per casa Kiel, ma me ne ricordo solo dopo aver girato venti minuti. Un’anziana signora mi indica un viale.                                                        “ … in fondo c’è un grande cancello, non si può sbagliare” sorride mentre mi allontano. Mi manca già la cadenza di casa, liquida e scorrevole senza ‘c’. Qui hanno tutti delle voci dure , spigolose.                                                                 Mi incammino , ma quando intravedo il cancello penso di aver bisogno di una sistemata. Vedo un bar sulla sinistra. Entro e ordino un caffè, poi vado in bagno e mi guardo allo specchio: sembro uno zombie. E nella fretta di fare bella figura prendo terra e matita dal beauty e …. Bum! La scatoletta della terra rovina per terra rompendosi e sparpagliando il contenuto dappertutto! Alzo gli occhi al cielo e raccolgo la plastica. Esco e torno sui miei passi. Arrivo davanti all’entrata e suono al citofono.
 “chi è?” chiede una donna.
 “ehm …” rispondo indecisa “sono Laure Kiel. C’è Stephan?” per tutta risposta il cancello si apre e vedo un ragazzo venirmi in contro correndo. Quando si avvicina lo osservo meglio: è alto e biondo, avrà su per giù la mia età. Tende la mano.
“sono Konradin Kraun Kiel  … KKK … e tu devi essere Laure ” gli stringo la mano cercando di sorridere. Poi mi fa segno di seguirlo e mi aiuta a portare i bagagli. Entriamo nel parco …
se si chiama Kiel dev’essere mio fratello, fratellastro per lo meno … e perché Kraun? Sarà il nome della moglie  di papà?
“saranno tutti contenti di averti a casa”  dice Konradin interrompendo i miei pensieri. Rimango un attimo interdetta
 “tutti chi, scusa?” chiedo. Qualcuno poteva anche prendersi la briga di dirmelo.
“che cosa sai?” chiede di rimando, preoccupato. Quando ammetto di non sapere praticamente niente, mi fa sedere su una panchina.
“allora … partiamo dall’inizio … mia mamma Rose e Stephan si sono sposati dodici anni fa. Io avevo cinque anni e ho preso anche il cognome del nuovo marito della mamma. Perciò non siamo fratelli di sangue” mi guarda contento. Per me non fa differenza
“nel frattempo sono nati due gemelli, Christian e Nathan e una bambina, che ora ha tre anni e si chiama Jolanda. Ah, e i gemelli hanno dieci anni” prosegue.
“cos’altro mi sono persa?”
“nient’altro credo. Ma dovresti chiedere a Stephan quando torna ”  “perché, dov’è?”
 “al lavoro, e dove se no? È un imprenditore, non lo sapevi?” annuisco e penso a cose più pratiche
“dove andate a scuola? Credo di aver girato praticamente tutto il paese, ma di scuole non ne ho viste”
“le scuole sono a valle. La piccola non va ancora a scuola, i gemelli sono all’ultimo anno delle elementari e io sono iscritto alla quarta liceo scientifico. Tu dove andavi a scuola? ”
“anche io alla scientifico. Potrei farmi mettere in classe con te, così almeno conoscerò qualcuno …” si alza e arriviamo a casa.
È una grande villa in mezzo a un parco, bianca con delle colonne ottocentesche. E ci sono anche i cavalli. Appena entrati ci viene incontro una giovane signora, seguita da una bambina trotterellante.
“cara, che bello averti qui. Io sono Rose.  Vieni …” lascio lì le valigie e la seguo. Mi porta a vedere tutta la casa. Al secondo piano apre la porta dell’ultima stanza
”e questa è la tua camera, spero ti piaccia” entro e lei se ne va.
Hanno già portato su le valigie, inizio a sistemare le mie cose. Sul fondo della valigia c’è l’album delle fotografie: io da piccola, le foto di classe delle elementari, le gite. In una delle ultime ci sei tu con la penna fra i denti, chino su un libro di scuola. Chiudo di scatto l’album, ci appoggio sopra la testa e inizio a piangere.
 Non la sento arrivare, ma ad un tratto mi trovo accanto la bimba mora di prima
“io sono Jolanda. Tu sei Laure ?  e perché piangi? Non vuoi stare qua?” mi asciugo le lacrime, la guardo e faccio un respiro profondo
“allora … si, io sono Laure. Poi … piango perché … perché sono contenta di essere qui. Sai che ho sempre desiderato avere una sorella più piccola?  ” lei ride e si allontana. Sospiro.
 “spero ci sia cascata”
“lei ti ha creduto, perché è piccola. Ma con me dovrai trovare una scusa più convincente”
“papà! ” gli salto addosso e lo abbraccio. Dopotutto fa parte della famiglia. E ora piango, ma di felicità. Non mi ricordavo di volergli così bene.
“ehi, ferma, se no mi metto a piangere anch’io. Come sta Solange?e Mark?  ” mi siedo e rispondo. Gli dico del nuovo lavoro da ricercatrice della mamma, di Mark che sta dando gli esami di ingegneria all’università per la seconda laurea, delle mie compagne di classe …
 “e allora cosa ci fai qui?” chiede ad un tratto papà. Mi ritrovo a parlargli di te. Di come ci siamo conosciuti, di quando ci siamo messi insieme alla festa di Jasmine, dei nostri cinque anni assieme …  e di come è finito tutto.
“capisco, ma non ti devi abbattere. Anch’io avevo riposto tutte le mie speranze nella storia con tua madre e non è andata come pensavo. Ma ho trovato la forza di mettere tutto da parte e ricominciare. E poi ho trovato Rose. Tu sei giovane ha quindici , no … sedici anni … ”
“diciassette, papà”
“ah, si giusto. Diciassette anni e tutto il diritto di rifarti una vita”
“per questo sono qui: per ricominciare. Ma adesso basta parlare di me. Raccontami qualcosa di te e della tua famiglia. Perché non ci hai mai detto niente? Konradin mi ha detto qualcosa e ho conosciuto la piccola Jolanda, ma …”
“ferma, Laure. Una domanda alla volta: Konradin mi ha detto che eri curiosa, ma non pensavo così tanto … comunque non vi abbiamo detto niente perché non sapevo come avreste preso l’idea di avere quattro fratelli. Poi la ‘piccola’ Jolanda si arrabbierà molto se la chiami così. È testarda e cocciuta come tuo fratello Mark”
 “e gli altri?”
 “Nathan e Christian sono due pesti, non passa un giorno senza che me ne combinino una. Meno male che c’è Konradin, è il più tranquillo ed è rimasto incantato da te … difficile non esserlo d’altronde …” bene, ora ho elementi sufficienti, manca solo una cosa
 “papà, mi devi iscrivere a scuola”
 “certo … classico?” prova senza troppa convinzione. Deve imparare a conoscermi, così come io dovrò conoscere lui e la sua nuova famiglia “quarta scientifico, come Konradin” lo correggo scuotendo la testa, poi ricomincio a sistemare i vestiti nell’armadio.
 “ah, un’altra cosa a cui dovrai abituarti … qui abbiamo i camerieri, perciò se vedi in giro qualcuno non ti spaventare. Ok?” annuisco e lui se ne va. Ma l’avvertimento di papà non è servito a molto. La mattina seguente sento la voce di una donna che mi chiama
“signorina Kiel, sveglia. È ora di andare a scuola”. Abituata a sentire il cellulare suonare alle sette, ci manca poco che mi metto a urlare. Spalanco gli occhi. Mi ricordo dove sono e , fatto il mio quadro mentale, mi alzo. Saluto la signora che è venuta a svegliarmi, lei sorride e se ne va. Tolgo il pigiama e mi sciacquo la faccia. Poi, in piedi davanti allo specchio, penso a cosa mettere. Dopo varie prove  opto per una camicia bianca, jeans e scarpe da tennis. Trucco leggero e zaino sulle spalle.
 Se sono riuscita a sopportare tutti gli snob di Firenze, qui non avrò problemi.  Scendo le scale e per poco non mi scontro con Konradin “scusa, stavo venendo a chiamarti. Sei pronta?” secondo te? Non glielo dice, mi limito a sorridere
“ehm … scusa, Konradin, ma come arriviamo a scuola?”
“beh, Stephan ha detto che hai il patentino per il 125, sa che ti piacciono le moto, e che questa è tua …” mi lancia un mazzo di chiavi. Risalta una chiave con l’impugnatura di plastica, la chiave di una moto.
 E infatti in garage c’è una Yamaha nera che mi aspetta.
“abbiamo preso anche questo ” mi porge un giubbotto
“ … ma dove vivi? Pensavi di andare a scuola così?” dice quando chiedo il perché di un giaccone così pesante. Metto il casco
“io devo passare da un amico a prendere un libro, devi andare da sola. Segui il viale fino alla piazza, poi prendi la tangenziale. Esci alla prima e segui per il centro, poi per le scuole. Il liceo è un edificio bianco e nuovo. Chiedi per la 4°. Non ti puoi sbagliare. Ah, attenta: hai le gomme da neve, ma a valle ci sarà un po’ di ghiaccio a cui non sei abituata. Vai piano” sale in moto e parte. Ripasso le istruzioni poi salgo anch’io e metto in moto. Esco dal cancello già aperto e percorro il viale. Passo davanti al bar e al piccolo negozio di alimentari. Vedo il cartello verde della tangenziale e giro a destra. Entrata sulla statale vedo la prima uscita dopo pochi chilometri e metto la freccia. Dopo l’uscita mi aspettavo come minimo un po’ di traffico, gente che va al lavoro in macchina nervosa. E invece niente. Solo una vecchia auto che se andasse un po’ più lenta andrebbe all’indietro e che supero senza problemi. C’è ghiaccio dappertutto, ma le gomme hanno una buona tenuta e non slitto. Seguo il cartello che indica le scuole, superando anche un asilo e un istituto professionale. Finalmente trovo l’edificio che mi ha descritto Konradin. Vedo un cancello aperto da cui entra un’altra moto e la seguo. Non mi accorgo però di due ragazzi che portano a mano i loro scooter a causa del ghiaccio. Li sento parlare quando gli passo davanti
“quello è matto. Vuole farsi male?” dice uno dei due. Sorrido sotto il casco e alzo una mano in segno di scusa, poi scendo lungo la rampa.
C’è una specie di cortile piastrellato con tutte le moto, e anche qualche auto. Cerco un posto e parcheggio. Metto catena e blocco, poi tolgo il casco.  Vedo i due ragazzi di prima chini sui loro motorini.
 Mi avvicino
 “scusate per prima, non vi avevo visto” alzano lo sguardo e mi squadrano. Dio che nervi quando i ragazzi fanno così, neanche fosse la prima ragazza che vedono! Uno sorride, l’altro è rimasto a bocca aperta. “no, scusa tu se eravamo in mezzo alla strada” dice il primo, più veloce.  L’altro si riprende e chiude la bocca
 “Marco” allunga la mano
 “Laure, piacere” gliela stringo
 “io sono Lorenzo”  si affretta a dire l’amico “bella moto” aggiunge. “grazie, sapete per caso dove posso trovare la 4 A ?” si illuminano
“certo, è la nostra classe. Vieni ” mi indicano una porta che sinceramente non avevo notato. La aprono e Marco rimane davanti al vetro.
Tira su i capelli appiattiti dal casco, poi sorride e mi fa segno precederlo. Saliamo le scale e arriviamo in un lungo corridoio, poi davanti a una classe con la porta aperta. Da dentro si sente rumore di chiacchiere.
Faccio un respiro profondo ed entro.
Sto ricominciando da capo e di te non mi importa niente.
No, non è vero, ma è comunque un buon inizio.
Subito mi intercetta Konradin. Chiede silenzio .
“lei è Laure Kiel, la nostra nuova compagna di classe” qualcuno mormora un saluto e due ragazze mi si avvicinano.
 “siamo Elisa e Stefania, piacere” stringo la mano a entrambe e iniziano a parlare. Dei ragazzi e delle ragazze, dei professori e delle lezioni. A quanto pare Konradin è uno dei più ‘ambiti’. Che idiozia. Come se i ragazzi fossero dei trofei.
 “ma tu e Konradin avete lo stesso cognome, siete parenti?” chiede ad un tratto Stefania.
 “fratellastri. Mio padre ha sposato sua madre” rispondo evitando la domanda successiva. Per fortuna arriva il prof, che mette fine a quella deprimente conversazione.
Entro in classe e mi avvicino alla cattedra, mentre l’insegnante prende il registro. Mi schiarisco la voce e lui alza la testa. Mi guarda sorpreso
 “e tu chi sei?” la classe ride e io vorrei sparire.
 Qui e subito. Sprofondare nel pavimento. E invece prendo coraggio e rispondo
“mi chiamo Laure Kiel, sono una nuova studentessa” gli altri studenti mormorano. Forse si stanno facendo la stessa domanda delle ragazze. Konradin risponde a qualcuno e la voce gira. 
Ma il professore è rimasto con la penna sospesa per aria, un po’ scettico “come hai detto che ti chiami?”
 “ehm … Laure Kiel, perché?”
 “e come lo scrivo?” chiede preoccupato.
A questo punto vorrei ridere anch’io, ma non rispondo. Mi limito a fare lo spelling. Scrive sotto la mia dettature, ignorando la classe che ride. Guardo Konradin e lui scuote la testa. Poi il prof mi manda a sedere, vicino a un ragazzo sconosciuto
“Mauro” si presenta con un cenno della testa.
“Laure, piacere di conoscerti”. Poi inizia la lezione. Scopro che l’insegnante non è molto sveglio. Sbaglia di continuo e si inceppa nei suoi stessi discorsi. Gli studenti lo correggono e ridono, ma si parla dei giochi di quando eravamo piccoli e nonostante tutto ascolto volentieri. A un certo punto mi vengono in mente i pomeriggi delle elementari, i nostri divertimenti, e alzo la  mano. Aspetto che Elisa finisca di parlare e chiedo la parola
“si, signorina ….?”
 “Kiel” suggerisce qualcuno
“ah, giusto, signorina Kiel, voleva dire qualcosa?”
“si, grazie. Mi sono appena ricordata di un gioco che facevamo da piccoli, non so se conoscete …” ma il resto della frase si perde fra le risate dei miei nuovi compagni di classe. Cos’ho fatto?guardo Konradin: non ride, anzi sembra piuttosto seccato. E con lui altri quattro o cinque ragazzi. Poi qualcuno si alza in piedi, in risposta alla sguardo stupito del prof
“non ha sentito la signorina Kiel? Si rihordava di un gioho …  ” e solo allora capisco. Che ho sbagliato tutto. Non sarei mai dovuta andare via da Firenze, non avrei mai dovuto iscrivermi a questa stupida scuola, in questo stupido paesino …
Mi alzo e con le lacrime agli occhi esco dalla classe. Corro senza neanche sapere dove sto andando. Trovo un angolo nascosto e mi siedo. Chiudo gli occhi, mi nascondo. Da tutti. Da tutti. Perché non mi integrerò mai, sarò sempre la ‘fiorentina’ , quella che parla senza ‘c’. suona la campanella, dev’essere intervallo. Sento movimento, mi passano davanti ragazzi e ragazze, poi sento una voce familiare. La voce si avvicina e Konradin e i suoi amici si fermano poco distante da dove mi trovo.
“inaudito! Non possono trattarla così!” dice qualcuno
“non possono dici, Marco? E allora perché lo stanno già facendo?” risponde Konradin.
“non ha una cadenza forte, è solo che quei deficienti dei nostri compagni non si divertono se non fanno stare male le persone, lo sai anche tu. Non aiuta il fatto che sia tua sorella … ma potremmo parlarne con i rappresentanti … ” risponde un altro.
 “no potremmo un bel niente, non hai visto che ridevano anche loro? Possiamo solo aspettare. Prima o poi si stancheranno” ribatte Marco “e Tonio ha ragione, il fatto che sia tua sorella non aiuta … quelli che ce l’hanno ancora con noi per la soffiata dell’anno scorso hanno trovato il modo di vendicarsi”
 “e cosa potevamo fare? Aspettare che qualcuno si facesse male? Lo sai anche tu che non volevamo metterli nei guai, ma le cose gli stavano sfuggendo di mano … ” interviene Konradin
“questo lo so io e lo sai tu. Ma gli altri? Quelli che non credevano che con quei petardi potevano ammazzare qualcuno? Per loro siamo solo spie” risponde una quarta voce.
“le spie più rispettate di tutto il liceo? Diciamo solo che te la volevano far pagare, quando parli tu tutti ti seguono, hai carisma e a qualcuno non sarà andato giù qualche torto … scommetto quello che vuoi che c’è dietro anche Rosini …” si allontanano.
Ma ormai ho deciso. Non parlo più, facile.
“e se ti chiedono qualcosa? Che fai, stai zitta?” si arrabbia papà. Quando siamo tornati da scuola è rimasto ad ascoltare il resoconto di Konradin e  la mia decisione.
“Stephan ha ragione” interviene Konradin “non dico che non abbia le tue ragioni, ma non puoi risolvere tutto così. Vedrai che ti lasceranno stare”
 
