Salve
a tutti! Grazie per le belle recenzioni *_* mi ero
dimenticata com'è bello ricevere complimenti per il proprio
lavoro...in ogni caso bando alle ciancie!
ecco a voi la seconda parte della storia!
Cheers
Moon
Parte 2
Passammo
il Natale in
macchina; non avevamo abbastanza soldi da permetterci un motel a causa
dei
rincari per le festività.
Mia madre
tentò di tenere
il morale alto, portandomi a vedere le decorazioni natalizie di Jiro e
il suo
famoso albero gigante. Mentre osservavo tutte quelle lucine sfavillanti
e la
città addobbato in festa, però, tutto quello a
cui riuscivo a pensare era a
quanto mi mancasse nonna Mito, i suoi modi burberi e la sua casa che
profumava
sempre di mela verde.
“Voglio tornare a casa
mamma, ” mormorai con le lacrime agli occhi.
Il volto di mia madre si
fece serio come mai prima d’allora “Non
c’è niente lì per noi Naruto,
” mi
rispose senza distogliere lo sguardo dalle decorazioni.
Avrei voluto piangere ma
mi trattenni. Se avessi pianto con quel freddo, le lacrime si sarebbero
congelate sulla mia pelle.
Attraversando una delle
stradine del centro, trovammo un piccolo negozio dell’usato.
Mia madre, che nel
frattempo aveva ritrovato il suo buon umore, insistette per entrare e
cercare un
regalo.
Scelsi un
cappotto di un
arancione brillante, che trasmetteva calore solo a guardarlo, e una
vecchia
scatola di latta con un luna-park dipinto sul coperchio.
Quella sera cenammo con
degli hot dog sulla panchina di un giardino pubblico, la neve fioccava
candida
intorno a noi posandosi su ogni cosa. Mia madre, le guance rosse per il
freddo
e i capelli punteggiati di cristalli di neve, cantò la
canzone dell’angelo
finché il sonno non mi rapì.
Fino a quando saremo
insieme, saremo a casa Naru-chan, ” la sentì
sussurrare prima che il buio
avvolgesse ogni cosa.
*
Durante
i due anni
successivi, cambiammo 16 città e circa 25 appartamenti.
Ad
ogni fallimento, mia
madre rispondeva con una scrollata di spalle ed un sorriso sempre
più vuoto.
“Sono
sicura che la
prossima volta andrà bene Naru-chan, ” mi diceva
scompigliandomi i capelli.
Io
le credevo perché era
mia madre, perché era l’unica famiglia che avessi
al mondo e perché avevo un
disperato bisogno di crederle.
La
realtà, però, era
un’altra; con ogni trasferimento le cose peggioravano. I
lavori di mia madre
divennero sempre meno prestigiosi e retribuiti, a causa
dell’età che aumentava
e del suo basso grado d’istruzione. Presto si
ritrovò a lavorare come cameriera
in locali equivoci per riuscire a sbancare il lunario e poter pagare
l’affitto
di squallidi appartamentucci nelle periferie più sordide
della città.
Con
mia madre che lavorava
durante gli orari più improbabili, divenni io quello che
doveva occuparsi della
casa. Fare la spesa, cucinare, fare il bucato e portare fuori i rifiuti
divennero attività di routine per me. Malgrado qualche
piccolo incidente e
diverse scottature, imparai velocemente e con discreti risultati.
Lo
stesso non poteva dirsi
della mia situazione scolastica che divenne a dir poco disastrosa.
Non
è che non m’impegnassi,
ma avevo profonde lacune in tutte le materie, causate dal fatto che,
dopo la
seconda elementare, non ero più riuscito a seguire un anno
scolastico in modo continuo.
I
miei insegnanti non
avevano né tempo né voglia di conoscermi, per
loro era molto più semplice
affermare che ero un bambino stupido, debole ed incapace. Ero sempre
oggetto di
rimprovero per il mio aspetto trasandato, per l’inadeguatezza
dei miei compiti,
per la mia goffaggine nello sport.
