Il nastro bianco

di Maatkara
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Lista capitoli:
Capitolo 2: *** 1. Il quadro giallo ***
Capitolo 3: *** 2. Et le miroir ne sourit plus ***
Capitolo 4: *** 3. Un'occasione ***



Capitolo 2
*** 1. Il quadro giallo ***


IL NASTRO BIANCO


Ciao a tutti! Questa è la prima volta che pubblico una mia storia... Questo racconto è nato come un compito di Storia dell'Arte, poi mi ha preso la mano, ed eccoci qua! Dovrebbe trattarsi di 3 - 5 capitoli in tutto. So che è egoista chiederlo, da parte mia (perchè io, per pigrizia, non lo faccio quasi mai), ma mi piacerebbero tanto un commentino o due... Grazie mille e buona lettura!
Maatkara

IL QUADRO GIALLO


 

Aprile 1910
Era andata via. Non era certo di quanto tempo fosse passato, doveva finire prima che il colore seccasse. Un’ora, forse di più; la porta era ancora aperta.
Lanciò uno sguardo al tavolo dove aveva posato i vestiti, spogliandosi : i soldi erano ancora lì, insieme ad un nastro bianco.
ll nastro… era la prima cosa che aveva notato di lei. In mezzo ai pizzi volgari ed ai colori sgargianti da zingara, un punto chiaro, un fiocco quasi da bambina, fuori moda.
Guardandolo, aveva desiderato dipingerla.
 
«Io… ecco... Io… sono un pittore, signorina… vorrei… per caso…  poserebbe per me?»
Rispose con indifferenza, senza distogliere lo sguardo dalle mani. «Basta che paghi»
«Pagherò!»
 
Era arrivata di pomeriggio, la luce di mezzogiorno filtrava ancora  tra le tende tirate. Non era bella, con una massa di capelli bruni arruffati e sporchi. Aveva il viso scavato, triangolare, gli occhi cerchiati, la pelle chiarissima; stringeva le braccia magre con aria spaurita, ma lo sguardo era risoluto e rassegnato.
Si era voltata verso di lui, squadrandolo con un disprezzo che l’aveva quasi fatto indietreggiare.  Per un istante lo aveva fatto sentire infinitamente piccolo e misero, lui, che si sentiva tanto profondo e sensibile, lui che capiva l’arte, la bellezza… per un istante, gli era sembrato di nutrirsi solo di forma e superficie.
D’istinto, aveva aperto le finestre, facendo esplodere le luce gialla nella stanza. Lei aveva stretto gli occhi, riparandosi con una mano; il suo stomaco aveva brontolato. Imbarazzato e impacciato, lui le aveva offerto qualcosa da mangiare, ma lei aveva risposto, con disprezzo ancora maggiore, che non aveva bisogno della sua elemosina. Poi aveva cominciato a spogliarsi, guardandolo con aria di sfida, piegando i suoi abiti da povera con la cura di una ricca. Aveva alzato le braccia per sciogliere il fiocco bianco…
«No, tienilo, quello.»
 
Aveva cominciato a dipingere, notando come il giallo si riflettesse sulla sua pelle così pallida da sembrare opalescente. La sua posizione non era affatto languida o seducente come quella delle modelle dei grandi pittori; sedeva rigida, imbarazzata, cercando di coprirsi in un sussulto di pudore. Lui non sapeva se stupirsene, o esserne intenerito. Entrambe le cose l’avrebbero fatto sentire estremamente borghese.
La ragazza poteva avere al massimo sedici anni. Teneva gli occhi fissi su di lui, mentre si soffermava ad osservare il petto magro, le ginocchia ossute. Si era domandato quale fosse il suo nome.
«Marcella» aveva risposto lei, più dolcemente di quanto si sarebbe aspettato. Ovviamente, non si era nemmeno accorto di aver parlato ad alta voce. Aveva sollevato lo sguardo su di lei, per la prima volta guardandola come una persona. Marcella. Non un’immagine, un simbolo, non un’opera d’arte; ma una persona. Aveva notato che le sue labbra erano carnose, e rosse.
Aveva lavorato preso dal fervore, il pennello, non più impacciato, aveva percorso sicuro la tela, e più disperatamente aveva cercato di raffigurare l’individuo che gli era balenato per un istante davanti agli occhi, più familiare gli era sembrata la figura, finchè il suo contorno non gli era stato noto come la strada di casa.
Entrambi trattenendo il respiro – così almeno gli era sembrato -, l’aveva guardata finchè lei non si era alzata, quasi con grazia, l’aveva baciato sulla fronte e aveva cominciato a rivestirsi.
Lui aveva indugiato, incapace di decidere se seguirla e dirle chissà che o dedicarsi alla tela, che stava già asciugandosi.
 
