Happiness is home

di moonlightriver
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Parte 1 ***
Capitolo 2: *** Parte 2 ***



Capitolo 1
*** Parte 1 ***


Happiness is home

Titolo: Happiness is home

Pairing: Sasu/Naru

Rating: Arancione

Note:
Ok...so che molte di voi vorrebbero uccidermi perché ho interrotto due storie piuttosto seguite e latito da più di un anno sull’aggiornamento di Kamikaze XD...per questo motivo ho pensato di pubblicare questa storiella in 3 capitoli che languiva da circa 6 mesi sul desktop. Spero che gradiate il mio ritorno su Efp! ^^
Ps. La storia non è betata, l’ho corretta da sola ma la punteggiatura potrebbe essere leggermente orrenda XD...se qualcuno si offrisse di revisionarla sappiate che non mi opporrò X3...

 Parte 1

Il giorno in cui io e mia madre lasciammo Uzu, pioveva a dirotto.

A mia madre Kushina, quel piccolo paesino di periferia era sempre andato stretto; detestava le strade polverose e l’indolenza che sembrava regnare sovrana. Credo che anche essere continuamente additata come poco di buono non l’aiutasse ad amare il luogo in cui era nata e cresciuta.

Per la maggior parte della gente del paese mia madre era quella là, la ragazza da indicare alle bambine che facevano i capricci o alle proprie figlie, quando si accingevano ed uscire per la prima volta con il fidanzatino.

“Comportati come si deve! Non vorrai mica finire come quella là.”

Mia madre era finita incinta a soli quattordici anni, dopo aver intrattenuto una relazione con un uomo più grande di lei. Un uomo con una moglie e un figlio. Non ho mai conosciuto i dettagli della loro storia e ho deciso da tempo di non credere alle voci che giravano, ciò che so è che mia madre, ancora bambina, decise di tenermi malgrado tutto e tutti.

Vivevamo con mia nonna Mito. Lei sopportava mia madre perché era sangue del suo sangue e tollerava me perché ero sangue di sua figlia. Non era una nonna amorevole, di quelle che cucinano crostate e ti regalano le caramelle di nascosto. Il massimo che riuscivo ad ottenere erano delle mele cotte, con la cannella se era particolarmente di buon umore.

Non avevo amici; le mamme dicevano ai loro bambini di non giocare con me perché ero il figlio di una donna immorale, nato da una relazione peccaminosa.

Non ho mai conosciuto mio padre, non nel vero senso della parola. Sapevo il suo nome e lo osservavo, quando portava i suoi figli legittimi al parchetto.

Ci sono stati giorni in cui l’ho odiato, altri in cui ho desiderato disperatamente un suo sguardo. A volte immaginavo d’essere io il bambino che spingeva sull’altalena o la bambina a cui comprava il gelato; mi chiedevo come sarebbe stato avere un papà, una bella casa, tanti amici e una mamma normale che non somigliava ad una sorella maggiore.

Ripensandoci adesso la mia vita in quel paesino di provincia faceva piuttosto schifo.

Eppure piansi come se non ci fosse un domani, quando, dopo aver impacchettato i nostri averi, mia madre mi caricò in macchina quella mattina piovosa di novembre.

Avevo compiuto da poco otto anni, stavo lasciando tutto ciò che avevo sempre conosciuto per l’ignoto ed ero terrorizzato.

Mia nonna mi salutò con l’unico abbraccio che mi abbia mai donato e, accarezzandomi i capelli, mi sussurrò “Sei un bravo bambino Naruto.”.

Potrei giurare d’averla vista piangere, mentre la nostra macchina di terza mano si allontanava.

Forse, però, era solo pioggia.

*

Mi piacerebbe poter dire che mia madre sapeva ciò che stava facendo abbandonando Uzu dall’oggi al domani, ma la verità è che le prospettive a lungo termine non erano e non sono mai state il suo forte.

Vivere l’attimo, questo è sempre stato il motto di Kushina Uzumaki.