 

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Capitolo 3
*** nel nome della rosa ***


Konradin aveva ragione. Sono due mesi che sono arrivata a Cles e hanno smesso di prendermi in giro. Mi sto anche facendo degli amici. Certo rimpiango ancora di aver lasciato Firenze, Mark e la mamma, e soprattutto rimpiango di essermi allontanata da te. Piango ancora, di solito la sera, ma sempre più raramente. L’aria di montagna mi sta facendo cambiare, tanto lentamente da non accorgersene, ma profondamente. Continuando di questo passo riuscirò veramente a voltare pagina.
“ci vieni stasera alla festa?” chiede Konradin un pomeriggio mentre facciamo i compiti
“la festa? Si, certo che vengo” rispondo lasciando stare per un attimo la matematica. Stefania ha organizzato una piccola festa per i suoi diciotto anni e ha invitato tutta la classe. Che strano: quando ha fatto diciotto anni Mark, è andato in discoteca con gli amici. Forse è perché qui di discoteche non ce ne sono … mi ero completamente dimenticata della festa fino a quando non me lo ha chiesto Konradin. Dopo il mio primo Natale in Trentino avevo puntato tutti sulla scuola, dimenticandomi del resto. Ma ci vuole poco a rimettere a fuoco il tutto: Stefania è nata a San Valentino, un giorno troppo importante per essere dimenticato facilmente. Finisco di corsa i compiti e corro in camera. Ferma con le mani sui fianchi, passo in rassegna l’armadio. Prendo un vestito corto senza maniche né spalline, a fascia, nero. Abito che in Toscana sfoderavo a metà inverno senza calze e con le ballerine. Ma non mi sembra proprio il caso. Trovo un paio di collant dello stesso colore  e un copri spalle bianco. Scarpe nere lucide col tacco e matita. Volevo vestirmi meglio del solito. A quanto pare non sono l’unica ad averci pensato. Scendendo le scale incontro Konradin. Ha messo una camicia bianca a quadri con il colletto in su e i jeans azzurri. Sta veramente bene. Glielo faccio notare e lui arrossisce.
“anche tu sei molto bella” sorrido e lo prendo per mano
“andiamo?”
Papà ci accompagna in macchina, perché la sera fa troppo freddo per andare in moto. Ma nel centro storico le macchine non possono entrare e dobbiamo proseguire a piedi.
“f … freddo …” balbetto scendendo dall’auto.
Poi per fortuna arriviamo da Stefania: finalmente un po’ di caldo. “auguri!” le porgo un pacchetto. Lei lo scarta subito e indossa la collana che le ho regalato, poi mi prende per mano, perché la segua. 
“vieni, ti devo presentare una persona fantastica ”
 da quando abbiamo iniziato a conoscerci, lei e Elisa non fanno altro che presentarmi ragazzi che secondo loro andrebbero bene per me. Inutile dire che falliscono sempre.
“lui è mio cugino”. Il ragazzo davanti a noi tende la mano
 “Simone”
 “Laure, molto piacere”.
 È molto carino. Sicuramente più grande di me di almeno due anni, con i capelli castano chiaro e gli occhi grigi con qualche sfumatura verde. Porta gli occhiali ed è molto alto. Riesco a guardarlo negli occhi solo con dieci centimetri di tacco.  
“non sembri di qui” commenta quando Stefania ci lascia.
 Ma farsi gli affari suoi?
“infatti, sono di Firenze” mi guardo intorno cercando qualcuno che conosco, magari un compagno di scuola, ma niente.
 “scusa non volevo  offenderti …” cerca di recuperare “è solo che qua si conoscono tutti: genitori, nonni e bisnonni, quando arriva qualcuno da fuori si nota subito” sembra sincero, ma in particolare sono rimasta colpita da una cosa
“perché hai detto ‘si conoscono’? anche tu arrivi da fuori?”
 “esatto. Abitavo a Bolzano fino a due anni fa, poi ci siamo trasferiti qui vicino ai miei zii”. Continuiamo a parlare.
 Anche se l’inizio non è stato dei migliori, devo ammettere che è molto simpatico. A un certo punto inizia a girarmi la testa e mi sento svenire. Penso di sedermi, ma non faccio in temo. Perdo l’equilibro e mi accorgo di cadere in avanti. Sento la voce spaventata di Simone
 “Laure? Laure? Ci sei?” mi afferra per la vita appena in tempo e mi porta vicino alla finestra.
“meglio?” chiede preoccupato. Prendo fiato e sorrido.
 “si, grazie. Mi dispiace averti fatto spaventare. Ho la pressione bassa e qui fa molto caldo. Vado a fare quattro passi, scusami” ma non mi lascia andare
“aspetta … se non ti dispiace vorrei venire con te. È meglio che tu non vada in giro da sola” annuisco e usciamo.
 Non ho idea di che ora sia, ma non fa molto freddo. Prima c’era molto più vento.  Così colgo l’occasione per fargli una domanda a cui pensavo da un po’.
 “tu sembri più … responsabile della maggior parte dei ragazzi che conosco.. quanti anni hai?”
“venti. E tu? No, aspetta … in teoria dovrei saperlo. Sei in classe con mia cugina, perciò hai diciassette anni?”
“indovinato, diciotto a maggio”
 “il mese delle Rose. Ti piacciono?”
 “oh si, moltissimo. Soprattutto quelle arancioni, peccato siano difficili da trovare. E a te che fiori piacciono?”
“non ho un fiore preferito, però mi piacciono le bacche d’erica perché, anche se sono così piccole, riescono a resistere al gelo. ”
sento i rintocchi delle campane e provo a contarli. Uno … due … tre … fino a dodici.
“beh, io devo andare. Ci vediamo?”
“che fai, scappi a mezza notte come la bella Cenerentola?” sorrido e penso a qualcosa di carino da dire. Per fortuna in quel momento arriva Konradin
 “Laure, andiamo?” lo raggiungo  e mi passa la giacca. Iniziamo a camminare.
“allora, ti sei divertita?” sorriso “bene. Ti gira ancora la testa?”
“e tu come fai a saperlo?”
 “ti ricordi cosa ti abbiamo detto quando sei arrivata qua? Qui tutti sanno tutto di tutti. E non perché siamo pettegoli o chissà cos’altro. È solo una diversa dimostrazione d’affetto. ”
Raggiungiamo papà che ci aspetta in macchina. Tornata a casa mi svesto, mi butto sul letto addormentandomi subito.
Adoro la domenica.  Perché si può dormire ma anche perché è l’unico giorno della settimana in cui pranziamo tutti assieme.
Mi alzo alle dieci e mi vesto : leggins, maglione lungo e stivali al ginocchio. Esco dalla camera per scendere a  fare colazione. Ma non appena metto piedi fuori dalla porta vengo  travolta prima da Christian e poi da Nathan che si inseguono. Infine mi passa accanto Konradin
 “buongiorno Laure. Ti abbiamo svegliato? Scusa, ma … ” si sente un tonfo e Konradin corre verso le scale. Aspetto qualche secondo e poi li seguo. Quando arrivo in sala da pranzo sono già tutti seduti.
Papà sgrida i gemelli e Rose parla con Jolanda. Saluto, mi siedo e prendo la marmellata.
 Si sente il suono del citofono e qualcuno va a rispondere. Arriva poco dopo un cameriere con il vassoio della posta. Bollette, cartoline …
 “e un giovanotto ha portato questo per la signorina Kiel  ” mi porge una rosa arancione con attaccato un biglietto.
Papà finisce di fare colazione, prende il computer, saluta ed esce. Va al lavoro anche oggi. Rose invece è molto curiosa.
“hai idea di chi te la può aver mandata?” non rispondo ma un’idea ce l’ho. Leggo il biglietto ,che conferma i miei sospetti: una rosa rara e preziosa come te. Simone. Jolanda applaude e tutto si girano incuriositi.
“scusate” borbotta lei arrossendo. 
Salgo in camera e riempio un vasetto. Ci metto dentro la rosa e la poso sul comodino, poi ci ripenso e la sposto vicino alla finestra. Ma tanto non c’è luce comunque. Riprendo il vaso per spostarlo sulla libreria, ma mi scivola dalle mani e cade rovinando in mille pezzi. La rosa si schiaccia quando mi chino a raccogliere i pezzi di vetro. Non so neanch’io il perché, ma inizio a piangere. Entra Rose spaventata.
“ho sentito un rumore. Ti sei fatta male? Cosa …?” mi asciugo gli occhi e mi rialzo
 “niente. Mi è caduto il vaso è si è rotto”
 “si vede che doveva andare così”
 “ma no, è solo un vaso”
 “Laure, non prenderti in giro. Lo sai bene cosa intendo dire” parla come la mamma: per enigmi. E in fondo potrebbe aver ragione. Mi viene un dubbio
“e se non trovassi più il ragazzo giusto?” lei sorride e mi abbraccia
“non disperare, lo troverai”
 
 
 
 
 

