I Promessi Tomati di Duo_Tremolante (/viewuser.php?uid=122768)
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Capitolo I ***
Capitolo 2: *** Capitolo II ***
Capitolo 1 *** Capitolo I ***
promessi tomati 1
Capitolo
1
Quel
ramo del lago di Como Varsavia, che volge tipo a
ore dodici, nel bel mezzo di qualche posto sperso nel nulla, tipo il
Canada e
tante belle cosine rosa …
In
questo bel posto, per le vie sterrate di un paesino, Don
Felibondio passeggiava leggendo il breviario, come
d’abitudine: «Veee~», ma a
un bivio vide due quattro loschi tizi
indistinguibili l’uno dall’altro:
il loro nome d’arte è “i bravi del
Nord” e sono in promozione al quattro per
due.
Berwald,
il capo in quanto il più stalker di tutti, si
avvicinò aggiustandosi gli occhiali e dall’alto
del suo metro e ottantadue
guardava di sottecchi il timoroso Don Felibondio.
Costui
comprendendo che i bravi lo stavano attendendo; si
guardò intorno per trovare una via di fuga, la fedele
bandiera bianca pronta,
ma non trovandone alcuna si lasciò sfuggire un:
«Tasukete, Doitsu!» e si
avvicinò sconsolato al quartetto ostentando
tranquillità: «Vee~».
Il
più rumoroso, il danese, gli corse incontro ghignando poi
si fermò e lo guardò intensamente negli occhi; a
questo punto Don Felibondio,
mano alla fida bandiera bianca, stava già sudando freddo.
«Vuoi
comprare il nostro CD, “dal Wallah con
furore”?»,
rise il ragazzo con il capello nero.
Il
prete sospirò di sollievo per il pericolo scampato:
“Sono
solo venditori ambulanti, meno male, vee!”.
«Danmark,
sei un idiota», disse un ragazzo non molto alto,
l’espressione apatica e la divisa alla marinara.
«R’cordat’vi
p’rché s’amo qui! D’n
F’ l’ibond’o», disse
Susanno, l’uomo-stalker.
«Cosa
comanda, ve?», rispose il curato aprendo gli occhi per
lo spavento.
«Lei
ha intenzione di maritare domani Lovino Tramaglino e
Lucia la belga?», chiese il norvegese.
«Ve,
cioè …», rispose con voce tremolante
Don Felibondio,
«Lor signori sono Nazioni di Mondo, ve! Sanno benissimo come
vanno queste
faccende, un povero curato non c’entra nulla! E poi ho
parenti in Finlandia!»,
disse comprendendo che il finlandese era l’elemento chiave
del gruppo.
«Or
b’ne, qu’sto m’trimonio non
s’ha da f’re, né ora né
mai!»,
concluse il capo
«Signor
curato, il tomatissimo don Antrigo, nostro padrone,
la riverisce tomatamente», disse Tino, «Cosa vuole
che gli dica in suo nome?»
«Il
mio rispetto …», disse preoccupato da qualcosa.
«Si
spieghi meglio», intimò Danimarca, che non aveva
capito.
«Disposto
… disposto sempre all’ubbidienza … pur
di poter
continuare a mangiar la PASTAH!».
«Benissimo,
e buona notte, Messere PASTAH!», salutò il
ragazzino con il cane, seguito a ruota dagli altri due.
«Ma
allora non lo compri il CD?», tornò
all’attacco Denmark
«Vieni,
piuttosto mangerebbe della pasta!», lo richiamò
Berwald, e a questo il danese si lasciò sfuggire un lamento:
«Ahhh! È proprio
un tirchio!!!» e se ne andò con gli altri,
rannicchiato come un bambino.
Pensino
ora i nostri … tre lettori – ad essere ottimiste:
se
Manzoni ne ha venticinque, noi tre è pure troppo
… - dicevamo, ripensino ora i
nostri tre lettori a che impressione dovette fare sull’anima
del povero
Felibondio quello che si è raccontato: lo spavento di quei
visacci, le minacce
di un signore noto per non minacciare in vano; tutti questi pensieri
gravavano
l’animo del tremolante curato, che poteva essere rinfrancato
solo da un buon
piatto di pasta preparato dalla sua Perpetua, la Ludwiga, nome di
incerto
gusto.
Entrato
in casa, la bellissima teutonica lo accolse con un
fiaschetto di vino e un piatto di wurstel con patate, ma lo vide
così turbato
che gli chiese: «Misericordia! Padrone, cos’ha?
Voleva della pasta?».
«Niente
niente», rispose Don Felibondio con le lacrime agli
occhi.
«Allora
dovrò chiedere ad Inghilterra e alle sue creaturine
magiche un incantesimo che faccia sparire tutta la pasta dal
Mondo»
«No,
no pietà, parlerò, ve!»,
annunciò il curato.