Così, vivendo l’attimo, percorremmo la statale Est senza una meta precisa, dormendo in motel scadenti e mangiando in altrettanto scadenti tavole calde.

Le stanze che affittavamo avevano sempre il pavimento ricoperto di moquette lurida, il colore poteva anche mutare dal classico rosso mattone ad un assurdo giallo limone ma lo strato di sporco rimaneva costante. Le lenzuola pizzicavano la pelle e puzzavano di stantio e il bagno aveva il soffitto macchiato d’umidità.

I locali in cui ci fermavamo a mangiare erano sempre pieni di camionisti, fumo e cameriere arrabbiate con il mondo.

Per un po’ fu divertente, una specie di campeggio durante il quale potevo mangiare patatine fritte e gelato a colazione, pranzo e cena, andare a letto quando più mi aggradava e non ero costretto a lavarmi 3 volte al giorno.

Fu quando l’odore di fritto cominciò a nausearmi e dichiarai che la doccia era la miglior invenzione del genere umano che compresi quanto quel vagabondare mi avesse stancato.

Mia madre era ancora nel pieno della fase born to be wild quando le chiesi per la prima volta dove eravamo diretti.

“Verso l’aurora Naru-chan, ” mi rispose ridendo e scompigliandomi i capelli biondi.

Quelle parole, che per mia madre avevano il sapore della libertà e dell’avventura, su di me ebbero un effetto shoccante. La sensazione di assoluta precarietà, che avevo provato abbandonando Uzu, tornò più viva che mai.

Non avevamo un posto dove andare.

Da quel giorno in poi tormentai mia madre, diventando sempre più petulante. Volevo una meta, volevo una casa, amici con cui giocare, volevo tornare a scuola, volevo una vita normale.

Alla fine mia madre cedette, credo più perché i soldi cominciavano a scarseggiare che per le mie rimostranze.

Ci stabilimmo a Degarashi perché, passando per la sua via principale, notammo un cartello con su scritto:

Si cercano operatrici di Call-Center

Chiamare 02xxxxxx98.

Segnai il numero sul mio palmo con un pennarello verde trovato sotto il sedile e lo recitai a mia madre quando, trovato un telefono pubblico, si voltò verso me e sorrise svampita mentre ammetteva d’averlo già dimenticato. Fece il colloquio quello stesso pomeriggio, con la stessa felpa che aveva sporcato di cioccolato a colazione, i jeans spiegazzati e i capelli rossi raccolti in una treccia scarmigliata. Mi chiedo ancora oggi come abbia ottenuto il posto.

In ogni caso tornò con un sorriso smagliante che sapeva di vittoria e mi annunciò che non solo era un’impiegata della Hiroaki Inc. ma che aveva addirittura trovato una casa per noi.

La casa in questione era un piccolo bilocale piuttosto squallido, situato in un condominio aziendale nella periferia della città. Un cucinino con zona giorno, il solito bagno macchiato d’umidità, una camera da letto: niente di eccezionale ma dopo due settimane di vagabondaggio mi sembrò il paradiso.

Stavamo per cominciare una nuova vita ed io ero certo che sarebbe stata splendida come l’aveva descritta mia madre durante le notti passate in motel.

Ancora non sapevo che dei sogni di Kushina Uzumaki non ci si poteva fidare.

Il nostro soggiorno a Degarashi durò circa tre settimane durante le quali si susseguirono una serie di avvenimenti che diventarono uno schema fisso per gli anni a seguire.

Inizialmente le cose andarono piuttosto bene, il vicinato fu accogliente, mia madre s’inserì bene sul posto di lavoro ed io cominciai a frequentare la scuola di quartiere. Essendo il bambino nuovo, non avevo ancora molti amici ma un paio di ragazzini che abitavano nel mio stesso interno mi salutavano, se m’incontravano sulle scale la mattina, e poco dopo presero ad aspettarmi per fare la strada insieme. Era la cosa più simile a degli amici che avessi mai avuto e questo mi rese euforico.