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Capitolo 4
*** partenza ***


È il ricordo di quella frase che mi ha sostenuto per tutti questi anni. L’anno seguente mi sono diplomata con cento al liceo di Cles. Cinque anni più tardi ho preso una laurea in chimica e farmaceutica all’Università di Trento. Konradin studia per diventare medico e io ho deciso di viaggiare. Per prima cosa sono tornata a Firenze. Una settimana per rivedere la mamma e Mark, che lavora in un’azienda automobilistica come ingegnere. Ho rivisto le mie vecchie compagne di scuola; c’è chi lavora, chi studia, chi si è sposato e ha avuto dei figli. Chi come me non ha ancora deciso cosa fare della propria vita. Poi ho deciso di andare a far visita ai miei nonni materni in Francia. Prospettavo una visita breve, di qualche giorno, e invece sono rimasta a Parigi per più di un anno. I miei nonni non mi avevano mai visto. Disapprovando il matrimonio di mia madre, sapevano solo che ero nata. Ho imparato molto da loro. Ho capito perché la mamma è sempre stata così dolce e gentile, perché sorride sempre, anche se le cose vanno male. 
La sera prima che ripartissi il nonno mi ha fatto un’offerta interessante. Ero seduta sotto il porticato a guardare le stelle 
“allora parti domani?”  annuisco e lui continua. “peccato, ci eravamo affezionati a te. Ho sempre criticato tua madre per aver sposato il giovane Kiel, ma mi devo ricredere. Vedi io e tua nonna stiamo invecchiando e Solange è la nostra unica figlia. Possiedo molte azioni e quote di società, ma non ho più la forza per contrattare e non voglio affidarmi a uno sconosciuto. Così ho pensato a te. Vuoi viaggiare giusto? E quale impiego migliore di quello che ti sto offrendo io per conoscere il mondo? pensaci” quella sera ho parlato a lungo con la mamma. 
Lei mi ha ascoltato e approva la mia scelta. Così al mattino ho detto al nonno che accettavo. Ne è molto contento .
 “ora sbrigati se no perdi l’aereo. Al check in troverai Gerard, uno dei dirigenti, che ti spiegherà cosa fare. Buon viaggio” mi passa un biglietto diverso dal mio. Dovevo andare in Spagna, mentre la nuova destinazione è New York. Entro a salutare la nonna e poi di corsa in aeroporto. Salgo sull’aereo  e cerco il mio posto. Dopo qualche minuto mi si avvicina un uomo, poco più grande di me.
 “Mademoiselle Kiel?  ” rimango un attimo interdetta 
“come fate a sapere il mio nome?”
 “vostro nonno mi ha detto di cercare la donna più bella e a quanto pare non si sbagliava” arrossisco e abbasso la testa 
“grazie” 
“non volevo mettervi in imbarazzo. Comunque io sono Gerard e voi … ?”
“mi chiamo Laure … potremmo darci del tu?” chiedo. Non sono ancora riuscita ad abituarmi a dare del voi. Ma a quanto pare è molto comune in Francia. Annuisce, sereno. “bene, ora viene la cosa più difficile: devi spiegarmi cosa fare. Ti avviso: non so quasi niente di economia, sono laureata in chimica, perciò dovrai avere molta pazienza” esordisco ma Gerard non smette di sorridere. Forse lo sapeva già. 
“tranquilla è solo una cosa rappresentativa. Tuo nonno non ha avuto il tempo di dirtelo. Si tratta di andare a qualche festa, fare presenza, incontrare un paio di persone. Nulla di economico” ma non ne sembra molto convinto. Parla in modo che non possa interromperlo per fare domande. Forse è il suo modo di fare. A quella notizia tiro un sospiro di sollievo e mi godo il viaggio. Certo sono preoccupata: quelle persone si aspettano in nonno non me, ma non come prima. Se c’è una cos anche ho imparato in Trentino e come ci si comporta a un gala. 
Otto ore più tardi una voce gentile annuncia prima in francese e poi in inglese l’imminente atterraggio all’aeroporto di New York. C’è un sacco di gente in attesa davanti ai tabelloni delle partenze. 
“e ora dove andiamo?” chiedo curiosa. Sono sempre stata attratta da questa città, che ancora non ho realizzato di trovarmici. 
“in albergo” risponde telegrafico, guardandosi intorno. Poi si sporge in strada per chiamare un taxi. Si avvicina una macchina gialla. 
“spiega all’autista che dobbiamo andare al Royal Hall Hotel, io non parlo inglese” la cosa mi suona strana. Un dirigente della borsa che non parla inglese? Ma non dico niente dato che Gerard sembra nervoso e continua a guardarsi intorno circospetto. Salgo e mi avvicino all’autista. 
“At the Royal Hall Hotel, please” sale  anche il mio accompagnatore, dopo aver caricato i bagagli.
“gli hai detto dove dobbiamo andare?” annuisco “bene ora puoi rilassarti”
Io mi devo rilassare? È lui che ha bisogno di una camomilla! 
“quante lingua parli?” mi chiede mentre sfrecciamo nel traffico della metropoli
“italiano e inglese e francese li ho studiati a scuola. Papà mi ha insegnato il tedesco e la mamma un po’ di ebraico”
 “ah, complimenti” mormora colpito. 
Dieci minuti più tardi il taxi si ferma davanti a un grattacielo e un uomo in divisa mi apre la portiera, mentre un altro inizia a scaricare le valigie. Ci accompagnano alla reception
 “cosa devo dire?”
“c’è una prenotazione a nome tuo. Ho chiamato dall’aereo”. Mi rivolgo alla donna dietro il bancone. 
“two rooms, miss Kiel, please”
Lei controlla sul computer e mi passa due tessere magnetiche
“here you are, 12123 and 12125, 12th floor ” indica l’ascensore. Saliamo e troviamo le camere, una di fronte all’altra. Nel frattempo arriva il facchino con i bagagli. Passo la carta per aprire la porta. Entro. C’è un letto a baldacchino e un armadio, un grande specchio e la scrivania. Porto dentro le valigie. Le metto sul letto e apro la prima. Meno male che ho portato anche vestiti eleganti. Noto solo adesso un foglio sulla scrivania:
PROGRAMMA
1° giorno: sistemazione
2° giorno: h12 aperitivo al Lounge Bar
       h20 gala all’ambasciata
3° giorno: h13 pranzo con Mr Cole
4° giorno: h19 festa alla galleria d’arte moderna
5° giorno: h9 colazione con Mr e Mrs White 
6° giorno: c.ca h17 rientro
Quindi per oggi mi devo solo sistemare? Chissà chi è Mr Cole! E i signori White ? tornano ansia e panico. E se faccio qualche figuraccia? Meglio non pensarci. Faccio la doccia e mi butto sul letto. Poi chiamo il nonno. Mi aveva detto di fargli sapere quando mi fossi sistemata. Ma anche il nonno sembra nervoso , come Gerard, e fa innervosire anche me. Per fortuna si tranquillizza quando gli dico che è andato tutto bene. Ma cos’avranno tutti da essere nervosi? Ma ormai è tardi, non ho voglia di pensare. Mi addormento.
Mi risveglio la mattina seguente alle otto, quando sento bussare alla porta. Dato che non ho l’abitudine di dormire con il pigiama, metto la vestaglia e corro ad aprire. 
“un attimo!un attimo! Arrivo … oh, Gerard, sei tu”
“si, scusa. Ti ho svegliato? Volevo solo chiederti se sei pronta per la colazione” ci metto qualche secondo per registrare le sue parole, e altrettanto per elaborare una risposta coerente. 
“dammi dieci minuti e arrivo. Anzi, no … inizia a scendere che ti raggiungo” è troppo nervoso, e io ho bisogno di calma per vestirmi. Se ne va e mi tolgo la vestaglia. Prendo un vestito azzurro, corto e fresco, copri spalle nero e scarpe lucide, alte dello stesso colore. Trucco leggero e capelli sciolti sulle spalle. Prendo la borsa e scendo. Gerard mi aspetta nella hall. 
“sei perfetto. Facciamo colazione?” annuisco  e lo seguo.  Ci sediamo a un tavolo libero. Chiedo un caffè espresso e il cameriere rimane interdetto, ma promette di chiedere in cucina. Torna cinque minuti dopo scusandosi e porgendomi un caffè annacquato, di quelli fatti col Nescafè. Lo bevo per cortesia, perché fa schifo.   Gerard se ne accorge 
“se non ti piace il caffè perché l’hai ordinato?”
“quello non è caffè” rispondo mentre usciamo dall’hotel “intendevo un caffè espresso, quello fatto con la macchinetta.. all’italiana, hai presente?” non risponde e mi rimane il dubbio che non abbia capito, ma lascio stare. Facciamo un giro e, precisi come un orologio svizzero, a mezzogiorno in punto siamo davanti al Lounge Bar. Ci viene incontro un’anziana signora con indosso una pelliccia troppo voluminosa e un vestito pieno di paillettes che la fa somigliare a un grosso Cd. Dentro troviamo uomini di tutte le età, seri e vestiti di scuro. Parlano poco e fanno attenzione a ogni parola. Non sento una parola di affari, solo guerre e politica. Sarò anche ignorante in materia, ma a me quelli sembrano tutt’altro che azionisti e magnati dell’industria. E il bello è che Gerard sembra trovarsi completamente a proprio agio. Idem anche la sera all’ambasciata francese. Ho parlato con il console, il quale mi ha definito 
“una bellezza della nostra terra” prima che gli dicessi che ho passaporto italiano e padre tedesco. Per fare conversazione ho chiesto a un uomo svedese di che tipo di affari si occupasse
“affari che non la riguardano” ha risposto girandosi dall’altra parte. Nel complesso una giornata deprimente. E le scuse di Gerard non mi convincono. Perciò decido di chiamare il nonno.
