I Promessi Tomati

di Duo_Tremolante
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Capitolo I ***
Capitolo 2: *** Capitolo II ***



Capitolo 1
*** Capitolo I ***


promessi tomati 1

Capitolo 1

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Quel ramo del lago di Como Varsavia, che volge tipo a ore dodici, nel bel mezzo di qualche posto sperso nel nulla, tipo il Canada e tante belle cosine rosa …

In questo bel posto, per le vie sterrate di un paesino, Don Felibondio passeggiava leggendo il breviario, come d’abitudine: «Veee~», ma a un bivio vide due quattro loschi tizi indistinguibili l’uno dall’altro: il loro nome d’arte è “i bravi del Nord” e sono in promozione al quattro per due.

Berwald, il capo in quanto il più stalker di tutti, si avvicinò aggiustandosi gli occhiali e dall’alto del suo metro e ottantadue guardava di sottecchi il timoroso Don Felibondio.

Costui comprendendo che i bravi lo stavano attendendo; si guardò intorno per trovare una via di fuga, la fedele bandiera bianca pronta, ma non trovandone alcuna si lasciò sfuggire un: «Tasukete, Doitsu!» e si avvicinò sconsolato al quartetto ostentando tranquillità: «Vee~».

Il più rumoroso, il danese, gli corse incontro ghignando poi si fermò e lo guardò intensamente negli occhi; a questo punto Don Felibondio, mano alla fida bandiera bianca, stava già sudando freddo.

«Vuoi comprare il nostro CD, “dal Wallah con furore”?», rise il ragazzo con il capello nero.

Il prete sospirò di sollievo per il pericolo scampato: “Sono solo venditori ambulanti, meno male, vee!”.

«Danmark, sei un idiota», disse un ragazzo non molto alto, l’espressione apatica e la divisa alla marinara.

«R’cordat’vi p’rché s’amo qui! D’n F’ l’ibond’o», disse Susanno, l’uomo-stalker.

«Cosa comanda, ve?», rispose il curato aprendo gli occhi per lo spavento.

«Lei ha intenzione di maritare domani Lovino Tramaglino e Lucia la belga?», chiese il norvegese.

«Ve, cioè …», rispose con voce tremolante Don Felibondio, «Lor signori sono Nazioni di Mondo, ve! Sanno benissimo come vanno queste faccende, un povero curato non c’entra nulla! E poi ho parenti in Finlandia!», disse comprendendo che il finlandese era l’elemento chiave del gruppo.

«Or b’ne, qu’sto m’trimonio non s’ha da f’re, né ora né mai!», concluse il capo

«Signor curato, il tomatissimo don Antrigo, nostro padrone, la riverisce tomatamente», disse Tino, «Cosa vuole che gli dica in suo nome?»

«Il mio rispetto …», disse preoccupato da qualcosa.

«Si spieghi meglio», intimò Danimarca, che non aveva capito.

«Disposto … disposto sempre all’ubbidienza … pur di poter continuare a mangiar la PASTAH!».

«Benissimo, e buona notte, Messere PASTAH!», salutò il ragazzino con il cane, seguito a ruota dagli altri due.

«Ma allora non lo compri il CD?», tornò all’attacco Denmark

«Vieni, piuttosto mangerebbe della pasta!», lo richiamò Berwald, e a questo il danese si lasciò sfuggire un lamento: «Ahhh! È proprio un tirchio!!!» e se ne andò con gli altri, rannicchiato come un bambino.

Pensino ora i nostri … tre lettori – ad essere ottimiste: se Manzoni ne ha venticinque, noi tre è pure troppo … - dicevamo, ripensino ora i nostri tre lettori a che impressione dovette fare sull’anima del povero Felibondio quello che si è raccontato: lo spavento di quei visacci, le minacce di un signore noto per non minacciare in vano; tutti questi pensieri gravavano l’animo del tremolante curato, che poteva essere rinfrancato solo da un buon piatto di pasta preparato dalla sua Perpetua, la Ludwiga, nome di incerto gusto.

Entrato in casa, la bellissima teutonica lo accolse con un fiaschetto di vino e un piatto di wurstel con patate, ma lo vide così turbato che gli chiese: «Misericordia! Padrone, cos’ha? Voleva della pasta?».

«Niente niente», rispose Don Felibondio con le lacrime agli occhi.

«Allora dovrò chiedere ad Inghilterra e alle sue creaturine magiche un incantesimo che faccia sparire tutta la pasta dal Mondo»

«No, no pietà, parlerò, ve!», annunciò il curato.