I
miei compagni m’ignoravano
perché ero sempre quello nuovo,
perché ero un incapace o semplicemente perché ero
strano. A volte stufi di ignorarmi,
mi picchiavano o mi schermivano
con una serie impressionante di nomignoli che andavano dal semplice scemo a mostro,
passando per Sei un
bambino inutile che nessuno vuole.
Faceva
dannatamente male.
Male da piangere.
*
Avevo
compiuto 11 anni da
6 mesi quando ci trasferimmo ad Ame, la città piovosa.
Eravamo
quasi
completamente al verde e mia madre, che aveva perso il suo precedente
impiego,
sperava di farsi assumere in una delle innumerevoli fabbriche della
città.
Non
avevamo abbastanza
soldi da versare la caparra per un appartamento così, dopo
la solita settimana
passata a dormire in macchina, trovammo alloggio a Dreamland, un campo
roulotte.
Le
roulotte erano
decisamente più economiche di un qualunque monolocale ma mia
madre le aveva
sempre snobbate, dicendo che erano per i disperati e noi non lo
eravamo.
Probabilmente, nei tre anni di continui spostamenti eravamo,
inesorabilmente,
scivolati anche noi nella categoria.
Sembrerà
assurdo dirlo, ma
Dreamland fu la mia salvezza, il primo posto in cui mi
sentì, anche se solo per
un breve periodo, a casa.
Inizialmente
fu terribile.
Mia madre odiava l’idea di vivere in un
campeggio per emarginati sociali, come amava chiamare la
nostra
sistemazione e pianse ogni notte per due settimane. Dovetti usare tutta
la mia
forza persuasiva per farla alzare dal letto la mattina, costringerla ad
andarsi
a trovare un lavoro o fare una qualunque delle commissioni che
tipicamente le
persone adulte assolvono. Solo quando finalmente trovò un
impiego in una
lavanderia a gettoni, sembrò riprendersi ed io potei tornare
alle mie mansioni,
senza il terrore di trovarla impiccata alla cipolla della doccia.
Nella
nebbia della sua
depressione, mia madre trovò comunque il tempo di iscrivermi
alla scuola più
vicina. Dovevo percorrere due isolati per raggiungerla, i due isolati
più
lunghi della mia vita che percorrevo ogni giorno col cuore nello
stomaco.
Il
primo giorno di lezione
fu deprimente e quelli che seguirono non furono migliori. In
realtà credo fosse
colpa mia; dopo tre anni di umiliazioni e derisioni, avevo
semplicemente
rinunciato.
Ero
davvero convinto di
essere un bambino inutile e stupido, perciò a che pro
impegnarsi?
In
ogni caso ci saremmo
trasferiti di nuovo da qualche altra parte e la storiella sarebbe
ricominciata.
Ero
stanco.
Poi
incontrai lui e tutto
cambiò.
*
Ricordo
la prima volta che
c’incontrammo.
Mia
madre aveva scordato
di fare la spesa per l’ennesima volta e, dovendo preparare la
cena, fui
costretto ad andare al supermercato malgrado l’ora tarda.
Arrancavo
lentamente verso
Dreamland appesantito dalle compre e perso nei miei pensieri, quando
una delle
buste di plastica si ruppe riversando il contenuto in strada. Strinsi
gli occhi
cercando di trattenere le lacrime. Perché doveva andare
sempre tutto male?
“Dovresti
usare buste di
canapa, ” disse una voce nell’ombra “Sono
più resistenti, “.
Spaventato,
mi guardai
intorno cercando di identificare il suggeritore.
“Chi
c’è?” urlai cercando
di non apparire terrorizzato.