Si domandò di nuovo quanto tempo fosse passato. Era certo che quando Marcella era uscita, in cielo ci fosse ancora luce. Guardò fuori dalla finestra, e vide che il cielo andava scurendosi.
Non l’aveva nemmeno notata sfilarsi il fiocco. Che razza di idiota. Si pentì di non averla seguita… poi guardò il quadro, e in brivido di trionfo lo attraversò: aveva ottenuto esattamente ciò che voleva.
Il volto incorniciato di giallo non era quello di una donna, quello di una ragazza o di una prostituta; era Marcella.


Spazio Autrice:
Ciao, e grazie infinite per essere arrivati in fondo alla pagina!
Sebbene mi piacerebbe molto, questo quadro non l'ho fatto io: si tratta di Marcella, di Ernst Ludwig Kirchner, 1910.
Il protagonista della mia storia non è Kirchner, perchè la sua vita non coincideva con quello che ho in mente di fargli fare.
Alla prossima!
 

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Capitolo 3
*** 2. Et le miroir ne sourit plus ***


ET LE MIROIR NE SOURIT PLUS

 
Aprile 1910
 
La mattina seguente, in un altro quartiere di Parigi, una donna aprì gli occhi. Spinti faticosamente i piedi oltre il bordo del letto, si diresse a passi strascicati verso la stanza da bagno.
Irene Cahen D’Anvers si guardò allo specchio, stentando a riconoscere in quel fantasma pallido l’aristocratica bellezza che era stata una volta.
La sue pelle chiarissima era diventata quasi trasparente, mostrando il disegno bluastro delle vene, si era lasciata andare sotto gli occhi, sul collo… I capelli ramati tendevano da tempo verso il grigio. Era vecchia.
Vecchia, e malata.
La contessa D’Anvers cominciò a tossire, piegandosi verso lo specchio e premendosi un fazzoletto sulla bocca. Strinse il bordo del lavandino fino a farsi sbiancare le nocche, aspettando che finisse.
Quando ebbe ripreso il controllo di sé stessa, gettò a lato il fazzoletto macchiato di sangue , del quale si sarebbe occupata la cameriera, e, dopo essersi sciacquata il viso, tornò nella stanza da letto.
Fece per suonare il campanello della servitù, ma le sfuggì lo sguardo sulla parete e lo lasciò cadere sul letto.
Sulla parete di destra, proprio sopra lo scrittoio, c’era un quadro, un Renoir originale, probabilmente il dipinto di maggior pregio della sua collezione.
L’immagine era giocata sui contrasti di tonalità; da un fondo scuro emergeva la figura limpida di una ragazzina con un abito azzurro cielo, la pelle chiara ed i capelli di un luminoso color rossiccio. La chioma lunga oltre la vita era pettinata alla moda dell’epoca, trattenuta da un fiocco di seta bianca.
Sedeva diritta, composta, le mani poggiate in grembo, come le era stato insegnato; il viso, dall’elegante profilo classico, era serio, la bocca distesa, niente smorfie né sorrisi. Soltanto negli occhi, quegli occhi nocciola così spesso lodati in società, l’ombra di un fanciullesco anelito, a spezzare la compostezza del volto. Proprio un bel visino.
Irene Cahen D’Anvers rimase almeno cinque minuti a guardare il proprio ritratto.
Erano passati più di quarant’anni da quel giorno, eppure poteva ancora sentire la stoffa fresca dell’abito sulla pelle, i complimenti del pittore, l’intorpidimento delle gambe e delle braccia… come se fosse stato il giorno precedente… si sentiva più viva in quel ricordo di quanto non lo fosse ora! Sentiva che quella era la forma del suo corpo, quello era il suo corpo, e non riconosceva sé stessa  in quello malandato che la ospitava ora.
Sospirò, non sapendo se di tristezza, rabbia o nostalgia.
Recuperò il campanello e lo scosse con inaspettato vigore. «Solange!»
La ragazza arrivò in fretta, intimorita, con il fiato corto. Irene si vide scrutata con preoccupazione; la cameriera evidentemente si aspettava qualche rampogna.
Normalmente si sarebbe sforzata di trovare qualcosa rimproverarla, per non deludere le sue aspettative, ma quella mattina la contessa D’Anvers si era svegliata di umore insolitamente disposto all’osservazione; e dunque osservò la camerierina come aveva ammirato il proprio ritratto, poco prima.
 Solange non era arrivata che da cinque settimane, e già somigliava alla casa in cui lavorava.
L’aria cupa e opprimente sembrava schiacciarla, appiattendole contro la fronte le ciocche scure che sfuggivano alla crocchia. La stoffa della divisa pendeva miserabile dal corpo snello della ragazza, sciogliendo le sue forme giovani in insignificanti linee rette. La pelle sembrava aver assorbito il grigiore e l’umidità dell’edificio. Su di lei il contrasto di colori era quasi funebre: cupi i colori scuri, asettici quelli chiari, come di un ospedale. La crestina inamidata, nella fretta, le era scivolata a lato.
Lo sguardo della donna si spostò alla casa, la grande casa della nobile famiglia Cahen, in cui era cresciuta, alla quale era tornata dopo la morte di suo marito e la bancarotta…
La sua bella casa, in rovina.
Le tappezzerie raffinate erano macchiate di umidità, l’intonaco dei soffitti crepato. I mobili, che ai loro tempi erano costati dei bei soldi a suo padre, erano stati in gran parte venduti. I pezzi che rimanevano, avevano quasi tutti qualche magagna, le fodere lise, o le gambe scheggiate…
Anche l’argenteria era stata rivenduta, e le porcellane più pregiate, e tutte quelle cose costose che è d’obbligo avere in ogni residenza di nobiltà, senza le quali non c’è speranza di mostrarsi all’altezza del titolo.
La sola ricchezza rimasta intatta era la collezione di quadri che era stata di suo padre, e che le aveva trasmesso la passione per i dipinti; l’unica sua passione, in verità.
 Irene Cahen D’Anvers sedette sconfortata alla toilette, e mentre Solange le pettinava i capelli, pensò che bisognava assolutamente far restaurare il ritratto, perché sulla tappezzeria azzurra della stanza da letto era comparsa una macchia di umidità di dimensioni preoccupanti.
Non si poteva certo rischiare che un così bel quadro si sciupasse.
 