“no” si oppone Gerard ma poi, non riuscendo a farmi desistere, insiste per rimanere almeno ad assistere. Compongo il numero e attivo il vivavoce. Risponde il nonno. 
“ciao, sono Laure. Mi dispiace disturbarti a quest’ora, ma pretendo una spiegazione. Ho il netto presentimento che tutte le persone che ho incontrato oggi non siano propriamente azionisti. E non voglio un’altra bella favola. Se non mi dite la verità me ne torno in Italia” 
“e va bene … sapevo che sei intelligente, ma speravo ci avresti messo di più. Te lo avrei detto una volta tornata in Francia, non posso parlarne al telefono. Chiama Gerard e digli di raccontarti tutto, se ti manca qualcosa chiedilo a Mr Cole domani. Ok? Bene, ora devo andare. Ciao ” riattacca. Mi giro verso Gerard.
“hai sentito? Raccontami tutto” 
“siediti, per favore” mi accomodo sul letto  e gli faccio cenno di continuare. 
“tuo nonno, come me, come tutte le persone che hai visto oggi … beh, fanno parte dei servizi segreti di tutto il mondo: SISMI, DGSE, ex KGB, Mossad, CIA,  EYP, MI5, INTERPOL … insomma li conosci. Noi rappresentiamo in Mossad …”
“il Mossad?!? Ma il nonno è francese!” Gerard mi guarda come se avessi appena detto una terribile blasfemia
“tua madre è ebrea, come tutta la sua famiglia. Ma tornando a noi, stavo dicendo che siamo i rappresentanti del Mossad, probabilmente il servizio segreto più spietato al mondo. Sono tutti a New York per prendere qualche decisione importante, ma non so di più. Io non posso partecipare alle riunioni, sono solo un accompagnatore” ne sembra dispiaciuto. Ma perché hanno scelto me?? Perché non lui? Gli avrebbe fatto piacere. Perché non un’altra persona? Qualsiasi altra persona! Avrebbe fatto piacere anche a me. Glielo chiedo e lui scuote la testa 
“non lo so” ammette prima di augurarmi buona notte. Se ne va ma non riesco a dormire. Penso a cosa mi sta succedendo, in che guaio mi ha cacciato il nonno? Forse è qualcosa di troppo grande per me.  Cosa pensavano di fare? Pensavano che non me ne sarei accorta? Volevano mandarmi a fare presenza a  tutti gli eventi mondani con la stessa storiella dell’uomo d’affari ormai vecchio? Riesco a prendere sonno soltanto all’alba. Tre ore dopo sento Gerard bussare alla porta
“lasciami dormire” urlo in direzione della porta
“ricordati che alla una abbiamo il pranzo con Mr Cole” per tutta risposta mi tiro le coperte sulla testa e dopo qualche minuto lo sento allontanarsi. forse non crede che scenderò. Forse non lo credevo neanch’io. Ma non posso tirarmi indietro. Ho promesso al nonno che lo avevo aiutato, anche se allora non aveva lo stesso valore … comunque è una cosa per la famiglia, glielo devo. Mi alzo alle undici. Faccio la doccia e mi preparo: tailleur nero e camicia bianca. Poi scendo. Gerard mi aspetta in fondo alle scale e tira un sospiro di sollievo quando mi vede.
Mr Cole ha mandato un’auto a prenderci e in venti minuti siamo sotto casa sua, un’elegante villa fuori città, con un parco tutt’intorno.  Entriamo e ci viene incontro un uomo che sospetto sia Mr Cole. Alto, con i capelli bianchi e l’aspetto austero, ha l’aria di un generale in pensione. E forse è proprio così, chi lo sa? 
“oh, miss Kiel, che piacere conoscervi finalmente! Ho sentito molto parlare di voi e pensare che siete in America solo da due giorni!”
“ehm … davvero?”
“oh, si, certo! Dovete sapere che l’ambasciatore francese pensa siate ‘una gran dama che deve solo imparare a tacere’, mentre per Mr Tejoskii, rappresentante del governo svedese, avete la grinta del combattente  ” scoppia a ridere e mi scappa un sorriso. Tesa come sono, non lo credevo possibile. 
“calmatevi, miss Kiel, ho già parlato con vostro nonno e sono qui per rispondere alla vostre domande. A quanto pare siete un tipo piuttosto sveglio”
“allora.. innanzitutto, chi siete? Che cosa fate? Gerard non ha saputo rispondermi”
“beh, ovviamente avete già sentito il termine Mossad, ma permettetemi qualche chiarimento. Ha-Mossad le-Modi'in ule-Tafkidim Meyuchadim                 ( "Istituto per l'intelligence e servizi speciali"), conosciuto semplicemente come Mossad, è l'agenzia di intelligence ed un servizio segreto dello Stato di Israele che assolve al compito di studiare e prevenire, attraverso una fitta rete di informatori e operatori specializzati ed attraverso una intensa attività di spionaggio, attività che possano compromettere la sicurezza nazionale.
Il Mossad opera nel campo della lotta al terrorismo di matrice islamica e nell'ambito delle operazioni aventi come scopo la raccolta di informazioni segrete di interesse statale
Altre agenzie di intelligence israeliane, da non confondere con il Mossad, sono lo Shabak (più spesso indicato come Shin Bet), competente per la sicurezza interna dello Stato, il controspionaggio e il servizio delle forze armate, l'Aman, responsabile per la raccolta e l'analisi delle informazioni a carattere militare.
Il Mossad è una delle agenzie di intelligence più famose e meglio considerate del mondo.
I suoi numerosi successi gli hanno infatti procurato una solida reputazione di efficienza, spesso ingigantita dai mass media
Venne fondato nel dicembre 1949 come "Istituto centrale di coordinamento" (Mossad, in ebraico significa, appunto, "istituto") su suggerimento di Reuven Shiloah al primo ministro David Ben-Gurion. Shiloah riteneva indispensabile l'esistenza di un servizio che si occupasse di coordinare i servizi di intelligence dell'esercito (AMAN), lo "Shabak" e il "dipartimento politico" del ministero degli esteri.
Nel marzo 1951, il Mossad fu ufficialmente riconosciuto come parte della struttura burocratica che assiste il primo ministro, autorità a cui risponde direttamente.
Il Mossad vanta numerose missioni riuscite con pieno successo, molte delle quali avvenute prima della vostre nascita, come l’ Intercettazione del discorso (fino ad allora segreto) con cui Nikita Khruščёv denunciava i crimini di Stalin, l’ Individuazione e cattura del nazista Adolf Eichmann nel 1960,le operazioni Damocle e Babilonia, l’eliminazione dei responsabili della strage di Monaco del 1972,l’ Affare Lillehammer,l’arresto di Mordechai  Vanunu oltre a svariate operazioni di tipo militare in Medio Oriente. Il Mossad vanta 1200 dipendenti a Tel Aviv, più un numero imprecisato di agenti in tutto il mondo. Tra questi vi siamo noi, miss Kiel. Il nostro compito è semplice: obbedire agli ordini. Il che può significare rimanere per anni in uno stato straniero, solo per omologarsi alla popolazione, così come prendere parte  a spedizioni militari e paramilitari nel mondo. Altro?”
“si. Perché proprio io? Non c’entro nulla con i servizi segreti, volevo solo viaggiare …” 
“il Mossad controlla le persone vicine ai nostri agenti. Vostro nonno ci ha parlato di voi. Come nipote di Pier, dovete aver ereditato qualcosa da lui. Secondo, siete un chimico, uno dei migliori neolaureati, stando ai miei informatori. E infine, l’avete detto anche voi, siete estranea al nostro mondo, ma soprattutto giovane e lontano da ciò che i luoghi comuni collegano con Israele, perciò sarete sempre insospettabile. Inoltre potete imparare molto ed è proprio questo il mio compito. Non siete tenuta ad andare agli appuntamenti dei prossimi giorni, basterà Gerard. Altre domande?”
“no … non mi viene in mente altro. Grazie ”
“bene, avete fame?” chiede. Mi accorgo di aver fame solo in quel momento. Dopo il pranzo, Mr Cole manda Gerard in albergo a prendermi qualcosa di più comodo.
“in valigia ci dovrebbe essere un sacchetto nero, di quelli per le scarpe” suggerisco, sicura che metterà tutto in disordine. Quando torna, Mr Cole mi manda in bagno a cambiarmi. Pantaloncini attillati e maglietta aderente nera, scarpe da tennis, polsini e capelli raccolti a coda di cavallo. Scendo in cortile
“siete sicura di non avere freddo? Ah,già.. dimenticavo vivevate in Trentino. Iniziate a scaldarvi, arrivo”
Faccio qualche giro di corsa e poi un po’ di stretching, mentre penso a cosa mi attende. A Firenze andavo spesso a correre con Mark e al liceo di Cles mi avevano insegnato a fare esercizi alla spalliera, ma credo che questa volta sarà completamente diverso.  Torna Mr Cole con due bastoni di legno lunghi un paio di metri e me ne lancia una. La prendo al volo senza neanche pensarci, riflesso istintivo vedendo un oggetto arrivarmi in faccia. Poso una delle due estremità per terra. 
“ottimi riflessi Laure. Vediamo cosa sapete fare” inizia ad attaccarmi. All’inizio penso di tirarmi indietro, ma poi inizio a difendermi . non è per niente difficile. Intanto Mr Cole mi dà dei consigli. Così anche nei giorni successivi. Mi fa allenare in giardino fino alla sera e non appena arrivo in albergo crollo addormentata sul letto. Quattro giorni dopo devo tornare in Europa. 
“arrivata a Londra prenderete un volo per Israele. Lì potrete entrare alla scuola di addestramento del Mossad. Sono sicuro che farete la scelta giusta, buona fortuna!”