Un
ragazzo apparve dal
buio di un vicolo. I capelli erano rossi, di una sfumatura diversa da
quelli di
mia madre, e sotto la luce fluorescente dei lampioni apparivano quasi
arancioni. Una serie incredibile di piercing gli adornava il volto,
accentuando
lo stile gotico delle vesti e del trucco nero che ornava pesantemente
gli occhi
violetti. Nel complesso non sembrava un tipo raccomandabile.
“Pain,”
rispose
tranquillo, accendendosi una sigaretta.
Rimasi
perplesso ad
osservarlo, senza sapere bene cosa dire.
“Beh?
Non hai un nome
ragazzino?” ridacchiò lo strano ragazzo
“ O ti ha mangiato la lingua il gatto?”
“N-Naruto,
” balbettai.
“Bene
Naruto, sembra tu
abbia bisogno di una mano, “.
*
Quella
stessa sera,
scoprii che anche Pain viveva a Dreamland e che in realtà mi
osservava da un
po’. Quando gli chiesi il motivo, preoccupato
dall’attitudine allo stalking che
sembrava avere, fece una risata lieve sbuffando fumo scompostamente.
“
Mi ricordi una persona
che conoscevo tempo fa, ”rispose.
“Chi?”
chiesi curioso.
“
Me, ”
Non
sapendo cosa dire
rimasi in silenzio finché non intravidi la siluette della
mia roulotte nel
buio.
“
Io abito lì, ” indicai.
Pain
annuì e mi accompagnò
fino alla porta. Lo ringrazia per l’aiuto ma lui si
limitò a fare spallucce e
mugugnare che non era nulla.
Prima
di andare per la sua
strada mi guardò intensamente, come se riuscisse a leggermi
dentro, poi indicò
una delle stradine del campo.
“
Segui quella viuzza fino
in fondo, poi gira a sinistra,” disse pacato “La
mia roulotte ha le tende rosse
ed una sdraio gialla nel cortiletto. Sei sempre il benvenuto
Naruto.”
Poi
spari nella notte,
così com’era apparso.
*
La
roulotte di Pain
divenne la mia seconda casa, anzi l’unica casa che avessi mai
conosciuto oltre
a quella di mia nonna.
Amavo
tutto di quel luogo,
dal disordine imperante nel piccolo caravan all’odore di
caffè e tabacco che
impregnava ogni cosa.
Pain
era sempre lì,
sommerso dai suoi libri in edizione economica o intento progettare un
nuovo
assurdo tatuaggio da realizzare. Per me era confortante sapere di poter
correre
da lui dopo una giornata orribile, senza essere obbligato a nascondere
il
malumore, e di non dover per forza parlare dell’accaduto
perché in un modo o
nell’altro Pain avrebbe capito.
Fu
lui a risvegliare la
mia intelligenza.
“Non
hai bisogno di un
maestro per imparare,” mi disse un giorno “La
conoscenza è lì fuori Naruto, nei
libri, nelle biblioteche. Nessuno può impedire alla tua
mente di apprendere. Mettiti
alla prova, resterai stupito dalle infinite possibilità
della tua mente,”
Lessi
il primo libro più
per accontentare il mio primo vero amico che per convinzione ma, quando
mi
ritrovai a discutere con Pain del fatto che, per essere un libro
fantasy, la
trama era davvero poco fantasiosa, mi resi conto che infondo, non mi
era
dispiaciuto provare.
Leggere
e recensire
divenne il nostro gioco, non importava se era un libro di narrativa o
un saggio
storico, c’era sempre qualcosa di cui discutere.
Senza
che me ne rendessi conto
la mie capacità logiche e argomentative crebbero. A scuola
riuscivo a seguire i
ragionamenti dei professori e spesso colmavo le mie lacune utilizzando
conoscenze assorbite casualmente durante le letture. Ovviamente, la
professoressa
di matematica non gradì il mio uso fantasioso dei teoremi
per risolvere i
problemi di geometria ma Pain dichiarò divertito che spesso
i geni erano
incompresi.