 
 
Spazio Autrice:
Il quadro nella camera di Irene esiste davvero, avrei voluto mettere un'immagine, ma non sono stata in grado (il mio rapporto con la tecnologia è burrascoso).
È un’opera di Pierre-Auguste Renoir, intitolata Irene Cahen D’Anvers, del 1880.
Il titolo del capitolo è tratto da una poesia di Marceline Desbordes-Valmore, una poetessa francese del XIX secolo (Le miroir).
Grazie mille per essere arrivati fino a qui!
Maatkara

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Capitolo 4
*** 3. Un'occasione ***


 

Ciao a tutti! Questo capitolo è dedicato alla mia mamma, che quando ha saputo cosa stavo facendo, ha commentato che non dovrei perdere tempo a fare scempiaggini su Internet anzichè studiare. Fa sempre piacere sentirsi apprezzati!
 

UN'OCCASIONE


Si svegliò quando la lama di luce che penetrava tra le tende raggiunse il suo viso. Il quadro era sul cavalletto, coperto da un panno.  Si alzò indolenzito dal divano e aprì la finestra, passandosi una mano tra i capelli; restò qualche momento a guardare Montmartre che brulicava di attività, e si domandò che ore fossero.
«Sono quasi le undici, e non c’è bisogno che io ti dica quanto tu sia in ritardo.»
Pensare ad alta voce dev’essere diventato un vizio.
In piedi, appoggiato allo stipite della porta, dondolando il mazzo di chiavi simbolo della sua condizione, stava il padrone di casa. Era un uomo di mezza età, rubicondo e ben piazzato,  con i baffi brizzolati e pochi capelli. «Voi artisti, sempre infaticabilmente all’opera, eh?»  ridacchiò.
Il ragazzo indicò il cavalletto con il mento «Ma se ho lavorato tutta la notte...Ehi, in ritardo per cosa?»
Continuando a sogghignare, l’uomo rispose: «Ho una grande novità per te: un lavoro! Piantala di consumar pennelli e va’ a mettere in pratica quello per cui hai studiato.»
«Ma io ho studiato per questo!» protestò il giovane
«Ecco, appunto. La contessa D’Anvers ha bisogno di qualcuno che le dia un’occhiata ad un quadro, sai, una sistematina. Ti aspetta per mezzogiorno a Place du Châtelet, nel vecchio palazzo dei Cahen. Ti ho raccomandato io, quindi vedi di non farmi fare brutte figure!» Esclamò all’indirizzo del giovane, che aveva già smesso di ascoltare. Girava a grandi passi per la stanza, torcendosi le mani con aria confusa.
«Mezzogiorno? Ma… e il pranzo? E poi dov’è Place du Châtelet? Non ci sono mai stato! … la contessa D’Anvers, avete detto? Mon Dieu… Devo raccogliere i miei strumenti… ma cosa mi servirà, poi? Qui è un tale caos…»
Il padrone di casa squadrò stupito l’affittuario, domandandosi che tipo di problemi avesse. «Insomma, giovanotto, come mai tutta questa emozione? Non riesci a credere di stare per guadagnarti il pane col tuo proprio lavoro, o hai bevuto qualcosa di strano?» Ma l’artistello lo guardò stralunato ed esclamò: «Starete scherzando! Non sapete che varia, ampia, meravigliosa pinacoteca possiede la contessa? Quali splendide opere? Quali…»
L’uomo ritenne molto più prudente abbandonare il campo, prima che fosse troppo tardi. Lui non si rese nemmeno conto di essere rimasto solo, troppo preso a provare fra sé e sé i commenti da esperto che avrebbe sfoggiato davanti alla contessa D’Anvers.
 