E
così raccontò tutta la storia che aveva preceduto
il suo
ritorno a casa a Ludwiga che gli consigliò di scrivere una
lettera al cardinale
Rodoromeo per chiedere aiuto, però il curato temeva che
tornassero i bravi a
vendergli il CD; perciò decise di tacere.
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Capitolo 2 *** Capitolo II ***
promessi tomati2
Capitolo 2
Passando
una notte sveglio ad escogitare scuse per non celebrare il matrimonio e
sognando il dannato danase con il suo maledetto CD ogni volta che
chiudeva gli occhi, riuscì infine a trovare il modo di
evitare di sposare i due innamorati.
Lovino, o come dicevan tutti Lovi, non si fece molto aspettare e si
recò dal curato allegramente biascicando insulti, agghindato
per il suo matrimonio.
«Sono venuto, dannato pretastro, per sapere a che diavolo
d’ora ci vuoi sposare»
Don Felibondio finse di non ricordarsi del suo matrimonio:
«Di che giorno parli, ve, Lovi?»
Lovino montò su tutte le furie, come suo solito:
«Ma che hai? La pasta al posto del cervello?»
«Vee, oggi non posso! E poi ci sono degli imbrogli, degli
impedimenti!»
«Maledizione, ma che diavolo vai blaterando, razza di
mangia-pasta?!»
«Veee, Lovi, sapessi quanti impedimenti dirimenti
…. Pastam, fussilium, pennete ad salmonem, orecchiettem ad
rapae cimum!! Tortellinum in brodum…»,
contò Don Felibondio sulle dita.
«Ti pigli gioco di me?!», interrupe Lovino,
«Sai dove lo ficco il tuo latinorum?»
«Nella passta?», chiese ingenuo il curato.
Lovino lo minacciò con un pugno, e il curato parve
ricordarsi del suo matrimonio: «Come ti è saltato
il grillo di sposarti? Datemi tempo di qualche giorno!»
«Quanto?»
«In quindici giorni, procurerò, ve!»
«E che dico alla mia sposa belga? Eh?»
«Dì che fui io a sbagliare, ve!».
Lovino uscì dalla stanza sbattendo la porta, imprecando ad
alta voce, quando, alzando gli occhi, vide la Ludwiga e si
fermò attacar lite: «’Giorno,
mangia-patate! Speravo che oggi saremo stati allegri insieme, per una
volta»
«Mah … Come direbbe quel vinofilo: que
serà, serà!»
«Fammi ‘sto piacere: quel cervello di spaghetti del
curato mi ha propinato certe ragioni che non ho capito per niente,
spiegami tu perché non può o non vuole sposarmi,
oggi!»
«Ti pare che io conosca i segreti di Don
Felibondio?», chiese evasiva la perpetua.
E Lovi esclamò: «Allora è vero che
c’era qualcosa sotto!»
«Senti, Lovì, io non so proprio niente dei segreti
del mio curato, so solo che lui non ha colpa e per difenderlo, non
posso parlare! Sapessi, ci sono tanti birboni e prepotenti a questo
mondo!»
«Bastardi, prepotenti e birboni! Su! Dimmi chi
sono!»
«Ah, tu vorresti farmi parlare, Lovino! Ma quando ti dico che
non so niente, è come se avessi giurato di tacere! Potresti
anche torturarmi, e io sono abituata alle peggiori torture, non mi
caveresti neanche una parole di bocca! Addio, è tempo perso
per tutti e due!».
Lovino rimase basito e perplesso, tornò indietro con gli
occhi stralunati, urlando a Don Felibondio: «Chi è
quel prepotente che vuole che non sposo la mia Lucia?!».
Don Felibondio, veloce come una lepre, cercò di scappare
dalla porta della sagrestia, ma Lovino, furbo come una volpe, chiuse la
toppa della serratura e si mise la chiave in tasca.
«Ahah! Ora parlerai, maledetto bastardo! Tutti sanno i fatti
miei, tranne me! Voglio saperli anche io, maledizione! Come si chiama
questo bastardo?»
«Lovi, Lovi, bada a quel che fai, vee! Pensa
all’anima tua!»
«Penso che voglio sapere tutto, e subito!», e
così dicendo, prese il manico del coltello.
«Per la Santa Pasta!», escalmò
fiocamente Don Felibondio
«Lo voglio sapere!»
«Mi vuoi morto?», tremò il povero curato.
«Voglio sapere ciò che è mio diritto
conoscere» replicò seccato il giovane sposo.
«Ma se parlo sono morto! Non mi devo curare della mia
vita?»
«Sei morto anche se non parli: dunque parla!»