Poi tutto andò in malora. Cominciò con una banale conversazione fra vicine; la Signora Ighe incontrò mia madre nel cortile esterno una sera e, chiacchierando del più e del meno, le disse la frase che cambiò tutto.

“Certo non deve essere facile occuparsi di un fratellino a tempo pieno per lei che è così giovane, “.

Mia madre la guardò a dir poco allibita e replicò leggermente scocciata “Naruto è mio figlio Signora.”

La signora Ighe spiazzata replicò poche parole di circostanza e si dileguò.

Il giorno dopo tutti sapevano che Kushina Uzumaki, la graziosa ragazza dell’interno 7, era in realtà una poco di buono, una sfacciata che si permetteva di sbandierare in giro l’esistenza di un figlio di 8 anni, quando lei ne aveva solo 22.

L’intero condominio ci ostracizzò e i bambini che erano stati carini con me smisero di parlarmi.

A scuola ero molto indietro, a causa del trasloco, e presto mi trovai in seria difficoltà. Nel giro di due settimane fui etichettato asino della classe e, poiché neanche nello sport ero mai stato una cima, divenni oggetto di scherno da parte dei miei compagni.

Mia madre, in risposta ai pettegolezzi condominiali, cominciò ad uscire con un collega che le faceva la corte sin dal primo giorno. È un eufemismo dire che fu un disastro; l’idiota le spezzò il cuore e la sputtanò in ufficio e fuori.

Tre settimane e tutto era tornato come ad Uzu.

Tre settimane e rimpacchettammo i nostri averi, li caricammo sulla nostra vecchia Desoto e partimmo verso l’alba.

Era il 15 dicembre e la neve mi sembrò fango, lo stesso che avevo nel cuore.

.....Tbc....

 

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Capitolo 2
*** Parte 2 ***


Salve a tutti! Grazie per le belle recenzioni  *_* mi ero dimenticata com'è bello ricevere complimenti per il proprio lavoro...in ogni caso bando alle ciancie!
ecco a voi la seconda parte della storia!
Cheers
Moon

Parte 2

Passammo il Natale in macchina; non avevamo abbastanza soldi da permetterci un motel a causa dei rincari per le festività.

Mia madre tentò di tenere il morale alto, portandomi a vedere le decorazioni natalizie di Jiro e il suo famoso albero gigante. Mentre osservavo tutte quelle lucine sfavillanti e la città addobbato in festa, però, tutto quello a cui riuscivo a pensare era a quanto mi mancasse nonna Mito, i suoi modi burberi e la sua casa che profumava sempre di mela verde.

“Voglio tornare a casa mamma, ” mormorai con le lacrime agli occhi.

Il volto di mia madre si fece serio come mai prima d’allora “Non c’è niente lì per noi Naruto, ” mi rispose senza distogliere lo sguardo dalle decorazioni.

Avrei voluto piangere ma mi trattenni. Se avessi pianto con quel freddo, le lacrime si sarebbero congelate sulla mia pelle.

Attraversando una delle stradine del centro, trovammo un piccolo negozio dell’usato. Mia madre, che nel frattempo aveva ritrovato il suo buon umore, insistette per entrare e cercare un regalo.
Scelsi un cappotto di un arancione brillante, che trasmetteva calore solo a guardarlo, e una vecchia scatola di latta con un luna-park dipinto sul coperchio.

Quella sera cenammo con degli hot dog sulla panchina di un giardino pubblico, la neve fioccava candida intorno a noi posandosi su ogni cosa. Mia madre, le guance rosse per il freddo e i capelli punteggiati di cristalli di neve, cantò la canzone dell’angelo finché il sonno non mi rapì.

Fino a quando saremo insieme, saremo a casa Naru-chan, ” la sentì sussurrare prima che il buio avvolgesse ogni cosa.

*

Durante i due anni successivi, cambiammo 16 città e circa 25 appartamenti.

Ad ogni fallimento, mia madre rispondeva con una scrollata di spalle ed un sorriso sempre più vuoto.

“Sono sicura che la prossima volta andrà bene Naru-chan, ” mi diceva scompigliandomi i capelli.