E così raccontò tutta la storia che aveva preceduto il suo ritorno a casa a Ludwiga che gli consigliò di scrivere una lettera al cardinale Rodoromeo per chiedere aiuto, però il curato temeva che tornassero i bravi a vendergli il CD; perciò decise di tacere.

 

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Capitolo 2
*** Capitolo II ***


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Capitolo 2
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Passando una notte sveglio ad escogitare scuse per non celebrare il matrimonio e sognando il dannato danase con il suo maledetto CD ogni volta che chiudeva gli occhi, riuscì infine a trovare il modo di evitare di sposare i due innamorati.

Lovino, o come dicevan tutti Lovi, non si fece molto aspettare e si recò dal curato allegramente biascicando insulti, agghindato per il suo matrimonio.
«Sono venuto, dannato pretastro, per sapere a che diavolo d’ora ci vuoi sposare»
Don Felibondio finse di non ricordarsi del suo matrimonio: «Di che giorno parli, ve, Lovi?»
Lovino montò su tutte le furie, come suo solito: «Ma che hai? La pasta al posto del cervello?»
«Vee, oggi non posso! E poi ci sono degli imbrogli, degli impedimenti!»
«Maledizione, ma che diavolo vai blaterando, razza di mangia-pasta?!»
«Veee, Lovi, sapessi quanti impedimenti dirimenti …. Pastam, fussilium, pennete ad salmonem, orecchiettem ad rapae cimum!! Tortellinum in brodum…», contò Don Felibondio sulle dita.
«Ti pigli gioco di me?!», interrupe Lovino, «Sai dove lo ficco il tuo latinorum
«Nella passta?», chiese ingenuo il curato.
Lovino lo minacciò con un pugno, e il curato parve ricordarsi del suo matrimonio: «Come ti è saltato il grillo di sposarti? Datemi tempo di qualche giorno!»
«Quanto?»
«In quindici giorni, procurerò, ve!»
«E che dico alla mia sposa belga? Eh?»
«Dì che fui io a sbagliare, ve!».
Lovino uscì dalla stanza sbattendo la porta, imprecando ad alta voce, quando, alzando gli occhi, vide la Ludwiga e si fermò attacar lite: «’Giorno, mangia-patate! Speravo che oggi saremo stati allegri insieme, per una volta»
«Mah … Come direbbe quel vinofilo: que serà, serà
«Fammi ‘sto piacere: quel cervello di spaghetti del curato mi ha propinato certe ragioni che non ho capito per niente, spiegami tu perché non può o non vuole sposarmi, oggi!»
«Ti pare che io conosca i segreti di Don Felibondio?», chiese evasiva la perpetua.
E Lovi esclamò: «Allora è vero che c’era qualcosa sotto!»
«Senti, Lovì, io non so proprio niente dei segreti del mio curato, so solo che lui non ha colpa e per difenderlo, non posso parlare! Sapessi, ci sono tanti birboni e prepotenti a questo mondo!»
«Bastardi, prepotenti e birboni! Su! Dimmi chi sono!»
«Ah, tu vorresti farmi parlare, Lovino! Ma quando ti dico che non so niente, è come se avessi giurato di tacere! Potresti anche torturarmi, e io sono abituata alle peggiori torture, non mi caveresti neanche una parole di bocca! Addio, è tempo perso per tutti e due!».
Lovino rimase basito e perplesso, tornò indietro con gli occhi stralunati, urlando a Don Felibondio: «Chi è quel prepotente che vuole che non sposo la mia Lucia?!».
Don Felibondio, veloce come una lepre, cercò di scappare dalla porta della sagrestia, ma Lovino, furbo come una volpe, chiuse la toppa della serratura e si mise la chiave in tasca.
«Ahah! Ora parlerai, maledetto bastardo! Tutti sanno i fatti miei, tranne me! Voglio saperli anche io, maledizione! Come si chiama questo bastardo?»
«Lovi, Lovi, bada a quel che fai, vee! Pensa all’anima tua!»
«Penso che voglio sapere tutto, e subito!», e così dicendo, prese il manico del coltello.
«Per la Santa Pasta!», escalmò fiocamente Don Felibondio
«Lo voglio sapere!»
«Mi vuoi morto?», tremò il povero curato.
«Voglio sapere ciò che è mio diritto conoscere» replicò seccato il giovane sposo.
«Ma se parlo sono morto! Non mi devo curare della mia vita?»
«Sei morto anche se non parli: dunque parla!»
«Prometti, mi giuri che non lo dirai a nessuno?»