Per
la prima volta sentì d’aver
valore agli occhi di qualcuno.
Era
come aver trovato un
luogo in cui essere felice anche senza mia madre, e se da un lato mi
sentivo
terribilmente in colpa, dall’altro egoisticamente custodivo
gelosamente il mio
piccolo tesoro.
Eppure
non mi accorsi che
qualcosa non andava finché non fu troppo tardi.
*
La
prima volta che lo
notai l’estate era alle porte.
Pain
stava progettando un
tatuaggio grandioso da realizzare sul petto, un demone che, squarciando
la
cavità toracica, esponeva sadicamente un cuore martoriato.
Era macabro, oscuro
e decisamente intriso di disperazione. Pensai che fosse tipico di Pain
disegnare qualcosa del genere.
Solo
allora mi fermai a
riflettere. Pain non poteva essere definito una persona felice ma se
non altro
sembrava sereno. I suoi disegni e i tatuaggi che ricoprivano il suo
corpo, però,
non lo erano. Tutto ciò che creava, era come pervaso di
oscurità e dolore.
“Pain?”
lo chiamai
distraendolo dal suo lavoro.
Lui
alzò appena lo sguardo
per mostrarmi la sua attenzione.
“Perché
disegni sempre mostri
e demoni?” chiesi.
Pain
alzò il sopracciglio
sorpreso e sembrò pensare accuratamente alla risposta da
darmi.
“
Credo sia un modo per
esorcizzare, ” disse lentamente.
“Esorcizzare
cosa?”
“
La paura, il dolore, la
morte...” rispose scuotendo appena le spalle.
Aggrottai
le sopracciglia
pensieroso e dopo qualche secondo tornai all’attacco.
“
Posso avere anch’io un
tatuaggio?”
La
risata profonda di Pain
riempì l’aria circostante, mentre le mie guance si
gonfiavano in un broncio
infantile.
“Un
giorno chibi, ”
rispose sghignazzando.
*
Passò
un altro mese prima
che le cose precipitassero.
In
quel periodo Pain era
diventato il mio mondo, il sole attorno al quale ruotavo e il rapporto
con mia
madre si era raffreddando.
Fino
a quel momento
Kushina Uzumaki era stata la sola su cui potessi contare,
l’unico punto fisso
della mia esistenza. Non importava quanto immatura e svampita fosse,
lei c’era
e tanto bastava.
L’entrata
in scena di Pain
aveva cambiato le cose. Lui si preoccupava per me se rincasavo troppo
tardi,
cucinava se mi fermavo a pranzo, rimediava ai miei casini con il
bucato, curava
i miei lividi. Pain si comportava da adulto e lasciava che io mi
comportassi da
ragazzino. Non ci volle molto perché cominciassi a chiedermi
perché mia madre
non faceva lo stesso, per quale ragione dovessi essere sempre io a
prendermi
cura di lei. Ci volle ancora meno per trasformare la
perplessità in rabbia e la
rabbia in rancore.
Dall’altra
parte mia madre
si sentiva abbandonata, improvvisamente il suo unico figlio passava il
tempo
con qualcun altro, una presenza che giorno dopo giorno ci allontanava
usurpando
il suo posto nel mio cuore.
Lo
scontro era
inevitabile. La scintilla fu una banalità come la
preparazione della cena.
Normalmente
ero solito
preparare la cena a mia madre ogni volta che aveva il turno serale, ma
quella
sera per qualche strano motivo non lo feci e passai la serata da Pain.
Erano
le 23 quando Kushina
Uzumaki in tutta la sua furente gloria si presentò alla
porta, urlando il suo
disappunto e ordinandomi di tornare a casa.
Pain
provò a difendermi e
la situazione degenerò; volarono parole pesanti e accuse non
meno leggere.
“Questa
è l’ultima volta
che vedi quel balordo!” ringhiò mia madre mentre
mi trascinava via.
Mai
parole furono più
vere.