Io le credevo perché era mia madre, perché era l’unica famiglia che avessi al mondo e perché avevo un disperato bisogno di crederle.

La realtà, però, era un’altra; con ogni trasferimento le cose peggioravano. I lavori di mia madre divennero sempre meno prestigiosi e retribuiti, a causa dell’età che aumentava e del suo basso grado d’istruzione. Presto si ritrovò a lavorare come cameriera in locali equivoci per riuscire a sbancare il lunario e poter pagare l’affitto di squallidi appartamentucci nelle periferie più sordide della città.

Con mia madre che lavorava durante gli orari più improbabili, divenni io quello che doveva occuparsi della casa. Fare la spesa, cucinare, fare il bucato e portare fuori i rifiuti divennero attività di routine per me. Malgrado qualche piccolo incidente e diverse scottature, imparai velocemente e con discreti risultati.

Lo stesso non poteva dirsi della mia situazione scolastica che divenne a dir poco disastrosa.

Non è che non m’impegnassi, ma avevo profonde lacune in tutte le materie, causate dal fatto che, dopo la seconda elementare, non ero più riuscito a seguire un anno scolastico in modo continuo.

I miei insegnanti non avevano né tempo né voglia di conoscermi, per loro era molto più semplice affermare che ero un bambino stupido, debole ed incapace. Ero sempre oggetto di rimprovero per il mio aspetto trasandato, per l’inadeguatezza dei miei compiti, per la mia goffaggine nello sport.

I miei compagni m’ignoravano perché ero sempre quello nuovo, perché ero un incapace o semplicemente perché ero strano. A volte stufi di ignorarmi, mi picchiavano o mi schermivano con una serie impressionante di nomignoli che andavano dal semplice scemo a mostro, passando per Sei un bambino inutile che nessuno vuole.

Faceva dannatamente male. Male da piangere.

*

Avevo compiuto 11 anni da 6 mesi quando ci trasferimmo ad Ame, la città piovosa.

Eravamo quasi completamente al verde e mia madre, che aveva perso il suo precedente impiego, sperava di farsi assumere in una delle innumerevoli fabbriche della città.

Non avevamo abbastanza soldi da versare la caparra per un appartamento così, dopo la solita settimana passata a dormire in macchina, trovammo alloggio a Dreamland, un campo roulotte.

Le roulotte erano decisamente più economiche di un qualunque monolocale ma mia madre le aveva sempre snobbate, dicendo che erano per i disperati e noi non lo eravamo. Probabilmente, nei tre anni di continui spostamenti eravamo, inesorabilmente, scivolati anche noi nella categoria.

Sembrerà assurdo dirlo, ma Dreamland fu la mia salvezza, il primo posto in cui mi sentì, anche se solo per un breve periodo, a casa.

Inizialmente fu terribile. Mia madre odiava l’idea di vivere in un campeggio per emarginati sociali, come amava chiamare la nostra sistemazione e pianse ogni notte per due settimane. Dovetti usare tutta la mia forza persuasiva per farla alzare dal letto la mattina, costringerla ad andarsi a trovare un lavoro o fare una qualunque delle commissioni che tipicamente le persone adulte assolvono. Solo quando finalmente trovò un impiego in una lavanderia a gettoni, sembrò riprendersi ed io potei tornare alle mie mansioni, senza il terrore di trovarla impiccata alla cipolla della doccia.

Nella nebbia della sua depressione, mia madre trovò comunque il tempo di iscrivermi alla scuola più vicina. Dovevo percorrere due isolati per raggiungerla, i due isolati più lunghi della mia vita che percorrevo ogni giorno col cuore nello stomaco.

Il primo giorno di lezione fu deprimente e quelli che seguirono non furono migliori. In realtà credo fosse colpa mia; dopo tre anni di umiliazioni e derisioni, avevo semplicemente rinunciato.

Ero davvero convinto di essere un bambino inutile e stupido, perciò a che pro impegnarsi?

In ogni caso ci saremmo trasferiti di nuovo da qualche altra parte e la storiella sarebbe ricominciata.