«Ti prometto che farò uno sproposito se non mi dici subito il nome di quel bastardo!».
Don Felibondio, spaventato a morte, iniziò a tremare: «Don … Don … »
«Don? Don chi?», gli domandò furioso Lovino, curvo sul curato, come per ascoltare meglio.
«Don Antrigo!» pronunciò in fretta il povero minacciato.
«Ah cane!», urlò Lovino, «Cosa ti ha detto per …?»
«Cosa mi ha detto, ve?», rispose con voce sdegnata Don Felibondio, «Vorrei che fosse toccato a te quello che è toccato a me! Così non avresti più tanti grilli per la testa» e così il prete iniziò a raccontare con toni terribili il brutto incontro con i bravi e il loro maledetto CD e in seguito a rimproverare il giovane per averlo messo alle strette, chiedendogli infine: «Cosa hai intenzione di fare adesso che sai tutto? E mi raccomando, giura che non dirai nulla!»
«Ho sbagliato: mi scuso!», e Lovino scappò senza giurare!
Don Felibondio sconvolto chiamò a gran voce la sua perpetua, ma invano perché la teutonica era all’orto e non poteva sentirlo.
Si sedette alla sedia, tutto tremante e lamentoso e li lo trovò la Ludwiga che entrò in casa con un cavolo sotto il braccio: non appena la vide, Don Felibondio l’accusò di aver parlato troppo con Lovino e la poverina cercava di discolparsi dicendo che non aveva assolutamente parlato.
La discussione andò avanti per molto, quando poi Don Felibondio preso dai brividi della febbre si mise a letto malato, ordinando alla Ludwiga di sbrangare il portone e di dire a chiunque lo cercasse che il curato era malato.
Intanto Lovino tornava a casa, arrabbiatissimo e si immaginava di fare a fettine Don Antrigo, quel maledetto; si chiedeva poi se Lucia era consapevole di aver attirato le attenzioni del nobile spagnolo e perché non lo avesse confessato a lui, il suo futuro sposo!
Giunto a casa di Lucia, Lovino, chiese ad una graziosa fanciulla dalle accentuate quanto deliziose sopracciglia, Peter, di chiamargli un attimo in disparte la sua sposa.
Lucia usciva in quel momento tutta agghindata dalle mani della madre: i capelli acconciati in trecce raccolte da una spilla d’argento, portava un vestito di broccato a fiori con delle maniche allacciate con dei bei nastri ed era radiosa come ogni sposa il giorno del suo matrimonio.
«Vado un momento da Lovi-chan e torno», disse Lucia alle donne e si diresse verso il suo sposo, ma vedendolo più inquieto del solito, gli chiese, con un brutto presentimento nel cuore: «Cosa è successo?».
«Lucia!», rispose Lovino, «Per oggi il nostro matrimonio è andato a monte, e chissà quando potremo sposarci»
«Ma cosa mi dici mai? Stai scherzando?»
«No, non sto scherzando!», il giovane le raccontò brevemente la storia e quando la ragazza udì il nome di Don Antrigo arrossì violentemente ed esclamò: «Ah! Fino a questo punto?»
«Quindi, lo sapevi, maledetta?», le chiese Lovino.
«Ogni volta che io e te passeggiavamo insieme, lui ci rivolgeva delle occhiate infiammate ma non credevo che  fosse ossessionato fino a questo punto!»
«Cos’altro sapevi?», le intimò il fidanzato
«Non mi far dire altro, non mi far piangere! Corro a chiamare mia madre!» e mentre lei andava via, Lovino sussurrò: «Non mi hai mai detto niente!».
«Ah, Lovi!», gli rispose Lucia, rivolgendosi al ragazzo un momento senza fermasi.
Intanto, la buona Agnese, la madre olandese di Lucia, incuriosita della sparizione della figlia, scese le scale per vedere cos’era successo. La figlia la lasciò con Lovi e fingendo che non fosse successo nulla, andò a congedare gli invitati al matrimonio dicendo: «Il signor curato, Don Felibondio, è ammalato, e per oggi non si farà nulla», e detto così, salutò tutti e tornò di nuovo dallo sposo e da sua madre.
Gli invitati se ne andarono e si sparsero in città, a raccontare l’accaduto; due o tre di loro andarono fino all’uscio del curato per verificare se il prete fosse davvero ammalato.
«Un febbrone!», rispose la Ludwiga dalla finestra e questo mise fine alle ipotesi misteriose che già molti si erano fatti sul mancato matrimonio.

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