Qualche minuto dopo, era per strada, cercando di ricordare le indicazioni che gli aveva dato la portinaia.
Svoltare a destra, in Rue Marcadet, poi a sinistra… pregando con fervore tutti i santi che conosceva di non perdersi e non far  tardi. Camminò spedito per un paio di minuti, poi, come suo solito, si distrasse e si rilassò, rallentando il passo. Col pensiero tornò alla sera precedente, sentendosi un po’ in colpa per aver mentito a monsieur Vendryes.
Non aveva affatto lavorato tutta la notte.
 
Il quadro era già praticamente finito, quando lui aveva trovato il nastro di Marcella; a quel punto lo aveva semplicemente coperto con un panno ed era uscito di corsa, senza sapere bene dove stesse dirigendosi.
Si era trovato a percorrere la strada lungo la quale l’aveva incontrata la prima volta, vicino ai baracconi dei circensi, e fin qui, nulla di originale; si era aspettato di arrivare lì. Ma si era accorto di stringere ancora in mano il nastro, e non sapendo bene cos’altro fare, gli aveva dato un’occhiata da vicino.
Osservandolo, si era meravigliato parecchio che un ornamento del genere appartenesse ad una povera prostituta. Si trattava infatti di un nastro di seta ricamato di azzurro, con un motivo a fiori ed un monogramma (che non era riuscito a leggere, illuminato solo dalla fioca luce del lampione); per quanto apparisse liso e sporco, era chiaro che fosse stato fatto a mano, e pagato parecchio.
Sempre più incuriosito, si era diretto verso i baracconi, ficcandosi il fiocco in tasca.
Di nuovo, non sapeva bene cosa stesse facendo, o chi stesse cercando. Non era affatto sicuro di voler rivedere Marcella, ora che il quadro era stato fatto, eppure si era trovato a chiedere di lei.
«A quest’ora? Sta lavorando» aveva risposto, con un ghigno beffardo, la vecchia sdentata e puzzolente a cui si era rivolto. Lui era rimasto imbambolato, incapace di articolare una frase.
Per dire cosa? Non aveva la minima idea di cosa stesse facendo!
Poi l’anziana l’aveva condotto in un posto “dove aspettarla”. Doveva averlo scambiato per un cliente.
La stanza era piccola, soffocante, piena di oggettini e stracci colorati. In un angolo c’era un lettino rifatto alla meglio, e dalla parte opposta un tavolino storto. Su di esso – unico mobile della stanza – bruciava la candela lasciata dalla vecchia. Si era guardato intorno, incuriosito; chiaramente doveva trattarsi della stanza di Marcella. Gli oggetti non erano poi molti, ma la confusione era terribile. Solo il piccolo tavolo aveva un aspetto immacolato: su di esso si trovano solo una fotografia incorniciata ed un vecchio libro, dall’aspetto molto consunto. La fotografia mostrava una bambina di circa undici anni, dai lunghi capelli scuri e l’espressione aristocratica. Di certo non trattava di Marcella; la ragazzina dell’immagine era molto più bella. Il viso aveva però la stessa forma triangolare, e tra i capelli lo stesso fiocco bianco. Aveva aperto la cornice,  curioso di conoscere la data, ma aveva potuto leggere soltanto la parola Maman, in una grafia incerta. Rimesso tutto a posto in fretta, sentendosi più che ma un intruso, aveva rivolto la sua attenzione al libro. L’aveva preso in mano, aprendolo alla prima pagina. Il titolo diceva Élégies, Maries et Romances, Marceline Desbordes-Valmore; sotto, vergato in una calligrafia elegante ma frivola, c’era il nome di Isabelle D’Anvers.


Spazio Autrice:
Ciao a tutti, e grazie mille, carissimi, eroici lettori che siete arrivati in fondo a qusta pagina!
Apprezzo molto il fatto che facciate finta che questa storia vi interessi.
Fatemi sapere se il capitolo è troppo lungo. Dovrebbero mancarne solo due.
Grazie ancore, e alla prossima!
Maatkara

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