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Capitolo 5
*** in missione ***


Sono stata alla scuola di addestramento del Mossad per due anni. Ora ho ventisei anni e mi hanno dichiarato “pronta”. In questi anni sono cambiata. Iniziando da quando sono riuscita a dimenticarmi di te in Trentino, passando per la Francia e l’America e ora all’accademia. Sono convinta di essere maturata molto. Sono rimasta ottimista e positiva, eredità del carattere di mia madre,  ma anche decisa e indipendente come papà. In Israele ho imparato a non fidarmi di nessuno e a contare solo su me stessa. Ho gli agenti più esperti disinnescare una bomba con la tranquillità con cui si legge un libro, uccidere una persona con il sangue freddo con cui si gioca a poker. Ci hanno insegnato a distaccarci dalle nostre emozioni, a fingere e ingannare con un sorriso. Ho conosciuto il direttore del Mossad, Dagan, padre di famiglia, che ci ha sempre ripetuto che “a nessuno piace, ma qualcuno dovrà pur fare anche la spia. Perché non farlo per aiutare il proprio paese?”
Tornavo a trovare Mark e la mamma in estate. Si sono accorti che non sono più la ragazza di prima, ma io non ho detto nulla e la mamma deve aver pensato sia il frutto dei miei viaggi. Si, perché a loro ho raccontato di paesi in cui non sono mai stata, di città che non ho mai visto, di musei che non ho mai visitato. E ci hanno creduto.
Sono stata anche a Cles. Ho rincontrato Konradin, sua moglie e il suo primo figlio; Jolanda che quest’anno inizia il liceo, lo stesso che ho frequentato io; i gemelli che si sono diplomati; papà e Rose che invecchieranno insieme, felici. Ho detto a tutti che vorrei vedere meglio l’America, così non si aspetteranno visite frequenti. Poi ho pianto un giorno intero, fino a quando non sono rimasta senza lacrime.
La mia compagna di stanza, Ziva, è la figlia del direttore ed  è molto dispiaciuta per me, nonostante non riesca ad immaginare cosa voglia dire nascondere così tanto alla propria famiglia.
Oggi mi assegneranno la mia prima missione, la chiamano ‘didattica’. Di solito consiste nello stabilirsi in un paese e crearsi lì una vita..
Sto aspettando che il direttore mi chiami nel suo ufficio. A un certo punto si apre la porta e la segretaria mi fa cenno di entrare. Saluto e il direttore risponde, in inglese fortunatamente, perché l’ebraico non lo parlo poi tanto bene
“visto che parli bene l’inglese e che durante l’addestramento ti sei dimostrata portata per le arti marziali e per i combattimenti in generale, ho pensato di farti conoscere meglio la cultura americana. Perciò pensavo di mandarti sul set di un film per ragazzi. Ci sono delle scene di azione e potrai aiutare gli attori. Che ne dici?”
“si signore”
“bene, sono contento. Conosci , ehmm ….” Prende un foglio cercando chissà cosa “ …. Ecco,’Eclipse’, quello dei vampiri” annuisco: uno dei miei libri preferiti “perfetto. Rileggi il libro se ce l’hai e preparati a partire” mi congedo e torno in camera, iniziando a preparare le valigie. Più tardi vengo riconvocata nell’ufficio del direttore per gli ultimi dettagli
“partirai stasera alle nove e sarai a Los Angeles diciotto ore più tardi. Condividerai un appartamento con una studentessa italiana, Ilaria Baschi, laureanda in letteratura inglese” poi mi augura buon viaggio. Sono pronta, per quanto mi spaventi incontrare persone che ho sempre visto sulle copertine dei giornali: Taylor Lautner, Kristen Stewart, Robert Pattinson, Ashley Greene, Kellan Lutz, Peter Facinelli, Jackson Rathbone … e chi più ne ha più ne metta. Parto due ore dopo, direttamente dall’accademia.
Per scaricare la tensione chiamo la mamma e mi preparo a recitare la mia parte
“mamma! Sono io , come stai?”
“oh, Laure, quanto tempo. Qui tutto a posto. Ma raccontami di te. Come va in America?” faccio un respiro profondo
“benissimo! Pensa che ho trovato un lavoro sul set di un film a Los Angeles” quando mi chiede dove abito le descrivo una casa che ho visto sul giornale, poi invento una scusa e la saluto. Mi addormento e per fortuna riesco a dormire per tutta la notte. Mi svegli che il mio orologio segna le due del pomeriggio, ma fuori è ancora buio.  Rimango un attimo perplessa, poi mi ricordo del fuso orario e sistemo anche il cellulare. Atterriamo e cerco un taxi. Arrivo all’appartamento che dovrò condividere con la studentessa italiana. E infatti la vedo affacciata alla finestra che mi fa segno di salire. Non appena entro si presenta e mi abbraccia. È contenta come me perché siamo entrambe italiane e sembra simpatica: sorride sempre e non fa troppe domande. Si propone di accompagnarmi sul set la mattina seguente e di aiutarmi a cercare un’auto. Una moto, correggo mentalmente.
Al mattino mi sveglio e prepariamo la colazione.
Poi sgusciamo nel traffico sul suo maggiolone rosso fino al set.
“ciao, ci vediamo stasera” saluta prima di avviarsi verso l’università.