«Prometti, mi giuri che non lo dirai a nessuno?»
«Ti prometto che farò uno sproposito se non mi
dici subito il nome di quel bastardo!».
Don Felibondio, spaventato a morte, iniziò a tremare:
«Don … Don … »
«Don? Don chi?», gli domandò furioso
Lovino, curvo sul curato, come per ascoltare meglio.
«Don Antrigo!» pronunciò in fretta il
povero minacciato.
«Ah cane!», urlò Lovino, «Cosa
ti ha detto per …?»
«Cosa mi ha detto, ve?», rispose con voce sdegnata
Don Felibondio, «Vorrei che fosse toccato a te quello che
è toccato a me! Così non avresti più
tanti grilli per la testa» e così il prete
iniziò a raccontare con toni terribili il brutto incontro
con i bravi e il loro maledetto CD e in seguito a rimproverare il
giovane per averlo messo alle strette, chiedendogli infine:
«Cosa hai intenzione di fare adesso che sai tutto? E mi
raccomando, giura che non dirai nulla!»
«Ho sbagliato: mi scuso!», e Lovino
scappò senza giurare!
Don Felibondio sconvolto chiamò a gran voce la sua perpetua,
ma invano perché la teutonica era all’orto e non
poteva sentirlo.
Si sedette alla sedia, tutto tremante e lamentoso e li lo
trovò la Ludwiga che entrò in casa con un cavolo
sotto il braccio: non appena la vide, Don Felibondio
l’accusò di aver parlato troppo con Lovino e la
poverina cercava di discolparsi dicendo che non aveva assolutamente
parlato.
La discussione andò avanti per molto, quando poi Don
Felibondio preso dai brividi della febbre si mise a letto malato,
ordinando alla Ludwiga di sbrangare il portone e di dire a chiunque lo
cercasse che il curato era malato.
Intanto Lovino tornava a casa, arrabbiatissimo e si immaginava di fare a
fettine Don Antrigo, quel maledetto; si chiedeva poi se Lucia era
consapevole di aver attirato le attenzioni del nobile spagnolo e
perché non lo avesse confessato a lui, il suo futuro sposo!
Giunto a casa di Lucia, Lovino, chiese ad una graziosa fanciulla dalle
accentuate quanto deliziose sopracciglia, Peter, di chiamargli un
attimo in disparte la sua sposa.
Lucia usciva in quel momento tutta agghindata dalle mani della madre: i
capelli acconciati in trecce raccolte da una spilla
d’argento, portava un vestito di broccato a fiori con delle
maniche allacciate con dei bei nastri ed era radiosa come ogni sposa il
giorno del suo matrimonio.
«Vado un momento da Lovi-chan e torno», disse Lucia
alle donne e si diresse verso il suo sposo, ma vedendolo più
inquieto del solito, gli chiese, con un brutto presentimento nel cuore:
«Cosa è successo?».
«Lucia!», rispose Lovino, «Per oggi il
nostro matrimonio è andato a monte, e chissà
quando potremo sposarci»
«Ma cosa mi dici mai? Stai scherzando?»
«No, non sto scherzando!», il giovane le
raccontò brevemente la storia e quando la ragazza
udì il nome di Don Antrigo arrossì violentemente
ed esclamò: «Ah! Fino a questo punto?»
«Quindi, lo sapevi, maledetta?», le chiese Lovino.
«Ogni volta che io e te passeggiavamo insieme, lui ci
rivolgeva delle occhiate infiammate ma non credevo che fosse
ossessionato fino a questo punto!»
«Cos’altro sapevi?», le intimò
il fidanzato
«Non mi far dire altro, non mi far piangere! Corro a chiamare
mia madre!» e mentre lei andava via, Lovino
sussurrò: «Non mi hai mai detto niente!».
«Ah, Lovi!», gli rispose Lucia, rivolgendosi al
ragazzo un momento senza fermasi.
Intanto, la buona Agnese, la madre olandese di Lucia, incuriosita della
sparizione della figlia, scese le scale per vedere cos’era
successo. La figlia la lasciò con Lovi e fingendo che non
fosse successo nulla, andò a congedare gli invitati al
matrimonio dicendo: «Il signor curato, Don Felibondio,
è ammalato, e per oggi non si farà
nulla», e detto così, salutò tutti e
tornò di nuovo dallo sposo e da sua madre.
Gli invitati se ne andarono e si sparsero in città, a
raccontare l’accaduto; due o tre di loro andarono fino
all’uscio del curato per verificare se il prete fosse davvero
ammalato.
«Un febbrone!», rispose la Ludwiga dalla finestra e
questo mise fine alle ipotesi misteriose che già molti si
erano fatti sul mancato matrimonio.
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