Ero stanco.

Poi incontrai lui e tutto cambiò.

 

*

Ricordo la prima volta che c’incontrammo.

Mia madre aveva scordato di fare la spesa per l’ennesima volta e, dovendo preparare la cena, fui costretto ad andare al supermercato malgrado l’ora tarda.

Arrancavo lentamente verso Dreamland appesantito dalle compre e perso nei miei pensieri, quando una delle buste di plastica si ruppe riversando il contenuto in strada. Strinsi gli occhi cercando di trattenere le lacrime. Perché doveva andare sempre tutto male?

“Dovresti usare buste di canapa, ” disse una voce nell’ombra “Sono più resistenti, “.

Spaventato, mi guardai intorno cercando di identificare il suggeritore.

“Chi c’è?” urlai cercando di non apparire terrorizzato.

Un ragazzo apparve dal buio di un vicolo. I capelli erano rossi, di una sfumatura diversa da quelli di mia madre, e sotto la luce fluorescente dei lampioni apparivano quasi arancioni. Una serie incredibile di piercing gli adornava il volto, accentuando lo stile gotico delle vesti e del trucco nero che ornava pesantemente gli occhi violetti. Nel complesso non sembrava un tipo raccomandabile.

“Pain,” rispose tranquillo, accendendosi una sigaretta.

Rimasi perplesso ad osservarlo, senza sapere bene cosa dire.

“Beh? Non hai un nome ragazzino?” ridacchiò lo strano ragazzo “ O ti ha mangiato la lingua il gatto?”

“N-Naruto, ” balbettai.

“Bene Naruto, sembra tu abbia bisogno di una mano, “.

*

Quella stessa sera, scoprii che anche Pain viveva a Dreamland e che in realtà mi osservava da un po’. Quando gli chiesi il motivo, preoccupato dall’attitudine allo stalking che sembrava avere, fece una risata lieve sbuffando fumo scompostamente.

“ Mi ricordi una persona che conoscevo tempo fa, ”rispose.

“Chi?” chiesi curioso.

“ Me, ”

Non sapendo cosa dire rimasi in silenzio finché non intravidi la siluette della mia roulotte nel buio.

“ Io abito lì, ” indicai.

Pain annuì e mi accompagnò fino alla porta. Lo ringrazia per l’aiuto ma lui si limitò a fare spallucce e mugugnare che non era nulla.

Prima di andare per la sua strada mi guardò intensamente, come se riuscisse a leggermi dentro, poi indicò una delle stradine del campo.

“ Segui quella viuzza fino in fondo, poi gira a sinistra,” disse pacato “La mia roulotte ha le tende rosse ed una sdraio gialla nel cortiletto. Sei sempre il benvenuto Naruto.”

Poi spari nella notte, così com’era apparso.

                                                                                                                      *

La roulotte di Pain divenne la mia seconda casa, anzi l’unica casa che avessi mai conosciuto oltre a quella di mia nonna.

Amavo tutto di quel luogo, dal disordine imperante nel piccolo caravan all’odore di caffè e tabacco che impregnava ogni cosa.

Pain era sempre lì, sommerso dai suoi libri in edizione economica o intento progettare un nuovo assurdo tatuaggio da realizzare. Per me era confortante sapere di poter correre da lui dopo una giornata orribile, senza essere obbligato a nascondere il malumore, e di non dover per forza parlare dell’accaduto perché in un modo o nell’altro Pain avrebbe capito.

Fu lui a risvegliare la mia intelligenza.

“Non hai bisogno di un maestro per imparare,” mi disse un giorno “La conoscenza è lì fuori Naruto, nei libri, nelle biblioteche. Nessuno può impedire alla tua mente di apprendere. Mettiti alla prova, resterai stupito dalle infinite possibilità della tua mente,”

Lessi il primo libro più per accontentare il mio primo vero amico che per convinzione ma, quando mi ritrovai a discutere con Pain del fatto che, per essere un libro fantasy, la trama era davvero poco fantasiosa, mi resi conto che infondo, non mi era dispiaciuto provare.