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Capitolo 6
*** ciak!azione! ***


Entro e chiedo degli studi di Eclipse. Una corpulenta guardia mi indica la strada tra un boccone e l’altro.
Seguendo le indicazioni arrivo sul set e il regista mi presenta a tutti.
“allora … io mi chiamo David Slade, lei è Stephenie Meyer, lui Andy Chang, aiuto alla regia. Loro sono i cameraman e quell’uomo laggiù è l’addetto agli effetti speciali. Ora ti presento il cast. Robert e Kristen, Nikki, Taylor, Kellan, Elisabeth, Peter, Billy, Ashley,Jackson e poi i ‘cattivi’ Xavier, Dakota, Bryce e Jodelle ”
Tutti quei nomi mi mandano in confusione e David se ne accorge
“tranquilla, lavorerai solo con alcuni di loro. Stando a quello che mi hanno detto, sei un’esperta nel combattimento” annuisco “iniziamo con Robert, Peter, Kellan e Jackson, quelli che hanno bisogno di più allenamento. Dovrai fargli vedere come si combatte. Questo è il copione e le pagine segnate sono le scene che dovranno fare. Buona fortuna!” e ci lasciano soli. Li guardo. Non sono tanto diversi dai poster che ho messo in valigia, eppure … mentre rifletto si avvicina Kellan
“e tu come ti chiami?”
“sono Laure, Laure Kiel, è un piacere conoscervi”
“finalmente una ragazza che non urla e non sviene” commenta qualcuno, sottovoce. Rido, nonostante la tensione.
“vi dispiace se vi chiamo con i nomi dei vostri personaggi? Mi viene più semplice.” Sento un mormorio di assenso. Faccio un paio di respiri profondi per prendere coraggio, poi inizio a parlare
“possiamo iniziare da Jasper, che in questo capitolo ha più scene d’azione. Per voi va bene?”
“non devi chiedere se per noi va bene, decidi tu” mi interrompe Peter con gentilezza. E mi rincuora, anche se troppe responsabilità mi hanno sempre mandato nel panico
“bene. Jasper, Emmet, avvicinatevi. Quando Jasper spiega come uccidere i neonati tu sei il primo a farsi avanti e a sfidarlo. Parti un po’ più indietro … ecco … poi corri e gli vai addosso. Jasper si sposta e quando Emmet riparte alla carica lo fermi con un braccio e lo metti per terra. Ok?” iniziano a correre per scaldarsi e mi ritrovo a fissarli, uno per uno. Certo Jackson e Kellan sono sempre stati i miei attori preferiti, e averli lì davanti può spaesare chiunque, ma c’è qualcosa che mi colpisce. Come si muovono, sembrano felini pronti a scattare. Soprattutto Jackson con quella chioma da leone. A un certo punto si fermano
“ma senza cavi non riesco a sollevarlo” fa notare Jackson. Mi do mentalmente della rimbambita per non averci pensato. Dopotutto Kellan è … enorme … non c’è altra parola per definirlo. E sebbene neanche Jackson sia un fuscello, non potevo certo pensare che sarebbe riuscito ad alzarlo
“giusto … ma noi dobbiamo provare … ” penso a una soluzione. Sono molto allenati, ma non abbastanza, si vede dai loro movimenti: ho una certa esperienza in proposito. Kellan sorride, malizioso
“prova a sollevare lei, non dovrebbe essere un problema” propone, sempre sorridendo. Le mie guancie si infiammano. No! No e ancora no!
Ma a quanto pare non ho scelta, non mi viene in mente altro. Abbasso la testa un po’ contrariata: Jackson non mi è certo indifferente sul piano fisico … e vorrei vedere chi potrebbe affermare il contrario! Mi rassegno a quella decisione, dato che agli altri va bene e prendo la rincorsa. Inizio a correre. Jackson si sposta per evitarmi, poi mi giro e corro ancora una volta verso di lui. Allunga le braccia, mi solleva e mi appoggia a terra, sul materassino, probabilmente con più delicatezza del necessario. Mi trovo sdraiata a terra, con lui sopra. Non doveva essere così!
“va bene, ma mi devi buttare per terra, forte. Così sembra che devi mettere a dormire un bambino. E poi non devi cadere anche tu. Jasper rimane in piedi e sorride” spero non mi prenda alla lettera. Se sorridesse ora avrei non poche difficoltà a mantenere il controllo. In effetti quegli occhi verdi da gatto sono irresistibili, sta molto meglio che con le lenti a contatto del film. Sento qualcosa di strano, una sensazione a cui in questo momento non riesco a dare un nome …
“ce la fai ad alzarti o serve una mano?” chiede Kellan e Jackson scatta in piedi, poi mi tende la mano per farmi alzare
“ricominciamo” dico, confusa. E riparto. Corsa. Salto. Giro. Ancora corsa. Vedo Jackson pronto e salto di nuovo. Mi prende dai fianchi e mi ritrovo per terra. Lui in piedi, sorride. Chiudo gli occhi per una frazione di secondo, per riprendere il controllo. Quel ragazzo mi sta facendo impazzire. Mi rialzo
“così andava bene. Andiamo avanti?” annuiscono e prendo il copione. Nel frattempo Robert e Peter se ne sono andati, per delle altre prove. Forse sono troppo lenta. Inizio a sfogliare le pagine
“ok, poi Emmet chiede la rivincita, ma si fa avanti Carlisle. Affronta Edward con un paio di finte. Lo mette a terra. Passa Jasper a dare qualche altro consiglio, Carlisle si riprende e lo mette ko … ma per questo ci servono Peter e Robert … ” leggo velocemente ma Kellan interviene, di nuovo
“fate il pezzo di Alice e Jasper. Tanto Ashley va in palestra tutti i giorni ed è più agile, non ha bisogno di tanto allenamento … può fare lei Alice ” cos’è, cospirazione? Penso proprio di si, e a danno mio. Alzo gli occhi al cielo e inizio a leggere
“ok.. allora …. Alice e Jasper si rincorrono come in una danza, poi lei gli sale sulle spalle e lo bacia. I lupi mormorano inquieti … ma questo non ci interessa … pronto, Jasper?” lui annuisce. E così per tutta la giornata, con le velate insinuazioni di Kellan. Ma che cavolo! Lo conosco da poche ore e già riesce a fare battute imbarazzanti sul mio conto?!?
Quando a fine giornata vado a cambiarmi mi chiama Ilaria
“ti ricordi che autobus devi prendere?” chiede . ci penso su
“no, ti stavo per chiamare. Era il 3? Forse.. il 5? No …”
“era il 26, meno male che ti ho chiamato io, sennò chissà dove finivi … un momento, perché stiamo parlando in inglese?”
“non lo so, hai iniziato tu. Ci vediamo dopo, grazie”
“di nulla. ciao”
Metto via il cellulare.
“scusa, ma non ho potuto fare a meno di sentire” mi si avvicina Jackson
“oh, ciao. Senti, sai dove posso comprare i biglietti per l’autobus?” sorride
“lascia stare, ti accompagno io”
“ma no, figurati, prendo il pullman … davvero, non voglio disturbare … ” provo a inventare qualche scusa, ma lui non molla
“nessun disturbo. Dove abiti?” momento di difficoltà
“ehm … so che è sulla quinta strada, ma non mi ricordo il numero civico, però di fronte al portone c’è una profumeria … ” mi mette una mano sulla spalla e sento una scossa irradiarsi in tutto il corpo
“direi che la memoria non è il tuo forte, comunque credo di aver capito. Ti aspetto fuori”
Entro nello spogliatoio e mi cambio. Metto la tuta in un sacchetto, esco e saluto David e gli attori. Quando esco dagli studi è già buio, eppure sono solo le otto! Vedo una macchina nera sportiva che mi abbaglia due volte. Mi avvicino e Jackson mi fa segno di salire.

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Capitolo 7
*** colpo di fulmine ***