*
Mia
madre mantenne la
parola. Passò più di una settimana prima che
riuscissi a far visita a Pain.
Mentre
mi avvicinavo alla roulotte,
notai che una macchina era parcheggiata di fronte
all’ingresso. Pensai fosse un
cliente venuto a farsi un tatuaggio ma, quando entrai, capì
immediatamente che
qualcosa non andava.
Pain
non c’era e scatole
di ogni dimensione ingombravano il passaggio. Una donna di
mezz’età stava
impacchettando alcuni dei libri sparsi in giro.
“Lei
chi è? Dov’è Pain?”
chiesi, la voce tinta di panico.
La
donna si voltò e mi
rivolse un sorriso compassionevole. Gli occhi violetti erano ancora
gonfi e
rossi per il pianto e neppure il sorriso riuscì a cancellare
l’espressione addolorata
del volto.
“
Tu sei Naruto, ” costatò
come se già mi conoscesse “Nagato mi ha parlato di
te nelle sue lettere, “.
La
guardai come se fosse
una pazza pronta ad uccidermi e ripetei la mia domanda.
“Mi
chiamo Shiori, ”
rispose con un sospiro “Sono la madre di Nagato, immagino che
tu lo abbia
conosciuto come Pain... amava farsi chiamare così,
“.
Amava. Bastò quel verbo...
“No...
” mormorai facendo
un passo indietro.
“Pain
era molto malato
Naruto, ”
Chiusi
gli occhi sperando
di non sentire la fine di quel discorso.
“Se
n’è andato due notti
fa nel sonno.”
*
Non
ricordo molto del
periodo successivo all’incontro con la madre di Pain, tutto
è sfocato nella mia
memoria. In seguito mia madre mi raccontò che passai una
settimana rinchiuso in
casa, senza comunicare con nessuno. La signora Shiori passò
da noi prima di
partire, mi lasciò un pacco che io non aprii.
Non
piansi una sola
lacrima.
Dopo
la settimana di auto
isolamento, mia madre mi vestì e mi trascinò a
forza a scuola. In qualche modo
la vita riprese a scorrere. Mi anestetizzai completamente, relegando in
un
angolo lontano della mia mente Pain e ogni ricordo a lui correlato.
Vivevo come
un automa ma almeno non provavo dolore.
Passò
un mese prima che riuscissi
ad aprire quel pacco.
Al
suo interno c’era il
libro preferito di Pain, la copertina rovinata e le pagine piene
d’orecchie, e
una lettera.
Naruto,
Se stai leggendo questa
lettera,
vuol dire che io non sono più. Ho sempre vissuto come volevo
senza rendere conto
a nessuno se non a me stesso e alla fine sono morto come volevo, posso
ritenermi soddisfatto... Lo so che sei arrabbiato con me, che ti senti
abbandonato, che probabilmente la scomparsa avrà creato una
cicatrice
indelebile nel tuo cuore e per questo mi dispiace infinitamente.
Ma non è la
fine Naruto...
Un giorno sarai in grado
di
decidere per la tua vita come io ho deciso per la mia.
Nel frattempo piangi,
ridi, urla,
disperati, innamorati...vivi.
E quando ti senti solo o
ti
sembra di non avere via d’uscita, fermati, respira e
ascolta...
Pensa che in quel mondo
vasto c’e
qualcuno che sta facendo la stessa cosa: ascolta il suo respiro
aspettando
qualcosa.
Aspettando te.
Io ho esorcizzato la
morte, tu
celebra la vita.
Pain.
*
Tre
giorni dopo lasciammo
Ame.
Dal
finestrino osservai
scorrere il paesaggio che mi era diventato caro e familiare. Pensai a
Pain e
per la prima volta le lacrime scesero libere.
Mia
madre mi osservò con
la coda dell’occhio e sorrise dolce.
Lasciò che mi accoccolassi sul suo fianco
e piangessi tutto il mio dolore.