Leggere e recensire divenne il nostro gioco, non importava se era un libro di narrativa o un saggio storico, c’era sempre qualcosa di cui discutere.

Senza che me ne rendessi conto la mie capacità logiche e argomentative crebbero. A scuola riuscivo a seguire i ragionamenti dei professori e spesso colmavo le mie lacune utilizzando conoscenze assorbite casualmente durante le letture. Ovviamente, la professoressa di matematica non gradì il mio uso fantasioso dei teoremi per risolvere i problemi di geometria ma Pain dichiarò divertito che spesso i geni erano incompresi.

Per la prima volta sentì d’aver valore agli occhi di qualcuno.

Era come aver trovato un luogo in cui essere felice anche senza mia madre, e se da un lato mi sentivo terribilmente in colpa, dall’altro egoisticamente custodivo gelosamente il mio piccolo tesoro.

Eppure non mi accorsi che qualcosa non andava finché non fu troppo tardi.

                                                                                                                      *

La prima volta che lo notai l’estate era alle porte.

Pain stava progettando un tatuaggio grandioso da realizzare sul petto, un demone che, squarciando la cavità toracica, esponeva sadicamente un cuore martoriato. Era macabro, oscuro e decisamente intriso di disperazione. Pensai che fosse tipico di Pain disegnare qualcosa del genere.

Solo allora mi fermai a riflettere. Pain non poteva essere definito una persona felice ma se non altro sembrava sereno. I suoi disegni e i tatuaggi che ricoprivano il suo corpo, però, non lo erano. Tutto ciò che creava, era come pervaso di oscurità e dolore.

“Pain?” lo chiamai distraendolo dal suo lavoro.

Lui alzò appena lo sguardo per mostrarmi la sua attenzione.

“Perché disegni sempre mostri e demoni?” chiesi.

Pain alzò il sopracciglio sorpreso e sembrò pensare accuratamente alla risposta da darmi.

“ Credo sia un modo per esorcizzare, ” disse lentamente.

“Esorcizzare cosa?”

“ La paura, il dolore, la morte...” rispose scuotendo appena le spalle.

Aggrottai le sopracciglia pensieroso e dopo qualche secondo tornai all’attacco.

“ Posso avere anch’io un tatuaggio?”

La risata profonda di Pain riempì l’aria circostante, mentre le mie guance si gonfiavano in un broncio infantile.

“Un giorno chibi, ” rispose sghignazzando.

                                                                                                                      *

Passò un altro mese prima che le cose precipitassero.

In quel periodo Pain era diventato il mio mondo, il sole attorno al quale ruotavo e il rapporto con mia madre si era raffreddando.

Fino a quel momento Kushina Uzumaki era stata la sola su cui potessi contare, l’unico punto fisso della mia esistenza. Non importava quanto immatura e svampita fosse, lei c’era e tanto bastava.

L’entrata in scena di Pain aveva cambiato le cose. Lui si preoccupava per me se rincasavo troppo tardi, cucinava se mi fermavo a pranzo, rimediava ai miei casini con il bucato, curava i miei lividi. Pain si comportava da adulto e lasciava che io mi comportassi da ragazzino. Non ci volle molto perché cominciassi a chiedermi perché mia madre non faceva lo stesso, per quale ragione dovessi essere sempre io a prendermi cura di lei. Ci volle ancora meno per trasformare la perplessità in rabbia e la rabbia in rancore.

Dall’altra parte mia madre si sentiva abbandonata, improvvisamente il suo unico figlio passava il tempo con qualcun altro, una presenza che giorno dopo giorno ci allontanava usurpando il suo posto nel mio cuore.

Lo scontro era inevitabile. La scintilla fu una banalità come la preparazione della cena.

Normalmente ero solito preparare la cena a mia madre ogni volta che aveva il turno serale, ma quella sera per qualche strano motivo non lo feci e passai la serata da Pain.

Erano le 23 quando Kushina Uzumaki in tutta la sua furente gloria si presentò alla porta, urlando il suo disappunto e ordinandomi di tornare a casa.