“preso tutto?”
“si. certo”. Sorride e parte. In sottofondo c’è una canzone che non ho mai sentito. Iniziamo a parlare. Mi racconta della sua famiglia, di come ha iniziato a fare l’attore, dei programmi che guardava da bambino. Poi mi chiede di me. Ci penso per qualche secondo, per eliminare ciò che non posso dire e riempire i buchi con qualche banalità
“sono nata a Firenze e mi sono trasferita in Trentino a diciassette anni. Ho frequentato il liceo scientifico e ho una laurea in chimica. Mia mamma è ricercatrice e mio fratello ingegnere vicino a Pisa. E poi ci sono i fratelli dalla parte di papà: uno è medico e gli altri studiano ancora”
“cos’hai fatto dopo l’università?”
“ho viaggiato, sono stata in Francia e poi qui in America, dove ho deciso di fermarmi”
“qualche motivo particolare ti trattiene negli States?” capisco dove vuole arrivare e sento delle farfalle muoversi nel mio stomaco, una sensazione a cui ancora una volta non riesco a dare un nome. Ma qualcosa si risveglia nella mia mente. Qualcosa da tempo dimenticato … un’emozione che associavo a una persona …. Che associavo a te … aiuto! Questo vuol dire che mi sto innamorando? Di nuovo, dopo tutto questo tempo? Sorrido
“a parte il lavoro? No, nessun motivo particolare” noooo  …. Nessun motivo particolare … a parte il fatto che mi sto innamorando di te, un perfetto sconosciuto … spero non mi faccia altre domande. Mi concentro sulla musica
“stanca?”
“si. È  stata una lunga giornata”
“già, soprattutto con quattro ragazzi che non capiscono niente”
Gli do una botta sul braccio
“non è vero che non capite niente!” ride. Mi piace la sua risata: ha un bel suono. Mi piace ancor più del suo accento texano.
“ecco, siamo arrivati. Abiti qui?” guardo il portone e annuisco. Faccio per scendere , ma lui mi blocca
“è buio, non puoi andare sola. Aspetta che parcheggio” in effetti Ilaria mi aveva avvertito che non è un bel quartiere, ma da lì ad avere paura di attraversare la strada …
Parcheggia, scende e prima che faccia in tempo ad aprire la portiera, lo vedo dalla mia parte che tende la mano per farmi scendere.
“sicuro di non essere diventato un vampiro, nel frattempo?” chiedo stupita, cercando di metterla sul ridere. Afferro la sua mano per non mettere le scarpe nell’acqua. Quando finalmente riesco a scendere, poggia la mia mano sul suo cuore. Lo sento battere velocemente, forse troppo
“ancora dubbi sulla mia umanità?” scuoto la testa e mi accompagna al cancello. Perdo altri dieci minuti buoni per trovare le chiavi
“sicura di non essertele dimenticate?” chiede quando inizio a svuotare la borsa
“no” ribatto arrabbiata “sono loro che non vogliono farsi trovare” ride
“aspetta … fammi vedere” gli passo la borsa, dove effettivamente le chiavi non ci sono. Perciò mi decido a suonare il citofono. Ilaria risponde e apre. Jackson mi bacia su una guancia e se ne va. Entro in casa e saluto la mia coinquilina. Parliamo della giornata mentre mangiamo e poi vado a dormire.
E così per una settimana. Ilaria mi porta al mattino e Jackson mi riaccompagna la sera. Sono andata in qualche concessionaria a vedere delle moto, ma una volta era troppo cara, l’altra non c’era il colore che volevo io. Quando finalmente penso di aver trovato la moto per me, interviene Jackson ,asserendo che quell’uomo ha una cattiva fama. Infine, tramite un compagno di corso di Ilaria, riesco a comprare una Ducati nera. Ma purtroppo sta iniziando l’inverno e fa troppo freddo per andare in moto.
Me ne lamento una sera con Jackson mentre scendo dalla macchina
“dai! Avrai tutta l’estate per andare in giro in moto!”
Mi accompagna, come sempre, mentre prendo le chiavi che ho imparato a mettere in tasca. Vediamo in lontananza i fari di un’auto e per non essere investiti ci troviamo schiacciati contro il portone, dato che non c’è nemmeno il marciapiede!
Ridiamo e pian piano lui si avvicina e mi mette le mani sui fianchi. Sento una morsa allo stomaco. Chiudo gli occhi  e mi bacia. Lentamente, come se non stesse diluviando, come se non facesse freddo … anche se a dire il vero, in quel momento il freddo e l’acqua non li sento neanch’io … e senza sapere il perché, mi ritrovo a ricambiare quel bacio. Poi si allontana
“buona notte” saluto con la mano e sale in macchina. Salgo le scale meccanicamente, ma solo quando apro la porta mi accorgo di essere fradicia
“Laure! Ma sei tutta bagnata! Che è successo?” mi spoglio in corridoio e asciugo la pozza d’acqua che si è formata sul pavimento. Sento Ilaria che parla, probabilmente mi sta facendo il resoconto della giornata, ma per quanto mi sforzi non riesco a concentrarmi sulle sue parola, la mia testa vaga da un’altra parte. Lei se ne accorge e mi posa una mano sulla fronte
“no, non sei calda. Sei sicura di stare bene?”annuisco
“mi ha baciata” riesco a dire. Ma tanto basta. Mi salta addosso e mi abbraccia
“wow! È fantastico! Avanti racconta!”
Prendo fiato e inizio a parlare. Le dico della macchina, del portone, della morsa allo stomaco … e raccontandoglielo riesco a tornare alla realtà. Ilaria non sta più nella pelle
“Laure, ti rendi conto? Jackson Rathbone!” e mi abbraccia ancora. Mi parla del suo primo ragazzo, di un suo compagno di classe che le piace e io mi trovo a raccontargli di te, dei nostri cinque anni assieme … poi di Simone e della rosa arancione …
“quindi erano quasi nove anni che non baciavi un ragazzo?” annuisco “allora vuol dire che lui è proprio quello giusto” e con quella frase nella mente vado a dormire.
Mi agito tutta la notte e non riesco a dormire. Quando finalmente mi calmo è tardi e al mattino mi deve svegliare Ilaria
“Laure! Forza o faremo tardi!”
Mi vesto in fretta, metto le scarpe mentre bevo il caffè, indosso il cappotto finendo di mangiare la brioches
“vado a prendere la macchina. Puoi portarmi giù tu la borsa?” chiede lei scendendo le scale. Prendo il copione dal tavolo e lo metto in borsa, afferro al volo lo zaino di Ilaria e chiudo la porta. Metto le chiavi in tasca mentre scendo le scale saltando i gradini a due a due. Esco dal portone proprio mentre il maggiolone rosso si ferma davanti alla profumeria. Metto la borsa nel bagagliaio e faccio per salire, ma Ilaria mi fa segno di no e indica dietro di sé. Mi giro e vedo la macchina nera di Jackson ferma qualche metro più in la. Mi avvicino e lo vedo appoggiato al cofano. Mi da un bacio leggero sulle labbra e, quando vede che non mi allontano, mi abbraccia. Saliamo in macchina, mette in moto. Accende la musica e abbassa il volume.
“ti devo fare le mie scuse per ieri sera. A mia discolpa posso dire solo che sei un libro aperto e non potevo più aspettare che facessi tu il primo passo” sorrido imbarazzata e abbasso la testa. Mi guardo i piedi mentre lui continua “il fatto è che mi piaci, e … beh, … potremmo provare … a stare insieme, intendo” mi guarda mentre guida, probabilmente si aspetta una risposta.
“ecco … io non sono molto brava con le parole, ma mi piaci molto … ” e a questo punto credo di aver raggiunto un colore pari a quello di un pomodoro “erano anni che non mi capitava una cosa del genere …” mi scosta i capelli dal viso e mi bacia mentre aspettiamo che il semaforo diventi verde. Quando arriviamo sul set mi ricordo di non aver dato neanche un’occhiata al copione, proprio oggi che il regista viene a vedere come ce la caviamo. Rileggo le scene che mi interessano, mentre mi sfilo i jeans per mettere la tuta. Entrano Ashley e Nikki, poi Bryce ed Elisabeth. Arrivano costumiste e truccatori. Esco e raggiungo David. Nel frattempo arrivano anche gli altri attori
“bene” esordisce il regista quando ci siamo tutti “oggi vediamo come vi siete preparati per i combattimenti. Kristen mi ha chiamato che non si sente bene, perciò le sue scene le vediamo un altro giorno. Proviamo a girare anche qualche scena all’interno” gli attrezzisti iniziano ad allestire una stanza di casa Cullen. Cerco di dare una mano, dove posso, ma per lo più rimango incantata a vedere con un capannone possa diventare una villa di lusso. Alle due inizia a piovere, senza essere riusciti neanche a riscaldarsi, e ci rimandano nei camerini. Le ragazze stanno organizzando un’uscita per questa sera
“ehi, Laure, sei dei nostri?” chiede Nikki
“certo. Dove andate?” mi abbasso per allacciare le scarpe
“in pizzeria, vicino al parco. Doveva venire anche Kristen, ma poi non è stata bene … chiedi alla tua amica se vuole venire” risponde Bryce.
“Ilaria? Si, sono sicura che verrà” prendo il cappotto, saluto ed esco. I bollettini meteo prevedono pioggia per tutto il giorno. Esco dagli studi e vedo la macchina di Ilaria parcheggiata: il sabato all’università non c’è lezione. Salgo
“ciao, com’è andata?”
“bene, grazie di essere passata, tanto oggi pomeriggio non devo tornare, è prevista pioggia”
“perfetto. Ti va di andare a fare la spesa?”
“volentieri! Sei libera stasera?”
“si, perché?”
“le ragazze ci hanno invitato in pizzeria. Vieni?”
“e certo che vengo! Non vedo l’ora di conoscerle”
Torniamo a casa e mentre mangiamo preparo la lista della spesa: uova, latte, caffè …. E cose varie, due colonne di elenco
“pronta? Andiamo?” scendiamo per le scale. Piove ancora. Dopo la spesa torniamo a casa con sei borse piene e pesanti le lasciamo sul tavolo e iniziamo a prepararci per la sera.
Due ore dopo siamo pronte. Ultima analisi davanti allo specchio prima di uscire. Ilaria indossa un vestito bianco con il tulle rosa, capelli raccolti e giacca nera; io un vestito bordeaux con il fiocco in vita, copri spalle bianco e ballerine nere. Arriviamo davanti agli studi e aspettiamo le altre.
Serata fantastica.
E stancante.
Appena tornata a casa mi butto sul letto e mi addormento vestita.
Domenica mattina. Mi giro nel letto, ascoltando la radio. Un attentato ad Atene, le notizie sul tempo, un messaggio del presidente Obama. Mi alzo alle dieci e iniziamo a fare le pulizie: lavare le tende e passare la cera sui pavimenti, la casa ringrazia. Suonano al citofono e vado a rispondere, con lo straccio ancora in mano
“chi è?”
“buongiorno. Sono Lucius Cole. Potrei parlare con miss Kiel?”
“sono io. ditemi”
“potreste scendere? Ho bisogno di parlarvi” afferro il giubbotto, lancio lo straccio sul tavolo e scendo
“buongiorno” saluto e Mr Cole mi fa segno di seguirlo. Inizia a camminale e lo affianco. Dopo qualche frase preliminare mi parla del motivo della sua visita
“si dice che i palestinesi stiano sviluppando una nuova arma. Il Mossad vuole riunire tutti i suoi esperti per sventare la minaccia. E fra questi ci siete anche voi. Quando finiranno le riprese dovrete presentarvi in Israele. Ok?”
“si, certo. Grazie di avermi avvisato”
“figuratevi, Laure, è il mio lavoro. Ah, a proposito … ottima mossa, fidanzarvi con un attore. È una delle coperture migliori … ” rimango basita. E lui come fa a saperlo? Notando la mia faccia scioccata aggiunge “eh,eh, io so tutto miss Laure … buona domenica” e se ne va, esattamente com’è arrivato. Torno a casa, un po’ rintontita. Ilaria mi chiede chi era. Invento una scusa e mi rimetto al lavoro. Poi vado in camera, accendo il computer e faccio qualche ricerca sulla presunta arma palestinese. Scopro che si tratta di una bomba chimica, in grado di mettere in ginocchio la popolazione nel giro di qualche giorno. Non mi accorgo neanche quando suonano alla porta, finché non sento Ilaria
“vado io!”. Dopo qualche scambio di battute, sento la porta richiudersi. Ilaria viene a bussare in camera mia. Apro una pagina a caso, sulle notizie del giorno
“chi era?” chiedo fingendo di leggere qualcosa.
“qualche notizia interessante? ” scuoto la testa “era un invito. Per te” mi giro e la vedo sorridere. Mi porge un biglietto color avorio piegato in due. Lo apro:
“ti va di venire da me? Se si, ti passo a prendere alle otto. Jasper”
Lo passo a Ilaria, che è curiosa di leggerlo
“chi l’ha portato?”
“una donna, mai vista” 

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Capitolo 8
*** appuntamento ***


ringrazio tutti quelli che leggono questa storia
lasciate pure un commento se vi va, fa sempre piacere, anche negativo.... giusto per sapere se sono davvero una frana come mi dice mia figlia...
buona lettura!!