Pain provò a difendermi e la situazione degenerò; volarono parole pesanti e accuse non meno leggere.

“Questa è l’ultima volta che vedi quel balordo!” ringhiò mia madre mentre mi trascinava via.

Mai parole furono più vere.

                                                                                                                      *

Mia madre mantenne la parola. Passò più di una settimana prima che riuscissi a far visita a Pain.

Mentre mi avvicinavo alla roulotte, notai che una macchina era parcheggiata di fronte all’ingresso. Pensai fosse un cliente venuto a farsi un tatuaggio ma, quando entrai, capì immediatamente che qualcosa non andava.

Pain non c’era e scatole di ogni dimensione ingombravano il passaggio. Una donna di mezz’età stava impacchettando alcuni dei libri sparsi in giro.

“Lei chi è? Dov’è Pain?” chiesi, la voce tinta di panico.

La donna si voltò e mi rivolse un sorriso compassionevole. Gli occhi violetti erano ancora gonfi e rossi per il pianto e neppure il sorriso riuscì a cancellare l’espressione addolorata del volto.

“ Tu sei Naruto, ” costatò come se già mi conoscesse “Nagato mi ha parlato di te nelle sue lettere, “.

La guardai come se fosse una pazza pronta ad uccidermi e ripetei la mia domanda.

“Mi chiamo Shiori, ” rispose con un sospiro “Sono la madre di Nagato, immagino che tu lo abbia conosciuto come Pain... amava farsi chiamare così, “.

Amava. Bastò quel verbo...

“No... ” mormorai facendo un passo indietro.

“Pain era molto malato Naruto, ”

Chiusi gli occhi sperando di non sentire la fine di quel discorso.

“Se n’è andato due notti fa nel sonno.”

 

                                                                                                                      *

Non ricordo molto del periodo successivo all’incontro con la madre di Pain, tutto è sfocato nella mia memoria. In seguito mia madre mi raccontò che passai una settimana rinchiuso in casa, senza comunicare con nessuno. La signora Shiori passò da noi prima di partire, mi lasciò un pacco che io non aprii.

Non piansi una sola lacrima.

Dopo la settimana di auto isolamento, mia madre mi vestì e mi trascinò a forza a scuola. In qualche modo la vita riprese a scorrere. Mi anestetizzai completamente, relegando in un angolo lontano della mia mente Pain e ogni ricordo a lui correlato. Vivevo come un automa ma almeno non provavo dolore.

Passò un mese prima che riuscissi ad aprire quel pacco.

Al suo interno c’era il libro preferito di Pain, la copertina rovinata e le pagine piene d’orecchie, e una lettera.

Naruto,

Se stai leggendo questa lettera, vuol dire che io non sono più. Ho sempre vissuto come volevo senza rendere conto a nessuno se non a me stesso e alla fine sono morto come volevo, posso ritenermi soddisfatto... Lo so che sei arrabbiato con me, che ti senti abbandonato, che probabilmente la scomparsa avrà creato una cicatrice indelebile nel tuo cuore e per questo mi dispiace infinitamente.

Ma non è la fine Naruto...

Un giorno sarai in grado di decidere per la tua vita come io ho deciso per la mia.

Nel frattempo piangi, ridi, urla, disperati, innamorati...vivi.

E quando ti senti solo o ti sembra di non avere via d’uscita, fermati, respira e ascolta...

Pensa che in quel mondo vasto c’e qualcuno che sta facendo la stessa cosa: ascolta il suo respiro aspettando qualcosa.

Aspettando te.

Io ho esorcizzato la morte, tu celebra la vita.

Pain.

                                                                                                                      *

Tre giorni dopo lasciammo Ame.

Dal finestrino osservai scorrere il paesaggio che mi era diventato caro e familiare. Pensai a Pain e per la prima volta le lacrime scesero libere.

Mia madre mi osservò con la coda dell’occhio e sorrise dolce.

Lasciò che mi accoccolassi sul suo fianco e piangessi tutto il mio dolore.

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