“cosa mi metto?” domando preoccupata. Non mi ero mai posta un problema del genere. A Cles, dovendo andare a scuola in moto, vinceva la praticità. Quando abitavo a Firenze cercavo di vestirmi il più leggero possibile. E negli ultimi due anni avevo portato la divisa del Mossad.
Con l’aiuto di Ilaria svuoto l’armadio. Realizzato che non ho nulla da mettere, usciamo a piedi per comprare qualcosa. Provo decine di vestiti in un centro commerciale e alla fine trovo la cosa giusta: un abito blu, lungo fin sopra il ginocchio, con la cerniera di lato e senza spalline, giacca dello stesso colore e scarpe alte in coordinato.
“e le calze?” chiedo mentre guardiamo altre vetrine
“non metterle! Tanto ti verrà a prendere in macchina e poi, non credo che ti serviranno” alzo gli occhi al cielo ,per non arrossire, mentre lei ride. È tutto il pomeriggio che fa allusioni imbarazzanti, ma non demorde.
Quando torniamo a casa inizio a prepararmi. Mi trucco, mentre Ilaria passa la piastra sui miei boccoli e poi li raccoglie con un punzone. Lascia sciolta solo una ciocca, l’unico boccolo che non ha distrutto, dove di solito c’è il ciuffo. Suona il citofono e mi preparo a scendere
“torni stasera?” chiede facendo schioccare le labbra. Sorrido imbarazzata e le scompiglio i capelli, mentre scendo le scale
“vai piano che cadi!” mi avvisa quando ormai sono arrivata al portone. Vedo la macchina di Jackson e lo raggiungo
“sapevo che saresti venuta ” sorride e saliamo in macchina. Guarda come sono vestita e si sofferma sulle gambe più a lungo del necessario
“mmh … ricordami di ringraziare meglio Margareth ”
“chi è Margareth?”
“la donna che ti ha portato il mio biglietto, oggi pomeriggio. Mi aiuta ad occuparmi della mia casa, ormai è una di famiglia” scala le marce e mi accorgo che ci stiamo avvicinando a casa sua. Da quel poco che mi ha raccontato Ashley, vive da solo e si trasferisce con la band quando hanno qualche impegno importante.
Abita in una villetta nascosta tra gli alberi. Parcheggia e viene dalla mia parte per aiutarmi a scendere. Suona il campanello e viene ad aprire una donna anziana. Sembra simpatica, sorride e ci lascia entrare
“vieni, ti faccio vedere la casa. Lei è Margareth, e non so cosa farei senza di lei” mi prende per mano e mi porta a vedere tutte le stanze: cucina, soggiorno, la camera degli ospiti e il suo studio
“ … e questa è camera mia” mi avvicino al balcone e guardo all’orizzonte: si vedono solo alberi
“che bello! Sembra di essere in un bosco. È fantastico!”
Lo sento arrivare da dietro e mi lascio abbracciare
“fantastico? Non se il confronto è con te” mi giro e mi bacia. Gli metto le mani intorno al collo e rientriamo. Dopo un po’ sento le sue mani sopra il vestito, slaccia la cerniera e l’abito cade ai miei piedi ….
Mi sveglio molte ore più tardi. Mi guardo intorno e nell’oscurità riesco a distinguere il mio vestito per terra e la camicia di Jackson in fondo al letto. Dopotutto Ilaria non aveva tutti i torti …  a questo pensiero arrossisco. Sento le sue mani che mi abbracciano, il suo respiro caldo sul collo
“ti ho svegliata?” scuoto la testa e lo bacio. Poi appoggio la testa sul cuscino e mi riaddormento.
Mi accorgo che è mattina quando vedo a luce entrare dalla finestra.. Jackson mi prende in braccio e mi fa scendere dal letto. Poi va nell’armadio e si veste. Mi passa una camicia bianca quando recupero la mia biancheria
“ti andrà un po’ grande, ma è la più piccola che ho. Vado ad aiutare a preparare la colazione, così ti lascio un po’ di privacy” sorride ed esce chiudendo la porta. Mi metto la camicia: è lunga come il vestito che avevo ieri sera. Rimbocco un paio di volte le maniche per poter usare le mani. Poi prendo un elastico dalla borsa e raccolgo i capelli ancora lisci. Metto un po’ di terra sul viso e mentre mi metto le scarpe entra Margareth
“buongiorno!” saluto “serve una mano?” chiedo quando si avvicina al letto. Lei mi guarda e sorride: lo prendo come un sì. Mi avvicino e l’aiuto a rifare il letto. Poi mi accompagna in soggiorno e va in cucina
Arriva Jackson con un cartone di latte e alcuni bicchieri. Lo aiuto a riempirli e nel frattempo torna Margareth con delle brioches. Ci sediamo tutti a fare colazione. Che bello! Mi ricorda quando ero piccola, preparavo la colazione con Mark e poi andavamo a svegliare la mamma. Poi si sente il rombo di un’automobile e Margareth controlla alla finestra

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Capitolo 9
*** la famiglia Rathbone ***


“i tuoi genitori” annuncia a Jackson. Poi la donna viene verso me, mi prende per mano e mi porta in camera sua, mentre Jackson si sistema i capelli allo specchio in entrata
“che succede?” chiedo preoccupata. Sono talmente spaventata che glielo chiedo in italiano, senza neanche accorgermene. E la cosa più strana è che lei mi risponde nella stessa lingua
“non ti preoccupare, cara. È solo che i genitori di Jackson, soprattutto la madre, sono un po’ …. All’antica. Un po’ tanto direi. Dobbiamo solo dare a Jackson il tempo di spiegarglielo. Nel frattempo ti trovo qualcosa da mettere … ecco, prova questi … sono le cose che ha lasciato mia figlia quando è andata al college” mi passa una gonna plissettata nera e una camicetta azzurra con le maniche arricciate. Le infilo e lei mi passa anche una cintura, vedendo che la gonna mi cade. Rifaccio la coda e vengo di nuovo presa dal panico
“e se non gli piaccio? Forse è meglio che rimanga nascosta qua …”
“no!” Margareth mi prende per le spalle e mi fa sedere sul letto “tu sei italiana, come me. E gli italiani sono un popolo coraggioso. Andiamo!” si sistema il grembiule e mi fa segno di seguirla. Faccio un respiro profondo e mi avvio dietro di lei. Arriviamo di sotto. Sento delle voci
“venite … venite … avete già fatto colazione?” chiede Jackson. Si sente il ‘si’ secco di una donna. Proseguo e li vedo seduti sul divano. La madre è una donna magra e non molto altra, bionda e asciutta. Il padre al contrario è alto e robusto, con una massa di riccioli bruni e un sorriso stampato in faccia.
Jackson , perfetta mescolanza dei due, è in piedi e parla. Margareth mi precede e inizia a sparecchiare il tavolo della colazione. Un altro respiro, poi avanzo sicura verso il divano.
“Laure!  vieni” Jackson mi viene incontro e, passandomi una mano intorno alla vita, mi guida verso i suoi genitori
“mamma, papà, lei è Laure, la mia fidanzata” il padre si alza e mi stringe la mano
“piacere di conoscerla, cara Laure” poi si rivolge verso il figlio “adorabile!” bisbiglia prima di risedersi. Mi avvicino al divano e tendo la mano alla donna
“buongiorno, signora. È un piacere per me conoscervi” mi stringe la mano con l’aria di chi sta facendo un grande sacrificio
“come ti chiami?” chiede poi, squadrandomi
“Laure … Laure Kiel”
“mmh … Kiel, mai sentito. Di dove sei?”
“sono italiana, di Firenze, ma mia madre è francese e mio padre tedesco”
“ah … e cosa ci fai qui in America? “ apro la bocca per rispondere. Motivi di lavoro, avrei detto, ma Jackson mi anticipa
“questi saranno anche affari suoi, mamma. Margareth, per favore, accompagna i miei genitori nella stanza degli ospiti”
Quando i signori Rathbone escono – lui facendo l’occhiolino e lei senza neanche voltarsi a guardare –mi siedo sul divano
“scusa, mi dispiace … non volevo farti … ” inizio
“no, non è colpa tua. Prima o poi avrei dovuto dirglielo. Meglio prima che poi. Papà ne è entusiasta, mentre la mamma … beh, bisogna darle il tempo di abituarsi. Probabilmente se fossero arrivati di pomeriggio non avrebbe fatto tutte queste storie. Anche se non gliel’ho detto, è improbabile che tu sia venuta solo per la colazione … vieni, ti accompagno a casa” protesto un po’ per farlo rimanere, io potrei prendere il pullman
“insisto” conclude aprendomi la portiera. Quando arriviamo a casa prendo le chiavi
“i miei partiranno domani sera, perciò domani verranno a vedere le riprese … ” ma io sto pensando a un altro problema
“vengo in moto. Ci vediamo domani”non gli lascio il tempo di ribattere, lo bacio e scendo.  Appena entro in casa Ilaria mi assale
“ahah!avevo ragione!” rido con lei
“ e tu cos’hai fatto?” chiedo, togliendomi la giacca. Lei sorride ancor di più
“non ci crederai  mai … mi sono messa con Andy!” Andy, il ragazzo che le piace. Mi fa il resoconto della serata, con la promessa di presentarmelo
“e tu, come mai sei tornata a casa così  presto? Ti aspettavo come minimo per pranzo” così le racconto dell’arrivo dei genitori di Jackson e dell’interrogatorio della madre
“sono decisa a fare bella  figura e ne ho anche l’occasione: domani vengono sul set” concludo. Mangiamo, e nel pomeriggio faccio qualche altra ricerca sulla famigerata arma chimica.
Suona la sveglia, la spengo e mi alzo. Poi vado a svegliare Ilaria. Facciamo colazione e mi preparo. Prendo il casco e scendo. Salgo in moto e parto
E con il vento che gonfia il giubbotto mi sento libera. Leggera. Anche se c’’è traffico, anche se è marzo e fa freddo, percorrendo quelle strade mi sento libera.
Entro nel parcheggio degli studi, scalo le marce e mi fermo. Mi guardo intorno, ci sono quasi tutti: la BMW di Kellan, le Mercedes di Kristen e Nikki, l’auto del marito di Elisabeth, la macchina nera di Jackson. Mentre metto la catena vedo arrivare l’Audi di Peter. Lo aspetto ed entriamo insieme. Entro nello spogliatoio e inizio a cambiarmi
“ti cercavano, Laure” mi informa Kristen. Alzo lo sguardo e lei continua “ è entrata la madre di Jackson , un quarto d’ora fa, cercava la ragazza di suo figlio. Non abbiamo fatto in tempo a dirle che arrivavi più tardi che s en’è andata. Che donna strana!” la ringrazio dell’informazione prima di uscire. Aspettiamo i ragazzi per scaldarci, poi arriva David
“oggi vediamo le scene che avete provato con Laure” annuncia al cast “Laure, qualche nota tecnica?” faccio un passo avanti
“si, solo un paio. Servono i cavi per Emmet e Carlisle, e dei tappetini vicino a Jasper. Una pedana per Alice e una per Edward, vicino a Bella” conto sulle dita mentre parlo. Finita la mia enumerazione torno indietro
“bene, provate ancora un po’, mentre prepariamo i costumi e le attrezzature. Oh, e anche il fondale con i lupi. Per girare una scena di prova dobbiamo aspettare la sera, qundi perfezionate il tutto al meglio”
Detto questo si allontana per parlare con gli scenografi. 

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